STORIE DI LUPI MANNARI Da Dumas a Kipling, da Pirandello a Lovecraft, le più belle storie di ogni tempo sulla figura più...
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STORIE DI LUPI MANNARI Da Dumas a Kipling, da Pirandello a Lovecraft, le più belle storie di ogni tempo sulla figura più inquietante dell'immaginario orrorifico (1994) A cura di GIANNI PILO e SEBASTIANO FUSCO Indice Il Lupo Mannaro. Introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco PARTE PRIMA. MALE DI LUNA Il Lupo Mannaro di Gaio Petronio Arbitro La lupa bianca delle Montagne Hartz di Frederick Marryat Hugues, il Lupo Mannaro di Sutherland Menzies Lokis di Prosper Merimée Pelliccia Bianca di Edith Nesbit Il Lupo di Guy de Maupassant Il Marchio della Bestia di Rudyard Kipling Gabriel-Ernest di Saki (Hector Hugh Munro) Lupo-Che-Corre di Algernon Blackwood Male di luna di Luigi Pirandello Gli intrusi di Saki (Hector Hugh Munro) Il cane di Howard Phillips Lovecraft I Lupi Mannari del Castello Manglana di H. Warner Munn Testa di Lupo di Robert Ervin Howard Il lupo di St. Bonnot di Seabury Quinn La vendetta del Lupo Mannaro di H. Warner Munn Lupi nelle tenebre di Jack Williamson Vendetta Voodoo di Kirk Mashburn INTERMEZZO. LE BESTIE MANNARE L'Orso Mannaro di Walter Scott La Donna Pantera di Ambrose Bierce L'Uomo Toro di Henry S. Whitehead Il Cane Mannaro di Henry S. Whitehead
La Tigre Mannara di Hugh Clifford La Donna Gatto di Mary Elizabeth Counselman Dhoh di Manly Wade Wellman PARTE SECONDA. ACONITO, ARGENTO E BIANCOSPINO. Sahara di Gladys Gordon Pendarves Il Nero Segugio della Morte di Robert Ervin Howard Il Marchio del Mostro di Jack Williamson Lupo Mannaro di Manly Wade Wellman La Maledizione della Strega di Arlton Eadie La Donna Lupo di Bassett Morgan Tabù di Geoffrey Household Amore di Licantropo di Seabury Quinn L'Orrore Immortale di Manly Wade Wellman La pistola d'argento di Carl Richard Jacobi Il cane di Fritz Reuter Leiber Gli ambasciatori di Anthony Boucher Il Lupo Mannaro perfetto di Anthony Boucher Loup-Garou di Manly Banister La Caccia di Joseph Payne Brennan Lo spiazzo di Canavan di Joseph Payne Brennan La sua razza di Thomas M. Disch Azuna di Gianni Pilo I lupi affamati della steppa di John Wysocki Gesù di Gianni Pilo PARTE TERZA. NOTTI DI LUNA PIENA Il Signore dei Lupi di Alexandre Dumas La Maledizione Eterna di Jessie Douglas Kerruish I Figli del Lupo di Diane Detzer (Adam Lukens) Il Figlio della Notte di Jack Williamson APPENDICI Appendice I. Il Lai du Bisclavret Appendice II. Il Werewolf
Appendice III. Artù e Gorlagon Appendice IV. Dal Dictionnaire Infernal di Jacques Collin de Plancy Filmografia Bibliografia Schede degli Autori Il Lupo Mannaro Credesti tu, come taluni sogliono, che certe femmine volgarmente chiamate Parche esistano e siano capaci di fare ciò che loro si attribuisce: e cioè che possano predestinare un uomo alla nascita, acciò che questi, quando vuole, possa trasformarsi in lupo - che in tedesco vien detto werewulf - o in qualsiasi altra figura? Se ciò credesti, credendo che sia accaduto o possa accadere che ad una creatura divina sia dato di mutar forma e aspetto per opera d'altri che non Dio Onnipotente, devi per dieci giorni fare penitenza a pane e acqua. Dai Decretali di Burcardo di Worms, sec. XI Studiando nei loro ristretti habitat naturali i pochi lupi rimasti, gli etologi del secolo presente hanno scoperto - non senza sorpresa - che il presunto feroce predatore è in realtà d'abitudine un animale timido e mite, monogamo, sollecito con la prole, non aggressivo nei confronti dell'uomo. Una creatura cioè ben lontana dall'immagine leggendaria che le ha cucito addosso l'uomo, dipingendola come ladra, malvagia e avida di sangue: quasi che su di essa avesse proiettato, come in un esorcismo, i peggiori difetti che in realtà macchiano non la stirpe lupina, ma l'umanità stessa. Fra lupo e uomo vibrano peraltro straordinarie consonanze. Animale d'origine paleoartica, il lupo migrò con l'uomo primitivo dall'Eurasia all'America del Nord attraversando, durante le glaciazioni, lo Stretto di Behring, e seguì le stirpi indoarie nella loro diffusione nell'Europa e nel subcontinente indiano. Fra tutti gli animali selvaggi, è quello che maggiormente ha segnato la civiltà occidentale, prima come animale totemico, poi come manifestazione diabolica. Superior stabat lupus
Un canto funebre rumeno, recitato ancora agli inizi di questo secolo, dice: «Il lupo apparirà davanti a te... Prendilo come tuo fratello, perché il lupo conosce l'ordine delle foreste... Egli ti condurrà per via piana verso il Paradiso...». L'idea che il lupo sia uno psicopompo, cioè una creatura destinata a guidare nell'Aldilà le anime dei morti, è antica quanto la cultura delle stirpi d'origine indo-europea, come testimoniano le urne funerarie in forma di testa di lupo nelle quali i primitivi popoli nomadi custodivano le ceneri dei defunti. Per le popolazioni non stanziali, nelle quali la cultura dominante non era ancora quella agricola, ma quella della caccia, il lupo era un rivale, un competitore che, nella medesima nicchia ecologica, perseguiva le stesse prede. Ed era più abile, perché più veloce, dotato di sensi più acuti, capace di vedere di notte e «armato» dalla natura in modo terribile, con zanne e artigli. Per riuscire nella caccia, si doveva perciò ingraziarsene lo spirito: il che - nelle culture sciamaniche - avveniva per via imitativa; vale a dire, facendosi «invasare» dal Dio della Bestia sino ad assumerne i poteri, il comportamento, perfino l'aspetto. È nei rituali sciamanici delle culture nomadi paleolitiche che gli antropologi rintracciano le radici di quella che, più tardi, venne chiamata - con termine estensivo - «licantropia»: ovvero la capacità, da parte di esseri umani, di trasformarsi in determinate condizioni nell'animale totemico, ovverossia rappresentativo e protettivo della tribù. Per i cacciatori nomadi dell'Asia Centrale, questo animale era il lupo (per altri popoli, come vedremo, l'animale sarà diverso): lo Sciamano delle steppe, con l'aiuto dei rituali estatici e con l'assunzione del Fungo Sacro, l'Amanita Muscaria che dilata la coscienza, faceva discendere entro di sé lo Spirito del Lupo. Con indosso una pelle dell'animale totemico, ne assumeva anche l'aspetto: e così, quale Lupo-Dio, guidava le danze propiziatorie alla caccia, se non - come sembrerebbero dimostrare certe pitture rupestri - la caccia stessa. Della funzione totemica del lupo presso le genti indo-arie si ha traccia nelle infinite leggende che nacquero quando le religioni virili, «solari» e d'impianto sciamanico da loro portate, vennero a scontrarsi e fondersi con le religioni femminili, «lunari», e basate su riti della fertilità adottate dalle popolazioni europee autoctone che subirono l'invasione dei nomadi provenienti dalle steppe asiatiche, agli albori dell'Età del Bronzo. Molte «leggende degli inizi» (quelle che narrano della nascita di Dèi ed
Eroi, o della fondazione di città o luoghi sacri) vedono il lupo come protagonista. Nel mito greco, Febo e Artemide, le divinità legate a Sole e Luna, cioè gli astri luminiferi, vennero partoriti da Latona trasformatasi in lupa. Licaone, il capostipite dei Pelasgi, fondatore sul Monte Liceo della prima città, Licosura, si identifica, per via del nome, col lupo (lykos, in greco); e ih lupo vero e proprio verrà trasformato, quando il mito, col mutare delle condizioni culturali, assumerà valenze negative. «Figli del lupo» si proclamavano tanto i Celti quanto i Sabini: ed è per questo, forse, che a una lupa venne affidata la protezione dei due divini gemelli, Romolo e Remo, fondatori dell'Urbe. Secondo Diodoro Siculo, Osiride rinasce, dopo la divisione del suo corpo, sotto forma di lupo. E persino nella cultura mongola il Lupo Celeste è genitore di Eroi, l'ultimo dei quali fu Gengis Khan. Lykaion, territorio del lupo, era chiamato il bosco sacro che circondava il tempio di Febo ad Atene; Aristotele usava tenervi le sue lezioni, ed è questa l'origine del termine liceo. L'immagine del lupo viene così connessa a quella della sapienza, peraltro in conformità con le tradizioni che ne facevano un animale iniziatico, ovvero rivelatore di conoscenze occulte. Macrobio, nei Saturnalia, descrive una statua che si trovava nel tempio di Serapide, ad Alessandria; vi era raffigurato il Tempo come mostro tricipite: una testa di leone fra due teste di lupo. Il leone è il presente, ovvero ciò che sappiamo; il lupo è passato e avvenire, ovvero le cose che abbiamo dimenticato e quelle che non conosciamo ancora. Flegone descrive un Oracolo nel quale a profetizzare è la testa di un uomo sbranato da un lupo. D'altronde, nel nome del lupo è insita la radice lyk-, che è la stessa da cui deriva il nome luce: la creatura che vede al buio è dunque anche quella che dissipa le tenebre. L'antica sovrapposizione fra culti della caccia e culti della fertilità si rivela nei miti che vedono il lupo come animale propiziatore delle fecondazioni. In Anatolia - ancora oggi - nelle campagne le donne sterili invocano il lupo per avere figli. Nella Kamchatka i contadini, per le Feste Ottobrali, realizzano con il fieno il simulacro d'un lupo, cui recano voti perché entro l'anno si maritino le vergini del villaggio. Nell'antica Roma, il Dìo Luperco era protettore delle greggi; le sue feste, i Lupercali, che si tenevano a metà febbraio, vedevano i sacerdoti correre nudi tra la folla, armati di corregge di pelle di montone: dice Ovidio nei Fasti che le donne in età fertile colpite dalla sferza, sarebbero state fecondate entro l'anno. Nel corso dei Lupercali, un sacerdote, vestito d'una pelle di lupo, passa-
va una lama bagnata di sangue sulla fronte di due adolescenti: riproduzione simbolica, evidentemente, di antichi sacrifici umani che venivano tributati al lupo totemico. Questo particolare ci pone a contatto con il lato tenebroso dei culti del lupo. Creature d'inferno Nel passaggio dalle culture nomadi e cacciatrici a quelle stanziali e agricole, muta radicalmente il modo di considerare il lupo. Il cacciatore ha bisogno dello spirito dell'animale da preda che lo guidi ad uccidere; il contadino deve invece proteggere le greggi da chi vuole uccidere. Il sacrificio in onore del lupo, a poco a poco, da propiziatorio si trasforma in scongiuro: non si prega più perché il Grande Predatore intervenga, ma perché stia lontano. Le cerimonie sacrificali, il più delle volte con vittime umane, celebrate in onore del lupo, assumono valenze sinistre. Esemplare, in questo senso, è la leggenda di Licaone. I riti che, in origine, si tenevano sul Monte Liceo, in Arcadia, in onore del lupo erano di origine aria, e assumevano il carattere di sacrifici umani culminanti con un rito di antropofagia: parte della vittima veniva consumata dai celebranti. L'evoluzione culturale rende esecrabile questa modalità rituale, e la fantasia mitica elabora prontamente un episodio che fissi indelebilmente i nuovi parametri del sacro. Giove - racconta la leggenda, riferita da Ovidio nelle Metamorfosi, - si reca, in incognito, in visita a Licaone. Questi, incerto sulla natura umana o divina del suo visitatore, decide di sottoporlo a una prova, e gli ammannisce, a mo' di banchetto ospitale, le carni di uno schiavo (o, secondo altre versioni, di un altro ospite, o di un ostaggio, o addirittura del proprio figlio), e per primo ne gusta egli stesso: confida che un Dio avrebbe scoperto la vera natura del sacrificio. Sdegnato da tanta efferatezza, Giove arde con le sue folgori la reggia di Licaone e trasforma quest'ultimo in lupo. Il senso della leggenda è chiaro: il sacrificio cruento e cannibalesco, gradito un tempo alle divinità proprie d'un popolo nomade e cacciatore, è inviso invece agli Dèi di una società agricola e stanziale. Licaone, lupo fatto re, da re ritorna lupo. Sono infinite, in ambito classico, le leggende che segnano un passaggio analogo. Il pugile Demeneto (racconta Plinio nelle Storie Naturali), arcade come Licaone, avendo sacrificato un bimbo a Giove Attico, mangiatene le interiora, venne trasformato in lupo, e tale restò per nove anni; al deci-
mo, ritornò uomo, e vinse la gara di pugilato a Olimpia. Sempre degli antropofagi Arcadi si diceva che, per espiazione, dovessero ogni anno estrarre a sorte un membro della comunità; questi era immerso nelle acque di un lago e ne usciva trasformato in lupo, restando tale per nove anni, e poteva recuperare le forme umane soltanto se si fosse astenuto dall'antropofagia. Echi di questo mito si ritrovano, applicati alle più diverse popolazioni, fino al Medioevo. A poco a poco, lo Sciamano che assume in sé lo spirito del lupo a beneficio della tribù, si trasforma in creatura infernale dedita a pratiche esecrabili. I residui della primordiale religione sciamanica si trasformano già in epoca classica in culti infernali e stregoneschi. L'antica capacità degli Sciamani di identificarsi con gli animali totemici assume connotazioni tenebrose. Nasce la figura dello Stregone, in contatto per via diabolica con le istintualità più perverse. Il sacrificio umano, con il suo corollario cannibalico, da cerimonia sacrale trascende nelle pratiche abominevoli della profanazione dei cadaveri e della necrofagia, perversioni attribuite ai recipiendari dell'antico animismo sciamanico, ormai totalmente travisato e stravolto. Il potere della metamorfosi, ovvero la capacità di riprodurre le caratteristiche dell'animale totemico, già prerogativa sacerdotale, diventa segno di una punizione divina o frutto di un'alleanza con i poteri delle tenebre. Quanto al lupo, da animale propiziatorio, assume - e non le perderà più le caratteristiche di mostro antropofago, di belva feroce vomitata dalle tenebre e di creatura infernale. Da psicopompo, si fa guardiano del regno dei morti: Cerbero, che impedisce alle anime di uscire dal loro triste regno, è un lupo con tre teste. Ade, Re degli Inferi, porta un elmo di pelle di lupo che lo rende invisibile, e lo stesso valeva per Ajta, il Dio etrusco del mondo sotterraneo. Presso i Celti il lupo è carnivoro funebre, e lo si dipinge seduto sulle zampe posteriori, nell'atto di divorare un morto. Nasce anche la sua fama di persecutore di bambini (come tutti i predatori, i lupi aggrediscono di preferenza i cuccioli delle prede, meno capaci di difendersi): la lupa Mormolice era un dèmone femminile con la quale le madri greche minacciavano i loro pìccoli, corrispettivo, in qualche modo del «lupo cattivo» delle fiabe nostrane. Era stata nutrice del mostro infernale Acheronte, e si diceva che rendesse zoppi i bambini disobbedienti. Intorno alla fiaba di Cappuccetto Rosso, Dumézil (Les Dieux des Gérmains) traccia una serie di connessioni che riconducono agli antichi miti indo-europei, mentre Piettre fa notare che esistevano versioni del racconto
molto più truci di quella nota nel testo ingentilito di Perrault. In una di esse è presente un palese tema cannibalesco: dopo aver divorato quasi completamente la nonna di Cappuccetto Rosso, il lupo pone parte della carne e un po' di sangue in un bacile, e li fa mangiare e bere alla bambina; Piettre ne deduce una connessione con gli antichi sacrifici umani a sfondo antropofago con i quali veniva onorato lo Spirito del Lupo. Viene esaltato nel contempo il carattere di feroce combattente del lupo, che già i Greci associarono ad Ares, Dio della Guerra. Un tema che ebbe la sua diffusione più ampia soprattutto fra le genti nordiche. I guerrieri dalla pelle di lupo Nell'ottavo capitolo della Volsunga Saga è riferita la storia di Sigmundr e Sinfjotli che, attraversando una foresta, giungono a una casa nella quale giacciono addormentati due figli di re. Alla parete, sulle loro teste, sono appese due pelli di lupo: i due dormienti sono vittime di un incantesimo in seguito al quale soltanto una notte ogni dieci possono liberarsi della pelle di lupo e riprendere l'apparenza umana. Ma quella notte, sfiniti, non possono trascorrerla che dormendo. Sigmundr e Sinfjotli indossano, incautamente, le pelli, e il maleficio ricade su di loro. Non possono più liberarsene, e non parlano più con voce umana, ma con voce di lupo, anche se fra di loro continuano ad intendersi. Travolti dall'istinto delle belve, si gettano nella foresta, dove vagano per nove giorni, conducendo la vita dei lupi. Al decimo, recuperato l'aspetto umano, danno le pelli alle fiamme, perché non possano più nuocere ad alcuno. Dalla leggenda, una delle molte che nei miti nordici trattano di fiere e di trasformazioni in fiere (nella stessa Volsunga Saga, al capitolo quinto, è raccontato di come la madre del Re Siggeir abbia dilaniato, in forma di lupa, i figli di Volsung caduti prigionieri), traspare una concezione sinistra del lupo, considerato l'incarnazione del dolore e della lacerazione. Della diffusione delle credenze sulla trasformazione di uomini in lupi presso i popoli nordici, fa fede Olaus Magnus che, nella Historia de gentibus septentrionalibus, racconta di come la notte di Natale si radunino in un certo luogo molti uomini mutati in lupi, «li quali la notte medesima, con meravigliosa ferocità incrudeliscono, e contro la generazione humana, e contro gl'altri animali, che non son di feroce natura, che gl'habitatori di quelle regioni patiscono molto più danno da costoro, che da quei che naturali Lupi sono, non fanno. Percioché, come s'è trovato impugnato con
meravigliosa ferocità a le case de gl'huomini, che stanno nelle selve, e sforzami di romperle le porte, per poter consumare gl'huomini, e le bestie che vi son dentro». Dice ancora Olaus che questi uomini-lupo entrano nelle cantine ove è custodita la birra, e «quivi si bevono molte botti, e di quella e d'altre bevande, e poi lasciano le botti vote, l'una sopra l'altra, in mezzo della cantina. E in questa parte sono disformi dai naturali, e veri Lupi». Questi guerrieri così feroci e di così triste fama, venivano chiamati Ulfhedhnir, cioè guerrieri «dalla casacca di pelle di lupo». Così se ne dice nello Hràfnsmal: «Si chiamano pelli di lupo, / li si vede scuotere / gli scudi macchiati dal sangue dei caduti / arrossano le spade / quando giungono alla battaglia». Il carattere di questi guerrieri vi è descritto in modo scarno ma efficace, e ci porta alla mente l'immagine del combattente esaltato dal «furore» che, invaso dallo Spirito del Lupo, combatte al di là dei limiti umani. L'assunzione della veste ferina riproduce il gesto ancestrale dello Sciamano che, all'alba dell'uomo, in questo modo gettava un ponte tra natura umana e natura bestiale, quando ancora non era ben chiara, ma cominciava a delinearsi, la distinzione fra le due identità. Non era, peraltro, soltanto il lupo l'animale totemico con il quale si identificavano i guerrieri nordici. Affini agli Ulfhedhnir, i berserkr indossavano - come dice il loro nome - vesti di pelle d'orso: «Goditori di sangue / che si precipitano in battaglia, / schiera che combatte con giubilo», dice di loro ancora lo Hràfnsmal. Lupo e orso, nel mondo germanico, sono legati da una medesima aura di terrore. Nella Saga di Odd-della-Freccia, Gudmund narra che in sogno gli pareva di aver visto dalla nave un orso polare dall'aspetto pauroso, col pelo ritto, in atto di scagliarsi sui vascelli di passaggio per farli affondare. Sigurdhr interpreta il sogno come presagio di venti sfavorevoli, «perché l'orso pareva essere così lupesco». I guerrieri che venivano invasati dai due animali totemici, spesso combattevano a fianco a fianco, come è confermato sempre dallo Ulfhedhnir: «I Berserkr urlavano / ardevano della battaglia, / gridavano gli Ulfhedhnir / e scuotevano il ferro». La paura che il lupo e l'orso incarnano, è legata alla magia e alle forze occulte, risvegliate dai riti sciamanici. I guerrieri invasi dallo Spirito della Bestia hanno forza e resistenza sovrumane, non avvertono il dolore, non conoscono la paura, compiono atti prodigiosi: passano indenni tra le fiamme, sopravvivono alle ferite più atroci. Sono i poteri dello Sciamano,
riconoscibili attraverso tutte le culture. Gli antropologi, per esempio, hanno tracciato un parallelo fra i berserkr e gli Hirpi Sorani, i sacerdoti-lupo del Monte Soratte, eredi nell'antica Roma di un culto ancestrale: nelle feste di Apollo, entrati in estasi, camminavano sulle braci ardenti ululando come lupi. Come i loro animali totemici, i guerrieri-bestia sono sfuggiti e temuti. Chi li affronta e riesce a scampare la vita, soffre comunque qualche perdita, come avviene a chiunque venga a contatto con le manifestazioni di forze infere e tenebrose. Loro caratteristica è la furia cieca, incontrollabile, rivolta contro chiunque, anche i parenti e gli amici. Nella Saga di Odd-laFreccia, dodici fratelli berserkr, avendo trovato insoddisfacente un combattimento contro nemici troppo deboli, decidono di sfogare la furia che li travolge tornando a casa per uccidere il proprio padre. Nella Egilssaga, Skall-Grimr, berserkr e figlio di berserkr, preso da furia cieca, attacca il figlio; per impedirgli di sbranarlo, si sacrifica la sua nutrice. Dumézil, anche sulla base di considerazioni filologiche, fa risalire questo invasamento al furore dei Marut, i compagni di Indra, e del loro padre, il terribile Rudra, mettendo in luce una precisa eredità indoeuropea in questa classe di tradizioni germaniche. La veste stregata Non sappiamo se le invasioni da parte delle genti nordiche abbiamo avuto una qualche parte nella diffusione del mito degli uomini-lupo in tutta l'Europa. Con la conversione dei Vichinghi al cristianesimo, peraltro, la figura del berserkr perde l'aura di orrore sacrale, per assumere sempre più il carattere della maledizione diabolica, o del frutto di una mercificazione con le Potenze Infernali. In pratica, entra nella casistica della stregonerìa. La vestizione con la pelle ferina, da atto simbolico diventa strumento di un incantesimo: la pelle, si dice, è affatturata e trasforma in belva chi la indossa. La bevanda sacra (eredità forse del Soma vedico), a base di sostanze allucinogene, che secondo alcune tradizioni i berserkr assumevano insieme con la birra e l'idromele, diviene un filtro magico, un beveraggio da strega che determina la mostruosa metamorfosi. Si ricorre alle Sacre Scritture per tracciare l'equazione lupo = diavolo, equiparando agli eretici Streghe e Stregoni che - si diceva - mutavano forma per recarsi al Sabba infernale.
A quanti opponevano che sarebbe stato sacrilego attribuire al Diavolo il potere di cambiare una forma stabilita da Dio, si obiettava che la metamorfosi, in realtà, era illusoria, frutto di inganno diabolico. Al princeps huius mundi infatti - sempre secondo le autorità scritturali - era concessa la facoltà di confondere i sensi degli uomini. Sovvenivano in questo, ancora una volta, reminiscenze ancestrali. L'inganno del Diavolo - asserirono molti demonologi - non si esercitava direttamente sul corpo fisico, ma sul suo substrato psichico, su quella che gli occultisti chiamarono in seguito «proiezione fluidica». Una specie di «doppio» estroflesso dall'individuo, fatto di sostanza plasmabile tanto da poter assumere qualsivoglia forma, ma in qualche modo legato ancora al corpo fisico: infatti, una ferita inferta al «doppio» si riproduceva identica nel corpo materiale. Innumerevoli sono le storie di Streghe che, cosparsesi di fronte agli inquisitori il corpo di un qualche unguento soporifero, caddero addormentate e, al risveglio, riferirono d'aver partecipato al Sabba in veste di capro, di lupo, di gatto nero o di qualche altro animale selvatico. Se, in tale forma, avevano compiuto un atto esecrabile, ad esempio menato strage in un gregge, prontamente si riscontravano le prove dell'effettuato delitto. Se avevano subito ingiuria, sul loro corpo materiale si producevano i segni della ferita. Ancora una volta, di fronte a queste fole, si ripresenta l'immagine atavica dello Sciamano che, nelle antiche steppe, remota culla della civiltà attuale, entrato nell'estasi procurata dai riti e dalle sostanze magiche, sperimentava la regressione a uno stato pre-umano e pre-evolutivo, e l'«uscita da sé» caratteristica del sogno lucido. Gli stimmatizzati, gli isterici, gli allucinati, per secoli hanno dimostrato quanto potenti possano essere, sulla carne, gli effetti della suggestione psichica. All'epoca della «caccia alle streghe», nell'Europa cinquecentesca, la figura dell'Uomo-Lupo era ormai inestricabilmente legata con quella dello stregone, schiavo del demonio. Giunge così al punto più basso la parabola del lupo: da spirito tutelare, procacciatore di prede in questo mondo e guida delle anime nell'altro, a dèmone da esorcizzare o da evocare solo per assumerne l'avidità di sangue, infine a trastullo di Satana, camuffamento animalesco atto a coprire le azioni più esecrabili e nefande. Cede il sacro, per dar luogo al bestiale. Uomini e lupi
Il termine «Lupo Mannaro» deriva dal basso latino lupus homenarius, vale a dire (e in questo c'è un tocco di ancestrale ironia) «lupo che si comporta come un uomo». Più incerta l'etimologia del francese loupgarou: i più rintracciano nel termine garou una radice che significa «uomo», ma ci sembra più plausibile - certo più sottile - l'interpretazione di Collin de Plancy: loups dont il faut se garer, ossia «lupo dal quale occorre guardarsi», ovvero quello che, avendo assunto le abitudini feroci e aggressive dell'uomo, non si comporta con la timidezza tipica della sua naturale specie. Palesi invece le derivazioni dei termini inglese e tedesco (werewolf, werwulf): la radice indoeuropea wer- è la stessa da cui deriva il latino vir, «uomo». Altrettanto chiare le derivazioni nelle lingue slave: il polacco wilkolak, il russo volklak, il bulgaro vulkolak, lo sloveno volkodlak e così via. In tutte queste aree linguistiche e geografiche, il termine indica un essere umano che, per diversi motivi, assume forma e comportamento ferini, dandosi a stragi sanguinose e abbandonandosi ad atteggiamenti cannibalici. Le sue vittime preferite essendo - come per i Lupi Mannari delle fiabe - i bambini e i cuccioli delle greggi. In qualche raro caso, peraltro, il Lupo Mannaro recupera parte del suo antico retaggio di spirito-guida dell'umanità primeva errante nelle steppe, e diviene creatura depositaria di antiche saggezze, o soccorrevole, o testimone della potenza di Dio (si vedano, a questo riguardo, le narrazioni leggendarie riportate in Appendice). Negli anni dal Quattrocento al Seicento, l'Europa fu soggetta a vere e proprie epidemie di licantropismo (analoghe alle infezioni vampiriche che si verificarono durante il secolo successivo). Colpite in particolare furono regioni della Francia e della Germania, negli anni in cui più feroce si manifestò la caccia alle Streghe. Che i Lupi Mannari fossero creature del Diavolo era dato per certo: l'unica distinzione che si faceva era se la metamorfosi fosse effettiva o soltanto illusoria. Si tracciò (come poi per il vampirismo) un'eziologia, una diagnostica e una profilassi dell'infezione licantropica. Si può divenire Lupi Mannari per diversi motivi. In primo luogo, per una maledizione, scagliata direttamente da Dio, o per suo tramite da un sant'uomo, in seguito a comportamenti di particolare efferatezza. Il modello è, ovviamente, la trasformazione operata da Giove di Licaone in lupo, a punirne le tendenze cannibaliche. San Natale e San Patrizio sono accreditati di analoga impresa, a sca-
pito di intere popolazioni. Diviene licantropo anche chi nasce la notte di Natale (o in occasione di altre festività importanti, come il Capodanno o l'Epifania), in quanto il suo venire al mondo in un tempus sacro può apparire come un atto di profanazione. In molti casi, sono le donne adultere ad essere punite con la trasformazione in belve, per aver violato la santità del sacramento. Dormire a volto scoperto sotto la luna piena è anche, secondo molte tradizioni popolari, fonte di licantropismo. Si può diventare Uomini-Lupo anche per incidente: per esempio, venendo infettati dall'«acqua licantropica» che - a detta di alcune leggende - si raccoglie nelle orme lasciate da un Lupo Mannaro. L'idea che l'infezione possa essere trasmessa dal morso di un altro Uomo-Lupo è invece soltanto di origine cinematografica, mutuata probabilmente dalle modalità di trasmissione dell'infezione vampirica: nelle narrazioni tradizionali non ve ne è traccia. La causa di gran lunga più importante del licantropismo è peraltro di natura diabolico-stregonesca. Si diventa Lupi Mannari per intervento diretto del Diavolo, che dà origine così a una coorte di schiavi per il Sabba, scegliendoli fra persone dalla condotta particolarmente esecrabile. Oppure, si stringe un patto col Demonio, che in cambio dell'anima consegna una veste o una cintura di pelle di lupo, indossando la quale si subisce la mostruosa trasformazione. Grazie a filtri e unguenti speciali, Streghe e Stregoni erano in grado di mutare se stessi e gli altri in lupi; spesso si servivano dei tramutati come di cavalcature per recarsi al Sabba: in tal caso, le montavano al contrario, con la faccia rivolta verso la coda. La persona suscettibile di trasformarsi in Lupo Mannaro si può riconoscere (come il Vampiro) da una serie di tratti caratteristici: il corpo eccezionalmente peloso, gli occhi iniettati di sangue, la dentatura ferina, il temperamento irascibile. Scarse le difese. Il Lupo Mannaro sopporta (come i berserkr) le ferite più atroci, e la sua forza e agilità immense ne rendono difficile la cattura. Si dice (ma è tradizione più letteraria che effettiva) che sia sensibile all'argento: per cui si impiegavano per ucciderlo lame di quel metallo, o pallottole argentee benedette da un prete. Colpirlo in fronte con un forcone può costringerlo a riprendere l'aspetto umano e se, giunti in possesso della veste stregata, la si brucia, si impediscono ulteriori metamorfosi. I sistemi preventivi variano peraltro a seconda delle latitudini. In Europa, si può impedire il triste destino cui sono condannati i bimbi nati a Natale incidendo ogni anno, per tre anni, una croce sul loro piede sinistro
con un ferro rovente. Ad Haiti, si ricorre ad un sistema diverso: si fanno mangiare loro scarafaggi fritti con aglio e olio di ricino. Nel nostro Meridione, per sfuggire al suo inseguimento, basta gettargli addosso un mantello, o accecarlo con una forte luce, o salire una rampa di scale (al licantropo sono vietate). In certe regioni della Francia, si usava una terapia «robusta»: il presunto Lupo Mannaro in forma umana deve essere staffilato da fanciulle vergini con sottili bastoni di frassino, fino a ricoprirlo di sangue; quindi, gli si gettano addosso diverse mestolate di zolfo, olio di ricino, aceto e pece bollenti. Chi sopravvive, è guarito. Animali mannari Il lupo, e talvolta l'orso, sono gli animali più feroci dell'area europea. In altri continenti, il fenomeno dello zoo-antropismo assume diverse morfologie. In certe zone dell'Africa - Abissinia, Sudan, Nubia - l'animale mannaro è la iena. Gli Abissini pensavano che predisposti alla metamorfosi fossero coloro che esercitavano il mestiere di fabbro. Le iene mannare avevano un re, cui ogni notte doveva essere presentato come offerta un cadavere. I Nubiani credevano che a trasformarsi in iene, estromettendo durante il sonno il loro «corpo fluidico», fossero le suocere degli uomini sposati. Nell'Africa Centrale, gli Stregoni si trasformano in leoni e leopardi. Gli Uomini-Leopardo agiscono tuttora, e sono frequenti anche oggi i processi intentati per atti di cannibalismo rituale praticati da adepti di sette segrete che - a imitazione degli antichi Sciamani - si vestono di una pelle di belva, e armano le loro mani con unghie di leopardo per straziare le vittime. Si impiegano anche bevande eccitanti: negli anni Sessanta, era famoso il «tè di Lumumba», fatto bere ai ribelli congolesi per eccitare in loro la furia del berserkr: gli ossessi si gettavano contro le mitragliatrici, e sembravano insensibili ai proiettili che ne dilaniavano il corpo. A lungo gli Inglesi lottarono contro i Mau-Mau uomini-leone e si ha notizia anche di uomini-pantera, uomini-caimano, uomini-scimpanzé. Di molte di queste sette fanno parte anche donne. Nell'America Settentrionale la belva scelta per la trasformazione è ancora il lupo. Una tribù pellerossa, i Pawnee, si auto-definiva «stirpe di lupo» e, cacciando i bisonti, ne indossava la pelle e ne imitava la tecnica. I giovani erano condotti a spiare i lupi, per impararne il modus vivendi. Al Centro e al Sud, invece, ci si rivolgeva al giaguaro.
L'Asia è il regno della tigre. Uomini-tigre si trovavano (e forse si trovano ancora) in Malesia, a Burma, in India. Gli Stregoni invasi dallo spirito della tigre si comportano con inaudita ferocia; per recuperare la natura umana, occorre che passino attraverso una porta. Anche in Cina appaiono le trasformazioni in tigre, pur se non mancano, secondo le regioni, altri animali, fra cui il topo e la scolopendra. La volpe è presente soprattutto in Giappone, e non sempre peraltro agisce in senso malefico. Nella regione di Ninko, si dice che donne-volpi possano entrare in famiglie umane, sposarsi, e portare fortuna a chi le ha accolte. Lupi di carta Tutta questa massa di materiale leggendario non ha mancato, ovviamente, di interessare la narrativa. L'episodio del «versipelle» nel Satyricon di Petronio è la prima apparizione romanzesca del Lupo Mannaro, la cui sanguinosa figura corre poi per secoli nella poesia e nella fiaba: il «lupo cattivo» di Cappuccetto Rosso è una figura simbolica che ha sollecitato le interpretazioni più diverse. In epoca moderna, la prima apparizione del Lupo Mannaro si ritrova in un episodio del romanzo The Albigenses (1824) di Charles Maturin, uno dei creatori della narrativa gotica. Lo si incontra ancora, quindici anni dopo, in un altro capitolo di romanzo, The Phantom Ship (1839) di Frederick Marryat. La popolarità del Vampiro di Polidori giova anche alla figura del Lupo Mannaro, che conosce a metà dell'Ottocento un certo successo letterario, seppure non paragonabile a quello del sinistro succhiatore di sangue. Successo sancito dall'apparizione del solito romanzo-fiume venduto in dispense settimanali: Wagner the Wher-Wolf, di George William Reynolds, apparso fra il 1846 e il 1847. Di uomini e lupi si occuparono poi autori come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, Erckmann & Chatrian. Nell'ambito della letteratura popolare, tutti i «maestri del brivido» (citiamo Blackwood, Lovecraft, Conan Doyle) hanno dedicato racconti al truce mostro antropofago. Nel 1923, la comparsa in edicola di Weird Tales, la celebre rivista americana dell'Orrido, portò a una moltiplicazione di racconti licantropia: sulle sue pagine apparve fra l'altro il ciclo del «Lupo Mannaro di Ponkert», ispirato da Lovecraft e scritto da H. Warner Munn. Fu su una rivista concorrente, tuttavia, Unknown, diretta da John W.
Campbell, che apparve quello che a tutt'oggi è forse il più famoso romanzo licantropico: Darker than You Think (1948), di Jack Williamson, che rinnovò ampiamente il cliché ormai un po' logoro. Fra gli autori successivi, citiamo Whitney Strieber, cui si deve il bel romanzo Wolfen (1978), Tanith Lee con Lycanthia (1981) e il sempiterno Stephen King. Anche il cinema ha detto la sua in campo licantropico. Dopo una serie di pellicole di scarsa consistenza (si veda la Filmografia in questo volume), nel 1941 il personaggio «sfondò» con L'Uomo-lupo di George Waggner, che nel ruolo centrale consacrò l'attore Larry Talbot, il quale in seguito girò numerosi altri film come Lupo Mannaro, in molti dei quali compariva in coabitazione con altri mostri celebri, come Dracula e la creatura di Frankenstein. Confinato in pellìcole di serie B, negli anni successivi il lupo umano ha conosciuto poche punte di eccellenza. Negli anni Cinquanta, l'unica pellicola notevole è stata I Was a Teenage Werewolf (1957), di Gene Fowles, in cui la tematica si sposta in ambito giovanile. Da segnalare, dopo, The Howling (1980), di Joe Dante, fino alla prima pellicola di assoluta eccellenza, An American Werewolf in London (1981) di John Landis, divenuto rapidamente un cult-movie. Dopo, ben poco, fino al recentissimo Wolf (1993) di Michael Nichols, con Jack Nicholson nella parte del licantropo, che ha battuto tutti i record d'incasso ai botteghini dei cinema degli Stati Uniti, dove è stato proiettato. GIANNI PILO / SEBASTIANO FUSCO PARTE PRIMA MALE DI LUNA IL LUPO MANNARO di Gaio Petronio Arbitro dal Satyricon, II secolo D.C. LXII. «Il caso volle che il padrone andasse a Capua per vendere qualche cianfrusaglia fuori uso. Approfitto dell'occasione e persuado un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava d'un soldato coraggioso come un leone. Ci avviammo al canto del gallo: splendeva una luna che pareva giorno. Ma, arrivati a certe tombe, il mio uomo si nasconde a fare i suoi bisogni tra le pietre, mentre io continuo a camminare canticchiando e mi metto a contarle. Mi volto e che ti vedo? Il mio compagno
si spogliava e buttava le vesti sul ciglio della strada. Mi sentii venir meno il respiro e cominciai a sudare freddo. Senonché quello si mette a inzuppare di orina le vesti e diventa d'improvviso un lupo. Non crediate ch'io scherzi! Vi assicuro che non direi bugie per tutto l'oro del mondo. Ma che vi stavo dicendo? Ah, dunque, appena diventato lupo, si mette a ululare, ed entra nel bosco. Sul principio, io non sapevo più dove diamine fossi, ma poi, quando m'avvicino per raccogliere le vesti, le trovo mutate in pietre. Se non sono morto allora dalla paura, vuol dire che non muore più nessuno. Mi faccio forza e, snudata la spada, comincio a sciabolare le ombre fino a che non arrivo alla villa dove abitava la mia amica. Entrai che ero addirittura senza fiato, col sudore che mi colava giù per la schiena e due occhi spiritati. Non ce la facevo più a stare in piedi. La mia Melissa pareva stupita al vedermi in giro a un'ora simile e aggiunse: "Se tu fossi arrivato poco fa, ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nella villa e ha scannato tutte le pecore peggio di un macellaio. Ma anche se è riuscito a fuggire l'ha pagata cara, perché uno schiavo gli ha trapassato il collo con una lancia". Al sentire questo non riuscii a chiudere occhio durante tutta la notte e, fattosi giorno, me ne tornai di volo a casa di Gaio, il nostro padrone, come un mercante svaligiato. E quando arrivai nel punto in cui le vesti erano diventate pietre, non trovai più che sangue. Ma quando entrai in casa, vidi il soldato che giaceva disteso sul mio letto, sanguinante come un bue, e un medico che gli curava il collo. Capii finalmente che si trattava di un Lupo Mannaro, e da allora non mi fu più possibile dividere con lui un pezzo di pane, neanche se m'avessero ammazzato. Spieghi ognuno come vuole questa faccenda: per me, i vostri Geni me la facciano pagare se ho aggiunto qualcosa di mio.» LA LUPA BIANCA DELLE MONTAGNE HARTZ The White Wolf Of The Hartz Mountains di Frederick Marryat The Phantom Ship [cap. 39], 1837 1. Prima dell'una, Philip e Krantz si erano imbarcati, e navigavano sulla peroqua. Non avevano difficoltà a mantenere la rotta; le isole di giorno, e le nitide stelle la notte, erano la loro bussola. È vero che non seguivano la traiettoria
più diretta, ma quella più sicura, navigando le acque più tranquille, e puntando più verso Nord che verso Ovest. Molte volte furono inseguiti dai prahos malesi che infestavano le isole, ma la velocità della piccola peroqua era la loro sicurezza. In verità, l'inseguimento in genere, veniva abbandonato non appena la piccolezza del vascello veniva scoperta dai pirati, che pensavano di trovarvi poco o nessun bottino. Una mattina, mentre veleggiavano tra le isole, con meno vento del solito, Philip osservò: «Krantz, hai detto che ci sono stati degli avvenimenti nella tua vita, o ad essa connessi, che confermerebbero il misterioso racconto che ti ho confidato. Vorresti dirmi ora a che cosa ti riferivi?». «Certamente», replicò Krantz; «ho pensato spesso di farlo, ma una circostanza o l'altra me l'hanno finora impedito. Questa è, però, l'occasione adatta. Preparati perciò ad ascoltare una strana storia, strana, forse, quanto la tua.» «Do per scontato che hai già sentito parlare delle Montagne Hartz», osservò ancora Krantz. «Non ne ho mai sentito parlare, per quanto rammenti», replicò Philip; «ma in qualche libro ho letto di quelle montagne e degli strani avvenimenti che vi sono accaduti.» «È veramente una regione selvaggia», riprese Krantz, «e si raccontano molte storie strane al riguardo. Ma, per quanto strane siano, ho buoni motivi per crederle vere. Mio padre non era nato tra le Montagne Hartz, né vi risiedeva fin dall'inizio della sua vita. Era uno dei servi di un nobile ungherese, che aveva grandi possedimenti in Transilvania. Ma, sebbene fosse un servo, non era affatto povero e ignorante. In effetti, era ricco, e la sua intelligenza e rispettabilità erano tali che il suo Signore lo aveva elevato al ruolo di maggiordomo. Ma chiunque abbia la ventura di nascere servo, servo deve rimanere, anche se diviene un benestante: tale era la condizione di mio padre. Mio padre era sposato da cinque anni, e dal suo matrimonio erano nati tre figli: mio fratello maggiore Caesar, io (Hermann), e una sorella, Marcella. Sai bene, Philip, che il Latino è ancora la lingua parlata in quel paese, e questo è il motivo dei nostri nomi altisonanti. Mia madre era molto bella, purtroppo però, più bella che virtuosa. Fu vista e notata dal Signore. Mio padre fu mandato via a compiere qualche missione e, durante la sua assenza, mia madre, lusingata dalle attenzioni e vinta dall'assiduità di quel
nobile, cedette ai suoi desideri. Accadde che mio padre tornasse inaspettatamente, e scoprisse l'intrigo. La prova della colpa di mia madre era certa: egli la sorprese in compagnia del seduttore! Trascinato dall'impeto dei suoi sentimenti, aspettò l'occasione propizia, e uccise la propria moglie e il suo seduttore durante un convegno segreto. Conscio del fatto che, in qualità di servo, nemmeno la provocazione da lui ricevuta bastava a giustificare la sua condotta, raccolse frettolosamente tutti i soldi su cui riuscì a mettere le mani. Poiché eravamo nel cuore dell'inverno, attaccò i cavalli alla slitta, prese con sé i propri figli, e partì nel pieno della notte. Era già lontano prima che il tragico avvenimento fosse risaputo. Cosciente del fatto che sarebbe stato cercato, e che non aveva alcuna possibilità di fuga se restava in una zona qualsiasi del suo paese natio (in cui le autorità avrebbero potuto imprigionarlo), continuò la sua fuga senza soste finché non si seppellì nell'intrico e nella solitudine delle Montagne Hartz. Naturalmente, tutto quello che ti ho appena narrato, lo appresi solo in seguito. I miei ricordi più vecchi sono legati a un capanno rozzo, eppure comodo, in cui vivevo con mio padre, mio fratello e mia sorella. Si trovava ai confini di una di quelle vaste foreste che coprono la parte settentrionale della Germania. Intorno al capanno c'era qualche acro di terreno che, durante i mesi estivi, mio padre coltivava, e che, sebbene fruttasse uno scarso raccolto, era sufficiente al nostro sostentamento. In inverno, vi passavamo molto tempo dentro, poiché, quando mio padre andava a caccia, noi restavamo soli, e i lupi durante quella stagione si aggiravano incessantemente in cerca di preda. Mio padre aveva acquistato il capanno e il terreno circostante da uno di quei rudi abitanti delle foreste, che si guadagnano da vivere in parte cacciando e in parte bruciando il carbone, allo scopo di fondere l'oro delle miniere dei dintorni. Era lontano circa due miglia dalle altre abitazioni. In questo momento, ho davanti agli occhi quel paesaggio. Gli alti pini che si elevavano sulla montagna sovrastante, e la selvaggia distesa delle foreste che erano più sotto. Ci arrampicavamo sui rami e sulle cime più alte di quegli alberi per guardare il nostro capanno e la montagna che scendeva ripida nella vallata lontana. In estate la veduta era bella ma, durante il rigido inverno, non si poteva immaginare una scena più desolata.
Ho già detto che, in inverno, mio padre era impegnato nella caccia. Ogni giorno ci lasciava, e spesso chiudeva a chiave la porta per impedirci di uscire. Non aveva nessuno che l'aiutasse, o che si prendesse cura di noi: non era facile trovare una serva che volesse vivere in una simile solitudine. Ma, anche se ne avesse trovata una, mio padre non l'avrebbe ricevuta, perché era inorridito dal sesso, come la differenza del suo comportamento verso di noi - i suoi due figli maschi - e verso la mia povera sorellina Marcella, testimoniava a sufficienza. Potresti pensare che fossimo tristemente abbandonati a noi stessi. In verità, soffrivamo molto, perché mio padre, nel timore che potessimo farci del male, non ci permetteva di tenere il fuoco acceso quando lasciava il capanno. Perciò eravamo costretti a infilarci sotto i mucchi di pelle d'orso, e a stare il più possibile al caldo fino al suo ritorno. Poi, la sera, il fuoco scoppiettante era la nostra gioia. Che mio padre avesse scelto quel genere di vita irrequieta potrebbe apparire strano, ma il fatto era che non riusciva a stare tranquillo. Fosse per il rimorso di aver commesso un omicidio, fosse per la miseria risultante dal cambiamento di situazione, o per entrambi i motivi insieme, non era felice se non era in uno stato di attività. I bambini, comunque, se lasciati così a lungo a se stessi, acquistano una maturità non comune alla loro età. Così accadde a noi. E, durante i brevi giorni dell'inverno, stavamo in silenzio a pensare con nostalgia alle ore felici, quando la neve si sarebbe sciolta, le foglie sarebbero spuntate, gli uccelli avrebbero cominciato le loro canzoni, e noi saremmo stati di nuovo liberi. Così vivemmo, in questa maniera selvaggia e singolare, finché mio fratello Caesar ebbe nove anni, io sette, e mia sorella cinque, e avvennero quei fatti su cui è basato il racconto che sto per narrarti. Una sera mio padre tornò a casa più tardi del solito. La caccia non gli era andata bene e, poiché il tempo era molto rigido e molti centimetri di neve erano ammassati sul terreno, non solo era molto infreddolito, ma era anche di pessimo umore. Aveva portato della legna, e noi tre eravamo felici di aiutarci l'un l'altro a soffiare sui tizzoni per infiammarli, quando afferrò la povera piccola Marcella per un braccio e la spinse da parte. La bambina cadde, urtò con la bocca a terra, e sanguinò abbondantemente. Mio fratello corse ad alzarla. Abituata ai maltrattamenti, e timorosa di mio padre, lei non osò piangere, ma alzò gli occhi sul suo volto con un'espressione commovente. Mio padre
avvicinò il suo sgabello al camino, mormorò qualcosa di offensivo nei riguardi delle donne, e si dedicò ad attizzare il fuoco, che sia io che mio fratello avevamo abbandonato quando la nostra sorellina era stata trattata così brutalmente. Una fiamma allegra fu ben presto il risultato dei suoi sforzi, ma noi non ci raccogliemmo, come al solito, intorno al focolare. Marcella, ancora sanguinante, si ritirò in un angolo, e mio fratello e io portammo i nostri sgabelli accanto a lei, mentre mio padre si sporgeva verso il fuoco, cupo e solo. Rimanemmo in questo modo per una mezz'ora, finché l'ululato di un lupo, vicino alla finestra del capanno, ci fece trasalire. Mio padre si alzò di scatto, e afferrò il fucile. Quando l'ululato si ripeté, egli esaminò l'innesco, e poi rapidamente lasciò il capanno, chiudendosi la porta alle spalle. Tutti noi aspettavamo (ascoltando ansiosamente), perché pensavamo che, se riusciva a sparare al lupo, sarebbe ritornato con un umore migliore. E, sebbene fosse aspro con tutti noi, e soprattutto con la nostra sorellina, noi amavamo nostro padre, e ci piaceva vederlo allegro e felice: del resto, chi altro potevamo amare e rispettare? A questo punto, devo osservare che forse non ci sono mai stati tre bambini più affezionati l'uno all'altro. Noi non litigavamo, come fanno altri bambini. E se, per caso, nasceva qualche disaccordo tra mio fratello e me, la piccola Marcella correva da noi, ci baciava entrambi e, con le sue implorazioni, ci spingeva a fare pace. Marcella era una bambina gentile, amabile. Ho davanti agli occhi i suoi bei tratti. Ahimè! Povera, piccola, Marcella!» «È morta allora?», chiese Philip. «Morta! Sì, è morta! Ma come morì? Ma non devo anticipare, Philip; lasciami raccontare la mia storia. Aspettammo, ma lo sparo del fucile non si sentì, e allora il mio fratello maggiore disse: "Nostro padre ha seguito il lupo, e non tornerà subito. Marcella, lascia che ti laviamo il sangue dalla bocca, poi lasceremo quest'angolo e andremo accanto al fuoco a scaldarci". Facemmo in questo modo, e restammo accanto al camino fino a mezzanotte, chiedendoci a ogni momento che passava perché nostro padre non tornasse. Non immaginavamo che fosse in pericolo, ma pensavamo che avesse inseguito il lupo per molto tempo. "Andrò a guardare fuori per vedere se nostro padre sta venendo", disse mio fratello Caesar, andando verso la porta. "Fa' attenzione", disse Marcella, "i lupi devono essere in giro, e noi non possiamo ucciderli, fratello."
Mio fratello aprì la porta con molta prudenza, e solo di qualche centimetro, poi scrutò fuori. "Non vedo niente", disse, dopo qualche momento, e ci raggiunse accanto al fuoco. "Non abbiamo cenato", risposi io, perché mio padre di solito preparava da mangiare non appena tornava a casa e, durante la sua assenza, non avevamo nient'altro di cui cibarci che gli avanzi del giorno precedente. "E se nostro padre toma a casa, dopo la caccia, Caesar", disse Marcella, "sarà felice di trovare la cena pronta. Cuciniamo per lui e per noi." Caesar salì su uno sgabello, e prese delle provviste... ho dimenticato se fosse cervo o carne d'orso. Tagliammo la solita quantità di carne, e ci mettemmo a pulirla, come eravamo soliti fare sotto la sorveglianza di nostro padre. Eravamo impegnati a metterla nei piatti accanto al fuoco, in attesa del suo arrivo, quando sentimmo il suono di un corno. Ci mettemmo in ascolto... poi si sentì un rumore all'esterno e, un minuto dopo, mio padre entrò e introdusse una giovane donna e un uomo scuro e robusto, vestito da cacciatore. Forse ora farei bene a raccontare quello che mi fu noto solo anni dopo. Quando mio padre aveva lasciato il capanno, aveva scorto una grande lupa bianca a una trentina di metri di distanza. Non appena l'animale aveva visto mio padre, si era allontanato lentamente, ringhiando e digrignando i denti. Mio padre l'aveva seguito. L'animale non correva, ma si manteneva sempre a una certa distanza. E a mio padre non piaceva sparare finché non era più che certo che la sua pallottola avrebbe colto nel segno. Perciò continuarono ad avanzare per qualche tempo: ogni tanto la lupa lasciava molto indietro mio padre, quindi si fermava a ringhiargli contro in segno di sfida, e poi, quando lui si avvicinava, ripartiva a grande velocità. Ansioso di sparare all'animale (perché il lupo bianco è molto raro), mio padre continuò l'inseguimento per parecchie ore, durante le quali salì costantemente lungo la montagna. Devi sapere, Philip, che su quelle montagne ci sono luoghi particolari che si crede siano - e come la mia storia ti proverà, questa credenza è veritiera - abitati da influssi malefici. Sono ben noti ai cacciatori, che li evitano accuratamente. Ora, uno di questi luoghi, una radura nella foresta di pini che era più sopra del capanno, era stato segnalato a mio padre come pericoloso proprio per quei motivi. Ma, sia che non credesse a quelle storie superstiziose, sia che, nell'avidità della caccia le avesse trascurate, fu attirato dalla lupa
bianca in quella radura, dove l'animale rallentò. Mio padre si avvicinò, portò il fucile alla spalla, e stava per sparare, quando la lupa scomparve improvvisamente. Egli pensò che la neve gli avesse annebbiato la vista, e abbassò il fucile per cercare la belva, ma quella era scomparsa. Come avesse fatto a fuggire in quella radura, senza farsi vedere, era al di là della sua comprensione. Deluso dal suo insuccesso stava per ritornare sui propri passi, quando sentì il suono lontano di un corno. Lo stupore nel sentire un suono simile, a un'ora simile, in un luogo simile, fu tale da fargli dimenticare la delusione. Restò inchiodato al suolo. Dopo un minuto il corno suonò una seconda volta, e a una distanza inferiore. Mio padre restò immobile ad ascoltare. Il corno suonò una terza volta. Ho dimenticato il termine che serviva a definirlo, ma era il segnale - ben noto a mio padre - che indicava che un gruppo di cacciatori si era smarrito nei boschi. Dopo qualche minuto, mio padre vide un uomo sul dorso di un cavallo, con una donna seduta sulla groppa, entrare nella radura, e cavalcare verso di lui. Sulle prime, ricordò tutte le strane storie che aveva sentito a proposito degli esseri soprannaturali che si diceva frequentassero quelle montagne. Ma, quando la coppia si avvicinò, si accorse che erano esseri umani come lui. Non appena gli furono vicini, l'uomo che conduceva il cavallo gli parlò. "Amico cacciatore, siete nei boschi a quest'ora tarda, e questa è una fortuna per noi. Cavalchiamo da molto tempo, e temiamo per la nostra vita, che è in grave pericolo. Queste montagne ci hanno consentito di sfuggire ai nostri inseguitori ma, se non troviamo un riparo e del cibo, moriremo per la fame e per il freddo della notte. Mia figlia, che è dietro di me, è più morta che viva. Ditemi, potete aiutarci?" "Il mio capanno è a qualche miglio di distanza", replicò mio padre, "ma ho ben poco da offrirvi oltre un riparo dalle intemperie. Siete i benvenuti nella mia misera casa. Posso chiedervi da dove venite?" "Sì, amico, non è più un segreto. Siamo fuggiti dalla Transilvania, dove l'onore di mia figlia e la mia vita erano in pericolo!" Quest'informazione fu sufficiente a svegliare l'interesse di mio padre. Ricordò la propria fuga: ricordò la perdita dell'onore di sua moglie, e la tragedia con cui si era conclusa la storia. Offrì subito e con cordialità tutto l'aiuto che poteva loro fornire. "Allora, non c'è tempo da perdere, mio buon signore", osservò il cavaliere. "Mia figlia è gelata, e non ce la farà a resistere oltre all'inclemenza del
tempo." "Seguitemi", replicò mio padre, e li guidò verso casa. "Sono stato attirato tanto lontano, da una grande lupa bianca", osservò mio padre. "È arrivata fino alla finestra del mio capanno, altrimenti non sarei stato fuori a quest'ora della notte." "Quell'animale ci è passato accanto quando siamo usciti dal bosco", disse la donna, con voce argentina. "Stavo per sparargli", osservò il cacciatore; "ma, visto che ci ha reso un così buon servizio, sono lieto di averlo lasciato fuggire." In un'ora e mezza, durante la quale mio padre camminò a un passo veloce, il gruppo arrivò al capanno, e, come ho già detto, entrarono. "Siamo arrivati al momento giusto", osservò il cacciatore dalla pelle scura, annusando l'odore della carne arrostita. Poi si avvicinò al fuoco e osservò mio fratello, mia sorella e me. "Avete dei cuochi molto giovani, Meinheer!" "Sono felice che non dovremo aspettare", replicò mio padre. "Venite, signorina, sedetevi accanto al fuoco; avete bisogno di calore dopo quella lunga cavalcata al gelo." "E dove posso sistemare il mio cavallo, Meinheer?", osservò il cacciatore. "Mi prenderò io cura di lui", replicò mio padre, uscendo dalla porta del cottage. La donna, però, deve essere descritta nei particolari. Era giovane, e sembrava avesse una ventina d'anni. Indossava degli abiti da viaggio, bordati di una folta pelliccia bianca, e sul capo portava un cappello di ermellino bianco. I suoi tratti erano bellissimi, almeno così mi sembrava, e così dichiarò mio padre. I suoi capelli erano biondo chiaro, lucidi, splendenti e lucenti come uno specchio. La bocca, sebbene piuttosto grande quando era aperta, metteva in mostra i denti più candidi che abbia mai visto. Ma c'era qualcosa nei suoi occhi, brillanti com'erano, che spaventò noi bambini. Erano così irrequieti, così furtivi. A quell'epoca non avrei saputo dire perché, ma sentivo che c'era crudeltà in quegli occhi. Quando ci fece cenno di avvicinarci, ci accostammo a lei con timore. Eppure era bella, bellissima. Parlò con gentilezza a me e a mio fratello, ci diede qualche colpetto affettuoso sulla testa e ci carezzò. Ma Marcella non volle avvicinarsi. Al contrario, sgattaiolò via, si nascose sotto le coperte, e non volle nemmeno aspettare la cena che aveva desiderato con tanta ansia solo mezz'ora prima.
Mio padre, dopo aver sistemato il cavallo in un capanno vicino, tornò, e la cena fu disposta sul tavolo. Quando fu terminata, mio padre invitò la giovane a prendere possesso del letto, mentre lui sarebbe rimasto accanto al camino con suo padre. Dopo qualche esitazione da parte di lei, questa sistemazione fu accolta di buon grado, e io e mio fratello ci infilammo nell'altro letto con Marcella, perché fino a quel momento avevamo sempre dormito insieme. Ma non riuscimmo a dormire: c'era qualcosa di così insolito, non solo nel vedere gente estranea, ma nell'avere ospiti nel capanno quelle persone, che eravamo sconcertati. Per quanto riguarda la povera piccola Marcella, lei stava zitta, ma io mi accorsi che tremò tutta la notte, e talvolta mi parve che soffocasse un singhiozzo. Mio padre aveva tirato fuori dei liquidi, di cui faceva raramente uso, e lui e lo strano cacciatore erano restati a berli e a parlare accanto al fuoco. Le nostre orecchie erano pronte ad afferrare il più lieve bisbiglio, tanta era la nostra curiosità. "Avete detto che venite dalla Transilvania?", osservò mio padre. "Proprio così, Meinheer", replicò il cacciatore. "Ero uno dei servi della nobile casa di... Il mio Signore insisteva che abbandonassi mia figlia ai suoi desideri. Tutto è finito con qualche centimetro del mio coltello da caccia nel suo cuore." "Noi siamo compatrioti e compagni di sventura", replicò mio padre, prendendo la mano del cacciatore e stringendola con calore. "Veramente! Allora anche voi venite dalla Transilvania?" "Sì, e anch'io sono fuggito per salvarmi la vita. Ma la mia è una storia triste." "Come vi chiamate?", chiese il cacciatore. "Krantz." "Che cosa? Krantz di...? Ho sentito la vostra storia. Non avete bisogno di rinnovare il vostro dolore ripetendola ora. Benvenuto, benvenuto, Meinheer, e, posso anche dire, mio caro parente. Io sono il vostro secondo cugino, Wilfred di Barnsdorf", gridò il cacciatore, alzandosi e abbracciando mio padre. Riempirono i loro boccali di corno fino all'orlo, e bevvero l'uno dal bicchiere dell'altro, alla maniera tedesca. Poi la conversazione fu continuata a voce più bassa. Tutto quello che riuscimmo a sentire fu che il nostro nuovo parente e sua figlia avrebbero vissuto nel nostro capanno, almeno per il momento. Dopo circa un'ora, entrambi si abbandonarono sulle sedie e sembravano addormentati.
"Marcella, cara, hai sentito?", disse mio fratello sottovoce. "Sì", replicò Marcella, in un sussurro, "ho sentito tutto. Oh! Fratello, non posso sopportare la vista di quella donna... mi fa tanta paura." Mio fratello non rispose e, poco dopo, eravamo tutti e tre profondamente addormentati. Quando la mattina dopo ci svegliammo, scoprimmo che la figlia del cacciatore si era alzata prima di noi. Pensai che sembrava più bella che mai. Si avvicinò alla piccola Marcella e l'accarezzò. La bambina scoppiò a piangere, e singhiozzò fino a farsi scoppiare il cuore. Ma, senza dilungarmi nei particolari, dirò che il cacciatore e sua figlia si sistemarono nel nostro capanno. Mio padre e l'altro andavano a caccia ogni giorno, mentre Christina restava con noi. Lei adempiva a tutti i doveri casalinghi; era molto gentile con noi bambini, e gradualmente perfino l'antipatia di Marcella scomparve. Ma un grande cambiamento avvenne in mio padre. Sembrava aver superato la sua avversione al sesso, ed era molto attento a Christina. Spesso, dopo che suo padre e noi ci eravamo coricati, restava in piedi con lei a conversare a voce bassa accanto al fuoco. Avrei dovuto dire che mio padre e il cacciatore Wilfred dormivano in un'altra parte del capanno, e che il letto, occupato prima da lui, e che era nella stessa camera del nostro, era stato dato a Christina. I nostri ospiti erano da tre settimane al capanno quando, una sera, dopo che noi bambini eravamo stati mandati a letto, si tenne una consultazione. Mio padre aveva chiesto Christina in sposa, e aveva ottenuto sia il consenso della ragazza che quello di Wilfred. Dopodiché, ebbe luogo una conversazione che più o meno fu la seguente: "Potete prendere mia figlia, Meinheer Krantz, e avrete tutte le mie benedizioni. Io poi partirò per cercare un'altra abitazione. Non importa dove". "Perché non rimanete, Wilfred?" "No, no, sono chiamato altrove. Che ciò basti, e non fate altre domande. Avete mia figlia." "Vi ringrazio per avermi concesso la sua mano: terrò in grande stima vostra figlia. Ma c'è una difficoltà." "So che cosa vorreste dire. Non c'è nessun sacerdote in questa regione selvaggia, è vero, e non c'è nessuna legge da rispettare. Ma una cerimonia deve avvenire tra voi per soddisfare suo padre. Acconsentite a sposarla alla mia maniera? Se acconsentite, vi sposerò io stesso." "Acconsento", replicò mio padre. "Allora prendetela per mano. Ora, Meinheer, giurate."
"Giuro", ripeté mio padre. "Su tutti gli Spiriti delle Montagne Hartz..." "Be', e perché non su Dio?", lo interruppe mio padre. "Perché non sono dell'umore adatto", ribatté Wilfred. "Se preferisco questo giuramento, meno vincolante, forse, di un altro, certamente non mi vorrete contraddire." "Be', sia come volete, allora. Assecondo il vostro umore. Mi farete giurare su quello in cui non credo?" "Molti lo fanno, ed esteriormente sono cristiani", ribatté Wilfred. "Ditemi, voleve sposarvi, o porto via mia figlia insieme a me?" "Procedete pure", replicò mio padre con impazienza. "Giuro su tutti gli Spiriti delle Montagne Hartz, su tutti i loro poteri benigni o maligni, che prendo Christina come mia legittima moglie, che la proteggerò, la curerò e l'amerò per sempre, che la mia mano non si leverà mai contro di lei." Mio padre ripeté le parole dopo Wilfred. "E se mancherò al mio giuramento, possa la vendetta degli Spiriti ricadere su di me e sui miei figli. Possano essi morire per mano dell'avvoltoio, o di altre belve della foresta. Possa la loro carne essere dilaniata dalle membra, e le loro ossa sbiancare nelle foreste. Tutto questo io giuro." Mio padre esitò, quando Wilfred disse le ultime parole. La piccola Marcella non poté più trattenersi e, quando mio padre ripeté l'ultima frase, scoppiò in lacrime. Questa interruzione improvvisa parve sconvolgere il gruppo, e soprattutto mio padre. Parlò in tono aspro alla bambina, che controllò i singhiozzi, affondando il volto tra le coperte. Così avvenne il secondo matrimonio di mio padre. La mattina dopo, il cacciatore Wilfred montò a cavallo e partì. Mio padre riprese a dormire nel proprio letto, che era nella stessa stanza del nostro, e le cose andarono più o meno come prima del matrimonio. Solo che la nostra nuova matrigna non aveva più alcuna gentilezza nei nostri confronti. In realtà, durante le assenze di mio padre, ci picchiava spesso. Maltrattava soprattutto la piccola Marcella, e i suoi occhi fiammeggiavano quando guardava avidamente la graziosa e amabile bimba. Una notte mia sorella svegliò me e mio fratello. "Che cosa c'è?", disse Caesar. "Lei è uscita", sussurrò Marcella. "Uscita!" "Sì, è uscita dalla porta in camicia da notte", replicò la bambina. "L'ho
vista alzarsi dal letto, guardare nostro padre per vedere se dormiva, e poi andare alla porta." Che cosa l'avesse indotta a lasciare il letto, e uscire svestita, in una notte invernale così fredda, con la neve alta, ci era incomprensibile. Restammo svegli e, dopo un'ora, sentimmo l'ululato di un lupo vicino alla finestra. "C'è un lupo", disse Caesar. "Sarà fatta a pezzi." "Oh, no!", gridò Marcella. Dopo qualche minuto la nostra matrigna apparve: era in camicia da notte, come aveva detto Marcella. Non tirò il saliscendi, per non fare rumore, poi si avvicinò a un secchio pieno d'acqua, si lavò faccia e mani, e scivolò nel letto accanto a nostro padre. Tremavamo tutti e tre, e nemmeno capivamo il perché; ma decidemmo di stare attenti la notte seguente. Lo facemmo, e non solo la notte successiva, ma anche molte altre. E, sempre alla stessa ora, vedemmo la nostra matrigna alzarsi dal letto e lasciare il capanno. Dopo che lei era uscita, invariabilmente sentivamo l'ululato di un lupo sotto la nostra finestra, e al suo ritorno la vedevamo sempre lavarsi prima di ritornare a letto. Notammo anche che mangiava raramente e che, quando lo faceva, sembrava mangiare con disgusto. Ma quando prendeva la carne per preparare la cena, spesso, furtivamente, si infilava un pezzo di carne cruda in bocca. Mio fratello Caesar era un ragazzo coraggioso; non voleva parlare a nostro padre finché non ne avessimo saputo di più. Decise che l'avrebbe seguita fuori per sapere che cosa facesse. Marcella e io ci sforzammo di dissuaderlo dal progetto. Ma lui non ci diede ascolto. La notte seguente si coricò tutto vestito e, non appena la nostra matrigna lasciò il capanno, balzò in piedi, prese il fucile di nostro padre, e la seguì. Puoi facilmente immaginare in che stato di ansia restammo io e Marcella durante la sua assenza. Dopo qualche minuto sentimmo lo sparo di un fucile. Io non svegliai mio padre; restammo solo a tremare per l'ansia. Dopo qualche minuto, vedemmo la nostra matrigna entrare nel capanno: aveva il vestito insanguinato. Misi la mano sulla bocca di Marcella per impedirle di gridare, sebbene anch'io fossi allarmato. La nostra matrigna si avvicinò al letto di nostro padre, guardò per vedere se dormiva, poi si avvicinò al focolare e soffiò sui tizzoni per farli infiammare. "Chi è?", disse mio padre, svegliandosi. "Sta' tranquillo, caro", replicò la mia matrigna; "sono io. Ho acceso il fuoco per riscaldare dell'acqua. Non mi sento molto bene." Mio padre si girò dall'altra parte, e si riaddormentò subito. Ma noi conti-
nuammo a osservare la nostra matrigna. Si cambiò la camicia da notte, e gettò gli abiti che aveva indosso nel fuoco. Allora ci accorgemmo che sanguinava abbondantemente dalla gamba destra, come se avesse una ferita d'arma da fuoco. Si fasciò la gamba, poi si vestì e rimase accanto al fuoco fino al sorgere del giorno. Il cuore della povera piccola Marcella batteva forte accanto a me, come, del resto, batteva forte anche il mio. Dov'era nostro fratello Caesar? Da chi altri la nostra matrigna poteva essere stata ferita se non da lui? Alla fine mio padre si alzò, e allora parlai per la prima volta. Dissi: "Padre, dov'è mio fratello?". Esclamò lui: "Perché, dove può essere?". "Dio Misericordioso! Se penso a come ho dormito male questa notte", osservò la mia matrigna. "Ho sentito qualcuno aprire il saliscendi della porta; e, mio caro, che fine ha fatto il tuo fucile?" Mio padre lanciò un'occhiata al di sopra del camino, e si accorse che il suo fucile mancava. Per un momento parve perplesso; poi, afferrata una grande ascia, uscì dal capanno, senza dire nemmeno una parola. Non restò fuori a lungo. Dopo pochi minuti ritornò stringendo tra le braccia il corpo mutilato del mio povero fratello. Lo stese sul letto, e gli coprì il volto. La mia matrigna si alzò a guardare il corpo, mentre io e Marcella ci mettemmo in un angolo a piangere e singhiozzare amaramente. "Ritornate a letto, bambini", disse lei in tono aspro. "Marito", continuò, "tuo figlio deve aver preso il fucile per sparare a un lupo, e l'animale era troppo forte per lui. Povero ragazzo! Ha pagato cara la sua avventatezza." Mio padre non rispose. Avrei voluto parlare - dire tutto - ma Marcella, che aveva compreso la mia intenzione, mi tenne per un braccio, e mi guardò con uno sguardo così implorante che desistei. Mio padre, perciò, restò nella sua ignoranza. Ma Marcella e io, sebbene non comprendessimo il perché, sapevamo che la nostra matrigna era in qualche modo connessa alla morte di Caesar. Quel giorno, mio padre uscì a scavare una tomba. Dopo aver adagiato il corpo nel terreno, lo coprì di pietre, in modo che i lupi non potessero scavare e dilaniare il cadavere. Lo shock di quella tragedia fu molto duro per lui; per molti giorni non andò a caccia, sebbene ogni tanto lanciasse anatemi contro i lupi e giurasse di vendicarsi. Ma anche durante quei giorni di lutto, i vagabondaggi notturni della mia matrigna continuarono con la stessa regolarità di prima. Infine, mio padre prese il fucile per recarsi nella foresta, ma tornò subito
e aveva un'aria molto turbata. "Ci crederesti mai, Christina, che i lupi - maledetta sia la loro razza! sono riusciti a scavare la tomba del mio povero figlio, e ora del suo corpo sono rimaste solo le ossa?" "Veramente!", replicò la mia matrigna. Marcella mi guardò, e io lessi nei suoi occhi intelligenti tutto quello che avrebbe voluto dire. "Un lupo ulula sotto la nostra finestra ogni notte, padre", dissi io. "Ah, veramente! Perché non me lo hai detto prima, ragazzo? Svegliami la prossima volta che lo senti." Vidi la mia matrigna girarsi. Gli occhi le fiammeggiavano, e digrignava i denti. Mio padre uscì nuovamente, e coprì con un mucchio di pietre i poveri, sparuti resti di mio fratello che i lupi avevano risparmiato. Quello fu il primo atto della tragedia. Poi venne la primavera; la neve si sciolse, e a noi fu dato il permesso di lasciare il capanno. Ma io non lasciavo mai da sola la mia cara sorellina alla quale, dalla morte di mio fratello, ero ancora più affezionato di prima. In realtà, avevo paura di lasciarla sola con la mia matrigna, che sembrava provare un piacere particolare nel maltrattarla. Mio padre si interessava alla sua piccola coltivazione, e io ero in grado di aiutarlo. Marcella aveva l'abitudine di sedersi accanto a noi che lavoravamo, lasciando la nostra matrigna sola nel capanno. Avrei dovuto dire che, man mano che la primavera avanzava, diminuivano le camminate notturne della mia matrigna, e che non udimmo più l'ululato del lupo sotto la finestra dopo che io ne avevo parlato a nostro padre. Un giorno, mentre mio padre e io eravamo nel campo e Marcella era con noi, la mia matrigna uscì, disse che doveva andare nella foresta a raccogliere delle erbe, e che Marcella doveva andare nel capanno a controllare la cottura della cena. Marcella andò. La mia matrigna scomparve nella foresta, prendendo la direzione opposta a quella del capanno, e lasciando mio padre e me, per così dire, tra lei e Marcella. Circa un'ora dopo sentimmo delle grida provenire dal capanno - era la piccola Marcella a gridare. "Marcella si sarà scottata, padre", dissi io e gettai la vanga a terra. Mio padre lasciò cadere la sua, ed entrambi ci affrettammo verso il capanno. Prima che raggiungessimo la porta, si avventò fuori un grande lupo bianco, che fuggì a grande velocità. Mio padre non aveva armi; si precipitò nel capanno, e vi trovò la povera Marcella moribonda. Il suo corpo era orrendamente mutilato e il sangue che ne fluiva a-
veva formato una grande pozza sul pavimento del capanno. La prima intenzione di mio padre era stata quella di afferrare il fucile e inseguire il lupo. Ma fu paralizzato da quello spettacolo orrido. Si inginocchiò accanto alla sua bambina morente, e scoppiò a piangere. Marcella poté solo guardarci teneramente per qualche attimo e poi i suoi occhi si chiusero per sempre. Mio padre e io eravamo ancora accanto al corpo della mia povera sorella quando la mia matrigna entrò. Fu molto interessata a quella visione spaventosa, ma non parve impressionata dal sangue, come di solito lo sono le donne. "Povera bambina!", disse. "Deve essere stato quel grande lupo bianco che mi ha superato proprio ora, e mi ha spaventato. È morta, Krantz." "Lo so! Lo so!", gridò mio padre, in preda al dolore. Pensai che mio padre non si sarebbe mai ripreso dagli effetti di quella seconda tragedia. Pianse amaramente sul corpo della sua dolce bambina, e per molti giorni non volle seppellirlo, sebbene la mia matrigna gli chiedesse spesso di farlo. Alla fine si rassegnò, le scavò una tomba vicina a quella del mio povero fratello, e prese ogni precauzione perché i lupi non violassero i suoi resti. Ora mi sentivo veramente derelitto e abbandonato quando dormivo solo nel letto che prima avevo diviso con mia sorella e mio fratello. Non potevo fare a meno di pensare che la mia matrigna fosse implicata in quelle due morti, sebbene non riuscissi a spiegarmi come. Ma non avevo più paura di lei: il mio piccolo cuore era pieno di odio e di vendetta. La notte dopo che mia sorella era stata sepolta, mentre ero disteso a letto, mi accorsi che la mia matrigna si alzava e usciva dal capanno. Aspettai qualche minuto, poi mi vestii e guardai attraverso lo spiraglio della porta, che avevo socchiusa. La luna splendeva, e vidi il posto in cui erano stati sepolti mia sorella e mio fratello. E quale fu il mio orrore quando mi accorsi che la mia matrigna era impegnata a togliere le pietre dalla tomba di Marcella! Indossava la sua camicia da notte bianca, e la luna la illuminava in pieno. Stava scavando con le mani, e gettava le pietre dietro di sé con tutta la ferocia di una belva selvaggia. Mi occorse del tempo per ritornare in me e decidere che cosa dovessi fare. Alla fine mi accorsi che era arrivata al corpo e l'aveva sollevato dalla tomba. Non sopportai oltre. Corsi da mio padre e lo svegliai. "Padre, padre!" gridai. "Vestiti e prendi il fucile."
"Che cosa!", gridò mio padre. "Ci sono i lupi, è vero?" Saltò giù dal letto, si infilò i vestiti, e nella sua ansia non notò l'assenza della moglie. Non appena fu pronto, io aprii la porta, lui uscì e io lo seguii. Immagina il suo orrore, quando (impreparato qual era a una scena simile) egli vide, mentre avanzava verso la tomba, non un lupo, ma sua moglie, in camicia da notte, accucciata a quattro zampe accanto al corpo di mia sorella. Era troppo impegnata a staccare a morsi grandi pezzi di carne e a divorarli con l'avidità di un lupo per accorgersi di noi. Mio padre lasciò cadere il fucile; gli si rizzarono i capelli. Respirò pesantemente, e poi il respiro gli si fermò. Io raccolsi il fucile e glielo misi tra le mani. D'improvviso parve che un'ira intensa raddoppiasse il suo vigore. Abbassò il grilletto, sparò, e con un grido acuto cadde la vipera che egli aveva nutrito nel suo petto. "Dio del Cielo!", gridò mio padre e cadde a terra svenuto non appena ebbe scaricato il fucile. Io restai al suo fianco finché non rinvenne. "Dove sono?", disse, "Che cosa è avvenuto? Oh!... sì, sì! Ricordo ora. Che Iddio mi perdoni!" Si alzò e si avvicinò alla tomba. Quale fu il nostro stupore nello scoprire che, invece del cadavere della mia matrigna, come ci aspettavamo, sui resti della mia povera sorellina era distesa una grande lupa bianca. "La lupa bianca", esclamò mio padre, "la lupa bianca che mi attirò nella foresta... Capisco tutto ora... ho fatto un patto con gli Spiriti delle Montagne Hartz." Per qualche momento mio padre restò in silenzio, immerso in profondi pensieri. Poi sollevò con cura il corpo di mia sorella, lo rimise nella tomba, e lo ricoprì di pietre. Quindi schiacciò la testa dell'animale sotto il calcagno, delirando come un pazzo. Ritornò al capanno, chiuse la porta, e si gettò sul letto. Io feci la stessa cosa, perché ero stordito per l'orrore e per lo stupore. All'alba del giorno dopo fummo entrambi destati da forti colpi alla porta. Nel capanno entrò il cacciatore Wilfred. "Mia figlia... uomo... mia figlia! Dov'è mia figlia?", gridò pieno di rabbia. "Dove dovrebbero stare le vipere e i dèmoni, spero", replicò mio padre, alzandosi e mostrando una collera uguale. "E dove dovrebbe essere: all'Inferno! Uscite subito da questo capanno, o farete una fine peggiore." "Ah... ah!", replicò il cacciatore. "Vorresti fare del male a un potente Spirito delle Montagne Hartz? Povero mortale, che ha sposato un Lupo
Mannaro!" "Fuori da qui, demonio! Sfido te e il tuo potere." "E tu lo proverai il mio potere. Ricorda il tuo giuramento - il tuo solenne giuramento - di non alzare mai la mano contro di lei." "Io non ho fatto nessun patto con gli spiriti maligni." "Tu l'hai fatto e, se hai mancato al tuo giuramento, subirai la vendetta degli Spiriti. Tuo figlio morirà per mano dell'avvoltoio, del lupo..." "Via, va' via, demonio!" "E le tue ossa sbiancheranno nelle foreste. Ah... ah!" Mio padre, folle di rabbia, afferrò l'ascia e la sollevò sulla testa di Wilfred. "Tutto questo io giuro", continuava il cacciatore in tono derisorio. L'ascia si abbassò; ma passò attraverso il corpo del cacciatore. Mio padre perse l'equilibrio, e cadde a terra. "Mortale", disse il cacciatore, scavalcando il corpo di mio padre, "noi abbiamo potere solo su coloro che hanno commesso un omicidio. Tu ti sei reso colpevole di un duplice omicidio: pagherai la pena prevista dal tuo giuramento di matrimonio. Due dei tuoi figli sono morti, e il terzo li seguirà. E li seguirà davvero, perché il tuo giuramento è valido. Va': sarebbe una gentilezza ucciderti! La tua punizione sarà il vivere!" A queste parole lo spirito scomparve. Mio padre si alzò da terra, mi abbracciò teneramente, e si inginocchiò a pregare. La mattina dopo lasciò per sempre il capanno. Mi prese con sé, e diresse il suo cammino verso l'Olanda, dove arrivammo sani e salvi. Aveva dei soldi con sé; ma eravamo da poco ad Amsterdam, quando fu colto da una febbre cerebrale, e morì delirando. Io fui messo in un orfanotrofio, e dopo venni imbarcato sui vascelli. Ora sai tutta la mia storia. La domanda è: pagherò la pena prevista dal giuramento di mio padre? Io sono convinto che, in un modo o nell'altro, la pagherò.» 2. Al ventesimo giorno di navigazione fu visibile l'altopiano della costa meridionale di Sumatra: poiché non c'erano vascelli in vista, decisero di attraversare lo Stretto, e di fare rotta verso Pulo Penang, che si aspettavano, visto che avevano il vento a favore, di raggiungere in sette o otto giorni. Per la costante esposizione ai raggi solari, Philip e Krantz erano tanto abbronzati che, con le lunghe barbe e gli abiti musulmani, potevano essere
presi facilmente per indigeni. Avevano navigato tutti i giorni esposti al sole bruciante, e avevano dormito tutte le notti all'umido e al fresco. Ma la loro salute non ne aveva sofferto. Per parecchi giorni, da quando aveva confidato a Philip la storia della propria famiglia, Krantz era diventato silenzioso e malinconico. La sua consueta allegria era svanita, e Philip gliene aveva chiesto spesso la causa. Quando entrarono nello Stretto, Philip parlò di che cosa avrebbero fatto al loro arrivo a Goa. E Krantz aveva replicato con gravità: «Da qualche giorno, Philip, ho il presentimento che non vedrò mai quella città». «Non stai bene, Krantz», replicò Philip. «No, sono in ottima salute, sia fisica che mentale. Mi sono sforzato di liberarmi di questo presentimento, ma invano. C'è una voce che mi avverte di continuo che non starò a lungo con te. Philip, mi faresti il favore di accontentarmi in una cosa? Ho dell'oro con me che potrebbe esserti utile. Fammi il favore di prenderlo e tenerlo sulla tua persona.» «Che assurdità, Krantz!» «Non è un'assurdità, Philip. Tu non hai mai presentimenti? Perché io non dovrei avere i miei? Sai che non sono pauroso, e che non mi preoccupo di morire. Ma, a ogni ora che passa, il mio presentimento si fa più forte...» «Queste sono le fantasie di un cervello sconvolto, Krantz. Non c'è nessun motivo di credere che tu, giovane e sano, non viva in pace fino alla vecchiaia. Domani starai meglio.» «Forse sì», replicò Krantz, «ma tu devi acconsentire al mio desiderio e prendere quell'oro. Se mi sbaglio, e arriveremo sani e salvi, Philip, potrai restituirmelo», osservò Krantz, con un debole sorriso, «ma non dimenticare che l'acqua è quasi finita, e che dobbiamo trovare qualche ruscello lungo la costa per averne una nuova riserva.» «Ci stavo pensando quando hai incominciato a parlare di quello sgradevole argomento. Faremmo bene a cercare l'acqua prima dell'imbrunire e, non appena avremo riempito le giare, potremo riprendere la navigazione.» Quando ebbe luogo questa conversazione, erano sul versante orientale dello Stretto, a una quarantina di miglia in direzione nord. L'interno della costa era roccioso e montagnoso, ma digradava lentamente verso una pianura di foreste alternate a giungle, che continuava fino alla spiaggia. La zona sembrava disabitata. Costeggiando la spiaggia scoprirono, dopo qualche ora, un ruscello che scendeva a cascata dalle montagne, e si faceva
strada lungo la giungla, fino a versare il proprio tributo alle acque dello Stretto. Entrarono nella foce del ruscello, abbassarono le vele, e spinsero la peroqua controcorrente, finché furono abbastanza avanti da essere sicuri di trovare dell'acqua dolce. Le giare furono presto riempite, e stavano già pensando di ritornare al mare quando, attirati dalla bellezza del luogo, dalla frescura dell'acqua, e stanchi del loro lungo isolamento a bordo della peroqua, decisero di fare un bagno: un lusso poco apprezzato da coloro che non hanno vissuto situazioni simili. Si tolsero gli abiti musulmani, e si immersero nel ruscello. Si bagnarono a lungo. Krantz fu il primo a uscire. Si lagnò di sentire freddo, e si diresse verso la riva dove avevano lasciato gli abiti. Anche Philip si avvicinò alla spiaggia, con l'intenzione di seguirlo. «E ora, Philip», disse Krantz, «ho finalmente l'occasione buona per darti i miei soldi. Aprirò la mia fusciacca e ne farò uscire l'oro: così potrai infilarlo nella tua prima di indossarla.» Philip era in piedi sul fondo, e l'acqua gli arrivava alla vita. «Be', Krantz», disse, «immagino che, se deve essere così, così deve essere. Ma mi pare un'idea talmente ridicola. Comunque, fa' come vuoi.» Philip uscì dalla corrente e sedette accanto a Krantz, che era già impegnato a scuotere i dobloni dalle pieghe della fusciacca. Infine disse: «Ora che li hai tu, Philip, mi sento soddisfatto». «Quale pericolo puoi correre a cui non sia esposto anche io?», replicò Philip; «Comunque...» Aveva appena finito di pronunciare queste parole, quando ci fu un tremendo ruggito, seguito da uno spostamento d'aria simile a quello provocato da un vento impetuoso. Qualcosa lo spinse di lato. Sentì un grido, rumori di una lotta. Philip si riprese, e vide il corpo nudo di Krantz trascinato via velocemente da una tigre enorme. Guardò la scena con gli occhi spalancati. In pochi secondi l'animale e Krantz scomparvero nella giungla. «Dio del Cielo! Perché mi hai risparmiato?», gridò Philip, gettandosi con la faccia a terra per la sofferenza. «Oh, Krantz! Amico mio... fratello mio. Eri così sicuro del tuo presentimento. Dio misericordioso, abbi pietà, ma che sia fatta la tua volontà.» E Philip scoppiò a piangere. Rimase per più di un'ora immobile, senza curarsi dei pericoli da cui era circondato. Alla fine, ripresosi alquanto, si alzò, si vestì, e poi si risedette con gli occhi fissi sui vestiti di Krantz e sull'oro che era ancora sulla sabbia.
«Ha voluto darmi quell'oro. Aveva previsto la propria fine. Sì! Sì! Era il suo destino, e si è compiuto. Le sue ossa sbiancheranno nelle foreste, e lo spirito-cacciatore e la sua figlia-lupa sono stati vendicati.» HUGUES, IL LUPO MANNARO Hugues, The Were-Wolf di Sutherland Menzies 1838 1. Un tempo, su gran parte della Contea del Kent, si stendeva una grande foresta, i cui resti ai giorni nostri sono noti sotto il nome di Bosco di Kent. Dove la foresta allargava il suo manto impervio, a metà strada tra Ashford e Canterbury, durante il lungo regno del nostro Enrico II, una famiglia di origine normanna, gli Hugues (O Wulfric, com'erano di solito chiamati dagli abitanti sassoni di quel distretto), sotto la protezione delle leggi della foresta, aveva eretto un'abitazione solitaria e miseranda. E in quel rifugio silvano, impegnati nel lavoro di taglialegna, quegli sventurati reietti, perché tali erano per un motivo o per un altro, avevano vissuto per anni e anni un'esistenza precaria e appartata. Forse a causa dell'antipatia, radicata e ancora viva, contro la nazione usurpatrice di cui erano originari, o forse a causa di misfatti compiuti contro i loro superstiziosi vicini anglosassoni, venivano creduti Lupi Mannari. E, poiché veniva loro rifiutato il lavoro dai proprietari del circondario, la loro discendenza da un antenato licantropo venne confermata definitivamente. Non c'è da meravigliarsi che gli Hugues Wulfric non contassero nemmeno un amico nelle fattorie vicine, né tra i servi né tra gli uomini liberi, visto che avevano una reputazione così poco invidiabile. Infatti, venivano invariabilmente attribuite loro disgrazie che solo il caso aveva potuto provocare. Un incendio bruciava una fattoria. Un granaio deteriorato dal tempo, sovraccarico di un raccolto abbondante, crollava. I covoni di frumento venivano abbattuti sui campi da una tempesta. Il carbonchio distruggeva il grano. Il bestiame periva, decimato dall'afta. Un bambino deperiva per un male devastante. Una donna metteva al mondo un figlio prematuro. In ogni caso, erano sempre gli Hugues Wulfric a essere accusati apertamente. Venivano guardati di traverso, con paura mista a odio. Il dito accu-
satore del giovane e del vecchio li additava con amare imprecazioni. Insomma, erano classificati ferae natura, come quel mitico prototipo, ed erano trattati di conseguenza. Erano veramente terribili le storie che si raccontavano su di loro la sera intorno al camino acceso, mentre si filava il lino o si spennavano le oche. Quelle storie venivano confermate anche alla luce del giorno, mentre si conducevano le mucche al pascolo, e venivano discusse con abbondanza di particolari la domenica, tra la messa e i vespri, dai pettegoli radunati sul sagrato di Ashford. I fedeli ne parlavano alternando le maledizioni a più devoti segni della croce. Stregoneria, latrocinio, omicidi e sacrilegio, costituivano i tratti principali delle tragedie sanguinarie e misteriose di cui gli Hugues Wulfric erano i presunti attori. A volte i misfatti venivano attribuiti al padre, altre alla madre, e perfino la sorella non sfuggiva alla sua parte di diffamazione. Con piacere avrebbero attribuito un'indole feroce anche al bambino non ancora svezzato, tanto grande, tanto universale era l'orrore che provavano per quei figli di Caino! Il cimitero di Ashford, e la croce di pietra da cui si diramavano le strade per Londra, Canterbury e Ashford, situata a metà strada tra le ultime due località, fungevano, come affermava la tradizione, da teatri notturni alle gesta empie dei Wulfric. Si diceva che vi si recassero con la luna piena per rimpinzarsi dei cadaveri appena seppelliti, o per succhiare il sangue di qualche essere vivente che fosse stato abbastanza imprudente da avventurarsi in quei luoghi solitari. È vero che i lupi, durante gli inverni più rigidi, erano usciti dalle tane nelle foreste, erano entrati nel cimitero attraverso una breccia nelle mura, e, spinti dalla fame, avevano dissotterrato i morti. È vero anche che la Croce del Lupo, come i contadini la chiamavano comunemente, una volta si era macchiata di sangue. Un mendicante ubriaco era caduto e si era fratturato il cranio contro un angolo appuntito della base. Ma questi incidenti, così come una moltitudine di altri, erano attribuiti all'intervento malvagio dei Wulfric, sotto le spoglie diaboliche di Lupi Mannari. Questa povera gente, per di più, non si prendeva la pena di giustificarsi davanti a un'accusa così mostruosa. Erano al corrente di quale calunnia fossero vittime, ma erano altrettanto consci della propria impotenza a contraddirla. Ne soffrivano in silenzio, e fuggivano ogni contatto con coloro cui sapevano di fare orrore. Evitavano le strade maestre, e non osavano mai attraversare Ashford in pieno giorno, perciò facevano solo quei lavori
che si potessero svolgere in casa o nei luoghi solitari. Non andavano al mercato di Canterbury, né si accodavano ai pellegrini del famoso Santuario di Becket, né assistevano a tornei, balli e feste del raccolto. Il sacerdote aveva loro proibito di mettere piede in chiesa, e i bevitori di birra di mettere piede in osteria. La casupola primitiva che essi abitavano, era in calcare e argilla, con un tetto di paglia, in cui il vento aveva provocato enormi squarci. La chiudeva una porta di legno fradicio, piena di grandi buchi, attraverso cui le correnti d'aria avevano libero accesso. Quella misera dimora era situata a una distanza considerevole da ogni altra. Se, per caso, uno dei servi dei dintorni verso sera si smarriva nelle sue vicinanze, i timori superstiziosi gli impedivano di avvicinarsi troppo, non appena vedeva i vapori della palude alzarsi in volute verso il cielo dell'imbrunire. E, quando si avvicinava quell'ora che la tradizione chiama «tra il cane e il lupo» o «tra il falco e la poiana», i fuochi fatui cominciavano a baluginare intorno alla casa dei Wulfric. Essi, a quell'ora, cenavano tutti insieme - quando avevano di che cenare - e, subito dopo, si abbandonavano al riposo. Il dolore, la miseria e le esalazioni putride della canapa messa a macerare, da cui ricavavano abiti rozzi e poveri, contribuirono infine a portare malattia e morte in quella famiglia sventurata che, nel momento del bisogno estremo, non poteva nemmeno sperare nella pietà e nell'aiuto del prossimo. Il padre fu il primo ad ammalarsi, e il suo cadavere era ancora caldo quando la madre esalò l'ultimo respiro. Così quella coppia sfortunata terminò i propri giorni, senza il conforto del confessore e senza le cure di un medico. Hugues Wulfric, il loro figlio maggiore, scavò una tomba, vi depose i corpi avvolti in cenci di canapa al posto dei sudari, e vi collocò sopra qualche zolla di terra per segnare la loro ultima dimora. Un contadino, cui capitò di vederlo compiere quel sacro dovere al calar delle tenebre, si fece il segno della croce e fuggì a gambe levate, convinto di aver assistito a qualche incantesimo infernale. Quando trapelò la notizia vera, i pettegoli del vicinato si congratularono l'un l'altro per quelle due morti, che furono viste come il tardo castigo divino. Si parlò di suonare le campane a festa e di cantare Messe di ringraziamento per un simile atto di grazia. Era il Giorno dei Morti, e il vento gemeva lungo i pendii brulli delle colline, e fischiava tristemente tra i rami nudi degli alberi della foresta, le cui ultime foglie erano cadute da tempo. Il sole era scomparso. Una nebbia
densa e gelida si stendeva nell'aria come il velo funebre di una vedova, i cui giorni d'amore siano fuggiti precocemente. Nessuna stella splendeva nel cielo immobile e cupo. In quella casupola solitaria, che la morte aveva visitato di recente, gli orfani vegliavano accanto alla fiamma intermittente del focolare. Molti giorni erano trascorsi da quando le loro labbra si erano premute per l'ultima volta sulle mani fredde dei genitori. Molte tristi notti erano trascorse da quell'ora tragica in cui la loro dipartita li aveva lasciati soli al mondo. Poveri orfani! Erano entrambi nel fiore della giovinezza. Quanto tristi, ma quanto sereni apparivano nella loro sofferenza! Ma che cos'era quel terrore improvviso e misterioso che parve assalirli? Non era, ahimè, la prima volta da quando erano rimasti soli al mondo che si erano ritrovati a quell'ora della notte accanto al focolare, un tempo rallegrato dalle storie, antiche e belle, della madre. Spesso avevano pianto insieme ricordandola, ma fino a quel momento, la loro solitudine non si era mai rivelata così spaventosa. Pallidi come spettri, si guardavano tremanti l'un l'altro, mentre le fiamme guizzavano sui loro volti. «Fratello! Hai sentito quel grido che ogni eco della foresta ha ripetuto? Mi è parso che la terra rimbombasse del passo di un fantasma gigantesco, i cui respiri abbiano scosso la porta della nostra capanna. Il respiro dei morti si dice sia ghiacciato. Un brivido mortale mi ha scossa!» «Anche a me, sorella, è parso di sentire delle voci lontane, che mormoravano strane parole. Non tremare così: non sono forse vicino a te?» «Oh, fratello! Preghiamo la Santa Vergine affinché impedisca ai morti di entrare nella nostra dimora.» «Ma, forse, nostra madre è tra loro: viene, privata del conforto della confessione e del sudario, a visitare la sua prole derelitta. Oh, adorata! Forse non sai, sorella, che questo è il giorno in cui i morti abbandonano le tombe. Lasciamo la porta aperta, che nostra madre entri e riprenda il suo solito posto accanto al focolare.» «Oh, fratello, quanto è buio fuori, quanto umido e freddo è il vento! Hai sentito i gemiti dei morti intorno alla nostra capanna? Oh, chiudi la porta, in nome del cielo!» «Fatti coraggio, sorella: ho gettato sul fuoco quel ramoscello santo, colto in fiore la scorsa Domenica delle Palme. Scaccerà tutti gli spiriti cattivi, e così potrà entrare solo nostra madre.» «Ma che aspetto avrà, fratello? Si dice che i morti siano orribili da vedersi, che i loro capelli siano caduti, e le loro ossa scricchiolino orrenda-
mente. Allora, nostra madre sarà così?» «No, avrà i tratti che ci piaceva guardare. Avrà il tenero sorriso che ci salutava al ritorno dal lavoro. Avrà la voce che, da bambini, ci cercava quando le tenebre ci sorprendevano lontani dalla nostra casa.» La ragazza si apprestò a disporre la misera cena sull'asse traballante che serviva da tavolo. Era la sua ultima e pia offerta di amore filiale. La compì solo grazie a uno sforzo estremo, tanto debole era diventato il suo fisico. «Allora, facciamo entrare la nostra adorata madre!», esclamò la ragazza, ricadendo esausta sullo sgabello. «Le ho preparato la cena, perché non soffra la fame. Tutto è disposto come piaceva a lei. Ma perché, fratello, tremi come tremavo io prima?» «Non hai visto, sorella, quelle pallide luci alzarsi dalla palude? Sono i morti che vengono a sedere alla mensa preparata per loro. Zitta! Ascolta i tocchi funebri della campana d'Ognissanti arrivare nel vento e unirsi alle loro voci sorde... Ascolta, ascolta!» «Fratello, quest'orrore è insopportabile. Sento che questa è la mia ultima notte sulla terra! E non c'è una parola di speranza a confortarmi, tra queste voci spaventose? Oh, madre! Madre!» «Zitta, sorella, zitta! Hai visto le luci spettrali che annunciano i morti, splendere all'orizzonte? Hai udito lo scampanio prolungato della campana? Arrivano! Arrivano!» «Eterno riposo alle loro anime!», esclamarono i due orfani. Si inginocchiarono, quindi chinarono la testa, per il terrore e per il dolore. Quando pronunciarono quelle parole, la porta si chiuse con violenza, come se fosse stata sbattuta da una mano vigorosa. Hugues balzò in piedi, perché lo scricchiolio dell'asse che reggeva il tetto sembrò preannunciare la caduta della fragile struttura. Il fuoco d'improvviso si spense, e un gemito si unì alle raffiche di vento che fischiavano attraverso le fessure della porta. Nel sollevare la sorella, Hugues scoprì che anche lei non era più nel regno dei vivi. 2. Hugues, divenuto il capo della sua famiglia, composta di due sorelle più giovani di lui, le vide entrambe scendere nella tomba nel breve spazio di due settimane. E quando ebbe deposto l'ultimo corpo accanto a quello della madre, si chiese se non dovesse stendersi tra loro, e condividere il loro riposo eterno. Non fu con lacrime e sospiri che un dolore intenso come il
suo si manifestò, ma nella contemplazione muta e cupa delle tombe in cui erano sepolti i suoi congiunti e la sua felicità futura. Durante le tre notti successive lasciò, pallido e sparuto, la sua capanna solitaria per prostrarsi a turno davanti alle tombe. Per tre giorni non mangiò. L'inverno aveva interrotto i lavori nei boschi e nei campi. Hugues si era presentato invano nelle terre dei vicini a chiedere di trebbiare il grano, tagliare la legna, o condurre l'aratro. Nessuno voleva assumerlo per la paura di attirare su di sé la maledizione legata a chiunque portasse il nome di Wulfric. Il giovane si scontrò con dinieghi brutali da ogni parte. Veniva ingiuriato, minacciato, e si aizzavano i cani contro di lui. Lo privarono anche della misericordia riservata ai mendicanti di professione. In breve, si trovò coperto di ferite e di vergogna. Allora, doveva morire d'inedia o liberarsi delle torture della fame con il suicidio? Avrebbe preso quest'ultima risoluzione, se non fosse stato trattenuto sulla terra, a lottare contro il suo destino ingrato, dall'amore. Sì, quell'essere abietto, spinto dalla disperazione, contro la sua anima più vera, a odiare la specie umana in generale e a provare una gioia selvaggia nell'ingaggiare lotte contro di essa; quel paria che non confidava più in quel Dio che sembrava solo un apatico testimone delle sue persecuzioni; quell'uomo così isolato da quelle relazioni sociali, che sole ci ricompensano dei dolori e dei problemi della vita, senza altro sostegno che quello offerto dalla propria coscienza; quell'essere senza la prospettiva di un destino diverso dalla vita amara e dalla morte miserabile dei suoi congiunti defunti; quel giovane ridotto pelle e ossa dalle privazioni e dal dolore, gonfio di rabbia e di rancore, acconsentiva a vivere, ad aggrapparsi alla vita, perché, strano a dirsi, amava! Se non fosse stato per quel raggio divino che illuminava il suo sentiero spinoso, egli avrebbe volentieri rinunciato a quel pellegrinaggio solitario e faticoso in cambio del sonno sereno della tomba. Hugues Wulfric sarebbe stato il più bel giovane di tutta quella parte di Kent, se le vessazioni, contro cui doveva incessantemente combattere, e le privazioni che era costretto a subire, non avessero tolto il colore dalle sue guance e infossato i suoi occhi. Aveva la fronte sempre corrugata e lo sguardo torvo e orgoglioso. Eppure, nonostante la rabbia e la sofferenza gli stravolgessero i tratti, qualcuno, ignaro dei maligni pettegolezzi sul suo conto, non avrebbe potuto fare a meno di ammirare la selvaggia bellezza della sua testa. Il suo viso era nobile, incoronato da una profusione di capelli ondulati. Le proporzioni robuste e armoniose delle spalle erano intuibili al di sotto
degli stracci che le celavano. Il suo portamento era fermo e maestoso. I suoi movimenti non erano privi di una grazia rude, e il tono caldo della sua voce si accordava meravigliosamente alla purezza della sua lingua natia: il Franconormanno. In breve, differiva tanto dai suoi calunniatori, che si è costretti a credere che la gelosia e i pregiudizi non fossero estranei alle maligne persecuzioni di cui era oggetto. Solo le donne osarono per prime compatire la sua misera condizione, e si sforzarono di vederlo in una luce migliore. Brenda, nipote di Willieblud, il macellaio di Ashford, come le altre fanciulle della città, notò Hugues e lo apprezzò. Un giorno le era capitato di passare a cavallo attraverso un boschetto alla periferia della città mentre il giovane era alle prese con un maiale selvatico, un animale che, a causa della natura della regione, era incredibilmente difficile catturare da soli. Le maligne falsità dei vecchi pettegoli ronzavano continuamente nelle orecchie della ragazza, ma non diminuivano in nessun modo l'ottima opinione che si era fatta di quel Lupo Mannaro maltrattato e dall'aspetto avvenente. A volte, deviava dal suo cammino solo per incontrarlo e scambiare con lui un saluto cordiale. Hugues, dal canto suo, cosciente delle attenzioni di cui era divenuto oggetto, aveva alla fine preso il coraggio di guardare più da vicino la bella Brenda. Il risultato era che l'aveva trovata molto più graziosa e avvenente di tutte le fanciulle su cui si era posato il suo sguardo timoroso durante le brevi passeggiate al di fuori della foresta. La sua gratitudine era cresciuta in proporzione. E, quando i suoi lutti familiari erano arrivati a colpirlo uno dopo l'altro, aveva deciso di dichiarare a Brenda il suo amore, alla prima occasione. Era un inverno gelido - il periodo natalizio - lo scampanio lontano della campana del coprifuoco era cessato da tempo, e tutti gli abitanti di Ashford erano al sicuro nelle loro case. Hugues sedeva solitario, immobile, silenzioso, con la fronte tra le mani, lo sguardo fisso sui tizzoni che bruciavano debolmente nel focolare. Non si curava dell'aspro vento del Nord, le cui folate scuotevano il tetto di paglia e fischiavano attraverso le fessure della porta. Non sussultava alle rauche grida degli aironi che lottavano per la preda nella palude, né ai lugubri gracchii dei corvi annidati nel comignolo della capanna. Pensava ai suoi parenti morti, e immaginava che l'ora di raggiungerli sarebbe venuta presto. Il freddo intenso congelava il midollo delle sue ossa e la fame rodeva e torceva le sue viscere. Eppure, ogni tanto, il ricordo di quell'amore nascen-
te, di Brenda, acquietava improvvisamente la sua sofferenza e faceva splendere un debole sorriso sul suo volto. «Oh, santa Vergine! Fai che le mie sofferenze cessino presto!», mormorò, disperato. «Oh, se fossi veramente quel Lupo Mannaro che essi mi credono! Allora potrei restituire tutto il male che mi hanno fatto. In verità, non potrei nutrirmi della loro carne, né vorrei succhiare il loro sangue. Ma potrei terrorizzare e tormentare coloro che hanno portato i miei genitori e le mie sorelle alla morte, che hanno perseguitato la mia famiglia fino allo sterminio! Perché non ho il potere di trasformare la mia natura in quella di un lupo, se è vero che i miei antenati possedevano un potere simile, come tutti affermano? Almeno troverei qualche carogna da divorare, e non morirei in questo modo orribile. Brenda è il solo essere al mondo che si curi di me; è solo questa convinzione che mi riconcilia con la vita!» Hugues diede libero sfogo a queste riflessioni cupe. Le braci fumanti ormai emettevano solo un bagliore fievole e vacillante, lottando debolmente contro il buio circostante. Hugues ebbe orrore dell'oscurità che stava per piombargli addosso. Si sentiva gelare dai brividi di freddo un istante e l'istante dopo si sentiva scuotere dalle pulsazioni affrettate delle sue vene. Alla fine, si alzò per cercare qualcosa da bruciare, e gettò sul fuoco un mucchio di segatura, di erica secca e di paglia, che ben presto diedero vita a una fiamma chiara e crepitante. La sua provvista di legna era finita, e si diede alla ricerca di altro materiale con cui attizzare la fiamma morente del focolare. Mentre rovistava sotto la rozza stufa, tra il mucchio di cianfrusaglie che la madre aveva raccolto per cuocere il pane - manici di utensili, piedi di sgabelli rotti e frantumi di piatti - scoprì uno scrigno ricoperto di pelle conciata. Non aveva mai visto quell'oggetto: lo sollevò come se avesse scoperto un tesoro, e ruppe il coperchio che era assicurato con una corda. Quello scrigno, che era rimasto evidentemente chiuso a lungo, conteneva il travestimento completo da Lupo Mannaro. C'erano una pelle di pecora tinta, con guanti a forma di zampe, una coda, e una maschera con un muso allungato e fornito di una formidabile fila di denti di cavallo ingialliti. Hugues balzò all'indietro, terrificato dalla sua scoperta, così opportuna che gli pareva frutto di una stregoneria. Poi, ripresosi dalla sorpresa, tirò fuori uno alla volta i vari pezzi dallo strano contenitore. Quel travestimento era stato evidentemente usato, e si era danneggiato restando a lungo abbandonato. Poi gli vennero improvvisamente in mente i racconti meravi-
gliosi che gli faceva suo nonno, mentre lo cullava sulle ginocchia. Durante la narrazione di quelle storie, sua madre piangeva in silenzio, mentre lui rideva di cuore. Nella mente aveva una ridda di sensazioni vaghe e di propositi altrettanto indefinibili. Continuò il silenzioso esame di quell'eredità criminale e, a poco a poco, la sua immaginazione si animò di progetti vaghi e stravaganti. Fame e disperazione contribuirono a spingerlo oltre. Non vide più quegli oggetti attraverso un prisma insanguinato. Sentiva i suoi propri denti in quella maschera, ansiosi di mordere. Provò un desiderio inconcepibile di correre. Cominciò a ululare come se avesse praticato la licantropia per tutta la vita, e iniziò ad assumere l'apparenza e gli attributi della sua nuova vocazione. Un cambiamento così sorprendente avrebbe potuto difficilmente prodursi, se quella metamorfosi grottesca fosse stata veramente l'effetto di un incantesimo. La trasformazione fu dovuta anche a quella febbre che avrebbe prodotto una pazzia temporanea nel suo cervello congelato. Quasi senza accorgersene, si ritrovò travestito da Lupo Mannaro e, influenzato dalla sua maschera, balzò fuori dalla capanna, corse attraverso la foresta e uscì in aperta campagna. La terra era bianca per la brina gelata, ed era battuta dall'aspro vento del Nord. Ululando in un modo spaventoso, attraversò prati, pianure e paludi, simile ad un'ombra. Ma, a quell'ora e in quella stagione, non c'era nessun viandante a incontrare Hugues. Ormai l'aria pungente e la corsa avevano spinto al massimo la sua stravaganza e la sua audacia: ululava man mano che aumentava la sua fame. D'un tratto, il rombo pesante di un veicolo che si avvicinava, attrasse la sua attenzione. Sulle prime con indecisione, poi con una stupida fissità, lottò contro due suggerimenti che gli consigliavano nello stesso tempo di scappare e di avanzare. Il carro, o qualsiasi cosa fosse, continuava ad avvicinarsi. La notte non era completamente buia, ed egli vide il campanile della chiesa di Sashford a breve distanza: accanto vi era accatastata una pila di pietre rozze, destinate a una riparazione o a una aggiunta all'edificio sacro. Hugues corse all'ombra della catasta, si accucciò e, in questo modo, aspettò l'arrivo della sua preda. Si rivelò essere il carro coperto di Willieblud, il macellaio di Ashford, che due volte alla settimana portava la carne a Canterbury, e viaggiava di notte per essere tra i primi all'apertura del mercato. Di tutto questo Hugues era perfettamente a conoscenza, e la partenza del
macellaio gli suggerì l'ovvia deduzione che sua nipote dovesse essere sola in casa, perché il nostro robusto macellaio era da molto tempo vedovo. Per un istante esitò tra il proposito di presentarsi alla ragazza, visto che gli si offriva una così bella opportunità, e quello di attaccare lo zio per impadronirsi della sua scorta di carne. La fame ebbe la meglio sull'amore, per quella volta. Il fischio monotono con il quale il macellaio era abituato a incitare il suo magro cavallo avvertì il giovane di tenersi pronto. Ululò lamentosamente, balzò in avanti e afferrò il cavallo per il morso. «Willieblud, macellaio», disse, contraffacendo la voce e parlandogli nella lingua Franca dell'epoca. «Ho fame: gettami due libbre di carne se non vuoi morire.» «San Willifred abbi pietà di me!», gridò il macellaio terrorizzato. «Sei tu, Hugues Wulfric di Wealdmarsh, il Lupo Mannaro?» «Hai detto giusto: sono io», replicò Hugues, che era sufficientemente abile da sfruttare la superstizione di Willieblud. «Preferisco la carne cruda alla tua polpa grassa. Gettami, perciò, quanto ti chiedo e, ogni volta che partirai per il mercato di Canterbury, non dimenticare la porzione di carne per me. Se non ubbidirai, ti farò a pezzi.» Hugues, per esibire i suoi attributi di Lupo Mannaro allo spaventato macellaio, era salito sui raggi della ruota, e aveva messo una zampa anteriore sul bordo del carro, il che dava l'impressione che stesse annusando con il lungo muso. Willieblud, che credeva assolutamente nei Lupi Mannari così come credeva nel suo santo patrono, non appena vide quella zampa mostruosa, pronunciò una fervente invocazione al suo santo, afferrò il migliore pezzo di carne, e lo lasciò cadere a terra. Mentre Hugues si slanciava ad afferrare il cibo, il macellaio diede un colpo improvviso e violento sul fianco del cavallo, che partì al galoppo senza aspettare un nuovo invito della frusta. Hugues era così soddisfatto di quel pasto, che gli era costato così poco procurarsi, che si ripromise di ripetere quell'espediente, la cui esecuzione era facile e divertente nel medesimo tempo. Infatti, sebbene fosse affascinato dalla bella Brenda, trovava un piacere maligno nell'aumentare il terrore di suo zio Willieblud. Quest'ultimo, per un lungo periodo, non rivelò ad anima viva il suo terribile incontro e lo strano patto, che variava a seconda delle circostanze. Si sottometteva in silenzio all'imposta che il Lupo Mannaro chiedeva a ogni loro incontro, senza essere esigente riguardo al peso o alla qualità della carne. Non aspettava nemmeno più che gliela chiedesse. Faceva tutto il
possibile per evitare la vista di quella forma diabolica appesa alla fiancata del suo carro, e per non venire a contatto con quella zampa deforme che sembrava si tendesse a strangolarlo. Quella zampa una volta doveva essere stata una mano umana. In quell'ultimo periodo era diventato silenzioso e pensieroso. Partiva malvolentieri per il mercato, e sembrava temere l'ora della partenza. Non ingannava la noia del suo viaggio notturno fischiando al cavallo o canticchiando ballate, come gli piaceva un tempo. Invariabilmente, tornava di umore malinconico e irrequieto. Brenda era perplessa riguardo ai motivi che avevano potuto originare quella depressione che si era impossessata della mente di suo zio. Dopo vane congetture, passò a interrogarlo, tormentarlo, e supplicarlo, finché l'infelice macellaio, inerme davanti a quelle continue richieste, alla fine si sgravò del peso che aveva sul cuore. Raccontò la storia delle sue avventure con il Lupo Mannaro. Brenda ascoltò l'intero racconto senza né interrompere né commentare, ma alla fine: «Hugues è un Lupo Mannaro come me e te», esclamò, offesa che si potesse nutrire un sospetto simile contro la persona che lei amava. «È una stupida favola, o qualche furbo stratagemma. Penso proprio che tu abbia sognato tutto, zio Willieblud, perché Hugues di Wealdmarsh, o Wulfric, come lo chiamano gli ignoranti, è degno di tutt'altra stima». «Ragazza, è inutile parlarmi così di quest'argomento», replicò Willieblud, ostinandosi ad affermare la veracità della sua storia, «la famiglia degli Hugues, come tutti sanno, era composta da Lupi Mannari. Poiché, grazie al cielo, sono tutti morti, tranne uno, Hugues ha ereditato la zampa del Lupo Mannaro.» «Ti dico, e lo dichiarerò pubblicamente, zio, che Hugues è di natura troppo gentile e onesta per essere un servo di Satana e trasformarsi in una belva selvaggia, e che io non ci crederò finché non l'avrò visto con i miei occhi.» «Accidenti, lo vedrai presto, se verrai con me! È proprio lui, e mi ha confessato il suo nome: non ho riconosciuto la sua voce, ma non ho sognato la sua zampa poggiata sul carro. Ragazza, quell'uomo è alleato del Demonio.» Brenda era imbevuta di superstizioni quanto suo zio; l'unica eccezione fino a quel momento era stata per quel giovane che aveva accesso, per qualche strana perversione femminile, i suoi sentimenti. La sua curiosità femminile, in questo caso, determinò meno la sua decisione di accompa-
gnare il macellaio nel suo viaggio a Canterbury del desiderio di discolpare il suo amore. Era convinta che lo strano incontro fatto dal suo parente fosse l'effetto di qualche allucinazione. L'unico timore che provò salendo sul carro carico di carne insanguinata, fu quella di scoprirlo colpevole. Era mezzanotte quando partirono da Ashford, l'ora che è cara sia ai Lupi Mannari che agli spettri di ogni genere. Hugues era puntuale al luogo dell'appuntamento. I suoi ululati avevano ancora qualcosa di umano, e turbarono non poco la dubbiosa Brenda. Willieblud, comunque, tremava ancora di più di lei, e cercò la carne per il Lupo Mannaro. Quest'ultimo si alzò sulle zampe posteriori e tese una di quelle anteriori per ricevere il suo compenso, non appena il carro si fermò accanto alla catasta di pietre. «Zio, sto per svenire dalla paura», esclamò Brenda, stringendosi al macellaio, e chiudendo gli occhi. «Sciogli le redini e colpisci quella bestia, altrimenti sarà peggio per noi.» «Non sei solo, sciocco», gridò Hugues, temendo un tranello. «Se cerchi di ingannarmi, ti ammazzo subito.» «Non ci fare del male amico Hugues: sai che non risparmio la mia carne migliore per te. Manterrò fede al mio patto. È Brenda, mia nipote, che viene con me a fare delle spese a Canterbury.» «C'è Brenda con te? Sei veramente tu, più prospera e rosea che mai? Scendi, bella, e vieni a chiacchierare un po' con me.» «Ti scongiuro, buon Hugues, non spaventare così crudelmente la mia povera nipote, che è già morta di paura. Facci riprendere il nostro viaggio: l'ora del mercato si avvicina.» «Continua da solo allora, zio Willieblud: è con tua nipote che vorrei parlare, con ogni cortesia e onore. Se non me lo permetterai subito, e volentieri, vi ucciderò entrambi.» Invano Willieblud si esaurì in preghiere e lamenti, con la speranza di rabbonire il sanguinario Lupo Mannaro. Quest'ultimo rifiutò di accettare ogni sorta di compromesso in cambio di ciò che aveva chiesto e, alla fine, replicò con minacce orribili che gelarono il cuore a entrambi. Brenda, sebbene fosse la diretta interessata della discussione, non si mosse né aprì bocca, così grande era il terrore che l'aveva sopraffatta. Continuò a tenere gli occhi fissi sul lupo, che la scrutava attraverso la maschera. Si scoprì incapace di offrire resistenza quando fu trascinata fuori dal carro e deposta da una forza invisibile - così le parve - accanto alla catasta di pietre. Svenne senza nemmeno un grido. Il macellaio non era meno stupefatto dalla piega che avevano preso gli
avvenimenti, e cadde tra i suoi pezzi di carne come se fosse stato colpito da un fulmine. Immaginò che il lupo gli avesse frustato gli occhi con la coda. Quando tornò in sé, si trovò solo nel carro che correva a scossoni verso Canterbury. Sulle prime si mise in ascolto, ma invano, perché il vento non gli portò né le urla di sua nipote né gli ululati del lupo. Non riuscì però a fermare il cavallo che, preso dal panico, continuava a trottare come fosse stregato, o sentisse lo sprone di un diavolo pungergli i fianchi. Willieblud, comunque, arrivò alla sua meta sano e salvo, vendette la carne e ritornò ad Ashford, convinto di dover dire un De Profundis per sua nipote, il cui fato non aveva cessato di commiserare per tutta la notte. Ma quale fu la sua sorpresa nel trovarla a casa, un po' pallida per il recente spavento e per la mancanza di sonno, ma senza nemmeno un graffio. Ancora più sorpreso fu nel sentire che il lupo non le aveva fatto alcun male, ma si era accontentato, dopo che lei era rinvenuta, di accompagnarla alla loro casa. Sotto ogni aspetto, si era comportato come un corteggiatore piuttosto che come un sanguinario Lupo Mannaro. Willieblud non sapeva che cosa pensare. Quella cavalleria notturna nei riguardi di sua nipote aveva irritato ancora di più il robusto sassone nei confronti del Lupo Mannaro. Sebbene la paura di ritorsioni gli impedisse di attaccare apertamente Hugues, meditava di prendersi una vendetta segreta e sicura. Prima di mettere in atto il suo piano, gli venne in mente che avrebbe fatto bene a raccontare le sue disavventure al vecchio sacrestano e becchino della chiesa di St. Michael. Era un uomo di grande intelligenza e di profonda erudizione, ed era consultato come un oracolo dai vecchi fedeli e dalle fanciulle infelici per amore di tutta la zona di Ashford. «Non puoi uccidere un Lupo Mannaro», fu la risposta del sapiente alle ansiose richieste del tormentato macellaio, «perché la sua pelle è inattaccabile dalle lance e dalle frecce... Però è vulnerabile alla lama affilata di un'arma di acciaio. Ti consiglio di ferirlo leggermente, o di tagliargli la zampa, in modo da sapere con sicurezza se è veramente Hugues. Non correrai nessun pericolo, tranne che non gli procuri una ferita da cui non scorra sangue, perché, non appena la pelle gli viene tagliata, fuggirà.» Deciso a seguire il consiglio del sacrestano e, determinato a sapere quella stessa sera con che Lupo Mannaro avesse a che fare, nascose la sua mannaia, affilata per l'occasione, sotto il carico di carne sul carro. Si preparò a fare uso di quell'arma come primo passo per stabilire se Hugues e il ladro di carne erano la stessa persona, e per ritrovare la pace perduta. Il lu-
po si presentò puntuale come al solito, e chiese ansiosamente di Brenda, il che spinse il macellaio a portare a compimento il suo piano. «Ecco, Lupo», disse Willieblud, chinandosi come per scegliere un pezzo di carne: «ti do una porzione doppia stanotte. Alza la zampa, prendi il tuo compenso e ricordati della mia benevola carità.» «Me ne ricorderò, sciocco», ribatté il nostro Lupo Mannaro. «Ma quando avverranno le nozze solenni tra me e la bella Brenda?» Hugues credeva di non aver nulla da temere da parte del macellaio, della cui carne si appropriava tanto facilmente, e della cui nipote sperava di poter ottenere un possesso non meno legale. Egli amava veramente la fanciulla e, inoltre, vedeva l'unione con lei come un mezzo sicuro per entrare a far parte di quella società che l'aveva bandito così ingiustamente. Ma prima doveva riuscire ad intercedere presso i santi padri della chiesa affinché togliessero il veto posto contro di lui. Hugues stese la zampa sul bordo del carro ma, invece di porgergli un pezzo di bue o di montone, Willieblud sollevò la mannaia, e con un solo colpo tagliò di netto la zampa, che era appoggiata in modo così opportuno che sembrava messa sul ceppo. Il macellaio abbassò l'arma, e frustò il cavallo, il lupo urlò di dolore, e scomparve tra le ombre scure della foresta, nella quale, con il favore del vento, i suoi ululati si persero ben presto. Il giorno seguente, al suo ritorno, il macellaio, ridacchiando, depositò un panno insanguinato sul tavolo, accanto al tagliere su cui la nipote era impegnata a preparargli il pranzo. Il panno si aprì e mostrò allo sguardo inorridito della fanciulla una mano umana tagliata di recente, avvolta in una pelliccia da lupo. Brenda comprese che cos'era accaduto, strillò, scoppiò a piangere, e poi corse a indossare il mantello. Intanto suo zio si divertiva a girare e torcere la mano con una gioia feroce, esclamando, mentre tamponava il sangue che ancora ne scorreva: «Il sacrestano aveva ragione. Il Lupo Mannaro ha il suo punto debole, e ora che ho scoperto la sua vera natura non temo più le stregonerie». Sebbene il sole fosse già alto, Hugues giaceva sul suo giaciglio, contorcendosi per il dolore. Le coperte erano imbevute di sangue, così come il pavimento della sua capanna. Il suo volto, mortalmente pallido, esprimeva un dolore più morale che fisico. Lacrime spuntavano dalle sue palpebre arrossate. Ascoltava ogni rumore con un'inquietudine crescente, dolorosamente visibile sui suoi tratti distorti. Sentì un rumore di passi che si avvicinavano rapidamente, poi la porta fu aperta di colpo, e una donna si gettò accanto al suo giaciglio. Con un miscuglio di singhiozzi e imprecazioni
cercò teneramente il suo braccio mutilato, che, fasciato rozzamente con stracci di canapa, non nascondeva l'assenza della mano. Dal moncone scorreva ancora sangue. A quello spettacolo pietoso, aumentò le sue maledizioni contro il sanguinario macellaio, e mescolò i suoi lamenti a quelli della vittima. Quelle effusioni di amore e dolore, però, erano destinate ad essere bruscamente interrotte: qualcuno bussò alla porta, Brenda corse alla finestra per vedere chi fosse il visitatore che osava penetrare nella tana del Lupo Mannaro e, nel vedere di chi si trattava, alzò gli occhi e le mani al cielo, presa dalla disperazione, mentre i colpi alla porta diventavano più forti. «È mio zio», balbettò lei. «Ah, povera me, come me ne andrò di qui senza che mi veda? Dove mi nasconderò? Oh, qui, qui, vicino a te, Hugues, e moriremo insieme», si accucciò in un angolo buio dietro il suo giaciglio. «Se Willieblud alzerà la mannaia per ucciderti, colpirà prima il corpo di sua nipote.» Brenda si nascose in fretta dietro un mucchio di stracci, e sussurrò a Hugues di farsi coraggio. Quest'ultimo trovò appena la forza di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi cercavano invano un'arma con cui difendersi. «Buon giorno a te, Wulfric!», esclamò Willieblud, nell'entrare, stringendo in una mano un fazzoletto con i lembi legati, che sistemò sulla cassa che era accanto al sofferente. «Vengo ad offrirti un lavoro. Dovresti legare e affastellare delle fascine: so che sei veloce in questo lavoro. Lo farai?» «Sono malato», replicò Hugues, reprimendo l'ira che, nonostante il dolore, sprizzava dai suoi occhi selvaggi. «Non sono in condizione di lavorare.» «Malato, scioccone, sei veramente malato? O è solo pigrizia? Su, che cosa hai? Dammi la mano, che ti sentirò il polso.» Hugues arrossì, e per un istante si chiese se dovesse resistere a quella richiesta di cui aveva subito compreso il fine. Ma, per evitare di esporre Brenda, trasse la mano sinistra da sotto le coperte, tutte piene di sangue coagulato. «Non questa mano, Hugues, l'altra, la destra. Ahimè, hai forse perso la mano, e te la devo andare a cercare?» Hugues, il cui colorito rosso di rabbia impallidì rapidamente, non rispose agli scherni, né mostrò di prepararsi a soddisfare una richiesta tanto più crudele quanto più che l'oggetto di essa era a malapena celato. Willieblud rise, e ghignò, risvegliando malignamente le torture che aveva inflitto al sofferente. Sembrava ormai disposto ad usare violenza, piuttosto che an-
darsene senza aver ottenuto la prova decisiva a cui mirava. Già aveva cominciato a slegare il fazzoletto, dando sfogo nel frattempo a tutti i suoi implacabili dileggi. Hugues teneva la mano appoggiata sulle coperte ma, semisvenuto per l'ansia e per il dolore, non pensò di ritrarla. «Perché mi tendi quella mano?», continuò il suo persecutore instancabile, che ormai credeva di stare per ottenere la prova che desiderava così ardentemente. «Vuoi che te la tagli? Svelto, Mastro Wulfric: fai quanto ti ho chiesto. Ti ho domandato di vedere la tua mano destra.» «Guardala allora!», esclamò una voce soffocata, che non apparteneva a nessun essere soprannaturale, benché potesse sembrare non umana. E Willieblud, con disappunto e sorpresa, vide una seconda mano, sana e intera, che si stendeva verso di lui in silenziosa accusa. Egli indietreggiò, balbettò un grido di pietà, poi piegò per un istante le ginocchia. Quindi si sollevò e, impazzito dal terrore, fuggì dalla capanna, che credette fermamente fosse sotto il dominio di un dèmone. Non portò con sé la mano recisa che da allora in poi divenne una visione perpetua davanti ai suoi occhi. Tutti gli esorcismi potenti del sacrestano, a cui egli chiedeva di continuo aiuto e consiglio, fallirono nello scopo di cancellare quella visione. «Oh, quella mano! A chi appartiene allora quella mano maledetta?», gemeva continuamente. «È veramente quella di un dèmone o quella di un Lupo Mannaro? Certamente, Hugues è innocente: non ho visto forse entrambe le sue mani? Ma da dove veniva tutto quel sangue? C'è una stregoneria in fondo a tutta questa storia.» La mattina dopo, all'alba, il primo oggetto che colpì il suo sguardo nell'entrare nella sua bottega, fu la mano recisa che la notte precedente aveva lasciato sulla cassa nella capanna della foresta. Era stata privata della pelliccia di lupo, ed era appoggiata sul bancone insieme ai tagli di carne. Non osava più toccare quella mano, che ora credeva fosse veramente incantata. Ma, nella speranza di liberarsene per sempre, la gettò in un pozzo. Con disperazione, poco dopo la trovò sul ceppo. La bruciò nel giardino, ma non riuscì a liberarsene. Ritornò livida e disgustosa a infettare la sua bottega, e ad aumentare il rimorso che era incessantemente alimentato dai rimproveri della nipote. Alla fine, sperando si sfuggire alle persecuzioni di quella mano, gli venne in mente di portarla al cimitero di Canterbury, e tentare con esorcismi e con la sepoltura in terra consacrata di impedirle di ritornare alla luce del sole. Anche questo espediente fu provato, ma ahimè! il giorno seguente la vide inchiodata alla porta della bottega.
Sconfortato da quei rimproveri muti ma terribili, che gli toglievano la pace, e impaziente di annientare ogni traccia di un'azione che anche il cielo pareva rimproverargli, una mattina lasciò Ashford senza salutare la nipote. Qualche giorno dopo fu trovato annegato nel fiume Stour. Tirarono fuori il cadavere gonfio e livido, che era stato visto galleggiare tra le alghe. Fu solo con grandi sforzi che riuscirono a strappare al suo pugno contratto la mano spettrale che, nelle convulsioni della morte, aveva stretto saldamente. Un anno dopo questo avvenimento, Hugues, sebbene menomato di una mano, e di conseguenza Lupo Mannaro accertato, sposò Brenda, unica erede del commercio e dei beni del defunto macellaio di Ashford. LOKIS Lokis. Le Manuscript Du Professeur Wittembach di Prosper Merimée Revue des Deux Mondes, autunno 1869 Manoscritto del professor Wittembach 1. «Teodoro», disse il professor Wittembach, «datemi per piacere quel quaderno legato in pergamena, sulla seconda mensoletta, sopra lo scrittoio. No, non quello: il piccolo in ottavo. Ho raccolto in quelle pagine tutte le note del mio diario del 1866, o perlomeno le note che si riferiscono al Conte Szemioth.» Il professore si mise gli occhiali e, nel più profondo silenzio, lesse quel che segue: LOKIS con questo proverbio lituano in epigrafe: Miszka su Lokiu, Abu du tokiu «Entrambi sono una coppia e un paio»; letteralmente: «Michele con Lokis, pari entrambi».
Quando uscì a Londra la prima traduzione lituana della Sacra Scrittura, pubblicai nella Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg un articolo, nel quale, pur tributando giuste lodi alla fatica del dotto interprete e alle pie intenzioni della Società Biblica, stimai di dover segnalare qualche lieve errore; non senza osservare, per giunta, come tale versione non potesse giovare, in definitiva, che a una parte soltanto delle popolazioni lituane. Infatti, il dialetto adoperato, sarebbe stato difficilmente compreso dagli abitanti delle circoscrizioni linguistiche zemaitiche, e cioè dalle popolazioni del Palatinato di Samogizia, il cui idioma si avvicina al sanscrito forse anche più dell'alto lituano. Questa osservazione, a dispetto delle critiche astiose che mi procurò da parte di un noto professore dell'Università di Dorpat, illuminò sull'argomento i membri del consiglio di amministrazione della Società Biblica, il quale consiglio non esitò a propormi il lusinghiero incarico di dirigere e curare la redazione del Vangelo di San Matteo in samogizio (Ero allora troppo preso dai miei studi sulle lingue transuraliche per accingermi a un lavoro più ampio che comprendesse i quattro Vangeli). Procrastinai dunque il mio matrimonio con la signorina Geltrude Weber e mi recai a Kovno (Kaunas), nell'intento di raccogliervi tutti i documenti linguistici, stampati o manoscritti, in lingua samogitica che mi fosse possibile rinvenire, senza escluderne, beninteso, le poesie popolari - o dainos - e i racconti e le leggende - o pasakos - da cui avrei attinto gli elementi per un glossario demaitico: un lavoro questo, che doveva, per necessità di cose, precedere l'altro della traduzione. Mi avevano dato una lettera per il giovane Conte Michele Szemioth, il cui genitore, mi assicuravano, aveva posseduto il famoso Catechismus Samogiticus di padre Lavicki, opera tanto rara che la sua stessa esistenza fu posta in dubbio, particolarmente dal professore di Dorpat del quale ho fatto cenno. Secondo le informazioni in mio possesso, la biblioteca del Conte Szemioth racchiudeva anche una vecchia collezione di dainos e una raccolta di poesie in prussiano antico. Scrissi dunque al Conte, per esporgli lo scopo della mia visita, ed egli mi rispose nel modo più cortese, invitandomi nel suo castello di Medintiltas per tutto il tempo richiesto dalle mie indagini.; Nella chiusa della sua lettera, mi diceva che aveva la pretesa di parlare il puro samogizio quasi altrettanto bene dei suoi contadini, e che inoltre sarebbe stato lieto di unire le sue fatiche alle mie per il buon successo di un'impresa che definiva nobile e interessante. Al pari di alcuni tra i più ricchi latifondisti di Lituania, professava la religione evangelica, della
quale mi onoro di essere ministro. Mi avevano anche parlato di una certa sua bizzarria di modi, la quale non gl'impediva tuttavia di essere molto ospitale, amico delle scienze e delle lettere, e pieno di una speciale benevolenza per coloro che le coltivavano. Perciò partii alla volta di Medintiltas. Fui ricevuto, sullo scalone del castello, dall'Intendente del Conte, il quale mi accompagnò immediatamente nella stanza che mi era stata assegnata. «Il signor Conte», mi disse, «è dolentissimo di non poter cenare stasera con il signor professore. Ma è tormentato dal mal di testa, un disturbo a cui disgraziatamente va un po' soggetto. Se il signor professore non vuole essere servito in camera, potrà cenare con il signor dottor Frœber, medico personale della signora Contessa. Si cena fra un'ora; non si cambia abito. Se il signor professore avesse comandi, ecco il campanello.» Detto questo, si ritirò con un profondo inchino. La stanza era spaziosa, ben arredata, ornata di specchi e ori. Da una parte, dava su un giardino, o meglio sul parco del castello; dall'altra, sull'ampio cortile d'onore. Nonostante l'avviso: «Non si cambia abito», stimai di dover cavare dal baule il vestito nero. Ero in maniche di camicia, intento a disfare il mio modesto bagaglio, quando il rumore di una carrozza mi fece correre alla finestra che dava sul cortile. Era entrato in quel momento un bel calesse, con sopra una signora vestita di nero, un signore e una donna vestita alla foggia delle contadine lituane, ma così alta e membruta che, sulle prime, fui tentato di prenderla per un uomo travestito. Costei scese a terra; intanto, due altre donne di non meno robusta complessione erano già apparse sulla scalinata. Il signore che ho detto si chinò verso la donna vestita di nero e, con mia grande sorpresa, slacciò un'ampia cinta di cuoio che la teneva legata al calesse. Notai che quella signora aveva i lunghi capelli bianchi molto arruffati e che gli occhi di lei, benché spalancati, parevano senza vita: si sarebbe detto un volto di cera. Dopo averla disciolta, colui che l'accompagnava le rivolse la parola, con il cappello in mano, in atto di profondo ossequio; ma lei non mostrò di badargli affatto. Allora, l'uomo si rivolse alle domestiche con un lieve cenno del capo. Subito, le tre fantesche afferrarono la signora vestita di nero e, nonostante gli sforzi che faceva per tenersi alla vettura, la sollevarono come una piuma e la portarono nell'interno del castello. Alla scena assistevano parecchi servi di casa, i quali davano a vedere di non scorgervi nulla di men che ordinario. L'uomo che aveva diretto l'operazione tirò fuori l'orologio, chiedendo se fosse pronta la cena.
«Tra un quarto d'ora, signor dottore», gli fu risposto. Mi fu facile intuire che quello era il dottor Frceber e che la gentildonna vestita di nero era la Contessa. Dall'età dimostrata da quest'ultima, conclusi che doveva essere la madre del Conte Szemioth, e dalle precauzioni usate nei suoi riguardi, che non avesse tutto il lume della ragione. Qualche minuto dopo, il dottore in persona entrò nella mia stanza. «Il signor Conte non si sente bene», mi disse, «e perciò sono costretto a presentarmi da me al signor professore. Il dottor Froeber, per riverirla. Son davvero lieto di conoscere uno scienziato, il cui merito è noto a tutti coloro che leggono la Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg. Vi tornerebbe gradito che si porti in tavola?» Risposi del mio meglio ai convenevoli del dottore, e gli dissi che, se quella era l'ora della cena, lo avrei seguito volentieri. Appena entrammo in sala da pranzo, un maggiordomo ci presentò, secondo le usanze del Settentrione, un vassoio d'argento carico di liquori e di certi antipasti salati, e ancora più pepati, adattissimi per stuzzicare l'appetito. «Consentitemi, signor professore», mi disse il dottor Frceber, «di consigliarvi, nella mia qualità di medico, un bicchiere di questa starka, genuina acquavite di cognac con quarant'anni di stagionatura. È la madre dei liquori. Prendete anche un'acciuga di Drontheim; nulla è meglio indicato per aprire e preparare il tubo digerente, organo importantissimo... E ora, a tavola! Perché non parliamo tedesco? Voi siete di Koenigsberg, e io di Memel, ma ho studiato a Jena. Così saremo più liberi, e la servitù, che conosce solo il polacco e il russo, non ci capirà.» Mangiammo dapprima in silenzio. Però, dopo il primo bicchiere di Madera, chiesi al dottore se il Conte era spesso afflitto dal disturbo che ci privava oggi della sua presenza. «Sì e no», rispose il dottore. «Dipende dalle escursioni che fa.» «Cioè?» «Quando va a zonzo per la strada di Rosienie, per esempio, ritorna con il mal di capo e di umore scontroso.» «Eppure, sono stato anch'io a Rosienie senza provare nulla di simile.» «Ciò dipende, signor professore, dal fatto che non siete innamorato.» Sospirai, pensando alla signorina Geltrude Weber. «E così», domandai, «la fidanzata del signor Conte sta a Rosienie?» «Sì, nei dintorni. Fidanzata!... Non saprei dire. Una vera civetta! Lo farà andar via di cervello, com'è già successo alla madre.»
«Infatti, sbaglio, o la signora Contessa è... malata?» «È pazza, caro signore, pazza da legare! E il più pazzo di tutti sono io, che sono venuto a star qui!» «Speriamo che le vostre cure le ridiano la salute.» Il dottore scosse la testa, esaminando attentamente il colore di un bicchiere di Bordeaux che aveva in mano. «Quale mi vedete, signor professore, ero Maggiore Chirurgo nel Reggimento di Kaluga. A Sebastopoli, dalla mattina alla sera non facevamo che tagliare braccia e gambe. Non parlo delle bombe che ci correvano dietro come le mosche al guidalesco dei cavalli. Eppure, male alloggiato e mal nutrito qual ero, non mi annoiavo come mi annoio qui, benché mangi e beva quanto c'è di meglio, con un alloggio principesco e gli onorari di un Medico di Corte... Ma la libertà, caro signore!... Figuratevi che, con quella diavola, non si gode un attimo di respiro!» «È affidata da molto tempo alla vostra esperienza?» «Da meno di due anni; ma saranno a dir poco ventisei anni ch'è pazza: da prima che nascesse il Conte. Non vi hanno detto questo a Rosienie né a Kovno? Allora ascoltatemi: è un caso che mi riprometto d'illustrare un giorno in un articolo sul Giornale medico di San Pietroburgo. Impazzì per uno spavento.» «Uno spavento? Com'è possibile?» «Uno spavento che ebbe. È uscita dalla famiglia dei Keystut... Eh! In questa casa, non ci si sposa con gente di bassa condizione! Discendiamo, noi, da Gedimino... Dunque, signor professore, tre giorni... o forse due giorni soltanto dopo il matrimonio, celebrato nel castello ove abbiamo il bene di pranzare (alla vostra salute!...) il Conte, padre del Conte attuale, se ne va a caccia. Le nostre gentildonne lituane, come non ho bisogno di dirvi, sono amazzoni compite. Va a caccia anche la Contessa... Non ricordo se precedesse, oppure seguisse i battitori... Il fatto è che, sul più bello, il Conte vede arrivare a tutto sprone il piccolo cosacco della Contessa, un ragazzo di dodici o quattordici anni. "Padrone", dice, "un orso sta portando via la padrona." "Dove?", chiede il Conte. "Da quella parte", risponde il piccolo cosacco. L'intera brigata corre al luogo indicato; da una parte, si trova il cavallo sgozzato, dall'altra il mantello di pelliccia a brandelli, ma la Contessa non si vede! Cercano, frugano il bosco in ogni direzione. Alla fine, un cacciatore grida: "Ecco l'orso!". Infatti, l'orso stava attraversando una radura, sem-
pre trascinando la Contessa evidentemente con l'intenzione di andarsela a divorare con comodo in un macchione, poiché quelle bestiacce sono ghiotte: sono come i frati, che ci tengono a non esser disturbati mentre mangiano. Sposato da due giorni appena, il Conte era molto cavalleresco. Voleva scagliarsi sull'orso, con il coltellaccio in pugno. Ma, caro il mio signore, l'orso lituano non si lascia infilzare come un cervo. Per fortuna, l'armigero del Conte, un tipaccio poco di buono, che per di più aveva bevuto quel giorno tanto da non distinguere più un coniglio da un capriolo, spiana la carabina e spara a oltre cento passi, senza darsi pensiero di considerare se la pallottola avrebbe colto la belva o la donna...» «E colse la belva?» «Secca. Non ci sono che gli ubriachi per fare di questi colpi. Vi sono poi anche le pallottole predestinate, signor professore, e abbiamo qui certi Stregoni che le vendono a un prezzo equo... La Contessa era tutta graffiata, priva di sensi naturalmente, e con una gamba rotta. La portano a casa, rinviene, ma il cervello se n'era andato. La portano a Pietroburgo; gran consulto, quattro dottoroni con patacche di tutti gli Ordini. "La signora Contessa è incinta", dicono, "e può darsi che il parto determini una crisi benefica. Sarà bene tenerla in campagna; aria buona, siero di latte, codeina..." Si pigliano ognuno cento rubli. Nove mesi dopo, la Contessa dà alla luce un maschietto ben formato; ma quanto a crisi benefica, tanti saluti!... Le sue furie raddoppiano. Il Conte le mostra il figlio: è una cosa che fa sempre effetto... nei romanzi. "Uccidetelo! uccidete la bestia!", grida lei. Per poco non gli torse il collo. Da quel giorno, è stato un continuo alternarsi di profonda ebetudine e di pazzia furiosa, con forte propensione al suicidio. Per farle prendere un po' d'aria, si è costretti a legarla, e per tenerla ci vogliono tre serve robuste. Tuttavia, signor professore, vi prego di notare questo particolare: quando sono stufo di sprecare il tempo con lei senza ottenerne ubbidienza, mi resta sempre per calmarla un mezzo infallibile: minaccio di tagliarle i capelli. Credo che un tempo li avesse splendidi. La civetteria! Ecco l'ultimo sentimento umano rimastole. Non è un fatto curioso? Però, se potessi trattarla a modo mio, forse la guarirei.» «E come?» «Spianandole ben bene le costole. Ho guarito in questa maniera venti contadine, in un paese ov'era scoppiata la furiosa pazzia russa, la licantropia: una donna, a un tratto, comincia ad ululare, una sua comare ulula an-
che lei e, in capo a tre giorni, ulula tutto il villaggio. Io, a forza di botte, le ho fatte rinsavire (Prendete una pollastrella: sono davvero tenere). Con la madre, però, il Conte non ha mai voluto che provassi.» «Come! Volevate che acconsentisse a questa orribile cura?» «Boh! Ha conosciuto tanto poco la madre; eppoi, sarebbe stato per il suo bene. Ma ditemi, signor professore, avreste mai creduto che la paura potesse togliere la ragione?» «Veramente, la posizione della Contessa era spaventevole... Trovarsi tra le unghie di una bestia così feroce!» «Ebbene, il figlio non somiglia a lei. Meno di un anno fa, si è trovato esattamente in una posizione identica ma, con la sua presenza di spirito, se l'è cavata come meglio non avrebbe potuto.» «Tra le unghie di un orso?» «Di un'orsa, ed era la più grossa che si fosse mai vista da un pezzo a questa parte. Il Conte si era provato ad attaccarla con lo stocco in pugno. Macché! Con un rovescio della zampa, la bestia svia la lama, adunghia il signor Conte e lo sbatacchia per terra, come io potrei sbatacchiare questa bottiglia. Lui, furbo, fa il morto... L'orsa lo fiuta un bel po', e dopo, invece di sbranarlo, gli dà una linguata. Il Conte ebbe l'accortezza di non muoversi, e la bestia se ne andò per la sua strada.» «L'orsa ha creduto che fosse morto. Infatti, ho sentito dire che quelle bestie non divorano i cadaveri.» «Meglio crederlo che andarlo a provare. Ma, in tema di paura, lasciate che vi racconti un fatto successo a Sebastopoli. Eravamo in cinque o sei intorno a una brocca di birra portataci proprio allora, dietro l'ambulatorio del famoso bastione n. 5. La sentinella grida: "Una bomba!". Ci buttiamo tutti a pancia a terra... Cioè, non tutti: un certo... ma il nome non ha importanza... un giovane ufficiale, arrivato di fresco, rimase in piedi, con il bicchiere pieno in mano, giusto nel momento in cui la bomba esplose. Questa, portò via la testa al mio povero collega Andrea Speranski, un ottimo ragazzo, e sfasciò la brocca. Fortuna che era quasi vuota. Quando ci rialzammo, dopo lo scoppio, vedemmo tra il fumo il nostro amico che si scolava l'ultimo sorso di birra come niente fosse. Lo credemmo tutti un eroe. Il giorno appresso, m'imbatto nel Capitano Ghedeonov, il quale usciva dall'ospedale. Mi dice: "Oggi pranzo con voi e, per festeggiare il mio ritorno, offro lo spumante". Ci sediamo a tavola, e c'era con noi anche quel tale della birra, il quale non sapeva nulla dello spumante. Gli sturano la bottiglia accanto... Paff! Il tappo gli schizza alla tempia. Lui dà in un grido e
sviene. Credetemi pure, il nostro eroe il giorno prima aveva avuto una fifa tremenda, e se tracannò la birra invece di scansarsi, fu semplicemente perché aveva perduto la testa: un fenomeno di automatismo del quale non aveva avuto coscienza. Infatti, signor professore, la macchina umana...» «Signor dottore», disse, entrando in sala, un domestico, «la Sdànova avverte che la signora Contessa non vuol mangiare.» «All'inferno!», borbottò il dottore. «Vado subito. Quando la mia diavoli avrà mangiato, se vi tornasse gradito, signor professore, potremmo fare un; partitina a preferenza o a duratshki...» Mi rammaricai con lui della mia ignoranza di quei giochi e, quando si recò a visitare l'inferma, mi ritirai nella mia camera e scrissi alla signorina Geltrude. 2. La notte era calda e avevo lasciato aperta la finestra che dava sul parco. Quand'ebbi finito la mia lettera, poiché non avevo ancora voglia di dormire, mi diedi a ripassare i verbi irregolari lituani e a ricercare nel sanscrito le ragioni delle loro singole peculiarità. Mentre ero profondamente assorto in quella occupazione, un albero abbastanza vicino alla mia finestra fu scosso con una certa violenza; udii un crepitare di rami secchi, e mi sembrò che qualche bestia molto pesante tentasse di arrampicarvisi. Ancora impressionato dalle storie di orsi narratemi dal dottore, mi alzai, non senza un certo batticuore e, a pochi piedi dalla finestra, scorsi nel fogliame un volto umano, rischiarato in pieno dalla mia lampada. Quell'apparizione non durò che un attimo, ma la luce singolare degli occhi che allora vidi mi colpì più di quanto non saprei esprimere. Mi ritrassi involontariamente, poi corsi di nuovo alla finestra e, con voce severa, chiesi all'intruso che cosa andasse cercando. Ma già quello si affrettava a scendere. Afferrato un grosso ramo, si calò penzoloni; quindi si lasciò cadere, e subito scomparve. Suonai il campanello e riferii al domestico ciò che era successo. «Forse il signor professore si sarà sbagliato.» «Sono certo di quello che dico», replicai. «Temo che vi sia un ladro nel parco.» «Impossibile, signore.» «Allora, è qualcuno di casa?» Il servo spalancava gli occhi senza rispondermi. Poi mi chiese se avessi
altri ordini per lui. Gli dissi di chiudere la finestra e mi coricai. Dormii benissimo, e non sognai né orsi, né ladri. La mattina dopo, mi stavo vestendo, quando bussarono all'uscio. Andai ad aprire e mi trovai a tu per tu con un bel giovane di statura aitante, in veste da camera di fine stoffa di Bukhara, con una lunga pipa turca in mano. «Vengo a chiedervi scusa», mi disse, «di aver così male accolto un ospite come voi, professore. Sono il Conte Szemioth.» Mi affrettai a rispondere che invece ero suo debitore per la magnifica ospitalità, e gli chiesi se si fosse liberato del suo mal di testa. «Non c'è male», rispose. «Perlomeno fino al prossimo accesso.» Queste ultime parole erano state pronunziate con una espressione di tristezza. Aggiunse: «Vi pare sopportabile questo soggiorno? Non dimenticate, vi prego, che vi trovate in mezzo ai barbari. Non bisogna aver pretese, in Samogizia». Lo assicurai che non mi sarei potuto trovar meglio; e intanto, mentre gli parlavo, non potei trattenermi dal fissarlo con una curiosità che sembrò anche a me impertinente. Il suo sguardo aveva un che di strano, che mio malgrado mi ricordò quello dell'uomo che avevo visto arrampicarsi sull'albero la sera prima... Ma come potrebbe essere - pensavo in cuor mio - che il signor Conte Szemioth si vada di notte arrampicando sugli alberi? Il Conte aveva la fronte alta e ben formata, per quanto un po' stretta. I lineamenti del volto erano perfetti: solo che gli occhi erano troppo vicini, e giudicai che tra le due sacche lacrimali non ci fosse lo spazio di un altro occhio, come vorrebbe il canone degli scultori greci. Lo sguardo era penetrante, e i nostri occhi, essendosi incontrati più volte involontariamente, li distoglievamo entrambi un po' impacciati. A un tratto, il Conte scoppiò a ridere esclamando: «Mi avete riconosciuto!». «Riconosciuto?» «Sì, mi scopriste ieri sera in atteggiamento davvero singolare.» «Oh, signor Conte!...» «Mi ero sentito malissimo per tutta la giornata, solo nel mio studio. Siccome ieri sera stavo meglio, sono uscito a fare due passi nel giardino. Ho visto la luce accesa in camera vostra, e non ho resistito a un moto di curiosità... Avrei dovuto dire chi ero e presentarmi, ma la mia posizione era proprio ridicola... Mi sono vergognato, e sono fuggito... Vorrete scusarmi per avervi scomodato nel vostro lavoro?» Il tono voleva essere scherzoso, ma il Conte arrossiva e, visibilmente,
non si trovava a suo agio. Feci del mio meglio per convincerlo di non aver serbato nessuna spiacevole impressione del nostro primo incontro e, per cambiare discorso, gli chiesi se davvero possedesse il catechismo samogitico di Padre Lavicki. «Può darsi; ma - ad esser sinceri - non conosco troppo bene la biblioteca del babbo. Gli piacevano i libri antichi e le rarità bibliografiche. Io non leggo che opere moderne. Ma faremo tutte le ricerche, signor professore. E così, ci volete far leggere il Vangelo in dialetto samogizio?» «Non pensate, signor Conte, che una versione della Sacra Scrittura nell'idioma di questo paese, sia un'impresa auspicabile?» «Certamente; per quanto, con vostra licenza, sarei tentato di farvi osservare come, tra le persone che conoscono soltanto il samogizio, non ve ne sia una sola che sappia leggere.» «Sarà; ma Vostra Eccellenza vorrà permettermi di farle notare che la principale difficoltà, per imparare a leggere, sta proprio nella mancanza di libri. Quando le popolazioni samogitiche disporranno di un testo a stampa, vorranno leggere e impareranno... È accaduto già per molti selvaggi... non che io voglia dare questo appellativo agli abitanti di questa contrada... D'altronde -soggiunsi - non è un fatto deplorevole che una lingua scompaia senza lasciar traccia di sé? Da una trentina d'anni il prussiano è diventato una lingua morta, e l'ultimo individuo che sapesse il comico è morto l'altro ieri.» «Peccato!», interruppe il Conte. «Alessandro di Humboldt narrava a mio padre di aver conosciuto in America un pappagallo, il quale era l'unico essere vivente che sapesse ancora qualche parola della lingua di una tribù oggi interamente distrutta dal vaiolo. Vi dispiace se faccio portare il tè qui?» Mentre sorbivamo il tè, la conversazione si svolse sulla lingua samogitica. Il Conte criticava il metodo di trascrizione del lituano seguito dai Tedeschi, e aveva ragione. «Il vostro alfabeto», osservava, «non si attaglia alla nostra lingua. Non avete né la nostra J, né la nostra L, e tantomeno la nostra Y o la nostra E. Ho una collezione di dainos pubblicati a Kcenigsberg l'anno scorso, e debbo sudare sette camicie per decifrare le parole, tanto sono stranamente raffigurate.» «Vostra Eccellenza allude certamente ai dainos di Lessner!» «Sì; è una poesia proprio sciatta: che ne dite?» «Forse avrebbe potuto trovar di meglio. Concedo che, così come si pre-
senta, la raccolta non ha che un interesse puramente filologico; ma credo che, cercando bene, si troverebbero senza dubbio fiori più leggiadri nella selva delle vostre poesie popolari.» «Ahimè! Ne dubito assai, a dispetto del mio patriottismo.» «Qualche settimana fa, mi hanno dato a Wilno una ballata veramente bella, e per giunta storica... L'afflato poetico è davvero degno di nota... Posso leggervela? L'ho qui nel portafoglio.» «Mi farete veramente piacere.» Chiestami licenza di fumare, si sprofondò nella poltrona. «Non gusto bene la poesia se non fumando», mi disse. «Il titolo è: I tre figli di Budris.» «I tre figli di Budris?», esclamò il Conte con un gesto di viva meraviglia. «Sì: Budris, come sa meglio di me Vostra Eccellenza, è un personaggio storico.» Il Conte mi stava fissando con occhi straniera uno sguardo indefinibile, il suo, tra timido e selvaggio, che dava un'impressione quasi molesta a chi non vi era avvezzo. Mi affrettai a leggere per liberarmene: I TRE FIGLI DI BUDRIS Poi che nell'ampio cortile del suo turrito castello Budris il nobile vecchio i suoi tre figli ha chiamato, tutti e tre lituani veri tutti e tre valenti nell'armi: «Figlioli», dice, «abbiadate i vostri nitrenti corsieri; tenete pronte le selle, e le grandi sciabole curve, le chiaverine acuminate. Dicono che da Wilno la guerra divampi in tre direzioni; da Wilno già corre la strage ai confini del mondo abitato.
Già muove contro ai Russi Olgerdo e Skirghello contro ai Polacchi e sui Cavalieri Teutonici di Kèistut si avventa il terrore. Andate pur voi, e vi assistano gli Dèi della Lituania! Budris or più non guerreggia ché troppo gl'incresce vecchiaia; ma voglio pur darvi un consiglio; figli dell'eroe, ascoltate: Tre sono i confini del mondo, tre sono le vie della gloria. Il primo di voi con Olgerdo nella pingue Russia si rechi, in riva dell'Ilmen pescoso e a Novgòrod cinta di mura, ricca d'ermellini e broccati. Là, più che ghiaccioli nel fiume, i mercanti han rubli ammucchiati. Con Kèistut vada il secondo, e cavalchi, e forte guerreggi. Ai lidi del torbido Baltico la marmaglia crociata disperda: là trovansi stoffe preziose, d'ambra son le dune del mare, sui chiari paramenti dei preti rubini scintillanti occhieggiano. L'ultimo passi il gran fiume, il Nièmen col prode Skirghello. Non rubli, non ricchezze opime troverà, ma servili aratri. Però lance e scudi mi porti e una nuora pei giorni miei tardi.
Le donne di Polonia, figlioli, Budris non vi trae in inganno, tra quante prigioniere si adducano son le prigioniere più belle. Beato colui che le impalma! Bianche come panna frullata, come gatte son pazzerelle; gli occhi come stelle sfavillano sotto le nere ciglia tremanti. Quand'ero anch'io giovine, ahimè! or è mezzo secolo, anch'io una prigioniera stupenda riportai con me di Polonia, e moglie mi fu, per cui vedovo pur da tanti lustri sospiro». Il vecchio i suoi figli gagliardi ora benedicendo accomiata. E balzano in sella, già partono... Eppoi nulla più... Le stagioni trascorron, l'autunno piovoso e l'inverno tetro... Non tornano... Non tornano i figli suoi forti e Budris già morti li piange; quand'ecco la neve, e nel bianco turbinio un uomo a cavallo. Chi mai esser può? la sua burka nasconde un pesante bottino. «È un sacco!», esulta il vegliardo. «Forse che il mio primo mi porta di Novgòrod i rubli sonanti?» «No, padre, una nuora vi porto dall'umida vasta Polonia...»
E passano i giorni, e si affaccia il vecchio sull'alto torrione; e turbina ancora la neve; e nel vento è un guerriero che avanza. Ecco, l'ampia burka ricopre pur ora un ricco fardello. «Figlio mio, tu certo mi porti l'ambra del paese tedesco?» «No, padre, ma un ben più prezioso, una nuora dalla Polonia.» Ora, tra l'infuriare del vento, nella neve, un uomo a cavallo per ultimo arriva, e ritardagli il passo la burka pesante. Ma prima che giunga, e le labbra pur muova, l'astuto vegliardo gli amici a convito chiamò. I fuochi negli alti camini per le terze nozze risplendono... «Bravo professore!», esclamò il Conte. «Pronunziate il samogizio ch'è un godimento ascoltarvi; ma da chi avete avuto questa graziosa daina?» «Da una nobile fanciulla che ebbi l'onore di conoscere a Wilno, in casa della Principessa Katazina Paç.» «E si chiama?...» «La panna Iwinska.» «La signorina Iulka!», esclamò il Conte. «Quella pazzerella! Me lo sarei dovuto immaginare! Caro il mio professore, conoscete il samogizio e tutte le lingue dotte, avete letto molti vecchi libri, ma vi siete lasciato mistificare da una ragazzina che ha letto solo romanzi. Vi ha tradotto, in samogizio più o meno corretto, una graziosa ballata di Mickiewicz, che voi non conoscete perché avrà tutt'al più gli anni miei. Se volete, ve la farò leggere in polacco, a meno che non preferiate l'ottima versione russa di Puskin.» Confesso che rimasi esterrefatto. Che gioia per il professore di Dorpat, se avessi pubblicato come originale la daina dei figli di Budris!
Invece di prendersi spasso della mia confusione, il Conte si affrettò, con squisita cortesia, a cambiare discorso. «E così», domandò, «conoscete la signorina Iulka?» «Ebbi l'onore di esserle presentato.» «E che ne pensate? Siate sincero.» «È una signorina molto simpatica...» «Vi piace dire così.» «...Graziosissima...» «Ma!» «Come sarebbe a dire? Non ha forse i più begli occhi del mondo?» «Sì...» «Una carnagione veramente abbagliante?... C'è un ghazel persiano, in cui un amante celebra la delicatezza di pelle dell'amata: "Quando beve vino rosso", dice, "lo si vede passare per la gola". La panna Iwinska mi ha ricordato i versi del poeta persiano.» «Forse lo stesso fenomeno avviene anche per la signorina Iulka; ma non so davvero se abbia sangue nelle vene... Certo non ha cuore... È come la neve: candida e... fredda.» Si alzò e passeggiò qualche minuto senza parlare, su e giù per la stanza, indubbiamente - o almeno così mi sembrò - per nascondere il suo turbamento; poi, fermandosi di colpo: «Scusate», disse, «mi pare che stessimo parlando di poesie popolari...». «Già, signor Conte.» «Ad ogni modo, bisogna riconoscere che ha tradotto Mickiewicz con molto garbo... "Bianca come panna frullata... come una gatta pazzerella... gli occhi come stelle sfavillano...". È il suo ritratto. Non vi sembra?» «Proprio così, signor Conte.» «In quanto alla sua birichinata... certo, assai fuori di posto... la povera figliola si annoia con quella vecchia zia... Fa una vita da convento.» «A Wilno, andava ai ricevimenti. La trovai a un ballo offerto dagli ufficiali del reggimento di...» «Ah, sì! La compagnia dei giovani ufficiali: ecco ciò che fa per lei. Ridere con questo, scherzare con quello, civettare con tutti... Vogliamo vedere la biblioteca del babbo, professore?» Lo seguii in un'ampia galleria con molti libri ben rilegati, ma che raramente venivano aperti, com'era facile capire dalla polvere che li copriva in testa e sul taglio. Figuratevi la mia contentezza quando, tra i primi volumi che trassi da uno scaffale, mi capitò in mano il Catechismus Samogiticus!
Non riuscii a trattenere un grido di gioia... Si deve credere che una misteriosa forza di attrazione ci muova a nostra insaputa... Il Conte prese il libro e, sfogliatolo con noncuranza, scrisse sulla prima pagina: Al sig. professor Wittembach, offerto da Michele Szemioth. Mi è impossibile esprimere tutta la mia riconoscenza in quel momento. In cuor mio, promisi a me stesso che, dopo la mia morte, il prezioso volume sarebbe andato a ornare la biblioteca dell'Università nella quale mi addottorai. «Vi prego di considerare questa libreria come il vostro studio privato», disse il Conte. «Qui, nessuno verrà mai a darvi fastidio.» 3. Il giorno appresso, dopo colazione, il Conte mi propose una passeggiata. Saremmo andati a vedere un kapas (nome lituano di quei tumuli che in russo vengono detti kurgan) famosissimo in tutta la contrada, in quanto i poeti e gli stregoni - il che fa tutt'uno - vi si davano anticamente convegno nelle occasioni solenni. «Posso offrirvi», mi disse, «un cavallo docilissimo. Mi rincresce di non potervi portare in carrozza ma, ad essere sinceri, la strada che seguiremo non è affatto carreggiabile.» Avrei preferito rimanere a prendere appunti in biblioteca, ma mi parve sconveniente manifestare un desiderio men che conforme a quello dell'ospite generoso; dunque accettai. I cavalli erano già pronti a piè dello scalone; nel cortile, un valletto teneva un cane al guinzaglio. Il Conte si fermò un attimo e, voltandosi dalla mia parte: «Professore, v'intendete di cani?». «Pochissimo, Eccellenza.» «L'intendente di Zorany, dove ho una tenuta, mi manda un cane spagnolo del quale dice mirabilia. Vi dispiace se gli do un'occhiata?» Chiamò e gli fu condotto il cane. Si trattava di una bestia magnifica, che aveva già dimestichezza con il servo e perciò saltava allegramente, tutta fuoco. Ma, a pochi passi dal Conte, mise la coda tra le gambe e si ritrasse di colpo, come in preda a un terrore subitaneo. Il Conte lo accarezzò, il che lo fece guaire lamentevolmente e, dopo averlo osservato per un attimo con occhio d'intenditore, disse: «Credo che sarà un buon cane. Abbiatene cura». E balzò in sella. Come imboccammo il viale del castello, il Conte mi disse:
«Professore, avete visto il timore di quel cane. Ho voluto che ne foste voi stesso testimone... Nella vostra qualità di scienziato, dovreste sapere sciogliere gli enigmi... Perché le bestie hanno paura di me?». «Davvero, signor Conte, mi state facendo l'onore di scambiarmi per Edipo. Non sono che un povero docente di linguistica comparata. Potrebbe darsi...» «Notate», interruppe il Conte, «che non frusto mai né i cavalli né i cani. Mi farei scrupolo di dare una staffilata a una povera bestia che fa una sciocchezza senza saperlo. Pure, non potete sapere quale avversione ispiri tanto a questi che a quelli. Perché si avvezzino a me, devo sempre sprecare il doppio del tempo e della fatica che normalmente si richiederebbero a un altro. Per esempio, quel cavallo che avete ora, ho messo non so quanto a ridurlo com'è adesso, voglio dire mansueto come un agnello.» «Credo, signor Conte, che gli animali siano fisionomisti e che si accorgano subito se le persone che vedono per la prima volta abbiano oppur no qualche simpatia per loro. Io credo che voi amiate le bestie solo per il giovamento che potete trarne; taluni invece hanno una predilezione naturale per certe bestie, le quali se ne avvedono sul momento. Io, per esempio, ho sin dall'infanzia una preferenza istintiva per i gatti. E i gatti assai di rado fuggono quando mi avvicino per accarezzarli; non solo, ma nessun gatto mi ha mai graffiato.» «È possibilissimo», assentì il Conte. «Infatti, io non ho quello che si dice il gusto degli animali... Non valgono affatto più degli uomini. Intanto, signor professore, vi sto conducendo in una selva nella quale vige tuttora il regno delle bestie, la matecznik, la grande matrice, la grande fabbrica degli esseri viventi. Proprio così, secondo le nostre tradizioni nazionali. Nessuno ne ha mai scandagliato i più profondi recessi, nessuno ha mai potuto raggiungere il centro di questi boschi e di queste paludi, salvo, beninteso, i poeti e gli stregoni, che s'intrufolano in ogni dove... Qua vivono tutti gli animali in perfetta repubblica... o sotto qualche altro governo costituzionale, che non saprei meglio precisare. Leoni, orsi, alci, jubr - i nostri uri -, tutta questa bella roba vive d'amore e d'accordo, insieme. Il mammut, la cui razza vi si è pure conservata, vi gode di un particolare prestigio; credo sia il capo della dieta. La loro polizia è molto severa e, quando trovano qualche bestia viziosa, la giudicano e la esiliano. Costei viene così a cadere dalla padella nella brace: non le resta che avventurarsi nel paese degli uomini, e poche scampano.» «Questa leggenda è veramente curiosa!», esclamai. «Ma, signor Conte,
avete menzionato l'uro. Forse questo nobile animale, descritto già da Cesare nei suoi Commentari, lo stesso, poi, cui i re merovingi davano la caccia nella foresta di Compiègne, esiste realmente in Lituania, come ho sentito dire?» «Certamente. Mio padre stesso uccise un jubr, con regolare licenza del Governo, s'intende: forse ne avete visto la testa nel salone. Io, finora, non ne ho visti mai, e credo che gli uri siano oggi molto rari. In compenso, abbiamo lupi e orsi a iosa. Anzi, se mi son provveduto di questo aggeggio (mi mostrava una cèccola circassa che aveva a tracolla), e se il mio scudiero porta una doppietta all'arcione, è proprio in previsione di un possibile incontro con qualcuno di cotesti messeri.» Cominciavamo a inoltrarci nella foresta. Il viottolo per cui andavamo presto scomparve. A ogni piè sospinto, eravamo costretti ad aggirare certi alberi enormi, i cui rami c'impedivano il passo. Qualcuno, già caduto sotto il peso degli anni, ci opponeva una specie di bastione, munito, si sarebbe detto, di un invalicabile sbarramento di cavalli di Frisia. Più in là, c'erano profonde paludi coperte di ninfee e di lenticchie d'acqua, e ancora più in là splendevano radure di erba smeraldina; ma guai a chi vi si fosse avventurato, perché quella lussureggiante e ingannevole vegetazione nasconde solitamente certe voragini melmose ove cavallo e cavaliere sprofonderebbero senza scampo... L'asprezza del cammino aveva interrotto la nostra conversazione, e io facevo del mio meglio per seguire il Conte, ammirato della imperturbabile avvedutezza con cui si orientava senza bussola e immancabilmente ritrovava la direzione ideale che occorreva seguire per raggiungere il kapas. Era chiaro che doveva avere una lunga esperienza di cacce in quelle foreste selvagge. Finalmente scorgemmo il tumulo, nel bel mezzo di un'ampia radura. Era molto alto e circondato di un fosso tuttora riconoscibile nonostante i cespugli e le frane. Pare che vi avessero già fatto degli scavi. Al vertice, notai i ruderi di una costruzione, delle pietre in parte calcinate. Da un cospicuo mucchio di ceneri frammiste a carbone e a cocci di rozzo vasellame, si poteva arguire che in cima al tumulo il fuoco era stato tenuto acceso per un periodo considerevole. Se si volesse prestar fede alla tradizione volgare, pare anzi che anticamente sui kapas si celebrassero sacrifici umani. Ma tra le religioni oggi scomparse, si può dire che non ve ne sia una cui non siano stati imputati consimili riti, e io dubito assai che, nei confronti degli antichi Lituani, un'opinione siffatta si possa ritenere fondata su rigorose testimo-
nianze storiche. Stavamo ridiscendendo dal tumulo per riprendere i cavalli, che avevamo lasciati al di qua del fosso, quando vedemmo avvicinarsi una vecchia, appoggiata a un bastone, con un canestro in mano. «Miei buoni signori», disse, quando ci ebbe raggiunti, «fatemi la carità per l'amor di Dio! Datemi da comprarmi un bicchiere d'acquavite che riscaldi le mie povere membra.» Il Conte le buttò una moneta d'argento, chiedendole che cosa facesse nel bosco, in un punto così lontano da ogni luogo abitato. Per sola risposta, gli fece vedere il canestro pieno di funghi. Non m'intendo molto di botanica, tuttavia mi sembrò che parecchi di quei funghi appartenessero a specie venefiche. «Buona donna», le dissi, «spero che non mangerete quella roba?» «Mio buon signore», rispose la vecchia con un mesto sorriso, «la povera gente mangia tutto ciò che il Signore vuol darle.» «Non conoscete il nostro stomaco lituano», aggiunse il Conte, «è foderato di latta. I nostri contadini mangiano qualunque fungo trovino, e meglio di così non potrebbero stare.» «Almeno, fate che non abbia da assaggiare l'agaricus necator che vedo nella sua cesta», esclamai. E nel dire quelle parole, stesi la mano per toglier via un fungo tra i più velenosi; ma la vecchia ritrasse lestamente il canestro. «Bada», mi disse con voce spaventata, «sono custoditi.... Pirkuns! Pirkuns!» Pirkuns, sia detto di sfuggita, è il nome samogizio della Divinità che i Russi chiamano Perun; è il Giove tonante degli Slavi. Per quanto mi stupisse che la vecchia invocasse un Dio pagano, mi meravigliai ancora di più nel vedere i funghi sollevarsi nel paniere. Spuntò fuori la testa nera di un serpente che vidi ergersi di un buon palmo sopra i funghi. Feci un balzo indietro e il Conte volse il capo a sputare dall'altra parte, secondo l'usanza misteriosa degli Slavi, che ritengono, come già gli antichi Romani, di scongiurare a quel modo i malefizi. La vecchia posò il canestro a terra, si accoccolò, e pronunziò certe parole incomprensibili che avevano tutta l'aria di una formula di stregoneria. Il serpente restò fermo per un minuto, poi si arrotolò al braccio rinsecchito della vecchia e scomparve nella manica della mantellina di pelle di pecora in cui, oltre a una logora camiciola, si compendiava - mi sembra - tutto il vestiario di quella Circe lituana. La vecchia ci guardava con un risolino di
trionfo, come un giocoliere che sia riuscito a eseguire un difficile gioco di prestigio. Si leggeva sul suo volto un'espressione mista di astuzia e di stupidità, abbastanza frequente nei pretesi stregoni, i quali, il più delle volte, sono a un tempo creduli e raggiratori. «Ecco», mi disse il Conte in tedesco, «un bel saggio di colore locale: una strega nell'atto d'incantare un serpente, all'ombra di un kapas, in presenza di un dotto professore e di un ignorante gentiluomo lituano. Che bel soggetto per un quadro di maniera del vostro conterraneo Knauss! Non volete farvi predire il futuro? Questa sarebbe una buona occasione.» Risposi che non mi sarei davvero curato d'incoraggiare simili pratiche. «Preferisco assai», aggiunsi, «chiederle se non sappia qualche altro particolare sulla curiosa tradizione di cui mi avete fatto cenno... Buona donna», feci quindi alla vecchia, «non avresti nessuna notizia di un angolo di questa selva ove le bestie vivono con un proprio governo, senza essere molestate dall'uomo?» La vecchia assentì con il capo e, sempre con quel suo risolino tra scemo e astuto: «Ne torno or ora», assicurò. «Le bestie hanno perso il re. Nobile, il leone, è morto; le bestie stanno per scegliersi un altro sovrano. Vai tu; sarai re, forse». «Che stai vaneggiando, nonnetta?», esclamò il Conte, scoppiando a ridere. «Sai per lo meno con chi parli? Ignori forse che il signore è... (come diavolo si dice professore in samogizio?)... che il signore è un uomo molto istruito, un saggio, un waidelote?» La vecchia lo fissò attentamente. «Infatti, sbaglio», disse. «Sei tu che dovresti andare laggiù. Tu sarai il loro re, non lui: sei grande, forte; hai zanne e artigli...» «Che ve ne pare degli epigrammi di cui ci gratifica?», mi chiese il Conte. «Conosci la strada, mammina?», le domandò. Con un cenno della mano quella indicò una parte della foresta. «Uhm!», fece il Conte, «e la palude, come fai a passarla?... Dovete sapere, signor professore, che da quella parte si trova una palude impraticabile, un lago di melma liquida velato d'erba verde. L'anno scorso, un cervo che ferii si gettò in quel pantano. L'ho visto affondare piano piano... In capo a dieci minuti, non se ne vedevano più se non le corna; poi, più nulla e, oltre a ciò, ci ho rimesso anche un paio di cani.» «Io, però, sono leggera», fece la vecchia ridacchiando. «Come no! Sono certo che attraversi la palude come niente, sul manico
della scopa.» Gli occhi della vecchia lampeggiarono d'ira. «Mio buon signore», disse, riprendendo il tono strascicato e naseggiante degli accattoni, «non avresti una pipata di tabacco da regalare a una poveretta?» E, abbassando la voce, aggiunse: «Faresti meglio a cercare il passaggio tra la palude, anziché recarti a Dowghielli». «Dowghielli!», esclamò arrossendo il Conte. «Che intendi dire?» Non potei trattenermi dal notare che quel nome produceva su di lui uno strano effetto. Era visibilmente impacciato; calò la testa e, per celare il proprio turbamento, si affannò più del necessario per aprire la borsa del tabacco, che teneva appesa all'impugnatura del coltello da caccia. «No, non andare a Dowghielli», ripeté la vecchia. «La colombella bianca non è roba per i tuoi denti. Che te ne pare, Pirkuns?» In quel punto, la testa del serpente sbucò dal collo della mantellina e si spinse fino all'orecchio della padrona. Il rettile, indubbiamente addestrato per quella funzione, muoveva la mandibola come per parlare. «Dice che ho ragione», spiegò la vecchia. Il Conte le diede una manciata di tabacco. «Mi conosci?», domandò. «No, mio buon signore.» «Sono il padrone di Medintiltas. Vieni a trovarmi uno di questi giorni. Ti darò tabacco e acquavite.» La vecchia gli baciò la mano e si allontanò rapidamente. In un attimo la perdemmo di vista. Il Conte era rimasto soprapensiero; legava e scioglieva i cordoni del suo zaino senza accorgersi troppo di quel che facesse. «Professore», disse dopo una pausa piuttosto lunga, «ora voi riderete di me. Quella vecchia birbona mi conosce più di quanto voglia dare a intendere, e la strada che mi ha indicato poc'anzi... Però, tutto considerato, non mi sembra un fatto così straordinario. Da queste parti, mi conoscono tutti, e questa gaglioffa mi ha certo visto più di una volta sulla strada del castello di Dowghielli... Laggiù abita una fanciulla da marito e lei ne ha concluso che io fossi innamorato... Inoltre, qualche altro pretendente le avrà unto la mano perché mi predicesse una sinistra ventura... Tutto questo è chiaro e lampante... Eppure, mio malgrado, le sue parole mi hanno scosso. Ne sono quasi spaventato... Voi ridete, e avete ragione... Ma il fatto è che avevo de-
ciso di andare a chiedere un invito a pranzo al castello di Dowghielli, e ora sono titubante... Sono davvero un bel pazzo! Vediamo, signor professore, decidete voi stesso. Che ne dite: andremo?» «Non mi permetterò davvero di esprimere un'opinione in proposito», risposi ridendo. «In fatto di matrimonio, non do mai consigli.» Avevamo intanto raggiunto i nostri cavalli. Il Conte balzò svelto in sella e, allentate le redini, esclamò: «Sceglierà il cavallo!». Il cavallo non ebbe esitazioni; infilò subito un viottolo che, dopo molti giri, andò a sbucare su una strada ferrata, e quella strada conduceva a Dowghielli. Mezz'ora dopo ci presentavamo allo scalone del castello. Lo scalpitare dei cavalli chiamò alla finestra una graziosa testa bionda. Riconobbi, tra due tendine, la perfida traduttrice di Mickiewicz. «Benvenuto!», disse. «Non potevate capitare più a proposito, Conte Szemioth. Mi è giunto or ora un vestito da Parigi. Non mi riconoscerete per quanto sarò bella.» Le tendine si richiusero. Nel salire la scalinata, il Conte diceva tra i denti: «Certo, non per me si preparava a indossare il vestito nuovo...». Mi presentò alla signora Dowghiello, zia della panna Iwinska, la quale mi accolse affabilmente e mi parlò dei miei ultimi articoli sulla Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg. «Il signor professore», disse il Conte, «è venuto a lagnarsi con voi della signorina Giuliana, che gli ha giocato un pessimo tiro.» «È una bambina, signor professore; bisogna scusarla. Mi fa spesso disperare con le sue pazzie. A sedici anni, io avevo più giudizio di quanto ne abbia lei a venti; ma, in fondo, è una brava figliola, e ha tutte le più solide qualità. Ha un'ottima preparazione musicale, dipinge i fiori divinamente, parla con eguale facilità il francese, il tedesco, l'italiano... Ricama...» «E compone versi in samogizio!», aggiunse ridendo il Conte. «Questo, no!», esclamò la signora Dowghiello, a cui dovemmo narrare la birichinata della nipote. La signora Dowghiello era colta e conosceva le antichità della sua patria. La sua conversazione mi piacque enormemente. Leggeva molto le nostre riviste tedesche e aveva oneste nozioni in materia di linguistica. Perciò confesso che non mi accorsi del tempo impiegato nel vestirsi dalla signorina Iwinska. Non altrettanto può dirsi del Conte Szemioth, il quale si alzava, tornava a sedere, poi andava alla finestra, e tamburellava con le dita sui
vetri come un uomo a corto di pazienza. Finalmente, dopo tre quarti d'ora, la signorina Giuliana ricomparve seguita dalla governante francese. Portava con grazioso sussiego un abito la cui descrizione richiederebbe molte cognizioni che io non ho. «Non sono forse bella?», chiese al Conte Szemioth, girandosi lentamente perché potesse osservarla da ogni lato. Quanto a lei, non guardava né il Conte, né il sottoscritto: guardava l'abito. «Come, Iulka!», disse la signora Dowghiello. «Non saluti il professore, che è venuto a lagnarsi di te?» «Ah, professore!», esclamò la ragazza con una smorfietta graziosa. «Che ho fatto? Volete dunque mettermi in castigo?» «Signorina», risposi, «ci metteremmo in castigo noi stessi, se facessimo tanto di privarci della vostra presenza. Non solo non mi lagno, ma mi rallegro di avere appreso, grazie a voi, che la musa lituana è più che mai viva e fiorente.» Chinò la testa e, copertasi il viso con le mani, con l'avvertenza tuttavia di non scomporre la sua pettinatura: «Perdonatemi», disse, con il tono del bambino che abbia commesso un furterello di marmellata, «non lo farò più!». «Non vi perdonerò, cara pani», le risposi, «se non quando avrete mantenuto una certa promessa che vi piacque farmi a Wilno, dalla Principessa Katazyna Paç.» «Quale promessa?», domandò, rialzando il viso ridente. «Ve ne siete già scordata? Mi prometteste che, se ci fossimo ritrovati mai in Samogizia, mi avreste fatto vedere un certo ballo paesano del quale mi diceste mirabilia.» «Oh, la russalka! Se mi ci metto, sono affascinante, ed ecco proprio l'uomo che ci vuole.» Corse a un tavolino coperto di musica, sfogliò velocemente una partitura, la pose sul leggio del pianoforte e, rivolgendosi alla governante: «Vi prego, anima mia, allegro presto», le disse. E accennò lei stessa, senza nemmeno sedersi, il motivo del ritornello per indicare il tempo. «Venite qui, Conte Michele; siete troppo lituano per non ballare bene la russalka... Ma ballatela alla contadina, siamo intesi?» La signora Dowghiello avrebbe voluto fare qualche obiezione, ma invano. Io insistetti, e così il Conte, che però aveva le sue buone ragioni, poi-
ché la sua parte, come si vedrà, stava per essere quanto mai piacevole. La governante, dopo alcune note di prova, disse che forse gliela avrebbe fatta a suonare quella strana specie di valzer, e la signorina Iwinska, tolto di mezzo un tavolo e alcune sedie che potevano essere d'impaccio, afferrò il suo cavaliere per il bavero della giubba, trascinandolo in mezzo al salotto. «Dovete sapere, professore, che sono una russalka, per servirvi.» Fece un profondo inchino. «Le russalke sono ninfe delle acque. Ognuno di quei neri acquitrini che abbelliscono le nostre foreste ha la sua. Statene lontano! O la russalka esce, anche più bella di me - se possibile - e vi trascina là in fondo, dove, secondo ogni apparenza, vi sgranocchia a bocconcini...» «Costui», proseguì la signorina Iwinska indicando il Conte Szemioth, «è un pescatorello molto ingenuo, che mi si caccia tra le unghie, e io, per far durare il piacere, lo ammalierò ballandogli un po' attorno... Ah, per riuscirvi come si deve, mi occorrerebbe una sarafana. Che peccato!... Scusate il vestito, senza carattere e senza colore locale... Oh! e le mie scarpe! Non è possibile ballare la russalka con le scarpe ai piedi! E coi tacchi, poi!» Si tirò quindi su la veste e, scuotendo con molta grazia un bel piedino, a rischio di far vedere un po' la gamba, mandò la scarpetta a ruzzolare in fondo al salotto. L'altra scarpetta seguì la stessa via, e lei rimase così, sul nudo pavimento, senz'altro ai piedi che le calze di seta. «Tutto è pronto», disse alla governante. E il ballo ebbe inizio. La russalka gira e rigira intorno al cavaliere. Questi stende le braccia e vuole ghermirla, ma lei scivola sotto e gli sfugge. Lo spettacolo è assai grazioso; la musica, poi, ha un certo brio e una certa originalità. La figura si chiude quando il cavaliere, ormai convinto di stringere la russalka, tenta di baciarla, e lei muove un salto, lo colpisce sulla spalla, e lo fa cadere ai suoi piedi, tramortito... Ma il Conte improvvisò una variante, abbracciando forte la birichina e baciandola realmente. La signorina Iwinska emise un piccolo grido, arrossì molto e si buttò a sedere su un divano con aria imbronciata, dolendosi della stretta che lui, da quell'orso che era, le aveva dato. Vidi che il paragone non garbò al Conte. Infatti gli ricordava la disgrazia materna, e la sua fronte si rabbuiò. Io, ringraziai vivamente la signorina Iwinska e lodai la sua danza, cui mi sembrò di doversi riconoscere un carattere molto antico, ossia una certa affinità con le danze sacre dei Greci. Fui interrotto da un servo che annunziò il Generale e la Principessa Ve-
liaminof. La signorina Iwinska fece un balzo dal divano alle scarpe, nelle quali infilò in fretta i bei piedini, e corse subito incontro alla Principessa, cui fece lì per lì due profondi inchini. Notai che ogni volta sollevava agilmente il tacco. Il Generale, che si era portato appresso anche due Aiutanti di Campo, era venuto come noi a invitarsi a cena. In qualunque altro paese, penso che la padrona di casa si sarebbe trovata alquanto in imbarazzo per ricevere all'improvviso sei ospiti di buon appetito. Ma, nelle famiglie lituane, l'abbondanza e l'ospitalità sono tali che la cena fu ritardata, credo, di non più di mezz'ora. Solo che vi erano un po' troppi pasticcetti, caldi e freddi. 4. La cena riuscì molto allegra. Il Generale ci fornì dei ragguagli interessantissimi sulle lingue parlate nel Caucaso, parte delle quali sono arie e parte turaniche, benché esista una notevole similitudine tra i modi di vita e le usanze delle varie tribù. Dovetti parlare anch'io dei miei viaggi, dopo che il Conte Szemioth mi ebbe elogiato per la mia bravura nel cavalcare: egli infatti osservò di non essersi mai imbattuto prima di allora in un ministro del culto o in un professore capace di cavarsela con tanto onore in una galoppata come quella che avevo fatto in sua compagnia. E io stimai mio dovere spiegargli come, per la compilazione di un lavoro sullajingua dei Charruas affidatomi dalla Società Biblica, fossi vissuto tre anni e mezzo nella Repubblica dell'Uruguay, quasi sempre a cavallo, con gl'Indios della pampa. In questo modo, venni a narrare l'avventura toccatami la volta che mi smarrii in quelle sconfinate pianure, allorché rimasi tre giorni senza viveri e senz'acqua, costretto a seguire l'esempio dei gauchos che mi accompagnavano, e cioè ad aprire una vena al cavallo e a berne il sangue. Le donne presenti ebbero un grido di orrore. Il Generale osservò che i Calmucchi si comportano allo stesso modo in simili estremi. Il Conte mi chiese come avessi trovato quella bevanda. «Dal lato morale», risposi, «m'ispirava una grande ripugnanza; ma, fisicamente, ne trovai giovamento, e oggi le debbo anche l'onore di assistere a questa cena. Molti Europei, ossia molti bianchi, dopo una lunga consuetudine di vita con gl'Indiani, finiscono anche loro con l'abituarvicisi, e anzi, vi prendono gusto. Il mio ottimo amico, don Fructuoso Rivero, Presidente della Repubblica, raramente tralascia di levarsi questa voglia. Mi ricordo che un giorno, mentre si recava a un congresso in alta uniforme, gli capitò
di passare davanti a un rancho ove stavano levando del sangue a un puledro. Si fermò, scese da cavallo per chiedere un chufon, e cioè una succhiata; dopodiché pronunziò uno dei discorsi più eloquenti della sua vita.» «Il vostro Presidente è un orribile mostro!», esclamò la signorina Iwinska. «Vi chiedo scusa di dovervi contraddire, cara pani», replicai, «ma è un uomo assai distinto, di spirito veramente superiore. Parla a maraviglia parecchie lingue indiane difficilissime, soprattutto il charrua, per le innumerevoli forme assunte dal verbo, a seconda del regime diretto o indiretto, e persino dei rapporti sociali esistenti tra i vari interlocutori.» Stavo per illustrare alcune curiosissime peculiarità del meccanismo del verbo charrua, ma il Conte m'interruppe chiedendomi in che punto occorra salassare i cavalli, quando si desideri berne il sangue. «Per l'amor del cielo, caro professore», esclamò la signorina Iwinska con una comica espressione di terrore, «non glielo dite! Sarebbe uomo da sgozzare tutta la sua scuderia, e da divorare anche noi, finiti i cavalli!» Dopo questa uscita, le signore si alzarono di tavola ridendo, per andare a preparare il tè e il caffè, mentre noi ci disponevamo a fumare. Trascorso appena un quarto d'ora, dal salotto mandarono a chiamare il Generale. Lo volevamo seguire tutti, ma ci dissero che le signore non desideravano più di un uomo per volta. Un attimo dopo udimmo risuonare nel salotto grandi scrosci di risa e fragorosi battimani. «La signorina Iulka ne fa qualcuna delle sue», osservò il Conte. Vennero a chiamare lui. Nuove risate, nuovi applausi. Poi toccò a me. Nell'entrare in salotto, i visi di tutti i presenti si erano atteggiati a una gravità che non prometteva nulla di buono. Mi aspettavo qualche burla. «Signor professore», mi disse il Generale con il tono più protocollare che gli era possibile assumere, «le signore qui presenti sostengono che abbiamo fatto troppo onore allo spumante che si sono degnate di offrirci. Perciò, non ci accoglieranno nella loro gentile compagnia se non dopo una prova. Si tratterà di andare con gli occhi bendati dal centro del salotto fino a quella parete, e di toccarla col dito. Vedete bene che la cosa è semplice; basta camminare diritto. Vi sentite in grado di seguire la linea retta?» «Credo bene, signor Generale.» Subito, la signorina Iwinska mi mise un fazzoletto sugli occhi e, con quanta forza poté, me lo annodò sulla nuca. «Siete nel bel mezzo del salotto», disse. «Stendete la mano... Bene! Scommetto che non toccherete il muro.»
«Avanti, marc'!», fece il Generale. Non vi erano da fare più di cinque o sei passi. Avanzai molto lentamente, convinto di dovere urtare in qualche corda o in qualche sgabello, messo a tradimento sulla mia strada per farmi incespicare. Sentivo ridere sommessamente, il che accresceva il mio impaccio. Finalmente pensavo di essere a un pelo dal muro, quando il mio dito, che tenevo lungo disteso, affondò in qualcosa di freddo e di viscido. Feci una smorfia e un salto indietro che fece sbellicare i presenti. Mi tolsi la benda, e vidi di fronte a me la signorina Iwinska che reggeva in mano un barattolo di miele, nel quale avevo ficcato il dito, pensando di toccare il muro. Ebbi tuttavia la consolazione di vedere i due Aiutanti di Campo passare per la stessa prova e non fare miglior viso di me. Per tutto il resto della serata, la signorina Iwinska non smise un istante di dare libero corso alla sua indole scherzevole. Sempre motteggiatrice, sempre birichina, bersagliava ora questo ora quello con le sue celie. Notai però che se la prendeva soprattutto con il Conte, il quale, debbo riconoscerlo, non si offendeva mai e sembrava anzi prendere gusto alle sue punzecchiature. Invece, quando la giovane pigliava di mira l'uno o l'altro dei due Aiutanti di Campo, aggrottava le sopracciglia, e negli occhi vedevo allora lampeggiargli quella fiamma cupa che aveva veramente qualcosa di terrificante. «Pazzerella come una gatta, bianca come panna frullata.» Mi sembrava proprio che Mickiewicz, in quel verso, avesse voluto ritrarre la panna Iwinska. 5. Si vegliò fino a tardi. In molte case di grandi famiglie lituane si vedono magnifiche argenterie, bei mobili, preziosi tappeti persiani e non si hanno, come nella nostra cara Germania, buoni letti di piuma da offrire all'ospite stanco. Che sia ricco o povero, nobile o villano, uno slavo è sempre capace di dormire ottimamente anche su un pezzo di tavola. Il castello di Dowghielli non faceva eccezione alla regola generale. Nella stanza che ci fu assegnata, io e il Conte non disponevamo che di due divani ricoperti di marocchino. Ma questo non m'impressionava, poiché nei miei viaggi mi era spesso accaduto di dormire sulla nuda terra, e perciò risi alquanto delle imprecazioni del Conte circa la barbarie dei suoi compatrioti. Venne poi un servo, il quale ci tolse gli stivali e diede a ciascuno una veste da camera e un paio di pantofole.
Il Conte, levatasi la giubba, passeggiò un pezzetto senza parlare, su e giù per la stanza; quindi, fermatosi di fronte al divano sul quale mi ero già coricato, mi domandò: «Che ne pensate di Iulka?». «La trovo piacevolissima.» «Sì, ma è tanto civetta!... Credete che abbia veramente una simpatia per quell'ufficialetto biondo?» «Il Capitano?... Che volete che ne sappia?» «È un vanesio!... E dunque deve piacere alle donne.» «Non approvo la conclusione, signor Conte. Volete che vi dica il vero? La signorina Iwinska è assai più desiderosa di piacere al Conte Szemioth che a tutti gli Aiutanti di Campo dell'esercito.» Arrossì senza rispondere, ma mi sembrò che le mie parole gli arrecassero un vivo piacere. Passeggiò ancora un po' in silenzio poi, guardato l'orologio: «In fede mia», disse, «faremmo assai meglio a dormire, perché è tardi.» Prese quindi il fucile e il coltello da caccia, che erano stati portati nella nostra stanza, e li chiuse in un armadio, da cui tolse la chiave. «Volete tenerla?», mi domandò nel consegnarmela non senza mio vivo stupore. «Me ne potrei scordare, e voi avete più memoria di me.» «Il miglior mezzo per non dimenticare le vostre armi», gli dissi, «sarebbe di metterle su quel tavolo, accanto al vostro divano.» «No... e poi, a essere sinceri, non mi piace tenere armi vicino quando dormo... Vi dirò per quale ragione. Quando ero negli Ussari, a Grodno, dormii una volta nella stessa camera con un collega; le mie pistole erano su una seggiola, accanto a me. Durante la notte, mi svegliò una detonazione. Mi ritrovai con una pistola in mano; avevo sparato, e la pallottola era passata a due dita dal capo del mio collega... Non mi sono mai potuto ricordare del sogno che avevo fatto.» L'aneddoto mi turbò un poco. Va bene che a me non sarebbe toccata nessuna pallottola in testa, ma se consideravo l'alta statura e la complessione erculea del mio compagno di stanza, e le sue braccia nerborute coperte di nera lanugine, non potevo fare a meno di riconoscere che non gli sarebbe mancato il mezzo di strozzarmi con le mani, qualora avesse fatto un brutto sogno. Tuttavia, mi astenni dal mostrargli la minima inquietudine, e mi limitai a porre un candeliere su una seggiola vicino al divano; dopodiché mi accinsi a leggere il Catechismo di Lawicki, che avevo portato con me. Il Conte mi diede la buonanotte, si distese sull'altro divano, si rivoltò
cinque o sei volte, e infine parve assopirsi, benché stesse raggomitolato come quel tale amante di cui Orazio dice che, rinchiuso in una cassa, ha il capo che gli tocca le ginocchia rattratte: ...Turpi clausus in arca, Contractum genibus tangas caput... Ogni tanto lo sentivo sospirare forte o emettere una specie di rantolo nervoso che attribuivo alla sua strana giacitura. Sarà trascorsa così un'ora, e stavo per prender sonno anch'io. Chiuso il libro mi ero adagiato alla meglio sul mio lettaccio, quando uno sghignazzamento singolare del mio vicino mi fece trasalire. Guardai il Conte; aveva gli occhi chiusi, ma sussultava tutto e dalle labbra semiaperte gli uscivano poche parole, articolate appena: «Freschissima!... Bianchissima!... Il professore non sa quello che dice... Il cavallo non val nulla... Che ghiotto boccone!». Poi addentò selvaggiamente il cuscino su cui posava il capo ed emise una specie di ruggito così forte che si svegliò. Io rimasi fermo sul mio divano, fingendo di dormire. Però lo stavo osservando. Si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi, sospirò tristemente e rimase circa un'ora in quella posizione, assorto, mi pareva, nei suoi pensieri. Mi sentivo molto a disagio e in cuor mio dicevo che mai più avrei dormito vicino al Conte. A lungo andare, tuttavia, la stanchezza prevalse sull'inquietudine e, quando la mattina dopo vennero a svegliarci, dormivamo entrambi profondamente. 6. Dopo colazione, rientrammo a Medintiltas. Trovatomi solo a solo con il dottor Froeber, gli confidai che il Conte mi faceva l'effetto di non stare bene, che aveva sogni spaventosi, che forse era sonnambulo, e che poteva anch'essere pericoloso in quello stato. «Mi sono accorto di tutto questo», mi disse il medico. «Con quella sua complessione atletica, è nondimeno nervoso come una bella signora. Forse ha preso dalla madre... Anche lei, stamane, è stata di una irrequietudine indiavolata... Io non credo troppo alle ciance che si fanno sulle paure e le voglie delle donne incinte; ma una cosa è certa, e cioè che la Contessa è maniaca, e la mania si trasmette con il sangue...»
«Ma il Conte», ripresi, «ha tutta la sua ragione, è assennato, assai più colto - non lo nego - di quanto io stesso pensavo, ama leggere...» «D'accordo, d'accordo, caro signore; ma spesso è lunatico. Gli capita di starsene chiuso in camera per parecchi giorni di seguito, parecchie volte va in giro di notte, legge libri inauditi... metafisica tedesca... fisiologia... che so! Non più tardi di ieri, ne ha ricevuto un gran pacco da Lipsia. Debbo parlar chiaro? A ogni Ercole ci vuole la sua Ebe. Qui non mancano contadine graziosissime... Il sabato sera, dopo che hanno fatto il bagno, si scambierebbero per Principesse... E non ce n'è una sola che non sarebbe fiera di distrarre Sua Eccellenza... All'età sua, io, che il Diavolo mi porti!... Lui no, non ha amanti, e non si sposa, e qui sbaglia. Gli ci vorrebbe un diversivo.» Il materialismo grossolano del dottore mi urtava enormemente: perciò tagliai corto al nostro dialogo, con l'augurio che il Conte Szemioth trovasse una sposa degna. Ma confesserò che non mi aveva molto meravigliato la rivelazione del gusto del Conte per gli studi filosofici. Che quell'ufficiale degli Ussari, che quell'appassionato cacciatore leggesse opere di metafisica tedesca e si occupasse di fisiologia, era un fatto che capovolgeva tutte le mie supposizioni nei suoi riguardi. Il dottore, tuttavia, aveva detto il vero, come potei averne la prova quel giorno stesso. «Come spiegate, signor professore», mi domandò improvvisamente il Conte Szemioth verso la fine del pranzo, «come spiegate la dualità, o meglio la duplicità della nostra natura?...» E, poiché si avvide che non lo capivo perfettamente, aggiunse: «Non vi siete mai trovato in cima a una torre, oppure sull'orlo di un precipizio, combattuto contemporaneamente tra la tentazione di precipitarvi nel vuoto e un senso di terrore completamente opposto?». «Il fenomeno può spiegarsi mediante ragioni meramente fisiche», interloquì il dottore. «Primo: la stanchezza prodotta da uno sforzo ascensionale determina un afflusso di sangue al cervello...» «Non parliamo del sangue, dottore», esclamò il Conte con impazienza, «e scegliamo un altro esempio. Avete un'arma da fuoco carica. C'è il vostro migliore amico. Vi prende l'idea di piantargli una pallottola in testa. Concepite il più vivo orrore per ciò che può somigliare a un assassinio, eppure ne avete la tentazione. Io credo, signori miei, che se tutti i pensieri che ci frullano per la testa in men di un'ora... Ma parlavo con voi, signor professore, che pure ritengo un uomo saggio: credo, dunque, che se tutti i vostri pensieri si potessero vedere stampati, riempirebbero forse un in folio in base al quale non c'è avvocatucolo a cui non riuscirebbe di ottenere la
vostra interdizione, né giudice che non si affretterebbe a mandarvi in carcere o al manicomio.» «Quel giudice, signor Conte, non mi condannerebbe certamente per il delitto di aver indagato stamane, per più di un'ora, la legge misteriosa secondo cui i verbi slavi prendono il senso del futuro nel combinarsi con una preposizione; ma, quand'anche avessi avuto altri pensieri, quale prova addurreste contro di me? Io non sono padrone dei miei pensieri più di quanto lo sia degli accidenti esteriori da cui muovono; né dal fatto che un pensiero nasca in me, si può inferire un principio di esecuzione, o anche soltanto il proponimento di eseguirlo. Non mi è mai venuto in mente di uccidere chicchessia; ma, se anche mi frullasse l'idea di un assassinio, forse che la mia ragione non è qui presente per allontanarmene?» «Parlate della vostra ragione con molta sicumera; ma è sempre là presente, come dite voi, per dirigerci? Perché la ragione parli e si faccia ubbidire, è necessario riflettere; cioè occorre tempo e sangue freddo. Io chiedo se si abbia sempre questo e quello. Assisto, mettiamo, a un combattimento; sul più bello vedo una palla di cannone che sta per cogliermi di rimbalzo; mi scanso e vedo il mio amico, per il quale avrei dato la vita se avessi avuto tempo di riflettere...» Cercai di ricordargli i nostri doveri d'uomini e di cristiani, in uno con la necessità in cui ci troviamo d'imitare il guerriero della Scrittura, ognora pronto al combattimento; infine gli dimostrai che, nella diuturna lotta contro le nostre passioni, acquistiamo sempre nuove forze, sì da fiaccare e dominare più agevolmente il nemico interiore. Ma non mi parve convinto, e temo di non essere riuscito che a ridurlo al silenzio. Mi trattenni al castello un'altra decina di giorni. Feci anche un'altra scappata a Dowghielli, ma non vi pernottammo. La signorina Iwinska si comportò, come già la prima volta, da ragazzetta birichina e viziata. Esercitava sul Conte una specie di malia, e non dubitai più che lui ne fosse profondamente innamorato. Tuttavia, il Conte conosceva bene i suoi difetti e non si faceva illusioni: la sapeva civetta, frivola, indifferente per tutto ciò che non le tornasse di divertimento. Spesso mi accorgevo che soffriva nel vederla così poco ragionevole, ma bastava che quella gli facesse qualche moina perché si scordasse di tutto, e il viso, dalla gran gioia, gli s'illuminasse. Il giorno prima della mia partenza, il Conte avrebbe voluto trascinarmi una volta ancora a Dowghielli, forse perché tenessi in conversazione la zia mentre lui sarebbe andato a passeggio con la nipote nel giardino; però, a-
vevo molto da fare, e dovetti scusarmi, nonostante la sua insistenza. Ritornò per la cena, benché ci avesse detto di non aspettarlo; ma, a tavola, non riuscì a ingoiare un boccone. Per tutta la durata del pranzo, si mostrò cupo e di pessimo umore. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia e in quel momento i suoi occhi assumevano un'espressione sinistra. Quando il dottore uscì per recarsi dalla Contessa, mi seguì nella mia stanza e mi aprì il suo cuore. «Mi pento veramente», esclamò, «di avervi lasciato per andare a vedere quella pazzerella, che si burla di me e non ha simpatia che per le facce nuove. Per fortuna tutto è finito tra noi; ne sono profondamente disgustato, e non la vedrò più...» Al solito, passeggiò un pezzetto su e giù per la stanza, poi riprese: «Forse avete creduto che ne fossi innamorato? Così pensa anche quell'imbecille di un dottore. No, non l'ho mai amata. Il suo viso ridente mi divertiva, mi piaceva di vedere quella sua pelle bianca... Ma è tutto ciò che ha di buono... specie la pelle... Di cervello nemmeno a parlarne. Non ho mai visto in lei che una bella bambola, che fa piacere guardare quando si prova uggia e non si ha un libro nuovo... Certo, non si può negare che sia una bellezza... La pelle è meravigliosa... professore. Il sangue che corre sotto quella pelle, dev'essere migliore di quello di un cavallo... Che ne dite?». Scoppiò in una risata, ma quel riso faceva pena a sentirsi. Il giorno appresso mi accomiatai da lui per proseguire le mie indagini nell'Alto Palatinato. 7. Le mie esplorazioni si protrassero per due mesi, e posso dire che non esiste paesucolo, in Samogizia, dove non mi sia fermato e non abbia l'accolto qualche documento per il mio lavoro. Vorrei anzi avvalermi di questa occasione per ringraziare gli abitanti di quella provincia, soprattutto i signori Ecclesiastici, per l'aiuto davvero premuroso concessomi nelle mie ricerche, e per l'ottimo contributo che mi ha consentito di arricchire il mio dizionario. Dopo un soggiorno di una settimana a Szawlé, mi proponevo d'imbarcarmi a Klaipeda (il porto da noi chiamato Memel) per ritornare a casa, quando ricevetti dal Conte Szemioth la seguente lettera, portatami da un suo bracchiere:
Signor professore, Consentitemi di scrivere in tedesco; i miei solecismi sarebbero anche più numerosi, se mi arrischiassi a scrivervi in samogizio, e perderei ogni vostra considerazione. Già non so quanta ne possiate avere per me; e oltre a ciò mi chiedo fino a che punto la notizia che sto per darvi possa farmi aumentare nella vostra stima. Senz'altro preambolo, vi dirò che mi sposo; voi sapete bene con chi. Giove si prende spasso dei giuramenti degli innamorati, e lo stesso fa Pirkuns, il nostro Giove samogizio. Dunque sposerò proprio la signorina Giuliana Iwinska, il giorno 8 del mese prossimo, e voi sarete l'uomo più gentile che esista se vorrete assistere alla cerimonia. Tutto il contadiname di Medintiltas e dintorni verrà nella mia casa a divorare alcuni buoi e innumerevoli maiali; quando cotesta gente sarà ben brilla, danzerà sul prato, a destra del viale che conoscete. Vedrete costumi paesani e usanze degne della vostra attenzione. Io, sarò lietissimo di rivedervi, e così pure Giuliana. Aggiungerò che un vostro rifiuto ci metterebbe in un serio impiccio. Sapete, infatti, che professo la fede evangelica, così come la mia fidanzata. Ora, il nostro ministro, che risiede a trenta leghe da qui, è inchiodato a casa dalla gotta. Perciò, ardisco sperare che vorrete officiare in sua vece. Credetemi, caro professore, il vostro devotissimo, MICHELE SZEMIOTH In calce, a guisa di post scriptum, una mano femminile piuttosto graziosa aveva fatto questa aggiunta in lingua samogizia: Io, musa della Lituania, scrivo in zemaitico. Michele è un impertinente quando dubita della vostra approvazione. Quale altra donna, infatti, all'infuori di me, potrebbe essere tanto pazza da prendersi un giovanotto del suo stampo? Vedrete, signor professore, l'8 venturo, una sposa alquanto chic. Non è un vocabolo samogizio; è francese. Vi prego, almeno, di non distrarvi durante la cerimonia. Non mi piacquero né la lettera, né il post scriptum. Mi parve che i due fidanzati facessero mostra di una imperdonabile leggerezza in una occa-
sione tanto solenne. Però, ditemi voi: avevo il modo di rifiutare? Confesserò pure che lo spettacolo promesso dalla lettera mi tentava alquanto. Era lecito supporre che, nella folla dei nobili convitati accorsi nel castello di Medintiltas, non sarebbero mancate le persone colte in grado di darmi utili notizie. Il mio glossario samogizio era indubbiamente ricchissimo; ma il senso di molte parole raccolte dalla bocca di zotici contadini rimaneva tuttora avvolto per me in una parziale oscurità. Tutte queste considerazioni concorsero a farmi accettare l'invito del Conte, cui risposi che la mattina dell'8 sarei giunto a Medintiltas. Quanto ebbi da pentirmene! 8. Al mio affacciarmi sul viale del castello, vidi un gran numero di signore e signori in abito da mattino, parte riuniti a gruppi sulla scalinata e parte a passeggio nel parco; il cortile era pieno di contadini coi panni della domenica; e tutto il castello era in gala, ornato in ogni punto di fiori, di ghirlande, di bandiere e di festoni. L'Intendente mi accompagnò nella stanza che avevano preparato per me al pianterreno, scusandosi di non potermene offrire una migliore; ma il castello era così affollato che non era stato possibile riservarmi quella che avevo occupato precedentemente e che adesso era destinata alla moglie del Maresciallo della nobiltà. D'altronde, la mia nuova camera, situata sotto quella del Conte, era decentissima, con vista sul parco. Mi vestii in fretta per la cerimonia e indossai l'abito pastorale, ma gli sposi non si vedevano ancora. Il Conte si era recato a prendere la fidanzata a Dowghielli. Sarebbero dovuti comparire da un pezzo, ma la vestizione di una sposa non è affare di poco, e il dottore andava partecipando agli invitati che il pranzo si sarebbe tenuto dopo l'uffizio religioso; perciò gli appetiti impazienti avrebbero fatto bene a provvedersi a un certo tavolo guarnito di dolci e di ogni sorta di liquori. Notai, in tale occasione, come l'attesa disponga gli animi alla maldicenza; le madri di due graziose donzelle invitate al matrimonio non finivano di malignare sul conto della sposa. Era passato mezzogiorno quando una salva di mortaretti e di fucilate, annunziò l'arrivo di quest'ultima. Subito dopo, una sfarzosa carrozza imboccò il viale, tirata da quattro splendidi cavalli. Dalla schiuma che copriva il petto degli animali si capiva che non avevano nessuna colpa del ritardo. In carrozza non vi erano che la sposa, la signora Dowghiello e il Conte. Que-
sti balzò a terra e offrì la mano alla signora. La signorina Iwinska, con mossa piena di grazia e di fanciullesca civetteria, fece l'atto di nascondersi con lo scialle per sottrarsi agli sguardi curiosi che da ogni parte convergevano su di lei. Pure, si alzò in piedi nella carrozza, e stava per prendere a sua volta la mano del Conte, quando i cavalli del timone, forse spaventati dai fiori che i contadini facevano piovere sulla sposa, o forse anche in preda allo strano terrore che il Conte Szemioth ispirava agli animali, s'impennarono sbuffando; una ruota urtò il paracarro a piè della scalinata, e per un attimo vi fu da temere qualche accidente. La signorina Iwinska lanciò un piccolo strillo... Ma la nostra ansia fu breve. Il Conte, presala in collo, la trascinò di volata in cima dello scalone, non meno facilmente che se fosse pesata quanto una colomba. Applaudimmo tutti, per la sua prontezza e la sua cavalleresca galanteria. I contadini eruppero in fragorosi evviva. La sposa, tutta rossa in volto, rideva e tremava insieme. Il Conte, per nulla impaziente di disfarsi di quel grazioso fardello, sembrava un trionfatore, nel mostrarsi in quell'atteggiamento alla folla che lo attorniava... All'improvviso, una donna di alta statura, pallida, magra, con le vesti in disordine, i capelli sparsi e tutti i lineamenti del volto contratti dal dolore, comparve lassù, senza che nessuno l'avesse vista venire. «Dagli all'orso!», gridava con voce stridula. «All'orso! Qua i fucili!... Si porta una donna! Uccidetelo! Fate fuoco! Fate fuoco!» Era la Contessa. L'arrivo della sposa aveva richiamato tutti quanti sulla scalinata, nel cortile o alle finestre del castello, e anche le donne che custodivano la povera demente avevano dimenticato la propria consegna. Quella era fuggita e, senza che nessuno vi avesse fatto caso, era piombata in mezzo a noi. Fu una scena penosissima. Bisognò allontanarla a forza, nonostante le sue urla e la sua resistenza. Molti, tra gli invitati, non conoscevano la sua malattia. Si dovettero dare spiegazioni, e per un po' di tempo fu un gran sussurrare sottovoce. Non c'era viso che non fosse rattristato. «Pessimo augurio!», dicevano le persone superstiziose, le quali non sono scarse di numero in Lituania. Intanto, la signorina Iwinska chiese cinque minuti per mettersi l'abito e il velo nuziali, operazione che durò tuttavia un'oretta buona. Era più di quanto sarebbe occorso perché gli invitati che ignoravano l'infermità della Contessa ne apprendessero la cagione e i minuti particolari. Finalmente riapparve la sposa, magnificamente vestita e coperta di diamanti. La zia la presentò a tutti gl'invitati e, quando fu l'ora di passare nella
cappella, con mio vivo stupore, la signora Dowghiello assestò alla nipote, in presenza di tutti, uno schiaffo così sonoro da far rivoltare anche quelli che avessero avuto qualche distrazione. Lo schiaffo venne ricevuto con la massima rassegnazione, tra l'indifferenza generale; solo che un uomo vestito di nero scarabocchiò qualcosa su un foglio di carta che aveva portato con sé; quindi alcuni dei presenti sottoscrissero quella specie di verbale con la più assoluta noncuranza. Non fui in grado di conoscere la soluzione dell'enigma se non alla fine della cerimonia. Se avessi potuto intuirla in tempo, non avrei tralasciato di oppormi, con tutto il peso del mio ministero sacro, contro quella odiosissima usanza, che mira nientemeno che a tenere aperto uno spiraglio al divorzio, con il simulare un matrimonio a cui uno dei coniugi non si sarebbe sottoposto se non contro voglia e per un atto di costrizione materiale. Dopo l'ufficio divino, stimai mio dovere rivolgere alla giovane coppia alcune parole, con le quali mi applicai a farla riflettere sulla gravità e santità del vincolo che adesso la univa; e, poiché mi stava ancora sul cuore il frivolo post scriptum della signorina Iwinska, le ricordai che aveva ora abbracciato una nuova vita, non più contrassegnata da piaceri e da svaghi giovanili, ma piena di obblighi seri e di gravi prove. Mi sembrò che questa parte della mia allocuzione avesse molto effetto sulla sposa, non meno che su tutti coloro che capivano il tedesco. Il corteo, uscendo dalla cappella, fu accolto da salve di fucileria e grida di gioia. Si passò in sala e, siccome il pranzo era magnifico e l'appetito non scherzava, sulle prime non si udì altro che il rumore dei coltelli e delle forchette; ma poi, grazie anche ai vini di Sciampagna e di Ungheria, si cominciò a discorrere, a ridere, e a vociare. I commensali bevvero con entusiasmo alla salute della sposa e, appena si sedettero, un vecchio pan dai baffoni bianchi, si alzò, dicendo con voce stentorea: «Vedo con dolore che le nostre antiche usanze si vanno perdendo. Ma i nostri padri avrebbero fatto questo brindisi bevendo in bicchieri di cristallo. Una volta, si beveva nella scarpina della sposa, e persino nel suo stivaletto, poiché, ai tempi miei, le signore portavano stivaletti di marocchino rosso. Facciamo vedere, amici miei, che siamo tuttora veri Lituani. E tu, signora, degnati di levarti la scarpetta». La sposa, arrossendo, rispose con un risolino represso: «Vieni a prenderla, signore... ma io non berrò nel tuo stivale». Il pan non se lo fece ripetere. Con fare galante, si inginocchiò, s'impossessò di una scarpetta di raso bianco dal tacco rosso, l'empì di spumante e
bevette con tale maestria da non rovesciarsene più della metà indosso. Da una mano all'altra, la scarpetta fece il giro della tavola e tutti gli uomini tracannarono la loro parte, ma non senza fatica. Il vecchio nobiluomo pretese quindi che gli fosse ridata quella reliquia preziosa, e la signora Dowghiello fece dire a una cameriera di venire a riordinare l'acconciatura della nipote. Quel brindisi fu seguito da molti altri, e di lì a poco i convitati diventarono così rumorosi che non mi sembrò decente trattenermi più a lungo. Senza che nessuno se ne accorgesse, mi alzai per andare a prendere una boccata d'aria; ma, anche fuori mi toccò vedere uno spettacolo poco edificante. Domestici e contadini, a cui la birra e l'acquavite erano state somministrate senza risparmio, erano già in massima parte ubriachi. Vi erano stati alterchi e rotture di teste. Qua e là, sul prato del castello, si vedevano corpi privi di sentimento ravvoltolati nel brago, e i luoghi della festa arieggiavano molto, per l'aspetto generale, a un campo di battaglia. Sarei stato alquanto curioso di vedere da vicino le danze popolaresche, ma erano quasi tutte dirette da zingare sfacciate, e non mi parve onesto avventurarmi in quella gazzarra. Rientrai dunque nella mia stanza, feci un po' di lettura, poi mi svestii e quasi subito mi addormentai. Quando mi svegliai, l'orologio del castello batteva le tre. La notte era chiara, benché la luna fosse in parte velata da una nebbiolina leggera. Mi sforzai di riprendere sonno, ma invano. Secondo il mio solito in simili casi, pensai di prendere un libro e studiare; ma non trovai fiammiferi sottomano. Mi ero alzato e stavo girando un po' a tentoni per la camera, quando un corpo scuro, assai voluminoso, attraversò il riquadro della finestra e andò a cadere con un tonfo sordo nel giardino. La mia prima impressione fu che si trattasse di un uomo, e pensai che qualche ospite ubriaco fosse precipitato dalla finestra. Mi affacciai a guardare: ma non vidi nulla. Finalmente accesi una candela e, coricatomi di nuovo, diedi una buona ripassata al mio glossario finché non mi portarono il tè. Verso le undici, mi recai nel salotto, ove trovai molti occhi sbattuti e molti visi sfatti; seppi che a tavola si erano fatte le ore piccole. Né il Conte né la Contessa si erano ancora visti. Alle undici e mezzo, dopo molte celie di pessimo gusto, gl'invitati cominciarono a mormorare, prima sottovoce, e poi in maniera da essere intesi. Il dottor Frœber si pigliò la briga di mandare un cameriere a bussare alla porta del Conte. Trascorso un quarto d'ora, l'uomo ricomparve e, un po' commosso, disse di aver bussato una dozzina di volte, forse anche di più, senza ottenere
nessuna risposta. Ci consigliammo, la signora Dowghiello, il dottore e io. Il cameriere mi aveva attaccato la sua inquietudine. Salimmo tutt'e quattro insieme. Sull'uscio, trovammo la cameriera della Contessa in viva apprensione. Affermava che doveva essere successa qualche digrazia, poiché la finestra della sua padrona era spalancata. Mi ricordai con raccapriccio il corpo pesante caduto davanti alla mia finestra. Bussammo a più non posso. Nessuno rispondeva. Alla fine, il servo portò una spranga di ferro e scardinammo l'uscio... No! non mi va l'animo di descrivere lo spettacolo che si offrì ai nostri sguardi. La giovane Contessa era stecchita sul letto, con il viso orrendamente maciullato e la gola squarciata, in un lago di sangue. Il Conte era scomparso, e da quel giorno nessuno ne ha mai più avuto notizia. Il dottore esaminò l'orribile ferita della giovane sposa. «Non è stata una lama d'acciaio», esclamò, «a produrre questa ferita... Questo è un morso!» Il professore Wittembach richiuse il libro, e guardò il fuoco, pensoso. «E la storia finisce qui?», domandò Adelaide. «Finisce qui!», rispose il professore con voce lugubre. «Ma», rispose la sua interlocutrice, «perché l'avete intitolata Lokis? Nessuno dei personaggi porta questo nome.» «Non è un nome di persona», spiegò il professore. «Vediamo, Teodoro, mi sapete dire che cosa significa Lokis?» «Non ne ho idea.» «Se aveste approfondito come si deve la legge del trapasso dal sanscrito al lituano, riconoscereste in Lokis il sanscrito arksha o riksha. Si chiama lokis, in lituano, l'animale che i Greci chiamavano árktos, i Latini ursus e i Tedeschi bär. E ora potete afferrare il senso dell'epigrafe: Miszka su Lokiu Abu du tokiu. «Voi sapete che nel Romanzo di Reinardo, l'orso ha il nome di damp Brum. Gli Slavi lo chiamano Michele, Miszka in lituano, e tale soprannome è quasi sempre adoperato invece del nome generico, lokis. Allo stesso modo, i Francesi hanno dimenticato, a proposito della volpe, il nome neolatino di goupil o gorpil, sostituendovi quello di renard.» Ma Adelaide fece osservare che era già tardi, e la compagnia si sciolse.
PELLICCIA BIANCA The White Wolf di Edith Nesbit 1898 Il fuoco bruciava nel grande camino della fattoria, e la stanza echeggiava di voci, di risate e dei rumori di svariati lavori artigianali. Soltanto ai giovanissimi e ai vecchi era permesso stare senza far niente come al piccolo Rol, che stava giocando con un cucciolo, e alla vecchia Trella, che sferruzzava con mano malferma. La sera era calata precocemente, e i servi rientrati dai campi si erano riuniti in quell'ampia cucina che poteva ospitare dozzine di contadini. Alcuni uomini stavano intagliando il legno, e a costoro erano riservati i posti migliori e più illuminati, mentre altri preparavano o riparavano arnesi da pesca, e una grande rete teneva impegnate tre paia di mani. Tra le donne, alcune stavano scegliendo le piume d'oca per le trapunte, suddividendole secondo la qualità. Vi erano anche dei telai, sebbene per il momento non fossero usati, ma le ruote di tre arcolai giravano rapide, e il filo più fine e regolare usciva dalle dita della padrona di casa. Accanto a lei stavano alcuni fanciulli, impegnati anche loro a intrecciare stoppini per candele e lanterne. Al centro di ogni gruppo brillava un lume e, i più lontani dal camino, si riscaldavano a due. bracieri, regolarmente riforniti con tizzoni ardenti. Ma il bagliore delle fiamme giungeva fino agli angoli più remoti e prevaleva sul riflesso delle luci più deboli. Il piccolo Rol, stancatosi del suo cucciolo, lo abbandonò all'improvviso e si precipitò verso Tyr, il vecchio cane lupo che si scaldava accanto al fuoco, addormentato, e sussultava e gemeva in sogno. Rol si sdraiò al fianco di Tyr, cingendogli il collo possente con le sue braccine e mescolando i suoi riccioli al nero pelo dell'animale. Il cane gli concesse una leccatina distratta e poi si stiracchiò pigramente. Rol imitò un grugnito e scrollò il cane invitandolo a giocare, ma ottenne soltanto un placido sguardo e un ammiccare complice, subito spento. «Prendi questo, allora!», gridò Rol indignato per tanta indifferenza, e scaraventò il cucciolo contro il vecchio cane dignitoso che non lo aveva degnato di attenzione come compagno di gioco. Ma Tyr non gli badò, e allora il bimbo andò a cercare svaghi altrove. Il suo occhio notò i panieri di piuma d'oca allineati in un angolo. Scivo-
lato sotto il tavolo, cominciò ad avanzare a quattro zampe, perché l'idea di attraversare la stanza camminando normalmente in quel momento non lo divertiva. Quando giunse vicino alle donne, si immobilizzò per un attimo, con i gomiti appoggiati all'impiantito e il mento sul palmo della mano. Una delle donne lo vide e sorrise, e allora lui scivolò dietro le sue gonne, e così passò inosservato da una all'altra, finché ebbe l'occasione di impossessarsi di una bella manciata di piume. Stringendole in pugno attraversò di nuovo la stanza, sempre sotto il tavolo, e riemerse accanto alle filatrici. Si rannicchiò ai piedi della più giovane, protetto dagli sguardi delle altre, e ottenne la sua complicità mostrandole il suo bottino con un sorriso fiducioso. Rassicurato da un leggero cenno del capo, iniziò il gioco che aveva in mente. Prese un ciuffo di piume bianche e lo lasciò ricadere dolcemente sopra una ruota dell'arcolaio. Catturate dal moto vorticoso, le piume cominciarono a volteggiare in cerchi sempre più larghi, finché si dispersero come una soffice neve bianca. Gli occhi del piccolo Rol brillavano, e la chiostra dei suoi dentini si scoprì in un silenzioso sorriso di beatitudine. Altri ciuffi di piume subirono la stessa sorte, e svolazzarono come mosche prigioniere di una ragnatela, finché la provvista di Rol si esaurì. Il piccolo si sporse per controllare la possibilità di compiere una nuova spedizione verso l'altra estremità della stanza, e la sua spalla urtò contro la ruota, che si inceppò improvvisamente. Il filo si ruppe. «Rol, cattivo!», gridò la ragazza. Anche la ruota più veloce si arrestò, e la padrona di casa - zia di Rol - si chinò in avanti. Vide la testolina ricciuta del piccolo e, con un rimbrotto, lo rimandò accanto alla vecchia Trella. Rol ubbidì ma, dopo essere rimasto tranquillo per qualche minuto, si spostò di nuovo, evitando lo sguardo della zia. Si insinuò allora nel gruppo degli uomini, e subito questi badarono a controllare che i loro attrezzi non fossero a portata di mano del bambino. Rol riuscì lo stesso ad impossessarsi di uno scalpello, ma la sgridata dell'intagliatore lo impaurì, e sparì di nuovo sotto il tavolo. Là, imbronciato, si dedicò alla contemplazione delle gambe che lo circondavano, schermando gli occhi dalla luce del fuoco. Alcune di quelle gambe erano molto strane. Erano curve dove avrebbero dovuto essere diritte e diritte dove avrebbero dovuto essere curve. Rol disse fra sé: «Sembrano tutte intagliate in modo diverso». Alcune stavano modestamente ripiegate presso la sedia, altre si allungavano sotto il tavolo, invadendo il terri-
torio di Rol. A sua volta egli allungò le proprie gambette e le osservò dapprima con occhio critico e poi, dopo gli opportuni paragoni, con approvazione. Perché non tutte le gambe erano ben fatte come quelle laggiù? Le gambe apprezzate da Rol erano un po' in disparte dalle altre. Il bambino si avvicinò strisciando carponi e fece un secondo paragone. Il suo viso assunse un'espressione solenne, mentre pensava agli innumerevoli giorni che sarebbero trascorsi prima che le sue gambe diventassero così lunghe e forti. Si augurò che raggiungessero la perfezione del modello, dritte nelle ossa e salde nei muscoli. Pochi istanti dopo, Sweyn, il padrone di quelle lunghe gambe, sentì una manina che gli accarezzava un piede e, guardando in basso, incontrò lo sguardo del suo cuginetto Rol. Sdraiato sulla schiena, e sempre lisciando e accarezzando il piede del giovanotto, il bimbo rimase tranquillo e felice a lungo. Osservava il movimento delle mani abili e forti che afferravano ora l'uno ora l'altro utensile. Di quando in quando, un truciolo gli cadeva sul viso. Infine, Rol si raddrizzò con molta cautela, nel timore che uno spostamento brusco potesse irritare l'intagliatore e, incrociando le proprie gambe attorno alla caviglia di Sweyn, gli posò le mani sul polpaccio e la testa sul ginocchio. Rol era felice, e fu ancora più felice quando Sweyn interruppe il lavoro un attimo per battergli una mano sulla testa e tirargli i riccioli. Il bimbo rimase lì immobile, per quanto fosse consentita l'immobilità a membra così infantili. Sweyn si scordò di lui, e notò appena che Rol si staccava dalla sua gamba, per cui non si accorse che uno dei suoi coltelli gli veniva abilmente sottratto. Dieci minuti dopo, un lamento partì dal basso, alzandosi poi fino all'urlo di cui erano capaci i sani polmoni di Rol: la sua mano era lacerata da un taglio e sanguinava tanto copiosamente, il che lo aveva spaventato. Subito vi fu un grande accorrere per confortarlo, lavargli la ferita e fasciarla, non senza qualche affettuoso rimbrotto, finché le grida si placarono in intermittenti singhiozzi e il bambino, con il viso rigato di lagrime, tornò nel cantuccio dove Trella lo accolse scrollando il capo. Come reazione al dolore e alla paura, Rol trovò nel tepore del camino un rifugio ideale. Persino Tyr, anziché ignorarlo, si lasciò commuovere dai suoi singhiozzi e mostrò tutto l'interesse e la simpatia che poteva manifestare un cane, leccandolo e osservandolo attentamente. Rol si sentì oppresso da un po' di vergogna, e rimpianse di aver tanto strillato. Rammentò come un giorno Sweyn fosse rincasato con un braccio lacerato all'altezza
della spalla, dopo aver ucciso un orso; e come non si fosse lasciato sfuggire nemmeno un gemito, sebbene le sue labbra apparissero sbiancate dal dolore. Il povero Rol commentò allora quella sua debolezza con un sospiro supplementare. Le fiamme del camino cominciarono a narrare strane favole al bimbo, mentre il vento che si insinuava a tratti nella cappa fungeva da controcanto. La grande bocca nera di quella cappa, sospesa sopra il focolare, ingoiava spirali di fumo denso e mazzi di scintille, e più su si udivano gorgoglii e strani sibili e forse accadevano anche cose misteriose, poiché a volte il fumo arretrava come preso dal panico, o si condensava in lunghe volute sul tetto. E il vento si accaniva allora sulla sua preda, battendo collerico contro le imposte e contro le porte. In una pausa di silenzio tra due raffiche, Rol rialzò il capo sorpreso, in ascolto. Per un attimo anche le voci delle donne e degli uomini si erano acquietate, e fu possibile udire all'esterno il suono di una voce infantile, e il bussare di mani infantili contro la porta. «Aprite, aprite! Lasciatemi entrare», pigolò una voce che giungeva da un'altezza inferiore a quella del saliscendi. L'uomo che stava più vicino alla porta si alzò e l'aprì. «Non c'è nessuno qui», disse. Tyr rialzò la testa e lanciò un lungo ululato, forte, prolungato, quasi di terrore. Sweyn, rifiutandosi di credere che le orecchie lo avessero ingannato, si alzò e andò sulla soglia. Era una notte buia, con nubi gonfie di neve, che già era caduta in abbondanza. Non si notavano orme sulla bianca crosta gelata. Sweyn aguzzò lo sguardo, ma riuscì a distinguere soltanto quel cielo buio, quella neve, e l'ombra di un larice sulla collina. «Dev'essere stato il vento», disse. Poi richiuse la porta. Su molti visi era affiorata la paura. Il suono della voce infantile era stato molto chiaro, come limpide erano state le sue parole: «Aprite, aprite! Lasciatemi entrare». Il vento poteva far tintinnare il saliscendi, o battere contro l'uscio, ma non poteva imitare quella voce. E nemmeno il bussare delicato di una mano infantile. Inoltre, l'ululato del cane lupo pareva un cattivo presagio, da temersi più di ogni altra cosa. Le filatrici e gli intagliatori sussurrarono inquieti, finché un rimbrotto della padrona di casa li fece tacere. Quindi si sparse un silenzio inquieto e denso di disagio ma, a poco a poco, la paura si acquietò e il cicaleccio di sempre riprese.
Mezz'ora dopo, bastò un lieve rumore all'esterno per fermare ogni lingua e ogni mano. Tutti gli sguardi fissarono la porta. «È Cristiano; a quest'ora tarda!», esclamò Sweyn. No. Quel passo debole non apparteneva a un uomo. Lo accompagnò il tap tap di un bastone contro l'uscio, e una voce acuta chiamò: «Aprite, aprite! Fatemi entrare». Di nuovo Tyr rialzò il muso ed emise un ululato. Prima che l'eco della voce si fosse spenta, Sweyn era già balzato verso la porta, e l'aveva spalancata. «Nessuno!», ripeté in tono fermo, sebbene i suoi occhi brillassero inquieti. Vide di nuovo l'immobile distesa di neve, le nubi sempre più basse, e i larici scossi dal vento. Richiusa la porta senza alcun commento, fece ritorno al suo posto. Una dozzina di visi pallidi per la paura lo fissarono come se egli fosse in grado di fornire la soluzione dell'enigma. Quella muta richiesta turbò la sua fermezza abituale. Esitò, guardò prima sua madre - la padrona di casa poi la gente sgomenta e, infine, si fece con gravità il segno della croce. Vi fu uno svolazzare di mani mentre tutti ripetevano il suo gesto e il silenzio fu percorso da un grande sospiro, poiché il respiro trattenuto da molti fluì di nuovo per il magico sollievo legato al Segno della Croce. Persino la padrona di casa era turbata. Lasciò l'arcolaio e si avvicinò a suo figlio, col quale parlò per qualche minuto a voce così bassa che nessuno riuscì a cogliere il senso delle sue parole. Ma, poco dopo, ricuperò il suo tono autoritario, e tutti l'udirono rimproverare una delle ragazze: «È un pettegolezzo da gallina!», esclamò. Forse tentava di condannare negli altri i propri turbamenti e presentimenti. Nessuno osò più riprendere la spensierata conversazione di prima. Si mormorava a voce bassa e, di quando in quando, il silenzio permeava la stanza. Persino gli utensili venivano manovrati con cautela, quasi che ogni gesto dovesse arrestarsi quando di nuovo qualcuno avesse bussato alla porta. A un tratto Sweyn lasciò il tavolo e si avvicinò a un gruppo di giovani che stavano accanto all'ingresso, quindi si chinò fingendo di dar loro dei consigli. Il passo di un uomo risuonò nel portico antistante. «Cristiano!», esclamarono Sweyn e sua madre contemporaneamente: lui in tono fiducioso, lei con tono autoritario, quasi volesse rassicurare le filatrici ed evitare che gli arcolai si arrestassero. Ma Tyr rialzò il capo e ululò. «Aprite! Aprite! Fatemi entrare!»
Era la voce di un uomo, e la porta fu scossa dalle forti mani di un uomo. Sweyn sentì scricchiolare il legno dell'uscio mentre lo spalancava, ma fuori vide soltanto il portico deserto, la neve, il cielo, e i larici scossi dal vento. Sostò un lungo attimo sulla soglia. Il vento soffiava gelido, ma ancora più gelido era il brivido di paura che percorse veloce la stanza e fece accelerare il battito di ogni cuore. Sweyn agguantò un mantello di pelle di capra. «Sweyn, dove vai?», gli chiese sua madre. «Non mi spingerò oltre il portico, madre», rispose il giovane, e uscì richiudendo la porta. Avvoltosi nel mantello, si appoggiò per un istante alla parete del portico, quasi per raccogliere le proprie forze prima di affrontare il Demonio e le sue opere. Non giungevano voci dall'interno: si udiva soltanto il crepitio del fuoco. Il freddo era intenso. I piedi gli si stavano intorpidendo, ma Sweyn non volle batterli contro il suolo per scaldarli, perché quel suono non intimorisse chi stava chiuso in casa. Né voleva abbandonare il portico, per non lasciare impronte su quel manto di neve immacolata, dove sembrava che da due ore non fosse passato nessuno. «Quando il vento si calmerà, nevicherà di nuovo», pensò Sweyn. Per quasi un'ora vigilò immobile, ma non vide nessuno e non udì voci di sorta. «Mi congelerò se rimarrò qui più a lungo», borbottò infine, e rientrò. Una donna si lasciò sfuggire un grido mentre lui posava la mano sul saliscendi, e sospirò di sollievo quando lo vide. Nessuno gli fece domande; soltanto sua madre disse, con tono forzatamente disinvolto: «Non hai visto se Cristiano sta arrivando?», come se la sua unica preoccupazione fosse l'assenza del figlio minore. Sweyn si era appena avvicinato al fuoco, quando si udì bussare chiaramente alla porta. Tyr balzò in piedi, gli occhi lucenti come braci, i denti scoperti nel muso nero, i peli dritti sul collo; e, scavalcato Rol, si precipitò verso la porta, abbaiando furiosamente. Fuori una voce chiara e dolce stava chiamando. L'abbaiare di Tyr non permetteva di distinguere le parole. Nessuno osò precedere Sweyn. Egli avanzò con passo risoluto verso la porta, tirò il catenaccio e aprì. Una donna vestita di bianco entrò nella stanza. Non era un fantasma! Ma una donna viva, bellissima, giovane!
Tyr balzò verso di lei. Rapidissima, lei gli coprì il muso con un lembo della lunga veste, mentre estraeva dalla cintura una piccola ascia a due tagli, pronta a vibrare colpi per difendersi. Sweyn afferrò il cane per il collare e lo trascinò via. La sconosciuta rimase immobile sulla soglia con un braccio ancora alzato, finché la padrona di casa andò verso di lei e Sweyn, lasciato il furibondo Tyr in altre mani, chiuse la porta porgendo le sue scuse per una accoglienza così scortese. Allora la donna abbassò il braccio, riinfilò l'accetta nella cintura, allentò le pellicce che le circondavano il viso, e lasciò ricadere dalle spalle il lungo mantello bianco: il tutto, parve, con un unico movimento armonioso. Era una giovane alta e molto bionda. Indossava vesti di strana foggia, in parte maschili, ma non prive di femminilità. Una tunica di pelliccia le giungeva soltanto poco sotto il ginocchio. I polpacci erano coperti da calzari intrecciati, da cacciatore. Un berretto di pelliccia bianca che le scendeva fino alla linea delle sopracciglia, era ornato di frange di pelo, che le ricadevano sulle spalle e si intrecciavano sotto il mento. Spinto all'indietro, quel berretto rivelava due lunghe trecce bionde che le giungevano fino alla cintura ricoperta di borchie d'avorio, dove brillava l'accetta. Sweyn e sua madre guidarono la sconosciuta fino al focolare, senza porle domande o rivelare segni di curiosità, finché fu lei a raccontare di sua spontanea volontà la storia di un lungo viaggio iniziato per visitare alcuni lontani parenti, di una guida che non si era presentata all'appuntamento, e di una strada smarrita. «Da sola!», esclamò Sweyn stupefatto. «Si è spinta tanto lontano... almeno cento leghe da sola!» Lei rispose: «Sì», con un piccolo sorriso. «Superando le colline e le paludi! Ma gli abitanti di quei luoghi sono più selvaggi delle belve!» La donna posò la mano sulla sua accetta con un'occhiata di disprezzo. «Non temo né uomini né animali», dichiarò, «ma molti hanno paura di me», e narrò di attacchi subiti, di come si era difesa, e della sua audace, libera vita di cacciatrice. Le parole le uscivano dalla bocca lentamente, scelte con cura, quasi parlasse una lingua non troppo familiare; di quando in quando si interrompeva a metà frase, cercando il termine adatto. Divenne il centro di un gruppo di ascoltatori. L'interesse che suscitava dissipò, in una certa misura, il terrore ispirato prima dalle voci misteriose.
Non vi era nulla di inquietante in quella bella donna bionda, nonostante la stranezza del suo aspetto. Il piccolo Rol si avvicinò quatto quatto, fissando la sconosciuta con occhi sbarrati. Senza farsi notare, accarezzò un lembo del suo morbido mantello bianco che si era allargato sull'impiantito in larghe pieghe. Poi appoggiò la guancia sulla stoffa come in una carezza, e si spostò ancora di più verso le ginocchia della signora. «Come ti chiami?», le chiese. Il sorriso della sconosciuta, e la sua pronta risposta, salvarono Rol dal rabbuffo che si era meritato. «Il mio vero nome», disse quella fissando il bimbo, «suonerebbe strano per le vostre orecchie e per la vostra lingua. Il popolo di questo paese me ne ha dato un altro, e proprio a causa di questo», indicò il mantello, «mi chiamano Pelliccia Bianca.» Il piccolo Rol ripeté tra sé, sempre accarezzando il mantello: «Pelliccia Bianca, Pelliccia Bianca». Il bel volto, i capelli biondi e lo splendido vestito piacevano molto a Rol. Fissò gli occhi della sconosciuta con aria di curiosa incertezza, come un passero su un davanzale poi, all'improvviso, le appoggiò i gomiti sulle ginocchia, con un gridolino di sorpresa per la sua audacia. «Rol!», esclamò la zia. «Lasciatelo fare», disse Pelliccia Bianca, sorridendo e accarezzando il capo del bimbo. Rol rimase. Anzi, divenne più ardito e, sfidando l'autorità della zia, si arrampicò sulle ginocchia della sconosciuta. Le braccia di lei lo accolsero soffocando ogni protesta. Rol vi si annidò felice, tastando l'accetta, gli ornamenti eburnei della cintura, la fibbia del mantello, le trecce bionde; quindi soffregò il capo contro la morbidezza dei lembi di pelliccia, con la fiducia infantile nella bellezza. Pelliccia Bianca non si scoprì il capo, anzi, annodò di nuovo i lembi di pelliccia sotto il mento. Rol allungò la mano, mormorò quasi tra sé il nome: «Pelliccia Bianca, Pelliccia Bianca», poi cinse il collo della straniera con le braccia e la baciò, una, due volte. «Il bimbo vi molesta?», chiese Sweyn. «Nient'affatto!», rispose quella, con un calore così intenso che parve sproporzionato alle circostanze. Rol si raggomitolò di nuovo sulle sue ginocchia e cominciò a svolgere la benda che gli fasciava la mano. Si interruppe un attimo vedendo la tela im-
bevuta di sangue, ma poi continuò finché la sua mano non fu nuda e rivelò un taglio superficiale, anche se molto lungo. Tese quindi la manina verso Pelliccia Bianca, chiedendo la sua pietà e la sua simpatia. Vedendo quella ferita, e la benda macchiata di sangue, la donna respirò con affanno e strinse forte a sé Rol, poi sempre più forte, finché il bimbo cominciò a divincolarsi. Il viso della sconosciuta era nascosto dal capo di Rol, e nessuno poté notare la sua espressione, che si era contratta in un orrendo sogghigno. Lontano, oltre il filare di larici, aldilà delle colline, l'assente Cristiano stava affrettandosi sulla strada del ritorno. Era partito all'alba, per invitare a una battuta all'orso tutti i migliori cacciatori delle fattorie e delle capanne che si trovavano nel raggio di venti miglia. Ma, poiché era in ritardo, incurante della stanchezza, allungò il passo nella corsa, divorando le miglia che lo separavano da casa. Rallentò appena quando si addentrò nella fitta oscurità del bosco di larici, sebbene il sentiero fosse invisibile e, non appena si ritrovò all'aperto, scorse le luci della fattoria duecento metri più in basso. Stava per riprendere la corsa, quando si scostò con un balzo dalla pista, immobilizzandosi. Sulla neve spiccavano le tracce di un grosso lupo. Cristiano abbassò la mano sul coltello, la sua sola arma. Si inginocchiò, cercando di portare il suo sguardo all'altezza degli occhi della bestia, e si guardò intorno a denti stretti, il cuore che batteva un po' più in fretta del solito. Un lupo solitario, quasi sempre feroce e di grossa taglia, è una belva formidabile che non esita ad affrontare l'uomo. Le orme lasciate da quel lupo erano le più grosse che Cristiano avesse mai visto e, da quanto poteva giudicare, abbastanza fresche. Scendevano dai larici verso la pianura. Cristiano ringraziò il cielo per il ritardo che l'aveva tanto irritato prima. Buon per lui che non aveva incrociato la belva nel folto del bosco! Muovendosi con cautela, seguì le tracce. Lo condussero giù dalla collina, oltre il torrente ghiacciato, attraverso il terreno pianeggiante che portava alla fattoria. A quel punto, una persona meno esperta di Cristiano avrebbe cominciato a dubitare che quelle fossero orme di lupo, attribuendole piuttosto a Tyr o a un altro grosso cane. Ma Cristiano la sapeva troppo lunga per cadere in quell'equivoco. Stava seguendo delle tracce di lupo. Procedevano sempre diritte, verso la fattoria. Cristiano prima si sorprese, poi si preoccupò all'idea che la belva si fosse
avvicinata tanto all'abitato. Strinse il coltello e affrettò il passo, aguzzando gli occhi. Oh, se Tyr fosse stato con lui! Le orme sparivano davanti alla porta della fattoria, dove non c'era più neve. Cristiano sentì che il cuore gli balzava in gola. Il portico era deserto e nessuna traccia indicava che il lupo si fosse diretto da un'altra parte. I larici si profilavano diritti contro il cielo e le nubi sembravano più basse, poiché il vento era cessato e cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve. Cristiano si immobilizzò un attimo, come folgorato. Poi premette il saliscendi ed entrò. Il suo sguardo abbracciò i volti familiari, e tra questi colse la presenza della straniera, ammantata di pelliccia e bellissima. In un lampo intuì l'orrenda verità: sapeva chi era la donna. Soltanto pochi tra i presenti notarono il cigolio del saliscendi, poiché la stanza era colma di brusio e di movimento. Per l'ora di cena, tutti abbandonavano gli arnesi di lavoro e spostavano sgabelli e tavoli. Cristiano non ebbe chiara coscienza di quel che disse o fece; si mosse e parlò meccanicamente, con la vaga speranza che ben presto si sarebbe svegliato da quell'orrendo sogno. Sweyn e la madre immaginarono che fosse infreddolito e stanco, e gli risparmiarono inutili domande. Lui si trovò seduto accanto al fuoco, di fronte all'orribile Cosa che aveva assunto l'aspetto di una bella ragazza; osservò attento ogni sua mossa, poi la vide accarezzare il piccolo Rol e ne fu angosciato. Anche Sweyn era lì, lo sguardo fisso su Pelliccia Bianca, ma con un'espressione tanto diversa! Lei pareva non curarsi dell'attenzione di entrambi: non badava al freddo odio apparso negli occhi di Cristiano, o alla calda ammirazione di Sweyn. Quei due fratelli, che erano gemelli, apparivano molto diversi, nonostante la somiglianza fisica. Avevano un profilo regolare, capelli castani e profondi occhi azzurri; ma i lineamenti di Sweyn erano perfetti come quelli di un Dio mentre quelli di Cristiano apparivano più irregolari nei particolari. La linea della bocca era meno diritta, gli occhi troppo infossati, le guance più incavate di quelle di Sweyn. La statura era identica, ma Cristiano era troppo magro, mentre in Sweyn una salda struttura muscolare componeva una ideale figura maschile. Come cacciatore o pescatore, Sweyn non aveva rivali. In tutto il circondario era riconosciuto come il migliore nella lotta, nella danza, nel canto. Soltanto nella corsa poteva essere sorpassato dal fratello minore. Sweyn distanziava facilmente tutti gli altri, ma Cristiano lo batteva sempre. Cri-
stiano traeva ben poco vanto dall'agilità dei suoi piedi, poiché considerava le gambe come le membra meno pregevoli del corpo umano. Non invidiava l'atletica superiorità del fratello, sebbene in molte gare questi si fosse classificato onorevolmente come secondo. Lo amava come si ama un gemello: fiero delle qualità di Sweyn, entusiasta dei suoi successi, e umilmente soddisfatto che il suo grande affetto non fosse ricambiato in uguale misura, perché si riteneva meno degno di essere amato. Alla presenza delle donne e dei bambini, Cristiano non osava esprimere il proprio orrore con parole. Cercò di consultare il fratello, ma Sweyn non vide - o non volle vedere - i muti appelli che Cristiano gli rivolgeva, e tenne sempre gli occhi fissi su Pelliccia Bianca. Cristiano si scostò allora dal camino, incapace di rimanere passivo di fronte alla minaccia che incombeva su tutti. «Dov'è Tyr?», chiese all'improvviso. E subito notò il cane accucciato in un angolo: «Perché lo avete legato laggiù?». «Ha aggredito la nostra ospite», rispose qualcuno. Gli occhi di Cristiano si accesero. «Davvero?», disse e, alzatosi, si avvicinò a Tyr in silenzio. Il cane si drizzò per accoglierlo, mortificato e indignato quanto può esserlo una povera bestia. Cristiano gli accarezzò la testa nera. «Bravo Tyr! Bravo cane!», disse. Soltanto loro due sapevano la verità, e quel comune segreto fu di conforto per entrambi. Gli occhi di Cristiano si posarono di nuovo su Pelliccia Bianca, e Tyr si protese in avanti tendendo al massimo la catena! La mano di Cristiano accarezzò il collo del cane e sentì i suoi peli drizzarsi in una furia impotente. Anche lui cominciò a tremare, per una collera nata dalla ragione e non dall'istinto; si sentiva impotente moralmente come Tyr lo era fisicamente. Non osava toccare una donna. Non fosse stato per quell'apparenza, lui e Tyr sarebbero stati liberi di uccidere o di essere uccisi. Ritornò tra la gente per porre nuove domande. «Da quanto tempo è arrivata la straniera?» «Un'ora e mezzo prima di te.» «Chi le ha aperto la porta?» «Sweyn. Nessun altro ne avrebbe avuto il coraggio.» Il tono di quella risposta era misterioso. «Perché?», chiese Cristiano. «È accaduto qualcosa di strano? Ditemi tutto.» Gli narrarono a bassa voce delle invocazioni udite oltre la porta senza
che si manifestasse alcuna presenza umana; e degli ululati di Tyr, e della vana ricerca di Sweyn sotto il portico. Cristiano si rivolse al fratello, cercando con angosciata impazienza l'occasione di dirgli due parole in privato. La tavola era apparecchiata e Sweyn stava guidando Pelliccia Bianca al posto d'onore. Inconcepibile! Avrebbe spezzato il pane con loro sotto lo stesso tetto. Cristiano si fece avanti e, posata la mano sul braccio di Sweyn, gli sussurrò un urgente appello. Sweyn lo fissò stupito e scrollò il capo con stizza. Cristiano rifiutò allora di toccare cibo. L'occasione che attendeva si presentò, finalmente. Pelliccia Bianca chiese informazioni sulla Collina di Cairn, che avrebbe dovuto raggiungere quella sera stessa. La padrona di casa e Sweyn lanciarono un'esclamazione. «È lontana tre miglia», disse Sweyn, «e l'unico rifugio è una capanna cadente. Rimanete con noi questa notte e io vi accompagnerò domattina.» Pelliccia Bianca parve esitare. «Tre miglia», disse. «Allora sarà possibile vedere o udire un segnale.» «Ci starò attento», disse Sweyn, «e, se non vi sarà segnale, non ci lascerete.» Andò verso la porta. Cristiano lo seguì fuori, in silenzio. «Sweyn», chiese poi, «lo sai chi è quella donna?» Sweyn, sorpreso dal topo cupo e aspro della voce, domandò a sua volta: «Chi? Pelliccia Bianca?». «Sì.» «È la più bella donna che io abbia mai visto.» «È un Lupo Mannaro.» Sweyn scoppiò in una risata. «Sei impazzito?», chiese. «No. Vieni. Guarda con i tuoi stessi occhi.» Cristiano lo guidò ai limiti del portico, indicando la neve dove prima spiccavano le orme... prima, poiché ora non si vedevano più. La neve che cadeva abbondantemente le aveva cancellate. «Ebbene?», chiese Sweyn. «Se tu mi avessi ascoltato, e se fossi uscito poco fa, le avresti viste.» «Che cosa?» «Le orme di un lupo che arrivavano fino alla porta, ma nessuna orma che se ne allontanasse.» Era impossibile non rimanere colpiti dal tono di Cristiano, sebbene la sua voce fosse poco più che un sussurro. Sweyn scrutò ansioso il volto del
fratello, ma nell'oscurità non riuscì a distinguerne l'espressione. «Quando il freddo ti entra fino nel cervello è possibile avere delle visioni», disse Sweyn. «No», lo interruppe Cristiano. «Ho seguito quelle orme dalla collina fin qui. E non erano una visione.» Sweyn non si lasciò convincere. Cristiano si abbandonava spesso a strane fantasie, sebbene fino a quel giorno non avesse mai immaginato nulla di tanto stravagante. «Non mi credi?», chiese Cristiano, disperato. «Devi credermi! Ti giuro che è la verità. Sei cieco? Persino Tyr se ne è accorto.» «Domattina, dopo una buona notte di riposo, ti si saranno schiarite le idee. E allora ti consiglio di venire alla Collina di Cairn con Pelliccia Bianca. Se hai ancora dei dubbi, vedrai quali impronte lascerà sulla neve.» Irritato dall'evidente disprezzo di Sweyn, Cristiano si diresse bruscamente verso la porta. Il fratello lo trattenne. «Dove vai adesso, Cristiano? Che cosa hai intenzione di fare?» «Se tu non mi credi, mia madre mi crederà.» Sweyn rafforzò la sua stretta: «Non le dirai nulla», intimò con voce autoritaria. Di solito Cristiano ubbidiva docilmente al fratello, ma questa volta si liberò vigorosamente dalla mano che lo tratteneva e disse con tono altrettanto deciso: «Nostra madre deve sapere». Sweyn lo aveva preceduto sulla soglia e gli sbarrava il passo. «C'è stato abbastanza trambusto questa sera. Se davvero vuoi raccontarle questa tua storia, aspetta domani mattina.» Cristiano esitava. «Le donne si spaventano facilmente», insistette Sweyn, «e sono pronte a credere qualsiasi stupidaggine senza prove. Sii uomo, Cristiano, e combatti da solo contro questa folle idea del Lupo Mannaro.» «Se almeno tu potessi credermi», insistette Cristiano. «Io credo che tu sia uno sciocco», disse Sweyn che aveva perso la pazienza. «E, se non fossi tuo fratello, penserei che sei invidioso e che hai trasformato Pelliccia Bianca in un Lupo Mannaro perché ha sorriso a me prima che a te.» L'insinuazione non era priva di fondamento, perché gli sguardi teneri di Pelliccia Bianca si erano posati soltanto su di lui, e su Cristiano neppure per un istante. L'irritazione di Sweyn appariva sempre sincera e quasi perdonabile, perché giustificata.
«Se vuoi un alleato», continuò Sweyn, «confidati con la vecchia Trella. Nel bagaglio della sua saggezza, posto che la memoria non le venga meno, saprà trovare i consigli da darti per combattere un Lupo Mannaro nel modo più ortodosso. Se ricordo bene, dovrai sorvegliare la persona sospetta fino a mezzanotte, quando sarà costretta a riassumere la sua forma di animale, e non potrà più liberarsene se un occhio umano assiste alla metamorfosi; oppure, meglio ancora, dovrai spruzzarle mani e piedi con acqua benedetta, il che implica la morte sicura! Non temere, la vecchia Trella si dimostrerà all'altezza della situazione.» Il disprezzo di Sweyn non si manifestava più in tono scherzoso, poiché cominciava a sentirsi veramente seccato per quel mostruoso dubbio nei confronti di Pelliccia Bianca. Ma Cristiano era troppo angosciato per offendersi. «Parli come se si trattasse di una favola da donnette; ma se avessi visto quello che ho visto io, saresti pronto a seguire i consigli di Trella, con la speranza che abbiano effetto.» «Ebbene», disse Sweyn con una risata di scherno, «seguili pure, quei consigli. Non me ne importa nulla, purché tu non ne parli con nessuno. E ora, Cristiano, promettimi il tuo silenzio, e smettiamola di rimanere qui fuori a gelare.» Cristiano non rispose. Sweyn gli posò le mani sulle spalle e tentò invano di scrutare il suo volto nell'oscurità. «Finora non avevamo mai litigato, Cristiano.» «Io non ho mai litigato con te», replicò l'altro, rendendosi conto per la prima volta che la prepotenza del fratello gliene aveva spesso offerto l'occasione. «Pensala come vuoi», replicò Sweyn, «ma se parlerai di Pelliccia Bianca con qualcun altro, dicendo le cose che hai detto a me, litigheremo davvero.» Pronunciò quelle parole come un ultimatum, poi si voltò bruscamente e rientrò in casa. Cristiano, sempre più sgomento e preoccupato, lo seguì. «La neve cade fitta, e non si è vista neppure una luce.» Gli occhi di Pelliccia Bianca sorvolarono Cristiano come se nemmeno lo vedessero, e si posarono, vivacissimi, sul viso di Sweyn. «E non si è sentito nemmeno un richiamo?», chiese. «Avete udito il suono di un corno?» «Non ho visto nulla e non ho sentito nulla; e poi, segnale o no, questa
bufera di neve vi impedirebbe in ogni modo di recarvi laggiù.» La donna ringraziò con un sorriso, e il cuore di Cristiano si colmò di sconforto nel vedere quale luce quel sorriso aveva acceso negli occhi di Sweyn. Durante la notte, mentre tutti dormivano, Cristiano, che era il più stanco, vegliò davanti alla porta dell'ospite fin dopo mezzanotte. Non udì rumori di sorta, nemmeno il minimo fruscio. La metamorfosi di mezzanotte era dunque davvero una favola? Cristiano avrebbe dato il braccio destro per sapere se dietro quell'uscio si celava una donna o una bestia. Istintivamente posò la mano sul saliscendi, sebbene fosse sicuro che il paletto era stato tirato dall'interno. Ma l'uscio cedette, e Cristiano lo spalancò; un soffio d'aria gelida lo colse lì sulla soglia. La finestra era aperta e la stanza vuota. Cristiano poté andare a dormire con animo più sollevato. La mattina seguente, quando fu scoperta l'assenza di Pelliccia Bianca, tutti ne furono sorpresi e fecero parecchie congetture. Cristiano si chiuse nel silenzio; non disse nemmeno che aveva constatato che era fuggita prima della mezzanotte; e Sweyn, seppure evidentemente addolorato, pareva evitare qualsiasi discussione col fratello su quell'argomento. Soltanto Sweyn partecipò alla caccia all'orso; Cristiano trovò un pretesto per rimanere a casa, e il fratello si limitò a deprecarne l'assenza senza troppo insistere. Per tutto quel giorno, e nei seguenti, Cristiano non si allontanò mai di casa. Soltanto Sweyn notò quelle manovre, e ne fu chiaramente irritato. Il nome di Pelliccia Bianca non veniva mai pronunciato tra loro, sebbene lo si udisse spesso nella conversazione generale. Non passava quasi giorno senza che il piccolo Rol chiedesse quando sarebbe ritornata Pelliccia Bianca, così bella, e che baciava come un fiocco di neve. E se era Sweyn a rispondergli, Cristiano leggeva nei suoi occhi accesi che il ricordo di Pelliccia Bianca in lui non si era spento. Il piccolo Rol! Il biondo, allegro, dispettoso, piccolo Rol! Venne il giorno in cui i suoi piedi varcarono la soglia di casa per l'ultima volta; e non tornò più, né più si udirono le sue chiacchiere e le sue risate; e lacrime furono versate dagli occhi che non avrebbero più visto la sua testolina bionda, né viva né morta. Fu notato l'ultima volta una sera al crepuscolo, mentre fuggiva di casa con il suo cucciolo, ribellandosi ai richiami della vecchia Trella. Più tardi, quando la sua assenza cominciava a destare ansietà, il cucciolo era tornato alla fattoria, trascinando le zampette nella neve e gemendo: una povera be-
stiolina spaventata, senza la capacità o il coraggio di guidare le ricerche. Rol non fu più trovato. Non si riusciva a capire come fosse sparito senza lasciar tracce: forse era stato divorato da una belva? Cristiano udì pronunciare la parola «lupo», e un'orribile certezza affiorò nella sua mente: sapeva chi era quel lupo. Tentò di parlarne, ma Sweyn indovinò il suo proposito e lo afferrò per un braccio imponendogli il silenzio con la sua stretta imperiosa e con il suo sguardo implacabile. Cristiano cedette di nuovo alla volontà del fratello, e tacque. Se ne pentì prima che la luna nuova (la prima dell'anno) avesse chiuso il suo ciclo. Pelliccia Bianca tornò, e si presentò sorridendo come se fosse sicura di ottenere una buona accoglienza; e, in verità, una sola persona trasalì con orrore vedendo il suo bel viso e il suo bianco mantello. Il viso di Sweyn si illuminò di gioia, mentre quello di Cristiano si irrigidiva in un pallore di morte. Aveva promesso di tacere, ma non avrebbe mai immaginato che Pelliccia Bianca sarebbe tornata. A faccia a faccia con la Cosa, il silenzio era impossibile. Cristiano gridò: «Dov'è Rol?». Pelliccia Bianca non batté ciglio, e rimase imperturbabile mentre lo sguardo di Sweyn si posava minaccioso sul fratello. L'occhio di molte donne si inumidì al ricordo del bimbo, ma nessuno si stupì per la domanda di Cristiano, poiché pareva naturale. Rol si era annidato spesso nelle braccia della sconosciuta, baciandola, accarezzandola, e la sua mancanza non poteva non essere notata. Cristiano uscì in silenzio. C'era una sola cosa che lui poteva fare e senza indugio. Il suo orrore superava la curiosità di udire le contorte giustificazioni di Pelliccia Bianca e le sue sorridenti scuse per la bizzarra e scortese fuga da quella casa. O la facile favoletta che avrebbe raccontato per spiegare le circostanze del suo ritorno. Né voleva assistere al suo simulato dolore quando l'avessero informata di quanto era accaduto a Rol. Il più veloce corridore della regione cominciò la sua gara più dura, poco meno di tre leghe e ritorno, e che contava di coprire in due ore, sebbene la notte fosse senza luna e il terreno accidentato. Corse fendendo l'immobile aria fredda finché sentì il vento sulla faccia. La sagoma della fattoria sparì oltre un crinale alle sue spalle, e altre colline coperte di neve si profilarono all'oscuro orizzonte. Lui le superava tutte, mentre l'aria tagliata dalla sua corsa si richiudeva dietro di lui. Non prendeva nota dei punti di riferimento che potevano segnare il suo cammino, nemmeno quando ogni traccia di sentiero sparì sotto la neve. La sua
volontà era tesa a raggiungere la meta con velocità ineguagliabile, e le sue forze, mosse dal puro istinto, lo portavano avanti senza fargli commettere errori. Il suo cervello frattanto rimaneva inerte, passivo, accogliendo in quel suo vuoto immagini e suoni che si presentavano via via: Rol che piangeva, rideva, si rifugiava tra le braccia dell'orrenda Cosa: Tyr (oh, Tyr!) con le zanne scoperte nel muso nero; le donne che piangevano attorno al cucciolo, reso prezioso dall'ultima carezza di Rol; orme che arrivavano fino alla porta: un viso sorridente tra le pellicce, una donna così bella che sorrideva, sorrideva... e il volto di Sweyn. «Sweyn, Sweyn! Oh Sweyn, fratello mio!» La risata di scherno di Sweyn risuonò nel suo orecchio nonostante il sibilo del vento; il disprezzo di Sweyn lo assalì più rapido e acuto del morso del freddo alla gola. E tuttavia non si lasciò turbare dall'idea di quanto sarebbero aumentati lo scherno e il disprezzo del fratello se avesse saputo lo scopo di quella corsa. Per Cristiano tutta la vita era un mistero spirituale, che il denso velo della carne gli impediva di vedere chiaramente. Poiché egli sapeva che il suo corpo era legato alle forze complesse e antagoniste dell'anima, non gli sembrava impossibile che una sola forza spirituale si impossessasse di forme diverse per manifestarsi in modo più vario. Né gli costava grande sforzo il credere che come l'acqua pura lava ogni naturale sporcizia, così l'acqua santificata dalla consacrazione avrebbe potuto eliminare dal mondo di Dio quella sozzura che era quella Cosa soprannaturale e maligna. Perciò, con una velocità mai prima raggiunta, egli corse nella notte buia e immobile, coprendo le leghe che lo separavano dalla lontana chiesa dove la salvezza giaceva nell'acquasantiera presso la porta d'ingresso. La sua fede era salda come quella che produsse miracoli nei tempi andati, semplice come il desiderio di un bambino, forte come la volontà di un uomo. La sua assenza non fu notata in quelle ore che costarono un estremo sforzo ai suoi muscoli e ai suoi nervi. Nella fattoria si vivevano momenti sereni illuminati dalle parole e dai gesti che l'istinto di ospitalità suggeriva ai suoi abitanti. La cordialità e l'interesse rinascevano attorno alla bellezza della misteriosa visitatrice riapparsa tra loro. Ma Sweyn manifestava un calore molto più intenso di quello che sarebbe stato naturale in un ospite. L'impressione che durante la prima visita della sconosciuta lo aveva affascinato, e che da quel giorno era vissuta nella sua memoria, si acuì ora con la sua presenza. Sweyn, ancora senza com-
pagna, intuì che nella bionda Pelliccia Bianca si celava uno spirito forte e ardito come il suo, e una struttura così solida che soltanto le proporzioni fisiche potevano impedire il manifestarsi di una forza pari a quella dell'uomo più robusto. Eppure la sua pelle era così morbida, e non appariva gonfiata dai muscoli. Tutto l'amore che il suo naturale egoismo poteva concedergli, sbocciava ora in Sweyn, destato dall'ardente ammirazione per quella straordinaria straniera. Anzi, nella sua passione, c'era più ammirazione che amore, e dunque Sweyn non si sentiva impedito dall'esitazione dell'amante, da delicate riserve e da dubbi. In modo franco e audace egli la corteggiò con occhiate e parole, e con una destrezza che gli era particolare. Né lei era donna da lasciarsi corteggiare altrimenti. Teneri sussurri e sospiri non avrebbero conquistato il favore del suo orecchio; ma i suoi occhi si accendevano ammirati se udiva narrare un'audace impresa, e per simpatia la sua mano si spostava sull'accetta, e la stringeva. Quel gesto risvegliava ogni volta l'ammirazione di Sweyn; ne attendeva il ripetersi, lo provocava e gioiva nel vederlo. Era splendido il moto di quel polso, sottile e forte come l'acciaio, e della morbida mano che si chiudeva sul manico dell'accetta, pronta ad amministrare la morte. Mosso dal desiderio di sentire su di sé la pressione di quelle dita, l'audace ammiratore le propose di ascoltare una canzone di cacciatori, che veniva eseguita con accompagnamento ritmico di battimani. Subito Sweyn intonò i versi con la sua splendida voce e, mentre il coro attaccava, invitò la sconosciuta a battere le mani contro le sue: nonostante la rapidità del contatto, egli percepì, come sperava, la forza latente, il vigore che faceva vibrare la punta delle dita. Anche lei unì la sua voce a quella degli altri, presa dal fascino del ritmo e del suono. E poi cantò da sola. Per contrasto, o forse per valorizzare i toni caldi e profondi della propria voce, scelse una ballata triste, che si spegneva via via come un canto funebre. Via, lasciatemi andare! Volteggiano intrecci di neve e la buia terra dorme al di sotto. Lontano sulla pianura geme una voce di dolore là dove sarà sepolto il mio bambino...
La vecchia Trella si staccò dal suo angolino, scossa dall'emozione di un resuscitato ricordo. Aguzzò gli occhi velati verso la sconosciuta, e chinò il capo in modo che il suo unico orecchio buono potesse percepire ogni parola della canzone. Alla fine, mormorò con la voce acuta e tremula dei vecchi: «Così cantava la mia Thora. La mia ultima figlia, e la migliore. Che aspetto ha costei, che canta come la mia Thora? Sono azzurri i suoi occhi?». «Azzurri come il cielo.» «Così erano gli occhi della mia Thora. E i suoi capelli sono biondi, pettinati in trecce che le scendono fino alla vita?» «Esattamente», rispose Pelliccia Bianca, e strinse le mani che si protendevano verso di lei, guidandole a toccare per conferma ciò che avevano detto le sue parole. «Come la mia povera Thora morta», ripeté la vecchia, e poi le sue mani si arrestarono sulle spalle coperte di pelliccia, e si chinò in avanti e baciò il volto che la sconosciuta aveva alzato verso di lei, per ricevere un gesto d'affetto. In quell'atteggiamento le colse Cristiano rientrando. Ristette un momento. Dopo la totale oscurità della notte, il morso gelido dell'aria e la fatica silente di due ore di corsa la sua tensione si allentò al tepore della stanza, alla luce, e al mormorio lieto di voci umane. Ma subito una imprevedibile angoscia lo assalì, e intuì la possibilità di essere battuto dall'astuzia e dall'audacia della straniera, come se al momento della morte le rimanesse la capacità di trasformarsi in belva per inghiottirli tutti in un ultimo scatto. Guardò con orrore e pietà quella povera gente semplice, ignara del pericolo che minacciava la loro pace. L'orrenda Cosa, velata dalle sembianze di una splendida donna, costituiva tra loro il centro di un lieto interesse. Persino la povera Trella, la più debole e la più inerme di tutti, era stata imprigionata dal suo fascino. E da un attimo all'altro poteva rivelarsi un mostro orrendo, scatenandosi in quella comunità di donne, di ragazze e di uomini incauti. Soltanto lui era pronto a difendersi. Si sentì barcollare per un attimo, il tempo di un respiro e non di più, mentre sulla sua mente scivolava l'agonia del dubbio. Poi capì che non avrebbe mai rinunciato al suo proposito. Era solo? No, poteva contare anche su Tyr, e allora attraversò la stanza dirigendosi verso l'animale che, come lui, aveva capito.
Il pensiero è così al di fuori del tempo, che pochi secondi soltanto trascorsero da quando Cristiano abbassò il saliscendi a quando sciolse il collare di Tyr. Ma, in quei pochi secondi, le reazioni degli altri furono rapide come la folgore. I vigili occhi di Sweyn si erano posati sul fratello, e subito ogni sua fibra fu ostilmente all'erta. Intuendo, sia pure incredulo, lo scopo di Cristiano nel liberare Tyr, scattò in avanti, travolto dalla collera, pronto ad opporsi alla malvagità del fratello. Accanto a Sweyn si alzò anche Pelliccia Bianca, più pallida del suo mantello, gli occhi accesi e selvaggi. Balzò verso la porta, raccogliendo le vesti attorno a sé. «Il segnale!», ansimò. «Il suono del corno! Devo andare.» E aprì l'uscio. Per un prezioso istante Cristiano esitò con la mano sul collare già allentato di Tyr, pensando che se la Cosa non avesse abbandonato le sue spoglie di donna per assumere forma bestiale, le zanne di Tyr avrebbero ridotto in pezzi il suo onore di maschio. Poi udì la voce di lei e si voltò. Troppo tardi. Mentre varcava la soglia, Cristiano si precipitò in avanti con la fiala dell'Acqua Santa, ma Sweyn gli sbarrò il passo irresistibilmente e, nonostante i suoi sforzi, Cristiano riuscì a liberare soltanto un braccio. Con quel braccio, e sotto la spinta della disperazione, scagliò la fiala. La vide infrangersi sulla porta subito richiusa. Allora, mentre la stretta di Sweyn si allentava e lo stupore appariva sui volti lì attorno, Cristiano gridò: «Dio ci aiuti tutti! È un Lupo Mannaro!». Sweyn protestò: «Bugiardo! Bugiardo! Vigliacco», e le sue mani si strinsero attorno al collo del fratello in una morsa mortale, come se volesse uccidere quelle parole appena pronunciate. Poi, mentre Cristiano si difendeva, lo sollevò da terra e lo scagliò contro il muro. Là Cristiano giacque immobile, ma tanta era la collera che animava Sweyn, da indurlo a calpestare il corpo del fratello, finché la madre li separò gridando: «Vergogna!». Allora Sweyn si tirò in disparte, la fronte corrugata, i denti stretti, mentre Cristiano si alzava, barcollante e stupito. Il suo silenzio fu più di quanto Sweyn si aspettasse, e trasformò la sua collera in disprezzo. «È pazzo!», gridò allontanandosi dal fratello mentre parlava, evitando lo sguardo della madre, colmo di rimprovero per l'aperta manifestazione di un timore che stava celato in lei. Cristiano era troppo esausto per parlare. Il respiro gli usciva affannoso dalle labbra in sibili; i suoi muscoli avevano perduto lo scatto per la lunga fatica. Il suo fallimento recente lo tuffò in una cupa disperazione. Si senti-
va inoltre umiliato per l'attacco del fratello, e sconvolto nell'udire il suo disprezzo espresso senza riserve, poiché si rendeva conto che Sweyn aveva dominato i dubbi e l'eccitazione degli astanti con un gesto di violenza e con un giudizio tagliente ben lontani dall'affetto fraterno. Sweyn nel frattempo osservava Cristiano, stupito di avvertirne sempre lo sguardo su di sé; ed era uno sguardo di disperata angoscia, tale da scoraggiare il più furente aggressore. «Come un cane bastonato!», pensava Sweyn cercando di rianimare il disprezzo contro la crescente pietà. L'osservazione lo indusse a chiedersi come mai Cristiano fosse tanto esausto. Il respiro affannoso e l'inerzia dei muscoli gli rivelarono un lungo sforzo. E poi, come mai quasi due ore di assenza si erano concluse con un comportamento ostile verso Pelliccia Bianca? All'improvviso, i frammenti della fiala gli diedero la chiave del mistero, e indovinò tutto, fissando il fratello con stupore. Dimenticò che Cristiano aveva agito contro Pelliccia Bianca, e ammirò invece la sua velocità e la sua resistenza. Quella sera Sweyn e sua madre parlarono a lungo, dando consistenza al sospetto che Cristiano stesse perdendo l'equilibrio mentale e discutendone la causa evidente. Sweyn infatti, dichiarando il proprio amore per Pelliccia Bianca, insinuò che il fratello, animato da pari passione (poiché erano gemelli in amore come nella nascita), fosse stato indotto dalla gelosia a trasformare l'amore in odio. A un certo punto la ragione non l'aveva più sostenuto, e si era sviluppata una follia pericolosamente minacciosa e aggressiva. Così teorizzò Sweyn convincendo se stesso via via che parlava; convinse poi anche gli altri, semmai avessero avanzato dubbi sulla natura di Pelliccia Bianca; giustificando con ogni mezzo la sua fuga precipitosa, e mettendo a tacere la propria coscienza poiché tale fuga appariva invece senza motivo. Ma, poco tempo dopo, Sweyn perse il proprio vantaggio nell'ondata di orrore che sommerse di nuovo la famiglia. Trella sparì in modo misterioso. La povera vecchia uscì di casa in pieno giorno, per visitare un'amica malata in una casupola oltre il boschetto di lecci. Fu vista per l'ultima volta tra gli alberi, quando si fermò per rimandare alla fattoria la sua accompagnatrice, pregandola di recuperare un oggetto dimenticato. L'allarme si diffuse prontamente, e tutti gli uomini parteciparono alle ricerche. Ritrovarono il suo bastone in un cespuglio presso il sentiero, ma nessuna traccia di lei, perché una tormenta di neve aveva ricoperto ogni cosa. La gente della fattoria fu colta da un tale panico, che nessuno usciva più
da solo. Un pericolo noto si poteva affrontare: ma non quella insidiosa morte invisibile, che aveva falciato un bambino ancora immerso nei suoi giochi e una vecchia già vicina alla tomba. «Rol l'aveva baciata! Trella l'aveva baciata!», ripeteva incessantemente Cristiano in una sorta di ritornello frenetico, finché Sweyn lo trascinò via e lo tenne lontano dagli altri. Ma, da quel momento, tutti i ragionamenti e tutta l'autorità di Sweyn non poterono impedire i sospetti che si accumulavano contro Pelliccia Bianca. Il nome di lei, pronunciato prima con allegro affetto, veniva ora sussurrato soltanto, e con allusioni che Sweyn non riusciva a cogliere, ma che paventava. Per qualche tempo, l'ostilità che divideva i due fratelli si manifestò in Sweyn con una rigida indifferenza, in Cristiano con un pesante silenzio e una nervosa sorveglianza del suo gemello. Su Cristiano infatti, oltre all'angoscia, pesava il disprezzo di Sweyn, e il ricordo della loro violenta lite era una continua fonte di dolore. Sweyn, invece, più autosufficiente e meno sensibile, non poteva capire quanto fosse profonda la ferita inferta al fratello, e anzi, l'incessante sorveglianza di costui lo irritava. Per allontanare da sé quell'atmosfera di sospetto, pensò di fare qualche gesto di riconciliazione, e la mossa gli riuscì perfettamente. Un po' di gentilezza, qualche piccola attenzione, e subito Cristiano reagì con gratitudine, con un solievo che avrebbe commosso Sweyn se fosse riuscito a capire tutto; invece questo aumentò il suo segreto disprezzo. Tanto successo aveva avuto la diplomazia di Sweyn che, quando una sera egli trasmise a Cristiano un messaggio che lo convocava in un luogo poco distante, il fratello non ne mise in dubbio l'autenticità. E, quando non trovò nessuno al punto convenuto, pensò soltanto a un errore o a un equivoco, e si dispose al ritorno. Giunto in vista della fattoria, che giaceva tra la neve, il ricordo della notte in cui aveva seguito le tracce del lupo sorse vivo nella sua memoria, accompagnato da un indefinito ma angoscioso sospetto. Strinse con maggior forza lo spiedo per la caccia all'orso che portava con sé; tutti i suoi sensi erano all'erta, i muscoli tesi; l'eccitazione lo spingeva in avanti, la prudenza lo tratteneva, ed entrambe dettarono il ritmo della sua corsa verso una soluzione che ormai gli sembrava a portata di mano. Mentre si avvicinava all'ingresso del cortile, un'ombra leggera si mosse e sparì, come se un lembo di neve avesse acquistato una forza autonoma. U-
n'altra ombra scura si erse davanti a Cristiano. Sweyn gli sbarrava il passo, mentre l'ombra sfuggita poc'anzi doveva essere certamente Pelliccia Bianca. Erano stati insieme, vicinissimi. Forse Sweyn l'aveva stretta tra le braccia e baciata? La luna non brillava, ma le stelle emanavano luce sufficiente per rivelare che il volto di Sweyn era acceso dall'emozione. Si irrigidì vedendo il fratello, e gli si pose un dilemma: se Cristiano aveva visto tutto, come affrontarne la collera? Con autorità? Con indifferenza? Esitò tra le due ipotesi, e Cristiano incalzò: «Era Pelliccia Bianca?», chiese. «Sì, ebbene?», rispose Sweyn in un tono che implicava la sua possibilità di passare subito all'azione. Cristiano chiese: «L'hai baciata?» e quella domanda inattesa colpì Sweyn come una frustata, incrinò la sua audacia temeraria. Arrossì ancor più, eppure un sorriso sulle sue labbra rivelò la soddisfazione per il suo recente trionfo. Se davvero tra lui e il fratello fosse esistita la rivalità che egli immaginava, la sua espressione insolente sarebbe bastata per scatenare una tempesta. «Hai il coraggio di chiedermelo?», disse. «Sweyn, Sweyn, io debbo saperlo! L'hai baciata?» L'angoscia e la disperazione della sua voce irritarono Sweyn, poiché lui le interpretò come segni di una gelosia tanto travolgente da risultare intollerabile. «Sciocco!», gridò, perdendo il controllo di sé. «Conquistati anche tu una donna da baciare, e lascia in pace la mia. Non permetterò mai che tu baci quella che ho baciato io.» Allora Cristiano capì in quale equivoco fosse caduto il fratello. «Io... io...», gridò. «Io dovrei baciare Pelliccia Bianca, quella Cosa mortale? Sweyn, ma sei cieco, pazzo? Io voglio salvarti da lei, dal Lupo Mannaro!» Sweyn perse il lume degli occhi a quella rinnovata accusa, suggerita, come egli pensava, dal desiderio di vendetta, e per la seconda volta i due fratelli vennero violentemente alle mani. Ma Cristiano era ora troppo disperato per rispettare gli scrupoli; poiché in un'illuminazione della mente aveva intravisto una possibilità, e per essere libero di seguirla doveva immobilizzare il fratello. Grazie al cielo era armato, e dunque pari a Sweyn. Faccia a faccia con il suo avversario, lo costrinse ad alzare le braccia
premendolo con lo spiedo da orsi, e poi lo colpì allo stomaco così forte che Sweyn cadde a terra. A quel punto l'imbattibile corridore balzò via, per inseguire una vaghissima speranza. Sweyn, rialzandosi, fu al tempo stesso irritato e stupito da quella fuga, poiché sapeva che nel cuore del fratello non si celava ombra di codardia, e non era dunque possibile che avesse evitato un combattimento per timore della disfatta, o perché il disprezzo del probabile vincitore sarebbe stato umiliante. Sweyn si rendeva anche conto che un tentativo di inseguimento si presentava inutile; doveva dunque covare il suo rancore finché si fosse ripresentata un'occasione propizia. Poiché Pelliccia Bianca si era allontanata alla sua destra e Cristiano alla sua sinistra, la possibilità di un incontro tra loro non lo sfiorò nemmeno. Frattanto Cristiano, regolandosi su una vaga ombra che aveva intravisto sul crinale oltre la fattoria proprio mentre Sweyn lo attaccava, puntava tutte le sue speranze su un'unica carta: la propria velocità. Se ciò che egli aveva visto era davvero Pelliccia Bianca, immaginò che si dirigesse verso gli aperti spazi della pianura; e vi era una possibilità che, imboccando una scorciatoia e superando con un balzo uno stretto crepaccio, lui riuscisse a raggiungerla o anche a superarla. A quel che sarebbe accaduto poi, preferiva non pensare. Ecco ormai alle sue spalle quella rapida, fulminea corsa, e il rischio di morte mentre superava il crepaccio; si fermò in un avvallamento per riprendere fiato e per guardarsi attorno: sarebbe giunta? Era già passata di lì? Poi la vide arrivare. Avanzava con una rapida, morbida, silente andatura che non era né passo né corsa, le braccia avvolte nella pelliccia e strette al petto, i lembi del berretto richiusi attorno al viso; lo sguardo fisso su una distanza remota. Poi il ritmo del suo procedere fu bruscamente interrotto da Cristiano. «Pelliccia!» Si fermò di botto udendo il suo nome così mutilato e si trovò faccia a faccia con il fratello di Sweyn. I suoi occhi brillarono. Le sue labbra si sollevarono scoprendo i denti. La metà del suo nome, caricata di significato maligno dal tono di Cristiano, l'avvertì che si trovava davanti a un nemico. Tuttavia lasciò ricadere con grazia il mantello, e parlò come una donna gentile. «Che cosa vuoi?» Cristiano rispose con una solenne e terribile accusa:
«Hai baciato Rol, e Rol è morto! Hai baciato Trella, e Trella è morta! Hai baciato Sweyn, mio fratello, ma Sweyn non morirà!», poi aggiunse: «Tu puoi vivere fino a mezzanotte». Il balenio dei suoi denti e dei suoi occhi si ravvivò per un attimo, e per un attimo la mano si allungò verso l'accetta. Poi, senza una parola, Pelliccia Bianca, si voltò e balzò via agile sulla neve. E con uno scatto Cristiano la seguì, mantenendosi alle sue calcagna. Così corsero insieme, in silenzio, verso le vaste pianure coperte di neve dove nessun essere vivente all'infuori di loro si muoveva alla luce delle stelle. Mai come in quel momento Cristiano apprezzò la propria forza. Il dono della velocità e l'allenamento avevano ora per lui un valore inestimabile. Sebbene la mezzanotte fosse ancora lontana, egli nutriva fiducia che quella Cosa Bianca non gli sarebbe sfuggita. Poi, giunto il momento della trasformazione, quando le sembianze femminili non avrebbero più frenato come uno scudo la mano dell'uomo, lui avrebbe potuto uccidere o essere ucciso per salvare Sweyn. Aveva colpito il diletto fratello per estrema necessità, ma non poteva, per quanto grave fosse la ragione, colpire una donna. Corsero per un miglio, per due; Pelliccia Bianca in testa, Cristiano sempre a uguale distanza, così vicino che, di quando in quando, lo sfiorava un lembo di pelliccia. Nessuno dei due disse una parola. Lei non voltò mai il capo per guardarlo né cambiò direzione per sfuggirgli; avanzava in linea retta, sul terreno liscio o accidentato, conscia della vicinanza di Cristiano per il ritmico rumore dei suoi passi, e del suo respiro. Ad un tratto Pelliccia Bianca affrettò il passo. Fin dal principio Cristiano aveva ammirato la sua velocità, pur esultando nella certezza della propria superiorità. Ma, quando essa forzò l'andatura, lui si trovò messo a dura prova. Il suo animo tuttavia non cedette né la speranza diminuì nel suo cuore. E così continuò quella corsa disperata. Di quando in quando, Cristiano calcolava, dalla posizione delle stelle, quanto mancasse a mezzanotte: molto, ancora molto! Pelliccia Bianca proseguiva senza cedimenti, anch'essa convinta della propria forza, anch'essa decisa a superare indenne la fatale mezzanotte. E Cristiano reggeva alla fatica. Non poteva fallire, no non poteva! Vendicare la morte di Rol e di Trella sarebbe già stato un motivo sufficiente, ma per Sweyn avrebbe fatto anche di più. Lei aveva baciato Sweyn e Sweyn non
poteva morire: pensando alla salvezza di Sweyn lui non doveva cedere. Mai vi fu corsa come quella, nemmeno quando nell'antica Grecia un uomo e una fanciulla gareggiarono insieme con i loro destini come posta; poiché la velocità rimase costante per un'ora, poi per due, mentre le stelle sorgevano e tramontavano. Poi Cristiano vide e udì qualcosa che lo trafisse di paura. Là dove pochi alberi costeggiavano un declivio, qualcosa si mosse e ululò, e un'ombra nera si allargò sulla neve: era un branco di lupi all'inseguimento. Lui non avrebbe avuto paura delle bestie sole, convinto com'era di distanziarle in velocità, per quanto avessero quattro gambe. Ma temeva gli artifici di Pellicci Bianca, poiché nulla le impediva di avvalersi delle zanne feroci di quei lupi, suoi fratellastri naturali. Lei non fece alcun cenno agli animali, ma Cristiano, ubbidendo a un impulso e per assicurarsi che lei non gli sfuggisse, afferrò un lembo della sua pelliccia, sempre correndo. Lei si voltò con un ringhio, gli occhi furenti. L'ascia balenò nell'aria. Cristiano parò il colpo con lo spiedo, ma in modo incompleto, e l'ascia gli ferì il polso, costringendolo a mollare la presa. Proseguirono la corsa come prima, e Cristiano non perse terreno, sebbene la sua mano sinistra sanguinasse. Quel ringhio, per quanto addolcito da una gola femminile, la furia rivelata nel balenio degli occhi e dei denti, e la violenza con cui aveva vibrato l'ascia, distrassero Cristiano dal pensiero dei lupi che lo inseguivano da vicino, e si rese conto che un pericolo infinitamente maggiore lo precedeva, sotto le spoglie di quella Cosa mortale. Quando si voltò per guardarsi alle spalle, il branco si scostò bruscamente, e gli ululati degli inseguitori si mutarono in guaiti e gemiti. Tanto orrida era quella creatura per l'uomo e per le bestie. Si era avvolta più strettamente nella pelliccia, in modo che non ricadesse dietro di lei ma le giungesse appena alle ginocchia, senza con ciò spezzare il ritmo della sua splendida corsa. Teneva la testa alta come sempre, le labbra strette, le narici aperte. E non dava segno di stanchezza, nonostante lo sforzo implacabile. In Cristiano, invece, la fatica era evidente. La testa tendeva a ricadergli sul petto e il respiro gli usciva dalla bocca in stentati singhiozzi; lo spiedo da caccia gli sembrava un inutile peso. Il suo cuore pulsava come un martello, e un velo gli offuscava il cervello impedendogli di rendersi conto delle sue miserabili condizioni; ferito, disarmato, inseguiva quella Cosa che era una donna disperata e munita di accetta, e che poteva trasformarsi
da un momento all'altro in una belva con zanne ancora più pericolose. Le stelle, inclinandosi lentamente, indicavano che mancava un'ora a mezzanotte. La sua mente era così velata, che Cristiano ebbe l'impressione che Pelliccia Bianca fuggisse dalla posizione stellare, superandone il lento progredire con una corsa che ormai durava da giorni attorno al circolo polare, e che sarebbe durata all'infinito, a meno che lei rallentasse o che Cristiano cedesse. Ma lui non avrebbe ceduto. Da quanto tempo stava pregando perché le forze lo reggessero? Aveva cominciato quella corsa così fiducioso da non ritenere necessaria la preghiera; ora invece gli pareva l'unico modo per impedire che il cuore gli squarciasse il petto e che il suo cervello si obnubilasse del tutto. Un dolore acuto come un morso gli tormentava la mano sinistra ferita; non poteva liberarsene, ma pregò perché anche quello si alleviasse. Le limpide stelle in cielo rabbrividirono e Cristiano ne capì il perché: rabbrividivano vedendo ciò che stava dietro di lui. Lui non l'aveva mai intuito, prima, che le strane Cose si nascondessero agli occhi degli uomini assumendo la forma innocente di macchie d'alberi coperte di neve. Ma eccole che ora sgusciavano fuori dalle loro ingannevoli apparenze per seguirlo, e ridere della sua impotenza a strappare una Cosa sorella alla sue mentite spoglie. Lui sapeva che l'aria attorno a lui era affollata; udiva il ronzio di innumerevoli sussurri, ma i suoi occhi non potevano vederle, erano troppo agili e astute. Eppure non aveva dubbi sulla loro presenza; aveva visto monticelli di neve dileguarsi al suo passaggio; aveva visto gli alberi avvitarsi su se stessi in una immobilità che li rendeva irriconoscibili dietro i cespugli. Dopo quelle constatazioni, Cristiano notò che le stelle avevano ripreso il loro corso, e una coltre infinita di silenzio si era stesa sul mondo gelido e immobile, interrotta soltanto dal fruscio della falcata delle gambe che fuggivano, e di quelle che inseguivano, e dall'affannoso respiro di Cristiano. Per qualche istante egli capì che il suo unico scopo era di mantenere la velocità nonostante la fatica e il dolore, e di negare con ogni sua forza la possibilità che la donna gli sfuggisse o lo distanziasse prima della mezzanotte. Un incidente turbò il ritmo della corsa. Pelliccia Bianca fece un brusco balzo di lato e Cristiano, colto di sorpresa, si trovò a un passo da un pozzo, trascinato dal proprio impeto incontrollabile. Ma riuscì ad afferrarle il braccio destro, stringendolo saldamente nella propria mano, e rotolarono
assieme fin sul ciglio. L'istinto di autodifesa di Pelliccia Bianca fu così vigoroso, che bastò a controbilanciare lo slancio di Cristiano, trattenendo entrambi a un passo dal precipizio. Poi, prima che egli fosse certo di aver evitato la morte con un tuffo nel vuoto, vide la donna ergersi in uno scatto di pallida furia e, poiché il suo braccio destro era ancora imprigionato, con il sinistro vibrò un colpo d'ascia. L'impatto fu tanto violento da spezzare un osso del braccio di Cristiano, che ricadde impotente. Superando il dolore, il giovane balzò in avanti di nuovo, per recuperare i pochi metri di vantaggio che la donna si era già assicurata su di lui. Il pericolo evitato e l'improvviso smacco acuirono tutte le sue facoltà. Lui sapeva che ciò che stava inseguendo era senza dubbio una incarnazione della Morte; ferito e indebolito, era completamente alla sua mercé, se lei se ne fosse resa conto decidendo di approfittarne. Disperando ormai di riuscire a vendicare, o a salvare chicchessia, fu la forza della sua angoscia per la sorte di Sweyn che lo spinse a insistere nella corsa per precedere il suo gemello in quella morte segnata da un bacio. Doveva inseguire la Cosa fino alla mezzanotte, per vederla abbandonare quelle spoglie di donna, menzognere e seduttrici, e assumere quelle della bestia: ecco quanto restava dei suoi iniziali e ottimistici propositi. L'ultima ora prima della mezzanotte aveva perso metà dei suoi quarti e le stelle si innalzavano verso i minuti fatali, e di nuovo il suo cuore contratto, il suo cervello velato, e il dolore che gli trafiggeva entrambe le braccia, cospirarono per minare quella forza di volontà che, sola, gli permetteva di muovere i piedi. Il corpo di Pelliccia Bianca era così strettamente avvolto nel mantello che nemmeno un lembo di pelliccia si librava dietro di lei. Procedeva china in avanti, perdendo la compostezza eretta del vero corridore. A volte avanzava a balzi, affrettando l'andatura e costringendo Cristiano a sforzi disumani. Stupefatto, lui ormai dubitava della propria identità e della propria autentica forma. Lui non poteva essere veramente un uomo, come la Cosa sfuggente non era veramente una donna; lui aveva assunto l'aspetto di un uomo, ma che cosa vi si celasse dentro, non lo sapeva. E non sapeva nemmeno quale fosse la reale forma di Sweyn. Sweyn giaceva ai suoi piedi, là dove lui lo aveva colpito, suo fratello, lui! Era dovuto passare sul suo cor-
po per inseguire colei che aveva baciato Sweyn e che correva così veloce: «Sweyn... Sweyn.. Sweyn!». Perché le stelle non rabbrividivano più? Era certo giunta la mezzanotte! L'indomabile Cosa gli lanciò un'occhiata selvaggia e rise con scherno e trionfo. Cristiano ne capì il perché: entro pochi secondi, avrebbe potuto sfuggirgli per sempre. Da un lato il terreno sprofondava in un crepaccio ghiacciato; dall'altro si alzava una ripidissima parete di roccia; fra i due, c'era appena lo spazio per appoggiare un piede, ma non per reggere il peso di un corpo. Tuttavia, un cespuglio di ginepro, che si protendeva più in alto, offriva un buon appiglio per chi fosse stato abbastanza audace da aggrapparvisi per balzare oltre, verso la salvezza. Sebbene stessero trascorrendo gli ultimi secondi vitali, lei non resistette alla tentazione di lanciare quell'occhiata al suo inseguitore, e di ridere con disprezzo. Quella provocazione suscitò in Cristiano uno spasimo di volontà convulsa. Balzò in avanti, superò la donna prima che la sua risata si fosse spenta e le sbarrò il passo. Lei si precipitò su di lui, disperata; abbozzò una finta con il braccio destro, e poi scattò come una belva pronta ad uccidere. E lui, con un braccio sano e una mano impotente, e con una mano salda e un braccio rotto, riuscì a trattenerla. Caddero insieme. E, poiché sentiva che le forze gli sfuggivano dalle membra, Cristiano si aggrappò con i denti alla sua tunica, all'altezza delle ginocchia, proprio mentre Pelliccia Bianca credeva di averlo respinto. Rapida come il fulmine, afferrò l'ascia e lo colpì al collo, profondamente, una, due volte, e il sangue di lui schizzò fuori irrorandole i piedi. Le stelle toccarono la mezzanotte. L'urlo di morte che Cristiano udì non era uscito dalla sua bocca, che ancora stringeva la tunica. Fu un urlo che cominciò come strillo di donna e si chiuse sul guaito di una bestia. E, prima che l'oscurità scendesse sui suoi occhi morenti, Cristiano vide infatti la donna che lasciava il posto alla Cosa; o meglio la vita che lasciava il posto alla Morte, incomprensibilmente. Non avrebbe mai immaginato che nemmeno l'Acqua Santa avesse tanto potere di distruggere il male quanto il sangue sgorgato da un cuore puro in un atto di sacrificio e di devozione. La sua vera identità nascosta, che tanto aveva desiderato conoscere, divenne palpabile, identificabile. E gli apparve così: la grande, lieta, speranza di aver salvato il proprio fratello, troppo vasta per essere contenuta nella
forma di un unico uomo, cercava ora un'incarnazione infinita come le stelle. Di fronte a quella autentica realtà, che importanza aveva se il cervello dell'uomo affondò nel nulla, se il suo corpo non riuscì a sopportare il dolore del suo cuore e lo lasciò sfuggire dal rivolo rosso che gli sgorgava dal collo, se un velo nero cancellò per sempre la sua vista, l'udito, i sensi? Nell'alba grigia, Sweyn seguiva le orme di un uomo, di un uomo in corsa, come poté capire dal volume di neve spostata; e la direzione di quelle orme lo incuriosì, poiché più oltre si apriva un crepaccio. Anche la lunghezza della falcata attirò la sua attenzione: era esattamente simile alla sua. Capì allora che stava seguendo Cristiano. Preso dalla collera, si era illuso di rimanere indifferente all'assenza del fratello, prolungatasi ormai per tutta la notte; ma ora, vedendo le tracce di quella corsa disperata, fu colto da una sensazione di stupore e sgomento. Avrebbe dovuto aver più cura di quel suo povero, squilibrato gemello, che forse si era precipitato verso la morte. Il suo cuore sussultò quando giunse nel punto dove il crepaccio era stato superato con un balzo. Sweyn aggirò l'ostacolo e, tornato sull'altro lato, vide che le orme continuavano in linea retta. Sweyn esitò riflettendo; era irritato perché un uomo era riuscito a compiere quel balzo là dove lui non si era arrischiato a seguirlo; e seccato per essersi lasciato sopraffare da penose emozioni cercando invano di indovinare quale scopo perseguisse Cristiano nel lanciarsi in una simile impresa. Seguì quindi ancora le tracce del fratello, finché giunse al punto in cui le orme si raddoppiavano. Le seconde erano più piccole: erano orme di donna, sebbene la falcata apparisse più ampia di quanto di solito le gonne femminili consentissero. E se fosse stata Pelliccia Bianca? Un orrendo sospetto lo colse, così pauroso che si sforzò di non crederci. Eppure il suo viso divenne grigio come la cenere, e respirò con affanno per acquietare i battiti del suo cuore. Incredibile? Un esame più accurato gli rivelò che la donna aveva a un tratto aumentato la sua velocità, poiché le orme erano più profonde in corrispondenza della noce del piede, e più leggere in corrispondenza del tallone. Incredibile? C'era un'altra donna all'infuori di Pelliccia Bianca che potesse correre così? Il dubbio divenne certezza: stava seguendo le tracce lasciate da Pelliccia Bianca mentre fuggiva davanti a Cristiano. Quel crimine gli infiammò il cuore e il cervello, colmandoli di indigna-
zione. Un tale crimine commesso dal fratello, finora tanto amabile e lodevole, ma pazzo nella sua debolezza! Avrebbe ucciso Cristiano; anche se avesse avuto tante vite quante le orme lasciate sulla neve, gliele avrebbe strappate tutte, perché così voleva la sua sete di vendetta. In una tempesta di odio omicida continuò speditamente, guidato dalle orme che spiccavano chiarissime. Coprì un miglio dopo l'altro col petto ansante; ancor più tragica, degna di rispetto, gli sembrava quella splendida prova di Pelliccia Bianca che aveva retto tanto a lungo senza lasciarsi superare dalla famosa velocità di Cristiano. L'amore e l'ammirazione di Sweyn crebbero a dismisura, e con essi il dolore e la rabbia. Là dove le tracce erano inconfondibili, correva con tale prodigalità da sfiancarsi, e poi a tratti si trascinava pesantemente; a volte perdeva di vista le orme sul ghiaccio di uno stagno o in un punto battuto dal vento; ma tanto diritta era stata la linea seguita da Cristiano e da Pelliccia Bianca, che poco più oltre Sweyn ricuperava la loro pista. Trascorsero le ore fino alla metà di quel giorno d'inverno, e Sweyn giunse nel luogo dove la neve appariva calpestata da molte zampe, che si avvicinavano e di nuovo si allontanavano. Lupi! Lupi in caccia che avevano rinunciato alla preda! Che cosa incredibile! Poco più oltre trovò lo spiedo da caccia di Cristiano. La neve era macchiata di sangue, ma le tracce riprendevano ancora. Un rauco grido di esultanza uscì dalle labbra di Sweyn: «Ah, Pelliccia Bianca, mio povero, eroico amore! Hai vibrato un bel colpo!». La vista del sangue lo eccitò quasi fosse un animale da preda. Impazziva per il desiderio di stringere Cristiano alla gola fino all'ultimo respiro, o di picchiarlo, pugnalarlo a morte, o di farlo a pezzi, e allora, soltanto allora, avrebbe pianto come un bambino, come una fanciulla, sull'ingrata sorte del suo povero amore perduto. Avanti, ancora avanti, teso sulle tracce di quei due superbi corridori, stupefatto per la loro forza di resistenza, ma ignaro della loro velocità, poiché avevano coperto nelle tre ore prima della mezzanotte la distanza da lui percorsa tra un crepuscolo e l'altro. La luce del giorno ormai scemava quando giunse a un vecchio pozzo e vide come quei due avessero lottato disperatamente per evitare di precipitarvi. Nuove macchie di sangue lo spinsero all'odio contro il suo infame fratello; e le seguì fino al punto in cui, coagulato dal freddo, il sangue aveva smesso di gocciolare dalla ferita; si rallegrò a quella prova che dimostrava come Cristiano fosse stato lacerato profondamente, sentendo sorge-
re in sé il desiderio di colpirlo di nuovo e più efficacemente per appagare la sua brama omicida. Cominciò tuttavia a intuire che in tanta disperazione aveva tenuto vivo un germe di speranza e che ora tale germe si stava dilatando alimentato dal sangue del fratello. Proseguì quasi alla cieca, mosso ora da un accesso di speranza, ora da un accesso di angoscia, spasmodicamente teso verso la meta, per quanto terribile fosse, e oppresso dalla stanchezza di tutte le miglia percorse per giungervi. E la luce scivolò via dal cielo, lasciando il posto alle incerte stelle. Sweyn arrivò alla fine del suo inseguimento. Due corpi giacevano in poco spazio. Uno era quello di Cristiano, ma l'altro non era quello di Pelliccia Bianca. Là dove le sue orme cessavano, si trovava un grande lupo bianco. A quella vista la forza di Sweyn ricevette un colpo terribile; la sua anima e il suo corpo stramazzarono gemendo. Le stelle brillavano limpide e intense quando le sue membra immobili ebbero un brivido di coscienza. Debolmente si trascinò accanto al fratello morto, posò le mani su di lui, e rimase in quella posizione, senza osare guardare oltre. Era freddo, rigido, morto da ore. Eppure, quel cadavere era il suo unico riparo in un momento tanto orribile. L'anima di Sweyn, messa a nudo, tremava, aggrappandosi al cadavere con il suo bisogno di aiuto. Poi Sweyn si rizzò in ginocchio, sollevando il cadavere. Cristiano era caduto nella neve a faccia in giù, le braccia spalancate, e così il gelo lo aveva irrigidito. Era una posizione bizzarra, orrenda, resistente alla pressione di Sweyn, che lo depose di nuovo e si chinò per afferrarlo più in basso, con un lungo gemito partito dal cuore. Quando infine trovò la forza per sollevare il corpo del fratello e reggerlo tra le braccia, ben stretto al suo petto, cercò di affrontare la Cosa che giaceva più oltre. Quella vista gli riempì le membra di orrore e di paura. I sensi gli sarebbero venuti meno per pura codardia, se non avesse attinto energia dalle spoglie di Cristiano; così costrinse i suoi occhi a reggere allo spettacolo, e il suo cervello a registrare l'aspetto della Cosa. Non presentava nessuna ferita, soltanto sangue ai suoi piedi. Le forti mascelle, contratte in un selvaggio sogghigno, erano irrigidite dalla morte. E il suo bacio... non riuscì più a tollerare quello spettacolo, e si voltò senza guardarsi alle spalle. Il morto che reggeva tra le braccia, pur avendo piena coscienza di quel-
l'orrore, l'aveva seguito e affrontato per amor suo. Per amor suo aveva accettato l'agonia e la morte; sul suo collo si apriva un'atroce ferita, e un braccio e una mano erano coperti di sangue. Per amor suo! Lo conosceva soltanto ora da morto, come mai lo aveva conosciuto in vita: pronto a dare tutto se stesso per amore e per devozione. Ora Sweyn agognava all'annichilimento, pur di cancellare il tormento di sapersi tanto indegno di un amore così forte. La gelida pace della morte su quel viso lo affascinava. Non osò sfiorarlo con le labbra che ormai malediceva, le labbra insozzate dal bacio di quell'orrore che era stata la Morte. Si alzò faticosamente in piedi, sempre reggendo Cristiano. Il cadavere rimase rigido, gli occhi non completamente aperti, la testa un poco inclinata di lato, e le braccia spalancate. Era l'immagine di un crocifisso, e le sue mani insanguinate lo confermavano. Così il vivo e il morto ripercorsero quella pista che l'uno aveva affrontato in uno slancio d'amore e l'altro in uno slancio di odio. Per tutta la notte Sweyn arrancò nella neve, reggendo il peso del cadavere di Cristiano, ricalcando le orme che aveva seguito odiando e maledicendo con furia omicida quel fratello che, nel frattempo, aveva dato la vita per lui. IL LUPO Le Luop di Guy De Maupassant 1882 Ecco quel che ci raccontò il vecchio Marchese d'Arville, al termine del pranzo di Sant'Uberto in casa del Barone des Ravels. Durante la giornata avevamo ridotto agli estremi un cervo. Il Marchese era il solo fra i commensali che non avesse partecipato alla caccia, perché non lo faceva mai. Per tutta la durata della lunga cena, non avevamo fatto altro che parlare di stragi di animali. Persino le signore si interessavano ai racconti sanguinari e spesso inverosimili; chi raccontava dava anche una rappresentazione mimica degli attacchi e delle lotte contro gli animali, agitava le braccia e faceva rimbombare la voce. Il Signor d'Arville parlava con proprietà, persino con qualche tono poetico anche se un po' retorico, ma pieno d'effetto. Chissà quante volte aveva ripetuto la narrazione della storia perché la esponeva con fluidità, senza esitare, su parole scelte abilmente per suggerire vive immagini.
«Signori, io non sono mai andato a caccia, mio padre nemmeno, e neanche il nonno e il bisnonno. Questi era figlio d'un uomo che era stato un cacciatore più accanito di tutti voi. Morì nel 1764 e vi dirò in che modo. Si chiamava Jean, era sposato e padre d'un ragazzo che è stato il mio trisavolo. Abitava insieme al fratello minore, François, un nostro castello in Lorena, in mezzo a una foresta. François d'Arville non si era sposato per la passione della caccia. Dal primo all'ultimo giorno dell'anno, i due fratelli andavano a caccia senza tregua e senza stancarsene mai. Amavano soltanto la caccia, non comprendevano che la caccia, non parlavano d'altro e vivevano solo per essa. Nei loro animi c'era solo questa passione terribile, inesorabile. Li bruciava, li dominava totalmente, non lasciando posto per altro. Avevano proibito a chiunque di disturbarli quand'erano a caccia, qual che ne fosse il motivo. Il mio trisavolo era nato mentre suo padre cacciava la volpe. Jean d'Arville non interruppe la rincorsa, ma imprecò: "Accidenti! quel cretino avrebbe potuto aspettare l'hallalì!". Suo fratello François si mostrava ancora più appassionato di lui. All'alba andava a vedere i cani, passava poi ai cavalli, e quindi sparava qualche colpo ai volatili nei dintorni del castello sino al momento di andare a inseguire qualche animale di grossa taglia. In paese li chiamavano "il Signor Marchese" e "il Signor Cadetto" poiché, per la nobiltà d'una volta, non si faceva questione, come per i nobili di recente nomina, per i quali oggi s'è soliti stabilire una gerarchia verso il basso; infatti il figlio d'un Marchese non è più Conte, né quello d'un Visconte Barone, né il figlio d'un Generale Colonnello sin dalla nascita. Ma la meschina vanità del giorno d'oggi trova qualche vantaggio in questi compromessi. Torno ai miei antenati. Erano, così dicono, molto alti, d'ossatura enorme, pelosissimi, violenti e vigorosi. Il Cadetto, ancora più alto del Maggiore, aveva una voce tanto robusta che, secondo una leggenda di cui era orgoglioso, non c'era foglia nella foresta che non tremasse se si metteva a gridare. E quando tutti e due salivano a cavallo per andare a caccia, vedere quei due giganti inforcare gli arcioni sui loro purosangue doveva essere uno spettacolo superbo. Ora, verso la metà dell'inverno del 1764, il freddo fu talmente eccezionale che i lupi divennero feroci. Attaccavano i contadini isolati, la notte gi-
ravano attorno ai casolari, urlavano dal tramonto all'alba e massacravano tutte le bestie nelle stalle. Ben presto si sparse la voce d'un lupo colossale, dal pelame grigio chiaro, quasi bianco, che aveva divorato due piccini, azzannato il braccio a una donna, sgozzato tutti i cani da guardia del villaggio e che s'infilava senza paura sotto i recinti per venire a fiutare presso le porte. Tutti i contadini dicevano d'aver sentito il suo soffio potente che faceva tremolare la luce delle candele. L'intera provincia ne era terrorizzata. Appena faceva notte, nessuno aveva più il coraggio d'uscire di casa. Le tenebre sembravano essere la magica dimora dell'animale. I fratelli d'Arville decisero di stanarlo e di ucciderlo. Invitarono a questa caccia tutti i nobili della zona. Inutilmente. Per quanto si battessero i boschi e si frugasse ogni macchia, non lo s'incontrò mai. Furono uccisi dei lupi, ma non quello. E tutte le notti che seguivano quelle battute, come se avesse voluto vendicarsi, l'animale attaccava qualche viandante o faceva strage di bestiame sempre in posti lontani da dove lo avevano cercato. Una notte riuscì a penetrare nel porcile del castello d'Arville e divorò i due esemplari più pregiati. Incolleriti, i due fratelli considerarono il fatto come una sfida del mostro, come un'offesa diretta a loro. Presero tutti i segugi più robusti e abituati alla caccia grossa e si misero a caccia con l'animo pieno di furore. Dall'alba al momento in cui il sole imporporato si cela dietro i grandi alberi spogli, batterono la foresta là dov'è più fitta senza trovarlo. Alla fine tutti e due, furiosi e depressi, stavano tornando al passo dei cavalli percorrendo un viale bordato da alti cespugli, e si stupivano d'esser stati depistati da quel lupo, presi all'improvviso da un timore immotivato. Il Maggiore affermava: "Non è una bestia come le altre. Si direbbe che è capace di pensare come un uomo". Gli rispose il Cadetto: "Forse dovremmo far benedire un proiettile dal Vescovo nostro cugino, oppure pregare qualche prete di dire le parole opportune". Poi tacquero. Jean riprese: "Guarda com'è rosso il sole. Questa notte il grande lupo procurerà qualche disgrazia". Non aveva finito di parlare, quando il cavallo gli si impennò, mentre
quello di François prese a scalciare. Una siepe coperta da foglie secche s'abbatté davanti a loro e apparve una colossale bestia grigia che s'inoltrò subito nel bosco. I due fratelli lanciarono un rauco grido di gioia e, curvandosi sull'incollatura dei loro forti cavalli, si buttarono in avanti e spinsero con tutto il peso dei loro corpi; li lanciarono a una tale andatura, incitandoli, spronandoli in un delirio di gesti, di richiami, di pungolamenti talmente sfrenato, che quei robusti cavalieri sembravano sostenere pesanti animali tra le cosce e sollevarli come se stessero per volare. Corsero così, ventre a terra, distruggendo gli arbusti, scavalcando i fossati, superando i pendii, calandosi nelle forre e suonando il corno a pieni polmoni dietro ai servi e ai cani. Ed ecco che in quella cavalcata a perdifiato il mio antenato andò a battere con la fronte contro un ramo enorme che gli spaccò il cranio; e cadde a terra morto sul colpo, mentre il cavallo imbizzarrito s'era adombrato ed era sparito nel buio della foresta. Il minore dei d'Arville si fermò di colpo, saltò a terra, prese il fratello tra le braccia e si rese conto che dalla ferita fuoriusciva della materia cerebrale mista al sangue. Si sedette allora accanto a quel corpo, poggiò sui suoi ginocchi quel capo sfigurato e vermiglio e aspettò contemplando il volto immobile del fratello maggiore. A poco a poco fu preda della paura, una paura strana che non aveva ancora mai provato, paura del buio, della solitudine, della foresta deserta e anche di quel lupo stregato che era stato la causa della morte del fratello per vendicarsi di loro. Le tenebre infittivano, e il freddo acuto faceva scricchiolare gli alberi. Rabbrividendo, François si rialzò, incapace di rimanere più a lungo in quel luogo e rendendosi conto che stava per venir meno. Non s'udiva più niente, né guaiti di cani, né suoni di corno, tutto era silente fino all'invisibile orizzonte; e questo silenzio tetro della gelida sera aveva qualcosa di spaventevole e di innaturale. Prese tra le sue mani da gigante il corpo di Jean, lo sollevò e lo sistemò di traverso sulla sella per poterlo riportare al castello; poi riprese lentamente il cammino, con l'animo sconvolto come se fosse ebbro, incalzato da immagini orrende e sorprendenti. All'improvviso, sul sentiero invaso dal buio notturno, passò un corpo gigantesco. Era il lupo. Un fremito di spavento scosse il cacciatore, qualcosa di freddo, come una goccia d'acqua, gli scivolò sulla schiena e, come un
monaco tentato dal demonio, egli si fece un gran segno di croce, perdendosi d'animo per l'inatteso ritorno della belva raminga. Ma gli occhi gli si posarono sul corpo inerte steso davanti a lui e subito, con brusco passaggio dal timore all'ira, fu scosso da un fremito di incontenibile rabbia. Così pungolò il cavallo e si lanciò dietro il lupo. Lo seguì nel bosco ceduo, nei torrenti, nelle foreste più fitte, traversando zone che non riconosceva più, con l'occhio fisso sulla macchia bianca che stava fuggendo nella notte scesa sulla terra. Anche il suo cavallo sembra animato da una forza e un ardore nuovi. Andava al galoppo col collo teso in linea retta davanti a sé urtando alberi e rocce, mentre la testa e i piedi del morto penzolavano dalla sella. I rovi s'aggrovigliavano alla criniera, il muso sfiorava enormi tronchi macchiandoli di sangue, e gli speroni strappavano lembi di scorza dagli alberi. D'improvviso, cavallo e cavaliere uscirono dalla foresta e piombarono in un vallone, mentre la luna faceva la sua apparizione da sopra i monti. Era un vallone pietroso, chiuso da enormi rocce, senza uscite possibili, e allora il lupo, ridotto alle strette, tornò indietro. François lanciò un grido di gioia che l'eco ripeté simile al rombo del tuono, e saltò giù da cavallo, col pugnale in mano. L'irsuta bestia, dalla schiena rotonda, lo stava aspettando. I suoi occhi luccicavano come stelle. Ma, prima d'iniziare la lotta, il cacciatore, dopo aver abbrancato il fratello, lo depose su una roccia e, sostenendone la testa ridotta a un ammasso sanguinolento con qualche sasso, gli gridò nelle orecchie come se avesse parlato a un sordo: "Guarda guarda adesso!". Poi si buttò addosso al mostro. Si sentiva capace di buttar giù una montagna, di spezzare una pietra con le mani. La bestia tentò di azzannarlo, cercando di sfondargli il ventre, ma già lui l'aveva afferrata al collo e la strangolava lentamente, soffermandosi ad ascoltarne gli aneliti e i battiti del cuore. E rideva con una gioia atroce mentre aumentava gradatamente la sua formidabile presa e gridava come in delirio: "Guarda, Jean, Guarda!". Ogni resistenza poi cessò; il corpo del lupo s'afflosciò. Era morto. Allora François lo sollevò con le braccia e lo andò a gettare ai piedi del fratello ripetendo con voce piena di tenerezza: "Guarda, guarda Jean: eccolo qui". Rimise quindi sulla sella i cadaveri, l'uno sull'altro. E tornò indietro. Rientrò nel castello ridendo e piangendo contemporaneamente come
Gargantua alla nascita di Pantagruel; lanciava urla trionfali con l'impazienza di chi è molto allegro quando riferiva la morte del fratello. Anni dopo, parlando ancora di quella sera, diceva con le lacrime agli occhi: "Se soltanto quel povero Jean avesse potuto vedere come l'ho strangolato, sarebbe morto felice, ne sono certo". La vedova del mio antenato ispirò al figlio rimasto orfano quell'orrore per la caccia che si è trasmesso sino a me.» Il Marchese d'Arville tacque. Qualcuno domandò: «Questa storia è una leggenda, non è vero?». E il narratore rispose: «Vi giuro che è vera: totalmente». Allora una donna dichiarò con un fil di voce lieve: «Non ha importanza, è bello avere passioni così forti». IL MARCHIO DELLA BESTIA The Mark Of The Beast di Rudyard Kipling The Pioneer (Allabahad), 12 e 14 luglio 1890 I tuoi e i miei Dèi: chi di noi sa quali sono i più forti? Proverbio indigeno A est della città di Suez, dicono alcuni, cessa il controllo della Provvidenza. In quelle zone l'uomo è lasciato in balia degli Dèi e dei Diavoli dell'Asia, e la Provvidenza della Chiesa d'Inghilterra esercita solo di tanto in tanto un controllo abbastanza parziale sui destini degli Inglesi. Questa teoria spiega alcuni aspetti della vita in India: e può servire a dare in parte una spiegazione di questa vicenda. Il mio amico Strickland fa parte del Corpo di Polizia, e conosce gli indigeni quanto qualsiasi altro; egli può testimoniare a proposito degli eventi verificatisi. Dumoise, il nostro dottore, ha visto anche lui ciò di cui Strickland e io siamo stati testimoni. Tuttavia, le conclusioni che egli ha tratto, sono del tutto errate. Ormai è morto, è morto in una maniera piuttosto curiosa, che è stata descritta altrove. Quando Fleete giunse in India, possedeva un gruzzoletto e della terra sull'Himalaya, nei pressi di un luogo chiamato Dharmsala. Entrambi gli erano stati lasciati da uno zio, e lui era venuto per occuparsi dell'ammini-
strazione di quelle proprietà. Era un uomo di grossa corporatura, piuttosto pesante, di carattere amabile e inoffensivo. Le sue conoscenze circa la popolazione locale erano piuttosto limitate, e si lamentava delle difficoltà che incontrava nel cercare di comprenderne la lingua. A Capodanno scendeva a cavallo dalla sua tenuta tra le colline per festeggiare l'Anno Nuovo alla stazione, e alloggiava a casa di Strickland. L'ultimo dell'anno vi era una grande cena al Club, dove naturalmente il grado di euforia alcolica era sempre piuttosto alto. Quando gli uomini si radunano dagli angoli più lontani dell'Impero, hanno il diritto di prendersi delle libertà. La Polizia di Frontiera aveva inviato un drappello di ufficiali che non aveva visto più di venti bianchi in un anno intero e che erano abituati a cavalcare per quindici miglia per poter cenare nel fortino più vicino rischiando di ricevere una pallottola dai Khyber invece dell'aperitivo. Essi mostrarono di godere della sicurezza riacquistata: infatti tentarono di giocare a biliardo con un riccio arrotolato che avevano trovato nel giardino, e uno di loro portò la «palla bianca» in trionfo tenendola tra i denti. Una mezza dozzina di piantatori venuti dal Sud, parlavano con il Più Grande Bugiardo d'Asia, che tentava di superare le loro storie fantastiche raccontando contemporaneamente diverse storie ancora più incredibili delle loro. Erano venuti tutti. In quell'atmosfera si fraternizzava, e si contavano le perdite - dovute a morte e invalidità - di coloro che mancavano all'appello rispetto all'anno precedente. Era una notte di grande baldoria, e ricordo che cantammo «Il Valzer delle Candele» con i piedi nella Coppa del Campionato di Polo e le teste tra le stelle, e giurammo di essere amici per sempre. Poi, alcuni di noi se ne andarono ad annettere la Birmania, mentre altri tentavano di aprire il Sudan alla penetrazione bianca e furono invece aperti in due dagli indigeni in quella orribile mischia fuori Suakim; alcuni ottennero stelle e medaglie, altri si sposarono - e ciò fu un male - mentre altri fecero cose ancora peggiori. Altri infine rimasero prigionieri delle stesse catene e tentarono di far soldi nonostante la nostra esperienza fosse del tutto insufficiente. Fleete iniziò la serata bevendo sherry e bitter, bevve champagne regolarmente fino al dessert, poi passò al vino di Capri; pieno di whisky, prese il caffè con il Benedictine, altri quattro o cinque whisky e soda per migliorare i suoi colpi al tavolo da biliardo, birra alle due e mezza, e finì poi con del vecchio brandy.
Quando uscì dal Club alle tre e mezza della mattina, e si trovò a fronteggiare una gelata da quattordici gradi sotto zero, si irritò molto con il suo cavallo per aver tossito, e tentò di salire in sella saltando alla cavallina. Il cavallo s'imbizzarrì e corse via diretto verso la sua stalla. E così, Strickland e io formammo una Guardia del Disonore, per riportare Fleete a casa. Dovevamo passare attraverso il bazar accanto a un piccolo tempio dedicato ad Hanuman, il Dio Scimmia, la divinità più importante e degna di rispetto del luogo. Tutti gli Dèi hanno delle caratteristiche favorevoli, e tutti hanno i loro Sacerdoti. Per quanto mi riguarda, io do una grande importanza ad Hanuman e sono ben disposto verso la sua gente: le grandi scimmie grigie delle colline. Non si può mai sapere quando può tornare utile un amico. Mentre passavamo, scorgemmo una luce accesa nel tempio, e udimmo alcune voci di uomini che cantavano inni. In un tempio indigeno, i sacerdoti si svegliano a tutte le ore durante la notte per onorare il loro Dio. Prima che potessimo fermarlo, Fleete era corso su per i gradini, era entrato e, dando delle pacche sulle spalle dei due Sacerdoti, schiacciò il sigaro contro la fronte rosseggiante della statua di pietra di Hanuman. Strickland tentò di trascinarlo fuori, ma lui si sedette a terra e disse solennemente: «Vischto? Il Scegno della B-besctia! L'ho fatto io. Non è belliscimo?». In un istante il tempio divenne affollato e rumoroso, e Strickland, che sapeva quali conseguenze comportassero simili profanazioni, disse che sarebbero potute accadere delle cose spiacevoli. A causa della sua posizione di pubblico ufficiale e della sua lunga permanenza nel paese, nonché della sua tendenza di mischiarsi alla popolazione, i Sacerdoti lo conoscevano, e lui quindi si sentiva a disagio. Fleete si sedette a terra e rifiutò di muoversi. Disse che «il buon vecchio Hanuman» era un buon cuscino morbido. Poi, all'improvviso, un Uomo d'Argento uscì da una nicchia dietro la statua del Dio. Era del tutto nudo nonostante il freddo intenso, e il suo corpo riluceva come l'argento, poiché era uno di quelli che la Bibbia chiama «un lebbroso bianco come la neve». Inoltre non aveva un viso, poiché era ormai lebbroso da molti anni e la sua malattia lo aveva segnato profondamente. Ci chinammo per rimettere in piedi Fleete, mentre il tempio si riempiva di gente, spuntata dal nulla. Ma, all'improvviso, l'Uomo d'Argento ci corse incontro e, facendo un verso simile al miagolio di una lontra, abbracciò Fleete, abbandonando la testa sul suo petto prima che potessimo impedirglielo. Poi si ritirò in un angolo e rimase a miagolare mentre la folla bloc-
cava tutte le uscite. Fino a quel momento i Sacerdoti erano stati molto adirati. Ma, quando l'Uomo d'Argento toccò Fleete, parvero riprendersi. Dopo alcuni minuti di silenzio, uno dei Sacerdoti si avvicinò a Strickland e disse in perfetto inglese: «Porta via il tuo amico. Lui ha finito con Hanuman, ma Hanuman non ha finito con lui». Nella folla si aprì quindi un varco, e riuscimmo a portare Fleete in strada. Strickland era molto arrabbiato. Disse che avremmo potuto essere tutti e tre accoltellati, e che Fleete avrebbe dovuto ringraziare la sua buona stella per essere scampato incolume. Fleete non ringraziò nessuno. Disse che voleva andare a letto: era sotto l'effetto di una sbronza monumentale. Riprendemmo il cammino. Strickland era silenzioso e adirato. Poi Fleete fu preso da violenti brividi, e si ricoprì di sudore: disse che gli odori del bazar gli procuravano una gran nausea, e che si meravigliava del fatto che fosse permesso ai macelli di sorgere così vicini alle case degli Inglesi. «Non sentite l'odore del sangue?», chiese. Finalmente lo mettemmo a letto, mentre fuori sorgeva l'alba. Strickland mi invitò a bere un altro whisky e soda. Mentre bevevamo, lui parlò dell'incidente accaduto presso il tempio, e ammise che lo aveva totalmente disorientato. Strickland non sopporta l'idea di essere disorientato dal comportamento della gente locale: infatti il suo mestiere nella vita è quello di batterli sul loro stesso terreno. Ancora non è riuscito nel suo intento ma, tra quindici o venti anni, potrebbe aver compiuto qualche piccolo passo in avanti. «Avrebbero potuto dilaniarci», disse, «invece di miagolare. Mi chiedo cosa possa significare. Non mi piace affatto.» Dissi che il Comitato di Gestione del Tempio avrebbe probabilmente intentato una causa contro di noi per aver insultato la loro religione. Vi era una sezione del Codice Penale Indiano che contemplava proprio il tipo di reato commesso da Fleete. Strickland disse che sperava e pregava che avrebbero fatto proprio così. Prima di andarmene, gettai uno sguardo alla stanza di Fleete, e lo vidi sdraiato sul lato destro, mentre si grattava il bicipite sinistro. Poi andai a letto. Avevo freddo, ero depresso e infelice, ed erano le sette della mattina. All'una uscii a cavallo diretto verso la casa di Strickland per avere notizie sui postumi della sbornia di Fleete. Di sicuro sarebbe stata una sbornia
di dimensioni notevoli. Fleete stava facendo colazione. Non aveva una bella cera. Sembrava aver perso la pazienza e inveiva contro il cuoco il quale non gli aveva ancora servito una bistecca di maiale al sangue. Un uomo capace di mangiare carne cruda dopo una notte di stravizi, è un fenomeno degno di nota. Lo dissi a Fleete e lui rise. «Avete delle zanzare ben strane da queste parti», disse. «Sono stato mangiato vivo, ma solo in un punto.» «Vorrei dare un altro sguardo al punto in cui ti hanno morso», disse Strickland. «Forse adesso sarà guarito.» Mentre si cucinavano le bistecche, Fleete aprì la camicia e ci mostrò che appena al di sopra del bicipite sinistro vi era un segno: una copia perfetta delle macchie nere - le cinque o sei macchie irregolari disposte in circolo tipiche del manto del leopardo. Strickland guardò il segno poi disse: «Era solo rosa questa mattina. Adesso è diventato nero». Fleete corse verso lo specchio. «Per Giove!», esclamò. «Allora è una cosa grave! Di che si tratta?» Non potevano rispondergli. A quel punto arrivarono le bistecche, tutte rosse e sugose, e Fleete ne divorò tre in maniera molto sgarbata. Mangiava solo con i denti situati sul lato destro della mascella, la testa rivolta verso la spalla destra mentre dilaniava la carne. Quando ebbe finito, si rese conto di essersi comportato stranamente, e si scusò: «Non credo di essermi mai sentito tanto affamato in vita mia. Mi sono abbuffato come uno struzzo». Dopo pranzo, Strickland mi disse: «Non te ne andare. Rimani qui: rimani a dormire qui stanotte». Dal momento che la mia casa non distava più di tre miglia da quella di Strickland, quella richiesta mi parve assurda. Ma Strickland insistette, ed era sul punto di aggiungere qualcosa, quando Fleete lo interruppe e dichiarò con un certo ritegno di avere ancora fame. Strickland mandò un uomo a casa mia per prendere le mie cose e un cavallo, e noi tre scendemmo nelle scuderie per passare il tempo fin quando fosse stata l'ora di uscire a fare una cavalcata. Chi ama i cavalli non si stanca mai di ispezionarli e, quando due uomini passano il tempo in questo modo, raccolgono nuove conoscenze e bugie l'uno dall'altro. Nelle scuderie vi erano cinque cavalli, e non dimenticherò mai il momento in cui cercammo di avvicinarci a loro per guardarli. Sembravano impazziti. S'imbizzarrivano e nitrivano, e riuscirono quasi a strappare via i picchetti ai quali erano legati. Sudavano, tremavano, ed erano coperti di
schiuma; sembravano impazziti dal terrore. I cavalli conoscevano Strickland quanto i suoi cani, e questo rendeva la cosa ancora più strana. Lasciammo le scuderie preoccupati della possibilità che quelle bestie si azzoppassero in preda al panico, poi Strickland tornò indietro e mi chiamò. I cavalli erano ancora impauriti, ma ci permisero di carezzarli e di coccolarli, e appoggiarono i loro musi contro il nostro petto. «Non hanno paura di noi», disse Strickland. «Sai: darei tre mesi di paga per sentire cosa avrebbe da dire Outrage.» Ma Outrage era muto e poteva solo rannicchiarsi contro il suo padrone e soffiare attraverso le froge, come fanno i cavalli quando vorrebbero spiegare qualcosa ma non possono. Fleete si avvicinò mentre eravamo ancora nelle stalle. Non appena i cavalli lo videro, il terrore tornò a farli impazzire. Riuscimmo a malapena a fuggire senza che ci prendessero a calci. Strickland osservò: «Sembra che non ti amino, Fleete». «Sciocchezze!», disse Fleete. «La mia giumenta mi segue come un cane.» Si avvicinò quindi al suo cavallo che si trovava nel padiglione aperto. Ma, non appena oltrepassò le sbarre, quella caricò, facendolo cadere a terra, e scappò via, diretta verso il giardino. Io risi, ma Strickland non ne fu affatto divertito. Si afferrò i baffi con entrambe le mani, e li tirò fin quasi a strapparseli. Fleete, invece di andare ad inseguire ciò che gli apparteneva, sbadigliò, e disse che si sentiva assonnato. Poi rientrò in casa per sdraiarsi e dormire. Un modo molto sciocco di passare il Capodanno. Strickland si sedette con me nelle scuderie e mi chiese se avessi notato qualcosa di particolare circa il comportamento di Fleete. Risposi che mi pareva che mangiasse come un animale, ma questo avrebbe potuto essere il risultato della vita solitaria sulle colline lontano dalla compagnia raffinata ed edificante quale era la nostra. Strickland non parve divertito. Non credo che mi stesse ascoltando: infatti, il commento che fece subito dopo, riguardava il segno sul petto di Fleete. Risposi dicendo che poteva trattarsi di tafani. O che poteva essere un neo appena nato e visibile ora per la prima volta. Entrambi ci trovammo d'accordo sul fatto che fosse piuttosto sgradevole alla vista, e Strickland ebbe l'occasione di dirmi che ero uno sciocco. «Non posso dirti ora quello che penso», disse, «perché diresti che sono uno stupido. Ma devi rimanere con me per i prossimi giorni, se puoi. Vo-
glio che tu osservi Fleete, ma non dirmi quel che pensi fino al momento in cui decido di chiedertelo.» «Ma io ceno fuori stasera», risposi. «Anch'io», disse Strickland, «e anche Fleete. A meno che non cambi idea.» Camminammo in giardino, fumando, ma senza aggiungere nulla - perché eravamo amici, e perché i discorsi rovinano il buon tabacco - finché le nostre pipe non furono spente. Poi andammo a svegliare Fleete. Era già sveglio e si agitava muovendosi per la stanza irrequieto. «Dico io, ho di nuovo voglia di bistecche», esordì. «Posso averne?» Ridemmo, dicendogli: «Vai a cambiarti. I pony saranno qui tra qualche minuto». «Va bene», disse Fleete. «Verrò, quando avrò avuto le mie bistecche... al sangue, naturalmente.» Sembrava che stesse parlando sul serio. Erano le quattro del pomeriggio, e avevamo mangiato all'una. D'altra parte, era da molto tempo che ci chiedeva bistecche al sangue. Poi si mise i vestiti per andare a cavallo e uscì sulla veranda. La sua giumenta non era stata ancora ripresa, e il suo pony non gli permetteva di avvicinarsi. Tutti e tre i nostri cavalli erano imbizzarriti - impazziti dalla paura - e finalmente Fleete disse che sarebbe rimasto a casa e si sarebbe procurato qualcosa da mangiare. Strickland e io uscimmo, riflettendo sull'accaduto. Mentre passavamo davanti al tempio di Hanuman, l'Uomo d'Argento uscì e miagolò verso di noi. «Dev'essere uno dei Sacerdoti addetti al tempio», disse Strickland. «Credo che proverei un particolare piacere nel mettergli le mani addosso.» Non fu una gran galoppata quella sera all'ippodromo. I cavalli erano stanchi e si muovevano lentamente, come se avessero galoppato tutto il giorno. «È stato a causa della paura che si sono presi questa mattina», osservò Strickland. Questo fu il solo commento che fece durante l'intera cavalcata. Un paio di volte imprecò sottovoce, credo; ma quello non contava. Quando tornammo era già buio, e vidi che non vi erano luci accese nel bungalow. «I miei servi sono dei lazzaroni!», disse Strickland. Il mio cavallo si arrestò di scatto, sorpreso da qualcosa che aveva scorto sul sentiero dinanzi a noi. Fleete si alzò in piedi proprio davanti al suo muso.
«Cosa fai, grufoli in giardino?», disse Strickland. Ma entrambi i nostri cavalli si imbizzarrirono e rischiammo di cadere. Smontammo accanto alle scuderie e tornammo da Fleete, che si era accoccolato carponi sotto certi alberelli di aranci. «Cosa diavolo ti prende?», esclamò Strickland. «Niente, assolutamente nulla!», disse Fleete, parlando velocemente in tono molto concitato. «Ho fatto un po' di giardinaggio... una piccola escursione botanica, diciamo. L'odore della terra è veramente speciale. Credo che farò una passeggiata... una lunga passeggiata: sì, credo proprio che farò così!» Poi vidi che vi era qualcosa di molto sbagliato in tutto quello, e dissi a Strickland: «Cenerò a casa stasera». «Dio ti benedica!», esclamò Strickland. «Ehi, Fleete, alzati. Ti prenderai la febbre là sotto. Vieni a cena e accendiamo le lampade. Mangeremo tutti a casa.» Fleete si rialzò di malavoglia. «Niente lampade... niente lampade... È molto più bello qui. Mangiamo all'aperto e facciamoci portare delle altre bistecche - molte, e al sangue quelle con tanto sangue e tanto grasso!», disse. Beh, la sera, a dicembre, nell'India del Nord fa un gran freddo, e l'idea di Fleete poteva essere solo quella di un pazzo. «Entra», disse Strickland severamente. «Entra subito!» Fleete gli ubbidì e, quando arrivarono le lampade, ci accorgemmo che era tutto ricoperto di fango dalla testa ai piedi. Doveva di certo essere ruzzolato nella terra del giardino. Evitò la luce e si diresse verso la sua stanza. I suoi occhi avevano un aspetto orribile: ne traspariva una luce verde che non emanava da essi, e il suo labbro inferiore pendeva stranamente. Strickland disse: «Avremo dei guai... grossi guai... stanotte. Non levarti la tenuta da cavallerizzo». Aspettammo a lungo che Fleete ritornasse; nel frattempo ordinammo la cena. Lo sentivamo muoversi in camera sua, ma non vi era alcun lume acceso. Ben presto, in quella stanza si udì un prolungato ululare di lupo. La gente scrive con facilità del sangue che si gela nelle vene, dei capelli che si rizzano e altre cose del genere. Entrambe le sensazioni sono troppo orribili per potersi prendere alla leggera. Il cuore mi si fermò, come se fosse stato attraversato da un coltello. Strickland diventò bianco quanto la tovaglia che era stesa sul tavolo. L'ululato si ripeté, e venne riecheggiato da un altro lontano, oltre i cam-
pi. Quello fu il momento culminante di tanto orrore! Strickland si lanciò verso la stanza di Fleete: io lo seguii, e vedemmo Fleete mentre tentava di uscire dalla finestra. Emetteva suoni bestiali dal profondo della gola. Non riuscì a rispondere quando lo chiamammo. Sputò. Non ricordo bene quello che accadde poi. Credo che Strickland debba averlo stordito con un lungo bastone da passeggio, altrimenti non saprei spiegarmi come mi ritrovai a cavalcioni del petto di Fleete. Lui non riusciva a parlare, ma ringhiava solamente, e il suo ringhiare era quello di un lupo, non certo di un uomo. Lo spirito umano in lui doveva essersi indebolito tutto il giorno, per poi sparire completamente al tramonto. Stavamo affrontando la bestia che una volta era stata Fleete. La cosa trascendeva qualsiasi esperienza umana o razionale. Tentai di dire «Idrofobia», ma la parola non era adatta. Sapevo di stare mentendo. Legammo la bestia con le corde di cuoio della corda punkah e le legammo insieme i pollici e gli alluci. Quindi la imbavagliammo con un calzante da scarpe, che è un ottimo bavaglio, se adoperato in modo giusto. Poi la portammo nella sala da pranzo, e mandammo un uomo da Dumoise, il dottore, dicendogli di venire subito. Dopo aver spedito il messaggero, riprendemmo fiato. Strickland disse: «È inutile. Questa non è cosa da dottori». Anch'io sapevo che diceva la verità. La testa della bestia era libera, e la dimenava da parte a parte. Chiunque fosse entrato nella stanza avrebbe creduto che stessimo conciando una pelle di lupo. Questo era il particolare più sgradevole dell'intera vicenda. Strickland sedeva con il mento appoggiato sul pugno, e guardava la bestia mentre si dimenava sul pavimento, ma non diceva nulla. La camicia di Fleete, che era stata strappata nella colluttazione, mostrava il segno: la rosa di macchie nere sul bicipite sinistro. Si stagliava sulla pelle come una piaga. Nel silenzio, mentre guardavamo, udimmo un suono simile al miagolio di una lontra femmina. Allora ci alzammo tutti e due in piedi, e io, per parte mia, non Strickland, vomitai... letteralmente. Ci dicemmo, come gli uomini del Pinafore, che era stato il gatto. Dumoise arrivò, e non ho mai visto un uomo così piccolo, rimanere orripilato in maniera tanto poco professionale. Disse che si trattava di un caso di idrofobia acuta, e che non si poteva far nulla. Sarebbero stati solo dei palliativi che avrebbero servito a nient'altro che a prolungare l'agonia.
La bestia schiumava. Informammo Dumoise circa il fatto che Fleete era stato morso un paio di volte dai cani. Un uomo che alleva una mezza dozzina di terrier si deve aspettare un morso di tanto in tanto. Dumoise non poteva darci alcun aiuto. Poteva solo certificare il fatto che Fleete stesse morendo di idrofobia. La bestia a quel punto riprese a ululare, poiché era riuscita a sputare il calzascarpe. Dumoise fece presente che era pronto a certificare la causa di morte, e che l'epilogo della malattia era sicuro. Era un buon uomo, e si offrì di rimanere con noi, ma Strickland rifiutò quell'atto gentile. Non desiderava intristire il Capodanno di Dumoise. Gli chiese solamente di non rendere pubblica la vera causa della morte di Fleete. Così Dumoise ripartì, profondamente scosso. Appena il fragore delle ruote del carro si affievolì, Strickland mi informò sottovoce dei suoi sospetti. E io, che ormai ero d'accordo con le teorie di Strickland, ebbi tanta vergogna ad ammetterlo, che finsi di non credervi. «Se l'Uomo d'Argento avesse veramente desiderato colpire Fleete, per aver contaminato l'immagine di Hanuman, la punizione non avrebbe potuto abbattersi tanto presto.» In quello stesso istante, un grido dall'esterno si levò nuovamente, e la bestia cadde preda di un rinnovato parossismo. Tentò furiosamente di liberarsi, e allora tememmo che le corde che la tenevano avvinta avrebbero ceduto. «Guarda!», disse Strickland. «Se questo succede altre sei volte, mi prenderò le responsabilità del caso. Ti ordino di aiutarmi!» Andò quindi in camera sua, e tornò dopo alcuni minuti. Aveva preso il tamburo di una vecchia pistola, un pezzo di lenza, della corda robusta, e la pesante testiera del suo letto. Lo informai del fatto che le convulsioni erano giunte due secondi dopo il richiamo e che la bestia pareva molto indebolita. Strickland mormorò: «Ma non può prendersi la sua vita! Non può prendersi la sua vita!». Benché sapessi di andare contro le mie stesse convinzioni, dissi: «Potrebbe essere un gatto. Dev'essere un gatto! Se l'Uomo d'Argento è responsabile di tutto ciò, perché non osa venire fin qui?». Strickland dispose il legno nel camino, mise il tamburo nel fuoco, sparse la lenza sul tavolo e spezzò in due un bastone da passeggio. In tutto vi era quasi un metro di lenza, del budello unito al filo di ferro usato nella pesca Mahseer. Ne annodò i due capi, per formare un cappio.
Poi disse: «Come facciamo a catturarlo? Dobbiamo prenderlo vivo e incolume». Dissi che dovevamo affidarci alla Provvidenza, prendere i bastoni da polo, e scivolare senza far rumore verso la zona dei cespugli di fronte alla casa. L'uomo - o l'animale - che emetteva quelle grida, girava attorno alla casa con regolarità, come una sentinella. Avremmo potuto aspettarlo nascosti tra i cespugli, e attaccarlo di sorpresa. Strickland accettò, e così scivolammo fuori attraverso la finestra di un bagno, giungendo poi sulla veranda posta sulla facciata della casa, quindi attraversammo il sentiero principale e ci nascondemmo tra i cespugli. Alla luce della luna riuscimmo a vedere il lebbroso che spuntò da dietro l'angolo della casa. Era perfettamente nudo; di tanto in tanto miagolava, e si arrestava per danzare assieme alla sua ombra. Era una visione estremamente spiacevole e, pensando al povero Fleete che era stato portato ad un tale punto di degrado da una creatura simile, misi da parte i miei dubbi e decisi di aiutare Strickland a mettere in atto tutte le torture che si sarebbero rese necessarie: dai tamburi della pistola al cappio della lenza, dai lombi alla testa, e viceversa... Il lebbroso si arrestò per un momento sulla soglia della porta centrale, e allora noi gli saltammo addosso con i bastoni. Era molto forte, e tememmo che potesse sfuggirci o rimanere ferito a morte prima che riuscissimo a catturarlo. Credevamo che i lebbrosi fossero deboli, ma dovemmo ricrederci. Strickland riuscì a placcarlo e a farlo cadere, e io gli posi il piede sul collo. Miagolava in modo orribile e, anche attraverso i miei stivali da cavallerizzo, potevo sentire che la sua carne non era sana. Tentò di colpirci con la mano e i piedi deformi. Lo legammo con un guinzaglio per cani, facendolo passare al di sotto delle ascelle, e lo trascinammo all'indietro, verso il salone e fin dentro la sala da pranzo in cui giaceva la bestia. Lì lo legammo con delle cinghie da baule. Non tentò di scappare, limitandosi a miagolare di tanto in tanto. Il confronto tra quell'uomo e la bestia fu una scena indescrivibile. La bestia si inarcò all'indietro come se fosse stata avvelenata con la stricnina, gemendo in maniera pietosa. Diverse altre cose accaddero, ma non possono essere descritte a questo punto. «Forse avevo ragione», disse Strickland. «Ora gli chiederemo di curare questo caso.» Ma il lebbroso si limitò a miagolare. Strickland si fasciò la mano con un asciugamano e tolse i tamburi della pistola dal fuoco. Passai un pezzo del
bastone da passeggio attraverso il cappio della lenza e assicurai il lebbroso alla testiera del letto di Strickland. Compresi allora come possa accadere che uomini, donne e bambini possano sopportare di vedere una strega bruciata sul rogo. Infatti, la bestia gemeva distesa a terra e, benché l'Uomo d'Argento non avesse un viso, si potevano vedere le orribili sensazioni che provava passargli sulla carne liscia, proprio come delle ondate di calore che si liberino dal ferro incandescente: ad esempio, come i tamburi di una vecchia pistola. Strickland si protesse gli occhi con la mano per un momento, poi cominciammo il lavoro. Ma questa parte non può essere pubblicata. L'alba aveva cominciato a sorgere quando finalmente il lebbroso si decise a parlare. I suoi miagolii non erano stati molto soddisfacenti fino a quel momento. La bestia era svenuta, spossata, e la casa era molto quieta. Slegammo il lebbroso e gli ordinammo di togliere la maledizione. Lui strisciò verso la bestia e le pose la mano sul petto, a sinistra. Fu tutto. Poi cadde supino e gemette, riprendendo fiato. Osservammo la bestia, e nei suoi occhi vedemmo nuovamente l'anima di Fleete. Poi la fronte e gli occhi si ricoprirono di sudore e gli occhi - di nuovo occhi umani - si chiusero. Attendemmo per un'ora, ma Fleete dormiva ancora. Lo portammo allora nella sua stanza, e ordinammo al lebbroso di andarsene; gli demmo anche la testiera e il lenzuolo del letto per coprirsi, i guanti e gli asciugamani con cui lo avevamo toccato, e la frusta con cui lo avevamo legato. L'uomo si avvolse il lenzuolo attorno ai lombi e uscì dalla casa nella luce dell'alba senza miagolare e senza pronunciare una sola parola. Strickland si asciugò il viso e si sedette. Si udì il rintocco del gong, in qualche punto lontano della città, che annunciò le sette. «Sono passate esattamente ventiquattr'ore!», osservò Strickland. «In questo lasso di tempo ho fatto cose che causerebbero il mio licenziamento dal servizio, nonché il mio internamento in un ospedale psichiatrico. Secondo te, siamo ben desti, o è stato tutto un sogno?» Il tamburo incandescente della pistola, era caduto a terra e stava bruciacchiando il tappeto. L'odore che emanava era molto reale. Quella mattina alle undici andammo a svegliare Fleete. Osservammo che il segno nero del leopardo che aveva sul petto era sparito. Era solo molto intontito e stanco ma, non appena ci vide, disse: «Ah! Accidenti a voi. Vi auguro buon anno! Non mischiate mai gli alco-
lici. Sono quasi morto!». «Ti ringrazio della tua gentilezza, ma sei in ritardo», disse Strickland. «Oggi è il mattino del secondo giorno dell'anno. Hai dormito di gusto: più di ventiquattr'ore!» La porta poi si aprì e il piccolo Dumoise sporse la testa oltre la porta. Era venuto a piedi e credeva che vegliassimo Fleete. «Ho portato un'infermiera», disse Dumoise. «Ho pensato che potesse essere utile per accudire... alle necessità del caso.» «Benissimo!», disse Fleete, allegro, alzandosi a sedere sul letto. «Fate venire le infermiere.» Dumoise rimase senza parole. Strickland lo condusse fuori dalla stanza e gli spiegò che doveva esserci stato un errore nella diagnosi. Dumoise rimase in silenzio e si affrettò a lasciare la casa. Il dottore considerò lesa la sua reputazione professionale, ed era sul punto di offendersi per la rapida guarigione del paziente. Poi Strickland uscì. Quando tornò, disse che era stato al Tempio di Hanuman per fare ammenda per la contaminazione del Dio, e riferì che gli era stato solennemente assicurato che nessun bianco aveva mai toccato l'idolo, che egli era un'incarnazione di tutte le virtù, e che lui era in preda a un'illusione. «Che ne pensi?», chiese Strickland. Risposi: «Ci sono più cose...». Ma Strickland odia quella citazione, Dice che ne faccio uso troppo spesso. Poi accadde un'altra cosa curiosa, che mi spaventò più di quello che era accaduto durante la notte. Quando Fleete si fu rivestito, scese in camera da pranzo e annusò l'aria. Aveva uno strano modo di muovere il naso quando annusava. «C'è un orribile odore di cane qui», disse. «Dovresti cercare di tenere i terrier sotto controllo. Prova con lo zolfo, Strick.» Ma Strickland non rispose. Aveva afferrato lo schienale di una sedia, e all'improvviso cadde in preda a un attacco isterico. È uno spettacolo terribile vedere un uomo forte e robusto cadere preda di un attacco isterico. Poi fui colpito dal pensiero che in quella stessa stanza avevamo lottato per strappare all'Uomo d'Argento l'anima di Fleete, e che avevamo perso per sempre il nostro onore di Inglesi, e allora scoppiai anch'io in grandi risate, mentre Fleete ci guardava come se fossimo impazziti entrambi. Non gli raccontammo mai quello che avevamo fatto. Qualche anno più
tardi, quando Strickland si era già sposato ed era diventato un fedele membro della parrocchia per amore di sua moglie, riparlammo in maniera distaccata di quello che era accaduto, e Strickland suggerì di rendere nota la storia. Per quanto mi riguarda, non vedo come questo possa contribuire a svelare il mistero. Infatti, in primo luogo, nessuno crederebbe che questa spiacevole storia sia vera e, in secondo luogo, è ben noto agli uomini probi che gli Dèi pagani sono fatti di pietra e di ottone, e che ogni tentativo di aver a che fare con loro sotto altra forma deve essere sempre condannato. GABRIEL-ERNEST Gabriel-Ernest di Saki (Hector Hugh Munro) The Westminster Gazette, 23 mag. 1909 «C'è una belva selvaggia nei vostri boschi», disse Cunningham, l'artista, mentre veniva accompagnato in auto alla stazione. Era l'unica osservazione che aveva fatto durante il viaggio ma, visto che Van Cheele aveva parlato senza sosta, il silenzio del suo compagno non era stato evidente. «Una o due volpi di passaggio e qualche donnola stanziale. Niente di più spaventoso», disse Van Cheele. L'artista non disse niente. «Che cosa intendeva dire con belva selvaggia?», chiese Van Cheele poi, quando si trovavano sul marciapiede. «Niente, una mia fantasia. Ecco il treno», disse Cunningham. Quel pomeriggio Van Cheele andò a fare una delle sue frequenti passeggiate nella sua proprietà boscosa. Aveva un tarabuso impagliato nel suo studio, e conosceva il nome di molti fiori selvatici, perciò sua zia aveva qualche giustificazione nel definirlo un grande naturalista. Ad ogni modo, era un gran camminatore. Era sua abitudine prendere mentalmente nota di tutto quello che vedeva durante le sue camminate, non tanto al fine di aiutare la scienza contemporanea, quando per provvedersi di nuovi argomenti di conversazione. Quando le campanule cominciarono a fiorire, egli si fece obbligo di informare tutti di questo fatto. Quello che Van Cheele vide quel pomeriggio di particolare fu, però, qualcosa di molto lontano dalla normale sfera delle sue esperienze. Su una sporgenza rocciosa, a picco su un laghetto che si trovava in una valletta piena di querce, era disteso un ragazzo di circa sedici anni che si asciugava il corpo scuro e bagnato al sole. I capelli, umidi per un tuffo recente, erano
sparsi vicino alla testa, e gli occhi marroni, tanto chiari che avevano quasi il bagliore degli occhi delle tigri, si girarono verso Van Cheele con un'attenzione pigra. Era un'apparizione inaspettata, e Van Cheele si ritrovò impegnato nel processo, per lui nuovo, di pensare prima di parlare. Da dove diavolo spuntava fuori quel ragazzo? La moglie del mugnaio aveva perso un bambino circa due mesi prima - si supponeva che fosse stato trascinato dalla corrente del ruscello - ma era solo un bambino, non un ragazzo. «Che stai facendo lì?», domandò. «Ovviamente, prendo il sole», replicò il ragazzo. «Dove vivi?» «Qui, in questi boschi.» «Non puoi vivere nei boschi», disse Van Cheele. «Sono dei boschi molto belli», disse il ragazzo, con una sfumatura di condiscendenza nella voce. «Ma dove dormi la notte?» «La notte non dormo; è il periodo del giorno in cui sono più occupato.» Van Cheele cominciò a provare l'irritante sensazione di essere alle prese con un problema che gli sfuggiva. «Di che cosa ti cibi?», chiese. «Di carne», disse il ragazzo, e pronunciò quella parola con un tale gusto che sembrava la stesse assaggiando in quel momento. «Carne! Quale tipo di carne?» «Dal momento che vi interessa: conigli, uccelli, lepri, pollame, agnelli e, quando è la stagione, bambini... quando ne riesco a prendere uno. In genere, sono chiusi in casa la notte, quando io caccio. Sono quasi due mesi che non gusto carne di bambino.» Ignorando la natura scherzosa di quell'ultima osservazione, Van Cheele cercò di spostare la conversazione sulla possibilità che il ragazzo cacciasse di frodo. «Le spari grosse quando dici di mangiare le lepri. Le nostre lepri non sono così facili da prendere.» «La notte caccio su quattro zampe», fu la risposta alquanto sibillina del ragazzo. «Immagino che tu voglia dire che cacci con un cane?», azzardò Van Cheele. Il ragazzo si rotolò lentamente sulla schiena, e rise di un riso gutturale e strano, che era piacevole quanto un chiocchio e sgradevole quanto un rin-
ghio. «Immagino che nessun cane sarebbe molto ansioso di stare in mia compagnia, soprattutto la notte.» Van Cheele cominciò ad avvertire che c'era qualcosa di realmente insolito nel giovane dagli strani occhi e dallo strano modo di parlare. «Non posso permetterti di restare in questi boschi», dichiarò in tono autoritario. «Immagino preferiate che stia qui invece che nella vostra casa», disse il ragazzo. L'idea di quell'animale selvaggio e nudo nella casa ordinata di Van Cheele era allarmante. «Se non te ne vai tu ti manderò via io», disse Van Cheele. Il ragazzo si girò come un lampo, si tuffò nel laghetto e, in un attimo, si issò con il corpo bagnato e luccicante sulla riva dove stava Van Cheele. In una lontra quel movimento non si sarebbe notato; in un ragazzo, Van Cheele lo trovò piuttosto sorprendente. Un piede gli scivolò nel fare un involontario movimento all'indietro, ed egli si trovò disteso sulla riva resa scivolosa dalle alghe, con quegli occhi gialli e animaleschi a poca distanza dai suoi. Quasi istintivamente portò la mano alla gola. Il ragazzo rise di nuovo, una risata in cui il ringhio aveva quasi scacciato il chiocchio e poi, con un altro di quei suoi movimenti sorprendentemente fulminei, si tuffò in un intrico di erbacce e di felci. «Che animale selvaggio!», disse Van Cheele nell'alzarsi. E poi ricordò l'osservazione di Cunningham: «C'è una belva selvaggia nei vostri boschi». Camminando lentamente verso casa, Van Cheele cominciò a riandare con la mente ai vari avvenimenti locali in cui si potesse rintracciare l'esistenza di quel giovane selvaggio. Negli ultimi tempi, qualcosa aveva fatto diminuire la cacciagione, il pollame spariva dalle fattorie, le lepri erano diventate incredibilmente rare, e gli erano giunti all'orecchio i lamenti di chi aveva perso gli agnelli che pascolavano sulle colline. Era possibile che quel ragazzo selvaggio stesse veramente battendo la zona in compagnia di qualche cane intelligente? Aveva parlato di caccia «a quattro zampe» la notte, ma poi aveva accennato misteriosamente che a nessun cane sarebbe piaciuto avvicinarglisi, «soprattutto la notte». Era veramente sconcertante. E, poi, mentre Van Cheele ricordava i vari saccheggi commessi negli ultimi due mesi, arrivò improvvisamente a un punto morto, sia nella sua passeggiata che nei suoi ragionamenti.
Ripensò al bambino che era scomparso dal mulino due mesi prima. La teoria accettata da tutti era che fosse caduto nel ruscello e fosse stato portato via dalla corrente. Ma la madre aveva sempre detto di aver sentito un urlo dal lato della casa che era sul pendio della collina, dalla parte opposta all'acqua. Era impensabile, naturalmente, ma egli desiderava che il ragazzo non avesse fatto quella strana osservazione a proposito della carne di bambino mangiata due mesi prima. Cose così spaventose non si dovrebbero dire nemmeno per scherzo. Van Cheele, contrariamente al suo solito, non si sentiva disposto a comunicare ad altri la scoperta fatta nel bosco. La sua posizione di consigliere della chiesa e di giudice di pace gli sembrava in qualche modo compromessa dal fatto di dare asilo a una persona di dubbia reputazione sulla sua proprietà. C'era anche la possibilità di ricevere una pesante multa per i danni arrecati dalla scomparsa degli agnelli e del pollame. A cena, quella sera, fu insolitamente silenzioso. «Dove ti è andata a finire la lingua?», chiese sua zia. «Si direbbe che hai visto un lupo.» Van Cheele, che non conosceva i detti antichi, pensò che l'osservazione fosse piuttosto stupida. Se lui avesse visto un lupo sulla sua proprietà, la sua lingua sarebbe stata straordinariamente impegnata sull'argomento. La mattina, a colazione, Van Cheele era conscio che la sensazione di disagio riguardo all'episodio del giorno prima non era scomparsa del tutto. Decise di andare in treno nella vicina città sede del Vescovato, di cercare Cunningham e chiedergli perché avesse fatto quell'osservazione a proposito di una bestia selvaggia nei boschi. Quando ebbe preso questa risoluzione, il suo buon umore in parte ritornò, e canticchiava un motivetto quando si diresse nel soggiorno per fumare la sua solita sigaretta. Quando entrò nella stanza, il motivetto fu bruscamente interrotto da un'esclamazione. Graziosamente disteso sull'ottomana, in atteggiamento di riposo, c'era il ragazzo dei boschi. Era più asciutto dell'ultima volta che Van Cheele l'aveva visto, ma non si poteva notare nessun altro cambiamento nella sua toilette. «Come hai osato venire qui?», chiese Van Cheele con rabbia. «Mi avete detto che non dovevo restare nei boschi», disse il ragazzo con calma. «Ma non avevo detto di venire qui. E se mia zia ti vedesse?» E, al fine di minimizzare gli effetti della catastrofe, Van Cheele coprì il più possibile il suo ospite indesiderato con i fogli del Morning Post. In
quel momento sua zia entrò nella stanza. «Questo povero ragazzo si è smarrito e ha perso la memoria. Non sa chi sia né da dove venga», spiegò Van Cheele in tono disperato, lanciando una occhiata ansiosa al derelitto per vedere se stesse per aggiungere una sincerità sconcertante alle sue altre qualità selvagge. Miss Van Cheele fu enormemente interessata. «Forse la sua biancheria intima è cifrata», suggerì. «Sembra che ne abbia perso la maggior parte», disse Van Cheele, cercando freneticamente di tenere il Morning Post al suo posto. Un bambino nudo e senza casa affascinava Miss Van Cheele nello stesso modo in cui sarebbe stata affascinata da un gattino randagio o da un cagnolino abbandonato. «Dobbiamo fare tutto il possibile per lui», decise la donna, e in breve un fattorino, inviato in Canonica, dove c'era un servitore, tornò con degli abiti, una camicia, un paio di scarpe e della biancheria. Vestito, pulito e strigliato, il ragazzo non perse nulla della sua stranezza agli occhi di Van Cheele, ma sua zia lo trovò dolcissimo. «Dobbiamo dargli un nome dato che non sappiamo qual è il suo», disse lei. «Gabriel-Ernest, penso che vada bene. Sono due nomi graziosi e adatti». Van Cheele era d'accordo, ma intimamente dubitava che fossero stati dati a un ragazzino grazioso e ammodo. I suoi timori non furono diminuiti dal fatto che il suo spaniel, vecchio e posato, fosse fuggito dalla casa all'arrivo del ragazzo, e ora restasse ostinatamente a tremare e a guaire in un angolo del frutteto, mentre il canarino, di solito vocalmente impegnato quanto lo stesso Van Cheele, si fosse dato a rari e spauriti cinguettii. Era più che mai risoluto a consultare Cunningham senza perdere tempo. Mentre guidava verso la stazione, sua zia stava disponendo che GabrielErnest l'aiutasse ad intrattenere i bambini della sua Scuola Domenicale durante il tè di quel pomeriggio. Cunningham sulle prime non era disposto a parlare. «Mia madre è morta per una malattia mentale», spiegò, «perciò capirete quanto sia poco propenso a indugiare su qualsiasi fenomeno di natura fantastica che veda o pensi di vedere.» «Ma che cosa avete visto?», insisté Van Cheele. «Quello che penso di avere visto è qualcosa di tanto straordinario che nessun uomo sano di mente può credere sia realmente accaduto. L'ultima sera che sono stato da voi, ero seminascosto dalla siepe che è accanto al
cancello del frutteto, a guardare il bagliore del sole morente. A un tratto mi sono accorto della presenza di un ragazzo nudo, con il corpo bagnato da un tuffo recente in qualche laghetto vicino. Stava sul pendio della collina a guardare il tramonto. La sua posa ricordava tanto un selvaggio fauno del mito pagano, che immediatamente avrei voluto ingaggiarlo come modello, e stavo per chiamarlo. Ma proprio allora il sole scomparve, e tutto l'arancione e il rosa abbandonarono il paesaggio, lasciandolo freddo e grigio. E nello stesso momento accadde qualcosa di incredibile: anche il ragazzo scomparve!» «Che cosa! Svanì nel nulla?», chiese eccitato Van Cheele. «No, questa è la parte più spaventosa della storia», rispose l'artista, «c'era un gran lupo, dal pelo nerastro, dalle zanne bianche e crudeli, e con occhi gialli e selvaggi. Penserete...» Ma Van Cheele non si fermò a fare nulla di così inutile come pensare. Già stava correndo alla massima velocità verso la stazione. Rinunciò all'idea di un telegramma. «Gabriel-Ernest è un Lupo Mannaro», era un tentativo inadeguato per spiegare la situazione, e sua zia avrebbe pensato che si trattasse di un messaggio in codice di cui aveva omesso di darle la chiave. La sua unica speranza era di arrivare a casa prima del tramonto. La vettura pubblica che noleggiò alla stazione d'arrivo lo torturò con quella che a lui pareva una lentezza esasperante lungo le strade di campagna, che erano rosa e violette per i raggi del sole morente. Sua zia stava riponendo delle conserve e una torta quando lui arrivò. «Dov'è Gabriel-Ernest?», gridò quasi. «Sta accompagnando a casa il bambino dei Toop», disse sua zia. «Si stava facendo tardi, così ho pensato che sarebbe stato imprudente farlo tornare a casa da solo. Che bel tramonto, non è vero?» Ma Van Cheele, sebbene non fosse ignaro della luce che illuminava l'occidente, non indugiò a discutere sulla sua bellezza. A una velocità che la sua auto reggeva a malapena, corse lungo lo stretto viottolo che conduceva alla casa dei Toop. Da un lato correva il ruscello del mulino, dall'altro si ergeva lo spoglio pendio della collina. Una striscia rossa era ancora visibile all'orizzonte, e alla prossima curva avrebbe dovuto vedere la coppia male assortit di cui era all'inseguimento. Poi il colore abbandonò d'improvviso tutte le cose, e una luce grigia si distese sul paesaggio. Van Cheele udì un acuto grido di paura, e smise di correre. Nessuno vide mai più il bambino dei Toop e Gabriel-Ernest, ma gli abiti abbandonati di quest'ultimo vennero trovati sulla strada, così si dedusse
che il bambino fosse caduto in acqua, e che il ragazzo si fosse svestito e tuffato nel ruscello, nel vano tentativo di salvarlo. Van Cheele e qualche contadino che era nei pressi in quel momento, testimoniarono di aver sentito un grido di bambino proprio vicino al posto dove erano stati trovati gli abiti. Mrs. Toop, che aveva altri undici figli, si rassegnò al lutto, ma Miss Van Cheele era sinceramente addolorata per la scomparsa del suo trovatello. Fu per sua iniziativa che venne posta una lapide nella chiesa alla memoria di «Gabriel-Ernest, un ragazzo sconosciuto che coraggiosamente sacrificò la sua vita per un altro». Van Cheele assecondava la zia in molte cose ma rifiutò con decisione di sottoscrivere la lapide alla memoria di Gabriel-Ernest. LUPO-CHE-CORRE Running Wolf di Algernon Blackwood The Century, agosto 1920 L'uomo che gode di un'avventura estranea all'esperienza comune della sua razza e la comunica agli altri, non deve sorprendersi se viene preso per bugiardo o per pazzo, come Malcolm Hyde, impiegato d'albergo in vacanza, scoprì a tempo debito. Ma «godere» non è la parola giusta per esprimere le sue emozioni: la parola che avrebbe scelto lui sarebbe stata probabilmente «sopravvivere». Quando vide per la prima volta il Medicine Lake, fu colpito dalla sua bellezza tranquilla e scintillante, incastonata nelle vaste zone boscose e selvagge del Canada. In secondo luogo, fu colpito dalla sua solitudine estrema e, infine - questo, molto più tardi - dalla combinazione di bellezza, solitudine e atmosfera particolare, dovuta al fatto che era la scena della sua avventura. «Abbonda di pesci grandi», aveva detto Morton dello Sporting Club di Montreal. «Passate le vostre vacanze lassù, lungo la strada per Mattawa, a una quindicina di miglia ad ovest dello Stony Creek. Sarete completamente solo, fatta eccezione per un vecchio indiano che ha una capanna. Accampatevi sulla riva orientale se volete il mio suggerimento.» Poi aveva parlato per una mezz'ora di quello sport meraviglioso, ma per il resto non era stato molto comunicativo, e Hyde aveva notato che non gradiva le domande. Non aveva soggiornato a lungo sulle rive del lago. Se
era veramente un paradiso come affermavano Morton, i suoi scopritori e i pescatori più esperti della provincia, perché vi si era fermato solo tre giorni? «Scarseggiavano i vermi», fu la sua spiegazione. Ma, a un altro amico, aveva detto laconicamente «mosche», e a un terzo, come Hyde apprese in seguito, fornì la scusa che il suo meticcio si era «ammalato», e che era stato necessario un veloce ritorno alla civiltà. Hyde, comunque, non si curò molto delle spiegazioni; il suo interesse per esse fu risvegliato più tardi. «Abbonda di pesci» era una frase che gli piaceva. Prese il treno della Canadian Pacific fino a Mattawa, si accampò lungo lo Stony Creek, e da lì partì per la traversata in canoa di quindici miglia, senza un solo pensiero al mondo. Visto che viaggiava con pochi pesi, i punti in cui affluivano altri fiumi non gli crearono problemi. L'acqua era veloce e agevole, le rapide sormontabili; tutto andava per il verso giusto, come si usa dire. Di tanto in tanto vide dei pesci dirigersi verso acque più profonde, e fu molto tentato di fermarsi, ma non cedette alla tentazione. Si addentrò nel mondo immenso delle foreste che si stendevano per centinaia di miglia, conosciute solo dai cervi, dagli orsi, dagli alci e dai lupi, ma ignote all'uomo. Una regione selvaggia, solitaria e primitiva. La giornata autunnale era calma, le acque cantavano e scintillavano, il cielo azzurro si stendeva sereno su tutto, abbagliante di luce. Verso sera superò una diga di castori, aggirò una piccola punta, e posò per la prima volta gli occhi sul Medicine Lake. Sollevò la pagaia gocciolante: la canoa scese con una silenziosa scivolata nelle acque calme. Hyde lanciò un'esclamazione di gioia, perché la bellezza del lago gli aveva tolto il fiato. Sebbene fosse soprattutto uno sportivo, non era insensibile alla bellezza. Il lago formava una mezzaluna, lunga circa quattro miglia e larga quasi un miglio. I raggi dorati e obliqui del tramonto l'inondavano. Nessuna brezza increspava la superficie cristallina. Era così da quando il Dio Pellerossa l'aveva fatto, e sarebbe stato così finché Lui non l'avesse prosciugato. Altri abeti si schieravano lungo le rive, cedri maestosi si chinavano come se volessero dissetarsi, sumacchi cremisi brillavano a macchie fiammeggianti, e aceri splendevano di rosso e d'arancio. L'aria era frizzante come un vino, e silenziosa come un sogno. Era lì che i Pellirosse un tempo «facevano magie», con tutti i rituali selvaggi e le cerimonie tribali dei tempi antichi. Ma era a Morton, più che agli Indiani, che Hyde pensava. Se quel paradiso solitario e nascosto ab-
bondava di grandi pesci, doveva molto a Morton per quell'informazione. La pace lo invase, ma sotto covava l'eccitazione del cacciatore. Si guardò intorno con un occhio rapido ed esperto in cerca di un posto per accamparsi, prima che il sole si immergesse al di sotto delle foreste e scendesse il crepuscolo. La capanna dell'Indiano, illuminata in pieno dal tramonto sulla riva orientale, gli fu subito visibile; ma gli alberi erano troppo fitti in quel punto. Del resto, non desiderava stare così vicino all'abitante della capanna. Sul lato opposto, però, si trovava una radura ideale per un accampamento. Era già immersa nell'ombra: l'enorme foresta la ombreggiava all'imbrunire; ma quello spazio aperto lo attrasse. Pagaiò rapidamente verso la riva e l'esaminò. Il terreno era duro e asciutto, scoprì, e un piccolo ruscello correva spumeggiando lungo un lato e affluiva al lago. Anche quella foce sarebbe stata un ottimo posto per pescare. Era perfino protetta. Qualche salice segnava lo sbocco. Un campeggiatore esperto prende subito le sue decisioni. Era un posto perfetto, e qualche ceppo carbonizzato, nonché delle tracce di vecchi fuochi, gli dissero che non era stato il primo a pensarlo. Hyde era deliziato. Poi, improvvisamente, la delusione oscurò il suo piacere. Aveva portato a terra il suo equipaggiamento e aveva cominciato a montare la tenda, quando ricordò un particolare che l'eccitazione aveva spinto in un angolo remoto della sua mente: il consiglio di Morton. Ma non solo di Morton, perché il bottegaio a Stony Creek l'aveva confermato. Quell'uomo alto con i baffi radi e le spalle curve, abbigliato in camicia e pantaloni, gli aveva dato il consiglio finale insieme alla pancetta, alla farina, al latte condensato e allo zucchero. Aveva ripetuto le parole di Morton, che Hyde aveva quasi dimenticate: «Montate la vostra tenda sulla riva orientale. Al posto vostro, io lo farei», aveva detto al momento del commiato. Il bottegaio ricordava anche Morton. «Un uomo basso, scuro come un indiano e che emanava odore di boschi. Viaggiava con Jake, il meticcio.» Era sicuramente Morton. «Non si fermò a lungo, vero?», aggiunse in tono meditabondo. «State andando al Windy Lake, vero? Oppure al Ten Mile Water, forse?» Era stata la prima domanda che aveva fatto ad Hyde. «Al Medicine Lake.» «Veramente?», aveva detto l'uomo, come se ne dubitasse per qualche ragione oscura. Si toccò i baffi ispidi. «Veramente?», ripeté. E le ultime pa-
role arrivarono dopo una lunga pausa: il consiglio a proposito della riva migliore su cui accamparsi. Tutto questo gli tornò improvvisamente alla mente con una sfumatura di delusione e di noia perché, quando due uomini esperti concordano, la loro opinione non si può trascurare con leggerezza. Desiderò di aver chiesto più particolari al bottegaio. Si guardò intorno, meditò, esitò. Il posto che aveva scelto per accamparsi era senza dubbio sulla riva proibita. Quali mai potevano essere le obiezioni contro quella riva? Ma la luce si stava affievolendo; doveva decidere velocemente che cosa fare. Dopo aver guardato il bagaglio ancora imballato e la tenda montata a metà, prese la sua decisione mormorando una frase che inviava sia Morton che il bottegaio in luoghi molto meno piacevoli. «Devono avere qualche ragione», brontolò tra sé; «persone del genere di solito sanno quello che dicono. Immagino che farei meglio a trasferirmi sull'altra riva, almeno per stanotte.» Prima di ricaricare tutto sulla canoa, lanciò un'occhiata alla riva opposta. Dalla capanna dell'Indiano non si alzava fumo. Non aveva visto nessuna traccia di una canoa. Decise che l'Indiano non c'era. Allora, con riluttanza, abbandonò quell'ottima radura e pagaiò attraverso il lago. Un'ora e mezza dopo, la sua tenda era montata, la legna per il fuoco era stata raccolta, e due piccole trote erano già state prese per la cena. Ma i pesci più grandi, Hyde lo sapeva, lo aspettavano sull'altra riva, accanto alla piccola foce. Alla fine, si addormentò sul suo letto di rami balsamici, deluso e annoiato, chiedendosi come fosse possibile che una semplice frase l'avesse persuaso così facilmente, malgrado il suo parere contrario. Dormì come un sasso; il sole era già alto quando si svegliò. Ma il suo umore mattutino era molto diverso. La luce brillante, la pace, l'aria inebriante, tutto era così rallegrante per la sua mente da dissolvere le stupide fantasticherie della sera prima. Si meravigliò di essere stato tanto debole. Non aveva più esitazioni. Subito dopo colazione smontò l'accampamento, attraversò con la canoa la striscia di acqua scintillante, e si sistemò rapidamente sulla riva proibita, come ormai la chiamava, con un ghigno di disprezzo. E, più vedeva quella radura, più gli piaceva. C'era legna in abbondanza, acqua da bere, uno spazio aperto intorno alla tenda, e non c'erano mosche. La pesca, per di più, era magnifica. La descrizione di Morton era pienamente giustificata, e «abbonda di pesci grandi» per una volta non era un'esagerazione. Passò le ore inutili del primo pomeriggio a sonnecchiare al sole, o a pas-
seggiare nella boscaglia che era al di là dell'accampamento. Non trovò niente di insolito. Si bagnò in uno stagno freddo e profondo, e si divertì in quel piccolo paradiso solitario. Solitario, lo era certamente, ma la solitudine faceva parte del suo fascino. La tranquillità, la pace, l'isolamento di quel bel lago tra i boschi lo deliziavano. Il silenzio era divino. Hyde era soddisfatto. Dopo una tazza di tè, verso sera passeggiò lungo la riva per vedere i primi pesci che salivano a galla. La lieve increspatura sull'acqua e le ombre che si allungavano, erano buoni segni. Si sentiva un tonfo dopo l'altro, quando i grandi pesci salivano a galla, ghermivano il cibo, e svanivano nelle profondità. Si affrettò all'accampamento. Dieci minuti dopo aveva preso le canne e scivolava silenziosamente con la canoa sull'acqua tranquilla. La pesca era tanto buona e le trote si ammucchiavano tanto velocemente sul fondo della canoa che, nonostante il buio si infittisse, trovò difficile allontanarsi. «Un'altra», si disse, «e poi me ne vado.» Tirò in secco quell'«altra», e stava per staccarla dall'amo, quando il silenzio profondo della sera fu stranamente turbato. Improvvisamente si accorse di essere osservato. Un paio d'occhi, così gli sembrava, lo fissavano dalle ombre circostanti. Almeno, così interpretò quello strano turbamento del suo umore lieto; quella era la sua sensazione. Ne era stato assalito senza nessun preavviso. Non era solo. La grande trota viscida gli scivolò dalle mani. Restò immobile a guardarsi intorno. Non si muoveva niente: l'increspatura sul lago era scomparsa, non c'era vento, e la foresta era un ammasso purpureo di ombre. Il cielo giallo, che scoloriva velocemente, creava riflessi che infastidivano gli occhi e rendevano incerte le distanze. Ma non c'era nessun rumore, nessun movimento. Non vide nessuna figura. Eppure sapeva che qualcuno lo osservava, e un'ondata di un terrore irragionevole lo sommerse. La prua della canoa era contro la riva. In un attimo, e istintivamente, la allontanò e pagaiò verso l'acqua più profonda. L'osservatore, anche questo gli venne alla mente istintivamente, era vicino a quella riva. Ma dove? E chi era? Era l'Indiano? Quando arrivò nell'acqua più profonda, a una ventina di metri dalla sponda, si fermò e aguzzò occhi e orecchie per scovare qualche indizio. Provava un po' di vergogna, ora che quella strana sensazione iniziale si era attutita. Ma la certezza restava. Per quanto assurdo fosse, era sicuro che qualcuno lo osservasse con concentrazione e intensità. Ogni fibra del suo essere glielo diceva; e, sebbene non vedesse nessuna figura, nessuna sa-
goma sulla riva, avrebbe potuto giurare in quale gruppo di salici quella persona era nascosta a spiarlo. La sua attenzione era attratta da un gruppo in particolare. L'acqua gocciolava lentamente dalla pagaia che era poggiata di traverso sulla canoa. Non si udiva nessun altro suono. La tela della sua tenda brillava fioca. Cominciarono a vedersi le stelle. Hyde aspettava, ma non accadde niente. Poi, improvvisa com'era venuta, la sensazione passò, ed egli seppe che la persona che l'aveva osservato intenzionalmente era andata via. Fu come se una corrente si fosse spenta: il mondo tornò normale. Il paesaggio si svuotò come se qualcuno avesse lasciato una stanza. Quella sgradevole sensazione lo lasciò nel medesimo tempo, cosicché virò immediatamente la canoa verso la riva, la tirò in secco e, con la pagaia in mano, si avvicinò a esaminare il gruppo di salici che aveva identificato come nascondiglio dell'osservatore. Non c'era nessuno, naturalmente, né c'era traccia che vi fosse stato di recente un essere umano. Non c'erano né foglie né rami smossi, e nemmeno un ramoscello era stato spostato. Il suo occhio acuto ed esperto non trovò nessuna orma sul terreno. Ma, ciononostante, era certo che poco tempo prima qualcuno si fosse accovacciato proprio tra quelle foglie per osservarlo. Ne restò assolutamente convinto. L'osservatore, sia che fosse l'Indiano, un cacciatore, un boscaiolo, sia che fosse un meticcio vagabondo, si era ritirato: una ricerca sarebbe stata inutile, e stava scendendo la sera. Ritornò al suo piccolo accampamento più turbato di quanto volesse ammettere. Si cucinò la cena, appese il carniere a una fune, in modo che nessun animale predatore lo prendesse durante la notte, e si preparò a stare comodo fino all'ora di andare a letto. Inconsciamente, preparò un fuoco più grande del solito, e si sorprese a scrutare le profonde ombre che si stendevano oltre il falò e a tendere le orecchie per afferrare il minimo rumore. Restò in allarme, una condizione che gli era del tutto nuova. Un uomo che si trovi in condizioni simili e in un posto simile, non avverte il disagio finché il senso di solitudine non lo colpisce come qualcosa di troppo reale e vivido. La solitudine apporta fascino, piacere, e una bella sensazione di calma fino a che, o a meno che, non arrivi troppo vicina. Dovrebbe restare solo un ingrediente tra gli altri; non dovrebbe essere notato troppo direttamente, con troppa concretezza. Una volta che si sia avvicinata troppo, però, può facilmente attraversare lo stretto confine tra benessere e malessere, e il buio è il momento peggiore per questa transizione.
Può facilmente seguire una strana paura: la paura che la solitudine possa essere improvvisamente turbata, e il solitario essere umano si sente esposto ad ogni attacco. Per Hyde, ormai, quella transizione si era già compiuta. Quel senso troppo profondo di solitudine si era trasformato d'improvviso nella terribile condizione di non sopportare più di essere completamente solo. Era un momento difficile, e l'impiegato d'albergo comprese con esattezza la sua posizione. Non gli piaceva affatto. Sedeva con le spalle ai ceppi accesi, una figura stagliata sullo sfondo della luce del falò, mentre tutt'intorno a lui il buio della foresta si ergeva come un muro impenetrabile. Non vedeva nulla al di là del piccolo alone del suo fuoco da campo; il silenzio che lo circondava era il silenzio della morte. Non frusciava nessuna foglia, non sciabordava nessun'onda; lui stesso era immobile come un ceppo di legno. Poi, ad un tratto, divenne cosciente che la persona che l'aveva osservato era tornata, e che veniva fissato dallo stesso sguardo intenso e concentrato. Non c'era stato nessun avvertimento; non aveva sentito scalpiccii furtivi né scoppiettii di ramoscelli secchi. Eppure, il possessore di quegli occhi ferini era molto vicino, probabilmente a poco più di tre metri di distanza. Quella sensazione di vicinanza era schiacciante! Un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Questa volta, per giunta, era certo che l'uomo fosse accovacciato appena oltre la luce del falò, e quella era una distanza accuratamente calcolata. Avvertiva che l'osservatore era proprio davanti a lui. Per qualche minuto non mosse nemmeno un muscolo, eppure ogni suo nervo era pronto e attento. Tendeva gli occhi invano per penetrare l'oscurità, ma riuscì solo ad abbagliarli per il riflesso della luce. Poi, mentre cambiava posizione lentamente, con cautela, per avere un altro angolo di visuale, il cuore gli diede due tonfi contro le costole e i capelli gli si rizzarono sulla nuca, mentre aumentava la sensazione di gelo lungo la spina dorsale. Nel buio, di fronte a sé, vide due cerchietti verdastri che erano, senza dubbio, un paio d'occhi, ma non quelli di un Indiano o di un qualsiasi altro essere umano. Erano due occhi di animale che lo fissavano intensamente dall'oscurità. E questa certezza ebbe un effetto immediato e naturale su di lui. Perché, alla minaccia contenuta in quegli occhi, le paure dei milioni di cacciatori vissuti fin dall'origine dei tempi si ridestarono in lui. Per quanto fosse un impiegato d'albergo, gli istinti atavici sorsero dentro di lui e lo inondarono. La sua mano annaspò in cerca di un'arma. Le dita toccarono la testa di ferro della sua piccola ascia da campo e, all'improvvi-
so, tornò ad essere se stesso. La fiducia ritornò, e quella paura vaga e superstiziosa scomparve. Doveva trattarsi di un orso o un lupo che aveva sentito l'odore dei pesci ed era venuto a rubarli. Con un essere di quel genere sapeva istintivamente come comportarsi, pur ammettendo che, grazie a questo stesso istinto, la sua prima paura era stata di un genere completamente diverso. «Dannazione, scoprirò subito che cos'è», esclamò ad alta voce: afferrò quindi un tizzone ardente dal fuoco e lo lanciò con un tiro preciso verso gli occhi dell'animale che gli stava davanti. Il ceppo di abete cadde in una pioggia di scintille che illuminarono l'erba secca che si trovava ai fianchi della creatura: fiammeggiò per un attimo, poi si spense. Ma, in quell'istante di luce forte, egli vide con chiarezza chi era il suo visitatore. Un grande lupo era accucciato sulle zampe posteriori, e lo fissava attraverso il fuoco. Vide le zampe e le spalle, vide il pelo, vide anche i grandi tronchi di abete che erano dietro l'animale, e la macchia di salici che gli dava riparo. Il tutto creava un quadro vivido, netto, reso visibile in ogni particolare dal momentaneo lampo di luce. Con sua grande meraviglia, però, il lupo non fuggì dal ceppo acceso, ma si ritrasse solo di qualche metro, e si rimise a sedere sulle zampe a fissare, a fissare come prima. Cielo, come fissava! Hyde urlò per mandarlo via, ma non ottenne nessun effetto. L'animale non si mosse. Non sprecò un altro ceppo, perché ormai la sua paura era scomparsa. Un lupo era un lupo, e poteva restare lì quanto gli piaceva, purché non tentasse di rubargli il carniere. Ormai non era più allarmato. Sapeva che i lupi sono innocui in estate e in autunno, e anche quando si raccolgono in branchi durante l'inverno, attaccano l'uomo solo se sono in preda ad una fame disperata. Perciò restò ad osservare l'animale, gettò qualche bastoncino di legno nella sua direzione, e gli parlò perfino, chiedendogli se si sarebbe mai mosso. «Puoi restare lì per sempre, se vuoi», osservò ad alta voce, «perché tanto non puoi prendere i miei pesci, e il resto delle provviste lo porterò in tenda con me!» La creatura batté gli occhi grandi e verdi, ma non si mosse. Perché, allora, se la sua paura era scomparsa, pensava a certe cose mentre si agitava tra le coperte prima di addormentarsi? L'immobilità di quell'animale era strana, il suo rifiuto di girarsi e scappare era ancora più strano. Non aveva mai saputo prima di allora che potesse esistere un animale che non temeva il fuoco. Perché sedeva e lo osservava con quello sguardo
intento, con quei suoi occhi spaventosi? Come aveva fatto ad avvertire immediatamente la presenza del lupo? Un lupo, soprattutto un jupo solitario, è una creatura timida, ma quello non temeva né l'uomo né il fuoco. Ora, mentre era disteso nella comoda tenda, avvolto nelle coperte, il lupo era accucciato sotto le stelle, accanto alle braci morenti, con il vento gelido nella pelliccia, la terra fredda sotto le zampe, a guardarlo, a guardarlo fissamente. E forse sarebbe restato lì fino all'alba. Era insolito, e strano. Poiché non possedeva né immaginazione né ricordi, non richiamò alla mente nessuna riserva di visioni ataviche. Banale, concreto, un impiegato d'albergo in vacanza, era steso tra le coperte a farsi domande e a stupirsi. Un lupo era un lupo e niente più. Eppure quel lupo l'idea lo ossessionava - era diverso. In una parola, la parte più profonda del suo primitivo disagio restava intatta. Si girò e rigirò, e a volte rabbrividì durante il suo sonno agitato. Non uscì dalla tenda a vedere, ma si svegliò presto e non riposato. Ma con la luce del sole e il vento mattutino, l'incidente della notte prima fu dimenticato, divenne quasi irreale. Il suo zelo di pescatore era più forte. Il tè e il pesce erano deliziosi, la sua pipa non aveva mai avuto un gusto così buono, e la gloria di quel lago solitario tra le foreste primitive gli andò alla testa. Era un cacciatore davanti a Dio, e nulla più. Provò a pescare ai bordi del lago e, mentre era in preda all'eccitazione per aver preso un grande pesce, capì improvvisamente che il lupo era lì. Si fermò con la canna in mano, come se si fosse incagliata. Si guardò intorno, poi guardò in una direzione precisa. La brillante luce del sole rendeva ogni minimo particolare chiaro e netto: i massi di granito, i ceppi bruciati, i sumacchi cremisi, i ciottoli lungo la riva, ma senza rivelare dov'era nascosto l'osservatore. Poi spostò lo sguardo lungo la riva tra la macchia intricata e, improvvisamente, scorse quella sagoma familiare, quasi attesa. Il lupo era disteso dietro un masso di granito, cosicché ne erano visibili solo la testa, il muso e gli occhi. Si fondeva con lo sfondo. Se non avesse saputo che era un lupo, non l'avrebbe mai distinto dal paesaggio. I suoi occhi splendevano alla luce del sole. Hyde lo guardò. I loro occhi si incontrarono. «Gran Dio!», esclamò ad alta voce. «Be', sembra proprio un essere umano!» Da quel momento, involontariamente, stabilì un singolare rapporto personale con l'animale. E ciò che seguì confermò quell'indesiderabile impressione, perché l'animale si alzò immediatamente e scese verso la riva con passo deciso e tranquillo. Poi si fermò a guardarlo. Lo fissava negli occhi come un grande cane sel-
vatico, cosicché Hyde fu cosciente di una sensazione nuova e incredibile: il lupo voleva un cenno di riconoscimento da parte sua. «Bene, bene!», esclamò ancora, liberandosi di quella sensazione con il rivolgersi ad alta voce all'animale. «Questo supera tutto quello che ho visto nella mia vita! Che cosa vuoi, ad ogni modo?» Lo esaminò con più attenzione. Non aveva mai visto un lupo così grande. Era una bestia tremenda, un avversario difficile da combattere, rifletté, se si fosse mai arrivati a quel punto. Era accucciato assolutamente tranquillo e fiducioso. Nella abbagliante luce del sole, ne osservò ogni particolare: un lupo enorme, peloso, dai fianchi magri. I suoi occhi maligni guardavano fissi nei suoi, quasi come se l'animale avesse qualcosa di preciso in mente. Vide le sue grandi mandibole, i denti e la lingua che penzolava e gocciolava saliva. Eppure in quell'animale c'era ben poca traccia di selvatichezza o di ferocia. Era stupito e sorpreso oltre ogni limite. Desiderò che l'Indiano tornasse. Non capiva un comportamento tanto strano in un animale. I suoi occhi, la loro strana espressione, gli procuravano una sensazione insolita, imbarazzante. Si chiese se per caso gli stavano saltando i nervi. La bestia stava sulla riva e lo guardava. Per la prima volta desiderò di aver portato con sé un fucile. Con uno schiaffo sonoro, calò di piatto la pagaia sull'acqua, con tutta la sua forza, finché gli echi risuonarono come colpi di fucile e furono udibili da un'estremità del lago all'altra. Il lupo non si mosse. Hyde ammiccò con gli occhi e gli parlò come si parla ad un cane, un animale domestico, una creatura abituata alle maniere umane. L'animale ammiccò in risposta. Alla fine, aumentò la distanza dalla riva e continuò a pescare. L'eccitazione di quello sport meraviglioso attrasse la sua attenzione, quella superficiale, almeno. A volte dimenticò quasi l'animale; però, ogniqualvolta alzava lo sguardo, lo vedeva lì. Ma, peggio ancora, quando cominciò lentamente a pagaiare verso la riva, lo vide trottare lungo la spiaggia come se volesse tenergli compagnia. Nell'attraversare una piccola baia, Hyde raddoppiò la velocità delle remate, con la speranza di raggiungere l'altro punto prima del suo compagno indesiderato e indesiderabile. Immediatamente, l'animale cominciò a correre con quell'andatura rapida, instancabile che, tranne sul ghiaccio, supera nella corsa qualsiasi altra creatura a quattro zampe che corra nei boschi. Quando raggiunse quel punto distante, il lupo lo aspettava. Alzò la pagaia dall'acqua, e si fermò un momento per riflettere. Quell'attenzione così
viva - l'imbrunire e la notte dovevano ancora arrivare - non gli piaceva affatto. Il suo accampamento era vicino; doveva avvicinarsi a riva. Si sentì a disagio perfino nella luce splendente del giorno, quando, con suo grande sollievo, a circa un mezzo miglio dalla tenda, vide la creatura fermarsi di colpo e accucciarsi. Aspettò un momento, poi riprese a pagaiare. Il lupo non lo seguì. Non fece nessun tentativo di muoversi; era accucciato e lo guardava. Dopo qualche centinaio di metri, si girò a guardarlo: era ancora immobile, fermo dove l'aveva lasciato. Ed ebbe la sensazione assurda ma intensa, che la creatura avesse indovinato i suoi pensieri, la sua ansia, la sua paura, e ora gli stesse mostrando, quanto meglio poteva, che non nutriva alcun sentimento ostile, che non meditava di attaccarlo. Virò la canoa verso la riva e la tirò in secco; all'imbrunire si cucinò la cena ma l'animale non diede alcun segno. Certamente era accucciato poco lontano a guardare, ma non avanzava. E Hyde, ormai attento in un modo nuovo, fu acutamente cosciente della strana atmosfera assunta dalla sua personalità banale e comune: d'improvviso si rese conto che le sue relazioni con il lupo, già stabilite, avevano fatto un netto passo in avanti. Questo lo sorprese, ma la sorpresa non fu accompagnata dall'allarme che avrebbe certamente provato ventiquattro ore prima. Capiva il lupo. Era conscio di provare dei sentimenti amichevoli nei suoi confronti. Si spinse a tal punto da mettere qualche grosso pesce nel punto dove l'aveva visto la prima volta la notte precedente. «Se viene», pensò, «li mangerà volentieri. Io ne ho in abbondanza, ad ogni modo.» Ormai pensava al lupo come a una persona. Ma il lupo non si fece vedere finché Hyde non fu sul punto di entrare nella tenda molto tempo dopo. Erano quasi le dieci, sebbene le nove fosse l'ora in cui andava a dormire. Inconsciamente, l'aveva aspettato. Poi, mentre stava chiudendo la tenda, vide gli occhi nel posto in cui aveva messo il pesce. Attese, nascondendosi e aspettandosi di sentire il rumore di mandibole che masticavano, ma tutto rimase in silenzio. Solo gli occhi lampeggiavano fermi sullo sfondo dei boschi bui. Chiuse la tenda. Non provava la minima paura. Dopo dieci minuti era profondamente addormentato. Non doveva aver dormito molto perché, quando si svegliò, vide un debole bagliore rossastro attraverso la tela, e il fuoco non si era spento completamente. Si alzò e scrutò cautamente fuori. L'aria era molto fredda, e il suo respiro si condensava in nuvolette di vapore. Ma vide anche il lupo, perché si era avvicinato, ed era accucciato accanto al fuoco morente, a cir-
ca due metri dall'entrata della tenda. E questa volta, a una distanza così ravvicinata, ci fu qualcosa nell'atteggiamento della grande creatura selvatica che attrasse la sua attenzione con un fremito di sorpresa e uno shock improvviso che lo immobilizzò. Guardò, incapace di credere ai propri occhi. L'atteggiamento del lupo gli comunicava qualcosa di familiare che lui sulle prime non fu in grado di spiegare. La sua posizione gli faceva pensare a qualcos'altro con cui lui aveva familiarità. Che cos'era? Forse i sensi lo tradivano? Stava ancora dormendo o quello era un sogno? Poi, a un tratto, con un sussulto, riconobbe e capì. Il suo atteggiamento era quello di un cane. Una volta trovata la chiave di interpretazione, la sua mente fece un balzo spaventoso. Perché quello, dopotutto, era solo la scimmiottatura di un cane, era qualcosa di più vicino a lui, e di ancora più familiare. Buon Dio! L'atteggiamento, la posizione di riposo del lupo, avevano qualcosa di quasi umano. E poi, con una seconda scossa di pungente meraviglia, ebbe una rivelazione. Il lupo sedeva accanto al fuoco così come si sarebbe seduto un uomo. Prima che potesse soppesare la sua straordinaria scoperta, prima che la potesse esaminare nei particolari e con cura, l'animale, seduto in quella maniera spaventosa, sembrò sentire gli occhi dell'uomo fissi su di lui. Si girò lentamente a guardarlo in volto e, per la prima volta, Hyde sentì una paura superstiziosa, atavica, sommergere il suo intero essere. Sembrò trafitto dal terrore senza nome che si dice assalga gli esseri umani che si trovino d'improvviso davanti alla morte, ritrovandosi incapaci di parlare e di muoversi. Certamente, fu colto da quel momento di paralisi. Comunque, passò nello stesso modo singolare in cui era venuto. Perché quasi subito fu cosciente di qualcosa che andava al di là e al di sopra di quella imitazione di una posa e di un atteggiamento umani, qualcosa che fluiva lungo i suoi nervi non abituati, raggiungeva i suoi sensi, e forse perfino il cuore. L'improvviso mutamento fu straordinario, ma il suo risultato fu ancora più straordinario e inatteso. Eppure il fatto restava. Fu cosciente di un altro fattore che ebbe l'effetto di placare il suo terrore rapidamente com'era nato. Fu cosciente di una supplica silenziosa, inespressa, ma patetica. Vide in quegli occhi selvaggi un'espressione implorante, perfino struggente, che cambiò come per magia la sua paura in una simpatia spontanea. Il grande animale grigio, simbolo di crudele ferocia, sedeva accanto al fuoco morente e chiedeva aiuto. L'abisso tra esseri umani e animali in quel momento sembrò colmarsi. Era, naturalmente, incredibile. Hyde, con la coscienza ancora annebbiata
dal sonno e dai sogni, riconobbe, senza sapere come, quel fatto stupefacente. Si sorprese a fare un cenno di assenso al lupo e, immediatamente, senza rumore, la forma snella e grigia si alzò come un fantasma e si allontanò al trotto, con passo fermo, verso l'oscurità della notte. Quando la mattina dopo Hyde si svegliò, la sua prima impressione fu di avere sognato l'intero incidente. La sua natura pratica ebbe la meglio. La fresca aria autunnale era frizzante, il sole brillante non lasciava nessuna zona di penombra, e lui si sentiva forte nell'animo e nel corpo. Quando ripensò a ciò che era accaduto, arrivò alla conclusione che era completamente inutile ragionare. Non gli venne in mente nessuna spiegazione possibile del comportamento dell'animale: aveva a che fare con qualcosa di completamente estraneo alla sua esperienza. La paura, però, l'aveva lasciato del tutto. Rimaneva quello strano senso di amicizia. L'animale aveva uno scopo definito, e lo stesso Hyde era incluso in quello scopo. La sua simpatia era valida. Ma insieme alla simpatia c'era anche una curiosità intensa. «Se ritorna», si disse, «mi avvicinerò e scoprirò che cosa vuole.» Il pesce che aveva lasciato la sera prima non era stato toccato. Fu un'ora dopo la colazione che rivide l'animale: era ai margini della radura e lo guardava in un modo che ormai gli era divenuto familiare. Hyde immediatamente afferrò l'ascia e avanzò coraggiosamente verso il lupo, tenendo gli occhi fissi nei suoi. Era nervoso, ma si controllava. Nulla tradì il suo nervosismo. Un passo dopo l'altro, si avvicinò finché li separarono solo una decina di metri. Il lupo non aveva ancora mosso nemmeno un muscolo. La mascella inferiore era abbassata, e i suoi occhi lo osservavano intensamente. Lo lasciò avvicinare senza far capire quale fosse il suo umore. Poi, quando ci furono solo dieci metri tra loro, si girò di scatto e si avviò lentamente, guardandosi indietro prima da un lato e poi dall'altro, esattamente come avrebbe fatto un cane, per vedere se Hyde lo seguiva. Fu un viaggio singolare quello che fecero insieme l'animale e l'uomo. Furono subito circondati dagli alberi, perché lasciarono dietro di loro il lago, ed entrarono nella macchia intricata che era al di là dell'acqua. L'animale, notò Hyde, prese ovviamente i sentieri che lui poteva percorrere più facilmente. Gli ostacoli, che non significavano niente per un quadrupede esperto ma erano difficoltosi per un uomo, furono evitati dal lupo con un'intelligenza soprannaturale, mentre la direzione generale fu mantenuta accuratamente. Ogni tanto c'erano degli alberi abbattuti da superare; ma, sebbene il lupo li superasse con facilità, si fermava sempre ad aspettare che
l'uomo vi si arrampicasse a fatica e spuntasse dall'altra parte. Si addentrarono sempre più nel cuore della foresta solitaria in quel modo particolare. A Hyde parve che tagliassero l'arco della mezzaluna del lago. Infatti, dopo circa due miglia, riconobbe il grande promontorio roccioso che era a picco sulla riva settentrionale del lago. Dal suo accampamento aveva visto quel promontorio un cui lato scendeva ripido fino all'acqua. Aveva immaginato che fosse il posto in cui gli Indiani tenevano le loro cerimonie magiche, perché si ergeva isolato e la sua cima non era di facile accesso. E fu lì, vicino a un grande abete che era ai piedi del promontorio, che il lupo si fermò improvvisamente e diede per la prima volta espressione ai propri sentimenti. Si accucciò sulle zampe posteriori, alzò il muso, aprì le mascelle, ed emise un guaito lungo e sommesso che era molto più simile al lamento di un cane che al feroce ululato che in genere si associa al lupo. Nel frattempo, Hyde aveva perso non solo ogni paura, ma anche la cautela. E, piuttosto stranamente, quel guaito non risvegliò in lui nessuna emozione spiacevole. In quello strano suono, egli riconobbe lo stesso messaggio che comunicavano gli occhi: una richiesta di aiuto. Cionondimeno si fermò, un po' spaventato e, mentre il lupo aspettava, si guardò rapidamente intorno. Gli alberi erano giovani: evidentemente, prima quella era una piccola radura. Ascia e fuoco avevano fatto il loro lavoro, ma a un occhio esperto era chiaro che vi avevano lavorato degli Indiani e non uomini bianchi. Una parte dei rituali magici, senza dubbio, avveniva in quella piccola radura, pensò l'uomo, mentre avanzava verso il suo paziente compagno. La fine del loro strano viaggio era vicina, sentiva Hyde. Non aveva ancora fatto due passi, che l'animale si alzò e si mosse lentamente in direzione di alcuni cespugli bassi che formavano una macchia. Entrò tra i cespugli, voltandosi per assicurarsi che il suo compagno lo stesse guardando. I cespugli lo nascosero: un momento dopo riemerse. Compì due volte quella pantomima: ogni volta, quando riapparve, si fermò a guardare l'uomo con l'espressione più implorante che un animale riesce ad assumere. La sua eccitazione, intanto, aumentò, e quella eccitazione fu comunicata all'uomo. Hyde prese in fretta la propria decisione. Afferrò più strettamente il manico dell'ascia e si tenne pronto a usarla al primo segno di aggressività, e poi si mosse lentamente verso i cespugli, chiedendosi con un po' di paura che cosa sarebbe accaduto. Se si aspettava di essere sorpreso, le sue aspettative furono colmate; ma
fu il comportamento dell'animale a farlo trasalire. Gli saltellò intorno, scodinzolando come un cane allegro. Saltellava di gioia. La sua eccitazione era intensa, eppure dalla bocca aperta non proveniva alcun suono. Con un balzo improvviso, poi, saltò oltre Hyde nel folto di cespugli. Si fermò ai bordi, e cominciò a grattare con forza sul terreno. Hyde si fermò a guardare, e lo stupore e l'interesse allontanarono il nervosismo, perfino quando l'animale, nel suo movimento violento, toccò il suo corpo con il proprio. Hyde, forse, aveva la sensazione di vivere in un sogno, uno di quei sogni fantastici in cui può accadere qualsiasi cosa ma mai niente è sorprendente. Altrimenti, il modo in cui il lupo grattava e scalfiva il terreno gli sarebbe dovuto apparire un fenomeno impossibile. Nessun lupo, certamente nessun cane, avrebbe usato le zampe nel modo in cui le usava quell'animale. Hyde ebbe la sensazione strana, angosciante, di stare guardando mani e non zampe. Eppure, in qualche modo, la sorpresa naturale che avrebbe dovuto sentire era assente. Lo strano comportamento del lupo non gli sembrava del tutto innaturale. Nel suo cuore si sprigionò una corrente di simpatia e di pietà Fu cosciente di un grande dolore. Il lupo interruppe la sua attività e alzò gli occhi sull'uomo. Hyde allora agì senza più esitare. In seguito, non fu assolutamente in grado di spiegare la propria condotta. Seppe che cosa doveva fare, indovinò che cosa gli veniva chiesto, che cosa l'animale si aspettava da lui. Tra la sua mente e il muto desiderio che dilaniava la belva, si creò una comunicazione intelligente e intellegibile. Egli tagliò un ramo e lo affilò, perché le pietre avrebbero spuntato la lama dell'ascia, quindi entrò nel folto di cespugli per completare lo scavo cominciato dal suo compagno quadrupede. E, mentre lavorava, sebbene non dimenticasse la vicinanza del lupo, non gli prestò alcuna attenzione. Spesso gli voltava la schiena e si chinava sul duro scavo. In lui non c'era più né disagio né senso del pericolo. Il lupo era accucciato accanto ai cespugli e guardava i suoi movimenti. La sua attenzione concentrata, la sua pazienza, il suo desiderio intenso, la gentilezza e la docilità di quell'animale grigio, feroce e forse affamato, il suo piacere e la sua soddisfazione evidente nell'aver conquistato l'essere umano ai suoi fini misteriosi: tutti questi furono i colori dello strano quadro a cui Hyde pensò più tardi quando si trovò di nuovo a trattare con il gregge umano del suo albergo. In quel momento era cosciente soprattutto del grande dolore e della compassione. Tutta quella storia era, naturalmente, incredibile, ma questa sco-
perta avvenne più tardi, quando volle raccontare la sua esperienza agli altri. Lo scavo continuò per una mezz'ora prima che le sue fatiche fossero ricompensate dalla scoperta di un piccolo oggetto biancastro. Lo sollevò e lo esaminò: era l'osso di una mano umana. Seguirono in fretta molte altre scoperte. Il nascondiglio fu messo a nudo. Raccolse quasi tutto lo scheletro. Il teschio, però, lo trovò alla fine, e non l'avrebbe trovato affatto, se non fosse stato per il suo compagno attento e vigile. Era a qualche metro dal fosso appena scavato. Il lupo strofinò il muso sul terreno e Hyde capì che doveva scavare esattamente in quel punto per trovare il teschio. Tra le zampe del lupo ficcò il ramo nel duro terreno. Grattò la terra dall'osso e lo esaminò con attenzione. Era perfetto, tranne per il fatto che qualche animale selvaggio l'aveva morso, e le impronte dei denti erano ancora chiaramente visibili. Accanto ad esso, c'era la testa di ferro arrugginita di un tomahawk. Quest'ultimo e la piccolezza delle ossa gli confermarono l'idea che non si trattava dello scheletro di un uomo bianco, ma di un Indiano. Durante l'eccitazione della scoperta delle ossa, e poi del teschio ma, soprattutto, durante i momenti di intenso interesse in cui Hyde li esaminava, prestò poca attenzione al lupo. Era conscio che l'animale era accucciato e lo guardava, senza mai spostare gli occhi penetranti dalle varie operazioni, ma non fece alcun segno né si mosse. Sapeva che l'animale era contento e soddisfatto, sapeva anche di aver adempiuto al suo desiderio. L'ulteriore intuizione che ebbe, derivata, ne era certo, dal muto desiderio del suo compagno, fu forse la parte più interessante di tutta la sua esperienza. Raccolte le ossa nella sua giacca, le portò, insieme al tomahawk, ai piedi del grande abete, nel punto in cui il lupo si era fermato la prima volta. La sua gamba sfiorò il muso della creatura. Il lupo girò la testa a guardarlo, ma non lo seguì né si mosse mentre preparava la piattaforma di ramoscelli. Sul letto di rami appoggiò le povere ossa logore di un Indiano che era stato ucciso, senza dubbio, in un attacco improvviso o in un'imboscata, e ai cui resti era stata negata l'ultima grazia di una giusta sepoltura tribale. Avvolse quindi le ossa nella corteccia, e posò il tomahawk accanto al teschio. Accese un fuoco tutt'intorno alla pira, e il fumo azzurrino si alzò nella luce abbagliante della mattinata autunnale finché si perse in alto tra le cime degli alberi. Nel momento in cui aveva acceso il fuocherello si era girato a vedere che cosa stava facendo il suo compagno. Era accucciato a cinque, sei metri di distanza. Hyde vide che guardava intensamente la scena e che una delle
sue zampe anteriori era leggermente sollevata dal terreno. Non fece alcun segno. L'uomo finì il lavoro, e ne fu tanto assorbito che non ebbe occhi che per la cura del suo fuoco cerimoniale. Solo quando la piattaforma di ramoscelli crollò, lasciando cadere gentilmente le ossa bruciate sul terreno fragrante tra le soffici ceneri di legno, l'uomo si girò di nuovo, come se volesse mostrare al lupo che cosa aveva fatto, e vedere, forse, un'espressione soddisfatta in quegli occhi stranamente espressivi. Ma il lupo era scomparso. Non lo vide più: da nessuna parte c'era traccia della sua presenza, Hyde non era più osservato. Pescò come prima, camminò nella macchia che circondava l'accampamento, sedette a fumare accanto al fuoco la sera, e dormì tranquillamente nella tenda piccola e comoda. Non fu disturbato. Nella lontana foresta non si sentì nemmeno un guaito, nessun ramoscello schioccò sotto un passo fermo e pesante, non vide nessun paio di occhi. Il lupo che si comportava come un uomo era scomparso per sempre. Il giorno prima di partire Hyde notò che dalla capanna, che si trovava dall'altra parte del lago, usciva del fumo. Pagaiò fino all'altra riva per scambiare qualche parola con l'Indiano che evidentemente era tornato. Il pellerossa gli andò incontro mentre lui tirava in secco la canoa, ma fu subito chiaro che parlava molto male l'inglese. Sulle prime, emise solo dei grugniti familiari, poi, poco a poco, Hyde mise in pratica il suo vocabolario limitato. Il risultato, però, fu scarso. «Tu accampare lì?», chiese l'uomo, indicando l'altra riva. «Sì.» «Il lupo venire?» «Sì.» «Tu vedere lupo?» «Sì.» L'Indiano lo fissò per un momento, e il suo volto ramato e rugoso assunse un'espressione penetrante e curiosa. «Tu avere paura del lupo?», chiese dopo un momento di pausa. «No», replicò Hyde, in tutta sincerità. Sapeva che era inutile fare domande, sebbene desiderasse avidamente ottenere delle informazioni. L'altro non gli avrebbe detto niente. Era già una fortuna che l'uomo avesse toccato quell'argomento, e Hyde capì che il suo ruolo era solo rispondere, non porre domande. Poi, d'improvviso, l'Indiano divenne relativamente loquace. C'era timore reverenziale nella sua voce e nelle sue maniere. «Lui non lupo. Lui grande lupo stregone. Lui spirito di lupo.»
Dopodiché, bevve il tè che l'altro gli aveva preparato, serrò le labbra e non disse altro. La sua sagoma era visibile sulla riva, rigida e immobile, un'ora dopo, quando la canoa di Hyde girò l'angolo del lago a tre miglia di distanza, ed egli la tirò in secco per far risalire ai bagagli la prima rapida del suo viaggio di ritorno. Fu Morton che, persuaso da Hyde, gli fornì ulteriori particolari di quella che definiva «la leggenda». Un centinaio di anni prima, la tribù che viveva nel territorio al di là del lago aveva cominciato le annuali cerimonie magiche sul grande promontorio roccioso, posto sulla riva settentrionale. Ma non poté essere realizzata nessuna magia. Gli spiriti, dichiarò il capostregone, non avrebbero risposto. Erano offesi. Seguì un'indagine. Si scoprì che un giovane indiano aveva ucciso un lupo, un'azione severamente proibita, visto che il lupo era l'animale totem della tribù. A peggiorare la situazione, il nome del colpevole era Lupo-Che-Corre. Poiché l'offesa era imperdonabile, l'uomo fu maledetto e scacciato dalla tribù. «Va' via. Erra solo nei boschi e, se ti vedremo, ti uccideremo. Le tue ossa saranno sparse nella foresta e il tuo spirito non entrerà nei Beati Territori di Caccia finché un uomo di un'altra razza non le troverà e le brucerà.» «Il che significa», spiegò Morton laconicamente, e fu il suo unico commento alla storia, «probabilmente per sempre». MALE DI LUNA di Luigi Pirandello Corriere della Sera, 22 settembre 1913 Batà sedeva tutto aggruppato su un fascio di paglia, in mezzo all'aja. Sidora, sua moglie, di tratto in tratto si voltava a guardarlo, in pensiero, dalla soglia su cui stava a sedere, col capo appoggiato allo stipite della porta, e gli occhi socchiusi. Poi, oppressa dalla gran calura, tornava ad allungare lo sguardo alla striscia azzurra di mare lontano, come in attesa che un soffio d'aria, essendo ormai prossimo il tramonto, si levasse di là e trascorresse lieve fino a lei, a traverso le terre nude, irte di stoppie bruciate. Tanta era la calura, che su la paglia rimasta su l'aja dopo la trebbiatura, l'aria si vedeva tremolare com'alito di bragia. Batà aveva tratto un filo dal fascio su cui stava seduto, e tentava di batterlo con mano svogliata su gli scarponi ferrati. Il gesto era vano. Il filo di paglia, appena mosso, si piegava. E Batà restava cupo e assorto, a guardare in terra.
Era nel fulgore tetro e immoto dell'aria torrida un'oppressione così soffocante, che quel gesto vano del marito, ostinatamente ripetuto, dava a Sidora una smania insopportabile. In verità, ogni atto di quell'uomo, e anche la sola vista le davano quella smania, ogni volta a stento repressa. Sposata a lui da appena venti giorni, Sidora si sentiva già disfatta, distrutta. Avvertiva dentro e intorno a sé una vacuità strana, pesante e atroce. E quasi non le pareva vero, che da sì poco tempo era stata condotta lì, in quella vecchia roba isolata, stalla e casa insieme, in mezzo al deserto di quelle stoppie, senz'un albero intorno, senza un filo d'ombra. Lì, soffocando a stento il pianto e il ribrezzo, da venti giorni appena aveva fatto abbandono del proprio corpo a quell'uomo taciturno, che aveva circa vent'anni di più di lei e su cui pareva gravasse ora una tristezza più disperata della sua. Ricordava ciò che le donne del vicinato avevano detto alla madre, quando questa aveva loro annunziato la richiesta di matrimonio. «Batà? Oh Dio, io per me non lo darei a una mia figliuola.» La madre aveva creduto lo dicessero per invidia, perché Batà per la sua condizione era agiato. E tanto più s'era ostinata a darglielo, quanto più quelle con aria afflitta s'erano mostrate restie a partecipare alla sua soddisfazione per la buona ventura che toccava alla figlia. No, in coscienza non si diceva nulla di male di Batà, ma neanche nulla di bene. Buttato sempre là, in quel suo pezzo di terra lontano, non si sapeva come vivesse; stava sempre solo, come una bestia in compagnia delle sue bestie, due mule, un'asina e il cane di guardia; e certo aveva un'aria strana, truce e a volte da insensato. C'era stata veramente un'altra ragione e forse più forte, per cui la madre s'era ostinata a darle quell'uomo. Sidora ricordava anche quest'altra ragione che in quel momento le appariva lontana lontana, come d'un'altra vita, ma pure spiccata, precisa. Vedeva due fresche labbra argute e vermiglie come due foglie di garofano aprirsi a un sorriso che le faceva fremere e frizzare tutto il sangue nelle vene. Erano le labbra di Saro, suo cugino, che nell'amore di lei non aveva saputo trovar la forza di rinsavire, di liberarsi dalla compagnia dei tristi amici, per togliere alla madre ogni pretesto d'opporsi alle loro nozze. Ah, certo, Saro sarebbe stato un pessimo marito; ma che marito era questo, adesso? Gli affanni, che senza dubbio le avrebbe dati quell'altro, non eran forse da preferire all'angoscia, al ribrezzo, alla paura, che le incuteva questo?
Batà, alla fine, si sgruppò; ma appena levato in piedi, quasi colto da vertigine, fece un mezzo giro su se stesso; le gambe, come impastojate, gli si piegarono; si sostenne a stento, con le braccia per aria. Un mugolo quasi di rabbia gli partì dalla gola. Sidora accorse atterrita; ma egli l'arrestò con un cenno delle braccia. Un fiotto di saliva, inesauribile, gl'impediva di parlare. Arrangolando, se lo ricacciava dentro; lottava contro i singulti, con un gorgoglio orribile nella strozza. E aveva la faccia sbiancata, torbida, terrea; gli occhi foschi e velati, in cui dietro la follia si scorgeva una paura quasi infantile, ancora cosciente, infinita. Con le mani seguitava a farle cenno di attendere e di non spaventarsi e di tenersi discosta. Alla fine, con voce che non era più la sua, disse: «Dentro... chiuditi dentro... bene... Non ti spaventare... Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido... non ti spaventare... non aprire... Niente... va'! va'!» «Ma che avete?» gli gridò Sidora, raccapricciata. Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d'un braccio indicò il cielo, e urlò: «La luna!» Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocca. Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata dal terrore, udì poco dopo gli ululi lunghi, ferini, del marito che si scontorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell'esasperazione d'una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare, sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi. «Ajuto! ajuto!» gridava lei, pur sapendo che nessuno in quel deserto avrebbe udito le sue grida. «Ajuto! ajuto!» e reggeva la porta con le braccia, per paura che da un momento all'altro, non ostante i molti puntelli, cedesse alla violenza iterata, feroce, accanita, di quella cieca furia urlante. Ah, se avesse potuto ucciderlo! Perduta, si voltò, quasi a cercare un'arma
nella stanza. Ma a traverso la grata d'una finestra, in alto, nella parete di faccia, di nuovo scorse la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di placido albore. A quella vista, come assalita d'improvviso dal contagio del male, cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi. Quando si riebbe, in prima, nello stordimento, non comprese perché fosse così buttata a terra. I puntelli della porta le richiamarono la memoria e subito s'atterrì del silenzio che ora regnava là fuori. Sorse in piedi; s'accostò vacillante alla porta, e tese l'orecchio. Nulla, più nulla. Stette a lungo in ascolto, oppressa ora di sgomento per quell'enorme silenzio misterioso, di tutto il mondo. E alla fine le parve d'udire da presso un sospiro, un gran sospiro, come esalato da un'angoscia mortale. Subito corse alla cassa sotto il letto; la trasse avanti; l'aprì; ne cavò la mantellina di panno; ritornò alla porta; tese di nuovo a lungo l'orecchio, poi levò a uno a uno in fretta, silenziosamente, i puntelli, silenziosamente levò il paletto, la stanga; schiuse appena un battente, guatò attraverso lo spiraglio per terra. Batà era lì. Giaceva come una bestia morta, bocconi, tra la bava, nero, tumefatto, le braccia aperte. Il suo cane, acculato lì presso, gli faceva la guardia, sotto la luna. Sidora venne fuori rattenendo il fiato; riaccostò pian piano la porta, fece al cane un segno rabbioso di non muoversi di lì, e cauta, a passi di lupo, con la mantellina sotto il braccio, prese la fuga per la campagna, verso il paese, nella notte ancora alta, tutta soffusa dal chiarore della luna. Arrivò al paese, in casa della madre, poco prima dell'alba. La madre s'era alzata da poco. La catapecchia, buja come un antro, in fondo a un vicolo angusto, era stenebrata appena da una lumierina a olio. Sidora parve la ingombrasse tutta, precipitandosi dentro, scompigliata, affannosa. Nel veder la figliuola a quell'ora, in quello stato, la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano tutte le donne del vicinato. Sidora si mise a piangere forte e, piangendo, si strappava i capelli, fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre, alle vicine, l'enormità del caso che le era occorso, della paura che s'era presa. «Il male di luna! il male di luna!» Il terrore superstizioso di quel male oscuro invase tutte le donne, al racconto di Sidora. Ah, povera figliuola! Lo avevano detto esse alla madre, che quell'uomo
non era naturale, che quell'uomo doveva nascondere in sé qualche grossa magagna; che nessuna di loro lo avrebbe dato alla propria figliuola. Latrava eh? ululava come un lupo? graffiava la porta? Gesù, che spavento! E come non era morta, povera figliuola? La madre, accasciata su la seggiola, finita, con le braccia e il capo ciondoloni, nicchiava in un canto: «Ah figlia mia! ah figlia mia! ah povera figliuccia mia rovinata!» Sul tramonto, si presentò nel vicolo, tirandosi dietro per la cavezza le due mule bardate, Batà, ancora gonfio e livido, avvilito, abbattuto, imbalordito. Allo scalpiccio delle mule sui ciottoli di quel vicolo che il sole d'agosto infocava come un forno, e che accecava per gli sbarbagli della calce, tutte le donne, con gesti e gridi soffocati di spavento, si ritrassero con le seggiole in fretta nelle loro casupole, e sporsero il capo dall'uscio a spiare e ad ammiccarsi tra loro. La madre di Sidora sulla soglia si parò, fiera e tutta tremante di rabbia, e cominciò a gridare: «Andate via, malo cristiano! Avete il coraggio di ricomparirmi davanti? Via di qua! via di qua! Assassino traditore, via di qua! Mi avete rovinato una figlia! Via di qua!» E seguitò per un pezzo a sbraitare così, mentre Sidora, rincantucciata dentro, piangeva, scongiurava la madre di difenderla, di non dargli passo. Batà ascoltò a capo chino minacce e vituperii. Gli toccavano: era in colpa; aveva nascosto il suo male. Lo aveva nascosto, perché nessuna donna se lo sarebbe preso, se egli lo avesse confessato avanti. Era giusto che ora della sua colpa pagasse la pena. Teneva gli occhi chiusi e scrollava amaramente il capo, senza muoversi d'un passo. Allora la suocera gli batté la porta in faccia e ci mise dietro la stanga. Batà rimase ancora un pezzo, a capo chino, davanti a quella porta chiusa, poi si voltò e scorse su gli usci delle altre casupole tanti occhi smarriti e sgomenti, che lo spiavano. Videro quegli occhi le lagrime sul volto dell'uomo avvilito, e allora lo sgomento si cangiò in pietà. Una prima comare più coraggiosa gli porse una sedia; le altre, a due, a tre, vennero fuori, e gli si fecero attorno. E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un'aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui
povero innocente, con la pancina all'aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva «incantato». L'incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s'era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa andasse giù alla roba, a tenerle compagnia. «Chi? mia madre?» saltò a gridare a questo punto, avvampata d'ira, con occhi feroci, Sidora, spalancando la porta, dietro alla quale se ne era stata a origliare. «Voi siete pazzo! Volete far morire di paura anche mia madre?» Questa allora venne fuori anche lei, scostando con un gomito la figlia e imponendole di star zitta e quieta in casa. Si accostò al crocchio delle donne, ora divenute tutte pietose, e si mise a confabular con esse, poi con Batà da sola a solo. Sidora dalla soglia, stizzita e costernata, seguiva i gesti della madre e del marito; e, come le parve che questi facesse con molto calore qualche promessa che la madre accoglieva con evidente piacere, si mise a strillare: «Gnornò! Scordatevelo! State ad accordarvi tra voi? È inutile! è inutile! Debbo dirlo io!» Le donne del vicinato le fecero cenni pressanti di star zitta, d'aspettare che il colloquio terminasse. Alla fine Batà salutò la suocera, le lasciò in consegna una delle due mule, e, ringraziate le buone vicine, tirandosi dietro l'altra mula per la cavezza, se ne andò. «Sta' zitta, sciocca!» disse subito, piano, la madre a Sidora, rincasando. «Quando farà la luna, verrò giù io, con Saro...» «Con Saro? L'ha detto lui?» «Gliel'ho detto io, sta' zitta! Con Saro.» E, abbassando gli occhi per nascondere il sorriso, finse d'asciugarsi la bocca sdentata con una cocca del fazzoletto che teneva in capo, annodato sotto il mento, e aggiunse: «Abbiamo forse, di uomini, altri che lui nel nostro parentado? È l'unico che ci possa dare ajuto e conforto. Sta' zitta!» Così la mattina appresso, all'alba, Sidora ripartì per la campagna su quell'altra mula lasciata dal marito.
Non pensò ad altro più, per tutti i ventinove giorni che corsero fino alla nuova quintadecima. Vide quella luna d'agosto a mano a mano scemare e sorgere sempre più tardi, e col desiderio avrebbe voluto affrettarne le fasi declinanti; poi per alcune sere non la vide più; la rivide infine tenera, esile nel cielo ancora crepuscolare, e a mano a mano, di nuovo crescere sempre più. «Non temere,» le diceva, triste, Batà, vedendola con gli occhi sempre fissi alla luna. «C'è tempo ancora, c'è tempo! Il guajo sarà, quando non avrà più le corna...» Sidora, a quelle parole accompagnate da un ambiguo sorriso, si sentiva gelare e lo guardava sbigottita. Giunse alla fine la sera tanto sospirata e insieme tanto temuta. La madre arrivò a cavallo col nipote Saro due ore prima che sorgesse la luna. Batà se ne stava come l'altra volta aggruppato tutto sull'aja, e non levò neppure il capo a salutare. Sidora, che fremeva tutta, fece segno al cugino e alla madre di non dirgli nulla e li condusse dentro la roba. La madre andò subito a ficcare il naso in un bugigattolino bujo, ov'erano ammucchiati vecchi arnesi da lavoro, zappe, falci, bardelle, ceste, bisacce, accanto alla stanza grande che dava ricetto anche alle bestie. «Tu sei uomo,» disse a Saro, «e tu sai già com'è,» disse alla figlia; «io sono vecchia, ho paura più di tutti, e me ne starò rintanata qua, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene, e lui faccia pure il lupo fuori.» Riuscirono tutti e tre all'aperto, e si trattennero un lungo pezzo a conversare davanti alla roba. Sidora, a mano a mano che l'ombra inchinava su la campagna, lanciava sguardi vieppiù ardenti e aizzosi. Ma Saro, pur così vivace di solito, brioso e buontempone, si sentiva all'incontro a mano a mano smorire, rassegare il riso su le labbra, inaridir la lingua. Come se sul murello, su cui stava seduto, ci fossero spine, si dimenava di continuo e inghiottiva con stento. E di tratto in tratto allungava di traverso uno sguardo a quell'uomo lì in attesa dell'assalto del male; allungava anche il collo per vedere se dietro le alture della Crocca non spuntasse la faccia spaventosa della luna. «Ancora niente,» diceva alle due donne. Sidora gli rispondeva con un gesto vivace di noncuranza e seguitava, ridendo, ad aizzarlo con gli occhi. Di quegli occhi, ormai quasi impudenti, Saro cominciò a provare orrore e terrore, più che di quell'uomo là aggruppato, in attesa.
E fu il primo a spiccare un salto da montone dentro la roba, appena Batà cacciò il mugolo annunziatore e con la mano accennò ai tre di chiudersi subito dentro. Ah, con qual furia si diede a metter puntelli e puntelli e puntelli, mentre la vecchia si rintanava mogia mogia nello sgabuzzino, e Sidora, irritata, delusa, gli ripeteva, con tono ironico: «Ma piano, piano... non ti far male... Vedrai che non è niente.» Non era niente? Ah, non era niente? Coi capelli drizzati su la fronte, ai primi ululi del marito, alle prime testate, alle prime pedate alla porta, ai primi sbruffi e graffi, Saro, tutto bagnato di sudor freddo, con la schiena aperta dai brividi, gli occhi sbarrati, tremava a verga a verga. Non era niente? Signore Iddio! Signore Iddio! Ma come? Era pazza quella donna là? Mentre il marito, fuori, faceva alla porta quella tempesta, eccola qua, rideva, seduta sul letto, dimenava le gambe, gli tendeva le braccia, lo chiamava: «Saro! Saro!» Ah sì? Irato, sdegnato, Saro d'un balzo saltò nel bugigattolo della vecchia, la ghermì per un braccio, la trasse fuori, la buttò a sedere sul letto accanto alla figlia. «Qua,» urlò. «Quest'è matta!» E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch'egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie. GLI INTRUSI The Interlopers di Saki (Hector Hugh Munro) The Bystander, 17 gennaio 1912 In una foresta di piante diverse, da qualche parte sui bastioni orientali dei Carpazi, c'era un uomo che se ne stava fermo nella notte invernale, intento a guardare e ad ascoltare, come se aspettasse che qualche creatura del bosco si facesse vedere e poi si portasse a tiro del suo fucile. Ma la cacciagione che stava aspettando con tanta ansia non era di quella che è permessa dal regolamento della caccia sportiva; Ulrich von Gradwitz pattugliava la foresta di notte in cerca di un nemico umano. Le terre boscose di Gradwitz erano molto estese e ricche di selvaggina; la sottile striscia di boscaglia scoscesa che le circondava non era rinomata per la selvaggina che ospitava o la caccia che vi si poteva fare, ma di tutte
quelle terre, era quella che il proprietario custodiva più gelosamente. Ai tempi di suo nonno, c'era stata una famosa causa legale per togliere quella terra a una famiglia di piccoli proprietari terrieri; la famiglia spodestata non aveva mai accettato il giudizio dei tribunali, e i rapporti fra tre generazioni delle due casate erano stati funestati da una serie di episodi di caccia di frodo e scandali simili. La guerra tra famiglie era diventata personale quando Ulrich si era ritrovato a capo della sua famiglia. Se c'era un uomo al mondo che detestava e al quale voleva male, questi era Georg Zynaem, erede della disputa e instancabile ladro di selvaggina, amante delle scorribande nella boscaglia coqtesa. La guerra forse si sarebbe calmata, o forse si sarebbe raggiunto un compromesso, se l'astio personale che divideva i due uomini non lo avesse impedito. Sin da ragazzi, erano stati assetati l'uno del sangue dell'altro, e ora che erano diventati uomini, ognuno pregava che l'altro cadesse sotto i colpi della malasorte. In quella notte invernale battuta dai venti, Ulrich aveva riunito i suoi guardacaccia per sorvegliare la foresta, non in cerca di prede quadrupedi, ma bensì per sorprendere i ladri che si sospettava avessero attraversato il confine della proprietà. I caprioli, che di solito durante le tempeste di vento rimanevano al riparo nelle cavità del terreno, quella notte correvano come posseduti, e fra le creature che di solito dormivano durante la notte, serpeggiava una certa agitazione. Certo nella foresta era presente un elemento di disturbo, e Ulrich riusciva ad immaginare da quale direzione venisse. Si allontanò, solo, dalle sentinelle che aveva fatto nascondere in cima alla collina, e percorse la ripida discesa facendosi largo nel fitto sottobosco, per riuscire a vedere - o a udire - qualche traccia dei malfattori, nonostante il fischio del vento e lo stormire incessante delle fronde. Se solo in quella notte furibonda, in quel luogo buio e isolato, egli avesse potuto imbattersi in Georg Zynaem, da uomo a uomo, senza testimoni... questo era il desiderio in cima ai suoi pensieri. Girò intorno al tronco di un faggio enorme, e si trovò faccia a faccia con l'uomo di cui andava in cerca. I due nemici si fissarono per un lungo attimo silenzioso. Entrambi imbracciavano un fucile, ed entrambi avevano il cuore pieno d'odio e la mente piena di pensieri omicidi. Era venuto il momento di lasciare libero sfogo alle passioni di tutta una vita. Ma, per un uomo che sia cresciuto secondo le regole di una cultura che predica il controllo delle passioni, non è facile sparare a freddo a un suo simile senza dire una parola, a meno che non sia stata recata offesa alla propria casa e al proprio onore.
Prima che i due avessero il tempo di vincere l'esitazione, un atto della stessa Natura ebbe il sopravvento. Un colpo di vento di forza inaudita aveva provocato uno schianto terribile sopra le teste dei due e, prima che fossero riusciti a scansarsi, erano già stati investiti da un faggio caduto. Ulrich von Gradwitz si trovò steso a terra, con un braccio spezzato e schiacciato sotto il suo stesso corpo, e l'altro quasi altrettanto inservibile, imprigionato in un fitto groviglio di rami. Aveva entrambe le gambe immobilizzate dal tronco caduto. I suoi piedi non erano stati schiacciati solo per via dei pesanti stivali da caccia che calzava ma, sebbene le sue fratture avrebbero potuto essere molto più gravi, era evidente che non sarebbe riuscito a muoversi se qualcuno non fosse venuto a toglierlo di lì. I rami, cadendo, lo avevano ferito al volto, e dovette scuotere via alcune gocce di sangue dalle ciglia prima di potersi rendere conto del disastro. Accanto a lui, così vicino che in una situazione normale avrebbe quasi potuto toccarlo, giaceva Georg Zynaem, vivo, che si dibatteva ma evidentemente era rimasto imprigionato. Tutto intorno ai due uomini erano sparsi rami spezzati. Il sollievo di trovarsi ancora vivo e l'esasperazione di sapersi imprigionato, fecero pronunciare a Ulrich un misto di ringraziamenti e di imprecazioni. Georg, quasi accecato dal sangue che gli colava sugli occhi, smise di dibattersi per un istante e poi fece una piccola risata di scherno. «Allora non sei morto, come dovevi essere, ma comunque non puoi muoverti!», esclamò. «Sei in trappola! È proprio da ridere: Ulrich von Gradwitz caduto in trappola nella sua stessa foresta. Questa sì che è giustizia!» E rise ancora, selvaggiamente e con scherno. «Io sono prigioniero nella mia foresta», replicò Ulrich. «Quando arriveranno i miei uomini a liberarci, però, forse desidererai essere in una situazione più favorevole: sei stato sorpreso a cacciare di frodo sulla terra del tuo vicino. Vergognati!» Georg per un po' non disse nulla; poi rispose, calmo: «Sei sicuro che troveranno qualcosa da liberare? Anch'io ho degli uomini con me, stasera, e saranno loro i primi a trovarci. Quando mi libereranno da questi rami maledetti, basterà un poco di sbadataggine da parte loro perché tu sia schiacciato da questo grande tronco. I tuoi uomini ti troveranno morto sotto un albero caduto. Per amor di convenienza, farò ugualmente le mie condoglianze alla tua famiglia». «Questo è un buon suggerimento», disse Ulrich con ferocia. «I miei uo-
mini avevano l'ordine di seguirmi dopo dieci minuti, e devono esserne già trascorsi almeno sette. Quando mi tireranno fuori, mi ricorderò di questa tua buona idea. Tuttavia, siccome sarai morto mentre rubavi selvaggina sulla mia terra, non credo che mi sarà possibile offrire condoglianze alla tua famiglia.» «Bene», ringhiò Georg, «bene! Risolviamo questa disputa fra noi, fino alla morte, e che nessun maledetto intruso si intrometta. Morte e dannazione a te, Ulrich von Gradwitz!» «Altrettanto a te, Georg Zynaem, ladro dei boschi e di selvaggina.» Entrambi parlavano con l'amarezza di una possibile sconfitta in mente, poiché ognuno sapeva che poteva passare molto tempo prima che i propri uomini venissero a cercarlo; era solo una questione di fortuna che l'uno o l'altro gruppo giungesse per primo fino a loro. Ormai entrambi avevano rinunciato alla inutile lotta per liberarsi dalla massa di legno che li teneva prigionieri; Ulrich ormai cercava solo di usare il braccio che aveva qualche possibilità di movimento per prendere la fiaschetta del vino che teneva nella tasca esterna del soprabito. Anche quando ebbe conclusa questa operazione, gli ci volle molto tempo perché riuscisse a svitare il tappo della bottiglia e a versarsi del vino in gola. Ma quel sorso sembrava mandato dal Cielo! L'inverno era ancora agli inizi, ed era caduta poca neve. Quindi i due uomini soffrirono meno freddo di quanto avrebbero potuto soffrirne, in quella stagione; tuttavia, il vino riscaldò e ravvivò l'uomo ferito, che rivolse uno sguardo quasi pietoso verso il suo nemico, che si sforzava di reprimere i gemiti di dolore e di stanchezza che volevano uscirgli dalle labbra. «Se ti lanciassi questa fiaschetta, riusciresti a prenderla?», gli chiese improvvisamente Ulrich. «C'è dentro del buon vino, e tanto vale non negarsi un po' di conforto. Beviamo dunque, anche se stanotte uno di noi dovrà morire.» «No, non riesco a vedere quasi nulla; ho gli occhi ingombri di sangue rappreso», disse Georg, «e comunque, non bevo vino insieme a un nemico.» Ulrich rimase in silenzio per qualche istante, ascoltando l'ululato stanco del vento. Nel suo cervello si stava formando un'idea, che cresceva piano piano e si rafforzava ogni volta che guardava quell'uomo in lotta contro il dolore e lo sfinimento. Tra il dolore e il languore che egli stesso provava, Ulrich sentiva quell'antico odio spegnersi. «Vicino», disse poco dopo, «fai pure come credi, se i tuoi uomini doves-
sero arrivare per primi. È giusto. Ma per quel che mi riguarda, ho cambiato idea. Se i miei uomini arrivassero per primi, tu sarai il primo ad essere liberato, come mio ospite. Per tutta la vita abbiamo litigato come dèmoni per questa stupida foresta in cui gli alberi non riescono nemmeno a resistere a un poco di vento. Comincio a credere che siamo stati degli stupidi. Nella vita ci sono cose più importanti che vincere una disputa di confine. Vicino: se tu mi aiuti a dimenticare questa disputa, io... ti chiederò di essere mio amico.» Georg Zynaem rimase in silenzio così a lungo che Ulrich credette fosse svenuto, forse per il dolore provocatogli dalle ferite. Invece cominciò a parlare lentamente, a scatti. «Pensa a come la gente ci guarderebbe, cosa direbbero se ci vedessero arrivare insieme nella piazza del mercato. Nessun uomo vivente ricorda di aver visto uno Zynaem e un von Gradwitz parlarsi in amicizia. E che pace ci sarebbe fra la gente dei boschi se stasera mettessimo fine alla nostra guerra. E se decidessimo di far la pace tra le nostre genti, nessuno potrebbe interferire, non ci sarebbero intrusi da fuori. ...Verresti a passare da me la notte di San Silvestro, e io verrei a mangiare alla tua tavola un altro giorno di festa... non sparerei mai nemmeno un colpo sulla tua terra, tranne se tu mi invitassi come ospite; e tu potresti venire a caccia con me nella palude, dove vivono le anatre. In tutto il paese nessuno potrebbe ostacolarci, se decidessimo di fare la pace. Ho sempre creduto che l'unico mio desiderio fosse di odiarti per tutta la vita, ma credo di aver cambiato idea anch'io in quest'ultima mezz'ora. Tu mi hai offerto da bere... Ulrich von Gradwitz, accetto di essere tuo amico!» Per un po' i due uomini rimasero in silenzio, rimuginando sui meravigliosi cambiamenti che quella improvvisa riconciliazione avrebbe potuto provocare. Rimasero stesi nella foresta buia e fredda, mentre il vento soffiava tra i rami nudi e fischiava attorno ai tronchi, e attesero gli uomini che avrebbero portato soccorso e libertà ad entrambi. Ognuno, fra sé, pregava che i propri uomini fossero i primi ad arrivare, in modo di avere l'occasione di mostrare quella nobile cortesia verso il nemico che era divenuto amico. Poco dopo il vento calò per qualche istante, e Ulrich spezzò il silenzio. «Gridiamo aiuto», disse, «ora che c'è meno vento, le nostre voci potrebbero arrivare lontano.» «Credo che gli alberi e il sottobosco lo impediranno», disse Georg, «ma possiamo provare. Insieme allora.»
I due emisero insieme un lungo grido da cacciatore. «Insieme, un'altra volta!», disse Ulrich qualche minuto più tardi, dopo aver atteso invano una risposta. «Stavolta credo di aver sentito qualcosa», disse Ulrich. «Io ho sentito solo questo maledetto vento», disse Georg con voce rauca. Ci fu di nuovo qualche minuto di silenzio, poi Ulrich lanciò un grido di gioia. «Vedo delle sagome nel bosco. Seguono la strada che ho percorso quando ho disceso la collina.» Entrambi gli uomini gridarono ancora, più forte che poterono. «Ci hanno sentiti! Si sono fermati. Ora ci hanno visti. Corrono verso di noi», esclamò Ulrich. «Quanti sono?», chiese Georg. «Non riesco a vedere bene», disse Ulrich. «Forse nove, o dieci.» «Allora sono i tuoi», disse Georg, «con me c'erano solo sette uomini.» «Bravi, stanno venendo più in fretta che possono», disse Ulrich soddisfatto. «Sono i tuoi uomini?», chiese Georg. «Sono i tuoi?», ripeté impaziente, poiché Ulrich non rispondeva. «No», disse Ulrich, con la risata idiota di un uomo colpito da una paura incommensurabile. «Chi sono?», chiese subito Georg, sforzandosi di scorgere ciò che l'altro avrebbe preferito non vedere. «Lupi.» IL CANE The Hound di Howard Phillips Lovecraft Weird Tales, febbraio 1925 Continuo, incessante, risuona nelle mie orecchie un cupo battito, un raspare d'ali d'incubo, un sommesso latrare lontano, come di un cane gigantesco che ulula nella notte. Non è un sogno, e non è neppure - temo - follia: troppe cose sono ormai accadute perché io possa rifugiarmi in simili illusioni pietose. St. John è ridotto ad un povero corpo a brandelli. Io soltanto conosco l'origine del suo tragico destino, ed è proprio questa consapevolezza che fa dilatare nel mio cervello il terrore di finire come lui. L'oscura Nemesi, buia
e informe, che mi trascina all'autoannientamento, si sta già muovendo veloce lungo i corridoi tenebrosi e interminabili della fantasia soprannaturale. Che il cielo perdoni a entrambi la follia e gli istinti morbosi che ci hanno condotti a una fine così orribile! Eravamo stanchi della banalità del mondo di tutti i giorni, che rendeva piatti e volgari anche gli impulsi romantici e gli estri avventurosi. Perciò, St. John e io, avevamo cominciato a seguire con entusiasmo tutti i movimenti estetici e culturali che sembravano prometterci un po' di sollievo dalla noia devastante. Ci addentrammo fra gli enigmi dei Simbolisti e le estasi languide dei Pre-Raffaelliti: ma ogni nuovo turbamento dell'anima perdeva presto vigore, e il tedio riprendeva inesorabile il suo dominio, scacciando il fascino della novità. Alla fine, trovammo un sollievo più stabile nella filosofia sepolcrale dei Decadenti: ma solo al prezzo di aumentare continuamente il vigore trasgressivo delle nostre sensazioni. Le divagazioni letterarie di Baudelaire e di Huysmans finirono presto per non procurarci più alcuna emozione, e alla fine non ci rimase altra risorsa che provare noi stessi, in prima persona, il brivido diretto delle esperienze innaturali. Fu questo inestinguibile bisogno di emozioni nuove che alla fine ci condusse alla più bassa delle turpitudini, alla più detestabile pratica umana, che persino ora, sconvolto dal terrore come sono, nomino con vergogna e disgusto di me stesso: l'aborrita abitudine di profanare le tombe. Non oso rivelare i dettagli delle nostre infami imprese, né descriverò, neppure in parte, i più orrendi trofei che ornavano l'abominevole museo che avevamo allestito nella grande e gelida magione di pietra nella quale vivevamo, St. John e io, soli e senza domestici. Il nostro museo era un luogo inimmaginabile e blasfemo, ove, con gusto infernale alimentato dalla nevrosi, avevamo raccolto un mondo di orrore e putrefazione per eccitare la nostre sensibilità ormai logore e illanguidite. Era una sala segreta, nel più profondo dei sotterranei, dove mostri enormi scolpiti nell'onice e nel basalto vomitavano da ampie bocche ghignanti una livida luce verde e arancione, e tubi d'aria nascosti facevano agitare in caleidoscopiche danze macabre file di scheletri che, la mano nella mano, intrecciavano lente evoluzioni sospese nell'ombra. Dai tubi uscivano a volontà gli odori che più si intonavano al nostro stato d'animo. Talvolta, aleggiava nell'aria immota il profumo sottile di tenui gigli funerari; talaltra, l'incenso narcotico di immaginari templi orientali e dei mausolei di sovrani defunti; altre volte ancora - come tremo al ricordo!
- si spandeva all'intorno il fetore spaventoso delle tombe appena scoperchiate: un tanfo che sconvolge l'anima e la ragione. Attorno alle pareti di quella cripta repellente facevano mostra di sé i sarcofagi aperti di mummie primeve, che si alternavano alle figure imbalsamate di corpi perfetti, mirabilmente conservati dall'arte del tassidermista, appoggiati a pietre tombali strappate ai più antichi cimiteri del mondo. Nicchie disposte qua e là, custodivano teschi di ogni specie e teste mozze conservate in diversi stadi della putrefazione. I crani pelati e variamente decomposti di nobili famosi si mostravano assieme ai volti radiosi incorniciati da capelli biondi di bimbi appena sepolti. C'erano sculture e quadri, tutti di soggetto infernale, in parte eseguiti da St. John e da me. Una cartella sigillata, con la rilegatura in pelle umana, conteneva disegni immondi e blasfemi che, secondo certe voci, erano stati eseguiti da Goya nel delirio. C'erano poi strumenti musicali il cui suono era ancora più inquietante della forma; con essi, St. John e io talvolta eseguivamo sinfonie stridenti, fondate su suoni morbosi e disarmonici che logoravano i nervi. In una serie di scrigni d'ebano intarsiato di madreperla erano poi conservati altri dei nostri tesori: il bottino predato dalle tombe. Mente umana non potrebbe mai immaginare quale quantità di lugubri reperti abbiamo rinvenuto in tanti anni di folli ricerche. Di questo infame bottino, soprattutto, non debbo parlare: per grazia di Dio, ho avuto il coraggio di distruggerlo molto prima di pensare a distruggere me stesso! Per noi, le spedizioni di saccheggio con le quali ci procuravamo i nostri reperti immondi erano eventi artisticamente memorabili. Non eravamo rozzi e ignoranti profanatori di tombe, ma operavamo soltanto quando si realizzava il concorso di più condizioni, legate allo stato d'animo, all'ambiente, al paesaggio, alla stagione, alla data, e alla luce lunare. Quelle imprese rappresentavano per noi la forma più squisita di espressione estetica, e ne curavamo i dettagli tecnici con meticolosa fantasia. Un'ora inadatta, un effetto di luce discordante, una manipolazione disattenta delle zolle pregne di humor mortis, potevano rovinare del tutto, per noi, la stimolazione estetica che seguiva all'esumazione dei sinistri e giganteschi segreti della terra. La nostra ricerca di scenari sempre nuovi e di situazioni sempre più morbose era febbrile e insaziabile. St. John era il capo delle nostre spedizioni, e fu lui a guidarmi nel luogo tetro e maledetto che ha segnato la nostra orrenda e ineluttabile condanna. Quale maligno destino ci attirò in quel sinistro cimitero olandese? Penso
che furono certe voci che avevamo raccolto, riguardanti la presenza, fra gli inumati, di un uomo misterioso sepolto ormai da cinque secoli, che ai suoi tempi era circondato da fama di empietà e che si diceva avesse a sua volta sottratto qualcosa di misterioso e prezioso da un antico sepolcro. Rammento i tratti salienti della scena. Sulle tombe splendeva la pallida luna d'autunno, che gettava lunghe ombre spaventose; all'intorno, alberi grotteschi si curvavano cupi sull'erba incolta e sulle lapidi corrose; intere legioni di pipistrelli dalle enormi dimensioni volavano in cerchio, stagliandosi contro la luna; l'antica chiesa coperta di edera malaticcia puntava un enorme dito spettrale verso il cielo livido; sotto i tassi e in boschi lontani, danzavano insetti fosforescenti simili a fuochi fatui; il vento notturno, che ci raggiungeva dopo essere passato su mari e paludi, portava con sé sentori di muffa, di vegetazione putrida, e di altre cose meno individuabili. Peggiore di ogni altra cosa, infine, un ululato lontano, debole e sommesso, come di un cane gigantesco che non riuscivamo a individuare né a localizzare, perveniva alle nostre orecchie rese ipersensibili dall'eccitazione. Quando udimmo per la prima volta quel remoto abbaiare, fummo colti da un brivido, ricordando le storie che ci avevano narrato i contadini. Perché ciò che stavamo cercando era stato ritrovato secoli addietro, in quel medesimo luogo, sbranato e dilaniato dalle zanne e dagli artigli di una bestia indescrivibile. Ricordo con quanta furia affondammo le vanghe nella tomba dello stregone, e come ci eccitava l'immagine mentale di noi stessi, del sepolcro, della livida luna che ci fissava, e delle ombre cupe; ricordo gli alberi contorti, i pipistrelli enormi, la chiesa decrepita, i fuochi fatui danzanti, gli odori mefitici, il vento notturno col suo lieve lamento, e soprattutto l'enigmatico, indistinto abbaiare della cui reale esistenza non potevamo neppure essere sicuri. Infine, scavando nel tumulo gonfio di umidità, le nostre vanghe colpirono qualcosa di solido. Emerse una lunga bara, dal legno marcito incrostato di muffe e depositi minerali del terreno, rimasto intatto per secoli. Malgrado l'età, le tavole erano incredibilmente dure e spesse, e fu solo con grande fatica che riuscimmo a scoperchiare il sarcofago, facendo leva con i nostri attrezzi. Il suo contenuto fu una festa per gli occhi. Nonostante i cinquecento anni trascorsi, della cosa sepolta era rimasto molto, orrendamente molto. Lo scheletro, benché mostrasse ancora le fratture provocate dalle fauci del mostro che lo aveva straziato, stava insieme con sorprendente solidità. Fissammo con occhi avidi il bianco cranio puli-
to, i lunghi denti ancora ben piantati nei loro alvei, e le orbite vuote che un tempo ospitavano i bulbi oculari, le cui pupille dovevano essersi illuminate della stessa luce morbosa che oggi accendeva le nostre alla vista degli ossari. All'interno della bara c'era anche uno strano amuleto, dal disegno insolito ed esotico, che evidentemente un tempo era appeso al collo del defunto. Era l'effigie, straordinariamente realistica, di un cane alato seduto sulle zampe posteriori, o di una sfinge dal volto semicanino. Era scolpita con arte finissima e gusto orientaleggiante in un unico pezzo di giada verde. L'espressione dei lineamenti bestiali trasmetteva una sensazione violenta di repulsione. Emanava un sentore impalpabile ma nettissimo di morte, furore, malvagità. Attorno alla base correva un'incisione in caratteri che né io né St. John riuscimmo a identificare. Sul fondo, come un marchio di fabbrica, era inciso un teschio orrendo e grottesco. Alla sola vista dell'amuleto, avevamo capito che doveva essere nostro. Quel tesoro bastava, da solo, a giustificare il nostro viaggio e la profanazione di quel sepolcro secolare. Anche se la foggia non ci era familiare, lo desideravamo, tanto più che, guardandolo attentamente, scoprimmo che non ci era del tutto sconosciuto. Era estraneo, certo, a qualsiasi arte e letteratura nota a studiosi sani ed equilibrati. Ma noi vi riconoscemmo la cosa cui allude, nel suo proibito Necronomicon, l'arabo pazzo Abdul Alhazred. L'osceno e spettrale idolo del culto dei divoratori di cadaveri che abitano l'inaccessibile Altopiano di Leng, nell'Asia Centrale. Rabbrividimmo, riconoscendo nell'immagine le fattezze descritte dall'antico demonologo arabo. Fattezze - egli scrisse - tratte da oscure manifestazioni soprannaturali degli spettri di coloro che tormentano e rodono i morti. Afferrato l'oggetto di giada verde, lanciammo un ultimo sguardo al teschio livido e alle sue occhiaie vuote, poi richiudemmo la bara e rimettemmo tutto nelle condizioni originarie. Ci stavamo allontanando in fretta da quel luogo orribile, con l'amuleto custodito in una tasca di St. John, quando ci parve di vedere i pipistrelli calare come una nuvola compatta sul terreno che da poco avevamo profanato, quasi a cercarvi un nutrimento disgustoso e sacrilego. Ma la luna d'autunno brillava troppo pallida e debole, e non ne fummo sicuri. Allo stesso modo, il giorno dopo, mentre salpavamo dall'Olanda diretti in patria, ci parve di udire il lontano, debole ululato di un cane gigantesco, che si perdeva oltre l'orizzonte. Ma il vento d'autunno gemeva triste e monotono, e non ne fummo sicuri.
Meno di una settimana dopo il nostro rientro in Inghilterra, cominciarono ad accadere dei fatti inquietanti. Come ho già detto, io e St. John vivevamo come reclusi. Privi di amici, soli e senza domestici, trascorrevamo la nostra esistenza in poche stanze di un antico maniero situato in una brughiera desolata e deserta. Perciò, ben pochi visitatori si prendevano il disturbo di bussare alla nostra porta. Da qualche tempo, però, eravamo infastiditi da un suono che assomigliava a un raspare notturno, non soltanto dietro le porte, ma anche dietro le finestre, comprese quelle che si trovavano più in alto. Una volta ci parve che un grande corpo scuro velasse la luce della luna dietro la finestra della biblioteca. Un'altra volta fummo certi di udire un rumore inquietante, come una vibrazione o un battito ritmico, leggero e paurosamente vicino. Cercammo, ma senza trovare nulla; di conseguenza, attribuimmo gli eventi alla nostra immaginazione, che ancora ci faceva risuonare nelle orecchie il debole ululato lontano che avevamo udito nel solitario cimitero olandese. L'amuleto di giada era adesso custodito in un tabernacolo nel nostro museo e, di tanto in tanto, vi accendevamo davanti una candela dal profumo aromatico. Andammo a leggere sul Necronomicon di Alhazred i suoi poteri e i legami che grazie ad esso si potevano accendere fra le entità fantomatiche e gli oggetti del mondo reale. Ciò che leggemmo ci sconvolse. Poi si insediò il terrore! La notte del 24 settembre 19.. udii bussare alla porta della mia camera. Sicuro che fosse St. John, dissi di entrare. Come risposta, udii una risata orrenda. Uscii dalla camera: nel corridoio non c'era nessuno. Quando destai St. John dal suo sonno, si disse del tutto ignaro del fatto. Guardandolo negli occhi, vidi che era preoccupato quanto me. Quella stessa notte dovemmo ammettere che il debole ululato lontano che risuonava nella brughiera non era un'illusione dei nostri sensi, ma una realtà spaventosa. Quattro giorni dopo, mentre ci trovavamo entrambi nel museo sotterraneo, udimmo un lieve, cauto raspare, dietro l'unica porta che dava sulla scala verso la biblioteca nascosta. La nostra agitazione fu duplice perché, oltre al timore dell'ignoto, avevamo sempre nutrito il terrore che la nostra macabra collezione potesse essere scoperta. Spente tutte le luci, avanzammo verso la porta e la spalancammo di colpo: sui nostri volti alitò una inspiegabile combinazione di rauchi bisbigli e risate ghignanti, che retrocedevano nel buio. Non facemmo alcuno sforzo per capire se fossimo impazziti, se avessimo sognato, o se fossimo ancora nel pieno delle nostre facoltà. Infatti, ci
eravamo resi conto, con cieco terrore, che quel biascicare incorporeo, quelle frasi smozzicate, erano in lingua olandese. Dopo di ciò, vivemmo invischiati in una palude di orrore crescente. Cercavamo di chiudere gli occhi sulla verità dicendoci l'un l'altro che all'origine di tutto c'era un cedimento dei nostri nervi, dovuto alla continua tensione di una vita intessuta di eccitazioni innaturali. Talvolta, però, ci piaceva di più drammatizzare la nostra situazione, e crederci vittime di una sorte funesta e insidiosa. Intanto, le manifestazioni soprannaturali erano diventate tante da non riuscire più a tenerne il conto. La nostra casa buia e solitaria aveva quasi preso vita, per la presenza di una entità maligna la cui natura non osavamo immaginare, mentre ogni notte l'ululato demoniaco echeggiava nella brughiera spazzata dal vento, sempre più alto. Il 29 ottobre scoprimmo, nella terra umida sotto la finestra della biblioteca, una fila di orme assolutamente indescrivibili. Erano sconcertanti, così come gli stormi di enormi pipistrelli che si andavano radunando fra le guglie dell'antico maniero in numero crescente e mai visto prima. Il 18 novembre, l'orrore giunse al culmine. Dopo il tramonto, mentre tornava a casa a piedi dalla tetra stazione ferroviaria, St. John venne assalito da uno spaventoso mostro carnivoro, e fatto a pezzi. Le sue urla altissime mi avevano raggiunto a casa. Accorso sul posto dell'orribile scena, era giunto in tempo per udire un battito d'ali nere e per scorgere una cosa oscura, nebulosa e indistinta, stagliarsi contro la luna sorgente. Quando gli parlai, il mio povero amico stava morendo, e non poté dare alcuna risposta coerente alle mie domande. Riuscì soltanto a mormorare: «L'amuleto, quella cosa maledetta...». Poi crollò, una massa inerte di carne straziata! A mezzanotte del giorno seguente lo seppellii in uno dei nostri giardini invasi da erbacce velenose, e sul suo corpo recitai uno di quei rituali demoniaci che in vita aveva tanto amato. Avevo appena pronunciato l'ultima frase quando, lontano, nella brughiera, si levò l'ululato di un cane gigantesco. La luna era alta nel cielo, ma non osai guardarla. E quando scorsi sulla brughiera soffusa della pallida luce dell'astro notturno, un'ombra grande e nebulosa che si muoveva rapida da un cespuglio all'altro, chiusi gli occhi e mi gettai a terra con la faccia in giù. Non so quante ore passarono. Infine, mi rialzai tremante, rientrai in casa barcollando, e resi un omaggio osceno e sacrilego all'amuleto di giada verde racchiuso nel suo tabernacolo.
Avevo paura, ormai, di abitare da solo nel vecchio maniero al centro della brughiera, e partii l'indomani per Londra, portando con me l'amuleto. Distrussi col fuoco l'empia collezione e, quanto non poteva essere bruciato, lo seppellii. Ma, dopo tre notti, udii nuovamente l'ululato lontano e, dopo una settimana, vedevo nel buio occhi misteriosi che mi fissavano. Una sera, mentre passeggiavo lungo il Victoria Embarkment per prendere una boccata d'aria di cui sentivo il bisogno, scorsi una forma nera oscurare la luce di un lampione che si rifletteva nell'acqua nel molo. Un vento più forte del vento notturno, passò sul mio viso come una raffica. Seppi allora che quanto era accaduto a St. John sarebbe presto accaduto anche a me. L'indomani avvolsi accuratamente in un drappo di seta nera l'amuleto di giada, e mi imbarcai per l'Olanda. Non sapevo se, restituendo l'idolo al suo silenzioso proprietario defunto, potessi aspettarmi una qualche forma di misericordia. Tuttavia, sentivo di dover agire secondo una qualche logica. Che cosa fosse quel cane mostruoso, e perché mi avesse seguito, erano interrogativi ancora vaghi. Ma avevo udito l'ululato lontano per la prima volta nell'antico cimitero olandese presso la chiesa in rovina, e tutti gli eventi successivi, comprese le parole pronunziate da St. John in punto di morte, contribuivano a collegare la maledizione con il furto sacrilego dell'amuleto. Perciò piombai nella più profonda disperazione quando scoprii, in una località di Rotterdam, che ignoti ladri mi avevano sottratto quell'unico viatico per una incerta salvezza. Quella notte l'ululato risuonò altissimo, e al mattino lessi sui giornali di un delitto abominevole compiuto nel quartiere più malfamato della città. La gente del luogo era terrorizzata, perché un crimine sanguinoso era stato commesso, con indicibile, brutale violenza, in un'abitazione che dava ricetto a individui dalla losca fama. Nello squallido tugurio, abitato da ladri, un'intera famiglia era stata dilaniata da criminali sconosciuti che non avevano lasciato tracce, mentre per tutta la notte era echeggiato, all'intorno, il latrare insistente di un cane gigantesco. Così, alla fine, fu con le mani vuote che mi ritrovai nell'orrido cimitero, dove una livida luna invernale gettava ombre contorte, e gli alberi nudi si piegavano tristi sull'erba inaridita e gelata e sulle lapidi corrose dal tempo. La chiesa ricoperta di edera puntava sempre il suo dito beffardo verso il cielo ostile, e il vento notturno ululava furioso passando sulle paludi coperte di ghiaccio e sui gelidi mari. Il latrato lontano era molto debole, e cessò di colpo quando mi avvicinai
all'antico sepolcro che un tempo avevo profanato. Roteando la pala, feci allontanare lo stormo di pipistrelli dalle dimensioni abnormi che volteggiavano bassi sulla tomba. Non so perché mi fossi spinto fin là, se non per pregare, o biascicare suppliche inutili e incoerenti all'indirizzo della cosa candida e silente che giaceva all'interno della bara. Qualunque fosse il mio scopo, attaccai col badile le zolle indurite dal gelo, animato da una disperazione che in parte era mia e in parte nasceva da una volontà dominante al di fuori di me. Lo scavo fu più facile del previsto, anche se a un certo punto vi fu una strana interruzione, quando un macilento avvoltoio piombò a picco dal cielo torbido e cominciò a beccare avidamente la terra della tomba, finché non lo uccisi con un colpo di vanga. Infine, arrivai alla bara lunga e corrosa, e ne sollevai l'umido coperchio ricoperto di verdi incrostazioni. Quella fu la mia ultima azione razionale. Nella bara antica di secoli, la cosa scheletrica che il mio amico e io avevamo depredato, dormiva rannicchiata su se stessa, attorniata da uno stuolo compatto di pipistrelli enormi e rigonfi di sangue, che pulsavano immersi anch'essi nel sonno. E non era uno scheletro nudo e silente, come quello che avevamo ricomposto nella cassa dopo il furto, ma un orrore ricoperto di sangue raggrumato, di lembi di carne appiccicati alle ossa e di ciuffi di capelli strappati a chissà quali corpi. Mi guardava, quell'incubo indescrivibile, fissandomi cosciente e maligno dalle orbite cave e fosforescenti. I suoi denti aguzzi e macchiati di sangue si aprivano in un ghigno beffardo e contorto che proclamava la mia ineluttabile condanna. E, quando da quelle fauci spalancate emerse un profondo, crudele ululato, come di un cane gigantesco, e vidi che i suoi luridi artigli insanguinati stringevano il fatale amuleto di giada verde che avevo perduto, non seppi far altro che gridare, e gridare, e gridare, e poi fuggire come un demente, finché le mie grida si dissolsero in scoppi di risa isteriche. La follia governa il vento che scende dalle stelle... zanne e artigli acuminati lacerano secoli di cadaveri... Cavalcando uno stormo di vampiri e un branco di Lupi Mannari, la morte viene distillata dalla notte, sulle oscure rovine dei templi di Belial, sepolti dal profondo dei secoli... L'ululato di quella mostruosità defunta, che cerca carne da appiccicare alle sue ossa, si fa sempre più vicino. Il raspare furtivo, il battito incessante di maledette ali d'incubo stringe sempre di più il cerchio attorno a me. Nella mia pistola, troverò l'oblio che è il solo rifugio da quelle cose che non
hanno nome, e che non devono averne. I LUPI MANNARI DEL CASTELLO MANGLANA The Bug-Wolves Of Castle Mangana di H. Warner Munn 1926 in The Master Fights Weird Tales, dicembre 1930
Leon Gunnar si trovava sugli spalti merlati del Castello Manglana. Era appoggiato a un moschetto e guardava pensieroso le profonde acque del lago Erne. Era la fine di ottobre dell'anno di Nostro Signore 1588. Manglana si trovava su un promontorio a picco sull'ampio lago, le cui onde lambivano la base delle mura del castello. Nessuna barca solcava il lago Erne. Erano state tutte affondate una settimana prima, quando O'Rourke, il proprietario del castello, si era ritirato con la sua famiglia e i suoi servi tra le montagne, lasciando Gunnar e altri otto Spagnoli a difendersi come potevano contro un esercito di centocinquanta Inglesi. Erano stati reclutati a Dublino ed erano condotti dal Lord Deputy dell'Irlanda. I suoi ordini erano di sbarazzare la zona occidentale e uccidere tutti coloro che erano fuggiti dai tredici galeoni naufragati su quella parte della costa. Una rondine sfiorò le acque tranquille del lago e lasciò una scia di cerchi che si allargavano. Leon sospirò e la seguì con lo sguardo, desiderando di avere anch'egli un paio d'ali con le quali lasciare quel paese selvaggio. Come avrebbe voluto volare in Scozia dai suoi parenti! Lo schiocco di un moschetto e un urlo di gioia lo risvegliarono dal suo sogno ad occhi aperti. Leon si voltò e vide un uomo barbuto, abbigliato con il mantello color zafferano dei soldati mercenari irlandesi, danzare sugli spalti. «Perbacco», gridò. «Questa volta ho preso quella sporca spia! Guarda come scalcia nella palude!» «Ben fatto, Cuellar!», lo complimentò Leon. «Non possiamo sprecare munizioni. Ogni colpo deve trafiggere il cuore di un inglese!» «Ragazzo!», sussurrò. «Non sai quanto sia vero. Oggi sono andato a ispezionare il deposito delle polveri e ho scoperto che tre dei barili di pol-
vere che ci ha lasciato O'Rourke erano di quelli raccolti sulle spiagge dopo i naufragi!» «È un bene?», chiese Gunnar. «No! Male! L'acqua in qualche modo è penetrata. Abbiamo solo mezzo barile e una dozzina di moschetti per combattere un esercito. Temo che la Señora Cuellar dovrà trovarsi un altro marito.» «Non vi abbattete», disse Leon. «Mantenete alto lo spirito: il tempo gioca a nostro favore, lo sapete. Gli Inglesi non conoscono la nostra forza, e un paio di forti piogge li affogheranno.» Indicò il lato interno del promontorio. A una distanza sufficiente perché i colpi di moschetto non potessero raggiungere i difensori, c'era l'accampamento degli Inglesi, posto sulla collina più alta di quella zona paludosa. Ogni tanto qualche soldato coraggioso lasciava l'accampamento e cercava di trovare il modo di attraversare l'acquitrino per entrare nel castello. Ma, dopo che i primi attacchi in gran numero erano finiti in una sconfitta sanguinosa, gli Inglesi si erano sistemati nell'accampamento e avevano cominciato ad aspettare che la fame spingesse gli Spagnoli tra le loro braccia. Con provviste di cibo per due mesi, questo non preoccupava gli assediati, ma la scarsa riserva di polvere da sparo era un fatto grave. Una volta che gli Inglesi avessero saputo che un uomo poteva penetrare nel castello senza che venisse fatto segno a colpi d'arma da fuoco, altri sarebbero seguiti. «Ah, Gunnar», rispose Cuellar, «non capisci i sentimenti di un padre. Tutti noi qui abbiamo una famiglia che ci aspetta, tranne te. Quando si vedono i propri figli crescere e l'espressione negli occhi della loro madre, non si vorrebbe stare ad aspettare che un altro uomo prenda il tuo posto! È quasi un anno che siamo partiti, e nessuno a casa sa che siamo ancora vivi e dove siamo! Sei approdato con quel galeone che ha fracassato il mio sulle rocce della Sligo Bay, hai detto. Ricordi quel monastero bruciato e i dodici Spagnoli impiccati alle travi della navata? Ma, per la pietà del Signore, anche noi avremmo potuto pendere da quel soffitto.» Leon annuì con forza. «E i Santi benedetti tutti calpestati sotto i loro piedi! Dio onnipotente! Li vedo ancora davanti agli occhi!» «Era terribile!», convenne Cuellar. «E solo un miracolo ha potuto salvarci da quei folli che saccheggiavano i relitti. Ricorderò per sempre nelle mie preghiere quel capo che mi ha salvato la vita.» Leon parlò con amarezza.
«Non credere che l'abbia fatto perché ama gli Spagnoli! Lui odia gli Inglesi come il diavolo, e ci ha dato protezione solo perché siamo loro nemici. Se gli fosse importato qualcosa di noi, ci avrebbe aiutati a tornare a casa invece di lasciarci qui.» «È vero», convenne Cuellar, «ma siamo vivi, ed è stato un miracolo che ci ha fatto raggiungere il suo castello!» Si fece il segno della croce, e Gunnar, nauseato, ritornò al suo posto di combattimento sul bastione orientale. Leon sapeva troppo bene che i Santi non avevano niente a che fare con l'aver raggiunto insieme a Cuellar e a un giovane ufficiale la dubbia protezione del Castello Manglana. Un compagno invisibile aveva viaggiato con i tre uomini; un compagno tanto potente da proteggere chi desiderava contro qualsiasi nemico! E lui, il terribile nemico del genere umano, si chiamava il Signore! Cuellar urlò a qualcuno che si trovava ai piedi della scala a chiocciola. «Gomez, di' a Ramon di portare su un altro fiasco di polvere e altri tre moschetti. Manda su Diego, Enrique e Rodriguez. Penso che quei rospi inglesi stiano per arrivare di nuovo!» Gunnar riattraversò il tetto piatto. Era vero che nell'accampamento c'era uno strano movimento, appena percettibile nell'oscurità del lago. Gli echi si stavano ancora spegnendo tra le scogliere del lago Erne, quando un tuono scosse il castello e, sia Gunnar che Cuellar, provarono una breve sensazione di vertigine come se la solida struttura ondeggiasse sotto di loro. Un gemito orribile venne da sotto, e le due vedette si guardarono negli occhi con timore. Un'idea si stava facendo strada nelle loro menti. Un uomo salì barcollando la scala e uscì sul tetto. I suoi capelli erano increspati e fumavano, un lato della faccia era senza barba, e scintille sprizzavano dai suoi abiti carbonizzati. Vide Cuellar e andò verso di lui, salutandolo militarmente: infatti era il capo, tacitamente riconosciuto, della piccola guarnigione. «Madre de Dios, Gomez, parla!», gridò Cuellar. «Che cosa ti è successo?» «Ramon», disse l'uomo, con difficoltà, con gli occhi che gli roteavano mentre annaspava per respirare, «è entrato nel... deposito... con... una torcia accesa...!» Poi cadde, ancora nella posizione del saluto, ai piedi di Cuellar. «Questa è la fine per noi.» Cuellar guardò Leon. «Gli Inglesi alla fine
sono riusciti a trascinare un cannone fino al loro accampamento, e ora la nostra polvere è tutta finita!» Leon infilò una mano sotto la giacca di pecora che indossava il soldato caduto. «Gomez è morto», annunciò. «Me l'aspettavo», fu la disperata risposta. «Andiamo a vedere quanti sono ancora vivi.» Mentre i due lasciavano il tetto, un altro scoppio lontano risuonò dall'accampamento, e Gunnar tornò indietro. «Andate. Io resterò di guardia qui, e chiamerò se c'è un attacco.» «Molto bene», replicò Cuellar. «Adios, amico. Questa e la fine!» E scomparve tra le onde di fumo che salivano lungo la scala a chiocciola. «Non è la fine!», mormorò una voce untuosa nell'orecchio di Gunnar. Riconobbe subito la voce. Il Signore stava facendo la sua solita visita notturna, approfittando del fatto che Gunnar era solo. «Sei del tutto spietato?», sbottò Gunnar con passione. «Non c'è alcuna pietà, alcuna umanità in te? Bestia! Dèmone! Diavolo! Disonori il nome di uomo! Sei un mostro! Nel nome di tutti i Santi, ti imploro: lasciami morire in pace!» Negli occhi del Signore si accese un lampo di fredda crudeltà. «Non farti ingannare dal corpo che ho assunto! Posso rivestire altre sembianze che potrebbero sorprenderti! Io non sono un uomo né una bestia. Presto saprai che non sono umano! Per quanto riguarda la misericordia e la pietà, le avevo molto tempo fa, ma mi sono state sottratte. Comunque, non sono venuto per dirti questo, ma per indicarti una via d'uscita e forse per aiutare quelli che sono con te.» La faccia di Gunnar si illuminò, ed egli avanzò di un passo verso quella strana creatura che lo aveva in suo potere, grazie a un patto di schiavitù stretto a bordo di un galeone che affondava, all'inizio dell'anno. «Qual è?», chiese con ansia. «Dimmelo, subito!» «Sai che stanotte è la Vigilia d'Ognissanti? È l'unica notte dell'anno, oltre la Notte di Santa Valpurga, in cui per un uomo è molto facile diventare un lupo dal tramonto all'alba.» Gunnar ridacchiò. «Tu puoi avere poteri meravigliosi e ammetto che sai renderti invisibile e sai placare le tempeste, ma nessun uomo può diventare un lupo! Questa è solo una superstizione irlandese e francese.» «Come già ti ho detto, io non sono un uomo. Tu sei troppo ignorante per
capire che quella che chiami superstizione è un fatto conosciuto e creduto vero in tutti i paesi e in tutte le epoche. Io, il Signore, sono quello che ha dato inizio a questa conoscenza sulla terra! Strappati i vestiti e vedremo che cosa si può fare la notte d'Ognissanti!» Gunnar esitò e il Signore lo incitò. «Spogliati!», gli ordinò di nuovo, e lo spagnolo, senza muovere gli occhi da quel volto contorto, cominciò a fare quello che gli era stato ordinato. Gli occhi rossi del Signore fissavano il giovane come se fossero stati di pietra. Gli si avvicinò. «Ti sto offrendo una scelta», disse con lentezza. «A bordo della Santa Ysabel ti ho promesso che vivrai fino alla tua morte naturale se mi darai il tuo corpo dopo la morte, e solo trent'anni se troverai necessario chiamarmi in tuo aiuto. Scegli ora, se vuoi diventare una creatura che disperderà gli Inglesi dell'accampamento come foglie al vento! Se lo farai, io domani provocherò delle tempeste che allagheranno le paludi e salveranno la vita ai tuoi amici. Se non lo farai, domani li vedrai morire quando i soldati prenderanno il castello, e sarai salvato da me. Allora, sarai cosciente per tutta la vita che avresti potuto salvare i tuoi amici e non l'hai fatto!» Leon Gunnar considerò il dilemma: a nessuno importava sia che lui vivesse o morisse. Trent'anni di vita, almeno, gli stavano davanti secondo i patti. In quegli anni poteva succedere qualcosa per sconfiggere i piani del Signore... Poi c'era anche la promessa che sarebbero state risparmiate le vite di Cuellar e degli altri. La Señora Cuellar... i bambini... la Spagna e l'amore... e finalmente il sole a riscaldare quei cuori stanchi! «Voglio lottare e chiedo il tuo aiuto», rispose Leon. «Trent'anni allora, ragazzo mio», ridacchiò lo gnomo nero e chinò la testa sul braccio di Gunnar. Il giovane sentì un dolore acuto nell'incavo del gomito. Il Signore indietreggiò e gli lanciò addosso un liquido dall'odore orrendo, mormorando degli incantesimi. Poi... Leon sentì un dolore indescrivibile. Fu come se tutte le ossa si fossero tirate, storte e rimesse violentemente a posto! Cadde sul tetto, gridando di dolore. Era un'allucinazione o era la verità che le sue grida suonavano come guaiti e ululati, invece che come parole? Il suo naso sembrava stranamente lungo; in effetti, non era più un naso, ma un muso. Quando spostò le mani verso il naso, le vide e ululò di nuovo. Non erano mani: erano (poteva essere mai vero?) le zampe pelose di un lupo!
Sentì un calcio violento nelle costole. Lo gnomo sembrava molto irritato. «Sta' zitto, stupido! Farai accorrere tutti! Guarda ora!» Il Signore si strinse il mantello nero intorno al corpo e si sporse in avanti. Gunnar voleva ansimare, ma emise un basso guaito di sorpresa, quando vide che improvvisamente il mantello nero non era più un mantello, ma una pelliccia nera! Poi il Signore cadde in avanti, le sue membra scheletriche si contrassero, la sua faccia mutò, e ora due lupi senza coda stavano fianco a fianco sul tetto del Castello Manglana. Gunnar sentì uno strano fremito percorrere le sue vene. Sembrava che qualcosa dello spirito feroce e alieno del Signore fosse passato in lui. Non era più un essere umano, ma una belva, e aveva le stesse sensazioni di un animale da preda. L'uomo era il suo nemico: non doveva ucciderlo? Sotto, nel castello, c'erano degli uomini! Avanzò, con le zampe rigide, verso le scale. I peli del collo gli si drizzarono e la bava gli cadde dalle avide mascelle. Lì l'odore degli uomini era intenso! Fece un passo avanti e lanciò un ululato lungo e spaventoso. Si sarebbe lanciato lungo le scale contro i suoi ex amici, se un gelido ordine non l'avesse fermato. Restò immobile, mentre il suo corpo era scosso da violenti tremiti. Non gli era rimasto niente della sua vita passata. Era solo una macchina costruita ad uno scopo, e questo scopo era uccidere finché fosse stato in grado di lottare. Nella sua mente si alzò la rossa marea dell'omicidio. Il lupo nero lo guardava con un'espressione di umorismo macabro. «Lo farai», annunciò, e le parole furono comunicate senza suono al cervello del lupo grigio. «Ci sono molti più uomini laggiù. Seguimi.» L'animale nero attraversò a grandi salti il tetto e balzò oltre una bassa apertura nei bastioni. Il lupo grigio si tuffò nel lago dopo il nero. Cominciarono a nuotare verso la riva. Mentre la raggiungevano, il cielo si coprì di nuvole, che erano apparse misteriosamente, visto che pochi minuti prima non ne era visibile nemmeno una. I due lupi affondarono fino al ventre nella melma, e si sforzarono di raggiungere un punto dove il terreno fosse più solido. Dalle pozze di acqua verdastra, piene di foglie marce e insetti morti, si alzava un tanfo di muffa. Una pioggerella picchiettava e sibilava sull'acqua limacciosa.
«Questa pioggia terrà le nostre prede al riparo», pensò il lupo grigio, e il nero chinò il capo come se quelle parole fossero state pronunciate. Balzarono in acque meno profonde, nuotarono un poco e poi avanzarono a fatica nel fango che risucchiava le zampe. Al di là c'era l'accampamento. Con cautela costeggiarono l'orlo della palude. Una sentinella si avvicinò. Il lupo nero lasciò indietro quello grigio e strisciò avanti, poi raccolse le zampe sotto il corpo e tese i muscoli d'acciaio. Un balzo, un singulto soffocato, quindi un tonfo nelle pozzanghere, e l'uomo giacque morto con la gola aperta e gorgogliante. Un'altra sentinella si avvicinò: scrutava attentamente le tenebre per scoprire la fonte di quel lieve rumore. Il lupo grigio balzò. Poi, entrambi con i musi bagnati di sangue, sgattaiolarono nell'accampamento addormentato e inerme. Come aveva supposto il lupo grigio, non si vedeva nessuno. Negli alloggi, qualcuno dormiva e qualcun altro sonnecchiava, ma tutto era tranquillo. Il ticchettio della pioggia soffocava qualsiasi rumore provocato da quelle zampe vellutate. Il lupo grigio si fermò e alzò le orecchie, vigile e pronto all'attacco, mentre il Signore riprendeva la forma umana. Lavorò per qualche istante intorno al cannone. Poi, di nuovo, due lupi senza coda trottarono nell'accampamento. C'era una tenda appartata rispetto alle altre, da cui proveniva un sonoro russare. Dopo un momento di esitazione, entrambi i lupi entrarono attraverso la bassa apertura. Quando ne uscirono, non si sentiva più russare. Gli occhi di tutti e due brillavano di una strana allegria quando si separarono. Il lupo nero scelse una fila di tende e il lupo grigio cominciò ad entrare e a uscire da quelle tende di un'altra fila. Sul terreno bagnato lasciavano una traccia di gocce di sangue a segnalare dov'erano passati. Dietro di loro lasciavano una pace che non sarebbe mai più stata rotta dagli occupanti delle tende che avevano visitate. Quell'andirivieni spaventoso continuò per molto tempo, senza interruzione. Il lupo nero aveva già finito due file di tende ed era a metà della terza, mentre il grigio uccideva, ebbro di morte, nella sua seconda fila, quando un uomo si svegliò da un incubo per vedere le zanne insanguinate e trovarsi immerso in una realtà ancora più orrida. Ebbe appena il tempo di gridare: «I Lupi Mannari!», prima che la spina dorsale gli fosse spezzata da quelle zanne d'acciaio. L'altro occupante della
tenda si svegliò, urlò qualcosa di incoerente e morì. Improvvisamente, ci fu parecchio movimento: degli uomini correvano tra le tende senza scopo, cercando la banda di nemici che li aveva colti di sorpresa. Non capirono con chi dovessero lottare finché non videro le due bestie, con le zampe di dietro stranamente più alte, che balzavano da una fila all'altra di tende. Un irlandese rinnegato, che faceva da guida alla truppa, si inginocchiò a quella vista. «I dèmoni!», urlò. «I lupi! I lupi! Ci attaccano i Lupi Mannari!» E strisciò con le mani e con le ginocchia nel fango, in direzione del cannone. Il grido di «Lupi Mannari!» fece il giro dell'accampamento aumentando il terrore dei soldati, cui erano già familiari le storie sugli uomini-bestia. Nel frattempo i due lupi, approfittando della confusione, balzavano sui soldati, li trucidavano, e li mordevano come belve rabbiose. Infine, con la testa bassa per evitare i colpi, attraversarono di corsa il centro dell'accampamento e si diressero verso il castello. Su un piccolo rialzo di terreno, si fermarono, e le loro figure si stagliarono nitide nel cielo più chiaro, ma si trovavano sulla linea di fuoco del cannone. La guida irlandese, pregando tra sé che il cannone fosse carico, abbassò il fusto e, circondato da una folla frenetica di soldati, diede fuoco alla carica. La scossa violenta che ne seguì, fece tremare tutto l'accampamento. Un lampo di luce livida illuminò le nubi che si accavallavano nel cielo, e frammenti di ferro e corpi mutilati volarono dappertutto, mentre nel Castello Manglana sei uomini si guardavano l'un l'altro. Non osavano sperare che l'uomo scomparso avesse trovato un modo di aiutarli. Le fragili tende erano cadute in molti punti e, quando i sopravvissuti all'esplosione si ricordarono dei lupi, il rialzo di terreno fu abbandonato. Un vento forte portò uno scroscio di pioggia. La pioggia cadde abbondante e costante finché la superficie del lago Erne coprì le paludi che erano alla base del promontorio e continuò a salire. Prima dell'alba, il Castello Manglana si sarebbe trovato su un'isola, e la pioggia, che avrebbe continuato a cadere per giorni, sarebbe stata sufficiente a rendere la posizione degli Inglesi insostenibile, prima che potessero procurarsi un altro cannone. Cuellar e altri cinque Spagnoli finalmente sarebbero ritornati alle proprie case. A miglia di distanza il Signore era avvolto nel suo mantello nero. Un lu-
po grigio stava accucciato ai suoi piedi. «Da quella parte», disse il tenebroso gnomo, «c'è Astrim». Da lì puoi raggiungere facilmente la Scozia. Ti ho già detto dove puoi trovare la tua unica parente e sono sicuro che ti piacerà. Corri ora, e arriva più lontano che puoi prima dell'alba. Prendi i vestiti del primo uomo che incontri un'ora prima dell'alba. Che cosa ha provocato l'esplosione del cannone? Vi ho aggiunto un'altra carica di polvere e ho riempito il fusto di fango! Arrivederci, Leon Gunnar, sei uno schiavo degno.» Un secondo dopo il lupo grigio era solo. Non indugiò, ma corse invece nella direzione che gli aveva indicato il Signore. La Señora Cuellar un giorno avrebbe rivisto il suo uomo, e non avrebbe mai saputo che un vagabondo, sconosciuto e solitario, aveva dato anni della propria vita perché sei uomini si potessero riunire alle proprie famiglie. E, anche se l'avesse saputo, non ci avrebbe creduto. Ma colui che si era sacrificato per salvare gli altri, corse nel buio verso Astrim e la Scozia con una fretta disperata. La mattina sarebbe stato un uomo normale, che non avrebbe mai più conosciuto il potere empio e i desideri blasmefi di quella notte insanguinata. TESTA DI LUPO Wolfshead di Robert Ervin Howard Weird Tales, Aprile 1926 Parlate di paura? Chiedo venia, messieurs, ma nessuno di voi conosce il vero significato della paura. No, ne sono sicuro. Siete tutti soldati, avventurieri. Conoscete le cariche dei reggimenti di Dragoni, la furia dei mari flagellati dal vento. Ma la paura, la vera paura quella che gela il sangue e fa rizzare i capelli, non l'avete mai conosciuta. Io sì. E fino al giorno in cui le Legioni delle Tenebre non eromperanno dalle porte dell'Inferno e il mondo finirà tra le fiamme, una paura simile non verrà più conosciuta dall'uomo. Vi racconterò la mia storia: ascoltatemi se volete. È accaduta molti anni fa, dall'altra parte del mondo, e nessuno di voi vedrà mai l'uomo di cui vi parlerò. D'altra parte, anche vedendolo, non lo riconoscereste. Tornate indietro negli anni insieme con me, fino al giorno in cui io, giovane e inesperto cavaliere, scesi dalla barca che mi aveva portato dalla na-
ve all'ancora nel porto, imprecai contro il fango che lordava il molo, e mi avviai verso il castello, dove mi aveva invitato un vecchio amico, Dom Vincente da Lusto. Era un uomo strano Dom Vincente, lungimirante: un uomo notevole, capace di vedere oltre gli orizzonti del suo tempo. Nelle sue vene, forse, scorreva il sangue degli antichi Fenici, quel popolo che, come ci narrano i preti, dominarono i mari e costruirono città in terre lontane e in tempi remoti. Il modo in cui aveva fatto fortuna era singolare: pochi uomini ci avrebbero pensato, e meno ancora ci sarebbero riusciti. I suoi possedimenti, infatti, si trovavano sulla costa occidentale di quel continente tenebroso e pieno di magia che sconcerta gli esploratori: l'Africa. Presso una piccola baia aveva disboscato la giungla fitta, aveva costruito il suo castello e i magazzini, e con pugno di ferro aveva strappato le ricchezze alla terra. Possedeva quattro navi: tre vascelli più piccoli e un grande galeone, che facevano la spola tra i suoi dominii e le città della Spagna, del Portogallo, della Francia e perfino dell'Inghilterra; carichi di legname prezioso, avorio e schiavi: le mille, incredibili ricchezze che Dom Vincente si era procurato col commercio e la rapina. Infatti la sua era un'impresa pazzesca, e un commercio ancora più strano. Eppure, avrebbe potuto crearsi un impero in quella terra di stregoni se non fosse stato per l'infame Carlos, suo nipote... ma sto anticipando il mio racconto. Ecco, messieurs: traccio una carta sul tavolo, alla buona, con l'indice intinto nel vino. Qui si trova il porticciolo poco profondo, e qui gli ampi moli. L'approdo era qui; si saliva lungo una stradicciola con ai lati le capanne che fungevano da magazzini, e che finiva davanti a un ampio fossato. Si attraversava uno stretto ponte levatoio e si arrivava davanti a una palizzata di alti tronchi infissi nel terreno, che cingeva il castello. La rocca era stata costruita sui modelli di un'epoca più antica, con in mente più la solidità che la bellezza. Era fatta di pietre portate da lontano: per molti anni i negri avevano faticato sotto la frusta per erigerne le mura, ma, appariva, una volta finita, inespugnabile. Era quello che volevano i suoi costruttori, perché i pirati berberi infestavano le coste e inoltre incombeva sempre il pericolo di una ribellione degli indigeni. Di fronte a ogni lato del castello, era stato liberato dagli alberi un tratto di circa un chilometro, ed erano state costruite strade attraverso i terreni paludosi. Un lavoro enorme: ma la manodopera abbondava. Bastava fare
un dono a un Capotribù, e quello forniva il necessario. E i Portoghesi sapevano far lavorare gli uomini! Meno di trecento metri a est del castello, scorreva un fiume ampio e poco profondo, che si gettava nel porto. Il nome mi sfugge di mente: era una parola indigena, e non sono mai riuscito a pronunciarla. Scoprii che non ero l'unico invitato al castello. Una volta l'anno, Dom Vincente faceva giungere nella sua rocca solitaria una schiera di allegri compagni, e passava qualche settimana di baldorie per ripagarsi delle fatiche e della solitudine del resto dell'anno. Era ormai notte, quando arrivai, ed era già in corso un grande banchetto. Fui accolto con gioia dagli amici, e venni presentato a quelli che ancora non conoscevo. Troppo stanco per partecipare con entusiasmo al festino, mangiai e bevvi in silenzio, ascoltai i brindisi e i canti, e studiai gli invitati. Conoscevo bene Dom Vincente, dato che ero suo amico intimo da anni; e anche Ysabel, la sua deliziosa nipote, una delle ragioni principali che mi avevano fatto accettare l'invito in quella terra selvaggia. Conoscevo e detestavo il secondo cugino di Ysabel, Carlos: un uomo viscido e intrigante, che somigliava a una faina. Poi c'erano un mio vecchio amico - Luigi Verenza, un italiano - e sua sorella, Marcita, che come al solito faceva la civetta con tutti gli uomini. Poi c'erano un tedesco basso e robusto, il Barone Von Schiller, e Jean Desmarte, un estroverso gentiluomo guascone; e Don Fiorenzo de Seville, un uomo magro, bruno, taciturno, che diceva di essere spagnolo e portava una spada lunga quasi quanto lui. C'erano anche molti altri, uomini e donne; ma è passato molto tempo, e non ricordo tutti i loro nomi e le loro facce. Un uomo tuttavia attirò il mio sguardo come la calamita dell'alchimista attira il ferro. Era snello, di statura di poco superiore alla media, vestito in modo semplice, quasi austero; stringeva una spada lunga quasi quanto quella dello spagnolo. Non furono però i suoi abiti né la sua spada ad attirare la mia attenzione: fu il suo volto. Un volto fine, aristocratico, segnato da linee profonde che gli conferivano un'espressione spettrale. Piccole cicatrici erano sparse sul mento e sulla fronte, come il ricordo di artigli selvaggi; e avrei giurato che gli occhi grigi, sempre socchiusi, avessero talvolta una fuggevole espressione allucinata. Mi rivolsi a Marcita e le chiesi il nome di quell'uomo, poiché non ricordavo se fossimo già stati presentati. «De Montour, della Normandia», rispose lei. «Un uomo strano. Non mi piace.»
«Vuoi dire che ha resistito al tuo fascino, mia piccola strega?», mormorai. La nostra lunga amicizia mi rendeva immune alla sua ira come alle sue astuzie. Ma Marcita non si arrabbiò e rispose pacatamente, sbirciandomi sotto le ciglia abbassate con insolito pudore. Continuavo a fissare De Montour: mi sentivo stranamente affascinato. Mangiava poco, ma in compenso beveva molto: parlava di rado e solo se qualcuno gli rivolgeva una domanda. Poi cominciarono i brindisi. Notai che i suoi compagni lo invitarono ad alzarsi per proporre di bere alla salute di qualcuno. Dapprima rifiutò; poi, dopo molte insistenze, si levò in piedi e rimase in silenzio per un momento, alzando il calice. Sembrava dominare e intimorire tutti. Poi, con una risata beffarda, levò il calice davanti a sé. «A Salomone, che ha imprigionato tutti i dèmoni!», esclamò. «E sia tre volte maledetto per quelli che si è lasciato sfuggire!» Un brindisi e una maledizione insieme! Tutti bevvero in silenzio, scambiandosi occhiate perplesse. Quella notte mi ritirai presto, stanco del viaggio e con la testa che mi girava per la potenza del vino delle ricche cantine di Dom Vincente. La stanza assegnatami si trovava nella parte più alta del castello, e guardava sulle foreste a sud e sul fiume. Era arredata con un rude splendore barbarico, come il resto del castello. Andai alla finestra e guardai l'archibugiere di guardia all'interno della palizzata; lo spazio vuoto, sgradevolmente spoglio nel chiarore della luna; la foresta; e il fiume silenzioso. Dai quartieri indigeni, vicino al fiume, salivano le strane note di un liuto primitivo che suonava una melodia barbara. Nel folto cupo della foresta, un ignoto uccello notturno lanciò il suo richiamo beffardo. Risuonarono mille note in risposta: uccelli, mammiferi, e lo sa il demonio cos'altro! Un grosso felino della giungla cominciò ad urlare in modo agghiacciante. Scrollai le spalle e mi allontanai dalla finestra. Senza dubbio in quelle ombre cupe si annidavano delle creature infernali. Qualcuno bussò alla mia porta: aprii ed entrò De Montour. Si avvicinò alla finestra e osservò la luna che splendeva fulgida. «La luna è quasi piena, vero monsieur?», osservò, girandosi verso di me. Annuii. Chissà perché, mi era parso di averlo visto rabbrividire. «Mi perdoni, monsieur, non la infastidirò oltre.» Si avviò per andarsene ma sulla soglia si girò e tornò indietro. «Monsieur», mormorò, con una tensione inspiegabile, «qualunque cosa
accada, questa notte sbarri la porta!» Poi uscì, mentre io lo seguivo sbalordito con lo sguardo. Mi assopii, mentre in lontananza si udivano ancora le grida degli invitati che continuavano a far baldoria. Sebbene fossi stanchissimo, e forse proprio per questo, dormii di un sonno leggero. Non mi svegliai fino al mattino successivo, ma i suoni e i rumori parvero giungermi egualmente attraverso il velo del sonno, e una volta ebbi l'impressione che qualcosa premesse contro la porta sbarrata. Com'era prevedibile, il giorno seguente molti ospiti mostravano i postumi di una sbornia e rimasero nelle loro stanze per quasi tutta la mattina, o scesero molto tardi. Oltre a Dom Vincente, solo in tre erano rimasti lucidi: De Montour, lo spagnolo (De Seville, come aveva detto di chiamarsi), e io. Lo spagnolo non toccava mai vino; De Montour, benché l'avessi visto berne quantità incredibili, non sembrava risentirne assolutamente. Le signore ci accolsero con molta grazia. «Sono davvero lieta», osservò Marcita, porgendomi la mano con un'aria compita che mi fece sorridere, «di constatare che tra noi ci sono dei gentiluomini che al vino preferiscono la compagnia delle donne. Quasi tutti sono straordinariamente intontiti, stamattina.» Poi, girando all'intorno gli occhi stupendi con aria provocante, aggiunse: «Credo anzi che qualcuno fosse addirittura troppo ubriaco, questa notte, per essere discreto... o forse non abbastanza ubriaco. Infatti, se i sensi non mi hanno ingannata, qualcuno ha cercato di aprire la mia porta, a notte fonda». «Ah!», esclamai, preso da un'ira improvvisa. «Chi mai...!» «No. Taci.» Si guardò intorno, per assicurarsi che fossimo soli, poi aggiunse: «Non è strano che De Montour, prima di andare in camera sua, ieri sera, mi abbia consigliato di sbarrare la porta?». «Strano», mormorai, ma non le dissi che anche a me De Montour aveva dato lo stesso avvertimento. «E non è strano, Pierre, che sebbene De Montour abbia lasciato il banchetto anche prima di te, abbia l'aria di essere stato alzato tutta la notte?» Scrollai le spalle. Spesso le fantasie delle donne sono assurde. «Questa notte», concluse lei, maliziosamente, «lascerò aperta la porta. Chissà chi riuscirò a catturare.» «Non farai una cosa simile!» Marcita scoprì i denti sottili in un sorriso sprezzante e mi mostrò un piccolo pugnale affilatissimo.
«Ascoltami, sventatella. De Montour ieri sera ha rivolto anche a me lo stesso avvertimento. Qualsiasi cosa sapesse, e chiunque si aggirasse questa notte per i corridoi, ciò che si tramava era più probabilmente un omicidio che un'avventura galante. Tieni la porta sbarrata. Donna Ysabel divide la stanza con te, non è vero?» «No. E di notte lascio andare le mie camieriere negli alloggi degli schiavi», mormorò lei, guardandomi maliziosamente tra le ciglia socchiuse. «A sentirti parlare ti si giudicherebbe una ragazza assai spudorata», le dissi, con la franchezza della gioventù e di una lunga amicizia. «Bada a te, damigella, o dirò a tuo fratello di sculacciarti.» Mi allontanai per rendere omaggio a Ysabel. La giovane portoghese era l'opposto esatto di Marcita: timida e pudica, era meno bella dell'italiana ma squisitamente graziosa, con un'aria incantevole, quasi fanciullesca. Un tempo pensavo... Ah! Quando si è giovani come si è sciocchi! Vi chiedo perdono, messieuss. Talvolta la mente di un vecchio divaga. È di De Montour, che volevo parlarvi: di De Montour, e del cugino di Dom Vincente. Una torma di indigeni armati si accalcava intorno alle porte, tenuta a distanza dai soldati portoghesi. Tra di loro c'erano alcune decine di giovani, uomini e donne, tutti nudi, incatenati per il collo: schiavi, catturati a qualche tribù guerriera e offerti in vendita. Dom Vincente andò di persona a esaminarli. Ci furono lunghe trattative, di cui mi stancai ben presto; mi allontanai, stupito che un uomo del rango di Dom Vincente si abbassasse a un genere di commercio tanto ignobile. Tornai indietro, tuttavia, quando giunse di corsa uno degli indigeni del vicino villaggio e interruppe la discussione con una lunga discussione rivolta a Dom Vincente. Mentre parlavano, arrivò De Montour e, poco dopo, Dom Vincente si rivolse a noi e spiegò: «Un taglialegna del villaggio è stato sbranato da un leopardo o da un'altra belva, questa notte. Era un giovane scapolo molto robusto». «Un leopardo? L'hanno visto?», chiese De Montour, e quando Dom Vincente rispose che si era dileguato nella notte, il francese alzò la mano tremando e se la passò sulla fronte, come per tergersi un sudore freddo. «Guarda, Pierre», disse Dom Vincente. «Ho qui uno schiavo che, meraviglia delle meraviglie, desidera spontaneamente diventare di tua proprietà. Anche se solo il Diavolo sa perché.» Mi condusse un jakri giovane e snello, un ragazzo, la cui dote principale
sembrava un allegro sorriso. «È tuo», fece Dom Vincente. «È ben addestrato e sarà un ottimo servitore. Ricorda: uno schiavo è meglio di un servo, perché gli bastano il vitto, uno straccio per coprire le vergogne, e qualche frustata per tenerlo a posto.» Scoprii presto perché Gola (così si chiamava il ragazzo) desiderava diventare il mio schiavo, scegliendomi tra tutti gli altri. Era per via dei miei capelli. Come molti elegantoni di quel tempo, li portavo lunghi fino alle spalle. Ero l'unico tra gli ospiti a portarli così, e Gola se ne stava seduto a guardarli in silenziosa ammirazione per ore e ore o fino a quando, stufo di averlo tra i piedi, lo buttavo fuori. Quella sera l'astio contenuto che covava tra il Barone Von Schiller e Jean Desmarte esplose come una fiammata. Al solito, la causa fu una donna. Marcita, che civettava sfacciatamente con entrambi. Quale imprudenza. Desmarte era un giovane fatuo e impulsivo, e Von Schiller era una bestia libidinosa. Ma quando mai, messieurs, una donna ha dato prova di saggezza? L'odio fra i due esplose in una furia omicida quando il tedesco cercò di baciare Marcita. In un istante, le spade si incrociarono. Ma, prima che Dom Vincente potesse urlare l'ordine di smetterla, Luigi si era gettato fra i duellanti e aveva fatto cadere loro le spade, dividendoli rabbiosamente. «Signori», disse, a voce bassa ma ardente, «vi sembra consono a gentiluomini del vostro rango battersi per mia sorella? Per le unghie di Satana, se non desistete, me ne renderete conto entrambi! Marcita, va' immediatamente in camera tua e non uscirne senza il mio permesso!» Marcita se ne andò perché, pur essendo un tipo indipendente, non osava contrastare quel giovane esile e dall'aria femminea quando una smorfia da tigre gli torceva le labbra e una luce omicida gli brillava negli occhi scuri. Ci fu poi uno scambio di scuse, ma dalle occhiate che i due rivali si scambiavano capimmo che il dissidio non era sanato e che sarebbe nuovamente divampato al minimo pretesto. Quella stessa notte, mi svegliai all'improvviso con una strana e inspiegabile sensazione di orrore. Non avrei saputo dire perché. Mi alzai, vidi che la porta era saldamente sbarrata, e notando Gola addormentato sul pavimento, lo svegliai con un calcio, irritato. Mentre lo schiavo si alzava in fretta, massaggiandosi, il silenzio fu rotto da un urlo orrendo che echeggiò nel castello e strappò un grido di sbalordimento all'archibugiere di guardia
alla palizzata: era l'urlo di una donna atterrita. Con uno strillo, Gola si buttò dietro il divano. Spalancai la porta e mi lanciai di corsa nel corridoio buio. Scesi a precipizio una scala a chiocciola: arrivato in fondo urtai qualcuno, e ruzzolammo a terra entrambi. L'uomo borbottò qualcosa, e riconobbi la voce di Jean Desmarte. Lo aiutai ad alzarsi e continuai a correre; lui mi seguì. Le urla erano cessate, ma tutto il castello era in subbuglio: grida, sferragliare di armi, luci che si accendevano. Dom Vincente chiamava a gran voce i soldati, uomini armati correvano per le stanze scontrandosi. In quella confusione tremenda, io, Desmarte e lo spagnolo arrivammo alla stanza di Marcita nell'istante stesso in cui Luigi si precipitava all'interno e raccoglieva tra le braccia la sorella. Entrarono altri con lanterne e armi gridando e chiedendo concitati cos'era successo. La ragazza giaceva in silenzio tra le braccia del fratello, i capelli sciolti sulle spalle e l'elegante camicia da notte lacerata che lasciava scoperto il corpo incantevole. Sulle braccia, sul seno e sulle spalle, erano visibili i segni di lunghi graffi. Dopo qualche istante aprì gli occhi, rabbrividì, poi urlò disperatamente aggrappandosi al fratello Luigi, supplicandolo di difenderla. «La porta!», gemette. «Non l'avevo sbarrata. E qualcosa è entrato nella stanza, al buio. Ho tentato di colpirlo con il pugnale, ma mi ha scagliata sul pavimento cercando di sbranarmi. Poi sono svenuta.» «Dov'è Von Schiller?», chiese lo spagnolo, con uno scintillio minaccioso negli occhi scuri. Ci guardammo: tutti gli ospiti erano presenti, tranne il tedesco. Notai che De Montour stava fissando la ragazza terrorizzata: il suo volto era ancora più scavato del solito. E mi parve strano che non fosse armato. «Già, Von Schiller!», esclamò rabbiosamente Desmarte. Alcuni di noi seguirono Dom Vincente nel corridoio. Cercammo in tutto il castello, e in un piccolo corridoio buio trovammo Von Schiller. Era steso a terra, in una chiazza rossa che si andava allargando. «Questa è opera di un indigeno!», esclamò Desmarte, sconvolto. «Assurdo!», fece Dom Vincente. «Nessun indigeno potrebbe entrare senza essere bloccato dai soldati. Tutti gli schiavi, incluso quello di Von Schiller, sono sottochiave nel loro alloggio, eccettuati Gola, che dorme nella stanza di Pierre, e la cameriera di Ysabel.» «Ma chi altro avrebbe potuto far questo?», esclamò furibondo Desmarte. «Voi!», esclamai bruscamente. «Se no, perché fuggivate così in fretta
dalla stanza di Marcita?» «Maledetto! È una menzogna!», gridò Desmarte. Sguainò fulmineo la spada e me la puntò al petto, ma lo spagnolo fu ancora più svelto. La spada del guascone tintinnò contro il muro e lui rimase immobile come una statua, con la lunga lama spagnola che gli toccava la gola. «Legatelo», ordinò impassibile De Seville. «Abbassate la spada, Don Fiorenzo», ordinò Dom Vincente, facendosi avanti e dominando la scena. «Jean, tu sei uno dei miei migliori amici, ma qui io rappresento l'unica legge e devo fare il mio dovere. Dammi la tua parola che non cercherai di fuggire.» «Ce l'hai!», rispose calmo il guascone. «Ho agito avventatamente, e me ne scuso. Non stavo fuggendo, ma i corridoi di questo maledetto castello mi confondono.» Di tutti i presenti, probabilmente uno solo gli credette. «Messieurs!», esclamò De Montour, facendosi avanti. «Questo giovane non può essere il colpevole. Rivoltate il tedesco.» Due soldati si affrettarono a eseguire. De Montour rabbrividì, tendendo la mano. Noi guardammo, e indietreggiammo inorriditi. «Quale uomo avrebbe mai potuto fare una cosa simile?» «Con un pugnale...», cominciò qualcuno. «Nessun pugnale provoca simili ferite», disse lo spagnolo. «Il tedesco è stato sbranato dagli artigli di una belva spaventosa.» Ci guardammo intorno, quasi aspettandoci che un mostro orrendo uscisse dalle ombre per avventarsi su di noi. Frugammo il castello palmo a palmo, ma non trovammo tracce di belve. Era già l'alba quando feci ritorno nella mia stanza, e scoprii che Gola si era barricato all'interno: dovetti impiegare quasi mezz'ora per convìncerlo a lasciarmi entrare. Gliele diedi di santa ragione per la sua vigliaccheria; poi gli raccontai l'accaduto, poiché capiva la mia lingua e riusciva a parlare un bizzarro miscuglio di idiomi diversi che chiamava orgogliosamente «francese». Spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi quando il mio racconto giunse al punto culminante. «Ju-ju!», bisbigliò impaurito. «Uomo dei feticci!» All'improvviso mi colpì un'idea. Avevo sentito raccontare certe storie poco più che accenni a leggende - sulla diabolica Setta del Leopardo, che esisteva sulla Costa Occidentale. Nessun bianco aveva mai visto uno dei suoi seguaci, ma Dom Vincente ci aveva parlato di uomini-belva che a
notte fonda si aggiravano nella giungle ricoperti di pelli di leopardo e uccidevano e divoravano. Un brivido di orrore mi corse lungo la spina dorsale: afferrai Gola così forte, da farlo strillare. «È stato un uomo-leopardo?», gridai, scuotendolo rabbiosamente. «Massa, massa!», ansimò lui. «Me buon figliolo! Uomo-ju-ju me prende! Meglio non dire!» «Me lo dirai, invece!», gridai. Gli ricamai la schiena finché Gola, agitando debolmente le mani in segno di protesta, promise di dire tutto ciò che sapeva. «No uomo-leopardo», mormorò, spalancando gli occhi in preda a una paura soprannaturale. «Luna, lei piena, trova taglialegna, lui sbranato. Trova altro taglialegna. Grande Massa (Dom Vincente) dice "leopardo". No leopardo. Ma uomo-leopardo, lui viene e uccide. Qualcosa uccide uomo-leopardo! Unghie. Artigli. Ahi, ahi! Luna ancora piena. Qualcosa viene in capanna solitaria: sbrana donna, sbrana altri. Uomo trova. Grande Massa dice "leopardo". Ancora luna piena, e trova taglialegna. Sbranato. Adesso viene in castello. No leopardo. Ma sempre orme di uomo!» Imprecai, sbalordito e incredutolo. Era vero, giurò e spergiurò Gola. C'erano sempre orme d'uomo che si allontanavano dalla scena degli omicidi. E allora perché gli indigeni non lo dicevano al Grande Massa, in modo che potesse dare la caccia a quel Demonio? A questo punto Gola assunse un'espressione astuta e mi mormorò all'orecchio: «Orme erano di uomo che porta scarpe!». Pur essendo certo che Gola mi avesse mentito, provai un brivido d'orrore inspiegabile. Allora chi era, secondo gli indigeni, il colpevole di quelle atroci uccisioni? E Gola rispose: «Dom Vincente». Ormai, messieurs, e sapete che la mia mente era un vortice. Che cosa poteva significare tutto quello? Chi - mi chiesi - aveva assassinato il tedesco e aveva cercato di violentare Marcita? Ma poi, ripensandoci, mi convinsi che lo scopo dell'aggressione doveva essere un omicidio, non la violenza carnale. Perché - mi chiesi ancora - De Montour ci aveva messi in guardia e poi aveva mostrato di essere ben informato del delitto, informandoci che Desmarte non poteva averlo commesso? Non riuscivo a capire.
La notizia dell'uccisione si diffuse subito tra gli indigeni, sebbene cercassimo di tenerla nascosta: divennero irrequieti e nervosi. Tre volte, quel giorno, Dom Vincente fece frustare un negro per la sua insolenza. Sul castello aleggiava ormai un'atmosfera di minaccia. Pensai di andare da lui per riferirgli ciò che mi aveva detto Gola, ma decisi di attendere ancora. Quel giorno, le donne rimasero nelle loro stanze, gli uomini erano cupi e nervosi. Dom Vincente annunciò che avrebbe raddoppiato le sentinelle e avrebbe organizzato delle ronde anche nei corridoi del castello. Mi sorpresi a pensare, cinicamente, che se i sospetti di Gola erano fondati le sentinelle non sarebbero servite a molto. Mi conoscete, Messieurs, e sapete che non sono il tipo che sopporta pazientemente una situazione del genere. E a quei tempi perdipiù ero giovane. Perciò, mentre bevevamo prima di ritirarci, gettai il calice sul tavolo e annunciai che a dispetto degli uomini, delle belve e dei diavoli, quella notte avrei dormito con la porta spalancata. E me ne andai in camera mia furibondo. Come la prima notte, si presentò De Montour. Aveva la faccia di un uomo che ha guardato oltre le porte spalancate dell'Inferno. «Sono venuto», disse, «per chiedervi... no, monsieur, per implorarvi di ritornare sulla vostra decisione.» Scossi il capo, irritato. «Avete deciso? Sì? Allora vi chiedo un favore: quando sarò entrato in camera mia, sbarrate la mia porta dall'esterno.» Feci ciò che mi aveva chiesto e tornai nella mia stanza, con la mente perduta in un labirinto di enigmi. Avevo mandato Gola nell'alloggio degli schiavi, e tenevo a portata di mano spada e pugnale. Non mi misi a letto: mi rannicchiai al buio in una grande sedia. Poi mi sforzai di non cedere al sonno. Per restare sveglio cominciai a riflettere sulle strane parole di De Montour. Mi era parso molto agitato. I suoi occhi facevano pensare a misteri terribili, a lui solo noti. Eppure non aveva il volto di un malvagio. Decisi di andare in camera sua, a parlargli. Percorrere i corridoi immersi nell'oscurità fu piuttosto sconvolgente, ma alla fine arrivai alla porta di De Montour. Chiamai sottovoce. Silenzio. Allungai una mano, e sentii sotto le dita frammenti di legno spezzato. Mi affrettai a usare la selce e l'acciarino che avevo portato con me, e alla luce dell'esca vidi la grande porta di quercia che pendeva dai robusti cardini, sfondata dall'interno. La camera di De
Montour era vuota. L'istinto mi spinse a ritornare in fretta nella mia stanza, senza far rumore, muovendo con cautela i piedi scalzi. Quando mi avvicinai alla porta mi accorsi che c'era qualcosa nelle tenebre davanti a me, qualcosa che veniva da un corridoio laterale e avanzava furtivamente. In preda al panico, balzai in avanti sferrando colpi alla cieca nell'oscurità. Il mio pugno centrò una testa umana, e un corpo crollò a terra di schianto. Accesi di nuovo un po' di esca. Sul pavimento c'era un uomo privo di sensi. De Montour. Accesi una candela e la posai in una nicchia; in quel momento il francese aprì gli occhi e si alzò, barcollando un poco. «Voi!», esclamai, quasi senza sapere ciò che dicevo. «Proprio voi!» De Montour si limitò ad annuire. «Siete stato voi, a uccidere Von Schiller?» «Sì.» Indietreggiai, soffocando un'esclamazione d'orrore. «Ascoltate.» De Montour alzò la mano. «Prendete la spada e trapassatemi da parte a parte. Nessuno vi farà del male.» «No!», esclamai. «Non posso.» «Allora», disse, concitato, «entrate nella vostra camera e sprangate la porta. Presto! La cosa tornerà!» «Quale cosa?», domandai, con un fremito d'orrore. «Se farà del male a me, ne farà anche a lei. Venga con me nella mia stanza.» «No, no!», gridò lui, arretrando con un balzo dal mio braccio proteso. «Preso, presto! Mi ha abbandonato per un istante, ma ritornerà.» Poi, a voce bassa, con un tono d'indescrivibile orrore: «Ecco, sta tornando! È qui, adesso!». E allora percepii qualcosa, una presenza informe, molto vicina. Un che di terrificante. De Montour stava eretto, le gambe larghe, le braccia all'indietro, i pugni stretti. I muscoli risaltavano sotto la pelle, gli occhi si spalancavano e si socchiudevano, le vene si gonfiavano sulla sua fronte come in un tremendo sforzo fisico. E, mentre guardavo, con mio grande orrore qualcosa di informe e senza nome apparve dal nulla e assunse una vaga consistenza. Come un'ombra, si avvicinò a De Montour. Si librava su di lui! Buon Dio, si fondeva, diventava una cosa sola con lui! L'uomo vacillò, e un profondo gemito represso gli sfuggì dalle labbra. La cosa indistinta svanì. De Montour barcollò. Poi si girò verso di me, e Dio voglia che non debba mai più vedere una faccia come quella. Era una faccia orrenda, bestiale. Gli occhi brillavano di una spaventosa
ferocia; le labbra contratte scoprivano i denti lucidi, che apparivano al mio sguardo sgomento più come zanne di belva che come denti umani. In silenzio, la cosa (non posso chiamarla uomo) avanzò verso di me. Ansimando per l'orrore, balzai indietro e varcai la soglia, nell'attimo stesso in cui la cosa si avventava nell'aria con un movimento sinuoso che in quel momento mi fece pensare a un lupo. Chiusi con violenza la porta, tenendola bloccata contro la cosa orrenda che si avventò più e più volte per sfondarla. Passò molto tempo prima che desistesse: poi sentii l'essere allontanarsi furtivamente nel corridoio. Debole, sfinito, mi sedetti e attesi, in ascolto. La brezza entrava dalla finestra aperta portando tutti gli odori dell'Africa, gli aromi e i fetori. Dal villaggio indigeno veniva il suono di un tamburo. Altri tamburi risposero, più lontani, lungo il fiume e nella boscaglia. Poi dalla giungla, orrendamente incongruo, si levò il richiamo acuto e prolungato di un lupo. La mia anima si rivoltò. All'alba giunse la notizia che gli abitanti del villaggio erano terrorizzati: una negra era stata aggredita da un diavolo della notte, ed era scampata a malapena. Io andai da De Montour. Mentre mi recavo da lui, incontrai Dom Vincente. Era perplesso e furioso. «Qualcosa d'infernale è all'opera nel castello», mi fece. «Stanotte, anche se non ne ho detto nulla a nessuno, qualcosa è balzato sulle spalle di uno degli archibugieri, gli ha lacerato la giubba di cuoio e l'ha inseguito fin sotto gli spalti. E poi qualcuno ha chiuso a chiave De Montour in camera sua, e lui è stato costretto ad abbattere la porta per uscire.» Passò oltre, borbottando tra sé; io scesi le scale, più sconcertato che mai. De Montour sedeva su uno sgabello, e guardava dalla finestra. Aveva l'aria stanca e disfatta. I lunghi capelli erano scarmigliati, gli abiti laceri. Con un brivido, vidi delle macchie rosse sulle sue mani e notai che le unghie erano spezzate. Quando entrai sollevò la testa e mi accennò di sedermi. Il suo volto era pesto e sconvolto, ma umano. Parlò dopo un momento di silenzio. «Vi racconterò la mia strana storia. Mai prima d'ora è uscita dalle mie labbra, e non so perché ve la narro sapendo che non mi crederete.» Ascoltai allora quella che senza dubbio era la vicenda più assurda, più fantastica, più sbalorditiva che un uomo avesse mai udito. «Anni fa», disse De Montour, «ero impegnato in una missione militare nel nord della Francia. Fui costretto a passare da solo attraverso i boschi di Villefère, infestati dai dèmoni. In quella foresta mostruosa fui aggredito da
una cosa inumana, orribile: un Lupo Mannaro. Lottammo sotto la luna di mezzanotte, e l'uccisi. Ora, questa è verità sacrosanta: se un Lupo Mannaro viene ucciso in forma semiumana, il suo spettro perseguiterà l'uccisore per tutta l'eternità. Ma se viene ucciso in forma di lupo, l'Inferno si spalanca per accoglierlo. Il vero Lupo Mannaro non è, come molti credono, un uomo che può assumere forma di lupo, ma un lupo che assume forma di uomo! Ora ascoltatemi bene, amico mio, e vi parlerò della sapienza infernale che possiedo, acquisita in molte azioni orrende e impartitami tra le ombre spaventose delle foreste notturne dove si aggirano dèmoni e belve. Dapprincipio il mondo era strano, deforme. Belve grottesche vagavano nelle sue giungle. Scacciati da un altro mondo, antichi dèmoni vennero in gran numero e si stanziarono su questo mondo nuovo e più giovane. Le forze del Bene e del Male guerreggiarono a lungo. Una bestia strana, conosciuta col nome di uomo, vagava tra le altre, e poiché il bene e il male devono avere forma concreta prima di realizzare il loro volere, gli spiriti del bene entrarono nell'uomo. I dèmoni entrarono invece in altre bestie, rettili e uccelli, e l'eterna lotta infuriò a lungo, ferocemente. Ma l'uomo vinse. I grandi draghi e i serpenti furono uccisi, e con loro i dèmoni. Salomone, il più saggio degli uomini, scatenò contro di loro una guerra senza quartiere e, grazie alla sua sapienza, li catturò e li incatenò. Ma alcuni dèmoni erano più feroci e arditi e, sebbene li scacciasse, Salomone non riuscì a vincerli. Avevano assunto forma di lupi. Col passare dei secoli, lupo e demonio si fusero. Il demonio non poteva più lasciare il corpo del lupo quando lo voleva. In molti casi l'indole selvaggia del lupo ebbe la meglio sulla sottigliezza del demonio e lo rese schiavo, così che il lupo ridivenne semplicemente una belva per quanto feroce e astuta. Ma i Lupi Mannari sono ancor oggi numerosi. Durante il plenilunio il lupo può assumere, per intero o in parte, la forma di uomo. Quando la luna è allo zenit, tuttavia, lo spirito del lupo riprende il sopravvento, e il Lupo Mannaro ridiventa un vero lupo. Ma se viene ucciso in forma umana, il suo spirito è libero di perseguitare l'uccisore per tutta l'eternità. Ora ascoltatemi bene. Credevo di aver ucciso la cosa dopo che aveva assunto la sua vera forma, ma l'avevo colpita un attimo troppo presto. La luna, sebbene vicina allo zenit, non l'aveva ancora raggiunto e la cosa non aveva assunto completamente la forma di lupo.
Ignaro, proseguii per la mia strada. Ma, all'appressarsi del successivo plenilunio, cominciai a percepire un influsso strano, maligno. Un'atmosfera di orrore aleggiava nell'aria attorno a me, e io provavo impulsi inesplicabili. Una notte, in un villaggio al centro di una grande foresta, l'influsso si presentò in tutta la sua potenza. Era notte, e la luna quasi piena si stava alzando sopra i boschi. E tra la luna e me vidi fluttuare nell'aria, appena discernibili, i contorni di una testa di lupo! Ben poco rammento di ciò che accadde poi. Ricordo vagamente che scesi nella strada silenziosa; ricordo di aver lottato, di aver resistito brevemente ma invano; il resto è una nebbia scarlatta fino a quando ritornai in me, la mattina dopo, e mi accorsi di avere gli indumenti e le mani incrostati e macchiati di sangue. Più tardi, udii gli abitanti del villaggio, inorriditi, parlare di una coppia d'innamorati che erano stati orribilmente massacrati appena fuori dall'abitato: sembrava fossero stati sbranati dai lupi. Fuggii dal villaggio in preda al terrore, ma non fuggii solo. Durante il giorno non sentii la presenza del mio spaventoso catturatore, e quando scese la notte e si levò la luna mi ritrovai ad aggirarmi nella foresta silenziosa: ero una cosa orrenda, un assassino, un demonio in forma di uomo. Dio, quante battaglie ho combattuto! Invano! Sempre la forza orrenda mi vinceva e mi spingeva in cerca di nuove vittime. Ma quando il plenilunio passava, il potere che la cosa aveva su di me cessava di colpo e ritornava solo tre notti prima del plenilunio successivo. Da allora vago per il mondo... fuggendo, fuggendo, e cercando di salvarmi dalla persecuzione. Ma la cosa mi segue sempre e, quando c'è la luna piena, s'impadronisce del mio corpo. Dio, le azioni orrende che ho commesso! Mi sarei tolto la vita già da molto tempo, ma non oso farlo. L'anima di un suicida è maledetta, e finirei per l'eternità tra le fiamme dell'Inferno. E, cosa ancora più orrenda, il mio cadavere vagherebbe in eterno sulla terra, animato e abitato dall'anima del Lupo Mannaro! Può esistere un pensiero più atroce? A quanto sembra sono immune alle armi dell'uomo. Molte spade mi hanno trafitto, molti pugnali mi hanno colpito: sono coperto di cicatrici. Eppure non mi hanno mai ucciso. In Germania mi catturarono e mi portarono al patibolo. Avrei posato con sollievo la testa sul ceppo. Ma la cosa s'impadronì di me: infransi i legami, feci una strage e fuggii. Ho vagabondato in tutto il mondo, lasciandomi dietro una scia di orrore e di sangue. Non esistono catene o celle che possano trattenermi. La cosa è unita a me
per l'eternità. Con disperazione ho accettato l'invito di Dom Vincente, perché nessuno sa della mia terribile doppia vita. Nessuno potrebbe riconoscermi quando sono preda del demonio; e pochissimi di coloro che mi vedono in quell'aspetto sopravvivono per parlarne. Le mie mani sono lorde di sangue, la mia anima è dannata alle fiamme eterne, la mia mente è lacerata dal rimorso delle mie colpe. Eppure non posso far nulla. Vi assicuro, Pierre, che nessuno ha mai conosciuto l'Inferno in cui vivo. Sì, sono stato io a sbranare Von Schiller, e ho cercato di uccidere anche Marcita. Non so perché non l'ho fatto: in passato ho ucciso indifferentemente uomini e donne. Ora, se volete farmi una grazia, prendete la spada e trafiggetemi: e col mio ultimo respiro io vi benedirò. Conoscete ormai la mia storia, e sapete di avere davanti un uomo posseduto per l'eternità dal demonio.» Quando lasciai la stanza di De Montour ero stupefatto, sconvolto. Non sapevo che cosa fare. Temevo che avrebbe finito con l'assassinarci tutti, eppure non riuscivo a risolvermi a raccontare ogni cosa a Dom Vincente. Provavo una profonda pietà per De Montour. Perciò serbai il segreto, e nei giorni seguenti andai più volte a cercarlo per parlare con lui. Tra noi si stabilì una vera amicizia. In quei giorni quel diavolo nero di Gola cominciò ad assumere un'aria di eccitazione repressa, come se fosse a conoscenza di qualcosa che desiderava disperatamente dirmi e tuttavia non volesse o non osasse parlarmene. Le giornate intanto trascorrevano tra banchetti, bevute e partite di caccia. Infine, una notte De Montour venne in camera mia e indicò in silenzio la luna che stava sorgendo. «Ascolta», disse. «Ho un piano. Farò sapere che vado a caccia nella giungla, e sarò assente parecchi giorni. Ma stanotte tornerò al castello, e tu dovrai rinchiudermi nella segreta che funge da magazzino.» Facemmo come aveva detto De Montour; e io scendevo di nascosto due volte al giorno nel sotterraneo, per portare cibo e bevande al mio amico. Aveva insistito per rimanere nella segreta anche di giorno, perché sebbene il demonio che lo dominava non avesse mai esercitato il suo influsso su di lui quando c'era il sole, e lui lo ritenesse privo di potere in quelle ore, non voleva correre rischi inutili. Mi accorsi in quel periodo che il nipote di Dom Vincente, il giovane Carlos dalla faccia di faina, stava sempre intorno a Ysabel, sua seconda cugina, che mostrava di non gradirne le attenzioni. Per quanto mi riguardava l'avrei sfidato volentieri a duello, perché lo di-
sprezzavo e lo detestavo, ma per la verità non era affar mio. Tuttavia sembrava che Ysabel avesse paura di lui. Il mio amico Luigi, tra l'altro, si era innamorato della graziosa portoghese, e tutti i giorni le faceva una corte spietata. E De Montour era chiuso nella cella e ripensava alle sue terribili imprese, e scuoteva le sbarre con le mani nude, mentre Don Fiorenzo si aggirava per il castello e i dintorni come un severo Mefistofele. Gli altri ospiti intanto andavano a cavallo, litigavano e si ubriacavano. Gola s'intrufolava dappertutto, e continuava a fissarmi come se fosse sempre sul punto di rivelarmi delle notizie sensazionali. C'è da stupirsi se i miei nervi erano sempre più tesi? Intanto gli indigeni diventavano sempre più cupi, torvi e intrattabili. Una notte, poco prima del plenilunio, entrai nella segreta dove era chiuso De Montour. Il mio amico, vedendomi, alzò la testa di scatto. «Corri un grave rischio, a venire da me di notte», mi disse. Scrollai le spalle e mi sedetti. Dalla finestrella, chiusa da una grata, entravano gli odori e i suoni dell'Africa. «Senti i tam-tam degli indigeni?», chiesi. «In quest'ultima settimana hanno suonato senza quasi mai smettere.» De Montour annuì. «Gli indigeni sono irrequieti. Penso che abbiano in mente qualche diavoleria. Hai notato che Carlos va spesso tra di loro?» «No», risposi. «Ma è probabile che ci sia presto uno scontro tra lui e Luigi. Luigi corteggia Ysabel.» Continuammo a parlare, finché all'improvviso De Montour divenne cupo e taciturno e mi rispose solo a monosillabi. La luna si era levata affacciandosi alla finestra e illuminava con i suoi raggi il volto di De Montour. La mano dell'orrore mi afferrò, mi strinse. Sulla parete, dietro De Montour, apparve un'ombra, un'ombra nettamente delineata, in forma di testa di lupo! Nello stesso istante De Montour ne avvertì l'influsso. Con un urlo balzò dallo sgabello. Si avventò con ferocia: e mentre io uscivo tremando, sbattendo e sprangando l'uscio dietro di me, lo sentii gettarvisi contro con tutto il suo peso. Mentre salivo correndo la scala, lo sentii percuotere selvaggiamente la porta rinforzata da fasce di ferro. Ma, nonostante la tremenda forza del Lupo Mannaro, l'uscio non cedette. Quando entrai nella mia stanza, Gola arrivò di corsa e mi riferì ansimando ciò che si era tenuto per sé durante tutti quei giorni. Lo ascoltai, incre-
dulo, poi mi precipitai in cerca di Dom Vincente. Mi fu detto che Carlos l'aveva pregato di accompagnarlo al villaggio, per acquistare altri schiavi. Il mio informatore era Don Fiorenzo de Seville: appena gli riferii in poche parole quanto mi aveva detto Gola, si affrettò ad accompagnarmi. Insieme ci precipitammo fuori dal castello, lanciando un avvertimento alle guardie, e attraversammo la spianata che portava al villaggio. «Dom Vincente, Dom Vincente, sta' in guardia, e tieni pronta la spada! Sei proprio uno stupido, ad avventurarti nella notte in compagnia di Carlos, il traditore!» Li raggiungemmo quando erano ormai vicini al villaggio. «Dom Vincente!», esclamai. «Torna immediatamente al castello! Carlos ti ha venduto agli indigeni! Gola mi ha riferito che vuole le tue ricchezze e Ysabel. Un indigeno terrorizzato gli ha parlato di orme di stivali scoperte nei luoghi in cui sono stati assassinati i taglialegna, e Carlos ha fatto credere ai negri che l'assassino sei tu! Questa notte gli indigeni si rivolteranno e uccideranno tutti gli uomini che si trovano nel castello, tranne Carlos! Non mi credi, Dom Vincente?» «È la verità, Carlos?», chiese sbalordito il mio ospite. Carlos rise beffardamente. «Quell'idiota dice la verità», rispose. «Ma non ti servirà a nulla.» Con un grido si gettò contro Dom Vincente. Una lama d'acciaio lampeggiò nel chiaro di luna, e lo spagnolo trapassò Carlos con la sua lunga spada prima che l'altro lo potesse colpire. Le ombre presero vita intorno a noi. Spalla a spalla, con spade e pugnali, affrontammo in tre cento nemici. Le lance balenavano, e urla infernali uscivano dalle gole dei selvaggi. Infilzai tre indigeni con altrettanti affondi e poi caddi stordito da un colpo di mazza; un attimo dopo Dom Vincente si accasciò su di me, con un braccio e una gamba trafitti da colpi di lancia. Don Fiorenzo era ancora in piedi, e la sua spada guizzava come una cosa viva; poi una carica degli archibugieri sgombrò la riva del fiume, e noi fummo trasportati nel castello. Le nere orde si gettarono all'assalto, con le lance che lampeggiavano come un'ondata d'acciaio, e un ruggito tonante e furioso salì al cielo. Più volte salirono i pendii, scavalcando a balzi il fossato, e alla fine cominciarono ad arrampicarsi sulla palizzata, ma ogni volta il fuoco dei cento e più difensori le costrinse ad arretrare. I negri avevano incendiato alcuni dei magazzini saccheggiati, e la luce delle fiamme gareggiava in intensità con quella della luna. Aldilà del fiu-
me c'era un magazzino di grandi dimensioni: le orde vi si raccolsero intorno, sfasciandolo e distruggendolo per fare bottino. «Vorrei che lo incendiassero», disse Dom Vincente, «perché dentro non c'è altro che qualche migliaio di libbre di polvere da sparo. Tutte le tribù del fiume e della costa si sono radunate per ucciderci e tutte le mie navi sono lontane, in navigazione. Potremo resistere per un po', ma prima o poi finiranno col superare la palizzata e ci annienteranno.» Scesi nella segreta in cui era rinchiuso De Montour. Lo chiamai, fermandomi davanti alla porta, e lui mi disse di entrare: il suo tono mi fece capire che il demonio l'aveva abbandonato per qualche istante. «I negri sono insorti», gli annunciai. «L'avevo capito. Come va la battaglia?» Gli raccontai del tradimento e dello scontro, e gli dissi della polveriera oltre il fiume. Balzò in piedi. «Per la mia anima dannata!», esclamò. «Giocherò ai dadi con l'Inferno, ancora una volta! Presto, fammi uscire dal castello! Cercherò di attraversare a nuoto il fiume e di dar fuoco alle polveri!» «È una pazzia!», ribattei. «Ci sono un mille negri in agguato tra la palizzata e il fiume, e sull'altra sponda ce n'è almeno il triplo. E il fiume è pieno di coccodrilli!» «Tenterò lo stesso!», mi rispose, illuminandosi in volto. «Se riesco a raggiungere la polveriera, ci saranno mille indigeni trasformati in torce che rischiareranno l'assedio; se verrò ucciso la mia anima sarà finalmente libera e forse potrà ottenere il perdono divino, perché avrò dato la vita per espiare le mie colpe.» Poi esclamò: «Affrettati, perché il demonio sta per tornare! Sento già la sua influenza! Svelto. Fai presto!». Corremmo verso la porta del castello, e De Montour ansimava come se stesse sostenendo una lotta terrificante. Davanti alla porta cadde bocconi, poi si alzò e la oltrepassò con un balzo. Fu accolto dalle urla selvagge degli indigeni. Gli archibugieri imprecarono contro di lui e contro di me. Affacciandomi dall'alto della palizzata, lo vidi guardarsi attorno incerto. Almeno venti negri stavano correndo verso di lui, con le lance levate. Fu allora che l'agghiacciante ululato del lupo salì al cielo, e De Montour si avventò. Inorriditi, gli indigeni si fermarono: e, prima che potessero muoversi di nuovo, lui fu in mezzo a loro. Udii delle urla folli, non di rabbia ma di terrore. Sbigottiti, gli archibugieri smisero di sparare.
De Montour si lanciò in mezzo al gruppo dei negri, e questi fuggirono lasciando sul terreno tre compagni. Il francese li inseguì per una decina di passi: poi si fermò e rimase immobile. Dopo essere stato così per un momento, mentre le lance gli volavano intorno, si voltò e si diresse di corsa verso il fiume. A pochi passi dalla riva, un'altra schiera di negri gli sbarrò la strada. Nelle lingue di fiamma delle capanne incendiate, la scena era perfettamente visibile. Una lancia trapassò la spalla di De Montour. Senza rallentare, se la strappò dalle carni e la usò per trafiggere un indigeno, poi scavalcò il cadavere per avventarsi sugli altri. I negri non ebbero il coraggio di affrontare quel bianco posseduto dal demonio. Fuggirono urlando, e De Montour balzò sulla schiena di uno di loro e lo abbatté. Poi si alzò, barcollò, e si lanciò verso la riva del fiume. Si fermò solo per un attimo, poi scomparve tra le ombre. «In nome del Diavolo!», ansimò Dom Vincente, che mi aveva raggiunto. «Che razza d'uomo è mai quello? Era De Montour?» Annuii. Le urla degli indigeni salivano più forti del crepitare degli archibugi. Si erano ammassati intorno al grande magazzino oltre il fiume. «Si preparano per un assalto in forze», disse Dom Vincente. «Credo che questa volta riusciranno a superare la palizzata. Ah!» Uno schianto parve squarciare i cieli! Una lingua di fiamma raggiunse le stelle, e il castello tremò per l'esplosione. Poi il silenzio. Il fumo, disperdendosi, mostrò solo un grande cratere là dove prima sorgeva il magazzino. Potrei descrivervi la carica che Dom Vincente, benché ferito, guidò fuori dal castello giù per il pendio, per avventarsi sui negri sopravvissuti all'esplosione e inebetiti dal terrore. Potrei descrivere il massacro, la vittoria, l'inseguimento degli indigeni in fuga. Potrei anche raccontarvi, messieurs, come mi trovai separato dagli altri e vagai a lungo nella giungla, incapace di ritrovare la strada per la costa. Potrei raccontarvi ancora di come venni catturato da una banda di razziatori di schiavi, e di come riuscii a fuggire. Ma non è mia intenzione farlo. Sarebbe una lunga storia: ed è di De Montour invece che voglio parlare. Riflettei molto a quanto era accaduto, e mi chiesi se De Montour aveva raggiunto la polveriera e l'aveva fatta saltare o se l'esplosione era stata opera del caso. Mi sembrava impossibile che un uomo, anche se posseduto dal demonio, riuscisse ad attraversare quel fiume brulicante di coccodrilli. Comunque, se aveva fatto esplodere il magazzino, certamente doveva esse-
re rimasto ucciso nella deflagrazione. Una notte, mentre avanzavo stanco nella giungla, ormai vicino alla costa, vidi sulla riva una piccola capanna di paglia. Mi avviai in quella direzione, pensando di dormire là dentro se gli insetti e i rettili me l'avessero permesso. Quando varcai la soglia mi fermai, impietrito. Su un rozzo sgabello c'era seduto un uomo. Alzò la testa quando entrai, e i raggi della luna gli investirono il volto. Arretrai con un fremito di orrore. Era De Montour, e la luna era piena! Mentre me ne stavo lì immobile, incapace di fuggire, lui si alzò e venne verso di me. Il suo volto, sebbene straziato com'era logico attendersi da un uomo che ha visto l'Inferno, era tranquillo, razionale. «Entra, amico mio», disse, e nella sua voce c'era un'immensa serenità. «Entra e non aver paura di me. Il demonio mi ha lasciato per sempre.» «Ma come hai fatto a vincerlo?», esclamai, stringendogli la mano. «Ho combattuto una lotta spaventosa, mentre correvo verso il fiume», mi rispose. «Infatti il demonio mi aveva in suo potere e mi spingeva ad avventarmi contro gli indigeni. Ma, per la prima volta, la mia mente e la mia anima hanno avuto il sopravvento sia pure per un breve istante, ma un istante lungo a sufficienza per farmi portare a termine il mio scopo. E credo che tutti i Santi del Paradiso siano accorsi in mio aiuto, poiché offrivo la vita per salvare altre vite. Mi sono gettato nel fiume e ho cominciato a nuotare, e subito i coccodrilli si sono affollati intorno a me. Li ho combattuti, dominato di nuovo dal demonio. Poi, all'improvviso, la cosa mi ha abbandonato. Allora sono risalito sull'altra sponda e ho incendiato il magazzino. L'esplosione mi ha scagliato lontano, e ho vagato per molti giorni nella giungla con la mente confusa. Poi è venuto il plenilunio, ed è tornato ancora, ma non ho sentito più l'influsso del demonio. Sono libero, libero!» E una prodigiosa nota di esultanza (no, di esaltazione) vibrò nelle sue parole: «La mia anima è libera! Per quanto possa sembrare incredibile, il demonio ora giace in fondo al fiume o dimora nel corpo di qualcuno di quei feroci rettili che nuotano nelle acque cupe del Niger». IL LUPO DI ST. BONNOT The Wolf Of St. Bonnot di Seabury Quinn
Weird Tales, dicembre 1930 La festa con cui Norval Fletwood celebrò l'inaugurazione delle Dodici Querce, la sua nuova villa di campagna, fu funestata da un tragico avvenimento. Le giornate di venerdì e di sabato erano trascorse piacevolmente. Più di una lepre aveva imboccato la via del carniere e, da lì, quella del tegame. La domenica mattina, invece, gli ospiti cominciarono a detestare la città, il teatro, i night-club, e quei rapporti affollati e tranquilli che riuscivano a trovare solo nella vita di tutti i giorni. La pioggia, spinta e frustata dal vento proveniente da Nord-Ovest, cominciò a cadere sin dalle prime ore del giorno. Da metà pomeriggio, l'autunno abbandonò definitivamente il campo di battaglia e l'inverno si impossessò del mondo, come una tribù di barbari cattura e saccheggia una città. Il tardo vento novembrino correva intorno alla casa, torcendo e sbattendo le porte, urlando canzoni oscene nella canna fumaria del camino e lottando selvaggiamente con le enormi dodici querce situate di fronte alla villa e che le davano il nome. Gli ospiti erano stanchi, come fossero marinai appena salvati da un naufragio. Lo potevano vedere dalle facce spossate dei loro compagni. A rendere il tutto più insopportabile, ci fu il fatto che, caduta ormai la sera, sotto le folate del vento fortissimo, si interruppe la linea elettrica che portava la preziosa energia alla villa. La radio cessò di propinare la sua musica jazz e, nello stesso istante, tutte le luci della villa si spensero. Anche il motore del grande frigorifero che si trovava nella dispensa, si fermò ronzando. Piccoli zampilli di fiamma si accesero qui e là, rivelando la presenza di alcuni fiammiferi. Furono recuperate poche candele e subito accese. Le loro fiammelle, fievoli e tremolanti, tramutarono l'oscurità, nera come la pece, in un imbrunire indeterminato. Gli ospiti si sedettero nella semioscurità osservando con attenzione il susseguirsi degli avvenimenti e aspettando l'opportunità di trovare una scusa ragionevole per poter dire buonanotte e per poter scappare ognuno dalla compagnia degli altri. «Qualcuno potrebbe suonare della musica da ballo», brontolò uno. «Anche se avessimo un valente musicista, mancherebbe sempre il pianoforte», rispose Fleetwood cupamente. «I tecnici della centrale elettrica di Dodson sono decisamente lenti nelle riparazioni, almeno così mi hanno detto.» «È troppo buio per poter fare una partita a bridge: non riuscirei neanche
a riconoscere se hai giocato picche o quadri.» «Io non giocherei neanche se ci fosse la luce. L'altra notte ho perso troppo: più di quanto possa permettermi.» «Non credo che la Società Elettrica stia dimostrando di poter assicurare un servizio efficiente. Se ci fossi io...» «Oh, so io cosa possiamo fare!», proruppe improvvisamente Mazie Noyer, grassoccia, sulla quarantina, e indecentemente civettuola, con la sua voce alta e sottile che non sembrava potesse provenire da una donna bassa e grassa. «Una seduta spiritica! Questa è proprio la notte ideale: fredda, scura e spettrale. Forza, venite tutti. Io sarò la medium. Mangiamo uno spuntino e poi cominciamo.» «Attento», bisbigliò Jules de Grandin nelle mie orecchie. «Amico Trowbridge, non scherzare con loro. Mettere le mani su un tavolo per evocare spiriti, è più rischioso che bruciarsi le dita. Sì: lascia che siano gli altri a rovinarsi da soli!» Fleetwood, la sua giovane moglie e sette dei loro ospiti attraversarono la sala da pranzo seguendo la sottana provocatoriamente agitata dalla signorina Noyer. Io e de Grandin ci sedemmo su una panca ricoperta di pelle vicino a un camino; eravamo al di fuori della stanza dove si sarebbe svolta la seduta spiritica. Da lì riuscivamo quasi a vedere, malgrado l'oscurità quasi totale, la tenue forma circolare che le persone stavano formando intorno al tavolo. Eravamo nascosti alla loro vista dal buio che ci circondava, e ciò ci dava un piacevole senso di sicurezza. L'anello si formò velocemente. Ogni membro del gruppo pose le sue mani sul tavolo pulito. I pollici di ogni persona si toccarono e le dita si estesero sino a che i mignoli non entrarono in contatto con quelli del vicino di destra e di sinistra. «Credo che dovrò cantare», suggerì la Noyer. «Madame Northrop spesso inizia le sue sedute spiritiche con un inno. A cosa servirà...» Seguì qualche istante di silenzio, poi, in falsetto, iniziò il canto: Di Angeli di luce vestiti Chiamiamo la schiera maggiore, Chiamiamo dei giusti gli spiriti La cui fede è mutata dal dolore. Concluse quei versi quasi sillabando le parole. Parlò ancora, in preda a riverente timore, come se veramente credesse a quella pagliacciata.
«Spiriti dei defunti, noi siamo qui riuniti in questa notte scura insieme a voi. C'è qualcuno presente in questa stanza? Se c'è, faccia notare la sua presenza battendo un solo colpo sul tavolo.» Un'altra pausa; quindi il suo invito fu seguito da un colpo secco e dal sibilo prodotto dal bussare sul legno mal stagionato. Jules de Grandin prese l'accendino dalla tasca della sua giacca e accese una puzzolente sigaretta francese, quindi guardò impazientemente dietro la porta che conduceva oltre la stanza. «Insensée», sussurrò sdegnosamente. «Il buon Dio le ha dato un cervello piccolo e colmo di sciocche stupidaggini.» «Oh, stupendo!», esclamò la medium con un tono di voce molto alto. «Sei uomo o donna? Per favore, bussa una volta se sei un uomo, due volte se sei una donna.» Il francese alzò la testa bionda e guardò in avanti, mentre le sue orecchie si orientavano verso il salone. Pur convinto che si trattava di una finzione, ogni muscolo del suo corpo era teso in uno stato di profonda attenzione, come si poteva facilmente notare dalla sua silhouette che si stagliava contro il muro. Attraverso la luce fioca dalle candele, udimmo l'eco di un colpo tagliente e incisivo. «Un uomo!» La voce di Mazie Noyer uscì con un sussurro di sgomento. «Chi sei, anzi, chi sei stato? Dove e quando sei vissuto? Colpisci una volta per A, due volte per B, tre volte per C e così via.» Ancora una volta ci fu in istante di pausa, quindi cominciò un lento e ben distinto bussare, come se il tavolo fosse colpito da un tirapugni affilato. Sette colpi, seguiti da nove, quindi dodici, di nuovo dodici, poi cinque, continuarono fino a formare: «Gilles Garnier, St. Bonnot, nel regno di Re Carlo». «Dieu de Dieu, ha detto Gilles Garnier di St. Bonnot!», esclamò de Grandin con un sussurro raspante e penetrante. «Amico Trowbridge, questo non è più un semplice gioco. Dobbiamo intervenire subito, immediatamente, senza perdere tempo. Andiamo.» Si alzò di scatto dalla panca e si avviò verso la stanza da pranzo, ma si fermò a metà strada. Girò lo sguardo intorno, come fa un cane da caccia che ha sentito nell'aria l'odore della preda. A me sembrò di vedergli vibrare con eccitazione le punte affilate dei mustacchi incerati, quasi fossero le vibrisse di un gatto irritato e attento. Quando de Grandin si fermò, fui pervaso da un improvviso brivido di
eccitazione, quasi di terrore. Un suono debole, ma continuo e crescente, sembrava provenire da lontano, dall'oscurità, dalla collina boscosa che si trovava un miglio o poco più oltre i pascoli. Il rumore era così tenue che poteva a malapena essere dissociato dal fischiare cupo del vento. Ma, con costanza drammatica, cresceva e si gonfiava, sia di tono che di volume. Era come un ululato lungo e tirato che si alzava in un crescendo acuto. Poi calò sino a sembrare un lamento, ma subito riprese in un pianto tremolante e senza speranze; penetrante come il lamento di un uomo che cerca di sfuggire alla caccia delle Furie. Improvvisamente si sentì provenire dalla stanza un lamento soffocato, come se una delle persone sedute intorno al tavolo fosse stata strozzata e annaspasse per respirare; poi un urlo che sembrò rispondere a quello che proveniva dall'esterno della villa. Era come se un corpo fosse straziato da una tortura troppo crudele per poter essere sopportata: «Ow-o-o-o-O-OO!». Crescendo in forza si ripeté disperatamente, andando poi a smorzarsi: «Ow-O-O-O-o-o-oo!». Quello strano pianto mezzo riluttante e mezzo esaltante era stato emesso così velocemente, che era impossibile determinarne l'esatta provenienza dalla sala da pranzo. «Nom d'un chat noir, chi emette questi suoni scimmieschi?», disse de Grandin in tono di sfida. Entrò nella sala da pranzo come se stesse per esplodere: i suoi occhi erano accesi dall'ira e sul suo volto si leggevano i segni della furia: «Pazzi, bêtes, non sapete che cosa state facendo! Beffarsi di loro è come invitarli a distruggere...». Si fermò e, come a dar forza alle sue parole, ritornò la luce, inondando la grande villa di improvvisa lucentezza e illuminando la scena nella stanza come un tableau vivant su un palcoscenico. Fleetwood e altre otto persone erano sedute intorno al tavolo, con le mani ancora premute sul piano di legno, sbigottiti, con una espressione inebetita stampata sui volti e sbattendo gli occhi come civette per l'improvviso sfolgorio. Hildegarde, moglie di Fleetwood da appena sei mesi, e per la quale era stata costruita la villa, aveva invece la testa appoggiata sul tavolo. I suoi capelli sciolti, color bronzo scuro, erano sparsi sul piano di quercia di fattura fiamminga. Il suo volto era pallido come avorio scolpito, le labbra, lievemente aperte, mostravano due file identiche di piccoli denti color bianco latte. «Mio Dio!», esclamò de Grandin, «è svenuta! Questo scherzo folle è stato troppo forte per lei.» Ancora adirato, girò intorno al tavolo osservando i volti pallidi dei partecipanti alla seduta spiritica. «Chi ha lanciato quelle
urla irriverenti?», domandò ferocemente. Il piccolo francese lanciò un'occhiata indagatrice alla donna svenuta. «Amico Trowbridge, se puoi, occupati di lei», ordinò risoluto, accennando con la testa verso Hildegarde, quindi fissò Mazie Noyer. «Mademoiselle, la colpa è vostra; credo proprio che sia stata lei a produrre quei suoni!», aggiunse freddamente rivolto alla medium. «Io?», rispose la signorina Noyer visibilmente scandalizzata. «Non mi è mai passato per la mente di fare queste cose! Sono stata sorpresa come tutti gli altri quando ho sentito quelle urla inumane; e venivano proprio da questa stanza!» Scosse le spalle in un gesto di disgusto e lanciò uno sguardo fulminante a de Grandin. «Credo proprio che lei si sia sbagliato dottor de Grandin», insistette lei. «Credo che mi debba delle scu...» «Mille pardons, Mademoiselle», la interruppe acidamente il francese. «Qualsiasi cosa possa aver detto è ormai troppo tardi per rimediare. Comunque credo che una serata noiosa sarebbe stata preferibile alla vostra stupida evocazione di forze che noi non conosciamo. Ora possiamo solo sperare che non sia avvenuto nessun danno irreparabile.» Si girò e si inchinò ai presenti con fredda cortesia. «Messieurs, Mesdames», disse. «Si è fatto tardi e tutti noi domani abbiamo degli affari che ci attendono in città. Suggerisco di cercare i nostri soprabiti prima di rimanere di nuovo al buio.» Si girò sui calcagni, e lasciò la stanza senza degnare di uno sguardo Mazie Noyer e senza dare la minima spiegazione alle sue accuse. Dottor Trowbridge, porterò mia moglie in città per una visita urgente. Per favore vediamoci domani. FLEETWOOD Passai il telegramma a Jules de Grandin e sogghignai mentre leggeva il foglio con attenzione. «Perché sei così serio?», domandai, prendendo una focaccia al miele dalla teglia rovente. «Da quando Adamo ed Eva hanno lasciato il Paradiso Terrestre e si sono dedicati alla pratica dell'economia familiare, cose come queste sono all'ordine del giorno. Ovviamente Norval e Hildegarde sono agitati, ma in fondo si tratta di una normale funzione biologica e...» «Ah, bah!», mi interruppe. «Amico mio, tu mi deludi, mi irriti. Credi proprio che Madame e Monsieur Fleetwood siano in attesa di un felice evento? Spero che tu abbia ragione, ma ho paura che non sia così. Telegra-
ferebbe solo per questo? Ti vogliono vedere con urgenza, immediatamente, per qualcosa che credo non segua il normale corso della natura. Già, credo che non si tratti dell'attesa di un figlio...», colpì il telegramma con la punta della sua forchetta, «ci deve essere qualcosa di più sinistro. Sono molto preoccupato per Madame Hildegarde per quanto è successo quella notte alle Dodici Querce quando è svenuta sentendo le urla prodotte con chissà quale trucco da Mademoiselle Noyer in quella casa scura. E...» «Non dire assurdità», commentai. «Spero che si tratti veramente di assurdità», rispose seriamente. «Amico mio, se sarà così, vedrai che io sarò il primo a sorridere.» Il giorno seguente restai in casa, in attesa dei Fleetwood; ma venne l'ora della cena senza che avessi loro notizie. «Accidenti», brontolai, «speriamo che vengano presto. Stasera, al Teatro Accademia, danno Re Lear, e spero proprio di poterlo vedere. Se si sbrigano, riuscirò a entrare prima della metà del secondo atto e...» «Eh bien, devi essere paziente, vecchio mio», consigliò de Grandin. «A meno che non mi sia sbagliato, credo che assisterai a una tragedia che Monsieur Shakespeare non ha mai nemmeno sognato. Inoltre penso che ormai stiano per arrivare...» Si girò per guardare la porta d'entrata e, come se fosse stato evocato, dalla porta entrò Norval Fleetwood. «Ho lasciato Hildegarde nella casa di Passic Boulevard», disse, rispondendo alla domanda espressa dall'agitarsi delle nostre mani, «e ho pensato che fosse meglio farle lasciare la villa e...», si interruppe come se il pensiero delle parole che stava per pronunciare gli impedisse di parlare. Riprese dopo un po'. «...Ho pensato che sarebbe stato molto meglio che parlassi con lei prima che visiti mia moglie.» «Ah!», fu il semplice commento di de Grandin. In lui si poteva avvertire un tono di trionfo, e io lo fulminai con una occhiata veloce. Quasi in risposta al francese, Fleetwood scosse il capo. «Dottor Trowbridge, io sono molto preoccupato per le condizioni di mia moglie», mi disse. «Si ricorderà di quella folle seduta spiritica che Mazie Noyer ha tenuto la domenica notte di due settimane fa, quando mancò la luce alle Dodici Querce. Tutto è cominciato proprio in quel momento.» «A-ah?», mormorò de Grandin. «Quali sono i sintomi del disturbo?», chiesi lanciando un'altra occhiata fulminante al piccolo francese. «Io... vorrei saperlo anch'io, signore. Hildegarde passò quella notte in continua agitazione, come un bambino che ha paura del buio. Il giorno do-
po si alzò con lo sguardo perso nel vuoto. Andai in città per lavorare e tornai prima che facesse scuro. Arrivai a cena con circa un'ora di ritardo, ma lei non aveva mangiato e disse che non aveva appetito. Tutto ciò era molto strano: come lei sa, Hildegarde ha sempre goduto di ottima salute. Ma...», mi fissò con quell'espressione tra il serio e il faceto che ogni persona usa in queste circostanze, «...be', dottore, lei può capire cosa io abbia sospettato.» Questa volta era il mio momento di gioire; Hildegarde era quasi sicuramente incinta. Non feci alcun segno a de Grandin, e attesi che Fletwood riprendesse a parlare. «Dovevano essere passate da poco le ventidue», continuò, «quando sentii il profondo e lungo latrare di un cane provenire dal prato adibito a pascolo. Pensai che qualcuno nelle vicinanze avesse delle bestie e che, durante la notte, le lasciassero libere di correre. Dottor Trowbridge, quella sera sentii quel cane una volta o due, ma mai così vicino come la prima volta...» Si fermò di nuovo, deglutendo convulsamente e tamburellando nervosamente sul bordo del tavolo con la punta delle dita. Distolse il suo sguardo da me, come uno scolaro che sta per confessare una marachella. «Sì?», dissi interrompendo quel silenzio lungo e imbarazzante. «Lei ricorda quel lamento terribile e inumano che si è sentito nella stanza da pranzo quella domenica notte? Il dottor de Grandin accusò Mazie Noyer di averlo prodotto lei.» Io annuii. «Non era stata Mazie; era stata Hildegarde!» «Ma non ha senso», obiettai decisamente. «Hildegarde era svenuta, non può essere stata lei!» «E invece sì. Lo so perché, la notte dopo, quando quell'infernale latrare risuonò sotto le nostre finestre, lei cominciò a rotolarsi nel letto e a tossire come se fosse in preda a un incubo.» Ancora una volta interruppe il suo racconto: sembrava che stesse cercando di radunare il suoi pensieri per poterli poi descrivere velocemente. «Allora lei gettò via le coperte, si mise in ginocchio e rispose al latrare del cane!» «A-a-ah!» Jules de Grandin appoggiò le palme delle mani sulle ginocchia. Si guardò quindi le scarpe da sera di coppale pensando sicuramente che quella era una storia davvero eccitante. «E allora, Monsieur, cosa successe?» La voce di Fleetwood si fece tremula: era come se fosse in preda a una rabbia ingovernabile. «Era solo l'inizio! La scossi, e lei sembrò svegliarsi.
Per più di un'ora rimase ai limiti dell'incoscienza, stringendo tra le mani le lenzuola, rotolando la testa sul cuscino e lamentandosi dolorosamente a ogni istante. Doveva essere mattina quando finalmente si addormentò. Comunque quel latrato si sentì ancora un paio di volte: allora Hildegarde si svegliava agitata, e cadeva poi in un sonno profondo.» «Naturalmente sua moglie era molto spaventata», lo interruppi. «No, non lo era affatto! Sembrava che il suo unico desiderio fosse quello di uscire dalla villa per raggiungere quel malefico cane... fremeva per andare!» Lo fissai incredulo, ma ciò che disse dopo mi lasciò senza fiato. «La notte dopo andò!» «Cosa?», urlai. «Proprio così. Il latrato si fece sentire durante la cena, Hildegarde lasciò coltello e forchetta ed ebbe una crisi isterica. Andai verso lo sgabuzzino, entrai, e presi un fucile per dare a quella bestia la scarica di pallettoni che si meritava. Uscii dalla villa ma non lo trovai. Feci per numerose volte il giro della casa e, alla fine, vidi oltre il bosco un'enorme bestia bianca e pelosa. Purtroppo era lontana, oltre la gittata del mio fucile, e così non potei spararle. Rientrai poco dopo mezzanotte con la strana sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto. Subito mi recai al letto di Hildegarde; ma lei non era più lì. Era passata circa un'ora e mezza da quando l'avevo lasciata. Mentre attraversavo le varie stanze della casa alla sua vana ricerca, sentii di nuovo il latrare del cane. Quando raggiunsi la finestra per vederlo, rimasi impietrito. Quell'enorme bestia bianca si trovava sul prato intorno alla villa e stava facendo le feste ad Hildegarde leccandole il viso. Sì, lei stava lì, con una temperatura di circa zero gradi e con indosso solo una vestaglia da notte. Giocava con quella bestia e l'accarezzava, come se fosse stato il suo animale prediletto per tutta la vita!» «Dopo aver visto questa scena, lei che cosa ha fatto?», gli chiesi. «Sono uscito», rispose semplicemente. «Il terreno era ghiacciato, e sono corso attraverso il prato cercandola disperatamente. Quando la trovai, il cane non c'era più. Lei era lì, sola, che batteva i denti per il freddo. La chiamai e lei... mi guardò...», le parole uscivano lente e la sua voce era quasi strozzata. «Attesi un attimo, quindi le toccai gentilmente una spalla.» «Poi che cosa successe?», chiesi dolcemente. «Lei mi guardò e ringhiò. Ha presente un lurido cane bastardo che arric-
cia le labbra quando vi avvicinate a lui? Dottor Trowbridge, mia moglie mi guardò proprio in quel modo; e dalla sua gola uscì una specie di brontolio selvaggio, come quello di un cane poliziotto pronto ad attaccare. Mi spaventai e rimasi senza fiato per alcuni istanti. Quando mi ripresi, lei si era calmata, tornando quasi completamente alla normalità. Le chiesi: "Cara, cosa stai facendo qui?", ma lei mi guardò, stordita e assiderata, senza rispondere. La presi in braccio, la portai all'interno della casa, e la misi nel suo letto. Si addormentò immediatamente. La mattina dopo non ricordava più nulla, e allora le dissi ciò che era accaduto. Nei giorni che seguirono, il cane si fece sentire più volte, ma sempre di notte.» «Quando?», chiese con un filo di voce de Grandin. «La notte dopo, quella ancora seguente, e così via. Ogni notte viene a ululare intorno alla casa come fosse uno spettro. Sebbene mia moglie si sia mossa nel suo letto ed abbia risposto qualche volta a quella bestia, non è più uscita, ma solo perché io ero lì a impedirle di farlo.» «Senta, signor Fleetwood», dissi con calma, «tutto ciò è molto angoscioso, ma non penso che si debba allarmare eccessivamente. L'altra notte, quando Hildegarde svenne e io la visitai, mi accorsi che non si sentiva bene. Lei vi ha detto qualcosa, vero?» «Voi dite...» «Proprio così. Forse lei non ne era consapevole, ma io sospettavo che qualcuno avrebbe occupato una culla alle Dodici Querce prima del prossimo giugno. Non credo di violare nessun segreto professionale, se vi dico che più di una paziente, nelle stesse condizioni di Hildegarde, ha avuto comportamenti piuttosto strani. Una signora, mi ricordo, non sopportava l'odore del pesce e non poteva vederne uno senza avere una crisi isterica. Un'altra invece, manifestava un desiderio smodato per le aringhe secche e, più puzzavano e più erano salate, più ne divorava. In alcuni casi la gestante sta così male da sembrare pazza, senza speranza. Invece, con la nascita del bambino, ritorna alla perfetta normalità. Nel caso di Hildegarde, si tratta sicuramente di zoofilia, il cui sintomo è un amore anormale verso gli animali. Come può immaginare, si tratta di un disturbo piuttosto raro, ma per nulla preoccupante. Sono sicuro che tutto si risolverà entro brevissimo tempo.» Il giovane marito mi sorrise, e io rimasi sorpreso perché anche de Grandin sembrava condividere la mia opinione. «È proprio così», disse a Norval. «Anch'io, in questi casi, ho assistito a comportamenti stranissimi. Mentre porta un'altra vita nel suo ventre, nes-
suna donna più essere considerata pienamente responsabile di ciò che compie. Si rassicuri, amico Trowbridge, è normale. Ora sta provando un po' di paura, ma vedrà che noi due l'assisteremo nel miglior modo possibile. Ci chiami immediatamente al rimanifestarsi di questi disturbi: verremo da lei senza perdere un solo istante.» «Vecchio mio, la sola cosa decente che potevi fare era darmi ragione», dissi ringraziandolo dopo che Fleetwood aveva chiuso la porta. «Mi venivano i brividi al solo pensiero che tu tirassi fuori qualcuno di quei tuoi assurdi discorsi sull'occultismo, impaurendo a morte quel poveretto. Così avremmo dovuto risolvere due casi clinici invece di uno.» Mi guardò serio, tamburellando sull'angolo del tavolo con le unghie ben curate, segno evidente di una recente visita dalla manicure. «Credo di essere un ipocrita spregevole», rispose. «Non credo minimamente a una sola delle parole che ho detto. Sono sicuro che qualcosa di malvagio è penetrato nel nostro mondo, qualcosa che lacera, che ha bisogno di sangue, qualcosa che noi dobbiamo ricacciare da dove è venuto il più presto possibile. Caro amico, tutto ciò che ho detto sulle possibili crisi maniaco-depressive che possono portare, in casi di gestazione, anche alla momentanea pazzia, è vero. Ma questo caso è completamente diverso. Normalmente una donna giovane può provare un amore profondo verso un animale. Ne ho viste alcune accarezzare teneramente con le loro dita la morbida pelliccia di un gattino, o il pelo ruvido di un cane pastore; ma non le ho mai, e ripeto mai, viste rispondere con ululati di quel tipo a una bestia selvaggia. Nessuna è mai corsa a piedi nudi in una notte invernale alla ricerca di un animale selvaggio. Amico mio, ho paura che ci troviamo solo all'inizio di una terribile partita. Ancora...», alzò le spalle sconfortato, «...sono preoccupato per ciò che potrà accadere, e anche molto presto, parbleu! Cerchiamo di nascondere la verità al giovane Fleetwood il più a lungo possibile per...» Il suono del campanello del telefono dell'ufficio troncò le sue parole. «Dottor Trowbridge, sono Norval, Norval Fleetwood. Telefono da casa. Hildegarde è fuggita! Nancy, la domestica di colore, mi ha detto che ero appena uscito, quando un cane ha cominciato a latrare sotto le finestre della casa. Hildegarde è diventata di colpo selvaggia, isterica, urlando e piangendo come se stesse rispondendo alla bestia. Quindi è corsa fuori. Non è ancora tornata. Nancy è diventata quasi bianca dal terrore e non ha idea su quale direzione possa aver preso Hildegarde. Cosa devo fare?» «Aspetti un momento», dissi, mentre mettevo de Grandin al corrente dei
fatti. «Mon Dieu, così presto? Non lo pensavo neanche io!», piagnucolò il francese. «Digli di aspettarci, mon vieux, saremo lì da lui in un istante, prima ancora di subito!» «Amico mio, il tuo paese è decisamente bagnato di spiritismo», insistette de Grandin come arrivammo di fronte all'abitazione cittadina dei Fleetwood in Passic Boulevard. «Non ti avevo forse detto che sarebbe accaduto?» «Sciocchezze!», risposi stizzito. «Che cosa ha a che vedere lo spiritismo con la scomparsa di Hildegarde? Credo che tu ti riferisca alla seduta spiritica delle Dodici Querce, quando qualche spiritosone si è messo a ululare nel salotto, scioccando quella povera ragazza e facendola svenire. Tutto è spiegabile con un sistema nervoso piuttosto fragile che non è stato in grado di sopportare un'esperienza simile. Avrebbe dovuto avere più cura della sua salute. Se ci avesse pensato, ora non si troverebbe in queste condizioni.» «Oh?», disse sarcasticamente. «E così i tuoi pazienti, quando si trovano in crisi depressive o in stato di aberrazione mentale, si alzano dal letto ululando come cani e...» «Naturalmente!», dissi interrompendolo. «Norval ha detto che la moglie gli ha ringhiato in faccia: Questo è un sintomo tipico. Sai anche tu che l'avversione verso il marito è una delle manifestazioni più comuni di questo genere di aberrazioni.» «E del cane - per ora continuiamolo a chiamare così - e del cane che la segue e che la chiama, che spiegazione dai?», insistette lui. «Forse ti conviene ignorarlo, oppure ti sei dimenticato di lui?» «Balle!», lo canzonai. «La campagna è piena di randagi notturni e...» «E anche la città», insistette il francese. «Cani che ululano alle finestre delle signore proprio nel momento in cui il marito esce?» «Allora dimmi, mio caro de Grandin, visto che hai già risolto il caso: cosa c'entra il cane con Hildegarde?» «Del cane so poco o niente», replicò a bassa voce. «Potremmo parlare di un caso di zoofilia, come tu hai detto al giovane Fleetwood, ma...» «Ma cosa?», gli domandai. «Parla! Qual è la tua idea?» «Va bene», scosse la testa con un fare solenne. «Questo è il mio pensiero: il cane, come noi l'abbiamo chiamato, non è un cane, bensì un lupo o, ancora meglio, un Loup-garou, che voi chiamate Lupo Mannaro. Si è servito dell'opportunità datagli dalla seduta spiritica dell'odiosa Mademoiselle
Noyer per tornare e...» Cominciai a ridere forte. «Sei fantastico!», gli dissi. «Speriamo che sia così», rispose deciso. «Io, Jules de Grandin, sono conosciuto come uno dei migliori illusionisti del mondo, ma in questo caso vorrei tanto fare la figura dello zoticone superstizioso. Sì!» «Sì», rispose la domestica di colore alle nostre domande frettolose, «sono al servizio della signora Hildegarde, da quasi sette anni. Il signor Norval aveva lasciato da poco la casa, quando ho sentito un forte ululato provenire da sotto le finestre della stanza della signora Hildegarde. Come lei lo sentì, si alzò dal letto e rispose alla bestia con lo stesso urlo.» «Ci racconti tutto con calma dall'inizio», disse de Grandin alla domestica. «Oggi ci siamo trasferiti qui dalla campagna. Io e la signora Hildegarde avevamo molto freddo. Per riscaldarci, ho pensato di preparare un drink, del gin con un po' di limone. L'ho portato alla signora, ma lei non l'ha voluto. Era molto nervosa e si agitava come si agita un piccolo cane che, terminato un bagno nel fiume, si scrolla l'acqua di dosso. Verso le diciannove ho servito la cena e i signori hanno mangiato. Dopo aver finito, la signora è salita nella sua camera. La stavo aiutando a riporre i vestiti e a indossare un pigiama di chiffon nero, quando è entrato il Signor Fleetwood dicendo che sarebbe andato a trovare il Dottor Trowbridge. Dopo circa cinque minuti, ho sentito un ululato provenire da sotto le finestre della stanza. "Nancy!", mi disse la signora Hildegarde, "l'hai sentito anche tu?" "Certamente, l'ho sentito perfettamente", risposi. "Cosa pensa che sia?" Rimase per un attimo attonita, quindi cominciò a parlare velocemente: "No, No, non voglio; non voglio; te lo sto dicendo; non voglio!". Poi si rivolse verso di me: "Nancy, mi sta prendendo, di' a Norval che l'amo...". Improvvisamente smise di parlare, fece una strana smorfia con la lingua, evidenziata dal digrignare dei denti. Gli occhi le si fecero fissi e vitrei, e una specie di ringhio le venne su dalla gola. Le mani si strinsero a pugno e le sue dita si serrarono come se dovesse schiacciare qualcosa di durissimo. Per tutto il tempo, restai rintanata dietro il sofà che si trova nella stanza. Ero terrorizzata e pensavo che da un momento all'altro mi saltasse addosso.» «Sì, e poi?», chiese de Grandin avvicinando i suoi occhi piccoli e lucenti al volto della domestica. «Dopo quel momento di esitazione, si avvicinò alla finestra, pronunciò
delle strane parole in una lingua straniera, guardò verso il basso, ed emise un ululato lugubre e prolungato. Quindi si girò e corse per le scale ringhiando e soffiando. Ecco: questo è tutto ciò che accadde!» «Mademoiselle, non si ricorda cosa disse la signora, quando guardò fuori dalla finestra?» «No, proprio no. Parlava in una lingua che non aveva nulla a che fare con l'inglese!» «Ci pensi molto attentamente, Mademoiselle. Quasi tutto dipende da lei. Non si ricorda almeno che tipo di suono ha emesso e che strane parole ha pronunciato?» La donna roteò gli occhi e aspirò profondamente una boccata d'aria, quindi strinse le labbra e le guance le si gonfiarono come se lo sforzo mnemonico potesse essere aiutato dalla pressione del suo respiro. Finalmente disse: «Poteva suonare più o meno così: jere raven, proprio così», replicò espellendo l'aria con un respiro esplosivo. «Jere raven, jere raven?», mugugnò de Grandin a se stesso. «Jere... Barbe d'un porc, ho capito! Je reviens: io torno! N'est-ce-pas, Mademoiselle?», disse inquisitoriamente alla donna. «Sì, disse proprio così! Come avevo detto io: jare raven. Avevo indovinato!» Il francese mi lanciò uno sguardo rapido e trionfante. «Mio vecchio amico, ora cos'hai da dire?», mi domandò. «Niente, solo che...» «Tres bon! Per ora basta il "niente", il "solo" verrà più tardi. Dobbiamo prima cercare la signora Hildegarde.» Decidemmo che non era il caso di telefonare alla Polizia; cominciammo quindi a pattugliare le strade fredde e deserte. Passarono circa tre ore, ma nessuno di noi la vide, e in nessun modo riuscimmo a ottenere informazioni su Hildegarde Fleetwood. Non restava che avvertire Norval del fallimento delle ricerche e leggere nei suoi occhi la cocente realtà dei fatti. Mi fermai un istante vicino al portico che si trovava nei pressi della casa per mettere il cappuccio invernale al radiatore della mia automobile, cosa che avrei dovuto fare già da molto tempo. Come mi girai verso la scala della casa, la mia attenzione fu attratta da un flebile lamento proveniente dalla macchia di lecci nani situata vicino all'atrio della casa. Subito mi feci strada tra i sempreverdi, e de Grandin accese la sua torcia elettrica tascabile, illuminando l'ombra sotto di loro.
Hildegarde Fleetwood era accucciata e raggomitolata in un angolo del muro. Il fragile pigiama di chiffon nero che indossava era ormai un cencio strappato. Le mancava una delle pantofole nero-satinate. Sotto il costume diafano, la pelle era coperta da numerosi graffi. I piedi, lividi e sanguinolenti, erano macchiati di argilla rossa. C'era del fango sulle sue caviglie, e altre macchie di terra si trovavano sulle ginocchia, le braccia e le mani. Le unghie delle dita delle mani erano altrettanto sporche. Altro fango era presente sul volto, e i capelli erano impastati di terriccio. Stava cercando di pettinarsi con le unghie i capelli color bronzo, lunghi e lisci. L'impresa era decisamente ardua. «Mio Dio!», esclamai, chinandomi. Presi la donna ormai quasi assiderata tra le mie braccia, e mi diressi verso le scale che conducevano alla casa. Il piccolo francese mi aiutò come meglio poté, illuminandomi la strada con la sua torcia tascabile, precedendomi di un passo e aprendomi la porta dell'ingresso. «Finalmente», mormorò sottovoce, «finalmente! Caro amico, visto che hai nominato Dio, devo riconoscere che lassù sei certamente un raccomandato. Ed è un bene perché, prima che questa storia finisca, avremo bisogno del Suo aiuto; e naturalmente di quello di Jules de Grandin.» Applicammo subito a Hildegarde una terapia antiassideramento. Una spugnatura con acqua tiepida seguita da un massaggio con alcool e con panni di flanella morbida, riattivò la sua circolazione. Una tazza di brodo ristretto, somministrato con un cucchiaio, diede poi al suo volto pallido una sembianza di colore. Le feci un'accurata visita medica, cercando eventuali sintomi di congestione, ma riscontrai solo un leggero stato confusionale. Le somministrai del bromuro come sedativo, e feci capire a Norval come fosse importante che mi chiamasse immediatamente se le condizioni della moglie fossero mutate. Quindi io e de Grandin lasciammo la casa. Quando giungemmo nel mio studio scossi la testa sconfortato. «Questo caso sembra più serio di quanto pensassi all'inizio», ammisi finalmente. «Bene», annuì de Grandin risoluto. «Sì, mio caro amico, è davvero molto serio. Sì, certamente!» «Mordieu, i miei peggiori timori sono stati tutti confermati! È diabolico, infernale! Leggi, amico, leggi e piangi, tu che avevi detto che le mie teorie erano tutte baggianate: poi mi dirai chi era che diceva parole folli! Madame Hildegarde è posseduta dal Demonio?», gridò Jules de Grandin
nel bel mezzo della colazione leggendo la prima edizione del Morning Journal. Mi porse il giornale con le mani tremanti dall'eccitazione e mi indicò un articolo nell'angolo superiore destro della prima pagina: PROFANATORI APRONO LA TOMBA DI UNA RAGAZZA Rimosso il corpo dalla bara, Sottratti gigli dalle mani della morta. Il corpo è stato lasciato dissepolto Ricercata donna in nero Il guardiano del cimitero fugge per lo spavento Una o due persone, lavorando nel silenzio del St. Rose's Cemetery, sulla Andover Road a due miglia a nord di Harrysonville, hanno profanato una tomba, estraendo dalla bara il corpo di Monica Doyle, di 16 anni, figlia di Patrick Doyle, abitante al 163 di Willow Avenue, in Harrysville, morta mercoledì scorso e sepolta ieri mattina. Tra le esili mani incrociate sul petto della morta, era stato lasciato un rosario e un mazzo di gigli bianchi; i profanatori hanno preso i fiori che hanno poi trafugato. La ragazza aveva i vestiti funebri lacerati in alcuni punti e il suo corpo è stato rinvenuto nella bara rivoltato. Il coperchio del feretro è stato rimesso al suo posto dagli sconosciuti profanatori, ma la tomba non è stata richiusa. Il crimine si presenta decisamente misterioso, se si aggiunge che il guardiano del cimitero, Andrew Fischer, ha visto una strana donna vestita di nero e accompagnata da un mostruoso cane bianco, aggirarsi nel cimitero durante la notte. La profanazione è stata scoperta questa mattina quando Ronald Flander, 25 anni, e Jacon Rupert, di 31, stavano preparando la fossa per un funerale che si sarebbe dovuto svolgere poco dopo. Hanno subito notato dei mucchi di terra fresca, nei pressi della tomba della signorina Doyle. Allora si sono avvicinati e hanno visto la tomba violata e la bara dissepolta. La profanazione della tomba di Monica Doyle è sicuramente uno dei crimini più gravi commessi nel New England, se si esclude l'assassinio di Sara Humphreys di cinque anni fa. Come certo
ricorderete, tutto avvenne sul campo da golf del Sedgemoor Country Club, che si trova due miglia oltre il cimitero, anch'esso sulla Andover Road. Una delle teorie avanzate è che la profanazione sia stata attuata da un gruppo di persone in preda a fanatismo religioso e suggestionate dalla credenza popolare che vuole che un giglio sepolto con un corpo, cresca rigoglioso sul cadavere. L'apertura della tomba avrebbe quindi avuto il solo scopo di impossessarsi di questi «strani» fiori. La Polizia sta esaminando attentamente ogni piccolo indizio, ed è convinta di risolvere il caso in breve tempo. Si è dichiarata sicura di poter arrestare il colpevole entro ventiquattr'ore. Terminai di leggere l'angosciante storia, quindi fissai de Grandin con occhi colini di terrore. «È terribile... diabolico... proprio come hai detto tu!», ammisi. «Chi...» «Ah bah, perché mi dici di andare a prendere la ciotola quando vedi il gatto che esce dalla sala da pranzo con i baffi sporchi di cibo?», disse il francese visibilmente contrariato. «Forza, andiamo! Non dobbiamo perdere un solo istante.» «Andiamo? Ma dove?» «Al cimitero di St. Rose, ovviamente. Dai, sbrigati! Ci vuole rapidità mio caro. La Polizia è alla ricerca di prove, almeno così dice il nostro loquace giornalista. Potrebbe aver già ripulito la zona e quindi non potremmo usufruire dei loro stessi indizi!» «Credi che arresteranno veramente qualcuno?» «Dio ce ne scampi e liberi!», rispose. «Forza, sbrigati, mon vieux, ti prego!» Nel piccolo ufficio di cemento del cimitero di St. Rose, l'aria era riscaldata da una piccola stufa di forma ovoidale. Il carbone ardente era di un intenso color rosa, e infondeva alla stanza un calore tale, che faceva pensare più a una torrida giornata agostana, che a una fredda mattina di dicembre. Il vento fischiava incanalandosi tra gli angoli della casa e lottava con i rami spogli degli alberi che punteggiavano il cimitero piccolo e cupo. Il signor Fischer, viso rotondo, occhi blu, di mezza età, indossava una giacca bianca e, dal modo in cui si comportava, sembrava che, più che in un cimitero, si trovasse nella propria abitazione. Sporse la testa, per salutarci, da dietro una copia del Morgen Zeitung che stava leggendo con inte-
resse. «Giornalisti?», si informò con un forte accento tedesco. «Non ho nulla da aggiungere a quanto ho già detto. Non potete lasciarmi finalmente un po' in pace?... È da stamattina che...» «Avete pienamente ragione», lo interruppe de Grandin aprendosi in un veloce e ironico sorriso, «ma vorremmo rubarle giusto un minuto del suo preziosissimo tempo. E, visto che è così importante, accetterebbe un piccolo compenso per poche informazioni?» Vidi appena un istante una macchia verde, e le banconote cambiarono rapidamente di mano con la rapidità con cui un prestidigitatore fa scomparire le carte da gioco. Da annoiato che era, Andrew Fischer si mostrò subito cortese e attento. «Va bene, cosa posso fare per voi?» Il piccolo francese tirò fuori il suo portasigarette, ne offrì una a Fischer e, con cura infinita, ne prese una per sé. «Prima di tutto», disse, «vorremmo sapere qualcosa sull'apparizione della misteriosa donna vestita di nero e che, almeno apparentemente, sembra aver commesso il fatto dissacrante. Può dirci qualcosa di lei?» «Certamente che posso», disse di sua spontanea volontà. «Saranno state le ventuno e trenta o le ventidue. Di solito chiudo il cancello principale alle venti e quello posteriore intorno alle ventuno e trenta. Stavo giusto chiudendo quello posteriore per poi andare a casa a dormire, quando sentii, tra il fischiare del vento, il rumore sordo di un colpo e un fruscio. Andai a controllare, e mi accorsi che si era rotto il lucchetto del cancello principale. Era vecchio e arrugginito, ma in effetti mi sembrò strano che potesse essersi rotto da solo: in fondo non è che ci fosse stato tutto quel gran vento. Così mi misi alla ricerca di un pezzo di corda, o qualcosa di simile, per poter legare il cancello. Mi diressi verso il capannone degli attrezzi. Si trova al di là del terreno consacrato, dove seppelliamo i suicidi e i bambini morti prima di essere battezzati. Gli uomini incaricati di scavare le fosse avevano ammucchiato gli attrezzi nel capanno disordinatamente. Stavo per entrare per mettermi alla ricerca della corda in quel mare di oggetti, quando da un cespuglio saltò fuori una donna piuttosto alta insieme al cane più grande e orrendo che avessi mai visto. Gott in Himmel!», disse, smettendo di parlare in americano ed esprimendosi nell'idioma dei suoi antenati. Quindi riprese normalmente: «Ero terrorizzato!». Il francese, sovrappensiero, gettò la cenere della sua sigaretta sul lino-
leum che ricopriva il pavimento di cemento della stanza. «Saprebbe descrivere la donna?», disse lentamente, lanciandomi un'occhiata veloce. Quindi fissò con fare minuzioso le volute di fumo che uscivano dalla sua sigaretta. Fischer pensò per un istante. «Non ne sono sicuro», disse. «È accaduto tutto così improvvisamente. È come se fosse uscita dal nulla, e devo ammettere che ero molto più ansioso di correre via, piuttosto che di osservarla attentamente. Comunque era molto alta, almeno più alta di una testa di una donna normale; credo anche fosse molto bella. Era magra, con dei lunghi capelli che le coprivano parzialmente il volto e le spalle. Indossava qualcosa di nero, senza maniche, e aveva... non so come spiegarlo esattamente... Ecco, potrei dire che aveva uno sguardo diabolico e crudele.» «Diabolico? Come?» «Aveva sul volto una specie di sorriso, come se fosse contenta di incontrarmi. Ma era un ghigno, più che un sorriso, io lo chiamerei così; una specie di sguardo selvaggio e piacevole allo stesso tempo. E il cane! Mein Gott! Era grande come il cucciolo di un elefante. Aveva il muso lungo e appuntito, e teneva aperte le sue fauci rosse, enormi e terribili. Gli occhi erano stretti e lunghi come quelli di un cinese, e lampeggiavano nell'oscurità come fossero quelli di un gatto!» «Si è mosso per attaccarvi?» «No, non mi sembrava intenzionato a farlo. Stava solo lì, con una zampa alzata, pronto a saltarmi addosso, ma non si è mosso. La donna si trovava dietro di lui, con i capelli al vento, e una mano sulla groppa del cane; entrambi mi ringhiavano ferocemente! Anzi, la bestia ringhiava e la donna la imitava, quasi rispondendole. Non attesi oltre e corsi subito via. Credo che anche voi avreste fatto altrettanto!» «Non ha idea da dove possano essere venuti?» «No. Sono tornato qui il più velocemente possibile, ho chiuso le porte e ho usato un mobile per barricarmi all'interno!» «Uhm. Possiamo vedere la tomba della sfortunata Mademoiselle Doyle?» Una antipatia razziale si accese nello sguardo di Fischer quando de Grandin usò quella parola in francese, ma, il ricordo del recente e cospicuo indennizzo, gli fece superare l'astio atavico. «Sicuro», acconsentì con minore cordialità e gettandosi sulle spalle un
giubbotto di pelle incartapecorita. «Andiamo.» La bara e la terra erano state rimesse nel sepolcro violato. Nel posto dove giaceva Monica Doyle nel suo riposo eterno, sembrava che la terra rossa avesse subito una profonda ferita. Il piccolo francese osservò attentamente il terreno circostante, quindi affondò il suo coltellino nella terra prelevando un campione del fango con cui avevano riempito la fossa; poi si alzò scuotendo il capo. «E ora, se lei sarà così gentile da mostrarci il luogo dove ha incontrato quella strana visitatrice, non la disturberemo più», disse al guardiano. Il cimitero era piuttosto piccolo, dovendo provvedere a una clientela ricca ma limitata. Molte tombe, più che di fiori, erano ricoperte d'erica. Evidentemente era cresciuta durante l'ultima estate. Ora, nel dicembre brullo, aveva un'aria desolata che mi lasciò depresso come il suono distorto di una musica melanconica. Anche gran parte degli alberi del cimitero erano spogli. La parte riservata agli indigenti e ai non battezzati, si trovava in uno stato decisamente peggiore. Non c'erano né erica né piante grasse. I sepolcri che avevano una pietra tombale erano ancora più malinconici di quelli che non l'avevano. Si trattava di semplici lapidi di legno o pietra, dipinte di bianco e incise così rozzamente che qualsiasi mendicante le avrebbe rifiutate come riconoscimento della propria tomba. Dopo aver camminato per un breve tratto, il guardiano si fermò nei pressi di un folto cespuglio. «Ecco, erano qui», annunciò risoluto, fissando de Grandin con uno sguardo non certo amichevole. «Ora però sbrigatevi; ho da fare. Non posso stare con voi tutto il giorno.» Ancora una volta, de Grandin ispezionò il terreno. Con il suo coltellino smosse il fango rosso e appiccicoso, osservando attentamente il luogo dove Fischer era rimasto terrorizzato. Poi si rialzò e, con un passo breve e strano, si diresse verso la linea formata da alcuni pioppi della Lombardia che servivano come frangivento lungo il muro posteriore del cimitero. «Ehi, non posso più aspettare», disse il guardiano riscaldandosi. «Devo fare una quantità incredibile di cose. Se volete chiedermi qualcos'altro, mi troverete nel mio ufficio.» Detto questo, si girò e ci lasciò. «Sale caboche», mormorò de Grandin lanciando uno sguardo gelido al guardiano che si stava allontanando. «Meglio così, ora non ci serve più. L'assenza è il miglior regalo che potesse farci. Sbrighiamoci, amico Tro-
wbridge: vado avanti io, se tu permetti.» Dalla tasca del panciotto tirò fuori il suo accendino, l'accese, e dalla giacca prese una candela di paraffina. «Ero proprio sicuro che mi sarebbe servita.» Mi spiegò che avrebbe fatto colare il grasso della candela sino a colmare l'interno di una piccola impronta di scarpa impressa nel terreno umido. «Perché diamine lo stai facendo?», chiesi, mettendomi di fronte a lui per fare scudo con il mio corpo contro il vento. Mi sentii imbarazzato per lo sguardo curioso lanciatomi da un passante. «Parbleu, credo che farò costruire una casa di mattoni in cui racchiuderò tutte le tue domande senza senso!», rispose ironicamente, versando delicatamente la paraffina calda all'interno della depressione e aspettando ansiosamente che si indurisse. Quando la paraffina si fu ben raffreddata, la prese con molta cura, la pulì dalla terra che vi si era attaccata, e la ripose in due fogli di carta. La prese così delicatamente che sembrava avesse per le mani un neonato con appena un giorno di vita. Quindi si rialzò e procedette metodicamente attraverso il cimitero annotando attentamente, su di un foglio, ogni impronta femminile che incontrava. «Dubito che la Polizia abbia rilevato queste impronte», mi disse, «a meno che questo caso non sia stato affidato al buon Sergente Costello. È sicuramente il più in gamba di tutti. Io e lui abbiamo lavorato molte volte insieme.» Quando tutto era stato ormai osservato con grande soddisfazione da parte sua, ci dirigemmo verso l'uscita. «Merci beaucoup, Monsieur l'allemand-transplanté!», disse ironicamente, alzando il suo cappello di feltro verde e uscendo dal cancello. «Dannata rana!», rispose il guardiano. E con quello scambio di amenità lasciammo il cimitero. «Lentamente, caro Trowbridge, guida lentamente, per favore», ordinò. Si era seduto sul sedile posteriore, e osservava attentamente la vegetazione che si trovava lungo il bordo della strada, ora a destra, ora a sinistra. Una volta o due mi fermai su sua richiesta. Scese poi dalla macchina e fece un giro, addentrandosi per un breve tratto nel sottobosco. Finalmente, quando avevamo ormai impiegato quasi un'ora per percorrere appena quattro miglia, ritornò dalla sua investigazione con in volto stampato un sorriso di soddisfazione. «Triumphe!», annunciò, mostrandomi ciò che aveva appena trovato. Era una pantofola da notte nero-satinata!
«E ora, se sarai così buono da lasciarmi qui, te ne sarò infinitamente grato», mi disse quando raggiungemmo il centro della città. Circa un'ora più tardi entrò nella mia stanza delle visite mediche. I suoi occhi brillavano d'esultanza, e lo stesso sorriso di soddisfazione che avevo visto solo pochi minuti prima nel bosco, si librava sotto le punte aguzze dei suoi mustacchi biondi e incerati. «Mio incredulo Tommaso, vuoi proprio vedere la prova?», mi disse. «C'est pourquoi, e io te l'ho portata. Regardez: questa...», scartò attentamente un pacchetto e ne rovesciò il contenuto sulla scrivania, «...è l'impronta dell'orma che ho rinvenuto al cimitero. Questa...», tirò fuori dalla tasca della giacca la pantofola che aveva trovato sul bordo della strada, «...è quella che ho trovato nei pressi del cimitero durante le mie ricerche. E questa...», prese da un'altra tasca una pantofola nera, «...è la scarpa che Madame Hildegarde indossava l'altra notte quando ha vagato senza conoscenza all'esterno della casa. Me la sono fatta dare, meno di un'ora fa, dalla femme de chambre che abbiamo interrogato l'altra notte. Ora presta la massima attenzione. Osserverai che le scarpe sono identiche, salvo che una è rotta e l'altra no. Entrambe sono sporche dello stesso fango rosso, il fango che ho rinvenuto nel cimitero di St. Rose. Noterai anche che entrambe si adattano perfettamente alle impronte rilevate al cimitero. Enfin, sono ognuna la compagna dell'altra. Sono entrambe le scarpe di Madame Hildegarde. Con queste ai piedi, l'altra notte ha lasciato la sua casa, dirigendosi al cimitero con quella specie di lupo bianco per andare a disseppellire il cadavere di Mademoiselle Doyle! Mio caro amico, la misteriosa "donna in nero" era proprio lei, e, partitié de Dieu, il suo compagno era lo spirito redivivo di Gilles de Garnier, il Lupo Mannaro di St. Bonnot, che è penetrato nel nostro mondo attraverso la porta che Mademoiselle Noyer ha aperto durante quella maledetta seduta spiritica, quella domenica notte alle Dodici Querce! Ed è per questo che lei ride e ghigna come un cane! Ti dico che le cose stanno proprio così! Plût à Dieu, non saprei dare un'altra spiegazione!» «Io invece non rido», dissi. «In un primo momento ero incline a pensare che si trattasse di uno dei tuoi soliti scherzi sui fantasmi, ma ciò che è venuto alla luce intorno a questo caso è così strano e terribile che credo proprio che tu abbia ragione. Insieme siamo stati testimoni di questo fatto, e ora non sono più disposto a scherzare. Ma dimmi...» «Tutto ciò che posso!», rispose impetuosamente porgendomi le mani.
«Cosa vuoi sapere?» «Se l'animale in compagnia di Hildegarde è veramente un Lupo Mannaro, perché hanno dissotterrato il corpo della giovane Doyle? Io ho sempre sentito parlare di licantropi che divorano esseri viventi.» «E anche i morti», replicò. «Vi sono diversi tipi di licantropi: alcuni uccidono cani e pecore, ma attaccano l'uomo solo se sono a loro volta attaccati; altri sono come iene e predano i morti. Altri ancora, i più pericolosi, bramano carne umana e cercano e uccidono donne, bambini e anche uomini, quando non sono disponibili prede più deboli. Nel nostro caso, questo abominevole Garnier forse preferisce dei morti inermi come vittime delle loro incursioni, perché...» «Loro incursioni?», gli feci eco inorridito. «Loro...» «Ahimè sì. È proprio la verità. La povera e sfortunata Madame Hildegarde è divenuta come il suo dominatore e padrone Gilles Garnier. Anche lei è un loup-garou. Ma ancora la sua mente non è stata completamente ottenebrata. Ricordi come piangeva l'altra notte? Diceva "No, no, io non verrò". E poi, quando ha lasciato alla femme de chambre un messaggio d'amore e d'addio per suo marito prima di lasciare la casa per raggiungere il suo spettrale padrone? Ricordi il fango che abbiamo trovato sotto le sue unghie rotte? Credo proprio che lei abbia aiutato il lupo a estrarre dal terreno la bara di Monica Doyle. Sono sicuro che le cose ormai stanno a questo punto.» «Ma perché loro non hanno...», iniziai, ma la domanda mi si strozzò in gola. «Ma perché loro non hanno... mangiato...», mi fermai nauseato. «Per quello che la ragazza stringeva nelle mani.» Rispose. «Il rosario e i gigli che loro hanno strappato a morsi e portato via. Io ne ho trovati alcuni brandelli nella terra vicino alla tomba, sebbene la Polizia avesse già fatto la sua ispezione. Inoltre, il corpo della fanciulla era stato benedetto con l'incenso e l'acqua santa. Ah, pardieu, queste cose li hanno sconfitti. Non potevano più sfogare la loro collera sul corpo, e allora lo hanno rigettato capovolto nella bara come se si trattasse di un grave insulto.» Si alzò, attraversò velocemente la stanza per sgranchirsi le gambe e continuò con rinnovata energia. «Ora seguimi attentamente», disse, sedendosi sull'angolo della scrivania e fissandomi senza battere ciglio. «Tu hai familiarità con quella che viene chiamata la "nuova psicologia" di Freud e Jung. Per il tuo lavoro dovresti almeno averne sentito parlare. Bene: tu sai che ci sono verità che noi preferiamo dimenticare. Ogni gran-
de desiderio, ogni odio, ogni passione, ogni idea di lussuria, viene catalogata nella nostra mente e indirizzata in un recesso di subconscio. Noi non siamo capaci di richiamare queste informazioni. Ma, in occasioni particolari, come può essere una seduta spiritica, riusciamo a liberare tutti i desideri repressi e proibiti: invidia, malizia, odio o bramosia, che sin da fanciulli abbiamo incamerato nel nostro cervello. Noi sappiamo, come hanno rilevato recenti studi di psicologia, che leggi fisse e immutabili governano i nostri processi mentali. C'è, ad esempio, la legge di somiglianza, che evoca l'associazione di idee. Vi è la legge di integrazione, che spacca le immagini mentali in frammenti e, che inabilita il subconscio a riunire queste immagini nella figura completa dell'evento o della scena vissuta, come i pezzi di un puzzle che non siamo capaci di ricomporre. Bene. Pensa ora a dieci o dodici persone sedute in perfetto silenzio intorno ad un tavolo. Vi sono tutte le condizioni che possono condurre a uno stato di ipnosi: oscurità, il focalizzare insieme lo stesso oggetto, la mancanza di influenze esterne che possano distrarre l'attenzione dei presenti. In queste condizioni, la loro mente si apre. Le normali inibizioni che la morale tiene prigioniere nel nostro subconscio, vengono così liberate; è come se una sentinella si fosse addormentata permettendo l'apertura furtiva dei cancelli del castello! Ora ci sono le condizioni ideali per un'invasione. Eh bien, amico mio, non pensare che il nemico ne approfitti lentamente. Non è assolutamente così. Se alla seduta spiritica è presente anche una sola persona la cui mente sia predisposta al male, ecco che il Potere del Maligno penetra all'interno del cancello e l'ignaro tramite diventa a lui collegato. Quando i cancelli della psiche sono lasciati aperti, qualsiasi forza può oltrepassarli. Ora, chi pensi che potrebbe essere più facilmente attaccabile? Madame Hildegarde, non è vero? Essendo incinta, il suo flusso sanguigno, tutto il sistema circolatorio, deve avere cura di due persone. Al cervello arriva perciò meno sangue, e quindi la capacità di resistenza diminuisce. Andiamo avanti. Consideriamo ora ciò che è successo alle Dodici Querce. Un colpo sul tavolo ci ha fatto capire che lo spirito di un uomo vuole entrare in comunicazione con noi. Gli chiediamo il nome. Eh bien, e che risposta! Dice il suo nome e la paura si è fatta sentire nei presenti che lo hanno riconosciuto. "Gilles Garnier, che vive a St. Bonnot durante il regno di Re Carlo", come lui stesso ci ha detto sfrontatamente. Hai mai sentito parlare di lui?», si interruppe per un attimo inarcando le sopracciglia inter-
rogativamente. «No, non avevo mai sentito il suo nome», risposi. «Bien. Credo che, come te, nessuno dei presenti lo conoscesse. Il suo nome, la nazionalità, l'epoca in cui è vissuto, tutto potrebbe far pensare a qualcosa di molto "romantico" per una congrega di stupide zucche vuote. Non è successo forse proprio questo? Sì, e in misura piuttosto marcata. Ah, ma Jules de Grandin lo conosce! Come tu hai studiato la storia della medicina, dell'anestesia, delle piaghe che hanno flagellato il nostro povero mondo, così io ho studiato questi altri flagelli che hanno distrutto corpi o menti e, a volte, entrambi. Ascoltami: ti dirò chi è e che cosa ha fatto Gilles Garnier. Nel 1573, quando Carlo IX salì al trono di Francia, viveva a St. Bonnot, vicino alla città di Dole, un individuo chiamato Gilles Garnier. Era un contadino zoticone, dal carattere decisamente sgradevole. Più una persona lo conosceva, più si allontanava da lui. Viveva sempre da solo e, nella regione, era conosciuto come "l'eremita". Ma questo nome non intendeva attribuirgli un carattere di santità; anzi, tutt'altro! Venne così l'estate di quell'anno fatale e, con essa, furono inoltrate molte lamentele al Parlamento di Dole. I contadini che vivevano nei pressi della città, denunciarono il furto di pecore dall'ovile, il ritrovamento dei corpi morti dei cani da guardia e persino la scomparsa di bambini trovati poi orrendamente dilaniati lungo la strada o le siepi. Tre menestrelli girovaghi, tutti veterani di guerra ed esperti spadaccini, che si erano accampati nel bosco di St. Bonnot, furono trovati morti, malgrado tutt'intorno vi fossero i segni di una strenua resistenza. Mi sembra inutile aggiungere che i loro corpi erano quasi irriconoscibili. Tutti gli abitanti della regione erano terrorizzati e, anche se armati, gli uomini preferivano non muoversi di notte dalle proprie case, perché un loup-garou, o Lupo Mannaro se preferisci, reclamava per sé quelle terre dal tramonto sino all'alba. La sera dell'8 novembre 1573 era una sera come tutte le altre. I campi erano ormai privi di vegetazione e le ultime foglie avevano lasciato recalcitranti la compagnia dei rami degli alberi. Tre spaccalegna stavano tornando velocemente alle loro case a Chastenoy dal loro lavoro, quando sentirono le grida di una giovane ragazza provenire dal fitto sottobosco. Il pianto della bimba si mischiava all'abbaiare di un lupo. Brandendo le loro asce, si fecero strada nella boscaglia dirigendosi verso il luogo da dove provenivano le grida. In una piccola radura, videro questa terribile scena: una bimba di dieci anni si trovava con le spalle appoggiate
ad un albero e si difendeva, come meglio poteva, con il suo bastone da pastore. Di fronte a lei si ergeva una creatura mostruosa che non aveva cessato il suo abbaiare diabolico e che stava attaccando la fanciulla con denti e artigli. Il corpo della ragazza era già ricoperto di sangue, a causa delle numerose ferite. Come i tre boscaioli uscirono allo scoperto, urlando e dirigendosi con le asce verso la bestia, questa si dette alla fuga, scomparendo istantaneamente nel fitto del bosco. Gli uomini avrebbero voluto inseguirla, ma le loro attenzioni furono ovviamente tutte per la bambina, stremata e gravemente ferita.» Si fermò per accendersi un'altra sigaretta, quindi proseguì: «In un processo», mi chiese, «quando due testimonianze sono contraddittorie, tutti i testimoni hanno uguale possibilità di essere creduti?». «Credo che sarebbe appoggiata la tesi espressa dal maggior numero di testimoni», risposi. «Molto bene. Questo direbbe la logica, ma non fu così. Il giorno dopo, quando i tre taglialegna raccontarono il fatto alle autorità, uno disse che l'assalitore della fanciulla era un uomo con dei foltissimi capelli, ma gli altri due dissero che si trattava di un lupo dal pelo grigio molto lucente e con gli occhi decisamente umani. Ti ricordi che l'amabile Monsieur Fischer questa mattina ci ha detto che la bestia che l'aveva terrorizzato la notte precedente aveva gli occhi di un cinese? Comunque, a St. Bonnot non si credette alla tesi del lupo, e non furono ordinate ulteriori indagini. Il 14 novembre scomparve un ragazzo di otto anni. Il bambino era stato visto per l'ultima volta all'interno della casamatta per i balestrieri che si trovava presso i cancelli della città. Poi era svanito, come se fosse stato inghiottito dalla terra stessa. Morbleau, era stato inghiottito, ma non dalla terra! No! Questa volta alcuni indizi piuttosto chiari, indicavano in Gilles Garnier, "l'eremita", il responsabile dei recenti avvenimenti. Un sergent de ville e sei archibugieri andarono ad arrestarlo. Lo presero sotto la loro custodia verso mezzogiorno del 16 novembre. Venne subito processato. È strano, ma molto spesso accade che, persone implicate in crimini anche molto gravi, una volta arrestati, confessino i loro reati senza aspettare che siano prodotte prove contro di loro. E così accadde. Garnier ammise di aver fatto un patto con il Diavolo, per mezzo del quale, dal sopraggiungere dell'oscurità sino al canto del gallo, poteva trasformarsi in lupo.
Furono chiamati coloro che potevano testimoniare contro di lui: alcuni dei contadini derubati che l'avevano visto nella notte, ma soprattutto la giovane ragazza salvata vicino a Chastenoy. La testimonianza della giovane fu molto importante, perché identificò il prigioniero dai suoi occhi. Inoltre fu presa l'impronta dei denti di Garnier e confrontata con i segni dei morsi che la fanciulla aveva ancora impressi nella carne. Quando avviene la metamorfosi, un Lupo Mannaro mantiene denti e occhi della controparte umana. Le impronte risultarono quindi identiche. Garnier ammise di averla attaccata e raccontò molti altri episodi simili. Nel giorno dei festeggiamenti di San Michele, aveva attaccato con morsi e artigliate una ragazza di dieci/dodici anni, vicino al bosco di La Serre. L'aveva poi trascinata all'interno di un boschetto divorandola. Ci fu anche chi rafforzò la sua storia, andando a recuparare i resti del corpo mutilato. Il quattordicesimo giorno dopo Ognissanti, sempre in forma di lupo, aveva ucciso e divorato un ragazzo. Il venerdì antecedente la festa di San Bartolomeo aveva catturato e ucciso un giovane di dodici anni e lo avrebbe mangiato se non fossero arrivati alcuni contadini. Questi uomini furono rintracciati e confermarono la storia di Gilles Garnier. Anche qui ci fu un conflitto di testimonianze. Alcuni giurarono che lui era in forma umana, altri deposero che si trattava veramente di un lupo. Ma tutti dissero che urlava e ringhiava come una bestia. Ti ricordi la data in cui Mademoiselle Noyer ha effettuato la seduta spiritica alle Dodici Querce?» «Aspetta... mi sembra...», feci un veloce calcolo mentale, «sì, era il 26 novembre.» «Précisement», annuì. «Ed era il 26 novembre 1573 quando Gilles Garnier, altrimenti noto come il Lupo Mannaro di St. Bonnot, fu riconosciuto colpevole, portato mezzo miglio fuori dalla città, appeso a una corda per le caviglie e arso vivo!» «Coinciden....», iniziai a dire dubbioso. «Coincidenze? Ma, diavolo!», proruppe de Grandin. «Amico mio, ma di che cosa hai bisogno? Lo spirito di quell'uomo si è liberato nell'aria, invisibile ma potente, per quasi quattro secoli. Nell'anniversario della sua esecuzione è più forte il ricordo della vita trascorsa sulla terra. La rabbia e l'ansia di tornare ancora una volta a predare, hanno evidentemente accresciuto le sue forze psichiche. Ha bussato di nuovo al cancello del nostro mondo, come il lupo cattivo nella favola de les trois petit cochons, bussa alla porta e, notando la sua debolezza, l'abbatte con un solo soffio! Sì. In-
dubbiamente le cose stanno proprio così.» «Ma senti», controbattei, «sono d'accordo con te quando parli di problemi psicologici che possono aver influenzato le azioni di Hildegarde: non voglio contraddirti su questo. Ma come può Garnier, essere riuscito a manifestarsi materialmente nel nostro mondo? Io posso anche avere visioni di fantasmi, o di spettri, o come diavolo tu li voglia chiamare, ma l'essere che Fischer ha visto nel cimitero o che Norval Fleetwood ha osservato nel prato delle Dodici Querce insieme a sua moglie, non è incorporeo. Chi ha riesumato il corpo della giovane Doyle dalla sua tomba, rimettendolo poi nella bara, non poteva essere che qualcosa di materialmente concreto. Anche supponendo che l'insanità mentale abbia dato a Hildegarde una forza soprannaturale, è impensabile credere che lei sia riuscita a fare tutto ciò da sola!» «Ineguagliabile Trowbridge!», piagnucolò allegramente. «Quando tutto mi sembra ormai cupo e scuro, tu mi mostri una luce di speranza. Io e te siamo il solo barlume di salvezza per Madame Hildegarde.» Lo fissai a bocca aperta, quindi: «Nel mondo...». Con un gesto gentile, de Grandin mi fece segno di azzittarmi. «Prestami attenzione», ordinò. «Hai risolto questo problema dannatamente complesso con la più semplice delle soluzioni. Tu sai, o comunque te lo sto dicendo ora, che un fenomeno molto comune associato alle sedute spiritiche, è la produzione di luce. Molti medium hanno il potere di attrarre o emettere luce. Io stesso ho assistito a questi fenomeni, partecipando ad alcune sedute tra esperti del settore. Ma cos'è questa luce? Alcuni pensano che si tratti dell'essenza del vero fenomeno spiritico, energia naturale dell'uomo che si manifesta sotto forma di ondate di luce canalizzate dai pensieri dei membri del circolo della seduta spiritica. Ma, al tempo stesso, questa essenza sembra sia qualcosa di più sostanziale di una semplice emissione di vibrazioni capaci di essere riconosciute come luce. Questa che noi stiamo vivendo è la prova indubbia che la materializzazione di uno spirito inizia durante la seduta spiritica. La British Society for Psychical Research e la Société d'Études Psychiques, l'hanno attestato dopo studi scientifici seri e approfonditi. Ma come è possibile la materializzazione? Uno spirito è il fantasma di quello che una volta era stato un uomo. Ma, in effetti, di quell'uomo non vi è più il corpo. Sono proprio questi ultimi che visitano le sedute spiritiche, sperando nella materializzazione. Non possono materializzarsi da soli, così come un muratore, anche esperto, non può costruire una casa se prima non si è procurato i materiali grezzi con
cui edificarla. È così anche per gli spiriti. Una particolare forma di energia viene irradiata dalle persone presenti alla seduta spiritica: è qualcosa di molto simile alle onde radio. Questa energia è chiamata psicoplasma. Se nell'aria vi è una presenza massiccia di questa forza, il fantasma, spirito demoniaco, può assorbirla, riuscendo così a modificare le vibrazioni della sua essenza, contraendosi sino a divenire solido e ponderabile, ricostruendosi così un corpo, non necessariamente identico a quello originale. In circostanze normali, al termine della seduta spiritica, lo psicoplasma ritorna alla mente di chi lo ha generato. Ma supponiamo che vi sia uno spirito che abbia un grande desiderio di tornare ancora una volta a vivere su questo mondo e che voglia quindi riavere un corpo solido: cosa fa? Già sai qual è la risposta, e ora comprendi qual è il pericolo di una seduta spiritica. È possibile fornire inconsapevolmente una struttura corporea a una entità maligna. Ed è quello che è successo nel nostro caso.» «Sì?», domandai. «E qual è la soluzione del problema che secondo te io avrei trovato?» «Pardieu! Riformare la seduta spiritica con le stesse persone, e fare in modo che Gilles Garnier torni da dove è venuto... Forse non funzionerà, ma dobbiamo provarci; e dobbiamo farlo assolutamente questa notte.» Passò tutto il pomeriggio al telefono, cercando di parlare con i dodici membri che avevano partecipato alla seduta spiritica alle Dodici Querce. Quando li rintracciò e tutti ebbero accettato di venire quella sera nella casa di città di Fleetwood, de Grandin si alzò in piedi esausto. «Amico mio, non mi aspettare per pranzo», disse mestamente. «Preferirei tagliarmi un dito, piuttosto che perdere quel maialino che Nora McGinnis sta arrostendo in cucina, ma su di noi incombe qualcosa di più importante. Mangerò in un albergo a New York. Hélas!» «Ma dove stai andando?» «Devo fare una prenotazione presso un'agenzia teatrale.» «Una prenotazione...» «Calmati! Hai capito esattamente quello che ho detto. Ci vedremo questa sera alle venti da Monsieur Fleetwood. Mi fido di te. Fai in modo che nessuno del gruppo lasci la casa prima del mio arrivo. Au plaisir de vous revoir.» Erano appena rintoccate le ventuno e trenta al grande orologio a cucù che si trovava nel salone di casa Fleetwood, quando arrivò de Grandin.
Nella stanza erano radunati i partecipanti a quella dannata seduta spiritica. Erano imbarazzati e piuttosto irritati per l'attesa; Norval stava facendo del suo meglio per intrattenerli. Hildegarde, smunta e pallida, non sembrava aver risentito fisicamente dell'avventura della notte precedente. Sedeva vicino al fuoco, e a volte dei brevi brividi le percorrevano il corpo, anche se la temperatura della stanza era molto elevata. Uno sguardo sgomento era stampato sul suo volto. A ogni suono di clacson proveniente dalla strada, un lampo di paura le si accendeva negli occhi, quindi si alzava di scatto dalla sedia con una contrazione convulsa che le attraversava le guance e moriva sulle labbra. Insieme a de Grandin, entrò un uomo giovane e pallido. Indossava abiti piuttosto semplici, i suoi capelli erano corti e scuri, e aveva dei malinconici occhi infossati. «Professor Morine, Dottor Trowbridge.» De Grandin introdusse l'estraneo nella stanza. «Monsieur Fleetwood, Professor Morine.» «Il Professore è un esperto di ipnotismo», spiegò a bassa voce. «In questo momento si trova senza lavoro, ma una persona al bureau d'enregistrement dei lavoratori dello spettacolo, me lo ha raccomandato, senza riserve, per il suo indubbio talento. La sua tariffa per stanotte è di cento dollari. Per lei va bene, Monsieur?», chiese, guardando inquisitoriamente Norval Fleetwood. «Se aiuterà Hildegarde a guarire, pagherò il doppio.» «Molto bene. Diciamo allora centocinquanta dollari. Penso che potremo contare sulla discrezione del Professore. Ha promesso di dimenticare tutto ciò che vedrà e sentirà stanotte in questa casa.» «Va bene, va bene», rispose Fleetwood nervosamente. «Cominciamo.» «Très bien. È tutto pronto? Mi scusi, Madame Hildegarde: potrebbe uscire da questa stanza per un minuto?» Norval sussurrò qualcosa all'orecchio di sua moglie. Come la donna uscì, il francese riprese a parlare a tutto il gruppo. «Messieurs, Mesdames, noi siamo qui riuniti, questa notte, per replicare le condizioni che hanno portato all'indisposizione di Madame Fleetwood. Vi assicuro sul mio onore che tutto quello che stiamo facendo non è per qualche scopo personale. Solo se necessario, sarete sottoposti a un leggero procedimento ipnotico. Personalmente posso assicurarvi che non ci sono pericoli di alcun genere. Siete d'accordo?» Anche se riluttanti, gli ospiti, uno dopo l'altro, acconsentirono. Venne poi il turno di Mazie Noyer.
«Io non voglio», rispose brevemente. «Non prenderò parte a questo ridicolo modo di procedere. Lei vuole impossessarsi della mia mente per farmi fare la figura della stupida. Lo so! Non acconsento!» «Mademoiselle», protestò de Grandin, «non le interessa vedere Madame Fleetwood guarire dalla sua malattia? Se rifiutate, vi assumete una grande responsabilità.» «Non mi interessa che Hildegarde stia bene oppure no. Potrebbe anche morire prima che io acconsenta ad essere ipnotizzata. Il fatto è che lei vuole vedermi impazzire!» «Parbleu, in questo la natura mi ha preceduto», borbottò de Grandin, ma poi disse a voce alta: «Va bene, Mademoiselle, come lei desidera. Ci vuole scusare mentre portiamo avanti il nostro lavoro?». Con un inchino gelido si allontanò da lei e condusse gli altri all'interno di una stanza adiacente. Da qui erano stati rimossi i mobili, escluso un tavolo rotondo e una mezza dozzina di sedie. Poco dopo, de Grandin tracciò sul pavimento un pentacolo composto da due triangoli intrecciati. Su ognuna delle cinque punte pose una candela di cera, un pugnale corto e tagliente con la punta rivolta verso l'esterno del pentacolo, e un piccolo crocifisso. Il tavolo si trovava all'interno dello strano disegno. Norval condusse Hildegarde nella stanza, quindi chiuse la porta. Tutti presero posto intorno al tavolo. Il Professor Morine cominciò a camminare lentamente intorno al cerchio formato dai partecipanti, accarezzando con le mani le fronti di ogni persona. Dopo aver terminato il giro, sussurrò con voce calmissima: «Dottore: è tutto pronto. Sono in stato di trance. Cosa facciamo ora?». Il francese accese le candele una ad una, mormorando una sorta di preghiera o di incantesimo per ogni fiamma. Osservò per un istante le tenui fiammelle, quindi si girò verso il Professore. «Se per lei va bene, vorrei essere io a parlare», rispose. De Grandin prese cinque piatti d'argento da sotto il tavolo e versò dentro di questi un liquido scuro e denso preso da una grossa fiasca. Da una bottiglia centellinò un liquido scuro come il primo, ma molto meno denso. Come richiuse la seconda fiasca, mi accorsi che l'aria era pervasa da un piacevole odore di vino di Porto. Ognuno dei cinque piatti fu messo su una delle cinque punte del pentacolo. Si sentì un suono stridulo provenire da sotto il tavolo. Era de Grandin che aveva preso tre incensieri ecclesiastici. Ne tenne uno per sé, e diede gli
altri uno a me e uno a Morine. Erano carichi e pronti ad essere accesi. «Prendeteli e accendeteli, amici mei», ordinò, «e agitateli verso qualsiasi cosa compaia nell'oscurità, senza esitazioni di alcun genere.» Poi si rivolse alle persone sedute intorno al tavolo. «Ora concentratevi con tutte le vostre forze. Cercate di non pensare a nulla. Ecco: così va bene. Quando ve lo dirò, ripetete più volte queste parole: "Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!".» Ci fu qualche secondo di pausa, poi riprese: «Ecco: ora!» Come il leggero mormorio di un vento estivo lontano molte miglia, un coro basso e monotono cominciò a recitare: «Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!». Il parlottio del coro continuava da oltre cinque minuti. L'incessante ripetizione aveva su di me un effetto soporifero. Fissavo le fiammelle delle candele che illuminavano fiocamente la stanza, e facevo uno sforzo terribile per distrarre la mia mente da quell'incessante litania, sperando che terminasse al più presto. «Perché hai fatto venire quell'ipnotista di professione?», sussurrai a de Grandin. «Vedo che stai svolgendo un ottimo lavoro. Perché hai coinvolto nella storia anche un estraneo?» «Tiens», rispose sottovoce, «qui ci sono molti soggetti: avevo previsto anche la presenza della recalcitrante Mademoiselle Noyer. Per influenzarli tutti e per usare su di loro la mia magia, mi sarei dovuto stancare troppo e, le bon Dieu, devo avere la mente libera e pronta per ogni eventuale segnale d'allarme. Attendez! Sta arrivando!» Una sensazione di freddo intenso mi attraversò il corpo. La stanza era perfettamente chiusa, ma le fiammelle delle cinque candele si agitavano e danzavano come se qualcuno soffiasse su di loro. Vidi muoversi una tenda e ingenuamente pensai che forse del vento passava attraverso le fessure degli stipiti, poi, ad un tratto, si udì un rumore strano e leggero. Sembrava quello che produce un gatto quando lecca il latte dalla sua ciotola. Sulla superficie del liquido luminescente si formarono dei cerchi concentrici: era come se qualcuno agitasse il liquido, come se una lingua invisibile lo stesse bevendo. Il livello si abbassò sempre di più, sempre di più, sino a che il piatto non fu totalmente vuoto. De Grandin si mosse lentamente, senza produrre alcun rumore. Afferrò uno dopo l'altro i piatti d'argento trascinandoli all'interno delle linee del pentacolo.
Di nuovo il monotono ritornello: «Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!», rintronò nelle mie orecchie. Improvvisamente, nell'angolo più lontano della stanza, mi sembrò di vedere una fosforescenza leggera ed eterea. Sempre più luminosa, sempre più luminosa poi, da quella nebbia, prese forma, prese sostanza... un lupo bianco mostruoso e irsuto. Era acquattato lungo il muro nell'angolo della stanza! La bestia era più grande di un mastino, più di un pastore scozzese. Dalle sue enormi fauci spalancate, pendeva una lingua rossa e famelica dalla quale colava un liquido vermiglio. Ma, la cosa più orribile, non era la dimensione del mostro, ma il suo aspetto, con quegli occhi stranissimi. Le orbite erano così incavate che sembrava come se le pupille si trovassero all'interno dei fori di un teschio. Il suo sguardo era crudele, cattivo come quello di un uomo vizioso, astuto e deciso. Sembrava avesse lo sguardo più di un essere umano dedito al male, che di una belva, brutale per feroce istinto. Per un istante il mostro guardò verso l'alto, quindi, con un ululato di collera, si alzò sulle quattro zampe e ci caricò. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscimi quello che ci hai preso!», urlò de Grandin avanzando verso un angolo del pentacolo per incrociare la carica del Lupo Mannaro. Agitò il suo incensiere di fronte a sé, e una nuvola d'incenso si liberò nell'aria, raggiungendo il lupo che latrò inferocito. Quando la bestia toccò il limite della linea di gesso del pentacolo tracciato attraverso la stanza, si fermò di colpo, come se fosse entrata in contatto con un muro solido. Cominciò ad abbaiare selvaggiamente e incessantemente, soffocando e annaspando tra la nuvola d'incenso. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!», ordinò di nuovo de Grandin. La grande bestia bianca lo guardò interrogativamente, si abbassò sino a che il suo ventre non entrò in contatto con il pavimento della stanza, e cominciò lentamente a girare intorno al pentacolo uggiolando tra l'impaurito e l'adirato. «Maledetto rifuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!»: l'inesorabile comando fu profferito un'altra volta. Improvvisamente, la cosa-lupo sembrò cominciare a perdere sostanza. Era come se la forza di coesione delle molecole del suo corpo diminuisse di efficacia. Attraverso il suo corpo, riuscivo a vedere la parete opposta della stanza: ormai era come se la bestia fosse composta di vapore. Perse i suoi colori rossi e bianchi, e divenne luminosa come una figura dipinta con
vernice fosforescente su una parete scura. La testa, il tronco, gli arti, la coda, si allungarono, separandosi l'uno dall'altra. Due piccoli globi di gas luminoso si alzarono da quello che era il corpo del lupo. Raggiunsero il soffitto, fluttuando un istante nell'aria, quindi si diressero verso il monotono brusio che proveniva dalle persone sedute intorno al tavolo. Ogni volta che un globo giungeva a contatto con uno degli ospiti, svaniva, ma non come una bolla di sapone; era come se qualcosa di invisibile lo succhiasse lentamente. Era come vedere il livello del latte che si abbassa in un bicchiere in cui è stato immerso un biscotto. Un solo globo luminoso, piuttosto piccolo e a forma di pera, rimase a sobbalzare contro l'intonaco del soffitto. Tornò di nuovo verso il basso: si muoveva come una mosca che è volata inavvertitamente in una stanza e che percorre un circolo vizioso alla ricerca di un'uscita che la porti all'esterno. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!», ordinò de Grandin fissando la riluttante palla di fuoco. «Ritorna da chi...» «Ehi! Mi sono stufata di aspettare! Cosa state combinando qui?» Mazie Noyer irruppe nella stanza. «Se state facendo qualcosa di occulto voglio...» «Pour l'amour de Dieu, attenzione!», gridò de Grandin alla donna. Lei, senza minimamente ascoltare le parole del francese, attraversò uno degli angoli del pentacolo, rovesciando e spegnendo una candela. «Non sopporterò più a lungo i vostri insulti e le vostre angherie, miserabile pezzente d'un francese!», disse urlando in direzione di de Grandin. «Io...» La sfera luminosa riprese improvvisamente consistenza e ricadde pesantemente sul pavimento producendo un tonfo sordo. Per un attimo rotolò avanti e indietro come impazzita, poi sembrò contrarsi, prendere consistenza e velocemente si condensò nella forma di un piccolo lupo bianco. Non era più grande di un topo, ma era la copia perfetta della enorme bestia che ci aveva minacciato solo qualche istante prima; e, come lei, era implacabilmente selvaggia. Con un ululato molto più forte e violento dello squittio di un topo, si lanciò attraverso la stanza, puntando direttamente verso l'angolo del pentacolo dove si era spenta la candela. «Pardieu, Monsieur le loup-garou, credo che ci rincontreremo solo in una dimensione che non è di questa terra!», gridò de Grandin, e infilzò la lama tagliente nel piccolo corpo del mostro che si stava dirigendo verso di lui.
La piccola cosa selvaggia morì lentamente, in preda a orribili convulsioni. Con denti e artigli, aveva cercato invano di estrarsi lo stiletto dalla carne. Un fiotto di sangue e un ululato di agonia fuoruscirono dalle sue fauci spalancate; infine cessò di lottare continuando comunque a tremare in una pozza di sangue. «Oh! Voi crudele, odioso e spregevole individuo, avete ucciso quel povero animale indifeso come se niente fosse!», urlò Mazie Noyer infuriata. Dopo aver recitato quella brutale tiritera, si avvicinò al povero de Grandin rifilandogli un sonoro ceffone sulle guance. Come il palmo della mano e le dita lo colpirono, si formò, sul volto di de Grandin una chiazza rossa; ma era nulla, rispetto all'espressione livida che assunse al sentire quei rabbiosi insulti. «Strega! Megera! Alleata delle Potenze dell'Inferno!», urlò furioso. «Se potessi, la getterei tra le fiamme e attenderei che il suo corpo divenisse cenere, così che i suoi familiari non possano riavere neanche il suo cadavere! Se ne vada, altrimenti mi dimenticherò del suo sesso e...» Si gettò verso di lei, mentre nei suoi occhi brillava uno sguardo d'odio che ricordava quello dei serpenti. «Lo farebbe», controbatté lei usando ora un tono di voce decisamente timido e impaurito. «Sono sicura che lei avrebbe veramente il coraggio di colpirmi!» «Sicuramente», mi disse de Grandin nel mio studio due ore più tardi, «amico mio, devi ammettere che avevo preso ogni possibile precauzione. Il pentacolo è stato apprezzato in tutti i secoli come una protezione decisamente efficace contro il potere del Male. Gli spiriti malvagi, anche i più potenti, sono ostacolati da questo prezioso strumento. Su ognuno dei cinque angoli, ho messo una candela benedetta presa dalla chiesa, un crocifisso e avevo un pugnale immerso in acqua santa. Gli spiriti malvagi che si sono materializzati nel nostro mondo, ma che non hanno preso possesso di un altro corpo umano, non possono fronteggiare l'acciaio appuntito. Probabilmente, le forze psichiche che si sprigionano dalle menti umane, concentrate nella seduta spiritica, si catalizzano sul pugnale e sono distruttive per lo spirito. Oltre le candele, mi sono fatto dare dal buon Curato tre stecche di incenso concentrato. Mordieu, è stato veramente difficile convincerlo, ma quando si è reso conto che gli oggetti sacri mi servivano per combattere una invasione sacrilega proveniente dall'altro mondo, mi avrebbe voluto dare l'intero maiale, come dite voi americani. L'incenso, come hai
potuto vedere, è decisamente ripugnante per uno spirito malvagio, e in particolare se si tratta di fantasmi di spiriti morti da molto tempo. Eh bien, pensavo che ormai la frittata fosse fatta, quando quella specie di donna abominevole, la Noyer, è entrata all'interno della stanza, rovesciando la candela guardiana. La sua cattiveria e la sua normale angheria hanno formato un'aura di disturbo, e ha così dato alla piccola nuvola di psicoplasma, che ancora non era stata assorbita, il nutrimento necessario per trasformarsi ancora una volta in un Lupo Mannaro, anche se di dimensioni ridotte. Dovevo ucciderlo immediatamente col coltello consacrato, perché ormai era penetrato all'interno del pentacolo protettivo e perché avrebbe riacquistato le sue dimensioni normali. Cordieu, non voglio neanche pensare a cosa sarebbe accaduto di noi! E credo anche che sarebbe meglio per noi dimenticare ciò di cui siamo stati testimoni.» «Che cosa c'era in quei piatti d'argento?», gli chiesi. «Un'esca», rispose con un ghigno. «Si trattava di sangue e vino, amico mio, vino e sangue. Per gli spiriti malvagi questa miscela è particolarmente gustosa. Per esempio, nella celebrazione di una messa noire, che è poi la cerimonia durante la quale gli affiliati pregano Satana, un calice viene riempito di vino e sangue sgorgato dalla gola di un bimbo sacrificato. Mi sono procurato un po' di sangue fresco all'ospedale, ho prelevato dalla tua dispensa del Porto, e così ho fatto la mia esca. Il Lupo Mannaro è venuto, ma io non l'ho lasciato bere a tutte le scodelle. No. Dopo che aveva svuotato la prima, ho rimosso le altre ponendole all'interno del pentacolo, ed esse sono divenute per noi un'arma preziosa. Uno non nutre un nemico prima di incontrarlo. Sarebbe assurdo. Tutto ciò mi ricorda che...» «Che cosa?», chiesi, appena egli si azzittì mostrando uno dei suoi ormai proverbiali ghigni. «Che il vino usato per la miscela è veramente eccellente, e che io ho una sete dannata. Ciò che influenzava la mente di Madame Hildegarde, ormai non è più in questo mondo, e lei non ha più nulla da temere. Privo del suo corpo, Gilles de Garnier non può farle alcun male. Fortunatamente non ci sono casi urgenti che richiedano l'intervento del magistrale Jules de Grandin, perciò...», si alzò e si produsse un profondo inchino, «...se permettete, credo che berrò sino a cadere in uno stato di totale incoscienza e chi mi sveglierà prima di domani a mezzogiorno, può cominciare sin da ora a recitare le sue ultime preghiere!» LA VENDETTA DEL LUPO MANNARO
The Return Of The Master di H. Warner Munn Weird Tales, luglio 1927 Ora io, Adam Grant, il narratore, devo introdurmi personalmente in questi racconti. Tutte le storie precedenti sono state scritte per spiegare che cosa so e che cosa ho vissuto. Non pensate che sia stato facile coprire un periodo di tempo di oltre quattro secoli e mezzo, da quando Wladislaw Brenryk, l'Ungherese, cominciò a vivere il suo tragico destino. Solo con estrema difficoltà e molti viaggi, sono riuscito a ricostruire i fatti nudi e crudi, deducendoli dalle statistiche di molti paesi, con simpatia, affetto e orgoglio. Sì, orgoglio! Perché questi sono i miei antenati, la mia gente, la mia famiglia. Ho tentato di raccontare le storie di pochi di loro. Sono molti altri i racconti che avrei potuto narrare, ma lo spazio e il tempo a mia disposizione sono limitati. Forse, un giorno... ma come Kipling usava dire: «Questa è un'altra storia». Non credo che esista un'altra famiglia tanto duramente provata, o che abbia affrontato un nemico così orribile con tale prolungato coraggio, per un periodo di tempo tanto lungo. Se l'affetto di Ivga Brenryk non si fosse diretto su Hugo Gunnar, se lei non avesse volontariamente barattato la sua vita, tutto questo non sarebbe mai successo. Infatti, dovunque si stabilirono i sette rami della famiglia, lì, prima o poi, è arrivato il Signore. Ah, be'! Tutta la storia non è altro che l'insieme delle vite delle varie persone. Ho cercato di raccontare le storie dei pochi che hanno influito sulla storia: la mia gente, i miei antenati, perché Ishmael, il figlio di quella coppia sfortunata, Ansel Grant e Achsah Young di Windsor, era un mio diretto antenato. Ishmael sembra fosse stato trascurato dal Signore. Almeno si sa che abitò a Salem, nel Massachusetts, durante la caccia alle streghe del 1692, senza essere coinvolto nei suoi orrori. Sebbene sia certamente più di una coincidenza il fatto che vivesse lì proprio in quel momento. Probabilmente fu lui ad attirare l'attenzione del Signore su quella zona. Evidentemente, lui stesso la pensava in quel modo. È documentato che vendette la sua fattoria e si trasferì a Deerfield. Forse provò un certo sol-
lievo nel garantire l'incolumità al proprio giovane figlio, che avrebbe potuto essere scelto dal Signore come vittima della generazione successiva. Se anche fu così, la sua pace terminò durante la terribile notte di mercoledì 29 febbraio 1703 quando, durante una violenta bufera, più di trecento Francesi e Indiani assalirono la città. Questa mi sembra più di una coincidenza. Ma forse fu una fortuna per quel ramo della mia famiglia. Ansel Grant fu ucciso da un tomahawk all'età di 77 anni e fu tumulato insieme a più di cinquanta cadaveri. Suo figlio Ishmael, e la moglie, Purity, furono presi prigionieri, ma furono liberati durante la battaglia di Greenfield Meadow, quando le bande di Hatfield e Hadleu misero in fuga gli Indiani con più di un centinaio dei loro prigionieri. Però, il loro figlio di nove anni, Nehemiah, fu separato dai genitori e fuggì insieme ad altri. Sopravvisse all'arduo viaggio di trecento miglia attraverso montagne e foreste, fino al Quebec. Lì, sebbene molti fossero stati rilasciati dietro riscatto, il bambino fu adottato da una famiglia Mohawk e gli fu dato il nome di Akahenyon, che vuol dire il Diffidente, o l'Astuto. Non ritornò mai più, benché sia documentato che suo padre e sua madre implorarono Joseph Dudlay, Capitano Generale e Governatore Supremo di Sua Maestà della Provincia del Massachusetts, nel New England, con una petizione datata 3 marzo 1706, affinché il Commonwealth pagasse il riscatto per il loro figlio. Il nome di Astuto gli si adattava bene. Egli, sebbene in apparenza diventasse uno dei Soluriquois, non dimenticò mai di essere inglese e virtualmente un prigioniero. Il suo unico figlio, avuto da Pretty Brook, la sua moglie Mohawh, fu chiamato Assan, un nome che le piacque, non sapendo che in inglese Assan significava John. Fu sotto il nome di John Grant, che il giovane taciturno e scuro di pelle si trasferì da Louisburg nel New England, dopo che i coloni inglesi avevano conquistato quella temibile fortezza nel 1744. Di conseguenza sembrerebbe che, in quei vagabondaggi, questo ramo della famiglia si sia smarrito, ignorato o in qualche modo dimenticato dal Signore, finché io, involontariamente, con le mie ricerche, mi sono fatto notare da lui. Avevo un amico che aveva approfondito lo studio dell'Occulto. La sua specialità erano gli incunaboli. La sua attività secondaria era la filosofia, la sua passione le ricerche dell'Occulto, il suo divertimento la collezione di
libri rari. Nella sua biblioteca vidi il Necronomicon (nell'edizione rarissima, in lettere gotiche, stampata in Germania nel 1443). Lui non mi permise né di leggerlo né di sfogliarlo perché, come disse, era probabile che nemmeno lo stesso arabo pazzo Alhazred sapesse quanto fosse pericoloso per chi non era in grado di prendere le giuste precauzioni. Inoltre, dubitava che io avessi la pazienza o la capacità di premunirmi. Ma io lessi, inorridendo a ogni pagina, il Libro di Eibon, i Misteri del Verme di Ludvig Penn e gli Unausprechlichen Culten di Von Junzt. Fu in questo volume che mi imbattei per la prima volta in un riferimento al Signore. Era una breve nota a piè di pagina, un riferimento alquanto sarcastico alla credenza popolare che la Guerra dei Trent'Anni fosse stata in qualche modo fomentata dal Diavolo. Von Junzt osservava: «Satana è stato sopravvalutato per troppo tempo. Ci sono dèmoni peggiori, più antichi di quelli noti alla mitologia cristiana». Brenryk lo sapeva. La sua conoscenza non era forse racchiusa nella sua stessa pelle? E, scarabocchiata al margine, c'era un'annotazione in una grafia minuta: «Vero. L'ho dato a Garnier di Bois Verdes: una famiglia un tempo nota come Gunnar». Seguiva un monogramma scritto a spirale e al contrario, che, visto in uno specchio dopo averlo decifrato, si leggeva: GUNTIUS. Lo feci notare al mio amico. Lui rise. «Non darei molta importanza a quella annotazione. C'era uno stregone scozzese che si chiamava Guntius e che scomparve alquanto misteriosamente, ma questo accadde circa trecento anni fa. Naturalmente gli Scozzesi e i Francesi erano in buoni rapporti a quell'epoca... be', almeno dal periodo di Giovanna d'Arco fino a Culloden. Suppongo che il vecchio stregone avesse affidato un libro rilegato in pelle umana a qualche amico o cugino, perché glielo conservasse. Questo sempreché la frase non abbia racchiuso un significato più semplice, privo di doppi sensi: "Racchiuso nella sua stessa pelle", potrebbe significare che a Garnier fosse stato semplicemente rivelato un segreto che Brenryk - mai sentito prima questo nome - conservava solo nella sua mente.» «Hai mai sentito parlare di Bois Verdes?» «Non esiste su nessuna cartina della Germania né dei Paesi Bassi. I primi due nomi certamente non sono francesi, benché Bois Verdes sembri esserlo. Perché ti interessa tanto?»
«Veramente non lo so. Ho la stranissima sensazione di dover scoprire qualcosa. Non è solo curiosità. Non almeno una curiosità normale. Si sono mai rilegati libri in pelle umana?» «Oh, sì. Molti. Io ne ho tre nella mia collezione.» Mentre ne guardavo uno e ne tastavo la rilegatura, simile a fine camoscio e meravigliosamente bianca, con pori quasi invisibili, egli continuò: «Era un'abitudine macabra abbastanza diffusa nella Francia del Diciassettesimo Secolo. Quello che tu hai in mano, per esempio, fu rilegato da un aristocratico con ampie strisce di pelle ricavata dalla schiena di una sua amante morta. È un libro di poemi d'amore. La leggenda vuole che egli la uccise per avere il materiale con cui rilegare il volume! Comunque, Von Junzt era un cognome austriaco, Brenryk un cognome ungherese. Sospetto che Guntius fosse tedesco, ma che avesse scelto la Scozia, perché era un paese più sicuro dell'Europa. Tutta la gente pratica e dalla testa dura non è adatta agli eccessi di fantasia». Io fui d'accordo, ma con qualche riserva. «Bois Verdes sembra francese. Garnier lo è certamente. Gunnar potrebbe esserlo tramite qualche antenato normanno, forse.» «Sembra alquanto strano che questi cognomi abbiano un suono simile. Può essere che siano i vari rami di una stessa famiglia? Scommetto con te qualche dollaro che, non solo posso trovare Bois Verdes, se tuttora esiste ma, se la famiglia Garnier o Gunnar vi abitano ancora, ti riporterò quel libro che parla di dèmoni, più antichi e potenti di quel diavolo particolare che si chiama Satana! Scopriamo chi è veramente da incolpare per tutto il male che esiste al mondo!» «È andata!», disse il mio amico. «Scommettiamo mille dollari? E, se trovi il libro e me ne porti una copia, te ne darò altri mille. Cinquemila, se mi procuri l'originale.» Ci stringemmo le mani per ratificare l'accordo e le mie lunghe ricerche ebbero inizio. Chiamatemi Adam, chiamatemi Ishmael, chiamatemi pazzo. Diventai un vagabondo, un cacciatore di vecchie biblioteche. Mi accecai gli occhi su schede sbiadite e illeggibili di libri antichi e rari. Qualcuno avrebbe potuto essere distrutto già da tempo o tenuto chiuso in sotterranei. Leggendo volumi maledetti quali i Frammenti di Celaeno, le Rivelazioni di Glaaki e il Cthaat Aquadingen, divenni un credente. Ma fu solo quando scoprii il Cultes des Goules del Conte d'Erlette che appresi dove si trovavano le strade del villaggio Bois Verdes e scovai la
locanda di proprietà di Pierre Garnier. Me lo ingraziai, e ottenni una copia del libro in suo possesso. Offrendogli di dividere gli incassi, ottenni anche il permesso di pubblicarlo. Uscì sotto forma di romanzo, con il titolo: Il Lupo Mannaro di Ponkert. In questo modo, anche se mi servii dello pseudonimo con il quale scrivo, vinsi la mia scommessa pur se ad un costo terribile. Non valeva certo mille dollari sapere che ero diventato la vittima predestinata dello spietato Signore e che avevo causato la morte di Pierre Garnier. Era un uomo amabile, ed eravamo più che amici. Quando scoprimmo di essere lontani cugini e gli ultimi membri di una famiglia perseguitata dall'odio vendicativo del Signore, entrambi ne fummo spaventati. Era possibile che quell'antica maledizione sopravvivesse ancora? Presto l'avrei appreso. Io, che rintracciai le ragioni dell'inizio della maledizione e che scoprii quanti avevano sofferto a causa di essa, ne vidi la fine. Sì, ho l'autorità per parlare. Io so. Ero presente! E ora dedico una parola ai curiosi. Non fu un compito semplice rintracciare i rami intricati che discendevano dalla diaspora dei sette figli di Hugo Gunnar e Ivga Brenryk. Se non fosse stato per l'evidente desiderio di ciascuno di conservare in parte il cognome della famiglia, trasformandolo per adattarlo al paese in cui aveva deciso di vivere, questo progetto sarebbe stato quasi irrealizzabile. Così com'era, divenne estremamente difficile associare determinati individui alle calamità che, senza dubbio, colpirono le loro patrie di elezione. Dovunque saltassero fuori cognomi come Gunnar, Grenier, Gunther, Ganger e Guntius, la connessione era vaga, ma nella mia mente era una certezza. Altri, che non ho rintracciato, possono fornire delle spiegazioni a chi sia interessato. Naturalmente il mio cognome, Grant, comune quanto Smith o Black, entrò nell'intreccio delle discendenze per pura coincidenza. Eppure coincidenze simili sembrano più che casuali. Esiste veramente un Dio che ci indica la strada? Mi chiesi quante altre derivazioni del cognome Gunnar si sarebbero potute scoprire con pazienti ricerche. Ormai è superfluo. La famiglia si è estinta, e la maledizione è morta, spero. Le mie indagini su quei trecento anni non sono state esaurienti. Possono esistere altri racconti, altrettanto orribili, che testimoniano il coraggio dello spirito umano quando si trovi di fronte all'ignoto e alla morte.
Mi viene in mente, per esempio, il caso di Urbain Grandier e delle Suore Orsoline, o quello di Gilles Garnier, bruciato vivo a Dole, il 18 gennaio 1574 per licantropia. Penso all'antenato di Pierre Garnier, Jean Grenier, che subì lo stesso destino per lo stesso motivo a Les Sandes (non lontano da Bois Verdes) nel 1603: il cambiamento del cognome si rivelò inutile. Come pure Else Gwinner, denunciata per stregoneria, e condannata a morte senza pietà, a Offenburg in Germania qualche anno dopo. Se qualcuno è curioso di sapere, lascio al suo giudizio il caso di Isobel Gowdie e Isobel Grierson, scozzesi. Non ho rintracciato alcuna connessione con la famiglia Gunnar, ma forse esiste: circostanze sospette puntano in questa direzione. Vorrei sapere di più del mio parente che andò a vivere nelle Isole delle Spezie. Sfuggì all'opprimente Signore? Da qualche parte ci sono miei cugini dalla pelle scura che suonano strumenti esotici e pregano ancora nel Tempio Batang, ignari che il Signore ci ha lasciati, coscienti solo di quanto i loro padri soffrirono a causa sua! Il mio unico consiglio a coloro che sono sufficientemente curiosi è di indagare a partire da questi suggerimenti, così come ho fatto io, con particolare attenzione ai disastri avvenuti negli ultimi trecento anni. Potrete esserne inorriditi, potrete stupirvene, ma sono sicuro che vi convincerete dell'esistenza del Signore. Ora, leggete e verrete a conoscenza del modo in cui il Signore terminò la sua vita, non interamente per mano mia, sebbene avessi una parte nel suo trapasso. Passarono gli anni, dopo la pubblicazione del libro Il Lupo Mannaro di Ponkert, che uscì in una tiratura limitata ma ottenne un discreto successo. Mi ero ormai appassionato al compito di ricostruire i vagabondaggi dei figli di Gunnar e avevo intenzione di proseguire le ricerche necessarie a completare questa raccolta di racconti, quando fui interrotto da un cablogramma proveniente da Bois Verdes. A questo punto devo dire che all'epoca non avevo scoperto i miei rapporti con quella famiglia. Non sapevo nulla del tragico destino di Achsah (Gunther) Yonge, non avevo mai sentito parlare di Ansel o Ishmael Grant. Tutto questo accadde in seguito. Dopotutto, quanti sanno qualcosa della vita dei loro nonni, per non parlare di quello che accadde ai loro lontani antenati? Il cablogramma diceva:
M. Grant, Non avete bisogno del mio nome per capire da chi vi arriva questo messaggio. Non oso essere più esplicito. Se volete soccorrere un amico che vi ha aiutato quando non avrebbe dovuto, e che necessita disperatamente del vostro aiuto proprio a causa di ciò che ha fatto per voi, venite subito alla locanda in cui siete stato in passato. Nel nome di Dio, venite subito. Una settimana di ritardo potrebbe essere fatale per chi è terrorizzato e versa in un pericolo terribile. P.G. La prima emozione che provai fu la gioia. Pierre Garnier era vivo. Naturalmente, avevo capito da chi proveniva quel messaggio. Ma perché quel mistero? Quella segretezza? Avrei capito, se il cablogramma non fosse stato firmato con le iniziali. Ma quel tono sofferente, così estraneo al placido carattere di Pierre! Rilessi: «Una settimana di ritardo potrebbe essere fatale». Il tragitto fino a Boston in treno e quello fino a Parigi in aereo, mi parvero entrambi lunghissimi, e io mi crucciai per l'indugio. Ma l'ultima tappa, da Parigi a Bois Verdes, fu atrocemente lenta e difficile. Bois Verdes è fuori dalle carte geografiche, come si suol dire, ed è mal servita. Nei pressi non c'è nessuna strada principale e al villaggio arriva solo una stradina di campagna. Forse, se non fosse per un'altra strada proveniente da Nord che l'attraversa, in quel posto non ci sarebbe affatto un villaggio. Certamente non c'erano molte scuse per la locanda, che sorgeva ad una certa distanza dal villaggio. Credo che la cosa fosse intenzionale, visto che in passato si era guadagnata una reputazione «piccante», e i carrettieri e i pastori dei dintorni desideravano che le loro necessità fossero soddisfatte con discrezione. Perciò, a sole dieci miglia da Parigi, fui costretto a cambiare treno e, per fortuna - così pensai - arrivai appena in tempo per prendere la coincidenza. Nel primo treno avevo avuto tutto lo scompartimento per me, ma così non fu nel secondo. Mentre correvo lungo il marciapiede, il treno già si stava muovendo e tutte le porte erano chiuse. Quasi disperato, corsi più avanti. Una mano mi fece cenno, una porta si aprì. Quando la raggiunsi, vi lanciai la mia borsa
da viaggio, balzai sul predellino e, senza fiato, chiusi la porta dietro di me. Le orecchie mi ronzarono, ma sono sicuro che sentii qualcuno dire: «Sì, è sicuramente lui!». Sprofondai nel sedile che era vuoto, e mi guardai intorno con gratitudine. Capii allora che era stata una manina guantata a farmi cenno, ma un uomo a parlare. C'erano due viaggiatori nella carrozza: una donna snella, vestita di nero, con un velo che le celava i tratti, e un ometto agile e svelto che aveva in sé qualcosa di repellente. Avvertii una certa animosità nel momento in cui entrai, e la stranissima sensazione di essere atteso. A mia volta, sentii sorgere in me l'avversione. Se esiste l'amore a prima vista, c'è anche il suo contrario. Provavo un odio che apparentemente era immotivato. Mi vergognai di me stesso, soprattutto quando l'ometto sorrise e fece un gesto gentile, dicendo in un tono calmo e lento, come se scegliesse attentamente le parole: «Voi... siete... agile, Monsieur». Se l'aspetto quell'uomo destava in me ripugnanza, la sua voce la destava ancor di più. Gli diedi una risposta convenzionale, aprii il quotidiano, e finsi di esserne profondamente interessato. Quando capì che non riusciva a trascinarmi in una conversazione, scelse un altro modo per divertirsi. Ora penso che, se avessi capito la vera natura del grido d'aiuto di Pierre e la natura del nemico che avrei dovuto fronteggiare, non avrei mai lasciato gli Stati Uniti. Sono un tipo sedentario, non uso alla violenza, una persona dedita ai libri, ed ero stato felice di vivere quella vita tranquilla. In precedenza, i miei divertimenti erano derivati solo dalle ricerche nelle biblioteche, in modo passivo, ma sufficiente a soddisfarmi. Qualcuno potrebbe considerarmi noioso, ma non possiamo essere tutti sportivi e violenti. In verità, non avevo idea che, nel trovarmi di fronte a quell'ometto sgradevole, stessi non solo mettendo in un grave pericolo il mio corpo, ma soprattutto la mia anima. Continuai a leggere il mio giornale, ma non potei fare a meno di notare che la donna era estremamente irrequieta. Mi lanciava continue occhiate, come potevo capire dai movimenti della sua testa, sebbene il velo pesante le nascondesse il volto. Era ovvio che lei e l'ometto erano compagni di viaggio, ma ebbi l'impressione che non fosse l'amicizia ad unirli. Lui le tenne un rapido monologo nell'orecchio, avvicinandosi mentre la donna si ritraeva, e guardando spesso nella mia direzione. Non riuscii a capire molto di quello che diceva, tranne che sembrava la stesse spingendo a fare qualcosa che lei rifiutava di fare. La donna non rispose e, quando
abbassai il giornale con l'intenzione di esprimere le mie rimostranze, un cenno quasi impercettibile della sua mano mi avvertì che la cosa non mi riguardava. Ripresi la lettura e seguii con attenzione le azioni dell'ometto. Quando vidi che era ormai schiacciata contro la parete dello scomparto, mi parve necessario intervenire. Posai il quotidiano, mi alzai, mi chinai cortesemente, per quanto me lo consentissero le oscillazioni della vettura, e chiesi in tono educato: «Quest'uomo vi sta disturbando, Madame?». «No, Monsieur», disse a bassa voce. «È mio fratello.» Il suo tormentatore saltò su, giallo di rabbia. «Fratello di una femmina? Io? Tu menti, sfacciata, e me la pagherai!» Quindi la colpì sulla bocca con la mano aperta. Poi si rivolse a me e cominciò: «Signore, vi sarei grato se badate ai fatti vostri. Il vostro momento arriverà abbastanza presto...». Con un vigore che mi sorprese, lo colpii nello stesso modo, ma con la mano stretta a pugno. Mi aspettavo che l'ometto cadesse. La donna gridò. Lui rise, ma non barcollò. Con una forza sorprendente per una persona dalla complessione così fragile, mi afferrò la gola. Ricordò che notai con distacco come le sue dita potenti fossero estremamente calde, quasi brucianti. La mia bocca si aprì, ne uscì la lingua. Lampi di luce mi fiammeggiarono davanti agli occhi. Capii di essermi scontrato con una forza maggiore della mia, ma la mente umana è così strana che, in quel momento di estremo pericolo, mi chiesi quale insolito metabolismo avesse quell'uomo. Raccolsi tutte le mie forze e colpii ripetutamente, ma i miei pugni non erano niente contro quell'avversario mortale. Quell'ometto, che avrebbe potuto facilmente stare in piedi al di sotto del mio braccio teso, stava per uccidermi! Barcollai ciecamente attraverso la carrozza e, lottando per respirare, andai a sbattere contro la parete. Dovevo avere il volto nero, e nelle orecchie mi scorrevano cascate d'acqua. Attraverso la nebbia scura vidi i suoi occhi accendersi di bagliori rossastri. Ghignò. Ormai non avevo più forza. Allora, vidi la donna avvicinarsi a noi, sentii dell'aria fredda colpirmi il volto quando la porta si spalancò, mi accorsi che tirava le mani che mi stavano strangolando e, ad un tratto, il mio strano nemico lasciò la presa. Con le ultime forze, mi afferrai a un corrimano, e scagliai tutto il peso delle mie mani sulla sua faccia mentre lui si protendeva verso di me. Sentii i suoi denti affondarmi nel polso. Poi cadde all'indietro attraverso la porta aperta e colpì il terreno, dove rimbalzò una volta e giacque mentre il treno procedeva barcollando.
La donna mi afferrò gli avambracci, singhiozzò, sollevò il velo e, apparentemente con grande sforzo, mi guardò negli occhi. Le labbra le si schiusero. Aveva un'espressione d'attesa, come se pensasse che io la dovessi riconoscere, ma il suo volto, segnato dalle rughe, mi era del tutto sconosciuto. Si abbandonò sul sedile, si coprì il volto con le mani e allora mi accorsi che piangeva. Mi sedetti accanto a lei e le toccai una spalla. «Madame, non piangete, ve ne prego. Volevo solo difendervi. Certamente non avevo intenzione di creare una situazione così incresciosa. Non avrei mai interferito se avessi pensato che questo non era il vostro desiderio. Fermerò il treno, in modo che si possa cercare il vostro compagno di viaggio.» E allungai una mano verso il freno d'emergenza. Con una forza terribile, mi tirò di nuovo a sedere, e mi trattenne. «Fermare il treno? Piuttosto pregate che non si fermi mai, e pregate per tutti gli Dèi che conoscete che lui sia morto o moribondo. Non è per questo che piango. Non mi riconoscete, cher Monsieur? Un tempo non vi ero sconosciuta!» Si tirò la pelle flaccida sulle tempie. Le rughe le si spianarono un poco. Il mio silenzio ebbe il valore di una risposta. Si girò, cominciò a battere sul finestrino con le dita guantate, poi affondò la testa tra le mie braccia e scoppiò in un pianto dirotto. Tra i singhiozzi, si sentivano parole rotte dal pianto. «Vecchia! Vecchia! Ed ero tanto giovane! Quanto sono orribile! Quanto sono cambiata! Ho solo ventisette anni e sembra che ne abbia cento. Un tempo mi conoscevate bene, Monsieur Grant e io... vi adoravo: ero molto giovane e voi eravate gentile con quella ragazzina che vi serviva. Avete dimenticato Regina Noël che serviva ai tavoli al Blue Falcon?» «Regina!», ansimai, scrutando quel volto sciupato. Avevo veramente conosciuto la cameriera graziosa e impertinente, pronta al riso e allegra quanto uno scoiattolino, ma era accaduto dieci anni prima. Una fanciulla dalla fragile bellezza non diventa una vecchia stanca nel giro di un decennio. «Impossibile! Non c'è nessuna somiglianza.» Cadde il silenzio. Il treno continuò a sferragliare, divorando chilometri e chilometri. Lei alzò la testa di scatto, con fare provocatorio, adirata. «Sì, ero Regina! Ora non so chi sono, tranne il fatto che sono schiava di un Demonio.»
«Un Demonio?» Le mie labbra formarono quella parola, ma non ne uscì alcun suono. «Quello che avete visto! Lui... Il Nero! Il Nemico, si definisce lui stesso. Non capite che era un complotto per uccidervi? Speravo che avreste ucciso me. È un miracolo che siate riuscito a sfuggirgli. Aveva programmato quell'incidente per mesi in modo da farvi cadere in suo potere. Voi avete, per caso, distrutto i suoi piani al primo scontro. Ma non durerà a lungo. Lui mi possiede e presto possiederà voi. Sento che ci sta seguendo!» «Calmatevi. Quell'uomo è morto. Non vi darà più fastidio.» Riprese a piangere. «Non capite, vero? È il vostro terribile destino a spaventarmi. Vi ha attirato fin qui per raggiungere i suoi scopi... e voi mi parlate dei miei problemi.» «No», dissi, con un braccio intorno alle sue spalle, «non capisco. Io sono venuto dopo aver ricevuto una lettera dal mio amico Pierre, in cui mi chiedeva aiuto.» Si girò a guardarmi con aria mesta. «Ho scritto io quel messaggio. Riuscite ad immaginare chi mi ha costretto?» Un altro attacco di singhiozzi scosse il suo fragile corpo. La strinsi a me, e lei non oppose resistenza. «Parlatemene, Regina. Vi aiuterò. Come è accaduto tutto questo?» «Solo Dio ci può aiutare, ora.» La sua voce era la desolazione stessa. «Siamo perduti, ma vi racconterò tutto. Cominciò poco dopo la vostra partenza, dieci anni fa. Pierre era così buono con me!» Soffocò un singhiozzo. «Non potevo sopportare di vederlo indebolirsi, e non tolleravo il modo in cui ciò stava accadendo. Oh, Maria, Madre Dolorosa, abbi misericordia e proteggi noi peccatori dai poteri del Cane Nero! Tre anni lo vedemmo lentamente deperire, quell'uomo nobile, coraggioso! Poi, una notte, mi chiamò: mi aveva sempre considerato come una figlia, ricordate?» Io annuii. «Era andato deperendo costantemente. Per un certo periodo rifiutò di dormire nel suo letto: dormiva nella sua vecchia poltrona accanto al camino. Sentiva sempre freddo, e negli ultimi tempi era molto pallido. Il cuore mi sanguinava a vederlo! Quella notte mi chiamò e io andai.
"Regina, questa notte morirò. Lo sento. Ma, prima di lasciarti, ho da dirti qualcosa. C'è un libro in uno dei cassetti del cassettone. Portamelo." Feci quanto mi aveva detto. Lo ricordate? Quel libro rilegato in pelle, con quattro pagine di legno? Quello che aveva appeso un frammento di catena?» «Certamente, che me lo ricordo. È il libro da cui ho copiato la storia che in seguito ho pubblicato per una rivista.» Si liberò dalla mia stretta, aveva gli occhi spalancati per la paura e l'orrore. «Voi avete pubblicato... quella storia? Monsieur Grant, non c'è da stupirsi che Lui vi voglia catturare!» «Ditemi di Pierre.» Con grande sforzo si controllò e continuò. «"Regina", disse, "non devi leggerlo. Potrebbe arrecarti dolore. Guarda attentamente e capirai il perché." Sollevò la debole mano alla gota e ne tolse una benda. "Guarda da vicino, ragazza mia", ripeté con un bisbiglio, come se temesse di essere udito da qualcuno. "Che cosa vedi?" "Due piccole ferite", risposi. "Vi siete tagliato mentre vi radevate?" "No, cara", replicò, sorridendo come se gli costasse fatica, "sii coraggiosa e non temere per me. Tu mi sei cara e io non posso fidarmi di nessun altro, nemmeno di un sacerdote. Chi mi può credere, se non tu che ti sei presa cura di me con tanta dedizione e affetto? Sono perseguitato da un Dèmone. Questo è il segno di un Vampiro." In qualche modo, non ero veramente spaventata. Non penso che il significato delle sue parole mi fosse chiaro. Ma lui continuò: "Stanotte morirò. Lo sento con chiarezza. Non piangere per me, cara: sono vecchio, e ho vissuto abbastanza. Morirò ma, dopo che sarò morto", la sua voce severa mi fece rabbrividire, "ti imploro: segui le mie istruzioni alla lettera! Io sono il discendente di un uomo sfortunato che, quattrocento anni fa, divenne un Lupo Mannaro. Mentre progettava di ribellarsi al suo crudele Signore, fu tradito, e la sua mente venne imprigionata. Mentre era stregato da quell'incantesimo, in lui avvenne una trasformazione. Come avvertimento agli altri membri del branco, fu costretto ad uccidere la moglie. Fortunatamente - o sfortunatamente per me - la sua figlioletta fu salvata, e in seguito tutti i Lupi Mannari vennero catturati e uccisi: tutti tranne il capo. La ragazzina crebbe, si sposò ed ebbe dei figli: tutti maschi. Questi, quando appresero la loro temibile eredità, si sparsero in tutto il mondo,
perché su tutti loro gravava una maledizione. Fino ai nostri giorni, viene scelto un membro di ogni generazione e viene preso dal Signore come pagamento per il tradimento del mio antenato. Così, di quella famiglia, gli unici discendenti siamo io e un altro uomo, il mio buon amico, Monsieur Grant, che vive nel New England, in America. Te lo ricordi?" Io annuii, ma non parlai», mormorò Regina. «Amavo il vecchio Pierre. Era come un padre per me. Non potevo credere a quello che stava dicendo, eppure non riuscivo a parlare. Che cosa avrei potuto fare per confortarlo? "Di' al mio amico che sono morto, ma non dirgli nient'altro, altrimenti cadrebbe in potere del mostro, venendo qui. Non potrebbe aiutarmi. Né potrebbe vendicarmi. Parlo, per così dire, già dalla tomba. Ora sto per chiederti di fare una cosa spaventosa per una ragazzina. Eppure sono certo che tu sarai coraggiosa." "Cercherò di fare qualsiasi cosa sia necessaria", dissi. Lo vedevo appena, e i miei occhi erano pieni di lacrime. "Lo so. So che lo farai. Monsieur Grant sa qualcosa di questa storia, ma ancora non sa di essere colpito dalla Maledizione. Non sa di essere mio parente. Ho dei documenti da mandargli, con nomi, statistiche importanti, che lo stupiranno. Forse ne rimarrà terrorizzato, ma almeno starà in guardia. È uno scrittore, cosa che io non sono. Può ricostruire la vita di coloro che hanno vissuto prima di noi. Può raccontare le loro storie meglio di me. È suo dovere farlo! Chi altri può mettere il mondo in guardia? L'umanità è indifesa davanti a quel Dèmone." Pierre andò a uno scrittoio e ne trasse una pesante busta sigillata, che portava già l'indirizzo e i francobolli. "Va' subito", disse. "Per prima cosa, spedisci questa lettera, poi va' dal sacerdote e portalo qui. Quando tornerai, sarò morto. Devi dire al sacerdote tutto quello che ti ho detto, sotto il vincolo della segretezza. A meno che egli non esegua determinati atti, io diventerò un Vampiro dopo la morte, e vivrò di nuovo. Sarò un mostro. Tu e il sacerdote dovete aprire la tomba prima della mezzanotte dello stesso giorno in cui sarò stato sepolto. Voi due soli dovete segarmi la testa dal corpo e riempirmi la bocca, le narici e le orecchie di aglio. Su ogni occhio mettete una croce d'argento e trapassatemi il cuore con uno spillone d'argento.
Poi rimettete tutto nella tomba, riempitela di terra, e su di essa versate acqua e aceto bollenti. Se lo farete, il buon Dio vi benedirà come vi benedirò io, ma se mancherete di farlo... ah, piccola mia, io ti perdonerò, ma temo che anche tu sarai in pericolo mortale!" Presi la lettera, ma - Dio e il vecchio Pierre forse mi perdoneranno - io non sarò mai capace di perdonarmi! Invece di spedire subito la lettera, andai prima dal sacerdote. Non era in casa. Avevo il terribile presentimento che fosse accaduto qualcosa di brutto. Ritornai alla locanda, invece di andare al villaggio. Quando entrai nella stanza, scoprii che Pierre aveva capito tutto meglio di me. Era veramente morto, come aveva predetto. C'era un'altra persona nella stanza seduta sul bordo del letto. Non spedii mai la lettera. È ancora nella locanda, di nuovo nello scrittoio. Se sopravviveremo a tutto questo, forse non sarà troppo tardi perché voi facciate quello che Pierre voleva. Ma credo che nessuno di noi due sopravviverà. So che per me è troppo tardi. Io sono perduta! Ho sbagliato e sono una schiava. Oh, il mostro mi promise grandi cose; "Regina! Regina di nome, e Regina sarai di fatto su molti sudditi fedeli che io ti procurerò." Dio misericordioso», gridò la donna, balzando in piedi. «Guardatemi: questa è la faccia di una Regina?» La feci risedere accanto a me. «Andate avanti», dissi con voce rauca. «La locanda venne chiusa dopo il funerale e non è stata mai più riaperta. Il Signore vi abita insieme a un'altra persona, e la gente considera quel posto stregato. Monsieur Grant, lui è alle nostre spalle. Sono sicura che non è morto. Forse è ferito, ma ha delle risorse a cui non credereste. Oggi l'Inferno è libero e ci sono poche speranze. Forse, se riusciste a prendere quella lettera, a ritornare in qualche modo in America, e riusciste a pubblicare quello che scoprirete, potreste avvertire l'umanità del pericolo mortale in cui versa. Avete già provato una volta, e il vostro scritto è stato preso per un'opera di fantasia. Questa volta, dovete convincere la gente che è la verità. So che lui vuole la vostra morte, ma sarà una morte vivente! Ha giurato di dare inizio con voi a un branco di Dèmoni, e di aggiungervi continuamente altre persone, finché tutta la Francia non sarà in suo potere.
Quel cablogramma l'ha dettato lui. L'ho spedito dietro suo ordine. Ora sapete tutto. Se potete scappare, fatelo, e non pensate più alla povera Regina!» Era pallida ed esangue. Stavo per parlare, quando a un tratto lei sussurrò: «Ssstt! Avete sentito?». Non avevo sentito niente, tranne i rumori del treno, e stavo per dirlo, quando lei fece un gesto impaziente per zittirmi. Aprì la porta e insieme guardammo indietro. Non vidi niente d'insolito. Regina disse: «Sento che sta arrivando. Siete armato?». E poi: «Troppo tardi, troppo tardi!», aggiunse, indicando un punto. Lungo i binari, dietro di noi, qualcosa svolazzava intorno al treno. Aveva la forma di un pipistrello, ma un pipistrello di quelle dimensioni spaventose non si era mai visto da quando l'uomo si è tirato fuori dal fango e ha cominciato a respirare l'aria con i polmoni. Arrivò rapidamente su di noi, superò il treno in corsa, poi si librò in volo al di sopra degli alberi, delle case e dei fili. Discese di nuovo in una scivolata, quindi si tuffò velocemente verso la pianura. Continuava a crescere, mentre volava lungo i campi già superati. Ben presto volò parallelo al treno, oltrepassò la nostra carrozza e svolazzò verso la testa del convoglio. «Che i santi proteggano il macchinista!», sussurrò la giovane donna, la bocca spalancata per l'orrore. Il treno, nel percorrere una curva, si piegò a semicerchio, e dal punto in cui eravamo vedemmo la creatura tuffarsi verso i finestrini di ogni vagone, restare immobile per un attimo, poi volare verso la carrozza successiva. Sapevamo che cosa cercava. Non ebbi bisogno di sentire la voce tremante di Regina dire: «E lui!» per sapere chi cercava il mostro. Il treno si raddrizzò. Non potevamo più vedere avanti, ma nel vento ci arrivavano trilli acuti, quasi troppo alti per essere uditi. Le strida, dolci, acute e penetranti, arrivavano sempre più forti e più vicine. Alla fine fummo scorti. Sentii il calore del corpo della donna tremare contro di me. Nella mia stretta protettiva, il suo corpo si irrigidì. La carrozza oscillò e allora pensai che fosse a causa del potente battito delle ali, che erano ormai parallele alla nostra vettura. Avevo visto il pipistrello di Giava, l'esemplare più grosso di tutte le specie note. In qualche modo, il nostro inseguitore gli somigliava. Aveva il
muso appuntito, e non aveva quel naso allungato e schiacciato, tipico dei pipistrelli comuni, perciò, da questo punto di vista, non sembrava tanto alieno. Ma le sue dimensioni! E il rosso fiammeggiante delle narici raggrinzite, mentre fischiava e sibilava per la rabbia! La velocità del suo passaggio mi fece comprendere che eravamo alla sua mercé, protetti per il momento solo dalle pareti della vettura. Immaginate il vostro incubo più spaventoso. Chiudete gli occhi! Siete inseguiti da una creatura volante con un corpo di circa due metri, priva di pelo in alcuni punti, ferita e selvaggia, considerate le contusioni e un lungo squarcio sanguinante. La gran parte del suo corpo è coperta di un pelo marrone, rognoso e sporco, che sfuma in un grigio cenere sul ventre. Il fango incrostato sul pelo opaco non ancora secco, la fa sembrare più spaventosa. Non vi potete muovere. Siete raggelati, guardate, aspettate il balzo! Osservate quelle ali lunghe tre metri colpire l'aria mentre il treno e il terrore corrono fianco a fianco. Ma per noi non era un sogno. Noi non potevamo risvegliarci. Eravamo inermi e terrorizzati. Il treno lanciò un fischio perché ci approssimavamo a un passaggio a livello. Come se si fosse spaventata per quel rumore, la creatura voltò la testa verso di noi, continuando a volare. Immaginate la testa di un pipistrello della misura di una piccola tinozza. Quelle erano le dimensioni della sua testa. Immaginate, se ci riuscite, una bocca, ornata di lunghe setole nere, che faceva smorfie e mormorava parole incomprensibili contro di noi, scoprendo zanne curve e bianche. E, orribili sopra ogni altra cosa, costituiti solo dalle pupille, nelle quali ci riflettevamo come in specchi di ambra nera e lucida. Quegli occhi erano completamente malvagi. Vi si celava una promessa inesprimibile a cui non osavo nemmeno pensare. Ebbi una strana idea. Quel pipistrello era finito all'Inferno contro la propria volontà. Torturato, perduto, folle - un orrore soprannaturale velava i suoi occhi - immagino le cose che doveva avere visto, volando in quegli Inferi cupi, preso tra fumi soffocanti, ustionato e bruciato da fiamme livide. Ma un giorno era riuscito a volare verso l'aria aperta e pura, di nuovo libero, ma con dei ricordi che niente poteva cancellare! Fu un attimo di lucidità e di intuizione. Solo molto più tardi capii quanto fossi arrivato vicino alla verità. Il fischio stridette di nuovo. Ruppe l'incantesimo che ci aveva irrigiditi.
In risposta, arrivò dall'esterno un lamento aspro. A un tratto la bestia alata si alzò a candela, facendoci ombra con le sue ali nervate e senza piume. L'oscurità piombò verso di noi. Quando entrammo nel tunnel, vidi la creatura alzarsi quasi perpendicolarmente per superare la collina che stavamo attraversando. Scoprimmo che potevamo muoverci. Tirai un lungo sospiro di sollievo. Regina si lasciò cadere, semisvenuta, sul sedile. Io mi sporsi su di lei per tenerla ferma e aprii la mia borsa da viaggio. Indumenti volarono per tutto lo scompartimento, mentre cercavo l'automatica che di solito portavo con me quando viaggiavo. Quando finalmente sentii il freddo metallo della canna, uscimmo alla luce. Era il tramonto. Il sole, rosso cupo, era tagliato a metà dalla cima della collina che avevamo attraversato. Contro la sua luce abbagliante si stagliava una macchia nera che volava, simile a una falena carbonizzata. Aspettammo. Ben presto vedemmo il nostro inseguitore vicino alla carrozza. Un'ala gigantesca grattò contro il vetro del finestrino. Mentre le sue ali si aprivano di nuovo in tutta la loro estensione per un altro colpo e il corpo repellente era tutto scoperto, scaricai sei pallottole nel punto dove l'ala e il tronco si congiungevano. Alla musica del tintinnio dei vetri e delle strida di dolore, il pipistrello danzò, si alzò, cadde, fece qualche capriola, poi finì a terra in un ammasso confuso di membrane coriacee. Il treno continuò a correre. La strinsi in un abbraccio di gioia. «Se n'è andato! Il Signore è morto!», gridai. «Nessuno potrà mai dirlo. Non lo si può uccidere. Eccolo!» Ritrasse il capo dal vetro rotto. Ora il suo viso aveva perso completamente il colore ed era grigio e stanco. Guardai indietro e sentii il sangue ritrarmisi dalle guance. Un orrore gelido mi pervase e la pelle d'oca mi fece formicolare collo e braccia. In lontananza, dietro di noi, sobbalzava una figura nera, simile a un grande cane sgraziato. Correva zoppicando, ma ci inseguiva a una velocità spaventosa. Correva sui campi arati, scompariva alla nostra vista e poi riappariva ogniqualvolta lo distanziavamo. Si avvicinava alla velocità di una rondine. Poi il sole tramontò. La notte si addensava su di noi quando scendemmo dal treno. Avevo pensato di proseguire il viaggio, visto che Pierre era ormai morto, ma que-
gli avvenimenti avevano destato in me una rabbia tale che sognavo di vendicarlo in qualche modo. Come mi aspettassi di farlo, non ne avevo la minima idea. Mi ero scontrato con il Signore una volta e avevo avuto la meglio. Ma ero sicuro che, se aveva fatto tanto per farmi arrivare fino in Francia, ci saremmo sicuramente incontrati di nuovo, non importava cosa facessi per sfuggirgli. Meno ancora riuscivo a immaginare da che cosa ci saremmo dovuti guardare. Quel poco che avevo letto nei libri antichi, e che avevo visto, mi diceva che il pericolo poteva apparire sotto qualsiasi forma. Ci affrettammo in direzione della locanda. Se dovevo lottare con le Forze del Male quella notte, era meglio su un terreno familiare che altrove. Il cammino fino al villaggio era lungo e, come ho già detto, la locanda si trovava a metà strada. Ad un tratto Regina si fermò. Le sue dita affondarono nel mio braccio. «Ascoltate», sussurrò. «Sentite? Sta arrivando, ed è vicino!» Sulle prime non udii nulla, poi mi arrivò un lieve scalpiccio di piedi proveniente dall'altra parte della siepe, che fiancheggiava il lato sinistro della strada. Non vedevo con chiarezza in quella penombra. Qualcosa ci guardava attraverso la siepe: una forma grande e rigonfia era al di là dei cespugli. Le mie letture mi avevano fornito qualche nozione. Non sono particolarmente coraggioso, ma mi sentivo armato delle mie conoscenze. Raccolsi due bastoncini di legno e, mentre Regina si accucciava dietro di me, li incrociai e avanzai con decisione verso il nostro indistinto inseguitore. «Oh, Vampiro! Lupo Mannaro! Cane dell'Inferno!», gridai. «Guarda questo Simbolo di Santità e trema! Guarda questa croce! Ecco il Signore, il nostro Dio, che soffrì per noi sulla Croce! Ti scongiuro in nome del Cristo Bianco di svanire e non turbare più questo paese.» Confesso di non capire che cosa accadde poi. L'incantesimo, così affermano i testi arcani, è una formula sicura e non ha mai mancato di funzionare in tutti i casi in cui è stato usato. Ma in quel caso, non funzionò. La bestia si lanciò contro di me. Ma di che cosa era fatta quella siepe? Non lo seppi mai, però era d'ostacolo alla creatura, che rimbalzò con un ululato di rabbia e di frustrazione. In quel momento ebbi paura. Eppure ero grato ai miei libri, perché ora sapevo che non poteva oltrepassare la siepe. Ricordai che questa continuava per tutta la strada, quasi fino al villaggio. Il nostro persecutore era dal lato sbagliato, ma potevano esserci delle aperture. Ce n'era qualcuna prima che potessimo raggiungere un qualche rifugio sicuro? Durante la mia ulti-
ma visita, non c'erano case prima della locanda. Ora ce n'erano? Qualcuno ci avrebbe fatto entrare, sempre che ce ne fosse stato il tempo? Ci affrettammo a proseguire. Forse avevo fatto qualche errore nel pronunciare l'esorcismo. Forse il Signore, perché non poteva essere altri che lui, era protetto contro gli Incantesimi Minori. In questo caso, eravamo privi di difesa. La mia speranza era di tentare di arrivare oltre la locanda, di raggiungere il villaggio, e trovare il sacerdote locale. Nella sua casa saremmo stati sicuri per la notte. Poi, l'indomani, alla luce del giorno, mi sarei procurato i poteri degli uomini santi contro quel figlio dell'Inferno e lo avrei rispedito da dov'era venuto. Quando cominciammo a vedere le luci davanti a noi, frugai freneticamente la mia memoria alla ricerca di altri esorcismi. Decisi di provarne uno che i libri ritenevano fosse molto efficace. Mi fermai ancora una volta. Regina mi tirò per un braccio. La allontanai, mi girai verso la siepe dietro la quale si scorgeva la forma scura e tracciai in aria il Segno della Croce. Poi dissi a voce alta: «Ti esorcizzo, spirito impuro, nel nome di Gesù Cristo. Trema, o Satana, nemico della fede, nemico del genere umano, tu che hai portato la morte del mondo, che hai privato gli uomini della vita, e ti sei ribellato contro la giustizia! Corruttore del genere umano, fonte del male, origine dell'avarizia, della discordia e dell'invidia, scompari per sempre!». Un grido di Regina e il fragore della creatura che si lanciava contro la siepe, furono i soli risultati. Ma non riuscì a penetrare la nostra unica protezione. Allora compresi che il potere che lottava contro di noi era così antico e malvagio, così innaturale e alieno, che solo una magia antica come lui poteva vincerlo. Naturalmente allora non avevo alcun sospetto dell'identità del Signore, e non lo ebbi per molto tempo. Solo quando le mie ricerche mi portarono alla scoperta dei manoscritti, da cui sono state tratte le due storie del Mago Guntius e del suo sfortunato cugino, capii veramente che cosa avevo incontrato quella notte e che cos'altro avevo visto in quel luogo. In un certo qual modo, è un caso fortuito che Guntius avesse seppellito quei manoscritti nel suo laboratorio segreto del Castello dello Stregone. Se il castello non fosse stato abbattuto, e ogni pietra non fosse stata segnata, numerata e spedita nel Texas occidentale perché il Castello fosse ricostrui-
to, non si sarebbe mai saputo che il Signore non era né un abitante di questo mondo né dei reami dell'Occulto. Ma era reale, i suoi poteri erano letali! Le sue trasformazioni erano temibili quanto quelle di qualsiasi Dèmone della mitologia, sia che derivassero dalla magia, sia che fossero originate da una scienza a noi incomprensibile. Il pericolo era grave, e noi ci affrettavamo avanti. Camminavamo lungo una strada fangosa, scivolando nel letame di quel viottolo non asfaltato e molto battuto. Sentivo come sottofondo ai nostri rumorosi tonfi, tre passi e una pausa. Era uno zoppichio dal ritmo costante che manteneva il nostro passo dall'altra parte della siepe. Un uggiolio soffocato che aveva un tono di desiderio frustrato, fece quasi svenire la mia compagna, che divenne un peso morto su di me. Sorreggendola, la spinsi ad andare avanti perché ci trovavamo in una situazione pericolosa. Lei non poteva o non voleva muoversi. Infine, quando mi parve caduta in uno stato d'incoscienza, l'afferrai per le spalle. La scossi con violenza, e allora lei parlò. Rispose debolmente, piano, alle mie implorazioni. Diceva una parola alla volta: «Non restate! Allontanatevi da me! Qualcosa... non so che cosa... sta succedendo...». Poi, mentre era appoggiata a me, sentii il suo corpo tendersi in ogni muscolo. Lei balzò lontana, e le sue dita si allargarono come se cercasse di allontanare qualcosa dalla testa e dal cuore. «No! No! Ah-h, Signore... questo no!» E a me gridò: «Correte!». Poi cominciò a strapparsi di dosso la giacca e gli indumenti. Scorsi le sue spalle nivee e i seni sodi, che contraddicevano il volto rugoso, e allora capii! Corsi a tentoni nell'oscurità, pregando che più avanti ci fosse qualche luce. Mi ritornava ossessionante alla mente una frase folle, tremenda, della storia di Wladislaw Brenryk: «Quando il mio corpo si trasformava in quello del lupo, provavo tutto il terrore di una bestia selvaggia costretta nei vestiti di un uomo!». Dietro di me - grazie a Dio molto lontano - si alzò un gemito, un urlo lamentoso che aveva in sé trionfo e disperazione! Accanto a me non sentivo più nessun rumore proveniente dalla siepe, ma il silenzio era più spaventoso di quanto lo sarebbe stato un ringhio. Cominciai a correre, caddi, corsi di nuovo. Dov'era il Signore? Che cosa stava progettando? Quanto mi era vicino?
Quando le luci del villaggio divennero più visibili, capii che non le avrei mai raggiunte, perché, a grandi balzi, alle mie spalle stava arrivando qualcosa di bianco, delle dimensioni di un collie. Presi la pistola. Pur sapendo che cosa dovevo fare, non potei sopportare l'idea di fare fuoco direttamente su quella creatura. Uno sparo al di sopra della testa la fermò. Corsi, ma quella mi seguì. Mi girai di nuovo, ma la pistola era scarica e sparai a vuoto, solo per chiedere aiuto e per minacciare, mentre mi giravo e riprendevo a correre. Si muoveva con lentezza, mantenendo le distanze, poi, preso coraggio, cominciò ad accorciare la distanza tra noi. A un tratto riconobbi l'ambiente circostante. La locanda abbandonata era chiusa. Lanciai la mia automatica e la sentii cadere con un tonfo sulla creatura. Poi udii un guaito, un uggiolio e, mentre correvo verso l'edificio che si trovava ai bordi della strada, dei passi che correvano molto vicino a me. Pregai che la porta non fosse chiusa a chiave. Arrivai al gradino - la creatura ansimava alle mie calcagna - e, quando mi lanciai contro la porta, una seconda creatura caricò dall'altra direzione. Il Signore era corso avanti, aveva trovato un'apertura nella siepe e tutti e tre ci eravamo trovati contemporaneamente davanti alla porta! La porta si sfondò. Io venni gettato sul pavimento e le due bestie, poiché avevano urtato una contro l'altra, si bloccarono sulla soglia per un secondo. Dalla posizione supina in cui mi trovavo, spinsi entrambi i piedi contro la porta che oscillava, e quella si chiuse violentemente tra me e quelle mascelle bavose. Penso che mai, in tutta la mia vita, abbia udito un suono più gradito di quel benedetto scatto della serratura. Silenzio all'interno della locanda, silenzio e terrore! All'esterno c'erano le due belve a caccia di preda. Trattenni il respiro, ascoltai. Si sentiva lo strano ritmo della creatura ferita, tre passi raggruppati quindi una pausa, avvertita più che udita, e di nuovo tre passi. Una serie di scalpiccii delicati passarono come un vento avido e ansioso intorno all'edificio. Un guaito affamato che mi fermò il cuore, e poi fece tremare il mio corpo, quando divenne un ululato selvaggio. Intrecciati in quella trama di terrore, quei due stavano intessendo un altro filo. Vi fu quindi un tonfo pesante di piedi nudi che battevano, sordi e inanimati, sulla terra. Il respiro mi sibilò tra i denti. Lo trattenni finché delle onde rosse non mi annebbiarono gli occhi. Per qualche secondo non udii più quel nuovo rumore. Ma avvertivo, sebbene non sapessi spiegare il perché, che quell'essere era al di là delle passioni umane, che le armi che gli
uomini usano l'uno contro l'altro, non avrebbero sconfitto quel nemico. Perché un nemico lo era di certo. Sospettavo, anzi ero quasi sicuro, di sapere che cosa fosse a camminare come un automa intorno alla locanda in una sarabanda mortale. Non c'era elettricità nella locanda, come non ce n'era nel piccolo villaggio. Pierre si era sempre affidato alle lampade a petrolio e alle candele. Alla luce di un fiammifero, frugai nelle stanze sventrate, da cui era stata rubata ogni cosa di valore. Puzzavano, perché vi si erano rifugiati degli animali. Cercai di respingere quell'idea in un angolo della mente. Sapevo bene che cosa vi aveva trovato riparo dalla luce del sole. Quanto desiderai che un miracolo spazzasse via la notte e così potessi vedere sorgere il sole che apportava salvezza. Ma la notte era appena cominciata. Per proteggermi con la luce, come un ponte che arrivasse fino al mattino, trovai quattro mozziconi di candele, il più lungo dei quali non superava i cinque centimetri, e una piccola lampada piena a metà di petrolio. Eppure mi sentii più a mio agio una volta che un paio di candele furono accese. Sapevo di non essere in condizioni normali. Ero solo una massa tremante di nervi, che fremeva e sussultava al suono dei passi che camminavano all'esterno. Esaminai i chiavistelli delle porte e delle finestre. I vetri non c'erano più, ma i pesanti scuri di legno erano al loro posto ed erano sbarrati. Nauseato dal pesante lezzo, mentre i miei piedi calpestavano le foglie secche sparse sul pavimento, continuai le mie ricerche. La porta sul retro era marcia, e la serratura arrugginita. Ovviamente, le creature erano sempre entrate dalla porta principale. Visto che non poteva essere aperta dalle zampe di animali, quali essi erano ora, presto ci avrebbe provato qualcuno con sembianze umane? O forse l'altra cosa che camminava su due gambe, in loro compagnia? Con una forza che in seguito mi sorprese, strappai una breve sezione del pavimento d'assi, l'assicurai bene contro quella porta, e mi sentii sollevato. Un altro pezzo del pavimento mi fornì un randello. Non avevo armi in quella situazione disperata, e non mi illudevo che quella sarebbe servita a qualcosa. Mi consolavo con il pensiero che ero meglio preparato ad affrontare i miei nemici di quanto lo fosse stato l'ungherese Brenryk. Non ero forse armato della conoscenza di secoli? Ma i miei esorcismi avevano fallito nel momento del bisogno. Un sapere più antico e più potente poteva ancora prevalere. Ero certo di essere al sicuro finché durava la luce, anche se fio-
ca. È scritto nell'antico inno persiano a Ormuzd (Spirito Puro di Luce) che dice: Coloro che seguono Ahriman Lo temeranno! Coloro che camminano con me Con il mio potere lo conquisteranno! Anche i ghoul e i rakshasa hanno paura della luce! Non pensavo che quelle creature fossero da meno. Aspettavo l'alba mentre le candele ondeggiavano, sebbene l'aria fosse immobile. C'erano rumori continui. Alcuni sembravano di origine malvagia, altri sembravano innocenti. L'edificio era pieno di scricchiolii e piccoli rumori, che un orecchio ansioso poteva interpretare come suoni provenienti da creature pronte a balzare, ma che poi si rivelavano del tutto naturali. Il mio cuore si fermò. Cadde polvere dall'intonaco scrostato del soffitto! Contemporaneamente al rumore di qualcuno che camminava al piano superiore, si sentì uno schianto potente quando la porta fradicia, divelta dai cardini, si abbatté rumorosamente sul pavimento della locanda. Sulle assi frantumate, avanzò zoppicando una bestia nera. E, dietro di essa, un bruto grosso e goffo, dalle sembianze umane ma privo di espressione e sgraziato, attraversò con movimenti legnosi la soglia. La creatura scura e pelosa si avvicinò con un balzo incerto ma, quando entrò nel cerchio della luce, arretrò e lanciò un grido gutturale. Tentò ancora di avanzare, ma mi accorsi che ogni movimento le procurava dolore. Mentre la bestia si avvicinava, si mosse anche l'uomo che le era alle spalle, con gli occhi fissi in una sorta di ottusa adorazione del Signore. Accesi frettolosamente le altre due candele e avvicinai una delle fiamme al lucignolo della lampada. Il Signore rallentò e si fermò man mano che la luce aumentava e diventava ferma. Sembrava che nessuno dei due osasse avanzare, perché anche il nuovo venuto si bloccò. Insieme, indietreggiarono verso il riparo della notte. Ero stanco mentalmente e fisicamente. In quella faccia gonfia, maligna, brutalizzata dai vizi peggiori e segnata dal marchio di una corruzione a malapena tenuta a bada da una forza empia che non riuscivo nemmeno ad immaginare, riconobbi l'uomo che era stato uno dei miei migliori amici: Pierre Garnier, un morto vivente! Arretrai, quindi mi avvicinai alle luci, attento a non gettare ombra sui
miei nemici. Indietreggiai ancora... e urtai contro un corpo caldo e soffice che stava dietro di me. Si mosse, e il cuore mi si fermò. Mi girai di scatto, pronto a lottare per la mia vita. Regina mi guardò coraggiosamente. Era avvolta in una delle pesanti tende delle stanze del piano superiore. I suoi occhi imploravano protezione, ma erano limpidi e umani nella loro espressione supplichevole. Le presi una mano e insieme affrontammo il nostro comune nemico. Il vento che entrava dalla porta aperta fece oscillare la fiamma delle candele. Non osammo tentare di respingere le creature. Potevo solo pregare che le luci non venissero a mancare, mentre la Vita e la Morte giocavano una partita sulle pareti, con le ombre come pedine e due anime umane come posta! Era una scena che il pennello potrebbe descrivere meglio della penna. Un pennello tenuto da Brueghel o Kley; forse un Angarola o un Sime con una punta d'acciaio e acido, o Willy Pogany, usando entrambe le tecniche, avrebbero potuto catturare quel momento orrido, soprannaturale. Ma le parole non sono malleabili. La Magia Nera e quella Bianca erano venute alle prese in quella locanda abbandonata, quella notte. Luce e Ombra erano in guerra, e il prezzo per cui lottavano aspettava la fine della battaglia, senza avere il potere né di lottare né di scappare! Figure informi strisciavano sulle pareti, balzavano su di noi! Si ritiravano negli angoli con contorcimenti riluttanti. La notte sgorgava attraverso la porta aperta. Il buio e tutto il male antico, che gli uomini sanno si cela in esso, era acquattato appena oltre la soglia. Il Signore riprese le sue sembianze umane. Si contorse e rimodellò la sua figura. Il braccio sinistro gli pendeva flaccido al fianco. La spalla era un ammasso sanguinolento che si irrigidiva al vento freddo. Era nudo e nero, il suo corpo era nodoso e gonfio, il colorito non era naturale ma sembrava il risultato di una malattia o di una forza maligna che avesse torturato tutto il suo corpo e l'avesse sformato. Quando le candele oscillavano, orridi fantasmi si scontravano sul soffitto, e al loro inseguimento si lanciavano bandiere ondeggianti. Bandiere di Luce, intolleranti del Male, scacciavano quei laceri ospiti della Notte. Le piccole fiamme vacillavano violentemente, ma la lampada, protetta da un tubo di vetro, bruciava ferma e salda. Quando le ombre correvano sulle pareti, talvolta mi sembrava assumes-
sero forma umana: lottavano come se tentassero di rompere e spaccare la superficie piatta. Mi sembrava che da certe angolazioni quelle ombre fossero uomini e donne che ondeggiavano, si avvicinavano alla porta e la minacciavano con le braccia tese. Poi, una solida cortina di buio le copriva, e le spingeva verso di noi quando la fiamma delle candele diminuiva d'intensità. Trattenevamo il fiato finché gli stoppini non fiammeggiavano di nuovo. Notai che una candela era quasi finita. «Quando sarà spenta», pensai, «ci assaliranno? Le luci restanti saranno abbastanza forti da difenderci?» Bruciò più bassa e meno costante. Era rimasto solo un anello di cera. Poi lo stoppino cadde nella cera sciolta, e la fiamma si spense. Le ombre insorsero. Le due creature avanzarono di un passo: questo fu tutto. Per il momento non osavano venire più vicine, ma la luce si stava affievolendo in fretta. Le spire fameliche della notte sembravano saperlo. Ora coprivano più frequentemente le ombre che si contorcevano sulle pareti. Pensavo a cos'altro c'era da fare. Non potevamo scappare da nessun'altra parte, e non potevamo difenderci: non c'era nascondiglio dove loro non ci avrebbero raggiunti. Perciò, mentre le ombre saltellanti danzavano e si muovevano sulle pareti e gli spaventosi cacciatori sbirciavano, noi, con quanto più coraggio ci fosse possibile, aspettavamo. «Coraggio!», sussurrai a Regina. Lei sorrise e si sfiorò un livido sulla guancia che stava cominciando ad annerirsi. Pensai che doveva essere il segno lasciato dalla pallottola della mia pistola. Le lanciai uno sguardo di compassione, ma lei lo equivocò. «Non abbiate paura», disse. «Non può cambiarmi ora. Sto resistendo al suo potere, e lui sta cercando solo di farvi abbassare la guardia. Sento che altri ci stanno aiutando, ma voi dovete resistere alla sua influenza con tutta la forza. Possiamo ancora sfuggirgli, a meno che non vi sottomettiate. Allora vi chiamerà da lui, dovunque vi possa raggiungere.» Avvertii che una spossatezza crescente mi prendeva. Quanto desideravo riposare! «Sonno!», mi veniva ordinato. «È stupido contrapporsi a me! Riposa, e io ti darò il mondo come giocattolo! Vieni da me e ti darò il riposo!» Era una voce carezzevole, una richiesta insistente. Avanzai lentamente. Non avvertivo più la presenza di Regina. Un'altra candela si spense. Il mio nemico mi venne incontro. Improvvisamente, mani invisibili alzarono una barriera tra noi. Sebbene la spingessi ansiosamente, cercando di obbedire, e la terza fiamma si spegnesse, fui riportato con fermezza contro la parete. Le ombre mi trattenne-
ro. Quando guardai il Signore furioso per la rabbia, vidi che niente lo tratteneva dall'entrare, ma l'aria sembrava palpitare di vita nuova. Vita che esultava gioiosamente del piacere di esistere. Vita che pulsava per uno scopo definito che non poteva essere negato. Sono sicuro che anche Regina l'avvertisse. La sua faccia giovanevecchia si avvicinò alla mia. La baciai. Le misi un braccio intorno alla vita e la strinsi forte a me. Fianco a fianco aspettammo. La cosa che era stata Pierre fece scorrere la lingua rossa sulle zanne appuntite e ci guardò. Era evidente che non aveva paura. La sua faccia brutale non era illuminata dall'intelligenza. Su quei tratti erano scritti solo una crudeltà indicibile e un desiderio famelico. E quello era l'amico che avevo amato. Ma colui che. aveva apportato morte e distruzione a tante persone, che era l'incarnazione del Male, alla fine capì che cosa significava la paura. La sensazione di oppressione diminuì. Mi sentii libero di muovermi di nuovo e tornai a pensare lucidamente. Un peso soffocante era stato sollevato dal mio cranio. Allora, anche il muro lasciò la sua presa. Me ne allontanai di poco, mentre nella stanza la luce aumentava a dismisura. Corpuscoli di fiamma fredda e guizzante cominciarono a raggrupparsi. Si raccolsero nella stanza, scivolando attraverso gli scuri che sbarravano le finestre rotte e attraverso la porta aperta. Qualcuno sembrava uscire dallo stesso corpo del Signore. Capii con sicurezza che era così, quando ne vidi uno uscirgli lentamente dal petto. Egli si ritrasse. Il corpuscolo indugiò come se lo stesse esaminando con attenzione, quindi si riunì agli altri. Ora il Signore sembrava più alto e meno gonfio. Il suo colorito era più grigiastro che nero, e notai che il suo volto sembrava più severo che crudele. Mi ricordava il Lucifero di Doré, quando era appena stato scacciato dal Paradiso e non era ancora Signore dell'Inferno. Nella sua dannazione c'era la malvagità, ma c'era anche un certo orgoglio arrogante, un qualcosa di indefinibile che io ammiravo. Avevo paura dei miei stessi pensieri. I piccoli fuochi fatui continuavano a fluire dalle pareti, dal pavimento, dal soffitto e dal corpo del Signore. Ora era molto più magro e alto, e diritto... non era più nero, e nemmeno grigio. Stava diventando un uomo molto bello e, mentre guardavo e mi meravigliavo della trasformazione, cerchi di luce continuavano a raggiungermi. Mi stupii della loro quantità. «Che cosa possono essere, Regina?»
«Aspettate», rispose. La paura era scomparsa dalla sua voce. «Penso di saperlo.» Ora, intorno ad ogni nucleo di luce, si era formata una specie di foschia, come nebbia attorno a un lampione stradale. Poi la foschia si inspessì, si addensò, e cominciarono ad apparire dei corpi. I loro indumenti rappresentavano tutti i periodi della storia e tutti i paesi. È difficile esserne sicuri, ma penso che il primo, e il più vicino al Signore - come se fosse stato l'ultimo ad uscire - fosse un uomo abbigliato con una tunica babilonese, ornata di nappe e frange. Vicina a questi, c'era una donna anziana e bassa. Questi due, quando si solidificarono, afferrarono il Signore, ognuno per un braccio. Le loro dita sembravano fatte d'ombra, ma lui non poteva - o non tentava - di allontanarle. Si erse orgogliosamente, aspettando, mentre altri gli si affollavano intorno. La stanza non era grande, ma mi parve che le pareti si fossero allontanate a una distanza grandissima. Era come se una vasta armata di stranieri, che volevano il nostro bene, fosse venuta a liberarci. Noi eravamo al centro di quella folla amichevole. Fianco a fianco, accanto a un impetuoso cavaliere spagnolo, stava uno zingaro con un fazzoletto maculato, vestito di cuoio lucido e bottoni dorati. Più lontano, riconobbi un gladiatore romano che teneva la mano sulla spalla di un lanciere persiano, la cui armatura risaliva alle conquiste di Alessandro. Una vecchiaccia rugosa e orrenda, con il naso a uncino e i denti sporgenti e vacillanti, era sostenuta da un bonzo cinese. Vicino a loro, vidi i volti scuri degli orientali e le tuniche verdi dei Maomettani, che ritenevano sacro il colore verde. E sul petto di ciascuno, simile a un cuore fiammeggiante - o a un'anima vivente - splendeva cupamente il fuoco centrale. «È la rivolta degli schiavi», mormorò Regina, «questi sono coloro che hanno sofferto a causa della dominazione del Signore. Gli spiriti dei morti sono venuti a salvarci. Oh Dio, ti ringrazio! Ringraziate Iddio, Monsieur Grant! Siamo stati liberati!» «Forse», replicai. «Guarda! L'ultima candela si è consumata.» La situazione era statica. Nessuno si muoveva, mentre la candela sgocciolava. In quell'istante di indecisione fu come se il tempo si fermasse. Ebbi il tempo di pensare. Capii che cosa voleva dire Regina, che cosa stava guardando. Non so se lo chiamate anima, id, ego o essenza di una persona. So solo
che... ogni nucleo terso e splendente era l'Io indistruttibile che rende un individuo quello che è. Il Signore si era nutrito di quella materia duratura e immortale, nei lunghi secoli di vendetta nei quali il corpo di Althusar, il babilonese, aveva dato asilo non solo alla sua anima prigioniera, lo spirito dominante del Signore, ma anche a quelle di molti altri. Di conseguenza, l'entità prigioniera di Nithryhs si era nutrita delle anime intrappolate nel suo corpo. Aveva appreso molto dai prigionieri. Ma non abbastanza. Non aveva capito che, essendo indistruttibile, ogni anima guadagnava una porzione di forza dai propri compagni. Per quanto fosse potente la magia della strega babilonese - figlia arcana, e forse perfino un avatar di Nergal, l'Oscuro dei Due fiumi - per quanto fosse terribile la forza e l'odio dell'alieno prigioniero, il momento della rivolta era inevitabile. Fortunatamente per me e per Regina, quel momento era arrivato durante la nostra vita e in un momento terribile. Era vero. Degli amici, anche solo perché condividevano con noi il fatto di essere umani, erano venuti in nostro aiuto. Non tutti gli spiriti provenivano dal corpo del Signore. Alcuni si affrettavano alla lotta uscendo dal corpo di Vampiri, Lupi Mannari e ghoul. Arrivavano da tutti i luoghi stregati della terra, perché in varie epoche il tocco corruttore del Signore aveva creato quelle creature da innocenti esseri umani. Credo che in tutto il mondo quei corpi infetti stessero cominciando a decadere rapidamente. Dovettero verificarsi molte sparizioni strane e inesplicabili in varie città e paesi del mondo. Non mi sono curato di cercare tra i quotidiani di quel tempo. Mi basta sapere che io e la persona che amo abbiamo trovato la salvezza e la felicità durante quella notte terribile. E non io solo. Come ho già detto, il nostro nemico non era più uno gnomo nero e informe. Con la liberazione di coloro che erano prigionieri nel corpo di Althusar, la sua figura riprese per poco l'aspetto che aveva in passato. Ora era forte, diritta e bella. Ma i suoi occhi erano diversi. Bruciavano di un dolore che il viso severo non rivelava. C'era ancora della ferocia repressa in quella faccia, ma una rassegnazione crescente la stava sostituendo. Il Signore sapeva, e aspettava la fine. Lo stoppino cadde nella cera sciolta. Fiammeggiò e si spense. Le ombre ritornarono, ma il Signore e il Morto-Vivente, che gli era accanto, non avanzarono. Erano stati immobilizzati e, sebbene fosse evidente che deside-
ravano scappare, rimasero a fissare la folla minacciosa che si infittiva. Un membro di quella compagnia sussurrante era più opaco degli altri. Negli spasmi della lotta titanica, singhiozzava e ansimava, e la sua luce nebulosa divenne più fioca mentre il suo corpo diventava più visibile. Quando la sua forma divenne più pronunciata, le miriadi di corpuscoli raggianti persero la brillantezza, come se egli prosciugasse il loro ectoplasma e la loro forza. Il rosso di un'uniforme divenne rosa, l'armatura del cavaliere, prima traslucida, divenne diafana, trasparente, e scomparve davanti ai miei occhi. Uno ad uno, i membri di quella strana folla divennero invisibili, ma sapevo che erano ancora tutti presenti e che stavano prestando la loro forza al loro compagno, che diventava sempre più concreto ad ogni secondo. Il Signore era diventato la preda. Come lui aveva paralizzato gli altri, mentre esercitava la sua volontà su di loro, così ora era tenuto in una morsa da cui non c'era via di scampo. Ma non si sottometteva tranquillamente alle sue passate vittime. Lottava strenuamente per la propria vita. Grandi gocce di sudore gli apparvero sulla fronte mentre lanciava la sua potente forza di volontà contro la forma che diventava sempre più chiaramente umana. I suoi tremendi poteri mentali lottavano contro la forza combinata della folla ormai invisibile, e spingevano qua e là per la stanza quella forma semiconcreta. Presa nei vari turbini di forza, la figura volteggiava come una foglia al vento. Quando colpiva le pareti o il pavimento, non si feriva. Non era ancora solida. Era una scena potente, che non aveva eguali con nient'altro si fosse mai visto nel mondo. L'incredibile e l'impossibile stavano accadendo davanti ai nostri occhi. Il Male che aveva trionfato fin da tempi remoti stava per essere sconfitto, e da entità che un tempo erano state esseri umani. Non era altro che una rivoluzione. Mi sentii orgoglioso di essere uomo, di appartenere alla razza dominante. In un impeto di potere diedi il mio debole contributo alla lotta. Poiché era ovvio che il Signore non desiderava che lo straniero diventasse forte, io desiderai con tutte le mie forze che lo diventasse. Mi piace pensare che fu quella mia aggiunta di energia a far pendere da una parte i piatti della bilancia che fino a quel momento era stata in equilibrio. Ad un tratto, senza preavviso, un uomo, concreto come voi o come me, stava al centro della stanza. Era vestito di un panno blu, ruvido e pesante.
Intorno alla gola portava un collo di pelliccia e sulla testa un cappello di astrakan nero. Quando avvenne la trasformazione, la stanza pulsò e vibrò di gioia. Gli esseri invisibili gioivano. Durante la battaglia delle volontà si poteva udire solo il pesante respiro del cadavere vivente, al di sopra del folle battito dei nostri cuori, ma ora la stanza echeggiò dei lunghi scoppi di un riso selvaggio e spaventoso. Era lo straniero che rideva. Parlò. La sua era una lingua a me sconosciuta eppure compresi le sue parole. «Sono tornato», disse, con una voce lenta e gelida. «Ho appreso tutto quello che sai tu. Mi riconosci?» Il Signore non rispose, ma vidi che era scosso. Il corpo giovane e bello, che aveva assunto per così breve tempo, stava ora invecchiando con rapidità. I suoi capelli divennero bianchi, e la sua schiena si incurvò, mentre i secoli gli scorrevano addosso. Presto, pensai, sarà cadente, inerme e vecchio. Lo straniero continuò. «Prima di morire, pregai di poterti avere come mia vittima. Ho aspettato molti anni. Ho atteso che arrivasse il mio momento. Ora, ti affrontiamo tutti insieme. Ci riconosci?» Una voce gracchiante replicò: «Siete vermi del pianeta Terra, sì!». «Allora», ringhiò lo straniero, «preparati a morire!» Nonostante tutto quello che avevo letto, nonostante tutto quello che avevo visto quella notte, non credevo ancora sul serio alla possibilità della trasmutazione. Stavo per convincermene. Vidi un uomo diventare Lupo Mannaro! Si strappò l'abito blu e si erse, nudo e gigantesco, davanti a noi. Poi cadde carponi, gli arti gli si contorsero, e divennero zampe lunghe e scarne. Sulle mani spuntarono artigli e cuscinetti. Su tutto il corpo cominciò a crescergli il pelo. La testa si strinse, la bocca si allargò e si allungò in un muso, mentre le orecchie diventavano appuntite e si tiravano indietro. I suoi occhi erano iniettati di sangue per la rabbia. Cercò di parlare, ma emise solo un guaito. Era ormai una bestia, e capii chi era quando già nella mia mente si formavano le parole. «Wladislaw Brenryk, Lupo Mannaro di Ponkert, non c'è dubbio che questo ti dà il diritto alla vendetta. Prenditi la rivincita! Uccidilo!» E il Cane dell'Inferno balzò. Mirò dritto alla gola del Signore, ma invece gli afferrò il braccio che gli
pendeva lungo il fianco. Sentii uno scatto secco e capii che l'osso si era spezzato. Il Signore barcollò sotto il colpo, gemette e cadde sulle ginocchia. La bestia lasciò la presa e cercò di afferrargli la gola. Questa volta ci riuscì, ma vidi che le zanne non penetravano nella pelle. Giocava con il suo nemico. Con una pesante zampa sul torace del Signore lo teneva fermo, e gli ringhiava sulla faccia. Per assaporare la vendetta, indugiò troppo a lungo. Pierre, il Vampiro, un ammasso di muscoli senza cervello, si lanciò in avanti e afferrò la bestia ai lombi, sebbene la creatura gli mordesse ferocemente le braccia. Grazie alla forza di volontà del Signore, il cadavere si era riempito di energia! Nel mio cervello si riversavano dei balbettii. Sapevo che provenivano dall'invisibile compagnia. Erano molte voci eccitate che mi ordinavano: «La lampada! Getta la lampada! Non possono superare le fiamme!». «Ma l'Ungherese? Che cosa ne sarà di Brenryk?» «Non riceverà alcun danno. Ha assunto questa forma solo perché lo desideravamo.» «E Pierre?» «È morto», fu la risposta, «ma è legato alla terra finché il Signore è vivo. Sarà una benedizione per lui. Se sbagli, non potremo colpire di nuovo, e tu e la donna diventerete come noi. Non hai paura per la sorte di voi due? Il fuoco arreca una morte pura. Lancia la lampada!» Il Morto-Vivente si preparava a dilaniare il lupo. Il Signore cominciò ad alzarsi. «Ora!» Il coro divenne un urlo. Gettai la lampada. Riempita in parte di petrolio e in parte di gas caldo, esplose quando colpì il pavimento. Il liquido in fiamme zampillò sulle tre creature e arrivò alla porta accanto alla quale lottavano. Si sparse sulle foglie secche. La via di fuga era bloccata. Si allontanarono barcollando dalle fiamme e furono sospinti in un angolo, dove, simile a fuoco elementale, la morte avanzava verso di loro lambendo avidamente i loro corpi. Divelsi le sbarre che bloccavano la porta e scappammo. L'ultima visione che ebbi delle tre creature fu attraverso una lingua di fuoco. Pierre guardava stolidamente la luce. Il Signore giaceva a terra, senza lottare con il lupo che gli era addosso. Mentre guardavo, un bagliore chiaro si alzò dal corpo
di Brenryk, che divenne nebbioso, assunse la forma di un uomo e scomparve. La sua missione era compiuta. L'ultimo suo sguardo fu diretto a me. Esprimeva gratitudine. Poi le mura crollarono. Pierre cadde, colpito da una trave. Vidi un'espressione di pace passare sul volto del Signore. Per un altro istante, fu di nuovo Althusar. Poi si alzò una colonna di fiamme che distrussero tutto. Regina e io fuggimmo verso la salvezza, nella luce grigia dell'alba. La gente accorreva dal villaggio. Si raccolsero intorno a noi e guardarono a bocca aperta quelle fiamme improvvise. E io non seppi più niente. Sono seduto nella mia sedia a leggere le parole che ho appena scritto. Morbide mani mi chiudono gli occhi. Mi giro a ricevere il bacio e l'abbraccio affezionato che mi attendono. Sembra solo un incubo quello che ho vissuto contro la mia volontà, ma tutto va bene. Spiegammo alla gente che, nel passare davanti alla locanda, avevo visto un vagabondo aggredire una giovane donna. Avevo lottato per liberarla e nella zuffa si era rovesciata una lampada. Qualcuno, penso, credette alla mia storia, ma vidi che altri furtivamente si facevano il Segno della Croce. Sono certo che furono tutti felici di vederci partire. Parte della storia la rivelai al sacerdote del villaggio, sotto il vincolo della segretezza. Egli pronunciò un anatema sulle rovine, ma dubito che valesse molto. Ho ancora più fede nel forte vento che si alzò e sparse quelle ceneri lontano. Solo una magia potente potrebbe ricomporre quel temibile giramondo. Ma non penso che la cosa ci riguarderebbe. L'alieno della lontana Nithryhs è andato via: è tornato, ne sono certo, da dove era partito tanti secoli fa. Anch'egli ha una storia da raccontare che, spero, possa far desistere altri della sua specie dal venire qui. Il mondo ha sofferto molto a causa sua. Ricordate però che fu un essere umano a renderlo ciò che era: né uomo né bestia. Egli si vendicò sull'umanità. Se è possibile ammirare un nemico, ammiriamo il suo coraggio, la sua forza e la sua tenacia. Le sue azioni furono terribili. Le cicatrici che ha lasciato fanno parte delle nostre leggende, delle nostre paure e della nostra storia. Ma ci siamo liberati di lui. Capisco che avremo ancora sofferenze e dolore su questo pianeta. Non mancheranno malattie, catastrofi e guerre. Queste sono cose fami-
liari agli esseri umani... ma saranno problemi nostri causati da noi stessi, non da lui. Il Signore è tornato a casa. LUPI NELLE TENEBRE Wolves Of Darknes di Jack Williamson Strange Tales Of Mystery And Terror, gennaio 1932 1. Mi fermai involontariamente, rabbrividendo, sul piazzale coperto di neve della stazione. Un suono strano, misterioso, e in un certo senso terrificante, si udiva nel chiarore spettrale della luna in quella notte d'inverno. Era un ululato tremolante e lontano che si ripercuoteva sul mio corpo con brividi ben più freddi del penetrante morso dell'aria immota e ghiacciata. Ero ben conscio che quel suono lugubre che lacerava i nervi doveva essere l'ululato dei lupi grigi, chiamati anche lobo, sebbene non li avessi più sentiti da quando ero piccolo. Ma quel suono conteneva una nota di profondo terrore che nemmeno le tremanti apprensioni della fanciullezza avevano mai colto nella voce dei grandi lupi. C'era un non so chè di acuto, di strano, in quel lamento arcano, che proveniva da un punto remoto in un pulsare ritmico. Era qualcosa che induceva a pensare che l'ululato giungesse da delle gole umane tese in uno sforzo inumano... Lottando con me stesso per liberarmi da quel frutto della mia immaginazione, mi affrettai ad attraversare il piazzale ghiacciato precipitandomi nel caldo della squallida sala d'aspetto. Il locale era ben illuminato da alcune semplici lampadine e una stufa rovente lo riempiva di un calore piacevole. Ad ogni modo, ero ben contento di aver lasciato all'esterno quell'ululare lontano e non m'importava granché di aver trovato il tepore di un riparo. Accanto alla stufa sedeva un uomo alto, completamente assorto - con attenzione febbrile - in un solitario fatto con delle carte da gioco unte, disposte su una cassa da imballaggio che stringeva tra le ginocchia. Portava un giubbotto di pelle sformato e lucido per l'eccessivo uso. Una delle guance abbronzate era rigonfia di tabacco, e le labbra erano striate di macchie color ambra. Sembrò stranamente colto di sorpresa dal mio ingresso subitaneo, e con un brusco sussulto spinse via la cassa, balzando contemporaneamente in
piedi. Per un istante i suoi occhi mi fissarono ansiosi, poi sembrò sospirare di sollievo. Aprì lo sportello della stufa e, dopo aver sputato sulla fiamma crepitante, tornò a sedersi. «Ben arrivato, signore», disse con un tono strascicato leggermente forzato e rauco. «Mi ha quasi spaventato. Ci ha messo tanto, a entrare, che credevo non fosse sceso nessuno.» «Mi sono fermato ad ascoltare i lupi», gli spiegai. «Un suono sinistro, non crede?» Mi rivolse uno sguardo indagatore con occhi strani e apprensivi, restando a lungo in silenzio. Poi esordì in modo sbrigativo: «Be', cosa posso fare per lei?». Mentre avanzavo verso la stufa, aggiunse: «Sono Mike Connell, il Capostazione». «E io sono Clovis McLaurin», mi presentai. «Dovrei rintracciare mio padre: il dottor Ford McLaurin. Abita in una fattoria da queste parti.» «Ah, lei è il figlio del dottor McLaurin, eh?», disse Connell, assumendo un atteggiamento visibilmente cordiale. Quindi si alzò e sorrise, spostando la cicca di tabacco all'altra guancia, e mi strinse la mano. «Sì. L'ha visto ultimamente? Tre giorni fa ho ricevuto da lui uno strano telegramma. Mi chiedeva di venire subito. Pare che si trovi in qualche guaio: ne sa niente lei?» Connell mi guardò con un'espressione ambigua. «No», rispose alla fine. «In questi ultimi tempi non si è visto. Sono due o tre settimane che nessuno della fattoria si fa vivo qui a Hebron. Vede: sono anni che non viene giù una nevicata come questa, e non è facile andare in giro. Però non so proprio come hanno fatto a mandare un telegramma senza venire in città. E qui non li ha visti nessuno.» «Lei conosce di persona mio padre?», gli chiesi, sempre più preoccupato. «Be', no... non proprio», ammise il Capostazione. «Ma l'ho visto abbastanza spesso quando è venuto qui a Hebron con Jetton e sua figlia. C'è parecchia roba per loro, qui alla stazione. Scatole e casse: dalle etichette si direbbero apparecchiature scientifiche, ma di preciso non saprei. Però quella Stella Jetton è un bel pezzo di ragazza: davvero stupenda!» «Sono tre anni che non vedo mio padre», dissi al Capostazione, nella speranza di guadagnarmi la sua comprensione e di ottenere qualsiasi eventuale aiuto potesse offrirmi per raggiungere il ranch attraversando l'insolita coltre nevosa che ammantava le pianure del Texas occidentale. «Sono stato
in un istituto di medicina nell'Est, e non vedo il babbo da quando è venuto qui nel Texas tre anni fa.» «Lei è dell'Est, eh?» «New York. Ma ho trascorso qui un paio d'anni con mio zio, quand'ero piccolo. Il babbo ha ereditato la fattoria da lui.» «Sì, lo so. Il vecchio Tom McLaurin era mio amico», mi spiegò il Capostazione. Erano trascorsi tre anni da quando mio padre aveva lasciato la Cattedra di Astrofisica di un'Università dell'Est, nel 1928, per venire in questo ranch isolato e condurre i suoi nuovi esperimenti. L'eredità di suo fratello Tom, oltre alla fattoria, comprendeva una certa quantità di denaro, così mio padre aveva potuto rinunciare alla propria occupazione accademica e dedicarsi interamente ai problemi astrusi su cui stava lavorando. Dato che mi interessava più la scienza medica che quella matematica, io non avevo seguito completamente il lavoro di mio padre, sebbene di solito l'avessi aiutato nei suoi esperimenti quando disponeva solo di un piccolo appartamento e di misere attrezzature. Sapevo, ad ogni modo, che aveva elaborato uno sviluppo della geometria non-euclidea di Weyl in una direzione del tutto differente da quelle scelte da Eddington e da Einstein, che conduceva a delle implicazioni riguardanti la struttura del nostro universo davvero stupefacenti. La sua nuova teoria dell'elettrone-onda, che completava lo smantellamento della struttura atomica planetaria di Bohr, era stata altrettanto sensazionale. La prova richiesta dalla sua teoria era il confronto esatto della velocità dei raggi di luce ad angoli retti. Per l'esperimento si rendeva quindi necessaria la disponibilità di un vasto spazio all'aperto, e che possedesse un'atmosfera limpida, priva di polvere o di fumo. Da qui la scelta di mio padre circa l'utilizzazione della fattoria come luogo in cui portare a compimento il lavoro. Dato che desideravo restare all'istituto universitario e non ero in grado di aiutarlo ulteriormente, il babbo aveva scelto come suo assistente e collaboratore il dottor Blake Jetton, anch'egli studioso di fama grazie ai suoi notevoli studi sulla propagazione della luce e sulle recenti modifiche della teoria quantistica. Il dottor Jetton, come mio padre, era vedovo. Aveva un'unica figlia, di nome Stella, che trascorreva parecchi mesi dell'anno insieme a loro al ranch. Sebbene non l'avessi vista che rare volte, potevo senza dubbio di-
chiararmi d'accordo con il Capostazione circa il fatto che fosse una ragazza graziosa, anzi la ricordavo come una fanciulla dotata di notevole avvenenza. Tre giorni prima avevo ricevuto quel telegramma da mio padre. Si trattava di un messaggio allarmante, formulato in modo strano, in cui mi implorava di raggiungerlo senza perdere un solo istante. Diceva che la sua vita era in pericolo, sebbene non accennasse minimamente alla natura di questo pericolo. Incapace di comprendere pienamente il messaggio, mi ero affrettato a raccogliere alcuni effetti personali strettamente necessari, tra i quali non avevo tralasciato di mettere una piccola pistola automatica, e senza indugio ero salito sul primo treno Espresso. Avevo trovato la distesa del Texas Panhandle coperta da quasi trenta centimetri di neve; un inverno così severo non si registrava da diversi anni. E quando ero sceso dal treno nel villaggio solitario di Hebron, ero stato accolto da quei terribili e misteriosi ululati. «Era un telegramma urgente... molto urgente», dissi a Connell. «Devo raggiungere il ranch stanotte, se è appena possibile. Lei non sa come potrei arrivarci?» Per un po' Connell rimase in silenzio, guardandomi con un'espressione che tradiva una certa paura. «No, non saprei», rispose poi. «Ci sono quindici chilometri da qui al ranch. E lungo la strada è tutto deserto: non c'è anima viva. C'è quasi mezzo metro di neve, e non credo che un'auto ce la farebbe. Potrebbe farsi dare uno strappo da Sam Judson col suo carro, domani.» «Pensa che mi porterebbe là anche adesso?» Il Capostazione scosse la testa a disagio; guardò nervosamente il deserto di neve che brillava sotto la luna fuori dalle finestre, e parve che si mettesse in ascolto carico d'ansia. Io stesso riuscii a fatica a reprimere un brivido. «No, penso proprio di no!», esclamò poi Connell all'improvviso. «Da un po' di tempo non è troppo salutare uscire di notte in questi paraggi.» S'interruppe un istante; poi, lanciandomi una fuggevole occhiata inquieta, mi domandò di colpo: «Penso che abbia sentito quell'ululato, vero?». «Sì. Lupi?» «Hmmm, sì... credo proprio di sì. È un maledettamente strano! Sono dieci anni che non si vede un loafer da queste parti. Hanno cominciato a farsi sentire proprio dopo l'ultima bufera di neve.»
(Loafer, a quanto pare, era un termine locale derivato dalla parola spagnola lobo che indicava appunto il lupo grigio della prateria, un animale molto più grosso del coyote e un nemico temuto da tutti i rancheros del Sud-Ovest finché non era stato quasi completamente sterminato.) «Pare che ci sia un intero branco di quelle bestie che se ne va a caccia qui attorno», proseguì Connell. «Hanno ucciso un bel po' di bestiame nelle ultime settimane, e...», s'interruppe, abbassando la voce, «... e anche cinque uomini!» «I lupi hanno ucciso delle persone?», esclamai. «Sissignore», affermò il Capostazione lentamente. «Josh Wells e il suo aiutante sono stati uccisi circa due settimane fa... sì, con venerdì, saranno due settimane giuste. Li hanno uccisi mentre si trovavano fuori nella prateria. Poi è toccato a Simms. Il vecchio, sua moglie e la piccola Dolly. Li hanno attaccati proprio fuori dal recinto delle mucche, credo, mentre stavano mungendo. Abitavano a tre chilometri dal paese. Rufe Smith è andato a trovarli domenica. Nel recinto c'erano delle bestie morte e c'erano i secchi del latte tutti sfasciati in un mucchio di neve sotto la tettoia. Di Simms e della sua famiglia nemmeno l'ombra, invece!» «Non ho mai sentito dire che i lupi attaccassero la gente in questo modo!» Connell spostò nuovamente la cicca di tabacco e mormorò: «Neanch'io. Ma vede, signore... questi non sono lupi comuni!». «Come sarebbe a dire?» «Be', dopo che i Simms erano spariti ci siamo riuniti in una specie di squadra di volontari e siamo andati a caccia di quelle bestiacce. Di lupi non ne abbiamo trovati, però abbiamo trovato delle tracce nella neve. Di giorno non c'è in giro nemmeno l'ombra di un lupo! Be', c'erano queste impronte nella neve», ripeté lentamente. «E vede, signore, quelle tracce di lupo, maledizione, erano troppo lontane l'una dall'altra per essere quelle di una bestia normale. Quei lupi devono fare dei balzi di una decina di metri!» Quindi Connell piombò nel silenzio, fissandomi con una strana espressione. Io ero sconvolto. Naturalmente ero abbastanza incredulo circa quanto avevo sentito, ma il Capostazione non mi sembrava il tipo che ha appena finito di abbindolarti con qualche storiella fantasiosa, dato che i suoi occhi rivelavano un terrore autentico. E poi ricordavo che mi era parso di riconoscere dei toni umani negli strani ululati che avevo udito in lontananza.
Non c'era alcuna buona ragione per cui potessi credere di trovarmi semplicemente di fronte a una superstizione locale. Per quanto diffuse possano essere le leggende sulla licantropia, deve ancora giungermi notizia di un racconto di Lupi Mannari narrato da un texano dell'Ovest. Il racconto del Capostazione era stato troppo particolareggiato e ricco di elementi concreti perché fossi indotto a ritenerlo un parto di fantasia o una paura radicata segretamente nel profondo dell'animo. «Il messaggio di mio padre era urgentissimo», ripetei a Connell. «Devo assolutamente raggiungere la fattoria stasera. Se l'uomo di cui mi ha parlato non vorrà portarmi, noleggerò un cavallo e andrò da solo.» «Se Judson accetta di uscire al buio con quei lupi in giro, è proprio un imbecille!», disse con tono convinto il Capostazione. «Ma niente le impedisce di chiederglielo. Dovrebbe essere ancora alzato, a quest'ora. Abita in quella casa bianca, appena girato l'angolo dietro il negozio di Brice.» Connell mi seguì verso il piazzale per indicarmi la strada. Non appena la porta fu aperta, sentimmo di nuovo il ritmico, intenso ululato proveniente da lontano attraverso la candida distesa nevosa. Non riuscii a reprimere un brivido. Dopo avermi indicato la casa di Sam Judson, tra le poche e sparse abitazioni che costituivano il villaggio di Hebron, Connell rientrò in tutta fretta nella stazione, chiudendosi la porta alle spalle. 2. Sam Judson possedeva una tenuta che distava un chilometro e mezzo da Hebron, ma era andato ad abitare nel villaggio in modo che sua moglie potesse occuparsi dell'ufficio postale. Mi affrettai verso la casa di Judson attraversando parecchie strade ghiacciate, felice che Hebron potesse permettersi il lusso dell'illuminazione elettrica. L'ululare distante del branco di lupi mi riempiva di una paura vaga e inspiegabile, ma non diminuiva la mia determinazione di raggiungere il ranch di mio padre il più presto possibile, per risolvere l'enigma del telegramma che mi era stato inviato. Quando bussai alla porta, Judson venne ad aprire. Era un uomo robusto che indossava una tuta rattoppata di un azzurro sbiadito e una camicia di flanella marrone. Era quasi completamente calvo, e la sua testa nuda e abbronzata sembrava una striscia di cuoio scuro. Il volto, largo, era coperto da una barba nera che doveva avere parecchie settimane. Judson mi squadrò con un misto di nervosismo e di paura.
Mi condusse quindi nella cucina posta sul retro della casa, una stanzetta squallida con le pareti coperte da una serie disordinata di pentole e padelle. La stufa economica era accesa; a quanto pare, Judson doveva essere stato seduto tenendo i piedi appoggiati nel forno, intento a leggere un giornale che ora si trovava sul pavimento. Mi fece accomodare su una sedia scricchiolante e allora mi presentai. Disse che conosceva mio padre, il dottor McLaurin, dato che veniva a ritirare la posta nella stanza anteriore adibita appunto ad ufficio postale. Ma aggiunse che da tre settimane non si era più fatto vivo nessuno del ranch, forse perché la neve rendeva gli spostamenti difficoltosi. Mi spiegò che ora al ranch vivevano cinque persone: mio padre, il dottor Jetton e sua figlia Stella, e due meccanici provenienti da Amarillo. Gli parlai del telegramma che avevo ricevuto tre giorni prima e Judson suggerì che forse mio padre poteva essere venuto in paese di sera, imbucando il telegramma all'ufficio telegrafico con il denaro necessario per l'invio. Ma disse che era strano che non avesse parlato con nessuno, e che nessuno l'avesse visto. Allora chiesi a Judson che mi portasse subito al ranch e, alla mia richiesta, il suo atteggiamento cambiò: sembrava maledettamente spaventato! «Non ha poi così fretta da voler partire stanotte, vero, signor McLaurin?», domandò. «Possiamo sistemarla nella stanza libera, e domani la porterò al ranch con il carro. Il viaggio è lungo, per farlo di notte.» «Sono molto ansioso di arrivare al ranch», gli spiegai. «Sono preoccupato per mio padre. C'era qualcosa che non andava quando mi ha telegrafato: qualche guaio serio. La pagherò più che adeguatamente, e vedrà che ne varrà la pena.» «Non si tratta di soldi», mi disse. «Sarei felice di farlo gratis per il figlio del dottor McLaurin. Ma penso che anche lei li abbia sentiti i lupi, vero?» «Sì, li ho sentiti. E Connell, alla stazione, mi ha detto alcune cose in proposito. Hanno proprio attaccato degli uomini?» «Sì.» Per alcuni istanti Judson rimase in silenzio, e mi fissò con due occhi strani. Poi riprese: «E non è tutto qui. Alcuni di noi hanno visto le tracce. E c'erano anche impronte di uomini!». «Ma io devo raggiungere mio padre», insistetti. «Dovremmo essere abbastanza al sicuro in un carro. E poi lei avrà un'arma, no?» «Sì, ho un fucile», ammise Judson. «Ma non è che abbia molta voglia di trovarmi di fronte ai lupi!» Mi ostinai: alla fine, quando gli offrii cinquanta dollari per il viaggio, lui
cedette. Ma disse che lo faceva - io gli credetti - più per cortesia verso un amico che per denaro. Andò nella stanza da letto, dove sua moglie stava già dormendo, la svegliò, e le spiegò che si apprestava ad accompagnarmi. La donna era piuttosto spaventata, come ebbi occasione di giudicare dal tono della voce, ma si calmò sentendo dei cinquanta dollari. Allora si alzò - era un tipo alto ed estremamente bizzarro in camicia da notte color porpora e cuffietta intonata - e si diede da fare per prepararci un po' di caffè sulla stufa ancora calda e per trovarci qualche coperta perché potessimo avvolgercela addosso sul carro, dato che la notte era freddissima. Nel frattempo, Judson accese una lampada a kerosene, che era quasi inutile nel riflesso brillante della luna, e si recò nella stalla dietro la casa per preparare il veicolo. Mezz'ora dopo stavamo uscendo dal villaggio a bordo di un leggero carro tirato da due cavalli. I loro zoccoli affondavano nella crosta superficiale di neve a ogni passo, e le ruote del carro facevano altrettanto, scavando un solco in cui si infilavano saldamente producendo un curioso scricchiolio. Il nostro procedere era lento, e io mi preparai a un viaggio di parecchie ore. Sedevamo vicini sul sedile a molle, pesantemente infagottati e con delle coperte che ci riparavano stese sulle ginocchia. L'aria aveva un morso pungente, ma non c'era vento, quindi pensai che in fondo non potevo lamentarmi. Judson si era legato alla cintura un vecchio revolver, e inoltre disponevamo di una doppietta e di un fucile a ripetizione che stavano appoggiati sulle nostre ginocchia. Una volta fuori dal villaggio di Hebron, ci trovammo circondati su ogni lato da una candida distesa di neve quasi perfettamente liscia. Era interrotta soltanto dalle file di paletti che sostenevano i reticolati e che a quanto pareva rappresentavano per Judson l'unico punto di riferimento. Il cielo era inondato da un'opalescenza spettrale, e sulla neve sfavillavano milioni di diamanti di gelo. Per circa un'ora e mezza non accadde nulla degno di nota. Le luci di Hebron impallidirono e, a poco a poco, svanirono alle nostre spalle. Non incontrammo alcuna abitazione lungo quel deserto di neve sconfinato. L'impressionante ululato, ad ogni modo, si faceva sempre più forte. Poi quei lamenti misteriosi cambiarono d'un tratto posizione. Judson al mio fianco rabbrividì e parlò nervosamente ai due cavalli che arrancavano a fatica nella neve. Poi si voltò verso di me e disse in tono conciso: «Credo che stiano arrivandoci alle spalle, signor McLaurin».
«Be', in questo caso lei può sempre tirarsene dietro qualcuno, per scuoiarlo domani», gli risposi. Le mie intenzioni erano state quelle di mettergli un po' di buonumore, ma la mia voce era stranamente brusca, e aveva un tono che suonava falso perfino alle mie orecchie. Per alcuni minuti avanzammo in silenzio. All'improvviso, notai un cambiamento nelle urla del branco. Quel ritmo strano e profondo si fece improvvisamente più concitato. Quei lugubri lamenti sembrarono cedere il posto a rapidi guaiti di bramosia, un suono che aveva in sé un elemento ventriloquiale che ci impediva di individuarne esattamente la direzione di provenienza. Le note rapide e smaniose sembravano giungerci da una dozzina di punti sparsi lungo la distesa candida alle nostre spalle. I cavalli si allarmarono. Drizzarono le orecchie e guardarono indietro, riprendendo il cammino con rinnovata foga. Vidi che gli animali stavano tremando. Uno di loro di colpo sbuffò. Quel rumore inaspettato urtò i miei nervi già strapazzati, e allora mi afferrai in maniera convulsa alla sponda del carro. Judson impugnava saldamente le redini e si puntellava con i piedi contro il cassone del veicolo, parlando sommessamente ai due cavalli spaventati per calmarli. Se non fosse stato per quello, forse si sarebbero già dati alla fuga. Si voltò poi verso di me e disse sottovoce: «Di lupi ne ho sentiti, ma non ululano in questo modo. Questi non sono i soliti lupi!». E, ascoltando i latrati del branco, capii che aveva ragione. Quegli ululati avevano una sfumatura insolita e aliena, una caratteristica intrinseca che non era di questa terra. È difficile farne una descrizione, perché era qualcosa di completamente estraneo. Mi balenò nella mente, allora, che, se fossero esistiti dei lupi negli antichi deserti di Marte - ormai morti da secoli forse avrebbero potuto produrre simili lamenti, mentre si lanciavano all'inseguimento di una creatura indifesa spingendola verso una morte crudele. «Credo che ci siano alle calcagna», disse improvvisamente Judson, con voce sommessa e stentorea. «Guardi dietro di noi, signore.» Mi voltai sul sedile a molle, scrutando l'immensa pianura coperta da un manto di neve abbagliante. Per alcuni minuti aguzzai invano lo sguardo, sebbene l'urlo del branco invisibile crescesse rapidamente d'intensità. Poi scorsi delle macchioline grigie che spiccavano dei balzi, molto lontane dietro la pista lasciata dal carro. Normalmente un lupo avrebbe dovuto arrancare a fatica attraverso la spessa coltre nevosa, dato che la crosta su-
perficiale non era abbastanza solida per sostenerne il peso. Ma le cose che vedevo, agili ombre grigie dalla forma indefinita, avanzavano invece a grandi balzi, con una velocità stupefacente. «Li vedo», mormorai con voce tremante a Judson. «Guidi lei», mi disse allora, mettendomi in mano le redini e afferrando il fucile a ripetizione. Quindi si voltò sul sedile e cominciò a sparare. I cavalli tremavano e sbuffavano. Nonostante il freddo, i loro corpi ansanti grondavano di sudore. Improvvisamente, dopo che Judson aveva aperto il fuoco, strinsero il morso e si ribellarono alla guida fuggendo disperatamente, affondando nella neve e trascinando il carro privo di controllo. Per quanto mi sforzassi di riprenderli alla mano, strattonando con forza le redini, il mio tentativo si rivelò del tutto inutile. Judson ben presto finì il caricatore. Dubito che fosse riuscito a colpire qualcuna delle bestie che ci inseguivano... infatti era praticamente impossibile mirare con precisione stando sul carro che ondeggiava e traballava. E, anche se il veicolo fosse stato immobile, i nostri inseguitori che spiccavano quei balzi selvaggi avrebbero costituito un bersaglio difficile. Judson gettò il fucile scarico nel cassone del carro e si girò verso di me con una faccia pallida e spaventata. Aveva la bocca aperta e gli occhi sbarrati dal terrore. Sbraitò qualche parola incoerente che non riuscii ad afferrare, e agguantò le redini. Impazzito evidentemente di paura, maledisse i due cavalli che abbrancavano nella neve e li frustò, come se credesse di poter distanziare il branco. Per un po' mi aggrappai alla sponda del carro traballante. Poi i cavalli, sbuffando, fecero uno scarto inaspettato, rompendo quasi il timone del carro e per poco non facendolo rovesciare. Il sedile a molle si staccò dai fermi e cadde nell'interno del cassone. Io fui sballottato oltre la sponda di tutto il busto e per un attimo disperato tentai di arrampicarmi nuovamente a bordo. Ma i due cavalli fecero un altro balzo in avanti e allora fui proiettato nella neve. Infransi la sottile crosta ghiacciata, e lo spesso strato di neve soffice sottostante attutì la mia caduta. In pochi istanti riuscii a risollevarmi in piedi, portandomi freneticamente le mani al volto per liberarmi gli occhi da quella sostanza bianca e farinosa. Il carro era ormai a un centinaio di metri. I cavalli, pazzi di paura, stavano ancora fuggendo, con Judson in piedi sul cassone che maneggiava furiosamente le redini ondeggiando avanti e indietro, incapace di frenarli.
Quando ero stato sbalzato, i cavalli avevano girato bruscamente e ora stavano lanciandosi a capofitto in direzione di quel misterioso branco di belve ululanti! Judson, urlando e imprecando pazzo di terrore, veniva trascinato indietro verso quelle grigie ombre indistinte che saltavano nella notte lanciando spaventosi ululati soprannaturali. L'orrore scese su di me simile a un'enorme ondata che mi paralizzava l'anima. Provai un folle desiderio di fuggire, di correre e correre attraverso la distesa innevata finché non avessi cessato di udire il lamento di quello strano branco. Con uno sforzo mi controllai, frenai il tremito del mio corpo e deglutii per inumidirmi la gola secca. Sapevo che con il mio misero arrancare non sarei mai riuscito a distaccare le ombre grigie sorprendentemente agili che balzavano nei riflessi lattei della luce lunare in direzione del carro. Fu allora che mi ricordai di essere in possesso di un'arma, l'automatica calibro 25 che tenevo sotto un'ascella. Lo strano messaggio di mio padre mi aveva infatti spinto a portare con me quella piccola arma mortale e ad infilarmi in tasca alcuni caricatori di proiettili. Con mani tremanti mi sfilai un guanto e frugai sotto gli abiti in cerca della pistola. Alla fine estrassi la minuscola ma pesante automatica, piacevolmente calda per il contatto con il mio corpo, e feci scattare indietro l'otturatore per accertarmi che ci fosse un colpo in canna. Poi rimasi fermo in quella distesa nevosa che mi arrivava quasi alle ginocchia, e attesi. Il lugubre ululato alieno del branco mi paralizzò letteralmente per il terrore. Il carro doveva trovarsi a circa quattrocento metri da me, quando le indistinte macchie scure del branco abbandonarono la pista e deviarono per tagliargli la strada. Vidi allora sottili lingue di fiamma giallastre, e udii secche scariche di armi da fuoco, seguite dal sibilo lancinante dei proiettili. Judson, almeno così supponevo io, doveva aver abbandonato le redini e tentava di difendersi con i fucili e la sua vecchia pistola. Poi le macchie grigie circondarono il carro. Sentii l'urlo di un cavallo agonizzante, il suono più straziante e orribile che io conosca, se si escludevano gli ululati soprannaturali di quel branco. Una massa di figure in lotta sembrò dibattersi a ridosso del carro. Seguirono ancora alcune detonazioni, quindi un grido echeggiò sinistro sulla prateria innevata, un grido che racchiudeva in sé un misto di atroce sofferenza e di terrore inconcepibile...
Capii che si trattava di Judson. Dopodiché non rimase altro che l'agghiacciante lamento delle belve, un coro mostruoso che non si era ancora placato. Presto, spaventosamente presto, quel coro alieno parve avvicinarsi. E vidi allora delle forme grigie che si staccavano dalla macabra scena della tragedia e avanzavano a balzi... verso di me! 3. Non sono assolutamente in grado di spiegare il terrore che mi prese quando mi resi conto che le belve si erano lanciate sulle mie tracce. Il mio cuore parve arrestarsi, tanto che pensai che sarei svenuto; poi cominciò a pulsarmi profondamente nella gola. Avevo il corpo improvvisamente madido di sudore gelido, i muscoli tesi spasmodicamente, e stringevo la pistola con tanta forza da avvertire un certo dolore alla mano. Avevo deciso di non fuggire, ritenendo inutile un eventuale tentativo di sottrarmi alla caccia del branco. Ma la mia decisione di resistere a ogni costo era ben poca cosa rispetto alla paura che mi ossessionava. Mi misi a correre attraverso la levigata distesa di neve. I miei piedi sprofondavano nella sottile sfoglia di ghiaccio e arrancavo a fatica, con i polmoni in fiamme. La neve sembrava divertirsi a ostacolarmi, quasi fosse un demone malvagio. Molte volte incespicai e caddi, ma mi rialzai sempre con la forza della disperazione avanzando di nuovo ormai stremato, singhiozzando di terrore e ansando nell'aria gelida. Ma la mia fuga ben presto volse al termine. Le cose che mi stavano inseguendo erano in grado di procedere a una velocità di gran lunga superiore alla mia. Voltandomi, quando non avevo coperto nemmeno un centinaio di metri, le vidi avvicinarsi, forme ancora vaghe nel chiarore lunare. Mi accorsi però che gli inseguitori erano soltanto due. Improvvisamente, il mio pensiero tornò alla piccola automatica che stringevo in mano. La sollevai e scaricai tutti i proiettili, sparando il più rapidamente possibile; ma anche se colpii qualcuna di quelle forme grigie, dovevano essere senz'altro invulnerabili alle mie pallottole. Avevo trovato in tasca un secondo caricatore e stavo tentando con dita tremanti di infilarlo nella pistola, quando quelle cose giunsero sufficientemente vicine perché potessi vederle in modo distinto. A quel punto le mie mani si paralizzarono; ero troppo sorpreso e sconvolto per completare il caricamento della pistola.
Una delle due forme grigie era un lupo, uno scarno lupo della prateria dal lungo pelo ispido, una bestia enorme alta quasi un metro che stava spiccando balzi che coprivano diversi metri. I suoi grandi occhi avvampavano di una misteriosa luce verdastra, una luce innaturale, strana, terribile, e in un certo senso ipnotica. L'altra era una ragazza! Era una cosa incredibile, che ottenebrò e fece vacillare la mia mente già offuscata dal terrore. Dapprima pensai che si trattasse di un'allucinazione ma, mentre lei si avvicinava a lunghi salti con la stessa rapidità del lupo grigio, fui costretto ad accettare quanto vedevano i miei occhi. Ricordai allora la mia impressione di aver udito delle voci umane nelle grida del branco; ricordai anche quanto Connell e Judson mi avevano detto circa la presenza di orme umane frammiste a quelle dei lupi nelle tracce lasciate dal branco. La ragazza era vestita in modo piuttosto leggero, per trovarsi fuori all'aperto nel freddo pungente di quella notte invernale. Apparentemente indossava solo una leggerissima sottoveste di seta bianca, lacera, che le penzolava da una spalla e non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Aveva il capo scoperto, e i suoi capelli, che alla luce lunare sembravano di uno strano biondo pallido, erano corti e scarmigliati. Le braccia vellutate e le piccole mani, le gambe, e perfino i suoi piedi guizzanti, erano nudi. La sua pelle era bianca, di un candore freddo, esangue, lebbroso. Quasi bianca quanto la neve. E i suoi occhi scintillavano di un riflesso verde! Erano come gli occhi del lupo, brillanti di una terribile fiamma di smeraldo, la fiamma di una vita aliena, estranea a questo mondo. Erano malvagi, crudeli, ripugnanti! Erano gelidi come le distese cosmiche al di là della luce delle stelle e ardevano di un'intelligenza maligna, più forte e spaventosa di quella di qualsiasi creatura terrestre. Le sue labbra e le sue guance, di un candore alabastrino, erano segnate da una macchia gocciolante di color rosso scuro che spiccava quasi nera al chiarore fioco. Rimasi come pietrificato, svuotato di ogni residua energia per l'orrore e l'incredulità. La ragazza e il lupo avanzarono balzando fianco a fianco nella neve, come dotati di una forza e di un'agilità soprannaturali. E, mentre si facevano più vicini, io subii un altro shock terrificante. Il volto della ragazza mi era familiare, nonostante il pallore cadaverico,
l'infernale riflesso maligno degli occhi verdi, e la macchia rossastra sulle gote e sulle labbra. Quella donna era la ragazza che io avevo ammirato, e che avevo persino sognato di poter amare, un giorno. Era Stella Jetton! Quella ragazza era la deliziosa figliola del dottor Blake Jetton che, come ho detto, mio padre aveva portato con sé in quel ranch del Texas come assistente nei suoi rivoluzionari esperimenti. Mi resi conto che doveva essere stata trasformata in qualche modo spaventoso. «Stella!», gridai. Più simile a un urlo atterrito di angoscia e incredulità che a una voce umana, quel nome uscì dalla mia gola inaridita dalla paura. Io stesso sussultai udendo quel mio appello rauco, stentoreo e ansante. L'enorme lupo grigio si diresse verso di me, come se stesse per balzarmi alla gola. Ma si fermò a qualche metro di distanza, accucciandosi nella neve e mi guardò con quegli orribili occhi verdi da cui trapelava un'espressione di guardinga e strana intelligenza. La ragazza si fece ancora più vicina, prima di fermarsi e di restare a guardarmi con i suoi occhi terribili, simili a quelli della belva, luminosi e verdi. Il volto, per quanto di un pallore spettrale e orrendamente macchiato di rosso, era proprio quello di Stella Jetton. Ma gli occhi non erano i suoi! Poi parlò. La sua voce conteneva ancora qualcosa del suono che mi era familiare, ma ora possedeva un tono nuovo e strano. Racchiudeva lo stesso mistero alieno e minaccioso degli occhi e della pelle lebbrosa, la medesima sfumatura dei lugubri ululati lamentosi del branco che ci aveva seguito. «Sì, sono Stella Jetton», disse. «Come sei chiamato tu? Sei tu Clovis McLaurin? Hai ricevuto un telegramma?» A quanto pare non mi conosceva. Perfino la formulazione delle sue parole era un po' strana, come se stesse parlando una lingua con cui non aveva molta dimestichezza. La deliziosa ragazza, quella ragazza che avevo conosciuto un tempo, era cambiata spaventosamente. Pensai che doveva essere stata colpita da qualche forma di follia, da cui aveva tratto quella forza soprannaturale che aveva dimostrato di possedere quando correva con il branco di lupi. Doveva trattarsi di un caso di licantropia davvero molto particolare, immaginai. «Sì, sono Clovis McLaurin», risposi con voce tremante. «Ho ricevuto il telegramma di mio padre tre giorni fa. Dimmi cosa c'è che non va: perché ha usato quelle parole nel messaggio?»
«Non c'è nulla che non va, amico mio», rispose la strana creatura. «Noi desideravamo semplicemente la tua assistenza in un certo esperimento di grande singolarità, che abbiamo cominciato ad attuare. Tuo padre ora attende al ranch, e io sono venuta per condurti da lui.» Quel discorso era assurdo. Riuscii ad accettarlo solo partendo dal presupposto che chi aveva parlato soffrisse di uno spaventoso sconvolgimento mentale. «Tu mi sei venuta incontro?», esclamai, combattendo contro l'orrore che stava per sopraffarmi. «Stella, non devi startene fuori al freddo così poco coperta. Devi prendere il mio cappotto.» Cominciai a togliermelo ma, come mi ero in un certo senso aspettato, lei rifiutò di accettarlo. «No. Non mi serve. Il freddo non può nuocere a questo corpo. E adesso devi venire con noi. Tuo padre ci attende in casa per attuare il grande esperimento.» Aveva detto noi! Inorridii ancora di più notando che la ragazza considerava lo scarno lupo uguale a lei. Poi balzò in avanti con un'agilità incredibile nella direzione in cui io e Judson stavamo viaggiando prima. Con un braccio nudo e di un pallore cadaverico, mi invitò a seguirla. Il grande lupo grigio si mosse a balzi, dietro di me. Stimolato di colpo ad agire, ricordai la pistola caricata a metà che stringevo in mano. Con un gesto brusco finii di inserire il caricatore nuovo, feci scattare l'otturatore, e poi scaricai tutti i colpi addosso alla belva dagli occhi verdi. Una strana calma era scesa su di me. I miei movimenti furono sufficientemente controllati, quasi calcolati. Sono certo che la mia mano non tremasse. Il lupo si trovava solo a pochi metri ed era praticamente impossibile mancarlo, non centrarlo con almeno un proiettile. Sono sicuro di averlo colpito numerose volte, poiché sentii le pallottole conficcarsi nel suo corpo scarno, vidi l'animale vacillare sotto il loro impatto, e notai dei ciuffi di pelo grigio cadere in terra nella luce lunare. Eppure non morì. I suoi terribili occhi verdi non mostrarono il benché minimo cenno d'esitazione e continuarono a fissarmi con quella loro espressione sinistra di malvagità infernale. Non appena gli ebbi scaricato addosso tutti i colpi - mi erano occorsi solo alcuni secondi per sparare i sette proiettili - udii un ringhio selvaggio emesso dalla ragazza. Mi ero girato per metà nella sua direzione quando il
suo corpo pallido si scagliò contro di me con la velocità di un proiettile. Caddi sotto di lei, alzando istintivamente un braccio per proteggermi la gola. E fu un bene che l'avessi fatto, perché sentii i suoi denti mordermi il braccio e la spalla, mentre sprofondavamo insieme nella neve. Sono certo che urlai. Lottai con lei selvaggiamente, finché non udii di nuovo la sua strana voce non umana. «Non devi avere paura», disse. «Non vogliamo ucciderti. Vogliamo solo il tuo aiuto per un esperimento importantissimo. Per questo motivo devi venire con noi. Tuo padre attende. Il lupo è nostro amico e non ti farà del male. E la tua arma non può ferirlo.» Dalla gola del lupo, che non si era più mosso da quando gli avevo sparato, uscì un bizzarro guaito inarticolato, come se la bestia avesse capito le parole della ragazza e stesse confermandole. Lei mi gravava ancora addosso con tutto il suo peso, tenendomi schiacciato nella neve. I suoi denti insanguinati si trovavano a pochi centimetri dal mio viso e le sue dita affondavano nel mio corpo quasi fossero artigli dotati di una forza sovrumana. Dalla gola le uscì un basso grugnito bestiale, poi riprese a parlare. «Verrai dunque con noi alla casa, dove tuo padre ci aspetta per condurre l'esperimento?», mi chiese con quella voce terribile tanto simile agli ululati del branco di lupi. «Verrò», acconsentii, leggermente sollevato nel constatare che quella coppia di belve non voleva divorarmi subito. La donna - non posso chiamarla Stella poiché, tranne che nel corpo, lei non era più Stella - mi aiutò ad alzarmi. Non mosse alcuna obiezione quando mi chinai a raccogliere la pistola che era caduta nella neve e l'infilai in tasca. Lei e il lupo grigio, che chissà come i miei proiettili non erano riusciti ad uccidere, si allontanarono a grandi balzi sulla candida distesa innevata. Io li seguii, arrancando al massimo delle mie possibilità, con la mente piena di supposizioni confuse e ottenebrata dal terrore. Ormai non avevo più dubbi circa il fatto che la donna si considerasse un membro del branco, e che lo fosse effettivamente. Sembrava che tra lei ed il grande lupo che camminava al suo fianco esistesse uno strano rapporto empatico. Doveva trattarsi di una qualche forma di pazzia, pensai, per quanto non avessi mai letto di casi di licantropia dai sintomi così terribilmente esage-
rati come quelli che lei presentava. È ormai noto che alcuni pazzi hanno una forza sovrumana, ma il modo in cui lei correva e balzava sulla neve era qualcosa che esulava dai limiti della comprensione e del raziocinio. Senza contare poi gli altri particolari che la teoria della malattia mentale era incapace di spiegare. Il pallore cadaverico della sua pelle, la terribile luminosità verde degli occhi, il modo in cui parlava... come se l'inglese rappresentasse per lei una lingua straniera, ma di cui possedeva una discreta padronanza. L'andatura sostenuta dalla donna e dal lupo era troppo rapida per me. Per quanto arrancassi al limite delle mie possibilità, non riuscivo a muovermi con la velocità che loro desideravano. Né potevo restare indietro perché, ogni volta che mi attardavo, il lupo mi raggiungeva, ringhiando minacciosamente. Dopo essermi trascinato per alcuni chilometri, i polmoni mi dolevano ed ero pressoché cieco dalla fatica. Per l'ultima volta incespicai e caddi pesantemente nella coltre nevosa. Quando tentai di risollevarmi, i muscoli indolenziti rifiutarono di rispondere e allora rimasi steso là, pronto a sopportare qualsiasi cosa il lupo potesse farmi, piuttosto che sottopormi all'agonia di uno sforzo ulteriore. Ma questa volta fu la donna a raggiungermi. Io ero semi-svenuto, ma mi resi vagamente conto che mi stava sollevando, e che mi caricava sulle sue spalle. Dopodiché i miei occhi si chiusero; ero troppo stanco per osservare ciò che mi circondava. Però, da una sensazione di ondeggiamento, capivo in maniera nebulosa che mi si stava trasportando. Infine le tossine dello sforzo sostenuto presero il sopravvento sui miei tentativi di restare cosciente. Sprofondai nel sonno tipico della spossatezza, dimenticando che i miei arti stavano gelando e che ero trasportato sulle spalle di una donna che possedeva gli istinti di un lupo e la forza di un demonio; una donna che, l'ultima volta che l'avevo vista, era stata una creatura assolutamente umana e adorabile... 4. Non riuscirò mai a dimenticare le sensazioni che provai al mio risveglio. Aprii gli occhi in un'oscurità attenuata soltanto da una fioca luminosità rossa. Ero steso su un letto, o un divano e, avvolto in alcune coperte. Delle mani, che perfino al mio corpo gelato sembravano fredde come ghiaccio, stavano massaggiandomi gambe e braccia. E terribili occhi verdastri flut-
tuavano nell'oscurità soffusa di sfumature scarlatte, fissandomi dall'alto con un'espressione orribile. Spaventato, ricordando quanto era accaduto nel chiarore lunare come un vago incubo, chiamai a raccolta i miei sensi smarriti e con uno sforzo mi levai a sedere sulle coperte. È strano, eppure la prima impressione che colpì la mia mente confusa fu la vista degli sgradevoli fiori verdi che spiccavano in file monotone sulla squallida tappezzeria macchiata. Nella luce rossastra della stanza sembravano di una lugubre tinta nera, eppure risvegliarono ugualmente in me un vecchio ricordo. Mi resi conto che mi trovavo nella sala da pranzo della fattoria, dove ero venuto a trascorrere due estati con lo zio Tom McLaurin molti anni prima. Quella camera dall'illuminazione grottesca conteneva pochissimi mobili. Il divano su cui giacevo si trovava accanto a una parete, di fronte a un lungo tavolo circondato da una mezza dozzina di sedie. In fondo alla stanza vi era una grossa stufa, e dietro di essa un secchio pieno di carbone e una cassa contenente dei ramoscelli di pino per accendere il fuoco. La stufa era spenta e la stanza era freddissima. La debole luce scarlatta proveniva da una piccola lampada elettrica appoggiata sul tavolo, provvista di una lampadina rossa del tipo usato dai fotografi nelle camere oscure. Senza dubbio dovetti recepire tutte quelle impressioni in maniera inconscia, dato che la mia mente atterrita era completamente presa dalle persone che occupavano la stanza. Mio padre, chino su di me, era intento a strofinarmi le mani, mentre Stella mi stava massaggiando i piedi che sporgevano dalle coperte. E anche mio padre aveva subito lo stesso spaventoso, misterioso cambiamento della ragazza! La sua pelle esangue era di un freddo pallore cadaverico, e le sue mani erano gelide quanto quelle di un morto irrigidito. E i suoi occhi, che mi osservavano con una strana e terribile circospezione, brillavano di un fulgore verdastro, simili a quelli di Stella e del grande lupo grigio. Lei stessa, quell'essere orribile che un tempo era stato l'adorabile Stella, non era cambiata. Aveva sempre quella pelle cadaverica, quegli occhi dalla strana luminescenza verde e quelle macchie sul viso, che adesso apparivano nere nella tetra luce rossastra. Nella stufa non ardeva alcuna fiamma, eppure, nonostante il gelo che impregnava la stanza, lei indossava ancora la stessa sottoveste di seta bianca strappata di prima. Mio padre - o almeno la cosa che una volta era mio
padre - portava solo una leggera camicia di cotone, da cui erano state strappate le maniche, e un paio di calzoni logori. Le braccia e i piedi erano nudi. Constatai un'ennesima cosa spaventosa. Mentre il mio respiro si condensava in bianche nuvole di cristalli ghiacciati nell'aria gelida, dalle narici di mio padre e di Stella non usciva alcuna traccia di vapore. Dall'esterno potevo sentire il lugubre lamento soprannaturale del branco. E, di tanto in tanto, i due guardavano con inquietudine in direzione della porta, quasi fossero ansiosi di raggiungere i loro simili. Quando mio padre parlò, mi ero già sollevato a sedere e mi guardavo attorno con un misto d'incredulità e di confusione. «Siamo felici di vederti, Clovis», mi disse piuttosto freddamente e senza mostrare alcuna emozione, con un atteggiamento del tutto diverso dai suoi modi solitamente gioviali e affettuosi. «Sembra che tu abbia freddo, ma tra poco tornerai ad essere normale. Sorprendentemente, noi abbiamo bisogno di te per un esperimento che non possiamo portare a termine senza la tua assistenza.» Parlava lentamente, incerto, come uno straniero che ha tentato di imparare l'inglese da un dizionario. Rimasi fortemente perplesso, anche se davo per scontato che sia lui che Stella soffrissero di uno squilibrio mentale. E la sua voce aveva un certo tono lamentoso, che ricordava gli ululati del branco. «Ci aiuterai?», domandò Stella con la stessa, terrificante inflessione. «Spiegatemi! Spiegatemi tutto quanto, per favore!», sbottai. «Altrimenti impazzirò! Perché tu correvi insieme ai lupi? Perché i tuoi occhi hanno quella luminosità verde, e la tua pelle è di un pallore mortale? Perché siete così freddi? Perché questa luce rossa? Perché non c'è alcun fuoco acceso?» Mentre farfugliavo tutte quelle domande, loro rimasero a fissarmi in silenzio nella strana stanza, con quello sguardo agghiacciante. Per alcuni minuti restarono zitti. Poi, negli occhi di mio padre apparve un'espressione astuta, e dalla sua bocca uscì di nuovo quella voce agghiacciante. «Clovis», mi disse, «tu sai che siamo venuti qui allo scopo di studiare la scienza. Ed è stata effettuata una grande scoperta, un'enome scoperta riguardante le risorse della vita. I nostri corpi sono cambiati, come tu puoi vedere. Sono diventati macchine migliori e più forti. Il freddo non li danneggia, a differenza del tuo. Perfino la nostra vista è migliore, quindi non ci occorrono più luci intense.
Ma ci manca ancora il successo perfetto. Le nostre menti sono state cambiate e noi non ricordiamo ciò che un tempo sapevamo. E sei tu che noi desideriamo come nostro aiutante per aggiustare una nostra macchina che è stata rotta. Noi vorremmo che ci aiutassi, cosicché a tutta l'umanità possiamo portare il dono della nuova vita, che è forza eterna e non conosce morte. Noi cambieremo tutti con la nuova scienza che abbiamo scoperto.» «Vorresti dire che hai intenzione di trasformare la razza umana in tanti mostri simili a voi?» Mio padre ringhiò con la ferocia di un animale da preda. «Tutti gli uomini riceveranno il dono della vita simile alla nostra», ribadì. «La morte non sarà più. E noi richiediamo il tuo aiuto... e l'otterremo!» La sua voce conteneva un intenso tono di maleficio di minaccia. «Tu sarai nostro aiuto. Tu non rifiuterai!» Si piantò di fronte a me digrignando i denti e incurvando le dita come fossero artigli. «Certo che ti aiuterò!», riuscii a balbettare con voce tremante. «Ad ogni modo non sono molto bravo come sperimentatore.» Ero sicuro che un rifiuto avrebbe rappresentato un mezzo per commettere uno spiacevolissimo suicidio. In quei minacciosi occhi verdi brillò una luce trionfante di astuzia, l'astuzia del folle che ha appena perpetrato un abile inganno. «Puoi venire adesso, così da vedere la macchina?», domandò Stella. «No», risposi in fretta, cercando delle ragioni per guadagnare tempo. «Ho freddo. Devo accendere un fuoco e scaldarmi. E poi ho fame, e sono molto stanco. Devo mangiare e dormire.» Ed era tutto quanto vero, tra l'altro. Il mio corpo era interamente ghiacciato per le ore trascorse all'aperto. Gambe e braccia mi tremavano ancora. I due si guardarono scambiandosi degli strani suoni gutturali, simili a lamenti bestiali. Sembrava che quello, e non le parole, fosse il loro linguaggio naturale, e che il loro inglese fosse solo una lingua appresa superficialmente da poco tempo. «Vero», disse mio padre, e guardò verso la stufa. «Accendi un fuoco se devi. Quello che ti occorre è qui?» E indicò con aria interrogativa il carbone e i legnetti, come se il fuoco fosse una cosa del tutto nuova e sconosciuta per lui. «Noi dobbiamo andare all'esterno», aggiunse. «La luce del fuoco è dannosa per noi, come il freddo per te. E in un'altra stanza, chiamata...», esitò visibilmente, «...chiamata cucina, ci sarà cibo. Là ti aspetteremo.»
Seguito dalla ragazza, uscì silenziosamente dalla camera. Rabbrividendo per il freddo, mi affrettai verso la stufa: le braci erano spente, e da parecchi giorni non veniva accesa. Scossi la cenere, accesi un fiammifero che trovai in tasca e lo buttai sulla grata, riempiendo poi la stufa di ramoscelli e carbone. In pochi minuti si levò una fiamma crepitante, di fronte alla quale mi accovacciai con un senso di gratitudine. Poco dopo la porta si aprì lentamente. Stella lanciò un'occhiata guardinga per vedere se c'era della luce nella stanza, poi entrò. La stufa, perfettamente chiusa, non lasciava filtrare alcun bagliore. La pallida ragazza dagli occhi verdi aveva le braccia cariche di cibo, un curioso assortimento raccolto evidentemente a casaccio in cucina. C'erano due pagnotte, della pancetta affumicata, una lattina chiusa di caffè, un sacchetto di sale, una scatola di farina d'avena, un barattolo di lievito, una dozzina di confezioni di cibo in scatola, e perfino una bottiglia di lucido per la stufa. «Tu mangi questo?», mi chiese con la sua voce stranamente animalesca, deponendo il tutto sul tavolo. Era una situazione quasi ridicola, eppure in un certo senso anche terribile. Sembrava che non avesse la minima idea riguardo i bisogni alimentari umani. Provando finalmente un piacevole tepore, e letteralmente affamato, mi accostai al tavolo ed esaminai lo strano assortimento che c'era sopra. Scelsi una pagnotta, una scatoletta di salmone e una di albicocche. «Alcune di queste cose si mangiano così come sono», azzardai, chiedendomi come avrebbe reagito. «Altre devono essere cotte, invece.» «Cotte?», domandò immediatamente lei. «Cosa vuol dire?» Poi, mentre io restavo zitto per la sorpresa, aggiunse: «Vuoi forse dire che devono essere calde e sanguinanti dell'animale?». «No!», urlai. «No. Per cuocere un cibo lo si riscalda. E di solito si aggiunge del condimento, come il sale, per esempio. È un procedimento abbastanza complesso che richiede una notevole abilità.» «Capisco», disse. «E tu devi consumare simili generi per mantenere il tuo corpo integro?» Le risposi di sì, poi le dissi che mi serviva un apriscatole per il cibo confezionato. Dopo avermi chiesto una descrizione di tale arnese, andò in cucina e tornò quasi subito con l'apriscatole. Anche mio padre era rientrato nella stanza. I due mi osservarono con quegli strani occhi verdi mentre mangiavo. Il mio appetito non ne era certo
stimolato, ma cercai di portare avanti il pasto il più a lungo possibile per rinviare qualsiasi cosa mi riservassero per quando avessi finito. Entrambi mi rivolsero parecchie domande. Domande simili a quella di Stella riguardante la cottura, circa argomenti normalmente noti anche a un bambino. Non si trattava comunque di domande stupide... affatto! Entrambi mostravano di avere un'intelligenza quasi soprannaturale. Ricordavano tutto, e rimasi impressionato dalla loro abilità nel collegare i fatti che fornivo loro, per svilupparne altri. I loro occhi mi fissarono incuriositi quando, incapace di protrarre ulteriormente la finzione di avere ancora fame, estrassi una sigaretta e cercai un fiammifero per accenderla. Quando la fiammella brillò, lanciarono un urlo come se fossero in agonia e si coprirono gli occhi, balzando indietro tremanti. «Distruggi quella cosa!», ringhiò mio padre inferocito. Spensi la minuscola fiamma, sorpreso dai suoi effetti. I due si scoprirono gli occhi, sbattendo le palpebre. Trascorsero parecchi minuti prima che si riavessero completamente dalla loro sbalorditiva paura della luce. «Non fare più luce quando noi siamo vicini», ringhiò mio padre. «Ti lacereremo il corpo se dimentichi!» E scoprì i denti, arricciando le labbra come un lupo e lanciando un altro terribile ululato. Stella corse ad una finestra che guardava a Est, aprì gli scuri e sbirciò nervosamente fuori. Vidi che stava sorgendo l'alba. La ragazza uggiolò in maniera strana, rivolta a mio padre. Anche lui era inquieto, come una preda braccata dai cani, e roteava gli enormi occhi verdi intorno a sé. Si voltò quindi verso di me con fare ansioso. «Vieni», disse. «La macchina che noi con il tuo aiuto ripareremo, è nella cantina sotto la casa. Il giorno arriva. Noi dobbiamo andare.» «Non posso», protestai. «Sono stanco morto: sono stato in piedi tutta la notte, devo assolutamente riposarmi, prima di mettermi a lavorare a una macchina. Ho tanto sonno che non riesco nemmeno a connettere.» Mio padre rivolse un guaito lamentoso a Stella, come se stesse parlando in una strana lingua lupesca. Lei gli rispose nello stesso modo, poi mi disse: «Se il riposo è necessario al funzionamento del tuo corpo, puoi dormire fino a quando la luce non sparirà. Seguimi». Aprì la porta in fondo alla stanza, mi fece attraversare una sala buia, e quindi mi fece entrare in una piccola camera da letto che conteneva un let-
tino, due sedie, una toeletta e un armadio. «Vedi di non andartene», mi avvertì con un ringhio, «o noi ti seguiremo sulla neve!» Quindi la porta si chiuse e rimasi solo. Una chiave cigolò sinistramente nella serratura. La piccola stanza era fredda e buia. Mi infilai in fretta a letto e, per un po', rimasi sveglio ad ascoltare. L'ululato spaventoso del branco, che era continuato per tutta la notte, sembrò farsi più intenso e vicino. Poi cessò con pochi uggiolii acuti, apparentemente proprio fuori dalla mia finestra. Con l'alba, il branco era venuto nella casa! Mentre la luce crescente del giorno filtrava nella cameretta, mi sollevai sul letto per esaminarne di nuovo il contenuto. Era una stanza ordinata, tappezzata di fresco. La toeletta era coperta da un vivace drappo di seta su cui erano disposti ordinatamente degli articoli da toeletta femminili. In un angolo, sotto una tenda, erano appesi alcuni abiti, un berretto di colore brillante, e un maglione. Sulla parete c'era una foto... un mio ritratto! Mi resi conto che la stanza in cui ero stato chiuso a chiave fino al calar della sera doveva appartenere a Stella. Ora capivo anche che nessuna spiegazione terrena, nessuna forma di pazzia, poteva spiegare ciò che avevo visto e sentito. Era un pensiero presente nella mia mente fin dall'inizio, ma avevo tentato di relegarlo in un angolo, in cerca di una spiegazione più semplice. Avevo pensato a Marte... e adesso mi rendevo conto che si riferiva a qualcosa di alieno, qualcosa che non apparteneva a questo mondo. Stella e mio padre erano posseduti da entità aliene, entità intelligenti e malvagie. Le loro personalità umane erano state scacciate, o assoggettate... e le entità usurpatrici ora volevano il mio aiuto... Passai ad esaminare le finestre, nell'eventualità di una fuga. Ce n'erano due, rivolte a oriente. All'esterno, comunque, erano state fissate trasversalmente due assi massicce, talmente vicine da togliermi qualsiasi speranza di riuscire a sgusciarvi in mezzo. Un'ispezione della stanza non rivelò alcun oggetto con cui potessi tentare di rimuoverle. Del resto, avevo troppo sonno ed ero troppo spossato per tentare la fuga. Al pensiero dei quindici chilometri di neve spessa e farinosa che mi separavano da Hebron, abbandonai subito l'idea. Sapevo che, nelle condizioni in cui mi trovavo, non sarei mai riuscito a percorrere una distanza simile nel corso di quella breve giornata invernale. E rabbrividii al pensiero di poter essere raggiunto sulla pianura innevata dal branco.
Mi coricai di nuovo sul letto di Stella, che conservava ancora una leggera fragranza di profumo, e ben presto mi addormentai. Il mio sonno, per quanto profondo, fu agitato. Ma nessun incubo avrebbe potuto essere così sconvolgente come la realtà da cui avevo trovato scampo per qualche ora. 5. Dormii per gran parte della breve giornata invernale. Al mio risveglio il sole stava tramontando. Una luce grigia scendeva sullo sterminato deserto di neve all'esterno delle mie finestre sbarrate, e il pallido disco della luna quasi piena stava sorgendo nel cielo crepuscolare a oriente. Non si scorgeva traccia di alcuna abitazione lungo le miglia di quella candida distesa, e provai un'acuta sensazione di completa solitudine. Non potevo contare su alcun aiuto esterno nell'affrontare la strana e paurosa situazione in cui mi ero inaspettatamente trovato. Se dovevo sfuggire a quei mostri che si celavano nei corpi delle persone a me più care, dovevo fare affidamento esclusivamente sulle mie forze. E sarebbe toccata esclusivamente a me l'impresa di restituire loro le personalità che possedevano un tempo. Ancora una volta esaminai le robuste traverse di legno che ostruivano le finestre. Sembravano inchiodate saldamente alla parete da entrambi i lati e io non trovai alcun attrezzo adatto a tagliarle. Avevo ancora i fiammiferi in tasca, comunque, e pensai che forse avrei potuto bruciarle. Ma non c'era il tempo sufficiente per una simile operazione prima che le tenebre facessero tornare i miei catturatori, e inoltre non gradivo per niente il pensiero di fuggire con il branco che mi inseguiva. E poi avevo di nuovo fame e sete. Scese l'oscurità, mentre giacevo sul letto tra gli effetti personali di un'adorabile ragazza nei cui confronti avevo nutrito sentimenti di tenerezza, e aspettavo che lei arrivasse con la notte, in compagnia dei suoi terribili alleati, per trascinarmi incontro a un orrendo destino che mi era ancora ignoto. La grigia luce diurna svanì impercettibilmente nel pallido chiarore argenteo della luna. All'improvviso, senza alcun segno rivelatore, la chiave girò nella serratura. Stella, o l'entità aliena che dominava il grazioso corpo della ragazza, scivolò nella stanza con una grazia sinistra. «Immediatamente tu verrai», disse con quella voce lupina. «La macchina
aspetta l'aiuto di te nel grande esperimento. Subito vieni. Il tuo debole corpo è riposato?» «D'accordo», dissi. «Certo, ho dormito. Però adesso ho di nuovo fame e sete. Devo assolutamente bere e mangiare qualcosa, prima di mettermi ad armeggiare con una macchina.» Ero deciso a posticipare il più a lungo possibile qualsiasi prova mi fosse riservata. «Il tuo corpo potrai ancora soddisfare», acconsentì la donna. «Ma impiega non troppo tempo!», ringhiò minacciosa. La seguii nella stanza da pranzo. «Prendo acqua», mi disse, e uscì silenziosa dalla porta. La stufa era ancora tiepida. L'aprii, attizzai le braci e aggiunsi altro carbone, ottenendo ben presto una fiamma crepitante. Poi spostai la mia attenzione sul cibo che era avanzato. I resti del salmone e delle albicocche erano gelati sui piatti, e allora li appoggiai sulla stufa a scaldarsi. Poco dopo Stella fu di ritorno con un secchio contenente un blocco di ghiaccio. Evidentemente sorpresa dal fatto che non potessi bere l'acqua in forma solida, mi lasciò deporre il recipiente sulla stufa affinché il ghiaccio si sciogliesse. Mentre attendevo accanto alla stufa, mi rivolse innumerevoli domande, molte delle quali così elementari da risultare ridicole se mi fossi trovato in una situazione meno tragica, altre riguardanti invece le più recenti e astruse teorie scientifiche, di cui la ragazza sembrava possedere una conoscenza superiore alla mia. Mio padre apparve all'improvviso con le braccia cadaveriche piene di libri. Li depose sul tavolo e mi fece un brusco cenno esortandomi a dare un'occhiata. Aveva portato La teoria della relatività di Einstein, Gravitazione ed Elettricità di Weyl, e due dei suoi volumi stampati privatamente. Si trattava di Tensori Spazio-temporali e del volume di ipotesi matematiche intitolato Universi interdipendenti, le cui bizzarre implicazioni avevano creato molta sensazione tra gli studiosi ai quali mio padre aveva inviato delle copie del libro. Cominciò allora ad aprire quei volumi e a bombardarmi di domande a cui spesso non fui in grado di rispondere. Tuttavia, la maggior parte dei suoi interrogativi riguardavano semplicemente la grammatica o il significato delle parole del testo. Sembrava che riuscisse ad afferrare facilmente l'essenziale del discorso, mentre la lingua gli creava delle difficoltà. Le sue domande erano esattamente quelle che avrebbe potuto rivolgere
un essere super-intelligente di Marte, nel caso avesse tentato di leggere dei trattati scientifici senza possedere però una padronanza completa del linguaggio in cui erano scritti. Anche i suoi stessi testi sembravano risultargli poco familiari, come quelli degli altri scienziati. Eppure scorse le pagine a una velocità impressionante, fermandosi solo occasionalmente per chiedere un chiarimento, e parve acquisire una conoscenza completa del testo man mano che procedeva. Quando mi lasciò libero di consumare il mio pasto, il cibo e l'acqua erano ormai caldi. Bevvi, poi mangiai pane, salmone e albicocche, con la massima lentezza che il coraggio mi consentiva. Li invitai a dividere il pasto con me, ma i due rifiutarono seccamente. La serie di domande nel frattempo continuò. Poi, di colpo, concludendo evidentemente che avevo mangiato a sufficienza, si incamminarono verso la porta ordinandomi di seguirli, e io non osai fare altrimenti. Mio padre si fermò all'estremità del tavolo e prese la lampada rossa, unica fonte luminosa della stanza. Attraversammo di nuovo la sala buia e uscimmo da una porta sul retro della fattoria. Mentre percorrevamo un tratto innevato alla luce lunare, io rabbrividii per l'ennesima volta udendo il gemito lontano del branco in cui echeggiava ancora quella nota terribile che ricordava degli organi vocali umani tesi in uno sforzo inaudito. A pochi metri da noi si trovava la porta della cantina. Il seminterrato dell'abitazione era stato evidentemente ampliato in maniera considerevole di recente, dato che il cortile posteriore era pieno di cumuli di terriccio, alcuni dei quali coperti di neve, altri neri e spogli. I due fecero strada lungo i gradini che immettevano nella cantina; mio padre portava ancora la lampada che rompeva debolmente l'oscurità con un fievole bagliore cremisi. La cantina era spaziosa e intonacata accuratamente. Non aveva subito lavori di ampliamento, ma accanto alla porta si apriva un passaggio scuro che scendeva verso scavi situati a una profondità maggiore. Al centro del pavimento c'erano i rottami di uno strano macchinario che era stato evidentemente danneggiato di proposito. Lì accanto notai infatti un'accetta, senza dubbio l'oggetto causa della devastazione. Il pavimento era cosparso di schegge di vetro, appartenenti a valvole termoioniche infrante. La macchina stessa era un ammasso di cavi aggrovigliati, di bobine contorte e di magneti piegati, sistemato in maniera incomprensibile all'e-
sterno di un grande anello di rame, del diametro di un metro abbondante. L'anello di rame era montato perpendicolarmente su un telaio metallico, di fronte al quale vi era uno scalino di pietra sistemato in modo da lasciar supporre che servisse per salire e penetrare attraverso l'anello. Vidi però che era praticamente impossibile farlo, poiché sul lato opposto vi era un ammasso di apparecchiature contorte... e un grande specchio parabolico di metallo lucido al centro del quale era avvitato un oggetto che aveva tutta l'aria di un tubo catodico spezzato. Era una macchina davvero sconcertante, che aveva subito una distruzione pressoché totale. Escludendo l'anello di rame e quel gradino di pietra, le altre sue parti erano quasi tutte contorte o infrante. In fondo alla cantina c'era un generatore di piccole dimensioni, un piccolo motore a benzina collegato a una dinamo, del tipo usato a volte nelle case isolate per fornire corrente elettrica. Vidi che quello non era stato danneggiato. Da un banco vicino alla parete, mio padre raccolse una valigetta da cui tolse un rotolo di cianografie e un fascio di fogli infilati in una cartelletta di cartoncino. Sparse tutto quanto sul banco e vi appoggiò vicino la lampada rossa. «Questa macchina, come vedi, è stata danneggiata, con nostra grande sfortuna», mi disse. «Queste carte dicono il metodo di costruzione da seguire nel montaggio di simili macchine. Il tuo aiuto è necessario nel decifrare quello che dicono. E la nuova macchina porterà una grande e forte vita, come noi abbiamo, a tutto il tuo mondo.» «Hai detto tuo mondo!», gridai. «Dunque ammetti di non appartenere a questa terra? Tu sei un mostro, un mostro che ha rubato il corpo di mio padre.» Entrambi ringhiarono come belve, scoprendo i denti e fulminandomi con un terribile sguardo dei loro occhi verdastri. Poi nelle pupille di mio padre affiorò di nuovo una subdola espressione d'astuzia. «No, figlio mio», mi disse con un uggiolio animalesco. «Un nuovo segreto di vita noi abbiamo scoperto. Grande forza esso dà ai nostri corpi. La morte non più temiamo. Ma le nostre menti sono cambiate. Molte cose non ricordiamo. Dobbiamo chiedere il tuo aiuto per leggere questo che un tempo noi abbiamo scritto...» «Sciocchezze!», esclamai. «Non ti credo. E che io sia dannato se vi aiuterò a riparare quel congegno infernale, e a trasformare altri esseri umani in mostri come voi!»
I due balzarono verso di me. I loro occhi brillavano orrendamente sulla pelle pallidissima; le loro dita erano incurvate come artigli e dalle loro bocche ringhianti gocciolava saliva. «Tu aiuterai!», urlò mio padre. «O il tuo corpo noi atrocemente distruggeremo. Lo divoreremo lentamente, mentre tu vivi ancora!» Accecato dal terrore persi l'uso della ragione, e con un grido selvaggio e tremolante mi lanciai verso la porta. Era un gesto disperato, poiché era impossibile sfuggire a esseri dotati della loro forza soprannaturale. Con urla impressionanti si scagliarono dietro di me insieme, gettandomi sul pavimento e addentandomi selvaggiamente alle braccia e al corpo. Per alcuni istanti lottai sorretto dalla disperazione, mi contorsi e scalciai, riparandomi la gola con un braccio e colpendo alla cieca con l'altro. Poi mi immobilizzarono definitivamente, e non mi restò altro che imprecare e lanciare una vana richiesta di aiuto. La donna, bloccandomi le braccia contro i fianchi, mi sollevò con facilità e mi caricò sulle sue spalle. Il suo corpo a contatto del mio era freddo come ghiaccio. Lottai con furia ma inutilmente, mentre lei imboccava il tenebroso pendio del passaggio che conduceva nei recenti scavi sottostanti la cantina della casa. Dietro di noi, mio padre raccolse la lampada rossa e le carte del progetto, seguendoci nel tetro cunicolo. 6. Impotente tra quelle braccia mostruosamente forti, sebbene avessero il gelo e il pallore di un cadavere, venni trasportato lungo una stretta rampa di scalini in un'alta sala sotterranea pervasa da una fioca luce rossastra che non proveniva da alcuna fonte visibile, tanto da sembrare un tetro lucore sanguigno prodotto dall'aria stessa. Le pareti del locale sotterraneo erano lisce e scurissime, di una misteriosa sostanza nera come l'ebano. Venni trasportato per diversi metri lungo quella cavità stranamente illuminata, finché non arrivammo in un locale più ampio, con un alto soffitto a volta e ogive sorretto da una doppia fila di colonne massicce e nerissime. Nelle pareti erano scavate numerose e buie nicchie ad arco. Anche questa sala più ampia era illuminata in maniera tetra da una luce spettrale e scarlatta che non sembrava irradiarsi da nessun punto definito. Era un posto silenzioso e terribile, una specie di cattedrale delle tenebre
consacrata al male e alla morte. Una sinistra atmosfera di orrore indicibile pareva sprigionarsi da quelle pareti buie come la notte, simile ai soffocanti fumi d'incenso offerti a un'informe Divinità dell'Orrore. La fioca luce rossastra avrebbe potuto provenire da ceri invisibili bruciati in riti proibiti di sangue e di morte. Il silenzio stesso era come un'entità malvagia e tangibile che strisciava su di me staccandosi da quei muri d'ebano. Mi fu concesso ben poco tempo per poter riflettere sugli interrogativi suscitati da quel luogo. Cos'era quella materia nerissima delle pareti? Da dove proveniva quel livido, lucore sanguigno? Da quanto tempo era stato costruito quello strano tempio del terrore? E a quale Divinità demoniaca era consacrato? Ma non ebbi l'opportunità di cercare una risposta a quelle domande, anzi, non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dal mio naturale stupore nel trovare un posto simile sotto il terreno di una fattoria del Texas. La ragazza che mi trasportava mi lasciò cadere a terra, accanto a un pilastro che aveva un diametro di mezzo metro abbondante, e lanciò un guaito stridulo come quello di un cane affamato. Si trattava evidentemente di un richiamo, dato che due uomini apparvero nell'ampia navata centrale del tempio, verso la quale io ero voltato. Due uomini... o piuttosto due mostruosità malvagie celate in corpi umani. I loro occhi brillavano di quella verde fiamma aliena, e i loro corpi, sotto gli abiti stracciati, erano spaventosamente bianchi. Uno di loro mi si avvicinò con un pezzo sfilacciato di corda, probabilmente un frammento di laccio che avevano trovato di sopra. Più tardi capii che quei due dovevano essere i meccanici provenienti da Amarillo e che, come mi aveva detto Judson la notte del nostro viaggio fatale, erano stati assunti da mio padre. Non avevo ancora visto il dottor Blake Jetton, il padre di Stella, che era stato l'assistente capo di mio padre in varie indagini scientifiche... indagini che avevano avuto un risultato terrificante! Mentre la donna mi teneva contro la colonna, gli uomini mi afferrarono le braccia, le tesero dietro il pilastro e le legarono. Io scalciai, lottai, li maledissi, ma invano. Il mio corpo sembrava stucco molle di fronte alla loro terrificante forza. Una volta legatemi le mani, mi passarono una seconda corda attorno alle caviglie, stringendola saldamente contro la colonna color ebano. Ero così del tutto impotente in quel misterioso tempio sotterraneo, in balìa di quelle quattro creature che sembravano possedere una superintelli-
genza infernale unita alla forza e alla natura di lupi. «Guarda lo strumento che noi dobbiamo costruire!», esclamò la voce ringhiante di mio padre. Fermo di fronte a me con il rotolo di progetti tra le mani cadaveriche, mi indicò un oggetto che fino a quel momento non avevo scorto in quel macabro baluginio rossastro. Al centro dell'alta navata principale, tra le file gemelle di neri pilastri, c'era una lunga e bassa piattaforma di pietra d'ebano, da cui si ergeva un'intelaiatura metallica simile a quella della macchina distrutta che avevo visto di sopra, nella cantina. Il telaio sosteneva verticalmente un enorme anello di rame, molto più grande dell'anello appartenente all'apparecchio devastato. Il suo diametro era di circa tre metri e mezzo, se non di più; la sua curva superiore si innalzava verso la buia volta del locale, luccicando stranamente nell'atmosfera sanguigna e spettrale. Dietro l'anello era stato sistemato un gigantesco specchio parabolico argenteo di metallo lucido. Ma l'apparecchiatura era evidentemente incompleta. Le complesse valvole termoioniche, le delicate bobine, i magneti e l'intricata cablatura, di cui avevo osservato i resti inservibili nel rottame dell'altra macchina, non erano ancora stati installati. «Guarda!», urlò di nuovo mio padre. «Lo strumento da cui verrà sulla tua terra la grande vita che è nostra. Il progetto su questi fogli abbiamo fatto. Dal progetto abbiamo costruito la macchina piccola, e abbiamo condotto a noi stessi la vita, la forza, l'amore del sangue...» «L'amore del sangue!» Sussultai, lanciando un urlo angosciato, e fui di nuovo quasi sopraffatto dall'orrore che incombeva in quello strano posto. Mi accasciai contro le corde tremando di paura. Negli occhi della cosa che un tempo era stata mio padre comparve ancora quella luce d'astuzia. «No, non temere», mi calmò con un tono lamentoso. «La tua lingua è nuova per me, e io dico quello che non intendo. Non devi avere paura... se farai il nostro volere. Se non lo farai, allora noi assaggeremo il tuo sangue. Ma la nuova vita è giunta solo a pochi. Poi la macchina si è rotta, per colpa di un uomo, e i nostri cervelli sono cambiati; così noi non ricordiamo come leggere i progetti che abbiamo fatto un tempo. Il tuo aiuto vogliamo nel ricostruire una nuova macchina. Per te e per tutta la tua specie di vita!» Mio padre ringhiò in direzione della donna. Lei allora si gettò carponi e si scagliò contro di me come un lupo, con terribili ululati!
Mi prese con i denti i calzoni, sulla metà della coscia destra, e diede uno strappo verso il basso. Poi me li affondò nella carne e cominciò a rosicchiare lentamente... Non mi produsse una ferita profonda, ma il sangue, che appariva nero in quella luce terribile, prese a gocciolare lungo la mia gamba... sangue che di tanto in tanto lei leccava con gusto, smettendo momentaneamente di rosicchiare. Era chiaro che tutto ciò veniva fatto con il preciso scopo di causarmi il massimo del dolore e della paura. Per alcuni minuti, forse, lo sopportai... minuti che sembrarono secoli. Il dolore in sé era atroce, ma non quanto lo era il terrore del luogo e della situazione in cui mi trovavo. Lo strano tempio delle tenebre, dal pavimento nero, le pareti nere, i pilastri neri, il soffitto a volta nero; la fioca luce color sangue, senza fonti apparenti, che lo pervadeva; lo spaventoso silenzio, rotto soltanto dai miei gemiti e dal lieve rumore dei denti che rosicchiavano; il mostro demoniaco che mi stava di fronte nel corpo di mio padre, che mi fissava tenendo in mano gli schemi e i pezzi della macchina, e che aspettava che parlassi. Ma la cosa più orribile era che il demone che mi stava addentando possedeva il corpo della cara, adorabile Stella! La ragazza stava ora affondando i denti con un rumore scricchiolante. Mi dimenai, urlando per il dolore atroce mentre grondavo di sudore. Diedi alcuni strattoni furiosi ai legami che mi bloccavano, cercando di spezzare la corda che imprigionava la mia gamba torturata. Dalla gola di lei si levarono avidi e rabbiosi grugniti. Il suo viso, di un pallore cadaverico, era di nuovo sporco di sangue, come la prima volta che l'avevo visto. Ma lo strazio della mia gamba continuava, interrotto solo occasionalmente quando lei si fermava a leccarsi le labbra con un'orribile espressione di soddisfazione. Alla fine non riuscii più a sopportare quella tortura. Anche se il destino della Terra dipendeva da me, come ero convinto, non potevo più resistere. «Basta! Basta!», gridai. «Parlerò!» Mio padre si avvicinò a me con uno sguardo in cui bruciava una verde fiamma malvagia, e mi srotolò di fronte agli occhi uno dei fogli contenenti i disegni e i dati delle strane valvole che dovevano essere montate all'esterno dell'anello di rame. Dalle sue labbra uscì quel curioso lamento animalesco con cui quei mostri comunicavano tra di loro. Uno dei meccanici mutati gli si avvicinò allora, portando in mano le parti di una valvola: filamenti, placca, griglia, schermatura, elettrodi ausiliari e il tubo di vetro in cui dovevano essere sigillate.
Le parti evidentemente erano state costruite con la massima conformità possibile alle istruzioni scritte, permessa dalla imperfetta conoscenza dell'inglese di quegli esseri. «Ci sono i piani di queste parti», disse mio padre. «Se sbagliate, tu devi dire dove sbagliate. Descrivi come metterle assieme. Parla rapido, o morirai con lentezza!» E ringhiò minaccioso. Sebbene non fossi assolutamente un esperto in fisica, vidi abbastanza facilmente che gran parte di quei pezzi erano inservibili, nonostante fossero stati fabbricati con sorprendente precisione. Sembrava che quelle creature non possedessero alcuna conoscenza dei principi fondamentali che erano alla base del funzionamento della macchina che stavano tentando di costruire... eppure, nel fabbricare quei pezzi, avevano compiuto delle realizzazioni che sarebbero state al di fuori della portata della nostra scienza. Il filamento era costruito in metallo, abbastanza bene... ma era troppo spesso, e la corrente che avrebbe condotto avrebbe fatto saltare la valvola. La griglia era costruita in maniera eccellente... ed era di radio metallico! Valeva una piccola fortuna, ma era del tutto inadatta a una valvola termoionica. La placca era evidentemente di quarzo puro, fuso. Era modellata con una precisione che mi sorprese, ma anch'essa era inservibile. «Parti sbagliate?», latrò eccitato mio padre, avendomi senza dubbio letto qualcosa in faccia. «Indica quanto sono sbagliate! Descrivi come farle corrette!» Io serrai le labbra, deciso a non rivelare nulla. Sapevo che la spaventosa metamorfosi di mio padre e di Stella era avvenuta tramite la macchina ora distrutta, e non volevo collaborare alla trasformazione di altri esseri umani in simili mostri diabolici. Ero certo che quell'apparecchiatura, una volta completata, avrebbe costituito una minaccia per l'intera umanità. Piuttosto riluttante, la ragazza si alzò, leccandosi le labbra scarlatte. Mio padre - io continuo sempre a chiamare il mostro con questo nome, ma quello non era mio padre - mi mise gli schemi sotto gli occhi, mostrando nel palmo della mano le minuscole parti che componevano la valvola. Dovetti usare tutta la forza di volontà di cui disponevo per distogliere la mente dal dolore pulsante della ferita alla gamba. Ma riuscii a spiegare che il filamento avrebbe dovuto essere molto più sottile, che il radio non era adatto per la griglia, e che la placca doveva essere costruita con un metallo conduttore, invece che con del quarzo. Fece fatica a comprendere i termini scientifici da me usati. Il nome tungsteno, per esempio, non significava niente per lui, finché non gli spiegai le
caratteristiche e il numero atomico di tale metallo. Al che lo identificò immediatamente, e parve possedesse al riguardo una conoscenza perfino superiore alla mia. Per lunghe ore risposi alle sue domande e fornii spiegazioni. Alcune volte fui tentato di rifiutare di farlo, ma il ricordo insopportabile dei denti che mi rodevano la gamba finì sempre col costringermi a parlare. La conoscenza scientifica e l'abilità dimostrate nella costruzione delle parti della macchina, una volta capite correttamente le istruzioni, mi sorpresero. Quei mostri, che avevano rubato quei corpi umani, sembravano possedere una loro conoscenza scientifica notevole, specialmente nella chimica e in certi rami della fisica. Però l'elettricità, il magnetismo e le moderne teorie della relatività e dell'equivalenza, sembravano nuove per loro, probabilmente perché quegli esseri provenivano da un mondo i cui fenomeni naturali erano differenti dai nostri. Da una delle cavità che si aprivano nella grande sala, portarono uno strano congegno luccicante che consisteva in una serie di sfere e di bulbi collegati tra loro e costruiti con una specie di cristallo. Un blocco di pietra calcarea, che doveva provenire dagli scavi del tempio sotterraneo, venne posto in una capiente sfera inferiore del macchinario, e si dissolse lentamente formando un denso gas iridescente color viola. Allora, quando mio padre o uno degli altri volevano costruire qualcosa una placca o una griglia metallica, una bobina, un interruttore o qualsiasi altro pezzo occorrente alla macchina - modellavano una piccola copia dell'oggetto desiderato con una sostanza biancastra e molle, simile a cera. Il modello veniva quindi posto in uno dei bulbi di cristallo che veniva riempito con il gas violetto, probabilmente un derivato formato dai protoni e dagli elettroni del calcare scisso. L'operatore del congegno azionava un controllo, e al momento giusto toglieva dal bulbo di cristallo... non il modello, bensì l'oggetto finito, formato del materiale desiderato! Non mi spiegarono il processo, ma sono certo si trattasse di formare nuovi atomi partendo dagli elettroni e dai positroni originali; un processo che era esattamente l'opposto della disintegrazione. Si poteva partire da atomi semplici come quelli dell'idrogeno o dell'elio, e si ottenevano poi carbonio, silicio, o ferro. E poi argento, se si desiderava, oppure oro! E infine radio o uranio, i metalli più pesanti. L'oggetto veniva tolto quando gli atomi avevano raggiunto il numero adatto per la formazione dell'elemento richiesto.
Con quell'apparecchio meraviglioso, i cui risultati superavano i sogni più folli degli alchimisti, la realizzazione dell'enorme macchina al centro della navata procedeva a una velocità impressionante, una velocità che mi terrorizzava. Pensai allora che avrei potuto ritardarne la costruzione escogitando qualche espediente. Spremendomi il cervello, stanco e offuscato dal dolore, cercai un trucco che potesse sviare i miei astuti avversari. L'idea migliore che mi si presentò fu quella di fornire una falsa interpretazione della parola «vuoto». Se fossi riuscito a nasconderne il vero significato a mio padre, lui avrebbe lasciato aria nelle valvole, che sarebbero saltate non appena data corrente. Quando alla fine mi domandò cosa volesse dire quella parola, gli spiegai che indicava uno spazio chiuso. Ma lui aveva consultato opere scientifiche, oltre a sfruttare la mia povera consulenza tecnica. Quando quelle parole uscirono dalle mie labbra, mi balzò addosso con un ringhio terrificante, cercando di ghermirmi la gola. Se non fosse stato per un'affrettata simulazione di ottusità e di paura, la mia parte in quell'orribile avventura avrebbe potuto giungere a una prematura conclusione. Protestai la mia sincerità, adducendo come scusa che la mia mente era sfinita e che non riuscivo più a ricordare argomenti scientifici, che avevo ancora bisogno di mangiare e di dormire. Poi mi accasciai contro le corde, con il capo penzolante, rifiutando di rispondere anche di fronte alla minaccia di ulteriori torture. E, a dire il vero, vi era ben poca finzione nella mia stanchezza, perché non avevo mai passato una giornata così logorante, una giornata in cui gli orrori si erano succeduti così di continuo. Alla fine mi slegarono, e la ragazza, percorrendo il passaggio di prima, mi condusse di nuovo in casa; ero troppo esausto per camminare da solo. Quando uscimmo nel cortile coperto di neve, il lontano lamento del branco mi colpì un'altra volta i timpani. A Est, sulla sconfinata distesa di neve, il pallido disco della luna dai freddi riflessi stava sorgendo. Era di nuovo notte! Ero rimasto nel tempio sotterraneo per più di ventiquattro ore. 7. Ero di nuovo nella piccola stanza che un tempo era stata di Stella, tra i suoi oggetti personali, cogliendo un occasionale sentore del suo profumo. Era una cameretta ordinata e semplice, ed io avevo la sensazione di violare
un luogo sacro. Ma non avevo scelta, del resto, poiché le finestre erano bloccate e la porta era chiusa a chiave. Stella, o meglio dovrei dire la «donna lupo», mi aveva lasciato fermare nell'altra stanza per mangiare e bere qualcosa, e mi aveva perfino concesso di cercare il mobiletto dei medicinali da cui avevo prelevato una bottiglia di disinfettante da applicare alla gamba ferita. Ora, seduto sul letto in un freddo raggio di luce lunare, versai il liquido bruciante e fasciai la gamba con una benda ricavata da un lenzuolo pulito. Poi mi alzai e andai alla finestra: ero deciso a fuggire se la fuga fosse stata possibile, o a farla finita definitivamente in caso contrario. Non avevo alcuna intenzione di tornare vivo in quel tempio infernale. Ma, mentre raggiungevo la finestra, udii debole il lugubre ululato del branco, e cominciai a tremare inorridito, guardando quel bizzarro deserto di neve argentea che luccicava nella foschia opalescente della luna. Poi colsi di sfuggita due occhi verdi che si muovevano, e lanciai un grido. Un enorme lupo grigio stava andando avanti e indietro tranquillamente sotto la finestra, alzando di tanto in tanto il muso e fissando le mie finestre con occhi malvagi. Una sentinella per controllarmi! Alla mia disperazione assoluta si aggiunse allora il peso gravoso della fatica. Mi sentii improvvisamente stremato, fisicamente e mentalmente. Mi accasciai barcollando sul letto e scivolai sotto le coperte senza nemmeno spogliarmi, addormentandomi quasi all'istante. Al risveglio trovai ad accogliermi una giornata fredda e grigia. Un vento gelido sibilava inquietante attorno alla vecchia casa, e il cielo era coperto da tetre nubi bluastre. Balzai dal letto provando un notevole senso di ristoro dopo la lunga dormita. Per un istante, nonostante il giorno cupo, avvertii uno straordinario senso di sollievo; per quell'attimo fuggevole mi sembrò che tutto quanto era accaduto fosse solo un incubo orrendo da cui stavo risvegliandomi. Poi tornarono i ricordi, accompagnati da un dolore sordo alla gamba ferita. Mi chiesi come mai non mi avessero riportato nell'orrido tempio dalla luce rossastra prima dello spuntare del giorno; forse dovevo aver dormito troppo profondamente perché mi svegliassero. Ricordando il lupo grigio, guardai nervosamente dalla finestra. Se n'era andato, ovvio. Sembrava proprio che i mostri non sopportassero la luce del giorno, o qualsiasi altra luce che non fosse il terribile lucore sanguigno del
tempio. Mi gettai una coperta sulle spalle, dato il freddo intenso, e cominciai subito a studiare un sistema per fuggire. Ero deciso a conquistarmi la libertà o a morire nel tentativo. Per prima cosa esaminai ancora le finestre. Le traverse esterne, quantunque di legno, erano solidissime, e anche sforzandomi al massimo, non riuscii a spezzarle. Nella stanza non trovai niente che fosse adatto a tagliarle o a spaccarle senza impiegare ore di duro lavoro. Alla fine mi concentrai sulla porta, ma pugni e calci non sortirono alcun effetto sui solidi pannelli. La serratura aveva un aspetto robusto, e poi non avevo né la capacità, né gli attrezzi per forzarla. Ma mentre ero lì a fissare la serratura, mi venne un'idea. Avevo ancora una piccola automatica e due caricatori pieni. I miei carcerieri avevano mostrato solo disprezzo per quell'arma minuscola, e io non vi facevo più alcun affidamento dopo averne constatato la sorprendente inefficacia nell'uccidere quel lupo grigio. Indietreggiai, presi la pistola e scaricai, senza fretta, tre colpi nella serratura. Quando provai ancora ad aprire la porta, mi accorsi che continuava a non cedere. Allora spinsi e girai la maniglia in continuazione finché, con un secco scatto, la porta si spalancò. Ero libero. Se solo fossi riuscito a raggiungere un luogo al sicuro prima che l'oscurità spingesse allo scoperto quel branco misterioso! Mi fermai nella vecchia sala da pranzo per bere e mangiare affrettatamente, poi uscii dalla porta anteriore perché non osavo avvicinarmi a quell'infernale tana sotterranea nemmeno di giorno, e con una fretta disperata mi incamminai nella neve. Sapevo che il piccolo centro di Hebron distava quindici chilometri in direzione Nord. Sulla spessa coltre nevosa erano visibili ben pochi punti di riferimento, e le nubi grigie nascondevano il sole. Ma io presi ad arrancare lungo un reticolato che sapevo mi avrebbe guidato nella direzione giusta. Lentamente, la casa colonica ingiallita dal tempo, una struttura mal progettata e mal costruita dal tetto di assicelle grigiastre, rimpicciolì sulla candida distesa alle mie spalle. I fabbricati annessi, piccoli, più vecchi e in rovina della casa stessa, parvero raggrupparsi con l'abitazione, fino a formare un'unica macchia bruna sulla smisurata desolazione della prateria innevata. La crosta superficiale, per quanto più ghiacciata e solida della notte maledetta in cui ero arrivato, era ancora troppo fragile per sorreggere il mio
peso. A ogni passo si incrinava sotto i miei piedi, facendomi affondare fino alle caviglie. La mia avanzata era una lotta dolorosa e spietata. Gli orrori e gli sforzi estenuanti degli ultimi giorni mi avevano svuotato di qualsiasi energia. Ben presto mi ritrovai ansimante, con i piedi pesanti come piombo e un dolore sordo alla gamba ferita, un dolore intollerabile. Se la neve fosse stata abbastanza ghiacciata da sostenere il mio peso e permettermi così di correre, avrei potuto arrivare a Hebron prima dell'oscurità. Invece, affondando a ogni passo fino alla caviglia, non riuscivo assolutamente a muovermi con rapidità. Non avevo nemmeno coperto, a mio avviso, la metà della distanza che mi separava da Hebron, quando le tenebre di quella giornata grigia e deprimente sembrarono calare su di me. Mi resi conto, con un fremito d'orrore, che la mia fuga non era iniziata di prima mattina. Avevo l'orologio fermo e, poiché il sole era stato coperto da nubi plumbee, non avevo alcuna nozione del tempo. Sfinito per quell'intero giorno di torture trascorso nel tempio, dovevo aver dormito per più di mezza giornata: la notte mi aveva sorpreso quando ero ancora ben lontano dalla meta. Distrutto dalla fatica, mi ero trovato già diverse volte sul punto di fermarmi e riposare, ma il terrore mi infuse nuove energie e continuai ad arrancare il più rapidamente possibile, evitando però di mettermi a correre, cosa che avrebbe esaurito troppo presto le mie ultime forze. Avevo forse percorso un altro chilometro e mezzo, quando sentii l'agghiacciante ululato del branco. Dapprima lo sentii lontanissimo, basso e lamentoso, con quella sua orrenda nota umana, poi però si fece più forte, e divenne una serie di guaiti striduli e avidi. Capii allora che il branco che aveva assalito me e Judson si era lanciato sulle mie tracce. Il terrore che mi prese, un terrore pazzesco, assoluto e lacerante è inimmaginabile. Urlai e persi ogni controllo. Il mio corpo passava continuamente da ondate di calore a brividi e sudori freddi. Avevo la gola riarsa, e vacillavo mentre il cuore mi batteva cupo in tutto il corpo. Fuggii come un forsennato. Corsi con tutte le mie forze ma, dopo alcuni istanti, sembrò proprio che avessi dato fondo a ogni mia energia. Di colpo mi sentii oppresso dalla fatica e barcollai, quasi incapace di reggermi in piedi. Una foschia rossastra, punteggiata da lampi di candide fiamme, mi danzava di fronte agli occhi. La vasta piana di neve mi roteava attorno in maniera assurda.
Continuai ad avanzare barcollando. Ogni passo mi costava un enorme sforzo di volontà; sentivo che ero sul punto di crollare, ma lottavo disperatamente per trovare la forza di alzare nuovamente il piede. Intanto, gli orribili ululati si facevano più vicini, finché il loro suono non mi martellò nel cervello. Alla fine, incapace di muovere un altro passo, mi voltai a guardare. Per alcuni istanti rimasi lì, barcollando e ansando concitato. Le urla agghiaccianti del branco erano vicinissime, ma non riuscivo a scorgere nulla. Poi, attraverso le nubi, un ampio raggio spettrale di luce lunare illuminò la distesa di neve dietro di me. Allora vidi il branco. Il massimo dell'orrore! Lupi grigi che spiccavano balzi: animali scarni dagli occhi verdastri. E tra di loro, delle strane figure umane! Pupille di smeraldo che fissavano, gelide e spietate. Corpi di pallore cadaverico vestiti solo di stracci. E Stella era alla testa del branco! Mio padre la seguiva, come pure degli altri uomini: tutti avevano gli occhi verdi e la pelle di un bianco immondo. Alcuni erano orrendamente mutilati, e altri così malridotti che avrebbero dovuto essere già morti! Judson, l'uomo che mi aveva condotto fuori da Hebron, era con loro. La carne livida gli pendeva a brandelli dal corpo, aveva perso un occhio, e l'orbita vuota sembrava cauterizzata da una fiamma verde. Il suo torace era lacerato in modo inconcepibile. Quell'uomo era stato anche... completamente sventrato! Eppure il suo corpo mostruoso balzava accanto ai lupi! Altri erano in condizioni altrettanto orribili. Uno era privo di testa. Una foschia scura sembrava concentrarsi sopra il livido moncone del suo collo, e in essa splendevano malvagi due tizzoni verdi. Nel gruppo c'era anche una donna. Le era stato strappato un braccio e il suo petto nudo era dilaniato, ma correva con gli altri componenti del branco, ululando a bocca spalancata e con gli occhi verdastri che brillavano. Poi, in quella compagnia grottesca, scorsi anche un cavallo, un possente animale grigio che avanzava spiccando salti impressionanti. Anche nei suoi occhi scintillava il fuoco malvagio di un'intelligenza maligna che non apparteneva a questa terra. Si trattava di una delle bestie di Judson, anch'essa vittima dell'orrida metamorfosi. Dalla sua bocca, tra un luccichio di denti giallastri, uscivano urla terrificanti. L'orda infernale, ringhiando, si avvicinò sempre di più, guizzando velocissima verso di me da tutte le direzioni. La mia mente non riuscì a sopportare l'orrore di quella situazione. Una pietosa oscurità mi avvolse, mentre, barcollando, cadevo sulla neve.
8. Mi risvegliai nel silenzio assoluto di un sepolcro. Per un po' rimasi ad occhi chiusi, analizzando le sensazioni del mio corpo ghiacciato e dolente, avvertendo il dolore sordo e pulsante della ferita alla gamba. Rabbrividii al ricordo delle esperienze spaventose vissute negli ultimi giorni, soprattutto al ricordo dell'orrore opprimente nell'attimo in cui il branco - lupi, uomini, cavalli, orrendamente mutilati e dai demoniaci occhi verdi - mi aveva raggiunto sulla prateria innevata. Per un po' non osai aprire gli occhi. Alla fine, facendomi forza e preparandomi ad eventuali nuovi orrori che avrebbero potuto attendermi in quel luogo, sollevai le palpebre. Il mio sguardo si affacciò sul macabro lucore cremisi del tempio dai pilastri d'ebano. Mi trovavo accanto a una di quelle pareti nere come la notte, steso su un mucchio di stracci e coperto sommariamente da un panno. Oltre la fila di massicce colonne cilindriche, vidi lo strano macchinario con l'enorme anello di rame che emanava strani bagliori nella fioca luce sanguigna. Lo specchio parabolico sembrava sprigionare un rossore intenso di rubini fusi, e le numerose valvole termoioniche, ora montate sui loro supporti, irradiavano la stessa incandescenza. La macchina sembrava ormai completata; livide figure dagli occhi verdi vi erano affaccendate, muovendosi con rapidità ed efficienza meccanica. Fui subito impressionato dal fatto che si muovessero più come macchine che come esseri umani. Si trattava di mio padre, di Stella e dei due meccanici. Restai immobile, a osservarli di nascosto, per parecchio tempo. Evidentemente mi avevano portato in quella camera sotterranea per togliermi qualsiasi possibilità di tentare una seconda fuga. Cominciai a esaminare l'eventualità di strisciare lungo la parete verso il passaggio che conduceva di sopra, e poi di imboccarlo a tutta velocità. Ma vi erano poche speranze che riuscissi a farlo senza esser visto. E poi non avevo alcun modo di sapere se fosse giorno o notte; sarebbe stata una follia darmi alla fuga nelle tenebre. Sentii che la piccola automatica era ancora sotto il braccio; non si erano minimamente preoccupati di togliermi quell'arma di cui non avevano alcun timore. All'improvviso, prima che avessi osato muovermi, vidi che mio padre mi si stava avvicinando. Alla vista ravvicinata della sua pelle cadaverica e dei suoi malefici occhi verdastri, non riuscii a reprimere un fremito. Mi immobilizzai, cercando di fingere di dormire.
Ma avvertii il glaciale contatto delle sue dita sulla spalla e fui trascinato in piedi in modo brusco. «Altra assistenza ci devi dare», uggiolò la sua voce animalesca. «E non più verrai riportato indietro vivo, se dovessi essere tanto sciocco da fuggire!» E il tono lamentoso della sua voce si concluse con un ringhio sinistro. Mi trascinò verso quell'apparecchio fantastico che scintillava nel macabro chiarore. Al pensiero che mi legassero ancora alla colonna, mi persi completamente d'animo. «Vi aiuterò!», urlai. «Farò quello che vorrete. Ma non legatemi, per l'amor del cielo! Non fatemi azzannare da lei!» La mia voce doveva essersi mutata in un grido isterico. Mi sforzai di assumere un tono più calmo, arrovellandomi il cervello in cerca di un appiglio. «Se mi legate un'altra volta, morirò», implorai vigorosamente. «E poi, se mi lasciate libero, potrò aiutarvi con le mie mani!» «Sarai libero da legami, allora», disse mio padre. «Ma ricorda! Vattene, e noi non ti riporteremo vivo!» Mi condusse accanto alla grande macchina. Uno dei meccanici, ad un uggiolio di comando di mio padre, srotolò di fronte a me uno schema e cominciò a rivolgermi parecchie domande riguardanti l'impianto di cavi per collegare le numerose valvole, le bobine e i magneti disposti intorno all'enorme anello di rame. Pareva che il suo strano cervello non possedesse alcuna idea circa la natura dell'elettricità; così mi toccò spiegargli i principi fondamentali. Tuttavia afferrava ogni nuova nozione con una prontezza stupefacente e sembrava vederne istintivamente le applicazioni pratiche. Apparve così chiaro che la grande macchina era praticamente finita; in un'ora circa, i collegamenti dei cavi vennero completati. «E ora, cosa ancora dev'essere costruito?», domandò mio padre. Mi resi conto che non si era provveduto affatto all'elettricità necessaria per il funzionamento delle valvole e dei magneti. Sembrava proprio che quegli esseri ignorassero la necessità di una fonte energetica. Un'altra possibilità di fermare l'esecuzione del loro piano diabolico, pensai allora. «Non lo so», risposi. «Da quel che posso vedere, la macchina segue tutte le norme costruttive. Non saprei che altro fare.» Mìo padre ringhiò qualcosa a uno dei meccanici, che prese subito il pezzo di corda insanguinata con cui ero stato legato in precedenza. Stella balzò verso di me, arricciando le labbra in un avido ringhio bestiale, con un
luccichio di denti. Un terrore incontrollabile mi scosse, e mi indebolì le ginocchia fino a farmi barcollare. «Aspettate, fermatevi!», urlai. «Ve lo dirò, se non mi legherete!» Si fermarono. «Parla!», latrò mio padre. «Presto, descrivi!» «Alla macchina occorre energia motrice. Elettricità, forse.» «E da dove proviene l'elettricità?» «C'è un generatore, su in cantina presso l'altra macchina. Quello potrebbe adattarsi allo scopo.» Mio padre e il mostro che un tempo era Stella mi spinsero lungo la sala dei pilastri neri facendomi salire poi per il passaggio che conduceva in cantina. Arrivati, indicai loro il generatore, e tentai di spiegare sommariamente come funzionava. I due si chinarono e afferrarono la base metallica dell'apparecchio. Con la loro forza incredibile lo sollevarono e lo trasportarono verso il passaggio per trasferirlo nella sala della macchina, costringendomi però a camminare davanti a loro e frustrando così un'altra mia speranza di tentare una fuga improvvisa verso l'esterno. Proprio mentre stavano sistemando il generatore - il motore a benzina e la dinamo, assieme, dovevano pesare diverse centinaia di chili - sulla piattaforma nera accanto alla gigantesca macchina misteriosa si verificò un'interruzione. Dal passaggio si sentì uno strisciare di piedi, seguito da quel misto di suoni secchi e lamentosi che i mostri usavano apparentemente come sistema di comunicazione. E, nella vaga luce rossastra, tra le alte file di colonne tenebrose, apparve il branco! C'erano enormi lupi dal corpo scarno. Uomini orrendamente dilaniati... Judson, e gli altri che avevo visto. Il cavallo. Tutti i loro occhi erano di quel verde luminoso, accesi di un fuoco spaventoso e maligno. Le labbra degli uomini, i musi dei lupi e perfino quello del cavallo, erano macchiati di scarlatto. Portavano... la preda! Sulle spalle lacerate di Judson penzolava inerte e coperto di sangue il corpo straziato di una donna... sua moglie! Uno dei lupi trasportava sul dorso il corpo maciullato di un uomo, e lo teneva fermo con le fauci, girando il muso di lato. Un altro portava un vitello chiazzato. Altri due lupi stringevano nelle bocche grondanti di sangue i corpi inerti di due coyote. E uno degli uomini reggeva in spalla i resti di un enorme lupo grigio.
Quei corpi esanimi vennero gettati in un cumulo orribile sotto la navata centrale del tempio, accanto alla strana macchina che pareva un altare di morte. Il sangue si sparse sul pavimento nero, coagulandosi in spessi grumi viscidi. «A questi noi portiamo vita», ringhiò mio padre rivolto a me, indicando con il capo lo spaventoso mucchio di corpi dilaniati. Rabbrividendo e sconvolto dall'orrore, caddi per terra coprendomi gli occhi. Ero in preda a una nausea insopportabile. La mia mente, ottenebrata e confusa, stava vacillando, e si rifiutava di prendere in considerazione il significato di quella scena orribile. L'essere demoniaco che si celava sotto le spoglie di mio padre mi sollevò violentemente in piedi, mi trascinò verso il generatore e cominciò ad assediarmi con una serie di domande riguardanti il suo funzionamento e il modo in cui collegarlo allo strano macchinario con l'anello di rame. Mi sforzai di rispondere ai suoi interrogativi cercando, ma invano, di dimenticare in quel modo il mio orrore. Ben presto i collegamenti vennero completati. Sotto la sorveglianza di mio padre, esaminai il motore e vidi che era già fornito di carburante. Poi lui tentò di metterlo in moto, ma non sapeva come far funzionare correttamente il carburatore. Allora, sotto la costante minaccia della corda insanguinata e delle fauci aguzze della donna-lupo, mi misi all'opera attorno al piccolo motore finché, dopo aver tossicchiato alcune volte, quello non si accese con uno scoppio regolare. Mio padre mi fece premere l'interruttore che forniva alla strana macchina la corrente del generatore. Dalle bobine si sollevò un lieve ronzio. Le valvole si accesero di una debole incandescenza. E una cortina d'oscurità sembrò calare improvvisamente attraverso l'anello di rame. Sembrava che un nero assoluto fluisse dallo strano tubo catodico sistemato posteriormente, e che venisse poi riflesso dallo specchio parabolico. Un disco di fitta e assoluta oscurità riempiva così l'anello. Per alcuni istanti fissai la scena sconcertato. Poi, quando i miei occhi cominciarono lentamente ad assuefarsi, scoprii che riuscivo a vedere attraverso il disco... a vedere in un orrendo mondo da incubo. L'anello era diventato un'apertura che si affacciava su un mondo alieno, un mondo d'orrore e di tenebre. Il cielo di quel mondo era di un nero indescrivibile e inconcepibile, era più nero della notte più buia. Non aveva stelle, non aveva corpi celesti, non
mostrava nemmeno un fievolissimo baluginio che ne spezzasse la terribile e opprimente intensità. Oltre l'anello era visibile una vasta distesa della superficie di quell'altro mondo. Basse colline, desolate e consumate dal tempo, che sembravano nere al pari del lugubre cielo. Tra di esse scorreva un largo fiume stagnante, le cui acque pigre e cupe brillavano di una vaga luminosità spettrale, un pallido bagliore che aveva qualcosa di immondo e disgustoso. E sopra quelle basse e antiche colline, tondeggianti come il petto gonfio di un cadavere, cresceva una vegetazione ripugnante. Orride, oscene parodie di piante normali, dalle foglie lunghe e strette, simili a serpi. Sembravano contorcersi animate da una vita spaventosa e contraria alla natura; coprivano le colline in grovigli disgustosi e si spingevano fino nelle fetide acque del fiume. I loro viticci tentacolari, simili a rettili, emettevano una pallida luce spettrale, livida e verdastra. E su una collina, sopra il fiume e la giungla oscena, sorgeva l'equivalente di una città. Un ammasso caotico di marciume rossastro. Una chiazza immonda di cupo inquinamento cremisi. Non si trattava forse di una città... almeno, non nel senso che noi attribuiamo alla parola. Sembrava una specie di nube di tenebre, orribile e sfumata di sangue, che spingeva i suoi repellenti tentacoli striscianti lungo la bassa collina; una chiazza di malvagia nebbia color cremisi. Protuberanze ed escrescenze, folli e repellenti, si innalzavano intorno in una grottesca caricatura di guglie e torri. La città era immobile. Compresi istintivamente che una sordida e abominevole forma di vita senziente regnava all'interno di quella spaventosa contaminazione scarlatta. Mio padre salì sullo scalino di pietra di fronte all'anello di rame, e cominciò a lanciare un ululato misterioso in quel regno oscuro. In risposta, la caotica città d'incubo sembrò agitarsi leggermente. Cose scure, nere masse fetide, sembrarono muoversi strisciando dalle sue disgustose protuberanze per sciamare verso di noi attraverso l'immonda vegetazione brulicante. Le tenebre del male assoluto strisciavano da quel mondo d'incubo per penetrare nel nostro! Per lunghi istanti, un folle terrore mi paralizzò in un'impotenza totale. Poi, di colpo, nacque in me il coraggio che mi portò alla disperata decisione di ribellarmi ai miei mostruosi dominatori, incurante della minaccia della corda insanguinata. Strappai i miei occhi dalla terrificante attrazione che pareva trascinarli
verso la ripugnante città, in quell'orrido mondo di male inconcepibile. Mi accorsi che nessuno mi controllava più. I verdi occhi dei mostri che mi stavano accanto erano fissi con avidità, ammaliati dall'anello di rame attraverso il quale era visibile il mondo alieno. Sembravano non rendersi conto della mia presenza. Se solo fossi riuscito a distruggere la macchina, prima che quell'orrore strisciante penetrasse sulla terra! Avanzai istintivamente, ma mi fermai, accorgendomi che sarebbe stato impossibile danneggiare seriamente la macchina a mani nude, prima che i mostri mi vedessero e attaccassero. Allora pensai alla piccola automatica che avevo ancora in tasca, e che nessuno si era degnato di togliermi. Sebbene i proiettili fossero innocui per i corpi dei mostri, avrebbero invece potuto arrecare seri danni al macchinario. La estrassi rapidamente di tasca e cominciai a sparare con decisione mirando alle valvole. Non appena la prima valvola si frantumò, l'immagine di quel mondo orrendo tremolò e svanì. Dietro l'anello di rame tornò di nuovo visibile l'enorme specchio parabolico. Almeno momentaneamente, le nere forme del male assoluto erano state chiuse fuori dal nostro mondo! Mentre continuavo a sparare, sbriciolando le valvole e le altre parti più complesse e più delicate della macchina, un urlo agghiacciante si levò dal gruppo di mostri umani e animali colti di sorpresa. Le creature mi si scagliarono addosso lanciando spaventosi ululati. 9. Furono le lingue giallastre della fiamma della pistola a salvarmi. Dapprima quel branco di esseri si era gettato nella mia direzione, con grida di atroce sofferenza causata evidentemente dalla vista della luce. Io avevo continuato a far fuoco deciso a danneggiare il più possibile la macchina prima che mi fossero addosso. Ma all'improvviso quelli indietreggiarono con guaiti agghiaccianti, coprendosi gli occhi e scivolando al riparo dietro le massicce colonne nere. Quando la pistola fu scarica, alcuni ripresero ad avanzare verso di me. Ma sembravano ancora scossi, deboli e incerti. Con gesti concitati frugai nelle tasche in cerca dei fiammiferi; prima non mi ero reso conto degli effetti devastanti che aveva la luce su di loro. Ne trovai solo tre. Pareva che non me ne fossero rimasti altri.
I mostri, dopo essersi ripresi dall'effetto dei bagliori della pistola, mi stavano di nuovo balzando addosso nel tetro chiarore rossastro, mentre io tentavo disperatamente di creare altra luce. Il primo fiammifero mi si spezzò tra le dita. Ma il secondo avvampò con una vivida fiamma gialla. Le belve si ritrassero ancora con gemiti, mentre io reggevo alta la fiammella, e si ripararono all'ombra tremolante dei pilastri. La mia mente sconvolta e offuscata fu rischiarata dalla speranza di poter fuggire, e acquistò rapidamente la sua efficienza. Tenendoli a distanza con la luce, avrei potuto raggiungere l'aria aperta. Senza contare, mi resi improvvisamente conto, che doveva essere già giorno, fuori. Sì, era mattino, e il branco era stato spinto a nascondersi nella tana dalla luce del sole nascente! Il più rapidamente possibile, senza spegnere la debole fiamma con la corrente prodotta dai miei movimenti, avanzai lungo la grande sala sotterranea, tenendomi nella navata centrale per paura che i miei nemici mi seguissero strisciando all'ombra delle colonne. Prima che raggiungessi il passaggio che portava in superficie, una folata d'aria colpì il fiammifero spegnendolo. Mi trovavo di nuovo immerso in quella foschia scarlatta in cui, all'estremità posteriore del tempio, guizzavano malvagie pupille verdastre. Un ululato di rabbia tornò a farsi sentire, seguito dal rapido muoversi dei passi dei mostri. Mi restava un solo fiammifero. Mi chinai, lo strofinai con cautela sul pavimento nero e lo sollevai sopra il capo... Nuovi guaiti di dolore. Le belve batterono ancora in ritirata. Trovai l'imboccatura del passaggio, che infilai in tutta fretta, proteggendo la preziosa fiamma con la mano piegata a coppa. Nel salone alle mie spalle si levarono le urla agghiaccianti del branco. Sentii i mostri riversarsi nel passaggio. Quando raggiunsi la vecchia cantina, il fiammifero si era ormai consumato. Mi voltai e lasciai che gli ultimi bagliori rischiarassero il tunnel. Altre urla di sofferenza e di terrore, e i mostri si ritirarono dal passaggio. Improvvisamente, il fiammifero si spense. Nella folle fretta sbattei contro la parete, trovai gli scalini che portavano fuori e mi precipitai disperatamente. Il branco intanto stava risalendo il passaggio con una velocità che non mi era assolutamente consentita.
Alla fine la mia mano si posò sulla porta che chiudeva la scala. Dietro quella porta c'era l'abbagliante luce del giorno. E nel medesimo istante, dita fredde come quelle di un cadavere mi serrarono la caviglia in una morsa stritolante. Con un gesto incontrollato, spinsi una mano verso l'alto. La porta si spalancò, sbattendo rumorosamente. Sopra di me apparve un vivido cielo azzurro, in cui il sole del mattino sfolgorava accecante. La sua calda radiosità mi fece lacrimare gli occhi ormai abituati alla penombra rossastra del tempio. Alle mie spalle si levarono di nuovo atroci gemiti animali. La morsa attorno alla mia caviglia si strinse in modo convulso, poi si allentò. Voltandomi, vidi Stella ai miei piedi, rannicchiata e tremante come in preda a spasimi insopportabili, che lanciava urla bestiali di sofferenza. Sembrava che la luce abbagliante del sole l'avesse stroncata del tutto, indebolendola a tal punto da non permetterle più di ritirarsi come avevano invece fatto gli altri. Improvvisamente mi trovai a vederla come un'adorabile fanciulla che soffriva, e non come un mostro demoniaco. Mi sentii lambire da una tenera ondata di compassione per lei... forse perfino d'amore. Se avessi potuto salvarla, e restituirle la sua vera personalità! Mi precipitai giù dai gradini, l'afferrai per le spalle, e cominciai a portarla verso la luce del giorno. Il suo corpo aveva ancora quel pallore e quel rigore cadaverici, e conservava tuttora un residuo della sua forza sovrumana. La ragazza si dimenò tra le mie braccia, ringhiando e cercando di addentarmi. Per un istante i suoi occhi lanciarono un ultimo guizzo malvagio ma, non appena la luce li colpì, lei li chiuse, urlando e tentando di ripararli con un braccio. La portai su, sotto un sole sfolgorante. Prima pensai di chiudere la porta della cantina e di cercare di bloccarla. Poi mi resi conto che la luce diurna, filtrando lungo la scala, avrebbe tenuto lontani i mostri molto più efficacemente di qualsiasi porta sbarrata. Era ancora mattino presto. Il sole doveva esser sorto da un'ora circa, e brillava nel cielo terso riflettendosi sulla neve in una miriade di accecanti bagliori prismatici. L'aria, comunque, era ancora fredda; non c'era il minimo accenno di disgelo, e non ci sarebbe stato finché la temperatura non avesse subito uno sbalzo considerevole. Mentre stavo lì al sole, sorreggendo Stella, si verificò in lei uno strano
cambiamento. I suoi latrati lamentosi si spensero lentamente. Le sue convulsioni di dolore si affievolirono, come se una marea di vita aliena stesse defluendo, abbandonando il suo corpo. Dopo un ultimo spasmo improvviso le sue membra si afflosciarono. Notai quasi subito che stava mutando colore. L'orrido pallore cadaverico stava lentamente cedendo il posto al normale colorito roseo di una persona sana. Lo strano gelo soprannaturale era sparito; dove il suo corpo era a contatto col mio, sentii una traccia di tepore. Poi il suo petto si sollevò. Respirava. Sentivo il suo cuore pulsare lentamente. I suoi occhi erano ancora chiusi, mentre lei giaceva inerte tra le mie braccia come se stesse dormendo. Liberai una mano e delicatamente le sollevai una palpebra. L'occhio era di un azzurro limpido... di nuovo normale. La sinistra fiamma verdastra era scomparsa. Per qualche ragione che non capivo, la luce diurna aveva purificato la fanciulla, liberando il suo corpo dall'immonda e crudele forma di vita che l'aveva posseduto. «Stella! Svegliati!», gridai. La scossi leggermente, ma lei non si mosse. Sembrava profondamente addormentata. Comprendendo che ben presto lei sarebbe gelata per l'aria glaciale, la portai allora in casa, nella sua stanza, dove ero stato imprigionato io, e la distesi sul letto, coprendola con alcuni panni. Ma la ragazza non accennò a riprendersi. Per un'ora, forse, cercai con ogni mezzo che conoscevo, e che era disponibile, di destarla da quel profondo stato di coma o di sincope in cui versava. Ma lei continuava a non riacquistare conoscenza. Era una situazione davvero sconcertante. Stella, la vera Stella, era stata espropriata del proprio corpo da un immondo essere alieno. Quella malvagia forma di vita era stata distrutta dalla luce, eppure la ragazza non era ancora rientrata in possesso del proprio organismo. Alla fine pensai di provare con un influsso ipnotico... io sono un buon ipnotizzatore e ho studiato a fondo quella tecnica e i fenomeni mentali affini. Un'impresa disperata, forse, dato il profondo stato d'incoscienza di Stella, ma ero costretto a ricorrere anche al minimo appiglio. Esercitando tutta la mia volontà per richiamarla, mettendole la mano sulla morbida fronte o passandola lentamente sul suo bel viso esangue, le ordinai ripetutamente di aprire gli occhi. E all'improvviso, quando ero ormai sul punto di piombare di nuovo nella
disperazione, le sue palpebre si scossero leggermente e si aprirono. Naturalmente poteva essersi trattato di un risveglio naturale, sebbene molto insolito, e non del risultato dei miei sforzi. Ma i suoi occhi azzurri si dischiusero e mi fissarono. Però non aveva ancora riacquistato uno stato di coscienza normale. Le sue pupille spente non rivelavano alcuna espressione di vita, erano annebbiate dal sonno e pareva che si fossero aperte in seguito a una risposta meccanica ai comandi che le avevo impartito. «Parla, Stella. Parla. Parlami!», gridai. Le sue pallide labbra si mossero. «Clovis.» Pronunciò il mio nome con voce debole e incolore, ancora impastata dalla narcosi del sonno. «Stella, cos'è accaduto a te e a mio padre?», le urlai. E questo è ciò che mi raccontò, con voce esile e inespressiva. Ho condensato il racconto, dato che spesso la sua voce stanca si affievolì e si spense, cosicché dovetti incitarla, interrogarla, quasi costringerla a continuare. «Mio padre è venuto qui per aiutare il dottor McLaurin nel suo esperimento», cominciò lei lentamente e con espressione monotona. «Io non ho capito completamente di cosa si trattasse, ma so che cercavano altri mondi esistenti accanto al nostro. Altre dimensioni interdipendenti con la nostra. Il dottor McLaurin stava elaborando questa sua teoria da molti anni, basando il suo lavoro sulle nuove matematiche di Weyl e di Einstein. Il nostro universo non è semplice. Mondi e mondi sono fianco a fianco, come le pagine di un libro... e ogni mondo è ignoto a tutti gli altri... strani mondi che si toccano, girano affiancati, eppure sono divisi da mura difficili da abbattere. Il segreto è nella vibrazione. Perché tutta la materia, la luce, il suono, tutto il nostro universo, non è che vibrazione. Tutte le cose materiali sono formate di particelle vibranti di elettricità... gli elettroni. E ogni mondo, ogni universo, ha il proprio ordine di vibrazione: attraverso ogni mondo vi sono miriadi di altri mondi, sconosciuti e invisibili, che vibrano, ognuno secondo un proprio ordine. Il dottor McLaurin sapeva tramite la matematica che quegli universi dovevano esistere, ed era suo desiderio esplorarli. Venne qui, in cerca di solitudine, perché nessuno curiosasse nei suoi segreti. Aiutato da mio padre e da altri uomini, aveva faticato per anni a costruire la sua macchina. Una macchina che, se avesse funzionato, avrebbe cambiato la velocità di
vibrazione della materia e della luce, e avrebbe modificato la vibrazione della nostra dimensione portandola alla velocità vibrante di altre. Con quella macchina il dottor McLaurin avrebbe potuto vedere miriadi di altri mondi e anche visitarli. La macchina era stata completata. E attraverso il suo grande anello di rame noi abbiamo visto un altro mondo. Un mondo di tenebre con un cielo nerissimo. Sulle sue colline si contorcevano schifose piante verdi dalla mostruosa forma di rettili. Ed era dominato da una vita aliena e malvagia. Il dottor McLaurin era penetrato in quel mondo oscuro, e l'orrore del luogo aveva distrutto la sua mente. Era tornato pazzo, e cambiato in maniera strana. Aveva gli occhi che brillavano di una luce verde, e la sua pelle era bianchissima. E da quel luogo portò con sé delle cose... cose striscianti e appiccicose di un nero disgustoso, che rubavano i corpi di uomini e di animali. Esseri viventi e malvagi che sono i signori di quella dimensione delle tenebre. Uno è strisciato in me, impossessandosi del mio corpo e dominandolo. Ricordo ciò che ne ha fatto solo come un sogno confuso. Per quella cosa io non ero che una macchina. Sogni confusi. Sogni terribili, in cui correvo sulla neve a caccia di lupi, e tornavo con le prede perché quelle cose nere strisciassero in loro facendole rivivere. Sogni in cui torturavo mio padre, che le creature aliene non avevano soggiogato, dapprincipio. Mio padre è stato torturato, azzannato. È stato il mio corpo a farlo, non io. Io ero lontana e vedevo tutto come in un brutto sogno. Le creature nere non conoscevano il nostro mondo. La luce le distrugge perché è una forza estranea alla loro dimensione. E, dato che non avevano alcuna difesa contro la luce, hanno scavato una tana profonda in cui ritirarsi di giorno. Per loro il nostro era un mondo completamente nuovo e non conoscevano niente, né la lingua, né le macchine... Hanno costretto mio padre a insegnare loro a parlare, a leggere i libri, ad azionare la macchina con cui sono venute. Quelle cose stanno progettando di costruire nubi nere che nascondano il sole per sempre, così il nostro mondo sarà buio come il loro. Vogliono impadronirsi dei corpi di tutti gli uomini e di tutti gli animali, e usarli come macchine per quello scopo. Quando mio padre ha saputo quale era il loro piano, non ha più voluto rivelare altro. È così il mio corpo lo ha azzannato... mentre io ero lontana, mentre guardavo ma non potevo evitarlo. Lui ha finto di accettare le loro
richieste, e lo hanno lasciato libero. Con un'ascia, allora, ha distrutto la macchina, in modo che nessun'altra creatura maligna potesse passare in questa dimensione. Poi si è fatto saltare le cervella con una revolverata, così non avrebbero più potuto torturarlo e costringerlo a collaborare. Le creature nere non sapevano da sole come riparare la macchina. Ma in alcune lettere avevano appreso dell'esistenza di Clovis McLaurin, che sapeva qualcosa sulle macchine. Lo hanno mandato a chiamare, per torturarlo come era stato torturato mio padre. La mia mente era di nuovo piena di dolore, perché Clovis mi era caro. Ma il mio corpo ha torturato anche lui perché aiutasse le creature aliene a costruire una nuova macchina. Poi Clovis ha distrutto la macchina. E poi... poi...» La debole voce di Stella si affievolì e i suoi occhi azzurri, ancora annebbiati da un sonno confuso, rimasero fissi nel vuoto. Il suo strano stato di trance era davvero intenso. Non ricordava nemmeno che stava parlando con me! 10. La storia raccontata dalla ragazza era terribile e sorprendente. In parte, quasi incredibile. Eppure, per quanto volessi metterla in dubbio e desiderassi ridimensionare la portata degli orrori che essa prometteva al mondo, sapevo che doveva corrispondere al vero. Eminenti scienziati hanno discusso abbastanza frequentemente circa la possibile esistenza di altri mondi, di altri piani di realtà strettamente affiancati al nostro. Infatti non c'è niente di solido o impenetrabile nella materia del nostro universo. Si pensa che l'elettrone sia solo una vibrazione nell'etere, e, con ogni probabilità, esistono campi di forza vibranti che formano altri elettroni, altri atomi, altri soli e altri pianeti, prospicienti il nostro mondo eppure non in grado di manifestare esplicitamente la loro esistenza. Solo una esigua banda delle vibrazioni dello spettro è visibile ai nostri occhi come luce. Se i nostri occhi fossero sintonizzati su altre bande, superiori all'ultravioletto o inferiori all'infrarosso, quali strani e nuovi mondi potrebbero affacciarsi di prepotenza nel nostro campo visivo? No, non potevo dubitare di questa parte del racconto di Stella. Mio padre aveva compiuto, più di chiunque altro, studi circa l'esistenza di questi mondi a noi invisibili, e aveva pubblicato le sue scoperte, complete di prove matematiche, nel suo sorprendente lavoro intitolato Universi interdipendenti. Se mai fossero stati scoperti questi mondi paralleli, a rigor di lo-
gica mio padre sarebbe stato l'uomo più adatto a effettuare la scoperta. E io non potevo dubitare che fosse riuscito nel suo intento... perché avevo visto di persona quell'orrendo universo da incubo, al di là dell'anello di rame! E avevo visto, in quel mondo alieno e oscuro, la città delle striscianti creature nere. Potevo quindi credere senza dubbio alcuno anche a quella parte della narrazione che riguardava le entità maligne che rubavano i corpi di uomini e di animali. Forniva una soluzione razionale di tutti i fatti che avevo osservato fin dalla notte del mio arrivo a Hebron. All'improvviso pensai che ben presto gli esseri mostruosi avrebbero riparato la macchina, senza il bisogno di alcun aiuto da parte mia. Dopodiché nuove orde di nere creature avrebbero attraversato il varco per impadronirsi del nostro mondo, per rendere schiava l'umanità. Come aveva detto Stella, per servirsi di noi nella trasformazione della terra in un pianeta di tenebre simile al loro repellente luogo d'origine. Dovevo fare qualcosa per contrastarle. Combatterle... combatterle con la luce! La luce era l'unica forza in grado di annientarle, la forza che aveva liberato Stella dalla schiavitù. Ma dovevo trovare fonti luminose più efficaci di una manciata di fiammiferi. Delle lampade si sarebbero adattate allo scopo; un riflettore, forse. Ed ero deciso a portare Stella a Hebron, se lei fosse stata in condizioni di muoversi. Dovevo raggiungere il villaggio per trovare ciò che mi serviva, ma non riuscivo a sopportare l'idea di lasciarla in balia dei mostri una volta calata la notte, di lasciare che s'impadronissero ancora del suo bel corpo per i loro fini immondi. Vidi che su mio ordine la ragazza si muoveva, si alzava e riusciva a camminare, per quanto lenta e rigida, come una sonnambula. Eravamo ancora di prima mattina e io pensai che, aiutandola a camminare, avremmo potuto coprire la distanza che ci separava da Hebron, prima che scendesse l'oscurità. Cercai tra le sue cose e trovai degli indumenti adatti: calze di lana, scarponcini, calzoni pesanti, maglione, guanti e berretto. I suoi tentativi di vestirsi furono lenti e impacciati, come quelli di un bimbo stanco che cercasse di togliersi i vestiti semi-addormentato, e così dovetti aiutarla. Non sembrava che avesse fame, ma quando sostammo nella sala da pranzo, dove gli avanzi del cibo erano ancora sul tavolo, le feci bere del latte. Stella lo fece in modo meccanico. Io, invece, mangiai con voracità, nonostante gli infausti presagi del ricordo del pasto consumato a quel tavolo alla vigilia del mio primo tentativo di fuga.
Poi ci incamminammo nella neve, seguendo il reticolato come la prima volta. Accanto alle mie vecchie impronte si notavano quelle del branco di inseguitori composto da lupi, uomini, e dal cavallo. Adesso comunque si avanzava con maggiore facilità, dato che la neve soffice era stata pressata da tutti quei piedi. Camminavo con un braccio attorno alla vita di Stella, e a volte dovevo quasi sorreggerla di peso. Le parlavo per incoraggiarla, ma lei reagiva con tentativi lenti e meccanici. La sua mente sembrava lontanissima, e i suoi occhi erano velati da strani sogni. Mentre le ore di faticosa avanzata passavano, stringendo il suo corpo tiepido contro il mio, mi accorsi di amare moltissimo quella fanciulla. Il sole raggiunse lo zenit e cominciò a calare lentamente verso Ovest. Mentre la sera si avvicinava, Stella parve stancarsi... o forse si trattava solo di un intensificarsi del suo stato di trance. Comunque reagiva sempre più lentamente ai miei incitamenti e, quando la mia voce cessava di spronarla, lei rimaneva immobile, come persa in strane visioni. La incitai disperatamente a proseguire, comandandole con decisione di tener duro. I miei occhi si posavano ansiosi sul sole ormai al tramonto. Sapevo che ci restava poco tempo per arrivare al villaggio prima di sera; era assolutamente necessario affrettarsi. Alla fine, quando il sole affiorava ancora di poco sopra un bianco orizzonte, avvistammo Hebron. Un gruppetto di macchie scure sulla sconfinata distesa di neve. Dovevamo essere a circa quattro chilometri dalla meta. Sembrava però che Stella continuasse ad affondare sempre più nello strano mare di sonno da cui solo l'influsso ipnotico era riuscito a levarla. Quando ci lasciammo alle spalle un altro chilometro, la ragazza rifiutò di reagire alle mie parole. Respirava lentamente e con regolarità, ma aveva chiuso gli occhi. Io non potevo fare nulla per risvegliarla. Il sole era calato sull'orizzonte innevato e tingeva la prateria occidentale di pallide fiamme porpora. L'oscurità era ormai prossima. Disperato, mi caricai il corpo inerte di Stella sulle spalle e avanzai barcollando sotto quel nuovo fardello. Mancavano non più di tre chilometri a Hebron, e nutrivo una certa speranza di raggiungere il paese con la ragazza prima che fosse buio. Purtroppo la neve era tanto alta da rendere estenuante perfino l'avanzata di una persona non carica, e il mio corpo era già stremato dalle terribili esperienze cui era stato sottoposto ultimamente. Prima di aver coperto barcollando mezzo chilometro, mi resi conto dell'inutilità dei miei sforzi.
Eravamo al crepuscolo. La luna non era ancora sorta, ma la neve splendeva argentea sotto gli ultimi bagliori spettrali del tramonto che inondavano ancora il cielo. Le mie orecchie erano tese per poter udire subito la voce dello spaventoso branco, ma intorno a me si drappeggiava un sudario di silenzio assoluto. Continuai a procedere fiaccamente con la fanciulla. Di colpo notai che il suo corpo, a contatto delle mie mani, stava diventando stranamente freddo. Preso dall'ansia, la deposi allora sulla neve, per esaminarla... tremando per la premonizione dell'orrore imminente. Il corpo di Stella era un pezzo di ghiaccio, e aveva pure assunto un pallore assurdo. Era bianca come quando l'avevo vista correre sulla neve in compagnia del lupo. Ma le sue gambe e le sue braccia, stranamente, non si erano irrigidite; erano ancora inerti, afflosciate. Non era dunque il gelo della morte che stava fluendo in lei; era il gelo di quella vita aliena che, scacciata dalla luce, stava impossessandosi nuovamente della ragazza con l'avvento dell'oscurità! Capii che ben presto non sarebbe più stata una fanciulla umana, bensì un'orrenda donna-lupo. Per alcuni istanti rimasi accovacciato accanto al suo corpo inerte, implorandola di rispondermi e di seguirmi, e urlando quasi come un ossesso. Poi mi resi conto che era inutile, e che mi trovavo in pericolo. Quella forma di vita mostruosa sarebbe rifluita di nuovo in lei. E lei mi avrebbe ricondotto a quella insopportabile prigionia nel tempio sotterraneo, per fare di me uno schiavo dei mostri... o forse un membro della loro malvagia società. Dovevo fuggire, per il bene stesso di Stella. E del mondo intero. Meglio abbandonarla adesso e proseguire da solo, che farmi riportare indietro. Forse avrei avuto un'altra possibilità di salvarla. Inoltre, dovevo rendere la ragazza inoffensiva, in modo che non potesse inseguirmi una volta schiava di quell'orribile forma di vita aliena. Mi sfilai il cappotto e la camicia. Freneticamente strappai la camicia in tante strisce che attorcigliai, formando delle corde improvvisate. Poi accostai le caviglie di Stella e le legai saldamente. La voltai bocconi, le incrociai le braccia inerti dietro la schiena e le bloccai i polsi insieme. Dopo, come ultima precauzione, mi tolsi la cintura e gliela allacciai stretta attorno ai fianchi sopra i polsi incrociati, immobilizzandoli definitivamente. Per finire, allargai il cappotto sulla neve e vi deposi sopra Stella, perché volevo che fosse il più comoda possibile. E ripartii vero Hebron, un grup-
petto di luci bianche che brillava nelle ombre del crepuscolo. Non avevo mosso che pochi passi, quando qualcosa mi fece fermare e guardare indietro spaventato. Il corpo inerte e pallidissimo della ragazza era ancora steso sul cappotto. Poco più in là, intravidi una cosa strana e orripilante muoversi con rapidità tra le ombre grigie della sera. Era qualcosa di incredibile e di orrendo. Si trattava di una massa di tenebra che scivolava sulla neve, una nube strisciante di nerezza immonda, informe e tentacolata. Era priva di arti e di tratti definiti... solo quelle nere appendici simili a serpi, che estrofletteva per muoversi. Ma, all'interno della cosa, brillavano due punti verdi... che sembravano occhi! Verdi pupille malefiche, infiammate di una malvagità demoniaca! Era una creatura viva. Un ammasso vivente di tenebra, diverso da qualsiasi forma di vita superiore, anche se in seguito ho pensato che assomigliasse a un'ameba, una massa fluente di poltiglia protoplasmica, un animale unicellulare. Al pari dell'ameba, quell'essere alieno si muoveva estroflettendo stretti pseudopodi dalla massa centrale. E gli orribili occhi verdi, nei quali pareva concentrarsi la sua vita aliena, forse corrispondevano ai vacuoli o nuclei dei protozoi. Mi resi conto, paralizzato da un senso d'orrore indicibile, che si trattava di un mostro proveniente dal nero mondo d'incubo che stava oltre l'anello di rame. E che veniva a reclamare di nuovo il corpo di Stella, a cui era ancora collegato da qualche vincolo. Sebbene sembrasse solo strisciare o scivolare, il mostro si spostava con una rapidità pazzesca... molto più veloce dei lupi stessi. L'avevo scorto solo da un istante, e già aveva raggiunto il corpo di Stella. Si fermò, rimanendo sospeso su di lei, in una fitta e viscida nube in cui spiccavano quegli spaventosi occhi verdastri. Per un istante il mostro celò il corpo della vittima con le sue appendici striscianti e informi, che si contorcevano come orridi tentacoli. Poi fluì all'interno di Stella. Sembrò penetrarle nelle narici e nella bocca. La nube nera sospesa diminuì progressivamente. Le pupille verdi rimasero invece all'esterno fino all'ultimo, poi parvero affondare negli occhi della ragazza, che di colpo si animò in modo terribile. Stella si dimenò, lottando contro i legami con forza sovrumana, rotolando dal cappotto nella neve in preda a tremende convulsioni. I suoi occhi erano di nuovo aperti... e brillavano, non di vita propria, bensì del terribile
fuoco delle pupille malvagie che li avevano occupati. Dalla gola di lei si levò l'agghiacciante ululato che ormai conoscevo fin troppo bene, un urlo bestiale in cui risuonava una misteriosa eco umana. Un latrato di richiamo per il branco. Quel suono infuse vigore ai miei arti paralizzati. Nei pochi istanti occorsi all'essere alieno per impadronirsi del corpo di Stella, io ero rimasto immobile, inchiodato sul posto dall'orrore della scena. Mi voltai e corsi come un pazzo verso le luci tremolanti di Hebron. Alle mie spalle la donna-lupo continuava a dimenarsi per rompere le corde, ululando per chiamare a raccolta il branco! Quelle luci baluginanti parevano farsi gioco di me. Sembravano vicinissime sulla distesa innevata eppure, mentre correvo, si allontanavano danzando. Sembravano muoversi come lucciole e si fermavano finché non le avevo quasi raggiunte, per poi ritirarsi ancora, scintillando remote sulla neve. Dimenticai la mia estrema stanchezza, dimenticai il dolore pulsante della ferita riaperta, e corsi disperatamente come mai avevo corso prima. Non avevo ancora coperto metà della distanza, quando udii alle mie spalle la voce dell'orda. Uno strano e remoto uggiolio che cresceva d'intensità rapidamente. La donna-lupo aveva lanciato il richiamo, e ora il branco veniva a liberarla. Continuai a fuggire. I miei passi sembravano miseramente lenti. I piedi affondavano nella neve, che sembrava avvinghiarli con malefiche dita demoniache. E le luci, in apparenza così vicine, sembravano fuggire da me in una danza beffarda. Grondavo di sudore e i polmoni mi pulsavano atrocemente. Il cuore sembrava martellarmi alla base del cervello. Avevo la mente sommersa da un mare di dolore. Ma continuavo a correre. Le luci di Hebron divennero fiammelle irreali, ingannevoli fuochi fatui. Tremolavano dinanzi a me in un mondo deserto di grigia oscurità, e io mi affannavo per raggiungerle in una foschia d'atroce sofferenza. Non sentivo nient'altro che i lamenti del branco. Ero talmente esausto da non riuscire a connettere. Ma mi resi conto all'improvviso che i miei inseguitori erano vicinissimi. Forse girai il capo e lanciai un rapido sguardo. Oppure può darsi che io ricordi il branco solo come lo vedevo nella mia immaginazione. Comunque conservo un'immagine molto vivida di scarni lupi grigi che spiccavano balzi ululando, affiancati nella loro corsa da pallide figure umane con le pupille verdastre.
Tuttavia continuai la fuga, combattendo le nere nebbie della spossatezza che mi offuscavano il cervello. Un'inerzia atroce sembrava opporsi ai miei sforzi, come se stessi nuotando contro corrente, e corsi... corsi... non vedendo, non pensando che alle luci di Hebron, luci così vicine, ma che fuggivano sempre dinanzi a me. Poi improvvisamente mi trovai steso sulla neve morbida, con gli occhi chiusi. Quel dolce giaciglio era un'oasi di benessere per il mio corpo stremato. Rimasi là, inerte. Non tentai nemmeno di risollevarmi, non mi rimaneva più una goccia di forza. L'oscurità calò su di me... uno stato d'incoscienza che neppure gli ululati del branco potevano vincere. Quei sinistri latrati sembrarono affievolirsi lentamente, poi tutto scomparve. 11. «Direi che è proprio scoppiato, vero, signore?» Una voce aspra si insinuò nella mia mente distrutta dalla stanchezza. Delle mani robuste stavano sollevandomi in piedi. Aprii gli occhi e mi guardai attorno, confuso. Due uomini vestiti in modo trasandato stavano sorreggendomi. E un terzo, che riconobbi come il Capostazione, teneva in mano una lanterna. Di fronte a me, vicinissime, c'erano le luci di Hebron che prima sembravano sfuggirmi beffarde. Mi accorsi che ero crollato proprio ai bordi del villaggio, talmente vicino alle poche luci stradali che il branco non aveva potuto avvicinarsi a me. «Ah, è lei, McLaurin?», fece Connell sorpreso, riconoscendomi. «Credevamo che avessero preso lei e Judson.» «Infatti», riuscii a rispondere. «Ma non mi hanno ucciso. Io sono riuscito a fuggire.» Ero troppo spossato per rispondere alle loro domande. Ricordo solo vagamente che mi portarono in una casa e mi spogliarono; mi addormentai mentre stavano esaminando la ferita alla gamba, tra esclamazioni inorridite alla vista dei segni dei denti. Mi svegliai il giorno dopo, verso mezzogiorno. Accanto al letto sedeva un ragazzino irrequieto di forse dieci anni. Disse di chiamarsi Marvin Potts, figlio di Jed Potts, proprietario di un emporio a Hebron. Suo padre era uno degli uomini che mi avevano trovato quando la loro attenzione era stata attirata dagli ululati del branco. Ora mi trovavo appunto in casa dei Potts. Il ragazzo chiamò sua madre. La donna, sentendo che avevo fame, mi
portò quasi immediatamente del caffè, biscotti, pancetta e patate fritte. Mangiai con discreto appetito, sebbene fossi ancora lontano dall'essermi ripreso completamente dalla mia disperata corsa per sottrarmi all'orda di belve. Mentre stavo mangiando, ancora a letto appoggiato su un gomito, entrò il padrone di casa, accompagnato da Connell, il Capostazione, e da altri due uomini. Erano tutti ansiosi di conoscere la mia storia. La raccontai in breve, tralasciando le parti che, a mio giudizio, sarebbero risultate incredibili a quelle persone. Mi spiegarono che il branco aveva mietuto altre vittime umane. Una fattoria isolata era stata attaccata la notte prima e tre uomini erano scomparsi. Mi dissero anche che la signora Judson, affranta per la perdita del marito, era uscita nella neve a cercarlo e non aveva più fatto ritorno. Dal canto mio, ricordavo benissimo che alla fine lo aveva trovato... Mi rimproverai, amareggiato, di aver spinto quell'uomo ad avventurarsi in quel viaggio notturno con me. Mi informai se non si erano presi provvedimenti per dare la caccia al branco. Mi risposero che lo sceriffo aveva organizzato una squadra di cittadini che si era spinta fuori Hebron diverse volte. Si erano trovate numerose tracce di lupi e di uomini che correvano affiancate, una pista facile da seguire, dunque. Ma, mi parve di capire, i cacciatori non erano stati poi molto smaniosi di raggiungere la preda. La neve era alta e impediva di muoversi rapidamente, e loro non avevano avuto alcuna intenzione di incontrare il branco di notte. Le tracce non erano mai state seguite per più di nove o dieci chilometri fuori da Hebron. Lo sceriffo era rientrato al comando di Contea, diciotto chilometri lungo la ferrovia, promettendo che sarebbe tornato quando la neve si fosse sciolta a sufficienza per permettere spostamenti più agevoli. E i pochi abitanti di Hebron, per quanto profondamente turbati dal destino dei loro vicini che erano stati uccisi dal branco, erano troppo terrorizzati per organizzare una battuta per proprio conto. Quando accennai alla mia intenzione di trovare qualcuno che tornasse con me al ranch, la mia proposta fu accolta in modo evasivo da tutti. L'esempio della morte di Judson era impresso chiaramente nella mente dei presenti, e nessuno voleva rischiare di farsi sorprendere lontano dal paese di notte. Mi resi conto che dovevo agire da solo, senza alcun aiuto. Per gran parte della giornata rimasi a letto, recuperando le forze, perché sapevo che avrei dovuto disporre di tutte le mie energie per affrontare la
dura prova che mi attendeva. Comunque, mi informai sui mezzi che avrei trovato in paese, e preparai il piano per il mio folle tentativo di abbattere la minaccia che incombeva sull'umanità. Con l'aiuto del ragazzo, Marvin, che funse da mio rappresentante, acquistai un calesse, completo di un ronzino e dei finimenti; i miei tentativi di affittare un veicolo o di assumere qualcuno che mi conducesse sul posto si erano rivelati un fallimento clamoroso. Il ragazzino si diede da fare anche per procurarmi altre attrezzature. Gli feci comprare una dozzina di lanterne a benzina, con una scorta abbondante di reticelle e due fustini di combustibile da venticinque litri. Constatando che la scuola di Hebron vantava scarse forniture di attrezzatura da laboratorio, mandai Marvin in cerca di nastri al magnesio e di zolfo. Il ragazzo tornò con un bel mazzetto di sottili strisce metalliche, tagliate in varie lunghezze. Per facilitarne l'accensione, intinsi quindi l'estremità di ogni fascetta dentro dello zolfo fuso. Mi comprò anche due potenti torce elettriche con pile e lampadine di scorta, delle munizioni per la mia automatica, e due dozzine di candelotti di dinamite con capsule e micce. Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora, sentendomi molto meglio. La ferita alla gamba stava rimarginandosi rapidamente e aveva cessato di causarmi forti sofferenze. Mentre sedevo con i Potts a consumare una frugale colazione, li assicurai che quello stesso giorno mi ripromettevo di tornare nella tana del branco, da cui ero fuggito, per farla finita definitivamente con quelle belve. Prima che avessimo fino di mangiare, sentii la chiamata del tipo da cui avevo comprato il calesse, che veniva a consegnarlo e a riscuotere il generoso prezzo che gli avevo garantito tramite la mediazione di Marvin Potts. Il ragazzo uscì con me. Ritirammo il veicolo e facemmo il giro dei pochi negozi di Hebron, raccogliendo le cose che il ragazzo aveva acquistato per me il giorno prima: le lanterne, il combustibile, le torce elettriche e la dinamite. Era ancora prima mattina quando lasciai Marvin alla fine della strada, ricompensandolo con una banconota, e mi spinsi da solo nella neve, verso il ranch isolato dove avevo vissuto orribili esperienze. La giornata, sebbene limpida, era fredda. La neve non accennava a sciogliersi ed era spessa come sempre. Il ronzino avanzava lento, mentre i suoi zoccoli e le ruote del calesse affondavano con un secco scricchiolio nella crosta superficiale ghiacciata.
Quando Hebron svanì alle mie spalle e mi trovai circondato soltanto dallo sterminato deserto di neve luccicante, fui preso da un senso di paura, da un violento desiderio di affrettarmi a raggiungere qualche posto affollato di uomini. Nella mia immaginazione anticipai il terrore della notte, quando il branco sarebbe uscito di nuovo, lanciandosi sulla prateria innevata. Come sarebbe stato facile tornare indietro, prendere il treno per New York e dimenticare quel luogo orribile! No, sapevo che non avrei mai potuto scordare la minaccia di quello spaventoso mondo, nero come la notte, che si apriva oltre l'anello di rame, abitato da una razza che progettava di impadronirsi della Terra per farne una seconda sfera di tenebra immonda. E Stella? Non sarei mai riuscito a dimenticarla. Ora sapevo di amarla, sapevo che dovevo salvarla o morire con lei. Spronai il cavallo ad avanzare nella solitaria distesa. Raggiunsi la fattoria poco dopo mezzogiorno, ma mi restava ancora un buon margine di luce diurna. Mi misi all'opera immediatamente. C'era parecchio da fare: vuotare le scatole ammucchiate sul calesse; riempire le lanterne di combustibile, pompare l'aria all'interno e assicurarmi che funzionassero in modo soddisfacente; innescare i candelotti di dinamite; provare le torce elettriche; caricare la pistola e riempire i caricatori di riserva; sistemarmi nelle tasche in modo razionale i fiammiferi, le munizioni, le pile per le torce, e i nastri di magnesio. Il sole era ancora alto quando ultimai i preparativi. Allora misi il cavallo nella stalla sul retro della casa, chiusi la porta a chiave e la barricai, per assicurarmi che l'animale fosse completamente bloccato, nel caso qualche orrida metamorfosi lo mutasse in un mostro dalle pupille verdi. Poi entrai in casa, portando con me una lanterna accesa: era silenziosa e deserta. Tutti i mostri evidentemente erano là sotto. La porta della cantina era chiusa, e anche la minima fessura era stata ostruita per impedire che filtrasse luce. Accesi tutte le lanterne e le disposi circolarmente attorno all'ingresso della scala. Quindi spalancai la porta. Dal passaggio sottostante si levò un ululato orribile! Sentii il rumore dei piedi che si affrettavano a ritirarsi lungo il tunnel, tra latrati rabbiosi e aspri gemiti selvaggi. Un'ondata fisica di orrore nauseante mi inondò di brividi, al pensiero di avventurarmi in quel tempio sotterraneo dal lucore rossastro dove ero stato testimone e vittima di orrori indicibili. Indietreggiai tremando. Ma, al pen-
siero di mio padre e dell'adorata Stella giù in quel covo e posseduti dai mostri, riacquistai coraggio e mi avviai verso l'imboccatura spalancata che conduceva nel tempio edificato dalle belve aliene. Prima avevo pensato di lasciare le lanterne in cerchio attorno all'imboccatura del passaggio, e di portarne una sola con me. Ora invece mi resi conto che avrebbero impedito con maggiore efficacia la fuga dei mostri se le avessi disseminate lungo il tragitto. Ne raccolsi sei, tre per mano, e cominciai a scendere gli scalini. I loro possenti raggi illuminarono la vecchia cantina con un chiarore graditissimo. Ne deposi una al centro del pavimento dello scantinato; altre tre le sistemai lungo il cunicolo in pendenza che portava negli scavi sotterranei. Avevo intenzione di deporre le altre due lanterne sul pavimento del tempio, e poi di tornare in superficie a prenderne altre. Speravo che la luce liberasse l'intero branco dall'invasore alieno, come si era verificato nel caso di Stella. Avrei approfittato del loro stato di incoscienza per trasportare all'aperto Stella e mio padre, e gli altri uomini in condizione di poter riprendere a vivere normalmente. Poi avrei distrutto la macchina e il tempio con la dinamite. Giunsi in fondo al passaggio, sbucando nella vasta sala nera sorretta dalla doppia fila di colonne. Il chiarore intenso proiettato dalle lanterne, che ronzavano lievemente, disperse l'oscurità venata di quel lucore rosso sangue. Udii un coro agghiacciante di urla animali da cui traspariva una sofferenza atroce e, in fondo alla lunga sala dietro i massicci pilastri, vidi forme dagli occhi verdastri che si acquattavano al riparo, accalcandosi nell'ombra. Deposi le due lanterne per terra ed estrassi dalla tasca una delle potenti torce elettriche. Il suo fascio intenso e penetrante sondò le tenebre al di là delle poderose colonne nere. Forme umane e di lupi, urlanti e spaventate, lanciarono gemiti acuti quando vennero raggiunte dal raggio, e si accasciarono sul nero pavimento. Fiducioso, avanzai per frugare ogni angolo recondito con il brillante fascio luminoso. La mia fiducia si rivelò quasi fatale... Avevo sottovalutato l'astuzia e l'abilità dei miei nemici. Quando mi accorsi del globo nero, il mio piede vi era appoggiato sopra. Era una sfera perfetta di tenebra pura, un globo di circa trenta centimetri che pareva tornito in un cristallo nero come la notte. Ormai non potevo evitarlo e, quando lo toccai, parve esplodere. Si udì
un sordo e minaccioso plop, poi la sfera sprigionò un'oscurità fluttuante, un gas nero che mi avvolse nel suo buio sudario soffocante. Mi voltai come impazzito, precipitandomi indietro verso il passaggio che conduceva alla luce del sole. Ero completamente accecato. Le lanterne sfolgoranti erano assolutamente invisibili, e ne urtai una con i piedi mentre avanzavo freneticamente. Poi inciampai e sbattei contro la fredda parete del tempio. Tastai febbrilmente la superficie... ma in entrambe le direzioni, fin dove riuscivo a spingermi con le braccia, il muro era assolutamente liscio. Dov'era il passaggio? Avanzai barcollando per alcuni metri, tenendo sempre le mani sulla parete. No, il cunicolo doveva trovarsi dalla parte opposta. Mi girai. I latrati mostruosi e trionfanti del branco colpirono le mie orecchie; sentii i loro piedi muoversi e attraversare il tempio. Allora corsi lungo la parete, ma inciampai e caddi sopra una lanterna rovente. Mi balzarono addosso... Lo strano baluginio rossastro del tempio mi circondava di nuovo. Mi trovavo ancora legato ad uno di quei pilastri neri e massicci, impotente e bloccato dalla medesima corda insanguinata. Di fronte a me c'era lo strano macchinario che, cambiando le vibrazioni della materia, apriva una breccia comunicante con altri universi contigui... con la Dimensione Nera. La luce rossastra si rifletteva come una sfumatura di sangue sull'anello di rame e sul grande specchio parabolico. Vidi con un certo sollievo che le valvole erano spente, il generatore silenzioso, e le tenebre scomparse dall'anello. Di fronte, però, era stato eretto uno spaventoso altare, su cui erano deposti i corpi straziati e sanguinanti di uomini e donne, di lupi grigi, di piccoli coyote e di altri animali. Il branco aveva fatto buona caccia nelle due notti in cui ero stato assente! Le cadaveriche e mostruose creature, i corpi orrendamente mutati di mio padre e di Stella e degli altri, mi circondavano. «Il tuo ritorno è una cosa buona», guaì in toni bestiali l'essere che occupava il corpo di mio padre. «Il fabbricatore di elettricità non funziona. Tu che torni lo farai muovere ancora. La strada deve essere di nuovo aperta, perché una nuova vita giunga a questi che attendono.» E indicò il cumulo di cadaveri grondanti di sangue. «Poi la nuova vita anche a te noi condurremo. Troppe volte sei fuggito. Tu diverrai uno di noi. E noi cercheremo un uomo che agisca come noi di-
ciamo. Ma prima deve la via essere aperta di nuovo. Dal nostro mondo la vita verrà. Per prendere i corpi degli uomini come macchine. Per fare un gas di tenebre come quello che hai trovato in questa sala, per nascondere tutta la luce del tuo mondo e renderlo a noi adatto.» La mia mente vacillò inorridita al pensiero dell'inconcepibile e assurda minaccia che si alzava come un orrido spettro a fronteggiare l'umanità, al pensiero che presto anch'io non sarei stato altro che una semplice macchina. Il mio corpo, gelido e pallido come un cadavere, avrebbe svolto compiti innominabili al comando delle creature delle tenebre, e i loro occhi verdastri sarebbero divampati nelle mie orbite! «Presto, spiega il metodo per far funzionare il fabbricatore di elettricità», mi venne ordinato, con un ringhio malvagio e minaccioso, «o noi roderemo la carne dalle tue ossa, e cercheremo un altro che eseguirà il nostro volere!» 12. Acconsentii ad accendere il generatore, sperando che nel frattempo mi si presentasse qualche opportunità di ribaltare nuovamente la situazione. Ero più che certo che non avrei potuto fare niente finché rimanevo legato alla colonna... e la minaccia che avrebbero trovato un altro uomo per sostituirmi come loro insegnante mi fece capire che dovevo piazzare in fretta il colpo giusto. I mostri erano convinti che, per azionare il generatore, avrebbero avuto bisogno di qualcosa di più di un mio semplice aiuto verbale. Uno dei meccanici mi slegò e mi accompagnò verso la macchina, stringendomi un braccio in una dolorosa morsa di dita fredde come ghiaccio. Discretamente, abbassai una mano per tastarmi le tasche. Erano vuote! «Non fare luce!», giunse il ringhio d'avvertimento di mio padre che aveva intravisto il mio gesto. I mostri si erano finalmente resi conto che era opportuno perquisirmi. Guardandomi attorno vidi le cose che mi avevano tolto, accatastate alla base di un pilastro. L'automatica, i caricatori, le torce, le pile, i fiammiferi e le fascette di nastro al magnesio. C'erano anche le due lanterne che avevo portato con me nel tempio, e che erano state evidentemente spente dal gas nero che mi aveva accecato. Due lupi grigi montavano di guardia accanto agli oggetti, fissandomi in maniera sinistra.
Dopo aver armeggiato per qualche istante attorno al motore, scoprii che si era fermato per mancanza di carburante. Dopo che avevo danneggiato la macchina, i mostri avevano continuato a lasciarla in funzione finché non era finita la benzina. Spiegai a mio padre che non avrebbe funzionato senza altra benzina. «Fallo girare e produrre elettricità», disse, ripetendo il ringhio minaccioso, «o roderemo la carne dalle tue ossa e troveremo un altro uomo.» Dapprima provai a insistere che non potevo trovare della benzina senza recarmi in qualche luogo abitato, ma quando mi trascinarono verso la corda insanguinata per sottopormi a nuove torture, confessai che avrei potuto usare il combustibile delle lanterne. Erano sospettosi. Mi frugarono ancora per accertarsi che non avessi addosso altri mezzi per produrre luce. E controllarono attentamente anche le lanterne in cerca di eventuali sistemi di accensione che non richiedessero l'uso di fiammiferi. Alla fine mi portarono le lanterne. Con mio padre che mi stringeva un braccio, versai la benzina nel serbatoio del motore. Sarebbe stato comunque difficilissimo travasarlo senza rovesciarne un po', e in ogni modo mi preoccupai di versarne per terra il più possibile, senza destare sospetti. Riuscii a formare una piccola pozzanghera di benzina sotto lo scappamento, dove una scintilla avrebbe potuto incendiare i vapori. Poi mi fecero accendere il generatore. Le bobine tornarono a ronzare e le valvole termoioniche si illuminarono. Lo strano tubo catodico centrale sembrò produrre una massa oscura che lo specchio parabolico rifletté nell'anello di rame. Per la seconda volta, guardando attraverso l'anello, vidi la Dimensione Nera. Dinanzi a me si stagliava un cielo di oscurità assoluta, con luride acque stagnanti in cui baluginava una luminescenza putrescente e basse colline ammantate da quella vegetazione ripugnante che si contorceva come un ammasso di serpi, sprigionando una fioca luce verdastra. E su una di quelle colline c'era una città. Una macchia caotica di rosso malvagio, una chiazza di tenebra cremisi, di corruzione rossastra. Si allungava sulla collina come un mostro di rossa bruma dagli innumerevoli tentacoli. E dalla città si innalzavano orride appendici, verruche e protuberanze assurde, parodie macabre di torri e minareti. Era immobile. E all'interno della sua fetida oscurità scarlatta si celavano
cose nere e striscianti... innumerevoli orde di cose simili all'abominevole mostruosità che avevo visto fluire nel corpo di Stella. Neri orrori viventi, informi e delle pupille verdastre. I mostri attorno a me ulularono attraverso l'anello in quel mondo nero... lanciando un richiamo! E ben presto, dall'anello fluì un fiume di inconcepibile orrore informe... Indescrivibili mostri di un universo alieno. Esseri ripugnanti che dimoravano nelle tenebre... la razza della Dimensione Nera! Spaventosi occhi verdi nuotavano in masse striscianti d'oscurità maligna. Sciamarono ricoprendo il cumulo di cadaveri che giacevano al suolo. E i morti risorsero a una abominevole e assurda vita! Cadaveri mutilati e corpi lacerati di lupi, balzarono ritti ringhiando e guaendo. E gli occhi di ognuno erano i malvagi occhi di fiamma smeraldina delle cose che erano entrate in loro. Io ero ancora accanto al piccolo motore scoppiettante. Mentre balzavo indietro, alla vista dello spaventoso spettacolo di quei morti che risorgevano a vita sacrilega, i miei occhi si posarono disperatamente sulla pozza di benzina. Non si era ancora incendiata. Accarezzai la fuggevole idea di cercare di impregnarmi la mano di benzina e di metterla di fronte allo scappamento per farne una torcia vivente. Ma era troppo tardi, e le dita gelide e inflessibili di mio padre continuavano a serrarmi dolorosamente un braccio. Poi mio padre lanciò un ululato lamentoso. Un'oscena e informe massa strisciante, dalle orbite scintillanti di aliena fiamma verde, si staccò dal fiume nero che si riversava dall'anello e avanzò verso di me. «Ora tu diverrai uno come noi!», annunciò mio padre. La cosa stava dunque venendo per fluire nel mio corpo, per rendermi suo schiavo, per mutarmi nella sua macchina! Urlai, lottai contro le mani crudeli che mi bloccavano. Folle di terrore, bestemmiai e implorai... promettendo di consegnare ai mostri il mondo intero. Ma la cosa strisciante continuò ad avanzare. Crollai, inzuppato di sudori gelidi, tremante, nauseato per l'orrore. Proprio allora, come avevo sperato e pregato, il motore fece uno scoppio irregolare. Dallo scappamento uscì una vampata di scintille, seguita da una cupa esplosione di vapori. Un improvviso lampo giallo illuminò il tempio... E una colonna di fiamma tremolante si levò dalla pozza di benzina ac-
canto al motore. Le creature nere vennero distrutte dalla luce... e svanirono! Il tempio si trasformò in un pandemonio di acuti ululati di dolore, di corpi confusi che si dibattevano in preda al panico. La morsa attorno al mio braccio cedette, e mio padre crollò al suolo, strisciando verso l'ombra dei pilastri e riparandosi gli occhi. Vidi che i lupi avevano abbandonato la sorveglianza alle cose che mi avevano sequestrato, e mi precipitai in quella direzione. In un istante le mie mani tremanti afferrarono una delle torce elettriche. Con gesti frenetici trovai l'interruttore e lo feci scattare. Con il fascio abbagliante spazzai l'ampia sala e il coro infernale di lamenti animali crebbe d'intensità. Poi accesi la seconda torcia e, arraffando in fretta la pistola, le munizioni, i fiammiferi e il nastro al magnesio, mi ritirai accanto alla pozza di benzina incendiata. Questa volta mi mossi con estrema precauzione, sondando con il raggio luminoso di fronte a me per evitare di inciampare in un'altra bomba d'oscurità. Credo comunque che la mia cautela fosse inutile. Sono sicuro, da quanto ebbi modo di vedere in seguito, che ne era stata preparata una sola. Accostandomi al motore mi resi conto che stava ancora funzionando, tenendo così aperto il varco che immetteva nella Dimensione Nera. Interruppi l'erogazione di carburante e il piccolo motore tossicchiò affannato, spegnendosi. Il muro di tenebre svanì dall'anello di rame interrompendo il collegamento con l'orrido mondo appartenente a un altro universo. Poi appoggiai frettolosamente le torce sul pavimento, mettendole in modo che proiettassero i fasci di luce in direzioni opposte. Presi i fiammiferi, accesi l'estremità di una striscia di nastro al magnesio, a cui avevo aggiunto dello zolfo per facilitarne l'accensione. Il nastro s'incendiò subito formando un bianco bagliore accecante che pareva un sole in miniatura. Lo scagliai attraverso la sala. La sua luce vivida descrisse una parabola, spezzando le ombre dietro i pilastri. Le belve nascoste e impaurite ulularono in preda a nuove atroci sofferenze e caddero sul nero pavimento, tremando e contorcendosi in maniera convulsa. Io continuai ad accendere sottili strisce metalliche e a gettarle in ogni angolo della sala per scacciare l'oscurità grazie alla loro scintillante fiamma candida. I latrati si fecero sempre più deboli, e gli uggiolii lamentosi cessarono. I
lupi e gli uomini giacevano immobili. La loro violenta lotta contro gli spasmi d'agonia era finita. Dopo aver lanciato l'ultima striscia di magnesio, presi l'automatica e sparai nel serbatoio del motorino, appiccando poi il fuoco al rivolo di liquido che fuoriusciva. Mentre una nuova colonna di luce sfavillante divampava verso l'alto, mi affrettai in direzione del passaggio che conduceva in superficie, attento a non calpestare un'altra di quelle sfere che eruttavano tenebra. Trovai le lanterne ancora accese, poiché i mostri evidentemente non erano riusciti a spegnerle. Corsi all'esterno, raccolsi le sei lanterne che avevo lasciato là e che scintillavano ancora nel crepuscolo imminente, e tornai velocissimo nel tempio. I mostri erano ancora inerti e privi di conoscenza. Sistemai le lanterne sul pavimento, disponendole in modo che ogni recesso fosse rischiarato efficacemente. Andai poi a prendere altre due lanterne e un fustino di combustibile, e riempii anche quelle lampade da cui avevo tolto la benzina per versarla nel motorino del generatore. Quindi girai per la sala sotterranea, sempre tenendo due lampade vicine, e distesi i gelidi corpi rannicchiati, rivoltandoli in modo che volgessero la faccia verso la luce. Trovai Stella. Il corpo della ragazza era ancora integro, a parte il pallore impressionante e lo strano gelo. Poi fu la volta di mio padre. C'era anche l'ammasso dilaniato che un tempo era stato il corpo di Judson. E il cadavere decapitato di Blake Jetton, il padre di Stella. Controllai pure molti altri corpi straziati di esseri umani, e le carcasse gelide di lupi, di coyote, del cavallo e di alcuni altri animali. In mezz'ora circa il cambiamento fu completo. L'assurdo gelo della forma di vita aliena aveva abbandonato le vittime. La maggior parte dei corpi si irrigidirono rapidamente in un tardivo rigor mortis. Anche mio padre era senza dubbio deceduto. Il suo corpo rimase freddo e immobile, nonostante lo strano gelo che l'occupava fosse svanito. Ma la squisita figura di Stella tornò a scaldarsi, pervasa di nuovo dal tenue rossore della vita. La ragazza respirava e il cuore le pulsava lentamente. La trasportai nella cantina e la deposi sul pavimento tra due lanterne, per prevenire ogni eventuale ritorno dell'invasore alieno mentre finivo il macabro lavoro che mi attendeva di sotto. Non c'è bisogno che mi addentri in inutili dettagli...
Quando ebbi usato metà della scorta di dinamite, non rimase alcun frammento riconoscibile, né della macchina maledetta, né dei corpi posseduti dalla mostruosa forma di vita. Innescai l'altra dozzina di candelotti accanto ai pilastri e nelle pareti del tunnel... Nessuno metterà mai più piede nella grande sala sotterranea che ho chiamato a volte tempio. Ultimato il lavoro, portai Stella in camera sua e la misi delicatamente a letto. Vegliai con ansia tutta la notte, mantenendo una brillante illuminazione nella stanza, ma non si verificò alcun segno di quanto temevo. Stella dormì profondamente, ma in modo normale, e sembrava ormai completamente libera da eventuali infestazioni residue del mostruoso parassita che un tempo era in lei. Dopo una nottata stressante giunse l'alba, e un chiarore rosato si diffuse sulla neve. La fanciulla si stiracchiò. Due profondi occhi azzurri si aprirono e mi fissarono: erano occhi sorpresi e ansiosi, da cui trapelava un'espressione interrogativa. Occhi non più offuscati come un tempo da strani sogni. «Clovis!», esclamò Stella con la sua vera voce dal tono morbido. «Clovis, cosa fai qui? Dov'è papà? Dov'è il dottor McLaurin?» «Stai bene?», le chiesi ansioso. «Stai bene, Stella?» «Bene?», fece lei, sollevando il suo stupendo viso sorpreso. «Ma certo! Cosa dovrei avere? Il dottor McLaurin tenterà il suo grande esperimento oggi. Sei venuto ad aiutarlo?» Allora capii, e ne fui immensamente felice, che tutti gli orribili ricordi erano stati cancellati dalla sua mente. Stella non ricordava nulla di quanto era accaduto a partire dalla vigilia dell'esperimento, causa di quella catena di cose terrificanti. Guardò improvvisamente dietro di me, verso la mia fotografia appesa alla parete, con un'espressione curiosa, e arrossì leggermente acquistando un aspetto ancora più attraente grazie a quel lieve rossore accentuato. «Non te l'ho data io quella foto», l'accusai. Volevo evitare, per il momento, qualsiasi domanda riguardante suo padre, o il mio, o l'esperimento. «L'ho avuta da tuo padre», confessò lei. Ho scritto questo resoconto in casa del dottor Friedrichs, il famoso psichiatra di New York, mio intimo amico. Mi recai da lui non appena io e Stella raggiungemmo New York, e da allora mi ha tenuto presso di sé sotto costante osservazione. Mi assicura che in poche settimane sarò perfettamente ristabilito. Ma a
volte dubito che riacquisterò del tutto il mio equilibrio normale, poiché gli orrori di quell'invasione da un altro universo sono incisi troppo profondamente in me. Ora non sopporto di restare solo al buio, o perfino alla luce lunare: tremo ogni volta che sento il latrato di un cane, e cerco precipitosamente la presenza di luci brillanti e la compagnia di esseri umani. Ho raccontato al dottor Friedrichs la mia storia, e lui mi crede: mi sono deciso a scriverla in seguito alla sua insistenza. È una verità storica, sostiene il mio amico, il fatto che le leggende, i miti ed il folklore si basino su eventi reali. E non esistono leggende più diffuse di quelle riguardanti la licantropia. È importante osservare come non solo i lupi siano oggetto di tali leggende, bensì gli animali più feroci di ogni paese. In Scandinavia, per esempio, le leggende riguardano gli orsi; nel continente europeo, i lupi; in Sudamerica, i giaguari; in Asia e in Africa, i leopardi e le tigri. È pure importante notare come la credenza nella possessione da parte di spiriti maligni, e la credenza nei Vampiri, siano collegate alla diffusissima credenza dei Lupi Mannari. Il dottor Friedrichs pensa che, in seguito a qualche incidente cosmico, questi mostri della Dimensione Nera abbiano potuto accedere al nostro mondo anche in precedenza; e che quelle leggende, stranamente diffuse ovunque, siano ricordi popolari di orrori che hanno colpito la terra quando quelle abominevoli mostruosità si impossessavano dei corpi degli uomini e di animali feroci, e andavano a caccia nelle tenebre. Si potrebbe aggiungere parecchio d'altro a sostegno di questa teoria, ma io lascerò che la mia esperienza parli da sola. Stella viene spesso a trovarmi, ed è più adorabile di quanto non mi fossi mai reso conto. Il mio amico mi assicura che la mente della fanciulla è assolutamente normale. Sostiene che la sua amnesia è un fatto naturale, dal momento che la sua mente dormiva quando l'entità aliena dominava il suo corpo. E afferma anche come sia impossibile che venga posseduta di nuovo. Io e Stella contiamo di sposarci entro poche settimane, non appena il dottor Friedrichs stabilirà che sono sufficientemente guarito. VENDETTA VOODOO Voodoo Vengeance di Kirk Mashburn Weird Tales, novembre 1934
1. «Mi interesso di ricerche sugli psicopatici, dei suoi effetti sui crimini e cose del genere, ma non di casi privati», informò freddamente i suoi visitatori il dottor Forest Loring. «Non c'è niente in questo caso che possa farmelo considerare come un'eccezione.» Il Capitano Frane arrossì di rabbia sotto l'abbronzatura del suo volto magro ma dai lineamenti ben marcati. Gli occhi scuri della ragazza con il volto pallido che si trovava al suo fianco si riempirono di una rassegnazione sempre più cupa. «Il nostro comune amico, il Procuratore Distrettuale, mi ha consigliato di venire da lei...», cominciò a dire Frane, ma venne interrotto bruscamente. «Credo che me lo abbia già detto prima», ribatté il Dottor Loring. «L'ho aiutato in un paio di casi perché coinvolgevano fattori interessanti per il tipo di ricerca psicologica di cui mi occupo. Nel vostro caso non si ravvisano neanche gli estremi del crimine. Sua moglie sembra soffrire di mania di persecuzione, il che non può davvero giustificare l'interruzione di alcuni esperimenti davvero molto urgenti e importanti che sto portando avanti.» Cercando di controllare la rabbia mentre si girava verso la moglie, Frane disse semplicemente: «Vieni, cara. Andiamo». Mentre si stava alzando, un cupo grugnito risuonò sotto la finestra aperta che si trovava a fianco del dottor Loring. Una testa ispida con un muso sottile e appuntito comparve alla vista; lunghe zanne ricoperte di saliva brillarono in un ghigno saturnino. Con le zampe anteriori poggiate sul davanzale, un essere mostruoso dall'aspetto di un lupo fece capolino dalla finestra con gli occhi rossi infuocati dalla ferocia. Natalie Frane soffocò un grido. «Ecco, ci siamo!», esclamò suo marito, con la voce non del tutto ferma. «Probabilmente, la paura che mia moglie nutre nei confronti del suo fratellastro, è una "mania di persecuzione", ma il suo cane - a meno che quel mostro non sia davvero un lupo! - ci ha seguiti fin qui!» Senza fretta, il Dottor Loring aprì un cassetto della sua scrivania. Ne tirò fuori un oggetto che rassomigliava a una piccola pistola automatica, la puntò in direzione della finestra e una sottile striscia di liquido, dello spessore di un ago, partì in direzione del cane. Con un grugnito, che all'improvviso si mutò in rantoli soffocati, l'orribile
muso scomparve dalla vista; i respiri affannosi diminuirono rapidamente. L'odore di ammoniaca, che si era diffuso nella stanza, svanì quasi all'istante. «Un'arma molto efficace, come ho già potuto constatare in altre occasioni», annunciò con calma il Dottor Loring. «Diceva che il cane appartiene al poco simpatico parente di sua moglie? Chiamerò Tou-Tou per scoprire come ha fatto a penetrare nel giardino.» «Quel selvaggio è in grado di scavalcare muri ben più alti del suo», gli rispose Frane con un sorriso triste. Prese il suo cappello e il bastone proprio mentre la porta si apriva e TouTou, l'emaciato servitore haitiano del dottore, scivolava nella stanza. Porse al suo padrone una piccola scatola avvolta nella iuta, con questa laconica spiegazione: «Hanno suonato alla porta; sono andato a rispondere e ho trovato questo. Fuori, non c'era nessuno». Il Capitano Frane, ex marine con quattro anni di servizio ad Haiti al suo attivo, capì le parole del patois creolo. Appena l'uomo di colore fu uscito, il Capitano si rivolse a guardare con disagio il misterioso pacchetto. «Non posso fare a meno di chiedermi», prese a dire con fare esitante, «se Polynice Poynter non abbia qualcosa a che fare con questa faccenda. Il suo orribile segugio non si stacca mai da lui, ed è chiaro che siamo stati seguiti fin qui. Poynter potrebbe aver mandato quel pacchetto come avvertimento affinché lei non accetti di occuparsi del nostro caso. Se è così, e la cosa sarebbe perfettamente in sintonia con la sua natura teatrale, è probabile che si tratti di qualcosa di spiacevole, e persino di pericoloso.» Il Dottor Loring agitò delicatamente il pacchetto, che apparentemente sembrava essere una scatola di cartone avvolta nella carta, e lo tenne vicino all'orecchio. Con un'espressione vaga dipinta sul volto, decise poi: «Bene, andiamo a vedere di che si tratta! Vuole avvicinarsi, Capitano?». Dopo aver chiesto a Mrs. Frane di accomodarsi di nuovo al suo posto e di aspettare, condusse il marito verso un bagno dove aprì i rubinetti del lavandino. Quando ci fu abbastanza acqua da riempirlo completamente, il dottore vi immerse la scatola, ancora avvolta nella carta così come l'aveva ricevuta. L'oggetto era leggero e galleggiava. 2. Prendendo in prestito il bastone che Frane teneva ancora in mano, il
Dottor Loring immerse il pacchetto nell'acqua. Con grande attenzione spinse il puntale del bastone nella carta che lo ricopriva e poi nella scatola. Quando l'acqua entrò nel foro, si udì un lieve fruscio che proveniva dall'interno della scatola. Con un movimento del polso, il Dottor Loring allargò il buco nella scatola ormai fradicia e tirò via il bastone. «Ora guardi», invitò. Per un attimo non accadde nulla. Poi, sgusciando attraverso il piccolo varco che lui aveva praticato, venne fuori un serpentello nero ricoperto di scaglie; circa settanta centimetri di sinuosa e convulsa lunghezza seguirono la testa del serpente. Il rettile nuotò avanti e indietro con la lingua biforcuta che usciva fuori a intervalli brevissimi e con sorprendente rapidità mentre tentava vanamente di arrampicarsi sulla liscia porcellana del lavandino. «Un Fer-de-lance, se ne ho mai visto uno!», esclamò il Dottor Loring. Frane annuì, pallidissimo sotto la pelle abbronzata. «Poynter potrebbe averlo rubato allo Zoo, o può averlo portato, insieme ad altri, da Haiti: è capacissimo di fare una cosa del genere!», disse il Capitano. «Così questo Poynter è stato ad Haiti?», rifletté il dottore. «Lui è haitiano», lo corresse Frane. Poi anticipò con sufficienza la domanda inespressa del dottor Loring. «Sì, è un meticcio con un ottavo di sangue nero. Si ricordi che ho detto che è il fratellastro di mia moglie.» «Se è stato lui a spedire il serpente, è senza dubbio un vero farabutto!», affermò accalorandosi il dottore. «Quelle cose», disse indicando il lavandino, «sono una specie maledettamente sgradevole e pericolosa.» «Lo so», convenne Frane con calma; «ho visto ciò che sono in grado di fare. Ma d'altra parte», ricordò ironicamente, «a Polynice Poynter piacciono proprio le cose sgradevoli, come quella di creare "manie di persecuzione", per esempio!» «Mi racconti i particolari prima di ritornare da sua moglie, quelli che deve aver tralasciato prima», gli chiese a bruciapelo il Dottor Loring. Quindi storse la bocca e aggiunse: «Credo di aver preso in antipatia il suo Polynice Poynter! Forza, svelto!», lo incalzò dal momento che Frane esitava. «Mi riferisca i fatti veramente importanti: com'è possibile che un meticcio con un ottavo di sangue nero sia il fratello di sua moglie, e i motivi che ha per volerle fare del male.» «È semplice», rispose Frane. «Il padre di mia moglie Natalie era coltivatore di canna da zucchero ad Haiti. La madre di Natalie morì e suo padre si risposò con una donna haitiana che era stata la sua amante per molti anni;
per così tanti anni che tutti a Port au Prince credono che Polynice, che ha circa trent'anni, sia figlio naturale del vecchio Poynter. Ad ogni modo, Poynter lo adottò legalmente dopo aver sposato la madre. Questa situazione risultò insopportabile per Natalie: io la sposai e, subito dopo, rassegnai le dimissioni per lasciare Haiti con lei. Per quanto riguarda il motivo di cui lei parla», continuò in fretta, «a meno che non sia cambiata di recente, la legge di Haiti proibisce inderogabilmente ai bianchi di possedere terre ad Haiti. Così il vecchio Poynter ha investito i suoi guadagni qui negli Stati Uniti con tale accortezza che, alla sua morte, Natalie ha ereditato una notevole fortuna. È semplicissimo: se Natalie muore senza figli, tutto sarà suo. Capisce?» «Il motivo è semplice», ammise il Dottor Loring. «Ma, in effetti, che cosa ha veramente fatto questo Polynice? Lei mi ha detto solo che sia la mente che il fisico di sua moglie, si stanno distruggendo a causa della paura che ha di lui, ma su cosa si basino i timori di sua moglie, di questo lei non mi ha parlato. Mi racconti ciò che finora si è tenuto per sé.» Il Capitano Frane esitò. «Deve capire», disse alla fine, «che Natalie è nata ad Haiti. Cose che sembrerebbero assurde per la maggior parte delle ragazze americane, sono invece molto serie per lei. Haiti è un'isola molto particolare, Dottor Loring, e Natalie crede nei riti voodoo.» «Ah!», annuì il Dottore, «ho capito. È tutto molto chiaro! Questo Polynice ha convinto sua moglie di essere in possesso di oscuri poteri e sfrutta la situazione per influenzarla. Sa in che modo?». Frane fece un gesto vago e imbarazzato. «Le ha fatto credere che lei, la sua anima, o almeno una parte di essa... oh, al diavolo! È infantile, ma finirà per uccidere Natalie se lei non lo fermerà. Lei crede che Polynice abbia messo una parte di lei in un pezzo di mogano, un pezzetto di legno essiccato non più grande di un libro di piccole dimensioni. E ogni giorno le ripete, per telefono o di persona, che lui distruggerà quel pezzetto di legno, e quindi anche lei, molto presto.» «E lei morirà, se lui lo distrugge», confermò prontamente il Dottor Loring. «La forza della suggestione rende la cosa ragionevolmente certa. Ma», disapprovò, «qualsiasi psicologo, anche alle prime armi, avrebbe potuto risolvere il vostro problema... Ad ogni modo lo farò io stesso. Lo ripeto: non mi piace questo Polynice che spedisce serpenti alla gente.» Rifletté un attimo e poi aggiunse: «L'unica difficoltà è rappresentata da quel pezzetto di legno. Fortunata-
mente, averlo non è assolutamente necessario; ma renderebbe tutto più semplice». «È Natalie stessa che lo conserva», gli rispose Frane preso dall'ansia. «Ora si trova nella sua borsa.» Il Dottor Loring strinse le labbra in un fischio silenzioso. «Davvero furbo questo Polynice!», concesse. «Questa è stata una mossa da maestro: lasciarlo tenere a lei. In questo modo, il potere della sua suggestione si rafforza ogniqualvolta lei lo guarda, e tenta costantemente di tenerlo lontano da ogni pericolo. La suggestione è la forza più potente del mondo, Capitano Frane. In questo caso sarà il fuoco con cui combatteremo il Diavolo. Venga! Abbiamo ancora a disposizione quasi tutto il pomeriggio, e lo useremo per disorientare questo Stregone voodoo che è nato nella giungla africana.» 3. Una volta tornati nello studio, Frane informò con calma sua moglie che il Dottor Loring ci aveva ripensato su e aveva deciso di accettare il suo caso. Il dottore la guardò attentamente per la prima volta. Natalie Frane era almeno di una dozzina d'anni più giovane del marito; doveva avere più o meno venticinque anni, giudicò il Dottor Loring. Avrebbe potuto essere bella, se non fosse stato per l'espressione ossessionata del volto e per i suoi occhi tristi. Istintivamente si ricordò del periodo in cui aveva esercitato l'attività di semplice medico generico, e automaticamente disapprovò il suo pallore, che veniva messo ancora più in risalto dai capelli neri tirati indietro in una semplice crocchia all'altezza del collo. Assomigliava a una Madonna pallida e preoccupata; proprio il tipo impressionabile e ipersensibile facile preda di subdole influenze. «Sono venuta perché John ha voluto così, Dottor Loring», disse in tono di difesa. «Dubito che un medico sia in grado di aiutarmi, o anche solo capire ciò che fiacca la mia forza e la mia volontà.» «Mia cara», la rassicurò gentilmente il Dottor Loring, «è vero che sono un medico. Ma sono anche uno psicologo, che vuol dire molto di più. Inoltre sono uno psichiatra, e questo vuol dire ancora di più.» Si chinò verso di lei confidenzialmente: «Al di là di tutto questo, ho vissuto e studiato ad Haiti. Ho vissuto tra gli indigeni come uno di loro, per portare avanti le mie ricerche scientifiche.
Ne so dei riti Voodoo almeno quanto Polynice, più altre cose di cui lui non ha neanche una vaga cognizione. Io posso aiutarla. Me lo permetterà?». Natalie Frane alzò la testa per guardarlo in volto; e ciò che vide portò uno spiraglio di lieve e incredula speranza sul suo viso. Impulsivamente gli prese la mano. «Sì!», bisbigliò. «Oh, sì!» C'era un divanetto nello studio, a causa dell'abitudine del dottore di schiacciare un pisolino nei momenti più strani; e verso quel divanetto condusse la ragazza. «Si stenda», la persuase. «Si metta comoda e si rilassi.» Dopo che si fu sistemata, riprese a parlare: «Do per scontato che quando», contemporaneamente si avvicinò alla borsa che lei ancora teneva stretta tra le mani, «quando il fatto è accaduto, lei era o addormentata o in uno stato di coma apparente. Le stesse condizioni sono necessarie per sortire un effetto contrario...». Continuando a parlare, il Dottore sistemò uno strano congegno sulla sua scrivania, una serie di piccoli specchi racchiusi in una normale cornice. Una funicella inserita in una presa del muro faceva girare gli specchi. Mentre giravano, si confondevano in un disco di luce scintillante e ipnotica. Natalie Frane guardò quella luminosità girevole che attirava ineluttabilmente i suoi occhi e, fissandola, emise un sospiro e si rilassò. La preziosa borsa cadde dalle sue mani afflosciate. «Un utile aiuto meccanico alla pratica dell'ipnosi», spiegò il Dottor Loring, facendo fermare gli specchi girevoli. Dopo aver rimosso il congegno, spinse un pulsante sotto la sua scrivania. «Portami un'accetta, o un coltello pesante: quel machete che usi per potare le siepi sarebbe l'ideale», ordinò poi quando apparve Tou-Tou. «Quando la sveglierò», comunicò a Frane, «le diremo che qualsiasi parte del suo ego potesse essere racchiusa nel pezzetto di mogano è stata obbligata a uscire e le è stata restituita. Una volta che lei abbia accettato ciò, le mostreremo come prova il pezzo di legno spaccato in due. Dopodiché, lei non dovrà fare altro che tenere questo Polynice alla larga da sua moglie. A mano a mano che il tempo passerà, i ricordi che sua moglie ha di Haiti si offuscheranno e scompariranno.» Tou-Tou ritornò con il machete, un arnese con la lama lunga e ben affilata. Frane prese il pezzo di legno dalla borsa di sua moglie, e il Dottor Loring lo mise su una rivista che si trovava sulla scrivania. Il machete si sollevò e, subito dopo, ricadde. Il legno, secco e stagionato, si divise esatta-
mente in due parti. Ma né Frane né il dottor Loring videro cadere i due pezzi. Esattamente nello stesso momento in cui la lama penetrava nel pezzo di legno, Natalie Frane urlò. Lanciò un urlo e poi sembrò che stesse per soffocare: quindi continuò a emettere dei gemiti strozzati come se le sue corde vocali non riuscissero ad articolare dei suoni normali. Si irrigidì in tutte le parti del corpo e, con un movimento inconsulto, tirò su le ginocchia. «Mio Dio!», urlò il Dottor Loring «Questa non è una pagliacciata: è uno sconvolgente, terribile e genuino rito Voodoo!» «Che sta succedendo? Che diavolo ha fatto?» «Non è il momento delle spiegazioni ora!», tagliò corto il dottore mettendosi subito all'opera. «Si tolga da qui...» Uscì precipitosamente dalla stanza e, un attimo dopo, fu di ritorno con una siringa ipodermica tra le mani. «La sua maledetta macchinazione non può riuscirgli: almeno non completamente, mentre lei è sotto ipnosi», mormorò rivolto più a se stesso che a Frane. «Ma lo stato di coma non durerà ancora molto; e, se si sveglia ora... morirà! E allora...» Il Dottor Loring affondò l'ago nel braccio di Natalie e, mentre lo adagiava di nuovo sul lettino, lei si rilassò sotto l'influenza del narcotico. Ma anche ora c'era una strana tensione nel suo corpo immobile. Il dottore si girò verso Frane: «Sa come rintracciare quel demonio?». «Polynice? Sì, per telefono. Ma, per amor di Dio, che cosa...» «Ora non c'è davvero tempo da perdere!», lo interruppe brusco il Dottor Loring. «Telefoni a Polynice: gli dica esattamente ciò che è accaduto. Gli dica che acconsentirà a tutte le sue richieste, se lui verrà qui immediatamente e mi aiuterà a sciogliere quest'incantesimo Voodoo. Gli dica tutto quello che vuole, ma lo faccia venire qui immediatamente. Si muova!» 4. Frane cercò febbrilmente nell'elenco telefonico e lo gettò via con un'imprecazione. Compose il numero «Informazioni», e il Dottor Loring gli sentì chiedere il numero di cui aveva bisogno. Poi Frane posò lentamente il ricevitore con un'espressione avvilita dipinta sul volto. «Il suo numero telefonico è privato. L'operatrice non ha voluto darmelo. E», aggiunse disperato, «io non ho assolutamente idea di dove viva.»
«Se non riusciremo a portarlo qui entro breve tempo...» Ciò che il Dottore voleva dire era perfettamente chiaro. «Cosa?», sbottò l'ex Capitano di Marina. «Sta cercando di dirmi che, ora che ha scatenato la crisi, non è capace di riparare al malfatto? Faccia qualcosa! Lei si è vantato di saperne più di Polynice... non può fare ciò che farebbe lui?» «Polynice non avrebbe potuto salvare sua moglie», rispose paradossalmente il Dottor Loring. «Io invece lo farò. Ma Polynice è un elemento necessario.» «Lei mi parla con degli enigmi», si irritò Frane. «Io ho messo Natalie nelle sue mani, fidandomi ciecamente, ed ora ecco qual è il risultato! Ha spinto le cose a un punto tale che ora non sa più controllarle. E io non so neanche cosa è accaduto a mia moglie, né perché. Se lei lo sa, è arrivato il momento di dirmelo!» «Ho fatto un pasticcio», ammise il Dottor Loring con amarezza. «È stata colpa di quel fer-de-lance. Pensavo che si trattasse di una volgare messa in scena, ma invece è stata una mossa astutissima. Mi ha portato fuori strada, mi ha fatto diventare una marionetta nelle mani di Polynice. Pensavo che stesse facendo leva sulle paure di sua moglie fino a farla cedere ai suoi finti riti Voodoo. Ci sono pochissimi veri adepti, anche tra gli haitiani papalois... ma Polynice è evidentemente uno di quelli.» «Vuol dirmi forse che esiste davvero la Stregoneria?» L'incredulità combatteva in Frane la terribile paura che le parole del dottore fossero vere, mentre con gli occhi sbarrati guardava in direzione del divano. «Stregoneria nel senso in cui la intende lei, no», rispose prontamente il Dottor Loring. «Non c'è nulla che non possa essere spiegato in termini scientifici, anche se alcune volte le spiegazioni non sono molto chiare. Il Voodoo, come Magia Nera, non è nient'altro che autosuggestione indotta. È un fenomeno abbastanza comune tra i selvaggi e le popolazioni semicivilizzate, trovare degli individui dotati di un notevole controllo psichico. Polynice ne è dotato perché ha una parte delle sue radici nella giungla. Ha dominato la mente di sua moglie facendole credere che lui ha costretto una parte di lei - qualcosa che in mancanza di un termine migliore, potremmo definire la sua essenza spirituale - a entrare in quel pezzetto di mogano. In effetti, dal momento che è riuscito a convincerla del fatto, lui è davvero riuscito a farlo! Il fatto sussisteva, ma non la danneggiava in alcun modo finché le cose
rimanevano così. Ma, quando ho violentemente distrutto il pezzo di legno, si è scatenata una reazione psicologica simpatica, come lei ha visto. Nel suo stato di coma, lo shock psicologico è stato parzialmente neutralizzato; ma, se si svegliasse ora, ciò che avverrebbe è paragonabile al tentativo di far partire un motore con la batteria praticamente scarica. Dobbiamo ricaricare le sue batterie psicologiche prima che riprenda conoscenza ed esaurisca le poche forze che le rimangono. Altrimenti...» Il Dottor Loring allargò le braccia in un gesto più eloquente di qualsiasi parola. «E lei ha bisogno di Polynice per salvarla?», gemette Frane. «Perché?» La ragazza sul divano riprese a muoversi e la domanda non ottenne alcuna risposta mentre il dottore le si precipitava accanto. Le dita lunghe e sottili del Dottor Loring le sollevarono il polso poi, senza dire una parola, il medico riempì di nuovo la siringa ipodermica. 5. Dopo aver somministrato il sonnifero, il Dottor Loring si girò ad affrontare Frane. «È la dose massima che posso azzardarmi a darle», annunciò molto lentamente. «Una dose più forte la ucciderebbe. La manterrà in stato di coma per altre tre, quattro ore.» I suoi occhi rimasero fissi in quelli di Frane per un lungo e terribile minuto. Sul volto del Capitano Frane era dipinto un inferno di disperazione quando si girò a guardare il corpo immobile e indifeso di sua moglie. Il dottore spinse il bottone che stava sotto la sua scrivania. «Tou-Tou», chiese all'haitiano, «hai capito cosa è accaduto qui?» Gli occhi di Tou-Tou avevano un'espressione lugubre mentre giravano intorno alla stanza. Annuì senza parlare. «C'è un modo», chiese esitante, quasi spaventato, il Dottor Loring, «un modo... per venirne fuori?» «Uno», rispose Tou-Tou con voce sommessa. I due si scambiarono un'occhiata significativa; sembrava che si fossero capiti all'istante. Il Dottor Loring annuì lentamente mentre Tou-Tou usciva dalla stanza. «Un solo modo», mormorò tra sé, pallido in volto. «Un solo modo... e non si riesce a trovare Polynice.» Frane sollevò il capo dalle mani. Nei suoi occhi si leggeva una rabbia omicida.
«Polynice...», bisbigliò cupamente. «Se Natalie morirà, la legge non potrà toccarlo, ma Dio lo guardi!» Poi rimasero seduti in attesa, senza parlare. La punta della lingua di Frane passava lentamente sulle sue labbra secche... Squillò il telefono. Il Dottor Loring portò il ricevitore all'orecchio con una mossa fulminea; poi fece segno a Frane. «Vogliono lei», disse. Guardandolo, il Dottore vide che gli occhi vuoti di Frane si erano illuminati per l'eccitazione. «È Polynice!», urlò Frane, stendendo una mano tremante verso il ricevitore. «Cosa devo dirgli?» «Gli dica... no lasci fare a me!», scattò il Dottor Loring. Afferrò la cornetta del telefono e parlò con voce secca e decisa. «Pronto!... Parla il Dottor Loring. Mrs. Frane è qui e si trova in condizioni molto critiche per la distruzione di un certo pezzetto di mogano: lei mi capisce, naturalmente. Ho assoluto bisogno della sua assistenza per riportarla in condizioni normali, per guarirla dal potere mesmerico con cui lei la tiene in pugno. Per avere il suo aiuto, Mr. Frane è disposto ad accettare tutte le sue condizioni. Le do la mia parola d'onore che non ci sarà in futuro nessuna rappresaglia da parte sua o della Polizia... Oh, sì! Credo che la mia testimonianza renderebbe piuttosto realistica un'azione criminale!» Le labbra del dottore si tesero in un risolino sardonico, e a bella posta aggiunse: «Lo stesso Capitano Frane è in condizioni pietose. Farà meglio a venire immediatamente». Dopo che il ricevitore fu rimesso al suo posto, si girò verso Frane con un'espressione trionfante. «Quell'ultima frase sul fatto che lei fosse ridotto a pezzi, ha fatto colpo su di lui. Non ha saputo resistere a venire qui a gongolare. Tra l'altro si sente molto sicuro di sé.» «Lei gli ha promesso l'immunità più completa!», controbatté amaramente Frane. «Non è vero!», lo contraddisse il Dottor Loring. «Gli ho detto che lei era pronto ad accettare qualsiasi condizione per salvare sua moglie... il che è vero; e che non ci sarebbe stata alcuna azione criminale...» Fece una pausa e con le dita armeggiò sotto il bordo della sua scrivania. «Non ce ne sarà alcun bisogno!», aggiunse con calma, sottintendendo
qualcosa che Frane non riuscì ad afferrare. 6. Il Dottor Loring schiuse le labbra per parlare mentre Tou-Tou scivolava nella stanza, poi esitò. Dopo aver lanciato a Frane uno sguardo indeciso, cambiò la sua prima decisione e fece segno all'haitiano di andar via. «Devo fare i preparativi per quando arriverà il nostro ospite», spiegò all'improvviso. La porta si chiuse dietro di lui. Frane camminava avanti e indietro per lo studio e i suoi occhi spiritati continuavano a soffermarsi sul volto pallido ed esangue del corpo che giaceva immobile sul piccolo divano. Appena il Dottor Loring rientrò nella stanza, Frane sollevò lo sguardo. «Ha l'aria di chi ha sistemato tutto», osservò lentamente Frane, «e aspetta solo che accada qualcosa.» «Certo», annuì cupo il Dottore, «sono pronto a combattere il Diavolo con le sue stesse armi!» Qualsiasi domanda Frane fosse stato pronto a fare, fu rimandata dal debole suono del campanello dall'altra parte della casa. «Ci siamo», esclamò piano il Dottor Loring, con gli occhi che gli brillavano, «quel demonio sta arrivando!» Attraverso la porta socchiusa, Tou-Tou parlò in fretta nel suo francese patois: «È lui! Senza il cane non entrerà». Il dottor Loring fece schioccare le dita con un'esclamazione. «Il cane, Tou-Tou! Sei d'accordo anche tu che il cane può benissimo sostituire una capra?» Gli occhi dell'haitiano mandavano lampi mentre usciva dalla stanza. Tornò introducendo un uomo a fianco del quale camminava un cane macilento del tutto simile a un lupo, con le zampe rigide per la paura. Era lo stesso animale che aveva ringhiato fuori dalla finestra del dottore. L'uomo che non ebbe bisogno di nessuna presentazione essendo il tanto desiderato Polynice, era di statura media, ma robusto. La sua carnagione, leggermente itterica piuttosto che scura, non tradiva la sua origine ibrida, né tantomeno i capelli che erano lisci e neri. Il suo tratto più caratteristico erano gli occhi diabolici e ipnotici: scuri e lucidi come l'ambra nera. «Ah!», mormorò, con un leggero accento inglese e un piccolo inchino. «Il Dottor Loring, presumo, e l'esimio Capitano Frane!» Poi con soddisfat-
ta malizia, aggiunse: «E la mia povera sorellastra!». I muscoli erano ben in evidenza sulle mascelle serrate di Frane, ma il Dottor Loring si rivolse all'haitiano con voce incalzante: «Entri, prego. Non abbiamo tempo da perdere». Dopo avergli stretto a malincuore la mano, il meticcio avanzò nella stanza. «Contrariamente a quanto crede il Capitano Frane, io non ho nulla contro sua moglie o, sì... contro i suoi possedimenti. Certo non sono io il colpevole del suo deplorevole disordine mentale, e non sono un uomo di scienza. Anche se sono molto desideroso di rendermi utile, non c'è nulla che io posso fare per aiutarla, Dottor Loring.» «Così lei pensa di rimanere qui a godersi la scena di Mrs. Frane che muore quando uscirà dal suo stato comatoso?» La voce del dottor Loring era falsamente gentile. «Bene, allora si è completamente sbagliato. Lo shock che ha subito è troppo grande perché lei possa porvi rimedio, anche se volesse.» «E allora perché mi ha fatto venire qui?», mormorò Polynice. «Perché io ora sono in grado di aiutarla! Ma per lei sarà molto dura!» Con un gesto improvviso, il dottor Loring chiamò in causa Tou-Tou che piombò come un'ombra impaziente. Il macilento uomo di colore fece un balzo in avanti e il cappio di una corda andò ad avvolgere le spalle del meticcio imprigionandogli le braccia. Ma non avevano considerato la reazione di quella specie di lupo feroce che si precipitò in difesa del suo padrone non appena quello lanciò un urlo di rabbia. Con balzi furiosi si avventò contro Tou-Tou che, per difendersi dalle sue zanne affilate, lasciò cadere la corda. Polynice in un attimo si liberò del cappio e tirò fuori una pistola dalla tasca superiore della giacca. Con un salto si diresse verso la finestra aperta, ma subito Frane gli si parò davanti. Con la mano tesa colpì Polynice al polso, e dalla pistola partì un proiettile; la pistola rotolò quindi sul pavimento. Il pugno dell'ex marine andò a segno spingendo Polynice contro la scrivania, sulla quale era sistemato un pesante machete. Dita scarne e olivastre si protesero verso l'arma; la lama assassina sibilò quindi in direzione di Frane che riuscì a stento a farsi da parte. Mentre Polynice tentava di nuovo di guadagnare la finestra, dalla quale avrebbe avuto via libera, il Dottor Loring lanciò la propria figura sottile al suo inseguimento. Qualcosa brillò nel pugno del dottore e si conficcò nella spalla sinistra dell'haitiano.
Lanciando un urlo di dolore e di rabbia insieme, Polynice fece roteare il machete che descrisse una curva assurda. Il Dottor Loring riuscì a malapena a evitare il colpo. Prima che riuscisse a voltarsi verso il dottore, o a lanciarsi su Frane, che stava correndo di nuovo verso di lui, Polynice inciampò e lasciò cadere il machete sul pavimento. «Non lo colpisca!», gridò il Dottor Loring. Ma Frane si era già bloccato e fissava il volto di Polynice contratto dal dolore. «Dannazione a te!», sibilò l'itterico haitiano. Sarebbe crollato sul pavimento, se non fosse stato per il Dottor Loring che lo afferrò e lo sostenne. Con l'aiuto di Frane, mise Polynice su una sedia. «Decisamente forte il sedativo di quella siringa!», boccheggiò il dottore. «Ma non durerà ancora per molto. Leghiamolo.» Erano stati troppo impegnati per seguire la battaglia di Tou-Tou con il cane. Ora, quando Frane si girò per raccogliere la corda, l'uomo di colore stringeva con una mano il cane alla gola e sembrava tenere la situazione sotto controllo. Il vestito di Tou-Tou era ridotto a brandelli e la mano che aveva libera sanguinava; ma il cane sembrava stordito, domato. Aveva gli occhi incredibilmente vitrei. «Torci il collo di quella bestiaccia!», grugnì Frane mentre, con la corda tra le mani, attraversava con ansia la stanza verso la povera ragazza che era rimasta immobile sul divanetto. «No», lo contraddisse il dottore; «ci sarà ancora utile. Portalo in giardino, Tou-Tou.» Mentre il Dottor Loring si chinava su Natalie, Frane legava Polynice alla sedia. Soddisfatto che le condizioni della ragazza non fossero peggiorate, il dottore rivolse la sua attenzione al prigioniero. 7. Polynice dava già segni di riprendere conoscenza. Il dottore aiutò il processo mettendogli sotto il naso una bottiglia di sali. Il metìccio spostò di lato la testa e con un lamento si contorse sulla sedia. Tirandolo per il mento, il dottore gli fece trangugiare qualcosa che aveva miscelato in un bicchiere. Polynice aprì lentamente gli occhi che, piano piano, si schiarirono e si riempirono di odio. «Ora l'effetto è passato», osservò il Dottor Loring. «È un bene; perché voglio che capisca ciò che sto per dirle.»
Non dando a Polynice l'opportunità di interromperlo, continuò seccamente: «Lei sa tutto sui riti Voodoo, proprio come me! Li ho studiati per mesi sulle montagne vicino al confine con la Dominica. Il mio domestico è originario di quella regione, come avrà già avuto modo di capire.» «Lei non ne sa abbastanza per salvare Mrs. Frane!», lo provocò Polynice. «Ah! Qui si sbaglia», lo corresse con calma il Dottor Loring. «Fino a che la sua influenza sarà così incondizionata, è vero che non posso liberare la sua mente.» Si fermò deliberatamente e poi aggiunse: «Così ho pensato di eliminarla!». Il suo interlocutore sbiancò, assumendo un colorito letteralmente cadaverico. «Lei non oserà tanto!», sibilò Polynice. «Mi sono preoccupato di far sapere a più di una persona che sarei venuto qui.» «Lei mi crede troppo sciocco», si prese gioco di lui il Dottor Loring. «Non intendevo nulla di così brutale e, in questo caso, così inutile come la violenza fisica... Nel caso in cui Mrs. Frane muoia, non c'è alcun modo per farla sottoporre al giudizio della Legge; né la Polizia potrà proteggere Natalie Frane in seguito se io annullo solo temporaneamente la sua influenza. Ma io propongo di farle conoscere le mie condizioni», la sua voce divenne furibonda, «cioè di punirla una volta e per tutte per il crimine che ha commesso!» «Lei non oserà farmi del male!», ripeté Polynice, ma aveva le labbra tirate. «Davvero?», sibilò il Dottor Loring. «Senza dubbio lei ha già capito ciò che ho in mente. Sì, parlo delle cerimonie petro: cosa le ricordano la ragazza e la capra? Bene, caro mittente di serpenti, deve sapere che Tou-Tou era un papaloi delle montagne haitiane; e lui dice che il suo cane potrà tranquillamente sostituire la capra. E, anche se certo lei non è una giovane vergine, tuttavia credo che ci riusciremo!» Frane aveva ascoltato con impazienza e senza capirci praticamente niente, ma la minaccia del dottore era atrocemente chiara per Polynice. «Quello no!», urlò, cercando disperatamente di liberarsi della corda che lo legava. Si affannò senza speranza e poi, all'improvviso, smise qualsiasi tentativo. Un sorriso astuto e malvagio gli si dipinse sul volto. «È in possesso della droga che si dà alla ragazza prima della cerimonia?», chiese con voce trionfante. «Io credo di no, e lei non può farne a
meno. Il suo narcotico non potrà sostituirla: la mente deve essere sotto controllo, non resa insensibile. L'unico altro modo è quello di ipnotizzarmi, e la mia mente non cederà mai alla sua! Lei non sarà in grado di ipnotizzarmi, e non oserà uccidermi!» «In tutti i casi, prendo in parola la sua sfida», gli rispose il Dottor Loring, con un sorriso ironico. «Ma c'è troppo poco tempo per mettere a repentaglio la vita della mia paziente solo per soddisfare la mia vanità. Ho rimandato la cosa fino ad ora solo perché era necessario che la sua mente fosse del tutto consapevole di ciò che sta per accadere. Si sta già facendo scuro; e stanotte la luna sorge quasi al crepuscolo...» Sulla scrivania venne di nuovo sistemato il congegno con gli specchi. Mentre aggiustava gli specchi, il Dottor Loring, quasi scusandosi, disse a Polynice: «I poteri psichici che lei ha ereditato dai suoi Stregoni africani non possono molto contro la scienza moderna». Senza riuscire a capire, ma molto a disagio, l'haitiano osservò gli specchi che cominciavano a girare. Realizzò troppo tardi che era ormai in trappola. Tentò disperatamente di distogliere lo sguardo; le vene ingrossate erano ben evidenti sulle sue tempie sudate. Per alcuni lunghi minuti Polynice combatté un'angosciosa e silenziosa battaglia con quell'oggetto che fiaccava la sua volontà. Poi, con un sospiro soffocato si rilassò sulla sedia, con gli occhi spalancati che non vedevano nulla. 8. Tou-Tou scivolò dentro come un'ombra misteriosa. Dietro all'impassibilità della sua faccia scura c'era una brama profonda. Un vistoso fazzoletto era legato intorno alla sua testa ricciuta e aveva in mano una bacchetta attorcigliata in modo molto strano. «Ho fatto un bastone con le ossa del serpente che quello ha mandato!», quasi cantò in quel suo impacciato patois. «Il cane è pronto e la luna sta per sorgere.» «Anche lui è pronto», gli comunicò cupo il dottore. Indicando Natalie, disse a Frane ciò che doveva fare: «La prenda tra le braccia. Spero che una buona parte di quanto sta per accadere raggiunga il suo subconscio per registrare la sensazione della sua liberazione... Forza!». Dopo aver afferrato Polynice per un braccio, mentre Tou-Tou prendeva l'altro, il dottor Loring mormorò in tono di comando:
«Alzati! Vai dalle tue divinità, vai da Damdalla!». Un po' strisciando, un po' trasportato, Polynice avanzò in mezzo ai due. Frane prese delicatamente tra le braccia Natalie e li seguì. La luna, una falce crescente, fece capolino sopra l'alto muro che circondava il giardino. I fiori, che durante il giorno erano un tripudio di colori, volgevano verso l'alto le loro corolle bianche e spettrali sotto la luce della pallida luna. Il gruppo si mosse verso una macchia di arbusti secretivi nel centro del giardino. L'orribile cane, legato ai cespugli, prese a uggiolare man mano che si avvicinavano. Frane adagiò sua moglie in una sdraio da giardino che trovò lì vicino. Il Dottor Loring lasciò la presa sul braccio di Polynice e aiutò Frane ad aggiustare lo sdraio finché la ragazza non giacque quasi completamente stesa. Il dottore quindi le passò leggermente le dita sulla fronte, con un ordine sommesso: «Riposa e osserva come l'Inferno si riprende il suo Diavolo». Tou-Tou aveva costretto Polynice a mettersi carponi di fronte al cane che nel frattempo si era tranquillizzato. L'esangue macchia del volto dell'uomo si trovava a pochi millimetri di distanza dal muso della bestia. «Lei deve seguire con molta attenzione le fasi del rituale», bisbigliò il Dottor Loring a Frane. «Sono psicologicamente vitali.» Si allontanò e tirò fuori dalle tenebre qualcosa che era stato precedentemente sistemato lì, pronto per l'uso; Frane si rese conto con stupore che si trattava di una grande chitarra. Accovacciatosi con quell'assurdo oggetto sul prato davanti a lui, il dottore cominciò a tamburellare lievemente sul suo retro. Tou-Tou si dondolò sui piedi seguendo il ritmo vibrante e misterioso delle dita tamburellanti. «Legba, apri la strada! Grande Damballa-Ouédo, prendi ciò che offriamo!» Smise di ballare e si chinò sulla coppia così malamente assortita. L'uomo e la bestia, con il volto e il muso che quasi si toccavano, mantenevano la loro singolare immobilità. La bacchetta, con le vertebre intrecciate del serpente, descrisse su di loro antichissime figure misteriose. Il dottore proseguì nel percuotere il tamburo improvvisato, sempre con lo stesso, monotono tempo. «La cosa è fatta!», annunciò Tou-Tou, con la voce ridotta a un sussurro. Il rullo del dottore divenne più alto e potente fino a raggiungere uno staccato acuto e imperativo. La luce della luna fece brillare per un attimo il
coltello che Tou-Tou impugnava. Un accenno di urlo, disumano, ma che pure assomigliava a una voce umana, si spense in un gorgoglio soffocato. Il cane ricadde sul fianco, contorcendosi per pochi secondi. «Mio Dio!», Frane non riuscì a trattenere un grido. «Polynice...» «È Polynice?», chiese il Dottor Loring con le dita ormai immobili. Perché Polynice aveva gettato indietro la testa... e ululava come un lupo in direzione della luna! «Porti di nuovo in casa Mrs. Frane. Subito! Potrebbe svegliarsi da un momento all'altro, e non voglio che veda nulla di tutto ciò, non quando sarà cosciente.» 9. Natalie stava già cominciando a stiracchiarsi quando Frane l'adagiò di nuovo sul divanetto nello studio. Il Dottor Loring si chinò su di lei e le sentì brevemente il polso. «Ancora pochi minuti e sarà completamente sveglia e normale. Nel suo subconscio la mente ha registrato la sua liberazione dalla minaccia di Polynice. Ciò dovrebbe aver compensato lo shock che ha subito quando ho spaccato il pezzo di mogano.» «Ringrazio Dio per tutto ciò!», esclamò Frane con convinzione. «Ma Dottor Loring! E Polynice? Quel cane urlava come un essere umano, e Polynice ringhiava contro tutti e quattro noi come un cane. Avevo letto di Sacerdoti Voodoo che riuscivano a fare scambi di questo genere, ma non ci credevo... Dannazione, non ci credo neanche adesso!» «Naturalmente no», convenne il Dottor Loring; «ma Polynice ci credeva! Ogni singola cellula del suo cervello è marcata per sempre dall'impressione che ha ricevuto e ci ha creduto nel momento in cui Tou-Tou ha tagliato la gola al cane. Per tutti i fini pratici, la sua personalità era nel cane quando quello è morto, e quella del cane in lui. È la stessa cosa che è capitata a sua moglie, che si è ripetuta in lui. Le avevo detto che avremmo combattuto il Diavolo con le sue stesse armi! Così abbiamo evitato un efferato delitto che la legge sarebbe stata impossibilitata a smascherare, e il criminale è stato punito.» Controllò il suo orologio e aggiunse: «Ho telefonato alla Polizia; dovrebbero venire a prendere Polynice nel giro di pochi minuti. Domani firmerò i documenti che lo faranno rinchiudere nel Manicomio Statale».
S'interruppe per avviarsi velocemente verso il divanetto. Frane raggiunse per primo la moglie, mentre la ragazza stava aprendo gli occhi. Il marito, col viso tirato per l'ansia, l'aiutò a sollevarsi per mettersi seduta. «Mi sento molto stanca», sospirò lei. Aveva il viso tirato ed era terribilmente pallida. Il Dottor Loring si fece deliberatamente da parte. Natalie Frane sgranò gli occhi e le dita le corsero alla bocca per soffocare un urlo. Poi, un'espressione sorpresa calò sul suo volto; un lieve rossore le colorò le guance esangui. «Oh, John!», gridò rivolgendosi al marito con l'ombra di un sorriso che finalmente esprimeva un sollievo insperato. «Hai tagliato in due il pezzo di legno! Quindi il Voodoo non esiste!» «Precisamente!», approvò con decisione il Dottor Loring proprio mentre suonava il campanello. Con la moglie stretta tra le braccia, il Capitano Frane riuscì appena a trattenersi dall'impulso di contraddirlo. Attraverso la finestra aperta arrivarono i lontani, terribili ululati di dolore di un cane, ululati che avevano una nota strana, misteriosamente umana. INTERMEZZO LE BESTIE MANNARE L'ORSO MANNARO The Wer-Bear di Walter Scott 1827 Hringo, Re dell'Upland, aveva un unico figlio di nome Biorno, il più bello e il più valoroso di tutta la gioventù norvegese. Già abbastanza in là con gli anni, il Re si innamorò di una strega, che scelse come seconda moglie. Tra il giovane Biorno e Bera, la bella figliola di un vecchio guerriero, c'era stato un tenero sentimento già dai tempi della loro infanzia, ma la nuova Regina concepì una passione incestuosa per il suo figliastro e, per soddisfare tale passione, convinse suo marito, mentre si accingeva a partire per una di quelle spedizioni piratesche che costituivano le campagne estive dei monarchi scandinavi, a lasciare a casa il Principe. In assenza di Hringo, lei rivelò a Biorno la sua impura passione, ma fu respinta con un moto di violento sdegno. L'ira della matrigna fu senza confini. «Andrai nella foresta!», esclamò, colpendo il Principe con un guanto di
pelle di lupo. «Andrai nella foresta, e vivrai solo delle greggi di tuo padre! Vivrai cacciando, e morirai cacciato!» Da quel momento in poi, il Principe Biorno non fu più visto, e i guardiani del bestiame del Re cominciarono a rendersi conto che ogni notte un orso di dimensioni immense e di colore nero, feroce oltre ogni dire, faceva strage fra le greggi. Tutti i tentativi di uccidere o di catturare quell'animale risultarono vani; e tutti si rammaricavano invano dell'assenza di Biorno, il cui unico divertimento consisteva nel cacciare gli animali da preda. Bera, fedele innamorata del giovane Principe, aggiunse le sue lacrime al lutto della gente. Mentre si trovava in un luogo appartato, immersa nella sua malinconia, fu spaventata dall'avvicinarsi di un orso mostruoso, proprio l'animale che era il terrore di tutto il paese. Non poteva fuggire, quindi la fanciulla rimase ferma ad aspettarlo, ed era sicura che la morte fosse ormai vicina, quando l'animale cominciò a farle le feste, si rotolò ai suoi piedi e la guardò con degli occhi in cui, nonostante l'orribile trasformazione, lei ravvisò lo sguardo del suo amante perduto. Bera ebbe poi il coraggio di seguire l'orso sino alla sua caverna dove, durante alcune ore del giorno, l'incantesimo gli permetteva di riprendere forma umana. L'amore che la donna provava vinse ogni ripugnanza, e la fanciulla continuò a vivere nella caverna di Biorno, godendo della sua compagnia nei momenti in cui era libero dall'incantesimo. Un giorno il Principe guardò sua moglie con aria triste, e disse: «Bera, si avvicina la fine della mia esistenza. La mia carne diverrà presto un pasto per mio padre e per i suoi cortigiani. Ma guardati dalle minacce e dalle lusinghe della mia malefica matrigna, nel caso dovesse cercare di convincerti a partecipare a quel banchetto orrendo. Partorirai tre figli, che saranno la meraviglia di tutto il Nord». Poi fu l'ora dell'incantesimo, e lo sfortunato Principe uscì dalla caverna per andare a cacciare le greggi. Bera lo seguì da lontano, piangendo. Ora si udiva il suono dei corni da caccia. Il vecchio Re, di ritorno dalle sue scorribande, aveva riunito un gruppo di armati per uccidere la bestia che saccheggiava le sue campagne. Il povero orso si difese con valore, uccidendo molti cani e alcuni cacciatori. Ma alla lunga, stremato, cercò protezione ai piedi di suo padre. I suoi gesti di supplica furono vani, e gli occhi dell'affetto paterno si dimostrarono meno acuti di quelli dell'amore della sua donna. Biorno fu ucciso dalla
lancia di suo padre, e le sue carni furono cucinate per farne un banchetto regale. Bera fu riconosciuta, e spedita al cospetto della Regina. Come Biorno aveva previsto, la Maga cercò di convincere Bera a mangiare quella carne, che a quei tempi era considerata un piatto da Re. La Maga supplicò e minacciò la fanciulla invano, dopodiché comandò che si usasse la forza. Bera fu costretta a ingoiare un boccone della carne dell'orso. Le fu messo in bocca un secondo boccone, ma riuscì in qualche modo a risputarlo da parte. Poi fu mandata a casa di suo padre. Qui, dopo qualche tempo, partorì tre figli, due dei quali avevano subito, nel corpo e nell'indole, gli effetti dei bocconi che la loro madre era stata costretta a ingoiare al banchetto del Re. Il figlio più grande somigliava a un alce dalla cintola in giù, e quindi fu chiamato Elgfrod. Si dimostrò uomo di forza non comune ma dai modi selvaggi, e divenne ladro di professione. Thorer, il secondo figlio di Bera, era bello e ben formato, tranne che per il fatto che aveva un piede di cane; e così fu chiamato Piedecanino. Ma Bodvear, il terzo figlio, era un modello di perfezione sia nel corpo che nella mente. Vendicò la morte di suo padre uccidendo la Regina Maga, e divenne il campione più famoso dei suoi tempi. LA DONNA PANTERA The Eyes Of The Panther di Ambrose Bierce In The Midst Of Life, 1908 1. Un uomo e una donna (la natura li aveva uniti) sedevano su una panchina rustica, nel tardo pomeriggio. L'uomo era di mezza età, snello, bruno, con l'espressione di un poeta e l'aspetto di un pirata: un uomo da guardare più di una volta. La donna era giovane, bionda, graziosa, con qualcosa nella figura e nei movimenti che suggeriva la parola «felina». Indossava un vestito grigio con strani disegni marroni nella trama. Poteva anche essere bella, ma non lo si poteva dire a prima vista, perché i suoi occhi distraevano l'attenzione da tutto il resto. Erano grigio-verde, lunghi, stretti, con un'espressione che sfidava ogni analisi. Si vedeva solo che erano inquietanti. Cleopatra poteva avere avuto occhi simili.
L'uomo e la donna stavano parlando. «Sì», disse la donna, «ti amo, Dio lo sa quanto! Ma sposarti, no. Non posso, né potrò.» «Irene, lo hai detto tante volte, ma negandomi sempre una spiegazione. Ho il diritto di sapere, di capire, di sentire e provare il mio coraggio, se ne possiedo. Dammi una ragione.» «Per amarti?» La donna sorrideva attraverso le lacrime e il pallore. Il che non commosse l'uomo. «No, non c'è alcun motivo per questo. Una ragione per non sposarmi. Ho il diritto di sapere. Devo sapere! Voglio sapere!» Si era alzato e le stava davanti con i pugni serrati, accigliato... si poteva dire che fosse addirittura minaccioso. La guardava come se potesse tentare di strangolarla per sapere. Lei non sorrideva più, e sedeva guardandolo semplicemente in viso con uno sguardo fisso, deciso, che era del tutto privo di emozione o di sentimento. Eppure aveva qualcosa che placò il suo risentimento e lo fece rabbrividire. «Sei deciso a sapere?», chiese lei con un tono completamente meccanico, che avrebbe potuto essere il suo sguardo reso sonoro. «Se ne hai voglia... se non è chiederti troppo.» Apparentemente questo signore del creato cedeva una parte del suo dominio sulla sua favorita. «Molto bene: allora saprai. Sono pazza.» L'uomo sussultò, poi la guardò incredulo e capì che doveva fingersi divertito. Ma, di nuovo, il suo senso dell'umorismo gli venne a mancare e, nonostante il suo scetticismo, era profondamente turbato da ciò che non credeva. Tra le nostre convinzioni e i nostri sentimenti non c'è una buona intesa. «È quel che direbbero i medici», continuò la donna, «se sapessero. Personalmente, preferirei chiamarlo un caso di possessione. Siediti e ascolta quello che ho da dirti.» L'uomo riprese posto in silenzio accanto a lei sulla panchina rustica al margine della strada. In alto davanti a loro, sul lato orientale della vallata, le colline erano già immerse nella luce del sole che tramontava, e la tranquillità che li circondava aveva quella particolare qualità che prelude al crepuscolo. Qualcosa della sua misteriosa e significativa solennità si era trasmessa allo stato d'animo dell'uomo. Nel mondo spirituale, come in quello materiale, esistono segni e presagi della notte.
Incontrando di rado il suo sguardo, e, ogni volta che lo faceva, sempre cosciente del timore indefinibile che, nonostante la loro bellezza felina, gli incutevano gli occhi di lei, Jenner Branding ascoltò in silenzio la storia raccontata da Irene Marlowe. Per rispetto ai possibili pregiudizi del lettore verso l'ingenuità di un narratore inesperto, l'autore osa sostituire la sua versione con quella della donna. 2. In una piccola casa di tronchi formata da un'unica stanza miseramente e rozzamente ammobiliata, rannicchiata per terra contro una delle pareti, c'era una donna che stringeva un bambino al petto. Fuori, una fitta foresta si stendeva per molte miglia in ogni direzione. Era notte, e la stanza era immersa nella più profonda oscurità: nessun occhio umano avrebbe potuto scorgere la donna e il bambino. Eppure qualcuno li osservava, da vicino, con attenzione, senza neanche un attimo di distrazione. Questo è l'argomento cardine sul quale si impernia la narrazione. Charles Marlowe apparteneva a quel genere - ora estinto in questo paese - di pionieri dei boschi: uomini che si trovavano a proprio agio nelle solitudini silvane che si stendevano lungo il pendio orientale della valle del Mississippi, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico. Per più di cento anni, questi uomini si erano spinti verso Ovest, una generazione dopo l'altra, con carabina e ascia, strappando alla natura e ai suoi figli selvaggi, qui e là una estensione di terreno da arare, per poi cederla velocemente ai loro successori meno temerari ma più parsimoniosi. Da ultimo si erano riversati attraverso il limite della foresta nell'aperta campagna ed erano svaniti come se fossero precipitati da una scogliera. I pionieri dei boschi non esistono più; il pioniere delle pianure, il cui facile compito era di sottomettere, occupandoli, due terzi del paese con una generazione, era un essere diverso e inferiore. Con Charles Marlowe, nella solitudine, dividendo i pericoli, le difficoltà e le privazioni di quella strana vita senza vantaggi, c'erano sua moglie e suo figlio ai quali, come tutti quelli per i quali le virtù domestiche sono una religione, era attaccato appassionatamente. La donna era ancora abbastanza giovane da essere avvenente, e abbastanza nuova al tremendo isolamento del suo destino da essere ancora allegra. Nel negarle la grande capacità di godere della felicità che le semplici soddisfazioni della vita nella
foresta non avrebbero potuto soddisfare, il Cielo l'aveva trattata benevolmente. Nei lavori domestici abbastanza leggeri, nel suo bambino, nel marito e nei suoi pochi libri sciocchi, trovava abbondante nutrimento per le sue necessità. Una mattina di mezza estate, Marlowe staccò la carabina dai ganci in legno sul muro e manifestò la sua intenzione di andare a caccia. «Abbiamo abbastanza carne», disse la moglie. «Per favore, oggi non uscire. Ho fatto un sogno la notte scorsa: oh, una cosa terribile! Non riesco a ricordare cosa, ma sono pressoché sicura che si avvererà se tu esci.» È doloroso confessare che Marlowe ricevette questa solenne dichiarazione con minore gravità di quanta fosse dovuta alla natura misteriosa della calamità preannunciata. A dire il vero, rise. «Cerca di ricordare», disse. «Forse hai sognato che Baby aveva perso l'uso della parola.» La supposizione era ovviamente suggerita dal fatto che Baby, aggrappato alle frange della giacca da caccia del padre con tutte e dieci le dita grassottelle, esprimeva in quel momento il suo senso della situazione in una serie di esultanti ghu-ghu ispirati dalla vista del cappello in pelle di procione del genitore. La donna si arrese allo scherzo benevolo. Così, con un bacio alla madre e uno al bambino, l'uomo lasciò la casa e chiuse la porta per sempre sulla sua felicità. Al calar della notte non era ancora tornato. La donna preparò la cena e aspettò. Poi mise Baby a letto e cantò dolcemente finché non si fu addormentato. Nel frattempo, il fuoco nel camino, sul quale aveva cucinato la cena, si era spento, e la stanza era illuminata da una sola candela. In seguito la poggiò sulla finestra aperta come segnale di benvenuto se il cacciatore fosse arrivato da quella parte. Aveva premurosamente chiuso e sbarrato la porta contro quegli animali selvaggi che l'avessero preferita alla finestra aperta: non era al corrente delle abitudini degli animali da preda nell'entrare - non invitati - in una casa, benché, con previsione tutta femminile, avesse considerato la possibilità che potessero entrare dal comignolo. Mentre la notte passava lentamente, divenne non meno ansiosa, ma più assonnata; infine appoggiò le braccia sul letto accanto al bambino, e la testa sulle braccia. La candela sulla finestra si consumò, crepitò e brillò per un momento, poi si spense inosservata: la donna dormiva e sognava. Nel suo sogno sedeva accanto alla culla di un secondo figlio. Il primo
era morto. Anche il padre era morto. La casa nella foresta non c'era più e l'abitazione nella quale viveva le era sconosciuta. C'erano pesanti porte di quercia, sempre chiuse e, fuori dalle finestre, fissate agli spessi muri di pietra, c'erano delle sbarre di ferro, evidentemente (pensò) a difesa dagli Indiani. Osservava tutto questo con infinita autocommiserazione, ma senza sorpresa, emozione questa sconosciuta nei sogni. Il bambino nella culla era invisibile sotto la copertina, che qualcosa la spinse a spostare. Quando la tolse, scoprì la faccia di un animale selvatico! Lo shock di quella tremenda scoperta svegliò la donna, tremante nell'oscurità della sua capanna nel bosco. Mentre la sensazione della realtà circostante tornava lentamente, toccò il bambino per assicurarsi che non fosse un sogno, e il suo respiro le confermò che tutto andava bene; non poté comunque evitare di passargli una mano sul viso, leggermente. Poi, spinta da un impulso che probabilmente non avrebbe saputo spiegare, si alzò e prese tra le braccia il bambino addormentato, tenendolo stretto al petto. La testa della culla del bambino poggiava contro la parete alla quale volgeva le spalle stando in piedi. Alzando gli occhi, vide due oggetti luminosi che brillavano nell'oscurità con un bagliore verde rossastro. Pensò che fossero due carboni nel camino ma, con il ritornare del senso dell'orientamento, arrivò anche la consapevolezza inquietante che non erano dalla parte giusta della stanza. Inoltre erano troppo in alto, quasi a livello degli occhi... dei suoi occhi. Erano gli occhi di una pantera! La belva stava davanti alla finestra aperta proprio di fronte a lei, a non più di cinque passi di distanza. Nulla, se non quei terribili occhi, era visibile ma, nel terrificante tumulto delle sue sensazioni, quando la situazione si svelò alla sua comprensione, seppe in qualche modo che l'animale si teneva in piedi sulle zampe posteriori, appoggiandosi con le anteriori al davanzale della finestra. Questo era segno di un interesse ostile, non di una semplice e indolente curiosità. La consapevolezza di quell'atteggiamento aumentava il suo terrore, e accentuava la minaccia di quegli occhi tremendi nel cui fuoco costante si consumavano la forza e il coraggio della donna. Sotto il loro silenzioso interrogativo, lei rabbrividì e si sentì mancare. Le ginocchia cedettero e, poco alla volta, cercando di evitare ogni movimento brusco che avrebbe potuto far balzare la belva su di lei, si abbassò sul pavimento, si rannicchiò contro il muro, e tentò di proteggere il bambino con il suo cor-
po tremante senza abbassare lo sguardo da quegli occhi luminosi che la stavano uccidendo. Non un pensiero per il marito le venne in mente nella sua angoscia, non la speranza né l'idea di salvezza o di una fuga. Le sue capacità di pensare e di sentire si limitavano a un'unica dimensione: il terrore che l'animale saltasse, il contatto del suo corpo, l'urto delle sue grandi zampe, la sensazione dei suoi denti sulla gola, e il suo bambino sbranato. Immobile e nel silenzio più assoluto, aspettò il suo destino... i momenti diventavano ore, anni, secoli; ed ancora quegli occhi diabolici mantenevano la loro fissità. Tornando alla sua capanna a notte inoltrata, con un cervo sulle spalle, Charles Marlowe tentò di aprire la porta. Ma quella non cedette. Bussò, ma non ebbe risposta. Posò allora il cervo per terra e si diresse verso la finestra. Mentre girava l'angolo della casa, gli sembrò di sentire un rumore di passi furtivi e un fruscio nel sottobosco, ma erano rumori troppo leggeri anche per un orecchio esperto come il suo. Giunto alla finestra, e sorpreso di trovarla aperta, scavalcò il davanzale ed entrò. Tutto era buio e silenzioso. Brancolò fino al camino, sfregò un fiammifero e accese una candela. Poi si guardò in giro. Acquattata contro il muro, sul pavimento, c'era sua moglie che serrava il bambino al petto. Quando si precipitò verso di lei, la donna si alzò e proruppe in una risata, lunga, forte e meccanica, priva di gioia e di senso: una risata non diversa dallo sferragliare di una catena. Non sapendo il motivo di quella risata, l'uomo le tese le braccia. La donna vi depose il bimbo. Era morto, soffocato a morte dall'abbraccio materno. 3. Questo è quanto era accaduto una notte in una foresta, ma Irene Marlowe non raccontò tutto a Jenner Branding; né lei sapeva tutto. Quando terminò di parlare, il sole era sceso dietro l'orizzonte e il lungo crepuscolo estivo iniziava ad incupirsi nelle cavità della terra. Branding rimase in silenzio per alcuni istanti, aspettando che la narrazione proseguisse per collegarsi con la conversazione che l'aveva introdotta. Ma anche la narratrice rimaneva in silenzio, lo sguardo lontano, le mani che le si aprivano e chiudevano in grembo, quasi che i suoi movimenti fossero indipendenti dalla sua volontà. «È una storia terribile e triste», disse Branding alla fine, «ma non capisco. Charles Marlowe è tuo padre, lo so. È invecchiato prima del tempo,
affranto da un grande dolore: l'ho visto, o ho creduto di vederlo. Ma, scusami, hai detto che tu... che tu...» «Che sono pazza», disse la ragazza, senza un movimento della testa o del corpo. «Ma, Irene, hai detto... per favore, cara non guardare da un'altra parte... hai detto che il bambino era morto, non impazzito.» «Sì, quello... io sono la seconda figlia. Sono nata tre mesi dopo quella notte: a mia madre fu misericordiosamente concesso di lasciare questa vita donandola a me». Branding rimase ancora in silenzio; era leggermente stordito, e non riuscì subito a pensare cosa dire. Irene aveva ancora il viso voltato. Nel suo imbarazzo, allungò le mani verso quelle di lei che si chiudevano e si aprivano sul suo grembo, ma qualcosa, non avrebbe saputo dire cosa, lo trattenne. Ricordò allora, vagamente, che non gli era mai piaciuto prenderle la mano. «È verosimile», riprese, «che una persona nata in tali circostanze sia come gli altri... sia quello che si chiama normale?» Branding non rispose; era preoccupato da un nuovo pensiero che stava prendendo forma nella sua mente; quello che uno scienziato avrebbe chiamato un'ipotesi, e un investigatore una teoria. Avrebbe potuto gettare una nuova luce, quantunque fosca, sul dubbio circa l'equilibrio di lei, che quella affermazione non aveva dissipato. Il paese era ancora giovane, e i villaggi intorno scarsamente popolati. Il cacciatore di professione era ancora una figura familiare, e tra i suoi trofei c'erano teste e pelli di ogni tipo di animale. Talvolta venivano narrati dei racconti non molto credibili di incontri notturni con animali selvaggi lungo delle strade solitarie, quindi di bocca in bocca venivano ingranditi per poi scemare fino ad essere dimenticati. Una recente aggiunta a questi apocrifi, originati apparentemente per generazione spontanea in parecchie famiglie, era quello di una pantera che spaventava i vari membri della famiglia guardandoli di notte dalle finestre. L'aneddoto aveva causato il suo piccolo brivido di eccitazione, e aveva anche ottenuto l'onore di essere riportato nel quotidiano locale; ma Branding non vi aveva prestato attenzione. La sua somiglianza con la storia che aveva appena ascoltato gli parve ora più che accidentale. Non era possibile che quella storia avesse suggerito l'altra? O che, trovando condizioni favorevoli in una fantasia morbosa e fertile, si fosse sviluppata nel tragico racconto che aveva appena ascoltato?
Branding ricordava alcune circostanze e caratteristiche della storia della ragazza, delle quali, con la mancanza di curiosità tipica dell'amore, finora non aveva tenuto conto: la sua vita solitaria con il padre, nella casa del quale nessuno apparentemente era ben accetto, e il suo strano timore per la notte, al quale i suoi conoscenti attribuivano il fatto che non si facesse mai vedere dopo il tramonto. Certo, in un animo come quello, l'immaginazione, una volta accesa, poteva divampare in una fiamma sfrenata, penetrando e avviluppando l'intera struttura. Che lei fosse pazza, benché questa convinzione gli procurasse il più atroce dei dolori, non poteva più dubitare; aveva confuso solo un effetto del suo disordine mentale con la sua causa, mettendo in relazione con la propria personalità le divagazioni dei locali fabbricanti di leggende. Con la vaga intenzione di provare la sua nuova «teoria», e non sapendo come cominciare, disse gravemente, ma senza esitazione: «Irene, cara, dimmi... Ti prego di non offenderti, ma dimmi...». «Ti ho detto», lo interruppe la donna, parlando con un appassionato fervore che non aveva mai notato in lei, «ti ho già detto che non posso sposarti: che altro dovrei dirti?» Prima che potesse fermarla, era saltata giù dal sedile e, senza un'altra parola o uno sguardo, si era allontanata tra gli alberi verso la casa di suo padre. Branding si era alzato per trattenerla: rimase a guardarla in silenzio fin quando scomparve nell'oscurità. Improvvisamente sussultò come se fosse stato colpito da un'arma da fuoco; il suo viso assunse un'espressione di stupore ed allarme: in una delle ombre nere nelle quali era scomparsa, aveva colto una rapida, breve apparizione di occhi scintillanti! Per un istante rimase stordito e confuso; poi si precipitò nel bosco dietro di lei, gridando: «Irene, Irene, attenta! La pantera! La pantera!». Un momento dopo era passato oltre il confine della foresta nell'aperta campagna e vide la gonna grigia della ragazza scomparire nella casa del padre. Non c'era nessuna pantera. 4. Jenner Branding, Procuratore Legale, viveva in un villino al limite della città. Proprio dietro la sua abitazione c'era la foresta. Essendo scapolo, e perciò - per il draconiano codice morale del tempo e del luogo - privato dell'unico tipo di servizio domestico conosciuto nei dintorni, la «ragazza a ore», mangiava all'albergo del villaggio dove c'era anche il suo ufficio.
Il villino accanto al bosco era una dimora mantenuta, senza grandi costi in verità, come prova di prosperità e rispettabilità. Sarebbe stato difficile per uno che il giornale aveva indicato come «il più insigne avvocato del tempo» non possedere una casa, benché a volte avesse sospettato che le parole «casa» e «abitazione» non fossero strettamente sinonimi. La sua consapevolezza della diversità e la sua volontà di risolverla erano argomenti di deduzione logica, poiché era risaputo che, poco dopo la costruzione del villino, il suo proprietario aveva inutilmente tentato l'avventura matrimoniale, arrivando, in verità, al punto di essere rifiutato dalla bella ma eccentrica figlia del vecchio Marlowe, il recluso. Tutti credevano a questo fatto poiché lui stesso lo aveva raccontato mentre lei no: un rovesciamento del comune ordine delle cose che difficilmente avrebbe mancato di convincere. La camera da letto di Branding si trovava sul retro della casa, con una singola finestra che dava sulla foresta. Una notte fu svegliato da un rumore alla finestra; difficilmente avrebbe potuto dire che cosa fosse. Con un piccolo brivido, si tirò su a sedere nel letto e afferrò la pistola che, con una previdenza veramente encomiabile per uno abituato a dormire al pianoterra con la finestra aperta, aveva messo sotto il cuscino. La camera era assolutamente buia ma, non essendo spaventato, sapeva dove dirigere lo sguardo: e là lo volse, aspettando in silenzio ciò che sarebbe potuto accadere. Adesso poteva distinguere vagamente l'apertura della finestra, un quadrato di nero più chiaro. Poco dopo, apparvero sul bordo inferiore due occhi scintillanti che ardevano di una luce malevola indicibilmente terribile! Il cuore di Branding fece un grande balzo, poi sembrò si fermasse. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale e tra i capelli; quindi sentì il sangue che gli abbandonava le guance. Non avrebbe potuto gridare neanche per salvarsi la vita; ma, essendo un uomo coraggioso, neanche per salvarsi la vita avrebbe voluto farlo, anche potendo. Il suo corpo vile tremava, ma lo spirito era di materia più forte. Lentamente quegli occhi scintillanti si sollevavano con un movimento costante e sembrava si avvicinassero: lentamente la mano destra di Branding si sollevò e impugnò la pistola. Sparò! Accecato dal lampo e stordito dallo scoppio, Branding tuttavia sentì, o pensò di sentire, l'alto urlo selvaggio della pantera, così umano nel suono, così diabolico nella sua immaginazione. Dopo esser saltato giù dal letto, si vestì in fretta e, pistola alla mano,
balzò alla porta, dove incontrò due o tre uomini che venivano correndo dalla strada. A una breve spiegazione seguì una cauta ricerca intorno alla casa. L'erba era bagnata di rugiada; sotto la finestra appariva calpestata e parzialmente livellata per un vasto spazio, dal quale una traccia tortuosa, visibile alla luce di una lanterna, conduceva nei cespugli. Uno degli uomini inciampò e cadde sulle mani, che, quando si alzò e se le fregò, erano viscide. Esaminandole, apparvero rosse di sangue. Disarmati, uno scontro con una pantera ferita non attirava certo quegli uomini; tutti tranne Branding tornarono indietro. Con la lanterna in una mano e la pistola nell'altra, si spinse coraggiosamente nel bosco. Dopo aver superato un difficile sottobosco, giunse in un piccolo spiazzo, e lì il suo coraggio fu ricompensato, poiché vi trovò il corpo della sua vittima. Ma non era una pantera. Quel che era, ancor oggi, è scritto su una lapide consumata dalle intemperie nel cimitero del villaggio, e per molti anni fu quotidianamente attestato dalla figura curva accanto alla tomba e dal viso segnato dal dolore del vecchio Marlowe. Pace all'anima sua, e all'anima della sua strana e infelice creatura. Pace. Pace e perdono. L'UOMO TORO The Black Beast di Henry S. Whitehead Adventure, 1931 1. Oltre la Piazza del Mercato della Domenica di Christiansted, sull'Isola di Santa Cruz, dalla parte della casa chiamata del Vecchio Moore, dove ho abitato per una stagione - ossia sul lato meridionale dell'antica Piazza del Mercato della Città Vecchia, costruita sul sito abbandonato della precedente città francese di Bassin - sorge, piena di austera e scolorita maestà, un'altra casa più grande, conosciuta con il nome di Casa Gannett. Per quasi mezzo secolo Casa Gannett era rimasta vuota e chiusa, e la solida facciata che dava sulla Piazza del Mercato aveva un aspetto cupo e triste. Le finestre sprangate, oltre alle pietre scure e scolorite dal tempo, conferivano alla dimora un aspetto arcigno e cupo. Durante quei cinquant'anni circa in cui era stata chiusa e in cui aveva assistito accigliata allo spettacolo che le offriva la massa di gente che passa-
va dinanzi alla sua mole massiccia e alle sue porte sprangate, diverse persone avevano tentato di riaprirla. Una casa di quel genere, una delle più grandi dimore private in tutte le Indie Occidentali, nonché una delle più belle, era un peccato che restasse chiusa, lasciata a se stessa, solo perché si venne a sapere - quello era il volere del suo capriccioso proprietario, misterioso e assente, che l'isola non aveva più visto da molto tempo. Una simile preda naturalmente stimolava l'interesse dei potenziali affittuari. Io so, anche perché me lo ha rivelato lui stesso, che il Reverendo Fratello Richardson, della Chiesa Anglicana, aveva tentato di installarvi un convento per le sue consorelle nel 1929. Tentai io stesso di affittarla per una stagione, l'anno in cui, non essendovi riuscito, presi invece la Casa del Vecchio Moore, una palazzina con strane finestre, stanze dalle generose dimensioni, ed enormi portali, attraverso i quali innumerevoli volte il Vecchio Moore era passato portando con sé, se dobbiamo credere a certe dicerie, il suo strano fardello di apprensione, tremando e attendendo con paura gli eventi... Una ricerca effettuata presso gli uffici governativi aveva rivelato che a Christiansted viveva il vecchio avvocato Mailing, un notabile che ricordava bene il periodo della dominazione danese; questo personaggio aveva un enorme valore per gli ufficiali governativi quando si trattava di districarsi tra gli antichi registri danesi. Era lui che si occupava di Casa Gannett. Herr Mailing, interrogato a sua volta, fu cortese ma deciso: la casa non poteva essere affittata per nessun motivo. Tali erano le istruzioni che gli erano state impartite, registrate nei suoi archivi. No, era impossibile, fuori questione. Ricordo anche che fece degli oscuri riferimenti a un vecchio scandalo. Bevendo un bicchiere di eccellente sherry offerto dall'ospitale Herry Mailing, gli posi diverse domande. Le risposte indicarono che i Gannett ancora in vita erano del tutto irremovibili su quel punto. No, non avevano alcuna intenzione di tornare. Fino a quel momento non erano stati necessari restauri. La casa infatti aveva la solidità di una fortezza. Non avevano addotto alcun motivo circa la loro intenzione di tenere sfitta la loro proprietà di Christiansted? No... e Herr Mailing non poteva fare altrimenti. No: aveva già scritto per ben due volte. Una volta, di recente, per conto del Rettore della Chiesa Anglicana. Inoltre, dieci o undici anni prima, un professore di Berlino che soggiornava sull'isola aveva concepito l'idea di fondare una scuola tropicale per necessità didattiche, e aveva messo l'occhio su quella vecchia magione. No: era stato impossibile.
«Ebbene, skaal, Herr Canevin! Allora... ne beva ancora... la prego! Un uomo non può viaggiare su una gamba sola: sa? È uno dei nostri vecchi proverbi.» Ma, tre anni dopo questo incontro con Herry Mailing, finalmente la vecchia casa fu riaperta. L'ultimo dei Gannett, a quanto pare, era partito dalla città di Edimburgo per il mondo dei più, e il titolo era passato al ramo cadetto che non aveva alcuna connessione né aveva mai risieduto nelle Indie Occidentali. Le nuove istruzioni di Herr Mailing, trasmessegli per mezzo di un avvocato di Aberdeen, gli intimavano di affittare la proprietà alle migliori condizioni possibili, di inviare notizie sulle offerte formulate, di stimare i restauri necessari, e di inviare ad Aberdeen queste stime. Herr Mailing non era uomo da rendere pubblici gli affari privati dei suoi clienti. Io ne fui informato grazie alla signora Ashton Garde, durante un tè che si tenne nel vasto salone di Casa Gannett. Una Casa Gannett linda e rimessa a nuovo che lei aveva affittato per una stagione. Al mogano del Diciottesimo Secolo preesistente la signora aveva unito diversi elementi di mobilio più leggero. Questo aveva avuto l'effetto di trasformare la dimora simile a un austero castello in una delle residenze più belle che io abbia mai avuto il piacere di visitare. La signora Garde, una vedova americana, aveva più di quarant'anni, ed era la più deliziosa e affascinante donna del mondo. Era una padrona di casa raffinata, possedeva notevoli sostanze, ed era madre di tre figli. Di questi, una figlia sposata viveva in Florida, e non visitava i Garde che durante l'inverno a Santa Cruz. Gli altri figli, Edward, da poco laureato a Harvard, e Lucretia, di ventiquattro anni, vivevano con la madre. Benché Edward, un atleta, non fosse un conversatore, entrambi - in maniera diversa - avevano ereditato il fascino materno e la bellezza del padre. Il ritratto di quest'ultimo - uno splendido quadro di Sargent - era appeso sopra uno dei due enormi camini che si fronteggiavano ai lati del vasto salone. Era appeso piuttosto in basso al di sopra della mensola del camino, poiché questo era molto alto. Ricordo che, durante la mia prima visita presso i Garde, ci sedemmo vicino al punto in cui era appeso quel ritratto; notai che la signora Garde, che aveva disposto che il tavolino da tè fosse posto in asse con il camino, si era poi seduta di fronte a me, lungo l'asse maggiore dell'ambiente in cui ci trovavamo, e di tanto in tanto lanciava un'occhiata in alto, presumibilmente verso il ritratto.
Ho una mentalità analitica, anche a proposito delle minuzie. Immaginai che stesse tentando di giudicare l'effetto del quadro nella nuova posizione, come fanno le persone prima di abituarsi a nuove dislocazioni degli oggetti e agli aspetti ambientali di una casa nuova o temporanea. Una volta che la mia attenzione fu attratta dal quadro, feci un commento, e mi alzai per esaminarlo da vicino. Ne fui ripagato. Ma la signora Garde, come per schermirsi, fece vertere la conversazione su altri argomenti. Lì per lì la mia attenzione per questi dettagli fu solo passeggera. Ma, durante il ricevimento seguente, nei momenti in cui non era occupata a versare il tè ai suoi numerosi ospiti, i suoi sguardi in tralice, diretti in alto e verso un punto alla sua destra, e i suoi impegni di padrona di casa, la costrinsero a tornare più volte in quell'angolo. Non diedi un rilievo particolare a questi fatti. Essi non richiedevano un'analisi: tuttavia li registrai. Vidi spesso i Garde durante le settimane seguenti. Poi, avendo deciso da qualche tempo di dirigermi verso le altre isole fino alla Martinica, quando seppi che la Margaret, una nave della Bull-Insular Line che faceva la spola tra le isole superiori vi ci sarebbe diretta, mi imbarcai. Non li vidi per più di due settimane durante le quali rinnovai la mia conoscenza dei Francesi della Martinica, oltreché dell'interessante capitale della Martinica, Fort de France. Tornai a visitare i Garde poco dopo il mio ritorno a Santa Cruz al termine di quel viaggio, e trovai la signora Garde sola. Edward e Lucretia giocavano a tennis, e avrebbero cenato con i Covington alla Hermon Hill Estate House. Mi resi conto immediatamente che la signora Garde era cambiata. Sembrava in preda a una infinita stanchezza. Pareva rimpicciolita, quasi fragile. Gli occhi, bruni e brillanti, del tipo che spesso si ritrova nelle persone di carnagione scura, ora parevano enormi e, quando mi guardava, i suoi sguardi erano intervallati da occhiate frettolose verso il ritratto del marito, e non riuscii a fare a meno di notare che la sua espressione ora aveva un aspetto che si può descrivere solo con la parola «spiritata». Lì per lì rimasi sorpreso. Quel fenomeno mi incuriosiva molto. Era una di quelle cose evidenti che ci colpiscono direttamente, senza mezze misure, come un colpo improvviso al volto. Il cambiamento presagiva in qualche modo una tragedia. Mi rese subito irrequieto, e mi commosse profondamente, poiché la signora Garde mi piaceva molto, e avevo pregustato la frequentazione di quella famiglia. Notai che la mano le tremava mentre mi
porgeva la tazza del tè, e che lanciò uno di quegli sguardi in tralice verso l'alto e a destra, proprio mentre compiva quel gesto ospitale. Bevvi metà del contenuto della tazza, ma nessuno parlò. Poi, guardando la signora Garde, la sorpresi mentre lanciava un altro sguardo in quella direzione. Stava abbassando lo sguardo proprio in quel momento. Incrociò il mio e, forse, avvertì una parte della sollecitudine che nutrivo verso di lei in quel momento in maniera particolare. Il suo volto serio arrossì un poco. Abbassò lo sguardo, e si dette da fare con gli oggetti posti sul vassoio rotondo. Allora le parlai. «Lei non sembra aver goduto di buona salute, signora Garde. Se mi è permesso dirlo, non mi è parso di vederla nel pieno della sua forma, questa volta.» Tentai di assumere un tono leggero per poter avere notizie su un fatto che mi stava realmente molto a cuore, in modo da lasciare spazio per una risposta altrettanto faceta. Lei mi rivolse uno sguardo tragico. Non vi era alcun sorriso sul suo viso teso. Il tono inaspettato della sua risposta mi fece balzare in piedi. «Signor Canevin... mi aiuti!», disse semplicemente, guardandomi diritto negli occhi. In meno di due secondi aggirai il tavolino da tè, e afferrai le sue mani tremanti, che erano fredde come il ghiaccio. Le tenni strette e la guardai. «Con tutto il mio cuore», dissi. «Ditemi, per favore, quando potrete - ora o più tardi - di cosa si tratta.» Lei espresse i suoi ringraziamenti per quella mia assicurazione con un cenno del capo. Ritirò quindi le mani, si adagiò contro la sedia di canne intrecciate, e chiuse gli occhi. Pensai che stesse per svenire, e forse, intuendo questo, riaprì gli occhi e disse: «Sto bene, Mr. Canevin... vale a dire per quanto riguarda il presente immediato. Non vuole sedersi, e finire il suo tè? Gliene verso un'altra tazza». Con un certo sollievo ripresi il mio posto e, mentre sorseggiavo una seconda tazza di tè, osservai la padrona di casa. Aveva fatto uno sforzo notevole per riprendere il controllo. Rimanemmo per diversi minuti in silenzio. Poi, quando rifiutai di prenderne una terza tazza, la signora chiamò il maggiordomo che portò via il tè e mise le sigarette sul tavolo tra di noi. Solo dopo che il suo servitore fu uscito di nuovo dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, lei si sporse verso di me spinta da un forte impulso e mi raccontò quello che era accaduto.
Nonostante il suo stato di agitazione - che era molto evidente - e lo stato in cui si trovavano i suoi nervi, e che ho cercato di descrivere, la signora Garde giunse subito al punto senza tergiversare. Mentre parlava, mi accorsi che doveva aver meditato sulle frasi da usare nell'esprimersi. Lo fece in maniera molto chiara e concisa. «Signor Canevin», iniziò, «senza dubbio lei avrà notato i miei sguardi verso la parete al di sopra del camino. È diventato una specie di tic. Lei lo avrà certamente osservato, vero?» Le dissi che supponevo che i suoi sguardi fossero diretti verso il ritratto di suo marito. «No», riprese la signora Garde, fissandomi come se volesse evitare che il suo sguardo vagasse involontariamente verso quel punto al di sopra del camino, «non guardavo il quadro, signor Canevin. Piuttosto un punto proprio sopra al ritratto: circa un metro al di sopra della cornice superiore, per essere precisi.» A questo punto fece una pausa, e non riuscii a fare a meno di guardare verso il punto che mi aveva indicato. Mentre volgevo gli occhi, intravidi le sue mani affusolate, piuttosto belle. Erano strette attorno al bordo del tavolino, come se stesse afferrando qualcosa di solido e materiale - un'àncora per i suoi nervi tesi - e osservai che le nocche erano bianche per la pressione con cui stringeva il bordo del tavolino. Non vidi null'altro che un ampio spazio vuoto, una grigia parete verniciata che arrivava fino all'alto soffitto e che sovrastava il ritratto. Uno spazio vuoto, lasciato vacante dal suo senso artistico, si sarebbe detto, dalla persona che aveva avuto il buon senso di lasciare il quadro di Sargent solo sulla grigia parete. Rivolsi nuovamente lo sguardo alla signora Garde e mi accorsi che mi fissava con aria risoluta. Pareva tenesse lo sguardo fisso sul mio volto grazie a un enorme sforzo di volontà, costringendosi a non guardare la parete. Assentii con fare rassicurante. «La prego, continui, se non le dispiace, signora Garde», dissi, appoggiandomi allo schienale della mia poltrona, e accesi una sigaretta che avevo preso dalla scatola d'argento posta sul tavolo fra noi. La signora Garde si rilassò e si appoggiò allo schienale della poltrona, ma non smise di fissarmi. Quando riprese a parlare, lo fece lentamente, con un certo sforzo. Istintivamente mi resi conto che aveva dovuto fare un notevole sforzo per prendere quella decisione e che, se non si fosse concentata in quel modo, avrebbe perso il controllo, e avrebbe urlato.
«Forse lei avrà letto il libro di Du Maurier, Il Marziano, signor Canevin», mi disse e, quando assentii, riprese: «Rammenterà certo il momento in cui la vista di Josselin comincia a venir meno, e lui è disorientato e molto preoccupato dalla scoperta di un punto debole all'interno del suo occhio sano: questo fatto viene enfatizzato dalla cecità dell'altro, e lui ne è molto scosso. Pensa che stia diventando completamente cieco, finché un oculista dal continente non lo rassicura rivelandogli l'esistenza del punctum caecum, un punto di cecità totale in linea con l'asse visivo del nervo ottico. Rammenta quell'episodio?». «Perfettamente», dissi io, e assentii in maniera rassicurante. «Ebbene, ricordo di aver compiuto io stessa delle ricerche per trovare il mio punctum caecum, quando ero ragazza», riprese la signora Garde. «Immagino che molte persone abbiano provato a ripetere l'esperimento. Naturalmente esiste un asse visivo al di fuori di ciascun punctum caecum, alla sinistra del normale fuoco visivo dell'occhio sinistro, e in un punto simmetricamente opposto a questo, alla destra del fuoco dell'altro occhio. Oltre a questa variazione della nostra visione normale, ho appurato che esiste un'altra condizione, particolarmente manifesta nella mezz'età. La linea retta della visione normale si logora, diciamo, e la visione stessa, specialmente per coloro che hanno usato molto la vista - per ricamare, leggere o per un lavoro di tipo professionale che richiede una visione concentrata diventa meno acuta rispetto ai casi in cui la visione viene esercitata da un'angolazione insolita.» Fece una pausa, e mi guardò come per accertarsi del fatto che seguissi il suo discorso. Ancora una volta assentii. Avevo ascoltato con attenzione ogni sua parola. La signora Garde, riprendendo il discorso, entrò nel vivo dell'argomento. «Appena giungemmo qui, signor Canevin, la prima cosa a cui pensai fu di trovare un luogo adeguato per questo ritratto del signor Garde.» Non lo guardò, ma indicò il ritratto con un gesto della mano. «Ho esaminato quella sezione del muro per trovare quale sarebbe stato il punto migliore. Decisi che quel punto era il migliore, e ordinai al maggiordomo di piantare un chiodo nel punto che avevo scelto. Il quadro fu appeso lì ed è tuttora nel posto che scelsi allora. Durante questa operazione io avevo esaminato a lungo la parete vuota. Ma, quando il quadro fu messo al suo posto, mi resi conto... compresi che vi era qualcosa... qualcosa, signor Canevin, che diventava sempre più chiaramente distinguibile con il passare del tempo, più definita.
Sopra al quadro vi era qualcosa che si trovava al di fuori del mio angolo visivo oltre il punto cieco del mio occhio sinistro. Quando ero seduta e guardavo in alto a sinistra, mi sembrava sempre più distinta. Naturalmente, avevo guardato il quadro molte volte, per assicurarmi che avessi trovato il punto giusto sulla parete. Così facendo, la parte dell'occhio che non era tanto logorata dall'uso, mi mostrava il punto che vi ho indicato. Come vi ho detto, esso si trova a circa un metro al di sopra del ritratto del signor Garde. Signor Canevin, quella cosa è cresciuta... cresciuta!» Improvvisamente la signora Canevin perse il controllo di sé. Si nascose il volto tra le mani tremanti e, appoggiandosi al tavolo come una bambina che gioca a moscacieca, nascose il volto tra le braccia, e il suo corpo slanciato cadde preda di tremiti e di singhiozzi incontrollabili. Questa volta compresi che la miglior cosa da fare era di sedere in silenzio, e attendere che la povera signora, così scossa, si riprendesse dal suo attacco isterico. Attesi quindi pazientemente tentando mentalmente di rassicurare la padrona di casa, per quanto possibile, della mia simpatia nei suoi confronti e del mio desiderio di aiutarla in qualsiasi modo. Piano piano, come avevo previsto, gli spasimi dei singhiozzi diminuirono d'intensità, e alla fine cessarono del tutto. La signora Garde sollevò la testa, si ricompose, e mi guardò di nuovo. Questa volta con maggior calma e compostezza. Come spesso accade, quel momento di pianto isterico, benché l'avesse molto scossa, le aveva fatto bene. Riuscì perfino a sorridermi mestamente. «Temo che lei mi giudichi una persona di poco carattere, signor Canevin», disse finalmente. Sorrisi in silenzio. «Quando sarà possibile, credo che sarebbe meglio se potessi saperne di più», dissi. «Cerchi, per favore, di dirmi esattamente cosa vede sulla parete, signora Garde.» La signora Garde acconsentì con un cenno del capo, e passò un po' di tempo a ricomporsi. Fece persino uso del suo portacipria, e alla fine riuscì perfino a sorridere. Poi, improvvisamente tornata seria, disse semplicemente: «È la testa e una parte del corpo - la parte superiore frontale, per essere più precisi, signor Canevin - di un animale che pare un giovane toro. Dapprima solo la testa era visibile. Poi, col tempo, sono apparse le spalle e il collo. È una cosa grottesca, assurda; non le pare?
Ma, signor Canevin, per quanto strano le possa sembrare...». Abbassò lo sguardo sulle mani che si agitavano nervosamente, poi, con evidente sforzo, tornò a guardarmi. Il suo viso improvvisamente era orribilmente impallidito al di sotto del velo di cipria fresca. «Signor Canevin, questa non è la cosa più terribile. Si potrebbe infatti spiegarla come un'illusione ottica, o qualcosa del genere. È piuttosto...», esitò di nuovo abbassando contemporaneamente lo sguardo poi, con uno sforzo ancor maggiore di prima riprese a guardarmi, «è piuttosto... l'espressione... di quel muso, signor Canevin! Si tratta di un'espressione del tutto umana, l'assicuro: è terrificante, e ha un'aria che si potrebbe definire di rimprovero! Inoltre, signor Canevin, vi è del sangue, un grosso fiotto di sangue, che cola dal centro della fronte sul naso di quella povera creatura! È una visione assolutamente patetica, signor Canevin! Un'esperienza terribile da provare. Mi ha sconvolto la vita. È tutto qui, signor Canevin: la testa, il collo e le spalle di un giovane toro, con il sangue che gli cola lungo il muso, e quell'espressione...» Immediatamente, sentendo quella dettagliata descrizione della straordinaria impressione ottica della signora Garde, le mie facoltà analitiche caddero preda di una grande confusione. Nel suo racconto trovai punti di contatto con alcune cose che sapevo circa le credenze dei negri a proposito degli spettri e di altri fenomeni simili delle Indie Occidentali, faccende circa le quali non sono del tutto privo di esperienza. Il toro, pensai subito, era il principale soggetto dei sacrifici del culto voodoo nelle isole, e ovunque abbiano prevalso gli antichi Dei africani della Guinea. Ma un toro con un'espressione simile a quella descritta dalla signora, con il sangue che gli colava lungo il naso, apparso in un punto della parete al di sopra della mensola del camino di Casa Gannett: be', questo era senza dubbio un rebus! Mi ricordo che feci scivolare in avanti la sedia, e sollevai una mano perché la signora Garde ascoltasse quello che stavo per dirle. Avevo avuto un'idea. «Per favore, signora Garde», chiesi. «Potrebbe dirmi se la visione che mi ha descritto è vicina alla parete... o meno?» «È ben staccata dalla parete», rispose la signora Garde, sforzandosi di esprimersi con precisione. «Pare, direi, che sia distanziata di circa un metro dalla parete vera e propria, nella nostra direzione. Naturalmente... non è al di là del muro, voglio dire e, ho omesso di dirle, signor Canevin, che, quando fisso l'immagine per un certo lasso di tempo, la testa e le spalle sembrano slittare in avanti e verso il basso. Sembrerebbe che l'animale sia
stato appena ferito, e stia per crollare a terra morto.» «Grazie», dissi. «Deve esserle costato molto darne una descrizione tanto chiara e precisa. Tuttavia, da un punto di vista psicologico, è molto facile capire che questo non può che giovarle. Lei ha condiviso con un'altra persona questa sua esperienza. Questo naturalmente, è un passo nella giusta direzione. Ora, signora Garde, mi permette di prescriverle una cura?» «Naturalmente, signor Canevin», rispose la signora Garde. «Francamente, questa cosa mi ha ridotto in uno stato pietoso, e sono pronta a tutto pur di trovare qualche sollievo. Ovviamente, non ne ho fatto parola con i miei figli. Non ne ho parlato con nessuno al di fuori di voi. Non è certo una cosa che si possa discutere... con chiunque.» Mi inchinai dal punto oltre il tavolo al complimento sottinteso, a quell'espressione di fiducia nei miei confronti. Dopotutto, ero una semplice conoscenza della signora Garde. «Suggerisco», dissi, «che l'intera famiglia Garde faccia un'escursione per le isole, simile al viaggio che io ho appena terminato. La Samaria, della Cunard Line, sarà a St. Thomas giovedì. Oggi è lunedì. Sarebbe molto semplice prenotare per telegrafo o per mezzo di un cablogramma, inviandolo a St. Thomas. Parta per due o tre settimane, e torni solo quando si sente pronta a farlo. Mi lasci le chiavi di Casa Gannett, signora Garde.» La padrona di casa assentì. Aveva ascoltato con viva attenzione il mio suggerimento. «Lo farò, signor Canevin. Credo che Edward e Lucretia non si opporranno. Infatti, hanno espresso la loro invidia nell'apprendere del vostro viaggio in Martinica.» «Bene», dissi in tono incoraggiante. «Siamo d'accordo allora. Dovrei forse aggiungere che il Grebe salperà per St. Thomas domattina. Sarebbe un'ottima cosa se riusciste a trovarvi posto. Telefonerò immediatamente al Segretario Comunale per il permesso, e consulterò il dottor Pelletier che è l'ufficiale sanitario della città: è un uomo di larghe vedute, e ha una vasta esperienza di casi simili a questo.» Nuovamente la signora Garde assentì docilmente. Evidentemente, era giunta al punto in cui avrebbe portato a termine qualsiasi suggerimento intelligente per mettere fine a quella orribile visione che la perseguitava. La famiglia Garde salpò a bordo della piccola nave governativa che faceva la spola tra le Isole Vergini e Portorico alle otto del giorno seguente. Li salutai dalla banchina del porto di Christiansted, e il pomeriggio seguente un telegramma da St. Thomas mi informò del fatto che il dottor
Pelletier era stato di grande aiuto e che le prenotazioni per la crociera di tre settimane nelle Isole erano state effettuate; sarebbero partiti a bordo della nave della Cunard Line. Ne fui molto sollevato, finalmente. Mi ero assunto una grossa responsabilità dando alla signora quei consigli. Ora, per tre settimane, ero padrone di Casa Gannett. Disposi, per mezzo del maggiordomo della signora Garde - un bianco che lei aveva portato con sé - che fosse data alla servitù una giornata di permesso per un picnic, una forma molto comune di svago tra i negri delle Indie Occidentali. Infatti, la signora mi aveva dato carta bianca circa l'intera faccenda. Inoltre, ordinai al maggiordomo di prendersi qualche giorno di permesso. Gli feci osservare che poteva andare a St. Thomas con il Grebe e tornare il giorno seguente. Vi erano molti bei negozi a St. Thomas. Il maggiordomo obbedì senza fare alcuna obiezione, e io mi recai a visitare il Reverendo Richardson, il Rettore della Chiesa Anglicana. Il Reverendo, quando gli raccontai l'intera storia, non fece altro che assentire con un'espressione di grande saggezza, tipica di certi abitanti delle Indie. Lui aveva passato la sua intera vita di sacerdote a combattere la «stupidità» dei negri. Sapeva esattamente quello che doveva fare, senza bisogno di altri suggerimenti da parte mia. Il giorno in cui la servitù era assente da Casa Gannett, il Reverendo Richardson venne con la sua borsa nera e compì il rito esorcistico dappertutto, ripetendo le sue formule e benedicendo ogni stanza con l'Acqua Santa. Poi, dopo aver accettato solennemente la banconota da venti franchi che gli diedi per i suoi poveri, e dopo avermi benedetto, il buon prete ripartì. I suoi servizi senza dubbio non gli parvero al di fuori dei suoi compiti quotidiani. Ora ero più sollevato. Come anche i più esperti conoscitori della Magia Voodoo di Haiti - quell'isola infestata di serpenti - ammettono nel corso delle loro sacre liturgie settimanali (quando ogni altare dedicato al Serpente è spogliato dei suoi simboli più nefasti, che vengono poggiati a faccia in giù sul terreno, coperti di frasche e il crocifisso prende il loro posto sull'altare), Dio è infinitamente più potente del più potente Serpente della Guinea, e di tutti gli Dei suoi affiliati! Io credo sia sempre meglio non correre rischi. Dopo questo episodio, attesi il ritorno della signora Garde. Di tanto in tanto andavo a parlare con Robertson, il maggiordomo. Per il resto lasciavo che l'aria marina agisse in maniera salutare sulla signora Garde, fidu-
cioso che al suo ritorno, dopo quel diversivo, le sue orribili visioni sarebbero cessate. Dal mio punto di vista il problema era piuttosto complesso. Naturalmente non avrei avuto pace finché non mi fossi accertato con qualsiasi mezzo delle circostanze di quelle strane apparizioni di cui la signora mi aveva raccontato di fronte al tavolino da tè. Nel corso dei miei processi mentali in cui avevo esaurito le mie conoscenze occultistiche circa le credenze delle Indie Occidentali, mi ricordai del vecchio avvocato Mailing. Ecco chi poteva custodire la chiave del mistero! Ho alluso brevemente a ciò che potrebbe definirsi la vaga ombra di un antico scandalo che aleggiava attorno a Casa Gannett. Se esisteva un evento precedente connesso con la vicenda presente, e qualcuno tra i vivi ne era a conoscenza, questa persona non poteva essere altri che Herr Mailing. Lui aveva già passato il suo ottantesimo compleanno, aveva conosciuto di persona, in gioventù, Angus Gannett, l'ultimo della famiglia a risiedere nella casa, ed era stato incaricato di sorvegliare la proprietà da una vita. Quindi, dopo aver pensato a lungo al modo in cui dovevo presentare la questione a quel vecchio conservatore, mi diressi da Mailing. Herr Mailing mi ricevette con tutta la cortesia tipica del Vecchio Mondo, che rende la visita più comune un'occasione cerimoniosa. Mi offrì il suo ottimo sherry. Usò perfino la formula: «A cosa, signor Canevin, devo l'onore di questa visita tanto piacevole?». Dopo aver chiacchierato circa diverse faccende di interesse locale, mi apprestai a introdurre con le necessarie cautele l'argomento che mi stava a cuore. Non tenterò di dare un resoconto completo del modo in cui giungemmo finalmente al cuore dell'argomento, né dell'impasse piuttosto lunga che si creò rapidamente tra il vecchio avvocato e me. Capivo chiaramente quale fosse il suo punto di vista. Le caute domande avevano a che fare con faccende private, e quindi pressoché sacre, di un suo vecchio cliente. La sua professionalità gli intimava il silenzio: un silenzio cortese, un silenzio circondato e edulcorato da diversi commenti strategicamente definibili come un palliativo. Ma, nonostante tutto, un silenzio definitivo quanto la solitudine di Quintana Roo nel mezzo delle giungle dello Yucatan. Ma ne uscì una parola chiave. Consciamente o inconsciamente io l'avevo probabilmente tenuta in serbo istintivamente. Non avevo fornito alcun dettaglio circa la descrizione fatta dalla signora Garde. Ossia, non avevo rive-
lato nulla circa la natura o la qualità della cosa che l'aveva colpita. Finalmente, battuto su tutti i punti dalla resistenza del vecchio conservatore, feci detonare la mia potenziale bomba. E funzionò! La parola chiave era «toro». Quando giunsi al punto del racconto in cui descrivevo ciò che la signora Garde aveva visto sopra il camino a Casa Gannett, e pronunciai quella parola, pensai per un istante che il vecchio gentiluomo, che era violentemente impallidito e aveva le labbra decrepite di un colore bluastro, stesse per svenire. Tuttavia non svenne. Con una certa sollecitudine si versò un bicchiere del suo ottimo sherry, lo bevve, con mano quasi ferma appoggiò il bicchiere sul tavolo, poi si voltò verso di me e disse: «Aspettate!». Attesi mentre il vecchio percorreva il corridoio, e ascoltai i passi attutiti delle sue pantofole, mentre andava alla ricerca di qualcosa. Quando tornò, il suo aspetto era quello abituale, le guance erano tornate del solito colore rossiccio, e il sorriso benigno di una vecchiaia innocente trionfava nuovamente sulle sue vecchie labbra. Pose sul tavolo di mogano accanto allo sherry un faldone di tipo antiquato. Mi lanciò un'occhiata e, assentendo gravemente con il capo tra sé e sé, Herr Mailing mi porse un documento con un inchino cerimonioso. Lo presi e ascoltai ciò che il vecchio gentiluomo aveva da dire, mentre ne scorrevo il contenuto. Conteneva molte pagine di carta a righe, del tipo che ho visto in uso negli antichi registri delle piantagioni. Lo tenni con vivo interesse mentre ascoltavo le parole di Herr Mailing. «Signor Canevin», disse, «le do questo, amico mio, perché contiene una spiegazione di ciò che vi ha turbato... naturalmente. Si tratta del resoconto esatto di ciò che accadde a Casa Gannett, nell'autunno del 1876, quando Herr Angus Gannett, l'ultimo proprietario, era appena tornato dagli Stati Uniti dove si era recato in visita a certi parenti, e per visitare l'Esposizione del Centenario a Philadelphia. Credo che lei troverà che questo documento, questo racconto, spiega cose che adesso è impossibile... persino concepire! Mi considero libero di mostrarglielo, giacché l'autore è morto. Penso di essere legato ai miei doveri solo per quanto riguarda l'uso del documento durante la vita del testatario, ossia del narratore. Non si tratta di un testamento: infatti è un resoconto. Immagino, signore, che lo troverà molto interessante. Per me è stato così!» Con un inchino ringraziai Herr Mailing della sua grande cortesia, e in-
trapresi la lettura. 2. Gannett House, Christiansted, D.W.I. 25 Ottobre 1876 Mio buon amico e fratello Rudolf Mailing, Quello che sto per scrivere conterrà tutte le istruzioni per te circa il modo di amministrare le mie proprietà e la residenza di città sul lato meridionale della Piazza del Mercato della Domenica di cui ti affido la custodia amministrativa. È mio intento, il ventinovesimo giorno di questo mese, salpare per l'Inghilterra, diretto alla città di Edimburgo. Il mio domicilio in quella città sarà: MacKinstrie's Lane, 19, una traversa di Clarges Street. A questo indirizzo perverranno tutte le comunicazioni necessarie, sia a livello personale sia quelle concernenti la proprietà, qualora se ne creasse la necessità. Voglio che tutta la casa sia chiusa dopo la mia partenza e mantenuta in questo stato, e che l'inventario degli oggetti al momento della chiusura da te stilato, sia mandato per posta a Edimburgo il prima possibile. Ti devo una spiegazione - e me ne rendo conto - di questa mia brusca partenza. Mi accingo a fornirtela. Ti chiedo di osservare la più completa segretezza per tutta la durata della mia vita naturale sulla base della fratellanza che, come Fratello Massone, tu naturalmente riconoscerai benché ti venga notificata in maniera tanto informale. Terrai dunque segreto questo rapporto confidenziale seguendo le regole della Confraternita. Comincerò ricordando in parte ciò che tu già conosci. Alla morte di mia madre, Jane Alicia MacMutrie Gannett, mio padre, il deceduto Fergus Gannett, ha causato a me e ai suoi parenti in Scozia un gran dolore, avvalendosi di un sollievo che in realtà costituisce una piaga che affligge numerosi gentiluomini di razza caucasica e molte altre classi sociali qui nelle Indie Occidentali. In breve, mio padre si legò a una certa Angelica Kofoed, una mulatta della nostra casa, che era stata la cameriera personale di mia madre. Questo avvenne nell'anno 1857. Come ben sai, da questa unione nacque un figlio. Mio padre, che avrebbe potuto esentarsi da ogni obbligo legale secondo le leggi vigenti nelle Indie Occidentali pagando la somma di quattrocento dollari alla madre, scelse invece, a causa di quell'infatuazione, di riconoscere il figlio e, attra-
verso un processo previsto dal codice legale, decise di legittimarne la nascita. Io avevo poco più di dieci anni quando nacque il bambino chiamato poi Otto Andreas Gannett, proprio qui nella casa in cui ora scrivo queste parole. Da allora in poi, mio padre troncò ogni relazione con Angelica Kofoed, le diede una pensione a vita e, non appena il piccolo fu svezzato, la costrinse a emigrare nell'isola di St. Vincent, dove era nata. Il mio fratellastro, Otto Andreas Gannett, rimase invece a casa nostra, accudito da una balia, e crebbe sotto il nostro stesso tetto come un membro della famiglia. Devo dire che sarebbe stato più facile per me lottare contro la ripugnanza e l'odio che nutrivo per il mio fratellastro se lui non avesse avuto un pessimo carattere, sviluppatosi dall'infanzia fino all'età adulta in maniera da precludere ogni altro atteggiamento da parte mia. Sarò più esplicito, dicendo che Otto Andreas aveva ereditato solo poco più di un ottavo di sangue negro, e pareva quindi di razza caucasica. Non vorrei che sorgesse un malinteso su questo punto. Sono al corrente del fatto che alcuni dei nostri migliori cittadini qui nelle Indie Occidentali hanno sangue misto. Nel migliore dei casi questa è una questione delicata, almeno per quanto riguarda la situazione qui nelle isole. Sia sufficiente affermare che le peggiori caratteristiche della razza negra si manifestarono man mano che Otto cresceva e diventava un uomo. Egli ha oggi, e avrà per lungo tempo, una pessima reputazione anche tra i negri dell'isola. Una reputazione dovuta alla sua malvagità e alla sua lussuria, alla pessima scelta di amicizie, a un comportamento egoistico e peggio ancora. Infatti, manifestò sempre un'incurabile tendenza a occuparsi delle pratiche malvage e stupide dei negri. Con gran vergogna per la nostra casa, ebbe stretti rapporti con questo mondo per molto tempo, fino alla sua morte, avvenuta nell'autunno di quest'anno, il 1876. Mi riferisco alle credenze conosciute sotto il nome di obeah. È da notare che proprio per questo motivo io riuscivo a malapena a sopportarlo. Fortunatamente mio padre lasciò questa terra cinque anni fa, prima quindi che questa esecrabile tendenza verso il potere del Demonio si fosse manifestata chiaramente all'attenzione del mio vecchio genitore. Ringrazio Dio di aver chiamato a sé mio padre prima che fosse costretto a portare questa croce. Non fornirò altri dettagli, limitandomi a dire che il cumulo di tante qualità negative nel mio fratellastro fu la causa della mia partenza per gli Stati Uniti il 2 Maggio del 1876. Come tu ben sai, lasciai qui Otto Andreas dopo
un suo solenne giuramento di buona condotta, pensando di riuscire a sfuggire al continuo contatto con lui. Infatti mi era diventato ormai insopportabile. Mi recai quindi a New York e di lì a Philadelphia, dove intervenni all'Esposizione del Centenario sperando di distrarmi. Più tardi, all'inizio di Ottobre, visitai diversi nostri parenti negli Stati del Maryland e della Virginia. Ritornai in patria salpando da New York e facendo scalo a Portorico, il diciannove Ottobre. Sbarcai nel West-End, e pernottai presso un nostro amico, Herr Mulgrav, il Giudice della Corte di Frederiksted, e grazie al Reverendo dottor Dubois e alla cortesia della Chiesa Anglicana del WestEnd, che molto gentilmente mi prestò la sua carrozza a cavalli, giunsi dopo un viaggio di quasi trenta chilometri a Christiansted il mattino seguente. Giunsi poco prima dell'ora di colazione, un quarto d'ora prima dell'una di pomeriggio. Mio caro amico e fratello, vorrei informarti che non ero stato tanto ingenuo da pensare che la mia lunga assenza in America avrebbe avuto l'effetto di correggere il carattere del mio fratellastro. Ero anzi sicuro che avrei dovuto fronteggiare nuove nefandezze, nuove stupidaggini da parte sua, perpetrate durante la mia assenza. Mi aspettavo quindi che il mio ritorno a casa non sarebbe stato molto piacevole. Avevo ampie prove che questa mia paura non fosse infondata. Arrivai a casa mia, quindi, in uno stato mentale non completamente sereno. Ero partito per assicurarmi un po' di pace. Tornavo ora a fronteggiare l'ignoto. Nessun uomo in pieno possesso delle sue facoltà - lo dico deliberatamente, con l'intenzione di avvertirti, amico mio, mentre leggi ciò che sto per scrivere - avrebbe tuttavia potuto immaginare ciò che mi attendeva! Avevo ricevuto un avvertimento circa lo stato di cose sulla strada che avevo percorso tra qui e Frederiksted. Come tu ben sai, i negri sull'isola mostrano chiaramente in volto quali siano i loro pensieri, in certi momenti. Altre volte invece possono essere del tutto imperscrutabili. Mentre passavo, osservai i negri lungo la strada o al lavoro nei campi, ma non vidi null'altro sui loro volti se non la pietà e la compassione. Ai miei orecchi giungevano numerosi mormorii, mentre tra loro dicevano: «Povero signorino!». Oppure commenti come: «Oh, Dio! Casca dalla pentola nella brace!». Questo naturalmente era poco rassicurante. Eppure non ne fui sorpreso. Mi ero aspettato guai, dei quali Otto Andreas era la causa e la radice.
Non ti nascondo che mi aspettavo qualcosa di brutto. Entrai nella casa stranamente silenziosa, e la prima cosa che avvertii fu un odore terribile! Probabilmente sarai sorpreso di questo. Ma ti sto dando il resoconto dei fatti. Lasciai che il cocchiere del dottor Dubois portasse all'interno il bagaglio a mano, poi mi diressi verso la porta, la spalancai ed entrai; le mie narici immediatamente furono assalite da un odore terribile, un fortissimo fetore di stallatico. Mi attanagliò la gola. Chiamai a gran voce i servi, lasciando la porta aperta in modo che Jens potesse entrare con le mie valigie, e per far uscire quell'odore nauseabondo. Chiamai quindi Herman, il maggiordomo, e Josephine e Marianna, le cameriere. Chiamai anche Amaranth Niles, la cuoca. Sentendo il suono della mia voce, i servi, che non avevano saputo del mio arrivo durante la notte precedente, arrivarono di corsa. I loro visi erano istupiditi e assenti, come accade ai negri quando hanno qualcosa da nascondere. Ordinai loro di portare le valigie nella mia stanza, poi mi voltai per dare a Jens una ricompensa per il suo disturbo. Quando mi girai, trovai solo Josephine che mi fissava dalla soglia di una porta: gli altri due erano già spariti con il mio bagaglio. Le altre cose, i bauli e i colli pesanti, sarebbero stati mandati da Frederiksted nel pomeriggio su un carro. «Cos'è questo odore terribile, Josephine?», chiesi. «La casa puzza come una porcilaia, ragazza mia. Cosa è accaduto? Forza, parla!» La ragazza era ferma sulla porta. Il suo viso era imperscrutabile. Si torse le mani. «Oh Dio, Signore, non saprei», rispose con quella falsa ingenuità tanto irritante che i negri possono fingere quando vogliono. Non dissi nulla, perché non desideravo inaugurare il mio ritorno a casa con una sfuriata. Inoltre, quell'orribile odore poteva non essere colpa della ragazza. Andai a sinistra, lungo il corridoio interno, ed entrai nel salone attraverso la porta d'ingresso, che trovai chiusa. L'aprii, ed entrai. Mailing, amico mio, preparati. Tu sarai - a dir poco - sorpreso, per così dire. Lì nel centro del salone, con il collo rivolto verso chiunque apriva la porta del salone, cioè, in questo caso, io stesso... vi era un giovane torello, nero come il carbone! Accanto, sul pavimento, nel mezzo del tappeto di Bukhara che mio nonno aveva riportato dal suo viaggio nel Turkestan nel 1837, vi era una cesta
piena di erba fresca e di carote. Sullo stesso tappeto vi era un grosso secchio d'acqua. Dalla bocca del torello pendevano dei ciuffi d'erba, e mi fissò a lungo, come per dire: «Chi osa disturbarmi nella mia dimora?». A quel punto persi il controllo. Un torello nel salone di casa mia, nella mia casa di città... era troppo! Corsi via, verso il corridoio, chiamando i servi: Herman, Josephine, e Marianna. Vennero, e mi guardarono dall'alto affacciati alla balaustra delle scale, le facce grigie per la paura. Imprecai violentemente contro di loro, come potrai immaginare. Perfino il buon dottor Dubois proverebbe il desiderio di esprimersi in quel modo se tornando un giorno al Rettorato trovasse un torello acquartierato nel salotto buono! Tuttavia, le mie parole non ottennero alcuna risposta eccettuati gli sguardi ottusi che ho già descritto. E quando, nel mezzo della mia invettiva, apparve la vecchia Amaranth Niles, la cuoca, accorsa dalla cucina mentre stringeva ancora un lungo cucchiaio nella mano grassoccia, e che era stata con noi fin dalla mia nascita avvenuta ventotto anni prima, anche lei assunse la stessa espressione ottusa. Improvvisamente smisi di inveire, chiamandoli stupidi, ingrati, lazzaroni e pendagli da forca. Mi venne in mente ben presto che quelle gesta non potevano essere opera loro. Doveva essere l'ultima malefatta del mio fratellastro Otto Andreas. Ora lo capivo chiaramente. Mi ricomposi, e mi rivolsi al povero Herman in tono più benevolo. «Vieni, Herman: porta quella bestia fuori da questa casa, immediatamente», dissi, indicandogli la porta spalancata del salone. Ma Herman, nonostante il mio ordine fosse stato inequivocabile, non si mosse. Il suo viso divenne di una tinta color cenere, e mi lanciò uno sguardo implorante. Poi, lentamente, levò le mani al di sopra del capo e rimase lì sulla scala, guardando con aria tremante oltre la balaustra, e gridò: «Non posso, signore, lo giuro di fronte a Dio... non posso!». Rivolsi uno sguardo abbastanza calmo a Herman, e gli dissi: «Dov'è il signor Otto Andreas?». A quella domanda semplicissima, le due cameriere cominciarono a piangere e a gridare, e la vecchia Amaranth Niles, la cuoca, che aveva osservato la scena con occhi sgranati dalla porta, si voltò con un'agilità del tutto inaspettata e fuggì per cercare rifugio in cucina. Il viso di Herman, se mai era possibile, si era schiarito di un tono. Con fare esitante, l'uomo si sforzò di scendere dalle scale, afferrandosi rigidamente alla balaustra. Quindi si voltò e mi si avvicinò, il viso grigio e inquieto, mentre il sudore gli imperlava la fronte. Cadde in ginocchio di
fronte a me sul pavimento del corridoio e, sollevando le mani al di sopra del capo, gridò: «Lui morto, signore, il giorno prima di ieri, signore: è la verità, padrone!». Ti confesso, Mailing, che, sentendo questa notizia, mi parve che il corridoio ruotasse intorno a me, tanto era inaspettata. Forse i miei amici non ne erano stati informati. Ma un'altra questione si presentava alla mia mente disorientata, una domanda che avrebbe chiarito perché non ne ero stato informato. «A che ora è morto, Herman?», riuscii a dire. Ero io ora a tenere stretta la balaustra. «Tardi, signore», rispose Herman, ancora in ginocchio, dondolando da una parte all'altra. «Forse due ore dopo la mezzanotte, signore. Lui sepolto il giorno dopo, signore, cioè ieri pomeriggio, alle due. Il corpo non teneva bene, e poi, signore, noi non sapevamo del vostro arrivo.» Ecco perché i Mulgrav non me lo avevano riferito. Semplicemente, non erano stati messi al corrente della morte del mio fratellastro. Secondo il normale corso degli eventi, essendo piuttosto distanti da Christiansted, non ne avrebbero saputo nulla fino ad oggi. La mia prima reazione - lo ammetto - fu di profondo sollievo. Otto Andreas - confesso di averlo pensato - non mi avrebbe creato altri problemi. Non avrebbe più danneggiato nessuno con i suoi difetti, la sua arroganza, le sue empietà e le sue villanie. Ma non era così... Poi, quasi meccanicamente, suppongo, il mio pensiero si rivolse al soqquadro che regnava nel salone, a quell'animale da stalla che vi era rinchiuso, e al tappeto intriso di letame. Mi rivolsi a Herman e gli dissi: «Alzati, Herman! In piedi! Non c'è motivo che ti comporti in questo modo. Naturalmente mi sono molto adirato quando ho visto quell'animale nel salone, e lo sono ancora. Dimmi...», chiesi, mentre l'uomo si alzava tremante, «chi ce lo ha messo, e perché non è stato portato via...». A queste parole Herman prese a tremare dalla testa ai piedi, e di nuovo il suo viso scuro, che era quasi tornato al suo solito colorito, divenne grigio dalla paura. Mi accorsi che l'uomo che avevo di fronte non era impaurito dalla mia presenza, ma vi era qualcos'altro che lo terrorizzava. Naturalmente sono abituato alle stranezze dei negri. Gli parlai di nuovo, con gentilezza, dando voce a un'idea che mi era venuta in precedenza e che aveva arrestato il mio primo sfogo d'ira. «È stato il signor Otto Andreas a condurre la bestia in casa?»
Herman apparentemente non era in grado di parlare, e assentì. «Forza, amico, portalo via subito!», ordinai. Con mia grande stizza, Herman cadde nuovamente in ginocchio ai miei piedi, mormorando sconsolato di non poter obbedire ai miei ordini. Lottai per conservare la pazienza. Era stato fortemente messo alla prova, pensai. Presi Herman per una spalla, lo feci rialzare, e lo feci camminare, senza che opponesse resistenza, lungo il corridoio fino al mio ufficio. Chiusi quindi la porta alle nostre spalle e mi sedetti alla scrivania dove scrivo ora, e dove solitamente faccio i miei conti. Mi resi conto che Herman tremava ancora; vi era qualcosa che non riuscivo a capire. «Vai e porta del rum e due bicchieri, Herman», ordinai, sforzandomi di parlare con calma e gentilezza. Herman lasciò la stanza in silenzio. Rimasi ad attendere il suo ritorno, molto turbato. Il toro avrebbe dovuto aspettare. Da ciò che avevo visto, sembrava che fosse rimasto in quella casa un giorno intero o forse più. L'odore era insopportabile, nonostante la porta fosse chiusa. Herman ritornò, e poggiò il rum e i bicchieri sul tavolo. Ne versai una dose generosa per lui, e una più piccola per me. Bevvi quindi il mio rum e porsi a Herman l'altro bicchiere. «Bevi, Herman», gli ordinai, «poi siediti. Desidero parlarti.» Herman bevve il rum, sgranando gli occhi quando ripetei il mio ordine, e si sedette inquieto sul bordo della sedia che gli avevo indicato. Lo fissai. Bere il rum gli aveva giovato. Infatti aveva smesso di tremare. «Ora ascoltami», dissi. «Ti prego di dirmi, con parole semplici e chiare, perché non hai portato il toro fuori dal salone. Lo devo sapere: forza, dimmelo!» Nuovamente Herman si gettò ai miei piedi e vi rimase. Mormorava: «Ti prego di credere, padrone, che non posso farlo». Questo era troppo. Lasciai da parte il mio senso di autocontrollo, afferrai quel furfante nero per il collo, lo feci rialzare, e presi a scuoterlo di santa ragione. Lo presi a pacche sul viso. Lui non opponeva resistenza, poveraccio. «Adesso me lo dirai», lo minacciai, «o, per Dio, ti romperò ogni osso di quel tuo corpo di negro buono a nulla! Forza, dimmelo subito: basta con queste stupidaggini!» Herman s'irrigidì. Si sporse in avanti, e bisbigliò tremante alcune frasi nel mio orecchio. Non osava, a quanto pareva, menzionare il nome ad alta voce. Mi disse che Pap Joseph, il demoniaco papaloi nero, come lo chia-
mano loro, lo Stregone, aveva ordinato che il torello non fosse spostato dal salone. Inoltre, una volta cominciata la confessione, mi disse che il mio fratellastro aveva tenuto quella bestia immonda nella casa per diversi giorni prima della sua morte improvvisa. Riesci a immaginarlo, Mailing? I due avevano fatto una serie di complicati preparativi, lì nel salone, per qualche sporco obeah che avevano deciso di fare. Il torello vi era stato portato tre giorni prima. Herman aggiunse altri particolari del tutto superflui e, finalmente, disse che per quanto poteva capirne lui - che non aveva assistito ad alcuna delle fasi delle loro Magie Nere e stregonerie, di cui altri negri erano stati testimoni - Otto Andreas era morto all'improvviso e inaspettatamente, nel mezzo delle loro cerimonie, e che Pap Joseph stesso aveva ordinato a Herman di non rimuovere il torello dalla sala in nessun caso. Pap Joseph aveva aggiunto che sarebbe stato proprio lui, Pap Joseph in persona, a portarlo via. Bisognava dargli cibo ed acqua - per questo erano stati posti nella stanza il secchio e il cibo - e tutto doveva essere lasciato com'era. Questo, naturalmente, spiegava molte cose. Tuttavia sapere il motivo del non voler eseguire i miei ordini, non spiegava il resto. La creatura disgustosa era, per così dire, ancora al pascolo nel mio salone. Era una cosa inspiegabile: perché lo Stregone aveva dato degli ordini tanto ridicoli? Per capire questo, bisognava conoscere bene le loro cerimonie e le altre stupidaggini del genere. Tuttavia mi resi conto che Herman era troppo impaurito: tutti i negri temono questo Joseph come la peste e il Diavolo in persona, e nulla lo avrebbe convinto a togliere l'animale dalla stanza. Mandai via Herman, e mi diressi lungo il corridoio verso la sala. Qui, per la prima volta, mi resi conto di quanto mi disorientasse la presenza di quel torello che occupava con tutta calma il mio salone. La prima volta infatti non me ne ero completamente reso conto. Sul lato orientale del salone, una grande piattaforma di legno, molto robusta, con una rampa inclinata che serviva da accesso, era stata costruita ai piedi della parete, e arrivava fino alla mensola di marmo sopra il camino. Quella piattaforma, delle dimensioni di circa tre metri quadri, pareva un'estensione del camino all'interno della sala. Compresi subito, come lo comprendi tu ora, quale fosse il significato di quella costruzione. La piattaforma era una specie di altare voodoo. Riti molto complicati, facenti parte delle più alte manifestazioni delle loro pratiche nefande, vi erano stati perpetrati. Avevo la bocca completamente
secca per l'indignazione: il figlio di mio padre, Fergus Gannett - sia pure di colore - si era prestato a tanta empietà, prendendo parte a tale opera! Dovevo trovare una corda con la quale legare il toro per condurlo fuori. Infatti era del tutto libero, e ora stava fermo, intento a guardare fuori da una delle finestre, senza neanche un collare. Uscii dalla stanza, chiudendomi la porta alle spalle, ed ero sul punto di chiamare Herman e di ordinargli di prendere una corda, quando pensai che sarebbe stato meglio cercare qualcuno che mi aiutasse. Vedi: non avrei certo potuto condurre la bestia fuori di casa e portarla sulla strada pubblica. Sarebbe stata una scena ridicola, che mi avrebbe segnato per gli anni a venire, quando sarei stato fatto segno di derisione e di pettegolezzi tra i negri della città, anzi, di tutta l'isola. Allora chiamai Herman e, quando egli venne, non gli chiesi una corda, ma gli ordinai di procurarmi una carrozza. Quando questa apparve, dieci minuti dopo, ordinai a Herman di portarmi a Macartney House. Sì, mi ero deciso, a costo di dovermi confidare con Macartney, ma avrei fatto bene ad avvalermi di lui. Possedeva infatti molti capi di bestiame. Macartney che consegnava un torello, magari facendolo passare dal retro da uno dei suoi braccianti, non avrebbe creato molta curiosità in città. Pensavo a questa decisione durante i dieci minuti che ci vollero per arrivare da Macartney e, quando arrivai, lo trovai a casa: con lui vi era Cornelius Hansen, il genero, che aveva sposato sua figlia Honoria. Spiegai a quei gentiluomini che il mio eccentrico fratellastro, da poco defunto, aveva portato un capo di bestiame nel salone poco prima di morire, e chiesi loro di aiutarmi a liberarmi di quella bestia. Entrambi acconsentirono. Erano quasi le tre del pomeriggio quando giungemmo a casa. Macartney aveva portato uno dei suoi bovari, che era seduto a cassetta accanto a Herman, e aveva con sé una corda e una cavezza. Entrammo con quell'uomo in casa, e c'incamminammo lungo il corridoio interno diretti verso il salone. A questo punto, caro Mailing, devo raccontarti un evento molto strano! Il torello, che era ancora giovane e non ancora cresciuto, non era però tanto docile e placido quanto ci si sarebbe potuto aspettare. In breve, ti dirò che, non appena la creatura ci vide entrare, e vide l'uomo con la corda e la cavezza, prese a comportarsi come se fosse indemoniata! Si mise a correre per tutta la stanza, rovesciando i mobili e frantumando alcuni oggetti, rovesciandone altri, sempre inseguito dal bovaro.
Macartney, il signor Hansen ed io tentavamo di circondarla. Finalmente si rifugiò proprio sulla piattaforma di assi! Sì, fuggì lungo la rampa e rimase immobile, ormai circondata, con il muso ricoperto di schiuma, le narici tese, e uno sguardo pieno di una emozione straordinaria, indescrivibile, sul suo volto bovino. L'animale rimase immobile mentre noi lo guardavamo, poi Macartney sbottò: «Perdiana, signor Gannett, questa bestia ha un'espressione umana in quegli occhi maledetti!». Lanciai uno sguardo al toro e mi resi conto che Macartney aveva ragione! L'animale aveva un'espressione molto umana, che esprimeva la sua volontà di non lasciare la sala! La cosa era del tutto ridicola, a parte il fatto che le sue pazze corse mi costavano un patrimonio. Infatti il falegname avrebbe dovuto lavorare a lungo su tutto quel mobilio ridotto in pezzi. Macartney ordinò al negro di salire sulla rampa e di mettere la cavezza al collo della bestia ormai intrappolata, e lui tentò di obbedire. Era arrivato quasi in cima, quando all'improvviso il torello caricò, e scaraventò l'uomo a terra rompendogli un braccio tra la spalla e il gomito. A questo punto persi del tutto la pazienza. Quella sciocchezza era durata abbastanza. Sembrava che le malefatte del mio fratellastro mi avrebbero perseguitato anche dalla tomba, per cui decisi che avrei posto fine a quella storia all'istante. «Occupatevi del vostro uomo, Macartney», dissi. «Io tornerò immediatamente. Portatelo fuori, se necessario, e Herman lo condurrà all'ospedale municipale.» Lasciata la stanza, mi diressi lungo il corridoio fino al mio studio, e presi una pistola dal cassetto della scrivania, dove la tengo abitualmente. Tornai nella sala passando davanti a Macartney e ad Hansen che stavano accompagnando il poveraccio con il braccio rotto - che gemeva in maniera pietosa - fino alla carrozza che li aspettava in strada. Con la pistola in mano mi avvicinai alla piattaforma. Il torello era ancora lì: non aveva fatto alcuno sforzo per discenderne. Camminai diritto lungo la stanza e mi misi di fronte alla piattaforma, poi sollevai la pistola, e presi attentamente la mira, puntando al centro della fronte della bestia. Proprio mentre premevo il grilletto, vidi l'espressione negli occhi dell'animale. Poi compresi appieno quello che Macartney aveva detto, circa lo sguardo di quella bestia! Se ne avessi avuto il tempo, lo confesso, Mailing, anche dopo tutte le provocazioni e gli affanni che mi aveva procurato, l'a-
vrei risparmiato. Ma era troppo tardi. La pallottola colpì la bestia in piena fronte. Essa barcollò sulle zampe, e un gran fiotto di sangue scorse lungo il suo naso roseo e si riversò sugli assi della piattaforma. Poi, all'improvviso, le quattro gambe non la ressero e cadde con un tonfo sordo sulle assi, facendo vibrare con il suo peso la piattaforma. Rimase quindi immobile, con la testa che sporgeva oltre il gradino della piattaforma. La lasciai dov'era, mentre il sangue si spargeva sul pavimento di mogano, e uscii dalla stanza, certo che la faccenda fosse conclusa. Ma, mentre cominciavo a pensare alle riparazioni e alle pulizie necessarie, mi sorse nella mente un pensiero terribile. Avevo l'impressione bizzarra e illogica che, per quanto strana ti possa apparire, mi porterò fino alla tomba: avevo l'impressione di aver gravemente interferito in qualche maniera inesplicabile e misteriosa, con l'estremo desiderio del mio fratellastro Otto Andreas! Macartney e suo genero stavano percorrendo il corridoio. Avevano già sistemato il bovaro nella carrozza, e allora li condussi nella sala da pranzo per offrir loro da bere. Poggiai quindi la pistola sul tavolo. «Ha sparato a quell'animale, allora?», commentò Macartney. «Sì», risposi, «e questo pone fine ai nostri problemi. Il vino e il rum sono qui sul tavolo. Prendete i vostri bicchieri, signori... Vi è una sola cosa, riguardo alla quale desidero ricevere il vostro parere.» Bevemmo insieme una misura di rum. Poi, posati i bicchieri e la bottiglia accanto alla pistola, avvicinammo le poltrone, e allora confidai a quei gentiluomini - che sono come noi membri della Loggia dell'Armonia di St. Thomas - dopo averli sottoposti formalmente al Rito del Silenzio, il fatto che il mio defunto fratellastro aveva portato uno Stregone in casa mia, per compiervi i suoi riti infernali. Entrambi furono d'accordo con me una volta che ebbi loro spiegato l'accaduto. Era una faccenda che richiedeva misure immediate. Dovevamo parlare con Knudsen, il Capo della Polizia, anch'egli un Massone, fortunatamente. Una volta giunti a quella conclusione, non perdemmo tempo. Mi scusai con loro e, lasciandoli in compagnia della bottiglia e dei lori bicchieri, presi la pistola, la rimisi al suo posto, e scrissi un breve messaggio al Capo della Polizia Knudsen. Poi ordinai a Marianna di portarlo a Christiansted. Knudsen rispose alla chiamata alle quattro precise e, dopo che fu arrivato, ci sedemmo per prendere il tè nella sala da pranzo, e per discutere il da
farsi. Knudsen fu d'accordo con noi. Avrebbe mandato immediatamente un paio di gendarmi, avrebbe arrestato Pap Joseph, e lo avrebbe imprigionato nel forte, per poi trasferirlo sulla scena del suo ultimo delitto quella sera stessa alle nove. Macartney e Hansen promisero che sarebbero tornati a quell'ora, e Herman, che era appena tornato dall'ospedale, li ricondusse a Macartney House. Knudsen e il suo prigioniero - ammanettato tra due gendarmi che sedevano con lui nel corridoio su tre sedie fin dalle otto e quarantacinque - furono i primi ad arrivare. Alle nove giunsero Macartney e Hansen. Knudsen e io sedemmo nel mio studio in attesa degli altri due. Lui bevve un paio di bicchieri, ma io rifiutai di bere ancora. Quando giunsero Macartney e suo genero Cornelius Hansen, mandammo via i gendarmi. Knudsen ordinò loro di attendere all'estremità del corridoio. Intanto portammo il prigioniero nello studio, e lo facemmo sedere. Ci sedemmo quindi attorno a lui e lo guardammo. Quell'uomo era piccolo, nero, e ben vestito: tranne che per l'espressione maligna, pareva una persona normale. Eppure, una sola parola al mio maggiordomo, aveva fatto in modo che un vecchio servitore della mia famiglia che era stato al nostro servizio per più di trent'anni, avesse rifiutato di eseguire l'ordine che gli avevo impartito di togliere quella bestia immonda dal mio salone! Avevo mandato a casa la servitù, senza tenere con me neanche Herman. Quindi avevamo tutta la casa a disposizione. Knudsen assentì verso di me non appena ci fummo sistemati, e allora mi rivolsi allo Stregone. «Joseph», dissi, «sappiamo che tu sei stato in questa casa con il signor Otto Andreas, e che hai usato il mio salone per i tuoi incantesimi. Questo naturalmente ti pone al di fuori della legge. Il codice proibisce che si pratichi l'obeah nelle Indie Occidentali Danesi, e tu hai infranto la Legge. Inoltre, giacché lo hai fatto in casa mia, io sono stato coinvolto nel caso. Ho parlato della faccenda con questi signori e, per essere franchi, vi sono delle cose che non mi sono ben chiare. In particolare vorrei sapere perché ho trovato un capo di bestiame acquartierato nella mia dimora, il che, da quel che ne so, è opera tua. Ti abbiamo portato qui per sentire la tua versione dei fatti. Se risponderai con chiarezza a quello che vogliamo chiederti, Herr Knudsen mi assicura che non sarai scaraventato in prigione, e non sarai punito. Se rifiuti, la legge seguirà il suo corso. Ti chiedo quindi di spiegarci pienamente perché quell'animale era nella mia casa e qual è stato il ruolo di Andreas in questa faccenda. Questi sono
i due punti sui quali vogliamo sapere tutti i dettagli.» Mailing: quell'uomo si rifiutò semplicemente di parlare. Non riuscimmo a cavarne una sola parola. Tentò Macartney, poi il signor Hansen. Finalmente Knudsen, che fino ad allora non aveva detto nulla, prese la parola. «Se ti rifiuti di rispondere a queste due domande», disse, «farò io in modo che tu parli.» Fu tutto. Non passò più di mezz'ora; ad ogni modo, il mio orologio indicava le dieci meno un quarto quando facemmo una pausa. Macartney, Hansen e io ci scambiammo sguardi disorientati. A quanto pareva, non riuscivamo ad aver ragione di quel maledetto ostinato. Poi, nella pausa che seguì, Knudsen, il Capo della Polizìa, mi rivolse queste parole: «Con il vostro permesso vorrei mandare i miei uomini in cucina». Mi inchinai. «Qualsiasi cosa vogliate, Herr Knudsen», replicai, e Knudsen si alzò e uscì in corridoio: attraverso la porta mezza socchiusa lo udimmo parlare ai gendarmi. Poi tornò e si sedette in silenzio, fissando il negro che ora, per la prima volta, appariva un po' irrequieto. Dava segno del suo stato d'animo con un caratteristico roteare degli occhi. Al di fuori di questo, fu molto poco comunicativo, proprio come era accaduto fino ad allora. Rimanemmo quindi in attesa fino a qualche minuto dopo le dieci. Knudsen e il negro erano rimasti in silenzio, e gli altri parlavano a bassa voce fra loro. Poi, trascorsi otto minuti dopo le dieci, uno dei gendarmi bussò alla porta e porse a Knudsen, che si era alzato per aprire, un secchio pieno di tizzoni, e le baionette delle carabine dei due uomini, staccate dai fucili probabilmente proprio per ordine dell'ufficiale. A quel punto ebbi la sensazione che qualcosa di spiacevole stesse per accadere. Sapevo che Knudsen aveva una reputazione di uomo probo e giusto. Lui era, come tu ben sai, uno degli ufficiali dell'Esercito Danese. Come uomo abituato a comandare gli uomini, non ammetteva stupidità da parte dei criminali o di altri con cui doveva avere a che fare durante lo svolgimento della sua professione. Pose il secchio di tizzoni al centro della stanza, e immerse le punte delle due baionette nella brace ardente. Poi si rivolse all'uomo in attesa accanto alla porta, e gli ordinò: «Porta qui Larsen, Krafft, e lega quest'uomo, mani e piedi». L'ufficiale aveva parlato in danese, una lingua che credo fosse sconosciuta al negro. Eppure mi accorsi che fece una smorfia a quelle parole, che chiaramente avevano a che fare con il trattamento che gli era riservato,
e il suo viso scuro assunse un aspetto grigiastro, il che nei negri equivale all'impallidire. I due gendarmi tornarono subito. Mentre Krafft faceva il saluto, l'altro disse: «Non abbiamo corda, Herr Commandant». Mi ricordai che la corda del bovaro di Macartney, che era stato portato in ospedale, era rimasta in casa. Mi ricordai che era rimasta a terra accanto all'orrida piattaforma, e io stesso avevo lasciato la stanza dopo aver ucciso la bestia. Nessuno era tornato nella sala da sette ore. «Mi perdoni, Herr Knudsen», dissi, alzandomi in piedi. «Se mandate un uomo ad accompagnarmi, gli darò io una corda.» Knudsen parlò a Krafft, che fece un altro saluto e, facendosi da parte in modo che potessi uscire nel corridoio, mi seguì da presso mentre lo percorrevo diretto verso la porta che dava sul salone. Mailing, amico mio, esito a descriverti quel che accadde poi. Eppure devo continuare il racconto, dopo questa lunga storia che ti ho già descritto in oltre un giorno di lavoro, per riuscire a far sì che tu comprenda. Tenterò di scrivere con chiarezza tutta questa terribile e incredibile faccenda, che con il suo orrore mi ha tanto colpito, e che mi ha causato una sofferenza mentale che durerà finché vivo. Essa infatti è la ragione per la quale lascio l'isola sulla quale ho vissuto una vita intera, che amo, che considero la mia patria, e dove vivono tutti i miei amici. Ascolta, allora, amico mio, quello che devo assolutamente porre per iscritto in modo che tu capisca. Giunto alla porta, la spalancai, e ci investì quell'odore orribile che aveva permeato completamente l'intera casa nonostante le finestre spalancate. Sfregato un cerino, accesi la lampada più vicina, un lume di ottone situato poco lontano dalla porta accanto al pianoforte Broadwood di mia madre. Grazie a questa luce il gendarme Krafft e io avanzammo nella stanza verso l'angolo opposto, verso la piattaforma. L'animale vi giaceva ancora, la testa riversa oltre il limite delle assi. All'alba del giorno seguente, dietro mio ordine, Herman e altri due braccianti l'avrebbero dovuto rimuovere e ripulire immediatamente la stanza. A due terzi del percorso mi fermai e, indicando la zona in cui giaceva la corda sul pavimento di mogano, dissi a Krafft che l'avrebbe trovata in quel punto. Con la coda dell'occhio vidi che accennava un silenzioso «signorsì». Intanto, io avevo cominciato ad accendere un altro grosso lume. Infatti, la luce della prima lampada, a causa del grosso paralume, illuminava in
maniera piuttosto fioca. Eravamo quindi ancora in penombra e la mensola e la piattaforma che la sovrastava erano immerse nel buio. Avevo appena acceso il lucignolo di questa seconda luce, quando udii il grido di Krafft. Lasciando cadere a terra la scatola dei fammiferi, mi voltai di scatto, e vidi il soldato con le mani sollevate verso il viso in un gesto di orrore, crollare a terra svenuto a non più di cinque passi dalla piattaforma. Guardai verso di lui e, per un attimo, i miei occhi rimasero abbagliati dalla vicinanza della fiamma che avevo appena acceso. Poi, Mailing, amico mio, vidi quel che lui aveva visto. Quel che aveva causato le urla di un poliziotto abituato a tutto, e che lo aveva fatto cadere a terra in preda agli spasimi del più puro terrore. E mentre guardavo quella scena, avvertii che la stanza aveva preso a rotearmi attorno, e fui convinto di trovarmi alla fine della mia vita terrena. Anch'io crollai a terra, indifeso davanti al cupo terrore di quella visione inaudita. Caddi a terra e, mentre svenivo, udii dietro di me le voci agitate di Knudsen, Macartney e del giovane signor Hansen. Costoro, attirati dall'urlo di Krafft, si erano infatti affrettati ad affacciarsi alla porta. Avevo visto in maniera indistinta nella poca luce delle due lampade ad olio, non la testa del torello che avevo annientato: avevo visto la testa e le spalle del mio fratellastro Otto Andreas, il buco nero sulla fronte e il sangue rappreso sul suo viso contorto. Ti ora il suo volto pendeva esanime e orribile a vedersi oltre il limite della piattaforma voodoo... Mi ripresi nel mio studio, circondato dai miei amici, e avvertii delle gocce d'acqua, fredda sul viso e sul collo, mentre il sapore del brandy mi pungeva la gola. Ero disteso a terra supino e, guardando in alto, vidi il gendarme Larsen, che ancora sorvegliava il negro tenendogli una pistola puntata alla nuca. Mi alzai a sedere con l'aiuto del giovane signor Hansen. Knudsen volgeva le spalle al gruppo. Afferrando una delle baionette che era ormai incandescente, nella mano guantata, pronunciò un ordine secco. Larsen costrinse il negro ad alzarsi dalla sedia e lo fece sdraiare, ancora legato, sul pavimento. L'attesa mi diede una leggera nausea. Chiusi gli occhi; avevo deciso di non interferire con quello che Knudsen stava facendo. Lui conosceva certi metodi ed era lì, dopotutto, dietro mia richiesta, per costringere quel criminale a confessare ciò che avrebbe svelato i misteri di cui volevamo venire a capo.
Ben presto tornai a sedere sulla mia sedia, grazie alle sollecite misure prese nei miei confronti, e fui in grado di ascoltare le parole che Knudsen rivolgeva al prigioniero steso a terra, supino. Vidi anche il viso pallido e distorto di Krafft, sulla soglia. Anche lui sembrava essersi ripreso. Abbrevio la descrizione di questa faccenda piuttosto scabrosa, e che mi nauseò fin nel profondo dell'animo. Tuttavia era necessario procedere in quel modo se volevamo ottenere quelle informazioni. Per dirla in breve, lo Stregone, anche nella sua situazione di grande pericolo, rifiutò di rispondere. Knudsen stesso gli strappò la camicia e applicò la baionetta incandescente al torace del malcapitato. Un orribile odore di carne ustionata si levò immediatamente e io chiusi gli occhi, nauseato a quella vista. Il negro urlò per il dolore insopportabile, poi serrò le labbra turgide e scosse la testa ignorando gli ordini ripetuti più volte da Knudsen di rispondere alle nostre domande. Poi Knudsen rimise la baionetta al suo posto, immergendola a fondo tra i carboni ardenti, e prese la seconda. Stringendola in pugno, rimase in piedi sovrastando il negro. Gli si rivolse quindi con tono secco, freddo e duro: «Amico, ti avverto! Non lascerai questa casa da vivo. Ti torturerò in tutto il corpo con queste baionette, finché non risponderai alle domande che ti abbiamo fatto». Alla fine di questo discorso, premette bruscamente il piatto della lama della baionetta sull'addome del negro. Dopo un grido di dolore angosciante, Pap Joseph capitolò. Assentì con il capo, e dalle labbra contorte gli uscì un gemito di assenso. Immediatamente lo facemmo rialzare e i gendarmi lo fecero sedere fra loro. Poi, con voce strozzata, roteando gli occhi, in preda a un'angoscia mentale che sovrastava di molto le sue orribili ferite, ci raccontò quel che segue... A quanto pare esistono due tipi di «sacrifici supremi» alle divinità oscure della religione voodoo. Il primo è il sacrificio umano, che essi chiamano del «capro senza corna». Secondo il nostro interlocutore non è stato mai praticato nelle isole. Il secondo tipo di cerimonia è quella del «battesimo». Quest'ultimo era proprio quello che era stato perpetrato in casa mia! E, benché non si sarebbe mai potuto indovinare a questo punto della narrazione che ti faccio in forma privata, caro Mailing... Otto Andreas stesso era il candidato. Avrei forse dovuto menzionare il fatto che il suo corpo, sepolto da un giorno e mezzo, e che era stato visto sia da me che da Krafft pendere sul-
l'orlo della piattaforma sacrificale, era stato tolto da quel luogo. Ora era stato ricomposto da Knudsen e da Larsen su quattro sedie nel salone, e vi era rimasto per tutto il periodo in cui Macartney e Hansen avevano tentato di farmi tornare in me e di riportarmi nello studio. Sul suo corpo c'erano tracce di terra e pezzi di legno di pino. Il culmine di quell'ignominioso rito che essi empiamente chiamano battesimo, è il sacrificio di un animale. Alle volte si tratta di una capra, altre volte di un giovane toro. In questo caso era stato scelto un toro. Prima che l'animale venga sgozzato, il candidato che si appresta al battesimo si pone carponi, denudato, e deve «confrontarsi» con la capra o il toro. Sì, Mailing, questo l'ho saputo dalle labbra distorte dal dolore di quel mascalzone. I due, ossia il candidato e l'animale sacrificale, si fissano a lungo negli occhi. Si crede infatti che, in questo modo, per un certo periodo di tempo, i due si scambino le personalità. Pare incredibile che si possa credere una cosa simile, eppure è così. Nel corso della cerimonia, quando il sacerdote ufficiante determina l'avvenuto scambio delle personalità, l'animale viene ucciso all'improvviso, sgozzandolo con un machete affilato o con un coltello per tagliare le canne da zucchero. A questo punto, la personalità dell'essere umano ritorna alla sua sede naturale. Eppure, una certa parte rimane nell'animale: infatti, alla morte della vittima sacrificale, essa ne esce e si pone sotto la protezione della cosa che essi chiamano il Serpente di Guinea. Questi infatti è l'oggetto finale delle loro devozioni, e ad esso è offerto il sacrificio del candidato. Tali sono i princìpi alla base del battesimo voodoo, nei termini nei quali ci sono stati spiegati. Questo è ciò che sarebbe accaduto nel caso di Otto Andreas, se non fosse sopravvenuto qualcosa di imprevisto. Naturalmente si può facilmente capire lo stress mentale e fisico a cui si sottopone un candidato in tali condizioni. Nel caso del mio fratellastro, esse risultarono addirittura insostenibili. Otto Andreas era morto all'improvviso, senza dubbio a causa di un attacco cardiaco dovuto allo sforzo, lì sulla pedana, pochi minuti prima che Pap Joseph stesso sacrificasse il toro. I seguaci del voodoo credono che le personalità in quel momento fossero scambiate. In altre parole, la mancata liberazione e il mancato ritorno alle rispettive sedi naturali, che sarebbero avvenute grazie al coltello sacrificale, fecero in modo che l'«anima» della vittima sacrificale morisse al momento della morte improvvisa di Otto Andreas, e... l'anima di Otto Andre-
as rimase nel torello. «E così, signore», terminò Pap Joseph, con un sorriso demoniaco, rivolto verso di me, «tu hai distrutto la vita di tuo fratello, signore, quando ti sei affrettato a uccidere quel torello!» Lo Stregone, da quanto risultava dal resto del racconto, aveva ordinato al vecchio Herman di tenere il torello nel salone, poiché ignorava che sarei tornato di lì a poco. Aveva fatto questo perché stava «facendo una Magia» per fare in modo che le anime «si scambiassero di nuovo». Naturalmente era stato necessario seppellire il corpo di Otto Andreas. Ma, ci assicurò, se il torello fosse stato lasciato al suo posto, si sarebbe ritrasformato in Otto Andreas, un processo che richiedeva non solo una grande sapienza in fatto di Magia, ma anche un notevole impiego di tempo! Vi erano solo due cose che potevamo fare quella notte. Pap Joseph fu rimandato a Christiansted, e fu disposta la sua liberazione il giorno seguente alle sei di mattina. Poi, noi quattro avvolgemmo il cadavere di Otto Andreas in una coperta, e lo portammo al cimitero. Quando arrivammo, Hansen e Knudsen si accinsero a scavare con due pale che ci eravamo procurati, per recuperare la bara. Era una notte di plenilunio. Naturalmente, a quell'ora, non vi era nessuno nei pressi del cimitero. La terra ci parve insolitamente cedevole, anche tenendo conto del fatto che si trattava di una sepoltura recente. Una pala cozzò contro il legno a circa un piede di profondità. Macartney diede il cambio al genero. Io mi offrii di fare lo stesso per Knudsen, ma lui rifiutò. Entro un minuto, esclamò con tono incerto: «Cos'è questo?». Si accucciò nella fossa e con la mano guantata scavò nella terra soffice, rivelando ciò che aveva scoperto. Mailing: avevano dissotterrato una bara frantumata, una bara che aveva perso tutte le caratteristiche tipiche dello stretto ricettacolo destinato a raccogliere i resti degli esseri umani. Non sorprendeva il fatto che fosse letteralmente esplosa, vista la cosa mostruosa che si stava rivelando pian piano ai nostri occhi. Non scoprimmo del tutto ciò che avevamo trovato sotto il manto di terra consacrata. Non ce n'era bisogno, Mailing! Ciò che trovammo fu un arto rigido e ossuto, appartenente a un quadrupede munito di corna. Questo fu ciò che Knudsen aveva liberato dalla terra con la sua mano guantata. Vi era sepolto un torello, proprio nel punto in cui trentasei ore prima altri uomini avevano interrato il corpo del mio defunto fratellastro, Otto Andreas Gannett. Pap Joseph, a quanto pareva ob-
bligato nonostante la sua reticenza a piegarsi alla forza, ci aveva detto il vero. Rapidamente allargammo la fossa, per potervi adagiare il cadavere che avevamo portato e, lasciato un cumulo più alto di quello che avevamo trovato nonostante lo avessimo spianato con le pale, tornammo rapidamente e in silenzio a casa mia. Lì, come si conveniva a membri della nostra Confraternita Massonica, giurammo che al di fuori di queste informazioni indirizzate a te, nostro confratello, nessuno di noi, per la durata della mia vita naturale, avrebbe mai rivelato nulla di quello che avevamo udito, a nessuno. Knudsen si assunse la responsabilità per i suoi gendarmi e, vista la reputazione di cui gode in fatto di disciplina, sono sicuro che essi non diranno nulla circa gli eventi a cui assistettero. Dunque, Fratello, il resoconto servirà a spiegarti perché parto da Santa Cruz diretto in Scozia. Quella è la terra dalla quale è venuta la mia famiglia da diverse generazioni, quando queste isole furono finalmente aperte alla colonizzazione dei piantatori e di altri Danesi grazie alla generosità del governo danese. Non posso più rimanere in questa casa maledetta, dove accadono cose tali da far perdere il senno a un uomo. Quindi pongo la proprietà nelle tue mani servizievoli ed efficienti, amico, mio, con la certezza di aver reso chiari i motivi della mia decisione. Porto con me in Scozia il mio vecchio e fedele servo, Herman. Non lo lascerò qui alla mercé di quel pestifero criminale di Pap Joseph. Lui infatti ha contravvenuto agli ordini dello Stregone a causa mia. Non si può dire cosa accadrebbe a quel povero diavolo, se non lo proteggessi io. Rimango a tua disposizione. Fedelmente Angus Gannett P.S. Knudsen naturalmente insiste nel dire che alcuni negri seguaci di Pap Joseph, hanno semplicemente scambiato il corpo del mio fratellastro con quello del torello, nell'intervallo intercorso dopo che io sparai all'animale, durante il quale la sala rimase deserta. A.G. 3. Terminata la lettura, restituii a Herr Mailing il manoscritto. Lo ringraziai
per la sua straordinaria cortesia, per avermi permesso di leggerlo, poi mi diressi subito a Casa Gannett per rivedere il salone in cui quegli eventi prodigiosi si erano verificati. Robertson mi fece entrare, e mi sedetti nel posto solitamente occupato dalla signora Garde. Poi Robertson mi portò il tè su un grande vassoio circolare. Non riuscii a fare a meno di lanciare uno sguardo al punto dove una volta era sorta la piattaforma di assi, sulla quale aveva avuto luogo il battesimo voodoo. Lo strano rito era stato interrotto poco prima del momento culminante dal collasso di Otto Andreas, che aveva tanto desiderato far parte dei devoti del Serpente, e che ormai era morto da tempo. Questi sono gli strani avvenimenti delle nostre Indie Occidentali. Ebbene, Dio si era dimostrato come sempre molto più forte del Serpente. Ero sicuro che non si sarebbero mai più riviste quelle strane manifestazioni. La grottesca visione che dopo tanti anni si era proiettata sul muro, quel toro dall'espressione «quasi umana», dagli occhi patetici e leggermente adombrati da un velo di rimprovero descritto dalla signora Garde, era stato lo stesso che aveva guardato il cupo scozzese che con mano ferma aveva alzato la pistola e aveva mirato in un punto tra gli occhi della bestia. La signora Garde tornò alla sua dimora temporanea, dopo aver beneficiato del suo viaggio per mare. La sua mente era stata presa da altri pensieri, e l'orrore sul muro accanto al ritratto del marito era stato cancellato dalla sua mente. Come previsto, il fenomeno non si ripeté. Naturalmente, la signora Garde si affrettò a chiedere come avessi fatto, e in che modo fossi riuscito a far sì che l'apparizione che aveva distrutto la sua serenità d'animo e la sua felicità non si manifestasse più. Tuttavia io non desideravo spiegarle l'accaduto, e riuscii a evitarlo sempre. La signora Garde apparteneva alla Chiesa Unitaria di Boston, e gli Unitari di Boston tendono a vedere le cose da un punto di vista intellettuale. Non è quindi facile per loro comprendere la natura di pratiche legate alla frequentazione dell'Aldilà, o l'esorcismo delle case, che invece fanno parte dell'ordinaria amministrazione per il buon Reverendo Richardson. Inoltre non ho dubbi circa il fatto che la signora Garde rimase così contenta per la sparizione del fenomeno, che probabilmente lo attribuì a ciò che normalmente viene chiamato «stress visivo». Non vi era nulla che le rammentasse il torello dal muso insanguinato e dagli occhi patetici, che cadeva colpito a morte. Di Otto Andreas Gannett non rimase alcun ricordo a Christiansted.
Quell'inverno trascorremmo molte divertenti serate danzanti e ricevimenti per il tè nella magnifica sala di Casa Gannett. IL CANE MANNARO Jumbee di Henry S. Whitehead Weird Tales, settembre 1926 Il signor Granville Lee, il più Virginiano di tutti i Virginiani, tornò dalla Grande Guerra con un polmone distrutto dall'Yprite, e il suo dottore gli prescrisse di passare un inverno nel clima speziato e dolce delle Antille, le isole minori dell'arcipelago delle Indie Occidentali. Lui scelse una delle isole americane, St. Croix, la vecchia Santa Cruz - l'Isola della Santa Croce - battezzata da Colombo in persona durante il suo secondo viaggio, e famosa in passato per la qualità del suo rhum. Come ultima cosa il signor Lee si rivolse a Jaffray Da Silva per ottenere informazioni precise sulla magia locale. Le informazioni furono accompagnate, dopo due mesi di permanenza, da un generale miglioramento della sua salute, e allora cominciò a considerarle della massima importanza, grazie anche alle prove irrefutabili che aveva avuto circa la persistenza della magia sull'isola. Il contatto con gli usi locali era stato sufficiente a smussare la sua sensibilità ereditaria, e a farlo sentire quasi a suo agio mentre sedeva con il signor Da Silva nella fresca galleria della bellissima casa appartenente a quel gentiluomo, sita all'ombra di una bougainvillea di oltre quarant'anni, un certo pomeriggio. Era il momento delle chiacchiere e del riposo, che va dalle cinque del pomeriggio dall'ora di cena. Una brocca di vetro piena di spumante rum-swizzel era posta sul tavolo tra di loro. «Ma ditemi, signor Da Silva», disse l'americano, mentre sorbiva il secondo bicchiere della fresca bevanda, «lei non ha mai incontrato uno "Jumbee"? Ne ha mai visto uno? Eppure ammette con franchezza di credere nella loro esistenza!» Non era la prima domanda che il signor Lee poneva circa gli Jumbee. Aveva interrogato i piantatori, aveva parlato della questione degli Jumbee con i negozianti di colore, persone intelligenti ed educate, e perfino a Christiansted, l'altra città - più grande - che sorgeva sul lato settentrionale dell'isola. Aveva perfino menzionato l'argomento parlando con un paio di braccianti dei campi di canna da zucchero, neri come il carbone. Infatti era
rimasto abbastanza a lungo sull'isola e poteva finalmente comprendere - in una certa misura - quello strano dialetto che Lafcadio Hearn, in occasione della sua visita a St. Croix molti anni prima, non aveva riconosciuto come «vero inglese»! Delle differenze molto marcate caratterizzavano le risposte che gli erano state date. I piantatori e i negozianti avevano sorriso, chi più chi meno, e avevano risposto che erano stati i Danesi a inventare gli Jumbee, per tenere i loro braccianti dentro casa la notte, in modo che potessero godere di una notte intera di sonno salutare, e per diminuire il rischio di essere depredati del raccolto non ancora maturo. I braccianti che lui aveva interrogato avevano invece alzato gli occhi al cielo ma, siccome la scena accadeva in pieno giorno, avevano abbandonato la loro espressione abitualmente impassibile e gli avevano regalato larghi sorrisi. Avevano inoltre cercato di sottolineare quanto disprezzassero le superstizioni a cui erano soggetti i loro fratelli di colore, e lo avevano assicurato con frasi ambiguamente scelte che lo Jumbee era in realtà un parto dell'immaginazione. Nonostante ciò, il signor Lee non era soddisfatto. Qualcosa mancava: qualcosa di molto interessante, gli pareva. Qualcosa di molto diverso da «Fratello Coniglio» e altre simili storie che avevano popolato la sua infanzia in Virginia. Inoltre, aveva letto un libro sulla Martinica e sulla Guadalupa, quegli antichi gioielli della Corona francese, e non aveva dovuto leggere a lungo prima di imbattersi nella parola «Zombi». Dopo quella volta, almeno, seppe che i Danesi non avevano "inventato" lo Jumbee. Aveva udito parlare vagamente della credenza dei braccianti secondo la quale Sven Garik, che era tornato da poco in Svezia, e Garrity, uno dei piantatori minori ancora sull'isola, erano dei «lupi»! Licantropia e metamorfosi animale, a quanto pareva, facevano parte di quello strano tessuto di leggende locali. Il signor Jaffray Da Silva era per un ottavo di sangue un africano. Quindi, secondo l'uso isolano, era considerato di colore, il che - nelle Indie Occidentali - era molto diverso dall'essere "nero". Il signor Da Silva era stato educato alla maniera europea. Secondo tutti i diritti e gli usi della società delle Indie Occidentali, il signor Da Silva era un gentiluomo di colore, il cui status sociale era chiaro e definito come un cammeo. Quelle isole erano per lo più popolate da persone come il signor Da Silva. Nonostante la differenza del loro status da quello che avrebbero avuto in Nord America, sulle isole godevano di certi vantaggi. Per la mentalità
delle Indie Occidentali, un uomo la cui eredità derivava per sette ottavi dal rango patrizio, con tanto di autentico stemma di famiglia, aveva il diritto di essere trattato di conseguenza. Per questo motivo i molti segretari del signor Da Silva, e tutti coloro che lo conoscevano, lo trattavano con una certa deferenza, gli si rivolgevano dicendo «Signore», e si toglievano il cappello alla maniera europea quando lo incontravano. A questi saluti naturalmente il signor Da Silva rispondeva invariabilmente, anche a quelli provenienti dai più umili, una caratteristica questa che distingue ovunque il vero gentiluomo. «Anche i miei amici ridono, signor Lee», rispose, con un sorriso tollerante, che per un attimo ravvivò il suo melanconico viso color avorio. «Ridono di me, perché ammetto di credere negli Jumbee. È possibile che chiunque abbia una goccia di sangue africano creda nella Magia e cose simili, tuttavia io sembro esserci particolarmente portato! È una questione di esperienza, per quanto mi riguarda, signore, e i miei amici sono liberi di sorriderne, se vogliono. La maggior parte... be', forse in realtà non ammettono di credere in certe cose con la stessa franchezza con cui lo ammetto io!» Il signor Lee sorseggiò il suo swizzel freddo. Aveva sentito parlare di quanto fosse difficile riuscire a far parlare Jaffray Da Silva delle sue esperienze, e sospettava che sotto la squisita cortesia del suo ospite si celasse l'austera fierezza che odia di essere messa in ridicolo, nonostante il suo sorriso denotasse tolleranza. «La prego, proceda, Signore», lo esortò Mr. Lee, il quale era del tutto ignaro di aver scelto proprio la parola che, nel suo paese, era riservata ai gentiluomini di puro sangue caucasico. «Quando ero giovane», iniziò il signor Da Silva, «intorno all'anno 1894, vi era un mio amico danese di nome Hilmar Iversen, che viveva qui in città vicino alla chiesa morava, su quella che la gente locale chiama la collina Foun'Out. Iversen lavorava per il Governo come impiegato, e il suo ufficio era nel Forte. Sulla strada del ritorno a casa, si fermava qui ogni pomeriggio a prendere uno swizzel e a fare due chiacchiere. Eravamo amici, ottimi amici. Lui allora aveva passato da poco la cinquantina, ed era un tipo rubicondo, molto grasso e, come molti di coloro che avevano la sua corporatura, soffriva di cuore. Una notte venne un ragazzo a chiamarmi. Erano le undici, e stavo sistemando la zanzariera sul mio letto, pronto a coricarmi. La servitù era tornata a casa, e così aprii io stesso la porta. Ero in camicia e pantaloni, e in
mano portavo una lampada, per vedere cosa fosse accaduto. O meglio, lo sapevo perfettamente: il messaggero era venuto a informarmi che Iversen era morto!» Mr. Lee si alzò a sedere di scatto. «Come facevate a saperlo?», chiese, con gli occhi sgranati. Mr. Da Silva buttò via i resti della sigaretta. «Alle volte mi capita di sapere in anticipo le cose», rispose, lentamente. «In questo caso, Iversen e io eravamo stati grandi amici da lungo tempo. Avevamo parlato a lungo di magia e di cose del genere, ad esempio di poteri occulti, di manifestazioni soprannaturali, eccetera. È un argomento di conversazione molto comune da queste parti, come avrete notato. Ne sentireste parlare ancora di più se continuaste a vivere qui e adottaste gli usi e la mentalità della gente di quest'isola. Per la verità, signor Lee, Iversen e io avevamo fatto un patto. Colui che sarebbe "partito" per primo, doveva tentare di avvertire l'altro. E vede, signor Lee; io avevo ricevuto l'avvertimento di Iversen meno di un'ora prima. Ero rimasto seduto qui nella galleria fino alle dieci. Stavo seduto proprio sulla sedia in cui vi trovare voi ora. Iversen aveva avuto un attacco cardiaco. Io gli avevo fatto visita proprio quel pomeriggio: aveva lo stesso aspetto di altre volte in cui era stato soggetto a un attacco. Infatti intendeva tornare in ufficio la mattina seguente. Nessuno di noi, ne sono sicuro, aveva pensato che esistesse la possibilità di un improvviso peggioramento della sua salute. Non ne avevamo nemmeno parlato nel nostro accordo. Be', erano circa le dieci, come ho detto, quando a un tratto udii Iversen avvicinarsi attraversando quello spiazzo laggiù, e venire verso la casa lungo il sentiero di ciottoli. Apparentemente era passato attraverso il cancello da Kongensgade - la strada Reale, come viene chiamata oggi - e io sentivo i suoi passi pesanti risuonare chiaramente sui ciottoli. Zoppicava appena. Passo pesante... passo leggero; toc-toc ... toc-toc; era proprio il vecchio Iversen. Non ci si poteva sbagliare. Quella notte non vi era la luna. La mezzaluna calante si sarebbe mostrata circa un'ora e mezza più tardi, ma a quell'ora il giardino era ancora immerso nel buio. Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai all'imboccatura delle scale. A dirvi la verità, signor Lee, avevo un vago sospetto - ho una certa predisposizione per queste cose - che non fosse proprio Iversen. Come posso esprimermi? Dentro di me vi era l'idea che si trattasse di lui, venuto a tentare di tener fede al suo accordo, e il mio istinto mi assicurava del fatto che era appena
morto. Non posso dirvi come facessi a saperlo, ma era così, signor Lee. E così attesi, proprio lì, dietro il punto in cui siete ora voi, in cima alle scale. I passi si avvicinavano pian piano. Ai piedi delle scale, nell'ombra dei cespugli di ibisco, era appena meno buio che sul sentiero. Una luce fioca proveniva dalla lampada all'interno della casa. Sapevo che, se era Iversen, sarei stato in grado di vederlo nel momento in cui i passi fossero usciti dalla profonda oscurità che regnava tra i cespugli. Non parlai. I passi si avvicinarono a quel punto, poi lo oltrepassarono. Aguzzai la vista tentando di distinguere qualcosa nel buio, ma non vidi nulla. Allora seppi, signor Lee, che Iversen era morto, e che stava tenendo fede al nostro accordo. Tornai qui e mi sedetti: poi attesi. I passi salirono le scale, quindi procedettero lungo il pavimento della galleria, diritto verso di me. Si arrestarono qui, signor Lee, proprio accanto a me. Io sentivo che Iversen era in piedi accanto a me.» Il signor Da Silva indicò il pavimento con la mano affusolata ed elegante. «All'improvviso, nel silenzio, avvertii i capelli rizzarmisi sul cuoio capelluto, e diventare diritti e rigidi. Sentii dei brividi corrermi lungo la schiena, signor Lee! Tremavo come un uomo febbricitante per la malaria, seduto qui sulla mia sedia. Dissi: "Iversen, ora capisco! Ho paura!". Sbattevo i denti come fossero castagnole, signor Lee. Continuai: "Iversen, vattene, per favore! Hai tenuto fede al nostro accordo. Mi dispiace di mostrare tanta paura, ma la carne è debole! Non ho paura di te, vecchio amico, ma tu cerca di capirmi! Non è una paura normale: la mia mente è a posto, Iversen, ma ho un attacco di panico, quindi ti prego di andartene, amico mio". Fino a che non avevo parlato rivolto a Iversen, come le avevo detto, signor Lee, era regnato il più perfetto silenzio: infatti i passi si erano arrestati poco lontano dal punto in cui ero seduto. Ma, quando pronunciai quelle parole e chiesi al mio amico di andarsene, avvertii distintamente che si allontanava, e seppi che aveva compreso il senso di quanto dicevo! Improvvisamente, signor Lee, era come se quei passi non ci fossero mai stati, e lei può comprendere in che senso. È difficile da esprimersi a parole. Immagino che, se fossi stato uno dei braccianti, a quel punto mi sarei trovato a metà strada tra qui e Christiansted, ma non ero tanto spaventato da non riuscire a sopportare la situazione. Dopo aver ripreso il controllo di me stesso, e quando non ebbi più la pelle d'oca e i brividi ebbero smesso di corrermi su e giù per la schiena, mi al-
zai, sentendomi molto stanco, signor Lee. Era stata un'esperienza assai faticosa. Entrai in casa a bere un bel bicchiere di brandy francese: mi sentii subito meglio, mi sentii di nuovo me stesso. Presa una lanterna, l'accesi, poi mi avviai lungo il sentiero diretto al cancello che dava sulla Kongensgade. Vi era una sola cosa che volevo vedere laggiù in fondo al giardino. Volevo assicurarmi che il cancello fosse chiuso. E infatti così era. Quella grande sbarra di ferro che lei ha visto, era al suo posto. È stata usata per chiudere quel vecchio cancello fin dal Diciottesimo Secolo, immagino. Non avevo pensato che qualcuno avesse veramente aperto il cancello, ma ora lo sapevo per certo. Non vi erano orme sul sentiero di ciottoli, signor Lee. Guardai bene: i segni lasciati dalla scopa di saggina dello sguattero dopo aver chiuso il cancello erano intatti. Ero soddisfatto e non più spaventato, neanche un po'. Tornai qui, mi sedetti, e pensai alla mia lunga amicizia con il vecchio Iversen. Mi sentii molto triste sapendo che non lo avrei mai più rivisto da vivo. Non si sarebbe mai più fermato da me a bere uno swizzel e a fare due chiacchiere. Intorno alle 11 entrai in casa e, stavo per coricarmi, quando sentii bussare alla porta d'ingresso. Vede, Mr. Lee, io già sapevo cosa significava. Andai ad aprire in camicia e calzoni, scalzo, con la lampada in mano. Non avevamo la luce elettrica, allora. Alla porta trovai il servo di Iversen, un giovanotto di circa diciotto anni. Era mezzo addormentato, e molto scosso. Mi guardò e non disse nulla. "Cosa c'è, ragazzo?", gli chiesi. "Signora Iversen mi ha mandato da lei, Signore. Per favore venire a casa; signor Iversen morto." "A che ora è morto, ragazzo; lo sai?" "Io no riuscito vedere che ora era, Signore. Madama Iversen venire svegliare me dove io dormire in stanza sul retro, Signore, e mandato a chiamare voi... Io penso lui morto un'ora fa, Signore." Mi rimisi le scarpe e gli altri vestiti, poi presi un bastone da passeggio marca St. Kettis Supplejack - gliene procurerò uno: è uno di quei bastoni da passeggio di legno di vite, molto utili nelle notti scure - e mi diressi verso Casa Iversen con il ragazzo. Quando giunsi vicino alla chiesa morava, vidi qualcosa sulla strada di fronte a noi, sul ciglio della strada. Erano più o meno le undici e un quarto, e le strade erano deserte. Quello che vidi mi incuriosì e volli fare una prova. Mi arrestai, e dissi al ragazzo di correre avanti e di dire alla signora I-
versen che sarei stato lì a momenti. Il ragazzo prese a trottare in avanti. Era un negro di razza pura, signor Lee, ma passò accanto a quello che io avevo visto senza neppure notarlo. Virò leggermente per evitarlo, e credo che forse in quel punto allungasse leggermente il passo, ma fu tutto.» «Cosa avevate visto?», chiese il signor Lee, interrompendo la narrazione. Aveva parlato con il fiato sospeso: il suo polmone sinistro non era ancora del tutto guarito. «Il Jumbee appeso», rispose il signor Da Silva, con il suo solito tono di voce. «Sì! Lì sul ciglio della strada vi erano i tre Jumbee. Vengono nominati nella Storia di Stewart McCann. Forse lei ha letto quel libro, vero?» Il signor Lee assentì, e il signor Da Silva recitò: «"Lì rimasero appesi, e nessun piolo di scala ne sosteneva i piedi penzolanti nel vuoto". «E c'è un'altra strofa nella Storia», riprese, sorridendo, «che descrive un tipico gruppo di Jumbee Appesi: "Una giovane, un ragazzo e una megera". Be', vi era il prescritto numero di Jumbee, che parevano penzolare nell'aria. Non vi era molta luce, ma riuscii a distinguere un ragazzo di circa dodici anni, una ragazza, e una vecchia rinsecchita, alla quale l'autore della Storia di Stewart McCann si riferiva con la parola "megera". A questo proposito, signor Lee, fu lui stesso a informarmi del fatto che aveva dato due piedi ai suoi Jumbee più che altro per esigenze metriche: una licenza poetica! Gli Jumbee Appesi non hanno piedi. È una delle loro caratteristiche. Le loro gambe terminano all'altezza delle caviglie. Hanno gambe sproporzionatamente lunghe e molto magre, gambe africane. Sono sempre neri, sapete? I loro piedi - quando ne hanno - sono sempre nascosti da una specie di nebbia che giace sul terreno ovunque li si veda. Si muovono di sbieco e ancheggiano, come fa un vero africano spostando il peso su un piede solo per far riposare l'altro oppure si grattano la caviglia che ne sostiene il peso con le dita dell'altro piede. Non dondolano come se pendessero da una corda: non è questo il significato del loro nome. Non ruotano sul loro asse. Ciò che è caratteristico è il fatto che fronteggiano sempre colui che si avvicina... sempre... Avanzai lentamente e li oltrepassai; e quelli mi fronteggiavano sempre. Ci sono abituato... Dopo essere salito lungo le scale della casa fino alla galleria sulla faccia-
ta, trovai la signora Iversen che mi aspettava. Vi era anche sua sorella con lei. Rimasi seduto con loro per quasi un'ora. Arrivarono anche due vecchie negre che erano state chiamate dalla campagna. Queste vecchie vengono chiamate a preparare i morti per la sepoltura. Poi convinsi le signore a ritirarsi, e mi accinsi a rincasare anch'io. Era passata da poco la mezzanotte: da circa un quarto d'ora. Presi il mio cappello dalla cappelliera su cui erano appesi tre o quattro cappelli appartenenti al povero Iversen, poi afferrai il bastone da passeggio, uscii dalla porta, e mi trovai nel piccolo loggiato in cima alle scale. Ci sono circa dodici o tredici gradini che portano dal loggiato alla strada. Mentre cominciavo a scendere, mi accorsi che una terza vecchia era seduta, tutta rannicchiata, sull'ultimo gradino, e mi volgeva le spalle. Pensai subito che doveva essere una compagna delle altre due; una delle preparatrici dei morti. Immaginai che forse aveva avuto paura a rimanere sola nella loro catapecchia, e quindi che le avesse accompagnate fino in città - sono come bambini per certi aspetti - poi, sentendosi troppo umile per poter entrare in casa, si fosse seduta ad aspettare sul gradino, e si fosse addormentata. Avrete certamente sentito quel proverbio, vero? Ce n'è uno che si adatta perfettamente alla situazione che mi ero prefigurato: "Lo scarafaggio non porta gli stivali che scricchiolano quando entra nel pollaio!". Significa: "Sii riservato quando sei in presenza dei tuoi superiori!". Piuttosto curioso! Povere donne! Cominciai a scendere i gradini e mi avvicinai alla vecchia. Una piccola falce di luna era salita in cielo mentre ero ancora seduto con le signore e, grazie a quella luce, tutto aveva l'aria ben definita e chiara. Vedevo la vecchia con la stessa nitidezza con cui vedo voi, signor Lee. Infatti vedevo il viso di quella povera creatura mentre scendevo le scale e intanto tentavo di trovare in tasca una monetina per dargliela: per il tabacco e lo zucchero, come si dice da queste parti! E mi chiedevo, nel frattempo, come mai non si fosse ancora alzata in piedi per fare uno di quegli strani piccoli inchini: "Lo scarafaggio si inchina alle galline", dice un vecchio proverbio. Pareva che la vecchia fosse caduta in un sonno profondo: infatti non si era mossa affatto, benché in circostanze normali avrebbe dovuto sentirmi. La notte era molto quieta, e la gente di qui ha un udito straordinariamente fine, come quello di un cane o di un gatto. Ricordo bene la fragranza che si levava dalle tuberose della signora Iversen piantate nei vasi sulla ringhiera
del loggiato, che si spandeva come un ruscello nella notte, "dando il benvenuto alla luna"! Era un profumo intensissimo. Signor Lee, quando mi voltai nuovamente a guardare lungo quelle scale dopo quello che fu poco più di un quinto di secondo di disattenzione, la vecchia negra rannicchiata sull'ultimo gradino, apparentemente addormentata, era sparita! Era svanita nel nulla! Inoltre, signor Lee, un piccolo cagnolino bianco, grande quanto un barboncino francese, stava salendo di corsa le scale e mi veniva incontro. Ad ogni saltello, ad ogni passo in avanti, il cane diventava più grande. Pareva ingigantirsi sotto i miei occhi. A quel punto cominciai ad avere veramente paura: ero letteralmente terrorizzato. Capivo che, se quell'"animale" fosse riuscito a toccarmi, sarei morto, di una morte assolutamente certa. La vecchietta era una "sheen"... chien, naturalmente. Lei avrà sentito parlare della licantropia - la trasformazione da uomo in lupo - naturalmente. Ebbene, quella era una delle forme in cui il fenomeno si manifesta. Non so che nome abbia. "Caninotropia", forse. Non lo so, ma è qualcosa... qualcosa di imparentato con la licantropia, un cugino di secondo grado in linea retta, signor Lee. La vecchia era un Cane-Mannaro! Naturalmente non ebbi il tempo per pensare, per cui dovetti affidarmi al mio istinto. Brandii il bastone da passeggio con tutta la forza di cui ero capace, e percossi con violenza la testa della bestia. A quel punto essa si trovava solo a un passo da me, e potevo vedere la debole luce lunare brillare sulla bava che le pendeva dalle fauci. In quell'attimo mi pareva grande quanto un cane di medie dimensioni: della taglia di un lupo, signor Lee, e di un colore bianco mortifero. Ero disperato, e la forza con cui lo colpii mi fece perdere l'equilibrio. Non caddi, ma mi ci vollero un paio di secondi per rimettermi in piedi. Quando sentii di nuovo la terra sotto i piedi, mi guardai attorno disperatamente, da tutte le parti, in cerca del "cane". Ma anch'esso, come la vecchia, era scomparso. Mi guardai attorno con pensieri che potete ben immaginare dopo una simile esperienza, alla luce chiara e fioca della luna. Per diversi metri attorno alla base delle scale non vi era un solo punto - nemmeno un buco - in cui il "cane" o la vecchia potevano essersi nascosti. Né vi era sul loggiato, largo solo pochi metri, e che era poco più di un pianerottolo. Poi mi giunse all'orecchio, ormai reso fino dalle esperienze di quella notte, un suono proveniente dalla piantagione che si stendeva sul retro della casa di Iversen: il suono attutito di piedi nudi. Qualcuno... qualcosa... stava
correndo disperatamente verso l'entroterra dell'isola, verso le colline, per rintanarvisi. Poi, alle mie spalle, le due vecchie incaricate di preparare il corpo di Iversen per il funerale, corsero fuori dalla casa. Erano molto scosse e gridavano concitatamente, senza che riuscissi a capirle. Dovrò darvi un'idea del loro modo di parlare. "O, Il Buon Dio vi protegga, Mister Jaffray, Signore... il Joombie, il Joombie! La 'Sheen', Mister Jaffray! Lui andato, Signore?" Rassicurai le povere vecchie, e ritornai verso casa.» Il signor Da Silva interruppe improvvisamente il racconto. Lentamente cambiò posizione, poi prese una sigaretta e l'accese. Il signor Lee rimase in un silenzio assoluto, e non si mosse. Il signor Da Silva riprese il discorso con calma. «Vedete, signor Lee, io credo che le Indie Occidentali siano diverse da ogni altro posto al mondo. L'ho affermato molte volte, benché non abbia mai lasciato le isole, tranne una volta da giovane, quando visitai Copenhagen. Le ho detto esattamente quel che accadde quella sera particolare.» Il signor Lee emise un sospiro. «La ringrazio, signor Da Silva, la ringrazio di cuore», mormorò soprapensiero, e si apprestò ad alzarsi in piedi. Il suo orologio militare indicava le sei. «Prendiamo assieme del swizzel fresco, almeno, prima che ve ne andiate», propose il signor Da Silva. «Da queste parti c'è un detto: "Un uomo non può viaggiare con una gamba sola!" Forse lo avete già sentito.» «L'ho sentito», rispose il signor Lee. «Knud, Knud! Mi senti, ragazzo? Knud: di' a Charlotte di spezzare un altro blocco di ghiaccio... Hai sentito? Fai presto!», ordinò il signor Da Silva. LA TIGRE MANNARA The Were-Tiger di Hugh Clifford The Further Side Of Silence, 1927 Anima morta prima che la vita finisca, Corpo che è corpo d'una Bestia, dotato di un cervello umano che osa e progetta, Eccomi pronto al banchetto!
Strappo, sbrano e uccido coi denti, gli artigli e le mascelle, e mi aggiro all'alba coi sensi all'erta, avvertendo persino quando cambia il vento. Anima che languisce nell'angoscia eterna, la tua vita è breve, quindi sarà meglio che tu ti affretti prima che le Forze del Male ti trascinino all'inferno. Il canto del Loup-Garou Se chiedete un'opinione sull'argomento a quella stimabile associazione di sapienti che è la Società per la Ricerca del Soprannaturale, essi vi risponderanno che il fatto che in ogni età si sia creduto ai fantasmi, alla magia e alle streghe, è già un elemento sufficiente per giustificare queste cose, e anzi, a rendere estremamente probabile la loro esistenza. Non sta certo a me o a quelli come me mettere in discussione l'opinione di questi saggi dell'Occidente, ma se i fantasmi, gli spettri, le streghe e i posseduti debbono esser dati per veri sulla base di questa osservazione, allora mi sia consentito, per lo stesso motivo, di sostenere la causa del Loup Garou, della Tigre Mannara e di tutta la loro famiglia sanguinaria. Ovunque ci siano bestie selvagge che predano i figli dell'uomo, si annida la credenza che i peggiori mangiatori di uomini, i più rapaci, siano proprio gli esseri umani stessi, che abbiano assunto temporaneamente una forma animale grazie alla Magia Nera, per soddisfare la loro inestinguibile sete di sangue. Questa credenza cerca di spiegare la grandissima sete di sangue di una bestia facendone risalire l'origine a un essere umano, e sembrerebbe basarsi su una constatazione molto cinica del carattere sanguinario della nostra specie. L'uomo, sia bianco che scuro, sia giallo che nero, ha trovato ognuno per strade diverse la stessa spiegazione del medesimo fenomeno. Tutte le razze umane approvano quindi quel proverbio malese, il quale dice che siamo tutti come il pesce toman, che preda i propri simili. Questa opinione, che è generalmente accettata, sembra credibile proprio per il fatto che non è per nulla lusinghiera nei confronti di coloro che l'hanno formulata. La gente ignorante e volgare potrebbe pensare che essa è il fondamento della credenza di cui sto parlando, se non vi fosse anche il verdetto di quella Società per la Ricerca del Soprannaturale di cui vi parlavo
poc'anzi. Inchinandoci di fronte a tale autorità, dobbiamo accettare il Loup Garou e tutta la sua genìa come realtà incontestabili. Non dobbiamo quindi attribuire il Loup Garou - come invece abbiamo teso a fare - a una paura mortale delle bestie selvagge unita alla conoscenza approfondita degli aspetti spiacevoli della natura umana primordiale. I dotti europei che vivono in una terra dove persino la natura, ove possa esser vista dalle case, reca i segni profondi dell'azione dell'uomo, tendono a pensare che l'Età della Superstizione è stata ormai relegata nella soffitta del passato. Di tanto in tanto si risvegliano da questi pensieri, quando una strega viene torturata in una capanna da un bog (mostro simile ad un orso) irlandese; ma nemmeno un tale fatto che si verifica così vicino alle loro case basta per far loro uscire di mente del tutto questa opinione preconcetta. Il vero problema è che non riescono a liberarsi dall'idea che il mondo è tutto popolato di dotti europei come loro, e da qualche altra persona di minore importanza. Non si rendono conto che numericamente essi non sono che una goccia nel mare dell'umanità. Ma, d'altra parte, è possibile sapere una cosa molto bene, ma non rendersene nemmeno conto. Così, si sono formati questa opinione del tutto sbagliata. Infatti, in realtà, l'Età della Superstizione dura oggi come quando negli anni passati le streghe venivano bruciate a Smithfield, oppure morivano coi polmoni pieni d'acqua, legate a una panca che veniva immersa nell'acqua. Nelle zone più remote della penisola malese viviamo ancora nel Medio Evo, e conserviamo tutte le connotazioni proprie dei Secoli Bui. La magia e gli spiriti maligni, la stregoneria, le fatture e i filtri d'amore, gli amuleti e gli incantesimi, costituiscono per l'indigeno una realtà di vita quotidiana, come lo sono il miracolo della crescita del riso e i misteri della riproduzione delle specie. Questo non solo dev'essere noto, ma accettato, sia come teoria che come fatto, se si vuole capire e apprezzare la visione della vita degli indigeni. I racconti del Fantastico e del Soprannaturale provocano interesse e paura in un malese, ma certo non sorpresa. Ogni malese sa che in passato sono accadute cose strane, e continuano a succedere ogni giorno a lui e ai suoi compagni. Ad alcuni capita di essere colpiti da un fulmine, mentre altri scampano indenni; accade inoltre che alcuni facciano delle strane esperienze, mentre altri vivono e muoiono senza essere mai toccati dal Sopran-
naturale. Nella percezione del malese, i due casi sono del tutto paralleli e, sebbene possano essere entrambi un argomento di discussione, e provocare paura e sbigottimento, nessuno dei due può essere considerato un fenomeno senza precedenti, tale da provocare sorpresa e meraviglia. Quindi, per un indigeno, l'esistenza del Loup Garou malese è un fatto, non una semplice credenza. Il malese sa che è una realtà. Se ci fosse bisogno di prove, se ne potrebbero trovare moltissime: la testimonianza di uomini assennati le cui parole, pronunciate in un tribunale, convincerebbero anche la giuria più ostinata a emettere una condanna, e sarebbero più che sufficienti a far impiccare anche il più innocente degli imputati. I Malesi sanno bene che Haji Abdallah, indigeno del piccolo stato di Korinchi a Sumatra, fu trovato nudo in una trappola per le tigri, e tornò libero solo dopo aver risarcito il prezzo dei bufali che aveva sbranato dopo aver assunto le sembianze di una tigre. Sanno che innumerevoli uomini di Korinchi hanno vomitato piume dopo aver mangiato dei polli, anch'essi dopo aver assunto le sembianze di una tigre. Altri uomini della stessa razza hanno abbandonato vesti e masserizie sul ciglio della strada per lanciarsi nella boscaglia, dalla quale poco dopo usciva una tigre. I Malesi sanno che tutti questi fatti sono successi, e continuano ad accadere anche oggi nella terra in cui vivono. Di fronte a queste prove schiaccianti e evidenti, le vuote assicurazioni dei dotti europei che le Tigri Mannare non esistono e non sono mai esistite, non fanno che provocare derisione e una certa dose di disprezzo. La Valle Stretta si trova fra le colline che dividono Pahang da Perak. È popolata da Malesi di diverse razze. Vi sono i Rawa e i Menengkabau di Sumatra, gente che usa titoli altisonanti e vanterie per nascondere la sua estrema povertà. Vi sono i Perak che vengono dalla ridente Valle Kinta, che cercano metalli o diventano bravi commercianti. C'è gente fuggita da Pahang, che si è stabilita da tempo in questa zona, e la feccia di Giava, di Sumatra e della Penisola. Fu in questo luogo che udii il racconto sulla Tigre Mannara che qui riporto. Mi fu raccontato da Penghulu Mat Saleh, che a quel tempo era, e forse lo è ancora, il capo di questa varia umanità. Qualche anno fa giunse nella Valle Stretta un mercante Korinchi chiamato Haji Ali con i suoi due figli, Abdulrahman e Abas. Come usa fare quella gente, giunsero con un pesante carico di sarong - il costume o perizoma degli indigeni - attraversando la foresta e i villaggi in fila indiana. Vendevano la loro merce agli indigeni del luogo, con dei trucchi astuti e mercanteggiando senza pietà.
Benché fossero venuti per commerciare, rimasero anche dopo che ebbero venduto tutto, perché ad Haji Ali quel luogo piaceva. Comprò un pezzo di terra, e si mise all'opera con i suoi due figli piantando noci di cocco e riso. Era gente beneducata e tranquilla che andava alla moschea ogni venerdì per le preghiere collettive e, siccome erano ricchi, furono subito benvoluti dai loro vicini più poveri. Così accadde che, quando Haji Ali fece sapere che desiderava prendere moglie, ci fu un certo trambusto fra i genitori di ragazze da marito e, benché egli avesse ormai superato la mezza età, Haji Ali ebbe diverse proposte fra cui scegliere. La ragazza che scelse si chiamava Patimah. I suoi genitori erano poveri contadini che si guadagnavano da vivere coltivando i campi in uno dei villaggi confinanti. Era una fanciulla graziosa, grassoccia e rotonda, di carnagione chiara. Aveva un viso felice che avrebbe rallegrato suo marito, e delle dita abili per servirlo. Fu pagata la dote, e per l'occasione fu dato un banchetto di dimensioni proporzionate alle ricchezze di Haji Ali. Dopo che fu trascorso un tempo conveniente, la sposa fu portata alla casa di suo marito, fra i frutteti e le palme. Di solito, in quei paesi è tradizione che lo sposo rimanga in casa del suocero per molto tempo dopo il matrimonio, ma Haji Ali possedeva già una bella casa di vimini e fango, dipinta di bianco e di nero e con un tetto di paglia spessa. Inoltre, Haji Ali aveva sposato la figlia di un povero, quindi poteva dettare condizioni sia a lei che ai genitori. La fanciulla obbedì abbastanza volentieri: in fondo lasciava la povertà per la ricchezza, una misera capanna per una bella casa. Avrebbe inoltre lasciato i genitori che sapevano come farla lavorare fino a consumare anche l'ultimo briciolo di forze che aveva, per unirsi a un marito che sembrava gentile, indulgente e generoso. Nonostante ciò, tre giorni più tardi fu vista battere i pugni sulla porta dei suoi genitori all'alba: tremava, aveva i capelli in disordine e gli abiti zuppi della rugiada che bagnava gli sterpi tra i quali aveva corso. Aveva gli occhi dilatati dall'orrore, ed era pazza di paura. La storia che raccontò - il primo atto del dramma della Tigre Mannara di Valle Stretta - era questa, anche se non cercherò di ripetere le parole o il tono in cui lei la raccontò, a tratti e fra i singhiozzi, ai propri genitori sbigottiti. La ragazza era giunta nella casa di Haji Ali, dove egli abitava con i suoi
figli, Abdulrahman e Abas, e tutti erano stati molto cortesi e gentili con lei. Il primo giorno aveva cucinato male il riso e, benché i due giovani si fossero lamentati, Haji Ali non l'aveva rimproverata: lei, invece, si aspettava di essere picchiata, cosa che sarebbe successa a molte altre mogli in un caso simile. Non aveva nulla da lamentarsi per ciò che riguardava la gentilezza usatale da suo marito, ma nonostante ciò era fuggita dalla sua casa, e i suoi genitori, disse, potevano anche «impiccarla, venderla in terra straniera, farla bruciare ai raggi del sole, immergerla nell'acqua o arderla col fuoco», ma non sarebbe mai tornata da un uomo che era una Tigre Mannara e andava a caccia di notte. Tutte le sere, dopo la preghiera, Haji Ali usciva con un pretesto e non tornava che un'ora dopo l'alba. Per due volte non si era accorta del suo ritorno perché lo aveva visto steso accanto a lei sulla stuoia. Ma la terza sera era rimasta sveglia finché un rumore le disse che suo marito si stava avvicinando. Si era allora affrettata a togliere la sbarra dalla porta, che aveva abbassato non appena Abas ed Abdulrahman si erano addormentati. La luna era coperta da una nuvola e la sua luce era fioca, ma Patimah vide chiaramente qualcosa che l'aveva fatta impazzire di terrore. Sull'ultimo piolo della scala che in quella casa, come in tutte le case malesi, portava da terra alla porta d'ingresso, c'era la testa di una tigre adulta. Patimah aveva visto le strisce nere smagliarsi sul pelo, le vibrisse diritte, i denti lunghi e crudeli, e la luce verde e feroce negli occhi della bestia. Due zampe rotonde con gli artigli lunghi e ricurvi, in parte retratti, erano posate sul piolo ai due lati della testa del mostro. La parte inferiore del corpo della tigre era così corto che alla ragazza sembrò il corpo di un uomo. Patimah, con la tigre a circa un metro da lei, rimase imbambolata a fissare l'animale, paralizzata dal terrore e incapace di urlare. Vide quella creatura trasformarsi piano piano ai suoi piedi. Come un'onda provocata dal vento percorre lentamente uno specchio d'acqua, così il muso della tigre mutò, finché la fanciulla vide il volto di suo marito emergere dal muso della bestia, come la faccia di un tuffatore che torna a galla. Un attimo dopo, Patimah vide che Haji Ali stava salendo la scala per entrare a casa, e l'incantesimo che l'aveva immobilizzata si ruppe. La prima cosa che fece dopo aver riacquistato il controllo dei sensi, fu di lanciarsi fuori dalla casa, passando accanto a suo marito, e gettarsi nella giungla che circondava la casa. I Malesi non amano camminare soli nella giungla nemmeno in pieno giorno, e in una situazione normale non sarebbe stato possibile convincere
una donna a farlo. Ma Patimah era folle di paura per ciò che aveva lasciato dietro di sé e, benché fosse sola, la luce della luna fosse fioca, e l'alba ancora lontana, preferiva il ventre oscuro della foresta alla casa di suo marito, la Tigre Mannara. Così si fece largo nella boscaglia, strappandosi le vesti e le carni, inciampando nei rampicanti e nei tronchi nascosti, e inzuppandosi completamente con la rugiada che cadeva dalle foglie e dall'erba che toccava. Poco prima dell'alba, come ho detto, raggiunse la casa di suo padre, e lì raccontò la sua strana avventura. La notizia di ciò che era accaduto si sparse presto di villaggio in villaggio, e i genitori delle ragazze da marito, che erano stati delusi dalla scelta di Haji Ali, gioirono ed ebbero cura di dire alla mamma e al papà di Patimah di aver sempre saputo che sarebbe accaduto qualcosa del genere. Haji Ali non fece nulla per riprendersi sua moglie, un fatto questo che i suoi vicini presero come una conferma della storia di Patimah: cominciarono infatti ad evitare lui e i suoi figli, al punto che questi presto furono costretti a vivere quasi completamente isolati. Ma l'atto finale del dramma della Tigre Mannara della Valle Stretta doveva ancora avere luogo. Una notte, un bufalo giovane e robusto, di proprietà di Penghulu Mat Saleh, il Capo, fu ucciso da una tigre, e il proprietario, senza farne parola a nessuno, sistemò sopra la carcassa un ingegnoso fucile a molla. Dei fili erano stati messi in modo che, se la tigre fosse tornata per finire il suo pasto, che aveva iniziato con un paio di morsi frettolosi ai quarti posteriori della vittima, sarebbe stata sicuramente ferita o uccisa dai proiettili e dai bulloni con i quali Penghulu aveva caricato l'arma. La notte seguente, un paio d'ore prima dell'alba, uno sparo risuonò nella quiete della foresta, informando Penghulu Mat Saleh che qualche bestia aveva toccato i fili della trappola. Probabilmente si trattava della tigre ma, se era stata ferita, non era consigliabile andarla a cercare al buio. Così, Penghulu Mat Saleh aspettò l'alba. Un villaggio malese si sveglia poco dopo l'alba. Appena c'è abbastanza luce per vedere dove si mettono i piedi, le porte delle abitazioni si aprono una ad una, e gli abitanti del villaggio ne escono avvolti fino al mento nei sarong o nei lenzuoli. Si dirigono alla sponda del fiume per fare le abluzioni del mattino, oppure si fermano semplicemente in riva al fiume, con lo sguardo fisso nel vuoto, figurine nere che si stagliano contro la rossa aurora malese. Solo quando il sole comincia a levarsi in cielo, le abluzioni
sono state fatte con attenzione, e il sonno del mattino ha ormai abbandonato le palpebre, la gente del villaggio comincia a occuparsi delle faccende giornaliere. Penghulu Mat Saleh quel giorno si alzò e si comportò come ogni mattino prima di radunare un gruppo di Malesi che lo aiutassero a cercare la tigre ferita. Non fu difficile trovare degli uomini disposti a dividere con lui l'emozione di quell'avventura e, poco dopo, si mise in marcia col suo gruppo di quasi una dozzina d'uomini malvestiti, armati di due fucili e di parecchie lance e kriss. Giunsero nel punto in cui era stata preparata la trappola, e videro che senza alcun dubbio la tigre era tornata a mangiare la sua preda. C'erano le impronte ancora fresche delle sue grosse zampe. Inoltre, accanto alla carcassa del bufalo, c'era un punto in cui la terra era smossa e l'erba era macchiata abbondantemente di sangue: lo sparo era andato a segno. Penghulu Mat Saleh e i suoi uomini si misero subito sulle tracce della tigre ferita. Non era difficile, poiché l'animale camminava su tre zampe, trascinandosi dietro l'arto ferito e inservibile. Di quando in quando, trovavano un grumo di sangue che si stagliava rosso fra le foglie e l'erba zuppa di rugiada. Tuttavia, Penghulu e i suoi uomini procedevano lentamente e con molta cautela. Sapevano che una tigre ferita non è mai una bestia con la quale si potrebbe far giocare un bambino, e sapevano anche che, nonostante camminasse solo con tre gambe, poteva ugualmente portare con sé nel mondo delle tenebre un buon numero di esseri umani. Le tracce attraversavano la boscaglia in cui era stata messa la carcassa del bufalo e poi s'inoltravano in una zona di giungla che costeggiava il fiume per qualche centinaio di metri sopra il villaggio di Penghulu Mat Saleh, e correva fino a Kaala Chin Lama, una mezza dozzina di miglia più avanti. La tigre si era inoltrata in quel tratto di giungla e aveva risalito il fiume. Dopo circa mezzo miglio, aveva imboccato uno stretto sentiero. Quando Penghulu Mat Saleh giunse al sentiero, si fermò e si rivolse alla sua gente. «Fratelli, sapete dove conduce questo sentiero?», chiese loro, sussurrando. Gli uomini assentirono col capo, senza dir nulla. Era sufficiente uno sguardo per capire quanto fossero ansiosi e a disagio. «Cosa ne pensate?», disse poi Penghulu. «Continuiamo a seguire questa traccia?»
«Come desideri, Penghulu», disse l'uomo più anziano del gruppo, parlando per tutti. «Noi ti seguiremo ovunque tu vada.» «Molto bene!», disse Penghulu. «Andiamo, dunque!» Dopo queste poche parole sussurrate, non ve ne furono altre, e il gruppo ricominciò a seguire la traccia con prudenza raddoppiata. Il sottile sentiero percorso dalla tigre ferita, conduceva verso la sponda del fiume, e poco dopo apparve fra gli alberi l'alta palizzata di bambù e fango di una casa indigena. Penghulu Mat Saleh indicò la palizzata. Non disse altro che «guardate!», poi il gruppo riprese il cammino, sempre sulle tracce della tigre, seguendo le gocce rosse sull'erba. Le macchie di sangue li condussero al cancello della palizzata, e poi al laman, o spazio aperto di fronte alla casa. Le tracce della tigre zoppicante finivano in un punto in cui i fili dell'erba lalang erano stati schiacciati da qualcosa di pesante. Nello stesso punto c'era una vera e propria pozza di sangue. Nessuna traccia si dipartiva da quel punto, tranne quelle di esseri umani che avevano calpestato l'erba che copre la terra in qualsiasi terreno recintato malese. Penghulu Mat Saleh disse di nuovo: «Guardate! Andiamo: saliamo in casa». Così dicendo, cominciò a salire la scala dell'abitazione di Haji Ali e dei suoi due figli Abas ed Abdulrahman, dalla quale uno o due mesi prima Patimah era fuggita nottetempo con gli occhi pieni di una paura mortale, sulle labbra il racconto sconnesso di una strana vicenda. Penghulu Mat Saleh e i suoi uomini trovarono Abas seduto a gambe incrociate nell'appartamento esterno, intento a preparare un infuso di noce di betel con cura meticolosa. Gli ospiti si sedettero sulle stuoie e, dopo aver recitato i saluti di rito, Penghulu Mat Saleh disse: «Sono venuto per vedere tuo padre. È in casa?». «È in casa», disse Abas, laconico. «Se è così, vorrei rendergli noto che desidero parlargli.» «Mio padre è malato», disse Abas con aria grave, e a quelle parole fra la gente di Penghulu Mat Saleh corse un brivido di eccitazione. «Cos'è quella chiazza di sangue fra l'erba lalang davanti alla casa?», chiese Penghulu con aria di voler conversare, dopo una breve pausa. «Ieri sera abbiamo ucciso una capra», rispose Abas. «Abas, ne hai la pelle?», chiese Penghulu. «Perché sto cambiando la pelle ai miei tamburi, e vorrei comprarla.» «La pelle era rognosa, e l'abbiamo gettata nel fiume», disse Abas.
«Cos'ha tuo padre, Abas?», chiese Penghulu, tornando alla carica. «È malato», disse improvvisamente una voce proveniente dalla porta chiusa da una tenda che conduceva all'appartamento interno. La voce apparteneva al figlio maggiore, Abdulrahman. In mano teneva una spada e, mentre pronunciava queste parole con l'accento duro e rasposo della gente Korinchi, una brutta espressione si impossessò del suo viso. Sempre stando in piedi accanto alla porta, disse: «È malato, Penghulu, e il rumore delle tue parole lo disturba. Vuole dormire e stare tranquillo. Esci da questa casa, poiché egli non può riceverti. Da' ascolto a queste mie parole!». I modi e le parole di Abdulrahman erano così rudi e pieni di sfida, che Penghulu capì che doveva scegliere tra uno scontro, che avrebbe sicuramente prodotto uno spargimento di sangue, e una ritirata in tutta fretta. Era un uomo vecchio e mite, e riceveva uno stipendio mensile dal governo di Perak. Inoltre, sapeva bene che gli uomini bianchi che reggevano le sorti di Perak erano contrari agli omicidi e al sangue, anche se la persona uccisa era un mago o il figlio di un mago. Quindi, decise che sarebbe stato meglio battere in ritirata. Mentre scendevano la scala che era fuori dalla porta, Mat Takir, uno degli uomini di Penghulu, lo tirò per la manica e indicò un punto sotto la casa. Proprio sotto il punto in cui si poteva pensare giacesse su una stuoia malato Haji Ali, la terra era macchiata da una chiazza rossa di circa quindici centimetri di circonferenza. I pavimenti delle case malesi sono fatti di doghe di legno o di bambù parallele e leggermente spaziate. Ciò è molto comodo perché così tutta la zona sotto la casa può essere usata per gettare liquidi o rifiuti in generale. Quella macchia rossa sembrava sangue, e non solo: poteva sembrare il sangue di qualcuno all'interno della casa, di una ferita che era stata lavata e medicata di recente. Poteva anche essere il succo rosso della noce di betel, sebbene le macchie di questa noce raramente siano così grandi. Ma di qualsiasi cosa si trattasse, Penghulu e i suoi uomini non ebbero occasione di esaminarla più da vicino, perché Abdulrahman e Abas li seguirono fin fuori dal recinto, e poi sbarrarono il cancello. Poi Penghulu andò a raccontare la sua storia all'Ufficiale del Distretto, l'uomo bianco che era il responsabile della zona della Valle Stretta. Ci andò di malavoglia, poiché gli europei sono scettici riguardo a tali storie. Al suo ritorno, circa cinque giorni più tardi, trovò che Haji Ali era sparito, portando con sé i suoi figli. Erano fuggiti sul fiume di notte, senza avvertire nessuno della loro partenza. Non avevano raccolto le messi dei campi,
che ora erano mature, né avevano venduto la casa e il terreno circostante, che erano stati comprati con denaro sonante, «dollari dei più bianchi», come direbbe un malese. Non si erano nemmeno fatti pagare i debiti. Questi sono i fatti. E, a chi conosce l'amore per le ricchezze e per le proprietà che alberga nel petto di ogni malese, sembrerà il fatto più strano di tutti questi accadimenti che costituiscono il dramma della Tigre Mannara di Valle Stretta. Per la mentalità europea, c'è solo una spiegazione possibile. Haji Ali e i suoi figli erano stati uccisi, ed era stata inventata una storia fantasiosa per giustificarne la sparizione. Questa spiegazione è invero molto plausibile e molto astuta, e rivela una profonda conoscenza della natura umana. Io sarei quasi incline ad accettarla come la spiegazione esatta, se non fosse per il fatto che Haji Ali e i suoi figli dopo qualche mese ricomparvero in un'altra zona della Penisola. Non avevano nulla che li distinguesse dagli altri, se non che Haji Ali era zoppo della gamba destra. LA DONNA GATTO The Cat Woman di Mary Elizabeth Counselman Weird Tales, ottobre 1933 La prima volta che sentii parlare di Mademoiselle Gatta Bianca (la chiamerò così, dal momento che non ricordo il suo vero nome) fu grazie all'assurdo e incoerente racconto con cui mi intrattenne la padrona di casa. «Lei non è come noi», mi confidò l'anziana signora, parlando a bassa voce e lanciando trepide occhiate al di sopra delle spalle. «C'è qualcosa di animalesco nel suo aspetto! Non mi piace per niente. E i suoi occhi... sono pieni di malvagità!...» Repressi a stento un sorriso. «Oh, signora Bates, non sarà poi così cattiva...», le dissi, in tono pacato. «E dite che costei vive proprio di fronte alla mia camera? Be', sono curioso di fare la sua conoscenza...» «Non ne caverete nulla di buono, signor Harper, se avrete a che fare con lei», mi avvertì la donna; poi si allontanò con andatura dondolante, scuotendo ritmicamente il capo. Fu soltanto durante la mia seconda notte di permanenza alla Pensione Bates, comunque, che ebbi modo di incontrare la donna tanto diffamata. Ero rientrato tardi da teatro, e stavo armeggiando maldestramente con le chiavi, quando un cigolìo alle mie spalle mi indusse a girarmi di scatto e a
sollevare lo sguardo. Una donna, alta e decisamente formosa, stava ritta sulla soglia semiaperta, proprio di fronte a me. Era molto, molto attraente, e i suoi squisiti lineamenti erano sormontati da una corta capigliatura biondo cenere. C'era qualcosa nella sua figura - non so essere più preciso, anche se suppongo fosse in gran parte per via dei suoi tondi occhi verdi - che mi fece pensare immediatamente a un gatto. Mi tolsi il cappello con un gesto un tantino nervoso, e borbottai una scusa per averla disturbata a quell'ora. Lei non rispose; rimase invece a osservarmi, nella tenue luce del corridoio, con quei suoi occhioni verdi. Aprii la bocca per aggiungere qualcosa, ma subito la richiusi. Quindi mi girai, sentendomi arrossire, e continuai ad armeggiare con la serratura. All'improvviso udii provenire da dietro le mie spalle un sommesso ronzio, simile a quello di un ventilatore, anche se molto più debole. Tornai a voltare il capo, e allora mi accorsi che la donna si era ritirata nel suo appartamento; doveva essersi mossa in maniera estremamente felpata, dato che non avevo affatto sentito i suoi passi allontanarsi. La sua porta, però, era rimasta socchiusa, e sulla soglia vidi un grosso gatto bianco che si stava profondendo in sonore fusa: quello era il ronzio che avevo udito! «Salve, micetto», bisbigliai, tendendo una mano. La bestiola si dimostrò molto socievole, poiché si avvicinò subito cominciando a strusciarsi contro le mie gambe, tra fusa sempre più energiche. Lo coccolai per qualche secondo; poi, finalmente, riuscii ad aprire la porta, entrai, mi richiusi l'uscio alle spalle e accesi la luce. Una forma bianca attirò subitamente la mia attenzione verso il pavimento: il gatto, senza che me ne fossi minimamente accorto, era riuscito a intrufolarsi all'interno assieme a me. Gli accarezzai il capo come solitamente i gatti amano sentirsi fare, poi lo sollevai e andai a bussare, timidamente, alla porta della sua padrona. Non ricevetti risposta. Bussai di nuovo, e poi ancora, un po' più deciso. Neppure alla terza volta mi andò meglio. La donna doveva essere uscita, oppure era già a letto, mi dissi; dunque, spingendo dolcemente la porta, lasciai scivolare dentro il gatto, e poi richiusi. Tornato nella mia stanza, mi infilai senza esitare sotto le lenzuola e non ci pensai più. Un paio d'ore più tardi, fui svegliato da qualcosa che gravava sopra i miei piedi. Mi sollevai a sedere e, tastando con una mano sopra le coperte, incontrai un corpo caldo e peloso. Accesi velocemente la lampada sul co-
modino, e allora vidi il gatto beatamente arrotolato in fondo al letto. Doveva essersi introdotto passando per la finestra. Con un sorrisetto sulle labbra ritornai quindi al mio sonno interrotto, ripromettendomi di restituire l'animale alla mia stravagante vicina il mattino dopo. Fu così che il giorno seguente mi recai a bussare nuovamente alla porta della dirimpettaia e, non ricevendo risposta neppure quella volta, feci entrare solo il gatto, come la notte precedente. Soltanto mentre mi stavo preparando per uscire notai, non senza una certa sorpresa, che tutte le finestre del mio appartamento erano chiuse. Ricordavo perfettamente di avere anche chiuso a chiave la porta, prima di coricarmi, contro la sgradita evenienza di visite indesiderate. Allora: com'era riuscito a entrare, quel gatto? Quando feci ritorno alla pensione, ero ancora impegnato a rimuginare su quella curiosa faccenda. La signora Bates stava pulendo le scale, e allora mi fermai un istante per scambiare due parole. Nuovamente, lei mi parlò della mia strana vicina, e non tralasciò neppure di rimettermi in guardia contro di lei. Sorrisi. «L'ho vista giusto ieri sera, sul tardi. Davvero graziosa, non trova?» La padrona scosse la testa con veemenza, e sollevò gli occhi al cielo. «E ha uno splendido gattone bianco!», aggiunsi. La donna si irrigidì. «Un gatto?», esclamò. «Qui non è permesso tenere animali! Gliene parlerò alla prima occasione!» A quelle parole, l'ingresso della pensione si aprì, e la mia vicina ci venne incontro. Rimasi di nuovo impressionato dalla sua non comune bellezza e dalla grazia decisamente felina che trasudava da ogni suo movimento. E ancora una volta mi venne spontaneo associarla, nella mia mente, a un sinuoso gatto ben nutrito. «Mi è stato riferito che tenete un gatto in camera, signorina», l'attaccò subito la padrona, in tono sgradevole. «Pensavo di essere stata chiara...» Mademoiselle Gatta Bianca puntò i suoi grandi occhi verdi contro l'interlocutrice. «Io non ho gatti», rispose freddamente. La sua voce, comunque, suonò profonda e musicale, con uno strano accento... No, non era francese, e non mi ricordò alcuna inflessione che avessi mai udito. La signora Bates assunse uno sguardo torvo.
«Ma il signor Harper mi ha appena detto...» «Mi dispiace», intervenni prontamente. «Si è trattato certamente di un gatto randagio. L'ho visto vicino alla sua porta, e così ho pensato...» Ma le parole mi si impastarono in bocca. Quegli occhi di smeraldo fissi su di me mi fecero scordare ciò che intendevo dire. «D'accordo. Va tutto bene», sussurrò allora dolcemente, e senza dire un'altra parola si avviò lungo le scale, verso la sua stanza. Dopo un attimo di perplessità, decisi di precipitarmi dietro di lei. La trovai immobile sulla soglia, in silenzio, come se mi stesse aspettando, mentre mi osservava con uno sguardo imperscrutabile. «Sono terribilmente costernato», cominciai, sforzandomi di evitare i suoi occhi. «Vedete, ho messo il gatto...» Improvvisamente lei fece un passo verso di me, chiuse languidamente gli occhi, e con mio vivo stupore prese a strofinare con dolcezza il capo contro la mia spalla! La prima cosa a cui pensai, fu che probabilmente quelle erano le moine di una scaltra ragazza da marciapiede, solo più raffinata delle sue sguaiate e malvestite «colleghe». Ma poi quella prosaica idea dovette cedere il passo a una consapevolezza ben più sinistra che mi avvolse come un sudario gelato: quella non era una donna, non era un essere del tutto umano... era un gatto! Mi distolsi bruscamente da lei, e mi rifugiai tremando nella mia stanza; ricordo comunque di aver udito un sordo e continuo vibrare di fusa sgorgare dalle profondità della sua gola! Attraversai la stanza e presi a guardare fuori dalla finestra, tentando di riprendermi dallo shock; e fu allora che percepii qualcosa strusciarsi contro le mie calze. Era il gatto bianco, con il dorso peloso inarcato per la soddisfazione, e mi stava dedicando una serenata di fusa. Non ero affatto dell'umore per apprezzare qualunque cosa potesse ricordare anche lontanamente un gatto; ma la sua furbizia ebbe infine la meglio su di me, e così mi ritrovai nonostante tutto a giocherellare con lui. Improvvisai una pallina con un po' di spago, lanciandola lungo il pavimento; l'animale la rincorse, divertendosi a farsela saltellare fra le zampette. Fu così che in breve scordai del tutto quello sgradevole incontro con Mademoiselle Gatta Bianca, e riuscii a spassarmela per un po' con quell'imprevisto visitatore peloso. Ma il nostro gioco venne interrotto da un colpo alla porta e da una voce piuttosto familiare. Era la signora Bates. Non appena l'ebbi fatta entrare, il sorrisetto che aleggiava sulle sue lab-
bra svanì di colpo. «Oh, quello dev'essere il vostro gatto bianco, non è vero? Non mi sono mai piaciute, quelle bestiacce... Pussa via!» Il gatto si rannicchiò su se stesso, spaventato, incapace di muoversi, e allora la donna lo afferrò come un fulmine per la collottola e lo lanciò fuori dalla finestra, in mezzo al fango del vialetto. «Ecco fatto!», commentò trionfante. «Forse adesso se ne andrà per sempre!» Dopodiché, la signora Bates si trattenne sulla soglia per dirmi qualcosa a proposito della pigione; ascoltai distrattamente poi, ad un tratto, vidi Mademoiselle Gatta Bianca dietro di lei, nel corridoio. Era curiosamente imbrattata di terriccio e fanghiglia, e fissò la padrona di casa con un tale odio negli occhi che non potei non rabbrividire. Fu solo un attimo; poi, scomparve nella sua stanza. Il mattino seguente, durante la colazione (io mangiavo da solo, dal momento che dovevo uscire prima degli altri inquilini), notai che il volto della signora Bates era per metà nascosto da una benda di garza fissata con cerotti, sotto la quale faceva capolino una rossa chiazza di mercuriocromo. «Che diavolo vi è successo al viso?», le domandai quando si fu avvicinata al tavolo per servirmi. «Un gatto è entrato nella mia camera, questa notte», si lagnò. «Ed era lo stesso, quello grande, bianco! È saltato sul letto e, prima che avessi il tempo di ricacciarlo fuori, mi ha graffiato come un ossesso. Ho tentato di colpirlo con la scopa, ma è fuggito. Ho sempre detestato i gatti... dannate bestiacce!» E continuò a ciarlare finché non me ne fui andato. Rividi Mademoiselle Gatta Bianca solo due giorni dopo. Confesso di averla evitata, lungo il corridoio; e, siccome mangiavamo in orari differenti, non avevamo altre occasioni per incontrarci. Ma quel pomeriggio la trovai ritta sulla soglia della sua stanza, intenta a fissarmi mentre mi avvicinavo. Ebbi la netta impressione che si stesse apprestando a ripetere quella sorta di strusciamento felino contro di me, per cui accennai un secco saluto con il capo e mi infilai diritto nella mia camera. Mi trovai così ad inciampare contro qualcosa di soffice e vibrante... Ancora una volta, dunque, quel gatto bianco cominciò a strofinarsi affettuosamente contro le mie gambe, in un mare di fusa. Un'idea, istintivamente, mi indusse a voltarmi verso la ragazza che stava ritta sulla soglia alle mie spalle, con l'inesplicabile certezza che non ve l'avrei trovata.
Infatti, non c'era più. Richiusi la porta con un inquietante presentimento, una cupa sensazione che comunque il candido micione ebbe il potere di dissipare ben presto con le sue divertenti capriole. Giocammo insieme per un po', finché - come la volta precedente - fummo interrotti da alcuni colpi alla porta e dalla voce della signora Bates. Il gatto parve intuire di chi si trattava, poiché subito cominciò a soffiare e sibilare minacciosamente mentre la pelliccia gli si arruffava sul dorso. Quindi si voltò di scatto, terrorizzato, e fuggì attraverso la finestra aperta. Saltando, però, una delle sue zampe sbatté contro lo stipite di legno; mi affacciai subito per verificare se la bestiola fosse atterrata malamente, ma ciò che vidi subito fu un grosso corpo scuro precipitarsi lungo il vialetto e avventarsi contro il povero gatto. Quello cominciò a lottare selvaggiamente, ma non aveva la minima possibilità di sconfiggere il mastino. Vidi l'enorme cane azzannare per due volte il mio sventurato piccolo amico, il cui disperato rauco miagolio mi parve molto simile a un gemito umano. Un attimo più tardi, la signora Bates ed io ci trovammo sotto gli occhi il corpicino dal bianco manto insanguinato, disteso immobile nel fango. A me, sinceramente, è sempre parsa molto più di una semplice coincidenza il fatto che da quel giorno Mademoiselle Gatta Bianca fosse letteralmente sparita, dissolta come fumo, senza una sola parola di commiato (e come ebbe più volte a ripetere la signora Bates, senza pagare la pigione). La cosa più inspiegabile, comunque, fu che se ne andò lasciando tutto ciò che possedeva nella stanza, e la padrona di casa - anche se non lo ammise mai - poté rivalersi sui suoi oggetti personali ottenendo un ricavo ben più sostanzioso di quanto le fosse dovuto. I vestiti, i cappelli, le scarpe, gli articoli cosmetici: nulla di tutto ciò fu mai ritirato dalla legittima proprietaria. La padrona di casa, inoltre, non poté non notare un oggettino davvero strano, uno di quei manufatti che certe vecchie signore confezionano amorevolmente per i loro gatti: un piccolo topo di tessuto imbottito, per metà dilaniato da artigli e minuscole zanne acuminate... DHOH Dhoh di Manly Wade Wellmann Weird Tales, luglio 1948
Reuben Pipe Feather era un giovane sicuro dal viso bruno e vanitoso. Ottanta anni prima, sarebbe stato uno dei più dotati guerrieri e cacciatori della sua tribù, nonché uno dei più vanagloriosi. Andava in giro con abiti da cowboy di rodeo come quelli che si vedono nei films: la camicia arancione aveva collo, polsini e risvolti delle tasche color marrone rossiccio. I pantaloni grigio scuro gli fasciavano le magre gambe storte a forma di stella, ed erano ripiegati su degli stivali a tacco alto di cuoio morbido. Intorno al collo portava una sciarpa rosso ciliegia, al polso un braccialetto d'argento, all'indice un anello di turchese. Teneva l'ampio cappello in una mano in modo da far sì che il caldo sole del pomeriggio rilucesse della gloria untuosa dei suoi lunghi e lisci capelli neri. Aveva il nobile viso di un Hiawatha e i modi di un attore di second'ordine. «Ora siamo fuori della riserva del Katonka», assicurò James Randolph quando il turista bianco fermò la sua macchina nel punto in cui la strada pessima e sporca si restringeva in un sentiero di erbacce. «E siamo lontani da quegli ignoranti e imbroglioni pellerossa e squaw che, con l'aria di essere tristi e depressi, ti vendono gioielli falsi e terraglie fatte a Fermantown. Ha avuto la fortuna di trovarmi a casa, in vacanza da Hollywood. Quei vecchi matti non glielo avrebbero detto se lo avessero saputo, e non lo sanno assolutamente.» I vecchi matti erano in realtà dei dignitosi indiani di mezza età, dall'aspetto trasandato con le loro coperte e mocassini, ma rispettabili, riservati e di buone maniere. Tra di essi c'erano gli stessi genitori di Reuben Pipe Feather, che lui probabilmente disprezzava più degli altri. Reuben Pipe Feather era stato per due anni in un piccolo college del Kansas, e di lì nella grande industria cinematografica per fare dei piccoli lavoretti extra in western a puntate e documentari storici. Ora era ritornato nella riserva del Katonka con l'aria di un eroe tribale che si aspetta riconoscimenti e deferenza. Allo spaccio aveva prontamente cominciato a chiacchierare con James Randolph, che era interessato al folklore del Katonka. «Ha detto», ricordò Randolph, mentre usciva dalla macchina, «che questo è il posto in cui gli anziani dicono che Dhoh, l'orso indemoniato, era solito essere visto.» Randolph era grassoccio, quarantadue anni, con baffi e occhiali. Dirigeva un piccolo quotidiano nell'Est e i miti americani erano il suo hobby. Le sue due settimane di vacanza tra le riserve indiane gli avrebbero permesso di raccogliere - almeno sperava - stralci di storie per quello che un giorno
poteva diventare un libro. «Yeah!», concordò Reuben Pipe Feather facendosi aria sulla faccia scura con il cappello. «Questa è zona libera, proprietà dello Stato. La gente potrebbe venire a farci pascolare i ponies, ma non vengono.» Si mise a ridere, e i suoi denti spuntavano bianchi come delle zollette di zucchero. «Hanno paura del Vecchio Dhoh. Pensano che potrebbe mangiarsi i loro ponies. E loro stessi.» Il posto potrebbe essere frequentato, rifletté Randolph mentre si guardava intorno. La riserva era per la maggior parte una prateria con dolci declivi, ciuffi di salici o macchie di pioppi, ma qui i declivi diventavano colline. Dalle cime più basse nelle vicinanze, si elevavano vette più distanti, circondate da vegetazione a cespugli e alberi, e punteggiate qua e là da massi. Sì, aveva un aspetto selvaggio; e, per un'immaginazione superstiziosa, anche sinistro. «Dhoh vive qui», disse Randolph. «Questa specie di orso-stregone... Che cosa si pensa che sia?» «Terrorizzerebbe anche i bambini americani», disse Reuben Pipe Feather, facendo un sorriso ancora più largo. «Si dice che sia mezzo uomo e mezzo orso... ogni parte con le sue caratteristiche, credo. Un paio di vecchi dicono di aver visto le impronte del vecchio Dhoh. Un piede come quello di un uomo, l'altro da orso. Mi capisce?» Con grande scioltezza, la mano libera di Reuben Pipe Feather abbozzò una figura in aria. «Cosa crede che sia? Troppo alcool, o una scarpa truccata per fare delle impronte che facciano spavento?» Randolph aveva una macchina fotografica appesa a una cinghia a tracolla sulla spalla rivestita di tweed. La mise a fuoco, e scattò un'istantanea alle colline. «Un bello squarcio di panorama», disse. «Che cosa è quello scintillìo davanti a noi, oltre l'erba alta, accanto ai pioppi?» «Quella è una delle cose a cui mi riferivo», Reuben Pipe Feather si fece ombra sugli occhi per scrutare. «È la vasca da bagno di Dhoh. Quando ero bambino, una delle squaw me ne mostrò un altro paio. Si credeva che Dhoh si lavasse lì di tanto in tanto. Io avevo paura... una paura inaudita.» Cominciarono a camminare verso il bagliore scuro. Era una specie di stagno fangoso, come una grossa vasca da bagno, e ad essa simile per dimensioni e forma. Annidata tra pietre coperte da erbacce, la sua superficie scura si muoveva come se fosse percorsa da una corrente calda. «Sicuro, sicuro. I vecchi dicono che la sorgente lubrifichi le giunture e
curi il mal di pancia. Ma nessuno ne fa uso, non se Dhoh è stato avvistato nei paraggi.» Reuben Pipe Feather si mise a ridere di nuovo. «Mi chiedo come abbia avuto inizio questa leggenda, in quanto tempo e di quanto sia cresciuta.» Tirò fuori tabacco e cartine, e difese il suo ruolo di cowboy di Hollywood arrotolando una sigaretta con una sola mano. Randolph si accovacciò e immerse le dita nello stagno. L'acqua era tiepida, forse per il sole. Quindi esaminò la schiuma che gli era rimasta sulle dita. Era unta, appiccicosa. Sempre accovacciato, guardò attentamente la sovrabbondanza di erba vicino all'acqua, poi si alzò e studiò un pezzo di terra alle sue spalle, umida e spoglia. «Hai detto che qui non viene nessuno?» «Nessuno.» Reuben Pipe Feather contrasse le labbra scure e con un soffio fece un anello di fumo nell'aria immobile e luminosa. «Ma vedo delle tracce!», fece notare Randolph. «Sembrano fresche.» Girò intorno al bordo dello stagno. La terra umida mostrava due tracce proprio sul margine e altre due più in là, che si allontanavano. Randolph udì alle sue spalle l'improvviso, netto strozzarsi del respiro del suo compagno. Si voltò per guardare. Il viso di Reuben Pipe Feather non era più scuro e baldanzoso, ma grigio e sofferente. Le labbra di Reuben Pipe Feather si rilassarono, e gli cadde la sigaretta. Aveva gli occhi spalancati. «Perché non dà un'occhiata a quello?», mormorò con voce rauca, e Randolph si mise a guardare. L'impronta di un mocassino, l'altra... Ampia, pesante, piatta, sembrava lo stampo di una grande e lunga scure. Le dita... sì, le dita avevano, a ognuna delle estremità, un marchio a punta. Persino James Randolph, che non era un abitatore di boschi, sapeva che forma avesse l'impronta di orso. «Mr. Randolph», disse Reuben Pipe Feather con voce terribilmente impaurita «andiamo subito via di qui!» «Perché?» «Lei sa cosa sono quelle impronte, Mr. Randolph!» Il giovane indiano si stava allontanando. «Ma aveva detto che non credeva...» «Ora ci credo. E non ho intenzione di rimanere qui. Andiamo.» Randolph non si mosse, e intanto Reuben Pipe Feather si stava dirigendo verso il sentiero. «Allora me ne torno alla riserva a piedi.»
E cominciò ad accelerare il passo più di quanto sia immaginabile con quegli stivali da cowboy. Randolph rise sotto i baffi. Sicuramente il ragazzo lo aveva portato lì per fargli uno scherzo. Doveva aver fatto le impronte lui stesso e poi finto... Ma nessuno, indiano o bianco che fosse, sarebbe riuscito a farlo impallidire in quel modo. Un altro esame delle impronte. Randolph avrebbe voluto saperne di più sugli animali e sulle loro zampe. Quella poteva essere un'imitazione di un'impronta di orso, fatta con un mocassino distorto e con l'estremità a forma di artigli. E, tuttavia, poteva anche non esserlo. Mise a fuoco la sua macchina fotografica un'altra volta, e scattò. Al click metallico arrivò come risposta un profondo brontolio da un lato, e Randolph alzò bruscamente la testa e cominciò a guardarsi attentamente intorno. Non c'era da meravigliarsi, pensò, che fosse stato lasciato solo allo stagno. Anche con il brontolio che poteva indicargli una direzione, guardò due volte prima di riuscire a scorgerne l'artefice, accovacciato ricurvo, e mezzo nascosto da un ammasso di alte erbacce secche. Era una figura sottile, avvolta in una vecchia coperta marrone che il tempo e l'usura avevano reso del pallore di una foglia morta. Una folta chioma grigia e disordinata cadeva come un cespuglio su un volto scuro, dal quale degli occhi vispi guardavano Randolph. Un secondo brontolio rispose allo sguardo di Randolph. «Ahy», fece Randolph per simulare un saluto alla maniera indiana. «Buon pomeriggio», rispose una voce profonda e pacata. «Fa caldo.» «Lei parla americano», osservò con sollievo Randolph. «Ho imparato molte lingue», fu la risposta. «Tra queste, l'americano.» La figura curva si mosse e si alzò. La coperta dal mento cadde fino a terra, coprendo la magrezza decrepita come una toga. «Questa è quella che chiamano macchina fotografica?» «Sì», disse Randolph. «Ho fatto una fotografia a queste impronte.» Il vecchio cominciò ad avanzare lentamente, rigidamente, ma senza vacillare. Randolph scorse sotto la folta capigliatura grigia un viso adeguato alla coperta a forma di toga, un volto scuro e romano, con una bocca diritta, un grosso naso aquilino, e profondi occhi neri regolari: un incrocio e un labirinto di rughe e segni della vecchiaia. «Yuh», disse la voce pacata, ancora più profonda. «Le impronte di Dhoh. Che cosa ne farà della fotografia?»
«La pubblicherò. La mostrerò ad altra gente. Scoprirò di cosa si tratta.» «Le impronte di Dhoh...», ripeté l'anziano. Dall'interno della coperta scivolò lentamente fuori la mano sinistra, e si mise a gesticolare. Era una mano sottile e avvizzita, scura e all'apparenza secca come un fascio di ramoscelli, ma flessuosa, persino aggraziata. «Ho sentito parlare il giovane incosciente. Ahi! Gli è bastato il tempo che ci vuole a fare un respiro per togliersi ogni dubbio.» «Lei crede in Dhoh?», chiese prontamente Randolph pieno di speranza. Un breve cenno di affermazione. «Yuh. Perché io so. Sono più vecchio di tutti forse, più vecchio di tutti gli altri.» La mano sottile ondeggiò con un lieve gesto verso la riserva. Lanciando uno sguardo in quella direzione, Randolph vide che Reuben Pipe Feather era scomparso alla vista dietro una curva della strada. «Hanno delle curiose credenze. La maggior parte sono inventate. Ma so di Dhoh. Americano, dove stai andando?» «Ritorno alla mia macchina.» Randolph indicò con il pollice. «Vuole fare un giro con me?» «Non vuole seguire Dhoh dalle tracce?» Randolph scosse la testa. «La terra umida termina qui nell'erba selvatica. Non sono un buon segugio.» «Lei no. Ma io sono un buon segugio.» La vecchia e magra figura avvolta nei drappeggi cominciò ad allontanarsi camminando attraverso l'erba frusciante, e si curvò. Un altro brontolio. «Qui ci sono altre impronte. Perché non viene?» Randolph cominciò a sentirsi eccitato, avvolto dal mistero. «Aspetti. Dhoh... non è il nome di uno spirito maligno? Qualcosa che è metà uomo e metà orso?» «Si è sempre creduto che sia così.» Il volto scuro guardò attentamente indietro. «Ma io non ho paura, Americano. E tu?» Randolph rise in tono beffardo all'idea. «Certo che no, vecchio!» «Allora andiamo. Seguiremo il percorso di Dhoh.» L'uno di fianco all'altro cominciarono a camminare. Randolph teneva il passo e cercava, senza successo, di vedere ciò che gli occhi vivi del vecchio continuavano a scorgere nell'erba. Una volta o due Randolph si fermò a esaminare un gambo spezzato, una foglia schiacciata: niente di più. Si ricordò che i vecchi indiani selvaggi erano in grado di seguire delle tracce anche sulla nuda roccia. Ma forse quel vecchietto stava giocando, fingen-
do, come Reuben Pipe Feather. «Vedi?», disse l'anziano, e di nuovo mosse con leggerezza la mano sinistra tirandola fuori dalle pieghe della coperta. «Dhoh è passato di qui.» Vi era una chiazza nuda di terreno tra i ciuffi d'erba, piena di polvere sottile, e su di essa un'unica impronta, larga e piatta, con alle estremità tracce di artigli. Randolph si fermò, rimproverandosi per avere quella sensazione di freddo. «Come ha fatto quel segno?» «Con il suo piede nudo.» «Americano», disse il vecchio in tono di dignitosa protesta, «anche un giovane idiota è in grado di riconoscere un'impronta vera da una falsa.» «Forse è una vera impronta di orso», suggerì Randolph. «Non l'impronta di uno stregone.» «Orsi veri qui non ce ne sono da quando gli Americani hanno sottratto il territorio agli Indiani. Sarei molto più sorpreso di vedere le orme di un vero orso piuttosto che quelle di Dhoh.» Continuò ad avanzare, con la sua andatura rigida ma leggera. «Ahi», disse. «Un altro segno. Guarda l'impronta degli artigli su quelle foglie larghe. Dhoh si è diretto verso quella piccola gola: va verso il posto in cui vive tra le colline.» L'indiano proseguì nel cammino con tanta decisione e sollecitudine che Randolph si vergognò di indugiare. Lanciò un'occhiata all'indietro e vide la sua macchina parcheggiata sul terreno della riserva, lontana e sola. «Sbrigati!», gli disse il compagno, sollecitandolo a fare in fretta. Randolph si decise ad andare. «Mi racconti di Dhoh», disse. «Dhoh è Dhoh. Non esiste niente come lui.» «Sembra di no», convenne Randolph, ma stava pensando ad altri orsidemoni di racconti che aveva udito. I Lapps avevano uno spirito orso, che insieme temevano e veneravano. Gli Anius, quegli incomprensibili selvaggi bianchi barbuti delle isole più a nord del Giappone, credevano di discendere da un eroe che era un orso. E solo Mudjekeewis, il Dio del Vento Chippewa, osò sfidare Miche Mokwa, un mostro dalle sembianze di orso... che era a Hiawatha. Cosa dicevano i Piegans, la tribù chiamata dei Piedineri? L'orso è di una natura simile a quella dell'uomo. Non mangiatelo, né uccidetelo, senza scusarvi sommessamente per aver ucciso un vostro fratello. «Ma hai detto che sapevi di Dhoh...», insistette Randolph. Sperava che il
vecchio Indiano non se ne restasse in silenzio. Se questo fosse accaduto, non c'era altro di cui avrebbero potuto parlare. La bocca dritta aveva l'espressione di un leggero sorriso, come quello di un nonno paziente. «Te lo dirò, Americano. Il tutto è accaduto in un tempo lontano da oggi, tutta la vita di un vecchio. In quei giorni gli Indiani avevano i loro idoli, prima che gli Americani glielo proibissero.» «Gli Americani non proibiscono niente ora», tenne a precisare Randolph in fretta. I due avevano imboccato la gola tra due rapide scogliere e lui aveva un po' di difficoltà a camminare, perché il suolo era stato inondato da recenti flussi di acqua piovana e le pietre sotto i piedi erano instabili. Continuava a scivolare e inciampare, mentre il vecchio indiano proseguiva con sicurezza nella sua andatura rigida e maestosa. Dall'altro lato si levavano alti macigni e macchie di vegetazione che adombravano il cielo e la luce del sole. La scena ricordò a Randolph quello strano paese selvaggio nel quale Rip Van Winkle andava girovagando per incontrare i nani con le loro botti di liquore fatato. «Agli Indiani non sono proibite le loro vecchie credenze», disse con enfasi Randolph. «L'amministrazione delle Riserve Indiane si è occupata del problema per oltre dodici anni. Da quando erano in carica il Segretario Ickers e Collier...» «Ah, questo è vero. Ma nel frattempo», il vecchio ribatté seccamente, «le tribù hanno dimenticato la maggior parte dei loro antichi riti propiziatori. Hanno dimenticato il digiuno a cui i giovani uomini si devono sottoporre per trovare i loro amici tra gli spiriti animali. Voglio dirti di un giovane uomo, un ragazzo, il cui digiuno fu uno degli ultimi osservati nella sua tribù.» «Sì, me lo racconti», lo pregò Randolph. «Il ragazzo stava per diventare uomo. I suoi zii e nonni lo prepararono con il canto raccontandogli molte cose durante la notte. Il mattino stabilito, egli lasciò la dimora di suo padre e venne in questi paraggi.» Ancora una volta la vecchia mano sottile si lasciò andare a una svolazzante indicazione. «Si fece un rifugio di sterpaglia, distese la coperta e se ne rimase lungo lì. Aveva dell'acqua in un recipiente di creta, ma niente cibo. Non doveva mangiare, dormire o muoversi, finché non avesse udito la voce che era andato ad ascoltare.»
Randolph ricordò di aver letto qualcosa a proposito di quella antica usanza. Un giovane aspettava sino a che la fame e l'assoluto silenzio non lo avessero ipnotizzato fino a raggiungere uno stato in cui immaginava di avere una visione, generalmente di qualche spirito animale. Quella poi diventava la sua medicina segreta, il centro della sua venerazione personale. «Il ragazzo rimase lì a lungo», continuò la voce pacata. «In quel tempo la maggior parte dei digiuni duravano tre o al massimo quattro giorni. Ma il ragazzo vide il sole sorgere e tramontare sei volte. Sette. Otto. Temeva che nessuno spirito lo volesse, ma poi ricordò che quando si verificava una simile attesa, colui che aveva aspettato era destinato a fare grandi cose nella medicina. Al nono sorgere del sole, accadde che lo spirito dell'orso... Naku-ma, andò a parlargli. Per questo rimase orso.» Il vecchio si fermò e si drizzò: il suo corpo era eretto e aveva un aspetto dignitoso. Nonostante tutta la sua magrezza, a un certo punto assunse le sembianze di un orso. Con espressione solenne fissò lo sguardo su Randolph. «L'orso», continuò il vecchio indiano, «parlò al ragazzo, Dhoh. Lo chiamò figlio e fratello. Naku-ma, lo spirito dell'orso, vide che Dhoh era debole ed esangue, e gli portò del cibo per mangiarlo insieme. Naku-ma disse che aveva aspettato a lungo perché voleva mettere alla prova Dhoh, perché voleva vedere se era meritevole di ricevere il potere degli spiriti, un potere che permetteva di fare quasi ogni cosa. Naku-ma dette i poteri al ragazzo.» «Quali poteri?» Randolph cominciava a essere un po' stanco. Si mise a sedere su una radice nodosa che sporgeva da una delle pareti rocciose che racchiudevano la gola. La macchina, il sentiero, lo stagno fangoso, non erano più visibili, e una distanza abissale lo separava da essi. «Naku-ma gli mostrò come curare una ferita alitandoci sopra», disse il vecchio restando in una posizione assolutamente dritta e immobile. «Nakuma gli mostrò come guarire i malati masticando piante medicinali e respirando sui malati. Naku-ma gli mostrò come impastare il colore di guerra in modo che i colpi tornassero indietro ai nemici, e lo dotò di un potere alla mano destra che, ogni volta, avrebbe scagliato un colpo mortale. Naku-ma gli bisbigliò all'orecchio, e Dhoh riuscì a comprendere tutte le lingue. Naku-ma lo strinse tra le braccia, e Dhoh divenne più forte del più forte guerriero.» Di nuovo la bocca diritta accennò un sorriso a labbra chiuse. «Perché mi chiedi di raccontarti queste vecchie cose? Sei Americano. Dentro di
te mi stai deridendo: tu non mi credi.» Randolph ricordò le letture fatte al liceo: i saggi di Benjamin Franklin. Le Annotazioni sui selvaggi del Nord America, un saggio pieno di saggezza e cultura... «Selvaggi, li chiamiamo, perché le loro maniere sono diverse dalle nostre che consideriamo come la perfezione della civiltà; ma pensiamo allo stesso modo.» E quell'aneddoto sul missionario coloniale che aveva definito le credenze del suo ospite indiano «Favole, invenzioni, sciocchezze!» A quella accusa il dignitoso selvaggio gli aveva risposto: «Fratello mio, sembra che i vostri amici non si siano molto preoccupati della sua educazione; sembra che non si siano dati pena di istruirla sulle regole del vivere in una comunità. Voi dite che noi, che comprendiamo e pratichiamo quelle regole, abbiamo creduto a tutte le vostre storie; perché voi rifiutate di credere alle nostre?»... Meraviglioso, povero... Richard Hume avrebbe potuto a ragione definirlo il primo filosofo del Nuovo Mondo. Lui, Randolph, avrebbe fatto tesoro della sua lezione. «Ma io ci credo, vecchio», disse in tono di protesta e, mentre diceva questo, sentiva quasi che ci credeva veramente. «Forse dici così perché pensi che devi», obiettò l'indiano, ancora dritto, dignitoso e immobile nella sua coperta ben stretta attorno al corpo. «Perché dovrei credere se non volessi?», domandò Randolph, plausibilmente. «Ci credo sul serio! Le tue parole sono vere. Ti prego di credere che le mie non sono da meno.» «Allora», il vecchio fece un lieve cenno della testa, «posso raccontare il resto. Non c'è molto da dire. Dhoh tornò a casa con i poteri di cui ti ho parlato, e, cominciò a usarli per aiutare i suoi amici. Ma era cambiato in un modo che terrorizzava gli Indiani. Qualche volta sembrava avere il peso e la forza di un orso. Quando era arrabbiato, ringhiava come ringhia un orso, e i denti gli diventavano grandi e affilati, simili a quelli di un orso. E, poiché la sua gente aveva paura di quelle cose, cominciò a evitarlo.» Nella voce pacata si percepiva una vena di tristezza. «Non avevano fiducia in lui, anche quando si dimostrava un grande guaritore e un abile guerriero. Quando arrivarono gli Americani, e lui andò a combattere per le loro terre, per la libertà e per i bambini, essi si allontanarono da lui. Dicevano che gli Americani erano uomini, mentre lui - Dhoh - non lo era.» E tacque. «E poi?» Randolph lo incitò chiaramente a continuare.
«Dhoh si arrabbiò. Ringhiò e ruggì come un orso. Li maledì in nome di Naku-ma. Sputò sulla terra e se ne andò via. Fu allora che si trasformò ancora di più che all'inizio. Uno dei suoi piedi gli diventò come la zampa posteriore di un orso, una delle mani, come una zampa anteriore. Cominciò a non aiutare più gli uomini anzi, rivoltò tutti i suoi poteri contro di loro. Era una cosa brutta, vivere da solo e odiare la propria razza. Ma la sua razza lo aveva rifiutato.» «Sì, quello era stato un brutto gesto», confermò Randolph con diplomazia. «Gli altri Indiani lo ritenevano pericoloso. Un paio di volte tentarono di ucciderlo, ma lui uccise loro. Li uccide come scarafaggi. Ahi!» Il sorriso svanì, poi tornò di nuovo. «Bene, questa è tutta la storia di Dhoh.» La vecchia mano sottile si mosse come se stesse gettando via un pizzico di sabbia. «Ho finito.» «Ma poi, che accadde?» «Poi, Dhoh è rimasto al suo posto, e gli uomini hanno imparato a lasciarlo solo. Sei sicuro di credere a tutto questo?» «Ci credo», gli disse Randolph con rispetto. La grigia testa di stoppa si voltò, e lanciò tutt'intorno uno sguardo attento. «Vedo altre impronte... impronte fresche... e continuano. Guarda!» Portò Randolph vicino al grande tronco morto di un albero, alto circa quattro metri, che era ancora saldamente radicato al terreno roccioso della gola. «Le orme di Dhoh!» La rozza corteccia era lacerata e squarciata da grandi artigli, nella parte superiore come in quella inferiore. Randolph ricordò il suo Ernest Thompson Seton... gli orsi segnavano gli alberi in quel modo. «Vedi», disse l'uomo, «si è sfregato qui. Ci sono dei peli.» «Mi lasci fare una fotografia di questo», disse Randolph, e scattò. «Fai anche una foto a quello.» La mano scarna indicò, e Randolph vide, sotto una protuberanza rocciosa un dieci metri più avanti, la bocca nera di una caverna o di un buco. Da quella che chiaramente era la tana di qualche cosa di grosso e selvaggio Randolph indietreggiò involontariamente, ma il suo compagno avanzò in quella direzione. Randolph si impose di avvicinarsi. «Che cosa c'è all'interno?», bisbigliò.
La testa grigia si scosse. «Niente. Dhoh non c'è.» «Attenzione!», disse Randolph in tono di avvertimento. «Non possiamo esserne sicuri.» «Ma io so», gli rispose la voce pacata. «Aspetti. Stia indietro. Guardi le tracce.» Randolph ne indicò una serie che lì erano chiaramente visibili sulla terra inumidita da recenti flussi d'acqua. In alternanza, l'orma del mocassino e la grossa forma con gli artigli dell'orso guidavano direttamente alla caverna e al suo interno. «Torniamo indietro», disse Randolph. La sua voce era rauca e tremula. «Hai dimenticato la mia storia, Americano?... No, ho tralasciato qualcosa. Quando Dhoh lasciò la sua gente, lo spirito di Naku-ma lo trasformò ancora di più. Gli girò i piedi in modo che puntassero nella direzione opposta rispetto alle caviglie. Quelle orme», e il vecchio le indicò, «conducono fuori dalla caverna, e non al suo interno.» «Ora aspetti!», protestò Randolph. «Ho sentito quella storia anche altrove... sui piedi di un mostro demoniaco che erano stati girati. Ma è una cosa stupida e impossibile. Come è possibile girarli al contrario?» «Così.» La mano scura afferrò la coperta e la sollevò di alcuni centimetri. E Randolph poté vedere i piedi del vecchio Indiano. Due tibie magre come aste venivano giù fino al terreno come se vi ci penetrassero. Due piatte protuberanze si estendevano dalla parte opposta. La coperta si alzò di più. Randolph vide un mocassino, e qualcos'altro. Un piede ampio, pesante, irsuto di peli grigiastri, come quello di un orso, ma messo all'indietro. «Sono veramente spiacente», disse la voce pacata. «Ma laggiù vicino al confine delle riserve hai usato quella macchina fotografica. Hai fotografato le tracce. Ne avresti parlato in altri luoghi. Sarebbero potuti venire altri Americani, ancora molti. E gli Americani hanno dei loro poteri, che potrebbero persino annullare e distruggere i poteri donati dallo spirito dell'orso Naku-ma.» Randolph tentò di indietreggiare, ma sentì che le ginocchia gli tremavano, e temeva che sarebbe inciampato e caduto. «E tu», balbettò. «Tu... sei...» «Sì, giusto.» Il vecchio lasciò cadere la coperta. Era nudo, magro, scuro. Lungo un fianco, sulla spalla, sul braccio e sulla zampa munita di artigli, si
stendeva uno spesso strato di pelliccia stopposa. Aprì la bocca, e Randolph vide il luccichio sulle grandi zanne affilate. «Io sono Dhoh», disse, e si lanciò su di lui. PARTE SECONDA ACONITO, ARGENTO E BIANCOSPINO... SAHARA Werewolf Of The Sahara di Gladys Gordon Pendarves Weird Tales, agosto/settembre 1936 La notte era tiepida sulla costa sassosa della Libia. A poca distanza dalla cittadina di Sollum, in vista del mare, il vento faceva oscillare la fiamma di una lampada a kerosene appesa fuori da una tenda. Sotto di essa, intorno a un tavolino su cui c'erano i resti della cena, due uomini e una donna bevevano in silenzio il caffè. Da tre settimane ormai sostavano lì, in attesa di poter riprendere il viaggio verso l'Oasi di Siwa. Merle Anthony, la ragazza si accese una sigaretta ed esalò una pigra boccata di fumo verso il firmamento limpidissimo. «Dùnque domani finalmente si parte», sospirò. «Sapete: quasi mi rincresce. Mi stavo affezionando a Sollum. Qui ho dipinto due dei miei quadri migliori.» «Il fatto che tu li abbia subito bruciati rivela che il tuo senso critico è ancora migliore», la derise bonariamente Dale Fleming, suo cugino. Il volto delizioso di Merle, incorniciato da lisci capelli biondi pettinati alla paggio, s'imporporò. «La tua acidità è un balsamo, Dale. Ma da un po' di tempo sta superando il livello di guardia.» «Dale non ha torto se è di pessimo umore», mormorò Gunnar Sven, accigliato. «Perché pretendere che il soggiorno qui sia piacevole? Ed è tutta colpa mia. Sì...» Annuì cupamente. «È così. Me ne sono reso conto oggi al mercato, ascoltando i discorsi di due arabi.» «Colpa tua?» Gli occhi grigi di Merle si spalancarono. «Dopo tutto il lavoro che hai fatto per organizzare la spedizione?» Invece di rispondere, Gunnar si alzò, scosse la testa, e si allontanò lungo l'orlo a strapiombo della costa. Gli altri due lo videro fermarsi poco più lontano, un'ombra alta e snella stagliata contro i riflessi che la luna strap-
pava alla superficie del mare. Merle lo fissò addolorata e perplessa. Sul volto di Dale, largo e grasso, si era invece dipinta un'espressione indagatrice. L'uomo era pesante, corpulento, con una barba che, sfumandosi di grigio, gli conferiva un'aria da intellettuale. Nelle sue fattezze poco avvenenti non c'era però nulla di spiacevole, poiché i grandi occhi colmi di una acuta intelligenza lo rendevano interessante. «Se i miei quadri non ti piacciono», disse Merle, «questo non è un buon motivo per prendermi in giro.» «Sarebbe assai peggio se qualcuno non ti dicesse la verità.» «E la tua è la verità con la V maiuscola, immagino. Ebbene, sei soltanto un impiccione con la I maiuscola», ritorse lei. Dale rise divertito, ma i suoi occhi rimasero seri. Per lui era molto difficile accettare il fatto che Merle sembrasse essersi innamorata de! biondo svedese. Da quando i genitori di lui avevano praticamente adottato la ragazza, che era rimasta orfana all'età di soli sei anni, lei era diventata il centro dei suoi affetti. E, malgrado la differenza di età, il suo affetto era adesso tutt'altro che platonico. Gunnar Sven era invece giovane, assai attraente, e tuttavia in lui c'era qualcosa di molto strano, quasi un mistero che pesasse come un'ombra sulla sua vita. Quale fosse questo mistero, era una cosa che Dale aveva deciso di scoprire. «È un'altra la verità che adesso mi preoccupa, bambina», mormorò. «Questi libici hanno terrore di lui. E tu lo sai quanto me. Se si rifiutano di collaborare, è solo perché lui è nostro amico.» «Non dire idiozie, ti prego! Nessuno può aver paura di Gunnar. Anzi, lo trovo più che gentile con la gente del posto.» «Sicuro. Sa comportarsi da vero esperto con loro. Devo ammettere che, per un giovane della sua età, è molto capace.» «E allora, qual è il problema?» «C'è qualcosa di strano in lui. Questi arabi lo sanno, e lo sappiamo anche noi.» Fece una pausa. «Si è aggregato a noi soltanto due mesi fa, al Cairo, giusto dopo che mia madre decise di lasciarci. Il telegramma che la richiamava a casa, al capezzale di zia Sue, è arrivato Mercoledì 3 Maggio. Lei si è imbarcata il 5 Maggio. E Gunnar Sven si è presentato il giorno 6.» Merle bevve un altro sorso di caffè. «Benissimo. Non voglio contraddire la tua lucida esposizione dei fatti. Ora spiegami perché questo tono di rimprovero.» Gettò via la sigaretta. «Faccio i capricci, Dale?»
«Sei tu a definirli capricci. Dopotutto ti sei rifiutata di aspettare al Cairo che mamma ritornasse, secondo il suo programma.» «Il Cairo!» La ragazza sbuffò. «Milioni di imbrattatele hanno già dipinto in tutti i modi le Piramidi, la Sfinge e il Nilo. Io voglio dei soggetti nuovi, che nessuno abbia mai visto.» «Tu vuoi l'Oasi di Siwa. Di tutti i più dannati posti dimenticati da Dio, proprio quello! E per di più in estate, con un caldo che...» «Tu stavi morendo dalla voglia di vedere l'Oasi. Non provarti a negarlo, sai!», lo accusò lei. «Ti sei eletto a mio guardiano e protettore solo per salvare la faccia, ma la verità è questa. Oh, che ipocrita! Io ti strozzerò, Dale Fleming!» L'uomo esplose in una risata tonante. Il cuoco arabo e alcuni dei servi che avevano assunto, seduti accanto alle loro tende, si voltarono a guardarlo con una sorta di indifferente meraviglia. «Touché! E va bene. Per amor tuo mi farò mangiare vivo dalle mosche di Siwa e, mentre dipingi le palme, combatterò a fucilate coi Tuareg per tenerli lontani dalla tua dolce persona. Ma...», d'un tratto la sua faccia perse ogni allegria, «per tornare a Gunnar: perché si è dato tanta pena per non rivelarci il nome dell'uomo per cui sta lavorando?» «A dire il vero, non gliel'ho mai domandato.» «Neppure io... almeno apertamente. Ma parecchie volte ho cercato di condurlo su quell'argomento, e lui è sempre scivolato via come un'anguilla. Per una buona ragione, direi.» «E sarebbe?» «Lavora per un arabo», rivelò Dale. «Uno Sceicco. Un uomo conosciuto... o meglio famigerato, dal Marocco al Cairo. Si fa chiamare Sceicco El Afrit, e passa per essere uno Stregone. Il suo vero nome è Zura El Shabur.» «Ah!» Merle lo guardò stupita, poi diede attorno un'occhiata cauta e abbassò la voce. «Be', cosa ci sarebbe di tanto tremendo in questo?» «Ha una brutta fama. Molto brutta. La Magia Nera non è uno scherzo da queste parti. E questo Zura El Shabur ci sguazza dentro come pochi altri.» «Sul serio? Bisogna che ne parli a Gunnar, così mi farò dire tutto. È fantastico! Ma ci pensi? Gunnar e la Magia Nera...!» Dale la osservò con affetto, fra divertito e intenerito. L'eccitazione della ragazza per i soggetti misteriosi e le situazioni oscure, era tipica del suo carattere vivace e entusiasta. «Tu balleresti il valzer con un leone, se qualcuno non fosse lì a spiegarti
che la faccenda presenta qualche rischio», borbottò con un sospiro. Da lì a poco, mentre Merle s'era alzata, Gunnar tornò lentamente verso di loro. Si fermò a qualche passo da lei, così alto che la giovane donna gli giungeva a stento alle spalle. Dale afferrò il pacchetto delle sigarette. «Stavamo giusto parlando di te. E, come dicevo a Merle, io...» Ma la voce gli morì in gola. Stupefatto, l'uomo vide che a un tratto Gunnar aveva fatto un balzo di lato, girando bruscamente la testa. Sul suo volto c'era un'espressione inorridita. Rigido e teso, fissava qualcosa oltre le ombre scure dei cespugli, con gli occhi colmi di un incomprensibile spavento. Dale si alzò subito e corse accanto a Merle, ma la donna scostò il suo braccio e si portò davanti al biondo svedese. «Gunnar! Che succede? Cos'hai visto? Rispondimi, ti prego!» Il corpo robusto di lui fu scosso da un tremito. Si passò una mano sulla fronte sudata, come per togliersi un'allucinazione dagli occhi. «Mi ha ritrovato. Lui sta venendo. Io non pensavo che...» «Chi? Di chi stai parlando?» La ragazza gli si aggrappò a un braccio, spaventata dal suo atteggiamento. «Aveva detto phe ero libero. Libero! Non avrei mai osato venire con voi, se avessi saputo che mentiva. E adesso ho trascinato anche voi in questa sporca storia. Oh, Merle, perdonami!» Gunnar afferrò le mani della giovane donna e gliele baciò freneticamente. Poi si rivolse a Dale con occhi brucianti e lo scosse per le spalle. «Andatevene! Andate via! Subito prima che arrivi. Montate a cavallo e fuggite da qui. Lui mi costringe a... Andatevene!», gridò. «Ma, yarudd! Cosa significa questo, Gunnar, mio servo?» Quella voce, profonda e gutturale, era sembrata scaturire dalle profondità di un antro. I tre guardarono i cespugli, sbigottiti, e videro una figura sbucare dalle ombre a non più di cinque metri da loro. Merle sbarrò gli occhi. Tutto intorno la zona era deserta e sassosa per alcuni chilometri e, se si fosse avvicinato un cavallo, lo avrebbero sentito. Com'era arrivato lì, in piena notte, quell'arabo alto e magro? «Gunnar, mio servo!», vibrò ancora la voce possente dell'individuo. «Cosa significa tutto questo?» Lo svedese tremò come una canna al vento. L'espressione della sua faccia era drammatica. Fissandolo come se gli altri non esistessero, l'arabo si fermò davanti a loro, ed esclamò:
«Rispondi!». Gunnar mosse le mani in modo vago e fece un tentativo per parlare, ma la voce gli morì in gola. «Io... io...», balbettò, rauco. «Più tardi me ne renderai conto!», gli promise minacciosamente l'uomo. Quindi si voltò di scatto verso gli altri due, facendo ondeggiare il mantello. Sotto il turbante la sua faccia scarna e allungata, fornita di un naso adunco, era gelida. Negli occhi gli balenò un lampo oscuro, così intenso che Merle indietreggiò d'istinto. Aggrappata a un braccio di Gunnar, la ragazza lo sentì tremare. Dale si era invece fatto avanti, e scrutò il volto dell'arabo con l'interesse spassionato che avrebbe avuto per un'opera d'artigianato locale. «Sembra che voi parliate un ottimo inglese, amico mio. O forse chiamarvi amico è... uh, prematuro?» L'atteggiamento dell'individuo cambiò di colpo. Un largo sorriso gli aprì le labbra sottili, rivelando una fila di denti candidi, e con la mano destra afferrò quella di Dale. Gliela strinse urbanamente, poi rivolse un mezzo inchino a Merle, e gettò una blanda occhiata allo svedese. «Presentami ai tuoi amici», ordinò. Gunnar era irrigidito. Con un visibile sforzo si controllò, ma la sua voce rimase un filo sottile: «La signorina Merle Anthony e suo cugino Dale Fleming. Questo è lo Sceicco Zura El Shabur». «Zura delle Nebbie», lo corresse l'altro. «Sono lieto di conoscervi. Annovero molti europei fra i miei amici. La lingua? Ebbene, tutte le lingue sono uguali per me.» «Vorrei poter dire lo stesso», ridacchiò Dale. «Un nome ben singolare il vostro. Bene, devo dire che ci avete fatto prendere un bello spavento, sbucando fuori come il djinn dalla lampada di Aladino.» Di nuovo El Shabur fece lampeggiare i denti. «Chi vive nel deserto impara ad apprezzare la solitudine e il silenzio», sentenziò. «Giusto, giusto», fu d'accordo Dale. «Ciò malgrado, il vostro arrivo qui è stato inatteso, per così dire.» «Inatteso ma opportuno. Esso ha riparato alla scarsa educazione del mio servo, che stava per farvi allontanare e togliermi così il piacere della vostra conoscenza.» «Via, non siate ingiusto con Gunnar. Nelle ultime settimane è stato il no-
stro angelo protettore, per non parlare della sua simpatica compagnia.» «Malgrado ciò, ho sentito che vorrebbe farvi partire presto... anzi, immediatamente, da Sollum.» Dale fece una risatina. «Io sono uno di quei turisti pazzoidi che preferiscono perdere denaro piuttosto che cambiare programma. Dovete sapere che uno dei cammellieri se l'è squagliata con un po' di equipaggiamento, e poco fa Gunnar non stava facendo altro che implorarmi di inseguirlo. Tutto qui.» Merle fu svelta ad aggiungere un particolare alla menzogna. «Roba di nessun valore. Poche cosucce da toeletta d'argento, una valigia di pelle e una macchina fotografica. È seccante, ma non val la pena di corrergli dietro per ore.» La ragazza si frappose tra loro e accese una sigaretta, per dare tempo a Gunnar di ritrovare la padronanza di se stesso. El Shabur le rivolse un secondo inchino, e quindi studiò con occhi acuti il bel volto di lei. «Tanta avvenenza e femminilità non devono restar prive degli oggetti da toeletta. Posso mandare Gunnar all'inseguimento del ladro?» L'idea di separarsi dallo svedese fece trasalire per un attimo Merle. Un presentimento le diceva che per la propria sicurezza - e anche per quella di lui - avrebbe dovuto tenerlo il più possibile accanto a sé. La sua vicinanza la faceva sentire più tranquilla. Ma... la sua sicurezza? Di che avrebbe dovuto temere? E perché, pensò la ragazza, quel presentimento vibrava adesso in lei come un segnale rosso di pericolo? Gettò una rapida occhiata di traverso a Gunnar, ma il giovanotto aveva il capo chino e non la guardava. «No, non importa», disse allora, dedicando all'arabo il suo sorriso più seducente. «Preferisco che resti con noi, senza stancarsi inutilmente. Gunnar ci ha promesso di farci da guida fino all'Oasi di Siwa.» «Oso sperare che questo non intralci i vostri progetti, caro signore», aggiunse Dale, ansiosamente. «Vi confesso che dipendiamo moltissimo dal suo aiuto. Proprio non so come ce la caveremmo senza lui.» «Vi capisco. Gunnar, il mio servo, ha delle doti preziose», annuì l'arabo, poggiando una mano su una spalla del giovane in atteggiamento possessivo. Gunnar ebbe un fremito, e i suoi occhi mandarono un lampo di avvertimento verso Merle. El Shabur rivolse agli altri due un sorriso rassicurante. «Non ci sono difficoltà, allora. Gunnar può senz'altro farvi da guida, visto che anch'io vorrei unirmi alla vostra piccola carovana. Il mio lavoro, infatti, richiede che io pure mi rechi a Siwa quanto prima. Se non avete
nulla in contrario, viaggeremo insieme.» Dale si affrettò a prendergli una mano e gliela strinse energicamente. «Ottima idea, caro Sceicco. Ottima idea! Sono certo che il nostro sarà un viaggio rapido e di tutto riposo.» Più tardi, nella sua tenda, Dale Fleming cercò invano di prendere sonno. La sua intelligenza inquieta e sempre al lavoro lo tenne sveglio a lungo. Pochi passi più là Merle aveva invece spento subito la sua lampada e dormiva tranquillamente. Gli uomini ingaggiati al Cairo russavano all'aperto, avvolti nelle loro coperte. Perfino i cammelli avevano smesso di grugnire nervosamente e si erano accovacciati in circolo. Accanto a loro i bagagli erano accumulati con ordine, in attesa di essere caricati. La luna inargentava la scarsa vegetazione della costa e tingeva di bianco le colline pietrose. A non molta ditanza dal campo, la risacca sciabordava pigra sulla rena. Seduto sulla branda all'interno della sua tenda, Gunnar fissava la parte di quel silente panorama notturno che poteva vedere all'esterno. Cosa l'aveva svegliato? Perché il suo cuore batteva così forte e il sangue gli pulsava negli orecchi? A parte quei tonfi, non udiva alcun rumore strano. Nel buio, le sagome dei cammelli, delle tende e dei bagagli, erano forme scure e prive di particolari. Il giovane uscì dalla tenda, fece un giretto per il campo, e respirò l'aria a pieni polmoni. Poi rabbrividì e volse in giro uno sguardo preoccupato. Un volatile notturno, stagliandosi nel cielo, guidò i suoi occhi verso il profilo lontano di un'antica fortezza turca. Deserta e massiccia, era arroccata come una sentinella sulla cima del promontorio che dominava la baia di Sollum. Ma, fra quegli immensi muri diroccati, brillava una scintilla di luce, verde e livida che, come una fiamma stregata, conferì d'un tratto alla notte un alone diabolico. «El Shabur... già lui! Il Pentacolo di Fiamma!», sussurrò. L'ansito gli era uscito dalle labbra come un'imprecazione e un gemito insieme. Per alcuni minuti non riuscì a far altro che fissare quel lucore smeraldino, come ipnotizzato. La paura gelida che lo attanagliava si trasformò in un'angosciosa necessità di agire: si voltò, inciampò fra i sassi fino alla tenda di Merle, e ne scostò il drappo d'ingresso con mani tremanti. Poi tolse di tasca la torcia elettrica e la puntò sul volto della ragazza addormentata. Era pallida e rigida come se il suo sonno fosse una trance, un coma insano che gravava su di lei. Gunnar le sfiorò la fronte con una mano e le afferrò un polso scuotendola lievemente, ma la giovane donna non diede al-
cun segno di risveglio. Accovacciato accanto alla branda, esaminò il volto di lei. La sua carnagione serica era così bianca da apparire esangue. Perfino le belle labbra turgide avevano perso il loro colorito, e i capelli che incorniciavano quel viso d'alabastro sembravano un'onda di oro pallido. Impaurito, Gunnar notò che il suo respiro era lentissimo. I suoi lineamenti, di solito così pieni di vita, parevano trasformati in quelli di una strana e remota Sacerdotessa di qualche culto misterioso, metà Dea e metà bambina. Com'era indifesa! «Ed entro poche settimane, al massimo entro pochi mesi», mormorò, «El Shabur farà di lei un'Iniziata. Questo è solo il primo passo. E s'imputridirà... perirà... come sto facendo io!» Un singhiozzo senza lacrime gli scaturì dalla gola riarsa. «No! No! Non tu, mia cara, dolce bambina!» Le strinse le mani fredde. «Devo impedirglielo... ora!» Ma non si mosse. Per alcuni minuti l'incertezza e la confusione di cui era preda lo costrinsero lì in ginocchio, con le dita della ragazza premute sulle labbra. La paura era un animale che gli si torceva nelle viscere. Non ce la faceva, non ne era capace... non poteva interferire! E, tuttavia, nel suo animo cresceva la volontà di agire. La disperazione lo faceva tremare come una foglia anche mentre la scacciava fuori da sé e, quando si rialzò, il suo volto era rigato di lacrime gelide. Vacillò fuori dalla tenda. Sulla soglia fissò ancora Merle con occhi vacui come pezzi di vetro, ansimando. «Addio, mia cara. Farò quello che potrò», le promise in un sussurro. «Pur di salvarti darò la mia anima... se ancora ho un'anima!» Uscì dal campo e corse sul sentiero in direzione del promontorio e dell'antica fortezza. Se l'occupazione di El Shabur era quella che egli temeva, l'arabo non avrebbe potuto vedere né sentire. Chiuso nel bozzolo della sua concentrazione rituale, nulla nel mondo che lo circondava avrebbe raggiunto i suoi sensi. Mezz'ora dopo, Gunnar s'accorse che quella sua speranza era giustificata. Quando entrò sotto le arcate massicce della fortezza, sbucando nel vasto cortile centrale, vide che cinque fuochi verdi ardevano all'esterno di un circolo largo alcuni metri, ciascuno in corrispondenza di un vertice di un pentacolo nero tracciato al suolo. Al centro di quel simbolo cabalistico stava in piedi El Shabur, ammantellato di nero, con uno scettro d'ebano nella destra e una strana croce ansata nella sinistra. Gunnar si fermò per riprendere fiato. Agli orecchi gli giungeva il monotono e incomprensibile cantilenare dell'arabo. A quale punto del rituale era
arrivato? Da quanto tempo stava risucchiando anelito dopo anelito l'anima di Merle dal suo corpo inerme e immerso nel coma stregato? Saperlo era d'importanza vitale. Soltanto se l'orrida negromanzia di quell'incantesimo era allo stadio finale, chiudendo la via del ritorno all'anima che stava attirando fuori dalla sua dimora di carne, niente sarebbe più valso a liberarla. Si accovacciò dietro un muretto e tese le orecchie, cercando di distinguere le parole della nenia che El Shabur stava mormorando: «Shekinah! Aralim! Ophanim! Datemi la vostra forza nel nome di Melek Taos, che comanda il cielo, il mare e i venti, dominatore dei quattro elementi per virtù di Adonai e degli Anziani!». «Aah!», sussurrò Gunnar, sollevato. Non era giunto in ritardo: El Shabur stava ancora evocando i demoni suoi alleati. Lo spirito di Merle doveva essere più forte del previsto, e quindi ancora lontano dal cedere del tutto alla volontà dell'arabo. Gunnar corse avanti e rovesciò l'uno dopo l'altro i cinque bracieri. Le fiamme verdi crepitarono e si spensero istantaneamente, lasciando l'alta figura dello Stregone illuminata soltanto dal chiarore lunare. Con un ansito rabbioso l'uomo si voltò a fissare le ombre del cortile: vide Gunnar, e sollevò di scatto le braccia, simile a un enorme pipistrello nero. «Miserabile!», ringhiò, mandando bagliori dagli occhi. La malvagità che emanava da lui era così intensa che il giovane sentì il sangue andargli in acqua. Dal suo corpo rigido e magro si sprigionava un potere magnetico. Gunnar dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per indietreggiare, passo dopo passo, finché alle spalle sentì il muraglione esterno. Ma, una volta lì, seppe che lo sguardo di El Shabur lo teneva, lo inchiodava alla parete come una lancia conficcata nelle viscere. E tuttavia un tremito d'emozione lo scosse, perché sapeva anche d'aver ottenuto molto più del previsto: la mente dell'arabo era stata strappata via da quella della giovane donna. L'anima di Merle, libera, stava tornando intatta nel suo ricettacolo umano. «E così ti sei innamorato di una donna», sbottò l'arabo. «Hai cercato di salvarla da me, tu che non puoi neppure salvare te stesso!» «È vero, io non posso salvarmi», ansimò Gunnar. «Ma Merle Anthony è diversa da me. Non riuscirai a praticare le tue sporche magie su una ragazza come lei!» Gli occhi dell'arabo erano due carboni ardenti. «Dunque sembra che, malgrado i miei insegnamenti, tu non abbia ancora imparato la vera ubbidienza. Hai dimenticato il tuo Voto? Hai dimenticato
che un Negromante non può mai retrocedere di un passo sulla strada che percorre? Hai dimenticato quale punizione attende i rinnegati?» «Per salvarla da te sono disposto a morire, se necessario.» El Shabur fece un sorriso contorto. «Morire!», lo beffeggiò. «La morte non è per quelli come noi. Non sei forse un Iniziato, un Adepto? Cosa potrebbe dare la morte a un essere come te?» «Ci dev'essere una via di fuga per me... e per lei. E io la troverò, El Shabur!» Lo svedese sentì la forza magnetica dell'altro allentarsi, e ne approfittò per fare qualche passo avanti a pugni stretti. Ma di nuovo il suo sguardo si confuse, la debolezza gli fece ricadere le braccia lungo i fianchi, e un torpore invincibile gli annebbiò i sensi. Conscio che doveva reagire, cercò di scacciare da sé quel vento impalpabile che gli cancellava i pensieri e la volontà, ma invano. L'abitudine di cedere, di ubbidire al padrone con animalesca passività, annientò il suo raziocinio e gli si installò nel cervello. Cadde in ginocchio. «Tu non puoi opporti al Potere che io servo... al Potere che serve me!» Il sangue pulsava nella testa di Gunnar. Nelle orecchie udiva il rombo che lo sopraffaceva. Davanti agli occhi aveva una foschia rossastra al centro della quale campeggiava il volto dello Stregone. «Sei un demonio, un servo di Satana!», ansimò. «Maledetto... tre volte maledetto!» L'arabo gli si avvicinò ancor di più. I suoi occhi erano luci roteanti. Le sue mani adunche scattarono, afferrando il giovane per i capelli. Poi si chinò sul suo volto. Gunnar si accorse che l'uomo gli sputava in fronte, ma non poté opporsi. La voce sibilante mormorò alcune parole cabalistiche che gli penetrarono nel cranio come pugnali acuminati, e qualcosa lo costrinse a spalancare la bocca. L'arabo gli sputò in gola una saliva amara come fiele, e un veleno ardente gli percorse le membra. Non s'accorse neppure che l'altro lo scaraventava a terra. El Shabur fece un passo indietro. «Sei una bestia ignorante e misera. Torna ciò che sei in realtà... un animale schiavo dell'istinto. Tu stesso hai dato forma allo spirito diabolico che ti domina. E come tutti i demoni, non sei che uno schiavo. Sii quindi ciò che sei. E ora vattene, stupida bestia. Vai a ululare coi tuoi simili fino all'alba!» Qualcosa di scuro si mosse accanto alle ginocchia dell'arabo, e ci fu un
uggiolio. Il lamento bestiale si mutò in un ululato che echeggiò fra le mura dell'antica fortezza. Poi un'ombra snella e veloce balzò fra i muretti e corse fuori, verso le aride terre deserte che circondavano il paese di Sollum. Il giorno successivo, al tramonto, Dale Fleming e la sua piccola carovana raggiunsero il pozzo di Bir Augerin, il primo di quelli segnati sulla carta del programma di marcia. La loro partenza era stata rimandata di diverse ore, quel mattino, perché Merle aveva insistito che si aspettasse il ritorno di Gunnar. Ma il giovane non si era fatto vedere. «Vedrete che ci raggiungerà durante il viaggio», l'aveva assicurata lo Sceicco. «È un esperto nel percorrere le zone sabbiose e deserte.» «Ma il suo cammello?» «Lo porteremo con noi. Lui potrà procurarsene un altro facilmente.» «Non avete un'idea del perché ci abbia lasciati così, senza dir niente? Questo non è nel suo carattere.» El Shabur le aveva rivolto un sorrisetto serafico. «È giovane. E i giovani sono scriteriati, indisciplinati. Lui ha... diciamo, certi amici... Oh, è un ragazzo che ha del fascino! E qui i biondi nordici piacciono.» Il volto di Merle era arrossito, ma poi si era fatto pallido. Dale invece non mostrava nessuna emozione e, fissando le mani dell'arabo che arrotolavano strettamente un pezzo di corda, si era reso conto che, evitando di guardarlo negli occhi, il tono della sua voce faceva un effetto del tutto diverso; non già suadente e cordiale, ma mellifluo. Merle non aveva fatto altre obiezioni, tuttavia, fra una cosa e l'altra, era riuscita a ritardare la partenza della carovana fino alle tre e mezza del pomeriggio. Come al solito c'era stato da discutere con gli arabi circa il giorno della partenza: secondo le loro supersitizioni, il lunedì, il giovedì e il sabato erano i giorni fortunati, sebbene ciascuno per motivi completamente diversi. Ma la faccenda era complicata da un intreccio di auspici più minuti, come una corda che si spezzava o il morso di un cammello, cosicché ogni partenza avveniva sotto un insieme di pronostici sovente contrastanti che non tutti interpretavano allo stesso modo. Solo che frequenti soste per le preghiere, e le continue lotte con i cammelli - in realtà erano dromedari, capricciosi e pericolosi - distraevano gli arabi dalle loro superstizioni. A Bir Augerin il campo venne montato con rapidità. I servi riempirono gli otri d'acqua a una delle vasche in muratura del pozzo, e fecero bere gli animali. Merle accese una sigaretta e, non avendo di meglio da fare, ripulì
i suoi pennelli, pensando sconsolata a Gunnar. Da lì a poco, mentre gli uomini s'inginocchiavano sui loro tappetini da preghiera e salmodiavano il Corano rivolti verso la Mecca, Dale la raggiunse. «Io non ci credo!», sbottò la ragazza, prima ancora che il cugino aprisse bocca. «Esattamente, cos'è che non credi?» «Gunnar non è tipo che agisce così. Forse hanno litigato e...» La ragazza deglutì a vuoto, chinando il capo. «Dale tu credi che quell'uomo abbia... fatto del male a Gunnar?» «Sono convinto di no, mia cara», mentì lui, carezzandole una mano con fare rassicurante. «Non hai ragione di preoccuparti. Sono pronto a scommettere che ci raggiungerà presto, e con un'ottima spiegazione. Lo Sceicco delle Nebbie è soltanto un vecchio musulmano strambo. Il nostro Gunnar è un ragazzo sveglio e in gamba. Comunque...», tossicchiò, «vorrei che stanotte tu tenessi questa con te.» Dale le porse una piccola automatica cal. 22. «È carica, e tu sai usarla bene. No...» Sorrise. «Non per lo Sceicco. Ci sono dei lupi in questa zona. Ieri notte li ho sentiti ululare. Non attaccano l'uomo, però possono diventare pericolosi se li sorprendi a frugare nei rifiuti in cerca di cibo.» «Lupi? Qui nel deserto? Sbagli. Saranno stati sciacalli.» Lui rise. «Non dare mai torto al vecchio Dale, che è stato in Alaska. L'ululato del lupo è caratteristico. Ascolta!» E, gettando indietro la testa, emise un ululato così acuto e risonante che l'intero accampamento tacque stupefatto. El Shabur, che era giunto quasi al termine della preghiera, balzò in piedi e sguainò il coltello ricurvo. Un paio di servi imbracciarono i vecchi fucili di marca inglese a canna lunga, e si guardarono intorno in cerca del bersaglio. Dalla gola di Dale scaturì una risata gorgogliante. «Vedi? Anche loro conoscono il vecchio ululato del brigante. Se stanotte lo senti, tieni stretta la pistola e sorridi.» Ma quella notte non accadde nulla che disturbasse il loro sonno. La carovana si mise in viaggio prestissimo, alle quattro e mezzo del mattino, e col fresco i cammelli procedettero in fretta per circa tre ore sulla sabbia dura. Alle otto raggiunsero il pozzo successivo segnato sulla carta, la piccola Oasi di Bir Hamed. La cisterna era l'ultima prima dell'inizio del deserto ve-
ro e proprio e, visto che lì intorno c'era dell'erba fresca, gli arabi dissero che conveniva far pascolare i cammelli, lasciarli riposare tutta la giornata e prepararli così alle fatiche da cui erano attesi in seguito. Dale si rese conto che qualche loro superstizione li spingeva a quella sosta, ma non volle mettersi a litigare, e acconsentì. I fuochi furono accesi, e su di essi vennero piazzate le grate di ferro per cucinare. I pezzi di cedro e di balsamo sprigionavano fiamme vive e un odore gradevolissimo, perfino più dolce di quello del cibo. Dale discusse a lungo col cuoco, che intendeva fare il caffè all'araba coi chicchi verdi e varie spezie, e lo convinse che per un occidentale il caffè verde era un controsenso. El Shabur ne approfittò per avvicinare Merle e le indicò l'oriente. «Lui sta arrivando, Miss.» La ragazza lasciò cadere la macchina fotografica che stava caricando e balzò in piedi. «Lui chi? Gunnar? Ma... io non vedo nessuno.» «Arriverà a dorso di cammello, da quella direzione.» A Est c'era una distesa di sabbia mista a terriccio sassoso, appena ondulata e del tutto deserta. Merle aguzzò gli occhi ansiosamente. «Non vedo proprio nulla. Dale!», chiamò. «Lo Sceicco dice che Gunnar sta venendo da quella parte. Riesci a vederlo?» Dale si accostò a loro, con gli occhi fissi sull'orizzonte, poi rivolse a El Shabur un sorrisetto blando. «Ah, voialtri arabi! Popolo strano e meraviglioso! Nel deserto avete un sesto senso e forse anche un settimo. Mi farete venire un complesso d'inferiorità.» Mise quindi un braccio attorno alla vita di Merle. «Se ha detto che sta venendo, verrà. Dirò al cuoco di preparare qualcosa anche per lui.» Dale si allontanò per dare le istruzioni e, pochi istanti dopo, fece ritorno. «Questa gente mi sembra rimbecillita, stamattina», brontolò. «Ibrahim recita aneddoti che sembrano tratti dalle Mille e una notte. Secondo voi, cosa gli passa per la testa?» «Ai sempliciotti piace chiacchierare», rispose lo Sceicco, sprezzante. «Parlano, e non dicono niente.» «Già, quell'Ibrahim è proprio un bell'elemento, uno spiritaccio. A un funerale sarebbe capace di far ridere la vedova in gramaglie. Ma tutto cambia quando parlano di Vampiri e di spettri: sussurrano, si guardano alle spalle, fanno segni di scongiuro e, se il racconto è particolarmente orribile, alcuni tengono una mano sul pugnale.» «Chiacchierano a vanvera. Questi non sanno nulla di stregoneria.»
«Dite sul serio? Be', certo voi li conoscete meglio di me. Ma ditemi, esiste davvero un posto chiamato Bilad El Kelab?» El Shabur strinse lievemente le palpebre. Poi ebbe un lento cenno di assenso. «Vedo che Ibrahim mescola alle sue fantasie anche un po' di verità. Esiste, e lui va raccontando a tutti che suo fratello visitò quel luogo. In inglese significa Terra dei Cani... un nome suggestivo, dovuto alla leggenda secondo cui tutti gli uomini, una volta laggiù, al tramonto si trasformano in cani. Come i Lupi Mannari. Capite?» «Bilad El Kelab è molto lontano, a Sud... mi pare nel meridione del Sudan», disse Dale. «Anche a me Ibrahim ha detto di suo fratello.» «Ibrahim non ha mai avuto un fratello.» «Non ce l'ha?» Lo Sceicco scosse il capo. «No. E il meridione del Sudan è famoso per le leggende stupide e infondate che vi si inventano.» «Oh, be', mi permetto di dissentire, signore. Io sono appassionato di leggende e folklore locale. Anzi, è proprio per questo che desidero visitare Siwa, oltre, naturalmente, alla mia responsabilità come... uh, sorvegliante della mia cara cuginetta.» L'altro inarcò un sopracciglio. «Essere troppo curioso di certe cose può non rivelarsi saggio, a volte. Noi arabi abbiamo un detto: ciò che nutre l'aquila può uccidere il passero.» «Molto saggio, mio caro amico. Non è così Merle? Da quando ho oltrepassato i cento chili, voi siete il primo che mi paragona a un passero. Ah, lo spirito di voi arabi! Questo Ibrahim, comunque, mi ha spaventato tutto il campo. Va dicendo che un canemannaro, o un Lupo Mannaro, ci sta annusando il didietro. E afferma che lui stesso ieri notte lo ha visto.» «A tanta distanza da Bilad El Kelab?» «Giusto, caro Sceicco. E tuttavia, cosa sono poche centinaia di miglia per un uomo-lupo? Di giorno nessuno gli impedirebbe di viaggiare a dorso di cammello. Oppure su un veicolo, se non fosse appassionato quanto noi dei vecchi sistemi. Ovviamente dovrebbe riassumere la sua forma umana, dato che lo sterzo e il cambio di una Land Rover mal si prestano a esser manovrati da un lupo e...» «Dale!» Merle non aveva voglia di scherzare. «Potrebbe essere lo stesso lupo che hai sentito ululare.» Ma quando il cugino le diede di nascosto un pizzicotto d'avvertimento, fu svelta a continuare: «Ciò accadde ad Alessan-
dria, certo. Fu quella notte, fuori Alessandria, che ti parve d'aver udito dei lupi». «No, fu nella Valle dei Re», la corresse Dale. «Tuttavia, il giorno dopo seppi che si trattava di sciacalli.» El Shabur fissò l'uno e l'altra con viso imperscrutabile. Poi accennò verso oriente. «Il nostro amico è in arrivo.» In lontananza, distorta dalle esalazioni di calore, c'era la figura di un cammello con qualcuno in groppa. Merle fu costretta ad accendersi una sigaretta per mascherare il nervosismo. «Potrebbe essere chiunque. Impossibile dirlo da questa distanza.» Lo Sceicco si strinse nelle spalle. «Presto lo scoprirete, Miss.» Mezz'ora più tardi, Gunnar Sven giunse nell'accampamento. Appariva sfinito e malridotto, come se avesse cavalcato per giorni e giorni senza dormire e senza cibo. L'irritazione di Merle, e l'impazienza di avere una spiegazione, svanirono all'istante quando vide in che condizioni il giovane era ridotto. Con un gemito impietosito corse ad aiutarlo a smontare, poi lo sorresse conducendolo verso la tenda dinanzi alla quale lo Sceicco e Dale si erano seduti. «Ti ho fatto preparare del cibo», ansimò la ragazza. «No, non ora.» Gunnar vacillava. La voce gli usciva a stento dalle labbra aride e screpolate. «Devo dormire. Io... scusami, Merle. Ho avuto un contrattempo. Un maledetto contrattempo!» «Non fa nulla, Gunnar. Oh, povero caro!» La ragazza lo affidò a un servo. «Portalo a letto, e abbi cura di lui. Più tardi il signor Fleming gli darà una medicina. È malato!» Quella sera, poco prima del tramonto, nel campo ci fu una certa agitazione. I cammelli vennero tolti dal pascolo e riportati al pozzo per essere costretti a bere ancora. Ma era chiaro che avrebbero preferito continuare a mangiare e, essendo cammelli, espressero la loro disapprovazione scalciando e mordendo. Gli uomini usarono i bastoni e, levando alte ed elaborate imprecazioni in arabo, lottarono con le bestie finché i loro capaci stomaci furono pieni d'acqua. Dale bighellonò intorno ai cammelli finché uno di essi quasi lo centrò in faccia sputando un disgustoso bolo di saliva, quindi preferì allontanarsi. Le ombre della sera si facevano rapidamente più lunghe. L'uomo andò a fermarsi presso un mucchio di macigni e, con le mani in tasca, fissò pensosa-
mente l'immensità del deserto. «Dev'esserci qualcosa che mi sfugge», mormorò fra sé. «Come un mosaico dai pezzi che non vogliono riunirsi. Negromanzia, Stregoni e Lupi Mannari. Gunnar Sven. Lo Sceicco delle Nebbie! Fantasie che circolano nell'accampamento. Un bel miscuglio. Mi chiedo se...» Ma d'un tratto il suo sguardo mutò, tornando a fuoco su quello che lo circondava. Il suo corpo voluminoso s'irrigidì. Poi, con la leggerezza che a volte sanno avere anche gli individui grassi, avanzò fra gli alti macigni giallastri. Il suo udito sensibile sentiva una voce, poco più che un sussurro, da qualche parte davanti a lui: «...finché non saremo a Siwa. Io starò accanto a lei, dall'alba al tramonto». A parlare era stato Gunnar Sven, con ira. «E se tu tenterai qualcosa, allora le dirò chi sei!» «Bada che potrei dirle io chi sei tu... dopo il tramonto!», replicò sarcasticamente la voce di El Shabur. «Se lo sapesse, credi che cercherebbe la tua protezione?» «Sei un demonio!» «E tu un pazzo. Non immischiarti con poteri che non puoi controllare. Ne riparleremo a Siwa.» Le due voci tacquero. Dale sentì i passi di Gunnar e di El Shabur allontanarsi verso il campo. «Più pezzi vanno a posto, meno vedo chiaro il mosaico», mormorò Dale. «Sembra che questo viaggio a Siwa abbia dei risvolti molto ma molto strani. Vecchia oasi... vecchia città diabolica, cosa nascondi?» Il sole era scomparso sotto l'orizzonte, e Dale ripensò a una frase di Gunnar che d'un tratto gli appariva significativa: Io starò accanto a lei dall'alba al tramonto. Non aveva l'aria di sembrare un modo di dire poeticosentimentale. E, se messa in relazione con la sua inspiegabile scomparsa della sera prima, si arricchiva di un altro significato. Ma quale? Dale si avviò lentamente verso le tende, masticando il bocchino della pipa scarica. Era stato lì a riflettere, dopo aver origliato, e aveva visto Gunnar e l'arabo separarsi. Poi Gunnar si era avviato con Merle verso il piccolo pascolo, e i due stavano tornando solo adesso, ombre nell'oscurità violacea del deserto. La ragazza si era innamorata, pensò Dale con un sospiro. E avrebbe vissuto la sua vita, nel bene o nel male. Ma se aveva deciso di legare il suo destino a quello dello svedese, su di loro si addensava una nuvola nera.
In quanto a El Shabur... fino a che punto poteva essere pericoloso quel famigerato Stregone arabo? Le città del Nord Africa e i borghi cotti dal sole delle oasi, pullulavano di individui che praticavano la magia. Alcuni di loro erano innocui, abili a curare i malati e propensi a distribuire le loro profezie per un piatto di minestra e basta. Pochissimi erano noti per l'aura oscura che li circondava: li si sospettava di avere a che fare col Demonio, e la gente li evitava. Gli occhi di Dale si fecero freddi nel ricordare uno o due di quegli individui, e il suo volto solitamente cordiale s'indurì. Era sicuro che Merle stava correndo un pericolo di qualche genere, per causa di Gunnar non meno che di El Shabur. Lo svedese si sarebbe tagliato la gola piuttosto che farle del male, e tuttavia lui era una sorta di canale attraverso il quale avrebbe potuto raggiungerla. E più Merle lo amava, più sarebbe stata vulnerabile. El Shabur aveva dei progetti riguardo a lei: a Dale era bastato guardarlo negli occhi per intuirlo. E quei progetti si sarebbero concretizzati a Siwa. Dunque gli restavano tre giorni per scoprirne la natura. Tre giorni! Forse assai meno, rifletté. I rapporti di Gunnar con l'arabo sembravano sul punto di esplodere pericolosamente, e la crisi sarebbe arrivata da un momento all'altro. Merle, nel suo cieco impulso di difendere Gunnar, ne sarebbe stata inevitabilmente coinvolta. Ma tutto il mistero concerneva El Shabur. Con o senza poteri magici, l'uomo poteva procurare alla carovana ogni genere di guai. E se costui era il serpente velenoso che Dale sospettava, nessun ambiente meglio del deserto si sarebbe prestato a un delitto... O almeno, delitto fu la parola che egli preferì usare, anche se in lui albergava la strana certezza che El Shabur mirava a qualcosa di molto peggiore. Ignari di Dale, assorti l'uno nell'altra, i due giovani stavano camminando piano piano oltre i pozzi. Gli occhi di Gunnar accarezzavano il volto della fanciulla con immensa tristezza. «Se solo ti avessi conosciuto prima», mormorò. «Tutto ciò che possiamo fare è di vivere giorno per giorno, caro.» Lui si voltò a fissarla e le prese le mani. «Merle, per me, averti accanto è un miracolo. Ma dovrei mandarti via. E vorrei non averti detto ciò che ti ho detto.» «Mio povero Gunnar, tu non hai avuto alcuna scelta in realtà. Ma dimmi...» La giovane donna fremette. «La paura che hai di El Shabur è la cosa più grande della tua vita? Perfino più grande dell'amore che hai per me?»
Il giovane l'afferrò per le spalle e, quando chinò il volto sul suo, una smorfia di dolore gli alterò i lineamenti. Per un attimo ciò che avrebbe voluto rispondere parve scaturire dagli occhi ma, invece di parlare, le lasciò bruscamente le mani e si scostò. Poi riprese a camminare verso il campo lentamente, lo sguardo fisso al suolo. «È inutile... non posso continuare così. Nessun uomo sulla Terra ha mai avuto addosso catene come le mie. E mi si rivolta l'anima al pensiero che anche tu possa rischiare la stessa bestiale oscenità di cui sono prigioniero io. Ci sono caduto dentro perché ero un maledetto pazzo, scriteriato e incauto. Non avevo la minima idea di quello che mi sarebbe accaduto, neppure un vago sospetto che dietro quella cosa ci fosse qualcosa di... più forte della morte. Ero cieco, ignorante, credulone. Andai a gettarmi da solo nella trappola di El Shabur e, quando ci rimasi chiuso dentro, era ormai troppo tardi!» «Gunnar, non vorresti spiegarti meglio? Ti prego: io voglio capire. Nessuno può essere il servo di un padrone che odia, a meno che...» «A meno che non ne sia lo schiavo. Ebbene, è così. Io sono il suo schiavo.» «Non riesco a comprendere.» «Meglio così. E non provarci neppure. Era per questo che volevo farvi andar via da Sollum: perché non sapeste mai, perché non capiste mai, perché usciste per sempre da questa vicenda!» «Se ti sei venduto in qualche modo allo Sceicco, non potresti ricomprare la tua libertà? Ogni contratto può essere rotto.» «Non quello che mi lega a lui. Ascolta, Merle: io non posso, non oso dirti più di questo. Fai conto che quell'uomo sia un veleno, e che il suo veleno scorra nel mio sangue. Anche se ti sembra infantile e idiota, ti prego, cerca di pensarla così. Io... faresti una cosa per me? Una cosa che può sembrarti priva di senso e assurda? La faresti?» «Dimmi che cosa», annuì lei. «Appendi questo sull'ingresso della tua tenda, stanotte e ogni altra notte.» Gunnar si tolse di tasca una piccola treccia composta da quattro cordicelle colorate, una verde, una bianca, una rossa e una nera, alla cui estremità pendeva una specie di sigillo. «Perdonami, Merle, ma non posso e non voglio spiegarti di cosa si tratta. E tuttavia devi usarla come ti ho detto. Promettimelo!» Stupita dal suo tono accorato, la ragazza promise. Osservò la treccia: un talismano? E cosa poteva avere a che fare con il mistero che avvolgeva i
rapporti fra Gunnar e lo Sceicco? Per un attimo i suoi occhi si velarono, nel dubbio che la mente del giovanotto fosse malata. «No», la prevenne lui, intuendolo. «Non sono mai stato tanto sano di mente quanto ora... per quel che mi serve esserlo. Per me è troppo tardi. Ma a te non deve accadere niente.» «Non vorresti parlare con Dale? Lui è intelligente e sa un sacco di cose, anche le più strane. Sono sicura che potrebbe aiutarti, se solo tu gli spiegassi quello che ti è accaduto.» «No. Non ancora, in ogni modo. Solo quando saremo a Siwa potrò parlare. Il silenzio è il prezzo che devo pagare per poter stare con te in questo viaggio.» «Ma credo che Dale saprebbe...» «Se non vuoi che muoia in modo orribile, ti scongiuro di non dirgli una parola. Quelli che hanno osato interferire con le manovre di El Shabur non sono vissuti molto.» Il giovane si fermò accanto ai pacchi di viveri in scatola, e si ficcò le mani in tasca, accigliato. «Va bene.» Merle rabbrividì, conscia che Gunnar non aveva nessuna voglia di scherzare o esagerare i fatti. «Non gli dirò niente. Ma è difficilissimo ingannare Dale. Spesso ho creduto di potergli nascondere delle cose, e poi ho scoperto che le sapeva benissimo. Gli piace fare il finto tonto, ma quel suo cervello è sempre al lavoro. E scommetto che nello Sceicco ha già annusato qualcosa di strano.» «Nessuno lo crederebbe, vedendo quanto sembra svagato e frivolo.» «Più recita la parte dell'ingenuo, e più è segno che medita qualcosa», mormorò Merle. «El Shabur è un uomo molto astuto, cara.» «Tu non conosci Dale.» «E tu non conosci El Shabur», borbottò il giovane. I due proseguirono e, giunti davanti alla tenda di Dale, trovarono l'uomo e lo Sceicco seduti a chiacchierare, con un bicchiere di limonata in mano. «Ehilà! Stavamo parlando del nostro amico Lupo Mannaro», li salutò blandamente Dale. «Che ne dici, Gunnar: te la sentiresti di stare un po' alzato con me, stanotte? Magari ci capiterà di mettere una pallottola in corpo a quella bestia.» L'alto svedese lo guardò in silenzio. A denti stretti cercò di leggergli nello sguardo ciò che pensava realmente e, dopo una ventina di secondi, si voltò a fissare lo Sceicco.
«L'avete suggerito voi?» Il suo tono era stato gelido, ma l'arabo scosse le spalle. «Al contrario. Sarebbe saggio trascorrere la notte a letto, in vista della marcia di domani. Se Mister Fleming desidera andare un po' a caccia, gli suggerirei di aspettare di essere all'Oasi di Siwa. Sulle colline ci sono degli uccelli, e forse qualche sciacallo.» «Non sono affatto stanco, caro Sceicco», obiettò Dale. Sorrise allo svedese. «Ebbene, che ne pensi, vecchio mio? Vuoi aspettare di essere a Siwa, o facciamo un po' di tiro a segno stanotte?» «Meglio pazientare.» Gunnar riuscì a fare una risatina. «Inoltre, voi conoscete le leggende: non basta una palla di piombo per ammazzare un Lupo Mannaro. Risparmiamo le munizioni, e facciamoci una buona nottata di sonno.» «Un vero sportivo non parla così!», sospirò Dale. «E sia pure! Ma voi mi garantite che c'è cacciagione a Siwa, Sceicco?» «Ve lo giuro sul mio sacro wasm.» «Wasm?» Dale tolse dal taschino la pipa, la esaminò, poi decise di accendersi una sigaretta. «È una parola araba?» «Significa la mia insegna, il mio stemma tribale. Anche noi abbiamo un'araldica.» «Ah! Questo è interessante. Io adoro gli stemmi, specie quelli dei paesi che non conosco. Wasm... ma che buffa parola. E il vostro wasm, qual è?» El Shabur si piegò a tracciarlo sulla sabbia. Dale sbatté le palpebre e mascherò il suo disagio sotto un sorrisetto vacuo. Aveva riconosciuto quel simbolo, era anzi uno dei pochissimi che avrebbe saputo dargli un significato, e il fumo della sigaretta nascose la sua faccia allo sguardo indagatore dell'arabo. Che El Shabur giocasse con lui, divertendosi a spacciarsi per un conoscitore dell'Occulto? O gli rivelava quel simbolo mortale sicuro che solo un Iniziato avrebbe saputo dargli un significato? El Shabur era un Yedizee, un satanista, e un adoratore di Melek Taos. Il simbolo era senza alcun dubbio la coda ritorta di quel demone orientale, e Dale dovette constatare che le sue peggiori paure erano così confermate: di tutte le Sette Segrete che conosceva, nessuna era tanto mostruosa e potente come quella degli Yedizee. Il loro nome e la loro triste fama si perdevano nell'oscurità del più lontano passato. Talvolta era accaduto che uno di loro lasciasse le colline rocciose dove la Setta aveva sede, a oriente di Damasco: una volta ogni secolo, da quando se ne aveva conoscenza, un sacerdote di Melek Taos si era
aggirato come un demone della distruzione nel mondo esterno, allo scopo di prenderne conoscenza. E poi era tornato a portarne notizia agli altri Adepti. Immortali e indistruttibili, essi vivevano là nell'isolamento: un nucleo di potere arcano dagli scopi sconosciuti. «Carino, come disegno. Sembra un'anguilla con il mal di pancia», scherzò Dale. La faccia dello Sceicco era impassibile come quella di un giocatore di poker. «Wasm, avete detto? Bisogna proprio che me lo scriva. Mi piace prender nota degli elementi di folklore.» Negli occhi dell'arabo ci fu un lampo, quando fissò Merle. «Anche voi, come vostro cugino, miss Anthony, soffrite di un vuoto di memoria?» «Io... noi... Che volete dire?» «Voi avete un detto, nel Libro della Saggezza: "Chi troppo sa, fa un passo sulla via della follia". E questo mi sembra il caso di mister Fleming. Infatti chi, dopo anni e anni di studio, può dimenticare una cosa semplice come il wasm?» Sentendo che il suo bluff era stato chiamato, Dale non mosse muscolo. E va bene, pensò, se vuole ballare, balliamo. Ma era troppo tardi quando capì che, con quella faccenda del disegno, l'arabo aveva inteso distrarre la sua attenzione da Gunnar, e quella manovra gli era perfettamente riuscita: mezzo minuto prima, infatti, lo svedese si era alzato borbottando qualcosa circa le sigarette che aveva finito, avviandosi quindi alla sua tenda. E non era ancora tornato. Senza una parola Dale si alzò e andò a guardare nella tenda di Gunnar: era vuota. Oltrepassò poi le torce accese dai servi e guardò a occidente, quindi dalla parte opposta dove il deserto si stendeva piatto. La luce della luna lo imbiancava, e non si vedeva nessuna ombra umana. Cercò Gunnar in tutte le altre tende, dietro i bagagli e fra i cammelli, ma inutilmente. Con un'imprecazione s'avviò verso i macigni, e fu allora che scorse qualcosa muoversi su una duna di sabbia non molto lontano. S'irrigidì. Che fosse soltanto la sua immaginazione troppo eccitata a fargli vedere quell'ombra vaga nel chiarore lunare delle sabbie? Mentre tornava alla tenda fuori della quale Merle lo attendeva in compagnia dell'imperscrutabile arabo, si chiese se l'uomo cominciasse a considerare la sua presenza come una sorta di sfida. Dopo cena, vedendo che Merle si ritirava senza una parola nella sua tenda, la raggiunse. «Non devi stare in pena per Gunnar, mia cara. Dietro questa sua scom-
parsa notturna c'è l'arabo, ne sono sicuro, anche se la spiegazione che ne ha dato costui è tutta inventata.» La giovane donna era pallida per l'ansia. «Pensi che tornerà?» «Ma certo!» L'uomo le poggiò una mano su una spalla. «Ora cerca di riposare, bambina. Se stanotte ti sentirai inquieta o avrai bisogno di qualcosa, chiamami. Io rimarrò sveglio fino a tardi. Ho da terminare certi miei lavoretti.» Merle non si lasciò ingannare dal suo tono. «Dale! Sei... preoccupato? Forse per quel lupo?» «No, non metterti in testa delle paure ingiustificate. Tuttavia qui siamo pur sempre in una terra di nessuno. Hai a portata di mano il giocattolo che ti ho dato, vero?» Lei gli mostrò l'automatica che stava sotto il cuscino. «Anche Gunnar mi ha detto di stare in guardia, Dale. Ma contro El Shabur, non contro i lupi.» «Quell'individuo è più pericoloso di un branco di lupi», fu d'accordo il cugino. «Con loro puoi sempre sapere come regolarti, ma lo Sceicco è un altro paio di maniche.» «Gunnar mi ha dato questo. Ha detto che devo usarlo per chiudere i lembi della tenda, di notte. Strano, non ti pare?» Dale esaminò la treccia colorata che la ragazza gli porgeva, con profondo interesse. «Per le Porte di Gerusalemme!», sussurrò poi. «Se tu lasciassi quest'affaruccio in eredità a un Museo, ti farebbero un monumento equestre. Credilo o no, mia dolce principessa, ma tu potresti vendere il regalo di Gunnar per un sacco pieno di diamanti. Se non ho le traveggole, infatti, è un reperto vecchio di migliaia di anni. Parlo di questo sigillo, naturalmente, non della treccia. Si tratta di uno smeraldo... e che smeraldo! Guarda: su di esso è inciso l'Occhio di Horus. Capisci?» «Uno smeraldo! Ma se è così, deve avere un valore inconcepibile! Com'è possibile? Come può esser finito nelle mani di Gunnar?» «Lo avrà avuto dallo Sceicco. O gliel'ha rubato. Ed è proprio il genere di cosa di cui ha bisogno lui, poveretto! È un talismano protettivo... un talismano ritenuto infallibile.» «Dale», sbuffò lei, «non riesco a capire quando parli sul serio o quando ti diverti a fare l'idiota! Protettivo per cosa? Che significa?» «Significa che El Shabur è un Negromante. E significa anche che Gun-
nar non è soltanto un comune Iniziato alla Stregoneria, ma ci sta dentro fino al collo. Il possesso di un oggetto di questo genere lo dimostra. Dev'essersi addentrato molto profondamente in quella caverna oscura... povero ragazzo.» «Vuoi dire che è in pericolo?» «In questo momento sta correndo dei rischi spaventosi», sussurrò Dale. «E non vedo il modo di aiutarlo... non più, adesso. Meglio guardare in faccia la realtà, mia cara. Gunnar non è uomo che possa permettersi di amare o di sposare una donna. È legato corpo e anima a El Shabur. Questa faccenda è odiosa, disgustosa, infernale!» Sedette sulla branda e le strinse una mano. «È colpa mia. Sapevo già che c'era qualcosa di molto anormale in Gunnar, e avrei dovuto avvertirti prima.» «Io lo amo», disse Merle sottovoce. «Nulla può ormai cambiare questo fatto. Qualunque cosa abbia fatto, o sia... lo amo.» Il cugino la fissò a lungo, gravemente. «Lo so. E forse questo è il lato più tragico dell'intera faccenda.» Si alzò per uscire, ma sulla soglia si voltò. «Gunnar non ti ha dato quella treccia per semplice capriccio. Usala come ha chiesto, e durante il giorno tienila sul tuo corpo, sotto i vestiti. Non permettere mai che lo Sceicco la veda. Dopodomani saremo a Siwa. Nel frattempo, fai in modo che quell'uomo non sospetti niente. E non preoccuparti troppo.» «Non è per me che ho paura, anche se non capisco cosa stia succedendo. È per Gunnar. Lui... è solo, e soffre molto!» Abbassò gli occhi con un sospiro simile a un ansito. «Ti stai comportando a meraviglia, cara. Qualunque altra ragazza, inchiodata qui nel deserto con uno stregone pazzoide capace di tutto, avrebbe una crisi di nervi. Chiudi la tua tenda, piccola. Va bene?» «Appena sarai uscito», annuì. «Te lo giuro.» Quella notte Dale non si svestì. Rimase seduto nella sua tenda, al buio, con una sigaretta in mano e i sensi rivolti a quanto avveniva fuori. Era convinto che nell'aria ci fosse qualcosa. E, allorché sentì la lontana eco di uno sparo nel deserto, corse subito all'esterno col fucile in mano. Gli uomini dormivano, l'accampamento era silenzioso, e la tenda di El Shabur era chiusa. Nessuno, a parte lui, sembrava aver udito quello sparo e, sebbene non ne capisse l'origine, sentì un brivido arcano corrergli lungo la schiena. Col fucile imbracciato fece qualche passo, aggirò i bagagli e, quando una nuvola oscurò la luna, si fermò. Poi tornò lentamente indietro, chie-
dendosi cosa provocasse in lui quella sensazione di pericolo. In quel momento, fra le masse scure delle rocce fra cui s'era nascosto quel pomeriggio, ci fu un movimento. Dale si morse le labbra. Gli conveniva svegliare qualcuno degli uomini? O, prima di farlo, sarebbe stato meglio andare a dare un'occhiata lui stesso? Dopo un attimo d'incertezza si avviò cautamente da quella parte. Il cielo si stava rannuvolando, e cumuli neri passavano veloci davanti alla luna. Di nuovo la tenebra lo costrinse a fermarsi e tese le orecchie: cos'era quel fruscio? Sabbia smossa dal vento? Sussurrando un'imprecazione indietreggiò, quindi si voltò e si allontanò nuovamente dalle rocce. E a un tratto, dietro di lui, ci fu uno scalpitio rapido. L'uomo sollevò il fucile, roteando su se stesso, ma era troppo tardi: un braccio duro come il ferro gli passò intorno al collo, e una mano gli tappò la bocca per impedirgli di gridare. Dale si contorse con la ferocia di una tigre. Sotto lo strato di grasso del suo pesante corpo c'erano muscoli forti, e sferrò poderose gomitate nello stomaco dell'assalitore. Lo sentì grugnire di dolore. La stretta si allentò e, girando su se stesso, riuscì a scaraventarlo a terra. Giusto allora la luna tornò a illuminare la zona, e Dale ansimò nel vedere un'intera banda di predoni arabi che gli stava arrivando addosso. Avevano le facce coperte dai barracani, larghi mantelli svolazzanti, e nelle loro mani balenavano i riflessi di armi da taglio. Erano troppi e troppo vicini perché gli fosse possibile raggiungere il campo, e nella colluttazione aveva perso il fucile. Con una bestemmia oscena corse verso le rocce e si addossò con le spalle a un alto macigno, poi si voltò a fronteggiare gli assalitori. Sferrando pugni e calci violentissimi, rabbiosi, ne abbatté alcuni. Gli altri urlarono e gli si precipitarono addosso, brandendo i pugnali. Ma quando Dale si credeva ormai perduto vide, stupefatto, una lunga ombra nera piombare giù da una roccia in mezzo ai suoi avversari. Era un grosso lupo grigio, irsuto, selvaggio, e veloce come una torpedine. I predoni ne furono colti di sorpresa. Invano mulinarono le armi per colpire l'animale: le sue zanne si chiudevano come pugnali sulle loro carni e, balzando da una parte e dall'altra, sferrava morsi ringhiando ferocemente. Le urla dei banditi si mutarono in gemiti di dolore. Il combattimento fu breve. Non un uomo venne ucciso, e tuttavia ciascuno fu malamente ferito: chi si prese degli spaventosi morsi in faccia, chi ebbe un polso spezzato dai denti della belva, chi restò azzoppato. Un
paio si comprimevano l'addome e tutti erano sporchi di sangue. Uno dopo l'altro i predoni voltarono le spalle e fuggirono. Anche il lupo era stato ferito. Dale lo vide correre dietro i banditi con un orecchio penzoloni, quasi tagliato in due da una pugnalata che gli aveva sfiorato la testa. Oltre le rocce c'erano dei cammelli e, poco dopo, la banda si allontanò scomparendo nel buio. La grossa bestia grigia si fermò ansimando, con la lingua penzoloni e le zanne scoperte, e voltò il capo a fissare Dale. L'uomo s'irrigidì, immobile, mentre la luna strappava riflessi gialli dai crudeli occhi del lupo, quindi indietreggiò lentamente. Si sentiva lo stomaco stretto in una morsa gelida, e mai la notte del deserto gli era parsa più orrida e minacciosa. Il silenzio pesava su di lui. Un passo dopo l'altro Dale tornò all'accampamento. Non si voltò neppure una volta a guardare il lupo: sapeva che non lo avrebbe attaccato. E adesso sapeva anche un'altra cosa. Sapeva! Due giorni dopo, fra le alture rocciose, comparve una distesa di palmizi e di case antichissime addossate alle colline: l'Oasi di Siwa. La cittadella era stata fortificata secoli addietro, ma il muro bianco appariva aperto in più punti. Addossata alle alture, era un affastellarsi di piccoli edifici e viuzze strette, costruita per lo più in mattoni di argilla che il vento del deserto sgretolava lentamente. Alcune case dovevano essere state dipinte di bianco, decenni prima, ma adesso il loro colore era uguale a quello della roccia, contro cui risaltavano solo per la forma. Molti edifici erano a quattro o cinque piani, con finestre esigue come feritoie, e in essi s'intuiva l'esistenza di locali minuscoli in cui la vita si accalcava e si nascondeva al sole accecante. Alcuni edifici sull'orlo di uno strapiombo, sembravano più alti di quanto erano in realtà, e dai più elevati svettavano torri e torrette. I due sottili minareti di una moschea dominavano l'abitato. A parte i datteri e le capre, non era possibile capire da cosa la popolazione traesse sostentamento. Gli occhi di Dale erano però fissi su Merle, che cavalcava accanto a lui. La giovane donna era pallida, ansiosa, così preoccupata per Gunnar, che egli si chiese se avesse fatto bene a non dirle quello che aveva scoperto. Il giovane svedese non era più ricomparso all'accampamento dopo l'assalto dei predoni, e Merle si rodeva per l'angoscia. Lo Sceicco El Shabur si voltò a osservarla e, nel vedere come la ragazza si mordeva le labbra girando lo sguardo intorno, ebbe un sorrisetto blando.
«Dov'è Gunnar? Dov'è?», domandò la ragazza. «Avete detto che ci avrebbe atteso a Siwa. Ma dov'è?» Dale avrebbe potuto ridere, se la situazione non fosse stata così sinistra e grave. Merle amava come odiava, con forza, irragionevolmente, e non si curava di nascondere i suoi sentimenti. Perfino con l'arabo si scopriva, domandando notizie di Gunnar con l'ingenua ansietà di una ragazzina. Ma la sua cupa voglia di ridere scomparve, quando pensò che entrambi avrebbero potuto concludere la loro esistenza lì, in quella città primitiva circondata dal deserto. E Gunnar? Fare ipotesi su quanto poteva essergli accaduto era snervante. Dale era certo che il giovane gli avesse salvato la vita due notti prima, così com'era certo che a organizzare l'attacco dei predoni doveva essere stato lo Sceicco El Shabur, col preciso scopo di togliere di mezzo lui. Adesso era costretto a chiedersi se e, quanto crudelmente, l'arabo avrebbe punito il suo servo per quella seconda interferenza. La piccola carovana s'inoltrò nell'abituro della periferia fatto di stradine contorte e chiuse da muri interminabili. Dale rimase indietro, per tenere sott'occhio El Shabur il più possibile. L'individuo cavalcava adesso a fianco di Merle, che gli parlava animatamente. Pur non riuscendo a distinguere le loro parole, Dale notò che lo Sceicco si mostrava interessato e, dai gesti delle sue mani quando rispondeva, capì che la stava rassicurando su qualche argomento. Gunnar, senza dubbio. Fra quei due non poteva esistere altro soggetto di conversazione. Oltrepassarono il mercatino rionale, la grande tomba quadrata di Sidi Suliman, una specie di parco fitto di palme, e giunsero alla base di un'altura a forma di pan di zucchero costellata da migliaia di tombe. El Shabur la indicò con un largo gesto da cicerone. «La Collina dei Morti.» «Il suo aspetto si addice al nome», commentò Dale. L'arabo accennò a una costruzione che sorgeva sul fianco della collina, su una terrazza rocciosa. «Là c'è l'ostello per i viaggiatori, quei pochi che vengono a Siwa.» «Assai appropriato. Gli ospiti stranieri riposano dove riposano i morti. Ciò garantisce notti tranquille, suppongo.» Merle non rise. I suoi occhi fissarono l'altura coperta di tombe con uno sguardo vacuo e poco interessato. «Suggerisco di smontare qui», disse El Shabur. «Ibrahim penserà ai vostri cammelli. Il fonduk è dall'altra parte della città.»
Lo Sceicco fece inginocchiare il cammello e ne smontò. Affidò quindi la bestia a uno dei servi, salutò Dale con un rispettoso «Salaam!», rivolse un inchino eccessivamente profondo a Merle e, accomiatandosi a quel modo, si allontanò fra le viuzze. I due cugini lo videro sparire con sollievo, ma Dale notò che la gente s'affrettava a scostarsi con largo anticipo al suo passaggio. Mentre poi aiutava la giovane donna, sfinita, a scendere sul selciato sconnesso, le domandò: «Di cosa stavate parlando, lungo la strada? Mi è parso che tu stessi apostrofando il nostro amico con particolare eloquenza». «Gli ho chiesto di Gunnar. Cos'altro avrei da dire a quell'uomo? Oh, guarda laggiù, che panorama!» A meridione si scorgeva un lembo di deserto, con una serie di dune mobili alte come colline. Più oltre c'era una catena di villaggi sulla sommità di strapiombi impressionanti. Dale ignorò la spettacolare bellezza del deserto per fissare Merle, che sembrava essersi incantata. Ma qualcosa negli occhi di lei gli disse che non vedeva nulla di quel panorama: stava pensando, immaginando, proteggendo qualcosa. Che cosa? Dale lo ignorava, e tuttavia era certo che la mente di lei fosse concentrata su Gunnar. Conoscendola, sapeva però che farle delle domande sarebbe stato inutile. I due cugini trovarono l'ostello sorprendentemente fresco e pulito. Ibrahim funse da interprete e rimase a loro disposizione. In quel momento non c'era nessun altro cliente. Verso sera Dale fu informato che i funzionari di polizia egiziani volevano vederlo, per un normale controllo dei passaporti. Conoscendo il loro carattere, stabilì che farli aspettare sarebbe stato poco saggio. Ma non se la sentiva di lasciar sola Merle. Le gettò una rapida occhiata, distogliendo lo sguardo da una mappa che si era messo a studiare. «Ti va di venire con me a fare un giretto in città? O preferisci star qui con Ibrahim ad ammirare il tramonto?» La ragazza era seduta davanti alla finestra e stava facendo un disegno a matita, il soggetto del quale era la distesa di tetti dei sobborghi. «Sì», rispose distrattamente. «Sarà meglio che io sia più esplicito», sospirò Dale. «Domanda A: vuoi venire con me? Domanda B: preferisci restare qui con Ibrahim?» «B», si limitò a rispondere lei, senza distogliere gli occhi dal disegno. L'uomo ebbe la strana impressione di cogliere nel suo sguardo un im-
provviso sollievo, quasi che Merle avesse visto risolversi un qualche suo problema. Scosse le spalle. «Se tu mi facessi anche un piccolo applauso, potrei almeno uscire di scena col sorriso sulle labbra!» Per farsi perdonare, la giovane donna gli mostrò il disegno, indicandogli i particolari tecnici che la stavano interessando maggiormente. Dale, che si piccava di essere un buon critico d'arte, ne approfittò per lanciarsi in un discorso sulle origini storiche dell'architettura locale, e poi la stimolò abilmente a ribattere in base ai suoi punti di vista artistici. I due chiacchierarono piacevolmente per un poco, mentre il sole calava sempre più verso l'orizzonte, finché la ragazza disse, come casualmente: «Non è necessario che tu vada alla Stazione di Polizia proprio stasera, vero?». Dale si alzò. «Diavolo, me n'ero completamente dimenticato! Spiacente, mia cara, di averti fatto perdere gli ultimi minuti di luce. Però bisogna che adesso vada. Prenderò anche il tuo passaporto.» Sulla porta si voltò. «Ci vediamo a cena, bambina. E non andare in giro, eh?» La sua scomparsa fu salutata da Merle con un sorriso. «Finalmente si è deciso!», mormorò. Mise il disegno in una cartella, poi tirò fuori il beauty-case e in fretta si rifece il trucco. Cinque minuti più tardi uscì dall'albergo e scese lungo la stradicciola contorta fino ai piedi della collina. All'incrocio con una via polverosa, una figura alta e ammantellata le si fece incontro a passi lunghi. «Siete puntuale, Miss Anthony. Benissimo. Avviamoci subito. Dobbiamo essere là prima del tramonto.» Il percorso che seguirono, lungo cortili, rampe di scale corrose e labirinti di viuzze, le parve interminabile. In silenzio seguì la sua guida, molto da vicino: sarebbe stato spiacevole in quei quartieri perdere un accompagnatore, perfino uno poco rassicurante come El Shabur. L'aspetto della gente che vedeva non la confortava minimamente, anzi la allarmava. Lì non c'era nulla della vivacità dei tipici sobborghi arabi, la quiete era eccessiva, strana, e gli uomini che la seguivano con sguardi silenziosi avevano facce pallide e bizzarramente distorte. Alcuni si muovevano in modo sottilmente inumano. Anche i ragazzi avevano qualcosa di alieno che la faceva rabbrividire. Lo Sceicco si affrettò attraverso la città vecchia, dalle case quasi prive di finestre, e giunse in un quartiere composto da edifici simili a piccole fortezze squadrate. Si voltò a controllare il sole, già quasi sotto l'orizzonte,
quindi osservò la ragazza con un lampo di oscura malizia negli occhi penetranti. «Lui è qui», disse. Merle guardò la facciata della casa, un muro ocra su cui le finestre erano feritoie esigue poste ad altezze diverse, e cercò di scacciare la terribile sensazione che lì dentro avvenissero fatti orribili. Si sentiva la gola secca per l'ansia e le ginocchia deboli, e detestò la propria vigliaccheria: in quell'edificio d'aspetto sinistro, dietro una di quelle finestrelle nere, Gunnar aspettava lei. Perché il giovane non le veniva incontro? Perché doveva essere lei a fargli visita segretamente, insieme a El Shabur? Quelle erano domande che rifiutava di porsi. Sapeva solo che lo amava, e che dunque doveva andare da lui. Il resto non aveva importanza. Seguì l'arabo attraverso una porta. Dietro di essa c'era una scala stretta e ripidissima su cui inciampò, e sotto quel soffitto così basso provò un attimo di claustrofobia. All'ultimo piano dell'edificio El Shabur aprì un'altra porta, i suoi denti lampeggiarono in un sorriso, e quindi si tirò indietro. La ragazza si fermò sulla soglia di un corridoio esiguo come un cunicolo. «Gunnar... sei qui?», chiamò. Non ebbe risposta, ma dall'ombra sbucò una figura alta dai capelli biondi. La sua faccia era piena di tagli e abrasioni, così tormentata e livida che nel vederla la donna emise un gemito. «Oh, mio caro! Ooh!» Il giovane la prese fra le braccia, e Merle gli passò le mani dietro il collo per fargli abbassare la testa. Le labbra di lei gli baciarono le labbra incrostate di sangue secco, appassionatamente, bagnandole con lacrime di compassione. «Gunnar, ora sono qui con te! Guardami, ti prego... cosa succede? Che ti è accaduto? Dimmelo, caro: lascia che ti aiuti!» Negli occhi di lui ci fu soltanto uno sguardo di muta disperazione e, per non vederlo, Merle gli affondò il volto contro una spalla. Le sfuggì un singhiozzo. Dolcemente lui la prese per il mento, costringendola a sollevare il capo. «Ascoltami, Merle, tesoro. Mia adorata! Cerca di capire quello che devo dirti. Questa è l'ultima volta che ti vedo, che ti posso toccare... l'ultima. Per sempre! Io sono perduto. Perduto e dannato. E fra un momento vedrai tu stessa il perché. Il sole sta scomparendo... Ricorda che ti ho amata. Ti ho amata più della mia anima, che ormai è maledetta. Non scordartelo mai,
mai, Merle!» D'un tratto la respinse e indietreggiò nell'ombra, le spalle contro il muro grigiastro e spoglio. E, prima che lei potesse avvicinarsi a lui, il suo corpo cominciò a mutare, improvvisamente, con terribile e spaventosa rapidità. Si abbassò, si acquattò sul pavimento polveroso, e i vestiti gli scivolarono via dal corpo coperto di peluria scura. Gli occhi gialli come topazi fissarono ancora una volta la ragazza, dal basso in alto, e quindi la bestia si allontanò con un triste uggiolio. Merle si lasciò cadere a sedere sul divano coperto di velluto consunto, rifiutando di guardare Dale in faccia. Il cugino era tornato da mezz'ora, e l'aveva trovata che camminava su e giù nel salone a pianterreno dell'ostello, animata da un nervosismo irrefrenabile. Le sue chiacchiere non erano riuscite a distoglierla un solo attimo dalla terribile scena che le era rimasta impressa a fuoco nella mente. Alle domande di lui aveva risposto a malapena con occhiate distratte, seccate, continuando ad andare avanti e indietro senza requie. Dopo cena, prese il forte sedativo che Dale aveva insistito per darle, e per un poco questo aveva fatto effetto. Si era distesa sul letto e aveva dormito. Poi si era risvegliata, come se il suo corpo rifiutasse la droga, e adesso era conscia della presenza del cugino in piedi di fronte a lei. Una presenza protettrice, preoccupata, tesa ad aiutarla. Tentò di parlargli, ma la voce rifiutava di uscirle dalla bocca, quasi che la cosa fosse troppo terribile per poter essere espressa in parole. «Taci, bambina cara, taci. So già cosa vorresti dirmi.» «Tu lo sai! Allora lo hai visto quando... quando...» Si coprì la faccia con le mani. A un tratto si alzò, e afferrò il cugino per un braccio. «Dale... ora sto meglio. Ma è stata una cosa talmente impressionante! Tutto questo è come un incubo, un'allucinazione demoniaca. E lui deve sopportare questo, vivere nonostante questo! Dobbiamo aiutarlo, Dale! È nostro dovere! Sono certa che una via d'uscita c'è!» Il cugino le prese le mani. «Bambina...», cominciò con voce rauca, ma s'interruppe. Non c'era nulla della bambina in lei. Il volto che fronteggiava il suo era quello di una donna: pallida, risoluta, adulta. Guardandola, gli parve invecchiata di dieci anni, come se il dolore l'avesse fatta maturare. Era una donna, e lui non poteva più insultare la sua intelligenza continuando a nasconderle ciò che sapeva. Doveva essere lei, adesso, a prendere la decisione finale. Celare i suoi pensieri sarebbe stato
un tradimento, per lei, per Gunnar e per se stesso. «Merle», sussurrò, con voce grave. Gli occhi di lei ebbero un lampo, udendo il suo tono. «C'è una speranza, Dale? Ti prego... c'è?» Lui annuì, poi la fece sedere accanto a sé sul divano. Era scosso, col viso contorto da una smorfia tormentosa. Per un poco tacque, esitò, così come avrebbe esitato prima di spingerla verso un fuoco o un precipizio. Che cosa crudele poteva essere l'amore, pensò. L'amore di Merle per Gunnar, il suo per Merle: era davvero una folle malattia, capace di arrecare sofferenza e stravolgere il destino. «C'è un modo», confermò, con uno sforzo, «ma è una cosa che dipende dal tuo coraggio fisico non meno che dal tuo amore. Questi sono i due elementi in gioco... l'amore e il coraggio. E sarà una prova per entrambi, una prova diabolica, così pericolosa che tu potresti non sopravvivere ad essa. E se tu dovessi morire o...» Tacque e distolse bruscamente il volto, per non farle vedere la sua espressione tesa. «È una prova che mette in gioco la tua volontà contro quella di El Shabur, mia cara. Non è una cosa nuova. Esistono alcuni antichissimi documenti che la descrivono, ed è già stata fatta. Ma solo in un paio di casi una persona è riuscita a sopravvivere a questa ordalia. Gli altri sono finiti... dannati, come Gunnar!» «No!» Il sussurro di lei fu violento, vibrante come uno squillo di tromba. «Gunnar non è dannato, perché io lo salverò. Dimmi cosa devo fare.» Lo Sceicco El Shabur ascoltava in silenzio, spostando gli occhi dal volto pallido di Merle Anthony a quello appena sorridente di Dale Fleming. Non si era aspettato che la ragazza gli opponesse resistenza. Non aveva neppure sospettato che lei avrebbe voluto tentare di riavere l'uomo che amava. Ovviamente, dietro tutto ciò c'era Fleming: era stato lui a spiegarle il modo, senza dubbio. Valeva la pena di perdere tempo con una faccenda di quel genere? Ingaggiare un duello... contro una donna! «È la prima volta che qualcuno chiama il vostro bluff, eh, Sceicco delle Nebbie?» La voce di Dale era ironica. «Mi auguro che non ne sgusciate via con uno dei vostri trucchi, vedendo il rischio. Certo è un esperimento pericoloso: uno scontro di volontà fra voi e la mia delicata cuginetta!» L'arabo gli rivolse un sorriso derisorio. Era francamente divertito dalla spudoratezza di quell'occidentale astuto e grassoccio. «Non potete liberare Gunnar in nessun modo. È una mia creatura. Uno
schiavo.» «Non per molto ancora, Sceicco», mormorò la fanciulla. «Per sempre, temo», la corresse sardonicamente lui. «E voi stessa sarete nelle mie mani dopo questa prova... se vogliamo chiamarla prova!» Ridacchiò. «Voi siete una sciocca, Miss!» In piedi presso la porta dell'ostello, Dale osservava la cugina. Gli occhi di lei non sfuggivano quelli neri e ardenti come braci dello Sceicco. Si teneva eretta, lo fronteggiava e lo sfidava, rispondendo al disprezzo di lui con uno sguardo freddo e fermo. «E v'illudete davvero che voi, una donna, potreste aver ragione di me? Siete una fanciulla confusa e ignorante, con la testa piena di sentimentalismi immaturi... verso un mio schiavo, per di più. Ciò che credete amore è una sciocca emotività, capace soltanto di distruggervi.» «Molto istruttivo il vostro punto di vista, egregio Sceicco!», esclamò Dale, regalandogli un sogghigno. Fissando l'uomo attraverso le palpebre socchiuse, notò che il coraggio di Merle, così come il suo atteggiamento indifferente, lo stavano stimolando ad accettare la sfida. El Shabur doveva avere un'enorme stima di se stesso, conosceva i suoi poteri, e sapeva che nella propria arte satanica era un maestro. E, in effetti, Dale doveva riconoscere che l'autocontrollo di quell'individuo rivelava una volontà e una disciplina mentale non comuni. Era anche molto intelligente, e sapeva dove voleva arrivare e con quali mezzi. Ma era orgoglioso. E perfino Lucifero era caduto a causa del suo orgoglio. Dale non aveva nulla contro gli orgogliosi: lui stesso lo era, e sapeva che quel sentimento può dare forza e nobiltà a un uomo. Lo Sceicco l'aveva usato per raggiungere alti poteri, elevate capacità stregonesche ma, pur essendo un uomo di doti non comuni, sembrava incapace di capire che proprio in quello consisteva la sua debolezza maggiore. Si sforzò di concentrarsi sulla sua presenza, conscio che distrarsi era pericoloso. «Il punto», disse, «è che io non ho mai visto il nostro giovane amico assumere le sembianze di... uh, di un lupo. Mia cugina è, come avete così acutamente puntualizzato, una donna. Non per colpa sua, naturalmente. Ma non c'è dubbio che sia ipersensibile, molto suggestionabile, e che la sua ansia per Gunnar abbia stranamente sovraccaricato la sua immaginazione già assai eccitata.» La voce dello Sceicco fu tagliente e secca: «Lei ha visto il mio servo disobbediente, e ha visto come io lo punisco. La sua non è stata un'allucinazione.»
«Ah, benissimo! Capisco. State dicendo che la sua mente non è poi così vacillante, dopotutto. Un punto a suo favore, no? In altre parole, è pur stata capace di vederlo com'è in realtà.» «Lei ha visto ciò che ha visto, e col mio permesso. Questo non fa di lei qualcosa di più o di meno di una semplice donna.» «Certo, posso essere abbastanza d'accordo su questo», annuì Dale, col tono di chi intende essere logico e persuasivo. «E scommetto che non è svenuta né ha gridato. Se n'è tornata all'ostello con tutt'al più le ginocchia un pochino tremanti, e nient'altro.» «Tutte le donne sono ostinate. Lei non fa eccezione a questo difetto», replicò blandamente lo Sceicco. Malgrado la flemma che ostentava, i suoi occhi cominciavano a lampeggiare pericolosamente. Si rivolse a Merle: «E sia. Dal momento che desiderate sacrificarvi, Ibrahim vi condurrà alla casa poco prima del tramonto». «Ci sono obiezioni se la accompagno?», chiese Dale, come se stessero parlando di andare a una cena da amici. «Conoscete il mio interesse culturale per le cerimonie magiche...» «Pensate di poterla salvare da me?», lo interruppe l'arabo. «Avete forse compiuto studi e ricerche, o fatto pratica dei Misteri dell'Occulto?» Fece un risolino. «La vostra ignoranza in queste scienze è ridicola, più che penosa. Sappiate che ci sono Negromanti che preferirebbero morire piuttosto che osare ciò che ho osato io. Io... il Sommo Sacerdote di Melek Taos! Mio è il Potere! Nessun uomo di carne e sangue dovrebbe essere così pazzo da sfidarmi!» Per qualche momento parve che nel male addobbato salone dell'ostello entrasse una folata di nebbia, la luce sotto il basso soffitto sembrò oscurarsi, e vi fu un rumore simile a uno sbatter d'ali. Ma forse la sola ala che sbatté fu il mantello nero dello Sceicco, quando raggiunse l'uscita con pochi rapidi passi. Un attimo dopo era scomparso. Dale restò a fissare la porta per alcuni secondi. «Non è un uomo di carne e sangue», mormorò. «Direi invece che tale materiale abbonda senz'altro, nel mio caso.» Una volta ancora Merle si trovò di fronte a quell'enigmatico edificio oltre i sobborghi della città bassa. Sottobraccio a Dale, che osservava la nuda facciata con una smorfia, si accorse che accanto a loro Ibrahim era grigio in faccia per lo spavento. «Io me ne vado, effendi!», ansimò l'uomo, come se camminasse sui carboni ardenti. «Questo è un posto diabolico... una tana degli Shaitans!»
Ibrahim non attese il permesso di voltare le spalle. Oltrepassò un'arcata, svoltò un angolo e, nel silenzio della sera, i due cugini udirono i suoi passi allontanarsi veloci sulla dura terra battuta della stradicciola. Non c'erano altri rumori in quel lugubre quartiere colmo di ombre. Merle si rivolse a occidente, dove il sole era un globo rosso dietro le cime delle palme, e Dale la vide pallida e seria. Contro ogni speranza, l'uomo sperò che lei rinunciasse e gli chiedesse di riportarla all'ostello, quindi di partire subito per il Cairo. Ma gli occhi della fanciulla rimasero fissi sul sole che scendeva lentissimo. Dale guardò quella bolla purpurea sull'orizzonte, come ipnotizzato dal suo calore quasi impercettibile. Se avesse potuto fermare il sole... rallentare, bloccare quel movimento fatale. Oh, se avesse potuto impedirgli di tramontare, per impedire a Merle di farsi trascinare via con lui sotto l'orizzonte! Il sole se ne andava, svaniva nelle tenebre e nella notte. Anche Merle avrebbe potuto svanire nelle tenebre di una nottre orrenda... orrenda ed eterna. D'improvviso lei si voltò e gli sorrise. Il rosso del crepuscolo ravvivò i suoi lineamenti dolci, mentre lo guardava con occhi luminosi e pieni di fermezza. Dale gettò un'ultima occhiata al panorama dell'oasi, quieto sotto quel cielo dai colori così vivi, poi spinse la porta e si scostò per lasciar passare Merle. Accanto a una delle solitarie finestrelle dell'ultimo piano, Gunnar Sven osservava cupamente le ultime luci del giorno morire sul deserto. Lo sbattere della porta l'aveva fatto accigliare perplesso. Ma, due minuti dopo, allorché vide Merle salire, corse a bloccarle la strada con un grido. L'afferrò per le spalle e la spinse indietro con violenza. «No! Non intendo sopportarlo... non questo mostruoso sacrificio. Portala via, Dale! Subito! Andatevene! Portala via da qui, ti dico!» Con furia prese la ragazza per mano e la condusse giù per la stretta scala, poi spalancò la porta, spinse Dale all'esterno, e scaraventò quasi la ragazza fra le sue braccia. I due cugini si trovarono a fissare il battente che si era chiuso di colpo. Di nuovo, la speranza di riuscire a salvare Merle balenò nella mente di Dale. Ma, dopo neppure dieci secondi, la porta tornò ad aprirsi, e sulla soglia comparve El Shabur. Con un gesto imperioso l'arabo li invitò a entrare, li precedette in una stanza del pianterreno, e poi fece cenno a Dale di stare da parte. Sotto la fronte dalla pelle scura i suoi occhi erano due cristalli neri.
«No, non potete più tornare indietro. Ormai è troppo tardi. La mia ora è giunta, e su di me c'è il Potere. Lasciate che Melek Taos abbia adesso ciò che gli appartiene!» Merle si avvicinò a Gunnar, che li aveva seguiti. Gli prese le mani fra le sue, fissandolo con la stessa luce interiore di muta esaltazione che Dale le aveva visto balenare nello sguardo poco prima. «Sì, è tardi per tornare indietro», disse anche lei. «Per una volta ancora dovrai sopportare la tua agonia. Per l'ultima volta, Gunnar, amore mio! Essa passerà sopra di me. Ma non posso forse subire per un poco ciò che ha tormentato te così a lungo? Sarà attraverso la mia anima e il mio corpo che il demone da cui sei posseduto tornerà a El Shabur, il quale è colui che lo ha creato. Aiutami a sopportare tutto ciò, come io lo sopporterò per te.» «No, no!», rabbrividì lui. «Tu non puoi immaginare l'orrore, la tortura, la sofferenza...» A un gesto improvviso della ragazza Dale balzò avanti, e tracciò intorno a loro un circolo versando sul pavimento l'olio contenuto in un'anforetta dal collo lungo. Istantaneamente i due giovani vennero circondati da una magica barriera di fiamme azzurrine che, simili ai saettanti petali di un fiore stregato, levarono alte lingue guizzanti fino al soffitto. E sopra di loro il grigio soffitto di tufo mutò colore, trasformandosi in un aperto firmamento notturno palpitante di stelle. «Ya gomany! Ah... il mio nemico!», gridò El Shabur sollevando i pugni. Fece un passo indietro. «Sei tu, dunque? Tu!... Per secoli ho saputo che saresti venuto ad affrontarmi, e senza averti mai visto ti ho atteso.» I suoi occhi fissavano Dale. «Tu! Chi ti ha dato un potere come questo?» Con rabbia l'uomo si accostò al cerchio di fiamme azzurre, mosse in avanti una mano e dalla gola gli scaturì un ringhio quando la ritrasse di scatto, ustionata e annerita fino alle ossa. Con una bestemmia oscena vacillò all'indietro. Dale ne approfittò per corrergli accanto, e sveltamente versò ancora l'olio dell'anforetta intorno ai suoi piedi. Da terra si levarono fiamme azzurrine. Nell'interno del secondo cerchio di quel fuoco ultraterreno, El Shabur si erse ferocemente, e la sua voce risuonò come il metallo di un gong: «Melek Taos! Melek Taos, odimi! Il tuo Sacerdote ti chiama! Non ti ho forse servito fedelmente? Ma ora... vieni, dammi il tuo aiuto possente. Aiutami, Dominatore del Vento, del Fuoco e delle Stelle... soccorri col tuo potere invincibile il tuo servo chiuso nelle catene di fiamma! Io ti evoco!». Dale emise un ansito soffocato. Un gelo terribile gli stava attanagliando
le ossa fino al midollo, e intorno a lui tutto vibrava e si deformava sotto la pressione di una terrificante energia arcana. Gli parve di cadere, di volare, di rovesciarsi, come se avesse smarrito il senso dell'equilibrio. Lo spazio e il tempo non esistevano più. Era sospeso nel nulla, in un golfo di sterminata eternità, mentre tutte le forze dell'Inferno si scatenavano per il dominio del cielo e della terra. «A me, Abejor! Vieni, Keradet-Nura! Aiutami, Shavajoth!... Soccorretemi, potenti Demoni. Aiutatemi!», urlò la voce stridula del Negromante, da qualche parte dell'universo che andava a pezzi. Con un rombo di tuono la stanza riprese forma solida intorno a loro. Dale vide le fiamme azzurrine impallidire. «Era troppo presto? Troppo presto?», gemette fra sé, dolorosamente. «Se l'olio brucia e si consuma prima del tramonto...» Ci fu uno schianto. Sui quattro muri della stanza si aprirono larghe crepe da cui piovvero calcinacci e polvere. Le lingue di fuoco stregato tornarono a lampeggiare come petali alti fino al soffitto. El Shabur gridò, in tono rauco, angosciato; «Melek Taos... padrone! Aiutami! Dammi il tuo potere!». Quasi accecato dal polverone che gli faceva lacrimare gli occhi, Dale vide Gunnar chinarsi dinanzi alla ragazza, acquattarsi a quattro zampe, a metà lupo e a metà uomo, e vide Merle inginocchiarsi ad abbracciarlo. La giovane donna baciò la bestia grigia fra gli occhi, e la sua voce si levò alta e squillante gridando le parole dell'incantesimo. Le fiamme danzavano tutt'intorno a lei. Per la prima volta Dale toccò con mano quella realtà, una realtà che per mesi e mesi non aveva creduto vera. Lui non era che lo strumento... un utensile, manovrato da entità ignote, guidato e spinto da invisibili mani sconosciute, il cui volere era sempre stato quello di condurlo lì, a Siwa. Dinanzi al Negromante! Ora sapeva cosa aveva reso insaziabile la sua curiosità per le cose antiche, costringendolo a leggere polverosi manoscritti e a frugare nei Musei, dirigendo la sua attenzione verso certe arcaiche vicende e informazioni. Sapeva, e tuttavia non capiva, così come la spada non capisce né conosce gli scopi e l'identità della mano che la spinge a colpire. Ma, qualunque fosse l'entità che lo aveva mosso come una pedina, ora il suo scopo stava per essere raggiunto. L'arabo supplicava i suoi demoni e si agitava follemente, come se uno di essi gli fosse entrato nel corpo. Merle si stringeva al suo lupo e, oltre la cortina di fiamme, il corpo di lei vibrava
stranamente, senza mutare forma, dopo aver pronunciato le parole che Dale le aveva insegnato. Neppure lei capiva. Poteva solo soffrire nella stregoneria oscena che si era impadronita delle sue membra, per deformarle. Ma se la fanciulla non sapeva cosa le stava accadendo, la cieca forza del suo amore continuava a darle coraggio, e Dale seppe che in lei risiedeva la magia più grande... Se l'odio era il demone che dava all'uomo l'energia per abbattere le montagne sul suo cammino e per distruggere l'amore era la forza capace di resistere a ogni violenza. La forza fatta per costruire. Che fosse l'Amore, la misteriosa entità che aveva guidato i suoi passi fino a Siwa? E che la cosa contro cui ora si batteva non fosse che una personificazione dell'Odio, della Bestia? E tuttavia la battaglia era tremenda. Dale riusciva a stento a respirare, paralizzato dal freddo che gli agghiacciava il sangue nelle vene. Dio mio, pensò, e i suoi occhi si sbarrarono: il demone era adesso scatenato su Merle stessa! Gunnar aveva ritrovato la sua forma umana, e stava in piedi, fissando come allucinato la lupa che tremava contro le sue ginocchia. Con un gemito smarrito si piegò ad abbracciare la bestia. «Merle! Merle...!», rantolò, stringendosi follemente a lei. Poi parve svenire, quasi che la sua agonia nel vedere la trasformazione della fanciulla fosse divenuta insopportabile. In quello scatenarsi di forze, tuttavia, El Shabur ancora non cedeva. Aveva i pugni stretti al petto, il volto sollevato, e dai denti serrati gli usciva un mugolio stridulo. Gunnar giaceva bocconi al suolo. Al suo fianco era accovacciata la lupa, col capo chino, gli occhi fissi e vacui in uno sguardo fatto di sofferenza. Le fiamme azzurre si stavano spegnendo. L'incantesimo, che Dale aveva trovato nei sotterranei di un Museo del Cairo su uno dei tanti antichissimi papiri in attesa d'essere studiati, era sul punto di esaurirsi. E il misterioso demonio che era stato nell'anima di Gunnar, si era ora trasferito su Merle. Fu allora che Dale vide la treccia colorata intorno al collo di El Shabur, e appeso alla treccia il talismano di smeraldo; l'Occhio di Horus! In qualche modo, dunque, Melek Taos era venuto davvero in aiuto del suo Sommo Sacerdote. E, pur chiuso nelle fiamme che annientavano i suoi poteri, il Negromante aveva sbarrato la strada al demone in cerca di un corpo da possedere. Per Merle era la fine. No, non la fine, pensò Dale sgomento. Se l'amore poteva qualcosa contro la stregoneria, c'era ancora una via da tentare. Ed egli seppe con dolo-
rosa certezza che anche l'amore era una forza cieca, crudele, capace di esigere dai suoi adepti il sacrificio supremo. Con un balzo oltrepassò la cortina di ferro azzurro che circondava El Shabur e, mentre le fiamme s'impadronivano dei suoi vestiti e delle sue carni, strinse le mani intorno alla gola dell'arabo. «Melek Taos!», gridò follemente. «Vieni a me, demonio! A me, maledetto! È la mia l'anima che ti spetta... Prendila, in nome di Satana, e io brucerò nell'Inferno insieme a te!» Cadde in ginocchio sull'arabo, rovesciandolo all'indietro sotto di sé. E in quel momento una sofferenza indicibile gli attraversò le membra. Gli parve che l'universo intero si torcesse intorno a lui, i vestiti carbonizzati gli caddero di dosso, una oscena sete di sangue lo pervase, e con un ringhio aprì la bocca sulla gola di El Shabur. Poi ci fu solo la tenebra dei sensi in cui era precipitato. Nella stanza della grigia casa di tufo le fiamme si spensero lentamente. La penombra e il silenzio si sostituirono al caos, e sul pavimento rimasero due cerchi di cenere nera. Nel più largo di essi Merle Anthony e Gunnar Sven, in ginocchio, si tenevano stretti l'una all'altro. Nel secondo cerchio stava una figura avvolta da un mantello. Quando Gunnar trovò la forza di alzarsi, aiutò la fanciulla a rimettersi in piedi e, vacillando, i due si guardarono intorno nella scarsa luce. Merle ansimò: «Oh, caro! Ma... Dale! Dov'è Dale?». Il giovanotto si chinò a guardare lo Sceicco. La gola dell'arabo era orrendamente squarciata e, fra il sangue che la imbrattava, si vedevano gli ampi squarci lasciati dai canini aguzzi di un animale. Sulla polvere del pavimento c'erano delle impronte più larghe di quelle che avrebbe lasciato un cane, dirette alla porta. Scosse il capo, incapace di parlare, e con un singhiozzo strinse la ragazza a sé. Stava calando la notte. Qua e là, nel misero quartiere arabo, ardevano delle lampade giallastre. Lontano, oltre le palme, dove il territorio fertile confinava con l'arida immensità del deserto, echeggiò tremulo e desolato l'ululato di un lupo. Quando esso si spense, sull'Oasi di Siwa stava sorgendo la luna. IL NERO SEGUGIO DELLA MORTE Black Hound Of Death di Robert Ervin Howard Weird Tales, novembre 1936
1. Oscurità egiziana! È una frase troppo vivida per lasciare tranquilli, poiché suggerisce non soltanto il buio, ma anche cose invisibili che stanno in agguato in quel buio; cose che si aggirano furtive nelle ombre fitte e rifuggono dalla luce del giorno; figure sfuggenti che si muovono al di là dei confini della vita normale. Questi pensieri mi passavano per la mente, quella notte, mentre procedevo brancolando lungo lo stretto sentiero che si snodava tra le pinete. Sono i pensieri che facilmente si accompagnano all'uomo quando osa invadere quel tratto solitario del territorio fluviale, densamente pieno di foreste, che i negri chiamano Egypt per qualche oscura ragione razziale. Non vi è, al di fuori dell'abisso tenebroso dell'Inferno, un'oscurità assoluta quanto quella delle pinete. Il sentiero era una traccia quasi impercettibile che si snodava tra muraglie compatte d'ebano. Io lo seguivo, guidato più dagli istinti dell'abitatore delle pinete che dai miei sensi. Procedevo più in fretta che potevo, ma alla fretta si univa la furtività, e il mio udito era affinato dalla tensione. La mia prudenza non nasceva dalle bizzarre suggestioni suscitate dall'oscurità e dal silenzio, Avevo ottime, concrete ragioni per essere guardingo. Gli spettri potevano vagare nelle pinete con le gole squarciate e sanguinanti e una fame cannibalistica, come affermavano i negri: ma non erano gli spettri a farmi paura. Tendevo l'orecchio per captare lo spezzarsi di un fuscello sotto un grande piede appiattito, ogni suono che presagisse un attacco dalle cupe ombre. L'essere che, temevo, infestava l'Egypt era più pericoloso di qualunque fantasma farfugliante. Quella mattina, il peggior desperado negro di quella parte dello Stato era sfuggito alle grinfie della legge, lasciando dietro di sé un'atroce catena di morti. Giù, lungo il fiume, i segugi abbaiavano tra i cespugli e uomini dagli occhi duri, armati di fucili, battevano i macchioni. Lo stavano cercando nelle zone quasi inaccessibili presso i dispersi abitati dei negri, sapendo che uno di essi, quando si trova in una situazione disperata, va in cerca dei propri simili. Ma io conoscevo Tope Braxton meglio di loro; sapevo che era diverso dal modello generale della sua razza. Era incredibilmente primitivo, abbastanza atavistico per avventurarsi in un territorio disabitato e vivere, come un gorilla impazzito, in una solitudine che avrebbe sgomentato e terrorizzato un esponente più normale della sua
razza. E così, mentre la caccia proseguiva allontanandosi in un'altra direzione, io procedevo tutto solo verso l'Egypt. Ma non era per cercare Tope Braxton che mi avventuravo in quel territorio isolato. La mia missione era avvertire, piuttosto che cercare. All'interno di quel labirinto di pini vivevano, soli, un bianco e il suo servitore, ed era un dovere avvisarli che un assassino dalle mani sporche di sangue poteva aggirarsi intorno alla loro baita. Forse avevo commesso una sciocchezza, andando a piedi; ma gli uomini che portano il nome di Garfield non hanno l'abitudine di abbandonare un'impresa, una volta che l'hanno incominciata. Quando il mio cavallo si azzoppò inaspettatamente, lo lasciai in una delle baracche dei negri che sorgono lungo il limitare dell'Egypt, e proseguii a piedi. La notte mi sorprese lungo la strada, e decisi di rimanere fino all'indomani mattina a casa dell'uomo che stavo andando ad avvertire... Richard Brent. Era un solitario taciturno, sospettoso e strano, ma non avrebbe potuto rifiutare di ospitarmi per quella notte. Era un personaggio misterioso; nessuno sapeva perché avesse deciso di nascondersi in una pineta del Sud. Viveva in una vecchia baita nel cuore dell'Egypt da circa sei mesi. All'improvviso, mentre avanzavo nell'oscurità, le mie speculazioni sul misterioso recluso vennero interrotte, cancellate dalla mia mente. Mi fermai di colpo, mentre i nervi fremevano sul dorso delle mie mani. Era stato un urlo improvviso a causare quell'effetto, e quell'urlo era di sofferenza e di terrore. Proveniva da un punto imprecisato, davanti a me. Un silenzio seguì l'urlo, un silenzio nel quale la foresta parve trattenere il respiro e l'oscurità divenire ancora più nera. L'urlo si ripeté, questa volta più vicino. Poi sentii i tonfi dei piedi lungo il sentiero, e qualcosa si avventò verso di me nelle tenebre. Avevo in pugno la pistola, e istintivamente la protesi per allontanare quell'essere. La sola cosa che mi trattenne dal premere il grilletto fu l'udire i suoni che emetteva... singulti e ansiti di paura e dolore. Era un uomo, un uomo stravolto. Mi urtò, ciecamente, poi urlò di nuovo e cadde di schianto, singhiozzando e balbettando. «Oh, mio Dio, salvami! Oh, Dio, abbi pietà di me!» «Cosa diavolo c'è?», domandai, mentre mi sentivo rizzare i capelli in testa, al suono tormentato di quelle grida. Lo sventurato riconobbe la mia voce e si aggrappò disperatamente alle mie ginocchia.
«Oh, padron Kirby, non lasci che lui mi prenda! Ha ucciso il mio corpo, e adesso vuole la mia anima. Sono io... il povero Jim Tike. Non lasci che lui mi prenda!» Accesi un fiammifero e guardai, sbalordito, mentre la fiammella bruciava. Il negro era prostrato davanti a me nella polvere e roteava gli occhi bianchi. Lo conoscevo bene... era uno di quelli che abitavano nelle piccole capanne di tronchi lungo il bordo dell'Egypt. Era sporco di sangue, e pensai che fosse ferito mortalmente. Solo l'energia anormale nata dal panico convulso poteva avergli permesso di fuggire fin lì. Il sangue sprizzava a fiotti dalle vene e dalle arterie recise del petto, delle spalle e del collo, e le ferite erano terribili, slabbrate, come non possono produrle un proiettile o un coltello. Un orecchio, strappato dalla testa, pendeva oscillando, e un grosso pezzo di carne dall'angolo della mascella, come se una belva gigantesca l'avesse dilaniato con le zanne. «Che cos'è stato, in nome di Dio?», esclamai, mentre un fiammifero si spegneva, e l'uomo ridiventava una massa indistinta nell'oscurità davanti a me. «Un orso?» Ma, mentre lo chiedevo, sapevo già che da trent'anni, in Egypt, non si erano visti orsi. «È stato lui!», il borbottìo singhiozzante salì dall'oscurità. «Il bianco che è venuto alla mia baracca e mi ha chiesto di guidarlo a casa di Mister Brent. Diceva che aveva il mal di denti, e per questo aveva la testa fasciata. Ma la benda è scivolata e l'ho visto in faccia... per questo mi ha ammazzato.» «Vuoi dire che ti ha aizzato contro i cani?», chiesi, perché avevo visto ferite come le sue sui corpi di animali assaliti da cani feroci. «No, signore», gemette la voce, più fievole. «È stato lui... aaahhh!» Il gemito proruppe in un urlo quando il negro girò la testa, a malapena visibile nell'oscurità, guardando nella direzione dalla quale era venuto. La morte dovette coglierlo durante quell'urlo, perché si spezzò sulla nota più alta. Sussultò convulsamente, come un cane investito da un camion, e restò immobile. Aguzzai gli occhi nell'oscurità e scorsi una sagoma indistinta a pochi metri di distanza, sul sentiero. Era eretta, alta come un uomo, e silenziosa. Aprii la bocca per sfidare lo sconosciuto, ma non un suono uscì dalle mie labbra. Un gelo indescrivibile fluì dentro di me, inchiodandomi la lingua al palato. Era paura, primitiva e irrazionale e, mentre restavo paralizzato, non riuscivo a comprenderla, non riuscivo a intuire perché quella figura immobile e silenziosa, per quanto sinistra, potesse suscitare quell'i-
stintivo terrore. Poi all'improvviso la figura si mosse, svelta, verso di me, e allora ritrovai la voce. «Chi è?» Non ebbi risposta, ma la figura continuò ad avanzare velocemente; e, mentre tentavo di accendere un fiammifero, mi fu quasi addosso. Accesi il fiammifero... con un ringhio feroce la figura si scagliò contro di me, la fiammella si spense, e sentii un dolore acutissimo al collo. Sparai, quasi involontariamente e senza prendere la mira, e il lampo della pistola mi abbagliò, oscurando più che non rivelasse la figura umana che mi aveva colpito; poi, correndo furiosamente tra gli alberi, l'assalitore scomparve, e io rimasi solo e barcollante sul sentiero. Imprecando rabbiosamente, cercai a tentoni un altro fiammifero. Il sangue mi colava dalla spalla e intrideva la camicia. Quando accesi il fiammifero e controllai, un altro brivido gelido mi scorse lungo la spina dorsale. La camicia era strappata e la pelle, sotto, era incisa leggermente. La ferita era poco più di un graffio, ma la cosa che suscitò nella mia mente una paura senza nome era il fatto che la ferita era simile a quelle del povero Jim Tike. 2. Jim Tike era morto, e giaceva bocconi in una pozza di sangue, gli arti scomposti e chiazzati di rosso. Scrutai inquieto la foresta dove si nascondeva la cosa che l'aveva ucciso. Sapevo che era un uomo; nella breve luce del fiammifero avevo intravisto vagamente i suoi contorni ed era inconfondibilmente umano. Eppure, quale arma poteva produrre una ferita simile al morso spietato di enormi zanne bestiali? Scossi il capo, ricordando l'ingegnosità con cui l'umanità crea gli strumenti del massacro, e considerai un problema più impellente. Dovevo rischiare ancora la vita proseguendo, o dovevo ritornare al mondo esterno e condurre lì uomini e cani, per portar via il corpo del povero Jim Tike, e dare la caccia al suo assassino? Non sprecai tempo in quell'indecisione. Ero partito per svolgere un compito. Se un criminale sanguinario, oltre a Tope Braxton, si aggirava nella pineta, era una ragione di più per avvertire gli uomini di quella baita solitaria. In quanto al pericolo che potevo correre, ormai ero più che a metà strada. Proseguire non poteva essere molto più rischioso che tornare indietro. Se fossi ritornato, e fossi uscito vivo dall'Egypt, prima che riuscissi a
radunare una squadra, avrebbe potuto accadere chissà cosa in quella baita isolata sotto gli alberi neri. Perciò lasciai il corpo di Jim Tike sul sentiero e proseguii, con la pistola in pugno e i nervi tesi dal nuovo pericolo. Lo sconosciuto non era Tope Braxton. Il morto mi aveva detto che il suo assalitore era un misterioso uomo bianco; e, quando avevo intravvisto la figura, mi ero convinto che non poteva essere Tope Braxton. Avrei riconosciuto quella sagoma tozza e scimmiesca anche al buio. Quest'uomo invece era alto e magro, e il solo ricordo della sua figura scarna bastò, irrazionalmente, a farmi rabbrividire. Non è piacevole camminare in una foresta tenebrosa quando soltanto le stelle brillano tra le fronde fitte, con la certezza che un assassino sta in agguato nei pressi, forse alla distanza di pochi passi, nell'oscurità che lo nasconde. Il ricordo del negro massacrato mi bruciava nella mente. Il sudore mi copriva il volto e le mani; mi girai di scatto venti volte, scrutando nelle tenebre dove il mio udito aveva captato il fruscio delle foglie o lo spezzarsi di un ramoscello... Come potevo sapere se i suoni erano le voci naturali della foresta o i movimenti furtivi dell'assassino? A un certo punto mi fermai, con uno strano brivido, quando in lontananza, fra gli alberi neri, scorsi un barlume fioco e livido. Non era stazionario; si muoveva, ma era troppo distante. Con i capelli ritti, attesi, senza sapere che cosa; ma, poco dopo, lo strano barlume sparì, ed ero così pronto a pensare a eventi innaturali, che soltanto allora mi resi conto che quella luce poteva essere prodotta da un uomo che camminasse reggendo una torcia di legno di pino. Mi affrettai a proseguire, imprecando contro le mie paure, ancora più sconcertanti perché nebulose. Il pericolo non mi era ignoto in quella terra di dissidi e di violenze, dove odii vecchi di secoli covavano ancora sotto la cenere delle generazioni. La minaccia rappresentata da un proiettile o da un coltello, apertamente o in un agguato, non aveva mai scosso i miei nervi; ma ora sapevo che avevo paura... paura di qualcosa che non riuscivo a comprendere o a spiegare. Sospirai di sollievo quando vidi la luce della baita di Richard Brent brillare fra i pini, ma non allentai la vigilanza. Molti uomini inseguiti dal pericolo erano stati abbattuti sulla soglia della salvezza. Bussai alla porta, tenendomi di lato, e scrutai le ombre che cerchiavano la piccola radura e sembravano respingere la poca luce filtrata dalle finestre. «Chi è?», chiese dall'interno una voce aspra e profonda. «Sei tu, Ashley?»
«No. Sono Kirby Garfield. Mi apra.» La metà superiore dell'uscio si aprì verso l'interno, e la testa e le spalle di Richard Brent apparvero incorniciate dal vano. La luce dietro di lui lasciava in ombra quasi tutta la faccia, ma non riusciva a nascondere i lineamenti duri e scarni, né lo scintillio dei freddi occhi grigi. «Che cosa vuole, a quest'ora di notte?», chiese, brusco come al solito. Risposi laconicamente, perché quell'uomo non mi era simpatico; la cortesia, in quella zona, è un obbligo che nessun gentiluomo pensa di evitare. «Sono venuto a dirle che è molto probabile che un negro pericoloso si aggiri qui intorno. Tope Braxton ha ucciso l'agente Joe Sorley e un detenuto negro, ed è evaso dal carcere questa mattina: credo per venire a rifugiarsi qui nell'Egypt. Ho pensato che fosse giusto avvertirla.» «Bene, mi ha avvertito», rispose Brant, seccamente, con quel suo accento forestiero. «Perché non se ne va?» «Perché non ho nessuna intenzione di riattraversare la pineta, questa notte», risposi, irritato. «Sono venuto qui ad avvertirla, non perché le sia particolarmente affezionato, ma solo perché è un bianco. Il meno che possa fare, in cambio, è ospitarmi nella sua baita fino a domattina. Le chiedo soltanto un pagliericcio sul pavimento; non dovrà neppure darmi da mangiare.» Quest'ultima frase era un insulto che non seppi trattenere, nel mio risentimento; almeno, nelle pinete era considerato un insulto. Ma Richard non fece caso a quell'allusione pungente alla sua avarizia e alla sua scortesia. Mi guardò con una smorfia. Non riuscivo a vedere le sue mani. «Ha visto Ashley, lungo la strada?», chiese alla fine. Ashley era il suo servitore, un tipo saturnino e taciturno quanto il padrone, che una volta al mese andava al lontano villaggio sul fiume ad acquistare provviste. «No. Forse era in paese, e se ne è andato dopo di me.» «Immagino che dovrò farla entrare», borbottò sgarbatamente Brent. «Be', si sbrighi», dissi. «Ho una ferita alla spalla, e vorrei lavarla e medicarla. Tope Braxton non è l'unico assassino in circolazione, questa notte.» A quelle parole, Brent smise di trafficare con le mani, e cambiò espressione. «Che vorrebbe dire?» «C'è un negro morto, sul sentiero, a circa un miglio da qui. L'uomo che l'ha ammazzato ha cercato di uccidere anche me. Per quello che ne so, può
essere deciso a farla fuori. Il negro che ha ucciso lo stava accompagnando qui.» Richard Brent trasalì e diventò livido. «Chi... che cosa sta dicendo?» La sua voce si spezzò in un tono di falsetto. «Quale uomo?» «Non lo so. Un tale che sbrana le sue vittime come se fosse un cane...» «Un cane!» Fu un urlo. In Brent si operò un cambiamento spaventoso. Gli occhi quasi gli schizzarono dalle orbite; i capelli gli si rizzarono in testa e la faccia diventò cinerea. Contrasse le labbra scoprendo i denti in un ghigno di terrore. Sembrò che stesse per vomitare, poi ritrovò la voce. «Se ne vada!», gridò soffocato. «Adesso ho capito! Ho capito perché vuole entrare in casa mia! Diavolo maledetto! L'ha mandato lui! È la sua spia! Se ne vada!» Con un urlo, alzò le mani dalla metà inferiore della porta. Vidi che mi puntava addosso un fucile a canne mozze. «Se ne vada, o l'ammazzo!» Scesi a ritroso dai gradini, rabbrividendo al pensiero di una scarica a distanza ravvicinata di quel tremendo strumento di morte. Le canne nere e la faccia livida e convulsa non promettevano niente di buono. «Maledetto idiota!», ringhiai. Ero così furioso da dimenticare il pericolo. «Ci vada piano, con quel coso. Me ne vado. Preferisco affrontare un assassino, piuttosto che un pazzo.» Brent non rispose; ansimando e rabbrividendo come se fosse in preda alla febbre malarica, continuò a tenermi sotto mira mentre mi voltavo e attraversavo in fretta la radura. Quando arrivai al punto dove cominciavano gli alberi, avrei potuto voltarmi di scatto e sparargli senza correre troppi rischi, perché la mia pistola calibro 45 aveva una portata superiore al suo fucile. Ma ero andato lì per avvertire quel pazzo, non per ucciderlo. La metà superiore della porta sbatté, mentre mi allontanavo tra gli alberi, e il fascio di luce sparì di colpo. Impugnai la pistola e mi avviai sul sentiero buio, tendendo gli orecchi per captare ogni suono sotto i rami neri. Ripensai a Richard Brent. Senza dubbio, l'uomo che aveva cercato una guida per arrivare alla sua baita non era un amico. La paura frenetica di Brent sconfinava nella pazzia. Mi chiesi se era stato per sfuggire a quell'uomo che Brent si era autoesiliato in quella pineta solitaria. Di sicuro, era venuto lì per sfuggire a qualcosa: perché non nascondeva mai il suo odio per quella zona, né il suo disprezzo per gli abitanti, bianchi o neri che fos-
sero. Ma non avevo mai pensato che fosse un delinquente e che si nascondesse per sottrarsi alla giustizia. Dietro di me, la luce sparì tra gli alberi neri. Ero ossessionato da una strana sensazione gelida e deprimente, come se la scomparsa di quella luce, per quanto ostile fosse la sua fonte, avesse troncato l'unico legame che collegava quell'avventura d'incubo al mondo del raziocinio e dell'umanità. Dominai i miei nervi e proseguii a grandi passi lungo il sentiero. Ma non ero arrivato molto lontano, quando mi fermai di nuovo. Questa volta era il rumore inconfondibile di cavalli che correvano, il rombo delle ruote e lo scalpitìo degli zoccoli. Chi poteva arrivare con un calesse lungo quella strada, di notte, se non Ashley? Ma subito mi accorsi che i cavalli stavano andando in un'altra direzione. Il rumore si allontanò rapidamente, e si smorzò in distanza. Allungai il passo, sconcertato, e poco dopo sentii davanti a me un suono affrettato e incerto di passi, e un ansimare convulso che sapeva di panico. Distinsi i passi di due persone, sebbene non vedessi niente, in quell'oscurità intensa. In quel punto, i rami si intrecciavano sopra il sentiero, formando un arco nero che non lasciava passare neppure la luce delle stelle. «Ehilà!», chiamai cautamente. «Chi siete?» I suoni cessarono bruscamente, e immaginai di scorgere due figure indistinte che si fermavano, tese, trattenendo il respiro. «Chi è?», ripetei. «Non abbiate paura. Sono io... Kirby Garfield.» «Resti dov'è!», esclamò una voce aspra che riconobbi. Era Ashley. «Parla come Garfield... ma voglio esserne sicuro. Se si muove, le sparo.» Sentii uno sfrigolio, e poi si accese una fiammella. Una mano apparve in quel chiarore, e dietro la mano la faccia dura e quadrata di Ashley che mi scrutava. Nell'altra mano luccicava una pistola; e su quel braccio era posata un'altra mano, bianca e sottile, con una gemma che brillava a un dito. Scorsi, vagamente, la figura snella di una donna; il suo viso era come un fiore pallido nell'oscurità. «Sì, è proprio lei», borbottò Ashley. «Che cosa ci fa qui?» «Ero venuto ad avvertire Brent che Tope Braxton è evaso», risposi seccamente: non mi piace che qualcuno mi chieda conto delle mie azioni. «L'avrà sentito, naturalmente. Se avessi saputo che era andato in paese, mi sarei risparmiato la fatica. Che cosa ci fate, a piedi?» «I cavalli sono scappati, poco fa», rispose Ashley. «C'era un negro sul sentiero, morto. Ma non è stato quello a spaventare i cavalli. Quando siamo scesi a vedere, si sono imbizzarriti e fuggiti via. Abbiamo dovuto pro-
seguire a piedi. È una gran brutta faccenda. A vedere com'è ridotto quel negro, direi che l'ha ucciso un branco di lupi, e l'odore ha spaventato i cavalli. Abbiamo paura che ci attacchino da un momento all'altro.» «In queste pinete, i lupi non vanno a caccia in branco e non attaccano gli esseri umani. È stato un uomo a uccidere Jim Tike.» Nella luce del fiammifero, Ashley mi fissò sbalordito; poi vidi che allo sbalordimento si sostituiva l'orrore. Impallidì lentamente, e diventò cinereo quanto il suo padrone. Il fiammifero si spense, e restammo in silenzio. «Allora?», dissi spazientito. «Avanti, chi è la signora?» «È la nipote di Mr. Brent.» La risposta uscì atona dalle labbra aride. «Sono Gloria Brent!», esclamò lei, con un accento colto nonostante la paura che le faceva tremare la voce. «Zio Richard mi ha telegrafato di venire subito da lui...» «Ho visto il telegramma», borbottò Ashley. «Me l'ha mostrato. Ma non so come abbia fatto a spedirlo, lui. A quanto ne so, non va in paese da mesi.» «Io sono partita subito da New York», esclamò lei. «Non capisco perché il telegramma sia stato spedito a me e non a qualcun altro della famiglia...» «Lei è sempre stata la prediletta di suo zio, signorina», disse Ashley. «Bene, quando sono scesa dal battello, in paese, poco prima dell'imbrunire, ho trovato Ashley che stava per tornare a casa con il calesse. Si è meravigliato di vedermi, ma naturalmente mi ha accompagnato. E poi... quel... quel morto...» Sembrava molto scossa. Era evidente che era cresciuta in un ambiente raffinato e protetto. Se fosse nata nelle pinete, come me, la vista di un morto, bianco o nero, non sarebbe stato per lei un fenomeno inconsueto. «Il... il morto...», balbettò. E ricevette una risposta orribile. Dal bosco nero, accanto al sentiero, si alzò una risata stridula, agghiacciante. La seguirono suoni convulsi, che in un primo momento non riconobbi per parole. Quelle intonazioni non umane mi fecero scorrere un brivido lungo la spina dorsale. «Uomini morti!», cantilenò quella voce. «Uomini morti con le gole squarciate! Ci saranno uomini morti tra i pini prima dell'alba! Uomini morti! Sciocchi, siete tutti morti!» Io e Ashley sparammo contemporaneamente in direzione della voce, e gli echi tonanti degli spari sommersero l'orrenda cantilena. Ma la strana risata risuonò ancora, più lontana tra i pini, e poi il silenzio si chiuse come
una nebbia nera, nella quale sentii gli ansiti quasi isterici della ragazza. Aveva lasciato Ashley e mi si era aggrappata convulsamente. La sentivo tremare contro di me. Probabilmente aveva seguito l'istinto femminile, cercando rifugio presso il più forte; la luce del fiammifero le aveva mostrato che ero grande e grosso più di Ashley. «Presto, per amor del cielo!», esclamò Ashley, con voce soffocata. «Non siamo lontani dalla baita. Presto! Viene con noi, Mr. Garfield?» «Che cos'era?» La ragazza ansimava. «Oh, che cos'era?» «Un pazzo, credo», dissi io, stringendo la manina posata sul mio braccio. Ma qualcosa mi diceva che nessun pazzo aveva mai avuto una voce come quella. Sembrava... Dio!... sembrava una creatura bestiale che pronunciasse parole umane, ma con una lingua che non era umana! «Si metta dall'altra parte, a fianco di Miss Brent, Ashley», ordinai. «E stia il più possibile lontano dagli alberi. Se qualcosa si muove da quella parte, spari senza esitare. Io farò altrettanto. E adesso, andiamo!» Ashley obbedì senza discutere; sembrava molto più spaventato della ragazza e quasi rantolava. La strada sembrava non finire mai, e l'oscurità era abissale. La paura, in agguato ai bordi del sentiero, sembrava seguirci furtivamente, ghignando. Rabbrividivo al pensiero di una cosa demoniaca, armata di zanne e artigli, che si accingeva ad avventarsi alle mie spalle. I piedi della ragazza quasi non toccavano terra; in pratica, la stavamo portando. Ashley era alto poco meno di me, sebbene fosse meno massiccio, ed era robusto. Finalmente davanti a noi una luce brillò fra gli alberi, e Ashley si lasciò sfuggire un pesante sospiro di sollievo. Allungò il passo. «La baita, grazie a Dio!», esclamò, mentre uscivamo quasi correndo dagli alberi. «Chiami Brent, Ashley», borbottai. «Mi ha già cacciato via minacciandomi con un fucile. Non voglio farmi sparare da quel vecchio...» M'interruppi, per riguardo alla ragazza. «Mr. Brent!», gridò Ashley. «Mr. Brent! Apra la porta, presto! Sono io... Ashley.» Immediatamente, un fascio di luce uscì dalla metà superiore della porta, e Brent si affacciò, con il fucile imbracciato, sbattendo le palpebre nel buio. «Entra, presto!» La voce era ancora piena di panico. Poi: «Chi c'è con te?», urlò furiosamente. «Mr. Garfield e sua nipote, Miss Gloria.»
«Zio Richard!», esclamò la ragazza, con un singhiozzo. Si staccò da noi, corse alla porta, e gli buttò le braccia al collo. «Zio Richard, ho tanta paura! Che cosa sta succedendo?» Brent sembrava stordito. «Gloria!», ripeté. «In nome del cielo, che cosa fai qui?» «Ma... mi hai chiamata tu!» La ragazza tirò fuori un telegramma gualcito. «Non vedi? Mi hai detto di venire subito!» Brent ridiventò livido. «Non l'ho mandato io, Gloria! Buon Dio, perché avrei dovuto trascinarti nel mio inferno? Qui c'è qualcosa di diabolico. Entra... entra, presto!» Brent spalancò la porta e tirò dentro la ragazza, senza mollare il fucile. Sembrava intontito. Ashley entrò dietro Miss Brent e mi gridò: «Venga, Mr. Garfield! Presto... presto!». Non mi ero mosso per seguirli. Nel sentire il mio nome, Brent, che sembrava aver dimenticato la mia presenza, con un grido soffocato lasciò la ragazza e si voltò di scatto, alzando il fucile. Ma questa volta stavo pronto. Avevo i nervi troppo tesi per subire altre prepotenze. Prima che lui riuscisse a spianare il fucile, si trovò sotto gli occhi la canna della mia calibro 45. «Lo metta giù, Brent», scattai. «Lo abbassi, prima che le spezzi il braccio. Sono stufo dei suoi sospetti idioti.» Brent esitò, roteando gli occhi, e dietro di lui la ragazza arretrò. Immagino che, nella luce che usciva dalla porta, non fossi una figura che ispirava molta fiducia a una giovane donna: sono imponente e non bello, e la mia faccia è sfregiata da molte brutali battaglie. «È nostro amico, Mr. Brent», intervenne Ashley. «Ci ha aiutati, nella pineta.» «È un diavolo!», inveì Brent, tenendo stretto il fucile, sebbene non cercasse di spianarlo. «È venuto qui per ucciderci! Ha mentito, quando ha detto che era venuto ad avvertirci che c'era un negro evaso. Chi può essere tanto pazzo da venire di notte nell'Egypt, solo per avvertire uno sconosciuto? Mio Dio, vi ha imbrogliati tutti e due! Vi dico che porta il marchio del cane!» «Allora sa che lui è qui», gridò Ashley. «Sì. Me l'ha detto questo demonio, cercando di insinuarsi in casa. Dio, Ashley, lui ci ha trovati, nonostante tutte le nostre manovre. Ci siamo messi in trappola! In una città, potremmo pagarci una protezione. Ma qui, in questa foresta maledetta, chi sentirà le nostre grida, chi verrà ad aiutarci,
quando arriverà quel mostro? Che sciocchi... che sciocchi siamo stati a credere di poterci nascondere da lui in questa desolazione!» «L'ho sentito ridere», disse Ashley, rabbrividendo. «Ci ha sfidati, dai cespugli, con quella voce di belva. Ho visto l'uomo che ha ucciso... sembrava dilaniato dalle zanne di Satana. Cosa... cosa possiamo fare?» «Cosa possiamo fare se non chiuderci dentro e combattere fino all'ultimo?», urlò Brent. Aveva i nervi a pezzi. «Vuoi dirmi di che cosa si tratta?», supplicò tremando la ragazza. Con un terribile riso disperato, Brent tese il braccio, indicando i boschi neri, al di là del fioco cerchio di luce. «Un diavolo in forma umana è in agguato là fuori!», esclamò. «Mi ha cercato in tutto il mondo e finalmente mi ha trovato. Ricordi Adam Grimm?» «L'uomo che venne con te in Mongolia cinque anni fa? Ma è morto, mi avevi detto. Eri tornato senza di lui.» «Credevo che fosse morto», borbottò Brent. «Ascolta: ti spiegherò. Tra le montagne nere della Mongolia Interna, dove non era mai penetrato nessun bianco, la nostra spedizione fu attaccata dai fanatici adoratori del Diavolo... i Monaci Neri di Erlik che vivono nella città maledetta e dimenticata di Yahlgan. Le guide e i servitori furono uccisi, e ci portarono via tutti gli animali. Ci restò soltanto un piccolo cammello. Per tutto il giorno io e Grimm li respingemmo, sparando dietro le rocce. Quella notte avevamo deciso di cercare di fuggire, sull'unico cammello che era rimasto. Ma era evidente che non poteva portarci in salvo tutti e due. Un uomo solo avrebbe potuto farcela. Quando venne la notte, colpii Grimm alla testa con il calcio del fucile, e gli feci perdere i sensi. Poi montai sul cammello e fuggii...» Brent non notò l'espressione nauseata e inorridita sul bel volto della nipote. Lei stava fissando lo zio a occhi sbarrati, come se lo vedesse per la prima volta e ne fosse profondamente sconvolta. Brent continuò a parlare, troppo ossessionato dalla paura per curarsi di ciò che la ragazza pensava di lui. La vista di un'anima denudata della sua vernice convenzionale non è sempre piacevole. «Passai tra gli assedianti e fuggii nella notte. Grimm, naturalmente, cadde nelle mani degli adoratori del Diavolo, e per anni credetti che fosse morto. Avevano fama di uccidere fra le torture tutti quelli che catturavano. Passarono anni, e quasi dimenticai l'episodio. Poi, sette mesi fa, seppi che era vivo... anzi, era tornato in America, deciso a togliermi la vita. I Monaci Neri non l'avevano ucciso, ma con le loro arti maledette l'avevano cambia-
to. Non è più interamente umano, ma tutta la sua anima è votata alla vendetta. Sarebbe stato inutile rivolgermi alla polizia; lui sarebbe riuscito egualmente a mettere in atto i suoi propositi. Per più di un mese fuggii di qua e di là, come un animale braccato, e finalmente, quando credetti di avergli fatto perdere le mie tracce, mi rifugiai in questa desolazione abbandonata da Dio, tra questi barbari dei quali Kirby Garfield è un tipico esempio.» «Tu parli di barbari!», esclamò la ragazza, e il suo disprezzo avrebbe lacerato l'anima di qualunque uomo che non fosse così completamente dominato dalla paura. Gloria Brent si rivolse a me. «Mr. Garfield, entri, la prego. Non deve cercare di attraversare la foresta, questa notte, con quel demonio che si aggira nei dintorni.» «No!», urlò Brent. «Allontanati dalla porta, stupida! Ashley, tu stai zitto. Vi dico che è una delle creature di Adam Grimm! Non metterà piede nella mia baita!» La ragazza mi guardò, pallida, impotente e desolata, e io provai pena per lei, così minuta e stravolta. «Non dormirei nella sua baita neanche se fuori ululassero tutti i lupi dell'inferno», ringhiai, rivolgendomi a Brent. «Me ne vado, e se mi spara alla schiena, prima di morire l'ammazzerò. Non sarei tornato, ma la signorina aveva bisogno di protezione. Ne ha bisogno anche adesso, ma tant'è... Miss Brent», dissi, «se vuole, domani verrò a prenderla con un calesse e la porterò in paese. Sarebbe meglio che tornasse a New York.» «In paese la porterà Ashley», ruggì Brent. «Maledetto, se ne vada!» Con un gesto sprezzante che lo fece diventare livido, gli voltai le spalle e me ne andai. La porta sbatté dietro di me, e sentii la voce stridula di Brent e quella piangente della nipote. Povera ragazza! Per lei doveva essere un incubo, venire strappata alla sua tranquilla esistenza cittadina e finire in una zona sconosciuta e primitiva, in mezzo a gente selvaggia e violenta, tra minacce e vendette. Le pinete del Sud-Ovest sembrano già abbastanza strane e aliene agli abitanti delle città; e adesso, oltre al loro cupo mistero primordiale, c'era quel torvo fantasma uscito dal passato, come un'immagine d'incubo. Mi voltai, e rimasi immobile sul sentiero buio, fissando il lontano punto tra gli alberi. Il pericolo incombeva sulla baita nella piccola radura, e un bianco non poteva lasciare quella ragazza affidata esclusivamente alla pro-
tezione dello zio impazzito e del suo servitore. Ashley sembrava efficiente, ma Brent era un'incognita. Ero convinto che fosse pazzo. Le sue rabbie folli e i suoi sospetti altrettanto folli lo indicavano. Non avevo nessuna simpatia per lui. Un uomo disposto a sacrificare un amico per salvarsi la pelle merita di morire. Ma evidentemente anche Grimm era pazzo. L'uccisione di Jim Tike era stata il gesto di un maniaco omicida. Quel poveraccio non gli aveva fatto niente di male. Avrei ammazzato Grimm per quel delitto, se ne avessi avuto l'occasione. E non volevo che la ragazza ci andasse di mezzo per le colpe dello zio. Se non era stato Brent a mandare il telegramma, come diceva lui, allora era evidente che era stata chiamata per uno scopo sinistro. Chi poteva averlo fatto se non Grimm, per farle subire la stessa sorte decisa per Richard Brent? Mi voltai e tornai indietro. Se non potevo entrare nella baita, potevo almeno acquattarmi nell'ombra, pronto a intervenire se ci fosse stato bisogno del mio aiuto. Dopo pochi minuti, ero sotto gli alberi al limitare della radura. La luce brillava ancora attraverso le imposte, e in un certo punto era visibile una parte del vetro. E, mentre stavo guardando, il vetro s'infranse, come se qualcosa l'avesse colpito. La notte fu lacerata da una fiammata che eruppe in un lampo accecante dalle porte, dalle finestre e dal comignolo della baita. Per un istante infinitesimale, vidi la baita profilarsi, nera, contro le lingue di fiamma che ne uscivano. Pensai che fosse esplosa... ma nessun suono accompagnò lo scoppio. Mentre ero ancora abbagliato, un'altra esplosione riempì l'universo di scintille abbacinanti, e fu accompagnata da un tuono. Persi i sensi troppo rapidamente per capire che ero stato colpito alla testa da tergo, all'improvviso, e con violenza terribile. 3. Una luce palpitante fu la prima cosa che percepii, quando ripresi conoscenza. Battei le palpebre, scrollai la testa e mi svegliai completamente. Ero sdraiato sul dorso in una piccola radura, circondata da alti alberi neri che rispecchiavano la luce guizzante d'una torcia piantata per terra accanto a me. Mi doleva la testa, e avevo un grumo di sangue sulla cute; e avevo le mani bloccate da un paio di manette. I miei abiti erano strappati ed ero tutto graffiato, come se fossi stato trascinato brutalmente attraverso i cespu-
gli. Un'enorme sagoma nera stava acquattata sopra di me... un negro di media statura, ma tozzo e muscoloso, che portava soltanto un paio di calzoni laceri e infangati... Tope Braxton. Impugnava due pistole, e mi prendeva di mira alternativamente con l'una e con l'altra. Una era la mia; l'altra era appartenuta al poliziotto che Braxton aveva ucciso con una botta in testa. Rimasi in silenzio per un momento, studiando il gioco della luce della torcia sul poderoso torso nero. Il corpo enorme sembrava d'ebano o di bronzo opaco: pareva una figura emersa dall'abisso da cui l'umanità era uscita millenni addietro. La ferocia primitiva si rispecchiava nei fasci di muscoli delle massicce braccia scimmiesche, sulle spalle spioventi, e soprattutto nella testa appuntita sostenuta dal collo taurino. Le narici larghe e piatte, gli occhi torbidi, le labbra carnose aggricciate sui denti... tutto proclamava la primordialità di quell'uomo. «Cosa diavolo c'entri tu in quest'incubo?», dissi. Tope Braxton mostrò i denti in un ghigno scimmiesco. «Era ora che rinvenissi, Kirby Garfield», disse. «Volevo che rinvenissi prima di ammazzarti, perché sapessi chi è a ucciderti. Poi tornerò indietro a vedere Grimm che uccide il vecchio e la ragazza.» «Cosa vuoi dire, diavolo nero?», chiesi seccamente. «Grimm? Cosa ne sai di Grimm?» «L'ho incontrato nella pineta, dopo che ha ammazzato Jim Tike. Ho sentito sparare e sono andato a vedere con una torcia... credevo fosse qualcuno che mi dava la caccia. Così ho incontrato Grimm.» «Allora eri tu, l'uomo con la torcia che ho visto», borbottai. «Grimm è furbo. Ha detto che se lo aiuto a uccidere certa gente, lui mi aiuterà a fuggire. Ha buttato la bomba nella baita: la bomba non ha ammazzato quelli che c'erano dentro, li ha solo paralizzati. Io sorvegliavo il sentiero, e quando sei tornato indietro ti ho dato una botta in testa. Quel tale, Ashley, non è rimasto paralizzato, e allora Grimm gli ha morsicato la gola come ha fatto a Jim Tike.» «Morsicato la gola?», domandai. «Grimm non è un essere umano. Cammina come un uomo, ma in parte è un cane, o un lupo.» «Un Lupo Mannaro, vuoi dire?», chiesi, con un brivido. Tope Braxton sogghignò. «Già, sicuro. C'erano, nel vecchio paese.» Poi si scosse. «Ho chiacchierato anche troppo. Adesso ti faccio saltare la testa.»
Le labbra carnose si contrassero in un ghigno, mentre prendeva la mira con la pistola che impugnava nella destra. Mi tesi, disperatamente, cercando un modo per salvarmi. Non avevo le gambe legate, ma ero ammanettato, e al minimo movimento, Braxton avrebbe sparato. Sondai convulsamente il ricordo delle credenze dei negri, le superstizioni semidimenticate. «Queste erano le manette di Joe Sorley, no?», chiesi. «Uh-uh», ghignò lui, senza abbassare la pistola. «Gliele ho prese dopo avergli sfasciato la testa con la sbarra della finestra. Pensavo che mi sarebbero servite.» «Bene», dissi, «se mi uccidi mentre le porto, sarai dannato in eterno! Non sai che se uccidi un uomo che porta una croce, il suo spettro ti perseguiterà per sempre?» Braxton abbassò di colpo la pistola, e il sogghigno fu sostituito da una smorfia. «Cosa vuoi dire, uomo bianco?» «Quello che ho detto. C'è una croce graffita all'interno di una manetta. L'ho vista mille volte. Adesso sparami pure, e ti perseguiterò fino all'Inferno.» «Quale manetta?», ringhiò il negro, alzando minacciosamente il calcio della pistola. «Scoprilo da te», ribattei. «Avanti, perché non spari? Spero che tu abbia dormito abbastanza, ultimamente, perché farò in modo che tu non dorma più. La notte» sotto gli alberi, vedrai la mia faccia che ti spia. Sentirai la mia voce nel vento che geme fra i cipressi. Quando chiuderai gli occhi, al buio, sentirai le mie dita intorno alla tua gola.» «Stai zitto!», ruggì, brandendo le pistole. La sua faccia nera aveva riflessi cinerei. «Fammi stare zitto tu... se ne hai il coraggio!» Mi sollevai a sedere e poi ricaddi, imprecando. «Maledizione a te, ho una gamba rotta!» La sfumatura cinerea svanì dalla faccia d'ebano, e la decisione si affacciò di nuovo negli occhi arrossati. «Hai la gamba rotta!» Tope Braxton snudò i denti in un ghigno bestiale. «Mi è sembrato che cadessi male, e poi ti ho trascinato per un bel pezzo.» Posò a terra le pistole, lontano dalla mia portata, poi si alzò e si chinò su di me, estraendo una chiave dalla tasca dei calzoni. La sua sicurezza era giustificata: non ero disarmato e impotente, con una gamba fratturata? Le manette non erano necessarie. Girò la chiave e me le tolse. E allora, come due serpenti all'attacco, le mie mani scattarono verso la sua gola, stringen-
do convulsamente e trascinandolo addosso a me. Mi ero sempre domandato quale sarebbe stato l'esito di una lotta tra me e Tope Braxton. Ma uno non può andarsene in giro ad attaccar briga con i negri. Una gioia rabbiosa s'impadronì di me: era torva soddisfazione al pensiero che la questione sarebbe stata risolta una volta per tutte... con la vita come premio per il vincitore, e la morte per il perdente. Nell'istante in cui lo afferrai, Braxton si rese conto che l'avevo indotto con un trucco a liberarmi... che non ero più invalido di lui. Esplose allora in un uragano di ferocia che avrebbe smembrato un uomo meno forte di me. Rotolammo sugli aghi dei pini, azzuffandoci. Se stessi scrivendo un romanzo elegante, racconterei che battei Tope Braxton ricorrendo a una combinazione d'intelligenza superiore, di abilità pugilistica e di acume scientifico, per battere la sua forza bruta. Ma in questa cronaca devo attenermi ai fatti. L'intelligenza non ebbe molta parte in quella battaglia. Non mi avrebbe aiutato più di quanto avrebbe aiutato un uomo alle prese con un gorilla. In quanto all'abilità acquisita, Tope avrebbe fatto a pezzi un pugile o un lottatore normale. La scienza ideata dall'uomo non sarebbe bastata a resistere alla velocità fulminea, alla ferocia, e alla forza schiacciante dei terribili muscoli di Tope Braxton. Era come lottare con una bestia feroce, e mi battei con Tope Braxton come si battono gli uomini del fiume, come i selvaggi, come gli scimmioni, petto contro petto, muscolo contro muscolo, pugno ferreo contro cranio duro, ginocchio contro inguine, denti affondati nella carne muscolosa, dilaniando, lacerando, massacrando. Dimenticammo entrambi le pistole abbandonate a terra; vi rotolammo sopra una dozzina di volte. Ognuno di noi era conscio di un unico desiderio, di un cieco, rosseggiante impulso di uccidere a mani nude, di lacerare, straziare, storpiare e calpestare, fino a quando l'altro non fosse ridotto a una massa immobile di carne sanguinante e di ossa fracassate. Non so per quanto lottammo; il tempo svanì in una eternità venata di sangue. Le sue dita erano artigli di ferro che dilaniavano la carne e ammaccavano le ossa. La testa mi girava per i tonfi contro il suolo duro, e dal dolore al fianco capivo che avevo almeno una costola fratturata. Il mio corpo era tutto un tormento, con le giunture contorte e i muscoli stirati. I miei indumenti erano strappati, intrisi dal sangue che mi colava da un orecchio quasi strappato dalla testa. Ma se subivo colpi terribili, quelli che
sferravo non erano meno tremendi. La torcia era caduta, ma bruciava ancora, a guizzi, illuminando d'una luce livida quella scena primordiale. La luce era meno rossa della smania di uccidere che mi velava gli occhi. In una nebbia cremisi vidi i suoi denti bianchi scintillare in un ghigno forzato, gli occhi roteare bianchi in una maschera di sangue. Gli avevo sfigurato il viso facendogli perdere ogni aspetto umano: dagli occhi alla cintola la sua pelle nera era tramata di scarlatto. Il sudore ci copriva, e le nostre dita scivolavano. Mi contorsi, liberandomi parzialmente dalla sua stretta, poi concentrai tutta la forza dei miei muscoli nel pugno che lo centrò alla mascella come un maglio. Sentii l'osso scricchiolare, quindi un gemito involontario; il sangue sprizzò e la mascella fratturata ricadde, penzolante. Una bava cruenta coprì le labbra aperte. Allora, per la prima volta, le nere dita spietate esitarono; sentii il grande corpo cedere e accasciarsi. Mentre un singulto belluino di ferocia soddisfatta usciva dalle mie labbra straziate, finalmente le mie dita trovarono la sua gola. Cadde riverso, e io mi buttai sul suo petto. Le sue mani mi strinsero convulsamente i polsi, ma sempre più debolmente. E lo strangolai, lentamente, senza ricorrere ai trucchi del jiu-jitsu o della lotta, con la sola forza bruta, piegandogli la testa all'indietro tra le spalle, fino a quando il suo collo taurino si spezzò come un ramo fradicio. Nell'ebbrezza della lotta, non mi accorsi quando morì, non compresi che era stata la morte a sciogliere finalmente i muscoli ferrei del corpo sotto di me. Mi rialzai barcollando, intontito, e gli calpestai il petto e la testa fino a quando le ossa cedettero sotto il mio peso, prima di rendermi conto che Tope Braxton era morto. Forse sarei crollato, perdendo i sensi, se non avessi ricordato oscuramente che il mio compito non era ancora terminato. Brancolando con le mani intormentite, trovai le pistole e mi avviai vacillando tra i pini, nella direzione in cui l'istinto mi diceva trovarsi la baita di Richard Brent. E, a ogni passo, sentivo che le forze mi ritornavano. Tope non mi aveva trascinato lontano. Seguendo il suo impulso da uomo della giungla, mi aveva portato tra gli alberi, lasciando il sentiero. In pochi passi tornai sulla pista, e vidi di nuovo la luce della baita, in mezzo ai pini. Braxton non aveva mentito, dunque, per quanto riguardava l'effetto della bomba. Almeno, l'esplosione silenziosa non aveva distrutto la baita che era ancora come l'avevo vista l'ultima volta, apparentemente indenne. Come
prima, la luce filtrava dalle imposte: ma adesso ne usciva una risata acuta, inumana, che mi agghiacciava il sangue nelle vene. Era la stessa risata che ci aveva beffati lungo il sentiero. 4. Acquattato nell'ombra, girai intorno alla radura per raggiungere il lato della baita dove non c'erano finestre. Nell'oscurità fonda, senza un filo di luce che mi tradisse, uscii dagli alberi e mi avvicinai. Vicino alla costruzione, inciampai in qualcosa di ingombrante e cedevole, e quasi caddi in ginocchio. Il cuore mi balzò in gola per il timore che il rumore denunciasse la mia presenza. Ma la terribile risata ontinuò a risuonare nell'interno della baita, mescolata al piagnucolio di una voce umana. Ero inciampato nel corpo di Ashley. Giaceva riverso e guardava in alto con occhi ciechi; la testa era rovesciata all'indietro sul collo straziato e insanguinato. La gola era dilaniata: dal mento al colletto c'era un grande squarcio. Gli abiti erano viscidi di sangue. Nauseato, nonostante la mia esperienza in fatto di morti violente, mi accostai alla baita, cercando inutilmente una fessura fra i tronchi. All'interno, la risata era cessata e quella spaventosa voce inumana risuonava facendo fremere i nervi sul dorso delle mie mani. Con la stessa difficoltà della volta precedente, distinsi le parole: «... E quindi non mi uccisero, i Monaci Neri di Erlik. Preferirono farmi uno scherzo... uno scherzo divertente, dal loro punto di vista. Uccidermi sarebbe stato troppo pietoso; preferirono giocare con me, come gatti con un topo, e rimandarmi nel mondo con un marchio che non avrei mai potuto cancellare... il Marchio del Cane. È così che lo chiamano. E fecero il loro lavoro alla perfezione. Nessuno sa cambiare un uomo meglio di loro. Magia Nera? Puah! Quei diavoli sono i più grandi scienziati del mondo. Quel poco che il mondo occidentale sa della scienza, è filtrato in minuscoli rivoli da quelle montagne nere. Quei demoni potrebbero conquistare il mondo, se volessero. Sanno cose che nessun uomo moderno osa immaginare. Conoscono la chirurgia plastica, ad esempio, meglio di tutti gli scienziati del mondo messi insieme. Conoscono le ghiandole come non le conosce nessun fisiologo europeo o americano; sanno come rallentarle o stimolarle, per produrre certi risultati... Dio, che risultati! Guardami! Guardami, maledetto, e impazzisci!» Girai in silenzio intorno alla baita fino a quando arrivai a una finestra e
sbirciai da una fessura dell'imposta. Richard Brent giaceva su un divano in una stanza arredata con un lusso incongruo, per quello scenario primitivo. Era legato mani e piedi; la sua faccia era livida, a malapena umana. Negli occhi stralunati c'era l'espressione di un uomo che si trova di fronte all'orrore supremo. Nell'altra parte della stanza la ragazza, Gloria era stesa su un tavolo, legata ai polsi e alle caviglie. Era nuda, e i suoi indumenti erano sparsi in disordine sul pavimento, come se le fossero stati brutalmente strappati di dosso. Con la testa girata, fissava inorridita l'alta figura che dominava la scena. Grimm voltava le spalle alla finestra ed era rivolto verso Richard Brent. La sua figura era umana... un uomo alto e magro dagli aderenti abiti scuri, con una specie di mantello che gli pendeva dalle spalle ampie. Ma uno strano tremito mi scosse, e riconobbi finalmente la paura che avevo provato dall'istante in cui lo avevo intravvisto per la prima volta sopra il corpo del povero Jim Tike. C'era qualcosa d'innaturale nella figura, qualcosa che non era evidente mentre stava così, voltandomi le spalle e che tuttavia suggeriva inequivocabilmente un'anormalità; e le mie sensazioni erano la paura e il ribrezzo che gli uomini normali provano per l'anormale. «Loro mi hanno trasformato in un orrore e poi mi hanno scacciato», stava gridando con quella voce spaventosa. «Ma il cambiamento non fu compiuto in un giorno, o in un mese, o in un anno! Giocavano con me, come i diavoli giocano con un'anima urlante sulle graticole incandescenti dell'Inferno! Tante volte avrei potuto morire, a loro dispetto, ma mi sosteneva il pensiero della vendetta! In quei lunghi anni neri, fra le sofferenze e le torture, sognavo il giorno in cui avrei pagato il debito nei tuoi confronti, Richard Brent! E alla fine incominciai la caccia. Quando arrivai a New York, ti mandai una fotografia della mia... della mia faccia, e una lettera, spiegandoti quello che era accaduto... e quello che sarebbe accaduto. Stolto, credevi di potermi sfuggire? Credi che ti avrei avvertito, se non fossi stato sicuro della mia preda? Volevo che soffrissi, consapevole della tua sorte, che vivessi nel terrore, che fuggissi e ti nascondessi come un lupo braccato. Sei scappato e io ti ho inseguito, da una costa all'altra. Mi sei sfuggito temporaneamente quando sei venuto qui, ma era inevitabile che ti rintracciassi. Quando i Monaci Neri di Yahlgan mi hanno dato questo» (e la sua mano si levò a indicare la faccia, e Richard Brent urlò), «hanno instillato in me lo spirito della belva che avevano copiato. Ucciderti non mi bastava. Volevo godermi la vendetta fino all'ultima
goccia. Per questo ho mandato un telegramma a tua nipote, l'unica persona al mondo che ti sia cara. Il mio piano si è realizzato alla perfezione... con una sola eccezione. Le bende che ho sempre portato da quando lasciai Yahlgan sono state spostate da un ramo, e ho dovuto uccidere lo sciocco che mi stava guidando alla tua baita. Nessuno può vedermi in faccia e sopravvivere, eccettuato Tope Braxton, che è più simile a una scimmia che a un uomo, del resto. L'ho incontrato poco dopo che quel Garfield aveva cercato di spararmi, e mi sono confidato con lui, considerandolo un utile alleato. È troppo bestiale per provare lo stesso orrore dell'altro negro. Crede che io sia un demone, ma poiché non gli sono ostile, non ha esitato ad allearsi con me. È stata una fortuna che mi sia confidato con lui, perché è stato lui a fermare Garfield mentre stava ritornando. Avrei ucciso Garfield io stesso, ma era troppo forte, e troppo svelto con la pistola. Avresti potuto imparare la lezione dagli abitanti della zona, Richard Brent. Vivono nella violenza, e sono duri e pericolosi come lupi. Ma tu... tu sei molle, troppo civilizzato. Morirai troppo facilmente. Vorrei che fossi resistente come lo era Garfield. Vorrei tenerti in vita per giorni e giorni, a soffrire. Ho lasciato a Garfield una possibilità di fuggire; ma quell'idiota è tornato, ed è stato necessario eliminarlo. La bomba che ho gettato dalla finestra non avrebbe avuto molto effetto su di lui. Conteneva uno dei segreti chimici che ero riuscito a imparare in Mongolia, ma è efficace solo in proporzione alla forza fisica della vittima. È bastata per paralizzare una ragazza e un degenerato come te. Ma Ashley è riuscito a precipitarsi fuori dalla baita e avrebbe recuperato rapidamente le forze, se non l'avessi posto in condizioni di non nuocere.» Brent proruppe in un grido lamentoso. Non c'era lucidità nei suoi occhi, solo una paura allucinata. Aveva la bava alla bocca. Era pazzo... pazzo come l'essere spaventoso che farneticava in quella stanza. Solo la ragazza, che si contorceva sul tavolo d'ebano, era sana di mente. Tutto il resto era incubo e follia. E, all'improvviso, il delirio sopraffece Adam Grimm, e la faticosa voce monotona proruppe in un urlo agghiacciante. «Prima la ragazza!», gridò Adam Grimm... o la cosa che era stata Adam Grimm. «La ragazza... la ucciderò come ho visto uccidere tante donne in Mongolia... scuoiata viva, lentamente... oh, lentamente! Per farti soffrire, Richard Brent... come io ho sofferto nella nera Yahlgan! Non morirà prima che non resti neppure un centimetro di pelle sul suo corpo, al di sotto del
collo! Guardami mentre scuoio la tua cara nipote, Richard Brent!» Non credo che Richard Brent capisse. Ormai non capiva più nulla. Farfugliava, scrollava la testa, sputava fiocchi di bava dalle livide labbra contratte. Alzai la pistola, ma proprio in quel momento Adam Grimm si voltò di scatto, e la vista della sua faccia mi paralizzò. Non oso sognare quali maestri di una scienza innominabile vivessero nelle nere torri di Yahlgan, ma sicuramente era stata la stregoneria dell'Inferno a rimodellare quella faccia. Le orecchie, la fronte e gli occhi erano quelli di un uomo normale; ma il naso, la bocca e le mascelle erano quali gli uomini non immaginano neppure negli incubi. Non so trovare le frasi adatte per descriverli. Erano mostruosamente allungati, come il muso di un animale. Il mento non esisteva; la mascella superiore e quella inferiore sporgevano come le fauci di un cane o di un lupo, e i denti, snudati nel ghigno che aggricciava le labbra bestiali, erano zanne lucenti. Non so come quelle fauci potessero formulare parole umane. Ma la metamorfosi era più profonda dell'aspetto superficiale. Negli occhi, che sfolgoravano come braci nel fuoco dell'Inferno, c'era uno sguardo che non aveva mai brillato negli occhi di un essere umano, savio o pazzo che fosse. Quando i Neri Monaci-Demoni di Yahlgan avevano alterato la faccia di Adam Grimm, avevano operato una trasformazione corrispondente anche nella sua anima. Non era più un essere umano: era un autentico Lupo Mannaro, terribile come quelli delle leggende medievali. La cosa che era stata Adam Grimm si precipitò verso la ragazza, brandendo nella mano un lucente coltello, e allora mi riscossi dallo stordimento dell'orrore, e sparai attraverso il foro nell'imposta. Non sbagliai la mira; vidi il mantello sobbalzare all'impatto del proiettile; il mostro sussultò e il coltello cadde dalla sua mano. Poi si voltò fulmineamente e si lanciò attraverso la stanza, verso Richard Brent. Aveva compreso ciò che era accaduto, sapeva che poteva portare con sé una sola vittima, e aveva compiuto la sua scelta. Non credo che, logicamente, io possa considerarmi responsabile di quello che accadde. Avrei potuto sfondare l'imposta, balzare nella stanza e lottare con il mostro nel quale i monaci della Mongolia Interna avevano trasformato Adam Grimm. Ma quello si mosse con tale rapidità che Richard Brent sarebbe morto comunque prima che facessi irruzione nella baita. Feci ciò che mi sembrava più sensato... continuai a sparare dalla finestra mentre l'orrore attraversava la stanza.
I proiettili avrebbero dovuto fermarlo: avrebbero dovuto farlo crollare morto sul pavimento. Ma Adam Grimm continuò ad avanzare, noncurante dei colpi che lo crivellavano. La sua vitalità era più che umana, più che bestiale; c'era qualcosa di demoniaco in lui, evocato dalle Arti Nere che l'avevano trasformato in ciò che era. Nessun essere naturale avrebbe potuto attraversare la stanza sotto quella grandine violenta di piombo. A quella distanza, non potevo mancarlo. Barcollava a ogni impatto, ma non cadde fino a che non ebbi messo a segno il sesto proiettile. Allora strisciò, come una belva, sulle mani e sulle ginocchia, mentre bava e sangue gli sgocciolavano dalle fauci ghignanti. Il panico mi travolse. Freneticamente, presi la seconda pistola e la scaricai contro quel corpo che continuava a trascinarsi a fatica, spargendo fiotti di sangue a ogni movimento. Ma neppure l'Inferno avrebbe potuto tener lontano Adam Grimm dalla sua preda, e persino la morte indietreggiava di fronte all'atroce decisione di quell'anima che un tempo era stata umana. Con dodici pallottole in corpo, letteralmente crivellato, con la materia cerebrale che colava da uno squarcio alla tempia, Adam Grimm raggiunse l'uomo sul divano. La testa deforme si abbassò; un urlo gorgogliò nella gola di Richard Brent quando le fauci orrende si serrarono. Per un istante di follia i due volti spaventosi parvero fondersi davanti ai miei occhi inorriditi... il pazzo umano e il pazzo inumano. Poi, con un gesto da belva, Grimm alzò di scatto la testa, lacerando la vena iugulare del suo nemico, e il sangue diluviò su entrambe le figure. Grimm alzò la testa, con le zanne sgocciolanti e il muso insanguinato, e le sue labbra si aggricciarono in un'ultima atroce risata che si spense in un fiotto di sangue, quando si accasciò e rimase immobile. IL MARCHIO DEL MOSTRO The Mark Of The Monster di Jack Williamson Weird Tales, maggio 1937 1. Dietro tutta la miseria di Creston, lo squallore delle sue vecchie case, la povertà e l'ignoranza dei suoi abitanti, c'è qualcosa di ancor più spiacevole. Ed è un qualcosa che stagna nell'atmosfera come un oscuro presagio, un'ombra, un odore. Io avevo avuto sempre la sensazione ossessionante di
una presenza occulta, una sorta d'immenso ragno che avesse gettato la sua invisibile ragnatela sulle case e contemplasse con occhi avidi le sue vittime inerti. Ero fuggito da Creston, infine. E adesso, il solo motivo per cui osavo tornarvi era Valyne Kirk. L'antiquato pullman che scendeva verso il fondovalle, rimbalzando sui sassi della strada tutta curve, sferragliava come se fosse sul punto di andare in pezzi. La civiltà moderna non era mai arrivata in quella zona depressa o, se c'era arrivata, se n'era andata subito dopo con una smorfia di disgusto, e l'aspetto ottocentesco del villaggio fece calare sulla mia anima una nebbia tetra che ebbe la meglio sulla mia risoluzione di tenere i nervi a posto. Sentivo in bocca un sapore amaro: Creston era sempre la stessa via di mezzo fra un borgo medievale e una città fantasma del Far West, umida e triste, immersa fra le montagne desolate. Le case erano in pietra grigia, senza intonaco, con spioventi tetti grigi e imposte in legno grigio. Le finestre erano occhi stolidi che fissavano senza speranza le fredde pendici delle alture costellate di abeti. In ciò che vedevo non c'era niente di cambiato. In quei sette anni la pioggia, la neve e il vento, non avevano apportato mutamenti sensibili alle scolorite stradicciole di Creston. L'insegna dell'Emporio Blades aveva ancora l'intaccatura al centro della «B» che avevo fatto con un colpo di fionda. I vetri della birreria erano opachi di polvere. Davanti al Magazzino Haynes c'era una catasta di legname che avrebbe potuto essere la stessa di sette anni addietro. Mi chiedevo cos'avrei trovato di cambiato in Valyne Kirk. La ragazza aveva promesso che sarebbe venuta ad aspettarmi in piazza, alla fermata del pullman. Ambedue sapevamo di cosa avremmo parlato: ciò che volevo era portarla via da Creston, definitivamente. I miei occhi già la cercavano con impazienza nelle stradicciole, avidi di posarsi sul suo volto dolce, sui suoi lisci capelli corvini, su quelle iridi viola il cui sguardo mi era rimasto nell'anima. Ma quando il pullman si fermò nella piazzetta, Valyne non c'era. Una ridda di presentimenti foschi s'impadronì di me e, mentre tiravo giù la borsa dal portabagagli, l'aria che entrava dal finestrino mi portò alle narici odori che avevo dimenticato, odori che non mi erano mai piaciuti e che peggiorarono ancora il mio umore. La strana lettera che avevo in tasca cominciò a sembrarmi gravida di significati oscuri. Mi era stata spedita dal dottor Kyle, il mio anziano padre adottivo, e nel leggerla mi ero sentito una stretta al cuore. Diceva:
Figlio mio, mi scrivi che hai deciso di tornare a casa per sposare Valyne Kirk. Io non voglio, non oso, dirti il perché, ma possa Iddio nella sua bontà farti cambiare proposito, e impedirti quello che sarebbe un errore spaventoso e drammatico! Possibile che tu non abbia ancora compreso la diversità che c'è in te, Clay? Non hai avvertito la triste macchia che c'è nella tua anima? Non sei mai stato consapevole del nero veleno che scorre insidioso nel tuo sangue? Sebbene Sarah e io sentiamo la tua mancanza, ambedue preferiremmo non rivederti e saperti lontano, a vivere la tua vita in qualunque altro posto, piuttosto che qui. Se tu sposassi Valyne, sulla vostra esistenza graverebbe una condanna spaventosa. Ti supplico di non tornare. Tu sai che ciò che dico è vero, come sai che questa condanna è come un freddo serpente intorno al tuo cuore. Rinuncia, dunque. E sappi che Sarah e io ti auguriamo ogni bene e ogni prosperità. Il tuo secondo padre Lo spiacevole enigma contenuto in quelle frasi affondava le sue radici negli inquietanti ricordi della mia fanciullezza, nella paura agghiacciante che spesso avevo sentito scivolare giù dalle colline di Creston e venirmi addosso, e risvegliò in me un brivido arcano. Dovevo riconoscere che proprio questo mi aveva più volte fatto rimandare il ritorno dall'Oriente. Ma, se c'era una ragione reale per cui non potevo sposare Valyne, adesso dovevo accertarla al di là di ogni dubbio. Scesi dallo scalcinato veicolo sperando ancora di vederla giungere, ma per le strade non c'era quasi nessuno. Con un sospiro mi avviai lungo Murdock Street, una viuzza esigua e tortuosa selciata in ciottoli, oltrepassando case silenziose che un tempo mi erano state ben note. Ma avevo l'impressione che l'atmosfera cupa del paese fosse perfino più pesante di sette anni prima. Il mio arrivo non era passato inosservato. Da dietro i vetri di alcune finestre e da qualche porta socchiusa, c'erano delle facce che mi guardavano. Conoscevo i loro nomi, e a un paio elargii un cenno di saluto col capo, ma nessuno si prese la briga di rispondermi. I loro occhi mi seguivano silenziosi e ostili, forse spaventati. Girai a destra e fui di nuovo sulla Main Street, che avevo appena percorso in pullman. All'Ufficio Postale c'era
sempre il vecchio Dud Morrow, ma neppure lui mi riconobbe quando entrai, o fece finta di non riconoscermi, finché non mi fui presentato. Un vago accenno di Valyne mi aveva fatto venire il dubbio che potesse aver cambiato casa, e Morrow aveva portato avanti e indietro le mie e le sue lettere per anni. Distolse subito gli occhi da me, quasi che la mia presenza gli fosse meno gradita di quella di un appestato, e non si preoccupò di salutarmi quando uscii. Una vecchia che sbirciava da una porta semiaperta la sbatté di colpo al mio passaggio. Quello era il modo in cui Creston mi accoglieva. Ma ero perplesso. Valyne mi aveva scritto che sua madre era morta, però non aveva fatto alcun cenno alla sua intenzione di trasferirsi proprio in casa dei miei genitori adottivi. Non sapevo cosa pensare. La strada saliva, uscendo da Creston fra due file di cipressi neri e polverosi, e s'inerpicava per circa ottocento metri sulle balze di una collina. La casa del dottor Latham Kyle, dov'ero cresciuto, era nascosta da una macchia di sempreverdi. Conoscevo ogni sasso di quella strada, ogni buca, ogni tronco d'albero, ma sentivo ormai la netta presenza di qualcosa di oscuro e invisibile, qualcosa che era sceso dalle colline più alte per circondare il paese coi suoi osceni tentacoli fatti di orrore. Fu quella sensazione che mi costrinse ad alzare lo sguardo sui versanti scabri e granitici della Donna Solitaria. La montagna incombeva sulla vallata come un gigante, piena di gobbe e rientranze, gole e recessi difficilmente raggiungibili e in parte inesplorati. C'erano alberi enormi lassù, antichi e contorti, e bastioni simili a fortezze che avevano alimentato i miei incubi di gioventù. Non di rado, da ragazzino, spinto da un misterioso istinto che superava perfino le mie paure, mi ero avventurato nelle selvagge immensità di quei versanti. E un giorno, tremante di stanchezza, ero arrivato a poca distanza dalla vetta più alta. Era stato là, su un desolato pianoro chiuso fra rocce titaniche, nella cornice di enormi alberi contorti e secolari, che avevo scoperto il grande circolo di pietre simili a dolmen: una circonferenza di pesantissimi monoliti al centro della quale c'era un altare, nero come di cenere e sangue disseccato. Quando ero andato a fermarmi dinanzi a quell'altare, fra affascinato e stordito, una sorta di estatico terrore mi aveva paralizzato le membra. Era un'ipnosi che mi gelava il cuore. Strani ricordi mi erano risaliti alla mente, alcuni meravigliosi, altri spaventosi, e tutto il mio corpo era stato scosso da un tremito violentissimo. Poi, qualcosa che era dentro di me, mi aveva fat-
to gridare: ero caduto in ginocchio davanti all'altare, a braccia protese, e di scatto mi ero chinato sulla pietra liscia sbattendovi la fronte con forza. Su di essa erano rimaste gocce di sangue, e ve le avevo sparse con le dita formando una chiazza rossa. Ma, mentre abbandonavo quel misterioso e antichissimo circolo di pietre, avevo avuto orrore di me stesso. La mia sensibilità di adolescente si era ribellata, nauseata e sconvolta, ed ero fuggito a rotta di collo giù per la montagna. Una volta a casa avevo raccontato al dottor Kyle della mia scoperta. Lui mi aveva ascoltato a denti stretti, rigido, con occhi che nel fissarsi nei miei sembravano volermi scavare nella mente. E, al termine del mio racconto, aveva continuato a guardarmi in silenzio. Poi la sua voce era suonata così grave e preoccupata da farmi raggelare. «Figlio mio», aveva detto, «se vuoi che nulla distrugga la tua vita, la tua sanità mentale e la tua anima, non tornare mai più in quel circolo di pietre! E non rivelare mai a nessuno cos'hai visto lassù. Dimenticalo. Promettimi che te lo dimenticherai!» E io - ero un bambinetto di appena sei anni - glielo promisi. Ma non ero riuscito a dimenticare. Da quel giorno avevo evitato di fare scorribande sulle pendici della Donna Solitaria, e tuttavia quella paura subdola e strisciante era rimasta come un peso sulla mia anima. Con uno sforzo allontanai i ricordi da cui non traevo che pena, e cercai di pensare soltanto al viso dolce di Valyne Kirk. Col suo sorriso ancor vivo nella mente, accelerai il passo su per la collina. Ma era destino che la incontrassi prima ancora d'essere giunto alla successiva svolta della stradicciola. Alla mia destra c'era un terreno in salita, fitto di alberi e cespugli, da cui partiva un sentiero che scompariva nella boscaglia diretto al versante più vicino della Donna Solitaria. E fu da oltre i cespugli che udii levarsi la sua voce. «Aiuto... aiutatemi!», gridò. Feci un balzo per la sorpresa. Da lì non vedevo niente, però lei doveva avermi scorto, e anche riconosciuto, perché subito dopo ebbe un ansito e nella sua voce spaurita vibrò anche una nota di sollievo: «Clay! Clay!». Il mio nome intero è Claiborne. Claiborne Coe. Ma Valyne mi aveva sempre chiamato col diminutivo. Si può ben immaginare quale fu la mia emozione. Gettai la borsa a terra e mi precipitai sul sentiero.
«Clay, sei davvero tu? Oh, aiutami...!», gridò ancora. E in quel momento la vidi. Ma nella penombra del sottobosco una forma alta e poderosa la stava inseguendo. Mentre correvo avanti, vidi che si trattava di un uomo barbuto, un colosso che indossava una specie di tuta su cui sembrava ci fossero delle larghe macchie di sangue raggrumato. Il suo volto brutale era contratto in un'espressione lubrica, bestiale, e negli occhi gli ardeva una luce animalesca. Valyne cadde quasi fra le mie braccia. «Clay... fermalo!», ansimò. Feci scostare la fanciulla e avanzai di un passo. «Basta così!», ordinai duramente. L'individuo emise un ringhio e, senza neppure guardarmi, continuò a procedere verso Valyne, con le mani adunche protese a cercarla bramosamente. Quando gli sbarrai la strada con decisione, proiettò un braccio di lato, quasi che volesse scostarmi come avrebbe fatto con un cespuglio. Con la mano sinistra gli afferrai il polso, e con la destra lo agguantai per la barba. «Fermati, uomo!», sbottai. «Tu non sai cosa stai facendo!» Per la prima volta i suoi occhi vitrei e prominenti sembrarono mettersi a fuoco su di me. La voce che gli uscì di bocca era rauca, confusa e a stento comprensibile: «La donna... è mia. Lascia, tu... vattene!». Di nuovo mi colpì col braccio, un pugno pesante che mi scosse e mi fece vacillare di lato, sebbene l'avessi in parte bloccato con una spalla. «Attento, Clay... è una bestia!», gemette Valyne. «Stavo scendendo in paese per venirti incontro, e l'ho visto sulla strada. Mi ha inseguita, e ho dovuto fuggire fra gli alberi, ma lui mi ha dato la caccia. Fermalo, ti prego!» Visto che non mi toglievo dalla sua strada, l'uomo ringhiò ancora, ferocemente, e sollevò i pugni grossi come prosciutti. Non avendo altra scelta, fui costretto a battermi. Dio sa che non avrei voluto. Da quando ero un bambinetto ho sempre fatto di tutto per evitare ogni scontro fisico. La ragione di questo non era né la timidezza né tantomeno la vigliaccheria, ma purtroppo qualcosa di più terribile: era il demone rosso del sangue e della violenza che fin dal primo istante mi travolgeva, prendendo possesso di me. Era la cieca furia dell'impulso alla distruzione, che riusciva ad annientare il mio raziocinio. Era la bestia selvaggia che, quando infine si ritraeva, mi lasciava stordito, come emerso da una nebbia, e con dinanzi agli occhi le conseguenze crudeli della pazzia che mi aveva
sommerso. La prima cosa che feci fu di estrarre l'automatica calibro 45 che portavo nella fondina sotto un'ascella, perché - già fuori di me - volevo vedere il suo cervello schizzargli via dalla testa attraverso i fori delle pallottole. Poi la furia mi tolse il bene dell'intelletto, e fu questo che lo salvò perché, invece di sparare, preferii colpirlo in faccia col calcio dell'arma. Lo vedevo come attraverso una foschia rossa, e desideravo sentir crocchiare le sue ossa. A un tratto però mi calmai e tornai in me, perché con una parte della mente mi ero accorto che Valyne mi stava spingendo indietro. E se c'era qualcosa che poteva farmi rinsavire, quella era Valyne. «Clay! Clay!», singhiozzò, aggrappandomisi al petto. «Basta, Clay. Gli hai già fatto abbastanza. Fin troppo!» Il suo tono di supplica accorata agì come una secchiata d'acqua gelida, schiarendomi il cervello. L'uomo giaceva scompostamente nel fango del sentiero, e mandava rantoli penosi. La sua barba e il davanti della tuta erano sporchi di sangue fresco, rosso vivo. Aveva uno spacco su tutte e due le labbra, e vidi che i suoi incisivi superiori erano spariti tutti e quattro. Nel vedere come l'avevo ridotto, provai una stretta al cuore. Qualche anno addietro, a Singapore, due ladruncoli da strada mi avevano fermato in un vicolo buio e, puntandomi i coltelli al petto, avevano cercato di derubarmi. Quando il rosso demone della follia se n'era andato dalla mia mente, avevo visto i due stesi a terra, quasi decapitati e orrendamente squartati, coi loro coltelli piantati nei corpi. Da quel giorno avevo paura di me stesso. E tuttavia, visti i luoghi che sovente frequentavo, ero costretto a portare un'arma. Per fortuna l'individuo barbuto non era ferito gravemente e, quando lo tirai su da terra, riuscì a stare in piedi da solo. I suoi occhi bulbosi fissarono prima me e poi Valyne, senza alcuna espressione. Si schiarì la voce, sputò una boccata di sangue e si infilò una mano in tasca. Ne tolse fuori un orologio a catenella, grosso come una sveglia, e ne controllò il funzionamento con ottusa preoccupazione. Poi, senza una parola, scese sulla strada sterrata e si allontanò verso il paese, barcollando come un ubriaco. Avrei preferito vederlo imprecare o reagire. C'è qualcosa di cupo e minaccioso nel silenzio di un uomo che è stato appena percosso. Ma i suoi occhi inespressivi non mi avevano rivelato neppure un accenno dei pensieri che potevano ronzargli nella testa. Un autentico bruto. Per non spaventare Valyne mi ero affrettato a nascondere in tasca la ri-
voltella. La fanciulla mi chiese il fazzoletto, e poi lo umettò di saliva per asciugarmi il sangue da un taglio sulla mano destra. «Scusami», le dissi. «Quando ho capito quello che voleva farti ho perso completamente la testa. Avrei potuto ammazzarlo se...» Nei suoi grandi occhi viola c'era ancora un'ombra di paura. «Sono contenta che tu... che tu lo abbia colpito», balbettò. Le tremava la voce. «Mi ha spaventato vederti lottare con lui, però... ero terrorizzata. È un uomo... animalesco. Forse adesso capirà che non deve più insidiarmi.» «È una faccia che ho già visto», dissi, accigliato. «Sì. È Jud Geer, il macellaio», m'informò lei. Adesso ricordavo: Jud Geer, il figlio del macellaio. Anni addietro era stato un ragazzo strano, lento di cervello e di movimenti. Tutti i coetanei del paese avevano paura di lui. Molto spesso andava in giro brandendo delle massicce ossa di bue, prese nella bottega del padre e ancora lorde di sangue, con le quali si divertiva a percuotere malignamente gli altri ragazzi. Una sera aveva legato il piccolo Tommy Lanning e lo aveva trascinato in una cantina piena di topi, versandogli poi del sangue addosso, e l'aveva lasciato lì tutta la notte. Il mattino successivo il ragazzo era stato ritrovato mezzo assiderato, e con numerosi brutti morsi di topo addosso. Quando Valyne ebbe terminato di bendarmi, presi le sue mani fra le mie e le strinsi. Lei sorrise. Una gioia venata di malinconia e di dolcezza mi rese muto, tremante, perché d'improvviso mi accorgevo che era cambiata e diventata donna. Ed era più bella e affascinante di quanto ricordavo. Ma ancora le ombre della paura non si erano dissolte dai suoi occhi di fanciulla. «Non pensare più a quell'uomo», mormorai. «Oh, Valyne, mia cara!» D'improvviso, quei sette anni trascorsi senza di lei mi parvero aridi, vuoti di significato, e fui lieto d'essermeli lasciati alle spalle. Le accarezzai una guancia. «Fra poco dimenticherai tutto: questo squallido paese, questa gente. Possiamo andarcene da qui anche subito. Noleggeremo un'auto, e fra mezz'ora saremo già per strada. Che ne dici?» «Clay...» Lei evitò il mio sguardo ed esitò, incerta. «Questo posto non mi piace. Mi fa paura», dissi. «Non so perché, ma è così. Ho sempre avuto paura di tornare, e l'ho fatto soltanto perché ti amo, Valyne. Ogni minuto è una tortura per me. Ti prego, partiamo oggi stesso... subito!» Mi era difficile trovare perfino le parole per descrivere la sensazione opprimente che mi dava Creston. Odiavo le sue vecchie case, la vista delle
colline fredde, la sua immobilità stagnante. Ero ansioso di abbandonare quella valle dimenticata dal mondo, per tornare ai rumori e alla vivacità di New York, dove intendevo mettere su casa. C'era anche qualcosa di più, naturalmente: c'era l'orrore che sentivo aleggiare sulle pendici della Donna Solitaria, il ragno che stendeva la sua ragnatela sopra la valle. E nello sguardo di Valyne leggevo che lei condivideva le mie paure. Le sue mani delicate strinsero con forza le mie. «Clay, sono così felice che tu sia qui!», disse con voce tremula. «Voglio andarmene da qui, con te. Lo voglio! Tu non puoi immaginare cos'abbia voluto dire per me attendere, in questi mesi, in casa del dottor Kyle. Il terrore...» La voce le si spezzò un istante, per l'emozione. «Ma non possiamo partire così. Non stasera. Il dottore e sua moglie vogliono vederti. Dopo tutti questi anni... capisci?» «Dobbiamo, Valyne? È meglio se non li rivedo», dissi. «Il mio patrigno non vuole che io ti sposi. Lo sapevi?» Il suo volto si era fatto pallido. Guardò giù per la strada che portava in paese e sussurrò: «Lo so, lo so! E gli ho promesso che non ti avrei sposato, almeno non prima che tu abbia parlato con lui». «Se proprio vuoi», sospirai. «Sia pure. Ma non può esserci nessun motivo valido contro la nostra unione... credimi, Valyne.» Tenendoci per mano ci incamminammo su per il viottolo, in direzione della vecchia casa di mattoni, ma senza fretta, perché ambedue volevamo parlare di noi. Le ripetei ciò che le avevo già scritto, circa la piccola fortuna in denaro che avevo riportato in patria dall'Oriente, e del buon posto di lavoro che mi era stato promesso da una ditta che commerciava con Hong Kong e con le Filippine. Parlammo anche brevemente dei preparativi della partenza, sottovoce, quasi che ambedue sentissimo la presenza di qualcosa di minaccioso, qualcosa che avrebbe potuto opporsi alla nostra fuga da Creston. Come quasi tutte le case di Creston, anche quella in cui ero cresciuto aveva un orto e un giardinetto. Pesante, di mattoni anneriti e rosi dal tempo, non risvegliò in me alcuna sensazione piacevole. Il vento faceva cigolare un'imposta al primo piano, e le tegole di ardesia attendevano che le prime piogge d'autunno lavassero la loro crosta di polvere. Valyne spinse la porta di quercia rinforzata da borchie rugginose, ed entrammo. 2.
Fin da quando potevo ricordare, quella era stata una casa vecchia. Da ragazzino non ci avevo mai fatto veramente caso, e avevo preso per scontato il suo aspetto decrepito; ma adesso qualcosa era cambiato, e non certo in meglio. La prima impressione che ebbi fu la stessa che si prova entrando in una cripta: la casa era morta quando me n'ero andato, e nel tornare la ritrovavo rinsecchita e fredda come uno scheletro. Al pianterreno, sulla destra, c'era una stanza vasta e fornita di un camino, un soggiorno col soffitto sostenuto da travi tagliate duecento anni prima, e fu lì che trovai Sarah Kyle ad aspettarci. Sette anni avevano cambiato anche lei. S'era fatta più magra, aveva perso i denti e le sue mani si erano coperte di rughe e macchie di fegato. I suoi occhi mi parvero stranamente piccoli e brillanti e, mentre ci veniva incontro, notai che camminava con passi rigidi e artrosici, da uccello. Mi abbracciò, mi strinse le mani, e mi contemplò con una risatina chiocciante, poi cominciò a scusarsi del disordine. Dopo qualche frase di rito si rilassò, tornò a studiare il mio aspetto, e mi fece qualche domanda sul lavoro che avevo fatto in Oriente. Le dissi cose che avevo già scritto nelle lettere. «Dov'è il dottore? Posso vederlo?», chiesi poi. Non lo avevo mai chiamato «papà», ma soltanto «signore» o «dottore». In quella zona usava ancora rivolgersi al genitore con l'appellativo di «signore». In quanto a Sarah Kyle, l'avevo sempre chiamata «Mamma Kyle» il che, come ognuno può capire, è molto diverso dal semplice «mamma». I suoi occhi luccicanti, più che mai da uccellino, mi fissarono in modo che trovai strano. «Sì, farai meglio a vederlo, Clay, se vuoi davvero sposare Valyne», disse con voce rauca e trillante al tempo stesso. «E dovrai proprio prendere sul serio i suoi avvertimenti. Non camminare sull'orlo del baratro, Clay, perché sotto c'è l'Inferno!» Feci un passo indietro, sbalordito. «Mamma Kyle! Ma... che cosa volete dire?» «Te ne parlerà Latham. Se... se il tuo strano sangue non te lo ha già scritto nell'anima», fu la risposta. Cercai di tenere i nervi a posto. «Dov'è il dottore?» «Latham sta lavorando. È di sopra nel suo studio. È sempre molto indaffarato con quel suo grosso libro.» «Quale libro?», domandai. «Sta scrivendo la storia dei culti demoniaci di Creston.» «Non se ne avrà a male se lo interrompo», dissi, stupito.
Sarah Kyle mi mise una mano su un braccio. «No. Lo vedrai dopo cena. Saprà spiegarti lui perché non puoi sposare Valyne, condannando la sua anima all'Inferno.» Contrariato e perplesso per quell'incomprensibile modo di fare, stavo per ribattere, quando Valyne mi prese sottobraccio e, dopo avermi fatto segno di non protestare, mi scortò in quella che un tempo era stata la mia camera da letto. Fu qui che incontrai i due domestici dei Kyle: Eben Hand e sua moglie Josepha. Mi stavano preparando il letto. Eben era un individuo grasso e col fiato corto; aveva capelli biondi, occhi azzurri e la pelle di aspetto molliccio. Lo avevo sempre giudicato un uomo incolore, e non era certo cambiato. Mi strinse la mano senza energia. Sette anni prima non veniva mai a casa dei Kyle e, se ben ricordo, coltivava un grosso orto. La moglie invece, scura e piccola, capitava ogni tanto a fare il bucato. Ora sembrava che i Kyle li avessero presi in pianta stabile. «Ti rammenti di Clay, vero, Eben?», disse la donna, quasi che glielo stesse ordinando. «Da bambino correva sempre su e giù per il paese. Bene, adesso è tornato per portarsi via la nostra Valyne. E si dice che sia diventato ricco, là in Oriente. Capito, Eben?» All'ultima frase, l'uomo sbatté ottusamente le palpebre, poi annuì e tornò a fissarmi. Se io ero il primo «ricco» che vedeva, il mio aspetto dovette deluderlo abbastanza. Deposi la borsa da viaggio su una sedia e attesi che i due terminassero di cambiare il letto. Provai sollievo quando Eben e sua moglie uscirono, lasciandomi solo con Valyne. «Li detesto», brontolai. «E detesto anche questa casa. Non potremmo andare a dormire da qualche altra parte, per stanotte?» «E dove? Non ci sono alberghi a Creston», mi ricordò lei. «Inoltre, potrebbe sembrare strano se non restassimo qui. Io... davvero, Clay, voglio che tu parli col dottor Kyle. Gliel'ho promesso.» La presi fra le braccia e la baciai teneramente. Ma neppure il fremito che mi diedero le sue belle labbra sensuali riuscì a farmi dimenticare l'atmosfera spiacevolissima che sentivo aleggiare in quel luogo. A tarda sera il dottor Kyle si decise finalmente a scendere dalla sua stanza. Era un uomo alto e grosso, e lo trovai alquanto irrigidito. Il suo corpo massiccio dava un'impressione di solidità, ma questa scompariva del tutto se lo si osservava in faccia. Era diventato quasi completamente calvo, e la pelle tesa del suo cranio aveva un tono giallastro. Lo stesso colore malsano
gli era apparso sulle guance, pendule e cascanti, e i suoi occhi, che un tempo erano stati neri e volitivi, adesso sembravano essersi spenti come cenere annacquata. Ci incontrammo ai piedi della scala di mattoni consunti, e notai che la mano con cui strinse la mia era gelida, quasi che avesse lavorato per ore con la finestra aperta e incurante del fresco. Sulla sua faccia cadaverica non apparve neppure l'ombra di un sorriso. «Sei sempre il benvenuto, Clay. Questa è la tua casa», disse con voce grave e preoccupata. Sulla sua faccia ci fu una contrazione nervosa che mi stupì. «Naturalmente sono felice di vederti, ma... speravo che tu avresti preso alla lettera il mio avvertimento, e che avresti rinunciato all'idea di sposare Valyne.» «Sono venuto a prenderla», dissi, sostenuto. «E la porterò via con me, malgrado tutto quello che potrete dirmi.» Lui scosse la testa più volte. «Clay, tu sei sempre stato un ragazzo strano, e inquieto. Ma io so che non vorrai essere così sconsiderato e follemente egoista da condannare Valyne a una vita terribile e spaventosa. E, quando mi avrai ascoltato, la penserai così anche tu, perché c'è pur sempre qualche goccia di sangue umano nelle tue vene.» «Mi sembra chiaro che la felicità di Valyne viene prima di tutto», protestai. «Cosa vi fa credere il contrario? Se avete qualcosa da dire, ebbene ditela. Non limitatevi a vaghi accenni.» Ma Josepha Hand stava portando la cena in tavola, e Valyne la seguì venendo a fermarsi accanto a noi. La fanciulla sorrise. «Dottore, avete lavorato fin troppo anche oggi. E sapete bene che questo vi stanca il cuore. Andiamo a tavola, via.» Poi si accostò a me e mi sussurrò in un orecchio: «Parlerete più tardi, Clay. Ma sappi che sarebbe un crimine dinanzi a Dio!». Valyne ci prese entrambi sottobraccio e ci portò in sala da pranzo. Ma, mentre mi sedevo al suo fianco, così vicino che le nostre spalle si sfioravano, mi chiesi cosa mai avesse voluto dirmi con quell'ultima frase. Cosa poteva esistere di tanto pressante e terribile da porsi come una barriera fra lei e me? Che diavolo stava succedendo in quella vecchia casa? Eravamo appena a metà del pasto, allorché Eben Hand apparve sulla soglia con aria agitata. Fece avvicinare sua moglie con alcuni cenni nervosi e le sussurrò qualcosa. La donna si voltò di scatto verso di noi, pallida in faccia. «Dottore!», ansimò. «Dovete andare subito, dottore. Non riesce a tenerlo calmo!»
Il dottor Kyle trasalì, lasciando cadere il cucchiaio. In gran fretta si alzò e seguì immediatamente Eben Hand giù per la scala che, come non avevo certo scordato, conduceva in cantina. Sarah Kyle lo aveva guardato con aria spaurita, ne ero certo, e la donna continuò a tenere gli occhi fissi verso le scale, tesa e in silenzio, come se tendesse gli orecchi. Da lì a poco sentii un rumore provenire dal basso, e ad esso seguì un gemito simile a quello di un animale torturato. Nell'udirlo, Sarah Kyle si rilassò con evidente sollievo. Tornò quindi a dedicarsi alla tavola, mi porse il cestino del pane e mi osservò con un sorrisetto neutro. «Allora, Clay, che ci racconti della Cina? Hai fatto affari anche laggiù?» «Ero a Hong Kong, ultimamente», la corressi. «Sì, mi sono accordato per certe forniture di rame e stagno.» Ma nel parlare fissavo di traverso Valyne. I suoi occhi viola erano abbassati nel piatto, e le sue guance avevano perso il colorito. Stava tremando. I suoi incisivi stringevano il labbro inferiore così forte che temetti di vederne uscire il sangue. «Valyne!», sussurrai. «Che c'è, cara?» Ma la fanciulla scosse appena la testa e non si mosse. «Rame e stagno?», gracchiò Sarah Kyle. «E ne hai tratto un buon profitto?» In quel momento il dottore rientrò e sedette di nuovo al suo posto. La moglie si piegò a mormorargli una domanda che non riuscii ad udire, tuttavia la risposta di lui fu: «Sì, è inquieto. Forse affamato. Jud è in ritardo oggi». Il dottor Kyle si volse poi a me: «Devo chiederti scusa per questi misteri, Clay. Ti prego, finisci la tua cena. Più tardi capirai». E, detto ciò, assunse un tono indifferente da conversazione: «Dunque, dimmi: hai portato con te dei pezzi d'arte cinese?». «No», borbottai. «Solo un po' di giada.» Continuando poi a guardare Valyne, mi dedicai alla cena. Poco prima che terminassimo di mangiare, qualcuno bussò alla porta posteriore, dalla parte dell'orto. Josepha andò a vedere chi fosse, e quindi annunciò: «Dottore, è venuto Jud». «Fallo entrare», rispose lui. «E portalo giù, da Eben.» Jud Geer passò nel breve andito fra le scale, portando con sé quello che sembrava un contenitore per il latte. La sua tuta era più ingrumata di sangue di quanto non lo fosse quel pomeriggio, e aveva due grossi cerotti sulle labbra. Il suo sguardo mi attraversò come se io fossi invisibile, e si posò
su Valyne con un'intensità che non mi piacque. Poi proseguì giù lungo la scala che portava in cantina. Il dottor Kyle e sua moglie parvero ascoltare ansiosamente. Pochi istanti dopo si udì un uggiolìo bestiale, cui fecero seguito un acciottolio metallico e il rumore di un liquido che veniva versato. Da lì a due minuti Jud risalì, entrò in sala da pranzo, e si chinò a parlottare in un orecchio del dottore, così vicino a me che potevo udire il ticchettio del cipollone che aveva in tasca. Attraverso i cerotti, la sua voce era un borbottio incomprensibile, e teneva il capo mezzo girato in modo da poter guardare Valyne. Il dottor Kyle gli diede alcune monete, e l'uomo se le ficcò in tasca ma, invece di andarsene, restò lì a fissare ancora la fanciulla. Josepha, che gli aveva aperto la porta, fu costretta a chiamarlo con impazienza, e solo allora il colosso barbuto si decise a uscire. Solo in quel momento, allorché risollevò dal pavimento il contenitore cilindrico per portarselo via, mi accorsi che questo aveva lasciato una traccia circolare sulle mattonelle di linoleum: una traccia rossa. Dunque, l'individuo aveva portato lì parecchi litri di sangue. Prima che avessi il tempo di digerire questa sconcertante scoperta, Eben Hand riapparve. Era scarmigliato e sporco in faccia. Sulla soglia mormorò qualcosa alla moglie che, come in precedenza, gli funse da portavoce nei confronti del padrone di casa. «Dottore», mormorò la donna. «Eben dice che lui non vuole toccare il cibo, e che si agita. È molto nervoso. Eben pensa che lui sappia che... che quella persona è qui. E pensa che lo stia chiamando.» La testa della donna aveva avuto un lievissimo movimento a indicare me. Chi mi stava chiamando? Come in risposta a quella mia domanda inespressa, il dottor Kyle mi fissò con occhi accesi. Poi scosse il capo. «Lui non può ricordare», mormorò, più a se stesso che a noi. «Non è possibile che conosca Clay, dopo tutti questi anni.» Di nuovo, giù nella cantina, risuonò il guaito animalesco. Josepha Hand strinse i denti. «Invece può. E vuole lui!» Stupefatto, mi resi conto che tutti quanti mi stavano guardando con gli occhi sbarrati, inorriditi, quasi che io fossi un'improvvisa apparizione demoniaca. In quel pesante e incomprensibile silenzio, il rumore della forchetta di Valyne che cadeva echeggiò come quello di un gong. 3.
Mentre le donne sparecchiavano la tavola, il dottor Kyle mi prese da parte. A bassa voce e con gravità disse: «Clay, ti prego di credere che queste parole mi vengono dal cuore, come se io fossi il tuo vero padre. Se vuoi bene a Valyne, lasciala qui e vattene... vattene subito, senza costringermi a rivelarti il terribile segreto che riguarda la tua vita». «E perché dovrei farlo?», sbottai, duramente. «Io ti voglio bene, Clay.» Ebbe un ansito d'emozione. «Ti amo come se tu fossi mio figlio, a dispetto di quello che le mie parole possono farti pensare. Ed è per questo che non ti ho mai detto niente. Devo tacere anche con te, per il tuo bene.» Fece una pausa. «Se lascerai per sempre questo paese, forse potrai trovare un po' di felicità. Io prego per questo. Vai via, Clay... e non sposarti mai!» Mi aveva messo una mano su una spalla, ma mi scostai. «Mi spiace deluderti. Non me ne andrò da qui senza Valyne. La mia vita non avrebbe significato senza di lei. E insomma... si può sapere perché non dovrei sposarla? Che io sappia, sono perfettamente sano, di corpo e di mente.» Lui scosse il capo, come impietosito. «Vedo che sarò costretto a parlarti. Ma, a questo punto, anche se le mie parole segneranno la tua intera vita, almeno risparmieranno a te e a Valyne un orrore ancora peggiore. Io ti...» Il grido che risalì dalla cantina lo fece voltare di scatto. Era un urlo acuto, folle. Poi ci fu il tintinnio di una pesante catena. Si udì un raspare come di artigli sul nudo terreno, e lo schianto di assi che si spezzavano. Il dottore era rimasto paralizzato, grigio in faccia e tremante. A grandi passi Eben Hand risalì la scala, spaventatissimo e, dopo aver biascicato qualche parola incoerente, riuscì a dire: «Dottore, ha spaccato tutto! Vuole uscire... vuole venire da lui!». I suoi occhi mi fissavano con terrore, ma in quelli di sua moglie c'era disgusto e odio selvaggio. Ritrovando d'un tratto la padronanza di sé, il dottor Kyle raccolse una pesante sedia e si avviò verso la scala brandendola con aria decisa. Sarah, sua moglie, gli corse dietro gridando: «No, Latham, ci penso io! A me ha sempre dato ascolto. Lascia fare a me!». I due domestici si affrettarono a seguirli e sparirono dabbasso. Valyne era invece indietreggiata fino al lato opposto della sala da pranzo, e aveva seguito i quattro con occhi pieni di muto terrore. Mi affrettai ad andarle accanto e le strinsi le mani. «Valyne, calmati. Ti prego, tesoro, calmati. Ascolta: cosa c'è giù in can-
tina? Perché il dottore non vuole che io ti sposi? Cosa sta succedendo in questa maledetta casa?» Aveva le mani gelide. I suoi occhi erano quasi inespressivi per la paura, e non mi rispose. «Tu sei terrorizzata, mia cara!», gemetti. «Dimmi perché, ti prego.» Ma all'improvviso ebbi Un'intuizione terribile, e feci un passo indietro. «Tu hai paura... di me!» La fanciulla evitò il mio sguardo, con espressione agonizzante. «Io so soltanto quello che lui mi ha detto, Clay.» D'un tratto però mi abbracciò, tremando come una canna al vento. «Io ti amo. Ti amo, Clay. Qualunque cosa tu possa essere, non dimenticarlo mai!» La stavo ancora abbracciando con dolcezza, quando il dottore Kyle riemerse dalla scala che portava in cantina. Sembrava più scosso e nervoso di prima. «Clay», mi chiamò, «vieni subito con me, per favore. Muoviti! Credo che le nostre vite siano in pericolo, e ho bisogno di te.» «Che significa?», domandai, contrariato. «Capirai più tardi, dopo che ti avrò spiegato. Adesso non c'è tempo. Vieni!» Lasciai Valyne seduta sul divano e lo seguii. Ma sulle scale mi fermai a controllare il caricatore della 45 e, prima di rimetterla nella fondina, tolsi la sicura. Giunto in cantina vidi che l'ampio locale colmo di cianfrusaglie era stato ripulito, e un robusto muro di recente costruzione lo divideva in due. Su di esso c'era una porta rinforzata con strisce di metallo e fornita di cardini massicci, con al centro uno spioncino rivestito d'acciaio. Eben Hand, sua moglie e Sarah Kyle erano lì ad attenderci, alla luce di una lampada a kerosene poggiata su un tavolo. Appena mi videro si fecero indietro, fissandomi con aperto timore, ma non dissero nulla. Mentre il dottore mi guidava alla porta, mi accorsi che lì dentro c'era un odore strano, acre e muschioso, che avrei detto animalesco. Ma nessuna bestia a me nota emetteva un sentore così denso e spiacevole. In quel momento, aldilà della porta risuonò un ringhio belluino, basso e feroce. «Parlagli tu», mi disse il dottore Kyle in fretta. «Non importa quello che gli dirai, basta che tu usi un tono fermo e amichevole.» Esitai. Dallo spioncino usciva un effluvio nauseabondo che mi fece storcere il naso, e sentii di nuovo il clangore di una catena trascinata al suolo. Nella penombra c'era un corpo pesante che si muoveva ansando. Poi un
volto che non aveva nulla di umano comparve oltre l'apertura, e due occhi scarlatti come tizzoni d'inferno si fissarono nei miei, strappandomi un ansito d'orrore. Era un muso largo e piatto, livido, privo di naso e con ciuffi di pelo che pendevano sulla bocca piena di denti giallastri. Era qualcosa che non avrebbe dovuto esistere sulla faccia della Terra e, senza quasi accorgermene, mormorai alcune frasi. Erano i versi di una poesia di Edgar A. Poe, tanto macabri quanto adatti alla circostanza: Essi non sono di umana progenie Né sono essi progenie bestiale Ma dell'uomo e della bestia oscuri Seguaci, là sulle vette antiche Abitano i Ghoul. Quelle furono le parole che dissi, come impietrito. Poi il corpaccione si scostò dalla porta e lo vidi abbassarsi. Le sue catene tintinnarono contro un altro oggetto metallico. Udii una specie di ronfare felino, soddisfatto, e ad esso seguì il caratteristico rumore di una lingua che lappava un liquido. Allorché mi voltai a osservare gli altri nella luce gialla della lampada, mi accorsi che la loro tensione era scomparsa. Josepha Hand mi guardava sempre come se fossi un mostro. Suo marito mormorò, tergendosi il sudore dal collo: «Si è calmato. Adesso mangerà». Io andai ad afferrare il mio patrigno per una spalla. «Torniamo di sopra. Dovete decidervi a parlare, e subito.» Lui mi precedette sulla scala, e al pianterreno mi indicò l'altra. «Vieni su in camera mia», disse. Poco più su voltò la testa per fissarmi gravemente. «Cerca di mantenere l'autocontrollo quando saprai la verità, Clay. E soprattutto prega Iddio che nessun altro demone debba mai nascere in questa casa maledetta!» Lo studio era sotto il tetto, e aveva un soffitto spiovente sostenuto da grosse travi, ma le tegole lasciavano passare il freddo. Quando il dottore ebbe acceso le due grosse lampade a petrolio che teneva sulla scrivania antica e pesante, mi indicò una sedia. Le pareti erano nascoste da scaffalature che contenevano centinaia di volumi, e a un primo sguardo ai titoli mi resi conto che si trattava di libri di occultismo, stregoneria, culti diabolici e antiche leggende sugli stessi argomenti. In un armadio dagli sportelli di vetro erano contenuti globi di cristallo, piccoli idoli di forma grottesca, figurine umane in legno e cera, vasetti di erbe disseccate, e alcune vecchie armi di
ferro rugginoso. «La mia biblioteca, e il mio piccolo museo», spiegò il dottore. «È tutto materiale che ho raccolto portando avanti i miei studi sulle pratiche diaboliche. Nell'antichità queste colline erano tristemente note per i culti che vi si praticavano. E perfino al giorno d'oggi, so con certezza che riti perversi...» «Dottore», lo interruppi, «se avete qualcosa da dirmi, vi sarei grato se me lo diceste senz'altro.» «Siediti, Clay, per favore.» Ma ero troppo nervoso per sedermi. Restai in piedi dietro la sedia, afferrando la spalliera, mentre il dottor Kyle sospirava e camminava avanti e indietro fra me e gli scaffali. Si passò più volte una mano sulla testa liscia, quasi a pettinarsi dei capelli che ormai non aveva più. «Clay», disse infine, col tono di chi affronta un soggetto molto imbarazzante, «suppongo che tu non ricordi niente di tua madre. Vero?» «Niente», confermai. «Dopo la sua morte voi mi portaste qui, e io avevo appena due anni.» «Già, ti dicemmo che lei era morta», mormorò lui senza guardarmi. «E non hai mai saputo che ne è stato di tuo fratello?» «Mio fratello?» Ero sbalordito. «Ma voi diceste che ero l'unico rimasto della mia famiglia. Non ho mai saputo di avere un fratello.» I suoi occhi mi fissarono con calma. «Clay, tua madre è morta soltanto pochi mesi fa. E tuo fratello, o meglio il tuo gemello, è tuttora ben vivo.» La mia mente era un intrico di domande che avrei voluto gridare, ma una sensazione d'orrore mi bloccò la gola. Tutto ciò che potei fare fu di sbarrare gli occhi sul volto del dottore, stordito, e ascoltare le sue parole. Mi sembravano irreali. «Sarà meglio che cominci riassumendoti la storia della tua famiglia, Clay», disse, indicandomi con un largo gesto i volumi degli scaffali. «Questa biblioteca che vedi, un tempo apparteneva a tuo nonno, Eliakim Coe. Ed è stato dai suoi documenti personali che ho appreso la storia sia del paese di Creston che della tua gente. Il primo Coe che giunse qui nel Nuovo Mondo, aveva una macchia sul suo nome: la Chiesa lo aveva scomunicato, e l'Inquisizione lo stava ricercando per metterlo al rogo. Ma egli riuscì a stabilirsi nel Massachussetts. Molti anni dopo un suo discendente, quello stesso Henry Coe che fondò Creston, era un fuggiasco appena scampato ai roghi di Salem, quando là esplose la furia della caccia alle streghe. E fu qui fra queste colline che egli
portò le diavolerie e gli orrori che avevano scatenato l'ira dei Puritani. Le gole e le foreste di questa valle nascondono cose spaventose, Clay! E che tu lo creda o meno... per ben quattrocento anni tutti i tuoi antenati sono stati degli oscuri adepti di ogni scienza occulta, del satanismo, della Magia Nera e della necrofilia. Tuo nonno Eliakim Coe fu l'ultimo e certo il più potente di queste molte generazioni di negromanti diabolici. Ma egli pagò i suoi poteri con un prezzo terribile. Li pagò con sua figlia, Elisabeth, che era tua madre.» «Mia madre!», ansimai io, sbigottito. «Il tuo vero padre», proseguì lui con voce inespressiva, «non fu l'uomo che sposò tua madre. Costui, Edmond Coe, era un suo lontano cugino, ed Elisabeth aveva voluto maritarsi con lui malgrado la violenta opposizione di suo padre Eliakim. Ma, il mattino successivo alla notte nuziale, Edmond fu trovato morto nel letto. E questo delitto fu soltanto il prologo all'orrenda cerimonia che seguì, perché la notte successiva Eliakim Coe prese sua figlia e la trascinò verso la sommità della Donna Solitaria, dinanzi a un antichissimo altare che sorge al centro di un circolo di pietre monumentali.» «L'altare!», sussurrai. «È quello che vidi un tempo!» «Una volta lassù, il rito blasfemo venne portato a compimento: Elisabeth Coe fu legata mani e piedi, le vesti le vennero strappate di dosso, e quindi fu distesa sull'altare di pietra. Intorno a lei impazzava un'orgia ripugnante, i fuochi ardevano, e su di essi bruciavano vive vittime innocenti mentre altre venivano squartate, e in questa apoteosi di orrore e di sangue lo stregone chiamò i demoni della notte. In risposta alla sua evocazione, un Potere Oscuro scese a reclamare le offerte e, uscendo dai boschi, s'avvicinò all'altare. Quando tutto fu terminato, Eliakim Coe prese sua figlia, semisvenuta e folle di terrore, e la riportò giù in paese. E, dopo nove mesi, lei diede alla luce te, Clay... e tuo fratello.» «Cosa... cosa significa tutto questo?», riuscii a sussurrare. Il dottor Kyle strinse i denti. La sua faccia, già rugosa e giallastra, era rigida come quella di una mummia. «Clay... ci sono forze, o entità, o poteri occulti, che la scienza non potrà mai arrivare a capire. Si tratta di energie tremende, al di fuori del mondo materiale, che affondano le loro radici in quelle che potresti definire come dimensioni parallele. E là allignano entità... aliene, diaboliche! Il tuo stesso sangue dovrebbe sussurrarti nella mente queste intuizioni.» Fui costretto ad annuire, a dispetto del mio raziocinio che stava urlando
un disperato «No! Non può essere vero!» dentro di me. Ma, sia nel mistico Oriente che nella mia strana infanzia, io avevo sentito la presenza di cose che la scienza avrebbe negato. «Allora...» Avevo la voce rauca, secca. «Allora io non sono interamente umano?» Il dottore accennò di no col capo. «Purtroppo questa è la spaventosa verità, Clay. Io non ho mai avuto il coraggio di rivelartela.» D'un tratto il cuore mi rallentò i battiti, come se mi avessero appena detto che avevo addosso una malattia mortale. Ero raggelato, incapace di pensare chiaramente. «Così questa è la ragione per cui mi sono sempre sentito... diverso! Uno straniero fra i miei simili! E questo sangue inumano che mi rende folle e avido di distruzione, appena perdo il controllo di me stesso, come se un demone...» «Sì. C'è un demone dentro di te.» Il sussurro di lui fu una sentenza. «Da un punto di vista genetico, questa tua caratteristica inumana è recessiva. Vale a dire che tu ne sei un portatore ma non ne mostri esternamente i sintomi. Fisicamente sei umano in tutto. Lo stesso si può dire dal lato psichico, a parte certe tue stranezze che peraltro riesci a tener sotto controllo quando sei in stato di calma. E tuttavia io ho paura di te, Clay», continuò con voce atona. «La passione carnale, come la rabbia, finirà per svegliare del tutto il demone che dorme in te. Trasformerà quell'ombra in una terribile realtà. Devi stare molto attento, figlio mio, o il ritorno del sangue nero annienterà per sempre tutta la tua umanità. Se ti sposerai... allora diventerai un mostro identico a tuo fratello. In lui quella oscura ascendenza genetica è dominante, non recessiva. Stasera, nel suo desiderio di vederti, ha mostrato un ritorno di natura umana raro com'è raro in te il ritorno della natura diabolica. Ma tuo fratello non è altro che un mostro, osceno e spaventoso.» «Vuoi dire...» Debole e scosso per quella rivelazione, mi lasciai cadere sulla seggiola. «Vuoi dire che quella cosa in cantina, quell'orrore che voleva vedermi, è mio... mio... fratello?» La voce del dottore mi giunse come attraverso una nebbia: «Fui io ad assistere tua madre quando vi partorì entrambi. Avrei voluto uccidere quella creatura inumana, ma lei e suo padre si opposero. Elisabeth lo considerava suo figlio, e c'era ben più che una semplice perversità in questo suo strano sentimento materno. In quanto a Eliakim Coe, voleva usare quel mostro durante la pratica nelle sue arti stregonesche.
Quando tuo fratello cominciò a crescere, Elisabeth capì che non avrebbe mai potuto far parte del consorzio umano. Due anni dopo la vostra nascita Eliakim Coe morì: durante uno dei suoi incantesimi osceni cadde preda di un potere occulto da lui stesso evocato, e il suo corpo si sciolse in putredine mentre ancora gridava chiamando in aiuto Satana. Allora Elisabeth venne qui e ti lasciò da noi. Poi prese la creatura che era tuo fratello e lo portò via con sé nella foresta. Ancora mi accade di rabbrividire al pensiero di quanto fu orribile la vita che tua madre condusse nel segreto della foresta, per vent'anni e più. Ma non potei fermarla, così come non potevo capire perché sacrificava se stessa per il suo figlio inumano. Lo portò in una cava abbandonata, sulle pendici della Donna Solitaria. Da allora non ebbe più contatti col mondo, salvo visite molto saltuarie che mi faceva approfittando del buio, sempre in piena notte. Ma ogni volta veniva in silenzio nella tua stanza, accanto al letto in cui dormivi, e guardava il tuo volto di fanciullo. Ti accarezzava i capelli, e poi se ne andava di nuovo sulla montagna. Pochi mesi fa la vidi arrivare qui e, dalla sua faccia, compresi che era all'ultimo stadio di un male incurabile. La visitai e dovetti dirle che non c'erano speranze. Prima di morire però, condusse giù dalla cava quel mostro, supplicandomi di aver cura di lui. Da allora lo abbiamo tenuto chiuso in cantina. So che devo distruggerlo. Ne sono certo, così come ne ero certo quando lo vidi nascere. Ma ancora non sono riuscito a decidermi a infrangere la promessa che feci a tua madre. Inoltre devo ammettere che vorrei tenerlo come prova vivente dell'autenticità del mio libro: La stregoneria a Creston - Quattro secoli di culti diabolici». Lo seguii con gli occhi mentre andava alla finestra a guardare fuori nel buio, ma non lo vedevo neppure. A malapena sentii le sue ultime parole: «Non ho altro da dirti, Clay. Ora sai perché non puoi sposare Valyne». 4. Appena fui sceso nella mia camera, mi lasciai cadere a corpo morto sul letto. Cercavo di escogitare una soluzione di qualche genere, ma era inutile: avevo la mente nel caos. Una sola cosa capivo con chiarezza: se non potevo sposare Valyne Kirk, tanto valeva che usassi la pistola per mettere fine a un'esistenza che non m'interessava più.
Naturalmente esisteva la possibilità che il dottor Kyle fosse nel torto, magari senza saperlo. Ciò che mi aveva raccontato era decisamente incredibile, inverosimile. Ma il tono convinto delle sue parole, la diversità che mi aveva tormentato sempre la vita, l'ombra nera che gravava su tutta Creston e il mostro incatenato in cantina... erano cose che si sommavano per condurmi a una risposta sola. Poteva avermi mentito? Ma quale ragione avrebbe avuto di farlo, dopo che mi aveva allevato come un secondo padre? Cosa ci avrebbe guadagnato a fare di me un esule, a sapere che vagavo lontano oppresso da sentimenti folli e mortali? No, decisi, era una perdita di tempo negare la realtà di quell'orrore. Me lo sentivo nel sangue, gelido, ineluttabile. Ero una creatura inumana. Nell'intero mondo non c'era nessuno come me... nessuno, salvo quella mostruosità chiusa in cantina. E dalla mia unione con Valyne sarebbe nato soltanto altro orrore, follia e morte! In lontananza, anzi da sotto il pavimento, echeggiò quello che mi parve un ululato. Ci fu un tintinnio di catene, poi il rumore di qualcosa che andava in pezzi. Il mostro... mio fratello! Con un fremito mi alzai a sedere sul bordo del letto. Che stesse tentando di fuggire? Cos'avrebbe fatto, se fosse riuscito a liberarsi? Una cosa era certa: io non intendevo rivederlo mai più. Andai alla finestra. Fuori regnava il silenzio e l'oscurità, ma contro lo sfondo del cielo intravedevo il profilo della Donna Solitaria, la cui sommità era incoronata da un altare pagano. Creston dormiva immersa nella sua eterna paura. Il peso che sentivo sotto l'ascella sinistra era però qualcosa che potevo mettere fra me e la paura, fra me e quel mostro. Strinsi i denti. A mio modo, intanto, una soluzione l'avevo. Estrassi l'automatica dalla fondina. Era fredda e solida, un'arma moderna, più efficace della croce e del rogo contro le negromanzie di Creston. Controllai il caricatore e io rimisi dentro con un colpo secco. Che cosa avrei provato esplodendo il colpo che da solo sarebbe bastato a risolvere ogni mio problema? Lentamente alzai la mano e mi poggiai la canna alla tempia. Sarebbe stato facile? O doloroso? In quel momento sentii dei passi, poi la porta si spalancò e Valyne comparve sulla soglia. La fanciulla sbarrò gli occhi. Subito dopo, con un balzo disperato, mi afferrò il braccio. «No, Clay... no!», gemette. Terrorizzata, animata da una forza sorprendente, mi costrinse ad abbassare la mano con tutto il peso del suo corpo. «Non farlo! Non voglio! Sapevo che avresti cercato di fare questa pazzia...
ma non devi!» Mi fronteggiò tremando, senza lasciarmi il polso. I suoi occhi viola erano colmi di lacrime, e la sua bellezza, la sua passione, fecero annebbiare di lacrime anche i miei occhi. Ogni linea del suo volto mi era infinitamente preziosa. Non intendevo vivere senza di lei. «E perché non dovrei farlo?», dissi, rauco. «Tu sai ciò che sono. Sai perché non potremo mai sposarci. E più presto mi ammazzo, meno rischierò di trasformarmi in... qualcosa di mostruoso!» «Sì, il dottore Kyle mi ha detto tutto.» La fanciulla cercava di ritrovare la calma. «Mi ha parlato. Ma tu gli credi, Clay?» «Sì», mormorai. «Ho tentato di non credergli, ma tutta la mia vita è stata... tutto conduce a questa verità. E tu stessa hai visto come mi sono comportato bestialmente con Jud Geer.» Scossi la testa. «Vattene, Valyne, ti supplico.» La spinsi verso la porta. «Lascia che io ammazzi la bestia che ho dentro, prima che essa ti faccia del male.» Il suo corpo snello si oppose, resistendo alla pressione delle mie mani. «No, Clay. Tu... non capisci?», ansimò, ma con voce decisa. «Se anche tutto questo fosse vero, io non ti lascerò morire da solo. Io ti amo. Se per noi c'è l'inferno, allora ci andremo insieme!» Rimisi la pistola nella fondina e afferrai le sue piccole mani. A un tratto era esplosa in me la convinzione che il nostro amore - il suo, se il mio non era abbastanza puro - avrebbe potuto bruciare come una fiamma redentrice l'orrore che avevo nel sangue. La fanciulla si strinse a me, scossa da un tremito. «Clay, promettimi che vivrai finché vivrò io. Giurami che non ti arrenderai mai a questa mostruosità. Giuralo, e domani mattina tu e io ce ne andremo insieme, per non tornare mai più. Forse in qualche modo troveremo un poco di felicità, forse riusciremo a stare insieme almeno un poco. E se non ci riusciremo... allora il nostro destino si chiuderà nello stesso modo.» Glielo promisi, baciandole i capelli. E intanto mi chiedevo se consultando uno psichiatra, o magari un occultista, o un medico... La dolce presenza di Valyne aveva in parte dissolto il freddo sconforto che mi aveva attanagliato, e la pregai di restare con me. Malgrado la decisione di superare ogni avversità sentivo che solo con la fanciulla accanto potevo averne la forza. Inoltre la vedevo ancora così pallida e scossa che provavo il bisogno di consolarla. Ma in quel momento bussarono alla porta. Era Sarah Kyle, che appena ebbe aperto entrò con tale precipitazione da
finirci addosso. I suoi occhi erano sbarrati. «Lo hai sentito, Clay? Hai sentito?» «Volete dire...», deglutii saliva. «Quel rumore, in cantina?» «Tuo fratello!», ansimò la donna. «E non è più in cantina. Ha spezzato la catena, ha sfondato la porta... è fuggito!» Valyne emise un gemito. Smarrito, la strinsi a me, quasi che il vento gelido della paura stesse soffiando così forte da portarmela via. «Lo hai sentito?», gracidò ancora Sarah Kyle, terrorizzata. «Ma... è stato quasi mezz'ora fa. C'è stato un rumore come di legno infranto. Non ci ho fatto molto caso, a dire il vero.» «Dev'essere successo qualcosa», sussurrò la donna. «E Dio solo sa dove può essere andato.» Valyne si teneva aggrappata al mio braccio. «Cosa dobbiamo fare, Mamma Kyle? Io... ho paura!» Mi guardò con ansia. «Un giorno sono scesa in cantina, e lui... lui mi fissava attraverso lo spioncino, con occhi terribili. Mi voleva, Clay! Cercò anche di rompere la porta, per prendermi. E per quattro giorni ha urlato, e non ha toccato cibo.» La strinsi a me, più desideroso che mai di portarla via da lì. Solo allora cominciavo a capire quale potesse esser stata la sua vita negli ultimi mesi, e mi meravigliai che avesse resistito tanto. «Noi non possiamo sapere cosa farà», si lamentò Sarah Kyle. «È un diavolo, e ha appetiti osceni e contronatura. Tu sei in pericolo, Valyne. Torna in camera tua e chiuditi a chiave. Noialtri cercheremo di trovarlo. Il dottore è uscito di casa poco fa, con Eben e sua moglie.» Si volse a me. «Bada a te, Clay. Quando tuo fratello è calmo, non è aggressivo. Riconosce quelli del suo stesso sangue. Ma se capisse che tu vuoi Valyne per te, la gelosia lo renderebbe folle e feroce. Lui... ma ascolta!» La donna si mise un dito sulle labbra, volgendosi alla finestra, e per qualche istante nella camera ci fu il silenzio. Poi si morse le labbra. «Mi era sembrato di averlo udito. Ma adesso affrettiamoci, Clay. Il dottore vuole che tu esca. Pensa che, se sarai tu a chiamarlo, lui tornerà in cantina docilmente.» «Io vengo con voi!», mormorò Valyne, pallidissima. «No, cara», obiettò la donna. «Devi tenerti lontana dai suoi occhi. Ricorda che già una volta nel vederti è quasi impazzito. Se accadesse di nuovo, non potremmo fermarlo. E lui ti farebbe del male.» Valyne acconsentì a restare in casa, e l'accompagnammo nella sua camera. Prima di chiudere la porta mi baciò, e le sue labbra erano fredde. «Ricorda la tua promessa, Clay», mormorò. «Domani ce ne andremo insieme.
Stai attento, mi raccomando.» Non mi mossi da lì finché non sentii la chiave girare tre volte nella serratura, poi seguii Sarah Kyle giù per le scale. In sala da pranzo lei prese la lampada a kerosene, alzò la fiamma e mi guardò stranamente. «Il dottore dice che è meglio se tu cominci a cercarlo dalla cantina, Clay. Pensa che tu abbia un sesto senso per... quelli come te, e che tu possa trovare una traccia. Credi che sia davvero così?» «Non lo so.» Avrei voluto gridare di no, inorridito per quell'ipotesi, ma stavo cercando di rimanere calmo. «Non devi preoccuparti. Vedrai che se lo chiami verrà da te. Anch'io riuscivo a farmi ubbidire da lui, e so...» «Non ubbidirà più a nessuno!», disse Josepha Hand, comparendo sulla porta d'ingresso. «Vuole la ragazza. Non capite che ha sentito su di lui l'odore di Valyne? È per questo che si è liberato.» Sarah Kyle mi consegnò la lampada, e scendemmo in cantina. La porta era stata divelta dai cardini massicci, che apparivano piegati e contorti. Anche alcuni mattoni avevano ceduto a una spinta poderosa. Nella cella, un tratto di catena rugginosa pendeva dal muro. L'altro pezzo, con il collare spaccato, era stato buttato sulla scala. A terra giaceva un mastello di zinco rovesciato e calpestato da piedi pesanti come macigni, e il sangue che aveva contenuto era sparso dappertutto. Nel locale aleggiava un puzzo ferino, misto a quello ancora peggiore che usciva dal foro del pavimento che fungeva da latrina. Mentre tornavo presso le scale, col volto contratto in una smorfia di disgusto, notai che Sarah sembrava sopportare quell'odore assai meglio di me. O forse - quell'intuizione mi fece accigliare - era possibile che non lo sentisse? Se la mia ipotesi era giusta, allora avevo realmente una sensibilità anormale nei confronti di quell'essere, e dunque avrei potuto seguirne la pista come un cane. L'idea mi strappò un grugnito: uscire nel bosco a cercare un mostro era l'ultima cosa che avevo voglia di fare. Mi stavo accendendo una sigaretta per vincere il nervosismo, quando il grido di Valyne me la fece cadere di mano. Corsi su per le scale divorando i gradini quattro alla volta, e ad alta voce maledissi me stesso per averla lasciata sola. Nel buio pianerottolo, con Sarah Kyle che annaspava più indietro facendo oscillare la lampada, battei le mani sulla porta e scossi la maniglia. «Valyne!», chiamai. «Valyne, stai bene? Rispondi!» All'interno ci fu solo il tonfo di un'imposta che sbatteva. La serratura era
chiusa a chiave, ma cedette insieme a un grosso frammento dello stipite allorché mi scaraventai di spalla con tutto il mio peso sul battente. La camera di Valyne era vuota. Evidentemente la fanciulla doveva essersi già spogliata, perché i suoi vestiti erano appesi a una gruccia e il letto appariva disfatto, ma tutto ciò che restava della poverina era la camicia da notte, stracciata in due pezzi accanto alla finestra semiaperta. Mi precipitai al davanzale, e sporgendomi urlai: «Valyne! Valyne!». Ma non ebbi risposta. Accanto a me, Sarah Kyle fissò il buio profondo che circondava la casa con occhi vacui. «Era qui sotto», sussurrò. «Dev'essersi arrampicato lungo il tubo della grondaia. E ha portato via Valyne... nella foresta!» La sua voce si trasformò in un guaito stridulo: «Doveva ammazzarlo! Io glielo dissi quando nacque: un mostro non deve vivere!». La presi per le spalle: «Dove sono gli altri?». Senza attendere la risposta tornai a sporgermi e gridai nell'oscurità: «Dottore! Ha preso Valyne! Fermatelo, perdio!». Ma ciò che udii fu solo il silenzio. «Dannazione! Si può sapere dove sono andati?», sbottai. «Non lo so», sussurrò Sarah, con le lacrime agli occhi. «Sono là fuori. Lo stanno cercando.» «Al diavolo! Ho già perso troppo tempo.» Mi diressi alla porta, poi esitai. «Ha un posto, quella creatura? Un posto dove possa averla portata?» La donna alzò la lampada come per vedermi meglio in faccia, e le sue dita adunche mi afferrarono un braccio. La voce che le uscì di bocca fu un ansito rauco, vibrante: «Davvero non lo sai, Clay? Il demone che dorme dentro di te non te lo sussurra nell'anima? Dovrebbe essere il tuo stesso sangue nero a condurti là». «Là dove?», ringhiai, esasperato. Lei mi fissò quasi con odio. «Non hai mai sentito il richiamo della tua razza inumana, Clay? Non ti ha già portato una volta fino all'altare blasfemo dove il tuo padre infernale rese gravida Elisabeth Coe? Non hai mai sentito il potere di quel circolo di pietre attirarti là?» Ebbi un brivido. «Non può averla portata all'altare!» «Perché no? Lui conosce bene quel posto. Tua madre ce lo portava spesso, e fu lei a dirmi che quell'essere uggiolava di felicità quando si sentiva immerso nel potere mistico di quelle pietre. Se vuole far sua Valyne, è lassù che la sta trascinando. E io prego Iddio che la sventurata muoia, piuttosto di partorire un diavolo anche lei!»
5. Credo che Sarah Kyle tentasse di seguirmi nella notte, quando mi gettai freneticamente nella boscaglia che, come una nera gonna, copriva i fianchi della Donna Solitaria. Ma la disperazione mi aveva messo le ali ai piedi. In lontananza la udii gridare: «Aspettami, Clay! Io posso placarlo. Finora sono sempre riuscita a farlo ragionare...». La sua voce svanì alle mie spalle. Non c'era la luna, e nel sottobosco fitto di cespugli e alberi secolari stagnava un'oscurità quasi assoluta. Soltanto le stelle potevano farmi da guida, e come punto di riferimento valevano ben poco, perché una boscaglia di notte è un luogo dove orizzontarsi è impossibile. I miei piedi finivano di continuo in mezzo agli sterpi, le mie mani protese urtavano tronchi e rami e, per alcuni minuti, non feci che inciampare e cadere pesantemente contro ogni ostacolo. Quando uno stecco per poco non mi cavò un occhio, mi fermai. Graffiato e ansante, compresi di essermi perduto. Ripresi testardamente a camminare. Sapevo che lì da qualche parte c'era un sentiero, e che più oltre la boscaglia si sarebbe diradata sulle pendici rocciose della montagna. Più che saperlo lo sentivo. Sfondando le frasche avanzai alla cieca, lasciai che fossero i miei piedi a trovare la strada da soli e, quando finalmente sbucai in una radura, fui certo che qualcosa mi stava guidando. Nelle mie narici c'era un odore che già conoscevo. Per oltre mezz'ora andai dietro a quell'odore, procedendo su per canaloni pietrosi, abetaie e scarpate. Poi sbucai da una gola su un piccolo altopiano irto di rocce simili a denti spezzati, e d'improvviso lo spavento mi strappò un gemito. Sugli alberi che si levavano neri intorno alla radura, balenavano i riflessi rossi e maligni di alcuni falò le cui fiamme danzavano una danza infernale, e le loro lingue scarlatte insanguinavano la notte. Dipinte in quella luce orgiastica, le grandi pietre alte due volte un uomo si stagliavano sullo sfondo delle piante, dando l'impressione di vibrare e ballare al ritmo delle ombre porporine. Ma nel centro di quel circolo stregato l'altare era una forma immobile, oscura, come se la roccia in cui era stato scolpito fosse fatta di tenebra e di gelo. Valyne Kirk era distesa su di esso, fra due candele macabramente montate su ossa umane. Era completamente nuda, e le sue carni d'alabastro rosseggiavano dei lucori dei fuochi. Quattro corde le tenevano divaricate le
braccia e le gambe, e sembrava stordita o svenuta. Chino su di lei, con le sue zampe brutali strette alle ginocchia della fanciulla inerme, grottesco e sinistro nel bagliore dei falò, c'era l'essere inumano che mia madre aveva partorito insieme a me. Era alto più di due metri, di corporatura più scimmiesca che umanoide, e aveva le corna. Le sue gambe ricurve erano zampe pelose che terminavano in zoccoli biforcuti, e dalla peluria nera e folta che lo ricopriva, emergevano soltanto i genitali, oscenamente grossi, e la sua spina dorsale terminava con una coda spelacchiata. Mentre mi avvicinavo, il vento mi portò il suo odore, acre come quello di un rettile e nauseante. Le fiamme crepitavano alte: l'essere infernale si volse ad aspirarne il fumo con un grugnito e, in quel momento, potei vedere la sua faccia. Ci sono cose che le parole non possono descrivere, e forse neppure suggerire. Di quel volto bestiale ricordo solo le fattezze piatte, angolose, e la carnagione livida come quella di un cadavere. Era privo di naso, i suoi occhi brillavano di luce propria come lanterne rosse, e i ciuffi di barba umidiccia spuntavano qua e là come cespugli. Ma ciò che veramente mi faceva torcere le viscere era un pensiero insopportabile. Mentre mi accostavo al circolo di monoliti fui annichilito dalla consapevolezza che lui e io avevamo lo stesso sangue, e compresi che la mia speranza di unirmi in matrimonio con Valyne era pura follia. Se dentro di me c'era la stessa eredità genetica di quella bestia, meglio la morte che il rischio di contaminare col mio seme il ventre della fanciulla. C'era una sorta di crudele giustizia, pensai, nel fatto che ora un mostro umano avrebbe distrutto l'altro. Bestia contro bestia, almeno uno di noi due sarebbe scomparso dal mondo, perché per una volta in vita mia ero avido di sentire in me la pazzia della lotta trascinarmi alla distruzione. Allorché la rossa nebbia della furia mi calò nella mente ne fui lieto, e lasciai che la mia umanità svanisse in un groviglio di pensieri sanguigni. Oltrepassai il circolo di pietre monumentali ringhiando come un lupo, e il mostro mi vide. Dalla bocca deforme gli scaturì un grugnito di sorpresa e di rabbia e tolse le zampe dalle cosce di Valyne, quindi si mosse verso di me con andatura da gorilla affondando i suoi zoccoli giallastri nel terreno sassoso. Gli corsi incontro urlando tutto il mio odio e affondai le mani nella peluria della sua gola, ma uno spintone mi catapultò di lato e ruzzolai al suolo contro la base dell'altare. Mentre mi rialzavo lui mi fu addosso, e follemente risposi ai suoi colpi
con calci e testate. La pistola che avevo sotto l'ascella era del tutto dimenticata: non potevo usarla, perché il furore che mi aveva sopraffatto mi costringeva a cercare la lotta corpo a corpo. Ma non so dire cosa accadde durante quel combattimento, non so quante volte rotolammo al suolo mordendoci e colpendo ciecamente, e non so se provai dolore o se saziai la brama di sentire il suo sangue nella mia bocca. Non ne rammento nulla. So soltanto che, quando terminò, ero pesto e insanguinato, con gli abiti strappati, e mi ronzavano le orecchie. Ma appena mi resi conto che il mio cervello stava tornando alla normalità e riebbi l'uso della vista, ciò che i miei occhi captarono fu una grossa forma nera e pelosa distesa sul suolo dinanzi all'altare. Vacillai verso uno dei fuochi, rantolai sfinito e senza fiato, poi compresi che stavo sbagliando direzione e mi voltai. Le ginocchia mi si piegarono e piombai a terra come una marionetta dai fili spezzati. A fatica risollevai la testa. Il corpaccione dell'essere contro cui mi ero battuto non era ancora privo di vita: una delle sue braccia si sollevava scossa da tremiti convulsi. La vidi ricadere immobile. Pian piano mi trascinai da quella parte, e rialzandomi a sedere notai con sollievo che i suoi occhi erano sbarrati e morti. Sulla fronte deforme aveva un foro tondo nel quale avrei potuto infilare un dito, da cui colava ancora qualche goccia di sangue e, con sorpresa, lo riconobbi come un foro di pallottola. Non ricordavo affatto d'aver usato la pistola. Sotto l'ascella non l'avevo più, ma non mi voltai a cercarla perché Valyne emise un debole grido. Sciolsi le corde che la legavano e la presi in braccio, sollevandola dall'altare, poi mi accorsi che tremava di freddo e la portai accanto a uno dei fuochi. Mi si abbandonava inerme, senza guardami, quasi che i suoi occhi vuoti fossero percorsi da immagini da incubo. Ma dopo qualche secondo gemette: «La bestia... la bestia!». «È morto. Non ti farà più del male, Valyne cara», mormorai. Mi tolsi la giacca, lacera in più punti, e gliela feci indossare. La strinsi a me dolcemente. L'ultimo abbraccio, pensai. L'ultimo. Fin dal momento che avevo potuto vedere il volto del mostro che era mio fratello, il destino da cui ero atteso mi era stato chiaro. Ogni incertezza e ogni speranza erano morte in me prima ancora d'aver deciso che non potevo permettere la nascita di un'altra creatura simile. E non sarebbe nata, se io avessi liberato il mondo dalla mia presenza definitivamente. Vidi che Valyne sembrava ricaduta in uno stato di torpore vicino all'in-
coscienza, e compresi che la sua non era altro che una reazione emotiva. Questo era bene, mi dissi, perché preferivo che non si accorgesse di ciò che stavo per fare. La lasciai distesa al suolo accanto a un falò semispento e, dopo averle baciato la fronte, mi allontanai. Passando accanto al corpaccione immoto del mostro lo colpii con qualche calcio, tanto per essere certo che la vita l'aveva abbandonato, quindi cercai la pistola. Nel caricatore c'erano ancora sette pallottole. La rimisi nella fondina e con passi risoluti mi avviai verso la boscaglia, in cerca di un posto adatto per farla finita: un posto dove il mio corpo non fosse ritrovato mai più. «Clay!» La voce risonante del dottor Kyle mi giunse da oltre il circolo di pietre erette, e nel voltarmi lo vidi, illuminato dalla luce dei fuochi morenti. Aveva in mano un fucile da caccia, e mi accorsi che ne stava togliendo le due cartucce scariche. Si avvicinò lentamente, mostrandomene una, e annuì con gravità. «Sì», disse. «Ho sparato nella schiena a tuo fratello. Avrei dovuto farlo ventitré anni fa. Sarah mi ha detto che eri salito fin qui. Valyne come sta? È ferita?» Mi voltai a guardare la fanciulla immobile. Tutto ondeggiava attraverso le lacrime che mi avevano riempito gli occhi. Le asciugai e strinsi i denti. «Sta bene, grazie a Dio. E d'ora in poi non dovrete temere che io rovini la sua vita, né che nasca un'altra creatura di quelle bestie. La farò finita.» I suoi occhi si riempirono di dolore, ma subito annuì. «Sì, ragazzo, sì. Non ti resta altra scelta.» Si schiarì la voce. «Non cercherò di impedirtelo, se hai deciso.» Gli voltai le spalle e mi allontanai dai fuochi che rosseggiavano intorno all'altare nero, passai oltre il circolo di pietre e immersi lo sguardo nella tetra boscaglia che sarebbe diventata la mia tomba. Involontariamente mi tastai la fondina sotto l'ascella, sentendo la pistola come un'amica: un colpo rapido, pietoso, e l'orrore della mostruosità che albergava in me sarebbe stato cancellato per sempre. Da morto almeno, pensai cupamente, avrei conosciuto lo stesso genere di riposo comune a tutti gli uomini. «Clay... Clay!», gridò Valyne di lontano, disperatamente. Non mi voltai. Non dovevo voltarmi, se non volevo che il mio amore per lei avesse la meglio sulla decisione che avevo preso. Vacillai avanti fra le pietre e gli sterpi, in cerca dell'ombra in cui volevo immergermi e sparire. «Clay!» Il suo singhiozzo fu acuto, terribile. «Ritorna da me. Lo hai pro-
messo... Non mi lasciare!» Ma in me risuonavano ancora crude e oscene le parole con cui il dottore Kyle mi aveva messo sull'avviso: «La passione carnale sveglierà il demone che è dentro di te, Clay. Bada a te, figlio mio, o il ritorno del sangue nero annienterà del tutto la tua umanità. Se ti sposi, diventerai un mostro come tuo fratello». Nel silenzio che gravava sulla zona potei udire la sua voce pacata consolare Valyne: «Rassegnati, bambina mia. Iddio ha voluto così. Avrò cura io di te...». Inciampai su una sporgenza rocciosa e caddi. Debole e rotto dal pianto mi giunse ancora l'appello della fanciulla: «Clay... ascolta, ti supplico. È un inganno! Un tranello... Ascoltami!». Un inganno? Quella parola faticava a penetrarmi nella mente. Cosa poteva significare? Eppure bastò a fermarmi, e con passi lenti tornai indietro. Mi sentivo abulico, in balia di forze da cui ormai non potevo sfuggire. Quando fui di nuovo entro il circolo di pietre vidi che Valyne s'era alzata in piedi. Il dottor Kyle la stava guardando con aria sbigottita. «Bambina mia... figlia mia, ma che cosa dici?», ansimò. Valyne attese che mi fossi accostato a lei, e ripeté: «Ascolta, Clay». Ma indicava il corpaccione steso al suolo. «Ascolta!» Senza capire feci qualche passo avanti. Cosa avrei dovuto ascoltare? E poi, d'improvviso, alle mie orecchie giunse un suono lieve: il ritmico tictac di un orologio. «È Jud. Capisci, ora?», disse Valyne. «Non si separa mai dal suo orologio. Ce l'ha ancora in tasca.» Mi chinai sul corpo peloso e lo afferrai per la lurida capigliatura. Uno strattone, e la maschera diabolica fornita di parrucca mi rimase in mano. Nient'altro che una maschera. E, sotto di essa, coperto di sangue, c'era il volto di Jud Geer. Era morto, naturalmente. «Jud... è incredibile!», esclamò il dottor Kyle. «Non capisco. Com'è possibile che...» Lo afferrai per il petto, furiosamente. «Non c'è bisogno che tu reciti la commedia!», ringhiai. «Mascalzone... perché questo trucco indegno? Cosa speravi di guadagnare impedendomi di sposare Valyne?» «Clay, che dici?», protestò con veemenza. «Sei forse impazzito? Sarah e io ti abbiamo amato sinceramente fin da quando eri un bambinetto. Mi si è spezzato il cuore quando hai detto che volevi suicidarti...»
«Suicidarmi!», ringhiai, annuendo. «A questo miravi. Volevi trascinarmi al suicidio. E avevi progettato tutto già da mesi, fin da quando scrissi che volevo tornare per sposare Valyne. Tu, e Sarah e Jud, e quegli altri due bastardi eravate d'accordo. Perché questo complotto? In nome di Dio, parla!» Lo spinsi indietro brutalmente. Lui vacillò. Dopo qualche istante girò altrove lo sguardo e scosse la testa. «E va bene, se proprio vuoi saperlo te lo dirò.» La sua voce era dura, cinicamente calma. «Qui a Creston siamo poveri. Viviamo e moriamo in miseria. E quando tu hai scritto che in Oriente avevi accumulato un piccolo patrimonio... be', mi sono informato. E ho saputo che non era affatto piccolo come dicevi. Se tu fossi morto prima del matrimonio, quei soldi sarebbero venuti a noi, come tuoi genitori adottivi e soli parenti rimasti. Hand e sua moglie furono d'accordo. Anche a loro il denaro fa comodo. E in quanto a Jud, lui voleva Valyne. Gli ho sparato soltanto dopo che tu avevi usato la pistola. L'idea l'ho presa dai miei studi sui culti diabolici di questa terra, e non ti ho raccontato tutte bugie... alcuni dei tuoi antenati si dilettavano davvero nelle Arti Nere. Magari qualcuno di loro ebbe mano anche nella costruzione di questo altare, che imita i monumenti megalitici europei. Chi lo sa? Ma, in quanto a tuo nonno...» Ebbe un sogghigno sprezzante, divertito. «Con tutto il rispetto per i morti, devo dire che quel povero imbecille di Eliakim Coe non ne sapeva niente di magia, nera o bianca. Probabilmente ammazzò davvero tuo padre, la prima notte di nozze, anche se nessuno ne ebbe le prove. Ma due anni dopo strangolò tua madre Elisabeth con le sue stesse mani, e lo fece davanti a te... Sì, Clay. Vedesti morire tua madre, e l'orrore ti rimase dentro per sempre. Non è stata una cattiva idea sfruttare il buio che avevi nella testa.» «Sei un pazzo!», sussurrai. «Era un buon piano.» Sorrise ancora. «E non è detto che sia fallito, sai?» Sollevò il fucile da caccia, e il suo tono si fece acre: «Giù in paese sanno già che tu e Jud eravate rivali a causa di Valyne. Sanno che avete lottato, e che siete entrambi uomini violenti. Toglierò al povero Jud questo artistico travestimento, e poi... chi sarà sorpreso nell'apprendere che vi siete ammazzati fra voi, tutti e tre?». D'improvviso le canne del suo fucile da caccia si girarono verso il mio petto. Ma il dottor Kyle aveva commesso lo sbaglio di chiacchierare troppo a lungo, e la conclusione del suo discorso mi trovò più rapido di lui a scattare: prima che potesse premere il grilletto avevo estratto la 45, spa-
randogli una pallottola in pieno cuore. Rotolò a braccia spalancate ai piedi dell'altare E fu lì che esalò l'ultimo respiro, all'ombra stregata di quell'antica pietra nera. Valyne e io non rimettemmo più piede nella casa dei Kyle, né rivedemmo Sarah e gli altri due complici del dottore. Tornati in paese, chiedemmo dei vestiti per la ragazza a una famiglia di suoi conoscenti, presso cui riposammo qualche ora. Il mattino successivo, all'arrivo della corriera, acquistammo due biglietti per Boston e da lì ripartimmo in treno per New York. LUPO MANNARO The Werewolf Snarls di Manly Wade Wellman Weird Tales, marzo 1937 «Dottore, desidero che parliate un momento col signor Craw», mi cinguettò all'orecchio Lola Wurther. «Insiste a dire d'essere un Lupo Mannaro, e questo è seccante.» La bella moglie del senatore mi voltò le spalle, facendo svolazzare l'ampia gonna di seta verde, e i suoi lunghi capelli biondi quasi mi strapparono il bicchiere di mano. Un attimo dopo era tornata a immergersi fra i suoi ospiti, fra i lampioncini colorati e i tavoli colmi di rinfreschi. L'uomo che l'aveva seguita lungo la terrazza mi considerò con uno sguardo acuto e triste mentre passavo il Martini nella sinistra. Gli strinsi la mano, borbottando il «Piacere» di rito, ma il modo in cui si limitò ad annuire, mi spiegò la fretta con cui la padrona di casa aveva cercato qualcuno a cui sganciarlo. «Il senatore ha detto che voi vi dilettate di occultismo», affermò sottovoce, quasi che mi rivelasse un segreto. «D'accordo. Sediamoci in un angoletto tranquillo», mi rassegnai. Lo dirottai nel salone. Fra le luci soffuse, dietro il pianoforte a coda di Lola Wurther, c'era un ampio divano comodo. Quando ci fummo seduti, dissi a me stesso che avrei potuto anche sorridergli, ma non lo feci. Craw sembrava proprio il tipo adatto a rovinarmi la serata. Era un individuo alto e ossuto, dagli ispidi capelli neri, fronte bassa e occhi tanto cupi quanto penetranti. La sua bocca sottile era schiacciata fra il naso a becco e un mento largo, piatto. Indossava un abito scuro, spiegazzato, di un taglio fuori moda da vent'anni. «Ebbene?», esordì, secco. «Vi sembra che lo sia?» Ridacchiai, fingendomi divertito. «Volete dire se mi sembrate un lican-
tropo? Non posso pronunciarmi finché non vi sentirò ululare.» Craw restò impassibile. «Non vedo motivo di scherzare sull'argomento, dottore. Si tratta di una cosa seria», disse gravemente. Il suo tono solenne fece un brutto effetto al mio sorriso, che si spense. Per un attimo sospettai che fosse ubriaco, poi che si trattasse di un fissato o di un maniaco. Ma ero abituato a incontrare originali di ogni specie ai cocktail party dei Wurther, cosicché fui svelto nell'esibire un'espressione professionale. «Capisco», dissi. Craw aggrottò le folte sopracciglia. «Sono già venuto qui ieri sera. Il mio è un caso disperato, e ho bisogno di aiuto. Il senatore e sua moglie dicono che voi avete scritto dei libri sulla stregoneria.» «Signor Craw», borbottai, «questo è vero. Ma i Wurther sono, come posso dire... due inguaribili burloni. Mi spiego?» «L'avevo sospettato», annuì lui. «In apparenza stasera mi hanno invitato qui con l'unico scopo di far divertire i loro ospiti.» Fece una pausa, continuando a fissarmi con intensità. «Malgrado ciò, desidero consultarvi. Posso?» «Ma certo», lo invitai, sentendomi piuttosto sciocco. Craw ingobbì di colpo le spalle, protese la testa in avanti e lasciò penzolare le braccia fino a sfiorare il pavimento con le grosse mani pelose. In quella posa aveva qualcosa di tanto animalesco che sussultai, e nei suoi occhi balenò una strana fosforescenza verdastra che non potei fare a meno di trovare impressionante. «Tutto cominciò», disse, «quando sperimentai l'unguento della strega.» Sbattei le palpebre. «L'unguento della strega?» «Proprio così. Probabilmente era stato studiato allo scopo di mutare in animali gli esseri umani... miscelato tramite incantesimi arcani e formule sataniche. Sembra incredibile a dirlo, me ne rendo conto. Ma in quel periodo, quindici anni fa, stavo preparando la laurea in medicina, e facevo ricerche su testi antichi che trattavano di farmacopea medioevale. Fu così che quei fogli ingialliti di pergamena mi capitarono fra le mani. C'erano alcune ricette.» «Ricette, eh?», ripetei. «Volete dire farmaci?» «Una dozzina in tutto, scritte in latino. E lasciatemi dire che, nel medioevo, non erano affatto così ignoranti e arretrati come oggi si pensa. Molti alchimisti sapevano il fatto loro, sull'erboristeria e le piante medicinali.» Decisi che non mi stava prendendo in giro. Avevo quasi sperato che di
fronte a me ci fosse un incallito burlone da salotto, di quelli che la sanno lunga, ma purtroppo Craw era assolutamente serio. I suoi occhi avevano anzi una luce drammatica. «La belladonna, ad esempio, era ben conosciuta», continuò, «e così altri veleni o allucinogeni, come l'aconito, l'assenzio, l'issopo, la valeriana, il succo di sesamo, e radici o funghi dalle più diverse proprietà. Secondo la ricetta della strega, dunque, alcune di queste sostanze mescolate al grasso di un bambino non battezzato...» «Un momento!», lo fermai. «Non vorrete dirmi che avete fatto un filtro magico con questa roba!» «Un unguento», mi corresse Craw. «Alla scuola di anatomia c'era il corpo di un neonato. E avevo accesso ai laboratori. Non fu difficile procurarmi gli ingredienti. L'unica cosa che mi procurò qualche problema fu il fegato di lupo. Non è facile trovare il fegato di lupo, neppure qui a New York. Poi pronunciai esattamente l'incantesimo e miscelai la sostanza. Per divertimento... o così credevo.» Ebbe un sorriso amaro come il fiele. «E vi siete cosparso con questo unguento? Cos'è successo?» «Niente.» Con uno sforzo Craw raddrizzò le spalle, e si appoggiò indietro sul divano. «Non so cosa mi aspettassi di veder succedere, anzi, non mi aspettavo proprio nulla. Mi sentivo un idiota, e un idiota tutto sporco per di più. Tentai di ripulirmi dell'unguento che mi ero spalmato addosso, ma era già penetrato nella pelle, asciugandosi.» Ebbe un brivido al ricordo, e proseguì: «Come ho detto non accadde niente, quel giorno. E neppure la notte e il giorno dopo. Ma la sera successiva...». La sua voce si abbassò in un sussurro. «Quella sera c'era la luna piena.» «Andate avanti», dissi, a disagio. «Fino a quel momento la luna era stata per me soltanto una palla nel cielo. Ma c'erano delle ragazze all'Università che trovavano romantico passeggiare al chiaro di luna, sul lungofiume. Avevo appuntamento con una di loro, una studentessa di Belle Arti. Andammo a sederci su un banco di sabbia asciutta, in un'ansa del fiume, e io dissi qualcosa che la fece ridere. Poi lei si voltò a guardarmi e di colpo smise di ridere. La vidi sussultare... quindi sbarrò gli occhi e mi fissò.» «Perché?», chiesi. Craw si era piegato verso di me e sentii, o credetti di sentire, un odore muschioso che non poteva essere lozione dopobarba, ferino e animalesco. Fui costretto a ritrarmi, fingendo di cercare una posizione più comoda. E
proprio allora ricordai che quella notte c'era la luna piena. Craw parlò sottovoce. «La ragazza strillò. E io, ancora più spaventato di lei, la afferrai per le spalle cercando di farla calmare. Ma appena toccai la sua carne qualcosa, una sorta d'istinto irrefrenabile, all'improvviso s'impossessò di me. Le mie mani balzarono da sole intorno alla sua gola. La scossi, ringhiandole di stare zitta, e lei si afflosciò come svenuta. Dentro di me esplose una bestiale sensazione di trionfo, come se esultassi ferocemente per quella conquista. E poi...» Tacque. Si esaminò le mani larghe e pelose, dalle dita a spatola. «Il mattino dopo la trovarono là, orribilmente massacrata. Quel pomeriggio, mentre stavo ancora cercando di convincermi che avevo sognato tutto, la polizia venne a perquisire le camere degli studenti, all'ostello dell'università. Trovarono i vestiti che avevo indossato la sera precedente, sporchi di sangue. E c'erano tracce di sangue anche sotto le mie unghie.» «Voi siete quel Crawl», esclamai, sbalordito. Mi elargì una smorfia cupa. «Ricordate ancora i giornali, vero? Sicuro: l'Uomo-Bestia, il Mostro, l'Essere Abbietto, questi furono i termini usati nei titoli. Ciò che dissi alla polizia fu la pura verità, o almeno tentai di dirla, di spiegare l'effetto dell'unguento. Ma era una verità troppo incredibile per loro. Al processo mi venne data l'infermità mentale, e quello fu il solo motivo per cui scampai alla sedia elettrica. Fui rinchiuso in un manicomio.» «Ascoltate, signor Craw», lo interruppi. Avevo la voce rauca. «Non credo d'essere la persona che fa per voi. E penso che non dovreste lasciarvi andare a... be', a parlare di questa faccenda nel primo posto che capita.» «Non sono pazzo, state tranquillo. Posso mostrarvi anche il certificato medico che mi hanno rilasciato due settimane fa, quando sono tornato in libertà.» Sbuffò, sprezzante. «Per i dottori sono normale. Ma i dottori non hanno apparecchi che possano misurare la sete di sangue, né la gelida furia bestiale che mi sommerge una volta al mese, nelle notti di luna piena.» Strinse le mani l'una contro l'altra, con forza tale che le sue unghie divennero bianche. Notai che erano ricurve e lunghe, molto spesse. Stranemente ero certo che fino a poco prima fossero state più corte, e le falangi delle sue dita meno pelose. «Non è stato facile uscire», sussurrò. «Per anni e anni, durante gli attacchi di licantropia, abbaiavo e ululavo come un lupo nella mia cella. Gli inservienti allora arrivavano con la camicia di forza. Elettroshock, letto di contenzione, siringhe piene di calmanti e di ipnotici... ma non serviva a
niente. Infine imparai a essere astuto. Capii che, con uno sforzo terribile, potevo trattenermi e soffrire in silenzio. Dovevo farlo, se volevo tornare in libertà.» «E riusciste a controllare le crisi?» «Pian piano ne fui capace. La luna è terribile. Adesso, per esempio... voi non la sentite, vero? Io sì.» I muscoli del collo gli si contraevano come corde. «Imparai il trucco. I dottori mi esaminavano ogni tanto, là dentro. Ci vollero anni prima che li convincessi, ma poi mi dichiararono sano e normale.» Strinse i denti con un mugolìo. «Naturalmente non è così. Non lo sono.» «Voi vorreste essere guarito da me, se ho capito bene», dissi, piuttosto stupidamente. «E che altro?», ringhiò Craw. «Un amico mi ha presentato al senatore Wurther, al suo club. Ha detto che lui e sua moglie fanno sedute spiritiche, e che la loro casa è sempre frequentata da gente che se la intende con la stregoneria, coi medium, con l'occultismo.» «Avete raccontato a James Wurther quel che avete detto a me?» «Sì. È stato lui a invitarmi qui. Disse che per combinazione la prima notte di luna piena avrebbe dato un cocktail party e che, se fossi intervenuto, forse uno dei suoi ospiti avrebbe potuto risolvere il mio problema.» Si appoggiò alla spalliera e tacque, con l'aria di aver detto tutto quel che aveva da dire e di attendere la mia diagnosi. Ma io mi chiedevo se i dottori del manicomio non avessero fatto uno sbaglio a rimandarlo fra la gente. Stavo esaminando l'idea di squagliarmela con una scusa qualsiasi, quando in sala comparve Lola Wurther. «Ooooh! Siete qui, Signor Crawl», esclamò, giuliva. «Perché non venite un po' in terrazza, adesso? Ci sono molte belle signore che muoiono dalla voglia di conoscervi. Sapete?» Era l'ultima cosa che Craw volesse, ma con abilità consumata la donna lo costrinse ad alzarsi e lo pilotò verso la terrazza, chiamando a gran voce alcune delle sue amiche. Quella era l'occasione che avevo atteso per defilarmi: ignorando l'occhiata supplichevole di Craw, attraversai il salone fino al bar, lasciandolo nelle grinfie della padrona di casa. Sulla soglia mi voltai a guardarlo. Stava muovendo le spalle in modo strano, come se fosse sul punto di ingobbire la schiena. I muscoli del collo e della nuca sembravano torcersi, facendogli ondeggiare bizzarramente i capelli. E spostava le orecchie a scatti, avanti e indietro. Tenendolo saldamente per la manica Lola Wurther lo trascinò verso un
gruppetto di gente. «Ecco l'uomo-lupo, amici!», la sentii gorgheggiare. Si levarono alcune risatine comprensive. Quando fui nell'atrio recuperai il mio soprabito e uscii, insalutato ospite. Questo accadeva ieri sera. Adesso sono seduto nel mio studio, e aperto davanti a me c'è il giornale che ho comprato stamattina. In prima pagina campeggia questo titolo: STRAGE AL COCKTAIL PARTY Quattro ospiti strangolati in casa del senatore Wurther LA POLIZIA RICERCA L'UOMO-BESTIA Non ho ancora avuto la forza di leggere il resto dell'articolo. LA MALEDIZIONE DELLA STREGA The Wolf-Girl Of Josselin di Arlton Eadie Weird Tales, agosto 1938 «L'arte è eterna, ma la vita è breve, e io sono affamato come il proverbiale lupo. Se avevi intenzione di restartene appollaiato su quella nuda collina, avrei provveduto a procurarci una tenda o qualcosa del genere per accamparci quassù per il resto dei nostri giorni!» Il mio sarcasmo fu del tutto sprecato poiché era diretto a orecchie che per il momento si rifiutavano di ascoltare: Alan Grantham non si prese neppure il disturbo di guardare nella mia direzione. Se ne stava seduto, figura indistinta in mezzo alle felci, chino sul suo cavalletto, dimentico di ogni cosa al mondo tranne le meravigliose tonalità del tramonto prolungato che lui stava eternando sulla tela davanti a sé, con tocchi febbrili e magistrali del suo pennello. Ora, l'entusiasmo artistico è certamente un'ottima cosa, sotto molti punti di vista, e io stesso mi lascio spesso prendere dal fervore dell'arte, a tempo debito, ma non sono certo il tipo da farsi incantare dalla bellezza di un tramonto, dopo una lunga e snervante giornata all'aria aperta. Anche un giovane pittore di paesaggi ha bisogno di nutrirsi, di tanto in tanto, e io ero affamato quanto stanco. Alan e io eravamo sulla via del ritorno, diretti alla piccola locanda dove avevamo preso alloggio, quando il mio amico aveva visto le tre torri del
tetto a cono del lontano Château de Josselin che si stagliavano nel giallo e nel cremisi del sole morente. Niente aveva potuto trattenerlo dal tirar fuori armi e bagagli e buttar giù uno schizzo della scena che l'aveva colpito. Credendo che si sarebbe accontentato di abbozzare semplicemente un'impressione di luce con poche pennellate, avevo acconsentito a fermarci. Ma quando le vivide sfumature del tramonto si erano fatte più intense, Alan si era lasciato prendere dall'entusiasmo. Lo schizzo era diventato sempre più elaborato, e io ero diventato sempre più affamato e impaziente di scoprire che cosa ci aveva preparato per cena la nostra brava locandiera. Inoltre, mancavano perlomeno cinque chilometri per arrivare alla locanda, e i viottoli fangosi di campagna non erano troppo piacevoli da percorrere al buio. Stavo dunque per esplodere, quando svuotai la pipa contro la pietra su cui ero rimasto seduto, e mi alzai in piedi deciso ad andarmene. «Tu vieni a casa?», borbottai con una voce che risvegliò l'eco delle colline circostanti. Stavolta Alan si degnò di guardarsi intorno. «Fra un minuto», rispose. «Ho quasi finito.» «Non dirmelo!», esclamai, sarcastico. «Ma ti prego, non rovinare il tuo prezioso quadro per colpa mia! Perché non aspettiamo ancora qualche minuto? Così potrai immortalare la luna e qualche stella, e far passare il tuo meraviglioso dipinto per un "notturno".» Il mio amico troncò ogni ulteriore osservazione da parte mia asciugando tavolozza e pennelli, e gettando il tutto nella cassetta dei colori. In pochi secondi mi aveva raggiunto sulla stradina di campagna, reggendo in mano la tela ancora umida. «Non rimpiangerai di avermi aspettato, quando avrai ammirato questo quadro», annunciò Alan ridendo compiaciuto, e sollevando la tela per farmela vedere. «Ammirerò il tuo capolavoro alla luce del giorno», tagliai corto. «Dal momento che non sono un gatto o un gufo e neppure una talpa, non possiedo il dono di vedere al buio. E questo mi ricorda che avremo bisogno di tutte le nostre capacità visive per trovare la via del ritorno a Josselin. La serata minaccia di diventare nera come le fauci di un lupo, quando l'ultimo guizzo del tuo magnifico tramonto sarà svanito. Sarà meglio che ci sbrighiamo, altrimenti Madame Boussac manderà fra le colline una squadra di soccorso, pensando che siamo stati rapiti dall'Ankou, la divinità della morte che, secondo la leggenda popolare, vaga sulle colline e le foreste, durante
la notte.» «Oppure che siamo stati divorati da un branco di demoni», suggerì Alan con un sorriso. La frase aveva un suono sinistro, poiché non avevo mai sentito parlare di demoni che divorano i cristiani. Chiesi ad Alan che cosa significasse, ma lui scosse la testa. «Oh, si tratta di una delle numerose superstizioni del luogo», spiegò scrollando le spalle. «I contadini bretoni appartengono a una delle popolazioni più superstiziose d'Europa e la leggenda del demonio divoratore costituisce una fra le loro storie preferite. Ho ascoltato certi vecchi che ne parlavano seduti attorno al fuoco, nella sala comune della locanda. Sono riuscito ad afferrare solo qualche parola qua e là, perché parlavano in dialetto bretone; ma ciò che ho potuto capire aveva un significato vagamente lugubre, sebbene fossero tutte sciocchezze, naturalmente. Se la gente di qui credesse la decima parte delle leggende del loro folklore, be', penso che dovrebbe vivere in costante stato di terrore, soprattutto dopo il cader delle tenebre!» «I bretoni sono onesti e gentili», affermai, spinto da un senso di giustizia. «Anche se la loro mentalità è come dire... rozza, violenta, un poco primitiva.» «In questo hai maledettamente ragione», convenne Alan, assolutamente convinto. «Infatti, a dispetto della loro provata cristianità, i nativi della Bretagna sono pagani fino alle ossa. Hanno chiese e santuari, è vero, ma hanno anche preistorici "dolmen" e megaliti druidi, rozzi massi di pietra informe intorno ai quali talvolta si tengono riti paurosi, nelle notti di luna piena, mentre il prete della parrocchia russa beatamente nel suo letto. Tutte le loro superstizioni e i loro culti sono essenzialmente pagani, e alcuni risalgono a epoche antecedenti le prime forme di civiltà. La loro fervente credenza nei terribili loup-garou o Lupi Mannari, è un'altra espressione della licantropia degli antichi greci. È curioso, fra l'altro, come sia diffusa questa particolare tradizione. La si ritrova in Norvegia, in Russia, in Francia, in Baviera e in tutta l'Europa, si può dire, senza contare che esistono alcune varianti della leggenda perfino in Asia, in India, in Africa e nel Sudamerica. Considerando l'universalità di tale credenza, secondo cui gli esseri umani sono capaci di assumere le forme di animali feroci, si sarebbe tentati di credere che potrebbe esservi un fondo di verità.»
«Che cos'è quello?», gridai, fermandomi improvvisamente e indicando un punto con il braccio teso. In quello stesso punto, la strada proseguiva attraverso una fitta foresta di abeti torreggianti. Sopra le nostre teste, da ogni parte, s'intrecciavano grossi rami e pesante fogliame, chiudendo fuori il debole chiarore che ancora si attardava nel cielo incupito dalle ombre della sera, cosicché il nostro sentiero sembrava un nastro grigio circondato da un mare di ombre impenetrabili. Nel muro di nero fogliame che si ergeva a sinistra della strada, a una distanza di pochi passi dal punto in cui eravamo, avevo visto qualcosa... forse due occhi che brillavano di una luce rossastra: occhi tremendi, non umani, che potevano appartenere soltanto a qualche animale feroce in cerca di preda. «Guarda... quegli occhi!», esclamai con voce eccitata, afferrando il braccio del mio compagno. «Dove?», domandò Alan, guardando dappertutto, tranne che nella direzione giusta. «Laggiù.» Ma, mentre parlavo, i due punti luminosi si oscurarono improvvisamente. Alan Grantham si girò e mi lanciò un'occhiata strana. «Mio caro ragazzo, tu stai sognando! Non riesco a vedere niente che abbia la minima rassomiglianza con degli occhi. Forse stai pensando così intensamente alla tua cena, che ti gira la testa. Sei sicuro che erano due occhi, quelli che hai visto, e non due frittelle di mele?» La sua risata ironica risuonò allegra e fragorosa; ma nell'attimo successivo si spense come una trasmissione radiofonica interrotta di colpo. «Santo cielo!», esclamò, senza fiato. Una pallida ombra grigia era emersa dai cespugli del sottobosco che costeggiavano la strada e stava attraversando lentamente, di traverso, dirigendosi verso le ombre, dall'altra parte. Il colore neutro della creatura si fondeva così completamente con la superficie del suolo, che era difficile distinguere la sua forma reale, nella fioca luce del crepuscolo. Avevamo l'impressione, più che vederla, di scorgere una forma lunga e snella, con un muso appuntito e le orecchie ritte. Nessuno dei due parlò finché la «cosa» non ebbe attraversato la strada a passi silenziosi e ritmati, per scomparire fra i cespugli, dalla parte opposta. «È solo un cane», mormorò Alan, con una voce in cui affiorava un so-
spiro di sollievo. «Accidenti, mi sono preso una bella paura!» Lasciai cadere l'osservazione senza fare commenti, sebbene avessi i miei dubbi riguardo la sua affermazione. La fugace visione della creatura misteriosa mi aveva riportato alla mente ricordi spiacevoli sulla frequenza con cui i lupi ricorrevano nelle leggende folkloristiche della zona. «Sicuro, era un grosso cane alsaziano», ripeté il mio amico. «Dev'essere scappato da qualche fattoria poco lontana.» Sapevo perfettamente che non c'era una sola fattoria o un cottage più vicino del villaggio di Josselin, a circa cinque chilometri di distanza, ma non avevo nessuna voglia di discutere. «Andiamo avanti», suggerii. «Pensi sempre alla tua cena?», rise Alan. Aveva torto. La prospettiva di gustarmi la cena, ormai ritardata, aveva preso improvvisamente il secondo posto nei miei pensieri, per colpa della spiacevole apprensione suscitata dalla misteriosa apparizione fra i cespugli. Temevo infatti che la «cosa» avesse tutte le buone intenzioni di fare di me la «sua» cena! Ero pronto a scommettere che non si trattava di un cane. E, se era un lupo, ebbene, avevo sentito dire che i lupi solitamente inseguivano la loro preda a branchi, e se le mie supposizioni erano fondate, fra non molto Alan e io avremmo avuto una convincente conferma del fatto. Fino a quella sera, una delle maggiori attrazioni della Bretagna consisteva nel fatto che la maggioranza delle sue città e villaggi erano disertati dai turisti. Josselin, per esempio, il villaggio di cui avevamo fatto il nostro quartier generale, non vantava neppure un collegamento ferroviario a binario singolo con il mondo esterno, ed era veramente insolito vedere un forestiero passeggiare lungo le sue strade pavimentate di pietra. In quel momento, tuttavia, non mi avrebbe dato fastidio vedere una fila di carrozze della «Cook» rumoreggiare nei paraggi; invece, a eccezione di noi due, sulla strada non si vedeva anima viva. Ed era probabile che nessuno apparisse all'orizzonte, poiché il viottolo non portava in nessun posto, ma si perdeva sulla cima di una collina vicina, sulla quale si ergeva un gigantesco megalito chiamato la Tomba del Diavolo. Avevamo percorso circa un quarto di miglio in direzione del villaggio, e io cominciavo a sperare che i miei timori fossero infondati, quando l'eco di un lungo ululato, proveniente dal fitto della foresta, ci spinse ad accelerare il passo. «A quanto pare, il tuo cagnolino deve avere un amico a portata di mano!», osservai, rivolgendo al mio compagno un sorriso privo d'allegria.
«Anzi, numerosi amici, direi», soggiunsi, mentre al primo ululato ne rispondevano altri. Molti altri, da varie direzioni. «Forse sta dicendo ai suoi fratelli e sorelle canini di correr qui a farsi fare una carezza sulla schiena da due artisti sorpresi dalle tenebre!» «Non parlare a quel modo!», si lagnò Alan. «A sentirti, uno penserebbe che non credi che "sono" cani!» «Francamente, non ci credo», risposi bruscamente. «Certo che sono cani», ribatté lui con voce impaziente. «Anche i cani ululano qualche volta, non lo sai?» «Sì. Qualche volta. Ma i lupi ululano sempre, specialmente quando chiamano a raccolta il branco per inseguire una preda.» «E che immagini che stiano inseguendo?», sogghignò lui. «Oh», risposi con aria feroce, «non so quel che intendi fare tu, ma io ho intenzione di correre a gambe levate verso il villaggio. Ti dirò di più: ho intenzione di scaraventare cavalletto e scatola dei colori, qui, nel fossato, per correre più veloce.» Alan scosse la testa ostinato, borbottando: «Accidenti! Mettersi a correre per pochi cagnacci bastardi!». Non ebbe il tempo di aggiungere altro, perché in quello stesso istante un pandemonio di ululati e di grida rabbiose si levò dietro di noi. Da oltre la curva della strada, avanzava un branco di una dozzina di lupi. La caccia era aperta e la preda eravamo noi! Venivano avanti con il muso abbassato sul sentiero che avevamo appena attraversato. I loro occhi mandavano un bagliore rossastro al riflesso della luna nascente, e i loro corpi lunghi e snelli si tendevano con agili balzi sul terreno, a una velocità sorprendente. Mi sentii cadere il cuore, quando mi girai e notai la rapidità con cui avanzavano. Anche se ci fossimo messi a correre come un treno direttissimo, non avremmo mai potuto distanziare quell'orda a quattro zampe che procedeva compatta e rapidissima. «No, non serve a mettersi a correre», osservai. «Non faremmo che perdere le nostre forze inutilmente. Se potessimo trovare un albero...» Mi guardai intorno nella speranza di scorgerne uno su cui arrampicarsi, ma invano. I tronchi alti e diritti non offrivano il minimo appiglio, e i rami che si protendevano verso l'alto erano decisamente fuori portata. Tuttavia, se avessimo potuto appoggiare la schiena contro qualcosa di solido, forse saremmo stati in grado di opporre una qualche resistenza al branco assalitore. Un grosso tronco d'albero, una pietra, un masso...
I miei occhi, nel frugare il versante della collina in un'ultima, disperata ricerca, si posarono sui contorni di qualcosa che mandava un pallido riflesso grigio sotto il chiarore della luna. Era il monumento che coronava la cima della collina, il masso solitario di pietra informe conosciuto come «La Tomba del Diavolo». Se soltanto fossimo riusciti a raggiungere quel masso e arrampicarci sulla cima, forse saremmo riusciti a tenere a bada i lupi fin quando l'alba non li avesse ricacciati nelle loro tane, in mezzo ai boschi. «Lassù, lassù!», gridai al mio amico indicandogli il masso, e cominciando ad arrampicarsi su per il pendio. «La "Tomba del Diavolo"! È la nostra unica speranza di salvezza!» Seguì allora una scalata da incubo, fra i rovi e le felci, sui sassi scivolosi e ricoperti di muschio, sulla ghiaia che ci faceva sdrucciolare a ogni passo. Non esisteva niente che somigliasse pur vagamente a un sentiero, e in qualsiasi momento avremmo potuto trovarci il cammino sbarrato da qualche invalicabile muro di roccia. Non osavo fermarmi per guardare indietro, ma sentivo il coro dei sordi brontolii e degli ululati in sordina che partivano dal branco delle belve, man mano che ci allontanavamo dalla strada per arrampicarci sulla collina. Eppure, sebbene ormai fossimo perfettamente in vista, i lupi non puntavano verso di noi seguendo la via più breve. Secondo l'istinto tramandato di generazione in generazione, la loro tattica era la solita adottata da un branco. Guidati dall'odore, più che dalla vista, seguirono le nostre tracce fino al punto in cui avevamo lasciato la strada, prima di cominciare a galoppare su per la collina, dietro di noi. Buon per noi che seguirono la via più lunga. Se l'intelligenza di un lupo fosse stata in grado di comprendere la verità del dodicesimo teorema di Euclide, e cioè che la somma dei due lati di un triangolo è maggiore del terzo, di certo i nostri assalitori ci avrebbero tagliato la ritirata. Ma anche così la nostra fuga sembrava destinata a concludersi disastrosamente. Solo una dozzina di metri ci separava ormai dall'avanguardia del branco, quando scavalcammo l'ultimo cespuglio con un balzo e cominciammo a correre sullo spiazzo che circondava le antiche colonne di pietra. Con un senso di sollievo che rasentava l'esultanza, notai che i fianchi del monolito, screpolati e corrosi dal tempo, sebbene ripidi, presentavano alcune fenditure che ci avrebbero permesso di appoggiare i piedi per arrampicarci fino alla sommità dove, per un certo tempo, saremmo rimasti al sicuro.
«Ancora uno sforzo», ansimai. «Evviva! Per il momento le belve resteranno senza cena!» Ma il mio grido di trionfo si smorzò quasi subito in un gemito di spavento. Un altro lupo, di proporzioni enormi, era emerso dall'ombra della «Tomba del Diavolo» e avanzava diritto diritto verso di noi! Anche in quell'istante di stupore inorridito, rimasi colpito dallo splendido aspetto della bestia, sebbene avrei preferito ammirare le sue forme perfette dietro una gabbia di ferro. L'animale era indubbiamente di dimensioni assai più notevoli di quanto avrei immaginato potesse essere un lupo, tuttavia non era solo il corpo che suscitava la mia ammirazione; il suo pelo era morbido e lucido, i muscoli scattanti e ben delineati, e nei suoi occhi brillava un'espressione d'intelligenza quasi umana. A differenza del branco di belve affamate e ripugnanti che ci stavano alle calcagna, l'enorme creatura spiccava come un damerino immacolato in mezzo a un gruppo di straccioni vagabondi. Tutto ciò mi passò per la mente nella frazione del tempo che avrei impiegato a raccontarlo. Mi accorsi allora che era il momomento di agire con prontezza, sebbene apparisse piuttosto difficile decidere con precisione che cosa potevo fare. L'unico oggetto in mio possesso che somigliava vagamente a un'arma era un coltello con una corta lama pieghevole, d'acciaio, che di solito usavo per grattar via i colori dalla tavolozza. Aveva la punta così larga e piatta che per abitudine lo tenevo in tasca, senza piegare la lama: comunque, era sempre meglio delle mani nude, per lo scontro che ormai sembrava inevitabile. Levai il coltello dalla tasca e ripresi a correre, avvolgendo intorno alla mano destra la sciarpa che portavo al collo, per proteggermi dalle zanne della belva che avanzava verso di noi. Poi, con il coraggio della disperazione, mi lanciai contro il lupo che si ergeva fra noi e il nostro rifugio di pietra. Con mia immensa sorpresa, la belva balzò di fianco per evitarci, lasciando libero il sentiero verso la cima del mausoleo di pietra. Continuammo a salire correndo, non osando credere nella nostra buona sorte. Dopo alcuni momenti giungemmo in cima all'antico sepolcro, dove esausti e ansanti ci lasciammo cadere a terra, tre metri e mezzo sopra il branco dei lupi che ululavano e ringhiavano la loro rabbia feroce. Fu allora che si verificò il fatto più sorprendente di quella sera movimentata. Il lupo solitario, invece di unirsi agli altri nei loro tentativi di scalare la roccia, sferrò un improvviso assalto contro il resto del branco. Ac-
covacciandosi sulle cosce, il pelo ritto sul collo, le zanne scoperte, tese improvvisamente il magnifico corpo e, con un brontolio cupo e minaccioso, si lanciò nel mezzo degli assalitori. Trattenni il respiro, aspettandomi di vedere il coraggioso animale dilaniato e sventrato davanti ai miei occhi. Erano dodici contro uno, una situazione disperata anche per un animale coraggioso come il grosso lupo. Pure, la furia del suo attacco parve seminare il terrore fra gli altri. Per alcuni secondi ebbi la confusa visione di un vortice di corpi avvinghiati e di fauci spalancate; poi, con un urlo simultaneo di terrore, l'intero branco abbassò la coda fra le gambe e i lupi corsero come impazziti a rifugiarsi fra gli alberi, seguiti da vicino dal solitario ma imbattibile campione che li aveva messi in fuga. Uno scoppio di risa convulse ci uscì dalle labbra quando inseguitore e inseguiti scomparvero nel fitto della boscaglia. «Ebbene, Fratello Lupo ci ha reso un grosso servizio, stavolta», osservò Alan con una risata che risuonò vagamente stridula. «Perché immagino che fosse un lupo, no?», soggiunse, lanciandomi un'occhiata dubbiosa. «E che altro, se no?», ribattei, stringendomi nelle spalle. «Sembrava troppo intelligente, troppo civilizzato, oserei dire. Quasi avesse compreso la nostra posizione e il pericolo che correvamo alla prima occhiata, e volesse fare il possibile per aiutarci. Ora, se si fosse trattato di un cane, potrei capire una simile dimostrazione di intelligenza e d'amicizia per l'uomo, ma... buon Dio, e quella chi è?» Seguendo la direzione del suo sguardo allibito, osservai qualcosa che a mia volta mi fece allibire. Nel punto in cui il branco di lupi era svanito nella foresta solo pochi minuti prima, si stagliava la figura di una ragazza alta e snella. Credevo che gli avvenimenti della serata avessero ormai esaurito ogni mia capacità d'emozione, ma ora sentivo drizzarmi i capelli in testa per l'orrore, rendendomi conto che la ragazza in mezzo alla radura correva il pericolo di venire dilaniata e divorata. «Se i lupi hanno fiutato il suo odore...», cercai di dire. «Lei non sa quale pericolo corre!», gridò Alan, cominciando a scendere dalla roccia. «Dobbiamo avvertirla. Vieni: tu sai parlare il patois bretone meglio di me.» Contro ogni mia inclinazione e ogni espressione di buonsenso, mi ritrovai a ridiscendere il masso di roccia che avevo salito con un senso di gratitudine solo qualche minuto prima. Alan scoppiò a ridere, quando notò la
riluttanza dei miei movimenti. «Non aver paura», disse in tono scherzoso. «Non c'è un solo lupo in vista, e spero proprio che tu non sia tanto timido da temere di presentarti a una bella ragazza.» «Ma che diavolo ci fa una bella ragazza in mezzo ai boschi a quest'ora di notte?», borbottai, mentre toccavo il suolo. «È quanto ho intenzione di chiederle. Guardala!», mormorò sottovoce. «Che modella perfetta per una ninfa dei boschi!» Credo di aver provato qualcosa di più di un interesse puramente artistico, quando osservai attentamente la ragazza che si avvicinava. E quando le fummo di fronte, nel chiarore della luna, sentii mozzarmi il fiato. Il livello generale di bellezza fra i nativi della Bretagna è piuttosto elevato, ma la ragazza che ci stava davanti, eretta e immobile, era il simbolo della perfezione. I suoi lineamenti... come posso descrivere ciò che trascende ogni descrizione? Le parole diventano futili e prive di significato, se pronunciate per descrivere la radiosa creatura che era emersa davanti a noi nel mistero della notte. La sua bellezza sembrava ultraterrena: i capelli biondi le cadevano in una profusione di riccioli sulla fronte e sul collo, la pelle abbronzata dal vento e dal sole aveva riflessi di seta. L'abitino di cotone da pochi soldi che indossava poteva apparire uno straccetto addosso a un'altra, ma portato da lei sembrava un abito di gran classe. Le gambe lunghe e affusolate erano nude fino al ginocchio; i piccoli piedi non calzavano neppure i sabots di legno che solitamente portano anche le più povere contadine della regione. Somigliava più a una driade dei boschi che a una ragazza di campagna. Per una ragione che non volli appurare (ma forse era il ricordo delle mie recenti paure) la sua calma m'irritò non poco. «Che cosa fate qui?», gridai, sfoggiando il mio zoppicante dialetto bretone. «Non lo sapete che ci sono i lupi, qua intorno?» Con mia grande sorpresa, lei rispose nel più puro francese. «Certo, M'sieur, che ci sono i lupi. Li ho appena...», esitò un secondo, poi concluse: «Li ho appena sentiti ululare. E voi, non vi sarete certo arrampicati sulla Tomba del Diavolo per ammirare il panorama, hein?». La sua calma m'impressionò. Conclusi che la ragazza doveva essere molto coraggiosa o molto stupida. Eppure sembrava in possesso di tutte le sue facoltà mentali, al punto da dar l'impressione di prendersi gioco di noi. Stavo per ribattere qualcosa, che se non altro mi avrebbe ridato un atteggiamento dignitoso, quando Alan mi prevenne.
«Voi parlate francese!», esclamò il mio amico con una gaia risata. «Magnifico! Temevo di rimanere escluso dalla conversazione. Non avete avuto una fifa tremenda quando i lupi vi sono sfrecciati davanti per rifugiarsi fra quegli alberi laggiù?» La ragazza scosse la testa con gesto orgoglioso, quasi fiero. «Non avevo affatto paura, per me.» Alan Grantham sorrise. «Ma almeno, vi sarete sentita un po' nervosa, no? Siete stata molto gentile a fermarvi per vedere se eravamo salvi, ma non vi sembra che il vostro atteggiamento possa apparire un po' illogico? Eravamo sulla cima della roccia, capite, mentre voi eravate quaggiù, alla mercé di quelle belve. C'era un grosso lupo, in particolare, che ha messo in fuga gli altri, trascinandoli lontano dal masso. Forse l'avete visto: un bellissimo animale!» «Credete?», disse la ragazza con un rapido sorriso, quasi il complimento fosse rivolto a lei. «Sì, conosco l'animale di cui parlate, ma non ho paura di lui, mais non! A me non farà del male, e neppure a voi.» «A quanto pare, avete una certa confidenza con i lupi», osservai con una smorfia. «Forse siete in grado di dirci anche a chi farà del male e a chi no, quella grossa bestiaccia?» La ragazza sollevò le spalle con un gesto indifferente. «Calmez-vous, M'sieur. Lo so perché lo so, ecco tutto. Ci sono lupi e lupi», spiegò, mentre le labbra rosse si aprivano sui denti bianchissimi che brillarono al riflesso della luna. «Esattamente come ci sono uomini e uomini.» Tacque un attimo, poi concluse: «E ci sono donne e donne, alcune pericolose, altre no; alcune desiderose di fare del bene, altre che invece vogliono solo distruggere». S'interruppe bruscamente e, voltandoci le spalle soggiunse: «Andiamo, è molto tardi, vi mostrerò una scorciatoria attraverso i boschi per ritornare a Josselin». «Attraverso i boschi!», ripeté Alan, spaventato. «Ma i lupi...» Lei si girò, con un improvviso gesto d'impazienza. «Non vi ho forse detto che non vi faranno alcun male?», disse, fissando con i grandi occhi scuri il viso del mio amico. «Il branco, a quest'ora, è ormai lontano chilometri e chilometri.» «Ma il grosso lupo grigio?», insisté Alan, con voce sommessa. La ragazza abbassò gli occhi e lasciò cadere la domanda, voltando la testa, in modo che non le si vedesse il volto. «Venite sì o no?», domandò da sopra la spalla. «Non ho nessuna intenzione di lasciarvi andare in mezzo a questi boschi
da sola!», dichiarò il mio amico in tono solenne. «Allons! Andiamo, dunque.» Infilò il braccio sotto quello di Alan con la stessa disinvoltura con cui un gatto salta in grembo a chiunque sia disposto a carezzarlo, e insieme presero a camminare attraverso lo spiazzo, verso i boschi. Li seguii in condizioni di spirito che non erano del tutto serene. Tutta quella faccenda era troppo misteriosa, per i miei gusti. Sorrisi ferocemente fra me e intanto mi chiedevo se il mio amico dal cuor leggero sarebbe stato altrettanto felice di affidarsi alla sua guida, se la ragazza sconosciuta fosse stata una strega senza denti, con una faccia simile a una noce secca. Giungemmo in vista del villaggio di Josselin senza ulteriori incidenti. I lupi sembravano essersi volatilizzati, come se non fossero mai esistiti sulla faccia della terra. Il silenzio di morte della grande foresta era interrotto solamente dallo scricchiolio dei nostri piedi sulle foglie secche e sugli aghi di pino che coprivano il sentiero. Alan e la sconosciuta aprivano il cammino, chiacchierando in tono gaio e senza posa. Non ho la più pallida idea di quale sia stato l'argomento di quella conversazione, ma suppongo che non abbiano parlato di politica. Io non ascoltavo. Avevo altre cose da pensare, mentre chiudevo la retroguardia, gli occhi che frugavano fra le ombre per captare il primo segnale della presenza di un lupo. Non riuscivo a convincermi che saremmo ritornati alla locanda senza altri incontri spiacevoli, finché non vidi le torri dell'antico Chàteau de Josselin, che parevano ammiccare poco lontano. La nostra misericordiosa guida ci lasciò all'ingresso del villaggio, un fatto questo, di cui le fui profondamente grato, poiché non ero dell'umore più adatto per cercare di spiegare alla nostra ciarliera ostessa cose che io stesso stentavo a credere. Notai, tuttavia, che la ragazza si congedò con un allegro au-revoir ad Alan, mentre a me rivolse solo un freddo e formale bon soir. «Hai intenzione di rivederla presto, la tua Demoiselle?», domandai al mio amico, quando fummo nella nostra camera, senza aver dovuto fornire troppe spiegazioni alla padrona della locanda. Alan annuì, mentre un leggero rossore gli saliva al viso dai bei lineamenti. «Domani», confessò. «Ehi, dico, non è meravigliosa?» «Sicuro, è meravigliosa», convenni piuttosto seccamente. «Ma si può sapere chi è?» «Si chiama Corinne e vive qui, nel villaggio.»
«Bella spiegazione! Ma che accidenti stava facendo, sola in quel bosco?» Alan scoppiò a ridere. «Non lo so, e non me ne importa. Ringrazio solo la mia buona stella che lei fosse laggiù in quel momento.» «Altrimenti potresti esser morto, eh?», insinuai. «No», ribatté lui scuotendo la testa, con un sorriso che tradiva i suoi pensieri. «Altrimenti non avrei mai conosciuto Corinne.» Pronunciò il nome della ragazza con un tono di voce che non ammetteva repliche. Vedendo perciò che il mio giovane amico soffriva di un attacco d'amore a prima vista, feci l'unica cosa che mi restava da fare: mi girai dall'altra parte e mi misi a dormire. Il mattino dopo, recuperai la mia cassetta dei colori dal fosso in cui l'avevo lasciata cadere durante la fuga della sera prima e mi rimisi al lavoro. Ma Alan, evidentemente, aveva altri pesci da pescare. È vero che cercò di lavorare qualche minuto, con aria alquanto svogliata, ma la maggior parte del suo tempo fu assorbita dall'affascinante ragazza che non aveva paura dei lupi. Non occorre molto tempo perché una notizia si diffonda in un posto tranquillo e fuori del mondo come Josselin: dopo una settimana, la relazione sentimentale del giovane artista inglese era diventata la favola del paese. E se mai è esistito un uomo innamorato cotto, quello era Alan Grantham. Rimasi scarsamente sorpreso, perciò, quando, dieci giorni dopo la nostra avventura notturna, il mio amico annunciò il suo prossimo matrimonio e mi pregò di fargli da testimone. In Bretagna, non c'è bisogno di mandare inviti alle nozze. Il notaio redige il contratto di matrimonio, annuncia la lieta novella e gli abitanti del villaggio accorrono in massa per augurare agli sposi lunga felicità, e per mangiare e bere tutto ciò che la giovane coppia può offrire alla popolazione. Il numero degli ospiti che si invitano, perciò, dipende più o meno dalle possibilità degli sposi. Confesso che ero piuttosto curioso di vedere quanta gente si sarebbe fatta invitare in occasione di quella particolare ricorrenza, anche perché, non so per quale ragione, avevo la vaga impressione che la bella Corinne non fosse molto popolare, nel villaggio. Gli altri giovani, infatti, l'evitavano apertamente. I contadini bretoni probabilmente si comportano come tutti gli altri nella propria cerchia familiare, ma con gli estranei, in particolare con i forestieri
come noi, sono taciturni e diffidenti. L'individuo più garrulo e loquace di Josselin era, cosa abbastanza strana, l'unico uomo che secondo la logica avrebbe dovuto tenere a freno la lingua. Si trattava infatti di un funzionario governativo, il pubblico notaio, l'uomo che, con la possibile eccezione del parroco del villaggio, sapeva tutto sulle storie di famiglia e gli affari privati di coloro che lo circondavano. Nicolas Didier era, naturalmente, un uomo di una certa educazione e perfino di una certa cultura, anche se superficiale. In gioventù, e di questo si era fatto premura d'informarmi subito dopo la nostra conoscenza, aveva studiato legge a Parigi; da alcune osservazioni casuali che il notaio lasciava cadere di tanto in tanto, avevo l'impressione che si considerasse un tantino superiore agli abitanti del villaggio, e questa era probabilmente la ragione per cui cercava sempre la compagnia di Alan e la mia, ogni volta che riusciva a trovare un pretesto. Ero giunto così alla conclusione che il signor Didier fosse un uomo di una certa cultura, il quale era stato destinato a un impiego governativo insignificante ma sicuro, in un ambiente che lui trovava particolarmente tedioso. La sera prima del matrimonio, Didier venne a trovarmi alla locanda, per avere alcuni particolari sul conto dello sposo che si dovevano trascrivere sul contratto di matrimonio. Alan, come al solito, era fuori, ma io fui in grado di fornirgli le informazioni necessarie. Sistemata la faccenda, il vecchio notaio non mostrò alcuna fretta di congedarsi. Rimase seduto a parlare del più e del meno, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive alla credenza sulla quale erano in mostra numerose bottiglie che Alan aveva preparato per i prossimi festeggiamenti. Accolsi la sua domanda inespressa e stappai una bottiglia di vecchio vino. «Beviamoci un buon bicchiere di vino in onore della coppia felice», proposi. Gli versai una dose generosa. Lui si scolò il vino con evidente soddisfazione, aggiungendovi un discorsetto che evidentemente teneva in serbo per occasioni simili. «Non ho l'abitudine di indulgere all'alcool, Monsieur», si schermì il vecchio. «Ma in questa occasione così propizia...» Continuò a rigirare il bicchiere fra le dita sottili, guardando con aria sognante la bottiglia. Ora, quando un individuo insiste nel puntualizzare la propria estrema moderazione, di solito significa che è particolarmente disposto a bere la sua parte, e magari un po' di più.
«È un vero peccato rimettere il tappo a un vino così buono», osservai, prendendo la bottiglia. «Fatemi l'onore di gustare un altro bicchiere, vi prego.» «L'onore è tutto mio, M'sieur», mi rassicurò il vecchio notaio, mentre un leggero rossore gli copriva i lineamenti che ricordavano la pergamena. «E anche il villaggio di Josselin, ne sono certo, è onorato che il vostro stimato amico abbia scelto la sua consorte fra le ragazze del paese. Ma l'esimio Monsieur Grantham è uno straniero d'oltremare. Forse non conosce, e neppure ha sentito parlare delle nostre leggende e tradizioni. Non tutti avrebbero scelto la propria sposa fra le donne di Josselin!» Il suo atteggiamento e le sue parole mi costrinsero a guardarlo attentamente, oltre il tavolo illuminato dalla lampadina. Poi, spinto da un impulso improvviso, gli avvicinai la bottiglia ancora piena per tre quarti, con cordialità. «Servitevi, mon ami.» Come vidi che accoglieva l'invito con sorprendente rapidità, ripresi a parlare con voce indifferente. «Ah, sicché il vostro villaggio vanta delle leggende, hein?» Lui si affrettò a vuotare il bicchiere prima di rispondere. «Leggende?», ripeté con una voce sardonica densa di significato nascosto. «Ma foi! Altro che leggende, abbiamo! Strane cose sono accadute qui a Josselin, e non in un remoto passato, badate, ma di recente! Strane cose il cui significato è stato discusso da persone colte ed erudite, in solenne conclave; cose su cui eminenti professori hanno scritto interi libri, pesanti volumi, nel vano tentativo di scoprirne il significato. Ditemi, mon cher Monsieur, avete mai sentito parlare delle "Donne di Josselin che abbaiano"?» Nei più profondi recessi della mia memoria si agitò qualcosa. Sicuro, avevo sentito o letto quelle parole. Ma dove? E in quale occasione? Nel cervello mi ronzavano centinaia di dubbi inespressi e di sospetti formulati a metà, quando tornai a rivolgermi al vecchio avvocato. «Ditemi qualcosa di più riguardo a queste donne che abbaiano.» «Volete che vi racconti la leggenda, o la verità?», ribatté lui, socchiudendo gli occhi. «Cominciamo con la leggenda.» Maître Didier si riempì il bicchiere e si sistemò comodamente sulla sedia. «Benissimo, M'sieur. Come la maggior parte delle favole di questo genere, anche la nostra storia risale a molto tempo fa, direi a circa duecento anni fa, ma probabilmente nacque assai prima. C'era una volta (vi prego di
notare che comincia come tutte le fiabe del mondo) una mendicante che un giorno ebbe la ventura di passare per il villaggio di Josselin. Era vestita di stracci, affamata, sporca e scalza e, in un fagotto pure di stracci, reggeva un bambino, suo figlio.» «Chi era la donna?», domandai. Ma il vecchio notaio si strinse nelle spalle mingherline e allungò la mano per riprendere la bottiglia. «Una versione della leggenda dice che era una strega, una potente incantatrice; un'altra versione parla addirittura di un personaggio che potrebbe identificarsi con la Madre di Dio, e il suo bambino nel Figlio Divino. Potete credere all'una o all'altra, come preferite. Le donne del villaggio erano al fiume, come avrete notato ogni giorno, intente a lavare i panni. La mendicante le supplicò di darle un po' di cibo e un rifugio, mostrando loro i piedi sanguinanti e cercando di suscitare la loro compassione reggendo alto il figlioletto che moriva di fame. Ma le donne di Josselin la cacciarono via con parole amare e crudeli; certuni dicono che arrivarono perfino a sguinzagliare i cani contro la povera creatura indifesa. Sia come sia, la donna e il suo bimbo furono scacciati dal villaggio. Dapprima la sconosciuta se ne andò quasi umile e mansueta senza lagnarsi ma, quando passò davanti alla porta della chiesa, gettò per caso un'occhiata al viso del suo bambino, e si accorse di stringere fra le braccia un cadavere! Soltanto allora si girò verso le donne che l'avevano beffeggiata e scacciata. Depose il morticino sulla soglia della chiesa e avanzò verso di loro, gli occhi fiammeggianti d'odio attraverso le lacrime, le braccia sollevate in un gesto di minaccia furibonda. "Donne di Josselin!", gridò. "Sul corpicino del mio bambino morto, io vi lancio la mia maledizione: a voi, alle vostre figlie e alle figlie delle vostre figlie. Siate maledette fino alla decima generazione! Possa l'Altissimo misericordioso e pietoso mostrare verso di voi la stessa pietà e la stessa misericordia che voi avete mostrato per me. Come lupi feroci, ci avete negato il cibo, come cani arrabbiati, ci avete scacciati dalle vostre porte. Ebbene, donne di Josselin, voi diventerete cani e lupi davvero!" E, dopo aver scagliato la sua maledizione, la donna morì.» Il vecchio notaio s'interruppe e rimase immobile, fissando davanti a sé con gli occhi annebbiati, come se vedesse in un sogno la scena che aveva descritto con tanta vivezza. «Una triste storia», commentai. «Ma non è finita?» «No. Quella notte avvennero scene selvagge nelle strade di Josselin... suoni e rumori orribili, terribili, terrificanti, difficili da descrivere. Donne e
ragazze corsero fuori dalle loro case, strappandosi di dosso gli abiti con frenetico abbandono, abbaiando come cani e ululando come lupi! E tali erano, non solo nell'aspetto esteriore, ma anche nel loro intimo. Si precipitarono tutte insieme nelle case da cui erano appena uscite, mentre i loro uomini restavano troppo paralizzati dal terrore e dallo stupore per intervenire e, quando ne riemersero di nuovo, ogni donna-lupo stringeva fra le zanne arrossate di sangue un bimbo giovanissimo, il proprio o quello di un'altra, che aveva ghermito dalla culla o dal lettino con la ferocia e la mancanza di pietà tipiche della belva in cui si era trasformata. Ma, notate bene, furono trucidati solo i figli maschi. Le femmine vennero risparmiate affinché, giunte alla maturità, ereditassero la terribile maledizione che era stata scagliata su di loro e la trasmettessero alle loro discendenti, come hanno fatto fino a oggi. Questa, Monsieur, è la leggenda delle donne che abbaiano.» «Vi ringrazio di avermela raccontata con tanta chiarezza. E adesso volete dirmi qual è la "reale" verità della storia?» Sulle labbra sottili di Didier apparve un sorriso enigmatico, mentre tornava a riempirsi il bicchiere con l'ultimo contenuto della bottiglia. «La verità non è tanto facile da definire», riprese con tono grave. «Un fatto è certo, ed è che alcune contadine di questo villaggio, le discendenti delle donne che beffeggiarono e scacciarono la mendicante, in determinate stagioni sono afflitte da una misteriosa malattia, o calamità, o maledizione, chiamatela come volete. E qui abbandoniamo il regno della leggenda per avvicinarci a fatti concreti e incontrovertibili. Troverete riferimenti alle donne che abbaiano in numerose opere scientifiche. Emeriti scienziati e dotti studiosi hanno dedicato anni e anni allo studio del fenomeno, sebbene tutti abbiano tentato di trovare una soluzione che si adatti alle proprie teorie o alle proprie credenze. I teologi, per esempio, sono convinti che si tratti di una diretta visitazione di Dio. I medici sono egualmente convinti che i latrati e gli ululati siano causati da qualche oscura malattia ereditaria che produce movimenti spasmodici e contrazioni ai muscoli della gola. Gli psicologi avanzano la teoria che il fenomeno sia dovuto a qualche forma di autosuggestione o ipnotismo di massa. Gli antropologi affermano di trovare un parallelo, se non proprio una soluzione, nel totemismo delle razze selvagge e primitive, e seguono la credenza quasi universale secondo cui certi esseri umani sono capaci di trasformarsi in animali. La scienza, in breve, nel tentare di provare troppe cose, non prova niente. Vi ho elencato queste teorie contrastanti fra loro semplicemente per dimostrarvi che l'autenticità di questa terribile maledizione è sufficientemente attestata, al pun-
to da meritare la più seria considerazione da parte di studiosi che di solito non inseguono ombre né indagano nelle favole. Per quanto riguarda una soluzione, be', come uomini di buonsenso, non ci resta che accettare i fatti così come sono e spiegarli con il maggior discernimento possibile.» La mia mente ripensò al grande lupo grigio che vagava sulla Tomba del Diavolo, la creatura che era scomparsa nella foresta proprio nello stesso punto da cui, pochi momenti dopo, era emersa Corinne Lemerre, calma, fredda, senza mostrare il minimo segno di paura. E allora mi ci volle poco per convincermi che l'antica leggenda doveva avere un valido fondo di verità. Mi piegai in avanti e, posando la mano sulla spalla del vecchio notaio, dissi: «Sentite, mastro Didier, qual è la vostra teoria personale, riguardo la faccenda?». Sentii la spalla su cui poggiava la mia mano contrarsi leggermente. «Mère de Dieu! Se vi rivelassi i miei pensieri reconditi, voi pensereste che mi lascio andare alla più nera delle superstizioni, come un qualsiasi contadino ignorante. Io so soltanto che questa calamità, questa maledizione, se preferite chiamarla così, esiste tuttora fra noi. Ma la gente di Josselin non sbandiera pubblicamente la propria vergogna al mondo. Quando si avvicina il tempo della loro periodica trasformazione, le donne del villaggio si chiudono a chiave nelle loro stanze o vanno a nascondersi nel folto della foresta, dove nessun occhio umano vedrà l'orribile aspetto che assumeranno, dove nessun bimbo innocente correrà il rischio di essere dilaniato dalle loro zanne crudeli.» Nel folto della foresta! Le parole mi martellavano nel cervello con diabolica insistenza. Non era stato in mezzo ai boschi che avevamo incontrato Corinne Lemerre? Il mio sfortunato amico stava forse per prendere in moglie un magnifico Lupo Mannaro? Fra il turbinare dei miei pensieri, mi accorsi che il vecchio aveva ripreso a parlare. «Certainement, considerando il modo in cui il nostro terribile segreto è stato celato finora, non c'è da meravigliarsi se gli studiosi hanno potuto raccogliere esigui dati su cui basare le loro teorie», stava dicendo Didier. «Ecco perché stasera ho parlato con voi; voi, a vostra volta, potete avvertire il vostro amico.» «E convincerlo ad abbandonare mademoiselle Lemerre la vigilia del matrimonio?», gridai.
«Doucement, doucement», protestò il vecchio. «Calma, mio impetuoso amico. Io sono l'ultimo uomo al mondo che voglia suggerirvi di far nascere uno scandalo, rompendo la promessa di matrimonio. Inoltre, non c'è niente da temere, per il momento. Il vostro amico non corre il minimo pericolo, poiché i lupi di Josselin non attaccano e non divorano gli uomini adulti. Sarà più tardi, quando arriveranno i figli, che comincerà la tragedia. Ora non occorre che voi ripetiate le mie parole al vostro amico; passeranno parecchi mesi, anni forse. Ma se vi stanno a cuore la sua felicità, la sua serenità di spirito, il suo equilibrio mentale, il giorno in cui nascerà suo figlio, il suo erede, raccontategli la leggenda delle donne di Josselin.» Dopo che il vecchio se ne fu andato, rimasi seduto a lungo accanto ai tizzoni morenti del caminetto, fumando incessantemente e pensando intensamente, mentre attendevo il ritorno di Alan. La mia mente affondava nel dubbio e nell'indecisione. Un momento ero deciso a raccontare ogni cosa al mio caro amico; e, subito dopo, giuravo a me stesso che non una parola mi sarebbe uscita dalle labbra. Mi avrebbe creduto, se avessi parlato? E se anche avesse prestato fede alla mia fantastica storia, avrebbe avuto il coraggio di respingere la sua bellissima sposa, all'undicesima ora? E, soprattutto, avevo io il diritto di diffamare la reputazione di una ragazza giovane e bella, basandomi semplicemente sulla teoria campata in aria di un notaio misantropo che aveva sciolto la lingua grazie a una bottiglia di vino? Eppure, nel mio intimo, sapevo che la leggenda non era una semplice chimera. Ora che ero in possesso di un indizio, mi ritornavano alla mente numerosi episodi, insignificanti e privi di valore in sé, ma che confermavano i miei dubbi. Ecco, per esempio, gli abitanti del villaggio avevano perfino un nome particolare per definire le donne ammalate: aboyeuses, «abbaiatrici». Avevo sentito sussurrare quello strano termine perlomeno una dozzina di volte, sebbene prima non avesse alcun significato per me. Mi alzai in piedi e tirai indietro la pesante tenda della finestra; premetti la fronte bruciante sui vetri freddi e appannati, e guardai fuori, nella notte. C'era la luna piena, alta nel cielo senza nubi, che bagnava l'intera vallata del fiume di una luce d'argento. Oltre la riva del fiume, in fondo al villaggio, le tre torri dell'antico château si ergevano dalle acque lucenti, imponente monumento alla tirannia e al potere feudale. Più oltre, l'acqua del fiume si abbassava; intorno, piccoli banchi erbosi formavano da tempo immemorabile il lavatoio pubblico del villaggio. Era stato laggiù che la
mendicante senza casa aveva chiesto invano la carità. Nello spiazzo aperto, di fronte a me, c'era la chiesa dalla cui soglia la donna aveva scagliato la fatale maledizione. Con gli occhi della mente potevo vedere la figura affamata e macilenta, ritta in cima alla scalinata, che affrontava la folla delle donne urlanti come una furia vendicatrice, da sopra il cadaverino del figlio. Fu allora che compresi perché ora nessun mendicante chiedeva invano l'elemosina nelle strade di Josselin. Un leggero rumore sul marciapiede, immediatamente sotto la mia finestra, interruppe bruscamente il corso dei miei pensieri. Due persone stavano in piedi davanti alla porta della locanda e parlavano a voce bassa e intima. «Au revoir, ma chérie.» Era la voce di Alan, vibrante di profonda passione. «A domani!» «A domani», fu la risposta, sussurrata con voce così bassa che riuscivo appena a distinguere le parole. «Viens m'embrasser.» La voce di lei si smorzò in una risata soffocata; poi un bacio prolungato. Mi allontanai dalla finestra, sentendomi stringere il cuore. Come potevo parlare, ora? Come potevo privarli della loro felicità? Quella notte non riuscii a dormire. Il mattino dopo, erano sposati, uniti per sempre da un anello e dalla Bibbia. Anche la più calda e la più provata amicizia si affievolisce davanti al fuoco più intenso dell'amore. Ricevetti occasionali notizie da Alan durante la sua prolungata luna di miele in Italia, poi le sue lettere divennero sempre più brevi e arrivarono a intervalli sempre più lunghi, finché cessarono del tutto. Mi fermai ancora un poco a Josselin per dare gli ultimi ritocchi al quadro a cui stavo lavorando. Poi partii, spostandomi attraverso il Sud della Francia; varcai quindi la frontiera della Spagna, dirigendomi dove la mia fantasia e il richiamo dello scenario naturale mi conducevano. Nuove scene, nuovi interessi e nuove speranze e ambizioni fecero sì che a poco a poco il ricordo di Alan Grantham e della sua misteriosa sposa si allontanasse dalla mia mente. Sotto il cielo inondato di sole della Castiglia, arrivai quasi a sorridere dei miei precedenti timori dovuti alla tragica leggenda delle donne-bestie di Josselin. Fu due anni più tardi, mentre sedevo davanti a una piccola posada sovrastante le acque impetuose del Tago, vicino a Toledo, che il ricordo del passato riaffiorò e mi sommerse come un invisibile mare di gelo.
La grassa e sciatta padrona della locanda in cui alloggiavo mi consegnò una lettera che portava un francobollo inglese e numerosi indirizzi scritti a matita, che indicavano come la missiva mi avesse seguito di tappa in tappa per parecchie settimane. Il messaggio che vi era contenuto era breve ma denso di oscuro significato: In nome della nostra vecchia amicizia, vieni subito. Ho bisogno del tuo consiglio e del tuo aiuto, come mai mi è capitato prima d'ora. Non oso tentare di spiegarti, poiché potresti credere che mi ha dato di volta il cervello. Ma vieni, ti supplico, vieni presto! Sotto, c'era un post-scriptum scarabocchiato in fretta, che in realtà era più lungo del testo della lettera: Corinne gode perfetta salute e ti invia i suoi migliori saluti. Ha sopportato molto bene la nascita del nostro bambino e sta diventando più bella che mai. Il piccolo è un delizioso fagottino, vispo e allegro: ti piacerà. L'abbiamo chiamato con il tuo nome. Dovrei sentirmi l'uomo più felice del mondo, eppure sono tormentato da timori che mi appaiono anche più terribili perché così grotteschi. Vieni presto, in nome della nostra vecchia amicizia! Era un appello a cui non potevo restar sordo. Gettai un'occhiata al timbro postale: la lettera era stata imbucata quasi due settimane prima. Non ci vollero più di cinque minuti per fare i bagagli e pagare il conto. Attraversato il fiume, ebbi la fortuna di acchiappare al volo un treno che stava per partire dalla stazione di Toledo. Dovetti aspettare due ore a Madrid, ma il tempo perduto fu recuperato dalla rapidità del TransContinental-Express che mi portò a Parigi dove, nelle prime ore del mattino, salii su un treno in coincidenza per la costa. Trenta ore dopo aver ricevuto il messaggio, scendevo la passerella del vaporetto che fa servizio sulla Manica, e stringevo calorosamente la mano che mi aveva richiamato in Inghilterra. «Ho ricevuto il tuo telegramma da Parigi», spiegò Alan, quasi volesse giustificare la sua inaspettata presenza sulla passerella di sbarco. «Non so dirti quanto mi senta sollevato ora che sei qui.» Stavo per dirgli che la sua lettera aveva vagato per il mondo, prima di arrivare a me, ma lui tagliò corto con una fretta che mi parve eccessiva.
«Vieni». Afferrò la mia valigetta e, ignorando il treno in attesa, si diresse ai cancelli d'uscita. «Ho fuori la macchina. Mentre guido, possiamo parlare. La mia casa si trova nella contea vicina, a pochi chilometri dal confine con il Sussex. Ci si arriva più in fretta con la macchina che con i treni locali.» Il lussuoso aspetto della macchina che ci aspettava pareva indicare che, di qualsiasi natura fossero i guai di Alan, non erano certamente di carattere economico. Azzardai un vago accenno a questo proposito mentre lui metteva in moto, ma Alan quasi ignorò la mia osservazione. «Oh sì, non mi va poi tanto male. Ma ultimamente sono stato troppo preoccupato per dedicarmi seriamente al lavoro. Sai... non devi giudicarmi pazzo per ciò che sto per dirti, ma ricordi il grosso lupo grigio che vedemmo quella notte alla Tomba del Diavolo?» «Sì», risposi, con i nervi tesi per l'interesse. «Ebbene?» «Quella dannata bestiaccia mi ha seguito fin qui!» Riuscii a mettere insieme una risata, ma se il mio amico non fosse stato impegnato nella guida, credo che avrebbe notato i sentimenti che il mio viso doveva tradire. «Su, andiamo!», dissi, in tono leggero. «Non ti sembra un po' grossa, vecchio mio? È un bel salto, dalla Bretagna al Sussex, senza contare che in mezzo c'è un piccolo ostacolo chiamato la Manica!» «Me ne infischio se è lontano e se occorre attraversare il tuo ostacolo. Riconoscerei quella bestiaccia ovunque, e sono sicuro che l'animale gironzola nella nostra casa da settimane; per la precisione, da quando è nato il bambino.» Il bambino! Ecco un altro punto del racconto del vecchio notaio che si rivelava veritiero. «È un maschio, vero?», domandai, più per guadagnar tempo che per altro. «Certo che è un maschio!», rispose Alan con orgoglio. «Non ti ho detto, nella mia lettera, che l'abbiamo chiamato come te? «E tu temi che questo grosso lupo voglia far del male al tuo bambino?» «Che altro?», ribatté lui, bruscamente. «La belva ha tentato una dozzina di volte di entrare nella nursery, ma fortunatamente ce ne siamo accorti in tempo e l'abbiamo cacciata via prima che potesse far danni. Ma il fatto più strano è che non ha mai cercato di attaccare gli adulti. Questo dovrebbe facilitare il nostro compito.»
«Il nostro compito?», ripetei. «Sì. Tu devi aiutarmi a ricacciare la belva nella sua tana e a piantarle una pallottola nel cuore. Finché non la vedrò morta stecchita davanti ai miei occhi, non avrò la certezza assoluta che Corinne e il bimbo non corrono alcun pericolo.» Riuscii a trattenere la risata sardonica che mi premeva alle labbra. Mormorai qualcosa, rimasi seduto in silenzio, o risposi solo a monosillabi. I pensieri cupi che mi si affollavano alla mente erano sufficienti per tener concentrata tutta la mia attenzione. Ancora una volta mi trovavo invischiato in un intrico di mistero e di pericoli, ma l'uomo accanto a me non poteva certo immaginare la reale natura del compito per cui aveva sollecitato il mio aiuto! Percorremmo una cinquantina di chilometri lungo la strada costiera; poi, in un punto non lontano dalla famosa località dove ebbe luogo la battaglia di Hastings, svoltammo verso l'entroterra. Venti minuti più tardi, la macchina varcava i cancelli di un lungo viale alberato, e io ebbi la prima, fuggevole visione della casa. «Fattoria Solitaria», si chiamava, e il nome sembrava decisamente appropriato. La vecchia casa si ergeva su una collina, circondata da gradini ben tenuti e, sebbene la sua posizione fosse alquanto esposta alle tempeste che ogni tanto si scatenavano dal mare, tuttavia godeva di una vista superba. A sud, si stendeva la lunga striscia della costa, da Beach Head a Dungeness; ogni altro punto della zona era limitato dalle vaste colline gessose, desolate e deserte per la maggior parte, sebbene qua e là si potesse scorgere la sagoma indistinta del tetto di una fattoria isolata, fra le pieghe ondulate delle dune. La «Fattoria Solitaria», come diceva il nome, era stata costruita come una solida casa colonica, sebbene appartenesse all'epoca della Regina Elisabetta. Era un delizioso esemplare di architettura rurale del periodo, con i frontoni rivestiti in legno e bizzarri cantucci e angoli nelle stanze con le travi di quercia. I suoi tortuosi passaggi e corridoi erano provvisti di scale e scalette che andavano su e giù, tanto che spesso diventava difficile scoprire a che piano ci si trovava se non si sbirciava dalla finestra. In breve, era esattamente il tipo di costruzione che qualsiasi spettro con un certo rispetto per le antiche tradizioni, avrebbe scelto per le sue scorribande di mezzanotte. Stavo giusto per fare un'osservazione ironica a questo proposito mentre
scendevo dalla macchina; ma, dopo aver lanciato un'occhiata al volto teso e ansioso di Alan, mi trattenni. In quel momento, non sembrava dell'umore più adatto per apprezzare spiritosaggini di nessun genere. Senza dire una parola, il mio amico entrò nella casa e mi fece strada verso la grande cucina con il pavimento di pietra, ora trasformata in un accogliente soggiorno. Sulla porta, si fermò, lasciandosi sfuggire sottovoce un'esclamazione di sorpresa. «Toh, a quanto pare abbiamo visite.» Due uomini, entrambi robusti e con il volto arrossato, vestiti di giacche di tweed e ghette bianche, si erano alzati dalle sedie accanto al caminetto e stavano venendoci incontro. «Buongiorno, signor Grantham», salutò quello che sembrava il più anziano dei due, un tipo dalla barba grigia, sui sessant'anni. «Forse mi conoscete: Sono Enoch Varden, della fattoria Vale, laggiù. Il mio amico, qui, è Sowerby, della...» «Sì, sì, vi conosco tutti e due», lo interruppe Alan con un gesto impaziente. «Immagino abbiate atteso il mio ritorno per dirmi qualcosa.» «È così, infatti», rispose l'uomo con la barba grigia, con un tono di voce in cui affiorava un curioso miscuglio di deferenza e di rabbia trattenuta. «Siamo qui per una faccenda alquanto spiacevole, signor Grantham.» S'interruppe per lanciare uno sguardo interrogativo nella mia direzione. «Chiedo scusa, ma questo signore è un vostro amico?» «Sicuro», rispose Alan calorosamente. «Il mio più caro amico. Non abbiate riguardo di dire in sua presenza ciò che avete da raccontare.» Il signor Varden sembrava piuttosto riluttante ad approfittare dell'invito. Rimase impalato davanti al caminetto, e continuò a schiarirsi la voce a intervalli regolari, spostando il peso da un piede all'altro. «State a sentire, signore», disse alla fine. «Io sono un tipo pacifico, uno di quelli a cui piace restare in buoni rapporti con i vicini, e mi auguro che accoglierete quanto sto per dirvi nel suo giusto verso. Tre notti fa, sono state uccise e dilaniate sette pecore alla fattoria di Sowerby, e stamattina ho scoperto che circa una dozzina di pecore del mio gregge avevano subito la stessa sorte.» «Davvero?» La voce di Alan non tradiva eccessiva sorpresa. «Veramente spiacevole. Immagino che siate venuto fin qui per avvertirmi che qualche bestia feroce si aggira nel Distretto, è così?» Varden rispose con un rapido cenno del capo.
«Siamo venuti per avvertirvi di tenere i vostri cani alla catena, durante la notte!», disse, in tono brusco. «Cani!» Alan rise fragorosamente. «Ma, buon uomo, io non ho cani. Mia figlia non può sopportare di vederseli intorno, e perciò non c'è un solo cane, qui nella nostra fattoria.» I due agricoltori lo fissarono con manifesta incredulità. «Neppure uno?», ripeté Sowerby, che apriva la bocca per la prima volta. «Neppure uno», fu la decisa e ferma risposta del mio amico. «Dovete cercare altrove l'animale che fa strage dei vostri greggi.» Enoch Varden sollevò la mano nodosa e si grattò la testa. «Certo, se lo dite voi, signore, siamo costretti ad accettare la vostra parola...» «Con la più assoluta fiducia», concluse Alan, calmo. «Senza offesa, signore, senza offesa», si affrettò a soggiungere Varden. «Tuttavia, vi confesso che la cosa appare alquanto strana. Il vecchio Miles, il pastore del signor Sowerby, ha scoperto e seguito le impronte, il mattino successivo alla strage delle sue pecore. Il vecchio Miles, che non è un visionario, afferma che le impronte erano quelle di un grosso cane, il più grosso che abbia mai visto. In questo gli credo, poiché io stesso mi ero alzato alle quattro del mattino, dopo la razzia nel mio gregge, e avevo seguito le tracce per alcuni chilometri, sul terreno soffice.» «E dove conducevano, le tracce?», volle sapere Alan. «Diritto, a questa casa, signore. E, quel che è più importante, finivano qui! Erano chiare e distinte come i caratteri stampati sulla carta, e spiccavano sul terreno del vostro viale. Ve n'erano alcune perfino sugli scalini dell'ingresso principale. Impronte che entravano, ma che non uscivano dalla vostra casa!» Vidi che Alan Grantham impallidiva di colpo. Potevo immaginare la tragica intensità dei suoi pensieri, in quel momento. «Dev'essere il grosso lupo grigio che ho visto aggirarsi intorno alla casa!», esclamò subito il mio amico. Alle sue parole, gli occhi dell'agricoltore divennero rotondi per lo stupore. «Lupo?», ripeté perplesso Varden. «E chi mai ha sentito parlare di lupi, sulle colline del Sussex? Non è possibile.» «Be', è così», ribatté Alan, stringendosi nelle spalle. «Può darsi che sia scappato da qualche parte, da un circo, per esempio. A ogni modo, il rimedio sta nelle nostre mani. Naturalmente, voi dovete avere dei fucili?»
«Sissignore», risposero i due, insieme. «Bene, armate tutti gli uomini che potete, e appostateli in attesa della belva. È quanto anche il mio amico e io intendiamo fare. Spero che avremo la fortuna di piantargli una pallottola in corpo!» Prima di sera, ci fu fornita la prova che la teoria del mio amico era esatta. L'identità del misterioso predone a quattro zampe venne ampiamente stabilita da un rappresentante della Squadra Mobile della Polizia della Contea, il quale arrivò in motocicletta mentre stavamo ancora pranzando. «Sì, signore, si tratta di un lupo», dichiarò il poliziotto. «Uno dei nostri uomini di pattuglia ha visto la bestia mentre era di ronda. Un tale che si chiama Morris. È un vecchio soldato che ha prestato servizio nelle Forze di Spedizione in Russia e che ha avuto modo di vedere un sacco di lupi, nei paesi dove solitamente vivono. Ha notato l'animale che gli è passato vicino trotterellando sulla strada. Si dirigeva verso questa casa. Morris era disarmato, perciò non ha potuto far niente per fermarlo. Ma ha avuto modo di vederlo bene, ed è pronto a giurare che si tratta di un lupo e non di un grosso cane. Inoltre, è un lupo femmina, e deve aver avuto recentemente una figliata di cuccioli.» «Accidenti!», esclamò Alan. «Questo complica le cose. Dovremmo setacciare la zona, per impedire che i piccoli crescano. La bestia li aveva con sé?» Il poliziotto scosse la testa. «No, ma aveva le mammelle gonfie di latte. Morris alleva cani e conosce i segni. Dice che di solito la maternità rende questi animali più feroci e più pericolosi. Per questo ho pensato di venire ad avvertirvi.» «Vi sono infinitamente grato, agente», disse Alan, allungando la mano con rapido gesto. Si udì un leggero fruscio di banconote. «Grazie a voi, signore», ribatté il poliziotto, toccandosi la visiera del berretto. «Buonanotte.» Ascoltando la conversazione dalla porta della sala da pranzo, compresi che i miei dubbi avevano ora un'atroce conferma. La misteriosa lupa aveva partorito recentemente... e il bambino di Corinne aveva solo quindici giorni! Era l'ultimo e più convincente anello della catena di prove che dimostravano come la leggenda di Josselin non fosse un mito! Era giunto il momento di parlare. Di qualsiasi natura fossero le conseguenze della rivelazione, la mia coscienza non mi permetteva di tacere più a lungo. Si doveva correre il rischio di scatenare una tragedia, se si voleva
evitare una tragedia più irreparabile. Come la porta si chiuse alle spalle del poliziotto, presi il mio amico per un braccio e lo trascinai nel suo studio, comunicante con la sala da pranzo. «E adesso che succede!», volle sapere Alan, vedendomi chiudere la porta. «Alan», dissi in tono gentile. «Sto approfittando del privilegio di un vecchio amico; ma credimi, è mio dovere rivelarti quanto sto per dirti. Corinne, la ragazza che hai sposato, è...» La mia mente lavorava freneticamente per trovare le parole adatte. «... non è come le altre ragazze.» «Come se non lo sapessi!», m'interruppe lui, con stupore, senza intuire minimamente il significato delle mie parole. «È una perla inestimabile! Ringrazierò il cielo finché avrò respiro di averla messa sul mio cammino e di avermi permesso di legare la mia vita alla sua!» Il fervore della sua affermazione per poco non mi fece rinunciare al proposito che mi ero imposto. Il pensiero che proprio io, il suo migliore amico, dovessi trasformarmi nello strumento della sua amarezza, era come una coltellata al cuore. Ma ormai era troppo tardi, dovevo parlare. «Non è della sua bellezza che stavo parlando e neppure delle sue qualità morali», risposi. «C'è qualcos'altro, qualcosa di cui lei non ha nessuna colpa. Amico mio, la ragazza che tu ami così profondamente è...» «Non sarà mica morta!» Mi afferrò il braccio in una morsa che bloccò i muscoli. «Non dirmi che Corinne è caduta vittima di quel lupo maledetto! Non dirmi che è morta!» «Quanto sarebbe meglio!», esclamai senza volerlo. «Che cosa?» La sua stretta si rafforzò in uno spasimo. «In nome di Dio, che cosa intendi dire?» «Corinne Lamerre era, ed è tuttora...» Quattro colpi d'arma da fuoco, sparati in rapida successione proprio sotto la finestra, troncarono le mie parole come una lama di coltello. Lieto dell'interruzione, che tuttavia costituiva solo un breve rinvio, mi precipitai verso la porta d'ingresso e la spalancai. Sui gradini, c'era un'alta e robusta figura in divisa azzurra. Era l'agente che ci aveva appena lasciati, e in mano stringeva una pesante pistola automatica. «Il lupo!», ansimò il poliziotto. «Passavo vicino ai cespugli quando l'ho visto balzar fuori da una delle finestre più basse. Aveva qualcosa in bocca. Sembrava un fagotto di indumenti.» «Mio Dio!», urlò Alan. «Il bambino! Dobbiamo seguirlo. Aspettate qui, mentre vado a prendere i fucili.»
«Avete colpito l'animale?», domandai all'agente. «Credo di sì, ma c'era poca luce.» L'uomo proiettò il fascio di luce della sua lampadina tascabile sul sentiero coperto di ghiaia e mandò un grido. «Sì, l'ho colpito. Guardate, c'è del sangue sui sassi!» «Qua, tieni questo.» Alan mi cacciò fra le mani riluttanti un fucile da caccia, mentre con un balzo scendeva gli scalini. «È carico, ma non sparare finché non sei certo di non colpire mio figlio. Da che parte è andato?», domandò, mentre si affrettava a raggiungere il poliziotto. «Non saprei dirlo, signore. È scomparso fra le tenebre. Tuttavia, c'è una traccia, guardate!» Illuminò di nuovo il sentiero su cui si vedevano le impronte insanguinate. «È ferito gravemente, non può andar lontano», osservò Alan, afferrando la lampadina e spingendosi avanti. Ma subito dopo, si lasciò sfuggire un'esclamazione di disappunto. Le impronte voltavano bruscamente e finivano nei folti cespugli. «Dobbiamo separarci», sussurrò Alan con voce strozzata. «E setacciare i cespugli uno per uno. Sparate a vista, ma per amor di Dio, state attenti al bambino!» Eseguimmo i suoi ordini e cominciammo a seguire le tracce. Ma era un'impresa disperata, dar la caccia a una belva nel buio. Per un certo tempo, l'agente di polizia e io avanzammo nella medesima direzione, tanto che ci ritrovammo in un piccolo spiazzo non lontano dalla casa. «È una caccia inutile», mormorò il poliziotto con aria truce. «Come cercare un ago in un pagliaio. Probabilmente a quest'ora il lupo è lontano chilometri e chilometri... e al vostro amico non resta che dire addio per sempre a suo figlio!» Le sue parole mi fecero nascere un'improvvisa ispirazione. «Può darsi che sia tornato in casa!», esclamai. «In casa?» L'agente parve sorpreso. «Ma che idea!» «È soltanto un'idea, infatti. Ma penso che valga la pena di controllare. Volete tornare indietro con me?» «Se voi pensate che ne valga la pena, andiamo pure. Devo chiamare il signore?», domandò poi, indicando con un cenno del capo il punto in cui Alan stava frugando rumorosamente fra i cespugli. «Credo sia meglio di no», risposi. «Se i miei sospetti sono fondati, è meglio che resti fuori da ciò che sta per accadere.» Raggiungemmo la casa inosservati e senza perder tempo precedetti il poliziotto su per le scale.
«Avevate ragione, signore!», gridò l'uomo, additando una macchia rossa su una porta dipinta di bianco. Annuii senza parlare e sollevai il fucile in posizione di sparo. La porta macchiata di sangue era quella che dava nella camera da letto di Corinne. La stanza era avvolta nell'oscurità, quando spalancai la porta, ma il sordo e minaccioso brontolio che accolse il nostro ingresso dimostrava indubbiamente che non era deserta. Feci scattare l'interruttore... e rimasi immobile di fronte all'incredibile spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi. Non fu la vista del grosso lupo accovacciato sul letto che mi strozzò il respiro in gola con un suono che ricordava un singhiozzo: a questo ero preparato. No, la causa che mi fece barcollare e tremare, fu la vista del minuscolo bimbo che, rannicchiato fra le zampe del gigantesco animale, mandava balbettii di contentezza, mentre con i piccoli pugni carezzava il morbido pelo grigio. Il fucile mi cadde dalle mani, finì sul pavimento. Il mio cervello non riusciva a credere a quanto vedevano gli occhi. Poi, come un lampo improvviso, tutto mi apparve chiaro. L'amore materno, divino e incomparabile, aveva trionfato sulla terribile, antica maledizione: la grande lupa feroce stava allattando il suo bimbo che avrebbe dovuto dilaniare! Avevo compreso; ma il poliziotto alle mie spalle aveva occhi solo per la belva a cui davamo la caccia. Ebbi la rapidissima visione di una canna d'acciaio, mentre lui tirava indietro la mano pronta al tiro. «Non sparate, sciocco!», gridai, e spensi la luce per fargli sbagliar mira, nel caso non avesse compreso. Ma quando la luce si spense, l'oscurità fu rotta da una lingua di fuoco e il crepitio dell'arma automatica risuonò sinistro come un colpo di tuono in miniatura. «Sciocco!», gridai di nuovo. «Che cosa avete fatto?» «Immagino di aver centrato quella...» La sua risposta si spense in un mormorio privo di significato, mentre riaccendevo la luce. Il lupo era svanito. Al suo posto, bianco come il marmo e immobile nella morte, c'era il corpo di Corinne Grantham, la ragazza che per sempre aveva rotto l'incantesimo malefico che da secoli pendeva su tutte le donne di Josselin.
L'agente di polizia affrontò da uomo l'inchiesta che seguì. Il poveraccio zitto zitto, incassò la sua dose di rimbrotti sul «modo di maneggiare le armi senza la minima attenzione o cura». Tuttavia, ebbe il buonsenso di non pronunciare una parola sul lupo che si era trasformato in donna al momento della morte. Probabilmente aveva immaginato che nessuno avrebbe creduto a una storia simile e non aveva alcuna voglia d'esser preso per bugiardo, oltre che per uno sbadato tiratore. Grazie all'appoggio incondizionato e generoso di Alan, fui in grado di testimoniare che l'agente non era da condannare per la sua reticenza. Oggi, probabilmente, è il più ricco poliziotto del Sussex... a meno che non si sia ritirato dalla polizia da parecchio tempo, come credo. Il verdetto del coroner fu quello di «morte accidentale». E così la faccenda rimase chiusa fino a tutt'oggi. Alan Grantham, con l'animo combattuto fra il dolore per la morte della moglie e la gioia per aver ritrovato il figlioletto miracolosamente illeso, non ha mai sospettato la vera natura dell'«incidente disgraziato» che aveva pietosamente tagliato il nodo gordiano della trama sinistra in cui Corinne era invischiata. Non saprà mai la verità, fino al giorno in cui, oltre l'orizzonte della tomba, tutti i segreti del mondo saranno rivelati. LA DONNA LUPO The Wolf-Woman di Bassett Morgan Weird Tales, settembre 1927 Una mattina mi telefonò Norman Fletcher. Anche quando già si conosce bene Fletcher, è sempre un'emozione ricevere una chiamata da uno scienziato tanto famoso. «Salve!», disse allegramente. «Nel tuo ufficio c'è una stenografa?» «Sì», risposi, un po' sorpreso. Lui rise. «C'è là una certa donna di nome Stephens?» «Ah! Sicuro. Perché?» «Ho qui una sua lettera.» «Cos'hai?» «Ho ricevuto una sua lettera l'altro giorno, che mi chiede di spiegarle l'o-
rigine del mito del Lupo Mannaro. Se non hai troppo da fare, la porteresti qui stasera?» «Certamente!», promisi. «Volevo chiamarti io stesso. Al Club degli Inventori vogliono sapere se sarai così gentile da dare altre dimostrazioni...» «No!», sbottò, involontariamente brusco. «Mi dispiace, ma ho molte commissioni dal Governo, e probabilmente partirò per Washington molto presto. Inoltre il mio apparato ha qualcosa che non va. Sembra che non sia più controllabile; stasera ti spiegherò.» Riattaccai, e il pensiero dell'ultima volta in cui la sua invenzione infernale aveva avuto un problema, mi mise molto a disagio. Poi chiamai la signorina Stephens, che arrossì quando le riferii le parole di Fletcher. «Forse sono stata terribilmente impertinente», confessò. «Ma mi avete raccontato tante cose di quegli esperimenti... e io al college ho scritto una tesi sul Lupo Mannaro... allora...» «Allora senz'altro verrete con me stasera», dissi allegramente. «Così avrete le teorie più recenti, o forse la prima teoria scientifica al mondo, sull'argomento del Lupo Mannaro.» Quella sera, quando la introdussi nel laboratorio di Norman Fletcher e feci le presentazioni, la signorina Stephens era molto riservata. Ma, dietro la sua riservatezza, c'era una solida preparazione: dopo pochissimi istanti, aveva già suscitato l'interesse di Fletcher, perché di Lupi Mannari ne sapeva parecchio. Tutto ciò che era stato mai scritto sui Lupi Mannari - esseri umani che nottetempo prendono sembianze di lupo - lei lo sapeva a memoria. «Ma dov'è la vostra macchina?», chiese, guardandosi intorno. «Sta lavorando con le onde ultrasoniche ad alta frequenza, con ogni genere di elettricità... e non si vede!» Effettivamente, quel piccolo laboratorio dalle pareti di pietra, non aveva nulla che facesse pensare alla casa del più grande esperto di elettricità del paese. Intorno alla consolle degli strumenti di comando erano ammucchiate delle sedie a sdraio. La consolle sembrava un organo a tastiera tripla, ed emanava un ronzìo sommesso come dei tubi riscaldati, ma non sembrava essere collegata ad alcuna macchina. Fletcher prese posto dinanzi alla consolle e abbassò le luci. Con mio dispiacere, la signorina Stephens accettò l'offerta di una sigaretta, che fumò con aria soddisfatta. Lei sa bene che io cerco di limitare il fumo all'interno dell'ufficio, ma non si accorse nemmeno di me, presa com'era da Fletcher e dalle sue teorie.
«Ridotto all'essenziale», disse Fletcher, «il mito dice che una persona indossa una pelle di lupo e diventa un lupo che va in giro di notte; in genere succede alle donne, e di solito le storie che si raccontano sono sanguinose e orribili. L'argomento risale ai primi scrittori greci, e addirittura agli Assiri. Questa credenza è ancora viva in Europa.» «Sì», disse la signorina Stephens. «Ho il libro di Vetlugin sulle leggende russe al riguardo.» «Stranamente, però», continuò il vecchio Fletcher, «i Lupi Mannari della tradizione cristiana erano in genere creature benevole, persino commoventi. Ieri, mentre facevo delle ricerche per scoprire l'origine della leggenda, mi sono imbattuto nella storia che vi sto per mostrare. Riguarda Sant'Oddone, Abate di Cluny.» Sapevamo già che il genio singolare di Fletcher poteva richiamare i suoni e le immagini del passato, e che il potere sconfinato della sua macchina a ultrasuoni riusciva a evocare fatti realmente accaduti molto tempo prima, come una specie di televisione del passato. Però c'erano molti dettagli del meccanismo che lui non aveva mai rivelato a nessuno. «Quindi», dissi, «immagino che i personaggi di stasera parleranno francese antico.» «No», disse Fletcher frettolosamente, perché la luce giallastra si stava già proiettando sul muro di pietra di fronte a noi. «La mia macchina è un po' fuori squadra; fa cose inaspettate, mi dispiace dirlo, e ora non ho il tempo di lavorarci sopra. Dev'essere qualcosa che ha a che fare con quei nuovi tubi all'iridio che abbiamo montato.» «E cosa c'entra questo con la lingua?», chiesi. «C'entra molto. Adesso riesco a trasmettere alternativamente solo le immagini, oppure soltanto il suono. Ieri ho registrato i suoni di questa storia e ho spedito la registrazione all'Università. Il professor Hartmetz l'ha tradotta in inglese e ha fatto una nuova registrazione, che mi ha rispedito stasera prima di cena, e ora ascolteremo quella registrazione come colonna sonora delle immagini. Ah! Chiedo scusa.» Un telefono suonava con insistenza. Fletcher afferrò il ricevitore e rispose. Vidi la luce giallastra dissolversi sulle pietre della parete. I blocchi di granito cominciarono a squagliarsi e a scomparire dinanzi ai nostri occhi. Improvvisamente, la voce di Fletcher si fece più acuta. «Cosa?», esclamò. «Che dici, Hartmetz? Una cosa orribile? Impossibile! La storia di Sant'Oddone e i lupi è bellissima... Cosa? Non lo è?» D'un tratto, la sua voce si riempì d'agitazione.
«Gran Dio, ragazzi! Qualcosa dev'essere andato storto! Be', non fa nulla. Grazie per avermi chiamato. L'apparecchio in questo momento è acceso. Buona notte.» Ebbi la vaga sensazione che qualcosa nei piani di Fletcher fosse andato storto. La luce riflessa me lo mostrò mentre si asciugava la fronte e lanciava uno sguardo preoccupato verso la signorina Stephens, la quale però non se ne accorse: fissava il muro. Quelle pietre massicce erano quasi completamente sparite e, come se fosse comparsa una finestra, ora ci trovavamo dinanzi una scena che non era un'immagine, ma una realtà a tre dimensioni. Udii Norman Fletcher mormorare qualcosa. «Sanscrito, ha detto... Sanscrito! L'antica razza ariana di migliaia d'anni or sono; no, no, è impossibile...» Il borbottio di Fletcher fu sovrastato dalla risata di una donna. L'immagine davanti a noi si mosse, indistinta, poi riprese forma... un paesaggio di foreste e colline, e torri basse e massicce. Poi l'immagine si rifece indistinta; certo la macchina non stava funzionando bene. La risata femminile si fece più forte. Non era una risata tintinnante e allegra, ma un riso amaro e isterico. Poi, all'improvviso, l'immagine si fece chiara. La donna si trovava in un cortile, in piedi, e rideva. Era bellissima, circondata da mura di pietra grezza e da alberi antichi, e rideva selvaggiamente, in preda al dolore e a un'ira furibonda. Un gruppo di uomini la guardavano pieni di paura e di meraviglia. La risata si spense quando la donna si portò entrambe le mani al viso, come per schermirsi da una visione spaventosa. Tutta la scena comunicava un'impressione di maestà selvaggia e indescrivibile: si sentiva, si avvertiva in ogni dettaglio. In quel luogo non c'era gentilezza né grazia. Il cortile, le mura e gli edifici, erano fatti di blocchi di pietra enormi e rozzamente squadrati. Le piante erano nobili e massicce. Tutto era pervaso da un'aria di potere e spazio, come se si fosse trattato di un'abitazione degli dèi. Le porte stesse, il trono di pietra, le travi sporgenti sotto i cornicioni, erano gigantesche e lavorate rozzamente. Gli uomini avevano armi ingombranti, crudeli e grosse: lance con grandi punte di bronzo, asce di bronzo dalla lama piatta, spade che parevano travi di metallo. Gli uomini somigliavano alle loro armi, e sprizzavano potenza muscolare e forza. Sdraiato ai piedi della donna, con la lingua rossa penzoloni, c'era un lupo domestico di dimensioni enormi, che guardava la donna con uno sguardo acuto. La donna sollevò la testa e si scoprì il volto. Era vestita di bianco, e ave-
va un torquis dorato al collo. La sua bellezza radiosa colpiva come un raggio di sole che attraversa una nube oscura; era di una bellezza regale, una forza ricca e pulsante, piena di energia. Quella donna non aveva nulla di passivo. Nei suoi occhi azzurri di ghiaccio c'era una fiamma che le scuoteva tutto il corpo, e dalla bocca le uscì una voce squillante come una tromba. «Combatti, Shatra! Io sarò all'avanguardia, e dietro di me verrete tu e i guerrieri.» «Va bene, ma tu sai cosa significa, Indra», disse Shatra, un guerriero massiccio. «Sai come ci uccidono; passiamo la giornata a uccidere uomini piccoli e neri, e poi, alla fine, quando siamo esausti, loro ci sopraffanno. Le loro schiere sono innumerevoli, come le formiche. Fu così che morì tuo marito, il Re. E così sono morti la maggior parte dei nostri guerrieri. Noi siamo pochi, ma loro sono come le foglie della foresta. Barbari, incolti e rudi, e scuri... ma come combattono! È così», continuò con aria triste, «che è scomparsa la nostra gente ariana. Uccisero invano, e furono sopraffatti. Si allontanarono e migrarono, e la loro civiltà si è perduta; ora tutto il paese pullula di omini neri. Siamo rimasti solo noi, ma ora, se tu lo ordini, è giunta l'ora della nostra morte.» Dal viso di Indra svanì la fiamma. «Avete giurato di obbedire a me e a mio figlio fino alla morte», disse con calma. «Rispetteremo il giuramento. Da' l'ordine, e noi combatteremo fino alla morte, e tu e tuo figlio morirete con noi.» «Capisco, capisco! Quali sono le loro condizioni?» «Non attaccheranno. Da dietro le nostre mura possiamo ridercene di loro e ucciderli quando arrivano. Il loro Re ci ha proposto due alternative. O andarcene liberi e migrare indisturbati, per cercare un'altra terra come ha fatto la maggior parte della nostra gente. Oppure, rimanere qui nella fortezza. Loro ci manderanno ciò che ci occorre per mangiare, ma chiunque esca da queste mura sarà ucciso; le donne e i bambini saranno fatti schiavi. Noi siamo gli ultimi della nostra razza, Indra; sei tu che devi scegliere, e noi rispetteremo la tua scelta.» Lei aveva ascoltato con gli occhi sbarrati. «Astuta, questa gente! Vogliono che rimaniamo rinchiusi qui... e chiunque esce, muore! Certo non sono ansiosi di combattere fino alla morte. Venite.» Indra fece un gesto imperioso, e cominciò ad attraversare il cortile. Gli
altri la seguirono, e discesero la scala che portava alla torre di pietra sopra la porta. Qui si trovava il doccione, o torrione principale: l'appartamento del Re morto di un popolo scomparso. Dalla torre bassa, Indra guardò verso il cortile del castello, che era anch'esso massiccio e squadrato, e le cui mura si stendevano fin oltre la collina. Entro quelle mura c'era una cittadina, fuori, un grande accampamento che si stendeva per colline e foreste. Da questo accampamento era uscito un gran numero di assedianti, che erano penetrati nel grande cortile del castello ed erano rimasti là, in attesa. Indra li guardò. Erano uomini robusti e scuri, diversi dalla sua gente: erano più bassi di statura, e armati solo di arco e di spada. Non erano robusti cacciatori come la sua gente poderosa: ma in quell'accampamento ce n'erano tanti quanti sono i granelli della sabbia del mare, un oceano di uomini che erano discesi come un fiume in piena dalle vette innevate dei monti, e avevano cacciato la sua gente da quella terra. Questi Dravidiani erano piccoli, eppure avevano sconfitto i potenti Ariani, costringendoli a migrare in un lontano esilio. «Forse sarebbe meglio andarsene come gli altri», mormorò. «Indra, non potremmo portare nulla con noi», disse uno dei suoi Capi. «Dovremmo lasciare tutte le armi e il tesoro.» Le labbra di lei si strinsero. I suoi occhi lampeggiarono. «Questo no!», esclamò. «No! Ci teniamo sia le armi che la città. Noi, gli ultimi della nostra razza!» I Capi assentirono e andarono a riferire agli inviati Dravidiani. Indra, con lo sguardo rivolto verso le colline, avvertì la sottile astuzia di quella piccola gente. Sulle colline tutt'intorno al castello e alla cittadina, c'erano palazzi e castelli. I Principi e la Nobiltà ariani avevano usato quegli edifici per stare più freschi d'estate, e per cacciare durante l'inverno; ora i proprietari erano morti, e quei palazzi erano stati occupati dai Dravidiani. Lei si rese conto del piano dei Dravidiani. Il loro ospite poteva fare ciò che voleva: loro avrebbero semplicemente atteso. L'estate era finita, e dalle montagne veniva fischiando l'autunno. Da un giorno all'altro poteva cadere la prima neve. Indra girò gli occhi verso Sud, senza vedere. Da là, dalle terre sconfinate che arrivavano al mare e ai confini della terra, era venuta quella gente nera. Gli Ariani se n'erano andati, e si erano sparpagliati, migrazione dopo migrazione, verso Ovest e verso Nord, oltre l'orizzonte, verso un destino ignoto. Qui fra le montagne, c'era
tutto ciò che rimaneva di quel popolo. Il marito di Indra era caduto, e con lui molti uomini valorosi e i Principi. Avevano ucciso finché non erano stati sopraffatti dalla superiorità numerica del nemico, come un uomo che sfida una marea. Lei gli ultimi della sua gente, e il ragazzo che un giorno sarebbe stato Re, suo figlio: ecco cosa era rimasto. Un Re? di che cosa? Non c'era più un regno. Non ci sarebbe più stato un popolo da comandare, quando sarebbe diventato un uomo. Giunse da lei un vecchio Consigliere, e indicò il cortile. «Vieni, Donna Indra! È arrivato il Re di questa gente; devi andargli incontro fuori dalle mura per fare il giuramento.» «Giuramento? Che giuramento?» «Di rispettare i patti; che nessuno del nostro popolo farà guerra contro il suo, né lascerà queste mura. Altrimenti, moriranno. Lui giura che lascerà passare liberamente le provviste, e ce le fornirà lui stesso, senza farci guerra. Sarà un giuramento solenne, testimoni tutti gli dèi!» E fu così che giurarono davanti alla porta, di fronte a tutti gli uomini, e offrendo sacrifici agli dèi. Il Re Savastri colpì Indra. Era un uomo sulla trentina, barbuto e dall'occhio fiero, molto attivo e agile, nonostante l'armatura; il suo viso era abbastanza allegro, e gli uomini dicevano che era gioviale, oltre a essere un guerriero senza pari. Quel giorno, tuttavia, era serio, e Indra pensò che quegli occhi scuri la guardavano affamati. Così lei giurò che non avrebbe permesso a nessuno dei suoi di fare la guerra o di uscire dal castello. Anche il Re dravidiano fece il suo giuramento, testimoni gli ospiti e la sua gente. Fu reso pubblico che chiunque avesse lasciato il castello poteva essere ucciso dalla gente scura senza possibilità d'appello. «E ora andatevene, se volete, tutti voi!», disse il Re Savastri, ridendo e scoprendo i denti bianchi e luccicanti. «Andatevene, e morirete! Prima accadrà, e prima potremo mettere le mani sulle vostre donne.» Dicendo ciò, guardava Indra, ma lei gli voltò le spalle con fare sprezzante, e non raccolse l'offesa. Così fu decisa la fine degli ultimi Ariani. Obbedirono a Indra alla lettera, come avevano giurato di fare. Erano un popolo bellicoso, e forse avrebbero preferito uscire fuori e morire combattendo. Ma lei pensava a suo figlio, e decise di prender tempo; quindi obbedirono, benché ciò significasse per tutti loro morire lentamente, isolati dal resto del mondo. Ma, giorno dopo giorno, Indra sedeva nel grande cortile col grosso lupo addomesticato, Vic, accucciato ai suoi piedi. Quando le venivano riferite le notizie, i suoi occhi azzurri fiammeggiavano. Il nemico dravidiano si era
ritirato al di là delle colline come la marea dell'oceano. Ne erano comunque rimasti molti. I Capi abitavano nei palazzetti e nei castelli: la gente nera vi aveva costruito attorno dei piccoli villaggi, e il loro Re Savastri si era sistemato nell'enorme padiglione da caccia costruito dal marito di Indra, a tre miglia di distanza. Da lì comandava la sua gente scura, che si era impossessata di quella terra. Vennero le piogge dell'autunno, poi la prima neve, ma ancora non aveva gelato. Si disse che in tutto quel paese la civiltà ariana era perduta e distrutta, poiché quei Dravidiani erano una razza ignorante e barbara. Indra ascoltava tutto e parlava poco, mentre giocava ora col bambino, ora col lupo. Il Principe era un bimbo di quattro anni, e il lupo era suo amico. Vic era una bestia feroce e determinata, addestrata a difendere Indra e a obbedirle. Era uno dei lupi più grandi e, benché fosse stato catturato e addomesticato da cucciolo, il suo cuore era rimasto selvaggio. Era così grosso che il bimbo - Shiva - lo cavalcava, sebbene ciò non facesse troppo piacere a Vic. Nel pomeriggio del primo giorno che nevicò, mentre le colline e la foresta erano spazzati da un vento gelido, Indra mandò a chiamare Ran, il suo anziano Consigliere, e l'unico Capo guerriero che era rimasto, il fiero Shatra. Si rivolse brevemente a quest'ultimo. «Chiunque sia l'ufficiale di guardia a quella piccola porta orientale, stanotte dovrà lasciarmi uscire e poi attendere il mio ritorno, senza fare domande.» «Tu, Indra?», esclamò il guerriero, esterrefatto. «E chi ti accompagnerà?» «Vic», disse la donna. Udendo il suo nome, il lupo alzò la testa e le rivolse uno sguardo attento. Shatra fu invaso dalla paura e dalla costernazione. «Mia Signora, ripensaci!», la pregò. «In tutto il paese, non è rimasto nessuno della nostra gente, fatta eccezione per le donne fatte schiave. Se ti trovano là fuori, e sei catturata o uccisa...» «In quel caso, tu dovrai occuparti del Principe Shiva», disse, e lo congedò. Quando se ne fu andato, Indra si rivolse all'anziano Consigliere. «Vuoi rompere il giuramento fatto di fronte agli dèi?», le chiese l'uomo, guardandola dritta negli occhi. «Quel giuramento l'ho fatto per la mia gente, ma non riguardava me», disse, e questo era vero. «Io sola posso combattere contro questa gente nera; io sola posso vendicare il mio defunto marito, le nostre città e le nostre
campagne perdute, la nostra gente dispersa. Io conosco segreti che nessun altro essere vivente conosce, e ho dei sistemi per ottenere il mio scopo. Non voglio discussioni, Ran. Domani ci mandano del bestiame?» «Così hanno promesso», disse Ran. «Cento capi.» «Benissimo! Assicurati, dunque, che a coloro che portano il bestiame giunga all'orecchio una certa storia: la storia che tu mi raccontavi un tempo, dei nostri antenati che di notte cambiavano aspetto e diventavano lupi affamati.» «Farò ciò che mi ordini», disse il vecchio. «Ma cos'è che ti spinge a tanto odio e sete di vendetta? Perché non puoi vivere come noialtri?» «Vivere per morire fra queste mura, o uscire ed essere uccisi?», disse, sdegnosa. «Se vuoi proprio saperlo, io farò in modo che il loro Comandante muoia.» «Perché?», disse il vecchio Ran, toccandosi la barba bianca. «Per come ti ha guardata e ti ha parlato al momento del giuramento? Ho sentito che lui è migliore dei suoi Nobili e dei suoi Capi. Pare che sia un comandante capace, un Re saggio...» Indra si accalorò. «Un Re che assaggerà la vendetta dei vinti! Assicurati che gli sia raccontata quella storia. Voglio far soffrire quel Savastri, prima di farlo morire. Nessun altro può ucciderlo, all'infuori di me. Il vento che ulula fra gli alberi, stanotte ulula la morte!» «Egli vive nel castello costruito da tuo marito, e ha guardie, e guerrieri...» «E io, che lo aiutai a costruire quel castello, ne conosco i segreti», disse la donna, con un sorriso terribile. Indra, di razza guerriera, sapeva maneggiare la spada e la lancia meglio di molti uomini. Quella notte, benché non potessero vedere il viso della donna, vedendo l'anello col Sigillo Reale, le guardie aprirono la piccola porta orientale e la lasciarono uscire. Era vestita di pelli di lupo, e sulla testa aveva un cappuccio come lo portano i cacciatori, calato fino a nascondere il viso. Indra aveva una lancia da caccia, ed era seguita dal grande lupo Vic. La videro allontanarsi fra gli alberi squassati dalla tempesta, mentre cadevano i primi fiocchi di neve. Poi richiusero la porta, guardandosi l'un l'altro con gli occhi pieni di paura. Verso l'alba udirono la voce di Indra e l'ululato di Vic. Fu portata una torcia e, quando l'ebbero riconosciuta, la fecero entrare. Qualcosa era cam-
biato da quando era uscita: la sua lancia era arrossata, e le fauci di Vic grondavano sangue. «Non dite nulla», ordinò alle guardie, e se ne andò. Quel mattino, alcuni guerrieri dravidiani si presentarono come promesso, recando del bestiame. Raccontarono una strana storia: l'abitazione del Re era stata invasa dai lupi, e nessuno capiva come fossero entrati. Uno dei Principi e due guardie del corpo del Re erano stati uccisi. I lupi poi erano spariti. A questi uomini furono raccontate le leggende della Casa Reale, e di certi Principi che potevano assumere le sembianze di un lupo a loro piacimento. Senza dubbio l'episodio di quella notte doveva essere stato opera del fantasma del Re morto, che voleva vendicarsi dei conquistatori. Con questa spiegazione poco confortante, i Dravidiani se ne tornarono da dove erano venuti. Tre giorni dopo, il Re Savastri e sei dei suoi Capi chiesero un colloquio con Indra. Lei li fece portare nel cortile della torre, e mandò Vic nella cuccia. Il mattino era gelido, e il lupo si leccava le fauci e il pelo. Girò voce che quella notte c'erano stati degli altri morti nel palazzo del Re. Indra si presentò seguita da Ran e dagli altri Consiglieri, e salutò il Re. Lui ricambiò il saluto, tenendole piantati in viso gli occhi rapaci. «Signora, tra il mio popolo e il tuo c'è pace, poiché tu stessa hai scelto che sia così», disse il Re all'improvviso. «Noi abbiamo rispettato i patti; ma la tua gente ci attacca di notte e uccide i nostri uomini.» «Questo non è vero», rispose Indra, che poi fece un cenno a Ran. «Va' e scopri se ieri notte o durante il giorno qualche uomo sia uscito dal castello. Se è così, morirà qui e ora per avermi disobbedito.» Il vecchio se ne andò, e Indra guardò ancora Savastri, senza sorridere ma serena. «Non menti», disse lui, impulsivamente. «Non mento», replicò la donna. «Ora raccontami cosa è accaduto.» «È già la seconda volta», disse, provocando cenni d'assenso fra i suoi Capi. «Ieri notte due dei miei Capitani sono stati uccisi... sbranati, come da un lupo. Evidentemente è stata la tua gente.» «Se è così, i colpevoli moriranno, lo giuro!», replicò la donna. «È possibile che tu non conosca le leggende della nostra Casa Reale? Sono gli spiriti dei defunti che sono venuti da te, grande Re; lo spirito di mio marito, ucciso dai tuoi guerrieri, di notte assume le sembianze di un lupo e uccide. Questa è l'antica leggenda, poiché il mio è un popolo di cacciatori della fo-
resta.» «Sì, ho sentito dire in giro qualcosa di simile», disse Savastri. «Tutte sciocchezze! Ieri notte, uno dei Capitani è stato ucciso con una lancia. I lupi non usano lance.» «Davvero?», disse Indra, guardandolo fisso, mentre gli occhi le ridevano, sprezzanti. «Grande Re, accetta il mio consiglio e sistemati in un altro luogo. Sarai più sicuro. I guerrieri staranno nel Padiglione Reale: che siano loro a rischiare, mentre tu potrai nasconderti in un luogo più sicuro.» Il tono di scherno di Indra era troppo per Savastri, che arrossì. «Non sono quel tipo di uomo, Signora! Per il Dio Shiva! Ucciderò quel fantasma, se di fantasma si tratta!» «Shiva?», disse Indra, sorpresa. «Chi è costui?» «Uno dei nostri dèi.» «Davvero? Mio figlio ha questo nome... eccolo che arriva.» Il bambino attraversò il cortile. Savastri e i suoi Capi lo guardarono, e le espressioni scure e severe dei loro volti s'illuminarono di ammirazione. Quel bambino era come un raggio di sole splendente. Savastri si rivolse improvvisamente a Indra. «Signora, sposami!», disse d'impulso. «Sposami, e la tua gente sarà libera!» Gli occhi della donna divennero di ghiaccio. «Il giorno che ti sposerò, barbaro, sarò sul letto di morte!» Quelle parole erano così piene di disprezzo, che un ringhio di rabbia si levò fra i Capi dravidiani. Savastri invece si limitò a guardarla in viso, poi gli occhi gli si illuminarono. «Ne sarà valsa la pena», disse. Prima che lei potesse trovare parole adatte a esprimere la propria rabbia, l'anziano Ran fu di ritorno, con il rapporto. Nessun uomo aveva lasciato la città o era uscito dalle mura da quando era stato fatto il giuramento di pace. «I miei guerrieri non mentono», disse Indra. «Inoltre, Re Savastri, giuro che se i miei uomini dovessero lasciare queste mura, ne sarai informato; e se la mia gente prende qualsiasi iniziativa contro la tua, infrangendo il loro giuramento e il mio, moriranno! Va', e nasconditi dai fantasmi dei morti!» Non ci fu altro, e Indra ebbe l'ultima parola. Ma qualcosa nel modo in cui lo disse spinse Savastri a dedicarle uno sguardo indagatore. Forse fu da quel momento che cominciò a sospettare di lei. Quando udì le parole del Consiglio e dei Capi, tuttavia, Indra impallidì di rabbia. Tutti pensavano che Savastri fosse un Re saggio e degno. Quella
stessa notte, Indra uscì dalla piccola porta secondaria con Vic, e tornò molto prima dell'alba. Il giorno seguente, corse notizia che quattro Capi dravidiani, che stavano bevendo insieme a un posto di sentinella, erano stati uccisi da un lupo che aveva lasciato nella neve delle impronte umane. «Mio marito», disse Indra all'anziano Ran, «è in buona compagnia sulla strada dei fantasmi!» «Che vantaggio puoi trarne per te, o per la tua gente?», chiese il vecchio. Il viso di lei si oscurò. «Non so... ancora. A me importa solo una cosa, Ran: una persona. In qualche modo, gli assicurerò un futuro. Troverò io il modo!» «Il Principe Shiva è nato per essere Re, questo è vero», disse Ran, grattandosi la barba. «Ma la gente ariana si è dispersa per il mondo, svanendo come una nube nel cielo. Se ne sono andati. Forse fonderanno altri imperi lontano da qui, ma non ci sono più. E chi rimane è perduto. Meglio un branco di maiali al sicuro, che un Re senza regno né sudditi!» Gli occhi azzurri di lei lampeggiarono. «Sangue di Re avrà nome di Re», disse, laconica. «Fra tre notti, mio marito sarà vendicato.» L'anziano Ran la seguì con lo sguardo mentre si allontanava, e scosse la testa saggiamente. «Un marito sottoterra è meglio che rimanga dov'è», mormorò. «Molte donne hanno imparato questa lezione a proprie spese.» I tre giorni passarono in fretta; la sera del terzo giorno portò la neve, che cadeva fra gli alberi della foresta portata da un vento forte, che fischiava sul tetto del mondo. In una notte così, solo una bestia sarebbe stata capace di uscire. «Avanti, Vic», disse Indra, dopo che la porta si fu rinchiusa alle loro spalle. Il lupo conosceva bene la voce e le parole della padrona, e obbedì non appena fu sciolto, mettendosi a trottare davanti a lei. Lei lo seguiva da presso, intabarrata nelle pelli di lupo, coi gambali di pelo e la lancia da caccia in mano. Ora la neve cadeva più fitta, formando dei mulinelli, ma il grosso lupo proseguiva diritto, poiché conosceva bene la strada. Infine giunsero in una zona di bosco più fitta; a mezzo tiro di freccia c'era l'alloggio del Re, illuminato da una lanterna. Nascosti dagli alberi, si avvicinarono ancora di più all'edificio. Vic si fermò accanto a una roccia frastagliata che si stava coprendo rapidamente di neve. Indra vi posò la mano, e la roccia scivolò di lato. Vic si lanciò nel varco aperto, ma Indra lo richiamò a sé. Il lupo obbedì, mugolando il suo
entusiasmo represso; il suo istinto assassino era ormai sveglio. Indra discese alcuni gradini, percorse una galleria, poi salì per degli altri gradini, rapidamente e nell'oscurità totale. Quindi vide un minuscolo barlume di luce, e si fermò. Percorrendo un passaggio segreto che era stato costruito per le emergenze, Indra si trovò nei quartieri del Re. Lei era l'unica persona ancora in vita che conoscesse quel passaggio. Indra toccò un pannello che scivolò di lato, aprendole alla vista la stanza centrale, dove un fuoco enorme si andava spegnendo piano piano. La luce del fuoco mostrava una serie di figure male illuminate vicino alla porta. Udì una voce: la voce del Re Savastri. «No, no! Starò qui con due guardie e i cani. Voialtri andate alle capanne e fate la guardia all'esterno! Quella donna non può prendermi in giro così. Nemmeno se fosse la donna più bella del mondo, potrebbe costringermi a mettermi in salvo mentre i miei Capitani corrono dei pericoli. Starò qui ad aspettare il Lupo Mannaro. Voialtri fate la guardia all'esterno. Andate!» Gli uomini lo lasciarono, borbottando e protestando. Uno di loro fece un commento spiritoso. «Già», rispose il Re, con un tono di voce stranamente vibrante. «Dalla prima volta che ho visto quella donna, il mio cuore è stato suo. Non voglio nessun'altra, vi dico! Non ce n'è un'altra uguale al mondo: nessun'altra è adatta a me, e basta. Buonanotte!» Indra udì queste parole, e rimase senza fiato dalla rabbia. Vic cominciò a ringhiare, ma la padrona lo ridusse al silenzio con una parola e un gesto. «I cani sono agitati: fiutano qualcosa», disse una voce. Lei vide una guardia con due cani lupo, ma di certo più piccoli di Vic. «È possibile», disse il Re. «Voi due mettetevi nella stanza più esterna, coi cani. Io dormirò nell'altra stanza. Tenete una luce sempre accesa.» La lampada di alabastro fu portata via, e l'ambiente rimase illuminato soltanto dalla luce rossa del fuoco. Poco dopo, Indra si appoggiò alla porta nascosta, che si aprì. Intorno al collo di Vic c'era un grosso collare di pelle di lupo, dello stesso colore della sua; lei lo afferrò, poi entrarono insieme nella stanza in penombra. Indra non esitò. Si trovava da sola in quel palazzo con tre uomini. Due di loro, coi cani, dovevano morire prima che lei potesse attuare il suo proposito di uccidere Savastri. Sapeva dov'erano le stanze in cui si trovavano, e siccome le ripugnava uccidere degli uomini nel sonno, si diresse verso di loro, nelle due stanze da letto in fondo all'atrio. A un certo punto si fermò, accucciandosi. La porta della prima stanza
era socchiusa; una lama di luce attraversò l'atrio e si udì la voce di un uomo. «Te lo dico io, i cani fiutano qualcosa: guardali! Porta la lampada. Facciamo un giro per il palazzo. Io terrò i cani al guinzaglio.» I cani ringhiavano e guaivano; il pelo di Vic si rizzò sotto la mano di Indra, e dalla sua gola uscì un suono profondo e selvaggio. Uno degli uomini uscì fuori, con la lampada in mano. Si fermò, poi mise il lume su una mensola. «Ho dimenticato l'arco», disse. «Va' avanti tu. Io ti seguirò con la lampada.» Tornò dentro. Uscì l'altro, con i due cani che tiravano i guinzagli. Improvvisamente presero ad abbaiare furiosamente: avevano avvertito la presenza di Vic. Indra vide che era arrivato il suo momento. «Prendili, Vic!», ordinò, lasciandolo libero. La sagoma gigantesca si lanciò sui cani. La guardia lanciò un urlo terribile; si affrettò a liberare i cani, ma li aveva tenuti legati un attimo di troppo. Vic fu loro addosso col suo ringhio assassino, e le fauci così veloci che l'occhio non riusciva a seguirle. Le tre sagome si fusero in una, una massa di ferocia e lotta, dove volavano ciuffi di pelo e gocce di sangue luccicanti. Indra si lanciò in avanti. La guardia, sguainata la lunga spada, colpì gli animali che lottavano. Un cane era già morto, l'altro era a terra. La guardia vide Indra, e si girò facendo un affondo con la lama. La lancia di lei lo trapassò da parte a parte: Indra la tirò a sé mentre l'uomo cadeva. Il secondo cane era in preda agli spasimi della morte, e Vic era in piedi, con gli occhi fiammeggianti e il muso che grondava sangue. La seconda guardia uscì di corsa, con l'arco teso e la freccia incoccata. Vedendo Indra, fece un passo indietro. Vic gli si buttò addosso, e l'arco scoccò una freccia; l'animale afferrò una seconda freccia, e la lanciò. Entrambi i dardi trapassarono la gola del lupo, penetrando nel cervello. Tuttavia il balzo dell'animale prese in pieno l'uomo. Persino nell'attimo della morte, la bestia mordeva e strappava coi denti crudeli. La guardia fu spinta all'indietro, e i denti dell'animale morente gli aprirono la gola e il petto. «Vic! Vic!» Indra si gettò sul lupo, gridando, e si inginocchiò nella pozza di sangue. La testa del lupo si alzò leggermente. I suoi occhi la guardarono, poi lasciò cadere il capo, per non rialzarlo mai più. Era morto. Il silenzio e l'odore del sangue caldo calarono sulla scena. «Così, gli uomini e le bestie si tengono compagnia sulla strada dei fanta-
smi!», disse una voce divertita, calma e posata: era la voce del Re Savastri. Indra si era rialzata, brandendo la lancia, e si gettò in avanti. Savastri stava sulla porta, con un coltello nella mano sinistra e una lunga frusta arrotolata nella destra. Portava una veste scarlatta ed era a capo scoperto. Lei gli si avventò come un lampo di rabbia. Puntò la lancia dritta al cuore, sferrando un colpo mortale; ma l'arma fu respinta dall'armatura nascosta dalla veste. La frusta la colpì al viso, seminascosto dal cappuccio di pelle di lupo. Sebbene accecata e barcollante, Indra brandì ancora la lancia e colpì. La frusta si attorcigliò sull'arma e gliela strappò di mano, facendola cadere a terra. Sul corpo e sulle braccia di Indra arrivarono nuove frustate brucianti. Savastri la colpiva con intenzione, freddo e determinato, ma veloce. Indra lanciò un urlo, poi si lanciò su di lui con ferocia selvaggia. Savastri la evitò, afferrò la testa di lupo sul cappuccio e la tirò all'indietro. Ne uscì la massa dorata dei capelli di lei. Savastri la colpì alla testa col pesante manico della frusta. Indra cadde senza un grido e rimase al suolo, inerte. «Dunque!», disse Re Savastri, guardandola in viso. «Proprio come sospettavo. Ma ora devo capire da dove entravano, lei e quell'animale.» Afferrò la lampada e, cercando di evitare le macchie di sangue sul pavimento, si diresse alla sala grande, dove trovò la porta segreta socchiusa. Tornò rapidamente sui suoi passi, e trascinò la grande carcassa di Vic nella sala, verso la porta segreta. Persino per un uomo robusto come lui, non era certo un'impresa agevole. Recise quindi il collare del lupo e lo conservò. Poi spinse la carcassa nel passaggio segreto, e ne richiuse la porta. Tornato sul terribile teatro della battaglia, sollevò Indra e la portò nella stanza in fondo alla sala: la donna respirava forte, e sarebbe rimasta priva di conoscenza ancora per un bel po'. Poco dopo il Re Savastri aprì la porta del padiglione e suonò il corno. Le guardie arrivarono di corsa. Scelse alcuni Capitani, e li portò con sé nella sala insanguinata, mostrando loro ciò che era capitato. «Il lupo è venuto e se n'è andato», disse, mostrando loro il collare. «Vedete questo? Ora venite a vedere chi lo portava. Le storie che vi hanno raccontato erano vere.» Savastri li portò alla stanza in fondo alla sala. Là, su un letto, giaceva Indra, priva di sensi. Ora era vestita di una lunga veste che le aveva messo Savastri, dopo aver nascosto le pelli di lupo. I Capitani la guardarono muti, e Savastri fece loro cenno di uscire.
«Ecco il collare», disse a uno di essi. «Gettalo nel fuoco: così non potrà mai più trasformarsi in lupo. Anzi, rimarrà Regina!» Quando Indra aprì gli occhi, era giorno, e dalla finestra si vedevano cadere dei fiocchi di neve. Si trovava nel suo letto, in quella che un tempo era stata la sua stanza nel padiglione reale, ed era coperta di morbide pelli. Al suo fianco c'era il Re Savastri, che le era stato vicino per medicarle la ferita e bagnarle il viso con un panno umido. Ora sì era allontanato un po', e la guardava. Lei lo fissò. I ricordi le tornarono tutti insieme, eppure il trovarlo lì, accanto a sé, l'aveva fatta ammutolire. Cercò di parlare, ma non vi riuscì. Lui sorrise, si piegò in avanti e riprese a inumidirle la fronte col panno: aveva le dita abili, e molto delicate. «Sembra che tu abbia fatto un brutto sogno», disse, senza darvi troppo peso. «Da quando le mie guardie ti hanno trovata vagare nella foresta, non fai che parlare di lupi.» Gli occhi di lei si dilatarono. «Lupi?», sussurrò. «Vagavo? Demonio! Che scherzo è questo? Sai benissimo...» «Taci», la zittì il Re. «Taci e lascia parlare me, per qualche istante. Ecco: se può farti sentire meglio, gioca con questo», e le mise in mano un lungo pugnale, poi si alzò in piedi e andò alla finestra. Lei afferrò il pugnale, e lo guardò con gli occhi fiammeggianti. «Qualsiasi cosa tu possa pensare», disse il Re con calma, «sei stata trovata nella foresta dalle mie guardie e portata qui. Come sei arrivata nella foresta, e perché hai lasciato il tuo castello, non ha importanza. Se hai la tentazione di ricordare altro, mia cara Signora, non era che un brutto sogno. Dobbiamo dimenticarlo. Sono felice che tu sia qui, perché ho qualcosa da dirti.» Lei giaceva immobile sul letto come un animale in trappola, tesa e all'erta. Savastri le si avvicinò sorridendo. «Indra, questo mio popolo è incolto, selvaggio: un'accozzaglia di barbari, e anch'io sono un barbaro. Ma io arrivo a capire che tutta la civiltà e le bellezze della tua razza ariana stanno scomparendo fra le mani della mia gente; tutta questa vostra bella terra sta ridiventando una giungla. Io voglio che tu salvi questa terra, e so che puoi farlo. Tu lo giudichi un insulto quando dico di amarti, di volerti sposare perché sei l'unica donna che conosco che sia adatta a diventare la mia Regina e mia moglie. Ma c'è un'al-
tra ragione. La nostra gente, e tuo figlio Shiva.» Quel nome la colpì e la calmò, aumentando il suo interesse per quel discorso. «Sposami», continuò con voce calma. «Lascia che la tua gente si mescoli alla mia, lascia che tengano tutto ciò che possiedono e anche di più, che insegnino alla mia gente gli inni vedici, la vostra religione, il vostro modo di vivere, i vostri mestieri e le vostre arti. Ciò che rimane della tua gente sarà di nuovo grande, assieme alla mia. Potrebbero costituire una setta, una casta a parte. Una casta superiore, non degli schiavi! Io non ho figli che mi succedano, Indra», continuò. «Ma se ti avessi per moglie, avrei anche un figlio, un figlio per di più che i miei sudditi adorerebbero come un dio. Lascia che io adotti tuo figlio e che lui sia il futuro Re di questa gente. Non fui io ad uccidere suo padre, ma uno dei Capitani uccisi dal tuo lupo.» «Il mio lupo!» Gli occhi di lei si spalancarono di nuovo, e la sua voce cambiò tono. «Ah! Il tuo triste gioco è finito, dunque!» «Per gli dèi, non sto giocando!» Preso da un impeto improvviso, si avvicinò rapidamente al letto e la guardò, accalorato. «Tu non menti, Indra; facesti un giuramento per la tua gente, ma in esso non si faceva parola della tua persona. Fu proprio questo che mi fece sospettare. E cosa mi dicesti? Che mi avresti sposato solo sul letto di morte? Be', ora eccoti sul letto di morte: morte per te, per tuo figlio e per tutta la tua gente, se così decidi.» Savastri si lasciò cadere sul letto accanto a lei, e allargò le braccia. «Hai un coltello: usalo!», disse, sincero e con voce rotta. «Devi solo scegliere. Ecco qua la mia gola: uccidimi, se vuoi, se ciò potrà soddisfarti! Io ti adoro, Indra, con tutto il cuore. Ti offro me stesso: uccidimi, oppure prendimi... E con me, la vita di tuo figlio», aggiunse in fretta, vedendo la mano di lei muoversi e il bagliore del pugnale. «Invece della morte e dell'ignominia, lui avrà onore e una corona. La tua gente avrà la vita, invece della morte, e questo paese risorgerà, se tu lo vuoi! Ti offro un futuro di gloria, degno di te, e il Principe Shiva sarà uno dei nostri dèi. Ma se lo desideri, uccidimi. Non c'è nessuno che possa fermarti.» Con una mano si coprì il volto con un lembo della veste, e attese. Il silenzio della stanza era rotto solo dal frusciare dei rami all'esterno. Savastri udiva solo il respiro rapido e affannato di lei, ma nessuna parola uscì dalle labbra della donna. Improvvisamente lei si mosse, inspirando come per affondare il pugnale; ma non lo fece.
Il pugnale cadde a terra. La mano di lei cercò quella di Savastri. L'immagine si fece sfuocata e scomparve. Tornò visibile la parete di pietra, la luce gialla si affievolì e si riaccesero le luci della stanza. Norman Fletcher si girò verso di noi, con gli occhi pieni di stupore e sbigottimento. «Che io sia impiccato!», sbottò. «Questo non era ciò che credevo di mostrarvi. Non è la stessa cosa. Questa macchina mi sta giocando degli scherzi! Ma, dico! Avete capito il significato di ciò che abbiamo appena visto? Le implicazioni storiche ed etnologiche?» «Certo!», disse la signorina Stephens, arrossendo di eccitazione. «Una scena della fine della razza ariana, sugli altopiani dell'Asia, prima degli inizi della storia! E la leggenda del Lupo Mannaro, che stranamente sembra essere una leggenda puramente ariana, una specie di mito razziale!» Fletcher la fissò. «Be', poteva andare peggio», disse piano. «Ora capisco perché Hartmetz mi ha detto che la lingua era una forma di Sanscrito. Aveva ragione, maledizione! Mi dispiace che abbiate visto tutto ciò», disse, scusandosi. La signorina Stephens scosse impercettibilmente il capo. «Perché?», disse con calma. «Per me, tutto ciò è stato affascinante, sul serio! Tutto ciò che ho visto.» Mentre accompagnavo a casa la signorina Stephens, le chiesi che cosa ne pensava onestamente. «Oh!», disse, con il suo fare modesto che, ora lo avevo capito, modesto non era affatto, ma piuttosto blasé. «Non ci ho creduto nemmeno un momento. Penso che stesse solo cercando di impressionarmi.» «Davvero!», dissi, non senza sarcasmo. «E non ci è riuscito, signorina Stephens?» «Temo», disse, strascicando le parole, «che il povero signor Fletcher non sia al passo coi tempi.» Non aggiunsi altro. TABÙ Taboo di Geoffrey Household The Salvation Of Pisco Gabar And Other Stories, 1939 Ho sentito questa storia da Lewis Banning, l'americano. Ma, visto che anch'io conosco abbastanza bene Shiravieff e ho sentito parte del racconto
da lui stesso, penso di essere in grado di ricostruire con precisione le sue parole. Shiravieff aveva chiesto a Banning di incontrare il Colonnello Romero, e dopo pranzo li condusse, com'è suo costume, nel suo gabinetto di consultazione. Forse sarebbe meglio definirlo il suo studio, dal momento che in quel luogo non vi sono strumenti e smalti bianchi che rendano il visitatore sgradevolmente cosciente del funzionamento del proprio corpo. Del resto, Shiravieff, tra le misteriose abbreviazioni che ha diritto di aggiungere al proprio nome, non ne ha nessuna che implichi una Laurea in Medicina. È una stanza grande e riposante, e la sua armonia è interrotta solo dai trofei di caccia. Il muso di un lupo enorme ghigna al di sopra del camino. E sulla parete di fronte spiccano le belle teste di uno stambecco e di un bisonte. Senza dubbio, Shiravieff li ha appesi al muro deliberatamente. I suoi pazienti, provenienti dalle varie contee, arrivano aspettandosi un guaritore ciarlatano, ma acquistano subito fiducia quando vedono che egli ha ucciso degli animali selvaggi con le sue maniere da gentiluomo. I trofei gli si adattano. Con la sua barbetta a punta e l'ampio sorriso, sembra più un esploratore che uno psicologo. La sua calma imperturbabile non è quella sacerdotale dei medici, è piuttosto la disillusione del viaggiatore e dell'esule, di colui che ha studiato il meglio e il peggio della natura umana e ha scoperto che non esiste una differenza definibile tra i due estremi. Romero prese in antipatia la stanza. Era molto sensibile alle atmosfere, anche se l'avrebbe negato con indignazione. «Un mucchio di donne stupide», brontolò misteriosamente, «che riversano fuori le proprie emozioni.» Naturalmente, erano state riversate molte emozioni proprio nella sedia che lui occupava. Ma poiché Shiravieff doveva la sua reputazione soprattutto ai casi di psicosi traumatica dovuta ai bombardamenti, dovevano essersi seduti su quella sedia anche un mucchio di uomini stupidi. Romero, ovviamente, non l'avrebbe mai detto. Preferiva pensare che l'isteria fosse confinata solo al sesso opposto. Poiché era un latino innamorato dell'Inghilterra, adorava e coltivava il distacco emotivo degli Inglesi. «Vi assicuro che le emozioni sono del tutto inoffensive quando sono fuori dal sistema nervoso», rispose Shiravieff, con un sorriso. «È quando sono dentro che creano problemi.» «Ça! Mi piacciono le persone che nascondono le proprie emozioni», disse Romero. «È per questo che vivo a Londra. Gli Inglesi non sono freddi -
è un'assurdità dire che siano freddi - ma sono ben educati. Non mostrano mai ciò che li ferisce maggiormente. Questo mi piace.» Shiravieff tamburellò il tavolo con un dito, a un ritmo veloce, nervoso. «E che cosa succede se devono mostrare un'emozione?», chiese in tono irritato. «Scuoteteli... scuoteteli, capite? In modo che debbano esprimere le proprie emozioni! Non riescono a farlo, e rimangono danneggiati per tutta la vita.» Nessuno l'aveva mai visto perdere la pazienza. Era una reazione inimmaginabile, come se il vostro medico di famiglia venisse a visitarvi senza i pantaloni. Romero lo aveva evidentemente scosso in profondità. «Li ho scossi, e hanno mostrato una quantità di emozioni», osservò Banning. «Oh, io non mi riferisco alle loro piccole convinzioni», disse Shiravieff con lentezza e gravità. «Scuoteteli con un fatto orribile che essi non possano non vedere, con qualcosa che offenderebbe l'animo di tutti noi. Ricordate quel racconto di de Maupassant a proposito di un uomo la cui figlia fu bruciata viva: la fanciulla ritornò dalla tomba ed egli per tutta la vita conservò quello strano tic che lo prese quando aveva cercato di allontanarla. Be', se quell'uomo avesse gridato o pianto ogni notte, avrebbe potuto guarire dal tic.» «Il coraggio l'avrebbe salvato», dichiarò con superbia il Colonello. «No!», gridò Shiravieff. «Siamo tutti codardi, e la cosa più salutare che possiamo fare è esprimere la paura quando la sentiamo.» «La paura della morte...», cominciò Romero. «Non sto parlando della paura della morte. Non è questo. È il nostro orrore di violare un tabù che ci provoca gli shock. Ascoltatemi. Qualcuno di voi ricorda il caso Zweibergen avvenuto nel 1926?» «Il nome mi è familiare», disse Banning. «Ma non riesco a ricordare... si trattava di un villaggio stregato?» «Mi congratulo con voi per la vostra salute mentale», disse Shiravieff ironicamente. «Riuscite a dimenticare solo ciò che non volete ricordare.» Offrì loro dei sigari e ne accese uno per sé. Poiché fumava di rado, il sigaro lo calmò immediatamente. I suoi occhi grigi scintillarono come se volesse assicurare i suoi visitatori che anche lui era sorpreso del proprio nervosismo. Banning prima non aveva mai capito - così mi disse - che le associazioni anti-fumo avevano ragione nel dire che il tabacco era una droga. «Ero a Zweibergen quell'estate. L'avevo scelta perché volevo restare da solo. Riesco a riposare solo quando sono solo», cominciò Shiravieff senza
preamboli. «I Carpazi orientali erano solitari dieci anni fa: erano tagliati fuori dalle rotte turistiche da troppe frontiere. I magnati ungheresi, che erano soliti andare a caccia nelle foreste prima della guerra, erano scomparsi, e le loro proprietà erano lontane le une dalle altre. Non mi aspettavo di trovare alcuna compagnia civile. Fui deluso di scoprire che una coppia sposata aveva affittato il vecchio capanno da caccia. Naturalmente, erano persone interessanti, ma io non feci alcun approccio nei loro confronti tranne che passare qualche momento in loro compagnia ogniqualvolta ci incontravamo nella strada del villaggio. Lui era inglese e lei americana: una di quelle donne deliziose che sono solo e tipicamente americane. Nessun altro paese è in grado di fondere abbastanza razze da produrle. Il suo sangue, sospettavo, doveva essere in maggior parte slavo. Mi ritenevano un tipo scontroso, ma rispettavano il mio desiderio evidente di privacy... finché tutti noi che eravamo a Zweibergen non desiderammo di avere degli ascoltatori. Allora i Vaughan mi chiesero di cenare da loro. Parlammo solo di argomenti banali durante il pasto, che era, tra parentesi, eccellente. C'erano della carne di cervo e delle fragole selvatiche, se ben ricordo. Prendemmo il caffè sul prato che era davanti alla casa. Sedemmo per un momento in silenzio - il silenzio della montagna - a guardare la vallata. La fitta foresta di pini era molto scura in quel tardo imbrunire. Rocce bianche, isolate, erano sparse tra gli alberi. Sembrava che potessero muoversi da un momento all'altro; come fantasmi di grandi animali che pascolassero sulle cime degli alberi. Poi un cane ululò sulla montagna che ci sovrastava. Allora cominciammo a parlare tutti insieme. Del mistero, naturalmente. Due uomini erano scomparsi in quella foresta da circa una settimana. Il primo dei due veniva da una piccola cittadina che si trovava nella vallata, a dieci miglia di distanza. Stava tornando dopo il crepuscolo da una breve scalata in montagna. Forse era scomparso in un cumulo di neve o in un burrone, perché i sentieri non erano molto sicuri. In quel distretto non c'era nessun club di alpinismo che si occupasse della loro manutenzione. Ma sembrava che fosse stato coinvolto in un incidente meno comune. Era lontano dalle cime più alte. Un pecoraio che era accampato su una delle montagne più basse, gli aveva augurato la buona notte, e l'aveva visto scomparire tra gli alberi nella sua discesa a valle. Quella era l'ultima volta che era stato visto. L'altro apparteneva al gruppo dei soccorritori che era partito il giorno se-
guente. Era rimasto fermo a fare da punto di riferimento, mentre il resto del gruppo batteva i boschi verso di lui. Era l'ultima battuta, ed era già scuro. Quando il gruppo era arrivato alla sua postazione, lui non c'era più. Tutti sospettavano i lupi. Dal 1914 non c'erano state più battute di caccia nelle riserve, e la vita animale di ogni genere era abbondante. Ma i lupi non giravano a branchi, e le squadre di soccorritori non trovarono nemmeno una traccia di sangue. Non c'erano orme che potessero aiutare. Non c'era segno di lotta. Vaughan suggerì che si stava costruendo un mistero sul niente. Probabilmente i due uomini si erano stancati della routine domestica, e avevano colto al volo l'opportunità di scappare. Ormai, credeva lui, dovevano essere già in cammino per l'Argentina. Quel suo gelido rifiuto della tragedia era disumano. Sedeva, lì, altero, distante, forte e indifferente. Il suo viso era quello tipico e gradevole degli appartenenti all'alta borghesia. Solo la bocca ferma e le narici sottili e sensibili mostravano che aveva una sua propria personalità. Kyra Vaughan lo guardò con disprezzo. "Lo pensi veramente?", chiese. "Perché no?», rispose lui. "Se quegli uomini fossero stati uccisi, avrebbe dovuto esserci qualche creatura ad aggirarsi furtiva in cerca di preda. Ma non c'è niente del genere." "Se vuoi credere che quei due uomini non sono morti, credilo pure!", disse Kyra. La teoria di Vaughan che i due uomini erano scomparsi volontariamente era, naturalmente, assurda. Ma l'improvvisa freddezza che la moglie espresse nei suoi confronti, mi sembrava eccessivamente intollerante. Capii tutto quando lo conobbi meglio. Vaughan - i vostri riservati Inglesi, Romero! - stava nascondendo i propri pensieri e le proprie paure, e sceglieva, del tutto inconsciamente, di apparire stupido piuttosto che rendere visibile la propria ansia. La moglie aveva intuito la sua falsità, pur senza capirne la causa, e ciò la rendeva furiosa. Erano una coppia strana, quei due: intelligenti, colti, e così interessati l'uno all'altro che avevano bisogno di più di una vita per soddisfare la loro curiosità. Lei era una creatura ipersensibile, con vividi occhi marroni e un corpo snello e agile che sembrava crescere come un fiore dalla terra sotto i suoi piedi. Ed era spontanea! Non voglio dire che non sapesse recitare. Lo sapeva fare ma, quando lo faceva, era voluto. Era indifesa davanti alle sofferenze e alle gioie altrui, e non tentava di nasconderlo.» «Oh, signore! In un giorno viveva le stesse emozioni che suo marito vi-
veva in un anno!» «No, lui non era privo di emozioni. Quei due erano molto simili, benché non lo si sarebbe detto. Ma lui si vergognava delle lacrime e del riso, e aveva corazzato la propria anima contro di loro. A un osservatore superficiale, appariva il più calmo dei due ma, nel fondo dell'anima, era un estremista. Avrebbe potuto essere un poeta, un San Francesco, un rivoluzionario. Ma lo era? No! Era un inglese. Sapeva di correre il pericolo di essere sommerso dalle emozioni, di abbandonare loro la propria vita. E allora? E allora bilanciava ogni idea con un'altra, e si assicurava la pace vivendo tra i due piatti in equilibrio. Lei, naturalmente, saltava sempre sull'uno o sull'altro piatto della bilancia. E lui l'amava per questo. Ma l'atteggiamento indifferente di lui le dava ai nervi.» «Lei non aveva torto, secondo voi», disse Romero con indignazione. Tutte le sue simpatie andavano a favore dello sconosciuto inglese. Lo ammirava. «L'adoravo», disse Shiravieff con sincerità. «Tutti l'adoravano. Rendeva la vita di chiunque più intensa. Non pensate, però, che sottovalutassi suo marito. Non potevo impedirmi di vedere come funzionassero i suoi meccanismi mentali, ma lo apprezzavo. Era un uomo di cui potersi fidare, ed era anche di buona compagnia. Un uomo d'azione. Quello che faceva aveva poco a che vedere con le opinioni che esprimeva. Be', dopo quella cena con i Vaughan, non avevo più voglia di trascorrere una vacanza solitaria; perciò feci la migliore cosa possibile, e partecipai attivamente a tutto quello che stava accadendo. Sentii tutte le chiacchiere, perché mi trovavo nel miglior posto per ascoltare: la locanda del villaggio. La sera, spesso raggiungevo il magistrato del distretto che sedeva in giardino davanti ad un boccale di birra a leggere tutte le deposizioni che aveva raccolto quel giorno. Era un funzionario molto solido, il migliore tipo d'uomo per un caso del genere. Una persona più fantasiosa si sarebbe formata delle teorie, avrebbe trovato le prove che vi si adattavano, e avrebbe solo accresciuto il mistero. Non voleva discutere il caso. No, non temeva indiscrezioni. Semplicemente, non aveva niente da dire, ed era abbastanza lucido da capirlo. Ammetteva di non sapere di più dei paesani, le cui deposizioni riempivano le sue cartelle. Ma era pronto a parlare di qualsiasi altro argomento - soprattutto di politica - e le nostre lunghe conversazioni mi procurarono la fama presso i paesani di un uomo saggio e profondo. Mi consideravano quasi un pubblico ufficiale.
Perciò, quando scomparve il terzo uomo, questa volta dallo stesso Zweibergen, il sindaco e il poliziotto del villaggio vennero da me per avere istruzioni. Era scomparso il droghiere del paese. All'imbrunire si era addentrato nella foresta con la speranza di catturare un fagiano. La mattina dopo il negozio era chiuso: solo allora si seppe che non era tornato. Uno sparo solitario era stato sentito intorno alle 22,30 quando, presumibilmente, il droghiere si stava dirigendo verso casa. Tutto quello che potei fare, in attesa dell'arrivo del magistrato, fu mandare delle squadre di soccorso. Battemmo la foresta in ogni direzione, ed esaminammo ogni sentiero. Vaughan e io, con uno dei paesani, salimmo al mio posto preferito per i fagiani. Era lì, pensavo, che si sarebbe dovuto recare il droghiere. Poi ispezionammo ogni passo del viottolo che avrebbe dovuto prendere per tornare al villaggio. Vaughan sapeva seguire una pista. Era uno di quei sorprendenti inglesi che si conoscono per anni, senza sapere che un tempo c'erano uomini di colore in Africa, a Burma o nel Borneo, che lo conoscevano ancora meglio, organizzavano battute di caccia per lui, e lo ritenevano più giusto dei loro dèi, ma non più comprensibile. Avevamo percorso circa quattro miglia, quando mi sorprese mostrando un interesse improvviso per il sottobosco. Fino a quel momento ero stato tanto stupido da pensare che non stesse facendo assolutamente niente. "Qualcuno si è allontanato dal sentiero in questo punto", disse. "Aveva molta fretta. Mi chiedo perché." A pochi metri dal sentiero c'era una roccia bianca alta circa nove metri. Era scoscesa, ma delle cornici sporgenti fornivano un agevole appiglio per scalarla. Ai suoi piedi, una sorgente d'acqua calda gorgogliava da una cavità poco più grande della tana di una volpe. Quando Vaughan mi mostrò le tracce, vidi che la macchia, che cresceva tra le rocce e il sentiero, era stata scostata con violenza. Ma feci notare che nessuno avrebbe mai lasciato il sentiero per inoltrarsi in quella boscaglia. "Quando si sa di essere inseguiti, si preferisce avere intorno uno spazio aperto», rispose Vaughan. "Sarebbe molto confortante essere sulla sommità di quella roccia con un fucile in mano, se si riuscisse a raggiungerla. Saliamo." La cima era di nuda roccia, e dalle fessure spuntavano piante rampicanti di edera. A tre metri dall'orlo, c'era un alberello, che cresceva in una sacca di terreno. Un lato della sua base era frantumato e scheggiato. Aveva preso in pieno parecchie pallottole. Il paesano si fece il segno della croce. Mor-
morò: "Si dice che c'è sempre un albero tra te e lui". Ghi chiesi chi fosse quel "lui". Non rispose subito, ma giocò con noncuranza con il suo bastone da passeggio, e come se si vergognasse, finché la punta d'acciaio non fu tra le sue mani. Allora bisbigliò: "Il Lupo Mannaro". Vaughan rise e indicò i buchi delle pallottole che erano a una ventina di centimetri dal terreno. "Questo Lupo Mannaro deve essere un cucciolo, se arriva a questa altezza", disse. "No, il fucile del droghiere ha sparato quando lui è caduto. Forse era inseguito troppo da vicino quando si è arrampicato sulla roccia. Il suo corpo deve essere caduto in questo punto." Si inginocchiò ad esaminare il terreno. "Che cos'è questo?", mi chiese. "Se è sangue, deve avere qualcosa a che fare con questa faccenda." C'era solo una macchiolina sulla nuda roccia. La guardai. Senza dubbio, si trattava di materia cerebrale. Fui sorpreso che non ce ne fosse di più. Immaginavo che provenisse da una profonda ferita alla testa. Probabilmente era stata provocata da una freccia, dal becco di un uccello, o forse da un dente. Vaughan si lasciò scivolare lungo la roccia, e infilò il bastone nella melma sulfurea della sorgente. Poi frugò tra i cespugli come un cane. "In questa direzione non c'è nessuna traccia di un corpo trascinato", disse. Esaminammo il lato più lontano della roccia. Cadeva a picco, e sembrava impossibile che vi si potessero arrampicare uomini o animali. L'orlo era coperto da una vegetazione intricata. Ero propenso a credere che gli occhi di Vaughan avrebbero potuto scoprire se qualcosa si era diretta da quella parte. "Nemmeno una traccia!", disse. "Dove diavolo è andato a finire il corpo?" Noi tre sedemmo in silenzio sul bordo della roccia. La sorgente gorgogliava e piangeva sotto di noi, e i pini mormoravano al di sopra. Non c'era bisogno di quella particella di sostanza umana, riconoscibile solo all'occhio di uno psicologo, per dirci che eravamo sulla scena di un delitto. Immaginazione? Spesso l'immaginazione è solo un istinto dimenticato. L'uomo che aveva corso su quella roccia si era chiesto, in preda al panico, perché si fosse abbandonato alla propria immaginazione.
Quando ritornammo trovammo il magistrato nel villaggio e gli riferimmo la nostra scoperta. "Interessante! Ma che cosa significa?", disse. Gli feci osservare che almeno sapevamo che l'uomo era morto o moribondo. "Non c'è nessuna prova sicura. Mostratemi il suo corpo. Ditemi almeno un motivo per ucciderlo." Vaughan insisteva nel dire che si trattava dell'opera di un animale. Il magistrato non era d'accordo. Se fosse stato un lupo, avremmo avuto qualche difficoltà a rimettere insieme il corpo, ma nessuna a trovarlo. E, per quanto riguardava un orso... be', sono così innocui che l'idea era ridicola. Nessuno credeva che si trattasse di un animale in carne e ossa, perché tutta la zona era stata battuta. Ma nel villaggio si raccontavano delle storie: storie antiche. Non avrei mai immaginato che quei paesani accettassero tanti orrori come dati di fatto, se non avessi udito quelle storie alla locanda del villaggio. La cosa strana è che non potevo affermare allora, e non posso dire ora, che fossero completamente in errore. Avreste dovuto vedere l'espressione degli occhi di quegli uomini quando il vecchio Weiss, il guardacaccia, narrò che spesso suo nonno aveva fatto fuoco contro un lupo grigio che incontrava nei boschi al crepuscolo. Non l'aveva mai ucciso finché non aveva caricato il fucile con pallottole d'argento. Allora il lupo era scomparso dopo il primo sparo, ma Heinrich il ciabattino era stato trovato moribondo nella sua casa con un dollaro d'argento infilato nel ventre. Josef Weiss, suo figlio, che faceva la maggior parte del proprio lavoro nelle riserve di caccia e si faceva vedere di rado nel villaggio, a meno che non scendesse a vendere qualche sella di cervo, era indignato con suo padre. Era un uomo dalla costituzione robusta e dal carattere burbero, che aveva letto qualcosa. Non c'è nessuno più intollerante circa le superstizioni di chi ha una cultura approssimativa e superficiale. Vaughan, naturalmente, era d'accordo con lui. Ma poi superò gli orrori delle storie raccontate dai paesani con dei racconti spaventosi tratti dal folklore locale e dalla letteratura medievale. Non potei impedirmi di notare che doveva aver meditato a lungo su quell'argomento. I paesani lo presero sul serio. Andavano e venivano a coppie. Nessuno voleva uscire nella notte senza un compagno. Solo il pecoraio non aveva paura. Prestava fede ai racconti, ma era un mistico. Aveva l'abitudine di camminare nei boschi di notte. "Bisogna diventare in parte come quelle creature, signore", mi disse, "al-
lora non si temono più. Io non dico che un uomo possa trasformarsi in lupo - che la Vergine Santa ci protegga! - ma so perché vorrebbe farlo." Era un'affermazione interessantissima. "Penso di saperlo anch'io", risposi. "Ma che cosa si prova?" "È come se i boschi vi entrassero dentro, e voi voleste diventare un animale selvatico e camminare a quattro zampe." "Ha perfettamente ragione", disse Vaughan con convinzione. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. I paesani si allontanarono da Vaughan, e due di loro andarono a soffiare sul fuoco per distogliere lo sguardo dai suoi occhi malvagi. Sembrava che aveva troppa familiarità con la Magia Nera. "E voi come lo spiegate?", chiese Vaughan, rivolgendosi a me. Gli dissi che avrebbero potuto esserci una decina di motivi diversi, proprio come la paura del buio ha varie cause. E anche la fame fisica poteva avere qualcosa a che fare con quel fenomeno. "Penso che la nostra psicologia moderna tenda a dare troppa importanza al sesso. Dimentichiamo che l'uomo è, oppure era, un animale predatore, rapido e fornito di tutti gli istinti necessari." Non appena menzionai la fame, si alzò un coro di assensi, sebbene essi non capissero veramente di che cosa parlavamo io, Vaughan e il pecoraio. La maggior parte di quegli uomini aveva provato la fame. L'albergatore ricordò la carestia temporanea che c'era stata durante la guerra. Il pecoraio ci disse che una volta aveva passato una settimana sospeso su un dirupo prima che qualcuno lo trovasse. Josef Weiss, ansioso di lasciare gli argomenti soprannaturali, raccontò la sua esperienza di prigioniero di guerra in Russia. Con i suoi compagni era stato dimenticato in una fortezza abbandonata, mentre le guardie erano impegnate nella rivoluzione. Quei poveri diavoli avevano vissuto in condizioni veramente disperate. Per un'intera settimana, Vaughan e io girammo con le squadre di soccorso notte e giorno. Intanto Kyra era impegnata a confortare le donne del paese. Non potevano fare a meno di amarla, eppure avevano il vago sospetto che lei stessa fosse implicata in quel mistero. Non le biasimo per questo. Non si può pretendere che comprendessero la sua spiritualità intensa. Per loro, lei era come una creatura di un altro pianeta, affascinante e terrificante. Senza volerle attribuire alcun potere soprannaturale, non ho dubbi che Kyra avrebbe saputo dire passato, presente e futuro di quelle paesane, molto meglio di una zingara. Il nostro primo giorno di riposo lo trascorsi con i Vaughan. Io e lui era-
vamo ristorati da dodici ore di sonno, ed eravamo certi che avremmo potuto trovare una nuova soluzione che spiegasse il mistero. Kyra si unì alla discussione. Riesaminammo le vecchie teorie, ma non riuscivamo a fare nessun progresso. "Saremo costretti a credere alle storie che si raccontano nel villaggio", dissi alla fine. "E perché no?», chiese Kyra Vaughan. Entrambi protestammo. Le chiedemmo se lei ci credeva veramente. "Non sono sicura", rispose. "Che cosa importa? Ma so che il male ha ucciso quegli uomini. Il male...", ripeté. Ne fummo spaventati. Voi sorridete, Romero, ma non potete capire quanto fossimo impressionati da quell'atmosfera. Guardando indietro, capisco quanto avesse ragione. Le donne... buon Dio, afferrano il significato spirituale di qualcosa, e noi le prendiamo alla lettera! Quando lei ci lasciò, chiesi a Vaughan se sua moglie credeva veramente ai Lupi Mannari. "Non esattamente", spiegò. "Lei vuol dire che la nostra logica non ci porta da nessuna parte, e che noi dovremmo cominciare a cercare qualcosa che, se non è un Lupo Mannaro, ha lo spirito di un Lupo Mannaro. Capite: anche se ne vedesse uno, non sarebbe più spaventata di quanto lo sia ora. La forma esterna delle cose la impressiona molto poco." Vaughan apprezzava sua moglie. Non sapeva mai che cosa volesse dire, ma sapeva che le sue metafore avevano sempre un senso, anche se occorreva molto tempo per trovare la correlazione tra quello che lei aveva detto in realtà e il modo in cui noi stessi avremmo espresso il medesimo concetto. Questo, dopotutto, è quello che si definisce intelligenza. Gli chiesi se sapeva che cosa intendesse per Male. "Male?", replicò lui. "Forze del Male... qualcosa che si comporta come non avrebbe il diritto di comportarsi. Lei intende... la possessione. Ecco! Cerchiamo di scoprire a modo nostro che cosa vuole intendere Kyra. Supponiamo che sia un qualcosa di tangibile, e tentiamo di capire di che cosa si tratti." Lui pensava ancora che fosse un animale. La sua caccia aveva avuto successo, e ora che i boschi erano tranquilli, avrebbe ricominciato. Non pensava che fosse stato stanato definitivamente. "Non è stato stanato dalle prime squadre di soccorso", osservò. "Hanno spaventato tutta la selvaggina per miglia e miglia, ma quella creatura ha
ucciso uno di loro. Tornerà, proprio come il leone mangiatore d'uomini torna sempre. E c'è un solo modo per catturarlo: fare da esca!" "E chi farà da esca?", chiesi. "Voi e io." Credo che la mia paura fosse evidente. Vaughan rise. Disse che stavo ingrassando e che sarei stato un'esca molto allettante. Ogniqualvolta faceva battute di cattivo gusto, sapevo che stava parlando seriamente. "Che cosa faremo?", chiesi. "Mi legherete a un albero e farete la guardia con un fucile?" "Esattamente: solo che non ci sarà bisogno di legarvi... e poiché l'idea è mia, voi farete il primo turno con il fucile. Siete un bravo tiratore?" Lo sono, e lo era anche lui. Per verificarlo, dopo cena ci dedicammo al tiro a bersaglio, e scoprimmo che entrambi colpivamo con precisione fino a cinquanta metri alla luce della luna. Kyra detestava le armi da fuoco. Aveva orrore della morte. La scusa di Vaughan non migliorò la situazione. Disse che saremo andati a caccia di cervi la notte successiva e che avevamo bisogno di fare pratica. "Andrete a sparare ai cervi mentre dormono?", chiese disgustata. "Mentre stanno cenando, cara." "Prima, se è possibile", aggiunsi. Detestavo l'ida di offenderla con delle battute che per lei non avevano alcun significato, ma scegliemmo di proposito quel comportamento. Non potevamo dirle la verità e, facendo così, era troppo orgogliosa per fare altre domande. Vaughan scese alla locanda il pomeriggio seguente, ed elaborammo il nostro piano. La roccia era il punto di partenza di tutte le nostre teorie, e su di essa decidemmo di sistemarci per far la guardia. Dalla cima della roccia si aveva una chiara visione del sentiero per una cinquantina di metri in entrambe le direzioni. La vedetta doveva prendere posizione, coperto dall'edera, prima del tramonto e, poco prima delle dieci, l'esca doveva trovarsi sul sentiero e sotto tiro. Doveva passeggiare avanti e indietro, avendo cura di non nascondersi mai alla vista della vedetta, fino a mezzanotte, quando la squadra si sarebbe sciolta. Ritenevamo che la nostra preda, se era dotata di ragione, avrebbe preso l'esca per uno delle squadre di soccorso. La difficoltà stava nel tornare a casa. Dovevamo andarcene separatamente nel caso fossimo osservati, e sperare per il meglio. Infine decidemmo che l'uomo sul sentiero, che avrebbe potuto essere seguito, doveva raggiungere la strada il più velocemente possibile. C'era uno scivolo per il le-
gname abbastanza vicino, attraverso cui avrebbe abbreviato il cammino, e sarebbe sceso in una decina di minuti. L'uomo sulla roccia doveva aspettare un momento e poi tornare a casa attraverso il sentiero. "Be', non vi vedrò fino a domani mattina", disse Vaughan quando si alzò per andarsene. "Voi mi vedrete ma io non vi vedrò. Fischiate una volta, molto piano, quando arriverò al sentiero, così saprò che siete sulla roccia." Disse che aveva lasciato una lettera per Kyra con il testamento in caso di incidente, e aggiunse, con una risata imbarazzata, che gli pareva una stupidaggine. Io pensavo che fosse tutt'altro che una stupidaggine e glielo dissi. Al tramonto ero già sulla roccia. Infilai le gambe e il corpo nell'edera, lasciando la testa e le spalle libere per roteare il fucile. Era un piccolo 300 a canna lunga. Ero certo che Vaughan fosse al sicuro, e la mia mano ferma non avrebbe fallito. La luna sorse, e il sentiero divenne un nastro d'argento davanti a me. C'era qualcosa di tranquillo nel chiaro di luna. Non era la luce. Era uno stato delle cose. Quando si udiva un rumore, era inatteso, come un fremito improvviso nel fianco di un animale che dorme. Un ramoscello scricchiolava di tanto in tanto. Una civetta chiurlò. Una volpe sgattaiolò sul sentiero, guardandosi alle spalle. Desiderai che Vaughan arrivasse. L'edera frusciò dietro di me. Non potevo girarmi. La mia spina dorsale divenne ipersensibile, e mi si rizzarono i capelli sulla nuca come se aspettassi un colpo. Era inutile ripetere a me stesso che non poteva essere altro che un uccello ma, naturalmente, era un uccello. Un succiacapre uscì frusciando dall'edera, e il mio corpo si ricoprì all'improvviso di sudore freddo. Quello spavento infernale mi aveva liberato di tutti i miei vaghi timori. Continuai a sentirmi a disagio, ma ora ero calmo. Dopo qualche momento sentii Vaughan camminare a grandi passi lungo il sentiero. Poi entrò nel mio campo visivo: una figura chiara e netta alla luce della luna. Fischiai piano, e lui agitò una mano per dirmi che aveva sentito. Camminò avanti e indietro, fumando un sigaro. Il puntino luminoso indicava dov'era esattamente la sua testa. Dovunque andasse, io guardavo a un paio di metri alle sue spalle. A mezzanotte fece un cenno della testa verso il mio nascondiglio e camminò rapidamente verso lo scivolo per il legname. Poco dopo presi il sentiero per tornare a casa. La notte seguente i nostri ruoli furono invertiti. Era il mio turno di passeggiare lungo il sentiero. Scoprii che preferivo fare da esca. Sulla roccia avevo desiderato ardentemente avere un altro paio di occhi ma, dopo un'o-
ra sul sentiero, non giravo nemmeno più la testa. Ero contento di affidare a Vaughan il compito di guardarmi le spalle. Solo una volta mi sentii a disagio. Sentii, almeno così mi parve, un uccello lanciare un richiamo dai boschi che erano più sotto. Era uno strano richiamo, quasi un pigolio. Sembrava una breve esclamazione di terrore pronunciata da una donna. Gli uccelli non avevano il mio favore in quel momento. Mi era venuto alla mente un uccello brasiliano che buca la parte posteriore della testa e ne succhia il cervello. Scrutai attraverso gli alberi, verso il basso, e scorsi un guizzo bianco in una radura illuminata dalla luna. Fu visibile solo per un decimo di secondo, e arrivai alla conclusione che doveva essere stato un alito di vento tra l'erba inargentata dai raggi lunari. Quando fu l'ora, discesi lungo lo scivolo per il legname e presi la strada che mi portava a casa. Mi addormentai chiedendomi se non ci fossimo fatti prendere dai nervi. Andai dai Vaughan la mattina dopo. Kyra era pallida e preoccupata. Le dissi subito che doveva riposare di più. "Non lo farà", disse Vaughan. "Non riesce a sopportare i problemi degli altri." "Capite, non riesco a togliermeli dalla mente così facilmente come fate voi", rispose lei provocatoriamente. "Oh, Signore!", esclamò Vaughan. "Non ho intenzione di cominciare un litigio." "No... perché sai che hai torto. Hai dimenticato completamente quella storia orribile?" Presi in mano le redini della conversazione, e la diressi verso argomenti meno pericolosi. Nel farlo, ero cosciente della resistenza che opponeva Kyra. Lei evidentemente voleva continuare a litigare. Mi chiesi il perché. Aveva, senza dubbio, i nervi tesi, ma era troppo stanca per cercare di rilassarsi con un diverbio. Decisi che stava tormentando di proposito suo marito per fargli ammettere come trascorreva le serate. Era proprio così. Prima che andassi via, mi prese da parte con il pretesto di mostrarmi il giardino e imperniò la conversazione sulle nostre spedizioni. Prego Iddio di non trovarmi mai sul banco degli accusati, se il Pubblico Ministero è una donna! A ogni modo, avevo il diritto di porre delle domande a mia volta, e riuscii a sfuggire al suo interrogatorio senza che lei se ne accorgesse. Non potevo farle sapere la verità, ma detestavo l'idea di lasciarla in quella tormentosa incertezza. Esitò un istante prima di salutarmi. Poi mi afferrò per un braccio, e gridò:
"Prendetevi cura di lui!". Sorrisi e le dissi che aveva i nervi troppo tesi, e che non stavamo facendo niente di pericoloso. Che cos'altro avrei potuto dirle? Quella notte, la terza di guardia, i boschi erano pieni di vita. Il mondo che vive al di sotto delle foglie cadute - topi, talpe e grandi scarafaggi - era in preda a un'attività sorprendente. Gli uccelli notturni gridavano. Un cervo tossì lontano nelle foreste che erano più in alto. Soffiava una brezza leggera, e dal mio rifugio sulla cima della roccia vidi che Vaughan cercava di afferrare gli odori portati dal vento. Si accucciò nell'ombra. Un orso attraversò lentamente il sentiero, sopravvento, e cominciò a scavare per dare un bel morso succulento alle radici di un albero. Aveva lo stesso aspetto inoffensivo di un grande cane. Era chiaro che né lui né la sua razza erano la causa della nostra veglia notturna. Vidi Vaughan sorridere, e capii che aveva avuto la stessa idea. Poco dopo le undici l'orso alzò lo sguardo, annusò l'aria, e scomparve nella massa scura del sottobosco così in fretta e così completamente che sembrò che il riflettore che lo illuminava si fosse spento. Uno a uno i rumori della notte cessarono. Vaughan toccò il revolver che aveva in tasca. Il silenzio narrava la sua storia. La foresta aveva messo da parte ogni occupazione, ed era all'erta come noi. Vaughan percorse il sentiero fino a un'estremità. Distolsi per un attimo lo sguardo da lui e, lungo il sentiero, tra gli alberi, i miei occhi colsero quello stesso guizzo bianco della notte precedente. Si voltò per tornare indietro e, mentre si avvicinava alla roccia, lo vidi di nuovo. Un oggetto voluminoso, bianco e soffice, sembrava muoversi in fretta. Mi oltrepassò, dirigendosi verso la misteriosa creatura, e io spostai lo sguardo sul sentiero davanti a lui. La figura arrivò saltellando attraverso i boschi, poi apparve alla luce della luna, e in pochi secondi fu su di lui. Fui salvato soltanto dal fatto che il tiro era estremamente difficile. Aspettai appena una frazione di secondo in più di quanto mi fosse necessario, per esser sicuro di non colpire Vaughan. In quella frazione di secondo, grazie a Dio, lei lo chiamò a gran voce! Era Kyra. Una pelliccia di ermellino bianco e la sua corsa spaventata lungo il sentiero, l'avevano trasformata in una strana creatura. Gli si buttò tra le braccia con il fiato sospeso. La sentii dire: "Ero spaventata. C'era qualcosa che mi seguiva. Lo so". Vaughan non rispose, ma la strinse a sé e le carezzò i capelli. Il labbro superiore gli si scostò dai denti. Per una volta il suo intero essere si era arreso a una sola emozione: il desiderio di uccidere la cosa che l'aveva spa-
ventata. "Come facevi a sapere che ero qui?", chiese. "Non lo sapevo. Ti stavo cercando. Ti ho cercato anche la notte scorsa." "Sei una ragazza pazza e coraggiosa!", disse. "Ma tu non devi, non devi stare da solo. Dov'è Shiravieff?" "Lassù." Indicò la roccia. "Perché non ti nascondi anche tu?" "Uno di noi due deve essere visibile", rispose. Lei comprese immediatamente il significato della risposta di lui. "Torna a casa con me!", gridò. "Promettimi di smetterla!" "Sono al sicuro, cara", rispose lui. "Guarda!" Sento la sua voce ansiosa anche in questo momento, e ricordo le loro esatte parole. Avvenimenti simili si imprimono nella memoria. La condusse sotto la roccia. Con il braccio sinistro l'abbracciava. Tese completamente il braccio destro e mantenne il suo fazzoletto per due angoli. Non mi guardò né alterò il tono della voce. "Shiravieff, disse, "fai un buco nel fazzoletto!" Era solo un espediente teatrale e assurdo, perché il fazzoletto era il più difficile dei bersagli. In qualsiasi altro momento sarei stato sicuro come Vaughan del risultato del tiro. Ma quello che lui non sapeva è che io ero stato così vicino a fare fuoco su un altro bersaglio, bianco e molto più grande. Tremavo tanto che riuscivo appena a tenere il fucile. Premetti il grilletto. Il buco nel fazzoletto era pericolosamente vicino alla sua mano. Vaughan la ritenne una bravata piuttosto che un tiro sbagliato. Il trucco di Vaughan ottenne il suo effetto. Kyra era sorpresa. Non capì quanto fosse facile, tanto meno comprese quanto fosse più difficile colpire un bersaglio mobile scorto in un momento di eccitazione. "Ma lasciami restare con te", lo supplicò. "Dolcezza, torniamo subito a casa. Pensi che abbia intenzione di lasciare vagare solo nei boschi il mio bene più prezioso?" "E che cosa dire del mio?", replicò lei, e lo baciò. Se ne andarono lungo la scorciatoia. La fece camminare un metro davanti a lui, e io scorsi il riflesso della luce lunare sulla canna del suo revolver. Non voleva correre nessun rischio. Ritornai lungo il sentiero, senza prestare molta attenzione, perché ero sicuro che ogni essere vivente era stato spaventato dalle voci e dallo sparo. Ero quasi arrivato, quando mi accorsi di essere seguito. Voi che siete en-
trambi vissuti in strani posti, volete spiegarmi questa sensazione? No? Bene: allora io sapevo di essere seguito. Mi fermai e mi girai a guardare il sentiero. All'istante qualcosa mi oltrepassò nei cespugli, come se volesse tagliarmi la ritirata. Io non sono superstizioso. Una volta che l'ebbi udito, mi sentii al sicuro, perché sapevo dove si trovava. Ero certo di riuscire a muovermi più velocemente lungo quel sentiero di qualsiasi cosa fosse nel sottobosco. E se fosse uscita all'aperto, avrebbe ricevuto cinque pallottole esplosive d'acciaio. Corsi. Non mi parve di essere seguito. La mattina dopo raccontai a Vaughan che cosa era accaduto. "Mi dispiace", disse lui, "ma ho dovuto riportarla a casa. Capite, non è vero?" "Naturalmente", risposi sorpreso. "Che cos'altro potevate fare?" "Be', non mi è piaciuto lasciarvi da solo. Abbiamo ampiamente rivelato la vostra presenza. È vero che dobbiamo aver spaventato ogni bestia, ma tutto quello che sappiamo a proposito di quest'animale è che non si comporta come tale. C'era anche la possibilità che l'avessimo attiratto invece di spaventarlo. Lo prenderemo stanotte", aggiunse con rabbia. Gli chiesi se Kyra aveva promesso di restare a casa. "Sì. Dice che stiamo facendo il nostro dovere, e che non interferirà. Pensate che sia il nostro dovere?" "No!", dissi. "Nemmeno io. Non ho mai pensato che qualcosa che mi diverte possa essere un mio dovere. E, per Dio, io mi diverto ora!" Penso che si divertì ad aspettare sulla roccia quella notte. Voleva vendicarsi. Non c'era motivo di credere che Kyra fosse stata spaventata da niente più della notte e della solitudine, ma Vaughan era infuriato contro l'intero complesso di circostanze che l'aveva spaventata. Voleva fare da esca invece che da vedetta, credo, con la folle speranza di mettere le mani addosso al nemico. Ma non glielo permisi. Dopotutto, era il mio turno. Esca! Mentre camminavo su e giù lungo il sentiero, quella parola continuava a ricorrere nella mia mente. Si sentì un rumore. L'unica cosa in movimento era la luna che passava da una cima di un albero all'altra mentre la notte avanzava. Immaginai Vaughan sulla roccia, con il mirino del fucile che strisciava davanti e indietro in un semicerchio per seguire i miei movimenti. Visualizzai la linea della sua mira come un filo di luce che scendeva e mi passava davanti agli occhi. Una volta sentii Vaughan tossire. Capii che aveva notato il mio nervosismo e mi stava rassicurando. Ero accanto a una macchia di cespugli, a una trentina di metri di distanza, e guar-
davo una foglia inargentata che tremava al passaggio di un insetto. Fiato caldo sulla nuca, un peso schiacciante sulle spalle, qualcosa di duro sulla parte posteriore del cranio, il crepitio del fucile di Vaughan, furono azioni istantanee, ma non tanto rapide da impedirmi di conoscere tutto l'orrore della morte. Qualcosa balzò lontano da me, e si infilò nella sorgente che era al di sotto della roccia. "State bene?", gridò Vaughan, scendendo a precipizio lungo l'edera. "Che cos'era?" "Un uomo. L'ho colpito. Andiamo! Voglio seguirlo!" Vaughan era un folle. Non ho mai visto un tale sprezzo del pericolo. Tirò un profondo respiro, e si afferrò al buco della sorgente come se si trattasse delle caviglie di un uomo. Con la testa e le spalle si infilò nel fango della cavità, tenendo il suo Winchester davanti a sé. Se non riusciva a sgusciare rapidamente senza respirare, sarebbe stato soffocato dai vapori sulfurei o sarebbe annegato. Se il suo nemico lo aspettava, era un uomo morto. Scomparve, e io lo seguii. No, non avevo alcun bisogno di essere coraggioso. Ero coperto dall'intera lunghezza del corpo di Vaughan. Ma fu un momento tremendo. Non avremmo mai immaginato che qualcosa potesse entrare e uscire attraverso quella sorgente. Immaginate di trattenere il respiro, e di tentare di strisciare in una sorgente di acqua calda, usando le spalle e i fianchi come un serpente, senza sapere se al ritorno la strada sarà sbarrata. Infine, riuscii a sollevarmi sulle mani e a tirare un respiro. Vaughan si era alzato e stava in piedi, con una torcia in mano. "L'ho preso!", disse. Eravamo in una bassa caverna al di sotto della roccia. Dalle fessure della volta proveniva aria. Il pavimento era di sabbia asciutta, perché il ruscello di acqua calda affluiva in una caverna vicina alla sorgente da cui nasceva. Un uomo giaceva a terra all'altra estremità della caverna. Ci avvicinammo. In una mano stringeva una specie di lunga pistola. Era una pistola con un congegno a urto. Il tocco di quella canna larga contro il mio cranio non è un ricordo piacevole. La canna è dentellata, capite, in modo che possa afferrare la pelle del cranio mentre parte la punta d'acciaio. Girammo il corpo: era Josef Weiss. Lupo Mannaro? Possessione? Non lo so. Io la definirei nevrosi atavica. Ma questo è un nome, non una spiegazione. Al di là del corpo c'era un foro del diametro di due metri, rotondo come
se fosse stato perforato da una trivella rotante. La sorgente che aveva aperto quella galleria era prosciugata, ma le pareti maculate di giallo erano levigate come marmo a causa dei depositi lasciati dall'acqua. Evidentemente Weiss stava tentando di raggiungere quell'apertura quando Vaughan l'aveva colpito. Percorremmo quella galleria naturale. Per mezz'ora la luce della torcia non rivelò nient'altro che le pareti trasudanti umidità del tunnel. Poi fummo bloccati da una scala, rozzamente intagliata nel legno, che attraversava la galleria. I pioli erano coperti di fango e c'erano macchie scure di legno. Li salimmo. Portavano a una cavità che era stata chiaramente scavata con scalpello e vanga. Il tetto era di assi, con una botola a un'estremità. La sollevammo con le spalle, e ci ritrovammo tra le quattro mura di un cottage. Nel camino c'erano delle braci e, quando lasciammo entrare dalla botola una forte corrente d'aria, uno dei ceppi scoppiettò e si riaccese. Un fucile stava sul focolare. Sulla rastrelliera c'era qualche trappola di ferro e una cartucciera. Al centro della stanza c'era un tavolo su cui era posato un lungo coltello. Questo fu ciò che vedemmo al primo sguardo. A una seconda occhiata vedemmo molto di più. Weiss aveva portato la sua mania omicida fino all'estremo. Immagino che le tremende esperienze come prigioniero di guerra avessero lasciato il segno nella mente di quel povero diavolo. Poi, scavando una cantina o riparando il pavimento, aveva scoperto per caso quel canale asciutto al di sotto del cottage, e l'aveva seguito fino al suo sbocco nascosto. Questa scoperta gli aveva fatto mettere in pratica i suoi desideri più segreti. Poteva uccidere e rimuovere i corpi delle sue vittime senza lasciare tracce. E così si era lasciato andare alla sua mania. All'alba ritornammo al cottage con il magistrato. Quando ne uscì, fu colto da violenti conati di vomito. Non ho mai visto una persona stare così male. Questo gli schiarì le idee. No, non sto facendo dell'umorismo. Lo rese più lucido. Non aveva bisogno di quelle valvole di scarico emozionali che noi dobbiamo usare per liberarci di uno shock. Non vi ho già detto che era privo di immaginazione? Accettò come un fatto inevitabile l'orrore della faccenda, ma non volle dare ascolto ai racconti che non potevano essere provati. Non ci fu mai nessuna prova definitiva degli orrori in cui credevano tutti i paesani.» Lewis Banning esclamò. «Ah, ora ricordate. Pensavo che avreste ritrovato la memoria. La stampa riportò quelle voci come se fossero fatti provati: in effetti non c'era alcuna
prova definitiva, come vi ho detto. Vaughan mi pregò di tenere sua moglie lontana da questa faccenda. Dovevo persuaderla a partire subito prima che la voce la raggiungesse. Dovevo dirle che il marito aveva subito dei traumi interni, e che doveva essere esaminato senza indugi. Lui stesso credeva alla storia che stava girando nel paese, ma era cosciente del proprio equilibrio. Sospetto che fosse orgoglioso di se stesso, orgoglioso di non essere impressionato. Ma temeva gli effetti dello shock su sua moglie. Ma arrivammo troppo tardi. La cuoca era stata presa da quella febbre contagiosa, e aveva riferito quella spiacevole voce a Kyra. Lei corse dal marito, mortalmente pallida, disperata, cercando istintivamente una protezione contro lo shock. Egli era in grado di proteggersi, e avrebbe dato la vita per poter proteggere lei. Tentò, ma le offrì solo parole, e ancora parole. Spiegò che, se si guardava la faccenda con calma, quel particolare non aveva nessuna importanza, che nessuno poteva saperlo, che la cosa migliore era dimenticare tutto, e così via. Era assurdo. Come se chi credeva a quella voce potesse guardare la faccenda con calma! Opinioni di questo genere non erano di nessun conforto a sua moglie. Lei si aspettava che lui si mostrasse inorridito, non che si chiudesse in se stesso come se avesse abbassato una saracinesca, non che la lasciasse spiritualmente sola. Gli gridò che era insensibile e corse nella propria stanza. Forse le avrei potuto somministrare un sedativo, ma non lo feci. Sapevo che prima avesse risolto quella questione con se stessa, meglio sarebbe stato, e che la sua mente era abbastanza sana per poter sopportare la prova. Lo spiegai a Vaughan, ma lui non capì. Le emozioni, pensava, sono pericolose. Non devono essere lasciate libere. Voleva dirle di nuovo di non "preoccuparsi". Non si rendeva conto di essere l'unica persona nel raggio di dieci miglia a non essere "preoccupato". Lei ci raggiunse più tardi. Parlò a Vaughan con disprezzo, con freddezza, come se avesse scoperto una sua infedeltà. Gli disse: "Non voglio rivedere quella donna. Dille di andarsene, per favore". Si riferiva alla cuoca. Vaughan la sfidò. Era ostinatamente logico e giusto. "Non è colpa sua", disse. "È una donna ignorante, non un anatomista. La faremo venire, qui, e ti renderai conto di quanto sei ingiusta." "Oh, no!", gridò lei... poi riprese il controllo su di sé. "Mandala a chiamare, allora!", disse. La cuoca entrò, Come poteva saperlo, disse tra i singhiozzi: non aveva
notato niente, era sicura che la carne che aveva comprato da Josef Weiss fosse veramente di cervo, non aveva pensato nemmeno per un attimo... Be', che Iddio benedica i semplici! "Mio Dio! Sta' zitta!", esplose Kyra. "Voi tutti pensate solo quello che volete pensare e fingete di non avere sentimenti." Non riuscii più a resistere. La pregai di non torturare se stessa e di non torturare me. Avevo toccato il tasto giusto. Mi afferrò le mani e mi chiese di perdonarla. Poi arrivarono le lacrime. Pianse, credo, fino alla mattina dopo. All'ora di colazione ci dedicò un debole sorrio, e allora capii che era fuori pericolo, libera per sempre dallo shock. Partirono per l'Inghilterra il giorno stesso. Li ho incontrati a Vienna due anni fa, e abbiamo cenato insieme. Non abbiamo menzionato Zweibergen. Si adoravano ancora e litigavano ancora. Era bello ascoltarli e guardare quanto si amavano. Vaughan rifiutò di mangiare la carne, e disse che era diventato vegetariano. "Perché?", chiesi di proposito. Rispose che da poco aveva avuto un esaurimento nervoso: non riusciva a mangiare niente, ed era stato sul punto di morire. Ora stava bene, disse, l'unica traccia della malattia era quel disgusto per la carne... lo aveva preso d'improvviso... non riusciva a capire perché. Vi posso assicurare che parlava seriamente. Non riusciva a capire perché. Lo shock era rimasto nascosto dentro di lui per dieci anni, e poi si era fatto vivo per reclamare i suoi diritti.» «E voi?», chiese Banning. «Come vi siete liberato dello shock? All'epoca avete controllato completamente le vostre emozioni.» «Una domanda giusta», disse Shiravieff. «Ho vissuto sotto questa spada di Damocle. Ci sono stati momenti in cui ho pensato di andare a trovare uno dei miei colleghi e di chiedergli di fare ordine nella mia mente. Se solo avessi potuto raccontare quella storia e liberarmene, sarei stato meglio. Ma non riuscivo a raccontarla.» «Lo avete appena fatto», disse il Colonnello Romero con solennità. AMORE DI LICANTROPO The Gentle Werewolf di Seabury Quinn Weird Tales, luglio 1940
La primavera stava ormai finendo in Galilea, e si avvicinava una torrida estate. La pianura del Giordano si mostrava già spoglia e secca, un deserto di sassi e polvere qua e là punteggiato da ciuffi d'erba che a stento avrebbero attratto gli occhi di una capra. Le colline del Libano erano invece ricoperte da un manto di vegetazione fiorita, cedri e ginestre che si stendevano in un verde panorama fino alla costa. Nella grande città del Cairo, il Sultano Baibas meditava la guerra, ma i cittadini di Acri non prendevano molto sul serio gli avvertimenti dei pochi arabi amici della Cristianità e delle loro stesse spie. Nel terzo decennio del Tredicesimo Secolo, il Barbarossa si era accordato col Sultano per mantenere il possesso di Gerusalemme e dei Luoghi Santi, contravvenendo agli ordini del Pontefice. Colpito dalla scomunica per la seconda volta, era stato costretto a tornare in Italia abbandonando la Terrasanta e, da quel momento, Acri e altre città avevano vissuto sotto il costante pericolo dei Musulmani. Più volte le mura basaltiche di Acri, difese dai Crociati, erano state intaccate dagli assalti saraceni... Ma adesso era primavera nel Libano; perché dare ascolto alle voci che profetizzavano la guerra, quando la brezza marina spirava dolce nei frutteti, la campagna profumava, e le allodole e i fanelli rallegravano i boschi col loro cinguettio? Quel mattino, gli armigeri di guardia alla porta di San Giorgio salutarono lietamente i sei giovani che uscivano a cavallo verso la Via del Mare, l'antica strada romana che risaliva verso la Tiberiade inondata dal sole. Due di essi erano semplicemente scudieri, un altro era il Cavaliere Gaussin de Sollies, e con loro c'erano tre fanciulle di nobili natali anch'esse native di Outremèr, la terra che i Crociati avevano strappato centocinquant'anni addietro agli Infedeli. Cavalcavano senza guardie del corpo, un po' perché fidavano nell'Editto di Gerusalemme che garantiva la pace, un po' perché non avevano nessuna paura di eventuali cavalieri arabi. Inoltre lì si era in Palestina, e per le giovani coppie non vigeva l'usanza di farsi scortare da chaperon come in Francia. Pur essendo europei, i loro costumi erano diversi. In Francia e in Inghilterra le ragazze tessevano e ricamavano, i giovanotti combattevano o cacciavano nelle foreste dove il sole non scaldava molto, e pochi di loro conoscevano le lettere dell'alfabeto. Ma questi figli dei Crociati che occupavano la Terrasanta erano nati nel lusso e - a parte Gaussin de Sollies - vivevano una vita facile. I loro duri modi occidentali si erano addolciti al lungo contatto col pigro mondo d'O-
riente, e avevano dimenticato la crudeltà, l'ignoranza e la sporcizia in cui crescevano i loro uguali dell'Europa Medievale. Profumi e unguenti che provenivano dalla Persia e dal Catai erano a loro disposizione, avevano l'abitudine ai bagni a vapore in stile arabo, usufruivano di esperti massaggiatori e barbieri eunuchi, o ubbidienti ancelle dalla pelle scura, e depilavano i loro corpi, rendendoli lisci e morbidi come quelli di un pargoletto. Ciascuno di loro era servito da una dozzina di persone. Mercanti di Damasco e di Baghdad vendevano loro le stoffe più pregiate, Siriani dai lucidi occhi neri erano a loro disposizione per ogni lavoro manuale, e maestri arabi o greci insegnavano loro la scrittura, la filosofia e la retorica. Sapevano parlare il francese, l'arabo, il latino e il greco, come se ciascuna di queste fosse la loro lingua madre. Tuttavia i loro pensieri erano gli stessi dei giovani di tutto il mondo. Mentre cominciavano a risalire le pendici di un'altura, Gaussin si sporse ad afferrare le briglie della fanciulla che gli cavalcava accanto. «Vuoi fermarti un poco fra gli alberi con me, Sylvanette?», domandò. «C'è una cosa di cui devo assolutamente parlarti.» La fanciulla ebbe un sorriso timido e tirò di lato le redini del suo destriero arabo, ma annuì. Poco più avanti, mentre i loro amici scendevano per il versante opposto dell'altura, i due giovani diressero le loro cavalcature verso un boschetto. Gaussin fu svelto a scendere di sella, e con modi galanti aiutò Sylvanette a smontare. Da quando gli sguardi di Adamo avevano costretto Eva ad adottare la più grossa foglia di fico reperibile nel Giardino dell'Eden, non c'era donna al mondo che non potesse indovinare se era sul punto di sentirsi fare profferte d'amore da un uomo, e il sussurro di Eros mise in guardia la dolce Sylvanette de Gavaret. Un lieve afflusso di sangue le imporporò le guance lisce come i petali di una rosa, ed ella chinò un attimo il capo. Nel sentirsi afferrare una mano, rialzò lo sguardo in quello di lui, come per rimproverarlo di quell'ardire, ma tacque. Poi il suo cuore accelerò le pulsazioni quando il giovanotto se la portò alla bocca per baciarle le dita. Il suo non era un bacio galante o cavalleresco, né il semplice omaggio di un Cavaliere a una damigella: fu un atto di adorazione ardente come i raggi del sole, che la fece fremere. Parafrasando una romanza dell'epoca, Gaussin mormorò: Sylvanette ma drue, Sylvanette ma mie, en vous ma mort, en vous ma vie!
(Sylvanette mia allodola, Sylvanette mia cara, in te è la mia morte, in te è la mia vita!) Nello sguardo della fanciulla vi fu una luce d'amore quando ella alzò l'altra mano ad accarezzargli i capelli ramati. Con voce simile al sussurro della brezza recitò il seguito di quei versi: Bel ami, ainsi, va de nous, ne vous sans moi, ne moi sans vous! (Dolce amore, stiamo insieme, né tu senza di me, né io senza te!) Trattenendo il fiato per lo stupore, lui sollevò gli occhi nei suoi. «Ma allora... tu puoi amarmi, Sylvanette?» «Con tutto il mio cuore, Gaussin caro.» Il tempo che segna le stagioni della vita è qualcosa di comprensibile, di umano, invece l'eternità è diversa e incommensurabile. Eppure l'eternità, anche se per effimeri istanti strappati alla meridiana del tempo, appartenne al giovane e alla fanciulla quando si scambiarono il loro primo bacio. Gaussin la strinse incredulo e, sfiorando le sue labbra, sentì che lei gli si abbandonava così perdutamente che quasi ebbe un mormorio simile a un gemito: d'improvviso gli passò le mani dietro la schiena e si offrì, col cuore che le batteva forte e dimenticando ogni altra cosa al mondo. Non vi fu nulla oltre quel bacio e altri uguali, fra loro, né Gaussin le avrebbe chiesto di più. Seduti all'ombra di un mandorlo fiorito si tennero per mano, spalla a spalla, parlando oppure limitandosi ad ascoltare il cinguettio dei passeri. L'erba era fresca e morbida, e l'aria spirava tiepida su quel paesaggio silvestre, rubando il profumo dei cedri e dei frutteti per donarlo a loro. Lontano, era visibile una striscia di mare azzurro. A mezzogiorno s'inginocchiarono e, con le mani giunte, recitarono devotamente la bella preghiera all'Angelo Annunciatore, mentre le campane delle chiese, delle cappelle dei Templari, dei conventi e dei monasteri di Acri, suonavano l'Angelus. Dopo la preghiera ruppero il digiuno, togliendo dalle bisacce il cibo che avevano portato, e infine scesero a lavarsi le mani in un torrentello. Sylvanette si tolse le scarpe, immerse i piedi nel refrigerio di quell'acqua cristallina e sorrise quando lui usò il suo mantello per asciugarglieli. I primi veli del crepuscolo scesero lenti sulle vallette cespu-
gliose fra le colline. Gaussin rimise i finimenti ai cavalli, voltandosi ogni tanto a sorridere alla fanciulla che gli stava accanto, conscio che la sua vita così inquietante aveva subito una svolta. Sylvanette de Gavaret era fanciulla fra le più amabili. Appena diciassettenne, flessuosa come un giunco, aveva movimenti morbidi che ne rivelavano il carattere dolce. Vederla camminare era una gioia per gli occhi di un uomo, perché pareva incapace di gesti sgraziati e il suo corpo aveva una sensualità di cui lei forse non era ancora consapevole. Qualche antenato arabo le aveva lasciato in eredità capelli nerissimi, scintillanti, e grandi occhi timidi e quasi vellutati. Ma era alta, con una pelle così trasparente che sotto di essa le vene erano visibili come un reticolo azzurrino, e i lineamenti erano quelli dei Normanni da cui discendeva la sua famiglia. Nata in Outremèr, educata ai costumi un po' orientali e un po' occidentali di quella terra, si dipingeva le unghie delle mani e dei piedi con il rosso henné, e come ombretto per gli occhi usava il kohl. Portava una veste di seta bianca con ricami in oro, e gioielli semplici ma graziosi. Nel prendere le redini del suo destriero arabo un improvviso brivido la scosse, e nel suo sguardo passò un'ombra. «Hai freddo, tesoro mio?», chiese lui, sollecito. «No, caro.» Il sorriso tornò a riempirle il volto di luce. «È solo che mi sento triste nel dire addio a questo luogo. Vorrei che potessimo restare qui per sempre, vivendo in eterno questo giorno, con minuti lunghi come anni e ore come secoli.» Lui rise, la baciò e l'aiutò a salire in sella. «Questo è appena il mattino del nostro giorno d'amore, yah shadjar ad Darr», rispose, usando l'arabo con naturalezza per chiamarla Perla dei Mari dell'Alba. E, mentre le loro cavalcature procedevano al passo sul pendio, fecero progetti per la loro vita futura. Sempre al trotto varcarono la porta di San Giorgio, s'inoltrarono nella galleria dove gli zoccoli dei cavalli strappavano echi alle pareti di pietra, e uscirono nelle strade interne di Acri. Con la frescura della sera la città era un po' più animata. Sulle variopinte bancarelle i mercanti siriani esponevano stoffe, cristalli di Mosul, lame d'acciaio di Damasco, lino ricamato con perle provenienti da Baghdad, selle ingioiellate di Shamakha, e tappeti di Bochara dai colori simili al sogno di un oppiomane. La grande piazza era dominata dalla Cattedrale che, ai tempi della controffensiva del Saladino, era stata trasformata in una moschea e poi era tornata a essere una chiesa. Arricchita da finestre a tre luci in stile gotico e
splendidi portali, nel suo interno regnava un silenzio del tutto distaccato dai rumori del mondo. Qui Sylvanette chiese a Gaussin di lasciarla, poiché il giovane Cavaliere doveva recarsi all'Ordine dei Templari prima che suonasse il Vespro e quindi si sarebbe cambiato, per farle visita a casa e chiedere la sua mano al padre di lei, il Gran Connestabile della città. La fanciulla voleva invece andare a inginocchiarsi all'altare di Sant'Anna, affinché la Santa intercedesse perché un Cavaliere povero in canna potesse ottenere in sposa l'unica erede di Messer de Gavaret. Sulla soglia della chiesa si voltò a salutarlo ancora con la mano, poi s'incamminò nella navata illuminata da poche candele. Prima di giungere all'acquasantiera, si coprì religiosamente i capelli con un fazzoletto ricamato in oro e, facendosi il segno della croce, si diresse al piccolo altare secondario dedicato a Sant'Anna di Betlemme. Era già scuro quando uscì dalla Cattedrale. A oriente il cielo balenava ancora di riflessi purpurei, e nelle strade ora deserte le ombre apparivano stranamente velate di rosso. Gettò una moneta al ragazzo siriano che le aveva tenuto il cavallo, poi condusse l'animale a un rialzo di pietra presso la scalinata per poter salire in sella. Ma, stava infilando il piede nella staffa, allorché s'immobilizzò, udendo un verso rauco e stridente dal tono orribile. Si guardò intorno con un brivido: le strade che si dipartivano dalla piazza erano deserte e, a parte il ragazzo che si allontanava, non si scorgeva alcun movimento. Lo spiacevole suono penetrante si udì ancora, e allora si volse alla parete esterna della Cattedrale: nell'ombra di un vicolo, in una rientranza, una figura umana cenciosa e miserabile stava seduta nella polvere con qualcosa di scuro fra le mani. Tirandosi dietro il cavallo, Sylvanette si avvicinò, e vide che si trattava di una vecchia dalla faccia segnata e incartapecorita come la buccia di una mela cotta. Indossava cenci laceri, che le lasciavano oscenamente scoperte le mammelle vizze, e fra le ginocchia stringeva un'oca nera a cui stava strappando le penne, mentre il volatile sbatteva penosamente le ali. «Per Barran-Satanasso dalla coda mozza», ghignò la vecchia. «Ma guarda che bella pulzella giovane mi manda il Demonio mio padre. Che vuoi tu da La Crainte? Vuoi che ti metta in pentola e ti mangi? Guarda», ridacchiò, sollevandosi con gesto laido una mammella. «Non sono bianche e sode come le tue, vero? E i miei cenci puzzano. Fammi la carità, ricca damigella, o ti porterò nella mia stamberga e ti spennerò come quest'oca!» «Taci!», ordinò sbalordita Sylvanette. «Come osi tu, all'ombra della casa
del Signore...» La sua voce tremò e s'interruppe, perché la vecchia si era alzata tenendo l'oca per il collo e la fissava con occhi pallidi come quelli di un cadavere. Nella semioscurità le sue pupille sembravano baluginare di una fosforescenza interna, simile ai lucori stregati di palpitanti fuochi di palude. «E chi sei tu che osi dare ordini a La Crainte, sgualdrina?», ringhiò. «Fammi la carità, ti ho detto. O per il Capro che io servo, ti leverò quella veste di seta e ti manderò a correre nuda per le strade.» «Sgualdrina?» L'indignazione si sostituì alla paura che per un momento aveva paralizzato la fanciulla. «Tu, vecchia sudicia arpia, ardisci chiamarmi così?» Staccò il frustino dalla sella del cavallo e lo abbatté su una spalla della donna. «Questo per la tua insolenza. E ora lascia andare quella povera oca, o io ti...» Ma non poté continuare, perché l'altra le tolse di mano il frustino e lo gettò via, poi con un sol gesto l'afferrò per il colletto e le strappò in due parti il vestito, denudandola d'un colpo. «Che Astaroth ti aiuti, adesso. T'insegnerò io a frustare La Crainte!», rise la vecchia, e con uno spintone la mandò a urtare nel buio contro il muro eserno della chiesa. «Te l'ho detto che ti avrei spennata, damigella!» Con gli occhi sbarrati, Sylvanette stentò a capire quello che le stava accadendo. Si coprì con le braccia, e vide la donna voltarsi ancora verso di lei dopo aver mandato via il cavallo con una sculacciata. La voce della vecchia suonò stridula e piena d'odio. «Credevi davvero di poter mantenere le tue belle forme di femmina per sempre? Ma ti sbagliavi.» Si tolse da una tasca un'anforetta e gliela mostrò sogghignando. «Nel nome di Satana, tu prenderai la forma che io ti darò. E la manterrai finché...» Ed a questo punto si piegò verso di lei, mormorandole in un orecchio una frase che Sylvanette ascoltò più morta che viva. Dopo queste parole la vecchia si portò l'anforetta alla bocca e bevve un sorso del liquido, ma senza inghiottirlo. Quindi abbrancò la fanciulla, le cui gambe si piegavano per lo spavento, la rovesciò a terra sotto di sé e la baciò lascivamente sputandole in gola il liquido che aveva in bocca. Del tutto inerme, Sylvanette chiuse gli occhi e bevve, poi una grande nebbia scura l'avvolse. La prima cosa di cui s'accorse, riprendendo i sensi, fu un terribile bruciore in gola, come se avesse bevuto del vetriolo. Il dolore le scorreva in tutte le vene del corpo e, quando cercò di alzarsi, scoprì che non riusciva a riassumere la posizione eretta. Il mondo intorno a lei sembrava mutato sottil-
mente, suoni e odori nuovi le aggredivano il cervello, tanto che vacillò e ricadde a terra. Cosa le stava succedendo? Il suo senso dell'equilibrio era alterato, non poteva più muovere le membra in modo normale, e sentiva mille aghi trafiggerle la pelle. Girata su un fianco annaspò e gemette. Poi sollevò le mani per portarsele al viso e vide... oh, Signore del cielo! Non mani, ma due cose pelose e tozze, due zampe coperte di pelo. Zampe di lupo! Un urlo di terrore le scaturì dalla gola: «Whoo-hoo-oo-oojoo!». Dapprima rauco, poi tremolante verso note sempre più alte, l'ululato ferino si levò nella notte dalle sue fauci spalancate, terminando in una nota bassa e agonizzante. E da ogni cortile e vicolo della città ad esso rispose il coro dei latrati rabbiosi, spaventati, allarmati, dei cani che reagivano in sfida all'odiato verso del lupo. «Così sia», ridacchiò la strega accanto a lei. «Vai a cercare quelli della tua razza ora. E ricorda qual è il solo modo in cui potrai trovare liberazione!», aggiunse in tono trucemente soddisfatto. Il panico accecò Sylvanette. A casa! Doveva andare a casa, trovare il buon Padre Bernard e farsi togliere la stregoneria di dosso con l'Acqua Santa, il messale e la croce di Cristo. Il suo strano corpo rispose agli impulsi e allora si trovò a correre a quattro zampe con balzi veloci, lunghi e silenziosi, nelle viuzze colme di tenebra. Ma per qualche ragione l'oscurità che era calata sulla città le sembrava meno fitta che al solito. Il tramonto era passato da un pezzo, oltre le finestre scorgeva le deboli luci delle lampade, e a qualche cantonata erano fissate delle torce accese. Eppure la notte le appariva chiara come non mai, mentre divorava la strada verso il Palazzo de Gavaret. Girato un angolo vide infine il familiare portale, oltre lo spiazzo lastricato con la fontana al centro. A un lato di esso era fermo Guilhen, il Capoguardia che, appoggiato all'alabastro, osservava con aria indifferente un gatto a caccia d'immaginari topi nel buio. Si diresse da quella parte come a un porto sicuro nella tempesta, anelando aiuto e protezione. «Guilhen, vecchio mio, sono io!», tentò di gridare, ma: «Who-hoo-oooo-hoo», fu l'ululato belluino che le uscì acutissimo dalla bocca. «Santa Madre di Dio, abbi pietà di noi peccatori!» Guilhem lasciò quasi cadere l'alabarda alla vista della grossa bestia che gli correva dritta addosso. Dopo un attimo di terrore però, ritrovò il controllo e protese l'arma con decisione. «Lupo o diavolo, bada a te creatura dannata!», ansimò. Si girò quindi verso il portone, urlando: «Uomini, accorrete! C'è un lupo che im-
pazza per le strade. Portate gli archi e ammazziamo la bestiaccia!». «Guilhen, Guilhen, sono io! Sono la Damigella Sylvanette, colpita da una terribile stregoneria!», gemette disperatamente la fanciulla, ma soltanto un orrido grugnito e alcuni latrati furono i versi che emise. Un fruscio rapidissimo tagliò l'aria, e uno strale venne a spezzarsi sul selciato fra le sue zampe. Le guardie stavano uscendo in fretta. Una mazza ferrata scagliata con forza le passò sopra la testa e rimbalzò via strappando scintille dalle pietre. Poi vide gli uomini tendere gli archi, e balzò indietro con un uggiolio. Terrorizzata, volse le spalle al palazzo e fuggì, inseguita dagli strali che le saettavano attorno come uccelli maligni in cerca della sua carne. Corse via senza una meta, con le unghie che ticchettavano al suolo e il cuore che le batteva da scoppiare per lo stordimento e l'angoscia. Quasi senza sapere come, si trovò dinanzi alla porta di San Giorgio. I poderosi battenti erano stati chiusi, ma la porticina in legno e bronzo su quello di destra era ancora aperta, per accogliere eventuali viaggiatori. «All'erta, sentinelle!», gridò il Templare di guardia. «C'è un lupo. Sbarrate l'uscita e facciamogli la pelle!» Il guardiano presso l'uscita si tolse l'arco da tracolla e diede una pedata al battente, che però rimbalzò e si aprì di nuovo. Svelta come una saetta lei lo oltrepassò e fu fuori con un salto, poi si allontanò sulla strada illuminata dalla luna verso le colline dove appena due ore prima aveva cavalcato con Gaussin. Era in preda al panico, e un terrore cieco le metteva le ali ai piedi. D'istinto prese per il sentiero che aveva percorso quel pomeriggio, attraversò gli orti e i frutteti, e fuggì su per le alture fino al luogo in cui si era fermata con il giovane cavaliere. Qui giunta si abbatté sfinita sull'erba, coi fianchi pelosi che si alzavano e abbassavano al ritmo del suo respiro ansante. La gola le bruciava ancora e si sentiva la bocca piena di polvere. Con uno sforzo si rialzò e scese fino al ruscello, in cui la luna si specchiava con riflessi d'argento, e immerse il muso nella corrente per dissetarsi. Subito però balzò via sgomenta e inorridita. Malgrado la scarsa luce, nell'acqua aveva visto se stessa: un muso allungato coperto di pelo grigio, occhi verdastri che scintillavano crudeli, lunghe zanne candide, e una lingua rosa che ne penzolava fuori di lato. La sua mente fu annichilita da uno spasimo di angoscia sconvolgente, e ancor peggio fu quando ricordò ciò che le aveva detto La Crainte, la strega, su quale fosse il solo modo per ottenere la salvezza. Allora sollevò la testa
al cielo pieno di stelle, e di nuovo il lungo, tormentoso ululato belluino, incrinò la notte: «Woo-hoo-oo-oo-hoo!». Gaussin de Sollies stava facendo una meticolosa quanto rapida toeletta. Con una smorfia gettò in una cesta gli abiti di quel pomeriggio, sporchi d'erba e terriccio, e da una cassapanca ne tolse altri di seta e velluto. Scelse un bel mantello in broccato di Damasco, una cintura borchiata d'oro e stivaletti alti di pelle. Quando si fu lavato e rivestito, si spruzzò acqua di rose sui capelli e sulla corta barbetta ramata, e mise un berretto floscio con una nappa laterale. Come arma preferì soltanto un'affilata misericordia dal fodero intarsiato, invece del pesante pugnale che i Templari del suo Ordine usavano portare in città. Sapeva bene che mirava troppo in alto osando chiedere la mano di Sylvanette de Gavaret, ma la sua immagine riflessa nello specchio bizantino di lucido argento gli disse che aveva anch'egli qualcosa da offrire. Non in beni terreni - quanto fosse povero lo sapeva solo Iddio - ma nella sua persona e nelle prospettive per il futuro. Aveva viaggiato in tutto il Medio Oriente senza guadagnare altro che utili esperienze, ciò malgrado, si era meritato gli speroni d'oro e l'iscrizione all'Ordine dei Cavalieri Templari già da quattro anni, e ne aveva appena compiuti ventidue. Figlio illegittimo - a lui piaceva meglio il termine «figlio d'amore» - di Gilles de Saucier, e nipote di un Vescovo, era stato educato in un monastero di Tiro dove gli avevano impartito l'educazione di chi era destinato alla vita religiosa, e tuttavia aveva appreso proprio nella movimentata Tiro aspetti della vita che un prete avrebbe dovuto ignorare. Aveva quattordici anni quando suo padre era morto, e aveva approfittato di ciò per lasciare il monastero. Ma si era fatto dei buoni amici grazie ai quali era stato assunto presso la Guardia di Antiochia, scoprendo lì d'essere portato all'apprendimento delle arti marziali. Due anni dopo, appena sedicenne, aveva già il rango di scudiero e, a diciotto, il suo valore sul campo di battaglia gli aveva fatto ottenere il titolo di Cavaliere. In seguito aveva dovuto sopportare due anni di detenzione al Cairo, e ciò gli aveva insegnato molto sul modo di pensare dei Musulmani. Il risultato di quell'esperienza era che adesso la sua presenza era ben accolta nella Sala del Consiglio, e l'Ordine dei Templari gli aveva affidato il comando di uno Squadrone. Era un uomo che aveva percorso molta strada in poco tempo, destinato a farne ancor di più, e il Connestabile probabilmente non gli avrebbe rifiutato la mano di sua figlia per il solo fatto che non aveva
terre al sole. Quelle sarebbero venute con gli anni, e nel frattempo egli poteva offrire due braccia forti, la sua gioventù e il suo amore appassionato. A lui non interessavano i vantaggi economici di quell'unione, si disse, mentre usciva dalla cittadina avviandosi a piedi verso la dimora della sua amata. Hilaire de Gavaret, Gran Connestabile di Acri, sedeva in quel momento sulla terrazza che dominava il giardino della sua magione. Da lì si godeva una buona visuale dei tetti di tegole delle case più basse, e delle cupole e torri degli edifici maggiori su cui la luna spandeva una luce argentea. Aveva in mano una coppa di vino greco, aspro e saporito, un paio di camerieri in livrea attendevano i suoi ordini, e alcuni Siriani impassibili reggevano torce la cui luminosità rossastra velava quella delle stelle. Messer Hilaire bevve lentamente, ma la sua fronte era increspata da una ruga d'apprensione, e non aveva lo sguardo di un uomo che sta apprezzando il sapore del vino. Poco prima, mentre cenava, l'ululato di un lupo proprio sotto casa lo aveva fatto sobbalzare, e i lupi erano rari perfino sulle colline circostanti. Dapprima aveva creduto che le orecchie l'avessero ingannato, poi il Capoguardia gli aveva giurato d'aver visto la bestia giusto nel piazzale: all'apparenza si sarebbe detto che stesse addirittura cercando d'entrare nel palazzo. Il pensiero gli fece comparire sul volto una smorfia. Allorché Sylvanette era ancora una bambina, un astrologo arabo gli aveva predetto che quando fosse divenuta donna una terribile disgrazia l'avrebbe colpita, e quel grido di lupo alla porta gli pareva adesso un sinistro presagio. Già tre volte aveva mandato un valletto all'appartamento di sua figlia, e tre volte il ragazzo era tornato con la stessa poco tranquillizzante risposta: ancora le ancelle non l'avevano vista rientrare. Messer Gavaret sapeva che la fanciulla era andata a cavallo sulle colline con alcuni amici fidati, tuttavia quel ritardo lo indisponeva. Non era abituato a cenare solo. Chi era il suo compagno di quel pomeriggio? Le ancelle non ne erano certe, avevano saputo appena riferire che uno del gruppo era Gaussin de Sollies. L'uomo non se n'era meravigliato, ricordando che da un po' di tempo il giovane Cavaliere era l'ombra di Sylvanette. Ciò l'aveva per un verso seccato, dato che si trattava di un povero Templare, ma per un altro tranquillizzato, poiché Gaussin de Sollies aveva fama d'essere un fortissimo spadaccino. Molto probabilmente, rifletté, un giorno o l'altro si sarebbe presentato per chiedere formalmente la mano della fanciulla, e allora lui gli avrebbe chiesto come intendeva mantenerla, e con quali soldi poteva metter su casa
e pagare servi e ancelle. Già s'immaginava la risposta, e purtroppo immaginava anche con quale sguardo Sylvanette lo avrebbe implorato di non dar peso a quei particolari. Allora, con riluttanza, si sarebbe lasciato convincere e avrebbe dato loro la sua benedizione. D'altra parte la dote di Sylvanette sarebbe stata sufficiente a ogni loro necessità. Ma per il sangue e le ossa di San Giacomo, ringhiò dentro di sé, quel giovanotto non gli dispiaceva, e tuttavia lui era vedovo e vedersi portar via anche la figlia e unica erede... «Mio signore...» Un servo che gli era comparso accanto con deferenza interruppe le sue meditazioni. «Il Capitano de Sollies vi porge i suoi omaggi e prega di essere ricevuto da voi.» «Fatelo entrare, e subito», esclamò Messer Hilaire. «Per la testa di San Daniele, era ora che riportasse mia figlia a casa!» «Ehilà, Messere», lo salutò poi, non appena il giovanotto uscì sulla terrazza. «Quale buon vento vi porta? Siete forse venuto a dirmi che vi hanno trasferito a Tiro, o meglio ancora nella lontana Costantinopoli? Se è così, accenderò un cero alla Beata Vergine, per ringraziarla d'aver messo fra voi e una certa persona la distanza che da tempo mi auguro», disse giovialmente, ma scherzando solo a metà, e guardò in direzione della porta aspettandosi di veder comparire anche la snella figura di Sylvanette. Il contegno di Gaussin disse a Messer Hilaire che i suoi sospetti di appena un minuto prima s'erano avverati, e sospirò. Dunque il giovanotto si era deciso, e magari Sylvanette non aveva il coraggio di seguirlo alla sua presenza, preferendo aspettare fuori intanto che lui faceva il discorsetto che s'era preparato. Timida come un coniglio selvatico ma risoluta ad avere il suo spasimante, rifletté con una smorfia che poi trasformò in un sorrisetto melenso. Si fece versare dell'altro vino e si appoggiò indietro sulla poltrona di legno intarsiato. «Ebbene, Cavaliere, avete forse qualcosa da dirmi?» «Proprio così, Messer Gavaret. Riguarda la Damigella Sylvanette, vostra figlia», rispose nervosamente Gaussin. «Sono venuto a...» «Che siete venuto lo vedo, Cavaliere. Ma non vedo lei. Mi è stato detto che siete usciti insieme stamattina, quando la rugiada era ancora fresca sull'erba, ed ecco che tornate col buio. Voglio augurarmi che l'abbiate ricondotta da suo padre sana e salva, almeno.» Di nuovo guardò la porta, sperando che quelle parole facessero sbucar fuori la fanciulla. Ma l'espressione di vacuo stupore che scorse sul volto del giovanotto lo fece accigliare. Guassin lo stava guardando a bocca aperta, e da costernata la sua espres-
sione si fece improvvisamente ansiosa. Con uno scatto si piegò in avanti, afferrando i braccioli della poltrona. «Lei... volete dire che non è ancora tornata?», ansimò. Per un lunghissimo momento i due si fissarono l'un l'altro, immobili come statue, quasi sperassero di leggersi a vicenda negli occhi che i loro sospetti erano infondati, senza osare trasformarli in parole. Infine Messer Hilaire si passò la lingua sulle labbra e disse con voce rauca: «State affermando che voi, un Cavaliere, avete abbandonato chissà dove una Damigella... mia figlia! E dopo questa fellonia tornate qui senza di lei!». Gaussin deglutì a vuoto. Nel lasciare la fanciulla alla Cattedrale era stato certo della sua sicurezza. Le strade erano ben sorvegliate dalle pattuglie della ronda, e inoltre chi mai avrebbe osato recare affronto alla figlia del Gran Connestabile, una delle massime autorità di Acri? Vero che l'aveva chiesto lei, rifletté, tuttavia ciò l'aveva costretta a rientrare da sola e senza scorta lungo le vie buie. E un Cavaliere aveva per giuramento doveri ben precisi verso le donne e i deboli, doveri a cui - l'assenza di Sylvanette lo testimoniava con drammatica chiarezza - egli sembrava avesse mancato. «Messere...», cominciò. Ma un ringhio del Connestabile troncò le sue spiegazioni. «Per San Giorgio e la sua possente lancia! E voi avete la spudoratezza di portare emblemi di Cavaliere? Voi siete un incapace, uno spergiuro e un fellone!», sbraitò, agitandogli un pugno davanti al volto. Era diventato pallido. «Consideratevi agli arresti nei vostri alloggi, Messere. Domani stesso risponderete di questo comportamento inqualificabile davanti alla Corte dei Cavalieri. E il Buon Dio mi sia testimone che farò di tutto perché il vostro nome sia cancellato con ignominia dagli elenchi dell'Ordine dei Templari. Uscite dalla mia casa!» Per tutta la notte Gaussin non fece altro che camminare avanti e indietro nella sua stanza, ora dopo ora, frustrato e colmo di preoccupazioni. Nel suo cervello echeggiava solo una parola, un nome, un richiamo accorato: «Sylvanette! Sylvanette!». Cosa poteva essere accaduto alla fanciulla? Era abbastanza certo che il suo ritardo fosse dovuto a qualche sciocchezza, magari l'incontro con un'amica, la sosta nella casa di un conoscente, e che adesso lei fosse di nuovo nel suo palazzo. Ma ormai le loro speranze di matrimonio erano svanite. Solo quel mattino - gli sembravano trascorsi mille anni - erano stati insieme e felici, perduti nel loro amore. Adesso i loro progetti, le loro parole,
i loro baci, erano diventati polvere. «Oh, Sylvanette!», singhiozzò, rivolto alle pareti di pietra. A un tratto s'accorse di avere sudori gelidi, vampe di calore al volto e tremiti. Chiuse la finestra e si avvolse in un mantello ma, dopo aver sternutito più volte, dovette constatare d'avere la febbre. Depresso più che mai, si gettò sul suo lettuccio non tanto per dormire, quanto perché i brividi di freddo lo infastidivano. Senza volerlo scivolò nel sonno, e il suo fu un sonno popolato di incubi così tormentosi che, quando se ne risvegliò con un gemito, non gli importò neppure di scoprire che stava ancora peggio di prima. Madido di sudore si alzò e, con una coperta attorno alle spalle, riprese a camminare per la stanza. A oriente il cielo si schiariva, mutava dai primi pallori cinerei alle sfumature arancio e rosate dell'aurora. I galli cantavano fuori dalle mura. Poi, dai campanili della Cattedrale e delle altre chiese, vennero i rintocchi del Mattutino, e Gaussin s'inginocchiò dinanzi al crocifisso appeso al muro. «Ave Maria, gratia piena. Benedictus fructus ventris tui Jesus...» Non tardarono molto a convocarlo dinanzi ai Maestri dei vari Ordini della Cavalleria. Due scudieri vennero a prelevarlo e lo scortarono nella grande sala dove usavano riunirsi in consiglio i principali membri dell'Ordine dei Templari, dell'Ordine degli Ospedalieri e dell'Ordine Teutonico. Dinanzi a loro il Connestabile Hilaire de Gavaret pronunciò nei suoi confronti l'accusa di spergiuro, dopo essersi brevemente consultato col Gran Cancelliere se non fosse il caso di giudicarlo anche per fellonia, ovvero tradimento verso chi gli forniva cibo e protezione. I compagni con cui era uscito il giorno prima furono introdotti uno alla volta per testimoniare l'accaduto, e tutti diedero la stessa versione: avevano cavalcato con Gaussin e la Damigella Sylvanette fino alle colline, quindi i due giovani si erano appartati e da quel momento nessuno di loro li aveva più rivisti. Gaussin fu invitato a riferire i fatti accaduti, mentre altri Cavalieri e personaggi di rango entravano nel salone per assistere al giudizio, e a disagio notò che il suo caso suscitava un indesiderato scalpore. Gli venne chiesto se intendeva nominare un difensore, ma sapendo già come sarebbe andata la cosa egli scosse il capo cupamente. Aveva ammesso di sua bocca d'aver lasciato la Damigella de Gavaret all'altro capo della città, e riconosciuto che il suo dovere sarebbe stato di scortarla personalmente fino alla soglia di casa. Questo bastava. Il Gran Cancelliere si alzò in piedi e riassunse la sua situazione: lui non poteva essere condannato senza aver avuto la possibilità di difendere i suoi
diritti in un'Ordalia, sempreché insistesse nel sostenersi innocente. In tal caso, avrebbe giurato davanti all'altare del salone stesso di non avere colpa al cospetto di Dio, si sarebbe comunicato, e avrebbe affrontato una tenzone alla spada, battendosi all'ultimo sangue contro il campione eletto dal Gran Connestabile. Se gli fosse stato dato di superare la prova, avrebbe dimostrato d'essere un Cavaliere senza macchia. Oppure, disse il Cancelliere, poteva ricorrere alla Compurgazione, ossia alla legge che gli dava diritto di portare in giudizio dodici Cavalieri, tutti disposti a giurare sul Vangelo la sua innocenza e, anche in tal caso, la sua assoluzione sarebbe stata piena. O ancora, poteva affrontare l'Ordalia dell'Ostia dinanzi all'altare. Quale delle due posizioni intendeva assumere: sottomettersi alla pena o contestare l'accusa? «Al cospetto di Dio so d'essere innocente, Messere», ribatté Gaussin a denti stretti. «Scegliete l'Ordalia, dunque. Quale delle tre?» Il giovanotto esitò. Giocarsi la vita in una tenzone alla spada? Dopo la notte trascorsa in bianco, stanco, snervato e febbricitante, non lo attraeva molto l'idea di affrontare Gillon, il campione del Gran Connestabile, che non era mai stato battuto. Ebbe un sorriso amaro: a Gillon la cosa avrebbe fatto ancor meno piacere, ma quando si fosse accorto che egli era debilitato, forse la sua spada gli avrebbe scritto addosso «colpevole» col sangue. Si guardò attorno. Nella grande sala vi erano molti suoi conoscenti, ma neppure uno aveva l'aria di considerarlo innocente: dappertutto sguardi severi, corrucciati o sprezzanti, che già lo condannavano. Ricorrere alla Compurgazione era da escludersi. «Scelgo l'Ordalia dell'Ostia, Messere», rispose. Alle sue parole si fece subito avanti il Vescovo della città, e gli accennò di seguirlo. Su un lato del salone c'era un piccolo altare consacrato dove, secondo l'usanza, il cappellano dava la benedizione ai nuovi Cavalieri, e davanti al quale tutti si segnavano entrando. In ginocchio davanti ad esso, Gaussin fu confessato, e quindi si vide porgere un'ostia che non era certo di quelle per la normale comunione. Prima di riceverla, secondo il cerimoniale previsto, si volse all'assemblea e, con la mano destra poggiata sul messale, disse: «Che la misericordia divina sia con me e mi aiuti a dimostrare la mia innocenza, poiché al cospetto del Signore io giuro di non essere in colpa. E se io ho giurato il falso, che questa ostia benedetta possa allora strangolarmi la gola. Se invece sono stato accusato ingiustamente, che l'ostia sci-
voli nella mia gola dolce come la Manna del Signore, e nutra il mio corpo e il mio spirito». Il Vescovo gli depose sulla lingua la spessa ostia di pane non lievitato che aveva tolto dall'ostensorio d'argento. Era pesante, alta due dita buone, e Gaussin sapeva che non la si doveva masticare: andava ingoiata intera. Per lo scopo particolare a cui serviva avrebbe dovuto esser difficile da mandar giù come una pietra e, malgrado ciò, lui vi sarebbe riuscito senza difficoltà se non fosse stato per le sue condizioni fisiche. Proprio mentre la ingoiava si rese conto che un afflusso di catarro ai bronchi lo stava costringendo a tossire. Cercò disperatamente di trattenersi, di fermare con la lingua quella massa pastosa che gli andava di traverso, ma i muscoli della sua gola si erano ormai contratti, e un istante dopo il colpo di tosse gli fece espellere il fiato come un'esplosione. Sbarrò gli occhi: sullo scalino dell'altare l'ostia era una massa biancastra spiaccicata, ai piedi del Vescovo. Il Cielo lo aveva giudicato con chiarezza inequivocabile. Era colpevole. La sentenza fu pronunciata immediatamente: il suo nome sarebbe stato cancellato dagli elenchi dell'Ordine dei Templari, i suoi speroni sarebbero stati rotti con una zappa di contadino, la sua armatura sarebbe stata schiacciata sotto le ruote di un carro, la sua spada sarebbe stata spezzata al suolo nello sterco di cane, la sua lancia sarebbe stata troncata e gettata nella fogna, lo scudo con lo stemma sarebbe stato raschiato e inchiodato a un'asse in un porcile, il tatuaggio dell'Ordine gli sarebbe stato cancellato dalla carne con acido e acqua bollente. Fatto ciò, sarebbe stato gettato sul coperchio di una bara e portato nella cappella funebre come un cadavare. E, se l'indomani, qualcuno lo avesse visto ancora entro le mura di Acri, sarebbe stato coperto di pece e penne e quindi scacciato a sassate dalla città. Nell'udire una sentenza così degradante, Gaussin vacillò come sotto una mazzata. Ansante, pallido per la febbre, fronteggiò l'assemblea stringendo i pugni con rabbia. «Messeri, non è stato il giudizio divino a pronunciarsi contro di me, bensì un colpo di tosse. Perché, come potete vedere, oggi sono malato», disse loro. «Ciò malgrado, anche quando un uomo è condannato ha diritto che la sentenza sia giusta. Le mie armi e il resto sono nel mio appartamento: prendetele e fatene ciò che volete. Ma per le Chiavi di San Pietro, il primo uomo che oserà toccarmi con una mano, sia egli un Nobile o un villano, giuro che lo manderò a precedermi dinnanzi ai Cancelli del Paradiso!» Subito dopo, con un balzo da giaguaro strappò la spada dalle dita di una
delle guardie, brandendola minacciosamente verso di loro. «Datemi luogo, Messeri: Dio non voglia che io faccia scorrere il sangue d'un cristiano in questa sala!», gridò. Nessuno si fece avanti per fermarlo quando uscì dal portale del salone silenzioso, rosso in faccia e sprizzante fiamme dagli occhi e non una guardia gli tenne dietro mentre attraversava la piazza fino alla porta delle mura occidentali della città. Ma si sentì come spinto dal rovente disprezzo di quanti lo osservavano. Gli uomini di sentinella al bastione di San Giorgio evitarono di salutarlo e sputarono a terra al suo passaggio, perché la notizia dell'accusa mossagli aveva già fatto il giro di Acri, ma non gli sbarrarono la strada. E così, rigido e ancora tremante di furia, si mosse sulla Via del Mare verso i colli della Tiberiade, senza meta e senza sapere cosa ne sarebbe stato di lui. Una volta sola, appena fuori delle mura, egli si voltò e chiese a una sentinella che conosceva se era disposto a portare un messaggio a una Damigella, per poterla almeno salutare. L'uomo girò il capo dall'altra parte. Allora Gaussin alzò cerimoniosamente prima un piede e poi l'altro, scuotendosi via dalle scarpe la polvere di Acri. Sputò in direzione delle mura per cui aveva combattuto e se ne andò, deciso a non tornare mai più. Per trenta giorni Gaussin seguì l'antica strada romana verso settentrione. Oltrepassò Tiro e Beirut, abbandonò il Libano e prese a Nord Ovest per il Principato di Antiochia, che occupava l'angolo occidentale del Mediterraneo, evitando le città cinte da mura e dormendo nei villaggi o all'aperto. La vita dura non gli era nuova e, con la spada al fianco, non temeva uomo al mondo. Per sua fortuna aveva due anelli, un bracciale, e altre cosucce che poté vendere, cosicché si procurò cibo e alloggio senza dovere chiedere ospitalità come i viandanti poveri. Nella Contea di Edessa, in mano ai Crociati fin oltre l'Eufrate, riuscì a ottenere passaggi da carri e piccole carovane che viaggiavano verso Oriente. Non avendo una destinazione precisa, si lasciava condurre avanti solo dal desiderio di metter quanta più strada possibile fra sé e la città che aveva visto la sua umiliazione. Voleva anzi lasciarsi alle spalle l'intera Outremèr, e fu con ostinazione che s'addentrò nel dominio dei Turchi, i quali già da tempo stavano riconquistando Edessa un pezzo dopo l'altro. Grandi forze si muovevano nel Medio Oriente in quell'epoca, e la Terrasanta era di gran lunga la minore. Assediata a nord dal Sultanato d'Iconio, a sud dal Califfato del Cairo, schiacciata a oriente dai Turchi, vedeva in-
combere su di sé l'ombra della fine. Ma a loro volta i Musulmani di quelle terre si sentivano minacciati dalla strapotenza del Catai che avanzava in Occidente, poiché gli eserciti del Gran Khan dilagavano, e nel Nord i Tartari e i Mongoli si erano spinti fino ai confini della Polonia. A fine estate Gaussin si trovò nella terra degli Atabeg, piccoli proprietari terrieri assai bellicosi, i cui castelli dominavano i campi di grano presso la riva meridionale del Mar Caspio, e che esigevano tasse dai mercanti di passaggio. Quella notte l'aveva trascorsa all'addiaccio in un bosco, poiché i villaggi lungo la Via della Seta pullulavano di briganti e tagliagole, oltre a essere sudici e deprimenti. Quando si destò con un largo sbadiglio, la luce perlacea dell'alba si era già sparsa sugli alberi e sulle aride collinette. Si stiracchiò e rimase un poco disteso sul suo letto di foglie, riflettendo che, senza denari com'era, gli si prospettava un destino non spiacevole. Ma d'un tratto la sonnolenza lo abbandonò, balzò in piedi con la spada in pugno e si guardò attorno: si udivano clangori di metallo contro metallo, grida e imprecazioni furibonde. Sulla strada sterrata al limite del bosco qualcuno stava combattendo a morte. Gaussin si mosse con cautela e, sbirciando oltre le frasche, poté vedere di chi si trattava. Uno dei contendenti era un colosso con la pelle olivastra e gli occhi a mandorla, alto quasi due metri, che maneggiava un poderoso spadone con cui si faceva il vuoto attorno come un mietitore in un campo di grano. Altri due vestiti come lui erano distesi nel proprio sangue sulla strada. Intorno all'orientale c'era una banda di sei Tarkaris, magri e rapaci ladroni dell'interno, al servizio di qualche Atabag, che lo incalzavano come lupi famelici agitando scimitarre molto ricurve. Il giovanotto si strinse nelle spalle. Lasciamo pure che si scannino fra loro, si disse. Erano affari del Diavolo, non suoi. Un Cavaliere cristiano non aveva certo obblighi di sorta verso dei pagani, anche se assaliti dai briganti. Ma la logica della sua indole normanna, impulsiva e generosa, fu più forte del suo freddo raziocinio: gli aggressori erano sei contro uno e, sebbene costui si battesse fieramente, il risultato era prevedibile. Inoltre, se i Tarkaris si fossero poi accorti di lui, ancora eccitati e con le lame lorde di sangue... lui era a piedi e senza armatura e, se non aveva più molte ragioni d'amare la vita, non vedeva però motivi di farsi ammazzare inutilmente. O forse quei tagliagole non l'avrebbero ammazzato, preferendo portarlo al castello del loro padrone come schiavo. Ma... tirar su l'acqua dal pozzo e spaccare la legna sotto la frusta di un selvaggio Atabag? A un tratto si decise e uscì dai cespugli.
«Dio lo vuole!» E, levando alto il grido di battaglia dei Crociati, si precipitò sulla strada, roteando la spada. «A me, canaglie! C'è un'altra lama per voi!», urlò in arabo. Gaussin aveva avuto un'ottima istruzione d'armi e una quantità di esperienze pratiche, e fu un bene che così fosse perché, quando due dei Tarkaris si voltarono contro di lui, le loro facce gli rivelarono che si trattava di mangiatori di hashish, resi senza paura dalla droga e feroci come tigri. Imprecò fra sé: dunque non erano seguaci di un Atabag, ma fedewj dello Sceicco Sinan al Jabal, fanatici seguaci del Vecchio della Montagna in persona! Sulle loro bianche casacche era ricamata la scimitarra rosa del loro Signore e Maestro. Irritatissimo da quella scoperta, il giovane capì che quello sarebbe stato un combattimento a oltranza, perché, se uno solo di loro fosse scampato, lui sarebbe stato un uomo segnato per la vita, destinato a essere seguito e prima o poi ucciso da altri della Setta degli Hashishin. Quei pensieri gli attraversarono la mente in un solo istante, e poi non ci fu tempo per riflettere, perché le spade lampeggiavano ed egli dovette battersi accanitamente. Con un violentissimo fendente sbatté di lato la scimitarra dell'avversario più vicino e, prima che questi si rimettesse in guardia, gli conficcò la spada nel petto, spaccandogli le costole. L'assassino cadde sputando sangue, e lui balzò via evitando per un pelo l'attacco dell'altro. Sbilanciato, l'individuo lo urtò con una spalla. Gaussin ruotò su se stesso e lo colpì con una falciata orizzontale all'altezza di un orecchio, scoperchiandogli a mezzo il cranio e facendo schizzare via le cervella biancastre. Poi si chinò con destrezza per evitare un terzo Assassino, il quale aveva pensato di vendicare il compagno vibrandogli un fendente identico e, nel rialzarsi, lo stordì con un pugno in piena faccia. Subito dopo gli infilò la spada nell'addome e la fece girare, sbudellandolo orrendamente. Nel frattempo, il colosso era riuscito a staccare un braccio a uno degli aggressori, che steso in un cespuglio stava agonizzando. Con un fendente obliquo staccò di netto la testa a un altro, facendola volare dieci passi più in là, e quindi ebbe modo di agguantare con una mano l'ultimo degli Assassini. Lasciato lo spadone, lo attrasse a sé, torcendogli il collo come a un pollastro, poi lo gettò nella polvere con un sogghigno soddisfatto. Finito il combattimento, che non era durato più di due minuti, Gaussin ripulì la sua lama e rimase a osservare l'altro che faceva la stessa cosa con l'indifferenza di chi vi è abituato. Aveva già visto uomini di quella razza,
sebbene non così alti, durante il suo forzato soggiorno nelle prigioni del Cairo. Era un mongolo, uno dei sanguinari cavalieri i cui antenati avevano conquistato il Catai, e quella che indossava aveva l'aria d'essere un'uniforme. Ma cosa stava facendo lì, lontano dalla sua terra? Fu sorpreso nel sentirlo parlare in un arabo passabile: «La mia riconoscenza, Nobile Franco, per il vostro intervento tempestivo e gradito. Il mio nome è Ulja Sutaj. Qual è il vostro, e dove sono i vostri scudieri? Se vorrete chiamarli, sarò lieto di condurvi all'accampamento del mio Comandante. Per l'aiuto che mi avete dato avrete una ricompensa.» Gaussin ebbe una risata priva di allegria. «Il mio nome l'ho lasciato insieme alla mia terra. E in quanto alla ricompensa, essa mi sta già intorno. I miei soli scudieri sono gli sciacalli e i corvi che ripuliscono i campi di battaglia.» Il mongolo lo fissò con curiosità. «Una risposta degna di un guerriero. Cosa vi ha condotto in questa terra?» Lieto di avere un auditorio, Gaussin si avviò al suo fianco, raccontadogli ciò che gli era accaduto ad Acri e il motivo per cui aveva lasciato quella città. Non poté capire se Ulja Sutaj si fosse commosso alla storia delle sue disgrazie, perché il suo volto piatto sembrava impassibile per costituzione ma, quando ebbe concluso, l'altro commentò: «Direi che siete stato un incauto, ma non un briccone. E mi è piaciuto il modo in cui usate quella spada dritta. Conoscete i territori a meridione e a occidente?». «Come il palmo della mia mano.» «Bene. Vorreste prendere servizio sotto colui che domina ogni terra?» «Volete dire il Santo Padre a Roma?» Il mongolo rise. «Sto parlando del Gran Khan, colui il cui Celeste Impero si stende dal Catai fino ai Carpazi. Già cento regnanti hanno chinato la fronte dinanzi a lui, mille carovane al giorno gli recano tributi, e milioni di uomini in arme ubbidiscono alla sua parola.» «Vi dirò, Messere, che un potente Signore di questo genere è proprio il padrone che mi piacerebbe servire», dichiarò senz'altro Gaussin. «Io non so fare altro che la guerra, e in un esercito forte potrò certo trovare gloria, onore, e un nuovo rango in sostituzione di quello che ho perduto. Verrò volentieri con voi.» L'accampamento mongolo era circolare, con le tende disposte come i raggi di una ruota, incentrato attorno a un elegante padiglione emisferico
di tela nera. Sorgeva in una spianata larga due miglia ed era affollato di uomini, cavalli ed equipaggiamenti da guerra. Da un lato vi erano anche bufali da traino, dromedari, e perfino un gregge di pecore dalla coda lunga. I soldati del Gran Khan erano numerosi come granelli di sabbia su una spiaggia, scuri e robusti, con uniformi di cuoio e pettorali in bronzo, elmetti talora a punta, talaltra a forma di pentola. Alcuni si rapavano a zero, lasciando solo un ciuffo di capelli laterale, altri portando trecce unte di burro, e tutti avevano lunghi baffi penduli. Le loro armi variavano, dallo spadone ricurvo alla scimitarra, dai corti archi di corno ai giavellotti da lancio, e usavano tozzi scudi tondi in cuoio martellato. Gli ufficiali esibivano selle sfarzose e abiti in seta e pelle di lupo, e non di rado armi da taglio con l'elsa ingemmata. Sui carri erano caricate le armi tattiche, tipo arieti, catapulte o scale da assedio, smontate ma pronte per essere messe in opera. Non mancavano alcuni enormi macchinari studiati per spaccare le mura, e c'erano molti mortai capaci di sparare bombe di pietra fino a un miglio di distanza, con serventi cinesi. Il giovane calcolò che una tale truppa fosse composta da cinquemila individui, tuttavia Ulja Sutaj rise e gli rivelò che quella era appena l'avanguardia dell'esercito. La forza principale era accompata a Baghdad, dove le mura erano state abbattute pietra su pietra, la città saccheggiata, i cittadini quasi sterminati e il Califfo bruciato vivo entro un tappeto arrotolato. Il giovane cavaliere tremò nel sentire questo: se avevano fatto una strage simile nella splendida Baghdad, costoro non erano uomini, ma diavoli. Nel lussuoso padiglione del Tura - questo era il titolo del Comandante in capo Temuchin, detto il Crudele - Gaussin fece atto di ubbidienza alla maniera mongola, inginocchiato sul tappeto e con la fronte china davanti al potente personaggio che sedeva su un divano. «La mia vita è nelle tue mani, o Grande Signore», disse. Poco dopo fu invitato a sedere a gambe incrociate su un cuscino, e Ulja Sutaj narrò a Temuchin quanto era accaduto elogiando il suo coraggio e la sua valentia con le armi: quindi disse che il giovane chiedeva di entrare a far parte del loro esercito. Il Comandante mongolo diede il suo beneplacito: erano molti i bianchi, anche di fede cristiana, che militavano nelle sue orde. Fu in questo modo che Gaussin de Sollies venne preso in forza nella cavalleria del Gran Khan, in piena campagna bellica. Al contrario dei Musulmani, i Comandanti come Temuchin non avevano alcun fanatismo religioso, il concetto di guerra santa era loro sconosciuto, e combattevano solo
per la gloria del Celeste Impero, cosicché nessuno si preoccupò della sua fede. A sua richiesta gli fu dato un altro nome, Manchouli e, fin dall'inizio, gli venne affidato il comando di un gruppo di Uigar, cavalieri cristiani come lui al soldo del Gran Khan. Ebbe stivali di pesante feltro, una cotta di maglia sulla quale indossava una corazza di cuoio arabescato d'oro, armi di vario genere, e la scelta fra diverse donne tartare o usbeke riservate al sollazzo degli ufficiali. La sera prese gusto a ubriacarsi, con moderazione, e a giocare a scacchi o a dadi. Si tagliò la barba tenendo solo i baffi, e unì i capelli in due trecce che spalmò col grasso. Gaussin de Sollies, già Cavaliere Templare della città di Acri, già Crociato al servizio della Terrasanta, non esisteva più: al suo posto cavalcava Manchouli, Capitano di uno Squadrone dell'esercito che aveva unificato il continente asiatico dalla Corea alla Polonia. L'orda dei Mongoli procedeva come una nube temporalesca che avanzasse verso occidente. Circa dieci anni addietro, alla morte del grande Gengis Khan che aveva spazzato via interi imperi per unificarli sotto il suo dominio, gli era succeduto l'altrettanto avido di conquista Odogai Khan, la cui intenzione era di avanzare nella Turchia fino al Bosforo. Solo la sua morte avrebbe fermato quell'esercito all'altezza del Mar Nero, un anno dopo ma, quando Gaussin vi si arruolò, non si vedeva ancora chi potesse fargli argine. C'era qualcosa di magico e di terrificante in quella poderosa marcia di spostamento e le genti che ne osservavano l'arrivo fuggivano facendo il vuoto davanti a Temuchin. Il Sultano di Mosul si sottomise. Haithoon, Re dell'Armenia, si inginocchiò e gli offrì i suoi tributi. Boemondo, il Principe cristiano di Antiochia, mandò ambasciatori con ricchi doni e chiese di essergli alleato e vassallo. Il Cairo udì i tamburi mongoli rullare lontani e tremò. Gaussin non ci mise molto ad acquistare merito agli occhi di Temuchin il Crudele. La sua conoscenza delle lingue e degli usi di quelle popolazioni lo resero prezioso come ambasciatore, e il suo coraggio sul campo di battaglia fu apprezzato molto, anche se non rinunciava a lanciarsi all'attacco col grido dei Crociati: «Dio lo vuole!». Era infatti convinto che minacciare i Musulmani alle spalle fosse un servizio reso alla pericolante terra di Outremèr. Ma c'era un pensiero che non l'abbandonava mai e gli struggeva l'anima, perché lui era uno di quegli uomini che amano una volta sola e per sempre. Due mesi dopo, ebbe il comando di un intero reggimento di Turcomanni
dal naso arcuato, che andavano in battaglia come a un festino. Aveva scudieri che lo precedevano e lo seguivano con tamburi e stendardi nelle parate, oro e ricche uniformi, due cavalli arabi bianchi come la neve e una splendida tenda. Quando il Consiglio di Guerra era riunito, e Temuchin beveva latte fermentato nel cranio di un nemico ucciso per tener fede al suo soprannome, lui era sempre presente. Già prima di oltrepassare il Tigri, il Comandante in capo si compiaceva d'invitarlo nel suo padiglione, dove parlava e giocava a scacchi con lui fino alle prime luci dell'alba. E fu appunto durante una di quelle notti che Temuchin, muovendo il cavallo sulla scacchiera, s'interruppe e rivolse a Gaussin uno dei suoi rari sorrisi. «Credo di avere una missione per te, mio fedele Manchouli», annunciò. «È una cosa delicata e rischiosa.» «Udire è ubbidire, mio Signore», rispose lui come voleva l'etichetta. «E ubbidire a Temuchin è un privilegio. Dove dovrò andare?» «Tu sai che nella nostra marcia verso l'Occidente abbiamo mirato solo ai bersagli grossi, lasciandoci alle spalle obiettivi di scarsa importanza. Ma uno di questi è un autentico nido di vipere, e si trova proprio sulla scorciatoia che i miei messaggeri prendono per tenere i contatti col Cairo. Parlo della fortezza dello Sceicco Sinan al Jebal, in Alamut.» «Il Vecchio della Montagna?», chiese Gaussin, stupefatto. «Capisco, o Signore. Molti sono entrati in quel palazzo del terrore, e quelli che ne sono usciti sono meno di quanti tornano fuori dalla tomba.» «In verità sì. Quel tre volte maledetto si è sempre rifiutato di pagare tributi. È giunta l'ora in cui saprà che il Gran Khan prende ciò che vuole. All'alba cavalcherai verso Alamut, e porterai al Maestro degli Assassini una richiesta di resa immediata. Se la tua missione fallirà, sarò costretto a mandargli un esercito, ma vorrei evitare di distogliere truppe che possono servirmi contro i Turchi. Vai con sicurezza e senza timore. La potenza del Gran Khan viaggia con te.» Gaussin partì per l'oriente poco dopo l'alba. Per dieci giorni cavalcò su una delle piste che facevano parte della Via della Seta con una scorta di quattro cavalieri kirghisi, uno dei quali reggeva lo stendardo celeste del Gran Khan perché tutti sapessero che viaggiava per affari di stato. Cambi di cavalli freschi li attesero in ogni stazione di posta, mentre seguivano le aride pendici dei Monti Elburz a ridosso dei deserti pietrosi. Ai piedi dell'alta rupe giallastra in cui sorgeva il misterioso palazzo dello Sceicco, la sua scorta dovette fermarsi fuori di un muraglione e a lui solo fu concesso di entrare. Con gli occhi bendati, Gaussin venne guidato su per lunghissi-
me scale tagliate nel fianco della montagna, e poi oltre un portale antichissimo, dentro il covo dell'uomo che terrorizzava col suo nome buona parte del Medio Oriente. Infine, al termine di un percorso tortuoso, rigido e impettito nella sua uniforme borchiata d'oro, il giovanotto si trovò di fronte allo Sceicco Sinan al Jebal, nel salone più interno della rupe. Sebbene sapesse di godere dell'immunità parlamentare, Gaussin ebbe un fremito nel fissare il volto di quell'insolito individuo. Circondato da una ventina di servi e guardie del corpo, al centro di una piattaforma di legno dorato larga venti passi, l'uomo era semisdraiato in un immenso cuscino di seta nera nel quale pareva sprofondare del tutto. Una bellissima schiava di pelle bianca completamente nuda, gli fungeva da sostegno per il capo. Altre ancelle vestite solo di catene d'oro s'aggiravano sugli immensi pavimenti di pietra recando vassoi o anfore, in un silenzio tombale. Sinan al Jebal era un individuo di piccolissima corporatura, poco più che un nano e, all'apparenza, molto vecchio. Ma la testa che stava posata su quelle spalle esili era grossa il doppio del normale, e in essa erano incastonati due occhi meno espressivi di pezzi di vetro bianco. Le strane creature di quella corte di drogati gli mostravano enorme ossequio, ma Gaussin non s'inginocchiò né s'inchinò: lui era l'emissario del Gran Khan, dominatore dell'Asia. Uno dei pochi che non apparivano pieni di hashish fino agli occhi si fece avanti. «Quale petizione porti dal Catai allo Sceicco Sinan al Jebal, Signore della Vita e della Morte, o araldo dei barbari?», domandò superbamente. Gaussin lo ignorò e tenne lo sguardo fisso sullo strano gnomo, con baldanza. «Tu conosci la potenza del Gran Khan, i cui eserciti sciamano vittoriosi in ogni terra. Apri la porta della tua residenza agli emissari del Catai, sottomettiti e paga i tributi. Se lo farai ti verrà concesso di regnare su questa terra. Se ti dichiarerai nemico, allora attendi il tuo destino. Ho detto ciò che avevo da dire, o Sceicco.» A queste parole fece seguito un silenzio così abissale che l'atmosfera stessa parve farsi gelida, tesa come prima di un uragano. Poi, sulle facce degli uomini che circondavano il Vecchio della Montagna, si disegnarono sorrisetti contorti e malevoli. Lo Sceicco Sinan al Jebal si raddrizzò pigramente, impassibile. «Barbaro bianco», disse l'uomo, «riferisci a chi ti manda che il Signore di Alamut comanda al nomade selvaggio chiamato Gran Khan di tornare
nel villaggio della Mongolia, nello sterco di yat dov'è stato partorito, finché ha vita per farlo. Colui che trionfò sul Saladino e fece piegare in ginocchio il Re inglese Riccardo Cuor di Leone, non teme le miserabili orde venute dal Catai. Essi sono un gregge di pecore condotte da maiali. Ti lascio andare affinché tu riferisca le parole del Signore della Vita e della Morte.» Visto che il colloquio sembrava finito, Gaussin gli voltò le spalle senza dir altro. Si lasciò rimettere la benda sugli occhi, la spada gli venne restituita, poi lo riportarono all'esterno lungo il percorso tortuoso e complicato scavato nella roccia. Fuori era sceso il tramonto. L'ultimo tratto del cammino, le interminabili rampe che spiraleggiavano giù lungo la parete rocciosa, dovette compierlo da solo e al buio, senza neppure una torcia. Questo lo costrinse a procedere con cautela, poiché non c'erano parapetti e un passo falso avrebbe significato precipitare nello strapiombo. Soltanto la luna imbiancava il deserto quando infine raggiunse la porta nella muraglia che cingeva la base della rupe. Oltrepassò gli Assassini di guardia e solo allora, malgrado le loro occhiate fosche, poté tirare un sospiro di sollievo. Lasciare la roccaforte del Vecchio della Montagna dava la stessa impressione che uscire da un ossario. «Ehilà, camerati!», gridò, rivolto alla sua scorta. «Avevate scommesso che non sarei tornato fuori vivo, invece eccomi qua!» Nessuno gli rispose. Che si fossero addormentati? I loro cavalli erano ancora nei pressi: li sentiva scalpitare lievemente. Nel volgersi verso il muraglione scorse poi il chiarore di uno scudo, e dove la luce della luna non giungeva distinse le sagome dei quattro uomini seduti spalle al muro. Li chiamò ancora, irritato. Ma la voce gli si bloccò in gola quando poté vederli meglio: i suoi compagni kirghisi erano stati decapitati. Al suolo c'era lo stendardo celeste del Gran Khan, stracciato e calpestato. Più in là, su una roccia piatta, erano allineate quattro cose tondeggianti e biancastre che parevano osservarlo in un orrido silenzio coi loro occhi morti. «Per Allah e per San Giovanni Battista! Per il Gothama Buddha e tutti i diavoli dell'Inferno!», gridò il giovane. «Cento teste rotoleranno al suolo per ciascuna di queste, cani mangiatori di hashish. E per l'insulto che avete fatto allo stendardo del Gran Khan...» «Il tuo Khan è sterco», lo interruppe una voce. «Sterco sono i suoi uomini e i suoi stendardi, o tartaro.» Il corpo di guardia alla porta della muraglia era uscito dietro di lui, e ora
quattro ombre si stagliavano minacciose contro il biancore delle pietraie aride. Li vide sguainare le scimitarre senza fretta. «Tu sei venuto a insultare il Signore di Alamut», disse uno di loro. «Ma noi diamo sempre risposta ai messaggi. Ti rimanderemo indietro, o tartaro, e il tuo padrone capirà qual è la risposta appena ti vedrà arrivare da lui senza la testa!» I quattro Assassini ridacchiarono, agitando le lame ricurve. Gaussin non aveva perso tempo a sguainare il suo spadone, e lo fece roteare sulla sua testa con un grido furibondo: «Dio lo vuole! A noi, feccia!». Ma nello stesso istante accadde qualcosa che lo fece ansimare per la sorpresa. Prima d'entrare nel salone del Vecchio della Montagna era stato disarmato, e lo spadone gli era stato restituito soltanto all'uscita. Non sospettando un tradimento, non si era dato la pena di controllarlo. E fu mentre lo estraeva che ebbe modo di pentirsene, perché la lama si sfilò rimbalzando via nelle tenebre, e lui restò con l'elsa fra le mani. Gli Assassini non avevano atteso altro e, nel vederlo disarmato, risero della sua delusione. Avevano però fatto i conti senza il suo sangue normanno: se con la spada in pugno era temibile, il vedersi schernito e giocato lo trasformò in una belva feroce assetata di vendetta, più che se fosse drogato quanto loro. Con un balzo fu addosso al più vicino degli avversari, evitò la sua scimitarra e lo afferrò per il petto, poi lo scaraventò contro i suoi compagni con tale forza che in tre ruzzolarono fra i sassi. Senza quasi arrestare il suo slancio, afferrò una pietra e, piombando sui tre prima che si rialzassero, li colpì schiacciando teste e ossa con bestiale violenza. Pochi secondi dopo li aveva uccisi. Ma intanto che il giovanotto infuriava a quel modo, il quarto Assassino era riuscito a portarglisi alle spalle. Gaussin si volse ansimando, lo vide estrarre un pugnale e vibrare il colpo verso la sua faccia, e tutto ciò che poté pensare fu che era troppo tardi per evitarlo. Sentì un colpo violento, la lama avvelenata gli corse sull'osso della fronte bruciando come il fuoco, poi un fiotto caldo gli inondò la faccia accecandolo del tutto. Semisvenuto, cadde all'indietro a braccia spalancate, conscio che quella era la fine. E in quel momento, come in un incubo, udì il selvaggio ringhio di un lupo. Ad esso seguì uno stridulo grido umano che si spense in un rantolo d'agonia. Ci furono rumori confusi, un altro cupo grugnito, poi la mente del giovanotto scivolò nelle tenebre dell'incoscienza.
Quando Sylvanette cominciò a comprendere la realtà dello spaventoso mutamento nel suo corpo, fu così sopraffatta dall'orrore che per tutta la notte non ebbe la forza di alzarsi dall'erba su cui era caduta, presso il ruscello. Ma alfine l'istinto di sopravvivenza, o forse l'angoscioso desiderio di trovare la morte altrove, fu la molla che la indusse a muoversi da lì. Il mattino la trovò che vagava nella campagna, ancora sbigottita dalle spoglie fisiche da lupa che indossava, affamata e desiderosa di cibo. C'era un gregge che pascolava sull'erba di un pendio, e il pastore fuggì urlando nel vederla scivolare verso di lui fra i cespugli. Ma appena Sylvanette si accorse che i propri istinti l'avevano spinta ad afferrare un tenero agnellino fra le zanne, ebbe terrore di se stessa e le mancò il coraggio di ucciderlo. Lo lasciò andare e corse via. Cosa stava accadendo alla sua mente? Per qualche minuto si era lasciata dominare dalla ferocia, assetata di sangue come se ci fosse un demonio a possederla e guidarla. Un demonio, pensò con orrore, ecco cos'era diventata! E tuttavia si sentiva forte e viva come mai il suo vecchio corpo umano le aveva concesso di essere. Confusa da un caos di sensazioni nuove, ma più affamata che mai, percorse i boschi verso Nord finché la vista di un casolare la indusse a deviare da quella parte. Voleva aggredire, uccidere, e si lasciò portare avanti da quell'istinto ferino, però riuscì a mantenere il controllo e ne fu fiera, conscia che il corpo di lupa non dominava del tutto la sua personalità umana. Agì dunque con scaltrezza umana, e si mosse sottovento per evitare di mettere in allarme gli animali da cortile. Un odore allettante la guidò dritta a una baracca, nella quale vide della carne secca appesa a un gancio. Fuggì via con il cibo fra i denti, inseguita dalle rabbiose maledizioni di un contadino che l'aveva scoperta troppo tardi e, quando ebbe mangiato, si sentì meglio. Ora sapeva che ce l'avrebbe fatta a sopravvivere, anche se questo non era molto consolante: troppe erano le cose che aveva perduto, e le aveva perdute per sempre. A sera, la stanchezza le pesava nelle gambe, cosicché dovette cercare un posto per dormire fra i cespugli. Come rimpiangeva il suo letto e la comoda casa in cui aveva vissuto nel lusso! Distesa nel buio fra le foglie, sentì le lacrime scivolare sul suo muso peloso, e si addormentò assillata da pensieri fatti d'angoscia. Il mattino dopo fu ancora peggio perché, svegliandosi, scoprì di non aver affatto sognato. Ma un atroce appetito la costrinse a mettersi in movimento e, allorché vide la lepre, smise di riflettere alla sua situazione e balzò a inseguirla, avida solo di carne. Mentre masticava la preda, scorse in lontananza le mura di Acri, e fu sorpresa di non avere al-
cun desiderio di tornarvi: si sentiva libera e padrona di sé, e le cose che la attraevano erano altre, diverse, certamente inumane. Con un lieve ringhio corse via verso settentrione. Nelle settimane che seguirono scoprì che il fatto di procurarsi da mangiare con le sue forze la eccitava, e un'altra cosa sorprendente le accadde: l'odore degli altri lupi la spinse a desiderarne l'incontro. Quando ne vide alcuni, soli o in coppia nella boscaglia, si fermò a guardarli con attenzione e fu tentata di chiamarli. E, appena ebbe modo di avvicinarne un piccolo branco che viveva fra le colline di Tiro, si unì a loro. Come donna, un tempo, era stata terrorizzata solo al pensiero di quelle bestie ma, nella sua nuova forma, un istinto insopprimibile gliele faceva apparire amiche. Eccitata, si accorse d'essere inoltre più grossa e forte di qualsiasi altro suo consimile, perfino dei maschi, che le giravano al largo e la rispettavano. Ma i maschi l'avevano desiderata, e questo alla parte umana di Sylvanette non piacque molto, cosicché li tenne a distanza. Ben presto prese a cacciare con loro, talvolta pigramente, talaltra con impegno e ferocia, e cominciò a conoscerli uno per uno come degli amici. Stranamente si rese conto che i lupi avevano tra loro relazioni paragonabili a quelle umane, e che la consideravano la compagna del capobranco. Tuttavia il capobranco non osava né avvicinarla né cercare di sottometterla, come avrebbe fatto con un'altra femmina. Anzi, quando Sylvanette gli mostrava le zanne, si accucciava uggiolando, si distendeva a terra ed esibiva l'addome indifeso in segno di ubbidienza. Allora lei gli andava sopra e ringhiava cupamente, cosa questa che le piaceva moltissimo: non era più una fanciulla inerme, e come lupa era lei la più forte del branco, la più prepotente, colei che mangiava per prima e più di tutti. Ma i lupi le vennero presto a noia, perché erano stupidi e non potevano darle altro che un'insulsa compagnia. Fu così che finì per abbandonarli e se ne andò da sola in cerca di qualcos'altro. Durante questo periodo pensò poco alla vecchia La Crainte che le aveva gettato il malefizio, e ancor meno rifletté sul modo - terribile e spiacevolissimo - in cui la strega le aveva detto che avrebbe potuto trovare liberazione. Ma la cosa le si agitava come un tarlo nel cervello: se era vera, allora preferiva restare per sempre in forma di lupa. Questo fu quanto si disse. Viaggiò sempre verso settentrione, tenendosi sul litorale boscoso e cercando di non avvicinarsi agli insediamenti umani. Sapeva che nelle fattorie c'erano cani - bestie odiose, secondo i suoi istinti - e che se un uomo l'avesse attaccata, lei avrebbe provato l'impulso di ucciderlo. Stranamente,
ora che si era adattata al suo corpo, si sentiva di nuovo molto umana, e giudicò preferibile evitare le occasioni in cui la sua natura felina avrebbe potuto prevalere sulla sua umanità. Il suo senso del tempo si era alterato, e non ricordava più bene quanto fosse trascorso dalla sua partenza da Acri. Un giorno - forse sei mesi, forse un anno dopo - si trovò ad annusare fuochi spenti e i depositi di rifiuti di quello che sembrava un grosso accampamento abbandonato da poco, e capì che non distante c'era un esercito. Ciò destò il suo interesse. Un campo militare significava cibo in abbondanza, grasse pecore non molto sorvegliate, carri pieni di carne affumicata o sotto sale, cucine dove la notte i cuochi lasciavano sui banconi cibarie cotte o crude. Perché correre nei boschi dietro a leprotti o topi, quando c'era tutta quella grazia di Dio a sua disposizione? Un lupo normale non avrebbe osato approfittare di tale opportunità, ma Sylvanette avrebbe saputo benissimo come agire in piena sicurezza. Così seguì la pista di quell'esercito sperando di trovarlo in breve tempo. Un giorno si stava nutrendo con una grande quantità di ossa di bue, colme di succoso midollo e lasciate lì pochissimo tempo prima dalle orde che ormai tallonava dappresso, allorché sentì rullare un tamburo e scalpitare dei cavalli. Svelta si rintanò in un cespuglio. E fu in quel momento che annusò l'odore. Non era esattamente un profumo, ma qualcosa che alle sue narici sensibili giungeva più dolce dei balsami d'arabia. Da molto si era accorta che ogni singolo animale o essere umano aveva il suo odore personale. Ma questo era diverso. Era... era... Un drappello di cavalieri stava passando al galoppo, preceduto da un tamburino e da un portatore di stendardo. Il loro Comandante era vestito con un'uniforme di barbaro splendore e, nel vederlo, fu colta da un'emozione violentissima. Malgrado la sua eleganza da mongolo, i lunghi baffi neri e impomatati e le trecce ornate di fermagli d'oro, quello era Gaussin de Sollies... il suo Gaussin! Ma cosa stava facendo lì, tanto lontano dalla Terrasanta e insieme a quegli orientali? Non riuscì a capirlo, tuttavia ciò poco importava: lui era Gaussin, alla vista e all'odore, e le sarebbe bastato seguirlo per stargli accanto. L'impulso che la mosse fu irresistibile. Dopo quell'evento restò nelle immediate vicinanze dell'accampamento, di giorno a prudenziale distanza, ma la notte osando perfino passare fra le tende. Non sapeva se anelava di più al cibo o alla presenza del giovanotto: ciò che sapeva era che avrebbe dovuto stare lontana da lui, e che invece non ne era capace.
Tutte le volte che Gaussin partì coi suoi soldati, lei lo seguì, una grigia forma che correva silenziosa fra le rocce e i cespugli, che lo spiava ansiosamente in ogni occasione, che lo attendeva nascosta quando lui andava là dove un lupo non sarebbe potuto andare. Giunse così il giorno in cui lo vide prendere la via del deserto verso oriente, e ancora lo tallonò instancabilmente fino alla rocca giallastra e cotta dal sole di Alamut. Qui notò che Gaussin lasciava i suoi compagni e veniva condotto via sotto scorta, ed ebbe paura per lui. Agitata, vagò nelle vicinanze. Prima del tramonto, allorché dovette assistere all'uccisione dei quattro Kirghisi da parte degli Assassini, ringhiò con furia e provò l'impulso di avventarsi in loro difesa, ma non osò farlo. Sarebbe stato rischioso, e si sentiva molto confusa perché era combattuta fra il desiderio di penetrare nella fortezza e quello di attendere fra le rocce. Più tardi stava cercando il modo di penetrare nascostamente oltre la muraglia e si era scostata dalla porta, quando sentì rumori di lotta e udì il grido di Gaussin che si avventava contro gli avversari. Tornò subito indietro e per un attimo pensò d'essere giunta in ritardo: il giovanotto stava cadendo al suolo col viso inondato di sangue. Cieca per la rabbia balzò addosso all'Assassino che l'aveva colpito e gli affondò le zanne nella gola. Fu stupefacente per lei sentire quanto fosse tenera la carne umana. L'individuo cadde sotto di lei, si agitò, cercò di colpirla col pugnale, ma i suoi sforzi le apparvero ridicoli. Con un ansito belluino strinse i denti scannandolo come un agnello, e fu lieta di sentirlo morire. Poi si rivolse a Gaussin. La lama che l'aveva colpito era quella di un Assassino, e Sylvanette aveva sentito dire che quella gente usava il veleno. Febbrilmente si avvicinò al giovane che giaceva svenuto e gli leccò la fronte. La sua faccia era una maschera rossa; la ferita si trovava in parte sotto il cuoio capelluto, che si era sollevato, e fiottava sangue in continuazione. Da lì a poco però parve cominciare a richiudersi. Sylvanette leccò e leccò, con energia, mossa solo dalla speranza di lavar via qunto più veleno possibile prima che gli entrasse nelle vene. Il silenzio era assoluto, e dal deserto stava spirando un vento freddo che le gelava il sudore addosso. Ma solo quando fu certa che il giovane respirava normalmente osò distendersi sfinita accanto a lui. Venne il mattino. Gaussin aprì gli occhi e la vista del cielo terso gli disse che non era morto, come per un po' aveva creduto. Cosa gli era successo? La fronte gli bruciava, e i suoi pensieri confusi non volevano saperne di prendere un ordine. Da lì a poco, tuttavia, trovò la forza di alzarsi a sedere e si volse a destra,
notando che presso la porta della muraglia non c'era nessuno. Anche sulle rampe che conducevano all'ingresso della montagna non si scorgevano movimenti. Si girò a sinistra. Per un attimo pensò di avere un'allucinazione, quindi con un grido rauco balzò in piedi, tremando come una foglia. Sdraiata al suo fianco, completamente nuda e immersa nel sonno, c'era una fanciulla bruna, bella e dolce come una giovane fata. «Sylvanette!...», rantolò, sbalordito. E singhiozzando cadde in ginocchio sui sassi, abbracciandola perdutamente. La giovane donna si destò, e dopo alcuni secondi durante i quali rispose al suo abbraccio con commozione prese a osservarsi, ignorando le sue domande ansiose ed esaminando minutamente le proprie membra, con aria stranita. Si passò una mano sulla bocca e la ritrasse sporca di sangue raggrumato. «Oh, Gaussin!», balbettò. «Non ci speravo più... Ti ho seguito, e non speravo che sarebbe accaduto davvero. Anzi non volevo... avevo paura di farlo. Ma l'ho fatto.» «Non ti capisco, amore mio.» A occhi sbarrati il giovane la fissava, togliendo casacca e pantaloni a uno dei cadaveri. Le porse i vestiti, si tastò la ferita sulla fronte, e parve vacillare ancora per l'incredulità. «Tu sei qui. Com'è possibile questo, in nome di Dio? Cosa ti è successo? Mi hai seguito, dici? Oh, Sylvanette!» «Il tuo sangue, caro.» Con le lacrime agli occhi, la fanciulla si coprì pudicamente. «Ho leccato il taglio che hai sulla fronte, capisci? Lei lo aveva detto... Oh, tesoro, aveva detto che la mia sola speranza di liberazione era di bere il sangue dell'uomo che amo! E pensare che io credevo...» L'emozione le impedì di continuare. Poco più tardi, Gaussin de Sollies e Sylvanette de Gavaret salirono su due dei cavalli rimasti nei pressi, e si affrettarono ad allontanarsi dalla montagna sulla pista che portava a occidente. Sei mesi dopo, alla morte di Ogodai Khan, il Celeste Impero fu diviso da lotte intestine fra i suoi successori. L'esercito di Temuchin dovette rientrare in patria lungo la Via della Seta, e un distaccamento di tremila uomini fu mandato ad annientare il Vecchio della Montagna e i suoi Assassini. La rocca venne presa d'assedio e, un mese più tardi, lo Sceicco Sinan al Jebal fu impalato su una lancia insieme ad altri duecento uomini. Con lui moriva una leggenda, una delle tante ma non la più strana e misteriosa, fra quelle che si narrano sui tempi in cui i Crociati vivevano nella perduta terra di
Outremèr. L'ORRORE IMMORTALE The Horror Undying di Manly Wade Wellman Weird Tales, maggio 1936 Trovai quelle riviste sotto le assi del vecchio pavimento - che stavo letteralmente sfasciando per alimentare il fuoco nel caminetto - e ne fui immediatamente colpito. La casupola mi offriva riparo, le fiamme un confortevole tepore, e ora ecco pure il divertimento! Potevo addirittura dimenticare la cupa notte che mi circondava, la bufera di neve, e la tetra foresta nella quale mi ero smarrito. E potevo smettere di ripensare anche a quel barbuto figuro in abiti logori che mi aveva fermato ai margini della foresta, prima che mi ci addentrassi, blaterando qualcosa a proposito di «luoghi infestati». Si trattava di uno straniero, era evidente, e puzzava tremendamente d'aglio. Accomodato come meglio potevo su uno sgabello traballante, di fronte al focolare, distesi sulle mie ginocchia quelle pagine lacere e sbiadite. Il più grande di quei giornali aveva le dimensioni dei vecchi romanzi da due soldi, e con gli occhi della memoria posso ancora vedere gli stinti colori della copertina, accesi d'un rosso brillante dalle fiamme, e il titolo stampato con caratteri arzigogolati e disuguali: UNA STORIA VERA: I DISGUSTOSI E SANGUINARI CRIMINI DEL SERGENTE I. STANLAS, Corte Marziale ed Esecuzione Sotto il titolo (che sinceramente prometteva una ben stuzzicante lettura) stava l'accurata riproduzione xilografica di un uomo. Avvicinai la copertina al fuoco per vedere meglio. Quella che indossava, notai subito, era l'uniforme della cavalleria americana verso la metà dell'Ottocento: lucidi stivali con speroni, pantaloni con bande laterali, giacca corta e tondeggiante copricapo con visiera. Tre galloni stampigliati sopra una manica attribuivano a quel personaggio la carica di sergente. Solo allora i miei occhi notarono altre parole, molto più piccole, proprio sotto l'illustrazione: «Sergente Stanlas, da un disegno del-
l'Autore». E più sotto ancora: «Pubblicazione privata, 1848. Prezzo: 10 centesimi». Dieci centesimi?! Era dunque solo un romanzetto dal contenuto macabro? Ne ricordavo altri del genere, tipo La festa di sangue, Il demone barbiere di Fleet Street, Il segreto della Torre Grigia, e quindi esaminai meglio la copertina. L'autore-illustratore aveva immortalato il suo soggetto in una posa al tempo stesso spavalda e formale. I piedi, infilati negli stivali dai brillanti speroni, stavano disinvoltamente divaricati, formando un angolo che doveva essere decisamente scomodo mantenere. La mano destra era infilata nella giacca, alla maniera di Napoleone, mentre quella sinistra poggiava elegantemente abbandonata sull'elsa della sciabola. Nel complesso si trattava di una figura sicuramente ridicola, degna di un museo delle cere. E credo che avrei anche potuto ridere di gusto, se non fosse stato per il volto. Quell'uomo aveva una faccia tonda, striata da larghi basettoni. Gli occhi, sotto la visiera, erano spalancati e privi di espressione, ma riprodotti in modo tale da dare l'impressione che stessero a loro volta scrutando l'osservatore. A dividerli, ci pensava un naso lungo e diritto, sottile e quasi perfetto, quasi fosse stato scolpito da un artista. La bocca semiaperta, apparentemente priva di labbra, esibiva due piccoli denti appuntiti nell'arcata superiore. Il mento... be', pareva non esserci mento, o perlomeno era estremamente piccolo. A dispetto della tecnica un po' rozza con cui era stata eseguita l'illustrazione, da quel volto traspariva una sorta di inquietante, autentica vitalità. Feci una pausa per collocare nel caminetto qualche altra assicella del pavimento, poi aprii quel fascicolo e mi immersi nella lettura. La narrazione cominciava con uno stile assolutamente piatto e lineare. Si parlava di un certo Ivan Stanlas, nato in Prussia vicino al confine polacco nel 1810, poi trasferitosi in America appena dodicenne. Cinque anni dopo, nel 1827, si era arruolato nell'esercito degli Stati Uniti, conseguendo risultati così brillanti che - se fosse stato americano di nascita - avrebbe di certo ottenuto qualche riconoscimento straordinario, o almeno così suggeriva il suo biografo. Nonostante fosse di origine straniera, comunque non aveva impiegato molto a farsi promuovere Sergente di Prima Classe, ed era quindi stato impiegato per importanti missioni al Sud e all'Ovest. Durante la guerra del Messico si era trovato a capo di un eroico reggimento, e aveva riportato una ferita a Monterey. Nel 1847, poi, era stato nominato ufficialmente re-
sponsabile dell'edificazione di un forte nelle terre recentemente conquistate nell'Ovest del Texas. Fino a quel punto il narratore si era mantenuto piuttosto sul vago, per quanto concerneva la carriera del giovane Sergente Stanlas; ma il resoconto dell'incidente avvenuto subito dopo la costruzione del forte e di tutti i fatti che seguirono, invece, apparì per contrasto estremamente vivido ed efficace. Assorto nella lettura alla luce del focolare, dedussi che l'autore doveva senz'altro essere stato compagno di Stanlas all'epoca degli avvenimenti narrati; probabilmente, apparteneva al suo stesso squadrone. La descrizione del forte era accuratamente dettagliata: struttura rettangolare formata da tronchi dalle estremità appuntite, rudimentali casupole in legno allineate all'interno, ordinati covoni di fieno raccolto nelle praterie, gruppi di soldati costantemente indaffarati sotto gli occhi vigili dei superiori, sentinelle appostate e, al di sopra di ogni cosa, la fluttuante bandiera a stelle e strisce agitata dal vento. La guerra, all'epoca, era terminata, e la guarnigione del forte si sentiva finalmente rilassata e tranquilla, godendosi l'aria di pace che si respirava a pieni polmoni. Ma persino la più tremenda avventura vissuta dal più provato dei veterani sarebbe impallidita, di fronte a ciò che accadde poi... Tutto pareva trascinarsi piattamente, senza sorprese; finché un giorno, all'alba, furono rinvenuti i cadaveri delle due sentinelle, o perlomeno ciò che era stato lasciato di loro. I corpi erano straziati, dilaniati, sanguinolenti, e gran parte della carne e degli organi era sparita. Di primo acchito, gli ufficiali attribuirono ai pellerossa quello scempio, e fu deciso di inviare senza indugio una pattuglia per punire adeguatamente il nemico. Anche Stanlas si unì al gruppo, e fu proprio lui - o almeno questa fu l'impressione che diede - a trovare una traccia: seguendo lui, quei soldati accecati dal desiderio di vendetta cavalcarono per quattro ore attraverso la prateria fino a raggiungere un accampamento di guerrieri Comanche. Presi di sorpresa, parecchi furono i pellerossa a cadere sotto il violentissimo attacco della truppa: chi poté, invece, balzò in sella al proprio cavallo e fuggì. Diversi indiani feriti furono fatti prigionieri e interrogati duramente, ma tutti negarono nella maniera più assoluta di essersi anche solamente avvicinati al forte. Anzi, confessarono di essere terrorizzati da una sorta di demone che nottetempo si aggirava attorno ai loro accampamenti sbranando donne, bambini, e anche robusti guerrieri: un demone che, asserirono, si annidava fra gli uomini bianchi!
Naturalmente, i soldati risero a quella storia assurda, e fecero ritorno portandosi dietro cinque prigionieri. Non appena questi si trovarono nei pressi del forte, presero a tremare convulsamente. Vennero rinchiusi in una cella, ma... il mattino seguente uno di loro era scomparso. «Fuggito nonostante le varie ferite e la stretta sorveglianza»: questo fu scritto sul rapporto militare, e i soldati a guardia della piccola prigione furono raddoppiati. Quando però il sole del giorno seguente si sollevò all'orizzonte, un secondo prigioniero era sparito. Dal momento che il Sergente di guardia durante le due notti era stato proprio Stanlas, il Comandante - deciso a far luce una volta per tutte su quelle sparizioni - lo mandò a chiamare per un rapporto. Non appena egli entrò nella cella, i tre pellerossa rimasti assunsero un atteggiamento ben poco consono al loro stato di impavidi guerrieri; farfugliando parole sconnesse, dimostrarono infatti di essere sconvolti dalla presenza del Sergente. Era stato lui, dissero, a uccidere e a far sparire i loro due compagni: era lui il «demone del forte», e ora erano certi che avrebbe massacrato pure loro. Stanlas ascoltò quei vaneggiamenti in sprezzante silenzio, infine contestò furiosamente quelle accese accuse. E, quando i pellerossa si rifiutarono di ritrattarle, estrasse la sua sciabola e sfregiò il viso di quello che gli stava più vicino. Immediatamente disarmato da due soldati, Stanlas finì dunque agli arresti, e si procedette inoltre alla perquisizione della sua stanza. Non trovando nulla di particolare, il Comandante ordinò di sollevare le tavole del pavimento (e leggendo quelle parole, lo confesso, lanciai un'occhiata nervosa allo spazio nero che avevo scoperchiato togliendo le assi per riscaldarmi). Agli occhi dei ricercatori si presentò del semplice terriccio; ma furono sufficienti pochi colpi di vanga per riesumare i corpi degli indiani scomparsi, ridotti a poco più di due scheletri rosicchiati! A quel punto, la narrazione si fece morbosamente affascinante, come se l'autore si sentisse emotivamente coinvolto nella storia che andava raccontando. Il Sergente Stanlas, di fronte all'evidenza di quelle tragiche prove, non poté che confessare il proprio cannibalismo. Aveva assassinato e mangiato non solo quegli indiani, ma pure le due sentinelle e parecchi altri uomini e donne nell'Est. Quanti, esattamente, non avrebbe potuto dirlo; tutto ciò che ammise fu: «Più di cinquanta, forse un centinaio». Ma, sia che non potesse, o non volesse fornire spiegazioni più precise, arrivò comunque ad asserire di essere tormentato da un bestiale desiderio di carne umana. E le parti
che preferiva, aggiunse, erano il cuore e il fegato. Di fronte alla Corte Marziale, rinnovando la propria ammissione di colpa, Stanlas avanzò una singolare richiesta; le sue parole sono ancora stampate nella mia mente, poiché mi soffermai a rileggerle più e più volte. «Bruciatemi, riducetemi in cenere: questo desidero. Solo così la mia anima sarà redenta.» I giudici della Corte Marziale (posso immaginare le loro facce, pallide e stravolte) decretarono invece per il cannibale una morte più ortodossa. Egli venne infatti posto di fronte a un plotone d'esecuzione, composto - faceva notare l'autore - interamente da volontari. Quando Stanlas cadde sotto la scarica di colpi, l'ufficiale incaricato gli si avvicinò per esaminarlo. Il corpo sanguinante si muoveva ancora, debolmente, e dopo qualche secondo le palpebre si sollevarono con un fremito. Il militare estrasse subito la pistola, e conficcò senza esitare un proiettile nel cervello di Stanlas, la cui morte fu così ufficialmente dichiarata. Il cadavere crivellato di colpi venne sepolto all'esterno del forte, a una considerevole distanza dal cimitero, e nessuna lapide fu deposta a indicazione della sua sepoltura. Così terminava il resoconto; o perlomeno, la parte stampata. Infatti, in calce all'ultima pagina, notai una macchia informe, nerastra. Mi avvicinai alle fiamme per beneficiare di una luce così intensa e diretta. Riuscii a leggere una sola parola, non senza difficoltà; era stata tracciata da una mano tremolante, con un inchiostro ormai così sbiadito da risultare quasi invisibile: «Pazzi». Richiusi il giornale, e osservai ancora il ritratto di Ivan Stanlas sulla copertina. Ebbi momentaneamente l'illusione che quegli occhi privi di espressione fossero inchiodati su di me; probabilmente, riflettei, quello doveva esser stato lo stesso sguardo rivolto all'ufficiale che gli aveva inferto il colpo di grazia. Quella bocca, inoltre, pareva indirizzarmi un ghigno di derisione. D'improvviso mi sentii nauseato, a causa di quell'orripilante racconto. Che fosse una storia vera o inventata, la cosa non mi interessava più. L'unico mio desiderio, ora, era di dimenticarla completamente, e di trovare una lettura più piacevole e rilassante per affrontare la notte in quella sinistra capanna desolata. Lasciai cadere il fascicolo sul pavimento, ed esaminai le altre pubblicazioni che giacevano sulle mie ginocchia. C'era una coppia di larghi fogli ingialliti, dai bordi frastagliati, tenuti as-
sieme da un vecchio fermaglio arrugginito. Li liberai, e analizzai quello superiore. Era la pagina di un quotidiano. Un brandello di carta ne era stato strappato, in alto, ma potei comunque leggere quanto rimaneva dell'intestazione: «... ita Eagle, 11 luglio 1879». Naturalmente la mia attenzione cadde subito su un articoletto al centro del foglio, ben evidenziato da un cerchio in inchiostro nero. Il titolo, stampato in caratteri piuttosto piccoli, dichiarava: PIETÀ PER IL SOLDATO ASSASSINO Commutata la sentenza capitale per il Sergente Maxim Praticamente, a quanto ricordo, il testo dell'articolo era pressapoco il seguente: Fort Fetterman, Wyoming, 9 luglio - Il Dipartimento della Guerra ha oggi pronunciato la sentenza definitiva contro il Sergente Wilfred Maxim, la cui condanna a morte pronunziata dalla Corte Marziale è stata commutata in ergastolo. Maxim, accusato di un crimine estremamente crudele e singolare (aveva assassinato un civile per berne il sangue), era stato impiccato davanti ai suoi camerati alcune settimane fa. Una volta deposto dalla forca, però, era misteriosamente ritornato in vita. Dal momento che ormai la dichiarazione ufficiale di morte era stata redatta, Maxim si era rifiutato perentoriamente di infilare ancora il collo nel cappio, facendo notare che il suo debito con la giustizia doveva considerarsi estinto. Le più alte autorità di Washington si sono quindi consultate, stabilendo per lui la commutazione della pena in carcerazione a vita con sorveglianza speciale presso le carceri di Fort Leavenworth. Appena al di sotto dell'articolo, notai, nel punto in cui il circoletto d'inchiostro si ricongiungeva, la penna doveva aver tremolato. No, non era così... A un esame più attento non tardai a rendermi conto che quella sorta di piccolo scarabocchio era invece una parola, esile e incerta, ma assolutamente incisiva: «Pazzi». Fui scosso da un subitaneo spasmo nervoso, e i pugni mi si serrarono in-
volontariamente; il secco fruscio della carta sgualcita nella mia stretta mi fece trasalire. Per quanto breve fosse quell'articolo, e perlopiù steso con stile aridamente giornalistico, ebbe il potere di instillarmi un terrore senza nome. Cosa significava tutto ciò? Il parallelo con il racconto che avevo appena letto era evidente... Due assassini bestiali, due veri avvoltoi dalle spoglie umane... Uno aveva colpito nel 1847, e il secondo trentadue anni dopo, nel 1879. Entrambi erano stati militari, ed entrambi avevano dimostrato capacità tali da meritare la qualifica di Sergente. Inoltre, avevano massacrato delle persone per assecondare una sorta di appetito innaturale, erano stati condannati a morte, e si era rivelato quasi impossibile ucciderli. Le loro due storie erano state pubblicate, e qualche oscuro collezionista di cronache strane e raccapriccianti aveva trovato gli articoli nascondendoli poi sotto il pavimento della sua capanna... Ah, già: entrambi i resoconti erano stati commentati in calce con una parola che poteva riassumere un atteggiamento di sdegno, di scetticismo o di macabra ironia: «Pazzi». Esaminai ancora il circoletto d'inchiostro e la parola con cui si ricongiungeva a se stesso; erano entrambi piuttosto sbiaditi, ma non quanto lo era la parola scritta sul primo fascicolo. La grafia, comunque, era curiosamente simile. Anzi, il mio giudizio fu che entrambe fossero state vergate proprio dalla stessa mano, e nelle stesse date relative alle pubblicazioni dei due scritti! Lasciai scivolare sul pavimento quella pagina di giornale e guardai il foglio che qualcuno aveva attaccato con il fermaglio. Un tempo, era chiaro, doveva essere stato piegato in quattro parti, poiché due increspature si incontravano a croce sulla sua superficie. Larghi caratteri stampati proclamavano: $100 - TAGLIA - $100 Per la cattura di WILFRED MAXIM ASSASSINO EVASO 14 luglio 1879 Seguiva una descrizione dell'avvenimento, ma di quel testo ricordo soltanto un piccolo frammento: «Età: circa 36 anni.» Dunque, il Sergente
Stanlas e il Sergente Maxim avevano praticamente la stessa età all'epoca dei rispettivi arresti, oltre a tutti gli altri punti in comune. Mi sentii scuotere da un brivido violento, mentre pensieri di panico cominciavano a corrodere i margini della mia coscienza. Un angolo dell'annuncio era ripiegato all'indietro. C'era qualcosa, incollato sul retro. Girai il foglio. Così trovai la fotografia, l'immagine diafana di un uomo in uniforme. Sotto, vi era scritto: «Bill Maxim, 7 gennaio 1872». Riconobbi immediatamente la tremula grafia. E riconobbi pure quel volto!... Ma era incredibile, inspiegabile... Una folta barba ricopriva le guance e il mento del soldato. Riuscii a intuire a malapena la piega rapace della larga bocca nascosta in mezzo al pelo. Ma gli occhi erano ben in vista, sotto le folte sopracciglia unite, e così il naso, diritto e affusolato. Avrei voluto prorompere in un'esclamazione, ma mi ritrovai le labbra secche e insensibili. Mi chinai a raccogliere la prima rivista dal pavimento. Le mani mi tremavano mentre avvicinavo i due ritratti alla luce delle fiamme: la fotografia e l'incisione. Allora fui assolutamente sicuro, e accolsi quella tremenda rivelazione con un gemito disarticolato. Ivan Stanlas, ridotto a un colabrodo dai proiettili del plotone d'esecuzione, non era rimasto nella sua misera, anonima fossa. Si era invece scrollato di dosso il pesante manto di terra, e aveva camminato ancora! Si era arruolato nuovamente, sotto un altro nome, aveva riottenuto la carica di Sergente, e infine era stato catturato nell'atto di nutrirsi animalescamente di sangue umano! Molto meglio sarebbe stato per lui e per il mondo se la prima Corte Marziale avesse accolto la sua richiesta!... Com'erano le parole? Tornai a sfogliare le pagine della rivista, e lessi di nuovo: «Bruciatemi, riducetemi in cenere: questo io desidero. Solo così la mia anima sarà redenta». Quella consapevolezza, molto più terrificante del più tetro mistero, fece scendere su di me un cappio strangolatore. Con furia, scagliai rivista, giornale e annuncio in pasto alle fiamme. Lingue scarlatte si avventarono fameliche sopra la carta secca; rabbrividii, e non per la bufera che infuriava attorno alla capanna... D'improvviso una voce, suadente come un sospiro e selvaggia come un ruggito, giunse dall'esterno: «Pazzo!...». Quindi la porta si spalancò. Una figura intabarrata in un lungo cappotto o mantello scuro si stagliò sulla soglia, scrollandosi grumi di nevischio dai
capelli e dalle spalle. Io rimasi impietrito, a bocca aperta, incapace di reagire, come una preda di fronte a un cobra. La sagoma scivolò quindi verso il focolare, e allora il suo aspetto mi fece sbarrare gli occhi! Vidi il suo viso rotondo, pallido come un teschio. I capelli, corti e spettinati, stavano appiccicati alla fronte bassa, mentre gli occhi spiritati mi fissavano scintillando al di sopra del naso affilato. La bocca, larga e priva di labbra, era semiaperta, e rivelava dei sinistri denti acuminati... Avrei voluto dire qualcosa, minacciarlo, o implorarlo; ma non ne fui capace. Riuscii solo a indietreggiare, mentre l'intruso rimaneva immobile dinanzi al serpeggiante bagliore delle fiamme. Poi, di scatto, tese una mano verso di me. Osservai sgomento quelle dita simili ad artigli, e la fitta peluria che ricopriva il polso, il dorso, il palmo!... Allora si udì un grido, stridulo e disperato, simile a una tromba impazzita, seguito da un torrente di strane parole incomprensibili. Un'altra figura si profilò sulla soglia, ed entrò. Il primo visitatore distolse immediatamente la sua attenzione da me. Per un istante potei vedere il suo profilo, pallido e spigoloso, e udii il suo mantello frusciare come pelle rinsecchita. Un attimo dopo, il nuovo venuto gli si avventò contro. Lo sguardo selvaggio, la barba ispida e il pungente lezzo d'aglio, mi dissero che quello era lo stesso vaneggiante vagabondo in cui mi ero imbattuto prima di entrare nella foresta. Stretto in una mano teneva un pesante bastone ben lavorato, sormontato da una croce. Non colpì l'essere mostruoso, eppure quello gemette di paura, emettendo una sorta di squittìo che mi fece pensare a un pipistrello e sollevando le braccia per ripararsi il viso. Arretrò, terrorizzato, e non ebbe modo di evitare ciò che accadde: con un piede urtò contro il bordo del caminetto, una gamba gli cedette, e quindi cadde scompostamente all'indietro, tra le fiamme! Immediatamente le lingue impietose lo aggredirono, avviluppandolo in un abbraccio mortale e, dopo pochi secondi, il corpo del Sergente praticamente esplose! I sensi mi abbandonarono di colpo, e un profondissimo silenzio scese attorno a me... Mi risvegliai al tocco di una mano, ritrovandomi disteso sul pavimento. Sopra di me stava il viso barbuto, ora addolcito da un'espressione di premurosa gentilezza. «È tutto finito», mi disse con voce profonda, nella quale intuii un accento di trionfo. «Gli ho dato la caccia per molto tempo, senza mai perdermi
d'animo, e oggi, quando vi ho visto introdurvi nel suo "regno", ho pensato che avreste potuto servirmi involontariamente da esca. Allora mi sono preparato, e vi ho seguito.» Estrasse quindi qualcosa da una tasca. «Un paletto nel cuore e dell'Acqua Santa sarebbero stati un rimedio più appropriato, ma hanno fatto un ottimo lavoro pure la croce di biancospino, il fuoco, e questo.» Così dicendo, lanciò una manciata di spicchi d'aglio nel caminetto. «Adesso», continuò, «Stanlas, o Maxim, o comunque si facesse chiamare, non ritornerà mai più per saziare la sua fame!» Mi sollevai da terra a fatica, e d'istinto mi girai verso il focolare. Le fiamme si stavano estinguendo, crepitando sinistramente sopra l'aglio che si andava abbrustolendo e che sprigionava tenui vapori grigiastri; sotto, vidi un disgustoso ammasso di ceneri e carboni che nessun legno bruciato avrebbe potuto produrre. Da un anfratto, in quel grumo, vidi scivolar fuori qualcosa, un topo, o forse una strana lucertola... Prima che potessi vederlo meglio, comunque, il mio salvatore lo ricacciò tra le fiamme con il bastone, e quello non comparve più. «Credo che quella cosa fosse l'oscena incarnazione della sua anima maledetta», commentò in tono grave. «Non temete, sono certo che adesso è davvero tutto finito. Prima della Rivoluzione Russa io ero monaco a Mosca, e ho studiato a fondo certe cose. Alle luci dell'alba, ciò che è rimasto della sua carne nera e delle sue ossa avvizzite sarà distrutto completamente.» Chinandosi, raccolse alcune assicelle divelte dal pavimento. «Siete... un prete?», domandai, un po' stupidamente. «Prima che arrivaste, stavo cominciando a capire l'intera faccenda. La storia racconta che Stanlas desiderava essere ridotto in cenere...» «Sapevo dell'esistenza di quegli scritti, ma non li ho mai toccati per tema che potesse sospettarmi. Le vecchie leggende, figlio mio, non sono leggende: sono solo verità che la paura spinge a rifiutare. Durante la sua prima esistenza, egli era un Volkodlok, un Lupo Mannaro. Soltanto in punto di morte deve aver provato un estremo desiderio di salvezza e redenzione: ecco perché ha avanzato quella drastica richiesta non esaudita. Sapeva bene che, se fosse stato ucciso in modo normale, e se il suo corpo fosse stato lasciato integro, sarebbe ritornato a vivere in veste di Lupo Mannaro!» Detto ciò, gettò diverse assicelle nel fuoco, che scoppiettando riconquistò il perduto vigore. «Abbiate sempre timor di Dio», aggiunse infine, «e
di tutte le cose sconosciute che ha creato!...» LA PISTOLA D'ARGENTO The Phantom Pistol di Carl Richard Jacobi Weird Tales, maggio 1941 (come The Spectral Pistol in Revelation In Black, 1947) Quando ripenso al passato, la mia amicizia con Hugh Trevellan pare inevitabile. Eravamo quasi coetanei, scapoli, e i nostri interessi nell'avvocatura erano simili. Entrambi subivamo il fascino delle arti e dell'artigianato, migliorato dal passare del tempo. Io mi interessavo di libri. I miei scaffali erano pieni di volumi rari, grazie ad anni di collezionismo paziente e all'impiego di notevoli somme di danaro. Invece Trevellan si era accostato a un campo diverso dell'antiquariato. Ricordo la notte in cui il Maggiore Lodge ci presentò. «Signor Idiota, le presento il signor Idiota», ci disse a mo' di presentazione. «Voi due dovreste assolutamente conoscervi. Entrambi siete caduti preda dal morbo dell'antiquariato. McKay conosce tutto quel che c'è da sapere sui libri, e la collezione delle pistole di Trevellan farebbe rodere d'invidia qualsiasi maestro d'armi.» «Pistole?», ripetei, mentre stringevo la mano ossuta e scrutavo il viso magro che avevo di fronte. A quel punto Hugh Trevellan sorrise. I suoi occhi azzurri e chiari brillarono amichevolmente. «Sì», rispose, «revolver di tutti i tipi: pistole a rotella, pistole a pietra focaia, ad avancarica, e perfino le assurde armi automatiche che si fanno oggi. Vorresti vederle?» È strano quanto l'istinto collezionistico sia insito in ogni uomo. Ho sentito che perfino i selvaggi accumulano pietre colorate, e mi ricordo che grande dispiacere provai una volta, da ragazzo, quando persi il mio album di francobolli stranieri. Per Trevellan la collezione di pistole era la sua vita. Almeno una volta al giorno egli apriva la cassa di pesante mogano e le ammirava. Le spolverava, ne lucidava le parti metalliche. E ne cercava sempre altre. In realtà si trattava di una notevole collezione di armi. Vi erano esemplari quali il cannone a mano della metà del Quattordicesimo Secolo, uno dei più antichi, che era sistemato su uno degli scaffali più alti, fino alla moderna Luger automatica a canna lunga, posta sull'ultimo scaffale. La cassa
mostrava quindi il graduale sviluppo della produzione delle armi da fuoco durante i secoli. «Questa l'ho trovata solo ieri alle Vendite Meldrow», disse Trevellan, prendendone una. «È una pistola italiana, del tipo Snaphauce e non sono sicuro che non sia un falso, benché l'abbia pagata cara. Ecco un paio di pistole a pietra focaia di Lazarino Comminazzo. Prego notare i doppi cani. Questo è un vecchio archibugio, e questa è una pistola a rotella con lo stemma reale dorato in oro damascato.» Perfino i miei libri, di cui mi vantavo da tanto tempo, parevano impallidire di fronte allo splendore che vedevo mentre esaminavo quegli oggetti bellissimi. Lo dissi a Trevellan, e lui sorrise con grazia. «Vorrei vedere i tuoi libri», rispose. «Ho qualche volume sulle munizioni. Sono edizioni abbastanza antiche ma, dal punto di vista dell'edizione e della rilegatura, temo che abbiano ben poco valore. Sfortunatamente parto per la campagna domani, quindi dovrò posticipare la visita.» «Per quanto starai via?» Si strinse nelle spalle. «Ho affittato un posticino fuori città, nell'Arronshire, e potrei rimanervi anche per tutta l'estate. Me lo ha consigliato il medico. Dice che sono molto nervoso e che ho bisogno di stare un poco da solo. È una gran scocciatura, ma non m'importa poi tanto. Posso finire un articolo che ho cominciato un mese fa sulle pistole scozzesi. Ma dimmi... perché non vieni in automobile a trascorrere con me un paio di settimane? Potremmo divertirci un mondo.» Ai primi di luglio, quando il lavoro me lo permise, ero sceso in macchina per andarlo a trovare, ma mi ero visto costretto a interrompere la visita; con un vero e proprio sospiro di sollievo ero tornato a Bloomsbury. Perché? La ragione era molto difficile da definire. Eppure ora, vedendo le cose in retrospettiva, quello mi parve un avvertimento di natura psichica circa quanto sarebbe poi accaduto. Trovai che l'Arronshire era una zona abbastanza distinta, separata da zone circostanti, sia da un punto di vista filologico, sia da un punto di vista geografico. La gente del luogo era rozza e vigorosa, e l'inflessione del dialetto era piuttosto spiacevole e dura. La campagna all'intorno era molto selvaggia e poco ospitale. Ovunque si avvertiva un senso di trascuratezza. Le siepi erano lasciate a loro stesse, incolte. I segnali lungo le strade erano caduti in rovina, la macchina sferragliava passando sopra ai ponti che parevano sul punto di crollare, mentre i villaggi non davano alcun segno di vo-
ler accogliere benevolmente i viaggiatori. Il sentiero orlato di vecchi e bitorzoluti alberi di melo che conduceva alla villa, era lungo tre chilometri. All'improvviso mi fermai. Vi era una targa sulla cassetta della posta, che aveva attratto la mia attenzione. Diceva: «Blueker House», «Ludwig Blueker, Becchino». La casa era una di quelle mostruosità vittoriane, sovrabbondante e molto bisognosa di una mano di vernice. Il prato che la circondava era pieno di erbacce, e si avvertiva una certa aria di trascuratezza. «Ti piace?», gridò Trevellan dalla veranda. «Perché non hai tolto la targa del becchino, in nome del Cielo?», ribattei. «Questo posto è allegro quanto un cimitero.» Lui aveva preso la casa completa di mobilio. Quindi aveva portato con sé un solo baule e, naturalmente, le sue amate pistole. La teca delle armi era stata posta accanto alla grande vetrata che dava sul prato. La grande cassa di mogano pareva stranamente fuori posto in quel punto, quasi quanto Trevellan stesso. Mentre sedevo di fronte a lui, guardando il suo volto dai lineamenti delicati illuminato dalla luce della lampada, come se fosse di cera dipinta, non riuscii a fare a meno di pensare a un vecchio dipinto a olio, un ritratto di un cortigiano francese, che era appeso nel mio appartamento. Ma, benché non riuscissi a indicare chiaramente nessuna caratteristica principale della casa che mi risultasse spiacevole di per sé, non riuscivo a sfuggire alla sensazione che vi fosse qualcosa di tetro e deprimente nell'architettura che scacciava ogni allegria e mi lasciava preda di uno stato di profonda melanconia. Rimasi due giorni, poi tornai a Londra. Il resto dell'estate passò. Di tanto in tanto mi arrivava una lettera da parte di Trevellan. Si era abituato alla vita solitaria, diceva, e si stava godendo quel periodo di convalescenza. Dopo agosto venne settembre, e le lettere diminuirono, quindi cessarono del tutto. Poi, un giorno, a Charing Cross trovai un libro che mi fece ripensare a lui. Era un vecchio volume, che era stato rilegato con cura una volta. Il titolo Historie di Certe Armi da Fuoco di Piccole Dimensioni era inciso profondamente in corsivo sulla copertina. Conteneva disegni molto accurati di vecchie pistole. Sapevo con che gioia il mio amico avrebbe visto un'opera simile. Quindi, il giorno dopo partii per Arronshire per visitare Hugh Trevellan. Una settimana prima, la campagna era stata un unico turbinio di splendidi colori autunnali, ma ora, guidando, trovai solo un cimitero di alberi nudi e
di monotoni rovi. I forti venti che avevano infierito da Sud durante gli ultimi giorni, avevano fatto cadere ogni foglia, e si avvertiva l'avanzare del primo inverno. All'imbrunire giunsi alla villa. Di nuovo, come era già accaduto all'inizio dell'estate, avvertii un cambiamento d'umore cogliermi proprio mentre entravo in quella zona. Nere nuvole cariche di tempesta si addensavano nel cielo quando giunsi al villaggio di Darset. La polvere e le foglie morte mulinavano attorna alla macchina, e qualche goccia di pioggia cominciò a cadere sul parabrezza. Ma la mia attenzione fu colta dallo stato di eccitazione generale che regnava nel paese. Gli abitanti erano sparsi in gruppi e, alla luce delle finestre delle vetrine dei negozi, parevano intenti a discutere animatamente tra loro. Diverse macchine dall'aspetto vetusto sfrecciarono davanti a me, piene di uomini armati di fucili da caccia. Intanto, sulla soglia di una delle case, diverse persone tentavano di consolare una donna che piangeva disperata. «Cos'è successo?», chiesi all'uomo alla pompa, mentre si accingeva a rifornire il serbatoio di benzina. «Lupi», ribatté. Aveva un tono impaurito. «I lupi», gli risposi con tono piuttosto freddo, «qui in Inghilterra si sono estinti nel Quindicesimo Secolo.» Lui mi lanciò uno sguardo strano, rovesciando sul parafango un bel po' di benzina. «Davvero, signore?», disse. «Allora deve trattarsi di un cane selvatico, o di qualcosa di ancora peggio.» «Ha attaccato qualcuno?» La mano dell'uomo tremava mentre riceveva il danaro. «Proprio così, signore. Si è preso la più giovane dei figli della vedova Chase, la bambina più carina che abbiate mai visto.» Lo squadrai. «Volete dire che un cane randagio ha ucciso una bambina?» «E non è la prima volta, signore. Due settimane fa Johnny, il figlio del calzolaio, è stato portato via praticamente sotto gli occhi di sua madre. È un animale che viene di notte, da solo. È una grossa bestia grigia, con gli occhi di fuoco, dicono. Jeff Twiliger gli ha sparato dalla sua camera da letto. Jeff riesce a colpire uno scellino ogni volta a una distanza pari a quella tra il punto in cui siamo ora e quell'albergo laggiù, ma lo ha mancato. È stata anche promessa una ricompensa: cinquanta sterline all'uomo che ci porta la sua pelliccia. Credo che prenderò anch'io il fucile. È una bella ci-
fra.» Mi accorsi del cielo minaccioso che ci sovrastava e con l'aiuto di quel garagista alzai il tonneau della macchina. Il rullio distante dei tuoni mi ronzava nelle orecchie mentre percorrevo la stradina piena di curve, e la luce dei fari mi mostrava che ormai la pioggia cadeva fitta. Dopo un quarto d'ora di guida in quelle condizioni, fui costretto a rallentare. Finalmente giunsi nella strada in cui sorgeva Blueker House, e poco dopo mi ritrovai a salutare Hugh Trevellan. La casa aveva un aspetto ancora più cupo della volta precedente. Ma, quando il mio amico mi offrì un bicchere di Liebfraumilch, fui quasi contento di essere venuto. «È proptio un buon vino», disse Trevellan. «Lo ha lasciato il vecchio austriaco, l'ex proprietario. È morto, sai, e così la casa è stata offerta in affitto completa di tutti i mobili. Ho visto l'annuncio e l'ho affittata senza neanche vederla. Non è male, eh?» Sorrisi e appoggiai il mio bicchiere sul tavolo. «Ho qualcosa da mostrarti», dissi, aprendo la mia borsa. Lui si alzò in piedi in un baleno, con l'entusiasmo di un ragazzo che si ricorda all'improvviso di un giocattolo. «E io ho qualcosa per te.» Si avvicinò lesto alla sua collezione di pistole e tornò con una scatola di forma allungata ricoperta di argento un po' liso. Ponendola sul tavolo dinanzi a me, l'aprì e fece un passo all'indietro, tutto fiero. «Il più grande capolavoro di tutte», disse. «E dove pensi che l'abbia trovata? Proprio a Darset, il posto più improbabile del mondo.» Adagiata sul cuscino di velluto scuro, alla luce della lampada vidi brillare una bellissima pistola a canna lunga. L'impugnatura era in avorio, ormai ingiallito come un antico cammeo, e adorna di intricati motivi a filigrana. L'intarsio in mosaico formava strani disegni al di sopra del grilletto, e il tamburo, che era slanciato e aggraziato come una lancia in resta, era decorato di spirali d'oro che brillavano nella penombra. Una piccola croce d'oro in aggetto la decorava a una estremità. Ma fu il cane che attrasse la mia attenzione. Era di acciaio annerito, ed era stato modellato in modo da formare un teschio molto realistico. «Non è una bellezza?», chiese Trevellan, appoggiandosi alla mia spalla. «L'hai comprata a Darset?», chiesi a mia volta, incredulo. Lui sorrise, felice. «È stata pura fortuna. Apparteneva a uno degli abitanti del paese. Quan-
do ha saputo che mi interessavo di vecchie armi, si è offerto di vendermela. Gli ho dato il doppio di quello che mi aveva chiesto.» Presi la pistola dalla custodia, e la soppesai. «È italiana?», chiesi. Travellan aggrottò le ciglia. «Questa è una buona domanda. Per la verità non so da dove venga. No, non credo che sia italiana, e niente indica che provenga dalla Germania. L'uomo mi ha detto che appartiene alla sua famiglia da molti anni.» A quel punto accendemmo le pipe, e Trevellan mi intrattenne con una lunga dissertazione circa l'arte insita nelle armi antiche in generale. Dopo un po' gli mostrai il libro che aveva costituito il motivo della mia visita. Trevellan ne sfogliò attentamente le pagine, e osservò le illustrazioni. «È un lavoro eccellente», disse. «Io...» La sua voce si affievolì. Gli occhi all'improvviso si fissarono sulle pagine aperte del libro. Con un'esclamazione a bassa voce spinse la lampada da tavolo più vicino alla pagina stampata. «Guarda, McKay», disse con voce roca. «Leggi qui!» Il volume era aperto al capitolo «Inizi del Diciottesimo Secolo». Al centro della pagina lessi il seguente paragrafo: Il miglior lavoro del maestro artigiano Johann Stiffter di Praga, è stata una pistola fabbricata per un inglese, Sir William Kingston, nell'anno del Signore 1712. Quest'arma fu fabbricata in maniera insolita, in quanto è stata fatta in maniera da poter sparare una pallottola d'argento, benedetta da sette sacerdoti con l'acqua benedetta, e ha un crocifisso inciso sul tamburo. Si diceva che Sir William Kingston avesse l'abitudine di viaggiare nelle terre del Sud e che durante uno di questi viaggi fosse stato attaccato da Lupi Mannari e da altri demoni. I Lupi Mannari, che erano in realtà creature umane unite a Satana, avevano rapito la sua figlioletta, Julie, e Sir William ne era stato fortemente addolorato. Quindi l'inglese aveva giurato vendetta su tutte le creature infernali, e aveva ordinato una pistola del genere, che combinava tutti i metodi conosciuti per uccidere simili esseri. A seguito di tali parole vidi un'illustrazione e una descrizione dettagliata, che riproduceva la pistola d'avorio che Trevellan mi aveva mostrato solo poco tempo prima.
Non vi era possibilità di errore. Nessuna pistola di simile fattura poteva essere stata copiata. Tuttavia non vi era che un modo di provarne con assoluta certezza l'autenticità. La descrizione citava anche le cinque parole che l'artigiano aveva inciso sull'arma: «Tod dem Werwolf schwöre Ich» (Giuro che ucciderò il Lupo Mannaro). «Hai una lente d'ingrandimento?», chiesi a Trevellan. Poi, guardandolo in viso, notai la costernazione del mio amico. L'uomo era quasi fuori di sé. Le mani gli si aprivano e gli si chiudevano in maniera convulsa. Il suo viso era diventato bianco e pallido, e aveva un'espressione di timore negli occhi. Si alzò barcollando. «Ci dev'essere una lente, da qualche parte. Io... vado a vedere se riesco a trovarla.» Pochi minuti dopo eravamo curvi sull'arma, e la scrutavamo attentamente per mezzo della lente. Delle minuscole lettere apparvero sul tamburo. «Ecco!», esclamai. «È proprio la stessa.» Non vi fu risposta. Mi voltai a guardare Trevellan. Era appoggiato pesantemente contro il tavolo, e le sue labbra si muovevano in maniera convulsa. Bruscamente mi strappò di mano la pistola, la ripose nella custodia e la rimise nella teca di mogano. «Stai male?», chiesi. «Sì», rispose esitante. «Mi... mi sento un po' debole. Quella lunga camminata durante la mattinata mi deve aver stancato oltre il dovuto. Se non ti dispiace, credo che mi andrò a coricare.» Naturalmente assentii, e lo guardai con curiosità mentre lasciava la stanza. Cosa era successo a quell'uomo? Si era comportato in maniera perfettamente normale fino al momento in cui aveva letto il capoverso che parlava della pistola. Accesi la pipa e rimasi seduto dov'ero, rimuginando su quel suo strano comportamento. E, mentre il fumo dalla sigaretta si levava verso il soffitto, mi accorsi di nuovo della tempesta che era in corso all'esterno. La pioggia scrosciava sulla grande vetrata ora. I tuoni brontolavano nel cielo sovrastante come se un gigantesco mattarello venisse passato avanti e indietro sul tetto della casa. Per un certo tempo rimasi lì, soddisfatto, contento di poter ascoltare il fragore della bufera notturna, così vicina, eppure così lontana. Ma poi la mia mente imboccò una linea di ragionamento suggerito da quello strano capoverso, e un senso di irrequietezza molto pronunciato s'impadronì di me.
Lupi Mannari! Quali strani orrori si crea l'uomo! Era una strana credenza questa, secondo la quale un uomo può sviluppare una tendenza a prediligere il sangue umano, e tramutarsi in un animale inferiore - un lupo - per ottenerlo. Ancor più strana era la tradizione secondo la quale l'Acqua Santa, la vista di un crocifisso, oppure una pallottola d'argento, potessero uccidere un simile demonio. Eppure sapevo che tali superstizioni erano ancora vive nell'Europa del Sud. Improvvisamente la pipa mi scivolò tra i denti, e mi alzai a sedere. Le parole del garagista di Darset mi balenarono di nuovo in mente. Aveva parlato di un lupo, di un cane randagio, che era entrato in città e aveva ghermito un bambino, in due occasioni diverse. Tentai invano di cancellare l'assurda domanda che mi sorgeva nella mente. Quel grosso animale grigio, poteva essere proprio un Lupo Mannaro? Feci una risata forzata. Il pensiero rimaneva, persistente in me. Altri dettagli mi sorsero alla mente, e sconfissero il mio giudizio. Non era forse vero che i lupi si erano estinti in Inghilterra fin dal Quindicesimo Secolo? Sì, certo; ma questo animale poteva essere un cane selvatico. Ma se fosse stato un cane inselvatichito, nel paese si sarebbero certo ricordati del tempo in cui era stato un cane domestico. Aggrottai la fronte. Non era necessario: l'animale poteva essere originario di una zona diversa, ed essere stato abbandonato dal padrone. Eppure, un cane inselvatichito si sarebbe diretto a saccheggiare i pollai. Per quanto potesse essere stato lungo il suo periodo di vita randagia, la carne umana gli avrebbe ripugnato? Fissai il braciere della pipa. Questa era una domanda alla quale non sapevo fornire una risposta. Uno scaffale di libri sul lato opposto della stanza attrasse il mio sguardo e, pensando di potermi distrarre indirizzando la mente verso più piacevoli pensieri, attraversai la stanza e lasciai che il mio sguardo si attardasse ad esaminarne i titoli. Con stupore, mi accorsi che tutti i volumi concernevano argomenti quali la licantropia, la stregoneria, la Magia Nera, e l'Occultismo. Avevo di fronte la Restituzione dell'Intelletto Decaduto di Richard Verstegan, nomi strani appartenenti ad autori morti da lungo tempo, opere rare la cui pubblicazione era stata proibita da gente timorata di Dio. Vi era il Libro degli Spettri di Le Loyer, la sesta edizione del De Praestigies Daemonum et Incantationibus stampato a Basilea, e l'infernale libro di Milo Calument, Io sono il Lupo Mannaro, del quale tutte le copie, secondo quanto mi ricordavo, erano state gettate nella palude di Hoxton.
Era strano che Trevellan non mi avesse parlato di quei libri. Niente mi avrebbe potuto fare più piacere. Era anche strano, pensai all'improvviso, che Trevellan li leggesse. Non vi era una sola riga che parlasse di pistole in quei libri. Ma quando esaminai uno di quei volumi, scoprii quale era il motivo. Non era lui il proprietario di quei tomi. Appartenevano a Ludwig Blueker, il precedente proprietario della casa, come era attestato dal nome scritto con uno svolazzo sull'incipit. Eppure i libri non erano stati trascurati da Trevellan. Tra le pagine trovai strane annotazioni scritte nella sua stessa calligrafia. Il suo particolare stile era inconfondibile. Un certo gruppo di frasi attrasse il mio sguardo. Diceva: 31 luglio. Ho osservato i riti notturni e ho scoperto di avere il potere. Quasi non riesco a crederci, ma è vero. Qualcosa sembrava attrarmi verso il villaggio, ma non osavo avventurarmi fuori dal giardino. Bisogna abituarsi a un cambiamento di tale entità. Il sospetto che allignava nella mia mente cominciava a crescere, e sfogliai le pagine in cerca di altre annotazioni. Ma al di fuori di incoerenti grovigli di parole, il resto era tutto latino, una lingua che non conosco. Disorientato, salii le scale, diretto alla mia stanza. Quindi mi spogliai, e mi coricai. Il sonno mi è sempre venuto prontamente, durante tutta la mia vita. Eppure allora, sentendo la pioggia battere sulle finestre, e vedendo i lampi disegnare figure grottesche sulle pareti, rimasi sveglio ad ascoltare il lento ticchettio dell'orologio del salone. A mezzanotte udii i lenti rintocchi dell'orologio. Poi sentii la porta della stanza di Trevellan aprirsi, con uno scricchiolio, e dei passi soffocati lungo il corridoio. Sgusciai verso la porta, l'aprii appena, e diedi un'occhiata. Una fioca luce da notte era accesa nel lato opposto della sala. Grazie ai pochi raggi vidi Trevellan, completamente vestito, muoversi verso le scale. Ma le sue movenze non erano quelle di un uomo a casa sua. Si muoveva furtivo, fermandosi ad ogni passo, per rimanere in ascolto. Quando giunse al primo gradino, riuscii a intravvedere il suo viso per un attimo. Sulle sue fattezze contorte vi era un'espressione selvaggia e demente. Gli occhi gli fuoriuscivano dalle orbite, e le labbra pendule erano atteggiate a un ghigno vacuo. Per un istante guardò ciecamente la porta. Poi cominciò a scendere.
Per un attimo rimasi dov'ero, fermo in ginocchio, fissando il vuoto, al buio, mentre il mio cervello turbinava. Il mio amico soffriva di sonnambulismo? Ma non vi era nulla nel comportamento di Trevellan che somigliasse a quello di un sonnambulo. Ma allora dove era diretto con quel fare da criminale inseguito? Spinto da un irresistibile impulso, mi lanciai lungo le scale e spalancai la porta. Un torrente di pioggia mi frustò il viso. Di fronte a me vi era solo la tenuta immersa del buio. Poi un fulmine illuminò il cielo e lo vidi. Lungo il sentiero che portava verso la strada, un grosso lupo grigio procedeva a grossi balzi. In quell'istante nella luce accecante del fulmine si voltò, e la vista di quegli occhi infuocati e malvagi mi rimase in mente per sempre. Poi la scena ripiombò nelle tenebre, e io rimasi impietrito, senza riuscire a muovere un dito. Intirizzito, mi diressi lentamente verso la mia stanza, mi gettai a sedere in una poltrona accanto alla finestra e guardai la pioggia scendere lungo il vetro. Domande senza risposta mi martellavano nel cervello. Le ore passavano lentamente, e piano piano caddi in una specie di dormiveglia. Quando mi svegliai, la grigia luce dell'alba si diffondeva nella stanza. Il vento era cessato, e le pozzanghere fuori parevano immobili lastre metalliche sotto un cielo plumbeo. Tutto era stranamente calmo. Attraverso una finestra aperta sentii l'odore della terra umida e delle foglie che marcivano. Rimasi in ascolto. Dalla direzione del villaggio si udiva un lungo, lugubre ululato: risuonò di nuovo, più distintamente. Anni prima avevo sentito un richiamo del genere, a Royalwoods, durante la caccia alla volpe. Ma questa volta non si trattava del latrato dei cani: era il richiamo di un lupo, che si avvicinava a gran velocità alla villa. Con i pugni serrati, attesi. Dopo pochi minuti lo vidi correre allo scoperto, proprio sotto le mie finestre. Un senso di ripugnanza s'impadronì di me alla vista di quel grosso corpo peloso. Il lupo si guardò attorno ringhiando, poi si diresse verso il lato opposto della casa, e lo persi di vista. Per qualche istante regnò il silenzio. Poi udii la porta aprirsi lentamente. Udii dei passi attutiti sulle scale. Attraversai la stanza e spalancai la porta. Hugh Trevellan stava per imboccare il corridoio. Non aveva più l'atteggiamento furtivo di una persona che temesse di essere vista. Ora si teneva eretto e si voltò per lanciare un'occhiata dietro le spalle prima di entrare nella sua stanza. Improvvisamente ebbi un capogiro, e un urlo mi salì incontrollabile in
gola. Avevo visto la bocca e le labbra di Trevellan un istante prima che entrasse nella sua stanza. Che Dio mi aiuti, pensai. Infatti erano sporche di sangue scuro! Le ore che intercorsero tra quel terribile istante e il momento in cui scesi barcollante a colazione, mi parvero eterne. Quando mi sedetti al tavolo le mani mi tremavano visibilmente. «Buon giorno, McKay», disse Trevellan. «Spero che tu sia riuscito a dormire serenamente, nonostante la tempesta.» La soddisfazione che vidi sul viso di quell'uomo mi provocò un'ondata di nausea. Tuttavia lui non parve notare il fatto che non gli risposi. Rideva e scherzava, tenendo viva la conversazione, e non riuscii a fare a meno di pensare che il suo comportamento somigliava a quello di un uomo che avesse preso una forte droga. Lo osservai attentamente mentre sorseggiava il tè. Le sue guance erano piene di una salute quasi innaturale. Eppure pareva cambiato, seppure non in maniera molto marcata. Le sue fattezze erano le stesse, e i pallidi occhi azzurri gli davano ancora l'aspetto di fragilità di bambola, ma attorno alla testa si notavano alterazioni che ne avevano distrutto l'effetto di classica modellazione che avevo sempre ammirato. Le orecchie erano più sporgenti, più lunghe, e di forma puntuta. Il suo naso ora era più largo, e le narici parevano dilatate. «Trevellan», dissi dopo colazione, «chi era Ludwig Blueker?» Lui aggrottò le ciglia. «L'ultimo proprietario della villa», rispose. «Andiamo a fare una passeggiata lungo la strada, per un po'?» «So bene che era il proprietario», dissi mentre uscivamo, «ma era un becchino o un contadino?» «Entrambe le cose, credo», rispose Trevellan. «Si guadagnava da vivere lavorando la terra, e riusciva a guadagnare qualche sterlina in più preparando i funerali per la gente di Darset.» Era chiaro che Trevellan non desiderava discutere quell'argomento con me. «Ieri sera ho dato un'occhiata ai suoi libri», dissi. «Che collezione notevole! Blueker dev'essere stato uno sciocco superstizioso!» Trevellan scattò con un ringhio. «Era un grand'uomo!», gridò. «Quei villici ridevano di lui, perché preferiva stare in solitudine a studiare cose che loro non capivano. Blueker ci ha messo anni a mettere insieme quella biblioteca.»
Ormai eravamo vicini alla fine della strada, e dovevamo evitare le molte pozzanghere d'acqua. Quando giungemmo alla strada provinciale, due uomini a cavallo si avvicinarono, e ci fermammo. «Buongiorno», disse l'uomo più vicino, un individuo alto che avevo visto in paese. «Una giornata piuttosto fredda e piovosa.» Quello assentì. «Non avete per caso visto un lupo o un cane selvatico qua attorno?» Il tono della voce era molto severo e deciso. Avvertii un senso di capogiro. «Non avrà attaccato di nuovo qualcuno a Darset, spero?» L'uomo si mosse sulla sella. «Proprio così. È entrato in una delle case la notte scorsa. Sta diventando sempre più coraggioso. Le madri sorvegliano i figli come falchi oggi. Ci sono dieci squadre fuori a caccia di quel mostro.» «Quanti ne ha uccisi ieri notte?» Attesi la risposta al colmo del terrore. «Due. I gemelli Jepson. È una cosa orribile, Signore.» «Se viene da queste parti», dissi, «ci lascerà la pelle.» L'uomo sorrise cupamente. «Avrete cento sterline se ci riuscirete, Signore. E il ringraziamento di ogni madre di Darset.» Affondò le ginocchia nei fianchi del cavallo, e i due partirono al trotto. Trevellan mi fissò senza espressione. La sua giovialità lo aveva abbandonato, sostituita da un'espressione di paura inconfondibile. «Io... io credo che dovremmo tornare verso casa», disse. «Ho delle cose da scrivere.» Tornati a Blueker House, Trevellan si scusò e si diresse verso la sua stanza. Di nuovo solo, vagai per la casa, finché non arrivai alla biblioteca. Nel momento stesso in cui entrai nella sala, avvertii la presenza di un'entità invisibile. La teca delle pistole di Trevellan mi attraeva irresistibilmente. Mentre stavo davanti ad essa, e guardavo attraverso le porte di vetro, un solo oggetto attraeva la mia attenzione: la scatola d'argento che conteneva il più recente acquisto di Trevellan. La pistola d'avorio. Impulsivamente, aprii la teca e presi l'arma. La vista di quell'oggetto m'inebriò come un vino antico. La rigirai tra le mani cento volte, ma non saprei spiegarmi il motivo del mio comportamento da quel momento in poi.
Le munizioni di quell'arma giacevano dentro delle nicchiette tra il velluto: tre pallottole d'argento, e l'attrezzatura per caricare l'arma. Esitai un istante, poi presi una delle palle d'argento, e la inserii nella pistola. Quindi versai la polvere da un piccolo corno, e la cacciai verso il fondo della pistola. Con uno sforzo rimisi l'arma nella teca di mogano. Finché non fu quasi notte, Trevellan non tornò giù. «Mi dispiace, McKay», disse, «ma devo andare in paese. In cucina troverai dei cibi freddi. Forse tornerò tardi: non mi aspettare alzato.» La porta si chiuse di scatto, e udii i suoi passi allontanarsi lungo il sentiero di ciottoli. Lentamente, una sensazione di orrore si impadronì di me. Presi a passeggiare nervosamente avanti e indietro. Fuori, una flotta di nuvole vellutate aveva furtivamente invaso il cielo ma, verso Est, una macchia più scura brillava di luce radiosa e soffice: la luna tentava di affacciarsi. Passarono lentamente altre ore. Il ticchettio dell'orologio a pendolo martellava, e il suono echeggiava per le stanze come un maglio. Avvertii stranamente più forte lo stesso impulso psichico che mi spingeva ad aprire nuovamente la teca di Trevellan e a prendere in mano la pistola d'avorio. Poi, all'improvviso, udii uno strano scampanellare molto lontano. Rimasi in ascolto. Proveniva dalla direzione del villaggio, portato dal vento. Era un profondo rintocco di campane che penetrava in ogni angolo della villa, come un segnale d'allarme. Il sangue fluì verso la mia testa. Erano le campane del villaggio che suonavano a distesa! Stavano suonando le campane per svegliare il villaggio. L'orrore era ricominciato! Mentre ascoltavo, un altro suono più forte si sovrappose ai rintocchi della campana... il lungo ululato di un lupo. Mi avvicinai alla grande vetrata, e rimasi a fissare il giardino all'esterno. La luna si nascondeva tra le spesse nuvole di tanto in tanto. Ombre gigantesche si stagliavano sul prato. Improvvisamente le nuvole si aprirono, e vidi la creatura illuminata in pieno dalla luna. Era il lupo, e le sue fauci erano tinte di rosso. Un urlo mi salì alle labbra. Mi voltai come una marionetta appesa ai fili. Il mio sguardo era concentrato sulla teca, e il suo magnetico potere era ormai centuplicato. Un potere psichico interiore mi attirava verso di lei. Le mie mani si protesero in avanti e aprii le porte di vetro. «Trevellan!», urlai. «Mio Dio, non riesco a controllarmi!» Uno sparo echeggiò fortissimo, seguito da un rumore di vetri infranti che cadevano a terra. Dal prato sottostante si levò un roco gemito di dolore.
Poi quella forza sovrannaturale mi abbandonò. Volgendomi, scaraventai la pistola lontano e mi slanciai verso il prato. Lì lo trovai, accasciato nell'erba. Una chiazza rossa sulla camicia si allargava sempre più. Tentò di alzarsi quando gli presi la testa tra le braccia. «Grazie, McKay», disse, in un soffio. «Era... era la sola cosa da fare.» Ricadde con un sospiro, e io rimasi solo con il cadavere di Hugh Trevellan. Il due ottobre, l'edizione serale del London Chronicle pubblicò la seguente notizia: La Polizia Distrettuale ha reso note le circostanze di una tragedia accaduta nel Nord della regione dell'Arronshire, nei pressi del paese di Darset. Il corpo del signor Hugh Trevellan, un noto antiquario e un'autorità in materia di armi da fuoco d'antiquariato, è stato rinvenuto poco lontano dalla sua residenza estiva da un suo amico, il signor Martin McKay residente in Russel Square, a Bloomsbury, giunto da Londra in visita. Dopo aver esaminato il cadavere, il medico condotto ha espresso il suo parere, dichiarando che la morte è stata di natura accidentale, essendo sopravvenuta mentre il signor Trevellan stava pulendo l'arma da fuoco che ha sparato. Curiosamente, si è scoperto che la pallottola era d'argento. IL CANE The Hound di Fritz Reuter Leiber Weird Tales, novembre 1942 David Lashley si strinse attorno al corpo le povere coperte, e osservò senza espressione la fredda luce del mattino entrare dalla finestra e illuminare la sua stanza. Non ricordava di che natura fosse il terrore contro il quale aveva lottato per ritornare allo stato di veglia, tranne il fatto che era stato gigantesco, e che lo aveva riportato ai giorni pieni di paura dell'infanzia. Lei gli si era accovacciata accanto per tutta la notte e infine gli si era rannicchiata contro, premendogli contro il petto il viso. Il termosifone gemette lugubremente al primo sbuffo di vapore proveniente dalla cantina, e lui rabbrividì. Pensò che i suoi tremiti erano un riconoscimento ironicamente umoristico del fatto che la sua stanza non era
mai calda, eccettuato il periodo in cui non ci poteva stare. Ma vi era qualcosa di più. Il gemito penetrante aveva risvegliato qualcosa nella sua mente senza però riuscire a riportarlo alla superficie conscia del suo cervello. L'aumentato brusio del traffico cittadino, assieme al roco gorgoglìo di una locomotiva nei depositi ferroviari, si mischiavano a un suono più vicino, che diventava più intenso e penetrante, risvegliando paure da tempo sopite. Per alcuni minuti rimase inerte, in ascolto. Notò che la stanza si era impregnata di un odore spiacevole, ma non ne fu sorpreso. Aveva provato più di una volta le strane illusioni olfattive che seguono un attacco di influenza. Poi udì sua madre muoversi faticosamente in cucina, e questo lo spinse a entrare in azione. «Ti sei raffreddato di nuovo?», chiese lei, guardandolo ansiosa, mentre si affrettava a immergere il cucchiaio nel suo uovo sodo, per evitare che il suo calore si disperdesse sul piatto freddo. «Sei sicuro?», insistette. «Tutta la notte ho sentito qualcuno tirar su con il naso.» «Forse era papà...», disse lui, poi s'interruppe. La donna scosse la testa. «No, lui sta bene. Aveva un forte dolore al fianco ieri sera, ma ha dormito abbastanza tranquillamente. Ecco perché ho pensato che fossi tu, David. Mi sono alzata due volte per controllare, ma...», la sua voce assunse un tono lamentoso, «lo so che non ti piace che io mi infili in camera tua a tutte le ore.» «Non è vero!», negò lui. Aveva un aspetto tanto fragile, minuto e stanco, mentre se ne stava in piedi di fronte ai fornelli; era avvolta in un accappatoio informe che era appartenuto al babbo, e aveva l'aria di un passero malato che tentasse di apparire vispo e allegro. Lui provò un'inutile irritazione, un senso di indignazione, al pensiero di non poterla aiutare; quella sensazione parve salirgli fino in gola, rendendo la sua voce un po' strozzata. «Il fatto è che non voglio che tu ti alzi in continuazione, che perda sonno. La cura del babbo ti procura già abbastanza da fare durante il giorno. Ti ho detto mille volte che non devi prepararmi la colazione: sai bene che il dottore ti ha detto che devi riposare il più possibile.» «Oh, io sto benissimo», rispose lei frettolosamente, «ma ero sicura che tu avessi di nuovo il raffreddore. Tutta la notte ti ho sentito tirare su col naso...» Il caffè cadde nel piattino dalla tazza che David teneva sollevata a mezzo. Le parole di sua madre avevano risvegliato in lui un ricordo sfuggente e, ora che era tornato, non voleva affrontarlo faccia a faccia.
«È tardi, devo scappare», disse. Lei lo accompagnò alla porta. Infatti era tanto abituata al suo modo di fare frettoloso, che non ci trovò nulla di strano. La voce fioca della donna lo seguì lungo le buie scale dell'appartamento: «Spero proprio che non ci sia qualche ratto morto in questa casa. Hai notato il cattivo odore?». Poi lui si trovò all'esterno e si perse subito nei suoi ricordi, immerso nella corsa concitata del traffico delle prime ore del mattino. Le gomme stridevano sull'asfalto. I motori ancora freddi bofonchiavano, poi si avviavano con un gran fragore. I tacchi delle donne ticchettavano sul marciapiede, affrettandosi, trottando, convergendo verso le fermate del tram e degli autobus. Tacchi bassi, tacchi alti, tacchi di stenografe dirette verso il centro, e di lavoratrici del tempo di guerra, dirette verso le fabbriche della periferia. I versi degli strilloni e brevi immagini delle testate dei giornali gli segnalarono frasi sconnesse: «Incursione aerea in corso... Nave da guerra affondata... Si attende il black-out... Il nemico è stato ricacciato indietro». Ma, una volta seduto nella soffocante atmosfera del tram, era impossibile evitare di pensarci. Inoltre, l'odore stantìo di medicine che esalava il legno giallo, gli riportò immediatamente il ricordo di quell'altro odore. Le mani di David Lashley si contrassero in un pugno all'interno delle tasche del suo soprabito e si chiese come fosse possibile che un uomo adulto all'improvviso cadesse preda di una paura infantile. Eppure, nello stesso istante, seppe con lucida certezza che quella non era una paura appartenente alla sua infanzia. Quella cosa che lo aveva accompagnato per tanti anni, era cresciuta a dismisura finché, come il demoniaco lupo Fenris del Ragnarok, le sue fauci spalancate - divaricandosi sempre di più - erano giunte a sfiorare il cielo e la terra. Questo essere che lo seguiva passo passo, alle volte era così lontano da fargli dimenticare la sua esistenza, ma ora era tanto vicino che ne avvertiva il freddo fiato malaticcio alitargli sul collo. Lupi Mannari? Aveva letto di queste cose nella biblioteca, sfogliando i libri polverosi con animo affascinato e inquieto, ma quello che aveva letto li faceva sembrare innocui e insignificanti - mere superstizioni - al confronto della cosa che faceva parte delle grandi metropoli e delle caotiche società del Ventesimo Secolo, tanto che lui - David Lashley - trasaliva sentendo le varietà infinite di ululati e di brontolii ringhiosi prodotti dal traffico e dalle industrie... suoni che erano allo stesso tempo di natura umana e meccanica. Lui arretrava rabbrividendo di fronte ai fari delle macchine nel buio... A
quegli occhi abbaglianti e fissi! Tremava in maniera incontrollabile quando udiva lo scalpiccio dei topi in un vicolo, o quando aveva una visione momentanea delle forme oscure dei magri cani randagi che la sera si aggiravano negli appezzamenti di terreno sgombro in cerca di cibo. «Tirando su con il naso...», aveva detto sua madre. Quali parole avrebbero meglio descritto le continue ricerche della bestia che nei suoi sogni era rimasta rannicchiata fuori dalla porta della sua stanza tutta la notte, e che era finalmente penetrata all'interno per piantargli le zampe sporche sul petto. Per un momento vide un muso informe stagliarsi sul soffitto giallo e sulle vistose pubblicità del tram... occhi rossi come metallo fuso... fauci simili a un denso olio nero... Con uno sguardo disperato gettò un'occhiata agli altri passeggeri, tentando di scacciare quella visione, ma questa parve essersi impadronita di ciascuno di loro, di averli contagiati, dando alle loro fattezze un aspetto grottescamente canino: la mascella lenta e sfuggente di una biondina, o la testa aguzza e gli occhi distanziati di un meccanico dalla barba ispida di ritorno dal turno di notte. Cercò allora rifugio nel giornale aperto di un vicino, leggendolo attentamente senza curarsi dell'impressione di maleducazione che avrebbe suscitato. Ma vi era un lupo in una delle strisce, per cui si voltò rapidamente dalla parte opposta per guardare attraverso il vetro polveroso, verso le file di negozi che gli scivolavano accanto. Pian piano l'opprimente senso di minaccia si attenuò un poco, ma la striscia era riuscita a creare un'altra connessione nel suo cervello: il ricordo di una striscia del tempo della Prima Guerra Mondiale. Quello che aveva rappresentato il lupo o il cane in quella striscia più vecchia - la guerra, la carestia, la brutalità del nemico - lui non era in grado di ricordarlo con precisione, tuttavia quella striscia aveva continuato ad apparirgli in sogno per settimane, rannicchiata negli angoli, o lo aveva atteso in cima alle scale. Più tardi aveva tentato di spiegare ai suoi amici gli orrori che potevano essere contenuti nel simbolismo concreto e nella personificazione di una striscia nell'interpretazione di un bambino, ma non era riuscito a farsi capire. Il bigliettaio brontolò il nome di una via del centro, e allora si perse nuovamente nella folla, trovando sollievo nel movimento senza sosta, nel contatto di spalle estranee alle sue. Ma, quando l'orologio emise il suo rintocco musicale ed echeggiante, e lui si voltò per inserire il suo cartellino
nella fila, la ragazza al banco alzò gli occhi e disse: «Non dovrebbe perforare la scheda anche per il suo cane?». «Il mio cane?» «Be', era qui pochi secondi fa. È entrato dietro di lei, come se lei fosse il suo... voglio dire, come se fosse il suo cane.» Fece una risata chioccia e nasale. «Immagino che fosse uno dei mastini della signora Montmorency, venuto a ispezionare le condizioni di vita della classe lavoratrice.» L'espressione disorientata di lui non mutò. «Scherzavo», spiegò lei pazientemente, e tornò a occuparsi del suo lavoro. «Devo controllarmi.» David si sorprese a parlare da solo mentre si infilava nell'ascensore che lo portò, senza far rumore, fino al piano delle cantine. Continuò a ripeterlo mentre si affrettava a raggiungere i locali dello spogliatoio; lasciò il cappotto e il suo pranzo nell'armadietto, si ravviò i capelli velocemente e ripetutamente, poi si avviò velocemente lungo i corridoi ancora semideserti, per scivolare dietro il banco dei calzini e dei fazzoletti da naso. «È solo un fatto nervoso. Non sono pazzo. Ma devo controllarmi!», disse, parlando tra sé. «Certo che sei pazzo! Non lo sai che parlare da soli e non notare le persone che si hanno attorno sono i primi sintomi dello squilibrio mentale?» Gertrude Rees si era fermata mentre andava verso le cravatte. I capelli color nocciola erano accuratamente ordinati e messi in piega, e incorniciavano un viso non eccessivamente grazioso. «Scusami!», mormorò lui. «Sono un po' nervoso.» Cos'altro si poteva dire, anche se si trattava di Gertrude? Ma, nell'istante stesso in cui la guardava andar via, mentre le sue mani si accingevano automaticamente a sistemare le scatole in mostra, una nuova domanda gli martellava ossessivamente il cervello? Cos'altro si poteva dire? Quali parole potevano descriverlo? Oltretutto, con chi poteva parlarne? Una dozzina di nomi gli si stamparono in mente, ma furono tutti rapidamente scartati. Solo uno rimase: quello di Tom Goodsell. Lo avrebbe detto a Tom. Dopotutto, quella sera lo avrebbe visto al corso di Pronto Soccorso. I clienti entravano alla chetichella nella cantina. «Porta la misura 11, signora? Sì, abbiamo delle nuove fantasie. Queste sono in seta e filo di Scozia.» Ma la quantità crescente di clienti non gli dava alcun senso di sicu-
rezza. Affollavano i corridoi fra i banconi, e divennero forme dietro le quali si poteva nascondere qualcosa. Lui cercava continuamente di sbirciare dietro di loro. Un bambino che si era spinto oltre il bancone, gli sfiorò un ginocchio, facendolo trasalire, impaurito. Venne il momento della pausa pranzo. Giunse nello spogliatoio giusto in tempo per afferrare Gertrude Rees che stava indietreggiando con aria incerta di fronte a una porta oltre la quale regnava l'oscurità. «Un cane», disse con voce tremante. «Era enorme! Mi ha fatto una gran paura! Altro che nervosismo! Da dove sarà venuto? Ma stai attento. Aveva l'aria feroce.» Ma David, spinto da un'improvvisa temerarietà, nata dallo shock e dalla paura, si era già spinto all'interno e aveva acceso la luce. «Non c'è nessun cane qui», le disse. «Sei matto! Deve esserci.» Il suo viso spuntò cautamente oltre la porta, e si allungò per la sorpresa. Ma ti assicuro... Oh, immagino che debba essersene andato attraverso l'altra porta.» Lui non le disse che l'altra porta era sbarrata. «Forse lo ha portato un cliente», disse lei in tono concitato. «Certa gente non riesce a fare compere se non si porta appresso almeno un paio di cani feroci. Di solito, però, quel tipo di cliente si tiene alla larga dalla cantina degli sconti. Immagino che dovremmo trovarlo prima di metterci a mangiare. Aveva l'aria di essere pericoloso.» Ma lui non l'aveva quasi udita. Si era appena accorto che il suo armadietto era aperto e che il suo soprabito era stato trascinato a terra. La busta di carta che conteneva il suo pranzo era stata aperta, e sembrava che vi avesse frugato qualche animale. Mentre si chinava, vide che i panini avevano delle macchie nere e oleose, e un familiare odore di muffa gli salì alle narici. Quella sera trovò che Tom Goodsell era di umore nervoso. Era stato richiamato e sarebbe partito per un campo d'addestramento militare di lì a una settimana. Mentre sorseggiavano il caffè, nel piccolo ristorante deserto, Tom prese a chiacchierare ininterrottamente dei tempi andati. David sarebbe stato in grado di ascoltarlo meglio, ma vi erano certe ombre nere oltre la finestra che attiravano la sua attenzione e lo distraevano di continuo. Finalmente trovò l'occasione per far vertere la conversazione sui canali che lo interessavano. «Nelle città moderne esistono esseri soprannaturali?» Tom rispose, senza avere l'aria di considerare la domanda fuori luogo.
«Certo! Sarebbero diversi dai fantasmi di un tempo, però. Ogni cultura si crea i suoi fantasmi. Il Medioevo ha costruito le cattedrali, e ben presto si sono viste piccole ombre grigie galleggiare nell'aria per parlare con i mostri di pietra sui doccioni. La stessa cosa dovrebbe accadere a noi, che abbiamo costruito grattacieli e fabbriche.» Parlava con entusiasmo, pieno della sua antica vena poetica, come se fosse stata proprio una sua intenzione parlare di quell'argomento. Quella sera avrebbe parlato di qualsiasi argomento gli fosse stato proposto. «Ti spiego, Dave. Quando abbiamo cominciato, abbiamo negato tutte le vecchie credenze e superstizioni. Perché no, dopotutto? Esse appartengono a un'altra èra, e non possono prendere piede nel nuovo ambiente. La scienza è diventata materialistica, e ci dà la prova che non vi è nulla nell'Universo: solo certi piccoli nuclei di energia. Come se un nucleo di energia non significasse nulla. Ma aspetta: quello è stato solo l'inizio. Abbiamo continuato a inventare, a scoprire e a organizzare. Copriamo la terra di enormi strutture. Le accatastiamo assieme in grandi mucchi e, al confronto, l'antica Roma, Alessandria e Babilonia, sembrano dei giocattoli per bambini. Perché, vedi, si sta formando un nuovo ambiente.» David lo fissò affascinato e incredulo, profondamente scosso. Non era affatto quello che aveva sperato o si era aspettato di sentire: le parole di Tom parevano sondare quasi telepaticamente le sue paure più profonde. Lui aveva voluto parlare di quelle cose - è vero - ma in maniera più scettica e rassicurante. Invece ora Tom aveva un tono quasi serio. David cominciò a parlare, ma Tom alzò un dito per intimargli il silenzio, come una maestra di scuola. «Nel frattempo, cosa accade nell'intimo di ciascuno di noi? Te lo dico io. Ogni sorta di emozioni inibite si accalcano. Dentro di noi si accumula la paura, l'orrore! Prende forma un nuovo tipo di rispetto per i misteri dell'Universo. Si sta formando un nuovo contesto psicologico, e un nuovo mondo psichico. Aspetta: lasciami finire. La nostra cultura si matura, ed è ormai pronta a essere infettata in qualche modo. È simile alla coltura di un batteriologo... Non ho detto cultura, ma coltura: quando arriva alla temperatura e alla consistenza giusta, è in grado di ospitare una colonia di germi. Allo stesso modo, la nostra cultura all'improvviso genera un'orda di demoni. Ed essi, come i microbi, hanno una loro peculiare affinità con la nostra cultura. Le loro caratteristiche li rendono unici: hanno grandi capacità di adattamento.
Non si trova lo stesso tipo in nessun altro luogo in nessun altro tempo. Come riusciresti a sapere che l'infezione ha preso piede? Ehi, mi pare che tu abbia preso questa faccenda molto sul serio vero? Be', forse è così. Forse ci perseguiterebbero, ci terrorizzerebbero, e tenterebbero di ridurci in loro potere. Le nostre paure sarebbero il loro nutrimento. Una relazione del tipo parassita/ospite. Una simbiosi soprannaturale. Alcuni di noi - i più sensibili - noterebbero i sintomi prima degli altri, e li vedrebbero senza capire bene cosa siano. Altri sarebbero a conoscenza della loro esistenza, ma non li vedrebbero. Come me, per esempio! Cos'hai detto? Non ho sentito. Oh, i Lupi Mannari! Be', quella è una faccenda particolare, ma stasera sarei pronto a costruire teorie su qualsiasi cosa. Sì, tra i diavoli troveremmo anche i Lupi Mannari, ma non sarebbero molto simili a quelli di una volta. Non avrebbero il pelo lucido, denti bianchi e occhi luminosi. No, non credo. Invece penso che si incontrebbero dei cagnacci del tipo che vediamo ogni tanto grufolare nell'immondizia e che sgusciano tra le macchine nel traffico. Ci spaventerebbero e ci terrorizzerebbero, questo si, ma non ci sorprenderebbero. Si intonerebbero all'ambiente, e il loro aspetto sarebbe tale da farli sembrare parte della città; ne avrebbero lo stesso odore. Questo a causa delle emozioni ingarbugliate che ne costituirebbero il nutrimento. Le tue emozioni, le mie. Una questione di dieta, insomma.» Tom Goodsell ridacchiò a voce alta e si accese un'altra sigaretta. Ma David si limitò a fissare la superficie rovinata del bancone. Non poteva dire a Tom quello che era accaduto quella mattina... all'ora del pranzo. Naturalmente, Tom lo avrebbe subito preso in giro e si sarebbe dimostrato scettico. Ma ciò non avrebbe potuto cambiare una virgola del discorso che Tom aveva appena fatto, quello in cui praticamente aveva già dato ragione a David. Lo aveva fatto in maniera scherzosa e parziale, forse, comunque aveva dimostrato in sostanza di essere d'accordo. Fu lui stesso a confermarlo, quando in tono più serio e amichevole, disse: «Oh, so di aver detto un sacco di sciocchezze stasera, eppure, sai, visto come vanno le cose, in parte credo che ci sia del vero. Perlomeno, non mi è possibile esprimermi in altro modo». Si salutarono all'angolo, e David prese l'autobus fino a casa attraverso una città infettata fino alle fondamenta, in cui ogni rumore gli dava i brividi. Sua madre era ancora alzata e lo aspettava. Dopo aver discusso stancamente con lei circa il fatto che si dovesse riposare, l'accompagnò a letto. Poi giacque insonne per tutta la notte, come un bambino in una casa sco-
nosciuta, l'orecchio teso a captare ogni minimo rumore, fissando intensamente ogni forma mutevole delle ombre notturne. Quella sera nessuna creatura aprì la porta né premette il muso contro il vetro della finestra. Eppure lui si accorse che il giorno dopo gli costò una gran fatica andare al grande magazzino. Era diventato conscio della presenza di quella entità nei visi e nelle forme delle persone e nelle strutture e nelle macchine che lo circondavano. Proprio come il giorno precedente, i corridoi affollati gli apparvero tutti dei possibili nascondigli, e allora evitò di andare nello spogliatoio. Gertrude Rees fece un commento amichevole a proposito della sua aria affaticata, e lui colse l'occasione per invitarla fuori a cena per quella sera. Naturalmente, si disse mentre erano seduti in un cinema, lei non era una persona che gli fosse molto vicina. Nessuna delle ragazze gli era mai stata molto amica... Lui era un giovanotto senza eccessiva professionalità, legato al suo dovere, ossia quello di accudire i suoi genitori i cui poveri risparmi erano già finiti. Era uscito con certe ragazze per un certo periodo, aveva parlato con loro, aveva raccontato loro di certe sue idee e ambizioni, e poi, una a una, esse erano scivolate lontano, e avevano sposato altri uomini. Ma questo non cambiava il fatto che lui aveva bisogno della salutare vitalità che Gertrude gli poteva dare. Mentre s'incamminavano verso casa nella notte fredda, si sorprese a parlare incoerentemente, e a ridere dei suoi stessi giochi di parole. A un certo punto, nel vestibolo buio, si voltarono l'uno verso l'altro e lei sollevò le labbra verso di lui: percepì un allungamento nel volto di lei. «C'è una strana luce qui», pensò, mentre l'abbracciava. Ma il bordino di pelliccia sul collare del cappotto di lei divenne ispido e grasso al tocco, le sue dita vennero dure e aguzze sulla sua schiena, e sentì i denti spuntare dalle labbra di lei: poi, la sensazione acuta e pungente, come la puntura d'aghi gelidi. Ciecamente lui la respinse lontano, poi vide - e questo lo fece raggelare che non era affatto cambiata o che, se vi era stata una trasformazione, ormai era cessata. «Cosa è successo, caro?», la udì chiedere in tono agitato. «Cos'è successo? Cosa stai mormorando? Cambiata, dici? Cosa è cambiato? Contagio? Cosa vuoi dire? Santo cielo, non parlare così. Tu mi hai contagiato? Cosa vuoi dire?» Sentì la mano di lei poggiarsi sul suo braccio, una mano che ora era morbida. «No, non sei pazzo. Non pensare queste cose. Ma sei cer-
to nevrotico e forse anche un po' strambo. Per carità, cerca di riprenderti!» «Non so cosa mi sia capitato», riuscì a dire. Finalmente aveva riacquistato la voce giusta. Poi, sentendo che doveva aggiungere qualcos'altro, disse: «I miei nervi sono scattati, come se avessi preso la scossa». Si aspettava che lei si sarebbe arrabiata, ma sembrava solo disorientata e piena di compassione, come se lui le piacesse ma in quel momento le facesse paura, come se percepisse che vi era in lui qualcosa di sbagliato che lei non aveva il potere di rimettere a posto. «Devi prenderti cura di te», disse la ragazza, dubbiosa. «Tutti diventiamo un po' pazzi di tanto in tanto, credo. Anche io certe volte sento i nervi tendersi come elastici. Buonanotte!» La osservò salire le scale e sparire. Poi si voltò e fuggì. A casa trovò nuovamente sua madre che lo attendeva alzata, accanto al termosifone dell'ingresso, per poterne sentire l'ultimo tepore, avvolta nell'eterno accappatoio informe. A causa di un pensiero nuovo che era ora in cima ai suoi pensieri, evitò di abbracciarla e, dopo aver scambiato frettolosamente alcune parole con lei, si diresse velocemente verso la sua stanza. Ma lei lo seguì lungo corridoio. «Non hai una bella cera, David», gli disse ansiosamente, in un bisbiglio; infatti, il babbo poteva essersi addormentato. «Sei sicuro di non aver ripreso l'influenza? Non credi che dovresti vedere il dottore domattina?» Poi passò subito a un altro argomento in tono di scusa, parlando nervosamente, nel modo che le era abituale. «So che non ti dovrei annoiare con certe cose, David, ma devi cercare di fare un po' più di attenzione circa le lenzuola. Hai posato qualcosa di unto sulla sovraccoperta, e sono rimaste delle grandi macchie nere.» Lui spalancò la porta della sua stanza. Quelle parole lo arrestarono per un solo istante. Come si poteva illudere di riuscire a evitare quella cosa andando in un posto piuttosto che in un altro? «E poi un'altra cosa», aggiunse lei, mentre lui accendeva le luci. «Cercherai di prendere del cartone domani per oscurare le finestre? Nei negozi qua attorno è già esaurito, e la radio dice che dovremmo essere pronti.» «Sì, lo farò. Buonanotte, mamma.» «Ah, c'è un'ultima cosa», insistette lei, indugiando inquieta appena al di là della soglia. «Dev'esserci proprio un ratto morto tra queste mura. L'odore continua a venir su in grandi ondate. Ne ho parlato con l'agente immobiliare, ma lui non ha fatto nulla. Vorrei che gli parlassi tu.» «D'accordo. Buonanotte, mamma.»
Attese finché non sentì la porta richiudersi piano. Si accese una sigaretta e si accasciò sul letto per cercare di pensare il più lucidamente possibile a qualcosa a cui non si potevano applicare dei principi validi nella vita normale. Problema Numero Uno (si rese conto con un sobbalzo d'ironia che aveva il tono melodrammatico di un romanzo d'appendice). Gertrude Rees poteva chiamarsi, in mancanza di un termine più adatto, un Lupo Mannaro? Risposta: quasi certamente no, almeno non nel senso che si dà di solito a questo termine. Quello che le era momentaneamente accaduto proveniva da lui. Era accaduto perché lui era presente. Tuttavia, il suo shock aveva interrotto la metamorfosi, oppure Gertrude Rees si era rivelata un veicolo inadatto all'incarnazione della cosa. Problema Numero Due. Non esisteva il pericolo di estendere il contagio a qualcun'altro? Risposta: sì. Per un momento il flusso dei suoi pensieri si arrestò e, nella sua mente, si stagliò una visione caleidoscopica di visi che avrebbero potuto all'improvviso cominciare a trasformarsi in sua presenza: sua madre, suo padre, Tom Goodsell, l'agente immobiliare dalle labbra sottili, un cliente al magazzino, uno spazzino che gli si sarebbe potuto avvicinare in una notte di pioggia. Problema Numero Tre. Vi era un modo di sfuggire a quella cosa? Risposta: no. Eppure... vi era una sola possibilità. Scappare dalla città. Era stata la città a partorire la cosa, per cui forse essa era legata alla città! Sembrava un'ipotesi poco ragionevole. Come poteva un'entità sovrannaturale essere legata a un luogo solo? Eppure... Si avvicinò di scatto alla finestra, e l'aprì. Certi suoni che erano stati temporaneamente cancellati dai suoi pensieri, ora gli si riversavano addosso a un volume triplicato, mischiati assieme come strumenti discordanti che si accordassero in vista di una sinfonia di titani. Udiva ora il rumore della corsa sferragliante dell'autobus, il bofonchiare acuto di una locomotiva nel deposito, il ronzio delle gomme sull'asfalto e il ringhiare dei motori, il mormorio delle voci alla radio, i lugubri e fiochi richiami di clacson in lontananza. Ma ora non erano più dei suoni separati. Provenivano tutti da una gola cavernosa... un unico lamento infinitamente penetrante, infinitamente minaccioso. Richiuse di scatto la finestra e si turò le orecchie con le mani. Poi spense le luci e si gettò sul letto, affondando la testa sotto i cuscini. Ma il suono gli arrivava ancora. Fu allora che comprese come, alla fine - che lo volesse o no - la cosa lo avrebbe spinto a lasciare la città. Infatti sarebbe giunto il
momento in cui il suono sarebbe penetrato troppo in profondità, e avrebbe riverberato in maniera insopportabile nelle sue orecchie. La vista di un tale numero di visi, tremolanti sull'orlo di una trasformazione quasi inimmaginabile, lo avrebbe sopraffatto. Allora avrebbe dovuto lasciare tutto e andarsene. Quel momento giunse all'indomani, poco dopo le quattro del pomeriggio. Non sarebbe stato in grado di dire quale sensazione, aggiungendo il proprio trascurabile peso, aveva avuto il potere di spingerlo a compiere quel passo. Forse il movimento brusco che vide dietro una fila di abiti a due banconi distanti dal suo, o forse fu la visione improvvisa di un pezzo di stoffa dalla forma di un muso belluino. Qualsiasi fosse stato il motivo, scivolò da dietro il bancone senza pronunciare una parola, lasciando il cliente fermo a brontolare, indignato. Salì quindi le scale e uscì in strada, con le movenze di un sonnambulo, ma attento in ogni momento a evitare qualsiasi contatto diretto con la folla che lo circondava. Una volta giunto in strada, prese il primo autobus senza verificarne il numero, e si trovò un posto vuoto in un angolo sulla piattaforma frontale. Dapprima con lentezza minacciosa, poi sempre più rapidamente, il cuore della città rimase indietro. Il grande ponte scuro che sovrastava il fiume oleoso passò accanto a lui, e le scogliere corrucciate degli edifici diventarono più basse. I depositi cedettero il posto alle fabbriche, le fabbriche agli appartamenti, e gli appartamenti a loro volta si trasformarono in case. Le prime erano piccole e dipinte di un bianco sporco, per poi diventare ampie e simili a ville ma molto cadenti, quindi nuove e monotonamente uniformi. Gente di censo diverso e di razza diversa entravano e uscivano mentre l'autobus procedeva attraversando i diversi quartieri della città. Finalmente cominciarono gli spiazzi vuoti, dapprima uno ad uno, poi aumentarono, finché le case rimasero distanziate, e lui vide solo una o due case in ogni isolato. «Fine della corsa», disse il bigliettaio e, senza esitare, David scese dalla piattaforma e proseguì lungo la strada. Non aveva fretta, ma non indugiò. Si mosse come un automa al quale era stata data la carica e che, messo in movimento, non si sarebbe fermato finché la carica non si fosse esaurita. Il sole tramontava in un rosso fumoso verso Occidente. Lui non riusciva a vederlo perché una collina ricoperta di alberi che aveva di fronte, lo nascondeva. Ma gli ultimi raggi brillarono riflessi nelle finestre delle casette a destra e sinistra come se fossero state accese delle fiaccole all'interno. Le
luci si accendevano e si spegnevano come semafori al suo passaggio. Due blocchi di case più avanti, il marciapiede terminò, e allora camminò al centro di un vicoletto fangoso. Dopo aver passato l'ultima casa, anche quel vicolo terminò, e lasciò il posto a uno stretto sentiero tra l'erba alta. Il sentiero portava verso un rialzo attraverso una cortina di alberi. Emergendo sul lato opposto, lui rallentò il passo e, finalmente, si fermò, tanto fantastica era la scena che gli si presentava davanti. Il sole era tramontato, ma degli alti cumuli di nuvole ne riflettevano la luce, conferendo al paesaggio una luminosità spettrale. Di fronte a lui si estendeva uno spazio grande quanto due o tre blocchi di case ma, oltre questo, giaceva uno strano regno che pareva appartenere a un clima diverso, a un sistema geologico diverso, e che invece era stato posto lì, alla periferia della città. Vi erano alberi e cespugli di forma inconsueta ma, ciò che era più strano, era la presenza di grossi blocchi asimmetrici di pietra rossa che sorgevano da terra a intervalli diseguali per culminare finalmente nel grande rilievo centrale alto più di venti metri. Mentre lo contemplava, la luce abbandonò del tutto il paesaggio, come se all'improvviso un mantello fosse stato gettato sopra la terra e, nell'improvvisa oscurità, sorse da un luogo dinanzi a lui un debole ululato, lugubre e sinistro, ma che era completamente diverso dall'altro verso, quello che lo aveva perseguitato notte e giorno. Allora si spinse di più in avanti, ma ora il suo impulso lo spingeva proprio verso la sorgente di quel nuovo suono. Un cancelletto nell'alto recinto di filo metallico si aprì permettendogli di entrare in quel regno di roccia. Si trovò su un sentiero di ciottoli, circondato da fitti cespugli e da alberi. Sulle prime gli parve che fosse molto buio, in contrasto con il terreno aperto che aveva appena lasciato. A ogni passo il roco ululato sembrava più vicino. Finalmente il sentiero curvò bruscamente dietro una roccia, ed egli giunse alla sorgente stessa di quel richiamo. Un fosso di pietra frastagliata largo circa due metri e altrettanto profondo, lo separava da uno spazio ricoperto da una fitta vegetazione marrone e circondato su tutti gli altri lati da ripide pareti rocciose sulle quali si distinguevano le oscure imboccature di alcune caverne. Al centro vi era uno spazio aperto in cui erano raggruppate sei bianche sagome canine. I musi erano tutti puntati verso il cielo, per dare voce al triste grido che lo aveva attirato fin lì. Fu solo quando avvertì la pressione di un basso recinto di ferro contro le
ginocchia e distinse il piccolo cartello sul quale era scritto LUPI ARTICI, che si rese conto di dove era capitato: si trovava nel famoso Giardino Zoologico del quale aveva sentito parlare, ma che non aveva mai visitato, dove gli animali erano tenuti in condizioni il più vicino possibile allo stato naturale. Gettando uno sguardo attorno, si accorse che vi erano due piccoli edifici poco appariscenti. A una certa distanza si distingueva la sagoma di un custode in uniforme che si stagliava contro una parte più scura del cielo. Evidentemente lui doveva essere entrato dopo l'orario di chiusura attraverso un cancello secondario che non era stato chiuso. Voltandosi di nuovo, osservò con curiosità distaccata l'aspetto dei lupi. La piega che avevano preso gli avvenimenti lo faceva sentire sciocco e disorientato, e per un bel po' di tempo meditò tentando di capire il motivo per il quale non trovava quegli animali brutti o paurosi. Forse perché facevano parte della natura, e non della città. Quel grande bestione lì, per esempio, il più grande di tutti, che si era avvicinato al fossato per dargli un'occhiata da vicino. Pareva l'incarnazione stessa della forza primordiale. La sua pelliccia era color bianco crema... be', forse non più completamente bianca; pareva più scura di quanto gli fosse sembrata a prima vista, e striata di nero... o quelle striature erano un effetto della luce che diminuiva? Ma almeno gli occhi erano chiari e puliti, e brillavano come gioielli nell'oscurità. Ma no, non erano chiari, la luce rosseggiante stava diventando più forte, sempre più opaca, finché parvero due forellini nelle pareti di una fornace ardente. Come mai non aveva notato prima che quella creatura era notevolmente deforme? E perché gli altri lupi ora se ne allontanavano ringhiando? L'animale si passò la lingua nera sulle fauci unte, e dalla sua gola si levò il debole ringhio familiare che non aveva nulla di selvaggio, mentre David Lashley si rendeva conto che di fronte a lui stava accoccolato il mostro dei suoi sogni, finalmente diventato carne e sangue. Con un grido strozzato si voltò e fuggì ciecamente lungo il sentiero di ciottoli: in preda al panico corse lungo i lotti deserti, inciampando sul terreno irregolare e cadendo un paio di volte. Quando giunse alla fila di alberi, si voltò e vide una forma bassa uscire dal cancello. Anche a quella distanza si rese conto che gli occhi non erano quelli di un animale. Era buio tra gli alberi, come nel sentiero al di là del bosco. Più avanti brillavano le luci dei lampioni, e vi erano le luci nelle case. Una fitta di ter-
rore lo pervase, quando vide che non vi era un autobus ad aspettarlo, finché si rese conto - e questo lo portò a un passo dalla pazzia - che non vi era nulla nella città che gli offrisse un rifugio sicuro. Questo - tutto ciò che vi era ancora da affrontare - era il terreno di caccia di quella cosa. Lei lo sospingeva verso la sua tana, ed era pronta a lanciarsi all'assalto finale. Allora si mise a correre: corse con il terrore senza speranza della vittima nell'arena, del coniglio liberato davanti ai levrieri. Corse finché i suoi fianchi non diventarono pareti di dolore e gli parve di avere la gola in fiamme, e poi corse ancora. Oltre il fango, la sporcizia e i mattoni, e poi su dei marciapiedi interminabili. Passò accanto alle ordinate dimore suburbane che nella loro uniformità gli parvero le monolitiche sculture di una via egiziana. Le strade erano quasi vuote, e le poche persone che incontrava lo fissavano come se fosse pazzo. Apparvero quindi delle luci più forti, in un angolo sul quale vi erano un paio di negozi. A quel punto si arrestò per guardare all'indietro. Per un momento non vide nulla, poi la cosa emerse dall'ombra di un edificio alle sue spalle galoppando con andatura irregolare a lunghe falcate che lo portavano in avanti velocemente, mentre il pelo ispido brillava lucido sotto la luce dei lampioni. Con un singhiozzo strozzato, si voltò e riprese a correre. Il suono degli ululati della cosa parve improvvisamente aumentare di cento volte, e divenne un lamento pulsante, un grido, un ululato che parve avvolgere l'intera città in un unico suono. E, mentre il rumore demoniaco continuava, le luci delle case cominciarono a spegnersi una a una. Poi le luci dei lampioni si spensero di colpo, e un autobus che si avvicinava sparì all'improvviso: fu allora che si rese conto che il suono non veniva tutto - o almeno non proveniva direttamente - da quell'essere. Questo era l'oscuramento tanto atteso. Corse con le braccia aperte, sentendo al tatto le intersezioni stradali senza vederle, inciampando sui gradini dei marciapiedi, cadendo e scivolando, rialzandosi per continuare la corsa, parzialmente disorientato. Il suo diaframma era ormai contratto in un unico nodo di dolore che si stringeva sempre più forte. Il fiato gli graffiava la gola come una lima. Non sembrava esserci più luce su tutta la terra, poiché le nuvole si erano radunate sempre più fitte fin dal tramonto. Nessuna luce, eccetto quei due punti di rosso sporco nell'oscurità alle sue spalle. Una massa nera e solida lo fece cadere, e avvertì un forte dolore al fianco e alla spalla. Si rialzò frettolosamente. Poi, un secondo ostacolo solido
sul suo cammino gli sbatté forte sul viso e sul petto. Questa volta non si rialzò: intontito e affranto dalla fatica, immobile, attese... Dapprima udì solo dei passi attutiti, poi il leggero raspare delle unghie sul cemento. Quindi sentì la bestia fiutare. E l'odore nauseabondo. Poi vide a un tratto gli occhi iniettati di sangue! La cosa gli era addosso: il suo peso lo inchiodava al suolo, e le fauci gli si avventavano contro la gola. Istintivamente alzò la testa, e sentì l'avambraccio chiuso nella stretta dei denti. Il gelo di quella presa penetrò la stoffa, mentre un orribile fluido oleoso gli copriva il volto. In quel momento la scena si riempì di luce, e vide il muso deforme indietreggiare e sparire nell'oscurità, mentre un peso gli si toglieva dal petto. Poi vi fu il silenzio e la cessazione di ogni movimento. Mentre nel suo cervello la sua coscienza e la sanità mentale rimanevano in un equilibrio precario, gli occhi trovarono la sorgente di luce, un disco bianco baluginante a pochi metri di distanza. Era una torcia, ma non si vedeva nulla nell'oscurità che si estendeva al di là. Per un lasso di tempo che gli parve infinito, non vi fu alcun mutamento della situazione: rimase supino, inerme sul terreno, in quel cerchio immobile di luce bianca. Poi una voce si levò dall'oscurità, la voce di un uomo paralizzato da un terrore sovrannaturale. «Dio, Dio, Dio!», ripeteva quella voce incessante. Ogni parola costava uno sforzo prodigioso. David provò una sensazione poco familiare, una sensazione di sicurezza e di sollievo. «Allora... l'hai visto?» Udì il suono delle parole provenire dalla sua stessa gola. «Era un cane? Un... lupo?» «Un cane? Un lupo?» La voce oltre la torcia pareva agitata da una profonda emozione. «Non era niente del genere. Era...» Poi la voce rotta divenne di nuovo normale. «Santo Cielo, amico, dobbiamo portarti al sicuro...» GLI AMBASCIATORI The Ambassadors di Anthony Boucher Startling Stories, giugno 1952 Nulla sorprese la Prima Spedizione Marziana: no, neppure la soluzione, che avrebbe dovuto essere ovvia fin dall'inizio, dell'enigma dei canali,
quanto la natura stessa dei Marziani. La letteratura popolare e il pensiero scientifico avevano entrambi influenzato i membri della spedizione, ed essi quindi credevano che si sarebbe rivelata vera una delle seguenti possibilità: una razza più o meno simile alla nostra, forse dotata di crani più alti, o di toraci carenati. Oppure un nugolo di mostri tentacolati e polposi. Eravamo pronti al contatto con mostruosità familiari o sconosciute. Non avevamo dedicato alcun pensiero alla possibile presenza di una somiglianza-con-una-differenza, che fu invece ciò che trovammo. La sera del benvenuto ufficiale della spedizione su Marte, dopo l'avvenuto scambio di diagrammi geometrici e astronomici che permisero a ciascuna razza di verificare l'intelligenza dell'altra, lo zoologo, professor Hunyadi, classificò le sue osservazioni. Il fatto che i Marziani fossero mammiferi era evidente. Certi dettagli circa la dentatura, le dita dei piedi e i caratteristici ciuffi di pelo sugli zigomi, fecero sì che il professor Hunyadi li ponesse tra gli arctoidi fissipedi, con gran costernazione dei suoi colleghi non zoologi. Altri dettagli tecnici circa la forma del naso e il numero e la distribuzione dei capezzoli, lo portarono dalla famiglia Canidae attraverso il genere Canis fino alla specie Lupus. «La mia classificazione finale, signori», dichiarò, «è: Canis Lupus Sapiens. In altre parole, come l'uomo può considerarsi una scimmia intelligente, qui ci troviamo di fronte a un esemplare di lupo intelligente.» Altri zoologi marziani in quel momento stavano raggiungendo le stesse conclusioni. I primi risultati furono evidenti quando la Prima Conferenza Interplanetaria riprese i suoi lavori simbolici e afasici il giorno dopo. Infatti se i nostri rappresentanti trovavano difficile prendere sul serio le azioni di quello che pareva loro un branco di cani estremamente ben addestrati e intelligenti, era del tutto impossibile per i Marziani provare altro che una incontenibile ilarità di fronte a una troupe di scimmie itineranti nello spazio. Un terrestre a quei tempi avrebbe usato l'espressione «Bastardo!» per indicare il suo disprezzo. Per un marziano, l'espressione «Primate!» non solo era degna di disprezzo, ma assolutamente ridicola. Alla fine della Prima Conferenza, i linguisti più brillanti di ciascun gruppo erano riusciti ad assimilare qualcosa del linguaggio verbale dell'altro gruppo, e si ebbero recalcitranti manifestazioni di un certo rispetto reciproco. Questo si notava particolarmente nel gruppo dei Terrestri che nu-
trivano una genuina anche se paternalistica affettuosità per i cani (e anche per i lupi) mentre i Marziani non avevano mai nutrito sentimenti di affetto per le scimmie (e certo in nessun caso per le grandi scimmie). Forse a causa del fatto che era stato il primo a indicarne la causa, fu il professor Hunyadi, che al suo ritorno fu particolarmente preoccupato del pensiero che qualche nuovo meccanismo potesse essere scoperto, in modo da permettere alle due razze di stabilire relazioni interplanetarie su una solida base. Fortunatamente il professore, come risulta dalle sue Memorie, aveva passato molte ore felici accanto alla sua nonna transilvana. Quindi fu il solo in quell'equipaggio formato da grandi specialisti, che riuscì a pervenire a una soluzione che avrebbe rivoluzionato la storia dei due pianeti. La stampa mondiale alternò risate fragorose a urla di rabbia quando lo zoologo di ritorno dallo spazio lanciò il suo appello a reti mondiali unificate, affinché si presentassero dei Lupi Mannari volontari che fungessero da ambasciatori nei confronti dei lupi di Marte. Per quanto possa oggi apparirci un'usanza barbara, a quel tempo l'umanità era divisa in tre gruppi: coloro che non credevano nei Lupi Mannari, coloro che li odiavano e li temevano e, naturalmente, coloro che erano Lupi Mannari. La posizione fortunata di tre individui insospettabili appartenenti a quest'ultima categoria, servì a far cessare l'ilarità e la stizza dei giornalisti. Il professor Garou della Duke University, accolse l'accorato appello di Hunyadi e trovò il coraggio di pubblicare la sua tesi monumentale (basata su precedenti ricerche compiute da Williamson) che provava una volta per tutte che la metamorfosi licantropica non aveva nulla di soprannaturale. Era un esercizio strettamente scientifico di poteri psicocinetici nella ristrutturazione molecolare, un esercizio che, come Garou ammise, lui praticava con facilità. Questa rivelazione fu appoggiata dal Cardinale Mezzolupo, un diretto discendente dell'incompreso Lupo di Gubbio, che confessò come il richiamo della carne lo avesse sempre tentato e, citando la Seconda Lettera ai Corinzi 11:30 pro me autem nihil gloriabor nisi in infirmitatibus meis, aveva magnificamente proclamato l'infinita sapienza di Dio nel porre sulla Terra una razza a lungo incompresa e perseguitata che avrebbe finalmente aiutato l'uomo in occasione della sua prima esigenza nello spazio. Ma la conversione di massa dell'umanità non fu dovuta alla dimostrazione scientifica del fatto che non vi era bisogno di negare l'esistenza di certi
fenomeni, né all'esortazione religiosa che indicava che non vi era bisogno di temere e odiare coloro che vi erano soggetti. Infatti la conversione avvenne quando Streak, il Re Canino di Kinescope, il quadrupede più amato nella storia dello spettacolo, annunciò che aveva abbracciato la carriera di attore come cane-lupo solo a causa del fatto che la rivalità era meno forte che tra gli attori umani («inoltre», si dice che abbia aggiunto in privato «si incontrano meno cagne... e meno figli di cagne»). Il documentario che Streak aveva commissionato per suo uso personale, dal titolo Una giornata della vita di un licantropo medio, rimosse gli ultimi dubbi e le ultime paure, e finalmente mostrò la necessità di volontari, non più esitanti a rivelare la loro vera natura frustrata nel timore di venire impallinati da pallottole d'argento oppure a dover essere costretti a sottomettersi alle sedute analitiche. In realtà, queste nuove possibilità offerte dalla libertà di espressione curarono immediatamente alcuni dei casi più difficili, che avevano dovuto fabbricarsi complesse scappatoie. Infatti per anni erano stati obbligati a inibire la loro vera natura, o a praticare la metamorfosi come un vizio solitario. Il problema non fu più quello di trovare volontari, ma di selezionarli. Fortunatamente, un funzionario in pensione dell'FBI (le cui gesta come licantropo sono state raccontate in altra sede), si prese il compito di eliminare i malfattori. Come stabilito dai dati statistico-psicologici, l'incidenza della criminalità in questo gruppo non era più alta che in altri gruppi, se si tiene conto dell'inevitabile conseguenza degli effetti storici della repressione e della discriminazione). Il professor Garou progettò il test attitudinale. Uno degli incidenti minori che si verificarono durante il processo di selezione fu il seguente: una bellissima attrice australiana che era fortemente favorita a causa della sua chiara pronuncia (in entrambe le forme di linguaggio) e del talento linguistico, provò che la metamorfosi non concerneva il solo lupo europeo (Canis lupus), ma anche il lupo tasmaniano (Thylacinus Cynocephalus). Il professor Garou, giustamente, pose la questione dell'effetto che avrebbe avuto il suo marsupio sui Marziani, benché fosse alta la stima che i conoscitori nutrivano per tali asserzioni. Il resto è storia. Non vi è bisogno qui di descrivere in dettaglio i traguardi raggiunti dalla scienza della comunicazione durante quell'ambasciata e quelle che seguirono. L'èra dell'amicizia interplanetaria in cui viviamo ora,
ne costituisce il monumento. Né dovremmo dimenticare il riconoscimento dovuto alle affascinanti nonché brillanti scimmie mannare, che rappresentano tanto espertamente il loro pianeta madre nel corso delle visite ufficiali marziane qui sulla Terra. Quando i Marziani riconobbero la perfezione raggiunta dalla soluzione Hunyadi, i loro studiosi del folklore si resero conto che anche presso di loro si era sopportato da molto tempo il problema di una minoranza, di cui la maggioranza non aveva mai sospettato l'esistenza. Il tributo alla sapienza divina lanciato dal Cardinale Mezzolupo trovò eco presso l'Alto Vrakh stesso. Quel mostro leggendario, la scimmia mannara, prese il posto che gli spettava tra i cittadini meritevoli del pianeta Marte. Sarebbe solo giusto poter terminare questo breve resoconto con la toccante figura del professor Hunyadi, a cui i due mondi dovevano tanto, ormai serenamente avviato sul viale del tramonto. Ma quel genio irrequieto ed errabondo partì per intraprendere una nuova spedizione interplanetaria, fidando nel fatto che il Dio del Cardinale e il Vrakh avessero creato un pianeta abitato da una razza simile ai pipistrelli (Vampyrus Sapiens) alla quale egli si sarebbe rivolto in veste di simbolico primo ambasciatore. IL LUPO MANNARO PERFETTO The Compleat Werewolf di Anthony Boucher Unknown, aprile 1942 Nota dell'autore: Nel corso delle mie ricerche di criminologia ogni tanto mi sono imbattuto in riferimenti a un agente del Federal Bureau of Investigation (FBI) che promette di diventare un grande personaggio della leggenda americana alla pari di Paul Bunyan o John Henry. Quest'uomo è invulnerabile alle pallottole. Ispira un tale terrore ai criminali da spingerli al suicidio o alla follia. A volte scompare improvvisamente dalla faccia della terra, e altre volte riappare con la stessa subitaneità completamente nudo. E forse il tratto più strano è che sia alla ricerca incessante, di intensità Arthuriana, di qualcuno in grado di compiere il trucco della corda indiana. Solo di recente, dopo intense investigazioni a Berkeley, dove ho delle ottime relazioni soprattutto nel Dipartimento di Germanistica, e grazie alle riluttanti confidenze del mio vecchio amico Fer-
gus O'Breen, sono riuscito ad appurare i fatti che sono dietro a questa leggenda. Qui di seguito è riportata la storia. Ne ho soppresso un solo particolare importante, e l'ho fatto, ve l'assicuro, solo per il vostro bene. Il professore guardò il telegramma: «Non fare lo stupido. Gloria». Wolfe Wolf accartocciò il foglio di carta in una pallottola gialla e lo lanciò dalla finestra sul Campus splendente di sole primaverile. Pronunciò parecchie osservazioni profane in uno scorrevole Tedesco Medio-Alto. Emily alzò gli occhi dalla macchina da scrivere, su cui stava battendo il bilancio preventivo della Biblioteca del Dipartimento. «Temo di non aver capito, Professor Wolf. Non sono molto ferrata in Tedesco Medio-Alto.» «Stavo solo improvvisando», disse Wolf, e mandò una copia del Journal of English and Germanic Philology a seguire il telegramma fuori dalla finestra. Emily si alzò dalla macchina da scrivere. «Ci sono dei problemi? La Commissione ha respinto la vostra monografia su Harger?» «Quel monumentale contributo alla conoscenza umana? Oh, no. Niente di così importante.» «Ma siete così sconvolto...» «La Moglie del Dipartimento!», sbuffò Wolf. «E per giunta anche poliandrica, con l'intero Dipartimento nelle vostre mani. Andate via.» La piccola faccia scura di Emily si accese di una giusta ira, che eliminò ogni traccia di dolcezza. «Non parlatemi in questo modo, Mr. Wolf. Sto solo cercando di aiutarvi. E non è tutto il Dipartimento. È...» Il Professore sollevò il calamaio, seguì con gli occhi il posto dove erano finiti il telegramma e il Journal, poi riappoggiò la boccia di vetro. «No. Ci sono modi migliori di andare in pezzi. Il dolore, più che spezzare l'anima la soffoca. Dite ad Herbrecht di fare la mia lezione alle due, per favore.» «Dove dovete andare?» «All'Inferno. Per molto tempo.» «Aspettate. Forse posso aiutarvi. Ricordate quando il Decano vi indusse
con l'inganno a servire delle bibite agli studenti? Forse posso...» Wolf era nel vano della porta. Tese un braccio con solennità, puntando quello strano indice che era lungo quanto il medio. «Madame, accademicamente voi siete indispensabile. Siete il sostegno di questo Dipartimento. Ma, in questo momento, questo Dipartimento può andare all'Inferno, dove, senza dubbio, continuerà ad avere bisogno del vostro inestimabile lavoro.» «Ma non capite...», la voce di Emily tremava. «No. Naturalmente no. Non capite. Siete solo un uomo... no, nemmeno un uomo. Siete solo il Professor Wolf. Siete solo Woof-woof.» Wolf barcollò. «Che cosa sono?» «Woof-woof. È così che vi chiamano tutti a causa del vostro nome, Wolfe Wolf. Tutti i vostri studenti, tutti. Ma voi non vi accorgereste mai di una cosa del genere. Oh, no. Woof-woof, ecco quello che siete.» «Questo», disse Wolfe Wolf, «è il colpo di grazia. Il mio cuore è spezzato! Il mio mondo è caduto a pezzi, e devo camminare un miglio per trovare un bar. Ma tutto questo non basta. Devo anche essere chiamato Woof-woof. Arrivederci.» Si girò, e sulla soglia rimbalzò contro una massa enorme e cedevole, che emise un rumore che poteva essere un saluto, «Wolf!» o molto più probabilmente un inevitabile grugnito, «Oof!». Wolf indietreggiò verso la stanza e fece entrare il Professor Fearing, con pancia, pince-nez, bastone e tutto il resto. L'uomo più anziano dondolò verso la sua scrivania, si sedette di schianto, ed esalò un lungo respiro. «Mio caro ragazzo», ansimò. «Quanto siete impetuoso!» «Scusatemi, Oscar.» «Ah, la giovinezza...» Il Professor Fearing annaspò alla ricerca di un fazzoletto, non lo trovò, e procedette a pulire il pince-nez con la farfalla alquanto consumata. «Ma perché questa fretta di uscire? E perché Emily sta piangendo?» «È lei che piange?» «Lo vedete», disse Emily disperata, e mormorò «Woof-woof» nel fazzolettino umido. «E perché delle copie del JEPS sono volate sulla mia testa mentre attraversavo innocentemente il Campus? Forse che abbiamo la "tele-consegna" delle riviste?» «Scusatemi», ripeté concisamente Wolf. «Era rabbia. Non ho potuto
sopportare quel ridicolo articolo di Glocke. Arrivederci.» «Un momento.» Il Professor Fearing pescò in una delle sue innumerevoli tasche prive di fazzoletti e mostrò un foglio di carta gialla. «Credo che questo vi appartenga.» Wolf lo afferrò e lo trasformò velocemente in un mucchietto di coriandoli. Fearing ridacchiò. «Ricordo bene quando Gloria studiava qui! Ci ho pensato proprio ieri sera quando l'ho vista in Raggi di luna e Melodia. Sconvolse tutto il Dipartimento! Cielo, ragazzo mio, se fossi stato più giovane...» «Vado via. Vi occuperete voi di Herbrecht, Emily?» Emily tirò su col naso e annuì. «Andiamo, Wolfe.» La voce di Fearing era diventata più seria. «Non intendo tormentarvi. Ma non dovete prendere queste faccende tanto seriamente. Ci sono modi migliori di consolarsi piuttosto che perdere le staffe o ubriacarsi.» «Chi ha detto che io...» «Avevate bisogno di dirlo? No, ragazzo mio, se voi foste... Non siete religioso, è vero?» «Buon Dio, no», disse Wolf in tono polemico. «Se solo foste... Se posso darvi un suggerimento, Wolf, perché non andate al tempio stasera? Ci saranno delle funzioni molto particolari. Potrebbero distogliere la vostra mente da Glo... dai vostri problemi.» «No, grazie. Ho sempre avuto l'intenzione di visitare il vostro tempio ne ho sentito parlare - ma non stasera. Un'altra volta.» «Stasera sarà particolarmente interessante.» «Perché? Che cosa c'è di così particolare nel 30 aprile?» Fearing scosse la testa grigia. «È sconvolgente quanto possa essere ignorante uno studioso al di fuori del proprio campo di studi. Ma voi conoscete il posto, Wolfe. Spero di vedervi stasera.» «Grazie. Ma i miei problemi non hanno bisogno di nessuna soluzione soprannaturale. Un paio di zombie faranno il loro dovere, e non mi riferisco a dei cadaveri servizievoli. Arrivederci, Oscar.» Quando era già oltre la soglia, aggiunse, come se ci avesse ripensato: «Ciao, Emily». «Che precipitazione!», mormorò Fearing. «Che impetuosità! La giovinezza è meravigliosa, non è vero, Emily?» Emily non disse niente, ma si immerse nella battitura del bilancio pre-
ventivo come se la inseguissero tutti i diavoli dell'Inferno, e, in realtà, molti diavoli le stavano alle spalle. Il sole stava tramontando, e il tragico racconto dei guai di Wolfe continuava ancora. L'oste aveva pulito tutti i bicchieri della bettola, ma quella storia ripetitiva non cessava. Era dibattuto tra la noia, nuova perfino per la sua esperienza, e l'ammirazione professionale per un cliente che poteva consumare zombie a tempo indefinito. «Vi ho detto di quella volta che fu bocciata nella sessione estiva?», domandò Wolf bellicosamente. «Solo tre volte», disse l'oste. «Bene, allora, ve lo racconterò. Capito? Io non faccio cose del genere. Etica professionale. Non si trattava di qualcuno che era ignorante solo perché non sapeva. Quella ragazza era una ragazza che non sapeva, perché era il tipo di ragazza che deve sapere il tipo di cose che una ragazza deve sapere se è il tipo di ragazza che dovrebbe sapere quel tipo di cose. Capito?» L'oste lanciò uno sguardo d'intesa all'ometto grassoccio che sedeva da solo in fondo al locale deserto, bevendo con cura il suo gin-tonic. «Lei me lo fece capire. Mi fece capire un mucchio di cose, e io riesco ancora a capire le cose che mi fece capire. Non era affatto l'innamoramento di un professore per una studentessa, capito? Era diverso. Era meraviglioso. Era una vita completamente nuova.» L'oste si avvicinò furtivamente all'ometto. «Fratello», sussurrò. L'ometto con la strana barba alzò gli occhi dal gin-tonic. «Sì, collega?» «Se sto a sentire questo professore sbronzo per altri cinque minuti, comincerò a sfasciare il locale. Che ne dite di prendere il mio posto?» L'ometto guardò Wolf e concentrò il suo sguardo soprattutto sulla mano che stringeva l'alto bicchiere. «Con piacere, collega», annuì. L'oste emise un sospiro di sollievo. «Lei era la giovinezza», stava dicendo Wolf con grande attenzione, rivolgendosi all'oste che non c'era più. «Ma non era solo questo, era diverso. Lei era la Vita e l'Eccitazione, la Gioia e l'Estasi, e la Materia. Capi...», si interruppe e guardò lo spazio vuoto. «Sor... prendente!», osservò. «Proprio sotto il mio naso. Sor... prendente!» «Dicevate, collega?», intervenne l'ometto grassoccio dal tavolo accanto. Wolf si girò.
«Ecco dove siete. Vi ho detto di quella volta che andai a casa sua a controllare la sua tesi semestrale?» «No. Ma ho la sensazione che lo farete.» «Come fate a saperlo? Be', quella sera...» L'ometto beveva lentamente, ma il suo bicchiere era vuoto quando Wolf finì il racconto di una sera di vani tentativi di flirt. Altri clienti stavano arrivando e il bar ormai era pieno per un terzo. «...e mai più da allora...», Wolf si interruppe di colpo. «Non siete voi», obiettò. «Penso di sì, collega.» «Ma voi siete un barista, e voi non siete un barista.» «No. Sono un Mago.» «Oh. Questo spiega tutto. Ora, come vi stavo dicendo... Ehi! la vostra pelata è una barba.» «Prego?» «La vostra pelata è una barba. Proprio come la vostra testa. È solo una frangia che corre tutt'intorno.» «Mi piace così.» «E il vostro bicchiere è vuoto.» «Anche questo va bene.» «Oh no, affatto. Non vi capita tutte le sere di bere con un uomo che ha chiesto la mano a Gloria Garton ed è stato rifiutato. Questa è un'occasione da celebrare.» Wolf diede un pugno sul bancone e alzò il medio e l'indice. L'ometto notò che erano della stessa lunghezza. «No», disse sottovoce. «Penso che sia meglio di no: conosco i miei limiti. Se ne prendo un altro... be', potrebbe succedere qualcosa.» «E facciamola succedere!» «No. Per favore, collega: preferirei...» Il barista portò i due bicchieri. «Continua così, fratello», bisbigliò. «Tienilo tranquillo. Una volta o l'altra, ti restituirò il favore.» Con riluttanza l'ometto sorseggiò il suo gin-tonic. Il professore bevve un'abbondante sorsata del suo ennesimo zombie. «Mi chiamo Woof-woof», proclamò. «Molta gente mi chiama Wolfe Wolf. Credono che sia buffo. Ma il mio nome è veramente Woof-woof.» L'altro si fermò un momento per decifrare quella parola che sembrava araba, poi disse: «Io mi chiamo Ozymandias il Grande».
«Questo è un nome buffo.» «Vi ho detto che sono un Mago. Solo che non lavoro da molto tempo. I direttori di teatro sono persone particolari, collega. Non vogliono un Mago vero. Non vogliono nemmeno che mostri loro i miei numeri migliori. Be', ricordo una sera a Darjeeling...» «Felice di conoscervi, Mr... Mr...» «Chiamatemi pure Ozzy. Lo fanno molti.» «Felice di conoscervi, Ozzy. Ora torniamo a quella ragazza. Quella Gloria. Capito, vero?» «Certamente, collega.» «Lei pensa che essere un professore di tedesco non conti nulla. Vuole qualcosa di affascinante. Dice che, se fossi un attore o un G-man... Capito?» Ozymandias il Grande annuì. «Bene, allora! Avete capito. Benissimo! Ma perché diavolo volete continuare a parlare? Avete capito. Questo è tutto. All'Inferno questa faccenda.» La faccia rotonda e orlata di frangia del Mago Ozymandias si illuminò. «Certamente», disse, e aggiunse con noncuranza: «Beviamo a questa conclusione». Fecero tintinnare i bicchieri e bevvero. Wolf buttò giù un brindisi di vecchio Porto, con un errore imperdonabile nell'uso del genitivo. I due uomini accanto a loro cominciarono a cantare My Wild Irish Rose, ma si interruppero tristemente. «Quello di cui abbiamo bisogno», disse quello con il cappello, «è un tenore.» «Quello di cui ho bisogno io», mormorò Wolf, «è una sigaretta.» «Certamente», disse Ozymandias il Grande. Il barista stava spillando la birra di fronte a loro. Ozymandias si sporse verso il bancone, prese una sigaretta accesa che era appoggiata all'orecchio del barista e la porse al suo compagno. «Da dove è spuntata?» «Non lo so affatto. Tutto quello che so è come prenderle. Vi ho detto che sono un Mago.» «Oh. Capisco. Prestidigitazione.» «No. Non prestidigitatore: ho detto che sono un Mago. Oh, al Diavolo! L'ho fatto di nuovo. Più di un gin-tonic, e comincio a mettermi in mostra.»
«Non vi credo», disse Wolf seccamente. «Non credo a cose del genere. Sono stupidaggini come Oscar Fearing e il suo tempio. E, a ogni modo, che cosa c'è di speciale nel 30 aprile?» L'uomo barbuto aggrottò le sopracciglia. «Per favore, collega. Lasciamo perdere.» «No. Non vi credo. Avete prestidigitato quella sigaretta. Non l'avete evocata per magia.» La sua voce cominciò ad alzarsi. «Siete un imbroglione!» «Per favore, fratello», sussurrò il barista. «Fatelo stare tranquillo.» «Va bene», disse Ozymandias stancamente. «Vi mostrerò qualcosa che non può essere prestidigitazione.» La coppia accanto aveva cominciato a cantare. «Hanno bisogno di un tenore. Va bene, ascoltate!» E il più dolce, più ineffabile, tenore irlandese che si fosse mai udito, si unì al duetto. I cantanti non si preoccuparono della fonte; semplicemente, accettarono con piacere la nuova voce e furono stimolati a fare del loro meglio. Il risultato fu che quel bar ascoltò la più bella armonia che si fosse mai udita dalla sera in cui il Glee Club fu chiuso. Wolf parve impressionato, ma scosse la testa. «Nemmeno questa è magia. Questo è ventriloquio.» «A dire la verità, questo era un cantante che fu ucciso durante la Ribellione Orientale. Era anche intelligente. Non ho mai sentito una voce migliore, tranne quella notte a Darjeeling quando...» «Imbroglione!», disse Wolfe Wolf a voce alta e con violenza. Ozymandias ancora una volta contemplò il lungo indice. Guardò le scure sopracciglia del professore che si univano in una linea diritta sul suo naso. Sollevò la mano floscia del suo compagno dal bancone e ne osservò il palmo. La crescita di peli non era visibile, ma solo percettibile. Il Mago ridacchiò. «E voi schernite la magia?» «Che cosa c'è di tanto divertente nel fatto che io schernisca la magia?» Ozymandias abbassò la voce. «Perché, mio caro e peloso amico, voi siete un Lupo Mannaro!» Il martire irlandese aveva cominciato a cantare Rose of Tralee e i due mortali lo seguivano con maestria. «Che cosa sono io?» «Un Lupo Mannaro.» «Ma una creatura del genere non esiste. Perfino i pazzi lo sanno.» «I pazzi», disse Ozymandias, «sanno molte cose che i savi non sanno. I
Lupi Mannari esistono. Sono sempre esistiti e probabilmente esisteranno sempre.» Parlò con tanta calma e tanta sicurezza che sembrava stesse affermando che la terra è rotonda. «Ci sono tre infallibili segni fisici: le sopracciglia che si uniscono, il dito indice lungo, i palmi pelosi. Voi li avete tutti e tre. E perfino il vostro nome è un'indicazione. I cognomi non nascono dal nulla. Ogni Smith ha un antenato che faceva il fabbro. Ogni Fisher proviene da una famiglia che un tempo pescava. E il vostro cognome è Wolf.» L'affermazione era così sicura, così plausibile, che Wolf esitò. «Ma un Lupo Mannaro è un uomo che si trasforma in lupo. Io non l'ho mai fatto. Giuro che non l'ho mai fatto.» «Un mammifero», disse Ozymandias, «è un animale che partorisce i figli vivi e li allatta. Ciononostante, una vergine è un mammifero. Anche se non vi siete mai trasformato, tuttavia, siete un Lupo Mannaro.» «Ma un Lupo Mannaro...» A un tratto gli occhi di Wolf si accesero. «Un Lupo Mannaro! Ma è meglio di un G-man! Gloria lo vedrà!» «Che diavolo intendete dire, collega?» Wolf saltò giù dallo sgabello. L'eccitazione intensa provocatagli dalla sua brillante idea sembrava averlo reso sobrio. Afferrò per una manica l'ometto. «Andiamo. Troveremo un posticino tranquillo. E mi proverete che siete un Mago.» «Ma come?» «Mi mostrerete come devo trasformarmi!» Ozymandias finì il gin-tonic, e con l'ultimo sorso affogò le perplessità. «Collega», annunciò, «siete brillo!» Il professor Oscar Fearing, dietro lo strano leggio intagliato del Tempio della Verità Oscura, concluse la lettura della preghiera con dei sonori mormorii. «E in questa notte di tutte le notti, nel nome della Luce Nera che illumina l'oscurità, noi rendiamo grazie!» Chiuse il libro rilegato in pergamena e guardò la piccola Congregazione. Disse quindi a voce alta, in tono fiero e intenso: «Chi desidera rendere grazie al Signore degli Inferi?». Una vecchia signora distinta e grassoccia si alzò. «Io rendo grazie!», strillò eccitata. «La mia Ming Choy era malata, e stava per morire. Io ho preso qualche goccia del suo sangue e l'ho offerta al Signore degli Inferi, ed egli ha avuto pietà e l'ha guarita!» Dietro l'altare un elettricista controllò gli interruttori e sputò a terra con
disgusto. «Cimici! Fino all'ultimo!» L'uomo che si dibatteva in un costume grottesco e orribile si fermò e si strinse nelle spalle. «Pagano bene. Che ci importa se sono cimici?» Un vecchio alto e magro si alzò con movimenti incerti. «Rendo grazie!», gridò. «Rendo grazie al Signore degli Inferi perché ho finito la mia grande opera. Il mio schermo protettivo contro le bombe magnetiche è un successo provato e certo, per la gloria del nostro paese, della scienza e del nostro Signore.» «Sciocchezze!», brontolò l'elettricista. L'uomo in costume guardò intorno all'altare. «Sciocchezze un corno! Quello è Chiswick, del Dipartimento di Fisica. Pensare che un uomo del genere crede in questa robaccia! E sentilo: sta perfino parlando dei piani governativi per le installazioni militari. Scommetto che qualche spia potrebbe raccogliere parecchie informazioni in questo Tempio.» Quando la Congregazione ebbe finito il suo ringraziamento, ci fu silenzio nel Tempio. Il Professor Fearing si sporse sul leggio e parlò con calma e con solennità. «Come voi sapete, Fratelli dell'Oscurità, stanotte è il Calendimaggio, il 30 aprile, la notte consacrata dalla Chiesa alla martire Santa Valpurga, e da noi ad altri e più oscuri fini. È in questa notte, e solo in questa notte, che noi possiamo rendere grazie direttamente al Signore. Non con orge perverse e oscenità, come si credeva erroneamente nel Medio-Evo, ma con preghiere e con la gioia oscura e profonda che si sprigiona dalle Tenebre.» «Tenetevi forte, ragazzi», disse l'uomo in costume. «Arrivo.» «Eka», tuonò Fearing. «Dva tri chatur! Pancha! Shas sapta! Ashta nava dasha ekadasha!» Si fermò. In quel momento c'era sempre il pericolo che qualche studioso di quella città universale capisse che l'invocazione, sebbene fosse in un Sanscrito corretto, consisteva unicamente nella numerazione da uno a undici. Ma nessuno si mosse, e lui si lanciò in un latino più appropriato: «Per vota nostra ipse nunc surgat nobis dicatus Baal Zebub!». «Baal Zebub!», fece coro la Congregazione. «Attacco», disse l'elettricista, e girò un interruttore. Le luci tremolarono e si spensero. Fulmini zigzagarono nel santuario. Improvvisamente, nell'oscurità si sentì un abbaiare stizzito, un grido di do-
lore, quindi un lungo ululato di trionfo. Una luce azzurrina cominciò a illuminare fiocamente l'ambiente. Al debole riflesso di quella luce, l'elettricista fu stupito di vedere il suo amico in costume che si manteneva una mano sanguinante. «Che diavolo...», sussurrò l'elettricista. «Che sia dannato se lo so. Sono uscito al segnale, pronto a fare la mia apparizione terrificante, e che cosa è successo? Un grande cane è balzato fuori e mi ha morso la mano. Perché non mi hanno avvertito che hanno cambiato il copione?» Nel riflesso della luce azzurrina, la Congregazione contemplava con reverenza l'ometto grassoccio con la frangia di barba e lo splendido lupo grigio che gli era accanto. «Salve, o Signore degli Inferi!», risuonò il coro, coprendo il mormorio di una vecchia zitella che diceva: «Mia cara, giuro che l'anno scorso era molto più robusto». «Colleghi!», disse Ozymandias il Grande, e cadde in un silenzio assoluto e timoroso, in attesa delle gravi parole del Signore degli Inferi. Ozymandias fece un passo avanti, mise attentamente la lingua tra le labbra, emise la pernacchia più perfetta della sua carriera, e sparì insieme al lupo. Wolfe Wolf aprì gli occhi e li richiuse in fretta. Non si sarebbe mai aspettato che il tranquillo e serio Hotel Berkeley fosse fornito di stanze centrifughe. Non era piacevole. Giacque nell'oscurità, aspettando che il vortice finisse, e tentando di ricostruire la notte precedente. Ricordava bene il bar, e gli zombie. E il barista. Un tipo simpatico quello, finché non si era improvvisamente trasformato in un ometto con una frangia di barba. Da quel momento le cose avevano cominciato a diventare strane. C'era qualcosa a proposito di una sigaretta, di un tenore irlandese e di un Lupo Mannaro. Un'idea fantastica, quella. Qualsiasi pazzo sa... Wolf si alzò a sedere di colpo. Era lui il Lupo Mannaro. Tirò le coperte e si guardò le gambe. Poi sospirò di sollievo. Erano lunghe. Erano abbastanza pelose. Erano abbronzate per molte partite a tennis. Ma erano innegabilmente umane. Si alzò, represse i conati di vomito, e cominciò a raccogliere i vestiti che erano sparsi sul pavimento. Una folla di gnomi gli stava scavando il cranio, ma sperava che se ne sarebbero andati se non avesse prestato loro attenzione. Gloria o non Gloria, cuore spezzato o non cuore spezzato, affogare i dolori nell'alcool non andava bene. Se ci si sentiva in quel modo e si
riusciva ad immaginare di essere stato un Lupo Mannaro... Ma perché mai l'avrebbe dovuto immaginare con tanti particolari? Mentre si vestiva, vari ricordi frammentari parvero tornargli alla mente. Era andato allo Strawberry Canyon con l'ometto barbuto, e avevano trovato un posto deserto e isolato per imparare le parole magiche. Riusciva perfino a ricordare le parole. La parola che trasformava in lupo e quella che ritrasformava in uomo. Si era anche inventato quelle parole nelle sue fantasticherie da ubriaco? E si era inventato anche quella sensazione che ricordava a stento: la libertà meravigliosa, magica del cambiamento, l'acuto dolore della trasformazione e poi la felicità infinita di essere agile, veloce e libero? Si osservò allo specchio. Aveva il suo solito aspetto, tranne che per le grinze sul suo tradizionale abito grigio a un petto: era un tranquillo accademico, un po' più prestante, un po' più impulsivo, un po' più romantico degli altri, ma pur sempre solo il Professor Wolf. Il resto era assurdità. Ma c'era, gli suggerì il suo lato impulsivo, solo un modo di provare se quel fatto fosse vero. Ed era dire la Parola. «Va bene», disse Wolfe Wolf al proprio riflesso. «Ti farò vedere.» E disse la Parola. Il dolore fu più acuto e più intenso di quanto ricordasse. L'alcool attenua il dolore. Lo dilaniò per un momento con un'intensità che gli ricordò le descrizioni del parto. Poi scomparve, ed egli contrasse gli arti con stupore e con gioia. Ma non era un animale agile, veloce e libero. Era un inerme lupo in trappola, irremovibilmente imprigionato in un tradizionale abito grigio a un petto. Cercò di alzarsi e camminare, ma le lunghe maniche e le gambe dei pantaloni lo fecero cadere con il muso a terra. Scalciò con le zampe, cercando di liberarsi, e poi si fermò. Lupo Mannaro o no, era che al Professor Wolf quell'abito era costato trentacinque dollari. Ci doveva essere un modo più economico di liberarsi che strappare l'abito a brandelli. Pronunciò parecchie imprecazioni in Basso Tedesco. Quella era una complicazione che non era riportata in nessuna delle leggende sui licantropi che aveva letto. In quelle storie la gente - bum! - diventa lupo oppure bang! - e ritorna uomo. Quando erano uomini indossavano degli abiti; quando erano lupi erano ricoperti di pelliccia. Proprio come Superman torna a essere Clark Kent sulla cima dell'Empire State Building e vi trova i suoi vestiti. Erano delle storie fuorvianti. Cominciò a ricordare che Ozymandias il Grande lo aveva fatto svestire prima di insegnargli la Parola...
La Parola! Ecco la soluzione. Tutto quello che doveva fare era dire la parola che lo avrebbe trasformato in un uomo - Absarka! - e sarebbe ridiventato un essere umano perfettamente a proprio agio nel suo vestito. Poi avrebbe potuto svestirsi e ricominciare tutto dall'inizio. Avete visto? La ragione risolve tutto. «Absarka!», disse. O pensò di dire. Completò tutto il processo mentale per dire Absarka! ma dal suo muso uscì solo una specie di uggiolio. E restò un lupo inerme e vestito in maniera tradizionale. Questo era peggio del problema dei vestiti. Se poteva liberarsi solo dicendo Absarka! e se, poiché era un lupo, non poteva dire niente, be', era rovinato. Per sempre. Poteva andare alla ricerca di Ozzy, ma come poteva un lupo intrappolato in un vestito grigio uscire tranquillamente dall'albergo e mettersi alla ricerca di un indirizzo sconosciuto? Era in trappola. Era perduto. Era... «Absarka!» Il Professor Wolfe Wolf si alzò con il vestito grigio orribilmente sgualcito e sorrise radiosamente al viso orlato di barba di Ozymandias il Grande. «Vedete, collega», spiegò il piccolo Mago, «ho immaginato che avreste voluto ritentare l'esperimento non appena vi foste alzato, e sapevo dannatamente bene che avreste avuto dei problemi. Perciò ho pensato di venire a rimettere le cose a posto.» Wolf accese in silenzio una sigaretta e porse il pacchetto a Ozymandias. «Quando siete entrato», disse infine, «che cosa avete visto?» «Voi trasformato in Lupo Mannaro.» «Allora veramente... io realmente...» «Certo. Voi siete un perfetto Lupo Mannaro.» Wolf si mise a sedere sul letto disfatto. «Immagino», disse con lentezza, «che debba crederci. E se ci credo... devo credere a tutto quello che ho sempre disprezzato. Devo credere negli Dèi, nei Demoni e nell'Inferno e...» «Non dovete essere così pluralistico. Ma esiste un Dio», disse Ozymandias con la stessa calma e la stessa convinzione con cui la sera prima aveva affermato che esistevano i Lupi Mannari. «E se esiste un Dio, allora io ho un'anima?» «Certo.» «E se io sono un Lupo Mannaro... Ehi!»
«Qual è il problema, collega?» «Va bene, Ozzy. Voi sapete tutto. Ditemi questo, allora: sono dannato?» «Perché? Solo perché siete un Lupo Mannaro? Sciocchezze, no. Lasciatemi spiegare. Ci sono due tipi di Lupi Mannari: c'è il tipo maledetto che non può fare a meno di trasformarsi in lupo, senza la possibilità di intervenire nella faccenda. E poi c'è il tipo volontario, a cui appartenete anche voi. La maggior parte del tipo volontario è dannata, perché è costituita da uomini perversi che desiderano ardentemente il sangue e mangiano la gente innocente. Ma non sono perversi perché sono Lupi Mannari: diventano Lupi Mannari perché sono perversi. Ora, voi vi siete trasformato solo per gioco e perché vi sembrava un buon sistema per impressionare una ragazza. Questo è un motivo innocente, ed essere Lupo Mannaro non lo rende meno innocente. I Lupi Mannari non devono essere considerati mostri; il fatto è che noi sentiamo parlare solo di quelli che lo sono.» «Ma come è possibile che io sia un licantropo volontario se mi avete detto che ero un Lupo Mannaro anche prima di trasformarmi?» «Non tutti possono trasformarsi. È come essere capaci di roteare la lingua o muovere le orecchie. Si può, oppure non si può; questo è tutto. Probabilmente, alla base c'è un fattore genetico, sebbene nessuno abbia fatto delle ricerche serie sull'argomento. Voi eravate un Lupo Mannaro in posse; ora lo siete in esse.» «Allora è tutto a posto? Posso essere un Lupo Mannaro solo per divertimento, e non corro alcun pericolo?» «Assolutamente.» Wolf ridacchiò. «Gliela farò vedere a Gloria! Monotono e banale... proprio così! Chiunque può sposare un attore o un G-man; ma un Lupo Mannaro...» «Probabilmente lo saranno anche i vostri figli», disse Ozymandias con allegria. Wolf chiuse gli occhi con espressione sognante, poi li aprì di colpo. «Sapete una cosa?» «Che cosa?» «Non ho più il mal di testa da sbornia! È meraviglioso! È... Be', è pratico. Finalmente la cura perfetta per i postumi delle sbronze. Trasformarmi in un Lupo Mannaro, poi ritornare uomo e... Oh, questo mi ricorda un fatto importante. Come devo fare per ritornare uomo?» «Absarka.» «Lo so. Ma quando sono un lupo non posso dirlo.»
«Questa», disse tristemente Ozymandias, «è la maledizione di essere un Mago Bianco. Bisogna usare gli incantesimi peggiori, perché i migliori sarebbero di Magia Nera. Certo, un Mago Nero può trasformarsi in lupo e ritornare uomo ogniqualvolta lo desideri. Ricordo che a Darjeeling...» «Ma io come farò?» «Questo è il problema. Avete bisogno di qualcuno che dica Absarka al posto vostro. È quello che ho fatto la notte scorsa, ricordate? Dopo che abbiamo interrotto la riunione al Tempio del vostro amico... Vi dirò come faremo. Ormai mi sono ritirato, e ne ho abbastanza di vivere modestamente, perché sono in grado solo di operare piccole magie... Volete darvi alla licantropia seriamente?» «Almeno per un po' di tempo. Finché non conquisto Gloria.» «Allora che ne dite se vengo a vivere nel vostro albergo? In questo modo, sarò sempre a vostra disposizione per dirvi Absarka. Quando avrete conquistato la ragazza, potrete insegnarlo a lei.» Wolf tese una mano. «Veramente nobile da parte vostra. Stringiamoci la mano.» In quel momento, il suo sguardo si posò sull'orologio da polso. «Ho soltanto due lezioni questa settimana. La licantropia è un'ottima cosa, ma bisogna lavorare per guadagnarsi da vivere.» «La maggior parte degli uomini lo deve fare.» Ozymandias tese con calma la mano nell'aria ed evocò una moneta. La guardò con desolazione: era un moidoro portoghese. «Maledizione a questi spiriti! Non riesco a spiegare loro che esistono delle monete fuori corso.» «Da Los Angeles», pensò Wolf con il disprezzo tipico del californiano del Nord, nell'osservare la trascurata giacca sportiva e la camicia gialla del suo avversario. Il giovane si alzò educatamente quando il professore entrò nell'ufficio. Gli occhi verdi gli luccicarono cordialmente e i capelli rossi brillarono al sole primaverile. «Professor Wolf?», chiese in tono interrogativo. Wolf guardò con impazienza la propria scrivania. «Sì.» «Mi chiamo O'Breen. Desidererei parlare con voi un attimo.» «Ricevo dalle tre alle quattro il martedì e il giovedì. Temo di essere molto occupato ora.» «Non è una faccenda che riguarda la Facoltà. Ed è importante.»
L'atteggiamento del giovane era affabile e disinvolto, ma riuscì, nondimeno, a comunicare un senso di urgenza che stuzzicò la curiosità di Wolf. L'importantissima lettera a Gloria aveva aspettato mentre lui faceva due lezioni; poteva ben aspettare altri cinque minuti. «Va bene, Mr. O'Breen.» «E da solo, per favore.» Wolf non si era accorto che Emily fosse nella stanza. Si girò verso la segretaria e disse: «Va bene. Se non vi dispiace, Emily...». Emily si strinse nelle spalle e uscì. «Allora, signore: qual è questa faccenda importante e segreta?» «Solo un paio di domande. Tanto per cominciare, quali sono i vostri rapporti con Gloria Garton?» Wolf tacque. Non avrebbe potuto dire: «Giovanotto, sto per chiederle di nuovo di sposarmi, visto che sono diventato un Lupo Mannaro». Perciò disse solo... la verità, anche se non tutta la verità... «È stata una mia allieva qualche anno fa.» «Non ho detto quali erano, ma quali sono. Quali sono attualmente i vostri rapporti con Gloria Garton?» «E perché mai dovrei rispondere a una domanda del genere?» Il giovane gli porse un biglietto da visita. Wolf lesse: FERGUS O'BREEN Investigatore Privato con licenza dello Stato di California. Wolf sorrise. «E che cosa significa? Prove per un divorzio! Non è questo il campo di indagini più frequente per un investigatore privato?» «Miss Garton non è sposata, come voi sapete molto bene. Vi sto solo chiedendo se negli ultimi tempi avete avuto contatti con lei.» «E io vi sto solo chiedendo perché mai volete saperlo.» O'Breen si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro nella stanza. «Non sembra che stiamo andando molto lontano, è vero? Devo dedurre che rifiutate di dire la natura della vostra relazione con Gloria Garton?» «Non vedo nessuna ragione per fare altrimenti.» Wolf stava cominciando a infastidirsi. Con sua sorpresa, l'investigatore si lasciò andare a un sorrisetto. «O.K. Lasciamo perdere. Parlatemi del vostro Dipartimento. Da quanto
tempo lavorano qui i vari membri della Facoltà?» «Assistenti e tutti gli altri?» «Solo i professori.» «Io sono qui da sette anni. Tutti gli altri almeno da una decina d'anni, se non di più. Se volete le cifre esatte, le potrete ottenere dal Decano, a meno che, come io spero», Wolf sorrise cordialmente, «non vi spacchi quella vostra zucca rossa.» O'Breen rise. «Professore, penso che possiamo andare avanti. Un'altra domanda, e voi stesso potrete aprire la mia zucca rossa. Siete cittadino americano?» «Certamente.» «E il resto del Dipartimento?» «Tutti lo sono. E ora vorreste avere l'educazione di spiegarmi il motivo di questa fantastica miscellanea di domande?» «No», disse O'Breen con disinvoltura. «Arrivederci, professore.» I suoi occhi verdi, avevano frugato la stanza per tutto il tempo, notando tutto. Quando se ne andò, il suo sguardo si posò sul lungo dito indice di Wolf, poi si spostò alle folte sopracciglia che si univano sulla fronte, e quindi ritornò al dito. C'era sospetto e un barlume di comprensione in quegli occhi, quando il giovane lasciò l'ufficio. Ma era un'assurdità, si disse Wolf. Un investigatore privato, non importa quanto siano acuti i suoi occhi, o quanto siano apparentemente senza significato le sue domande, è certamente l'ultimo uomo sulla terra a riconoscere i segni della licantropia. Buffo. Lupo Mannaro era una parola che si poteva accettare. Si poteva dire: «Sono un Lupo Mannaro», e tutto era a posto. Ma dire: «Sono un licantropo», faceva venire i brividi. Strano. Era un soggetto adatto per un articolo sull'influenza dell'etimologia circa la connotazione degli argomenti da pubblicare su qualche rivista erudita. Ma, all'Inferno! Wolfe Wolf non era più soprattutto uno studioso. Era un Lupo Mannaro ormai, un Lupo Mannaro della Magia Bianca, un Lupo Mannaro per divertimento; e si stava per divertire. Accese la pipa, fissò il foglio bianco che era sulla scrivania, e cercò con divertimento di abbozzare una lettera per Gloria. Doveva fare delle allusioni per affascinarla e mantenere vivo il suo interesse finché non fosse potuto andare nel Sud quando fosse finito il semestre per rivelarle la meravigliosa verità... Il Professor Oscar Fearing entrò con il suo passo pesante e goffo nell'ufficio.
«Buon pomeriggio, Wolf. Siete al lavoro, ragazzo mio?» «Buon pomeriggio», replicò Wolf distrattamente, e continuò a guardare il foglio. «Un grande evento in arrivo, eh? Non vedete l'ora di incontrare la stupenda Gloria?» Wolf sussultò. «Come... Che cosa volete dire?» Fearing gli porse il quotidiano ripiegato. «Non avete saputo?» Wolf lesse con stupore e gioia crescenti: GLORIA GARTON ARRIVERÀ VENERDÌ La nostra ragazza ritorna a Berkeley. Gloria Garton, affascinante stella della Metropolis, visiterà Berkeley in qualità di membro della caccia di talenti più spettacolare da quando si cercò il volto per Scarlett O'Hara. Venerdì pomeriggio, al Teatro del Campus, i cani di Berkeley avranno la possibilità di competere nella scelta di un cane che reciti la parte di Tookah nel grande film epico della Metropolis, Zanne della Foresta, e Gloria Garton sarà presente alle audizioni. «Devo tanto a Berkeley», ha dichiarato Miss Garton. «Sarà un'emozione per me rivedere il Campus e la città.» Miss Garton ha la parte principale in Zanne della Foresta. Miss Garton era una studentessa dell'Università della California quando ebbe la sua prima parte in un film. Appartiene all'associazione degli attori «Mask and dagger», e alla «Rho Rho Rho Sonority». Wolfe Wolf si illuminò. Era perfetto. Non aveva bisogno di aspettare la fine del semestre. Poteva vedere Gloria subito e farsi ammirare da lei in tutto il suo vigore lupesco. Venerdì... quel giorno era mercoledì: aveva due notti per impratichirsi della tecnica della licantropia. E poi... Notò l'espressione abbattuta sul volto dell'anziano professore, e un piccolo rimorso lo tormentò. «Come è andata la notte scorsa, Oscar?», chiese con simpatia. «Come è stata la vostra grande cerimonia per la notte di Santa Valpurga?» Fearing gli lanciò una strana occhiata.
«Adesso vi interessa? Ieri, il 30 aprile non significava niente per voi.» «Mi è venuta una certa curiosità e mi sono informato. Ma come è andata?» «Abbastanza bene», mentì Fearing senza convinzione. «Sapete Wolf», domandò dopo un momento di silenzio, «qual è la vera maledizione di ogni uomo che si interessa di Occulto?» «No. Qual è?» «Che il potere vero non è mai abbastanza. È sufficiente per noi stessi, ma non è mai abbastanza per gli altri. Così non importa quali siano le vostre vere capacità: bisogna essere dei buoni parlatori per convincere gli altri. Pensate a St. Germain. Pensate a Francis Stuart. Pensate a Cagliostro. Ma la tragedia peggiore viene dopo: quando capite che i vostri poteri sono più grandi di quanto immaginavate e che la ciarlataneria era inutile. Quando capite che non avete idea dell'estensione dei vostri poteri. Allora...» «Allora, Oscar?» «Allora, ragazzo mio, siete un uomo spaventato a morte.» Wolf avrebbe voluto dire qualcosa per consolarlo. Avrebbe voluto dire: «Guardate, Oscar. Ero solo io. Ritornate alla vostra ciarlataneria e siate felice». Ma non poteva farlo. Solo Ozzy poteva conoscere la verità a proposito di quello splendido lupo grigio. Solo Ozzy e Gloria. La luna era luminosa in quel nascondiglio del canyon. La notte era tranquilla. E Wolfe Wolf soffriva di una grave forma di paura da palcoscenico. Ora che era arrivato il momento della trasformazione reale - perché il fiasco di quella mattina non contava e della notte precedente non ricordava niente - aveva paura di tuffarsi nella licantropia e faceva di tutto per perdere tempo e parlare il più possibile. «Pensate», chiese nervosamente al Mago, «che potrei insegnare anche a Gloria a trasformarsi?» Ozymandias rifletté. «Forse, collega. Dipende. Potrebbe avere le capacità naturali e potrebbe non averle. Inoltre, naturalmente, non si può sapere in che cosa potrebbe trasformarsi.» «Intendete che non sarebbe necessariamente un lupo?» «Naturalmente no. La gente che può trasformarsi, si trasforma in ogni genere di cosa. E ogni popolo conosce bene il tipo di trasformazione che gli interessa. Abbiamo una tradizione inglese e una tradizione centroeuropea, perciò sappiamo molto di più a proposito dei Lupi Mannari. Ma,
per esempio, in Scandinavia si sente parlare soprattutto di uomini-orso, solo che gli scandinavi li chiamano Berserker. E gli Orientali conoscono gli uomini-tigre. Il problema è che noi abbiamo pensato tanto ai Lupi Mannari che sappiamo tutti i segni per riconoscerli, ma io non saprei come individuare un uomo-tigre solo dall'apparenza esteriore.» «Allora non si può sapere che cosa succederebbe se le insegnassi la Parola?» «No, assolutamente. Naturalmente ci sono delle trasformazioni superflue e inutili. Prendete per esempio l'uomo-formica. Voi vi trasformate e qualcuno vi pesta, e questo è tutto. Ò prendete, per esempio, una persona che conobbi in Madagascar. Gli insegnai la Parola, e sapete che cosa accadde? Che io sia maledetto se non si trasformò in un diplodoco. Quando si trasformò fece crollare la casa e per poco non mi schiacciò sotto gli zoccoli prima che riuscissi a dire Absarka! Decise di non andare avanti negli esperimenti. Oppure quella volta al Darjeeling... Ma, collega, avete intenzione di stare qui nudo, tutta la notte?» «No», disse Wolf. «Ora mi trasformerò. Mi riporterete i vestiti all'albergo?» «Certo. Li metterò lì. E ho fatto un piccolo incantesimo sul portiere di notte in modo che non noti che nell'albergo entrerà un lupo. Oh: tra parentesi, manca qualcosa dalla vostra stanza?» «No, per quanto mi risulti. Perché?» «Perché mi è parso di vederne uscire qualcuno questo pomeriggio. Non posso esserne certo, ma mi pare che sia uscito proprio dalla vostra stanza. Un giovanotto coi capelli rossi e abbigliato alla maniera hollywoodiana.» Wolfe Wolf aggrottò le sopracciglia. Non aveva nessun senso. Domande senza né capo né coda da parte di un investigatore erano già abbastanza seccanti, ma perquisire una stanza d'albergo... ma che cos'era un investigatore per un Lupo Mannaro fatto e finito? Wolf sogghignò, fece un cenno di saluto a Ozymandias il Grande, e disse la Parola. Il dolore non fu acuto come quella mattina, ma fu abbastanza forte. Passò quasi subito però, e tutto il suo corpo si riempì di una sensazione di libertà infinita. Sollevò il muso e annusò profondamente l'intensa freschezza dell'aria notturna. Un regno di piacere gli si apriva davanti solo grazie a quell'odorato nuovo e acuto. Agitò amichevolmente la coda per salutare Ozzy e si avviò lungo il canyon con un'andatura sciolta e rapida. Per ore gli bastò solo camminare: il puro godere della propria animalità era il piacere più intenso che si poteva desiderare. Wolf lasciò quindi il
canyon, si diresse verso le colline, e si immerse in quella zona selvaggia che sembrava così lontana da tutta la civiltà del Campus. Le sue nuove zampe erano felici e instancabili, il suo fiato sembrava inesauribile. Ogni curva portava l'aroma fresco e vivido del terreno, delle foglie e dell'aria, e la vita era scintillante e bella. Ma, dopo qualche ora, Wolf si accorse di essere solo. Tutta quella gioia era meravigliosa, ma se Gloria avesse trottato al suo fianco... E non era forse inutile essere uno splendido lupo se non si era ammirati da nessuno? Cominciò a desiderare la gente, e allora si diresse verso la città. Berkeley va a dormire presto. Le strade erano deserte. Qui e lì era accesa qualche luce nella stanza di un pensionato dove qualche sgobbone si affannava sulla tesi semestrale. Anche Wolf l'aveva fatto. Non poteva ridere in quella forma, ma la sua coda si agitò divertita a quel pensiero. Si fermò in un viale alberato. Vi si sentiva un odore umano, sebbene la strada fosse vuota. Poi udì un lieve piagnucolio, e trottò verso il rumore. Dietro gli alberi, di fronte a una casa, sedeva un bimbetto di due anni che tremava nel suo prendisole e si era ovviamente smarrito da ore. Wolf mise una zampa sulla spalla del bambino e lo scosse con gentilezza. Il bimbo si guardò intorno e non si spaventò nemmeno un po'. «Ciao», disse, illuminandosi. Wolf ringhiò un saluto cordiale, dimenò la coda, e scalciò per indicare che avrebbe accompagnato il bambino smarrito dovunque volesse andare. Il bambino si alzò e si asciugò le lacrime con un dito sporco che gli lasciò delle grandi macchie nere. «Tutututu!», disse. Vuole giocare, pensò Wolf. Vuole giocare al trenino. Prese allora il bambino per una manina e lo tirò con gentilezza. «Tutututu», ripeté il bambino con decisione. Il rumore del fischio di un treno, a essere sinceri, muore in lontananza. Ma quella sembrava un'espressione troppo poetica per un marmocchio di quell'età, pensò Wolf, e poi all'improvviso avrebbe voluto far schioccare le dita se le avesse avute. Il bambino stava dicendo «22220 Dwight Way», poiché gli era stato insegnato a dire l'indirizzo nel caso si perdesse. Wolf lanciò un'occhiata all'insegna stradale: Bowditch e Hillegas. Il 22220 di Dwight Way doveva trovarsi a un paio di isolati. Wolf tentò di annuire, ma i muscoli del collo non gli rispondevano. Allora dimenò la coda per indicare che aveva capito, e si avviò seguito dal
bambino. Il bimbo sorrise radiosamente e disse: «Bello woff-woff». Per un attimo Wolf si sentì come una spia che improvvisamente venga chiamata con il suo vero nome, poi capì che se qualcuno dice «bau-bau» qualcun altro può anche dire «woff-woff.» Guidò il bambino per due isolati senza che accadesse nulla: si sentiva bene, poiché un innocente essere umano gli si era affezionato completamente. C'era qualcosa di particolare nei bambini. Sperava che Gloria avrebbe provato la stessa sensazione. Si chiese che cosa sarebbe accaduto se avesse insegnato a quel bambino fiducioso la Parola. Sarebbe stato ottimo avere un marmocchio che... Si fermò. Il naso gli si arricciò e i peli sul collo gli si rizzarono. Davanti a loro c'era un cane, un enorme cane bastardo, un incrocio tra un San Bernardo e un cane esquimese. Ma il ringhio che emise indicava che trasportare barilotti di brandy non era una faccenda che gli si addiceva. Era un bandito, un fuorilegge, un nemico degli uomini e dei cani. E Wolf e il bambino dovevano provare a passargli oltre. Wolf non aveva alcuna voglia di lottare. Era grande quanto quel mostro, e certamente, con il suo cervello umano, era molto più intelligente. Ma le cicatrici derivate da una zuffa tra cani non sarebbero state bene sul corpo umano del Professor Wolf e, inoltre, c'era il pericolo di ferire il marmocchio nella mischia. Sarebbe stato più prudente attraversare la strada. Ma, prima che potesse tirare il bambino verso il marciapiede opposto, il bastardo li attaccò, ringhiando e scoprendo i denti. Wolf si mise davanti al bambino, pronto ad attaccare per difenderlo. Il problema delle cicatrici era secondario rispetto al fatto che quel bambino si era affidato a lui. Era pronto ad affrontare quel cagnaccio e a dargli una lezione, a qualsiasi costo. Ma, a metà strada verso di lui, l'enorme cane si fermò. I suoi ringhi si spensero in un miserevole guaito. I suoi grandi fianchi tremarono alla luce della luna. La sua coda si attorcigliò tra le zampe. E, improvvisamente, si girò e scappò. Il bambino lanciò un gridolino di gioia. «Cattivo woof-woof andato via.» Mise le piccole braccia intorno al collo di Wolf. «Bello woof-woof.» Poi si drizzò e disse con insistenza: «Tutututu», e Wolf si avviò, mentre il suo forte cuore batteva come non aveva mai palpitato tra le braccia di una donna. «Tutututu» era una piccola casa di legno, arretrata rispetto alla strada e circondata da un grande prato. Le luci erano ancora accese e, perfino dal
marciapiede, Wolf sentiva una stridula voce di donna. «...dalle cinque di questo pomeriggio, e voi dovete trovarlo, agente. Voi dovete farlo. Abbiamo cercato in tutto il vicinato e...» Wolf si appoggiò al muro con le zampe anteriori e suonò il campanello della porta con la zampa anteriore destra. «Oh! Forse è qualcuno. I vicini hanno detto che avrebbero... Agente, venite a vedere... Oh!» Nello stesso momento Wolf abbaiò educatamente, il marmocchio strillò «Mamma!», e la sua mamma, magra e stanca, lanciò un urlo che era per metà di gioia nell'avere ritrovato il suo figlioletto e per metà di terrore nel vedere quel grande cane grigio che gli stava dietro. Strinse a sé il bambino e si girò verso un uomo robusto in uniforme. «Agente! Guardate! Quella bestia spaventosa! Mi ha rapito il mio Robby!» «No», protestò Robby con fermezza. «Bello woof-woof.» L'agente rise. «Probabilmente il bambino ha ragione, signora. È un bel woof-woof. Ha trovato il vostro bambino che vagava per strada e lo ha aiutato a tornare a casa. Non avreste un osso per lui?» «E dovrei far entrare quella brutta bestia nella mia casa? Mai! Andiamo, Robby.» «Voglio il mio bello woof-woof.» «Te lo do io il woof-woof: sei stato fuori fino a quest'ora e hai fatto stare in pena tuo padre e me. Aspetta solo che tuo padre ti veda, giovanotto; ti... Oh, buona notte, agente!» E chiuse la porta sulla urla di Robby. Il poliziotto carezzò la testa di Wolf. «Non ci pensare all'osso, Rover. Quella donna non mi ha nemmeno offerto un bicchiere di birra. Ma, tu, ragazzo mio, sei un cane esquimese, non è vero? Sembri quasi un lupo. A chi appartieni e perché vai in giro da solo? Uh?» Si chinò a guardare l'inesistente collare. Si drizzò e fischiò. «Non hai la licenza, Rover, e questo è male. Sai che cosa dovrei fare? Dovrei farti rinchiudere in un canile. Se tu non fossi un eroe che è stato appena defraudato del suo osso, io... Devo farlo, a ogni modo. Le leggi sono leggi, anche per gli eroi. Andiamo, Rover. Andiamo a fare una passeggiata.» Wolf pensò rapidamente. Il canile era l'ultimo posto sulla terra dove vo-
leva andare a finire. Perfino Ozzy non avrebbe mai pensato di andarlo a cercare lì. Nessuno avrebbe chiesto di lui, nessuno avrebbe detto Absarka! e infine una dose di cloroformio... Si liberò della stretta dell'agente che lo teneva per la collottola, e con un balzo prodigioso saltò oltre il prato, atterrò sul marciapiede, e si avviò lungo la strada. Ma, nell'istante in cui fu fuori dalla vista dell'ufficiale, si fermò e scivolò dietro una siepe. Sentì l'odore del poliziotto prima ancora di udirne i passi. Ma di fronte alla siepe si fermò anche lui. Per un momento Wolf si chiese se il suo stratagemma fosse fallito, ma l'agente si era fermato solo per grattarsi la testa e mormorare: «Ehi! c'è qualcosa di strano in questa storia. Chi ha suonato il campanello della porta? Il bambino non ci arrivava, e il cane... Oh, be'», concluse, «sciocchezze», e sembrò trovare in quella parola la soluzione di tutti i suoi problemi. Wolf sussultò, tirò indietro le labbra e tese i muscoli. Non c'era nessun essere in vista, ma qualcuno gli aveva parlato. Senza pensarci, tentò di dire: «Dove sei?», ma tutto quello che gli uscì dalla bocca fu un ringhio. «Proprio dietro di te. Qui nell'ombra. Senti il mio odore, non è vero?» «Ma sei un gatto», pensò Wolf ed emise solo dei guaiti. «E parli.» «Naturalmente. Ma non sto parlando in una lingua umana. È solo il tuo cervello che capisce le mie parole. Se tu avessi il tuo corpo umano, penseresti solo che io sto dicendo "miao". Ma tu sei un Lupo Mannaro, non è vero?» «Come fai... perché lo credi?» «Perché non hai tentato di aggredirmi, come un qualsiasi cane normale avrebbe fatto. E inoltre, a meno che Confucio non mi abbia insegnato male, sei un lupo, non un cane; e da queste parti non abbiamo lupi, a meno che non siano Lupi Mannari.» «Come fai a sapere tutte queste cose? Sei...» «Oh, no. Sono solo un gatto. Ma un tempo ero vicino di casa di un uomo-cane di nome Confucio. Mi ha insegnato molte cose.» Wolf era stupito. «Vuoi dire che era un uomo che si era trasformato in un cagnolino ed era rimasto in quella forma? Viveva come un cane da salotto?» «Certo doveva essere la conseguenza di una terribile depressione. Diceva che un cane è molto più adatto a essere nutrito e curato di un uomo. Riteneva che fosse un'idea intelligente.» «Ma è terribile! Un uomo può svilirsi tanto da...» «Gli uomini non si sviliscono da soli. Si sviliscono gli uni con gli altri.
Questa è la motivazione della maggior parte degli uomini-animale. Qualcuno si trasforma per non farsi svilire, qualcun altro per svilire meglio. Tu a che tipo appartieni?» «Be', vedi, io...» «Zitto! Guarda. Sarà un vero spettacolo. Una rapina.» Wolf scrutò al di là della siepe. Un uomo ben vestito, di mezza età, stava camminando allegramente: era evidente che faceva la sua passeggiatina serale. Dietro di lui si muoveva una figura sottile e silenziosa. Proprio mentre Wolf la fissava, la figura lo scorse e sussurrò con voce rauca: «Attenzione, compagno!». La tranquilla pomposità del signore a passeggio si dissolse. Impallidì e cominciò a tremare, mentre la figura faceva scivolare una mano nel taschino della sua giacca e ne prelevava un portafoglio rigonfio. E a che cosa serviva, pensò Wolf, il suo corpo bello e vigoroso se stava accucciato dietro il cespuglio a fare da spettatore? In un solo balzo, con grande stupore del gatto esperto in licantropia, scavalcò la siepe e atterrò con le zampe anteriori sulla faccia della figura. Cadde all'indietro con lui addosso. Poi seguì un tonfo, un lampo di luce e un dolore intenso e disgustoso. Per un attimo Wolf sentì un dolore acuto nella spalla, come la trafittura di un lungo ago, e poi il dolore scomparve. Ma il suo rapido balzo all'indietro era stato sufficiente per permettere al rapitore di alzarsi. «Ti ho mancato, eh?», mormorò. «Stiamo a vedere quanto ti piace una pallottola nel ventre, così impari a interferire, brutto...», e gli dedicò un epiteto che sarebbe stato veramente offensivo se Wolf non fosse stato un Lupo Mannaro. Ci furono tre veloci spari in successione proprio mentre Wolf balzava. Per un secondo provò il dolore di stomaco più forte di tutta la sua vita. Poi atterrò di nuovo. La testa del rapitore colpì il marciapiede di cemento e rimase immobile. Luci si accesero ovunque. Tra tutti i confusi rumori, Wolf sentì i lamenti acuti della madre di Robby, e tra tutti gli odori mescolati, distinse l'odore del poliziotto che voleva rinchiuderlo nel canile. Questo significava scappare, e in fretta. La città significava guai, decise Wolf, mentre si allontanava a grandi falcate. Avrebbe dovuto sopportare la solitudine mentre praticava la licantropia, finché non avesse avuto Gloria. Ma, anche se solo per precauzione, avrebbe dovuto escogitare insieme a Ozzy un collare dall'aria plausibile
e... Improvvisamente gli venne alla mente qualcosa di sorprendente! Aveva ricevuto quattro pallottole, tre delle quali in pieno stomaco, e non aveva nemmeno una ferita! Essere un Lupo Mannaro offriva certamente dei vantaggi pratici. Che cosa avrebbe potuto fare un criminale se avesse posseduto quell'invulnerabilità alle pallottole? O... Ma no. Era un Lupo Mannaro per divertimento, e questo era tutto. Ma perfino per un licantropo, essere fatto segno a colpi d'arma da fuoco, anche se relativamente indolore, è stancante. Una grande quantità di energia nervosa viene assorbita nel rimarginare, magicamente e all'istante, le ferite. E quando Wolf raggiunse la pace e la calma delle colline selvagge, non avvertì più il piacere della libertà. Si distese per tutta la sua lunghezza, appoggiò la testa tra le zampe anteriori e si addormentò. «L'essenza della magia», disse Eliofago di Smirne, «è l'inganno; e quest'inganno è di due tipi. Con la magia, il Mago inganna gli altri; ma la magia inganna lo stesso Mago.» Per quanto rifletteva Wolfe Wolf, la sua magia licantropica aveva funzionato facilmente e piacevolmente, ma allora gli fu rivelato il secondo inganno che si cela dietro ogni trucco di magia. E il primo era che Wolf aveva dormito. Si svegliò confuso. I suoi sogni erano stati umani - a proposito di Gloria - malgrado il corpo in cui aveva sognato. E gli ci vollero parecchi minuti prima di ricostruire come fosse capitato in quel posto. Per un attimo il sogno, perfino quell'episodio in cui lui e Gloria mangiavano le focacce di more sulle montagne russe, sembrava più plausibile e più normale della realtà. Ma si riprese subito e lanciò un'occhiata al cielo. Il sole sembrava fosse sorto da almeno un'ora, il che significava che erano le sei o le sette del mattino. Era giovedì, e questo voleva dire che gli toccava la lezione delle otto. Ciò gli lasciava appena il tempo di ritrasformarsi, di radersi, di vestirsi, di fare colazione e riprendere la vita normale del Professor Wolf, che era dopotutto importante se aveva intenzione di mantenere una moglie. Mentre trotterellava lungo le strade, cercò di essere il più mansueto e il meno lupesco possibile, ed evidentemente ci riuscì. Nessuno gli prestò attenzione tranne i bambini, che volevano giocare, e i cani, che cominciavano con il ringhiare e finivano con l'accucciarsi terrorizzati. Il suo amico gatto poteva essere curioso e tollerante nei riguardi dei Lupi Mannari, ma
non così erano i cani. Trotterellò lungo gli scalini dell'Albergo Berkeley con sicurezza. Il portiere era sotto un leggero incantesimo e non avrebbe visto nessun lupo. Non c'era altro da fare che svegliare Ozzy, fargli dire Absarka, e... «Ehi! Dove stai andando? Fuori di qui! Sciò!» Era il portiere, un giovane alto e muscoloso, che si fermò a gambe divaricate davanti alla scalinata e con decisione gli fece segno di andarsene. «Niente cani qui! Via! Sciò!» Era ovvio che quell'uomo non si trovava sotto nessun incantesimo, ed era altrettanto ovvio che non c'era nessun altro modo di salire quelle scale che usare la sua forza di lupo per buttare da una parte il portiere. Per un secondo Wolf esitò. Doveva ritornare uomo. Sarebbe stato un peccato usare i suoi poteri per fare del male a un altro essere umano - se solo non si fosse addormentato e fosse arrivato prima che il portiere di giorno prendesse servizio - ma la necessità non conosce... Poi gli venne in mente la soluzione. Wolf si girò e corse via mentre il portiere gli lanciava un posacenere addosso. Le pallottole possono essere relativamente indolori, ma anche la groppa di un Lupo Mannaro, apprese ben presto, è sensibile a un posacenere volante. La soluzione era semplice e sicura. L'unico problema è che richiedeva un'ora di attesa, e lui era affamato. Si scoprì a mostrare un interesse sconvolgente per il paffuto occupante di un passeggino. Si hanno appetiti diversi in corpi diversi. Capì come dei Lupi Mannari, originariamente bene intenzionati, potessero diventare dei mostri. Ma aveva una volontà più forte ed era molto più intelligente. Il suo stomaco poteva resistere finché il piano non avesse funzionato. Il bidello aveva aperto la porta principale della Wheeler Hall, ma l'edificio era deserto. Wolf non ebbe nessuna difficoltà a raggiungere il secondo piano senza farsi scorgere. Trovò la sua aula. Ebbe qualche difficoltà in più a reggere il pezzo di gesso tra i denti e avvertì un leggero senso di sofferenza a causa della polvere; ma, bilanciandosi con le zampe anteriori sul sostegno della cimosa, ci riuscì. Ci vollero tre salti per afferrare l'anello del graticcio tra i denti, però, una volta che riuscì a tirarlo giù, non gli restò nient'altro da fare che accucciarsi sotto la scrivania e pregare di non morire di fame. Gli studenti del corso di tedesco 31B, quando si radunarono di malavoglia per la lezione delle otto, furono alquanto sorpresi di trovarsi di fronte un grafico che riguardava l'influenza del sistema aureo sull'economia
mondiale, ma decisero semplicemente che si trattava di una dimenticanza del bidello. Il lupo sotto la scrivania ascoltò non visto i loro mormorii: venne a sapere che la graziosa biondina, seduta in prima fila, aveva appuntamento con tre uomini diversi per la stessa sera, e infine decise che c'era un numero di studenti sufficienti a rendere reali le sue possibilità. Scivolò da sotto la scrivania tanto da raggiungere l'anello del grafico, lo tirò, e lo lasciò andare. Il grafico si arrotolò con uno schianto. Gli studenti interruppero le loro chiacchiere, guardarono la lavagna, e videro, scritte in una grafia enorme e incerta, le misteriose lettere: «ABSARKA». Funzionò. Dal momento che c'erano tante persone, era una certezza quasi matematica che qualcuno di loro, stupido, - perché la razza dei lettori di sottotitoli, sebbene ostacolata dal cinema sonoro, esiste ancora - avrebbe letto ad alta voce la misteriosa parola. Fu la biondina dai molti appuntamenti a farlo. «Absarka», disse in tono perplesso. E apparve il Professor Wolf con un sorriso cordiale sul volto. L'unica pecca del suo piano era la seguente: aveva dimenticato di essere un Lupo Mannaro, e non Superman. I suoi vestiti erano ancora all'Hotel Berkeley, e lì, sulla pedana della cattedra, era completamente nudo. Due delle sue migliori alunne gridarono e una svenne. La biondina ridacchiò con espressione ammirata. Emily fu incredula ma compassionevole. Il Professor Fearing fu comprensivo ma riservato. Il Preside del Dipartimento fu freddo. Il Decano della Facoltà di Lettere fu gelido. Il Rettore dell'Università fu glaciale. Wolfe Wolf si ritrovò senza lavoro. Ed Eliofago di Smirne ebbe ragione. «L'essenza della magia è l'inganno.» «Ma che cosa posso fare?», si lamentò Wolf rivolto al suo bicchiere di zombie. «Sono nei guai. Sono rovinato. Gloria arriverà domani a Berkeley, e io non sono più niente. Nient'altro che un Lupo Mannaro inutile e indegno. Non si può mantenere una famiglia. Non si può... non si può nemme-
no proporre... Ne voglio un altro. Siete sicuro di non volerne uno?» Ozymandias il Grande scosse la testa rotonda e orlata di una frangia di barba. «L'ultima volta che ho bevuto due bicchieri di liquore, ho dato inizio a questa faccenda... devo contenermi se voglio porvi fine. Ma voi siete un giovanotto sano e robusto: sicuramente, collega, riuscirere a trovare lavoro.» «Dove? Sono in grado solo di svolgere un'attività accademica, e questo scandalo mi ha fatto chiudere definitivamente con l'Università. Quale Università assumerebbe un uomo che è comparso completamente nudo davanti alla sua classe senza nemmeno la scusante di essere ubriaco? E supponiamo che tentassi con un altro lavoro: dovrei dare delle referenze, dire che cosa ho fatto nei miei trent'anni e dispari. E una volta che le mie referenze fossero controllate... Ozzy sono perduto.» «Non disperatevi, collega: ho imparato che la magia può mettere in gravi guai, ma c'è sempre il modo di uscirne. Prendiamo quella volta a Darjeeling...» «Ma che cosa posso fare? Finirò come Confucio, l'uomo-cagnolino, e vivrò di carità, sempreché voi non troviate qualcuno che vuole un lupo domestico.» «Sapete», rifletté Ozymandias, «forse avete qualche possibilità in quel campo, collega.» «Sciocchezze! Era una battuta. Almeno posso mantenere il rispetto di me stesso, anche se vivo solo con il sussidio della disoccupazione. Ma scommetto che non piacciono nemmeno gli uomini nudi che vivono di sussidio.» «No. Non mi riferivo al fatto di diventare un lupo da salotto. Ma guardate la faccenda da quest'altro punto di vista: quali sono le vostre qualità? Avete solo due capacità eccezionali. Una delle due è insegnare il tedesco, ed è ormai impossibile da mettere in pratica.» «D'accordo.» «E l'altra è quella di trasformarvi in un lupo. Benissimo, collega. Ci devono essere delle possibilità commerciali per questa abilità. Esaminiamole.» «È un'assurdità.» «Non del tutto. Per ogni merce c'è un mercato. Il trucco sta nel trovarlo. E voi, collega, diventerete il primo lupo utilizzabile a fini commerciali e pratici della storia dell'umanità.»
«Potrei... Si dice che il Baraccone dei Mostri di Ripley paghi bene. Supponiamo che mi trasformi regolarmente sei volte al giorno per la delizia degli spettatori.» Ozymandias scosse la testa. «Non va bene. La gente non ama la Magia Nera. La mette a disagio: comincia a chiedersi quali altri fenomeni soprannaturali possano esistere al mondo. Ha bisogno di sentirsi sicura che sia tutto un gioco di specchi. Lo so. Sono stato costretto a lasciare il vaudeville perché non ero abbastanza astuto da fare trucchi. Sapevo realizzare solo delle magie vere.» «Potrei diventare un cane per ciechi, allora?» «Devono essere femmine.» «Quando sono lupo capisco il linguaggio degli animali. Forse potrei fare l'istruttore di cani e... No, è escluso. Avevo dimenticato che i cani hanno terrore di me.» Ma gli occhi azzurri di Ozymandias si erano accesi a quel suggerimento. «Collega, avete quasi indovinato. Oh, avete quasi indovinato! Ditemi: perché la famosa Gloria viene a Berkeley?» «Per pubblicizzare una caccia di talenti.» «Per che cosa?» «Per cercare un cane che reciti nel film Zanne della Foresta.» «E che tipo di cane?» «Un...» Gli occhi di Wolf si spalancarono e la mascella si abbassò. «Un cane lupo», disse piano. E i due uomini si guardarono l'un l'altro con una strana luce negli occhi, seduti vicini in un bar di Berkeley. «È tutta colpa di quel cane di Disney», si lamentò l'istruttore. «Pluto fa tutto. Così si aspettano che i nostri cagnacci facciano altrettanto. Sentite questa! "Il cane deve entrare nella stanza, porgere una zampa al bambino, indicare che riconosce l'eroe nel suo travestimento da esquimese, avvicinarsi alla tavola, trovare l'osso e battere le zampe per la gioia"! E di chi è la colpa di tutto questo! Di Pluto!», sbuffò. Gloria Garton disse: «Oh!». Con quell'unico suono riuscì a dire che simpatizzava profondamente, che l'istruttore era un bel ragazzo che lei avrebbe rivisto volentieri, e che nessun cane avrebbe mai oscurato la sua fama di star del cinema. Si aggiustò la gonna, si appoggiò allo schienale, e fece sembrare quella semplice sedia di legno sul palcoscenico vuoto un trono. «Benissimo!» L'uomo con il berretto viola mandò via l'ultimo candidato
e lesse da un cartellino: «Cane: Wopsy. Proprietario: Mrs. Channing Galbraith. Istruttore: Luther Newby. Fatelo entrare». Un assistente si affrettò dietro il palcoscenico e si sentì uggiolare quando la porta si aprì. «Che diavolo hanno quei cani oggi?», domandò l'uomo con il berretto viola. «Sembrano tutti spaventati a morte e anche di più.» «Penso», disse Fergus O'Breen, «che sia a causa di quel grande cane lupo grigio. In qualche modo, agli altri cani non è simpatico.» Gloria Garton abbassò le palpebre coperte di ombretto e gettò un reale sguardo di sospetto al giovane investigatore. Non c'era niente di strano nel fatto che si trovasse lì. Sua sorella era a capo del settore pubblicitario della Metropolis, e lui si era occupato di parecchi casi confidenziali per conto dello studio. Ne aveva risolto uno anche per lei, quella volta che il suo autista aveva deciso di darsi al ricatto. Fergus O'Breen era un investigatore della Metropolis; eppure la sua presenza la infastidiva. L'assistente introdusse il cane Wopsy di Mrs. Galbraith. L'uomo con il berretto viola lanciò un'occhiata e urlò. L'urlo rimbalzò su tutte le pareti del teatro nel minuto di silenzio che seguì. Alla fine riuscì a emettere delle parole di senso compiuto. «Un cane lupo! Tookah è la parte più bella che sia mai stata scritta per un cane lupo! E che cosa ci portano! Perfino i terrier! Se avessimo voluto un terrier potevamo scrivere Asta!» «Ma se solo ci permettete di mostrarvi...», cominciò a protestare l'istruttore alto e giovane di Wopsy. «Fuori!», strillò l'uomo con il berretto viola. «Fuori prima che perda la pazienza!» Wopsy e il suo istruttore sgattaiolarono via. «A El Paso», si lagnò il regista, «mi hanno portato un cocker. A St. Louis perfino un pechinese! E se anche trovo un cane lupo, si siede in un angolo e aspetta che qualcuno gli porti una slitta da tirare.» «Forse», disse Fergus, «dovreste provare con un lupo vero.» «Un lupo?» Prese il cartellino seguente. «Cane: Yoggoth. Proprietario e istruttore: Mr. O.Z. Manders. Fatelo entrare.» I guaiti che provenivano da dietro il palcoscenico cessarono quando Yoggoth fu portato via per essere sottoposto alla prova. L'uomo con il berretto viola guardò appena il proprietario e istruttore dalla faccia orlata di una barbetta fine. Aveva occhi solo per quello splendido lupo grigio. «Se solo sapesse recitare...», pregò, con lo stesso fervore con cui molti uomini hanno pensato: «Se solo sapesse cucinare...».
Si tirò il berretto a un angolo ancora più improbabile e disse con rabbia: «Benissimo. Mr. Manders: indicare che riconosce l'eroe nel suo travestimento da esquimese, avvicinarsi alla tavola, trovare l'osso, e battere le zampe per la gioia. Il bambino qui, poi qui, qui e il tavolo è qui. Avete capito?». Mr. Manders guardò il suo cane lupo e ripeté: «Hai capito?». Yoggoth dimenò la coda. «Molto bene, collega», disse Mr. Manders. «Fallo.» Yoggoth lo fece. Il berretto viola prese il volo sulle ali del trionfale grido di gioia del suo possessore. «L'ha fatto!», esclamò esultante. «L'ha fatto!» «Naturalmente, collega», disse Mr. Manders con calma. L'istruttore che odiava Pluto aveva la faccia inespressiva come lo specchio di un vampiro. Fergus O'Breen era senza parole per lo stupore. Perfino Gloria Garton permise che la sorpresa e l'interesse attraversassero la sua maschera regale. «Volete dire che sa fare di tutto?», gorgogliò l'uomo che un tempo aveva il berretto viola. «Tutto», disse Mr. Manders. «Può... Prendiamo per esempio la sequenza della sala da ballo: può buttare un uomo a terra, rivoltarlo e perquisirgli la tasca posteriore dei pantaloni?» Prima ancora che Mr. Manders dicesse «Naturalmente», Yoggoth aveva dimostrato che cosa sapeva fare, servendosi di Fergus O'Breen come comparsa. «Basta!», singhiozzò il regista. «Basta... Charley!», strillò al suo assistente. «Mandali tutti via. Niente più prove. Abbiamo trovato Tookah! È meraviglioso.» L'istruttore si avvicinò a Mr. Manders. «È più che meraviglioso, signore. È veramente sovrumano! Posso giurare che non ho mai visto il benché minimo segnale, e nemmeno per operazioni così complicate. Ditemi, Mr. Manders, che sistema usate?» Mr. Manders tossicchiò. «È un segreto professionale: mi capite, giovanotto? Ho intenzione di aprire una scuola quando mi ritirerò, ma ovviamente fino ad allora...» «Naturalmente, signore. Capisco. Ma non ho mai visto niente del genere da quando sono nato.»
«Mi chiedo», osservò Fergus O'Breen dal pavimento, «se il vostro cane prodigioso sappia anche liberare la gente.» Mr. Manders soffocò un sogghigno. «Naturalmente: Yoggoth!» Fergus si alzò e si spolverò gli abiti dalla sporcizia del palcoscenico, che è la sporcizia più attaccaticcia che esiste al mondo. «Giurerei», mormorò, «che il vostro cane si sia divertito.» «Spero che non abbiate nessun risentimento, Mr...» «O'Breen. Nessuno. In effetti, suggerirei di festeggiare questo grande avvenimento. So che non è possibile comprare qualcosa da bere nelle vicinanze del Campus, perciò ho portato con me una bottiglia, nel caso servisse.» «Oh», disse Gloria Garton, e voleva sottintendere che quelle bevute erano troppo al di sotto del suo livello; che quella, comunque, era un'occasione particolare; e che forse c'era qualcosa da dire a favore di quell'investigatore dagli occhi verdi, dopotutto. Era tutto troppo facile, continuava a pensare Wolfe Wolf-Yoggoth. Ci doveva essere una trappola da qualche parte. Quella era certamente la soluzione ideale al problema di come guadagnare soldi in un corpo di Lupo Mannaro. Un bell'esemplare di cane che capisce il linguaggio umano e le istruzioni che gli vengono date, risponde a tutte le preghiere di un regista. Era perfetto finché durava. E se Zanne della Foresta avesse avuto successo, era probabile che ci sarebbero stati altri film di Yoggoth. Pensate a Rin-tin-tin. Ma era troppo facile... Le sue orecchie afferrarono un familiare «Oh», e la sua attenzione fu attirata da Gloria. Quell'«Oh» voleva significare che lei veramente non avrebbe dovuto più bere, ma poiché il liquore non le faceva alcun effetto e quella era un'occasione speciale, poteva anche bere. Era ancora più bella di quanto la ricordasse. I suoi capelli d'oro erano lunghi fino alle spalle, e scendevano con delle onde così perfette che Wolf faceva tutto il possibile per tenerne la zampa lontana. Anche il suo corpo era maturato: era ancora più caldo e promettente dei suoi ricordi. E nella sua nuova forma scoprì un'altra componente del suo enorme fascino, che non era stato in grado di apprezzare quando era un essere umano: il profumo profondo e inebriante della sua carne. «A Zanne della Foresta!», stava brindando Fergus O'Breen. «E che il nostro bell'eroe possa ricevere un trattamento peggiore di quello che ho ri-
cevuto io.» Wolf-Yoggoth sorrise tra sé e sé. Era stato divertente. Si era vendicato sull'investigatore che frugava nelle camere altrui. «E perché nella nostra celebrazione, colleghi», disse Ozymandias il Grande, «dovremmo dimenticare la nostra star? Qui, Yoggoth.» E gli porse la bottiglia. «Beve perfino!», esclamò deliziato il regista. «Certo. Si è svezzato con i liquori.» Wolf ingurgitò una sorsata enorme. Aveva un buon sapore. Caldo e ricco, quasi come il profumo di Gloria. «Ma che cosa ci dite di voi, Mr. Manders?», chiese l'investigatore per la quinta volta. «È la vostra festa questa. Quel povero animale non riceverà gli assegni con quattro zeri dalla Metropolis. E avete bevuto un solo bicchiere.» «Non ne bevo mai due, collega. Conosco i miei limiti. Due bicchieri e cominciano a succedere strane cose.» «Che cos'altro potrebbe succedere oltre il fatto che avete allenato un cane prodigioso? Su, O'Breen. Fatelo bere. Vedremo che cosa succede.» Fergus riempì di nuovo il bicchiere. «Su. C'è un'altra bottiglia in auto. E non voglio compagni sobri.» I suoi occhi verdi si erano accesi di una strana luce selvaggia. «No, grazie, collega.» Gloria Garton lasciò il suo trono, si avvicinò all'ometto grassoccio e gli appoggiò una morbida mano sul braccio. «Oh?» disse, e voleva sottintendere che i cani sono cani, che quella festa era inevitabilmente in suo onore e che il suo rifiuto di bere era un insulto personale alla famosa attrice. Ozymandias il Grande guardò Gloria, sospirò, si strinse nelle spalle, si rassegnò alla sorte e bevve. «Avete allevato molti cani?», chiese il regista. «No, collega. Questo è il primo.» «Ancora più meraviglioso! Ma qual è la vostra professione?» «Be', vedete, sono un Mago.» «Oh», disse Gloria Garton, e voleva sottolineare che era deliziata. Arrivò al punto di aggiungere: «Ho un amico che pratica la Magia Nera». «Mi dispiace, madame, ma la mia è semplicemente Magia Bianca. È abbastanza complicato. Con la Magia Nera si corrono gravi pericoli.» «Come!», si intromise Fergus. «Volete dire che siete veramente un Mago? Non solo un presti... una persona che fa giochi di prestigio?»
«Naturalmente, collega.» «Nel buon teatro», disse il regista, «non si fanno mai vedere gli specchi.» «Uh, uh», annuì Fergus. «Ma, Mr. Manders, che cosa sapreste fare, per esempio?» «Be', posso trasformare...» Yoggoth abbaiò. «Oh, no», Ozymandias recuperò in fretta, «a questo veramente non ci arrivo. Ma posso...» «Sapete fare il trucco della corda indiana?», chiese Gloria languidamente. «Il mio amico dice che è terribilmente difficile.» «Difficile? Perché, madame, non c'è niente di difficile nella corda indiana. Ricordo quella volta a Darjeeling...» Fergus si riempì nuovamente il bicchiere. «Io», annunciò in tono di sfida, «voglio vedere il trucco della corda indiana. Ho conosciuto gente che aveva conosciuto gente che vi aveva assistito, ma non ho mai avuto rapporti più diretti. E non credo che sia possibile.» «Ma, collega, è tanto semplice.» «Non ci credo.» Ozymandias il Grande si alzò in tutta la sua bassa statura. «Colleghi, state per vederlo!» Yoggoth gli tirò le code del frac in segno di avvertimento. «Lasciami in pace, Wolf. Sono stato calunniato!» Fergus tornò dalle quinte con una fune alquanto sporca. «Va bene?» «Benissimo.» «Che succede?», domandò il regista. «Zitto!», disse Gloria. «Oh...» Dedicò un sorriso adorante a Ozymandias il cui petto si gonfiò fino al punto di minacciare la sicurezza dei bottoni della camicia. «Signore e Signori!», annunciò, con il tono di chi è abituato a riempire tutto un anfiteatro con la sua voce. «State per vedere Ozymandias il Grande nel... trucco della Corda Indiana! Naturalmente», aggiunse in tono colloquiale, «non ho un ragazzino da tagliare a pezzi, a meno che qualcuno di voi non voglia... No? Bene, ne faremo a meno. Non sarà altrettanto impressionante, però. E la vuoi finire di guaire, Wolf?» «Pensavo che si chiamasse Yogi», disse Fergus.
«Yoggoth. Ma poiché sua madre era una lupa... Ora silenzio!» Mentre parlava aveva arrotolato la corda. Poi la sistemò al centro del palcoscenico, dove era acquattata come un minaccioso serpente a sonagli. Si mise accanto al rotolo di corda e, con destrezza professionale, vi passò le mani avanti e pronunciò dei mormorii così rapidamente, che nemmeno gli occhi e le orecchie acute di Wolf-Yoggoth riuscirono a seguirlo. L'estremità della corda si staccò dal rotolo, si alzò nell'aria, si girò per un momento come se fosse la testa di un serpente indeciso su dove colpire, poi si drizzò finché tutta la fune non fu srotolata. L'estremità inferiore restò a qualche centimetro dal palcoscenico. Gloria ansimò. Il regista bevve in fretta un sorso. Fergus, per qualche ragione, guardò con curiosità il lupo. «E ora signore e signori... oh, maledizione, vorrei avere un ragazzino da tagliuzzare... Ozymandias il Grande salirà lungo questa corda e andrà nel paese che solo gli esperti del trucco della corda indiana conoscono. Su, sempre più su! A cuccia», aggiunse in tono rassicurante rivolto a Wolf. Le sue mani grassocce afferrarono la corda al di sotto della sua testa e fecero un piccolo movimento. Tirò su le ginocchia e le strinse intorno al pilastro di canapa. E vi si arrampicò, come una scimmia lungo un bastone, su, sempre più su... ...finché, a un tratto, scomparve. Scomparve. Questo fu tutto. Gloria non riuscì nemmeno a dire «Oh». Il regista si sedette, con l'elegante abito di flanella, sul pavimento sporco e restò a bocca aperta. Fergus imprecò con voce bassa e melodiosa. E Wolf si sentì formicolare la spina dorsale. La porta del palcoscenico si aprì, facendo entrare due uomini in bluejeans e camiciotti da lavoro. «Eh!», disse il primo. «Dove credete di stare?» «Noi siamo della Metropolis, la compagnia cinematografica», cominciò a spiegare il regista, alzandosi a fatica. «Non m'importa se venite da Washington, noi dobbiamo sgomberare il palcoscenico. Si proietta un film qui, stasera. Su, Joe, aiutami a mandarli via. E anche quel cane.» «Non si può, Fred», disse Joe in tono riverente, e indicò la ragazza. La sua voce si abbassò a un sussurro timoroso. «Quella è Gloria Garton...» «Veramente? Salve, Miss Garton, non era da buttare l'ultimo vostro film!» «Il tuo pubblico, cara», mormorò Fergus.
«Su!», gridò Fred. «Fuori di qui. Dobbiamo sgomberare. E tu, Joe, tira giù la fune!» Prima che Fergus si muovesse, prima che Wolf potesse slanciarsi in soccorso, l'efficiente operaio aveva tirato giù la corda e la stava arrotolando. Wolf guardò verso l'alto. Non c'era più niente lassù. Assolutamente niente. Da qualche parte, oltre l'estremità di quella fune, c'era l'unico uomo del mondo che avrebbe potuto dire a Wolfe Absarka!, e la via di ritorno era stata chiusa per sempre. Wolfe Wolf si stese sul pavimento del boudoir di Gloria Garton e guardò quella visione di voluttà indossare il più seducente dei négligée. La situazione era perfetta. Era il compimento di tutti i suoi desideri più ardenti. L'unica pecca era che si trovava ancora nel corpo di un lupo. Gloria si girò, si chinò, e gli diede un buffetto sotto il muso. «Lupacchiotto, che bel cane lupo, lupacchiotto!» Wolf non poté trattenersi dal ringhiare. «Al lupacchiotto non piace che Gloria gli parli come a un bambino? Sei proprio un lupacchiotto birichino.» Era una tortura. Si trovava nella camera d'albergo della donna da lui adorata, tutta la sua bellezza era rivelata davanti ai suoi occhi bramosi e lei gli parlava come si fa a un bambino! Sulle prime, Wolf era stato contento quando Gloria aveva suggerito che avrebbe potuto prendersi cura del cane in attesa della ricomparsa del suo istruttore - perché nessuno di loro voleva ammettere che «Mr. O.Z. Manders» fosse sparito definitivamente - ma ora Wolf stava cominciando a capire che quella situazione gli avrebbe creato più tormento che piacere. «I lupi sono buffi», osservò Gloria. Era molto più loquace quando era sola e non aveva bisogno di essere enigmatica e affascinante. «Un tempo conoscevo un certo Wolf, solo che quello era il suo vero nome. Era un uomo. Ed era un tipo buffo.» Wolf sentì che il cuore gli batteva più in fretta sotto la pelliccia grigia. Ma prima che lei potesse spiegare al suo cagnolino perché Wolf era un tipo buffo, la sua cameriera bussò alla porta. «Un certo Mr. O'Breen vuole vedervi, madame.» «Digli di andarsene.» «Dice che è importante, e ha tutta l'aria di mettersi a fare storie se rifiutate di vederlo.» «Oh, va bene.» Gloria si alzò e si avvolse il négligée intorno al corpo.
«Andiamo, Yog... No, questo è un nome sciocco. Ti chiamerò Wolfie. È più grazioso. Andiamo, Wolfie, vieni a proteggermi da quell'investigatore grande e cattivo.» Fergus O'Breen percorreva a grandi passi il soggiorno. C'era una decisione maligna sul suo volto. S'interruppe e si immobilizzò quando Gloria e il lupo entrarono. «Allora?», osservò concisamente. «I rinforzi?» «Ne avrò bisogno?», chiese Gloria con grazia. «Guarda, luce della mia vita.» La luce in quegli occhi verdi era fredda e mortale. «Stai giocando, e qualsiasi sia la natura dei tuoi giochi, è certa una cosa: che non sono leali.» Gloria gli dedicò un sorriso languido e dolce. «Sei divertente, Fergus.» «Grazie. Ho i miei dubbi, però, che le tue attività lo siano.» «Sei ancora un bambino che gioca a guardie e ladri. E sulle tracce di quale Uomo Nero sei ora?» «Ah, ah», disse Fergus educatamente. «Tu sai la risposta a questa domanda meglio di me. È per questo che sono qui.» Wolf era perplesso. Quella conversazione non significava niente per lui. Eppure avvertiva il pericolo nell'aria così chiaramente come se ne sentisse l'odore. «Va' avanti», disse Gloria con impazienza. «E ricorda quanto ti ringrazierà la Metropolis per aver disturbato una delle sue migliori attrazioni.» «Ci sono delle cose, dolcezza mia, molto più importanti dei film, sebbene tu la possa pensare diversamente. Una di queste è una certa Federazione che comprende quarantotto Stati. Un'altra è un concetto artistico chiamato democrazia.» «E allora?» «E allora voglio farti una domanda: perché sei venuta a Berkeley?» «Per fare pubblicità a Zanne della Foresta, naturalmente. È stata un'idea di tua sorella.» «Sei sempre stata capricciosa e hai rifiutato proposte migliori. Perché hai preso al balzo questa?» «Tu non ti occupi di campagne pubblicitarie, Fergus. Perché sei qui?» «Ti sei perfezionata in arte drammatica, ma non ti sei nemmeno avvicinata al Piccolo Teatro. Perché al Dipartimento di Germanistica?» Si fermò di fronte a lei, fissandola con i suoi occhi verdi. «Non è piuttosto naturale? Sono stata una studentessa di quel Diparti-
mento.» Gloria assunse l'atteggiamento di una regina catturata che sfida i barbari conquistatori. «Benissimo. Se proprio lo vuoi sapere... Sono andata al Dipartimento di Germanistica per incontrare l'uomo che amo.» Wolf trattenne il fiato, e cercò di non dimenare la coda. «Sì», continuò lei in tono pacato, «hai strappato l'ultimo velo che mi celava e mi forzi a confessarti quello che lui solo avrebbe dovuto sentire per primo. Quell'uomo mi ha chiesto di sposarlo in una lettera. Io stupidamente ho rifiutato la sua proposta. Ma ci ho pensato e ripensato... e alla fine ho capito. Quando sono arrivata a Berkeley ho sentito che dovevo vederlo...» «E l'hai fatto?» «Quel topino di segretaria mi ha detto che non c'era. Ma lo vedrò. E quando lo farò...» Fergus si inchinò rigorosamente. «Le mie congratulazioni a entrambi, dolcezza mia. E come si chiama questo più che fortunato signore?» «Professor Wolfe Wolf.» «Che è, senza dubbio, l'individuo a cui si riferisce questo articolo.» Estrasse un foglio di giornale dalla tasca della sua giacca e lo lanciò a Gloria. Lei impallidì e non parlò. Ma Wolfe Wolf non aspettò la risposta di lei. Non gli importava. Ormai conosceva la soluzione del suo problema e si diresse inosservato verso il boudoir di Gloria. Gloria Garton entrò nel boudoir qualche minuto dopo. Era una donna sconvolta e infelice. Stappò una delle delicate bottiglie di profumo che erano sulla sua toilette e si versò un bicchiere abbondante di whisky. Poi le sue sopracciglia si alzarono per la sorpresa quando guardò lo specchio. Scarabocchiata sullo specchio con il suo rossetto rosso scuro c'era la misteriosa parola: «ABSARKA». Accigliandosi, disse a voce alta: «Absarka...». Da dietro un paravento uscì il Professor Wolfe Wolf, avvolto in una delle ricche vestaglie di Gloria. «Gloria carissima...», gridò. «Wolf!», esclamò lei. «Che diavolo fai nella mia stanza?» «Ti amo. Ti ho sempre amato fin da quando non sapevi distinguere una forma verbale forte da una debole. E ora che so che mi ami...»
«È terribile. Per favore, esci di qui!» «Gloria...» «Fuori di qui, altrimenti aizzo il mio cane contro di te. Wolfie... Qui, Wolfie.» «Mi dispiace, Gloria. Ma Wolfie non ti risponderà.» «Oh, bestia! Hai fatto del male a Wolfie? Hai...» «Non gli torcerei un pelo. Perché, vedi, Gloria cara, io sono Wolfie.» «Che diavolo...» Gloria si guardò intorno. Era innegabile che non c'era alcuna traccia della presenza del cane lupo. Invece c'era un uomo vestito solo di una delle sue vestaglie e non c'era traccia dei suoi abiti. E poi c'era la faccenda del buffo ometto e della corda... «Tu pensavi che io fossi tetro e noioso», continuò Wolf. «Pensavi che sarei sprofondato nella vita accademica. Ben presto avresti sposato un attore o un G-man. Ma io, Gloria, sono qualcosa di molto più eccitante. Non c'è nessun'altra persona al mondo a cui farei questa confessione; ma io, Gloria, sono un Lupo Mannaro.» Gloria restò a bocca aperta. «Non è possibile! Ma tutto combacia ora. Quello che ho sentito dire di te al Campus, il tuo amico con la barbetta e il modo in cui è scomparso e, naturalmente, questo spiega come tu riesca a fare quello che nessun cane normale riuscirebbe mai a fare...» «Non mi credi, cara?» Gloria si alzò dalla poltroncina della toilette e si buttò tra le sue braccia. «Ti credo, caro. Ed è meraviglioso! Scommetto che non esiste nessun'altra donna in tutta Hollywood che abbia mai sposato un Lupo Mannaro!» «Allora tu...» «Ma naturalmente, caro. Funzionerà benissimo. Assumeremo un tirapiedi che ti faccia da istruttore. Lavorerai di giorno. La sera tornerai a casa, e io ti dirò Absarka! Sarà perfetto.» «Gloria...», mormorò Wolf con tenerezza e reverenza. «Solo una cosa, caro. Solo una piccola cosa. Vuoi fare un favore a Gloria?» «Qualsiasi cosa!» «Mostrami come ti trasformi. Trasformati per me ora. Poi ti dirò subito Absarka!» Wolf disse la Parola. Si trovava in un tale stato di estasi che a stento sentì il dolore della mutazione. Saltellò per la stanza con tutta l'agilità delle sue belle zampe da lupo e finì davanti a Gloria, agitando la coda e aspet-
tando un cenno di approvazione. Gloria gli accarezzò la testa. «Bene, Wolfie. E ora, caro, puoi anche restare così.» Wolf lanciò un guaito di stupore. «Mi hai sentito, Wolfie. Resterai così. Non è che hai creduto alle panzanate che ho fatto bere all'investigatore, vero? Amarti? Non voglio sprecare il mio tempo! Ma da lupo mi sarai molto utile. Visto che il tuo istruttore è scomparso, potrò prendermi cura di te e acchiappare un bigliettone da mille in più la settimana. Non mi dispiacerà. E il Professor Wolf sarà scomparso per sempre, il che si adatta perfettamente ai miei piani.» Wolf ringhiò. «Adesso non fare il cattivo, Wolfie caro. Il mio lupacchiotto non vuole fare del male alla sua cara Gloria, vero? Ricorda quello che posso fare per te. Sono l'unica persona che può farti ritornare uomo. Non oseresti insegnare quella parola a nessun altro. Non oseresti far sapere alla gente chi sei realmente. Un ignorante ti ucciderebbe. Un furbo ti giudicherebbe pazzo.» Wolf continuò ad avanzare minacciosamente. «Oh, no. Non puoi farmi del male. Perché tutto quello che dovrei fare sarebbe dire la parola che è scritta sullo specchio. Allora non saresti più un lupo pericoloso. Saresti solo un uomo che si è introdotto nella mia stanza e io urlerei. E dopo quello che è successo ieri al Campus, quanto tempo pensi che resteresti fuori da un manicomio?» Wolf indietreggiò e mise la coda tra le zampe. «Capisci, Wolfie caro? Gloria ha tutto quello che vuole. E il mio lupacchiotto farà il bravo ragazzo.» Si sentì bussare alla porta del boudoir, e Gloria disse ad alta voce: «Avanti». «Un signore vi vuole vedere signora», annunciò la cameriera. «Un certo Professor Fearing.» Gloria sorrise con il suo sorriso più regale e più crudele. «Vieni qui, Wolfie. Questo ti può interessare.» Il Professor Oscar Fearing superò una delle graziose sedie del soggiorno e sorrise con benevolenza quando Gloria e il lupo entrarono. «Ah, mia cara! Un nuovo cagnolino. Commovente.» «E che cagnolino, Oscar. Aspetta, e sentirai.» Il Professor Fearing si pulì il pince-nez con una manica della giacca. «E tu, mia cara, aspetta di sentire tutto quello che ho saputo. Chiswick ha terminato il suo schermo protettivo contro le bombe magnetiche, e l'e-
sperimento ufficiale è fissato per la prossima settimana. E Farnsworth ha completato le sue ricerche su un nuovo processo per ottenere l'osmio. La guerra dei gas può cominciare ogni giorno, e la potenza che avrà a disposizione una riserva abbondante di...» «Benissimo, Oscar», lo interruppe Gloria, «ma di tutto questo possiamo parlare più tardi. Abbiamo altri problemi.» «Che cosa intendi, mia cara?» «Hai mai incontrato un giovanotto irlandese con i capelli rossi e una camicia gialla?» «No, io... Be', sì. Ieri ho visto un individuo simile lasciare l'ufficio. Credo che fosse stato a parlare con Wolf.» «È sulle nostre tracce. È un investigatore di Los Angeles, e sta indagando su di noi. In qualche modo è riuscito a venire in possesso del frammento di un documento che avrebbe dovuto essere distrutto. Sa che io ci sono dentro, e sa che ho dei legami con qualcuno del Dipartimento di Germanistica.» Il Professor Fearing osservò attentamente il pince-nez, ne approvò la pulizia e se lo sistemò sul naso. «Non ti agitare, mia cara. Niente isterismi. Affrontiamo la situazione con calma. Già sa del Tempio della Verità Oscura?» «Non ancora. Né sa di te. Sa solo che c'è qualcuno del Dipartimento.» «Allora che cosa c'è di più semplice? Hai sentito dello strano comportamento di Wolfe Wolf?» «Se ne ho sentito parlare?», Gloria rise. «Tutti sanno dell'infatuazione di Wolf per te. Diamo la colpa a lui. Dovrebbe essere facile discolparti e farti apparire un innocente strumento. Dirigiamo tutta l'attenzione verso di lui e l'organizzazione sarà salva. Il Tempio della Verità Oscura potrà continuare a raccogliere informazioni di grande valore da scienziati influenzabili che hanno bisogno del sollievo emozionale di una religione falsa.» «Questo è quanto ho cercato di fare. Ho raccontato a O'Breen un mucchio di chiacchiere sulla mia devozione a Wolf, così evidentemente fasulle che dovrebbe ritenerle la copertura di qualcos'altro. E credo che abboccherà. Ma la situazione è molto più complessa di quanto immagini. Sai dov'è Wolfe Wolf?» «Nessuno lo sa. Dopo che il Rettore lo ha rimbrottato... ah... sembra essere svanito.» Gloria rise di nuovo.
«È proprio qui. In questa stanza.» «Mia cara! Pannelli segreti e cose simili? Prendi la tua attività di spia troppo seriamente. Dov'è?» «Qui!» Il Professor Fearing spalancò la bocca. «Stai parlando seriamente?» «Seriamente quanto te quando parli del futuro del Fascismo. Questo è Wolfe Wolf.» Fearing si avvicinò incredulo al lupo e tese una mano. «Potrebbe mordere», lo avvertì Gloria un secondo troppo tardi. Fearing si guardò la mano sanguinante. «Questo, almeno», osservò, «è innegabilmente vero.» E alzò un piede per dargli un calcio. «No, Oscar! Non lo fare! Lascialo in pace. E devi credermi sulla parola... è troppo complicato spiegarti tutto. Ma il lupo è Wolfe Wolf, ed è completamente sotto il mio controllo. È nelle nostre mani. Devieremo tutti i sospetti su di lui, e io lo terrò sotto questa forma mentre Fergus e i suoi amici G-men si precipiteranno sulle sue tracce.» «Mia cara!», esclamò Fearing. «Sei pazza. Sei più folle dei membri più devoti del Tempio.» Si tolse il pince-nez e guardò di nuovo il lupo. «Eppure martedì sera... Dimmi una cosa: da chi hai preso questo... questo cane lupo?» «Da un buffo ometto con la barba a frangia.» Fearing sussultò. Ovviamente ricordava quello che era successo al Tempio, il lupo e l'ometto con la barba a frangia. «Molto bene, mia cara. Ti credo. Non chiedermi perché, ma ti credo. E ora...» «Ora è tutto stabilito, non è vero? Lo terremo qui insieme, e lo useremo per...» «Useremo un lupo come capro espiatorio. Sì. Molto grazioso.» «Oh! Una cosa...» Lei apparve improvvisamente spaventata. Wolfe Wolf stava considerando la possibilità di attaccare Fearing. Probabilmente sarebbe riuscito a uscire dalla stanza prima che Gloria dicesse Absarka! Ma dopo? Di chi poteva fidarsi! Soprattutto se i G-men fossero stati sulle sue tracce... «Che cosa c'è?», chiese Fearing. «Quella segretaria. Quel topino che lavora al Dipartimento. Lei sa che io ho chiesto di te, non di Wolf. Fergus non può ancora averle parlato, perché
ha bevuto la mia storia; ma lo farà. È preciso.» «Uhm. Allora, in questo caso...» «Sì, Oscar?» «Bisogna prendersi cura di lei.» Il Professor Oscar Fearing sorrise astutamente e allungò una mano per prendere la cornetta del telefono. Wolf agì istantaneamente, per ispirazione e per impulso. I suoi denti erano forti, abbastanza forti da staccare il filo del telefono dal muro. Ci volle solo un secondo, e il secondo successivo era fuori dalla stanza e nel corridoio prima che Gloria potesse aprire la bocca e dire quella parola che l'avrebbe mutato da un lupo potente e pericoloso in un inutile uomo. Si udirono degli strilli e qualcuno urlò: «Un cane rabbioso!» mentre lui si precipitava lungo l'atrio, ma non vi prestò alcuna attenzione. La cosa principale era raggiungere la casa di Emily prima che qualcuno «si potesse prendere cura di lei». La sua testimonianza era essenziale. Avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia da una parte, avrebbe mostrato a Fergus e ai suoi G-men chi fosse il vero colpevole. E, inoltre, ammise a se stesso, Emily era una persona gentile... La sua velocità era di un minuto e mezzo per isolato, e le maledizioni che si accumularono contro di lui, se teologicamente valide, sarebbero bastate a dannarlo per sempre. Ma stava guadagnando tempo e questa era l'unica cosa che contava. Si precipitò attraverso il traffico stradale, tagliò la strada ai camion, sgusciò da sotto le auto, e una volta balzò oltre un'auto ferma che gli ostruiva la strada. Tutto stava andando bene: era già a metà strada, quando cento chili di carne umana atterrarono su di lui in un placcaggio al volo. Guardò attraverso i brillanti effetti di luce che vedeva con la testa schiacciata sul marciapiede, e scorse la sua vecchia nemesi, il poliziotto che era stato privato della sua birra. «Allora Rover!», disse l'ufficiale. «Ti ho acchiappato alla fine, vero? Ora vedremo se hai la targhetta della licenza. Non sapevi che giocavo a football, vero?» La stretta del poliziotto sul suo pelo era forte e dolorosa. Una folla allegra si stava radunando e forniva all'agente i consigli più fantastici. «Via, ragazzi», li ammonì. «Questa è una faccenda privata tra me e Rover. Su», e tirò su il cane con forza ancora maggiore. Wolf lasciò un ciuffo di peli e di pelle nella mano dell'agente e sentì il
sangue scorrergli dalla chiazza nuda sul collo. Udì una bestemmia e un colpo di pistola simultaneamente, e avvertì una puntura come di spillo sulla spalla. La folla spaventata gli fece largo. Altre due pallottole si affrettarono dietro di lui, ma Wolf se n'era andato, lasciandosi alle spalle il poliziotto più confuso di Berkeley. «L'ho colpito», continuava a mormorare l'agente. «Ho colpito il...» Wolfe Wolf corse lungo Dwight Way. Altri due isolati e sarebbe arrivato al piccolo bungalow che Emily divideva con un'assistente di qualche cosa. L'interruzione del telefono avrebbe fermato Fearing solo temporaneamente. Gli ordini ormai dovevano già essere stati impartiti, e i membri dell'organizzazione già dovevano essere in cammino. Ma lui era quasi arrivato... «Ehi!», lo chiamò una voce infantile. «Bello, woff-woff, vieni qui!» Sul marciapiede di fronte c'era la modesta villetta in legno di Robby e della sua petulante madre. Il bambino stava giocando fuori. Quando vide il suo idolo cominciò ad attraversare la strada con passo incerto e dondolante. «Bello woof-woof!», continuava a gridare. «Aspetta Robby!» Wolf continuò per la sua strada. Non era il momento di giocare con il più delizioso dei marmocchi. E poi vide l'auto. Era un vecchio macinino, ricoperto di etichette ancora più vecchie. E lo studente che la guidava stava evidentemente mostrando alla sua ragazza quanto corresse la sua auto per quelle deserte strade residenziali. La ragazza era bella, e chi si preoccupava di guardare se un bambino stava attraversando la strada? Robby era di fronte all'auto. Wolf balzò dritto come una pallottola. La sua traiettoria lo portò tanto vicino all'auto che sentì il calore del radiatore su un fianco. Le sue zampe anteriori colpirono Robby e lo gettarono di lato, lontano dal pericolo. Caddero a terra insieme, proprio mentre l'auto passava sopra l'ultima vertebra caudale di Wolf. La ragazza gridò. «Homer! Li abbiamo presi?» Homer non disse nulla, e il macinino rombando si allontanò. Gli strilli di Robby erano acuti. «Mi hai fatto male! Mi hai fatto male! Caaattivo woof-woof.» Sua madre apparve sulla veranda e si unì con le proprie grida di rabbia. Il chiasso era terrificante. Wolf lanciò un ululato, per renderlo perfetto e per lamentarsi della coda schiacciata. Poi corse via. Non era il momento di chiarire gli equivoci.
Ma due ritardi erano stati troppi. Robby e il poliziotto si erano rivelati i perfetti strumenti involontari di Oscar Fearing. Quando Wolf si avvicinò al piccolo bungalow di Emily, vide una grande berlina grigia parcheggiata. Sui sedili posteriori c'era una ragazza piccola e magra, e stava lottando. Perfino la velocità di un Lupo Mannaro non può eguagliare quella di un'auto. Dopo un isolato di inseguimento, Wolf rinunciò e si accucciò affannando sulle zampe posteriori. Era strano, pensò in quel momento di tensione, non essere in grado di imprecare, di aprire la bocca e mettere in movimento la lingua e... «Guai?», chiese una voce sollecita. Questa volta Wolf riconobbe il gatto. «Accidenti, sì», assentì con cordialità. «Più grossi di quanto tu possa immaginare.» «Mancanza di cibo?», domandò il gatto. «Ma quel marmocchio laggiù è bello e paffuto.» «Chiudi il becco», ringhiò Wolf. «Mi dispiace; traevo solo le debite conclusioni da quanto Confucio mi diceva sui Lupi Mannari. Non vorresti dirmi che sei altruista, Lupo Mannaro?» «Immagino di sì. So che i Lupi Mannari dovrebbero andare in giro a uccidere, ma proprio ora ho dovuto salvare una vita umana.» «Ti aspetti che io ci creda?» «È la verità.» «Ah», osservò il gatto filosoficamente. «La verità è una cosa oscura e ingannevole.» Wolfe Wolf si rizzò in piedi. «Grazie»; abbaiò. «L'hai detto.» «Detto che cosa?» «Ci vediamo dopo.» E Wolf si diresse alla massima velocità verso il Tempio della Verità Oscura. Era la possibilità migliore. Era il quartier generale di Fearing. C'erano delle probabilità che, quando non era usato per la cerimonia, fosse il rifugio della sua cricca, soprattutto da quando era stato chiuso il Consolato a San Francisco. Di nuovo una corsa folle, di nuovo saltare e salvarsi per un pelo. Ormai Wolf sapeva di essere immune alle pallottole, ma certamente non era immune agli investimenti d'auto. La coda gli faceva ancora male.
Ma doveva arrivare lì. Doveva discolparsi, continuava a ricordare a se stesso. Ma quello che pensava realmente era: Devo salvare Emily. A un isolato dal Tempio sentì il crepitio di un fucile. Colpi di pistola e, l'avrebbe giurato, anche mitragliatrici. Non riusciva ad immaginare che cosa significasse, ma continuò a correre. Poi una spider gialla lo superò e un lampo partì da uno dei suoi finestrini. Istintivamente si tuffò di lato. Si può essere immuni alle pallottole, ma non si resta immobili, ad aspettarle. La spider se ne andò, e lui stava per seguirla quando il luccichio di un metallo lucente colpì il suo sguardo. La pallottola che lo aveva mancato aveva colpito un muro di mattoni ed era rimbalzata contro il marciapiede. Brillava davanti a lui: era d'argento puro. Questo, capì immediatamente, significava la fine della sua immunità. Fearing aveva creduto alla storia di Gloria, e con la sua esperienza nelle Arti Occulte sapeva quale fosse l'arma più efficace. Una pallottola, da quel momento in poi, poteva non significare più una puntura di spillo, ma la morte istantanea. Ma Wolfe Wolf continuò ad avanzare. Si avvicinò con cautela al Tempio, nascondendosi dietro una siepe. E non era l'unico a nascondersi. Davanti al Tempio, accucciati dietro un'auto che aveva tutti i finestrini rotti, c'erano Fergus O'Breen e un gigante dalla faccia di luna piena. Ognuno di loro stringeva un'automatica, e mirava a casaccio contro l'alto edificio. L'udito acuto di Wolf afferrò le loro parole al di sopra degli scoppi delle pistole. «Gabe è dall'altra parte», stava spiegando Faccia di Luna. «Ma è inutile. Sai che cos'è quella torre? È una torretta girevole fornita di mitragliatrici. Erano pronti a qualcosa del genere. Ci sono solo due uomini là dentro, per quanto ne sappiamo, ma la torretta impedisce qualsiasi tentativo di avvicinamento.» «Solo due?», mormorò Fergus. «E la ragazza. Hanno portato la ragazza con loro. Se è ancora viva.» Fergus mirò con attenzione contro la torre, fece fuoco, e si buttò all'indietro quando una pallottola lo mancò di qualche millimetro. «L'ho mancato di nuovo! Per tutti i re che hanno governato Tara! Faccia di Luna, ci deve essere un modo di entrare dentro. Che ne dici di usare gas lacrimogeni?» Faccia di Luna sbuffò. «Pensi di farcela a colpire la feritoia di quella torretta blindata da questa
angolazione?» «Quella ragazza...», disse Fergus. Wolf non aspettò più. Quando balzò in avanti, il tiratore lo notò e deviò il tiro. Fu come una pioggia di aghi di solido acciaio. I nervi di Wolf dolevano per la fatica di rimarginare tutte le ferite. Ma almeno le mitragliatrici sparavano pallottole di acciaio. La porta principale era chiusa, ma la forza della sua spinta gliela fece sfondare e aggiunse un dolore pulsante alle altre sofferenze. La guardia al pianterreno, un individuo pallido dal pomo d'Adamo sporgente, balzò con la pistola in mano. Dietro di lui, tra cianfrusaglie del culto, tuniche cerimoniali, incensieri, libri strani, e perfino una tavola da sedute spiritiche, c'era Emily. Faccia Pallida fece fuoco. Le pallottole colpirono Wolf in pieno petto e per un attimo si aspettò di morire. Ma anche quello era acciaio, e lui balzò in avanti. Non fu il solito balzo potente. La sua forza era quasi esaurita. Aveva bisogno di stendersi sulla terra fresca e lasciare che i suoi nervi riposassero. Il salto fu sufficiente solo ad afferrare la sua preda, non ad abbatterla. L'uomo capovolse la sua inutile automatica e colpì il cranio dell'animale con il calcio. Wolf indietreggiò, perse l'equilibrio, e cadde a terra. Per un momento non riuscì ad alzarsi. Era così forte la tentazione di restare disteso e... La ragazza si mosse. Con le mani legate afferrò un angolo della tavola da spiritismo. In qualche modo, riuscì ad alzarsi con le caviglie legate e alzò le braccia. Proprio mentre Faccia Pallida si avventava contro il lupo disteso, lei abbassò la pesante tavola. Wolf era di nuovo in piedi. Avvertì una tentazione fortissima. I suoi occhi fissarono la sporgenza di quel pomo d'Adamo, e la sua lingua leccò le mandibole. Poi sentì la mitragliatrice sparare dalla torretta, e si allontanò dal corpo incosciente di Faccia Pallida. Una scala a pioli è difficile da salire per un lupo, quasi impossibile. Ma se usa il muso per afferrarsi al piolo più sopra e tirarsi su, ce la può fare. Era a metà strada lungo la scala, quando il tiratore si accorse di lui. Il fuoco della mitragliatrice fu interrotto, e Wolf sentì una bella bestemmia tedesca: automaticamente riconobbe che si trattava di un dialetto prussiano orientale con possibili influenze lituane. Poi vide il tiratore, un uomo biondo col naso rotto, che guardava nel pozzo delle scale. Le pallottole dell'altro uomo erano d'acciaio. Perciò queste dovevano es-
sere quelle d'argento. Ma era troppo tardi per tornare indietro ormai. Wolf strinse tra i denti il piolo successivo e si issò mentre la pallottola colpiva il suo muso e vi passava attraverso. Gli occhi del biondo si spalancarono mentre faceva fuoco e Wolf saliva un altro piolo. Dopo il terzo, l'uomo si allontanò precipitosamente dall'apertura. Da sotto continuavano a risuonare colpi, ma il tiratore non li restituiva. Si immobilizzò contro la parete della torretta guardando inorridito il lupo emergere dal vano delle scale. Wolf si fermò e cercò di trattenere il fiato. Era spossato per la fatica e lo stress, ma quell'uomo doveva essere vinto. Il biondo alzò la pistola, mirò con attenzione e fece fuoco ancora una volta. Restò immobile per un terribile istante, fissando quel lupo immortale. Ricordò i racconti di sua nonna e capì che cosa fosse. Poi strinse i denti intorno alla canna dell'automatica e fece fuoco di nuovo. Wolf non aveva mai mangiato con il suo corpo di lupo, ma il cibo veniva trasferito dallo stomaco umano a quello del lupo. E ce n'era abbastanza da fargli venire la nausea. Scendere lungo la scala era impossibile. Saltò. Non aveva mai sentito niente a proposito dell'atterraggio di un lupo sulle zampe, ma sembrò funzionare. Trascinò il suo corpo indebolito e ammaccato verso il punto dove sedeva Emily, accanto a Faccia Pallida ancora svenuto: la donna stringeva la sua automatica scarica. Sussultò quando il lupo le si avvicinò, come se fosse incerta se si trattasse di un amico o di un nemico. Il tempo era poco. Con la mitragliatrice ferma, Fergus e i suoi compagni potevano fare irruzione nel Tempio da un momento all'altro. Wolf si guardò rapidamente intorno e trovò il disco della tavola da spiritismo. Spinse il pezzo di legno sulla tavola e cominciò a muoverlo intorno con una zampa. Emily guardava attenta e perplessa: «A», disse a voce alta. «B... S...». Wolf finì la parola e si spostò in modo da stare accanto a una delle tuniche cerimoniali. «Stai cercando di dire qualcosa?», disse Emily, aggrottando la fronte. Wolf dimenò la coda per assentire e ricominciò. «A...», ripeté Emily. «B... S... A... R...» Wolf sentiva già il rumore dei passi che si avvicinavano. «...K... A... Che diavolo significa. Absarka...» L'ex professore Wolfe Wolf avvolse in fretta il suo corpo umano nudo nel manto della Verità Oscura. Prima che lui o Emily capissero che cosa stesse accadendo, l'aveva stretta tra le braccia, l'aveva baciata con un'espressione di gratitudine assoluta, ed era svenuto.
Anche il naso umano di Wolf poteva dire, quando egli si svegliò, che si trovava in un ospedale. Il suo corpo era ancora floscio ed esausto. L'escoriazione sul collo, nel punto in cui il poliziotto gli aveva tirato i peli, gli faceva ancora male e c'era un bernoccolo dove l'aveva colpito il calcio della pistola. La sua coda, o dove era stata la sua coda, gli mandava fitte acute, quando si muoveva. Ma le lenzuola erano fresche, lui si stava riposando, ed Emily era salva. «Io non so come siate entrato lì dentro, Mr. Wolf, né che cosa abbiate fatto, ma voglio che sappiate di aver reso al vostro Paese un servizio di grande valore.» Era il gigante con la faccia di luna piena che stava parlando. Anche Fergus O'Breen era seduto accanto al letto. «Congratulazioni, Wolf. E non so se il medico approverebbe, ma ecco.» Wolfe Wolf bevve con gratitudine il whisky e guardò con espressione interrogativa il gigante. «È Luna Lafferty», disse Fergus. «Un agente dell'FBI. Mi ha aiutato a trovare le tracce di quella banda di spie da quando ho avuto i primi sospetti.» «Li avete presi... tutti?», chiese Wolf. «Abbiamo acchiappato Fearing e la Garton in albergo», ruggì Lafferty. «Ma come... io pensavo...» «Voi pensavate che fossimo sulle vostre tracce?», rispose Fergus. «Quella era un'idea di Gloria Garton, ma io non ci sono cascato. Vedete, avevo già parlato con la vostra segretaria. Sapevo che era Fearing che lei aveva voluto vedere. E quando ho preso informazioni su Fearing, e sono venuto a sapere del Tempio e delle ricerche nel campo della Difesa di alcuni dei suoi membri, l'intero quadro si è chiarito.» «Un lavoro meraviglioso, Mr. Wolf», disse Lafferty. «Ogniqualvolta possiamo fare qualcosa per voi... E il modo in cui siete entrato in quella torretta... Be', O'Breen, ci vediamo dopo. Devo andare a occuparmi degli arrestati. Vi auguro una piacevole convalescenza, Wolf.» Fergus aspettò che il G-man lasciasse la stanza. Poi si sporse sul letto e chiese confidenzialmente: «E allora, Wolf? Tornerete alla vostra carriera di attore?». Wolf restò a bocca aperta. «Quale carriera di attore?» «Avete ancora intenzione di fare la parte di Tookah? Sempreché la Me-
tropolis voglia girare Zanne con Miss Garton in una prigione federale.» Wolf era senza parole. «Che assurdità...» «Su, Wolf. È chiaro che ne so abbastanza. Potete anche raccontarmi tutta la storia.» Ancora stupefatto, Wolf raccontò tutto. «Ma come avete fatto a capirlo?», concluse. Fergus sogghignò. «Guardate, Dorothy Sayers dice da qualche parte che in un libro poliziesco l'elemento soprannaturale può essere introdotto solo per essere chiarito. Certo, è un'ottima osservazione. Ma nella vita reale ci sono delle situazioni in cui l'elemento soprannaturale non può essere chiarito. E questa era una situazione del genere. C'erano le vostre sopracciglia e le dita, c'erano i poteri magici reali del vostro amico. C'erano dei movimenti che nessun cane poteva compiere senza segnali. C'erano quegli altri cani che guaivano e si accucciavano. Ho la testa dura, Wolf, ma sono irlandese. Sono un materialista, ma troppe coincidenze sono troppe.» «Anche Fearing lo credeva», rifletté Wolf. «Ma c'è una cosa che mi preoccupa: se hanno usato una volta una pallottola d'argento contro di me, perché tutte le altre erano di piombo? Perché sono stato al sicuro da allora in poi?» «Be'», disse Fergus, «ve lo dirò io. Non sono stati "loro" a sparare quella pallottola d'argento. Vedete Wolf, fino all'ultimo minuto, ho pensato che eravate dalla "loro" parte. Io, in qualche modo, non associavo il bene ai Lupi Mannari. Perciò ho preso uno stampo da un armaiolo, ho fatto visita a un gioielliere e... sono felice di avervi mancato», aggiunse sinceramente. «Siete felice!» «Ma certo! Prima di tutto, una domanda. Avete intenzione di tornare a recitare? Se la risposta è negativa, ho un suggerimento.» «Qual è?» «Avete detto che avete pensato a come sfruttare commercialmente il fatto di essere un Lupo Mannaro. Bene. Siete forte e veloce. Potete terrorizzare un uomo fino a spingerlo al suicidio. Riuscite a origliare delle conversazioni che nessun orecchio umano riuscirebbe a sentire. Siete invulnerabile alle pallottole. Volete dirmi quali doti migliori può avere un G-man?» Wolf stralunò gli occhi. «Io? Un G-man?» «Luna mi diceva di quanto abbiamo bisogno di nuovi uomini. Di recente hanno cambiato delle disposizioni, cosicché la vostra conoscenza delle lin-
gue sostituirà la specializzazione in legge o in ragioneria che richiedevamo da tempo. E, dopo quello che avete fatto oggi, non ci sarà nessun problema per quello scandaletto accademico nel vostro passato. Luna vi apprezza molto.» Wolf era senza parole. Solo tre giorni prima si tormentava perché non era né un attore né un G-man. Ora... «Pensateci», disse Fergus. «Lo farò. Lo farò veramente. Oh, e ancora un'altra cosa. Avete trovato tracce di Ozzy?» «Nemmeno una.» «Mi piaceva quell'uomo. Devo cercare di trovarlo e...» «Se è veramente un Mago, come io ritengo, è rimasto lassù solo perché gli piace.» «Non so. La magia è complicata. Iddio sa se non l'ho imparato. Farò tutto quello che potrò per quel vecchio collega dalla barba a frangia.» «Buona fortuna. Posso far entrare un altro ospite?» «Chi è?» «La vostra segretaria... È qui per lavoro, senza dubbio.» Fergus scomparve con discrezione dopo aver introdotto Emily. Lei si avvicinò al letto e prese una mano di Wolf. Gli occhi di lui si riempirono della sua semplicità tranquilla, affascinante, e la sua mente si chiese quale capriccio di un'adolescenza in ritardo l'avesse fatto cadere vittima della bellezza vistosa di Gloria. Restarono in silenzio a lungo. Poi, contemporaneamente, tutti e due sorrisero: «Come posso ringraziarti? Mi hai salvato la vita.» Wolf rise. «Non litighiamo. Diciamo che abbiamo salvato le nostre vite.» «Che cosa vuoi dire?», chiese Emily con serietà. Wolf le strinse la mano. «Non sei stanca di essere la moglie di tutto l'ufficio?» Nel bazar di Darjeeling, Chulundra Lingasuta guardava la sua corda con stupore. Il giovane Ali vi si era arrampicato solo cinque minuti prima, ma quando era disceso era cinquanta chili più grosso e portava una strana barbetta a frangia. LOUP-GAROU Loup-Garou
di Manly Banister Weird Tales, maggio 1947 Ciò che sto per raccontarvi accadde - o non accadde affatto, se preferite non credermi - circa un secolo fa. Riguarda un alto funzionario della Repubblica Francese di nome Hubert de Montreuil, e la vicenda si svolse nel Distretto di... ma il nome non importa, e del resto oggi quel paese è un luogo come tutti gli altri. Per capire Hubert, dovete sapere un paio di cose sul suo ambiente e sulla sua provenienza. Era nato in una famiglia della nuova borghesia napoleonica, ed era cresciuto nella rumorosa e confusionaria Parigi di quell'epoca. Da ragazzino era stato un vero e proprio discolo, ricco e viziato ma sempre pronto a fare a botte coi compagni per la strada e, non di rado, si era fatto buttare fuori dalla scuola per aver compiuto qualche mascalzonata. Il terreno in cui preferiva espandere la sua personalità non erano certo i salotti della capitale, che non gli sarebbero stati preclusi, bensì gli agitati quartieri popolari dove il suo carattere ferino aveva agio di sbizzarrirsi e trovare sfogo. All'età di vent'anni era un giovane alto, bruno, con occhi penetranti e una piega insolente delle labbra, magro e svelto come un lupo. Aveva una mente pronta, intelligente quanto scaltra e, poiché era ambizioso, non di rado metteva da parte ogni scrupolo pur di combinare un buon affare. Fu a quell'età che si rese conto dove una persona in gamba poteva trovare il denaro più facile: nelle cariche pubbliche, e in specie quelle che comportavano molti poteri e pochi controlli da parte dell'autorità centrale. Accentrò dunque le sue ambizioni sulla possibilità di diventare Prefetto in qualche cittadina della prospera provincia e, tanto tormentò i suoi genitori per avere denaro e sempre più denaro, che infine li ridusse alla rovina e col cuore spezzato. Ambedue morirono prematuramente quando lui non era ancora trentenne. Hubert non se ne dispiacque troppo. Era uno di quegli spiriti che, pur senza vera malvagità, riescono a prosperare sulle sfortune altrui. In dieci anni -quei dieci anni che gli occorsero per trascinare alla tomba i genitori aveva completato i suoi studi con risultati brillanti: dapprima la Facoltà di Legge, poi la Sorbona, la Scuola del Ministero degli Affari Pubblici, e quindi l'iscrizione al collegio degli Alti Magistrati. Strinse contatti preziosi, tessé la sua tela, elargì grosse somme di denaro per ungere le ruote opportune, e riuscì a diventare Prefetto di una Provincia.
Non era una carica dappoco, ai tempi in cui la Repubblica muoveva i suoi primi passi, e comportava in pratica l'autorità assoluta su una piccola fetta del territorio francese. Avendola raggiunta a soli trent'anni, Hubert fu un po' il ragazzo prodigio di quei giorni, anche se la più parte del merito l'ebbero le bustarelle che elargì e un certo numero di manovre astute. Hubert, tuttavia, intraprese i suoi doveri di alto magistrato con molta serietà. Una cosa bisognava dire di lui: non si considerava arrivato a un traguardo, bensì a un punto di partenza per nuovi sogni e obiettivi. In altre parole, per proseguire la scalata sociale, gli occorreva ancora denaro. La cittadina di Aubrecourt era simile a molti centri abitati di quell'epoca; tranquilla e pittoresca, sarebbe apparsa staccata dal resto del mondo se non fosse stato per il fiorire delle attività commerciali. Occupava il centro di una vallata ed era cinta da boschi verdeggianti. Le colline che la orlavano facevano parte di una terra antica, dove la gente dava credito a leggende e superstizioni di stampo medievale e, prima che la Pulzella d'Orléans ripulisse l'atmosfera con il fulgore della sua spada liberatrice, nella zona si erano verificati i più orridi episodi di caccia alle streghe. Il Palazzo destinato alla Prefettura sorgeva proprio su una di quelle colline, e sembrava sovrastare Aubrecourt come il castello di un Barone. Dalle sue finestre severe e poco ornate si poteva spaziare con lo sguardo sull'intera cittadina dai tetti rossi, e nei giorni sereni era visibile il Lac de Lune, dove d'estate si poteva fare il bagno e d'inverno pattinare sul ghiaccio. La vita dei cittadini di Aubrecourt era pacifica e serena, imperniata sulle molte allegre festività francesi e più agiata che altrove. Ai piedi delle colline c'erano fattorie ricche e ubertose, nel circondario erano state scavate miniere, e in paese il commercio prosperava. In un ambiente del genere, una mente accorta come quella di Hubert de Montreuil non faticò troppo a scovare occasioni di far quattrini. I ricconi della zona erano sotto il suo controllo: non gli restava che allungare le mani e mungere quelle vacche grasse e piene di latte. Al suo arrivo nel palazzo vi si installò alla grande. Prima della Rivoluzione era stata la dimora di un favorito della Corte, ma poi i vandalismi e i saccheggi l'avevano ridotto male e necessitava di riparazioni. Hubert mise all'opera un esercito di lavoranti, che pagò con l'unica moneta che era disposto a pagare: promesse di favori, di esenzioni dalle tasse: insomma tutto, salvo che denaro. A suo onore va detto che mantenne scrupolosamente ciò che aveva promesso, tuttavia lui era un esperto nel dare con una mano e riprendere con l'altra, e la gente di Aubrecourt non poté impedirgli di
riempirsi le tasche con mille diversi - e legalissimi - espedienti. Il suo palazzo, circondato da giardini e fontane, tornò ai fasti del secolo precedente. Cinque anni più tardi i proprietari terrieri erano sull'orlo della rovina, e così anche i mercanti, i proprietari di miniere e gli affaristi d'altro genere. In paese stagnava il malumore. A Hubert la situazione apparve seccante, dato che contava sulle percentuali dei guadagni di quella gente, e inoltre cominciava a sentire puzzo di aperta ribellione. Fu una fredda e piovosa notte d'Aprile che una carrozza entrò cigolando dal portale di pietra, fermandosi nel cortile del palazzo. Dal veicolo scese pesantemente Pierre de Cardinois, il Commissario di Polizia. Era un individuo obeso, che camminava sbuffando e, di solito, la sua faccia mostrava chiazze rosse causate dal vino che tracannava a litri. Ma ora le sue guance erano grigie e, quando riferì il motivo della sua venuta, sbuffava per lo spavento. «Signor Prefetto, quello che devo riferirvi è molto preoccupante. Chiedo di poter...», s'interruppe, col fiato mozzo. «Chiedo di poter riunire la milizia e...» Hubert de Montreuil sbatté sul tavolo il boccale da cui stava bevendo. I suoi mustacchi accuratamente impomatati fremettero. «Que diable! Non ci sarà per caso una rivolta popolare?» «Mais non», si affrettò a tranquillizzarlo il Commissario. Si asciugò il sudore con un fazzoletto. «No, sebbene solo Iddio sappia perché i proprietari non si ribellino. La cosa è più grave ancora.» Hubert s'appoggiò allo schienale della poltrona e sbuffò. «Più di una rivolta? Pierre, tu sei ubriaco. Qualunque cosa non sia una sommossa popolare, non ci fa un baffo. Dal punto di vista legale non stiamo certo derubando la brava gente del paese, ma ci sono alcuni sporchi calunniatori che mi accusano di spremerli come limoni, e credo che dovrò usare la mia autorità per far sentir loro la dura mano della giustizia. Allora, sentiamo, qual è il problema?» Pierre rabbrividì. «Un loup-garou! Nei boschi c'è un Lupo Mannaro. Fin da quest'inverno la gente lo mormora. Si dice che sia venuto giù dalle montagne e che ora vaghi per le colline, cette bien du diable.» Hubert spazzò via il boccale dalla tavola, mandandolo a fracassarsi in un angolo del salone. «Stupidaggini, Pierre. Controsensi, vecchie superstizioni buone per gli allocchi. È solo per dirmi questo che sei venuto fin qui sotto l'acquazzone?» Pierre de Cardinois strinse le labbra, ergendosi indignato. «Ma è la veri-
tà, Monsieur, lo giuro. Appena mezz'ora fa ho visto con questi occhi il corpo della povera vecchia che...» «E ti sei spaventato, credendo che una vecchia fosse diventata un loupgarou?», ringhiò Hubert. «Non lei, Monsieur. La vecchia è la vittima del mostro.» Per quanto navigato fosse, anche Hubert aveva nel profondo del suo intimo qualche timore superstizioso. Sbuffò più volte, infine si alzò. «Suppongo che dovrò mostrarmi alla plebe. Aspetta che mi vesta, e poi mi porterai a vedere questo spiacevole spettacolo.» Quando i due uomini uscirono dal portone e salirono sulla carrozza stava piovendo a catinelle, e nel cortile l'acqua ruscellava sul selciato. «Frusta i cavalli!», ordinò il Commissario al vetturino. Il veicolo si avviò sotto la pioggia scrosciante, cigolando faticosamente e con le ruote che affondavano nella melma. Mentre scendevano dalla collina il Prefetto mantenne un cupo silenzio. Fu solo dopo aver attraversato il paese, allorché la vettura si addentrò nella boscaglia per una stradina secondaria, che Pierre de Cardinois osò osservare: «C'è un gruppetto di paesani e di contadini che sorvegliano il corpo dell'uccisa. Hanno delle lanterne. Dovremmo vedere la luce fra poco». Circa un chilometro più avanti, nel folto della boscaglia, trovarono una dozzina di contadini radunati al riparo della chioma di un albero. Ciascuno aveva una lanterna, e somigliavano tanto a una frotta di lucciole spaurite che, nel vederli, il Prefetto ridacchiò. Il loro spavento era comunque evidentissimo. Gettavano nel buio occhiate colme di timore arcano e, quando Hubert scese dalla carrozza intabarrato nell'ampio impermeabile nero, sbarrarono gli occhi come dinanzi a una figura demoniaca. Fu necessario prenderli a male parole perché si decidessero a scortarli dove giaceva il cadavere. Mamma Vasinois, questo il nome con cui la donna era conosciuta in paese, quel pomeriggio si era recata a far visita alla moglie del guardacaccia, e aveva lasciato l'abitazione di costui dopo il tramonto prendendo una scorciatoia per l'abitato. Uno dei presenti si presentò come suo figlio e, con voce rotta, spiegò d'essersi messo in cerca della donna dopo cena, preoccupato del suo ritardo. Hubert non aveva certo lo stomaco delicato ma, nell'esaminare ciò che restava della donna, i suoi sensi vacillarono. Il fango su cui la pioggia tempestava era rosso di sangue, e costellato da frammenti di carne umana. Un braccio e una gamba della sventurata mancavano, e l'intestino le era
stato strappato dal ventre e sparso fra i rovi. Sul volto e sul torace presentava coppie di lacerazioni lasciate da zanne che avrebbero potuto benissimo appartenere a un grosso lupo. «La pioggia ha cancellato le tracce, signor Prefetto», disse il Commissario. «Ma un'ora fa ho potuto vederle io stesso. Orme di lupo, più larghe del palmo d'una mano.» «Vraiment?», sbottò Hubert. «Ma a mio avviso è stato un comune lupo, o un grosso cane inselvatichito. Mi meraviglia molto che voi, Pierre, lasciate circolare stupide storie di Lupi Mannari. Stenderete il verbale dando una versione meno fantasiosa, e provvederete che in paese non si spargano dicerie infondate. È un ordine.» Si rivolse ai presenti. «A cercare quell'animale penserà il guardacaccia. Ora ricomponete i resti della vittima, e che abbia cristiana sepoltura. Non state lì come idioti. O... avete paura che il Lupo Mannaro torni a mordervi il sedere?» Rise seccamente delle loro espressioni. «Non, Monsieur. Il loup-garou non tornerà più per questa notte», disse un contadino. «La pioggia... l'acqua corrente, capite? Essa fa tornare il lupo nella sua forma umana. Ma ci saranno altre notti di luna piena, e altre vittime. Chi può dire da dove viene quella bête du diable? Potrebbe essere chiunque... perfino uno di noi!» Hubert lo afferrò per il petto, imprecando rabbiosamente. «Saligaud! Non ti ho appena detto che non voglio sentire chiacchiere di Lupi Mannari, imbecille? Mettetevi al lavoro, adesso, cialtroni superstiziosi.» Detto ciò si voltò e tornò al riparo nell'interno della carrozza, seguito dal corpulento e sbuffante Pierre de Cardinois il cui impermeabile grondava acqua come una fontana. Alla luce debole della lanterna il volto dell'uomo appariva pallido e molliccio, alterato dallo spavento e, nel fissarlo, Hubert sbuffò. Batté il bastone da passeggio sul soffitto del veicolo. «A palazzo!», ordinò al vetturino. L'uomo fece voltare i cavalli sulla stretta stradicciola e, dopo quella faticosa manovra, li spronò di nuovo verso Aubrecourt. «Mamma Vasinois era molto conosciuta in paese», mormorò il Commissario di lì a poco. La sua voce si udì appena, nel tamburellare della pioggia sul tettuccio a cui si aggiungevano gli altri cigolii della vettura. Il Prefetto non replicò. Aveva lo spiacevole sospetto che non fosse stata una bestia qualsiasi a devastare in quel modo orrendo il corpo della vecchia. Era stata aggredita da una furia selvaggia, da qualcosa che voleva vedere sangue e carni dilaniate, e non da un animale spinto dalla fame. E
questo avvalorava l'ipotesi dei popolani perché, secondo le leggende, era proprio così che si sarebbe comportato un loup-garou. Tuttavia lui aveva il preciso dovere di non lasciar dilagare il panico, rifletté, e dunque aveva fatto bene a comportarsi con durezza. Il popolino andava tenuto in riga. In quel momento la carrozza si fermò d'improvviso. «Holà, que va donc?», gridò il vetturino. Si voltò. «C'è qualcuno. Non riesco a vedere molto bene, ma mi sembra un corpo steso a terra. Per poco i cavalli non lo calpestavano.» Il Prefetto si riallacciò l'incerato e aprì lo sportello con un borbottio. Quando fu sceso, scorse quella che senza dubbio era una forma umana, poco più avanti, distesa nel fango e il timore di ritrovarsi dinanzi a uno spettacolo come quello di poco prima, lo fece rabbrividire. Si fece porgere la lanterna dal Commissario e oltrepassò i cavalli, alzandola per illuminare il corpo. Era una giovane donna dai capelli rossi, completamente nuda e, all'apparenza, eccezionalmente bella. Pur sporca di fango da capo a piedi, graffiata e inzuppata, le sue forme apparivano stupende. Era svenuta, pallidissima, e il suo corpo non recava traccia di ferite evidenti. Già prima di chinarsi su di lei, Hubert de Montreuil ne era stato così colpito che seppe d'essersene innamorato all'istante e perdutamente. Con un ansito depose la lanterna, quindi la sollevò fra le braccia e la portò nella carrozza. La sua voce era rauca per l'ansia, quando ordinò al vetturino di portarli subito a casa dell'unico farmacista del paese. Il padrone della farmacia era un medico-dentista anziano che soleva andare a letto presto. Svegliato dal frenetico bussare alla porta, ciabattò giù per la scala borbottando imprecazioni ma, nel vedere chi erano i visitatori, tacque e si mise all'opera per rianimare la giovane donna. Dopo avere controllato le sue condizioni, provvide ad asciugarla, la mise a letto ben coperta e le somministrò uno stimolante. Quelle cure ebbero l'effetto di farle riprendere colore. Alla luce della candela Hubert vide che respirava come in un sonno tranquillo, e ne provò immenso sollievo. «Helàs, la pauvre», commentò il medico. «Comunque le sue condizioni non sono preoccupanti. Direi che una buona nottata di sonno la rimetterà in sesto.» «Ma cosa può esserle successo? Cosa può averla fatta cadere svenuta, e senza le vesti, sulla strada del bosco? Mezz'ora prima siamo passati di là, e non c'era.»
«Chi può dirlo, Monsieur?» Il medico si strinse nelle spalle. «La fanciulla ha sofferto una forte emozione, o così sembra. Ma non sono in grado di rispondere alle vostre domande.» «E non risponderete alle domande di nessun altro.» Hubert gli diede un'occhiata glaciale. «Voglio che questa faccenda rimanga segreta. Intesi?» L'uomo s'inchinò servilmente. «Mais certainement, signor Prefetto. Nessuno udrà un sussurro dalle mie labbra. Oh... grazie. Troppo generoso, Eccellenza.» E intascò la somma che Hubert gli dava. «Ora datemi una mano a metterla sulla carrozza. La porterò a palazzo.» I tre uomini avvolsero la ragazza addormentata in numerose coperte, e con cautela la sistemarono nella vettura. Quella notte Hubert de Montreuil dovette sembrare un invasato ai membri del suo personale. Appena giunto alla lussuosa residenza, buttò l'intera servitù giù dal letto, mandò a chiamare il suo medico personale, e fece subito preparare l'appartamento di fronte al giardino dell'ala est per il soggiorno della giovane donna. La depose sul grande letto a baldacchino con le sue stesse braccia, mentre lei era ancora inconscia, rigido per l'emozione alla vista dei suoi splendidi seni che si alzavano e abbassavano al ritmo del respiro. Al termine di quell'agitazione rimandò tutti a letto, spedì via il Commissario, e sedette su una poltroncina per sorvegliare coi suoi stessi occhi il sonno della bellissima sconosciuta dai capelli rossi. Che gli stava accadendo? Lui era incapace di tradurre in parole la violenza dei suoi sentimenti. E violenti lo erano, perché in quale altro modo un uomo che aveva vissuto come lui poteva vivere quella nuova passione? La dolcezza e la tenerezza gli erano estranee per natura, e l'amore esplodeva in lui come un nubifragio o un terremoto. E, insieme all'amore, ora conosceva la paura: era assillato dal pensiero che la ragazza messa sulla sua strada dal destino potesse non sopravvivere, e si smarriva all'idea di perderla prima d'averla davvero trovata. Restò seduto accanto a lei per tutta la notte, tormentandosi nervosamente i baffi, senza neppure il coraggio di sfiorare le sue mani abbandonate sulle coltri. Nello stesso tempo era divorato dal desiderio di chinarsi su di lei, di baciare quella gola vellutata, le labbra turgide, il volto cesellato nell'alabastro, e si sentiva in preda a uno sconvolgimento dell'anima che gli toglieva le forze. All'alba la giovane donna si svegliò. Aprì gli occhi serenamente, esaminando il luogo in cui si trovava come se non si stupisse affatto d'essere lì.
Si stiracchiò e si alzò a sedere, incurante che le coltri le scivolassero giù dalle spalle rivelando la perfezione dei suoi seni. Poi osservò Hubert con indifferenza, per nulla contrariata o imbarazzata. L'uomo era balzato in piedi. Scacciando la sonnolenza, le prese una mano. «Mademoiselle!», esclamò. «Non alzatevi, ve ne prego. Restate distesa e non fate sforzi. Siete stata molto male.» La ragazza lasciò che egli la cingesse con un braccio per farla distendere, e sollevò verso i suoi, due occhi blu come laghetti di montagna. A dispetto del suo ferreo autocontrollo, Hubert non poté fare a meno di contemplare con bramosia la meravigliosa nudità di lei. Ma d'un tratto nel suo sguardo vi fu un lampo stupito: giusto sul seno destro di lei c'era un piccolo tatuaggio, che risultava azzurro sulla pelle nivea. Era una parola, un nome: Clarisse. «Clarisse!», sussurrò Hubert. E si chinò per baciare il tatuaggio. La ragazza si scostò subito, tirandosi la coperta sul petto. «Chi devo ringraziare per esser stata soccorsa, Signore?», chiese con calma. Lui s'affrettò a cancellarsi dalla faccia l'espressione rapita e si raddrizzò, quindi si presentò compitamente, ignorando la stanchezza e la schiena che gli doleva per la notte trascorsa a sedere. «Consideratevi mia graditissima ospite, Mademoiselle», concluse. «Nel frattempo sarà mio dovere informare debitamente i vostri familiari. Vi prego di dirmi il vostro nome, cosicché io possa mettermi in contatto con loro.» Nei grandi occhi di lei parve passare un'ombra. «Io... non so se ho genitori o parenti. Non lo so. Non ricordo nulla», ansimò. «Sto cercando di rammentare, ma è come se il mio passato fosse nascosto da un'immensa nebbia. Dentro la mia mente vi è solo nebbia, Signore!» Hubert de Montreuil si sentì salire alle labbra un sorriso soddisfatto, e non tentò neppure di mascherarlo. Si arrotolò i baffi con mano che tremava. «Ah, quel dommage! Un vero peccato, Mademoiselle, che lo shock subito vi abbia provocato un'amnesia. Comunque il vostro nome di battesimo lo conosciamo. Farò per voi quel che sarà in mio potere. E ora riposate.» Con quella frase Hubert indietreggiò verso la porta e uscì discretamente. Sapeva che non sarebbe stato saggio cercare di farle la corte in modo troppo frettoloso: ci sarebbe stato tutto il tempo, più tardi. Ma nei giorni successivi non ebbe modo di condurre quella faccenda amorosa come avrebbe voluto. Mademoiselle Clarisse gli permise di rifornirla con vesti eleganti, gioielli e biancheria finissima, però il suo contegno
si rivelò più riservato del previsto, addirittura freddo, e le galanterie di Hubert caddero nel vuoto. Di fronte alla cortese indifferenza di colei che agognava fare sua sposa, egli dovette riconoscere che le sue manovre di seduzione erano inutili. Alla sera la giovane donna si ritirava nel suo appartamento, chiudeva a chiave - come le mani di Hubert accertarono deluse - e, dopo il tramonto, non si lasciava vedere né da lui né dalla cameriera. In quelle occasioni Hubert si riduceva a passeggiare sospirando nel giardino, sotto le finestre di lei. Immancabilmente le vedeva chiuse e buie e, tendendo le orecchie, non udì mai il più piccolo rumore provenire dall'interno. Per quel che ne sapeva, magari la ragazza appena entrata in camera sua spegneva il candelabro, si sedeva dietro il davanzale e osservava il suo malinconico agitarsi ridendo di lui. Il pensiero della sua freddezza lo faceva impazzire. Trascorsero a quel modo i giorni e le settimane. Una mattina, di buon'ora, il Commissario Pierre de Cardinois giunse sul suo calessino, attraversò il cortile a passi tanto veloci per quanto glielo permetteva la sua mole, e disse ansante al maggiordomo che voleva parlare subito al Prefetto. Hubert dormiva ancora, e uno dei servi dovette svegliarlo. Seccato e mugugnante, indossò una veste da camera e scese nel salone, già preparandosi a dare una lavata di testa al Commissario per quell'improvvisata troppo mattiniera. Ma l'uomo gli corse incontro agitatissimo. «Monsieur, bisogna assolutamente fare qualcosa!», esclamò. «Vi ho scongiurato di radunare la milizia, e ora devo domandarvelo ancora. Io...» Hubert lo scostò irosamente. «Tonnerre de Dieu! Si può sapere cosa vi sconvolge tanto, Pierre?» Gli occhi dell'altro sporgevano dalle orbite. «Il Lupo Mannaro ha ucciso ancora, questa notte. Non ci sono dubbi. Tre morti. La prima vittima è stata una giovane donna, che col figlioletto stava andando da una parente per avere del latte. È impossibile stabilire quali frammenti di carne appartengano alla madre e quali al bambino.» Parve vacillare e si umettò la lingua con le labbra. «E dopo di loro il figlio del mugnaio Lafitte, scannato mentre tornava a casa dall'abitazione della fidanzata, dove aveva cenato.» Hubert de Montreuil fece udire un'imprecazione selvaggia. Per lui l'esistenza di un loup-garou non era un fatto orribile: era un fatto inaccettabile, incredibile, frutto dell'idiozia altrui. Fu sul punto di insultare irosamente il Commissario, ma si trattenne. Dopotutto quegli omicidi potevano avere
benissimo un colpevole umano, cosicché era necessario svolgere un'indagine. «Era luna piena, Monsieur. Come la notte in cui è stata uccisa Mamma Vasinois.» «Ah, sì? Molto bene, Pierre», disse con calma forzata. «Quand'è così, metto la faccenda nelle tue mani. Indaga, prendi tutte le misure che ritieni opportune. Ma tieni i piedi poggiati a terra, mon vieux. Non voglio torme di contadini pronte a linciare un disgraziato colpevole solo d'aver una faccia lupina. Guai, se al Ministero degli Interni giungessero voci simili. Voglio un assassino, con tanto di prove irrefutabili.» La cittadina e il circondario erano in fermento, ma i giorni trascorsero senza che si trovasse una sola traccia del colpevole. La milizia che Pierre de Cardinois mise insieme era un gruppo di paesani armati nei modi più disparati, e costoro rastrellarono inutilmente i campi e i boschi. Ogni forestiero di passaggio fu fermato e interrogato. Ci furono dei pestaggi, e un paio di volte qualcuno rischiò d'essere linciato soltanto per esser stato visto aggirarsi nell'oscurità. Mentre la successiva luna piena si andava avvicinando, sul paese cominciò a stagnare un'atmosfera pesante. Gli uomini si guardavano fra loro con sospetto, il vicino spiava il vicino, l'ostilità e la paura aumentavano. In quanto a Hubert de Montreuil, i doveri d'ufficio e tutto ciò che lo teneva lontano da Mademoiselle Clarisse gli riuscivano ormai insopportabili. Ogni minuto libero lo trascorreva con lei, sulla terrazza, oppure a passeggio fra le fontane del giardino. Le parlava con passione, la corteggiava vivacemente, le dichiarava il suo amore in termini vibranti e ispirati. Il solo risultato di ciò fu che la giovane donna divenne sempre più riservata e introversa. Sebbene s'intrattenesse con lui per ore e ore con apparente docilità, era distaccata e silenziosa come se i suoi discorsi le entrassero da un'orecchio per uscire dall'altro. E quando Hubert nel suo trasporto le chiedeva una risposta, lei si limitava a sorridergli con blanda simpatia, cosa che finiva con l'ammutolirlo. Una sera al tramonto, dopo che Clarisse si fu ritirata nel suo appartamento, Hubert si attaccò alla bottiglia e bevve con la foga di un carrettiere desideroso solo di stordirsi. Depresso e furioso imprecò fra i denti, e sollevò un pugno al soffitto in direzione della camera di lei maledicendola con parole crude. Non sapeva più se l'amava o la odiava, sapeva solo che non poteva starle lontano. Da lì a poco, mezzo ubriaco, sbatté via il boccale e si aggrappò alla ba-
laustra del grande scalone ricurvo, salendo fino alla camera di lei. Bussò alla porta, la chiamò con voce rotta e la supplicò di aprire, ma dall'interno non gli giunse alcuna risposta. Dopo alcuni minuti, preoccupato da quel silenzio, chiamò un paio di servitori e ordinò loro di spaccare la serratura, quindi spalancò il battente. Nella vasta camera non si udiva neppure il ronzio d'una mosca, e l'oscurità era assoluta sebbene dalla finestra spalancata entrasse il debole lucore della luna. Mentre i fumi della sbronza lo abbandonavano, Hubert mandò via i servi e avanzò di un passo, scrutando verso il letto immerso nell'ombra. Attese qualche istante, incerto. «Clarisse», mormorò. «Sei sveglia, vero?» Non vi fu risposta. «Clarisse, scusami. Per l'amor di Dio, dimmi qualcosa. Ho bisogno di parlare con te.» L'unico rumore che udì fu il fruscio del vento, che agitava le tende ai lati della finestra. Hubert si mosse verso il letto e lo trovò vuoto, ancora intatto. Ansimando per lo stupore accese una candela ed esplorò ogni angolo, sotto il letto, dentro gli armadi, nello spogliatoio, dietro le tende, e dovette arrendersi all'evidenza di quel fatto: la ragazza non c'era. Ma dove poteva essere andata? Si accostò al davanzale e guardò nel giardino. La luna piena illuminava le siepi e le fontane, creando spazi neri fra le aiuole. Sospetti e dubbi tremendi dubbi! - lo assalirono. Clarisse era giovane, era bella, cosa poteva esserci di più naturale che un giovanotto del posto, più aitante e simpatico di lui, l'avesse fatta innamorare? E forse da tempo, di nascosto da lui lei usciva per... Un'ira feroce gli fece esplodere nella mente impulsi di rancore e di violenza. Spense la candela, chiuse la porta, poi piazzò una sedia davanti alla finestra e si dispose ad attendere il suo ritorno. Ma un'ora più tardi il liquore che aveva in corpo fece il suo effetto, e senza accorgersene si appisolò. A svegliarlo fu il canto di un gallo, e con un sussulto sbarrò gli occhi: il cielo era ancora scuro, colmo di stelle, e a oriente si cominciava a intravedere il grigio pallore dell'alba. Con un grugnito si alzò dalla sedia, massaggiandosi la schiena. E proprio allora, all'esterno, si udì uno scalpiccio. Qualcosa si era mosso nel buio. Aguzzò gli occhi e strinse i denti, annuendo fra sé: c'era qualcuno, laggiù fra le ombre. Si appoggiò al davanzale, attento a non sporgersi, e scorse di nuovo un movimento.
Un istante dopo una forma a quattro zampe, grigia e allungata, aggirò una siepe e venne avanti sulla ghiaia, facendo oscillare la coda e annusando l'aria col muso aguzzo. Hubert sentì un brivido scendergli lungo la schiena come la mano gelida di un cadavere. Con cautela felina l'animale si diresse alla più grande delle fontane, appoggiò al bordo le zampe anteriori e si guardò intorno, la lingua penzoloni dalle zanne candide. Mentre fissava la luna, un impercettibile uggiolio gli uscì dalla gola. Inchiodato al davanzale e rigido come una statua, Hubert vide il lupo salire sul marmo della fontana, rimettersi in equilibrio e poi tuffarsi nell'acqua corrente alta quasi un metro. Per qualche momento il buio e i riflessi del liquido agitato nascosero del tutto l'animale, quindi una figura si alzò in piedi con un movimento flessuoso e scosse via l'acqua dai lunghi capelli rossi. Oltre le colline il cielo si schiariva. Sulla zona stagnava il più assoluto silenzio. Con occhi vuoti d'espressione Hubert osservò Mademoiselle Clarisse che usciva dalla fontana, nuda e gocciolante. La ragazza si accostò al muro del palazzo, afferrò con ambo le mani i grossi rampicanti che crescevano fino all'altezza del tetto e prese a inerpicarsi agilmente. Hubert indietreggiò in fretta e raggiunse la porta. Prima che lei fosse rientrata nella camera aveva già chiuso e si era allontanato nel corridoio, pallido come un morto. Era tentato di tornare indietro e di accusarla, di rivelarle ciò che aveva visto, di parlarle; ma cosa ci avrebbe guadagnato? Sapeva già quel che c'era da sapere. Meditò sull'eventualità di denunciarla al Commissario di Polizia e scartò quell'ipotesi con una smorfia: una creatura come Clarisse era fatta per l'amore, non per essere uccisa da una folla inferocita, ma... che altro restava da fare? Per ore e ore, lunghe come secoli, Hubert de Montreuil non fece assolutamente nulla. Nulla, cioè, se non lottare con se stesso e tormentarsi. Durante la mattina Mademoiselle Clarisse ostentò gli identici atteggiamenti di sempre, distaccata, un po' altera, sorridente. Non disse parola sul danno che aveva subito la serratura, sebbene certo lo avesse notato. Hubert non cercò la sua compagnia, tuttavia fu lei a stargli accanto con placida serenità, quasi che il suo scopo fosse di dimostrargli che lei non era cambiata in alcun modo. «Sei irritato con me, Hubert?», gli domandò con calma. «Io non voglio dispiacerti, ti prego di credermi.»
Lo sguardo intenso di quei meravigliosi occhi blu lo fecero fremere. La lieve piega delle labbra sembrava deriderlo. Le pulsazioni sulla sua gola satinata lo tentavano trasformando la sua mente in un groviglio di sensazioni cieche, animalesche. Per sfuggire alla morsa dei suoi istinti fu costretto ad alzarsi di scatto, e uscì dalla stanza a passi rapidi. Poco dopo, appena si sentì più calmo, decise di mandare una carrozza a prendere il Commissario di Polizia. Quel giorno Pierre de Cardinois era fuori di sé. L'ultima escursione del Lupo Mannaro, riferì acremente, aveva provocato ben quattro vittime. E ciò a onta delle precauzioni prese dagli abitanti di Aubrecourt, che quella notte si erano barricati in casa. La bête du diable, esclamò l'uomo, si era introdotta in un edificio dal tetto, sfondando l'abbaino, e aveva orrendamente fatto strage di un'intera famiglia. Volgendosi, Hubert vide che Clarisse si stava avvicinando, con aria serafica, e non poté fare a meno di chiedersi quali pensieri si celassero dietro quel dolce viso di fanciulla. «Lasciaci soli, mia cara, ti prego», disse. «Io e il Commissario abbiamo da parlare di cose di ufficio.» Clarisse annuì docilmente, esibì il suo solito sorriso pieno di fascino e uscì dal salone. «Allora», chiese Pierre. «Avete qualche ordine, Monsieur?» Hubert si arrotolò i mustacchi pensosamente. «Pierre, io non ho dormito. No, non intendo dire che stanotte sono stato sveglio. Voglio dire che mentre voi non combinavate niente io mi sono dato da fare.» «Mi state accusando d'inefficienza nel mio lavoro?», si lagnò l'uomo. «Cosa avete scoperto, dunque, che possa esser sfuggito a me?» Il sorriso di Hubert fu una smorfia penosa. «Mon vieux, ho trovato il vostro loup-garou.» E nel dirlo si sentì la morte nell'anima. Il Commissario lo fissò a bocca aperta, poi per l'emozione dovette sedersi. «E chi è? Chi è, questa bête du diable? Ditemi il nome, e io andrò a...» Hubert gli accennò di calmarsi. «Tutto a suo tempo, Pierre. Al momento opportuno quella creatura vi sarà consegnata. Tenete presente che non si può accusare nessuno senza le prove, e nel caso di un Lupo Mannaro l'unica prova consiste nel sorprenderlo sul fatto. Inoltre non lo si può trattare con gli stessi metodi di un comune criminale. Bisognerà andar cauti e impiegare i mezzi... le armi adatte.» «Io sto sognando!», esclamò Pierre. «Non solo il signor Prefetto non cade preda di una crisi di rabbia al solo sentir parlare di Lupi Mannari, ma
ora dichiara di credere nella loro esistenza!» «Cose che accadono, vecchio mio. Sarà necessario avere l'aiuto del prete con la sua Acqua Benedetta, e far fondere pallottole d'argento per i fucili della milizia. Quando sarete pronto prepareremo una trappola per il lupo. Per ora vi dico soltanto che dovremo fargli la posta nel mio giardino. E adesso aspettiamo la prossima notte di luna piena.» Il Commissario di Polizia se ne andò accigliato, dopo aver invano cercato di convincerlo a rivelargli il nome. Hubert si chiese se l'uomo potesse essere abbastanza intelligente da immaginarselo, ma... Pierre de Cardinois, il grasso, asmatico e inefficiente Commissario di Polizia? Scosse le spalle. Impossibile, disse a se stesso. Sebbene la primavera fosse ormai inoltrata e il tempo si mantenesse al bello, quelle furono giornate grigie e fredde per Hubert de Montreuil. Ogni pomeriggio passeggiava insieme alla bella Clarisse, si affliggeva per lei e per sé, e rifletteva sul tradimento che le stava preparando. Al pensiero degli anni di solitudine che si stendevano dinanzi a lui, si sentiva struggere. Il futuro senza la ragazza gli appariva vuoto, insopportabile. Infine decise che doveva darle almeno una possibilità di salvezza, di andarsene altrove, di sfuggire alla trappola che lui le avrebbe teso. Era un controsenso, lo sapeva, ma l'amore è fatto di controsensi, e quando il giorno venne egli era stravolto. Stava scendendo il tramonto, e i due camminavano fianco a fianco fra le aiuole del grande giardino. Clarisse guardò con ansia il cielo che si scuriva, gettò un'occhiata alla finestra della sua camera e si voltò per rientrare nell'edificio. Ma Hubert la afferrò d'improvviso fra le braccia. «No!», gemette. «No, no, Clarisse, amore mio... non devi andare! Io conosco il tuo segreto, te lo confesso. Ti ho vista tornare a casa l'ultima volta. So cosa sei, lo so... eppure ti amo!» Clarisse gli puntò le mani sul petto per respingerlo, poi si rilassò nel suo abbraccio e chiuse gli occhi. «Temevo che tu sapessi questo di me.» Ebbe un pallido sorriso. «Hubert, adesso posso rivelartelo: io provengo da una famiglia molto altolocata, e i miei mi credono morta. Preferisco così, piuttosto che essi sappiano la verità. Per loro sarebbe terribile, se il nostro nome divenisse di pubblico dominio legato a un segreto così spaventoso agli occhi del popolino sciocco. Quando questo cambiamento avvenne in me, lasciai la mia casa.» «Non importa, mia cara!», esclamò lui con fervore. «Non m'importa di nulla, solo di te!»
Hubert incollò la bocca a quella di lei e la baciò con foga appassionata, stringendola a sé. E il suo ardore fu tale che non si accorse neppure del piccolo spasimo di sofferenza sulle sue labbra, allorché i candidi denti della fanciulla lo morsero. Soltanto dopo che si fu scostato vide sulla bocca di lei una goccia di sangue scarlatto, e comprese che era sangue suo. Clarisse lo fissò sorridendo appena, con aria sognante. «Ho avuto il tuo sangue, Hubert. E tu hai avuto il mio. È così che un altro fece di me qualcosa di più di una semplice donna, molti, moltissimi anni fa», sussurrò intensamente. «Quando stanotte la luna piena si alzerà nel cielo, tu sarai ciò che sono anch'io!» «Vuoi dire... io, un Lupo Mannaro, come te?» Clarisse lo abbracciò tremando. «Era l'unico modo per noi, Hubert, amore mio. Altrimenti tu avresti dovuto denunciarmi, lasciarmi distruggere da una torma di barbari esseri inferiori. Ma ora siamo uguali. Staremo insieme per sempre, immortali come tutti quelli come noi, eterni... a meno che non ci accada d'incontrare l'argento fatale con cui gli uomini ci combattono. Ma noi staremo attenti, vero? Immagina, mio caro, un'eternità con me. Un'eternità... così!» Qualcosa di simile a una nuvola di fiamma esplose nel cranio di Hubert. In un istante solo ciò che gli era entrato nella circolazione sanguigna attraverso la ferita alle labbra gli fece dimenticare se stesso, trasformò i suoi pensieri in un'urlante massa di istinti selvaggi, e nell'annichilire la sua mente aggredì ogni cellula del suo corpo. Una sensazione esaltante di forza e di potenza lo sommerse, e di colpo egli fu avido di correre, di lanciarsi nel buio della notte per... «La luna piena ha agito presto su di te. Succede sempre così la prima volta», disse una voce accanto a lui. Ci fu una risatina. «Aspettami. Non essere impaziente.» Si voltò e vide il corpo snello di lei che sgusciava fuori dagli abiti. Solo allora si rese conto d'avere le zampe impacciate dai suoi stupidi indumenti umani. Se ne liberò con un ringhio cupo, infastidito dal loro odore. Poi alle sue narici frementi giunse eccitante il profumo della lupa. Dietro le colline stava sorgendo la luna, un globo argenteo che prometteva una lunga notte di caccia. Il vento che soffiava dal bosco era gravido di sentori sconosciuti, gradevoli, e faceva caldo. Hubert non aveva mai provato così vivida la consapevolezza d'avere un corpo elastico e pieno di forza. Con un balzo fu dietro alla forma flessuosa e veloce di Clarisse che si avviava fra le aiuole. Gli appariva stupenda e sensuale, molto più attra-
ente di quando aveva avuto l'insulsa e debole corporatura bipede. Si affiancò a lei, annusandola con bruciante desiderio. Lei si volse a morderlo con le zanne acuminate, scherzosamente, e nei suoi occhi lampeggiò una sfida. Poi accelerò la corsa verso le siepi e le oltrepassò, diretta al muro di cinta. Hubert s'arrestò con un ringhio perplesso, disturbato da una strana sensazione... un pensiero, un ricordo. Poi la certezza di un pericolo incombente lo fece irrigidire, e d'un tratto rammentò la trappola che lui stesso aveva progettato. Cercò di chiamare la compagna, di metterla sull'avviso, ma dalla gola gli uscì solo un rantolo ferino. E Clarisse era già scomparsa cinquanta metri più avanti, nell'ombra fra le siepi fiorite, là dove i cespugli s'infittivano presso il muro. Hubert spalancò le zanne, travolto dalla furia e dalla voglia di assalire il nemico umano, di sbranare, di affondare il muso nel sangue caldo di quegli odiosi esseri a due gambe. Ma mentre stava per avviarsi in quella direzione uno sparo lo fermò, e all'esplosione dell'arma seguì un guaito di sofferenza mortale. Poi la notte fu piena delle grida di trionfo degli uomini, di parole eccitate che lui con la sua parte umana riusciva a capire, e seppe cos'era accaduto. La sua ferocia bestiale lasciò il posto a un dolore sordo, frustrante, venato di rancore. Solo l'odiosa consapevolezza che quei miseri esseri avevano altre pallottole d'argento trattenne nel suo petto l'ululato straziante con cui avrebbe voluto annunciare alla luna la perdita di lei. Ansimando, la grigia sagoma di lupo indietreggiò nell'ombra, si voltò e scivolò via oltre la fontana. Poi balzò sul muro con un guizzo agile e corse nel bosco, giù lungo le pendici della collina. Davanti a lui c'erano tenebre identiche a quelle che si sentiva dentro, un futuro fatto d'incognite e di pericoli. Ma c'erano anche campi, strade, case e... quell'odore che lo riempiva d'odio e di bramosia. Con un fremito si avviò nella direzione da cui gli giungeva più caldo e forte l'odore della preda. LA CACCIA The Hunt di Joseph Payne Brennan Nine Horrors And A Dream, 1958 Entrando nella fredda sala d'aspetto immersa nella penombra della stazione ferroviaria di Newbridge, il signor Oricto pensò che fosse il luogo più desolato della terra. Ogni cosa lo deprimeva: le nude luci sovrastanti, il
freddo pavimento di pietra, le panche annerite e scomode. La stazione appariva deserta. Non vi era che lui. Aggrottando le sopracciglia, posò la borsa a terra e si sedette. Era in ritardo e anche il suo treno era in ritardo. Avrebbe dovuto trascorrere come meglio poteva quell'ora di attesa. Era una prospettiva piuttosto deprimente. Era un uomo di piccola corporatura, un tipo nervoso, di mezz'età, e provò una spiacevole sensazione di isolamento, di vulnerabilità, mentre lanciava qualche occhiata alla grande stanza vuota. Solitamente le sue grandi orecchie e le guance cascanti gli conferivano un aspetto comico, ma ora aveva un aspetto semplicemente patetico. Avvertì una inspiegabile sensazione di apprensione che non si sapeva spiegare. Newbridge era una città di ragionevoli dimensioni. Sicuramente vi era altra gente nei dintorni della stazione. Era piuttosto tardi e poi, improvvisamente, si irrigidì. Qualcuno fermo nell'ombra sul lato estremo della stanza lo stava spiando. Era appoggiato contro lo schienale di una delle panche, teneva la testa sulle braccia, ed esaminava il signor Oricto con un'espressione curiosamente intensa e concentrata. Il cuore del signor Oricto prese a martellargli tra le esili costole. Egli a sua volta guardò in quella direzione con uno sguardo pieno di timore, avvertendo una sensazione di ripugnanza e di attrazione allo stesso tempo. Benché i suoi occhi ben presto cominciassero a lacrimare, non riusciva a distogliere lo sguardo. Mentre guardava, l'oggetto del suo involontario esame si mosse lungo la panca e uscì alla luce. Per qualche ragione che non osò analizzare, il signor Oricto cadde in preda a una sensazione molto vicina al panico. A un osservatore casuale l'aspetto dell'altro individuo avrebbe difficilmente potuto spiegare una tale sensazione. Aveva un aspetto curato, ed era di corporatura ancora più esile di quella del signor Oricto. Una persona disinteressata alla vicenda avrebbe concluso che non vi era nulla di rimarchevole o di notevole nel suo aspetto. Ma il signor Oricto trovò il suo aspetto semplicemente orribile. Gli occhi indagatori dello straniero, il suo aspetto magro e muscoloso, il suo modo di alzare la testa di scatto, allarmarono il signor Oricto. Il suo manifesto interesse nei suoi confronti aveva qualcosa di terrificante. Senza pensare, senza nemmeno soppesare il risultato delle sue azioni, il signor Oricto afferrò la borsa e si affrettò a uscire dalla porta, diretto verso i binari. Stava quasi correndo.
Si affrettò a raggiungere la punta estrema del binario, finalmente posò la borsa a terra e si guardò alle spalle. Non vide nessuno. Pian piano il suo cuore riprese a battere normalmente. Espirò un lungo sospiro tremante. Come era diventato nervoso e timido, all'improvviso! Doveva veramente tentare di controllarsi. Aveva dormito poco ultimamente: doveva avere i nervi un po' scossi. Lo sconosciuto forse voleva solo fare un po' di conversazione, e nulla più. Ma mentre ragionava a questo modo tra sé e sé, nell'intimo vi era una parte di lui che era rimasta scossa e impaurita. Non gli riuscì di lasciare l'estremità del binario. Alcune gocce di pioggia lo colpirono in viso. Guardandosi attorno, vide che non vi era nessuno vicino a lui. La stazione avrebbe potuto benissimo sorgere nel mezzo di un deserto. Dando un'occhiata al suo orologio, vide che aveva ancora quaranta minuti di attesa davanti a sé. La pioggia cadeva più fitta, tamburellando contro le assi di legno della passerella. Una piccola sezione del tetto copriva la parte del binario accanto alla sala d'aspetto. Ma esso terminava a diversi metri dal punto in cui stava il signor Oricto. Quando la pioggia cominciò ad aumentare, egli indietreggiò verso quella tettoia. Era giunto quasi al riparo, quando vide lo sconosciuto in piedi appena al di fuori della porta della sala d'aspetto. Il signor Oricto non lo aveva visto uscire. Non aveva visto le porte spalancarsi al suo passaggio. Ma, nonostante ciò, lui era lì. Il signor Oricto si arrestò all'istante, di nuovo pieno di apprensione. Lo straniero magro non fece alcuna mossa per avvicinarsi a lui, ma il signor Oricto si convinse di essere soggetto a un esame ostile e astuto. Nonostante la pioggia gelida cadesse a torrenti, spinta dal vento che aumentava sempre più, egli si affrettò a raggiungere nuovamente il limite estremo del binario. La pioggia cadeva sempre più forte, bagnandogli gli abiti e scorrendo lungo il suo viso a rigagnoli. Era sicuro che lo straniero, all'asciutto sotto la pensilina, si divertiva molto a vedere il suo stato. A un certo punto gli parve di sentire una chioccia risata attutita, ma forse era stato solo il rumore del vento. Non riusciva a comprendere il suo stato di nervosismo. La sua spiacevole compagnia su quel binario non aveva fatto alcun gesto o commento ostile. Eppure la sua semplice presenza riempiva il cuore del signor Oricto di profondo terrore. Il terrore che gli impregnava le ossa non poteva essere
analizzato. Pareva una tangibile, pregnante minaccia che riempiva l'atmosfera che regnava sul binario della stazione come un fumo nero. Di tanto in tanto la pioggia diminuiva. In quei brevi momenti, il signor Oricto strizzava il suo cappello bagnato, si asciugava l'acqua sul viso, e tentava di riprendere un atteggiamento dignitoso. In uno di questi intervalli, mentre si passava il fazzoletto sul viso, osservò con orrore che lo sconosciuto aveva lasciato il suo posto accanto alle porte della sala d'aspetto ed era avanzato lungo il binario, venendo verso di lui. Rimase impietrito dal terrore. Lo sconosciuto avanzava piano, muovendo ciascun piede molto lentamente, con grande cautela. La sua piccola testa era protesa in avanti sul collo piuttosto lungo. Era puntata verso il signor Oricto come una freccia. Gli occhi fissavano il signor Oricto con uno sguardo implacabile. Il signor Oricto ebbe l'impulso di fuggire, di saltare sulle traversine e di correre ciecamente lungo i binari del treno. Era l'unica cosa che gli era sempre riuscita bene: correre. Ma pareva che le sue gambe si fossero tramutate in gelatina. Non rispondevano al suo volere: ormai era in preda al panico. Aprì la bocca per urlare. Proprio in quell'istante vi fu un baluginio di luce, un ruggito soffocato. Dalla curva apparve il treno che aveva tanto atteso. Lo sconosciuto esitò. Per un terribile istante parve sul punto di lanciarsi in avanti. Poi si fermò, si voltò, e tornò piano piano verso la sala d'aspetto. In tutta la vita il signor Oricto non era mai stato tanto contento di vedere arrivare un treno. Corse verso il binario del treno, grato, sollevato, benedicendo il mostro d'acciaio che gli era stato inviato attraverso le tenebre per trarlo in salvo. Mentre saliva a bordo, lanciò una rapida occhiata in entrambe le direzioni. Con immenso sollievo si rese conto che nessun altro saliva a bordo. Il treno non sostò molto a lungo a Newbridge. Era un treno espresso diretto a Porthaven, e Newbridge era una fermata minore lungo il tragitto. Quando finalmente il signor Oricto ebbe sistemato la sua borsa sul portabagagli sopra la sua testa, il treno era di nuovo lanciato attraverso la notte piovosa. Si accasciò sul sedile. Si sentiva debole e infreddolito, e piuttosto esausto. Mai prima d'allora aveva provato un terrore così grande, un'apprensione tanto acuta e travolgente. Non voleva neanche pensare cosa sarebbe po-
tuto accadere se il treno non fosse giunto. Il bigliettaio attraversò la carrozza vuota, prese il suo biglietto. Squadrò il passeggero con uno sguardo lungo e interdetto, poi si diresse verso la carrozza successiva. Il tepore della carrozza e la sensazione di essere sfuggito al pericolo, lo fecero assopire. Rimase per un poco abbandonato con gli occhi chiusi. Pian piano il suo cuore smise di battere all'impazzata. Prese a respirare normalmente. La pioggia picchiava contro i finestrini del treno smorzando le poche luci che fendevano l'oscurità. Il signor Oricto si riprese. Probabilmente si era preso un bel raffreddore. Be', aveva letto che in questi casi era meglio bere molta acqua. Si avviò verso il rubinetto con passo incerto, e riempì un bicchiere di carta. Dopo aver bevuto tre bicchieri d'acqua, tornò al suo posto. Si arrestò bruscamente. Lo sconosciuto smagrito era seduto in un sedile a metà della carrozza. Aveva il suo solito aspetto divertito, ma il suo sguardo penetrò fino all'anima stessa del signor Oricto come tanti aghi d'acciaio. Per un istante il signor Oricto quasi cedette a un impulso irresistibile. Voleva solo voltarsi, fuggire attraverso le carrozze per distanziare il più possibile il suo inseguitore. Alcune cellule non ancora toccate dal terrore che gli aveva invaso il cervello lo assicurarono che sarebbe sembrato ridicolo. Cosa avrebbero pensato i bigliettai, e gli altri passeggeri? Cosa ne sarebbe stato della sua borsa che era ora sul portabagagli? Essa conteneva alcuni dei suoi beni più preziosi. L'avrebbe dunque abbandonata solo perché uno sconosciuto dall'aria spiacevole era tanto maleducato da fissarlo? Di malavoglia, tenendo a freno la sua sensazione di panico, tornò al suo posto. Parte del suo cervello gli stava ancora urlando l'ordine di correre, di fuggire finché era in tempo ma, una volta tornato al suo posto, trovò che non riusciva più a muoversi. La pioggia batteva contro i vetri. Alcune luci colorate formavano di tanto in tanto dei caleidoscopi per qualche istante, poi ripiombava l'oscurità. Il signor Oricto sedeva come paralizzato. Non osava voltare la testa, ma avvertiva lo sguardo indagatore dell'altro sulla nuca. Un brivido gelido passò lungo la sua spina dorsale. Se solo il bigliettaio fosse ritornato! Lottando contro la sensazione di ipnotica impotenza che pareva impos-
sessarsi di lui, tentò di fare dei piani. Quando il treno sarebbe giunto a Porthaven, avrebbe tentato di afferrare la borsa velocemente e di affrettarsi verso la porta; sarebbe balzato giù dal treno non appena fosse entrato in stazione, forse ancora prima che si fosse fermato del tutto. Poi avrebbe corso. Non aveva dubbi adesso. Avrebbe corso a perdifiato, senza vergognarsene, poi avrebbe attraversato la stazione e la strada, fino all'angolo dove sostavano i taxi. Una volta all'interno del taxi, sarebbe stato al sicuro. Avrebbe offerto al conducente una mancia per indurlo ad allontanarsi velocemente. Pochi minuti dopo si sarebbe ritrovato al sicuro, nelle sue stanze. Una volta formulati i suoi piani, si sentì meglio. Poi fu colpito da un nuovo pensiero e la paura tornò. Se lo era solo immaginato, o l'altro aveva davvero letto nei suoi pensieri? Quello che gli balenava in mente era dunque tanto evidente? Quegli occhi fissi riuscivano a trapanare il suo cranio e giungere nell'area segreta in cui avvenivano i suoi processi mentali? Il signor Oricto aveva proprio questa impressione. Una paura crescente lo perseguitava ormai, e non riusciva a pensare a un piano alternativo. Avrebbe dovuto affidarsi alla sua velocità. Aveva qualche probabilità di farcela. Mentre il treno si avvicinava a Porthaven, si alzò e sollevò la borsa dal portabagagli. Rimase in piedi tremante mentre l'espresso si lanciava verso la stazione. Sapeva che gli occhi dello sconosciuto lo fissavano implacabili. Un'ondata di panico, di debolezza terrificante, s'impadronì di lui. La sua sola volontà riuscì a spingerlo su gambe gommose fino alla porta del treno. La stazione scivolò verso di lui. Scese dai gradini di ferro, poi spiccò un balzo. La forza d'inerzia del treno in movimento lo fece roteare. Lottando per mantenere l'equilibrio e per non far cadere la borsa, compì una grottesca danza. Riprendendosi, guardò impaurito verso la pensilina. Lo sconosciuto magro aveva già lasciato il treno. Si avvicinava velocemente. Se mai il signor Oricto si era illuso di non essere lui l'oggetto dell'interesse dello sconosciuto, ora questi dubbi erano scomparsi. Si lanciò lungo le scale della pensilina. Discese a grandi balzi le scale, a quattro o cinque gradini alla volta, giunse alla fine della scalinata e fuggì lungo la galleria poco illuminata che portava dalla pensilina alla stazione vera e propria. Il più puro terrore ormai lo pervadeva. Corse lungo il tunnel, e uscì a gran velocità dalla porta entrando nella stazione. Sembrava completamente
deserta. Non vi era neanche uno spazzino. Le luci erano quasi tutte spente. Quello non era un rifugio sicuro. Mentre correva verso le porte che davano sulla strada, udì il suono delle porte del sottopassaggio aprirsi alle sue spalle. Giunse sulla strada resa scivolosa dalla pioggia, e si slanciò verso l'angolo dove avrebbe dovuto trovare il taxi in attesa. Mentre si avvicinava a quel punto, un grande sgomento s'impossessò di lui. Questa volta non avrebbe trovato un taxi ad attenderlo! Avrebbe girato l'angolo e non avrebbe trovato nulla! Ora doveva rischiare. Corse pazzamente. Scivolando proprio all'angolo, vide il taxi. Gemendo per il sollievo, si lanciò verso l'auto. Girò la maniglia e si trovò all'interno. Il conducente era seduto e scrutava il giornale delle corse dei cavalli. Non sembrava essersi accorto del fatto che il signor Oricto era entrato nell'auto. Il signor Oricto con voce strozzata diede il suo indirizzo: «573 Bishop Street, per favore! Faccia in fretta!». Il conducente alzò lo sguardo dal giornale. Si voltò con uno sguardo cupo verso il signor Oricto. Aveva uno sguardo di muto rimprovero. Il signor Oricto stava per offrire la mancia al conducente come aveva stabilito, ma all'improvviso la porta sul lato opposto del taxi venne spalancata bruscamente. Lo smagrito sconosciuto scivolò all'interno, chiuse la porta di scatto, e parlò piano al guidatore. Il conducente assentì, voltandosi verso il signor Oricto. «Amico, ti dispiace se porto anche lui? C'è un solo taxi a quest'ora. E poi piove.» Il signor Oricto rimase muto, rigido, mentre il terrore gli penetrava nel cuore come un coltello. Il conducente pensò che il suo silenzio fosse in realtà una recalcitrante forma di assenso. Mormorando tra sé, spinse il giornale da parte e mise in moto la macchina. Mentre il taxi sguazzava nel buio, passando per strade deserte, il signor Oricto teneva lo sguardo fisso dinanzi a sé. Non osava muovere gli occhi neppure di una frazione di centimetro. Per molti isolati rimase immobile, sentendo gli occhi dell'altro che lo esaminavano gongolanti e pieni di trionfo. Finalmente riuscì nuovamente a pensare in maniera coerente. Poteva di-
re al conducente di portarlo alla stazione di polizia? Si sentiva convinto che per qualche motivo il conducente non lo avrebbe fatto. Quale pretesto poteva fornirgli? E supponendo anche che il conducente lo accontentasse? Cosa avrebbe detto alla polizia? Che era stato seguito? Gli avrebbero creduto? Sarebbe sembrata una cosa assurda. Non aveva nessuna prova. Lo straniero, ne era sicuro, sarebbe stato perfettamente capace di districarsi da una situazione del genere. Lui stesso sarebbe certo stato considerato un individuo sospetto. Lo avrebbero anche potuto trattenere, considerandolo mentalmente instabile. Il signor Oricto fu sopraffatto dalla disperazione. Ma, mentre imbruniva, e le vetrine lavate dalla pioggia apparivano e sparivano davanti a lui, un pensiero gli si presentò prepotentemente: a tutti i costi non doveva rivelare allo sconosciuto il suo indirizzo. Una volta presa la decisione, sapeva di dover passare subito all'azione. Altrimenti, la poca forza che gli era rimasta sarebbe svanita. Cercando a tastoni il portafoglio, disse al conducente di fermarsi. La voce era tanto fioca, che passò un intero isolato, prima che il conducente udisse l'ordine ripetuto con disperazione, e accostasse finalmente verso il lato del marciapiede. Il viso cupo e irato del conducente si voltò con aria interrogativa verso di lui. «Ho... ho cambiato idea», spiegò il signor Oricto sottovoce. Porse una banconota al guidatore. «Tenga il resto.» Poi spalancò la porta e corse via. Non si voltò neanche una volta per verificare cosa facesse lo straniero smagrito. La pioggia era cessata. Una fitta nebbia si diffondeva nelle strade. Si alzava dai marciapiedi come un fumo bagnato e umido, e oscurava la vista. Mentre si lanciava attraverso la nebbia, il signor Oricto si ricordò di aver lasciato la borsa nel taxi. Ormai non gli importava più nulla. Avrebbe corso più velocemente senza quel peso. Aveva deciso di entrare in un bar o in un ristorante ancora aperto, ma ora si rendeva conto con grande paura che era più tardi di quanto pensasse. Tutti i locali erano chiusi. Le strade erano troppo insicure ormai. Quando finalmente rallentò la corsa, era senza fiato. Era fuori forma. Eppure, era proprio strano. Tutta la vita era stato un bravo corridore, capace di correre quasi senza sforzo. Quasi... Si arrestò e rimase in ascolto. Dalla nebbia alle sue spalle aveva sentito il suono di passi che si avvicinavano velocemente. Di corsa.
Si lanciò in avanti, correndo ancora più veloce. Il più puro terrore lo sospingeva. Le gambe si muovevano come pistoni. Ma era già senza fiato. Anche il più puro terrore poteva fornire solo una certa quantità di energia animale. Sapeva che il suo inseguitore stava guadagnando terreno. Mentre correva verso l'incrocio, decise di fare una svolta di novanta gradi. Forse, se riusciva a non farsi scorgere... Proprio mentre compiva la svolta lanciò un'occhiata angosciata all'indietro. Il volto dello straniero magro sfrecciava attraverso la nebbia. Correva senza sforzo, la testa protesa in avanti. Con un brivido di assoluto terrore, il signor Oricto pensò a una faina che aveva visto una volta sfrecciare attraverso i boschi, mentre inseguiva qualche piccolo animale. Nello stesso istante in cui girava l'angolo, capì che la sua mossa era stata scoperta. La vista del suo implacabile inseguitore, tuttavia, lo spinse a un'ulteriore accelerazione. La zona in cui si trovava ora era ancora più deserta e desolata di quella precedente. Vicoli bui, pieni di spazzatura, si diramavano in tutte le direzioni. Depositi e grandi edifici abbandonati privi di finestre, fiancheggiavano la strada stretta. Il sangue ormai gli pulsava nella testa. Si sentiva debole e la testa gli girava. Sapeva che sarebbe crollato a terra se avesse ripreso a correre. Aveva un'ultima disperata possibilità. Senza osare rivolgere un altro sguardo all'indietro, si tuffò in un vicolo buio. A metà del vicolo urtò violentemente contro un bidone vuoto, irto di fili di ferro, e cadde scivolando in ginocchio. Senza rialzarsi, saltò carponi per nascondersi dietro il bidone. Il signor Oricto stava proprio riprendendo a sperare quando i passi tornarono. Silenziosamente percorsero il vicolo diretti verso il bidone. Egli si accoccolò inerme contro il muro mentre il cuore gli martellava, e allora abbandonò ogni speranza. Lo sconosciuto smagrito si chinò su di lui, la testa protesa in avanti e in basso, gli occhi lucenti. Perfino nella sua disperazione, un pensiero lo torturava. Non riusciva a esprimerlo in maniera molto articolata. Tutto quello che riuscì a mormorare con voce fioca fu: «Perché?». Lo straniero lo guardò dall'alto con un'espressione vagamente sorpresa. «Perché?», ripeté. «Perché?» Sollevò la piccola testa ordinata e fece una
risatina allegra. I suoi denti brillarono nel buio. «Perché?», disse di nuovo, abbassando la testa. «Perché tu sei un coniglio... e io sono nato per cacciare i conigli!» Il signor Oricto tentò di urlare, ma dalla sua gola non uscì altro che un debole belato di terrore. Un istante dopo i denti appuntiti dello sconosciuto gli azzannarono la vena giugulare. LO SPIAZZO DI CANAVAN Canavan's Back Yard di Joseph Payne Brennan Nine Horrors And A Dream, 1958 Incontrai Canavan, oltre vent'anni or sono, poco dopo che si era stabilito a Londra. Era un antiquario e amava i libri antichi, e quindi naturalmente aprì un negozio di libri di seconda mano dopo essersi stabilito a New Haven. Non potendosi permettere di affittare dei locali nel centro cittadino, trovò un appartamento e un negozio in una vecchia casa isolata in periferia. Era una zona poco abitata, ma siccome gran parte delle transazioni di Canavan venivano fatte per posta, non era un fatto molto importante. Spesso, dopo aver passato la mattinata di fronte alla macchina da scrivere, facevo una passeggiata fino al negozio di Canavan e vi passavo gran parte del pomeriggio a curiosare tra gli scaffali. Mi faceva molto piacere, specialmente a causa del fatto che Canavan non tentava mai di fare pressione sui suoi clienti per indurli ad acquistare i suoi libri. Egli era al corrente della mia precaria situazione finanziaria, e non si arrabbiava se me ne andavo a mani vuote. In realtà pareva semplicemente contento della mia compagnia. Erano pochi i clienti regolari, e penso che si sentisse spesso solo. Alle volte, quando gli affari andavano a rilento, preparava un tè e ci sedevamo per ore a bere il tè e a parlare di libri. Canavan aveva proprio l'aspetto di un libraio antiquario... o meglio, della caricatura di un libraio antiquario. Era di piccola corporatura, un po' curvo, e i suoi occhi azzurri erano cerchiati da un paio di occhiali dai bordi metallici e dalle lenti quadrate di aspetto vetusto. Benché credo che il suo reddito annuo non fosse pari a quello di un buon artigiano, riusciva a far quadrare i conti, ed era soddisfatto. O almeno fu
soddisfatto, finché non cominciò a far caso allo spiazzo sul retro del suo negozio. Dietro alla vecchia casa cadente nella quale viveva e teneva il negozio, vi era uno spiazzo lungo e desolato, ricoperto di rovi ed erba alta color marrone. Diversi vecchi alberi di melo, neri e marciti, contribuivano a dare un aspetto melanconico alla scena. Gli steccati divelti ai lati dello spiazzo erano quasi scomparsi sotto la fitta erba. Nell'insieme, lo spiazzo sul retro della casa aveva un aspetto deprimente, e spesso mi chiedevo perché Canavan non lo avesse fatto ripulire. Ma non era una cosa che mi riguardasse. Non ne parlai. Una sera, quando visitai il negozio, non trovai Canavan nella parte anteriore del negozio, e quindi camminai lungo lo stretto corridoio fino al magazzino sul retro dove lui di tanto in tanto lavorava, per impacchettare o spacchettare le casse di libri. Quando entrai nel magazzino, Canavan stava in piedi accanto alla finetra, e guardava fuori sullo spiazzo sul retro. Cominciai a parlare, ma poi per qualche motivo mi interruppi. Credo che quello che mi fermò fu l'espressione sul volto di Canavan. Stava guardando lo spiazzo con un'espressione particolarmente intensa, come se fosse completamente assorbito da qualcosa che vedeva là fuori. Pareva affascinato e timoroso, come se qualcosa lo attraesse e gli ripugnasse allo stesso tempo. Quando finalmente si accorse di me, trasalì. Per un istante mi fissò come se fossi uno sconosciuto. Poi tornò il suo sorriso abituale, e i suoi occhi azzurri ripresero a brillare benevolmente da dietro le lenti quadrate. Scosse la testa. «Quello spiazzo ha uno strano aspetto certe volte. Se lo si guarda per abbastanza tempo, sembra continuare per miglia e miglia.» Quello fu tutto ciò che mi disse, e io ben presto me ne dimenticai. Ma, benché non ne fossi al corrente allora, fu proprio in quel periodo che cominciò quella orribile faccenda. Da quella volta, ogni volta che visitavo il suo negozio, trovavo Canavan nel magazzino sul retro. Una volta lo trovai al lavoro, ma la maggior parte delle volte lo trovavo semplicemente in piedi accanto alla finestra, intento a guardare fuori, verso quel triste spiazzo. Alle volte stava lì fermo per diversi minuti senza accorgersi della mia presenza. Quello che vedeva pareva assorbire completamente la sua attenzione. Il suo contegno quelle volte pareva quello di una persona in preda alla paura, mischiata a una strana specie di piacevole attesa. Solitamente bastava un forte colpo di tosse, oppure che strascicassi un po' i piedi, per
farlo voltare. Dopo, di nuovo intento a parlare di libri, pareva tornato in sé. Tuttavia cominciai ad avere la preoccupante sensazione che stesse semplicemente recitando una parte; cioè che, mentre chiacchierava di incunaboli, i suoi pensieri fossero in realtà ancora concentrati sul suo infernale spiazzo sul retro. Diverse volte pensai di interrogarlo su quell'argomento, ma quando avevo già le parole sulla punta della lingua, provavo un certo senso di imbarazzo. Come si fa ad ammonire un uomo perché guarda da una finestra il proprio giardino sul retro della casa? Cosa si deve dire, e come si deve dirlo? Rimasi muto. Più tardi me ne pentii amaramente. Gli affari di Canavan, che non erano mai stati fiorenti, cominciarono a peggiorare. E, quel che è peggio, la sua salute peggiorò. Assunse un aspetto più curvo e smagrito. Gli occhi non persero la loro brillantezza, ma cominciai a credere che in realtà si trattasse della lucidità che dà la febbre, più che la brillantezza tipica del sano entusiasmo. Un pomeriggio, entrando nel negozio, non trovai Canavan da nessuna parte. Pensando che doveva essere uscito dalla porta sul retro, occupato in qualche faccenda domestica, mi affacciai alla finestra sul retro e guardai fuori. Non vidi Canavan ma, mentre scrutavo lo spiazzo, un senso di incredibile desolazione si impadronì di me come un'ondata in un mare ghiacciato. Il mio primo impulso fu di ritrarmi, di lasciare il mio posto alla finestra, ma qualcosa mi fermò. Mentre guardavo oltre quel miserevole groviglio di rovi e di erbacce, sperimentai una sensazione che si potrebbe definire, in mancanza di meglio, curiosità. Forse la parte fredda e analitica del mio cervello voleva semplicemente scoprire quale fosse la causa del mio improvviso senso di nera depressione. Oppure qualche particolare di quel panorama deserto mi attraeva a un livello subconscio al quale non avevo mai permesso di emergere durante le ore di veglia. In ogni caso, rimasi alla finestra. L'alta erba marrone ondeggiava leggermente al vento. Gli alberi marciti rimanevano immobili. Non vi era un solo uccello, né una farfalla, che volasse al di sopra di quello spiazzo squallido. Non vi era nulla da vedere al di fuori degli steli dell'alta erba marrone, gli alberi marciti e i grovigli sparsi di cespugli bassi e pieni di rovi. Eppure vi era qualcosa che mi attraeva in quel paesaggio tanto desolato
e triste. Forse credevo che mi si fosse presentato un enigma di qualche tipo e che, se lo guardavo per un tempo sufficiente, l'enigma si sarebbe risolto. Dopo aver guardato per qualche altro minuto, provai una strana sensazione: la prospettiva stava cambiando. Né l'erba né gli alberi erano cambiati, eppure lo spiazzo stesso pareva espandersi a dismisura. Dapprima mi limitai a riflettere sul fatto che lo spiazzo era molto più lungo di quanto avessi creduto in precedenza. Fui preso da un gran desiderio di correre verso la porta sul retro, tuffarmi in quel mare di erbaccia e camminare diritto finché non avessi scoperto da solo quale ne fosse veramente l'estensione. Ero sul punto di farlo, quando... quando vidi Canavan. Apparve all'improvviso, sbucando da dietro un groviglio di erbacce sul lato più vicino dello spiazzo. Per almeno un minuto parve completamente perso. Guardò verso casa sua come se non l'avesse mai vista prima. Era tutto in disordine, e pareva molto agitato. I rovi gli si erano attaccati ai pantaloni e alla giacca, e alcuni fili d'erba sporgevano come ganci dalle sue scarpe fuori moda; i suoi occhi scrutarono all'intorno con aria sconvolta. Pareva sul punto di voltarsi e battere in ritirata, per immergersi nuovamente nel groviglio dal quale era appena sbucato. Bussai forte sul vetro. Lui si voltò un poco poi, lanciando un'occhiata oltre la spalla, mi vide. Pian piano un'espressione normale gli si disegnò sul viso. Camminando cautamente, con lentezza, si avvicinò alla casa. Mi affrettai ad aprire la porta e a farlo entrare. Lui si diresse direttamente verso il negozio, e si accasciò su una sedia. Guardò in alto quando lo raggiunsi. «Frank», disse quasi in un bisbiglio, «ti dispiacerebbe fare un po' di tè?» Preparai il tè e lui lo bevve com'era, bollente, senza dire una parola. Aveva l'aspetto stanco. Sapevo che era troppo stanco per potermi raccontare cosa era successo. «Meglio che stai al chiuso per un po' di tempo», dissi, e me ne andai. Lui assentì debolmente, senza alzare lo sguardo, e mi salutò. Quando tornai al negozio il pomeriggio seguente, aveva un aspetto riposato e fresco ma era di umore cupo e depresso. Non menzionò l'episodio del giorno precedente. Per una settimana, parve quasi essersi dimenticato dello spiazzo. Ma un giorno, quando entrai nel negozio, lo trovai in piedi accanto alla finestra sul retro, e mi accorsi che distoglieva lo sguardo con enorme riluttanza. Da quella volta, questo stato di cose si ripeté con una tale regolarità che mi resi conto che quel triste groviglio di erbacce era diventato un'os-
sessione. Poiché temevo che gli affari peggiorassero ancora, e anche perché temevo per la sua salute, finalmente mi decisi a parlargli. Gli feci notare che stava perdendo i suoi clienti. Non aveva emesso un catalogo di libri da diversi mesi ormai. Gli dissi che tutto quel tempo che passava a fissare quell'acro stregato che chiamava il suo giardino sul retro avrebbe fatto bene a passarlo facendo una lista dei suoi libri e badando agli ordini da fare. Lo assicurai che quella era una ossessione che avrebbe certo danneggiato la sua salute. Se la gente sapeva che passava le ore a guardare fuori dalla finestra una piccola giungla di erbacce e rovi, avrebbe certo pensato che era ammattito! Conclusi chiedendogli audacemente cosa avesse provato esattamente quel pomeriggio in cui lo avevo visto uscire dall'erba con quell'espressione persa. Si tolse gli occhiali con un sospiro. «Frank», disse, «io so che le tue intenzioni sono buone. Ma vi è qualcosa circa quel giardino sul retro... un segreto... che devo scoprire. Non so cosa sia esattamente... qualcosa circa la distanza, le dimensioni e la prospettiva, credo. Ma, qualsiasi cosa sia, ho cominciato a considerarla, be', una specie di sfida... Devo scoprirlo. Mi dispiace se pensi che io sia pazzo. Ma non avrò requie finché non avrò risolto l'enigma di quel pezzo di terra.» Inforcò quindi nuovamente gli occhiali, aggrottando le ciglia. «Quel pomeriggio», disse, «quando eri alla finestra, ho avuto una strana e paurosa sensazione là fuori. Ero stato a lungo alla finestra e finalmente provai un certo impulso a uscire. Mi sono tuffato nell'erba alta con un senso di euforia, di avventura, di attesa. Mentre avanzavo, il mio senso di benessere lentamente cambiò, sostituito da un senso di acuta depressione. Quando mi sono voltato per uscirne... non potevo. Non ci crederai, ma mi sentivo perso! Avevo semplicemente perso il senso dell'orientamento e non sapevo da che parte voltarmi. Quell'erba è molto più alta di quanto sembri! Quando entri nell'erba, non vedi più nulla. Lo so che sembra incredibile: ho vagato per un'ora. Lo spiazzo pareva enorme una volta entrato tra l'erba. Pareva cambiare dimensioni mentre mi muovevo, come se di fronte a me si estendesse uno spiazzo enorme. Credo di aver camminato in circolo. Ti giuro, ho camminato per chilometri!» Scosse la testa. «Non è necessario che tu mi creda. Non mi aspetto che lo faccia. Ma
questo è quello che è accaduto. Quando finalmente ho trovato il modo di uscire, è stato per puro caso. E la cosa più strana è che, una volta uscito, ho avuto paura, non sentendo più l'erba alta attorno, ed ero sul punto di ritornare là dentro! Ho provato questa sensazione, nonostante l'orribile senso di desolazione che avvertivo in quel posto. Ma devo tornare. Devo capire! C'è qualcosa lì fuori che sfida le leggi della natura che noi conosciamo. Voglio scoprire di cosa si tratta. Credo di avere un piano, e voglio metterlo in pratica.» Le sue parole mi preoccuparono e, con una punta di inquietudine, mi ricordai di quello che avevo provato stando alla finestra quel pomeriggio, e trovai difficile considerare quelle sue parole come delle sciocchezze. Senza molta convinzione tentai di dissuaderlo dal rientrare nello spiazzo, ma sapevo che stavo sprecando il fiato. Lasciai il negozio quel pomeriggio in preda a un senso di oppressione, un presagio che nulla avrebbe potuto rimuovere. Quando tornai diversi giorni più tardi, i miei timori si erano già realizzati: Canavan era sparito. La porta del negozio era aperta, come al solito, ma Canavan non era in casa. Cercai in tutte le stanze. Finalmente, con un senso di apprensione, spalancai la porta sul retro e mi affacciai sullo spiazzo. L'erba alta ondeggiava nella brezza, e si sentiva un secco sibilante mormorio. Gli alberi morti si stagliavano neri e immobili contro il cielo. Benché fosse piena estate, non udivo né il cinguettio degli uccelli né il ronzio di un insetto. Lo spiazzo stesso pareva sospeso, come in ascolto. Sentendo che qualcosa stava accadendo, abbassai lo sguardo, e vidi una grossa corda che proveniva da qualche punto dietro alla porta, attraversava il breve spazio libero adiacente alla casa e si dipanava nell'erba. Immediatamente mi ricordai del «piano» di cui aveva parlato Canavan. Il suo piano, mi accorsi immediatamente, era stato quello di entrare nello spazio tenendo un capo di quella corda robusta. Per quanto si fosse spinto in avanti, doveva aver sicuramente pensato, poteva sempre ritrovare la strada per mezzo della corda. Sembrava un piano realistico, e avvertii un senso di sollievo. Probabilmente Canavan era ancora all'interno dello spiazzo. Forse, se gli si permetteva di esplorare quel luogo per un tempo sufficientemente lungo, senza interruzioni, esso avrebbe perso la sua malefica presa su di lui, e se ne sarebbe dimenticato. Tornai dentro e mi misi a curiosare tra i libri. Dopo un'ora ricominciai a sentirmi inquieto. Mi chiesi quanto tempo Canavan era rimasto nello
spiazzo sul retro. Quando mi misi a riflettere sulla salute malferma del vecchio, cominciai a sentirmi responsabile di quanto stava accadendo. Finalmente tornai ad affacciarmi alla porta sul retro. Canavan non si vedeva. Lo chiamai. Ebbi la sensazione inquietante che il mio richiamo non giungesse oltre il limitare della bisbigliante cortina erbosa. Era come se il suono stesso venisse attutito, soffocato, annullato, non appena le vibrazioni giungevano nello spiazzo ricoperto di vegetazione. Chiamai ancora e poi ancora, ma non ottenni risposta. Finalmente mi decisi a seguirlo. Avrei seguito la corda, pensai, e sarei riuscito a raggiungerlo. Mi dissi che indubbiamente l'erba alta avrebbe certo attutito le mie grida, e probabilmente Canavan stava diventando un po' sordo. Appena all'interno della porta sul retro, la corda era legata strettamente alla gamba di un pesante tavolo. Afferrando la corda, attraversai la zona libera sul retro della casa e scivolai all'interno della distesa erbosa. Dapprima procedetti con facilità, riuscendo ad addentrarmi per un bel pezzo. Ma, mentre avanzavo, tuttavia gli steli diventarono sempre più fitti e grossi, e dovetti scostarli a forza per riuscire a passare. Appena mi addentrai di qualche metro in quel groviglio, sentii un senso di depressione immensa travolgermi come era accaduto la volta precedente. Vi era certo qualcosa di strano in quel posto. Avevo la sensazione di essere penetrato in un altro mondo, un mondo di rovi ed erbacce i cui incessanti mormorii erano pieni di malvagità. Mentre mi aprivo un varco a fatica, giunsi finalmente alla fine della corda. Abbassando lo sguardo, mi accorsi che si era impigliata in un cespuglio di rovi e si era spezzata. Benché mi chinassi a frugare la zona per diversi minuti, non riuscii a trovare l'altra estremità. Probabilmente Canavan non si era accorto che la corda si era spezzata, e se la trascinava dietro. Mi rialzai, misi le mani attorno alla bocca e chiamai ad alta voce. Ma il grido non si propagò oltre quel desolato muro d'erba. Avevo l'impressione di essere in fondo a un pozzo, e che stessi gridando verso l'alto. Aggrottando la fronte, sempre più preoccupato, avanzai ancora. L'erba diventava sempre più fitta e rigogliosa. Finalmente giunsi al punto in cui dovevo usare entrambe le mani per farmi spazio in quell'intrico di vegetazione. Il sudore cominciò a grondarmi lungo il corpo. Mi doleva la testa, ed ebbi l'impressione che mi si stesse appannando la vista. Avvertivo la stessa sensazione di insopportabile oppressione che si prova durante una soffocante giornata estiva poco prima che scoppi la tempesta, quando l'aria è ca-
rica di elettricità. Inoltre, mi resi conto con un guizzo di paura che avevo perso l'orientamento. Non sapevo più da che parte fosse lo spiazzo. Durante un mezzo minuto in cui cercai di riflettere obiettivamente sul fatto che temevo di perdermi nel giardino sul retro di una casa, riuscii quasi a ridere, ma solo quasi. Vi era qualcosa che non ammetteva il riso in quel luogo. Ripresi la mia avanzata, serio. Ben presto cominciai ad avere la sensazione di non essere solo. Ebbi la inquietante impressione che qualcuno o qualcosa mi seguisse furtivamente attraverso l'erba alta. Non posso dire con sicurezza di aver sentito un rumore, benché questo possa esserne stato il motivo. Ma a un tratto mi convinsi fermamente che qualche creatura stesse strisciando a poca distanza da me. Avvertii la sensazione di essere spiato e che l'osservatore fosse una creatura del tutto maligna. Per un terribile istante presi in considerazione l'idea di una fuga precipitosa. Poi, senza motivo, provai una grande rabbia. Improvvisamente mi arrabbiai con Canavan, con quello spiazzo e con me stesso. Tutta la tensione che avevo immagazzinato fino a quell'istante, esplose in un'ondata di rabbia che spazzò via la mia paura. Ora, decisi dentro di me, sarei arrivato al fondo di quella strana faccenda. Non avrei più permesso che mi tormentasse e che mi disorientasse così. Mi voltai all'improvviso e mi tuffai a capofitto nell'erba in cui credevo che si nascondesse il mio astuto inseguitore. Mi arrestai di botto. La mia ira incontrollata si tramutò in un orrore indescrivibile. Nella fioca luce del sole che riusciva appena a filtrare tra quegli steli d'erba incolta, vidi Canavan. Era accucciato carponi, come una bestia pronta ad attaccare. Aveva perso gli occhiali, le sue vesti erano strappate, e il suo viso era distorto da un'espressione pazzoide, a metà tra un ghigno e un ringhio. Rimasi pietrificato dallo stupore a fissarlo. I suoi occhi stranamente sfocati, mi fissavano con un'espressione di odio implacabile, e senza riuscire a riconoscermi. I suoi capelli grigi erano aggrovigliati, pieni di fili d'erba e rovi. In realtà il suo intero corpo e i pochi resti dei suoi abiti, ne erano ricoperti, come se avesse grufolato rotolandosi nell'erba come un animale selvatico. Passato il primo momento di shock, finalmente riuscii a parlare.
«Canavan!», urlai. «Canavan, per Dio, non mi riconosci?» Per tutta risposta, dal profondo della sua gola si levò un ringhio minaccioso. Le labbra distorte rivelarono i denti ingialliti, e il suo corpo accucciato si tese per compiere un balzo in avanti. Caddi in preda al più puro terrore. Mi lanciai di lato e mi tuffai in quell'infernale cortina d'erba un istante prima che egli spiccasse il balzo. L'intensità del terrore che provavo aumentò le mie forze. Corsi a capofitto tra quegli steli contorti tra i quali mi ero faticosamente aperto un varco. Alle mie spalle sentivo il rumore dell'erba e i cespugli che si spezzavano al passaggio del mio inseguitore, e compresi che stavo correndo per salvarmi la vita. Correvo all'impazzata, come in un incubo. Gli steli d'erba mi colpivano il viso come fruste. I rovi mi sferzavano come lame di rasoi. Non sentivo nulla. Tutte le mie risorse fisiche e mentali erano concentrate su un solo obiettivo: dovevo uscire da quell'erba maledetta e sfuggire a quella cosa mostruosa che mi inseguiva da vicino. Ormai il mio respiro cominciava a farsi affannato, e l'aria mi entrava nei polmoni in grandi singhiozzi scomposti. Le gambe cominciavano a cedermi, e mi parve di star vedendo tutto attraverso una cortina di grandi dischi luminosi. Ma continuai a correre. L'essere alle mie spalle avanzava, guadagnando terreno. Lo sentivo ringhiare e lo sentivo correre nel terreno appena qualche centimetro dietro di me. E tutto il tempo avevo la frustrante sensazione di stare correndo in cerchio. Quando finalmente giunsi al punto in cui ero sicuro che sarei crollato tra meno di un secondo, mi tuffai attraverso un ultimo groviglio d'erba e uscii al sole. Di fronte a me si stendeva l'area libera sul retro del negozio di Canavan. Oltre lo spiazzo libero vedevo la casa. Senza fiato mi trascinai verso la porta. Per qualche strana ragione che non riuscii a spiegarmi né allora né adesso, ero assolutamente sicuro che l'orribile creatura alle mie spalle non si sarebbe avventurata in quello spazio aperto. Non mi voltai neppure per assicurarmi che fosse vero. Una volta entrato in casa, mi accasciai affranto su una sedia. Il mio respiro affannato finalmente ritornò normale, ma una ridda di pensieri si agitavano nel mio cervello, che era ormai in preda all'orrore delle più terribili congetture. Mi rendevo conto che Canavan era diventato completamente pazzo. Qualche terribile shock lo aveva tramutato in un Lupo Mannaro, una bestia
che agognava solo l'uccisione di qualsiasi essere vivente che gli si parasse di fronte. Ricordando gli occhi dallo sguardo sfocato con cui mi aveva fissato e l'espressione di odio e di ferocia che avevo letto sul suo volto, compresi che il suo cervello non era stato solo danneggiato: era stato totalmente distrutto. Ma Canavan era, perlomeno esteriormente, ancora un essere umano, ed era stato mio amico. Non potevo assumermi la responsabilità di giudicarlo. In preda all'apprensione, chiamai la polizia e un'ambulanza. Quel che seguì fu un ulteriore spettacolo di follia, e un periodo di domande e interrogatori che mi lasciarono in uno stato al limite dell'esaurimento nervoso. Una mezza dozzina di poliziotti robusti passarono quasi un'ora camminando tra l'erbaccia senza trovare alcuna traccia di Canavan. Uscirono imprecando, scuotendo la testa e strabuzzando gli occhi. Dissero di non aver visto né sentito nulla tranne forse un cane che li aveva seguiti rimanendo sempre nascosto, e ringhiando di tanto in tanto. Quando menzionarono questo particolare, aprii la bocca per parlare, poi mi trattenni e rimasi muto. Già vedevo i loro sguardi insospettiti, al pensiero che fossi io ad aver perso la ragione. Dovetti ripetere la mia storia almeno venti volte; non ne furono convinti. Rastrellarono l'intera casa. Esaminarono gli archivi di Canavan. Rimossero persino le assi del pavimento di alcune stanze per cercarlo. Finalmente conclusero di malavoglia dicendo che Canavan doveva essere in preda a un'amnesia completa dopo aver avuto uno shock di qualche tipo e che probabilmente era uscito di casa in preda ad amnesia poco dopo il suo incontro con me nello spiazzo. La mia descrizione del suo aspetto e del suo comportamento furono considerati frutto di una esagerazione eccessiva. Dopo avermi avvertito che sarei stato interrogato in seguito e che il mio domicilio sarebbe stato perquisito, mi rilasciarono con riluttanza. Le loro ricerche non portarono a nulla di nuovo. Canavan fu considerato scomparso, probabilmente in preda a un'acuta amnesia. Ma io non ne fui soddisfatto, e non riuscii a darmi pace. Dopo sei mesi di pazienti ricerche faticose e difficili tra gli archivi e gli scaffali della Biblioteca Universitaria locale, finalmente trovai qualcosa che non poteva considerarsi una spiegazione, e neanche un indizio concreto, ma solo una ipotesi altamente improbabile e fantastica. Non mi aspetto che qualcuno ci creda.
Un pomeriggio, dopo che i mesi di lunghe ricerche non avevano avuto alcun risultato, il custode dei libri rari della Biblioteca Universitaria giunse trionfante al mio tavolo, portando un decrepito libretto che era stato stampato a New Haven nel 1695. Non era menzionato l'autore, e il titolo era Morte di Goodie Larkins, Strega. Vi lessi che diversi anni prima una vecchia megera, una certa Goodie Larkins, era stata accusata dai vicini di aver tramutato un bambino scomparso in un Lupo Mannaro. La follia di Salem era ancora forte a quel tempo e Goodie Larkins era stata subito condannata a morte. Invece di metterla al rogo, le avevano aizzato contro sette lupi, che erano stati tenuti a digiuno per due settimane. Essi la spinsero verso la palude nel cuore di un bosco. A quanto pare, i suoi accusatori pensarono che questo costituisse un tocco di pura giustizia poetica. Mentre i lupi affamati le si lanciavano contro, i suoi vicini la udirono lanciare una terribile maledizione: «Che questa terra su cui muoio vi porti fino all'Inferno!», urlò. «E coloro che vi dimorano diventino bestie come queste che ora mi uccidono!» Un'ispezione delle vecchie cartine e dei documenti del Catasto mi mostrò che la palude in cui Goodie Larkins era stata dilaniata dai lupi dopo aver pronunciato la sua terribile maledizione si stendeva nella zona che ora costituiva quel maledetto lotto di terra sul retro della casa di Canavan. Non aggiungerò nulla. Ritornai solo una volta in quel posto malefico. Era una tetra giornata d'autunno e un vento freddo fustigava gli steli aridi di quella terra maledetta. Non so cosa mi spinse a tornare. Forse un senso di lealtà verso quel Canavan che avevo conosciuto. Forse fu un ultimo filo di speranza. Ma, non appena entrai nello spiazzo libero dietro la casa di Canavan - ormai chiusa - seppi che mi ero sbagliato. Mentre fissavo la spianata e le erbacce ondeggianti, gli alberi spogli e i neri cespugli di rovi, avvertii la sensazione di essere spiato. Era come se qualcosa di alieno e totalmente malvagio mi stesse osservando e, benché fossi terrorizzato, avvertii un perverso e irresistibile impulso che mi spingeva a gettarmi a capofitto in quell'erba folta che mormorava. Di nuovo credetti di vedere il mostruoso paesaggio che mutava subdolamente le dimensioni e le prospettive, finché non vidi una distesa di erba ondeggiante e di alberi secchi che si estendeva per chilometri. Qualcosa mi spingeva ad entrarvi, a perdermi in quell'erba così bella, a rotolarmi tra le radici, e a strapparmi di dosso quelle goffe pezze di stoffa che mi coprivano, a correre ululando famelico, sempre più avanti...
Invece mi voltai e corsi via. Corsi tra gli alberi come un pazzo. Barcollando entrai in camera mia e sbarrai la porta. Non ci sono mai tornato da allora. E non ci tornerò mai più. LA SUA RAZZA His Own Kind di Thomas M. Disch New Worlds Of Fantasy #2, 1970 Visto che non sono né un lupo né un uomo, sono forse l'unica qualificata a parlare di Ares Pelagian, e poiché posseggo io stessa una doppia natura, sono in grado di comprendere taluni aspetti della sua storia che potrebbero sfuggire a un narratore umano. Inoltre l'ho conosciuto intimamente - ho conosciuto entrambe le sue nature - e questo mi dà un ulteriore motivo per narrare la sua storia. Mi chiamo Daphne. Non è il mio vero nome, naturalmente. L'abitudine moderna di rivelare il proprio vero nome a chiunque si conosca è, secondo me, volgare e non poco pericolosa. Daphne è un bel nome, adatto a quella che sarà considerata in ogni caso come un'opera di fantasia, e indicativo della mia situazione: io sono un'amadriade. Un'amadriade inglese. Il lettore comune nutrirà forse dei pregiudizi nei confronti delle amadriadi che raccontano una storia. Sospetterà che la loro prosa trabocchi di umori stravaganti, che sia un racconto incongruente. Questo può essere stato vero in passato, ma il trapianto di tante di noi in Inghilterra all'epoca del revival neo-classico ha fatto alzare molto il livello intellettuale delle ninfe dei boschi. Semplicemente, non si può resistere all'inverno inglese senza leggere qualcosa. E ora basta con i preamboli! Lasciate che vi parli di Ares. Era nato la notte di Natale (come avrete immaginato se avete una certa familiarità con questi argomenti) da George e Lydia Pelagian, il cui cottage, posto in una valle riparata del Wiltshire, mi era perfettamente visibile. George era il guardacaccia della proprietà di Lord Edmond Hamilton, poi deceduto, e il giovane Ares si aspettava di succedere al padre, perché tutto ciò accadeva in un'epoca in cui la professione paterna faceva parte del patrimonio del figlio. Detesto pensare a quanto quest'affermazione riveli la mia età. Il giovane Ares era un bambino sano, vigoroso, animato da un amore panteistico per la natura. Suo padre, non meno di me, lo adorava, e sua
madre, come tutte le mamme, lo curava amorevolmente. Ricordo un giorno di primavera: aveva sei anni, era seduto all'ombra marezzata dei miei rami pieni di germogli e suonava un flauto che suo padre gli aveva insegnato a costruire. Io amo smodatamente la musica e Ares suonava così bene, perfino allora, che devo confessare di avergli fatto un piccolo incantesimo. Ritornò ogni giorno di bel tempo a suonare le sue canzoni per me. Stavo già cominciando a pregustare il raggiungimento della sua maggiore età: era passato tanto tempo da quando mi ero rivelata a qualcuno! In effetti, non mi ero più manifestata dall'epoca della mia sfortunata esperienza con Sir Miles Eliot durante la Restaurazione, ma quella è un'altra storia. Ma lasciatemi descrivere Ares: anche all'età di sei anni, definirlo come un pacifico amante della natura, come un putto dalle guance rosee che suoni nel coro di qualche chiesa barocca, sarebbe mistificante. Ares non era né un ornitologo né un botanico in erba (quanto odio i botanici!). Era come un piccolo animale: spietato verso gli animali quali rane e serpenti, cacciatore di conigli e scoiattoli. Era come un battitore esperto (sebbene ancora non gli fosse consentito l'uso del fucile) dei cervi che Lord Edmond manteneva sulla sua proprietà. Non saprei dire quanti pettirossi, allodole e tordi caddero dai miei rami, vittime della fionda di Ares. Era in tutto e per tutto figlio di suo padre. Be', non proprio in tutto e per tutto. Sono certa che suo padre si sarebbe addolorato nel vedere quello che vidi io un giorno d'autunno. Ares, chino sul corpo ancora vivo di un coniglio che aveva catturato, gli spingeva indietro il muso che rivelava il dolore e affondava i denti da latte in quella soffice gola. Fece scaturire tracce di memorie ancestrali nel cuore del mio tronco: giovinezza, esuberanza pagana, pensai con soddisfazione. L'anno successivo ebbe luogo la rara coincidenza dei cicli di sette e di nove anni, una condizione che era stata rivelata universalmente durante la mia giovinezza, (è sempre in quel momento che viene consumato il Divino Sacrificio: l'uccisione rituale del Re o del suo sostituto. Thomas Beckett, per esempio, fu ucciso nella Cattedrale di Canterbury nel 1170: un altro punto d'intersezione dei due cicli. Ma dove va a finire tutto il tempo?), ma che da allora è caduta in disuso. L'uomo può ignorare le leggi della Magia, ma la Natura non può. Quell'anno, il pomeriggio del Venerdì Santo, Ares Pelagian si trasformò in lupo. Stava ritornando a casa dopo le preghiere del Venerdì Santo in chiesa, e camminava a fatica in un pantano di fango e neve appena sgelata su un
sentiero che circondava la base della collina su cui sorgo. Lo vidi cadere sulle mani e immaginai che fosse scivolato. Non fece alcun tentativo di alzarsi ma restò a diguazzare sul sentiero fangoso per parecchi minuti. Infine vidi che non era più Ares - almeno non Ares, il bambino di sette anni - ma il cucciolo di un lupo costretto in una rete di abiti invernali. Il cucciolo si liberò degli abiti a morsi e venne a balzi verso di me. Quando capii che il piccolo Ares era un Lupo Mannaro, mi sentii terribilmente infelice. Un'amadriade poteva legittimamente rivelarsi a un essere umano, ma a un Lupo Mannaro! Era impensabile: un Lupo Mannaro può rivolgersi ai lupi oppure agli animali, per trovare compagnia, ma mai a un altro essere dalla doppia natura. Il cucciolo scomparve alla mia vista nella riserva, e io ritornai alla mia lettura: un volume di Gibbon che avevo rubato dalla casa padronale di Lord Edmond in una delle rare occasioni in cui mi ero materializzata in un fantasma. Ma la mia attenzione è incostante nei momenti migliori; in quelle circostanze, non riuscivo a pensare a nient'altro che a quel lupacchiotto in cui si era mutato Ares. Lo vidi tornare dai boschi con un coniglio appena ucciso tra le mandibole. La trappola di Ares era ancora attaccata a una delle zampe del coniglio. Dopo il mio disappunto iniziale, mi ritrovai a considerare il nuovo Ares (era ancora Ares dopotutto, sebbene alquanto cambiato) in una luce migliore. Non erano molti i lupi rimasti in Inghilterra - nel secolo precedente ne avevo visti solo due - ma giudicai che Ares fosse eccellente come cucciolo di lupo così come lo era da bambino: sano, vigoroso, non florido forse, ma con una pelliccia bella e lucente. Divorò con gusto il coniglio, seppellì le ossa accanto a una delle mie radici (che poi marcì), e cominciò con la voce acuta del cucciolo a esercitarsi negli ululati. Cominciai a soffrire per lui. Come bambino sarebbe stato abbastanza felice in Inghilterra... ma come lupo temevo che si sarebbe ritrovato solo, non apprezzato da nessuno, un reietto insomma. Al tramonto del Venerdì Santo, Ares, il bambino, nudo e tremante, si stringeva contro il mio tronco. Nello stesso momento, suo padre uscì dal cottage in fondo alla valle e si diresse lungo il sentiero che circondava la mia collina. Stava chiamando suo figlio. Indiscretamente, ruppi il silenzio che avevo sempre mantenuto alla presenza di Ares: «I tuoi vestiti sul sentiero: vicino alla betulla, presto». Era troppo sconvolto dalla situazione pericolosa in cui si trovava per no-
tare qualcosa di insolito nel fatto che un albero gli avesse parlato (e, dopotutto, non è poi un fatto così insolito, tranne forse che per le menti più prosaiche): seguì il mio consiglio. Era già vestito quando il padre lo trovò, ancora tremante, con il fango incrostato sui panni invernali e la giacca lacerata per il suo recente e goffo tentativo di svestirsi. Senza dubbio fu punito severamente quella sera e il giorno successivo, ma la Domenica di Pasqua fui lieta di vedere tutta la famiglia, George, Lydia (con un cappellino nuovo e, secondo me, orrendo), e Ares, avvicinarsi insieme per la cerimonia pasquale in chiesa. Mi chiesi oziosamente quale storia avesse inventato Ares per spiegare il proprio stato ai suoi genitori, e mi chiesi anche come l'avesse spiegato a se stesso. Oh, mi chiesi molte cose: se non si è cristiani, le domeniche possono essere terribilmente noiose. Evidentemente, aveva capito che cosa era accaduto. Perché, con la sagacia naturale dell'infanzia, Ares evitò ulteriori scene imbarazzanti nell'uscire dal suo stato di licantropia. (Una brutta parola, ma l'inglese è così povero di espressioni per i fenomeni soprannaturali. Licantropia! Dà l'impressione di una malattia. Amadriade, invece, è una parola che mi è sempre piaciuta). Le notti di luna piena, Ares saltava nudo dalla finestra della sua camera nell'erba alta da cui riemergeva qualche minuto dopo nella sua forma di lupo. Premurosamente, veniva sempre a trovarmi, una volta che aveva catturato la sua preda. Da lupo o da bambino, cacciava bene, cosicché la maggior parte di quelle serate le trascorrevamo insieme. Io agitavo tranquilla le mie foglie e Ares lanciava infantili ululati alla luna, dalla quale, se solo ci avesse pensato, non poteva aspettarsi altro che guai. Gli anni passarono - o meglio, i mesi, visto che ormai misuravo il tempo come Ares, sulle fasi lunari - e Ares era diventato un bel ragazzo, oltreché un lupo forte ed elegante. La differenza era superficiale. Quando Ares aveva diciotto anni, George Pelagian morì di un'infezione bronchiale e fu seppellito, lontano dalla mia vista, nel piccolo cimitero della chiesa. Dopo il funerale, Ares venne a farmi visita. Negli ultimi tempi, la forza del mio incantesimo aveva cominciato a decadere, e lo vedevo di rado. «È morto», mi disse Ares, e piangeva. «Sei il nuovo guardacaccia ora», risposi piano, tanto piano che pensai non mi avesse nemmeno udito. Ma mi aveva udito. «Ora sono il guardacaccia», confermò.
Dopo quel giorno, Ares venne a trovarmi più spesso, ma non più da solo: Linda Wheelwright, la figlia più piccola di uno dei fittavoli di Lord Edmond, lo accompagnava. Io non sono gelosa per natura, ma devo confessare che pensai che Linda non fosse degna di Ares. Oh, aveva sì un fascino rustico, e anche la vivacità del primo vigore della femminilità. Del resto, era palese che fosse innamorata di Ares, come Ares lo era di lei. La chiese in matrimonio sotto i miei rami! Mi ripugna l'idea del matrimonio, ma deve essere colpa dell'amadriade che è in me. La volta successiva che tornarono, scoprii che Ares non era stato del tutto ligio alle convenzioni, e nemmeno Linda, pur se era stata aiutata. La passione è una cosa meravigliosa, e io diedi alla coppia - visto che una coppia erano decisi a essere - la mia benedizione, rinunciando ai miei diritti sull'affetto di Ares. Il loro fidanzamento fu annunciato quella sera ai genitori di Linda, i quali, poiché erano inglesi, fissarono la data delle nozze di lì a un anno. Tanto per essere sicuri! Le opinioni di Ares su questa faccenda, che egli mi confidò in privato, combaciavano perfettamente con le mie, sebbene il ragazzo le avesse espresse con maggiore eloquenza. La lingua inglese ha delle belle parole per questo genere di cose. Gli consigliai di avere pazienza. Nello stesso periodo in cui Ares corteggiava Linda, l'altro Ares, quello che io vedevo una sola notte al mese, aveva anche lui trovato una compagna. I suoi ululati si erano rivelati finalmente utili. Da dove venisse, o da quanto lontano, non ne avevo la più pallida idea. Anche loro si amavano appassionatamente sebbene, in questo caso, non si parlasse di matrimonio. I lupi, immagino, sono più irregolari nelle loro questioni amorose. In ogni caso, visto che forse era l'unica lupa di tutta l'Inghilterra fuori degli zoo, non aveva bisogno delle garanzie di fedeltà che richiedeva Linda. Nel giugno dell'anno seguente, Ares divenne padre di quattro bei cuccioli. In settembre, Ares e Linda si sposarono. Durante il decennio e più che Ares aveva vagato nel Wiltshire come lupo, era riuscito a sfuggire all'attenzione dei suoi vicini umani, limitandosi a cacciare conigli, fagiani e altri animali di taglia piccola. Era stato visto è vero, ogni tanto, da lontano, da qualche vagabondo notturno, ma avevano sempre immaginato che fosse un cane randagio, visto che i lupi sono una merce rara nell'Inghilterra del Sud. La presenza di una famiglia di sei esemplari però, sfuggiva più difficil-
mente all'attenzione. Ares cacciava una notte al mese; la sua compagna invece doveva cacciare ogni notte, per sé e per i quattro cuccioli. Vennero scorti più frequentemente strani cani; i solitari ululati della sua compagna alla luna non piena divennero il soggetto di molte discussioni alla casa padronale, sebbene la faccenda non fosse mai riferita al guardacaccia. Spesso, dopo aver accompagnato Linda a casa da suo padre la sera tardi, Ares girava per i boschi alla ricerca della sua compagna lupa e dei quattro figli, ormai adolescenti (come crescevano in fretta!), che la seguivano per apprendere le regole della caccia e al contempo come fare a eludere i cacciatori. Per qualche oscuro istinto, la sua compagna aveva seguito l'esempio di Ares e non attaccava mai, né gli animali domestici delle fattorie vicine (pecore e pollame) né i cervi di Lord Edmond, ma i suoi figli, più pigri, o forse solo più affamati e sfortunati, svilupparono un appetito pronunciato per la carne di pecora. Ben presto i vicini di Ares cominciarono a parlare di lupi. «Lupi!», disse Ares con disprezzo. «Non ci sono lupi nel Wiltshire.» «Va bene, sono lupi!», convenne Ares tristemente quando gli furono portate le carcasse delle pecore. «Devi fare qualcosa, caro. Tutti ne parlano», gli consigliò Linda una sera, mentre la coppia si riposava sotto i miei rami. «Sì, presto», fu tutto quello che disse. La prima notte di luna piena, un gruppo di agguerriti contadini, ben forniti di fucili e di schioppi e guidati da Mr. Wheelwright, il nuovo suocero di Ares, si recarono al cottage del guardacaccia. Linda spiegò che suo marito era uscito per cacciare il lupo, e loro andarono nel bosco, a cercare Ares o, se potevano, il lupo. Nel frattempo, Ares si trovava con la sua compagna nel loro posto preferito per i convegni. Lei si lagnava come al solito, nel suo linguaggio, perché lui andava a trovarla così di rado, e lui cercava di persuaderla a parlare ai loro figli a proposito delle pecore. La calma della notte fu rotta d'un tratto dallo scoppio di un fucile. I due lupi drizzarono le orecchie. Dopo pochi istanti, i soggetti della loro conversazione emersero dalla riserva, scossi ma soddisfatti, e odoravano fin troppo palesemente di carne di pecora. I quattro giovani lupi salirono a grandi balzi la collina illuminata dalla luna per raggiungere i genitori. Ares non ebbe il tempo di rimproverarli: del resto, cominciava a sospettare che sarebbe stato inutile. I suoi figli erano selvaggi e indisciplinati, e non avevano mai rispettato il loro padre. Ma non ci fu tempo, perché immediata-
mente un altro scoppio lacerò l'aria notturna e lui avvertì un dolore acuto trafiggergli il fianco sinistro. Quando si leccò la ferita, scoprì che si era rimarginata. La pallottola aveva trapassato la carne senza lasciarvi nemmeno una cicatrice. Ci sono dei vantaggi nell'essere Lupi Mannari. I sei lupi si allontanarono in fretta dalla mia collina e si nascosero nel bosco buio. Udii molti altri spari quella notte, ma non vidi più Ares, sua moglie e i suoi figli, finché la caccia non finì in un completo fallimento. Il giorno dopo Ares si incontrò con Linda all'ombra del mio fogliame che, vista la stagione, mi stava abbandonando. Linda era di pessimo umore, e Ares era imbronciato. «Mio padre!», continuava a ripetere. «Mio padre! E tu dov'eri?» «Te l'ho detto: ero anch'io a caccia.» «Allora com'è che ho trovato il tuo fucile nella legnaia?» «È un vecchio fucile che non uso più.» «Forse ti aspetti che ci creda? Te lo dico io dov'eri. Eri con quella nuova cameriera del Red Robin Inn.» «...!» «Non parlare in questo modo a me, caro mio. Te ne pentirai! Il mio povero padre!» «Non si è fatto male.» «Non si è fatto male!», gridò lei. «Atterrato da un lupo, e non si è fatto male!» Ares sorrise. «È una storia credibile secondo te? Riempie un lupo di pallini da caccia tre cartucce ha detto - e il lupo gli salta addosso, lo atterra di spalle, e non fa nient'altro. Raccontane un'altra.» «Stai forse dicendo che mio padre è un bugiardo?» «Sto dicendo che forse è andato al Red Robin prima di cacciare. Cacciare non è una faccenda per i contadini, ad ogni modo.» «Be', allora faresti bene a occuparti delle tue faccende, altrimenti torno a vivere da mio padre, e questo è tutto.» «Te l'ho detto: andrò di nuovo a caccia stasera.» «Mio padre verrà con te.» «Maledizione a tuo padre!» «È anche tuo padre ora, perciò bada a come ne parli!» «...!» Linda scosse il capo fingendo di essere inorridita. In realtà, era abituata a quel linguaggio, grazie a suo padre.
Prima di terminare questo racconto con la sua tragica conclusione, mi piacerebbe sottolineare il comportamento di Ares che, sebbene dovrebbe essere ovvio, spero che il lettore abbia già rimarcato. Fino a quel punto Ares, sia come lupo sia come uomo, si era comportato nel più esemplare e inglese dei modi. Non aveva mai scorrazzato per i boschi in preda a furia omicida, come la maggior parte dei Lupi Mannari di cui si sente parlare. Aveva dato la caccia solo a quegli animali che gli era lecito cacciare come guardacaccia. Con l'eccezione di suo suocero, a cui del resto non aveva fatto alcun male, non aveva mai attaccato nessun essere umano. Era la società - la società degli uomini e la società dei lupi - che aveva originato quel dilemma apparentemente irrisolvibile: Ares l'uomo doveva dare la caccia alla famiglia di Ares il lupo. Sono sempre stata grata del fatto che, visto che sono - per così dire - radicata a un luogo, non ho mai sentito il bisogno di rapporti sociali. La mobilità (non si può dire la radice) è la fonte di molti mali. Quella sera allora, alla luce ancora intensa della luna, in compagnia di Wheelwright e di qualche altro contadino, Ares partì per la caccia al lupo. Di solito era allegro quando andava a caccia, ma quella sera aveva il volto tirato, i suoi passi erano lenti e il suo umore apatico. Wheelwright insisté che il gruppo salisse sulla collina da cui i lupi erano stati snidati la sera prima, e Ares non fu in grado di opporre nulla di sensato a quel piano. Lei aspettava lì: la sua compagna. Non è esatto dire che aspettava: era semplicemente una sua abitudine stare con me, desiderando di essere con lui. Si videro l'un l'altra nello stesso momento. Lei lo riconobbe. «Spara!», gridò Wheelwright. Lei gli si avvicinò con un'andatura tranquilla: diffidava degli altri, ma confidava nella presenza di lui, così come vi aveva confidato la sera prima, durante la caccia. Vidi una lacrima negli occhi di Ares quando alzò il fucile. Lei continuò ad avanzare. «Spara!» «No!», gridai io, ma lui non mi udì o, se lo fece, mi ignorò. Il fucile sparò. La sua mira era stata ottima, come sempre. Il corpo della lupa rimbalzò nell'aria e cadde a terra, senza vita. Ares si precipitò sul cadavere della sua compagna di un tempo, incurante degli avvertimenti del contadino e degli spari che rimbombavano in aria. Quando Ares lamentò il proprio dolore con una voce umana in cui l'elemento umano era appena riconoscibile, i cuccioli - ma non erano più cuccioli, erano quasi adulti - che avevano assistito a tutta la scena, si avventa-
rono contro l'assassino della loro madre, per niente rallentati dalla pioggia di pallottole e di pallini che li sferzava e passava attraverso i loro corpi senza lasciar traccia. Si avventarono contro Ares, e lo attaccarono, il primo alla gola, gli altri dovunque fosse possibile mordere. Dilaniarono la carne umana che li aveva generati, straziando quelle membra. I contadini erano fuggiti, e io sola rimasi a guardare la scena: i quattro giovani lupi che si allontanavano, i due corpi esanimi su cui spargevo foglie di pietà, e la luce della luna a illuminare il tutto. Perdonatemi se termino questa storia con una morale. Mi è stato detto che un buon racconto non ne ha bisogno, ma è la mia maniera antiquata di riflettere sulle mie esperienze e cercare i princìpi nella rozza materia della vita. Quando due nature coesistono nello stesso essere, la peggiore dominerà la migliore: è l'immutabile tragedia del Lupo Mannaro che distrugge la sua propria razza e, alla fine, ne sarà distrutto. AZUNA di Gianni Pilo Notti Di Luna Piena, 1987 1. Notte Buio Tenebre. D'improvviso, il profondo silenzio che avvolgeva la foresta di Saumur venne squarciato da un ululato lungo e minaccioso. All'ululato fece eco un rumore di passi in corsa e il secco crepitio di rami spezzati. Facendosi largo nel fitto sottobosco della foresta con la semplice forza del proprio corpo lanciato in una folle corsa, una ragazza cercava disperatamente di allontanarsi il più possibile dalla fonte di quel terrore primordiale che le attanagliava le viscere. Era alta, ben proporzionata, e una massa di capelli biondi le incorniciava il viso dall'ovale perfetto, dove due occhi verdi erano spalancati nel buio della notte alla ricerca spasmodica di una via di salvezza. Continuava a correre tra quell'intrico di arbusti e cespugli senza una meta precisa: aveva lasciato il sentiero familiare che era solita percorrere sin da quando era bambina, perché quell'ululato agghiacciante veniva proprio da quella direzione, un po' più avanti.
Spinta da un panico che non riusciva assolutamente a controllare, si era precipitata nella direzione opposta, col risultato che si era inoltrata nella foresta, e ora non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Sapeva solo che doveva correre, fuggire, allontanarsi il più possibile dall'essere che aveva emesso quell'ululato perché, ne era convinta, quell'ululato era destinato a lei, e significava una cosa sola: morte! Quella sera c'era stata una festa al villaggio, e lei vi si era recata con due sue amiche. Si era molto divertita, e la serata era poi diventata addirittura stupenda quando era arrivato Jacques, l'uomo che ormai da più di un anno costituiva il centro di tutti i suoi sogni. Non pensava davvero che l'avrebbe incontrato lì, dato che lo sapeva lontano, verso le brughiere del Nord, impegnato in una battuta di caccia: lui invece era tornato con qualche giorno di anticipo perché la battuta aveva sortito dei risultati eccezionali e, sia lui che i suoi compagni, erano tornati carichi di selvaggina. Non appena arrivato, si era recato a trovarla, poi, saputo a casa di lei della festa in paese, si era a sua volta diretto al villaggio, dove l'aveva trovata più bella e innamorata che mai, mentre gli occhi verdi che così ben conosceva brillavano come due stelle al vederlo farsi largo tra la calca dei festanti. Avevano ballato, riso, mangiato, e bevuto del fresco vino frizzante che le aveva fatto imporporare le gote ancor più del ballo e delle parole d'amore che lui le bisbigliava all'orecchio. Poi, verso la fine della serata, avevano lasciato gli altri e si erano inoltrati nella foresta, dove avevano trovato un angolo quieto e riparato nel quale avevano potuto dar sfogo al desiderio represso in giorni e giorni di lontananza. Tra i baci e le carezze il tempo era letteralmente volato via e, quando la luna piena aveva cominciato la sua parabola discendente nel cielo che si intravvedeva tra le cime degli alti pini, lei si era alzata a sedere poi, mentre Jacques continuava a baciarle il collo e le orecchie, si era rivestita per far ritorno a casa. Arrivati sul sentiero, dopo un ennesimo bacio, si erano separati: l'uomo si era diretto verso il villaggio e la sua casa situata nella pianura a Sud, lei invece si era inoltrata nella foresta felice e soddisfatta. Erano già diversi minuti che stava camminando da quando aveva lasciato Jacques, quando si era accorta di qualcosa di strano: riscossasi dalle sue fantasticherie, si rese conto che ciò che l'aveva colpita era l'assoluta mancanza di rumori nella foresta. Tutti i mille piccoli fruscii causati dagli animali, lo stormire stesso delle fronde mosse dal vento, tacevano: un silenzio
innaturale era calato nella foresta, e per lei, che nella foresta era sempre vissuta e la conosceva a fondo, tutto questo era molto strano. La foresta non le aveva mai fatto paura anzi, le era sempre stata amica, e lei aveva imparato a conoscerne le mille sfaccettature, gli anfratti, i giochi di luce tra i rami degli alberi, i riflessi delle gocce d'acqua sulle foglie, l'odore del muschio e dell'erba bagnata dalla rugiada. Ora, invece, per la prima volta in vita sua, la sentiva ostile, chiusa, fredda e distante, come una fredda spettatrice di un evento ineluttabile. D'improvviso, le erano tornate alla mente delle antiche leggende alle quali, per la verità, non aveva mai fatto molto caso, e quello che, in una lontana sera d'inverno di quando aveva cinque anni, aveva afferrato tra le frasi smozzicate che sussurrava la vecchissima bisnonna seduta accanto al camino nella grande stanza della sua casa natale. Mentre i ciocchi di legno scoppiettavano allegramente facendo sprizzare qua e là delle scintille infuocate, il viso incartapecorito della vecchia si era mosso, e dalle labbra raggrinzite erano cominciati a uscire dei flebili sussurri che, quando la bambina aveva prestato maggiormente attenzione, si erano tramutati in parole, anche se deboli e smozzicate. «La notte tacerà... non vi sarà né lo stormir delle fronde, né lo sciacquio dell'acqua... non un volo d'uccello o il gracidar di una rana... ogni animale fuggirà nel profondo della sua tana, e poi... quando il silenzio sarà perfetto, un ululato si alzerà alla luna piena... e sangue caldo scorrerà nelle vene del Signore dei Lupi...» Poi si era zittita e gli occhi, sino a quel momento vivi nel ricordo di qualcosa di udito o di vissuto, erano nuovamente tornati opachi e persi in un limbo distante dalla realtà e da tutto ciò che era terreno. Né avevano avuto risposta alcuna le domande che la bimba le aveva rivolto, così come non avevano avuto miglior fortuna le scosse che aveva dato al braccio della vecchia per cercare di scuoterla dalla sua apatia. Più tardi, quella notte stessa, la donna era morta proprio lì, su quella sedia accanto al fuoco; per cui, davanti alla maestà della morte che la bambina vedeva per la prima volta, tutto il resto era passato in second'ordine e, tra questo, anche quelle strane parole che poi si erano nascoste nel più profondo della sua memoria. Ma ora le erano d'improvviso balzate alla mente: la luna piena... Temendo che avrebbe visto quello che già sapeva, alzò gli occhi in alto, e in un cielo totalmente privo di nuvole, vide ingigantirsi la luna, bianca, spettrale, enorme in tutta la sua interezza. Non l'aveva mai vista così grande, o forse
non ci aveva mai fatto caso. Come tutto, quella notte, le appariva diverso, distante, nemico! Anche la luna, compagna di tanti suoi incontri felici con l'uomo che amava, amica fedele di tante sue escursioni notturne, confidente riservata e comprensiva delle sue gioie e delle sue pene d'amore, ora la spiava implacabile tra l'intrico dei rami degli alberi, mentre, contemporaneamente, vedeva le mosse della bestia che la stava sicuramente inseguendo. Sembrava quasi che provasse una gioia maligna nell'illuminare ogni più piccolo posto, incuneandosi tra i rami e le foglie, per non offrire alcun rifugio alla preda designata. La ragazza aveva il vestito a brandelli, i piedi le sanguinavano abbondantemente per i mille piccoli tagli che si era prodotta da quando aveva perso gli zoccoli, il sangue le ronzava nelle orecchie, ma continuava tuttavia nella sua folle corsa, urtando alberi e arbusti e continuando a procurarsi ferite ed escoriazioni alle braccia, alle mani e a tutto il corpo. Non aveva mai provato una paura simile in tutta la sua vita. L'adrenalina le scorreva nelle vene dandole una forza ed una resistenza insospettate: non provava stanchezza per quello sforzo prolungato al quale era sottoposta, non aveva tempo né modo di pensarci... D'improvviso, la foresta le si aprì davanti in una radura. La riconobbe: erano i campi che circondavano la sua casa. Senza rendersene conto, era riuscita a trovare istintivamente la via che l'avrebbe condotta alla salvezza. Si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Tutta la stanchezza accumulata nella corsa in mezzo alla foresta si riversò su di lei: cadde in ginocchio... Due occhi rossi come la brace spiavano tra gli alberi la figura che stava uscendo dalla foresta. L'avevano seguita, ombra tra le ombre, attendendo il momento opportuno nel quale la vittima non avrebbe più avuto scampo, pregustando in anticipo il dolce sapore del sangue caldo che avrebbe rinnovato l'antica linfa... Ecco, il momento era giunto: lasciato il relativo riparo della foresta, la vittima si trovava ormai allo scoperto e alla sua mercé. Lanciando alla luna un ululato di trionfo, l'essere balzò fuori dagli alberi e si avventò sulla vittima... La donna sentì l'ululato, e una nube nera l'avvolse facendola precipitare in un buio misericordioso. Mentre cadeva all'indietro, si sorprese a ripercorrere con la mente tante piccole cose della sua vita passata... Le sembrò impossibile poter rivivere in un attimo tanti anni ma, in un ultimo barlume
di coscienza, si rese conto che era vero ciò che la gente affermava, quando diceva che negli ultimi istanti di vita si era in grado di riviverla tutta. Poi sprofondò nell'oblio... Un urlo di terrore fece eco all'ululato, ma si spense subito in un gorgoglio, quando due poderose mascelle si chiusero sulla gola, tranciandone la carotide e facendone uscire in spruzzi di sangue l'essenza vitale di quella che, fino a pochi istanti prima, era stata una persona piena di gioia di vivere. L'essere accovacciato bevve avidamente il sangue caldo poi, lanciato alla luna un ultimo ululato, si alzò dal corpo della sua vittima e, a grandi balzi, si diresse verso la foresta venendone presto inghiottito... Un soffio di vento fresco passò sul viso della ragazza stesa a terra, che si agitò e poi, d'un tratto, aprì gli occhi. Vide il cielo terso e la luna, bianca, grande... tranquilla. Così come prima si era accorta dell'incombere di un pericolo, ora si rese conto che la notte era tornata quieta, normale. La casa che si delineava a poche centinaia di metri da dove si trovava stesa per terra, i campi che la circondavano, la foresta tutt'intorno, non presentavano nulla di tenebroso, di agghiacciante. Un gufo spiccò un breve volo dal ramo di un pino dove era appollaiato fino a un cespuglio, dal quale si alzò subito tenendo tra gli artigli un topo che aveva afferrato: si sorprese a darsi della stupida per il folle terrore che aveva provato e che le aveva causato una notevole quantità di graffi e di lividi. Eppure, nonostante il sollievo e la sicurezza che provava in quel momento, non riusciva a togliersi dalla mente l'idea di essere stata partecipe di qualcosa di strano, addirittura di soprannaturale. Comunque, ricacciato a fatica in fondo alla mente questo pensiero molesto, si alzò in piedi e, zoppicando, si avviò verso casa. 2. Henry, quarto Conte di Chambord, si svegliò con la mente annebbiata e un senso di stanchezza per tutto il corpo. Erano trascorsi solo tre mesi da quando aveva fatto ritorno dalla Terrasanta e, in quegli ultimi giorni, non riusciva a rendersi conto di cosa gli stesse succedendo. Aveva persino pensato di aver contratto qualche malattia durante il suo soggiorno in Palestina, ma il suo cerusico, dopo averlo accuratamente visitato, gli aveva detto che godeva ottima salute e che non c'era assolutamente niente che non an-
dasse nel suo fisico. La Palestina... Un sorriso malinconico gli si dipinse sul volto al pensiero dei lunghi anni trascorsi laggiù. Aveva solo diciotto anni nel 1095 allorquando, a Clermont, aveva udito Papa Urbano pronunciare un accorato appello per una crociata in Terrasanta che strappasse Gerusalemme agli infedeli e la restituisse al culto e alla venerazione dei cristiani. Le parole del Papa avevano fatto vibrare delle corde nel profondo della sua anima, ma era trascorso ancora un anno prima che, insieme al fratello maggiore Roland, potesse lasciare la nativa Chambord per unirsi a Roberto Courteheuse e Stefano di Blois in partenza per Costantinopoli e di lì per la Palestina. Da quella limpida mattina di primavera in cui aveva salutato il vecchio Conte suo padre, la madre e le sorelle, erano trascorsi ben sette anni. Quante cose erano successe da allora! Cose liete e tristi, così com'è nell'ordine naturale della vita. Prima di tutto le campagne militari. Ricordava con piacere come i primi tre anni fossero stati un continuo susseguirsi di trionfi: nel '97 la presa di Edessa, nel '98 quella di Antiochia della quale era stato proclamato Principe il suo amico e maestro Boemondo, e infine il 1099, che aveva costituito il coronamento dei desideri di tutta la Cristianità con la presa della Città Santa, Gerusalemme. Purtroppo, le guerre portano imparzialmente lutti e rovine a entrambe le parti in lotta, e così anche Henry aveva dovuto veder morire molti suoi amici; poi, il giorno prima della caduta di Gerusalemme - ricordava benissimo: era il 14 di Luglio - suo fratello Roland era morto, trafitto da una freccia scagliatagli nella schiena da un arciere circasso. Tre giorni dopo, a Chambord, il vecchio Conte si spegneva serenamente nel suo letto e, anche se ancora non lo sapeva, Henry era diventato Signore del castello e di quelle terre. Gli anni successivi, passata l'euforia della presa di Gerusalemme, erano trascorsi in tutta una serie di piccole battaglie di consolidamento, e nell'approntamento di fortezze e presidi armati. Poi, un giorno, era arrivato uno scudiero dalla lontana Francia che gli recava la notizia della morte del padre e il conseguente diritto al titolo per cui, considerato anche come in Palestina non ci fosse più niente che lo trattenesse, si era posto in viaggio alla volta della terra natale, dove era giunto nell'anno 1102, tre mesi appunto prima di quella mattina. Nei primi tempi del suo ritorno tutto era andato bene. Aveva gioito nel
rivedere i luoghi della sua fanciullezza, e si era trovato circondato dall'affetto della sua famiglia e dalla stima e dal rispetto della sua gente. Poi, d'un tratto, aveva cominciato a provare delle curiose sensazioni. Senza alcun preavviso, di giorno o di notte, gli balenavano alla mente degli squarci di vita e di paesaggi assolutamente diversi da tutti quelli che aveva conosciuto. In un primo momento aveva pensato che si trattasse di persone e luoghi che aveva visto durante i suoi viaggi in Grecia, in Persia o in Palestina, ma quasi subito dovette convenire che erano troppo diversi da tutto ciò che gli era noto o familiare. Le città, le persone, i vestiti che queste indossavano, oltrepassavano di gran lunga la fantasia più sbrigliata e, francamente, avrebbe avuto non poche difficoltà a spiegare a parole quello che gli passava per la mente. E poi c'erano quegli uomini incappucciati... Sì: tra la folla di persone che costellavano queste sue visioni, di tanto in tanto apparivano degli uomini e delle donne la cui testa era ricoperta da un cappuccio di velluto nero che scendeva fin sulle spalle e che recava due soli fori per gli occhi. La loro presenza suscitava negli altri un misto di deferenza e di timore, dato che abbassavano il capo e si facevano subito di lato, quando non cercavano di allontanarsi il più in fretta possibile. Henry, alla vista di quelle persone incappucciate, provava uno strano miscuglio di sentimenti che non riusciva a definire. Prima di ogni altra cosa, nonostante questo cozzasse contro il normale buonsenso, gli sembrava che non gli fossero del tutto estranei, ma che avessero un qualcosa di familiare che non riusciva a individuare. Anzi, gli sembrava addirittura di provare una vena di sottile malinconia, come il rimpianto di cose da lungo tempo amate e poi perdute. Quegli esseri inoltre, denotavano un portamento e dei modi propri di gente di alto lignaggio ma, una volta che uno di loro nel passare rivolse il viso dalla sua parte, provò un brivido di terrore nel guardare gli occhi che, da sotto il cappuccio nero, scintillavano come due tizzoni d'inferno. E che di esseri infernali si trattasse, era un'ipotesi da non scartare, soprattutto poi da quando il cerusico gli aveva garantito la perfetta funzionalità del suo apparato fisico. Scartata infatti la possibilità che quelle visioni gli provenissero da deliri febbrili, rimaneva quella che gli fossero inviate dal Maligno per qualche scopo recondito che comunque doveva avere come obiettivo finale la dannazione della sua anima. Aveva allora cominciato una serie di ritiri spirituali nella cappella di fa-
miglia, e ai ritiri avevano fatto seguito digiuni e mortificazioni della carne, col risultato però che le visioni, non solo continuavano, ma assumevano via via dei contorni sempre più netti e... familiari. Comunque, anche in considerazione del fatto che, alla fin fine, non presentavano alcunché di empio o di blasfemo, ma solo delle stranezze e delle diversità dai modi di vita che gli erano usuali, aveva imparato a convivere con loro e anzi, ultimamente, si scopriva a voler indagare più a fondo in quelle scene di vita singolare che gli si presentavano alla mente con sempre maggior frequenza. Ma quella mattina c'era qualcosa di diverso: sì, di molto diverso e preoccupante. La notte, infatti, aveva fatto un sogno spaventoso, che la mattina, al suo risveglio, lo aveva lasciato madido di sudore per lo spavento e totalmente spossato. Invece dei soliti paesaggi strani che era ormai abituato a vedere nelle sue visioni, quella notte aveva sognato di aggirarsi nella foresta che si trovava a nord del castello. Si sentiva stranamente pieno di forze, e riusciva a percepire nel fondo della foresta cose di cui non si era mai accorto prima. Gli sembrava che l'udito gli si fosse acuito enormemente, dato che era in grado di sentire tutta una serie di rumori appena percettibili, quali il muoversi delle zampe degli animali sulle foglie del manto boschivo, o lo scricchiolio della corteccia degli alberi che si contraeva per il freddo notturno. Ma se l'udito gli si era acuito, l'olfatto era diventato semplicemente prodigioso. Infatti era in grado di percepire tutta una serie di odori che non aveva mai pensato potessero esistere; sentiva il profumo dell'erba e del muschio, la fragranza dei fiori e quella degli alberi ma, soprattutto, era in grado di distinguere l'usta di diversi tipi di animali. Si sentiva parte integrante della foresta, vivo e felice come non mai, e provava l'impulso di esternare questa felicità correndo tra gli alberi e rotolandosi nell'erba. Mentre correva, il vento gli accarezzava il corpo dandogli una sensazione di benessere: giunto sulla riva di un ruscello, si era dissetato abbondantemente, bevendo l'acqua gelida con sorsate lunghe e profonde. D'un tratto si era reso conto che, intorno a lui, l'atmosfera era mutata: percepiva uno stato di paura che era tangibile in tutti i mille abitanti della foresta. Al suo approssimarsi, gli animali si rintanavano nelle loro tane, e i rapaci notturni si immobilizzavano sui rami degli alberi dove si trovavano: solo i loro grandi occhi immobili testimoniavano la loro presenza in quei luoghi.
Stupito da questo stato di cose, aveva acuito i sensi per cercare di rendersi conto del motivo di un simile comportamento e allora, con somma sorpresa, aveva capito di essere in grado di percepire telepaticamente le sensazioni dei vari animali. E non solo di quelli: infatti, proiettando la sua mente più lontano, era stato in grado di captare i pensieri di un uomo e di una donna che stavano facendo l'amore su un prato. Ma, unitamente ai pensieri della coppia, una bramosia accecante gli aveva invaso la mente e il corpo. Una nebbia rossa gli aveva offuscato la vista e lo aveva fatto barcollare per un attimo: aveva sete di sangue, sangue umano. Lo sentiva scendere dolce e caldo lungo la gola e, senza sapere il perché, si era reso conto che gli era assolutamente necessario per la sua sopravvivenza. Ogni altra cosa era scomparsa dalla sua mente; ora non c'era posto se non per la sete di sangue che lo ottenebrava, e che doveva soddisfare al più presto. Da allegra e spensierata, la sua corsa nella foresta si era fatta guardinga e silenziosa: era in caccia, e doveva raggiungere la sua preda. Mentre si stava avvicinando, aveva percepito che i due avevano terminato il loro amplesso e avevano lasciato il loro giaciglio d'amore: bene, perlomeno sarebbero morti felici. D'un tratto però, si era accorto che i due si erano divisi: l'uomo si stava allontanando, mentre la donna si stava avvicinando lungo il sentiero a fianco del quale lui stava scendendo. Aveva continuato a camminare nell'ombra degli alberi, e quando si era accorto di essere giunto abbastanza vicino alla donna, si era acquattato per assalirla. Lei stava procedendo tranquilla e felice, e fra poco sarebbe stata alla sua portata. Improvvisamente però aveva cambiato idea: il sangue dell'uomo era sicuramente più forte e vigoroso, e lui sapeva di avere un estremo bisogno di sangue forte. Gli serviva per... per... Niente, non riusciva a ricordare. Aveva emesso un alto ululato e si era lanciato di corsa sulle tracce dell'uomo che intanto si era notevolmente allontanato. Nel passarle accanto a non più di una decina di metri, si era accorto del terrore folle che aveva causato nella donna il suo grido d'esultanza. Si era infatti messa a correre a perdifiato, e si era inoltrata nel profondo della foresta abbandonando il sentiero: come se questo avrebbe potuto salvarla, se lui avesse deciso di prenderla! Doveva ringraziare la luna... Ma perché gli era venuta in mente in quel momento, la luna? Cosa c'entrava con la sua caccia? E soprattutto, perché la ragazza avrebbe dovuto ringraziare proprio la luna? Aveva comunque lasciato perdere quegli strani pensieri, e si era dedicato
completamente alla sua preda. Aveva raggiunto l'uomo quando questi era appena uscito dalla foresta e, con un feroce grido di gioia, si era precipitato su di lui. Aveva avuto per un attimo la visione di due occhi terrorizzati che lo guardavano, poi era piombato sulla sua vittima e i suoi denti si erano chiusi su quella gola, che si era squarciata facendo uscire degli spruzzi di sangue che gli avevano bagnato il volto e il petto. Si era chinato sull'uomo e ne aveva bevuto avidamente il sangue, sentendo che una nuova forza gli si spandeva in tutto il corpo: gli era sembrato di essere rinato a nuova vita. Quindi si era rialzato e, con una corsa leggera, aveva guadagnato nuovamente la foresta perdendosi rapidamente al suo interno. Ripercorrendo all'inverso la strada che aveva fatto per giungere sin lì, era arrivato al ruscello dove si era fermato a bere e, sentendosi sporco di sangue, si era chinato sull'acqua per lavarsi. La luna piena rifletteva i suoi raggi sul corso d'acqua rendendolo simile a uno specchio, e nel chinarsi aveva avuto modo di vedere la propria immagine riflessa. Aveva provato un moto istintivo di terrore e di raccapriccio, e aveva fatto un balzo all'indietro. Poi si era riavvicinato e aveva visto che l'acqua gli rimandava un'immagine a dir poco spaventosa. Il suo viso era quello di un lupo, un grosso lupo nero, e una folta criniera gli partiva dalla sommità della testa per scendergli lungo le guance e sul collo. Gli occhi, rossi, brillavano nella notte e pareva che mandassero lampi. I denti, lunghi e acuminati, erano digrignati in un ghigno feroce, mentre la lingua gli penzolava dalla bocca, umida di sangue. Dal collo ai piedi invece, il corpo era abbastanza normale: forse un po' più muscoloso e con un maggior numero di peli. Lui però era sempre stato abbastanza villoso, quindi quest'ultima caratteristica non lo meravigliava troppo: no, quello che lo colpiva invece, erano le mani, deformate ad artiglio, piene di peli sui dorsi, e con delle lunghe unghie ricurve. Terrorizzato per quanto aveva visto, aveva voltato le spalle al corso d'acqua e, di corsa, aveva fatto ritorno al castello. Giunto nella sua camera, si era gettato sul letto dove, quasi immediatamente, un sonno profondo gli aveva sgombrato la mente da quei terribili eventi. Per fortuna era stato solo un sogno! Non riusciva tuttavia a cancellare quell'impressione di aver veramente vissuto quanto aveva sognato. Se ora le sue visioni cominciavano ad assumere quei contorni raccapriccianti, la faccenda si faceva veramente seria: era più che mai probabile che dietro a
tutto ciò si celasse un qualche spaventoso disegno delle Forze del Male, e questo andava stroncato al più presto. Dopo aver riflettuto a lungo, decise che si sarebbe recato dal Vescovo di Amiens, col quale aveva diviso molti dei giorni trascorsi in Terrasanta, e gli avrebbe raccontato quanto gli stava succedendo: sicuramente lui avrebbe saputo come porre fine a quelle visioni, magari con un esorcismo. Tranquillizzato per la decisione presa, decise di concedersi una robusta colazione: a stomaco pieno, i fantasmi della notte venivano fugati più facilmente... Mentre si avviava verso la grande sala a pianterreno del castello, si accorse che la servitù era assai agitata: qua e là sostavano gruppetti di due o tre persone che parlavano animatamente a bassa voce tra loro ma, non appena lui arrivava vicino, tacevano immediatamente chinandosi con deferenza in segno d'omaggio, per poi riprendere subito il discorso interrotto non appena lui era passato. Stupito da quel singolare comportamento, chiese al suo scudiero che nel frattempo lo aveva raggiunto: «Dimmi, Fernand, cos'è tutta questa agitazione stamattina? È accaduto qualcosa d'importante, o forse c'è qualche donna della servitù che vuole sposarsi?». «Mio Signore», rispose quello, «questa notte si è verificato un fatto orribile. Un cacciatore del villaggio, un certo Jacques, che aveva appena fatto ritorno da una battuta di caccia, è stato trovato ucciso al limitare della foresta...» «Jacques?», fece eco Henry. «Ma non è il promesso sposo di quella bella ragazza bionda... come si chiama... ah, Gloria? E mi dici che è stato ucciso: ma chi mai può essere stato? Aveva forse dei nemici? Qualche rivale in amore?» «No, mio Signore. Non è stato un uomo a ucciderlo: qualche belva deve averlo sorpreso mentre faceva ritorno a casa. Infatti è stato ritrovato dilaniato in maniera orribile, e ha la gola squarciata. Intorno a lui c'è un vero e proprio lago di sangue, e non si riesce a capire...» Ma le ultime parole non raggiunsero più l'interlocutore perché Henry, Conte di Chambord, aveva improvvisamente voltato le spalle al suo scudiero e, con il viso stravolto, si era precipitato fuori in giardino. 3. Col cervello in fiamme, si era fermato in un angolo del giardino delimi-
tato da alti cespugli di rose che lo chiudevano da tre lati, lasciando libero il quarto delimitato da un parapetto affacciato su una parete che cadeva a strapiombo per circa duecento metri sino alla vallata sottostante. Era arrivato lì istintivamente: quello infatti era il suo posto preferito sin da bambino, e ricordava ancora quando, una volta, suo padre - aveva solo sei anni - gli aveva gridato di stare attento, perché lo aveva visto in piedi sul parapetto. L'urlo del padre lo aveva colto alla sprovvista e, spaventato, aveva barcollato e sarebbe certamente caduto, se il fratello Roland, che per caso si trovava a passare lì vicino, non avesse fatto un balzo riuscendo a tirarlo giù quando aveva già perso l'equilibrio. Rammentava perfettamente il sollievo e la gioia del padre quando lo aveva raggiunto e se lo era stretto forte al petto accarezzandogli i capelli, e poi gli scapaccioni che ne erano seguiti, uniti al divieto assoluto di non far mai più ritorno da solo in quel luogo. Ovviamente, come tutti i bambini, si era ben guardato dall'obbedire all'ordine del genitore, e aveva continuato a recarsi lì: soltanto, non era più salito sul davanzale di granito e, prima di recarvicisi, faceva sempre molta attenzione che nei paraggi non ci fossero né il padre né la madre. Il fratello e le sorelle invece, erano a conoscenza di queste sue scappatelle, comunque lo proteggevano in nome di quell'omertà che è caratteristica tra i bambini di tutto il mondo nei confronti degli adulti. E il posto, effettivamente ne valeva la pena. Le siepi di rose - fatta eccezione per il piccolo passaggio dal quale si entrava - isolavano quell'angolo da tutto il resto del castello. Dal lato aperto poi, la vista era davvero superba: in pratica, lo sguardo spaziava su tutta la vallata sino alle alte colline che si ergevano dopo la foresta, e le case e la gente nei campi si distinguevano nettamente, così come le barche che passavano sul fiume che attraversava la foresta e tutta la valle. Mentre lasciava che i ricordi gli lenissero il tumulto che si agitava nella sua mente, a un tratto si accorse di un filo di fumo che saliva dalla parte più interna della foresta. Ritornato alla realtà che lo circondava, si ricordò che doveva trattarsi della capanna della vecchia Azuna, una donna molto in là con gli anni - nessuno infatti era in grado di dire esattamente da quanto tempo dimorasse nella foresta di Saumur - e in odore di stregoneria. Per la verità, non erano mai esistite prove certe di suoi rapporti con Belzebù, né si erano mai verificate nella Contea stregonerie di sorta, comunque era diceria comune che la vecchia sapesse prevedere il futuro, e che fosse in grado di fare e disfare incantesimi. Il genere di vita poi che condu-
ceva - del tutto isolata e priva di qualsiasi amicizia - contribuiva a creare intorno a lei quell'aura di mistero che era di facile presa sulla gente del luogo. Senza sapere per quale strano impulso, Henry di Chambord si trovò a pensare che era opportuno si recasse dalla vecchia Azuna per venire a capo di quel mistero; d'altro canto, ormai, l'idea di andare dal Vescovo di Amiens era del tutto da scartare. Come avrebbe potuto infatti andargli a raccontare che si era macchiato del sangue di un innocente? Una cosa erano le visioni che aveva avuto, ma tutt'altra cosa la follia omicida che lo aveva assalito quella notte. Nessuno avrebbe mai potuto comprendere - né tantomeno perdonare - l'orrendo delitto di cui si era macchiato. Distolto lo sguardo dal panorama che si stendeva sotto i suoi occhi, fece ritorno sui suoi passi ed entrò nel castello. Senza fermarsi a mangiare nel salone dove lo stavano aspettando la madre e le sorelle, si avviò rapidamente alla volta delle scuderie dove, una volta giunto, fece sellare il suo cavallo. Montato in sella, si allontanò al galoppo, senza dire ad alcuno dove si stava recando. Dopo alcuni minuti di galoppo serrato, arrivò sul limitare della foresta e qui, messo il cavallo al passo, si inoltrò tra gli alberi, venendo presto inghiottito dalla fresca ombra che regnava nel bosco. Ripercorrere quei sentieri della foresta che gli erano noti sin dall'infanzia, questa volta costituì per lui un vero e proprio supplizio: non riusciva infatti a cancellare dalla mente gli eventi di quella notte che ora, alla luce del giorno, lo riempivano di disgusto e di terrore. Immerso in questi tristi pensieri, non si accorse del trascorrere del tempo, fin quando non vide delinearsi tra gli alberi una misera casetta dal cui comignolo usciva quel fumo che aveva attirato la sua attenzione quando si trovava nel giardino del castello. Dato uno strattone alle briglie, fece fermare il cavallo che legò a un albero, poi, a piedi, si diresse verso l'ingresso della capanna. Spinta una porta di legno che rivelava ampiamente le ingiurie del tempo e degli elementi, aguzzò lo sguardo per riuscire a vedere nella penombra dell'interno, rischiarato unicamente dal fuoco che ardeva nel camino. L'ambiente era costituito da un unico stanzone: in un angolo, per terra, vi era un lurido pagliericcio coperto di stracci multicolori, che non si poteva assolutamente definire un letto. Sotto all'unica finestra che si apriva sulla parete opposta a quella dove si trovava la porta, vi era un tavolo di rustiche assi di legno inchiodate malamente l'una vicina all'altra, con degli ampi
spazi tra le connessioni e di differente spessore, il che impediva di poter disporre di un piano uniforme di appoggio. Uno sgabello a tre gambe era situato sotto al tavolo, mentre una sorta di cantonale appoggiato alla parete sulla quale si trovava il camino, costituiva l'unico pezzo di mobilio con una qualche pretesa di normalità. Scodelle e tazze scheggiate di diversa foggia e grandezza erano sparse sul tavolo e sull'acquaio in pietra, mentre diversi vasetti pieni di sostanze dal colore e qualità tra i più eterogenei, occupavano la quasi totalità del coperchio del cantonale. Infine, diversi orci erano appoggiati tutt'intorno alle pareti, alle quali erano appese con dei chiodi collane d'aglio e di erbe secche. Su una sedia dallo schienale inconsuetamente alto, posta a lato del camino, stava Azuna, il cui sguardo in quel momento era rivolto all'uomo che si stagliava nel vano della porta. La donna era vecchia, molto vecchia, e le rughe che le ricoprivano il viso e il dorso delle mani, la facevano assomigliare a una mummia rinsecchita. Non si riusciva a percepire alcun movimento sotto quella pelle incartapecorita, e si sarebbe detto che fosse morta, se non fosse stato per gli occhi. Questi contrastavano stranamente con tutto il resto del corpo. Erano neri e profondi, vivi, ma, soprattutto, erano occhi giovani. E la loro singolarità non finiva qui: denotavano infatti una saggezza e una conoscenza di cose nascoste, molto aldilà del normale per cui, guardandoli, ci si sentiva come in presenza di un essere superiore. Henry rimase fermo a fissarla, e si riscosse solo quando la donna, con voce bassa e cantilenante gli disse, mentre le labbra le si muovevano appena: «Entra, mio Signore. Devi avere un motivo ben grave, se ti sei degnato di venire sino alla misera casa della vecchia Azuna. Un prode guerriero come te non può certo aver paura di una povera vecchia. Entra dunque, e siediti qui vicino a me: potrai così espormi con comodo il motivo della tua visita». Così dicendo, indicò con un dito scheletrico lo sgabello sotto al tavolo che, dopo un attimo d'indecisione, Henry prese, andandosi poi a sedere dall'altro lato del fuoco di fronte alla vecchia. Quindi, come se le parole gli uscissero dalla bocca da sole, iniziò a narrare delle sue visioni per arrivare in ultimo a quanto gli era occorso quella notte. Azuna ascoltava in silenzio, e mai una volta interruppe il racconto del giovane Conte, che si protrasse sino alle prime ombre della sera. Quando l'uomo ebbe finito, la vecchia rimase per un momento in silenzio, poi dis-
se: «E quindi tu vuoi sapere... Mi sembra giusto. D'altro canto anche io percepisco qualcosa che non mi è molto chiara... Qualcosa di molto antico, che si perde nella notte dei tempi... Qualcosa che non è di questo nostro mondo...». Quindi, terminato questo monologo tra sé e sé, si rivolse al Conte e proseguì: «È necessario però che prendiamo qualche precauzione. Vedi, Signore, tu vuoi sapere, e io... io voglio restare viva. Anche se ti può sembrare strano, sono parecchio affezionata a questa vecchia carcassa, e mi dispiacerebbe molto dover porre fine ai miei giorni ora... Ci sono ancora tante cose che devo conoscere... Ma via, bando alle ciance e muoviamoci. Ora, mio Signore, usciremo fuori di qui, e dovrai permettermi di legarti a un albero...». E a questo punto, prevenendo un moto di ribellione dell'uomo, aggiunse: «Credimi, non c'è altro modo. Anche così il rischio che corro è grande, ma... se non vuoi, lasciamo le cose come stanno e fa' pure ritorno al tuo castello. Vedrai però che domani, o al massimo doman l'altro, sarai di nuovo qui, e il tuo fardello si sarà appesantito ancora di più...». «Va bene, vecchia», la interruppe con un cenno della mano Henry. «Legami pure e fa' ciò che devi fare per venire a capo di questo mistero. Solo, ti avverto, bada di non giocarmi qualche scherzo, perché, in questo caso, non vivrai abbastanza per poterne gioire.» Detto questo, si alzò e precedette la donna fuori dalla capanna, fermandosi nel piccolo spiazzo antistante. Dato uno sguardo intorno, si avvicinò a un grosso pino che si ergeva un po' discosto dagli altri alberi della foresta e, con fare ironico, chiese: «Ti va bene questo? Pensi che sia abbastanza robusto?». Azuna, che lo aveva seguito con una grossa fune che aveva raccolto da terra vicino alla porta, esaminò con cura l'albero poi, con estrema serietà, rispose: «Sì, ritengo che possa andare bene. Ora, mio Signore, se vuoi, puoi sederti per terra, e poi provvederò a legarti. Penso infatti che ti stancherai meno se sarai seduto, dato che sicuramente ci vorrà parecchio tempo per venire a capo di quanto vogliamo sapere». «Va bene così?», chiese Henry sedendosi per terra e poggiando la schiena al tronco dell'albero. «Voglio solo sperare di non dover trascorrere troppo tempo qui legato, anche perché non ho ancora provveduto a fare testamento...», soggiunse con una vena ironica e amara. Azuna, lentamente ma con diligenza, lo legò all'albero non lasciandogli alcuna possibilità di movimento, quindi si portò nuovamente all'interno
della capanna, dalla quale uscì dopo un po' di tempo recando una scodella per metà colma di un liquido verdastro e fumante che pose per terra accanto a sé. Si era infatti seduta, e ora guardava l'uomo legato di fronte a lei in paziente attesa. Non dovette attendere molto tempo. Infatti, non appena la luna piena fece la sua comparsa nel cielo, una pesante sonnolenza iniziò a diffondersi nelle membra di Henry: prima che fosse completamente addormentato, la vecchia gli mise la scodella tra le labbra e lo costrinse a berne il contenuto, che era ormai diventato appena tiepido ed era di un sapore vagamente dolciastro ma non sgradevole. Pochi istanti dopo, l'uomo era completamente addormentato. Trascorsi una decina di minuti, Henry cominciò ad agitarsi, prima lentamente, poi con sempre maggior vigore, ed ecco che, a un certo punto, ebbe inizio il mutamento. I lineamenti del viso cominciarono a raggrinzirsi e ad allungarsi, mentre una fitta peluria iniziò a espanderglisi sulle guance, sul collo e sulle mani. Contemporaneamente, i muscoli di tutto il corpo si ingrossarono e, mentre le dita si piegavano ad artiglio, le unghie crebbero rapidamente, rivelandosi ben presto assai aguzze. Nel breve volgere di pochi istanti il cambiamento fu completo, e la vecchia Azuna ebbe modo di vedere legato all'albero di fronte a lei, quell'essere mostruoso, metà uomo e metà lupo, che la notte precedente aveva ucciso il povero cacciatore colpevole solo d'aver troppo amato. Terminato il cambiamento, l'essere aprì gli occhi che sino a quel momento erano rimasti chiusi, e Azuna si sentì percorrere da un brivido di terrore nello scoprire in fondo a quei due tizzoni ardenti una bestiale brama di sangue. Era ferocia allo stato puro, brama di uccidere, e, quando colui che era arrivato lì come il Signore di Chambord ebbe messo a fuoco la figura della vecchia seduta di fronte a lui, con uno sforzo sovrumano cercò di spezzare la fune che lo teneva avvinto per potersi gettare su di lei. Ma, nonostante i muscoli delle braccia e del collo gli si inturgidissero per lo sforzo, la fune non cedette, per cui si lasciò andare contro il tronco dell'albero ringhiando sordamente. La vecchia lo lasciò ansimare ancora per un po' poi, quando vide che si era reso conto che ogni sforzo per liberarsi sarebbe stato vano, gli disse: «Odimi bene tu, essere o demone che stai acquattato nel profondo della mente di quest'uomo. Dimmi chi sei e cosa vuoi, e da dove vieni...». Per tutta risposta vi furono solo dei ringhi, uniti a ripetuti quanto vani tentativi di spezzare la fune, e allora Azuna continuò:
«So perfettamente che mi puoi rispondere. Infatti ho dato a quest'uomo una pozione che ne ha annullato completamente la volontà, relegandola nel suo profondo. Egli è in grado di assistere e di capire quanto si verifica, ma non può in alcun modo opporsi ad alcun evento. Voglio quindi sapere tutto ciò che ti concerne, e non per lui, ma perché ho sempre avuto come unico scopo nella mia vita quello di apprendere tutto ciò che esiste nella realtà che mi circonda e oltre, in quanto ritengo non esista tesoro più prezioso di quello della conoscenza. Perdipiù è evidente che tu vuoi qualcosa, e forse, parlandomene, potrò essere in grado di aiutarti. Se invece ti ostinerai nel tuo silenzio, ti avverto che sono disposta a uccidere quest'uomo, per cui ti ritroverai a dover cercare un nuovo ospite per i tuoi propositi...». La luce di follia omicida che brillava nello sguardo dell'essere legato andò pian piano attenuandosi, e gli occhi rossi assunsero una connotazione più umana, quindi la voce di Henry di Chambord si alzò nel silenzio della notte, venata di toni profondi e gutturali... 4. «Hai ragione, vecchia. E inoltre, dopo tutti questi anni di silenzio, ho anche voglia di parlare con qualcuno. Non credo davvero che tu mi possa aiutare, ma apprezzo questa tua sete di conoscenza, che ti eleva sicuramente al di sopra di molti dei tuoi simili. Per questo, e anche perché sono perfettamente convinto che nessuno ti crederebbe qualora raccontassi ciò che sto per dirti, mi sono deciso a esaudire la tua richiesta. Io non sono un demone o un essere come tu mi hai chiamato. Per molti versi sono simile a voi, anche se ci sono ovviamente delle differenze, come puoi constatare con i tuoi occhi. A ogni modo vedrò di raccontarti la mia storia ma, per fare questo, bisogna tornare molto indietro nel tempo. Migliaia di anni orsono, la Terra era molto diversa da quella in cui vivete. Una fiorente civiltà ricopriva tutto il pianeta, e gli uomini di allora erano molto più evoluti di quelli di oggi. Come descriverti le immense città che abitavano, i veicoli sui quali si muovevano per terra, per mare e per aria? Sono concetti troppo difficili da accettare per menti come le vostre, chiuse dall'ignoranza e dalla superstizione. Ti basti sapere che erano padroni di tutte le branche del sapere e delle scienze ma, ciò che è più importante, erano giunti a dominare le grandi capacità della mente. Sulla Terra vivevano due specie di esseri umani. Una è quella dalla quale discendi tu e il tuo simile legato a quest'albero, mentre l'altra era quella a
cui appartengo io. La mia razza non era originaria di questo pianeta: una nostra nave stellare colpita da un'avaria durante un viaggio di esplorazione, aveva dovuto fare uno scalo forzato qui, e poi, purtroppo, non era più potuta ripartire dato che, nell'atterraggio di fortuna, era andata irrimediabilmente distrutta. Considerato poi che l'avaria era stata causata da una tempesta stellare di inaudita violenza che ci aveva allontanato di molto dalle rotte abitualmente solcate dalle nostre navi stellari, fu giocoforza adattarsi alla situazione che si era venuta a creare dopo lo sbarco, per cui i sopravvissuti dell'equipaggio originario si organizzarono per la permanenza sulla Terra. Quando atterrarono, trovarono che gli abitanti del pianeta erano a diversi stadi di civiltà, e che molte grandi aree della superficie non presentavano insediamenti umani. I miei antenati poi, erano atterrati in un grosso continente quasi del tutto disabitato che si stendeva in mezzo a quello che voi chiamate il Mare Mediterraneo, continente del quale oggi esistono solo le cime delle catene montuose rappresentate da alcune isole delle quali penso avrai sicuramente sentito parlare. Tutto quel continente infatti, si inabissò poi in seguito a un certo evento... ma vediamo di andare con ordine. Quelli della mia razza si accorsero subito di essere in una situazione di enorme superiorità rispetto alla quasi totalità degli indigeni. Questa superiorità derivava loro, non tanto dall'enorme divario tecnologico che li separava dai Terrestri, quanto da alcune peculiarità fisiche delle quali questi ultimi non erano dotati. Devi infatti sapere che noi godiamo di una vita lunghissima, tanto lunga rispetto alla vostra, da essere ritenuti erroneamente immortali. Questa longevità ci proviene da una particolarità del nostro organismo che è in grado di incorporare il sangue degli esseri umani che ci è necessario per sopravvivere. No, non pensare che noi ci si cibi esclusivamente di sangue umano: solo una volta, durante l'arco di trenta giorni dei vostri, sentiamo il bisogno di ingerire del sangue, onde rinnovare la nostra linfa vitale. In particolari casi poi, riusciamo anche a stare senza questo prezioso liquido per un periodo fino a cento volte più lungo ma, ovviamente, siamo proprio ai limiti. Devi infatti tener presente come la mancanza di assunzione di sangue umano, significhi per noi il deterioramento del nostro corpo, con l'ovvia conseguenza della morte. Sul nostro pianeta d'origine, questo bisogno periodico di sangue, coincideva col plenilunio, ossia quel periodo - equivalente a quattro dei vostri giorni - durante il quale le tre lune che circondavano il nostro pianeta erano
coincidenti e al massimo del loro fulgore. In quel giorno il nostro corpo subiva un cambiamento, quello che tu puoi ora osservare: in pratica, la natura ci soccorreva fornendoci di una forza molto superiore alla normale, e faceva al contempo emergere quelle caratteristiche belluine che ci erano necessarie per la sopravvivenza. In quei periodi infatti, il nostro pianeta si trasformava in un'enorme partita di caccia nella quale solo i più forti sopravvivevano, mentre i più deboli, con la loro morte, permettevano agli altri di perpetuare la razza. Comprendi quale assurdo sistema di vita aveva inventato la natura per noi? Il nostro numero si andava sempre più assottigliando, come potrai facilmente intuire, e la nostra razza sarebbe stata fatalmente destinata a scomparire, se a un certo punto non avessimo scoperto i viaggi spaziali. Questo ci permise di esplorare altri mondi, su parecchi dei quali trovammo delle razze umanoidi, per cui fummo in grado di far cessare l'olocausto che ci stava distruggendo, col trasportare sul nostro pianeta gli esseri che ci erano necessari per la nostra sopravvivenza. E i miei antenati facevano proprio parte di una di queste spedizioni esplorative, il che ci riporta all'inizio di questa storia. Come ti ho detto, erano atterrati in un continente scarsamente abitato e, considerato il loro livello tecnologico, fu facile, relativamente in poco tempo, assoggettare i pochi esseri umani che vi abitavano, e occuparlo completamente chiudendone l'accesso a chiunque. Col passar del tempo, edificarono una grande città sul modello di quelle che avevano lasciato sul loro mondo natale, e la dotarono di tutti i ritrovati scientifici di cui erano a conoscenza. La città era veramente superba - si chiamava Rahln, ossia La Magnifica e con gli anni e il succedersi delle generazioni, la nostalgia per la loro terra d'origine venne praticamente a sparire: qui c'era un intero mondo a disposizione di un numero non certo elevato di miei simili, e solo i più vecchi tra noi soffrivano di qualche rimpianto legato più che altro ai ricordi di una vita vissuta tra i grandi boschi del nostro mondo, sotto la luce delle tre lune. In compenso non c'erano problemi di sopravvivenza di sorta, i luoghi erano incantevoli, e c'era persino una luna nel cielo notturno a ricordare le tre originarie, e che faceva rinnovare periodicamente - come quelle - il rito dell'assunzione del sangue. Tutto questo però era troppo bello per poter durare indefinitamente. Ti avevo detto che, all'atto della discesa sul pianeta della nave stellare, gli indigeni si trovavano a differenti stadi di civiltà. Orbene, c'era un popolo, in-
sediato in un territorio che voi non conoscete ma che si trova aldilà della Persia, il quale era altamente versato nello studio delle capacità della mente, e che viveva in uno stato di totale isolamento, in questo favorito anche dalle alte montagne sulle quali dimorava. I componenti di questo popolo erano dotati di diversi poteri. In primo luogo erano telepatici - una dote questa che abbiamo anche noi pur se in misura più limitata - e poi avevano il completo controllo dello spazio e dei loro corpi, nel senso che erano in grado di trasportarsi da un punto all'altro senza far uso di alcun mezzo meccanico o animale; potevano spostare gli oggetti a distanza, erano in grado di alzarsi per aria, e facevano diverse altre cose straordinarie, tutte con il solo ausilio della loro mente. Erano perfettamente a conoscenza della nostra esistenza, così come noi sapevamo della loro, ma tra di noi non c'erano mai stati contatti. Era come se ci fosse un tacito accordo per il quale ciascuna delle due parti non interferiva con l'altra, forse temendo entrambi i risultati di uno scontro. A un certo punto però, fummo costretti a effettuare un sempre maggior numero di sortite dal continente nel quale ci eravamo insediati, in quanto il nostro numero era notevolmente aumentato, e necessitavamo quindi di maggiori quantità di sangue che solo gli altri esseri umani sparsi sul resto della Terra potevano fornirci. Se fino a quel momento le nostre caratteristiche di vita e quelle fisiche non erano state molto conosciute e il più delle volte venivano attribuite a leggende o a favole fuori della realtà, venendo più spesso a contatto con popolazioni a volte anche assai evolute, cominciammo a essere abbastanza noti. E, di conseguenza, temuti e odiati. Non potevamo infatti confonderci con gli altri uomini in quanto, anche se normalmente i nostri corpi avevano le fattezze comuni a tutti gli altri esseri umani, come ti ho già detto, in quei quattro giorni di luna piena, ci trasformavamo in uomini-lupo, ed eravamo quindi facilmente individuabili. In un primo tempo avevamo adottato l'accorgimento di portare dei cappucci di velluto nero che ci coprivano la testa e le spalle, ma poi, da quando due dei nostri furono scoperti e uccisi durante il Mutamento, questo espediente si rivelò addirittura controproducente, nel senso che serviva a identificare immediatamente i miei simili. L'uso dei cappucci, da allora, rimase limitato pertanto alle sole terre che erano sotto il nostro diretto dominio, e serviva a non ingenerare terrore negli uomini quando assumevamo le sembianze caratteristiche del Mutamento.
Un giorno però, per uno strano scherzo del destino, si verificò quel fatto che si rivelò assolutamente determinante per il destino di tutta la nostra gente. Alcuni di noi che si trovavano su un'isola piuttosto lontana dalle nostre terre, durante una notte di Mutamento, uccisero alcuni uomini per berne il sangue e, tra quelli, vi era anche un componente di quel Popolo delle Montagne di cui ti ho parlato e con il quale non avevamo mai avuto contatti diretti. Al momento in cui fu assalito, questi era ubriaco, e fu per questo che non riuscì a teletrasportarsi, e i miei simili non si accorsero della sua identità. Però, nel momento in cui i denti si chiusero sulla sua vena giugulare, in un improvviso attimo di lucidità, lanciò un urlo telepatico - che fu recepito da altri della sua gente - col quale comunicò ciò che gli stava accadendo. Non sto qui a dirti di tutti gli scontri e i combattimenti che si verificarono da quel momento in poi. Ti basti sapere che vi fu una lotta senza quartiere tra noi e il Popolo delle Montagne che, alla fine, si risolse per noi in un disastro totale. Fummo infatti sconfitti e sterminati tutti: sì tutti, dal primo all'ultimo, fummo letteralmente inseguiti per ogni dove e cancellati dalla faccia della Terra. Ma io venni risparmiato: solo io, e una femmina della mia razza. Fummo fatti prigionieri e lasciati in vita, in quanto avremmo dovuto servire per gli esperimenti di laboratorio che quella gente intendeva condurre su di noi. Eravamo infatti una razza aliena al vostro mondo e dotata di caratteristiche assai peculiari, per cui costituivamo un interessante soggetto di studio. Trascorsero così diversi anni in cattività, e ormai eravamo rassegnati a concludere la nostra esistenza come animali da laboratorio, quando si verificò un evento che cambiò radicalmente la faccia della Terra. Una stella cometa di dimensioni colossali si stava avvicinando alla Terra, e al suo passaggio, pur non entrando in collisione, avrebbe causato un aumento tale di calore su tutta la superficie, da cancellare ogni forma di vita sia animale che vegetale. Le acque dei mari sarebbero evaporate, interi continenti sarebbero stati sommersi mentre altri sarebbero emersi, insomma, in parole povere, tutto sulla Terra sarebbe mutato. Per gli abitanti del vostro mondo non c'era scampo alcuno. Infatti, nessuno dei vari popoli era ancora giunto alla scoperta del volo spaziale, per cui non sarebbero stati assolutamente in grado di salvarsi da quell'immane olocausto che si prospettava a brevissima scadenza. Solo il Popolo delle Montagne riuscì a porsi in salvo, in quanto decisero di sfruttare la loro ca-
pacità di teletrasportarsi per emigrare in massa su un altro mondo. Non chiedermi su quale, perché non lo so, e anzi, da quando sparirono tutti, io non ho mai più saputo niente di loro. Prima di andarsene, per una curiosa forma di pietà, o forse anche con l'intendimento di servirsi di noi per un altro esperimento, la scienziata che sovrintendeva agli studi su di me e sulla mia compagna, invece di lasciarci morire come tutti gli altri abitanti della Terra, ci inserì in due differenti campi di stasi temporale situati in due luoghi differenti della superficie terrestre. In funzione di un procedimento che mi è totalmente sconosciuto, nascose i nostri corpi nell'interno dei campi di stasi in due contenitori sigillati, e permise che, una volta ogni cento anni, la nostra essenza vitale potesse essere liberata per la durata di quattro giorni, onde potersi impadronire di un eventuale essere vivente per poter rinnovare la nostra linfa vitale e, al contempo, cercare l'altro membro della razza. Devi infatti sapere che, per procreare, noi dobbiamo assolutamente congiungerci tra di noi, in quanto le unioni con qualsiasi altro tipo di esseri umani, si sono sempre rivelate sterili. Deve evidentemente trattarsi di una questione di compatibilità genetica... Ma questi termini tu non sei assolutamente in grado di capirli... Comunque la mia storia è praticamente giunta al termine. Il Popolo delle Montagne lasciò la Terra, la stella cometa arrivò così come era stato previsto e, nel cambiare letteralmente la faccia del pianeta, uccìse ogni essere vivente. Ogni cosa andò distrutta, ma poi, piano piano, col passare degli anni, la vita rinacque, e gli esseri umani tornarono a popolare le nuove terre che erano emerse, e quelle che erano rimaste dopo la catastrofe. Da allora, ogni cento anni, io sono uscito dalla stasi temporale, e mi sono incarnato di volta in volta in ominidi, in preumani, in selvaggi, in visitatori provenienti da altri mondi... e sono arrivato sino a oggi... sino a questo albero. Non sono però mai riuscito a trovare la mia compagna o a percepirne la presenza: può darsi pure che sia morta, e allora, quando morirò anch'io, la mia razza scomparirà totalmente dalla Terra... Comunque non perdo la speranza: anche se dovessi continuare così sino alla fine della mia vita, non smetterò mai la ricerca della libertà e della mia donna...» 5. I primi pallidi chiarori dell'alba cominciavano a fare timidamente capolino tra le fronde dei rami, quando l'uomo-lupo cessò il suo racconto.
«È tardi, vecchia, e devo andare», disse in fretta. «Non posso certo lasciare queste sembianze all'uomo che giace legato a quest'albero perché, in tal caso, non penso che riuscirebbe a rimanere vivo per molto. Questa notte è andata sprecata per me, in quanto non ho potuto bere del sangue mentre me ne occorre parecchio per rinnovare la mia linfa vitale per altri cento anni, fino a quando cioè, non sarò nuovamente libero dalla stasi temporale. Mi rimangono comunque altre due notti, e vedrò di metterle a profitto. Non hai certo reso un buon servigio a quest'uomo. Finora l'avevo tenuto in uno stato di semicoscienza, per cui poteva attribuire ai sogni o agli incubi quanto gli stava succedendo... Questa notte invece ha potuto sentire tutto quello che ti ho raccontato, per cui si è reso perfettamente conto di essere solo una pedina che soggiace al mio volere. D'altro canto, non è nemmeno pensabile che io mi possa trasferire in un altro individuo. Infatti, a parte il fatto che la stasi temporale mi lega a questo luogo per cui posso entrare solo nel corpo di una persona che si trovi appunto nell'ambito del campo temporale, a parte questo dicevo, il procedimento per inserirmi in un essere umano è piuttosto lungo, e inizia già parecchi giorni prima dei quattro tipici della luna piena e del Mutamento. Ti avevo detto che non potevi essermi di alcun aiuto... e non lo puoi essere nemmeno a lui. Addio e... bada bene di non metterti più sulla mia strada le due prossime notti, perché potrei anche perdere un po' del mio tempo prezioso, per farti pagare questa notte che ho trascorso legato all'albero.» Tacque e, nel giro di pochi istanti, il pelo sparì completamente dal viso e dalle mani del Conte di Chambord; i lineamenti gli si distesero, e più nulla rimase a testimoniare il terribile mutamento di cui era stato protagonista sino a pochi istanti prima. Azuna si alzò, si recò vicino all'uomo legato e, dopo averlo liberato dalla fune, si mise ad attendere pazientemente il suo risveglio. Henry si rialzò stancamente dal terreno sul quale era seduto sino a pochi istanti prima e, senza dire una parola, si diresse alla volta del cavallo che era ancora legato all'albero dove lo aveva lasciato la notte precedente. Un'enorme stanchezza gli gravava le membra ma, più che di una stanchezza fisica, si trattava di una stanchezza morale. Quanto aveva avuto modo di ascoltare quella notte, lo aveva letteralmente prostrato, soprattutto perché non riusciva a scorgere alcuna via di salvezza. Era condannato a far da ospite a quella strana creatura che lo soggiogava ma, quel che era peggio, doveva accondiscendere a saziare i suoi istinti bestiali. In quale abisso
di degradazione era caduto: lui, un Cavaliere Crociato! Lasciò che il cavallo ripercorresse da solo la vecchia strada che aveva fatto per giungere sino alla capanna della vecchia Azuna, e l'animale, spinto dal desiderio di un buon foraggio e dell'abituale ricovero, lo riportò ben presto al castello. Qui, senza rispondere alle domande che gli venivano rivolte dai familiari che lo avevano visto andar via sconvolto e lo vedevano ora tornare in condizioni non certo migliori di quando era partito, si recò difilato nella sua stanza, dove si lasciò andare su una sedia posta di fronte a una finestra. Lasciò che il suo sguardo si perdesse nel vuoto, mentre la mente annegava in un mare di sensazioni e di sentimenti che non sapeva più se erano suoi, o di... quell'altro. Una brezza leggera che entrava dalla finestra, gli accarezzò il volto facendogli rilassare le membra stanche per la notte trascorsa ad ascoltare quella storia raccapricciante: dopo un po', sprofondò nel sonno e nell'oblio. Rimasta sola, Azuna si fermò a riflettere su tutto quello che aveva udito durante quella notte stregata. Molte cose non le erano assolutamente chiare e altre esulavano completamente dalla sfera delle sue conoscenze, ma di una era certa, aldilà di qualsiasi dubbio: quell'essere che si celava nel profondo della mente del Conte di Chambord, era versato nelle scienze e nella magia più di chiunque altro lei avesse mai conosciuto, e questo poteva rivelarsi assai proficuo qualora fosse riuscita a disporre delle più che notevoli facoltà di quel Lupo Mannaro. Ovviamente rimaneva il problema di impadronirsi di quell'essere e, successivamente, di convincerlo a fare quanto lei avesse voluto: il che non era certo cosa da poco! Infatti, se da un canto non avrebbe avuto certo molte difficoltà nel convincere il Conte a sottoporsi ai suoi voleri nell'ottica di una promessa liberazione da quel mostro, d'altro canto non era neppure pensabile che il mostro in questione si sarebbe placidamente assoggettato a farsi catturare e poi sfruttare. Il problema principale era costituito dal fatto che quell'essere aveva dichiarato di essere in grado di leggere nella mente delle persone, per cui era necessario per catturarlo che ad avvicinarlo fosse qualcuno assolutamente all'oscuro di tutta la faccenda, e quindi in grado di non ingenerare alcun sospetto. Subito dopo si presentava la questione di rendere inoffensiva quella bestia, ma per questo aveva già pronta la soluzione: avrebbe dissimulato sotto uno strato di foglie un pentacolo disegnato sul terreno, e lì avrebbe fatto in modo che passasse il Lupo Mannaro: poi, una volta all'in-
terno del pentacolo, non sarebbe più esistito alcun problema. Infatti, come tutte le creature demoniache, anche quel Lupo Mannaro non sarebbe più stato in grado di uscire da quel recinto magico finché lei non lo avesse voluto. Sì, più ci pensava, e più si convinceva che il tutto era possibile. Si trattava solo di trovare la persona adatta a condurre il Conte di Chambord là dove lei avrebbe allestito la trappola... ma quasi subito le venne in mente la risposta anche a questo problema. Conosceva infatti molto bene Corinna, una delle amiche della donna del cacciatore ucciso la notte precedente, e pensò che sarebbe sicuramente riuscita a convincerla a fare quanto aveva progettato. La ragazza infatti, di natura allegra ed estroversa, aveva avuto modo di conoscerla durante una delle numerose visite che era solita fare all'amica, anche lei abitante nella foresta. Per nulla intimorita dalla nomea che circondava la vecchia Azuna, quando l'aveva incontrata per la prima volta mentre raccoglieva dei funghi che avrebbero costituito il suo misero pasto per diversi giorni, le si era avvicinata e le aveva rivolto la parola, fermandosi poi con lei e aiutandola addirittura a raccogliere i funghi. In seguito l'aveva vista altre volte e, pur se non costituiva di certo il suo ideale di compagnia, la ragazza aveva ogni volta trascorso un po' di tempo con lei scambiando alcune parole più per compassione che per altro. Questi suoi incontri con la vecchia Azuna, raccontati alle sue amiche, avevano suscitato in queste, prima il timore e poi lo scherno, tanto che spesso la chiamavano scherzando «l'amica della strega». Presa rapidamente la decisione, Azuna lasciò la capanna e si diresse alla volta del villaggio per cercare la ragazza. Erano parecchi anni che non si recava più a Chambord, e il suo arrivo avrebbe sicuramente destato sensazione, ma non poteva farci niente: il tempo stringeva, e lei non poteva certo aspettare che il caso facesse passare Corinna dalle sue parti. Fu comunque fortunata. Infatti, giunta in prossimità del limitare della foresta, vide un gruppo di ragazze tra le quali scorse anche quella che costituiva l'oggetto del suo viaggio. Non ci fu bisogno di chiamarla poiché, non appena Corinna la vide, lasciò le compagne e si recò da lei, chiedendole se aveva saputo della disgrazia occorsa la notte prima, se aveva visto qualche belva aggirarsi nella foresta, o se per caso avesse deciso di rifugiarsi nel villaggio per paura di quanto era accaduto. Frenando con un gesto della mano la marea di domande che la ragazza le stava ponendo, Azuna le spiegò:
«Figliola, penso di essere riuscita a risolvere il problema legato all'uccisione del tuo amico Jacques. Ho però bisogno del tuo aiuto. Devi infatti recarti dal Conte e, una volta che sarai giunta da lui, devi dirgli che la vecchia Azuna ha trovato il modo di risolvere il problema che lo angustia. Però deve venire da me non più tardi di oggi. Anzi, se vuoi, puoi accompagnarlo tu stessa fino alla mia capanna: penso che ti farà piacere venire con lui, perché è un bel giovane, e mi sembra che non ti sia del tutto indifferente...». Detto questo, la vecchia si voltò e fece ritorno sui suoi passi perdendosi nell'intrico di rami e cespugli della foresta. Le altre ragazze, che alla vista di Azuna si erano mantenute distanti a guardare il colloquio che si svolgeva tra le due, corsero vicino alla loro amica e la sommersero letteralmente di domande: «Ma era proprio la vecchia Azuna?». «Allora è vero che sei sua amica!» «Che cosa voleva da te?» E così via di seguito. E le domande sarebbero proseguite all'infinito, se Corinna non si fosse risolta a raccontar loro quanto le aveva chiesto di fare la vecchia. Quindi le lasciò e si diresse al castello per portare a termine l'incarico che le era stato affidato. Ma le amiche che aveva appena lasciato, non erano certo dell'idea di farla rimanere tranquilla. Sia per la curiosità di sapere cosa avrebbe fatto la vecchia Azuna, sia per poter spiare Corinna durante la sua passeggiata solitaria nella foresta col Conte, decisero che l'avrebbero seguita di nascosto. Con tutto questo, non avevano certo dimenticato il pericolo costituito da quella belva che aveva ucciso Jacques, per cui si poneva il problema di come potersi addentrare nella foresta e godere allo stesso tempo di una certa tranquillità. Ma non ci sono ostacoli che possano impedire per troppo tempo a delle ragazze di portare a termine quelli che sono i loro desideri: e anche quella volta fu così, nel senso che raccontarono quanto sapevano ai loro dami, pregandoli di accompagnarle nel bosco, e promettendo un divertimento sicuro unito a un pizzico d'avventura. Fu così che una compagnia piuttosto nutrita si apprestò a seguire le tracce di Corinna e del Conte quando si fossero inoltrati nella foresta. A questo scopo si nascosero in prossimità dell'inizio del sentiero ai margini della foresta, e si misero in attesa dell'arrivo dei due ingannando il tempo con scherzi e schermaglie amorose. Gli uomini tuttavia non avevano dimenti-
cato di munirsi di coltelli e di scuri, nella malaugurata ipotesi d'incontrare la belva assassina. Grande comunque fu il loro disappunto quando arrivò la coppia che stavano aspettando: avevano infatti pensato che i due si sarebbero recati dalla vecchia Azuna a piedi per cui, quando udirono il galoppo di un cavallo che si avvicinava, rimasero spiacevolmente sorpresi nel vedere che l'animale recava in groppa sia il Conte che Corinna. Alcuni, a quel punto, avrebbero voluto lasciar perdere tutto e far ritorno a casa, ma prevalse l'opinione delle ragazze che convinsero i loro riluttanti cavalieri a recarsi a piedi fino alla casupola di Azuna. Quindi l'intera compagnia si mise in cammino lungo i sentieri della foresta diretta alla capanna della vecchia. Questa intanto, dopo il colloquio con Corinna, aveva fatto ritorno sui suoi passi e, giunta in prossimità della capanna, proprio là dove il sentiero si allargava nello spiazzo antistante, si era messa alacremente al lavoro. Aveva inciso profondamente sul terreno con un bastone appuntito un pentacolo, e sulla punta di ogni angolo aveva disegnato dei segni cabalistici. Quindi, quando il tutto era stato completato, lo aveva accuratamente ricoperto con foglie raccolte qua e là nel sottobosco, e ora rimirava compiaciuta il terreno che non rivelava assolutamente quanto era stato fatto. A questo punto, dopo essere entrata nella capanna e aver portato all'esterno l'unica sedia che possedeva, si sedette e si mise pazientemente ad aspettare l'arrivo del Conte. 6. Quando lo scudiero lo aveva svegliato dicendogli che c'era una ragazza del villaggio che voleva parlargli, il primo moto di Henry era stato quello di farla mandare via. Non aveva voglia di vedere nessuno, e i suoi pensieri erano rivolti unicamente a quell'incubo assurdo che lo stava facendo impazzire: poi però, pensando che forse sarebbe perlomeno riuscito a sviare per un po' la mente da quell'assillo costante, diede ordine di farla passare. Nell'udire l'ambasciata della vecchia Azuna, il suo cuore ebbe letteralmente un tuffo: quella donna asseriva di aver trovato la soluzione al suo problema! Più volte fece ripetere a Corinna le parole dette da Azuna e, quando queste si furono stampate come lettere di fuoco nel suo cervello, si precipitò fuori dalla stanza trascinandosi dietro la ragazza per mano. Giunto alle scuderie, la caricò in groppa al suo cavallo e si precipitò a spron
battuto verso la foresta. Tutto preso dalla notizia di poter venir fuori da quella situazione spaventosa, non si era fermato a chiedersi il motivo per il quale si stava portando dietro quella ragazza. In effetti, se avesse analizzato per un attimo la situazione, si sarebbe immediatamente reso conto che, non solo non sussisteva alcun motivo perché la dovesse portare con sé, ma anzi, in ogni caso, la sua presenza sarebbe stata assai rischiosa. Un motivo che giustificasse questo suo strano impulso però c'era, e, se non fosse stato distratto dal miraggio della sua prossima liberazione, se ne sarebbe accorto immediatamente. Infatti, l'essere che vigilava acquattato nel profondo della sua mente, all'udire le parole di Corinna, era rimasto colpito da quanto questa aveva detto. Non che avesse paura, tutt'altro: durante la notte precedente si era reso perfettamente conto di quelle che erano le scarse possibilità di quella vecchia megera, per cui era del tutto tranquillo per quanto concerneva la propria sicurezza. No, quello che lo solleticava invece, era la curiosità relativa a cosa mai quella strega avesse potuto escogitare per riuscire ad aver ragione di lui e, oltre a questo, godeva al pensiero che avrebbe pareggiato il conto per l'oltraggio che aveva dovuto subire la notte precedente. Aveva quindi deciso di recarsi nuovamente nella capanna in mezzo al bosco e, vedendo quella ragazza lì davanti a lui e avendole letto nella mente il desiderio che provava nei riguardi di quell'umano che teneva sotto il suo controllo, aveva deciso che avrebbe unito il suo sangue giovane e forte a quello scarso e vecchio della strega nella foresta. Aveva quindi spinto il Conte a portar con sé Corinna e questi, senza pensarci, stava ora galoppando per condurla al luogo del suo sacrificio. Giunto a una certa distanza dalla capanna, l'essere sondò telepaticamente la mente di Azuna. Vide che la vecchia era seduta su una sedia e lo stava aspettando compiaciuta per quanto gli aveva preparato. Povera stupida! Nella sua bramosia e cupidigia, pensava di poterlo fermare con quel ridicolo pentacolo che aveva tracciato sul sentiero: quanto erano arretrati e pieni di superstizioni quegli esseri umani! Decise di divertirsi sino in fondo. Giunto poco prima della fine del sentiero, fermò il cavallo, scese, e proseguì a piedi seguito a qualche passo da Corinna. Posti i piedi entro il pentacolo, si fermò e si guardò intorno smarrito, come se non riuscisse a rendersi conto di cosa gli stesse succedendo: a quella vista gli occhi di Azuna, che non lo avevano perso di vista neppure per un istante da quando si era stagliato all'inizio del sentiero, si illumina-
rono, mentre un sorriso di trionfo appariva sulle sue labbra rugose. Con un cenno della mano indicò a Corinna la capanna alle sue spalle e, con un tono di voce che non ammetteva replica, le ordinò: «Vai dentro, presto! Chiuditi bene la porta alle spalle, e non uscire per alcun motivo finché non te lo dirò io. Stai bene attenta nell'eseguire quanto ti dico, perché ne va della tua vita». La ragazza, spaventata dalle parole e dal tono della vecchia, rivolse uno sguardo al Conte che l'apostrofò con voce ironica: «Fai pure quanto ti ha ordinato. Dopo, avremo tutto il tempo che vorremo...». Sparita la ragazza all'interno della capanna, e chiusasi la porta dietro le sue spalle, Azuna si rivolse nuovamente al Conte. Era tempo! Stava iniziando il Mutamento. Prima l'uomo cadde in ginocchio e portò le mani convulsamente al petto, mentre dei fremiti gli percorrevano tutto il corpo: quindi i capelli cominciarono a scurirsi e ad aumentare di volume finché tutto il viso e il collo non ne furono ricoperti. Il muso gli si allungò, i muscoli gli si ingrossarono e, finalmente, aprì gli occhi: due tizzoni d'inferno si puntarono sul viso della vecchia che si trovava a pochi metri da lui. Pur sapendo quello che avrebbe visto, Azuna non riuscì a frenare un tremito di paura: fortuna che quel mostro era bloccato nel pentacolo! Se fosse stato libero... Ma non voleva nemmeno lontanamente pensare a questa eventualità. Cercando di dare alla propria voce un tono fermo, disse: «Ora sei in mio potere, e farai tutto ciò che ti ordinerò se vorrai continuare a vivere. Infatti non ti puoi muovere da lì, e quindi, se vorrai che ti porti da mangiare, dovrai eseguire tutto quello che ti dirò. Per prima cosa...». A questo punto si accorse che c'era qualcosa che non andava. La bestia all'interno del pentacolo, invece di mostrare smarrimento o ira, sogghignava sinistramente mentre, nel profondo dei suoi occhi rossi, sembrava brillare una fiamma divertita. Azuna non dovette comunque aspettare molto per venire a capo di quello strano comportamento perché, proprio in quell'istante, la nota voce gutturale che aveva avuto modo di udire la notte precedente le disse: «Ti avevo avvertito, vecchia, di non metterti più sulla mia strada. Non saprai mai quanto eri stata fortunata nell'avermi visto durante il Mutamento e nell'essere rimasta viva. Ma no: hai voluto forzare la fortuna e, spinta dalla tua brama di potere, hai pensato che saresti riuscita a rendermi tuo
schiavo. Io, tuo schiavo! Solo l'ilarità che mi viene da un pensiero come questo ha impedito che la mia ira abbia già fatto giustizia di te; la tua morte è stata comunque rimandata solo di qualche attimo, perché con te ho già perso troppo tempo e, come ho già avuto modo di dirti, il mio tempo è prezioso e devo impiegarlo per rigenerare la mia linfa vitale. Comunque, subito dopo che ti avrò ucciso, il sangue di quella ragazza rinchiusa nella capanna verrà ad aggiungersi al tuo...». Con gli occhi spalancati per il terrore, Azuna vide che la bestia portava un piede in avanti: con estrema lentezza, percorse un breve arco in aria andando poi a toccare il suolo al di fuori del pentacolo che aveva preparato con tanta cura. Al primo piede fece seguito il secondo e, in un attimo, l'essere si trovò libero da quella che lei aveva ritenuto una barriera insormontabile. Fu la sua ultima riflessione perché, con un solo balzo, l'uomo lupo fu su di lei e i suoi denti le si chiusero sulla gola tranciandole di netto la carotide, spezzando contemporaneamente un urlo di terrore che la vecchia aveva lanciato mentre cadeva riversa al suolo. Quindi, mentre la solita nebbia rossa di ebbrezza e di desiderio del sangue calava su di lui, l'essere si accovacciò per lappare il prezioso liquido che sgorgava da quella gola squarciata. L'urlo di Azuna era stato udito sia da Corinna che dal gruppo di uomini e donne che si trovavano ormai in prossimità della capanna. Mentre la ragazza trascinava freneticamente il cantonale davanti alla porta per impedire l'ingresso a quella bestia orrenda, i suoi amici, pensando che fosse stata lei a lanciare quell'urlo, e che quindi si trovasse in pericolo, si precipitarono di corsa ma, superati gli ultimi metri che li separavano dallo spiazzo antistante la capanna, ebbero modo di assistere a una visione che non avrebbero mai più potuto dimenticare per gli anni a venire. Per terra giaceva il corpo insanguinato della vecchia Azuna, e un mostro orrendo era chino su di lei e ne beveva avidamente il sangue, mentre con le unghie acuminate dilaniava quei miseri resti scagliando via dei pezzi di carne ancora sanguinanti. Non avevano mai visto una bestia di tal fatta: metà uomo e metà lupo, risvegliava nel profondo dei loro cuori un terrore ancestrale che aveva inaridito le loro bocche facendo al contempo mozzare il fiato. Però erano in molti, e fu proprio il numero a dare loro la forza per scuotersi da quella paura che attanagliava le viscere e a farli scagliare contro l'essere accovacciato. Mentre le donne rimanevano indietro in gruppo con gli occhi sbarrati, incapaci di profferire una sola parola, gli uomini si precipitarono sul Lupo
Mannaro, che si accorse della loro presenza solo un attimo prima che due scuri calassero una sulla schiena e l'altra alla base del collo, penetrandovi profondamente. Cadde riverso e, mentre i coltelli e le scuri lo facevano letteralmente a pezzi, l'ultima cosa che i suoi occhi videro, fu la luna piena che si stagliava alta tra gli alberi della foresta. 7. Vicino, eppure lontano, chiuso nel campo di stasi temporale che ormai da millenni costituiva la sua prigione invisibile, il Lupo Mannaro proiettò la sua mente tutt'intorno. Vide il gruppo di uomini e donne che attorniavano i cadaveri di Azuna e del Conte di Chambord, e udì le loro esclamazioni di orrore quando ravvisarono le fattezze del loro Signore ormai libero dai tratti caratteristici del Mutamento. Vide poi uscire dalla capanna Corinna, e si rammaricò per non aver potuto bere il suo sangue... Sperava comunque che quello che aveva potuto ingerire in quei giorni sarebbe stato sufficiente sino al prossimo risveglio... Con un giorno di anticipo sui quattro previsti, si lasciò andare al riposo e all'oblio... Cosa avrebbe trovato quando avrebbe riaperto gli occhi di lì a cento anni? Pian piano i rumori si smorzarono fino a scomparire del tutto: poi le tenebre si chiusero ancora una volta su di lui... I LUPI AFFAMATI DELLA STEPPA The Learn Wolves Wait di John Wysocki Fantasy Tales #3, estate 1978 Era l'inizio del 1917 quando Sergi Starnakov prese congedo dal fronte. La sua partenza fu piuttosto improvvisa ma lui era un veterano ed era abituato a quelle faccende. Le cose andavano male per la Santa Madre Russia. La superiorità tecnica dei Tedeschi e il malcontento sul fronte interno, stavano lentamente sgretolando le coraggiose armate zariste. Ridotti a frammenti turbinanti dall'artiglieria tedesca all'esterno, e corrotti dalle dottrine rivoluzionarie all'interno, l'armata e il governo stavano crollando. Ma i Generali dello Zar erano in procinto di tentare un'ultima offensiva, per pa-
cificare il paese con la vittoria. Era un'epoca oscura e tormentata. Un manto di distruzione copriva il paese come un putrido miasma. Strani profeti percorrevano le province per predicare dottrine di distruzione. C'era la carestia e, nelle oscure foreste del Nord, i lupi affamati correvano. Gli uomini attendevano pazientemente in una piccola valletta dietro le linee mentre un tiro di sbarramento preparava loro la strada per la carica attraverso la lunare terra di nessuno. Sergi montava il suo cavallo maledetto, i cui muscoli erano ancora pieni e turgidi se confrontati agli scheletrici ronzini dei Cosacchi. Non molti conoscevano la storia di quel cavallo, e meno ancora ci credevano. Era stato infettato dalla maledizione del vurdalak nelle steppe della Siberia, o almeno così si diceva. Intanto i cannoni tuonavano, e il Colonnello Grabiev scrutava con un binocolo le linee tedesche e lanciava grida di gioia a ogni scoppio arancione nel mare di melma grigia e di cielo. I Cosacchi erano mesti e taciturni, visto che avevano poca fiducia nell'efficacia della propria artiglieria. L'uniforme del Colonnello, stirata e pulita, contrastava con i panni incrostati di fango che pendevano a brandelli dalle spalle dei Cosacchi. Sergi, benché fosse un Sergente, veniva dalla gavetta ed era rozzo e ignorante come i muziki che erano ai suoi ordini. Era un uomo alto e muscoloso, scuro e barbuto, e aveva un pessimo carattere. Per questa ragione e anche per il timore che gli uomini avevano del suo cavallo succhia-sangue, non si era mai parlato di ficcargli una pallottola nella schiena durante una battaglia. Il tiro di sbarramento era destinato a terminare dopo pochi minuti, ma non era stato provocato nessun danno apprezzabile alle linee tedesche. Anche Sergi aveva un binocolo, staccato dal collo di un samurai morto durante la guerra russo-giapponese. Lo prese e lo puntò sul nemico. Vide molte più mitragliatrici di quante ne riuscisse a contare. Era un posto pessimo per un attacco. Sergi alzò lo sguardo sul Colonnello Grabiev, che stava osservando il suo orologio d'oro da polso per la decima volta. Si sentì un sordo boato quando la fanteria lasciò esitante le trincee più avanzate. Una grande ondata vestita di grigio si alzò dalla terra e rotolò verso i Tedeschi. Quando il Colonnello Grabiev prese con calma una sigaretta inglese dall'astuccio di ebano e l'accese, le mitragliatrici tedesche cominciarono a balbettare. L'ondata grigia cominciò a rifluire e a cadere. Il Colonnello Grabiev fece un lungo tiro dalla sigaretta e lasciò uscire lentamente il fumo bluastro dalle narici.
«Andiamo ragazzi, riportiamo quella marmaglia di contadini nella lotta!», gridò, indicando la vacillante fanteria. «Trombettiere: suona la carica!» Nessuno si mosse. L'unico rumore fu lo sbuffare dei cavalli sul sottofondo del tumulto. Il trombettiere, con aria noncurante, lasciò cadere il suo strumento nel fango. «Ho dato un ordine!», strillò Grabiev, schiacciando la sigaretta tra le dita. I Cosacchi avevano uno sguardo ottuso e indifferente, e i loro occhi sfuggivano quelli del Colonnello. Sergi aggrottò le sopracciglia e si studiò le unghie delle mani e la carabina che teneva appoggiata in grembo. Era già troppo tempo che venivano trucidati. «Benissimo, cani», disse il Colonnello, allungando coraggiosamente la mano verso il revolver, «avrete ciò che volete.» Non si può affermare che Sergi fu l'unico a sparare, ma fu il primo, e fu la sua pallottola a entrare sotto la mascella ed esplodere nella nuca di Grabiev, uccidendo il Colonnello. Prima che il suo corpo ruzzolasse dalla sella, una decina e più di pallottole lo trapassò. Cadde sull'arcione e scivolò come una bambola rotta nel fango. Un ruggito animalesco si alzò dai Cosacchi. Quelli che erano più vicini al Colonnello caduto calpestarono il suo corpo nella melma sotto gli zoccoli dei cavalli. Gli altri brandirono sciabole e carabine al di sopra della testa e gridarono. Si alzò un urlo: «Uccidiamo tutti gli ufficiali!» e, mentre questi tentavano di scappare, i Cosacchi piombarono su di loro. I Cosacchi, eccitati da questa vittoria, voltarono i cavalli verso le retrovie e, istigati da un anarchico, cominciarono a marciare su Pietrogrado per chiedere la testa della Imperatrice-Prostituta. Bottiglie di vodka furono evocate dal nulla. Molto liquore fu gettato nella gola di Sergi, che non protestò. Qualcuno trovò le provviste degli ufficiali, e gli uomini ruppero i colli delle bottiglie di brandy e di champagne e bevvero dai monconi acuminati. Sergi era già allegro e sovreccitato per il liquore e per la violenza del pomeriggio. Il reggimento era degenerato in un'orda ubriaca quando raggiunse l'ospedale del fronte. Per due volte lungo il cammino avevano dovuto lottare con la compagnia di riserve che protestavano con sciabole e nagaika. I medici e gli inservienti protestarono quando gli uomini saccheggiarono le provviste mediche di brandy e alcool. Ma quando il personale medico sentì un sordo brontolio alzarsi dai macellai e dalle retroguardie leccapiedi,
interruppe le proteste e se la svignò. Un'infermiera bionda e compita si oppose al saccheggio, dicendo che l'alcool era necessario ai feriti. Un rude cosacco, incanutito, sopravvissuto a molte battaglie, la studiò per un momento, poi parlò con ironica solennità. «Avete fin troppo ragione, sorellina.» Sorrise in maniera affettata, leccandosi le labbra. «Perdonate le nostre maniere poco educate: abbiamo dimenticato i nostri poveri fratelli sofferenti. Tieni, compagno!», disse, porgendo una bottiglia dal collo rotto a un uomo disteso su un letto, con bende insanguinate avvolte intorno al moncherino di una gamba. «Alla rivoluzione!» Il ferito bevve una lunga sorsata di brandy. Il suo volto pallido si arrossò. Si leccò le labbra secche e parlò con voce resa più sicura dal liquore. «Forse è necessario ai feriti, sorellina. Ma come dice l'antico detto. "La strada per la chiesa è breve e asciutta, la strada per la taverna lunga e ghiacciata, ma io camminerò con molta prudenza..."» Si alzò un ruggito, le bottiglie furono rotte e il liquore scorse a fiotti lungo le gole assetate. Ben presto tutti, feriti e sani, ridevano e canticchiavano una decina di canzoni diverse. La bionda infermiera era appollaiata sulle ginocchia del vecchio cosacco e lui le versava in bocca il liquore con una mano mentre con l'altra le carezzava il petto. Un urlo si alzò al di sopra del tumulto quando la mano rozza del vecchio le stracciò la blusa. Un seno roseo fece capolino. A quella vista l'umore della folla cambiò. Dalla ribellione passò alla lussuria più sfrenata. Perfino Sergi lo avvertì mentre cercava con tenacia di ricordare le parole di una canzone da ubriachi che gli aveva insegnato un Ulano prigioniero. Il vecchio cosacco guardò per un lungo momento il globo rotondo con il capezzolo appuntito. Gli occhi gli luccicarono e si mise a strappare metodicamente la cuffia dalla testa della donna e a stracciarle il corpetto fino alla vita. I capelli biondi le si sparsero sul petto e ondeggiarono mentre si dimenava nella stretta del cosacco. Un brontolio sordo, animalesco, echeggiò nella tenda. Troppo a lungo erano stati nelle trincee senza donne, e ora erano come cinghiali selvatici nella stagione dei calori. Il resto degli abiti della bionda fu strappato e il vecchio cosacco la montò sul mucchio dei suoi stessi vestiti stracciati. Lei gridò finché il vecchio non le infilò il lembo della camicia in bocca. Una decina di infermiere scomparve tra le masse di uomini in calore. Furono tirate fuori le armi e furono uccisi alcuni uomini che lottavano sulle donne. Sergi afferrò una zingara dagli occhi scuri che si abbandonò pron-
tamente tra le sue braccia. Con sua grande delizia e sorpresa, lei gli mordicchiò l'orecchio con i denti bianchi e affilati, stringendosi al suo corpo. «Perché non andiamo fuori, cosacco?», mormorò, mentre la sua lingua morbida convinceva Sergi. «È più intimo e più comodo in un'ambulanza.» «Certamente, sorellina», sogghignò Sergi, e i denti d'avorio gli illuminarono la scura faccia tartara. «Credo che tu abbia ragione.» Così dicendo, e con la donna stretta tra le braccia, si fece strada tra la folla impazzita. Se qualche soldato pensò di protestare per il fatto che si era accaparrato la ragazza, ci rinunciò quando ricordò il brutto carattere di Sergi e i poteri del suo cavallo. Inoltre, presto sarebbe arrivato per ognuno il turno con le isteriche infermiere che si muovevano debolmente sotto i sobbalzanti Cosacchi. La coppia raggiunse i margini della zona, scavalcando le funi delle tende e i corpi avvinghiati. Sergi fischiò e il suo cavallo apparve. Il suo corpo grigio fremette e le zampe nere si alzarono graziosamente mentre trottava verso di lui. Aveva la testa abbassata, e gli occhi rossi lanciavano bagliori sinistri. Sembrava proprio che quel giorno volesse mostrare i segni del vurdalak. Si fermò, sbuffando, a pochi metri, e parve studiare la ragazza dalla pelle scura che era tra le braccia di Sergi. La cuffia le cadde e il suo volto bruno fu incorniciato dagli splendenti capelli corvini. Per un momento la ragazza e il cavallo demoniaco sembrarono contemplarsi l'un l'altra. La ragazza fissò lo sguardo rosso e maligno dell'animale con un'intensità singolare. Gli occhi cremisi incontrarono quei fluidi occhi neri. Dopo un certo tempo, il cavallo abbassò la testa come se annuisse saggiamente, e si fermò accanto al suo padrone. Il cosacco non notò quello scambio di sguardi, visto che era troppo occupato a mordicchiare la spalla della ragazza e a strapparle la blusa, in un modo che lui riteneva sensuale. Il ruvido cotone si lacerò con grande difficoltà. L'alcol gli annebbiava il cervello: era cosciente solo di un desiderio corrosivo, doloroso. «Immagino che siate un vero demonio con le ragazze cosacche della vostra stanica, Capitano», diceva lei, e intanto le sue mani morbide si muovevano instancabili su di lui. Le sue labbra piene erano socchiuse e sensuali. Il cosacco arrossì d'orgoglio e scoprì i denti nel più disarmante dei sorrisi. «Non "Capitano", dvuska. Compagno... Compagno Sergi.» Strinse gli occhi. «A dire la verità, le ragazze mi trovano focoso.»
Sergi strizzò un occhio con espressione complice. Strinse il seno sodo della ragazza e premette le labbra bagnate e barbute sulla bocca umida di lei. Il suo bacio sembrò succhiargli l'anima dal corpo robusto e la testa gli girò. Il terreno oscillò come per un muzik il sabato sera. La ragazza sfuggì al suo abbraccio e corse via: la sua risata echeggiò beffarda. Si girò dopo pochi passi, raccolse nelle mani i seni nudi e li puntò verso Sergi. Il corpetto le pendeva intorno alla vita come i petali strappati pendono da un fiore. «Vieni, fratello cosacco. O non riesci a prendermi?» Sergi guardò i capezzoli scuri. Il suo corpo bruciava. Il cavallo nitrì deridendolo. Maledisse l'animale, e si diresse barcollando verso la ragazza, mentre la sciabola gli urtava contro la coscia. Non appena la sua mano si strinse intorno all'uniforme stracciata della zingara, lei si divincolò e fuggì. Sergi rimase con un pezzo di cotone in mano. Lei correva agile e graziosa come un levriero. E così continuò, con la ragazza che si allontanava a passo di danza non appena le mani del cosacco l'afferravano. Impazzito, lui correva barcollando, maledicendo lei e i propri piedi malfermi. Il cavallo gli trottava dietro con un'espressione che Sergi immaginava fosse di divertimento maligno. A un tratto, si ritrovò nella steppa solitaria. Prese una bottiglia di brandy dal pastrano e ne tolse il turacciolo con un morso. Il brandy gli gorgogliò lungo la gola e attizzò il fuoco che aveva dentro. Aveva caldo, molto caldo, con il brandy nel ventre e il fuoco nei lombi. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte e tremò quando il vento gelido soffiò sulla steppa. Si strappò i bottoni del pastrano e della tunica. Bevve un altro sorso di brandy. Guardò la ragazza stringendo gli occhi. Lei rise e si avvicinò a Sergi, con le braccia tese e un'espressione invitante. Aveva intenzione di balzare via non appena il cosacco avesse teso le mani ad afferrarla, ma non aveva tenuto conto dei riflessi da lupo che aveva l'uomo. Sergi per poco non la prese. La ragazza lasciò la camicia tra le mani di Sergi e lui cadde pesantemente a terra, con la sciabola tra le gambe. Lei fuggì: i suoi seni rimbalzavano e le gambe snelle guizzavano, coperte solo dalla sottogonna di lino. Sergi lanciò un'occhiata al cielo che si andava oscurando, poi a fatica si alzò in piedi e riprese l'inseguimento. La donna si stava portando sempre più lontano nella steppa. Una volta l'afferrò, ma lei lo stregò con i suoi occhi neri e ammalianti. Era nuda, ormai, il lino stracciato era steso sull'erba marrone come un mucchietto di neve.
Così finì il primo giorno di rivoluzione di Sergi Starnakov. «Credo che tu sia più bravo a uccidere che a cacciare, compagno Sergi.» Una voce bassa e calda arrivò attraverso il vuoto e l'oscurità, penetrando le orribili pulsazioni come un rasoio. La coscienza di Sergi tentò di emergere alla superficie attraverso le spesse onde di nebbia, come un sommozzatore che sia rimasto troppo a lungo sott'acqua. Era un cammino arduo, ma non importava quanto liquore avesse bevuto: un uomo che ha passato quattro anni in trincea e ha combattuto contro i giapponesi, o si riprende subito o muore. Gli occhi di Sergi batterono e si aprirono. Il suo cavallo lo fissava, l'alito fetido gli usciva a nuvolette di vapore dalle narici. Aveva quell'espressione che Sergi gli aveva visto spesso. L'animale sembrava considerare l'opportunità di dare un bel morso al collo di Sergi. Sergi allontanò la testa, e gli occhi del cavallo rifletterono la croce d'argento che era sul suo anello. Il cielo era cupo e grigio. Sergi lo guardò un momento prima di ricordarsi che doveva cercare la persona cui apparteneva la voce. Si rotolò su un fianco e si alzò a fatica sulle ginocchia. Seduta su un carro, con in mano le redini di un cavallo malaticcio, c'era la ragazza della sera prima. Un fazzoletto rosso le legava i capelli e incorniciava il suo volto scuro e bello. Il cosacco vide l'attaccatura dei seni che premevano contro la blusa dall'ampia scollatura. «Puttana!», disse Sergi con voce rauca: aveva la bocca amara e impastata. «Mi hai lasciato dormire solo nella steppa. Piccola sgualdrina. Dovrei scorticarti quel corpo insolente.» Egli prese la nagaika, la pesante frusta cosacca, che teneva alla vita. «Mi dispiace», disse la donna, abbassando gli occhi con modestia e sbattendo le lunghe ciglia nere. «Avevo paura. Eri ubriaco. Vuoi venire a fare una passeggiata con me?» Gli occhi neri fecero nascere il desiderio del ventre di Sergi, un'ondata di calore gli salì alla gola e gli discese fino ai lombi. Lei si inarcò come un gatto, la stoffa dalla blusa si gonfiò, e le labbra piene si socchiusero. Sergi saltò sul carretto. «Dove l'hai preso?», chiese, indicando il carro. «Dei miei amici passavano di qui per andare in licenza», rispose lei evasivamente, gettando indietro la testa. Il cosacco prese le redini dalle mani della ragazza e le fece schioccare sul dorso rognoso del ronzino. Il suo cavallo trottava accanto a loro, alzan-
do le zampe con la stessa grazia di un gatto. Egli guardò la ragazza con la coda dell'occhio. Ora, alla luce del giorno, poteva apprezzare in pieno la sua bellezza. Aveva una carnagione scura, come quella degli zingari. Il corpo era voluttuoso, e aveva la snellezza dei Borzoi. I denti erano simili a piccole perle. Le labbra... Sergi pensò di prenderla subito. «Stanotte, compagno», disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. La ragazza premette il suo corpo contro il fianco di lui. Sergi deglutì pesantemente. «Ce l'hai un nome?», chiese con rudezza. «Zuleika», rispose la donna, guardandolo negli occhi. «È un nome.» Così viaggiarono tutto il giorno. Sergi non pensò mai di chiedere dov'erano diretti. La steppa si stendeva fino all'orizzonte, su tutti i lati. Parlarono poco, e all'imbrunire si fermarono ai margini di un viottolo fangoso e prepararono un fuoco. Zuleika cucinò qualcosa e tirò fuori una bottiglia di vodka. Mangiarono e bevvero. Dopo un po' di tempo, lei si alzò e lo invitò con un cenno del capo. Non passò molto che i loro abiti erano sul pavimento del carro e lei mantenne la sua promessa. Il giorno seguente, Sergi si alzò. Lividi violacei gli attraversavano la schiena e graffi rossastri gli segnavano le spalle. Lei era un animale selvaggio. A Sergi sembrava di essere stato preso, e non di aver preso la donna. Passarono il giorno successivo in un viaggio senza meta e la notte in un violento amplesso. E così trascorsero una settimana, ogni giorno la steppa marrone sotto un cielo grigio e ogni notte Zuleika sotto il cosacco. Egli non vide né sole né luna per tutti quei giorni. La mattina del nono giorno, Zuleika cominciò a comportarsi in un modo strano. I suoi movimenti divennero sempre più furtivi e fluidi. Sembrava una bestia selvatica in gabbia. Ogni tanto, quando pensava che Sergi non la vedesse, lui la sorprendeva a leccarsi le labbra come un animale. Quella sera, non appena lei ebbe riposto tutto il necessario per la cena, si voltò verso Sergi che stava affilando la sciabola e disse: «Vieni, mio piccolo cosacco, vieni dalla tua Zuleika». I denti guizzarono. Sergi alzò lo sguardo. Lei stava già levandosi la blusa. La gettò a terra. La luce del falò danzava sui suoi seni rotondi e sul ventre piatto. «A Sergi piace Zuleika?», mormorò lei. La gonna le cadde intorno alle caviglie. «Da», disse il cosacco, guardandole le gambe affusolate. Poi conficcò la sciabola nel terreno. «A Sergi piace Zuleika... la piccola sgualdrina.»
Il cosacco l'afferrò e lei lo attirò sulle pellicce che erano accanto al carro. Dopo un attimo, si stavano accoppiando violentemente, e la luce del fuoco giocava sui loro corpi. Le nuvole correvano nel cielo. Quando ebbero finito quell'amplesso particolarmente tempestoso, le braci erano quasi spente. Zuleika era accucciata tra le braccia di Sergi. Il cosacco guardò il cielo, completamente sazio. Stava cominciando a schiarirsi. Le divisioni di nuvole marciavano verso oriente. Improvvisamente la steppa fu sommersa da una luce argentea. Un disco rotondo apparve tra le nuvole. Sergi notò distrattamente che la luna era piena. Zuleika si mosse al suo fianco. Premette i suoi capelli soffici e splendenti contro il suo braccio. Sergi sentì che stava per addormentarsi mentre guardava il cerchio luminescente. Zuleika emise un gemito, simile a quelli che produceva negli spasimi della passione. «Hai ancora voglia, fiore della steppa?», mormorò, voltandosi verso di lei. Un muso nero e lucido, con zanne bianche e appuntite stava tra le braccia di Sergi. Seguendo la curva del suo corpo, vide che c'erano le quattro zampe e il torace ampio di un lupo, tutto coperto di un pelo nero e lucido. La coda irsuta ondeggiava nervosamente. Sergi rotolò fuori dalle pellicce e balzò in piedi, afferrò la sciabola e corse nella steppa. L'aria era gelida sul suo corpo nudo, anche se la pelle d'oca probabilmente dipendeva più dalla paura che dal freddo. Non aveva alcun desiderio di dormire accanto a un lupo. Che cos'era accaduto a Zuleika? Dove diavolo era quel dannato cavallo quando c'era bisogno di lui? Proprio mentre se lo chiedeva, il suo piede scalzo si appoggiò pesantemente su una roccia appuntita. Strillò per il dolore mentre cadeva nell'erba coperta di rugiada. Si rotolò sul dorso, tenendo la spada tra sé e l'animale. Il lupo gli girò lentamente intorno, con le zampe rigide e le orecchie tirate indietro. Dalla gola gli usciva un basso ringhio, sebbene gli occhi scuri e liquidi non tradissero alcuna traccia di cattiveria. In effetti, somigliavano agli occhi di Zuleika. Avevano la stessa dolcezza selvatica. La figura che aveva di fronte sembrò tremolare. I contorni, tranne gli occhi, cambiarono e si riformarono. «Ho spaventato il coraggioso cosacco?», disse una voce gutturale, familiare. Davanti a lui c'era Zuleika: la luce della luna inargentava il suo corpo nudo. Si sentì di nuovo un ringhio basso, rauco. Sergi balzò in piedi, mentre la spada gli penzolava tra le mani. Stava cominciando a capire. «Un po' sorpreso, forse, sgualdrinella. Ma che stregoneria è questa?»
«I miei figli hanno fame, compagno», sussurrò lei, «hanno bisogno del cuore di un uomo, proprio come io avevo bisogno del seme di un uomo forte. Guarda!» Due ombre scure scivolarono sull'erba della steppa e andarono a fermarsi ai suoi piedi. Sergi vide che erano due lupi, due bestie grandi, forti, con zanne bianche e lingue rosse e penzolanti. Tranne che per gli occhi, erano la copia perfetta della bestia che gli aveva dato la caccia fino a qualche momento prima. «Che cosa significa tutto questo?», disse Sergi, indicando le bestie con la sua sciabola. «Perché mi hai adescato?» «La mia famiglia deve crescere se dobbiamo sopravvivere e restare forti in quest'epoca tormentata. Le cose stanno cambiando, cosacco, perfino tu te ne puoi accorgere. I Bolscevichi - e saranno loro a vincere, bada bene non sono persone molto superstiziose e non si terranno lontani dal nostro popolo come facevano gli starec dello Zar.» «Che cosa intendi per "nostro popolo?"», disse Sergi con voce incerta, mentre gli si rizzavano i peli sulla nuca. Dov'era quel dannato cavallo? «Be', il Popolo dei Lupi!», disse lei ridendo, e il suo sorriso non era affatto gradevole. «Lupi Mannari, se preferisci.» Sergi annuì. Aveva visto abbastanza cose strane, il suo cavallo-vampiro prima di tutto, per credere a qualsiasi cosa. «E questi?». Indicò con la spada le due bestie nere che erano al suo fianco. «I miei figli!» Lei rise di nuovo, e fece scorrere le dita nella folta pelliccia che avevano intorno al collo. «Il loro padre era solo un cane lupo con cui mi sono accoppiata una volta. Hanno poco del mio sangue.» «Ti sei accoppiata con un cane lupo, con un animale?», domandò Sergi. «Mi sono accoppiata con te, non è vero? Ma quando mi accoppiai con il cane lupo avevo assunto la forma di un lupo. Proprio come, quando l'ho fatto con te, ero una donna.» «Quali mostri partorirai?», gridò lui. «Lupi Mannari, come me, e ci rimpinzeremo di carne e di sangue proprio come i miei figli si ciberanno della tua carcassa. Ignorante d'un cosacco, pensavi che fosse a causa della tua bruttezza che ti ho portato nella steppa, lontano dai rifugi degli uomini?» Sergi rispose fendendo l'aria con la sciabola. Il lupo, che era alla sua sinistra, si schiantò al suolo: la testa gli penzolava da un brandello di carne. Il rovescio violento che balenò subito dopo, era mirato a tagliare le zampe
di Zuleika, ma il colpo non riuscì perché lei balzò rapidamente lontano. Sul volto aveva un'espressione sorpresa e inorridita. Invece, il colpo prese l'altro lupo che era pronto a saltare. Sergi sentì le costole frantumarsi quando la sciabola penetrò nel fianco dell'animale. La bestia lanciò un ululato di dolore, un grido che si interruppe di colpo quando la sciabola di Sergi gli fracassò la testa. Tutto accadde a una velocità incredibile, una persona che avesse battuto gli occhi due volte avrebbe perso le due sciabolate. Zuleika era indietreggiata di una mezza dozzina di passi, con le mani premute sulla faccia, incredula dell'abilità e della destrezza del cosacco. Sergi pensò di balzare e infilzarla, ma non era certo di tutti i poteri magici di lei, perciò resisté all'impulso. Si ricordò di lanciare un fischio, basso e insistente, per chiamare il suo cavallo. «I miei figli saranno più potenti di quanto pensassi», ansimò Zuleika, riprendendosi a malapena. «Il loro padre è veramente forte. Penso che mangerò il tuo cuore perché la tua forza fluisca in me.» Fece un passo verso di lui. La sua figura ondeggiò, si scurì, si accucciò. Sergi chiuse gli occhi per un attimo. Un lupo, con i denti scoperti, era accucciato sul terreno, pronto a balzare. Avanzò di qualche passo, con la coda che sferzava violentemente l'aria. Sergi si irrigidì tutto per prepararsi all'urto con l'animale. Maledizione, perché aspettava? Cercò di afferrare meglio l'elsa della spada, resa scivolosa dal sudore. Il sangue gli rombava nelle orecchie. Vide il corpo scarno e nero del lupo raggomitolarsi. Gli occhi neri incontrarono i suoi: erano così strani per un lupo. Poi balzò. L'animale, Zuleika, saltò in avanti. Sergi ebbe una visione da incubo: una bocca rossa e lunghe zanne bianche. Qualcosa urtò violentemente contro la sua schiena, gettandolo a terra, l'aria uscì dai suoi polmoni con un gemito. Per un momento, giacque stordito, con il viso premuto contro il terreno nero della steppa. Al di sopra di lui infuriavano i rumori di una battaglia, poi si fermarono all'improvviso in un gorgoglio morente. Mormorando i suoi ringraziamenti a Dio, Sergi tentò di alzarsi in piedi. Si sforzava di inspirare per introdurre aria nei polmoni contratti e doloranti. Afferrò la spada, e si guardò intorno, ancora piegato in due. Il cavallovampiro sovrastava il cadavere di uno dei lupi, e succhiava soddisfatto il suo sangue con il muso insanguinato. A pochi metri di distanza, un lupo dagli occhi neri giaceva sul dorso, con le zampe all'aria. Il sangue scorreva dalla sua gola dilaniata.
Il cavallo e il cosacco si scambiarono un'occhiata. Anni prima uno starec aveva profetizzato che il cavallo e nessun altro sarebbe stata la sua fine. Be', non era ancora arrivata l'ora. Si avvicinò al corpo del lupo-Zuleika. «Eri una bella ragazza, Zuleika, e, come lupo, hai una bella pelliccia.» La sua pelle nuda fu scossa da un brivido quando si chinò sul cadavere. Anni dopo, in un campo di lavoro del Circolo Polare Artico, una Guardia Rossa scambiò un piatto di zuppa per la borsa da tabacco di un prigioniero. Il giorno seguente, forse rinforzato dalla zuppa, il cosacco fuggì e alla guardia restò la borsa da tabacco. Era una bella borsa, di soffice pelliccia, simile ai capelli di una ragazza. GESÙ di Gianni Pilo I Signori Dei Lupi, 1988 1. «Maledizione al deserto! Maledizione alla sabbia! Maledizione agli Zeloti! E maledizione al momento che ho messo piede in questo posto maledetto dagli Dèi!» Così brontolava tra sé Valerio Flaviano, Proconsole della VII Legione romana di stanza in Palestina, mentre procedeva alla testa di un drappello di cavalieri in mezzo al deserto. Il sole alto picchiava implacabilmente sugli elmi e le loriche di cuoio dei legionari, i quali avrebbero volentieri gettato via le armature per rimanere con le sole tuniche le quali, già da sole, costituivano un carico fin troppo fastidioso in quella calura insopportabile. Il vento del deserto soffiava senza tregua il suo alito caldo, ma solo la sua presenza dava un po' di movimento alla piatta distesa che circondava da ogni parte i cavalieri, facendo rotolare tra le zampe dei cavalli dei cespugli secchi che creavano dei piccoli mulinelli con la sabbia. Quel posto sembrava davvero dimenticato dagli Dèi e, se non ci fosse stato di tanto in tanto il movimento furtivo di qualche lucertola o di qualche vipera che dalla sommità di una pietra si precipitavano subito al di sotto della stessa non appena vedevano il gruppo dei Romani, si sarebbe detto che ogni forma di vita fosse assente da quei luoghi. Erano ormai diversi giorni che avevano lasciato Gerusalemme per un viaggio d'ispezione ai vari presidi disseminati in Palestina: nonostante il
caldo, le difficoltà, i disagi e la lontananza da Roma, la proverbiale efficienza e disciplina dei soldati romani non venivano meno, ed era questo il motivo per il quale Valerio si trovava ora lì in mezzo al deserto a rimpiangere con nostalgia il tepidarium della sua villa sul Gianicolo, e la frescura della brezza che spirava normalmente sui colli di Roma. Pensare era l'unica cosa che si poteva fare durante quelle cavalcate nel deserto: non era infatti assolutamente il caso di parlare, dato che questo avrebbe fatto penetrare in gola il vento caldo che quegli uomini peraltro già assorbivano in abbondanza attraverso le narici con risultati tutt'altro che felici. Quindi i cavalieri procedevano in silenzio, chiusi nei loro pensieri, con lo sguardo rivolto all'orizzonte nella speranza di intravedere un'oasi o qualche villaggio che consentisse una pausa di refrigerio al loro viaggio. Solo che i villaggi erano assai distanti l'uno dall'altro e le oasi praticamente inesistenti. Già di per se stesse non erano numerose, ma poi, senza uno pratico di quei luoghi, trovarle costituiva un vero e proprio colpo di fortuna. Non che i legionari si fossero messi in viaggio senza una guida: alla loro partenza da Gerusalemme, avevano seco un indigeno di nome Efrem che lavorava con i Romani da tempo, e che si era mostrato veramente prezioso per tutta la prima parte del viaggio procurando di far seguire loro i percorsi più brevi, e facendoli ristorare presso le oasi e i pozzi del deserto. A un certo punto però, e precisamente nel villaggio di Nahabat, era scomparso improvvisamente. Questo fatto aveva vieppiù rafforzato in Valerio l'idea che quegli ebrei fossero infidi, falsi e del tutto inaffidabili: evidentemente quell'Efrem, dopo averli condotti sufficientemente lontano da Gerusalemme, li aveva abbandonati nella speranza che cadessero vittime, o di qualche imboscata da parte dei suoi compatrioti, o delle insidie del deserto. Per i Romani di stanza in Palestina le imboscate erano all'ordine del giorno, a dimostrazione di una volontà non doma da parte degli ebrei di ribellarsi al giogo di Roma Imperiale: i più assidui e determinati poi nel portare i loro attacchi contro i legionari, erano gli Zeloti, una setta di fanatici irriducibili che non sopportavano in alcun modo il dominio straniero. Anche quel viaggio non aveva deflettuto dalla norma per quanto concerneva le imboscate, tanto che Valerio e i suoi uomini ne avevano dovute sopportare ben tre, superate peraltro tutte brillantemente con la perdita di un solo legionario, a fronte di quella di diversi ebrei che ora dovevano giacere nella polvere preda degli avvoltoi e delle iene, ammenoché i loro
compagni, una volta allontanatisi i Romani, non avessero provveduto a dar sepoltura ai corpi dei caduti. Riflettendoci su, Valerio ricordò che una delle imboscate era stata sventata proprio grazie all'aiuto di Efrem il quale, al momento di entrare in un'oasi, lo aveva avvertito che c'erano degli uomini appostati sugli alberi e tra i cespugli vicini alla pozza d'acqua cui erano diretti. Resosi conto di quanto gli era stato indicato dall'ebreo, il Proconsole aveva rapidamente diviso i suoi legionari in due gruppi, dei quali, mentre uno procedeva al suo comando verso gli uomini appostati, l'altro, guidato da un centurione, dopo aver effettuato un giro intorno all'oasi, avrebbe proceduto a assalire gli ebrei alle spalle, non consentendo loro alcuna via di fuga. Il combattimento era stato breve e cruento. In poco tempo la quasi totalità degli ebrei era stesa a terra in un lago di sangue, mentre solo tre del gruppo originario erano riusciti a fuggire su quei piccoli cavalli che non finivano mai di stupire Valerio per la loro velocità. In un primo tempo aveva pensato di lanciarsi con i suoi uomini all'inseguimento dei superstiti ma poi, considerata la stanchezza del viaggio e del recente scontro, aveva desistito dall'idea, pago nel vedere i molti corpi distesi sulla sabbia senza vita. E aveva anche ringraziato Efrem per quello! Avrebbe dovuto piuttosto appenderlo per i piedi a una palma e lasciarlo arrostire al sole, visto poi come si era dileguato, abbandonandoli a Nahabat! Ma, questa volta, Valerio si sbagliava. Se avesse potuto vedere gli occhi aperti, senza vita, di Efrem, ai piedi di una duna non molto distante dalla periferia di Nahabat, si sarebbe reso conto che non era stato per sua volontà che l'ebreo aveva lasciato i suoi amici Romani. Erano stati infatti gli Zeloti che, avendo visto il loro compatriota far da guida ai loro nemici, avevano atteso il momento opportuno per catturarlo. E quel momento era arrivato quando Efrem, a Nahabat, aveva lasciato i militi per andare a comprare del cibo al mercato: mentre passava in un vicolo angusto tra un gruppo di casupole, era stato assalito, ridotto all'impotenza, imbavagliato, e condotto all'interno di una casa, dove gli era stato fatto un rapido processo. L'esito del quale era già scontato fin dal primo istante: riconosciuto infatti come traditore della propria gente, nonostante i suoi lamenti e le sue proteste, era stato condannato a morte e condotto alla periferia del villaggio, dove la sentenza era stata subito eseguita con il taglio della gola che
ora sorrideva rossa sotto il sole del deserto, dopo aver creato nella sabbia vicino al corpo riverso una pozza di sangue rappreso. «Maledetto lui e tutti i suoi congeneri!» Con queste ingiuste parole rivolte all'indirizzo di Efrem, Valerio tirò improvvisamente le briglie stringendo le gambe intorno alla groppa del proprio cavallo per non venir sbalzato di sella. L'animale infatti, avendo visto davanti a sé una vipera che gli aveva velocemente attraversato la strada, aveva fatto un brusco scarto impennandosi e, per poco, non aveva disarcionato il proprio cavaliere. Riacquistato il controllo della cavalcatura, dopo aver accarezzato un po' l'animale sul collo per calmarlo, Valerio riprese il lento cammino sotto il sole cocente seguito dai suoi uomini disseminati in una lunga fila. Voltatosi indietro a guardarli, pensò tristemente che, in quel momento, erano ben lungi dal rappresentare quegli orgogliosi soldati delle Legioni romane che tutto il mondo ammirava e temeva ma, con tutta probabilità, anche lui non doveva certo offrire un aspetto molto più edificante. In compenso sapeva però che, all'occasione, sarebbe bastato un attimo per farli diventare immediatamente quelle perfette macchine da guerra che conosceva così bene per cui, dato di sprone al cavallo, distanziò il resto dei legionari scrutando l'orizzonte per vedere se riusciva a scorgere il villaggio che avrebbero già dovuto raggiungere sin dalla notte precedente... 2. Una splendida notte stellata stendeva il suo manto sulla vasta conca nella quale sorgeva il villaggio di Nazareth. Una brezza pungente soffiava tra i palmizi, i cedri e gli alberi di ulivo che sorgevano in gran numero nella vallata, mentre in cielo una luna bianca, immensa nella sua pienezza, inondava di un chiarore diafano il paesaggio circostante. Il silenzio, pressoché uniforme, era rotto soltanto dallo stormire delle fronde smosse dalla brezza notturna: tutto era immobile, ma la quiete di quella notte di Palestina era spezzata da qualcosa d'anormale. Tra le ombre degli alberi, un'altra ombra si muoveva furtiva, passando da un albero all'altro con agilità assolutamente fuori dal comune. A un primo sguardo, il percorso che seguiva poteva sembrare del tutto casuale e privo di scopo ma, nell'esaminare più attentamente gli spostamenti da un albero all'altro, si poteva constatare che la meta cui era diretto l'essere cui apparteneva l'ombra era costituita da un boschetto di palme si-
tuato nella parte estrema a nord della vallata. Il procedere, veloce e inesorabile, avveniva senza il minimo rumore. Non un ansito o l'affanno di un respiro accompagnavano i movimenti pur veloci e senza soluzione di continuità che tendevano a raggiungere quel gruppo di alberi. Ma non solo agilità e destrezza scaturivano da quella figura in movimento: l'altra caratteristica che balzava evidente era quella di una forza notevole, a stento trattenuta dalle membra che la contenevano. Con una serie di rapidi balzi, la creatura fu tra le prime palme del boschetto, dove si poteva udire un brusio indistinto che, man mano che si avvicinava, si tramutava in un insieme di parole smozzicate e senza molto senso logico. «Cosa c'è di più bello di una bella bevuta?... Viva il vino... ma solo quando è di quello buono... Dài, svegliati... È mai possibile che non riesci a reggerne qualche sorso?... Ed eri tu quello che diceva di essere capace di bere una botte intera... Bere... Bere... Bisogna continuare a bere...» Due occhi rossi come tizzoni d'inferno si posarono sul centro di una piccola radura circondata dalle palme. Appoggiato con la schiena a un aibero, in precario equilibrio, un uomo parlava rivolgendosi a un altro che giaceva al suolo addormentato. Era evidentemente ebbro, così come doveva esserlo anche l'altro coricato, e questo fatto era avvalorato dai molti otri che giacevano vicini ai due, rovesciati per terra, a dimostrazione di una serata trascorsa tra abbondanti libagioni. Nel portare alla bocca l'otre di cuoio che aveva in mano, l'uomo appoggiato all'albero si accorse dei due occhi che brillavano nell'oscurità. Ondeggiando sulle gambe malferme, si staccò dall'albero cui era appoggiato, e si diresse verso l'altro lato della radura dove l'ombra stava acquattata, in attesa. Quando gli fu vicino, si accorse dell'alta sagoma tra gli alberi, e così l'apostrofò ridendo: «Forza amico. Vieni anche tu... Sei arrivato in ritardo, ma un po' di questo nettare è ancora rimasto... E io sono generoso... e voglio dividerlo con te... Quello stupido di Geremia ha abbandonato la partita proprio sul più bello... Ma ora ci sei tu... e potremo bere e parlare... parlare e bere...». Ma l'ombra non si muoveva, e solo il brillare degli occhi rossi denotava la presenza di un essere vivente nel buio della notte. Allora l'ubriaco si fece ancora più vicino e, tendendo l'otre che teneva in mano, invitò ancora una volta lo sconosciuto a farsi avanti. «Tieni... è buono... bevi...» Con estrema lentezza, l'ombra mosse un passo in avanti e cominciò ad
avanzare verso il centro della radura. Non appena fu fuori dal cerchio degli alberi e la luna iniziò a illuminarlo, l'ubriaco rimase con la mano che reggeva l'otre ferma a mezz'aria, incapace di muoversi e di articolare la pur minima parola. Infatti, la visione che gli si parava davanti agli occhi, era quanto di più assurdo e orribile potesse immaginarsi e, in un istante di lucidità, pensò dovesse trattarsi del prodotto dei fumi dovuti al troppo vino ingerito quella notte. Con un vero e proprio sforzo di volontà, lasciò ricadere il braccio che teneva teso in avanti e le dita della mano gli si aprirono facendo cadere per terra l'otre del vino: quindi chiuse gli occhi e poi li riaprì stropicciandoseli con entrambe le mani. Niente da fare. Non si trattava di un parto della sua fantasia: quell'essere era lì davanti a lui, solido, reale e, soprattutto, minacciosamente orribile. Nudo, con una massa di peli che gli ricopriva il corpo quasi per intero, era una via di mezzo tra un uomo e un animale. Dell'uomo aveva il portamento eretto sulle gambe e una certa luce di intelligenza che balenava negli occhi rossi come due carboni accesi. Ma ogni similitudine con un essere umano finiva lì: il resto infatti era quello di un enorme lupo nero. Gli artigli protesi, il pelame folto, ma soprattutto il muso ferino, nel quale i denti digrignati facevano intravedere una lingua rossa e penzolante, umida di saliva, denotavano senza ombra di dubbio l'appartenenza di quell'essere alla stirpe dei lupi. Tutto questo l'uomo lo notò in un breve attimo perché, con un balzo improvviso, la bestia gli fu addosso facendolo cadere riverso al suolo e, mentre le braccia villose lo tenevano avvinto in una stretta sovrumana, i denti acuminati si abbassarono alla ricerca della gola indifesa. La lotta fu di breve durata. L'uomo capì subito di non avere scampo alcuno e, quando sentì sul proprio collo l'alito caldo dell'essere che lo teneva inchiodato a terra, lanciò un grido d'aiuto che si spense ben presto in un gorgoglio quando le zanne si chiusero sulla sua gola troncando insieme la disperata richiesta d'aiuto e l'ultimo anelito di vita di quell'infelice. Ma l'urlo del moribondo aveva sortito un effetto. Infatti, l'altro uomo che si trovava nella radura addormentato, svegliato improvvisamente dal grido e dal rumore, aprì gli occhi per trovarsi di fronte una scena raccapricciante. A pochi metri da lui, disteso sul cadavere di quello che era stato il suo amico e compagno di libagioni, un essere demoniaco che sembrava essere scaturito dal profondo dell'Inferno, stava lappando e suggendo dalla gola squarciata il sangue che scorreva copioso. Gli occhi erano chiusi, e la be-
stia sembrava in preda a una sorta d'estasi che doveva probabilmente derivargli da quell'orrendo banchetto. Bastò un attimo per far dileguare a Geremia i fumi dell'alcool. Improvvisamente lucido, pensò che l'unico modo per poter sfuggire a una sorte simile a quella cui era andato incontro il suo infelice compagno, fosse di scappare il più in fretta e il più velocemente possibile da lì. Approfittando quindi del fatto che quell'essere gli volgeva le spalle, e che teneva gli occhi chiusi tutto compreso del suo macabro pasto, cominciò a muoversi con estrema lentezza cercando di guadagnare lo scarso riparo offerto dagli alberi che circondavano la radura. Per sua fortuna, quando era caduto a terra addormentato, si era trovato proprio vicino al margine della radura, per cui non impiegò molto tempo a strisciare con tutto il corpo entro l'ombra del boschetto. Con estrema lentezza, mentre ogni gesto che faceva sembrava dovesse durare un'eternità, si rizzò in piedi e, un passo dopo l'altro, sempre con la massima circospezione, cominciò ad allontanarsi da quel luogo di tragedia. Percorsi che ebbe una decina di metri senza voltarsi indietro per tema che quella bestia demoniaca lo seguisse, udì un rumore improvviso come di qualcosa che si muovesse alle sue spalle. Allora, non riuscendo più a dominarsi, si mise a correre a perdifiato verso il villaggio, gridando a squarciagola la sua ansia e il suo terrore. Se solo si fosse fermato un momento a guardare, avrebbe però visto che la causa del suo spavento era stata solo una capra che si aggirava nel palmeto alla ricerca del resto del gregge che dormiva tranquillamente entro un recinto poco distante. L'intervento della capra valse però probabilmente a salvargli la vita perché, proprio un istante prima, un istinto animalesco aveva avvertito l'essere che si trovava nella radura che qualcosa intorno a lui era mutato. Aperti gli occhi e sollevato il muso dal pasto, si era accorto subito della sparizione del secondo uomo, ed era balzato in piedi volgendo lo sguardo all'oscurità del boschetto, pronto a lanciarsi all'inseguimento della nuova preda. Ma l'improvviso trapestio causato dalla corsa disperata dell'uomo, unito alle grida che lo stesso lanciava e che riempivano di echi tutta la vallata, lo avevano fatto desistere dal suo intento: dopo aver scosso la testa con un gesto del tutto umano, ritornò al pasto che aveva lasciato interrotto. Geremia coprì la distanza che lo separava dal villaggio in un tempo veramente eccezionale. Svegliati dalle sue grida, gli abitanti del paese si erano alzati, ma non avevano ancora fatto in tempo a uscire per le strade a ve-
dere cosa succedeva, che già Geremia era all'interno del centro abitato e bussava a tutte le porte che erano ancora chiuse. «Aiuto... aiuto... aprite... venite fuori...» «Che c'è?» «Ma cosa è accaduto?» «Calmati... dicci cosa è successo...» Finalmente, quando si fu formato un consistente gruppo di persone intorno a lui, Geremia smise di agitarsi e di dire frasi incoerenti. Rassicurato dalla presenza dei volti conosciuti e dai luoghi familiari che lo circondavano, si diede a raccontare con dovizia di particolari la scena cui aveva assistito poco prima. Quando ebbe terminato il racconto, l'incredulità che era andata man mano manifestandosi tra gli astanti, aveva lasciato il posto all'irritazione. Infatti, i compaesani di Geremia, perfettamente convinti che fosse in preda ai fumi dell'alcool, avevano un diavolo per capello per essere stati svegliati a quell'ora della notte dalle fantasticherie di un ubriaco. Che un demonio dell'inferno, metà uomo e metà animale, si fosse tutto a un tratto recato a Nazareth per prendersela con due ubriachi, be'... era veramente quanto di più assurdo fosse mai stato dato di pensare. «E tu ci hai svegliato a quest'ora di notte per farci sentire queste storie?» «Ma lo sai che domani mattina dobbiamo alzarci presto per andare a lavorare, e che così ci togli delle ore preziose di riposo prima della nuova fatica?» «Io penso che sarebbe il caso di fargli passare la sbronza con una buona dose di bastonate...» «Ma no, vi prego...», cercava disperatamente di dire Geremia. «Tutto quello che vi ho detto è la pura verità. Guardatemi: non sono affatto ubriaco. Con Davide abbiamo bevuto, sì: ma, dopo quello cui ho assistito, vi assicuro che sono completamente sobrio... Perché non mi credete? Quell'essere è veramente terribile: può ucciderci tutti...» Vedendo che l'agitazione di Geremia non accennava minimamente a calmarsi, il capo del villaggio, Isacco, dopo aver ottenuto il silenzio da parte degli irati compaesani con un ampio gesto della mano, si rivolse all'uomo che era stato la causa di tutto quel trambusto. «Insomma, cosa dobbiamo fare perché tu ci lasci tornare a dormire nuovamente in pace?» «Penso che la cosa migliore sia quella di andare a dare un'occhiata», lo interruppe a questo punto il fabbro. «Quando vedrà con i suoi occhi che si
tratta solo di fantasie dovute al vino, la smetterà di seccarci: diversamente, non ce lo toglieremo di torno per tutto il resto della notte.» Molti altri convennero con le parole del fabbro, il quale si rivolse a Geremia invitandolo a far strada verso il luogo del suo fantomatico incontro. Ma Geremia, terrorizzato dal ricordo di quanto aveva visto, si rifiutava decisamente di tornare nel boschetto. «Non possiamo andare là... Ci ucciderà tutti...» «Ora basta! O ci accompagni là, o ti daremo tante di quelle bastonate che rimpiangerai di non esserti fatto sbranare dal tuo diavolo...», lo minacciò il fabbro che aveva preso in mano la situazione. Vista la mala parata, Geremia si decise, sia pure a malincuore, ad accompagnare i suoi compaesani nel boschetto: dopotutto erano in tanti, e c'era la possibilità che quella bestia non ardisse attaccare un così folto numero di persone. Quella bestia... al ricordo, un brivido gli serpeggiò lungo la schiena: non sarebbe sicuramente riuscito a guardare una seconda volta quell'essere demoniaco! Perso in questi pensieri, aveva intanto attraversato quasi per intero la valle, e le prime palme del boschetto che era stato testimone della sua bevuta si ergevano ormai a poca distanza da lui e dal gruppo che guidava. Giunto sul limitare, proprio dove cominciava l'oscurità più fitta, le gambe si rifiutarono di fare un solo passo in avanti per cui, con voce rotta dallo spavento, disse al fabbro che gli stava al fianco: «Ecco: siamo arrivati. Il posto è questo qui. Ma non mi chiedete di accompagnarvi all'interno, perché mi potete anche uccidere a forza di bastonate, ma io là dentro non ci torno per tutto l'oro del mondo!». Giovanni, il fabbro, constatato che non c'era verso di smuoverlo, e desideroso di por fine a quell'intermezzo notturno che si stava protraendo sin troppo, dopo aver lasciato due uomini a far compagnia al terrorizzato Geremia, s'inoltrò nel palmeto con il resto del gruppo. Fatti non molti passi, si trovò nella radura di cui aveva parlato Geremia, e i capelli gli si drizzarono sulla testa al vedere la scena che le torce illuminavano. Qua e là sparsi c'erano diversi otri vuoti e, in mezzo allo spiazzo, in un lago di sangue, giaceva morto Davide, l'infelice compagno di Geremia. Passato il primo istante di orrore e raccapriccio, Giovanni diede ordine ad alcuni di quelli che lo avevano accompagnato di prendere il corpo di Davide e di portarlo in paese, dopodiché tornò velocemente dove aveva lasciato Geremia in attesa.
«Disgraziato! Pazzo ubriacone! Che cosa hai fatto a Davide? Lo hai ucciso! Hai alzato la tua mano assassina su un tuo fratello... Ah, ma stai pur certo che pagherai per questo orrendo crimine di cui ti sei macchiato...» «Ma non sono stato io... Vi ho detto di quell'essere demoniaco che ha assalito Davide... È stato lui...» «Smettila, disgraziato», lo interruppe il fabbro con decisione. «Sei ancora in preda ai fumi del vino o... o la sbronza ti è passata, e hai ritenuto di potertela cavare con questa storia assurda? Ma puoi mai pensare, anche solo per un attimo, che delle persone sane di mente possano credere a questa storia pazzesca di cui vai cianciando? Quando eri ubriaco, sarai sicuramente venuto a diverbio con Davide per qualche insignificante motivo, e allora lo hai ucciso...» «Ti giuro che non l'ho toccato... Mi sono svegliato al suo grido, e ho visto quella bestia orrenda...» «Ancora insisti? Smettila! Facciamo ritorno al villaggio, dove Isacco e gli Anziani decideranno quale sarà la tua sorte. Che Dio possa aver pietà della tua anima, perché troppo grande è il delitto che hai commesso!» Così dicendo, Giovanni si diresse verso Nazareth, seguito da Geremia che veniva tenuto saldamente per le braccia dai due uomini che erano rimasti con lui prima. Il loro ingresso nel villaggio fu salutato dai pianti e dai lamenti dei congiunti di Davide ai quali era stato consegnato poco prima il corpo dell'ucciso. Per la moglie, i figli e gli altri parenti, quella sarebbe stata una notte di veglia e di dolore attorno al cadavere: ma pochi altri del villaggio avrebbero dormito per il resto di quella notte. L'ombra nera della morte era calata su Nazareth, e contrastava in modo stridente con il chiarore diafano della luna piena. In piedi, al centro del paese, Isacco attendeva l'arrivo di Geremia con gli altri Anziani del villaggio, in silenzio. L'orrore del corpo straziato di Davide era ancora nei loro occhi, e i lamenti dei suoi congiunti nelle loro orecchie. Quando Geremia fu davanti a loro, e dopo che ebbero ascoltato quanto venne riferito da Giovanni, Isacco si rivolse all'uomo che gli stava di fronte. «Allora, confessi il tuo delitto?» «Non sono stato io... non sono stato io...», piagnucolava Geremia per tutta risposta, quando un pugno sferratogli alla tempia destra da uno degli uomini che lo avevano condotto sin lì, lo fece cadere in ginocchio intonti-
to. «Non lo toccate!», ordinò Isacco. «Domani ci sarà un regolare Giudizio, ed è allora che sarà punito. Ora rinchiudetelo: che passi queste ore che lo separano dal sorgere del sole, solo con la sua colpa.» Dopodiché, Geremia venne condotto in una capanna alla periferia del villaggio, e due uomini rimasero fuori di guardia, mentre il resto degli abitanti discuteva in gruppetti più o meno numerosi gli eventi di quella notte tragica. 3. Il sole, che era da poco sorto alle sue spalle, discendeva lentamente dall'alto della duna sulla quale si trovava Valerio, illuminando la vallata sottostante. Dopo tutta la sabbia che aveva avuto modo di vedere negli ultimi giorni, il verde della conca di Nazareth fu come un balsamo per gli occhi del romano. Quel paese là sotto significava acqua, cibo e ristoro... anche se, con tutta probabilità, avrebbe trovato anche qui la solita ostilità cui era ormai abituato. Nel frattempo, gli altri legionari lo avevano raggiunto e si erano disposti in una lunga fila accanto a lui sulla cresta della duna, dove attendevano l'ordine di scendere nella valle. Dopo la marcia notturna, erano impazienti di raggiungere il riparo offerto da quelle case e da quel verde, prima che il sole splendesse alto nel cielo e inviasse i suoi raggi a scaldare intollerabilmente le loriche che indossavano. Col Proconsole in testa, la fila dei Romani cominciò a scendere lentamente lungo il costone della vallata e, una volta che furono sul fondo della conca, si addentrarono tra i gruppi di alberi e palme che spezzavano l'interminabile distesa di sabbia che si stendeva al di fuori di quelle pareti. Procedendo verso il villaggio che si delineava dall'altra parte della vallata, Valerio si stupì del fatto che i campi coltivati fossero ancora deserti, e che non si vedesse alcun pastore insieme ai greggi ancora chiusi nei recinti. Questo era molto strano dato che, anche in Palestina come in tutto il resto del mondo conosciuto, gli agricoltori e i pastori erano soliti essere molto mattinieri per accudire ai campi e agli armenti. Accantonato comunque per il momento quell'interrogativo, volse lo sguardo alle prime case di Nazareth che ormai gli si paravano dinanzi e, come prima nei campi, anche qui si accorse che non vi era alcun cenno di vita. Stava per rivolgersi al Centurione che gli cavalcava al fianco per
chiedergli la sua opinione al riguardo, quando udì una voce provenire dal centro del villaggio, e allora diede di sprone al cavallo inoltrandosi tra le case. Il sorgere del sole aveva visto gli abitanti di Nazareth quasi tutti radunati nell'unica piazza del paese. Gli eventi della notte appena trascorsa avevano inciso profondamente negli animi di quella gente quieta e pacifica che non ricordava, a memoria d'uomo, un fatto analogo a quello verificatosi quella notte. La gravità dell'accaduto aveva sconvolto tutti, e gli stessi Anziani, chiamati a giudicare un uomo per l'omicidio commesso, non si trovavano molto a loro agio nel dover applicare la Legge. L'arrivo d'Isacco fece tacere il brusio, e tutti i volti dei presenti si rivolsero all'uomo che era la loro guida per sentire quali sarebbero state le sue parole. «Portate qui Geremia», ordinò Isacco nel silenzio che lo circondava. Giovanni, il fabbro, si staccò da alcuni uomini con i quali aveva discusso sino a pochi istanti prima i fatti della notte, e si diresse alla casa nella quale era custodito Geremia. Arrivato davanti alla porta, ordinò con un cenno della mano ai due uomini di guardia di portarlo fuori. Quando Geremia uscì dalla soglia, Giovanni si accorse che era completamente lucido, e che i fumi del vino tracannato in abbondanza la sera precedente erano del tutto svaniti. «Dove andiamo?», chiese Geremia. «Al Giudizio», rispose brusco Giovanni e, voltate le spalle per impedire un ulteriore scambio di parole, si diresse verso la piazza seguito dagli altri tre. L'attenzione delle persone presenti nella piazza, si era spostata dalla figura d'Isacco alla via dalla quale sarebbe dovuto arrivare Geremia. Gli occhi erano tutti puntati nello spazio che si apriva tra due case, a Nord del quale, a un certo punto, si udì provenire un rumore di passi. Poco dopo, Giovanni e il piccolo corteo che lo seguiva fecero il suo ingresso e, attraversata la folla di persone in silenzio, si portarono davanti a Isacco e agli altri Anziani. Dopo averlo guardato per alcuni istanti, Isacco si rivolse all'uomo in piedi di fronte a lui. «Hai riflettuto su quello che hai fatto questa notte? Hai qualcosa da dire a tua discolpa, qualcosa che serva - almeno in parte - a dare una motivazione all'orrendo delitto che hai commesso?»
«Non ho fatto niente!», affermò con voce rotta dal pianto Geremia. «Come ve lo devo dire che non sono stato io a uccidere Davide? È stato quell'essere mostruoso che lo ha ucciso: non sono stato io...» «Cerca di essere uomo e di avere il coraggio delle tue azioni», lo rimproverò Isacco. «Tanto nulla potrà salvarti. Pentiti quindi di ciò che hai fatto, e chiedi perdono a Dio il quale solo, nella sua infinita misericordia, potrà forse perdonarti quello che gli uomini non possono...» A questo punto, il discorso d'Isacco s'interruppe. Gli occhi del vecchio erano fissi, come quelli degli altri Anziani che si trovavano al suo fianco, su una figura a cavallo che si stagliava proprio alla fine della via che era stata poco dianzi percorsa da Geremia e dagli uomini che erano con lui. Seguendo lo sguardo d'Isacco, anche gli altri abitanti di Nazareth voltarono le teste per vedere un soldato romano a cavallo che, fermo, li stava fissando. Poco dopo, al primo cavaliere se ne aggiunsero diversi altri e, ben presto, un nutrito manipolo di legionari romani era schierato in attesa. A quel punto Valerio, facendosi largo tra la folla assiepata, si portò di fronte al capo del villaggio al quale, dopo essere disceso da cavallo, chiese il motivo di quella insolita adunata. Avuta con brevi parole la spiegazione relativa al Giudizio in corso, fece cenno ai soldati di smontare pure loro e si apprestò a seguire l'esito del procedimento. «Vuoi essere tu a giudicarlo, Console?», lo interpellò Isacco. «Assolutamente no, vecchio. Procedi pure col tuo Giudizio. A quanto mi hai detto, quest'uomo si è macchiato di un delitto nei confronti della sua gente, e questo non rientra nella giurisdizione di Roma. È giusto che venga punito da voi, secondo le vostre leggi. Roma non interferisce nell'amministrazione della giustizia e degli usi degli altri popoli.» Ringraziato Valerio con un cenno del capo, Isacco si voltò nuovamente verso Geremia per dare corso al Giudizio. In una casa quasi alla periferia del villaggio, proprio in quel momento, un uomo si stava svegliando da un sonno profondo e pieno di incubi. Tommaso, questo era il suo nome, aprì gli occhi per vedere il sole già alto nel cielo, cosa questa che lo fece balzare in piedi dal suo giaciglio, dato che già da tempo avrebbe dovuto trovarsi al pascolo con le sue pecore. Nell'alzarsi, si accorse di essere completamente nudo, e questo lo stupì dato che, considerato il notevole abbassarsi della temperatura durante l'arco notturno, non era davvero sua abitudine mettersi a dormire senza una veste che lo riparasse in qualche modo dal morso del freddo della notte.
Senza comunque soffermarsi più di tanto a pensare su questo fatto, indossò la veste che giaceva per terra e uscì di casa dopo aver preso il bastone che si trovava, come sempre, appoggiato al muro vicino alla porta. Una volta fuori, impiegò alcuni istanti per rendersi conto di un fatto singolare. Infatti, intorno a lui, non c'era alcun segno di vita né si vedeva in giro alcuna persona, e questo era veramente strano dato che le donne avrebbero dovuto essere intente ai loro lavori e i vecchi essere seduti fuori dalle porte, mentre gli uomini, ovviamente, avrebbero dovuto trovarsi già da tempo nei campi o al pascolo con le greggi. Aguzzando l'orecchio, udì provenire dalla parte della piazza sita al centro del villaggio l'eco di alcune parole, e allora si diresse a quella volta per cercare di venire a capo di quell'insieme di fatti insoliti. Mentre camminava, cercò di fare mente locale e di richiamare alla memoria gli incubi che avevano travagliato il suo sonno la notte precedente. Non aveva bevuto prima di andare a dormire, né aveva mangiato troppo: del pane azzimo con un po' di formaggio di pecora era stato tutto quello che aveva costituito il suo pasto, mentre un po' di latte era ciò che aveva bevuto. Non sapeva quindi spiegarsi il motivo di un sonno tanto agitato! E il sogno! Che insieme di cose strane e senza senso! Gli sembrava di ricordare che stava correndo nel cuore della notte inebriandosi della fresca brezza sulla pelle nuda. E gli sembrava anche di vedere con occhi che non erano i suoi, e di provare delle sensazioni stranissime... ma che erano di una realtà impressionante! Se non fosse stato un sogno, avrebbe giurato di aver sentito proprio la fragranza dell'erba, l'odore delle capre chiuse nei recinti, il profumo delle palme, e così via dicendo. Poi i ricordi si facevano indistinti. Ricordava un boschetto di palme al limite della valle, gli sembrava anche di aver visto qualcuno ma, a questo punto, tutto svaniva in una tenebra totale. Aveva la sensazione di qualcosa di eccitante e allo stesso tempo di orribile, ma non riusciva in alcun modo a mettere a fuoco delle visioni che gli si agitavano nel profondo della mente e che era perfettamente consapevole ci fossero, ma che non volevano in alcun modo emergere sino alla soglia della coscienza. Era come se qualcuno avesse chiuso una porta, e lui non riuscisse assolutamente ad aprirla. Era intanto giunto nella piazza, dove rimase stupito nel vedere i suoi compaesani tutti radunati, oltre a un folto gruppo di soldati romani. Probabilmente doveva trattarsi di tasse o di cose del genere, rifletté, ma poi, visto che Isacco stava apostrofando in tono inquisitorio Geremia, si rese conto che doveva trattarsi di un Giudizio, e allora si rivolse a un uomo lì vici-
no al quale chiese quale fosse il motivo di quella riunione. «Ma stanotte dov'eri?», fu la risposta dell'interpellato. «È successo praticamente di tutto, e tu non ne sai niente?» «Dormivo profondamente», fu la desolata risposta di Tommaso. «E, come vedi, mi sono svegliato solo ora. Ecco il motivo per il quale sono all'oscuro degli avvenimenti che si sono verificati.» «Penso proprio che tu sia l'unico che sia riuscito a dormire questa notte: ma forse, dopotutto, sei stato fortunato. Infatti ti è stata risparmiata la visione di una scena orrenda: lo scempio del corpo di Davide ucciso da Geremia... Se avessi visto come era ridotto il corpo del suo amico... Ma stai a sentire quello che dice Isacco, e ti renderai conto di quanto è successo.» «E i Romani?», chiese ancora Tommaso, al quale le parole dell'altro avevano causato uno stato d'angoscia che non riusciva a spiegarsi. «Oh, quelli sono appena arrivati per caso. Non hanno nulla a che vedere con i fatti di questa notte. Probabilmente vorranno bere e mangiare, dopodiché se ne torneranno da dove sono venuti, o dove il demonio li voglia portare, maledetti loro!» Uniformandosi a ciò che gli era stato suggerito, Tommaso si mise ad ascoltare quanto stava dicendo il capo del villaggio e le risposte che gli dava Geremia. In breve tempo ebbe sufficientemente chiara la situazione. In stato di ebbrezza, Geremia aveva ucciso Davide e poi, per salvarsi, aveva inventato una strana storia di demoni o cose simili, che comunque non era riuscito a capire bene dal momento che, ogni volta che Geremia cercava di parlare, veniva immediatamente zittito dal suo interlocutore. Non ci volle molto prima che il Giudizio fosse concluso. La colpa di Geremia era palese, e l'accusato non fu in grado di portare alcun elemento a sua discolpa. La Legge in quel caso era molto chiara: lo aspettava la morte, e la condanna venne per bocca d'Isacco il quale, dopo aver brevemente consultato gli Anziani, stabilì che Geremia doveva essere lapidato quando il sole avesse raggiunto la sua massima altezza nel cielo. Promulgata la sentenza, la folla si sciolse disperdendosi in tanti piccoli gruppetti in attesa che arrivasse l'ora stabilita per il supplizio: era chiaro che di lavorare per quel giorno non se ne sarebbe parlato e, mentre Isacco e alcuni degli Anziani si appartavano con i Romani, Tommaso si allontanò con il cervello in un tumulto, preda di una serie di sensazioni che non riusciva assolutamente a definire. 4.
Si approssimava ormai l'ora della lapidazione di Geremia, e la gente si stava radunando nuovamente per recarsi alla pietraia dove avrebbe avuto luogo il supplizio. L'esecuzione di un uomo creava un che di morboso che penetrava nell'animo generando un misto di repulsione e di attrazione, quale è sempre dato di riscontrare in una folla nella quale sia stata risvegliata la brama di sangue: in questo caso poi, l'uccisione era del tutto legale, per cui gli uomini potevano dar sfogo senza alcuna remora ai loro più bassi istinti. Il sole, alto nel cielo, spandeva in ogni dove una calura veramente torrida che dava un non piccolo contributo nell'annebbiare le facoltà raziocinanti degli abitanti di Nazareth. Geremia, chiuso nella stessa casa dove aveva trascorso la notte precedente, aveva ormai smesso di lamentarsi e di cercare di convincere gli altri della sua innocenza: una sorta di rassegnato fatalismo era caduto su di lui, per cui sedeva in silenzio con lo sguardo fisso nel vano della porta socchiusa dalla quale poteva scorgere le case sull'altro lato della via: gli uomini di guardia ai lati della porta evitavano di guardarlo, consci che quelli erano i suoi ultimi istanti di vita. A un tratto il silenzio della strada venne rotto da un mormorio e dal rumore di parecchi passi che si stavano avvicinando: ben presto, nel vano della porta, si stagliò la figura di Giovanni, giunto con diversi altri uomini a prendere Geremia per condurlo al luogo del supplizio. Senza dire una parola, il condannato si alzò e, uscito nella luce del sole, si avviò dietro coloro che lo erano venuti a prendere mentre, al suo passare, le donne si coprivano il capo con i veli in segno di lutto. La folla dietro Geremia si andava man mano ingrossando durante il percorso. Avevano già lasciato le ultime case del paese, e avevano imboccato la strada lungo la quale si trovava la pietraia cui erano diretti, quando un uomo a piedi si fece loro incontro. Alto, magro, dai lineamenti fini, procedeva con passo lento ma sicuro alla volta di Nazareth. La polvere sui vestiti e quella che ricopriva le bisacce poste di traverso sulla schiena dell'asino che conduceva seco, facevano chiaramente capire come entrambi fossero reduci da un lungo viaggio. Non appena Geremia lo vide, gli si precipitò incontro e, giuntogli vicino, s'inginocchiò dicendo con voce rotta dai singhiozzi: «Rabbi, ti prego, salvami! Io non ho fatto niente...». Con dolcezza, l'uomo che Geremia aveva chiamato Maestro, si chinò su di lui e, passategli le mani sotto le ascelle, lo aiutò ad alzarsi. Quindi, ri-
volto alla folla intanto sopraggiunta, chiese: «Quale colpa ha commesso quest'uomo? Chi è che lo accusa? E di che cosa lo si accusa?». Nel silenzio venutosi a creare a quelle parole, Isacco si fece avanti e spiegò: «Quest'uomo si è macchiato del sangue di un suo fratello, e per la Legge deve essere punito. È stato sottoposto al Giudizio e condannato alla lapidazione: ora lo stiamo portando al luogo del supplizio. Questo è quanto è stato stabilito, e questo deve essere fatto». L'uomo che aveva posto la domanda, si rivolse a Geremia che gli stava a fianco, mentre la folla premeva e spingeva da ogni parte: lo guardò intensamente, poi si rivolse a quanti lo circondavano e, con voce calma, ma nella quale vibrava una nota di assoluta sicurezza, disse: «In verità vi dico: quest'uomo non è responsabile della morte del suo amico. Le sue mani sono monde del sangue che è stato versato e, se voi lo ucciderete, commetterete un delitto contro Dio e contro gli uomini». «Gesù, tu eri a Gerusalemme, e non hai assistito a quanto si è verificato qui questa notte», disse Giovanni in tono concitato. «Io sono stato nel luogo dove Geremia ha ucciso Davide e, se tu avessi visto...» «Hai visto con i tuoi occhi Geremia uccidere Davide?», lo interruppe Gesù. «No... Ma non c'era nessun altro oltre a lui nel bosco dove abbiamo trovato Davide... E poi, quella storia assurda che ci ha raccontato di un demone mezzo bestia e mezzo uomo che li avrebbe assaliti, uccidendo Davide per berne il sangue... via, è la prova della sua colpa!» «Oh gente ignorante e superficiale!», li apostrofò Gesù. «A volte si rimane ingannati pur vedendo con i propri occhi, e voi siete addirittura pronti a uccidere un uomo, senza nulla aver visto, solo sulla base di alcuni sospetti... Vi ripeto che quest'uomo è innocente! Ma, poiché sembra che la mia parola non vi basti, vi chiedo una cosa sola: rimandate di un giorno l'esecuzione. Se, quando domani il sole sarà nuovamente alto nel cielo non avrete avuto le prove della sua innocenza, ebbene, allora potrete metterlo a morte.» Brusii e commenti tra i più disparati si alzarono tra quanti circondavano Gesù e Geremia: la folla era ormai entrata nell'ordine d'idee dell'esecuzione, e non voleva a nessun costo essere privata della vittima designata. Il più accanito di tutti era Giovanni, il fabbro, il quale incitava apertamente tutti gli altri a dar corso alla sentenza che era stata pronunciata. Quelli più
distanti premevano su chi stava davanti, e solo gli Anziani e Isacco costituivano un fragile velo tra la massa tumultuante e i due che si trovavano al centro. La situazione sembrava ormai disperata, quando... Valerio aveva seguito con alcuni dei suoi uomini il corteo che si dirigeva al luogo del supplizio. Non si trovava da molto in Palestina, e non aveva mai avuto modo di assistere a un'esecuzione mediante lapidazione. Quest'usanza gli era del tutto sconosciuta, per cui era curioso di assistervi. Anche lui, come tutti gli altri, era stato presente all'incontro con quel singolare viandante e, dopo averne udito le parole, si era rivolto al Centurione che lo accompagnava per avere delle spiegazioni. «Chi è quell'uomo al quale si è rivolto il condannato?», aveva chiesto. «Si chiama Gesù, ed è figlio del falegname di questo villaggio, Giuseppe. È un uomo molto strano: è molto amato e molto odiato dai suoi conterranei. Si dice che sia capace di compiere miracoli, e addirittura corre voce che sia il figlio o l'inviato del Dio di questa gente.» Così aveva risposto il Centurione Curzio, che si trovava in Palestina ormai da tre anni, e aveva quindi una certa conoscenza delle cose di quel paese. Incuriosito dalla descrizione che gli era stata fatta di quell'individuo, Valerio si era messo ad ascoltare attentamente il discorso di Gesù, Giovanni e Isacco, e aveva assistito al progressivo insorgere della folla alla richiesta di Gesù di aspettare un giorno prima di procedere all'esecuzione. Tutto a un tratto, senza saperne esattamente il motivo, si fece avanti tra la gente accalcata e, postosi accanto a Gesù e a Geremia, disse a voce alta: «Fate silenzio! Non mi sembra che quest'uomo voglia infrangere la Legge. Vi ha chiesto solo di attendere un giorno prima di procedere con la lapidazione del condannato e, considerato che si tratta dell'ultimo giorno di vita per quest'uomo, ritengo che questa dilazione gli possa venire concessa». Il brusio della folla, nell'udire le parole del Proconsole romano, si fece ancora più minaccioso. «Perché i Romani s'intromettono nei nostri affari?» «È la nostra Legge che stabilisce la morte per gli assassini, e quindi va rispettata.» «Pensano di poter disprezzare i nostri usi e costumi, solo perché hanno la forza delle armi...» Vedendo l'agitazione che si era impadronita degli astanti e che rischiava
di degenerare in una aperta rivolta contro Roma, Curzio si rivolse sottovoce al suo comandante. «Ti prego, Valerio Flaviano, lascia perdere questi ignoranti. Non vale la pena di perdere del tempo con loro. Che ammazzino pure quell'uomo: in fin dei conti è un assassino, per cui non...» «Non si tratta di quello che ha fatto o non ha fatto», lo interruppe Valerio, «ma del prestigio di Roma. Ho suggerito loro di accordare un giorno a quel disgraziato e, se ora dovessi recedere da quel che ho detto, si direbbe che dei Romani hanno ceduto di fronte alle minacce di una folla. E Roma non recede di fronte a nessuno! Fai quindi venire qui gli altri che sono rimasti in paese in modo da proteggere questi due.» Così dicendo, il Proconsole sguainò la spada e si mise di fronte a Gesù e a Geremia, subito affiancato dai legionari che si trovavano lì con lui, mentre Curzio si portava velocemente nell'abitato di Nazareth per chiamare il resto della Coorte. In brevissimo tempo, il Centurione fu di ritorno con gli altri soldati i quali, a cavallo, impiegarono ben poco a disperdere la moltitudine che si era stretta intorno a Valerio e ai suoi due protetti. Quando la strada fu libera, Valerio si rivolse a Isacco che era rimasto fermo dove si trovava e gli ordinò: «Provvedi a far custodire il condannato». «No», fu la secca risposta che ricevette. «Hai voluto intrometterti e non tener conto delle nostre leggi: sta quindi a te decidere cosa fare. Per noi quell'uomo doveva essere già morto, e non posso quindi avallare un tuo sopruso facendolo custodire da qualcuno di noi. Pensa quindi a sorvegliarlo da te. Ma ti avverto: bada di sorvegliarlo bene perché, se domani non sarà sul luogo del supplizio, qualcun altro dovrà prendere il suo posto...» «È una minaccia quella che mi fai, vecchio?», chiese irato Valerio. «Non mi permetterei mai di minacciare un Console di Roma», fu la prudente risposta di Isacco che si accorse a quel punto di essere andato troppo oltre. «Solo, quello che volevo spiegarti è che è meglio che a custodire Geremia siano i tuoi uomini in quanto, se lo dovessimo affidare a qualcuno del villaggio, francamente non mi sentirei di poter garantire circa la sua incolumità. E ora, col tuo permesso, vado a dare disposizioni perché la gente torni ai lavori nei campi: più di mezza giornata è andata ormai persa, e inoltre, se lavorano, distolgono la mente da altri pensieri...» Detto questo, si avviò con gli altri Anziani alla volta di Nazareth per porre in atto quanto aveva appena detto. Rimasti soli, i Romani ringuainarono i gladii e si rivolsero a Valerio in
attesa di ordini. Non si erano resi ben conto di quanto era successo, ma non era nelle loro abitudini discutere o porsi troppe domande: da anni erano abituati a obbedire ai loro comandanti, e anche questa volta, nonostante il caldo e la stanchezza, erano stati pronti come sempre a stringersi intorno al loro Proconsole. L'unico malumore che serpeggiava nel fondo del loro animo era quello che anche qui, con tutta probabilità, avrebbero dovuto guardarsi da agguati e imboscate: comunque c'erano abituati, per cui... 5. «Perché hai voluto salvare quell'uomo?», chiese più tardi Valerio a Gesù dopo averlo raggiunto davanti alla sua casa di Nazareth. «Entra. Mi sembri molto stanco: fuori fa caldo, mentre all'interno della mia casa potrai ristorarti con del latte fresco e ripararti dai raggi del sole.» Così dicendo, Gesù precedette il romano nella sua casa e, dopo un breve attimo d'indecisione, il Proconsole lo seguì. Una viva curiosità lo spingeva ad approfondire la conoscenza di quell'uomo che, da quel poco che aveva avuto modo di vedere, gli sembrava assai diverso da tutti gli altri ebrei che aveva conosciuto. Anzi, a pensarci bene, gli sembrava diverso da qualsiasi altro uomo avesse conosciuto sino ad allora. Nella stanza in penombra nella quale era entrato, Valerio si accorse che vi erano altre due persone oltre a Gesù. Seguendo il suo sguardo, il nazareno spiegò che si trattava dei suoi genitori, e Valerio rimase stupito dalla purezza e delicatezza dei lineamenti della madre del suo ospite, oltre che dalla sua figura alta e snella e dalla giovane età che dimostrava. Dopo averlo salutato con un sorriso e un breve cenno del capo, la donna uscì subito seguita da Giuseppe, e nella stanza rimasero solo il romano e Gesù. «Mi stavi chiedendo perché l'ho salvato», disse a questo punto Gesù, mentre Valerio posava sul tavolo una brocca dalla quale aveva bevuto del latte fresco che gli era sceso nella gola come un balsamo. «È semplice: lui non ha commesso alcun delitto, e quel che dice è vero.» «Via», l'interruppe il romano, «non mi dirai che credi a quella storia fantastica di bestie stranissime che si aggirerebbero di notte per uccidere i tuoi compaesani. Ma, a parte l'evidente assurdità di questo fatto, su cosa basi la convinzione della sua innocenza, considerato poi che non ti trovavi nemmeno qui?» «Il cuore di un uomo non può mentire, e io ho guardato nel suo cuo-
re...», fu la laconica risposta di Gesù il quale, leggendo lo scetticismo negli occhi del suo interlocutore, continuò: «Ma sembra che tu non mi creda. Voi Romani siete molto pragmatici, e quindi poco inclini a credere a tutto ciò che non rientra nel novero delle vostre esperienze...». «Ho paura di aver sbagliato nell'agire d'impulso per proteggere te e quell'assassino dalla furia dei tuoi conterranei... Avrei dovuto lasciare che il Giudizio avesse corso e non mi sarei dovuto intromettere, così come mi ha fatto rilevare il Capo del vostro villaggio... Comunque, ormai, il dado è tratto, e non starò certo qui a recriminare sul... latte versato...» Così dicendo, Valerio indicò con un sorriso alcune gocce di latte che erano cadute sul tavolo quando aveva bevuto poco prima. Gesù sorrise a sua volta, poi disse: «Vedrai che non ti pentirai di aver dato ascolto al tuo impulso. Hai salvato un innocente e, come ho già avuto modo di dire alla folla raccolta per la strada, sono certo - entro questa notte - di riuscire a fornire le prove dell'innocenza di Geremia. Sono sicuro di non sbagliarmi: troppi fatti collimano... Però, dopo tanto tempo...», mormorò tra sé e sé. Colpito suo malgrado dalla sicurezza e dall'innegabile fascino di quell'uomo, Valerio, che lo stava guardando fissamente, si scosse e tornò a pensieri più urgenti. «Hai sentito che tocca a noi sorvegliare il tuo amico questa notte. Secondo te, conosci un posto dove potremo rinchiuderlo senza destare le ire dei tuoi compaesani? Non penso infatti che sarà molto facile trovare qualcuno disposto ad accettarlo in casa, con in più l'aggiunta dei soldati romani che lo devono sorvegliare...» «Puoi farlo stare qui da me, e i tuoi uomini saranno bene accetti, così come sei bene accetto tu stesso», fu la risposta di Gesù, e Valerio fu prontamente d'accordo nell'accettare l'offerta che gli veniva fatta. La sera giunse presto e, anche se più tardi degli altri giorni considerati gli eventi occorsi e l'agitazione che si era venuta a creare, gli abitanti di Nazareth si ritirarono all'interno delle loro case finché fuori non rimase più nessuno. I soldati romani avevano trovato alloggio in un magazzino adibito a granaio, e si erano coricati su dei giacigli che si erano preparati con della paglia umida che, oltre a essere fredda durante le ore notturne, era quanto di più duro si potesse immaginare. Anche Valerio, nella casa di Giuseppe il falegname, giaceva coricato su un letto che gli era stato offerto dal padrone di casa. Aveva gli occhi chiusi, ma non dormiva: il suo pensiero era rivolto alla sua casa e alla città na-
tale, agli amici di Roma e ai commilitoni sparsi in paesi lontani finché, senza accorgersene, scivolò nel sonno. Non seppe quanto aveva dormito quando, d'un tratto, si svegliò. A svegliarlo era stato il mormorio che proveniva dall'altra parte della stanza per cui, tenendo gli occhi chiusi e facendo finta di continuare a dormire, tese l'orecchio per cercare di capire cosa veniva detto. In un primo momento, l'unica cosa che riuscì a distinguere fu che le voci erano una maschile e una femminile: le parole però erano assolutamente incomprensibili, ed erano formulate in una lingua che non aveva mai sentito. Mentre tentava appunto di venire a capo di quello strano idioma, ciò che stava dicendo la voce maschile gli divenne d'un tratto comprensibile. «Ti ho detto di non usare mai la nostra lingua», stava dicendo in giudaico Gesù rivolto alla madre. «Qualcuno potrebbe sentirci, e questo non farebbe che aggiungere altri problemi a quelli che abbiamo già...» «Hai ragione», convenne la donna. «Ma non pensi che, proprio perché sono sorti troppi problemi, sia giunto il momento di lasciar perdere tutto e di tornare?» «Non è assolutamente possibile, e lo sai. Ci sono ancora parecchie cose da fare e, interrompere ora, significherebbe dover ricominciare tutto da capo con una nuova missione non so fra quanto tempo: e noi non ci possiamo permettere delle perdite di tempo. E poi, ora c'è quel fatto di Geremia...» «Ah, a proposito. Anch'io l'ho sondato, e ho visto che quanto ha detto è assolutamente vero: ha ancora ben vivida nella mente l'immagine di quella bestia che lo ha assalito... Ma non sapevo che ci fossero bestie di quel genere da queste parti...», disse la donna che continuò: «Ma tu sai che non è certo il caso che ci intromettiamo in questioni che non ci riguardano direttamente...». «Ed è qui che ti sbagli», rispose Gesù. «Penso invece che questa faccenda ci riguardi assai da vicino...» «E da quando in qua ci interessano le bestie? Non siamo mica una spedizione zoologica», disse ancora la donna. «Tu non puoi sapere... È successo tanto tempo fa, quando ancora abitavamo su questo pianeta, e anche io sono a malapena a conoscenza di qualcosa, solo perché mi è capitato di leggere un vecchio rapporto al Dipartimento di Scienze mentre ordinavamo gli archivi. Si trattava di un curioso esperimento effettuato proprio prima del Grande Esodo... Se, come penso, si tratta di quello, è semplicemente stupefacente...» «E ora cos'hai intenzione di fare?», chiese ancora Maria, che era il nome
con il quale la donna era stata presentata a Valerio. «Se la mia teoria è giusta, quell'essere dovrà farsi nuovamente vivo questa notte: non ha molto tempo a disposizione. Ora uscirò e vedrò di trovarlo. Ho provato a rintracciarlo mentalmente, ma si tiene celato assai bene, per cui non mi è stato possibile individuarlo. Ma questa notte... Ora vado: tu controlla che i Romani facciano buona guardia a Geremia e che non lo perdano di vista nemmeno un istante, anche se non penso che corra un serio pericolo. Comunque, data l'ira che gli abitanti di Nazareth nutrono nei suoi confronti, potrebbe anche darsi che qualche sconsiderato tenti di anticipare l'esecuzione, tagliando perdipiù la gola a un paio di Romani, con tutti i danni che ne deriverebbero e che ti puoi facilmente immaginare.» Detto questo, Gesù uscì dalla casa e si perse nel buio della notte che nel frattempo era calata. Accortosi di essere rimasto solo nella stanza, dato che anche la donna era uscita probabilmente per andare a sincerarsi che Geremia e i soldati che lo sorvegliavano nel granaio adiacente stessero bene, Valerio si alzò e si mise sulle tracce di Gesù. Non appena uscito dalla casa, per un momento non vide nessuno, poi si accorse dell'alta figura del nazareno che stava svoltando dietro un angolo sulla sua sinistra e si avviò in quella direzione badando a mantenere una certa distanza in modo da non rivelare la propria presenza. Erano successe molte cose strane, e lui voleva venirne a capo. In un'altra casa, quasi all'estremità opposta del paese, Tommaso era immerso in un sonno profondo e assai agitato. Provava una sensazione di caldo soffocante e, senza accorgersi minimamente di ciò che stava facendo, si tolse la tunica che indossava quando si era gettato a dormire sul giaciglio stanco per il lavoro nei campi. D'un tratto fu perfettamente conscio di essere sveglio e, aperti gli occhi, si mise a sedere sul letto in attesa che si verificasse qualcosa che sapeva essersi già verificato e che premeva dal profondo del suo essere per scaturire fuori. Una specie di formicolio cominciò a scorrergli sotto la pelle per tutto il corpo e, alla luce dei raggi della luna che penetravano dalla finestra, abbassò lo sguardo sulle mani che teneva posate sulle ginocchia. Vide allora la peluria che gli costellava il dorso delle mani e delle braccia, rizzarsi e crescere rapidamente: in poco tempo, un vero e proprio vello nero lo aveva ricoperto completamente, così come poté accertarsi guardandosi anche il torace e le gambe nudi. Contemporaneamente, i muscoli di tutto il corpo
gli si inturgidirono e aumentarono considerevolmente di volume, dandogli una sensazione di forza e di agilità quali mai aveva provato in tutta la vita. Spinto da un impulso che non si soffermò ad analizzare, guadagnò rapidamente la porta e, dopo averla aperta, corse fuori nella notte che lo circondava, perdendosi rapidamente nel buio, ombra tra le ombre... Raggiunto l'angolo dove aveva visto Gesù svoltare, Valerio non vide più nessuno davanti a sé. Fatti di corsa alcuni passi lungo la stretta via che gli si parava dinanzi, scoprì che era completamente deserta e che terminava fuori dell'abitato, nei campi e nei boschi che si stendevano nella vallata. Allora tornò rapidamente sui propri passi, e si mise a cercare l'uomo che stava inseguendo nelle altre viuzze del paese, comunque con esito assolutamente negativo. Quando si fu reso conto che per le strade non girava anima viva, né tantomeno Gesù, Valerio, sempre fermamente deciso a trovarlo, fece ritorno in quella prima via dove aveva perso le sue tracce. Ripercorsa la strada e, arrivato al limite del paese, Valerio pensò che Gesù, con tutta probabilità, doveva essersi recato nel luogo dove era stato ucciso Davide e, pur non sapendo esattamente dove si fosse verificato l'omicidio, si addentrò di buon passo nei campi per cercare di trovare il suo singolare e misterioso ospite. Mentre camminava nella notte stellata, si ritrovò a pensare che quel suo soggiorno in Palestina era quanto di più strano gli fosse mai stato dato di vivere sino a quel momento. E dire che ne aveva girati di paesi, e ne aveva viste di genti strane dedite a usi e costumi tra i più diversi! Ma, anche se per la verità la singolarità che lo aveva colpito lì a Nazareth era stata alla fin fine solo lo strano idioma nel quale aveva sentito esprimersi Gesù e quella donna che viveva nella sua casa, c'era qualcosa che lo turbava profondamente. No: a pensarci bene, c'erano diverse altre cose che lo avevano colpito oltre quello strano linguaggio. Il discorso che aveva udito tra Gesù e Maria non aveva alcun senso comune: inoltre, le stesse figure di Gesù e di quella donna si differenziavano molto da quelle degli altri ebrei, sino a farli sembrare di un ceppo totalmente differente. E poi c'era sempre la storia di quella strana bestia che Geremia asseriva avesse ucciso il suo amico, e alla quale Gesù dava credito... E, per finire, c'era quel fatto che gli aveva riferito Curzio circa Gesù, ossia che fosse il figlio o l'inviato del Dio degli ebrei... Eh sì: ne aveva di motivi per correre dietro quell'uomo, e non pochi...
D'un tratto, avvicinandosi a un bosco d'ulivi circondato da una folta macchia, gli parve di udire un rumore nel buio. I suoi sensi, allenati da una vita trascorsa nei combattimenti, gli dicevano che c'era qualcosa che non andava in quell'oscurità davanti a lui, per cui, impugnato il gladio che portava appeso all'anca, cominciò ad avanzare verso il bosco con estrema circospezione e con tutti i sensi all'erta... L'essere stava in agguato. Già da tempo si era accorto dell'avvicinarsi di Valerio, e ora aspettava che s'inoltrasse in mezzo agli ulivi per balzargli addosso. D'un tratto vide che l'uomo si era fermato e che dava di piglio alla spada: possibile che si fosse accorto della sua presenza? Ma questo non aveva alcuna importanza: tuttalpiù avrebbe dovuto lasciare il riparo degli alberi per corrergli dietro, ma quella vittima non sarebbe riuscita a sfuggirgli comunque: no, ecco che riprendeva il cammino interrotto, anche se con fare circospetto. Qualche istante più tardi, il romano era penetrato nella macchia ed era giunto in prossimità del punto dove l'attendeva il suo appuntamento col destino. Uscito da dietro l'albero dove era nascosto, l'essere gli si parò davanti... Valerio a tutto era preparato, fuorché a quella visione da incubo. Quel mostro tutto ricoperto da un folto vello nero, col muso ferino, le zanne digrignate e gli occhi rossi come due braci ardenti, non trovava eco alcuna nella sua mente, nemmeno negli spauracchi delle favole che gli narravano quando era bambino. Era qualcosa che non trovava assolutamente riscontro nella realtà in cui lui viveva: qualcosa di totalmente alieno al suo mondo e alle sue conoscenze. In un breve istante, si sorprese a pensare che Gesù e Geremia avevano avuto ragione: quella doveva essere la bestia che aveva ucciso l'amico di Geremia e, ironia della sorte, era proprio toccato a lui appurare la veridicità di quanto era stato asserito dal condannato alla lapidazione! Quanto avrebbe preferito essere rimasto a dormire nella casa che aveva lasciato poco prima, piuttosto che intestardirsi nel cercare Gesù! Comunque era ormai troppo tardi per le recriminazioni. Con occhio pratico valutò l'avversario che gli stava di fronte, e l'esame lo lasciò scoraggiato. Quell'essere non solo non mostrava alcun timore, ma anzi, la ferocia che traspariva dai suoi tratti, era temperata dall'intelligenza che si intraveva nel suo sguardo. Non sarebbe stato assolutamente facile
poter aver ragione di lui, comunque Valerio era un soldato romano temprato da numerose battaglie, e non certo una donnicciola disposta a farsi sgozzare senza difendersi. Divaricò le gambe in modo da distribuire il peso del corpo in maniera uguale, tese davanti a sé il braccio armato di gladio, e attese che la bestia gli si gettasse addosso. E l'essere attaccò. Fintando un balzo frontale, fece sì che Valerio si sbilanciasse in un affondo che trovò davanti a sé solo l'aria, dato che la bestia si era rapidamente spostata sulla sua sinistra; contemporaneamente, con una rotazione del corpo che sarebbe risultata impossibile per un essere umano, si scagliò sull'uomo sbilanciato afferrandolo. Mentre una mano di quel mostro afferrava il polso del romano armato del gladio in una morsa inesorabile, l'altro braccio gli si serrava intorno alla gola tirando inesorabilmente all'indietro. Valerio era completamente immobilizzato, e non riusciva a opporre alcuna resistenza. Il braccio che gli stringeva la gola continuava a trascinargli indietro la testa nonostante la tensione dei muscoli del collo induriti per lo sforzo: ben presto una nebbia rossa cominciò a calargli sugli occhi e le dita della mano destra gli si aprirono lasciando cadere per terra la daga. Era la fine, e lo sapeva. Attese col cervello annebbiato per la mancanza di ossigeno il morso di quella bocca di cui percepiva l'alito sul collo... 6. «Fermo!» L'ordine echeggiò nel silenzio della notte, rotto solo dall'ansimare del soldato romano stretto nella morsa implacabile della nera bestia. La parola appena pronunciata non denotava alcuna alterazione, ma solo una tranquilla sicurezza, come quando il padrone dà un ordine al suo cane. Nell'udire quella voce, la pressione del braccio sul collo di Valerio si allentò, e il romano scivolò a terra mezzo svenuto, mentre l'essere che stava per ucciderlo si voltava a guardare colui che aveva lanciato quell'ordine. I muscoli tesi sotto la pelle, i denti digrignati, tutto stava a indicare un imminente attacco nei confronti di quell'incauto che aveva avuto la malaugurata idea d'intervenire. Proprio mentre stava per spiccare il balzo, la bestia si fermò come folgorata. L'uomo in piedi a pochi passi non aveva più pronunciato nemmeno una parola e, da terra dove si trovava col collo dolorante e la testa in fiamme, Valerio si accorse che si trattava di Gesù. Dopotutto l'aveva trova-
to... «Vedo che hai letto nella mia mente chi sono», disse Gesù in quel momento, come se stesse discorrendo del più e del meno con un suo vicino di casa. «Molto bene! In questo modo mi risparmierai tutta una serie di spiegazioni che ci avrebbero portato via troppo tempo... Sei tu invece che mi devi spiegare molte cose...» «Tu... tu sei... uno di loro!» Una voce bassa, simile a un ringhio, e dai toni spezzati e disarticolati, fuoruscì dalla gola dell'uomo lupo. In quelle brevi parole era avvertibile tutta una serie di sentimenti: sorpresa, rabbia, odio, timore... speranza. «Sì, penso che tu possa definirmi così: uno di... loro. Anche se sono solo uno dei remoti discendenti di quelli che tu conoscesti... quanto tempo fa? Quanto tempo è trascorso da allora? Ma tu sei proprio uno degli esemplari di quell'esperimento effettuato prima del Grande Esodo?» «Allora non sei tornato per noi?», disse la bestia con un tono nel quale era facile ravvisare lo scoramento. Ma poi si riprese subito e continuò: «Non fa niente. Mi puoi aiutare lo stesso: penso infatti che non ti ci vorrà molto per trarmi da questa condizione nella quale mi hanno posto quelli del tuo popolo». «Amico mio», lo interruppe l'uomo chiamato Gesù, «penso di doverti dare una grossa delusione. Non solo non sono assolutamente in grado di toglierti da questa situazione in cui dici di trovarti, ma, a dire il vero, non so nemmeno quale sia esattamente il tuo problema. Ho letto vagamente qualcosa su di te, e su di un esperimento fatto prima del Grande Esodo, ma questo è tutto quello che so. La mia branca poi, è tutta un'altra...» «Ma non è possibile che tu non sia in grado d'aiutarmi! Sono ormai trascorsi migliaia di anni da quando una donna del tuo popolo chiuse me e un mio compagno all'interno di due campi di stasi periodici, e ora che siete tornati, non puoi lasciarmi qui in un mondo imbarbarito, condannata a questo sonno di secoli, interrotto solo dai periodi di rigenerazione...» Ogni traccia di ferocia era scomparsa da quella bestia che ora implorava aiuto da parte di Gesù: Valerio, ancora intontito, non riusciva assolutamente a capire cosa stava accadendo, e i discorsi dei quali riusciva ad afferrare dei frammenti, gli parevano ancora più strani di quelli che aveva udito quella sera all'interno della capanna tra Gesù e Maria. «Tra quelli di noi che sono ora presenti su questo mondo, non c'è nessuno che sia esperto di campi di stasi ma, anche se ci fosse, non sarebbe certo possibile risolvere il tuo problema in poco tempo. Occorrerebbero mesi
- per non dire anni - di studio, e bisognerebbe poter disporre dei dati originali e di macchinari idonei per rivelare l'ubicazione dei campi di stasi per poi, di conseguenza, disattivarli. Ma hai parlato di un tuo compagno: allora siete in due qui intorno?» Mentre Gesù stava spiegando queste cose all'essere che si era accovacciato per terra in una posa grottescamente umana, questi lo interruppe febbrilmente. «No: sono sola. Io sono una femmina della mia razza, e il maschio che venne condannato con me a questo supplizio, venne chiuso in un campo di stasi differente dal mio e ubicato in un luogo che non conosco. In tutti questi risvegli che si sono succeduti nell'arco degli anni per rinnovare la mia linfa vitale, non sono mai riuscita a sapere nulla di lui: forse è addirittura morto, il che mi porterebbe a essere l'unica sopravvissuta della mia gente su questo pianeta. Ma tu mi devi assolutamente aiutare...», e qui la sua voce si elevò nuovamente minacciosa, «oppure, cosa potrebbe impedirmi di ucciderti e farti chiudere i tuoi giorni su questo pezzo di terra?» «Parecchie cose», fu la tranquilla risposta dell'uomo. «Prima di tutto, sono armato e in grado di uccidere il corpo del quale hai preso possesso: a proposito, è quello dell'uomo chiamato Tommaso, vero? In secondo luogo, come ben sai, sono in grado di leggerti nella mente e quindi di prevenire ogni tua mossa. Infine non sono solo: siamo in diversi, sia sul resto del pianeta che proprio in questo paese, e gli altri sono già al corrente di questo nostro colloquio e ci stanno raggiungendo...» «Sì, ma non sono ancora qui», rispose l'essere che nel frattempo si era alzato. «E, quanto alla tua arma, vogliamo provare a vedere se sei più svelto di me? Io sono invece convinta che riuscirò comunque a ucciderti e, considerato che non ho assolutamente niente da perdere...» Valerio intanto aveva quasi del tutto riacquistato i sensi e, con i sensi, la sua capacità combattiva. Non aveva capito nulla di quello che si erano detti l'ebreo e quella bestia (per Giove, era mai possibile che avesse udito quella bestia parlare, o si era trattato di una sorta di delirio?), ma si era reso perfettamente conto della pericolosità di quell'essere e della necessità di doverlo uccidere. Pertanto, approfittando del fatto che nessuno dei due gli prestava attenzione, pian piano afferrò il gladio che giaceva per terra e, quando la bestia si alzò in piedi con l'evidente proposito di lanciarsi contro Gesù, con un solo movimento gli ficcò la daga nel petto trapassandola da parte a parte. «No!», fu il grido che eruppe dalla bocca di Gesù quando vide il gesto
del romano, ma era troppo tardi: un attimo dopo l'essere cadeva riverso al suolo con la spada conficcata nel petto per tutta la sua lunghezza fino all'elsa. Quasi contemporaneamente, si udì il rumore di numerosi passi che si avvicinavano e, di lì a poco, vicino a Gesù, a Valerio e al cadavere riverso, stavano una decina di ebrei del villaggio, tra i quali il Proconsole scorse Maria e Giuseppe, mentre gli altri non li conosceva. Tutti però avevano nei tratti qualcosa che li rendeva molto simili tra loro e al contempo differenti dagli altri abitanti del villaggio. Ma Valerio non ebbe molto tempo da dedicare a questa singolarità. Si stava infatti verificando un evento molto più importante che lo fece sobbalzare per lo stupore. Il cadavere al suolo stava lentamente mutando aspetto: il pelo si stava ritraendo, i muscoli si stavano rilassando e, dopo alcuni istanti, le fattezze belluine erano completamente scomparse: ora, a terra, giaceva il cadavere di un ebreo del tutto simile agli altri che conosceva. «Era Tommaso», fu il laconico riconoscimento da parte dei presenti che non mostravano alcun stupore. «Ora è in pace», concluse Gesù, «e percorre nuovamente le vie del Signore. Hai visto, romano, quante cose esistono aldilà delle tue esperienze e del mondo che conosci? Penso che una notte come questa non ti sia mai capitata e non ti capiterà mai più in tutto il corso della tua vita...» L'ultima cosa che Valerio vide, furono gli occhi di Gesù che lo fissavano intensamente. Poi, non ricordò più nulla. L'indomani mattina, Valerio e gli altri legionari partirono da Nazareth lasciandosi alle spalle una situazione tornata alla normalità. L'innocenza di Geremia era stata riconosciuta, e già si parlava di un nuovo miracolo di Gesù che aveva scacciato il Demonio dal corpo di Tommaso. Mentre cavalcava taciturno alla testa dei suoi uomini, Valerio non riusciva a levarsi dalla mente l'idea che in quello sperduto villaggio della Palestina fosse stato testimone di cose molto al di sopra della sua capacità di comprensione. Resosi però conto che non sarebbe riuscito assolutamente a venirne a capo, con un movimento della testa scacciò quella sensazione e chiamò accanto a sé Curzio per chiedergli qual era il prossimo villaggio cui erano diretti. Il sole splendeva alto su di loro e sulla sabbia che li circondava.
7. All'interno del suo millenario campo di stasi, in uno stato di animazione sospesa ma avendo comunque la percezione di ciò che si trovava al di fuori di lui, l'essere che era stato Tommaso, percepì un'onda di pensiero diretta a lui. «Devi avere pazienza. Quando torneremo là da dove veniamo, racconterò di te e della tua storia. Vedremo di studiare tutti i vecchi documenti che ti riguardano, e cercheremo di fare qualcosa. Hai sofferto abbastanza, ed è ora che questa condanna finisca. Ci vorrà del tempo, ma riusciremo a renderti la tua libertà, anche se non sono poi così sicuro che possa renderti felice. Addio!» Mentre si abbandonava al campo di stasi, l'essere chiuse gli occhi e si accinse ad aspettare. Era tanto tempo che aspettava... PARTE TERZA NOTTI DI LUNA PIENA ALEXANDRE DUMAS IL SIGNORE DEI LUPI (Le Meneur Des Loups, 1856) Introduzione dell'autore Chi era Mocquet e come mai questa storia veritiera è giunta a conoscenza di chi la racconta. Perché mai nei venti anni della mia vita letteraria, e cioè dal 1827 al 1847, il mio ricordo è tornato così di rado verso la cittadina in cui sono nato, ai boschi che la circondano, ai villaggi che le stanno attorno? Perché quel mondo della mia giovinezza mi sembrava scomparso e quasi velato da una nube, mentre l'avvenire verso il quale m'incamminavo mi appariva limpido e luminoso come quelle isole magiche che Cristoforo Colombo e i suoi compagni scambiarono per cesti di fiori fluttuanti sull'acqua? Ahimè, nei primi vent'anni della nostra vita siamo guidati dalla speranza, e negli ultimi venti dalla realtà. Dal giorno in cui, stanchi pellegrini, lasciamo cadere il bastone, ci allentiamo la cintura e ci sediamo sul ciglio della strada, da quel giorno gettiamo uno sguardo sul cammino percorso e, poiché è l'avvenire che si offusca, cominciamo a scrutare nelle profondità
del passato. Allora, prossimi già a entrare nei mari di sabbia, ci meravigliamo di vedere spuntare, poco a poco, sulla strada percorsa, oasi meravigliose piene d'ombra e di verde, davanti alle quali si passa non solo senza fermarsi, ma quasi senza scorgerle. Si cammina così in fretta in quegli anni! Si è talmente impazienti di arrivare dove non si arriva mai... alla felicità! Ci accorgiamo allora di essere stati ciechi e ingrati, e ci diciamo che, se trovassimo ancora sul nostro cammino uno di quei verdi boschetti, ci fermeremmo lì per il resto della vita, e vi pianteremmo le tende per finire lì i nostri giorni. Ma poiché la persona fisica non torna indietro, è unicamente la memoria che compie questo pietoso pellegrinaggio e torna alla sorgente della vita, come quelle leggere imbarcazioni dalle bianche vele che rimontano la corrente dei fiumi. Poi il corpo prosegue per la sua strada, ma, privo di memoria: è una notte senza stelle, una lampada senza fiamma. Corpo e memoria seguono allora strade opposte: mentre il corpo procede a caso verso l'ignoto, la memoria, brillante fuoco fatuo, volteggia al di sopra delle tracce lasciate lungo il cammino con la certezza di non perdersi. Poi, visitata ogni oasi, ritorna indietro con rapido volo verso il corpo sempre più stanco e, simile a un ronzio d'ape, a un canto d'uccello, a un mormorio di fonte, narra quanto ha visto. A questo racconto, l'occhio del viaggiatore si ravviva, la bocca sorride, la sua fisionomia si rasserena. Giacché, per un dono della Provvidenza, se lui non può tornare verso la sua giovinezza, la giovinezza torna a lui. E da quel momento, ama raccontare ad alta voce quello che la memoria gli sussurra. La vita sarebbe forse rotonda come la Terra? Forse, senza averne coscienza, ne faremmo il giro? Avvicinandoci via via alla tomba, ci riavvicineremmo forse alla culla? Non lo so, ma so quello che è accaduto a me. Alla mia prima fermata sul cammino della vita, innanzi tutto ho narrato la storia di Bernardo e di suo zio Barthelin, poi quella di Angelo Pitou, della fidanzata e della zia Angelica, poi quella di Coscienza l'innocente e della sua fidanzata Manetta, poi quella di Caterina Blum e di Vatrin. Oggi voglio raccontarvi la storia di Thibault, l'amico dei lupi, e del Barone de Vez. Ma in qual modo gli avvenimenti che intendo narrarvi sono venuti a mia conoscenza? Ve lo dirò. Se avete letto le mie Memorie, vi ricordate di un amico di mio padre, di
nome Mocquet? Se le avete lette, non potete non ricordarvi, sia pur vagamente, di questo personaggio. Se poi non le avete lette, naturalmente non potete ricordarlo. Nell'uno e nell'altro caso, dunque, è importante che vi parli di Mocquet. Nell'epoca più lontana a cui la mia memoria risale, e cioè quando avevo tre anni, abitavamo, mio padre, mia madre e io, in un piccolo castello sul confine tra l'Aisne e l'Oise, chiamato I Fossi, tra Haramont e Longpré, senza dubbio perché circondato da immensi fossati colmi d'acqua. Non parlo di mia sorella, che era in collegio a Parigi, e che vedevamo un mese su dodici, durante le vacanze. A parte mio padre, mia madre e me, il personale della casa si componeva: 1. di un grosso cane nero, di nome Tartufo, che aveva il privilegio di essere il benvenuto ovunque, visto che io ne avevo fatto la mia normale cavalcatura; 2. di un giardiniere di nome Pietro, il quale in giardino faceva per me ampie provviste di rane e di bisce, animali che eccitavano la mia curiosità; 3. di un negro, cameriere personale di mio padre, di nome Ippolito, la cui semplicioneria era divenuta proverbiale, e che mio padre continuava a tenere, penso, per completare una serie di aneddoti con i quali avrebbe potuto vantaggiosamente controbattere le vanterie di Brunet; 4. di un custode di nome Mocquet, che io ammiravo molto perché ogni sera mi raccontava mirabolanti storie di fantasmi e Lupi Mannari, storie che s'interrompevano immediatamente quando compariva «il Generale»: così tutti chiamavano mio padre; 5. infine, di una cuoca che rispondeva al nome di Maria, la cui figura per me si perde completamente nelle nebbie crepuscolari della mia esistenza; un nome che ho sentito dare a una forma rimasta vaga nel mio ricordo, ma che da quel poco che la memoria mi suggerisce, non aveva nulla di poetico. Del resto, oggi chi c'interessa è Mocquet, soltanto Mocquet. Mocquet era fisicamente un uomo sulla quarantina, basso, tarchiato, spalle solide, garretti robusti. Aveva la pelle abbronzata dal vento, piccoli occhi penetranti, capelli grigi, e dei favoriti neri che gli passavano sotto il collo, a mo' di collana. Lo rivedo nei miei ricordi con un cappello a tricorno, una giubba verde con bottoni d'argento, calzoni corti di velluto a coste, alte ghette di cuoio,
carniere a tracolla, fucile imbracciato, una corta pipa in bocca. Parliamo un momento di questa pipa. La pipa era diventata non un accessorio, ma una parte integrante di Mocquet. Nessuno poteva dire di averlo mai visto senza la sua pipa. Quando, per puro caso, non la teneva in bocca, la teneva in mano. Questa pipa, destinata ad accompagnare Mocquet in mezzo ai più fitti boschi, doveva presentare la minor presa possibile ai corpi solidi che avrebbero potuto distruggerla. E la distruzione di una pipa ben stagionata sarebbe stata per Mocquet una perdita alla quale solo gli anni avrebbero potuto porre rimedio. Così, il cannello della pipa di Mocquet non oltrepassava mai cinque o sei righe, e su queste c'era da scommettere che almeno tre erano rappresentate dal fornello e affini. L'abitudine di non separarsi mai dalla sua pipa, che si era scavata una specie di nido tra il quarto incisivo e il primo molare di sinistra, facendo sparire quasi completamente i due canini, aveva provocato in Mocquet il formarsi di un'altra abitudine; quella di parlare a denti stretti, il che dava a tutto ciò che diceva un carattere di ostinazione. Carattere che diventava ancora più accentuato quando si toglieva momentaneamente la pipa di bocca, quando cioè nessun ostacolo impediva alle sue mascelle di chiudersi e ai suoi denti di serrarsi, dimodoché le parole gli uscivano di bocca simili a una specie di fischio appena intelligibile. Questo era Mocquet come fisico. Cercheremo adesso, in poche righe, di indicare quello che era come morale. Un giorno, Mocquet entrò di buon mattino in camera di mio padre, ancora a letto, e si piantò, dritto e immobile come un palo a un bivio, davanti al suo letto. «Ebbene, Mocquet», gli chiese mio padre, «che accade e a che cosa devo la tua visita mattutina?» «C'è, Generale, che sono incubato.» Senza avvedersene, Mocquet aveva arricchito la lingua francese di un doppio verbo, attivo e passivo. «Sei incubato? Oh, oh!», fece mio padre, sollevandosi sul gomito. «È una faccenda seria, ragazzo mio!» «È proprio così, signor Generale.» E Mocquet si tolse la pipa di bocca, cosa che faceva solo di rado e nelle grandi occasioni. «E da quando sei incubato, Mocquet?», domandò mio padre.
«Da otto giorni, signor Generale.» «E di chi è la colpa, Mocquet?» «Oh, lo so io di chi è la colpa!», rispose Mocquet a denti tanto più stretti in quanto teneva la pipa in mano, e la mano dietro la schiena. «E io non posso saperlo?» «È stata la Durand di Haramont che, lei lo sa bene, Generale, è una vecchia strega.» «Veramente non lo sapevo, Mocquet, te lo giuro!» «Oh, ma io lo so! L'ho vista passare a cavallo di una scopa per andare al Sabba delle streghe!» «Tu l'hai vista passare, Mocquet?» «Come vedo lei, signor Generale; senza contare che si tiene in casa un vecchio becco nero che adora!» «E perché mai ti avrebbe dato l'incubo?» «Per vendicarsi, perché l'ho vista ballare la sua ronda diabolica, a mezzanotte, sulle brughiere di Gondreville.» «Mocquet, la tua è un'accusa grave e, prima di ripetere ad alta voce ciò che mi hai confidato, ti consiglio di raccogliere delle prove.» «Prove? Ma andiamo! Se tutti al villaggio sanno che in gioventù è stata l'amante di Thibault, l'amico dei lupi!» «Diamine, Mocquet, allora devi stare attento!» «Sì, sì, sto attento, e quella vecchia talpa me la pagherà!» Vecchia talpa era un'espressione che Mocquet prendeva a prestito dal suo amico Pietro il giardiniere, il quale, acerrimo nemico delle talpe, chiamava così tutto quello - cose e persone - che detestava. «Devi stare attento», aveva detto mio padre. Non che mio padre credesse all'incubo di Mocquet, e comunque, pur ammettendo l'esistenza dell'incubo, non avrebbe mai creduto che la colpevole fosse la Durand. Ma conosceva i pregiudizi dei nostri contadini, e sapeva che la credenza nel malocchio è ancora molto diffusa nelle campagne. Aveva sentito raccontare di terribili casi di vendetta da parte di gente stregata che aveva creduto di spezzare l'incantesimo uccidendo quello o quella che li aveva stregati. E Mocquet, quando era venuto a denunciare la Durand a mio padre, aveva parlato con tale accento di minaccia, e stringeva le canne del suo fucile in modo tale, che mio padre credette opportuno abbondare in credulità allo scopo di acquistare su Mocquet un certo ascendente, in maniera che non facesse nulla senza prima consultarlo.
Così, sicuro di aver stabilito sul suo guardiano questo ascendente, si azzardò a dire: «Ma prima che te la paghi, mio caro Mocquet, bisognerebbe essere certi che non c'è guarigione possibile per il tuo incubo». «Non c'è, signor Generale», rispose Mocquet, con sicurezza. «Come, non c'è?» «Ho già fatto l'impossibile.» «E che cosa hai fatto?» «Per cominciare, ho bevuto una gran tazza di vino caldo prima di coricarmi.» «Chi ti ha consigliato questo rimedio? Il signor Lécosse?» Il signor Lécosse era il miglior medico di Villers. «Il signor Lécosse?», fece Mocquet. «Andiamo, che ne capisce lui del malocchio? Niente, perbacco!» «E allora chi?» «Il Pastore di Longpré.» «Una tazza di vino caldo, animale! Dopo averla bevuta, sarai stato ubriaco fradicio!» «Il Pastore ne ha bevuta la metà...» «Ah! Allora comprendo la prescrizione! E la tazza di vino caldo non è servita a nulla?» «No, Generale. La notte, la strega è venuta a sedersi sul mio petto come se non avessi preso niente.» «E che altro hai fatto? Immagino che non ti sarai limitato al vino caldo.» «Ho fatto quello che faccio quando voglio prendere un animale selvatico. Ho preparato una tagliola.» «Come?! Hai messo una tagliola per prendere la Durand?» «Sì, signor Generale, ho preparato una tagliola per la Durand.» «E dove l'hai messa la tua tagliola? All'uscio di casa?» «Già, all'uscio!», replicò Mocquet. «E che, passa dall'uscio la vecchia strega? Entra in camera mia non si sa da dove...» «Forse dal camino?» «Non c'è camino in camera, e poi la vedo solo quando la sento.» «La vedi?» «Come vedo voi, Generale!» «E che cosa ti fa?» «Oh, niente di buono! Pesta sul mio petto... pam, pam, pam...» «Insomma, questa tagliola dove l'hai messa?»
«La tagliola? Sul mio stomaco, diamine!» «E che tipo di tagliola è?» «Oh, eccellente! Quella che avevo preparato per prendere il lupo grigio che veniva a sgozzare i montoni del signor Destournelles.» «Non mi sembra poi tanto buona la tua tagliola, Mocquet, visto che il lupo grigio ha mangiato l'esca e non si è fatto prendere!» «Lo sapete benissimo, Generale, perché non si è fatto prendere...» «No, non lo so.» «Perché era il lupo nero di Thibault, lo zoccolaio!» «Non si tratta del lupo nero di Thibault, Mocquet, dato che tu stesso ammetti che il lupo venuto a sgozzare i montoni del signor Destournelles era grigio!» «È grigio oggi, Generale, ma all'epoca di Thibault lo zoccolaio, trent'anni fa, era nero! E la prova è che trent'anni fa anch'io ero nero di capelli, e adesso sono grigio come il Dottore.» Il Dottore era un gatto al quale, nelle mie Memorie, ho cercato di assicurare una relativa celebrità, e che tutti chiamavano il Dottore a causa del magnifico mantello di cui la natura lo aveva dotato. «Sì», fece mio padre, «la tua storia di Thibault lo zoccolaio, la conosco... Ma, se il lupo è un diavolo, come dici tu, Mocquet, non dovrebbe cambiare con gli anni!» «Certo, Generale; soltanto ci mette cento anni a diventare tutto bianco, e alla mezzanotte di ogni centesimo anno, ritorna nero come il carbone!» «Mi arrendo, Mocquet; solamente, ti prego di non raccontare questa bella storia a mio figlio prima che abbia compiuto perlomeno quindici anni.» «Perché, Generale?» «Perché è inutile imbottirgli la mente di sciocchezze simili prima che sia abbastanza grande da infischiarsene dei lupi, bianchi, grigi o neri che siano!» «Sta bene, signor Generale, non gli dirò niente.» «E adesso continua!» «Dove eravamo rimasti?» «Alla tagliola che ti eri messa sullo stomaco e che, secondo te, era una tagliola famosa!» «Oh, in quanto a questo, era proprio famosa! Pesava dieci libbre buone... ma che dieci, quindici libbre! Con tutta la catena. E la catena me l'ero girata intorno al polso.» «E quella notte...?»
«Oh, quella notte è stato molto peggio! Di solito, mi pestava il petto con le suole di gomma, mentre quella notte portava gli zoccoli!» «E viene...?» «Tutte le notti che il buon Dio ha fatto: per questo sono così dimagrito! Sto diventando tisico, lo vedete anche voi, Generale! Ma stamattina, ho deciso!» «E che cosa hai deciso, Mocquet?» «Ho deciso di spararle un colpo di fucile!» «Saggia decisione. E quando conti di attuarla?» «Questa sera o domani sera...» «Diamine! E io che volevo mandarti a Villers-Hellon!» «Non importa, Generale... È urgente ciò che dovrei fare?» «Urgentissimo!» «Ebbene, posso andare a Villers-Hellon passando dai boschi: sono appena quattro chilometri, e sarò di ritorno in serata. Sono in tutto otto chilometri, e ne abbiamo fatti parecchi di più andando a caccia, Generale!» «D'accordo, Mocquet; ti darò una lettera per il signor Collard, e partirai subito!» Mio padre si alzò per scrivere al signor Collard. La sua lettera era concepita in questi termini: Mio caro Collard, vi spedisco il mio custode, un imbecille che voi ben conoscete: costui, sicuro che una vecchia donna di qui gli dia il tormento tutte le notti dopo avergli buttato il malocchio, per farla finita con questa specie di Vampiro ha semplicemente deciso di ucciderla. Poiché la giustizia potrebbe trovare poco ortodosso questo metodo per guarire dalle crisi di soffocamento, lo mando da voi con un pretesto qualsiasi. Da parte vostra, con il pretesto che preferite, mandatelo da Danré, a Vouty, il quale a sua volta lo invierà a Dulauloy, il quale, con o senza pretesti, lo manderà al diavolo, se vuole. Insomma, è necessario che rimanga in giro almeno quindici giorni. Tra quindici giorni, noi avremo traslocato e ci saremo stabiliti ad Antilly, e allora, dato che Mocquet non abiterà più da queste parti e avrà, con tutta probabilità, perso per strada il suo incubo, la vecchia Durand potrà dormire tranquilla. Il che non le consiglierei di fare se Mocquet rimanesse nei dintorni.
Vi porta una dozzina di beccaccini e una lepre che abbiamo ucciso ieri, cacciando nella palude di Vallue. Mille cari pensieri alla vostra bella Erminia, e mille baci alla piccola cara Carolina, dal vostro amico Alexandre Dumas Mocquet partì un'ora dopo con la lettera e, dopo tre settimane, venne a raggiungerci ad Antilly. «E allora?», gli chiese mio padre, vedendolo gagliardo e in ottima salute, «come va la Durand?» «La vecchia talpa mi lascia in pace, signor Generale», rispose tutto contento Mocquet. «Pare che fosse potente solo nel paese.» Dodici anni erano trascorsi dall'epoca degli incubi di Mocquet, e io ne avevo quindici compiuti. Era l'inverno del 1817-1818. Mio padre, ahimè, era morto da dieci anni: non avevamo più il giardiniere Pietro, né il cameriere Ippolito, né il custode Mocquet. Non abitavamo più nel castello I Fossi, né ad Antilly; la nostra modesta esistenza si svolgeva in una casetta sulla piazza di Villers-Cotterets, di fronte alla fontana, e lì mia madre gestiva una tabaccheria dove vendeva anche polvere da sparo e munizioni. Per quanto giovane, io ero già, come ho narrato nelle mie Memorie, un cacciatore accanito. Però a caccia sul serio ci andavo solo quando mio cugino Deviolaine, ispettore della foresta di Vollers, ne chiedeva il permesso a mia madre. Durante il resto del tempo, cacciavo di frodo. Possedevo, per questo doppio esercizio di caccia autorizzata e di bracconaggio, un bel fucile a un colpo, già appartenuto alla Principessa Borghese e che portava incise le sue iniziali. Me lo aveva regalato mio padre quando ero bambino e, alla vendita all'asta avvenuta dopo la morte di lui, io avevo così ostinatamente reclamato il mio fucile che, alla fine, non era stato venduto insieme alle altre armi, ai cavalli e alle vetture. L'inverno era la mia stagione preferita. D'inverno, la terra si copre di neve, e gli uccelli, che non trovano facilmente di che nutrirsi, accorrono là dove qualcuno butta loro il grano. Alcuni vecchi amici di mio padre, proprietari di vasti e bei giardini, mi permettevano di andarvi a cacciare gli uccellini. Io spazzavo via la neve, seminavo una scia di grano e, da un qualsiasi nascondiglio scelto a un mezzo tiro dal mio fucile, sparavo, uccidendo talvolta sei, otto e anche dieci uccellini con un colpo solo. Quando poi la neve continuava a cadere, c'era un'altra speranza; quella di imbattermi in un lupo sperduto. Il lupo sperduto appartiene a tutti. È un
nemico pubblico, un assassino fuorilegge a cui tutti possono sparare. Inutile chiedermi, in casi del genere se, malgrado le recriminazioni di mia madre che temeva per me un doppio pericolo, inutile chiedermi, ripeto, se prendevo il mio fucile per trovarmi per primo all'appuntamento. L'inverno di quell'anno era stato crudo; era caduta molta neve, poi era gelato, e da una quindicina di giorni la neve resisteva. Ma di lupi non si sentiva parlare. Un giorno, verso le quattro del pomeriggio, Mocquet passò da noi per acquistare la sua solita provvista di polvere da sparo. Ne approfittò per strizzarmi l'occhio e, quando uscì, io lo seguii. «Che cosa c'è, Mocquet?», gli domandai. «Non indovinate, signor Alessandro?» «No, Mocquet.» «Non indovinate che se vengo a comprare polvere dalla signora Generalessa invece di comprarla semplicemente a Haramont, se faccio due chilometri invece di mezzo, è perché ho da proporvi una partita di caccia?» «Oh, Mocquet! Che partita?» «C'è un lupo da queste parti, signor Alessandro!» «Dici sul serio?» «Stanotte ha rubato un montone al Signor Destournelles, e io l'ho seguito sino al bosco di Tillet. La prossima notte lo rivedrò certamente: gli farò cambiare strada, e domani mattina lo aggiusteremo!» «Oh, che gioia!» «Solamente, ci vuole il permesso...» «Il permesso di chi, Mocquet?» «Il permesso della signora Generalessa.» «Ebbene, rientriamo e chiediamoglielo!» Mia madre ci stava guardando attraverso i vetri: immaginava che stessimo tramando qualcosa. Quando fummo rientrati, disse subito: «Ah, Mocquet, tu stai montando la testa a mio figlio, che ci pensa anche troppo alla tua maledetta caccia!». «Caspita, signora! È come per i cani di razza... Suo padre era cacciatore, lui è cacciatore, e suo figlio sarà cacciatore: dovete rassegnarvi.» «E se gli succede qualcosa? Una disgrazia?» «Una disgrazia mentre è con me? Con Mocquet? Via! Ne rispondo io del signor Alessandro! Una disgrazia a lui, al figlio del Generale. Mai e poi mai!» Mia madre scuoteva la testa, e io corsi ad abbracciarla.
«Mammina, ti prego!» «Ma gli caricherai tu il fucile, Mocquet?» «State tranquilla! Sessanta grani di polvere, né uno di più né uno di meno!» «Non lo lascerai mai?» «Sarò la sua ombra.» «Lo piazzerai accanto a te?» «Tra le mie gambe!» «Mocquet! Lo affido a te!» «E ve lo restituirò intatto! Su, signor Alessandro, prendete la vostra roba e andiamo.» «Come! Te lo porti via stasera?» «Sissignora, domani sarebbe troppo tardi: il lupo si caccia allo spuntar dell'alba.» «Cosa mi dici! Sei venuto a prenderlo per portarlo a cacciare il lupo?!» «Signora, non avrete mica paura che il lupo ve lo mangi!» «Mocquet! Mocquet!» «Se vi dico che rispondo io di ogni cosa!» «Ma dove dormirà, povero figlio mio?» «Da Mocquet, perbacco! Avrà un buon materasso in terra, lenzuola bianche come quelle che il buon Dio ha steso al suolo, e due buone coperte pesanti: non si prenderà il raffreddore, ve lo garantisco!» «Via, mamma, stai tranquilla! Andiamo, Mocquet, io sono pronto.» «Non mi abbracci nemmeno, disgraziato?» «Oh, sì, mammina!», e mi buttai al collo di mia madre, col rischio di soffocarla tanto la tenevo stretta. «Quando ti rivedrò?» «Non preoccupatevi se tornerà solo domani sera...» «All'alba il lupo, ma, se lo manchiamo, dovrò pure fargli ammazzare due o tre anatre nello stagno di Vallue, al ragazzo!» «Bene! Lo farai annegare!» «Perdio!», imprecò Mocquet. «Se non avessi l'onore di parlare alla vedova del mio Generale, vi direi...» «Che cosa mi diresti, Mocquet?» «Vi direi che facendo così, farete di vostro figlio un pulcino bagnato! Se la madre del Generale lo avesse trattenuto sempre per le falde della giubba, come fate voi con vostro figlio, non avrebbe certo attraversato il mare per venire in Francia.»
«Hai ragione, Mocquet, portalo via; sono una sciocca!» E mia madre si girò per asciugarsi una lacrima: lacrima di madre, diamante del cuore, più prezioso di una perla orientale. Vidi colare quella lacrima e, avvicinatomi a lei, le dissi a bassa voce: «Se vuoi, resto, mamma». «No, no, vai, ragazzo mio, Mocquet ha ragione. Un giorno dovrai pur essere un uomo!» L'abbracciai ancora una volta e corsi a raggiungere Mocquet, che si era già avviato. Avevo fatto sì e no cento passi quando mi voltai, e vidi mia madre che si era spinta fino in mezzo alla strada per seguirmi più a lungo con lo sguardo. Questa volta, fui io ad asciugarmi una lacrima sul ciglio della palpebra. «Ma benone! Ora piangete voi, signor Alessandro!» «No, no, Mocquet, è il freddo che mi fa lacrimare!» Ma, Signore Iddio, voi che mi avete dato quella lacrima, sapete bene che non era il freddo a farmi piangere... Arrivammo a casa di Mocquet a notte fonda. Cenammo con una frittata al lardo e fricassea di coniglio, e poi Mocquet mi rifece il letto. Aveva mantenuto la parola data a mia madre: un buon materasso, due lenzuola bianche e due morbide coperte calde. «E adesso», mi disse Mocquet, «mettetevi sotto e dormite! È probabile che domani, alle quattro del mattino, dovremo già metterci in campagna.» «All'ora che vorrai, Mocquet!» «Sì, sì, la sera siete mattiniero, ma domani mattina sarò costretto a buttarvi addosso una tazza d'acqua fredda per svegliarvi!» «Te lo permetto, Mocquet, se tu dovessi chiamarmi due volte!» «Sta bene, vedremo...» «Ma, dimmi, Mocquet, hai tanta voglia di andare a letto?» «E che volete fare a quest'ora?» «Secondo me, potresti raccontarmi una di quelle storie che mi divertivano tanto da bambino...» «E chi si alzerà alle due del mattino, se sto a raccontarvi favole fino a mezzanotte?» «Hai ragione, Mocquet!» «Meno male!» Mi spogliai e andai a letto, mentre Mocquet si buttava sul suo giaciglio tutto vestito. Dopo non più di cinque minuti ronfava come un contrabasso. Io invece passai due ore buone a rigirarmi fra le coperte prima di addor-
mentarmi. Quante notti bianche ho passato alla vigilia dell'apertura di caccia! Verso mezzanotte, alla fine fui vinto dalla stanchezza. Ma alle quattro in punto una sensazione di freddo mi destò di soprassalto. Aprii gli occhi. Mocquet mi aveva tirato giù le coperte e stava in piedi accanto al mio letto, le due mani sul fucile, e in bocca la sua pipetta. Il suo viso raggiava al chiarore della pipa, a ogni tirata. «Che c'è, Mocquet?» «C'è che l'abbiamo scovato!» «Il lupo? E chi l'ha scovato?» «Quell'imbecille di Mocquet!» «Bravo!!» «Soltanto... indovinate dove è andato a cacciarsi?» «Dove, Mocquet?» «Una su cento che non l'indovinate! Nella rimessa delle Tre Querce!» «Ma allora è preso!» «Perdio, se lo è!» Le Tre Querce è un folto d'alberi di circa due are, situato al centro della piana di Largny, a mezzo chilometro circa dalla foresta. «E i guardacaccia?», chiesi. «Avvertiti», rispose Mocquet. «I tiratori migliori sono al bordo della foresta; Moynat, Mildet, Vatrin, Lafeuille... Da parte nostra, circonderemo la rimessa insieme a Charpentier, Hochedez e il Signor Destournelles. Daremo la via ai cani, la guardia campestre li appoggerà e... il gioco è fatto!» «Mocquet, mi metterai in un buon posto, vero?» «Accanto a me: non ve l'ho già detto? Solo, dovete alzarvi!» «Hai ragione, Mocquet. Brrr!» «Vado a mettere un pezzo di legna nel camino: mi fate pena, siete troppo giovane.» «Non osavo chiedertelo, ma se lo fai, sei un tesoro!» Mocquet andò a prendere una bracciata di legna che buttò nel camino, sistemandola con il piede; poi ficcò in mezzo ai frammenti un fiammifero acceso. Istantaneamente il fuoco prese e la fiamma si levò chiara e allegra nel camino. Mi alzai, andai a sedermi sullo sgabello accanto al fuoco, e mi vestii. Fu una toeletta frettolosa, potete credermi! Perfino Mocquet ne fu meravigliato. «Via, un goccio di tonico e... in cammino!» E riempì due bicchierini di un liquore giallastro che non ebbi bisogno di assaggiare per capire cos'era.
«Lo sai che non bevo mai acquavite, Mocquet!» «Ah, siete pure il figlio di vostro padre, voi! Che volete, allora?» «Niente, Mocquet, niente.» «Conoscete il proverbio: Casa vuota, c'entra il Diavolo. Mettete qualche cosa nello stomaco, datemi retta. Intanto vado a caricarvi il fucile: l'ho promesso a vostra madre.» «Ebbene, Mocquet, un pezzetto di pane e un goccio di "tonico".» Il «tonico» è un vinello leggero che si fa nel paese. Ne buttai giù un bicchiere mentre Mocquet caricava il mio fucile. «Ma che fai, Mocquet?» «Faccio una croce sulla vostra pallottola. Siccome staremo vicini, può darsi che ci capiti di tirare insieme e... bene, se il lupo cade, vedremo chi l'avrà abbattuto! Perciò, mirate giusto!» «Farò del mio meglio, Mocquet.» «Ecco il vostro fucile. In cammino, e tenete il fucile con la canna in alto.» Seguii la prudente raccomandazione del vecchio guardacaccia, e ci avviammo. L'appuntamento era sulla strada di Chavigny. Trovammo lì la nostra guardia campestre e una parte dei cacciatori. Nel giro di dieci minuti, quelli che ancora mancavano, ci avevano raggiunto. Alle cinque meno qualche minuto, eravamo al completo, e tenemmo consiglio. Decidemmo di aggirare la bandita delle Tre Querce molto alla lontana, avvicinandoci poco a poco in maniera di circondarla. Questo movimento andava compiuto il più silenziosamente possibile, dato che i signori lupi hanno l'abitudine ben nota di svignarsela al minimo rumore. Ciascuno di noi doveva studiare accuratamente la strada da percorrere, allo scopo di assicurarsi che il lupo era sempre nella bandita. La guardia campestre teneva i cani di Mocquet, legati a coppia. Ognuno di noi si appostò nel punto dove era giunto, e il caso volle che Mocquet e io ci trovassimo sul lato nord della brughiera, quello cioè parallelo alla foresta, il migliore come aveva detto Mocquet. Probabilmente il lupo avrebbe tentato di rifugiarsi nella foresta, sbucando dalla nostra parte. Ci appoggiammo ciascuno a una quercia, a cinquanta passi di distanza l'uno dall'altro. Poi, trattenendo il respiro, aspettammo in silenzio. I cani, che vennero sguinzagliati sul lato opposto a quello dove eravamo appostati, latrarono un paio di volte, poi tacquero. La guardia entrò nella
bandita dopo di essi, picchiando gli alberi con il suo bastone e gridando: «Prendetelo!». Ma i cani, gli occhi fuori delle orbite, le labbra rialzate, il pelo ritto, sembravano radicati al suolo. Impossibile farli avanzare di un passo. «Ehi, Mocquet!», gridò la guardia campestre. «Pare sia un lupo terribile, giacché Rocador e Tombelle si rifiutano di attaccare.» Mocquet si guardò bene dal rispondere, poiché il suono della sua voce avrebbe indicato al lupo in quale direzione avrebbe trovato i nemici. La guardia continuò ad avanzare, picchiando contro gli alberi. I due cani lo seguivano, ma con prudenza, passo passo, accontentandosi di brontolare. «Tuoni e fulmini!», gridò a un tratto la guardia. «Per poco non gli pestavo la coda! Al lupo, al lupo! A te, Mocquet! A te!» Effettivamente, qualcosa veniva verso di noi, con la velocità di una palla di cannone. L'animale si slanciò fuori della bandita, rapido come il baleno, passando esattamente tra me e Mocquet. Era un lupo enorme, quasi canuto per la vecchiaia. Mocquet gli sparò due colpi, e io vidi le pallottole rimbalzare sulla neve. «Ma sparate, dunque, sparate!», gridò. Soltanto allora mi decisi a spianare il fucile; seguii per un attimo l'animale e feci fuoco. Il lupo fece un movimento come per mordersi la spalla. «L'ha preso, l'ha preso!», urlò Mocquet. «Il ragazzo ha mirato giusto! Agli innocenti la fortuna!» Tuttavia il lupo continuò a correre, puntando dritto su Moynat e Mildet, i due migliori tiratori della forestale... Tutti e due spararono: il primo colpo nella piana, il secondo nel sottobosco. Si videro le due prime pallottole incrociarsi e colpire la neve, facendola sprizzare. Da quelle due prime pallottole il lupo non era stato toccato, ma senza dubbio era caduto sotto le altre. Era inaudito che le due guardie forestali avessero mancato il bersaglio... Avevo visto con i miei occhi Moynat abbattere diciassette beccaccini in fila. Avevo visto Mildet spezzare in due uno scoiattolo che saltava da un albero all'altro. Le guardie avevano seguito il lupo nel sottobosco. Guardammo, ansimanti, il punto in cui erano scomparsi... Li vedemmo riapparire avviliti, scuotendo la testa. «Ebbene?», gridò Mocquet, volgendosi ai tiratori. «Mah!», fece Mildet, con un gesto del braccio. «A quest'ora è a TailleFontaine.» «A Taille-Fontaine!», gridò Mocquet, al colmo della stupefazione. «Al-
lora lo avete mancato?» «Perché no? Tu l'hai preso?» Mocquet scosse il capo. «Andiamo, c'è sotto qualche diavoleria», disse. «Che l'abbia mancato io, è grossa, ma ancora possibile. Ma che l'abbia mancato Moynat con due colpi... eh, no, non ci credo!» «Eppure è così!» «Ma voi l'avevate preso, no?», fece Mocquet, volgendosi verso di me. «Io? Ne sei sicuro?» «È vergognoso per tutti noi, ma, parola di Mocquet, l'avete toccato!» «Se l'ho preso, è facile verificare, Mocquet! Avrà perso sangue... Corriamo, corriamo!» «No, perdiana, non corriamo!», gridò Mocquet, stringendo i denti e battendo il piede in terra. «Al contrario, procediamo lentamente, per poterci regolare.» «Andiamo pure piano, ma andiamo!» Mocquet cominciò a seguire, passo passo, le orme del lupo. «Perbacco, non c'è timore di perderla, la traccia, è visibilissima!», osservai. «Sì, ma non è questa che cerco.» «Che cerchi allora?» «Lo saprete subito.» I cacciatori che circondavano insieme a noi la bandita, ci avevano raggiunto e ci seguivano mentre la guardia campestre li metteva al corrente dell'accaduto. Mocquet e io seguivamo i passi del lupo, profondamente impressi nella neve. Giunti al punto in cui l'animale avrebbe dovuto giacere colpito dalla mia pallottola, dissi: «Ebbene, Mocquet, lo vedi, l'ho mancato!». «Perché dite così?» «Perché, che diamine, non c'è sangue!» «Allora cercate la traccia della vostra pallottola sulla neve.» Mi avviai nella direzione che la pallottola avrebbe dovuto seguire, supponendo che non avesse colpito il lupo. Percorsi inutilmente un mezzo chilometro, poi mi decisi a tornare da Mocquet, il quale stava facendo segno alle guardie forestali di raggiungerlo. «Così, la pallottola?», mi chiese. «Non l'ho trovata.» «Bene, sono stato più fortunato di voi, perché io l'ho trovata!» «Come, l'hai trovata?!»
«Fate il giro: venitemi dietro.» Obbedii. I cacciatori della bandita si erano avvicinati, ma Mocquet aveva loro indicato una linea che non dovevano oltrepassare. Le guardie forestali a loro volta si avvicinarono. «Mancato», dissero insieme Mildet e Moynat. «Ho ben visto che l'avete mancato sulla piana, ma nel sottobosco?» «Mancato anche là!» «Ma ne siete proprio sicuri?» «Abbiamo ritrovato le due pallottole, ciascuna nel tronco di un albero.» «Incredibile!», esclamò Vautrin. «Incredibile!», gli fece eco Mocquet. «Eppure vi mostrerò qualcosa di ancora più incredibile! Guardate là, sulla neve... che ci vedete?» «La pista di un lupo, perdio!» «E accanto alla zampata destra... laggiù... che c'è?» «Un piccolo buco...» «Be', non capite ancora?» Gli uomini si guardarono, stupefatti. «Avete capito finalmente?» «Ma è impossibile!» «Eppure così è, e adesso ve ne darò la prova!» Mocquet immerse la mano nella neve, cercò per un momento, e con un grido di trionfo estrasse dalla neve una pallottola appiattita. «Ma è la mia pallottola!», gridai io. «La riconoscete, allora?» «Si capisce! L'avevi segnata, no?» «E come l'avevo segnata?» «Con una croce.» «Avete sentito?», fece Mocquet, rivolgendosi a tutti i presenti. «Spiegaci questo mistero, Mocquet!» «Be'... il lupo ha evitato le pallottole normali, ma non ha potuto sfuggire a quella del ragazzo su cui c'era impressa una croce! L'ha preso sulla spalla: gli ho visto fare un movimento, come per mordersi...» «Ma se è stato toccato alla spalla», chiesi io, stupito dal silenzio e dallo sbalordimento delle guardie, «come mai non lo ha ucciso?» «Perché non era né d'oro né d'argento, ragazzo mio, e solo le pallottole d'oro e d'argento possono intaccare la pelle del Diavolo, e uccidere quelli che hanno fatto un patto con lui!» «Ma allora, Mocquet», fecero le guardie, rabbrividendo, «tu credi sul se-
rio...» «Sì, perdio! Giurerei che ci siamo imbattuti nel lupo di Thibault lo zoccolaio!» Cacciatori e guardie si scambiarono un'occhiata: due o tre di essi si fecero il segno della croce, come se tutti fossero dell'opinione di Mocquet, e conoscessero il lupo di Thibault lo zoccolaio. Io solo non ne sapevo nulla. Perciò insistetti: «Ma insomma che cos'è questa storia del lupo di Thibault?». Mocquet esitava a rispondere. Alla fine, esclamò: «In fede mia! Il Generale mi ha detto che avrei potuto raccontarvi tutta la faccenda quando aveste avuto quindici anni? Li avete, no?». «In quanto a questo, ne ho sedici!», risposi con fierezza. «Ebbene, il lupo di Thibault lo zoccolaio, mio caro signor Alessandro, è il Diavolo in persona! Ieri sera, non mi avete chiesto di raccontarvi una storia?» «Sì...» «Tornate con me a casa, e ve ne racconterò una, ma... bella!» Guardie e cacciatori si separarono, scambiandosi in silenzio qualche stretta di mano; ciascuno prese la sua strada, e noi tornammo in casa di Mocquet, il quale mi raccontò la storia che state per leggere. Forse mi domanderete perché, dopo tanti anni da quando mi è stata narrata, io ve la racconto solo adesso. Vi risponderò che è rimasta chiusa in uno scomparto della mia memoria, che si è riaperto appena tre giorni or sono. Vi dirò subito in quale occasione; ma probabilmente questo racconto sarebbe per voi di un mediocre interesse... Meglio dunque cominciare immediatamente la mia storia! Dico la mia, ma dovrei dire forse la storia di Mocquet. Il fatto è che quando si è covato un uomo per 38 anni, si finisce col credere di averlo sfornato. ALEXANDRE DUMAS 1. Che Gran Cacciatore il Barone Jean de Vez! Nel 1780 dimorava in un castello del XIII secolo, tetro e austero, il cui isolamento conferiva al tenebroso gigante di granito, soprattutto la notte, la terrorizzante maestà di ciò che è muto e immobile. Il castellano di questa fortezza, però, non era catti-
vo, e chi lo conosceva bene sosteneva che facesse più rumore che fatti e più paura che male... agli uomini, beninteso! Per gli animali della foresta invece era un nemico dichiarato, implacabile, mortale. E del resto la sua carica di Sovrintendente alle Cacce di Monsignor Luigi Filippo, Duca di Orléans, gli permetteva di soddisfare agevolmente la sua sfrenata passione per la caccia. Aveva sposato, si diceva, una figlia naturale del Principe, e tale matrimonio gli concedeva potere assoluto su tutte le proprietà del suo illustre suocero. Potere che naturalmente nessuno osava contestargli. Accadeva di rado che, con il sole o la pioggia, con il gelo o i prati verdeggianti, il portone del castello non si spalancasse alle prime ore del mattino per lasciar passare, prima il Barone Jean, poi il suo primo battitore, Marcotte, quindi gli altri battitori, e infine i cani tenuti al guinzaglio dai servi e sorvegliati da Engoulevent, aspirante battistrada, che veniva subito dopo i battitori, e prima dei servi con i cani. Sfilavano così i dodici cavalli inglesi e i quaranta cani francesi con i quali il Barone Jean andava a caccia di tutti gli animali della foresta, cinghiali, cervi, daini e, se gli venivano a tiro, anche lepri. Ma soprattutto doveva occuparsi dei lupi. Per questa ragione, come abbiamo detto, il degno Barone andava a caccia tutti i giorni, e sarebbe rimasto anche dodici ore senza mangiare e senza bere pur di veder correre i suoi cani. Ma per veloci che siano i cavalli e astuti i cani, anche la caccia conosce i suoi alti e bassi. Un giorno Marcotte si presentò con aspetto avvilito al posto dell'appuntamento, dove l'aspettava il Barone. «Che succede, Marcotte?», chiese il Barone aggrottando le sopracciglia. «Dal tuo viso, immagino che oggi la caccia andrà male.» Marcotte scosse la testa. «Via, parla!», insisté il Barone con impazienza. «Ebbene, signore, abbiamo avuto notizie del lupo nero!» «Ah!», esclamò il Barone con gli occhi scintillanti. Era infatti la quinta o sesta volta che i suoi cani scovavano il lupo nero, facile a riconoscersi per l'insolito colore del pelame, senza riuscire però mai a portarlo sotto tiro. «Sì», continuò Marcotte, «ma quella dannata bestia ha utilizzato così bene la notte, e ha talmente confuso le uste che, dopo aver battuto metà del bosco, mi sono ritrovato al punto di partenza.» «Allora, Marcotte, tu ritieni impossibile avvicinare il lupo nero?» «Temo proprio che non ce la faremo...» «Per tutti i diavoli!», gridò il Barone Jean. «Oggi sono di pessimo umore
e per riprendermi ho bisogno di una bella cacciata! Vediamo, Marcotte, che cosa possiamo scovare al posto di quel dannato lupo nero?» «Caspita», rispose Marcotte, preoccupato per se stesso, «non ho avvistato altri animali, ma se Monsignore vuol sguinzagliare i cani, e cacciare il primo animale che si presenta...» Il Barone stava per rispondere a Marcotte di arrangiarsi come meglio poteva, quando vide avvicinarsi Engoulevent il quale aveva tutta l'aria di voler offrire un qualche suggerimento. «Non ho certo consigli da dare a un nobile signore come voi», disse Engoulevent, mascherando sotto un comportamento umile la sua fisionomia furba e beffarda, «ma è mio dovere avvertire il signor Barone che nelle vicinanze si aggira un bel daino.» «Vada per il tuo daino!», esclamò il Barone. «E, se non ti sei sbagliato, riceverai uno scudo! Dove si trova questo tuo daino? Ma... se mi fai sguinzagliare i cani inutilmente, attento alla tua pelle!» «Datemi Matador e Venere, e vedrete!» Erano quelli i due cani d'attacco migliori della muta, e infatti Engoulevent si era appena inoltrato nel folto del bosco che, dall'abbaiare e scodinzolare dei cani, Marcotte capì che stavano imboccando la via giusta. Quasi subito il daino, un magnifico esemplare di sette anni, venne scovato. Tutta la muta sguinzagliata si unì ai due cani di punta, Marcotte dette il segnale, e la caccia ebbe inizio, con soddisfazione del Barone de Vez, il quale, pur rimpiangendo il lupo nero, accettava ben volentieri un daino di sette anni. La caccia durava già da due ore e il daino resisteva, trascinandosi dietro la muta da Harmont alla Strada dell'Impiccato, e di qui al confine di Oigny, sempre trionfalmente, senza arrendersi. Verso Bourgfontaine, però, l'animale cominciò a dare segni di stanchezza; rinunciando al progetto, palesemente attuato sino a quel momento, di portar lontano la caccia, prese a giocare d'astuzia. Scese dapprima nel ruscello che scorre dallo stagno di Baisement a quello di Bourg, lo risalì per circa mezzo chilometro con l'acqua ai garretti, poi saltò a destra, si gettò di nuovo nel ruscello, saltò a sinistra e, da quel momento, si allontanò a grandi balzi vigorosi, per quanto glielo permettevano le poche forze rimastegli. Ma i.cani del Barone de Vez non si confondevano per così poco. Di razza e intelligenti, istintivamente si divisero i compiti. Gli uni risalirono il ruscello, gli altri lo discesero; questi cercavano a destra, quelli a sinistra, finché finirono per intuire il piano strategico del daino, ritrovarono la stra-
da da lui seguita, e ripresero la corsa, ardenti e focosi come se il daino si trovasse lì, a pochi passi. Sempre galoppando, abbaiando, e dando fiato al corno da caccia, il Barone Jean, i battitori e la muta arrivarono agli stagni di Sant'Antonio, a poche centinaia di metri da Oigny, dove si trovava la casupola di Thibault lo zoccolaio. Sui venticinque anni, alto e solido, Thibault era d'intelligenza mediocre e d'animo maligno. Una malignità che nasceva dall'invidia che, forse senza rendersene ben conto, provava per il prossimo più favorito di lui dalla sorte. Suo padre aveva fatto lo sbaglio di dargli un'istruzione superiore alla sua condizione, e così Thibault, a vent'anni, aveva sperato di potersi scegliere un mestiere migliore di quello dello zoccolaio. Purtroppo per lui, il padre era morto lasciandogli appena il necessario per pagare le spese del funerale. Quando fu seppellito, al figlio non restò quasi nulla, tranne il suo mestiere di zoccolaio - mestiere nel quale era abilissimo, ma che non gli garbava troppo. Così, per un ultimo atto di prudenza, depositò presso un amico gli utensili del padre, vendette i pochi mobili ricavandone una discreta sommetta, e decise di fare il giro della Francia. Thibault impiegò tre anni a realizzare il suo ambizioso progetto, e certo non si arricchì; ma aveva imparato molte cose che prima ignorava, e acquisito alcune attitudini che prima non possedeva. Aveva anche imparato che in commercio conviene mantenere la parola data, mentre è inutile restare fedele a una donna. Questo per quanto riguarda la morale. Per il fisico, sapeva ballare benissimo, maneggiare egregiamente il bastone per difendersi dagli uomini, e sapeva servirsi dello spiedo contro la selvaggina, come il miglior cacciatore di mestiere. Queste qualità, però, avevano contribuito ad accrescere la superbia congenita del giovanotto; trovandosi più bello, più forte, più abile di molti altri, si chiedeva perché mai la Provvidenza non lo avesse fatto nascere nobile. Di ritorno a casa, Thibault andò a riprendersi i suoi utensili dall'amico, e si presentò quindi all'amministratore dei beni di Luigi Filippo Duca d'Orléans, per chiedergli il permesso di costruirsi una capanna nella foresta, ed esercitare lì il suo mestiere. Il permesso gli venne accordato. Libero di scegliere il punto della foresta a lui più gradito, Thibault scelse il bivio di Oisières, situato tra Oigny e Villars. Poi costruì il suo laboratorio, in parte con vecchie tavole, in parte con rami d'albero che l'amministratore gli lasciò tagliare nel bosco. La casupola si componeva di una camera, ben riparata per potervi lavorare d'in-
verno, e di una specie di altana aperta per lavorarvi d'estate. Dopo aver confezionato un centinaio di paia di zoccoli, e averli venduti a un commerciante di Villars, Thibault cominciò a pensare ai mobili che, conoscendo anche il mestiere di falegname, decise di fabbricarsi da sé. Quindi fu la volta delle pentole, dei piatti, bicchieri, eccetera. Nel frattempo il lavoro prosperava, giacché Thibault non conosceva rivali nel ricavare un paio di zoccoli da un pezzo di legno di faggio, e per scolpire cucchiai, saliere e ciotole con scarti di legname. Thibault si era installato nella sua bottega da tre anni quando il daino venne a farsi battere al confine di Oigny, girando intorno alla sua capanna. 2. Sebbene fosse già autunno inoltrato, Thibault stava lavorando a un paio di zoccoli, nell'altana. D'un tratto scorse, a non più di trenta passi, il daino fremente, tremante, che lo fissava con occhi pieni di intelligenza e di spavento. Da parecchio Thibault sentiva i cacciatori aggirarsi intorno a Oigny, avvicinandosi, allontanandosi, e ritornando verso il villaggio. Non si meravigliò quindi della presenza del daino. Lasciò il lavoro per ammirarlo. «Per tutti gli Dèi!», esclamò ad alta voce. «Ecco uno splendido animale, degno della mensa di un re! Felici coloro che tutti i giorni possono gustare un cosciotto di daino! I Signori, i Signori! Loro sì che possono offrirsi carne fresca e vini invecchiati, mentre io mi nutro di patate e bevo acqua tutta la settimana! Caro e grazia se la domenica posso permettermi un pezzo di lardo rancido, un cavolo quasi sempre spigato, e un bicchiere di vinello acido!» Alle prime parole di Thibault, il daino era fuggito. Al termine del suo sfogo, lo zoccolaio si sentì interpellare rudemente da un vigoroso: «Ehi cialtrone, rispondi!». Era il Barone Jean, i cui cani esitavano a lanciarsi, e che desiderava assicurarsi che non fossero stati ingannati da un nuovo stratagemma del daino. «Rispondi! L'hai visto, il daino?» «Quale daino?», chiese lo zoccolaio, sconcertato da quel tono. «Corpo di Bacco, quello che stiamo cacciando! Deve essere passato a pochi passi da qui: dovresti averlo visto! È un daino di sette anni. In quale direzione si è avviato? Parla, briccone, o ti faccio staffilare!» «Che la peste ti soffochi», mormorò tra sé lo zoccolaio. Poi, ad alta voce: «Eh, sì, certo che l'ho visto... Era un maschio con delle corna superbe.
L'ho visto come vedo voi, signore!». «E poi?», chiese ancora il Barone cui le astuzie dell'animale davano la febbre di Sant'Uberto. «Via, cialtrone, parla!» «Il Signore non mi ha ancora detto che cosa desidera sapere...» «Il daino sembrava stanco? Da dove veniva? Dove si è diretto?» «Non veniva, stava fermo. Ma non ho visto da dove fosse arrivato... E nemmeno dove si è diretto.» Il Barone de Vez guardò Thibault in cagnesco. «Da quanto tempo è passato?» Thibault finse di cercare nella sua memoria. «Mi sembra l'altro ieri», rispose, dissimulando appena un sorriso che non sfuggì al Barone Jean. Spronando il cavallo, il nobiluomo si lanciò sullo zoccolaio, il frustino alzato, ma Thibault, svelto, con un balzo si rifugiò nell'altana dove il Barone, essendo a cavallo, non poteva raggiungerlo. «Ti stai burlando di me! Menti!», gridò Jean de Vez. «Marcassino, il migliore dei miei cani, punta e abbaia a venti passi da qui, e se il daino è passato dove si trova Marcassino, deve aver saltato la siepe... e non è possibile che tu non l'abbia visto!» «Scusate, signore, il nostro Parroco dice che solo il Papa è infallibile... Marcassino può aver sbagliato.» «Marcassino non sbaglia mai, mi senti? Ah, eccone la prova. Da qui vedo il terriccio pestato dal daino... Insomma, basta, gaglioffo!», urlò il Barone. Thibault esitò un attimo, ma l'aspetto del Gran Cacciatore diventava sempre più minaccioso, e continuando a disobbedirgli, lo avrebbe sempre più esasperato. Si decise dunque a lasciare il suo rifugio, ma non aveva fatto quattro passi che il cavallo del Barone, pungolato dal morso e dallo sperone, venne a fermarsi vicinissimo a lui. Al tempo stesso, una frustata gli calò sul capo. Stordito, lo zoccolaio barcollò, perse l'equilibrio, e stava per cadere, quando il Barone Jean, liberatosi dalla staffa, lo colpì con un calcio al petto, facendolo stramazzare sull'uscio della casupola. «Ecco!», esclamò. «Per le tue bugie e per avermi preso in giro!» E senza più preoccuparsi dell'uomo steso a terra, il Barone, accortosi che la muta si era radunata ai latrati di Marcassino, dette fiato al corno da caccia e, al trotto, raggiunse i suoi cani. Thibault si alzò, tastandosi dalla testa ai piedi per controllare di non aver nulla di rotto. «Meno male, non mi sono fracassato nessun osso...», si disse. «Ah, signor Barone, solo perché avete sposato la bastarda di un Princi-
pe, vi permettete di trattare uomini come me in questo modo? Ebbene, per quanto tu sia Gran Cacciatore e Sovrintendente, non gusterai il daino che stai cacciando! Sarà quel gaglioffo, quel briccone, quel cialtrone di Thibault a gustarlo! Oh, se lo gusterò! Lo giuro!», esclamò a voce alta lo zoccolaio, risoluto a realizzare il suo audace progetto. «Non sarei un uomo se una volta fatto un giuramento, non lo mantenessi!» E subito, infilata nella cintura la roncola e preso lo spiedo da caccia, Thibault ascoltò per un momento l'abbaiare dei cani, si orientò, e, con tutta la velocità delle sue gambe, li precedette nella direzione indicata. Gli si offrivano due possibilità: imboscarsi lungo la pista percorsa dal daino e ucciderlo con lo spiedo, oppure sorprenderlo nel momento in cui sarebbe stato ridotto allo stremo dall'incalzare dei cani, e abbatterlo. Secondo le previsioni di Thibault, il daino stava dirigendosi verso il ponte che valica il fiume tra Noroy e Troesne; fiume che per la sua profondità e la rapida corrente non si prestava a essere passato a guado. Thibault decise di nascondersi dietro un masso, a poca distanza dal ponte, e di aspettare. Qualche minuto dopo, a pochi passi dal masso roccioso, vide spuntare d'un tratto la bella testa del daino che, con le orecchie tese in direzione del vento, cercava di cogliere nella brezza il rumore provocato dai suoi inseguitori. Thibault, emozionato dalla subitanea apparizione, si alzò, strinse con forza il suo spiedo e lo lanciò contro l'animale. Il daino con un balzo fu sul ponte, con un altro si portò sulla riva opposta, e con un terzo scomparve alla vista di Thibault. Lo spiedo, rasentando lo zoccolo dell'animale, si era conficcato nell'erba a pochi passi da colui che lo aveva lanciato. Mai Thibault aveva commesso una simile balordaggine! Furioso contro se stesso, raccolse l'arma e, rapido non meno del daino, attraversò il ponte già valicato dall'animale. Conoscendo il paese bene quanto lo stesso daino, si nascose dietro un faggio, a mezza costa, non lontano da uno stretto sentiero che costituiva un passaggio obbligato. Sentiva avvicinarsi i latrati dei cani e si rendeva conto che disponeva ormai di pochi minuti per mettere in atto il suo piano, ma il desiderio di impossessarsi del daino aumentava con il crescere delle difficoltà. «Eppure lo voglio!», si disse. «Se esiste un Dio per i poveri, avrò ragione di quel Barone che mi ha battuto come un cane! Battere un uomo come me, sempre pronto a vendicarsi!» Raccolse lo spiedo e cominciò a correre sulle tracce del daino; ma quel Dio da lui invocato, forse non lo aveva udito, o voleva fargli perdere la pa-
zienza. Il secondo tentativo, infatti, fallì come il primo. «Per tutti i fulmini!», urlò Thibault. «Decisamente il buon Dio è sordo, e allora che mi ascolti il diavolo! In nome di Dio o del diavolo, ti voglio e ti avrò, daino maledetto!» Aveva appena pronunciato questa bestemmia che il daino, per la terza volta, lo rasentò e sparì. In quel momento i cani latrarono furiosamente e così da vicino che Thibault giudicò imprudente continuare l'inseguimento. Si guardò intorno, scorse una quercia frondosa, scagliò lo spiedo in un cespuglio e si strinse al tronco dell'albero, nascondendosi tra il fogliame. Vide giungere i cani, e dietro di loro il Barone che, nonostante i suoi cinquantasei anni, guidava la caccia come se ne avesse venti. Era palesemente furibondo. Aveva perso più di quattro ore per un miserabile daino, e si trovava sempre allo stesso punto! Non gli era mai accaduto. Redarguiva i suoi uomini, frustava i cani e aveva tormentato a tal punto il ventre del cavallo con gli speroni, che il sangue del nobile animale macchiava perfino lo strato di fango sulle sue ghette di cuoio. Arrivata che fu la caccia al ponte sul fiume, il Barone si rianimò: la muta aveva ripreso la pista, ed era così compatta che il mantello dell'Intendente avrebbe potuto coprirla tutta mentre valicava il ponte. Fu in quel momento che il Barone Jean afferrò il corno e vi soffiò con tutta la forza dei suoi polmoni, come faceva solo nelle grandi occasioni. Il suo entusiasmo, ahimè, doveva essere di breve durata. D'un tratto, proprio ai piedi dell'albero dove si era appollaiato Thibault, i cani, che latravano tutti insieme in un concerto che deliziava l'udito del Barone, tacquero quasi per incantesimo. Per ordine del padrone, Marcotte scese da cavallo, cercò di indagare, ma non vide nulla. Engoulevent, che aveva molto a cuore la cattura dell'animale da lui scovato, a sua volta si mise alla ricerca della causa che aveva provocato quello strano comportamento della muta. Insomma, ciascuno dei due cercava, gridava, stimolava i cani, quando, dominando tutte le altre voci, risuonò potente quella del Barone. «Per mille diavoli, i cani sono forse caduti in una fossa, Marcotte?» «No, Monsignore, ma sono disorientati, non riesco a capire neppure io per quale ragione... Ci sarebbe da pensare che quel maledetto daino si sia cacciato in una tana come un coniglio, o sia volato in cima a un albero come un uccello. Per conto mio, Signore, si tratta di stregoneria, è chiaro come il giorno! Non vedete come se ne stanno appiattiti sul ventre? Sembrano cervi in riposo, vi sembra naturale?»
«Sferzali, sferzali!», urlò il Barone. «Sferzali senza pietà, vedrai che si muovono!» E il Barone Jean si avvicinò ai cani per sottolineare con qualche robusta sferzata gli esorcismi che Marcotte stava distribuendo. In quel momento Engoulevent, con il berretto in mano, venne a fermarsi, timido, davanti al cavallo del Barone. «Monsignore», disse, «credo di aver scoperto su quell'albero un uccello che forse potrebbe chiarire la situazione.» «Che diavolo mi vai raccontando con il tuo uccello, scimmiotto?! Tra un attimo imparerai che cosa significhi burlarsi del padrone!» Il Barone alzò il frustino, ma Engoulevent, con lo stoicismo di uno spartano, levò il braccio, a scudo, per proteggersi la faccia, e continuò: «Colpite pure, Signore, ma dopo guardate su quell'albero, e quando avrete visto l'uccello che vi sta acquattato, mi darete una mancia invece di una frustata!». Così dicendo, il giovane indicava con la mano la quercia fra i cui rami Thibault si era rifugiato all'arrivo dei cacciatori. E infatti il Barone Jean, facendosi schermo agli occhi con la mano, scorse lo zoccolaio. «Questa è bella! Nella foresta di Villars i daini si rintanano come volpi e gli uomini si posano sui rami come corvi! Sapremo subito come regolarci.» E portando la mano alla bocca, gridò: «Ehi, amico, dieci minuti di conversazione ti dispiacerebbero?». Thibault non disse verbo. Engoulevent fece cenno al Barone di esser pronto a salire sull'albero, ma il Barone scosse il capo e, senza riconoscere Thibault, riprese: «Ehi, quell'amico, vuoi rispondere, sì o no? A quanto pare fai il sordo, eh? Aspetta, aspetta: prenderò il mio portavoce!». E tese la mano verso Marcotte, il quale subito gli porse la carabina. Thibault, dal canto suo, tentando di trarre in inganno i cacciatori, fingeva di tagliare i rami con tale foga da non accorgersi del gesto del Barone; o, se lo vide, lo scambiò per una minaccia di poca importanza. Il Signore di Vez, attese qualche minuto, poi premette il grilletto e il colpo partì. Si udì lo scricchiolio di un ramo; esattamente quello sul quale si era arrampicato Thibault e che l'abile tiratore aveva spezzato tra il tronco dell'albero e il piede dello zoccolaio. Privo del suo punto di appoggio, Thibault scivolò giù, di ramo in ramo. L'albero per fortuna era folto, i rami resistenti, e di rimbalzo in rimbalzo, Thibault venne a trovarsi a terra con l'unico danno di una gran paura e di qualche contusione.
«Per le corna di Belzebù!», esclamò il Barone, entusiasta del suo abile colpo. «Si tratta dell'individuo di questa mattina! Questa poi... La conversazione con il mio frustino ti è sembrata troppo breve, eh? Sei deciso a riprenderla?» «In quanto a questo, no davvero, signor Barone», rispose Thibault con la massima sincerità. «Tanto meglio per la tua pelle, giovanotto. E ora, vuoi dirci che cosa stavi facendo, arrampicato su quella quercia?» «Il signor Barone può vederlo», replicò Thibault, mostrando qualche ramoscello sparso a terra. «Stavo tagliando qualche ramo secco per il mio riscaldamento.» «Benissimo! E ora, giovanotto, vuoi dirci dov'è andato a finire il nostro daino?» «Parola mia, signor Barone, non capisco...» «Questa, poi!», intervenne Marcotte. «Non ha visto il nostro daino: non capisce!» «Sta' a sentire», fece il Barone, togliendo la parola di bocca a Marcotte. «Tu stavi sull'albero e il daino si trovava ai tuoi piedi. Che diavolo! Passando, ha fatto certo più rumore di un topo, è impossibile che tu non l'abbia visto!» «Ha ucciso lui il daino», intervenne di nuovo Marcotte, «e l'ha nascosto in un cespuglio! È chiaro come il giorno.» «Ah, no, signor Barone!», protestò Thibault che meglio di ogni altro sapeva quanto errata fosse l'accusa di Marcotte. «Per tutti i Santi del Paradiso, giuro che non ho ucciso il daino! Del resto, se l'avessi ucciso, avrei dovuto ferirlo, e dalla ferita sarebbe sgorgato sangue... Cercate pure, signor battitore! Grazie a Dio, non troverete tracce di sangue. Io avrei ucciso quel povero animale? E con quale arma, mio Dio? Non vedete che porto con me solo la roncola?» Per sua disgrazia, Thibault non aveva finito di parlare che Engoulevent, il quale da qualche minuto si aggirava nei dintorni, riapparve tenendo in mano lo spiedo da caccia, gettato dallo zoccolaio nel cespuglio prima di dare la scalata all'albero. 3. Il Barone Jean afferrò l'arma, la osservò a lungo senza parlare, poi, mostrando a Thibault il disegno di uno zoccolo inciso sull'impugnatura e che
serviva normalmente allo zoccolaio come marchio di proprietà, disse: «Ah, signor bracconiere, questa è una testimonianza molto grave! E che puzza terribilmente di selvaggina... Dunque, tu hai cacciato di frodo ed è un grave delitto; hai giurato il falso, ed è un grave peccato, perciò per la salvezza dell'anima tua, ti faremo espiare queste colpe!». E volgendosi al primo battitore, gli ordinò: «Marcotte, lega questo lestofante a un albero dopo avergli tolto giacca e camicia, e dagli una trentina di frustate sulla schiena; dieci per la caccia di frodo, e venti per lo spergiuro». Nonostante le sue proteste, Thibault, il quale giurava per tutti i Santi di non aver abbattuto il daino, fu legato all'albero e l'esecuzione ebbe inizio. Il battitore maneggiava la frusta con tale veemenza che Thibault, pur avendo giurato a se stesso di non lamentarsi, al terzo colpo cacciò un urlo. Il Barone Jean era forse il nobiluomo più brutale dei dintorni, ma non aveva un cuore di pietra, e i lamenti del colpevole, che andavano aumentando, a un certo punto gli fecero pena. Tuttavia, poiché la caccia di frodo stava diventando sempre più frequente nei domini di Sua Altezza Serenissima, era deciso a far eseguire la punizione decretata. Si limitò dunque a voltare il cavallo e ad allontanarsi da quel triste spettacolo. In quel preciso istante, uscì dal bosco una giovinetta che si gettò in ginocchio a fianco del cavallo, alzando sul Barone i suoi grandi occhi lucidi di pianto. «Monsignore», implorò, «in nome di Dio misericordioso, fate grazia a quell'uomo!» La graziosa fanciulla poteva avere al più sedici anni; corpo slanciato, viso roseo, occhi azzurri, capelli biondi. Il Barone, che non disdegnava i bei visini, rispose con un sorriso allo sguardo eloquente della contadinella, la quale, non ottenendo risposta, supplicò ancora: «Grazia, Monsignore, in nome del cielo, liberate quell'uomo, i suoi gemiti mi spezzano il cuore!». «Per mille diavoli!», esclamò a questo punto il signore de Vez. «Ti preoccupi troppo di quel gaglioffo, bella figliola. È forse tuo fratello, tuo cugino, il tuo innamorato?» «Innamorato? Il signor Barone vuole scherzare. Non lo conosco, lo vedo oggi per la prima volta.» «Davvero! Allora, se non è né tuo fratello, né tuo cugino, né il tuo innamorato, mi piacerebbe vedere fin dove arriva il tuo amore per il prossimo. Ti propongo un patto: la grazia per quel mariolo in cambio di un bacio!»
«Con tutto il cuore», esclamò la ragazza. «Riscattare la vita di un uomo con un bacio... sono sicura che neanche il Parroco lo giudicherebbe peccato.» E senza aspettare che il Barone si chinasse verso di lei, gettò via gli zoccoli, appoggiò il piedino sullo stivale del cavaliere e, afferrandosi alla criniera del cavallo, riuscì, con uno sforzo, a portarsi al livello del Barone, offrendo alle sue labbra quel visino vellutato come una pesca. Il Barone ne approfittò per schioccarle due baci invece di uno, e poi, fedele al patto, ordinò a Marcotte di sospendere l'esecuzione. Thibault venne slegato. Il Barone, intanto, conversava con la ragazza: «Come ti chiami, carina?». «Giorgina Angeletta, dal nome di mia madre, ma tutti mi chiamano Angeletta.» «Perbacco, che nome pericoloso!», osservò il Barone. «Farai certo gola al diavolo! E come mai vieni nel bosco così da sola?» «Non posso farne a meno, Monsignore: abbiamo tre capre che col loro latte danno nutrimento a mia nonna e a me, e debbo tagliare erba nei boschi.» «E non hai paura, così giovane e carina?» «Qualche volta sì, tremo... perché durante le veglie invernali sento raccontare strane storie di Lupi Mannari, e quando mi trovo sola in mezzo a tanti alberi, e sento il vento fischiare tra i rami, mi vengono i brividi... Ma appena odo la fanfara dei corni da caccia e l'abbaiare dei cani, mi tranquillizzo.» La risposta piacque molto al Barone Jean che continuò, lisciandosi la barba: «Infatti noi facciamo una guerra spietata ai lupi, ma, perbacco, esisterebbe un mezzo per annullare le tue angosce. Vieni a rifornirti al castello di Vez! Nessun lupo, mannaro o no, ne ha mai varcato i fossati!». Angeletta scosse il capo. «Come, non vuoi? Perché rifiuti?» «Perché al castello troverei cose peggiori del lupo...» La risposta provocò un'allegra risata del Barone, alla quale fece eco uno scoppio di risa dei cacciatori. Intanto Marcotte aveva suonato la ritirata e messo al guinzaglio i cani, facendo rispettosamente osservare al Barone che dovevano fare un lungo percorso per tornare al castello. Il Barone salutò con un gesto cordiale Angeletta e si allontanò in compagnia dei suoi
uomini. Angeletta e Thibault restarono soli. Il primo pensiero dello zoccolaio non fu per la graziosa fanciulla che lo aveva salvato, ma per l'odio e la vendetta. Mostrando i pugni al cielo gridò: «Ah, se questa volta il diavolo mi ascolta, ti restituirò a usura tutto ciò che oggi mi hai fatto patire, Barone de Vez!». «È peccato quello che state dicendo, signor Thibault», osservò Angeletta avvicinandosi al giovane. «Il Barone Jean è buono, molto umano con i poveri, e cortese con le donne.» «Ah!», esclamò Thibault. «Si direbbe che il bacio ti ha sconvolta, Angeletta. Allora, secondo te, dovrei ringraziarlo per avermi fustigato?» «Confessa, compare», replicò ridendo la ragazza, «che meritavi una punizione! Dopotutto, perché vai a caccia sulle terre dei nobili?» «Forse che la selvaggina non appartiene a tutti, ricchi e poveri?» «No, perché gli animali vivono nei boschi dei nobili, si nutrono della loro erba, e tu non hai il diritto di lanciare il tuo spiedo contro un daino del Duca di Orléans!» «E chi ti dice che io l'abbia fatto?», fece Thibault, avvicinandosi minaccioso alla giovinetta. «Lo so perché ho visto con i miei occhi, che non sono bugiardi, mentre lanciavi il tuo ferro, nascondendoti dietro quella quercia.» La franchezza della ragazza fece sbollire l'ira di Thibault. «E sia!», disse. «Dopotutto non sarebbe un gran male se una volta tanto un povero diavolo potesse offrirsi un cibo da gran signore. Insomma, credi proprio che il buon Dio abbia creato quel daino per il Barone de Vez piuttosto che per me?» «Il buon Dio ci comanda di non desiderare i beni altrui, signor Thibault.» «Come mai mi chiami per nome con tanta disinvoltura? Mi conosci?» «Certo, vi ho visto alla festa di Boursonne... Vi chiamavano il bel ballerino, e tutti facevano circolo intorno a voi!» Questo complimento finì per disarmare del tutto lo zoccolaio, che si affrettò a replicare: «Certo, certo, è vero: anch'io mi ricordo di te, abbiamo ballato insieme! Non ti ho riconosciuta subito, ma rammento che volevo abbracciarti, e tu mi hai respinto... Hai approfittato di questi mesi per diventare più bella!». La giovinetta arrossì mentre Thibault la osservava con maggiore attenzione. «Allora, Angeletta, ce l'hai l'innamorato?», domandò con una voce
che rivelava un briciolo di emozione. «No, non ce l'ho, né posso averlo, perché voglio un marito, io!» Thibault fece un movimento che Angeletta non scorse, o finse di non scorgere, perché continuò: «Sì, un marito. La nonna è vecchia e inferma, e un innamorato mi distoglierebbe dalle cure che le debbo. Se invece trovassi un marito, un bravo ragazzo, mi aiuterebbe a curarla, ad assisterla... Io gli vorrei tanto bene, a mio marito... mi dedicherei tutta a lui, anche per compensarlo della sua bontà e pazienza con la nostra vecchietta...». Thibault ascoltava la ragazza in silenzio, assorto nei suoi pensieri che erano, bisogna dirlo, particolarmente ambiziosi. Ma tra questi sogni ambiziosi, cedeva spesso a momenti di stanchezza e di disgusto. Lui, che per notti intere aveva spiato le finestre del castello illuminato a festa; lui, che spesso aveva ambito a vivere a fianco di una gran dama in una sontuosa dimora, adesso si chiedeva se non sarebbe stato meglio un tetto di paglia da dividere con la bella e dolce Angeletta. «E così», chiese Thibault, «se un uomo come me ti si offrisse per marito, lo accetteresti?» Thibault, lo abbiamo detto, era un bel giovane, dagli occhi profondi e i capelli neri, e i suoi viaggi attraverso la Francia avevano fatto di lui qualcosa di più di un semplice operaio. «Sì», rispose Angeletta, «se tu piacessi alla nonna.» «Bene, torneremo al più presto sull'argomento», disse lo zoccolaio, prendendole la mano. «Ma tu, se ti sposassi, mi ameresti davvero, puoi giurarlo?» «La promessa di una ragazza onesta deve bastare a un uomo onesto.» «Allora, a quando le nozze?», chiese Thibault, cercando di attirare a sé la fanciulla. Ma questa, con dolcezza, si ritrasse dicendo: «Vieni a far visita alla nonna. La decisione spetta a lei. Intanto, te ne prego, aiutami a prendere sulle spalle il mio carico di erba. Si è fatto tardi, e ho ancora molta strada da fare prima di arrivare a Préciémont». Thibault accompagnò la bella Angeletta fin quasi al villaggio, e tanto la pregò che lei acconsentì a dargli un bacio in acconto della futura felicità. Lo zoccolaio seguì a lungo con lo sguardo la fragile e graziosa figuretta che si allontanava, e che scomparve improvvisamente alla sua vista in un avvallamento del terreno. Allora sospirò; ma non per la contentezza al pensiero che quella buona e graziosa creatura poteva diventare sua moglie. Thibault desiderava Angeletta solo perché era giovane e bella e perché, per sua natura, desiderava sempre possedere tutto ciò che avrebbe potuto ap-
partenere ad altri. 4. Thibault si sentiva stanco; la giornata era stata movimentata. Si preparò subito da mangiare, ma la cena non risultò, ahimè, così saporita come aveva sperato se avesse ucciso il daino. A un tratto sentì belare la sua capra. Pensando che anche la bestiola avesse fame, prese una bracciata di erba e andò a portargliela; ma appena aperta la porta della stalla, la capra balzò fuori con tale rapidità da buttare quasi a terra il padrone, e corse verso la casupola. Thibault, posato il fascio d'erba, andò a prendere la capra per riportarla nella stalla, ma la lotta fu dura perché la capra resisteva con tutte le sue forze. Vinse, alla fine, il padrone che riuscì a cacciarla nell'angusto vano. Tuttavia la copiosa razione di erba non metteva fine ai suoi lamenti. Spazientito e preoccupato, lo zoccolaio smise ancora una volta di mangiare e tornò alla stalla munito di una lanterna: per poco il lume non gli cadde di mano quando riconobbe nell'animale che tanto aveva spaventato la sua capra, il daino del Barone Jean. Quello stesso che lui aveva desiderato in nome del diavolo, non potendo ottenerlo con l'aiuto di Dio! Il daino per cui aveva ricevuto trenta sferzate! Thibault si avvicinò lentamente all'animale, ma questi era così spossato da non tentare il minimo movimento di fuga. Si limitò a guardare l'uomo con i grandi occhi spauriti. «Avrò lasciato la porta aperta», borbottò Thibault prima di accorgersi che il daino era legato alla mangiatoia per mezzo di una corda. Sebbene lo zoccolaio fosse coraggioso, un sudorino freddo gli imperlò la fronte, e un brivido di terrore gli serpeggiò per il corpo. Uscì dalla stalla, ne chiuse la porta e andò a cercare la capra che si era sdraiata vicino al focolare, ben decisa, si capiva, a non muoversi di lì... Thibault ricordava bene l'invocazione da lui rivolta a Satana ma pur riconoscendo che il suo desiderio era stato esaudito miracolosamente, si rifiutava di credere a un intervento diabolico. Quella protezione dello spirito delle tenebre gli metteva addosso una gran paura... Tentò di pregare, ma quando volle portare la mano alla fronte nel segno della croce, il suo braccio rimase come irrigidito, né gli riuscì di ricordare una sola parola dell'Ave Maria sebbene la recitasse tutti i giorni. Nel suo cervello intanto si andava scatenando un vero tumulto. Tutti i
cattivi pensieri ritornavano a galla... Gli sembrava di udire un rumore simile a quello delle onde quando la marea monta. Dopotutto, - pensava tra sé, pallido in viso, gli occhi dilatati - questo daino, mi venga da Dio o dal diavolo, rappresenta pur sempre una fortuna. Se temo che sia carne dell'Inferno, non sono obbligato a mangiarlo... Né, del resto, potrei mangiarlo da solo o invitare qualcuno a dividerlo con me, perché verrei immediatamente denunciato. Ma posso portarlo, ancora vivo, al convento delle suore di Saint-Rémy dove la Madre Superiora me lo comprerà a un prezzo buono. Quante giornate dovrei lavorare e sudare per guadagnare un quarto di quello che metterò in tasca con l'unica fatica di portare l'animale al convento! Decisamente, vale più un diavolo che ti protegge che un angelo che ti trascura. E se Satana dovesse condurmi troppo lontano, avrò sempre il tempo per salvarmi dai suoi artigli! Ragionò a lungo prima di decidere che, in fin dei conti, poteva tenersi il daino, e con il prezzo ricavato dalla vendita acquistare l'abito di nozze per Angeletta. La notte trascorse senza nuovi incidenti né brutti sogni. Al mattino, il Barone Jean uscì di nuovo a caccia, inseguendo, questa volta, non un timido daino che faceva correre i cani, ma quel lupo che Marcotte aveva scovato il giorno precedente. E si trattava di un autentico lupo! Forse anche anziano, come avevano constatato nello scovarlo, ma in ogni modo eccezionale per il suo mantello tutto nero, e audace, e intraprendente al punto da far disperare l'intera muta del Barone de Vez. Attaccato vicino a Vertefeuille, il lupo aveva attraversato le terre di Métard e, lasciato sulla sinistra Fleury, era andato a rifugiarsi nel territorio di Ivors. Di lì, ululando, era tornato sui suoi passi, ricalcando le proprie orme con tale esattezza che il Barone Jean, pur galoppando, ritrovava le tracce che gli zoccoli del suo cavallo avevano lasciato al mattino. Rientrato nel cantone di Bourg-Fontaine, il lupo nero lo aveva battuto in tutti i sensi, e poi aveva condotto i cacciatori proprio nel punto in cui il giorno prima erano cominciate le loro disavventure; precisamente presso la casupola dello zoccolaio. Thibault, che, fedele ai suoi progetti, meditava di fare una visita ad Angeletta, si era messo al lavoro. Non si sognava nemmeno di attraversare in pieno giorno la foresta di Villars con un daino al laccio. Sarebbe uscito di casa all'imbrunire. Quando sentì i primi squilli del corno e l'abbaiare dei cani, si affrettò ad ammucchiare davanti alla porticina della stalla un gran fascio di erica secca, in modo da dissimulare l'uscio allo sguardo dei battitori e del loro nobile padrone, nel caso si fossero fermati a casa sua.
D'un tratto gli sembrò di sentir bussare piano; stava per muoversi quando la porta si spalancò e, con immenso stupore dello zoccolaio, entrò nella stanza un immenso lupo nero che camminava eretto sulle zampe posteriori. Giunto nel mezzo della stanza, sedette al modo dei lupi e fissò Thibault. Questi afferrò un'accetta e, per spaventare lo strano visitatore, la tenne sollevata sulla sua testa. Allora il lupo assunse prima una singolare espressione di beffa, poi si mise addirittura a ridere. Per la prima volta in vita sua, Thibault sentiva ridere un lupo! Sgomento, lasciò ricadere il braccio. «Per il Signore dal Piede Forcuto!», esclamò il lupo con voce sonora. «Ecco un uomo al quale, su sua richiesta, mando il più bel daino delle foreste di Sua Altezza e che, per ringraziarmi, vuole spaccarmi il capo con un colpo di accetta! Gratitudine umana! Ben degna di stare alla pari con quella dei lupi!» Nell'udire queste parole uscire dalla bocca di un animale feroce, le gambe di Thibault cominciarono a piegarsi e l'accetta gli cadde di mano. «Via», continuò il lupo, «siamo ragionevoli e discorriamo da buoni amici. Ieri hai desiderato il daino del Barone Jean; io stesso l'ho condotto nella tua stalla, e perché non scappasse l'ho legato alla mangiatoia... Mi sembra di meritare qualcosa di diverso da un colpo d'accetta!» «Ma io non so chi tu sia...», balbettò Thibault. «Ah, non mi avevi riconosciuto! Ecco una buona ragione!» «Potevo forse immaginare che sotto quel brutto pelo si nascondesse un amico?» «Brutto?», ribatté il lupo, lisciandosi il pelame con una lingua rossa come il sangue. «Diamine, sei di gusti difficili! Ma ora non si tratta del mio pelo. Insomma, sei disposto a riconoscere che ti ho reso un favore?» «Senza dubbio», ammise Thibault con un certo imbarazzo. «Ma bisognerebbe sapere anche le tue pretese... Che cosa vuoi in cambio? Parla.» «Prima di tutto, vorrei un bicchier d'acqua perché quei maledetti cani mi hanno fatto venire l'affanno.» «Subito, signor lupo», e Thibault corse a prendere una scodella di acqua freschissima alla fonte che sgorgava vicino alla casupola. La depose accanto al lupo con il massimo rispetto. Il lupo la bevve tutta con evidente gusto, poi si adagiò al suolo con le zampe tese in avanti, come una sfinge. «E ora», disse, «stammi bene a sentire.» «Desiderate qualche altra cosa?», domandò Thibault con un brivido. «Perbacco, e anche con urgenza!», rispose il lupo nero. «Non senti abbaiare i cani?»
«E come li sento! Stanno avvicinandosi: tra poco saranno qui.» «Quindi si tratta di sbarazzarsene! Cerca, inventa qualcosa!» «Purtroppo sono cani robusti, quelli del Barone Jean. Signor lupo, voi mi chiedete, nientemeno, di salvarvi la vita! Perché vi avverto, se vi raggiungono, con tutta probabilità vi stroncheranno al primo assalto. Ora, se io vi risparmio questa piccola noia, quale sarà il mio compenso?» «Come, e il daino?» «E la scodella d'acqua?», replicò lo zoccolaio. «Siamo pari, signor lupo! E adesso discutiamo di affari, se vi garba; non domando di meglio.» «E sia! Che cosa vuoi da me? Sbrigati!» «Molti uomini vi chiederebbero di farli ricchi, potenti, nobili, e altro ancora. Non li imiterò. Ieri ho desiderato il daino, è vero; me lo avete concesso, ma domani potrei desiderare un'infinità di altre cose. Da qualche tempo, è una specie di ossessione; non faccio che desiderare, e voi non avrete sempre il tempo di ascoltarmi. Ora, visto che siete il Diavolo incarnato o qualcosa di simile, accordatemi, una volta per sempre, di vedere realizzato ogni mio desiderio.» Il lupo ebbe una smorfia beffarda: «Niente altro?». «Non preoccupatevi», continuò lo zoccolaio. «I miei desideri sono modesti, quali convengono a un poveraccio come me. Qualche pezzo di terra... qualche ramo d'albero... ecco ciò che posso desiderare.» «Ti accontenterei volentieri, ma mi è assolutamente impossibile.» «Allora rassegnatevi ad affrontare la muta del Barone Jean!» «Tu pretendi molto perché credi che io abbia bisogno del tuo aiuto, eh? Ebbene, guarda là...» Thibault indietreggiò. Al posto dove stava sdraiato il lupo, non si vedeva più nulla. L'animale era scomparso... come, non si capiva. Sul soffitto non si scorgeva il più piccolo buco; sul pavimento, non una fessura. «Credi ancora che non saprei cavarmela senza di te?» «Ma dove diavolo siete?» «Ah, se ti rivolgi a me con il mio vero nome», rispose sogghignando la voce del lupo, «sono costretto a risponderti! Sono sempre al medesimo posto, ma... invisibile! I cani e i battitori del Barone de Vez non mi troveranno! E, non trovandomi, se la prenderanno con te, come ieri. Soltanto, ieri eri colpevole di aver sottratto il daino e sei stato condannato a trenta bastonate. Oggi, per aver nascosto il lupo, ne riceverai parecchie di più, senza dire che Angeletta non sarà là per difenderti!» «Allora come devo regolarmi?»
«Lascia scappare subito il daino; i cani sbaglieranno la pista e saranno loro a prendersi le frustate in vece tua!» «Ma è possibile che segugi così abili possano sbagliarsi al punto di confondere le peste di un daino con quelle di un lupo?» «Questo è affar mio», rispose la voce. «Su, non perdere tempo. I cani arriveranno prima che tu sia alla stalla, e la cosa sarebbe spiacevole... non per me perché non mi vedrebbero, ma per te che saresti immediatamente acciuffato.» Thibault non se lo fece ripetere due volte. Corse alla stalla e slegò il daino che, quasi fosse spinto da una molla, si slanciò fuori, girò intorno alla casupola e si perse nei boschi di Baisemont. I cani si trovavano ormai a pochi passi: Thibault, angosciato, li ascoltò latrare, poi grattare alla porta, poi risuonarono due o tre voci che si allontanarono, insieme alla muta, dalla parte di Baisemont. Lo zoccolaio, allora, respirò. Tornò nella sua casupola dove ritrovò il lupo nero allo stesso posto, di nuovo tranquillo. Impossibile immaginare di dove fosse entrato o uscito. 5. Thibault si fermò sulla soglia sbalordito da quella riapparizione. «Dicevamo dunque», disse il lupo come se nulla fosse accaduto, «che io non posso concederti tutti i beni che tu desideri, ma posso accordarti il potere di realizzare tutto il male che desideri per il tuo prossimo.» «E a che cosa mi gioverà?» «Sciocco! Rifletti: se un infortunio capitato al tuo migliore amico è sempre piacevole, renditi conto di quanto può essere gradevole un infortunio capitato al tuo peggior nemico! Senza dimenticare che il male del prossimo, amico o nemico, può facilmente volgersi a tuo vantaggio.» «In fede mia, signor lupo, avete ragione», rispose Thibault dopo aver riflettuto. «E che cosa vorreste in cambio di questa concessione? Perché non si fa nulla per nulla, no?» «Si capisce! Ecco: ogni volta che esprimerai un desiderio che non sarà a tuo profitto ma a danno di altri, mi cederai una piccola parte della tua persona. Oh, non temere, non ti chiedo una libbra della tua carne, solo un tuo capello: un capello per il primo desiderio, due per il secondo, quattro per il terzo, e così via, sempre raddoppiando.» Thibault si mise a ridere. «Se non si tratta che di questo, cercherò, la
prima volta, di formulare un desiderio importante, in modo da evitare di mettermi la parrucca! Concludiamo pure il nostro patto; ci sto!», e Thibault stese la mano. Ma il lupo nero alzò la zampa, e la lasciò alzata. «I miei artigli sono aguzzi e senza volere potrei farti male. Ho visto che porti al dito un anello d'argento... io ne porto uno d'oro... scambiamoli! Come vedi, la cosa torna a tuo vantaggio.» E il lupo mostrò la zampa dove, all'anulare, brillava tra il pelo un anello di oro purissimo. «Benone!», esclamò Thibault. «Accetto.» E si scambiarono gli anelli. Il lupo osservò: «Ora siamo sposati!». «Diciamo fidanzati, Messere Lupo. Caspita, che fretta avete!» «È quello che vedremo, Thibault, e adesso torna al tuo lavoro mentre io torno al mio. Arrivederci, compare!» Appena pronunciato quell'arrivederci carico di intenzioni, scomparve come un pizzico di polvere alla quale si è dato fuoco, lasciando nell'aria odor di zolfo. Thibault restò un attimo sbalordito, poi guardò da ogni parte, senza però scorgere traccia del lupo. Per un istante si credette vittima di una allucinazione ma, abbassando gli occhi, vide all'anulare della sua mano destra l'anello diabolico. Se lo sfilò, lo esaminò attentamente, e gli parve di vedervi incise, all'interno, due iniziali: una T e una S. «Ah...», mormorò sudando freddo. «Thibault e Satana, le due parti contraenti!» Per distrarsi, cominciò a cantarellare, ma la sua voce aveva una vibrazione singolare, che lo spaventò. Tacque e si rimise al lavoro. Poco dopo sentì di lontano, verso Baisemont, il rumore della muta e il suono del corno da caccia. Lo zoccolaio smise di lavorare per ascoltare cani e corno. Brontolava fra sé: «Corri, corri, mio bel Signore, corri dietro al tuo lupo! Ti garantisco che non inchioderai le sue zampe alla porta del tuo castello! Corpo di Bacco, che fortuna insperata! Eccomi diventato una specie di Mago... tu non te l'aspetti, ma sta soltanto a me di gettarti il malocchio e di vendicarmi abbondantemente!». A questo pensiero, Thibault si fermò di colpo. «Dopotutto», si disse, «e se mi vendicassi davvero di quel dannato Barone e di Marcotte? Mah... per un capello, posso ben togliermi questa soddisfazione!» E si passò una mano tra i capelli, folti e ricciuti come la criniera di un leone. «Bah», proseguì, «ne ho d'avanzo, vada dunque per un capello! Del re-
sto, è un modo per verificare se il mio compare Satana si è burlato di me. Dunque... desidero un bell'accidente al Barone Jean, e quanto a quel gran cialtrone di Marcotte che mi ha frustato con tanta violenza, mi pare giusto che, una volta tanto, ne tocchi più del suo padrone!» Nel formulare questo doppio desiderio, Thibault si sentiva turbato. Nonostante avesse constatato di persona la potenza del lupo nero, temeva che egli avesse abusato della sua credulità. Perciò, appena formulato il doppio voto, gli fu impossibile rimettersi al lavoro. D'un tratto sentì un gran frastuono provenire dalla valle. Corse verso la strada di Chrétienelle e vide, di lontano, una specie di corteo che procedeva al passo: erano i battitori e i cacciatori del Barone de Vez. Lo zoccolaio impiegò un certo tempo per rendersi conto di quanto succedeva. Quegli uomini camminavano a passo lento, quasi seguissero un funerale. Ma quando furono abbastanza vicino, si accorse che trasportavano due barelle sulle quali giacevano due corpi inanimati: quello del Barone e quello di Marcotte. Un sudore gelido gli bagnò la fronte. Pensò: E questo che significa? Ecco che cosa significava. Finché il daino si era tenuto al coperto, l'espediente di Thibault per trarre in inganno i cani aveva funzionato; ma, girando dalla parte di Marcotte per attraversare la brughiera, l'animale si era trovato a pochi passi dal Barone Jean, il quale credette dapprima che il daino si fosse spaventato al rumore dei cani, e che tentasse di sottrarsi alla cattura. Dietro l'animale, invece, vide apparire l'intera muta; quaranta cani che correvano, abbaiando, urlando, allegri come se mai prima di allora avessero fiutato l'odore della selvaggina. Il Barone allora fu preso da una collera cieca: non gridava, ma urlava e bestemmiava. Non si accontentava più di frustare i suoi cani, ma li pestava con gli zoccoli del cavallo, dimenandosi sulla sella come un diavolo nell'acquasantiera. Tutte le sue maledizioni erano rivolte al primo battitore: questa volta non poteva accampare scuse! E il povero Marcotte, già pieno di vergogna per la cantonata presa dai suoi cani, era anche preoccupatissimo per l'ira violenta del padrone. Lanciò quindi il cavallo al galoppo attraverso i boschi, urlando con tutta la forza dei suoi polmoni: «Indietro, bestiacce, indietro!». E intanto distribuiva a destra e a manca frustate tali da lasciare un solco sanguigno sul pelame dei poveri animali. Ma gridare e frustarli, non serviva a nulla. Sembrava che i cani avessero riconosciuto il daino del giorno prima e che, punti nell'amor proprio, volessero a tutti i costi prendersi la
rivincita. Marcotte allora prese una decisione disperata: decise di attraversare il fiume che stavano costeggiando e che la muta era sul punto di guadare. Sferzando i cani nel momento in cui avrebbero risalito l'altra riva, sperava di spezzare la compattezza della muta. Spinse il cavallo in direzione del fiume e con un balzo si trovò nel mezzo della corrente. Cavallo e cavaliere erano piombati in acqua con sufficiente facilità, ma disgraziatamente il fiume si era gonfiato per le piogge, e il cavallo non riuscì a resistere alla forza della corrente. Girò più volte su se stesso e scomparve nel gorgo. Quanto a Marcotte, vedendo il cavallo perduto, decise di abbandonarlo per raggiungere a nuoto la riva, ma non fece in tempo a liberare i piedi dalle staffe. Pochi secondi dopo il cavallo, scompariva anch'esso nei gorghi del fiume. Nel frattempo, il Barone era arrivato sulla riva insieme ai suoi uomini, e la sua collera si era mutata in disperazione di fronte alla situazione critica del battitore. Il Barone de Vez era sinceramente affezionato agli esseri che lo servivano nei suoi piaceri; agli uomini come agli animali. Con tutta la forza dei suoi polmoni, gridò: «Per mille fulmini, salvate Marcotte! Venticinque... cinquanta... cento luigi a chi lo salverà!». Uomini e cavalli saltarono in acqua come rane spaventate: il Barone stesso spinse il cavallo sul bordo del fiume, ma i suoi uomini lo trattennero con tale premura che, per impedire l'eroico slancio del loro Signore, dimenticarono per un minuto il mortale pericolo in cui versava il battitore; e quel minuto bastò per perderlo. Marcotte infatti riaffiorò nel punto in cui il fiume fa un gomito, agitò le braccia, riuscì a sollevare la testa, a gridare un'ultima volta: «Aiuto, aiuto!». L'acqua, ricoprendogli la bocca, soffocò l'ultima sillaba... Un quarto d'ora più tardi, il suo corpo esanime fu ritrovato su un banco di sabbia dove la corrente l'aveva gettato. Marcotte era morto, e la sua morte ebbe una funesta ripercussione sul Barone Jean. Da gentiluomo qual era, non detestava il buon vino, e questa predilezione lo aveva predisposto ai colpi apoplettici. L'impressione ricevuta nel vedere il cadavere del suo fedele servitore fu così forte da fargli affluire il sangue al cervello, provocando un'apoplessia. Thibault era terrorizzato dall'esattezza scrupolosa con la quale il lupo stava ai patti; non senza rabbrividire, pensò alla puntualità che compare lupo poteva esigere da lui in ricambio. Si chiese con ansia se il lupo si sa-
rebbe accontentato davvero solo di qualche capello, tanto più che nel momento in cui il suo desiderio si realizzava non aveva provato la benché minima sensazione alla testa. Il cadavere di Marcotte, inoltre, lo aveva impressionato sgradevolmente; Marcotte gli era antipatico, è vero, ma non sarebbe mai giunto a desiderarne la morte. Il lupo era andato oltre le sue intenzioni. Quanto al Barone Jean, non era morto, ma stava tutt'altro che bene. Da quando il desiderio espresso da Thibault si era abbattuto su di lui come un fulmine, non si era ripreso. I servi lo avevano adagiato sul mucchio d'erba raccolto dallo zoccolaio per nascondere la porta della stalla, e adesso, sconvolti, stavano mettendo sossopra la capanna nella vaga speranza di scovare un rimedio che riportasse alla vita il loro padrone. Chi diceva aceto, chi una chiave da mettergli sul dorso, chi zolfo da bruciargli sotto il naso. Fra tante voci che sragionavano, si udì quella di Engoulevent gridare: «Per il ventre di Belzebù, qui ci vuole una capra! Ah, se avessimo almeno una capra!». «Una capra?», esclamò Thibault, al quale non sembrava vero di vedere il Barone riprendersi, scaricandogli così la coscienza di una parte del peso che la opprimeva; e salvando, al tempo stesso, il suo domicilio dal saccheggio. «Io ce l'ho una capra!», e tra le esclamazioni di gioia dei presenti, entrò nella stalla e trascinò fuori la sua capretta che lo seguiva belando. «Tienla ferma per le corna», gli ordinò Engoulevent, «e sollevale una delle zampe anteriori.» Intanto aveva estratto dal fodero un coltello che portava alla cintura e lo andava arrotando con cura sulla ruota che serviva abitualmente per affilare gli utensili dello zoccolaio. «Che cosa intendi fare?», chiese Thibault, preoccupato da quei preparativi. «Come! Non sai che nel cuore delle capre si trova un ossicino a forma di croce che, ridotto in polvere, è un rimedio straordinario per le apoplessie?» «Vuoi uccidere la mia capra?!», gridò Thibault, lasciando andare le corna e la zampa del povero animale. «Non voglio che la uccidiate!» «Ah», sogghignò Engoulevent, «non è bello quello che dici, Thibault! Vuoi paragonare la vita del nostro padrone con quella di una capra?» «Parli bene, tu, ma questa capra è tutto ciò che posseggo: mi dà il suo latte, e io ci tengo!» «Ah, Thibault, senza dubbio non pensi una parola di quello che stai dicendo, e per tua fortuna, il Barone non ti sente, altrimenti...»
«Del resto», intervenne uno dei battitori ridendo, «se Thibault valuta la sua capra a un prezzo che soltanto il Barone Jean potrebbe pagare, nulla gli impedisce di venirlo a reclamare al castello!» Thibault, che aveva già sulla coscienza un morto e un semimorto, non osò chiamare in suo aiuto il lupo nero. Voltò la testa per non vedere e lasciò che sgozzassero il povero animale. Quando la capra fu spirata, estrassero il cuore, lo ridussero in una specie di poltiglia, lo diluirono con aceto e, dopo aver mescolato con la croce di un rosario, versarono il tutto in un bicchiere e costrinsero il Barone a bere. Ma il nobile Signore aveva appena bagnato le labbra in quel fetido liquido che, con un verso dei più significativi, lanciò il bicchiere contro il muro riducendolo in briciole. Poi, con voce calma e sonora, che annunciava la sua ripresa, ordinò: «Vino!». Uno degli uomini saltò in sella e volò al castello, in cerca di qualche bottiglia di vino buono. Pochi minuti dopo era di ritorno, e il Barone, attaccatosi al collo della bottiglia, la vuotò di un fiato. Poi si girò sul fianco e si addormentò. 6. I servi, tranquilli ormai sullo stato di salute del padrone, si misero alla ricerca dei cani che nel frattempo avevano continuato a cacciare per conto loro. Li trovarono sdraiati e addormentati in un punto dove il suolo appariva rosseggiante. Era chiaro che i cani avevano ridotto allo stremo, acciuffato e sbranato il daino: qualsiasi dubbio in proposito fosse rimasto, sarebbe stato fugato dalla presenza delle corna da cui penzolava un resto di mascella. Tutto considerato, solo i cani avevano ragione di essere soddisfatti della giornata. Furono rinchiusi nella stalla di Thibault e, poiché il Barone dormiva ancora, i cacciatori pensarono alla cena. S'impossessarono di tutto il pane riposto nella madia dello zoccolaio, arrostirono la capra, e invitarono cortesemente Thibault a dividere con loro il pasto, di cui il povero diavolo aveva in gran parte fatto le spese. Thibault rifiutò con il pretesto che non si era ancora ripreso dalla forte impressione che la morte di Marcotte e l'incidente del Barone avevano provocato nel suo animo. Raccolse i frammenti del bicchiere e cominciò a riflettere: che cosa gli conveniva fare per cambiare al più presto quella sua vita miserabile che i due giorni appena trascorsi gli rendevano più insop-
portabile che mai? La prima immagine che gli si presentò alla mente fu quella di Angeletta. Come i bambini vedono passare in sogno angeli bellissimi, lui vedeva Angeletta vestita di bianco, scivolare nel cielo azzurro con le sue grandi ali candide. Sembrava felice e, facendogli cenno di seguirla, gli diceva: «Coloro che verranno con me saranno felici». Ma a quella deliziosa visione, Thibault rispondeva con un movimento della testa che significava: «Sì, sì, Angeletta, ti riconosco, sei proprio tu! Avrei dovuto seguirti ieri, ma oggi che, come un re, comando alla vita e alla morte, non sono uomo da fare concessioni irragionevoli a un amore ai suoi primi balbettii! Diventare tuo marito, mia povera Angeletta, invece di liberarmi dalle dure necessità della vita, non sarebbe forse un mezzo per raddoppiare e triplicare il fardello sotto al cui peso soccombiamo ognuno per conto proprio? No, no! Tu saresti una deliziosa amante ma, come moglie, mi ci vuole una ragazza che porti in casa, in denaro, l'equivalente di quanto vi porto io in potere». La coscienza gli ricordava l'impegno preso con Angeletta, ma Thibault si rispondeva che rompere il fidanzamento sarebbe stato un bene per quella dolce creatura. «Sono un onest'uomo», mormorava sottovoce, «e debbo immolare la mia soddisfazione personale alla felicità di quella cara bambina. Del resto è ancora abbastanza giovane, carina e giudiziosa; incontrerà certo un destino migliore di quello che le spetterebbe divenendo la moglie di un povero zoccolaio.» Va detto che al mulino di Coyolles viveva una bella mugnaia la cui immagine non era affatto estranea alla nuova decisione di Thibault. Si trattava di una giovane vedova tra i ventisei e i ventotto anni, fresca e soda, dagli occhi maliziosi e provocanti. Tra l'altro, passava per il partito più ricco dei dintorni, perché il suo mulino lavorava senza sosta: era in tutti i sensi un affare molto conveniente per Thibault, che in altri tempi non avrebbe mai osato mirare così in alto. In realtà, l'immagine della ricca e bella signora Polet si presentava per la prima volta concretamente al nostro eroe. Ricordava di aver pensato a lei in passato, ma senza speranza, mentre oggi, con la protezione del lupo nero e forte, nonché del potere soprannaturale di cui era stato investito e che aveva già avuto occasione di esercitare, gli sembrava facile allontanare tutti i pretendenti e raggiungere così il suo scopo. Appena giorno, decise perciò di recarsi a Coyolles. In quanto al Barone Jean, si svegliò al primo trillo della capinera. Si sen-
tiva perfettamente rimesso dall'indisposizione del giorno avanti: fece alzare tutta la sua gente a gran colpi di scudiscio e, dopo aver spedito la salma di Marcotte al castello di Vez, decise di non rientrare a mani vuote: avrebbe cacciato un cinghiale come se il giorno precedente non fosse successo nulla di eccezionale! Verso le sei del mattino uscì dall'abitazione di Thibault, ringraziandolo per l'ospitalità che lui stesso, i suoi uomini e i suoi cani avevano ricevuto in quella povera capanna, e in considerazione della quale giurò di dimenticare qualsiasi risentimento aveva potuto nutrire contro lo zoccolaio. È facile immaginare come Thibault vedesse partire senza rammarico Barone, cani e servi. Infine rimase solo a contemplare la casa saccheggiata, la madia vuota, i mobili a pezzi, la stalla deserta, il pavimento ingombro di rottami. Pensò che quello era il risultato naturale del passaggio di un gran signore, ma l'avvenire gli si presentava troppo luminoso perché potesse indugiare a lungo a meditare su quel triste spettacolo. Indossò i panni della domenica e s'incamminò verso Coyolles, deciso a tentare la sorte con la signora Polet, quel giorno stesso. La strada più breve per Coyolles passava per Oigny e Pisseleu. Per quale ragione Thibault, che conosceva a menadito tutta la foresta di Villars, prese il Viale della Chrétienelle che allungava il percorso? Perché quel viale lo avvicinava al luogo dove per la prima volta aveva visto Angeletta, e perché, pur recandosi per calcolo al mulino di Coyolles, il cuore lo attirava dalla parte di Préciémont. Infatti, poco dopo Ferté-Milon, scorse lungo il sentiero Angeletta, che stava falciando l'erba per la capra. Avrebbe potuto passare senza che lei lo vedesse; sarebbe stato facile poiché Angeletta gli voltava le spalle. Invece, cedendo alla tentazione, Thibault si avviò dritto verso di lei. La ragazza, da parte sua, china sull'erba con la sua falce, sentendo venire qualcuno, alzò la testa, riconobbe Thibault e arrossì. Ma, arrossendo, un sorriso felice le illuminò il volto. «Ah», disse, «eccovi! Vi ho sognato e ho pregato per voi questa notte.» Lo zoccolaio si ricordò allora di averla vista anche lui in sogno, che passava in cielo con una veste e ali d'angelo. «E come mai mi hai sognato e hai pregato per me?», domandò Thibault con l'aria distaccata di un giovin Signore alla Corte del principe. Angeletta lo guardò con i grandi occhi color del cielo. «Vi ho sognato perché vi voglio bene, Thibault; ho pregato per voi perché ho visto l'incidente accaduto al Barone Jean e al suo battitore, e anche
tutti i guai che vi sono capitati... Ah, se avessi seguito soltanto il mio cuore, sarei venuta di corsa a darvi una mano!» «Dovevi venire, Angeletta; ti saresti trovata in buona compagnia!» «Oh, non è questo che cercavo! Volevo solo rendermi utile, aiutarvi a ricevere gli ospiti... Ma che magnifico anello portate al dito!», e la ragazza indicò l'anello d'oro che Thibault aveva ricevuto dal lupo nero. Thibault sentì correre un brivido nelle vene. Angeletta, vedendo che esitava a risponderle, girò la testa sospirando. «Certamente il regalo di qualche bella dama...» «No, no», fece Thibault con la sicurezza di un bugiardo consumato. «Sbagli, Angeletta, è l'anello di fidanzamento, l'ho comprato per infilarlo al tuo dito il giorno delle nostre nozze!» Angeletta scosse la testa con tristezza. «Perché non dirmi la verità?» «La sto dicendo, la verità!» «No, no...», e scosse la testa anche più tristemente. «E chi ti dice che mento?» «Questo anello è così largo che vi entrerebbero due delle mie dita!» «Se è troppo largo, lo faremo stringere!» «Addio, Thibault...» «Come, addio?!» «Sì, addio...» «Te ne vai? Ma perché, Angeletta?» «Perché non mi piacciono i bugiardi.» Thibault cercò una formula efficace di giuramento per rassicurare Angeletta, ma non riuscì a trovarla. «Sentite», disse la ragazza con le lacrime agli occhi. «Se questo anello è veramente destinato a me, datemelo in consegna fino al giorno del nostro matrimonio! Quel giorno ve lo renderò perché lo facciate benedire.» «Non domando di meglio, ma voglio vederlo sulla tua bella manina. La tua osservazione è giusta; l'anello è troppo largo... Oggi vado a Villars: prendiamo la misura del tuo dito, lo farò stringere dal signor Dugué, l'orefice.» Il sorriso ricomparve sulle labbra della ragazza e le lacrime si asciugarono di colpo. Tese la manina a Thibault, il quale la strinse un istante tra le sue, la girò e rigirò e poi ci schioccò su un bacio. «Oh!», protestò lei. «Non baciatemi la mano così! Non è abbastanza bella per essere baciata!» «Allora dammi qualche altra cosa da baciare!»
Angeletta gli tese la fronte; poi, con gioia infantile disse: «Vediamo, vediamo l'anello!». Thibault si sfilò l'anello dal dito e, ridendo, fece per provarlo al pollice di Angeletta, ma con sua grande sorpresa vide che era troppo stretto; non passava oltre la seconda falange. «Chi l'avrebbe mai detto?», esclamò lo zoccolaio, e Angeletta scoppiò a ridere. «È strano davvero!» Thibault provò l'anello sull'indice della piccola mano, ma l'anello si rifiutò di entrare. Tentò ancora invano sul medio; si sarebbe detto che l'anello andasse restringendosi sempre più, quasi temesse di contaminare quella mano innocente. Dopo il medio, Thibault volle infilarlo all'anulare, lo stesso dito a cui lo portava lui. Impossibile anche qui! Mentre continuava queste prove, Thibault sentiva tremare la mano di Angeletta tra le sue, e il sudore gli rigava la fronte, come se avesse compiuto una fatica improba. Intuiva come in quello strano fenomeno si celasse un che di diabolico. Infine provò l'anello sul mignolo della ragazza, ma quel mignolo, fragile e trasparente intorno al quale l'anello avrebbe dovuto girare facilmente come un braccialetto sul dito di Thibault, quel mignolo, ripeto, nonostante gli sforzi di Angeletta, non entrava nell'anello. «Ah, Thibault», gridò la ragazza, «che cosa significa, mio Dio?» «Anello di Satana, ritorna da Satana!», urlò lo zoccolaio, e gettò l'anello contro una roccia, nella speranza che si spezzasse. Dall'anello sprizzò una scintilla, come se Thibault avesse sferrato un calcio contro il granito; poi rimbalzò verso di lui e, rimbalzando, andò a infilarsi al suo dito. Angeletta, nel vedere quella strana evoluzione, guardò Thibault con spavento. «Insomma, che cosa accade?», fece Thibault, cercando di giocare d'audacia. Angeletta non rispose; si limitò a guardarlo con occhi sempre più spaventati. Che cosa stava guardando? Improvvisamente la ragazza alzò la mano fino alla testa di Thibault e disse, indicando con un dito: «Oh, Thibault, che cosa avete là?». «Dove?» «Là, là!», ripeté Angeletta, impallidendo. «Ma dove, dunque, dove?», e lo zoccolaio, stizzito, batté il piede in terra. «Dimmi che cosa vedi.»
Invece di rispondere, Angeletta si coprì gli occhi con le due mani e poi, con un grido di terrore, scappò via. Thibault, sbigottito da quello che gli capitava, non tentò neppure di seguirla: restò dov'era, immobile, muto, sconvolto. Che cosa aveva visto Angeletta di così spaventoso? E che cosa indicava col dito? Era forse il sigillo che Dio aveva impresso sulla fronte del primo assassino? E perché no? Come Caino, lui non aveva forse ucciso un uomo? E nell'ultima predica a Oigny, il Curato non aveva forse detto che tutti gli uomini sono fratelli? Questo orribile dubbio divorava l'animo di Thibault. Prima di tutto, si disse, bisognava scoprire che cosa avesse tanto spaventato la ragazza. Decise lì per lì di andare a Bourg-Fontaine e di guardarsi in uno specchio. Ma, se veramente portava impresso sulla fronte il marchio fatale, e se qualcun altro lo avesse visto, oltre ad Angeletta? No, no! Meglio calcarsi il cappello ben bene, tornare di corsa a Oigny e lì guardarsi in un suo pezzetto di specchio. Ma occorreva tempo... C'era invece, a cento passi da lì, una sorgente trasparente come il cristallo che alimentava lo stagno di Basemont e quelli di Bourg. Thibault lì avrebbe potuto mirare la propria immagine come nello specchio più fine di Saint-Gobin. Qualche minuto dopo, inginocchiato sul margine della fonte, si guardava con attenzione. Occhi, naso, bocca erano sempre gli stessi, e nemmeno il più piccolo segno sulla fronte. Respirò. Eppure, si disse, qualcosa non andava; Angeletta non poteva essersi spaventata per nulla! Thibault si sporse di più verso lo specchio d'acqua e scorse allora tra i suoi capelli qualcosa di brillante che luccicava tra i riccioli neri e gli ricadeva sulla fronte. Si sporse ancora... aveva visto un capello rosso, ma di un rosso insolito che non somigliava né al biondo rossastro, né al biondo carota, né al rosso sangue di bue, né al rosso papavero. Era un rosso sangue, del colore e dello splendore della fiamma più viva. Senza domandarsi per quale fenomeno un capello di colore così insolito fosse spuntato proprio lì, Thibault tentò di strapparlo. Il capello resisté. Pensò di non averlo stretto abbastanza tra le due dita e tentò un altro sistema: arrotolò il capello sul dito e tirò con violenza. Il capello striò di rosso la pelle, ma non cedette. Allora Thibault arrotolò il capello recalcitrante intorno a due dita, e tirò. Il capello sollevò il cuoio capelluto, ma non si mosse. Thibault, rassegnato, alla sua sconfitta, decise di continuare la strada verso Coyolles, dicendosi che tutto sommato non sarebbe stato il colore equivoco di un capello a mandare a monte i suoi progetti matrimoniali. Ma intanto quel miserabile capello lo infastidiva, lo ossessionava. Infine,
stizzito, battendo un piede in terra gridò: «Corpo di mille diavoli, non sono ancora tanto lontano da casa, e voglio averla vinta su questo maledetto capello!». Tornò correndo verso la capanna, ritrovò tra la nera capigliatura il capello rosso, e guardandosi nel suo pezzetto di specchio, prese uno scalpello da falegname, lo appoggiò sul capello, il più vicino possibile alla cute, e tenendo fermo il capello sul suo banco da lavoro, con il manico dello scalpello vibrò un forte colpo. Lo scalpello scalfì in profondità il legno del banco, ma il capello rimase intatto. Thibault sospirò: aveva ormai compreso che quel capello, prezzo del desiderio da lui espresso, apparteneva al lupo nero... a Satana! e rinunciò all'impresa. 7. Nell'impossibilità di tagliare o strappare il capello maledetto, Thibault decise di nasconderlo come meglio poteva infilandolo sotto gli altri. Forse non tutti avrebbero avuto gli occhi acuti di Angeletta, tanto più che lo zoccolaio possedeva una folta e bella chioma castano scuro: facendo la riga da una parte e dando una certa mossa al ciuffo, sperava che il capello rosso passasse inosservato. E così, con il capello di Satana artisticamente nascosto sotto gli altri grazie a un abile colpo di pettine, Thibault infine si apprestò a recarsi dalla bella mugnaia. Soltanto, questa volta, per timore d'incontrare Angeletta, si guardò bene dal fare la stessa strada e, invece di prendere a sinistra, si avviò a destra. Sbucò così sulla via di Ferté-Milon e imboccò un piccolo sentiero tra i campi che conduceva a Pisseleu. Da Pisseleu, poi, scese nella vallata che porta a Coyolles. Era arrivato da meno di cinque minuti quando vide, a pochi passi da lui, un giovanotto che conduceva due muli carichi di sacchi di grano, e che riconobbe subito per suo cugino Landry. Il cugino Landry era garzone capo al mulino della bella mugnaia, e siccome Thibault conosceva solo di nome la vedova Polet, aveva contato su Landry per essere introdotto al mulino. Questo incontro rappresentava quindi un colpo di fortuna. Thibault accelerò l'andatura e raggiunse Landry. Sentendo il rumore dei passi che seguivano da vicino i suoi, Landry si voltò e riconobbe il cugino. Questi, che aveva sempre trovato in Landry un allegro compagno, si meravigliò di vederlo con il viso afflitto.
Landry si fermò mentre i muli continuavano per la loro strada, e attese Thibault. Fu quest'ultimo il primo a parlare: «Ebbene, cugino Landry», gli domandò, «che c'è? Io mi scomodo, lascio il mio laboratorio per venire a stringere la mano a un parente, a un amico che non vedo da sei settimane, e tu mi accogli così!». «Eh, mio caro Thibault, che vuoi?», rispose Landry. «Nonostante il mio aspetto, credimi, sono ben contento di vederti...» «Mi dici che sei ben contento con un tono di voce...! Un tempo eri gaio come il tic-tac del mulino che le tue canzoni accompagnavano. Oggi, invece, sei malinconico come le croci del cimitero! Che cosa succede? L'acqua forse non fa più girare la mola?» «Oh, l'acqua non manca! Anzi, al contrario, ce n'è in abbondanza, e la chiusa funziona a meraviglia, ma, vedi, sotto la macina c'è il mio cuore invece del grano... e la mola gira tanto e così forte che il mio cuore stritolato ne è ridotto in polvere!» «Che mi dici? Sei davvero così infelice al mulino della Polet?» «Ah, volesse Iddio che fossi caduto sotto la macina il giorno che vi misi piede la prima volta!» «Mi fai paura, Landry... Raccontami i tuoi guai, ragazzo mio.» Landry sospirò profondamente. «Siamo figli di fratello e sorella», continuò Thibault, «e, che diavolo, se sono troppo povero per prestarti qualche scudo, posso almeno darti qualche buon consiglio sei hai dispiaceri di cuore.» «Grazie, Thibault, ma né consigli né denaro possono mettere riparo alla mia situazione.» «Dimmi lo stesso quello che hai; è un sollievo raccontare le proprie pene!» «Eh, no, non parlerò!» Thibault si mise a ridere. «Ridi?», fece Landry con aria stupita e irritata insieme. «Il mio dolore ti fa ridere?» «Non rido del tuo dolore, Landry; rido perché cerchi di celarmene la causa quando è facilissimo indovinarla!» «Allora, indovina!» «Ebbene, sei innamorato, perbacco! Più semplice di così...» «Io innamorato?», protestò Landry. «E chi ti ha raccontato questa frottola?» «Non è una frottola, è la verità.»
Landry tirò un sospiro, più del primo gonfio di disperazione. «Ebbene, sì, è vero, sono innamorato!» «Ah, meno male! Ecco, la grande parola ti è uscita di bocca!», disse Thibault con un certo batticuore, perché presentiva un rivale nel cugino. «E di chi sei innamorato?» «Quanto a questo, cugino Thibault, mi strapperei piuttosto il cuore dal petto...» «Ma se me lo hai già detto!» «Come, te l'ho detto?», gridò Landry, fissando gli occhi stupefatti sullo zoccolaio. «Certamente. Non hai forse detto che sarebbe stato meglio che tu fossi stato travolto dalla ruota del mulino il giorno che venisti a chiedere lavoro alla Polet, piuttosto che essere assunto come capo garzone? Sei infelice al mulino, sei innamorato... quindi, sei innamorato della bella mugnaia, ed è questo amore la causa della tua infelicità!» «Ah, zitto, Thibault! Se lei sentisse...» «Per carità, e come potrebbe sentirci? Dove vuoi che sia, a meno che non abbia il dono di rendersi invisibile o di trasformarsi in farfalla o in fiore!» «Non importa, Thibault, taci, te ne supplico!» «È dunque così severa la bella mugnaia? Non ha pietà della tua disperazione?» Queste ultime parole, piene in apparenza di compatimento, non erano in realtà prive di un'ombra di soddisfazione e di una certa ironia. «Altro che severa!», rispose Landry. «In principio mi sembrava che non respingesse il mio amore... Tutta la giornata la divoravo con gli occhi, e di quando in quando anche lo sguardo di lei si fissava su di me... e dopo avermi guardato, sorrideva... Come ero felice di quegli sguardi, di quei sorrisi! Dio mio, perché non mi sono accontentato?» «Ecco», replicò filosoficamente Thibault, «l'uomo è insaziabile!» «Purtroppo; ho dimenticato di avere a che fare con una donna di un rango più elevato del mio... e ho parlato! Allora la signora Polet si è arrabbiata; mi ha chiamato piccolo miserabile, insolente, e mi ha detto che la settimana successiva mi avrebbe messo alla porta!» «Uffa!», sbuffò Thibault. «E quanto tempo è passato da allora?» «Circa tre settimane.» «E la settimana successiva è ancora di là da venire!», commentò lo zoccolaio che, conoscendo le donne meglio di suo cugino, sentiva riaffiorare
le preoccupazioni per un momento sopite. Poi, dopo un minuto buono di silenzio: «Via, via, non sei poi così infelice come credevo!». «Ah, se tu sapessi che vita è la mia! Non più sguardi, non più sorrisi... Quando m'incontra, si volta dall'altra parte, e quando vado a informarla di quello che succede al mulino, mi ascolta con un'aria così sprezzante che io, invece di parlare di crusca, di grano, di segale, di orzo e di avena, di primi e secondi tagli, mi metto a piangere... e allora lei mi grida: "Sta' attento a quello che dici!" in tono così minaccioso che io scappo e mi vado a nascondere dietro ai miei buratti...» «Ma anche tu...! Perché mirare proprio alla padrona? Nei dintorni non mancano ragazze carine e che sarebbero felici di averti come spasimante!» «È senza volerlo che mi sono innamorato di lei, lo giuro!» «Prenditi un'amichetta e non pensare più alla signora Polet.» «Non potrei mai!» «Prova! Intanto, potrebbe darsi benissimo che, vedendoti innamorato di un'altra, la mugnaia diventi gelosa... Sarà lei allora a correrti dietro come tu adesso corri dietro a lei! Le donne sono così strane...» «Oh, se ne fossi sicuro, ci proverei subito... benché ormai...», e Landry scosse la testa. «Ormai, che cosa?» «Benché ormai, dopo quello che è successo, tutto sarebbe inutile...» «Che cosa è successo?», domandò Thibault, il quale teneva a sapere tutto. «Oh, non oso parlarne...» «E perché?» «Perché, come si dice da noi, quando le disgrazie dormono, non bisogna svegliarle.» Thibault avrebbe voluto insistere per sapere a quale disgrazia accennasse Landry, ma i due si stavano avvicinando al mulino e una spiegazione, se pure fosse stata già iniziata, non avrebbe avuto il tempo di arrivare alla fine. Del resto, Thibault ne sapeva abbastanza: Landry amava la bella mugnaia, ma la bella mugnaia non amava Landry. In realtà, quel rivale gli sembrava scarsamente pericoloso. Egli paragonava con un certo orgoglio, accompagnato da viva soddisfazione, l'aspetto infantile e gracile di suo cugino, ragazzotto ventenne, con la propria solida corporatura. Ciò lo induceva naturalmente a pensare che, per poco che la Polet fosse una donna di
gusto, l'insuccesso di Landry era un'ottima ragione per ritenere che il suo successo fosse invece infallibile. Il mulino di Coyolles è situato in una posizione incantevole, in fondo a una fresca vallata; l'acqua che lo alimenta e che forma uno stagno, è ombreggiata da salici dalle abbondanti chiome e da pioppi slanciati. Dopo aver fatto girare la ruota del mulino, l'acqua spumeggiante defluisce in un ruscelletto che canta il suo inno eterno rimbalzando sul letto sassoso e spruzzando liquidi diamanti, scaturiti dalle sue cascatelle, sui fiori che si chinano civettuoli a specchiarsi nell'acqua. Quanto al mulino, è così ben nascosto in un boschetto di sicomori e salici piangenti che, soltanto a cento passi di distanza, chi vi è diretto scorge il fumaiolo dal quale il fumo s'innalza tra gli alberi, simile a una colonna di alabastro azzurrino. Il luogo, pur essendo ben noto a Thibault, suscitò in lui una specie di estasi mai provata prima di allora. Non lo aveva infatti mai guardato nello stato d'animo in cui si trovava adesso; e cioè, con la tipica soddisfazione egoistica del proprietario che visita una terra o una casa acquistata per procura. Ma la sua gioia si fece ben altrimenti intensa quando, entrato che fu nel cortile, quel quadro incantevole si animò. I piccioni dai riflessi purpurei e azzurrini tubavano sui tetti, le anitre starnazzavano compiendo mille evoluzioni nel ruscello, le galline chiocciavano allegramente, i tacchini si pavoneggiavano facendo la ruota davanti alle femmine, e le belle mucche bianche e marroni tornavano dai campi con le mammelle gonfie di latte. Qui si scaricava un carretto, lì si toglieva la bardatura a due splendidi stalloni che nitrendo tendevano verso la mangiatoia le nobili teste liberate dai finimenti; un garzone trasportava un sacco di grano, una ragazza recava un sacco di croste ammollate nell'acqua della rigovernatura a un enorme maiale che si scaldava al sole, in attesa di essere trasformato in prosciutti, salsicce, lardo. Tutti gli animali dell'arca, dall'asino che ragliava al gallo che cantava, mescolavano le loro voci discordi in questo concerto campestre, mentre il tic-tac del mulino, battendo il tempo, sembrava che ne regolasse il ritmo. Thibault fu affascinato da questo spettacolo. Si vedeva già proprietario di tutto quel ben di Dio, e si stropicciò con tanta allegria le mani che Landry senza dubbio si sarebbe accorto di quella gioia senza motivo, se non fosse stato assorto nel suo dolore che andava aumentando via via che si avvicinavano alla casa. La vedova Polet, dalla sala dove si trovava, li vide e venne sulla soglia;
sembrava curiosa di sapere chi fosse lo sconosciuto che arrivava in compagnia del suo capo garzone. Thibault attraversò il cortile, si avvicinò agli edifici di abitazione con aria disinvolta, si presentò, e spiegò alla bella mugnaia che il desiderio di far visita a Landry, suo unico parente, lo aveva deciso a presentarsi al mulino. La mugnaia fu molto gentile; invitò il nuovo venuto a passare la giornata a Coyolles con un sorriso che questi giudicò di ottimo augurio. Thibault non veniva a mani vuote: attraversando la foresta, aveva sganciato qualche tordo preso nei lacci attaccati ai sorbi. La mugnaia li fece subito spennare, invitando con insistenza lo zoccolaio a gustarne la sua parte. Intanto Thibault si era accorto che, mentre parlava con lui, la bella mugnaia cercava con gli occhi qualcosa dietro le spalle del suo interlocutore. Voltandosi di scatto, il nostro amico vide Landry che stava scaricando i due muli. La Polet, dal canto suo, avvedendosi che le sue occhiate non erano sfuggite a Thibault, arrossì come una ciliegia matura, ma subito riprendendosi, disse: «Signor Thibault, sarebbe un'opera buona se voi, che siete così vigoroso, aiutaste vostro cugino... Vedete bene che è un lavoro troppo pesante per lui!», e rientrò in casa. «Diavolo, diavolo...», si disse Thibault seguendo la mugnaia con lo sguardo e riportando poi gli occhi su Landry. «Questo giovanotto sarebbe forse più fortunato di quanto lui stesso non creda? Per sbarazzarmene, sarà il caso che invochi l'aiuto del lupo nero?» Comunque, fece quello che la mugnaia lo aveva pregato di fare. Poiché immaginava che la bella vedova lo guardasse da un qualche spiraglio della tenda, impegnò tutte le sue forze e cercò di mettere all'opera tutte le sue grazie nell'adempimento dell'incarico ricevuto. Finito di scaricare, si riunirono tutti nella sala dove una servetta aveva intanto apparecchiato la tavola. La vedova sedette al posto d'onore e fece accomodare Thibault alla sua destra; si dimostrò piena di cortesia e di attenzioni per l'ospite, tanto che Thibault, il quale per un istante era stato colto da dubbi penosi, riaprì il cuore alla speranza. Per fare onore al dono, la mugnaia aveva personalmente preparato i tordi con bacche di ginepro; così cucinati, erano diventati il miglior cibo che possa sollecitare il più esigente dei palati. Pur ridendo delle storie che le raccontava Thibault, la mugnaia gettava di tanto in tanto un'occhiata furtiva a Landry: si accorse così che non aveva ancora assaggiato i cibi prelibati che lei gli aveva messo nel piatto. Si av-
vide, inoltre, che grosse lacrime gli rigavano le guance e andavano ad allungare la salsa che ricopriva i tordi ancora intatti nel suo piatto. Quel muto dolore la commosse. Il suo sguardo divenne quasi tenero, e con la testa fece un cenno che significava chiaramente: «Mangia, Landry, te ne prego!». Una promessa d'amore fremeva in quella pantomima appena accennata. Landry comprese e mancò poco che non si strangolasse inghiottendo il tordo in un solo boccone, tanto fu la sua premura nell'obbedire all'ordine della bella mugnaia. Nulla era sfuggito a Thibault. «Perbacco», si disse, «che sia veramente innamorata del ragazzino? Sarebbe una prova di pessimo gusto, senza contare che non mi converrebbe minimamente. No, no, quello che serve a te, bella mugnaia, è un vero uomo, in grado di dirigere gli affari del mulino, e quell'uomo sarò io, o il lupo nero può anche andare a nascondersi!» Poi, osservando che la bella mugnaia aveva ripreso la vecchia abitudine degli occhi dolci e dei sorrisi che Landry gli aveva descritto, si disse ancora: «Via, vedo che bisogna ricorrere ai mezzi energici, non sarà mai che io me la lasci scappare! In tutto il paese è il solo partito che mi conviene... Già, ma che fare del cugino Landry? Il suo amore contraria i miei progetti, eppure non posso per così poco mandarlo a raggiungere all'altro mondo il povero Marcotte! Ma, perbacco, sono ben generoso a stillarmi il cervello per inventare qualche cosa! La faccenda non mi riguarda, riguarda il lupo nero!». Poi, a voce bassissima: «Lupo nero, amico mio, senza che gli capiti nessun malanno, vedi di sbarazzarmi di mio cugino Landry...». Non aveva ancora finito di formulare questo desiderio quando vide un gruppetto composto di quattro o cinque militari che, venendo giù dalla collina, si dirigeva verso il mulino. Li vide anche Landry; gettò un grido e si alzò per fuggire, ma ricadde a sedere come se gli mancassero le forze. 8. Davanti all'effetto prodotto su Landry dalla vista dei militari che si dirigevano verso il mulino, la vedova Polet si spaventò quasi quanto il suo garzone. «Eh, mio Dio», gli domandò, «che succede, Landry?» «Già, che cosa succede?», ripeté Thibault. «Succede», rispose Landry, «che in un momento di disperazione, giovedì scorso ho incontrato l'arruolatore all'albergo del Delfino... e mi sono arruolato!»
«In un momento di disperazione!», esclamò la mugnaia. «E perché ti disperavi?» «Mi disperavo», disse Landry, prendendo il coraggio a due mani, «mi disperavo perché vi amavo!» «E perché mi amavi, disgraziato, ti sei fatto soldato?» «Non mi avevate forse detto che mi avreste scacciato dal mulino?» «E ti ho scacciato?», ribatté la mugnaia con una espressione sulla quale non c'era da equivocare. «Oh, Dio, non mi avreste mandato via, allora?» «Povero ragazzo!», fece la signora Polet con un sorriso e un'alzata di spalle che in un altro momento avrebbero fatto venire meno dalla felicità Landry e che, nello stato in cui si trovava, raddoppiarono la sua pena. «Forse ho ancora il tempo di nascondermi...», balbettò, smarrito. «Nasconderti!», fece Thibault. «È inutile, te lo assicuro.» «Perché no?», disse la mugnaia. «Proverò io, a nasconderlo... Vieni, Landry!» e condusse via il giovane. Thibault li seguì con gli occhi. «Va male per te, Thibault, amico mio», si disse. «Fortunatamente, per bene che lo nasconda, quelli hanno il fiuto fino, e lo troveranno!» Thibault diceva così, senza rendersi conto che stava esprimendo di nuovo un desiderio. Evidentemente la vedova non aveva nascosto Landry molto lontano, perché rientrò nella sala dopo solo qualche attimo di assenza tutta trafelata. In quel momento, il sergente si affacciò alla porta insieme a uno dei suoi uomini: due erano rimasti fuori, probabilmente per sorvegliare Landry, nel caso che questi avesse tentato di fuggire. Il sergente gettò nella sala uno sguardo indagatore, poi si piantò fermo sui piedi, portandosi la mano alla punta del berretto. La mugnaia non attese che le rivolgesse la parola e, col più gentile dei suoi sorrisi, gli offrì un rinfresco. È un invito che gli arruolatori non rifiutano mai. Poi, mentre centellinavano il vino, giudicando il momento favorevole, la mugnaia domandò ai militari che cosa mai li portasse al mulino di Coyolles. Il sergente rispose che stavano cercando un garzone mugnaio il quale, dopo aver bevuto con lui alla salute di Sua Maestà e aver firmato l'ingaggio, era sparito. Il giovanotto, interrogato, aveva dichiarato di chiamarsi Landry e di abitare presso la vedova Polet, proprietaria del mulino di Coyolles. Di conseguenza, il sergente veniva a reclamare la sua recluta refrattaria. La mugnaia, convinta che fosse permesso mentire quando l'intenzione
santificava la bugia, assicurò di non conoscere nessun Landry. Il sergente replicò che i suoi occhi erano i più belli del mondo e che possedeva una bocca deliziosa, ma questa non era una ragione sufficiente a costringerlo a crederle sulla parola. Annunciò quindi che avrebbe fatto una perquisizione. La perquisizione ebbe inizio, e dopo cinque minuti il sergente rientrò per chiedere alla bella mugnaia la chiave della sua camera da letto. La mugnaia si mostrò molto indignata di una simile richiesta, ma il sergente insisté tanto che la Polet non poté esimersi dal soddisfarlo. Dieci minuti più tardi, il sergente era di ritorno con Landry, che trascinava per il colletto della giubba. A quella vista, la mugnaia divenne pallida come un cencio lavato. Quanto a Thibault, il cuore gli batteva a precipizio, fino a spezzargli il petto; capiva infatti che era stato necessario l'aiuto del lupo nero perché il sergente andasse a scovare Landry. «Ah, giovanotto», esclamò il sergente, «preferiamo dunque servire una bella donna piuttosto che il Re? Si capisce! Ma quando uno ha la fortuna di essere nato nelle terre di Sua Maestà e di aver bevuto alla Sua salute, bisogna anche sacrificarsi un po' e servirlo! Verrai con noi, giovanotto! E dopo aver passato qualche anno nelle truppe francesi, potrai anche riprendere servizio sotto la tua prima bandiera! Andiamo, su!» «Ma», obiettò la Polet al sergente, «Landry non ha ancora vent'anni, non avete diritto di portarlo via prima dei vent'anni!» «È vero», confermò Landry, «non ho ancora vent'anni!» «E quando li compi?» «Domani.» «Benone!», disse il sergente. «Stanotte ti metteremo su un bel mucchio di paglia, come una nespola acerba, e domani, appena fa giorno, ti sveglierai maturo!» Landry scoppiò a piangere. La Polet pregò, scongiurò, supplicò, si lasciò baciare dagli arruolatori, sopportò pazientemente gli scherzi volgari che il suo dolore suggeriva ai militari, e infine giunse fino a offrire cento scudi per riscattare il giovane. Tutto fu inutile. Il sergente afferrò il capo della corda e i quattro uomini si misero in cammino, non senza tuttavia che il garzone trovasse il modo e il tempo di assicurare le bella mugnaia che, vicino o lontano, l'avrebbe sempre amata e che, se fosse morto in guerra, il nome di lei sarebbe stata la sua ultima parola. La vedova Polet, da parte sua, di fronte a una simile catastrofe, aveva perduto ogni rispetto umano, e prima che Landry si allontanasse, gli aveva buttato le braccia al collo stringendoselo teneramente al cuore.
Quando il gruppo fu scomparso dietro i salici, il dolore della mugnaia divenne così intenso da farle perdere i sensi: fu dunque necessario trasportarla sul suo letto. Thibault le prodigò le cure più affettuose, sebbene l'irruenza dell'affetto manifestato dalla vedova per suo cugino lo spaventasse un po'. Nondimeno, rallegrandosi di aver estirpato il male alla radice, conservava ancora vivissime speranze. Quando la signora Polet si riebbe, pronunciò il nome di Landry; Thibault ebbe un gesto di ipocrita commiserazione e la vedova scoppiò in pianto. «Povero figliolo», singhiozzava, «come se la caverà, lui così debole e delicato? Basterà il peso del fucile e del sacco ad ammazzarlo!» Poi, rivolgendosi all'ospite: «Ah, signor Thibault, è un gran dolore per me! Vi sarete accorto che lo amo! Era dolce, buono, non aveva difetti... non giocava, non beveva, non avrebbe mai contrariato la mia volontà, non avrebbe mai tiranneggiato sua moglie, cosa per me meravigliosa dopo gli anni crudeli passati col defunto Polet! Ah, signor Thibault, è doloroso per una povera donna veder crollare da un momento all'altro tutti i suoi progetti di un tranquillo avvenire!». Thibault giudicò l'occasione buona per dichiararsi. «Comprendo il vostro dolore», disse, «e anzi lo condivido... non potete certo mettere in dubbio l'affetto che nutro per mio cugino... ma bisogna rassegnarsi... Senza negare le qualità di Landry, non posso che consigliarvi di guardarvi intorno, di cercare qualcuno che possa valerlo!» «Che possa valerlo!», esclamò la vedova. «Ma non esiste! Dove trovare un ragazzo buono e gentile come Landry? No, signor Thibault, ve lo dico in tutta sincerità... il ricordo di lui mi toglie la voglia di cercarne altri... vedo bene che dovrò rassegnarmi a restare vedova!» «Bah!», fece Thibault. «Landry è molto giovane, chissà se avrebbe conservato sempre le sue belle qualità? Credetemi, non vi disperate, cercate qualcuno capace di farvi dimenticare mio cugino! Per voi ci vuole non un bambino, ma un uomo che possegga le stesse qualità di Landry, e tuttavia abbastanza maturo da offrirvi una totale sicurezza...» La mugnaia scuoteva la testa, ma Thibault continuò: «Vi occorre, insomma un uomo che, pur rispettando le vostre volontà, faccia fruttare bene il mulino!». «E dove lo trovo questo miracolo d'uomo?», domandò la mugnaia alzandosi in piedi e guardando lo zoccolaio, quasi volesse sfidarlo. Questi, ingannato dal tono di voce, credette l'occasione eccellente, e decise di approfittarne.
«Ebbene, Madama Polet, non dovreste andare lontano per trovare l'uomo che fa per voi! Vi confesso che io, per esempio, sarei ben contento, e fiero, di diventare il vostro sposo. Ah, state tranquilla!», continuò mentre la mugnaia lo guardava con occhi minacciosi. «Con me non dovreste temere di veder contrariate le vostre volontà! E quanto alla proprietà, esistono molti modi per farla rendere assai di più. Ma di questo parleremo in seguito...» Non fece in tempo a terminare la frase. «Ma davvero!», gridò la mugnaia, interrompendolo, incollerita. «Ma davvero, voi che io credevo un amico, proprio voi osate propormi di prendere il posto di Landry nel mio cuore! Tentate di rubare quell'affetto che io voglio conservare intatto a vostro cugino! Fuori di qui, miserabile! Fuori di qui! Se dessi retta alla mia collera e alla mia indignazione, chiamerei quattro uomini e vi farei gettare sotto la ruota del mulino!» Thibault avrebbe voluto replicare, difendersi, ma, fatto strano, non trovò neppure una parola per giustificarsi. Vero è che la mugnaia non gliene lasciò il tempo; aveva infatti a portata di mano una bella brocca nuova che afferrò per il manico, gettandola in testa a Thibault. Fortunatamente per lui, lo zoccolaio piegò a tempo la testa, e la brocca, senza raggiungere il bersaglio, andò a sfracellarsi contro il camino. La mugnaia prese allora uno sgabello, e con la medesima violenza lo lanciò contro lo stesso obiettivo. Questa volta Thibault piegò la testa a destra, e lo sgabello andò a frantumare tre o quattro vetri di una finestra. Al rumore, accorsero i garzoni e le ragazze del mulino, e trovarono la padrona che lanciava via via addosso a Thibault bottiglie, caraffe, saliere, piatti, insomma tutto quello che le capitava sotto mano. La bella Polet era talmente furibonda che non riusciva a parlare. Se avesse potuto parlare, avrebbe urlato: «Ammazzatelo! Strozzatelo! È una canaglia! È un miserabile!». Vedendo arrivare rinforzi, Thibault si lanciò verso la porta. Ma nel momento in cui ne varcava la soglia, un bel maialotto che faceva la siesta al sole, sorpreso nel primo sonno da tutto quel frastuono, nel tentativo di raggiungere il suo porcile capitò correndo tra le gambe dello zoccolaio. Thibault, perso l'equilibrio, ruzzolò nel fango e nel letame. «Al diavolo, bestiaccia maledetta!», gridò, stordito dalla paura, furibondo nel vedere i suoi begli abiti nuovi sudici di mota. Non aveva finito di esprimere questo desiderio che il maiale, come preso da improvvisa frenesia, si mise a correre in tondo per il cortile, rompendo, fracassando, rovesciando tutto ciò che poteva costituire un ostacolo al suo
passaggio. Buttò in terra i garzoni e le donne accorsi come aveva buttato in terra Thibault, finché da ultimo, abbattendo uno steccato che separava il mulino dalla chiusa, si precipitò sotto la ruota e scomparve, quasi fosse stato succhiato da una voragine. La mugnaia, nel frattempo, aveva ritrovato la parola. «Acciuffatelo!», gridò. Aveva inteso la maledizione lanciata dallo zoccolaio contro il maiale, e la rapidità con cui questa maledizione aveva avuto effetto, l'aveva sconvolta. «Acciuffatelo! Ammazzatelo! È uno stregone! È un Lupo Mannaro!» Con quest'ultima parola dava a Thibault l'epiteto più terribile che nelle nostre foreste si possa affibbiare a un uomo. Thibault, che non si sentiva la coscienza tranquilla, approfittò del primo momento di stupefazione che l'invettiva della mugnaia aveva provocato tra la sua gente. Svicolò rapidamente fra le ragazze e i garzoni e, mentre uno cercava una forca e l'altro una vanga, varcò di corsa la porta del mulino. Una volta fuori, con una facilità che confermava in pieno i sospetti della bella mugnaia, cominciò ad arrampicarsi, lesto come uno scoiattolo, su per il fianco di un dirupo che tutti avevano sempre stimato inaccessibile. «Ebbene», gridò la mugnaia, rivolta ai suoi dipendenti, «siete già stanchi? Non lo inseguite? Non lo ammazzate?» Ma quelli, scuotendo la testa, si limitarono a rispondere: «Eh, signora, che volete che facciamo contro un Lupo Mannaro?». 9. Per sottrarsi alle minacce della mugnaia e alle armi dei suoi dipendenti, Thibault si era istintivamente diretto verso il bordo della foresta. Al primo nemico che comparisse, aveva infatti l'intenzione di rifugiarsi nei boschi, dove a quell'ora nessuno avrebbe osato rincorrerlo. Del resto, armato del potere diabolico ricevuto dal lupo nero, Thibault non doveva aver paura di nulla e di nessuno. Riflettendo sul suo terribile potere, e sempre guardandosi alle spalle pronto, nel caso, a servirsene ancora, Thibault raggiunse le vicinanze di Pisseleu. Era calata la notte; una di quelle notti d'autunno buie e tempestose in cui il vento, che strappa dagli alberi le foglie ingiallite, suscita nella foresta suoni lamentosi e lugubri gemiti. Quei rumori funerei prodotti dal vento erano interrotti di tanto in tanto dall'ululato dei gufi, il cui stridio somiglia al grido dei viaggiatori sperduti che si chiamano e si rispondono.
Tutti questi rumori erano ben noti a Thibault e non lo impressionavano. Comunque, arrivando sull'orlo dei boschi, si era tagliato un lungo ramo di castagno. Pratico com'era nel maneggiare il bastone a due punte, così armato non temeva neppure l'attacco di quattro uomini! Entrò dunque coraggiosamente nella foresta, nel punto che ancor oggi va sotto il nome di Brughiera dei Lupi. Camminava da qualche minuto lungo un viottolo buio, maledicendo la bizzarria delle donne che preferiscono, senza alcuna ragione, un ragazzo debole e timido a un pezzo d'uomo vigoroso e ardito, quando udì, a pochi passi dietro di lui, un rumore di foglie smosse. Si voltò, e nell'oscurità vide lo scintillio di due occhi simili a carboni ardenti. Guardando più attentamente, scorse un grosso lupo che lo seguiva passo passo. Non era il lupo che aveva accolto nella sua capanna; quello era nero, mentre questo era rossastro. Thibault non aveva alcuna ragione di credere che tutti i lupi fossero animati verso di lui da intenzioni benevole. Cominciò quindi a roteare il bastone, impugnandolo con ambedue le mani, per rendersi conto di non aver dimenticato la manovra. Ma con sua grande sorpresa, il lupo si accontentava di trotterellare dietro di lui, senza manifestare intenzioni ostili: si fermava quando Thibault si fermava, riprendeva il cammino quando lo riprendeva Thibault, e ululava solo di tanto in tanto, come per chiamare rinforzi. Questi ululati non mancavano di turbare Thibault. Improvvisamente lo zoccolaio vide davanti a sé altre due luci ardenti che brillavano a intervalli nell'oscurità, divenuta più fitta. Tenendo alto il bastone, e pronto a colpire, avanzò in direzione delle due luci che restavano immobili. A un certo momento gli parve d'inciampare in un corpo, steso di traverso sul sentiero... Era quello di un secondo lupo! Senza riflettere che forse era imprudente attaccare per primo, lo zoccolaio assestò al secondo lupo un colpo vigoroso: l'animale si limitò a emettere un lungo gemito, poi, scuotendosi come un cane battuto dal padrone, si alzò e prese a camminare davanti allo zoccolaio. Thibault si voltò per vedere che cosa era successo del primo lupo, e constatò che continuava a seguirlo, mantenendo sempre la stessa distanza. Poi, guardando ora avanti e ora indietro, si avvide che un terzo lupo lo fiancheggiava, sulla destra. Istintivamente, il suo sguardo si portò a sinistra; un quarto lupo lo scortava sul fianco sinistro. Aveva percorso pochi chilometri e già una dozzina di lupi formavano intorno a lui una specie di cerchio... La situazione si presentava critica.
Thibault tentò dapprima di cantare, sperando che il suono della voce umana spaventasse le belve. Inutilmente. Neppure un lupo abbandonò il posto che occupava nel cerchio che sembrava disegnato da un compasso. Decise allora di fermarsi al primo albero accessibile e frondoso, di arrampicarsi su un grosso ramo, e aspettare lì l'alba. Ma, dopo aver ben riflettuto, gli parve più saggio tentare di raggiungere casa sua, tanto più che vi si andava avvicinando. Avrebbe fatto sempre in tempo ad arrampicarsi su un albero se i lupi avessero cambiato atteggiamento. Va detto che lo zoccolaio era talmente turbato che, giunto alla soglia della sua capanna, quasi non la riconosceva. Quando infine si rese conto di essere arrivato, con grande stupore vide i lupi che lo precedevano schierarsi rispettosamente per lasciarlo passare, seduti sulle zampe posteriori, quasi a fargli ala. Thibault non perdette tempo in complimenti. Si precipitò all'interno della capanna, sbattendo energicamente l'uscio alle proprie spalle. Serratolo con il chiavistello, vi spinse contro la cassapanca per porlo in grado di resistere a un assalto. Poi si lasciò andare su una sedia, e soltanto allora cominciò a respirare. Appena si fu rimesso dallo spavento andò a gettare uno sguardo dalla finestra che dava sul bosco. Una fila di occhi fiammeggianti gli rivelò che, invece di ritirarsi, i lupi si erano disposti simmetricamente in fila davanti alla casupola. Thibault accese la sua lanterna di ferro e la mise sul tavolo; raccolse i tizzoni sparsi nel focolare, li gettò su un mucchio di trucioli, e accese un gran fuoco il cui riverbero, così sperava, avrebbe dovuto far fuggire i lupi. Ma i lupi di Thibault erano evidentemente lupi speciali, abituati alle fiamme. Non si mossero dai posti che si erano scelti. Alle prime luci dell'alba, lo zoccolaio, che la preoccupazione aveva tenuto sveglio, andò alla finestra e poté vederli e contarli. Come la sera prima, sembrava che aspettassero, alcuni seduti, altri sdraiati. Infine, quando l'ultima stella sparì nel cielo, confondendosi con l'alone di luce purpurea che si levava a oriente, i lupi si alzarono tutti insieme e, lanciando il lugubre ululato con cui gli animali delle tenebre salutano il giorno, si dispersero in varie direzioni, e scomparvero. Spariti i lupi, Thibault tornò a riflettere sulla sua disavventura della vigilia: come mai la bella mugnaia non lo aveva preferito a suo cugino Landry? Non era forse più il bel Thibault? Era sopravvenuto nella sua persona un qualche cambiamento a suo svantaggio? Prese il pezzetto di specchio appeso al camino e lo avvicinò alla luce, sorridendo a se stesso con
aria compiaciuta, tanto si sentiva sicuro del fatto suo. Ma, appena scorto il volto riflesso nello specchio, lanciò un grido, metà di meraviglia, metà di sgomento. Era sempre il bel Thibault, ma quell'unico capello rosso, grazie ai desideri che gli erano imprudentemente sfuggiti, era diventato un ciuffo i cui riflessi potevano competere con i bagliori più ardenti del focolare. Un sudore freddo gli bagnò la fronte. Ben sapendo come fosse inutile tentare di strappare o tagliare i capelli maledetti, decise di nascondere alla bene e meglio il ciuffo rosso, e di formulare in avvenire il minor numero possibile di desideri. Doveva sforzarsi di scacciare tutte le idee ambiziose che lo avevano così fatalmente agitato, e di rimettersi al lavoro. Ahimè, non ne aveva più voglia! Inutile rievocare i bei giorni, quando il faggio e la betulla prendevano rapidamente forma tra le sue abili mani: adesso gli strumenti del suo lavoro rimanevano inattivi per ore e ore. Prepararsi il pasto non era più una distrazione piacevole, come una volta. Quando la fame si faceva sentire, Thibault mangiava con ripugnanza un tozzo di pane nero, e l'invidia, che fino ad allora era stata in lui una specie di vaga aspirazione a un ignoto benessere, assumeva poco a poco il carattere di una rabbia sorda e violenta che lo spingeva a odiare il prossimo. Comunque fosse, anche quella giornata, per quanto lunga gli sembrasse, passò come tutte le altre. Al crepuscolo, Thibault andò a sedersi sulla panca di legno che aveva costruito con le sue mani davanti alla porta, rimanendo lì a lungo, immerso in tristi pensieri. Ma, non appena cominciarono a infittirsi le tenebre, un lupo uscì dalla radura e venne, come la vigilia, a sdraiarsi a qualche distanza dalla casupola. Il primo lupo fu seguito da un secondo, e poi da un terzo, e infine da tutto il branco che riprese il posto occupato la sera precedente. Al sopravvenire del terzo lupo, Thibault era rientrato in casa, barricandosi con la medesima cura della vigilia, ma era ancora più triste e scoraggiato. Non ebbe la forza di restare desto: accese il fuoco, lo sistemò in modo che durasse tutta la notte, poi si sdraiò sul letto e si addormentò. Si svegliò che era giorno e il sole si trovava già a un terzo del suo cammino. Thibault corse alla finestra: i lupi erano scomparsi, e sull'erba umida di rugiada, si potevano contare i posti che i loro corpi avevano occupato durante la notte. Quella sera il branco si riunì di nuovo davanti all'abitazione dello zoccolaio, il quale poco a poco cominciava ad abituarsi alla presenza dei lupi. Arrivò a supporre che i suoi rapporti col lupo nero gli avessero fruttato qualche simpatia tra i rappresentanti della specie, e risolse di scoprire, una
volta per tutte, che cosa dovesse aspettarsi da quella strana avventura. Dopo essersi infilata alla cintura una roncola arrotata di fresco, e aver impugnato uno spiedo ben affilato, lo zoccolaio aprì l'uscio e si diresse risolutamente verso i lupi. Ma, con sua immensa sorpresa, le belve, invece di slanciarsi su di lui, cominciarono a scodinzolare come cani che vedano arrivare il padrone. Il loro comportamento amichevole era così evidente che Thibault si arrischiò a passare la mano sulla schiena di uno di essi, e il lupo non solo lo lasciò fare, ma manifestò chiari segni di soddisfazione. «Oh, oh», mormorò Thibault, la cui fantasia vagabonda si entusiasmava facilmente, «se la docilità di questi bestioni corrisponde alla loro gentilezza, eccomi proprietario di una muta quale il Barone Jean de Vez non ha mai posseduto. Così, ho la certezza di poter disporre di selvaggina ogni volta che lo desideri!» Non aveva finito di parlare che quattro lupi, tra i più vigorosi e celeri, si staccarono dagli altri per addentrarsi nella foresta. Qualche minuto dopo, un lungo, doloroso belato, si ripercuoteva sotto la volta degli alberi; uno dei lupi ricomparve trascinando una bella capretta che lasciava sul terreno una lunga scia sanguigna. Il lupo depose la preda ai piedi dello zoccolaio, il quale, al colmo della soddisfazione nel vedere i suoi desideri non soltanto accolti, ma prevenuti, tagliò l'animale in tanti pezzi e diede a ogni lupo la sua parte, tenendo per sé la lombata e i due cosciotti. Poi, con un gesto regale che dimostrava come soltanto allora si fosse investito della sua parte, congedò i lupi sino all'indomani. Il giorno seguente, all'alba, si recò a Villars dove, mediante due scudi, l'albergatore della Palla d'Oro lo sbarazzò dei due cosciotti. L'indomani Thibault gli portò ancora mezzo cinghiale, e da quel giorno divenne uno dei suoi più assidui fornitori. Prendendo gusto a questo traffico, adesso lo zoccolaio passava intere giornate in città bazzicando le bettole. Qualcuno aveva tentato di scherzare su quella ciocca di capelli rossi che, per quanto egli la seppellisse sotto gli altri capelli, trovava sempre modo di sbucar fuori, ma Thibault aveva fatto capire chiaramente che non ammetteva scherzi su quella sua disgraziata particolarità. Intanto, sfortuna volle che il Duca d'Orléans e Madame di Montesson venissero a passare qualche giorno a Villars. Fu un nuovo stimolo alla folle ambizione di Thibault. Tutte le belle dame e i giovani signori dei castelli vicini accorsero a Villars. Il corno da caccia del Barone Jean de Vez risuonava più squillante che mai nella foresta. Si vedevano passare, come visioni meravigliose, trasportati in corsa da magnifici cavalli inglesi, agili a-
mazzoni e veloci cavalieri nei loro bei costumi da caccia, rossi a galloni d'oro. La sera poi tutta quella aristocratica compagnia si riuniva per festini e balli a cui dame e cavalieri si recavano prendendo posto in carrozze sontuose ornate di stemmi di ogni colore. Thibault era sempre in prima fila tra i curiosi e divorava con occhi avidi quelle nuvole di raso e di merletti che, sollevandosi, lasciavano intravedere caviglie sottili avvolte in calze di seta, e piedini infilati in scarpette dagli alti tacchi rossi. Poi tutto ciò si dileguava, passando velocemente davanti alla folla stupefatta in una nuvola di cipria e di aria profumata dai più dolci aromi. Thibault si domandava: perché non sono anch'io uno di questi signori dagli abiti ricamati? Perché non ho anch'io come amante una di queste belle dame dai fruscianti abiti di raso? Angeletta gli appariva allora quella che era nella realtà: una povera contadinella. E la vedova Polet una semplice sebbene appetitosa mugnaia. Quando la sera se ne tornava a casa attraverso la foresta, scortato dal suo branco di lupi che, appena sopravvenuta la notte, non lo abbandonava più come una guardia del corpo non abbandona il re, allora lo zoccolaio si abbandonava alle più amare riflessioni. Circondato da simili tentazioni, naturalmente, Thibault, che aveva già imboccato la via del male, non poteva fermarsi lì. Che cosa contavano ormai per lui i pochi scudi elargiti dall'albergatore della Palla d'Oro come prezzo della cacciagione che gli procuravano i suoi amici lupi? Messi da parte per mesi, per anni, quegli scudi non sarebbero stati sufficienti a soddisfare il più umile dei desideri che tormentavano il suo animo. Non oserei dire che Thibault, avendo cominciato col desiderare un cosciotto di daino del Barone Jean, poi il cuore di Angeletta, poi il mulino della vedova Polet, si sarebbe adesso contentato del castello di Oigny o di Longpont, tanto quei piedini, quelle gambe ben tornite, quei dolci profumi che si diffondevano dalle vesti di velluto e di raso, avevano esaltato la sua ambiziosa fantasia. E un giorno, infatti, si disse che sarebbe stato decisamente uno sciocco a rimanere povero quando veniva messo a sua disposizione un potere così formidabile. Da quel momento risolse di sfruttare quel potere formulando i desideri più sfrenati, dovesse pure la sua capigliatura somigliare un giorno alla corona di fuoco che di notte si vede fiammeggiare sulla più alta ciminiera della fabbrica di vetri di Saint-Gobain.
10. Fu in questo stato d'animo che Thibault passò gli ultimi giorni dell'anno e affrontò l'anno nuovo. Pensando alle spese che comporta per tutti il felice giorno di Capodanno, via via che si avvicinava il passaggio da un anno all'altro, aveva preteso dai suoi fornitori doppia razione di cacciagione, che naturalmente gli aveva fruttato doppio guadagno da parte dell'albergatore della Palla d'Oro. Di conseguenza, a parte la ciocca di capelli rossi ormai di una dimensione abbastanza preoccupante, Thibault affrontava materialmente l'anno nuovo in condizioni assai migliori di quanto non fosse mai avvenuto prima di allora. Notate che diciamo «materialmente» e non «spiritualmente»; se infatti il corpo era in ottimo stato, l'anima non poteva non essere compromessa. Comunque, il corpo dello zoccolaio era ben coperto, e nelle tasche della sua giubba tintinnavano allegramente una diecina di scudi. Ben vestito e accompagnato da quella musica argentina, Thibault aveva adesso l'aspetto di un agiato agricoltore, o addirittura di un borghese che esercita una qualsiasi professione, ma per suo piacere. E fu con questo aspetto che si recò a una di quelle grandi riunioni campestri che sono le feste e le fiere di provincia. Si pescava nei magnifici stagni di Berval e di Poudron. La pesca nello stagno è un grosso affare per il proprietario o l'affittuario, e costituisce uno schietto piacere per gli spettatori. Se ne dà notizia con un mese di anticipo e la gente viene ad assistere a una bella pesca anche da molti chilometri di distanza. Ecco come si svolgono le operazioni: ogni stagno ha due sbocchi, quello da cui l'acqua entra e quello da cui esce. Il primo non ha nome; il secondo si chiama emissario, ed è qui che si pesca. L'acqua, sgorgando dall'emissario, cade in un grande serbatoio, dal quale defluisce attraverso le maglie di una larga rete. L'acqua esce, ma il pesce resta. Si sa quanti giorni occorrono per svuotare uno stagno; non si convocano quindi i curiosi e gli appassionati di pesca prima del secondo o terzo giorno, a seconda del volume di acqua che deve defluire dallo stagno prima di arrivare al gran finale, e cioè alla pesca vera e propria. All'ora designata per la pesca, si raduna, a seconda dell'estensione e della profondità dello stagno, una piccola folla paragonabile, quanto a numero ed eleganza, al pubblico che si riunisce al Campo di Marte o a Chantilly per le corse di cavalli montati da fantini famosi.
Soltanto, qui non si assiste allo spettacolo dalle tribune o in carrozza. No, ognuno arriva come vuole o come può; in calesse, in carrozza, sul carretto, a cavallo, a dorso d'asino... Poi, una volta arrivato - fermo restando il rispetto che si porta sempre alle autorità nelle regioni di provincia - ognuno si sistema a seconda delle precedenze o della forza dei propri gomiti e del movimento più o meno accentuato delle anche. Soltanto una specie di grata solidamente infissa nel terreno impedisce agli spettatori di cadere nell'acqua. Dal colore e dall'odore dell'acqua, si indovina l'avvicinarsi del pesce. Ogni spettacolo ha i suoi inconvenienti: all'Opera, più la riunione è bella e numerosa, e più acido carbonico si respira. Quando si pesca in uno stagno, più il momento interessante si avvicina, e più si respira azoto. Dapprima, nel momento in cui si apre l'emissario, l'acqua scorre limpida, pura e leggermente colorata di verde, simile all'acqua di un ruscello. È lo strato superiore che, trascinato dal proprio peso, si presenta per primo. Poi, poco a poco, l'acqua perde la sua trasparenza, si colora di grigio. È il secondo strato che defluisce, e di tanto in tanto, via via che l'acqua diventa più scura, si intravede un guizzo argenteo. È un pesce troppo piccolo che, non avendo saputo resistere alla corrente, fa da esploratore. Quello, non vale neppure la pena di prenderlo. Poi viene l'acqua scura. È il quarto atto, cioè il finale. Istintivamente il pesce, a seconda delle forze che si ritrova, resiste alla corrente insolita che lo trascina; nulla gli dice che quella corrente rappresenta un pericolo, ma il pesce lo intuisce e cerca di risalire la corrente. Il luccio nuota a fianco della carpa, che ieri inseguiva per impedirle di ingrassare troppo; senza attaccar briga, il pesce persico si accompagna alla tinca e non tenta neppure di addentare quella carne di cui era ieri così ghiotto. Alla fine, le forze dei lottatori vengono meno; gli esploratori si susseguono più frequenti; la grandezza dei pesci comincia a essere rispettabile e la prova della loro importanza è data dagli uomini incaricati di raccoglierli: uomini che indossano pantaloni rimboccati fino alle cosce e una camicia di cotone con le maniche arrotolate fin sulle spalle. Sono loro che ammucchiano i pesci nelle ceste. Quelli che devono essere venduti vivi o conservati per il ripopolamento dello stagno, vengono di nuovo buttati nel serbatoio. Quelli condannati a morte, vengono semplicemente buttati sul prato, per essere venduti lo stesso giorno. Via via che aumenta la quantità di pesce, aumentano le grida di gioia degli spettatori, che non somigliano certo al pubblico dei nostri teatri;
non vengono per reprimere le loro sensazioni e, con supremo buon gusto, fingersi indifferenti. No, vengono per divertirsi, e a ogni bella tinca, a ogni bella carpa, a ogni bel luccio, applaudono francamente, gioiosamente. Come in una rivista militare bene ordinata, i vari corpi sfilano uno dopo l'altro, presentandosi secondo il loro peso - tiratori leggeri in testa, dragoni al centro, corazzieri pesanti e artiglieri in coda - così sfilano le diverse specie di pesce. I più piccoli, cioè i più leggeri, per primi; i più grossi, cioè i più robusti, per ultimi. Infine, a un dato momento, sembra che l'acqua si esaurisca: il passaggio è letteralmente bloccato dalla riserva, dall'artiglieria pesante! Gli uomini, per raccogliere questi pesci più grossi, sono obbligati a una vera e propria lotta. È il gran finale, l'ora degli applausi, delle grida di «bravo, bravo!». Terminato lo spettacolo, si vanno ad ammirare i pesci, che si stanno divincolando sull'erba della prateria. Cercate le anguille, domandate dove sono le anguille... vi mostrano tre o quattro anguille non più grosse di un pollice e lunghe mezzo braccio! Il fatto è che le anguille, grazie alla loro conformazione, sono, almeno per il momento, sfuggite alla carneficina universale: hanno infilato la testa nella mota e sono scomparse. È per questo che si vedono uomini armati di fucile passeggiare lungo le rive dello stagno, e che di tanto in tanto si sente una detonazione. Se domandate: «Cos'è, una fucilata?», vi rispondono: «Sì, serve a far uscire le anguille». Ma perché le anguille escono dalla mota all'udire un colpo di fucile? Perché tornano ai ruscelli che continuano a solcare il fondo dello stagno? Perché infine, sentendosi sicure nel fango, come tanta gente di nostra conoscenza che pensa bene di rimanerci, perché non ci restano invece di affrettarsi verso quel filo d'acqua che finirà per riportarle al serbatoio, cioè alla fossa comune? Domando agli esperti: i colpi di fucile non sarebbero solo un pretesto, e le cose non andrebbero semplicemente così? Il fango, liquido dapprima, nel quale l'anguilla si è rifugiata, seccandosi poco a poco, come una spugna che si spreme, diventa inabitabile e l'anguilla è costretta, in fin dei conti, a tornare al suo elemento naturale: l'acqua. Una volta nell'acqua, l'anguilla è perduta. Soltanto al quinto o sesto giorno dopo la svuotatura dello stagno, si mettono le mani sulle anguille, ma allora non ne rimane viva neppure una! A una pesca come questa che abbiamo tentato di descrivere accorreva tutta la popolazione di Villars, di Crespy, di Mont-Gobert e dei villaggi vicini; ricchi e poveri, contadini e persone di qualità. Thibault vi si recò co-
me tutti. Non lavorava più, del resto; trovava più semplice far lavorare i suoi lupi. Da operaio, era diventato borghese; non gli mancava che trasformarsi da borghese in gentiluomo. E ci contava. Thibault non era uomo da rimanere indietro rispetto agli altri; cominciò quindi a manovrare le braccia e le gambe per conquistarsi un posto in prima fila, e così facendo sfiorò il vestito di una bella dama accanto alla quale stava tentando di piazzarsi. La dama teneva al suo vestito; oltre a ciò, probabilmente era abituata a comandare, il che in genere implica un'ombra di disprezzo per gli altri. Infatti, voltandosi e vedendo Thibault, si lasciò sfuggire la parola «villano!». Ma, nonostante la sua durezza, quella parola era stata pronunciata da una bocca così bella, la dama era così graziosa e la sua momentanea collera in così strano contrasto con la leggiadria dei suoi tratti, che Thibault invece di rispondere a tono, si contentò di tirarsi indietro balbettando delle scuse. Può anche darsi che fosse distratto dall'aspetto bizzarro del personaggio che faceva da cavaliere alla dama. Era un ometto grasso sulla sessantina, tutto vestito di nero e di una pulizia abbagliante; ma così piccino, così piccino, che la sua testa arrivava appena al gomito della signora; tanto che questa, non potendo dargli il braccio senza infliggersi una tortura, si contentava di appoggiarsi maestosamente sulla spalla di lui. Si sarebbe detta una Cibele antica appoggiata su un fantoccio moderno. Ma che straordinario fantoccio, con le sue gambe corte, l'addome che scoppiava nei calzoni e ricadeva sulle ginocchia, le braccia corte, grasse e rotondette, le mani bianche sotto i merletti, la testa rubiconda e grassottella, ben pettinata, bene incipriata, bene ondulata, col suo codino che, a ogni movimento, sfiorava con il fiocco terminale il colletto dell'abito! Con tutto ciò, la faccia gioviale, dagli occhi a fior di testa, raggiava tanta bontà da ispirare la più viva simpatia; s'indovinava che il caro ometto era troppo occupato a trascorrere piacevolmente il tempo per mettersi a litigare con quella entità vaga e indeterminata che si chiama prossimo. Perciò, sentendo la sua compagna trattare così bruscamente Thibault, l'ometto sembrava disperato. «Piano, signora Magloire, piano, mia cara Baliva!», esclamò, trovando modo in poche parole di far sapere ai vicini il suo nome e la sua posizione sociale. «Piano! Avete rivolto una brutta parola a un simpatico ragazzo che è certo assai dispiaciuto per quanto è successo!» «Andiamo, Magloire», rispose la dama, stizzita, «ci mancava che lo ringraziassi per avermi sgualcito la mia bella veste di damasco azzurro! Senza
contare che ha pestato il dito mignolo del mio piede sinistro.» «Vi supplico di perdonare la mia goffaggine, nobile Signora», disse Thibault. «Quando vi siete voltata, il vostro bel viso mi ha abbagliato come un raggio di sole di maggio, e non ho più visto dove mettevo i piedi.» Era un complimento ben congegnato per un uomo che da tre mesi viveva abitualmente in compagnia di un branco di lupi; ma fece un effetto assai mediocre sulla dama, la quale si limitò a rispondere con una mossetta sdegnosa. La verità è che, nonostante l'abbigliamento borghese di Thibault, lei ne aveva giudicato la qualità per quell'intuito che le donne di tutte le condizioni sociali posseggono per queste cose. L'ometto, più indulgente, batté rumorosamente l'una contro l'altra le mani grassocce che l'atteggiamento preso da sua moglie gli lasciava libere. «Bravo, bravo!», esclamò. «Avete colpito nel segno! Siete un giovane di spirito, e mi sembra che conosciate bene in qual modo bisogna parlare alle donne! Bellezza mia, spero che tu abbia apprezzato quanto me il complimento e che, per dimostrare al signore che non gli serbiamo rancore, se abita da queste parti e non lo portiamo troppo fuori strada, lo pregheremo di accompagnarci a casa, dove berremo insieme una bottiglia del nostro miglior vino.» «Ah, ti riconosco, Mastro Magloire! Tutti i mezzi sono buoni per alzare il calice! Quando ti mancano le occasioni, sei molto abile nello scovarle dove che sia! Eppure lo sai che il medico ti ha espressamente proibito di bere fuori dei pasti!» «È vero, moglie mia», replicò l'ometto, «ma non mi ha proibito di usare una gentilezza a un giovane simpatico come mi sembra questo signore. Sii dunque indulgente, Susanna; smetti quell'aria imbronciata che ti sta tanto male! Diavolo, chi non ti conosce, potrebbe credere, a sentirti, che tu possegga un solo vestito! Ebbene, per provare il contrario al signore, se riesci a ottenere che ci accompagni a casa, ti regalerò quel vestito di lampasso che desideri da tanto tempo.» Questa promessa ebbe il magico effetto di raddolcire di colpo la collera di madama Magloire e, poiché la pesca stava per finire, lei accettò di buon grado il braccio che Thibault le offriva, dobbiamo riconoscerlo, molto goffamente. Quanto a lui, colpito dalla bellezza della dama e supponendo, dalle poche parole sfuggite a lei e al marito, che si trattasse della consorte di un magistrato, fendeva orgoglioso la folla, camminando a testa alta e con aria decisa, come se andasse alla conquista del Vello d'Oro.
In realtà Thibault, il fidanzato della povera Angeletta, l'innamorato respinto della bella mugnaia, pensava non soltanto al piacere, ma anche al prestigio che gli sarebbe derivato dall'amore di una donna di qualità, e ai vantaggi che avrebbe potuto eventualmente trarre da una fortuna tanto agognata e tanto inattesa. Così, Thibault facendo, i suoi calcoli, la Baliva immersa nei suoi sogni vanitosi, il Balivo trotterellando, chiacchierando e asciugandosi la fronte con un bel fazzoletto di batista, i tre arrivarono al villaggio di Erneville, poco distante dagli stagni di Poudron. Era in questo grazioso villaggio, situato tra Haramont e Bonneuil, non lontano dal castello di Vez, dimora del Barone Jean, che aveva sede la magistratura di Mastro Magloire. 11. Attraversarono tutto il villaggio e si fermarono, sulla strada tra Longpré e Haramont, davanti a una casa di bell'aspetto. L'ometto, galante come sa esserlo solo un francese, arrivato a venti passi dalla casa, precedendo i compagni salì, più velocemente di quanto non sembrasse possibile, i quattro o cinque gradini dell'ingresso e, sollevandosi sulla punta dei piedi, arrivò a toccare il batocchio con la punta delle dita. Una cameriera vestita a festa venne ad aprire. Il Balivo le disse qualcosa a bassa voce, e a Thibault, che adorava le belle donne ma non disdegnava i buoni pranzi, parve di comprendere che quelle paroline avessero lo scopo di ordinare a Perrine il menù per il pranzo. Poi, voltandosi verso l'ospite, l'ometto disse: «Siate il benvenuto nella casa del Balivo Magloire!». Thibault fece rispettosamente passare avanti la signora Baliva e venne poi introdotto nel salotto. Qui, lo zoccolaio commise un errore: ancora non abituato al lusso, l'uomo della foresta non fu abbastanza abile nel dissimulare l'ammirazione che suscitava in lui l'interno della casa; per la prima volta, si trovava in presenza di tende di damasco e poltrone dorate! Credeva ingenuamente che soltanto il Re, o al massimo il Duca d'Orléans, possedessero tendaggi e poltrone come quelli! Thibault non si accorse che la signora Magloire lo spiava e che non una sfumatura della sua aria stupefatta e della sua ingenua meraviglia le era sfuggita. Comunque, dopo avere ben riflettuto, si sarebbe detto che lei considerasse più favorevolmente l'ospite impostole dal marito; cercò infatti
di addolcire per lui la naturale durezza delle sue pupille nere. La sua affabilità, tuttavia, non arrivò fino a esaudire la preghiera di Mastro Magloire, il quale avrebbe desiderato che versasse lei stessa all'ospite il vino di Champagne, raddoppiandone così il sapore e l'aroma. Adducendo come pretesto la fatica della lunga passeggiata, la signora si scusò e salì in camera sua. Ma, prima di andarsene, disse a Thibault che, avendo dei torti da espiare nei suoi riguardi, sperava che lui non avrebbe dimenticato la strada di Erneville. Un affascinante sorriso che scopriva due file di candidi denti chiuse questo discorsetto. Thibault rispose con una vivacità di espressione che attenuava appena quello che le sue parole avrebbero potuto avere di poco delicato: le giurò che avrebbe piuttosto dimenticato di mangiare e di bere che non cancellare dall'anima sua il ricordo di una dama la cui cortesia era pari alla bellezza. La signora Magloire si limitò a fare una piccola riverenza che rivelava da un miglio di distanza la signora Baliva, e uscì. Non aveva ancora chiuso la porta che Mastro Magloire strinse con effusione le mani a Thibault, esclamando: «Oh, amico mio, berremo in pace ora che non ci sono più donne a seccarci! Ah, le donne! Tanto care alla Messa, al ballo e a letto, ma a tavola, sangue d'un diavolo, non ci sono che gli uomini, non è così, compare?». In quel momento entrava Perrine per domandare al padrone che vino doveva servire, ma l'allegro ometto era troppo buongustaio per affidare a una cameriera un simile incarico. Attirò a sé Perrine come se le volesse parlare all'orecchio e, mentre la ragazza si chinava per mettersi alla sua portata, le appioppò un grosso bacio su una guancia, ma lei non arrossì tanto da far credere che quel bacio rappresentasse una novità. «Ma, signore, che fate?», fece ridendo la ragazzona. «Perrinette, bella mia, io solo conosco le buone annate, e perciò in cantina ci vado io!» E l'ometto scomparve trotterellando sulle corte gambe, gaio, vispo e fantastico come quei giocattoli di Norimberga che si caricano con una chiave e che, una volta caricati, girano in tondo o vanno a destra o a sinistra fin quando la molla resta tesa. Con la differenza che il caro ometto sembrava caricato dalla mano stessa del buon Dio e destinato a non fermarsi mai. Rimasto solo, Thibault si fregò le mani, rallegrandosi di essere capitato in una casa così bella, tra una moglie affascinante e un marito simpaticissimo. Cinque minuti dopo, la porta si aprì; era il Balivo che tornava, con una bottiglia in ciascuna delle due mani, e una sotto ogni braccio.
Era ormai ora di cena. Il Balivo posò delicatamente le quattro bottiglie sulla tavola, e suonò. Entrò Perrine. «Quando possiamo metterci a tavola, bella figliola?», le domandò Magloire. «Quando desidera il signore. Poiché so che al signore non piace aspettare, è già tutto pronto.» «Allora avverti la signora: va a dirle, Perrine, che non vogliamo sederci a tavola senza di lei.» Perrine uscì. «Passiamo in sala da pranzo», propose l'ometto. «Dovete aver fame, mio caro ospite, e io, quando ho fame, ho l'abitudine di soddisfare l'appetito degli occhi prima ancora dell'appetito dello stomaco!» «Ah!», fece Thibault. «Dovete essere un gran ghiottone!» «Buongustaio, buongustaio, non ghiottone, non confondiamo!», e così dicendo, Magloire passò in sala da pranzo. «Bene!», esclamò, entrando e battendosi allegramente le mani sul ventre. «Ditemi un po' se la nostra Perrine non è una cuoca degna di servire un Cardinale! Osservate com'è preparata questa cenetta; è molto semplice, ma rallegra la vista più del festino di Baldassarre!» «Perbacco», annuì Thibault, «avete ragione: è proprio uno spettacolo che rallegra!» Gli occhi di Thibault cominciavano a risplendere come carboni ardenti. Era, come aveva detto il Balivo, una cenetta straordinariamente appetitosa: una bella carpa in bianco, coi suoi filetti disposti da una parte e dall'altra su un letto di prezzemolo costellato di spicchi di carota, occupava uno dei capi della tavola. All'altro capo troneggiava un piccolo prosciutto di cinghiale, mollemente poggiato su un piatto di spinaci che emergevano, come un'isola verde, da un mare di sugo al burro. Il centro della tavola era occupato da un bel pasticcio di pernici, composto da due sole pernici, ognuna delle quali infilava la testa nella crosta superiore e sembrava pronta ad attacccare l'avversaria a colpi di becco. Gli spazi vuoti erano occupati da piattini vari, contenenti fette di salame di Arles, trance di tonno immerse nel bell'olio verde della Provenza, filetti di acciughe che tracciavano caratteri fantastici su un letto di rossi e di bianchi d'uovo tritati finemente, e conchigliette di un burro che doveva essere stato montato lo stesso giorno. Come déssert, c'erano due o tre tipi di quei formaggi il cui pregio princi-
pale consiste nel far venire la sete; biscotti di Reims croccanti, e pere conservate con una perfezione che dimostrava come la mano stessa del padrone si fosse curata di rivoltarle sulla paglia. Thibault era talmente assorto nella contemplazione di questa cenetta da intenditori, che intese appena la risposta di Perrine: la signora aveva l'emicrania; presentava ancora una volta le sue scuse all'ospite e si riprometteva di fargli gli onori di casa alla sua prossima visita. L'ometto ascoltò la risposta con gioia evidente. Sospirò profondamente, battendo le mani come per applaudire, ed esclamò: «Ha l'emicrania! Ha l'emicrania! Poverina! Su, a tavola! A tavola!». E alle due bottiglie di vecchio vino di Maçon messe alla portata di ogni commensale, tra i piattini degli antipasti e quelli dei dolci, intercalò le altre quattro bottiglie che aveva preso in cantina. Aveva fatto bene - io penso - la Baliva a non mettersi a tavola con quei due rudi campioni, la cui fame e sete erano tali che metà della carpa e due bottiglie di vino scomparvero senza che fossero state scambiate altre parole che queste: «Buono, non è vero?». «Perfetta!» «Buono, non è vero?» «Eccellente!» Il femminile si riferiva alla carpa, il maschile al vino di Maçon. Dalla carpa e dal Maçon passarono al pasticcio e allo Chabertin: a questo punto le lingue cominciarono a sciogliersi, specie quella del Balivo. A metà della prima pernice e alla fine della prima bottiglia di Chabertin, Thibault conosceva a menadito la storia di Mastro Magloire; storia, del resto, per nulla complicata. Alla fine della prima pernice e a metà della seconda bottiglia, Thibault aveva saputo che la signora Magloire era la quarta moglie del suo ospite, il quale l'aveva sposata non per la sua ricchezza ma per la sua bellezza, essendo stato sempre amante di visi graziosi oltre che di buoni vini e di cibi appetitosi. Magloire aggiunse che, pur essendo già avanti con gli anni, se sua moglie fosse morta, un quinto matrimonio non lo avrebbe affatto spaventato. Passando poi dal vino di Chabertin all'Ermitage, e alternandolo a quello di Sellery, Mastro Magloire cominciò a parlare delle doti di sua moglie. Non era la dolcezza personificata, no davvero; non condivideva l'ammirazione del suo sposo per i diversi vini di Francia, e si opponeva con tutti i mezzi possibili, spesso anche a viva forza, alle sue troppo frequenti visite
alla cantina. Dal canto suo, adorava più di quanto non potesse far piacere a un uomo amante della semplicità, la moda, i fiocchi, i ricami, e tutte le altre cianfrusaglie che fanno parte dell'armamentario femminile. Ma, a parte questo, Susanna Magloire possedeva tutte le virtù, e tali virtù erano sostenute, a sentire il Balivo, da gambe così perfette che se per disgrazia lei ne avesse persa una, sarebbe stato impossibile trovarne un'altra eguale in tutto il circondario. Ma anche prima di essere informato di queste segrete perfezioni che il buon Balivo, novello Re Candaule, era disposto a rivelare al novello Gige, la bellezza della Baliva aveva fatto sul nostro zoccolaio un'impressione così profonda che questi, pur mangiando con robusto appetito, ascoltava avidamente, senza rispondere, le frasi che Mastro Magloire, felice di avere un pubblico così attento, infilava l'una dopo l'altra come i grani di un rosario. Tuttavia, a un certo punto, il degno Balivo, aveva fatto un secondo viaggio in cantina, e avendogli questo viaggio causato un piccolo nodo alla lingua, cominciò ad apprezzare un poco meno la rara qualità che Pitagora esigeva dai suoi discepoli. Fece quindi capire a Thibault che lui aveva detto più o meno tutto quello che voleva dire, e che ora toccava all'ospite dargli qualche informazione su se stesso; aggiunse che, considerandolo già un amico, desiderava conoscerlo meglio. Thibault giudicò saggio alterare leggermente la verità. Si presentò come un agiato agricoltore, che viveva del prodotto di due sue fattorie e di un centinaio di are di terra dalle parti di Verte-Feuille. Le cento are comprendevano una riserva di caccia addirittura miracolosa per la quantità di daini, caprioli, cinghiali, pernici rosse, fagiani e lepri. Il Balivo si mostrò assai soddisfatto: dalla lista delle vivande servite a cena: abbiamo visto che non disdegnava la cacciagione, e l'idea che sarebbe capitata sulla sua tavola senza bisogno di ricorrere ai bracconieri, ma come offerta del suo nuovo amico, lo riempiva di gioia. A questo punto, dopo aver vuotato gli ultimi due bicchieri, sembrò giunto il momento di separarsi. Il vino di Champagne aveva trasformato in tenerezza la consueta bonomia di Mastro Magloire. Dava del tu all'ospite, lo abbracciava, gli fece giurare che un festino così piacevole avrebbe avuto un seguito. Quando infine lo riaccompagnò alla porta, si alzò ancora una volta in punta di piedi per dargli un ultimo abbraccio. Suonava la mezzanotte alla chiesa di Erneville nel momento in cui il portone si chiudeva alle spalle dello zoccolaio. I fumi del vino bevuto lo avevano già un po' stordito dentro casa, ma fu peggio quando si sentì inve-
stito dall'aria esterna. Thibault barcollò e andò ad addossarsi al muro. Quello che accadde allora, rimase per lui vago e misterioso come i fatti che avvengono in sogno. Sopra la sua testa, a pochi metri da terra, si apriva una finestra che gli era sembrata illuminata benché la luce fosse velata evidentemente da doppie tende. Appena si fu appoggiato al muro, gli parve che quella finestra si aprisse; confusamente pensò che fosse il buon Balivo, il quale non voleva separarsi da lui senza dargli un ultimo saluto. Tentò quindi di staccarsi dal muro per fare onore alla cortese intenzione; ma lo sforzo si rilevò inutile. Ebbe la sensazione di esservi abbarbicato come l'edera... ben presto, però, dovette riconoscere di essere in errore, poiché sentì posarsi sulle sue spalle, prima sulla destra e poi sulla sinistra, un carico talmente pesante che le ginocchia gli si piegarono; lo zoccolaio scivolò quindi lungo il muro come per sedersi in terra. Questa manovra sembrava uniformarsi al desiderio dell'individuo che si stava servendo di Thibault come di una scala. Dobbiamo chiarire che il peso era quello di un uomo. Approfittando del movimento di genuflessione imposto a Thibault, scese e poi saltò a terra mentre si udiva il lieve cigolio di una finestra che si chiudeva. «Molto bene, Furbo! Molto bene! Bravo!», sussurrò l'uomo con voce vibrata. Thibault comprese due cose: primo, lo si scambiava per un tale chiamato il Furbo, il quale con ogni probabilità se la dormiva in qualche posticino nei dintorni; secondo, aveva fatto da scala a un innamorato. Due cose che lo umiliavano. Di conseguenza, Thibault afferrò automaticamente un lembo di stoffa fluttuante che gli parve al tatto il mantello dell'innamorato, e con la persistenza degli ubriachi, vi si aggrappò. «Che fai, imbecille?», protestò una voce non del tutto sconosciuta all'orecchio di Thibault. «Non avrai mica paura di perdermi!» «Già, ho proprio paura di perdervi», farfugliò Thibault, «dato che voglio sapere come si chiama quell'impertinente che si serve delle mie spalle come scala!» «Ahi, ahi! Allora, non sei tu, Furbo?» «No, non sono io.» «Bene, chiunque tu sia, grazie lo stesso.» «Come, grazie? Ah, questa è buona! Grazie! Credete davvero di cavarvela così?» «Certamente, ci conto!»
«Ah, sì! Fate i conti senza l'oste, come suol dirsi!» «Andiamo, lasciami, cialtrone! Sei ubriaco!» «Ubriaco! Ovvia! Se non abbiamo bevuto che sette bottiglie in due, e quattro delle sette se le è bevute il Balivo da solo!» «Ti dico di lasciarmi, ubriacone!» E tentando per la terza volta di strappare il suo mantello dalle mani di Thibault, l'uomo ripeté: «Lascia andare il mio mantello, imbecille!». Thibault era di natura un permaloso, ma nello stato in cui si trovava, la suscettibilità lasciò il posto all'irritazione. «Perdinci! Sappiate, mio bel signore, che qui c'è un solo imbecille, quello che dopo essersi servito di una persona, per ringraziarla la insulta! Non so che cosa mi trattenga dal mollarvi un pugno in faccia!» Aveva appena pronunciato questa minaccia che, con la rapidità con cui il cannone spara nel momento in cui la fiamma della miccia tocca la polvere, il pugno che Thibault aveva minacciato di mollare allo sconosciuto, arrivò invece in testa a lui stesso. «A te, ignorante!», disse la voce che suscitava in Thibault lontani ricordi connessi al pugno ricevuto. «Ecco, sono un buon ebreo, io, e ti rendo il pane prima di aver pesato la focaccia!» Thibault rispose assestando all'avversario un formidabile pugno sul petto, ma lo sconosciuto non apparve più scosso di quel che non sia una quercia per il buffetto di un ragazzo. Rispose con un secondo pugno, il cui vigore superava il primo di tanto, che Thibault si rese conto che, se la forza del gigante fosse andata crescendo in quel modo, lui sarebbe stato infallibilmente abbattuto dal terzo pugno. La violenza stessa del colpo portò disgrazia allo sconosciuto: caduto su un ginocchio, Thibault toccò terra con una mano e le sue dita si ammaccarono contro un grosso sasso. Si alzò furibondo con un sasso in mano e lo lanciò contro la testa dell'avversario. Il colosso emise un suono che somigliava al muggito di un bue; girò su se stesso e, cadendo come una quercia colpita alle radici, si abbatté al suolo e perse i sensi. Non sapendo se aveva ucciso o soltanto ferito l'avversario, Thibault prese la fuga senza neppure guardarsi indietro. 12. La casa del Balivo non era lontana dalla foresta. Appena ebbe fatto cento passi nel bosco, Thibault si vide accompagnato dalla solita scorta, scodin-
zolante in segno di contentezza: rivolse ai lupi qualche parola amichevole, grattò dolcemente tra gli orecchi quelli che aveva a portata di mano, e continuò per la sua strada pensando al suo doppio trionfo: aveva vinto l'ospite alla bottiglia, e aveva vinto lo sconosciuto nemico al pugilato. Così, tutto contento, camminando parlottava ad alta voce: «Bisogna dire, amico Thibault, che sei un briccone fortunato! Madama Susanna è proprio quello che mi occorre. Moglie di un Balivo! Che conquista! E, in caso di sopravvivenza, che moglie! In un caso o nell'altro, quando camminerà appoggiata al mio braccio, come moglie o come amante, voglio vedere se non mi prenderanno per un gentiluomo! E pensare che tutto questo avverrà, a meno che io non faccia qualche sciocchezza. In fondo, non mi sono lasciato ingannare dalla sua emicrania: chi non ha paura non fugge! Avrà avuto paura di mostrarsi troppo espansiva la prima volta... Andiamo, vedo che tutto si accomoda, non ho che da fare un cenno: una bella mattina lei si troverà sbarazzata del suo vecchietto, e la cosa è fatta! Però non posso, e soprattutto non voglio, augurare la morte a Mastro Magloire, poveraccio! Prendere il suo posto quando non ci sarà più, passi; ma uccidere un uomo che mi ha offerto un vino così buono! Ucciderlo quando ho ancora quel vino nello stomaco, sarebbe un'azione di cui perfino compare lupo arrossirebbe!». Poi, col suo più furbo sorriso: «Del resto, non è meglio che io abbia già acquistato dei diritti su Madama Susanna quando Mastro Magloire se ne andrà in modo perfettamente naturale all'altro mondo? Il che non può tardare, data la quantità di cibo e di vino che ingerisce ogni giorno!». Poi, mentre le qualità tanto vantate della Baliva gli tornavano alla mente: «No, no, niente malattia, niente morte, soltanto semplici disavventure come ne succedono a tutti... Certo, visto che andrebbe a mio vantaggio, vorrei che a lui gliene accadessero più che agli altri, è naturale! Quando poi tutto sarà andato a posto, ti dirò un bel grazie, compare lupo!». E Thibault si fregava le mani sorridendo a questa idea; era tanto soddisfatto che si trovò in città quando credeva di essere ancora vicino alla casa del Balivo. A questo punto, fece un segno ai suoi lupi. Sarebbe stato imprudente attraversare Villars in tutta la sua lunghezza con dodici lupi come guardia d'onore; così, sei lupi presero a destra, e sei a sinistra, e tutti e dodici si ritrovarono davanti alla capanna di Thibault, dove si congedarono da lui, e scomparvero. Ma, prima che se ne andassero, Thibault li invitò tutti a trovarsi allo stesso punto l'indomani sull'imbrunire.
Benché fosse tornato a casa alle due di notte, Thibault si alzò all'alba. Covava infatti un progetto: non aveva dimenticato la promessa fatta al Balivo di mandargli la cacciagione della sua riserva. Ebbene, la sua riserva erano tutte le foreste di Sua Altezza Serenissima il Duca d'Orléans! Per questo si era alzato così per tempo. Dalle due alle quattro del mattino aveva nevicato: lo zoccolaio esplorò la foresta in lungo e in largo, con la prudenza e l'abilità di un segugio. Cercò le tane dei cervi e dei caprioli, i covi dei cinghiali, i nascondigli delle lepri; osservò le piste che seguivano gli animali per andare a rintanarsi durante la notte. Poi, quando le tenebre ebbero di nuovo avvolto la foresta, emise un ululato assai prolungato (s'imparava a ululare in compagnia dei lupi!) che fece convergere presso di lui anche i vassalli e i vassalletti dei lupi convocati la sera precedente; arrivarono perfino i lupacchiotti di un anno! Thibault spiegò loro che si aspettava una caccia meravigliosa, eccezionale... e per tutta la notte la volta oscura della foresta risuonò di urla atroci. Qua un capriolo, inseguito da un lupo, cadeva, afferrato alla gola da un altro lupo appostato in un'imboscata; là, Thibault, il coltello alla mano come un macellaio, accorreva in aiuto di tre o quattro dei suoi feroci compagni. Una vecchia lupa tornava con mezza dozzina di lepri che aveva sorpreso nel bel mezzo delle loro evoluzioni amorose, e riusciva a stento a impedire che i lupacchiotti cedessero alla ghiottoneria, ingurgitando, senza attendere che il padrone del branco avesse esercitato il suo diritto di prelazione, tutta una famiglia di pernici rosse che quei giovani rapinatori avevano acciuffato con la testa sotto l'ala. Madama Susanna Magloire, in quel medesimo momento, era ben lungi dall'immaginare ciò che succedeva a causa sua nella foresta di Villars. Nel giro di due ore, i lupi aveva accumulato davanti alla capanna di Thibault una carrettata di selvaggina. Thibault fece la sua scelta, e abbandonò ai lupi quanto bastava per un sontuoso banchetto! Il resto lo caricò su due muli, chiesti in prestito a un carbonaio con la scusa che doveva portare una partita di zoccoli in città, e s'incamminò verso Villars. Aveva avuto dapprima l'idea di presentare lui stesso al Balivo tutto quel ben di Dio, poi pensò che fosse meglio farsi precedere dal suo regalo. Affidò quindi la cacciagione a un contadino, gli diede trenta soldi, e lo spedì dal Balivo di Erneville con un semplice biglietto su cui scrisse: «Da parte del signor Thibault». Quanto a lui, avrebbe seguito da vicino il messaggio. Arrivò infatti proprio mentre Mastro Magloire faceva sciorinare su un tavolo la cacciagione
appena ricevuta. In un impeto di riconoscenza, il Balivo tese i suoi braccìni all'amico dell'antivigilia, stringendolo al cuore con grida di gioia, e corse poi alla porta, chiamando la moglie a gran voce: «Susanna! Susanna!». Il tono di voce era così inconsueto che la moglie capì subito che c'erano delle novità, senza però rendersi conto se fossero buone o cattive. Scese a precipizio, e trovò il marito folle di gioia, che trotterellava intorno alla tavola: questa presentava, bisogna ben dirlo, lo spettacolo più attraente che possa offrirsi all'occhio di un buongustaio. «Guarda, guarda!», le gridò il marito, battendo le mani. «Guarda quello che ci porta il nostro amico Thibault, e ringrazialo! Vivaddio! Ecco uno che tiene fede agli impegni! Ci promette un cesto di cacciagione della sua riserva, e ce ne manda una carrettata! Dagli la mano, abbraccialo! E ammira tutto questo ben di Dio!» Madama Magloire obbedì con la massima grazia agli ordini di suo marito: offrì la mano a Thibault, si lasciò baciare da lui, e abbassò gli occhi su quella collezione di selvaggina che suscitava l'ammirazione e l'entusiasmo del Balivo. Come pezzi forti, c'erano una testa e un cosciotto di cinghiale, dalla carne compatta e saporita; una bella capretta di tre anni; lepri dai lombi spessi e carnosi; e ancora, fagiani così profumati, e pernici rosse così delicate che, una volta infilati nello spiedo, facevano dimenticare, al profumo della loro carne, la magnificenza delle piume. La fantasia dell'ometto pregustava tutto ciò, e il suo entusiasmo fece apparire relativamente fredda l'accoglienza di Madama Susanna. Comunque, la signora diede prova di iniziativa e di gentilezza dichiarando a Thibault che non lo avrebbe lasciato tornare alle sue fattorie prima che le provviste di cui, grazie a lui, si era arricchita la sua dispensa, non fossero state interamente consumate. È facile immaginare quanto si rallegrasse Thibault nel vedere così prevenuti i suoi più ardenti desideri. Ripromettendosi mari e monti da quel soggiorno a Erneville, si sentiva tanto di buon umore che fu il primo lui a proporre a Mastro Magloire un aperitivo per preparare lo stomaco ad assaporare degnamente i cibi che intanto avrebbe preparato madamigella Perrine. Fu servito il Vermouth, una bevanda ancora poco conosciuta in Francia, e Thibault fece una smorfia; per lui, quella bevanda esotica non valeva un buon bicchierino di Chablis nazionale. Ma quando Magloire gli disse che, grazie a quel meraviglioso beveraggio, tra un'ora avrebbe avuto un robusto
appetito, non fece più obiezioni, anzi si dispose ad aiutare il Balivo a finire la bottiglia. Quanto alla signora, era tornata in camera sua. Ben presto giunse il momento di mettersi a tavola, e Madama Susanna uscì dal suo appartamento. Era veramente sfolgorante nel suo bell'abito di damasco grigio a ricami dorati: l'eccitazione amorosa impediva a Thibault di pensare all'imbarazzo in cui necessariamente si sarebbe trovato nel sedersi per la prima volta a tavola in compagnia di una dama di qualità. A dire la verità, non se la cavò troppo male: non soltanto rivolgeva occhiate incendiarie alla affascinante padrona di casa, ma aveva anche avvicinato leggermente il suo ginocchio a quello di lei, e si permetteva ogni tanto una dolce pressione. Improvvisamente Madama Susanna, che lo guardava teneramente, scoppiò in una risata fragorosa che degenerò in una crisi isterica, ma così acuta che poco mancò non ne rimanesse soffocata. Senza fermarsi alle conseguenze, Mastro Magloire risalì direttamente alle cause; posò anche lui lo sguardo su Thibault, preoccupandosi più di quanto c'era di allarmante nel suo amico che non dello stato di eccitazione nervosa in cui l'ilarità aveva fatto piombare la moglie. «Ahi, compare mio!», gridò, tendendo i braccini spaventati verso Thibault. «Ma tu bruci, proprio bruci!» Thibault si alzò a precipizio. «Che succede?», domandò spaventato. «Succede che hai il fuoco nei capelli», rispose ingenuamente il Balivo, afferrando la bottiglia che si trovava di fronte alla moglie, per spegnere l'incendio divampante nei capelli di Thibault. Lo zoccolaio portò istintivamente la mano alla testa ma, non sentendo alcun calore, indovinò la verità; impallidì e ripiombò sulla sedia. Le preoccupazioni di quegli ultimi due giorni gli avevano fatto completamente dimenticare la precauzione presa con la mugnaia; dare cioè alla sua capigliatura una pettinatura speciale, grazie alla quale riusciva a nascondere la ciocca di capelli divenuta proprietà del lupo nero. Vero è che nel frattempo, in seguito a una quantità di piccoli desideri involontariamente formulati e che avevano apportato qualche inconveniente a parecchie persone, la moltiplicazione dei capelli color fiamma aveva fatto progressi impressionanti. «Diavolo, Mastro Magloire», disse Thibault, cercando di dominare l'emozione, «mi hai fatto una paura tremenda... Se una parte della mia capigliatura ha un colore insolito non badarci; dipende da uno spavento preso da mia madre quando era incinta... un giorno temette di essere divorata
dalle fiamme di un braciere!» «Strano», osservò Madama Susanna, «mi accorgo ora per la prima volta di questa bizzarria... L'altro giorno mi era sembrato che i vostri capelli fossero neri come la mia mantellina di velluto... Eppure, signor Thibault, vi prego di credere che non mi stancavo di osservarvi con attenzione!» Quest'ultima frase, rendendogli le speranze, rese anche il buonumore a Thibault. Da quel momento in poi non si parlò più del ciuffo fiammeggiante, eppure i begli occhi di Madama Susanna sembravano invincibilmente attratti da quella maledetta ciocca, e tutte le volte che lo sguardo della Baliva incrociava il suo, sembrava a Thibault di sorprendere sulle labbra di lei una reminiscenza della risata irrefrenabile che poco prima tanto lo aveva turbato. Senza volere, portava tutti i momenti la mano alla testa, cercando di nascondere la ciocca fatale sotto gli altri capelli. Ma quella ciocca non era soltanto di un colore insolito, era anche di una rigidezza inaudita. Non erano più capelli, era crine! Nulla, neppure il ferro di un parrucchiere sarebbe stato capace di fargli prendere una piega diversa da quella naturale. In mezzo a queste preoccupazioni, le ginocchia dello zoccolaio raddoppiavano di tenerezza, e poiché Madama Magloire, pur non rispondendo a quelle provocazioni amorose, sembrava non avesse alcuna intenzione di sottrarvisi, il presuntuoso Thibault non dubitava di aver fatto una conquista. La serata si prolungò sino a tarda notte. Madama Susanna si alzava spesso da tavola e, mentre andava e veniva in casa, Magloire approfittava delle assenze di lei per fare frequenti visite in cantina, fino al momento in cui la sua testa appesantita, reclinandosi sullo stomaco, non indicò chiaramente che era giunta l'ora di sospendere le libagioni. Thibault, dal canto suo, fermamente deciso ad approfittare della circostanza per dichiarare il suo amore alla Baliva, disse che sarebbe andato volentieri a riposare. Finalmente si levarono le mense. Perrine fu incaricata di mostrare all'ospite la stanza che gli era destinata e, attraversando il corridoio, Thibault le chiese qualche informazione. La stanza n. 1, fra quelle che si aprivano sul corridoio, apparteneva a Mastro Magloire; la stanza n. 2 alla moglie, e infine, la stanza n. 3 era la sua. Ma dalla camera del Balivo a quella della moglie c'era un uscio di comunicazione, mentre la camera di Thibault aveva una sola porta, quella sul corridoio. Avendo inoltre osservato che Madama Susanna era entrata nella stanza
del marito, Thibault naturalmente pensò che ve la conducesse il dovere coniugale. Il buon Balivo era in uno stato che somigliava assai a quello di Noè quando fu insultato dai figli; Madama Susanna dovette quindi assisterlo e aiutarlo a coricarsi. Thibault, qualche minuto dopo, uscì dalla sua camera in punta di piedi, chiuse bene la porta, accostò l'orecchio all'uscio della Baliva, e non sentì alcun rumore: cercò la chiave a tastoni e la trovò nella serratura. Respirò di sollievo, e diede un giro nella toppa. La porta si aprì: la camera era immersa nell'oscurità, ma Thibault, a forza di frequentare i lupi, aveva acquisito certe loro qualità, tra cui quella di vedere anche al buio. Gettò dunque un rapido sguardo alla stanza, e scorse alla sua destra il caminetto; di fronte al caminetto, c'era un divano sormontato da un grande specchio; alle sue spalle, dalla parte del divano, una toeletta adorna di merletti, e infine due grandi finestre protette da doppie tende. Si nascose dietro la tenda di una delle finestre, scegliendo istintivamente quella più lontana dalla camera di Mastro Magloire. Passato un quarto d'ora, durante il quale il cuore continuò a battergli così forte da ricordargli - malaugurato presagio - il tic-tac del mulino di Coyolles, Madama Susanna entrò in camera. Il primitivo piano di Thibault era stato quello di uscire subito dal suo nascondiglio e di precipitarsi ai suoi piedi, dichiarandole il suo amore. Ma rifletté che, prima di averlo riconosciuto, Madama Magloire, colta di sorpresa, avrebbe potuto lasciarsi sfuggire un grido rivelatore, e che quindi era meglio aspettare che Mastro Magloire fosse addormentato. Thibault rimase dunque dietro le sue tende. Intanto la Baliva si era seduta davanti allo specchio della toeletta, e aveva cominciato ad acconciarsi come se dovesse andare a un ballo o a una processione. Provò dieci veli diversi prima di sceglierne uno; si aggiustò con cura le pieghe dell'abito, cinse il collo con tre file di perle, e si caricò le braccia di tutti i braccialetti che possedeva. Infine ritoccò la sua pettinatura con cura meticolosa. Thibault si perdeva in congetture non riuscendo a spiegarsi lo scopo di tutti quei preparativi, quando improvvisamente un rumore secco e vibrante, come di un corpo duro che colpisce un vetro, lo fece trasalire. Madama Susanna trasalì a sua volta; spense immediatamente il lume, e lo zoccolaio la udì avvicinarsi alla finestra in punta di piedi, per aprirla poi con la massima delicatezza. Furono scambiate delle parole a bassa voce, che Thibault non intese; ma, socchiudendo la tenda, distinse nell'oscurità le forme di
una specie di gigante che, a quanto pareva, stava scalando la finestra. Il ricordo dell'avventura con lo sconosciuto di cui non aveva voluto lasciare andare il mantello, e del quale si era così felicemente sbarazzato colpendolo con una sassata in fronte, gli tornò alla mente. Orientandosi, gli sembrò che proprio da quella finestra fosse sceso il gigante che gli aveva poggiato i piedi sulle spalle. Il sospetto era logico: se un uomo ne era disceso, probabilmente si trattava di quello stesso che ora vi saliva. Comunque sia, e chiunque fosse il visitatore notturno, Madama Susanna gli tese la mano, e l'uomo saltò così pesantemente nella camera, che il pavimento tremò tutto e i mobili vacillarono. Evidentemente non si trattava di un fantasma, ma di un corpo umano, e pesante per giunta. «Oh, attenzione, Monsignore», sussurrò la voce di Madama Susanna. «Per quanto bene dorma mio marito, se fate tanto rumore, finirete per svegliarlo!» «Per tutti i diavoli, mia bella amica», rispose lo sconosciuto, la cui voce Thibault riconobbe per quella con cui aveva dialogato la notte precedente, «non sono un uccello! Ma quando ero sotto la vostra finestra, avevo la netta sensazione che mi sarebbero spuntate le ali per portarmi da voi!» «Oh...», rispose Madama Magloire facendo la vezzosa. «Anch'io, da parte mia, ero molto triste, Monsignore, all'idea di lasciarvi fuori a gelare... Ma l'ospite che avevamo stasera ci ha lasciati non più di mezz'ora fa.» «E in questa mezz'ora che cosa avete fatto, amica mia?» «Ho dovuto aiutare mio marito a coricarsi, e assicurarmi che si addormentasse per evitare il pericolo che venga a disturbarci.» Queste ultime parole furono soffocate a metà, quasi che qualcosa si fosse posato sulla bocca della dama, impedendole di continuare; al tempo stesso Thibault sentì un rumore che gli parve quello di un bacio. Il poveretto si rese allora conto di quanto immensa fosse per lui quella nuova delusione. «Se chiudessimo la finestra, mia cara?», disse la voce del nuovo venuto, dopo due o tre colpetti di tosse. «Oh, Monsignore, certo!» Madama Magloire andò alla finestra che chiuse ermeticamente, e altrettanto ermeticamente chiuse le tende. Intanto lo sconosciuto, come se fosse a casa sua, aveva tirato una poltrona davanti al fuoco, vi si era steso, e si scaldava voluttuosamente i piedi. Madama Susanna, giustamente consapevole che se un uomo è infreddolito, la cosa più urgente da fare è riscaldarlo, si avvicinò alla poltrona e vi si appoggiò con grazia.
Thibault vedeva il gruppo di spalle, e bolliva di collera. «E questo estraneo, quest'ospite», domandò lo sconosciuto, «chi era?» «Oh, Monsignore», fece Madame Magloire, «ho idea che lo conosciate anche troppo!» «Come! Sarebbe forse quel miserabile dell'altra sera?» «Proprio lui, Monsignore.» «Ah, se mai mi capita a tiro...!» «Monsignore», disse Susanna con voce dolce come una musica, «non bisogna nutrire cattivi propositi contro i propri nemici; anzi la nostra santa religione cattolica insegna che bisogna perdonarli!» «Sì, ho torto, lo ammetto, di odiare tanto quella canaglia, perché, in fondo debbo a lui l'occasione di introdurmi in casa tua! È a causa di quella benedetta sassata che, vedendomi svenuto, tu hai chiamato tuo marito... È perché tuo marito mi ha trovato privo di conoscenza sotto le tue finestre, e ha creduto che fossi stato ridotto in quello stato miserando da ignoti malfattori, che mi ha fatto trasportare in casa! Infine, è perché tu hai avuto pietà di quello che avevo sofferto per amor tuo, che mi hai permesso di venire qui! Dunque, in definitiva quel farabutto, quell'imbecille, quella canaglia, rappresenta per me la fonte di ogni bene, visto che il massimo bene consiste per me nel tuo amore! Ciò non impedisce che se quello capitasse a tiro della mia spada, passerebbe un brutto quarto d'ora!» «Perbacco», mormorò tra sé Thibault, «ancora una volta un altro ha tratto profitto da un mio desiderio! Ah, lupo nero, non ho ancora imparato, ma da ora innanzi rifletterò bene prima di esprimere un desiderio! Lo scolaro diventerà pari al maestro! Ma a chi appartiene questa voce che conosco? Perché la conosco, non c'è che dire!» «Sareste ancora più arrabbiato contro quel povero diavolo, Monsignore, se vi confessassi che mi fa la corte!» «Ma davvero?! Quello zoticone, quel furfante, quella canaglia! Per tutti i diavoli, lo farò divorare dai miei cani!» All'improvviso, Thibault riconobbe l'uomo. «Ah, Barone Jean de Vez», mormorò, «siete voi!» «State tranquillo, Monsignore», sussurrò Madama Susanna, appoggiando le mani sulle spalle dell'infuriato amante, e obbligandolo a rimettersi a sedere. «Io non amo che voi e, anche se non vi amassi, non darei certo il mio cuore a un uomo che ha una ciocca di capelli rossi in mezzo alla testa!» Thibault fu assalito da una rabbia feroce contro la moglie del Balivo.
Femmina traditrice, pensò, non so che cosa darei perché tuo marito, il tuo onesto marito, entrasse ora e ti sorprendesse! Non aveva finito di esprimere questo desiderio, che la porta di comunicazione tra la camera di Susanna e quella del marito si spalancò, e Mastro Magloire, con in testa un gran berretto da notte che lo faceva sembrare meno basso e con una candela accesa in mano, fece il suo ingresso nella stanza. «Ah, ah», mormorò Thibault, «perbacco, adesso tocca a me ridere!» 13. Mentre Thibault parlava tra sé, non poté udire le parole che Susanna mormorava al Barone Jean, ma la vide abbandonarsi tra le braccia di lui come se fosse svenuta. Il Balivo si fermò di colpo davanti alla strana scena, illuminata dalla luce della candela. Si trovava proprio di fronte a Thibault, il quale cercava invano di leggere sulla fisionomia di Mastro Magloire i pensieri che certo lo agitavano. Da parte sua, il Barone Jean, con una disinvoltura che sembrò prodigiosa a Thibault, disse al nuovo venuto: «Mastro Magloire, come andiamo con il vino questa sera?». «Come, siete voi, Monsignore?», fece il Balivo spalancando gli occhi. «Oh... vi prego di scusarmi... credetemi, se avessi immaginato di trovarvi qui, non mi sarei mai permesso di presentarmi in simile abbigliamento... Permettetemi di andare a vestirmi...» «Niente complimenti, amico», lo interruppe il Barone. «A una certa ora, è permesso di ricevere gli amici senza cerimonie che diamine! E poi, c'è qualcosa di più urgente... Dobbiamo far riprendere i sensi alla signora Magloire che è svenuta tra le mie braccia!» «Susanna svenuta! Oh, mio Dio!», esclamò quel semplicione, poggiando il candeliere sul caminetto. «Come è accaduto?» «Un momento Magloire», rispose il Barone. «Per prima cosa, bisogna adagiare la signora in una poltrona; nulla turba maggiormente una donna quanto trovarsi scomoda se le capita di perdere i sensi.» «Avete ragione Monsignore, adagiamo prima mia moglie in una poltrona. Oh, Susanna, mia povera Susanna...!» «Mi auguro, caro amico, che non penserete male di me trovandomi in casa vostra a quest'ora!» «Me ne guarderei bene!», replicò il Balivo. «L'amicizia della quale mi onorate e la virtù di mia moglie sono garanzie sufficienti perché io mi sen-
ta lusingato dalla vostra presenza in casa mia, a qualsiasi ora!» «Che imbecille!», mormorò tra sé lo zoccolaio. «A meno che non sia un famoso furbacchione... Ma che importa? Voglio vedere, Barone Jean, come te la caverai!» «Tuttavia», continuò Magloire, bagnando un fazzoletto in acqua di melissa e passandolo sulle tempie di Susanna, «sarei curioso di sapere come mai mia moglie possa aver ricevuto un'impressione così forte da farla svenire.» «Semplicissimo: ve lo spiego in due parole! Tornavo dall'aver pranzato da un mio amico, il Signor di Vivières, e attraversavo Erneville per ritornarmene alla torre di Vez, quando vedo una finestra aprirsi e una figura femminile che fa disperati gesti di soccorso. Riconosco la finestra e la vostra casa... Mio Dio, penso subito, forse la consorte del mio amico Balivo si trova in pericolo e ha bisogno di aiuto?» «Siete molto buono, Barone», mormorò il Balivo commosso, «ma spero che non fosse il caso...» «Al contrario, amico, al contrario!» «Barone, mi fate fremere! Mia moglie aveva bisogno di aiuto e non mi ha chiamato?» «Infatti, aveva pensato subito di chiamarvi, ma se n'è astenuta per delicatezza; temeva, chiamandovi, di mettere in pericolo la preziosa esistenza del suo sposo!» «Eh?», fece il Balivo, diventando pallido. «La mia preziosa esistenza, come l'avete chiamata, sarebbe in pericolo?» «Ora non più, poiché sono intervenuto io!» «Ma insomma, Barone, che cosa è accaduto?» «Vedendola così spaventata, sono accorso... Le domando che cosa sta succedendo, qual è la causa del suo terrore, e lei mi risponde: "Monsignore, figuratevi che ieri mio marito ha invitato qui in casa, per due giorni, un tale del quale sospetto... Uno che si introduce in casa nostra con il pretesto di fare amicizia con Magloire e che poi mi fa la corte...!".» «Mia moglie ha detto questo?» «Parola per parola, e del resto, quando avrà ripreso i sensi, interrogatela voi stesso, e se non ripeterà ogni mia parola, giudicatemi pure un miscredente, un turco, un saraceno!» «Ah, gli uomini, gli uomini!», sospirò il Balivo. «Eh, sì, una razza di vipere», annuì il Barone Jean. «Volete che continui?»
«Spero bene!», incalzò l'ometto, dimenticando il suo costume pressocché adamitico, tanto si interessava al racconto del Barone. «"Signora", ho detto allora alla signora Magloire, "come vi siete accorta che quel briccone aveva l'audacia di alzare gli occhi su di voi?"» «Già», osservò il Balivo, «come mai lei se n'è accorta, e io no?» «Caro amico, ve ne sareste accorto se aveste guardato sotto la tavola! Ma goloso come siete, non potevate guardare sopra e sotto!» «In verità, Barone, stavo gustando un pranzo sopraffino... cotolette di cinghiale giovane!» «Ma come!», esclamò il Barone, indignato. «Mi descrivete il pranzo invece di ascoltare il seguito di un racconto nel quale sono in gioco la vita e l'onore di vostra moglie!» «Povera Susanna! Barone, aiutatemi ad aprirle le mani...» Il Barone aiutò e assistette il Balivo, e le forze congiunte dei due uomini riuscirono alla fine a disserrare le mani della signora Magloire. Il buon uomo, più calmo, cominciò a picchiettare sulle mani della consorte, pur ascoltando con attenzione il racconto del Barone. «Dove ero arrivato?», chiese il narratore. «Al momento in cui la mia povera Susanna, che possiamo chiamare bene a ragione la Casta Susanna, si è accorta...» «Già! Simile a un novello Paride, il vostro ospite voleva fare di voi un secondo Menelao! Allora la signora si è alzata da tavola... Ricordate che a un certo momento vostra moglie si è alzata?» «Non ricordo... forse ero un poco... un poco stordito...» «Infatti. Insomma, la signora si è alzata e ha osservato che era ora di ritirarsi. Il vostro ospite si alzò anche lui, mentre voi rimaneste a tavola. Madama Magloire ordinò alla cameriera di condurre l'ospite nella camera a lui riservata, e poi, da tenera e fedele sposa, vi ha accompagnato a letto, vi ha rincalzato le coperte, e infine si è ritirata nella propria stanza. Ed è proprio là che ha avuto paura! Ha aperto la finestra, e il vento ha spento la candela... Lo sapete, voi, che cosa è la paura? Da quel momento, in preda al terrore, non osando svegliarvi per tema che vi accadesse qualcosa di spiacevole, ha chiamato in soccorso il primo cavaliere di passaggio... Quel cavaliere, per fortuna, possiamo ben dirlo, ero io! Sono accorso, mi sono fatto riconoscere, e la signora mi ha gridato: "Presto, Barone, salite, salite, c'è un uomo nella mia camera!".» «E voi? Chi sa che paura avete avuto anche voi, Barone!» «Affatto! Per non perdere tempo, ho dato da tenere il cavallo al mio scu-
diero, sono salito in piedi sulla sella e, dalla sella, sul balcone... Per impedire la fuga all'intruso, ho chiuso la finestra... In quel momento, nel sentire il cigolio della vostra porta che si apriva, la signora, sopraffatta da troppe emozioni, è svenuta tra le mie braccia.» «Oh, Barone, che terribile racconto!» «E ancora, l'ho mitigato piuttosto che esagerarlo! Ma ecco che la signora Magloire comincia a muoversi! Bruciate subito una piuma sotto il suo naso, l'aiuterà a riprendere i sensi!» «E dove la trovo una piuma?», chiese il Balivo, costernato. «Eh, diamine, prendete quella del mio cappello!» E il Barone Jean, spezzando alcuni fili della lunga piuma di struzzo che ornava il suo feltro, li porse a Magloire che li bruciò alla fiamma della candela, spingendo il fumo verso il naso della moglie. Il risultato fu rapido: Madama Magloire starnutì, sospirò. «Ah, Barone, Barone», gridò il Balivo, «rinviene!» Madama Magloire aprì gli occhi, guardò or l'uno or l'altro dei due uomini con espressione spaventata, poi fissando il Balivo, esclamò: «Magloire, Magloire, sei proprio tu? Come sono felice di rivederti nello svegliarmi da questo orribile incubo!». «Ahimè, cara Susanna, non si è trattato di un incubo, ma di un'odiosa realtà, a quel che pare.» «Ora ricordo...», sospirò la donna. Poi, fingendo di accorgersi in quel momento della presenza del Barone, esclamò: «Oh, Barone, spero che non abbiate raccontato a mio marito ciò che vi ho confidato!». «E perché no, cara signora?» «Perché la donna onesta deve sapersi difendere da sé, e non seccare il marito con simili storie! Davvero, avete raccontato a Magloire che quell'uomo mi accarezzava le ginocchia sotto il tavolo?» «Disgraziato!», gridò il Balivo. «Gli avete raccontato che nel raccogliere il tovagliolo che mi era caduto, ho trovato la sua mano...?» «Bandito!», urlò il Balivo. «Ho creduto che un marito dovesse sapere tutto», osservò il Barone, mentre il Balivo urlava ancora: «Scellerato!». «E gli avete detto», seguitò Madama Magloire, «che, appena tornata nella mia stanza, quando il vento ha spento la candela, mi è parso di sentire un rumore dietro le tende di questa finestra e ho chiamato disperatamente aiuto, sicura che quell'uomo si fosse nascosto dietro i tendaggi?»
«No, questo non l'avevo ancora raccontato; stavo per farlo quando avete ripreso i sensi.» «Sacripante!», urlò il Balivo, afferrando la spada del Barone appoggiata sopra una seggiola, e slanciandosi verso la finestra indicata dalla moglie. Tirò alcuni colpi di spada nelle tende, ma d'un tratto rimase senza fiato; era anche lui sul punto di svenire. I capelli gli si rizzarono sotto il berretto di cotone, la spada gli sfuggì dalla mano convulsa e cadde sul pavimento con un sordo rumore. Scorgendo Thibault nascosto dietro le tende, aveva improvvisamente temuto di aver ucciso l'amico dei giorni scorsi. Del resto, avendo sollevato la tenda con la punta della spada, non fu il solo a scorgere Thibault. Anche Susanna e il Barone lo videro e gettarono un grido di sorpresa. Il Barone, poi, non solo lo aveva visto, ma lo aveva subito riconosciuto. «Che Dio mi fulmini!», tuonò, avvicinandosi a lui. «Non mi sbaglio, è una mia vecchia conoscenza: l'uomo dello spiedo!» «Come, l'uomo dello spiedo?!», chiese il Balivo, tremante. «Spero in ogni modo che non abbia con sé un'arma così pericolosa!» E corse a rifugiarsi dietro a sua moglie. «Calmatevi», disse il Barone Jean. «Anche se l'avesse, mi incaricherei io di toglierla dalle sue mani!» E volgendosi a Thibault, continuò: «Dunque, signor bracconiere, non ti accontenti di cacciare il capriolo di Monsignore il Duca d'Orléans nella foresta di Villars... fai anche incursioni in pianura, vieni a cacciare sulle terre del mio amico, il Balivo Magloire!». «Come? Un bracconiere?», fece il Balivo. «Padron Thibault non è dunque un onesto proprietario terriero che vive nella sua rustica dimora del prodotto di un centinaio di acri?» «Lui?», esclamò il Barone Jean scoppiando in una risata. «A quanto pare, ve lo ha fatto credere! Ah, il birbante ha la lingua pronta! Lui, proprietario terriero! È un pezzente! I garzoni delle mie stalle portano ai piedi i suoi zoccoli... Non è che uno zoccolaio!» Susanna atteggiò il volto a un'espressione di disprezzo. Mastro Magloire indietreggiò e arrossì; non che il brav'uomo fosse superbo, ma detestava l'inganno e arrossiva di aver brindato con un bugiardo e un traditore. Thibault aveva sopportato quella valanga di ingiurie a braccia conserte, il sorriso sulle labbra. Era sicuro che, venuto il momento di parlare, si sarebbe preso con facilità la rivincita. Adesso quel momento era venuto... In tono canzonatorio, esclamò: «Per le corna di Belzebù, come diceva un attimo fa il signor Barone, sa-
pete bene di dire cose crudeli, e che se tutti facessero come voi, non sarei nell'imbarazzo come potrebbe sembrare!». Il Barone Jean rispose alla minaccia, ben comprensibile per luì se non per il Balivo, squadrando lo zoccolaio con un'occhiata di fiero corruccio. «Oh!», esclamò Madama Magloire con una certa imprudenza. «Vedrete che inventerà ancora qualche bassezza sul mio conto!» «Tranquillizzatevi, signora», replicò Thibault, il quale aveva ripreso il suo ardire, «in fatto di bassezza non mi avete lasciato nulla da inventare.» «Oh, che spirito maligno! Vedete? Non mi sbagliavo, ha inventato ancora qualche calunnia per vendicarsi del disprezzo con cui ho accolto i suoi languidi sguardi!» Mentre Madama Susanna parlava così, il Barone Jean, raccolta la spada da terra, si andava avvicinando a Thibault, ma il Balivo si gettò in mezzo a loro, trattenendo il braccio del Barone. «Calma, calma, Barone», disse Magloire. «Quest'uomo è indegno del vostro corruccio! Vedete, io sono solo un semplice borghese, ma, pur disprezzandolo, gli perdono l'abuso che ha fatto della mia ospitalità.» La signora Magloire credette opportuno di intervenire e scoppiò in singhiozzi. «Non piangere, moglie mia», disse il Balivo con la sua ingenua bonomia. «Di che cosa potrebbe accusarti costui, supponendo che avesse l'impudenza di accusarti? Di tradirmi, forse? Eh, mio Dio, fatto come sono, se già non mi hai tradito, devo ancora ringraziarti dei giorni belli che mi hai regalato. Con te sarò sempre indulgente, Susanna, e come non ti chiuderò mai il mio cuore, così non chiuderò mai la porta della mia casa agli amici. E poi, dopotutto, se un uccello di malaugurio dovesse penetrare in casa nostra, dalla porta o dalla finestra, per San Gregorio patrono dei bevitori, farei un tal rumore con il tintinnio dei bicchieri che sarebbe obbligato ad andarsene da dove è venuto!» Madama Susanna si era gettata ai piedi del brav'uomo e gli baciava le mani. Perfino il Barone sembrava commosso mentre si asciugava una lacrima che gli stillava dall'angolo dell'occhio. Poi tese la mano al Balivo: «Per le corna di Belzebù! Siete un uomo giusto e di cuore generoso, amico, e sarebbe un gran peccato procurarvi delle preoccupazioni... E che Dio mi perdoni se mi è mai venuto alla mente un cattivo pensiero! In ogni caso, vi giuro che in futuro non accadrà mai più». Mentre questa specie di perdono accomunava i tre personaggi secondari del nostro racconto, la situazione del personaggio principale diventava
sempre più spinosa. L'animo di Thibault si gonfiava di rabbia e di odio. E d'un tratto, con un lampo maligno negli occhi, gridò: «Non so davvero che cosa mi trattenga dal concludere in modo terribile questa stupida storia!». Da questa esclamazione molto simile a una minaccia, soprattutto per il tono con cui era stata pronunciata, il Barone e Madama Susanna si resero conto, rabbrividendo, che un grande e ignoto pericolo li sovrastava. Il Barone Jean però non era tipo da impressionarsi facilmente e, per la seconda volta, spada alla mano, mosse un passo verso Thibault. Ma per la seconda volta, il Balivo lo fermò. «E sia!», esclamò il Barone. «Lo ritroverò, costui! Strane voci circolano sul suo conto da qualche tempo, e la caccia di frodo non è il solo misfatto che gli venga imputato. È stato visto e riconosciuto mentre girava nei boschi in compagnia di un branco di lupi stranamente addomesticati. Secondo me, il furfante non dorme nella sua capanna nelle notti di Sabba; probabilmente inforca il manico della scopa più spesso di quanto convenga a un buon cattolico! La mugnaia di Cayolles si è lamentata, si dice, dei suoi malefici... Bene, bene, ne riparleremo! Manderemo a ispezionare la sua abitazione, e se tutto non è in regola, farò distruggere quella spelonca da stregone. Non voglio più vederla sulle terre di Monsignore il Duca d'Orléans! E ora, sloggiate!» L'esasperazione dello zoccolaio aveva raggiunto il colmo durante il minaccioso ammonimento del Barone Jean. Tuttavia approfittò dell'occasione che gli si offriva per uscire dalla stanza. Grazie alla sua facoltà di vedere al buio, trovò subito la porta, l'aprì e, varcando la soglia di quella casa dove lasciava così dolci speranze per sempre svanite, richiuse il portone con tale violenza che tutto l'edificio ne tremò. Soltanto dopo dieci minuti buoni Thibault si accorse del cattivo tempo. Pioveva a dirotto, ma dapprima, sebbene gelata o forse proprio per questo, la pioggia gli fece bene perché si sentiva la testa in fiamme. Uscendo dalla casa del Balivo, si era lanciato verso la campagna senza dirigersi verso un luogo particolare, avido solo di spazio, frescura, movimento. La sua corsa vagabonda lo portò nei terreni di Value, ma se ne avvide soltanto quando scorse il mulino di Coyolles. Lanciò, passando una tacita maledizione alla bella mugnaia, passò tra Vauciennes e Coyolles e, vedendo davanti a sé una massa scura, vi si precipitò. Si trovò così nella foresta e, a caso, imboccò la strada che da Coyolles porta a Préciémont.
14. Dopo aver percorso pochi metri nella foresta, Thibault si ritrovò tra i suoi lupi che rivide con piacere. Rallentò la corsa, li chiamò, e i lupi gli si affollarono intorno. Come un pastore fa con le sue pecore, o un battitore con i suoi cani, Thibault propinò loro qualche colpetto benevolo, qualche parola affettuosa. Era il suo gregge, la sua muta! Gregge dagli occhi fiammeggianti, muta dagli sguardi lampeggianti. Sopra la sua testa, tra i rami secchi degli alberi saltellavano e svolazzavano i barbagianni dal lamentoso stridio, le civette dal verso funereo. E tra i rami, come carboni alati, scintillavano gli occhi degli uccelli notturni. Thibault si trovava al centro di un cerchio infernale. Come i lupi venivano a sdraiarsi ai suoi piedi, così i gufi e le civette, attratti da lui, gli sfioravano i capelli con le loro ali silenziose. «Ah, ah», mormorò Thibault, «non sono dunque nemico di tutte le creature! Se gli uomini mi detestano, gli animali mi amano!» Ma dimenticava quale posto tenessero, nella catena degli esseri creati, gli animali che lo amavano. Non ricordava che quegli animali di solito odiano l'uomo e che l'uomo li maledice. Non rifletteva che quegli animali lo amavano perché lui era diventato, fra gli uomini, quello che tra gli animali erano loro. Un essere nella notte! Un predatore! Amico di quegli animali, non poteva fare un solo atomo di bene, ma in cambio poteva fare molto male... E Thibault sorrise al pensiero del male che poteva fare! Si trovava ancora molto lontano dalla sua casupola ed era stanchissimo; gli venne in mente una grande quercia cava che stava in quei paraggi, e verso quella si incamminò. Se non avesse conosciuto la strada, i lupi gliela avrebbero indicata; sembrava quasi che avessero indovinato la sua intenzione. Trottavano davanti a lui come battistrada, mentre civette e gufi saltellavano di ramo in ramo, quasi a illuminargli il cammino. La quercia era vecchia di secoli, non di anni: gli alberi che vivono dieci, venti, trenta esistenze umane, non dividono il tempo, come gli uomini, in giorno e notte, ma in stagioni. L'autunno è il loro crepuscolo, l'inverno la loro notte, la primavera è l'alba, l'estate il giorno. Quaranta uomini insieme, a catena, non sarebbero riusciti a circondare il tronco della quercia, e la cavità che il tempo aveva formato con la punta della sua falce, era grande come una stanza. Sebbene l'ingresso fosse appena sufficiente a lasciar passare un uomo, Thibault scivolò dentro con facilità. Trovò il sedile che conosceva, tagliato
nello spessore del tronco; vi sedette comodamente come su una poltrona, augurò la buona notte ai lupi e ai barbagianni, poi chiuse gli occhi e si addormentò, o parve addormentarsi. I lupi si sdraiarono in cerchio intorno all'albero, e i gufi e le civette si appollaiarono sui rami. Con quelle luci sparse ai suoi piedi e tra i rami, la quercia sembrava illuminata per una qualche festa demoniaca. Era giorno alto quanto Thibault si svegliò. I lupi erano tornati alle loro caverne, le civette e i gufi alle loro rovine. Un raggio di sole pallido, ma che si annunciava come un messaggero della primavera, s'insinuava tra i rami spogli degli alberi facendo brillare l'oscuro fogliame del vischio. Da lontano giungeva un vago suono di musica che a poco a poco si avvicinava: si potevano distinguere, nel concerto, le voci di due violini e di un oboe. Dapprima Thibault credette di sognare ma, poiché splendeva il sole ed egli si sentiva nel pieno delle sue facoltà mentali, si rese conto, suo malgrado, di essere sveglio. Tanto più che quei suoni villerecci si avvicinavano con una certa rapidità. Un uccellino rispondeva al concerto degli uomini con il concerto di Dio. Un fiore, un bucaneve, brillava come una stella vicino a un cespuglio, e il cielo era di un limpidissimo azzurro primaverile. Che cosa significava quella festa di primavera in pieno inverno? Tanta bellezza della natura aumentò il cattivo umore di Thibault, il quale avrebbe voluto che il mondo intero fosse nero e cupo come la sua anima. Come sfuggire a quella festa campestre? Una potenza più forte di lui lo inchiodava al suolo... Si nascose meglio dentro il tronco della quercia e attese. Ogni tanto risuonava un colpo di fucile, scoppiava un petardo. Si trattava certo di un matrimonio al villaggio vicino... Infatti, a un centinaio di metri da lui, vide sbucare dalla strada di Ham un corteo di gente in abiti festivi, preceduto da una specie di banda. Vide, qualche contadino, qualche garzone che, dalla livrea, riconobbe per famigli del Barone Jean de Vez; poi Engoulavent che dava il braccio a una donna anziana e il maggiordomo del castello che dava il braccio alla sposa. Sulla sposa Thibault fissò i suoi occhi stralunati... Si ostinava a non riconoscerla, ma gli era ormai così vicina che non poteva farne a meno... la sposa era... Angeletta! E per colmo di umiliazione, come ultimo colpo al suo orgoglio, non un'Angeletta pallida, tremante, trascinata all'altare con la violenza, ma un'Angeletta allegra come l'uccellino che cantava poco prima, come il bucaneve che fioriva nel cespuglio, come quel raggio di sole che brillava nel
cielo. Angeletta, fiera della sua corona di fiori d'arancio, del suo velo di tulle, del suo abito di candida mussolina! Angeletta sorridente come la Vergine della chiesa di Villars quando la vestono di bianco per il giorno della Penitenza. Tutto quel lusso proveniva, senza dubbio, dalla castellana di Vez, dalla moglie del Barone Jean, che veniva considerata una santa per la sua bontà e generosità. Ma Angeletta non era allegra e sorridente per il grande amore che provava per il suo sposo, no, era soltanto contenta di aver finalmente trovato quello che Thibault le aveva, con tanta crudeltà, promesso e non mantenuto; un appoggio per la sua vecchia nonna cieca. I suonatori, gli sposi, gli invitati, sbucarono sulla strada a pochi passi da Thibault, ma nessuno scorse, nel cavo dell'albero, quella testa dai capelli di fuoco, quello sguardo lampeggiante. Il corteo, come era giunto, scomparve. La foresta fu di nuovo deserta. Thibault era rimasto in compagnia dell'uccellino che cantava, del fiore che sbocciava, del raggio di sole che brillava, ma un nuovo inferno si era scatenato nel suo cuore. Il più terribile di tutti, quello dal veleno più corrosivo: l'inferno della gelosia! Rivedendo Angeletta così fresca e graziosa, così innocentemente felice, e soprattutto ritrovandola mentre stava per appartenere a un altro, Thibault, che da tre mesi non pensava più a lei, Thibault che non si era mai sognato di mantenere la sua promessa, s'immaginò di non aver mai cessato di amarla! Angeletta che gli sfuggiva, acquistava in quel momento ai suoi occhi virtù, qualità, vantaggi mai sospettati quando, per possederla, avrebbe dovuto soltanto pronunciare una parola. La sua muta disperazione non fu che più tetra e tacita. Si morse le mani, batté il capo contro il tronco dell'albero, pianse, singhiozzò. Ma quelle lacrime e quei singhiozzi, ispirati più dalla rabbia che dal rimpianto, non riuscirono a scacciare l'odio dall'anima di Thibault. Pretendeva di adorare Angeletta e si lamentava per averla perduta, ma la sua ira l'avrebbe vista volentieri cader morta insieme al fidanzato ai piedi dell'altare dove il prete stava per unirli. Tuttavia ben presto lo zoccolaio arrossì delle sue lacrime, e si vergognò dei suoi singhiozzi. Ricacciò le une e gli altri, e uscì dal suo covo, la testa in fiamme, slanciandosi verso la sua bicocca. La corsa veloce parve sollevarlo per un momento. Entrò come una tigre nella capanna, sbatté l'uscio dietro di sé e si accovacciò nell'angolo più buio del miserabile abituro. Là, i gomiti puntati sulle ginocchia e il mento tra le mani, cominciò a riflettere. Ripensò ai sogni che da sempre gli avevano sconvolto l'animo, che
avevano portato alla disperazione tanti uomini prima di lui. Perché gli uni nascono umili, e altri potenti? Perché tanta disparità nella nascita, un fatto così semplice e assolutamente identico in tutti i gradini della scala sociale? Come correggere questo gioco della natura in cui il caso tiene eternamente in suo potere le carte dell'uomo? Forse imitando i giocatori senza scrupoli, barando? Aveva agito così anche lui, ma che cosa ci aveva guadagnato? Quale vantaggio gli aveva procurato, inoltre, il fatale e misterioso potere di provocare il male a suo piacimento? Angeletta gli era sfuggita. La mugnaia lo aveva messo alla porta, il Balivo lo aveva scoperto. Il primo desiderio da lui espresso aveva provocato la morte di Marcotte, ma gli aveva negato quel cosciotto di daino tanto ambito, origine prima delle sue voglie deluse. Era stato obbligato ad abbandonare il daino ai cani del Barone per metterli su una falsa pista del lupo nero. E poi, quel moltiplicarsi di capelli diabolici diventava spaventoso! In definitiva, quanti desideri avrebbe potuto ancora formulare? Sette o otto al massimo. In contraccambio, Thibault non osava più guardarsi nello stagno che dormiva ai piedi di un albero nella foresta, e neppure nel misero specchio appeso al muro della sua bicocca. Temeva di intuire con troppa esattezza la durata del suo malefico potere. Preferiva nascondersi nella notte, non vedere l'alba che sarebbe sorta dopo quella notte... Ma doveva pur trovare il modo di ottenere che il male altrui gli fruttasse un qualsiasi beneficio! D'altra parte, in quel momento lo zoccolaio non era in grado di combinare o decidere nulla, tanto la gelosia lo dilaniava... Vedeva con gli occhi della mente Angeletta che, ai piedi dell'altare, si legava per tutta la vita a un uomo che non era lui. E a chi, poi? A quel miserabile Engoulevent che lo aveva scoperto nascosto sull'albero, e che aveva trovato nel cespuglio lo spiedo causa dei dolorosi colpi ricevuti, senza contare la tortura morale, l'umiliazione. Se non fosse stato preda di desideri troppo ambiziosi, quale felicità sarebbe stata la vita per lui, abile operaio capace di procurarsi buoni guadagni, insieme a una moglie graziosa, onesta e brava come Angeletta! Senza dubbio era stato lui il primo uomo che Angeletta aveva amato, e forse lo amava ancora, mentre stava sposando un altro. In questi amari pensieri il tempo scorreva; sopraggiunse la notte. Per modesta che fosse la situazione degli sposi, certo in quel momento, seduti a tavola con parenti e amici, stavano consumando un allegro pasto. Mentre lui era solo e triste! Nessuno gli preparava la cena, e in casa c'era solo pane e acqua. A ben pensarci, perché mai non avrebbe potuto pranzare anche lui allegramente e con abbondanza? Non poteva forse recarsi dove voleva?
Non aveva in tasca il prezzo dell'ultima selvaggina venduta al proprietario dell'albergo? E non poteva spenderlo tutto in una lauta cena? «Sono proprio uno stupido», si disse Thibault, «a tormentarmi il cervello con la gelosia e lo stomaco con la fame, quando fra un'ora, con un pasto abbondante e due o tre bottiglie di buon vino, non penserò più a nulla! Andiamo a mangiare, e soprattutto a bere!» Thibault s'incamminò verso Ferté-Milon, dove all'insegna del «Delfino d'Oro» prosperava una trattoria il cui cuoco superava in fama lo Chef di Sua Altezza Serenissima il Duca d'Orléans. 15. Giunto alla locanda del Delfino d'Oro, Thibault ordinò il miglior pranzo che potesse immaginare. Avrebbe potuto chiedere una saletta riservata, ma non vi avrebbe goduto il suo trionfo. Tutti dovevano vederlo gustare il pollastro giovane, l'anguilla marinata; bisognava che gli altri bevitori invidiassero quell'uomo che si offriva tre vini diversi in tre bicchieri di forme differenti! E che ascoltassero il tono altero dei suoi ordini e il tintinnio delle sue monete d'argento. Al primo ordine, un tipo che stava scolando una bottiglia nell'angolo più appartato della sala, si voltò come se avesse riconosciuto la voce. Quell'uomo infatti era un amico di Thibault, un amico di osteria, beninteso. Voltò in fretta il viso contro il muro, ma Thibault lo aveva riconosciuto; era il cameriere personale del Conte Raoul di Vauparfond. «Ehi, Francesco!», gridò lo zoccolaio. «Che fai in quell'angolo, imbronciato come un frate durante la Quaresima?» Francesco non rispose, anzi, gli fece segno di tacere. «Tacere? Tacere?», protestò Thibault. «E se non mi garba? Se voglio parlare? Se mi annoio a pranzare da solo? Se ti voglio invitare al mio tavolo? Non ci vuoi venire al mio tavolo? Allora vengo io da te!» Thibault si alzò, seguito dagli sguardi di tutti gli avventori, e andò a battere la mano sulla spalla dell'amico Francesco. «Fingi di esserti sbagliato, Thibault, o mi farai perdere il posto... Non vedi che non indosso la livrea ma il mio cappotto grigio? Sono qui per una faccenda delicata che riguarda il mio padrone... Aspetto un biglietto amoroso che devo consegnargli.» «In questo caso, ti chiedo scusa per l'indiscrezione, mi avrebbe fatto davvero un gran piacere pranzare con te!»
«È molto semplice: fa' servire il pranzo in una saletta riservata e dirò al trattore che se entra un uomo vestito esattamente come me, lo lasci salire. Tra amici, i misteri non esistono!» «D'accordo», assentì Thibault e, chiamato il padrone, fece portare il pranzo al primo piano, in una saletta la cui finestra dava sulla strada. Francesco prese posto in modo da poter scorgere dalla finestra l'uomo che aspettava. Il pranzo già ordinato da Thibault era più che sufficiente per due persone. Vi aggiunse solo un paio di bottiglie di vino in più: doveva dimenticare i suoi dispiaceri e contava sul vino per riuscirvi, a parte il fatto che considerava una vera fortuna avere incontrato un amico con il quale poter chiacchierare, giacché, nella situazione di cuore e di spirito di Thibault, ci si ubriaca di parole come di vino. Appena la porta fu chiusa, Thibault prese il toro per le corna. «Dunque, amico, vuoi spiegarmi il significato delle tue parole? Non ti ho capito.» «Non mi meraviglio», ribatté Francesco, appoggiandosi con sussiego alla spalliera della sedia. «Noi servitori di nobili casate parliamo il linguaggio della Corte, e non tutti lo comprendono.» «Ma, se ti spieghi, posso arrivarci! Intanto, vuoi dirmi perché non porti la livrea, ma questa orribile redingote grigia?» «Perché non venga riconosciuta la livrea del mio padrone, se dovesse capitare di far la guardia dietro una colonna o nel vano di una porta!» «Allora in questo momento sei di sentinella? E chi deve arrivare a darti il cambio?» «Sto aspettando un mio collega, che si trova al servizio della Contessa di Mont-Gobert.» «Adesso comincio a ritrovarmi... Il tuo padrone, il Signor di Vauparfond, è innamorato della Contessa di Mont-Gobert! E tu aspetti una lettera della nobile dama, che Champagne deve consegnarti. Tutto è chiaro! Felice e bell'uomo il Conte Raoul tuo padrone, e accidenti che bella creatura la Contessa!» «La conosci?», chiese Francesco. «L'ho vista andare a caccia insieme a Monsignore il Duca d'Orléans e a Madama di Montesson.» In quel momento Francesco, posando il bicchiere, lanciò un'esclamazione: aveva scorto Champagne. Aprirono la finestra e chiamarono il compagno, il quale capì subito, con la rapidità d'intuizione tipica dei servitori di nobili famiglie, e salì nella saletta riservata. Vestito anche lui di grigio, era
latore di un messaggio. «Allora», domandò Francesco a Champagne, «l'appuntamento è per questa sera?» «L'hai detto!», rispose allegramente Champagne. Simile comunione di felicità tra servi e padrone stupì Thibault, il quale chiese a Francesco: «La fortuna del tuo padrone con le donne ti rende davvero felice?». «No, ma quando il Conte di Vauparfond è occupato, io sono libero. Pur essendo un servo, anch'io impiego il mio tempo come posso e faccio le mie conquiste!», rispose Francesco con una certa fierezza. «Io», rispose il nuovo venuto, guardando controluce il color rubino del vino, «spero di non perdere il mio tempo.» «Allora, ai vostri amori! Quanto a me», osservò lo zoccolaio con un'espressione di odio profondo per l'umanità intera, «sono il solo a non amare nessuno e a non essere amato da nessuno.» I due servitori lo guardarono con un certo stupore, poi Francesco si arrischiò a dire: «Ma allora è vero quello che si mormora sia a Mont-Gobert che a Vauparfond?». «E», chiese Thibault, «che cosa si dice?» «Che sei un Lupo Mannaro!» Thibault scoppiò in una risata. «Andiamo, via! Ho forse la coda e gli artigli? O forse sarei un incantatore di lupi come ci sono gli incantatori di serpenti?» «Mah...!», fece Champagne. «Noi ripetiamo quello che si dice in giro...» «In ogni caso ammetterete che per essere un Lupo Mannaro, vi offro un ottimo vino.» «Questo è vero!», annuirono i due con entusiasmo. «Alla salute del Diavolo che ce lo procura, signori!» Ma i due uomini, che stavano per alzare i bicchieri, li appoggiarono sulla tavola. «Cerca qualcun altro che abbia voglia di bere alla salute del Diavolo», disse Francesco. «Per me, ne faccio volentieri a meno. E tu, Champagne?» «Come te!» «Allora berrò da solo i tre bicchieri!», e Thibault li tracannò d'un fiato tutti e tre. «Amico Thibault», riprese Francesco, dopo un breve silenzio, «dobbiamo lasciarti. Il mio padrone mi aspetta con impazienza. La lettera, Cham-
pagne? Grazie.» «E ora congediamoci dal nostro amico Thibault e torniamo alle nostre faccende o ai nostri piaceri, lasciando Thibault ai suoi.» Nel pronunciare queste ultime parole, Francesco ammiccò a Champagne, che a sua volta ammiccò. «Ehi, via!», protestò lo zoccolaio. «Non vorremo separarci senza bere insieme un ultimo bicchiere!» «Beviamolo pure, ma non in questi, di bicchieri», disse Francesco, indicando i calici che erano serviti a brindare alla salute del nemico del genere umano. «Come siete difficili! Chiamate il sacrestano e fateli lavare con l'Acqua Benedetta!» «Ora esageri... Per non rifiutare una cortesia a un amico, chiameremo il cameriere perché ne porti altri tre.» «Il che significa», gridò Thibault che cominciava a essere sbronzo, «che questi vanno buttati dalla finestra!» E scagliò fuori dalla finestra il primo bicchiere il quale tracciò nell'aria un solco luminoso che si spense subito, come un lampo. Poi il secondo, che prese fuoco e si spense come il primo in un baleno, e infine il terzo. Questo lancio fu accompagnato da un violento tuono. Thibault si affrettò a chiudere la finestra, e sedette di nuovo, non sapendo come spiegare il prodigio agli amici. Ma questi si erano già dileguati. «Vigliacchi!», mormorò lo zoccolaio. Poi cercò un altro bicchiere sulla tavola ma, non trovandolo, si attaccò alla bottiglia il che non contribuì certo a restituire l'equilibrio al suo cervello già vacillante. Alle nove Thibault chiamò il trattore, pagò il conto e uscì di pessimo umore contro l'umanità intera, ossessionato ancora dall'idea che invano aveva tentato di mettere da parte: con il trascorrere del tempo, Angeletta si allontanava sempre di più dalla sua vita! Quel giorno di rabbia e di disperazione per lui, era per gli altri un giorno di gioia e di felicità. In quel momento, tutti, il nobile Raoul, Francesco e Champagne (due miserabili servi!), inseguivano la stella luminosa della felicità. Lui soltanto si muoveva nelle tenebre! Era dunque un essere maledetto; in tal caso, i piaceri dei maledetti gli spettavano di diritto, e poteva ben reclamarli! Così riflettendo, bestemmiando ad alta voce e minacciando il cielo con i pugni alzati, Thibault prese, nella foresta, il sentiero che conduceva alla sua bicocca. Vi si stava avvicinando, quando udì alle proprie spalle il galoppo di un cavallo.
«Ah, Ah», si disse, «ecco il Signor di Vauparfond che si reca al suo appuntamento! Come riderei di cuore, nobile Conte Raoul, se il Signor di Mont-Gobert vi sorprendesse! Ah, sarebbe una cosa ben diversa che con Mastro Magloire! Questa volta brillerebbe la lama delle spade!» Pensando a quello che sarebbe avvenuto se il Conte di Mont-Gobert avesse colto in flagrante sua moglie e il Conte di Vauparfond, Thibault, che camminava in mezzo alla strada, non si trasse da parte, forse, con sufficiente rapidità: il Cavaliere, scorgendo quella specie di villano che gli sbarrava il passo, gli allungò una frustata, gridando: «Scostati, briccone, se non vuoi che ti schiacci!». Dal profondo della sua ebbrezza non ancora evaporata, Thibault sentì la sferza dello scudiscio, l'urto del cavallo, e infine il freddo dell'acqua e del fango nel quale stava rotolando. Il Cavaliere passò oltre. Thibault, furibondo, si levò sui ginocchi e mostrando il pugno all'ombra che correva via, urlò: «In nome del Diavolo, non potrò essere mai, neanche una volta o soltanto per un giorno, un gran signore come il Conte Raoul di Vauparfond, invece di rimanere Thibault lo zoccolaio?! Non potrò mai possedere un buon cavallo invece di andare a piedi? Sferzare i villani che trovo sulla mia strada, e corteggiare le belle dame che tradiscono i loro mariti, come fa la Contessa di Mont-Gobert?!». Appena espresso questo desiderio, il cavallo del Conte Raoul inciampò mandando il suo cavaliere a ruzzolare a qualche passo di distanza. 16. Nell'assistere all'incidente occorso al nobile giovane che poco prima, con indubbia leggerezza, lo aveva gratificato di una scudisciata, Thibault, tutto allegro, corse a vedere in quale stato si trovasse Raoul di Vauparfond. Un corpo inerte stava steso di traverso sulla strada, e accanto a lui il cavallo sbuffava. Ma ciò che più fece impressione a Thibault fu il fatto che quel corpo non era più quello passato vicino a lui pochi minuti prima. L'uomo a terra, infatti, era vestito da contadino, e gli abiti che indossava erano quelli stessi che, poco prima, indossava lui stesso, Thibault. E, ancora più prodigioso, quel corpo inerte non soltanto indossava i suoi abiti, ma aveva il suo volto. Dallo stupore, cominciò a esaminarsi attentamente. Le sue gambe erano adesso racchiuse in un elegante paio di stivali alla francese, morbidi come
calze di seta e dagli speroni d'argento. I suoi calzoni, invece di essere di velluto a coste, erano della più bella pelle di daino, chiusi sotto il ginocchio da fibbie d'oro. La sua giubba di grosso panno color oliva aveva ceduto il posto a una elegante casacca da caccia verde con alamari d'oro, sopra un panciotto di fine panno color nocciola, e tra i risvolti, sopra una camicia pieghettata con arte, ondeggiavano i due capi di una larga cravatta di seta. Perfino il suo berretto si era trasformato in un bel tricorno bordato di un gallone d'oro. E, invece del solito bastone da difesa, stringeva nella mano un elegante scudiscio. Thibault si sentiva così felice di indossare un insieme di raffinata eleganza che, cedendo a un sentimento di civetteria ben naturale, desiderò di contemplarsi al più presto in uno specchio per controllare se quel cambiamento d'abito gli donava.... Già, ma come e dove trovare uno specchio? Guardandosi intorno, si accorse di trovarsi a pochi passi dalla sua bicocca. «Eh, diamine!», esclamò. «Nulla di più semplice! Non c'è forse il mio specchio?», e si lanciò verso la sua abitazione con il desiderio narcisistico di contemplare la sua nuova eleganza. La porta della bicocca era chiusa a chiave, e Thibault cercò invano la sua chiave... Nelle tasche della casacca che indossava trovò una borsa gonfia di denaro, una scatoletta d'oro per le pastiglie e un piccolo temperino con il manico d'oro e madreperla. Che diavolo ne aveva fatto della sua chiave? Un'idea gli balenò nel cervello: la chiave si trovava sicuramente nelle tasche dell'altro Thibault, quello steso in mezzo alla strada! Tornò sul posto, frugò nelle tasche dei calzoni, e in mezzo a una manciata di spiccioli, trovò la chiave. In un baleno fece ritorno alla casupola, dove il buio era adesso più fitto che nella foresta. A tastoni cercò l'acciarino, la pietra, l'esca e, dopo poco, un mozzicone di candela infilato nel collo di una bottiglia, faceva luce. Per accendere la candela, Thibault aveva dovuto toccarla con le dita. «Che maiali questi contadini!», mormorò. «Come possono vivere in un simile sudiciume?» Avvicinò la candela allo specchio e gettò un grido di sorpresa. Non era più lui; o meglio era pur sempre la sua personalità, ma non più il suo corpo. Il corpo dove continuava ad albergare il suo spirito, era quello di un bel giovane sui venticinque anni dagli occhi azzurri, le guance rosee, le labbra vermiglie, i denti candidi: il corpo, insomma, del Conte di Vauparfond! Gli tornò in mente all'improvviso il desiderio formulato in un moto d'ira, dopo l'urto del cavallo e la frustata del Conte: aveva desiderato di essere, almeno per ventiquattro ore, il Conte di Vauparfond, e che il Conte di
Vauparfond diventasse Thibault. «Diavolo! Attenzione! Sembra che io sia qui, mentre in realtà sono laggiù... E devo stare attento che non mi accada qualche irreparabile disgrazia durante le ventiquattro ore nelle quali non sarò io. Presto, presto, bando alle ripugnanze, Signor di Vauparfond: trasportiamo qui quel povero Thibault e mettiamolo sul suo letto!» Sebbene i suoi nuovi sentimenti aristocratici si ribellassero, Thibault prese se stesso tra le braccia e dalla strada si trasportò sul proprio letto. Dopo avere adagiato per bene il corpo inerte, spense la candela per timore che non accadesse un malanno a quell'altro se stesso, chiuse con cura la porta uscendo, e nascose la chiave nel buco di un albero, come aveva l'abitudine di fare quando non voleva portarla con sé. Infine, prese il cavallo per la briglia e saltò in sella, non senza una certa preoccupazione. Thibault, che aveva sempre camminato a piedi più che a cavallo, non era un cavaliere consumato, e temeva di non riuscire a conservare, in sella, il suo centro di gravità. Ma ebbe la piacevole sensazione di avere ereditato, insieme al corpo di Raoul, anche le sue qualità fisiche: senza troppi timori, si trovò a essere un cavaliere perfetto. Questa vittoria lo aiutò a rendersi meglio conto del suo dualismo. Quanto al corpo, era dalla testa ai piedi il Conte di Vauparfond, ma per lo spirito era rimasto Thibault. Evidentemente, dunque, nel corpo di Thibault, rimasto svenuto nella bicocca, dormiva lo spirito del giovane signore che gli aveva prestato il suo corpo! Tali ragionamenti, però non lo aiutavano a capire quale fosse ora il suo compito. Sapeva di doversi recare a Mont-Gobert a causa di una lettera della Contessa, ma che cosa c'era scritto in quella lettera, e perché ora era atteso? D'un tratto pensò che senza dubbio la lettera scritta dalla Contessa doveva trovarsi su di lui. Si tastò da ogni parte, e infatti sentì qualcosa in una tasca laterale della casacca. Fermò il cavallo, rovistò nella tasca e ne estrasse un piccolo portafoglio in pelle, foderato di seta. In uno degli scomparti trovò la lettera... ma si trattava di leggerla! A pochi centinaia di metri sorgeva il villaggio di Flery; il nostro amico lo raggiunse al galoppo, sperando di trovare ancora illuminata qualche casa; ma nei villaggi la gente si corica di buon'ora e Thibault lo percorse tutto senza trovare traccia di luci. Finalmente gli parve di sentire del rumore nella scuderia di una locanda. Chiamò, e vide comparire un garzone con una lanterna in mano. «Amico mio», disse Thibault, dimenticando che in quel momento era un gran signore, «mi faresti il piacere di farmi luce per un istante?»
«Per questo mi hai fatto saltar giù dal letto?», rispose sgarbatamente il garzone, e voltando la schiena a Thibault, stava per rientrare nella scuderia quando il nostro eroe si rese conto di aver sbagliato. «Ehi, tu, briccone, avvicinati con quella lampada e fammi luce, se non vuoi ricevere venticinque frustate!» «Oh, scusate, signore, non sapevo con chi stessi parlando...», e alzandosi sulla punta dei piedi, il garzone tenne la lampada in modo che Thibault potesse leggere. La lettera diceva: Amato Raoul, decisamente la Dea Venere ci protegge. Ignoro quale grande caccia sia in progetto domani dalle parti di Thury, ma so che lui parte questa sera. Parti anche tu alle nove per essere qui verso le dieci e mezzo. Entra da dove sai, sarai aspettato da chi sai, e condotto dove sai. Mi è sembrato, sia detto senza rimprovero, che durante l'ultima tua visita, tu ti sia attardato un po' troppo nei corridoi... La tua Jeanette «Diavolo», si disse Thibault dopo che il garzone si fu ritirato, «la lettera non mi dà speciali informazioni, se non che siamo sotto la protezione di Venere, che lui parte questa sera, che sono atteso dalla Contessa che si chiama Jeanette, che entrerò da dove so e che sarò ricevuto da chi so!» Thibault si trovava dunque in gravi difficoltà, ma aveva sentito vantare spesso la sagacia degli animali, e ammirare il loro istinto. Si sarebbe affidato al cavallo! Lo ricondusse sulla strada, lo voltò in direzione di MontGobert, allentò le redini, e il cavallo partì al galoppo. Appena fu a un angolo formato dal muro di cinta, l'animale si fermò, non perché esitasse sulla strada da prendere, ma perché, con le orecchie dritte, sembrava inquieto. Thibault si guardò intorno, non scorse ombra alcuna, e decise di affidarsi completamente alla sua cavalcatura, allentando le redini. Il cavallo, allora, seguì al piccolo trotto il muro di cinta del parco, guardandosi bene dal nitrire, quasi sapesse di non dover far rumore. Si fermò quindi davanti a una piccola breccia che fiutò a lungo, grattando la terra con lo zoccolo. «Di qui dobbiamo passare», pensò Thibault e allentò di nuovo le redini. Lentamente, tra le pietre che rotolavano sotto gli zoccoli, il cavallo riuscì a scavalcare la breccia. Cavallo e cavaliere si trovarono nel parco. Thibault
era passato da dove sapeva! Restava adesso da trovare la persona che sapeva, e anche in questo si affidò all'animale. Dopo cinque minuti, il cavallo si fermò a una certa distanza dal castello, non lontano da un piccolo chiosco. Al rumore degli zoccoli, la porta si era dischiusa e, proprio mentre il cavallo si fermava, ne uscì una graziosa cameriera. «Siete voi, signor Raoul?», chiese a bassa voce. «Sono io, sono io...», mormorò Thibault, mettendo il piede a terra. «Lasciate pure il cavallo e seguitemi.» «E chi si occuperà...?» «Ma... chi se ne occupa di solito... Gervasio.» «Già», fece Thibault, come se quei dettagli gli fossero familiari. «Se ne occuperà Gervasio.» «Andiamo, andiamo!», lo sollecitò la ragazza. «Sbrighiamoci, o la Contessa dirà ancora che ci siamo fermati nei corridoi!» Pronunciando queste parole, che ricordarono a Thibault una frase della famosa lettera, la giovane rideva, mostrando due file di denti simili a perle. Thibault avrebbe avuto una gran voglia di fermarsi non nei corridoi, ma addirittura nel parco. La cameriera, dal canto suo, restò un attimo in ascolto. «Che accade?», chiese Thibault. «Mi sembrava di aver sentito scricchiolare un ramo sotto i piedi di qualcuno...» «Ah», disse Thibault. «Sarà sotto il piede di Gervasio!» «Ragione di più perché facciate il bravo, signor Raoul... almeno qui. Gervasio è il mio fidanzato... Andiamo!» «Già, è vero, ma tutte le volte che mi trovo solo con te, mia piccola rosa, lo dimentico.» «Ecco, ora mi chiama Rosa! Signor Conte, non ho conosciuto persona più distratta di voi!» «Ti chiamo Rosa, perché la rosa è la regina dei fiori, come tu sei la regina delle cameriere!» «A dir la verità, signor Conte, siete sempre un uomo di spirito, ma questa sera superate voi stesso!» Si trattava di un complimento rivolto al Conte, ma che lo zoccolaio colse al volo. «Purché la tua padrona sia dello stesso parere!» «Oh, con le gran dame», replicò sorridendo la cameriera, «è facile essere l'uomo più spiritoso del mondo... basta tacere!» «Bene, bene, mi ricorderò della ricetta!»
«Zitto», bisbigliò la ragazza. «Non vedete là, dietro le tende dello spogliatoio, la signora Contessa? Via, seguitemi tranquillamente.» Si trattava di attraversare uno spazio vuoto tra il folto del parco e la gradinata del Castello verso la quale Thibault stava dirigendosi. «Signor Conte!», esclamò la cameriera afferrandolo per un braccio. «Ma che cosa fate? Non vorrete passare attraverso i saloni!» E trascinò Thibault in direzione di una porticina, a destra della quale si trovava una scala a chiocciola. Giunto a metà della scala, Thibault passò il braccio intorno alla vita della ragazza, flessibile come un giunco. «Non siamo forse nei corridoi?», domandò, cercando con le labbra il fresco viso della cameriera. «Non ancora, ma non importa...» «In fede mia», mormorò il nostro eroe, «se questa sera mi chiamassi Thibault invece di Raoul, giuro che salirei fino alle soffitte invece di fermarmi al piano nobile!» Si udì cigolare una porta. «Presto, presto, signor Conte!», sussurrò la cameriera. «La Contessa è impaziente!» E trascinando Thibault con sé, raggiunse il corridoio, aprì un uscio, e spinse il suo compagno in una stanza, chiudendo la porta dietro di lui, fermamente convinta di averla richiusa sul Conte di Vauparfond; sull'uomo, cioè, più smemorato della terra! 17. Thibault entrò nella camera della Contessa. Se la magnificenza dei mobili del Balivo Magloire, prelevati dal deposito del Duca d'Orléans, lo aveva stupefatto, la freschezza, l'armonia, il gusto di quella stanza lo entusiasmarono. Mai quel rozzo abitante della foresta avrebbe potuto sognare nulla di simile! Le due finestre erano velate da doppie tende, di seta e merletto. Il letto e la toeletta erano drappeggiati di seta bianca e celeste, ricamata a fiori d'argento. Sulle pareti, tappezzate di seta rosa chiaro, pendevano drappeggi di una mussolina leggera come aria tessuta, che al minimo soffio di vento fluttuavano, simili a tenui vapori. Tutti i mobili erano ricoperti da una seta di Cina simile a quella dei tendaggi, e un grande tappeto color verde acqua, cosparso di fiori, si stendeva sul pavimento. Sei candele di cera rossa, in due grandi candelabri d'argento, illuminavano di morbida luce la stanza, nella quale aleggiava un delica-
to profumo, vago e indefinibile. In un solo sguardo, in un solo respiro, lo zoccolaio aveva visto e aspirato tutto. Come una visione, erano passati davanti ai suoi occhi la Casina di Angeletta, la sala della mugnaia Polet, la stanza del Balivo... ma tutto era scomparso in un lampo, e Thibault ancora dubitava di quello che vedeva; si domandava se veramente esistevano uomini e donne privilegiati al punto di abitare in dimore come quella... Che cosa avevano fatto di straordinario per beneficiare di un simile privilegio? Che cosa avevano fatto di male coloro che ne erano privati? Come avrebbe potuto tornare nella pelle di Thibault, dopo aver visto quelle meraviglie? A questo punto delle sue riflessioni, la porta dello spogliatoio si aprì e la Contessa apparve: era veramente il fiore di quella profumata serra. Una parte dei capelli, sciolti, erano appuntati soltanto con qualche forcina di brillanti, mentre altre ciocche, arrotolate in un grosso boccolo, scendevano a perdersi sul seno. Il suo corpo esile e flessibile era avvolto in una veste da camera di seta rosa guarnita di pizzi. I piedini calzavano pantofole di stoffa d'argento, con il tacco color ciliegia. Non portava gioielli se non al collo, un filo di grosse perle... Ma che perle! Il riscatto di un re! Scorgendo quella radiosa apparizione, Thibault cadde in ginocchio, curvandosi sotto il peso della bellezza e del lusso che gli sembravano inseparabili. «Oh, sì, mettiti in ginocchio, bacia i miei piedi, il tappeto, la terra, e ancora non ti perdonerei! Sei un mostro!» «Se mi paragono a voi, signora, sono certo assai peggio di un mostro.» «Oh, fingi pure di non comprendere il significato delle mie parole! Non intendo parlare del fisico, ma del morale! D'accordo, dovresti essere un mostro di bruttezza se la tua perfida anima trasparisse dal tuo viso, ma purtroppo non è così! Il signore, nonostante tutti i misfatti e le sue infamie, è pur sempre il più bel gentiluomo dei dintorni! Insomma, dovresti vergognarti di essere l'anima più nera, il cuore più perfido che possano nascondersi sotto un involucro incantevole! Alzati e viemmi vicino per rendermi conto della tua condotta!» E la Contessa tese a Thibault una mano che offriva il perdono, e chiedeva un bacio. Thibault afferrò quella morbida mano e la baciò; mai le sue labbra avevano sfiorato una simile seta. La Contessa invitò quindi il falso Raoul a prender posto accanto a lei sul divanetto d'angolo. «Raccontami dunque ciò che hai fatto dopo l'ultimo nostro incontro!» «Innanzi tutto», rispose Thibault, «da quando data il nostro ultimo incontro?»
«Ah, lo hai dimenticato? Però! Non si confessano queste smemoratezze a meno che non si venga a cercare una rottura!» «Al contrario, mia cara, quella visita è così presente al mio spirito che mi sembra sia di ieri, e per quanto cerchi di radunare i miei ricordi, non ho commesso altro delitto, da ieri, se non quello di amarvi!» «Niente male, niente male.. ma non te la caverai con un semplice complimento!» «Mia cara», sospirò Thibault, «e se rimandassimo a più tardi le spiegazioni?» «No, prima devi rispondere! Non ti vedo da cinque giorni: che cosa hai fatto? Bada bene, non parlo delle soste nei corridoi!» «Anzi, parliamone! Amor mio, come puoi supporre che, atteso da te, dal diamante più fulgente di tutti i diamanti, mi possa attardare a raccogliere una perla falsa?» «Eh, mio Dio, gli uomini sono così capricciosi, e Lisetta è così carina!» «No, mia cara, quella figliola è la nostra confidente, e conosce tutti i nostri segreti... solo per questo non posso trattarla come una semplice cameriera.» «E sia! Ma non è tutto. Di dove tornavi, l'altra notte, quando ti hanno visto sulla strada tra Erneville e Villars?» «Tornavo dalla pesca. Eravamo andati a pescare nello stagno di Berval.» «Oh, lo sappiamo bene che sei un gran pescatore! E quale anguilla portavi nella tua rete, tornando dalla pesca alle due del mattino?» «Avevo pranzato dal mio amico Jean de Vez e si è fatto tardi...» «Sono portata a credere, piuttosto, che tu sia andato a consolare la bella reclusa che, a quanto si dice, il geloso Sovrintendente alla caccia tiene prigioniera al castello... e questo, a rigor di termini, potrei ancora perdonarlo... Ma al ballo di Monsignore d'Orléans?» «Quale ballo?» «Quello di ieri sera!» «Quello di ieri sera? Ho ammirato la donna del mio cuore!» «Se non c'ero!» «È forse necessario che tu sia presente perché io ti ammiri? Non si ammira forse la donna amata anche con la memoria? Se, assente, una donna trionfa a confronto delle altre presenti, la vittoria è anche più grande!» «Allora non è vero che hai ballato quattro volte di seguito con la signora de Bonneuil?» «Chi oserebbe smentire le parole uscite da una così adorabile bocca?
Non certo io, che benedirei questa bocca anche se stesse pronunciando la mia sentenza di morte!» E, come per aspettare quella sentenza, Thibault si gettò ai piedi della Contessa. Nello stesso momento, la porta si aprì per lasciar passare la spaventata Lisetta. «Ah, signor Raoul, fuggite, fuggite: ecco il Conte!» «Come, il Conte?!», esclamò la Contessa. «La caccia al castello di Thury era dunque una trappola! Che cosa facciamo?» «Non mi resta che aspettare il Conte e ucciderlo», rispose Thibault, furioso di vedersi sfuggire ancora una volta un'avventura, la più ambita di tutte. «Uccidere il Conte, Raoul? Sei pazzo! No, no, devi fuggire! Lisetta, fallo uscire dallo spogliatoio!» Lisetta, spingendo Thibault nonostante i suoi sforzi per reagire, scomparve con lui. Appena in tempo! Mentre un passo risuonava sullo scalone, la Contessa scivolò nella sua camera. Thibault intanto seguiva Lisetta, che gli fece attraversare rapidamente il corridoio, sorvegliato dal fedele Gervasio. Poi entrò in una stanza, da quella in un'altra, e infine in un salottino che comunicava con una piccola torre. Là trovarono una scala a chiocciola simile a quella per la quale erano saliti poco prima. Ma arrivati in fondo alla scala, ebbero la sgradita sorpresa di constatare che l'uscio esterno era chiuso. Lisetta allora salì qualche gradino, e passò in una specie di tinello la cui finestra affacciava sul giardino. La finestra era bassa e Thibault la scavalcò agevolmente. «Sapete dove si trova il cavallo», sussurrò Lisetta. «Saltate in groppa e non fermatevi che a Vauparfond!» Thibault in due salti raggiunse il gruppo d'alberi dove si trovava il padiglione che serviva da scuderia al suo cavallo. Ma... dove stava il cavallo? Solo quando lo sentì nitrire, si tranquillizzò, sebbene quel nitrito suonasse come una specie di lamento. Thibault accarezzò il cavallo, prese le redini e saltò in groppa; ma ricevendo quel peso, al quale doveva pur essere abituato, il nobile animale per poco non cadde in terra. Invano Thibault gli piantò gli speroni nel ventre per incitarlo... appena egli mosse le gambe, il cavallo gettò un nitrito di dolore, simile a quello di prima, e si adagiò su un fianco. Thibault riuscì a liberare rapidamente la gamba, e solo allora si rese conto che il conte di Mont-Gobert, per impedirgli la fuga, aveva tagliato i garretti alla sua cavalcatura. «Corpo di Bacco!», imprecò. «Se ti incontro, Mont-Gobert, giuro che ti taglierò i garretti come hai fatto tu a questo po-
vero animale!» Si slanciò fuori del padiglione, riconobbe la strada da dove era venuto e che portava alla breccia, la raggiunse in un baleno, la scalò e si trovò fuori del parco. Ma lì vide un uomo, immobile, la spada sguainata, che gli sbarrava il passo. Thibault riconobbe all'istante il Conte di Mont-Gobert, e il Conte credette di riconoscere Raoul di Vauparfond. «Sguainate la vostra spada!», gridò il Conte. Ogni spiegazione era vana, e del resto Thibault, al quale il Conte di Mont-Gobert aveva strappato di mano una preda sulla quale aveva già messo le unghie e i denti, Thibault, dicevamo, non era meno furibondo del suo avversario. Sguainò la spada, ma estrasse anche il suo coltello da caccia. S'incrociarono i ferri. Thibault non aveva la minima idea della nobile arte della scherma; fu perciò molto stupito quando si trovò in guardia secondo tutte le regole. Il Conte sferrò due o tre colpi, che l'altro riuscì a parare con eccezionale abilità. «Infatti», mormorò il Conte a denti stretti, «mi avevano detto che all'ultimo assalto avete toccato Saint-Georges!» Thibault non sapeva assolutamente chi fosse Saint-Georges, ma sentiva nel polso una elasticità, una fermezza, grazie alle quali avrebbe colpito il Diavolo in persona. Sino a quel momento si era limitato alla difesa, ma a un tratto vide il suo avversario scoperto e si lanciò in avanti con impeto, attraversandogli la spalla con un diretto. Il Conte di Mont-Gobert lasciò cadere la spada, si piegò sulla gamba sinistra e cadde con un ginocchio a terra, gridando: «A me, Lestoc!». Thibault avrebbe dovuto ringuainare l'arma e fuggire, ma per sua disgrazia ricordava il giuramento fatto: se mai avesse incontrato il Conte, aveva giurato di tagliargli i garretti come lui aveva fatto al suo cavallo! Fece scivolare la lama sotto il ginocchio piegato e tirò verso di sé. Il Conte lanciò un urlo, ma, rialzandosi, Thibault provò a sua volta un atroce dolore in mezzo alle spalle, e una morsa di ghiaccio gli serrò il petto. Poi, di sotto a una mammella, vide uscire la punta di un coltello... Infine, tutto fu solo una nuvola di sangue! Lestoc, chiamato dal padrone sul punto di cadere, era accorso e aveva approfittato del momento in cui Thibault si rialzava dopo aver tagliato il garretto del conte, per piantargli nella schiena il suo coltello da caccia. 18.
Il freddo dell'alba rianimò Thibault. Cercò di sollevarsi, ma un dolore atroce lo inchiodava al suolo. Spalle a terra, non ricordava più nulla. Al di sopra della propria testa scorgeva soltanto un cielo basso e grigio. Tentò ancora... si sollevò sul gomito, con sforzo, e gettò uno sguardo incerto intorno a sé. Riconobbe la breccia nel parco, ricordò il suo colloquio con la Contessa e l'accanito duello con il Conte. A pochi passi da lui, la terra rosseggiava di sangue, ma il Conte non c'era più. Lestoc, dopo avergli inferto quel colpo a tradimento, aveva certo aiutato il padrone a tornare al castello, abbandonando Thibault alla sua sorte, a rischio di farlo morire solo come un cane. Lo zoccolaio si sentiva sulla punta della lingua tutte le maledizioni che si possono invocare sul più acerrimo nemico, ma da quando Thibault non era più Thibault, e per tutto il tempo che ancora avrebbe impersonato Raoul di Vauparfond, il suo fantastico potere era svanito. Avrebbe almeno vissuto sino alle nove di sera? E se fosse morto prima di quell'ora, chi, sarebbe morto: lui o il Conte Raoul? Oltre a essere tormentato da questi crudeli interrogativi, Thibault ribolliva di rabbia perché sua era la colpa di quanto era accaduto. Ricordava chiaramente che prima di desiderare di trasformarsi in Raoul di Vauparfond per ventiquattro ore, aveva pronunciato queste parole: «Riderò se il Conte di Mont-Gobert dovesse sorprenderti, Conte Raoul! Non sarebbe come ieri dal Balivo Magloire! Questa volta s'incrocerebbero le lame!». Il primo desiderio di Thibault era stato puntualmente esaudito, come anche il secondo: colpi dati e colpi ricevuti non erano mancati! Dopo sforzi inauditi e atroci dolori, finalmente Thibault riuscì ad appoggiarsi su un ginocchio e, in questa posizione, scorse, su una stradina poco lontana, alcune persone che si recavano al mercato di Villars. Tentò di chiamare aiuto, ma la voce gli si spense in gola. Allora piantò il suo cappello in cima al coltello da caccia e fece segnali disperati, come farebbe un naufrago. Ma le forze gli vennero meno e ricadde a terra, svenuto. Dopo un certo tempo, si sentì riavere e aprì gli occhi. Alcuni contadini l'avevano visto e, senza conoscerlo, impietositi davanti a quel bel giovane coperto di sangue, avevano costruito una rozza barella con dei rami d'albero, e lo stavano trasportando così a Villars. Giunti che furono a Puiseux, il ferito si sentì incapace di sopportare più a lungo quel movimento ondulatorio che gli dava una nausea atroce, e pregò i suoi salvatori di lasciarlo in casa di un qualsiasi contadino, e di mandargli un medico. Gli uomini lo deposero presso il parroco del villaggio che in quel mo-
mento stava dicendo Messa. Quando rientrò nelle sue stanze e vide il ferito, il prete lanciò un grido di sorpresa e di disperazione, come se Thibault fosse stato davvero Raoul. Difficile scegliere un luogo migliore. Il parroco di Puiseux, un tempo Vicario a Vauparfond, era stato incaricato della prima educazione di Raoul e, come tutti i parroci, pretendeva di intendersi di medicina. Esaminò subito la ferita del suo antico allievo. La lama, scivolando sotto la scapola, aveva attraversato il polmone destro ed era uscita sul petto, tra la seconda e la terza costola. Il parroco, pur comprendendo la gravità della ferita, non aprì bocca sino all'arrivo del dottore, il quale scosse con tristezza il capo. «Non gli fate nulla?», chiese il parroco al dottore. «A che serve?», rispose il medico. «Appena ferito, forse si sarebbe potuto operare, ma ora, con il sangue in movimento, sarebbe pericoloso.» Dopo un breve silenzio, continuò sottovoce: «Se non interviene un miracolo, probabilmente non passerà la notte...». «Allora è condannato?» «Un medico non condanna mai: lascia sempre alla natura il diritto di intervenire. Tutto può accadere!» «È mio dovere, dunque, preparare questo povero ragazzo alla morte?», chiese il parroco. «Ritengo», replicò il medico alzando le spalle, «che sarebbe meglio lasciarlo in pace. In questo momento è assopito, e oltre tutto non si renderebbe conto... Più tardi, sopravvenendo il delirio, non capirebbe.» Ma il dottore si ingannava. Benché assopito, il ferito aveva seguito il dialogo, più confortante per la salvezza della sua anima che per la salute del suo corpo. Del resto, è una cosa quasi normale... Quante parole vengono pronunciate davanti a un malato grave credendo che lui non senta, mentre in realtà non ne perde una! Forse quella finezza di udito derivava anche dal fatto che lo spirito di Thibault vegliava nel corpo di Raoul. Comunque fosse, il medico raccomandò di tenere costantemente sulla ferita un panno intriso in acqua gelata, e versò in un bicchiere d'acqua alcune gocce di un calmante, da somministrare al malato se avesse chiesto da bere. Poi si congedò, promettendo di tornare l'indomani mattina, sebbene temesse inutile la sua visita. Thibault avrebbe desiderato poter partecipare alla conversazione per dire, a sua volta, ciò che pensava del proprio stato, ma il suo spirito era prigioniero in un corpo moribondo. Sentiva il prete che parlava e lo scuoteva, nel disperato tentativo di strapparlo da quella specie di letargo, e tutto ciò
lo stremava. Ben presto ebbe la sensazione che gli mettessero sotto i piedi, sotto le reni, sotto la testa, un braciere ardente. Il sangue cominciò a muoversi, a ribollire come l'acqua sul fuoco, le idee gli si confusero, cominciò a divagare. Le mascelle chiuse si spalancarono, la lingua si sciolse, dalla bocca gli sfuggirono parole incoerenti. «Ah», si disse, «ecco quello che il dottore chiama delirio!» E fu questo l'ultimo pensiero lucido. Tutto il recente passato passava davanti al suo sguardo spento... Si rivide mentre inseguiva il daino, si vide legato alla quercia mentre lo bastonavano, poi mentre faceva il patto con il Diavolo, e subito dopo mentre tentava invano di infilare l'anello demoniaco al dito di Angeletta. Si rivide ancora mentre tentava di strapparsi i capelli di fuoco che ora invadevano quasi tutta la sua testa. Si rivide mentre si recava dalla bella mugnaia, incontrava suo cugino Landry, si liberava del rivale, e veniva scacciato dalla vedova Polet, inseguito dai garzoni e dalle ragazze del mulino, ma scortato dai suoi amici lupi. Si rivide mentre faceva conoscenza con Madama Magloire e andava a caccia per lei, e si nascondeva dietro i tendaggi della sua stanza, scoperto da Mastro Magloire, beffeggiato dal Barone Jean de Vez, messo alla porta... Rivide la cavità del suo albero, i lupi sdraiati intorno al grosso tronco, i gufi e le civette appollaiati sui rami. Si rivide mentre ascoltava il suono dei violini e dell'oboe, poi mentre sporgeva il capo dal suo rifugio e vedeva passare Angeletta con il gaio corteo di nozze! Si rivide in preda alla gelosia, che aveva cercato di placare con il vino: nel suo cervello sconvolto riconosceva Francesco, Champagne, l'albergatore... Sentiva il galoppo del cavallo del Conte Raoul, si sentiva ruzzolare nel fango della strada. Poi, non vedeva più se stesso, Thibault, ma soltanto il bel cavaliere del quale aveva preso le sembianze. E allora stringeva Lisetta alla vita, sfiorava con le labbra le mani della Contessa... Poi voleva fuggire, ma si trovava a un crocicchio da cui partivano tre strade, e ognuna di queste tre strade era sbarrata da una delle sue vittime. La prima, dallo spettro di un annegato: Marcotte. La seconda, da un agonizzante in un letto d'ospedale, ed era Landry. La terza, da un ferito che si trascinava su un ginocchio, cercando invano di rialzarsi; ed era il Conte di Mont-Gobert. Thibault aveva la strana sensazione di raccontare e descrivere queste visioni via via che gli si presentavano alla mente, e che il prete, al quale si confessava, lo stesse ascoltando e volesse assolverlo, ma lui rifiutava l'as-
soluzione, e scuoteva la testa con un ghigno demoniaco, urlando: «Niente assoluzione per me! Sono dannato! Sono dannato!». In quel delirio, in quella folle allucinazione, lo spirito di Thibault sentiva suonare le ore all'orologio del parroco, e le contava. Gli sembrava che quell'orologio fosse di proporzioni gigantesche, che avesse per quadrante la volta azzurra del cielo, che i numeri delle ore fossero fiamme, che l'orologio si chiamasse «eternità» e che il mostruoso bilanciere che lo faceva muovere dicesse a uno scatto «mai», e all'altro «sempre». Così udì passare tutte le ore della giornata, e infine l'orologio batté le nove di sera. Alle nove e mezzo sarebbero scoccate le ventiquattro ore da quando lui, Thibault, aveva assunto le sembianze di Raoul, e Raoul quelle di Thibault! All'ultimo tocco delle nove, lo zoccolaio sentì che la febbre lo abbandonava e subentrava una sensazione di freddo che lo faceva tremare verga a verga. Aprì gli occhi, e riconobbe il parroco inginocchiato che mormorava ai piedi del letto le preghiere per gli agonizzanti: la pendola segnava le nove e un quarto... I sensi di Thibault avevano acquistato una tale acutezza da permettergli di vedere spostarsi, per insensibile che fosse il loro doppio movimento, le due lancette, la grande e la piccola. Sul quadrante, quasi illuminato da una luce interna, le due lancette procedevano verso l'ora fatale... le nove e mezzo. I suoi piedi erano gelati e il freddo saliva lentamente, ma ininterrottamente, dai piedi ai ginocchi, dai ginocchi alle cosce, dalle cosce alle viscere. Il sudore gli imperlava la fronte... un sudore che era quello dell'angoscia. Forme bizzarre e disumane ondeggiavano davanti alle sue pupille, la luce si scomponeva, svaniva... Gli sembrava che grandi pipistrelli sollevassero sulle loro ali il suo corpo, trasportandolo verso un crepuscolo che non era né vita né morte, ma partecipava stranamente dell'una e dell'altra. Infine, piombò in una voragine incommensurabile, in un abisso senza fondo dove continuava a risuonare il battito di un orologio... La risonanza dell'ultimo battito era appena svanita quando il ferito gettò un grido. Il prete si alzò, si avvicinò al letto. Quel grido era l'ultimo respiro, l'ultimo soffio di vita del Conte Raoul di Vauparfond. Erano le nove e mezzo passate di un secondo. 19.
Nello stesso momento in cui l'anima del giovane gentiluomo s'involava, Thibault, quasi si svegliasse da un sonno agitato da terribili sogni, si alzò dal suo letto e si trovò in mezzo alle fiamme. La sua casupola era in preda al fuoco. Dapprima lo credette un seguito del suo incubo, ma sentiva all'esterno risuonare chiare grida: «Morte allo Stregone! Morte al Mago! Morte al Lupo Mannaro!». Allora si rese conto che stava accadendo qualcosa di terribile. Le fiamme adesso lambivano il letto, ne sentiva il calore. Qualche secondo ancora e si sarebbe trovato al centro di un immenso rogo. Se avesse esitato un solo attimo, ogni scampo gli sarebbe stato precluso, non sarebbe più potuto fuggire! Thibault balzò dal giaciglio, s'impadronì di uno spiedo, e si lanciò fuori dall'uscio che si apriva sul retro della capanna. Lo videro passare, come un lampo, tra le fiamme, e sbucare dal fumo: gli urli «A morte, a morte!» raddoppiarono. Risuonarono alcuni colpi di fucile, certo destinati a lui perché Thibault sentì fischiare le pallottole a pochi centimetri dalla propria persona. Gli uomini che avevano sparato indossavano la livrea del Barone de Vez, e Thibault ricordava la minaccia pronunciata contro di lui dal nobile Signore. Era un fuorilegge! Lo potevano soffocare come una volpe nella tana, o sparare contro di lui come si spara contro una belva. Le fiamme appiccate alla bicocca formavano uno stretto cerchio luminoso al quale Thibault riuscì ben presto a sfuggire. Si trovò allora nell'oscurità dei boschi, lontano dal clamore del servitorame del Barone de Vez, circondato da un silenzio che a quell'ora era profondo quanto l'oscurità. Sedette ai piedi di un albero e si strinse la testa tra le mani. Gli avvenimenti si erano susseguiti rapidissimi; in quelle ultime ventiquattro ore egli aveva vissuto, come in un sogno, un'altra vita. Tanto da chiedersi se tutto ciò fosse vero... «Ah, perbacco», si disse Thibault, «bisogna che ne venga in chiaro! Di qui a Puiseux ci metto non più di mezz'ora... Voglio assicurarmi se il Conte Raoul è veramente morto!» Un lugubre ululato gli rispose: si guardò intorno e vide le sue fedeli guardie del corpo. L'amico dei lupi aveva ritrovato la sua muta! «Andiamo, amici miei, in viaggio!», esclamò e, scortato dai lupi, puntò, attraverso i boschi, su Puiseux. Giunto alle prime case del villaggio, Thibault si fermò. «Amici», disse, «questa notte non ho più bisogno di voi: voglio restar solo. Divertitevi con le stalle del vicinato: vi lascio carta bianca! E se sulla
vostra strada trovate uno di quegli animali a due gambe chiamati uomini, amici lupi, dimenticate che essi pretendono di essere fatti a immagine del Creatore, e non risparmiateli!» I lupi si slanciarono, ululando di gioia, in tutte le direzioni, mentre Thibault continuava per la sua strada. Entrò nel villaggio, quindi giunse al presbiterio. Attraverso i vetri, scorse un cero acceso accanto a un letto sul quale era steso un lenzuolo: sotto quel lenzuolo, s'intravedeva una forma umana ridotta alla rigidità di un cadavere. Thibault entrò, chiamò il parroco, ma nessuno rispose. Allora si diresse verso il letto. Sollevò il lenzuolo e vide che si trattava proprio del Conte Raoul: il suo volto aveva quella bellezza calma e fatale che conferisce solo l'eternità. Sembrava che dormisse, ma in quella immobilità si riconosceva la presenza della Regina che impugna una falce come scettro, e come manto regale ha un sudario. Si riconosceva la Morte. Thibault aveva lasciata aperta la porta del presbiterio; gli parve adesso di udire un leggero rumore di passi. Si nascose dietro la tenda verde che faceva da sfondo al letto mortuario, davanti a una seconda porta che, in caso di necessità, gli avrebbe offerto una scappatoia. Una figura femminile, vestita di nero, il capo nascosto da un fitto velo, si fermò esitando all'ingresso della stanza. Un'altra testa si affacciò, vicino alla sua; una voce mormorò: «Credo che la Signora possa entrare: non vedo gente... Io veglierò». La donna nerovestita entrò, si avvicinò lentamente al letto, si fermò un attimo per tergersi il sudore della fronte, poi con gesto risoluto sollevò il lenzuolo. Thibault riconobbe la Contessa. «Ahimè», mormorò la sventurara, «non mi avevano ingannata!» Poi si inginocchiò e cominciò a pregare, il fragile petto scosso dai singhiozzi. «Oh, mio amato Raoul», mormorava, «chi mi dirà il nome del tuo assassino? Chi mi aiuterà nella mia vendetta?» La Contessa aveva appena mormorato queste parole che si alzò di scatto, con un grido. Aveva udito una voce risponderle: «Io!». Le parve che la tenda verde avesse ondeggiato... Ma la Contessa era una donna coraggiosa. Prese il cero che ardeva ai piedi del letto e andò a guardare nel breve spazio tra la tenda e il muro. Non vide nessuno, soltanto una porta sbarrata. Riportò il cero al suo posto, poi con una piccola forbice d'oro tagliò una ciocca dei capelli del defunto, la ripose in un sacchetto di velluto, baciò ancora la fronte del morto e lo ricoprì con il lenzuolo. A piedi come erano venute, la Contessa e la sua accompagnatrice torna-
rono al castello. A metà del percorso, un uomo si staccò dal tronco d'albero dietro cui si era tenuto nascosto e sbarrò il passo alla Contessa. Lisetta lanciò un grido di spavento, ma la nobildonna si avvicinò all'uomo senza alcun timore, e gli chiese: «Chi siete?». «Colui che poco fa ha risposto "Io!" quando avete chiesto: "Chi mi aiuterà nella mia vendetta?".» «E voi potreste aiutarmi?» «Quando vorrete: anche subito. Ma qui non è opportuno fermarsi, potremo parlare meglio nelle vostre stanze.» «Non possiamo entrare insieme al castello...» «No, ma io passerò per la breccia del muro; la signorina Lisetta può aspettarmi al padiglione, dove il Conte Raoul lasciava il suo cavallo; mi può guidare per la scala a chiocciola e... se voi foste nella stanza di toeletta, vi aspetterò come ha fatto ieri il Conte Raoul!» Le due donne rabbrividirono. «Ma chi siete voi per essere al corrente di tutti questi particolari?», chiese la Contessa. «Lo dirò quando sarà venuto il momento.» La Contessa ebbe un attimo di esitazione, poi, decidendosi all'improvviso: «Sta bene», disse, «passerete dalla breccia. Lisetta vi aspetterà al padiglione!». «Oh, Signora», protestò Lisetta, «non ne avrò mai il coraggio!» «Allora gli andrò incontro io!», rispose la Contessa. «Bene!», disse Thibault. «Questa sì che è una donna!» E lasciandosi scivolare in una specie di burrone lungo la strada, scomparve. Lisetta si sentì svenire. «Appoggiati al mio braccio, Lisetta», disse la Contessa. «Ho fretta di sapere che cosa può dirmi costui!» Le due donne tornarono al castello passando per la fattoria. Nessuno le aveva viste uscire né rientrare. La Contessa si installò nella sua camera dove aspettò che la cameriera introducesse il visitatore. Poco dopo, infatti, Lisetta entrò, pallidissima in volto. «Signora», disse a bassa voce, «non valeva la pena che andassi a cercarlo: quell'uomo conosce la strada come me! Se sapeste che cosa mi ha detto! È certo il Demonio in persona!» «Fallo entrare!»
«Eccomi!», esclamò Thibault, già sulla soglia. La Contessa fece segno a Lisetta di ritirarsi e rimase sola con lo sconosciuto. La fisionomia di Thibault era tutt'altro che rassicurante. Si sentiva in lui la fermezza di una risoluzione, e di una risoluzione malvagia. I suoi occhi brillavano di una luce infernale, la sua bocca si contraeva in un riso satanico. Invece di nascondere i capelli fiammeggianti, questa volta li aveva disposti con cura in un ciuffo sulla fronte, come una vivida fiamma. Tuttavia la Contessa fissò lo sguardo su di lui senza impallidire. «La mia cameriera mi ha assicurato che voi conoscete la strada che porta alle mie stanze. Eravate già venuto qui?» «Sì, una volta, l'altro ieri, dalle dieci e mezza a mezzanotte e mezza.» «Non è vero!», gridò la Contessa, corrucciata. «Bene, vi racconterò che cosa è accaduto in quelle due ore! Il Conte Raoul è entrato da quella porta», e indicò l'uscio del corridoio, «e Lisetta lo ha lasciato solo. Voi, signora, siete venuta dallo spogliatoio e lo avete trovato in ginocchio... Portavate i capelli sciolti, trattenuti da tre forcine di diamanti, una veste da camera di seta rosa, guarnita di merletti, calze di seta rosa, pantofole di lamé d'argento, e un filo di perle al collo.» «Infatti... continuate!» «Avete bisticciato con il Conte Raoul; primo, perché si fermava nei corridoi ad abbracciare Lisetta; poi, perché era stato visto a mezzanotte sulla strada di Villars, e infine per il ballo al castello. A ciascuna di queste accuse, egli ha risposto in modo più o meno plausibile... In quel momento, Lisetta è entrata tutta spaventata, per avvertirvi che il Conte di Mont-Gobert stava tornando a casa.» «Siete veramente un demonio, come sostiene Lisetta!», esclamò la Contessa scoppiando in una risata sinistra. «Vedo che potremo concludere insieme un patto! Continuate.» «Allora voi e Lisetta avete spinto il Conte Raoul, suo malgrado, nello spogliatoio... Lisetta gli ha fatto attraversare il corridoio e altre due o tre stanze, poi lo ha fatto scendere per una scala a chiocciola che si trova nell'altra ala del castello... Lì hanno trovato la porta d'uscita chiusa a chiave! Allora si sono rifugiati in un ripostiglio, Lisetta ha aperto una finestrella che il Conte Raoul ha scavalcato, correndo poi subito alla scuderia dove ha trovato il suo cavallo... Ma il povero animale aveva un garretto tagliato! A questo punto il Conte Raoul ha giurato che se avesse incontrato il Conte di Mont-Gobert, avrebbe tagliato i garretti anche a lui, visto che considerava la peggiore delle vigliaccherie mutilare senza necessità un nobile animale!
Poi, a piedi, si è avviato in direzione della breccia, e una volta fuori del muro di cinta, si è trovato faccia a faccia con il nemico che lo aspettava, la spada sguainata. Il Conte Raoul aveva soltanto il suo coltello da caccia quando il duello ha avuto inizio.» «Mio marito era solo?» «Sembrava solo, ma al quarto o quinto assalto, il Conte di Mont-Gobert, ferito alla spalla, è caduto gridando: "A me Lestoc!". Allora il Conte Raoul, memore del suo giuramento, gli ha tagliato un garretto... ma mentre si rialzava, Lestoc lo ha colpito a tradimento, alle spalle... la lama è penetrata sotto la scapola ed è uscita dal petto. Non ho bisogno di dirvi in quale punto perché voi, Contessa, avete baciato la piaga! In seguito, il Conte di Mont-Gobert e Lestoc sono tornati al castello, lasciando il ferito senza soccorso. Quando ha ripreso i sensi egli ha chiesto aiuto; alcuni contadini che passavano poco lontano, sono accorsi e hanno costruito in fretta una rozza barella per trasportarlo a Villars... ma giunti a Puiseux, il ferito soffriva a tal punto da non poter proseguire. Fu allora che è stato deposto sul letto dove voi lo avete visto, e dove ha reso l'ultimo respiro, alle nove e mezzo di sera!» La Contessa si alzò, senza parlare si avvicinò a un piccolo mobile intarsiato, aprì un cassetto segreto e ne tolse un astuccio, dal quale estrasse il filo di perle che portava al collo la sera precedente. Lo porse a Thibault, il quale chiese: «E questo cos'è?». «Prendetelo», rispose la Contessa. «Vale una fortuna.» «Sul serio volete vendicarvi?» «Sì!» «Ma la vendetta costa cara! Aspettatemi qui domani sera, vi saprò dire quanto», disse Thibault con un sorriso diabolico. «A domani, allora?» «A domani.» La Contessa ripose il filo di perle, trasse dal mobile una bottiglietta contenente un liquido color ambra e un piccolo pugnale dal manico e dalla guaina guarniti di pietre preziose, dalla lama damascata in oro. Nascose pugnale e boccetta sotto il suo guanciale, si inginocchiò sul prie-Dieu di velluto, pregò a lungo, poi si sdraiò sul letto, vestita come era. 20. Thibault, dopo aver lasciato la Contessa, seguì l'itinerario da lui stesso
indicato, e uscì dal castello e dal parco senza difficoltà. Ma una volta fuori, per la prima volta nella sua vita non seppe dove andare. La sua bicocca era bruciata, e non gli restava un solo amico: come Caino, non sapeva dove riposare le proprie ossa. Raggiunse la foresta, suo eterno rifugio, e risolse di passarvi la giornata. Ma, cercando un riparo dietro una roccia, gli parve di veder brillare un oggetto in fondo a un piccolo avvallamento. La curiosità lo spinse a inoltrarvisi: scorse allora la placca d'argento di una guardia forestale, allacciata con una catena al collo di un cadavere, o per meglio dire di uno scheletro, perché le carni erano state quasi totalmente rosicchiate. Lo scheletro tuttavia sembrava recente; forse l'uomo era stato ucciso o era morto quella stessa notte. «Ah, ah», si disse Thibault, «ecco, molto probabilmente, un lavoro fatto dai miei amici lupi! A quanto pare, hanno approfittato del permesso da me accordato!» Scese nell'avvallamento perché voleva sapere di chi fosse quel cadavere, e lesse sulla placca: «J. B. Lestoc, guardia particolare del Conte di MontGobert». «Bene!», esclamò Thibault, ridendo. «Ecco uno che non ha portato a lungo il rimorso del suo assassinio!» Poi, la fronte aggrottata, sottovoce e questa volta senza ridere, aggiunse tra sé e sé: «Esiste dunque una Provvidenza!». La morte di Lestoc era facilmente spiegabile. Mentre di notte si recava da Mont-Gobert a Longpont, forse per eseguire un ordine del padrone, i lupi lo avevano assalito. Dapprima si era difeso con il coltello da caccia con cui aveva colpito il Conte Raoul, coltello che Thibault ritrovò poco lontano, là dove il terreno sconvolto rivelava chiaramente una lotta; poi, disarmato e privo ormai di forze, era stato trascinato dalle belve inferocite nell'avvallamento, e lì divorato. Ma Thibault stava diventando così indifferente a tutto, che quella macabra scoperta non gli procurò né piacere né dispiacere, né soddisfazione né rimorso. Pensò soltanto che quella morte rendeva più facili i progetti della Contessa, la quale avrebbe dovuto ormai vendicarsi soltanto del marito. Si sistemò dunque tra le rocce, al riparo del vento, per passarvi in tranquillità la giornata. Verso mezzogiorno udì il corno da caccia del Barone Jean e i cani della muta che abbaiavano. Ma uomini e animali passarono abbastanza lontano, senza disturbarlo. Scese la notte. Alle nove Thibault s'incamminò. Ritrovò ancora una vol-
ta la breccia, il padiglione, e Lisetta che lo aspettava, tremebonda. Thibault, secondo le migliori tradizioni, tentò di abbracciarla, ma Lisetta fece un passo indietro, visibilmente spaventata. «Non toccatemi, o urlo!» «Diamine, bella bambina, non eri così scontrosa l'altra sera con il Conte Raoul!» «È vero», rispose la cameriera, cupa, «ma molte cose sono accadute da quella sera... E credo che il più sia fatto!» Poi soggiunse, precedendo Thibault: «Seguitemi!». Senza prendere alcuna precauzione, attraversò lo spiazzo aperto che separava il bosco dal castello. «Oh, oh: come sei coraggiosa, oggi! E se ci vedessero?» «Non c'è più nessun pericolo», rispose Lisetta. «Gli occhi che potevano vedere sono spenti!» Sebbene le parole della ragazza non gli risultassero affatto chiare, il tono della sua voce fece trasalire Thibault, che la seguì, senza insistere, per la scala a chiocciola. La solitudine e il silenzio del castello, tuttavia, gli incutevano uno strano terrore, e quando Lisetta mise la mano sulla chiave della porta, la fermò: «Dove andiamo?». «Lo sapete bene, nella camera della signora Contessa; vi sta aspettando. Entrate!» Thibault entrò e Lisetta si fece da parte, fermandosi poi nel corridoio. E così lo zoccolaio si ritrovò nella bella ed elegante camera, illuminata nel medesimo modo, profumata del medesimo profumo. Aspettava di veder comparire la Contessa dalla porticina dello spogliatoio, ma i minuti passavano e non si udiva il più piccolo rumore, a parte il ticchettio della pendola in porcellana di Sèvres e i battiti affrettati del cuore di Thibault. Il quale cominciò a guardarsi intorno con uno smarrimento di cui non riusciva a rendersi ben conto. Il suo sguardo penetrò infine tra le cortine del letto, e lì vide, sdraiata, la Contessa. Portava sui capelli le stesse forcine di diamanti, al collo lo stesso filo di perle; indossava la veste da camera in seta rosa, e calzava ai piedi le pantofoline d'argento. Esattamente come se dovesse ricevere il Conte Raoul! Thibault, facendosi coraggio, si avvicinò al letto, ma la Contessa non si mosse. «Dormite, Signora?», mormorò lo zoccolaio, chinandosi per meglio vederla. Ma si rialzò di scatto, i capelli ritti, l'occhio vitreo, la fronte madida
di sudore. La Contessa dormiva, ma il suo era il sonno dei vivi o il sonno eterno? Corse a prendere un candelabro sul camino, e con mano tremante lo avvicinò al viso della donna addormentata... Una goccia di cera rosa cadde, ardente, su quella maschera del sonno, ma la Contessa non si svegliò. Le sue braccia erano allungate ai due lati del corpo, e in ciascuna delle due mani stringeva un oggetto. A fatica, Thibault riuscì a schiudere prima una mano, poi l'altra. In una c'era la boccetta che egli stesso le aveva visto estrarre dal sécretaire, e nell'altra un biglietto. Nel biglietto si leggevano queste sole parole: «Fedele all'appuntamento!». Fedele sino alla morte, infatti! La Contessa era morta e le illusioni di Thibault svanivano l'una dopo l'altra come svaniscono i sogni man mano che l'uomo si sveglia. Soltanto, nei sogni di solito i morti si rialzano, mentre i morti di Thibault rimanevano immobili! Corse alla porta del corridoio, e lì fuori trovò Lisetta, inginocchiata, in preghiera. «La Contessa è morta?» «La Contessa è morta e anche il Conte è morto.» «A seguito delle ferite infertegli dal Conte Raoul?» «No, per una pugnalata della Contessa.» «Ah», esclamò Thibault, arrischiando un mezzo sorriso in quel torbido dramma. «Ecco una nuova storia che non conosco!» «Una storia semplice ma orribile...», e Lisetta raccontò. La Contessa era rimasta buona parte della giornata ad ascoltare lo scampanio a morto che annunciava il funerale del Conte Raoul. Verso le quattro del pomeriggio, le campane avevano finalmente taciuto, e allora la Contessa si era alzata, aveva preso il pugnale di sotto il guanciale, e tenendolo nascosto in seno, si era recata nella camera del consorte. Lì aveva trovato il cameriere personale del Conte, tutto allegro perché il medico, appena andato via, rispondeva ormai della salvezza del suo padrone. La Contessa era entrata nella stanza del marito e ne era uscita dopo cinque minuti. Aveva ordinato al cameriere di non entrare finché il Conte non lo avesse chiamato. Dormiva, ed era bene non disturbarlo. Il cameriere si era seduto in anticamera, disponendosi a una lunga attesa. La Contessa era tornata in camera, e si era fatta vestire da Lisetta esattamente come l'ultima sera in cui il Conte Raoul era venuto a trovarla. Poi si era sdraiata sul letto, e a Lisetta, che le chiedeva se volesse prendere qualcosa per ristorarsi, aveva risposto, mostrandole la boccetta: «Sì, prenderò queste gocce: dopo non avrò più bisogno di nulla».
E, portando la boccetta alla bocca, ne aveva vuotato il contenuto. Poi aveva soggiunto: «Hai visto l'uomo che ci ha atteso sulla strada, Lisetta? Ho appuntamento con lui questa sera, dalle nove alle dieci, qui nella mia camera. Andrai ad aspettarlo dove sai, e lo accompagnerai da me. Non voglio che si dica che non sono stata fedele alla parola data, neppure dopo la morte!». Thibault non aveva nulla da obiettare; la Contessa aveva tenuto fede alla decisione presa, ma si era vendicata da sola. Questo si venne a sapere quando il cameriere, preoccupato per il prolungato silenzio del suo padrone, era entrato in punta di piedi nella stanza di lui e lo aveva trovato supino, con un pugnale conficcato nel cuore. Lisetta, corsa ad avvertire la Contessa, aveva trovato morta anche lei! La notizia della duplice tragedia, diffusasi rapidamente nel castello, aveva fatto fuggire tutti i domestici: a gran voce, uomini e donne gridavano che l'angelo dello sterminio era entrato in quella dimora. Solo Lisetta era rimasta, fedele alle ultime volontà della padrona. Thibault non aveva più nulla da fare al castello. Lasciò dunque la Contessa sul suo letto di morte, e Lisetta vicina a lei. Non doveva temere più alcun pericolo, i servi erano fuggiti, i padroni morti. S'incamminò verso la breccia. Il cielo era cupo, e nel parco s'intravedeva appena la traccia del sentiero. Due o tre volte gli parve di udire un lieve scricchiolio di passi che seguivano i suoi... Giunto alla breccia, sentì chiaramente una voce che diceva: «È lui!». Al tempo stesso, due uomini in agguato saltarono su Thibault, mentre altri due lo assalivano alle spalle. Gervasio il quale, geloso di Lisetta, vegliava aggirandosi nel parco buona parte della notte, la sera precedente aveva visto uno sconosciuto entrare e uscire da strade sospette, e lo aveva denunciato al brigadiere. La denuncia era sembrata più grave dopo la notizia delle sciagure avvenute al castello. La lotta di Thibault fu lunga e accanita, ma era privo di armi e la sua resistenza si rivelò inutile. Le guardie, poi, vi avevano messo anche più impegno del solito, avendo riconosciuto Thibault che godeva pessima fama nella regione. Thibault fu afferrato, legato strettamente e sistemato tra due cavalli. Del resto, aveva lottato soprattutto per amor proprio, poiché la sua potenza nello scatenare il male era così grande che avrebbe potuto far cadere fulminati gli aggressori, solo che ne avesse espresso il desiderio. Sicuro di poter sfuggire, sia pure all'ultimo momento, alla giustizia degli uomini, Thibault camminava, legato e in apparenza rassegnato, tra le quat-
tro guardie che scherzavano e ridevano tra loro, domandandogli come mai si fosse lasciato acchiappare così stupidamente. Thibault rispose: «Ride bene chi ride ultimo!». Oltrepassarono Puiseux ed entrarono nella foresta: il cielo, intanto, era diventato ancora più scuro. Si sarebbe detto che le cime degli alberi sostenessero le nuvole come un immenso velario nero. Non ci si vedeva a quattro passi di distanza, ma Thibault, lui, vedeva! Vedeva da ogni parte scivolare nelle tenebre luci che si incrociavano in tutte le direzioni, e che si avvicinavano sempre più, accompagnate da un leggero calpestio sulle foglie secche. I cavalli, irrequieti, indietreggiavano rabbrividendo, fiutando lo strano vento notturno. Le guardie, che fino allora avevano riso e scherzato, a poco a poco si erano ammutolite. Fu la volta di Thibault di mettersi a ridere. «Perché ridi?», gli chiese una guardia. «Perché voi non ridete più.» Al suono della voce di Thibault, le luci si avvicinarono ancora, e il calpestio si accentuò; poi si udì un rumore sinistro, il secco rumore di mascelle che cozzano l'una contro l'altra. «Sì, sì, capisco, amici lupi!», esclamò Thibault. «Avete assaggiato la carne umana e l'avete trovata buona!» Gli rispose un brontolio di approvazione che sembrava il brontolio di un cane e al tempo stesso di una iena. «Ehi!», gridò una guardia. «Con chi stai parlando?» «Con quelli che mi rispondono!» Thibault lanciò un urlo e venti ululati gli risposero, alcuni vicinissimi, altri più lontani. «Ma insomma!», brontolò un'altra guardia. «Che razza di animali sono questi che ci seguono? Questo miserabile a quanto pare conosce la loro lingua!» «Ah!», esclamò lo zoccolaio. «Voi fate prigioniero Thibault, lo costringete a camminare nel bosco nel cuore della notte, per di più con le braccia legate, e vi chiedete che cosa sono questi ululati? Sentitemi bene, amici!», gridò Thibault. «Questi signori si stanno domandando chi siete! Rispondete tutti a una sola voce perché non abbiano più dubbi!» I lupi, obbedienti, lanciarono un ululato unanime e prolungato. I cavalli sbuffarono e s'impennarono mentre le guardie si sforzavano di calmarli con la voce e con la mano. «E questo è nulla», osservò Thibault. «Bisognerà vedere quando ogni cavallo avrà due lupi sulla groppa e uno alla gola!»
I lupi scivolarono tra le gambe dei cavalli per avvicinarsi a Thibault; uno di essi si rizzò sulle zampe e si protese verso di lui come per chiedere ordini. «Tra poco, tra poco», mormorò Thibault, «abbiamo tutto il tempo, non dobbiamo essere egoisti: lasciamo a questa gente il tempo di arrivare a destinazione!» Le guardie ormai non padroneggiavano più i cavalli che si impennavano, balzavano di fianco e, pur andando al passo, si coprivano di sudore e di schiuma. «Io credo», disse Thibault, «che fareste un buon affare con me... Ecco la mia proposta: rendetemi la libertà e ognuno di noi, stanotte, dormirà nel proprio letto.» «Al passo!», disse una delle guardie. «Finché camminiamo al passo non abbiamo nulla da temere.» Dopo un attimo echeggiò un grido di dolore. Uno dei lupi aveva afferrato una guardia per una gamba, prendendosi in cambio un robusto colpo di spada. «Ah, signora guardia», fece Thibault, «questa la definirei un'imprudenza! I lupi si divorano tra di loro nonostante il proverbio, e quando avranno assaggiato il sangue, io stesso non riuscirò più a trattenerli.» I lupi si gettarono, infatti, sul compagno ferito e in cinque minuti dell'animale non restarono che le ossa. Dal canto loro, le guardie avevano approfittato di quell'attimo di tregua per affrettarsi, ma senza lasciare libero Thibault, anzi forzandolo a correre con loro. La predizione dello zoccolaio si avverò. D'un tratto, con il fracasso improvviso di un uragano, il branco arrivò al galoppo. I cavalli, messi al trotto, rifiutarono di riprendere il passo. Spaventati dal calpestio, dall'odore e dagli ululati dei lupi, si lanciarono al galoppo, malgrado gli sforzi degli uomini per trattenerli. I lupi saltarono sulle groppe e alla gola dei cavalli che, azzannati da quei denti aguzzi, fuggirono in tutte le direzioni. «Hurrà per i lupi, hurrà per i lupi!», gridava Thibault, al colmo dell'eccitazione. Ma le feroci belve non avevano bisogno di incoraggiamenti. Cavalli e lupi scomparvero ben presto nella foresta, e sempre più deboli si udirono le urla di terrore degli uomini, di dolore dei cavalli, e gli ululati. Thibault era libero, ma aveva polsi e caviglie legati con una corda. Cercò di spezzarla con i denti, ma non vi riuscì; ricorse allora alla forza dei muscoli senza miglior risultato... La corda gli penetrava sempre più nella
carne. Lo zoccolaio ruggiva di dolore, di angoscia, di rabbia. Infine, stanco, implorò, alzando i pugni al cielo: «Lupo nero, amico mio, fa' cadere le corde che mi stringono! Voglio avere le mani libere per vendicarmi!». Di colpo le corde spezzate caddero ai piedi di Thibault, che batté le mani con un ruggito di gioia. 21. Il giorno dopo, alle nove di sera, Thibault percorreva la strada che porta a Puits-Sarrasin. Voleva vedere un'ultima volta la sua bicocca, constatare se l'incendio avesse lasciato in piedi un qualche relitto. Un mucchio di ceneri ancora fumanti indicava il luogo dove sorgeva poco prima la casupola e, come se Thibault avesse dato loro appuntamento, numerosi lupi si erano disposti in circolo intorno a quelle rovine che contemplavano con una sorta di cupo furore, quasi comprendessero che gli uomini, distruggendo quella misera abitazione, avevano voluto in realtà colpire colui che aveva stretto un diabolico patto con il lupo nero. Quando Thibault penetrò nel cerchio, i lupi a una sola voce ulularono sinistramente, come se volessero fargli intendere che erano pronti ad aiutarlo a vendicarsi. Thibault andò a sedersi dove un tempo stava il focolare; si poteva riconoscerlo dalle pietre annerite ma intatte, e dalle ceneri abbondanti lì più che altrove. Vi restò qualche minuto, immerso in una dolorosa contemplazione. Non realizzava che quel disastro era la conseguenza e il castigo dell'invidia che covava nell'animo, dei desideri che ne erano scaturiti e che erano andati via via aumentando di intensità. Desideri, del resto, di cui non provava né rimorso né dispiacere. La soddisfazione di vedersi ormai in grado di rendere ai suoi simili male per male, l'orgoglioso senso di poter lottare vittoriosamente - con l'aiuto dei lupi - contro chi lo perseguitava, avevano soffocato in lui ogni altro sentimento. E poiché i lupi continuavano ad ululare, disse: «Sì, amici miei, sì: i vostri ululati sono all'unisono con la voce del mio cuore! Gli uomini hanno distrutto la mia casa, hanno disperso al vento gli utensili con i quali mi guadagnavo da vivere! Il loro odio perseguita me come voi, non possiamo aspettarci né misericordia, né grazia! Noi siamo i loro nemici come essi sono i nostri, e perciò io non avrò per i miei simili né misericordia né compassione! Venite con me; dalla capanna al castello, spargeremo tra gli uomini la desolazione stessa che la loro malvagità ha
provocato nell'animo mio!». Come un condottiero seguito dai suoi soldati, come un re dai suoi sudditi, Thibault, seguito da tutto il branco, si mise in cammino, deciso a seminare ovunque strage e lutti. Protetto dalle tenebre, si avvicinò al castello di Vez, dove dimorava il suo più acerrimo nemico. Il Barone Jean possedeva tre fattorie, scuderie piene di cavalli, stalle ricche di mucche, chiusi formicolanti di pecore. Sin dalle prime ore della notte, i lupi sferrarono l'attacco. L'indomani furono trovati sgozzati due cavalli e quattro mucche nelle stalle, e dieci pecore nei chiusi. Per un momento, il Barone ebbe il dubbio che quella carneficina fosse opera delle belve alle quali faceva una guerra così spietata. Ma la cosa si presentava non tanto come l'aggressione brutale di un'orda di lupi, quanto come una premeditata rappresaglia. Eppure, a osservare le tracce dei denti sulle ferite e la forma delle zampe sul terreno, bisognava riconoscere che gli autori di quella catastrofe non potevano essere stati altri che i lupi. Il giorno seguente, il Barone e i suoi uomini si misero in agguato, ma Thibault e i suoi lupi si trovavano in quel momento al lato opposto della foresta: fu la volta della strage nella valle e nei chiusi di Soucy e di Vivières! Seguirono le stragi a Boursonnes e Yvors: una volta iniziata, l'opera di distruzione proseguì con accanimento. Thibault non lasciava più i suoi lupi; dormiva nelle loro tane, viveva in mezzo ad essi, stimolando la loro sete di sangue. Aiutati dalla sua intelligenza umana, i lupi erano diventati, quanto a organizzazione e disciplina, più temibili di una banda di lanzichenecchi in terra di conquista. Il terrore si era diffuso ovunque, nessuno osava uscire dalle città e dai villaggi se non armato sino ai denti, e gli uomini si aspettavano l'un l'altro per formare gruppi compatti. Correva voce che i lupi fossero eccitati, capeggiati, guidati da un uomo, e che quest'uomo fosse instancabile nel male, più crudele e spietato delle belve. Che, a somiglianza dei suoi compagni, vivesse di carne viva e si dissetasse con il sangue. Si mormorava anche il suo nome... Thibault! Il Vescovo lanciò contro l'ex zoccolaio la scomunica, ma il Barone Jean sosteneva che i fulmini della Chiesa non avrebbero incenerito gli spiriti maligni se prima non si fossero sguinzagliate intere mute di cani da caccia ben addestrati e abilmente guidati. Il Barone si rattristava per tanto sangue sparso, ed era umiliato per il fatto che il bestiame appartenente a lui, Gran Sovrintendente alla Caccia al
Lupo, fosse stato decimato proprio dalle belve che avrebbe dovuto distruggere. Nel segreto del suo animo, però, pensava con gioia alle trionfanti fanfare di corni da caccia che lo aspettavano, alla celebrità che da quell'impresa gli sarebbe derivata tra i cacciatori più famosi della regione. La sua passione venatoria esaltandosi in quella epica lotta contro i lupi suoi nemici, che sembrava l'avessero accettata coscientemente, ingigantì. Non si accordava tregua né riposo, non dormiva, mangiava senza scender di sella. Durante la notte si aggirava per i campi e i boschi in compagnia di Engoulevent, innalzato al rango di battitore in considerazione del suo matrimonio. All'alba balzava in sella, inseguiva il lupo e lo cacciava finché l'oscurità della sera non gli impediva di distinguere i cani. Ma, ahimè, tutta la sua scienza venatoria, il suo coraggio, la sua perseveranza, risultarono in pura perdita. Più che qualche lupacchiotto, qualche lupo magro divorato dalla scabbia, qualche ghiottone imprudente, ingozzatosi nella carneficina al punto di restar senza fiato, nessun autentico lupo degno di questo nome, perdette un solo pelo in questa guerra. Anche Thibault, come il Barone Jean, non abbandonava mai la sua muta: dopo una notte di strage, teneva il branco sveglio e pronto ad accorrere in soccorso di quel lupo che il Barone Jean era riuscito a dirottare. L'animale, seguendo le istruzioni dello zoccolaio, agiva con astuzia, raddoppiava e confondeva le sue peste, seguiva i ruscelli, saltava sugli alberi più bassi per rendere più difficile il compito degli uomini e dei cani, e quando sentiva le proprie forze diminuire, si allontanava. Interveniva allora Thibault con la sua muta, per dare a quel lupo un cambio studiato con tale abilità che soltanto da indizi impercettibili si poteva capire che i cani non seguivano più le orme dell'animale cacciato, e occorreva la profonda esperienza del Barone Jean de Vez per prendere una decisione. Spesso, va detto, la sua era una decisione errata. Inoltre, i lupi seguivano i cacciatori e, in definitiva, una muta cacciava l'altra! Con la differenza che la prima - e cioè il branco dei lupi - cacciando in silenzio, era molto più terribile dell'altra. Infatti, se un cane esausto restava in coda o un altro cane, distratto, si allontanava dal gruppo, veniva subito assalito e sgozzato. Persino Engoulevent, accorso un giorno al disperato latrato di un suo cane, venne assalito e si salvò unicamente grazie alla velocità del suo cavallo. In poco tempo, la muta del Barone Jean fu decimata, e i cavalli non si trovavano in condizioni migliori. Sultano, poi, era morto con onore sul campo di battaglia, sfinito da una corsa di sedici ore sotto il peso del suo
gigantesco cavaliere, il Barone Jean. Il quale, a un certo punto, decise di cambiare tattica, tentando una grande battuta. Chiamò a raccolta tutti i vassalli feudatari e organizzò le cose in modo da battere i boschi metro per metro, non lasciando più una sola lepre nella sua tana, dove i battitori erano passati. Naturalmente toccava a Thibault prevedere le battute e indovinare i luoghi dove si svolgevano. Mai una volta l'abile sorveglianza di Thibault andò fallita. E se la battuta aveva luogo a Nord, invariabilmente lui si trovava a Sud. Durò così per molti mesi perché, simile in questo al Barone Jean, Thibault perseguiva il compito che si era imposto con una energia eccezionale. Non diversamente dal suo avversario, sembrava avesse acquistato forze soprannaturali per poter resistere a tante fatiche ed emozioni. Cosa tanto più straordinaria in quanto il suo animo non era affatto tranquillo. Le stragi compiute in definitiva non gli facevano orrore; gli sembravano anzi giustificate e naturali, e ne addossava le responsabilità e le conseguenze a coloro che ve lo avevano spinto. A momenti, però, si sentiva triste, cupo, in mezzo ai suoi feroci compagni. In quei momenti, l'immagine di Angeletta raffiorava alla sua memoria; tutto il suo passato di artigiano onesto e laborioso si personificava in quella dolce figura femminile. Si scoprì ad amare Angeletta come mai avrebbe pensato di poter amare. A volte piangeva disperato, a volte ardeva di una gelosia feroce contro colui che adesso possedeva quel bene che lui avrebbe voluto possedere. Un giorno che il Barone Jean, intento a preparare nuovi piani di caccia aveva dovuto rinunciare a inseguire i lupi, Thibault uscì dalla tana dove viveva insieme ai suoi sudditi, e si mise a errare per la foresta. Era una splendida notte estiva di plenilunio, che faceva brillare come argento le vette degli alberi, e gli faceva sognare il tempo in cui si aggirava, libero da ogni preoccupazione, su quei vividi tappeti di muschio. Gli capitò, in quel momento, l'unica felicità che gli fosse permesso di raggiungere; poté dimenticare! Era assorto in uno di questi dolci sogni del lontano passato quando, d'un tratto, vicino a lui udì un urlo di spavento. In altri momenti, forse, non vi avrebbe dato importanza, ma si trovava esattamente nel luogo dove, per la prima volta, aveva incontrato la dolce creatura. Corse, dunque, in quella direzione e, balzando dalla foresta sulla strada, scorse una donna che si dibatteva, atterrata da un lupo mostruoso. Thibault si gettò sull'animale, lo afferrò alla gola, strinse, e lo scagliò lontano; poi,
sollevando la donna tra le braccia, la trasportò poco distante, sul lieve pendio di un fosso. Un raggio di luna, scivolando tra due nuvole, illuminò il volto della donna strappata alla morte, e Thibault riconobbe Angeletta! Corse subito a una fonte vicina, quella stessa dove per la prima volta, specchiandosi, aveva scoperto nella sua chioma un capello rosso e, facendo conca con le mani, raccolse un po' d'acqua fresca che gettò sul viso della ragazza. Angeletta aprì gli occhi, dal petto le sfuggì un grido di terrore, e tentò di alzarsi per fuggire... «Come», esclamò l'amico dei lupi, come se fosse sempre Thibault lo zoccolaio, «non mi riconosci, Angeletta?» «Certo che ti riconosco, Thibault, e appunto per questo ho paura!» Quindi, mettendosi in ginocchio, Angeletta implorò: «Non uccidermi, non uccidermi, la nonna ne sarebbe disperata!». L'amico dei lupi era costernato. Adesso soltanto, nell'osservare il terrore che la sua presenza ispirava alla ragazza che lo aveva amato e che egli amava ancora, ebbe paura di se stesso... si rendeva conto della spaventosa fama che si era creata. «Io ucciderti, Angeletta, quando ti ho strappata alla morte! Devi odiarmi molto perché ti sia venuto questo pensiero!» «Non ti odio, Thibault», rispose la ragazza, «ma corrono su di te delle voci...» «E si parla anche del tradimento che ha spinto Thibault a commettere tanti delitti?» «Non ti capisco», rispose Angeletta, guardando lo zoccolaio con i suoi innocenti e immensi occhi color cielo. «Ma come? Non capisci che ti amavo, ti adoravo, e che la tua perdita mi ha reso pazzo?» «Se mi amavi, se mi adoravi, che cosa ti ha impedito di sposarmi?» «Lo spirito del male...», mormorò Thibault. «Io sì che ti amavo», continuò la ragazza, «e ho sofferto crudelmente...» «Adesso», chiese Thibault, «tutto è finito: non mi ami più, vero?» «Thibault, non ti amo più perché non debbo più amarti! Ma non si riesce mai a dimenticare, come pure si vorrebbe, il primo amore...» «Angeletta», gridò Thibault, «fai attenzione a ciò che stai per dire!» «Se dico soltanto la verità, di che cosa dovrei aver paura? Il giorno in cui mi chiedesti di sposarti, ti ho creduto, Thibault. Più tardi, ci siamo incontrati per caso: io non ti cercavo, e tu mi hai avvicinata, mi hai detto parole
d'amore, mi hai ricordato, tu per primo, la tua promessa! E non è nemmeno colpa mia se ho avuto paura dell'anello che portavi al dito, troppo largo per te, ma... troppo stretto per me!» «Vuoi che non porti più quest'anello? Vuoi che lo butti via?», domandò Thibault, cercando di sfilarsi l'anello dal dito. Invano! Come era risultato troppo stretto per infilarlo al dito sottile di Angeletta, così ora risultava troppo stretto per toglierlo dal grosso dito di Thibault. Invano lo zoccolaio si sforzò, aiutandosi con i denti, di sfilarlo; l'anello sembrava saldato al suo dito per l'eternità. Thibault si rese conto che doveva rinunciare a separarsi da quell'anello, pegno del patto da lui concluso con il lupo nero. Sospirò scoraggiato. «Quel giorno, fuggii», continuò Angeletta. «Lo so, ho avuto torto, non seppi dominare il mio terrore alla vista di quell'anello, e soprattutto...» Alzò uno sguardo timido alla fronte di Thibault, il quale, a testa nuda, era illuminato dalla luna. Angeletta poté così scorgere non più un solo capello, illuminato dai riflessi rossastri dell'inferno, ma la metà della capigliatura dell'amico dei lupi divenuta color fiamma. «Oh...!», esclamò la ragazza, indietreggiando, «Thibault, Thibault, che cosa ti è accaduto da quando non ci vediamo?» «Oh, Angeletta...», gridò Thibault, appoggiando la fronte a terra e strìngendosi la testa tra le mani, «quello che mi è accaduto non posso raccontarlo a nessun essere umano, neppure a un sacerdote! Ma a te, Angeletta, dirò solo: abbi pietà di me, perché sono molto infelice!» Angeletta si avvicinò a Thibault e gli prese le mani. «Mi ami, dunque!», gridò lo zoccolaio. «Thibault», disse la ragazza, con la dolcezza e il candore di sempre, «avevo creduto alle tue parole, e ogni volta che sentivo picchiare all'uscio della nostra capanna, il mio cuore cominciava a battere forte perché pensavo che fossi tu che venivi a chiedere la mia mano alla nonna. E poi, vedendo che non eri tu, andavo a nascondermi in un cantuccio per poter piangere in pace.» «E adesso, adesso, Angeletta?» «Adesso», rispose lei, «ti sembrerà strano, ma nonostante tutti gli orrori che si raccontano di te, non ho più paura, perché mi sembra impossibile che tu voglia la mia infelicità... Stavo attraversando il bosco quando il lupo mi ha assalito... e tu mi hai salvato! Come posso aver paura di te?» «Ma...», balbettò Thibault, «allora, mi ami? Potresti ancora amarmi, Angeletta?»
«È impossibile, Thibault, perché appartengo a un altro!» «Angeletta, Angeletta, dimmi solo che mi ami!» «Al contrario, Thibault, se ti amassi, farei di tutto per nascondertelo!» «Ma perché?», gridò Thibault, fuori di sé. «Perché? Tu non conosci il mio potere! Non mi resta ormai che un desiderio o due da esprimere, ma con il tuo aiuto, potrei renderti ricca come una regina! Potremmo andarcene di qui, lasciare la Francia, l'Europa... Esistono paesi immensi che tu non conosci nemmeno di nome: l'America, l'India, l'Asia... Contrade di paradiso! Dimmi soltanto che verresti con me, e nessuno saprà che siamo partiti insieme, né dove siamo, né che ci amiamo!» «Fuggire con te, Thibault!», esclamò Angeletta, guardando il re dei lupi quasi non avesse ben compreso le sue parole. «Ma insomma, non ti rendi conto che non ti appartengo più? Non sai che sono sposata?» «Che cosa importa? Tu ami me e, insieme, potremmo vivere felici! Ascolta, ti parlo in nome di questo mondo e dell'altro. Vuoi salvare il mio corpo e la mia anima? Allora, abbi pietà di me e non rifiutare la mia offerta: partiamo! Andiamo in un paese dove non si respiri più questo tanfo di carne sanguinolenta, dove non si sentano ululare i lupi! E se diventare ricca ti spaventa, andiamo dove io possa essere di nuovo Thibault lo zoccolaio, un povero ma onesto artigiano. Andiamo, Angeletta, dove io possa essere il tuo sposo!» «Ma, Thibault, io ero pronta a sposarti e tu mi hai disprezzata! Un altro ha fatto quello che tu non hai voluto fare; ha sposato la ragazza povera, si è preso cura della vecchia nonna cieca... ci ha assicurato un pane e un nome! Vorresti che ricompensassi la sua bontà con un'azione cattiva?» «Ma che cosa importa», protestò Thibault, «se tu non lo ami, se ami me?» «Non cercare di trovare nelle mie parole quello che non c'è, Thibault! Ho detto che ti considero ancora un amico, non ho detto affatto che non amo mio marito! Vorrei vederti felice, vorrei che tu confessassi i tuoi errori, ti pentissi dei tuoi delitti... Soprattutto vorrei strapparti a quello spirito del male del quale mi hai parlato, e che Dio avesse misericordia di te... Glielo chiedo sempre nelle mie preghiere. Ma per poter pregare per te, devo restare pura... la mia voce per giungere al Signore deve essere quella di una innocente! Devo serbare intatta quella fede che ho giurata ai piedi dell'altare!» Thibault, nel sentir parlare Angeletta con tanta fermezza, divenne cupo, addirittura truce.
«Sei molto imprudente a parlare in questo modo, Angeletta... Siamo soli nella notte, a quest'ora non un'anima viva osa entrare nella foresta... Dopo aver pregato, implorato, supplicato, adesso io potrei minacciarti... Voglio dire che ogni tua parola eccita il mio amore per te, il mio odio per tuo marito! La pecora non deve irritare il lupo quando si trova in suo potere, capisci?» «Prendendo la via del bosco», rispose la ragazza, «avevo paura perché ti avevo visto; pensavo con terrore a quanto si dice di te... Ma, nonostante tutto, non riuscirai a piegarmi, Thibault!» Thibault si strinse la testa tra le mani. «Non parlare così duramente! Tu ignori che cosa sta mormorando il demonio al mio orecchio, e quanta forza mi occorre per resistere alla tentazione!» «Puoi uccidermi se vuoi, ma non commetterò mai la viltà che mi proponi! Puoi uccidermi, ma resterò fedele all'uomo che mi ha sposata, e pregherò Dio perché lo assista!» «Non parlare di quell'uomo, ti proibisco di pronunciare il suo nome!» «Minacciami finché vuoi, Thibault, sono nelle tue mani... Ma il mio sposo per fortuna è lontano, non hai alcun potere su di lui.» «E chi ti dice, Angeletta, che grazie al mio potere diabolico, io non possa colpire anche da lontano? Ti scongiuro, risparmiami un nuovo delitto!» E Thibault s'inginocchiò davanti alla ragazza. «Il delitto lo commetterai tu, non io che posso darti la mia vita, ma non il mio onore!» Thibault, rialzatosi in piedi di scatto, ruggì: «L'amore sparisce dal cuore quando vi penetra l'odio! Attenta a tuo marito! Il demonio è dentro di me, parla dalla mia bocca! Invece del conforto che speravo dal tuo amore che mi rifiuti, avrò il conforto della vendetta! Angeletta, sei ancora in tempo; ferma la mia mano!». Non una parola uscì dalle labbra della ragazza, pallida e terrorizzata, sebbene fermissima nei suoi propositi. «Ah, non vuoi parlare? Ebbene, allora che siamo tutti maledetti, tu, lui, io! Voglio che tuo marito Engoulevent muoia, e morrà!» Angeletta gettò un urlo lancinante, e poi, come se la sua ragione si ribellasse a questo assassinio a distanza che giudicava impossibile, gridò ancora: «Non è vero! Vuoi solo spaventarmi, ma le mie preghiere avranno più valore delle tue maledizioni!».
«Corri a casa se vuoi sapere come il cielo esaudisce le tue preghiere; affrettati, Angeletta, se vuoi rivedere vivo il tuo sposo, o rischierai di inciampare in un cadavere!» Atterrita dalle cupe parole di Thibault, Angeletta si mise a correre nella direzione che la mano tesa e vendicativa dello zoccolaio le indicava, e subito scomparve nella notte. Allora Thibault lanciò uh ululato simile a quello di dieci lupi che ululassero di conserva, e si lanciò nel folto della foresta, gridando: «Sono maledetto! Sono maledetto!». In preda al terrore, volendo affrettarsi verso il villaggio dove aveva lasciato suo marito, la ragazza, per la rapidità stessa della sua corsa era costretta a fermarsi ogni tanto, perché il respiro le veniva meno. E in quei momenti, tentava di ragionare, si diceva che era pazza ad annettere tanta importanza a vane parole, pronunciate per gelosia e odio, e che il vento probabilmente aveva già disperso. Eppure, quando il suo respiro si calmava, quando il suo corpo recuperava le forze, Angeletta riprendeva la sua corsa veloce perché sentiva che avrebbe ritrovato la tranquillità soltanto vicino al marito. Sebbene dovesse percorrere parecchi chilometri, i più solitari e selvaggi della foresta, non pensava affatto ai lupi che spargevano il terrore in tutti i paesi dei dintorni. Una sola paura l'attanagliava: trovare sui suoi passi il corpo inanimato di Engoulevent! Più di una volta urtando con il piede un sasso o un ramo, il suo respiro si fermava di colpo, il gelo le stringeva il cuore, e un sudore freddo le inondava il volto. Finalmente, sbucando da un sentiero sul quale gli alberi formavano con i loro rami fronzuti una vera e propria volta, scorse la campagna che i raggi della luna inargentavano. E passando dall'ombra alla luce, vide un uomo che, sbucando da un cespuglio sul ciglio del fosso, le si parò davanti e impetuosamente la prese tra le braccia. «Oh, oh!», fece l'uomo ridendo, «dove te ne vai di questo passo, e per di più di notte?» Angeletta, col cuore in gola, riconobbe il marito e gli gettò le braccia al collo: «Come sono felice di rivederti, e rivederti vivo! Mio Dio, ti ringrazio!». Engoulevent ribatté, ridendo: «Credevi proprio che Thibault, il Re dei lupi, avesse pranzato con le mie ossa?». «Non pronunciare il nome di Thibault! Fuggiamo, mio caro, torniamo subito al villaggio!»
«Via, via», osservò, sempre ridendo, il giovanotto, «vuoi proprio che le comari di Préciémont e di Vez raccontino che un marito non è capace neppure di tener tranquilla sua moglie?» «Hai ragione, caro, ma ho attraversato la foresta con una gran paura addosso, lo confesso, e ora che ti sono vicina e dovrei sentirmi tranquilla, non so perché, tremo ancora!» «Ma insomma che cosa è successo? Raccontami tutto!» Ed Engoulevent dette un bacio a sua moglie. Angeletta raccontò come, tornando da Vez a Préciémont, fosse stata assalita da un lupo, e come Thibault l'avesse salvata, e quanto era accaduto in seguito tra lei e lo zoccolaio. «Stai a sentire», disse serio Engoulevent, dopo averla ascoltata. «Ti condurrò a casa, ti chiuderò al sicuro insieme alla nonna, perché non ti succeda niente di male, e poi prenderò il mio cavallo e andrò dal Barone Jean, e gli indicherò il posto dove si nasconde Thibault.» «No, no!», gridò spaventata la ragazza. «Dovrai attraversare per forza la foresta e potresti trovarti in pericolo!» «Prenderò un'altra strada: non passerò dalla foresta.» Angeletta sospirò, scosse la testa e non insistette. Sapeva che non avrebbe ottenuto nulla da Engoulevent, e del resto a casa avrebbe potuto continuare a pregare per la sua salvezza. Sapeva inoltre che il marito doveva compiere il suo dovere. Il giorno seguente doveva aver luogo una grande battuta di caccia nella foresta, dalla parte opposta a quella dove Angeletta aveva incontrato Thibault. Engoulevent aveva dunque il preciso dovere di avvertire senza indugio il Barone Jean dell'incontro di sua moglie con il Re dei lupi. Restava ben poco tempo per cambiare i piani della caccia. Avvicinandosi a Préciémont, tuttavia, Angeletta, rimasta sino allora in silenzio, pensò di avere ancora in mano delle buone carte per tentare di piegare il marito ai suoi consigli. Gli ricordò che Thibault, sebbene a detta di tutti fosse un Lupo Mannaro, non solo non le aveva torto un capello, ma le aveva salvato la vita. Avendola in suo potere, non l'aveva costretta alle sue volontà, ma anzi l'aveva lasciata libera di raggiungere il marito. Ora, denunciare il nascondiglio di Thibault al suo mortale nemico, il Barone Jean de Vez, era un vero e proprio tradimento. E Thibault, che senza dubbio ne sarebbe stato informato, in simili circostanze c'era da pensare che non avrebbe fatto grazia a nessuno! Angeletta perorava la causa di Thibault con eloquenza, ma prima di sposarsi non aveva taciuto al fidanzato le precedenti promesse fattele dallo
zoccolaio e, pur avendo piena fiducia in sua moglie, Engoulevent non era inaccessibile alla gelosia. Per di più, esisteva una vecchia ruggine tra lui e lo zoccolaio, che risaliva a quel famoso giorno in cui il battitore lo aveva scoperto nascosto sull'albero, e aveva trovato il suo spiedo in un cespuglio. Non cedette perciò alle insistenze della moglie, e di buon passo si diresse verso Préciémont; così, continuando a discutere, i due sposi giunsero alle prime barricate composte di fitte siepi di rovi. I contadini, infatti, per far fronte per quanto possibile alle improvvise e inattese incursioni di Thibault e dei suoi lupi nei villaggi, avevano organizzato alcune pattuglie notturne, e si difendevano come fossero in tempo di guerra. Engoulevent e Angeletta, immersi nelle loro discussioni, non udirono il «chi va là» della sentinella nascosta dietro la siepe, e continuarono a camminare in direzione del villaggio. La sentinella, scorgendo nel buio una figura che, nel suo stato di preoccupazione, assunse subito forme mostruose, e che non rispondeva al suo «chi va là», imbracciò il fucile. Engoulevent, da parte sua, alzando gli occhi, scorse all'improvviso la sentinella alla luce della luna che, simile a un lampo, brillò sulla canna del fucile. Rispose subito «Amici!» e si gettò davanti alla moglie, abbracciandola per meglio ripararla. Ma il colpo era partito in quel momento stesso, e il disgraziato battitore, con un sospiro e senza un solo lamento, cadde addosso alla moglie che stava cercando di proteggere. La pallottola gli aveva attraversato il cuore. Gli abitanti di Préciémont, accorrendo al rumore della fucilata, trovarono Engoulevent morto e Angeletta svenuta sul cadavere del marito. La trasportarono subito nella capanna della nonna, ma la ragazza, appena ripresi i sensi, cadde in una disperazione che rasentava la follia. Si accusava della morte del marito, lo chiamava, chiedeva pietà agli spiriti invisibili che la ossessionavano, poi cadeva in quei brevi sonni che soli le concedeva l'esaltazione della sua mente. Tuttavia, dalla incoerenza delle sue parole, la verità cominciava a profilarsi, e tutti si rendevano conto che la morte del povero Engoulevent era dovuta all'amico dei lupi, Thibault. Lo accusavano di aver avviluppato i due disgraziati giovani in un sortilegio, e l'odio che tutti provavano per lo zoccolaio non fece che aumentare. Erano stati chiamati due medici, ma lo stato di Angeletta continuava a essere allarmante. Le sue forze diminuivano, la sua voce diventava sempre più debole, il suo delirio aumentava di violenza, e il silenzio dei medici lasciava pensare a tutti che la poverina avrebbe presto seguito il marito nella tomba.
Una sera, verso il tramonto, la ragazza si era assopita, ma il suo sonno era ancora più agitato del solito. La capanna, appena illuminata da una fioca lampada a olio, era immersa nella semioscurità. Due donne, mandate dal Barone Jean per vegliare la giovane vedova, recitavano il rosario e filavano, ai piedi del letto. D'un tratto Angeletta, che da qualche momento rabbrividiva visibilmente, parve dibattersi in un orribile sogno, e gettò un grido d'angoscia. In quel medesimo istante, la porta si spalancò e un uomo, la cui testa appariva circondata da un cerchio di fiamma, si lanciò nella stanza, si avvicinò al letto, strinse la moribonda tra le braccia, gemendo di dolore, baciò la sua fronte... poi scomparve dall'uscio opposto che si apriva sulla campagna. L'apparizione era stata così fulminea che tutti avrebbero creduto a un'allucinazione, se la ragazza, come cercando di respingere un oggetto invisibile, non avesse gridato: «Allontanatelo! Allontanatelo!». Ma le due donne che vegliavano avevano visto l'uomo dai capelli rossi e avevano riconosciuto Thibault: fuori si udiva un gran chiasso e, a tratti, risuonava il nome di Thibault. Ben presto i suoi inseguitori apparvero sulla soglia della capanna. Poco prima avevano scorto lo zoccolaio che si aggirava furtivo intorno all'abitazione di Angeletta e, avvertiti dalle sentinelle, munitisi di forche e bastoni, stavano dandogli la caccia. Le donne mostrarono ai contadini l'uscio dal quale Thibault era fuggito, e gli uomini, come una muta, si lanciarono sulle sue tracce, aumentando i clamori e le minacce. Naturalmente Thibault riuscì a sfuggire ai suoi nemici e scomparve nella foresta. Lo stato di Angeletta, intanto, dopo la terribile scossa ricevuta dalla presenza e dal contatto con Thibault, si aggravò a tal punto che, durante la notte, venne chiamato un sacerdote. Quando il prete entrò, seguito da due chierichetti con l'acquasantiera, Angeletta parve rianimata da una forza misteriosa. Parlò a lungo con il sacerdote, a voce bassissima, e poiché tutti sapevano che la giovane non aveva tanti peccati da confessare, si resero conto che essa pregava per un'altra persona. Chi fosse quest'altra persona lo sapevano soltanto Dio, il prete e la moribonda. 22.
Quando Thibault non sentì più risuonare gli urli dei contadini, rallentò la corsa. Poi, non appena la foresta ebbe ritrovato il suo abituale silenzio, si fermò, sedendosi su un mucchio di pietre. Era così turbato che si rese conto del luogo in cui si trovava solo quando si accorse che alcune pietre erano macchiate di nero, come bruciate dal fuoco. Erano le pietre che formavano un tempo il suo focolare! Il caso lo aveva condotto proprio nel punto ove in passato sorgeva la sua bicocca! Thibault non poté fare a meno di confrontare con amarezza quel passato così tranquillo con il suo terribile presente, e lacrime pesanti caddero sulle ceneri che calpestava. Udì suonare la mezzanotte alla chiesa di Oigny, e successivamente agli orologi delle chiese vicine. In quel momento, il sacerdote stava ascoltando le ultime preghiere di Angeletta in agonia. «Maledetto sia il giorno in cui ho desiderato cose diverse da quelle che il buon Dio aveva accordato a un onesto operaio!», esclamò Thibault. «Maledetto sia il giorno in cui il lupo nero mi ha venduto il potere di nuocere, giacché il male da me fatto, invece di donarmi la felicità, l'ha distrutta per sempre!» Uno scoppio di risa risuonò alle sue spalle. Thibault si voltò e scorse il lupo nero, che era scivolato sino a lui nel buio, simile a un cane che raggiunga il padrone. Sarebbe stato quasi invisibile nell'oscurità se i suoi occhi non avessero lanciato fiamme sinistre. Il lupo girò intorno al focolare e venne a sedersi di fronte a Thibault. «Come!», disse. «Padron Thibault non è soddisfatto? Per le corna di Belzebù! Padron Thibault è un tipo difficile!» «Posso forse essere contento?», ribatté Thibault. «Da quando ti ho incontrato, ho conosciuto solo le vane aspirazioni, i superflui dispiaceri! Ho desiderato la ricchezza, e mi dispero per la perdita del mio tetto di muschio sotto il quale mi addormentavo senza preoccuparmi dell'indomani, né del vento o della pioggia che sferzavano i rami delle querce! Ho desiderato le grandezze, e i più miseri contadini della pianura mi danno la caccia, a colpi di pietre e di bastoni! Ho chiesto l'amore alla sola donna che mi abbia amato, e mi è sfuggita per appartenere a un altro e... in questo momento sta morendo, maledicendomi, senza che il potere da te accordatomi possa soccorrerla!» «Lascia perdere la ragazza: ama soltanto te stesso, Thibault.» «Sì, sì, scherniscimi pure!» «Non ti schernisco ma, prima che tu m'incontrassi, non avevi mai invidiato nessuno, mai agognato il bene altrui?»
«Oh, per un miserabile daino! Ce ne sono a centinaia in questa foresta!» «Tu credevi di desiderare il daino, Thibault, ma i desideri si concatenano senza fine... L'ambizione somiglia alla volta del cielo; ti sembra che si limiti all'orizzonte, e invece abbraccia la terra intera. Hai disdegnato l'innocenza di Angeletta per il mulino della Polet. Poi hai desiderato la casa del Balivo Magloire, e quella casa non ha più avuto nessun fascino per te quando hai intravisto il castello del Conte di Mont-Gobert. Sì, in quanto a invidia, tu somigliavi all'angelo caduto, a Satana, tuo padrone e mio. Soltanto, mancandoti l'intelligenza per desiderare il male e trarne il massimo vantaggio, avresti fatto meglio a restare onesto!» «Eh, sì, hai ragione», rispose con tristezza lo zoccolaio. «Ora soltanto mi rendo conto della verità del proverbio: "Chi semina vento, raccoglie tempesta". Ma infine... non potrei ritornare onesto?» Il lupo sogghignò, beffardo. «Eh, ragazzo mio, con un solo capello, il Diavolo può trascinare un uomo all'Inferno. Hai mai contato quanti dei tuoi capelli possiede il Diavolo? Quanto a me, non sono capace di dirti quanti capelli di Satana hai sul cranio, ma posso dirti quanti te ne restano dei tuoi! Uno solo, mio caro! Come vedi, il tempo del pentimento è passato.» «Ma perché», chiese Thibault, «se il Diavolo può portare un uomo alla perdizione, Dio non può salvarlo con un solo capello?» «Prova!» «Del resto, quando ho concluso quel funesto mercato con te, non credevo di sottoscrivere un patto con Satana!» «Ah, come ritrovo nelle tue parole la malafede degli uomini! Dunque, triplice imbecille, tu non avresti firmato un patto cedendomi i tuoi capelli? Eh, no! Tu li hai ceduti, e sei dei nostri, Thibault, dal momento in cui, sulla soglia di quella porta che stava esattamente qui, hai vagheggiato nel tuo spirito l'idea della frode e della rapina.» «Allora», esclamò Thibault, alzandosi e battendo in terra i piedi, in preda a una collera che non riusciva più a dominare, «allora sarei perduto per l'altro mondo senza aver goduto i piaceri di questo?» «Puoi ancora conoscerli, Thibault, se ti incammini audacemente sul sentiero che hai imboccato per un colpo di fortuna! Se vuoi risolutamente quello che hai accettato di soppiatto... In altri termini, se ti metti decisamente con noi!» «E che cosa dovrei fare?» «Prendere il mio posto, acquistare il mio potere! Allora non avresti più
nulla da desiderare.» «Ma se il tuo potere è così grande, se ti concede tutte le ricchezze che io agogno, come puoi rinunciarvi?» «Non preoccuparti per me. Il padrone al quale offro un servitore fedele, mi ricompenserà con liberalità.» «E prendendo il tuo posto, assumerei anche il tuo aspetto?» «Certo! Ma solo durante la notte; di giorno tornerai a essere un uomo.» «Le notti sono lunghe, oscure, piene di tranelli. Posso cadere sotto il piombo di una guardia, o appoggiare la zampa su una tagliola, e in questo caso... addio grandezza, addio ricchezze!» «No, perché il mio mantello è impenetrabile al fuoco, al piombo, all'acciaio. Finché coprirà il tuo corpo, sarai non soltanto invulnerabile, ma immortale. Una sola volta l'anno, come tutti i Lupi Mannari, ritornerai lupo per ventiquattro ore, e in quelle ventiquattro ore dovrai temere la morte come gli altri lupi. Quando ci siamo incontrati, fa un anno oggi, io mi trovavo in quel giorno fatale!» «Ah, ora mi rendo conto», osservò Thibault, «perché avevi tanta paura delle zanne dei cani!» «Quando trattiamo con gli uomini, siamo obbligati a non mentire, a dire tutto! Sta a loro accettare o rifiutare.» «Tu mi vanti la potenza che potrei acquistare se ti dessi retta, ma in che cosa consiste esattamente questa potenza? Sarò ricco?» «Così ricco che non potrai nemmeno apprezzare la ricchezza, dato che con la sola forza della volontà otterrai non soltanto ciò che gli uomini ottengono con l'oro, ma anche ciò che gli esseri superiori ottengono con l'intelligenza. Potrai vendicarti dei tuoi nemici, perché nel male il tuo potere non conoscerà limiti. La donna che amerai non potrà sfuggirti... dominando i tuoi simili, infatti, li avrai sempre in tuo potere.» «Niente, allora, potrà sottrarre una donna alla mia volontà?», chiese Thibault. «Nulla, se non la morte che è più forte di ogni altra cosa.» «E dimmi», chiese ancora Thibault, «le tue parole non nascondono qualche menzogna, qualche tranello?» «Nessuno, parola di lupo!» «Ebbene, sia!», accettò infine Thibault. «Lupo per ventiquattro ore, e re della creazione per tutto il resto del tempo! Che cosa devo fare? Sono pronto!» «Cogli una foglia di agrifoglio, strappala in tre pezzi con i denti, e butta i
tre pezzi lontano da te.» Thibault eseguì l'ordine. Dopo aver lacerato la foglia, sparpagliò i tre frammenti, e sebbene la notte fosse stata calma fino a quel momento, si udì all'improvviso un tuono formidabile, e una tromba di vento, impetuosa come un uragano, avvolse in un mulinello la foglia lacerata e la portò con sé. «E adesso, fratello Thibault», concluse il lupo, «prendi il mio posto e buona fortuna! Come me un anno fa, resterai lupo per ventiquattro ore. Cerca di superare questa prova con la mia stessa fortuna, e vedrai realizzarsi quanto ti ho promesso. Nel frattempo, pregherò il Signore dal piede biforcuto che ti protegga dall'assalto della muta del Barone Jean! Perché, parola di Diavolo, tu m'interessi, amico Thibault!» E Thibault ebbe la netta sensazione che il lupo nero diventasse più grande; si allungava, rizzandosi sulle zampe posteriori, e si metteva a camminare, dopo aver assunto la forma di un uomo. Quell'uomo si allontanò facendogli un cenno di saluto... Fu una semplice sensazione, ripetiamo, perché per un attimo le idee dello zoccolaio si confusero, ed egli cadde in preda a una specie di torpore che gli paralizzava la mente. Quando si riprese, era solo. Le sue membra si sentivano prigioniere di insolite forme estranee... Era diventato in tutto e per tutto simile al grosso lupo nero che poco prima stava parlando con lui! Un unico pelo bianco, piantato nella regione del cervelletto, stonava con quel pelame tenebroso; quel pelo bianco del lupo era il solo capello nero rimasto dell'uomo Thibault! Allora, e prima ancora che si fosse ripreso del tutto, parve a Thibault di udire i cespugli fremere... ne usciva un latrato sordo, soffocato. Rabbrividendo, l'uomo-lupo pensò alla muta del Barone Jean, e giudicò saggio non aspettare che i cani del Barone si lanciassero sulle sue tracce. Si mosse rapido, correndo davanti a sé, come d'abitudine fanno i lupi, e con soddisfazione profonda si avvide che, nella sua metamorfosi, la forza e l'elasticità delle sue membra erano raddoppiate. Intanto, a pochi passi dall'uomo-lupo, il Barone Jean brontolava con il nuovo battitore: «Per le corna di Belzebù, sei troppo lento, ragazzo, hai lasciato che il segugio brontolasse senza lanciarlo contro il lupo!». «Avete ragione, signor Barone, ho sbagliato», rispose il battitore, «ma dopo averlo visto ieri attraversare il sentiero a cento passi da qui, non potevo supporre che si fosse fermato a venti passi da noi.» «Sei proprio sicuro che si tratti dello stesso lupo che ci è sfuggito tante
volte?» «Se non si tratta del lupo che stavamo cacciando l'anno scorso, quando il povero Marcotte è annegato, che il pane che mangio al servizio del signor Barone diventi veleno!» «Vorrei proprio trovarlo», sospirò il Barone Jean. «Se date l'ordine, noi lo attaccheremo, ma mi permetto di fare osservare che abbiamo ancora due ore buone di buio... bastano a spezzare le zampe dei cavalli che ci restano!» «Non dico di no, ma se aspettiamo l'alba, quel briccone sarà già a molti chilometri da qui. Quel maledetto lupo mi si è piantato nel cervello! La sua pelle mi fa una tale gola che, se non riesco ad averla, ci farò una malattia!» «Allora, attacchiamo senza perdere un minuto!» «Hai ragione, ragazzo: corri a prendere i cani!» Il battitore saltò in sella; il cavallo, che aveva legato a un albero, partì al galoppo. Dopo dieci minuti, che al Barone Jean parvero dieci secoli, il battitore fu di ritorno insieme a tutta la muta. I cani furono subito sguinzagliati. «Adagio, adagio, ragazzi», raccomandava il Barone. «Ricordatevi che non abbiamo più i nostri vecchi cani, agili e sicuri come nessun altro! Questi in maggioranza sono reclute e, se strillate, faranno un chiasso del diavolo, senza concludere niente di buono! Lasciate che si eccitino da soli, a poco a poco.» Infatti, i cani, liberi dai guinzagli che li tenevano uniti a due o a tre, annusarono immediatamente le emanazioni lasciate dal lupo, e cominciarono ad abbaiare alla disperata. Ai loro latrati si unirono quelli degli altri. E tutti partirono sulle tracce di Thibault, dapprima abbaiando a intervalli abbastanza lunghi, poi con maggior veemenza, finché, avendo bene assorbito l'odore del lupo che fuggiva dinanzi a loro, si lanciarono in direzione dei boschi di Ivors, strepitando con una furia e un ardore senza pari. «Animale ben lanciato è per metà arrivato», esclamò il Barone. «Tu, battitore, occupati dei cani alla posta. Voglio che siano sistemati dappertutto. E voialtri, forza e coraggio!», aggiunse, rivolgendosi ai servi. «Abbiamo più di una sconfitta da riscattare; se per colpa di uno qualsiasi di voi, non potrò far squillare la mia fanfara di caccia per questo lupo, per le corna di Belzebù, farò una strage!» Dopo queste parole di incoraggiamento, il Barone Jean spinse il suo cavallo al galoppo e, sebbene la notte fosse ancora buia e il terreno difficile, lo mantenne ad andatura sostenuta per raggiungere la caccia che si faceva
già sentire a Bourg-Fontaine. 23. Thibault si trovava in vantaggio sui cani, per la precauzione presa di tagliare la corda non appena il segugio aveva abbaiato. Per molto tempo non fu raggiunto dai latrati della muta, ma d'un tratto quei latrati, simili a un tuono, cominciarono a preoccuparlo. Raddoppiò la velocità della sua corsa e si fermò soltanto dopo aver messo un notevole numero di chilometri tra sé e i suoi inseguitori. Allora, si guardò intorno per orientarsi. Si trovava sulle alture di Montaigu. Tese l'orecchio; gli sembrò che i cani non avessero diminuito la distanza: dovevano trovarsi verso la macchia di Tillet, ma solo un orecchio di lupo li avrebbe sentiti così da lontano. Thibault lasciò Erneville alla sua sinistra, saltò nel ruscello, ne risalì la corrente, poi si lanciò nei boschi di Lessart-l'Abbesse, e raggiunse la foresta di Compiègne. Nel constatare che, malgrado le tre ore di rapida corsa, i muscoli d'acciaio del lupo non accusavano la minima stanchezza, si sentì più tranquillo. Tuttavia esitava ad avventurarsi in una foresta che non gli era familiare come quella di Villars. Perciò, dopo aver fatto qualche altro chilometro, attraversò la piana di Mont-Gobert, entrò nella foresta, ma per riuscirne da un altro punto. In fondo alla strada per sua sfortuna incontrò un'altra muta formata da venti cani, che il capocaccia di Montbreton, avvertito dal Barone Jean, conduceva in suo aiuto, come rinforzo. La muta venne subito sguinzagliata dal battitore che, accortosi delle manovre del lupo, temeva, se avesse aspettato tutta la muta per lanciare i cani, che la preda si rendesse irreperibile. Cominciò allora la vera lotta tra il Lupo Mannaro e i cani. Una corsa folle che i cavalli, nonostante l'abilità e la padronanza dei cavalieri, seguivano a fatica. La caccia attraversava pianure, boschi, brughiere, con la rapidità del pensiero. Cavalli e cani apparivano, scomparivano come il lampo dentro una nube, lasciandosi dietro turbini di polvere, suoni di corni, e urli che l'eco aveva appena il tempo di ripetere. Così la caccia valicava monti, valli, torrenti, precipizi, pantani, come se cani e cavalli avessero le ali, gli uni della chimera, gli altri dell'ippogrifo. Il Barone Jean de Vez li aveva raggiunti. Galoppava in testa ai suoi battitori, pestando quasi la coda ai cani, l'occhio ardente, le narici dilatate, dirigendo la muta a forza di incitamenti gridati a gran voce, e tormentando
rabbiosamente, con gli speroni, il ventre del cavallo quando un ostacolo lo faceva esitare. Da parte sua, il lupo conservava un'ottima andatura, e non perdeva un metro di terreno sebbene fosse molto scosso quando sentiva risuonare, ormai vicino, il latrare dei cani. Mentre correva, poiché conservava lucidissimo il pensiero umano, gli sembrava impossibile di dover soccombere a quella prova dolorosa. Gli sembrava impossibile dover morire senza essersi vendicato di tutte le angosce, prima di aver conosciuto quei godimenti che gli erano stati promessi, prima di aver riconquistato l'amore di Angeletta. A volte, il terrore lo dominava, e a volte, a dominarlo era la collera. Meditava di voltarsi, di affrontare quella muta urlante e, dimenticando il suo nuovo aspetto, di disperdere i suoi inseguitori a colpi di pietre e di bastoni. Ma poco dopo, reso folle dall'ira, stordito da quella sorta di campana a morte che la muta gli faceva risuonare alle spalle, aumentava di velocità, rimbalzava, saltava, volava con le zampe del cervo, con le ali dell'aquila. Ma ogni suo sforzo era vano. Poteva fuggire, saltare, volare quasi,... quel funebre rintocco gli si incollava sul pelame, non lo lasciava. O, peggio, appena distanziato, tornava ad avvicinarsi di nuovo, più minaccioso, più formidabile che mai. Tuttavia l'istinto della conservazione rimaneva in lui intatto, e le sue forze non diminuivano; intuiva però che se per disgrazia avesse incontrato altre mute, forse non avrebbe resistito. Per distanziare i cani, pensò allora di tornare nei luoghi a lui familiari dove, con la profonda conoscenza del terreno, sarebbe riuscito a eludere gli inseguitori. Con giri e rigiri, raggiunse nuovamente la foresta di Villars, nella speranza di sventare così la strategia in base alla quale il Barone Jean aveva indubbiamente scaglionato i suoi cani. Una volta tornato nei covi abituali, si sentì più tranquillo. Raggiunse le sponde del fiume, là dove le acque scorrono profonde, incassate tra una doppia fila di rocce; si slanciò su un picco che dominava il corso d'acqua e di lì si buttò, risoluto, nei flutti: raggiunse a nuoto un anfratto alla base della roccia e, nascosto di poco sotto al livello normale dell'acqua, attese. Aveva guadagnato qualche chilometro di vantaggio sulla muta. Ma, di lì a poco, la tempesta canina arrivò sulla cresta della roccia. Quelli che si trovavano in testa, ebbri di ardore, non si accorsero della voragine, o credettero di poterla valicare, e Thibault, in fondo al suo nascondiglio, fu schizzato dall'acqua che sprizzava da ogni lato alla violenta immersione della muta nel fiume. Meno vigorosi di lui, i cani non riuscirono a domina-
re la violenta corrente, e dopo sforzi inutili e disperati, scomparvero nei gorghi, senza aver scoperto il nascondiglio del Lupo Mannaro. Thibault sentiva sulla sua testa il calpestio dei cavalli, i latrati dei cani superstiti, le urla degli uomini, il tutto dominato dalla voce del Barone Jean. Quando l'ultimo cane caduto nel fiume fu travolto dalla corrente, come il resto della muta, scorse i cacciatori che si dirigevano a valle. Convinto che il Barone Jean volesse risalire il corso d'acqua, decise di non aspettare, e abbandonò il suo nascondiglio. A volte nuotando, a volte balzando da una roccia all'altra, o guadando il torrente nei punti in cui l'acqua era più bassa, risalì sino all'ultimo cespuglio di Crêne. Qui giunto, con la certezza di essere in forte anticipo sul nemico, fece il suo piano: avrebbe raggiunto un villaggio, dove sicuramente non sarebbero venuti a cercarlo. Ma quale villaggio? Pensò a Préciémont, che conosceva bene, e dove si sarebbe trovato vicino ad Angeletta. Quella vicinanza, si disse, gli avrebbe portato fortuna, gli avrebbe restituito tutte le sue energie; la dolce immagine della giovane avrebbe esercitato un'influenza benefica sulla sua sorte. Suonavano le sei di sera. La caccia durava da quindici ore; lupo, cani e cacciatori avevano percorso chilometri e chilometri. Quando il lupo arrivò all'inizio della strada di Ham, il sole calava all'orizzonte, inondando la brughiera di una abbagliante luce purpurea. Interi prati di fiorellini bianchi e rosa emanavano un sottile profumo nella brezza leggera; il grillo strideva, e l'allodola, con il suo volo rettilineo, salutava la notte, come dodici ore prima aveva salutato l'alba. Quella imperturbabile calma della natura colpì Thibault. Gli sembrava strano che ogni cosa intorno a lui fosse bella e serena, quando il suo cuore era tormentato dall'angoscia. Osservando quei fiori, quegli insetti, quegli uccellini, si chiedeva se, nonostante le nuove promesse che il messo del Demonio gli aveva elargito, non avrebbe agito con maggior saggezza accettando il secondo patto invece del primo. Mentre attraversava un sentiero che si perdeva nel folto delle ginestre, riconobbe il luogo per cui era passato in compagnia di Angeletta, il primo giorno del loro incontro; il giorno in cui, ispirato dal suo buon genio, le aveva proposto di sposarla. La campana della chiesa di Préciémont squillava nella valle, e i suoi monotoni e cupi rintocchi ricordarono al lupo e agli uomini il pericolo in cui versavano. Procedette coraggiosamente attraverso i campi, in direzione del villaggio dove sperava di potersi nascondere in qualche abituro abbandonato. Co-
steggiando il muretto di pietra che circondava il cimitero, udì un suono di voci che gli venivano incontro. Per prudenza, scavalcò il muretto, e si trovò nel cimitero che confinava con la chiesa. Era un povero cimitero di campagna, incolto, pieno di erbacce e di rovi. Il lupo s'inoltrò tra i rovi, e si acquattò in un sepolcro in rovina, da dove poteva sorvegliare la strada senza essere visto. A pochi passi dal nascondiglio di Thibault, una fossa, appena scavata, aspettava il suo ospite. Dalla chiesa giungeva il salmodiare dei sacerdoti. Passò qualche minuto, poi il cancello del cimitero si aprì e Thibault, preoccupato, vide un bambino in cotta bianca che recava in mano un'acquasantiera: dietro il bambino, veniva un uomo che reggeva una croce d'argento; seguiva il prete che recitava le preghiere per i defunti, e infine quattro contadini con una specie di barella, coperta da un drappo bianco e adorna di corone e fiori. Pochi abitanti del villaggio seguivano il feretro. Sebbene fosse uno spettacolo del tutto naturale in un cimitero, Thibault ne fu impressionatissimo. Un minimo movimento poteva svelare la sua presenza, provocando quasi sicuramente la sua perdita, e purtuttavia egli seguì con ansiosa curiosità la cerimonia funebre. Secondo l'uso del paese, una donna morta negli anni della giovinezza, viene coperta con un solo drappo, perché tutti i compaesani possano vederla un'ultima volta, e i familiari darle un ultimo bacio. Una donna anziana apparentemente cieca, guidata da un giovane si chinò sul sudario, che una mano pietosa aveva sollevato. Nella defunta, Thibault riconobbe Angeletta! Un sordo gemito sfuggì dal suo petto, mescolandosi al pianto dei presentì. Il viso della giovane, esangue e bellissimo nella calma della morte, sotto la corona di miosotis e di margherite, sembrava addirittura celestiale. Alla vista di Angeletta, Thibault aveva sentito sciogliersi il ghiaccio del proprio cuore! Sapeva, sentiva che in realtà era stato lui a uccidere quella poverina: il dolore che provava era immenso perché sincero; straziante perché per la prima volta dopo tanto tempo, non pensava a se stesso, ma a colei che giaceva morta lì davanti. Quando udì i colpi di martello che inchiodavano il coperchio della bara, quando percepì il rumore sordo della terra e delle pietre che rotolavano sui resti dell'unica donna che mai avesse amato, Thibault fu colto dalla vertigine. Quelle dure pietre martoriavano il fragile corpo di Angeletta, quella sua carne fino a ieri così fresca, bella e... viva! Fu per lanciarsi contro i presenti, strappar loro quel corpo che, morto, sembrava gli appartenesse di
diritto, anche se da vivo era appartenuto a un altro! Ma il dolore profondo dell'uomo dominò lo scatto della belva. Sotto la pelle del lupo, l'uomo fu percorso da un lungo brivido; dai suoi occhi iniettati di sangue sgorgarono le lacrime, lo sciagurato gridò: «Dio, Dio mio, prenditi la mia vita! Te la dono, se può risuscitare colei che ho ucciso!». Queste parole, seguite da un ululato terribile, misero in fuga gli astanti: il cimitero restò deserto. Quasi nello stesso momento, la muta, che aveva ritrovate le peste del lupo, invadeva il recinto, saltando il muretto già scavalcato da Thibault. «Vittoria, vittoria!», gridò il Barone con voce tonante, e balzando da cavallo, estrasse il suo coltello da caccia. Slanciandosi in direzione della tomba, si fece strada tra il groviglio dei cani che stavano litigandosi una pelle di lupo sanguinolenta, ma priva di corpo. Si trattava senza dubbio della pelle del Lupo Mannaro a cui stavano dando la caccia, perché, ad eccezione di un unico pelo bianco, il mantello era interamente nero. Ma dove era finito il lupo? Nessuno lo seppe mai. Da quel momento, però, nella regione Thibault lo zoccolaio non fu più visto: tutti erano convinti che il Lupo Mannaro fosse lui. Questa è la storia del lupo nero, ovvero la storia di Thibault, il Re dei lupi, come l'ha raccontata Mocquet. JESSIE DOUGLAS KERRUISH LA MALEDIZIONE ETERNA (The Undying Monster, 1922) 1. Swanhild smise di leggere. Nell'ultima mezz'ora, aveva guardato cinque volte la pendola, e il suo nervosismo cresceva di minuto in minuto: mezzanotte era passata da trenta minuti e, in quella notte d'inverno gelida e piena di stelle, suo fratello Oliver non aveva ancora fatto ritorno a casa. Oliver e Swanhild, ultimi discendenti dell'antica famiglia degli Hammand di Dannow, si erano sempre voluti molto bene ma, dopo la fine della guerra e la morte del loro fratello Reg, i legami che li univano si erano fatti ancora più stretti. Quella sera, l'animo della ragazza era ossessionato dall'antica maledizio-
ne che gravava sulla sua stirpe: Dove i pini e gli abeti crescono rigogliosi, Sotto le stelle, senza caldo né pioggia, Il Capo degli Hammand incontrerà la sua fine. La tempesta soffiava dal mare, e infuriava sul castello. Il suo fragore continuava incessante, dando l'impressione di provenire dagli spazi infiniti. Le spesse mura impedivano alla giovane di udire il gemito del vento, e il silenzio di morte che regnava nella stanza degli Holbein dove si era rifugiata, le sembrava ancora più angoscioso in mezzo alla furia degli elementi scatenati. L'atmosfera di quella stanza contribuiva non poco a esasperare la sua inquietudine. Su tutti e due i lati del camino, due Holbein di dubbia autenticità, raffiguranti Godfrey Hammand e sua moglie, uccisi dal Mostro secolare di Dannow in una gelida notte del 1556, fiancheggiavano un piccolo e cupo ritratto del padre di Godfrey, Sir Magnus il Mago, che si era suicidato nel 1526, dopo aver avuto la meglio sul Mostro. Swanhild consultò nuovamente la pendola, e il suo sguardo indugiò sui tre quadri. C'era una sola lampada accesa, che creava una piccola oasi di luce e di calore nel vasto ambiente di quella stanza rivestita di quercia e piena di ombre inquiete. Quando il fuoco non palpitò più sotto la cenere, nella stanza ogni parvenza di vita si spense con esso. Swanhild era una bella ragazza di circa vent'anni, snella ma saldamente costruita, dai lineamenti energici, e con dei grandi occhi grigi dall'espressione serena, molto vivaci. Una cascata di capelli biondi le incorniciava il viso creando una meravigliosa ombra dorata che andava dal colore del rame a quella pallida tinta che ricorda l'argento. A dire il vero, non sembrava proprio una discendente di quel Magnus il Mago il cui volto smunto, dalle linee spiccatamente marcate, risaltava sul fondo scuro del quadro. Walton, il maggiordomo, entrò in quel momento con il futile e lampante pretesto di voler chiacchierare un po'. In realtà, era venuto per cercare di fugare l'inquietudine e l'ansia che provava. «Mr. Oliver ritarda parecchio, Miss Swanhild...», cominciò a dire. «Speriamo che non gli sia accaduto niente di spiacevole, Walton...», rispose la ragazza. «C'è sempre da temere qualche brutto incontro...», riprese a mormorare
il maggiordomo. «Probabilmente i due Ades, in una notte come questa, saranno in giro a combinarne qualcuna delle loro!» «Non sono altro che dei bracconieri, Walton!» «Converrete con me, Signorina, che degli uomini capaci di piazzare delle tagliole per catturare delle povere bestiole innocenti, sono degli individui disposti a tutto! Inoltre, gli Ades sono noti per essere assai vendicativi, e Charles ce l'ha con Mr. Oliver per quella lezione che gli ha impartito il mese scorso!» Swanhild sorrise. «A rigor di logica dovrebbe prendersela con me, visto che sono stata io a indicare a mio fratello dove erano state sistemate le tagliole. Per parte sua, Oliver voleva limitarsi a farlo sbattere in prigione...» «A ogni modo, sia lui che il giovane Bob, hanno giurato che si vendicheranno non appena incontreranno Mr. Oliver fuori dal parco», replicò il vecchio servitore. «È proprio questo che mi rassicura, Walton! Mi sembra gente che parli troppo per aver poi il coraggio di agire!» «Mah, Miss Swanhild, non si sa mai...» A questo punto, Walton s'interruppe, poi riprese: «Se Mr. Oliver è andato a Lower Dannow, spero che non abbia preso la scorciatoia che passa attraverso il bosco!». Swanhild non' rispose subito. Il domestico aveva dato voce alle sue stesse preoccupazioni. «Non c'è da aver paura del Mostro», disse alla fine. «Non lo si vede da oltre quarant'anni.» «Questa non è una buona ragione, Miss Swanhild!», la interruppe Walton. «Gli è capitato di stare tranquillo addirittura per centoventi anni, e poi è tornato più terrificante che mai!» Così dicendo, gettò uno sguardo involontario al ritratto di Warlock. La ragazza ebbe un brivido, e rinunciò alla sua apparente indifferenza. «Se soltanto potessimo sapere quando si manifesta!», sospirò. «Che cosa fareste?» «Farei venire qui Doyle, o il Professor Lodge, oppure addirittura Miss Bartendale.» «Miss Bartendale? Forse è già venuta in precedenza a Dannow?», chiese Walton. «No. Ho soltanto sentito parlare di lei come della migliore e più accanita cacciatrice di maledizioni e di esseri demoniaci che esista. Sembra che ai
suoi talenti di spiritista unisca anche quelli di un'ottima detective...» «Ahimè, Miss Swanhild!», continuò Walton scuotendo il capo. «Temo proprio che non esista nessuno in grado di fare qualcosa contro il Mostro. Voi siete molto giovane, ma io ricordo ancora quando arrivarono qui Mrs. Blavatsky e il Professor Crookes, subito dopo la morte di vostro nonno. Non riuscirono a venire a capo assolutamente di niente.» «Io penso che questo fatto in fin dei conti non ti dispiaccia poi tanto! Tu pensi che il prestigio della nostra Casata ne verrebbe a perdere se il Mostro dovesse scomparire, non è vero? In fondo, rimanere vittime di una morte dovuta a eventi soprannaturali, è pur sempre una grande fortuna, e bisogna tener conto che queste morti hanno perseguitato gli Hammand per più di mille anni fino ai giorni nostri...» Poi la ragazza si arrestò di colpo: dal vestibolo stava giungendo, acuto e insistente, il trillo del telefono. Senza motivo, sia la fanciulla che il vecchio rabbrividirono, poi uscirono rapidamente dalla stanza. La galleria era rischiarata debolmente. All'altra estremità, la cameriera che si trovava in attesa del ritorno del padrone di casa, stava già rispondendo all'apparecchio. Quando si voltò, il suo viso creò una macchia chiara nella semioscurità. «Mr. Walton... Miss Swanhild...», mormorò con voce rotta dal terrore. «Telefonano dalla portineria. Il Mostro è nel bosco! Hanno udito un urlo e... Mr. Hammand non è ancora tornato...» A Swanhild sembrò che il cuore avesse cessato di batterle nel petto, ma fece uno sforzo enorme per rimanere tranquilla. Doveva mantenere tutta la sua lucidità per cercare di salvare Oliver. Con calma, tolse il ricevitore dalle mani ghiacciate della cameriera. «Pronto... Pronto...», udì che diceva nell'apparecchio la voce del figlio del portiere. «Perché non chiamate Miss Hammand?» «Sono io, Will, eccomi: cosa è successo?» «C'è il Mostro nel bosco, Signorina: l'ho sentito!» «Come fai a essere certo che si tratti di lui? Forse è un cane che è rimasto intrappolato in una tagliola...» «Oh, no! No, di sicuro! Stavo tornando da Lower Dannow, dove ero andato a prendere una medicina per mio padre quando, sul ponte, ho udito delle urla che facevano pensare a dei latrati, oppure alle grida di una pazza. Il vento veniva dal bosco e mi portava i suoni chiaramente, per cui vi posso assicurare che non era assolutamente un cane a urlare in quel modo!» «D'accordo! Prepara una lanterna e tieniti pronto ad aprire il cancello
non appena vedrai arrivare l'automobile.» Poi, con tre colpi di campanello, Swanhild svegliò l'autista. «Stredwick, prendi l'automobile e vieni subito qui!», gli ordinò. Quindi salì di corsa in camera sua, dalla quale fece immediatamente ritorno indossando un mantello di lana blu. Passando, aveva preso il revolver d'ordinanza del fratello. Walton e la cameriera, gli unici domestici ancora in piedi, erano rimasti presso il telefono come paralizzati. «Miss Swanhild, non potete andare nel bosco!», esclamò il vecchio. L'orrore che la ragazza gli lesse negli occhi, la richiamò alla realtà. Quando era ancora una bambina, aveva visto suo nonno, Reg Hammand, tornare dal bosco dove aveva incontrato il Mostro: i suoi capelli erano incanutiti nel giro di poche ore! Per scacciare la paura che la pervadeva, aprì la porta dell'atrio. Subito il vento la sferzò dalla testa ai piedi. Il gelo aveva raggrinzito le piante rampicanti che correvano lungo il portico, e che normalmente servivano da schermo contro la tramontana. Il cortile si stendeva nel buio sino al fossato sui cui argini i pini alzavano i loro rami simili a delle braccia fantastiche. Oltre il muro di cinta, le macchie di arbusti e i gruppi di alberi somigliavano a dei pennacchi di carri funebri. Il fondovalle era completamente ricoperto da una nebbia gelata. Gli ultimi avvallamenti settentrionali delle colline, andavano a morire sulla cima del Thunder's Barrow Beacon. Emergendo dalla nebbia e dominando la foresta, un'effigie mostruosa si ergeva come una macchia cupa sotto il cielo stellato. L'Uomo di Dannow era una figura colossale scolpita da tempo immemorabile nella roccia: un fratello del Long Man di Eastbourne e de I Cavalli Bianchi di molte località inglesi. Quella notte sembrava un gigantesco demonio che si torcesse negli spasimi dell'agonia. Davanti all'inquietante silenzio di quella notte vuota, Swanhild si sentì infinitamente debole e disarmata per poter affrontare quell'essere che aveva sfidato il coraggio di ben trenta generazioni di Hammand. Era anche irritata per la lentezza di Stredwick nell'arrivare con la vettura: ogni istante era prezioso e, se Oliver era veramente caduto tra gli artigli del Mostro in quel bosco misterioso dove tanti suoi antenati avevano trovato una morte orribile, lei era l'unica in grado di portargli soccorso, rischiando comunque una fine spaventosa, o la follia che avrebbe finito per spingerla a darsi la morte.
Infatti, tutti gli Hammand che avevano visto quell'essere mostruoso, si erano suicidati: suo nonno, Warlock, il Godfrey dell'Holbein, e tanti altri! Avevano preferito morire, piuttosto che vivere col ricordo di un incubo del quale nessuno aveva mai svelato il segreto. Swanhild aguzzò lo sguardo e tese le orecchie mentre attendeva che arrivasse la vettura. Improvvisamente, un muso umido e freddo le sfiorò la mano. «Ti avevo dimenticato, Alex...», mormorò la ragazza accarezzando il grosso danese che l'aveva seguita. D'impulso decise di portarsi dietro quel fedele compagno, perché sapeva bene che nessun uomo, nel raggio di dieci miglia, si sarebbe avventurato nel bosco in quella notte di tregenda. «Miss Swanhild, non riesco a sopportare l'idea di vedervi affrontare quel pericolo da sola...» Walton parlava con la forza della disperazione. I suoi denti incespicavano nelle parole, e si aggrappava allo stipite della porta come se quello che aveva appena detto lo facesse vacillare. «No, grazie, Walton», gli disse con un sorriso Swanhild. «Sarà sicuramente un falso allarme, e preferisco che tu rimanga a custodire la casa. Ora vai a rassicurare tua moglie.» L'uomo aprì la bocca per protestare ma, in quell'istante, la luce di due fari colpì la facciata della casa, e un'auto si fermò poco dopo davanti al portone d'ingresso. Infagottato alla benemeglio nella livrea che si era infilato di gran carriera sul pigiama, l'autista scese di corsa. «Al bosco di Thunder's Barrow...», gli ordinò brevemente Swanhild. Sul volto dell'uomo apparve una maschera di terrore allo stato puro. «Non posso, Miss Swanhild!», mormorò con voce tremante. «Il Mostro ha già preso uno Stredwick!» Era vero, e la fanciulla non insisté. «Apri la porta!», gli disse bruscamente. Sedutasi al volante, con Alex sul sedile di fianco a lei, lanciò la vettura a tutta velocità sul ponte levatoio e, con grande fragore, sfrecciò nel viale. 2. La macchina procedeva veloce sulla ghiaia compatta. Il vento frustava il viso di Swanhild: a volte, la luce abbagliante dei fari investiva gli alberi, e i grossi tronchi parevano urtarsi l'un l'altro sotto la volta dei rami fittamen-
te intricati. Adesso si potevano distinguere la guardiola del portiere e il bagliore rossastro della lanterna, che risplendeva sulle grosse colonne di ferro che facevano da cornice al cancello che era stato aperto. La linea della ferrovia faceva piegare la strada verso destra: poi scendeva fino al ponte seguendo l'andamento della valle. Swanhild tendeva inutilmente l'orecchio per cercare di distinguere il minimo rumore fuori dal normale. D'un tratto, sentì il grosso danese al suo fianco che si rizzava per poi riaccucciarsi sui cuscini e stringersi rabbrividendo a lei, che rimase spaventata da quel comportamento, ben sapendo come l'istinto fosse sempre all'erta negli animali. Solo per aver fiutato il vento che giungeva dal Beacon, il coraggioso e intrepido Alex sembrava provare una strana e anormale paura. Giunta sul ponte, la vettura voltò a destra e percorse una lunga strada protetta e circondata da siepi assai fitte che scendevano fino a un piccolo ruscello argenteo che proveniva dalle colline. Macchie di bosco e siepi non curate, circondavano delle squallide abitazioni illuminate soltanto dalla luce delle stelle. In lontananza, si scorgevano sia la valle coperta di bruma, che il pianoro dove si ergeva l'enorme figura del mostruoso uomo di pietra. Oltrepassato il villaggio, le alture del Beacon cominciavano a degradare, e la strada correva, abbastanza diritta, nell'immensità della landa selvaggia. Swanhild sapeva che suo fratello si era recato a Mansby Place dal suo amico d'infanzia Goddard Covert, e sperava che vi si fosse fermato a chiacchierare nonostante l'ora tarda. I suoi occhi, che ben conoscevano il paesaggio circostante, distinsero in ogni particolare la casa situata sul poggio, e videro che era completamente al buio. Soltanto da un abbaino proveniva una piccola luce: Oliver doveva quindi essersene già andato, visto che l'amico si trovava nella sua camera, occupato senza alcun dubbio nei suoi esperimenti di chimica. Poteva darsi però che suo fratello fosse rincasato passando per il borstal, una pista tracciata dalle greggi sull'orlo del bosco, e che attraversava tutta la vallata terminando al castello. Tutte queste ipotesi si affollavano nella testa di Swanhild, mentre guidava la pesante vettura sul sentiero a tutta velocità. Dopo aver svoltato con uno stridio di gomme sulla destra, sbandò sul prato ghiacciato, ma poi riuscì a proseguire sul sentiero erboso. Guidata dall'istinto, attraversò il cupo e denso mare di nebbia che la circondava e che avvolgeva tutta la valle in una coltre ovattata.
L'automobile si avventò rombando lungo la strada scura poi, sotto la fredda luce delle stelle, cominciò a inerpicarsi lungo l'erta del Beacon, giungendo infine al limitare del bosco. Il cane non pareva mostrare irrequietezze di sorta. I lugubri lamenti degli alberi torturati dal vento assalirono la fanciulla col loro scricchiolio di rami spezzati, il mormorio dei cespugli e delle felci, e i fremiti dell'erba spezzata. Un vero e proprio concerto di suoni cupi l'avviluppò non appena si trovò sotto agli alberi. Tenendo la lanterna in mano ben alta davanti a sé, Swanhild avanzava in preda a un terrore folle, allo stesso tempo bruciante e gelata. Il bosco era composto per la maggior parte da pini, da abeti e da faggi, che si ergevano funerei nella notte, nascondendo completamente il cielo. A rari intervalli, qualche fioco barlume riusciva ad arrivare sino al suolo attraverso i rami spogli delle rade betulle. Immersa in quello scenario terrificante, Swanhild aveva paura soprattutto di ciò che avrebbe potuto apparire all'improvviso, scendere dalla cima di un albero, o balzare su dalla terra avventandosi contro di lei. Alex la precedeva dondolando la testa di qua e di là. Di tanto in tanto la ragazza gridava il nome del fratello, anche se temeva che la sua voce potesse giungere a ben altre orecchie. In quel bosco buio come una cantina, l'essere terribile che causava ineluttabilmente la morte di coloro che venivano a contatto con lui, era sicuramente in agguato. Uno strano rumore la indusse a voltarsi e scorse, in lontananza, i fari della sua macchina. Poi, una svolta del sentiero che stava percorrendo, li sottrasse alla sua vista, rompendo così l'ultimo legame che la teneva attaccata al mondo normale. Swanhild arrivò a un crocicchio dove si accorse che qualcuno doveva essere passato da poco. Il suolo indurito dal gelo non aveva conservato nessuna impronta, ma l'erba era ancora abbattuta e pestata come per il passaggio di una persona. Di colpo, Alex si diresse verso un sentiero che arrivava a una quercia che si ergeva in una piccola radura. Qui si arrestò e fiutò il suolo mostrando una certa inquietudine. Swanhild, abbassata la lanterna, scorse una pozza di sangue rappreso dal gelo e già scolorito poi, all'altezza di un uomo, vide su un tronco una macchia più scura. Ai piedi dell'albero giaceva un orribile ammasso di carni lacerate. Il cuore della fanciulla smise per un momento di battere. Poi vide che si trattava del cane di Oliver, un gigantesco mastino della statura di un pony.
Una delle zampe posteriori era stata completamente staccata, e l'intero corpo, ripiegato e compresso in una massa senza forma, era stato poi scagliato contro l'albero, un fatto questo che denotava, da parte dell'aggressore, una forza assolutamente fuori dal comune. Tutt'intorno si percepiva un'aura diabolica! Alex, dopo aver fiutato tristemente il suo compagno di tante scorribande, ripartì per andarsi a fermare davanti a un immenso abete, il cui tronco era stato scavato da un fulmine: ai piedi dell'albero, sopra uno strato di foglie aghiformi e di pigne cadute, era disteso Oliver col capo immerso in una pozza di sangue. Swanhild posò la lanterna per terra, poi sollevò il fratello e lo fece appoggiare con le spalle alla quercia. La seta del suo fazzoletto da collo era tutta sgualcita e ghiacciata nei punti in cui formava delle pieghe, oltre a essere completamente sporca di fango e di sangue: le maniche del pesante cappotto che l'uomo indossava per difendersi dall'umidità della sera, erano ridotte a brandelli. Il sangue, completamente rappreso, aveva cessato di colare da un po' di tempo, e, Swanhild non sapeva se fossero stati la morte o il freddo ad aver arrestato l'emorragia. Cercò di ascoltare il cuore di Oliver, ma non le riuscì di individuare alcun battito, tanto il suo le tambureggiava nel petto. Rialzatasi in piedi, si guardò intorno: i cespugli di rovi, pestati e schiacciati, rivelavano che lì doveva essersi svolta una lotta spaventosa. All'improvviso, dalla cavità dell'albero, provenne un rumore quasi impercettibile. Estremamente tesa, tornò vicino a Oliver e, fissando con apprensione il tronco, lo indicò al suo cane. Alex voltò il muso, indeciso sul da farsi, annusò nella direzione che gli veniva indicata, poi riprese a far la guardia al suo padrone steso a terra. Il vento creava migliaia di suoni diversi, rovesciandoli sui cespugli e sulla cima della collina, sospinti dalle raffiche della tempesta. «Venite fuori di lì, o sparo!», intimò alla fine la ragazza con voce rauca per lo spavento. Non udendo alcuna risposta, sparò un colpo in direzione dell'albero. Ma non accadde nulla, salvo la caduta di qualche scheggia di legno sollevata dall'impatto del proiettile. La detonazione per un istante parve far sparire tutti gli altri rumori, poi seguì un silenzio impressionante. D'impulso, e senza nemmeno rendersi conto di quello che stava facendo, Swanhild raccolse da terra la lanterna, e con quella illuminò l'interno dell'albero. «Kate Stringer!», urlò terrorizzata.
Lo spettacolo che le si era parato davanti agli occhi era indescrivibile nel suo orrore. Il mastino squartato era niente se paragonato a quello che vedeva adesso. In preda al panico, Swanhild, con la forza della disperazione, tirò su suo fratello fin quando riuscì a farlo stare più o meno diritto poi, curvandosi quanto più le fu possibile, se lo caricò sulla schiena, anche se i piedi dell'uomo strisciavano sul terreno. Prese poi le braccia di Oliver, facendosele passare intorno al collo, quindi fece scivolare il revolver nella tasca destra del mantello per averlo a portata di mano in caso di pericolo. Spostata con un piede la lanterna perché facesse luce in direzione del sentiero, perlomeno fino al momento in cui i fari della macchina sarebbero stati in vista, con uno sforzo enorme si mise in cammino, curva sotto il peso non indifferente dell'uomo che portava sulle spalle. Nel ripassare davanti al corpo dilaniato del mastino, Swanhild si rese conto di quale meraviglioso bersaglio stesse offrendo all'autore di tutti quegli orrori. In quel momento, come una mano adunca, un rovo le si attorcigliò attorno a una caviglia. Per districarsi, la fanciulla posò per terra il corpo del fratello, tra sé e un albero. I suoi occhi, ormai avvezzi all'oscurità, riuscivano a distinguere la pallida macchia costituita dal pelo di Alex che la precedeva. Finalmente, i raggi dei fari della macchina si fecero strada attraverso i neri tronchi degli alberi. Swanhild chiamò a raccolta per l'ultima volta tutte le sue energie e arrivò in un punto scoperto. Fatto scivolare dalle spalle il fratello che andò a finire per terra, si lasciò cadere al suo fianco per riprendere fiato. Poi attirò il corpo del giovane sulle sue ginocchia, dove la testa di Oliver assunse una posizione senza vita, tipica di un cadavere. Con gli occhi fissi sul bosco, Swanhild ringraziò Dio di essere momentaneamente in salvo, dato che il Mostro non sferrava i suoi attacchi fuori dall'ombra dei pini e degli abeti. Per il momento, Oliver era al sicuro. Ora rimaneva la cosa più difficile da fare: doveva tornare a prendere l'altra vittima! Nell'intento di guadagnare tempo, cercò di persuadersi che suo fratello vivesse ancora, e che si sarebbe potuto salvare se lo avesse portato subito da un medico in grado di prodigargli delle cure immediate. Il suo dovere pertanto, era quello di occuparsi prima di ogni altra cosa di lui. Peraltro, la povera Kate, qualche minuto prima era ancora viva, ma adesso doveva essere certamente morta... Swanhild issò Oliver sulla vettura, lo avvolse in alcune coperte che ave-
va portato con sé, e quindi mise in moto la macchina. Ma una terribile lotta si scatenò dentro di lei: e se la ragazza era ancora viva? E se Oliver era già morto? La prima volta lei era stata risparmiata dal Mostro, ma sarebbe accaduto lo stesso qualora fosse tornata nuovamente nel bosco? Finalmente si decise per una soluzione di compromesso: dopo aver riportato Oliver al castello, sarebbe tornata a prendere Kate... ma, in questo modo, suo fratello sarebbe sopravvissuto a spese di quella povera ragazza! No! Decisamente, una Hammand di Dannow non poteva comportarsi in un modo simile, nemmeno per salvare suo fratello. A quel punto, dopo aver affidato Oliver alla custodia di Alex, Swanhild s'immerse nuovamente nel bosco silenzioso. Persa nell'oscurità, non aveva la percezione dell'orrore che stava sfidando e della sua temerarietà, conscia soltanto dal senso del dovere da compiere. Quando ebbe raggiungo l'albero cavo, nel rivedere quella cosa spaventosa che era stata la compagna di giochi con la quale aveva scherzato proprio quel pomeriggio, fu sommersa da un terrore folle e irrazionale. In mezzo a quel volto mutilato, che era stato il più grazioso del villaggio, due pallidi occhi celesti la fissarono senza espressione per un attimo prima di richiudersi nuovamente. Alcuni minuti più tardi, Swanhild sistemò la povera Kate a fianco di Oliver. Per far girare la macchina, dovette poi penetrare ancora una volta nell'ombra degli alberi, ma non accadde nulla. Ritrovata la strada principale, la discese, e ben presto fu avvolta dalla nebbia che ricopriva tutta la vallata. Le parve che fossero trascorsi perlomeno mille anni dal momento in cui aveva lasciato Dannow a quello in cui la vettura penetrò nel villaggio. Ma la migliore soluzione era certo quella di recarsi immediatamente al castello. Entro pochi minuti sarebbe giunta alla portineria, dove avrebbe chiesto al guardacaccia di correre d'urgenza a cercare il dottore. Presa questa decisione, pigiò sull'acceleratore, e lasciò dietro di sé le case del piccolo abitato dirigendosi verso l'avita dimora degli Hammand. 3. Stredwick e Walton, entrambi mortalmente pallidi e con gli occhi pieni di terrore e di orrore, trassero Oliver fuori dalla macchina e lo trasportarono nel vestibolo, dove la moglie di Walton, una donna robusta, attiva, con un perfetto controllo dei propri nervi, e che era stata infermiera prima del
matrimonio, stava aspettando con una cameriera. «Mettetelo su quella poltrona», ordinò ai due uomini. Dietro a loro veniva Swanhild, che portava Kate, e che stava solo allora cominciando a capire vagamente di aver compiuto un'impresa assolutamente fuori dall'ordinario. Con un profondo sospiro, la ragazza depose il fardello che aveva tra le braccia sopra un'altra poltrona. «Ha un brutto colpo sulla testa!», constatò Mrs. Walton dopo aver esaminato Oliver. «Il fazzoletto l'ha un po' riparato per fortuna, e le ferite al collo e sul viso sono solo superficiali: il freddo poi ha arrestato l'emorragia. Ah! Ma ecco che comincia a rinvenire!» Poi, rivolta al marito, ordinò: «Presto, un po' di brandy!». Swanhild per un attimo vide la stanza che le girava intorno: era la gioia di sapere che Oliver era vivo, e questo solo era quello che importava. In quel mentre, Mrs. Walton sollevò il mantello che ricopriva l'altra vittima e, a quella vista, nonostante la grande abitudine dovuta alla sua precedente professione, i nervi la tradirono. «Dio!», esclamò, inorridita. «Non mi è mai capitato di vedere niente di simile, e dire che ho prestato soccorso alle vittime di due disastri ferroviari! Ma questa è Kate Stringer! Non l'avevo nemmeno riconosciuta. Sembra come se fosse stata dilaniata dagli artigli di una tigre! Distendiamola su un letto, Miss Hammand, mentre aspettiamo che arrivi il dottore.» In quel momento Oliver aprì gli occhi, che parvero chiari in una maniera diabolica nella maschera sanguinosa che costituiva il suo volto. Inebetito, si guardò intorno. «Cosa è...», cominciò a dire. D'improvviso, il suo sguardo mise a fuoco il corpo di Kate. Lo stupore disparve, per lasciare il posto a un orrore innominabile. Poi, prima che qualcuno potesse impedirglielo, il giovanotto si alzò e si chinò a osservare i resti della ragazza dilaniata. «Kate...», gemette. «Mio Dio! Il Mostro è riuscito a prenderla!» Quindi svenne tra le braccia della sorella che si era portata vicino a lui. «Lo shock lo ha enormemente indebolito», spiegò Mrs. Walton. «Voi, Stredwick, portatelo in camera da letto: penseremo noi due a medicarlo...», dichiarò poi voltandosi verso Swanhild. In quel momento squillò il telefono. «Il guardacaccia dice che il dottore sarà qui a minuti», annunciò la cameriera.
Oliver cominciava lentamente a riprendersi. Rassomigliava alla sorella in modo impressionante, ma la sua folta capigliatura era nera, e gli occhi di un grigio più cupo. Salvo un enorme livido sulla tempia sinistra, il resto del viso non aveva niente, eccettuati alcuni graffi di scarsa entità. «E allora, Swan», disse con una voce rauca che cercava invano di far sembrare disinvolta, «come ho fatto ad arrivare qui? Credevo di essere ancora a casa di Goddard...» Poi si toccò la fronte con la mano bendata. «Cos'è: una fasciatura? Sono stato medicato? E perché sono sdraiato?», chiese, confuso. «Ti ho trovato nel bosco, caro», rispose Swanhild con sollecitudine. «Ma come mai? Non riesco assolutamente a ricordare niente dal momento in cui ho lasciato Lower Dannow». A questo punto la sua voce, fino a quel momento indistinta, si spense in un mormorio. «Ah! Ora ricomincio a ricordare... Mi sono battuto col Mostro! Oddio... Swanhild!», gridò. «Kate... Il Mostro è tornato!» La ragazza si chinò sul letto e posò la sua mano fresca sulla fronte bruciante del fratello. Lui singhiozzò. «È la prima volta che il nostro Demone se la prende con una donna. È stata colpa mia! Se non avessi cercato di difendermi, l'avrebbe risparmiata.» «Oliver... caro...», l'interruppe Swanhild, «cos'hai visto?» «Vorresti cercare di non farmi fare la fine del nonno e di tutti gli altri?», chiese lui guardandola con estrema attenzione. «Ma per il momento puoi stare tranquilla: non ricordo assolutamente niente.» Però, in quello stesso istante, Swanhild gli vide fiammeggiare negli occhi quel rosso bagliore che ben conosceva, e che indicava come fosse preda di una violenta emozione. «Reg!», urlò Oliver. «Oliver!», gridò Swanhild a sua volta. «Non vorrai dire che... Sei pazzo!», aggiunse poi, vedendo che il fratello restava in silenzio. «Perlomeno, spero che non ti abbia dato di volta il cervello.» «Purtroppo penso proprio di non esserlo! Già mi immagino quello che dirà la gente: penseranno che Reg sia diventato un Vampiro...», terminò, amareggiato, «e, poiché dopo la sua morte questa è la prima notte di ge-
lo...» «Stai zitto!», gli ordinò la ragazza. «Sei in grado di far finire una volta per tutte questa mostruosa diceria, semplicemente raccontando quello che è accaduto questa notte.» «Ma io non ho visto niente o, almeno, non riesco a ricordarmene. Sono ferito alla testa?», chiese quindi, toccandosi delicatamente una tempia. «Hai un bel livido che ti devi essere fatto quando sei caduto.» «Forse... Probabilmente è quel colpo che mi impedisce di ricordare quello che è successo.» In quel momento fece il suo ingresso il Dottor Newton. Era un uomo alto e robusto, con il viso attento e sveglio nonostante l'ora tarda della notte. Di natura ottimista, si affrettò a rassicurare i presenti col dire: «Dal momento che state gridando, Mr. Hammand, penso che non stiate troppo male!». «Mi sento soprattutto molto stanco, Dottore», gli rispose Oliver. «Come sta Kate?», gli chiese poi, preoccupato. «Tutto quello che posso dire è che i giovani hanno in genere la pelle dura...», rispose il medico. «Mrs. Walton le sta preparando una camera, perché quella povera ragazza non è in condizioni di sopportare un trasferimento in ospedale.» Quindi gli esaminò attentamente la ferita. «Niente di grave», concluse. «Basterà un punto di sutura: non occorre altro.» Poi rifece accuratamente la fasciatura, e Oliver si lasciò ricadere sui guanciali, esausto per lo shock più che per altro. «Cosa vi è successo?», gli domandò quindi il Dottore. «Stavo tornando da Mansby Place lungo la scorciatoia che attraversa il bosco, quando ho incontrato Kate. Lei abita col nonno in una casetta all'estremità di Lower Dannow e, poiché il vecchio non si sentiva bene, stava andando verso la portineria per telefonarvi.» «Ho capito. Infatti Walton ha fatto chiamare il Dottor Albury e l'infermiera Blake. Quando arriveranno, li manderemo dal nonno di Kate. Ma continuiamo: stavate dicendo che l'avevate incontrata...» «Sì: le ho detto che avrei pensato io a telefonare, visto che dovevo passare davanti alla portineria. Poi siamo tornati indietro fino all'abete cavo. È stato allora che ho sentito un penetrante fetore di materiale in decomposizione...» A questo punto si portò nuovamente la mano alla tempia, ed esitò. Il
Dottore gli porse allora una pozione che aveva preparato e che il giovane bevve automaticamente senza guardare. Swanhild riconobbe l'odore del laudano. «Dunque», riprese a dire Oliver, «stavo dicendo che rimasi molto colpito da quell'odore disgustoso. Tutto intorno a noi c'era un buio profondo. Stranamente, il cane mi si stringeva contro... poi, all'improvviso, Kate gettò un grido di dolore. Rabbrividii, ma non pensate che io sia un vigliacco o un pazzo! Peraltro, tutto quello che si stava verificando, non mi sembrava assolutamente strano: le stelle nel cielo, i pini, il gelo, il Mostro che sapevo acquattato nell'ombra, tutto mi travolgeva in una tempesta di sensazioni confuse, ma in qualche modo familiari. Non erano sensazioni né brutali né violente, ma soltanto orribili! Veramente orribili! Poi Holder cominciò a uggiolare, e allora mi si rizzarono i capelli in testa: sembrava che il cane percepisse non so quale abominio... Mi udii implorare Dio, poi Kate urlò ancora, e Holder le fece eco. In un batter d'occhio, qualcosa mi fu addosso! Cominciai a lottare freneticamente contro un essere che non riuscivo a vedere, avvolto in quella oscurità che sembrava attraversata da miriadi di scintille. Quindi tutto tornò buio, e dev'essere in quel momento che caddi al suolo. Poi, ho riaperto gli occhi qui, nel vestibolo. C'eri tu, Swanhild, e Kate... Oh, mio Dio!» Oliver si nascose la faccia, addolorato. «Dov'è Holder?», chiese poi, vedendo che Alex si rizzava con le zampe sull'orlo del letto e lo guardava con affetto. «È morto», rispose brevemente Swanhild, ritenendo che fosse meglio dirgli la verità. Il giovane ebbe un sussulto. «Holder è morto?», ripeté. «È stato fatto a pezzi dopo aver difeso sia te che Kate: è la più bella morte che un cane fedele al suo padrone possa desiderare.» «Se non avessi opposto resistenza, il Mostro li avrebbe risparmiati entrambi...», si lamentò il giovane. Poi la sua voce si smorzò: sul punto di lasciarsi andare al sonno, si rialzò un momento su un gomito. «Swanhild, dopo la mia morte, sarai tu il capo della famiglia. Quindi, sarai tu la prossima vittima...», mormorò. Tanta era la disperazione che traspariva dalla sua voce, che l'effetto del tranquillante parve per un istante essersi dileguato. «Swanhild, voglio che tu mi faccia un giuramento: che io viva o muoia,
che diventi pazzo o conservi la ragione, tu dovrai cercare di venire a capo di questo mistero!», disse gravemente. «Te lo prometto!», fu la risposta della sorella. «Devi far venire qui Lodge, o Doyle, o quella signora che hanno consultato i Kynaston.» «Ti do la mia parola d'onore che lo farò», lo assicurò Swanhild. «La Blawatski e Crookes non riuscirono a scoprire nulla quando vennero qui in occasione della morte del nonno ma, dopo di allora, la scienza ha fatto molti progressi...» Per qualche minuto, Oliver si mantenne ancora perfettamente lucido: era l'uomo da cui dipendeva la salvezza di sua sorella, e se ne assumeva tutte le responsabilità. «Non sarò tranquillo fino a quando non mi avrai giurato che te ne occuperai non appena farà giorno. Ricordati: dovrai farlo che io sia vivo o morto, pazzo o normale.» «Te lo giuro, Oliver!», fu la risposta definitiva di Swanhild. Poi il giovane si lasciò ricadere all'indietro sul cuscino sospirando, completamente esausto. «Se diventerai il capo della famiglia, erediterai la Maledizione Eterna. Chiama Lodge o quella signora... Ricorda che me lo hai promesso sul tuo onore...» Quindi la sua voce si spense in un mormorio, e si addormentò. 4. Le ore che seguirono, furono per Swanhild un incubo spaventoso. Le ricordavano quelle che avevano preceduto la morte del suo fratello maggiore: lo stesso odore di medicinali, la stessa atmosfera opprimente, lo stesso orrore. Si mise ad aspettare il sorgere dell'alba con impazienza febbrile. In casa, nessuno era andato a dormire. Il medico aveva fatto tutto quello che era in suo potere: c'era una infermiera che sorvegliava Oliver, mentre a Kate erano state praticate tutte le cure possibili. Mentre rifletteva da sola nella stanza degli Holbein, e terminato il momento di attività febbrile seguito al dover badare a Oliver e a Kate, Swanhild si era resa conto della situazione tutt'altro che felice: suo fratello era sì vivo ma, quando avesse ricordato i particolari del dramma che aveva vissuto, senza dubbio si sarebbe suicidato. Per evitare questa tragedia, a Swanhild non rimaneva altro che riuscire là dove ben trenta generazioni di
Hammand avevano fallito, ossia svelare la natura del Mostro. Quale mai poteva essere il suo aspetto? E perché non l'aveva attaccata? Aveva forse abbandonato il bosco prima del suo arrivo? E, in tal caso, dove poteva essersi nascosto? Da dove veniva? All'epoca delle sue precedenti apparizioni, non si era mai potuta scoprire alcuna traccia in grado di fornire una risposta a qualcuno di quegli interrogativi. Swanhild si decise a giocare l'unica carta che avesse in mano, e consultò l'elenco telefonico. In quel momento si aprì la porta ed entrò il Dottor Newton. La ragazza lo guardò interrogativamente, in silenzio. «La diagnosi di Albury e la mia concordano, Miss Hammand», disse il Dottore salutandola. «Vostro fratello è fuori pericolo. Il suo polso è normale e dorme tranquillamente: le ferite poi sono in via di guarigione. Siete stata molto brava ad averle fasciate subito, dato che un'emorragia troppo prolungata sarebbe potuta risultare fatale.» «E Kate come sta?», chiese Swanhild. «Purtroppo penso che non abbia molte probabilità di sopravvivere: comunque desidererei che venisse consultato uno specialista.» «Potete chiamare chi ritenete più opportuno, dottore: non ponetevi alcuna remora. Piuttosto, volevo sapere come sta mio fratello da un punto di vista mentale.» «Non posso dir nulla prima che si sia risvegliato. A un primo esame, salvo la leggera commozione cerebrale che ha riportato, non mi sembra che sia stato colpito gravemente.» «Pensate che questa commozione cerebrale potrebbe causare una perdita totale della memoria?» «Non lo so. Non ho trovato ossa rotte per cui, dopo un buon sonno, è possibile che questa amnesia momentanea di cui soffre attualmente si risolva.» «Ma, nel caso dovesse perdurare, sarebbe definitiva?» «È impossibile fare delle previsioni. È chiaro comunque che, nel caso di una simile eventualità, sarebbe necessario l'intervento di uno psichiatra e di cure appropriate.» «Ho paura che gli specialisti, per quanto bravi possano essere, non servano a niente in questo caso...» «Via, Miss Hammand, non siate pessimista!», la rincuorò il medico. «Sono sicuro che non c'è niente di grave, e che vostro fratello si rimetterà completamente.»
La ragazza si rammentò allora che il medico abitava lì solo da poco tempo. «Secondo voi», gli chiese, «da chi o da che cosa possono essere state prodotte le ferite che avete avuto modo di osservare su Oliver e su Kate?» «Questo è un punto che mi crea un certo imbarazzo. Le ferite non sono molto chiare: mi verrebbe da pensare a qualche bestia feroce affamata. Ho avvisato il Connestabile in questo senso. Peraltro, il vostro maggiordomo mi ha detto che gli Ades avevano minacciato vostro fratello in precedenza, e loro possiedono dei grossi cani feroci che potrebbero essersela presa con il testimonio incomodo - Kate - mentre i due bracconieri si occupavano di Mr. Hammand. A ogni buon conto, mi auguro che il nostro paziente, quando si sveglierà, riderà di tutte quelle stravaganze di cui ha parlato questa notte. Mi domando cosa voleva dire con la storia di quel mostro... Ma evidentemente stava delirando...» «Sappiate che quelle che voi definite "stravaganze" sono talmente gravi», replicò in tono accorato Swanhild, «che mio fratello si ucciderà se riuscirà a ricordare ciò che ha visto nel bosco. Fino ad oggi», precisò poi indicando al dottore i ritratti dei suoi antenati che facevano bella mostra sulle pareti della grande biblioteca nella quale si trovavano, «tutti lo hanno fatto!» Il Dottor Newton sorrise con condiscendenza. «Pensate che ci sia qualcosa di vero in quelle chiacchiere che circolano nelle osterie?» «Mio nonno ha fatto questa fine nel 1890: potete leggere il resoconto dell'inchiesta sul Times del 10 ottobre.» Il medico lo scrutò soprappensiero. «Mi sembrava infatti di aver letto qualcosa a questo proposito. Comunque, io ritengo che si tratti solo di favole buone per i bambini. Ora siete ancora sconvolta per tutte le emozioni di questa notte ma, alla luce del giorno, ritroverete tutto il vostro equilibrio, e vedrete che la Polizia riuscirà a trovare il colpevole dell'aggressione. Adesso vi devo lasciare, perché c'è il giro dei miei malati che mi aspetta.» Allontanatosi il medico, Swanhild riprese l'elenco del telefono e annotò una lista di nomi e di indirizzi. Poi la porta si aprì di nuovo. «Goddard!», esclamò la ragazza nel vedere il nuovo venuto. «Swanhild!», mormorò l'uomo appena arrivato, mentre nella voce gli vibravano rimprovero, commozione e spavento. Un poco più vecchio di Swanhild, era esile e scattante. Il suo viso scar-
no, dalla bocca sottile, era incorniciato da una massa di capelli neri, e rischiarato da due occhi scuri e brillanti. Portava con noncuranza un abito di tweed spiegazzato, sulla testa aveva un berretto floscio e, dalla mano sinistra coperta da un guanto - a causa di una ferita riportata in guerra aveva un braccio artificiale - dondolava una grossa lanterna ancora accesa. «Sì», disse rivolgendosi con severità a Swanhild che lo guardava sbalordita, «è proprio la tua lanterna!» «Oh, Goddard!», mormorò Swanhild con voce soffocata. «Sei andato nel bosco?» «Avresti potuto chiamarmi perché ti accompagnassi!», brontolò il giovanotto. «Ho lavorato fino a tardi, poi ho scorto una luce sotto gli alberi, e ho voluto rendermi conto di cosa stava succedendo... È stato allora che ho visto il cane... o quello che ne restava!» Posò quindi la lanterna su un tavolo, la spense, e la sua mano buona ebbe una contrazione spasmodica. «Quando penso che eri nel bosco questa notte, sola...», borbottò di nuovo. «E che dopo... Maledizione! Walton mi ha raccontato tutto: ero fuori di me!» Così dicendo, spiegazzava il berretto che teneva in mano, sintomo questo del nervosismo di cui era preda. «Sei andato da solo nel bosco!», ripeté la ragazza con voce commossa e intenerita. «Non mi attribuire dei meriti che non ho. Di pericolo ormai non ce n'era più, dato che aveva cominciato a piovere...» Dopo l'incredulità del dottore, era confortante vedere Goddard che ammetteva l'ipotesi del Mostro senza nemmeno metterla in discussione. Allora Swanhild gli narrò quanto le era successo durante la sua spedizione sotto gli alberi. «Dal momento che Oliver è salvo, come pure le sue facoltà mentali, di cosa hai paura adesso?», le domandò il giovane. «Temo che, se recupera la memoria, possa seguire l'esempio di mio nonno...», rispose la ragazza. «Mrs. Walton e io possiamo star qui a sorvegliarlo sin quando non si risveglierà fra un paio di ore per impedirgli qualche tentativo di suicidio, ma i ricordi possono balenargli alla mente in ogni momento, ed è impossibile tenerlo sotto controllo per tutta la vita! E ti confesso che, se dovesse capitargli qualcosa...» A questo punto, la voce della ragazza si ruppe per le lacrime che cercavano di uscirle dagli occhi.
«Comprendo!», disse Goddard. «Ma cosa si può fare?» «Devo cercare di svelare il mistero del Mostro e della Maledizione che grava sulla nostra Casata», continuò Swanhild. «Se ci riuscirò, e lo rivelerò a Oliver, il colpo sarà certamente meno duro.» «Cosa pensi di fare?» Swanhild indicò l'elenco del telefono. «Quando sei arrivato stavo cercando Miss Bartendale, Luna Bartendale... ma il suo nome non risulta.» «Bartendale... Bartendale... Mi ricorda qualcosa...» «Me ne ha parlato Grace Kynaston. L'anno scorso l'ha aiutata con successo a trovare la causa di alcune strane manifestazioni che si verificavano nell'ambito della sua famiglia. Purtroppo però, Grace ora si trova all'estero in vacanza. Tutto quello che so è che questa Miss Bartendale abita a Londra. A questo punto devo pensare che abiti in casa di qualche suo parente e che quindi il telefono sia sotto un altro nome: a ogni modo ho tirato giù una lista di tutti i Bartendale di Londra: ce ne sono undici.» «E come intendi procedere?» «Non appena Oliver sarà in grado di rimanere da solo, andrò a visitarli uno per uno.» «Tanto vale cercare un ago in un pagliaio: è sicuramente più facile», affermò Goddard. «Bartendale... Bartendale...», riprese a ripetere tra sé corrugando la fronte nello sforzo di ricordare. Swanhild aprì la finestra che dava a Nord. Subito il vento entrò gravido di pioggia. I due giovani si misero a contemplare la pianura nebbiosa appena illuminata da una pallida luce che rendeva le cose indistinte: il bosco appariva come una massa scura e cupa, carica di minaccia. «Che situazione orribile!», proruppe a un tratto la ragazza. «Oliver è sano e salvo ma, se non riusciamo a venire a capo di questo mistero che ha sfidato i millenni, finirà con l'impazzire e...» Ma non riuscì a finire. «Sono una codarda, Goddard, e me ne vergogno!», gridò. «Sì, ho una paura spaventosa, ma Oliver è tutto quello che mi resta... Quando è tornato dalla guerra con Reg, i dottori lo avevano condannato, ma io sono riuscita a salvarlo. Non avrei forse fatto meglio a lasciarlo morire in pace?» «Zitta!», le ordinò perentoriamente Goddard. «Swanhild, ora ti senti scoraggiata perché sei esausta per tutto quello che hai dovuto passare ma, fra qualche ora, e dopo aver riposato un po', sarai nuovamente pronta a combattere con tutte le tue forze per Oliver!»
«Ma come possiamo fare a vincere questo nemico imprendibile e invisibile?», chiese la ragazza ancora in preda allo sconforto. «Coraggio, mia cara!», disse Goddard con tenerezza. «Due anni fa mi trovavo in una trincea a scavare nella melma a colpi di vanga. La morte era tutt'attorno a noi: non era assolutamente possibile prevedere in quale nuova forma si sarebbe manifestata a ogni minuto che passava. Il solo modo per sfuggire all'ansia che ci attanagliava era quello di non pensare. Ebbene: oggi dobbiamo fare lo stesso, e non pensare ad altro che a trovare la nostra... Strega.» Così dicendo, guardò Swanhild con un'aria di rimprovero mitigato da una punta di malizia. «A proposito! Non mi sembra molto esatto né gentile dire che Oliver è tutto quello che ti resta nella vita. Speravo di contare qualcosa anch'io...» Il turbinio del vento, simile alla voce smisurata dell'infinito, vorticava intorno alla camera silenziosa. In mezzo all'orrore che li circondava, quel momento di distensione fu come un dolce balsamo per la ragazza. Le parve che tutto l'universo fosse scomparso, e che l'unica cosa che esistesse fosse il loro amore. «Quanto devi voler bene a Oliver...», disse Swanhild, sospirando dolcemente. Goddard la strinse tra le braccia e la baciò delicatamente. Dopo la morte di Reg, anche Oliver aveva compiuto il medesimo gesto e, a quel ricordo, un'ondata di terrore invase nuovamente la ragazza, che però si sentì subito confortata dalla presenza dell'uomo che la teneva tra le braccia. «Grazie a Dio, Oliver è ancora vivo!», esclamò quasi in tono allegro. «Proprio così, ed è nostro compito far sì che lo rimanga il più a lungo possibile. Ce la metteremo tutta, e vedrai che ce la faremo!», concluse Goddard, baciandola nuovamente. Swanhild dimenticò tutto quello che la circondava... 5. Un'ora e mezza più tardi, Swanhild scese nell'atrio. A quell'ora tarda della notte, il freddo sembrava più pungente e il silenzio più profondo. Le piante rampicanti arse dal gelo davano alla grande casa che rivestivano un'aria di morte e da fine del mondo. Un'infermiera attraversò la galleria, lasciandosi dietro un penetrante odore di cloroformio.
Angosciata, Swanhild tornò nella stanza degli Holbein dove c'erano luce e fuoco. Alex e gli altri cani stavano mangiando azzuffandosi al contempo con i gatti e, seduti a una tavola apparecchiata, Goddard e Mrs. Walton conversavano tristemente. «Mi sono permesso di far venire la Mercedes, Swanhild; penso che un paio d'ore di guida serviranno a farti rilassare un po', e anche Mrs. Walton è del mio parere.» «Adesso?», domandò la giovane. «Sì, adesso!», intervenne Mrs. Walton. «Penserò io a tutto durante la vostra assenza, anche a sorvegliare vostro fratello.» «Dobbiamo metterci alla ricerca di Miss Bartendale», chiarì Goddard. «Spero solo che riusciremo a trovarla abbastanza presto!» «Oh, Goddard!», esclamò la ragazza, imbarazzata. «Come hai potuto?» «Nessuna domanda prima di aver mangiato, mia cara!», l'ammonì scherzosamente il giovanotto. «Ma io non ho fame...» «E allora non partiremo fino a quando non avrai bevuto una bella tazza di caffè forte! Poi, non appena la macchina sarà pronta, salperemo per "Suez a Ovest di Suez".» Swanhild lo guardò con aria allo stesso tempo interrogativa e sbalordita. «È solo un nomignolo col quale chiamo Brighton», spiegò Goddard. «Mi sono improvvisamente ricordato di aver sentito dire che Miss Bartendale si trova lì da un paio di giorni per riposarsi, come tanti altri appassionati dei bagni di mare.» «Sai anche dove sta esattamente?», chiese la ragazza improvvisamente eccitata. «No, ma penso che sia certamente molto più facile trovare un'ospite non proprio comune a Brighton, che non un abitante di Londra in un elenco telefonico nel quale per di più non risulta!» Swanhild ebbe ancora un attimo di esitazione. «E se Oliver si sveglia una volta che sono partita?», chiese. «C'è Mrs. Walton: non ti devi preoccupare.» «Il calmante che ha preso lo farà dormire per almeno sei ore», affermò quest'ultima. «Quando si sveglierà, a seconda del suo stato, gli darò una buona colazione, oppure un'altra dose di calmante. Quanto a voi, questa corsa in macchina non può farvi altro che bene: siete troppo agitata e nervosa per essere di qualche aiuto a vostro fratello.» La ragazza a questo punto cedette senza farsi pregare oltre. Quando si fu
sistemata al volante della grossa autovettura, la sua inquietudine cominciò a calmarsi. L'aria aperta, l'approssimarsi dell'alba, e la speranza di poter finalmente fare qualcosa per aiutare Oliver, la confortavano. «Qual è il tuo piano, Goddard?», gli chiese, mentre stavano attraversando un ponte. «Interrogare i portieri di notte degli alberghi», rispose il giovane. «Se poi non dovessimo approdare a niente, allora chiederemo agli impiegati del mattino la lista dei viaggiatori arrivati sabato.» La pioggia intanto era cessata e le stelle splendevano nel cielo terso in tutto il loro pallido fulgore. Le ultime si stavano smorzando lentamente mentre attraversavano Beeding. Quando arrivarono a Soreham, il buio era ancora fitto. Parlavano poco perché Swanhild era completamente presa dalla guida. Finalmente le colline di Porsalde vennero superare e, la grigia massa costituita dall'abitato di Brighton apparve loro davanti insieme ai primi fremiti rosati dell'alba invernale. La strada sembrava stranamente deserta, e la luce dei fari accentuava la desolazione di quel paesaggio: il cielo e la terra, le case, e le dune lontane, sembravano irreali. Il silenzio era rotto soltanto dal rumore del motore e dal gemito del vento al quale si mischiava il frastuono del frangersi dei flutti sulla scogliera. «E se Miss Bartendale non si trova qui, cosa faremo?», domandò a un certo punto Swanhild con voce rauca per la stanchezza. «La cercheremo da qualche altra parte», rispose Goddard. «Ma non preoccupiamoci prima del tempo. Ora svolta nella prima via a sinistra, e cominciamo la nostra ricerca.» La giovane rimase seduta nella vettura mentre Goddard interrogava i portieri di notte di diversi alberghi. Miss Bartendale non alloggiava nel primo, nel secondo, e neppure in diversi altri alberghi davanti ai quali si fermarono. Percorsero inutilmente diverse strade e viali domandando notizie della spiritista, ma sempre con esito negativo. Quando sorse il sole, si erano fatti una cultura riguardo alle varie fasi di risveglio degli alberghi. Finalmente, un impiegato mostrò a Goddard la lista degli ospiti, e il giovane trovò il nome che cercava. «Eureka!», esclamò rivolto a Swanhild. «Guarda: Giovedì... Lady Adams, Miss Bartendale... Ora ce ne andremo, e ci fermeremo in Ship Street.» «Perché?», domandò la ragazza, mentre obbediente faceva girare la macchina.
«Per telefonare, è ovvio! Non possiamo presentarci così presto senza avvertire. Perbacco! Ci vuole un po' di gentilezza per quella poveretta!» A quell'ora mattutina, la città pareva uggiosa e insonnolita. Le mani di Swanhild erano sudate, e il suo viso era mortalmente pallido: pochi minuti soltanto la separavano dalla speranza o da una condanna ineluttabile! Al telefono, le rispose la voce strascicata di una cameriera. «Miss Bartendale è in camera sua. Si sta preparando perché deve prendere il primo treno del mattino. Volete dirmi il vostro nome, per favore? Miss Hammand? Aspettate un momento...» Trascorsero alcuni minuti. «Pronto? Parla Luna Bartendale», udì Swanhild all'improvviso. «Il Mostro dev'essere tornato, non è vero, Miss Hammand?» «È vero, ma voi come fate a saperlo?», domandò Swanhild completamente frastornata. «Non è poi molto difficile, bambina mia! Quando una Hammand del vecchio maniero di Dannow si presenta di mattina presto a un'estranea nota per le sue facoltà PSI, la deduzione che ne scaturisce è abbastanza facile.» La donna aveva una bella voce da soprano leggero, dal timbro assai chiaro. «Quando è. riapparso?», continuò. «Poche ore fa...» In poche parole, Swanhild riferì gli avvenimenti di cui era stata protagonista la notte appena trascorsa. «E cosa pensate che dovrei fare?», le chiese la voce della donna al telefono. «So che l'anno scorso avete risolto un grosso problema a Lady Kynaston, e ho pensato...», mormorò con un filo di voce Swanhild. «Il Mistero Kynaston non era né oscuro né millenario quanto il vostro... Comunque farò tutto quello che è in mio potere, ma... non vi fate troppe illusioni. Dove vi trovate adesso?» «All'Ufficio Postale di Ship Street. Sono venuta qui a Brighton in auto con God... voglio dire con Mr. Covert.» «Potrei esaminare i luoghi, prima che arrivi la Polizia?» «Penso che sia possibile. Nessuno, nemmeno il Connestabile del luogo, farà niente prima che sia giorno inoltrato, mentre noi potremmo essere sul posto entro un'ora.» «D'accordo allora! Se non arrivate troppo presto, mi troverete pronta.»
Hesse Square, il luogo ove si trovava l'albergo di Miss Bartendale, era situato all'estremità sud-ovest di Brighton, nel quartiere aristocratico della città, indubbiamente uno dei più belli, prima di essere invaso dalle pensioni a carattere familiare. Calmo e silenzioso nelle giornate estive, in quel mattino d'inverno pareva assolutamente deserto. La macchina stava transitando sotto una lunga fila di alti cipressi: Hesse House era costruita quasi sugli scogli. «È proprio il posto ideale per una Strega!», affermò Goddard. Swanhild era già scesa dalla vettura, quando la porta d'ingresso si aprì, e apparve una donna minuta, seguita da un grosso cane di una razza non ben definita, che aveva al contempo del molosso e del segugio. «Miss Hammand?», chiese la voce di poco prima al telefono, mentre la spiritista le tendeva la mano. Che volto stupendo! Le ciocche che sfuggivano da sotto la cuffia di pelle da automobilista che aveva indossato, erano di quell'oro smorto che raramente sopravvive al periodo dell'infanzia. I suoi lineamenti erano assai delicati, e la carnagione lattea, con un lieve incarnato color rosa su ciascuna gota. Soltanto le sopracciglia scure, gli zigomi pronunciati, e il naso alquanto grosso, toglievano all'insieme ciò che avrebbe potuto avere d'infantile. Una profonda fossetta le segnava il mento fine e rotondo, donando al viso un'aria impertinente. Miss Bartendale teneva le palpebre socchiuse, sì che i suoi occhi sembravano neri dietro lo schermo delle ciglia dorate. Dava un'impressione di gracilità, ma si manteneva ritta, avvolta in un ampio mantello di lana. Swanhild chiese esitando: «Miss Bartendale? La Maga Bianca?». «Direi piuttosto un'esperta di Poteri PSI», la corresse l'altra con un sorriso. «Sono più vecchia di quanto non sembri», continuò poi, prevenendo il pensiero di Swanhild. «E non sono solita considerare il mio lavoro in quel modo suggestivo tanto caro agli Americani!» Chinò quindi il capo e guardò attentamente Swanhild che subì l'esame di due occhi grigi, luminosi, trasparenti come il ghiaccio o il diamante, e così penetranti che la ragazza fu felice di non aver assolutamente niente da nascondere. «Penso di dovere a Mr. Covert la fortuna di poter studiare oggi questo mistero, non è vero?», chiese Miss Bartendale rivolgendosi al giovanotto. «Bene! Adesso che abbiamo fatto le presentazioni, voi potete mettervi al volante Mr. Covert, mentre Miss Swanhild mi fornirà tutte le informazioni
e i dettagli possibili. Vedo che siete simpatici al mio cane: ottimo! Smith», disse poi rivolta alla cameriera che camminava al suo fianco portandole una piccola valigia di cuoio, «non dimenticarti di telefonare a mia zia, ti raccomando!» Si sedette quindi comodamente al fianco di Swanhild sul sedile posteriore della macchina con il cane accovacciato ai suoi piedi, e la vettura riprese la strada che portava a Dannow. 6. Miss Bartendale si lasciò andare sul suo sedile, e sorrise alla ragazza che le stava vicino. «Mi sembrate sconcertata per il fatto che mi sia lasciata convincere ad accompagnarvi con tanta rapidità...», disse. «No... pensavo piuttosto che vi sareste rifiutata di partire a quest'ora», rispose Swanhild. «Oh, ci sono abituata. Quando mi avete telefonato, ero già vestita e stavo finendo di far colazione alla luce della lampada a gas, il che è quasi altrettanto insolito che il bere champagne in pieno giorno. Ma ora, volete essere così gentile da raccontarmi un'altra volta quello che è accaduto stanotte?» Volenterosamente, Swanhild ripeté il racconto di quanto si era verificato, stando ben attenta a non omettere niente. «E che c'è di anormale in tutto questo, Miss Hammand?», le domandò Luna Bartendale quando la ragazza ebbe finito. «Non riesco a esprimerlo, ma qualcosa c'è...» La voce di Miss Bartendale indugiava sulle parole, e il suo tono volutamente leggero, la rendeva gradita e suadente. «Secondo me c'è un solo punto oscuro. A meno che vostro fratello non abbia dimenticato di dire che... Ma sentiremo poi cosa avrà da dirci... E adesso veniamo al Mostro della vostra Casata. Tutte le guide delle case stregate lo citano, e ora vi riassumerò quello che ho appreso sul suo conto dalle pubblicazioni specializzate sul Soprannaturale. Sono secoli che la vostra famiglia è perseguitata da una Maledizione - la Maledizione Eterna - in base alla quale si verifica un'apparizione conosciuta sotto il nome di Mostro Immortale. A più riprese degli Hammand sono morti misteriosamente, e si dice che la causa sia proprio questa apparizione. È tutto esatto, vero? E da quanto tempo il Mostro non aveva più fatto
parlare di sé?» «Dal 1890, quando uccise mio nonno e altre due persone.» «Cosa accadde in quell'occasione?» «Quel giorno il nonno aveva dato appuntamento nel bosco a una signora che abitava a Mansby Place, ed erano stati sorpresi da un guardacaccia. Sia quest'ultimo che la signora in questione furono massacrati in maniera orribile, come le precedenti vittime del Mostro, e anche Kate la notte scorsa. I due grossi spaniel del nonno e il cane del guardacaccia erano stati fatti a brani ma, caso curioso, non erano stati divorati. I cadaveri sia delle persone che degli animali, furono rinvenuti dai poliziotti nei pressi del Thunder's Barrow, mentre il nonno fu trovato che vagava senza meta coperto di ferite spaventose. Nel giro di una notte, i suoi capelli erano diventati tutti bianchi! Non volle assolutamente dire cosa era accaduto e, l'indomani, si suicidò. Ora sapete qual è il timore che nutro per mio fratello.» Luna Bartendale le strinse una mano con affetto. «D'accordo, mia cara. Vedrò di cercare di scoprire per quale motivo dovrebbe desiderare di suicidarsi. Ma ditemi: Dannow è uno dei più vecchi castelli inglesi, non è vero?» «Sì. Nell'atrio sono presenti elementi originari del primo castello sassone.» «Quand'è che la vostra famiglia ne è entrata in possesso?» «È stato costruito proprio dagli Hammand.» «Avete dei documenti, degli archivi?» «Abbiamo un documento con il Sigillo di Canuto, dove si attesta che Reinaldo, figlio di Hammand, è il proprietario del castello.» «E qual è la data più antica in cui è apparso il Mostro?» «Un albero genealogico redatto nel 1650 riferisce tutte le sue apparizioni, dato che vi sono segnati con inchiostro rosso i nomi delle sue vittime. Un secondo albero genealogico, riporta poi tutti gli avvenimenti verificatisi dal 1650 al 1850.» «Ci sono altre testimonianze?» «Nella chiesa di Dannow, un bassorilievo rappresenta un crociato ai cui piedi giace una forma massiccia non identificabile che rappresenta il Mostro. Il Crociato del bassorilievo è Sir Oliver Hammand, che si scontrò col Mostro e sopravvisse, ma andò poi in Terrasanta con la Prima Crociata, dove si fece uccidere per sfuggire all'orrore dei suoi ricordi. Abbiamo anche un quadro del 1387 dove è raffigurato Sir Godfrey Hammand. Anche qui appare una bestia assai strana. Sir Godfrey vide il
Mostro e sopravvisse pure lui, ma trascorse il resto dei suoi giorni in preghiera, vivendo come un anacoreta in una piccola cella costruita a fianco della chiesa. Loro due sono i soli Hammand che non si siano dati la morte dopo aver incontrato il Mostro, ma dobbiamo considerare che farsi uccidere in guerra e diventare eremita, sono niente più che due forme di suicidio.» «A cosa assomigliano le bestie raffigurate nel bassorilievo e nel quadro?» «Non è facile a dirsi. Quella del bassorilievo non ha forma, mentre l'altra è stata cancellata e sfigurata.» «Il Mostro è stato visto o descritto da altre persone oltre agli Hammand?» «No. Chiunque lo ha visto, o è stato ucciso, oppure è morto per lo spavento.» «Però questa ragazza... questa Kate Stringer, è sopravvissuta...» «I medici dicono che è praticamente in fin di vita.» «Se non mi sbaglio, mi sembra che ci sia una vecchia Ballata che parla del Mostro...» «È vero: volete che ve la dica?» «Sì, grazie.» Lo Spirito del Mostro di Dannow È legato per l'eternità alla Casata. Fin quando il Mostro vivrà, Vivrà la Casata degli Hammand. Se muore, sempreché possa morire, gli Hammand moriranno con lui. Che la morte sia misericordiosa Con colui che incontrerà il Mostro. Infatti, se non morirà per questo incontro, La sua sorte sarà peggiore della morte. Le ultime parole della Ballata si spensero in un mormorio, quasi avessero evocato nell'abitacolo silenzioso, arcane presenze di mali antichi e primevi. «C'è qualcosa di singolare nelle parole di questa Ballata...», mormorò Luna Bartendale. «Fin quando il Mostro vìvrà, vivrà la Casata degli Hammand... Sembrerebbe allo stesso tempo una fortuna e una disgrazia.
Ho letto molte versioni circa le sue apparizioni», continuò poi, «e in una si afferma che un Hammand deve essere sacrificato al Mostro a determinati intervalli di tempo. Un'altra sostiene che il castello ha una stanza segreta la cui ubicazione e il contenuto vengono rivelati al futuro Signore solo nel momento in cui questi compie venticinque anni. E si dice anche che questo segreto sia talmente orribile che nessuno di coloro che ne sono venuti a conoscenza, lo ha mai svelato.» A questo punto Swanhild cercò d'interromperla, ma Miss Bartendale la fermò con un gesto. «La tradizione popolare vuole che il primo degli Hammand abbia concluso un patto col Diavolo. Gli avrebbe venduto l'anima a condizione che i suoi discendenti avessero posseduto Dannow fino al Giorno del Giudizio e che lui fosse vissuto abbastanza a lungo da poter assistere all'adempimento di quel contratto. Sarebbe lui l'occupante di quella famosa stanza segreta e, a determinati intervalli di tempo, sacrificherebbe delle vite umane per prolungare la propria. In conclusione, il Mostro dovrebbe essere questo vostro antenato...» «Sì: questo infatti è ciò che si tramanda e si narra tra la gente», riconobbe Swanhild. «In base a questa versione, questo mio antenato dovrebbe aver assunto un aspetto talmente orribile da spingere al suicidio tutti quelli che hanno avuto la sventura di vederlo. Però una cosa è certa, Miss Bartendale: nel castello non esistono stanze segrete di sorta. Io stessa ho avuto modo di entrare diverse volte in quella che passa per tale...» «C'è anche un'altra leggenda», continuò imperterrita Miss Bartendale, «secondo la quale, in una certa epoca non meglio precisata, nell'ambito della vostra famiglia sia nato un essere per metà uomo e per metà bestia che, da allora, si nasconde - o viene nascosto - nel castello. Si dice inoltre che, ogniqualvolta questa creatura viene vista da qualcuno, ne seguono degli accadimenti spaventosi. È ovvio che la maggior parte di queste dicerie devono essere pure invenzioni o sensazionalismi propalati al solo scopo di soddisfare la brama di emozioni della gente, comunque non si può non tenerne conto assolutamente. Conoscete per caso delle altre storie?» «Sì: la più atroce di tutte!», esclamò Swanhild. «Secondo questa, gli Hammand sarebbero dei Vampiri senza sapere di esserlo e, quando uno della famiglia muore di morte violenta, viene liberata la sua parte demoniaca, che torna a Dannow dove...» A questo punto la ragazza si fermò, soffocata per l'indignazione. «Dove... cosa?», domandò Luna con vivacità.
«La gente pretende che Reg, il mio fratello maggiore morto tre mesi fa, sia un Vampiro...», mormorò Swanhild, struggendosi in lacrime. «Tre mesi fa! Il termine...» «Sì: la gente del luogo ne è convinta. Quando morì il nonno, avevano accusato la sua figlia più giovane - che era rimasta uccisa accidentalmente l'autunno prima durante una battuta di caccia - di aver assassinato sia la signora che si trovava con mio nonno che il guardacaccia. Il suicidio del nonno, poi, non ha fatto altro che rafforzare questa convinzione.» Miss Bartendale guardò affettuosamente Swanhild. Nella pallida luce del mattino, le pupille dei suoi occhi stupendi si dilatavano come quelle dei gatti nell'oscurità. «So per antica esperienza tutto quello che i contadini sono capaci di immaginare», le disse dolcemente. «Nel mio paese natale, ogni sette anni affogano una bestia nel fiume per placare un fantasma che chiamano Peg O'Nell. Penso che, ovviamente, vostro fratello si crucci per tutte queste superstizioni...» «Non riesce a pensare ad altro!» L'esclamazione di Swanhild fu più simile a un grido. «Nostro padre è morto in guerra, e nostra madre non gli è sopravvissuta a lungo, per cui noi due siamo rimasti soli... Ma perché mai vi metto a parte di tutte queste cose? Me lo sto proprio domandando...» «Perché avete fiducia in me. Ma c'è un'altra cosa che m'interessa sapere: il Mostro è mai apparso in altre parti che non fossero il bosco?» «Sì. Oliver Hammand - il padre dell'Anacoreta - fu ucciso dal Mostro durante un pellegrinaggio a Rocamdour insieme a sua figlia. Godfrey, che li accompagnava, sopravvisse ma, come vi ho già detto, si fece eremita.» «Vorrei proprio sapere perché il Mostro fa la sua comparsa soltanto nelle notti d'inverno...» «Esiste un'altra Ballata a questo proposito», rispose Swanhild, che quasi immediatamente declamò: Dove i pini e gli abeti crescono rigogliosi Sotto le stelle, senza caldo, né pioggia, Il Capo degli Hammand incontrerà la sua fine... «In fondo, la Maledizione si accanisce solo contro i titolari del nome e della Casata... Si è mai visto il Mostro all'interno del castello?», chiese la spiritista. «Sì, una volta. Il Capo della famiglia allora era Magnus il Mago, il nipo-
te dell'Anacoreta.» «Ma non è il protagonista di un'altra leggenda?» «Sì. Era uso praticare la Magia nella stanza segreta, della quale i pini ombreggiano tuttora l'unica finestra. Riguardo a lui si narra che, dopo aver ripetutamente chiesto l'aiuto del Mostro, lavorò seguendo i suoi insegnamenti e, in cambio di questi, gli sacrificò il proprio figlio. Alcuni affermano che avesse venduto l'anima a Satana e che celebrasse delle Messe Nere durante le quali venivano sacrificati dei bambini, che nutrisse il Mostro con dei fanciulli vivi... insomma ogni sorta di dicerie tra le più abbiette e terrificanti!» Luna pareva ascoltare con estremo interesse le parole della giovane. «E quale fu la fine del Mago?» «Si suicidò dopo la morte violenta di sua moglie la quale aveva visto uccidere e mangiare il proprio figlio dal Mostro, e non aveva retto a tanto orrore. La sua tomba si trova all'interno della chiesa. Alcuni contadini credono che il suo fantasma aiuti gli altri membri della famiglia a trasformarsi in Vampiri; altri ritengono invece che il Mostro sia ancora vivo e si trovi nella stanza segreta...» 7. Luna Bartendale rimase soprappensiero per qualche istante, tenendosi il mento con il palmo di una mano. «Non c'è fumo senza fuoco...», disse alla fine. «E raramente si verifica che le leggende non abbiano qualche fondamento reale. Si può sapere dov'è questa stanza "segreta", Miss Hammand?» «Vi porterò a vederla. Ci entriamo solo io e Oliver, in quanto non vogliamo che i domestici possano mettere in disordine le cose che ci sono dentro.» «Quali cose?» «I libri e i documenti che Warlock ha lasciato in quella specie di laboratorio... Tra l'altro dovete sapere che, in punto di morte, dichiarò che lì si sarebbe potuta trovare la chiave del mistero relativo alla Maledizione Eterna...» Luna spalancò gli occhi, estremamente interessata. «E in quattrocento anni non si è venuti a capo di niente? La stanza è rimasta intatta come allora?» «Tranne i soldati di Cromwell che sottrassero o ruppero qualche oggetto
durante l'occupazione del castello, nessuno ha mai toccato niente. Secondo Madame Blavastsky e Sir William Crookes, i saccheggiatori devono aver comunque portato via o distrutto ciò che era essenziale per la scoperta del mistero.» «A questo punto mi vien fatto di chiedermi, se a me toccherà maggior fortuna...», mormorò tra sé la Bartendale. «Certe branche della scienza e del pensiero si sono molto sviluppate dopo il 1890...», disse Swanhild in tono discorsivo. «È vero!», ammise Luna con gravità. «Inoltre, se la Blavatsky era dotata di poteri PSI, ebbene, io sono assai più dotata di lei!», concluse, non cercando di dissimulare il tono d'orgoglio che le vibrava nella voce. «Vale a dire?», domandò Swanhild. «Grazie al mio sesto senso, che è molto sensibile, penso di riuscire a trovare le tracce del Mostro nel bosco.» «Cos'è il sesto senso?» «Potete chiamarlo intuizione. Vi è mai capitato di provare una istintiva diffidenza nei confronti di alcune persone, e di accorgervi in seguito di aver avuto ragione?» «Oh, certo!» «È stato il sesto senso che vi ha avvertito in quelle occasioni. Si può anche dire che è il senso dell'armonia della vita, di tutto ciò che è vero, giusto, e chiaro. Non appena ci si allontana da questa condizione, sia fisicamente che mentalmente, si crea una dissonanza che normalmente non riusciamo a percepire. I cattivi pensieri, gli eccessi sensuali, o una morte violenta, distruggono immancabilmente l'armonia naturale. Sotto questo aspetto, le persone dotate di poteri PSI sono simili a quelle portate per la pittura o per la musica. Se nel bosco si è verificato un fatto fuori dall'ordinario o soprannaturale, io sono in grado di rintracciarne gli indizi. Il vostro cane ha rilevato nient'altro, a parte vostro fratello e quella povera ragazza?» «A me sembra che non abbia notato nulla, comunque era molto contento quando siamo usciti dal bosco.» «C'è un punto particolare che mi ha colpito nel racconto di vostro fratello: il suo cane non ha percepito l'avvicinarsi di colui che li ha aggrediti!» «Mio Dio, è vero!» Goddard, che fino a quel momento aveva guidato in silenzio, si era voltato di scatto. «È un fatto molto strano, ma non dobbiamo dimenticare che Oliver era
molto emozionato mentre raccontava quanto gli era capitato, e può quindi aver omesso qualche particolare.» «È possibile...» Dopodiché Luna sprofondò nuovamente nei suoi pensieri. «Qual è il vostro parere?», le chiese Swanhild in tono ansioso. «Penso che avrò un compito ben difficile! La spiegazione del mistero probabilmente si trova in qualche avvenimento apparentemente di nessuna importanza che si è verificato nel corso dei secoli, e non sarà facile riuscire a rintracciarlo! Mi auguro sinceramente che vostro fratello mi dica che il cane lo ha avvertito, in quanto una manifestazione soprannaturale avrebbe dovuto sicuramente mettere in guardia l'animale.» «E questo fatto a cosa potrebbe servire?» «Le dimensioni sono ben più delle quattro che tutti conoscono...», rispose Luna col volto aggrondato. «Davvero?» «Ormai il piano astrale è ammesso dai filosofi più avanzati, e io l'ho fatto oggetto di studi particolari... Ma non è l'Uomo di Dannow quello che stiamo vedendo adesso, Miss Hammand?» La scarpata situata a nord-ovest delle colline stava venendo loro incontro come un'ondata gigantesca. La vettura cominciò ad arrampicarsi, scomparve tra le siepi, poi giunse in vista del villaggio. «Ecco il bosco, Miss Bartendale!», esclamò Goddard indicandoglielo, mentre azionava i freni. Luna si alzò per vedere meglio, mentre Swanhild guardava il gruppo d'alberi con aria incredula stupita dallo spettacolo che le si era parato dinanzi agli occhi. Il parco era vivamente illuminato, e la cima della collina si stagliava contro il cielo pallido. Vari ruscelli brillavano simili allo splendore dell'acciaio, raccogliendo le gocce che cadevano dagli alberi a causa del disgelo. Presso l'antica strada romana, alcuni gruppi di contadini silenziosi e spaventati cercavano di dimenticare per qualche istante i lavori quotidiani. Dalla parte opposta della vallata, al termine del sentiero, una piccola vettura si era fermata sul ciglio del bosco. Accanto a essa, due uomini erano fermi ad aspettare: il più alto aveva la testa e un braccio avvolti da bende. Goddard fece girare la macchina e imboccò il sentiero, mentre Swanhild, terrorizzata, mormorava: «Quello è Oliver! Ma è impazzito?». Non appena la macchina si fu fermata, Swanhild si precipitò incontro a
suo fratello che, per parte sua, si affrettò verso di lei. Aveva una tempia e un occhio completamente lividi, ma per il resto sembrava che stesse bene. «Su, Swanhild», le disse sorridendo, «non arrabbiarti e rassicurati! Non mi ricordo niente di quello che è accaduto la notte scorsa. Quando mi sono svegliato, il dottore ha constatato che stavo bene e, considerato che non potevo lasciare il mio fedele Holder qui per tutto il giorno... Ma dimmi Swan: sarebbe lei la... "Strega"?» Swanhild abbracciò impetuosamente il fratello: non c'era dubbio che, se fossero stati soli, sarebbe scoppiata in lacrime. «Mio fratello Oliver... Miss Bartendale...», li presentò alla fine. «Capitate a proposito!», disse allegramente Oliver, tendendo a Luna la mano sinistra, non fasciata. «Non appena vi ho vista, ho sentito un forte odore di fieno tagliato...» La giovane donna sorrise in risposta, come un dottore che non voglia contrariare uno dei suoi pazienti. «Non uso più quel profumo da due anni, ormai!», rispose. «Eppure la mia memoria è molto precisa!», replicò il giovane. «Ricordo che a quell'epoca il vostro fazzoletto ne era impregnato... No, non sono pazzo», aggiunse poi rivolto a Swanhild. «Ho già avuto modo d'incontrare Miss Bartendale e, in quell'occasione, mi ha salvato dall'impazzire.» «Due anni fa ero addetta all'Ospedale di Sloane Shell Shock...», mormorò Luna pensosamente. «Vi trovavate per caso lì in cura?» «Ve lo dirò più tardi. Voi siete stata un vero Angelo della Provvidenza per tanti di quei miei poveri compagni, che di certo non vi potrete ricordare di tutti. Ma sono loro che non vi possono dimenticare!» «Molto bene, Mr. Hammand...», rispose Luna non senza un certo imbarazzo. «Se mi volete scusare, ora ho da fare alcune cose nel bosco...», aggiunse poi, liberando la mano che il giovane teneva nella sua. «A proposito, come sta la ragazza?», domandò. Il volto di Oliver divenne cupo. «Delira, e ripete senza sosta di essere stata assalita da una cosa "grande come una casa". Probabilmente non si salverà.» «C'è nulla che vogliate aggiungere al resoconto degli avvenimenti che avete fatto, Mr. Hammand?» «Nemmeno una virgola! Non c'è nulla da cambiare nelle note che ha preso il dottore, e che mi sono riletto con estrema attenzione.» «Allora possiamo addentrarci nel bosco. Mi auguro che non ci sia andato nessuno dopo quanto è successo!»
«Uno c'è andato: si tratta di Warren. Eccolo lì!» Con un gesto della mano sana indicò un giovanotto alto, vestito da guardacaccia, che stava parlando a Goddard con aria accigliata. «È il fidanzato della povera Kate», spiegò Oliver. «È convinto che i colpevoli di questo dramma siano gli Ades, e vuole farli impiccare. Peraltro, vi potrà narrare lui stesso quello che sa!» Lasciato Goddard, l'uomo si fece avanti col viso orrendamente deformato dalla collera. Aveva con sé una coperta da cavallo, e in mano un fucile. «Avrei voluto essere la prima a entrare nel bosco...», disse Luna. Quello la guardò con aria cupa. «Mi spiace, signora: se lo avessi saputo, non avrei mai fatto una cosa che non volevate. Ma si stava facendo appena giorno quando quell'idiota di Will è venuto nel villaggio a raccontare una storia che tutti quegli stupidi si sono fatti premura di ripetere e di commentare. "È la prima volta che gela da quando è morto Mr. Reg...", dicevano.» «Basta così, Warren!», gli intimò Goddard, che poi sorrise a Swanhild con aria apprensiva. «Vi chiedo scusa, Mr. Covert, ma devo dire la verità, per cui ritengo che sia mio dovere, Miss Hammand, avvertirla di quanto si mormora in giro. Mr. Reg!», aggiunse quindi con ira repressa. «Lui, che si è arruolato insieme a voi e a me, Mr. Oliver! Lui, che a Cambrai mi ha dato la sua borraccia d'acqua colma per metà, dicendomi che il resto l'aveva già bevuto! E io che l'ho presa senza immaginare che mentiva! E ora, per questa gentaglia la disgrazia che è capitata alla mia povera Kate non basta: cercano anche di infangare il nome di Mr. Reg!» Quindi fece uno sforzo per recuperare la calma. «Dunque: ho perlustrato il bosco e ho raccolto alcune informazioni sugli Ades. Poi Mr. Hammand è tornato con me per portare a casa i resti di quel povero cane.» «Cosa avete saputo a proposito degli Ades?», domandò Swanhild. «Charles si trova a letto con una gamba rotta, mentre Joe è tutto ammaccato. Dicono di essersi azzuffati con Miles, il guardacaccia di Mr. Hudson, che non li ha riconosciuti data l'oscurità.» «Verrebbe quindi da pensare che loro non c'entrino...», disse Luna, aprendo la sua valigetta dalla quale estrasse un piccolo ramo biforcuto che fece poi oscillare. «Si tratta per caso di una bacchetta da rabdomante?», chiese Goddard, interessato.
«È in grado di scoprire parecchie altre cose, oltre all'acqua...», rispose la giovane donna che poi aggiunse, rivolta al suo cane: «Giù, Roska!». Quello ubbidì. Luna stava eretta, in atteggiamento di estrema concentrazione, col mento proteso e le sopracciglia corrugate, tenendo con entrambe le mani la bacchetta che vibrava. Poi cominciò a girare su se stessa. Nella luce grigia dell'alba, i suoi capelli biondi e il volto pallido erano le sole note chiare fra tutto ciò che li circondava. Un po' distante, si vedevano rilucere le parti cromate della vettura alla quale si erano nel frattempo avvicinate alcune contadine dallo sguardo spaurito che scrutavano con curiosità Luna con i loro occhi celesti che risaltavano sulle facce abbronzate. Una strana impressione come di una scena che avesse già visto, si presentò alla mente di Swanhild: le colline deserte, il mostruoso Uomo di Dannow che sovrastava l'altopiano, nonché quelle ombre sfumate attorno a quella donna immersa nei suoi silenziosi rituali, tutto le pareva assai familiare... 8. Cessando bruscamente di girare su se stessa, Luna si fermò improvvisamente. Uno dei due rami nei quali terminava la bacchetta, si era alzato e rimaneva orizzontale. La giovane donna si chinò allora sul suolo pantanoso: l'erba era ricoperta di sangue rappreso. Si trattava del punto in cui Swanhild aveva deposto Oliver quando era uscita dal bosco. Luna Bartendale s'incamminò lungo il sentiero che portava alla radura, e la oltrepassò. I suoi compagni la seguivano. La bacchetta si alzava e si abbassava di continuo: quando la giovane donna arrivò al sentiero che finiva nella seconda radura, si chinò sulla destra. Oliver, che era il più vicino, gettò un'esclamazione. Luna stava osservando Roska che era intento a fiutare la prima pozza di sangue. Oltre quel punto il sentiero proseguiva con diverse giravolte, sempre segnato dalle tracce di sangue al cui avvicinarsi la bacchetta di noce cominciava a oscillare freneticamente. Allo stesso modo si mise a vibrare con violenza quando furono vicini al corpo dilaniato del mastino. Luna esaminò attentamente l'animale e, senza farsene accorgere, anche il suo padrone, poi continuò per la sua strada. Oliver sospirò, addolorato e incollerito. Oltrepassata la quercia ai cui piedi Swanhild aveva trovato suo fratello, Luna indugiò un'altra volta esitando, poi fece il giro dell'abete
colpito dal fulmine. Ma la bacchetta non si muoveva: si agitava soltanto sopra al sentiero che avevano appena finito di percorrere. I folti rovi che ricoprivano il tronco, erano talmente aggrovigliati che solo un serpente sarebbe riuscito a passarvi attraverso senza strapparli. Ebbene: erano assolutamente intatti! «Per quale strada sarà venuto e poi ripartito l'aggressore?», mormorò Luna tra sé. Tornata sui suoi passi, si fermò all'imbocco di un altro sentiero: ma la bacchetta rimase inerte, fuorché davanti al posto dove giaceva il corpo del cane. «Vi siete dimenticata del primo sentiero che avevamo percorso io e Kate...», disse d'impulso Oliver. Lei rivolse verso il giovanotto i suoi grandi occhi spalancati, allo stesso tempo cupi e scintillanti, tristi e dolci. «Non sto cercando tracce di gente normale, Mr. Hammand. Fino a questo momento, l'unico indizio che ho trovato è il sangue.» Quindi fece un gesto con la mano verso il corpo del mastino. «Volete farlo trasportare in un posto dove possa esaminarlo in tutta tranquillità?» «Perché?», domandò Swanhild. «Forse riuscirò a trovare qualche indizio che mi possa fornire una traccia su chi lo ha ucciso.» «Pensate ancora a una causa naturale, anche se Holder non mi ha avvisato?», chiese Oliver in tono incredulo. «Certamente!», rispose Luna. «Gli stessi fantasmi non possono sottrarsi ad alcune leggi fisiche. Per poter causare delle ferite di questa entità, l'essere, quale che sia, ha dovuto rivestire una forma concreta: in parole povere, deve essersi materializzato.» Warren avvolse il corpo di Holder nella coperta, e disse: «Vi chiedo scusa, signora, ma penso che si possa trovare una risposta più facile senza dover ricorrere ai fantasmi...». «Suvvia; Warren! Pensi che riusciresti a squartare così un cane di questa mole?», gli chiese Oliver. «Io no, signore. Ma due uomini penso proprio che sarebbero in grado di farlo!» Luna si fece pensierosa. «Se respingiamo l'ipotesi di diverse persone», disse alla fine, «dobbiamo ammettere che questo scempio deve essere stato compiuto da un essere
forte come un cavallo, armato di artigli poderosi, e che arriva e se ne va Dio solo sa come!» «Uno scimmione forse?», suggerì Warren. «Dovremmo informarci se nella zona è per caso fuggito qualche animale dagli zoo o dai circhi... ma spero proprio di no, perché devo vendicarmi su qualcuno!» Fecero quindi ritorno sui loro passi in silenzio. «Dovreste avvisare la Polizia, Mr. Hammand», disse Luna Bartendale. «D'accordo!», rispose Oliver. «Warren, dopo aver aiutato Mr. Covert a portare quella povera bestia in macchina, vai al castello e di' a Walton di mettere Holder in un posto dove Miss Bartendale possa esaminarlo. Poi avverti la Polizia.» «Se non dovessimo trovare niente, potremmo sempre assimilare questo delitto a quello della Via Morgue», disse Luna non appena i due uomini si furono allontanati col loro macabro fardello. «Non ci crederete mica sul serio?», domandò Oliver. «No, state tranquillo. Ma bisognerà pure dar qualcosa da fare alla Polizia. Ora vorrei fare un altro tentativo.» Detto questo, rientrò nel bosco dove rimase diverso tempo, ma non ottenne alcuna ulteriore indicazione. Arrivata alla fine degli alberi, si arrestò davanti a un monticello circondato da pini e abeti che si ergeva tra il bosco e il Beacon. «È il Thunder's Beacon», le spiegò Swanhild, «un'antica necropoli.» «Quel monticello non ha alcun rapporto con il Mostro?», chiese Luna che stava guardando con attenzione l'Uomo di Dannow dalla cima della collina. «Non so...», rispose Swanhild, guardando il fratello. «Neanch'io», disse Oliver scrollando il capo. «Il fatto è, Miss Bartendale, che da piccoli non ci era consentito di ascoltare le storie riguardanti il Mostro e, più tardi, siamo stati troppo presi da altre cose per potergli dedicare sufficiente attenzione.» «Molto bene! E ora, vogliamo andare a vedere quelle raffigurazioni del Mostro che si trovano nella chiesa?» Oliver fermò Luna nel momento in cui questa si accingeva a scendere. «Un momento solo, Miss Bartendale, se non vi dispiace. Voi non avete trovato alcunché di soprannaturale nel bosco, e neppure nessun indizio che faccia pensare al passaggio di qualche grosso animale. E allora, se non si tratta né di un mortale né di un fantasma, cosa pensate che possa essere?» «Vi ricordate la prima domanda che vi ho fatto, Mr. Hammand? Se Hol-
der vi aveva avvertito di qualche cosa di insolito? Nel caso ciò si sia verificato, forse ve ne siete dimenticato dopo essere caduto e aver battuto la testa... Ma, se così non è, ecco la prova che il vostro essere soprannaturale, il vostro "Mostro", appartiene a un'altra dimensione, la Quinta. Dovete infatti sapere che l'istinto dei cani è in grado di percepire sia gli esseri viventi che i fantasmi.» «Ma cos'è questa Quinta Dimensione?», chiese Oliver. «Né la scienza né la fede hanno presa su di essa. Mi auguro solo che il vostro Mostro non ne faccia parte!» Poi cominciò a scendere senza fornire altre spiegazioni: Swanhild l'afferrò per un braccio. «Il potere di quella vostra bacchetta non è senza limiti!», disse, con voce rotta dall'emozione. «Vi ha sì rivelato le chiazze di sangue sparse sull'erba, ma se pensate che proprio qui, sotto i vostri piedi, c'è un intero popolo di morti, e lei non ha vibrato neppure in maniera impercettibile...» Luna diede uno sguardo circolare intorno a sé. «Il sangue versato violentemente è una cosa, Miss Hammand», spiegò, «mentre i morti sotterrati secondo i riti della loro fede sono un'altra. Chi è sepolto sotto questo tumulo riposa... almeno di giorno. Di notte... è tutta un'altra storia... Forse...» Poi s'interruppe e un brivido la scosse. «Fa freddo qui!», osservò. «Entriamo nella chiesa!» 9. Scesero lentamente lungo la via principale del paese. La temperatura si stava alzando. Il vento era ormai ridotto soltanto a una leggera brezza che sospingeva di qua e di là i tenui filamenti residui della nebbia notturna. Dalla strada, si distinguevano a malapena le piccole case circondate da giardini spogli. Oltre il paese, una collina faceva da argine alla nebbia che refluiva verso lo sparuto gruppo di persone. Lasciati i cani in macchina, s'incamminarono lungo il viale fiancheggiato da pietre tombali che finiva all'ingresso della chiesa. Questa sorgeva su una piccola altura coperta da alberi, a circa cinquecento metri dalle case più vicine. Peraltro, era normale vedere in tutta la regione: «Piccole e sperdute le chiese sulle alture, pregare il Dio che ha fatto le colline». Di stile non ben definito, in genere univano alla facciata gotica l'interno
sassone abbellito da affreschi normanni. La chiesa di Dannow aveva invece l'aria di un grosso capannone il cui unico motivo di un certo pregio era dato dalle sontuose tombe degli Hammand. Dappertutto regnava una profonda oscurità. Swanhild accese la sua lampada, e Luna, in silenzio e con atteggiamento grave, cominciò l'esame di ciò che la circondava. Il fascio sottile di luce che proveniva dalla lampada, faceva brillare per un fugace attimo nomi di antichi personaggi che poi il buio restituiva al riposo e all'oblio. Il crociato nella sua nicchia, le incisioni sul pavimento e sui muri, i volti di marmo di Warlock e di sua moglie, apparvero brevemente uno dopo l'altro nella loro effimera gloria di pietre scolpite e di stemmi dorati. Il piccolo altare uscì quindi a sua volta dall'ombra insieme a un dipinto di James Clark, e a una lista di nomi contornati da ghirlande di alloro. Luna taceva, ma i suoi occhi risplendevano di una febbre interna. Fece il giro di tutta la navata, poi si fermò davanti all'altare, quindi di fronte al bassorilievo di cui le aveva parlato Swanhild. Inginocchiatasi, seguì minuziosamente con un dito i contorni dell'immagine corrosa che giaceva ai piedi del crociato. «È quasi del tutto cancellata», mormorò a bassa voce, «ma quella bestia doveva avere delle zampe... delle zampe rotonde...» «E allora?», domandò Swanhild. «Cosa vuol dire questo?» «È molto strano...», rispose Luna. Ripreso il suo esame, si fermò di fronte alla piccola lastra di marmo incastonata nel muro, sulla quale era scritto il nome di Reginaldo Hammand, morto nel 1918. Dopo alcuni istanti, disse: «Andiamo a vedere se il quadro dell'Anacoreta è in grado di fornirci qualche indizio più preciso circa queste famose zampe...». Il ritratto era stato inciso su una grande lastra di rame che in seguito era stata incastrata nel pavimento. Goddard sollevò la stuoia che lo copriva. Apparve un uomo vestito da monaco, ai cui piedi era accucciata una bestia di difficile comprensione. Una scritta corrosa e indecifrabile si trovava alla base del quadro. La testa dell'animale assomigliava più o meno a quella di un cane dal muso allungato con le orecchie dritte. Il corpo invece si assottigliava molto in vita, e la coda serpentina di cui era fornito finiva in un ciuffo di peli dando l'idea delle code dei diavoli dipinti dal Bruegel. Luna s'inginocchiò nuovamente per seguire con un dito le linee del ritratto.
«Questa bestia sembra che abbia quattro zampe. Gli antichi testi di Storia Naturale molte volte erano imprecisi, e gli artisti dell'epoca spesso si sono avvalsi nell'esecuzione dei loro quadri della figura di un cane. Ma quella coda è senza dubbio assai strana... e quelle zampe... veramente inesplicabili!» Oliver e Swanhild seguirono quindi la spiritista fino alla tomba di Warlock dove, coi volti severi, le vesti di marmo, e le mani unite in preghiera da più di quattro secoli, si ergevano austere le statue funebri del Mago e di sua moglie. Swanhild attirò l'attenzione di Luna sull'immagine di un bambino coricato vicino a un teschio. «Secondo i contadini», spiegò Oliver, «si tratta di una delle tante vittime sacrificate a Satana. In realtà, è uno dei figli di Warlock. Oh, non fatelo, Miss Bartendale!», protestò, nel vedere che la donna si metteva carponi per esaminare le lastre sulle quali poggiava la tomba. Luna gli rivolse un sorriso. «Cerco se per caso non ci sia un passaggio segreto che conduca all'interno del sepolcro...» «Mio Dio!», esclamò il giovane Signore di Dannow. «Non penserete che Magnus la notte venga fuori dalla sua tomba!» «Non posso tralasciare nessuna ipotesi, e tantomeno quelle presenti nelle leggende popolari...», replicò Luna. Poi la ragazza si sedette sui talloni e tirò fuori la sua bacchetta. Ma questa non si mosse minimamente. Allora si rialzò e disse: «Sembra che il vecchio Mago riposi in pace per ora...». «Credete che la sua anima possa riposare tranquilla?», domandò Swanhild indicando l'epitaffio che si riferiva al Mago. La scritta recava i nomi di Warlock, di sua moglie, e le date in cui erano morti, rispettivamente l'8 e il 10 febbraio del 1526, insieme a queste parole: Viene accordato il totale perdono a chi reciterà mille Pater Noster, mille Ave Maria e mille Credo in Deo. Per chi invece reciterà cinque Pater Noster, cinque Ave Maria e cinque Credo in Deo, il perdono accordato è di ventiseimila anni e ventisei giorni... «Ventiseimila anni e ventisei giorni di Purgatorio risparmiati a chi reciterà queste poche preghiere!», precisò Swanhild.
«In effetti, è assai significativo!», riconobbe Luna. «Pensate davvero che serva a qualcosa?» «Una fede sincera ottiene sempre buoni risultati, ma io non attribuisco molto valore a questa sorta di "Do ut des". In ogni caso, un'indulgenza di questa portata, per quell'epoca era, a dir poco, eccezionale. C'è da domandarsi quale mai nefando delitto dovesse scontare Warlock per implorare dai posteri l'alleviamento della sua pena con una promessa così allettante!» «La morte di sua moglie e di suo figlio...», suggerì Swanhild. Luna fece una smorfia e scrollò il capo. I suoi occhi avevano ripreso a splendere, e i suoi capelli biondi risaltavano, come il volto animato, sul grigiore della pietra alla quale stava appoggiata con i gomiti, persa nei suoi pensieri. La sua voce musicale echeggiò nel silenzio della chiesa. «Quando nacque Warlock, il Mostro aveva già ucciso molte persone. Il Mago non poteva dunque essere responsabile dei delitti che si verificarono in seguito e che avevano un loro corso inevitabile. La verità è che, se un uomo come lui, abbastanza determinato e forte da dedicarsi a studi ed esperimenti messi all'indice dalla Chiesa, sollecita un perdono, dev'essere per il fatto che si sentiva colpevole di qualcos'altro». «E cioè?», chiese con estremo interesse Swanhild. «Quella scritta sembra dare ragione a coloro che accusano Warlock di aver compiuto dei sacrifici umani. Se troviamo qualche indizio in questo senso, saremo sulla pista giusta.» «Se...», mormorò Goddard, dubbioso. «Purtroppo è così. Se... A quanto mi avete detto, è rimasto ben poco d'interessante nella stanza segreta, per cui anch'io la penso come voi.» «Insomma, voi credete che il Mostro sia un Demonio evocato da Warlock, al quale sarebbe sopravvissuto?», domandò Oliver. «Questo dice la leggenda. Comunque, la richiesta di essere perdonato è chiara al di là di qualsiasi dubbio, mentre il quadro, invece...» A quel punto si arrestò, gettando uno sguardo nella navata. «Cosa c'è che vi ha colpito nel quadro?», domandò Swanhild con ansia. «Una cosa che non riesco a capire. Per il momento però non voglio pensarci, per cui rivolgerò nuovamente la mia attenzione a Warlock. A quale mostruoso peccato può mai riferirsi questa richiesta di perdono?», mormorò Luna fissando la tomba con sguardo assorto. «Ma non mi sembra che lui abbia un'aria malvagia», continuò poi, «tutt'al più severa, grave... A ogni modo, mi pare che riposi in pace, per cui...»
Swanhild, la cui giovinezza era trascorsa in un contesto nel quale ai ragazzi era concessa qualche licenza, rispose con vivacità: «Si è battuto eroicamente a Bosworth, dove era l'Alfiere di Enrico vm, ed è stato nominato Cavaliere per l'eroismo dimostrato sul campo di battaglia. Quelli appesi al muro sono la sua spada e il suo elmo». «Via, Swan», la rimproverò Goddard dolcemente, «se Miss Bartendale afferma che Warlock dev'essere stato un malvagio, sarà sicuramente così.» «Non ho detto questo», precisò Luna. «Ma è un fatto che debba essersi dedicato all'esercizio di pratiche non proprio ortodosse nel periodo che va tra il suo comportamento eroico a Bosworth e la sua morte. Il Primo Periodo Tudor, come quello Windsor, sono stati contrassegnati da grandi indagini speculative. Personaggi di alto livello intellettuale hanno strappato molti segreti alla natura: altri invece, persisi tra storie di esseri soprannaturali, hanno commesso tutta una serie di errori degni di un'età molto più arretrata. Oggi non riusciamo neppure lontanamente a renderci conto di quanto fascino esercitasse la Negromanzia sulle persone di maggiore cultura... Peraltro, un Demone che fosse stato materializzato da un Mago, poteva benissimo sopravvivergli e tormentare i suoi discendenti. Dite che questo è l'elmo di Warlock? Quello che mi prefiggo», aggiunse, scorrendo con le dita le molte ammaccature presenti sul ferro, «è di scoprire il segreto della persona che era appunto protetta da questo elmo.» «Ma Warlock è morto da quattrocento anni!», esclamò Oliver. «Quattrocento o quattromila, non ha importanza quando si tratta di stabilire un contatto tra due anime...», replicò Luna. «Volete evocare il suo spirito?», chiese Swanhild, con un certo tremore nella voce. «Mia cara, dovete sapere che non mi sono mai applicata a quell'antico e pericoloso esperimento che consisteva nello stare seduti in una stanza al buio ad attendere una visione... Ma ora andiamo a vedere se i soldati di Cromwell non hanno davvero lasciato nulla d'interessante nella stanza segreta.» Mentre passava, gettò un altro sguardo al pannello che si trovava nella navata, poi ritornò sui suoi passi per studiarlo ancora una volta, mentre Oliver e Swanhild continuavano per la loro strada. Da lì a un minuto li raggiunse e si affiancò a loro: i due fratelli non osarono farle delle altre domande, dato che sembrava molto stanca. «Fa terribilmente freddo!», fu l'unica cosa che disse.
I due giovani si scambiarono uno sguardo d'intesa. La voce di Luna aveva perso ogni vitalità, come se la donna avesse ricevuto un duro colpo. Cosa poteva aver scoperto nel quadro in quei pochi secondi, per rimanerne tanto sconvolta? 10. La nebbia cominciava a dissiparsi quando arrivarono al castello sul quale l'edera si avvolgeva come un cupo sudario di morte. Il fumo dei camini saliva in lente volute nel cielo pallido, e i fossati che costeggiavano il muro di cinta, erano pieni di erbacce avvizzite. Prima di attraversare il ponte, Swanhild fece fermare la macchina, e Oliver mostrò a Luna un gruppo di pini che celavano in parte il castello. «La stanza segreta si trova proprio dietro a quei pini», spiegò alla donna. «Se non ci fosse tanta umidità, vi farei scendere, e potreste vedere la finestra con l'inferriata.» «È possibile guardare nella stanza dall'esterno?» «No. Il muro ha uno spessore di quattro piedi e, anche se vi sono state praticate due aperture, una sulla facciata interna e l'altra su quella esterna, non sono direttamente corrispondenti, ma sfalsate. Perciò, anche se la stanza è illuminata, dal di fuori non si scorge altro che un barlume di luce, senza poter vedere quello che c'è all'interno.» Intanto, nella stanza degli Holbein, Walton aveva preparato una colazione e aveva acceso un fuoco intorno al quale i giovani si sedettero, mentre il domestico andava a prendere le chiavi per potersi recare nella stanza segreta. Esaminando il contenuto del vassoio, Oliver si mise a ridere. «La cuoca e il maggiordomo sono proprio degli angeli, Swan! Questo è esattamente quello che desideravo mangiare oggi! D'altronde, si sono fatti in quattro per rendermi il più possibile piacevoli queste ultime ore, probabilmente in quanto temevano che potessi andare a impiccarmi...» «Oliver!», lo rimproverò Swanhild. «Ma è vero! Anche voi, Miss Bartendale, non avete fatto altro che osservarmi continuamente... con molta discrezione peraltro!» «Certo! Non mi avete forse detto che ci siamo già incontrati? Stavo cercando di ricordare in quali circostanze. Ah, ma ecco le chiavi!» Dato che Oliver non era in grado di servirsi di entrambe le mani, fu Swanhild che s'incaricò di aprire le porte. Seguiti dai cani, s'inoltrarono nella parte più antica del castello, mentre Goddard faceva luce.
In fondo a un corridoio, Swanhild aprì una porta fornita di serratura a combinazione che la chiudeva, quindi fece scorrere un catenaccio. Furono colpiti in viso dall'umidità e da un forte senso di gelo perché, anche in estate, gran parte dell'edificio era freddo, né poteva essere altrimenti con tutti quei corridoi, le mura umide, e le antiche scale che scendevano nei sotterranei con lunghe teorie di scalini malsicuri. «Mi sembra di sentire scorrere dell'acqua», osservò Luna, fermandosi davanti a uno stretto passaggio scavato nella roccia. Una seconda porta di ferro girò sui cardini arrugginiti, e il gorgoglio dell'acqua si fece più distinto. Oltre la soglia si apriva un buco scuro dove il lume della lanterna che portava Goddard si riflesse su una superficie scura che si muoveva. «È il serbatoio che alimenta i fossati», spiegò Oliver. «Vieni, Goddard: dobbiamo voltare a destra.» In un angolo c'era una nicchia all'interno della quale si trovava una porta. «Fate attenzione», li avvertì Oliver. «Dev'esserci un gradino fuori posto.» Goddard fu il primo a scendere su una scala di quercia costruita rozzamente. Luna, che si stava accingendo a seguirlo, indietreggiò di scatto trasalendo, pallida e con gli occhi sbarrati. «Cosa vi succede?», le chiese Goddard. «C'è qualcosa laggiù...», rispose la giovane donna con voce grave. Swanhild si portò vicino alla spiritista, ma non riuscì a vederne che le ciglia dorate. Luna stava guardando Roska, e il suo cane la guardava come se capisse quello che stava provando la sua padrona. Alex invece non aveva manifestato alcuna inquietudine. «Non dovreste...», cominciò a dire Oliver. Ma Luna era già scesa. Il giovane allora la seguì, pronto a respingere, con il braccio valido, un eventuale attacco. Qualche istante più tardi, si trovavano tutti all'interno della stanza segreta. «Percepisco la presenza di una entità malvagia...», ripeté Miss Bartendale stando in piedi presso la grande tavola di quercia che si trovava al centro della stanza. «Tuttavia ora non è in grado di nuocerci... Si tratta di qualcosa fuori dal normale...» «Fa parte delle quattro dimensioni normali?», chiese Swanhild, ricordando quanto aveva detto Luna al riguardo. «Certamente no perché, in questo caso, i cani lo avrebbero percepito. In-
vece sono tranquilli.» «Però Holder nel bosco non mi ha avvertito...», disse Oliver. Luna non rispose e, presa la lanterna, cominciò a fare il giro della stanza. Goddard la seguiva da presso, pronto a intervenire in caso di pericolo. La stanza era una possente opera di arte muraria. Il muro era costituito da delle grandi lastre, così come il pavimento, mentre alcune grosse travi reggevano il soffitto formato da lastre più piccole. Due grandi stufe, assolutamente fuor di luogo in quell'ambiente, spiegavano perché la stanza, sebbene adiacente ai fossati, fosse meno umida del resto del castello. Soltanto il muro di fronte alla scala presentava qualche macchia di umidità intorno alle imposte. Goddard le aprì, e un soffio di aria gelata sferzò i giovani. Guardando attraverso l'apertura obliqua, videro delle pietre annerite dal tempo, e il gruppo confuso dei pini sullo sfondo del cielo grigio. Non riuscirono a vedere altro. Tanto il soffitto che la parte alta dei muri erano sudici per il fumo, che sicuramente si era sprigionato per molti anni da un fornello di mattoni sistemato tra la scala e la finestra. Sulla tavola, quattro grossi volumi rilegati in cuoio e leggermente intaccati dall'umidità, facevano compagnia a una dozzina di anfore e a dei coppi di argilla. Davanti al fornello erano allineati dei recipienti ingialliti dal fuoco, e un mucchio di fiale ricoperte di polvere e ragnatele. In un angolo, poi, vi era un cumulo di frammenti di pietra e di marmo. «È l'unica stanza ricavata nello spessore dei muri perimetrali?», domandò Luna, estraendo nuovamente la sua bacchetta e agitandola davanti a sé. «Pensiamo di sì. In ogni caso, non c'è nessun altro muro che suoni a vuoto...», fu la risposta di Swanhild. «Abbiamo saggiato tutte le pareti.» «Le Teste Rotonde di Cromwell qui dentro forse hanno distrutto l'essenziale, eppure qualcosa è rimasta. Cos'è quella pietra spezzata?» «È quella sulla quale è incisa la Ballata di cui vi ho parlato. Quando hanno cercato di toglierla dal muro nella speranza che celasse la chiave del mistero relativo alla Maledizione Eterna, l'hanno rotta. E questo è il buco che ha lasciato.» Luna rigirò la bacchetta tra le mani, e continuò a girare per la stanza. La bacchetta si alzava e si abbassava a seconda che si avvicinasse o si allontanasse dal fornello vicino alla scala. La giovane si arrestò a un certo punto con la bacchetta protesa sopra al focolare, e il ramo si agitò leggermente. «Inquietante... davvero inquietante!», mormorò la spiritista. «Ma queste
tracce sono molto deboli, e non servono...» Quindi rivoltò le anfore e appoggiò la punta della bacchetta su ciascuna di esse. Questa si drizzò bruscamente su un grosso vaso il cui coperchio era nero per la polvere che vi si era poggiata sopra nel corso degli anni. Swanhild lo prese, ma Goddard glielo tolse con gentilezza dalle mani. Il giovane, dopo averlo pulito, ne saggiò il contenuto. «È una massa dura che assomiglia a della sabbia o a del sale, Miss Bartendale», disse rivolto alla spiritista. «Rompi il vaso!», ordinò Oliver all'amico. Immediatamente, il vaso e il suo contenuto furono ridotti in un mucchio di cocci, di polvere e di cristalli opachi. La bacchetta ebbe un ulteriore fremito quando Luna poggiò su quell'ammasso di roba la punta della sua scarpa. «Ci dev'essere senza dubbio dell'altro...», mormorò. «Torno subito.» Quando si accostò al terzo muro, la bacchetta cominciò ad agitarsi velocemente. Il respiro di Luna si fece più rapido, e allora la giovane sfiorò dolcemente con un dito la parete, dall'alto in basso. Nel momento in cui la sua mano si alzava, il moto del ramoscello si accentuava mentre, quando raggiungeva il punto più alto, diminuiva. Però, a livello della spalla di Luna, il movimento divenne quasi frenetico quindi, di colpo, la bacchetta le sfuggì di mano. Il rumore secco che fece cadendo per terra, servì a far risaltare il silenzio nel quale si era svolta tutta la scena. Luna si rivolse ai suoi compagni e si passò una mano sulla fronte, poi li guardò con occhi nei quali si leggeva un profondo terrore. «La chiave del mistero si trova qui!», dichiarò, indicando una lastra. «Ed è orribile! Orribile!» «Ma il muro suona pieno...», osservò Goddard percuotendo la parete. «Sono assolutamente certa di quello che dico!», ribadì la donna. Il suo volto pallido ed esangue, e la bocca tirata, rivelavano come la ragazza fosse in preda a una tensione straordinaria. Rimase per un istante nei pressi della finestra, poi tornò presso i suoi compagni, aggiustandosi meccanicamente i capelli: i suoi lineamenti avevano riacquistato l'abituale serenità. «In tredici anni che pratico quest'Arte», spiegò, «un fenomeno di questo genere si è verificato solo tre volte. Vi dico che, nonostante le apparenze, questa lastra nasconde qualcosa di spaventoso!» Goddard stava continuando a esaminare la pietra davanti a lui. «Avete ragione!», disse a un certo punto. «La giunzione non è in gesso,
ma in argilla, e penso che la pietra si possa spostare.» «Ci vorrebbe qualcosa di adatto per scalzarla», disse Swanhild. «Un momento!», esclamò poi. «Mi è venuta un'idea!» Strappatasi la fettuccia di una scarpa, prese dalla tasca un temperino con un pezzo di spago, ritagliò nel cuoio un dischetto, ne forò il centro, poi vi introdusse lo spago assicurandolo con un nodo. «Con questo si può portare via un mattone», spiegò. «È stato un contrabbandiere a insegnarmi il trucco.» Mentre Swanhild ultimava i suoi preparativi, Goddard si mise a raschiare il punto di congiunzione della pietra, e intanto Luna esaminava i titoli dei libri appoggiati sulla tavola. «Il Desiderio, Il Libro di Abramo, il Duodecim Portarum», lesse ad alta voce. «Opere interessanti, Mr. Hammand, e abbastanza innocue. Ma non dimentichiamo che i soldati di Cromwell possono aver distrutto i libri proibiti.» Swanhild fissò la ventosa che aveva appoggiato sulla pietra. Quando tirò, fece scorrere un blocco lungo quasi due piedi che sembrava abbastanza massiccio. Goddard se lo caricò su una spalla, poi lo appoggiò sulla tavola. «Santo Iddio!», esclamò. «La metà del fondo si solleva come un coperchio!» «Miss Bartendale, volete guardare?», chiese Oliver. Luna si avvicinò. Dal coperchio sollevato uscì una zaffata di aria nauseabonda, mefitica, che sapeva di chiuso. Swanhild rabbrividì, e si allontanò istintivamente dalla tavola. La cavità conteneva due pacchetti lunghi e stretti avvolti in pezzi di lenzuolo ammuffito. Goddard scosse il primo, e fece cadere sotto la luce della lampada una cosa raggrinzita lunga una trentina di centimetri. «Che sia una scatola di sigari, nascosta da quattrocento anni?», sorrise Oliver cercando di fare un po' d'ironia. «Mi sembra piuttosto un pezzo di cuoio...», mormorò Swanhild, cercando di reprimere una sensazione di disagio. Goddard rivoltò l'oggetto, poi si asciugò bruscamente le dita con le quali lo aveva toccato, sul mantello che indossava. «Ma è una mano!», esclamò. «Una mano mummificata!» Quindi si voltò a guardare Luna che stava guardando quel macabro oggetto senza dimostrare alcuna sorpresa. «È una Mano di Gloria!», disse la donna con voce piana.
11. Un pesante silenzio si sparse tutt'intorno, mentre un vago ricordo di antiche storie spaventose, si faceva strada nella mente dei tre giovani. Dalla finestra penetrava quel tanto di luce che bastava a conferire un'apparenza soprannaturale ai volti deformati da quell'incerto chiarore, e a quel piccolo orrore bruno che giaceva sulla tavola. L'unica cosa reale sembrava Luna. «Cos'è la Mano di Gloria, Miss Bartendale?», chiese Oliver. «È la mano di un omicida impiccato. Dopo avergliela tagliata, l'hanno conservata nel salnitro, non prima di averla disseccata su un fuoco di felce maschia e di verbena.» Oliver gettò uno sguardo verso il fornello annerito. «E da cosa sono causate quelle macchie orribili che si vedono sulla punta delle dita?» «Da candele di grasso umano. Potete trovare tutte le notizie che vi interessano nel Dizionario Infernale, e anche nel libro sul quale ora state appoggiato col gomito.» Goddard rabbrividì. «La Mano di Gloria», continuò a spiegare Luna, «serviva per scoprire i tesori nascosti.» «Che rapporto può mai avere con la Maledizione Eterna degli Hammand o col Mostro?», chiese Swanhild. «Dio solo lo sa! Forse l'altro pacchetto ci fornirà un'indicazione più utile...» «È più pesante...», notò Goddard mentre lo svolgeva con prudenza. Uno stupendo oggetto verde e oro cadde sulla tavola. Era l'elsa di una spada di bronzo, color verde e grigio. Due lamine di bronzo circondavano il pomello. Per la prima volta, Luna parve stupita: si mise quindi a esaminare con estrema attenzione quest'ultima scoperta. «Questa è un'arma di origine runica, e non riesco a capacitarmi della sua presenza qui», disse. «Il Mago aveva certamente preparato lui la Mano di Gloria per usarla, ma dov'è che si è procurato questa spada? E poi, perché l'ha nascosta insieme alla Mano?» Mentre parlava, mostrò a Swanhild due piastre d'oro che erano incastonate nel bronzo. Nonostante il logorio del tempo, vi si distinguevano ancora dei segni. «È scrittura runica», precisò la spiritista. «Le leggende nordiche spesso
parlano di formule magiche scritte sulle armi. Se è autentica - come ritengo che sia - questa spada deve avere più di duemila anni. Le piastre d'oro sono state aggiunte molti secoli dopo...» «Con questo vorreste dire che il Mostro sarebbe venuto dal Nord al tempo dell'Età del Bronzo?», chiese Oliver stupito, guardando la giovane. «Assolutamente no, dato che non sappiamo se la nostra scoperta ha qualche attinenza con lui. Però, è un dato di fatto che, sino a oggi, la Demonologia e la Negromanzia scandinave sono state singolarmente trascurate, mentre una terribile leggenda proveniente dal Nord cupo e gelido, sarebbe più che plausibile. Per il momento, comunque, vi confesso che sono assai sconcertata.» «Ci avete detto più cose voi in un giorno, che tutti gli altri in quattrocento anni!», disse Oliver nell'intento di consolarla. «Ho messo soprattutto in evidenza una discordanza tra i fatti accaduti e le date, il che complica ancora di più il mistero. Infatti, se come Warlock ha affermato, il mistero risiede nella Mano di Gloria e nella spada, perché non lo ha svelato prima di morire? E invece, se queste due cose non hanno alcun rapporto con la Maledizione e col Mostro, allora perché le ha nascoste con tanta cura?» «Forse, se cerchiamo ancora, riusciremo a trovare dell'altro...», suggerì Swanhild. «È poco probabile. La Mano, così come l'anfora e il fornello che sono serviti per la sua preparazione, sono le uniche cose fuori dal normale che io sia riuscita a percepire.» «E se si trattasse di uno spirito?», insisté Swanhild. «Sia io che i cani lo avremmo percepito immediatamente!» «E se la soluzione del mistero si trovasse nella Quinta Dimensione?» Luna corrugò un po' le sopracciglia. «Non ho ancora preso in esame questa ipotesi...», rispose quindi lentamente. Sulla scorta delle sue indicazioni, Goddard e gli Hammand sondarono attentamente tutti i muri, ma senza alcun risultato. Poi, ciascuno di loro s'incaricò di esaminare un libro cercando eventuali note a margine, segni, o lettere, che fossero suscettibili di comporre un messaggio cifrato. Quando Luna ebbe terminato di esaminare il volume che aveva in mano, cominciò a girellare per la stanza, mentre i suoi compagni proseguivano l'esame dei loro libri. La lastra incisa la incuriosiva, e la ripulì con estrema cura.
«Potrei darvi una ottima foto, se volete», le disse Swanhild sollecita. «Peraltro, vi si possono leggere solo quei versi che già conoscete.» «Questa lastra», disse Luna a voce alta ma come se stesse parlando tra sé, «deve essere stata tolta prima della morte di Warlock: infatti l'alveolo è affumicato come il resto della stanza e il colore del fornello dimostra che non è più stato acceso dopo la morte del Mago. Quella roba, quindi, dev'essere rimasta in quel posto per tutto il periodo nel quale il vostro antenato ha lavorato qui.» «Oh, no! Una parte dei frammenti è stata utilizzata per costruire il fornello. Come potete vedere, ci sono delle fratture più fresche.» «Dunque Warlock non attribuiva alcun significato particolare ai versi che vi sono incisi?» «A me sembra che non racchiudano alcun mistero: sono solo un semplice avvertimento», disse Swanhild. «Mia cara, niente suscita più i miei sospetti dei fatti che sembrano estremamente chiari! Nel nostro caso, se questi versi non hanno alcun significato, perché si sono presi la briga di inciderli su questa pietra?» «Ora che mi ci fate pensare, debbo confessarvi che non mi ero mai posta la domanda», disse Swanhild riflettendo intensamente. «Voi avete qualche idea al riguardo?» «No: la situazione delle date mi sconcerta. Sono sicura che ogni cosa, dalla spada runica all'uso che Warlock ha fatto di questi frammenti, deve riferirsi al nostro problema, ma per il momento non riesco a vederne il nesso. Ah, ma questi due signori hanno terminato di esaminare i loro libri: avete per caso scoperto qualcosa?» «Quel vecchio peccatore non ha lasciato niente d'interessante circa i suoi misfatti...», rispose Oliver con un sorriso. «Apparentemente, almeno...», lo corresse Luna. «Ma sta cominciando a fare freddo, e ritengo che per ora qui non ci sia più niente da fare. Volevo chiedervi, Mr. Hammand: è possibile portar via da questa camera un oggetto?» «Tutto quello che volete!», fu pronto ad acconsentire Oliver. «Ma non prenderete la Mano di Gloria, mi auguro!» «Questa mano maledetta? Non la toccherei nemmeno con un bastone, ma vorrei invece far vedere l'impugnatura della spada a un esperto di lingua runica.» «Non pensate che il toccarla possa attirarvi addosso qualche guaio?» «No. L'influsso malefico è connesso solo alla Mano e al materiale che è
servito per la sua preparazione. Ma potete mai pensare che questo grazioso pezzo di metallo possa essere nefasto?» «E allora portatelo pure via! Che ne facciamo della Mano di Gloria?» «Rimettetela nel suo nascondiglio. Provvederò a renderla innocua!» Goddard ripose nuovamente la Mano nel nascondiglio, poi rimise la pietra nel suo alveolo. Quindi Luna ricoprì le giunzioni tra le pietre con una sostanza bianca e delle erbe secche finemente triturate. «L'aglio tiene lontani i Demoni, mentre la cera d'api li paralizza», spiegò. «Non è che riponga una fede assoluta nella virtù di questi preparati», aggiunse poi nel vedere che la stavano guardando con gli occhi spalancati, «ma, se non fanno bene, male non fanno!» Quando uscirono dalla stanza segreta, furono quasi contenti di sentire nuovamente il sinistro gorgoglio di quell'acqua cupa. Oliver respirò profondamente e rabbrividì. «Solo adesso comincio a capire quanto sia terribile tutto quello che abbiamo visto!», mormorò Goddard. «Io preferisco non pensarci!», borbottò Oliver. «Che terribile fetore!... mi sembra di averlo riconosciuto, sia pure vagamente... L'aria pareva piena di...» «...farfalle nere cavalcate da Demoni turchini?», suggerì allegramente il suo amico. «Orsù, amico mio, smettila di rimescolare idee su idee in quella pentola in continua ebollizione che è la tua testa! Per questa mattina può bastare!» Luna gli lanciò un'occhiata d'incoraggiamento, ma Oliver si voltò, estremamente serio. «Non sto scherzando, Goddard! Se fossi rimasto ancora un po', sono sicuro che sarei riuscito a ricordarmi dove ho già sentito quello strano odore...» Poi la voce del giovane si spezzò, e si passò le dita sulle tempie. Troppo emozionata per fare qualcosa, Swanhild gli rivolse uno sguardo angosciato, quindi si rivolse a Luna con la disperazione negli occhi. «Vedrete di ricordare solo quando ve lo ordinerò io!», disse la donna con un accento imperativo che risuonò come uno squillo nelle orecchie del giovane. Oliver si raddrizzò bruscamente, e il suo volto perse l'espressione confusa. «Quando me lo ordinerete voi...», balbettò. «Proprio così! Ma, fino a quel momento, se ci tenete alla tranquillità di
vostra sorella e alla vostra, non dovete fare nessuno sforzo di memoria.» «Voi avete già risolto il mistero!», dichiarò improvvisamente Oliver. «Può essere...», disse Luna con voce fattasi d'un tratto dura. «Ma una professionista seria come me non azzarda in nessun caso delle ipotesi premature. Quando conoscerò il significato di quell'iscrizione runica, allora costruirò una teoria. Ma ora, Mr. Hammand», riprese in tono più dolce, «abbiamo tutti bisogno di un po' di riposo.» Così dicendo rise leggermente, ma qualcosa nella sua voce e nella sua risata, impedì agli altri di rivolgerle ulteriori domande. 12. Quando fecero ritorno nell'ala del castello che era normalmente abitata, provarono la sensazione di aver vissuto un brutto sogno. Solo quando trovarono Walton che, in preda a un'ansia che non riusciva a dissimulare, misurava a lunghi passi il pavimento del corridoio, si resero conto di quanto tempo avevano trascorso nella stanza segreta. L'Ispettore Steyning era arrivato, e attendeva che fossero tornati per dare inizio all'inchiesta. Dato che la presenza di Miss Bartendale non era necessaria, Swanhild la sistemò nella stanza degli Holbein, e le consegnò i documenti genealogici della famiglia, insieme alla fotografia di cui le aveva parlato. Dopo la partenza dell'Ispettore, la trovarono china su una enorme pergamena che aveva disteso sul tappeto, intenta a esaminarla. «Che cos'è?», le domandò Oliver, mentre si lasciava andare su una poltrona. «Non riconoscete il vostro albero genealogico fino al 1650?», gli chiese a sua volta la spiritista. «Non l'avevo mai visto tutto aperto», si scusò il giovane. «Ah, ho capito. L'unica cosa che vi importava era di sapere che c'era stato un certo numero di persone che vi avevano preceduto... Penso quindi che non sappiate di essere di origine danese...» «Danese?», mormorò Oliver con una certa sorpresa. «Esistono parecchi elementi a suffragio di questa tesi: il nome assai poco comune qui di Swanhild, che ritorna praticamente nelle donne di ogni generazione, e poi il vostro tipo scandinavo assai marcato, che è lo stesso dei vostri antenati, come potete constatare da voi esaminando questi ritratti.
Guardate quello che c'è scritto in questo ramo», disse la giovane mostrandogli il documento, «è quello del vostro antenato danese. Ecco la traduzione di quanto c'è scritto: "Il figlio di Magnus Hammand, imparentato con la Casa Reale di Danimarca, la sposò...". Si riferiva alla sua futura moglie Edith, di stirpe sassone, che aveva ereditato a quel tempo il castello e le terre.» «È vero! E anche questa spada dell'Età del Bronzo è scandinava!» «Ci siamo, non è vero? È stato un ardito danese a sposare l'ultima erede della vecchia famiglia sassone. Che poi quell'avventuriero abbia con tutta probabilità massacrato l'intera famiglia acquisita il giorno stesso delle sue nozze, è un altro discorso. Ma il padre di Edith doveva essere una persona di alto lignaggio, se è vero che il ramo sassone prese il suo nome. E guardate qui: questo segno fatto con inchiostro rosso, indica che fu lui la prima vittima del Mostro, Perlomeno in Inghilterra...» Calcò molto l'accento su quelle ultime parole. «Insomma», domandò Swanhild, «secondo voi, il Mostro avrebbe fatto la sua apparizione nella famiglia contemporaneamente a questo Magnus di origine danese?» «Proprio così! E uno dei suoi discendenti, un altro che si chiamava Magnus come lui, dedicandosi alla Magia Nera molti secoli più tardi, ha accuratamente nascosto una spada di bronzo di provenienza scandinava. Tutti gli elementi in nostro possesso ci riportano inesorabilmente in Danimarca: il primo Magnus, la spada e... perfino gli alberi della Ballata, ossia i pini e gli abeti. Penso che, per questa mattina, abbiamo lavorato abbastanza! Ora sono le due», aggiunse poi, «e, mentre la mia parte cosciente farà una sostanziosa colazione, la mia parte inconscia classificherà le informazioni che ho raccolto, e vedrò di trarne la spiegazione degli avvenimenti che hanno avuto per teatro la stanza segreta.» Oliver aprì la bocca per porre una domanda, ma Luna continuò, prendendo Swanhild per un braccio: «Basta così! Abbiamo lavorato sin troppo, come ho detto! L'ora del pasto è sacra, per cui...». Goddard approvò allegramente. «Non so», disse rivolto a Swanhild, «quanto quella donna possa valere come esperta di poteri PSI, ma è un fatto che sa come trattare gli uomini! Hai visto come ha bloccato Oliver quando cercava di ricordare?» La colazione si svolse in un clima rilassato e di spensieratezza. Il lieve
riserbo che circondava Luna quando lavorava, era completamente scomparso, e Miss Bartendale si rivelò come la più allegra delle commensali. Sostenne in pratica da sola tutto il peso della conversazione, discutendo di volta in volta dei Balletti Russi, della Home Rule, e degli ultimi libri pubblicati. Gli Hammand provavano l'impressione di conoscerla da sempre. Oliver non era mai stato così espansivo: forniva in continuazione alla giovane donna una marea di particolari sulla sua infanzia e su quella di sua sorella, sui loro caratteri e sulle loro abitudini. Swanhild invece, in preda a una marea di sentimenti contraddittori, rimaneva in silenzio. «Ora devo andare...», disse Luna. «Riposatevi prima per qualche ora», le propose Oliver. «Tra qualche ora sarò sulla strada di Hassock», replicò Luna, «ben lontana dalla stanza degli Holbein!» Poi prese dalla tavola il manoscritto e la fotografia. «D'altronde, la storia che ho ricostruito, posso raccontarvela anche subito. Il Mostro ha fatto la sua apparizione nella vostra famiglia con Magnus il Danese e, fino al 1546, i vostri antenati conoscevano la sua natura e il motivo delle sue apparizioni, che erano strettamente collegate alla Maledizione che grava sulla vostra Casata.» «Fino al 1546?», domandò Swanhild in tono incredulo. «Sì... guardate: questa conferma la leggenda secondo la quale il primogenito - o comunque l'erede al titolo - veniva iniziato a un mistero nella stanza segreta», disse Luna mostrando la fotografia. «La lastra è stata incisa da un dilettante, per cui i versi, che appaiono così strani, in origine avrebbero dovuto essere di difficile interpretazione: questa Ballata, che ora è di pubblico dominio, allora aveva un senso nascosto.» «Eppure a me sembra chiarissima!», esclamò Oliver. «Sembra, ma non è così! Il linguaggio e le parole sono una cosa davvero meravigliosa! A mio avviso, gli eredi del titolo venivano condotti nella stanza segreta per apprendere proprio il significato di questi versi.» «Però, nella battaglia di Blore Health del 1546, tutti i maschi della vostra famiglia vennero uccisi, a eccezione di Magnus il Mago che era appena nato, ma al quale nessuno era più in grado di trasmettere il segreto. Grazie alle sue ricerche, lui riuscì in parte a venirne a capo, per cui fece resuscitare il Mostro scomparso ormai da un secolo, ma non fu capace di renderlo inoffensivo e di incatenarlo. Il metodo per riuscirvi era sicuramente indicato nel rituale che veniva svelato agli eredi in occasione dell'i-
niziazione.» «Capisco!», esclamò Oliver. «E i seguaci di York, quando hanno saccheggiato il castello, hanno distrutto tutti gli elementi di riferimento, al punto da distruggere anche l'iscrizione.» «Tutto questo sembra avere una certa logica», convenne Goddard esaminando le pergamene. «La seconda comincia: "Oliver, nato nel 1893". Soltanto, Miss Bartendale, tenete presente che, dal primo Magnus all'Anacoreta, ossia dall'830 al 1392, sono trascorsi cinquecentosessantadue anni, durante i quali il Mostro è apparso diciotto volte, contro le sette che si è fatto vivo da Warlock - nel 1526 - ai giorni nostri, ossia poco più di quattrocento anni. Perciò, quando il rituale che voi sembrate considerare una salvaguardia era conosciuto dai membri della famiglia, il Mostro si è manifestato di più che durante il periodo successivo. Come lo spiegate questo fatto?», concluse, fissandola attentamente. «Può darsi che quel rituale procurasse al Mostro un maggior numero di vittime...», rispose la donna con aria meditabonda. «Si sarebbero dunque verificati dei sacrifici umani!», scoppiò a dire Oliver che seguiva il dialogo con estrema partecipazione. «Ma, Miss Bartendale, questo sarebbe un abominio!» «Non credo... D'altro canto, il sacrificio non è poi così orribile se è effettuato volontariamente...» «Ma non penso che gli esseri umani che sono stati vittime di questi "sacrifici", morissero poi tanto volentieri!» «Per ora non sono in grado di dirvi altro, prima di aver localizzato con precisione le date», troncò il discorso la giovane. Continuando a tormentarsi con una mano la fossetta che aveva sul mento, Luna ripose la fotografia. Oliver intanto contemplava soprappensiero la giovane donna. Imbarazzata per quello sguardo insistente, la ragazza si rimise a esaminare la fotografia. «I primi due versi della Ballata sono completi», osservò. «"Dove i pini e gli abeti crescono rigogliosi, / Sotto le stelle, senza caldo né pioggia..." Poi la pietra è consumata, e l'inizio del terzo verso è scomparso. Quali sono le parole mancanti?» «Capo di...», rispose Swanhild. «Il verso dovrebbe dunque essere: "Il Capo di Hammand incontrerà la sua fine"? «Non sono d'accordo. Il Capo degli Hammand andrebbe già meglio, ma nemmeno questa versione mi soddisfa.»
«Le esigenze poetiche possono aver costretto l'estensore dei versi ad alterarne il senso...», osservò Goddard. «No. Nelle Ballate medioevali, la prima a essere sacrificata era sempre la metrica.» «La prima lettera è una C...», fece notare Oliver, che si era nel frattempo chinato sul documento. «Non ne vediamo che la metà, e potrebbe essere la parte superiore di una O, o di una Q, o di una G...» «E allora?» «L'ultima lettera poi, non è senza dubbio una F, ma la deformazione di una lettera lombarda, ossia una Z, oppure una L.» Prese quindi una matita e riprodusse le varie linee. «Infine, nonostante la loro forma strana e inconsueta, le lettere sono spaziate con regolarità, e le parole sono separate tra loro da due punti che occupano il posto di una lettera. Capo dei dovrebbe comprendere sette spazi, mentre noi ne abbiamo solo sei. Quindi, invece di Capo degli Hammand la scritta dovrebbe essere ?????? Hammand», concluse la spiritista. 13. «È un vero e proprio puzzle!», disse Goddard esaminando per l'ennesima volta la scritta. «Ma voi pensate che le parole mancanti possano cambiare il senso di questo verso?» «È poco probabile, dato che si tratta solo di sei lettere», rispose la giovane donna. «Ma vediamo di riassumere il tutto scrivendo le varie combinazioni che si possono creare. La parola potrebbe quindi essere: C...L O...L G...L Q...L
C...Z Q...Z O...Z G...Z.»
Poi rifletté un attimo e concluse: «Però, alla fin fine, questo per ora non ha importanza». «La prima parola potrebbe essere crudel», disse Goddard, prendendo in mano il foglio di carta che Luna aveva spinto da parte. «Non vuol dire niente...», obiettò la donna. «Corbel...», riprese a proporre Goddard, ostinato. «No: peggio che andar
di notte! Proviamo con la G. Gospel? Assolutamente no! E la O? Ortiel... oppure due parole: O dull Hammand? Non è poi troppo male, peccato solo che non voglia dire assolutamente niente. Per quanto riguarda poi le parole che finiscono con la Z, non me ne viene in mente nessuna.» «Tutto il resto è chiaro...», mormorò Luna, sempre chinata sulla fotografia; «"Dove i pini e gli abeti crescono rigogliosi sotto le stelle, senza...".» Poi s'interruppe bruscamente, e rimase col viso nascosto tra le palme delle mani, martellandosi leggermente le tempie con la punta delle dita. «Oh, a che scopo insistere? Sono stanca, e non ho più voglia di pensare...», esclamò alla fine, alzando il capo. «Prima di partire però, vorrei esaminare un'altra volta i resti di quel povero cane.» I tre giovani si alzarono per accompagnarla. «No, grazie!», disse Luna. «Mi accompagnerà il maggiordomo. È inutile riaprire il vostro dolore e poi, preferisco essere sola.» Mezz'ora più tardi, era di ritorno. «Mio Dio, Miss Bartendale, che odore di morte avete!», esclamò Oliver. Luna fece una smorfia. «Era un compito penoso per uno che ama gli animali...», disse. «La Polizia non ha ancora toccato niente?» «No. Il Connestabile ha telegrafato a Scotland Yard di mandare un Ispettore.» «Non troverà niente! Il corpo non ha alcun segno, e non credo che il cane abbia morsicato qualcuno. Ma ora vi lascio e torno a casa mia.» «Ma...», cominciò a dire Swanhild. «Volete dire che non siamo arrivati a nessuna conclusione?», disse Luna, terminando il pensiero inespresso della ragazza. «Non posso fare nient'altro prima di sapere il significato di quella iscrizione runica.» «Ma...», insisté ancora Swanhild. «Suvvia!», la fermò Oliver con voce dolce e risoluta allo stesso tempo. «A quanto pare, Miss Bartendale è dell'idea di tacere per ora le conclusioni alle quali è giunta, e non possiamo fare altro che adeguarci alla sua volontà.» «Avete deciso di abbandonarci?», aggiunse ancora sua sorella in tono disperato. «Ma no: assolutamente!», rispose Luna in tono brusco. «Vi lascio al riparo da qualsiasi eventuale pericolo. D'altro canto, il rischio lo correte solo voi, Mr. Hammand... Ricordatevi: non dovete andare nella stanza segreta, né in alcun luogo dove crescano pini o abeti, prima che io abbia fatto ritor-
no!» «E quand'è che tornerete?» «Sarete voi a venire da me domani.» «Domani?», ripeté Oliver, mentre nella voce gli vibrava una nota di felicità. «Sì, perché mi sembra che vi siate ristabilito abbastanza da poter uscire. Mi promettete che farete quanto vi ho detto?» «Con gioia! E qual è il vostro indirizzo?» «Il 15 di Bisham Gardens a Chelsea. Abito lì con mia zia: Mrs. Yorke, la pianista. A proposito: vorrei fare un pacco della spada.» «Ho una vecchia scatola di sigari che penso andrà benissimo!», disse Oliver tutto allegro, e uscì per andarla a prendere. «Oh!», disse Goddard fischiando piano. «Mi dà l'idea che il vecchio Oliver sia diventato tutto a un tratto molto allegro, non è vero, Swanhild?» «Gli ho fornito un rimedio che lo tiri su di morale...», spiegò Luna. «Ma perché non volete dirci niente?», domandò Swanhild. «Questo fa parte del mio piano. E voi non ne saprete di più, quale sia la compassione che possa provare per il vostro stato d'animo.» Posò quindi le mani sulle spalle della ragazza, e ne fissò i profondi occhi grigi. I suoi in quel momento non erano né meditativi, né brillanti, ma pieni di dolcezza e di comprensione. Swanhild, rasserenata dall'abbraccio di Luna, cessò come per incanto di rabbrividire. «Fidatevi di me!», la esortò la spiritista. «So quello che faccio! Non è la prima volta che risolvo un problema, anche se questo - devo confessarlo è particolarmente arduo. Mi raccomando anche a voi, Mr. Covert...», concluse poi, rivolgendogli uno sguardo d'intesa. Confuso, Goddard sorrise, ma i suoi occhi rimasero seri. «So che voi state certamente facendo tutto quello che potete, Miss Bartendale, ma dubito che siate sulla buona pista. Se, come dite, siete sicura che il segreto era conosciuto prima della Guerra delle Due Rose, perché allora le morti furono più numerose che in qualsiasi altro periodo?» «Non ho voluto spiegarvi la mia interpretazione di quel fatto, ma non potreste concedermi un po' di fiducia? Solo dalla battaglia di Blore Health in poi, assistiamo alle manifestazioni del Mostro. Prima di questa data, la sua natura era sconosciuta, e si ignoravano le origini e le ragioni del suo rapporto con la Casata degli Hammand. Penso però di essere riuscita a sapere qual è la sua forma, e spero anche di riuscire a scoprire quale sia la sua origine.»
«Me lo auguro!», rispose Goddard. «E se ne scoprirete l'origine, riuscirete anche a ridurlo all'impotenza?», chiese ansiosamente Swanhild. «Domani, al più tardi a mezzogiorno, vi darò la risposta!», concluse la spiritista. 14. Quando Luna lasciò Dannow, la nebbia si era sciolta. Il sole, che si faceva largo tra le nuvole che incombevano sulle dune, sembrava l'occhio di un Diavolo maligno che, guardando curiosamente il mondo grigio ai suoi piedi, stesse meditando qualche brutto tiro. Oliver aveva insistito per accompagnarla fino alla stazione di Hassock. Nel momento in cui l'autovettura stava per uscire dalla valle, la spiritista si voltò a guardare per un'ultima volta il castello che si stagliava sullo sfondo di un cielo cupo e minaccioso. «Un giorno dovreste venire a visitare il Sussex...», le propose il giovane. Luna smise di guardare il paesaggio e si voltò verso di lui. L'uomo la stava contemplando appassionatamente, e gli occhi brillanti della donna raccolsero la sua sfida. «A cosa stavate pensando mentre guardavate Dannow?», chiese Oliver. «Che, se fossi al vostro posto, ne disperderei le pietre una per una. Raderei al suolo il bosco e dissoderei la terra il più profondamente possibile. Poi cambierei il nome della località, il mio, e me ne andrei a vivere in qualche colonia, ben lontana da tutti gli orrori che sono collegati a questa eredità.» «Penso che siate un po' stanca...», rispose affettuosamente Oliver. Nonostante lo shock e le recenti ferite, irradiava forza e serenità. «Ma non parliamo più di Dannow», continuò, «bensì di quello che avete fatto per me in occasione del nostro primo incontro. La mia situazione allora era ben più penosa di quanto non sia oggi.» «Non c'è niente di peggio del Mostro!», disse Luna con un brivido. «E invece sì: un uomo in procinto di cadere preda di un esaurimento nervoso. Dio vi benedica, Miss Bartendale, ma credo che voi cerchiate di scordare l'incidente per non ferire il mio amor proprio. Ma», rispose, «non è per caso che cominciate a ricordare?» «Dove ci siamo incontrati?», chiese Luna, cercando di fissare nella mente un vago ricordo.
«Lasciate che vi descriva la scena. Siamo in una stazione di Londra, in un treno-ospedale quasi vuoto. Io mi trovo in uno scompartimento, solo e molto infelice. Il telegramma che doveva annunciare il mio arrivo era stato sbagliato, per cui non c'era nessuno ad attendermi, e io ravvisavo in questo un presagio di morte. Swan avrebbe dovuto essere lì a misurare il marciapiede in attesa...» La sua voce si abbassò ed emise un sospiro. «Miss Bartendale, se è vero che durante la guerra gli uomini hanno conosciuto l'Inferno, alcuni si sono accorti che il Paradiso consisteva semplicemente nel lasciare un treno-ospedale per ritrovare una donna che voleva loro bene...» Gli occhi di Luna si velarono di lacrime. «E voi eravate solo?», chiese con dolcezza. «Assolutamente solo! Cercavo di alzarmi, ma nessuno faceva caso a me. Gli infermieri avevano da occuparsi dei feriti gravi. Allora mi misi a piangere: per poco non mi mettevo a gridare! Ah, quanto erano importanti queste piccole cose negli anni tra il 1914 e il 1918! Fu allora che una donna uscì dalla folla, si diede da fare come un'ape intorno ai fiori, mi condusse in un angolo tranquillo, mi asciugò gli occhi col suo fazzoletto che odorava di fieno reciso, mi sottrasse agli sguardi dei curiosi mettendosi in piedi davanti a me - ero alto due volte lei! - poi mi mise una sigaretta tra le labbra e l'accese. Tutto questo senza cessare di farmi coraggio con quei suoi occhi sereni che sembravano riversare dentro di me la voglia di vivere. Ma quello che vi sto raccontando mi sembra non abbia l'aria di piacervi...», disse all'improvviso. «Continuate!», rispose Luna con un filo di voce. «Quando si fu fatta spiegare tutto quello che era successo, spedì un secondo telegramma, andò a cercare un altro ferito che non aveva nessuno, ci fece stare insieme, e poi ci fece salire sul nostro treno. In seguito, durante la mia lunga degenza, è stato solo questo ricordo, Miss Bartendale, che mi ha dato la forza di andare avanti. Volevo vivere per poter ritrovare quella piccola donna dagli occhi dolci e sereni, che odorava di fieno reciso.» «Ci vuole così poco per dare conforto a un ferito!», disse Luna. «In seguito l'ho cercata a Londra, ma tutto il personale di quella stazione era cambiato. Tuttavia, dentro di me, ho sempre saputo che un giorno l'avrei incontrata di nuovo.» Luna lo guardò e, per la prima volta, lo vide com'era realmente. Da
quando l'aveva visto la prima volta in occasione del suo arrivo al castello, non era stato altro che un cliente: ora però cessava all'improvviso di essere un'entità astratta per diventare un bel ragazzo, dai modi calmi, fondamentalmente serio ma con un modo di fare scherzoso, con i tratti fini di sua sorella e gli occhi belli come i suoi. La giovane donna rifletté che aveva un carattere energico e fiero, ma ombroso e sensibile. Lo comprese di colpo, e questa scoperta la fece considerando i suoi antenati, quegli uomini che avevano cercato la morte non appena si erano trovati faccia a faccia col Mostro. Qualcosa di nuovo e che non pensava sarebbe mai potuto accadere era nato in lei quando i loro occhi si erano incontrati. Respingeva quel pensiero che non voleva ammettere, ma le donne non hanno bisogno di parole per definire l'amore. «Quella è Hassock?», domandò turbata, tanto per spezzare il silenzio che era diventato insopportabile. «Sì...», rispose Oliver, commosso anche lui. Sentiva che si era appena compiuto il più semplice e allo stesso tempo il più grande dei miracoli. Ma Luna stava vivendo i minuti più dolorosi della sua vita, torturata dall'orribile segreto che aveva scoperto a Dannow. Erano intanto arrivati alla stazione. «Pensate che ci sia pericolo questa notte?», domandò ansiosamente alla spiritista, Swanhild, che li aveva intanto raggiunti con la Mercedes. «Nessuno. Comunque, domattina mandatemi un telegramma per dirmi come stanno le cose, e non esitate a farmi sapere qualsiasi avvenimento fuori dall'ordinario. Non vi dimenticate poi che vi aspetto per le undici.» Affacciata alla finestra, Luna stava dando questi ultimi avvertimenti alla giovane ritta sul marciapiede della stazione. Era così che Oliver avrebbe dovuto trovare sua sorella quando era tornato dal fronte. Incontrando lo sguardo del giovanotto, Miss Bartendale capì che lui condivideva il suo pensiero. Si rimproverò per quella istintiva comunione di spiriti, e prese la decisione di controllarsi maggiormente per l'avvenire. Più tardi, sola nel suo scompartimento, cullata dal rollio del treno mentre gli ultimi raggi del sole incendiavano di un color rosso fuoco i finestrini, Luna s'immerse in una profonda meditazione. Roska aveva posato la sua testa sulle ginocchia della giovane donna, e gli occhi dell'animale rispecchiavano il turbamento che travagliava l'anima della sua padrona. Poi, il nome di una stazione vicina a Londra, strappò di
colpo Luna dalle sue profonde riflessioni. L'aria compassionevole del cane la irritò. «Vecchio mio, dopotutto si tratta del mio mestiere!», dichiarò, abbassando il finestrino per lanciare un pacchetto nella nebbia che si alzava fitta tutt'intorno. «Ma ora pensiamo soltanto al lavoro!», continuò poi, guardandosi nello specchio per aggiustarsi il cappello e ritoccarsi la faccia. Alla Stazione Victoria, comprò l'edizione della sera dell'Evening Post. SI TRATTA DI UN FANTASMA? Un misterioso delitto nel Sussex annunciava il titolo. Poi, su altre tre colonne: IL MISTERO DEL VECCHIO CASTELLO DI DANNOW AUMENTA Ultimi particolari Un giovane alto e dinoccolato, sceso da un'altra carrozza, arrivò dal giornalaio contemporaneamente a Luna. Offrì quindi cortesemente alla giovane donna una copia del giornale piegata dalla quale sporgevano un mazzolino di primule e un ramoscello d'abete. «Li ho colti a Dannow mentre davo la caccia a delle informazioni inedite, mia cara Strega...», disse, accompagnando l'offerta con un sorriso. Indecisa, Luna finì per prendere quanto le veniva offerto. «Siete il re degli sfacciati, Tommy!», disse poi. «Adesso prenderemo un tassì, ma vi prometto che non verserò una lacrima il giorno in cui vi impiccheranno!» Thomas Curtiss, dell'United Press, si mise a ridere. «È vero che la maggior parte dei giornalisti è degna della forca», ammise, «ma voi mi avete sempre detto che io ero tra i meno colpevoli. È senza dubbio per questo che mi avete mandato quel telegramma non appena avete saputo cos'era successo a Dannow.» «Chi sa?», fece Luna mentre entrava nel tassì. «Luna», riprese a dire l'uomo garbatamente mentre si sedeva accanto a lei, «può Tommy, il vostro amico d'infanzia, dissociarsi da Curtiss, l'Inviato Speciale, e domandarvi se siete venuta a capo del Mistero di Dannow?» 15.
«L'amico della mia giovinezza può domandarmi qualunque cosa», rispose con un sorriso la giovane donna. «Ma prima dovete dirmi cosa avete scritto nel vostro articolo», aggiunse, mettendo nella voce una nota di grande serietà. Il giovanotto scoppiò a ridere. «Niente di trascendentale. Descrivo il villaggio, la casa del Connestabile, il vostro arrivo, e poi mi dilungo un po' sulla mia intervista con voi. Ho telefonato al giornale da Hassock mentre voi stavate facendo colazione. Domani, tutto quello che vi ho detto sarà in prima pagina: l'edizione di stasera ne dà soltanto una versione succinta. A proposito, amica mia: vi andrebbe di scrivermi qualcosa sui fantasmi in generale per il Weekly di domenica prossima?» «Vedrò...», rispose Luna. «Che parole mi avete messo in bocca nella vostra intervista?» «Le solite cose. Nel pomeriggio ho scattato qualche foto per l'edizione illustrata del giornale. Ho cercato di procurarmi una fotografia della Hammand, ma il maggiordomo è stato inflessibile. La luce poi non permetteva di riprendere gli interni, per cui ho dovuto fotografarvi in chiesa insieme a tutta la famiglia addolorata... Ma suppongo che desideriate lavorare in tranquillità: non è vero, mia adorabile Strega?» «Perlomeno quanto più e possibile, mio adorabile giornalista!» «Ho presentato i fatti in modo da non farvi capitare tra i piedi nessuno dei miei colleghi. In tal modo penso di avervi messo al sicuro dalle persecuzioni della stampa. In compenso, volete dirmi se avete risolto il mistero?» «Non posso rispondervi.» «E se ci arrivassi da me? Già quando ero ancora un ragazzino la stanza segreta del castello di Dannow occupava molti dei miei pensieri...» «State attento! Fra tutto quello che ho dovuto esaminare, ci sono molte cose per le quali Tommy il "sentimentale" soffrirebbe molto se le vedesse pubblicate da Curtiss il "giornalista"!» «Luna, voi sapete già tutto circa il Mistero di Dannow!», esclamò il giovane con voce trionfante. Poco dopo, la macchina si fermò davanti a una casa di non molte pretese, protetta da diverse piante di alto fusto che spandevano un'ombra discreta tutt'intorno. Sceso dalla vettura, Tommy seguì la giovane donna aiutandola a portare i bagagli. Prima di aprire la porta, Luna disse esitando: «Mi sono chiesta spesso se i giornalisti abbiano una morale e, in caso af-
fermativo, quali siano i suoi limiti. Cosa fareste voi, Tommy, se nel corso di un'inchiesta veniste a conoscenza di un fatto la cui pubblicazione potrebbe nuocere a qualcuno?» «Se l'inchiesta fosse autonoma, nel senso che costituisse una mia iniziativa, potrei anche lasciar perdere ma, se così non fosse e il mio giornale mi ordinasse di andare fino in fondo, farei il mio dovere.» In quel momento, giunsero alle loro orecchie degli accordi musicali provenienti dal salotto: Mrs. Yorke doveva essere tornata dal concerto. «È stato divino!», disse alla nipote quando questa entrò nella stanza. «Avrei voluto che non finisse mai!» Mrs. Yorke era una donna alta e ben fatta che sprizzava salute da tutti i pori. Nonostante i capelli bianchi, con la sua carnagione fresca e gli occhi neri e vivaci, conservava delle pretese di giovinezza. «Mi sembri molto stanca, mia cara!», disse. «Ho letto i giornali, e ho avuto modo di seguire quanto stava succedendo laggiù. Non mi dirai che hai già svelato il Mistero di Dannow!» «Avrei una gran voglia di non dirti niente...», mormorò Luna. «Tra tutti gli orrori possibili...» Così dicendo, si lasciò cadere su una poltrona vicina a un tavolino, sul quale facevano mostra di sé diverse fotografie di persone della famiglia ormai non più viventi. Una gatta e il suo piccolo, che si stavano crogiolando al caldo del camino, le balzarono sulle ginocchia una dopo l'altro. Roska toccò la mano della padrona col suo muso umido, ma questa rimaneva assorta nei suoi pensieri. Mrs. Yorke le si avvicinò. «Cos'hai? Mi sembri così strana!» «Ho dovuto sostenere una commedia ben penosa questo pomeriggio, quando ho scoperto il senso di alcune lettere cancellate di una iscrizione, e ora ho bisogno di distendere un po' i nervi.» «Mi vuoi raccontare?», le chiese Mrs. Yorke. «Ti procura sempre un certo sollievo lo sfogarti con me, anche se non posso aiutarti.» «Non ho niente da dire!», proruppe Luna con una violenza assolutamente fuor di luogo. Subito dopo però, si scusò per i suoi modi. «Senza volerlo, hai toccato un tasto estremamente doloroso per me... Comunque, ti racconterò cos'è che mi angoscia.» «Quando vorrai, mia cara. Ma ora riposati: fra poco è l'ora di andare a
mangiare.» Era molto tardi quando Luna, recuperata la sua calma abituale, dopo aver bevuto una tazza di caffè ed essersi accesa una sigaretta, svelò alla zia il segreto degli Hammand in tutto il suo orrore. Per quanto fosse da tempo abituata a sentire storie di quel genere, purtuttavia Mrs. Yorke ne fu spaventata. «È terribile!», mormorò. «Cosa pensi di dire a quei poveri ragazzi? E come mai questo orrore risale a più di mille anni orsono? Che cosa orribile! Inoltre, è qualcosa di assolutamente nuovo e singolare...» «No, non è vero. Già alcune persone, in altri periodi, sono state protagoniste di questo orrore...», la corresse Luna. «Dicendo completamente nuovo, pensavo ai titoli dei giornali. Capisco sin troppo bene perché tanti Hammand si sono suicidati!» Luna alzò le spalle. «Il loro caso era speciale. Vuoi per cortesia telefonare al Professor Bergstrom per l'elsa di quella spada?» Mentre la zia si portava al telefono per chiamare il Professore, la spiritista rifletté che per lei era sempre un obbligo ricorrere ai pareri degli specialisti. Anche se conosceva diverse nozioni in quasi ogni campo del sapere, nel corso dei suoi studi si era procurata un mucchio di relazioni utili che non esitava a interpellare nel corso dello svolgimento del suo lavoro. «Prende un tassì e viene», disse la zia poggiando il microfono. «Pensi tu a riceverlo? Io stasera non ne posso più, per cui me ne vado a letto. Sono appena le dieci, ma ho avuto una giornata massacrante. Evidentemente sto invecchiando...» Poi guardò ansiosamente la nipote abbandonata sulla poltrona. «Perché non lasci perdere questo mestiere?», le chiese. «Non posso lasciare inutilizzati i miei doni. Ricordati quanto aiuto sono stata in grado di fornire a persone disperate che non sapevano più a che santo votarsi!» «Questo lo capisco: ma se i tuoi doni dovessero scomparire? Ti confesso che molte volte me lo auguro. Potresti sposarti e vivere una vita normale: io sarei privata di una compagna insostituibile, ma cerco di abituarmi a questa idea perché non sono egoista e, quello a cui tengo più di ogni altra cosa, è il tuo bene.» «Non perderò mai le mie facoltà!», tagliò corto Luna. «Mmmm... il Professore sa che ho trovato l'elsa di quella spada nel castello, ma ignora tutto il resto!»
Per la prima volta, la giovane si rammaricò che sua zia fosse a conoscenza del fatto che esistevano due cause in grado di privare una spiritista dei suoi doni: un peccato mortale, o una grande passione capace di assorbire totalmente il suo cuore e la sua anima. 16. Luna si era appena svegliata, quando arrivò il telegramma di Swanhild. «La piccola Kate è morta questa notte», riferì a Mrs. Yorke mentre facevano colazione. «L'inchiesta avrà luogo domani.» «Oh...», esclamò la vecchia signora, non trovando nient'altro da dire. «C'era da aspettarselo: è stata già una fortuna che sia sopravvissuta alcune ore nello stato in cui era. Per quanto riguarda l'inchiesta, ho tutto sotto controllo, a meno che quei maledetti bracconieri non vengano accusati dell'omicidio. Hai letto i giornali?» «Tutti i giornalisti affermano di aver parlato con te. Il Daily Speculum poi, ha un'intera pagina piena di fotografie. In una ti si vede sulla porta della chiesa in compagnia degli Hammand: il giovane sembra più alto dell'edificio, mentre sua sorella e il suo fidanzato sono praticamente irriconoscibili, e tu non sei altro che un'ombra indistinta con una croce sotto per indicare che sei tu. Un'altra foto mostra il bassorilievo e il quadro. E c'è persino un'istantanea del poliziotto locale! Per finire ci sono le riproduzioni in neretto delle varie strofe della Ballata.» «Non sarà piacevole per i miei clienti!» «Ora quei versi saranno letti e commentati in tutto il Regno Unito! Auguriamoci solo che il Daily Post non si faccia venire l'idea di offrire un premio alla persona che fornirà la migliore interpretazione! Ma ho già abbastanza problemi ora da non dover pensare anche a questo!» Poiché nel corso della settimana non si era avuto alcun assassinio efferato né alcun divorzio clamoroso, Curtiss aveva fatto concentrare sul suo articolo relativo al Mostro il massimo interesse. Non c'era edizione dei giornali che non si titolasse: «Il Mistero di Dannow», oppure «L'Orrore del Sussex». Inoltre, la notizia della morte di Kate era già apparsa sul Post Press. All'arrivo degli Hammand, Luna stava dandosi da fare per congedare con molto tatto tre giornalisti che erano riusciti a intrufolarsi nell'anticamera. Dopo che se ne fu liberata, raggiunse nel salotto i suoi ospiti che nel frattempo stavano conversando con sua zia.
In quella piccola stanza, Oliver sembrava immenso. Tranne il livido violaceo sulla tempia, ogni altra traccia visibile dell'avventura di cui era stato protagonista era scomparsa. «Avete l'aria di esservi ripresa completamente dalle vostre fatiche!», disse allegramente, guardando Luna con affetto. Poi i suoi occhi si incupirono. «Avete ricevuto il telegramma di Swan?», chiese. «Sì. Ma lo sapevo già che sarebbe finita così.» Vide un profondo orrore dilagare nelle pupille dell'uomo, mentre le idee contorte e malsane che gli stavano passando per la mente cercavano di prendere forma. «Miss Bartendale, lo sapete che il sacrificio dev'essere completo? Manca ancora una vittima all'appello...», mormorò con voce atona. Swanhild, in preda a un'enorme inquietudine nonostante la sua calma apparente, si rivolse a Luna con ansia. «Tacete, Mr. Hammand!», ordinò imperiosamente la giovane donna. «È inutile recriminare su quanto è successo. Invece di sprecare le vostre energie in vani rimpianti che non servono a nulla, perché non mi aiutate a evitare nuove disgrazie?» Quel tono e quelle parole parvero esercitare un effetto magico su Oliver, che ritornò padrone di se stesso. Gli occhi di sua sorella brillarono per la gioia. Mrs. Yorke osservava alternativamente sua nipote e quel giovanotto alto e forte. «Finalmente!», esclamò Goddard, mettendo un braccio intorno alle spalle dell'amico. «Ecco quello che sto cercando di farti capire da quando siamo partiti da Dannow! Mi darai retta ora, dopo quanto ti ha detto Miss Bartendale?» «Lo so che hai ragione», rispose Oliver, «ma non sempre si è padroni dei propri pensieri...» «Basta volerlo!», lo interruppe Luna. «Siete riuscita a tradurre l'iscrizione runica?», chiese in quel momento Swanhild, senza riuscire a dissimulare l'eccitazione che provava. «Non ancora», rispose la spiritista. «Il Professor Stromberg ci ha lavorato sopra tutta la notte, e questa mattina abbiamo anche interpellato il Conservatore della Sezione Antichità Scandinave del British Museum. Siamo arrivati alla conclusione che i caratteri sono alquanto inconsueti, ma possiamo abbastanza ragionevolmente datarli intorno all'VIII secolo.» Swanhild non riuscì a nascondere il proprio disappunto a quella notizia.
«Avevate detto che la spada era anteriore all'Era Cristiana, Miss Bartendale...», le rammentò Goddard. «Soltanto la lama.» «Cosa dobbiamo fare oggi?», domandò Swanhild, impaziente. «Voi mi aiuterete, mentre mia zia intratterrà questi due baldi giovani.» «Devo aiutarvi? Io?» «Sì.» Infilato quindi un braccio sotto quello della ragazza, Luna la trascinò fuori dalla stanza. Oliver non fece alcuna obiezione, ma Goddard aggrottò le ciglia, preoccupato. D'altronde, fin da quando erano arrivati, si era mostrato pieno di riserve: sin quando non gli fosse stato spiegato il motivo di quello strano comportamento della spiritista, non avrebbe potuto aver fiducia in lei. Mezz'ora più tardi, una giovane cameriera fece entrare Oliver e il suo amico nello studio della spiritista. Si trattava di una piccola stanza arredata severamente e senza indulgere a preziosismi di alcun genere: vi erano un divano, un grande scrittoio, una libreria piena zeppa di volumi per la maggior parte antichi, e alcune comode poltrone che favorivano il raccoglimento e la riflessione da parte dei clienti. Le pareti erano tappezzate con carta scura, e nella stanza regnava una penombra diffusa. Swanhild sembrava a disagio e nervosa. Luna invece, calma e tranquilla, aveva un atteggiamento del tutto professionale. «E allora?», chiese giovialmente Oliver. «Ho bisogno ancora di alcune informazioni, e faccio conto su di voi per averle.» «Ma cosa mai posso dirvi che già non vi abbia detto?», chiese il giovanotto, stupito. «Quello che Warlock sapeva del Mostro, per esempio...» «Ma io non lo so!» «Coscientemente, sono d'accordo con voi. Ma siete però uno dei suoi discendenti per cui, senza che voi ve ne rendiate conto, è possibile che l'informazione che cerchiamo sia nascosta in qualche circonvoluzione del vostro cervello. Si tratta di quello che noi chiamiamo memoria atavica.» «Mi sembra di capire che abbiate in animo di evocare lo spirito di Warlock...» «Ho già avuto modo di dirvi che non mi azzarderei a penetrare il mondo dell'Aldilà, senza un preciso invito. No. Si tratta di qualcosa molto più semplice: in stato di ipnosi, la gente talvolta ricorda dei fatti che ignora
completamente nello stato di veglia.» «Dunque vorreste ipnotizzarmi? Sono a vostra completa disposizione, anche se la cosa mi sembra un po' umiliante.» «Questo perché pensate che si tratti di trucchi da ciarlatani, ma vi assicuro che non è così. Ora vi accomoderete su questa poltrona e risponderete alle domande che vi farò, così come ha già fatto vostra sorella.» «Cosa?», esclamò Goddard. «E tu, Swanhild, hai accettato?» «Perché no? Non mi è successo nulla. Mi sono semplicemente addormentata, e non ricordo nulla di spiacevole.» «Miss Bartendale, i vostri sistemi mi sembrano pericolosi e privi di risultati probanti...», cominciò a dire Goddard, ma poi s'interruppe in quanto si rese conto che ormai era troppo tardi per protestare. «Via, Goddard, Miss Bartendale sa bene quello che fa! Non dimenticarti che è un'autorità nel suo campo!», disse Oliver in tono di pacato rimprovero. «Vostra sorella non ha risposto a nessuna delle domande che le ho posto. Mi auguro di aver maggior fortuna con voi», disse la spiritista. «Sono a vostra completa disposizione, accada quel che accada!», dichiarò il giovane con voce ferma e risoluta, mentre gli occhi gli brillavano per la curiosità. Una fiamma leggera danzava in quelli di Luna. In piedi, uno di fronte all'altra, Oliver e la giovane donna unirono le mani come due compagni intenti a percorrere una strada buia e sconosciuta. «Risaliremo il corso dei secoli fino all'epoca del Mago!», mormorò Luna. Quindi fece sedere il suo soggetto su una poltrona situata di fronte a una finestra. «Questo è il mio orologio: fissate attentamente la sua cassa luccicante fin quando non vi dirò di smettere, Mr. Hammand.» Nella stanza si diffuse un silenzio teso e gravido d'ansia. 17. «Adesso vi farò vedere come mi sono comportata con voi», disse Luna a Swanhild, «e ascolterete le stesse domande che avevo posto a voi.» Oliver intanto non staccava gli occhi dalla superficie metallica della cassa dell'orologio. «Come vi sentite?», gli chiese la spiritista dopo quattro minuti.
«Un po' stanco», fu la risposta. «Avete gli occhi molto stanchi... Guardate come sbattono! State facendo una fatica enorme per tenerli aperti», gli disse poi la giovane donna con voce suadente. Il giovane cominciò a battere le ciglia ripetutamente. «Adesso chiudeteli del tutto. Vedete? Non riuscite più a riaprirli», disse Luna. Le palpebre del giovanotto si abbassarono, e la spiritista allora eseguì dei gesti strani con le mani intorno al viso dell'uomo seduto sulla poltrona. «Vostro fratello è un soggetto eccellente per l'ipnosi», disse Luna a Swanhild non appena il giovane fu completamente addormentato. Oliver, che intanto aveva riaperto gli occhi, seguiva i movimenti della donna con uno sguardo senza espressione e nel quale era assente ogni segno di vitalità. «Credevo che i migliori soggetti fossero le persone isteriche o molto nervose...», osservò Swanhild. «Niente di più sbagliato! Provate a parlargli, Miss Hammand.» Ma la domanda che la ragazza pose al fratello, non ebbe alcuna risposta. «È immerso in uno stato di profonda ipnosi, ed è completamente in mio potere», spiegò Luna, sorridendo per l'espressione costernata che si era dipinta sul volto di Swanhild. «Peraltro, voi eravate nelle sue stesse condizioni, poco fa...» Quindi si sedette di fronte a Oliver. «Ora voglio sapere cosa vi ricordate della storia dell'Inghilterra, Mr. Hammand.» Gli rivolse molte domande, dal regno di Giorgio V fino ai Guelfi e alle dinastie degli Stuart: alcune erano veramente elementari, e sia Swanhild che Goddard avrebbero potuto rispondere con tutta facilità, mentre altre erano al di là delle loro conoscenze. Ora Oliver stava parlando senza esitare e con voce monotona: di tanto in tanto, si fermava per riflettere qualche istante. Quando venne pronunziato il nome di Carlo I, una scintilla d'interesse gli accese lo sguardo. «Il Martire...», disse subito. «Ottimamente!», lo complimentò la spiritista. «E vi ricordate della Regina Maria?» «Maria... Maria Tudor? Ah, sì: Maria la Sanguinaria! Credo di ricordare...» A questo punto s'interruppe esitando.
«Ora pensate a lei e al suo periodo di regno per tre minuti», disse Luna. Oliver guardò fissamente il vuoto avanti a sé, con la fronte corrugata per lo sforzo. «Avete pensato anche a Derek Carver?» «Ci ho pensato...», disse. Il giovane trasalì e si irrigidì sulla poltrona. «Derek Carver...», esclamò. «Conosco questo nome. Derek Carver... che cosa abominevole! Derek Carver... Mio Dio... quale orrore innominabile è connesso a questo nome?» Gli si leggeva negli occhi un'angoscia intollerabile. Oliver stava stringendo convulsamente le dita della mano sana, e tremava senza riuscire a controllarsi: sembrava che fosse in preda a un incubo o a qualche efferata tortura. Swanhild, ancora più sconvolta di Oliver, voleva avvicinarglisi, ma Mrs. Yorke la trattenne per un braccio. Con le labbra strette in una smorfia dura, il volto di Luna assomigliava a un'antica maschera ieratica. «La Regina Maria... Derek Carver...», ripeté, scandendo bene le parole. «Ora ricordo...», gridò il giovane. «L'odore che abbiamo sentito questa mattina passando per Streatham - dove stavano riparando la strada - era quello del catrame bollente... No, anzi... del catrame infiammato... l'odore degli uomini bruciati vivi! Mio Dio, è spaventoso!» «Ora dimenticate tutto, e poi svegliatevi!», gli ordinò la spiritista, sfiorandogli leggermente la fronte con una mano. Il giovane, prima chiuse e poi riaprì gli occhi, quindi si guardò intorno come se fosse uscito da un sonno profondo. «Veramente... mi sembra...», balbettò, tastandosi il capo. «Ma ho davvero dormito? Ah: adesso mi ricordo! Stavo fissando i vostri occhi, Miss Bartendale, che mi sembravano immensi, e poi mi è sembrato di essere travolto da un'enorme ondata di luce. Di quello che è successo in seguito, non ricordo più nulla.» Luna aprì un grosso libro a una pagina contrassegnata da un foglio di carta fittamente coperto da appunti. «Ottimo!», esclamò, voltandosi di scatto. «Riprendiamo, Mr. Hammand.» Qualche istante più tardi, Oliver era di nuovo in stato ipnotico. «Maria la Sanguinaria... Carver... Il catrame infiammato...», mormorava, mentre l'angoscia vibrava nuovamente nella sua voce. «Non pensate più a Maria!», gli ordinò con voce decisa la spiritista. «O-
ra ci troviamo nel periodo del regno di Enrico Tudor. Harry di Richmond... pensate a lui e a una spada... Cosa vi ricordate?» «Magnus il Mago che sventola lo Stendardo Reale a Bosworth...» «Benissimo! Ora concentratevi su Magnus il Mago. Cosa vedete?» «La sua tomba... la stanza segreta... il quadro...» Ora Oliver si era calmato, e le parole gli uscivano di bocca con tranquillità. «Vedete di fissare bene quanto vi circonda, ed enumerate le cose nell'ordine in cui vi appaiono!», lo sollecitò la donna. «È stata la tomba che vi ha fatto pensare alla stanza segreta?» «No: è stato il ritratto. È lui che mi ha trasportato nella stanza degli Holbein e, da quest'ultima, al laboratorio, che mi ricorda quello che vi abbiamo trovato ieri, vale a dire la Mano di Gloria e la spada.» «Che cosa sapete riguardo alla Mano?» «Niente!», rispose decisamente Oliver, dopo un attimo di riflessione. «Oh! La spada di bronzo...» «Che vi ricorda?» «Non riesco a precisarlo...» Miss Bartendale prese allora da un tiretto dello scrittoio l'elsa della spada, e la mise in mano a Oliver. «Guardatela!», gli ordinò. «Tastatela attentamente, e ditemi quali ricordi suscita in voi.» «Ecco...», cominciò a dire il giovane, dopo aver fatto quanto gli era stato ordinato. «Un odore... un odore che sento...» Luna parve stupita. Oliver rimase un istante con il viso teso e le narici frementi come fa chi cerca di indovinare un profumo, poi si alzò, e si recò direttamente allo scrittoio, dove additò l'omaggio floreale che era stato offerto a Luna da Thomas Curtiss, e che si trovava ora in un vaso. «Ecco: l'odore è questo!», esclamò soddisfatto, mostrando il rametto di pino. «Ma di questi alberi ce ne sono molti... è un bosco intero... E la spada... Tre ricordi sono collegati tra di loro: i pini, la spada, e... Oh! Sono due cose identiche, lunghe, sottili e luccicanti... luccicanti...» Poi s'interruppe, perplesso. «Ah!», gridò, dirigendosi verso Swanhild che trattenne il fiato, sconvolta dall'emozione. «Dei capelli!», esclamò con aria trionfante. «Dei capelli biondi, raccolti in trecce... Due trecce grosse come il mio braccio, che finiscono a ricciolo. E, vicino a esse, vedo anche... Ecco, ora ricordo bene...»,
concluse, tracciando un segno nell'aria. «Una svastica!», esclamò Luna che aveva seguito con attenzione i movimenti della mano di Oliver. «Noi non la chiamavamo così», disse il giovane con voce incerta. «Un Fly-Fot?» «Sì: un Fly-Fot.» «Riuscite a leggere quello che c'è scritto sulla spada?» «No: ma c'è qualcos'altro oltre la scritta...», mormorò Oliver dopo aver esaminato attentamente il pezzo della spada. «Guardate sulla destra della piastra, sotto lo strato di verderame...» Luna si accostò a Oliver e mise una mano sulla fronte del giovane per aiutarlo a mettere a fuoco quanto stava ricordando. Negli occhi del Signore di Dannow apparve uno sguardo disperato. «Ora basta!», intervenne Mrs. Yorke con voce calma. Anche Luna era allo stremo delle sue forze. «Sedetevi!», gli ordinò. «E svegliatevi! Dimenticate tutto e svegliatevi!» Quindi sfiorò le palpebre del giovane con la punta delle dita: del tutto calmo e rilassato, Oliver aprì gli occhi. «Sembrate terribilmente stanca, Miss Bartendale...», osservò con sollecitudine. «È vero: la seduta è stata piuttosto lunga...» «Sforzi di questo genere, esauriscono sia l'operatore che il soggetto», spiegò Mrs. Yorke. «Miss Bartendale», chiese Swanhild, «voi sapevate che tutti e due nutriamo una violenta avversione per l'odore del catrame caldo, non è vero?» «No, non lo sapevo.» «È un fatto ereditario», continuò Swanhild. «Naturalmente! Comunque, sappiate che ho scoperto qual è la causa di questa vostra avversione: risale alle persecuzioni del 1555, durante le quali vennero bruciate molte persone... Ma ora, mentre metto un po' d'ordine fra i miei appunti, riferite a vostro fratello le risposte che mi ha dato quando si trovava in stato d'ipnosi. Poi vi leggerò la ricostruzione delle biografie dei vostri antenati, così come le informazioni che ho raccolto mi hanno permesso di delinearle.» 18. «Delle trecce dorate...», ripeté Oliver con fare meditabondo, quando
Swanhild ebbe terminato il suo racconto. Sembrava che fosse rimasto sgradevolmente impressionato. «Adesso che siete sveglio, ricordate qualcosa a questo proposito?», chiese al giovane la spiritista. «Fatemi pensare... Sì: Swanhild portava i capelli legati in una treccia come quelle.» «Quelle di cui avete parlato, dovevano avere un qualche rapporto con la spada.» «In questo caso, non mi ricordo niente.» «Durante il sonno ipnotico lo sapevate», disse Luna. «Alcune sensazioni molto forti, come gioie o dolori assai intensi, l'estasi religiosa o il terrore profondo, si imprimono così profondamente nel cervello che le alterazioni si ripetono anche nei discendenti. Di norma, questi ricordi ereditari - o atavici - si conservano a uno stato latente e non sono formulati chiaramente, sino a quando non vengono risvegliati da un avvenimento simile a quello che li provocò in origine.» «Mio Dio!», esclamò Oliver. «Volete allora dire che questa repulsione per il catrame caldo...» «È il ricordo annidato nel vostro subcosciente dell'emozione provata dal vostro antenato, il figlio di Warlock, quando vide bruciare i martiri di Lewes nel 1555. Per voi, questo odore è associato a un vago disagio che non riuscite a individuare, troppo tenue comunque per poterlo definire orrore o spavento. Però avete visto come sia stato sufficiente un nome pronunciato mentre eravate in stato d'ipnosi, per risvegliare la vostra memoria atavica!» «Tutto ciò ha qualche rapporto col Mostro e la Maledizione Eterna degli Hammand?», domandò Swanhild. «Non lo so ancora...», rispose Luna. «Il primo tentativo che ho fatto, dimostra che sono sulla buona strada. Avevo studiato ieri il mio piano, dopo che mi ero accertata del fatto che non avevate mai esaminato approfonditamente la vostra genealogia fino al 1650. Questa fornisce alcuni dati interessanti sui principali membri della vostra famiglia, e specialmente su Godfrey, il figlio di Warlock, che si convertì al Protestantesimo sotto il regno di Maria la Sanguinaria, dopo il supplizio del suo amico Derek Carver. Questa mattina ho pregato uno storiografo di raccogliere tutte le informazioni possibili su Derek Carver, e ne ho preso visione solo poco fa, dopo che mi sono state recapitate con un fattorino. Ho potuto constatare che la vostra memoria al riguardo è singolarmente fedele.» «Perché non avete letto prima queste notizie?», chiese Oliver.
«Per evitare ogni possibile trasmissione di pensiero, anche involontaria. Infatti, in stato di trance o di ipnosi, può verificarsi che dei pensieri vengano captati involontariamente dal soggetto che viene sottoposto all'esperimento, per cui la prova risulterebbe falsata. Ecco comunque le notizie che mi ha fornito lo storiografo: ora ve le leggo. Derek Carver, rifugiato fiammingo di religione protestante. Stabilitosi a Brighton, dove gestiva la Locanda del Leone Nero, situata in Black Lion Street, fu condannato per eresia nel 1555 e giustiziato a Lewes, davanti all'Albergo della Stella. Lo misero in una botte di catrame alla quale diedero fuoco, e la sua Bibbia...» Oliver e Swanhild lanciarono all'unisono un'esclamazione di orrore. Luna allora poggiò la carta sulla tavola. «È tutto quello che avevo bisogno di sapere», disse con aria grave. Swanhild si protese in avanti, mentre negli occhi le brillava un fuoco insolito. «Sareste in grado di risvegliare e rintracciare nella memoria atavica di mio fratello le conoscenze dei nostri antenati riguardo al Mostro e alla Maledizione Eterna?», domandò. «Lo spero!», rispose la spiritista. «Vostro fratello è il depositario dei ricordi di Warlock.» «Capisco...», disse a sua volta Oliver, chinandosi anche lui verso Luna. Poi si rivolse all'amico: «Tu che ne dici, Goddard?». «Non ho mai avuto dubbi su Miss Bartendale», rispose l'interpellato. «Ero solo preoccupato dal suo modo di fare così misterioso.» «Bisognava che fossi assolutamente certa della veridicità delle affermazioni di Mr. Hammand. Adesso vedrò di cercare di sapere cosa è capitato al Mago, partendo dalla spada e dalle trecce. Quando avrò scoperto questo, risalirò ancora più lontano nel tempo.» «Voi sfogliate l'anima di un uomo come le pagine di un libro!», esclamò Goddard. «Evidentemente, se Warlock ha visto il Mostro, il suo cervello ne sarà rimasto impressionato non meno di quello di Godfrey per la morte di Carver!» «Non è poi così semplice!», disse Luna scuotendo il capo. «Il Mago è morto dopo alcuni giorni dall'incontro col Mostro, e i suoi figli erano già nati. Ora, perché un'alterazione si tramandi nella memoria atavica, bisogna che si sia verificata nei genitori, prima della nascita dei figli.»
«Giusto!», esclamò Oliver. «Sarete dunque obbligata a tentare alla cieca fin quando non riuscirete a trovare un Hammand che abbia visto il Mostro prima della nascita dei suoi figli?» «Proprio così! Sarà una faccenda lunga, in quanto non è possibile sopportare delle sedute superiori a un'ora. Questo è il massimo che un soggetto possa restare in stato d'ipnosi. Sarà quindi necessario che facciamo una seduta al giorno per un certo periodo di tempo. Siete d'accordo?» «Sono a vostra completa disposizione!», rispose prontamente Oliver. «E io non posso proprio esservi utile?», chiese Swanhild. «No, mi dispiace», fu la risposta di Luna. «Strano!», osservò Oliver. «Avrei pensato che una donna, essendo maggiormente impressionabile, recepisse meglio determinate emozioni.» «Assolutamente no! La donna è soltanto più nervosa dell'uomo. Inoltre, la memoria atavica, come i tratti di famiglia, si trasmette senza una regola ben precisa, e, di norma è presente in un solo individuo per ogni generazione», spiegò la spiritista. «Miss Hammand potrà aiutarmi nel senso che desidererei che frugasse nei ripostigli, nelle soffitte e nei cassetti di tutti i mobili, per raccogliere tutti quei vecchi documenti che vi dovesse trovare. Quello che mi avete fatto vedere ieri, per esempio, riferisce che il grande scienziato e astrologo Nicholas Culpeper ha effettuato un'indagine approfondita sul Mostro nel 1651. Di conseguenza, non è assolutamente fuor di luogo pensare che abbia stilato anche una relazione sulle sue ricerche, che avrei molto piacere di leggere.» «Benissimo», disse Swanhild, «vedrò di darmi da fare!» «Ciascuno di noi ha quindi il suo compito da svolgere. Per quanto mi concerne, domani andrò a Dannow per seguire lo svolgersi dell'inchiesta», concluse Luna rivolta a Oliver che si mostrò assai soddisfatto. «E adesso, vediamo di riposarci un po'. Sono quasi le due: abbiamo giusto il tempo di fumare una sigaretta e di parlare di qualcos'altro prima di andare a tavola. Dobbiamo evitare di affaticarci troppo, sia fisicamente che mentalmente.» 19. La curiosità suscitata tra la gente dal Mistero di Dannow, era notevole. Quantunque Curtiss avesse cercato per parte sua di averne l'esclusiva, l'avvenimento sembrava troppo importante e costellato di avvenimenti singolari per essere trascurato dagli altri giornalisti. La maggior parte di loro era andata a riesumare tutta una serie di vecchi
articoli sui fantasmi, sulle case infestate e sui miti e le leggende che venivano pubblicate in prima pagina. I giornalisti di primo pelo poi, erano andati a documentarsi nelle biblioteche, sulla Magia Nera, sugli Elementi e sui Demoni, traendone degli articoli che venivano poi stampati con firme tipo «Un notissimo Occultista», oppure «Uno Spiritista assai famoso». Il Daily Post batteva comunque ampiamente tutti gli altri giornali con il racconto dettagliato dei drammi che si erano verificati in passato. Dannow era invasa dai giornalisti, dagli antiquari e dai collezionisti di ricordi. Questi ultimi, in particolare, avevano strappato via, pezzo a pezzo, la corteccia degli alberi sotto i quali erano state ritrovate le vittime del Mostro. Nel villaggio si incontravano dei poliziotti molto ben disposti, e degli squilibrati in cerca di trofei strani e macabri. Gli Hammand erano perseguitati dai curiosi anche all'interno del loro parco, e Oliver aveva ricevuto da diversi quotidiani e periodici ben quattordici richieste di articoli sulle leggende della sua famiglia. Da New York, gli avevano persino offerto per cablogramma una somma incredibile per una semplice fotografia della stanza segreta. Swanhild e Oliver erano andati ad aspettare Luna a Hassock e, non appena fu scesa dal treno, la informarono degli ultimi avvenimenti. Mentre suo fratello si intratteneva col Capostazione, la ragazza sussurrò qualcosa all'orecchio della spiritista. «Posso facilmente indovinare quello che le stai dicendo, Swan: hai sicuramente riferito a Miss Bartendale che sto bene e che sono di ottimo umore. E dimmi: le hai anche detto che trascorri la notte davanti alla porta della mia camera?», disse con un sorriso indulgente Oliver, avvicinandosi alle due donne. «Dove si tiene l'inchiesta, Mr. Hammand?», domandò Luna senza badare a quello che stava dicendo il giovane. «All'Albergo dello Stemma di Hammand, a Lower Dannow. Per un momento avevo dimenticato il motivo che vi ha condotto qui...», disse il giovanotto, facendosi improvvisamente cupo in volto. «Via, via, bando ai pensieri tristi!», lo rimproverò affettuosamente Luna. «Pensate piuttosto a darmi una mano.» «Provo dispiacere nell'essere tanto allegro», rispose Oliver prendendo la valigia della spiritista. «Se penso a quella povera Kate e a quell'infelice di Warren...» Dannow dava l'idea di una fiera, tante erano le persone e le auto che si vedevano in giro. Oliver fece percorrere alla macchina delle strade secon-
darie con grande scorno di tutta una serie infinita di macchine fotografiche e da ripresa. La Polizia aveva voluto che l'inchiesta si svolgesse secondo un certo metodo. C'era in giro la voce che Miss Bartendale, la celebre spiritista, avrebbe fatto delle importanti rivelazioni, ma Luna seguì il dibattimento col volto celato da una veletta, sottraendo in tal modo l'espressione del suo viso ai molti curiosi che affollavano la sala dove si svolgeva l'inchiesta. Era seduta accanto a Warren, i cui lineamenti si animarono solo quando i due Ades fecero il loro ingresso. I giurati avevano appena finito di esaminare le fotografie del corpo delle vittime, e regnava nella sala un certo disagio. Nessuno fece cenno a una spiegazione soprannaturale della tragedia, tranne il Coroner che, nel suo breve discorso preliminare, invitò i giurati a non voler tener conto, nell'esprimere il loro giudizio, di certe voci assurde che circolavano in paese. I medici, i primi a essere chiamati a testimoniare, attribuirono la morte della ragazza alle ferite ricevute. Non c'era stato alcun momento in cui Kate Stringer fosse stata in condizioni di poter narrare quanto era accaduto. In preda al delirio, aveva solo ripetuto più volte che era stata assalita da una cosa «grande come una casa», e le ferite sul suo corpo non permettevano nessuna ipotesi sulla natura del colpevole dell'aggressione. Il Dottor Newton, in un primo tempo aveva pensato al cane di Oliver, ma l'autopsia effettuata sul corpo dell'animale, non aveva trovato nello stomaco del mastino nient'altro che un biscotto che aveva mangiato un po' di tempo prima di morire. Inoltre, tra i denti o sulla bocca non presentava pezzi di pelle o di carne della disgraziata ragazza, come neppure tracce del loro sangue. La descrizione delle ferite provocò una forte emozione tra gli astanti, avidi di particolari macabri e di sensazioni violente. Swanhild spiegò come aveva trovato suo fratello, Kate, e il corpo del cane morto. Anche Oliver raccontò quello di cui si ricordava, e insistette molto sull'impressione che aveva avuto di una misteriosa presenza acquattata nell'oscurità del bosco. Interrogato da un corpulento contadino che faceva parte della giuria, sostenne che Holder si era mostrato affettuoso con la ragazza e che, forse, aveva segnalato l'avvicinarsi dell'aggressore. «Ma», aggiunse, «la mia memoria è molto confusa riguardo a questo punto.» Will Cladpole, che aveva dato l'allarme al castello, per parte sua descrisse il grido che aveva udito nel cuore della notte, e il suo timbro assoluta-
mente fuori dall'ordinario. Sostenne anzi che, a parer suo, quel grido non poteva essere stato emesso da un essere umano, al che un mormorio si diffuse tra il pubblico presente, subito zittito da un energico richiamo del Coroner. Il posto di Oliver sulla sedia dei testimoni, venne poi occupato successivamente dai due Ades, che costituivano una testimonianza assai importante per tutti coloro che propendevano per una spiegazione naturale di quella tragedia. Mentre parlavano, Warren osservava con insistenza i due bracconieri, attento a ogni parola che dicevano. Il povero giovane si era ridotto pelle e ossa per il dispiacere seguito alla morte della fidanzata, e il suo sguardo fisso turbava non poco i due fratelli. Questi erano due zotici goffi e massicci, che erano però del tutto incapaci di mentire con abilità. Infatti, dato che avevano pensato di inventare una storia per coprire la loro caccia di frodo, caddero in una tale serie di contraddizioni che il Coroner, alla fine del loro interrogatorio, si decise a lasciarli andare via liberi solo dietro il pagamento di una cauzione. L'inchiesta fu quindi aggiornata alla settimana seguente. Gli Hammand e la loro ospite dovettero attendere nell'alloggio dell'albergatore finché tutta la gente non se ne fu andata. In piedi accanto alla finestra, Luna seguì in silenzio il passaggio degli Ades che si stavano allontanando per far ritorno a casa loro. Li seguì con lo sguardo finché non furono scomparsi a una svolta della strada. «Non credete che siano colpevoli?», le domandò Oliver che aveva notato l'interesse della ragazza per i due bracconieri. «No. Ma la Polizia e la gente del posto non sono del mio parere e, allo stato attuale delle cose, mi è difficile riuscire a discolparli. Le mie rivelazioni non sarebbero di vantaggio per nessuno mentre, per contro, i miei piani sarebbero rovinati. Quindi ho deciso che per ora starò zitta, a meno che gli Ades non siano incolpati formalmente dal Coroner.» Strinse quindi le labbra, e gli altri capirono che non si sarebbe più lasciata sfuggire una sola parola al riguardo. Intanto, una folla considerevole di persone, che traevano coraggio dall'essere in tanti e dal fatto che ci fosse molta luce, avevano invaso il Beacon. «Mi avevate accennato a una storia che riguardava il Thunder's Barrow...», cominciò a dire la spiritista rivolta ai tre giovani che si trovavano di fronte a lei. Oliver rivolse uno sguardo a Goddard.
«Oh», disse quest'ultimo, «si tratta solo di una vaga leggenda che non ha nulla a che vedere col Mostro e con la Maledizione degli Hammand... Si dice che lì sotto sia seppellito il Vitello d'Oro di Aronne...» «Il Vitello d'Oro nel Sussex!», esclamò Luna, sinceramente sbalordita. «E perché no?», ribatté Oliver. «Non si può nemmeno immaginare cosa si potrebbe trovare se ci mettessimo a scavare nel suolo della nostra Contea!» «Certi affermano che il Vitello d'Oro sia sotterrato nel Tundle, sopra l'Ippodromo di Godwood», continuò Goddard, «ma, a pensarci bene, il nostro tumulo mi sembra più indicato...» «Non pensavo che fossi tanto erudito, Goddard!», osservò scherzosamente Swanhild. «Ho sette anni più di te, e tu sei troppo giovane per poterti ricordare del Dannow di tanto tempo fa, e di come si viveva a quei tempi. Oggi non si parla più che delle partite di calcio e degli scandali che i giornalisti ci propinano in tutte le salse ma, quando ero piccolo, ho trascorso ore indimenticabili ad ascoltare quanto raccontavano i vecchi sul tesoro nascosto nel Thunder's Barrow e sui fantasmi che lo proteggevano.» Luna parve riemergere da qualche sua personale fantasticheria. «Se questa statua d'oro si trova sepolta nel Thunder's Barrow, perché nessuno ha mai cercato d'impadronirsene?», domandò. «Perché il "Povero Uomo" la sorveglia attentamente, e s'impossessa dell'anima di chiunque cerca di profanare il tumulo, dopo averlo fatto morire tra i più atroci tormenti», spiegò Goddard. «Il "Povero Uomo", Miss Bartendale, è il nome con il quale è conosciuto il Diavolo nel Sussex», aggiunse Swanhild. «Ma penso che queste dicerie non vi siano di alcuna utilità.» «Forse... A ogni modo, questa leggenda è molto strana e singolare... Il Vitello d'Oro di Aronne nel Sussex... Che storia bizzarra! Comunque, vi aspetto tutti domani per un'altra seduta.» 20. Il Mistero di Dannow continuava ad appassionare l'opinione pubblica. Dopo l'inchiesta la povera Kate era stata seppellita nel locale cimitero, e fotografie della cerimonia funebre erano apparse su tutti i giornali. Alla fine della settimana, l'interesse era arrivato al culmine e, per la prima volta da tempo immemorabile, la chiesa di Dannow era stata chiusa: infatti la
tomba di Warlock era stata ridotta in cattivo stato dai cacciatori di souvenir, e il suolo era cosparso di mozziconi di sigarette, di fiammiferi, di vecchie cartacce e di ogni sorta di altra robaccia lasciata dai curiosi. Swanhild attraversava ogni giorno due momenti critici: uno al mattino, dal momento del suo risveglio a quando vedeva suo fratello, e poi durante la seduta ipnotica, in cui aveva paura delle rivelazioni che sarebbero potute scaturire dalle domande che Luna poneva a Oliver. Il morale di Oliver comunque era eccellente. L'accoglienza che il giovanotto le riservava ogni mattina non variava mai: «Quando i ricordi mi torneranno, ti assicuro che sarai la prima a saperlo, ma per oggi non ricordo assolutamente niente!». L'unico momento in cui diventava triste era quando pensava a Kate Stringer, oppure quando doveva lasciare la casa dove abitavano Mrs. Yorke e Miss Bartendale, ma in questo caso il motivo era di tutt'altra natura, e mitigato dalla consapevolezza che l'indomani sarebbe stato nuovamente lì. Per il resto della giornata, Oliver bighellonava per Dannow, frugando in ogni cantuccio nella speranza di trovare dei documenti interessanti che potessero in qualche modo essere di aiuto alla spiritista. Un giovedì, durante la solita seduta ipnotica, Luna costrinse Oliver a focalizzare la sua mente sulla spada di bronzo della stanza segreta, nella speranza che sarebbe riuscito a ricordare la scritta che figurava un tempo sulla piastra d'oro scomparsa. Gli mostrò anche le fotografie di varie frasi runiche, ma il risultato fu negativo. Il giorno successivo, venerdì, la spiritista organizzò una seduta nella stanza segreta. Dopo aver riportato Oliver all'epoca di Warlock, gli consegnò la Mano di Gloria e l'elsa della spada. Dopo un po', l'uomo cominciò a parlare della piastra mancante, e ne indicò la lunghezza, aggiungendo che aveva la forma di una foglia. Luna non fece commenti, ma i suoi occhi brillanti tradivano la sua attenzione, e Swanhild sapeva quale ferrea volontà si celasse sotto quell'apparente indifferenza. La giovane riponeva una fiducia assoluta in Luna, che riusciva a creare intorno a sé una tranquilla atmosfera di lavoro e di vita normale. Solo quando era lontana da lei, Swanhild tornava a essere consapevole dell'orrore che pesava su Dannow e sugli ultimi discendenti degli Hammand. Oliver, al contrario, stava vivendo le ore più belle della sua vita. Con lui si evitava sempre di nominare Kate Stringer, ed era troppo preso dal suo nascente amore per Luna per avere il tempo di pensare ad altro. Quanto a
Goddard, continuava a non essere del tutto convinto della bontà di quei metodi. Quella tregua gli sembrava di cattivo augurio, come la calma che precede la tempesta. Il sabato, Swanhild e Oliver arrivarono a Chelsea di buon'ora. Swanhild era eccitatissima. «Cos'è successo?», domandò Luna. «Abbiamo trovato una parte della relazione scritta da Culpeper!», rispose la giovane estraendo da una grossa busta due pezzi di carta ruvida, consumata e ingiallita dagli anni. Miss Bartendale, non senza fatica, riuscì a decifrare le parole semicancellate che vi erano scritte sopra: ...perché gli Hammand sono una genia di vampiri e, se uno di loro muore prematuramente, non andrà né in Cielo né all'inferno, ma continuerà a vivere nella sua tomba in maniera soprannaturale... «Questo è estremamente importante. Miss Hammand!», esclamò la spiritista. Sul secondo frammento era scritta una sola riga: Il vostro affezionatissimo Nicholas Culpeper. «Dove li avete trovati?», domandò Luna, con la voce che le vibrava d'impazienza. «Dentro al cuscino di una vecchia poltrona: un pezzo di carta sporgeva da un buco», rispose Oliver. «C'erano solo questi?», chiese ancora Miss Bartendale. «Tre poltrone e un divano erano imbottiti di vecchi documenti», aggiunse Oliver, «ma disgraziatamente si trovavano in soffitta in corrispondenza di un buco del tetto, per cui la pioggia caduta in anni e anni ne ha ridotto la maggior parte in poltiglia. Quando abbiamo fatto la prima cernita, Goddard si è accorto della firma di Culpeper e, in seguito, noi abbiamo trovato il secondo pezzo.» «Torniamo immediatamente a casa per continuare le ricerche!», propose Swanhild. «Parla per te, Swan...», la interruppe Oliver. «Per quanto mi riguarda, ho altri progetti.» «Altri progetti?», ripeté Swanhild, sconcertata.
«Mia cara, tu non riesci nemmeno a immaginarti quanto siano stressanti le sedute ipnotiche per coloro che vi sono sottoposti! Sono sicuro che una mezza giornata di vacanza farà bene tanto a me quanto a Miss Bartendale. Sappi dunque che ho prenotato due posti da Chu-Chin-Chow per questo pomeriggio. Non è uno dei vostri ristoranti preferiti?», aggiunse poi, rivolto a Luna e, senza aspettare risposta, continuò: «Sapevo che era inutile invitare Mrs. Yorke, perché oggi va al concerto...». Luna consultò la sua agenda. «Ora infatti, Mr. Hammand, ricordo che ieri mi avevate domandato se in questi giorni avrei avuto qualcosa da fare, al che vi ho risposto che oggi mi sarei recata al concerto», intervenne in quel momento Mrs. Yorke che aveva seguito la scena con un sorriso malizioso. Oliver la guardò affettuosamente, e poi le rivolse un sorriso di complicità. Sforzandosi di rimanere seria, Mrs. Yorke guardò la nipote che non accennava a rialzare il capo dall'agenda. «Dici di aver già fissato i posti, Oliver?», domandò Swanhild, non sapendo cos'altro dire per l'imbarazzo. «Sì: per telefono. Su, Swan, sii ragionevole! Non puoi farmi la chioccia per il resto dei miei giorni! D'accordo che lo fai per il mio bene ma, alla lunga, questo finisce per irritarmi. D'altro canto, ci sarà Miss Bartendale a vegliare su di me, e mi ricondurrà alla Victoria Station in tempo per prendere il treno delle 18 e 30. Naturalmente, sempre se accetta il mio invito...», si corresse. «Con piacere!», disse Luna. Mrs. Yorke parve sorpresa e non molto contenta. Swanhild invece non disse niente: da tempo era abituata a vedere i maschi della sua famiglia comportarsi in modo determinato in base alle loro decisioni. La seduta fu assai breve. Oliver descrisse nuovamente la piastra mancante, e aggiunse che le parole runiche erano disposte secondo una linea sinuosa. Swanhild fece ritorno da sola a Dannow. Una lettera proveniente da Dublino attendeva Luna al ritorno dal ristorante. «Perché sei uscita con Mr. Hammand?», domandò Mrs. Yorke alla nipote. «Non voglio che pensi che cerco di evitarlo.»
«E invece è proprio quello che dovresti fare! Nonostante la sua apparenza energica, quel povero ragazzo è molto facile alla depressione.» «Lo so! È rimasto assai colpito dalla morte di quella povera Kate, e il suo subcosciente ne è ossessionato.» Mentre diceva questo, rivide con gli occhi della mente quanto era accaduto quel pomeriggio. Il tassì che li portava attraverso la città immersa in una coltre di nebbia, gli occhi brillanti del giovane quando affermava che doveva quasi ringraziare il Mostro per averli fatti ritrovare, e poi il suo viso oscurato dall'orrore e dal rimorso. «Se non ci fosse la morte di Kate...», continuava a ripetere senza requie. «Un giorno bisognerà pure svelargli la verità!», disse Mrs. Yorke. «Solo quando le sedute non avranno più niente da dirmi!», rispose Luna bruscamente. «Mia cara, pensi che non abbia notato quanto gli piaccia stare solo con te? E credi che la sorella sia cieca? Dovresti pensare anche a lei, non solo a suo fratello...» «I giornali oggi parlano di un efferato delitto occorso a Londra, per cui penso che avremo un po' di pace», disse la spiritista. «Conto di approfittarne per portare a termine la mia indagine domani, domenica. Ho in mente qualcosa che dovrebbe rivelarsi risolutivo.» «Luna!», esclamò la zia, che poi tacque. «Telefonerò a tutti i miei clienti di non venire a Londra e, al caso, di rivolgersi a qualcun altro. Poi ho in animo di procurarmi i servigi di una squadra di persone che vengano a frugare il Thunder's Barrow da cima a fondo. Voglio essere presente dal momento in cui verrà tolta la prima zolla d'erba. Vuoi venire con me? I miei amici hanno spesso insistito perché ti portassi a Dannow, per cui questa mi sembra l'occasione ideale. No, non è un capriccio!», aggiunse, vedendo l'aria stupita della zia. «Il mio erudito amico irlandese è riuscito a decifrare quell'iscrizione runica, e ora sono più che mai convinta che il Thunder's Barrow racchiuda un indizio della più alta importanza!» 21. Il lunedì mattina, Mrs. Yorke, Luna e Roska, scesero dal primo treno in arrivo alla stazione di Hassock. Oliver e Swanhild erano lì ad attenderli per accompagnarli al castello con la loro vettura. «Avete parlato con mia nipote?», domandò Mrs. Yorke mentre la vettura
attraversava la vallata. «Lei pensa che gli scavi dureranno tutta la giornata, per cui abbiamo paura di darvi fastidio.» «Se le ricerche vengono effettuate a dovere, non finiremo prima di domani sera, ma non createvi problemi», dichiarò Oliver decisamente. «La vostra è stata una decisione improvvisa, Miss Bartendale!», aggiunse poi. «Ho semplicemente voluto approfittare del momento favorevole», spiegò Luna. I giorni precedenti era caduta un po' di neve, quindi aveva grandinato e, alla fine, era caduta pioggia in gran quantità. Quella mattina il tempo era mite nonostante una certa umidità frutto dell'acqua che aveva inzuppato i campi. Una nebbia sottile nascondeva il fondovalle e avviluppava la vettura, sfilacciandosi sui rami nudi degli alberi e avvolgendo la strada in un'aura di mistero. Guidava Swanhild. Seduto sul sedile posteriore, Oliver, dopo qualche tentativo, aveva smesso di cercare di unirsi alla conversazione, dato che Luna si era messa accanto a sua sorella e parlava con lei. Mrs. Yorke era indifferente, e non mostrava nulla più di un cortese interessamento. «Avete trovato altri pezzi della relazione di Culpeper?», chiese a Swanhild la spiritista. «Sì, ma erano tutti rovinati, e Goddard se li è portati a casa per vedere se riusciva a decifrarli. È bravissimo per queste cose!» «Quella di ieri è stata una giornata bruttissima!», borbottò in quel mentre Oliver. «È arrivato un pullman di turisti proveniente da Brighton, per cui siamo stati letteralmente invasi da una quantità di persone particolarmente invadenti e rumorose. Oggi, per fortuna, dato che fa cattivo tempo, c'è da sperare che staremo tranquilli e senza curiosi in giro a ficcanasare di qua e di là!» «Meno male! Infatti, se ci fosse in giro molta gente, ci darebbe solo fastidio», osservò Luna. «Cercheremo di scoprire cos'ha sotterrato nel Thunder's Batrow, Warlock», aggiunse poi, spiando l'effetto delle sue parole sul viso di Oliver. «Il vostro antenato, il figlio di Magnus Hammand, secondo il costume danese deve essere stato sepolto nel Thunder's Barrow con la maggior parte degli oggetti ai quali era particolarmente affezionato. Sette secoli più tardi, uno suo discendente ed erede, Magnus il Mago, decise di recuperare i tesori sepolti. A questo scopo preparò la Mano di Gloria, aprì la tomba del suo antenato, e s'impadronì di tutto quello che gli parve avesse un certo valore. L'unica cosa che spero è che abbia lasciato nella tomba la cosa più preziosa per noi: la piastra di bronzo con sopra la scritta runi-
ca.» «Come avete fatto ad arrivare a queste deduzioni?», domandò Oliver, interessato suo malgrado. «Ho cominciato a capire il rapporto che intercorreva tra il Thunder's Barrow e la Mano di Gloria, il giorno in cui Mr. Goddard ci ha narrato la leggenda del Vitello d'Oro e del suo custode demoniaco. Il Mago era un alchimista che cercava l'oro grazie a delle formule magiche, e sperava di neutralizzare il giardino del tesoro con l'aiuto della Mano di Gloria.» «Il ragionamento fila», dichiarò Oliver. «Io credevo», disse a sua volta Swanhild, «che il Thunder's Barrow fosse un'antica necropoli celtica riservata ai Druidi e che fosse custodita da un loro Dio, l'Uomo Mostruoso appunto.» «L'archeologia attribuisce tutto ciò che non riesce a spiegare ai Druidi!», replicò Luna. «Ma lo stesso nome del Dio è estremamente chiaro. Thunder infatti è una parola derivata da Thor. Il vostro antenato adorava Thor, e l'Uomo Mostruoso è un'immagine di quel Dio scolpita da Magnus per ringraziarlo di averlo fatto arrivare sano e salvo in questa feconda terra del Sussex, e anche perché vegliasse sulla sua tomba. I capelli rossi e il FlyFot che avete descritto, Mr. Hammand, furono con tutta probabilità visti dal Mago nel sepolcro dell'antico guerriero danese.» «Vi riferite a quelle trecce?», esclamò Oliver. «Sì. Voi pensavate a una donna, come d'altro canto era logico, ma i Vichinghi portavano i capelli lunghi e raccolti in trecce, mentre il Fly-Fot è il simbolo del Dio Thor.» «Però!», disse Oliver, stupito. «Non vedo ancora quale possa essere il rapporto con il nostro antenato», riprese a dire Swanhild. «Lascia che Miss Bartendale continui...», la interruppe Oliver. «Ora vi riferirò la spiegazione che ho ricevuto ieri per lettera da uno studioso di Dublino che è riuscito a decifrare la scritta sulla spada: Io mi chiamo Helm Biter, e il mio padrone è il figlio di Magnus Faillorks.... Il resto è troppo cancellato per poterci capire qualcosa. Spero che le parole incise sulla piastra che dovrebbe essere nella tomba, siano più nitide.» Oliver non riusciva a nascondere la sua gioia e l'ammirazione per la giovane.
«Siete certa che si tratti di qualcosa d'importante?», domandò ancora Swanhild. «Sì, perché il loro ricordo si è perpetuato nei secoli fino a giungere a vostro fratello», rispose la spiritista. L'auto si stava adesso dirigendo verso il Thunder's Barrow. Sulla spianata il vento era abbastanza forte e l'atmosfera limpida, ma non si riusciva a distinguere né la valle né i numerosi uccelli che l'attraversavano. Dappertutto si vedevano degli affioramenti di creta e, in forza di qualche bizzarro gioco di luci, l'Uomo Mostruoso pareva un fantasma soffuso di una luce rosea. Goddard, che stava uscendo dal villaggio, mosse incontro agli amici e quindi salì anche lui sulla vettura. «Sono riuscito a racimolare solo pochi uomini», disse. «Hornblower ha portato l'orologio tedesco che suo figlio ha trovato durante la ritirata. Sono partiti prima che facesse giorno, in modo da terminare al più presto, dato che nessuno di loro se la sentirebbe di attraversare il bosco dopo il tramonto.» «Quanti uomini avete trovato, Mr. Covert?», chiese Luna. «Quattro. Hornblower, l'ateo del villaggio, il nostro nuovo giardiniere, un ex boy-scout, e un giovane contadino appena uscito da una Casa di Correzione che non ha paura né di Dio né del Diavolo! Li ho convinti con la promessa che riceveranno una buona paga alla fine del lavoro. Poi c'è anche Warren, il fidanzato di Kate, per il quale qualsiasi cosa non ha importanza.» «Sanno cosa devono fare?», chiese Oliver. «Gliel'ho spiegato chiaramente. Per fortuna si tratta di uomini tutti assai robusti. Anch'io sono abbastanza forte, e Swanhild è abituata alle fatiche dato che si diletta di giardinaggio. In totale possiamo disporre di sei vanghe. E ora, si può sapere quali sono le vostre intenzioni, Miss Bartendale?» Luna spiegò nuovamente quali erano i suoi propositi, mentre Swanhild continuava a guidare con prudenza attraverso la valle. «Ci sono alcuni punti che non mi sono del tutto chiari», osservò Goddard quando la ragazza ebbe finito di parlare. «Se l'intento del Mago era quello di cercare dell'oro, come mai ha nascosto la spada? D'altro canto, gli scavi nel Thunder's Barrow non si accordano con le sue ultime parole riguardanti la stanza segreta e, soprattutto, non giustificano la richiesta di perdono che è scolpita sulla sua tomba. Non penso che i Negromanti considerassero la violazione di una tomba come un peccato inespiabile!»
«Ho avuto molti dubbi circa le scritte che erano incise su quella pietra tombale, ma una sola cosa è certa per ora: mi sto accingendo anch'io a violare una tomba! Oh, so bene quello che state pensando, Mr. Covert: che ci vorrebbe un regolare permesso di esumazione rilasciato dal Coroner.» Goddard annuì con molta convinzione. «Non c'è nessuno che possa trovare qualcosa da ridire in quello che facciamo!», intervenne Oliver con un tono autoritario che impiegava di rado. «Si tratta dei miei avi, dei miei possedimenti e, soprattutto, della mia maledizione personale.» Giunti in fondo al sentiero che stavano percorrendo, scesero dalla macchina e si diressero a piedi verso il Thunder's Barrow. Il suolo era inzuppato dalla pioggia caduta, ma il sentiero era ancora praticabile. Nel grigiore generale, spiccavano le macchie luminose costituite dai capelli di Luna e di Swanhild. Dal bosco pareva promanare una qualche minaccia. La collina si ergeva a picco come un'enorme scogliera che emergeva dal mare di nebbia che attutiva i rumori. Il silenzio che regnava tutt'intorno era impressionante, e il cielo si era fatto grigio. Qua e là un soffio di vento riusciva a lacerare momentaneamente la nebbia, scoprendo le alture di Chatonbury e di Wolfstanbury. Il ronzio di un motore saliva da una strada che non si vedeva, simile alla sirena di un battello in alto mare. Una leggera depressione era ricavata in un fianco del Barrow presso l'estremità che fronteggiava l'Uomo Mostruoso. Vi crescevano tre piccoli abeti e un tasso rinsecchito. Luna assicurò a uno degli abeti il capo di un gomitolo di spago, e poi fece un giro intorno all'albero per tracciare un cerchio del diametro approssimativo di cinque metri che racchiudeva i quattro alberi e il tumulo. In quel momento arrivò la squadra assoldata da Goddard. Hornblower posò l'orologio sopra un sasso e tutti cominciarono a scavare nell'area compresa nel cerchio. Al termine della mattinata, tutti e quattro gli alberi erano stati sradicati. Mentre gli uomini si rifocillavano, Swanhild e Goddard li sostituirono. Luna, Mrs. Yorke e Oliver fecero ritorno al castello per fare colazione e, quando furono di nuovo sul posto, portarono ai due giovani lavoratori un po' di panini e di sandwiches. Quando ripresero a scavare, verso le tre del pomeriggio, gli operai attaccarono lo strato di creta che era formato da blocchi compatti e molto uniti tra loro. Hornblower, che stava scavando nel posto dove prima sorgevano
gli alberi, si raddrizzò per buttare via una palata di terra. «Qui il terreno è molto strano, signore...», disse, rivolto a Oliver. La superficie di calcare infatti, era stata rotta e poi ricoperta con uno strato di terra nera e grassa. Dopo averla esaminata attentamente, Warren disse che di così ricca nella zona non ce n'era assolutamente. «Non si tratta di un deposito naturale», aggiunse. «Probabilmente viene da qualche giardino.» Ritto in piedi sull'orlo dello scavo, Oliver stava riflettendo intensamente. «Del terriccio...», mormorò. Poi si portò una mano alla tempia, sotto ai capelli che erano stati rasati nel punto dove era ancora ben visibile il livido. «Mi sembra di riconoscere... Ma dov'è che ho già visto un tipo di terriccio come questo? Ah, ci sono! L'ho visto a un funerale: si tratta di terra di cimitero. Ma quale mai Demonio ha potuto portare sin qui questa terra benedetta? E per qual motivo?», si chiese, sconcertato. 22. Gli uomini esitavano a riprendere il lavoro, all'infuori di Warren, che spostò Hornblower con una gomitata e si mise a scavare di buona lena. Ben presto i blocchi di creta riapparvero sotto il sottile strato di terra, e allora anche i suoi compagni ripresero le pale. Oliver sembrava profondamente turbato: Luna lo stava sorvegliando attentamente, anche se non sembrava. «Prenderemo un bel po' di freddo, se resteremo qui, Mr. Hammand», disse. «Se non avete niente in contrario, mi piacerebbe visitare il Beacon e vedere da vicino l'Uomo Mostruoso.» Preoccupato, Oliver guidò i suoi invitati fino al luogo sul quale poggiava la gamba della gigantesca statua. «Perché ho parlato della terra e del cimitero?», chiese improvvisamente alla sua compagna. «Non riesco a capire: dovevo essere impazzito!» «Ma no! Probabilmente avete ragione. Ho talmente sollecitato la vostra memoria atavica in questi ultimi giorni, che l'improvviso affiorare di un ricordo non costituisce nulla di strano o di eccezionale.» «Chi è che ha portato quella terra?», chiese ancora Oliver. «Per gli iniziati all'esoterismo la terra consacrata esercita un'azione benefica. Forse il Mago cercava qualcosa di più importante dell'oro... Questo Barrow penso che debba racchiudere qualche orribile segreto!», rispose
Luna. Poi, senza più parlare, raggiunsero la cima della collina, veramente pittoresca con i suoi ruderi romani, gli acquitrini, e gli alberi che costituivano un anello tutt'intorno alla sommità. Quindi avanzarono sopra una stretta piattaforma non più larga di cinquanta piedi, che era formata dalla testa dell'Uomo di Dannow. La vista che si godeva di lì, era semplicemente stupenda. Ai loro piedi, proprio sotto il promontorio, si vedevano gli alberi e i tetti del villaggio. In lontananza, grandi nuvole d'argento si muovevano lentamente nell'azzurro del cielo. Sullo sfondo cupo delle dune, la chiesa e le case spiccavano come delle immagini colorate sopra un fondale di velluto nero. Dei verdi assai brillanti, insieme a delle tonalità incredibili di marrone e di giallo, rifulgevano sulla pianura, dove le terre non coltivate si alternavano ai campi arati. Il nastro bianco di una strada stava gradatamente scivolando nell'ombra che si stendeva progressivamente sulla vallata. Luna contemplava affascinata quel paesaggio di una struggente bellezza. Oliver invece scrutava lontano, dalla parte del bosco. Il Thunder's Barrow era compreso in un semicerchio di alberi abbastanza funerei: vi si potevano distinguere le buche scavate dagli sterratori, e la macchia vivace costituita dal giubbetto giallo di maglia di Swanhild. Da quell'altezza, sembravano tutti dei burattini. Poi il giovanotto distolse lo sguardo da quello spettacolo per lui abbastanza consueto, e incontrò gli occhi di Luna che brillavano di un loro fuoco interiore, cupi e profondi come l'infinito. «Ho già vissuto dei momenti come questo!», esclamò Oliver sotto l'impulso dei ricordi. «Ho già visto questo cielo, queste dune, e il Thunder's Barrow pieno di uomini al lavoro... Solo che gli uomini stavano costruendo qualcosa, invece di scavare...» «È la vostra memoria atavica!», disse Luna. «Poco importa cosa sia o come si chiami! So solo che tanto, tanto tempo fa, ero qui come oggi accanto a una donna dai capelli d'oro!» Poi, vergognandosi per la foga che aveva messo nel pronunciare le parole di poco prima, attenuò il tono mentre nella sua voce vibrava una improvvisa dolcezza. Quindi, guardando teneramente la donna che stava al suo fianco, riprese a parlare. «Dal castello ai boschi che vedete qui intorno, tutto mi appartiene! Questa contrada che, come potete constatare da voi, sembra sia stata creata apposta per la gioia e la serenità di chi vi abita, i miei antenati l'hanno sempre
posseduta da oltre mille anni. Hanno lottato e sono morti per essa: anche il Mago, che partecipò alla Guerra delle Due Rose. Sia mio padre che mio fratello hanno versato il loro sangue, come anch'io ho combattuto ma, nonostante la spaventosa ombra di questa maledizione che grava sulla mia vita, penso di avere anch'io il diritto a un po' di felicità!» Le sue parole denotavano una strana ansia, e cupi bagliori sanguigni fiammeggiavano nel profondo dei suoi occhi grigi. Per la prima volta da quando si trovavano lì, Mrs. Yorke ruppe il silenzio. «Tutti abbiamo il diritto di essere felici», affermò con calma, «almeno nella misura in cui ce lo consentono il nostro retaggio, i peccati che abbiamo commesso, il contesto in cui viviamo, e la gente che ci circonda.» «I peccati che abbiamo commesso? Pensate forse a Kate?», gridò Oliver con voce acuta. «Gran Dio, no! Luna vi ha già detto che non avete nulla da rimproverarvi a questo riguardo.» «Se non avessi cercato di opporre resistenza...», mormorò ancora il giovane. Poi s'interruppe, rifletté un poco, e quindi riprese: «Miss Bartendale, non avete forse detto che questo Mostro è la conseguenza di un antico peccato perso nella notte dei tempi, il residuo di un passato ormai defunto?». «Niente è vivo come la morte...», rispose la spiritista con una nota di tristezza. «Io penso all'umanità come a un immenso globo del quale miliardi di persone vive occupano la superficie, mentre al di sotto si muove un'oscura e misteriosa folla di innumerevoli morti. Anche se ormai non sono altro che polvere, questi ultimi continuano a influire sugli uomini ai quali hanno dato la vita, spingendoli ineluttabilmente verso il Bene o verso il Male. Sì: io lo vedo benissimo questo popolo di morti, la cui anima, gli atti e le parole stesse, si riflettono in noi che siamo vivi!» La giovane donna fu colta a questo punto da un brivido improvviso. «Noi saremmo dunque solo il riflesso dei nostri antenati?», domandò Oliver. «No, Mr. Hammand! La personalità, questa scintilla che Dio ha messo in ciascuno di noi, ci permette di resistere agli influssi ereditari, e di svolgere una nostra esistenza autonoma. Se non avessi questa certezza, non rivolterei il Thunder's Barrow per scoprire questa forza demoniaca che incombe sugli incolpevoli discendenti di Magnus il Mago!»
«Voi pensate che Magnus - il Danese - abbia massacrato in Sassonia tutta la famiglia di Edith: ebbene, io sono sicuro che vi sbagliate!» «Davvero? Non riesco a immaginare un pirata vichingo che chiede in moglie una donna sassone prima di aver sterminato tutti quelli della sua famiglia che potrebbero in qualche modo proteggerla!» «E perché! Forse si era fatto loro amico proprio per amore di lei!» «Vi dirò che riesco ancora meno a immaginarmi un barbaro danese che rinuncia alle sue scorrerie per mettersi a corteggiare una donna come un Cavaliere...» «Si sono compresi e voluti bene immediatamente! Sono loro bastati solo pochi giorni: da un lunedì al successivo. Lo so, e basta!», affermò decisamente Oliver. La pallida carnagione di Luna divenne color porpora, e l'uomo distolse gli occhi dal volto della donna. «So di parlare come un bambino», si scusò. «Ma sono stato così felice in questi ultimi giorni! È troppo bello perché possa continuare. Mi sono reso perfettamente conto di quanto sia crudele la vita, nello stesso modo in cui lo capì Magnus il Danese, un giorno che si trovava a meditare qui davanti al suo Dio. Forse mi prenderete per un pazzo, Miss Bartendale...» Luna esitò un poco prima di rispondere. «Voi siete reduce da una lunga malattia, Mr. Hammand. Siete anche molto impressionabile, e io ho acuito il vostro nervosismo ridestando in voi la memoria atavica dei vostri avi.» A questo punto scorsero Swanhild che si stava arrampicando per uscire dalla fossa che aveva scavato, e si affrettarono a scendere. Nel frattempo la ragazza gridò loro: «Venite, presto! Abbiamo trovato qualcosa!». Gli uomini erano tutti in piedi intorno alla fossa, lunga e profonda. Goddard stava cercando di tirare su dal fondo un grosso oggetto dell'altezza di un uomo, dalla forma alquanto indefinita. L'insieme era nero, con qualche chiazza gialla che appariva nei punti che erano stati raschiati. Warren ne strappò un frammento che strofinò energicamente sul suo abito di velluto per ripulirlo dallo strato di terra che lo ricopriva. Il pezzo in questione aveva la grandezza e la larghezza di un coperchio da cappelliera: dei chiodi verdastri erano infissi alle estremità. All'improvviso gli scavatori si bloccarono tutti insieme, guardando l'orizzonte arrossato dal sole che stava calando rapidamente. Hornblower si fece di lato per consultare l'orologio che si era portato dietro.
«Si tratta forse di un idolo pagano?», chiese Warren. «Non è né un vitello né un idolo», rispose sbrigativamente Oliver saltando dentro alla fossa. «Cosa può essere allora?», mormorò tra sé guardando al di sopra dei pini la massa del Beacon che si stagliava nera contro il cielo purpureo. «Il legno di pino era riservato alla fabbricazione degli idoli e... Ah, ma questo legno era dipinto e dorato... Qualcosa che si protendeva... Ci sono! È una polena!», gridò al culmine dell'eccitazione, «È la figura di prua di una nave! Ci troviamo sul ponte di un veliero dei nostri avi, Swanhild! Solo pochi piedi di terra ce ne separano. Ricordi niente? Io sì: con questo battello ho risalito la costa giungendo infine qui... Magnus in persona si trova qui sotto...», disse poi indicando solennemente la terra ammucchiata ai lati della figura. «E il suo corpo giace sotto il ponte del battello: la lunga piastra a forma di foglia è proprio ai suoi piedi!» «Una figura di prua, e una nave sepolta come una bara!», esclamò Luna. «Ma perché non ci ho pensato prima?» «Fra mezz'ora il sole sarà tramontato, Mr. Hammand...», disse Hornblower che, durante il discorso del giovane, era andato a rivestirsi insieme ai suoi compagni. «Noi ce ne andiamo.» Nei loro volti era chiaramente visibile un'espressione di stolida stupidità. Qualsiasi discussione sarebbe stata inutile: non avrebbero cambiato idea. «Come faremo a finire il lavoro?», domandò Luna. «Se non lo portiamo a termine adesso, metà dei giornalisti di Londra sarà qui domattina, grazie alle chiacchiere che verranno fatte in paese relativamente a questa scoperta.» «Se lavoriamo in tre, forse in un'ora ce la facciamo», disse Oliver. «Voi tornate a casa: continueremo io e Goddard», disse Swanhild impugnando nuovamente la vanga. «No: voglio restare!», replicò Oliver in tono deciso. «Per me non c'è nessun pericolo fin quando non cala la notte, a quanto asserisce Miss Bartendale.» «Anche di notte non avete niente da temere se io sono con voi», aggiunse Luna. «So il modo di avvertirvi del pericolo.» «Perché non lo insegnate anche a noi?», domandò Goddard sorpreso. «Perché bisogna essere degli esperti per utilizzare impunemente certe conoscenze...», spiegò la giovane donna. «A me non dispiacerebbe veder scavare ancora per un po'», dichiarò in quel momento Mrs. Yorke. «Invece di andare a riposarmi, preferisco essere presente al momento cruciale... Ma senza dubbio occorreranno degli al-
tri utensili per terminare gli scavi.» Miss Bartendale e Oliver decisero di andare in cerca del materiale occorrente e, prima di mettersi in cammino, il giovane promise che, una volta che si fossero trovati nel bosco, non avrebbe preso la strada coperta dagli alberi. 23. La notte non era ancora scesa quando Oliver e Luna si trovarono nuovamente ai margini del bosco. Le dune si stagliavano meravigliosamente nitide e imponenti sotto un cielo che aveva assunto una colorazione indefinibile che si stemperava in un leggero arancione al di là del Thunder's Barrow. Una nuvola color rosa carico era ferma sopra il Beacon, mentre la luna cominciava a spuntare timidamente sopra al villaggio alle cui finestre si vedevano luccicare dei riflessi di rame. La nebbia era completamente scomparsa, ed era stata sostituita da un freddo asciutto e pungente. Il silenzio sarebbe stato assoluto se non fosse stato per il vento che sferzava di continuo le dune facendo curvare la cima degli alberi col suo soffio possente. I due giovani stavano camminando sul sentiero scoperto, quando udirono un grido, non forte, ma assai acuto. «Deve trattarsi di un coniglio», spiegò Oliver alla sua compagna. «Senza dubbio qualcuno deve aver sistemato nel bosco delle trappole!» Un rosso bagliore fiammeggiò nei suoi occhi. Luna si turò le orecchie per non sentire ma, quando le scoprì, fu raggiunta da un lamento ancora più straziante. «Ma è vicinissimo!», esclamò la giovane. «Vieni Roska!» E, così dicendo, si avviò decisamente verso il punto da cui proveniva quello strano gemito. Oliver la trattenne per un polso. «Non corro alcun pericolo!», disse la donna, sottraendosi alla stretta, mentre un terzo gemito si alzava nell'aria. «Non andate!», le gridò ancora il giovane. Ma, senza rispondere, Luna si allontanò seguita dal suo cane. Oliver esitò ad avventurarsi sul tappeto di foglie cadute e, fermo sul sentiero allo scoperto, si mise a guardarla da lontano mentre batteva i cespugli con un ramo, dirigendosi verso il luogo dal quale provenivano i lamenti. La chiamò ancora, ma la sua voce si perse nel vento. L'aria odorava di resina. Nel cranio del giovanotto, qualcosa parve turbi-
nare trascinandolo in alto, per poi causargli un tuffo al cuore. Un'ondata di calore percorse il suo corpo robusto. Era felice, meravigliosamente consapevole del gioco armonioso dei suoi muscoli, del vento che gli scompigliava i lunghi capelli, dei suoi piedi che calpestavano il tappeto di aghi di pino, e del sangue che gli pulsava nelle vene. Provava soprattutto la sensazione inebriante di aver già vissuto istanti come quelli. Tutto gli era familiare: i pini, la penombra del sottobosco, e lui stesso che inseguiva come un giovane Dio una donna in fuga. Aveva completamente dimenticato il Mostro, la Maledizione Eterna, e anche il motivo di quell'inseguimento. Non provava né timore né pietà, e si rese conto che non sarebbe riuscito a dire il suo nome se non ci avesse riflettuto su a lungo: non era altro che un uomo completamente libero in mezzo a un bosco tenebroso dove si trovava una donna dai capelli d'oro. Sì, tutto questo era già accaduto un'altra volta, e l'attimo presente racchiudeva tutta la felicità del mondo, una felicità tanto più perfetta in quanto non ne aveva ancora raggiunto il culmine, dal quale lo separava soltanto un passo... Un'ombra rapida passò accanto a lui. Quando raggiunse Luna che stava inginocchiata al termine di un lungo viale di pini, vide Roska accucciato presso la sua padrone come un cupo fantasma. La giovane gli indicò con una mano una trappola vuota. «Quel povero coniglio aveva una zampa rotta», spiegò. «Comunque, anche per uno zoppo la vita ha valore...» Quando gli occhi della donna incontrarono quelli di Oliver, Luna si rialzò. Lui non fece alcun movimento, per paura di rovinare quella stupenda sensazione che si era impadronita di lui... Rimasero così per un lungo minuto, poi Luna si scostò, sia pure facendo un notevole sforzo, e lanciò lontano la tagliola ancora sporca di sangue e di peli bianchi. L'incanto era rotto. «Pini e abeti... Freddo e stelle nel cielo...», mormorò improvvisamente Oliver. «Fuggite!», gridò. «Sta arrivando il Mostro!» Una strana sensazione di disgusto e di morte lo invase: era come l'impressione di qualcosa che gli girasse intorno, una presenza intangibile e allo stesso tempo soffocante, un acuirsi dei suoi sensi umani oltre ogni limite. Senza rendersene conto, lanciò un grido acuto che gli risuonò nelle orecchie come se fosse stato un ringhio minaccioso emesso da qualcuno che non era lui.
«Heysa... a... a...» Sollevata Luna col braccio valido, si girò su se stesso e imboccò il sentiero appena percorso a tutta velocità. Il cane li seguiva senza abbaiare o uggiolare. In quel momento, Luna trasse di tasca la torcia a pile della quale si era servita per esplorare la fossa scavata prima, ne proiettò il fascio luminoso sugli alberi e sul terreno circostante, poi finalmente illuminò il volto del giovane. «Non c'è assolutamente nulla, qui!», dichiarò con tutta calma. Quelle parole servirono a fugare l'orribile sortilegio che avvolgeva Luna e Oliver. Il giovane prese rapidamente coscienza degli alberi scuri tutt'attorno a lui, della donna che teneva stretta sotto al braccio, e del cane che trotterellava tranquillamente senza mostrare alcuna agitazione. Tuttavia recuperò il pieno controllo di se stesso solo quando fu uscito dal bosco. «Sono riuscito a sfuggirgli!», esclamò con un'aria di trionfo che parve terribile alla giovane donna che stava con lui. «Sono stata io che l'ho controllato!», rispose brevemente Luna. «Ma io l'ho respinto!», insisté Oliver. «È stato Dio che mi ha dato la forza di vincerlo per salvarci!» «Non è vero!», gridò Luna con veemenza. «Ero io che lo avevo in mio potere!» Il giovanotto scoppiò in una risata nella quale vibravano l'ironia e il trionfo. «Va bene... Allora diremo che lo abbiamo vinto insieme», concesse magnanimamente. «Potete anche mettermi giù», disse all'improvviso Luna. Sia l'uno che l'altra avevano dimenticato il loro singolare atteggiamento. Per Oliver, mentre la parte razionale del suo io discuteva con Luna, l'altra giudicava del tutto naturale tenerla stretta a sé sotto il cielo pieno di stelle. Le stelle scintillavano come piccoli fuochi, simili agli occhi della giovane donna, echi spettrali e fantastici di altri che brillavano già mille anni prima, quando lui teneva tra le braccia un'altra donna, e assaporava quella felicità fino a soffrire. E le bacche di quel tasso così vicino, erano le labbra vermiglie di Luna, oppure la sua bocca altro non era se non un ricordo di bacche maturate mille anni addietro? Le parole della donna valsero a ridestare il giovanotto dal suo sogno confuso ed estremamente preciso allo stesso tempo, eco affievolita di un'epoca nella quale i suoi antenati erano soliti rapire le donne che volevano
fare loro. Senza una parola di scusa, o alcuna spiegazione, Oliver depose Luna sul terreno. Era ancora pervaso da una strana sensazione che non riusciva a spiegarsi. Poi le visioni - o i ricordi? - sparirono, e allora tornò completamente lucido. «Cosa avete gridato poco fa?», gli chiese Luna. «Non so: è qualcosa che mi è venuto spontaneo. Forse che all'improvviso mi sono ricordato della parola che serviva a scacciare il Mostro?» «No! Ho sentito bene quell'esclamazione, e ne conosco il significato. Se troviamo un'altra iscrizione runica sulla piastra nel battello... Su, venite!» Si rimisero in cammino. Oliver sorrideva. Ormai i rapporti tra loro non erano più quelli tra medico e paziente: quei rapporti adesso erano diventati come lui voleva che fossero. Non doveva dire niente a Luna dell'amore che lei gli ispirava e che aveva letto anche nei suoi occhi. Guardò il bosco cupo e tenebroso, poi sorrise nuovamente: aveva incontrato il Mostro e aveva vinto! Chiunque fosse, non se la sarebbe presa mai più con la giovane donna che era l'oggetto dei suoi pensieri, e nemmeno con lui, finché fossero rimasti insieme. Luna Bartendale riusciva a decifrare tutte le emozioni e i sentimenti che si alternavano sul volto del suo compagno. Per un breve attimo, provò la tentazione di dirgli la verità per distruggere quelle folli illusioni e alleviare il proprio cuore da quell'insopportabile fardello che lo opprimeva. Doveva opporsi ai sentimenti che provava per quel giovanotto finché era ancora in tempo ma, svelargli ciò che sapeva, era come distruggere con le proprie mani la rete protettiva che la sua intelligenza e le sue conoscenze avevano eretto intorno a lui. «Il Mostro non ha alcun potere su di me!», disse Luna bruscamente. «Ma ricordatevi sempre la promessa che mi avete fatto per evitarlo!» «Non correrò alcun rischio lontano da voi», precisò Oliver. «Ma ditemi, Miss Bartendale: io provo una curiosa sensazione. Mi sembra di essere me stesso e, allo stesso tempo, tutti i miei antenati vissuti prima di me. Vi confesso che questo mi sconcerta alquanto, comunque si tratta di una malattia piacevolissima!» «Vi assicuro che non proverete più alcun turbamento quando saprete la verità!», rispose Luna, torturata dalla lotta che le agitava il cuore. Quando arrivarono alla fine del sentiero, Swanhild corse loro incontro. «Abbiamo liberato il ponte del battello dalla terra!» gridò in preda al-
l'eccitazione. Sull'orlo della fossa, Warren si stava riposando, seduto sopra un mucchio di sassi e di rottami tirati fuori da quella singolare tomba. Col manico della sua pala, Goddard stava percuotendo una superficie di legno nero. «È molto tarlato!», osservò. «La calce ha corroso quasi tutto. Adesso che dobbiamo fare? Aprirlo?» Al momento di prendere la decisione cruciale, Luna provò un brivido. Costruire delle ipotesi astratte era un conto, ma altro era disseppellire un morto, sia pure vecchio di molti secoli. Warren voleva scendere nuovamente nella buca, ma Oliver lo fermò. Indovinava ciò che opprimeva l'anima di Miss Bartendale. «Non è necessario che turbiamo il riposo del vecchio Magnus», disse con voce decisa. «Lasciami vedere!» Saltato quindi sul ponte, lo esaminò attentamente per alcuni minuti. «L'elmo si trova nel punto dove sei tu, Goddard, mentre le trecce sono proprio sotto ai miei piedi: la piastra invece si trova ai piedi del corpo di Magnus. Quindi dev'essere pressappoco qui. Scavate lì, ma con estrema cautela, mi raccomando!» La luna non si trovava ancora a metà del cielo quando, mezz'ora più tardi, Warren e Goddard, dopo aver seguito le indicazioni di Oliver, misero allo scoperto una calzatura di cuoio imputridito, che in origine doveva essere stata assicurata al piede da una fibbia d'oro. Sia il calzare che la fibbia si vedevano spuntare dal terriccio. Vennero quindi scoperti tre frammenti di bronzo pieni di ammaccature. Uniti tra loro, formarono la piastra sulla quale Luna riponeva tante speranze. La siccità li aveva preservati dall'ossidazione, ma erano stati corrosi dalla calce. Con un guanto di cuoio, i due giovani ripulirono il pezzo più grande, ma il danno era irreparabile: i caratteri runici originali erano stati cancellati. Mentre Goddard e Warren richiudevano provvisoriamente il. sepolcro fino all'indomani, Luna e i due fratelli Hammand esaminarono ancora una volta i frammenti di bronzo. «E allora?», domandò finalmente Swanhild con un brivido. «Non è assolutamente possibile ricavarci qualcosa», dichiarò Luna dopo un attimo di esitazione. «Non c'è proprio più niente da fare?», chiese a sua volta Oliver. «Da questo lato, scacco matto! Però ho deciso di far uso di un altro mezzo, un mezzo che mi ripugna...», precisò la spiritista con una bizzarra into-
nazione nella voce. Si allontanò quindi con un moto di contrarietà, e fece ritorno con Swanhild alla macchina. La campagna era immersa in una nebbia azzurrastra. Al di sopra del bosco tenebroso, l'Uomo Mostruoso pareva gettare enormi grida di gioia. Dopo che la giovane Hammand ebbe dato a Luna una coperta nella quale la spiritista si avvolse, si decise a rivolgerle una domanda che le bruciava sulle labbra. «Miss Bartendale, qual è questo mezzo di cui avete parlato?» «Questa notte costringerò il Mostro a manifestarsi nella stanza segreta, e ne svelerò l'origine.» «Siete in grado di far questo?», esclamò Swanhild lanciando uno sguardo sbigottito verso il bosco come se il Mostro fosse stato lì pronto a rispondere a quell'affermazione. «Proprio così! E voi mi farete da assistente...» «Vedrò il Mostro?» «Non abbiate paura! Non vi potrà fare alcun male perché sarà sotto il mio controllo. Non morirete dopo questo incontro, ma state pur certa che la vita per voi non sarà mai più quella che è stata sino a oggi! Comunque, per la salvezza di vostro fratello, è necessario che conosciate la verità. Avete paura?» «Sì, ma verrò lo stesso. D'altronde, dopo tutto quello che abbiamo visto durante la guerra...» «Non c'è niente di nemmeno lontanamente paragonabile a quello di cui verrete a conoscenza! Ma non fate una sola parola di questo agli uomini: tutto deve rimanere tra noi!» Swanhild promise di mantenere il silenzio. Non era poi così terribile vedere il Mostro in un luogo e a un'ora stabiliti in precedenza. «Nella stanza segreta, questa notte...», mormorò la fanciulla. In quel momento, Luna le fece un furtivo cenno d'intesa: Goddard stava salendo dietro di loro. «È legno di pino rivestito di piastre d'oro fissate con chiodi di rame», disse il giovanotto. 24. Goddard declinò l'invito a pranzo dei suoi amici, e fece subito ritorno a casa. La violazione dell'antico sepolcro li aveva sconvolti, e anche Luna
sembrava alquanto giù di corda. Inoltre, il giovane non vedeva l'ora di dedicarsi nuovamente all'esame dei vecchi manoscritti. Nessuno gli aveva chiesto a quale punto fossero arrivate le sue ricerche, nonostante fosse arrivato a decifrare tre frammenti nei quali figurava il nome di Warlock, oltre a diverse altre notizie sicuramente assai utili per il proseguimento dell'indagine. In questi frammenti un testimonio oculare raccontava le disavventure che erano capitate a Warlock dopo che aveva scavato il Thunder's Barrow. Goddard desiderava terminare l'esame di tutti i frammenti in suo possesso prima di parlarne ma, data la stanchezza conseguente alla lunga ed estenuante giornata di lavoro, dovette rinunciare al suo progetto. Tuttavia, convinto che le scoperte cui era pervenuto, anche se incomplete, avrebbero potuto essere di un certo aiuto a Luna, decise di comunicargliele senza ulteriori indugi, per cui fece ritorno al castello, con la nemmeno tanto segreta speranza di ritrovare Swanhild, della quale aveva colto un cenno d'intesa rivolto alla spiritista al momento di salire in macchina. Il freddo era veramente intenso e, nella notte chiara e priva di nebbia, le bianche stelle invernali brillavano in tutto il loro diafano fulgore. Goddard s'incamminò lungo una scorciatoia che attraversava il parco e costeggiava il fossato dalla parte ovest del castello. Dannow, come la maggior parte degli edifici del Sussex, aveva l'ingresso rivolto a Nord, e il giovane fu obbligato a fare praticamente tutto il giro della costruzione. Gli alberi e il cielo si confondevano in un grigiore indistinto. Soltanto l'Uomo Mostruoso spiccava sulla cima della collina. Arrivato al ponte levatoio, Goddard si fermò, sbalordito: la stanza segreta era illuminata! Improvvisamente, si ricordò dello strano atteggiamento di Swanhild mentre scambiava con Luna alcune parole che non era riuscito a capire, ma delle quali ora scoprì chiaramente il significato: «La stanza segreta... quella notte...». Quella frase gli turbinava nel cervello mentre accelerava il passo. Distratto dai suoi pensieri, per poco non corse il rischio di andare a finire nell'acqua melmosa del fossato che circondava il castello, e riuscì solo all'ultimo momento ad aggrapparsi a un ramo di un pino evitando così una caduta rovinosa. A circa due metri sopra di lui c'era l'apertura della famosa stanza: ne usciva uno strano fascio di luce bluastra che il giovane trovò assolutamente singolare. Allo stesso tempo si chiese come mai, se qualcuno si trovava nella stanza, aveva lasciato gli scuri aperti.
Una paura irragionevole a quel punto lo assalì. Cosa stava accadendo dietro quelle antiche mura? Spinto dall'amore che provava per Swanhild, non pensò nemmeno che il suo gesto potesse risultare in qualche modo invadente: l'unica certezza che aveva in quel momento era che, se si stavano per verificare degli avvenimenti tragici, solo lui era in grado di contrastarli e, soprattutto, di essere di aiuto alla donna che amava. Al diavolo l'etichetta! Dopo aver appoggiato il soprabito che indossava per terra, tornò vicino alla finestra. Scalò quindi il muro aiutandosi con l'edera i cui vecchi rami avevano la grossezza di piccole funi da nave, poi s'incuneò in mezzo al fitto fogliame come un serpente, noncurante delle forti raffiche di vento che lo sballottavano cercando di fargli perdere la presa. Giunto che fu presso la finestra, si aggrappò all'inferriata e piantò saldamente i piedi sul cornicione sottostante. Da dove si trovava non riusciva a scorgere l'inferriata interna, dato il dislivello che correva tra le due aperture praticate nel muro. Però era in grado di udire, e gli giunse l'eco di una voce: quella di Luna. Aveva già avuto modo in precedenza di notarne la misteriosa potenza ma, quella sera, la voce della donna era particolarmente incisiva, leggera, bassa e vibrante. Improvvisamente, la luce scomparve e, nel buio della notte, mentre il vento soffiava tutto intorno a lui, Goddard udì: «Ora ti trovi in un bosco di pini... le stelle brillano, alte nel cielo, e fa molto freddo... Stelle, vento gelido, e un forte odore di pini: lo senti? Ricorda però che non puoi oltrepassare le linee che sono tracciate per terra e che, al di là di queste linee, vi è una vittima umana che ti è destinata! Io ho il potere di evocarti, Hammand l'Immortale! Per cui ora ti ordino di apparire, anima disincarnata, qui tra i pini, nel freddo, e sotto la luce delle stelle! In nome degli Asi, del Padre di tutti gli Dèi, Odino, del possente Thor, di Loki e di Baldur, ti ordino di venire, Hammand l'Immortale!». Poi quella specie di litania monotona e allo stesso tempo soffusa di un potere soprannaturale, cessò. Durante il breve silenzio che ne seguì, il vento fischiò con maggior forza nelle orecchie di Goddard. Quindi, d'un tratto, dominando la tempesta, si alzò un grido demoniaco, e i capelli del giovane gli si rizzarono in testa per l'orrore. Era un urlo spaventoso, un susseguirsi di suoni acuti, rimbombanti e profondi, che diventavano di volta in volta umani e bestiali, di trionfo e di disperazione, gioiosi e cupi. In quel grido erano presenti l'odio, la malvagità e la lussuria di un'anima dannata, sprofondata in un mare di perversioni.
Goddard si rese conto che quel grido doveva appartenere al Mostro. L'essere demoniaco urlò per altre tre volte, poi si udì una voce rotta dai singhiozzi. «Oh, Luna!» Era la voce di Swanhild! Quindi il brontolio ricominciò. Atterrito, Goddard stava abbarbicato all'edera senza sapere cosa fare. Gli scuri erano chiusi ora ma, con tutta probabilità, Luna stava continuando nei suoi pericolosi esperimenti. L'esperimento di Warlock non le aveva insegnato proprio nulla! D'altro canto non c'era dubbio che Swanhild fosse in preda al panico: lei, che non aveva mai pianto, né aveva mai ceduto di fronte alle peggiori disgrazie! Il rischio che Swanhild stava correndo, restituì al giovanotto la risolutezza e il sangue freddo che gli erano abituali: la prima cosa da fare era portarla via immediatamente dalla stanza segreta. Comunque, entrare era un bel problema, dato che non poteva passare dall'interno della casa, considerata l'abitudine di Swanhild di chiudere tutte le porte. Quanto poi alle inferriate, queste erano troppo solide. La vista delle piccole onde che increspavano l'acqua cupa del fossato, fece venire in mente a Goddard la cantina e il serbatoio. Aveva giocato abbastanza nel castello con Reg e Oliver da conoscere anche gli angoli più riposti. Si ricordò che il fossato comunicava col serbatoio mediante un condotto abbastanza largo da consentire il passaggio a un uomo non troppo robusto. Entrato nell'acqua fino alle ascelle, inspirò profondamente, poi si tuffò andando a urtare contro una sporgenza del muro. Tenendosi quindi aderente all'orlo interno del fossato, seguì la corrente e individuò dopo un po' il punto in cui un vortice d'acqua denunciava lo sbocco della conduttura. Dopo aver nuovamente inspirato profondamente, si tuffò nel centro del vortice. Lo sforzo non poteva essere maggiore. Quando erano ragazzi, erano sì riusciti nell'impresa, ma l'avevano affrontata in pieno giorno e aiutandosi vicendevolmente. Ma c'era il pensiero di Swanhild a sostenere e a galvanizzare il giovane. Due volte ricacciato indietro dall'impeto della corrente, al terzo tuffo si afferrò a un masso che sporgeva in mezzo ai sassi. L'irresistibile turbinio dell'acqua gli incalcò il capo tra le spalle, e i suoi polmoni parvero essere lì lì per schiantarsi, ma continuò egualmente ad avanzare lungo lo stretto
condotto. Improvvisamente, la pressione contro di lui diminuì e, dopo un ultimo sforzo per resistere al risucchio che lo spingeva contro il muro della cantina nella quale era arrivato, riuscì a emergere. Intorno a lui tutto era silenzioso e oscuro. Una sottile linea di luce che attraversava il soffitto in tutta la sua lunghezza, confermò il pensiero di Goddard: la porta della stanza segreta era aperta. In due balzi fu nel corridoio. Per un breve istante rimase assolutamente immobile. Sentiva il cuore nel petto battergli come un tamburo. Cosa avrebbe scoperto una volta varcata quella soglia? Per un attimo rimase sgomento dato il silenzio di morte che regnava tutt'intorno, ma la sua indecisione fu di breve durata: fatto qualche passo avanti, entrò audacemente nella stanza segreta. 25. Swanhild era sola e, in un primo tempo, Goddard pensò che fosse morta. Nonostante quello strano sdoppiamento della coscienza che spesso segue ai grandi shock, il giovane fu sorpreso di riuscire a mantenersi così calmo. L'antica tavola del Mago era stata spostata da un lato, vicino ai piedi della sala. La lampada illuminava distintamente ogni angolo della stanza e, in particolare, Swanhild, che se ne stava immobile, appoggiata con i gomiti sulla tavola, e la faccia nascosta tra le braccia incrociate. Nel centro del pavimento, che era stato sgombrato dalla polvere e qualsiasi altra cosa, faceva bella mostra di sé un grande disegno che rappresentava una stella a cinque punte, ossia uno dei tipici pentacoli dei Negromanti. In mezzo al pentacolo vi era una poltrona rovesciata mentre, intorno, erano state disposte la Mano di Gloria, la spada, e le piastre provenienti dalla polena della nave interrata. Goddard registrò tutte queste cose in un attimo. La scala cigolò sotto il suo peso mentre scendeva. Nell'udirlo, Swanhild alzò il capo e si eresse sul busto: il giovane le si avvicinò lentamente. «Goddard!», esclamò la ragazza. «Ero certa che saresti venuto quando... Oh!», mormorò con voce spezzata. «Ma perché non sei arrivato solo dieci minuti prima?» Detto questo, si coprì il viso con le mani. Dopo la breve diversione prodotta dall'entrata del giovane, l'orrore stava riprendendo il sopravvento in
lei. Goddard l'afferrò per un polso. «Ma cosa è successo? So per certo che qui poco fa c'erano sia Miss Bartendale che il Mostro!» «È vero Goddard: era qui!», mormorò Swanhild, fissandolo con gli occhi cerchiati e resi ancora più patetici dalla semioscurità. «Ma dimmi: come hai fatto ad arrivare sin qui? Perché sei tutto bagnato?» «Ho attraversato il fossato. Ma questo non importa: mi vuoi dire cosa è successo?» «Ho visto il Mostro...», disse piano la ragazza, riacquistando gradatamente il controllo di se stessa. «Ero spaventata ma, con Miss Bartendale presente, non correvo alcun pericolo. Nessun pericolo fisico, almeno.» «Perché? Forse in quanto non poteva uscire dal pentacolo?» Il giovanotto si era fatto estremamente attento. Tutte le sue vecchie cognizioni circa quel segno negromantico gli tornarono alla mente: si ricordò che nessun Demone era in grado di oltrepassare le linee di un pentacolo. «Ma tu cosa sai esattamente?», gli domandò Swanhild con voce ansiosa. «Quello che sono riuscito a sentire prima che venissero chiusi gli scuri. Dopo, più niente, in quanto mi sono dato da fare per arrivare sin qua.» «Oh, Goddard!», esclamò la giovane guardandolo con affetto. «Se solo fossi arrivato dieci minuti prima...», ripeté con occhi nei quali si scorgeva una tristezza infinita. «Non hai sentito nulla di particolare?» «No, eccettuato quell'urlo. Ma tu, Swanhild, cos'hai saputo?» «Non posso dirtelo!» Poi la calma che aveva mantenuto sino a quel momento l'abbandonò, e scoppiò in singhiozzi. Con voce spezzata, mormorò: «E pensate che Dio ha salvato Oliver dalla guerra, per giungere a questo! Poteva lasciarlo morire con onore su un campo di battaglia!». «Zitta, tesoro! Tu non ti rendi conto di quello che stai dicendo!» «Purtroppo sì, invece. Io so perché il Mago e il nonno si sono suicidati, dopo...» «Swanhild!», l'interruppe Goddard. Poi il giovane si portò rapidamente dall'altro lato della tavola, e prese la fanciulla tra le braccia, temendo che potesse lasciarsi andare a qualche gesto inconsulto. «No, Goddard: non aver paura», lo rassicurò lei, allontanandosi di scatto con gli occhi colmi di un orrore senza nome. «È stato spaventoso! Luna mi aveva avvisato, ma c'è voluta l'evidenza per convincermi... E adesso non c'è più nulla per cui valga la pena di vivere!»
«E invece no! Voi avete un preciso dovere», disse Luna che era rientrata in quel momento nella stanza. «Dovete dare tutto il vostro aiuto a qualcuno che un giorno dovrà conoscere anche lui la verità!» Completamente preso dalle sue preoccupazioni per la ragazza che amava, Goddard si era completamente dimenticato della spiritista. La quale, avvolta nella sua veste grigia che le ricadeva lungo le gambe in pieghe severe, stava avanzando lentamente, simile a una Sacerdotessa di qualche antichissimo culto ormai scomparso. «E pensare che sono stato io a condurvi qui!», brontolò a mezza bocca il giovane con una voce nella quale non era ravvisabile alcuna traccia di cortesia. «Un giorno vi renderete conto di quale favore abbiate fatto loro!», rispose Luna con un sorriso misterioso. «Swanhild ha corso un pericolo spaventoso!», l'accusò Goddard. «Non c'era alcun pericolo. Le ho solo fatto vedere - con la maggior prudenza possibile - ciò che doveva assolutamente sapere.» «Allora dite anche a me cosa ha visto Swanhild!» «Non ora. Ma come potete anche solo pensare che questo che sto facendo mi piaccia?», domandò la spiritista con un misto d'ironia e di amarezza. Swanhild con un braccio circondò le spalle della giovane donna che in quel momento sembrava oppressa da un fardello grande quanto il mondo. Quindi si rivolse a Goddard con voce ferma: «Lasciatela in pace, Goddard: soffre più lei di me!». Un attimo dopo, Luna si sciolse dall'abbraccio e, portatasi al di là del pentacolo, raccolse la Mano di Gloria e chiese a Goddard con la sua voce di sempre: «Come avete fatto ad arrivare sin qui, Mr. Covert?». «Mi ha udita gridare», spiegò Swanhild, «e ha attraversato a nuoto il fossato. Se fosse arrivato dieci minuti prima...» «Sarebbe stato meglio, ovviamente», ammise Luna che, dopo aver rimesso la Mano di Gloria nel suo involucro di tela, la ripose nella nicchia di pietra. Goddard seguiva attentamente tutto ciò che Luna stava facendo. «Miss Bartendale», disse all'improvviso, «la prima volta che siete venuta in questa stanza, la sola vicinanza di quella Mano di Gloria vi ha fatto sprofondare in un enorme turbamento. Oggi, invece, mi sembra che la tocchiate con tutta tranquillità! Ammetterete che è perlomeno strano!» Luna arrossì fino alla radice dei capelli.
«Si tratta di un altro dei miei segreti», rispose. «Pensate per caso che la prima volta abbia simulato a bella posta un'emozione?» «Guarda che se osi sospettare di Luna, io ti odierò per tutta la vita, Goddard!», s'intromise Swanhild, indignata. «Mr. Covert, vi assicuro che più in là comprenderete perfettamente i motivi che mi spingono ad agire così. Siete d'accordo con me, Swanhild?» «Gliel'ho già detto. Io sola devo essere a conoscenza di questo fatto finché voi non sarete riuscita definitivamente a... Goddard, tesoro, ti prego di credermi quando ti dico che non corriamo nessun pericolo, quali che siano le apparenze.» Il giovanotto esitò, visibilmente indeciso. «Voglio sentire Oliver al riguardo», concluse. «Assolutamente no!», gridò Luna con veemenza. «Lui non deve sapere niente fino al momento opportuno!» «Se dovessi dirgli qualcosa», aggiunse Swanhild, «poi lo rimpiangeresti per tutta la vita! Al massimo tra due giorni, diremo a entrambi come stanno le cose.» «Posso capire, al limite, che tu non voglia dire niente a Oliver per non creargli dei turbamenti che possano sconvolgerlo», insisté Goddard, «ma perché vuoi tenere all'oscuro anche me? Sai bene che anche la più piccola preoccupazione che ti riguardi mi fa uscire di senno!» «Abbiate pazienza, Mr. Covert: non possiamo dirvi niente, ora», ripeté Luna. «Però vi posso promettere che non entreremo più in questa stanza e non evocheremo più il Mostro senza che siate presenti voi e Mr. Hammand. State pur sicuro che non andiamo in cerca di pericoli e, oggi, ci siamo limitate a quello che era strettamente indispensabile.» «Come siete misteriosa!», mormorò Goddard che non sembrava deciso a cedere. «Solo perché è necessario. La spiegazione di tutti questi avvenimenti è racchiusa in una sola frase... forse in una sola parola...» Involontariamente, gettò un'occhiata all'iscrizione incisa sulla pietra. «Forse in una vecchia parola inglese?», domandò Goddard, che si era accorto di quello sguardo. La donna sorrise con fare enigmatico. «Posso cercare di scoprirla anche io?», continuò il giovanotto. Swanhild emise un'esclamazione di stupore, mentre Luna continuava a fissarlo con uno sguardo penetrante. «Non posso impedirvelo...», mormorò sottovoce.
«Pensate che abbia delle probabilità di riuscire?», insisté Goddard. «Non credo, anche se siete in possesso di tutti i dati del problema, dato che potete vedere gli oggetti rimasti sul pavimento e la nicchia dove è nascosta la Mano di Gloria. Ma torniamo a noi: allora, promettete di non dir nulla a Mr. Hammand?» Il giovane guardò la spiritista: non dubitava della sincerità delle sue affermazioni, ma temeva che quell'allusione alla possibilità di scoprire il mistero con una sola parola, fosse soltanto un'astuzia per sviarlo. Tuttavia, l'impulso che l'aveva fatta rivolgere verso l'iscrizione, era stato troppo istintivo per una donna abitualmente impassibile e padrona di sé come lei. «Goddard», disse in quel momento Swanhild, «dimenticavo che sei tutto bagnato!» «Non importa!», ribatté il giovane, quasi con brutalità. Era irritato nel vederla soffermarsi su dei particolari di nessun conto a fronte di quanto era accaduto. «Non te la prendere», aggiunse poi, dispiaciuto per il tono che aveva usato. «E allora, Mr. Covert», disse ancora Luna, «accettate la nostra richiesta?» «Goddard, ti ho già detto che non corriamo alcun rischio», ripeté a sua volta Swanhild. «Nessuno ha niente da temere, tranne Oliver: il Mostro può far del male soltanto a lui e, se Miss Bartendale non riuscirà a...» A questo punto la sua voce si spezzò. «Siamo d'accordo?», chiese freddamente Luna in tono conclusivo. «D'accordo!», rispose il giovane, pensando che per il momento non c'era alcun pericolo, e che sapeva parecchie più cose di quante la Bartendale non riuscisse a immaginarsi. Arrivati nel corridoio, Swanhild si fermò. «Goddard», gli chiese, «perché non vai a trovare Oliver? Si trova nella stanza degli Holbein con Mrs. Yorke. Potrai anche cambiarti gli abiti bagnati.» «No», rispose il giovane, imbronciato. «Non ho voglia di vedere nessuno. Uscirò dalla porta di servizio e me ne andrò a casa.» Tutto quanto era accaduto, come l'atmosfera che lo circondava, gli pareva irreale e incredibile, ma sentiva ancora il grido del Mostro che gli echeggiava nelle orecchie. «Ricordati che ho la tua promessa, Swanhild, e penso che tu non voglia preoccuparti ulteriomente pensando che mi possa buscare una bronchite, per cui è meglio che vada a cambiarmi», disse gentilmente.
«A proposito: ma cosa eri venuto a fare questa notte al castello?», gli domandò la ragazza. «Ti avevo portato una parte del lavoro che avevo fatto», rispose il giovanotto. «Ma tu sei esausta, mia cara!» «Quando siete arrivato, Mr. Covert», s'intromise nel discorso Luna, «eravamo già ai limiti della nostra resistenza. Ve ne volete andare ora, per amor di Dio?» Anche la spiritista sembrava estenuata, per cui Goddard si allontanò senza insistere oltre. Swanhild lo raggiunse quando già si trovava a metà del cortile. «Abbi fiducia in noi, caro», disse con un'ansia febbrile nella voce. «Quando Luna ti spiegherà, capirai tutto. Ma io non voglio che tu vada via senza... senza...» «Senza avermi sentito dire che mi fido di te», concluse per lei il giovane. «Stai tranquilla, mia cara! Mi fido di te e ti voglio bene.» Swanhild si protese verso di lui e gli diede un leggero bacio. «Ora affrettati a rincasare: vai!» Dopo che l'ebbe lasciata, mentre stava camminando in direzione del ponte levatoio, cercò di mettere un po' d'ordine nella sua testa che sentiva estremamente confusa. L'unico dato di fatto a cui ancorarsi era che Swanhild era salva e che la chiave del mistero si trovava in una parola incisa sulla lapide. 26. Non appena Goddard ebbe fatto ritorno a casa sua, si fu asciugato e seduto nella sua biblioteca alla luce della familiare lampada posta sul tavolino di fianco alla poltrona, si mise a pensare con stupore e incredulità a quanto era accaduto. Solo il ricordo di quell'urlo demoniaco e della disperazione di Swanhild lo convinsero che non aveva sognato. La condotta della ragazza gli pareva però priva di senso. Secondo lui era necessario avvertire Oliver per costringere le due donne a rivelare il segreto che nascondevano. E c'era tutta una serie di altre cose che aveva trascurato di compiere. Però, quando ebbe interamente recuperato la calma, la ragione gli fece capire che aveva fatto bene a seguire il primo impulso: Swanhild e Luna erano sane e salve, avevano promesso che non avrebbero fatto più nulla di pericoloso da sole e, tutto questo considerato, lui doveva aver fiducia in lo-
ro. Ma quale mai creatura aveva potuto emettere quello spaventoso grido che aveva udito? Gli tornarono alla mente tutte le vecchie leggende che ben conosceva: l'avo immortale, la creatura mezza umana e mezza bestiale che nasceva di tanto in tanto nella famiglia degli Hammand e che viveva nella stanza segreta, i morti che resuscitavano sotto forma di Vampiri... Anche Miss Bartendale aveva fatto delle allusioni a una realtà spaventosa non troppo lontana dalle leggende che circolavano tra la gente. Quanto alla possibilità circa la presenza dei fantasmi, Goddard era troppo pratico per poterci credere. Un punto in particolare lo aveva colpito: Luna e il Mostro avevano lasciato la stanza segreta nel breve periodo di tempo che lui aveva impiegato per attraversare il fossato e la condotta dell'acqua: per cui, che fine aveva fatto il Mostro? Si era volatilizzato? La parola «ectoplasma», suo malgrado gli venne in mente: forse la Bartendale era ricorsa a una materializzazione di qualche genere? Quando aveva udito l'urlo, aveva sentito contemporaneamente anche la voce della spiritista: forse stava uscendo dalla stanza proprio in quel momento? E poi, cosa voleva dire quell'esclamazione di Swanhild: «Se solo fossi arrivato dieci minuti prima!»? Un desiderio questo peraltro confermato in seguito anche da Luna. Comunque rigirasse la faccenda, non c'era verso di venirne a capo. A ogni modo una sola cosa interessava ora al giovane: le due donne non correvano veramente alcun pericolo al castello? Un errore o una disgrazia erano sempre possibili... E se il Mostro poi si fosse manifestato in un modo e in condizioni tali che Luna non fosse in grado di tenerlo sotto controllo? Alzatosi, chiamò Oliver al telefono, si scusò per l'eventuale disturbo che gli avesse potuto arrecare, e gli chiese qualche notizia circa il lavoro da svolgere il giorno seguente. Poi, senza parere, formulò la domanda che lo preoccupava, e seppe che sua sorella e Luna, esauste a seguito delle fatiche di quella giornata, erano andate a letto molto presto. Swanhild poi accusava anche un po' di mal di testa: infatti, dopo mangiato, mentre Oliver scambiava due parole con Mrs. Yorke, Swanhild si era recata con Luna nella soffitta e, al ritorno, era quasi svenuta. Goddard non fu sorpreso nel sentire quello che gli riferiva l'amico. La ragazza era rimasta parecchio sconvolta, e il suo stato spiegava perché tutti quelli che avevano visto il Mostro si erano suicidati. Ma allora, perché era sembrato che rimpiangesse il fatto che Goddard non l'avesse incontrato?
Era ben vero che gli avevano promesso che da lì a qualche giorno avrebbe saputo tutto, ma quante cose sarebbero potute accadere nel frattempo! Anche la parola cui aveva fatto cenno la spiritista continuava a preoccuparlo: forse Luna pensava a quella che mancava all'inizio della terza riga della Ballata? Goddard si decise a cercare nel vocabolario tutte le parole di sei lettere che cominciavano con una C, una G, una O, e una Q, e finivano con una L o una Z. Era certo che non si sarebbe lasciato vincere dal sonno, per cui si mise immediatamente al lavoro. Non aveva però fatto i conti con le esigenze del suo corpo: d'altro canto ormai non nutriva più delle serie preoccupazioni per quanto concerneva Swanhild, e non c'era niente che conciliasse il sonno più della lettura di un vocabolario. Per cui, a poco a poco, il capo gli si piegò sulle pagine, e non si svegliò che all'alba, quando udì il suo cane che raspava alla porta della biblioteca. Col cuore che gli batteva all'impazzata per l'ansia, telefonò immediatamente al castello, ma la voce calma di Oliver lo informò che tutto andava per il meglio. L'unica cosa era che Swanhild si mostrava estremamente nervosa. Il Capo della Casata degli Hammand pregò comunque Goddard di raggiungerlo al castello, ma questi rifiutò, dicendo che preferiva verificare alcuni particolari prima di renderli edotti circa quanto aveva scoperto! Confortato da quelle notizie rassicuranti, da un bagno, e da una robusta colazione, Goddard si sentì nuovamente pieno di fiducia. Se la Bartendale era così tranquilla nella stanza segreta pur maneggiando la Mano di Gloria, rifletté, probabilmente era veramente in grado di controllare le influenze malefiche che vi allignavano. Comunque, non essendo capace di rimanere ad attendere senza far niente le famose rivelazioni che gli erano state promesse, decise di trovare da sé la parola che costituiva la chiave del mistero. Nel pomeriggio, dopo aver lavorato a lungo senza essere riuscito a venire a capo di alcun risultato probante, uscì per sgombrarsi la mente e prendere una boccata d'aria: mentre passeggiava, incontrò Swanhild che aveva approfittato di una schiarita per fare un po' di moto. Quando il giovane le si avvicinò, la ragazza trasalì. «Oh, Goddard, sei tu!», disse con evidente disagio. Anche in quelle poche parole che aveva pronunciato era percettibile il mutamento della sua voce. Pareva che fosse improvvisamente invecchiata,
e che fosse giunta al limite delle sue forze. «Swanhild, ma che bella combinazione! Sono sicuro che abbiamo avuto entrambi la stessa idea: scambiare due idee tra noi prima di parlare con gli altri...» «Io... tu pensavi...», balbettò la ragazza cercando di sfuggire il suo sguardo. «Ritenevo che fosse necessario che non ci vedessimo per un po' di tempo...» «Penso invece che la cosa necessaria sia quella di vederci di più in questi momenti!», la interruppe il giovane. «Caro Goddard, tu sai sempre cosa desidero realmente, in fondo...», rispose dopo un momento Swanhild prendendolo affettuosamente per un braccio. Se non fosse stato per i profondi cerchi blu che aveva intorno agli occhi, nei quali si leggeva una disperazione senza fine, il suo modo di fare sarebbe sembrato naturale, ma era un dato di fatto che, dal giorno prima, era veramente invecchiata di dieci anni. «A ogni modo», riprese a dire la ragazza, «non diremo niente a Oliver se non tra qualche giorno. Mi prometti di continuare a conservare il silenzio?» «D'accordo, tesoro... ma tu dovresti cercare di capire quanto sono preoccupato...», la rassicurò Goddard con voce diventata d'un tratto tenera. «È così perché ti amo, e perché penso che il segreto di Miss Bartendale possa essere pericoloso.» «Ti assicuro che non accadrà niente finché Oliver terrà fede alla sua promessa di evitare il bosco e la stanza segreta.» «Ma questa proibizione non potrà durare per sempre!», esclamò Goddard. Swanhild lo guardò non sapendo cosa dire. «Goddard, vorrei dirti una cosa riguardo al nostro fidanzamento: se qualcuno dovesse venire incolpato dell'assassinio di Kate, e se saremo costretti a confessare la verità...» A questo punto s'interruppe, quasi che le forze le fossero venute a mancare, mentre gli occhi le si riempivano di un orrore senza nome. «Vuoi per caso dire, che saresti disposta a recedere dal fidanzamento?», mormorò Goddard allibito. «Questa verità è dunque talmente orribile?» «Addirittura abominevole!», rispose la ragazza, guardandolo con disperazione. «I giornali poi ne farebbero uno scandalo quale mai è stato dato di leggere sulle pagine dei quotidiani.»
«Silenzio, amore, non dire una parola di più! Sai che non ho mai pensato a un nostro matrimonio affrettato ma, se gli eventi mi ci costringeranno, chiederò una dispensa speciale: voglio avere il diritto di condividere i tuoi problemi, e penso che Miss Bartendale si comporterebbe in modo vile qualora dovesse abbandonare Oliver!» «Goddard, ti proibisco di parlare così!», disse Swanhild con foga. «Tra loro due non potrà mai esserci niente!» «E perché mai? Dal momento che si vogliono bene...» «Da ieri notte tutto è cambiato...» «Forse, ma non tu e io!», le disse il giovanotto con un sorriso. Avevano lasciato il viale che stavano percorrendo, e ora si trovavano sotto l'ombra di alcuni faggi. Swanhild si lasciò cadere sopra un tronco abbattuto, e si nascose il volto tra le mani. Goddard le si sedette accanto. «Se soltanto potessi dirti tutto!», disse Swanhild dopo qualche istante, riconfortata dalla sua silenziosa tenerezza. «Non parliamone più. Sai cosa ho trovato?» «Il manoscritto di Culpeper.» L'uomo scrollò il capo. «Non bisogna farsi troppe illusioni. Questo documento fornisce il resoconto dell'apertura della tomba da parte del Mago e di quanto si è verificato in seguito, ma non getta alcuna luce sulla natura del Mostro.» «E così, Luna aveva ragione!», disse Swanhild dirigendosi verso il castello. «Andiamo a informarla.» «Ero venuto qui proprio per questo», replicò Goddard. «Ma ho paura che ci siamo fatti fuorviare da quelle "Trecce dorate"...» 27. Quando entrarono nella stanza degli Holbein, dove Oliver e Mrs. Yorke stavano chiacchierando con Luna, il primo sguardo di Goddard fu per il ritratto di Warlock. La spiritista aveva il suo abituale atteggiamento di calma e d'impassibilità. Tuttavia il giovane notò una ruga profonda e del tutto nuova che le solcava la fronte. «Non abbiamo trovato nulla d'interessante questa mattina», disse Oliver. «Penso che Swanhild te lo abbia detto.» «Io ho avuto un po' più di fortuna: ho decifrato un lungo resoconto al quale voi, forse», disse Goddard rivolgendosi a Luna, «potrete dare un senso. È la relazione sull'apertura della tomba, stilata dall'apprendista di
Magnus.» «Oh!», esclamarono all'unisono Mrs. Yorke e Oliver, mentre gli occhi di Luna si accendevano per l'interesse. «È davvero interessante!», disse la spiritista. «Avete portato con voi il manoscritto?» «Ho riunito e messo a posto i vari frammenti che poi ho incollato su un foglio di carta, ma il testo è molto confuso. Allora ne ho fatto un riassunto che vi posso leggere. In seguito, se lo riterrete opportuno, potrete esaminare l'originale a vostro piacimento.» Oliver, in preda all'eccitazione, sistemò alcune poltrone tutt'intorno all'amico. «Culpeper comincia col narrare l'avvenimento che ha dato origine alla sua indagine. Sembra che Sir Gilbert Hammand, Signore di Dannow, stesse facendo ritorno una notte da Lower Dannow col suo figlio minore. Uno dei cavalli arrivò al castello con la gola orrendamente squarciata e senza cavaliere. Immediatamente vennero organizzate delle ricerche e, nel bosco, venne scoperto il cadavere del giovane Hammand - un ragazzo di tredici anni - in parte già divorato. I cadaveri di Sir Gilbert e del suo cavallo invece, giacevano nella strada proprio nel punto in cui passa sotto il Beacon. Secondo ogni evidenza, dovevano essere morti lottando contro il Mostro, poiché i fianchi della bestia erano orribilmente dilaniati. Culpeper era venuto a Dannow, invitato dal suo amico Reginald, primogenito di Sir Gilbert, dato che era costretto a stare nascosto a causa delle sue idee realiste. Ora vi leggerò i frammenti di una lettera scritta dall'Albergo del Leone Rosso di Spitafield, nei dintorni di Londra. La prima riga manca. A Sir Reginald Hammand Dicembre 1651 ...la storia che gli Hammand siano una razza di Vampiri, è che se uno di essi muore prematuramente, vive nella sua tomba fintantoché può bere - a periodi ricorrenti - del sangue umano. Questo è quanto si racconta con riferimento a vostro fratello Oliver, ucciso in combattimento a Worcester e quivi sepolto due mesi orsono. Ho cominciato la mia indagine nel periodo di luna piena, dato che questa era molto adatta al mio lavoro. Ho cercato di determinare i giorni e le ore delle apparizioni del Mostro sino a oggi, per
ricavarne - grazie alla divina scienza dell'astrologia - una formula capace di preservare per l'eternità te, mio caro Reginald, e i futuri Signori di Dannow, da fantasmi, spettri, demoni, familiari, e ogni genere di esseri soprannaturali.» Goddard a questo punto fece una pausa per riprendere fiato. «Arrivati qui, manca un grosso pezzo», spiegò. «D'altro canto non è che sia riuscito a capire bene anche questa prima parte...» «Io invece l'ho capita», disse Luna. «Culpeper, che peraltro era un astrologo di fama, faceva conto su quella scienza per riuscire a determinare quale fosse la natura del Mostro, così come io sono ricorsa all'archeologia e all'ipnosi.» «A partire da qui, ho tradotto il testo in un linguaggio attuale», riprese a dire Goddard. Ho esaminato attentamente l'incontro del vostro bisavolo con il Mostro. Secondo quanto è scritto nei documenti presenti nei vostri archivi, esso si verificò il 10 novembre del 1556. Quello con suo padre invece, risale all'8 febbraio 1526, però non viene indicata l'ora né per l'uno né per l'altro. In seguito ad alcune informazioni ottenute da una serva di vostra madre, ho fatto visita ai vostri vicini di Dannow, i signori Danny e Newtimber, dai quali ho saputo che a Steyning viveva un certo Josh Blount che si vantava di essere stato amico, in giovinezza, di John Slinfold, il medium di Magnus il Mago. Questo Blount, di professione chirurgo, non aveva mai voluto rivelare alcunché delle confidenze di Slinfold. Tuttavia, mi recai a Steyning dove fui ricevuto da Mr. William Blount, un uomo della mia età, anche lui chirurgo, che mi condusse dal suo bisavolo, un vecchio rugoso e cadente, i cui occhi però denotavano una giovinezza stupefacente a dir poco. Quando gli dissi il mio nome e il motivo per cui mi ero recato lì, il Dr. Blount ci lasciò soli. «È vero, Mr. Culpeper», m'informò Josh Blount, «sono stato apprendista presso Mr. Slinfold circa novant'anni orsono. Alla prossima Candelora, sempre se Dio lo vorrà, avrò centonove anni, e dovete sapere che mio figlio è morto di vecchiaia quest'anno a San Martino.» «Ho paura di arrecarvi del disturbo inutilmente, Mr. Blount»,
dissi. «L'avvenimento che mi interessa è così lontano nel tempo!» «Non dovete pensarla così. La vita somiglia a una buona commedia di cui non si ricordano che l'inizio e la fine. Io mi rammento ancora del sapore dello zucchero d'orzo e del marzapane della mia infanzia, mentre mi sono del tutto dimenticato quello che ho mangiato ieri. Sono in grado di riferirvi esattamente quello che Mr. Slinfold mi ha detto nel 1559. Mi aveva sorpreso a leggere un libro di Magia e, adiratosi, mi aveva proibito di continuare. "Dalla Pietra Filosofale", mi aveva detto, "si finisce per cadere nella Negromanzia. E, a questo proposito, potrei citarti l'esempio degno di compassione del mio padrone, Sir Magnus Hammand, un valoroso gentiluomo pieno di ogni virtù, del quale andavano orgogliosi sia l'Inghilterra che il Sussex, e il cui nome è divenuto - proprio a causa delle sue avventatezze - causa di terrore per i bambini." Pregai quindi Mr. Slinfold di continuare a raccontarmi la sua storia, che ora eccovi in breve. "Sir Magnus non beveva, non aveva mai alzato lo sguardo su un'altra donna che non fosse la sua sposa della quale era profondamente innamorato, e non si curava di onori e ricchezze. Aveva combattuto valorosamente come Alfiere a Bosworth, e il Re Enrico lo avrebbe volentieri voluto con lui a Corte, ma Sir Magnus preferì vivere qui e dedicarsi allo studio. Dato che ero orfano, Sir Magnus mi aveva preso con sé e, per molti anni, gli feci da tramite con il mondo dell'Occulto. Da principio i suoi studi erano innocui: cercava la Pietra Filosofale, ma non per sé, bensì per il Re Enrico. L'unica cosa che sperava di trovare per sé era l'Elisir di Lunga Vita. Viveva in mezzo a droghe e alambicchi, polli nutriti di vipere morte e di aceto, e cose del genere. Quando ormai l'avevo lasciato, parve che si dedicasse a pratiche di Magia, e che celebrasse delle Messe Nere come faceva il Cardinale di Retz in Francia, ma di questo non ho alcuna prova... Quello che invece so per certo è ciò che fece nella tomba dei Druidi... Si diceva che questa tomba celasse un grande tesoro, il Vitello d'Oro di Aronne secondo alcuni, e dei vasi sacri dei Druidi secondo altri, ma sempre d'oro. Quando Sir Magnus mi mise a parte del
suo progetto, gli ricordai che il Demonio che si trovava a guardia del tesoro aveva sempre impedito a chiunque di avvicinarsi, ma Sir Magnus si mise a ridere e mi disse: 'In cambio della tua fatica, potrai prenderti tutto l'oro che troveremo, John. A me interessano solo il Segno e la Parola che mi metteranno in grado di far apparire e sparire gli spiriti secondo il mio desiderio'. Poi aggiunse con gli occhi che gli brillavano: 'Riuscirò John, e ne farò un uso certamente molto più assennato di quanto non fece Faust. Li costringerò a procurarmi sia la Pietra Filosofale che l'Elisir di Lunga Vita. Allora non ci saranno Re o Imperatori che esiteranno a scambiare tutti i loro beni con l'immortalità. In questo modo diventerò l'Imperatore di tutto l'Universo. Chi sa? Forse, tra qualche secolo, intorno al 1800 o al 1900, gli ambasciatori di tutte le nazioni verranno a rendermi omaggio proprio in queste umili stanze di Dannow, e faranno a gara per procurarsi i favori di Sir John Slinfold, il Primo Ministro - anche lui immortale - di Magnus Hammand, Signore della Terra, della Vita, e del Tempo!'."» A questo punto Goddard smise di parlare, e gli occhi di tutti corsero involontariamente al piccolo, cupo ritratto di Magnus. «Vivere in eterno... e come Imperatore di tutta la Terra!», esclamò Oliver ammirato. «Poter controllare questo mondo e quello dell'Aldilà! Soltanto un'ambizione smisurata doveva averlo spinto a violare la tomba!» «Sì, e come risultato della sua ambizione, è stato costretto a implorare le preghiere dei suoi posteri!», ribatté seccamente Luna. «Ma vi prego, continuate, Mr. Covert.» Il giovane non si fece pregare, e riprese. «Ma, Signore», dissi con voce piana a Sir Magnus, «come fate a sapere che la parola che cercate si trova celata nel Thunder's Barrow?» «Ora ti dirò. Con la sua vita di preghiere e di mortificazione della carne, il mio antenato, l'Anacoreta, si era conquistato il potere di rinchiudere il Mostro nel Barrow. E questo è il motivo per il quale, dopo la sua morte, il Mostro ha cessato di tormentare i Capi della Casata. Ora dimmi: in quale altro modo un'entità tanto antica e potente avrebbe potuto essere ridotta all'impotenza se non
mediante l'Incantesimo di Salomone al quale sono tenuti a ubbidire tutti gli Spiriti del Bene e del Male? Questo è il motivo per il quale voglio cercare nella tomba i Segni Magici e le Parole che vi sono nascoste.» «Ma non corriamo il pericolo di liberare il Mostro?» «No, John, perché io non prenderò niente. Farò solo un disegno esatto per riprodurre quanto vado cercando, che poi studierò con tutta tranquillità nel mio laboratorio.» Feci un'ultima obiezione. «Signore un'ultima obiezione, molti altri in passato hanno a più riprese frugato nel Barrow, ma il Diavolo non ha mai permesso che venisse trovato qualcosa...» Sir Magnus si mise a ridere. «Ma noi saremo meglio equipaggiati di quanti ci hanno preceduto: avremo una Mano di Gloriai» «Ma, Signore, si tratta di Magia Nera!» «Sono io che comando, John, e quindi mi assumo tutte le responsabilità!» Quella stessa notte, Sir Magnus si recò fin sul promontorio dell'Uomo Mostruoso e, dal patibolo che vi era eretto sopra, staccò una mano al cadavere di Will Strodwick che era stato impiccato tre giorni prima per un omicidio che aveva commesso... «Questo frammento finisce qui», disse Goddard, «mentre il seguente comincia a metà di una frase, mi sembra...» ... e sulle punte delle dita fissammo delle candele fatte col grasso del cadavere dell'impiccato. Poi, quanto tutto fu pronto, ci recammo - era la prima notte di febbraio - sul Thunder's Barrow, muniti della Mano di Gloria, di una pala e di un piccone. Il mio padrone aveva anche preso una lanterna e un grosso sacco pieno di terra consacrata che proveniva dal cimitero. Avevamo indosso anche una collana fatta con le Erbe di San Giovanni per tenere lontani gli spiriti, e nelle cinture portavamo diversi spicchi di aglio. Il grosso cane da caccia di Sir Magnus era venuto con noi. Arrivati che fummo alla tomba, spargemmo sopra un lato di questa la terra consacrata, poi Sir Magnus vi tracciò un pentacolo
con la punta della sua spada. Mi spiegò che, fin quando fossimo rimasti all'interno di quelle linee, non avremmo corso alcun pericolo. Dopo aver divelto alcuni alberi, trovammo uno strato di gesso, e quindi una lastra di pietra. Sir Magnus, dopo essersi accertato che non recava impresso il Sigillo di Salomone, continuò a scavare. A questo punto, le candele che erano fissate sulla Mano di Gloria si spensero, per cui dovemmo interrompere il lavoro. Era l'alba quando facemmo ritorno a casa per riposarci un po' e preparare delle altre candele. La terza notte di lavoro, il vento soffiava molto forte. La temperatura era freddissima, e il cielo brillava, pieno di stelle. Avevamo scavato una nicchia nella parete della fossa per non far spegnere le candele, e procedevamo di buona lena. Verso mezzanotte, trovammo una grande statua che in un primo momento credetti essere il Vitello d'Oro di Aronne... «Ah», disse Oliver battendo le mani, «avevate davvero previsto tutto, Miss Bartendale!» «Continuate, Mr. Covert», intervenne Mrs. Yorke. «Il vostro racconto è quanto mai interessante.» 28. In seguito portammo alla luce una tavola. Sir Magnus constatò che non recava alcun Segno, e allora mi ordinò di sollevarla. Ero atterrito, ma Sir Magnus mi assicurò che non correvo alcun pericolo, perché il cane non mostrava alcun segno d'inquietudine. Cercata una fessura tra le tavole, v'infilò la punta del piccone che teneva in mano e fece leva con tutte le sue forze. Anzi, per aver più spazio onde poter lavorare meglio, mi fece uscire dalla buca. Al riparo dal vento, le fiamme delle candele salivano diritte, mentre la bufera mi avvolgeva con un frastuono terrificante nel quale era possibile percepire lo schiantarsi dei rami abbattuti al suolo e lo stormire dei cespugli. Finalmente, Sir Magnus riuscì a sollevare la tavola. Un soffio d'aria viziata si sparse dalla buca obbligandomi a volgere il capo, e fece spegnere le candele.
Per un attimo persi i sensi: poi, un'esclamazione di Sir Magnus mi fece rinvenire. «Eccolo che viene! Vade retro, Satana! In Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Fai attenzione, John: non uscire dalla terra consacrata!» La sua voce, normalmente forte, usciva dalla buca stridula come quella di una donna. In quel momento il cane cominciò a guaire e, subito, si levò un grido che non era né riso né pianto: non la voce di un uomo, né quella di un Demonio, ma aveva in sé un po' di tutto quello che ho detto. Con un balzo mi portai nel punto coperto dalla terra consacrata, afferrai la lanterna, e rimasi immobile rigirando freneticamente tra le mani gli spicchi d'aglio. Quel grido demoniaco continuava a provenire dalla fossa mischiato ai guaiti del cane. Poi Sir Magnus apparve sul bordo della buca, e si stagliò nella luce emanata dalla lanterna. Stava menando come un forsennato dei colpi dietro di sé con un grosso bastone. Rimase ritto in piedi per un istante, poi si lasciò cadere per terra e, nel cadere, scivolò al mio fianco nel pezzo coperto dalla terra consacrata. Io tracciai tutto intorno a noi un secondo pentacolo, mentre il mio Signore riprendeva fiato, poi ognuno di noi si sedette di fronte alla lanterna che illuminava i nostri volti atterriti e terrificati. Sir Magnus piangeva senza ritegno, e aveva gli abiti stracciati, insanguinati, e le mani e le braccia coperte di ferite. «È riuscito a scappare!», mormorò. «Non sono riuscito a vedere cosa fosse né come abbia fatto ad arrivare: quando la Mano di Gloria si è spenta, sono soltanto riuscito a sentire qualcosa che mi si avvicinava, e allora ho combattuto alla cieca immerso nell'oscurità con le unghie e i denti. Poi ho scorto la luce della lanterna.» «E il cane, Signore?», chiesi. «Si è battuto come me.» Vidi allora la povera bestia, o per meglio dire quello che ne restava, morta davanti a noi e dilaniata in una maniera orrenda. La sua testa era praticamente maciullata. A quella vista, Sir Magnus esclamò piangendo che il suo cane si era sacrificato per lui. Lo trasse quindi vicino a noi nel pentacolo, perché i suoi resti non dovessero subire ulteriori offese. Poi ridisegnò con cura il pentacolo, dato che nell'eseguire quella operazione, le linee si erano
cancellate qua e là. «Bravo!», esclamò Oliver. «Ecco un gesto che dimostra come il vecchio Magnus non fosse totalmente dedito al Male! Non è vero, Miss Bartendale?» Luna guardò il giovanotto con estrema freddezza. Swanhild corrugò le sopracciglia, e Goddard riprese a leggere quanto aveva scritto: «Cosa faremo adesso, Signore?», domandai, aguzzando lo sguardo nelle tenebre che ci circondavano da ogni parte e nelle quali, con tutta probabilità, si celava l'ignoto nemico che ci aveva aggredito. «Aspetteremo che faccia giorno», rispose Sir Magnus proiettando tutto intorno i raggi della lampada che creavano delle piccole chiazze di luce sul terreno. La lanterna era ancora accesa quando la linea grigia dell'alba apparve tra gli alberi. Ci parve di aver vissuto tutta una vita dal momento che avevamo cominciato ad aspettare. «Ora possiamo esplorare la fossa che abbiamo scavato, John», disse il mio Signore. «Quella cosa che era qui stanotte ormai è fuggita e, alla luce del giorno, non è assolutamente pericolosa, per cui possiamo finire il nostro lavoro in giornata.» Avevamo portato alla luce una tomba! Sotto le tavole c'era uno scheletro ricoperto dalla sua armatura, col capo rivolto verso Occidente. La corazza che lo rivestiva, aderente, era di cuoio duro, e aveva degli anelli di ferro e d'osso tutti schiacciati. Sir Magnus gli aveva ammaccato un femore durante la lotta notturna con quell'essere che lo aveva assalito, e aveva sparpagliato qua e là le gambiere e i calzari. In cima all'armatura vi era un elmo di bronzo e d'oro dal quale uscivano due enormi trecce di capelli rossi. Uno scudo rotondo recante lo stemma della Casata copriva in parte quella di sinistra, mentre una spada grande e larga - completamente ossidata - tagliava a metà quella di destra. Di traverso alle gambe poi, all'altezza delle cosce, era poggiata un'ascia bipenne mentre, tra i piedi, era possibile vedere l'elsa dorata e incisa di una spada con una grande piastra a guisa di foglia, spezzata in tre frammenti. Soprappensiero, Sir Magnus mormorò:
«So che in una certa epoca i Nobili erano soliti portare i capelli raccolti in trecce... Ahimè! Il Mostro è stato liberato, e ormai il male è fatto! Posso però portarmi via questa magnifica spada d'oro, dato che m'interessa la sua scritta i cui caratteri mi sembrano familiari. Forse mi spinge a questo lo spirito di qualche mio antenato? Sono sicuro che ci troviamo sul ponte di una nave, e che questa statua è una di quelle figure che adornano le prue dei battelli. Ma com'è possibile che io sappia tutte queste cose, John?». Oliver interruppe l'amico con vivacità. «Anch'io sapevo queste cose!» «I vostri ricordi atavici», precisò Luna, «sono del tutto uguali a quelli di Magnus il Mago.» «Il riassunto che ho scritto finisce qui», disse Goddard. «Il seguito l'ho decifrato solo molto approssimativamente. Sir Magnus e Slinfold ricoprirono in seguito lo scheletro con la terra consacrata, con la quale ricoprirono anche le tavole che avevano rimesso al loro posto. Poi riempirono di nuovo la buca. Warlock disse al suo aiutante che non aveva mai visto il Mostro in nessun momento della lotta avvenuta durante la notte, e che era stata proprio quella circostanza ad averlo salvato. Subito dopo questi avvenimenti, Slinfold perse le sue capacità di medium, ed entrò come apprendista nel gabinetto di un chirurgo. Era sua opinione che in seguito Sir Magnus avesse usato come medium il proprio figliolo e che, nel corso di una trance, il Mostro si fosse manifestato all'improvviso. Il rimorso per averlo liberato e aver così causato la morte del figlio, doveva aver spinto Sir Magnus al suicidio. Da questo punto in poi, il manoscritto diventa praticamente illeggibile, per cui ignoriamo la conclusione alla quale era giunto Culpeper. Il che è abbastanza irritante», concluse Goddard, «perché, tutto sommato, non ci ha detto poi molto.» «Vi sbagliate!», disse Luna. «Quelle informazioni che trecento anni fa servivano a poco o niente per Culpeper, ora invece per me sono di estrema utilità! Adesso è notte, e la folla dei curiosi deve sicuramente aver abbandonato la zona: chi vuole venire con me sul Thunder's Barrow per cercare la lastra sulla quale sono incisi i caratteri runici?» «Come sarebbe a dire?», chiese Goddard sconcertato. «Sì, quella lastra che Sir Magnus non ha esaminato quando la trovò. Ricordate quello che disse?», domandò in tono scherzoso.
«Che il Sigillo di Salomone non vi figurava sopra...», cominciò a dire il giovanotto. «Esatto!», lo interruppe Luna. «È vero che il Segno Magico non c'era, ma era incisa, e si trova certamente nel punto dove noi stiamo effettuando le nostre ricerche. Penso che voi e Swanhild siate in grado di trovarla con una certa facilità, e Mr. Hammand ci aiuterà poi a trasportarla al castello.» Partirono con la Mercedes muniti di due pale e, un'ora dopo, la lastra era adagiata sull'erba del Barrow. Lunga come una normale pietra tombale, era spessa il doppio e larga la metà. Luna aveva portato delle spazzole, e una copia dell'incisione runica che si trovava sull'elsa della spada. Inginocchiatasi, ripulì le lettere profondamente scavate sulle due facce della pietra, poi fece un segno col capo a Swanhild e le lanciò un'occhiata di trionfo: i segni incisi erano del tutto uguali a quelli che figuravano sulla spada! «Cominciate a nutrire qualche speranza?», domandò ansiosamente Oliver. «Non posso ancora dire niente di certo, Mr. Hammand. Data l'impossibilità di spedire questa lastra per ferrovia, la fotograferò, e porterò io stessa la fotografia al Professor Meikellen col primo treno del mattino.» «Ma avevate promesso che sareste rimasta fino a domani sera!», si lamentò Oliver. La giovane donna si mise a ridere. «Pensate che attribuisca troppa importanza a questa scoperta?», chiese, rivolgendosi a Goddard che la stava guardando con aria scettica. «Non dobbiamo tralasciare nulla! Soltanto, non lasciamoci andare a delle speranze premature...», aggiunse poi, notando gli occhi di Swanhild che brillavano. «Dobbiamo ancora venire a capo di mille anni di misteri...» Goddard trascorse anche quella notte cercando sul vocabolario tutte le parole che cominciavano con una C, una G, una O, od una Q, nella speranza che la prima volta gli fosse sfuggita quella che cercava. Ma fu tutto un lavoro inutile. Il racconto di Slinfold poi, contribuiva ad aumentare le sue perplessità. 29. L'indomani, Luna e sua zia partirono di buon mattino. Goddard le accompagnò ad Hassock e poi trascorse il resto della giornata con Oliver e Swanhild. L'eco delle ricerche effettuate nel Barrow aveva attirato una
nuova marea di giornalisti e di curiosi che si aggirarono in tutti i posti più reconditi di Dannow. Oliver aveva fornito all'amico una fotografia dell'iscrizione della stanza segreta e, al primo sguardo che vi diede, il giovane fu ricompensato della notte passata in bianco a studiare quella scritta. La donna aveva detto in quell'occasione, mentre leggeva, «Under stars sans...» e, dopo quest'ultima parola - l'unica francese presente nel testo - si era fermata bruscamente. Ora, questo termine francese ricorreva con frequenza nell'inglese medioevale, insieme ad altri gallicismi. La parola mancante, era forse anch'essa francese? Consultò senza alcun risultato il dizionario di francese che aveva a casa dal periodo della scuola, poi decise di recarsi a Londra l'indomani per acquistarne uno più ampio e moderno, contenente anche i termini arcaici o in disuso. Il giovedì, la folla dei giornalisti era ancora aumentata. A mezzogiorno arrivò un telegramma di Luna: la scritta era stata decifrata, e la spiritista chiedeva ai suoi amici di raggiungerla a Chelsea per una seduta ipnotica. Goddard rimase colpito dal mutamento che si era verificato in Luna nel corso degli ultimi due giorni. Una profonda ruga le solcava la fronte, e le sue mani si aprivano e si chiudevano in continuazione come se fosse in preda alla febbre: sembrava che riuscisse a dominare i nervi solo a prezzo di enormi sforzi. Anche Mrs. Yorke, che era contraria alle sedute per una questione di prudenza, sembrava in preda a un conflitto interiore. La spiritista, alle domande che le vennero poste quando i due Hammand e Goddard furono nel suo studio, non diede alcuna risposta: si rifiutò categoricamente di far sapere cosa c'era scritto sulla lastra, e mostrò invece loro dei fogli dattiloscritti. «Queste sono delle copie», spiegò. «Quando sarete in stato ipnotico, Mr. Hammand, Mr. Covert ve ne leggerà una e ripeterà le parole o le frasi che vi sembrerà di riconoscere. Al vostro risveglio, faremo la stessa prova con la seconda copia, e poi paragoneremo le risposte.» «Perché non le leggete voi?», chiese Oliver. «Perché una mia sia pure involontaria inflessione della voce, potrebbe offrirvi qualche indicazione. Anzi, proprio onde evitare qualsiasi influsso esterno, vi lasceremo solo con Mr. Covert per evitare anche delle eventuali trasmissioni di pensiero a livello inconscio, dato che anche Swanhild e mia zia sono al corrente di parecchie cose.» Un semplice gesto dalla mano di Luna era ormai sufficiente a far cadere
Oliver in stato ipnotico. Una volta che fu rimasto solo con lui, Goddard trovò la faccenda molto sgradevole. Comunque eseguì quanto gli era stato richiesto e, una volta che ebbe assolto al suo compito, fece tornare le donne che si erano allontanate dalla camera. Con le mani che le fremevano per l'eccitazione e gli occhi sfavillanti, Luna studiò attentamente il questionario, poi lanciò a Swanhild uno sguardo d'intesa. «Non c'è male!», sussurrò. Quindi fece svegliare Oliver e ordinò: «Volete avere la cortesia di leggere quello che c'è scritto su questo foglio, Mr. Hammand, mentre noi ci sediamo qui sulle poltrone?». Una volta che furono tutti sistemati intorno al fuoco che ardeva nel camino, Oliver cominciò a ripetere le domande ad alta voce: «Cosa sapete delle seguenti cose: Salvator Rosa, Rattoskar, Hvarner, Vishnu Siranguan... Ma che strana accozzaglia di nomi!», esclamò il giovane. «Ho dissimulato appositamente i nomi che mi interessano in mezzo ad altri presi a caso», spiegò Luna. «Capisco: volete vedere se riesco a trovare quelli buoni, eh? Dunque... Salvator Rosa era un artista, e Vishnu un Dio indiano. Tutti gli altri non mi dicono assolutamente niente... no, un momento! C'è qualcosa di molto familiare nella riga successiva: Odino.» «Cosa vi ricorda questa parola?», chiese Luna. «Mi vedo seduto ai piedi del letto di Swanhild: eravamo entrambi convalescenti per aver avuto la rosolia, e io avevo in mano un libro di leggende e miti nordici...» Quindi, proseguendo, Oliver riconobbe un certo numero di nomi dei quali fornì il significato. «Thor è un Dio scandinavo, come anche Baldur. Teste David cum Sybilla: non so cosa significhino queste parole, ma l'aria musicale che è a loro legata è la seguente...» E, così dicendo, modulò un motivo ritmandolo con un dito sul ginocchio: era quello del Dies Irae. Poi, dopo un breve istante di riflessione, aggiunse: «Assir Lok assomiglia molto a Loki: credo che nel libro cui ho fatto cenno prima in relazione alla convalescenza mia e di Swanhild, fosse un traditore. Sigmund è un personaggio wagneriano. Di Mjolnir ho solo un vago ricordo». Col che era arrivato al termine delle parole elencate sul foglio.
«Avete individuato cinque parole molto interessanti», disse Luna. «Da addormentato, invece, ne avete segnalato altre cinque: Rattoskar, Yggdrasyl, Jormundgander, Einherar, e Fimbulveter.» «Non mi dicono assolutamente niente, e non le conosco!», dichiarò decisamente il giovane. «Vi sono state suggerite dalla vostra memoria atavica. Appartengono tutte ad antiche tradizioni e miti di origine scandinava. La vostra famiglia è cristiana da un millennio, ma per secoli, prima, i vostri antenati erano pagani. Dei ricordi delle loro credenze religiose - anche se deboli - permangono nel vostro cervello, e possono affiorare in superficie quando vi trovate in stato ipnotico.» Quindi consultò gli appunti di Goddard. «Vi ricordate solo vagamente di Sigmund, un eroe molto famoso, ma descrivete con precisione Odino come il padre di tutte le cose, Thor come il possessore del Martello Mjolnir, Baldur come il Dio della Primavera, e Loki come il Diavolo! Yggdrasil è il Frassino Sacro, e gli Einherar sono degli Eroi deificati. Jormungander evoca una cosa lunga e rotonda, mentre Fimbulveter è la guerra finale.» «Davvero?», esclamò Oliver, sbalordito. «Ma vi ripeto ancora una volta che non so assolutamente di cosa si tratta.» A quel punto la spiritista ritenne opportuno fornire qualche spiegazione al piccolo consesso che l'attorniava pendendo dalle sue labbra. Yormungander era il serpente che, avvolto tutt'intorno alla Terra, faceva sì che le acque del mare non debordassero mentre, sotto il Frassino Sacro, le anime degli Einherar vivevano beatamente in attesa della guerra finale. Quel giorno avrebbero varcato il Ponte dell'Arcobaleno - o Ponte dei Ghiacci per aiutare Odino e gli altri Dèi a vincere i Demoni di Helheim. «Voi pensate che siamo ben lontani dalle ricerche che stiamo effettuando, non è vero?», osservò Luna. «Ma vi accorgerete che non passa poi una grande distanza tra il vostro Mostro e il Giorno del Giudizio secondo la concezione degli antichi Danesi.» Non appena ebbe fatto ritorno a casa, Goddard s'immerse nello studio del vocabolario di francese. Era quasi mezzanotte quando trovò la parola che cercava e, all'alba, ancora ne stava esaminando tutte le possibili interpretazioni. Alcune non riusciva ad afferrarle, ma il loro senso orribile e brutale gli appariva molto chiaro. Luna aveva ragione: sei sole lettere erano sufficienti per venire a capo del millenario segreto degli Hammand. Ora
sapeva perché Reg Hammand e il Mago si erano suicidati, perché gli altri Capi della Casata erano morti di crepacuore, e perché Swanhild non aveva voluto dirgli niente. Migliaia d'anni separavano Oliver e Swanhild da quel vichingo di cui avevano turbato l'eterno riposo due giorni prima. La piastra sembrava indicare che quel periodo era riconducibile all'Età del Bronzo: da allora, si erano susseguite innumerevoli generazioni di Hammand, e tutte erano state perseguitate dalla Maledizione Eterna! Eterna! Grazie a Dio, tale era soltanto per Oliver! Ma, se l'inchiesta che si sarebbe tenuta nel piccolo albergo del paese si fosse conclusa con l'incriminazione - a torto - di una coppia di bracconieri, allora la tremenda ignominia che aveva accompagnato più di cento generazioni di Hammand, sarebbe diventata palese agli occhi di tutto il mondo. Non si sarebbe potuto fare altrimenti! 30. Quel venerdì, Goddard si svegliò abbastanza presto. Dopo due giorni di pioggia, la mattina era asciutta e tirava un forte vento. Sulle colline l'erba era gelata, ma in cielo splendeva un pallido sole. Man mano che il giovanotto si avvicinava al castello, l'orribile realtà che lo circondava gli sembrava sempre più assurda. Spinto da un impulso improvviso, entrò nella chiesa per esaminare il quadro che lì si trovava. Per poco non andò a urtare Oliver che ne stava uscendo: il suo primo moto fu quello di fuggire, e non riuscì a reprimere un sussulto istintivo di fronte all'incarnazione vivente di quella parola che ormai conosceva anche lui. «Ciao Goddard!», esclamò Oliver. «Ma che razza di sobbalzo hai fatto! Forse che l'atmosfera di questa chiesa ti rende nervoso?» «Ero venuto per dare un'occhiata al quadro», rispose Goddard in tono evasivo. Non gli venne in mente nient'altro: aveva paura di tradirsi, magari senza volerlo, o di non riuscire a sostenere lo sguardo dell'amico. Ripensò al ragazzo gioviale e altruista che aveva conosciuto e frequentato da sempre, e all'aura di universale simpatia che riscuoteva. Ma perché la guerra lo aveva risparmiato? «Hai per caso scoperto qualcosa di nuovo?», gli chiese Oliver. «No», fu la laconica risposta. «Miss Bartendale ha ricevuto alcune informazioni prima di quanto si a-
spettava, e ha chiesto a Swanhild di andare a Chelsea piuttosto presto. Torneranno insieme stasera con Mrs. Yorke per tenere una seduta ipnotica nella stanza segreta, alla quale dovrai ovviamente partecipare anche tu. Vieni a pranzo da noi?», concluse il Signore di Hammand. «Volentieri.» «Allora passerò a prenderti verso le quattro», disse Oliver. «Adesso devo andare a Steyning.» «D'accordo: ci vediamo questo pomeriggio», lo salutò Goddard. A questo punto passò lungo la strada una macchina. La polvere sollevata e i gas dello scappamento, avvolsero i due giovani in una nuvola bianca, mentre alcune frasi degli occupanti l'autovettura giungevano alle sue orecchie. «È quel bosco che vedete là davanti!», stava dicendo il conducente. «No: il Mostro non ha divorato quella povera ragazza... Avete letto il Daily Post e le deposizioni dei medici? Sono veramente orribili! Però c'è una domanda che mi assilla: cosa ci stavano a fare quei due a mezzanotte nel bosco...?» Il resto della discussione si perse in distanza. «Maledetti!», borbottò Oliver. Durante il pomeriggio, il freddo aumentò. Il cielo si coprì di grosse nuvole che venivano sospinte avanti da una tramontana fredda e sferzante. La valle ben presto rimase coperta dalla nebbia, e il bosco, con i suoi colori neri e rossicci, era più cupo e minaccioso che mai. Mentre saliva nella macchina di Oliver, Goddard temeva che la notte ormai prossima fosse propizia all'apparizione del Mostro. Fecero il tragitto in silenzio, ognuno assorto in profondi pensieri che avevano come denominatore comune la Maledizione degli Hammand. Giunti a una curva della strada che si apriva di fronte al castello, Oliver disse all'improvviso: «Siamo parecchio in ritardo: penso che Luna e Swanhild siano già arrivati. Che fai: dormi, vecchio mio?», aggiunse poi, visto che non aveva ottenuto alcuna risposta. Goddard, tutto preso dalle sue elucubrazioni, si raddrizzò sul sedile: pensava che la realtà superava di gran lunga tutte le leggende e ipotesi fantasiose che si erano venute a creare sul Mostro con il trascorrere degli anni. «Chi è quello là?», chiuse in quel momento Oliver additando una sagoma che si stava avvicinando.
Era Will Cladpole che stava rincasando in bicicletta, e spingeva sui pedali curvo sul manubrio. Pallido in volto e terrorizzato, pedalava con tutte le sue forze, calcandosi di tanto in tanto il cappello in testa perché non volasse via spinto dal vento. Oliver frenò la macchina. «Oh, siete voi, Mr. Hammand!», mormorò il giovanotto. «Ho udito delle grida nel bosco, signore e, se non interviene qualcuno, ci sarà sicuramente qualche altra uccisione...» «Spiegati meglio!», lo apostrofò seccamente Oliver. «Una signora è andata nel bosco con un uomo che fa le fotografie per i giornali. Erano in molti... su una grossa vettura. Li ho seguiti a distanza ma, quando ho udito la signora urlare così forte, mi sono affrettato a tornare indietro...» Quando ebbe finito di spiegare cosa aveva udito, Will ansava come un mantice. «Ora calmati!», gli ordinò Oliver. «Vuoi dire che c'è una donna in pericolo?» «Proprio così, signore! Anche da qui è possibile vedere i fari dell'auto.» In quel punto, una grossa siepe impediva di vedere il bosco. Oliver e Goddard, scesi dalla macchina, corsero a tutta velocità verso un varco che si apriva nella macchia. Al di là della valle, al termine dell'antica strada romana, si scorgeva un puntolino rosso proprio all'estremità dello Shaw. «Nessuno deve girare nel bosco a quest'ora!», esclamò Oliver irritato, poi risalì in macchina. Goddard lo tirò per una manica cercando di trattenerlo. «Ricordati la promessa che hai fatto, amico mio. Non puoi andare!» «C'è una donna in pericolo che ha bisogno di aiuto!», replicò seccamente il giovanotto. «Anche Miss Bartendale capirebbe questa necessità!» «Allora resta qui!», disse Goddard salendo a sua volta in macchina. «Andrò io.» «No, mio caro: la cosa riguarda me!» «Oliver tu non riesci a capire... tu non sai... L'unico che corre dei pericoli sei tu! Dammi retta...» Poi s'interruppe. Will, fermo sulla strada, li stava ad ascoltare incuriosito. «Tu non ci andrai!», gridò nuovamente Goddard, afferrando Oliver per la vita. «Per l'amor del cielo, amico mio, dammi retta!» Ma Oliver si sbarazzò di lui con la stessa facilità con cui si sarebbe libe-
rato di un bambino, mandandolo a rotolare dall'altro lato della strada, dove terminò il suo capitombolo in una siepe. Liberatosi a fatica dal groviglio di rovi nei quali era caduto, Goddard vide il fanalino posteriore della macchina dell'amico che si allontanava oltre il villaggio. Senza dire una parola, s'impadronì della bicicletta di Will, vi montò sopra, e poi partì di gran carriera, ma la luce che stava inseguendo diventava sempre più piccola. A un certo punto poi, scomparve del tutto quando l'auto svoltò nella strada romana che arrivava sino al paese. Il giovane continuò a pedalare lungo la strada maestra, svoltò per istinto nel punto giusto, poi si immerse alla cieca nella densa nebbia che avvolgeva tutta la vallata. Davanti agli occhi gli danzava - impressa a caratteri di fuoco - quella famosa parola che era la soluzione del mistero degli Hammand. Alla sommità della salita, sull'orlo del bosco cupo e tenebroso, due luci rosse rompevano la totale oscurità della notte ormai calata del tutto. Goddard saltò giù dalla bicicletta proprio dietro alla macchina di Oliver che si era fermato accanto a una grossa berlina a cinque posti, e gettò un rapido sguardo in giro. Scorse un bagliore in mezzo agli alberi, e il vento gli portò l'eco di una voce femminile. Quasi obbedisse a un pensiero non ben delineato, il giovane si gettò sulle spalle una coperta che aveva preso dalla macchina di Oliver, poi si diresse verso la luce che si intravedeva nell'oscurità. Mentre procedeva, distinse delle voci, miste a lamenti e a grida isteriche. A un tratto, dovette fermarsi bruscamente per evitare qualcosa che era acquattata sul terreno davanti a lui. «Oliver... sia lodato Iddio!», esclamò sollevato, quando riconobbe l'amico. «Sei tu, Goddard?», chiese l'altro che stava nascosto dietro a un cespuglio. «Dai, vieni via con me: sai bene che non puoi restare qui!», lo sollecitò Goddard. «Sono loro che non devono stare qui!», brontolò l'amico. «Quello scocciatore coi capelli rossi, con l'accento di Oxford e i capelli lunghi da artistoide, è quello sciacallo che Miss Bartendale...» L'indignazione che provava, quasi non riusciva a farlo parlare. «Non puoi assolutamente restare nel bosco durante la notte!», insisté ancora Goddard. «Torna a casa e lascia che sia io a occuparmene: in fin dei conti non è una cosa molto importante.»
«Questa fino a prova contraria è casa mia!», ribatté seccamente Oliver. In quel momento udirono lontano una sorta di canto. Goddard scrutò intorno attentamente: una lanterna posata su un tronco d'albero abbattuto, illuminava un certo Curtiss, giornalista del Post che, appoggiato a un albero, con una matita e un block-notes in mano, stava fissando attentamente il faggio colpito dal fulmine. L'interno della pianta era stato completamente svuotato dai collezionisti di ricordi, e una donna di cui Goddard riusciva a vedere solo il volto, vi stava dentro. Vi erano anche altre tre donne che stavano cantando tutte insieme: «Guidaci Tu, o Luce Benefica». «Si tratta solo di una seduta spiritica...», mormorò Oliver. «Ascolta!» La donna che si trovava nella cavità dell'albero, si era messa a parlare con una voce stranamente sommessa e cantilenante. «Spirito di Kate Stringer: ci sei?» Seguì una pausa, poi un'altra delle donne emise un gemito, e allora la prima - che era evidentemente una medium - rispose. Adesso la sua voce era diventata molto più bassa, ed era assai simile a quella della ragazza uccisa. «Kate Stringer è qui!», disse. «Lasciami andare!», gridò Oliver, divincolandosi dall'amico che cercava di trattenerlo. «Non voglio sentire una parola di più! Questa gentaglia si trova proprio nel posto dove è stata uccisa la povera Kate! Sono solo un mucchio di ciarlatani!» Così dicendo, balzò fuori dal suo nascondiglio. D'impulso, Goddard lo seguì: era preoccupatissimo, dato che presagiva una catastrofe, ma aveva paura di peggiorare le cose se fosse intervenuto in maniera inopportuna. Le sue nozioni, non del tutto complete, non erano in grado di suggerirgli un qualsiasi piano. L'unica cosa da fare era aspettare lo svolgersi degli eventi, nella speranza che qualche fattore sconosciuto al momento riuscisse in qualche modo a tenere a bada il Mostro. Oliver avanzò fino a penetrare nel raggio creato dalla luce della lanterna, e si fermò di fronte a Curtiss. «Cosa state facendo qui?», lo apostrofò con un tono che non presagiva nulla di buono. «Sono un giornalista», rispose l'interpellato, troppo stupito per trovare una spiegazione più valida alla sua presenza in quel luogo, e contemporaneamente indietreggiando davanti a quell'individuo evidentemente adirato. «Questa è casa mia!», continuò Oliver sempre più alterato. Poi ghermì il giornalista per il bavero della giacca e lo scosse con vio-
lenza. La medium si era interrotta con la bocca aperta a metà di una frase, e le altre donne erano rimaste di sasso. «È il Mostro!», gridarono tutte insieme. «No, egregie signore, non sono il Mostro», spiegò con più calma il giovane, «ma solo il proprietario del bosco e di tutta la tenuta qui intorno. E ora volete farmi il favore di andarvene immediatamente di qui?» Lasciò quindi andare Curtiss e raccolse da terra la sciarpa che una di quelle aveva lasciato cadere per lo spavento, e gliela porse con un gesto galante. «Questo viale di pini che vedete sulla vostra sinistra, è la via più breve per tornare alla vostra macchina», concluse con un sorriso che voleva mitigare la scortesia di prima. «Sono veramente mortificato per avervi recato del fastidio, Mr. Hammand», disse Curtiss con aria contrita, «ma non riesco a capacitarmi di questa vostra violenza nei miei confronti. Noi stavamo semplicemente cercando di svelare il mistero che circonda gli avvenimenti accaduti in questo luogo, e Mrs. Robinson, della quale sicuramente conoscerete la fama...» «Andatevene, prima che perda del tutto la pazienza!», lo interruppe bruscamente Oliver, frenandosi ancora una volta a stento. «Tenete presente che solo la presenza delle donne che sono con voi vi ha evitato una punizione ben più severa!» «Sì, andate via, signore: ve ne prego!», si intromise Goddard. «Non avete nemmeno una pallida idea del pericolo che state correndo e, se vi ostinate a rimanere, sarete voi l'unico responsabile di tutto quello che vi potrà capitare!» «Mi dovete perdonare», continuò Curtiss, «ma non sono certo stato io a inventarmi ciò che si è verificato qui. In fin dei conti, io mi sono limitato a eseguire un reportage per il mio giornale...» «Non aggravate la vostra posizione con delle scuse tanto meschine quanto ridicole!», lo rimbeccò Oliver. Così dicendo, mise in mano al giornalista la lanterna, e questi decise di smettere di discutere. Infatti, la medium lo aveva preso per una manica e lo aveva tirato via con decisione persuadendolo ad allontanarsi con le altre donne. A sua volta, Goddard prese l'amico per un braccio e fece per tirarselo dietro. «Ancora un momento....», disse Oliver. «Aspetta prima che se ne siano andati via.»
Nonostante il freddo intenso, Goddard era tutto sudato per l'ansia che lo attanagliava, e non riusciva a darsi pace per il fatto che il suo amico non aveva nemmeno una pallida idea degli eventi che incombevano su di lui. «Vuoi restare qui sin quando quegli idioti non saranno usciti dal bosco?» «Non voglio rischiare di farmi venire un'altra arrabbiatura!», rispose Oliver, sorridendo alla luce della lanterna che si stava affievolendo sempre di più man mano che il gruppo degli intrusi si allontanava. «Ma perché tremi in quel modo?» In quel momento la luce scomparve, e i due furono avvolti dall'oscurità. «Per amor di Dio, Oliver, andiamocene via di qui!», gridò Goddard senza riuscire più a trattenersi. «Io... io ho una paura maledetta!» «Ma dai! Lo vedi che non c'è nessun pericolo! Piuttosto, mi sai dire perché hai preso quella coperta?» «Così... l'ho presa senza pensarci. Ma ti ripeto che ho una fifa maledetta!» «Non è vero Goddard: la verità è che Swanhild ti ha incaricato di sorvegliarmi, nevvero? Ma se ti sto dicendo che è tutto a posto... Soltanto io corro dei pericoli, e poi... so anche qualche altra cosa...» «Sai chi è il Mostro?», chiese Goddard, sbalordito. «No. Però so cosa bisogna dire per mandarlo via. L'ho appreso dalla mia memoria atavica. Bisogna gridare: Heysaa! Ma... un momento... Goddard: sta arrivando! Heysaa... a... a», gridò a quel punto. La sua voce si mutò in un ringhio. «Corri, Goddard, scappa! Ti ripeto che il Mostro sta arrivando! Heysaa... a... a.» Quella parola che all'inizio era stata pronunciata con un timbro umano, si spezzò e si trasformò in quell'urlo orribile che Goddard aveva udito provenire dalla stanza segreta. 31. La Mercedes giunse al castello nello stesso momento in cui Will arrivava sulla strada maestra. Alla domanda di Swanhild, Walton rispose che Mr. Hammand non era ancora tornato. La giovane allora rivolse uno sguardo apprensivo tutt'intorno: le stelle scintillavano, e soffiava un forte vento, freddo e pungente. Era una notte ideale per il Mostro. «Però lui ha promesso...», mormorò Luna, che aveva indovinato quali
erano i pensieri di Swanhild. Mrs. Yorke salì in camera sua, e Luna si fermò nell'atrio per contemplare un trofeo di caccia del quale Swanhild le illustrò l'origine e le diverse particolarità. Però, sia l'una che l'altra, facevano un'enorme fatica per parlare di argomenti diversi da quello della Maledizione Eterna. All'improvviso, squillò il telefono: le due giovani trasalirono, poi Swanhild si affrettò a rispondere. Quello che udì al ricevitore era esattamente uguale a quanto aveva udito due settimane prima. «Pronto? È il Castello? Mr. Hammand si trova nel bosco, ed è fuor di dubbio che stanno uccidendo qualcuno. Prima ho sentito delle grida orribili, e allora sono scappato e ho riferito a Mr. Hammand quello che avevo udito: lui non ha voluto che Mr. Covert lo accompagnasse, ed è andato da solo nel bosco a vedere cosa stava succedendo.» «E Mr. Covert cos'ha fatto?», domandò Swanhild. «Mi ha preso la bicicletta e si è messo a inseguire la macchina. Per la verità ha cercato d'impedire a Mr. Hammand di andare nel bosco, ma Sir Oliver lo ha gettato in un fosso.» «Ho capito. Apri il portone.» Quindi si precipitò nell'autorimessa. Per fortuna Stredwick si era occupato della Mercedes, e aveva fatto il pieno di benzina. «Tirala fuori subito!», ordinò Swanhild. Quando si voltò, trovò che Luna si trovava vicino a lei, pallida, ma del tutto padrona di sé. Soltanto gli occhi scintillanti e le sopracciglia aggrottate rivelavano la tensione di cui era preda. «Faremo in tempo a raggiungere Mr. Covert?», domandò la spiritista. «Taglieremo attraverso il borstal», rispose Swanhild. «Saremo in tre», cominciò a dire Luna, che poi si corresse. «Ah, no. Dimenticavo che Mr. Covert è già là: bisogna che arriviamo assolutamente in tempo. Ma cos'è il borstal?» Mentre parlavano, si erano abbottonate fino al collo i pesanti mantelli per difendersi dal freddo intenso. «È una pista che corre lungo il pendio e che arriva sino al bosco. È difficile e molto pericolosa, tanto che una volta Reg è uscito fuori strada con la macchina ma, a costo di rompermi l'osso del collo, io passerò. Per la strada maestra non abbiamo nessuna probabilità di arrivare in tempo per salvare Goddard. Prendendo questo sentiero invece, o lo raggiungerò in cinque minuti, o ci lascerò la pelle...»
«Ma, Miss Swanhild», fece osservare Walton che aveva seguito Luna, «le ultime piogge hanno fatto straripare il ruscello, e il ponte dev'essere impraticabile.» Swanhild corse alla porta senza rispondere, perché in quel momento era arrivata la Mercedes. Una volta che fu salita a bordo insieme a Luna, la vettura parve letteralmente saltare sopra il ponte levatoio, e quindi si avventò lungo il viale col motore al massimo dei giri. Seguì per un istante la strada normale, poi svoltò su una larga distesa erbosa, e quindi s'inerpicò lungo un pendio che era percorso dalla sottile linea bianca di un sentiero molto stretto. Il Beacon si profilava davanti alle due donne: sotto di loro, la campagna coperta di nebbia celava ogni cosa in una profonda oscurità. Di tanto in tanto, delle nuvole passeggere eclissavano il fulgore delle stelle. Rannicchiata sul suo sedile, Luna stava fiutando l'aria come un cane da caccia. Swanhild, con gli occhi inchiodati sulla stretta traccia del sentiero, era estremamente attenta a non perdere il controllo della vettura, e rabbrividiva per il freddo. D'un tratto, l'inclinazione del pendio mutò bruscamente, per cui andò a finire contro il parabrezza. Allora girò la macchina all'indietro, scrutando la linea che intersecava il pendio sulla sua destra compiendo una larga curva. «Guardate se riuscite a vedere il ponte!», gridò alla sua compagna cercando di superare il rumore del motore imballato. Luna si protese in avanti con la testa fuori dal finestrino, aggrappandosi al sedile per conservare l'equilibrio. In quel momento, l'orrendo urlo del Mostro le raggiunse per la prima volta. «E allora, il ponte?», chiese affannosamente Swanhild. «È sommerso, o no?» «Non riesco a vedere bene: mi sembra che il corso del ruscello sia interrotto, ma è tutto molto scuro...» «Tenetevi forte!», le ordinò Swanhild. «Ora cercherò di passare. Tutt'al più faremo un tuffo!» Il pendio si fece un po' meno ripido. La ragazza si spostò con la vettura quasi interamente sul prato, poi accelerò e diede una sterzata sulla destra nel momento che un faro entrò in acqua con un colpo sordo. Una delle ruote rimase completamente immersa, poi riemerse, e la macchina, fumando e perdendo colpi, riuscì a passare oltre il ponte quasi totalmente coperto dall'acqua. Per un breve istante, la Mercedes si fermò e parve che tornasse indietro poi, simile a un cavallo in corsa, riprese la sua marcia in avanti e ar-
rivò sulla riva opposta. Dietro la grossa macchina, il ponte scricchiolò sinistramente come se fosse sul punto di crollare. Il bosco era ormai vicinissimo. Le due donne udirono tutta una serie di urla che non avevano nulla di umano. «Guardate!», esclamò Luna. «C'è un'auto che sta transitando sulla strada che conduce al villaggio. Non capisco...» S'interruppe esitando, mentre la Mercedes terminava la sua folle corsa andando a fermarsi dietro la macchina di Oliver. Dal bosco continuavano intanto a provenire delle urla spaventose intervallate da dei momenti di silenzio agghiacciante. Luna, con il viso proteso in avanti, cercò di capire il punto dal quale provenivano poi, munita della sua lampada portatile, si mise decisamente in cammino seguita da Swanhild. Procedeva con estrema decisione, e sembrava che fosse in uno stato di trance, ma riusciva a trovare invariabilmente la strada nel groviglio delle piante e dei cespugli. Man mano che le due donne procedevano, le urla si facevano sempre più chiare e distinte. Nel momento in cui misero piede nella radura, quelle urla mostruose risuonarono terrificanti, frammiste alle grida di Goddard. Luna allora puntò il fascio di luce della sua lampada di fronte a sé, e un silenzio di morte discese sul bosco. 32. Goddard era indietreggiato di un passo, quando Oliver cominciò a ringhiare. Abituato all'oscurità, riusciva a distinguere i movimenti del suo compagno: questi si rannicchiò su se stesso in un atteggiamento minaccioso, e il giovane rammentò allora le parole che ripeteva Kate Stringer mentre delirava: «Qualcosa di grande come una casa...». Gli occhi di Oliver brillavano nel buio sinistramente. I due uomini rimasero per un breve istante a guardarsi reciprocamente. Paralizzato dall'orrore, Goddard non faceva alcun gesto: poi, le pupille sbarrate di Oliver si fecero rosse e fosforescenti. A questo punto, Goddard fece istintivamente un balzo di lato e protese davanti a sé la coperta, trattenendola saldamente per l'estremità. Immediatamente venne ridotta in brandelli, mentre nell'aria si elevava un urlo bestiale, e un corpo immenso gli piombava addosso. Goddard fece un altro balzo, ed ebbe il tempo di arrotolarsi un pezzo di coperta attorno al braccio artificiale. Gli occhi rossi gli si fecero maggior-
mente vicini: Goddard si protesse la gola con il braccio valido, poi mise avanti l'altro nel momento in cui andava a finire per terra sotto l'impatto di un urto tremendo. Coricato sulla schiena, si mise a combattere disperatamente, pur sapendo che non sarebbe riuscito a fare altro che a ritardare il triste epilogo di quella situazione. Continuava a cercare di fermare quei denti terribili che cercavano di azzannargli la gola, mettendo avanti il braccio con la protesi ma, a un certo punto, le zanne diaboliche riuscirono a mordere il braccio valido, dilaniandolo in un modo spaventoso. Goddard cercava in tutti i modi, con i piedi e con le gambe, di allontanare quel corpo che lo costringeva supino sul terreno: la coperta, anche se ridotta a brandelli, riusciva ancora a proteggerlo in qualche modo ma, alla fine, le dita avide e adunche di quell'essere, trovato un appiglio, strapparono le vesti del giovane e si misero ad artigliargli il petto, mentre si alzava alle stelle un urlo di trionfo che fece vibrare il terreno sotto la sua testa. Con un ultimo sforzo disperato, Goddard riuscì a liberarsi il braccio ferito. L'urlo cessò bruscamente e, nel silenzio che seguì, Goddard, il cui cuore pareva sul punto di scoppiare, udì il braccio artificiale che scricchiolava sotto la morsa di due mascelle implacabili. In quel momento un raggio di luce lo accecò: chiuse gli occhi, e scivolò nell'incoscienza. Riprese conoscenza quasi subito... Dal braccio ferito gli stava colando sul viso un liquido denso. Il suo braccio artificiale, strappato via e schiacciato, era trattenuto solo da alcuni brandelli della coperta che gli pendevano sul petto. Chino sopra di lui, scorse Oliver con i denti digrignati e il volto trasformato in una maschera diabolica. Oliver era ancora inginocchiato con le palme delle mani posate sul terreno e le dita insanguinate percorse da contrazioni spasmodiche. Luna, con la mano sulla fronte di quel disgraziato, si sforzava di tirarlo indietro. Non riuscendovi, indirizzò la luce della sua lampada proprio sul viso del Mostro. Goddard non sarebbe mai più riuscito a dimenticare quello che vide in quel momento! Il suo amico pareva posseduto dal Demonio, e si era tramutato in una creatura feroce. Aveva i capelli dritti e le orecchie allungate e ripiegate all'indietro, mentre il labbro superiore era contorto in un ghigno diabolico. La bocca, coperta di sangue e di bava, era larga sino alle orecchie: le mascelle erano protese, i denti - digrignati - erano pronti a mordere e, nella parte superiore del volto, contratta e rimpicciolita, l'unica cosa che risaltava erano gli occhi fiammeggianti. Sembrava un lupo fantastico, alla
cui naturale ferocia si unissero la forza di cento uomini e la potenza di un Demone. Poi, piano piano, il volto di Oliver si trasformò nuovamente. I suoi occhi persero quella particolare fosforescenza e si riempirono d'orrore, le sue mandibole si distesero, la fronte e le orecchie ridiventarono normali, e i suoi capelli ripresero la piega consueta. Questa metamorfosi non durò più di qualche secondo. Quando Swanhild, che seguiva Luna a una certa distanza, li raggiunse, Oliver, nonostante il sangue che aveva sulla bocca e sulle mani, aveva riacquistato il suo aspetto normale. Però conservava ancora un'aria di stupore e di terrore. Swanhild corse a inginocchiarsi accanto a Goddard. Con estrema lentezza, Oliver si rialzò, senza abbandonare con gli occhi Luna che stava esaminando la testa del suo amico. Poi gli si avvicinò e disse con voce assolutamente priva di ogni inflessione: «Sono sicuramente diventato pazzo! No: questo non è un sogno... Ho ucciso Goddard!». «Ma no, vecchio mio!», gli disse in quel momento quest'ultimo con voce che voleva essere rassicurante. «Ero soltanto fuori combattimento per un momento.» Swanhild strinse forte il fratello tra le braccia, costringendolo ad abbassare le mani contratte. «Non sei pazzo, caro, e non lo sarai mai!», gli sussurrò all'orecchio. Poi lo abbracciò ancora di più, e si alzò sulla punta dei piedi per baciarlo. Su una guancia le rimase un po' di sangue, e lui la guardò con aria cupa. «Hai del sangue sulla faccia, Swan...», mormorò. Liberatosi un braccio, si guardò attentamente le dita ricoperte di sangue, poi le portò alla bocca e le ritrasse ancor più insanguinate. «O sono diventato pazzo, o sto sognando», mormorò. «Ho sentito il Mostro che arrivava... poi si è impadronito di me e ha cercato di sbranarti con i miei denti! Per l'amor di Dio... ditemi che non sono pazzo!» «Tutto questo non ha nessuna importanza, amico mio!», gli disse Goddard, stringendogli una mano per fargli coraggio. «Tu non sei assolutamente responsabile di quello che è successo, e poi non si verificherà più...» «E tu come fai a dirlo? Cosa ne sai?», domandò Oliver sconcertato e sorpreso. «Forse che è già accaduto prima d'ora?» «Decine e decine di volte... ma non si poteva addossare la colpa a nessuno. Ora non pensarci più, e non prendere la cosa troppo sul tragico.» Oliver si riprese la testa fra le mani, poi guardò Luna.
«Molto presto impazzirò...», dichiarò con estrema calma. La giovane donna gli si fece vicina. «Mr. Hammand», disse scandendo bene le parole mentre con gli occhi sembrava voler scendere fin nel profondo del suo essere, «penso che a questo punto sia meglio dirvi tutto. Voi non siete pazzo, anche se avete assalito Mr. Covert come un lupo affamato, nello stesso modo in cui avete assalito Kate Stringer quindici giorni orsono...» «No, Luna... vi prego...», mormorò Swanhild. «È molto meglio e caritatevole dirgli tutto in una volta sola», replicò Luna inesorabilmente. «Il Mostro non è mai esistito, Mr. Hammand: è solo una creazione della vostra mente!» Swanhild teneva sempre il fratello tra le braccia, mentre Goddard gli stringeva le mani. Ogni ulteriore parola a quel punto era inutile. Bisognava soltanto convincere Oliver che i loro sentimenti nei suoi confronti non erano mutati. La voce della spiritista si alzò di nuovo nel bosco ormai silenzioso, ed era implacabile come la voce stessa del Destino. «Voi siete vittima della licantropia, Mr. Hammand. È una forma molto particolare di mania ossessiva che spinge il soggetto che ne è colpito a immaginarsi di essere un lupo e a comportarsi di conseguenza. Questa tara mentale spesso ha un andamento epidemico. Nella vostra famiglia in particolare, è ereditaria, e si manifesta quando il soggetto si trova in un bosco di pini o di abeti, in una notte fredda e piena di stelle e, soprattutto, con una sola persona.» «Ah!», esclamò a quel punto Goddard. «Ecco cos'è che non sapevo!» «Io immagino di essere un lupo...», mormorò Oliver riflettendo intensamente. «Ah... adesso ricordo. Questi esseri si chiamavano wehrwolves, non è vero?» «In tedesco, sì», rispose Luna. «Nell'antica lingua inglese invece si chiamavano turnskins e, in francese, loup-garou. In francese antico il nome esatto era garoul, proprio come nell'iscrizione della stanza segreta.» «Comincio a capire...», disse Oliver con voce neutra. «Da quando ne siete al corrente tutti?» «Da lunedì», rispose Swanhild. «Dalla notte scorsa», disse a sua volta Goddard. «Io invece», confessò Luna, «ho capito tutto quando ho visto il quadro nella chiesa.» «Proprio il giorno in cui siete arrivata, allora?», domandò Oliver.
Parlava con molta calma, e questo fatto faceva apparire ancora più spaventoso il suo volto coperto di sangue e il grosso livido che gli aveva procurato Goddard quando cercava di divincolarsi. «Quindi avete sempre saputo che andavo soggetto a queste crisi di follia cannibalesca», chiese ancora il giovane Hammand, «che i miei avi mangiavano i loro simili, e che i miei figli avrebbero fatto le stesse cose? Voi sapevate che ho aggredito e quasi divorato una donna proprio in questo luogo?» «Sapevo che erano degli atti non dipendenti dalla vostra volontà, ma causati da un peccato commesso da uno dei vostri antenati circa tremila anni orsono», rispose Luna. «Siete gentile a trovare delle scusanti al mio comportamento... Oh, so bene cosa è accaduto tutte le altre volte: mio nonno ha ucciso la signora che aveva condotto nel bosco, e il Mago stava cominciando a mangiare suo figlio... Comunque penso che, un po' alla volta, mi ci abituerò... Ma qui fa freddo!», concluse. «Possiamo anche andarcene. Dobbiamo chiamare il medico per farti curare il braccio. Goddard.» Detto questo, s'inoltrò nel viale ombreggiato dai pini. Swanhild gli corse dietro e fece passare un braccio sotto quello del fratello. Lui la guardò a lungo in silenzio. «Sapevi già tutto da una settimana!», mormorò alla fine con un lungo sospiro. «Ma ti assicuro che io sarò l'ultimo a soggiacere a questa maledizione!» La fanciulla non rispose, ma si strinse maggiormente contro di lui. Luna e Goddard seguivano i due con in mano le lanterne. 33. «Aspettate un momento!», disse Goddard, avvicinandosi alla vettura. «Bisogna che pensiamo quale spiegazione possiamo dare delle nostre ferite. Swanhild, prendi la bicicletta e gettala con violenza sulla strada davanti all'auto. Capite cosa ho in mente? Ho avuto un piccolo incidente causato da uno scontro con la macchina di Oliver, e da qui il mio braccio schiacciato e il sangue. Siete d'accordo?» Swanhild fece immediatamente quello che aveva suggerito il suo fidanzato. «Suppongo che Oliver salirà sulla Mercedes insieme a Swanhild. Voi, Miss Bartendale, sapete guidare la Maxwell?»
Mentre attraversavano la valle, Goddard fece partecipe Luna di quanto aveva scoperto. Nell'altra macchina intanto, Oliver stava contemplando in silenzio le mani sporche di sangue che teneva abbandonate sulle ginocchia. Quando le condizioni della strada le permettevano di togliere una mano dal volante, Swanhild gliele stringeva affettuosamente. A un certo punto, lui sollevò gli occhi e la guardò. «Ora mi è tutto chiaro...», mormorò, mentre nella voce gli vibrava un'infinita tristezza. «L'unica cosa importante è che tu non abbia cambiato modo di pensare nei miei confronti...» «Nessuno di noi è cambiato, Oliver», rispose la ragazza. L'uomo fece un sorriso pieno di scetticismo. «Sai bene che questo non è possibile, Swan. Tanto vale che mi rassegni sin d'ora...» Nella via centrale del paese, vi erano alcuni gruppi di persone che sembrava stessero tornando dallo stesso luogo. Presi dai loro pensieri e dalle preoccupazioni, i quattro amici non notarono niente d'insolito. Nel giardino e nell'atrio del castello, regnava un vero e proprio caos. Tutti i domestici erano intorno a Mrs. Yorke che stava cercando di convincere un terrorizzato Stredwick a procurarle un mezzo di trasporto per mettersi alla ricerca di sua nipote. Quando arrivarono, si fece d'improvviso un grande silenzio. «Va tutto bene, Mrs. Yorke», annunciò Oliver con voce del tutto normale per non allarmare i domestici. «Si trattava solo di alcuni spiritisti che stavano tenendo una seduta nel bosco e, quando ci siamo recati laggiù per scacciarli, io e Goddard abbiamo avuto un piccolo incidente. Nulla di grave comunque. Se c'è bisogno di andare a cercare il medico, o per qualsiasi altra necessità», aggiunse poi rivolto alla sorella, «mi troverai nella stanza degli Holbein tra dieci minuti.» Luna lanciò un breve sguardo carico di significato a Swanhild e a Goddard. «È meglio lasciarlo solo», mormorò, in modo che Oliver non la sentisse. Un po' più tardi, la giovane donna entrò nella stanza degli Holbein e vide che Oliver era appoggiato al camino sul quale brillava una lampada accesa. Il suo volto, piatto e grigio, sembrava una strana replica del volto di Warlock che si trovava appeso sopra di lui. I lineamenti dell'ultimo Capo degli Hammand avevano perso ogni espressione. Nello stesso modo il Mago doveva aver guardato la moglie annichilita dall'orrore nella stanza segreta.
«E allora?», chiese il giovane con voce volutamente calma e controllata. «Le ferite di Mr. Covert non destano alcuna preoccupazione», disse la spiritista. «Swanhild e mia zia stanno terminando di medicarlo: è inutile che chiamate il medico.» «Siete venuta per rassicurarmi? Oh, Luna... voi sapevate quale sentimento nutrivo per voi! E ora, invece... ora che so questo...» Quasi piangeva mentre le tendeva le mani nell'atteggiamento di un supplice. Quando Luna fece per prenderle tra le sue, Oliver le ritrasse di scatto. «Sono lorde di sangue!», esclamò in tono cupo. «Ma la tua coscienza è senza macchia alcuna!», gridò la giovane donna per scuoterlo da quello stato di disperazione, e cercando di afferrarle. Ma lui le nascose dietro la schiena. La donna non insisté oltre, e poggiò le mani sulle spalle del giovanotto. Col viso tirato e gli occhi pieni d'angoscia, faceva pensare a un bimbo pronto a struggersi in lacrime. «Debbo consolarla», pensò Oliver ma, al momento di stringerla a sé, la realtà che lo circondava lo assalì impietosamente: allora, invece di prendere tra le braccia la giovane donna che amava, staccò le mani di lei dalle proprie spalle. «Luna, io so che», disse dolcemente, «nonostante tutto quello che hai saputo, anche tu condividi quel mio sentimento. Ma, da quando ho saputo ciò che sono, mi sono reso conto che è diventato assolutamente inattuabile, per cui è meglio che tu non mi stia troppo vicina.» La donna indietreggiò, poi si riprese e si sedette tranquillamente accanto al fuoco. Lui le si mise di fronte, poi cominciò a parlare in tono uniforme. «È strano», disse, «ma mi sento calmissimo. È un po' come in guerra: dopo una sconfitta, si era come intorpiditi e del tutto incapaci di reagire. Ho solo vissuto un bel sogno tra la spaventosa realtà del massacro della guerra e quella di questa orribile tara ereditaria.» «Non è una follia, ma solo un'allucinazione.» «Che importanza ha la definizione esatta?» «Le allucinazioni possono verificarsi anche in una persona del tutto sana.» «Può anche darsi, ma questa sfocia nell'assassinio, e porvi termine è un problema che riguarda solo. me. Io sarò l'ultimo anello di questa catena demoniaca.» Luna rimase in silenzio.
«E dire che tu sapevi tutto, mentre io continuavo a bearmi dei miei sogni!», mormorò Oliver avvilito. «Speravo che sarei riuscita a impedire una nuova manifestazione di licantropia. D'altro canto avevo la tua promessa...» «Non devo scusarmi per non averla mantenuta. Nessuno poteva prevedere quell'incidente.» «Date le circostanze, sarei rimasta molto sorpresa se tu mi avessi ubbidito!» «Ci comprendiamo così bene!», sospirò il giovane. «E questo rende la situazione ancora più orribile!» Poi i suoi occhi corsero al ritratto del Mago, e la sua voce assunse un tono di durezza. «Non è giusto! Lui almeno ha avuto la sua parte di felicità: un focolare e dei figli cui voler bene. Ah, se non fossi mai nato!» La giovane donna si nascose il viso tra le mani. «Ma io compirò il mio dovere fino in fondo!», continuò Oliver con estrema determinazione. «Almeno fosse agevole da compiere come in tempo di guerra! Ma dover rinunciare a te! Doverti perdere! Ma cosa stai facendo, tesoro? Piangi?», le chiese gentilmente. «No», rispose Luna attraverso le dita della mani che teneva strette. «Ma, anche se stessi piangendo, sarebbe solo per ringraziare Dio che mi ha regalato l'amore di un uomo come te.» «Ma io non ho nessun merito, naturalmente. Continuerò a vivere per tenere alto l'onore del mio nome, finché la razza non si estinguerà con me.» A questo punto s'interruppe, sconvolto. «Mio Dio! Dimenticavo quei disgraziati di bracconieri: se li dovessero arrestare...» Luna Bartendale guardò il giovane. «Sarebbe il colmo della sventura se fossi obbligato a disonorare i miei antenati e me stesso di fronte alla gente. Mille anni di onta...» Così dicendo, si nascose il viso tra le mani. «Con te avrei affrontato tutto...», mormorò. Luna si inginocchiò davanti a lui. «Oliver, è troppo! Sarò tua, e niente ci potrà separare. Dio ci ha destinati l'uno all'altra, per cui non può farci carico di un passato di vizi e di peccati!» «Pensi che l'avvenire dipenda da noi, cara?», chiese Oliver. «Che importanza ha l'avvenire? I tuoi avi non hanno tenuto in alcun con-
to la maledizione che incombeva su di loro!», rispose la giovane donna. «Ma loro non sapevano... Invece noi lo faremmo deliberatamente, e ci assumeremmo una pesante responsabilità verso i nostri figli, comportandoci così...» «E se anche fosse? In fin dei conti si vive una volta sola!» «In questo momento saresti disposta a dare l'anima e tutto quello che esiste al mondo per rendermi felice, ma io ti amo troppo per poter accettare il tuo sacrificio.» Luna buttò indietro la testa con un gesto d'orgoglio. «Probabilmente questo fa parte del fatto di dover constatare che amo un uomo migliore di me. È un vero supplizio!» «Non sono affatto straordinario come tu pensi», rispose il giovane con aria malinconica. «Avrei fatto molto meglio a non dirti niente dell'amore che nutrivo per te.» «Ma io l'avevo già capito!», ribatté la donna con voce sicura. «Avevo deciso di prometterti di essere tua moglie se fossi riuscita a trovare l'anello che ancora manca alla catena delle mie indagini. Speravo di riuscire a trovare il mezzo per liberarti dalla Maledizione Eterna!» «Oh», disse Oliver, «so di certi chirurghi che riescono a ottenere dei risultati semplicemente meravigliosi, facendo recuperare la memoria agli smemorati e l'intelligenza agli idioti con una semplice operazione sul cervello.» Luna si mise a ridere di cuore. «Sono tutte stupidaggini inventate dai giornalisti! Una malattia mentale può guarire solo a patto di riuscire a scoprirne la causa, e io ritengo di essere riuscita a trovare l'origine della tua. Ma non esaltarti troppo: non è altro che una semplice congettura basata su una parola. Se si rivelerà sbagliata, tu sarai l'ultimo degli Hammand ma, se risulterà invece vera, allora affronteremo quanto ci resta ancora da vivere uno al fianco dell'altra.» Qualcuno si stava avvicinando nel corridoio. Rapidamente, Oliver aiutò Luna a rialzarsi. Quando Swanhild entrò, era seguita da Goddard, con una mano bendata e una manica della giacca vuota, che gli penzolava sul fianco. Insieme a loro c'era anche Mrs. Yorke. «Oliver!», gridò la fanciulla, «Gli Ades sono stati arrestati mezz'ora fa. Ecco perché tutti gli abitanti del villaggio si trovavano per strada quando siamo tornati dal bosco. Will dice che li ritengono colpevoli dell'assassinio della povera Kate!» Il giovane si rivolse a Luna con sul viso uno sguardo disperato.
«Questo mette fine alla questione! La vergogna degli Hammand sta per diventare di pubblico dominio...» 34. Si guardarono tutti costernati, in silenzio. «Ora telefonerò alla Polizia», disse alla fine Oliver. «Quei disgraziati non devono rimanere in prigione un solo minuto.» «No!», si oppose con decisione Luna. «Prima di prendere qualsiasi decisione, bisogna riflettere attentamente. Qualche ora di detenzione non farà sicuramente dei danni irreparabili a quei bracconieri!» «Ma le loro famiglie...», dissero insieme Oliver e Swanhild. «Ammetterete che, se hanno dei guai, se li sono ampiamente meritati. Fra tre ore Swanhild andrà a rassicurare le loro famiglie. Moralmente, sono io la responsabile del loro arresto e, imponendovi di aspettare per queste tre ore, penso solo a me stessa: infatti, in questo affare, sono in gioco la mia reputazione professionale e il mio nome.» «Come sarebbe a dire?», esclamò il giovane. «È la pura e semplice verità!», intervenne Mrs. Yorke. «Infatti dovrebbe confessare il movente che l'ha spinta a distruggere certe prove, e a lasciar sospettare degli innocenti quando, fin dal primo giorno, aveva già scoperto tutto.» Stupefatto, Oliver guardò la spiritista. «Sì», disse con forza Luna quasi con aria di sfida, «c'era un pezzo del tuo fazzoletto di seta nella gola del cane ucciso, e qualcuno dei tuoi capelli sulle sue ferite. Nessun poliziotto avrebbe avuto dei dubbi circa la tua colpevolezza. Io, invece, ho sottratto tutti gli indizi e, quando ho fatto ritorno a Londra col treno, li ho gettati dal finestrino.» Il volto le si era infiammato e i suoi occhi fulgidi come stelle lanciavano degli sguardi di sfida. «Non avrei avuto più pace se non avessi tentato di mettere tutto a tacere», riprese a dire. «Sarei diventata pazza se avessi lasciato perdere la possibilità che avevo intravisto di guarirti. Per concludere, ho assolutamente bisogno di queste tre ore per l'esperimento risolutivo.» «L'esperimento risolutivo?», ripeté macchinalmente Oliver. «Sì, nella stanza segreta», precisò Luna. «Tutte queste tare di origine atavica hanno un principio e una causa. In taluni casi solo Dio può farle cessare con un vero e proprio miracolo. Altre volte invece, permette a una
sua creatura particolarmente dotata di compiere questo prodigio. Io spero vivamente di riuscire a liberarti dalla Maledizione Eterna.» «E allora, per l'amor di Dio, vediamo di farlo subito questo esperimento!», proruppe Oliver. Luna recuperò la sua calma e il sangue freddo che le erano abituali. Quello che si accingeva ora a fare, necessitava di tutto il suo autocontrollo. «Ora vi fornirò una spiegazione per vie generali, poi dovrò fare alcuni preparativi. Ma eccovi la storia della Maledizione degli Hammand, dall'Età del Bronzo fino al Gotterdammerung.» Oliver sedette in un posto in ombra, a destra del camino, dirimpetto alla giovane donna, mentre Swanhild gli si sedeva accanto e gli prendeva una mano: Mrs. Yorke e Goddard erano invece seduti su due poltrone di fronte a loro e completavano il cerchio formato dai presenti. «Verso la fine dell'Età del Bronzo, in Scandinavia», cominciò a dire Luna, «vale a dire circa settecento anni prima della venuta di Gesù Cristo, Sigmund, figlio di Volsung, un vostro antenato, era un grande Principe di quelle terre. Aveva una sola sorella, di nome Signy, che purtroppo rimase uccisa da un lupo durante una partita di caccia, nonostante Sigmund avesse combattuto disperatamente per salvarla. Dopo quella inutile lotta, pazzo di dolore e di angoscia, si lasciò andare a maledire il suo Dio, e fece il voto solenne che, il Giorno del Giudizio Finale, quando gli Eroi fossero resuscitati per combattere a fianco degli Asi le Potenze del Male, lui, Sigmund, sarebbe stato insieme a queste ultime nelle sembianze di un lupo. Noi stentiamo ad afferrare ciò che rappresenta una bestemmia di tal genere ma, a quell'epoca, non era possibile pentirsi in confessione, per cui Sigmund, tornato in sé, rimase ossessionato dal ricordo del giuramento blasfemo che aveva fatto. Lo scenario di quel dramma era stato un bosco di pini in una fredda notte piena di stelle e, molti anni dopo, si ritrovò per caso in un bosco di pini con uno dei suoi figli. L'associazione d'idee influenzò la sua mente, e immaginò che Odino lo avesse maledetto, per cui ebbe un attacco di licantropia. Il ricordo e la suggestione si combinarono tra di loro e fecero sì che suo figlio rimanesse vittima di quella follia. Da quel momento, la licantropia si manifestò in tutti quei suoi discendenti che avevano nel loro subcosciente maggiormente radicata l'impronta delle sensazioni violente provate da Sigmund. Le condizioni in cui si manifestavano questi attacchi erano sempre le stesse, ossia una notte fredda, piena di stelle, e un bosco di pini.»
«Il ricordo dell'odore di catrame bruciato appartiene a questo stesso genere di fenomeni?», chiese Swanhild interrompendo il racconto della spiritista. «Proprio così! Compresi di essere sulla strada giusta quando ottenni quel risultato positivo riguardo a Carver. Sigmund doveva aver senza dubbio consultato i suoi Sacerdoti e aver ritratto la certezza che la Maledizione sarebbe rimasta in eterno legata alla sua discendenza. Un figlio di Sigmund, di nome Hammand, possedeva una stupenda spada di bronzo. Di padre in figlio, questa finalmente capitò in mano a uno della famiglia che venne a fare delle razzie in Inghilterra. Si usavano già delle armi di ferro, ma questo pirata - che si chiamava Magnus Fairlocks teneva tanto alla sua spada, che l'impreziosì con delle piastre d'oro finemente incise, e la volle accanto a sé nel sepolcro quando morì. Una lastra recante il suo nome e quello dei suoi antenati, fu collocata sulla sua tomba, e più tardi, reputando che fosse qualcosa appartenente ai Druidi, venne sepolta sottoterra. La Maledizione del Lupo continuava intanto a perseguitare i discendenti di Magnus, che peraltro ne ignoravano l'origine. La licantropia, abbastanza frequente in periodo medioevale, allora non suscitava l'orrore che desta ai giorni nostri.» «Aspetta un momento!», osservò Oliver. «Ma questa tara non si era estesa a tutti i discendenti di Magnus?» «No. Si vuole che la Maledizione perseguitasse solo ed esclusivamente i Capi della Casata: ciascuno di questi ne attendeva inconsciamente il verificarsi e, anche se con le migliori intenzioni del mondo, i vostri antenati diedero il via al più infausto dei costumi, ossia composero un Ballata che enumerava le condizioni necessarie perché apparisse il Mostro. Poi, non appena l'erede al nome raggiungeva la maggiore età, gli svelavano il senso della Ballata, e veniva effettuata una prova nella stanza segreta alla quale il futuro Capo della Casata veniva sottoposto.» «Ma in che cosa consisteva questa prova?», domandò Goddard, interessato da quanto aveva sentito sino a quel momento. «Accanto alla finestra crescono dei pini secolari, e gli scuri aperti lasciavano entrare la luce delle stelle, per cui le condizioni c'erano tutte affinché il soggetto non potesse sottrarsi al manifestarsi dell'attacco di licantropia. In questo modo, non soltanto i bambini nascevano con una tara congenita, ma li predisponevano anche a subire quel malefico influsso. C'è però un altro punto importantissimo! Coloro che venivano iniziati, conoscevano il
modo per far finire questi attacchi, mostrando all'individuo colpito una luce...» «Com'è che i miei antenati non hanno mai pensato a far sradicare tutti gli alberi di pino dai loro domini?», chiese Oliver. Luna si mise a ridere. «Non sarebbe servito a niente! Infatti, ciò che avrebbero evitato sulle loro terre poteva accadere in qualsiasi altro posto... per esempio sulla strada di Rocamadour. L'Anacoreta convinse i suoi discendenti che, grazie alla sua vita di preghiera e di penitenze, fosse riuscito a scacciare il Mostro e ad allontanare la Maledizione Eterna dalla sua famiglia. Riuscì addirittura a far credere che aveva incatenato quell'essere nel Barrow! La Divina Provvidenza lo aiutò. Tutti quelli che conoscevano la leggenda perirono nella Guerra delle Due Rose, e Dannow finì nelle mani di un Hammand non iniziato che credette alla favola del Mostro rinchiuso nella tomba. Dopo qualche generazione, la guarigione sarebbe stata definitiva se non ci fosse stato Magnus il Mago. Davanti alla polena, la sua memoria atavica si risvegliò - come la tua, Oliver - e, quando le candele della mano di Gloria si spensero, il suo stato di tensione favorì l'insorgere della crisi. In un primo momento pensò di aver liberato il Mostro, ma la luce della lanterna di Slinfold dissipò ogni dubbio e Magnus, sapendo benissimo di essere l'autore del misfatto, si credette posseduto dal Mostro. S'impadronì della spada perché ritenne che il nome del suo antenato potesse servigli come una formula magica ma, in seguito, mentre effettuava degli esperimenti di Negromanzia servendosi di suo figlio come assistente, lo uccise nel corso di un attacco improvviso. Lady Hammand, che era entrata proprio nel momento in cui si stava verificando quell'orribile uccisione, morì sul colpo, mentre Magnus tornava lentamente in un stato di normalità. Lui ebbe sufficiente sangue freddo per non far sapere quanto era accaduto alla gente, ma senza alcun dubbio lo svelò al suo confessore. L'ossessione di quell'evento sanguinoso perseguitò poi i suoi discendenti sino a oggi: d'altro canto, la verità non poteva venire alla luce, in quanto i testimoni di quelle crisi venivano invariabilmente uccisi.» «Ora capisco perché il povero Holder non mi ha avvertito...», mormorò Oliver. «Quella povera bestia avrebbe fatto molto meglio a fuggire... Mio Dio, che orrore! Ma da cosa era stato causato quel livido che avevo sulla testa?»
«Probabilmente devi essere caduto quando hai scagliato il corpo del cane contro l'albero, ed è stata questa provvidenziale caduta con la conseguente perdita di sensi che ti ha salvato dal suicidio. Però, quando sono arrivata io, anche se in maniera confusa, stavi già cominciando a capire cosa era accaduto.» «Hai completamente distrutto il mio magnifico braccio artificiale!», disse scherzando Goddard. «Ora posso anche confessarti che ero assai preoccupato perché non sapevo come fare a non farti cadere vittima di una delle tue crisi. A ogni modo, mi auguro che Miss Bartendale voglia dirci come ha fatto a scoprire tutto.» «Adesso vi spiegherò le mie scoperte secondo un ordine cronologico, in modo che possiate aiutarmi nell'ultimo esperimento.» 35. «Il giorno in cui arrivai, scartai subito l'ipotesi di uno spettro. D'altronde, non mi è mai capitato d'imbattermi in un caso di spettri che riuscisse a reggere a un'attenta analisi. L'unica traccia di «soprannaturale» era la pozza di sangue coagulato nel punto in cui ti hanno trovato steso a terra. Una volta resami conto della tua forza Oliver, ho avuto i primi sospetti quando ho visto il corpo del cane.» «Sei stata parecchio svelta a sospettare di me!», osservò Oliver con un tono che non riusciva a dissimulare una nota di amarezza. «Mentre visitavo la chiesa, avevo già escluso la possibilità di una manifestazione proveniente dalla Quinta Dimensione. Il vero punto da cui partire era il perdono implorato da Magnus: quale mai spaventoso peccato poteva aver commesso? L'ultimo sguardo che gettai al quadro prima di uscire fu di un'importanza decisiva: vi era raffigurato un corpo umano con la testa e le zampe di un cane oppure di un drago... Quella figura mi fece pensare alla licantropia e, peraltro, il senso della Ballata vi si attanagliava perfettamente: "Lo spirito del Mostro di Dannow. / È legato in eterno alla razza...". Se era un delitto commesso contro la natura ad aver provocato quella follia ereditaria, sarei riuscita a liberarti dalla tua Maledizione facendoti subire uno shock? Le nostre prime sedute mi incoraggiarono a proseguire su quella strada ma, dopo quello che sembrava uno scacco al Barrow, svelai a tua sorella tutta la verità e, poiché non ci voleva credere, ti condussi nella stanza se-
greta, ti feci addormentare, e provocai una crisi. Ho voluto approfittare del tuo stato in quel momento per evocare il tuo antenato chiamandolo col nome di Garoul, onde cercare di ottenere da lui delle altre informazioni, ma tutto è stato inutile! L'indomani poi, Mr. Covert ci portò a conoscenza del racconto di Slinfold a conferma della mia ipotesi sulla lastra. Eccola!» Tese quindi una carta a Oliver, che l'uomo lesse ad alta voce. La sua sposa Edith, insieme a Olaf, a Rongwald e a Swanhild, suoi figli, hanno eretto questo monumento alla memoria di Magnus Fairlocks discendente di Hammand, figlio di Sigmund di Volsung. «Questo epitaffio», riprese a dire Luna, «riallacciava tutti voi alla storia di Volsung così come la raccontano nell'Edda. Ma ora vi spiegherò perché la mia ipotesi mi sembra un po' fragile. Ho esaminato al British Museum tutte le leggende riguardanti questa storia, e nessuna stabilisce un rapporto tra un combattimento con un lupo e l'origine della licantropia nella vostra famiglia. Per scrupolo di coscienza ho anche consultato i poemi ispirati da quella storia: uno solo - di William Morris - allude al voto di Sigmund e fornisce una causa logica, ossia la tradizione. Ma forse non si tratta d'altro che di una creazione poetica, ed è appunto quello che voglio andare a verificare. Ecco la storia della Maledizione Eterna. La sua origine? Una bestemmia. E la ragione del suo perpetuarsi? Una tara morbosa nel cervello degli sfortunati discendenti dagli Hammand. Gli effetti poi li conosciamo: vanno dal raptus omicida - per usare un termine scientifico - a un mucchio di leggende e dicerie non certo gradevoli. Per concludere, forse la Maledizione è davvero eterna ma, se il mio esperimento riesce, te ne libererò!» Oliver alzò il capo, e guardò Luna che continuò: «L'esperimento che faremo sarà il seguente: ti riporterò all'Età del Bronzo, Oliver, e ti persuaderò che sei Sigmund, il figlio di Volsung, ma che sei stato perdonato dagli Dèi. Hai capito cosa mi propongo di ottenere?». «Magari riuscissi nel tuo intento...», mormorò il giovane che non osava dare corpo a quella speranza. «Vedi di non essere troppo ottimista!», si affrettò ad aggiungere Luna. «Può darsi che alla fine si riveli un'idea senza costrutto, comunque non dobbiamo trascurarla. Dopo la seduta che terremo nella stanza segreta, se
la crisi che cercherò di provocare non si verificherà, allora sarai guarito definitivamente. In caso contrario, l'ipotesi del voto è falsa, e il problema di quale sarà il tuo futuro, sarà ancora da risolvere.» 36. Alle sette, Luna e Oliver si intrattennero a parlare brevemente nella stanza degli Holbein. «Hai capito bene, Oliver?», chiese la giovane donna. «Non devi aspettarti un miracolo, al contrario di me che, se non fossi veramente convinta di quello che faccio, non riuscirei nel mio intento. Certo che ho un bel peso sulle spalle!» «Tutto questo per te deve essere intollerabile...», mormorò Oliver in tono affettuoso. «Tengo quanto e forse più di te al successo. Ma ora andiamo: i nostri "aiutanti" devono aver finito i loro preparativi. Swanhild e Goddard dovevano fissare dei rami di pino intorno alla finestra per rendere meglio l'atmosfera, e mia zia doveva far trasportare lì il pianoforte. L'ho fatto sistemare nel corridoio fuori dalla porta: una musica adatta ci aiuterà a creare l'ambientazione opportuna.» «Eccoci arrivati al momento che stabilirà se dovrò ancora soggiacere alla Maledizione degli Hammand», disse Oliver gettando uno sguardo disperato al ritratto di Warlock. Poi la voce gli si spezzò. «Oh, Luna...» «Oliver...», mormorò a sua volta la donna, non riuscendo a dissimulare la commozione che provava. Poi gli tese le mani. L'uomo prese tra le sue il volto di lei ma, con uno sforzo di volontà, si limitò a baciarle la fronte, poi si premette sulle guance brucianti le dita sottili della ragazza che amava. «Via!», disse Luna facendo forza su se stessa. «Non facciamoci prendere dalla commozione. Auguriamoci piuttosto che il pentacolo resista...» Swanhild e Goddard stavano aspettando nella stanza segreta. Una volta che Mrs. Yorke si fu seduta al pianoforte, tutti e tre si misero a seguire attentamente le mosse di Luna. Il vento, l'odore della resina dei pini, il movimento dell'acqua nel serbatoio, tutto concorreva a creare lo scenario fatale agli Hammand. Quando Oliver si fu seduto sulla poltrona che era stata sistemata all'interno del pentacolo, la spiritista ripassò con cura col gesso le linee che erano semicancellate. «Ricordati che non devi assolutamente oltrepassare queste linee!», disse
Luna guardando attentamente il giovane. «Ora guardati attorno: ci sono i pini, la luce delle stelle si insinua attraverso la finestra, il vento spira gelido e... sei solo con una persona, garoul Hammand!», concluse, facendo segno a coloro che stavano intorno a lei di tirarsi in disparte e velando la luce della lampada con un panno. Swanhild e Goddard, seduti su un gradino della scala, non riuscivano a vedere più nulla, e tutto rimase in perfetto silenzio per qualche istante. Luna stava del tutto immobile, con i denti stretti e le palme bagnate di sudore. Di colpo, due punti rossi apparvero nella massa scura costituita dal corpo di Oliver seduto sulla poltrona. Un urlo demoniaco echeggiò lugubremente! Senza por tempo in mezzo, Luna tolse il panno dalla lampada e la camera fu illuminata. L'urlo si troncò a metà mentre in piedi, nel pentacolo, Oliver si contorceva col viso stravolto. «Ora siediti e dormi!», gli ordinò Luna facendo un gesto imperioso con una mano. Il giovane ubbidì e le sue palpebre si chiusero. Allora la spiritista chiuse le imposte e cominciò una strana litania. Lo riportò all'epoca di Warlock e delle piastre d'oro poi, finalmente, gli mise in mano la spada di bronzo dicendogli che era il figlio di Sigmund del quale gli fece rivivere tutta l'esistenza dalla battaglia col lupo fino alla morte. Completamente preso da quei ricordi, Oliver viveva intensamente ogni particolare di quella vita così lontana nel tempo. A un certo punto, Luna si animò: la sua voce assunse una cadenza più rapida, e la stanza sembrò essere pervasa da un'enorme quantità di suoni dolci e suadenti. «Sigmund, figlio di Volsung, che hai fatto il Voto del Lupo, stai bene a sentire ciò che ti dico!», cominciò. «Ti ascolto! Io, il Re Sigmund, figlio del Re Volsung, che ha fatto il Voto del Lupo, ti ascolto!», rispose il giovane con voce solenne. «Sigmund, tu sei morto sulle rive di uno strano paese, durante una battaglia in cui ti ha ucciso lo stesso Odino», continuò la spiritista. «Quel vecchio avvolto in una grande nuvola grigia che mi ha ucciso era proprio Odino!», disse Oliver, sempre seduto sulla poltrona all'interno del pentacolo, seguendo con attenzione ogni mossa di Luna. «Sai chi si curvò sopra di te al momento della tua morte, Sigmund?», domandò ancora la giovane. «La mia Regina... Hyiordis!», mormorò Oliver con voce divenuta improvvisamente fioca. «Ahimè! Adesso tu sei morto, Sigmund!», disse Luna.
Subito, Oliver si accasciò sulla poltrona, e allora la voce della spiritista si rifece vibrante: «Ora svegliati, Sigmund!», gli ordinò. «Figlio di Volsung, stai a sentire: gli Dèi ti chiamano! Alzati e raggiungili!» «Vengo!» Galvanizzato da quelle parole, Oliver balzò in piedi, Mrs. Yorke cominciò a suonare la Cavalcata delle Walchirie, in accompagnamento alla voce limpida e dolce della nipote che stava recitando una sorta di nenia incantatrice. Gradualmente, la giovane donna evocò l'arrivo nel Walhalla dell'Eroe caduto sul campo di battaglia, e la sua vita tra le delizie di quel paradiso, poi il Gotterdammerung, quando gli Einherar si erano lanciati nel conflitto finale tra le forze del Bene e del Male. «Datemi la corazza, il cinturone, la spada e l'elmo!», ordinò Oliver con un gesto della mano. Poi si abbandonò a una sorta di pantomima quasi che si stesse equipaggiando per un combattimento, brandendo innanzi a sé uno scudo immaginario. «Guarda!», riprese a dire la voce suadente di Luna. «Gli Einherar, i tuoi pari, escono dal Walhalla al seguito dei loro Dèi. Sigmund, perché tu solo sei lì fermo ad aspettare?» Un'espressione allo stesso tempo di orrore e di angoscia, si dipinse sul volto di Oliver. Il suo impulso ad avanzare si arrestò di botto. «È a causa del Voto del Lupo!», continuò la spiritista. «Una volta tu hai desiderato di essere un lupo il Giorno del Giudizio Finale...» Indeciso, l'uomo stava immobile in un atteggiamento goffo e irresoluto. «Sigmund: tu non puoi unirti agli Einherar! Se vuoi prendere parte alla battaglia, il tuo posto è tra i lupi! E sarai tu a dilaniare la gola di Odino, secondo la promessa che hai fatto, poiché tu sei posseduto dal Lupo, figlio di Volsung!» All'udire quel nome, Oliver si rannicchiò per terra all'interno del pentacolo, con tutti i muscoli contratti e i denti digrignati. 37. Luna riprese la sua monotona litania incantatrice. «Stanno passando tutti gli Einherar: Volsung, Sigfried, i tuoi fratelli e i
tuoi nonni. Ma ecco anche i tuoi figli, Hegli e Hamandr: loro non hanno bestemmiato come te!» Sembrava che gli occhi di Oliver vedessero veramente ciò che la donna andava descrivendo. Adesso rassomigliava completamente a un lupo, con le palme delle mani appoggiate contro le linee del pentacolo quasi che le stesse costituissero una barriera insormontabile. Il suo volto era madido di sudore, e sembrava che in lui fosse in atto una lotta spaventosa. Swanhild emise un gemito, e allora Goddard le cinse la vita con un braccio e le coprì gli occhi attirandosela contro il proprio petto. «Ecco i Re di Danimarca, di Norvegia e di Svezia...», riprese a dire Luna, inesorabile. «Tutti gli Eroi delle Terre del Nord stanno arrivando! Soltanto tu, Sigmund, non puoi unirti a loro e devi rimanere qui!» Oliver si aggirava all'interno del pentacolo come un cane arrabbiato, tremando, sbavando, gemendo, e urlando in preda a un furore parossistico. «Guarda Sigmund: stanno cavalcando in direzione del mare. Ecco Odino che distrugge ogni cosa intorno a sé con la sua tremenda spada a doppio taglio, ed ecco il martello di Thor che cade e ricade facendo sprizzare il sangue dei suoi nemici! Guarda come combattono gli Einherar!» Ora la musica era cessata, e non si udiva altro rumore che la voce di Luna accompagnata dal mormorio dell'acqua nel serbatoio e della brezza che soffiava attraverso la finestra. «Fenrir il Lupo ha azzannato Odino alla gola! Adesso Odino è morto, e Sigmund non è stato in grado di difenderlo, incatenato dal peccato che ha commesso! Guarda, guarda ancora! Gli Dèi sono stati sconfitti, e i Figli del Fuoco hanno vinto l'Ultima Battaglia! Surtar chiama la Montagna di Fiamme che ora ricopre tutta la terra. Il mare è scomparso in mezzo a turbini di vapore, le fiamme divorano i corpi degli Dèi morti, e gli Einherar vengono a strisciare sotto le mura del Walhalla... La terra trema, il cielo si arroventa, e il Sole e la Luna cadono nell'immenso braciere sottostante... Soltanto Yggdrasil, il Frassino Sacro, è ancora in piedi: gli Dèi sono tutti morti!» A queste parole le note del Crepuscolo degli Dèi si alzarono nel corridoio in un crescendo maestoso. Oliver si era accasciato all'interno del pentacolo, terrorizzato da quella melodia funebre, mentre la voce di Luna si abbassava sempre più. Anche la memoria di Swanhild parve ridestarsi in quel momento di intensa emozione: quell'evocazione stava diventando reale! Aveva completamente dimenticato suo fratello, e stava rivivendo la Caduta degli Dèi e la fine dell'Universo, così come l'avevano immaginata i suoi antenati migliaia
di anni prima. «Ma, un momento... Guarda, figlio di Volsung!», esclamò all'improvviso Luna con voce trionfante, mentre la musica cessava. «Guarda il Frassino Sacro e guarda la terra: il ghiaccio si scioglie, si tramuta in un fiume, e un nuovo Sole risplende nel firmamento più brillante di prima. I fiumi ridonano il verde al mondo riarso, e gli alberi si ricoprono di gemme. È primavera! La terra è risorta!» Gli occhi rossi come tizzoni di Oliver fissavano attentamente la giovane donna. «Guarda!», gridò questa. «Chi è che cavalca sulla terra nata a nuova vita? I cavalli scalpitano gioiosi, le bardature risplendono, le voci degli Eroi risuonano allegramente: gli Einherar sono risorti! E chi è alla loro testa? Lo stesso Odino e, con lui tutti gli altri Dèi! Gli Dèi sono tornati! Ora Odino chiama a sé i suoi diletti Eroi... Alzati, Sigmund, perché il primo dei chiamati è proprio colui che fece il Voto del Lupo e lo espiò rimanendo solo nel Giorno del Giudizio. Sei stato perdonato, Sigmund! Alzati e vai a raggiungere gli Asi e gli Einherar nel nuovo Walhalla!» Quindi tacque, e Goddard emise un piccolo grido. «Guarda Oliver!», mormorò, rivolto a Swanhild. Nel pentacolo, il giovane si era rizzato sulla punta dei piedi, pieno di energia, col petto gonfio, il mento proteso in avanti, e le mani giunte in atto di adorazione. Il suo volto recava ancora l'impronta del lupo, ma gli occhi gli erano diventati nuovamente umani. Poi, i lineamenti animaleschi scomparvero in un istante. Oliver si ritrovò del tutto umano. Sembrava ancora più forte e più bello, e i suoi occhi persi in un'estasi mistica sembravano riflettere la luce di un altro mondo. «Sono stato liberato e perdonato!», gridò rivolto al cielo. «Ti ringrazio, Odino, Padre di noi tutti! Sono stato perdonato per sempre! Il lupo che era dentro di me è morto, e non rinascerà mai più!» Era talmente splendido e raggiante che Luna appariva quasi insignificante rispetto a lui. Per un breve istante la donna tremò e si fece indietro, poi si riprese. «Svegliati, Oliver degli Hammand!», ordinò con voce sicura. L'uomo nel pentacolo rimase per un po' con gli occhi chiusi, poi, dopo aver sbattuto un po' le palpebre, li spalancò. «Cos'è successo? Cosa c'è?», chiese, guardando intorno a sé, confuso.
«Stavi per addormentarmi...» «Salite la scala!», ordinò Luna a Swanhild e a Goddard. I due obbedirono senza discutere. Era il momento decisivo! «Adesso proverò a stare sola con te, sotto i pini e alla luce delle stelle...», spiegò a Oliver che la guardava interrogativamente. Così dicendo, aprì le imposte e coprì la lampada con il panno. Nell'oscurità che avvolse la stanza, tutto era silenzio. Swanhild strinse il braccio di Goddard fino a fargli male, e pregò con tutto il cuore per la buona riuscita dell'esperimento. «Come risplendono le stelle!», si udì finalmente dire dalla voce di Oliver, del tutto calma. «Non capisco! Pensavo che tu volessi tentare di farmi venire una crisi di licantropia, e invece stai cercando d'ipnotizzarmi... Mi ricordo che stavo seduto in quella poltrona... mentre adesso sono in piedi... Sono terribilmente sconcertato...» Tacque, esitando. L'acuta fragranza dei pini pervadeva la stanza. Luna distingueva oltre l'inferriata i punti luminosi delle stelle alte nel cielo. «Pini, stelle, e una sola persona con te, garoul Hammand!», gridò improvvisamente. «Mio Dio! Ora ricordo!», esclamò Oliver. «Stai forse cercando di trasformarmi in lupo? Ma io non provo nient'altro che una sensazione gradevole: fa fresco e percepisco una lieve fragranza... Ma se ti fossi sbagliata? Forse, se mi trovassi nel bosco... È tutto così confuso... Sto forse impazzendo?» «No, sei guarito!», gli disse dolcemente Luna. Poi scoprì la lampada e lo guardò con gli occhi raggianti. «Sei guarito!», ripeté. «Per la prima volta nella tua vita sei un uomo normale!», concluse con la voce spezzata, ma fermamente decisa a non piangere. «Ah, ora ricordo!», la interruppe il giovanotto. «Dobbiamo avvisare la Polizia.» 38. Swanhild, Goddard e Mrs. Yorke, fecero il loro ingresso nella stanza tranquillizzati. Lo sguardo di Oliver non si staccava da Luna che era appoggiata contro la finestra mentre la brezza le agitava i capelli ricci sopra agli occhi, le cui pupille erano enormemente dilatate. «Devi essere esausta, tesoro!», le disse con sollecitudine Oliver. «An-
diamocene da questa stanza.» Così dicendo, le offrì il braccio, mentre gli occhi gli splendevano di una gioia incontenibile. Luna gli strinse le mani con forza. «Che importanza hanno le prove che ancora ci attendono, se saremo in due ad affrontarle?», mormorò il giovane. Si mossero in silenzio, quasi dimentichi del fatto che lì insieme a loro ci fossero delle altre persone, e arrivarono in cima alla scala. «Di tutti noi sono sicuramente io la più sconvolta», osservò Mrs. Yorke. «E questo probabilmente perché sono la meno coinvolta in questa situazione.» «Quello che dite è assai profondo», rispose Goddard, che stava chiudendo le imposte della finestra. Davanti alla porta, nel corridoio, Walton stava passeggiando nervosamente, ancor più terrorizzato che non la prima volta che c'era stata l'ispezione nella stanza del Mago. «Che c'è, Walton?», domandò Oliver, trattenendo le delicate mani di Luna che volevano staccarsi dalle sue. «Ha telefonato l'Ispettore Burrell, Signore», rispose il maggiordomo. Le dita di Luna si contrassero sul braccio di Oliver. Lui le sorrise per rassicurarla, ma i suoi occhi erano disperati. «Benissimo, Walton! Che venga, perché ho bisogno di parlargli subito!», ordinò. Il maggiordomo si allontanò. «Sia per gli Ades che per noi, è meglio farla finita subito!», disse il giovane. «Swanhild, prendi la macchina e vai a rassicurare le loro mogli. Goddard, tu vieni con me. Per quanto ti concerne, mia povera cara», concluse rivolto a Luna, «preferisco che tu aspetti nella stanza degli Holbein». La giovane donna obbedì senza protestare, e Swanhild fece i gradini della scala di corsa. Guardando i ritratti di suo padre e di sua madre, la ragazza ringraziò Dio che fossero morti. Ma ora, cosa avrebbero fatto a Oliver? L'avrebbero considerato alla stregua di un pazzo pericoloso? E che ne sarebbe stato di Luna che si era tanto prodigata per salvarlo? Mentre stava per aprire la porta della stanza degli Holbein, Swanhild scorse Goddard e suo fratello fermi presso il telefono che si trovava nell'atrio. Poi Oliver lasciò cadere il ricevitore e fissò l'amico, pallido in volto. «Goddard!», mormorò. Quest'ultimo lo prese allegramente per un braccio, e ambedue, emozionatissimi, entrarono nella stanza. Luna si allontanò dal camino al quale era
appoggiata contemplando le fiamme che crepitavano tra gli alari, e sorrise a Oliver con labbra tremanti. «Gli hai detto tutto, caro?», domandò. «Non ce ne è stato bisogno, grazie a Dio!», rispose Oliver. «Ma lasciate che vi racconti!», gridò Goddard, chiudendo la porta dietro di sé. «Gli Ades non sono stati arrestati per il fatto del Mostro, ma solo perché la notte scorsa hanno ammazzato sei coppie di fagiani nella riserva del vecchio Hudson e poi li hanno venduti a un pollivendolo di Steyning. In seguito sono andati in una taverna dove hanno bevuto e hanno chiacchierato un po' troppo... Quindi il nome degli Hammand non corre alcun pericolo e, perdipiù, la Maledizione Eterna è cessata definitivamente!» Gli occhi di Luna cercarono quelli di Oliver per avere la conferma di quanto aveva appena udito. «Sì, Luna, è tutto a posto. Tutto, tranne... quella povera ragazza...» Una mezz'ora più tardi, Goddard si congedò dal resto della compagnia, e Swanhild lo accompagnò sino al ponte levatoio. Rimasero per un po' con i gomiti appoggiati al parapetto a guardare la notte che si stendeva intorno a loro. I boschi e le pianure si allargavano fin dove arrivava lo sguardo, sotto il cielo pieno di stelle l'acqua mormorava dolcemente nei fossati, e le mille piccole voci del vento sussurravano tra le fronde degli alberi tutt'intorno al castello. «Ecco il primo momento di tranquillità dopo tanto tempo!», sussurrò Goddard passando un braccio intorno alle spalle della ragazza che amava. «Non avevo mai provato una felicità come questa! Per la prima volta, posso ammirare una notte stellata, senza l'incubo del Mostro e della Maledizione degli Hammand!», rispose lei, mentre le stelle le brillavano negli occhi. Epilogo L'inchiesta si concluse con un «Non luogo a procedere». La Polizia si dichiarò incapace a risolvere quel mistero, e la morte di Kate Stringer si aggiunse al lungo elenco dei tanti misteri irrisolti di Dannow. Nonostante gli sforzi disperati di Warren, i due Ades non erano mai stati sospettati seriamente. «Ho detto a tutti che è stato il mio insuccesso in questo affare che mi ha convinta a lasciar la mia professione...», stava spiegando Luna a Oliver nel suo salottino di Chelsea, quindici giorni dopo gli avvenimenti narrati.
«D'altronde è proprio quello che, sia i miei nemici che i miei migliori amici andavano dicendo un po' dappertutto... Però trovo abbastanza buffo», concluse, «abbandonare la mia professione in seguito a un insuccesso che ho organizzato io...» «A Dannow», intervenne Oliver, «grazie alle chiacchiere dei domestici, sono tutti persuasi che tu abbia affogato il Mostro in mare! Peraltro ho visto che hai tentato una decina di volte di effettuare degli esperimenti con Swanhild e con Goddard... Non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza per tutto quello che hai fatto per noi!» Luna cercò di sorridere. «Eri decisa a proteggere il nostro nome sin dal primo giorno?», chiese il giovane commosso. «Saresti stata disposta a condividere la nostra onta?» «È stato un impulso irresistibile. Quando ho esaminato il corpo del cane, ancora non si sapeva che ci sarebbe stata un'inchiesta, ma ho sentito che sarebbe stato pericoloso lasciare in giro degli indizi tanto compromettenti. E in macchina, quando mi avete accompagnata ad Hassock, ho percepito che i miei doni stavano svanendo. Ormai ero soltanto una donna come tutte le altre, e Goddard se ne accorse qualche giorno più tardi. Fu allora che decisi che non avrei lasciato nulla d'intentato pur di salvarti.» Oliver l'interruppe improvvisamente. «Oh, Luna! La povera Kate... l'ho sognata l'altra notte... Ma come ho potuto compiere una cosa talmente orrenda?» «Zitto, caro!», disse Luna con voce grave. «Non voglio pensare né rimpiangere nulla di ciò che è stato. Tu sai bene il rischio che ho corso per unire la mia vita alla tua: fai allora in modo che, d'ora in poi, sia sempre serena e felice!» E, rizzatasi sulla punta dei piedi, lo baciò. DIANE DETZER (ADAM LUKENS) I FIGLI DEL LUPO (Sons Of The Wolf, 1961) Prologo Uno sparo echeggiò, nella foresta sotto la sua grotta. George alzò la testa dalle zampe e rimase in ascolto, a disagio. Piegò in avanti le orecchie aguzze e il suo muso fremette. Risuonò un altro sparo; si udivano debolmente in distanza le urla dei paesani e i selvaggi ululati del
suo Branco. L'acre odore delle torce ammorbava l'aria fresca, assieme a quello pungente del sangue che scorreva. Un'altra caccia ai Lupi Mannari... e il sangue che annusava era quello della sua gente! Si levò con un agile movimento e poi si avviò verso l'entrata della grotta: il suo sguardo corse lungo il fianco della montagna. La notte era nera e fredda, e la neve sulla nuda spianata sotto al suo nascondiglio era immacolata. George pensò di sciogliere i muscoli e si mise a camminare avanti e indietro davanti all'entrata della grotta. Era il Solitario lui, e del Branco non gliene ne importava nulla. Ma quella sparatoria era un brutto segno. L'odio per la sua specie, ora completamente risvegliato, si sarebbe sparso nell'intera contrada. Gli innocenti e i non-troppo-innocenti sarebbero stati uccisi. E lui a sua volta sarebbe stato costretto a uccidere per difendersi. La punta bianca della sua coda ebbe un lieve sussulto e la sua pelliccia fremette sopra i muscoli quando si mosse. Da molto lontano poteva sentire una voce che chiamava. A giudicare dai rumori, il Branco si stava sparpagliando, e una parte si stava dirigendo verso la sua direzione. George scrutò l'oscurità della foresta. Ancora nulla. La voce era più vicina. «George! George!» Era Mariana. Dio! Si sarebbe tirati dietro tutti i paesani se non stava quieta! L'avrebbero seguita direttamente fino alla grotta e avrebbero ucciso chiunque della sua specie si fosse mostrato! George non aveva mai dato fastidi ai paesani in tutta la sua vita; ma per gli Esterni, tutti i Lupi Mannari erano uguali. E d'altra parte lui non poteva abbandonarli, i suoi. Si avviò in mezzo alla neve verso la direzione da cui proveniva la voce di Mariana. Era nascosta dietro a un gruppetto di alberi. Si guardava costantemente alle spalle, temendo di vedersi scoperta dalla folla tumultuante. Si girò per gridare ancora il nome di lui. Arthur e Biergratzen erano come al solito con lei. «Sta' quieta!», ringhiò a un tratto, piano, George, uscendo dall'ombra. «Oh, sono così contenta di vederti», esclamò lei. «Silenzio! Si stanno avvicinando! Venite.» Gli spari e le urla dei paesani si mescolavano al ringhiare dei lupi che combattevano in prima linea, guidati dal Capo Kirskanpitan. George si confuse tra le ombre e prese a correre in direzione parallela al fronte di lotta. Gli altri tre compagni lo seguivano in silenzio: Biergratzen si trascinava
pesantemente mentre sentiva sulla schiena i rami bassi dei pini; Arthur di tanto in tanto si girava per guardarsi alle spalle e Mariana correva leggera, ora che aveva scaricato sulle spalle di George l'intero problema. Mentre scendevano dalla montagna, George si fermò spesso per nascondersi e lasciare che gli uomini passassero loro accanto senza mostrarsi. Scendeva con cautela, cercando di non calpestare la neve fresca, ma di seguire il più possibile le orme di altri passanti. «Sai una cosa, George?», disse Arthur dopo che ebbero lasciato allontanare l'ultimo gruppo di paesani. «Non si può tenere tranquilla una donna come Mariana! Dio sa se ci ho provato. È stata lei a incominciare tutto questa volta. Era al Ballo del Castellano, nella Forma Interiore, e flirtava col figlio del Castellano. Lui era abbastanza preso di lei e Mariana, quella stupida donzella, ha pensato che forse non gli sarebbe dispiaciuto unirsi al Branco. Lo ha baciato e, quando lui si è tramutato in lupo, anche lei è cambiata nella Forma Esteriore, e si è avviata con lui attraverso i giardini. Lui è stato uno dei primi a essere ucciso.» Il gergo di Arthur era ormai ben colorito, dato che aveva avuto parecchie centinaia di anni a disposizione per raccogliere modi di dire tratti da vari linguaggi. Il suo muso aguzzo si illuminò in un sorriso e gli occhi gli scintillarono divertiti. George non era divertito. «Mi spiace per Mariana, ma avrebbe dovuto saperlo. Gli Esterni non vogliono mai veramente unirsi a noi, non importa quanto pensino di volerlo. E inoltre, non siamo già in tanti nella contrada? Moriremo di fame se non la smetti di reclutare gente! I conigli si stanno assottigliando è...» «Dove stiamo andando?», chiese sarcastico Biergratzen, scrollandosi di dosso gli aghi di pino. George girò leggermente il capo senza arrestarsi nel cammino e guardò il suo compagno. Biergratzen non era certo molto bello quando si era unito al Branco e tutte le battaglie che aveva sostenuto da allora, non avevano certo migliorato il suo aspetto. Ma era accorto e cauto, per nulla spaventato dagli spari che si udivano nell'oscurità. Aveva visto ciò che gli altri due non avevano notato: George non li stava guidando verso la sua grotta. Non questa volta. «Andiamo dalla Donna», gli rispose George. «Lei nasconderà voi tre e io me ne andrò.» «Come?», chiese Biergratzen. «Non lo so. Ma non mi piace combattere solo per il gusto di farlo, e se
sto qui intorno ancora per un po', i casi sono due: o moriremo di fame o ci sparpaglieremo. Se non ci spareranno prima.» Biergratzen ringhiò. Erano entrambi soldati, o lo erano stati, prima... Annuì. «Vedremo se è possibile farlo per tutti e due allora.» «Ma, George», disse Mariana con un gemito. «Questa è diserzione! E...» «Tu sei una brava ragazza, Mariana», interloquì Arthur, «ma parli troppo. Cos'è questa storia di "andarcene di qui", George?» George sospirò debolmente. Non aveva intenzione di legarsi a quei tre combina-guai, ma non poteva certo rifiutarsi di portarli con sé. «Risparmiate il fiato», disse. «Ne avremo bisogno per attraversare i campi che ci separano dalla casa della Donna.» Avevano girato attorno al campo di battaglia e si trovavano ora tra gli uomini e il villaggio. Istintivamente i lupi si zittirono. L'odore di Quelli Esterni era tutto attorno a loro, odore di odio. Le case erano buie e, lungo tutta la strada del villaggio, porte e finestre erano chiuse, sbarrate. La neve copriva i campi tutto intorno e si ammucchiava contro i muri esterni. Parecchie centinaia di metri dopo l'ultima casa, nascosta da pini secolari, c'era la casa della Donna. Le imposte erano chiuse, ma la porta lasciava aperto uno spiraglio. Udirono il soffiare del grosso gatto bianco, nella neve davanti a loro, che andava intorno tutto preso dalle sue passeggiate notturne. Ignorarono il Vecchio Card. «Card? Sei tu?» «No, Signora. Sono George con altri tre. Possiamo entrare?» La porta si spalancò e la luce cadde sulle quattro ombre che si disegnavano azzurre sulla neve. Il Vecchio Card soffiò ancora e passò accanto a essi guardandoli con distacco. Mariana piegò il capo e annusò curiosamente il gatto, poi alzò il muso per guardare la Donna. Era molto bella e sembrava molto giovane. I capelli neri le scendevano fino alle ginocchia e le bianche mani affusolate si intravedevano tra le pieghe del pesante vestito nero. Era nella sua Forma Interiore, e non c'era dubbio che si era cambiata quando aveva saputo chi erano i suoi visitatori. Per cortesia verso di lei, i quattro lupi si strinsero uno all'altro, e cambiarono, assumendo anch'essi la loro Forma Interiore. George dovette anzi piegare il capo per passare dalla porta; la sua corazza fece tintinnare il metallo brillante contro il cuoio, e la lunga spada oscillò al suo fianco. La piccola forma contratta di Arthur brillò di tutta la cattiveria di cui era fatta e
anche i suoi vestiti spiccarono per la sporcizia dovuta alla vita alla macchia che conduceva. Biergratzen indossava un'uniforme simile anche se diversa e meno antica di quella di George, che ancora portava impressi i colori e gli stemmi del paese per il quale lui e i suoi mercenari svizzeri avevano combattuto prima di essere mutati. Mariana indossava quell'antico abito di satin blu col lungo mantello che aveva quando era arrivata in quel paese per incontrare il suo promesso sposo ed era invece stata presa dal Branco. La Donna indicò ai nuovi arrivati delle sedie, e, dopo, chiusa la porta, versò del tè in grandi tazze. Si rialzò poi le larghe maniche. «Ho sentito degli spari e ho immaginato cosa stesse accadendo.» Si sedette alla tavola e li guardò con curiosità. «Cosa vuoi, dunque, George?», chiese finalmente, fissando i propri occhi grandi, luminosi e neri sul vecchio amico. George rigirò tra le grandi mani la tazza, poi abbassò gli occhi pensieroso. «Ho sentito che voi potete fare grandi cose, Signora», disse, senza guardarla. Lei rise gentilmente. «Una o due cosette, tanto per passare il tempo», accondiscese. Il Vecchio Card chiamò aspro dalla porta. Arthur spinse indietro la sedia e andò ad aprirgli. Il gatto entrò con fare maestoso, la coda eretta. Arthur richiuse la porta con il catenaccio. «A me non sembra che il miglior posto in cui trovarsi di questi tempi sia questo, e dunque...», continuò George quando la porta fu chiusa. La Donna si sporse sulla sedia, restando immobile, in attesa. «Dunque», proseguì George, «ho pensato se voi avreste potuto mandare me...» «E quelli che rimanevano di noi», si intromise rapidamente Mariana. «Tutti noi, insomma», proseguì George, «in un altro tempo e in un altro luogo. È possibile, dite?» La Donna guardò interrogativamente Biergratzen. «Sì», disse lui annuendo e toccandosi una lunga cicatrice sulla guancia. «Vorrei andare con George», confermò. Arthur fece udire un riso secco. «Anch'io ci sto, se la cosa funziona.» «Vi sono vari modi per farlo», disse la Donna pensosamente, come se avessero davanti a loro tutto il tempo. «Potrei semplicemente mandarvi, ma potreste anche arrivarci morti. O potrei semplicemente guidarvi, ma
non sono sicura di dove finireste. Oppure potrei solamente addormentarvi e farvi svegliare in un tempo fissato. Il luogo dovrebbe...» I suoi occhi scrutarono la stanza. I mobili erano molto vecchi e solidi. «Potrei mettervi in una cosa qualunque di questa stanza, dopo avervi trasformati in nebbia. Restereste imprigionati e sareste liberati in un tempo stabilito.» Gli spari ora si erano avvicinati e sembravano più rabbiosi. «Presto!», disse George guardando intensamente la Donna. «Penso sia la soluzione migliore», disse lei. Infilò due dita nella teiera e trasse da uno scomparto delle foglie. Le foglie non sembravano né odoravano come quelle del tè. Toccò Mariana e la ragazza scomparve. La Donna gettò delle foglie verso il vecchio orologio a cucù appeso alla parete. Poi toccò Arthur e il letto nell'angolo. A Biergratzen toccò subito dopo, e le foglie sparirono dentro una pesante cassapanca antichissima. Il Vecchio Card era inquieto al rumore degli spari che ci avvicinavano. «Mi spiace veramente, George», disse la Donna. «Tu e io siamo stati buoni amici.» George la guardò mestamente, appoggiandosi alla spalliera della sedia come se non ci fosse in corso alcuna caccia al lupo e il tempo non fosse limitato. «Pazienza: spiace anche a me. Vi sono grato per il tè e l'amicizia. Non accade spesso che abbia la possibilità di farmi amici coloro che non sono...» Il Vecchio Card si sfregò contro le gambe di George e miagolò lamentosamente. «Così è anche per me. A noi non si offrono molte possibilità. Ma forse in quell'altro tempo sarà più facile farsi degli amici, per entrambi. Forse ci incontreremo, allora», disse la Donna. E George sparì. La Donna gettò le foglie in una cassetta di legno intarsiato, e chiuse la teiera. Lavò le tazze, che poi asciugò accuratamente, riponendole, sempre molto attenta ai rumori che si avvicinavano. Attizzò il fuoco, poi riprese la sua Forma Esteriore; era molto più vecchia, ora, e sfigurata. Il Vecchio Card si strusciò piano contro l'antico cassettone. Bussarono alla porta. «Vecchia, hai visto o sentito del lupi qui attorno?», chiese il Signore del castello, cacciando dentro la testa. Le torce ardevano fumose nella notte fredda.
«No, ci siamo solo io e il Vecchio Card», rispose la Donna, intrecciando con le vecchie dita deformate il filo di lana del lavoro a maglia. «Di qui non è passato certo», disse un altro. «Guardate com'è tranquillo il gatto.» «Andiamo, allora.» Il vecchio padrone chiuse la porta, dopo un freddo cenno di saluto. La sedia a dondolo scricchiolò davanti al fuoco. La Donna continuò il suo lavoro a maglia. In un angolo buio, il Vecchio Card era appoggiato alla cassetta, con un'espressione di tristezza negli occhi. 1. «Tu hai bisogno di una vacanza, Tom», disse Barbara facendo dondolare con negligenza una delle sue lunghe gambe. Tom gettò un'occhiata alla sorella e allargò le braccia come per abbracciare l'enorme soggiorno in legno rosso. Era un ranch molto confortevole tenendo conto che si era nel Ventiquattresimo Secolo, e anche molto costoso. «Non ne ho avute abbastanza di vacanze, facendo i soldi per comperare tutto ciò? Pensi che mi piaccia essere proiettato simultaneamente in tre dimensioni - più grande del vero - nel soggiorno di tutte le case del Sistema Solare, doppiato in cinquanta idiomi diversi?» Barbara alzò gli occhi dal suo libro dalle pagine di plastica color verde pallido. «Cos'hai, Tom? Vuoi dirmelo?», chiese. «E me lo chiedi?» «Vuoi che papà la smetta di cercare per tutta la Terra le sue amate anticaglie? O che Jack mandi all'aria il suo ranch? O che Millicent...?» Tom McGillicuddy - o Tom Gill, come miliardi e miliardi di persone lo conoscevano - batté violentemente il pugno su un mobile. «Non raccontarmi storie! So bene che voi tutti avete bisogno dei miei soldi, che non potete farne a meno! Dio, se potessi essere ancora là e navigare verso le nuove stelle!» Barbara si trovò a disagio per la piega assunta dalla conversazione. Di tutta la famiglia era l'unica che non chiedeva qualcosa a Tom. Viveva nella casa, solo perché i McGillicuddy vi abitavano. Se qualcuno le avesse chiesto un parere, avrebbe risposto che sarebbe stato meglio per tutti loro la-
sciare che Tom tornasse a fare ciò che voleva e abbandonasse il suo lavoro. «Millicent tornerà presto», disse, sapendo bene, però, che ciò non poteva bastare a Tom, ma non trovando niente di più piacevole da dire. Tom camminava avanti e indietro per la stanza. «Sì, tornerà», convenne. Barbara lo osservò in silenzio per un momento. «Molla tutto allora, Tom», disse d'un tratto. «Non hai appena finito di dire che mio fratello Jack, che mio padre e...» «Be', devi affrontarli. Non puoi avere tutte e due le cose. Puoi tornare tra le stelle. Sei tu quello che ha permesso loro di avere tutto ciò. Anche alla tua fidanzata Millicent. Solo...» Tom si girò, con un sorriso compiaciuto e gli occhi sognanti. Barbara attese piena di speranza, ma fu una cosa passeggera. McGillicuddy Senior era entrato dalla porta principale seguito da quattro uomini grondanti sudore sotto pesanti casse. McGillicuddy allungò una mano in gesto teatrale, togliendosi al contempo il cappello. «Sono tornato!», disse. «Lo vedo, papà», rispose Tom, con un mesto sorriso di benvenuto, desiderando soltanto la metà del tempismo drammatico di suo padre e niente della distrazione congenita dello stesso. «Dove possiamo scaricare la roba, signore?», chiese uno dei facchini. «In un posto qualunque! Aspetta anzi...» Non aspettò. La cassa gli scivolò dalle mani e cadde a terra, aprendosi come una banana. Sul pavimento, coperta dalla intelaiatura protettiva, stava una vecchia cassetta di legno intarsiato. Tom la osservò. «E questa a cosa serve?» «Serve? È un magnifico esemplare di...» «Sì, papà lo so, e io con la mia anima materialistica non posso certo apprezzarlo come si conviene», esclamò affettuosamente Tom. I suoi capelli biondi erano scomposti più del solito e, nella foga del discorso, sentiva i tendini del collo tirare sempre più. I facchini, intanto, stavano portando dentro casse su casse. A cena, McGillicuddy raccontò rapito la scoperta che aveva fatto al villaggio sepolto. L'inquietudine di Tom era ritornata, e le sue risposte erano divenute spasmodiche. Lasciò a metà il suo pasto e tornò nel soggiorno. La grande stanza centrale ora era buia e silenziosa: la porta era aperta e la luna splendeva alta nel cielo. Fuori, nella calda notte del deserto, Tom sentiva
come un mormorio di pianeti lontani e gli sembrava di vedere delle ombre, quelle di compagni morti da lungo tempo. Accese una antiigienica pipa e uscì, respirando a pieni polmoni l'aria pura. Le stelle sembravano più vicine qui, e le distanze attorno alla casa gli ricordavano le immensità percorse e la vita alla quale aveva dovuto rinunciare dopo l'ultimo incidente e il ricovero in ospedale. Molto presto sarebbe dovuto tornare a lavorare nella Grande Caverna dove le grandi luci e gli innumerevoli occhi elettronici avrebbero raccolto ogni suo movimento. Poi vide George. George era seduto su una duna di sabbia, e guardava il deserto. Girò lentamente il capo mentre l'altro uomo si avvicinava e agli attoniti occhi di Tom parve di vedere scintillare una spada nel chiaro di luna. L'insoddisfazione del giovane sparì, e la sua mente si mise all'erta di fronte a quella situazione inaspettata. Ma proprio allora la folta barba bronzea dello straniero sparì e le sue spalle possenti si dissolsero, divenendo strette. Solo i grandi occhi blu rimasero inalterati nella nuova forma. Tom si arrestò istantaneamente. Aveva visto molte cose stranissime nella grande galassia ma ecco che qui, nel suo giardino, ve n'era una altrettanto strana. Qualcosa in procinto di filarsela, in verità, a giudicare da quanto aveva visto. «Non andartene», implorò in tono calmo e sommesso. Sporse le braccia con le palme in su, la pipa dimenticata tra i denti stretti, nel segno universale della pace per dimostrare che non era armato e che male da lui non poteva venirne. George esitò, guardandosi dietro le spalle, coi muscoli tesi pronti alla corsa. «Strano», pensò George, «assomiglia un poco ad Arthur, nel parlare.» Guardò ancora la casa con diffidenza. Tom, comprendendo al volo, si avviò verso le colline, camminando con calma, lentamente, parallelo a George. George scivolò attraverso i cespugli, nella stessa direzione, mantenendo la distanza tra loro, ma senza fuggire come aveva avuto intenzione di fare sul principio. Tom pensava, intanto, rapidamente. Aveva potuto solo intravedere la Forma Interiore, ma gli era parsa certamente umanoide. Quest'altra forma, però, era più insolita. Qualcosa come un animale selvaggio. Non un coyote o un cane. Tom frugò nella memoria rapidamente. Un lupo! Buon Dio! Anche nelle dimensioni! Raggiunsero le colline. Una volta bene addentro all'ombra profonda,
George si fermò e si girò. «Chi sei?», chiese, con la parlata piena dell'uomo che conosce parecchie lingue fin dalla nascita. Tom rimase sorpreso e compiaciuto. Dunque, questo umanoide-lupo parlava, poteva comprenderlo! E non sapeva chi fosse lui, Tom! Quest'ultima scoperta a parte il fatto che fosse quasi incredibile data la pubblicità della sua immagine in tutto il Sistema Solare, gli sembrò addirittura piacevole. «Mi chiamo Tom», disse sedendosi sulla sabbia fredda, senza cercare di diminuire le distanze. «Non ti darò fastidio se non vuoi. Abito nella casa là in fondo. Chi o che cosa sei tu?» George meditò su quella domanda. Chiunque, nel suo tempo, vedendo il pericoloso istante del cambiamento, avrebbe saputo cosa era. Era dunque un tempo così remoto che essi non sapevano nulla dei Lupi Mannari? Smise di grattarsi il punto punzecchiato da una immaginaria pulce, e intanto ci pensava sopra. «Mi chiamo George», rispose, e attese. «Puoi cambiarti a volontà da...» (voleva dire, umanoide, ma molte specie si risentivano alla parola) «...da uomo a lupo?» «Certo, non c'è niente di strano in questo», disse George. Questa era una età perfetta. Lui era sconosciuto e dimenticato, lui e la sua intera razza. «Puoi cambiarti ancora in uomo?», chiese Tom. Riaccese la pipa pensando a quanto fosse piacevole quella voce. George ci pensò sopra parecchio. L'uomo Tom non si mosse né gli umani della lontana casa uscirono. Per lui cambiarsi nella Forma Interiore, poteva significare complicazioni, cosa che non era sicuro di essere preparato ad affrontare, almeno fino a che non ne avesse saputo abbastanza su questo futuro e la sua gente. Inoltre, doveva scoprire cosa era accaduto agli altri tre; avrebbero dovuto essere liberati nel suo stesso momento, però lì in giro non c'erano. Non c'era odore della sua gente nel vento. D'altra parte, aveva bisogno di parlare più a lungo con quell'uomo: gli piaceva il suono della sua voce e il vagare dei pensieri di Tom. Si cambiò. Tom, nell'oscurità delle colline, non riuscì a distinguere bene la nuova forma di George. Vide l'enorme sagoma, il debole scintillio della sua armatura e della spada, la pesante catena attorno al suo collo e il grosso anello. «Da dove vieni?», chiese Tom, giocherellando con la sabbia e tirando
forti boccate dalla pipa. George si sedette a gambe incrociate sulla nuda terra: poi si tolse l'elmo. Faceva caldo lì! «Dimmi di te, piuttosto. Che anno è questo?» «Siamo nel 2346. Questa è la parte sud-occidentale dell'America del Nord, uno dei continenti del Pianeta Terra.» George calcolò rapidamente. «Io vengo dall'Europa del 1536; prima ancora anzi, dal 1256, l'anno in cui sono nato.» Attese, mentre i muscoli gli si tendevano. Tom espirò lentamente, in un silenzio stupefatto. Niente astronave, quindi! Quell'uomo o animale, veniva dal suo stesso mondo, dal suo remoto passato. Macchina del tempo? Erano stati fatti degli esperimenti recentemente, ma non aveva sentito che si fosse portato qui qualcuno o qualcosa. E inoltre... «Hai fame?», chiese Tom, riscuotendosi dai suoi pensieri. George ghignò tra sé. Là fuori, sentiva odore di lepri e di altra cacciagione che avrebbero soddisfatto ogni suo bisogno. Un pasto, però, sarebbe stato un'ottima occasione per conoscere questo Tom, per vedere la sua casa e giudicare la sua gente in modo diretto. «Sì», rispose secco. «Bene, vieni. In casa troveremo qualcosa da mangiare. Mio padre è un esperto di storia, grazie alla sua mania per i mobili antichi. Gli piacerà parlare con te.» Tom si alzò lentamente in piedi e si avviò verso casa. Mobili! Pensò George. La sua cassetta doveva essere arrivata qui portata dal padre di Tom, allora. L'uomo forse sapeva che ne era stato degli involucri che racchiudevano i suoi tre amici. Si chiese poi cosa ne fosse stato della Donna e del Vecchio Card, e decise che certamente erano lì in giro, da qualche parte sotto altre spoglie. Dopotutto era molto tempo che esistevano quei due, prima di quando lui si era unito alla razza. Sperò che Mariana non avesse fatto qualche nuova conoscenza, che Arthur non avesse rubato qualcosa, e che Biergratzen non si fosse cacciato in qualche guaio. Quando entrarono nel chiaro di luna, Tom rimase sorpreso dall'eccezionale corporatura del suo nuovo amico. Anche Tom era di costituzione robusta e i suoi muscoli erano ben allenati e vigorosi... ma quell'uomo! Era, poi un uomo? Era enorme! Per un momento Tom sentì un'ondata di ansietà avvolgerlo tutto, proprio
nel momento in cui portava quell'uomo dall'aspetto pericoloso nella sua casa. Poi George abbassò gli occhi su di lui e Tom vide che sopra la folta barba bronzea, gli occhi azzurri erano calmi e tranquilli. Mise da parte le sue paure e si mise a osservare l'armatura metallica del suo compagno e le finiture di cuoio. Poi entrarono nella sala da pranzo. 2. «Buon Dio!», esclamò Jack McGillicuddy, raddrizzandosi di colpo sulla sedia e lasciando cadere il coltello sul tavolo. Poi fissò George con aria sbalordita. Tom si avvicinò al fratello minore. «Vi presento il mio amico George», disse. «George, questo è mio fratello Jack e questi sono mio padre e mia sorella Barbara. Carlyle è il mio agente, e Cragstead il mio manager.» Vi fu un lungo silenzio mentre gli occhi di George correvano dall'uno all'altro, tranquillamente. Gli astanti lo guardavano profondamente stupiti. Cragstead fu il primo a riaversi e a parlare. «Avete mai pensato di apparire in uno show, George? Diventereste famoso come l'Uomo Forte - ma sciocco - che piega le sbarre di ferro con la semplice forza delle sua mani. Ovviamente le sbarre non sarebbero di ferro, ma...» «No», disse George guardando il viso paonazzo del piccolo uomo grasso. «Sta' zitto, Crag», lo ammonì sottovoce Carlyle, togliendosi una lunga ciocca di capelli dalla fronte con dita scattanti. Si era innervosito quando i penetranti occhi azzurri si erano fissati su di lui. «Non mi sono offeso, Carlyle», esclamò George, rispondendo al pensiero dell'uomo, «né sono uso combattere con uomini più piccoli di me.» «Un telepatico!», esclamò con piacere McGillicuddy Senior, fregandosi le mani e appoggiandosi comodamente alla spalliera della sedia. George non aveva mai udito la parola «telepatico», così si limitò a scrollare le spalle, sorvolando sulla tollerante espressione di McGillicuddy per guardare Jack. Jack aveva una strana mescolanza di pensieri in testa che presagivano male per Tom. Erano così complessi e così innaturali quei pensieri, che George distolse gli occhi dopo un momento per guardare Barbara: aveva gli stessi spessi capelli biondi di Tom, il viso sottile di
Jack, e due magnifici occhi verdi; gli sorrise in modo molto amichevole. «Ogni amico di Tom è il benvenuto qui», disse lei, con un tono carezzevole. «Volete sedervi e mangiare qualcosa?» George annuì e Tom andò a uno scaffale attaccato al muro e tornò indietro con un piatto pieno di cibo. Tom era stupefatto. Dopo pochi minuti George aveva già ovviamente fatto amicizia con tutti i suoi ospiti. L'aveva fatto in modo così rapido e accurato, che Tom ne fu compiaciuto e sorpreso. «Può essere telepatia», pensò, «ma di un genere molto rapido e istintivo. Come l'istinto di un animale selvaggio, ma molto più intelligente e complesso.» La precedente vita di George doveva essere stata ben pericolosa per avergli dato tali qualità. «Ci sarà da divertirsi ad avere un tipo così attorno!», pensò. «Qualcuno con un lungo passato, pericoloso quanto il mio!» Qualcuno inoltre che avrebbe portato in quella vecchia casa una ventata nuova. Magari, la presenza di George poteva essere una via di uscita per lo stesso Tom. Chissà! McGillicuddy intanto continuava a parlare, mentre il suo figlio maggiore pensava. George, nel frattempo, stava velocemente e con appetito vuotando il piatto ben pieno. «Avete una bellissima armatura. O meglio, mezza armatura, dovrei dire. Dove l'avete presa? Varrebbe una fortuna per qualsiasi museo.» «Mi è stata data», rispose George, tagliandosi una fetta di pane col suo pugnale, «in battaglia», aggiunse a se stesso. «Anche la spada e il pugnale. E l'elmo! Veramente, non ricordo quando ho potuto vedere simili magnifiche riproduzioni. Perché tali devono essere. Se fossero originali dovrebbero essere molto più rovinate.» Le occhiate che vi lanciava erano piene di desiderio. George si alzò per riempirsi di nuovo il piatto. Non gli piaceva quell'atmosfera di avidità. «So tenerle ben conservate», rispose, tornando a tavola e sorridendo dentro di sé. «Comunque, sono originali.» «Posso vederle?» «No, temo proprio di no.» Le labbra di McGillicuddy si contrassero per l'ira. Agitò le mani. «Perché no? Credete che voglia rubarvele?» «No. Però sono mie. E io non me ne separo.» Barbara a questo punto si intromise, provando un po' vergogna per il padre che mostrava così apertamente di essere tale qual era.
«Starete molto con noi, George? Mi spiace, ma non ho capito il vostro cognome.» Lui alzò gli occhi con un sorriso. «Il mio nome è George Adrian», disse. Non diede il suo nome intero per parecchie ragioni. Una perché veniva da un Paese così lontano che il suo nome era molto complesso da pronunciare. L'altra ragione era che nel suo Paese (e nel suo tempo) era stato Lord Adrian di... ed era passato parecchio tempo da quando si era preoccupato di usare il suo titolo. La terza ragione era che i suoi figli (che aveva lasciato a casa assieme alla moglie tanto tempo prima) indubbiamente avevano avuto dei discendenti. E lui non aveva nessuna intenzione di incontrarli. Barbara si accigliò leggermente. George continuò a mangiare. Tom disse: «Tu parli la nostra lingua con una strana inflessione. Di dove sei originario?». George capì che quello di Tom era un interessamento amichevole. «Parlo moltissime lingue», rispose. Tom non gli fece altre domande. «Spero che resterai con noi per qualche tempo.» Nel frattempo, Cragstead a Jack stavano discutendo sottovoce tra di loro. Cragstead disse: «Non riesco a immaginare da dove veniate, se non venite da qualche compagnia di spettacoli. Non mettono di certo uomini di dimensioni simili alle vòstre nelle astronavi. E non c'è nessuna gara atletica qui attorno. Perlomeno nessuna legale». «Non sono né un ladro né un assassino. Non ne avrei neanche bisogno.» Cragstead lo guardò sospettoso. «Cosa significa "non ne ho bisogno"? Come vi guadagnate da vivere? Cosa fate?» «Vivo semplicemente.» «Sciocchezze! Nessuno si limita a vivere, oggigiorno. Ognuno ha il suo lavoro e la sua carriera, a meno che non sia...» George lo guardò lungamente e profondamente, con occhi calmi e sguardo deciso. Sotto quello sguardo, Cragstead abbassò gli occhi. Si interruppe a metà della frase, sentendosi arrossire e a disagio, vagamente conscio di essersi spinto troppo oltre. «Andiamo, Jack», disse. «Facciamo una partita a carte.» Jack lo guardò con disgusto. Si era aspettato che i commenti di Cragste-
ad facessero tradire George, e ora vedeva che questi non era riuscito a niente. Gli sarebbe piaciuto cercare di far parlare il nuovo venuto, ma decise che avrebbe aspettato un'occasione migliore, quando sarebbero stati soli. Poi i due uomini se ne andarono. Carlyle era rimasto a fissare George per tutto il tempo. A un tratto chiese: «Quella spada, la usate solo come decorazione o l'avete usata anche come arma?». C'era in lui tutto l'interesse di un uomo che sperava in una vita più romantica e che godeva delle avventure degli altri. George si appoggiò alla spalliera e guardò Carlyle con una espressione di pietà. «Oh, sì, ho usato spesso la spada.» «Quanti uomini avete ucciso?», chiese interessato Carlyle. A questo punto, Barbara arrossì fino alla cima dei capelli e lasciò la stanza. Tom fece fatica a trattenersi. McGillicuddy sembrava sufficientemente divertito. «Carlyle!», esclamò Tom. «No, lascia che ce lo dica», disse Jack dalla soglia. Non gli era stato possibile allontanarsi senza tirare almeno una frecciata a George. «Dopotutto, se dobbiamo lasciare che questo straniero viva in mezzo a noi, io per primo voglio sapere fino a che punto è pericoloso.» George si alzò e guardò attraverso la grande stanza il giovane Jack. «Io sono pericoloso solo per quelli che mi ingannano o che minacciano me e i miei amici», disse a bassa voce. Jack gli ricambiò lo sguardo per un attimo carico di elettricità. Poi imprecò sottovoce e se ne andò. George abbassò gli occhi su Carlyle. «Ciò che voi volete veramente sapere è se mi è piaciuto ucciderli. La risposta è no: non mi è piaciuto.» Carlyle rimase interdetto per un momento, poi si riprese. «Ma quanti?» «Non ricordo.» «Mio Dio! Volete dire che avete ucciso così tante persone che non riuscite a ricordarvene?», esclamò Carlyle ammirato. Tom non riuscì più a trattenersi. «Se non te ne vai subito da questa stanza, Carlyle, io...» Ora Carlyle poteva pensare che a George ripugnasse battersi con un uo-
mo di corporatura di molto inferiore alla sua, ma lui e Tom erano più o meno della stessa mole e sapeva che Tom non avrebbe avuto la stessa preoccupazione. Così decise di smetterla. McGillicuddy si alzò e disse con magnanimità: «Penso che se quest'uomo dovrà stare con noi, sarebbe meglio che tu gli mostrassi la sua camera, Tom». «Grazie, papà, lo farò», rispose Tom. «Vuoi restare?», chiese Tom, mentre accompagnava il suo visitatore attraverso la camera ora deserta. «Non sei obbligato se non lo vuoi.» «Sì, vorrei restare, se per te va bene. Ci sono alcune persone che devo trovare e non potrò cominciare a cercarle fino a che non avrò imparato qualcosa di più sul tuo tempo.» «Sarò lieto di aiutarti, se posso. Io e i miei amici dovevamo sempre cercare qualcuno che sapesse come stavano le cose tutte le volte che atterravamo in qualche posto nuovo.» George afferrò il senso della frase e sorrise largamente. Poi guardò le casse ancora chiuse sul pavimento della stanza e si accigliò leggermente. «Dimmi: quando tuo padre portò a casa quella cassetta di legno intarsiato, portò a casa anche altri pezzi di mobilio dallo stesso posto?» «Non dalla stessa casa. Ha preso dell'altra roba da ciò che lui chiama il Castello del Feudatario, ma non è stato abbastanza fortunato da prendere qualcos'altro da quella casa. Disse che ogni cosa là dentro era molto antica, molto più antica di qualsiasi altra cosa nella città e, qualunque cosa fosse, si sa solo che era di un valore inestimabile. Perché?» «Non te lo posso ancora dire. Cos'è accaduto alle altre cose di quella casa?» «Tutto il resto è stato portato via dagli scavatori ufficiali e chiuso in una galleria sotterranea sigillata, in attesa che qualcuno se ne possa interessare con competenza.» «Grazie per non avermi fatto nessuna domanda personale», disse George. «Devo avere tempo di pensare prima di poterti spiegare ogni cosa.» «Credi che sia anch'io come loro?», chiese Tom, teso. «No. Sto cercando di proteggerti fino a quando non saprò come stanno le cose», rispose George con uno sguardo assente, pensando alle tendenze di Mariana. 3.
George era seduto solo ora, nella stanza in cui Tom lo aveva accompagnato, fissando dalla finestra le macchie di luna sulla sabbia del deserto. Una parte della sua mente si stava chiedendo cosa fosse capitato ai suoi amici e come avrebbero fatto a uscire dall'involucro che li racchiudeva. La porta a un tratto si aprì. «Permesso?», disse Barbara, esitando sulla soglia. «Entrate», replicò George, alzandosi in un gesto di naturale cortesia e inchinandosi leggermente. Barbara chiuse la porta. «Non so se voi siete arrivato con l'ultima astronave da uno di quei posti toccati da Tom», cominciò a dire, in fretta. «No. Sono qui da un po' di tempo, ormai», rispose George, chiedendosi nello stesso tempo cosa mai fosse una astronave. «Be', forse voi non avete sentito della nuova carriera di Tom, delle sue difficoltà e...», si interruppe imbarazzata. George per un attimo dimenticò i suoi turbolenti amici. «Vi prego, accomodatevi», disse. «Ascolterò volentieri qualunque cosa abbiate da dirmi.» Barbara attraversò la stanza e si sedette dall'altro lato della finestra. Nessuno degli amici di Tom gli aveva mai fatto visita sin dal giorno... sin dagli inizi. La maggior parte di loro se ne era stata alla larga, sia perché era molto occupata, sia perché non gradiva la nuova posizione di Tom, ma non voleva interferire. Non poteva lasciare che accadesse anche con questo nuovo amico. Tom aveva bisogno di amici. Il solo guaio era che non sapeva come cominciare. «Non so se sapete di Tom», cominciò d'un fiato. «Rimase ferito in un incidente circa sette anni fa. La gente, qui sulla Terra, fece di lui un eroe, ma lui non lo seppe, perché era in un ospedale e... be', quando fu congedato, di viaggi tra le stelle non se ne parlò più. Dal lato economico si poteva dire che non aveva più un cent. E nemmeno noi ne avevamo... Fu allora che Carlyle e Cragstead lo convinsero a entrare a far parte di questa compagnia di spettacoli, prima che scoprisse di essere stato un eroe.» Trasse un profondo respiro, poi continuò: «Tom odia lavorare sotto le grandi luci nella caverna degli occhi elettronici, con la sua immagine e la sua voce teletrasmessa su tutti i pianeti e...». George la interruppe per dire cautamente: «Io non ho mai visto la sua immagine». Barbara lo guardò sorpresa e compiaciuta.
«Tom deve averlo gradito. Ecco: se volete vedere cos'è che lui odia così tanto, stanno ritrasmettendo proprio ora un suo vecchio successo.» Si avvicinò a una parete, a ciò che George aveva pensato fosse un pannello decorativo e, girato un piccolo interruttore, mostrò l'immagine a tre dimensioni, a colori, di Tom nel suo ultimo film, mentre nello stesso tempo poteva udirne anche la voce calda e vibrante. George osservò con molta attenzione. La maggior parte degli oggetti e delle macchine gli era sconosciuta, ma afferrò rapidamente il filo della vicenda. Non era difficile, dato che la storia non era complessa. Tom era l'eroe in una situazione pericolosa e fantastica: girava abbigliato in calzoni aderenti e stivaletti, e stava combattendo contro nemici inimmaginabili con una grande varietà di armi. George rifletté, e tra sé diede ragione a Tom: lui stesso sarebbe rimasto disgustato di quel lavoro. Barbara spense rapidamente lo schermo che tornò a sembrare un pannello. Sul viso di lei erano disegnati disgusto e dolore. Tornò a sedersi sconsolata, e fece un gesto di impotenza. «È mostruoso», disse. George annuì in silenzio. Passò sopra alla spiegazione delle caverne con le grandi luci e gli occhi elettronici (che dedusse doveva essere il luogo in cui venivano fatti quegli spettacoli) e chiese: «Ma Tom perché lo fa, se non gli piace?». «Ve l'ho già detto», rispose Barbara, malinconicamente, accennando intorno a sé per indicare la casa e i suoi abitanti. «Oltre a noi, c'erano i vecchi conti dell'ospedale di Tom che dovevano essere pagati, e la sua ragazza, Millicent, che voleva a tutti i costi un nuovo laboratorio di chimica e i soldi per pagarsi il viaggio per Saturno. Di danaro ce ne vuole parecchio, e...» George inspirò profondamente. «Parlate lentamente per favore. Ho paura che mi considererete un po' tardo nel capire, ma sono rimasto così isolato da tutto per tanto tempo che non riesco ad afferrare il significato della cose.» In un certo qual modo, però, comprendeva molto bene. Barbara si rilassò contro lo schienale della sedia e sorrise debolmente. «Non penso affatto che voi siate tardo nel capire. Forse sono io che... be', voi mi sembrate come Tom quando tornava dalle stelle. Era come se non fosse più capace di capire le cose di questo mondo. Vi capisco, sapete? Altrimenti non starei qui a perdere altro tempo con voi.» George tacque un istante e rifletté. In fondo, questo Tom aveva avuto
una vita pericolosa quanto la sua, poteva dire quindi che loro due avevano molto in comune. Per quanto riguardava l'opinione di Barbara sul fatto che lui non sapeva capire le cose del mondo, be', avrebbe imparato ben presto quanto fosse lontana dal vero. «Non c'è nessuna via d'uscita per Tom?», chiese interessato. Barbara guardò il deserto fuori dalla finestra. «Potrebbe andarsene e lasciare ciascuno di noi al proprio destino. Ma non lo farà.» «Cosa vi aspettate esattamente che io faccia?» «Convincetelo voi», rispose lei in tono accorato, sporgendosi in avanti e guardandolo fissamente. «Ce la siamo sempre cavata bene o male, anche prima, e non è giusto che sia lui ora a provvedere a tutti noi a sue spese. Noi siamo parassiti, nel significato più vero della parola. Sanguisughe, incapaci di trarre sostentamento da qualche cosa che non sia il nostro corpo.» George fissò il cielo. «Penso che debba dipendere da lui, no?» Barbara si alzò infuriata e si girò per uscire. George vide che le lacrime le rigavano le guance. «Aspettate!», disse. Era arrivata alla porta, quando lui la prese gentilmente per un gomito e la fece girare. «Lasciatemi andare!», gridò. «Mi spiace di avervelo chiesto... sono stata una stupida a pensare che voi... Forse troverò io qualche altro modo.» «Calmatevi ora», disse George in tono suadente. Barbara restò immobile, tremante, mentre le lacrime le rotolavano lungo le guance. «Devo andare. Tom mi ha detto di dirvi che ha intenzione di fare una passeggiata con voi domani, a cavallo, attraverso le montagne, e io devo andare avanti a perlustrare il campo...» Per George scoprire in Barbara una creatura femminile fu un fatto improvviso. Sentì le proprie mani divenire gelate, poi le vide scosse da un lieve tremore. Era una donna molto bella anche, e lui era un uomo tanto solo. Parte dei suoi pensieri dovevano essere diventati evidenti, perché Barbara fece un passo indietro e arrossì. «Scusatemi», balbettò, e si asciugò le lacrime, preparandosi a uscire. «Sedete e calmatevi prima», disse in tono tranquillo George, indietreggiando.
Barbara si sedette sulla sedia più vicina e si asciugò gli occhi. «Zio Horace», disse d'un tratto sorridendo, «direbbe che è una caratteristica del mio carattere: agire come una pazza.» Con sua sorpresa, il fatto che aveva smesso di piangere non sembrò avere su George l'effetto che aveva pensato: non sembrava più sollevato ora di quanto lo era in principio. Barbara aveva conosciuto solo uomini che erano parenti o amici di famiglia: non poteva certo pensare quello che ora passava nella mente di lui. La voce di George si fece di nuovo udire ancora più calma. «Questa passeggiata», disse, «che Tom vuol fare... insomma, è normale che lui vi mandi avanti a perlustrare il campo?» «Oh, no. Jack avrebbe dovuto mandare qualcuno dei suoi ragazzi a farlo. Ma lui vi odia, perché teme che voi influenziate Tom e gli facciate abbandonare il suo lavoro. E, se Tom lo facesse, Jack perderebbe il suo ranch. Così Tom ha detto che sarebbe andato ugualmente senza mandare nessuno a perlustrare il campo. Ma io non penso che sia sicuro. Conosco bene queste montagne, perché vi cavalcavo ancora prima che avessimo questa casa, e so che ci sono lupi e altri animali feroci. Avevamo una vecchia casa lassù, ed è là che Tom va quasi sempre. Per tutto il tempo in cui Tom vagava tra le stelle ero io che cavalcavo qui attorno. Si può dire che sono molto più in gamba di lui. Lui non sa che io ho intenzione di perlustrare il campo.» Lupi! pensò George. E gli venne in mente l'ultima lotta mortale che aveva avuto, con Biergratzen e Arthur, contro un intero branco di quegli animali, resi pazzi furiosi dall'odore caratteristico dei Lupi Mannari. Barbara non vide la luce di piacere che gli scintillò negli occhi. Si alzò con naturalezza e si avviò alla porta. «Ci vediamo domani, allora», disse esitando, e uscì. George riprese a camminare avanti e indietro per la stanza, a disagio. La sua natura di lupo era in subbuglio. Non fu che molto tempo dopo, quando si stese sul letto per dormire, che si chiese preoccupato se effettivamente Barbara aveva intenzione di avventurarsi nel territorio dei lupi per perlustrare la via che avrebbe percorso il fratello. Al pensiero di Barbara sentì ancora il sangue rimescolarglisi nelle vene. Il corpo. Il corpo di lei, tutto il suo essere lo attraevano. Nella sua mente abbreviò il suo nome: Barbara, Babia..., Barbara, Babia... Si addormentò e sognò di essere ancora un uomo vero e di essere sul punto di abbracciare Babia. Poi, improvvisamente, si vide trasformato in
lupo dilaniare il corpo di lei terrificata e incapace di resistergli. Il mattino Tom irruppe nella stanza di George. «George! Svegliati! Dobbiamo uscire immediatamente! Barbara è scomparsa questa notte, lasciando un biglietto, con scritto che andava avanti alla vecchia casa per perlustrare il campo! Fa' presto, perché dobbiamo raggiungerla. Quella è una zona sempre infestata dai lupi!» Barbara era scomparsa verso mezzanotte. Gli uomini di Jack non avevano fatto commenti vedendola partire. Erano abituati alle sue cavalcate nel cuore della notte quando l'aria era ancora pungente. Cragstead e Carlyle avevano una sola preoccupazione: quella di riportare Tom al suo lavoro e si lamentavano di ogni ulteriore contrattempo. «Non puoi fare questo a noi, Tom, ragazzo», George udì Cragstead esclamare, mentre scendeva dalle scale nel soggiorno. «Al diavolo!», esplose Tom «Cosa credi che sia io?» «A ogni modo probabilmente arriverai troppo tardi», disse Carlyle con una sorta di strano compiacimento. George si arrestò in fondo alle scale, gelato dall'orrore. Si chiese con un senso di sgomento se per caso non aveva effettivamente ucciso Babia nel sonno e se il suo sogno non era stato realtà. «Andiamo, Tom», disse, muovendosi. «Andiamo, Carlyle», disse Cragstead. «Non c'è alcuno scopo nel restare ancora qui. Lui deve tornare tra dieci giorni o pagare agli Studios una grossa multa. Verrà. Noi andiamo alle caverne e lui ci raggiungerà.» «Va bene. Ci sarò», disse Tom. Quando salirono per preparare i bagagli, George disse bruscamente: «Da che parte è andata? Mostrami la direzione e ci troveremo là. Parto subito». Tom capì che George voleva assumere le sembianze di lupo e che era tremendamente preoccupato. Non riusciva a capirne il motivo, ma omise la domanda. «Si è diretta verso le colline. Verso Nord-Est.» E fu la sola risposta che uscì dalla sua bocca. La signora McGillicuddy entrò in quel momento. Era arrivata dalla città durante la notte, chiamata da Barbara quando aveva saputo dell'arrivo del padre, il signor McGillicuddy. Non piacendole la vita di campagna e preferendo andare a far spese in città, lei vi abitava addirittura, tranne quando il marito era a casa. Ora indossava una smagliante vestaglia color porpora
cangiante, e calzava dei sandali d'oro che ben s'intonavano con il colore dorato dei capelli, pettinati in una nuova foggia. «Tommy, tuo padre vuol vedere te e il tuo amico prima che partiate», disse con voce squillante, guardando di sottecchi George. George la guardò freddamente. Era rimasto sorpreso dal suo abbigliamento, ma non dalla sua espressione. Ne aveva viste tante di donne come quella ai suoi tempi. Si scostò con impazienza e seguì Tom nell'enorme camera da letto del capofamiglia. Era stipata di pezzi d'antiquariato, troppo vecchi e delicati per essere toccati, e c'era una mastodontica imitazione di letto a baldacchino di un color verde pallido con un bordo di pelliccia sempre verde pallido in alto. McGillicuddy, in mezzo al letto, stava facendo colazione, e nello stesso tempo scriveva ben educati insulti ad altri collezionisti di antichità. «Tua madre mi ha detto che Barbara è uscita durante la notte. Cosa pensa di fare?», chiese con un'aria divertita. «È andata avanti a perlustrare la strada verso la vecchia casa, papà», rispose Tom, senza mezzi termini. McGillicuddy lo guardò stupito. «Non può farlo Horace?» «Sai perfettamente babbo, che zio Horace non si preoccupa se i lupi abitano nella casa con lui o se mangiano il suo cibo. Questo fino a che non lo disturbano nelle sue meditazioni.» «Horace è un pazzo. Bene, e il giovane Malcolm? Certo, il meno che può fare è perlustrare il terreno e renderlo sicuro per una nostra visita.» «E perché dovrebbe, papà?», chiese Tom con calma. George non aveva aperto bocca da quando erano entrati, ma stava osservando la scena, ascoltando i discorsi con interesse impaziente. «Perché no? Non li sopportiamo forse, loro e le loro stupidaggini, e non gli diamo alloggio gratuito? È il meno che potrebbero fare quello di sorvegliare i terreni.» «Ma, dopotutto, babbo, tu non sei andato alla vecchia casa una sola volta in cinque anni, e così pure la mamma e Jack. Io ci sono andato solo quando sono stato in vacanza.» McGillicuddy ignorò il commento. «Bene, bene! Suppongo che dobbiamo considerare naturale pensare sempre la strada costellata di pericoli. Ma Barbara non aveva nessuna ragione per andarsene fuori così. Giuro che quella ragazza non è normale a volte, per le strane cose che fa. A volte sarei tentato di chiamare gli uomini
dell'Ospedale della Mente e farla ricoverare in osservazione... Naturalmente, potrà anche essere una cosa del tutto normale. Può anche avere avuto qualcosa con quel Malcolm.» Quando tornarono in soggiorno, Tom era pallido di rabbia. George, preoccupato per le sue paure, trovava però divertente il signor McGillicuddy. «E certamente un bel tipo, tuo padre», disse, come a caso. Tom annuì e cominciò a dire: «Il vecchio...», quando a un tratto entrò Jack. «Ho sentito di Barbara», disse Jack eccitato. «Penso che dovrei uscire con i ragazzi e cercare nei dintorni, no?» «Sì, è una buona idea», rispose Tom, calmo. «Magari si è persa nel buio... non si sa mai», disse George con uno scintillio negli occhi. Jack sentì il sarcasmo e si girò per dire: «Cosa ne sapete voi? Siete solamente un astronauta». E fu come se stesse dicendo: «Siete solo una bestia». Tom si girò di scatto coi pugni chiusi verso Jack. «Esci di qui», gridò. «Imbecille!» Jack si dileguò, battendo nervosamente il frustino sugli stivali. «Ci troviamo fuori. Portami un cavallo», disse George con simpatia, e se ne andò nel momento in cui mamma McGillicuddy scivolava nella stanza. Tom non era nel migliore dei momenti per una conversazione con la madre, e al momento ne aveva abbastanza di tutta la famiglia. «Perché uscite così di furia tu e il tuo giovane amico, Tommy, ragazzo mio?», chiese pigramente la mamma. «Andiamo a cercare Barbara.» «Oh, tornerà.» La signora McGillicuddy accese lo schermo murale e si sdraiò come un gatto su un divano a godersi la trasmissione del mattino. Tom incontrò George a circa un miglio dalla casa nella foresta. Conduceva per le briglie un robusto, imponente stallone. Osservò George cambiarsi da lupo a uomo (questa volta in pieno giorno) con interesse, ma senza fare commenti. Lo stallone nitrì quando George lo afferrò per le briglie e accennò ad allontanarsi da quel grosso straniero, ma George lo tenne saldamente e saltò in groppa senza complimenti. «Spero che sorregga il mio peso», disse accarezzando l'animale sul collo e sorridendo amichevolmente a Tom.
«Oh, credo di sì. È abituato a portare... quanto pesi all'incirca?» George rifletté un attimo e tradusse rapidamente a mente: «Circa centotrenta chili». Tom lo misurò con gli occhi: «Devi essere alto circa due metri, due metri e cinque. Sì, penso che ce la farà a portarti». «Una volta avevo un cavallo», cominciò George, preso dai ricordi. «Nell'Altro Tempo», disse Tom, convinto. Anche lui aveva avuto un «altro tempo», separato da anni-luce anziché anni. «Era press'a poco come questo. Mi ha portato attraverso cinque anni di guerre e poi mi ha abbandonato per una puledra in una fattoria.» Tom rise e si sentì tornare ai vecchi tempi in cui con i suoi compagni si scambiavano storie di avventure. «Sì», continuò George, guardando curiosamente i cactus e i cespugli rinsecchiti e guidando istintivamente il cavallo con una mano, «era un gran cavallo. Avevo montato suo nonno e tre altri delle mie scuderie la prima volta che uscii. Gli altri cavalli erano buoni, ma non come quei tre.» «Avevi una famiglia?» «Sì. Una moglie, sei figli e due figlie.» George sorrise bonario. «Ci siamo sposati presto e... be', ci sono stati dei gemelli, è ovvio, ma sembrava che fossimo fortunati coi figli. Li mandai indietro, quando il continuare divenne veramente duro, e da allora non li ho più visti. Mi ero sposato a quattordici anni. A sedici andai in guerra. E ne avevo trentasei quando accadde...» Tom non riusciva a farsi una idea. «Accadde?», chiese. «Quando divenni... come mi vedi ora, parte uomo e parte lupo.» Tom cavalcò per un po' in silenzio. George si era levato la mezza armatura e l'aveva appoggiata alla sella, davanti a sé. Tom osservò le calzature del suo compagno: di cuoio, probabilmente fatte a mano. Indossava anche una tunica di lino leggero (o di seta pesante). Al dito aveva un grosso anello con uno strano disegno inciso e un grosso medaglione gli pendeva sul petto. Gli abiti erano sporchi e scoloriti dal tempo e dalle battaglie, ma un giorno dovevano essere stati belli e costosi. Tom sentì che, al confronto, i suoi abiti di leggero tessuto plastico erano anonimi e senza classe. E come avrebbero potuto essere altrimenti? Erano ideati e confezionati esclusivamente da macchine. «Sei sicuro che Barbara abbia preso questa direzione?», chiese. «Questa
non è la pista regolare.» «Oh, sì. Ho fiutato, e il suo odore, laggiù, si sta facendo più forte.» «Ma cosa le sarà venuto in mente? È pericoloso allontanarsi dalla casa sulle montagne e lei lo sa.» «Non sei mai andato volontariamente incontro a un pericolo per qualche ragione?», domandò ancora George. «Questa è una cosa diversa. Era il mio lavoro.» «Forse non così diversa.» George non fece parola della sua conversazione notturna con Barbara. Il suo sogno - ma era poi un sogno? - lo ossessionava ancora. Se le cose si risolvevano per il meglio, non c'era bisogno di raccontare il fatto a Tom. Ma un nome gli ritornò alla mente: Malcolm. Chi era quel Malcolm? Tom tornò sul primo argomento. «Hai detto di aver qualcosa da fare qui. Cercare alcuni amici, mi pare.» «Sì, te lo dirò, se vuoi saperlo. Eravamo in quattro quando abbiamo lasciato il Sedicesimo Secolo per questo. Ognuno di noi si fece imprigionare volontariamente in un mobile di quella casa in cui tuo padre trovò la cassetta di legno intarsiato. Gli altri tre devono essere stati liberati nello stesso momento in cui lo sono stato io. Probabilmente sono ancora chiusi in qualche parte. Forse in quella galleria sigillata.» «Ma non moriranno di fame o soffocati?», chiese Tom con orrore. George scosse il capo. «Probabilmente investigheranno un po' attorno per vedere di trovare qualche via di uscita, poi si metteranno a dormire in qualche posto sicuro in attesa che qualcuno li tiri fuori. Fra quanto tempo pensi che...» «Forse fra un paio di settimane. Forse anche di più. Naturalmente può anche passare un tempo più lungo prima che le porte vengano aperte. Sono anche loro come te?» George rise. «Niente affatto. Ah, sì. Anche loro sono in parte lupi. Ma molto diversi!» «Provengono anche loro dal tuo tempo? Scusami... Ti sembrerò un po' curioso, ma...» «Non preoccuparti. È molto facile che tu li conosca, così saprai qualcosa di loro. Arthur... per esempio, ho dimenticato il suo cognome, era un contrabbandiere del Quattordicesimo Secolo e stava trasportando un carico, naturalmente illecito, quando avvenne il fatto. È piccolo, con capelli biondo-sporco, occhi chiari e le dita più leggere di... È un ladro, capisci, e non
riesce a correggersi. Poi c'è Biergratzen, il guerriero svizzero, un tipo generoso...» «Come te», ghignò Tom. «E te», rispose imperturbabile George. «Solo che a lui piace combattere. Poi c'è Mariana. È una donna spagnola, molto giovane e senza inibizioni. Venne nel nostro distretto per sposare il suo soldato, e la sua carrozza cadde in un agguato lungo la strada.» «Ce n'erano altri?» «Moltissimi. Non so cosa sia loro accaduto. Una buona parte fu uccisa dai contadini che avevano paura di noi.» Tom era confuso. «Se potete vivere così a lungo, come potete essere uccisi? Non sembra nemmeno che tu abbia tanti anni.» George scosse il capo. «Noi non invecchiamo. Ma possiamo essere uccisi da un proiettile o da un coltello che ci colpisca il cuore. La maggior parte dei contadini erano così cattivi tiratori che non ci hanno nemmeno sfiorato. Non possiamo venir uccisi da niente altro, perché i nostri corpi sono invulnerabili alle malattie, alla fame, e a qualsiasi altro fattore che possa uccidere un essere umano. Siamo fatti di una sostanza simile ma non uguale alla nostra sostanza primitiva.» «Cosa accade ai vostri figli? Sono uomini o lupi?», chiese Tom sempre più confuso. George rimase in silenzio, col viso immobile. Tom stava per cambiare discorso quando arrivò la risposta. «Diventano uomini e ci danno la caccia con un accanimento terribile. O lupi, e ci odiano. Oppure diventano come noi e non ce lo perdonano mai.» «I tuoi figli...?» «Buon Dio, no! Ma lo sposo di Mariana, Richard, si unì al Branco spontaneamente; un loro figlio fu un lupo, e uccise suo padre. Il figlio venne ucciso più tardi lui stesso. E Biergratzen... Be', che vale ormai narrarlo?» «Com'è successo», chiese Tom lentamente, «che tu sei rimasto imprigionato in quella cassetta?» «C'era Donna, una ben versata in questo genere di cose. Ci infilò in quegli involucri sotto forma di nebbia», rispose George. «Penso sia meglio se ci fermiamo qui, a mangiare qualcosa e a far riposare i cavalli», disse. Mentre riposavano sotto un alto abete, Tom tornò ancora su quanto aveva sentito dire da George.
«Non so come fossero le famiglie nel tuo... tempo», cominciò, «ma gli altri tempi non mi sembrano molto diversi da quelli attuali. Da quelli che sono abitati da coloro che sono chiamati Umani Terrestri. E ovviamente è vero anche il contrario. A volte i genitori si rivoltano contro i figli. Continuerai ora come facevi prima della trasformazione in nebbia, fino a che ciò ti porti alla distruzione, o tornerai a trasformarti in nebbia?» Non erano domande interessate queste, comprese George. Tom le avrebbe fatte a qualsiasi nuovo compagno d'armi per sapere qualcosa: se e quando sarebbe andato o se invece sarebbe rimasto. «Rimarrò com'ero prima. Senza la Donna non posso trasformarmi in nebbia. E, anche se potessi, non mi servirei di questa scappatoia: non qui. Non è necessario. È molto più pacifico questo tempo che allora.» «È vero», rispose Tom. Verso sera si erano inoltrati profondamente tra le montagne. La notte piantarono il campo in mezzo alla foresta secolare, in alto, vicino alle vette. Erano troppo stanchi per parlare e, dopo cena, si sdraiarono accanto al fuoco per dormire. Tom si addormentò di colpo. George era in un inconscio dormiveglia, quando udì qualcosa che lo fece balzare a sedere di scatto: era l'ululato dei lupi. 4. Barbara aveva cavalcato duramente per metà nottata e un giorno. Ora era giunta nel punto in cui la foresta era più folta e dove una volta era stata costruita una capanna, ora caduta in rovina senza possibilità di rimedio. Un tempo, la capanna era stata il luogo dei loro giochi, di lei, dei fratelli, di Malcolm e di Vernia, quasi un rifugio dal mondo dei grandi. Il fatto che il tetto e una parete fossero crollati, non alterava minimamente il ricordo. Lo sentivano così solido, così raccolto, che non lo avrebbero pensato contaminato da un piede che non fosse della loro banda. Ora era diverso: non offriva alcuna difesa. Scese di sella e condusse il cavallo al torrente che scorreva a un centinaio di metri dalla capanna. Poi tornò indietro e cercò della legna secca per attizzare un fuoco. Poteva sentire l'ululato dei lupi e, più sommesso, l'abbaiare dei coyotes. Di tanto in tanto si udiva anche il ruggito dei leoni di montagna, molto lontani questi. Le montagne erano tornate al loro naturale stato di abbandono, e gli uomini che raggruppati in comunità avevano cercato di domarle una volta, ora erano emigrati su altri pianeti per cercare
minerali e metalli, e per installare fattorie. Barbara sapeva di essere tanto lontana dagli uomini come se si trovasse a centinaia di migliaia di chilometri dalla più vicina città. Rabbrividì leggermente e si guardò attorno mentre accendeva il fuoco. Aveva con sé una piccola pistola che sparava proiettili ad aria compressa. Erano mortali a distanza ravvicinata sempreché non sbagliasse la mira, naturalmente. Tolse la pistola dalla tasca della sella e la mise sotto le coperte accanto al fuoco. Diede da mangiare al cavallo e finì di togliergli i finimenti. Dal fuoco si levavano ora fiamme alte. Tutto intorno, il grigiore della sera si era trasformato in un impenetrabile nero. Barbara si avvicinò al fuoco e cominciò a prepararsi il pasto, mentre le sue orecchie erano tese a captare il più piccolo rumore. Mangiò con la schiena appoggiata contro una parete della capanna, col torrente sulla destra e il viso rivolto verso la valle. Il cavallo era legato alla sua sinistra. Accanto ai suoi piedi stesi c'era il fuoco che mandava man mano bagliori sempre meno vividi, mentre l'oscurità si faceva sempre più profonda. Udì ancora ululare i lupi. Sentì i capelli drizzarsi sulla nuca e la pelle accapponarsi sulla schiena. Come il fratello, le era sempre piaciuto gettarsi allo sbaraglio nel pericolo, senza preoccuparsi di se stessa. Ora era anche preoccupata per la situazione critica di Tom e per la sua strana attrazione verso lo strano forestiero. Anche i suoi sensi a un tratto erano diventati più torpidi, così non era all'erta come al solito. Quando udì un passo tra i cespugli, saltò quasi fuori dalla pelle. «Cosa stai facendo qui, in nome di Dio?» «Malcolm! Sia ringraziato Dio! Avevo pensato che fosse un lupo», disse lei con sollievo. Il nuovo venuto si avvicinò al fuoco tirandosi dietro il cavallo. Era di media altezza, con capelli rossi e occhi grigi. Le spesse sopracciglia nere si univano in un'unica linea sopra al naso e la sua pelle era abbronzata per la vita all'aria aperta. Il suo atteggiamento era quello di un uomo che passava la maggior parte del tempo da solo e che non gradiva la compagnia dei suoi simili. Ora rimase a fissare la sua compagna d'infanzia con un misto di esasperazione e di fastidio. «Niente di più facile che lo fossi davvero», disse freddamente, «e tu a quest'ora te lo immagini come saresti?» Si girò e levò le briglie al cavallo, cominciando a prepararlo per una siesta.
Barbara rimase in silenzio. Finì il suo pasto e andò al torrente a lavare le poche stoviglie senza più rivolgergli la parola. Conosceva Malcolm da troppo tempo per essere sorpresa dal suo atteggiamento. L'uomo si accucciò davanti al fuoco per cuocere il suo pasto, gettandole occhiate da sotto le spesse sopracciglia. «Cosa stai facendo quassù?», le chiese, quando finì di prepararsi il cibo e si sedette contro la parete accanto a lei. «Sto andando da zio Horace a dare un'occhiata alla casa. Tom sta portando un amico lassù e io voglio andare a vedere in che stato è.» Lui grugnì e continuò a mangiare. Barbara si gettò la pelliccia sui piedi e accese una sigaretta. Fumò con tranquillità, fissando la valle che si stendeva sotto i suoi occhi. «Sembra che tu venga quassù abbastanza spesso, mi ha detto Horace», disse Malcolm dopo un lungo silenzio. «È vero.» «Perché?» «Perché no? Anche tu lo fai, mi pare.» «È diverso. Io non ho parenti, anche se Horace mi ha raccolto quando avevo dieci anni, e mi sono guadagnato da solo la maggior parte di ciò che ho. Tu hai dei parenti e un genere di vita diverso. Inoltre, la foresta è mia.» Barbara gettò un'occhiata al suo viso imbronciato, poi tornò alla sua sottile sigaretta dorata. «A volte, tutti abbiamo bisogno di un po' di solitudine. Alcuni lo fanno nelle città, altri lassù, come Tom», e indicò con un cenno le stelle. «Io lo faccio qui.» Malcolm rimuginò le parole un po' risentito. «È così, suppongo. Benché non riesca a capire come possa la gente andare in città per sentirsi sola. Carla lo fa, in permanenza, credo. E anche tua madre. Ma io proprio non le capisco. E poi c'è Vee. È la sola sorella che ho, e nemmeno di sangue. E scommetto che lei non è mai sola né vuole esserlo. Vivere tutta la sua vita in quelle caverne sempre coperta di gioielli e unta d'olio. Come un clown... ecco cosa mi ricorda.» «Anche Tom lavora là», gli ricordò Barbara. «Be', Tom e io non parliamo più la stessa lingua da anni.» Barbara non parlava con Malcolm da circa cinque anni, da quando cioè i McGillicuddy si erano stabiliti nel ranch a valle. Si ricordava di lui come di un ragazzo tranquillo e chiuso, destinato a diventare un uomo dal caratteraccio sempre scontento. Aveva sentito del suo tentativo di entrare nel
Servizio Spaziale, ma era stato respinto a causa di un uomo che aveva ucciso a pugni in una rissa. Più tardi si era sposato e sua moglie si era gettata in un burrone qualche anno dopo. I McGillicuddy lo avevano sempre considerato uno dei loro, senza cercare di procurargli guai, aiutandolo quando potevano e lasciandolo solo quando voleva restare solo. Solo ora Barbara notò la differenza che lo distingueva e il profondo disgusto che nutriva verso tutti loro. Ciò le fece accapponare la pelle. Le sembrò di essere seduta, piuttosto, accanto a uno che non aveva mai visto prima, non accanto a un uomo col quale era cresciuta nella stessa casa. Malcolm, finito di mangiare, stava fumando una grossa pipa. «Non avresti dovuto venire qui», disse. Barbara spense il mozzicone della sigaretta e si mise il più comoda possibile. Non osò sdraiarsi e dormire. Avrebbe dovuto sentirsi più tranquilla, ora, col suo vecchio amico accanto che stava in guardia contro gli animali, ma non si sentiva affatto tranquilla con lui. Le ricordava un vecchio orso che zio Horace teneva nel cortile dietro la casa e che non aveva mai potuto soffrire gli uomini. Sembrava dormire tranquillamente, ma un attimo dopo era in piedi, ruggente, pronto ad attaccare. Malcolm cominciò ad affilare un coltello su una pietra. Barbara gli gettò un'occhiata, poi guardò intorno al campo. Malcolm si trovava tra lei e i cavalli. Era intrappolata tra il torrente che scendeva turbolento a valle da un lato, Malcolm da un altro, e il fuoco davanti a lei. E la sua pistola era tra le coperte a tre metri di distanza. Si schiarì la gola. «Ti abbiamo sempre voluto bene, Malcolm», disse. «Talvolta dimentico che non sei un cugino di sangue, e non credo che qualcuno di noi se ne ricordi.» «Abbiamo smesso di essere ragazzi tanto tempo fa, e a me non piace che la gente venga nella mia foresta. Nemmeno Horace ci viene più. E mia moglie capì ben presto che non doveva seguirmi.» Barbara provò un leggero senso di malessere. I lupi ululavano attorno a loro e Malcolm continuava ad affilare il coltello. «Ho sentito che tua moglie fu sconvolta dal fatto che il bimbo nacque morto, e si gettò da quella scarpata.» «È quello che pensa la gente.» «Certamente, Malcolm...» «Non mi piace nemmeno che mi vengano fatte domande.» La sua immobilità e la sua freddezza, la fecero sentire ancora più a disagio. Non pensava che fosse pazzo, e non le veniva in mente alcuna ragione
logica per la quale lui potesse ucciderla. Perché era diventato così, lei non lo sapeva e non gliene importava. Sapeva solo che la sua attuale posizione era critica. Accese un'altra sigaretta. «Non mi piace uccidere», disse Malcolm, continuando ad affilare la lama, «ma non sono contrario. Gli animali sono furbi: stanno alla larga dalla tua strada. Altrimenti affrontano la lotta. La gente è stupida e senza valore, per di più: non c'è una persona che valga il tempo che perdi a parlarle e vale ancora meno il fastidio che ci si deve prendere per mantenerla in vita. Dio, forse, intendeva che l'Uomo morisse fuori dalla Terra quando cominciò ad andare verso le stelle, in modo che Lui potesse ricominciare tutto da capo quaggiù. Così sembra a me, almeno.» Continuò ad affilare il coltello. L'idea di Barbara su Dio, non includeva quella dell'Uno che desse a chiunque il ferreo diritto di andare in giro a uccidere la gente. «Se Dio voleva che gli uomini non vivessero più sulla Terra, certamente si sarebbe dovuto sbarazzare di loro nel modo da Lui voluto.» «È quello che Lui fa, e ha i mezzi, anche», aggiunse Malcolm. Barbara cercò di riordinare le idee. Dev'essere molto tardi ormai, pensò. La luna stava alzandosi e il suo chiarore cominciava a lambire le pareti della capanna. L'ululato dei lupi sembrava più vicino ora, anche se era difficile che si avvicinassero al fuoco. Guardavano e ululavano, come se fossero minacciati da un orso o da un puma e si avvicinavano agli umani più di quanto desiderassero. Barbara stirò i muscoli intorpiditi e accese un'altra sigaretta. Malcolm aveva finito col coltello e accese una volta ancora la sua pipa con uno strano sguardo. «Ora, io preferisco gli animali,» disse. Barbara, ricordando le pietre che lui lanciava al vecchio orso, ne dubitò. «Sì», continuò lui, «non c'è dubbio che nella mente di un animale tu puoi essere identificato per il male, fin dall'inizio. Ora, con la gente, è diverso. Raramente si mettono nelle loro zucche dure che c'è un altro essere umano che li odia e che li vuole uccidere. No! Non alzarti! Lascia che il fuoco si spenga!» Barbara si fermò e rimase a osservare il fuoco che soffocava in sé le sue stesse braci. I lupi continuavano a ululare selvaggiamente come facevano ormai da tempo, ma erano più vicini ora. Non c'era più il fuoco che potesse tenerli lontani, e gli umani erano una preda facile.
Malcolm tese attento le orecchie e guardò i due cavalli inquieti, che nitrivano, tirando invano il morso per liberarsi. Prese la carabina e se la mise tra le ginocchia, raccogliendo anche il coltello e avvicinandosi a Barbara. Teneva la pipa stretta fra i denti e sembrava che la sua attenzione fosse divisa tra i lupi lì attorno e Barbara. «Non muoverti o ti faccio a fette», disse bruscamente, puntando gli occhi nella foresta. «Perché, Malcolm?», chiese lei, fissando la luna ormai alta. Il fuoco era ormai un bagliore rossastro. Barbara sentì Malcolm avvicinarsi ancor di più e il coltello strisciare sulla canna della carabina. Poi i lupi irruppero nella radura. Malcolm si arrestò e balzò in piedi con la carabina pronta, lasciando cadere il coltello. Barbara lo raccolse rapidamente e lo tenne stretto in mano. Gettò indietro la pelliccia e si alzò a metà. Poi scoppiò il bailamme. Malcolm fece fuoco e i lupi lo assalirono da tutti i lati. Uno di loro, molto più grosso degli altri, saltò nella radura. L'effetto sui lupi fu stupefacente. Tre di loro, già alle prese in un corpo a corpo con Malcolm, ignorarono il nuovo venuto. Il resto si girò verso di lui, scoprendo i denti e ringhiando, poi si ritirarono con le zampe rigide. Lui non si fermò, ma corse agilmente attraverso la radura verso Barbara e, quando le fu davanti, si girò e ringhiò minacciosamente verso gli altri. Malcolm aveva atterrato uno dei tre lupi menando all'impazzata col calcio della carabina che usava come mazza, e stava ora lottando selvaggiamente contro gli altri due. Il resto del branco guardò esitante l'uomo col fucile e l'enorme lupo di fronte a Barbara, mugolando. Poi si allontanarono nell'oscurità, con la coda tra le gambe e le zanne scoperte in un ringhio. Barbara era in piedi ora, col coltello in mano e le gambe che le tremavano visibilmente. Il lupo di fronte a lei era grande quanto un cane danese. Questi si tirò indietro senza degnarla di uno sguardo, e si avvicinò al gruppo che ancora lottava in mezzo alla radura. Uno dei due lupi, malamente ferito, si era scostato dall'uomo e rimase fermo a ululare pazzamente davanti al grande lupo. Quando questi si avvicinò, il ferito si girò e scomparve tra i cespugli. Nello stesso istante, Malcolm finì l'altro lupo. Lui stesso sanguinava copiosamente. D'istinto gettò un rapido sguardo al lupo enorme che rimaneva e, lanciato uno sguardo malevolo alla ragazza dietro di lui, mise la sella e i finimenti al cavallo e in meno di un minuto si allontanò al galoppo. Barbara si schiacciò contro la parete della capanna, guardando a occhi
sbarrati il nuovo pericolo. Ma, con suo sommo stupore, il corpo del lupo si dissolse e fu George che vide, in piedi davanti a sé. «Vieni. Ti porto all'accampamento di Tom», disse. E la portò al suo cavallo. 5. Quando Tom si svegliò e vide la sorella sdraiata al suo fianco, pallida ed esausta, e George in disordine con nuove cicatrici sulle braccia nude, reagì in modo caratteristico. «Ho perso una bella lotta?», chiese, alzandosi a sedere. Anche Barbara si alzò, tutta rigida. «Non è stata una grande battaglia», disse sorridendo stancamente. «Per lo meno non è durata a lungo.» George mescolò il cibo sul fuoco e guardò Barbara. «Mi piacciono i tuoi parenti», disse senza ironia. «Cos'hai visto?» «La maggior parte del finale. Sarei intervenuto prima, ma ho avuto paura di trovarti morta prima che potessi arrivare da te.» Tom drizzò le orecchie e chiese spiegazioni. Barbara, durante la colazione, gli raccontò brevemente i fatti della notte. Non era così sorpresa in seguito al cambiamento di George come lo sarebbe stata se fosse vissuta ai suoi tempi, dato che aveva visto cose ancora più strane. Ciò che l'aveva profondamente colpita era stato il comportamento di Malcolm. «Non avrei mai pensato che potesse diventare così. E sono certa anche, da quanto ha detto, che ha ucciso sua moglie.» Le labbra di Tom ora, per l'ira repressa, erano tirate e livide. «Penso di aver visto abbastanza della foresta, se tu sei d'accordo, George. È meglio che torni al lavoro. Volete venire voi due?» Barbara era ancora troppo scossa per desiderare di tornare nella casa deserta e annuì. George, lanciato uno strano sguardo a fratello e sorella, disse: «Vengo. Quanto è lontano?». «È proprio qui nella montagna, ma di solito ci si arriva dalla strada. Una volta era una caverna naturale, una delle meraviglie dei dintorni, fino a che la compagnia non ebbe la brillante idea di comperarla e trasformarla... in ciò che è ora.» «E Malcolm?», chiese Barbara.
Tom scrollò le spalle. «Lo prenderò un giorno o l'altro, la prima volta che mi capita a tiro.» «Non preoccuparti. Probabilmente mi prenderò cura io di lui», disse George. Questa fu la fine della discussione. Cavalcarono lungo il crinale della montagna in silenzio, impiegando due giorni per arrivare alla Caverna. All'ultimo accampamento, ricominciarono a parlare. Barbara fece riferimento alla lotta. «Non riesco a capire il tuo cambiamento, però. Non sapevo che potessi assumere quell'aspetto, George.» George la guardò in modo strano. Tom sembrò solo leggermente interessato. «Non sono un uomo», disse George. Il viso di Barbara si rischiarò in un sorriso. «Lo sembri però. No, non ho intenzione di offenderti. Vieni da un altro pianeta?» George cominciò allora a chiedersi che razza di creature potessero abitare quei punti luminosi che di notte rischiaravano la volta oscura che si stendeva sopra il suo capo. I pianeti, pensò. E fratello e sorella sembravano non stupirsi delle sue mutevoli sembianze perché poteva «venire da un altro pianeta». «No. Da questo», rispose. Fece per spiegarle, poi vide che il suo sguardo era caldo e amichevole. E tornò a mangiare in silenzio. Tom le spiegò. «Oh», disse Barbara con vero piacere, «allora è un autentico Lupo Mannaro. Il babbo mi ha raccontato di loro, ma credevo fossero esseri da leggenda. Perché la gente aveva così paura dei Lupi Mannari?» George si appoggiò al tronco di un albero e guardò la ragazza. Come prima cosa fu lieto della reazione di lei, poi pensò che era capitato, in un tempo forse un po' più complicato di quello che aveva lasciato. «Molte ragioni, ma la principale è che il morso di un Lupo Mannaro cambia un uomo in un licantropo», rispose. «Un morso?» «O un bacio», disse George deliberatamente, e riportò la conversazione sulle caverne. Poco prima che George si addormentasse, raccolse uno di quei deboli, lontanissimi richiami mentali che la gente del tempo in cui si trovava chiamava «telepatici». Era Biergratzen.
«Ho individuato la tua direzione! Stiamo arrivando! Aspettaci! Ti ho trovato! Porto gli altri due con me! Aspettaci!» George, data l'urgenza del messaggio, si sentì a disagio e si chiese cosa avessero combinato in quel frattempo Arthur e Mariana. Gragstead e Carlyle li stavano aspettando all'entrata della Caverna. Grag-stead era indaffarato e si dava molta importanza, niente affatto contento di vedere anche George e Barbara. Sollecitò Tom a entrare nella caverna e si allontanò con lui, lasciando Carlyle a tenere compagnia all'ospite e alla sorella di Tom. «Salve, Barbara, cosa fate qui?», chiese meravigliato Carlyle. Barbara sorrise vagamente e scosse le spalle. George si era caricato di tutte le sue cose avendo lasciato i cavalli alle cure di un uomo davanti all'ingresso della caverna. Aveva messo spada e armatura dentro a una delle sacche e meditava ancora sulla mancanza di curiosità degli uomini di quell'epoca. Sembravano tutti così assuefatti al nuovo e al diverso, che nessuno di quella turba in fermento notò la differenza tra i suoi abiti e i loro. Cominciò a provare del dispiacere per quella gente. Erano entrati nella galleria che si faceva sempre più larga mentre si inoltravano sul pavimento di pietra. Le pareti erano di roccia naturale e, almeno in questa parte, non era stato fatto nessun cambiamento, salvo che allargare l'entrata. Le luci lungo la strada diventavano sempre più brillanti fino a che, svoltando un angolo, George si trovò su un terrazzino di pietra sopra uno spazio enorme, illuminato a giorno e pieno di gente, di movimento, con grezze strutture di fabbricati e di razzi, cosa che ricordò fortemente a George l'idea che da fanciullo si era fatto dell'Inferno. Da qualche parte, perso in quel caos di luce, calore, rumore e cattivi odori, c'era Tom. Carlyle se ne andò a sua volta e in pochi secondi si perse nella moltitudine. «Andiamocene di qui! Vieni, ti mostro la stanza in cui abita Tom quando lavora qui. Dovrebbero averne di vuote accanto alla sua per noi», gli stava dicendo Barbara. Lui la comprese, perché afferrò i suoi pensieri e la seguì lungo la balaustra, guardando con ira crescente la confusione attorno e sotto di lui. Rifletté che, se non fosse stato un uomo pacifico per natura, l'istinto lo avrebbe spinto a saltare in mezzo a quel bailamme e fare a pezzi tutto quanto fino a che non fosse rimasta nemmeno una briciola di ciò che ora gli annebbiava la vista. Oltre al grande spiazzo che costeggiava la balconata, c'era un altro corridoio, più scuro e tranquillo. Qui non c'era il caos di scenari immaginari e
pretenziosi, ma solo pietra naturale che una volta era stata il letto di un fiume sotterraneo. Dopo aver passato un migliaio o più di porte semiaperte, Barbara entrò in un locale vuoto, fresco e tranquillo, con appena una sufficiente illuminazione. «Ti... è piaciuto?», chiese esitando, sprofondando nei cuscini su un seggio di pietra. «Lo odio!», disse George rauco. Barbara spalancò gli occhi e si drizzò. Doveva aver appreso in quel breve tempo molto di più di un semplice visitatore, o era un tipo insolitamente emotivo. Questa seconda soluzione, dopo quanto era accaduto con Malcolm, le fu scarsamente di conforto. George si sedette accigliato, posando a terra le sacche. «Nessuna meraviglia che Tom odii tutto ciò! Non capisco come possa sopportarlo! Come potremmo procurarci del cibo stando chiusi qua dentro?» Barbara si girò verso il pannello murale che copriva una intera parete e iniziò George ai misteri della civiltà dei pulsanti. Lui fu abbastanza compiaciuto quando il cibo venne a portata di mano e le bevande, al solo richiederle, se le vedeva comparire davanti, ma quando lei gli disse dei milioni di chilometri di tubi automatici, delle leve controllate da automi e dei cibi artificiali, guardò il piatto pieno con disgusto. Mangiò immerso nei suoi pensieri. Barbara non era abituata ad attirare su di sé alcun interesse, per cui mangiò in silenzio. Quando cercò di portare la sua sacca nella stanza accanto, George uscì dal suo silenzio. «La porto io», disse. «È troppo pesante per te.» Barbara ne fu sorpresa e compiaciuta. «Posso portarla anch'io. Sono abbastanza forte.» «Piccola, tu sei circa un metro e settantacinque, mentre io sono due metri e cinque. Certamente ho più muscoli di te!» I suoi occhi erano gentili e maliziosi. Barbara non aveva mai ricevuto gentilezze del genere, prima d'allora. Pesi e problemi erano di ognuno, e tutti se ne curavano personalmente. Non si era mai sentito che una persona dovesse aiutare un'altra fisicamente. Si poteva aiutare con robot, o con soldi, pensò amaramente, ma ciò era diverso. George poteva sentire la chiamata di Biergratzen farsi più forte. Come avevano fatto i suoi tre amici a viaggiare così velocemente, era una cosa che al momento non gli interessava. Quello che più gli importava era che
stavano arrivando e, a quanto pareva, stavano entrando nel primo tunnel. «Aspetta qui e chiudi a chiave», disse rapidamente George, lasciando Barbara in piedi in mezzo alla stanza di Tom con la bocca aperta. Lei chiuse a chiave come aveva detto lui. Il primo pensiero di George, alla vista dei suoi vecchi compagni, fu che per lo meno avevano avuto l'intelligenza di presentarsi sotto sembianze umane. Il sollievo si affievolì dopo la prima favorevole impressione, perché Mariana era ovviamente scatenata per l'eccitazione, e Arthur ghignava sotto i baffi. Biergratzen mostrava i segni della fatica nel condurre gli altri due senza farli allontanare e salutò George con sollievo. «Cosa diavolo è questo posto?», chiese Biergratzen, guardando con orrore l'immenso spazio affollato sotto di loro. «Non preoccuparti. Venite. E... Mariana, nessun reclutamento, mi raccomando, o...», disse George con un pericoloso scintillio negli occhi. Mariana distolse gli occhi sognanti dalla scena di fronte a lei e annuì. «Non più. Ma mi sembra di essere in una... caverna incantata! È chi è quel giovanotto che dondola in cima a quella cosa lassù?» Era Tom. «È un mio amico: quindi stai attenta.» Arthur era teso per l'eccitazione repressa. «Non hai idea di cosa ho preso, George. Era una cosa grossa, dalla forma di un proiettile e andava molto veloce, velocissima. E senza ruote!» Biergratzen spinse i suoi due pesi attraverso la folla lungo la balconata. «Aspetta fino a che saremo soli.» George decise che, dato che alla fine il trio avrebbe dovuto comunque incontrare Tom e Barbara, la ragazza sarebbe stata più al sicuro con lui. Bussò alla porta e presentò Arthur, Mariana e Biergratzen. Lei si sedette debolmente dopo averli salutati, e guardò George come per una spiegazione. «Sono anche loro Lupi Mannari», disse George. Arthur stava ancora parlando del gigantesco proiettile che aveva rubato. «Era fermo da solo in mezzo a un campo spoglio, George! Sulle prime rabbrividii, perché mi ricordava quei terribili proiettili d'argento, ma presto mi accorsi che non era esattamente un'arma. Era un mezzo di trasporto, una nave, però non così bella come la mia. Be', io sono salito, dopo che gli altri, scesi, se n'erano andati. Mariana volle ovviamente venire, e Biergratzen non si fidava a lasciarmi solo. Io ho schiacciato di qui, tirato di là e la prima cosa che ho visto poof! eravamo in aria, come nelle favole! Se Bier-
gratzen non fosse stato capace di rintracciarti, saremmo ancora lassù, perché non sapevo dove atterrare!» Barbara lanciò un'esclamazione alle parole di Arthur. «Volete dire che avete rubato un'astronave? Dove l'avete lasciata?», chiese col viso illuminato dal riso. «Qui fuori dalla caverna, naturalmente! E dove altro? Perché? Vale qualcosa?» «Solo tanto quanto basterebbe a costruire una piccola città.» Arthur sembrò compiaciuto alla notizia. «Ma non vedo cosa se ne possa fare, perché dev'essere piuttosto difficile da vendere.» «Impossibile, direi», replicò Barbara cercando di non ridergli in faccia. «E inoltre, la prima persona che passerà davanti all'entrata la vedrà e avvertirà le autorità di venire a prenderla. Si chiederanno anche come diavolo avrà fatto ad arrivare fin qui, così penso sia meglio non dare spiegazioni.» Arthur fu pienamente d'accordo. Mariana li interruppe, perché era rimasta a fissare Barbara con gli occhi spalancati pieni di interesse femminile fin da quando erano entrati. «Ma che bei vestiti!», esclamò. «E così... come si dice? Così trasparenti! Come te li sei procurati? E pare che siano all'ultima moda, anche!» Gli abiti di Barbara erano traslucidi più che trasparenti, ma lei arrossì vivamente ai commenti di Mariana. George disse: «Sta' quieta, Mariana». «Ma io voglio avere dei vestiti come quelli!», protestò la donna. Arthur fece uno strano cipiglio, così Barbara disse conciliante: «Sarò lieta di fartene avere». «Che siano trasparenti!», raccomandò Mariana. Biergratzen sospirò, sorrise e alzò le braccia al cielo. «Sono contento di averti trovato, George», disse. «Ma questa ragazza, è una dei nostri?» «No, e nemmeno lo sarà.» «E allora perché le stai confidando...?» «Scoprirai, Biergratzen, che questa gente non si lascia sorprendere troppo facilmente e che la maggior parte di loro non ha mai sentito parlare di noi.» «Questo è un gran sollievo», disse. «Mi chiedo cosa sarà accaduto alla Donna e al Vecchio Card.» «Mi aspetto di vederli comparire da un momento all'altro sotto qualche
sembiante.» George cominciò a raccontare agli amici quel che gli era accaduto e ciò che aveva imparato, aiutato in ciò dalle precisazioni di Barbara. Alla vista del cibo, i tre nuovi venuti cominciarono a mangiare mentre ascoltavano. E ascoltavano tutto con estrema attenzione e interesse, due qualità che Barbara scoprì insolite e attraenti. Poi arrivò Tom. «Dio!», esclamò, fermandosi sulla porta. I nuovi arrivati lo guardarono con altrettanto stupore. Indossava calzoni aderenti e stivaletti, gli stessi che George aveva visto nella precedente proiezione e il suo corpo era coperto da un denso olio scuro, che serviva da protezione contro l'eccessivo calore delle grandi luci. Sul capo aveva un pretenzioso casco alto e verde, e in mano un lungo bastone verde, contorto. Aveva lo stesso aspetto strano dei tre che lo fissavano attoniti. «Tu sei Tom, vero?», chiese Mariana compiaciuta: la lieve cadenza morbida della sua voce era più marcata del solito. Biergratzen grugnì e Arthur alzò il naso in un largo ghigno. Mariana fece alcuni passi nella stanza, come per gettare le braccia al collo di Tom. «Mariana!», gridò George. Mariana si contenne sorridendo, cosa che sembrò agli altri uomini peggiore che se avesse effettivamente baciato Tom, tanto fu l'effetto su questi. «Ehi, di dove vieni?», le chiese Tom, passandole un braccio attorno alla vita. La gonna di seta di Mariana frusciò al contatto della mano di lui e la sua gola bianca palpitò sotto la profonda scollatura dell'abito. «Sono la Señorita Mariana di Paoulo», rispose, alzando gli occhi su di lui. «Attento!», ammonì George. Si alzò e si avvicinò a Mariana. «Non andarle vicino, Tom. È anche lei come me e come gli altri. Lascia che ti presenti Arthur e Biergratzen.» «Vuoi dire che anche lei si può tramutare in lupo?», chiese Tom, gettando via il bastone e fissando Mariana. «Tutti voi?» «Sì. Vuoi vedere?», chiese Mariana. «No», scattò George prima che Tom potesse rispondere. «È meglio fare una pausa e mangiare qualcosa», disse Tom, riavendosi dallo stupore. Si avvicinò al muro e premette i pulsanti per richiedere i pasti. Biergratzen guardò sopra le spalle Mariana. George la condusse deciso alla sua sedia e la fece sedere. Arthur, che aveva frugato nelle scatolette sul
tavolo di Tom, scoprì delle sigarette dorate e ne accese una, accomodandosi sulla poltrona come se fosse il padrone di casa. Biergratzen stava guardando Tom da intenditore. «Hai l'aspetto di uno che saprebbe non sfigurare in una lotta, amico. Quanti anni hai? Hai ancora del fiato?» Tom ghignò e si sedette accanto ad Arthur. «Ho ancora del fiato, ma mi sto avvicinando velocemente all'età in cui sarò troppo vecchio per lottare. Ho quarantadue anni.» Biergratzen si chinò in avanti e palpò i muscoli di Tom. «Niente male. Io sono sui cinquantadue, ma sono in condizioni migliori. Scommetto che potremmo organizzare un bel combattimento. Mostrerei volentieri a quei giovanottelli un paio di cosette.» «Un incontro da esibizionista, senza dubbio», disse George, «là in mezzo al grande spiazzo, con te che cambieresti forma a metà incontro.» «Sarebbe interessante», disse Tom con dispiacere. «Ma non mi è permesso lottare. Le sole cose che mi sono permesse sono cavalcare e fare qualche esercizio atletico in palestra.» «Questo posto non è brutto, George», disse espansivo Arthur, «ma cosa facciamo qui? Continuiamo alla vecchia maniera vivendo nella foresta? O ce ne andiamo in giro come umani, come eravamo prima del Cambiamento?» «Non come prima del Cambiamento», disse George. «Non so esattamente cosa faremo. Appena finiremo la nostra visita, ce ne andremo da soli e ne parleremo. Al momento stiamocene tranquilli e guardiamoci in giro.» «Mi chiedo se il Capo Kirskanpitan e la Banda dei Lottatori sono ancora in giro», disse Biergratzen. «Non sento odore di nessuno di loro qui attorno, ma è certo che se fossero a una certa distanza non potrei ovviamente sentirli. Non c'era nessuno nella galleria in cui siamo stati rinchiusi, comunque, per quanto intorno non ci fosse che deserto.» «Non so se sono ancora in giro», disse George. «Ma non ne avremmo sentito parlare se ci fossero stati in giro dei Lupi Mannari?», chiese Barbara. «Non necessariamente. E, secondo Tom, ci sono un sacco di altri mondi oltre a questo su cui sono andati gli uomini, e qualcuno di noi può essere andato a finire fra le stelle. Inoltre, un sacco di nostri compagni potrebbero anche essere morti.» «Lo sapremo alla Luna Piena», disse Mariana. «È appena passata, e quindi dovremo aspettare», rispose George, «e i-
noltre, volete tornare col Branco o no?» Arthur scrollò le spalle. «Fin tanto che il cibo è buono e non mi mettono in galera, non mi importa di dove sono.» Biergratzen sembrava preoccupato. «Possono nascere dei guai se qualcuno di noi cercasse di vivere con gli umani per tutto il tempo. Non ha mai funzionato, prima.» «Ricordate l'ultima battaglia?» Mariana rabbrividì, poi guardò Tom. «Ma potrebbe essere divertente.» «Perché i proiettili d'argento sono pericolosi per voi?», chiese Tom. «Si supponeva che fossero il solo modo per uccidere i Lupi Mannari», spiegò Barbara, «benché io non ne veda il motivo.» «Ma tu hai detto che potete venir uccisi da qualsiasi...» «Sì, ma loro non lo sapevano», rispose George, «non molti avevano il fegato di avvicinarsi a noi con un coltello, e non molti potevano tirare una lancia con sufficiente forza o precisione. E i proiettili! Hai mai avuto davanti a te un Branco di pacifici cittadini che ti sparano addosso? È uno scherzo starsene fuori tiro, e loro pensavano che fosse magia. E noi non li smentimmo; era una migliore protezione che non la paura che avevano di noi. Ma prendi un proiettile di argento. Se qualcuno si accolla le spese, la fatica, il tempo di fare a mano un proiettile d'argento, cercherà di avere una mira migliore o quanto meno di trovare qualcuno che sia un ottimo tiratore.» «Be', non credo che ci si debba preoccupare di ciò qui comunque», disse Arthur. Tom sembrò interessato. «Spero di no.» «E i miei vestiti nuovi?», chiese Mariana impaziente. Barbara rise e si avvicinò al pannello dei comandi per ordinare un abito alla ragazza. Poi si ritirò con Mariana nella stanza accanto con gli abiti, lasciando i quattro uomini da soli. Arthur si era alzato per osservare il pannello, affascinato. «Cosa ne dici?», disse sopra la spalla a Biergratzen. «Dobbiamo infilarci in nuovi abiti? I miei sono piuttosto malandati e non mi pare che i tuoi siano troppo nuovi. Che ne dici, George? Voi due potreste tagliarvi quelle foreste di barbe, e anche per i miei capelli ci vorrebbe...» «Forse è una buona idea», disse Biergratzen pensieroso a George. «Se stiamo un po' attenti, possiamo mescolarci alla popolazione fino a che non
abbiamo ritrovato tutti i rimasti.» «Bene, forse hai ragione.» Tom si avvicinò ai controlli e ordinò tre abiti completi per i tre uomini. Erano quasi giusti come taglia, benché avessero tutti e tre la stessa figura. «Devo andare ora, ma tornerò fra non molto. Se volete delle stanze, ce ne sono parecchie libere qui intorno.» Lasciò i tre davanti al pannello di comando e con tre abiti nuovi. Aveva mostrato loro quale pulsante schiacciare per avere acqua per radersi o per il bagno, e tutti gli altri pulsanti necessari alla toeletta. Avevano ascoltato con profonda attenzione, e ora che Tom se ne fu andato, George chiuse a chiave la porta e i tre si guardarono a vicenda con segreta gioia. «Questa», disse Biergratzen, accennando al pannello, «è la più meravigliosa invenzione dopo i soldatini di piombo.» Gli occhi di Arthur scintillavano mentre faceva passare le dita leggermente sui pulsanti senza premerli. «È una vera sfida per un professionista come me. Come passare attraverso porte chiuse per arrivare a un tesoro, ecco cos'è!» George si passò le dita tra la barba con rimpianto. «Pensate proprio che debba tagliarla?» «Sì, e anche i capelli. Ho notato la lunghezza di quelli di Tom», ghignò Biergratzen. Passò le mani nella sua barba sale e pepe. «È una vergogna, però, se ci pensi, vero? Arthur, dannato pazzo, cosa diavolo hai fatto?» Gli occhi di Arthur splendevano. «Ho aperto l'acqua profumata», disse estatico. «Be', chiudila, maledizione, o profumeremo come roselline per una settimana!», esclamò George. Nella stanza accanto, le due ragazze stavano divertendosi altrettanto. «Come puoi sopportare di lasciare questa stanza?», stava chiedendo Mariana dalla vasca uscita dal muro nella quale stava guazzando. Aveva riempito la vasca di profumo che Barbara giudicò un miscuglio di gardenia, lilla, rosa e sapone alla violetta. Nuvole di vapore riempivano la stanza, e il profumo era così penetrante che Barbara ebbe l'impressione di essere sul punto di soffocare. «Non c'è niente di strano», rispose Barbara. Il capo di Mariana, coi lunghi capelli puntati sulla sommità, emerse dalle tendine di plastica che circondavano la vasca. «E ora cosa devo fare?», chiese. Barbara gongolò e si precipitò per aiutarla. Nel frattempo, Arthur aveva fatto uscire la doccia e se l'era riservata.
Biergratzen aveva trovato il barbiere automatico e stava leggendo dubbiosamente le istruzioni. «Supponiamo che io non abbia letto molto bene le istruzioni e quest'affare salti fuori e mi tagli la testa?», disse a George. «Be', non potrà essere peggio di una sciabolata, così di cosa ti preoccupi?» «Fallo tu per primo», offrì generosamente Biergratzen, detto amichevolmente Bix, facendo un passo indietro. George si avvicinò e lesse a sua volta le istruzioni. «Quanto è corto "corto"?» «E che ne so? Ai miei tempi usavamo un elmo e tagliavamo attorno ai bordi», rispose Bix. George rilesse le istruzioni e sorrise sornione. «Io mi faccio tagliare i capelli per primo se tu ti fai radere per primo.» «Oh, no, non puoi...!», esclamò Bix, ma George aveva già composto l'ordine. Bix osservò a occhi sbarrati le braccia meccaniche con le forbici che uscivano dal muro. George rimase immobile e, quando terminò, Bix si fece avanti a sua volta. Quando si trattò di mettere in azione il rasoio automatico, Bix quasi si ribellò. Ma George gli tenne inesorabilmente immobile la testa e mise in moto il meccanismo. Bix non osò muoversi e quasi non respirò nemmeno. Il sospiro di sollievo che trasse a operazione ultimata fu esplosivo. Mariana trovò delle difficoltà a indossare il suo nuovo abito traslucido di seta artificiale. Era tagliato come un pigiama dai bottoni larghi ed era più adatto alle sottili forme delle ragazze del tempo di Barbara che non a quelle molto più prosperose di Mariana. Quando finalmente riuscì ad abbottonarlo, emise un grande sospiro di sollievo e piroettò di fronte al grande specchio. I cinque si incontrarono nel corridoio e si ispezionarono a vicenda con occhio critico. «Mi piace», disse con soddisfazione Mariana. Proprio allora una ragazza dall'abito veramente trasparente e il corpo ben oleato venne verso di loro, facendo svolazzare la rossa capigliatura nella corsa. «Siete voi gli amici di Tom? Ciao, Barbara. Io sono Vee Gay, Vernia McGillicuddy. Venite, vi mostrerò tutti i trucchi. Tu mi sembri un dritto!» Quest'ultima frase era rivolta ad Arthur. Bix e George si scambiarono un'occhiata mentre la seguivano nel corridoio.
6. Vee bolliva di buon umore e curiosità. Prese a braccetto Arthur e salutò con un gesto gli altri. «Voglio farvi vedere come si fa a fare un film! Hanno fermato le cinecamere per discutere su qualcosa, e io ho pensato che fosse una buona occasione per...» «Mio Dio!», esclamò sottovoce Mariana a Barbara. «Quella ha addosso un vestito veramente trasparente!» «Sì, è lei la protagonista della storia», rispose Barbara senza fare altri commenti. «Spero di essere come lei quando avrò la sua età», esclamò Mariana con sincera ammirazione, cosa che convinse Bix a strizzarle l'occhio. «Perché, quanti anni hai?», chiese sorpresa Barbara. «Sedici. E tu?» «Ventinove», rispose Barbara sentendosi decrepita. «Oh, non c'è niente di male», rispose Mariana gentilmente. «Hai ancora parecchi anni di gioventù davanti, e non sei poi mica male, sai?» Fu la volta di George di girarsi e sorridere con simpatia a Barbara. «Quella ragazza è una peste. Non farti rovinare», disse. «Arthur è più vicino a me come età», continuò Mariana facendo una smorfia a George. «Ha solo trentadue anni o giù di lì. Non può sapere esattamente quanti anni ha perché non ha mai avuto un padre, e sua madre se ne andò lasciandolo...» Nel frattempo erano arrivate alla balaustra e Vee li stava conducendo alla stretta rampa che portava direttamente in basso. La seguirono in fila indiana, Barbara e Arthur con passo sicuro, data la lunga pratica, conseguita l'una nelle montagne e l'altro sulle navi. Vee chiuse gli occhi e si aggrappò alla ringhiera. Mariana, dopo un'occhiata in basso, diventò verde e rifiutò di muoversi. «Uno di noi deve portarla giù», disse deciso Bix. «Io non voglio!», rispose George. «La rampa non è larga abbastanza nemmeno per me! Tu sei più piccolo di me... portala giù tu!» «Tu sei il nuovo Capo fino a che non troveremo il vecchio. E tocca a te!», replicò Bix ancora più fermamente. Mariana si rivolse disperatamente a Barbara. «Non posso scendere da sola!»
«Pensavo che i lupi avessero il passo sicuro.» «Ma io non sono nella forma di lupo!», disse amaramente Mariana. «E lui non vorrebbe che mi cambiassi qui!» «Certo che no!», rispose George. «Avanti, Mariana. Bix andrà avanti, Barbara sarà al tuo fianco e io starò dietro di te. Avanti.» Con George alle spalle, Mariana fu obbligata a scendere. Barbara, sapendo che gli attori, i tecnici, e tutta l'altra maestranza eterogenea che lavorava nella caverna stava guardando il gruppo con divertimento e Mariana con stupore, divenne improvvisamente decisa. «Devi scendere, Mariana! Attaccati al corrimano come fa Vee e metti un piede davanti all'altro.» Il fatto decisivo si presentò d'un tratto. Mariana alzò gli occhi terrorizzata e vide Tom seduto su una specie di altalena quasi alla loro altezza, sospeso al grande soffitto a volta. Li salutò con un gesto della mano. Mariana disse: «Vado», con tutto il coraggio di uno che vada alla sua esecuzione, e scese il resto della scala. Arthur e Vee stavano conversando in fondo quando gli altri li raggiunsero, e George rimase costernato nel veder con che facilità avevano fatto amicizia. «Io non sono un cattivo soggetto, quando mi conosci bene», stava dicendo Arthur col tono di chi sta dicendo di essere semplicemente magnifico. Vee lo guardò con ammirazione. «Posso vedere che non lo sei. Non ho mai conosciuto nessuno come te, prima.» E ciò, pensò George, doveva essere abbastanza vero. Lasciando Mariana momentaneamente alle cure di Bix e Barbara, si chinò su di loro. «Non avevi detto che ci avresti portati in giro?» Vee alzò il viso ridendo, per nulla seccata dall'interruzione. Arthur sembrò seccato, poi scrollò le spalle e ghignò. «Sì», disse Vee. «Questa», fece un largo gesto, «dovrebbe rappresentare la scena di un altro pianeta. Non ben specificato, dato che non abbiamo troppi scienziati veri che lavorano con noi. Quando si accenderanno le grandi luci, quella cortina davanti alla balaustra scenderà. Il soffitto sopra di noi è a sessantacinque metri. E la roccia sopra di esso, una volta era alta due miglia circa. Ora è tutta attraversata da corridoi e nicchie per le camere, le luci, e gli operatori.»
«Quando si accenderanno le grandi luci?», chiese debolmente Mariana. «A me sembra caldo ora!» Vee rise. «Quando le grandi luci sono accese, ti prendi una ustione di terzo grado in cinque minuti e sei morto in poco più, se non hai addosso questo olio medicinale che ti protegge l'epidermide. Nel film, l'olio rende la nostra pelle un po' più abbronzata. Ma qui non sembriamo assolutamente normali.» «Ho visto Malcolm qualche giorno fa sulle montagne», disse Barbara alla cugina. «Davvero?» Vi fu una pausa quando la ragazza si fermò per fissare Barbara. Attraverso il pesante trucco non si vide alcuna alterazione sul viso di lei che continuò a parlare con lo stesso leggero tono di voce. «Hai avuto dei fastidi con lui? Ho sentito che è diventato... strano.» «Un po'. Da quanto lo sai, Vee? Perché non ce lo hai detto?» Mariana si era avventurata lungo il suolo roccioso, toccando leggermente qualche stalattite e avvicinandosi al grande modello di astronave nel mezzo della scena, nel quale era entrato Tom. Arthur stava immobile da un lato, e fissava freddamente le due ragazze mentre George si trovava dall'altra parte, all'erta senza dare nell'occhio. Bix era andato con rassegnazione dietro a Mariana.. «Cosa intendi dire?», chiese Vee con voce eccitata. «Cosa c'era da dire?» «Vuoi lasciarla stare?», scattò d'un tratto Arthur. Il suo viso sottile sembrava persino bello dopo il bagno e la rasatura e i suoi occhi non avevano alcun scintillio. «Sta' fuori da ciò», disse George sulla loro privata frequenza mentale. «Perché? Solo perché lei è la tua ragazza? Non voglio che dia fastidio alla mia ragazza.» «La tua ragazza! Da quando sia tu che io abbiamo delle ragazze che non siano come noi? Sta' alla larga. Parlano di cose di famiglia. E inoltre stanno discutendo di un omicidio.» «Direi di un assassinio», replicò Arthur con uno sguardo strano. «Questa faccenda non mi piace. Potremmo andarci di mezzo anche noi e venire accusati...» «Zitto...», avvisò George. «Qualcuno ci sta ascoltando.» Sapendo anche che i non Lupi Mannari ora usavano lo stesso mezzo di comunicazione, George rimase scosso nell'accorgersi che qualcuno li ascoltava. Aveva pensato che la frequenza d'onda che loro usavano era mol-
to alta, usata solo da animali che vivevano in branchi o da uccelli migratori. Per quel che poteva vedere, non c'era alcuna ragione che gli umani usassero quella stessa frequenza. Ma lassù sulla balconata, in mezzo a quella moltitudine di visi, qualcuno ci aveva tentato e aveva ascoltato i loro discorsi. Considerato ciò di cui stavano parlando, poteva dire che c'era un certo pericolo. «Venite!», gridò George, emettendo il familiare segnale di pericolo della sua gente. Vee e Barbara si erano fatte da parte e stavano parlando della loro infanzia. Di Malcolm non fecero più parola. Mariana, alla chiamata, si girò sulla porta dell'astronave e guardò George per spiegazioni. Lui non osò darne. Si diresse rapidamente alla rampa, spingendo Arthur davanti a sé. «Barbara, vieni. Penso sia meglio tornare indietro», disse. «Ma perché? Siete appena arrivati?», protestò Vee. Barbara si girò a metà e, vedendo il suo viso e la immobilità di Arthur, salutò la cugina e si avviò verso di loro. «Avete un sacco di tempo», gridò Vee. «Non hanno ancora acceso i segnali d'allarme.» Bix aveva afferrato Mariana per un braccio e i due si erano messi a correre. Barbara stava arrivando esitante. George il pericolo lo sentiva nell'aria, poteva quasi dire di vederlo. «Buon Dio!», gridò Vee. «Le luci di allarme sono accese e la cortina è abbassata! Non so nemmeno da quanto tempo!» Sembrò spaventata tutto a un tratto e si avviò verso di loro. George si guardò in giro. Se le luci lassù venivano accese, avrebbero avuto bisogno di un riparo, un riparo reale, e non era facile in mezzo a tutti quei trucchi scoprire quale fosse vero e quale falso. Con le cortine abbassate, ogni suono o vista degli altri era tagliata fuori. Uscire da quella parte era praticamente impossibile. Qui erano isolati veramente come se fossero effettivamente relegati su un altro pianeta. Ad aumentare la confusione, in quel momento si aprirono le sbarre delle gabbie attorno alla scena e una moltitudine di animali strani uscì nello spiazzo: animali di tutte le specie provenienti dall'intero sistema solare, utilizzati ai fini dello spettacolo. In un attimo si misero intorno al piccolo gruppo celandolo alla vista di tutti. George sentì il calore centuplicarsi e comprese senza osare guardare in alto che erano state accese le grandi luci. Vee stava singhiozzando e Tom stava correndo verso di loro gridando. Mariana era spaventata ed eccitata e si girò fiduciosa verso George. Barba-
ra si appoggiò a un masso con i grandi occhi verdi spalancati. Arthur gridò e Bix guardò teso George. «Celatevi dietro a questo masso!», ordinò a un tratto George. Gli strani animali si aggiravano sulla scena tra gli inconsueti compagni. «Cosa possiamo fare?», chiese Barbara. «Qualcuno sta cercando di ucciderci.» «Cambiatevi, pazzi! La nostra forma di lupo ci proteggerà dal calore. Dobbiamo uscire di qui, in fretta!», esclamò George. I tre si cambiarono in lupi. «E lei?», chiese Bix guardando Barbara. «Ebbene? Cosa pensi che possa fare?», rispose George a denti stretti. «Ancora pochi minuti e sarà morta.» Barbara stava già cambiando colore per l'esposizione all'intenso calore e cominciava a star male: sorrise confusamente a George. «Cambiati!», gridò Bix a George. «Un momento!», rispose questi. Affondò i denti nel polso della ragazza fino a farle uscire il sangue, e si cambiò lentamente, spingendo la ragazza a fare altrettanto. Barbara, in uno stato di semi-incoscienza, si rese conto solo a metà di quanto stava accadendo, ma fece come stava facendo lui e un momento dopo si vide sdraiata, ansante e scossa: una piccola lupa tremante. Si sentì immediatamente meglio e pian piano si acquietò, guardando sempre il suo corpo. Guardò poi George, e lui non poté capire quale fosse la sua reazione. Nel tumulto di animali era impossibile sentirla. Quando George e gli altri si erano celati dietro al masso, Tom aveva intuito la ragione e aveva afferrato Vee allontanandola rapidamente. Gli animali li avevano completamente nascosti alla loro vista e Tom ora era diviso tra la speranza che George avesse cambiato Barbara e la paura che lo avesse fatto. Era troppo confuso al momento per sapere se lo sperava o se lo temeva. Poi le cinecamere ronzarono: immediatamente Vee prese a recitare la sua parte, e Tom le lasciò andare il braccio e recitò la sua. Ora non c'era né tempo né opportunità di girarsi a guardare cos'era accaduto. I lupi non erano più acquattati dietro il masso. Protetti dalla mole degli animali, si erano diretti a trotto veloce verso le aperture dalle quali erano uscite le bestie. Barbara correva disordinatamente e Bix la incitava con testate nei fianchi. Mariana filava come un cervo e George era alla testa di tutti. Arthur si trovava dietro a Barbara, con gli occhi pieni di furia per l'autore dell'attentato. Non c'era ironia nei suoi occhi ora. Arrivarono ai cancelli e ci si infilarono sotto. Il guardiano degli animali
cercò di fermarli, ma poi, vedendo che si trattava di animali terrestri, capitati lì forse per errore, li lasciò andare. Sarebbero stati fermati all'altro cancello. Erano ora in un lungo tunnel oscuro, più freddo di parecchi gradi dello spazio esterno. George si guardò alle spalle e, vedendo che il guardiano non li osservava, disse: «Cambiatevi. Non usciremo mai di qui se non ci cambiamo. Svelti, prima che si giri!». Erano esattamente come prima del Cambiamento. Bix, che non era sicuro che sarebbero tornati alla loro Forma Interiore dopo il bagno e il cambio d'abiti, si sentì sollevato. Il pensiero di guidare una Mariana nuda attraverso un popolo anche se poco curioso, non attirava molto il vecchio guerriero. Barbara si guardò sconcertata, ma non c'era più tempo per parlare. «Andiamo», disse George. «Mi piacerebbe sapere chi è quel porco che ha acceso le luci con noi laggiù!», disse Arthur tra i denti. George accennò col capo al guardiano dall'altra parte della galleria e uscì dalla gabbia. Incontrarono pochissima gente da quella parte. Salirono scale e attraversarono corridoi, dirigendosi alla stanza di Tom. George avanzava deciso, senza voltarsi una sola volta a guardare Barbara. Bix, vedendo il suo viso, si mise a fischiettare sommessamente. Mariana era stranamente tranquilla e sottomessa. Arthur disse aspro: «Tu sai chi è stato ad accendere quelle luci!». «Posso immaginarlo», rispose George. «Ma perché?», chiese Mariana. «Taci!», scattò Arthur. Una volta nella stanza di Tom, George chiuse a chiave la porta. Mariana si lasciò andare senza fiato su una poltrona; Bix si sedette con calma e guardò interrogativamente George. Arthur era ancora furioso. «Voglio uccidere quel porco, e lo farò con questa forma. Voleva cuocerci, vero? E anche le due ragazze?» «Barbara era l'unica a correre un vero pericolo.» «Ma lui non lo sapeva!» «No, è vero. Ma non gliene importava.» «Ma perché», chiese, incapace di capire, Mariana, «l'hai cambiata, Ge-
orge? Non avevi detto che non dovevamo reclutare nessuno? Ed ecco che tu...» A questo punto Barbara si sedette e scoppiò in lacrime. 7. Bix bestemmiò tra sé. Arthur si sedette d'un tratto, come se non avesse pensato ancora a questa nuova complicazione. Mariana rimase immobile, stupita dall'esito delle sue parole. George si appoggiò alla parete con la testa tra le mani. «Cosa dirà Tom?», chiese alla fine Mariana in un sussurro rauco. George si girò di scatto. «Dio, non lo so! Ma che altro potevo fare? In nome del Cielo, non potevo lasciarla morire!» «No, non c'era altro da fare», aggiunse in tono deciso Bix. «Ma cosa facciamo ora? Lei non è più adatta a questa nostra vita di quanto lo sia Mariana. Anche meno. Non sa niente di noi e del nostro modo di vivere. Ringraziamo Dio di una cosa: che non è accaduto ai nostri tempi. Le conseguenze sarebbero state disastrose.» «Non sono tanto sicuro che non lo siano anche ora», disse Arthur, fissando il pavimento. George imprecò stancamente e si sedette. «Forse non c'è bisogno che si sappia», disse d'un tratto Mariana. «Nessuno ha visto il Cambiamento! E se lei resta in questa forma, nessuno saprà mai la differenza.» «Sei una pazza, Mariana», disse Bix. «La prima volta che vorrà baciare qualcuno e non potrà, lo saprà, anche se gli altri non se ne accorgeranno. La prima volta che qualcuno si accorgerà che lei non invecchia, il trucco sarà scoperto. La prima Luna Piena la tradirà.» Barbara aveva smesso di piangere e, col capo appoggiato alla parete, ascoltava apatica. «Be', fino a che qualcuno non tirerà le somme, noi saremo al sicuro», disse Arthur. «È una gran consolazione.» George guardò Barbara. «Come stai, Babia?», chiese teneramente. Barbara non si accorse del nomignolo confidenziale, ma gli altri tre alzarono di scatto gli occhi, con espressione di pietà e simpatia.
«Non lo so», disse semplicemente. «Proprio non lo so. Non posso tornare indietro... Non che rimpianga la vecchia vita, tranne che per Tom, ma non so cosa fare, ora.» «Quando io sono stata cambiata», cominciò Mariana eccitata, «c'era una festa e...» Bussarono alla porta. George andò ad aprire e si fece da parte per lasciare entrare il nuovo venuto. Era Tom. «Sono venuto il più presto che ho potuto. Ho pensato che potevate essere qui. Come avete fatto, in nome di Dio, a uscire vivi di là? E cosa è accaduto a Barbara?» «E qui ci siamo!», disse Bix rassegnato. «Barbara sta bene. È proprio qui», disse George. Tom si fermò e la guardò, stringendo spasmodicamente il bastone. «Come avete fatto a portarla fuori viva?», chiese. Nessuno parlò per un lungo momento. Poi Barbara si ricompose e sorrise. «Va tutto bene, Tom. Sto bene. Mi hanno cambiata in una di loro. Dopo che sono divenuta lupa, il calore delle lampade non mi ha dato alcun fastidio. Benché non riesca a capire perché ciò possa avvenire.» «Differente composizione del tessuto della pelle», disse Bix. «Sei come loro, allora?», chiese Tom nello stesso istante. «Sì.» Tom si girò di scatto verso George, appoggiato alla porta. «Non c'erano altri modi per portarla fuori di là, invece di gettare tutti i vostri problemi sulle sue spalle? Pensavo tu fossi mio amico!» «L'età illuminata», esclamò Barbara. «Cosa vorresti dire?» «Tu dovresti essere parte integrante dell'età illuminata. Ricordi? Tollerante verso tutti gli umanoidi, incurante delle forme o delle composizioni. Ti sono meno sorella, ora? Ho perso qualcosa di me stessa? Perché sei così furioso? Avresti preferito che friggessi là dentro?» «Tu non capisci. Le complicazioni di questa faccenda saranno... non ti sei ancora resa conto di cosa è...» George li interruppe. «Ormai è fatta. Vuoi che ce ne andiamo?» «E Barbara?» «Può venire con noi, o andarsene per conto suo, o semplicemente restare qui. Dipende solo da lei.» «Non potete lasciarla qui. Come farà senza aiuto? Penso che ci siano un
sacco di cose da imparare. E non vedo chi altro possa insegnargliele. E inoltre...» «Smettila di blaterare», Barbara saltò in piedi e si avvicinò al fratello sconcertato. «Hai affermato che questo uomo era tuo amico. Bene, se lo era allora, lo è ancora adesso. E lui è un Lupo Mannaro! Perché sei così arrabbiato ora che io sono come il tuo amico?» «Certo che è mio amico. Ma tu sei mia sorella. È diverso.» «L'amicizia è una cosa buffa. Non viene automaticamente solo perché la vuoi», disse George. «Non riesco a farvi parlare con senno», disse quasi a se stesso Tom. «Sei stato lontano dal Servizio Spaziale per troppo tempo», disse Barbara. «Sei tu quello che parla senza senso. Cosa vuoi che faccia? Che mi uccida?» «Ma, Tom», si intromise Mariana, profondamente stupita, «pensavo che noi ti piacessimo.» Tom guardò la ragazza e i suoi lineamenti si addolcirono. «Certo che mi piacete, Mariana. Penso solo che sono scosso per quanto è accaduto laggiù più che per quello che è successo qui. Mi abituerò prima o dopo», disse rivolgendosi a Barbara. «Datemi solo un po' di tempo.» «Bene», disse Arthur, «e così siamo a posto. Ora, come ho detto quando tu sei arrivato, dobbiamo vedere di trovare una soluzione.» «Un momento», disse Barbara scossa. «Mi rendo conto che dovrete insegnarmi a essere un Lupo Mannaro. Ma, prima di tutto, devo abituarmi io stessa all'idea. Sono scossa quanto Tom. Vorrei starmene da sola per un po' a pensare. No, non andrò lontano: solo qui, nelle stanze vicine.» «Va bene, va'», disse George, prima che Bix tentasse di discutere. Tom si era seduto accanto a Mariana e stava parlando con lei. «Quel che mi piacerebbe sapere, però, è chi ha acceso le luci», disse Arthur mentre Barbara si avviava alla porta. George si fece da parte per farla passare. «Ne discuteremo più tardi. Nel frattempo...» Barbara si chiuse la porta alle spalle e si avviò lungo il corridoio, volgendo la spalle al Grande Spiazzo, senza avere una meta fissa. Le stanze si susseguivano su entrambi i lati in una lunga fila, dato che la stanza di Tom era una delle ultime. Le stanze che seguivano erano usate come magazzini ed erano meno illuminate. Anche il corridoio qui era meno illuminato del resto. Esso sfociava in un altro enorme spiazzo, usato come magazzino, e lì erano riposti gli scenari più grandiosi, che servivano per girare film sul
passato e sul futuro. Barbara si sedette all'estremità di una grande sbarra di ferro e si prese la testa tra le mani. «Tom», disse George nella stanza, «sai chi è stato ad accendere le luci?» Tom smise di parlare con Mariana e alzò il capo. «Ho cercato di scoprirlo, ma con tutta la gente che c'era lassù, nessuno mi ha saputo dire chi c'era vicino al quadro degli interruttori. E, naturalmente, nessuno ha ammesso di averli azionati.» «Chi credi che stesse cercando l'assassino?» «Cosa intendi dire?», chiese Tom. «Esattamente questo. Eravamo in cinque laggiù che potevamo essere uccisi quando è stato azionato l'interruttore. Chi di noi cinque era il condannato? L'assassino non avrebbe avuto modo di sapere che noi quattro avevamo la capacità di assumere una forma immune al calore. Voleva uccidere me, Mariana, Bix, Arthur o Barbara? Non vedo alcuna ragione per cui qualcuno avesse intenzione di uccidere Bix. Non ha ancora fatto nulla che possa dare fastidio a qualcuno. Arthur? Qualcuno, geloso di Vee Gay, si sarebbe potuto infiammare a quel punto per il motivo che lei e Arthur stavano diventando amici?» «No. Vee ha un sacco di amici e non vedo alcuna ragione che qualcuno di loro avesse potuto essere geloso a quel punto di Arthur», rispose Tom pensosamente. «Bene, allora. Mariana. C'è qualcuno a cui poteva dar fastidio il fatto che tra voi due nascesse qualche simpatia?» «Be', c'è Millicent», rispose Tom imbarazzato. «Ma, per quanto ne so, non è nemmeno su questo pianeta. Lei e io progettavamo di sposarci», disse a Mariana. Prima che Mariana aprisse bocca, George continuò. «Però potrebbe essere qui. Io? Che tu sappia, nel mio breve soggiorno qui, mi son fatto dei nemici?» «Un sacco», rispose Tom mestamente. «Chiunque tema che tu riesca a persuadermi a lasciare il mio lavoro potrebbe avercela con te. Dovrebbe anche essere qualcuno troppo attaccato al denaro. Molti dei miei vecchi amici sono stati dissuasi dal convincermi, perché avevano paura che lasciassi tutto, anni fa. Ma non era un problema così grave allora. I miei amici avevano un lavoro a cui tornare e io sapevo perfettamente che non potevo tornare nel Servizio Spaziale. Ma ora è diverso. Hanno avuto più tempo per abituarsi ai soldi.» «Questo sembra includere un dannato sacco di gente. L'unico al quale
posso pensare che avrebbe desiderato di far del male a Barbara è Malcolm. Ma non è qui in giro.» «Un bell'elenco di omicidi potenziali», disse Tom. «I miei amici, la mia famiglia e la ragazza che avevo intenzione di sposare. E non stare a ripetermi perché mio cugino vorrebbe uccidere mia sorella. A questo punto non voglio sentirne più parlare.» Bix chiese: «Be', cosa possiamo fare?». «Penso che dovremmo tendere una trappola all'assassino e costringerlo a tradirsi», disse pensoso George. «E Barbara?», chiese d'un tratto Tom. «Dov'è? Se l'assassino è ancora qui è probabile che tenti un'altra volta se è lei la vittima predestinata.» «Non preoccuparti per lei», disse George. «Se fosse in pericolo, noi quattro lo sentiremmo immediatamente.» «Ma cosa ne sai della direzione in cui è andata e quanto lontano? Potrebbe essere troppo lontana per correre in suo aiuto! Come puoi essere stato così pazzo!» «Non penso sia stato molto saggio da parte tua...», cominciò Bix. «Cosa potevo fare? Dirle che non poteva lasciarci o sarebbe stata uccisa? Dirle che noi cinque non potevamo restare separati? È già abbastanza giù di morale ora, senza doverle dire anche tutto ciò», disse George esasperato. Arthur passò davanti a Tom e si diresse alla porta. «Lasciami passare, George», disse minacciosamente. «Andiamo, tutti», disse d'un tratto George, aprendo la porta. «E cambiatevi.» Tom li seguì rapidamente nel corridoio. Era troppo preoccupato per vedere quanto era strana quella sua alleanza con quel gruppo di lupi che fino a qualche attimo prima erano umani quanto lui. Si mise a correre per tenere dietro alla loro veloce andatura. «Lentamente ora», disse George. Arrivarono alla curva nel corridoio che Barbara aveva passato qualche tempo prima, ed entrarono nel grande spiazzo male illuminato che serviva da magazzino. Barbara era in piedi a una quindicina di metri di distanza, di spalle, e parlava con qualcuno in ombra. «Fermatevi!», disse George in un sussurro. Si accucciò dietro una sporgenza. Tom si lasciò andare al suo fianco e sentì le folte pellicce sul suo corpo quando Bix si accucciò dall'altro lato. «Cosa diavolo è quella?», chiese sottovoce Bix a Tom, indicando una
grande forma di fronte a Barbara nella cui ombra era nascosto qualcuno. «La bocca di una balena», rispose Tom. «Non so perché sei qui», udirono Barbara dire. «Sai perché sono venuto.» «Ma perché dovresti...?» «Sai a cosa dovrei rinunciare se i soldi di Tom non dovessero più arrivare? Ti rendi conto di cosa significa il mio modo di vivere per me?» «Che cosa ne avresti ricavato a comportarti a quel modo? Sei stato tu, vero, ad accendere le grandi luci?» «No. È stato il caro Malcolm. Ma io non l'ho fermato. In fondo il suo gesto serviva esattamente al mio scopo. Come avete fatto a uscirne? Vi siete nascosti dietro qualcosa? Se sei uscita tu, devono essere usciti anche gli altri.» «Sì. Lo avevi immaginato, vero? Altrimenti non saresti qui.» «Mi sarebbe dispiaciuto perderti», mormorò lui, accostandosi. «E sì che in tutti questi anni non mi hai lasciato molto sperare. Il mondo può dire di avere un fallito in più tra la massa. Non ti importa, vero?» «Dov'è Malcolm?» «Che preoccupazione! È... in un posto in cui non potrai mai trovarlo.» Barbara tacque, indecisa, per un momento, e la figura in ombra davanti a lei rimase immobile. Si levò un sogghigno dalla bocca della balena. Tom vide che George non era più al suo fianco. «Dov'è andato?», chiese a Bix. «Sta girandogli attorno e Arthur sta andando dall'altra parte. Puoi vedere Mariana a un paio di metri da Barbara sulla sinistra. George sta dando gli ordini silenziosamente. Col pensiero. Capisci cosa voglio dire?» «Telepatia.» «Zitto ora.» «In effetti, ho sempre odiato Tom», disse la voce in tono conversativo. «Perché lui ti ha sempre voluto bene.» «Nemmeno a lui sono mai piaciuto veramente. Ricevere delle ricompense da un uomo che odii è... be', anche lui ha i suoi gusti.» «Ma per quale ragione volevi uccidere George? Se Tom decidesse di andarsene, uccidere George non servirebbe a niente. E se non lo decidesse, che utilità ne avresti?» «Troppe tentazioni ha Tom con quel tale in giro. Dà troppo l'idea di posti lontani ed eccitanti. Tom è il tipo che si lascia impressionare da quelle cose, dopo un po'. Io avrei provato prima, ma voi tre ve ne andavate as-
sieme, così non ho trovato l'occasione. Quando tu hai chiamato a casa per dire che eravate qui tutti e tre, compresi che dovevo venire qui a mettere tutto a posto. Non c'era scopo di ritardare ancora.» «In questo modo rischi di indurre Tom a fare proprio ciò di cui hai paura.» «Tu non capisci la gente. Tom è abituato a questo nuovo tipo di vita facile. Non potrebbe lasciarla anche se lo volesse. Oh, certo, lui sogna di lasciarla. Ma non lo farà. I sogni non mi possono fare danno.» «E tu pensi che io te lo lascerei fare, solo perché...?» «No, probabilmente no. Mi spiace quanto a te, ma dato che mi hai trovato qui e hai immaginato cosa stavo per fare... A proposito, come hai fatto a immaginarlo?» «Ho sentito i tuoi pensieri», disse Barbara. «Davvero? Non c'è fine alle sorprese per quanto riguarda te. Non mi ero mai accorto che leggevi nella mente della gente. L'ho sempre detto che i più tranquilli sono sempre i più pericolosi. Che altro sai? Cos'altro fai che la gente non sa? Cosa sono tutti quei viaggi sulle montagne di cui ho sentito? Ci vai veramente per pensare come hai detto?» Tom poteva vedere George che si muoveva alla sua destra, arrampicandosi. La testa scomparve. Tom era così furioso che se non si fosse reso conto che un qualsiasi movimento avrebbe messo in pericolo Barbara, sarebbe andato lui stesso ad affrontare il misterioso interlocutore. Strinse i pugni sudati, con un gesto di impotenza. «Certo che no», rispose Barbara senza calore. Tom vide che lei chinava la testa, pensierosa, poi la rialzò e chiese: «Hai ucciso anche Malcolm?». «È poco gentile da parte tua pensarlo. Credi che mi piaccia uccidere la gente? Come puoi pensare questo di me?» «Pensi che io abbia intenzione di restare qui ferma a farmi uccidere da te e lasciarti attentare alla vita di George senza cercare di fare qualcosa?» «Non vedo cos'altro potresti fare, con questa carabina puntata su di te. Se ti muovi, questa deliziosa conversazione finirà sul più bello.» «Stai cercando me?», s'intromise George. Era ancora nella sua forma umana, in piedi a circa cinque metri sulla destra di Barbara e alla stessa distanza dalla bocca di balena. L'ombra sparò. Nello stesso istante George saltò giù dalla catasta e Barbara si girò verso di lui, gridando. «Non avvicinarti di più, George!»
Un altro sparo e Barbara girò su se stessa cadendo a terra. Tom e Bix si lanciarono in avanti. Mariana chinò il capo su Barbara e si accucciò al suo fianco in posizione di difesa. Arthur stava in piedi su una catasta alla sinistra. Si gettò giù senza cautela. I proiettili incendiari stavano appiccando il fuoco dappertutto. Tom si fermò accanto alla sorella, desiderando di avere in mano una vera arma, non il giocattolo che ancora stringeva inconsciamente. Lo gettò via. «Usciamo di qui. In pochi minuti qui ci sarà l'inferno!», gridò a Mariana e si chinò a raccogliere la fanciulla. Le fiamme stavano prendendo piede rapidamente, ruggendo quando incontravano legno secco e vernice. Arthur e George stavano convergendo da opposte direzioni verso la bocca della balena, zigzagando per evitare le fiamme. Gli spari della carabina continuarono per alcuni minuti. Un'esplosione scosse l'edificio, quando le fiamme raggiunsero un deposito di materiale altamente infiammabile nell'angolo più lontano. Tom uscì nel corridoio, e depose cautamente a terra il corpo della sorella. «Sta' con lei», disse a Mariana e tornò di corsa nel magazzino. L'olio sul suo corpo lo proteggeva dal calore, ma non dalle fiamme o dal fumo. Si chinò e si diresse verso il luogo della lotta. Poteva sentire ululati e mugolii e grida. Bix lo urtò tra il fumo, barcollando leggermente. «Per me è finita», disse e avanzò barcollando, perdendosi nel fumo prima che Tom potesse fermarlo. «Ti prenderò, sporco...!» Tom udì una voce superare il crepitio delle fiamme e il rumore dei crolli. Un gran pezzo di una casa prefabbricata di legno gli cadde addosso. La sentì bruciare e scavargli il braccio. Il dolore era intenso. Guardò il sangue che colava sul pavimento dalla larga ferita. Qualcosa lo colpì in testa e lui cadde al suolo. «Dov'è Tom?», chiese Mariana qualche minuto dopo vedendo Bix apparire nel corridoio. «Non lo so. L'ho incontrato là dentro. È la mia ora, Mariana.» Si appoggiò pesantemente al muro, nel corridoio e scivolò al suolo. Mariana impallidì. Si morse le labbra per impedirsi di piangere. «Cosa posso fare?», chiese lamentosamente. «Non guardare. Lasciami solo.» Stava riprendendo la forma umana. Aveva gli occhi chiusi per il dolore e la debolezza. Il corpo di Barbara giaceva ancora immobile dove l'aveva lasciato Tom. Mariana guardò la ragazza. Le sembrò di vederla muoversi
appena. Bix era morto o stava morendo. Non poteva fare nulla per lui. Anche Barbara ora era immobile. Mariana si girò e corse nella sala in fiamme. Sentì delle voci che gridavano dall'altra parte del corridoio e rumore di passi in corsa. Il fumo cominciava a uscire nel corridoio. La stanza era un inferno di fiamme e detriti che crollavano. Mariana si girò. Se stava arrivando aiuto e Barbara e Bix avevano una possibilità di cavarsela, avrebbero avuto delle cure. In ogni caso lei doveva trovare Tom. «Cosa stai facendo qui dentro?», le chiese Arthur tra il fumo, andando ad urtarla. «Devo trovare Tom. Tu stai bene?» «Non lo so. Sì, credo di sì», disse debolmente Arthur. «Be', è meglio che ti cambi in forma umana», disse rapidamente Mariana, «sta arrivando gente. Se vuoi che ti aiutino è meglio che tu sia riconoscibile.» Arthur scosse il capo come per schiarirsi le idee, scrollò le spalle e rise. Si cambiò e uscì, lasciando la ragazza da sola. Lei si cambiò a sua volta e cominciò a strisciare sul ventre. C'era molto meno fumo a quell'altezza. Gli odori nella stanza si confondevano, ma le sembrò di sentire l'odore di Tom poco distante. Continuò. Tom giaceva svenuto di fianco a una statua che lo aveva protetto dalle travi che crollavano. Mariana lo guardò impotente. Era troppo grande per lei; non era affatto sicura di riuscire a tirarlo fuori da sola. C'era poco tempo per pensarci sopra. In qualsiasi momento qualcosa poteva crollare e seppellirli. Se fosse stata colpita, sarebbe morta. Cominciò a tirare disperatamente Tom, camminando faticosamente sulle mani e sulle ginocchia. Una volta le sfuggì la presa e si fermò ansimante. Poi lo riafferrò e riprese ad avanzare. Dopo un po' il fumo sembrò meno denso. Cominciò a essere più chiaro. Di fronte ai suoi occhi vedeva delle girandole luminose. Tossì e boccheggiò per respirare. Dopo un'eternità delle mani la presero. Lei si tirò indietro di scatto. «Lasciatemi andare. Devo salvare lui», disse. «Lo abbiamo preso. Fatti forza, ora ti tiriamo fuori di qui», disse una voce, e lei si sentì sollevare e portar via. «Doveva capitarci proprio bella!», udì Arthur esclamare. Era sdraiata in un letto in una stanza piena di letti. Un medico era chinato su qualcuno in un angolo. L'aria era fresca e pulita ed era tranquilla. Si alzò a sedere e gettò i piedi giù dal letto. Fissò Arthur sdraiato placidamen-
te sul letto accanto. «Siamo qui tutti?» Arthur scosse il capo. «Bix è morto. Stanno bruciando il suo corpo, ora, prima che si disintegri. Ho insistito per far ciò, prima che succedesse. Io sono un po' conciato, benché non seriamente. Barbara è piuttosto malridotta. Non sono ancora molto ottimisti, comunque hanno tolto il proiettile. E George è scomparso.» Mariana lo guardò con orrore. «In quella stanza?» «Credo. Avevo azzannato quel porco vicino alla balena, ma qualcosa mi cadde addosso e lui si liberò. Lui e George stavano lottando assieme. L'ultima volta che li vidi si stavano rotolando sul pavimento. Quando riuscii a tirarmi fuori da sotto ciò che mi era caduto addosso, non riuscii più a trovarli. Non riuscivo a vedere un accidente con quel fumo, comunque. Poi ho incontrato te e sono uscito.» «E Tom?» «Sei diventata un'eroina, ragazza. Dopo qualche cucitura e qualche pezza, starà benone. È laggiù nell'angolo. Il dottore lo sta rimettendo in sesto. Barbara è dietro quel paravento nell'altro angolo. Gente, avremo da divertirci a spiegare tutto ciò! Sono già venuti qui due porci di nome Carlyle e Cragstead che mi hanno chiesto una spiegazione. Pare che pensino sia tutta colpa nostra. Non è mai successo niente del genere prima che noi tre ci facessimo vivi! Vee sta cercando di farli ragionare, ma al momento non intendono assolutamente niente! Essi c'incolpano.» «Incolpare noi? Perché non gli hai detto la verità?» «Non mi crederebbero. Inoltre non sono riuscito a vedere bene chi fosse l'amico nella bocca della balena per dire esattamente chi era. O se era un uomo o una donna. Ero troppo furioso per preoccuparmene. Vee pare che abbia la reputazione di essere un po' svanita, dato che nessuno sembra prenderla sul serio. Lei e Tom sono i soli oltre a Barbara che possano garantire per noi. Tom e Barbara al momento non riescono nemmeno ad aprire gli occhi, figuriamoci poi a parlare. Siamo in un brutto pasticcio, Mariana. Si preoccupano di più della ferita di Tom che della morte di Bix e di George e delle ferite e dello shock di cui io e Barbara siamo vittime.» «Credi veramente che George sia morto?» «Tu no? Annusa. Non è in nessun posto in questa caverna. Credi che sia uscito da quell'inferno così velocemente da uscire del tutto? E quando se ne è andato? Tu eri nel corridoio quasi contemporaneamente a me.» In quel momento si aprì la porta e quattro uomini in uniforme entrarono
con Carlyle, Cragstead e Vee Gay. 8. «Perché non cominciate dal principio?» «Ancora?», chiese Mariana. «Sì, ricominciate dal principio e noi vi interromperemo se vorremo domandarvi qualche precisazione.» Mariana guardò impotente Arthur, si schiarì la voce e guardò il Capitano Warhaus della Polizia Distrettuale. Erano in una vasta stanza soleggiata all'ultimo piano del Palazzo dell'Amministrazione Cittadina, a White Gold City. Arthur e Mariana erano stati presi in custodia quasi subito e interrogati. Poi erano stati portati là e posti ancora sotto interrogatorio. Era passata quasi una settimana dalla battaglia della balena come la chiamava Arthur. George, Malcolm e la figura intravista accanto alla bocca della balena erano scomparsi. Tom era ancora incosciente. Vee Gay aveva cercato di essere di aiuto in qualche modo, ma non aveva potuto far granché. Barbara era tornata in sé tre giorni prima ed era scomparsa a sua volta dalle caverne. Mariana, al corrente di tutto, provò un'ondata di disperazione. Non avrebbero mai creduto a lei o ad Arthur! E per quanto non pensasse di cambiarsi di fronte a quella strana gente e fuggire o usare qualsiasi altro potere, era convinta che non restava altro modo per scagionarsi dalle accuse di omicidio, incendio e assalto. «Bix Biergratzen, Arthur Clicks e io arrivammo alle caverne nello stesso giorno dell'incendio», disse Mariana. «Come ci siete arrivati?», chiese Warhaus. Fino a quel momento, Mariana e Arthur erano stati comprensibilmente reticenti al riguardo, ma con imputazioni molto più serie a loro carico, disse disperatamente: «Ci siamo arrivati con un'astronave dall'Europa», disse, sperando di distrarre la loro attenzione dal discorso principale. Arthur fischiettò sommessamente e guardò fuori dalla finestra. Mariana aveva avuto ragione. Distolse effettivamente l'attenzione del capitano dall'incendio e dalla battaglia. «Un'astronave? E come avete fatto ad arrivare dall'astroporto alle caverne?» «Perché?», chiese Arthur, col tono di chi non ha capito.
«Perché nessuno si ricorda minimamente di avervi visto all'entrata, e inoltre abbiamo solo la vostra parola per il fatto che siete arrivati quel giorno», rispose il Capitano con estrema gentilezza. Arthur lo guardò furbescamente. «Non siamo arrivati dallo spazioporto», disse. «Siamo arrivati con l'astronave che era parcheggiata proprio di fronte alle caverne quando voi ci avete portato fuori.» «E come avete fatto a procurarvi l'astronave?» «Dovreste saperlo molto bene. L'ho rubata. La ragione per cui nessuno ci ha visti uscire dall'altra porta della nave è perché tutti erano troppo occupati a guardare l'astronave per vederci entrare nel tunnel. Questo risponde alla vostra domanda?» «Altroché. Dunque ammettete anche il furto, allora.» «Sì». «Va bene, signor Clicks», rispose Warhaus. «Signorina Di Paoulo, ora potete riprendere da qui.» «Poi entrammo nella caverna», riprese Mariana guardando la porta dell'ascensore davanti alla quale stava una mezza dozzina di guardie, «e sbucammo su una balaustra che sovrastava quello spiazzo pieno di luci e altre cose. Il nostro amico George...» «Che finora non siamo stati capaci di trovare o di rintracciare... Continuate, comunque.» «Ma esiste, ve lo garantisco! Chiedetelo ai McGillicuddy!» «Hanno detto di non averlo mai visto prima di quella volta in cui venne a mangiare nella loro casa e di non sapere assolutamente niente di lui.» «Va bene, va bene. Il nostro amico George ci venne incontro sulla balaustra e ci portò nella stanza di Tom Gill, come lo chiamate voi. E restammo seduti a chiacchierare per un po' fino all'arrivo di Tom.» «E Barbara McGillicuddy era nella stanza con voi?», chiese Warhaus. «Sì, Barbara era là, e mi ha anche ordinato questo abito nuovo.» «Chiunque può operare il pannello dei comandi da solo. Non è una giustificazione valida che provi la presenza di una persona.» «Be', comunque c'era! Poi Tom tornò al suo lavoro...» «E non disse a nessuno che la sua stanza era piena di amici», aggiunse Warhaus. «Vee lo sapeva!» «La versione della signorina Gay è così contraddittoria e confusa che temo proprio non potremo crederle.»
Mariana si portò le mani tremanti alle guance e alzò gli occhi e deglutì. «Be', eravamo là e credo che voi dobbiate sapere che c'eravamo, perché un sacco di gente ci ha visti scendere dalla scaletta assieme a Vee; e George era con noi.» «Voi e la signorina Gay siete state certamente notate. Poi, al momento in cui vennero accese le grandi luci, quando cioè voi eravate ancora laggiù, il signor Cragstead gettò un'occhiata in basso per assicurarsi che non ci fosse nessuno, e giù non c'era nessuno.» «Eravamo nascosti dietro a un masso fino a quando degli animali ci circondarono, poi ci mettemmo a correre ed entrammo nella galleria dalla quale erano usciti gli animali e uscimmo di lì.» «Il guardiano all'entrata delle gabbie giura che nessuno di voi, compresa la signorina McGillicuddy, è uscito da quella parte e che c'erano solo animali che giravano. Poi siete stati visti dal guardiano dall'altra parte del corridoio che non può giurare di avervi visto uscire o passargli davanti lungo il corridoio stesso.» «Vee ci ha visto laggiù quando sono state accese le luci.» «Sì, infatti l'ha detto. Ma non ha detto di avervi visto correre attraverso la scena. Infatti, secondo il suo racconto, Tom Gill la fece girare proprio nel momento in cui vennero accese le grandi luci e la sua descrizione su quando ve ne andaste è abbastanza vaga da farci pensare che abbiate potuto benissimo prendere l'ascensore prima dell'accensione delle luci. Inoltre, quell'incidente non è ciò di cui vi si accusa.» Se il Capitano sperava di incastrare i due prigionieri cercando di farli cadere in qualche trabocchetto, l'effetto che ottenne fu diametralmente opposto. Infatti Mariana cominciò a parlare in modo incomprensibile e Arthur sprofondò in un ostinato silenzio. «Continuate, signorina Di Paoulo.» «Bene, bene, dunque... non ricordo cosa stavo dicendo.» «Eravate nella stanza di Tom Gill con Miss McGillicuddy.» «Ed eravamo in procinto di andarcene, quando la signorina venne verso di noi correndo, offrendoci di farci visitare le caverne. Andammo alla spianata e sapete cosa accadde, o almeno io ve l'ho detto e voi non mi credete. Poi uscimmo dal corridoio degli animali e camminammo fino a che non arrivammo alla stanza di Tom Gill.» «E aveste una discussione di cui non volete parlarci.» «Esatto. Poi entrò Tom perché era preoccupato di sapere se ci eravamo ustionati col calore emanato dalle grandi luci. Quindi lui e George si arrab-
biarono, e Barbara uscì per andare nella stanza dove c'è stato l'incendio.» «Un momento», l'interruppe Warhaus. «Dite che eravate nella caverna solo da qualche ora. Come avete fatto ad andare dalle gabbie alla stanza di Tom Gill senza chiedere a nessuno di condurvici?» «Sapevamo dov'era Miss McGillicuddy e la strada per arrivare al magazzino.» «Ma allora, ovviamente Tom era con voi?» «Sì, c'era, ma era George che ci guidava, perché Tom non sapeva dove fosse andata Barbara. Poi ci nascondemmo dietro a qualcosa perché Barbara era in piedi in mezzo alla stanza e parlava con qualcuno nascosto nella bocca della balena. Quella persona diceva che avrebbe voluto uccidere George perché temeva che lui convincesse Tom a lasciare il lavoro e che lo temeva perché lui aveva bisogno dei soldi che Tom guadagna col suo lavoro. Ma non era stato lui,» continuò a dire «ad accendere le luci, ma Malcolm, per uccidere Barbara. Poi George e Arthur si avvicinarono a quella persona senza farsi scorgere dai due lati. George si alzò e richiamò su di sé l'attenzione. Quel tizio allora sparò prima a George, poi a Barbara e Barbara cadde. Quindi si mise a sparare tutto intorno alla stanza. Io corsi verso Barbara per vedere se era viva. Tom arrivò poco dopo e la portò fuori dalla stanza. Io andai con loro, e Tom mi pregò di rimanere accanto a Barbara. Poi lui tornò dentro. Gli spari, intanto, avevano appiccato il fuoco nel magazzino e io potevo vedere il fumo e le fiamme e udire le grida. Bix venne fuori poco dopo e mi disse che erano ancora dentro. E furono le sue ultime parole. Allora corsi dentro per cercare Tom, e incontrai Arthur, poi trovai Tom e lo trascinai fuori. Né io né Arthur vedemmo l'altra persona o George, dato che Arthur era stato ferito prima di potersi avvicinare.» Vi fu un lungo silenzio. Mariana non sperava di essere creduta. Guardò disperatamente Arthur e lui annuì impercettibilmente e gettò uno sguardo a una porticina in un'altra parete. Era guardata da due soli uomini e Mariana pensò che doveva dare sulle scale o in qualche uscita secondaria. Scappare avrebbe peggiorato la loro situazione, ma ormai non c'era più niente da fare. In caso di condanna avevano due prospettive. Prima la camera a gas, cioè una lunga e orribile agonia. Naturalmente non sarebbero morti, ma la cosa avrebbe tradito inutilmente il loro segreto. Seconda, la deportazione sulla colonia penale sulla Luna, cosa che li avrebbe allontanati da George, dagli altri della razza e dalla libertà: era come essere sepolti vivi. Il Capitano Warhaus si sedette e accese una sigaretta.
«Voi ci avete detto la vostra storia e ora io vi dirò la nostra. Voglio farvi capire che tali menzogne non vi saranno di alcun aiuto e che anzi, alla fine, vi saranno nocive. Io e i miei uomini pensiamo che voi due, quel Bix e quell'altro George, steste complottando per spillare un po' di quattrini a Tom Gill, per qualche suo passato segreto. Secondo la famiglia di Tom, quel George sembrò strano fin dall'inizio e Tom sembrava aver paura di lui. Su come poi venne coinvolta anche Barbara McGillicuddy, posso solo fare delle supposizioni. Posso suggerire o che lei era con voi nel complotto o che, venutane a conoscenza, voi quattro abbiate cercato di sbarazzarvene e non ci siate riusciti. Tom, sua sorella e questo George andarono direttamente alla casa nelle montagne. Barbara se n'era andata senza dir nulla in casa, lasciando però un biglietto in cui diceva di essere in un determinato posto. I McGillicuddy dicono che, mentre non era strano per Barbara andarsene da sola come aveva fatto, era molto strano invece andarsene nel mezzo della notte senza dir niente a nessuno. Presumibilmente aveva già scoperto il complotto e stava andando dal cugino Malcolm, col quale sembra essere stata in ottimi rapporti, per avere da lui un aiuto. Malcolm è scomparso da casa sua la notte in cui lei lasciò la casa e non è più stato visto da allora. In quel momento tre di voi saltano fuori dalle caverne e questo lo sanno tutti ormai: anche gli altri di voi si aggregano a Tom. Tutti insieme, poi, vi recate nella stanza di Tom Gill, e là, lo avete ammesso voi stessi, Tom e questo George litigano e Barbara si unisce al litigio, poi corre fuori della stanza. Quando il fratello tenta di seguirla, voi quattro seguite lui e, trovando lui e Barbara e probabilmente anche Malcom, vi rendete conto che la faccenda sta degenerando e decidete di appiccare il fuoco alla stanza. Sorprendentemente Barbara non venne ferita malamente, ma Tom sì. Non sappiamo ancora se sopravviverà o se troveremo i corpi di questo George e di Malcom tra le rovine del magazzino. Ora, se direte la verità, per voi sarà tutto più facile.» Si appoggiò allo schienale della sedia e li guardò sorridendo. Arthur, un tipo che non aveva mai creduto troppo nella legge, rinunciò completamente a difendersi. E Mariana, ormai terrorizzata, era disposta a seguire le direttive di Arthur. Guardò Arthur: Arthur annuì e si cambiarono. L'effetto di ciò su Warhaus e sulle guardie fu istantaneo. Il Capitano saltò in piedi estraendo la pistola e gridò ai suoi uomini di fermarli.
«Fermatevi o sparo!», gridò. Arthur aveva già aggirato le sedie e la scrivania e si dirigeva verso la porta sorvegliata da due sole guardie, con Mariana che correva al suo fianco. Il Capitano prese la mira e sparò. Le due guardie, vedendo i due lupi, andarono loro incontro, alzarono i fucili e spararono a loro volta. La porta si chiuse dietro i due lupi che si erano precipitati giù per le scale. Le due guardie spalancarono la porta e si chinarono lungo la balaustra circolare, con tutte le altre alle loro spalle. I lupi stavano ancora andando molto veloci, ed erano già a una ventina di metri più in basso. Spararono ancora. Uno dei due animali fece un salto di lato, ma continuò a correre. Le scale, raramente usate, erano illuminate solo da fioche lampade e non avevano finestre. Le guardie e tutti gli altri presenti nella stanza, con alla testa Warhaus, si precipitarono giù. Quando arrivarono in fondo, all'aperto, dopo aver sparato in continuazione, senza tuttavia essere riusciti a fermare i due lupi, questi erano scomparsi. Il viale non era affatto sossopra, come avrebbe dovuto esserlo per la comparsa improvvisa di due lupi. Nel parco che correva lungo il centro della strada e lungo i marciapiedi piastrellati non c'era nessuno che assomigliasse ad Arthur o Mariana. I poliziotti rinunciarono e tornarono agli ascensori. Il Capitano Warhaus era fuori di sé. «Avevo ragione! Diramate un allarme generale per quei due! E anche per quel George, se per combinazione è ancora vivo!» «Come avete fatto a sapere che ero qui?», chiese Vee alzandosi in piedi, nella sala d'attesa della Centrale di Polizia. «Lascia perdere», ansimò Arthur. «Dobbiamo uscire di qui. Puoi nasconderci?» Gli occhi di Vee scintillarono d'eccitazione. Senza chiedere altre spiegazioni, si guardò rapidamente in giro nella stanza. C'erano un paio di persone apatiche in attesa e nessun poliziotto, e i due non prestavano loro la minima attenzione. Vee raccolse il mantello col cappuccio blu elettrico e lo gettò a Mariana, poi uscì con loro dalla stanza. Arthur si era cacciato il cappello floscio fin sopra le orecchie e, a testa bassa, le seguì. Una volta in strada, Vee si diresse al posteggio e chiamò un elitaxi. L'elitaxi aveva il comando automatico e si poteva, componendo la destinazione, usufruire dei comandi elettronici, mentre gli amanti dell'avventura, potevano usare i comandi manuali. Vee decise di guidarlo a mano. Mariana sprofondò nel sedile, ansimante ed esausta per la corsa dalle scale,
tenendosi il braccio ferito stretto fra le pieghe del mantello. Arthur osservò la ferita fresca che aveva nella gamba e nella spalla e, decidendo che non poteva farci niente al momento, diresse la sua attenzione su quanto lo circondava. Erano usciti dal quartiere commerciale della città e stavano sorvolando terrazze coperte da giardini pensili. Più in alto c'erano le arcate dalle quali si poteva entrare nelle case o negli alberghi. Vee diresse l'elitaxi verso una di quelle arcate e atterrò. I tre scesero ed entrarono in un lungo atrio. La gente andava e veniva e nessuno prestò loro attenzione. La mancanza di curiosità della gente, che era stata tanto nociva per sostenere il loro alibi, ora serviva egregiamente. Si fecero assegnare tre stanze ed entrarono in tre porte diverse, dopo aver coperto una distanza enorme tra corridoi e scale mobili. Le stanze erano uguali a tutte le altre e, oltre all'indispensabile pannello di comandi, avevano un divano-letto, delle sedie, un televisore murale e un tavolo. Mariana si tolse il mantello e si gettò sul letto. Arthur si sedette su una sedia nella stessa stanza e Vee rimase in piedi a osservarli. «Cos'è successo?», chiese. «Oh, ma siete feriti.» «C'è modo di curarci senza che qualcuno parli troppo?», domandò Arthur. «Be', sì, se non sono ferite serie. Posso ordinare bende e disinfettanti.» Fece seguire l'azione alle parole. Mentre li aiutava a fasciare le ferite, Arthur aveva recuperato il fiato, e Mariana si era seduta sul letto sconsolata. «Ci sono un sacco di cose che tu non sai in questa storia», disse Arthur preoccupato. «E non credo che tu ne debba essere coinvolta. Se sei certa che qui non ci troveranno per un po', è meglio che te ne vai e ci lasci arrangiare da soli d'ora innanzi. Grazie di tutto e...» «Non resterei fuori da tutto questo per niente al mondo», disse Vee con franchezza. «Oh, diglielo», disse stancamente Mariana, osservando un lungo strappo nel suo abito. Così Arthur raccontò a Vee dei Lupi Mannari e la scena accaduta nell'ufficio del Capitano Warhaus, poi riassunse quel che era accaduto in precedenza. «Così, vedi», finì Arthur, «non potevamo dirgli la verità, perché non ci avrebbe creduto o, se ci avesse creduto, ora ci troveremmo in una situazione ancora peggiore.» «Così è questo che è successo!»
«Credi che George e quella persona siano veramente morti?», chiese Mariana. «Non so», rispose Arthur. «Certo che se scavano abbastanza profondamente nelle rovine del magazzino, potranno trovare il corpo di quella persona e magari anche quello di Malcolm, se si trovava lì. Ma non troveranno quello di George, perché a quest'ora si sarà già disintegrato. Ci troveremo quindi daccapo.» «Se non trovano il corpo di George, cioè se lui è veramente morto, cercheranno di gettare tutto sulle tue spalle. Il guaio è», continuò Vee con insolita gravità, «che oggigiorno capitano così raramente cose del genere, almeno sulla Terra, che saranno inclini a cercare di finire alla svelta tutta la faccenda e farla finita, in modo da non pensarci più.» «Certo mi piacerebbe proprio che ci fossero qui alcuni dei ragazzi, per una bella battaglia», esclamò Arthur. «Be', hai detto che avete un sistema di chiamata. Perché non fare una chiamata generale e vedete cosa succede?», chiese Vee. Mariana e Arthur si guardarono. «Non so quanto potrà andare lontano e sono quasi certo che non arriverà lassù», disse Arthur indicando il cielo. «Se sono lassù non potrebbero comunque arrivare in tempo per aiutarvi, né io posso portarvi fuori dai posti di blocco o lontano dalle pattuglie aeree, né voi potete certamente andarvene così, come se niente fosse. C'è troppa gente che vi cerca. Che vale pensarci, dunque?» Arthur meditò su quelle parole, mentre Mariana lo osservava ansiosamente. «Proverò, ma vado nell'altra stanza.» «Non dimenticarti di mangiare», disse Mariana sempre pratica. Arthur indicò col capo il pannello. «Credo di saper maneggiare abbastanza quell'aggeggio per procurarmi qualcosa da mettere sotto i denti. Mi chiudo dentro a chiave. Voi due state qui e, Mariana, se dovesse accadere qualcosa, non preoccuparti per me, ma cerca di filare. Io vedrò di cavarmela da solo se posso.» «Come farà?», volle sapere Vee. «Non lo so esattamente. Viene fatto raramente. Cercherà di mettersi in contatto con George per prima cosa, dato che George è un Capo e ha poteri più forti dei suoi. Assieme possono farlo, anche se George è piuttosto lontano. O, se non riuscirà a entrare in contatto con George, dovrà cercare qualcun altro con un singolo fascio di onde. Se non riesce a raggiungere
nessun Capo, dovrà emettere un messaggio a brevissimo raggio di una sola parola, e tenerlo fino a che qualcuno non lo raccolga e corra in aiuto. Quando Bix chiamò George, in modo da poter dirigere quella specie di nave fino a lui, George emise un fascio costante per guidarci.» «E possono fare anche altre cose, nel frattempo?» «Certo, perché no? A volte non pensi a qualcosa mentre stai facendo qualcos'altro? È uguale. Ora, posso avere qualcosa da mangiare e magari un nuovo abito?» Nella stanza accanto, Arthur stava mangiando e nel contempo emetteva un lungo fascio d'onde di pensiero. Il fascio vibrò, girò in cerchio, sempre più lentamente, man mano che esso si allungava. Arthur finì il pasto, poi premette il pulsante delle sigarette. Ne accese una ammirando la carta dorata, e nel frattempo l'onda telepatica si allungava sempre più. Poi, in uno dei lunghi, lenti giri, dopo circa un'ora, ebbe un contatto. Se ne accorse subito, come se la sua mente avesse incontrato un ostacolo. «Pericolo», emise. «Sono qui», venne la risposta. «Chi sei?» Il contatto era fissato e il fascio si irrobustì. «George, dannato pazzo. Chi credevi che fossi?» «Fatti riconoscere.» «Una volta abbiamo invaso un pollaio di un contadino nel 1513 e abbiamo incontrato un cane che si chiamava...» «George!» «E io che cosa ho detto? Dove sei? Dove sono gli altri? In che guai sei?» «A White Gold City. Posso guidarti fino a qui, ma sta' attento. Siamo scappati. Mariana è con me e sta bene. Bix è morto.» «Bix? Dio!» «Ci hanno accusato di tentato omicidio, incendio e chi più ne ha più ne metta. Vee Gay è qui e siamo nascosti. Sto cercando di mettermi in contatto con qualcun altro dei nostri per farli venire qui e aiutarci a toglierci dai guai. La città intera ci sta alle calcagna e probabilmente sta cercando anche te.» «Dove sono Tom e Barbara?» «Tom è ancora senza conoscenza nelle caverne coi medici, e Barbara è scomparsa tre giorni fa.» «Va bene, vi aiuterò, ma sta' calmo e tieni duro. Vi metterò in salvo quanto prima. Sei certo di essere in un luogo sicuro là dove siete adesso?»
«Per il momento, sì.» «Chiama se entra qualcuno. E sta' attento. C'è altra gente che può parlare con la mente di questi tempi e incidentalmente possono entrare nella nostra frequenza. È già accaduto una volta.» «Sono pronto.» «Va bene. Cominciamo.» Lontano tra le montagne dov'era George e nella città dove era nascosto Arthur, il singolo fascio si fece allargato e potenziato, fino a che Arthur sentì la testa in fiamme, come se dei martelli gli battessero dentro. Il dolore quindi cessò e il raggio continuò sempre più forte tra di loro. Poi si diramò da loro come il fascio di luce di un faro, girando, avanti e indietro, avanti e indietro. «Ehilà!», venne un pensiero distante. «Chi siete?» «George Adrian e Arthur Clicks del Branco del Capo Kirskanpitan. E voi chi siete?» «Capo Fiereau, ex sottoluogotenente del Capo Kirskanpitan. Come stai, vecchio amicone? Cosa fai qui? Credevo che ormai tu fossi fuori causa! E anche Arthur!» «Lascia perdere i convenevoli. Ascolta. Quanti siete?» «Sei più me. Perché?» «Abbiamo bisogno di aiuto qui. C'è una lotta che sta maturando.» «Una lotta? Ci sto! Tenete duro e niente battaglie senza di me. Tieni il raggio costante e arrivo.» «Dirigiti verso il Nord-est della chiamata. Non puoi arrivare fino ad Arthur senza incorrere in fastidi. C'è qualcun altro in giro?» «Puoi provare a Nord di qui. Dovrebbe esserci un Branco abbandonato da quelle parti e dovrebbe essercene un altro in Asia.» «Mettiti in cammino. Se vieni, però, sono io il Capo ora.» «Per me va bene.» La chiamata si allungò, lontano; lontano, oltre Fiereau. Vi fu un lampeggiare a Nord. «Non seccarci ora. Siamo nel mezzo di una battaglia per del cibo. Chiama più tardi.» «Va bene.» George diede le loro coordinate e la mente del Nord tacque. La chiamata si spinse ancora più lontano, a centinaia di miglia di distanza. Migliaia di miglia. Arthur era quasi allo stremo delle forze, tranne che per quel fuoco vivo e per quel fascio di onde nel cervello, e George era sdraiato sotto dei cespugli ora, silenzioso e immobile. La chiamata conti-
nuò ancora e ancora, fino a che Arthur pensò che il cervello gli si spaccasse e poi, finalmente, ci fu il contatto! «Chi è?» Il messaggio venne ripetuto. Un altro Branco, disperso tra le montagne e i deserti dove non viveva alcun uomo, rispose cordialmente. Una battaglia era sempre la benvenuta, e inoltre era bello trovarsi ancora una volta tutti insieme, dopo anni, secoli di solitudine e isolamento. Un Branco formato da nove Lupi Mannari. Ora il fascio era fermo e tranquillo, fisso nel suo punto per guidare le due bande, quella di Fiereau, e quello di Aslaut dall'Asia. A un certo punto Fiereau disse: «Posso fare il resto della strada senza guida. Ho individuato la tua posizione, George. Buona fortuna». Ad Aslaut occorse più tempo. Il tempo passò senza significato. Alla fine venne la chiamata. «Sto arrivando. Spegni. So dove siete ora. Aspettatemi.» Il fascio si restrinse e si accorciò, poi si spense. George diresse debolmente alla fine verso Arthur: «Stiamo arrivando. Sta' attento». E la chiamata finì. Arthur cadde in un sonno profondo, completamente privo di forze. 9. Tom si guardò attorno. Non si erano accorti che era sveglio e lui non si tradì. Fino a che lo credevano privo di conoscenza, avrebbero parlato liberamente di fronte a lui. E, fino a che non avesse riacquistato tutta la sua forza, non voleva che gli nascondessero notizie dei suoi amici. Tutto ciò che era accaduto era stato commentato dalle persone che entravano e uscivano dalla stanza dell'ospedale. La gente nei corridoi ne parlava a bassa voce. Tom era rinvenuto tre giorni prima, quando l'inchiesta era già stata iniziata. Sentendo che George, Bix e Malcolm si presumeva fossero morti e che Mariana e Arthur erano sospettati di omicidio, era stato afferrato dall'ira contro quei Lupi Mannari per quanto era capitato a sua sorella. Ma in principio se ne era stato tranquillo. Poi, quando Mariana e Arthur erano fuggiti e Vee era scomparsa, si era acquietato e aveva cominciato a pensare. La fuga assolutamente sensazionale di Mariana e Arthur aveva posto un
freno alla sua immaginazione. C'era una certa confusione nella sua testa: lo sconosciuto appostato dietro la bocca di balena, Malcolm e l'accensione delle grandi luci, erano mescolate insieme nel suo cervello. Cos'era accaduto allo sconosciuto della caverna, a cui nessuno sembrava voler credere? Sentì che Millicent era tornata e, quando venne a trovarlo, lui la guardò sospettosamente, chiedendosi se il desiderio di danaro era un motivo valido per farle tentare un omicidio. Ma era difficile leggere in Millicent, in quella bellezza bionda e fredda che non mostrava alcuna espressione. Nemmeno con lei Tom si tradì. Vennero altri. Jack, rimase in piedi, da parte, scosso e preoccupato, con la camicia a grandi fiori colorati. Papà McGillicuddy agitava le mani con fare drammatico. La mamma, sempre pigra, passava più tempo a cercare di attirare l'attenzione dei giovani medici che a guardare suo figlio. Zia Carla era sempre sofisticata. Zio Horace, con la voce forte e dai toni bruschi, sprizzava sempre buonumore. Chi di questi, si chiese Tom, sarebbe arrivato ad amare così tanto il denaro e la potenza da non esitare a uccidere uno straniero? Inevitabilmente, Tom aveva cominciato a chiedersi se valeva la pena di rischiare così tanto per avere la ricchezza. Aveva cominciato a esercitarsi. La confusione che aveva in testa scemò e la forza cominciò a ritornargli. Il braccio e la spalla bendati erano rigidi e facevano male, ma non erano di troppo impiccio. Di notte si allenò a camminare, prima fino al corridoio, poi fino all'atrio, poi sempre più lontano. Vee, Arthur e Mariana erano ancora lontani e Barbara era scomparsa, proprio come se non fosse mai esistita. Una notte, molto tardi, Tom si avventurò più lontano che mai, fino all'ingresso della caverna. Le catacombe dietro di lui erano silenziose e tranquille e per la maggior parte vuote, dato che il lavoro era stato sospeso. Tutto era tranquillo e immobile. Tom si guardò in giro, verso la foresta che cominciava dopo il parcheggio e le montagne che lo circondavano. Tese cautamente i muscoli e respirò profondamente. L'aria era pura e profumata e ogni cosa era avvolta da un chiarore lattiginoso. Stava per girarsi e tornare indietro quando si fermò di colpo. Perché tornare? Si girò di nuovo verso la radura illuminata dalla luna e si avviò attraverso il parcheggio. La foresta si stendeva ombrosa e misteriosa e la terra sotto i leggeri sandali affondava scricchiolando dolcemente. In distanza poteva sentire i versi degli animali. Andò avanti. A qualche distanza da Tom, George era in piedi davanti all'apertura di
una caverna e parlava con Fiereau, attorno al quale sedevano sei persone. «A me piace combattere quanto te», stava dicendo George, «ma, se siamo troppo impreparati, rischiamo di non uscirne più, e ogni aiuto diretto a Arthur e Mariana riuscirebbe vano. Te lo avevo detto Fiereau che, se tu fossi venuto, avresti dovuto sottostare con il tuo Branco alla mia autorità. E io dico di aspettare fino a che non sia arrivato anche Aslaut.» Gli altri non avevano alcuna intenzione di intromettersi nella discussione fra i due. Continuarono a controllare le loro armi e a osservare Chark che arrostiva un coniglio sul fuoco. «E io dico, Solitario, che tu hai vissuto troppo a lungo da solo e troppo bene per prenderti sulle spalle il comando di un Branco. Cosa sai di come si conduce un Branco? Cosa ne sai di lotte?» «Stai dandomi del codardo, forse?», chiese a bassa voce George. «No, ti ho visto lottare parecchie volte», disse Fiereau di malavoglia, «ma solo quando eri obbligato. Questa è la prima volta che ti vedo desideroso di guidare un Branco.» «Loro mi hanno nominato Capo», disse George. «Così lo sono. E quei due là dentro e l'umana che è con loro sono con me. Come hai vissuto fino a ora per volerti gettare a testa bassa in una battaglia contro gli umani?» «Abbiamo vissuto abbastanza bene.» «Ah! Lo dici tu!», esclamò in tono di scherno Chark, facendo girare il coniglio sul fuoco. «Qui c'è più cibo di quanto non ne abbiamo avuto nella pancia da parecchio tempo, e non lo abbiamo rubato. Ti dico, Fiereau, che siamo diventati degli avvoltoi, e questo non è uno stato che si addice a gente quali noi siamo. Noi siamo dei guerrieri e non dei ladri.» «C'è poca differenza tra guerrieri e ladri.» «Ci chiami così?», chiese un altro uomo alzandosi e sfoderando la daga. George si rivolse a tutti i presenti. «State quieti. Se qualcuno di voi non vuole eseguire i miei ordini e fare come dico io, lo dica e se ne vada via. Altrimenti, state qui in silenzio.» Dopo un lungo momento si arresero. Questa prova della loro accettazione dell'autorità di George, sembrò mandare su tutte le furie Fiereau. Il quale poi scoppiò a ridere. «Dico questo per te, George Adrian. Tu sei l'unico adatto a guidarli e a guidare anche me, credo. Guidaci in modo che noi si possa vivere decentemente senza essere molestati, che si possa mangiare regolarmente e dormire, e io non dirò una sola parola contro di te, nemmeno al Concilio o alla Luna Piena.»
«E perché dobbiamo stare in questa forma umana? Non è più pericoloso stare in questa forma che è più vulnerabile di quella di lupo?», chiese un altro. «No. Se la spaventiamo, questa gente ci si rivolterà contro. Ma se noi ci muoviamo tra di loro così come siamo, saremo sicuri.» «Sicuri! Noi non siamo come te, truccato con quei vestiti nuovi, senza barba e con i capelli corti. Siamo troppo diversi e, in mezzo a questa gente, ci scoprirebbero come un incendio nella notte!» «Questa gente, come dovresti sapere se ti fossi preoccupato di guardarti attorno, sembra vagabondare come in sogno, e non c'è nulla che possa interessarli. Ho camminato in mezzo a loro con la mia armatura e non hanno detto niente. Sarà un uomo di un altro pianeta, hanno pensato, o qualcuno del Servizio Spaziale.» «Ho sentito parlare di quel Servizio e molti di noi si sono arruolati», disse Chark, alzando gli occhi alle stelle. Un uomo arrivò correndo nel campo. «Sta arrivando uno straniero. È uscito dalla caverna.» «Dove...?», cominciò Fiereau. George fece cenno a Fiereau di mettere via le armi e di seguirlo, e i due si inoltrarono nella foresta. Dopo circa un'ora, trovarono Tom, appoggiato debolmente a un albero, sfinito. «Tom! Vieni, uomo, devi essere esausto», disse George, mettendo un braccio sotto la spalla sana dell'altro. Tom gli si appoggiò pesantemente. «George! E loro dicevano che eri morto nell'incendio assieme all'assassino! Come hai fatto a fuggire? Chi è quello?» «Una cosa alla volta, Tom. Conserva le forze: ora ti porteremo al campo. Questo è Fiereau, uno della mia gente. Fiereau, questo è il mio amico Tom. Prendilo dall'altra parte e sta' attento alle sue ferite.» «E l'assassino?», chiese Tom mentre i due lo alzavano da terra. «È fuggito. L'ho inseguito, ma mi è scappato.» «Barbara è con te, allora?» «Barbara? No.» A Tom non sfuggì che alla sua domanda la mascella di George si era indurita. Dopo che ebbero portato Tom al campo, lo avvolsero in una coperta e lo misero accanto al fuoco con in mano un pezzo di coniglio. Fiereau cominciò a obiettare:
«Non va bene avere uno di loro con noi! Non ora, proprio prima di una battaglia! Cos'hai intenzione di fare con lui? Ucciderlo? Cambiarlo? Non puoi avere intenzione di tenerlo com'è!» George si guardò in giro. «Ascoltate attentamente. Se non riusciamo ad andare tra di loro senza cercare di trasformarli come noi, siamo da disprezzare! Abbiamo paura di loro? Non possiamo sopportare gente diversa da noi? Non abbiamo mai schernito gli Esterni che avevano paura di noi perché siamo differenti? Dobbiamo essere capaci di camminare in mezzo a loro senza cambiarli. Non dobbiamo combattere contro di loro se non saremo costretti.» «Ma non possiamo vivere con loro come se non fossimo differenti!», esclamò Chark. «No. Ma non dobbiamo rifiutarci di vivere con loro soltanto perché loro non sono diversi.» Tutti rifletterono su ciò. Nel suo lungo e turbolento passato, quest'ultima banda sulla Terra, non aveva mai avuto occasione di fermarsi e cercare di vivere con gli umani. «Non vogliamo essere pugnalati alla schiena nel sonno», disse Fiereau. «Se tutto ciò che dici di questa gente è vero, sembra che ci odieranno istintivamente, come gli Esterni dei nostri tempi, perché noi rappresentiamo le passate guerre che vogliono dimenticare che siano accadute e una storia che a loro piace credere non sia mai esistita.» Tom disse: «Forse quello che dici è vero. Ma se impareranno che devono vivere con voi altrimenti avrebbero sempre delle noie, e che voi starete in pace solo quando lo staranno loro, be', io credo che finalmente si faranno convincere». «E tu come la pensi?», chiese Fiereau. «Io sono il continuatore delle vostre lotte, fatta eccezione per gli ultimi cinque anni di lavoro che per fortuna sono finiti, una volta per tutte. Sono anch'io un soldato, abituato alla lotta, lassù fra gli abitatori delle stelle. A loro piace ascoltare le nostre storie, ma non piace pensare ai dolori, alle miserie, al sangue. A loro piace pensare che tutto sia bello e pulito come nelle storie dei libri per bambini.» Questo era comprensibile. Si rilassarono e alcuni di loro sorrisero. Fiereau disse: «Se è la lotta che dovrà obbligarli ad accettarci, non riesco a capire perché non ne abbiano ancora la pancia piena. È da tanto tempo ormai che lot-
tiamo!». «Sì, ma senza mai offrire loro la possibilità di farla finita», disse George. «Non c'è stata mai una grande battaglia determinante, ma solo piccole scaramucce.» «Crederebbero al fatto che noi vogliamo smetterla?», chiese Chark. «E lo vogliamo davvero?», chiese Fiereau. «Be'», disse George, guardandosi intorno. «Nessuno ama la puzza, il dolore e le scomodità più di quanto odii farla finita.» «Ma noi non possiamo fare nulla, o diventeremo come loro», aggiunse Fiereau. «Non è necessario. Ci sono molti modi per vivere senza dover uccidere.» «Sì, come quei lupi attorno o quei puma che abbiamo sentito laggiù, o quell'orso che abbiamo sentito ieri notte», disse Fiereau con una scintilla d'interesse. «E per avere abbastanza cibo nella pancia e un tetto sopra la testa ci sarà bisogno di costruire», aggiunse Chark. «Ma voi potete avere tutto ciò senza doverlo fare da soli!», disse Tom. «Uhm, cosa credi che siamo, dei paralitici? Che divertimento ci sarebbe? Se dovremo usarli, vogliamo farceli da noi o farli crescere e ucciderli noi stessi.» Tom restò in silenzio guardandosi attorno a suo agio. D'un tratto si girò verso George e disse: «Mi unisco a te, magari non ancora come uno dei tuoi, ma sotto la tua guida. Se dobbiamo combattere una battaglia, ci voglio essere anch'io. E se tu vuoi avere il tuo genere di pace, be', voglio provare se riesco a fare qualcosa anch'io». «Per quanto mi riguarda, sei con noi: basta che tu esegua gli ordini», rispose George. «È proprio un tipo in gamba», concesse Fiereau. 10. «Ma io non l'ho visto andare!», protestò Carlyle quasi piangendo. «Tutti quei soldi sprecati e nemmeno una parola da lui», gridò Cragstead, furioso. «Solo quel biglietto che ha mandato con quell'uomo, dove si dice che io dovrò pagare la multa per avere interrotto la lavorazione e che lui non ne vuole più sapere. Non credevo nemmeno che fosse forte abba-
stanza da aprire gli occhi, altro che andarsene! Ed ecco che...» Questo fu il primo effetto delle dimissioni di Tom Gill. La notizia, ripresa più volte, fece il giro di tutte le case della Terra e gradualmente ne passò i confini. L'eroe dello spazio prima e del cinema poi, si era gettato dietro le spalle tutto quanto: lavoro, casa, soldi e ragazza, ed era sparito nelle montagne. «E per il momento, anche la furia e l'ira contro di noi per essere sfuggiti alla polizia sono sopraffatte dalla decisione di Tom», disse Vee. «Buon per lui! Non avrei mai pensato che Tom fosse così in gamba!» Mariana sorrise preoccupata. «Ma dov'è Tom, ora?», chiese. Arthur entrò dalla sua stanza. «Sta bene. È al campo con George, Fiereau e la sua gente. Stanno aspettando Aslaut per iniziare la marcia sulla città. Anche se non sarà una cosa tanto facile.» Vee aveva sottovalutato la furia del Capitano di Polizia Warhaus, al quale non importava nulla che Tom Gill avesse abbandonato il suo lavoro, mentre gli importava molto di più salvare la propria reputazione e dimostrare di guidare un corpo di polizia bene organizzato. Aveva fatto bloccare tutte le uscite dalla città, compresi gli astroporti e le stazioni ferroviarie, con guardie e congegni elettronici. Nemmeno un topo, pensava, sarebbe potuto passare. Non fece guardare però altrettanto bene le vie di accesso alla città, per l'ovvio motivo che i fuggitivi dovevano trovarsi all'interno. Per cui, quando George, Fiereau e Aslaut, arrivarono alle porte della città, poterono entrare liberamente seguiti da tutta la loro gente. Nessuno di loro era mai stato in una città di quel tempo, prima d'allora, e non poteva fare a meno di guardarsi in giro con meraviglia e stupore. George li guidò rapidamente all'angolo di una strada, dove si incontrarono con Vee, secondo un piano organizzato tra lui e Arthur. «Prendete degli elitaxi separati», disse Vee, dopo averne chiamati otto, «e io vi farò vedere come si azionano i comandi, in modo che vi lascino giù dove loro sono nascosti.» «Non sarebbe meglio che li tenessimo, per poter fuggire più in fretta?», chiese Aslaut. «No, li lasceremo vicino alle piste mobili, come ha consigliato Arthur», rispose bruscamente George. «Non riesco a capire perché nessuno si preoccupi di guardarci», chiese
stupito Fiereau. «Un'accozzaglia di costumi, armi e armature su gente come noi, dovrebbe spiccare come una mosca nel latte.» «Se fanno caso a voi, penseranno che probabilmente venite dalle stelle o che siete una specie di trovata pubblicitaria per qualche nuovo prodotto», spiegò Vee. Si affollarono a disagio sulla banchina in attesa che arrivassero gli elitaxi, senza riuscire a credere che la gente che passava continuamente davanti a loro non riuscisse a vedere ciò che guardava. Ma non accadde nulla, e Vee dispose i comandi sul primo elitaxi e lo fece partire. Gli altri appresero rapidamente le istruzioni che lei impartiva e, uno per uno, decollarono. George, Vee e Fiereau salirono sull'ultimo. «Sono pronti Arthur e Mariana?», chiese George. «Sì. Dov'è Tom?» «La sua spalla non è guarita del tutto e le sue dimissioni hanno fatto tanto scalpore che ha ritenuto più opportuno stare ad aspettare fuori, per evitare di essere riconosciuto e magari seguito, o che le sue ferite ci fossero di impiccio.» «Non è cattivo come umano», disse Fiereau. «Anch'io sono umana!», protestò Vee indignata. «È diverso! Tu sei una donna, e non credo che qualcuno guardandoti si stia a chiedere se sei umana o una Lupa Mannara.» Per il resto del viaggio Fiereau e Vee si punzecchiarono ferocemente e George li ascoltò divertito. Atterrarono su una terrazza e si unirono agli altri. Qui si divisero e, a piccoli gruppi, si avviarono lungo il corridoio in cui erano le stanze di Arthur e Mariana, i quali li aspettavano dietro alla porta. «Venite», disse George ai due giovani, poi il gruppetto riunito si avviò verso le scale. Le scale erano solo uscite di sicurezza e, come le altre descritte da Arthur, nella stazione di polizia, non venivano mai usate. Erano completamente deserte e silenziose. Quando arrivarono alla fine, Vee ansimava, dato che non aveva mai salito scale in tutta la sua vita. Arrivati nella strada, George spinse avanti Vee perché li guidasse. «Dovremmo trovare una uscita poco sorvegliata, dato che non siamo in grado di affrontare dei gruppi forti come quello», disse, indicando un grosso incrociatore della polizia che volava lentamente sopra le loro teste. Vee deglutì e annuì. Si avviò quindi decisa verso il marciapiede mobile che girava attorno alla città, seguita dagli altri. Anche questo era gremito di gente che si sfregò contro armature, spade, e abiti di seta, ma nessuno di loro alzò gli occhi sorpreso o fece caso veramente al Branco. Mariana e
Arthur erano nascosti in mezzo alla folla e Vee faceva strada con George. I Lupi Mannari, tesi e a disagio, si strinsero uno all'altro. «Devono essere tutti sotto un incantesimo!», grugnì Aslaut, raggiungendo George e Vee. «Mi fanno rabbrividire solo a guardarli!» «Ci stiamo avvicinando all'uscita!», avvertì Vee. George diede il segnale. «Ci siamo: attenti ora!» Il Branco si strinse ai suoi fianchi, controllando le armi e tendendo i muscoli. George vide l'apertura della galleria proprio davanti a loro e spinse Vee dietro, verso la coda del gruppo; guardie di polizia erano di fronte a loro, armate e vigili. Sfoderò silenziosamente la spada, e tutto intorno a lui, spade, daghe e sciabole vennero brandite pronte all'uso. Le donne erano armate di coltelli. A un tratto uno dei poliziotti li vide. «C'è l'uomo che stiamo cercando, ragazzi! E c'è un gruppo di amici suoi con lui! Attenzione, pare che siano armati!» La sirena di emergenza entrò in azione e tutt'attorno ai Lupi Mannari la gente fece il vuoto, mettendosi in salvo e lasciando il gruppo esposto. Mentre la strada mobile si avvicinava lentamente alle guardie, queste alzarono i leggeri fucili a lungo raggio, minacciosamente. «Alt! Quell'uomo è ricercato dalla polizia per essere interrogato!», gridò il capo drappello. «Spiacente, ma dobbiamo uscire! Fatevi indietro!», gridò George. «Parleremo con voi più tardi.» L'audacia di queste parole ebbe un effetto stupefacente sui poliziotti. I pochi curiosi si stavano dileguando sempre più rapidamente, lasciando che l'intera faccenda se la sbrigasse la polizia. Era passato molto tempo da quando i giovani del posto di blocco avevano incontrato una resistenza di qualche genere, e tanto meno resistenza armata, e non avevano mai sparato su esseri umani prima d'allora. I Lupi Mannari invece non avevano avuto un passato così pacifico e si lanciarono urlando lungo la pista mobile contro le guardie. Il vecchio Aslaut lanciò il grido di guerra della sua gente e molti lo ripeterono, aggiungendo anche i propri per buona misura. George aveva raggiunto la casamatta e, saltando giù dalla strada mobile, stava caricando con la spada levata. Dopo il primo attimo di esitazione, le guardie cominciarono a sparare e, di tanto in tanto, uno del Branco si rotolava a terra ferito. Il sangue scorreva sugli antichi abiti scoloriti. George abbatté la prima guardia col piatto
della spada. Gli altri si sparpagliarono attorno a lui. Qualcuno del Branco cadde ancora e venne raccolto a spalla dai compagni. Una guardia urlò e cadde. I Lupi Mannari irruppero quindi nel fabbricato anziché uscire di città proseguendo sulla strada mobile, e le guardie indietreggiarono, fino a che di colpo si voltarono tutti e si chiusero in una stanza. «Ora ci siamo dentro fino al collo», ansimò George. «Probabilmente stanno chiamando dei rinforzi. Andiamo!» Uscirono di corsa e si lanciarono lungo la strada esterna. Qualcuno si trascinava a fatica per le ferite, qualcun altro gridava ancora, ma nel complesso la fuga proseguiva con un ritmo celere. Vee cadde e, raccolta, venne portata a spalla da un guerriero. Una volta ben addentro nei cespugli e negli alberi del parco, George ordinò l'alt. «Tu resta qui e fatti dare un passaggio da qualcuno per la città», disse alla ragazza. «Questi non sono affari tuoi, e le cose si mettono male per noi ormai.» «Lei viene con noi», s'intromise Arthur. «È così», confermò Vee. «Io resto con Arthur.» «Pazzi! Ecco cosa siete. E va bene. Procediamo il più silenziosamente possibile in fila per uno, e non cambiate se non ne vedrete l'estrema necessità. Ve lo dirò io, quando sarà il momento. E tu? Cosa farai tu, Vee, quando lo faremo, non lo so.» «Mi arrangerò in qualche modo.» «Va bene, andiamo.» Lontano, lungo la strada, Tom guardò nervosamente il cielo e i tetti della città che si intravvedevano tra le cime degli alberi. Si guardò alle spalle, poi scrutò l'interno vuoto del pullman che aveva noleggiato per mezzo di Fiereau, e poi ancora lo sguardo gli corse verso il cielo. Aveva sentito sparare e non poteva ancora sapere com'era andata la sortita. Ora poteva vedere, nel cielo, le grosse vetture della polizia che sfrecciavano confondendosi con gli altri mezzi privati. George aveva detto che, se fosse stato troppo pericoloso o impossibile tornare al pullman, Tom lo avrebbe saputo entro due ore e avrebbe dovuto andarsene. Tom guardò l'orologio alla cintura. Era passata un'ora e quindici minuti. Tornò a guardare il cielo. Anche Vee aveva guardato il cielo, sentendo le sirene. «Sono i mezzi della polizia aerea. Guardate!» «Bombarderanno a caso o aspetteranno di averci visto?», chiese George. «Aspetteranno, suppongo.»
I mezzi della polizia si erano uniti ora a quelli aerei e stavano lentamente uscendo dalla città. George guardò la strada, parallela al bosco in cui si trovavano, e l'orologio di Vee. Erano ancora in tempo, se si affrettavano e se non si fermavano a combattere. «Avremmo dovuto fermare il carrozzone più vicino», disse Aslaut. George continuò a lunghi passi, girando il capo. «Perché? Qualcuno ha già ceduto? Come stanno i feriti?» «Finora tutto bene. Nessun morto, e questo è già un sollievo. Ma non posso dire cosa succederà se dobbiamo riprendere a combattere.» «Non potevo rischiare di far parcheggiare Tom più vicino: avrebbe potuto essere visto.» «A ogni modo, tutto sommato, è stata una bella battaglia, e magari ce la facciamo», rispose Aslaut tornando indietro. Il Branco si era allungato in una colonna di uomini e donne che correvano tenendosi nascosti tra gli alberi. Le sirene ululavano ancora lungo la strada. Lontano, vicino alla città, alle loro spalle, si udì un'esplosione. George sentì l'odore del fuoco e della polvere. Girò il capo e vide il fumo che si alzava poco lontano dietro di loro. «Non hanno alcuna intenzione di fermarsi a combattere o discutere con noi», pensò George. «Ci uccideranno come cani! Cambiatevi!» Vee si trovò a correre in mezzo a un Branco di lupi. Arthur le aveva parlato del cambiamento, ma lei non lo aveva mai visto, e rimase stupita e impaurita. La nuova andatura era tanto veloce che fu sicura che sarebbe stata lasciata indietro. Dopo l'esplosione, si era sentita invadere da una autentica paura, e ora tremò al pensiero di essere lasciata tra le bombe senza la protezione del Branco. La ragione le disse che non c'era differenza tra il morire sola o in compagnia, comunque aveva in corpo una paura del diavolo. «Andiamo, ragazza», la voce di Arthur venne da un lupo che correva al suo fianco. «Corri!» Vee riempì i polmoni e corse. Il traffico privato sulla strada stava rapidamente diradandosi. Gli uomini cercavano di allontanarsi il più velocemente possibile dalle forze di polizia. Le bombe li avevano terrorizzati e Tom, nel vederli fuggire, provò un profondo disgusto per la razza umana. Guardò l'orologio. Il tempo stava finendo. Salì su un autobus e accese il motore, facendo indietreggiare il veicolo nel folto degli alberi e lo diresse verso la strada. Sentì gli ululati dei lupi e si rincuorò. Erano vivi, o almeno qualcuno era vivo, e forse ce l'avrebbero fatta! Poi udì un'altra esplosione, questa
volta più vicina. Non udì altri ululati e si sentì opprimere dalla preoccupazione. Tornò a guardare l'orologio. Ancora cinque minuti. Aslaut saltò fuori da un cespuglio e infilò la porta dell'autobus. Si cambiò e sprofondò in un sedile. Si esaminò le ferite. Ne venne un altro, poi un altro e un altro. Cambiavano non appena entravano nell'autobus, e i sedili man mano venivano occupati. C'era Fiereau, e Chark, e le donne delle due bande. George, Arthur, Mariana e Vee, mancavano ancora. Tom guardò nuovamente l'orologio. I lupi dietro di lui erano occupati a pulirsi le ferite e a fermare il sangue che ne usciva, chiacchierando sommessamente. Non sembravano né scossi né impazienti, anche se erano senza fiato. Nessuno di loro incitò Tom ad affrettarsi, a fuggire prima di venire uccisi tutti. Eppure, se lo sarebbe aspettato. Se aspettava ancora un po', sarebbero stati catturati. Si udì un'altra esplosione, più vicina ora. Tom guardò da tutte le parti nei cespugli, la mano sulla chiavetta d'accensione e il piede sull'acceleratore, ancora esitante. Poi i cespugli si aprirono e Mariana saltò sull'autobus seguita da Arthur: subito presero forma umana. Ultimo, qualche minuto dopo, arrivò George, già in forma umana, con Vee sulle braccia. Saltò su e si chiuse la porta alle spalle. «Parti!», urlò a Tom. Tom diresse l'autobus in mezzo al caotico assembramento di mezzi che ostruiva la strada, dirigendosi lontano dalla città. E furono in salvo, proprio mentre un'altra bomba cadeva a pochi metri da dove si trovavano prima. «C'è una donna qui che dice di conoscerti, Tom, e vuole vederti», disse l'uomo che veniva dal posto di osservazione vicino alle caverne. Tom alzò gli occhi dalle bende con le quali stava fasciando il braccio di Fiereau e senza interesse chiese: «Chi è?». «Dice di chiamarsi Millicent.» «Oh, be', suppongo che dovrei vederla. Portala dentro.» «Andava in giro a chiedere a tutti nel parcheggio se qualcuno ti aveva visto, così l'ho avvicinata e l'ho portata qui», disse l'uomo nell'allontanarsi. «Guai, Tom?», chiese Fiereau. «No, solamente donne.» «Appunto: guai, come dicevo.» Erano tornati al campo vicino alla caverna e avevano rimandato l'autobus al legittimo proprietario a mezzo di Vee. La polizia stava frugando tutta la campagna alla loro ricerca e loro progettavano di addentrarsi even-
tualmente di più nelle montagne. George aveva ordinato di non muoversi fino a che i feriti non fossero in grado di camminare e fin quando le guardie stavano con gli occhi puntati e le orecchie tese. Vee era tornata in città per procurarsi bende, medicinali, abiti e cibo. Arthur, quando vide tutto ciò, esclamò: «Nemmeno nei miei giorni migliori sono mai riuscito ad afferrare tanta roba così». I rifornimenti portati da Vee vennero distribuiti nel campo, e molte donne ebbero dei nuovi abiti, come molti degli uomini delle camicie nuove, pantaloni e stivali. L'effetto di quell'accostamento di abiti nuovi e antiche uniformi era stupefacente. «Stavo pensando che tu avevi detto che non avresti mai messo questi abiti!», disse Tom a Fiereau. «Io ho detto che sono fatti per i deboli. Be', al momento sono deboluccio e impotente, ma aspettate che riesca ad alzarmi e ti farò vedere come si veste un vero uomo. Vedi quel telaio che sta montando Chark? Con quello mi farò un abito, e la stoffa e il disegno saranno miei e di nessun altro. Dove prenderò la lana, fino a che non avremo le nostre pecore, ancora non lo so, ma forse Arthur e Vee potranno rubarne qualcuna...» Tom rise. «Non è necessario. C'è una città a nord di qui fondata dagli Indiani d'America, in cui non mancano pecore e lana. Saranno felici di vendertela. Se non hai soldi, forse potrai barattare qualcosa con loro.» «Pensi che accetteranno un commercio su questa base?» «Non lo so. Potrai chiederlo a loro.» Tom quindi se ne andò, lasciandolo a discutere del commercio della lana con un uomo sdraiato accanto a lui. Le donne stavano cercando di mettere un po' d'ordine in un mucchio di ornamenti che stavano in terra accanto all'ingresso della grotta. «Un po' di questo filo d'oro è ancora buono», disse una donna a George, «e io non ne ho più bisogno. Potremmo magari venderlo e comprare mattoni e calce...» «Scusa, George: posso parlarti?», disse Tom. «Aspetta a vendere. Può darsi che si riesca a vendere tutto a qualche museo. Ne ricaveremmo un sacco di quattrini. Cosa c'è, Tom?» «Riguarda Barbara e Millicent.» «Torno fra un momento. Vieni, Tom. La battaglia è stata bella fino a che è durata, ma due dei nostri sono morti e gli altri, quasi tutti feriti. Lo so, lo
so: Barbara è ancora chissà dove, e non dubito che tu voglia che io mandi degli uomini a cercarla.» «Sì», rispose Tom. «La venuta di Millicent mi ha fatto ricordare che di tutto ciò che ho lasciato, solo loro due per me sono veramente importanti.» «Be', anch'io sono preoccupato per Barbara, ma non so dove sia o come trovarla.» «Non mi sembri troppo preoccupato.» «Non lo sono. Se fosse morta, a quest'ora avremmo ritrovato il suo corpo. Alla Luna Piena, tornerà... e non manca molto ormai. Cosa dirai a Millicent? E a Mariana?» «E tu cosa dirai a Barbara? In questo caso sei più fortunato di me: hai solo una donna, tu.» «Ne avevo anch'io un'altra, ma non credo che le importassi poi tanto...» «Chi era?» «La Donna.» «Ma avevi detto che era una specie di Strega, e vecchia per giunta!» «No, non era vecchia nella sua Forma Interiore. E in quanto all'essere Strega, be', penso che lo fosse. Io non sono un Lupo Mannaro? Un magnifico compagno per una Strega.» Tom sentì la pelle accapponarsi. «Ma...» «Chiusa in fondo a ogni uomo c'è la paura dei suoi tempi andati. Noi veniamo dal passato dell'uomo così come lei veniva da un passato ancora più remoto. Pensi di avere così paura delle tue origini da non poterle affrontare? Che tu riesca a vederla solo come una vecchia? Le donne di quel genere non invecchiano, perché la Donna non invecchia. Riesci a comprendermi? Devi arrivare a un accordo con il tuo animo, amico mio. Perché, anche se tutti ti vogliamo bene, la Luna Piena è vicina. Per allora dovrai decidere se vorrai accettarci così come siamo, qualsiasi sia il nostro aspetto e il nostro umore.» Tom si appoggiò a un albero, pensoso. «Quando eravamo in guerra lassù tra le stelle, tutti ci chiedevamo quale parte di noi fossimo veramente. Eravamo codardi per la paura che avevamo, o coraggiosi perché andavamo avanti quando saremmo potuti tornare indietro? Eravamo gli uomini che irrompevano nei villaggi dei nativi urlando, bruciando e uccidendo, o quelli che piangevano i figli lasciati a casa?» «Dovrai rispondere a queste domande da solo, Tom, prima della Luna
Piena. Mi pare che stia arrivando Millicent. È meglio che tu le vada incontro.» Tom vide che Millicent si avvicinava con passo tranquillo, in mezzo alla folla che si curava le ferite e che accudiva alle sue faccende, senza vederli, come se non ci fossero. Venne diritta verso di lui, sbatté le palpebre e sorrise con gioia. «Tom, sono così felice di vederti! Dove sei stato?» «Proprio qui. Vieni, siediti all'ombra.» Millicent si sedette, guardandosi attorno con occhi spalancati. «Tom, chi è questa gente?» «Non credo che capiresti se te lo dicessi. Vuoi bere qualcosa? Ti offrirei una sigaretta se non fossero razionate.» Millicent gliene offrì un pacchetto e continuò a osservare con i suoi grandi occhi azzurri la radura. Tom le versò da bere un infuso d'erbe aromatiche, una specialità di Mariana. Mariana lo aveva guardato e aveva osservato Millicent senza espressione e senza un gesto, poi se n'era andata. «Be', Millicent, è molto che non ci vediamo, vero?», disse Tom, e si diede del cretino per la banalità della frase. «Davvero», rispose Millicent, fissandolo con sguardo freddo. Bevve un sorso della bevanda e fece una smorfia. «Ho lasciato il lavoro alle caverne, lo sai?», le disse. «Sì, ho sentito. Non potrò tornare al mio laboratorio. Dovrò mandare un messaggio al mio socio e dirgli di rilevarlo lui completamente. Non posso più permettermi di mantenere la mia parte. Perché l'hai fatto?» La risposta avrebbe richiesto parecchie ore di spiegazioni e Tom non se la sentiva assolutamente. «Non potevo continuare e me ne sono andato.» «Hai odiato il tuo lavoro fin dall'inizio. Perché aspettare fino a ora?» Questo restringeva abbastanza le cose. «Be', mettiamola così. Se ti offrissero un lavoro che non ti dà molta soddisfazione, ma ti dà invece molto danaro, lo faresti?» «Mi deciderei per il sì o per il no, fin dall'inizio. Non lo accetterei sapendo che prima o poi lo pianterei. Perché non ti sei deciso fin dall'inizio?» «Sai perfettamente bene perché! Tu piangevi per avere quel laboratorio e io avevo bisogno di soldi per pagare il conto di due anni d'ospedale. E papà, la mamma, Jack, zio Horace, zia Carla, Vee, Malcolm e tutti voi mi a-
vete quasi costretto ad accettare quel lavoro. E non c'era nessun altro lavoro in vista per me. Io non ne sapevo niente. Vee lo conosceva già da un anno circa, ma non mi disse niente. Ho imparato a odiarlo e a odiare me stesso perché c'ero dentro. Riesci a capirlo?» «No: ho paura di no. Io odio un mucchio di cose ma, se devo farle per gli altri, le faccio.» «Ma come fai a essere soddisfatta sapendo che procurando qualcosa agli altri non fai che negare a te stessa ciò che desideri?» «Non è così, Tom!» «Credo proprio di sì, Millicent. Vedi, io non potevo continuare perché non me la sentivo. Nel fare quel lavoro non riuscivo a impegnare la parte più importante di me. Stavo solo vendendo il mio corpo e il mio viso agli spettatori. Niente altro. Quando ero là, tra le stelle, era il mio io che partecipava all'azione, e in una maniera spontanea. Qua, invece, pensavo continuamente a quello che rappresentavo, e arrivavo a odiarmi.» Millicent arrossì e i suoi occhi scintillarono d'ira. «Stai solo cercando di giustificare un atto di vigliaccheria!» «Ti assicuro che c'è voluto più coraggio a decidermi che a continuare come prima.» «A volte penso di odiarti», disse Millicent. «E noi? Hai fatto dei progetti anche per me, tu? Cosa dovrei fare io? Vivere qui? Cercarmi un lavoro qualsiasi? Aspettarti in città? Oppure vivere con i tuoi nella vecchia casa, aiutandoli magari ad abbandonare il ranch, mentre tu...» «Attenzione!», urlò d'un tratto George. «Le sentinelle hanno appena avvistato una pattuglia di polizia! Tutti ai vostri posti! Spegnete quel fuoco! Nascondete tutto nella grotta! Aiutatemi a rimettere il masso davanti all'entrata!» Il campo era in movimento e le parole di Millicent si persero nella confusione. Terra e foglie vennero sparse all'intorno e la radura venne riportata allo stato primitivo, mentre il Branco si arrampicava lungo le rocce fuori dalla vista. Millicent venne presa nel mezzo e costretta a seguire gli altri. Si trovò a correre e inciampare nelle rocce, circondata da stranieri e senza nessuno che conoscesse in giro. Una sorta di livore la colse, poi, con tutte le sue forze, cercò di continuare e di riuscire a restare in piedi. 11. «Siamo qui riuniti per decidere cosa dev'essere fatto», disse McGilli-
cuddy. «Oh, smettila con le tragedie! Sai benissimo cosa dobbiamo fare!», esclamò aspro zio Horace dalla sua sedia. Erano raccolti nel soggiorno del grande ranch, tutto il parentado. McGillicuddy guardò malamente il fratello e riprese: «Uno alla volta esporremo le nostre proposte. Ebbene, cara?». La signora McGillicuddy accavallò le gambe e se le guardò compiaciuta. «Io direi che dovremmo tornare a vivere nella vecchia casa, ecco tutto.» «Odio dover lasciare la città», disse nervosamente zia Carla, «ma senza la cara Vee e il povero Malcolm, non mi sembra che ci sia da preoccuparci per... La realtà però è che non abbiamo più danaro.» «Io vorrei sapere dove si è cacciato quel Malcolm», disse zio Horace arrabbiato. «Sapete che già altre volte è accaduto che, scomparso per un certo tempo, è poi ritornato indietro.» «E anche la cara Vee è sparita già altre volte», aggiunse la signora McGillicuddy, «ma è sempre ritornata.» «Di tutto questo è causa quel maledetto George Adrian!», disse Cragstead. «Sono d'accordo, ma cosa possiamo farci?», chiese zia Carla. «Avremmo dovuto liberarci di lui», disse astioso il giovane Jack. «Qualcuno ci ha provato», rispose Carlyle. «Anche mio figlio e mia figlia sono scomparsi», disse McGillicuddy, «e non un lamento esce dalla mia bocca.» «Niente di strano», rispose suo fratello. «Tu preferiresti avere una sedia antica al posto di loro due.» Il Capitano di Polizia Warhaus allungò le gambe. «Io vorrei sapere il nome di chi è stato ad appiccare il fuoco al magazzino.» Lo guardarono tutti a disagio, ma in quel momento apparve Millicent, sporca e lacera per il vagabondare nella foresta, fiancheggiata da due poliziotti. Uno dei due disse a Warhaus: «L'abbiamo trovata là, ma dice di non sapere dove fosse. Le hanno coperto gli occhi e l'hanno portata fino al loro campo, bendata. Uno di loro aveva udito che lei voleva vedere Tom Gill e l'ha portata nella radura». «Non so niente», disse Millicent istericamente. «Non posso dirvi niente di niente! So solo che là c'era Tom e credo anche Vee!» «Avete visto questi due?», chiese Warhaus mostrandole due fotografie.
«Sì, la ragazza c'era e mi pare d'aver visto anche l'uomo. Non ne sono sicura, però. E c'era anche un uomo enorme che li comandava. Mi pare lo chiamassero George.» Vi fu un pesante silenzio nella stanza. Warhaus fece segno alle guardie di andarsene e fece sedere la ragazza. «Cosa poteva fare Vee in una radura della foresta?», chiese zia Carla leggermente stupita. «Credevo che quel George fosse morto!», esclamò Carlyle. «Be', non lo è!», scattò Millicent. «C'erano anche Barbara e Malcolm?», chiese zio Horace. Millicent scosse il capo. McGillicuddy le porse un bicchiere. «È un caso molto interessante», disse Warhaus pensoso. «Un'astronave rubata, un incendio, un probabile tentato omicidio di cinque persone a mezzo delle luci, un morto, due scomparsi senza contare l'assassino, e due rapimenti. Solo che non credo che gli ultimi due siano stati rapiti. E, oltre a ciò, una battaglia in uno dei posti di blocco alle porte della città, nella quale due dei miei uomini sono rimasti uccisi e non so quanti dall'altra parte. Mi chiedo chi siano quegli stranieri. Da dove vengono? Come sapevano che i loro amici avevano bisogno di aiuto?» «Quel George», interruppe Jack, «è una specie di telepatico! Ma non sulla frequenza abituale, perché io non riuscivo a sentirlo. Ma certamente lui può sentire noi.» «Ah, vedo. Ha sentito di questo suo amico Arthur a mezzo della telepatia. Doveva esser fuori dalla città, ha raccolto tutta quella gente da Dio sa dove, e ha detto ad Arthur Click e Mariana Di Paoulo, a mezzo della telepatia, che stavano arrivando. Sono entrati in città, probabilmente con l'aiuto di Vee Gay e Tom Gill, poi sono scappati e si sono nascosti nelle montagne, senza che io fino a ora sia stato capace di scoprirli. Mi piacerebbe avere della gente di quel genere dalla mia parte. Farebbero mirabilie per la polizia.» Altro silenzio. Jack disse ancora. «È un telepatico.» «Cosa intendevate quando avete detto di cominciare a credere nelle ombre?», chiese Carlyle. Il Capitano spiegò la faccenda dell'ombra accanto alla balena. Raccontò la storia come gliel'avevano raccontata Arthur e Mariana. «Da ciò si deve dedurre», disse la signora McGillicuddy, «che uno di
noi, in questa stanza, è l'assassino o il presunto assassino, come volete chiamarlo.» «Assassino e incendiario», rispose Warhaus. «Un uomo è morto. Ammetto di aver commesso un errore con quei due: Arthur e Mariana. E suppongo che sia stata la mia stupidità a causare la morte dei miei due uomini e la morte o le ferite di quegli stranieri. Ma, mio Dio, chi avrebbe potuto credere a una storia di quel genere di questi tempi?» Millicent stava frugandosi in tasca alla ricerca delle sigarette che aveva dato a Tom. Trovò invece un biglietto. Lo lesse e lo porse a Warhaus. «È indirizzato a me», disse il Capitano con voce strana. «Voglio che ascoltiate tutti. Al Capitano della Polizia di White Gold City Scrivo questo biglietto mentre la ragazza Millicent è nel nostro campo, sperando di avere un'occasione per darglielo. Noi non vogliamo più battaglie, se è possibile evitarle. Vogliamo vivere in pace. Possiamo, se costretti, lottare a lungo, ma ciò significherebbe solo morti da entrambe le parti. Fino a che non avrò la possibilità di parlare con voi, eviterò sempre i vostri uomini. Non riuscirete mai a trovarci e catturarci. Ma se volete ascoltare la mia storia e quella di Mariana e Arthur, venite a... - qui ha scritto un certo posto di incontro che non vi leggerò - e io vi dirò chi è il vero assassino. George Adrian» «Probabilmente vi vuole attirare in una trappola per uccidervi!», disse Carlyle. «Probabilmente...», cominciò Jack. «Credo», disse Warhaus alzandosi, «che andrò a quell'appuntamento. E quando avrò visto e udito, giudicherò da solo.» 12. Nella vita di ogni uomo, viene il momento in cui egli desidera restare solo. Così accadde a George. Ora, lasciando il suo Branco nella nuova caverna, se ne andò per conto suo tra le montagne per restare in pace. Non era vero che George non fosse preoccupato per Barbara. Si sentiva
responsabile del suo Cambiamento. E si sentiva attratto da lei come non si era mai sentito attratto da nessun'altra da secoli. Due cose gli avevano impedito di cercarla prima. Una, che non poteva perdere del tempo o privarsi di uomini; due che, da quando aveva assunto il comando, tutti i contatti telepatici facevano capo a lui, cosicché sapeva esattamente quando erano in pericolo e quando no. Attualmente, grazie a questi contatti, sapeva dove si trovava Barbara. Era nella vecchia capanna distrutta, dove l'aveva trovata quella sera con Malcolm. Ma aveva sentito anche il suo stato d'animo. Era andata là per restare sola. George aveva rispettato il suo desiderio e l'aveva lasciata stare. Ora però era inquieto per lei. Sentiva che un pericolo imminente la sovrastava. Si cambiò in lupo e si avviò verso un picco vicino. Raggiuntolo, si rotolò nella fresca erba per scaricare tutta l'energia nervosa e le preoccupazioni che aveva, poi si accovacciò sotto l'ombra di un albero. Forse era stato pazzo ad accettare il comando. Fiereau aveva ragione. George non lo aveva mai fatto prima d'allora, ma la responsabilità era sua ormai. Ora doveva trovare il modo di togliere il suo popolo dalla vita alla macchia che attualmente conduceva, e doveva fargli vivere la nuova vita che aveva immaginato. Sospirò. La sua mente si trasportò nel nuovo accampamento. Tutto era tranquillo e non c'era nessun pericolo in vista. Non pensava che ce ne potessero essere da quando aveva mandato il biglietto a Warhaus e aveva ricevuto la risposta che l'appuntamento era stato accettato. Mandò un'altra onda di pensieri verso Barbara. C'era qualcosa di strano, laggiù, qualcosa di sbagliato. Controllò l'impulso e non riuscì a comprendere cosa fosse. Per la prima volta provò un contatto diretto con la ragazza. Le sue gentili, insistenti chiamate urtarono contro un ostacolo. Provò ancora. «Babia, Babia, rispondimi. Stai bene?» «Va' via!», venne la risposta. E l'ostacolo divenne ancora più insormontabile. «Babia, sono George. Sta' calma, rispondimi col pensiero. Me ne andrò se mi dirai che stai bene.» Attese pazientemente, senza insistere nel contatto, tenendosi, con estremo tatto, alle soglie della sua mente. «Non voglio parlare con te.» «Cosa succede?»
Vi fu un'immagine di paura nella mente di lei quando gli rispose. «Niente. Va' via!» Abbattimento. Profondo abbattimento. George mantenne il contatto, in modo leggero. Ora era veramente preoccupato e si avviò a passo veloce attraverso la foresta verso di lei. L'avrebbe guidata mentalmente lontano dal pericolo, non appena lei avesse accettato il contatto. Ma lei non sembrava pronta. «Non voglio parlare con te!» «Perché no?» «Perché sei un essere immondo! Malvagio! Se non fosse stato per te, io non avrei questa forma infernale! Non voglio ascoltarti!» Erano cose familiari per George, ricordi delle urla dei contadini assetati del sangue dei Lupi Mannari, delle loro cacce, e anche delle stragi. Ma non erano in carattere con Barbara o con questo periodo. Forse sarebbero state bene in bocca a Malcolm, o a qualcuno come lui. E quell'idea lo colpì. E benché George avesse vissuto dei secoli tra gente che provava le stesse cose che Barbara provava ora, provò un lungo brivido. Non pensava che lui e il suo Branco fossero immondi, ma sapeva molto bene cosa significasse un tale sentimento. Perse il contatto. Malgrado il rifiuto di lei, non osò abbandonare la sua mente. Lentamente ristabilì il contatto. «C'è qualcuno con te?» «Non adesso, ma tornerà presto», arrivò la risposta istintiva. Poi l'ira. «Pensavo di averti detto che non volevo più sentirti, bestia infernale!» «Sta' calma, Barbara, sono George, ti ricordi? Quello al quale hai spiegato com'era questo tempo. L'amico di tuo fratello Tom.» «Suppongo che Tom sia come me, demone.» Il pensiero rivelava amarezza. «No, non lo è. Non è ancora riuscito a decidere cosa fare.» «Grazie a Dio! Perché non mi hai lasciato morire sotto le grandi luci, invece di salvarmi a questo prezzo! Fra poche notti sarà la Luna Piena e allora diventerò pazza e comincerò ad andare in giro a uccidere gli innocenti o a cambiarli in lupi, come fate voi! Mi ucciderò prima, mi...» «Babia! Aspetta! Non abbiamo mai avuto modo di insegnarti cosa fosse essere come noi! Non facciamo quelle cose durante la Luna Piena!» «Non ti credo. Tu mi hai mentito fin dal principio, non solo con le parole, ma con gli atti! Mi hai ridotta così per i tuoi malvagi propositi, perché
mi volevi e sapevi che una volta così non avrei potuto più stare lontana da te.» Quei pensieri lo ferivano, ora. Poteva sentirli penetrare nel cervello come aghi infuocati. «Non c'è niente nell'essere uno di noi che possa obbligarti a stare vicina a me, o lontana. È una sciocchezza, Babia.» «Non chiamarmi a quel modo!» «Barbara, pensavo tu fossi coraggiosa. Se lo fossi veramente, dovresti aspettare fin dopo la Luna Piena per fare qualsiasi cosa di decisivo.» «Non potrò fidarmi di me stessa! Quando diventerò pazza non potrò fermarmi!» «Sai dove trovare una grossa catena?» «Sì, perché?» «Se hai così paura di quello che potrai fare durante la Luna Piena, potresti incatenarti e aspettare che sia passata. Sempre che tu non sia diventata tanto vigliacca. Poi saprai.» «Io ho un piano migliore! Malcolm mi sorveglierà e, al primo cenno di Cambiamento, mi sparerà! Una volta morta, la mia anima sarà mondata da questo orrore e io tornerò a essere me stessa. Come vedi, ho previsto tutto. Non sono una vigliacca!» George sentì lo stomaco chiudersi. Ansimava pesantemente ora e fu costretto a rallentare la corsa. «Come puoi fidarti di Malcolm quando sai che ha tentato due volte di ucciderci?» «Perché no? Sono cresciuta con lui. Lo conosco molto meglio di quanto conosca te. Inoltre, non ha mai cercato di uccidermi. La prima volta, ho sbagliato completamente. Stava solo cercando di proteggermi dai lupi e dovette andarsene solo perché era malamente ferito. E non ti ha visto nella tua forma di lupo, perché era troppo confuso. Poi, nelle caverne, udì i tuoi pensieri, comprese che eravate tutti Lupi Mannari e cercò di liberare il mondo da voi. Pensò che Tom avesse protetto anche me con l'olio. E Dio sa se ho desiderato che ti avesse ucciso! E me con te!» «Più di uno di noi è morto. Bix, ad esempio. E altri che non hai conosciuto.» «Vuoi dire che ci sono altri come noi? Mio Dio!» George sentì che l'argomento non andava e ne attaccò un altro, per distrarre la ragazza isterica. «Hai avuto abbastanza cibo e sonno da quando hai lasciato le caverne?»
«In principio non potevo dormire e non avevo portato con me alcun cibo. Più tardi riuscii a dormire, ma ero tormentata da strani sogni. Avevo paura di mangiare. Quando Malcolm mi trovò, mi tenne in vita con un po' di zuppa, ma non ho mai mangiato molto. Le creature dell'Inferno non muoiono di fame o per mancanza di sonno, mi disse.» Ancora l'amarezza. «No, è vero. Ma possono soffrire terribili agonie e delirare, però. Sei abbastanza forte da poterti muovere?» «Non so. Non mi muovo molto. Malcolm mi ha legata. È stata una mia idea, caso mai mi fossi trasformata... caso mai accadesse qualcosa a lui per causa mia.» «Dov'è Malcolm?» «A caccia di cibo.» «Quando tornerà?» «Mi pare abbia detto che, dato che io ero saldamente legata qui, non sarebbe tornato fino alla Luna Piena. È andato su al canyon dove ha la casa, dove vivevano lui e sua moglie, a prendere provviste e munizioni.» «Hai cibo e acqua vicini?» «Cosa importa ora?» «Ce l'hai?» «No, io... Malcolm non me ne ha lasciato.» Il quadro che gli si presentò alla mente era così pauroso che per la prima volta da quando Bix era morto e lui era andato alla ricerca del suo assassino, provò dell'odio verso un essere umano. E tranne che in questi due casi, non lo aveva mai provato fin da quando era stato cambiato. Continuò deciso, a volte correndo, a volte tornando al passo veloce. Si fermò per dormire un poco, poi riprese. Parlò con la ragazza per tutto il tempo. La sua mente sembrava chiara, salvo che per il suo nuovo stato e per Malcolm. Ma era molto debole e non molto coerente verso la fine. Lui non cambiò forma, dato che aveva lasciato la spada e l'armatura al campo, e avrebbe avuto solo le armi naturali del lupo per lottare. Aggirò rapidamente la baracca, prima di farsi vedere. L'odore di Malcolm era vecchio, segno che non era lì intorno. Entrò lentamente nella radura e cambiò forma nel momento in cui usciva dall'ombra. Lei era sdraiata con le mani e i piedi legati, senza coperta e senza fuoco accanto, alla mercé di qualsiasi animale feroce. «Babia», disse George gentilmente. «Sono io, George.» Lei aprì gli occhi e lo guardò con profonda ripugnanza.
George la lasciò stare, uccise un paio di conigli, e li portò nella radura. Acceso il fuoco, le portò dell'acqua e la fece mangiare. Trovò un paio di coperte dove le aveva lasciate Malcolm, e la coprì. Su una sola cosa lei rimase irremovibile: non gli permise di slegarla. Accettò passivamente tutto da lui, senza peraltro cambiare il suo atteggiamento. George aveva chiamato Arthur al campo, chiedendogli di fargli avere la spada, qualche indumento, e provviste per sé e per la ragazza. Ma senza fretta. Vee era andata con Arthur, e i due si incamminarono con passo tranquillo. Inoltre stava avvicinandosi la Luna Piena e Arthur sentiva lo stato di rilassatezza che precedeva ogni plenilunio, cosa che gli impediva di preoccuparsi per qualsiasi cosa. Parte di quella rilassatezza colpì anche Barbara, benché in modo minore, dato il breve tempo passato in quel nuovo stato. Attaccò fortemente invece George, e lui dovette lottare per non abbandonarsi agli eventuali assalti di Malcolm. Tom lo notò dapprincipio nel rallentamento dei loro movimenti. Il lavoro era stato messo da parte e gli scherzi e i giochi abbandonati. Tutti se ne stavano sdraiati, sonnecchiando accanto al fuoco, o nella grotta, mangiando o chiacchierando a bassa voce. Il mattino del giorno di Luna Piena, Tom si svegliò e trovò il Branco inquieto e disorientato. Si aggiravano per il campo senza scopo, come se fossero tutti diventati ciechi e vedessero solo visioni fugaci. Uno cominciò a piangere e un altro lo imitò. Un'altra sorrise beata, come se vedesse per la prima volta la Bellezza. Tom si sentì a disagio e fuori posto. Si aggirò, mangiando e lavorando, poi uscì frettolosamente dal campo, andando a inciampare in Mariana che dormiva a terra. La svegliò. Era appoggiata al tronco di un albero, con una espressione di orrore e tristezza sul viso ma, appena svegliata, fermò Tom per un braccio. «George mi ha ordinato di dirti che ora devi decidere se lasciare il Branco o restare e diventare uno di noi entro mezzanotte. Ti piacerebbe vedere quello che noi vediamo e sentire quello che noi sentiamo?», arrossì. «Non avere paura. Non ho intenzione di cambiarti, ma solo proiettare le immagini dalla mia mente alla tua. Poi, forse, potrai vedere e sentire da solo cosa sia un Lupo Mannaro.» Tom esitò guardandola fissa. Quindi la sua irrequietezza lo riprese. «Voglio provare tutto, almeno una volta», rispose. Mariana lo condusse con sé, sotto gli alberi. Guardandosi indietro, Tom vide che il Branco stava abbandonando la radura per nascondersi. Il campo
era quasi vuoto, il fuoco non era stato acceso, e tutto era come l'avevano lasciato la sera prima. Ogni cosa era stata nascosta da tempo in una cavità coperta da un masso. Tom si nascose con la ragazza tra i bassi cespugli di ginepro, appoggiando la schiena a un albero e aspettando rilassato. A un tratto la foresta attorno a lui diventò più brillante, i suoni si fecero più vicini e gli odori più acuti. Un debole mormorio riempiva l'aria. Il sole brillò nei colori dell'arcobaleno e tutte le cose attorno si bagnarono di quella luce irreale. Il mormorio crebbe, come un suono di arpe e di violini. D'un tratto, attraverso gli alberi, venne verso di loro una processione di gente silenziosa, proveniente da un lontano passato. Mariana esclamò: «Richard!», e allungò le mani verso un giovane soldato che si avvicinava. Accanto a lui c'era un ragazzo giovanissimo con un viso irato e grondante sangue dal petto. Vennero altri, alcuni fermandosi a parlare altri passando. E, nonostante tutto ciò, Tom non provò alcuna paura, meraviglia o terrore: era come se comprendesse tutto e fosse anzi parte di tutto. All'ultimo momento, proprio prima dell'alba di quel giorno, George sentì che la stanchezza lo sopraffaceva e non osò lasciare Barbara sola. Nonostante le sue deboli proteste in quanto anche lei era in preda alla stessa stanchezza, la prese tra le braccia e la portò in alto sulla montagna dove i cespugli erano più fitti e dove il loro nascondiglio era protetto da grandi lastroni di pietra. La appoggiò con la schiena a un pino e si sedette accanto a lei. Per un istante tornò a ispezionare con la mente il campo. Tutto tranquillo. Mandò il messaggio a Mariana per Tom e si rilassò. «Cosa hai intenzione di farmi?», chiese Barbara istericamente. «Io? Io non ti farò niente!» L'alba cominciava a spuntare nel cielo e la luce illuminava gli alberi. Barbara si dimenò per liberarsi dalle corde, singhiozzando. George fece per avvicinarsi a lei per liberarla. «Non avvicinarti!» Si sedette sulle calcagna. «Vorrei solo allentartele.» «No, no! Lasciami sola! Sta arrivando, proprio come ha detto Malcolm! La pazzia! Pazzo che sei stato! Perché non te ne sei andato nel tuo Inferno senza trascinarci anche me?» George si appoggiò ancora al suo albero e si circondò le ginocchia con le braccia. Le parole pronunciate dalla ragazza non lo preoccupavano. Istintivamente tornò a parlare nel loro linguaggio telepatico.
«Vedi? Ecco che arrivano i colori. Non è bello vedere il mondo così?» Barbara singhiozzò piano e scosse il capo come per cercare di capirci qualcosa. La rilassatezza era così forte ora che non riusciva a muoversi che a fatica e molto lentamente. Rimase sdraiata osservando con terrore e meraviglia il sole che battendo contro l'albero che era alle spalle di George, poi s'irraggiava nei colori dell'iride. L'albero rifulse di luce, e dai rami si diramarono altri sprazzi accecanti. Il mormorio lontano crebbe di intensità e mentre il suo tono si alzava, George cambiò lentamente e impercettibilmente. Sembrò che la schiena si raddrizzasse e le rughe sul viso si spianarono. La sua barba mal rasata crebbe e divenne folta, bronzea. I capelli si allungarono come erano stati prima che li tagliasse, ma molto più abbondanti e dello stesso colore della barba. Solo gli occhi rimasero gli stessi. Riapparve anche la corazza e il pesante medaglione d'oro, con un grande rubino nel centro. L'anello portava le stesse incisioni del medaglione e sembrava che tutto fosse stato appena fatto e indossato. I calzari persero le macchie e l'opacità e sembrarono nuovi. Anche gli abiti ripresero l'antico splendore. Al suo fianco sul terreno, l'elmo scintillava di una luce di sfida. Il resto della sua armatura era andato perso in quel lontanissimo giorno in cui se l'era tolta per entrare sotto la tenda a riposare e il Branco, fatto irruzione nel campo, lo aveva cambiato. Il suono crebbe sempre, più forte e poi, attraverso gli alberi, venne la moltitudine lacera, sporca e insanguinata da tutte le ere della storia. George li guardò con gioia e dolore. Qualcuno lo guardò e se ne andò, altri lo salutarono con piacere. Con altri sorrise e si strinsero le mani, scambiandosi qualche parola. Un altro uomo arrivò attraverso gli alberi, e anche nelle sue condizioni, Barbara lo riconobbe. Era Bix. «George, vecchio figlio di un cavallo marino. Come stai?» «Sono ancora qui, come vedi? Hai tempo? Puoi restare per un po'?» «Solo un po'.» «È stato brutto passare di là?» «Non troppo. Niente di peggio di quanto abbia provato in altre occasioni, senza morire. Chi è questa? Barbara? Ah ricordo. È stata cambiata poco prima... È la sua prima Luna Piena, vero? Vedo dalla sua espressione che non capisce nulla. Non l'hai messa al corrente del modo...» «Non ho ancora avuto la possibilità di parlarle. È scomparsa fino a qualche giorno fa. Non preoccuparti, comunque.» Vennero altri. Uno, alto, nero di capelli, con un grande mantello di vel-
luto nero, strappato e macchiato di sangue e che George salutò come Capo Kirskanpitan. Parlarono per un po' a bassa voce, poi quello se ne andò. Era mezzogiorno e, col sole a picco, un grande peso sembrò calare sulle palpebre di Barbara. Lottò contro quella sensazione, e ogni volta apriva gli occhi per vedere i colori ancora come prima, mentre il suono cresceva più forte. Poi sprofondò nel buio e nella tranquillità e non sentì più nulla. Quando si svegliò era sera e George aveva appena aperto gli occhi. I colori si erano sbiaditi ormai, e il suono si allontanava. Non era rimasto nessuno dei visitatori. Loro due erano soli, ora. E ancora nell'aria c'era la sensazione di essere circondati da amici. Barbara si alzò a sedere e si guardò attorno. «Hai fame? Non vuoi che ti sleghi?», le chiese George. «Sì. Qualsiasi cosa accada, non ho più paura come prima.» Non aveva più paura o imbarazzo ora. Rimase seduta a sognare mentre lui traeva dal sacco che si era portato dietro, del cibo, e glielo porgeva. Mangiarono in silenzio, guardandosi di nascosto. George era lo stesso di prima. Barbara si guardò e vide che gli strappi e le macchie erano scomparse dai suoi abiti. «Ho paura che gli animali ci attacchino», disse, «dato che non abbiamo acceso il fuoco.» George scosse il capo. «Gli animali hanno paura, e gli umani in genere lo stesso. Gli animali se ne staranno lontani da noi, ma ho paura che per gli umani non sia lo stesso. Loro sono più brutali. Ai miei tempi, gli umani uscivano assetati del nostro sangue, ci davano la caccia, e noi in realtà eravamo in uno stato di impotenza.» «Per questo ci siamo nascosti?», chiese Barbara, massaggiandosi i polsi e alzandosi per far tornare normale la circolazione nelle gambe. «Sì», rispose George. Divenne serio. «Bix era un mio grande amico, e ora...» Barbara cercò di cambiare discorso. «Bix ti diceva che ho molto da imparare. C'è altro che dovrei sapere?» «Te lo dirò: prima che si alzi la luna, cercherò di spiegarti man mano ciò che accade. Ho cercato di raggiungerti quando eri nelle caverne, per spiegarti e calmarti, ma il tuo cervello non riceveva. E da allora...» «Eri tu allora che sentivo nella mente?» «Sì: volevo assicurarmi che tu stessi bene.» «Malcolm non cercherà di trovarci e di ucciderci?»
«Se ci potrà trovare lo farà.» «Non possiamo proteggerci?» «Non stanotte. Se riusciamo a stare nascosti fino all'alba, potrò andare a cercarlo, dopo. Non preoccuparti: non può arrampicarsi sopra quei lastroni. E il resto del Branco è ben nascosto.» «E Tom?» «È con Mariana, e lei gli sta spiegando tutto ciò che vede e che sente. Sta bene. Vee è con Arthur. Sono nascosti in una grotta a una decina di miglia da qui, con un masso davanti all'entrata.» «Vee?» «Sì, si è unita al nostro campo, anche se non al Branco, già da qualche tempo.» Barbara si sedette in silenzio, pensierosa, mentre la luce scemava e la notte diventava più nera. Lentamente, da molto lontano, risuonò un lungo brontolio. Barbara rabbrividì. «Babia, sta' quieta. Nulla, per quanto strano, potrà farti del male.» Barbara si rilassò. Il rombo crebbe. La luna si era alzata, pallida, sull'orizzonte. Il tuono distante cominciava a farsi più distinto. Sembravano cannoni e fucili che sparassero. Lampi di luce attraversavano il cielo; la terra rabbrividì e i cannoni si fecero più vicini. Il terreno si coprì di fumo, squarciato da lampi di luce rossa, mentre l'oscurità veniva spezzata a tratti da luci bianchissime. Il frastuono dei fucili, dei cannoni, e ora delle bombe, era tutto attorno a loro, e gli alberi si piegarono come sotto la spinta del vento, mentre la terra ondeggiava come un oceano. Poi il canto si levò ancora, non dolce e alto questa volta, ma pieno come un coro solenne. La luna era alta ora, sopra le cime degli alberi. Una sensazione di grande tristezza e altre emozioni sommersero Barbara. La gioia era così forte da farla piangere e la tristezza le strinse il cuore. Quando la tristezza fu quasi insopportabile, la luna arrivò allo zenit e i rumori cessarono. La quiete fu accolta come una benedizione. La luce inondò alberi, rocce e terreno, come la più dolce delle musiche. Poi, sommessamente, la musica ricominciò. Barbara si sentì oscillare come un fuscello, avanti e indietro. La voce di George continuò a rassicurarla. La musica crebbe e scemò, e sotto la luce argentea della luna, i fiori si aprirono, passando dai boccioli al fiore completo in meno di un secondo. Il fumo quindi si dissipò e la terra riprese la sua quiete di sempre. La musica divenne più gioiosa e Barbara si trovò a danzare, come se non ci fosse altro che la musica e lei in tutto il mondo, come se questa fosse la prima primavera e lei fosse ancora bambi-
na. La voce di George era cessata e lei nella sua grande gioia, non si preoccupò di sapere se era ancora lì. La luna cominciò a calare nel cielo, e la musica divenne più fievole. Barbara si accasciò al suolo, stanca ma ancora piena di gioia, ascoltando la musica. E, man mano che la luna calava, nella volta scura la musica diventava più debole. Poi la luna tramontò e, per un istante, Barbara si sentì sprofondata nel suo io. Quindi la musica tacque e Barbara crollò priva di sensi. Quando si svegliò, il sole era alto e George non c'era più. 13. «Vorrei sapere dove sono andati tutti!», disse Tom furibondo. Vee era agitata. «Un momento fa eravamo seduti nella caverna e, un minuto dopo, io mi sono svegliata e Arthur era sparito! E io non ero più nemmeno nella caverna, ma fuori nella foresta! Non so nemmeno quanto lontano dalla grotta o dal campo!» Barbara scosse il capo confusa. «Non riesco a capire.» «Pensavo che tu fossi una di loro!», le disse Tom. «Anch'io lo pensavo! Non volevo esserlo... ma ora, non lo so.» «Penso di potervi spiegare ogni cosa», disse una voce e, girandosi rapidamente, i tre videro un uomo e una donna che si avvicinavano. L'uomo era magro e forte, con gli occhi grigi dall'aria cinica, barba e capelli brizzolati e il viso scavato da rughe. La donna aveva grandi occhi neri ridenti e una folta capigliatura nera. Entrambi indossavano abiti moderni, ma... capirono subito, forse perché erano tante le emozioni cui erano andati incontro, che quei due erano una specie diversa da quella umana. Non che sembrassero meno umani, ma qualcosa di più. «Chi siete?», chiese Tom combattivo. «Mi conoscete come la Donna, e questo è mio fratello, il Vecchio Card.» Vi fu un silenzio attonito. Barbara si lasciò andare debolmente sull'erba. Vee si appoggiò al tronco di un albero, mentre Tom apriva e chiudeva i pugni. «Andiamo, avreste dovuto sentire parlare di me», disse la Donna. «Sì», disse Tom e si schiarì la gola. Il Vecchio Card disse gentilmente:
«Perché non ci sediamo? Può darsi che l'intera faccenda possa venire sistemata». «George è intervenuto in tuo favore, mia cara», disse la Donna a Barbara, sedendosi con fare aggraziato, «e il seme dei Lupi Mannari è stato tolto dalle tue vene nello stesso istante in cui ti sei addormentata questa notte. Solo che, vedete, nessuno di voi ha dormito veramente, nessuno è rimasto nello stesso luogo. Siete venuti qui ciecamente, guidati da una specie di ipnosi, diciamo, come tutti gli umani che si sono trovati nella foresta questa notte. Anche se non tutti sono andati nello stesso posto.» Tom aprì i pugni e si sedette, e così fece Card. «Va bene, va bene. Ricordo che George disse che se non fossi riuscito a decidermi prima dalla Luna Piena, sarei stato messo fuori dal campo. E lo sono stato, come Vee e come Barbara, perché è stata cambiata, penso. Dio sa dove sono ora. Sono andati via?» «Oh, sì», disse Card. «George è un nostro vecchio amico e noi abbiamo cercato di aiutarlo finché abbiamo potuto. Ma lui è molto orgoglioso e testardo e non c'è molto che si possa fare per aiutare il Branco come vuole lui. Questa mattina, all'alba, l'intero Branco si è mosso diretto in un luogo addentrato tra le montagne. George ci ha chiamati e ci ha chiesto di venire da voi. Ci sono altri in questo foresta, che non sono amici e George non voleva che voi incappaste proprio in quelli, senza avere qualche spiegazione.» «Malcolm!», esclamò Barbara. «E l'assassino della bocca di balena, suppongo», aggiunse Vee, sedendosi finalmente e sfregandosi le braccia come per scaldarle. «Sì, l'assassino del magazzino», disse la Donna, «e anche il padre e la madre di Tom e Barbara, e tuo padre e tua madre, Vernia.» «E», aggiunse Card con una smorfia, «il Capitano di Polizia, Warhaus.» Nonostante l'amarezza e il senso di sconfitta, Tom sorrise. «Un bel ricevimento. Come... come mai non ci sono anche Cragstead, Carlyle e Millicent?» La Donna e il Vecchio Card si guardarono. «Non ne sono certo», disse Card, «ma mi sembra che ci sia una donna di nome Millicent.» «Bene: avete domande?», chiese la Donna. «Moltissime», disse alla fine Barbara. «Ma non sappiamo da dove cominciare.» «Cosa accadrà ai Lupi Mannari?», chiese Tom.
«Non posso dirti niente», disse la Donna. «I loro problemi non ti riguardano più, a meno che tu non voglia unirti a loro. Posso dirti però il piano di George. Ha mandato un biglietto al Capitano Warhaus chiedendo un incontro, e ora sta nascondendo il Branco, nel caso che Warhaus non voglia ascoltare le sue richieste e voglia fare un ultimo tentativo per distruggerlo. In quel biglietto George diceva che Warhaus non avrebbe potuto prenderli o distruggerli senza un'enorme perdita di uomini. Così, nel caso che Warhaus decida di fare il duro, George ha nascosto il Branco e lo ha messo in grado di dare una bella dimostrazione. Non so dove né quando. Poi... be', dovrà continuare da lì.» «Pensavo che George avesse detto di voler vivere col Branco in mezzo agli umani», disse Tom. «Lo faranno, se le cose andranno bene per loro. Ecco perché bisogna chiarire la cosa. Ai vecchi tempi, i Lupi Mannari non si sarebbero preoccupati di infrangere qualche legge umana, e sarebbero semplicemente scomparsi. Ora che vogliono vivere con gli uomini, devono mettere in chiaro tutto con la polizia.» «E la mia famiglia cosa c'entra in tutto ciò?», chiese Tom. Rispose Card, con uno sguardo di simpatia. «Horace e Carla andranno a vivere nella vecchia casa e tenteranno di riconciliarsi, così hanno detto. E anche Paul e Mary andranno là. Jack se ne è andato per conto suo per pensare, come Millicent, ma in una diversa direzione. E Malcolm sta frugando la foresta in cerca di Barbara e del Branco.» «Ve lo immaginate se ci capitasse di incontrare qualcuno di loro qui», disse Vee, «senz'armi, senza difesa e...» «Vi porterò alla vecchia casa», disse Card. «E io», disse la Donna, «andrò da George per vedere se posso aiutarlo.» Tom la guardò e guardò Barbara, così inequivocabilmente che Barbara capì al volo e guardò la Donna con una sensazione di dolore alla bocca dello stomaco. «Perché? Perché George ha voluto che mi cambiaste ancora in umana?» «È stato facile. Non lo sarebbe stato se tu fossi stata con il Branco più a lungo, o non volessi essere cambiata», disse la Donna con uno sguardo strano. «George disse che tu odiavi tutto e tutti gli altri del Branco. E volle che ti cambiassi al più presto possibile. Molti Lupi Mannari involontari uccidono qualcuno o se stessi nei momenti di rabbia, e George non voleva che accadesse anche a te. Così...»
Il pensiero e l'energia sprecati nell'odiare la nuova forma, George e l'intero Branco, fecero sì che Barbara scoprisse che in realtà in lei non c'era nessun sentimento reale di odio verso qualcuno. Ma ora era di nuovo umana, e George e l'intero Branco erano scomparsi. Fino al mattino prima, si sarebbe riunita al Branco. Ora non ne era troppo certa. Nel suo presente stato di estrema debolezza, Barbara non era in grado di approfondire simili pensieri. Tom stava parlando. «Dove potremmo trovarli, se dovessimo decidere di unirci a loro? O avete intenzione di mandarli indietro nel tempo?». La Donna sorrise e aprì le mani. «Non posso mandarli tutti indietro. Molti di loro sono di questo tempo. E ce ne sono altri, un piccolo Branco nel Nord Europa e molti fra le stelle. Tutti appartengono a questo tempo come appartieni tu. Potrei mandare indietro George, Arthur e Mariana se lo volessero, ma non lo vogliono. Ora dipende da loro. Io posso solo aiutarli. Soltanto loro ora potranno scegliersi il capo e la condotta da tenere. Se più tardi vorrete riunirvi al Branco, sarà molto semplice: il Vecchio Card sarà a portata di mano per aiutarvi e per portarvi da loro se lo vorrete. Ora penso che sia meglio andare, perché gli altri saranno già arrivati alla vecchia casa o saranno poco lontani. È meglio muoversi, ora.» Non erano molto lontani da lì. Si girarono una volta sola mentre seguivano il Vecchio Card verso la casa, per guardare la Donna. Era ancora in piedi dove l'avevano lasciata, con gli occhi persi sulla landa deserta. Si girarono e continuarono il loro cammino. «Che donna!», esclamò Vee. «Davvero», rispose Card. «Pensavo che voi foste un vecchio gatto bianco quando vi conobbe George.» «A quel tempo sì. In questo sono un uomo. Era più semplice allora essere un gatto e non dover dare spiegazioni. Ora nessuno si preoccupa di ciò che sei o fai fino a che non ti svegli. Così sono tornato a essere un uomo.» Il buon umore di Vee era tornato, anche se ora le dispiaceva aver lasciato Arthur, ma, fintantoché poteva evitare di prendere una decisione, lo faceva volentieri e seguiva la corrente. Se Arthur fosse stato lì e le avesse detto di cambiare, sarebbe cambiata senza pensarci sopra. Ma lui non c'era, e lei stava già pensando a cosa avrebbe indossato una volta arrivata alla casa. E a ciò che avrebbe fatto quando sarebbe ritornata in città.
Per Tom e Barbara la storia era diversa. Tom era ancora amareggiato al pensiero della sua famiglia a causa dell'assassinio. Non voleva veramente vedere più nessuno di loro. Poi, quel brusco staccarsi dal Branco e da George e probabilmente anche da Mariana l'aveva scosso. Al contrario di sua cugina Vee, se Mariana o George gli avessero detto di cambiare, avrebbe decisamente rifiutato. Ora che era stato obbligato ad andarsene, ci pensò sopra. Barbara era imbarazzata. Era impossibile odiare George, ora. La ragione non sussisteva più. Ma non sentiva ancora di volersi unire a lui, o solamente pensare a lui. L'esperienza fatta come Lupo Mannaro le aveva lasciato qualche traccia. Il Vecchio Card li osservava di sottecchi, con uno sguardo comprensivo. Sorrise pian piano a se stesso e sospirò. Poi arrivarono alla casa e la porta venne aperta di colpo. Era Paul McGillicuddy. In faccia gli si leggeva l'eccitazione. 14. Card era stato presentato come John Forrest, un vecchio amico. I McGillicuddy erano troppo frastornati dagli avvenimenti dei giorni passati e dal ritorno dei loro figli per badare troppo al nuovo venuto. Jack se n'era andato per conto suo e nessuno sapeva dove fosse. Malcolm non era rientrato e Millicent se n'era tornata a White Gold City. E non vedeva Carlyle e Cragstead dall'ultimo giorno in cui erano stati nella casa deserta. «Infatti», disse Horace, «abbiamo vissuto qui molto tranquillamente, Tom. Forse qualcuno di noi è rimasto turbato quando tu hai lasciato il tuo lavoro, ma ci siamo abituati presto. Anche se non comprendiamo perché.» Erano seduti a tavola, nella vecchia sala da pranzo. «Il che vuol dire», aggiunse Mary McGillicuddy, «che forse non siamo troppo contenti di dover rinunciare alle grosse entrate che avevamo, ma credo proprio che non ne moriremo.» «Perché mai l'hai fatto, Tom?», chiese McGillicuddy in tono querulo. «Non posso spiegarlo. Ma credo che dovessi farlo. Sapevate tutti quanto odiavo il mio lavoro, e sono arrivato al punto da non poterlo più sopportare.» «Cosa farai ora?», chiese Mary. «Vuoi dire che lavoro farò? Non so. Ho da parte un po' di soldi per vivere qualche tempo, almeno fino a che non mi sarò deciso.» Guardò Card
senza espressione. Card sorrise e scrollò le spalle. «Quando penso a tutte le belle cose alle quali dovrò rinunciare, però...» Era Carla che parlava in tono lamentoso. «Carla!», gridò Horace. Sua moglie lo guardò, arrossì di imbarazzo, e tacque. Era tutto molto interessante per Tom. Non aveva mai pensato alle differenze di caratteri e personalità dei suoi parenti. Barbara era troppo stanca per accorgersene e Vee troppo occupata a pensare al suo nuovo guardaroba. «Vedi, figlio mio», disse Paul, «abbiamo scoperto, cosa vuol dire essere divisi. Ora che dovremo vivere tutti assieme... be', le cose sono cambiate.» Guardò teneramente la moglie. Mary sorrise prima in modo distaccato, poi più dolcemente, vedendo la sua espressione. Carla era andata nell'altra stanza per prendere altro cibo. I suoi abiti da lavoro portavano qua e là macchie del cibo che stava portando in tavola. Entrò coi vassoi e li depose senza fiato. «Non riesco a capire perché ogni cosa sembri così difficile ora», ansimò. «La più piccola cosa è un problema.» Dopo cena, Card si ritirò nella sua stanza con un libro. I due McGillicuddy mostrarono il desiderio di restare soli sì che Tom, Barbara e Vee se ne andarono nelle loro stanze senza indugiare. «Ho avuto tutto quel che posso sopportare in un giorno, oggi», disse Vee sbadigliando. «So che siamo solo a metà pomeriggio, ma credo che potrei dormire a qualunque ora e... be' forse mi manca Arthur, non so...» Dopo questo strano discorso chiuse la porta in faccia ai due. Tom e Barbara si guardarono e risero. Sembrava che fossero tornati alla loro fanciullezza, quando ridevano di tante cose assieme. Poi, ricordandosi di tutto ciò che era accaduto da allora, tornarono seri. «Va' a sdraiarti», disse Tom. «Sei piuttosto a terra. Io devo riflettere.» Barbara si mise a letto e dormì fino al mattino seguente. Si svegliò sentendosi più forte, più viva e felice. Poi ricordò la brusca partenza dal Branco, George e il resto, e divenne triste. Quando uscì nel corridoio, vide Vee tutta abbigliata in un abito nuovo. Le parve turbata e agitata. «Sai dove sono Tom e quel Vecchio Card, o John Forrest, o come diavolo si chiama? Sono scomparsi entrambi!» «Penso che Tom abbia preso la sua decisione e Card lo stia guidando al Branco», rispose Barbara distrattamente.
Scesero per la colazione. Horace aveva già mangiato e aveva trascinato Carla fuori per mostrarle il suo progetto di giardino pensile. Mary disse: «Siamo proprio costretti ad accettare questo nuovo modo di vivere. Dove andate questa mattina, ragazze? E dov'è Tom e quel suo amico, John Forrest?». «Tom è tornato indietro, e John Forrest è andato con lui», rispose Barbara. «Non vi obbligherò a spiegare dov'è "indietro"», disse Mary. «Ma tutto ciò è molto misterioso. Probabilmente, se le voci sono esatte, ci sarà una guerra, e Tom è tornato per aiutare a combatterla.» Si girò per prendere qualcosa dal comodino e non vide lo sguardo costernato che corse da Vee a Barbara. «Spero che Arthur stia bene», disse Vee sottovoce, mostrandosi preoccupata per la prima volta. «E vorrei essere più sicura che Tom abbia più buon senso di...». «Mi chiedo cosa stia accadendo là», disse Barbara. Vee scosse il capo. «Vorrei saperlo anch'io.» «Siete molto misteriose, ragazze», disse Mary fissandole. «Non dimenticatevi di dircelo, se anche voi due deciderete di sparire.» «Se lo faremo», disse Vee, «non ritorneremo.» Mary alzò un sopracciglio gentilmente, ma non fece commenti. Più tardi, uscì dalla stanza per portare la colazione a Paul, lasciando sole le due ragazze. «Cosa facciamo ora?», chiese Vee, mentre uscivano sotto la tettoia contro la roccia, sotto la quale era stato incatenato il vecchio orso. «Non lo so!» «Dovresti saperlo!», scattò Vee. «Tu sei stata una di loro!» «Non mi sono mai preoccupata di imparare qualcosa di loro», sussurrò Barbara. «Quel Warhaus è peggio di un gatto. Non mi fido di lui. Scommetto che ha accettato l'incontro solo per poter scoprire dove sono, e che porterà con sé parecchi militari.» «Penso che George abbia immaginato che potesse accadere. Probabilmente sono preparati, per quanto possano esserlo.» «E hanno con loro la Donna per aiutare George e il Branco se si trovassero in guai seri», disse Vee guardando fissamente Barbara.
«Oh, smettila!», esclamò Barbara tra lacrime di rabbia, e corse verso le vecchie scuderie. Vee fischiò sommessamente e la sua espressione divenne seria e pensosa. Guardò il deserto che si stendeva oltre il limite della foresta da una parte e il grande canyon dall'altra. Il suo viso si incupì e tornò a casa. Nel frattempo Barbara aveva fatto ciò che faceva sempre quando voleva pensare. Aveva sellato un cavallo ed era uscita. Questa volta, ricordandosi gli orrori di quando era fuggita dalle caverne, senza cibo e senz'acqua, tornò a casa per prendere delle provviste. Vee uscì e la trovò. «E ora, dove vuoi andare?» «Fuori. Devo pensare», disse Barbara. «Da che parte hai intenzione di andare?» «Da che parte hai intenzione di andare tu?», chiese Barbara, intendendo qualcos'altro. Le ragazze si scambiarono uno strano sguardo. Poi Vee tornò tristemente alla casa e Barbara se ne andò al galoppo. Non aveva intenzione questa volta di incappare ancora in Malcolm. I suoi due ultimi incontri con lui erano stati abbastanza pericolosi. Si era portata dietro un fucile e tante munizioni quante ne stavano in tasca. Non aveva mai incontrato il Branco, ma Malcolm le aveva portato delle notizie, e sapeva qualcosa della sua esistenza. Non conosceva Warhaus, ma sapeva molto di lui. In questo caso aveva informazioni più accurate. Malcolm le aveva raccontato della lotta al posto di blocco, e della fuga e dei metodi di Warhaus a grandi linee. Aveva descritto Warhaus come l'unico uomo che potesse sbarazzare l'umanità dai Lupi Mannari. Malcolm si era infuriato quando aveva saputo che i Lupi Mannari erano nella sua foresta. Barbara si rese conto di quanto fosse stato grave il suo errore nell'aver abbandonato il Branco. Giunta a questa conclusione diresse il cavallo verso il fiume, l'unico punto di contatto col Vecchio Card. George l'avrebbe cercata? Pensò di no. Lei non l'aveva precisamente incoraggiato, e lui era molto orgoglioso. Inoltre, col Branco, aveva molte responsabilità. Quando arrivò al fiume vide sull'altra sponda, a una certa distanza, Card che stava mettendo in acqua una barca. Si fermò. Agitò una mano chiamandolo. Lui puntò la barca nella sua direzione. «Cosa c'è, Barbara?», chiese, arenando la barca. «Voglio essere portata dal Branco», rispose lei senza fiato. «Gettami le redini e fa' entrare il cavallo in acqua», rispose lui rassegnato e girò di nuovo la barca. Una volta sull'altra sponda, Card legò la barca
e si avviò per la foresta a passo rapido. La foresta era anche da questo lato selvaggia e tranquilla sotto il sole. Quando cominciarono a salire il dorso della montagna, Card la fece scendere da cavallo e camminare al suo fianco. Molto più avanti, su un falsopiano, quasi sulla vetta, vi era un vecchio villaggio di minatori, abbandonato e mezzo in rovina. Ora era di nuovo popolato. Nell'unica strada, rivolto verso di loro, ma senza vederli, stava George. 15. «Ha detto che voleva venire, così l'ho portata. Torno indietro per vedere se l'altra ragazza si è decisa, e poi torno.» «Va', ma fai in fretta», rispose George e Card se ne andò nella foresta. «Cosa fai qui?», chiese a Barbara stancamente. «Sono tornata per raggiungerti», rispose lei. «Se per te va bene», aggiunse. George sorrise debolmente. «C'è molta differenza tra ora e l'ultima volta che hai parlato con me. Bene, se vuoi stare, puoi rimanere. Tom è già qui e sta lavorando dall'altra parte della strada a costruire le barricate. Vieni. Hai provviste o munizioni con te?» Barbara gliele porse in silenzio. Lui la condusse alla casa più grande che sorgeva in mezzo al villaggio. Entrarono, e Barbara indietreggiò per l'orrore. C'era molta gente che lavorava nella stanza, ma un uomo attirò il suo sguardo. Era legato con le mani dietro alla schiena al pilastro centrale. Era Malcolm. «Cosa fa lui qui?» «È uno di noi, anche se odia ammetterlo. Ci odia per il suo Cambiamento. I suoi genitori erano Lupi Mannari. Crebbe con te senza saperlo, fino a che una sera suo padre tornò e glielo disse. Poi lesse sui libri cos'erano i Lupi Mannari e diventò pazzo. Decisi che era pericoloso lasciarlo in giro libero, così ho mandato alcuni uomini a prenderlo e portarlo qui. Ed eccolo qui. E ci resterà fino a che non sarà rinsavito.» Malcolm stava ringhiando orribilmente, cercando di strappare i legami. «Se mi cambiassi vi farei tutti a pezzi.» «È probabile. Però ti sei già cambiato e ti sei trovato ancora legato. Sta' quieto ora. Gli è stato dato da mangiare?» Chark alzò gli occhi dal mucchio di armi nuove e antiche che stava si-
stemando. «Sì, gli ho gettato qualcosa qualche ora fa. Certo che è terribile! Che peccato che non possa lottare bene come ringhia.» «Qui c'è un altro fucile e delle munizioni. E, Fiereau, prendi il cavallo e togligli i finimenti, poi lascialo andare giù lungo il fiume. Lo attraverserà e se ne andrà a casa. Non vogliamo averlo intorno ora.» «Cosa fa quella qui?», chiese Fiereau, accennando col capo a Barbara. «È venuta per unirsi a noi.» «Pensavo che lo fosse già fin...», cominciò Fiereau. «Tom dice che la Donna l'ha cambiata», disse Chark, esaminando il fucile. Fiereau esitò, poi scrollò le spalle e uscì. «Quanti siete qui?», chiese Barbara, pensando a Warhaus. «Col tuo arruolamento, la Donna e Card, siamo ventuno.» «Peccato che l'altro Branco non possa arrivare in tempo», disse Chark. «Forse ce la faranno se Warhaus ritarda ancora un po'. Sono solo in otto in quel Branco, ma sarà un bene averli egualmente. Hai notato, Malcolm, che mentre includo Tom e la Donna, non includo te?» Malcolm non rispose. George prese Barbara per un braccio e la condusse nella camera sul retro. Lì le affondò i denti nel polso. «Ecco, questo dovrebbe effettuare il Cambiamento. Ora, da brava ragazza, mangia qualcosa e poi raggiungici.» Le ombre del pomeriggio erano lunghe quando era arrivata alla città e ora era sera. Barbara si sedette sulla porta, guardando nella strada le barricate da entrambe le parti e pensando quanto fossero impotenti e inutili. Venti contro il meglio di cui poteva disporre Warhaus era un numero penosamente piccolo. Malcolm dormiva su una sedia, sempre legato, e l'unica persona in giro era Chark. D'un tratto un uomo uscì di corsa dalla foresta dirigendosi verso di lei. Barbara si alzò per farlo passare e lo seguì nella stanza sul retro dove George, la Donna, Tom, Fiereau e Aslaut erano seduti. «Sono stati visti salire dalla cresta dalla parte opposta a noi. Le macchine sono ancora un po' indietro e non ci sono aeroplani. Ci devono essere almeno cinquecento uomini in quel primo gruppo.» «Tutti qui!», commentò George per telepatia. Gli altri si affollarono sulla porta. In pochi minuti erano tutti presenti. «Lasceremo qui le armi ed effettueremo subito il Cambiamento. Faremo
qualche schermaglia. Pronti?» «Aspettate! E io?», gridò Malcolm dall'altra stanza. «Tu starai qui», rispose George. «Ci sei più d'impiccio che di aiuto.» «Cosa accadrà se non tornerete?» «Torneremo.» «E Card e Vee?», chiese Arthur. «Non possiamo aspettarli ancora. Manderò un messaggio a Card. Ci potrà raggiungere mentre prendiamo posizione.» «Vorrei che l'altro Branco fosse già arrivato», disse Fiereau. «Non c'è niente da fare ormai», rispose George. Si cambiarono e si dispersero. In forma umana rimasero solo Chark e Arthur, per nascondere le armi in posti strategici. Barbara provò una sensazione di contentezza mentre il suo corpo cambiava. Si era chiesta come avrebbe fatto a individuare i singoli individui in mezzo al Branco, ma vide che era abbastanza facile distinguerli uno dall'altro. Tom era teso per l'eccitazione accanto a lei e Mariana correva dall'altro lato. George si trovava in testa a tutti e gli altri si erano sparpagliati da tutte le parti nella foresta. Dietro, Barbara vide che anche Arthur e Chark si erano cambiati a loro volta. Smise di guardarsi attorno e si concentrò cercando di camminare il più possibile silenziosamente, come Mariana. Tom aveva lasciato il suo fianco e si era inoltrato nella foresta come tutti gli altri. «Cammina come se corressi sulle uova», disse Mariana, «e i tuoi passi saranno silenziosi. E non correre così forte ora, altrimenti sarai senza fiato quando dovremo lottare.» D'un tratto Barbara comprese che presto avrebbe attaccato e ucciso degli uomini o sarebbe stata attaccata e uccisa da loro. Si sentì quasi male, ma non disse nulla. Mariana stava dicendo: «Sono contenta che tu sia tornata, Barbara! Mi piaci!». «Usa il pensiero, Mariana, pazza!», comunicò George da qualche parte di fronte a loro. «Più che parlare, anzi, dovresti stare in ascolto.» Erano al fiume. Barbara udì George chiamare Card e dirgli il luogo dove avrebbero potuto incontrarsi. I lupi entrarono nel fiume e nuotarono con forza. Barbara sentì l'acqua gelida sulla pelliccia e rabbrividì, ma seguì il resto del Branco. Sull'altra sponda, George stava dando rapidi ordini col pensiero al Branco, facendolo allineare sulla destra e sulla sinistra. Mariana era scomparsa dal fianco di Barbara, lasciandola andare avanti per conto suo. Sentiva il fiato grosso ora e rallentò l'andatura, chiedendosi come
avrebbe fatto a sapere se si era persa. E fra quanto tempo sarebbero arrivati in contatto con le forze di Warhaus. E se avrebbe dovuto uccidere o se sarebbe stata uccisa. Barbara vide un puma poco davanti a lei. Aveva visto la Donna cambiarsi in puma e si chiese se era lei, o un puma vero. Era Card. «Salve! Pronta per la tua prima battaglia? Mi sono appena liberato di Vee lassù. Non è una bella notte per una battaglia?» «Taci, Card!», venne il pensiero di George. «Mettiti sulla tua destra a doppia distanza dal più vicino.» «Da quando un Capo ci ha guidati in questo modo in una battaglia?» «Da ora.» «Oh, Card, fa' come dice. Abbiamo promesso di aiutarli», venne il pensiero della Donna, con un tono accorato. «Va bene, va bene.» Card scomparve, lasciando Barbara ancora una volta sola. «Quando li vedrete fermatevi. Copritevi e non attaccate fino a che non ve lo dico! Fatemi sapere quando li vedete!», ordinò ancora George. Barbara sentì i muscoli dolerle. Il pensiero della imminente battaglia sembrò calarle davanti agli occhi. Tutto era buio e silenzioso, salvo che per il rumore di macchine e di uomini davanti a loro. Man mano che avanzava, il rumore aumentò, ma era solo rumore di uomini. Le macchine si erano fermate. D'un tratto la foresta sembrò diventare sempre più chiara. Barbara esitò, poi si arrestò. Dietro al tronco di un albero vide un gigantesco riflettore, e attorno a esso alcuni uomini che parlavano tra di loro e fumavano. Si appiattì sul ventre e si ritirò nell'ombra. «Hanno portato una delle grandi luci, George!», mormorò Barbara. «Cosa? Dove?» «Non so dire esattamente dove sono.» «Continua a chiamare e arrivo da te. Tutti fermi!» Per dieci eterni minuti Barbara attese. Tenne il tronco tra sé e la grande luce in modo da evitarla. Dovevano fare funzionare le grandi luci a bassa potenza, pensò, altrimenti la foresta sarebbe già stata un inferno di fuoco. George si accucciò accanto a lei. «Dio! Una delle grandi luci, come quelle che usano nelle caverne?» «Esattamente. Solo che questa non è a piena potenza.» «Vedete altre luci?», chiese George agli altri. «Ce n'è una molto forte davanti a me», disse Aslaut dalla destra. «Pensavo fossero luci attorno a uno di quei grossi cannoni di cui ha parlato
Tom.» «C'è un intero sbarramento», intervenne Vee. «Io sono sulla cresta della montagna, sulla sinistra, e ci sono una dozzina di luci lungo la linea! Se sapessero che siamo qui e le azionassero a piena potenza, sarebbe peggio che se fossero effettivamente cannoni!» «Muovetevi! Aggirate le luci da destra e da sinistra fino ad averle alle spalle. Dovreste arrivare dalla parte della cresta che fronteggia il deserto», ordinò George. «Da che parte?», chiese Barbara. «Sta' vicino a me e fa' esattamente quel che dico.» Barbara lo seguì, cercando di non guardare le grandi luci che ora erano sulla sua sinistra, avviandosi verso la posizione in cui si trovava Aslaut. Sentiva le voci degli uomini di Warhaus come se li avesse avuti a due passi. A una certa distanza da Aslaut, George si arrestò. «Silenzio ora, Babia.» Si accucciò e cominciò ad avanzare a quel modo. Lei lo seguì. Le luci erano ora alla loro sinistra e tutto ciò che potevano vedere era il loro riflesso sulla foresta. A Barbara cominciavano a dolere le gambe e aveva il respiro corto. «Alt! Tutti in posizione per un attacco laterale!» «Faremo dei prigionieri?», chiese Fiereau. «Sì.» «Dannazione!» In pochi minuti vennero raggiunti da Tom e Aslaut. «È una maledetta faccenda, George», disse Tom. «Ora rimarremmo tagliati fuori dal fiume se girassero quelle luci, cosa che potrebbero fare facilmente. In effetti non so cosa stiano aspettando.» «Probabilmente aspettano il gruppo di avanscoperta. Tutti avete davanti a voi degli umani?» «Sì», vennero le risposte una alla volta. Udirono Vee ridere esultante. E Arthur dire: «Zitta ora.» E i pensieri della Donna che diceva a qualcuno: «Proprio come ai vecchi tempi.» Tom e Aslaut si allontanarono da George per prendere posizione, e ora George e Barbara erano soli davanti a un gruppo di otto uomini. «Attacco! Appuntamento alla città e Dio sia con voi!», ordinò George, e si slanciò in avanti. Barbara lo seguì trascinata dal suo slancio e si trovò ad affrontare tre poliziotti sbalorditi che tentavano di impugnare le armi. Lo slancio la portò
sopra uno degli uomini e lo stese. Lui cercò di liberarsi e di afferrare la pistola, ma Barbara lo azzannò al polso. Quello urlò e lasciò andare la pistola. Barbara si girò a fronteggiare gli altri due. Tutto attorno a lei udiva ringhi, urla e spari. Uno degli uomini sparò verso di lei e Barbara sentì un proiettile penetrarle nel fianco. Il dolore l'accecò e la fece infuriare e gli saltò addosso. Lo afferrò a un braccio e l'uomo cercò di liberarsi, girando in tondo, cosa che la salvò dal terzo poliziotto. D'un tratto il secondo uomo abbandonò la lotta e cadde in ginocchio, tenendosi il braccio. Barbara saltò sul terzo, che sparò mentre saltava, colpendola un'altra volta. Fuori di sé dal dolore, lei gli saltò alla gola e rotolarono a terra avvinghiati. La lotta con questo fu più lunga che con gli altri due e Barbara sentì la vista che le si annebbiava. Lasciò andare la presa e saltò di fianco. «Fermo, Branco! Torniamo alla città e conducete avanti i prigionieri. Voi, nuovi, cambiatevi!» L'effetto sugli uomini che erano accorsi per aiutare i compagni fu sbalorditivo, nel trovarsi in mezzo a un immenso Branco di lupi e a due leoni di montagna. Rimasero immobili, storditi per il tempo necessario ai lupi di tornare nella foresta. Al fiume, i nuovi si rifiutarono di attraversarlo, e i vecchi non avevano più energia sufficiente a costringerli, così intervennero i due puma che con ringhi e ruggiti, fecero eseguire gli ordini. Le luci dietro di loro vennero alzate un poco. L'intero gruppo attraversò il fiume come in un incubo e si diresse verso la città protetta dalle barricate. Barbara era caduta poco dopo il guado e si era lasciata andare sotto un albero, immersa in una nebbia di dolore. Appoggiò la testa sulle zampe e rimase così, senza accorgersi delle ore che passavano e che le luci erano state puntate su questa parte della foresta. Era sola ed era tutto ciò che voleva. «Alzati, Babia», arrivò il pensiero di George come da molto lontano. Alzò il capo e vide che George stava di fronte a lei. «Non posso.» «Devi! Vieni. Io non posso aiutarti: devi arrangiarti da sola. Alzati!» Si alzò a fatica, aiutata da George col muso, e rimase in piedi tremando. Lui si girò e si avvio nei cespugli. Lei lo seguì. Camminò per un tempo che le sembrò infinito, poi cadde. Ancora George la incitò ad alzarsi e lei si alzò e lo seguì. Ora stavano salendo e lei barcollava e urtava alberi e cespugli sul cammino. Passati oltre le luci, sentivano le voci degli uomini
che attraversavano il fiume. Si accucciò e cominciò a camminare strisciando, senza più sentire né dolore, né rumori né niente, fino a che delle mani amiche la alzarono e la portarono. 16. Barbara rinvenne e vide la Donna china su di lei: erano entrambe in forma umana. Era sdraiata nella stanza frontale della grande casa, appoggiata al muro. La stanza era piena di gente. La vista le si schiarì e vide che il vecchio Branco era armato e sorvegliava un considerevole numero di prigionieri. «Quanti ce ne sono qui di loro, Tom?», chiese George. «Abbiamo fatto un bel lavoro. Dovremmo avere almeno ottanta prigionieri.» Uno dei prigionieri si fece sentire. «Apprezziamo il fatto che vi prendiate cura delle nostre ferite, ma tenerci prigionieri non vi aiuterà. Credete che cambieremo parte solo perché ci avete cambiati in... Dio sa cosa?» «Lupi Mannari!», disse Malcolm dal palo cui era legato. Sembrava arrabbiato e al contempo compiaciuto. «Non capisco», disse un altro. «Ve lo spiegherò io», disse Card maliziosamente, e in breve delineò i Lupi Mannari, aggiungendo: «Ora voi sarete in grado di sentire il nostro Capo George su una frequenza che nessun telepatico potrà captare. Dovrete eseguire i suoi ordini». «No!», esclamò George. «Voglio solo dei volontari. Se, dopo la battaglia, vorrete essere cambiati di nuovo in uomini, potrà essere fatto. Al momento verrete legati, a meno che qualcuno di voi non voglia restare e combattere con noi. Vi do dieci minuti per decidere.» «Vee è morta», mormorò Arthur rompendo un improvviso silenzio. «Chi altri ancora?», chiese George tristemente. Chark fece la conta e rispose: «Un altro». «Quanti non sono in grado di combattere?» «Credo che potremo combattere tutti», disse Barbara, «se vorrete guidarci e ci date un'arma.» Questo sembrava il pensiero generale. Debolmente, fuori dalla città, Barbara udì fucili sparare e uomini gridare. La Donna le sorrise e si allon-
tanò. Lei si alzò debolmente e si appoggiò al muro. «Non negheremo che ci avete impressionato con la vostra sortita alla casamatta e adesso», disse uno dei prigionieri, «ma noi abbiamo giurato di servire Warhaus e lo faremo.» «Ti avevo detto di farli fuori tutti», esclamò Aslaut. «Non ci daranno altro che fastidi.» «Non lo credo», rispose George. «Lasciate che vi dica, però, che nella vostra presente situazione voi sarete impotenti, e se la città dovesse venire distrutta, voi lo sarete con essa.» «E con me», aggiunse Malcolm. «Questa è una cosa che non mi preoccupa», rispose George. «Lo vedo. Be', forse l'ho voluto io, ma...» In quel momento un uomo entrò nella stanza. «L'altro Branco è arrivato! Hanno scavalcato la barricata dal lato più lontano!» Si udì il rumore di passi affrettati, poi otto nuovi Lupi Mannari entrarono nella stanza. Vi fu un frastuono di voci. «George Adrian!», urlò uno. Gli altri si salutarono da vecchi amici. Sopra la confusione, la voce di George schioccò come una frusta. «Silenzio! Bene, uomini, scegliete! Volete essere legati o combattere, se sarete costretti, per salvare la vostra pelle? Un solo segno di tradimento e verrete uccisi. E vi assicuro che la mia gente sa come uccidere.» Vi fu un lungo silenzio. «Vedo che Tom Gill è uno di voi», disse un prigioniero, «e questo mi basta. Se lui è dalla vostra parte, io non mi tiro indietro.» Vi fu un mormorio tra i prigionieri. Un altro disse che preferiva seguire George dovunque piuttosto che quella vecchia volpe di Warhaus. Alla fine solo ventuno rifiutarono, più Malcolm. Poi alla fine anche lui disse che voleva unirsi al Branco. I prigionieri recalcitranti vennero legati sotto le scale. Gli altri furono avviati a gruppi di cinque sotto la sorveglianza di un vecchio del Branco. I feriti vennero portati alle barricate. George raccolse Barbara tra le braccia. Lei si girò a guardare la stanza vuota. C'erano solo due corpi immobili sul pavimento. Uno era quello di Vee. Deglutì e si concentrò su ciò che l'aspettava. Era buio fuori. La strada era così stretta che la luna illuminava solo i tetti delle case. Barbara udì i movimenti furtivi dei suoi e, lontano, il rumore che facevano le forze nemiche. Le grandi luci erano rimaste dall'altra parte del fiume. George depose Barbara accanto alla barricata che
dava verso il fiume e le si sedette al fianco. «Fino a ora, non sono del tutto certi che noi siamo qui. Ma non c'è altro posto qui intorno in cui potremmo essere. Se il nostro attacco li ha abbastanza demoralizzati, arriverà sicuramente l'alba prima che attacchino. È quello che spero. Altrimenti, chissà.» «È una bella battaglia questa», disse Tom, un po' lontano sulla sinistra di Barbara. «Cosa abbastanza strana, i prigionieri sembrano desiderosi di combattere. Hai uno strano potere, George: infondi in tutti il desiderio di seguirti.» «Anche tu, credo.» «I miei seguaci sono per la maggior parte dei sognatori. Ma cambieranno presto parere sotto di te.» «Va' al diavolo!» Tom rise sottovoce e rimase in silenzio. Da entrambi i lati i prigionieri erano pronti. E tutte le case erano occupate da qualcuno, cosicché la città era difesa da tutti i lati. George controllò le loro posizioni mentalmente. «Ho un'idea», disse Fiereau. «Perché non facciamo un'altra puntata su di loro ora che sono disorientati e incerti?» «Non credi che lo saranno di più quando avranno passato tutta la notte a cercarci senza trovarci?» Fiereau rise. «Avrei dovuto sapere che la pensavi così.» «Non verranno a perlustrare la città?», chiese Barbara. «Certo che verranno, ma non prima dell'alba, se sono saggi.» Barbara non rispose. Si appoggiò alla barricata e chiuse gli occhi. Sentì vagamente che George le passava un braccio attorno alle spalle e le faceva appoggiare la testa alle sue spalle. Cadde ancora nell'incoscienza e sognò che lui si chinava su di lei e la baciava dolcemente. Quando rinvenne, era mattina presto. Appena si mosse, lui aprì gli occhi e sorrise. «Ferma Babia, non muoverti», le comunicò mentalmente. «Ogni movimento d'ora in avanti sarà pericoloso. Torno subito.» La appoggiò quindi alla barricata e si allontanò strisciando. Accanto a lei, uomini e donne dormivano. Ai prigionieri erano stati dati archi e frecce fatte in casa. Stavano guardando quelle armi con meraviglia e collaudavano la resistenza degli archi. La foresta oltre le barricate era silenziosa. Quando la luce crebbe, parve a Barbara di udire del movimento al di là
delle barricate. Scoprì che era troppo debole per muoversi. George tornò e si appoggiò alla barricata. «Stai più giù che puoi», le ordinò. «Non inizieremo la battaglia fino a che non saranno dentro la città.» «Ma sarà un massacro!», obiettò uno dei prigionieri. «Può darsi. E entrambe le parti potranno arrivare a distruggersi completamente», rispose Fiereau. «Stai giù, dannazione!» Silenzio. George spinse Barbara ben dentro la trincea e le si sedette al fianco. «Stanno avvicinandosi.» «Dio, non ho mai ucciso nessuno prima d'ora!», pensò un prigioniero. «Silenzio!», ordinò Tom. «Sono più vicini!», segnalò George. Ora potevano udire il rumore di rami spezzati sotto i passi dei poliziotti. Le barricate fremettero mentre gli uomini di Warhaus le scalavano. Barbara poteva vedere le loro gambe tra i cespugli davanti a lei. Entravano nella città abbandonata, cautamente. La vista di quelle forze ben addestrate, armate dei potenti e mortali fucili a lungo raggio, la fece rabbrividire. Si sparpagliarono per l'unica strada e cominciarono a frugare le case. «Come fanno a tenere così tranquilli i prigionieri?», chiese Barbara. «La Donna li ha drogati», rispose George. Le case vennero ispezionate attentamente dalle forze di polizia. Nella grande casa centrale, uno dei poliziotti sparò qualche colpo. Ancora nessuna reazione. «Ora!», ordinò George. «Fuoco!» L'ultimo pensiero coerente di Barbara fu che gli uomini intrappolati nella città si sarebbero vendicati atrocemente. Le forze di Warhaus si sparpagliarono disordinatamente in tutte le direzioni. Da entrambe le parti si sprecavano i colpi. Urla di rabbia e di dolore si levavano dovunque. Alcuni dei prigionieri avevano attaccato direttamente ed erano stati ricacciati indietro. Le case presero fuoco e i loro occupanti irruppero nelle strade accrescendo la confusione. George era scomparso, e Barbara sedeva sola nel suo buco, sparando il più velocemente possibile. D'un tratto, sopra al frastuono della battaglia e delle urla, venne un comando mentale. «Cambiatevi e caricate!» Era potente il pensiero di George dal folto della mischia. Alla prima parte dell'ordine, Barbara obbedì istintivamente. Per la se-
conda parte scoprì che le era impossibile. Rimase immobile impotente osservando la battaglia trasformarsi in una isterica serie di scaramucce. Gli attaccanti lottarono contro la carica furibonda di un centinaio di lupi e due enormi puma. Se la notte prima era stata una sorpresa per gli uomini di Warhaus, questa volta lo fu meno: alcuni di loro compresero che i loro antichi compagni si erano uniti al Branco. Ora lottavano così vicini che non era più possibile sparare. Gli uomini di Warhaus usavano i fucili come clave. Il Branco, fornito di zanne e artigli, era meglio preparato, ed era quello su cui George aveva contato. E anche le nuove reclute si davano da fare. A Barbara si annebbiò la vista, e cadde a terra. Il tempo passò e i rumori andarono e venirono senza alcun significato per lei. Quando rinvenne, era sera. La battaglia era finita. Alzò debolmente il capo e vide che la strada era piena di morti e di feriti di entrambe le parti. Non c'era nessun altro in vista. Svenne ancora e, quando rinvenne, era notte. I fuochi erano spenti e la strada silenziosa. Più tardi si svegliò e vide che la strada era stata sgomberata e George era chino su di lei e la sollevava. Quando finalmente la sua mente si schiarì, era mattina. Si trovò avvolta in coperte nella casa centrale. I muri erano anneriti dal fumo dell'incendio e il sole entrava dai buchi nel muro. La stanza era piena di feriti e, attorno a un tavolo nel centro, c'erano Warhaus, George, Tom e Aslaut. «Non c'è scopo a continuare a combattere», stava dicendo Warhaus. «Ma voi mi avete messo in una bella situazione. Come posso spiegare al governo di White Gold City cosa è accaduto realmente? Non dico che è stata una brutta battaglia, anzi! Non avrei mai creduto che foste capaci di portare a termine le vostre minacce. E non mi dispiace nemmeno per gli uomini che ho perso, perché in un certo senso era già scontato in partenza. Mi piacerebbe avere un uomo come voi al mio fianco. E firmerò volentieri qualsiasi carta mi presenterete. Ma, non potete cambiare in uomini i miei soldati? Sapete quanti ne sono stati cambiati? Almeno duecentoventicinque ex poliziotti sono ora Lupi Mannari. Come la mettiamo?» George rise e indicò la Donna. Lei e Card erano seduti un poco in disparte, quasi estranei alle trattative. «Li cambierò», rispose la Donna. Un uomo disse: «Io non voglio essere cambiato». Waxhaus lo guardò irritato.
«Be', se dai le dimissioni, non posso rifiutarle, ma...» Vi fu una animata discussione e, prima che finisse, Barbara svenne di nuovo. 17. La guerra coi Lupi Mannari era finita ma, prima di arrivare alla sospirata pace, c'era molto ancora da fare. Warhaus era tornato indietro con i suoi uomini e le carte che aveva firmato. Tom era andato con lui per assicurarsi che quella vecchia volpe tenesse fede all'armistizio. Gli uomini di Warhaus troppo gravi per essere trasportati, sarebbero stati rimandati una volta guariti. Voci sulla battaglia avevano raggiunto White Gold City con le ambulanze e i feriti. Quando Tom tornò con una lettera del sindaco di White Gold City che garantiva l'amnistia, riferì che la popolazione era indignata. Molto prima che i mezzi della polizia portassero via le grandi luci, una folla inferocita era calata sulla vecchia città mineraria e se i Lupi Mannari fossero stati lì, sarebbe accaduto un massacro. Ma George, in previsione di ciò, aveva fatto tornare l'intero Branco nella foresta, nascondendolo accuratamente subito dopo la partenza di Warhaus. Privata della sua preda, la folla tornò in città, e Warhaus ebbe il suo daffare con i rivoltosi. Quando la rivolta venne calmata, la città scoprì di essere stata scossa dal suo letargo. E, molto lentamente, ci fu un risveglio dell'interesse e della curiosità. Tutto ciò prese del tempo, moltissimo tempo. E intanto ci si preoccupava di seppellire i morti e curare i feriti. Finalmente Tom arrivò al nuovo campo e trovò moltissimi cambiamenti. «Non riesco a capire cosa stia accadendo qui!», disse a George. «Stanno preparandosi a entrare in Concilio», spiegò George, e continuò ad aguzzare le punte delle frecce con calma. Barbara disse: «Stanno per votare per eleggere un Capo permanente. Inoltre, devono decidere dove andare da qui. Le nuove reclute con mogli e figli non sono di alcun aiuto, per il momento». «E tu?», chiese direttamente Tom. «Cosa hai intenzione di fare?» «Cosa sono veramente i Lupi Mannari, Tom? Siamo forse una specie di simbiosi con altre forme di vita?» Tom rimase in silenzio per un momento, pensieroso. «Ho interrogato la Donna, ma non mi ha potuto dire molto. Molto tempo
fa, noi eravamo considerati creature soprannaturali del Male. Ora sappiamo che la forza che vive in noi e ci dà questi strani poteri non è malvagia. Ci lascerà se non la vogliamo, e la Donna sa come comunicare con questa forza. Ecco perché ha potuto cambiare te, una volta. Ma questo lascia ancora moltissime domande senza risposta, non è vero?». «Sì.» «Forse un giorno sapremo.» Scrollò le spalle. «Non credo sia ancora giunto il tempo in cui dobbiamo sapere. Bene, e tu cosa farai?» Barbara si guardò attorno sull'altopiano. Erano state rizzate tende e capanne e si stavano costruendo alcune case. Nel prato più in basso brucavano le pecore e contro la parete di roccia erano stati piantati dei telai e le donne vi lavoravano. Erano stati accesi dei fuochi e sopra di essi bollivano delle pentole. I bambini dormivano in culle fatte a mano. «Sono accadute tante cose», disse. «Non posso dirti quanto sia eccitante, Tom! Per rispondere alla tua domanda, non so dirti cosa farò io personalmente. Non so fare altro che cavalcare. E qui non abbiamo cavalli.» Si allontanò e Tom la seguì con gli occhi. Poi tornò a guardare George che lo fissava. «Allora?» «Non so! Cosa posso dire o fare?» Tom fece per dire qualcosa, poi cambiò idea. «Vedo che la Donna e Card sono ancora qui.» «Sì, però hanno intenzione di andarsene, prima che inizi il Concilio.» «Dove sono gli altri? Mariana, Arthur, Malcolm e...» «Mariana è laggiù accanto ai fuochi. Arthur è di guardia al nostro prigioniero. E Malcolm sta curando le pecore.» «Prigioniero?» «Sì. Il Concilio deve decidere da solo, e il destino di Malcolm e anche di tuo fratello Jack è in mano sua. Fu lui che appiccò il fuoco nel magazzino. Lo trovammo tra i poliziotti quando attaccarono la cittadina. Lo trattenemmo dopo che Warhaus tornò indietro. Ha ammesso di aver ucciso Bix e sparato ad Arthur e Barbara. Sarà giudicato con giustizia. Il metodo della giustizia è iniziato molto tempo fa. Nel nostro passato non abbiamo avuto leggi fatte dagli uomini per aiutarci. Abbiamo imparato a dispensare la giustizia da soli. E sia Jack che Malcolm sono accusati di tentato omicidio e di omicidio di Lupi Mannari. Se saranno considerati colpevoli, li terremo qui per Warhaus fino a che la città si sarà calmata, poi li porteremo da lui con le prove.»
Le labbra di Tom si indurirono nella vecchia espressione di furia e fece per andarsene. «Tom!», George si alzò e gettò da parte il lavoro. «Lascia stare Jack! È compito del Concilio decidere cosa fare di lui.» «È mio fratello!» «Ci può essere un Jack in tutte le famiglie. Va' a parlare con Mariana invece. È da molto tempo che aspetta il tuo ritorno ormai.» Tom esitò e George disse: «Fino a che sarò considerato inadatto al comando, sono ancora io il Capo qui! Fa' come ti ho detto. Lascia stare Jack!». «Va bene», rispose Tom con un sorriso forzato. «D'accordo. Per quel che mi riguarda sei ancora il Capo!» George lo osservò allontanarsi con un'espressione imperscrutabile. Controllò rapidamente il Branco mentalmente e con gli occhi, poi tornò al suo lavoro. «Ho una brillante idea, George», disse Card avvicinandosi. «Cosa c'è, ora?», disse George stancamente. «Sembra che tu abbia dei fastidi con quella Barbara. Potrei prepararle una pozione e fargliela bere! Risolverebbe tutti i tuoi problemi con lei!» «Lascia perdere! Non ho bisogno di aggiungere agli altri anche il problema di te e della tua pozione!» «Era solo un'idea», aggiunse Card per niente seccato. «Be', tientela per te!» «Bel modo di parlare quando uno viene a dirti addio!» «Oh, te ne vai?» «Sì», rispose la Donna avvicinandosi. «È ora che torniamo alle nuove vite che abbiamo iniziato in questo tempo. Qualunque cosa accada ora, devi arrangiarti da solo.» «Così», aggiunse Card ridendo, «se dovrai combattere ancora, non contare su di noi.» «Sta' buono, Card», disse la Donna sorridendo. «Torneremo a farti visita di tanto in tanto ma, fino ad allora, addio e buona fortuna.» «E Dio sia con te!», aggiunse Card, finalmente serio. Non si strinsero le mani, ma rimasero immobili per qualche minuto a fissarsi. Poi la Donna e Card si girarono e si avviarono verso la foresta e George tornò al suo lavoro. Odiava vedere gli amici che se ne andavano, ma, era accaduto così spesso che ormai avrebbe dovuto essere abituato. Però non ci riusciva. Tornò con la mente ai problemi del nuovo Branco e al-
l'imminente Concilio, che avrebbe deciso se accettare il suo comando o trovare un altro Capo. Il Concilio avrebbe anche giudicato Malcolm e Jack. Malcolm in un certo senso era già stato accettato dal Branco e si comportava molto più gentilmente di quando si era unito. Il destino di Jack era invece ancora molto incerto. I commenti di Jack erano cattivi, duri e insultanti e Bix aveva avuto molti amici. I nuovi membri sembravano essersi adattati facilmente al nuovo modo di vivere. Erano più furiosi contro Jack dei vecchi: per loro l'omicidio era una cosa abominevole. E, nella loro nuova lealtà, difendevano i diritti dei Lupi Mannari più strenuamente dei vecchi. Bix, pensò George, avrebbe sorvolato sull'accaduto. Infatti, quando lo aveva incontrato all'ultima Luna Piena, era stato proprio ciò che aveva fatto. C'era anche il problema di Barbara. Ora che l'emergenza era finita, George desiderava riprendere il suo stato di Solitario. Il Branco sarebbe andato bene anche senza di lui ora. Le meditazioni di George furono interrotte dalla riunione per il Concilio. Con sorpresa del solo interessato, Tom Gill venne eletto Capo Permanente. Accettando la nomina, Tom acquistò quei poteri e quegli istinti che aveva avuto George. George non perse i suoi, ma ora potevano essere messi da parte perché non necessari. Dopo l'elezione vi fu il processo a Malcolm e a Jack. Dopo molte discussioni contrastanti, Malcolm venne accettato, con due riserve: non aveva diritto di voto nel Concilio per due anni né aveva possibilità di accedere al comando, anche se scelto, per un secolo. Malcolm era troppo contento di essere stato accettato per preoccuparsi di ciò. Jack era un'altra cosa. Era insolente e cattivo. «Ascoltate», disse George alzandosi davanti al Concilio. «Io non sono più il Capo, ma mi avete ascoltato fino ad ora. Ascoltatemi ancora: costui non è più uomo. Lasciamo che sia mandato a Warhaus perché gli infligga la giusta condanna. Ma, fino a che non potremo mandarlo da Warhaus, non lasciate che qualcuno gli faccia del male.» Jack era furioso di essere difeso dall'uomo che riteneva responsabile di tutti i suoi guai. «Sta' zitto tu, creatura dell'Inferno! Credi che voglia l'aiuto di uno come te?» Si liberò dai suoi guardiani e balzò contro George. Fiereau fece per intervenire mentre l'intero Concilio era in piedi, ma George gridò: «State lontani!». Si fermarono tutti e attesero. L'attacco di Jack aveva spinto George fuori dal cerchio dei presenti e ora
i due stavano lottando corpo a corpo, Jack urlando frasi sconnesse e George in assoluto silenzio. George non voleva uccidere quell'uomo perché era il fratello del suo amico Tom. Jack stava cercando di strangolarlo e George cercava di liberarsi dalla stretta. Si girarono e si rotolarono sul pianoro, fino ad arrivare all'orlo del burrone. George, vedendo il pericolo, con un estremo sforzo si liberò della stretta e gettò a terra Jack. Questi lo afferrò alle gambe ed entrambi caddero oltre l'orlo sparendo alla vista. Tutto il campo si alzò in piedi con un urlo. Tom gridò a qualcuno di seguirlo e si slanciò lungo la china. Gli altri si erano affollati sull'orlo del burrone e guardavano giù in silenzio. I due in basso stavano ancora lottando poi dopo qualche secondo, tutto finì. Uno dei due giaceva immobile: l'altro si alzò, barcollando sulle ginocchia. Era George. Fece per alzarsi quando Tom e gli altri si avvicinarono, poi cadde in avanti nella sabbia. 18. «È morto?», chiese George quando rinvenne. «Sì, è morto», rispose Tom. «E siamo in un pasticcio ora. Wahraus ha mandato un suo rappresentante a chiedere notizie di Jack. Pare che finalmente si siano accorti che mancava.» George rise, ma si interruppe bruscamente per il dolore. Tornò ad appoggiarsi al tronco e chiese: «Perché mi hai portato qui? Temevi che incriminassi tutto il Branco?». «Oh, sta' zitto! Abbiamo scoperto che era impossibile trasportarti su per la china. Così ti abbiamo portato nella foresta.» «Sei tu il Capo ora. Cosa intendi fare?» «Alcune delle nuove reclute si sono affrettate a raccontare alla polizia l'accaduto, mentre noi eravamo quaggiù a curarti. Quando sono tornato al campo, il danno era già stato fatto.» «Per quanto tempo sono rimasto senza conoscenza?» «Tre giorni. E gli uomini di Warhaus stanno per mandare un messaggio radio per chiedere rinforzi.» George rise alla espressione imbarazzata di Tom. «È semplicissimo. Di' loro che sono scappato e che tu hai fatto frugare la foresta alla mia ricerca. E, se avranno voglia di dare un'occhiata, che siano i benvenuti.» «È un magnifico suggerimento!», disse acidamente Tom. «Lascia solo
che ti trovino e che ti riportino in quella città di rivoltosi, e sarai fatto a pezzettini.» «No. Io me ne vado per conto mio, Tom. Io sono il Solitario, come ti avranno detto Fiereau e gli altri, ed è da tempo che sono tentato di andarmene per conto mio. Ora ne ho l'opportunità. Tu non hai bisogno di me, e io non sono più il Capo.» «Non puoi in queste condizioni. Dove andrai?» «Ho anni di pratica nel nascondermi senza farmi trovare. Mi sono riavuto da ferite molto più gravi di queste. Se i Solitari non vogliono farsi trovare, non si faranno trovare. Di' addio agli altri per me...» Mentre parlava, George si girò e si alzò e, mentre si alzava, cambiò. Le zampe davanti avevano le stesse bende che avevano avuto le braccia e il torace era fasciato come lo era stato nella forma umana. «Terrò le bende», disse tranquillamente stando su tre zampe e guardando Tom. «Tornerò qualche volta. E, se mai avrai bisogno del mio aiuto o dei miei consigli, chiamami.» Si confuse rapidamente coi cespugli e Tom rimase a guardarlo sparire. Lentamente, raccolse le coperte sulle quali era stato sdraiato George e ritornò al campo. Il piccolo gruppo degli uomini di Warhaus, stava seduto in un angolo del campo. Tenevano d'occhio i Lupi Mannari e specialmente i loro vecchi camerati, con paura. Avevano i fucili poggiati sulle gambe e la radio tra di loro, pronti a uccidere. Sotto la costante sorveglianza, i vecchi del Branco continuavano il loro lavoro tranquillamente. I nuovi ricambiavano le occhiate dei poliziotti con aria bellicosa. «Non riesco a capire», stava dicendo Mariana ai poliziotti, «perché la prima volta avevate Jack con voi.» «Lo abbiamo trovato nella foresta che vi cercava. Il vecchio Warhaus lo voleva per interrogarlo, così lo abbiamo portato con noi. E, a proposito, cos'è accaduto al suo assassino? Siete pronti per dircelo?» «Sì», rispose Tom, arrivando dietro a Mariana. «Non siamo riusciti a trovarlo. È scomparso nella foresta.» Il vecchio poliziotto che aveva parlato, digerì le parole lentamente. «Non posso dire di credervi ciecamente», rispose. «Volete lasciarci chiamare i rinforzi per una ricerca più accurata? Ci fermerete se lo cercheremo noi?» Tom non osò esitare, dato l'umore che c'era nel campo. «Fate pure», disse. Il Branco mormorò.
«Cosa diavolo pensi di fare?», gli arrivò il pensiero di Fiereau. «Ho parlato con George. Mi ha detto lui di farlo.» «Non si può prendere un Solitario se lui non vuole. Specialmente uno come George Adrian», intervenne Aslaut. «Ma, Tom!», intervenne Barbara. Il Branco si ritirò di parecchi passi per lasciar passare i poliziotti, pur continuando a guardarsi l'un l'altro e a scambiarsi un fiume di pensieri, in un bailamme di voci, ma senza alcun rumore. Occorse un po' di tempo a Tom per calmarli. Quando finalmente riuscì e tutti furono tornati al proprio lavoro, nel campo era rimasto solo un poliziotto che stava chiamando rinforzi alla radio. Gli altri erano scomparsi oltre la china verso la foresta. Qualche tempo dopo, Tom fece un'altra scoperta. Barbara era andata via. «Mariana», pensò, avvicinandosi alla ragazza. «Dov'è andata Barbara?» «Ma a raggiungere George, naturalmente», rispose con lo stesso mezzo la ragazza, sorridendogli. Tom si dimenticò della sorella non appena si sedette vicino alla sua donna. Barbara se n'era andata, ormai. Le sue ferite erano completamente guarite e si sentiva di nuovo forte. Corse tra gli alberi, giù, lungo la china del monte. Quando arrivò quasi in fondo, si fermò e chiamò. «George, George! Dove sei? Guidami!» Silenzio. La sua momentanea felicità si dissolse, e cominciò a camminare lentamente. «George! George! Sono Babia! Voglio venire con te!» Debolmente, come da molto lontano, udì la risposta. «Vieni allora, ti guiderò da me. Vieni lentamente e silenziosamente, però. Fermati e procedi a zigzag quando puoi. La polizia sta già frugando la foresta per me.» «Non uscire allo scoperto fino a che non sei sicuro che ci sia io.» Barbara si rese conto improvvisamente di quanto fosse pericolosa la sua situazione. Si avviò lentamente nella sua direzione. Dopo qualche minuto si cambiò e in forma di lupa si tenne il più in ombra possibile. «Pensi di potermi insegnare qualcosa, piccola, sul fatto di tenermi nascosto?», chiese George. Il suo pensiero aveva un tono leggermente ironico. Barbara rispose sullo stesso tono. «Probabilmente non ho nulla da insegnarti.» «No, non ho detto questo», rispose George con un risolino.
Dopo di ciò non scambiarono più una parola. George tenne sempre costante il segnale per guidarla e Barbara usò tutte le sue capacità per tenersi fuori vista. Parecchie volte dovette nascondersi per evitare le pattuglie di polizia e una volta dovette fare un lungo giro per evitare un grosso distaccamento. Continuarono ad avanzare, fermandosi per riposare di tanto in tanto, fino a quando arrivarono in una immensa caverna. Il suolo era coperto da calda sabbia asciutta e terra. Nel centro della caverna correva un profondo fiume sotterraneo. George si sdraiò per riposare, e Barbara si guardò intorno stupita. «Si può parlare liberamente qui?» «Sì, siamo al sicuro», rispose George con la voce, mentre cambiava. Rimase sdraiato immobile per qualche istante, con gli occhi chiusi e il viso imperlato di sudore. Barbara cambiò anche lei: vedendo che lui voleva restare solo, si avviò per esplorare la caverna. Quando tornò, lui aveva aperto gli occhi e teneva il braccio sano sotto la testa. «Non avrei mai pensato che saresti venuta da me di tua iniziativa.» Lei si sedette accanto, senza guardarlo. «Non pensavo che tu mi volessi, ma quando udii Tom dire che te n'eri andato, sentii che non potevo lasciarti andare senza almeno cercare di riunirmi a te.» «Questo non è il momento migliore per stare con me. Sono nei guai e inutile. Dovrò stare nascosto fino a quando in città si saranno dimenticati di me e i poliziotti verranno richiamati. Non credo che Warhaus mi braccherà in eterno. Ma, fino ad allora, la vita per me sarà dura e pericolosa. Completamente diversa dalla vita cui sei abituata.» «Penso che non mi importerà molto.» «Pensavo che avessi perdonato Malcolm e che saresti andata con lui.» Barbara lo guardò sorpresa. «Malcolm! Sono cresciuta con lui, e anche se in realtà non fosse mio parente, non ho mai pensato a lui in altro modo. Io pensavo piuttosto che tu e la Donna ve ne sareste andati assieme!» Fu la volta di George di sorprendersi. «Non c'è mai stato niente tra noi, mai! Mio Dio, Babia, io ti amo!» Barbara gli appoggiò il capo alla spalla. «Sono contenta», disse con semplicità. «Perché io ti ho amato anche quando odiavo amarti.» George le mise il braccio sano attorno alle spalle e si chinò a baciarla.
«Dovrai andare a caccia di conigli per me, e prendere legna per il fuoco e... ma quando sarò guarito, Babia, mi prenderò cura di te e cercherò di renderti felice.» Barbara rise e si alzò a sedere, asciugandosi le lacrime di gratitudine. «Se devo andare a caccia di conigli e accendere il fuoco, è meglio che mi dia da fare subito. Perché non saprei cominciare nessuna delle due cose.» «Te lo insegnerò io da qui. È forse, Babia...» Lei lo interruppe alzandosi in piedi. Molto più tardi, mentre erano seduti tranquillamente davanti al fuoco, Barbara disse: «E cosa accadrà se avremo dei figli?». E George le rispose come una volta aveva risposto al fratello. Poi, attirandola piano: «Spero che Tom se la cavi bene», disse quasi pensieroso. «Probabilmente per lui sarà più facile, con la maggioranza del Branco formata da gente del suo tempo, e la pace tra uomini e Lupi Mannari. E ho sentito che guidava molto bene i suoi uomini nel Servizio Spaziale.» Barbara accostandosi sognante, nel cerchio del suo braccio sano, mormorò: «Sì, è vero». Laggiù al campo, in quel momento Tom stava dicendo: «Mi chiedo se li rivedremo, un giorno». Mariana rise, pensando alle volte che lei, Bix e Arthur erano andati da George in cerca di aiuto. «Sì, credo di sì», rispose. JACK WILLIAMSON IL FIGLIO DELLA NOTTE (Darker Than You Think, 1948) 1. La ragazza si avvicinò a Will Barbee mentre lui, ritto davanti al terminal di vetro e cemento di Trojan Field, il nuovo aeroporto municipale di Clarendon, osservava il cielo di piombo cercando di scorgere gli aerei in arrivo. Non c'era alcun motivo perché Will dovesse sentirsi percorrere da un
brivido tale da fargli battere i denti: ma forse era stata soltanto una folata dell'umido vento di levante. Snella ed elegante nella bianca pelliccia, la ragazza gli trasmetteva un'oscura sensazione di gelo. Tuttavia, aveva una incredibile massa di capelli rossi; e bianca e flessuosa com'era, il volto serio e dolce, confermò la prima impressione ricevuta da Will: che fosse qualcosa di straordinariamente prezioso e bello. Lo fissò, e la bocca di lei parve incurvarsi in un accenno di sorriso. Barbee, col fiato mozzo, esaminò più attentamente quegli occhi che lo guardavano sorridendo gravi: erano proprio verdi, verdissimi. La scrutò, cercando di spiegarsi quel freddo brivido di allarme istintivo, e si rese conto di provare un'attrazione altrettanto istintiva. Gli parve illogico: la vita lo aveva reso cinico in fatto di donne, e si considerava ormai immune al loro fascino. Il tailleur di gabardine verde che la ragazza portava sotto la pelliccia, semplice e severo, era di certo molto costoso, e la tinta si intonava al colore degli occhi. Contro le raffiche gelide di quel grigio pomeriggio d'ottobre, la ragazza era difesa da una specie di cappotto di pelo candido e folto, che a Will parve di lupo artico: albino, probabilmente. Il gatto però era davvero strano. Dall'apertura della borsa di coccodrillo che le pendeva dal braccio, e sembrava che intorno a esso fosse avvolto un rettile vivo, un gattino spuntava fuori con aria soddisfatta; un piccolo micio nato da poco, tutto nero, con un bel nastro di seta rossa annodato intorno al collo. Insieme, erano una perfetta immagine di serena innocenza. Ma quel micino che sbatteva gli occhi alle luci che si rincorrevano nel crepuscolo, portava una nota discorde. La ragazza non sembrava il tipo che gioisse della compagnia di una bestiola così tenera. E la sua apparenza di giovane e determinata donna d'affari non sembrava proprio conciliabile con l'inclusione di un gattino nero, sia pur piccolo e grazioso, fra gli accessori d'abbigliamento. Barbee si chiese dove e quando l'avesse conosciuta. Clarendon non era certo una grande città, e un cronista come lui, che va dappertutto, dei capelli rossi come quelli li avrebbe visti e ricordati anche se fosse stato cieco. La guardò ancora, dubbioso che quegli occhi verdi si dedicassero proprio a lui. La ragazza continuava a fissarlo. «Barbee?», chiese con voce morbida e piena, una voce che rivelava una
vitalità così intensa da possedere quasi una sfumatura gutturale. «Will Barbee», rispose lui. «Cronista del Clarendon Star.» Si era illuso che un così modesto particolare potesse sembrare interessante alla ragazza. «Il direttore stasera vuole che prenda due piccioni con una sola fava», riprese, a corto di argomenti. «Il primo piccione sarebbe il colonnello Walraven, che ha piantato Washington e la burocrazia per tornarsene a Clarendon, dove spera di essere eletto senatore. Ma avrà ben poco da dire alla stampa, prima di aver parlato con Preston Troy.» Il gattino sbadigliò mentre le luci si accendevano, e la piccola folla di parenti e amici in attesa si accalcò lungo la rete metallica che divideva il pubblico dal campo. Intanto, gli intensi occhi verdi della ragazza non s'erano staccati per un attimo dalla sua faccia, e la sua voce magica domandò dolcemente: «E il secondo piccione?». «Quello è il più grosso. Si tratta del professor Lamarck Mondrick. Anima e corpo dell'Istituto per le Ricerche Antropologiche, vicino all'università. È atteso per quest'oggi, su un aereo noleggiato sulla costa del Pacifico, insieme coi suoi compagni di spedizione. Sono stati nel deserto di Gobi, in Mongolia. Ma lei già saprà tutto di questi esploratori.» «No», e qualcosa nella voce di lei gli accelerò le pulsazioni del sangue nelle vene. «Che cosa hanno fatto?» «Sono archeologi, che la guerra ha sorpreso mentre facevano degli scavi in Mongolia, scavi che naturalmente furono interrotti. Nel 1945, quando i giapponesi si sono arresi, la spedizione è tornata subito là, malgrado gli impacci burocratici. Sam Quain, che è il braccio destro di Mondrick, durante la guerra aveva fatto parte d'una importante missione militare in Cina e perciò ha potuto ottenere i permessi necessari. Sembra che abbiano trovato qualcosa di eccezionale.» La ragazza lo ascoltava con interesse, per cui Barbee riprese: «Sono tutti di Clarendon, e tornano in patria stasera dopo due anni di lotta e di pericoli con militari, banditi, tempeste di sabbia e scorpioni nel cuore della Mongolia più misteriosa. Sembra che portino con sé qualcosa che sconvolgerà il mondo archeologico.» «E cioè?» «È appunto quello che il mio direttore vorrebbe che io scoprissi stasera.» Barbee la osservò con due grigi occhi pazienti e perplessi. Il gattino nero ammiccò, più arzillo che mai. Niente, nell'aspetto della ragazza, giustifica-
va il suo sfuggevole brivido di allarme. Il suo sguardo era ancora impersonale. Temette che se ne andasse. Inghiottendo la saliva, il giornalista si decise: «Dove ci siamo conosciuti?», domandò. «Sono una collega, o per meglio dire una rivale», disse la ragazza, in tono più aperto, non privo di cordialità. «April Bell, del Clarendon Call.» Gli mostrò un taccuino nero: «Mi hanno detto di guardarmi da te, Will Barbee.» «Oh», sorrise lui, e indicando con un cenno del capo il gruppetto di persone dietro le vetrate della stazione, in attesa dell'aereo: «Avrei creduto piuttosto che tu fossi qui di passaggio, tornando a Hollywood o a qualche teatro di Broadway... Ma non sei proprio della redazione del Call, vero?» E lasciò scorrere lo sguardo su quegli splendidi capelli di fiamma, scotendo la testa in muta ammirazione. «Perché ti avrei notata...» «Sono nuova», disse la ragazza. «Mi sono diplomata in giornalismo questa estate. Ho cominciato a lavorare al Call lunedì scorso. Questo è il mio primo servizio.» E con tono infantilmente confidenziale: «Ho paura d'essere come un pesce fuor d'acqua, qui a Clarendon... Sai, sono nata qui, ma la mia famiglia mi ha portata in California quand'ero ancora bambina.» I denti bianchissimi lampeggiarono in un sorriso d'ingenua fiducia. «Sono del tutto forestiera a Clarendon, e nello stesso tempo ho tanto desiderio di farmi onore al Call», confessò dolcemente. «Vorrei proprio fare un bel pezzo su questa spedizione di Mondrick. Pare che ci siano tante cose misteriose e affascinanti, nella spedizione! Ma ho paura di non avere studiato troppe materie scientifiche all'università. Non ti dispiace, Barbee, se ti faccio qualche domanda?» Barbee non rispose perché era immerso nella contemplazione dei suoi denti. Denti regolari, forti, candidi. Quel tipo di denti con cui ragazze bellissime stritolano ossa nelle pubblicità dei dentifrici. Pensò che lo spettacolo di April Bell intenta a stritolare un osso sanguinolento sarebbe stato dei più eccitanti. «Vedo che ti dispiacerebbe, vero?» Barbee inghiottì di nuovo e con uno sforzo tornò alla realtà. Le sorrise, perché ora cominciava a capire. Era una novellina, ma furba come Lilith. Il gattino aveva indubbiamente il compito di dare il tocco finale al commovente quadretto d'una fanciulla sola e senza aiuto, annientando così le ultime resistenze maschili che i suoi occhi affascinanti e la chioma fiammeggiante non avessero ancora debellato.
«Noi siamo rivali, dolcezza», le ricordò, cercando di fare il severo. L'occhiata ferita di lei non andò perduta, ma il giovane mantenne il tono ruvido della sua voce. «E poi April Bell sembra un nome finto.» «Mi chiamo Susan, in realtà», e i verdi occhi della ragazza divennero quasi neri tanto era intensa l'implorazione che vi si leggeva. «Ma April m'è parso molto più adatto al mio primo servizio firmato. Ti prego... dimmi qualcosa sulla spedizione... quel Mondrick dev'essere un pezzo grosso davvero, se tutti i giornali vogliono articoli su di lui...» «È uno studioso veramente in gamba. La sua spedizione si compone soltanto di quattro uomini, e non ho dubbi che devono avere visto cose incredibili in quelle regioni sconosciute, in mezzo al deserto, in tempi come questi. È già un mistero come abbiano fatto ad arrivare fin là e a tornare indietro. Ma Sam Quain ha amici cinesi, e questi devono averli molto aiutati.» Con una minuscola stilografica, lei intanto prendeva appunti rapidissimi sul taccuino nero. «Amici cinesi», mormorò la ragazza scrivendo. Poi alzò gli occhi imploranti: «Davvero non hai idea di che cosa portino di là?». «Nemmeno la più pallida ombra di un'idea. Qualcuno della Fondazione ha telefonato oggi allo Star per informarci che sarebbero arrivati stasera in aereo. Ha anche detto che la spedizione aveva novità sensazionali da annunciare. Pare che si tratti di una grande scoperta scientifica. Ci ha consigliato di mandare fotografi e i nostri redattori scientifici, ma lo Star non è giornale che prenda troppo sul serio i problemi della scienza. Secondo il direttore basto io tanto per il servizio su Walraven quanto per quello sulla spedizione.» Intanto cercava di ricordarsi il nome di un certo personaggio mitologico, affascinante e desiderabile, senza dubbio, quanto lo era April Bell, ma dedita alla brutta abitudine di tramutare gli uomini invaghiti di lei in bestie ripugnanti. Come si chiamava... Circe? Non aveva pronunciato quel nome a voce alta... ma l'improvviso incurvarsi ironico delle labbra, e un certo scintillìo malizioso negli occhi verdi, gli fecero pensare per un istante di averlo fatto. Ed era strano, perché non capiva che cosa l'avesse fatto pensare alla mitica maga. Il disagio durò un istante, che impiegò per cercar di scoprire i motivi di quella strana associazione mentale. Aveva letto Menninger e Freud, conosceva il Ramo d'oro di Frazer. Sapeva che i simboli delle antiche leggende entrate nel folklore esprimevano le paure e le speranze dell'uomo primiti-
vo: perciò, l'immagine lampeggiata nei suoi pensieri doveva riportare a qualcosa nel suo inconscio. E non voleva nemmeno sapere a che cosa. Rise improvvisamente e disse: «Va bene, ti dirò tutto quello che so, anche se rischierò il licenziamento in tronco quando Preston Troy leggerà il mio servizio anche sul Call. O preferisci che te lo scriva io?». «Grazie, ma la mia stenografia è abbastanza buona.» «Bene, Mondrick era già un antropologo di fama alla Clarendon University, prima di dimettersi una decina di anni fa per creare la sua Fondazione Antropologica. Oggi è considerato, malgrado la sua straordinaria modestia, il più grande studioso, forse, in tutto il mondo, della specie umana. Biologo, psicologo, archeologo, sociologo, etnologo... Insomma, sembra che sappia tutto quello che val la pena di sapere sul suo argomento favorito: il genere umano. Ha diretto tre spedizioni nel deserto di Gobi, prima che la guerra lo costringesse a sospendere le ricerche; poi, appena ha potuto, vi si è precipitato di nuovo. Gli scavi si trovano nella regione di Ala-shan, nel Gobi sud-occidentale, dove il deserto è più arido, ostile, torrido...» «Avanti», lo spronò la ragazza, la punta della penna ferma sul taccuino. «Hai un'idea di che cosa cercasse la spedizione?» «È il loro grande mistero. Ma è certo che, di qualunque cosa si tratti, Mondrick se ne occupa da almeno vent'anni. Ha organizzato la Fondazione esclusivamente per trovare quello che cerca, lasciando la cattedra universitaria. È il lavoro di tutta la sua vita: e, dato l'uomo, non può che essere una cosa importante.» La piccola folla di persone in attesa presso la barriera d'acciaio si agitò e un bimbo indicò eccitatissimo il cielo grigio. Il vento saturo di umidità vibrava al rombo di motori possenti. Barbee guardò l'orologio. «Cinque e quaranta», disse alla ragazza. «L'aereo è atteso per le sei, di modo che se questo è l'apparecchio di Mondrick, evidentemente è in anticipo.» «Di già?» Con gli occhi verdi pieni di luce, April pareva emozionata almeno quanto il bimbo che aveva indicato il cielo. «E gli altri? I collaboratori di Mondrick, intendo, li conosci?» Un'onda di ricordi fece indugiare Barbee, che annuì, con un po' di tristezza. Nella sua mente balenarono tre volti un tempo familiari, e il brusio della piccola folla in attesa si trasformò nell'eco remota di voci venute dal passato.
«Oh, certo che li conosco», disse. «Allora, parlamene.» La voce di April Bell interruppe la sua breve fantasticheria. La ragazza attendeva, la penna puntata sul taccuino. Will sapeva perfettamente che non si deve mai rivelare al collega di un giornale concorrente il materiale che fa da sfondo a un servizio speciale, ma quei capelli erano d'un rosso fiamma troppo rabbioso e quegli occhi bizzarramente allungati così misteriosi, che la sua riluttanza si sciolse come neve al sole. «I tre uomini che nel '45 sono tornati in Mongolia con Mondrick sono Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum. Sono i miei più vecchi amici. Eravamo tutti colleghi all'università, quando ancora Mondrick insegnava alla Clarendon University. Sam e io siamo stati due anni a pensione in casa di Mondrick, e poi tutti e quattro ci siamo trasferiti in un appartamento per studenti dell'università. Seguivamo i corsi di Mondrick e... insomma... sai...» Barbee cominciò a balbettare e infine tacque, timido e impacciato. Un antico dolore che non s'era mai spento si era ridestato di colpo, gli palpitava in gola, stringendola in un nodo. «Continua», disse April Bell con voce sommessa. Il sorriso di affettuosa comprensione che gli rivolse lo spinse a riprendere: «Mondrick stava già cercando i suoi collaboratori più fidati, capisci. Doveva avere già in mente di fondare il suo istituto di ricerche antropologiche, sebbene non gli abbia dato vita che quando io m'ero già laureato. Credo che scegliesse gli uomini da addestrare per le sue ricerche nel Gobi». Inghiottì a fatica. «A ogni modo, tutti noi seguivamo le sue lezioni... su quelle che lui chiamava "scienze dell'uomo". Lo adoravamo. Lui ci aveva procurato delle borse di studio, ci dava tutto l'aiuto che poteva e ci conduceva con sé ai suoi campeggi scientifici, d'estate, in America Centrale e nel Perù.» Gli occhi della ragazza erano penetranti fino a sconvolgere. «E tu, Barbee?» «Io alla fine sono stato escluso», confessò a disagio. «Non ho mai saputo bene perché... dato che avevo anch'io la loro passione, e i miei voti erano superiori a quelli dello stesso Sam, e i miei risultati migliori. Avrei dato il braccio destro per poter essere con loro, quando Mondrick avviò la Fondazione e li condusse con sé nella prima spedizione nel Gobi.» «Che cosa accadde?»
«Non l'ho mai saputo, ma qualcosa mi voltò Mondrick contro, qualcosa che mi sfugge ancor oggi. Eravamo ormai tutti laureandi, e Mondrick ci stava vaccinando e prelevava campioni dei nostri gruppi sanguigni per un altro campeggio scientifico, quando mi chiamò nel suo laboratorio, un giorno, per dirmi che avrei fatto bene a non pensare più a viaggi del genere.» «Ma perché?», mormorò la ragazza. «Non volle dirmelo. Per quanto vedesse come soffrivo, non volle spiegarsi. Divenne ruvido, come se la cosa facesse male anche a lui, e mi promise d'aiutarmi a trovare qualunque altro posto mi fosse piaciuto. Fu allora che mi assunsero allo Star.» «E i tuoi amici invece andarono in Mongolia?» Gli occhi verdi lo scrutavano penetranti. «Quella stessa estate. Con la prima spedizione della Fondazione di ricerche antropologiche.» «Ma almeno», disse, «voi quattro siete rimasti amici?» Barbee annuì, perplesso. «Sì, siamo amici. Serbavo un po' di rancore a Mondrick che non aveva voluto dirmi perché mi avesse tagliato fuori, ma non ho mai avuto il minimo screzio con Sam, o Nick, o Rex. Quando ci vediamo, ci trattiamo sempre con l'antica cordialità. I Quattro Mulattieri, ci chiamava Sam, quando partivamo per quelle spedizioni a dorso di mulo nel cuore del Messico, del Guatemala o del Perù. Se Mondrick ha detto loro perché non mi ha più voluto, loro non me ne hanno mai parlato.» Barbee guardò con aria infelice sopra i capelli fiammeggianti della ragazza, nel freddo crepuscolo plumbeo, che ora palpitava tutto al rombo dell'aeroplano invisibile. «Non sono mai cambiati», riprese. «Ma naturalmente la vita a poco a poco ci ha allontanati. Mondrick ne ha fatto un gruppo di specialisti nelle varie discipline delle sue "scienze dell'uomo", addestrandoli alle ricerche di quel qualcosa nell'Ala-shan. Non avevano più troppo tempo da dedicarmi.» Barbee s'interruppe di colpo. «April Bell», le domandò bruscamente, come per metter fine a quei ricordi penosi d'una sconfitta, «come hai fatto ad avere il mio nome?» Gli occhi di lei s'illuminarono d'una blanda ironia. «E se fosse stata intuizione?» Barbee fu scosso da un altro leggero brivido. Sapeva di possedere quello
che si chiama "fiuto per le notizie", una percezione intuitiva dei motivi umani e degli eventi che ne derivano. Non era una facoltà che si potesse analizzare o spiegare, ma sapeva che non era insolita. Molti giornalisti di successo la possedevano, anche se, in un'epoca scettica verso tutto quello che non fosse il più vieto materialismo meccanicistico, desideravano dar prova di buon senso rinnegandola. Il suo intuito, tuttavia, spesso gli si era rivelato utile: nei loro viaggi scientifici, prima che Mondrick lo mandasse a fare il giornalista, lo aveva guidato più d'una volta al rinvenimento di qualche interessante località preistorica, semplicemente perché sapeva, chissà come, dove una torma di cacciatori selvaggi avrebbero preferito accamparsi, o scavare una tana, o preparare la tomba di un compagno. Tuttavia quella facoltà incontrollabile era stata per lui più una maledizione che un vantaggio. Lo rendeva sempre troppo acutamente conscio di tutto ciò che la gente intorno pensava e faceva, lo teneva sempre troppo vigile e teso. Tranne quando beveva. Beveva troppo, e non ignorava che molti altri giornalisti facevano altrettanto. Quella singolare sensibilità, ne era convinto, rappresentava buona parte del motivo. Era stato forse quel vago intuito a farlo rabbrividire al suo primo scorgere April Bell, sebbene nulla in quei lunghi occhi caldi e quei capelli color di fiamma gli sembrasse ora temibile. Le sorrise e cercò di vincere la sua istintiva apprensione. Indubbiamente il suo direttore le aveva fatto, nell'istruirla su come preparare il servizio, il suo nome. Con ogni probabilità, quella ragazza era solita infliggere le sofferenze di Tantalo agli uomini, con quel suo irresistibile miscuglio di candore e di malizia. Le incongruità più strane hanno sempre una spiegazione logica, quando si riesca a trovarla. «E ora, Barbee, ti prego... dimmi, chi sono quelli?» Indicò il gruppo di persone che stavano uscendo dal terminal. Un ometto fragile e minuto fece un gesto verso la cappa plumbea del cielo. Una bambina piccola gridò che voleva vedere meglio, e la madre la prese in braccio. Un'altra donna cieca veniva dietro tutti, guidata da un cane enorme, un fulvo pastore tedesco. «Se hai un intuito così prodigioso,» fece Barbee, «perché mi fai delle domande?» La ragazza gli sorrise di rimando. «Andiamo, Barbee, è vero che sono tornata a Clarendon da poco, ma ho ancora molti amici qui, e poi il mio direttore mi ha detto che tu avevi lavorato con Mondrick. Quel gruppo di gente laggiù deve essere venuta per ac-
cogliere gli esploratori. Sono sicura che tu li conosci. Perché non andiamo a intervistarne qualcuno?» «Se ci tieni.» Barbee rinunciò a ogni idea di resistenza. «Andiamo.» La ragazza infilò il braccio sotto il suo. Anche la pelliccia bianca, là dove gli sfiorava il polso, dava una strana sensazione elettrica. Quella ragazza esercitava uno strano fascino su di lui, che s'era creduto fino a quel giorno invulnerabile alle donne. Ma la sua cordialità, insieme con quella strana sensazione di disagio che a tratti lo opprimeva, lo turbava più di quanto lui desiderasse dare a vedere. La guidò entro il terminal, fermandosi a un tratto presso l'operatore della telescrivente per domandargli: «È l'aereo di Mondrick?». «Sta atterrando, Barbee.» L'operatore annuì, indicando un anemometro. «Con l'aiuto degli strumenti, praticamente un atterraggio alla cieca.» Barbee non riuscì a vedere l'apparecchio, quando uscirono di nuovo e si spinsero fino all'estremità della pista di cemento; il rombo del motore sembrava più fioco nella nebbia sempre più densa. «Allora, Barbee», e la ragazza indicò col mento il gruppetto di persone in attesa, «chi sono?» Barbee si chiese, rispondendole, perché mai la sua voce suonasse così incerta. «Vedi quella signora alta col cane», cominciò, «quella che se ne sta un po' appartata, con gli occhiali neri e il volto malinconico? È la moglie di Mondrick. Una cara, simpaticissima donna, e una pianista di valore, anche se cieca. Siamo sempre stati amici, fin da quando Sam Quain e io, per due anni, abbiamo alloggiato a casa sua, durante l'università. Vieni, ti presento.» Ma la ragazza s'era fermata, fissando la donna. «Così, quella è Rowena Mondrick?» La sua voce era scesa a un bisbiglio pieno d'intensità. «Che strani gioielli porta!» Stupito, Barbee guardò meglio la cieca, che se ne stava eretta sulla persona, silenziosa e appartata da tutti. Come sempre, era vestita a lutto. Gli ci volle qualche istante per vedere i gioielli, semplicemente perché li conosceva troppo bene. Sorrise: «Quell'argento, dici?». La ragazza annuì, osservando gli antichi pettini d'argento nei folti capelli bianchi di Rowena Mondrick, la broche d'argento sul collo dell'abito nero, i braccialetti d'argento massiccio e gli anelli, sempre d'argento, alle mani
sottili, quasi da fanciulla, che trattenevano il cane. Perfino il collare dell'animale era irto di massicce borchie d'argento. «Già, è strano», disse Barbee. «Non mi ero mai soffermato sulla passione di Rowena per l'argento. Diceva che le piace il tocco freddo di quel metallo... Sai, il tatto è importante per lei, nelle sue condizioni.» Guardò l'espressione ostile della ragazza. «Che c'è? sei arrabbiata?» Lei scosse il capo: «No», bisbigliò. «Solo che non posso soffrire l'argento.» Poi sorrise, come per farsi perdonare quel momento di malumore. «L'ho sentita nominare, ma non so niente di lei.» «Credo che fosse infermiera psichiatrica a Glennhaven quando conobbe Mondrick. Parlo d'una trentina d'anni fa. Doveva essere molto bella allora. Mondrick la salvò da non so quale amore infelice e la interessò al suo lavoro.» Con gli occhi sempre fissi sulla donna, la ragazza lo ascoltava con grande attenzione. «Finì per diventare sua allieva», riprese Barbee, «e lo accompagnò in tutte le sue spedizioni, fino al giorno in cui perse la vista. Da allora, per vent'anni, è sempre vissuta tranquilla qui a Clarendon. Ha la sua musica e una cerchia molto ristretta di amici. Non credo che partecipi più alle ricerche del marito. Molti la considerano un po' strana... Sai, dopo il modo in cui perse la vista...» «Come successe?» «Si trovavano nell'Africa occidentale», disse piano Barbee, pensando con rimpianto ai giorni lontani in cui anche lui aveva preso parte a spedizioni in terre remote, in cerca di frammenti del passato. «Credo che Mondrick stesse cercando le prove che l'uomo moderno ha cominciato a evolversi in Africa... Questo molti anni prima delle sue spedizioni in Mongolia. Con l'occasione Rowena cominciò a raccogliere dati etnologici sulle tribù della Nigeria di alligatori umani e uomini-leopardo.» «Uomini-leopardo?» Gli occhi verdi di April parvero socchiudersi, farsi quasi neri. «Che cosa sono?» «Membri d'un culto segreto, cannibalistico, che secondo le leggende sarebbero capaci di trasformarsi in leopardi.» E Barbee sorrise all'attenzione con cui April lo ascoltava. «Rowena, capisci, voleva scrivere un libro sulla licantropia. La credenza, comune a molte tribù primitive, che certi individui possano trasformarsi in lupi e altre belve.» «Oh!»
«Gli animali sono di solito scelti tra i più feroci della regione dove domina questa superstizione: orsi nei paesi nordici, giaguari nel bacino del Rio delle Amazzoni, lupi in Europa... I contadini della Francia medievale, per esempio, vivevano nel terrore del loup garou, il Lupo Mannaro. Leopardi o tigri, invece, in Africa e in Asia. Non si comprende come questa credenza possa essersi diffusa in tutte le parti del mondo.» «Molto interessante.» La ragazza sorrise obliquamente, come per una segreta soddisfazione. «Ma come fu che Rowena Mondrick divenne cieca?» «Erano accampati nell'interno della Nigeria in una regione che aveva visto pochissimi uomini bianchi, e Rowena aveva cercato di conquistare la fiducia degli indigeni, che tempestava di domande sui loro riti. Cercava di collegare gli uomini leopardo delle tribù cannibali con gli spiriti-leopardo degli stregoni Lhota Naga dell'Assam e gli "spiriti dei boschi" di certe tribù amerinde. Troppe domande, a detta di Mondrick, perché i loro portatori cominciarono a mostrarsi impauriti e l'avvertirono di guardarsi dagli uomini-leopardo. Ma Rowena non diede loro ascolto, e le sue ricerche la spinsero fino a una valle che gli indigeni consideravano tabù. Vi trovarono manufatti che interessarono notevolmente Mondrick, e stavano trasferendo l'accampamento nella valle, quando avvenne la tragedia. Percorrevano una pista nella foresta, di notte, quando un leopardo nero balzò su Rowena da un albero... Era un leopardo vero e proprio, naturalmente, non un indigeno vestito di una pelle di leopardo; ma la coincidenza apparve anche troppo significativa per la superstizione dei portatori, che fuggirono da tutte le parti. La belva ebbe Rowena sotto le zanne prima che le fucilate di Mondrick riuscissero a farla scappare. Le ferite risultarono gravissime e naturalmente si infettarono; la poveretta, quando il marito finalmente poté raggiungere una specie di ospedale, era in fin di vita. Fu la loro ultima spedizione in Africa: lei era ormai cieca e non poteva più viaggiare, e lui doveva avere ormai abbandonato la teoria che l'homo sapiens fosse originario dell'Africa. Dopo tutto, poveretta, non c'è da meravigliarsi che appaia un pochino strana, non ti sembra? L'aggressione di quel leopardo fu piuttosto ironica...» Guardando il volto teso e bianco di April, fu colpito dall'espressione che vi colse: un'espressione come di crudele esultanza. O forse era soltanto un effetto delle luci smorzate del crepuscolo? Lei sorrise, cogliendo la sorpresa nei suoi occhi. «Sì, c'è una strana ironia in quel dramma», osservò con indifferenza. «La vita gioca tiri bizzarri a volte.» La sua voce si fece grave. «Dev'essere stato
un colpo terribile.» «Senza dubbio, ma Rowena è una donna straordinariamente forte. Nessuna autocommiserazione. Molto coraggio. Frequentandola, ci si dimentica che sia cieca.» Prese la ragazza per il braccio. «Vieni, sono sicuro che ti piacerà.» Il gattino nero, sempre affacciato all'orlo della borsetta, ammiccò con gli enormi occhi azzurri. April Bell si ritrasse: «No, Barbee!», bisbigliò. «Ti prego di non...» Ma già Barbee aveva fatto qualche passo avanti e annunciava a gran voce: «Rowena! Sono Will Barbee. Il giornale mi ha mandato qui per tuo marito. Permettimi di presentarti una collega, April Bell...». La cieca aveva voltato bruscamente il capo al suono della sua voce. Prossima alla sessantina, la moglie di Mondrick conservava una snellezza giovanile. Le dense onde dei suoi capelli, Barbee le aveva viste sempre bianche, ma il volto, colorito ora dall'eccitazione e dalla temperatura pungente, era roseo e liscio come quello di una giovanetta. Abituato a vederli, Barbee non badò agli occhiali dalle lenti d'un nero opaco. «Oh, salve, Will!», disse la cieca con voce calda e musicale. «È sempre un piacere conoscere i tuoi amici.» Si passò il corto guinzaglio del cane nella mano sinistra, e porse la destra. «Molto lieta, signorina Bell. Come sta?» «Bene». La voce di April era dolcemente remota, e lei non accennò minimamente a prendere la mano che la cieca le porgeva. «Grazie.» Arrossendo, Barbee tirò con forza la manica della ragazza, che si ritrasse di scatto. Vide che le sue guance s'erano fatte livide, in forte contrasto con il rosso violento della bocca. Socchiusi, quasi neri, i suoi occhi fissavano ancora i pesanti braccialetti d'argento di Rowena. Confuso, Barbee cercò di salvare la situazione. «Stai bene attenta a quello che dici», avvertì Rowena in un tentativo di far dello spirito, «perché April lavora per il Call e stenografa ogni parola che la colpisca.» La cieca sorrise, con grande sollievo di Barbee, come se non si fosse accorta della scortesia di April Bell. Chinando il capo da una parte, per tendere l'orecchio verso il rombo che riempiva il cielo, domandò ansiosamente: «Non sono ancora atterrati?». «No», rispose Barbee. «Ma è questione di minuti.»
«Dio sia lodato», sospirò la donna. «Sono stata così in pensiero, questa volta, fin dal giorno che Marck è partito. Non sta bene, e continua a correre rischi sempre più gravi.» Le sue mani sottili furono scosse da un tremito, notò Barbee, e strinsero il guinzaglio del cane con forza così convulsa che le nocche divennero livide. «Ci sono cose sepolte che devono restare sepolte», sussurrò poi. «Ho fatto di tutto perché Marck non tornasse a quegli scavi di Ala-shan. Avevo paura di ciò che avrebbe potuto trovarvi.» April Bell stava ascoltando attentamente, e Barbee la udì trattenere il fiato. «Lei», mormorò, «aveva paura?» La sua penna, puntata sul minuscolo taccuino, ebbe un fremito. «Che cosa temeva che il suo famoso marito potesse trovare?» «Niente!», si affrettò a rispondere la cieca, come spaventata. «Proprio niente!» «Me lo dica», insistette la ragazza duramente. «Tanto vale che me lo dica perché credo di poter già indovinare...» La sua voce sommessa si ruppe in un urlo soffocato, e lei indietreggiò barcollando. Il guinzaglio del cane lupo era scivolato tra le dita della cieca, e silenziosamente l'enorme cane si spingeva verso la ragazza spaurita. Barbee cercò di tenerlo lontano con un calcio, ma il cane lo superò, digrignando ferocemente i denti. Barbee si girò fulmineo e afferrò il guinzaglio. La ragazza aveva alzato le braccia istintivamente. La sua borsetta di coccodrillo, scagliata lungo una parabola fortuita, le salvò la gola dalle fauci rabbiose. Sempre ferocemente silenzioso, l'animale tentò di balzare ancora, ma Barbee stringeva ormai saldamente il guinzaglio. «Turk!», chiamò Rowena. «Turk, a cuccia!» Docilmente, sempre senza un ringhio o un brontolio, il grande cane da pastore trotterellò verso la sua padrona. Barbee restituì il guinzaglio alla cieca, che lo cercava brancolando con la mano, e Rowena si trasse accanto la bestia, che aveva il pelo irto. «Grazie, Will», disse calma. «Spero che Turk non abbia fatto male alla tua signorina Bell. Ti prego di farle tutte le mie scuse.» Ma non rimproverò l'animale, notò Barbee. Il bestione restò immobile accanto alla gonna nera della donna; digrignando silenziosamente i denti, e fissava April con i minacciosi occhi gialli. Pallida e tremante, la ragazza si
stava ritraendo verso la sala d'aspetto. «Quel dannato cagnaccio!» Una donna piccola e magra, dal profilo sottile, si staccò dal gruppo più avanti e si mise a dire con voce querula: «Ha visto, signora Mondrick, che avevo ragione a consigliarle di non portarlo? Sta diventando feroce. Finirà per ammazzare qualcuno!» La cieca accarezzò con calma la testa del suo cane; poi, preso il collare nella mano, passò le dita sopra le grosse borchie d'argento. A Rowena, ricordò Barbee, era sempre piaciuto straordinariamente l'argento. «No, signorina Ulford», rispose dolcemente; «Turk è stato addestrato a difendermi, e io lo voglio sempre con me. Non si avventa mai su nessuno, a meno che non si tenti di farmi del male.» Tese ancora l'orecchio al rombo lontano. «Non è ancora atterrato l'aereo?» A Barbee non era parso che April avesse fatto alcun gesto minaccioso. Stupito, tornò al fianco della ragazza dai capelli rossi, che stava accarezzando il gattino nero e gli mormorava dolcemente: «Buono, buono, piccolino, quel cagnaccio cattivo non ci vuol bene, è vero, ma noi non abbiamo paura...» «Sono dolente dell'accaduto», le disse Barbee impacciato. «Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile.» «Colpa mia, collega», gli sorrise April. «Non avrei dovuto portare il povero Fifi così vicino a quella specie di belva.» Gli occhi verdi lampeggiarono. «E grazie per averla trattenuta per il guinzaglio.» «Turk non si è mai comportato così», rispose il giornalista. «La signora Mondrick ti fa le sue scuse...» «Sì?» April Bell osservò di traverso la cieca, con occhi privi di qualsiasi espressione. «Non parliamone più. L'aereo sta atterrando, e tu non mi hai ancora detto nulla degli altri.» E accennò col mento al gruppetto di persone, da cui la signora Mondrick stava un poco appartata quando le si erano avvicinati. «Quella donnetta piccola e magra è la signorina Ulford, governante di Rowena; ma siccome sta sempre male, è Rowena che praticamente la assiste.» «E gli altri?» «Il vecchio che si sta accendendo la pipa è Ben Chittum, nonno di Rex e suo unico parente. Ha un'edicola-libreria in fondo a Center Street, proprio di fronte al palazzo dello Star. È lui che ha permesso a Rex di fare l'università, finché Mondrick non gli ha procurato una borsa di studio.» «E gli altri?»
«L'uomo infagottato in quel cappotto che gli tocca i piedi è il padre di Nick Spivak, e la donna bruna dalle arie regali è la madre. Hanno una sartoria a Brooklyn, e Nick è il loro unico figlio. Sono stati molto in ansia, da quando Nick è partito per la spedizione. Mi hanno scritto decine di lettere chiedendomi se sapessi qualche cosa. Hanno preso l'aereo stamane; forse Nick li ha avvertiti con un telegramma. Gli altri sono amici, colleghi dell'Istituto, il professor Fisher della facoltà di antropologia dell'università, e il dottor Bennett, che ha sostituito Mondrick durante la sua assenza.» «Chi è quella bionda procace?», domandò April improvvisamente. «Se non sbaglio ti sta sorridendo.» «È Nora», rispose Barbee a bassa voce. «La moglie di Sam Quain.» Aveva conosciuto Nora la stessa sera in cui l'aveva conosciuta Sam, a una festa di studenti a Clarendon. Quattordici anni non avevano offuscato la luce cordiale dei suoi occhi; sorridente, ora, la matura madre di famiglia in attesa del marito appariva altrettanto entusiasta quanto la matricola di allora, eccitata dal primo contatto con il mondo universitario. Barbee andò verso di lei con April Bell, e Nora a sua volta venne loro incontro, tenendo per mano la sua piccola Patricia, una bimba di cinque anni. «Nora, ti presento April Bell, della redazione del Call. Attenta a quel che dici, perché ogni tua parola potrebbe essere citata sul giornale contro di te.» «Barbee, che fama!», protestò April con una risatina un po' leziosa. Ma quando gli occhi delle due donne s'incontrarono, Barbee ebbe la sensazione che stesse scoppiando un incendio. Con un sorriso angelico si strinsero la mano. «Oh, cara, sono così felice di conoscerla!» Si odiano, pensò Barbee, si odiano con tutta l'anima. «Mammina!», esclamò la piccola Pat con calore, «voglio carezzare il micio!» «No, tesoro, sii brava...» Nora tirò verso di sé in gran fretta la bimba, ma la manina rosea s'era già tesa verso il gatto. Che, soffiando e ammiccando, graffiò fulmineo. Soffocando coraggiosamente un singhiozzo, Pat si strinse alla gonna della madre. «Oh, signora Quain», gemette April Bell, «quanto mi dispiace!» «Tu non mi piaci», dichiarò Pat in tono di sfida. «Guardate», esclamò il vecchio Ben Chittum, tutto eccitato, indicando
con la pipa un punto nella nebbia, oltre le vetrate. «Sta' atterrando in questo momento!» Tutto il gruppo uscì in gran fretta, seguito a qualche passo di distanza da Rowena Mondrick, fiera, diritta e silenziosa. Sembrava del tutto sola, sebbene avesse al fianco la piccola signorina Ulford, che la guidava tenendola per un braccio; all'altro lato le camminava il suo gigantesco cane biondo. Barbee le lanciò un'occhiata, ma il pallore estremo del suo volto, che sembrava combattuto tra la speranza e un terrore senza nome, lo costrinse a volgere in gran fretta gli occhi altrove. Si accorse di essere rimasto solo con April Bell. «Fifi, sei stato molto cattivo», diceva la ragazza, accarezzando la testa del gattino. «Hai rovinato la nostra intervista!» E a Barbee: «Scusami, sai, per Fifi...». «Niente di male», disse lui; «ma perché te lo sei portato dietro?» Il verde di quegli occhi indescrivibili s'incupì ancora una volta fino a farsi quasi nero, mentre la loro espressione diveniva intensa, come se una paura segreta ne dilatasse le pupille. In quegli occhi, Barbee lesse una disperazione mortale, come se quella ragazza stesse giocando una partita difficile e rischiosa. Ma ecco che, l'istante dopo, il volto della ragazza sorrideva di nuovo, mentre lei aggiustava il nastrino rosso del micio. «Fifi non è mio, ma della zia Agatha», spiegò. «Io per ora abito da lei. Oggi siamo uscite insieme, e siccome la zia doveva fare delle spese mi ha lasciato il gattino. Ma abbiamo appuntamento nella sala d'aspetto, qui. Vado anzi a vedere se è venuta, così potrò liberarmi di questa belvetta.» Scappò via, e Barbee ne seguì con lo sguardo la figura esile ed elegante allontanarsi con passo elastico, pieno di grazia. Anche il suo modo di camminare lo affascinava. Sembrava l'incedere di un animale selvaggio. Si avvicinò a Nora Quain e al gruppetto presso il termine della pista di cemento, dove la sagoma confusa del grosso apparecchio passeggeri era calata e si avvicinava rallentando. Barbee si accorse di sentirsi stanco, snervato: probabilmente da qualche tempo lavorava troppo. Ecco perché una ragazza, sia pure insolita come April Bell, poteva averlo turbato tanto. Nora Quain distrasse la sua attenzione dall'aereo in arrivo per chiedergli: «È importante per te quella ragazza?». «L'ho appena conosciuta.» Barbee esitò, perplesso. «Ma mi sembra un tipo... insolito.» «Cerca di non farla diventare importante», disse Nora, con un tono di
implorazione insistente nella voce. «Quella ragazza è una...» S'interruppe, come esitando a pronunziare la parola adatta per definire April Bell. Non sorrideva più, ora, e istintivamente la sua mano si tese a trarre la piccola Pat al suo fianco. Ma non pronunziò la parola. «Davvero, Will», bisbigliò. «Ti prego!» Il rombo dei motori le coprì la voce. 2. Due inservienti dell'aeroporto attendevano con una passerella a ruote per la discesa dei passeggeri. Ma il grosso apparecchio, nero e incombente nella luce dei riflettori, s'era fermato a un centinaio di metri almeno. I possenti motori tacquero, e nel silenzio, tutti parvero tenere il fiato sospeso. «Marck!» In quell'improvviso silenzio, la voce della signora Mondrick echeggiò come un grido di terrore. «Nessuno riesce a vedere Marck?» Il gruppetto dei suoi amici corse avanti, verso la massa lontana dell'apparecchio immobile. Barbee si fece vicino alla cieca. «L'aereo si è fermato a una certa distanza», le spiegò, «non so perché; ma tuo marito e gli altri saranno qui da un minuto all'altro.» «Grazie, Will.» Lei gli sorrise riconoscente, ma la sua ansia non pareva averla abbandonata. «Ho tanta paura per Marck! Conosco le sue teorie e so quello che Sam Quain ha trovato, scavando sotto la sua direzione in quell'antichissimo sepolcreto dell'Ala-shan, durante l'altra spedizione. Ecco perché ho cercato in ogni modo di non lasciarlo ritornare in Mongolia.» Si volse bruscamente, tendendo l'orecchio. «Ma dove sono, Will?», sussurrò. «Perché non vengono?» «Non riesco a capire», rispose Barbee, anche lui preoccupato. «L'aereo è fermo laggiù, in attesa. Hanno messo la passerella, e si è aperta la porta, ma non scende nessuno. Ora c'è il dottor Bennett, dell'Istituto, che sale a bordo.» Tenendosi il cane vicino il più possibile, la cieca si volse ancora verso l'edificio della stazione, tendendo l'orecchio. «Dov'è quella tua amica?», domandò, sempre con voce tesa dall'ansia. «Quella che Turk ha allontanato?» «Dentro l'edificio. Mi spiace che possa essere accaduto qualche cosa di spiacevole, Rowena. April è una ragazza deliziosa, ed ero sicuro che ti sarebbe piaciuta. Davvero, non riesco a vedere una ragione...» «Ma una ragione c'è di sicuro. Altrimenti, Turk non l'avrebbe attaccata a
quel modo. Turk sa...» «Andiamo, Rowena, non ti sembra di esagerare nella tua fiducia in Turk?» Le lenti nere della cieca parvero fissarlo con ostilità. «Marck ha addestrato Turk a proteggermi», insistette in tono solenne. «E se Turk ha attaccato quella donna, è perché l'ha sentita ostile.» Le dita della cieca accarezzarono ancora una volta le borchie d'argento del collare del cane. «Ricordatene, Will. Non dubito che quella ragazza possa essere affascinante... certo! Ma Turk non si lascia mai ingannare!» Barbee fece un passo indietro, a disagio. Si chiese se gli artigli del leopardo nero, strappandole gli occhi, non le avessero anche parzialmente leso il cervello. Le ansie di Rowena andavano molto al di là d'ogni ragionevolezza. «Ecco Bennett», le fece con un sospiro di sollievo. «Ora anche gli altri scenderanno con lui.» Rowena trattenne il fiato, e attesero in silenzio. Solo Barbee, tuttavia, poteva vedere Bennett: e se la sua voce era tranquillizzante, il viso rabbuiato pareva smentirla, quando l'uomo li ebbe raggiunti. «Stanno tutti bene, signora Mondrick», disse. «Si stanno preparando a scendere, ma credo che dovremo attendere ancora un po'.» «Ma perché?» «Suo marito, a quanto pare, ha scoperto cose di straordinaria importanza, e vuole fare una dichiarazione pubblica sui risultati della sua spedizione prima ancora di uscire dall'aeroporto.» «Oh, no!», esclamò Rowena, al massimo dell'angoscia. «Non deve!», singhiozzò. «Non glielo permetteranno.» Bennett aggrottò la fronte lievemente stupito. «Non vedo che cosa ci sia di preoccupante in una dichiarazione sui risultati d'una spedizione scientifica», disse. «Le assicuro, signora Mondrick, che non c'è il minimo pericolo. Il professore mi è parso forse un po' troppo sollecito riguardo a non so quale intoppo, tanto che mi ha pregato di chiamare la polizia, per proteggere i membri della spedizione e i reperti fino a quando la dichiarazione non abbia avuto luogo.» Rowena scosse la fiera testa candida, come dubitando della protezione di cui poteva essere capace la polizia. «Cosa potrà mai fare la polizia!», disse con voce esasperata. «La prego, vada a dire a Marck...» «Abbia pazienza, signora», la interruppe il signor Bennett, «ma debbo
eseguire immediatamente gli ordini di suo marito. Mi ha detto di far molto presto... come se il minimo ritardo possa rappresentare un pericolo.» «E ha ragione!» La cieca assentì cupamente. «Corra, allora.» Barbee si mise a passeggiare lentamente nella sala d'aspetto, e a un tratto vide i capelli di fiamma di April Bell all'interno d'una cabina telefonica. Ma per quanto si guardasse intorno, non riuscì a scorgere alcuna vecchia signora che potesse ricordargli una zia Agatha qualunque. Bevve allora due tazze di caffè, senza riuscire a togliersi il freddo che aveva dentro, un gelo ben più molesto del vento tagliente. E quando udì il gracidio degli altoparlanti che annunciavano l'arrivo dell'aereo di linea, corse fuori per non lasciarsi sfuggire Walraven. L'uomo politico si mise in posa come un imperatore romano davanti al fotografo dello Star, ma non volle fare dichiarazioni di sorta, quando Barbee cercò d'intervistarlo sul suo programma. In confidenza, e non per il giornale, disse a Barbee che intendeva studiare un programma di azione col suo vecchio e grande amico Preston Troy. Invitò il giornalista a passare qualche volta nel suo studio d'avvocato a bere un bicchierino, ma per il momento non voleva fare dichiarazioni. Puntò ancora una volta in aria per il fotografo il mento appena abbozzato, e salì su un tassi. Sarebbe stato Preston Troy a tracciare il piano d'azione, come Barbee sapeva benissimo, e a pagare il giornalista che avrebbe dovuto organizzare la campagna di stampa. La verità su Walraven, uomo di paglia nell'ambizioso programma politico di Preston Troy, sarebbe stata materia per una serie di articoli e rivelazioni sensazionali. Ma non per lo Star. Barbee tornò presso l'aereo di Mondrick. Erano arrivate tre auto della polizia, e una mezza dozzina di uomini in uniforme stava scortando cronisti e fotografi verso il grosso velivolo. Due poliziotti si fermarono e si volsero per far indietreggiare la turba dei parenti e amici angosciati. «Vi prego», stava quasi urlando Rowena Mondrick a un agente, «lasciatemi restare qui. Mondrick è mio marito ed è in pericolo. Devo restare qui, vicino a lui, per aiutarlo!» «Mi dispiace, signora, ma è compito nostro proteggere suo marito, anche se non vedo quale pericolo possa minacciarlo. Tutti, meno la stampa, devono tornare davanti all'edificio della stazione.» «Ma voi non potete sapere!», insistette la cieca in una specie di roco sussurro. «Voi non potete essergli di alcun aiuto...» Senza ascoltarla, il poliziotto la condusse verso la stazione.
Pallida come una morta, Nora Quain riportò la sua piccola, che piangeva perché non le lasciavano vedere il papà, nella sala d'aspetto. Mamma Spivak emise un piccolo gemito e abbandonò la testa sulla spalla del piccolo marito. Il vecchio Ben Chittum sbatté la pipetta annerita quasi in faccia al poliziotto che lo andava sospingendo indietro: «Mi stia a sentire, agente. Sono due anni che prego il Cielo che mio nipote torni vivo da quel maledetto deserto. E gli Spivak, qui, hanno speso più di quanto potessero permettersi per venire fin qua da New York in aeroplano. Per la miseria, sergente...». Barbee gli strinse a mezz'aria il braccio tremante d'indignazione. «Meglio aspettare con calma, Ben», gli disse. E il vecchietto zoppicò via dietro gli altri, brontolando e minacciando tra i denti. Barbee mostrò alla polizia il tesserino di giornalista, si sottopose a una breve perquisizione nell'eventualità che avesse armi nascoste e raggiunse gli altri cronisti radunati sotto l'immensa ala dell'apparecchio. Si trovò a un tratto April Bell accanto. Il gattino nero doveva essere tornato dalla zia Agatha, dopo tutto, perché la borsetta di pelle era chiusa. La ragazza fissava l'apparecchio con un'intensità quasi morbosa, in attesa che la porta si aprisse. Parve sussultare, quanto sentì su di lei lo sguardo di Barbee, e volse di scatto verso di lui la massa fiammeggiante dei capelli. Gli sorrise. «Salve, cronista!», fece in tono allegro. «Qui sento l'odore di un servizio da prima pagina con titolo a sei colonne. Eccoli!» Sam Quain precedette gli altri sulla passerella. Anche in quel primo istante d'intensa curiosità, Barbee si rese conto che era molto cambiato. Il volto deciso, dalla mascella quadrata, era riarso dal sole, i capelli biondi sembravano quasi bianchi, tanto erano stati calcinati. Doveva essersi rasato a bordo, ma l'abito kaki che indossava era logoro, spiegazzato, pieno di macchie. Sembrava stanchissimo, invecchiato molto più di due anni. E c'era qualcos'altro. C'era qualcos'altro, impresso sui tre uomini che lo seguivano scendendo la passerella. Barbee si chiese se non fossero tutti vittime di una malattia. Il volto pallido e massiccio di Mondrick, sotto il casco coloniale macchiato e pesto, era un ammasso di carne flaccida e tremolante. Forse la sua vecchia asma, o il cuore, lo avevano minato in quei due anni. In un momento come quello, uomini della loro condizione, anche se malati, avrebbero dovuto sorridere; erano invece tutti terribilmente seri e accigliati, come rosi da una segreta angoscia.
Nick Spivack e Rex Chittum seguivano il vecchio Mondrick. Anche i loro abiti kaki erano logori e macchiati. Rex non poté non udire il saluto gridatogli con voce tremante dal vecchio Ben Chittum in mezzo al gruppo di familiari, davanti all'edificio della stazione, ma non fece segno di risposta. Lui e Nick portavano una cassa rettangolare, verniciata di verde, con attaccate due maniglie di cuoio. Era rinforzata da molte fasce di metallo, e un grosso lucchetto la chiudeva. Sembrava pesantissima, tanto che i due uomini che la portavano parvero a un tratto perdere l'equilibrio. «Attenti!», s'udì gridare la voce di Mondrick. «Ci mancherebbe altro che dovessimo perderlo proprio ora!» L'antropologo corse accanto alla cassa e tese le braccia per aiutarli a raddrizzarla. Non la lasciò fino a quando non fu portata sana e salva fino a terra; e, anche allora, non ne staccò la mano, mentre diceva ai suoi due collaboratori di portarla verso il gruppetto dei giornalisti. Quegli uomini avevano paura. Traspariva da ogni loro gesto. Non tornavano come vincitori, ma come uomini condannati a fare qualcosa che li riempiva di terrore. «Sarei proprio curiosa di sapere che cosa hanno trovato», mormorò April, mentre i suoi occhi si socchiudevano, incupendosi. «Non so; ma qualunque cosa abbiano trovata», rispose Barbee, «non sembra dar loro molta gioia. Un fanatico religioso potrebbe credere che i loro scavi li abbiano portati sull'orlo dell'inferno.» «No», rispose la ragazza; «gli uomini non hanno tanta paura dell'inferno.» Barbee s'accorse che Sam Quain lo stava fissando, e allora lo salutò con la mano. Senza sorridere, col duro volto abbronzato più ansioso che mai, Sam rispose con un lieve cenno del capo. Mondrick si pose davanti ai fotografi, sotto l'ala dell'apparecchio. Partirono i lampi delle macchine fotografiche nel crepuscolo pieno di vento, mentre Mondrick attendeva che i suoi collaboratori lo raggiungessero. Se Nick, Sam e Rex avevano l'aria indurita e tesa fino alla ferocia, chiaramente Mondrick era un uomo distrutto. I suoi gesti stanchi e incerti, interrotti da scatti improvvisi, rivelavano un sistema nervoso sulle soglie del collasso, e la sua faccia era come ossessionata. «Signori», disse ai giornalisti, guardandosi intorno per accertarsi che i suoi tre collaboratori lo avessero raggiunto presso la cassa, «grazie per aver voluto attendere. Vedrete che la vostra pazienza sarà ricompensata, perché», e qui parve a Barbee che la sua voce roca rivelasse una fretta esa-
sperata, come se temesse di essere interrotto, «perché abbiamo qualcosa da rivelare al genere umano.» S'udì il suo respiro ansimante. «Una terribile minaccia, signori, che è stata nascosta, sepolta, soppressa per un fine perfidamente atroce.» Fece un gesto col braccio, sussultante, che rivelava la disperata tensione che lo possedeva. «Il mondo deve essere avvertito», seguitò, «sempre che non sia troppo tardi. Per cui, fate bene attenzione a quanto sto per dirvi. Diffondete via radio le mie dichiarazioni, se vi è possibile. Fotografate i reperti e le prove che abbiamo portato dall'Asia.» Con lo stivale consunto, toccò la cassa. «Parlatene alla radio e sui giornali, stasera stessa, se potete.» «Siamo qua per questo, professore», disse un cronista della radio, avvicinandosi col microfono. «Facciamo una registrazione, e la manderemo in onda subito, se le sue dichiarazioni sono politicamente interessanti. Immagino che vorrà dirci il suo punto di vista sulla situazione cinese.» «Abbiamo visto molte cose della guerra in Cina», rispose Mondrick solennemente, «ma non è di questo che voglio parlare. Quanto sto per dirvi è più importante di qualunque notizia di guerre; anzi, ci aiuterà a capire perché si combattono le guerre. Spiegherà molte cose che gli uomini non sono mai riusciti a capire, o di cui addirittura si è insegnato loro a negare l'esistenza.» «Bene, professore.» Il radiocronista maneggiò ancora per qualche istante i suoi strumenti. «Parli pure.» «Sto per dirvi...» Lo studioso fu interrotto da un colpo di tosse, che lo lasciò col fiato mozzo per qualche istante. Si udì di nuovo il suo respiro faticoso, sibilante, e Barbee vide Sam Quain fissare il professore con espressione improvvisamente allarmata. Gli offrì un fazzoletto, e Mondrick si asciugò la fronte, sudata malgrado il soffio gelido del vento. «Sto per dirvi cose che stenterete a credere, signori», riprese Mondrick, più rauco che mai. «Sto per dirvi d'un nemico occulto, segreto, di una tenebrosa congrega che trama e spia insospettata tra i veri uomini... un nemico nascosto, infinitamente più insidioso delle cosiddette quinte colonne che si propongono la rovina delle nazioni. Intendo parlarvi dell'avvento non inatteso del Messia Nero - il Figlio della Notte - la cui comparsa tra i veri uomini sarà il segnale di una spaventevole, mostruosa, incredibile rivolta!» Mondrick, sfinito, ansimò ancora, rabbrividendo.
«Preparatevi a qualcosa di terribile, signori. Si tratta d'una cosa così terrificante, che forse non riuscirete a credermi. Ma dovrete accettarla, come ho dovuto fare io, quando avrete visto anche voi gli oggetti che abbiamo portato da quei sepolcri preistorici trovati nel cuore del deserto di Gobi. Le nostre scoperte nell'Ala-shan risolvono molti enigmi. Noi», e i suoi occhi stanchi si volsero riconoscenti ai tre uomini intorno alla cassa cerchiata di ferro, «abbiamo trovato la risposta a molti enigmi della scienza, la soluzione di misteri così ovvii, così impliciti nella nostra vita quotidiana, che la maggior parte di noi non è nemmeno consapevole della loro esistenza. Abbiamo trovato la risposta a una domanda che, forse, vi farà sorridere: perché, signori, nella nostra vita sembra che il Male predomini?» La sua faccia plumbea s'era trasformata ora in una maschera di dolore. «Non v'è parso a volte di scorgere una deliberata volontà malefica dietro le avversità? Non vi siete mai chiesti che cosa si nasconda sotto l'inguaribile discordia che divide il genere umano? Sotto le guerre, le lotte civili, l'oppressione? Leggendo le cronache dei giornali, non vi ha mai atterrito l'inesplicabile, inutile mostruosità dell'uomo? Non vi siete mai soffermati a riflettere, talvolta, sulla tragica divisione entro voi stessi, scoprendo nel vostro subcosciente abissi d'orrore?» Seguì un altro violentissimo attacco di tosse. Come spezzato in due, Mondrick s'era fatto cianotico. Infine, si passò nuovamente il fazzoletto sulla fronte e riprese, con voce stridula, quasi squarciata. «Non ho il tempo d'enumerare tutti i tenebrosi enigmi che caratterizzano la nostra vita, individuale e collettiva», ansimò, «ma una cosa ancora voglio dirvi!» Scosso dalla sensazione di una mostruosa e velata tensione che s'andava acuendo, Barbee si guardò intorno con ansia. Un fotografo stava inserendo un nuovo rullino nella macchina. L'uomo della radio era tutto intento alla registrazione. Meccanicamente, gli sbalorditi cronisti stenografavano sui loro taccuini. Al suo fianco, April Bell sembrava tramutata in una statua di ghiaccio. Pallidissima, stringeva con forza la cerniera della borsetta. I lunghi occhi fissavano con le verdi pupille dilatate il volto tormentato di Mondrick. La loro intensità era impressionante. E in una frazione di secondo, Will Barbee capì con chiarezza una cosa che fino a quell'istante aveva più o meno inconsciamente avvertito: April Bell gli faceva paura. Dimentica di lui, la ragazza continuava a fissare Mondrick, movendo lentamente le labbra, stringendo la borsetta con una specie di convulsa fe-
rocia, tanto che le dita sottili parevano artigli laceranti. Mondrick pareva aver ritrovato abbastanza fiato da poter riprendere. «Vi prego di credere, signori, che il mio non è un capriccio, un umore del momento. Ho cominciato a sospettare i fatti terribili che intendo portare a vostra conoscenza circa una trentina d'anni fa, quando una dolorosa esperienza mi fece pensare che tutta l'opera di Freud, con le sue rivelazioni sulla psicologia dell'inconscio, era soltanto una descrizione più o meno perfetta della mente e della condotta umane, più che una spiegazione del male che vediamo. Svolgevo allora la mia attività di psichiatra, a Glennhaven. Abbandonai la professione, perché la verità che cominciavo a sospettare si faceva beffe di tutto ciò che m'era stato insegnato e mi faceva dubitare di tutti i miei sforzi per aiutare le menti turbate. Sfortunatamente, ebbi una discussione molto vivace col vecchio dottor Glenn, padre del Glenn che oggi dirige Glennhaven, a proposito della dolorosa esperienza accennatavi prima. Mi volsi allora ad altri campi, alla ricerca di qualcosa che dimostrasse la fallacia di quanto sospettavo. Non trovai nulla. Continuai i miei studi all'estero, e infine accettai una cattedra all'Università di Clarendon. Cercai di penetrare il più profondamente possibile nei segreti dell'antropologia, dell'archeologia, dell'etnologia, ogni ramo della scienza che studiasse la vera natura del genere umano. A poco a poco, le mie ricerche mi rivelarono fatti che mi hanno dato la conferma della cosa più orrenda che l'uomo abbia mai dovuto temere.» Mondrick fece una nuova pausa, per riprender fiato. «Per anni ho tentato di lavorare da solo. Capirete tra poco che cosa significasse questo, e quanto mi fosse difficile trovare chi potesse aiutarmi. Ho accettato la collaborazione della mia carissima moglie, perché era già a parte del mio segreto. Ciò le è costato la vista, e il suo immenso sacrificio mi ha provato che tutti i nostri timori erano giustificati. Ma alla fine ho trovato uomini degni della mia fiducia.» Il volto terreo di Mondrick tentò di sorridere, e i suoi occhi ancora una volta si volsero a guardare Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum con espressione affettuosa. «E li ho allenati a poco a poco a dividere...» Spezzato nuovamente in due dai colpi di tosse e dalla difficoltà di respirazione, il vecchio scienziato dovette essere sorretto da Sam Quain, finché il parossismo non si fu calmato. «Perdonatemi, signori, sono purtroppo soggetto a queste crisi... Ma tutti questi preliminari sono necessari alla piena comprensione da parte vostra
di ciò che devo dirvi.» Sam Quain gli mormorò qualche parola all'orecchio, e Mondrick annuì stancamente. «Ormai la nostra teoria era formulata», riprese lo scienziato, cercando palesemente di affrettarsi. «Ma avevamo bisogno di prove, per avvertire e preparare alla difesa l'autentico genere umano. La prova che cercavamo poteva esistere solo tra le ceneri del più remoto passato. Dieci anni fa abbandonai la cattedra, per frugare nelle antiche culle delle razze umane e semi-umane e trovare così la prova irrefutabile. Vi lascio immaginare le difficoltà e i pericoli che abbiamo dovuto affrontare: il tempo non mi consente di descriverveli. I mongoli Torgod hanno assalito e saccheggiato più volte il nostro accampamento. Siamo stati sul punto di morire di sete prima e congelati poi. Quindi la guerra ci ha costretti a partire, proprio quando avevamo appena trovato i primi insediamenti pre-umani. Si sarebbe detto che i cacciatori delle tenebre sapessero che noi li sospettavamo, e cercassero di annientarci prima che potessimo accusarli. Il Dipartimento di Stato non voleva farci ritornare laggiù. Il Governo cinese ha fatto di tutto per tenerci lontani. I Russi ci credevano spie... insomma, gli uomini e la natura ci sono stati avversi. Ma noi siamo riusciti a trovare ciò che cercavamo. E a portarlo in America da quei remoti nascondigli preumani.» Toccò ancora con la punta del piede la cassa. «È tutto qui», disse. Per un istante Barbee incontrò gli occhi di Mondrick, e vi lesse l'angoscia di una gran fretta e di una paura mortale. Aveva capito il motivo di quel lungo preambolo; sapeva che Mondrick ardeva dal desiderio di parlare, di esporre i suoi fatti terribili l'uno dopo l'altro, ma che il timore di non essere creduto lo costringeva alla prolissità. «Perdonatemi se tutte queste precauzioni possono sembrarvi inutili. Capirete quando avrete saputo. E ora che siete in certo qual modo preparati a udire il resto, dovrò parlare con brutale precipitazione, esporvi i fatti alla rinfusa prima che me lo si impedisca.» Il suo volto si contorse, percorso da un tremito. «Perché un terribile pericolo ci minaccia, signori. Ognuno di voi... chiunque ascolti in questo momento le mie parole... si trova sotto la minaccia di un pericolo mortale. Pure, devo pregarvi di ascoltare... perché io spero ancora... che, diffondendo la verità... così largamente che non riescano più a uccidere tanto da soffocarla... sia ancora possibile sconfiggere la spaventosa congiura.»
Mondrick ansimò ancora, piegandosi, rabbrividendo. «Fu centomila anni fa...» Soffocava. Le sue mani si levarono tremanti verso la gola, come per aprire una via al respiro. Un gorgoglio cupo gli risuonò nella strozza. La faccia stravolta, le mani ripiegate ad artiglio si fecero d'un azzurro cianotico. Cadde in ginocchio, afferrandosi alle braccia di Sam Quain, farbugliando parole inintelligibili. «Ma è impossibile!» Barbee udì l'atterrito bisbiglio di Sam Quain. «Non ci sono gatti, qui!» Barbee lanciò un'occhiata perplessa ad April Bell. La ragazza fissava ancora l'esploratore ansimante, che anelava una boccata d'aria. Dilatati nella luce ambigua del crepuscolo, i suoi occhi sembravano del tutto neri. Bianca come la sua pelliccia, la sua faccia era completamente priva di espressione. Gatti? La borsetta era chiusa e non poteva, così sigillata, contenere un gatto, per piccino che fosse. Rabbrividendo al freddo vento dell'est, Barbee volse nuovamente lo sguardo su Mondrick. Sam Quain e Nick Spivak avevano disteso l'infelice scienziato supino, con la giacca ripiegata di Quain sotto il capo. Ma Rex Chittum era rimasto vicino alla cassa, gli occhi vigili, come se il suo contenuto fosse più importante dell'agonia del vecchio esploratore. Perché Mondrick, era ormai chiaro, stava morendo. Le sue mani annasparono per l'ultima volta nell'aria, e ricaddero. La faccia livida si rilassò, immobile. Dopo un ultimo, disperato brivido, il corpo giacque per sempre. Strangolato, come dal cappio di un boia. I lampi dei fotografi si fecero intensissimi, mentre la polizia tratteneva i giornalisti che si spingevano innanzi. Qualcuno urlò per chiamare l'ambulanza, ma ormai Mondrick era morto. «Marck!» Barbee udì l'urlo acutissimo. Vide la moglie cieca di Mondrick staccarsi dal gruppo presso il terminal e correre verso di loro, l'enorme cane al fianco, veloce e dritta come se vedesse. Uno degli agenti cercò di fermarla, ma dovette ritrarsi davanti alle zanne di Turk. La cieca giunse presso il corpo del marito e gli si inginocchiò accanto, sfiorandogli il volto devastato, le mani stanche con dita disperatamente indagatrici. La luce cadde sugli anelli e i braccialetti d'argento, rifulgendo nelle lacrime che scorrevano dalle vuote occhiaie martoriate dietro le lenti. «Marck, povero caro! Perché non hai voluto che venissi con Turk a pro-
teggerti? Non li hai visti stringersi attorno a te?» 3. Sam Quain fissava senza vederlo il corpo dell'uomo disteso per terra. In maniche di camicia, sotto la sferza di quel gelido vento, rabbrividiva, anche se non sembrava accorgersene. Non parve nemmeno accorgersi del pesante cappotto che Barbee s'era tolto per gettarglielo sulle spalle. «Grazie, Will», disse poi, sempre con la mente chi sa dove. «Deve far freddo.» Trattenne per un istante il respiro e poi si rivolse ai giornalisti. «Un grosso titolo per voi, signori», disse calmo, con voce lenta, trasognata. «La morte del professor Lamarck Mondrick, famoso antropologo ed esploratore. Vi prego di fare attenzione alla grafia: il professore teneva in modo particolare alla c di Lamarck.» Barbee gli strinse un braccio. «Che cosa lo ha ucciso, Sam?» «Morte dovuta a cause naturali, dirà il magistrato», rispose Quain con la stessa voce quasi indifferente, ma Barbee lo sentì irrigidirsi. «Soffriva d'asma da parecchi anni. Quando ci trovavamo ancora laggiù, in Mongolia, mi disse che sapeva di essere malato di cuore, di averlo sempre saputo. E la nostra spedizione non è stata davvero una passeggiata, soprattutto per un uomo della sua età, e per giunta malato di cuore.» Barbee guardò il corpo immobile ai loro piedi e la donna vestita a lutto che singhiozzava silenziosamente. «Dimmelo, Sam... che cosa voleva dire Mondrick quando ha avuto l'attacco?» Sam Quain inghiottì con uno sforzo. I suoi freddi occhi azzurri evitarono lo sguardo del giornalista, frugarono le ombre del crepuscolo, tornarono a fissare gli occhi dell'antico compagno d'università. Alzò le spalle, quasi cercasse di scrollarsi di dosso l'orrore che gravava su di lui come una cappa. «Niente», mormorò con voce rauca, «niente del tutto.» «Niente?», ripeté la voce dura di un altro giornalista alle spalle di Barbee. «E tutte quelle precisazioni sui pericoli misteriosi? sul Figlio della Notte e il Messia Nero? Scherziamo, Quain?» La faccia triste di Sam Quain tentò di sorridere. «Il professor Mondrick amava le espressioni figurate e non trascurava
mai di dare un certo tono drammatico alle sue dichiarazioni. Il suo Figlio della Notte è, con ogni probabilità, una figura retorica, una personificazione, forse, dell'ignoranza umana.» Indicò col mento la cassa. «È là dentro che si trova materia per brillanti servizi giornalistici, signori, ammesso che le teorie sull'evoluzione umana rappresentino ancora notizie sensazionali per i quotidiani. Il minimo particolare sulle origini del genere umano è del massimo interesse per scienziati come Mondrick, ma non per il profano, a meno che non lo si drammatizzi romanticamente.» Un'ambulanza venne a prendersi il corpo di Mondrick, mentre la vedova dava al marito l'estremo addio e tutt'intorno s'accendevano i lampi dei fotografi. «Quali sono ora i vostri progetti, signor Quain?», domandò un uomo vestito di nero e dal profilo d'avvoltoio, cronista scientifico di un'agenzia giornalistica. «Quando ci darete il resto delle dichiarazioni interrotte così tragicamente?» «Oh, ci vorrà del tempo», rispose Quain, battendo le palpebre alla luce vivida dei lampi. «Noi tutti suoi collaboratori, vedete, eravamo dell'opinione che le dichiarazioni del professore fossero premature. Gli oggetti che abbiamo portato dall'Ala-shan dovranno essere studiati lungamente in laboratorio, insieme con gli appunti e gli scritti di Mondrick, prima di renderli di pubblica ragione. A suo tempo, la Fondazione pubblicherà una monografia in merito. Ci vorrà un anno. Forse due.» Un mormorio di delusione si levò dal gruppo di giornalisti in ascolto. «Comunque, non si torna al giornale del tutto a mani vuote», fece un cronista. «Mi sembra già di vedere i titoli di domani: Maledizione preistorica uccide violatore di sepolcri.» «Pubblicate quel che volete», disse Quain, guardandosi intorno con quella che a Barbee non sfuggì essere segreta apprensione. «Ma spero che tutti sarete generosi, scrivendo del professor Mondrick. Era un grande scienziato, anche se talvolta un po' eccentrico. La sua opera, quando sarà pubblicata, lo porrà sicuramente tra i pochi eletti del pensiero scientifico, insieme con Freud e Darwin.» La mascella gli si indurì in un'espressione di testardaggine. «E questo è tutto quanto io... o i miei colleghi... abbiamo da dire.» I fotografi accesero un ultimo flash in onore di quell'espressione testarda e cominciarono a riporre i loro aggeggi, il radiocronista fece riavvolgere il nastro, dopo aver fatto sparire il microfono, e gli inviati dei giornali se ne tornarono in redazione a scrivere un pezzo su un oscuro fatto inspiegabile.
In lontananza Barbee vide April Bell entrare nella sala d'aspetto. Evidentemente era filata via per telefonare il suo pezzo al Call. Ma Barbee aveva tempo fino a mezzanotte, quando si chiudeva la prima edizione del mattino, per cercar di risolvere il mistero della morte di Mondrick. Impulsivamente fece un passo avanti e afferrò Sam Quain per il braccio. L'esploratore si ritrasse con un sussulto e un grido soffocato da quel tocco improvviso, e poi riuscì con uno sforzo tormentoso ad abbozzare una specie di sorriso. Chi non sarebbe stato nervoso dopo prove così tragiche? Barbee lo trasse da parte, verso la coda dell'enorme aeroplano silenzioso. «Che cosa c'è sotto questa tragedia, Sam? Agli altri hai potuto darla a bere, non a me. Mondrick parlava sul serio, non per simboli. E anche voi eravate terrorizzati. Di che cosa avete tanta paura?» Gli occhi azzurri di Sam Quain lo fissarono, scrutandolo, come per scoprire, stanare non si sa che mostruoso nemico. Sam Quain rabbrividì, stringendosi intorno al corpo il cappotto non suo, ma fu con molta calma che la sua voce stanca e paziente rispose: «Avevamo tutti paura che accadesse proprio quanto è avvenuto. Sapevamo quale fosse lo stato di salute di Mondrick. E poi, in aereo, siamo dovuti salire ad alta quota, date le condizioni meteorologiche infami, e quell'altezza deve avergli affaticato il cuore...». Barbee scosse il capo. «No, Sam, queste spiegazioni non reggono. Voi tutti avete paura di qualcosa che non aveva nulla a che vedere col mal di cuore.» Strinse ancora l'esploratore per il braccio. «Non ti fidi di me, Sam? Siamo sempre amici, no?» «Che sciocchezze, Will!» Quain cominciava a spazientirsi. «Mondrick, a dire il vero, non sembrava fidarsi molto di te, e non ha mai voluto dirmene il motivo... del resto, erano ben poche le persone di cui si fidasse... Ma naturalmente noi siamo sempre amici, si capisce!» Alzò ancora le spalle, a disagio, e i suoi occhi si posarono con espressione smarrita sulla cassa, presso la quale Spivak e Chittum continuavano a montar la guardia. «Ora devo andare, Will. Ho troppe cose da fare, con quello che è successo...» Si tolse il cappotto, rabbrividendo. «Grazie, Will. Tu ne hai bisogno e io ho il mio a bordo. Scusami ora.» Barbee si riprese il cappotto. «Ma come!», fece sbalordito. «E tua moglie e la tua bambina? Avete tutti e tre le vostre famiglie a pochi passi di distanza, e non potete trovare un
momento per salutarle?» Un'espressione di muto tormento passò negli occhi di Quain. «Abbracceremo i nostri cari appena potremo, Will.» Si mise a frugare tra un mucchio di bagagli e di casse ch'era stato appena scaricato dall'apparecchio, finché non ebbe trovato un vecchio giubbotto di pelle. «Gran Dio, Will», mormorò con voce sorda, «tu dirai forse che non siamo più nemmeno umani. Sono due anni che non vedo mia moglie e mia figlia... ma prima dobbiamo occuparci della cassa di Mondrick.» «Un momento!», disse Barbee, trattenendolo per il braccio. «Un'ultima domanda.» Abbassò la voce, per non farsi udire dagli uomini che stavano scaricando l'aeroplano. «Che cosa c'entrano i gatti con la morte di Mondrick?» «Eh?» Barbee sentì il braccio di Quain tremare. «Gatti?» «Sì, gatti.» Quain s'era fatto pallidissimo, ma rispose: «Ho sentito Mondrick mormorare, quand'era già in agonia, qualcosa a proposito di un gatto, ma non ne ho visto nessuno». «Ma perché», insistette Barbee, «doveva pensare a un gatto, proprio in quel momento?» Gli occhi di Quain lo scrutarono ancora, sotto le palpebre socchiuse. «L'asma di Mondrick era d'origine allergica», mormorò Quain. «Un'allergia al pelo di gatto. Non poteva entrare in una camera dove fosse stato un gatto senza avere una crisi. Will, hai visto per caso un gatto?» «Sì, un gattino nero.» Vide Quain irrigidirsi e, nello stesso istante, April che s'avvicinava, con un passo lungo, armonioso ed elastico, come uno splendido gatto selvatico. La giovane incontrò gli occhi ansiosi di Barbee e gli sorrise allegramente. «Dove?», sussurrò con impazienza Quain. «Dove hai visto dei gatti?» Barbee fissò i lunghi occhi di April Bell e qualcosa, dentro, gli disse di non rivelare a Sam Quain che era stata proprio quella ragazza dai capelli rossi a portare un gatto. In April c'era una forza che lo faceva rimescolare e lo trasformava in un modo che preferiva non analizzare. A voce bassa, in gran fretta, rispose di malavoglia: «Laggiù, dietro il terminal, qualche minuto prima che arrivassero gli aerei. Non ho visto dove sia andato a finire». Gli occhi di Quain s'erano fatti ostili e sospettosi. Aprì la bocca come per fare un'altra domanda, ma si frenò con una specie di singulto quando si vide April Bell accanto. A Barbee sembrò che si rannicchiasse su se stesso,
come un lottatore davanti a un avversario temibile. «Dunque, lei è il signor Quain!», cinguettò la ragazza dolcemente. «Vorrei chiederle solo una cosa, se non le dispiace... per il Clarendon Call. Che cosa contiene quella cassa verde?» E indicò con lo sguardo il cassone cerchiato di ferro, presso il quale i due uomini stanchi erano sempre di guardia. «Una palata di diamanti? I progetti completi di un nuovo tipo di bomba atomica?» Saldamente in equilibrio come un pugile sulla punta dei piedi, Sam Quain rispose con voce calma: «Nulla di così interessante, purtroppo, o per lo meno nulla che possa interessare i lettori di un quotidiano. Roba che, se la trovaste per terra andando a spasso, non vi chinereste a raccogliere. Vecchie ossa. Frammenti di anticaglie buttate via come inservibili ancor prima che la storia dell'umanità avesse inizio». Lei scoppiò a ridere, discreta: «Abbia pazienza, signor Quain. Ma se la vostra cassa non contiene nulla di valore, allora perché...». «Voglia scusarmi», la interruppe Quain bruscamente. April lo prese per il braccio, ma l'uomo si svincolò abilmente e si allontanò a passo rapido verso la cassa, dove i due uomini lo stavano aspettando. «Forse in quella cassa non c'è nient'altro che quello che ha detto», sussurrò April Bell all'orecchio di Barbee, «ma sembrano tutti disposti a dare la vita, come ha fatto Mondrick, per difenderla. Non sarebbe buffo», aggiunse poi quasi in un sospiro, «se lo facessero?» «Buffo, forse, ma non molto divertente», mormorò Barbee. Ancora una volta fu attraversato da un brivido. Si allontanò di un passo o due dalla ragazza, perché a un tratto si accorse che non voleva essere toccato da quella pelliccia bianca. Continuava a pensare al gattino. C'era una possibilità, tutt'altro che piacevole, che quella ragazza dai capelli rossi fosse un'assassina estremamente abile. Quasi automaticamente i suoi occhi cercarono la borsetta di pelle che aveva contenuto il gattino, e videro che non c'era più. La ragazza parve seguire il suo sguardo, e bruscamente si fece pallidissima: «La mia borsetta!», gridò, allargando le belle mani vuote. «Devo averla lasciata in qualche posto, nella fretta di telefonare il servizio. Me l'ha regalata la zia Agatha, e devo assolutamente ritrovarla... c'è un ricordo di famiglia, una spilla di giada bianca. Vuoi aiutarmi a cercarla, Barbee?» Frugarono dappertutto, dal punto dove s'era fermata l'ambulanza alle cabine telefoniche, senza trovare la borsetta: il che non lo stupì affatto. Si sa-
rebbe stupito, invece, se l'avessero trovata. Alla fine April guardò un orologino incrostato di piccoli diamanti. «Rinunciamo, Barbee», disse, senza troppo rammarico. «Grazie infinite, ma vedrai che non l'ho perduta, l'avrò lasciata alla zia Agatha, quando le ho ridato Fifi.» Barbee cercò di non inarcare le sopracciglia, ma continuava a sospettare che la zia Agatha fosse del tutto immaginaria. Ricordava d'aver visto la borsetta, che le mani della ragazza stringevano convulse mentre Mondrick agonizzava, ma non lo disse. Non capiva April Bell. «Grazie ancora, Barbee», fece lei. «Ora devo telefonare in redazione. E perdonami, se il mio servizio oscurerà il tuo.» «Se volete tutta la verità, leggete lo Star», sorrise Barbee citando lo slogan del suo giornale. «Io ho ancora tempo fino a mezzanotte per scoprire il contenuto di quella cassa verde e perché Mondrick è morto quando è morto.» Si fece serio, e inghiottendo la saliva: «Quando... quando possiamo rivederci?» Sentiva il bisogno prepotente di rivederla... forse perché temeva davvero che avesse ucciso Mondrick, o invece perché sperava con tutta l'anima che fosse innocente? Per un istante un'ombra di perplessità le corrugò la fronte. Barbee respirò ancora quando la vide sorridere. «Quando vuoi, Barbee», rispose con estrema dolcezza, «se lo desideri.» «Questa sera a cena, allora?», disse subito Barbee cercando di non mostrare la sua emozione. «Va bene per le nove? Prima voglio scoprire che cosa Quain e compagni intendono fare col loro misterioso cassone, e poi devo scrivere il pezzo.» «Le nove? Benissimo», rispose lei. «Adoro la notte. E poi, anch'io voglio tenere d'occhio quella cassa.» Gli occhi della ragazza s'erano volti a guardare gli stanchi esploratori che cautamente caricavano la loro cassa sulla macchina del dottor Bennett. Il gruppetto dei familiari, un po' in disparte, osservava la scena, stupito e rattristato. Barbee toccò la pelliccia immacolata di April e rabbrividì nel vento gelido. «Alle nove, dunque?», disse ancora. «Dove?» April sorrise bruscamente, inarcando le sopracciglia con una punta d'ironia. «Questa sera stessa, Barbee?», gorgheggiò. «Nora penserà che tu abbia perduto la testa.» «Forse l'ho perduta.» Toccò la pelliccia, e cercò di non rabbrividire. «Sono scombussolato anch'io: Rowena Mondrick mi è sempre amica, an-
che se suo marito non ha più voluto esserlo. Ma Sam Quain si prenderà cura di tutto. Spero che tu voglia cenare con me stasera, April.» E spero, aggiunse a se stesso, che finirai per dirmi perché hai portato qui quel gattino nero e perché hai avuto il bisogno di inventare la zia Agatha e se avevi qualche motivo di desiderare la morte di Mondrick. «Vedrò di venire», promise la ragazza. «Ora devo sbrigarmi... ho da telefonare in cronaca e poi bisognerà che avverta la zia Agatha.» Scappò via con l'elasticità e la grazia d'una creatura dei boschi, mai domata. Will la vide entrare in una cabina telefonica sbalordito che una donna potesse sconvolgerlo tanto. La carezza della sua liquida voce indugiava ancora entro di lui. Il giovane trasse un profondo sospiro, abbassò il viso e strinse i pugni. Si pentì d'aver bevuto tanto whisky in quegli ultimi tempi e di non essersi preso abbastanza cura di sé. Intravvide il biancore della pelliccia di April, oltre il vetro della cabina, e rabbrividì ancora. Si allontanò. Che effetto ti farebbe, si disse, scoprire che quella rossa sirena è una volgare assassina? Il dolore che si vedeva sulla faccia grinzosa e rinsecchita del vecchio Ben Chittum lo spinse a dire: «Vieni con me, Ben. Ho la macchina qui fuori, ti porto io in città». «Grazie, Will, non preoccuparti.» Il vecchio riuscì a mettere insieme un sorriso. «Rex tornerà a prendermi, quando avranno messo al sicuro quella cassa a casa di Sam.» Il gruppetto dei familiari, abbandonato a se stesso dagli esploratori spariti con la cassa sulla macchina di Bennett, si aggirava malinconicamente nella sala d'aspetto. Barbee vide Nora che piangeva, e la piccola Pat cercava di consolarla. Si volse a guardare se April fosse sempre nella cabina telefonica, poi seguì un'ispirazione improvvisa. Era lo stesso genere d'ispirazioni che lo avevano aiutato a scoprire cento nuovi indizi per rivelazioni sensazionali, quello che Preston Troy chiamava il requisito essenziale del vero reporter: aver «fiuto per le notizie». Una volta ne aveva parlato al dottor Glenn, e l'affabile psichiatra gli aveva risposto che quella facoltà non era che frutto di ragionamenti logici, in atto sotto il livello della mente cosciente. Si diresse rapidamente verso l'enorme cassone dei rifiuti, dietro l'edificio, e si mise a frugare tra giornali sporchi, cestini da viaggio vuoti e un cappello di paglia sfondato. Sotto il cappello di paglia, Will Barbee trovò la borsetta di pelle di coc-
codrillo. I due capi di un nastro rosso pendevano fuori della cerniera, gualciti e contorti come se fossero stati stretti, avvolti intorno a dita convulsamente tese. Barbee aprì la borsetta e trovò il corpicino senza vita del micio nero della zia Agatha. Il nastro rosso, legato a nodo scorsoio, era ancora stretto intorno al collo del gattino, e con tanta forza che la povera bestiola era stata quasi decapitata. Una goccia di sangue, sulla fodera di seta bianca della borsetta, fece scoprire a Barbee qualche altra cosa. Nello spostare col dito il corpicino, il giornalista sentì sotto il polpastrello un oggetto duro e liscio, sepolto nel pelame della bestiola. Lo trasse fuori con cautela, ed emise un lieve sibilo quando lo esaminò alla luce che veniva dal terminal. Era il ricordo di famiglia che April aveva dato per perso, la spilla di giada bianca. La parte ornamentale era lavorata in modo da rappresentare un piccolo lupo in corsa, dai verdi occhi di malachite. Il lavoro era delicato e realistico: il minuscolo lupo appariva esile e pieno di grazia, come la stessa April. Il fermaglio dietro la figura era aperto e il robusto spillone d'acciaio era stato piantato nel corpo del gattino. Una goccia di sangue nerastro lo seguì, quando Barbee lo trasse fuori. La punta, si disse il giornalista, doveva aver trafitto il cuore della povera bestiola. 4. Barbee rammentava qualcosa di ciò che aveva imparato anni prima alle lezioni di Mondrick sulle pratiche di magia in uso presso l'umanità primitiva, ma non era uno studioso di quelle che sono chiamate comunemente scienze occulte. Non c'era bisogno di essere esperti, tuttavia, per stabilire che il gattino nero e il vecchio esploratore erano morti nello stesso istante e nello stesso modo. Quasi certamente era stata April Bell a uccidere il gattino. Lei intendeva dunque - ignara di quanto la morte di Mondrick potesse dipendere da quella nuova magia biochimica, tanto di moda, chiamata allergia - procurare la morte di Mondrick? Barbee ormai non ne dubitava. Il suo primo impulso fu di portare la borsetta col suo spiacevole contenuto a casa di Sam Quain; ma abbandonò subito l'idea. La magia poteva essere un soggetto eccellente per monografie di studiosi eclettici e originali
come Mondrick, ma Quain sarebbe scoppiato a ridere all'ipotesi di una strega molto giovane, molto bella, molto chic, con le labbra dipinte da un rossetto alla moda e le unghie laccate, che si dava a pratiche di magia nera in una moderna città degli Stati Uniti. Senza contare che il tono brusco e distante di Sam lo aveva un po' offeso. E, poi, sentiva una certa riluttanza a coinvolgere April Bell. Dopo tutto, non aveva nessuna prova che fosse stata la ragazza a uccidere il gatto. C'erano tanti monelli, all'aeroporto, all'arrivo di ogni apparecchio di linea! Forse, esisteva anche la zia Agatha. Quella sera, a cena, pensò Barbee, avrebbe cercato di sapere quanto più potesse di quella strana ragazza. Ripulì lo spillo col lupo di giada e se lo mise in tasca, dopo aver gettato di nuovo la borsetta tra i rifiuti del bidone. Uscendo dalla cabina telefonica, April Bell se lo trovò davanti, in attesa. La ragazza aveva il volto animato, gli occhi lucenti, forse per la soddisfazione di aver concluso il suo primo servizio importante. Certo, non aveva l'aria di un'assassina. «Finito?», le disse Barbee, e indicando col mento il parcheggio, fuori, dove lo attendeva il suo vecchio macinino: «Posso accompagnarti in città?» «Grazie, ma anch'io ho fuori la macchina.» Parve trattenere il fiato per un istante. «Zia Agatha aveva un bridge ed è tornata in città con l'autobus.» «Oh.» Il giornalista cercò di nascondere il suo disappunto, nonché i suoi dubbi sull'esistenza della zia Agatha. «E questa sera, poi, ci si vede?» «Ho telefonato alla zia, che ha detto di non avere nulla in contrario», rispose lei con un sorriso così gaio che gli riscaldò il cuore. «Magnifico!», disse. «Dove abiti?» «Al Trojan Arms, appartamento 2-C.» «Oh!» non poté fare a meno d'esclamare Will Barbee. Il lussuoso residence era un'altra delle grosse imprese finanziarie di Preston Troy, e Barbee aveva dovuto parlarne più volte, elogiativamente, sul giornale. L'appartamento più economico, sapeva, non costava meno di 200 dollari al mese. April Bell guadagnava benino, a quanto pareva, per essere una cronista ai primi passi; a meno che, naturalmente, la zia Agatha fosse non solo reale, ma anche milionaria. «Dove mi porterai?», domandò la rossa April. «Al "Knob Hill", ti va?», propose lui, sebbene quel ritrovo notturno suburbano fosse davvero troppo costoso per cronisti sul ruolino stipendi del-
lo Star. «Delizioso!», cinguettò la ragazza. L'accompagnò, nel vento notturno, verso la sua macchina, una lunga convertibile marrone, che non poteva costar meno, calcolò lui, a disagio, di 4000 dollari. Erano pochi i cronisti che potevano permettersi simili lussi. Ma forse anche quella macchina era della zia Agatha. Le aprì lo sportello e lei salì rapida ed elegante, nella sua pelliccia immacolata, come la minuscola scultura di giada che Will aveva in tasca. April gli prese per un istante la mano e il tocco delle sue dita fredde e forti fu per lui sconvolgente come la sua voce. Will dovette lottare contro la tentazione di baciarla, timoroso di sciupare ogni cosa. Ansava un poco. Assassina o no, April Bell era una ragazza che faceva girare la testa. «Ciao, Barbee», gli disse in un sussurro. «Alle nove!» Il giornalista se ne tornò in città nel suo vecchio catorcio e, sedutosi al suo tavolo nella lunga sala di cronaca dello Star, batté il pezzo. Scrivendo, s'accorse di pensare con simpatia alla tersa, impersonale obiettività del giornalismo moderno. Poi, risalito in macchina, andò a casa. Aveva un appartamento di due stanze, oltre alla cucina e alla stanza da bagno, in una vecchia casa a due piani di Bread Street. Il quartiere era un po' troppo vicino alla zona industriale, ma l'affitto era tutt'altro che caro e la padrona di casa non sembrava badare a quanto lui bevesse. Fece il bagno, si rase e s'accorse di fischiettare allegramente, mentre cercava una camicia pulita e un abito che non fosse troppo sciupato per il Knob Hill. Improvvisamente, udì squillare il telefono e corse a rispondere, con la paura che fosse April Bell che lo avvertiva all'ultimo momento di non poter venire. «Will?» Era una voce di donna, pacata ma intensa. «Ho bisogno urgente di parlarti.» Non era April Bell, e quella sua paura improvvisa si dissipò. Era la voce limpida e serena della cieca moglie di Mondrick, una voce che non rivelava lo strazio che la donna doveva provare. «Non potresti saltare in macchina e correre da me, Will? Subito?» Il giornalista lanciò un'occhiata all'orologio. Il Knob Hill si trovava a circa quaranta isolati in fondo a Central Street, oltre il fiume, praticamente fuori della città. La vecchia casa dei Mondrick era a quaranta isolati, esattamente nella direzione opposta. E l'orologio segnava quasi le nove.
«Ora non posso, Rowena», balbettò goffamente. «Sono a tua completa disposizione, naturalmente, per qualunque cosa possa occorrerti. Verrò domattina o anche stasera stessa, ma più tardi, forse. Ora ho un impegno che non posso rimandare.» «Oh!» Era un'esclamazione di doloroso stupore. Poi Rowena Mondrick domandò con dolcezza: «Esci con quella... ragazza?». «Con April Bell.» «Will, chi è?» «Una giovane cronista alle sue prime armi in un giornale della sera. L'ho conosciuta stasera, non l'avevo mai incontrata prima. Turk non ha avuto l'aria di trovarla di suo gradimento, ma a me pare molto in gamba.» «Non è possibile!», protestò la cieca, e poi, implorante: «Annulla il tuo impegno, Will! O almeno rimandalo di qualche ora, dopo che ti avrò parlato. Te ne prego, Will!» «Non puoi immaginare quanto mi dispiaccia», rispose lui, terribilmente a disagio, «ma davvero non posso, Rowena.» Una punta di irritazione gli inasprì la voce, contro la sua volontà. «Anche se a te e al tuo cane non piace, per me è una ragazza interessante.» «Quella ragazza non mi piace, è vero», rispose Rowena con calma, «e per un'eccellente ragione, che conto dirti appena verrai a trovarmi. Perciò ti prego di farti vivo il più presto possibile.» Non avrebbe saputo dirle, lui, per quali e quante ragioni si sentisse attratto da April Bell; non le sapeva precisamente nemmeno lui. Ma un'onda di pietà per quella povera donna cieca e nuovamente colpita dalla tragedia lo spinse a dirle pentito: «Stai tranquilla, Rowena. Verrò al più presto. Sii certa della mia amicizia». «Stai attento, Will!», lo ammonì di nuovo la vecchia signora. «Guardati da quella donna, stasera. Perché sono certa che trama qualcosa contro di te, trama per farti del male, un male immenso!» «Male a me? E in che modo?» «Vieni a trovarmi domani e te lo dirò.» «Dimmelo subito, ti prego», insistette lui, ma udì riattaccare il ricevitore. Allora riattaccò a sua volta, e rimase per qualche istante accanto all'apparecchio a ripensare alle parole di Rowena. La moglie di Mondrick era sempre stata d'umore bizzarro, per non dire strambo, da quando la conosceva. Solitamente calma e serena, piena di vivacità e d'allegria con gli ospiti, talvolta abbandonava senza spiegazioni il
pianoforte e la compagnia dei suoi migliori amici, per starsene sola col suo enorme cane, carezzando gli strani monili d'argento che amava portare. Stranezze che la tragedia africana giustificava pienamente e che ora la morte del marito, si disse Barbee, non avrebbe potuto che accentuare. Il bar del Knob Hill era una saletta semicircolare dalle pareti di vetro, illuminata da una luce rossastra, diffusa, al neon. L'effetto complessivo era lievemente conturbante, forse per confondere maggiormente le idee e spingere la clientela a bere di più. Le poltrone, di cuoio verde e metallo cromato, un po' troppo angolose, erano più comode all'aspetto che nella sostanza. April Bell gli lanciò il lampo del suo sorriso scarlatto da un minuscolo tavolo nero sotto un arco di vetro percorso da onde di rossa luce vibrante. La pelliccia bianca era gettata con noncuranza sulla spalliera di un'altra poltroncina, e la ragazza aveva un'espressione di completo benessere sulla sua angolosa poltrona, come se quell'atmosfera volutamente snervante le si confacesse in modo particolare. Si leggeva infatti sul suo volto una soddisfazione quasi felina. Il suo abito da sera piuttosto provocante era d'un verde cupo che faceva risaltare il verde dei suoi occhi lievemente obliqui. Barbee non aveva pensato a mettersi un abito scuro, e per un istante si sentì a disagio nel suo vecchio vestito grigio, entro il quale il suo corpo magro ballava come un manico di scopa. Ma April non parve badarvi e lui dimenticò il suo disagio contemplando tutto ciò che la pelliccia bianca gli aveva tenuto nascosto. La liscia e compatta carne di lei era quanto di più desiderabile potesse esservi al mondo; pure, Barbee non poté fare a meno di ricordare, a un tratto, l'avvertimento della cieca. «Potrei avere un dacquari?», chiese April. Barbee ordinò due dacquari. Era seduto davanti a lei, ma il minuscolo tavolo li teneva così vicini, che poteva aspirare il sano profumo che emanava. Come ubriaco prima ancora di bere, trovò difficile ricordare il suo piano d'azione, e il sospetto di trovarsi di fronte a un'assassina. L'unica cosa che ora gli premeva era di piacerle, e non gli importava più di scoprire i motivi per cui avrebbe potuto volere la morte di Mondrick. Contemporaneamente, s'accorse di pensare a chi potesse essere il «nemico segreto» di Mondrick, in attesa che si manifestasse l'avvento del «Figlio della Notte». April faceva forse parte di qualche segreto complotto spionistico? In
quel torbido dopoguerra, in cui nazioni, razze, ideologie opposte si combattevano per sopravvivere e gli scienziati ponevano a servizio dell'odio internazionale i più sbalorditivi segreti del Creato, non era poi tanto difficile crederlo. Forse, in Asia Mondrick e i suoi amici avevano scoperto le prove di questa cospirazione, e le avevano custodite gelosamente nella loro cassa cerchiata di ferro. Poi, consapevoli di un pericolo mortale che sapevano inevitabile, avevano cercato di avvertire il mondo; ma Mondrick era caduto vittima di quel pericolo prima di poter parlare... Ed era stata April Bell a ucciderlo. E il micino nero doveva essere stato l'arma, per assurdo che ciò potesse sembrare. I due dacquari vennero serviti e i denti bianchi della ragazza lampeggiarono in un sorriso sull'orlo del bicchiere. Barbee, scuotendo impercettibilmente il capo, le sorrise a sua volta, e toccò col suo il bicchiere della ragazza. Una fattucchiera? Una maga? Una strega? E con questo? Che c'entrava lui con l'assurda ipotesi che lei avesse cercato di uccidere con arti occulte il povero Mondrick, strangolando il micino nero? Che razza di superstizioni medievali gli stavano passando per la testa da qualche tempo? Il fatto era che ne aveva piene le tasche della vita che la sorte gli aveva finora riserbata. Ottanta ore alla settimana in quel giornalaccio di Preston Troy, con una paga che gli bastava appena per l'affitto, i pasti e il whisky. Da parecchio tempo ne beveva quasi una bottiglia al giorno, di quello più a buon mercato. April Bell, anche se si credeva una strega, poteva rivelarsi qualcosa di molto meglio, capitato in quella sua sporca vita. Lei lo guardò, mentre i loro bicchieri si sfioravano con un lieve tintinnìo; i suoi occhi enigmatici lo guardarono con una specie di fredda sfida beffarda. «Dunque... Barbee?» Lui si sporse innanzi sul minuscolo tavolino ottagonale. «Alla nostra... serata!» La vicinanza fisica della donna gli toglieva quasi il fiato. «Ascoltami, April, ti prego... voglio sapere tante cose di te... voglio sapere tutto. Tutto quello che sei stata, tutto quello che hai fatto. Voglio sapere della tua famiglia, dei tuoi amici. Di che cosa sogni e che cosa ti piace la mattina a colazione.» Le labbra rosse si piegarono in un sorriso ironico. «Mi stupisci, Barbee... il mistero di una donna è quasi tutto il suo fasci-
no.» Non poté fare a meno di notare ancora una volta la bianca forza ferina dei suoi denti perfetti. Gli facevano venire in mente uno dei racconti soprannaturali di Poe, la storia di un uomo ossessionato dai denti della donna amata. Cercò di scacciare dalla mente quell'inquietante associazione d'idee e alzò di nuovo il bicchiere. Un brivido inspiegabile glielo fece traballare fra le dita, e il pallido liquido gli spruzzò la mano. «D'accordo, ma troppo mistero è preoccupante.» Depose il bicchiere con attenzione. «Perché ho veramente paura di te.» «Davvero?» Stava osservando attentamente il modo con cui si puliva col fazzoletto le dita appiccicose di liquore. «Strano, perché sei tu, Barbee, quello veramente pericoloso.» Barbee abbassò gli occhi e bevve ancora, a disagio. La sua certezza di essere refrattario ai pericoli rappresentati dalle donne lo stava ormai definitivamente abbandonando. «Vedi, Barbee, ho cercato di ammantarmi in una specie di velo illusorio. E tu mi hai fatto veramente felice mostrando di accettarlo. Ora, perché lo vuoi lacerare?» «Voglio lacerarlo», disse lui con semplicità. «Ti prego, April, accontentami.» Un lampo parve scorrere sui suoi capelli di fiamma, mentre lei annuiva. «E sia, Barbee», rise. «Per accontentarti lascerò cadere il mio velo dipinto.» Depose il bicchiere e si chinò verso di lui, le braccia incrociate sul tavolo. La sottile fragranza del suo corpo gli salì alle nari, una fragranza sana di bosco, di felci, di foglie umide. «Sono figlia di agricoltori», disse. «Sono nata in queste campagne, nella contea di Clarendon. I miei genitori avevano una piccola fattoria presso il fiume, subito dopo il ponte della ferrovia. Dovevo fare tutte le mattine un bel tratto di strada a piedi, per andare a prendere l'autobus che mi portava a scuola.» Le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso beffardo. «Soddisfatto?», domandò poi. «Il velo è caduto abbastanza?» Barbee scosse il capo. «Per nulla», disse. «Ti prego di continuare, perché siamo ancora al punto di prima.» April parve turbata. «Ti prego, Will», disse dolcemente. «Preferirei non dirti altro di me...
almeno per questa sera. Quel velo è la mia corazza. Sarei completamente inerme senza, e forse nemmeno troppo simpatica. Non farmelo lacerare. Forse, dopo non ti piacerei più.» «Ti assicuro che non corri pericoli di questo genere», e nella voce di Barbee c'era una nota aspra. «Ho bisogno che tu continui, perché ho ancora paura di te.» La ragazza sorseggiò il suo dacquari, e intanto scrutava il volto magro del giovane dagli occhi tristi che le sedeva davanti. Sembrava anche lei, ora, in preda a una segreta tristezza. «Ti avverto... si tratta di qualcosa di basso e doloroso.» «Voglio saperlo, per conoscerti e apprezzarti meglio.» «Speriamo», sospirò lei. Un'ombra impercettibile di disgusto le passò sul volto pallido. «I miei genitori non andavano d'accordo; e questo è il nocciolo di tutto, direi. Mio padre... ma non è il caso di portare alla luce troppi particolari sgradevoli. Avevo nove anni, quando mia madre mi portò con sé in California. Gli altri bambini rimasero con mio padre. È per nascondere questo triste sfondo che ho voluto creare il mio velo d'illusione.» Vuotò il bicchiere nervosamente. «Vedi, mio padre non passò più un soldo alla mamma per il nostro mantenimento.» La voce della ragazza era piena d'amarezza. «Mia madre riprese il suo nome da ragazza. E si mise a lavorare. Domestica, commessa di negozio, stenografa, comparsa cinematografica, infine qualche particina più che secondaria. Ma era stata una vita terribile per lei, e volle addestrarmi perché io potessi affrontare l'esistenza meno ingenuamente di lei. La mamma non aveva molta stima degli uomini, e a ragione, direi. Volle dunque che io imparassi a proteggermi. E fece di me... insomma, diciamo una lupa.» I bei denti lampeggiarono in un sorriso assolutamente privo di allegria. «Ed eccomi qui, Barbee caro. La mamma riuscì a farmi arrivare all'università e a pagare un'assicurazione, così alla sua morte ebbi qualche migliaio di dollari. Quando quel gruzzolo sarà finito, se io farò come lei volle insegnarmi...» Fece una piccola smorfia e cercò di sorridere. «E ora hai il quadro completo, Will. Io sono uno spietato animale da preda.» Spinse il bicchiere vuoto da parte, bruscamente, in un gesto che non si capiva se fosse d'impaccio o di sfida. «E adesso ti piaccio ancora?» A disagio sotto la penetrante acutezza di quegli occhi lievemente obliqui, Barbee accolse l'arrivo del cameriere con un senso di sollievo; e ordinò altri due dacquari.
«La squallida realtà dietro il mio povero velo squarciato», riprese April Bell, di nuovo lievemente beffarda, «ti ha fatto passare la paura che t'ispiravo?» Barbee si mise a ridere, ma a fatica. «Come animale da preda», disse, «sei splendidamente equipaggiata. Vorrei solo che i cronisti dello Star fossero una preda pagata un po' meglio. Ma», e la sua voce si fece grave, «c'è un'altra cosa che mi fa paura.» La fissò, perché aveva avuto l'impressione precisa che il suo bel corpo sottile si fosse impercettibilmente teso, come dinanzi a un pericolo. I suoi occhi, che lo fissavano socchiusi, erano diventati quasi neri. Sembrava davvero una fiera rannicchiata là, dietro quel piccolo tavolo, minacciosa e vigile. «Dunque?», disse. «Di che cosa hai paura?» Barbee bevve d'un fiato il suo dacquari. «April...», cominciò. E s'interruppe, perché ora il delicato ovale del volto che gli stava davanti aveva assunto una espressione remota, fredda, quasi ostile, e i verdi occhi s'erano socchiusi di nuovo, come se April sapesse già quello che lui stava per dire. «April», riprese il giovane, costringendosi a parlare, «è di ciò che è accaduto all'aeroporto.» Si chinò sul tavolo, verso di lei, e un lungo brivido lo percorse dalla testa ai piedi. La sua voce si fece ad un tratto dura, accusatrice. «Sei stata tu a uccidere il gattino nero, ho trovato il corpo della bestiola. E lo hai fatto per provocare la morte di Mondrick.» S'era aspettato un violento diniego, una sbalordita mancanza di comprensione delle sue parole, come se veramente il gatto fosse stato ucciso da qualche monello, comunque una reazione battagliera. Ma era completamente impreparato alla scena che si verificò. Perché April, copertasi il volto con le mani, i gomiti sul tavolino, piangeva ora silenziosamente, scossa da muti e violenti singulti. Si sentì smarrito, stupido e inerte davanti a quelle lacrime che aveva provocato. Le lacrime lo avevano sempre reso impotente e infelice. «April, ti prego...», balbettò, «davvero, non intendevo...» Tacque, nel vedere il cameriere che si avvicinava con due altri dacquari e se ne andava con i due dollari del conto e i bicchieri vuoti. «April», pregò poi, «perdonami, cara, ti chiedo scusa con tutto il cuore...» La ragazza sollevò il capo e lo guardò silenziosamente attraverso il velo di lacrime che le colmavano gli occhi dal taglio orientale, quegli occhi che
apparivano ora enormi, neri, solenni; e la sua testa di fiamma assentì due o tre volte, lentamente, in una conferma di stanca sconfitta. «Dunque, tu sai», disse, in tono amaramente conclusivo. «Io non so niente», si affrettò a ribattere lui. «So soltanto che tutto questo sta diventando un incubo, e ci sono troppe cose che non riesco a credere o a capire. Non volevo certo offenderti, April, ti scongiuro di crederlo. Tu mi interessi e mi piaci... molto, moltissimo. Ma... insomma, hai visto anche tu come è morto il povero Mondrick.» April aveva aperto la borsetta di pelle verde per trarne un fazzoletto col quale ora si stava asciugando gli occhi. Poi si incipriò il volto, che le lacrime avevano devastato, e bevve deliberatamente il resto del cocktail. Ma Barbee vide che il bicchiere le tremava fra le lunghe dita sottili. Infine April alzò gli occhi su di lui e lo fissò con espressione triste e solenne. «Sì, Will», disse lentamente, «mi hai scoperto. Credo che sia inutile voler cercare d'ingannarti oltre. La verità è dura a confessarsi e so che ti sconvolgerà.» Fece un'altra pausa, e infine pronunziò poche incredibili parole: «Perché, vedi: io sono una strega, Will». Barbee si levò a mezzo, sedette di nuovo e nervosamente trangugiò il suo dacquari. Guardò, battendo le palpebre, il volto triste e serio di April e scosse due o tre volte il capo, non sapendo se offendersi per uno scherzo di cattivo gusto, o crederla una povera allucinata. Alla fine domandò col fiato mozzo: «Si può sapere che diavolo dici?». «Non te l'ho detto?», rispose lei con una specie di accorata mestizia. «Poco fa ti ho taciuto il motivo per cui mio padre e la mamma si divisero. Non sapevo come dirtelo. Ma fu questa la causa. Io ero una strega bambina, e mio padre se n'era accorto. La mamma lo aveva sempre saputo, e mi difese. Mio padre mi avrebbe ucciso, se non ci fosse stata lei. E per questo ci cacciò di casa.» 5. Davanti agli occhi di Barbee l'atmosfera rossastra del locale notturno cominciò a roteare. Per un istante il giovane credette di essere stato ipnotizzato. Seguitò a guardare sbalordito la ragazza, che a voce bassa, quasi roca, non aveva cessato di parlare. «Perché, vedi, la mamma era la seconda moglie di mio padre. Ed era di
tanto più giovane di lui da poter essergli comodamente figlia. So che non lo amò mai, e a dire la verità non ho mai capito perché lo avesse sposato. Era un uomo d'istinti brutali e povero in canna. È un fatto, poveretta, che lei non aveva mai messo in pratica le norme che volle poi insegnarmi.» Barbee cercò una sigaretta, aveva bisogno di far qualcosa con le mani, tale era la tensione che lo dominava. Offrì il portasigarette aperto alla ragazza, che rifiutò scuotendo il capo. «Mio padre era un uomo terribilmente severo», seguitò April, dopo che Barbee ebbe acceso la sigaretta. «Un puritano all'antica, era nato a Salem, figurati, da un'antica famiglia di scozzesi fanaticamente religiosi. Sebbene non avesse ricevuto gli ordini, perché non era d'accordo del tutto con nessuna congregazione religiosa, aveva l'abitudine di predicare la sua dura fede agli angoli delle strade e sulla piazza nei giorni di mercato: ovunque, insomma, potesse trovare qualche fannullone disposto ad ascoltarlo. Si considerava un uomo pio, virtuoso, che cercava di tenere il mondo lontano dal peccato. In realtà, sapeva essere mostruosamente crudele. Con me lo fu.» Un'ombra di quello che doveva essere stato il suo antico dolore le oscurò il bel volto. «Ero una bambina molto precoce. Mio padre aveva altri figli dal suo precedente matrimonio, i quali non erano affatto precoci. A tre anni io già sapevo un poco leggere. Capivo la gente. In un certo modo, sentivo ciò che la gente avrebbe fatto e le cose che stavano per accadere. Mio padre non era affatto contento che io fossi più svelta dei miei fratellastri e delle mie sorellastre.» Sorrise debolmente. «E dovevo essere anche piuttosto bellina, almeno mia madre non si stancava di dirlo. Questo doveva avermi alquanto viziata. Di fatto, ero sempre in lite coi miei fratellastri, e mia madre mi dava ragione. Erano molto più grandi di me, ma anche allora credo che fossi molto più svelta di loro nel trovare il modo di ferirli. Inoltre, mio padre, che era bruno come mia madre, odiava i miei capelli rossi. Gli bastava guardarli per essere colto da vere e proprie crisi di furore. Non avevo più di cinque anni, quando mi chiamò per la prima volta "piccola strega" e mi strappò dalle braccia di mia madre per staffilarmi.» I suoi occhi verdi erano ora asciutti e cupi. A Barbee sembravano duri come smeraldi, prosciugati da un odio antico come il mondo. E la sua voce sommessa e recisa faceva pensare ai venti crudeli che dovevano soffiare,
fantasticò Barbee, sulle desolate distese dell'Ala-shan. «Mio padre mi ha sempre odiato, e i miei fratellastri ancora di più: perché mi sentivano differente da loro; perché ero più graziosa delle femmine e più intelligente dei maschi; perché sapevo fare cose di cui erano incapaci. Sì... perché ero già una strega!» Barbee scosse ancora il capo, incredulo e impaziente. «Tutti erano contro di me... tutti, meno mia madre. Dovevo continuamente difendermi e restituire i colpi tutte le volte che mi se ne offrisse il destro. Sapevo delle streghe dalla Bibbia: papà ne leggeva un brano all'ora dei pasti e poi salmodiava un interminabile ringraziamento, prima di lasciarci mangiare. Io volli sapere che cosa facessero le streghe. Mia madre mi disse qualcosa, ma molto di più seppi dalla vecchia levatrice che frequentava la nostra casa quando una delle mie sorelle sposate ebbe un bambino... era una vecchia stranissima! A sette anni, avevo già cominciato a mettere in pratica le cose che avevo imparato.» Barbee continuava ad ascoltare, quasi offeso che lei potesse crederlo capace di prestar fede a simili assurdità e mezzo affascinato. «Il primo incidente serio ebbe luogo quando avevo nove anni. Harry, uno dei miei fratellastri, aveva un cane chiamato Tige, che, per motivi che ignoro, non mi poteva vedere. Ringhiava appena cercavo di accarezzarlo, minaccioso come quel terribile cane di oggi. Altro segno, diceva mio padre, che ero una strega, mandata a infliggere l'ira del Signore sulla sua casa. Un giorno, Tige mi azzannò e Harry si mise a ridere, dandomi della strega e minacciando di scatenarmi ancora contro il cane. Forse scherzava, non so, ma io vinta dall'ira mi lasciai andare a dirgli che gli avrei dimostrato che cosa può fare una strega. Gli promisi che avrei gettato un incantesimo sul suo cane e lo avrei fatto morire. Feci del mio meglio per mantenere la promessa.» Socchiuse gli occhi, al ricordo, e le sue narici palpitarono un poco. «Ricordavo tutto quello che la vecchia levatrice mi aveva detto. Inventai una specie di nenia sulla morte del cane e mi misi a mormorarla all'ora dei pasti. Raccolsi alcuni peli dalla sua cuccia, vi sputai sopra e li bruciai nella stufa della cucina. E attesi la morte di Tige.» Barbee sentì il bisogno di attenuare la terribile tensione che sentiva emanare dalla ragazza: «Eri ancora una bambina», disse. «Giocavi, in fondo.» «Tige divenne idrofobo la settimana dopo», disse lei tranquillamente, «e
mio padre dovette ammazzarlo con una fucilata.» Barbee si mosse a disagio. «Una coincidenza», disse. «Può darsi.» E negli occhi di April passò un'espressione beffarda. «Ma io non lo credo.» Ancora l'ombra di un antico dolore oscurò il pallido volto enigmatico. «Io credevo nel mio potere. Harry vi credeva anche lui, ormai. E anche mio padre ci credette, quando Harry gli disse della minaccia che avevo fatto a proposito del cane. Corsi dalla mamma, che stava cucendo, ma mio padre mi trascinò fuori di casa e mi frustò ferocemente!» Le sue dita lunghe e affusolate presero il bicchiere e lo alzarono, tremanti, per poi deporlo di nuovo sul tavolo, senza averlo avvicinato alle labbra. «Mio padre mi martirizzò, quella volta, e fu terribilmente ingiusto. Ma mentre mi staffilava con tutta la sua forza, gli urlai che mi sarei vendicata. Appena mi lasciò andare, corsi pesta e sanguinante direttamente nella stalla dove, strappati un ciuffo di peli alle tre vacche migliori e al toro che mio padre aveva appena comprato per la monta, vi sputai sopra, li bruciai con un fiammifero e sotterrai il mucchietto di cenere dietro la stalla. Poi feci un'altra cantilena.» April fissava lo sguardo davanti a sé, attraverso il fumo rossastro della sala. «Dopo una settimana il toro morì, e il veterinario disse che si era trattato di setticemia emorragica. Anche le tre vacche morirono, insieme con la miglior giovenca d'un anno e due giovani buoi. Mio padre ricordò le minacce che avevo gridato sotto la sferza e Harry disse di avermi visto scavare dietro la stalla. Allora mio padre mi frustò fino a quando dovetti confessare.» Bruscamente, con la rapidità morbida ed elegante di un felino, April bevve il cocktail d'un fiato. Le sue pupille verdi si fissarono su Barbee, dure e vitree, come se non lo vedessero. Nervosamente, le dita sottili cominciarono a far girare il calice su se stesso, e a un tratto il fusto si spezzò e la coppa di cristallo andò a infrangersi sul pavimento. Lei parve non essersene accorta, perché riprese, cupa e sommessa: «Fu una notte spaventosa, Will. Mio padre mandò tutti gli altri ragazzi a casa di quella nostra sorella sposata, per sfuggire all'orrore degli esorcismi, disse, ed evitare la maledizione dell'ira del Signore. Rimanemmo in casa soltanto la mamma e io, per pregare insieme, minacciò mio padre, e prepararmi a patire il giusto castigo per i miei peccati. Non dimenticherò mai quella notte. Mia madre che invocava pietà per me, dopo essersi inginoc-
chiata davanti a mio padre, che andava e veniva come un dio furibondo sul pavimento di assi spezzate della cucina. Ma mio padre non l'ascoltava nemmeno. Urlava le sue domande e le sue accuse a mia madre e a me, fermandosi ogni tanto a leggere la Bibbia alla luce di una fumosa lampada a petrolio. Più volte rilesse la terribile frase: "Non tollererai che una strega viva".». Per evitare che la sua mano tremante si tagliasse sui frammenti aguzzi del bicchiere, Barbee le tolse dalle dita il mozzicone del calice. La ragazza non parve accorgersene. «La tetra cerimonia durò quasi tutta la notte. Mio padre ci faceva inginocchiare e pregare. Poi riprendeva la sua marcia agitata per la cucina, urlando e maledicendo mia madre e me. La faceva risollevare a strattoni, quando la mamma gli si inginocchiava davanti, e poi a ceffoni la spingeva qua e là per la stanza, rimproverandola di avere concepito nel suo seno una figlia strega. Infine, strappatami dalle sue braccia, ricominciava a frustarmi, riducendomi ogni volta quasi priva di sensi; e dopo tornava a leggere la Bibbia: "Non tollererai che una strega viva".» Barbee si accorse d'essersi tagliato un dito, coi frammenti del calice. Con cura ripose tutti i pezzetti di vetro nel portacenere, si asciugò le goccioline di sangue col fazzoletto, e accese un'altra sigaretta. «Avrebbe certamente finito con l'uccidermi», continuò April, «se mia madre, all'ultimo, non avesse osato aggredirlo. Gli ruppe una sedia sulla testa, ma lui non parve nemmeno accorgersene. Mi lasciò andare, tuttavia, e si diresse verso il fucile, appoggiato al muro presso la porta. Capii che stava per ammazzarci tutt'e due, e allora mi misi a cantare una nenia magica per impedirglielo. Riuscii anche questa volta, perché cadde per terra nell'istante in cui tendeva il braccio per prendere il fucile. I medici dissero poi che si trattava di emorragia cerebrale. E gli consigliarono di non perdere tanto facilmente la calma, in avvenire. Non ebbe il modo di perderla, comunque, perché cadde morto il giorno stesso in cui uscì dall'ospedale, alla notizia che mia madre era scappata con me in California.» Barbee rimase piuttosto stupito nel constatare che il cameriere aveva spazzato via i resti del bicchiere e servito altri due dacquari sul tavolino. April Bell portò il suo alle labbra avidamente. Barbee pescò altri due dollari nel portafogli sgonfio, e si chiese vagamente a che cosa sarebbe ammontato il conto quando avessero ordinato il pranzo. Si mise a sorseggiare il cocktail, stando bene attento a non interrompere. «Non ho mai saputo esattamente che cosa credesse mia madre.» Ciò ri-
spondeva esattamente a quello che avrebbe voluto chiederle, ma non osava. «Mi amava moltissimo. Credo che mi avrebbe perdonato qualunque cosa. Ma mi fece promettere, quando fummo al sicuro, lontano dalla casa di mio padre, che non avrei mai più tentato di fare altri malefici. La mamma era molto buona, e tu le avresti voluto un gran bene, Will. Col passare degli anni, credo che abbia finito quasi col dimenticare tutto quello che avevamo passato a Clarendon. So che desiderava dimenticare con tutta l'anima. Non espresse mai il desiderio di tornare, nemmeno per rivedere i suoi vecchi amici di qui. So che l'avrebbe addolorata atrocemente sapere quello che ero... che sono realmente.» Una strana, liquida dolcezza colmava ora gli occhi verdescuri di April. «Mantenni la promessa di non fare più malefici», disse quasi teneramente. «Ma nulla avrebbe potuto impedirmi di sapere quali forze si andassero destando e sviluppando in me. Nulla poteva impedirmi di sentire ciò che gli altri pensavano, di prevedere cose che sarebbero avvenute.» «Lo so», disse inaspettatamente Barbee. «È quello che nel nostro mondo chiamiamo aver naso, o fiuto, o il senso delle notizie.» Lei scosse il capo, gravemente. «È ben altro», disse; e poi, come se non volesse perdere tempo a spiegare a chi non poteva capire: «Non ricorsi più a fatture o incantesimi, ma molte cose continuavano ad accadere, senza che io le volessi direttamente». Il giornalista l'ascoltava intento, e cercò di non farle vedere gli strani brividi che a tratti lo percorrevano. «Avevo una compagna di università, per esempio, che non potevo soffrire: di quelle ragazze, sai, dotate di una specie di soave perfidia, che citano sempre la Bibbia, più o meno a sproposito, e s'impicciano della vita degli altri, esattamente come facevano le mie sorellastre. Vinse una borsa di studio per il corso di giornalismo, la stessa sulla quale avevo riposto tutte le mie speranze e che, sapevo, lei era riuscita a vincere solo attraverso inganni e sotterfugi. Non potei fare a meno di augurarle del male.» «E», ansimò Barbee, «il tuo desiderio fu esaudito?» «Precisamente», disse April con dolcezza. «Il giorno in cui quella ragazza avrebbe dovuto ricevere la borsa di studio, si svegliò in preda a uno strano malessere. Volle recarsi all'università lo stesso, ma svenne lungo la strada. Appendicite acuta, dissero i medici. Fu sul punto di morire... Un'altra coincidenza, dirai tu. Era quello che volevo pensare anch'io, Barbee, a quell'epoca. Perché non odiavo davvero quella ragazza, ed ero disperata,
finché i medici non dissero che si sarebbe salvata. Ma non fu questo il solo incidente. Altre cose accaddero, più o meno di questa portata. Alla fine, cominciai ad avere paura di me.» La sua voce scese a un bisbiglio quasi impercettibile. «Capisci, Barbee?» I suoi occhi lo imploravano di comprendere. «Indipendentemente dalla mia volontà, il potere entro di me continuava ad agire. È questo che ho bisogno che almeno tu capisca; io non ho mai desiderato essere una strega: sono nata così.» Barbee si mise a tamburellare nervosamente con le dita sulla tavola. Vedendo arrivare il cameriere, lo allontanò con un gesto impaziente della mano. Inghiottì a fatica e disse: «Scusami, April, mi permetti di farti qualche altra domanda?». Le bianche spalle di lei si alzarono, in muta e disillusa stanchezza. «Ormai», disse, «che importanza vuoi che abbia?» «Ci sono cose che possono ancora avere molta importanza... per te, per me», rispose lui. La faccia della ragazza esprimeva soltanto una tristezza infinita, ma questa volta April gli permise di prenderle una mano, mentre le chiedeva con appassionato fervore: «Hai mai parlato di queste cose a qualcuno che potesse capire, non so, uno psichiatra, o uno scienziato come il povero Mondrick?». Lei assentì con apatia. «Ho un amico che sa tutto di me... conosceva mia madre e credo che ci abbia molto aiutato, quando abbiamo passato momenti difficili. Un paio d'anni or sono mi convinse ad andare dal dottor Glenn, Archer Glenn, quello giovane, sai, qui a Clarendon.» Barbee cercò di soffocare l'istintivo bisogno geloso di chiedere maggiori informazioni su quell'amico, e le sue dita si strinsero sulla mano fredda e inerte di April, ma poi riuscì ad annuire con un'espressione di placida riflessività. «Conosco Glenn», disse. «L'ho intervistato una volta, quando suo padre lavorava ancora con lui; dovevo preparare un servizio per lo Star su Glennhaven, che molti considerano la migliore clinica psichiatrica degli Stati Uniti... E che cosa ti disse Glenn?» «Oh, Glenn non crede alle streghe», rispose lei con la sua aria beffarda. «Cercò di psicoanalizzarmi. Per quasi un anno sono andata ogni giorno a coricarmi per un'ora su un divano del suo studio, a Glennhaven, e a raccontargli i fatti miei. Ho fatto del mio meglio per collaborare... a quaranta dollari l'ora! Gli ho detto tutto quanto ho raccontato a te, ma lui continua a
non credere alle streghe.» Emise un piccolo riso soffocato. «Glenn pensa che nell'universo tutto si possa spiegare in base al concetto che due e due fanno quattro. Mi ripeteva che, se si getta una specie di incantesimo su qualunque cosa e poi si ha la pazienza di aspettare, qualcosa prima o poi dovrà accadere. Insomma, voleva dire che io cercavo inconsciamente d'ingannare me stessa. Era convinto che io sia un po' squilibrata, una paranoica, per chiamare le cose col loro nome. Ma che fossi una strega, non voleva nemmeno lasciarmelo dire.» Un sorriso malizioso le illuminò debolmente il bel viso. «Neanche quando glielo dimostrai.» «Glielo dimostrasti? E in che modo?» «I cani di solito non hanno simpatia per me, e ogni volta che andavo a Glennhaven, che come sai è in aperta campagna, i cani delle fattorie mi venivano incontro sulla strada, pieni di odio, abbaiando frenetici, e mi perseguitavano così dalla fermata dell'autobus fino alla clinica. Un giorno che ne avevo veramente abbastanza, decisi di dare una piccola dimostrazione a Glenn. Portai un po' di creta umida e la mescolai alla polvere presa ai piedi d'una panchina all'angolo, dove i cani erano soliti sostare. Nell'ufficio di Glenn, modellai con la creta le figure di cinque di quei cani. Mormorai una delle mie filastrocche, sputai sopra i modellini e infine li spaccai gettandoli a terra. Quindi invitai Glenn a guardare dalla finestra.» Una luce strana brillava ora negli occhi obliqui della ragazza. «Aspettammo una decina di minuti. Io gli indicai i cani, che come al solito mi avevano inseguito fin sulla porta della clinica e ora stavano abbaiando alla nostra finestra. Improvvisamente si gettarono tutti all'inseguimento d'una cagnetta, una terrier, che doveva essere in calore. Si erano spinti in gruppo in mezzo alla strada, quando una macchina lanciata a grande velocità sbucò dalla curva. L'uomo al volante cercò di sterzare, ma non ne ebbe tempo. La macchina investì in pieno i cani, prima di rovesciarsi sul margine della strada. Tutti i cani rimasero uccisi, e con mio sollievo seppi che l'automobilista era rimasto miracolosamente illeso.» «E Glenn, che disse?» «Ne parve deliziato.» April Bell sorrise enigmaticamente. «Appresi poi che la cagnetta apparteneva a un chiroterapista con lo studio in fondo alla strada. Glenn non ama né i cani né i seguaci della chiroterapia, ma anche quella volta non si lasciò convincere all'esistenza delle streghe. Secondo lui, i cani erano morti perché la cagnetta s'era liberata del guinzaglio e non
a causa di qualche mia "fattura". Disse poi ch'era evidente come io non volessi rinunciare alla mia psicosi e che pertanto non avremmo fatto progressi fino a quando non avessi cambiato atteggiamento. Il mio presunto dono soprannaturale, secondo Glenn non era che autoillusione di origine paranoica. Mi addebitò altri quaranta dollari per quell'ora supplementare e iniziammo la seduta di psicanalisi.» Barbee esalò un getto di fumo azzurro nella nebbia rossastra della sala e si mosse a disagio nella sua poltroncina triangolare. Vide il cameriere spiarlo imperiosamente, ma non aveva più voglia di bere, e riportò lo sguardo su April Bell. La ragazza ora sembrava al colmo della stanchezza. Lentamente, trasse la mano fredda di sotto alle dita del giornalista. «E tu sei convinto che avesse ragione lui, Barbee.» «Santo Cielo», esclamò il giornalista, «non ci sarebbe troppo da stupirsi se tu rivelassi qualche tendenza alla follia, dopo tutto quello che hai passato!» E si sentì sommergere da un'onda di compassione per tutte le sue sofferenze, per l'ignoranza e il fanatismo d'un padre crudele, che l'avevano spinta a credere a tali assurde fantasie. L'aria soffocante lo fece tossire. Cercò di nascondere sotto quella tosse i suoi sentimenti: temeva che una pietà troppo palese potesse offenderla. Con molta calma April disse: «So benissimo di non essere pazza». Tutti i pazzi dicono così, pensò Barbee. E s'accorse di non avere più niente da dire. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per analizzare quelle straordinarie confessioni e verificarle alla luce della morte di Mondrick. Guardò l'orologio e accennò col capo alla sala da pranzo: «Vogliamo mangiare?», propose. Lei assentì con entusiasmo. «Ho una fame da lupo», disse. La frase frenò Barbee, ricordandogli la spilla di giada. La ragazza stava già allungando il braccio verso la pelliccia, ma Barbee ricadde pesantemente sulla sua scomoda poltroncina. «Beviamo un ultimo cocktail.» Chiamò il cameriere con un cenno e ordinò altri due dacquari, prima che April si volgesse a guardarlo con un'espressione d'imbronciato stupore. «Lo so che è tardi», le disse in tono di scusa, «ma vorrei chiederti ancora una cosa.» Esitò, vide di nuovo quella pericolosa tensione immobilizzare il corpo della ragazza in un'attesa elettrica, e con riluttanza le chiese: «Sei stata tu, vero, ad ammazzare quel gat-
tino?». «Sì.» «Per causare la morte del professor Mondrick?» Nel fumo rossastro, April annuì, quasi distrattamente. «E infatti è morto.» C'era veramente da impazzire. «Ma perché, April, desideravi la sua morte?» La voce di lei, nel rispondere, era impersonale e lontana, come se venisse da una torre lontanissima: «Perché avevo paura». Barbee inarcò le sopracciglia. «Paura? e di che? Mi hai detto che non lo conoscevi nemmeno. E che male avrebbe mai potuto farti? Io, magari, potevo aver dei motivi di rancore verso di lui, per avermi allontanato dalla sua cerchia, senza che gli avessi mai fatto nulla, ma era un uomo innocuo e generoso, uno scienziato amante solo della verità e della luce.» «Sapevo ciò che voleva fare.» La voce della ragazza era dura e fredda, ma ancora lontanissima, proveniente come da una remota fortezza assediata. «Vedi, Will, io ho sempre voluto conoscere la mia vita interiore, la forza che avevo in me. Non ho studiato psicologia all'università, perché tutti i professori sembravano stupidamente radicati nell'errore. Ma ho letto quasi tutto ciò che è stato pubblicato su casi insoliti e bizzarri come il mio. Tu forse non sai che Mondrick era un'autorità riconosciuta nel campo della stregoneria. Conosceva a fondo la storia delle persecuzioni delle streghe, e molte altre cose ancora. Aveva studiato le leggende di tutte le razze primitive, e quelle leggende erano per lui qualcosa di più che strane fiabe e miti fantasiosi. I miti dell'antica Grecia, per esempio, pieni di amori tra gli dèi e le fanciulle degli uomini. Quasi tutti gli eroi greci, Ercole, Perseo, ecc, avevano fama di possedere una parte illegittima di sangue immortale nelle vene. E avevano doni e poteri sovrumani. Bene, anni fa Mondrick scrisse una monografia che analizzava queste leggende, interpretandole come ricordi razziali del conflitto e degli occasionali incroci fra due razze preistoriche: gli alti ed evoluti Cromagnon, forse, e gli scimmieschi Neanderthaliani. Del resto, tu hai studiato con lui, Barbee, e dovresti conoscere l'estensione delle sue ricerche. Cercava di individuare differenze in seno all'umanità odierna, faceva prove del sangue, misurava reazioni, analizzava sogni negli individui più disparati. Aveva la mente aperta a tutte quelle cose che gli scienziati rifiutano solo perché non corrispondono alle loro pre-
venzioni; era un'autorità in fatto di parapsicologia e telecinesi, e si può dire che non abbia lasciata intentata nessuna via per giungere alla conoscenza che lo attirava.» «Tutto vero», disse Barbee; «e con questo?» «Mondrick era prudentissimo in tutto ciò che scriveva», riprese la fredda voce remota di April. «Velava il vero significato dei suoi scritti con innocui termini scientifici. Non voleva agitare troppa gente, prima di avere le prove di quanto asseriva. Finché, una dozzina d'anni fa, abbandonò del tutto la sua attività di scrittore e addirittura ricomprò e bruciò tutte le copie delle sue precedenti monografie. Ma aveva già scritto troppo. Io, per esempio, avevo ben compreso ciò che stava facendo.» April attese che il cameriere desse a Barbee il resto del suo unico biglietto da venti dollari, sorseggiando lenta il quarto dacquari. Quella ragazza sapeva bere, non poté fare a meno di pensare Barbee. «Mondrick credeva nelle streghe», dichiarò finalmente April. «Sciocchezze!», protestò Barbee. «Mondrick era uno scienziato!» «Eppure, o forse proprio per questo, ci credeva! È proprio di questo che avevo paura. Mondrick aveva impiegato quasi tutta la sua vita a cercar di dare basi scientifiche alla stregoneria. Si era recato nell'Ala-shan per trovare altre prove. E oggi, al suo arrivo, ho capito che aveva trovato ciò che cercava da anni.» «Ma non certo le prove sulla stregoneria!» «Tu non vuoi credere, Barbee», e ancora quell'impercettibile sorriso beffardo aleggiò per un istante sul suo volto, «come non vuol credere la maggioranza delle persone. È la nostra migliore protezione... perché noi siamo il nemico. Comprenderai perché gli esseri umani ci odiano: perché siamo differenti. Perché abbiamo, innati, poteri maggiori di quelli concessi agli esseri umani... e tuttavia non così grandi come vorremmo!» Una luce selvaggia di spietata ostilità s'era accesa nei suoi occhi verdi, per un istante; ma in quell'istante Barbee vi lesse una ferocia nuda, assoluta, che non avrebbe dimenticato mai più. Abbassò gli occhi, soggiogato, e deliberatamente vuotò il calice. «Mondrick voleva additarci e rivelarci all'umanità, perché ci annientasse. Per questo ho avuto paura», riprese April. «Forse aveva inventato un congegno, un mezzo scientifico per l'identificazione delle creature dotate di poteri metapsichici. Anni fa, rammento, scrisse una memoria scientifica sui gruppi sanguigni e l'introversione.... introverso è uno degli asettici termini scientifici che usa per indicare le streghe.»
Un breve silenzio, poi alzò le spalle, in un gesto d'impazienza. «Non ne ha colpa nessuno, ma è così, e non ci si può far nulla.» Improvvisamente, i suoi occhi si riempirono di lacrime. «I guai cominciarono quando la prima strega fu inseguita, braccata e uccisa a colpi di pietra dal primo uomo delle caverne. E continuerà così fino a che l'ultima strega non sia morta. Sempre e dovunque, gli uomini obbediranno all'antica legge biblica: "Non tollererai che una strega viva".» Alzò ancora le spalle. «Ecco, questa sono io, Will», sussurrò con amarezza. «Hai voluto lacerare il mio povero velo illusorio, non ti bastava il mio semplice aspetto umano di donna. Hai voluto vedere sotto l'illusione...» Stancamente, allungò di nuovo il braccio verso la pelliccia. «Ed eccomi qua, nemica del genere umano, braccata, perseguitata. Mondrick era lo spietato cacciatore umano, sempre alla ricerca d'ogni risorsa della scienza per scoprire e annientare me e i miei simili. Puoi condannarmi, se a mia volta sono ricorsa a un maleficio per salvarmi? Puoi condannarmi se ho raggiunto il mio scopo?» A Barbee pareva di avere le gambe di piombo. Si scosse, come per liberarsi da quella specie di sonnolenza ipnotica in cui il verde magnetismo degli occhi di April (ma forse erano i cocktails) sembrava averlo sprofondato. «I tuoi simili?», ripeté. «Dunque, non sei sola.» «Io sono del tutto sola», rispose lei con voce dura. «Quando Mondrick ha parlato di un segreto nemico, alludeva alle streghe, secondo te?» «Certo.» «Tu ne conosci altre?» La risposta, gli parve, giunse con un secondo di ritardo. Ma volto e occhi di April erano del tutto impassibili. «No.» Bruscamente si mise a tremare, e Barbee capì che lottava per ricacciare le lacrime. Con un filo di voce, implorò: «Oh, Will, vuoi perseguitarmi anche tu?». «Perdonami, April, ma ora che mi hai detto tanto, puoi dirmi anche il resto, no? Chi è quel Figlio della Notte, cui ha alluso Mondrick?» «Oh, come potrei saperlo? C'è altro?» «Una cosa sola: non sai, per caso, a quali proteine Mondrick fosse allergico?» La ragazza lo fissò con uno stupore che gli parve sincero. «Allergico? L'allergia è un disturbo che a che fare con il raffreddore da
fieno e l'indigestione, vero? No, proprio, non lo so.» Si mise a ridere. «Non conoscevo Mondrick personalmente e non sapevo che soffrisse d'asma da fieno. L'ho visto per la prima volta in vita mia questa sera.» «Dio sia lodato!», esclamò Barbee, alzandosi. Respirò a pieni polmoni l'aria corrotta della sala, e guardò dall'alto della sua allampanata figura la ragazza, ch'era rimasta seduta e lo guardava con uno stanco sorriso. «Lo so che ti ho sottoposta a un terzo grado semplicemente odioso», le disse. «Ma avrei potuto fare diversamente? E ora vuoi concedermi il tuo perdono?» «Concesso», rispose lei. «E possiamo anche fare a meno di mangiare: non ti trattengo, se preferisci andartene.» «Andarmene?», protestò il giornalista. «Ma tu mi avevi promesso questa serata, cara. E poco fa hai confessato di avere una fame da lupo, e non bisogna dimenticare che Knob Hill è famoso per le sue costate. Possiamo ballare un po', dopo cena, o fare una corsa in macchina sotto la luna, a scelta. O sei tu che preferisci che me ne vada?» Gli occhi di lei si raddolcirono, e a Barbee sembrò di scorgervi una luce di sincera gratitudine. «È proprio vero, Will», bisbigliò, «che anche ora, dopo aver visto ciò che si nasconde dietro il velo, non desideri andartene?» Ancora quell'ondata di pietà e di tenerezza sommerse Barbee; che tuttavia scoppiò in un'allegra risata. «Se tu sei un'incantatrice», le disse, «sappi che sono già completamente incantato.» April si alzò con un sorriso radioso. «Grazie, Will», disse semplicemente. Prese la pelliccia e si avviarono verso la sala da pranzo. «Una preghiera, Will», sussurrò frettolosamente: «tenterai, per questa sera soltanto, d'aiutarmi a dimenticare che sono... quella che sono?». Barbee assentì calorosamente. «Farò il possibile, mia bella fata.» 6. Rimasero nel locale fino alla chiusura. La cena era stata superiore a ogni aspettativa e l'orchestra suonava, si sarebbe detto, solo per loro due, mentre April Bell si muoveva tra le sue braccia con una grazia morbida e lieve da animale selvatico. Barbee avrebbe voluto accompagnarla a casa, ma c'era la splendida con-
vertibile della ragazza nel parcheggio del locale, e il giornalista dovette limitarsi ad accompagnarla solo all'automobile. Le aprì lo sportello, e mentre lei scivolava sul sedile verso il volante, la prese impulsivamente per il braccio. «Sai, April», le disse, non sapendo bene nemmeno lui che cosa volesse dirle; poi vedendo il cordiale sorriso di lei in attesa, continuò: «Provo per te qualcosa che non riesco a capire. Una strana sensazione... che non mi so spiegare». Il volto pallido di lei era lievemente rovesciato sotto il suo, e lui fu dominato da un divorante bisogno di baciarla. «La sensazione, forse, di averti conosciuta sempre. La sensazione che tu sia parte di qualcosa... d'una cosa antica e importante... che appartiene solo a te e a me. Come se tu avessi ridestato qualche cosa che dormiva in me...» Lei sorrise nell'ombra, e la sua voce morbida accennò dolcemente l'aria di una canzone che quella sera avevano ballato: Forse è amore. Era l'amore, forse. Anni e anni erano passati dall'ultima volta in cui Will Barbee s'era creduto innamorato, ma a ripensarci bene il turbamento provato allora non era nemmeno paragonabile a quello attuale. Perché aveva ancora paura, non di April, non più ora, ma delle vaghe, quasi travolgenti sensazioni che April ridestava in lui, delle correnti e delle forze e degli istintivi ricordi che suscitava nel suo intimo. Tutte cose ch'era impossibile esprimere; un altro brivido lo scosse, irresistibilmente. «Questo vento è sempre più freddo!» Non cercò di baciarla. Bruscamente, quasi con durezza, la spinse entro la macchina e chiuse lo sportello di colpo. «Grazie per la serata meravigliosa.» Non voleva rivelare la confusione del suo stato d'animo. «Passerò a salutarti domani al Trojan Arms.» April lo guardò dal suo posto davanti al volante. Il lento sorriso che le aleggiava sulle labbra sembrava rivelare che era consapevole di tanto turbamento spirituale. «Buona notte, Barbee», gli disse in tono carezzevole, chinando il capo in cerca del bottone della messa in moto. Il giornalista rimase fermo a vederla scivolar via sulla grande macchina silenziosa come una nave. Giocherellava con lo spillo di giada che aveva in tasca. Si chiese in virtù di quale timore - o di quale abulia - non gliel'avesse restituito. Una nuova folata di vento gelido lo investì, e lo spinse verso il suo vecchio macinino. Barbee scrisse il servizio sul funerale di Mondrick per lo Star. Le ese-
quie erano state fissate alle due del pomeriggio, e il vento della vigilia soffiava ancora, più freddo e tagliente che mai. Nick Spivak e Rex Chittum erano tra coloro che tenevano i cordoni, ma Sam Quain, stranamente, mancava. Barbee si pose al fianco di Nora, a qualche passo di distanza da Rowena Mondrick, che procedeva più impettita che mai tra il suo gran cane fulvo e la governante. «No, Sam sta benissimo», rispose Nora alla domanda sussurratale da Barbee. Nora era sempre rimasta gentile e affettuosa con lui, anche se Mondrick e Sam erano cambiati. Tanto che Barbee, s'era chiesto più volte quanto diversa sarebbe stata la sua vita se Nora avesse sposato lui anziché Sam. «È rimasto a casa per tener d'occhio quella cassa che hanno portato dall'Asia. Hai un'idea di quello che possa contenere?» Barbee scosse il capo, rispondendo che non ne aveva la più pallida idea. Rowena doveva avere udito le loro voci, perché si voltò di scatto, quasi con allarme. Aveva la faccia sconvolta, pallidissima. «Will Barbee?», chiamò forte. «Sei tu?» «Sì, Rowena», e si mise a balbettare qualche generica parola di condoglianza; ma la cieca non attese. «Ho sempre bisogno di vederti, sai, Will», disse Rowena, ansiosamente. «Spero che non sia ancora troppo tardi per aiutarti. Puoi venire da me oggi... diciamo, le quattro?» Barbee fissò incerto quel viso sottile, pallidissimo, che un'angoscia indicibile sembrava sconvolgere più ancora del dolore per la perdita del marito, ricordò la telefonata della sera prima e si chiese ancora quanto la morte di Mondrick avesse potuto ledere le facoltà mentali della povera donna. «Va bene, Rowena», promise; «alle quattro sarò a casa tua.» Mancavano cinque minuti all'ora fissata, quando Barbee fermò la macchina davanti alla vecchia e malandata casa di mattoni rossi sull'University Avenue. Le imposte erano tarlate e traballanti, i muri scrostati e il prato del giardino incolto rivelava chiazze nude e spelacchiate. L'Istituto aveva evidentemente prosciugato quasi tutti i fondi i Mondrick, oltre ai capitali che lo scienziato era riuscito a raccogliere da altri. Rowena stessa venne ad aprire. «Grazie d'essere venuto», gli disse con volce dolce e composta, sebbene sul volto le si vedessero le tracce di lacrime recenti. E introdusse Barbee nel salotto ch'egli conosceva fin da quando lui e Sam erano stati a pensione nella casa. La camera era lievemente soffusa del profumo che emanava da un gran vaso di rose sul pianoforte. Una stufetta a gas ardeva nella nera
caverna del caminetto, davanti al quale Turk se ne stava accosciato in posa leonina, fissando i gialli occhi attenti sul nuovo venuto. «Siedi», lo invitò Rowena. «Ho mandato fuori la signorina Ulford a fare delle spese, perché dobbiamo parlare da soli, Will.» Impressionato dalla solennità del preambolo, il giovane sedette, mormorando confusamente qualche parola di condoglianza sulla fatale disgrazia che aveva colto Mondrick. «Non è stata una disgrazia, Will», disse dolcemente la cieca. «Mio marito è stato assassinato... ero convinta che anche tu lo sospettassi.» Barbee inghiottì penosamente. Non intendeva parlare di sospetti e perplessità con nessuno, prima di decidere qualcosa in cuor suo a proposito di April Bell. «Sì, l'ho sospettato», ammise; «ma erano sospetti campati in aria.» «Sei stato con April Bell, ieri sera?» «Siamo stati a cena insieme.» Osservò la cieca che veniva con la sua sconcertante sicurezza di movimenti a porsi davanti a lui, restando poi ritta così, nel sobrio vestito nero, una mano sottile appoggiata sul piano a coda. Un lievissimo moto di risentimento lo spinse a dire in tono difensivo: «So che Turk non ama April Bell, ma io sono convinto che si tratti di una ragazza eccezionale». «Temevo infatti che tu la vedessi in questa luce», disse la cieca, con voce piena d'una grave tristezza. «Ho parlato a Nora Quain, e mi ha detto che non può soffrire quella ragazza. Turk non ha lasciato dubbi in proposito e quanto a me sai come la penso. C'è una ragione dietro tutto ciò, Will, che tu devi sapere.» Barbee se ne stava seduto tutto impettito e piuttosto seccato, anche. Dopo tutto, scegliere le sue amiche non toccava né alla vedova di Mondrick né alla moglie di Sam Quain. Ma non disse nulla. Turk si stirò davanti al fuoco, tenendo sempre gli occhi fissi su Barbee. «Quella donna è pericolosa», riprese la cieca, «e pericolosa soprattutto per te.» Si chinò su di lui, mentre strani riflessi rilucevano sui suoi antichi monili d'argento. «Devi promettermi, Will, che non la rivedrai mai più.» «Ma, Rowena!», esclamò lui, cercando di assumere un tono scherzoso e, soprattutto, di non pensare alla confessione di April, la sera prima. «Non ti sembra che io sia maggiorenne già da molti anni?» Ma la vecchia non sorrise. «Io sono cieca, Will», e piegò un poco la testa canuta, come se vedesse dietro le lenti nere, «ma non a tutto. Ho partecipato all'attività di mio mari-
to fin da quando ero ragazza. Ho avuto la mia piccola parte nella strana, solitaria guerra terribile che lui ha combattuto per tanti anni. Ora è morto... assassinato, ho tutte le ragioni per crederlo.» La cieca fece una pausa, e si eresse sulla persona. «E quell'affascinante tua April Bell», soggiunse con voce ancor più sommessa, «deve essere il nemico segreto che lo ha ucciso!» Barbee aprì la bocca per rispondere, ma s'accorse che non poteva dir nulla. L'impulso di difendere a ogni costo April Bell fu tuttavia più forte d'ogni altra considerazione. «Non lo credo, possibile», riuscì a dire. «Quella donna ha assassinato mio marito», disse Rowena con voce improvvisamente così aspra che Turk si alzò, inquieto, e venne a porsi alle sue spalle. «E ora sei tu in pericolo.» «Andiamo, Rowena!», disse lui, cercando ancora di ridere. «April è una ragazza simpaticissima, e io non soffro di allergie.» «April Bell non cercherà di ucciderti, Will», riprese con voce più calma la cieca. «Il pericolo che ti minaccia è qualcosa di diverso dalla morte, qualcosa di più orribile. Perché lei cercherà di cambiarti... di destare in te qualcosa che non dovrebbe mai essere risvegliato.» Col pelo improvvisamente irto, Turk venne a sfiorare col fianco la gonna nera della cieca. «È una donna perfida, Will. Io posso vedere il male in lei, così come so che vuole acquisirti alla sua specie perversa. Sarebbe meglio per te morire, come il mio povero Marck, anziché seguirla sulla via in cui tenterà di portarti. Credimi, Will!» La donna gli aveva preso le mani, in un gesto di materna implorazione. Dolcemente, Barbee si liberò da quelle mani fredde e dolenti, e cercò di dominare il brivido che sentiva venire. «No, Rowena», disse penosamente, «temo di non poterti credere. Ritengo che la morte di tuo marito sia dovuta a un eccesso di sforzi e di strapazzi, inevitabilmente fatali per un uomo di settant'anni e da troppo tempo sofferente.» Si alzò e fece qualche passo verso il pianoforte. «Non vuoi suonarmi qualche cosa? Potrebbe farti bene, Rowena.» «No, non ho tempo di pensare alla musica, ora», rispose la cieca, accarezzando nervosamente la testa del cane. «Devo unirmi a Sam, e a Nick e Rex, nella lotta che il mio povero Marck ha dovuto abbandonare. Senti, Will, non vuoi proprio riflettere su quanto ti ho detto e stare lontano da April Bell?»
«Dammi retta, Rowena», rispose lui, cercando di assumere il tono più affettuoso possibile, «ho l'impressione che a forza di pensare e riflettere tu ti sia stancata più del necessario. Io non posso persuaderti del contrario, se pensi quello che pensi, ma sono convinto che dovresti dare un po' di riposo alla tua mente affaticata. Vuoi che telefoni per te al dottor Glenn?» La cieca si ritrasse da lui indignata, mentre il cane faceva sentire un cupo brontolio. «No, Will, non sono pazza. E non ho bisogno delle cure di nessuno psichiatra.» Addolcì il tono. «Tu, forse, ne avrai bisogno... prima che la tua amicizia con April Bell si concluda.» «Scusami, Rowena», disse lui bruscamente. «Devo andare.» «Will, no!» Il grido risuonò mentre lui era già in anticamera. «Non fidarti...» Non udì altro, era già fuori. Ritornò in città e si recò al giornale, ma gli fu difficile concentrarsi sul suo lavoro in cronaca. Aveva l'intenzione di andare a trovare April, ma chissà perché continuò a rimandare. Divorato dal desiderio di vederla, non aveva tuttavia trovato nella chiara luce del sole un solo pensiero capace di dissipare le sue incertezze e i suoi dubbi sulla misteriosa ragazza. E quando alla fine uscì dal giornale era troppo tardi per fare una visita, si disse con un senso di penoso sollievo. Si fermò per bere un bicchierino al bar sotto il giornale; finì per berne tre o quattro, e anzi si prese anche una bottiglia da portarsi a casa, nel suo malinconico appartamentino da scapolo in Bread Street. Una doccia calda, si disse, avrebbe aiutato l'alcool a distendergli i nervi. Si stava spogliando, quando si ritrovò in tasca la spilla di giada. Rimase a lungo a fissare con aria assente il minuscolo oggetto, mentre lo faceva girare sulla palma umida... Il piccolo occhio di malachite aveva lo stesso colore degli occhi di April, nei suoi momenti più ostili e combattivi. Ricordando la pelliccia bianca della ragazza, Barbee pensò improvvisamente che per lei quel piccolo lupo doveva essere un simbolo molto importante. Il dottor Glenn doveva averla trovata, dal punto di vista psicanalitico, un soggetto molto interessante. Barbee desiderò poter andare a leggere nella sua cartella clinica, che Glenn indubbiamente conservava. Gli occhi gli bruciavano e s'accorse di avere un tal sonno che il lupo, sembrava, gli strizzava il verdastro occhio di malachite. Quella dannata spilla quasi quasi lo stava ipnotizzando. Resistette al selvaggio impulso di
scagliarla giù nello scarico della toilette, e la depose in una vecchia scatola da sigari, a far compagnia a un ditale, al suo vecchio orologio da tasca, a una penna stilografica rotta e a molte lamette arrugginite. Per l'ennesima volta, si disse che doveva bere meno, se non voleva diventare isterico e impressionabile come una vecchia zitella. Pure, non gli era possibile sottrarsi alla considerazione, anche se estremamente improbabile, che April fosse - ed era riluttante ad accettare la parola - una strega. Una creatura diversa dalle altre, preferiva pensare Barbee. Ricordò di avere letto a suo tempo qualcosa sugli esperimenti di Rhine sulla parapsicologia, alla Duke University. La scienza aveva potuto dimostrare in quel caso che vi sono individui i quali percepiscono il mondo esterno mediante qualcosa che è al di là della normale percezione dei sensi. Alcuni sì, altri no. April Bell non poteva essere nata con quella stessa differenza, spinta al massimo grado? Il calcolo delle probabilità... Si ricordò d'una lezione che Mondrick aveva fatto sull'argomento quando ancora insegnava antropologia. La probabilità, aveva detto Mondrick, era il concetto chiave della fisica moderna. Le leggi di natura non erano assolute, aveva precisato, ma semplicemente stabilivano delle medie statistiche. Il fermacarte sul suo tavolo - una piccola lampada di terracotta, scavata tra le rovine dell'antica Roma, con la lupa che allatta i gemelli fondatori dell'Urbe - era tenuto insieme soltanto dalle collisioni casuali d'un certo numero di atomi in vibrazione. In qualsiasi momento c'era una probabilità, minima ma definita, che potesse disintegrarsi e cadere attraverso l'apparente solidità del tavolo. Senza contare che i fisici moderni, si disse Barbee, interpretavano l'intero universo in termini di probabilità. La stabilità degli atomi era una questione di probabilità, così come lo era l'instabilità, nel caso della bomba atomica. Il diretto controllo mentale della probabilità avrebbe certamente consentito possibilità terrificanti, e gli esperimenti di Rhine avevano a quanto pareva stabilito questo controllo. April Bell era forse nata con quello straordinario e pericoloso potere mentale di controllare il fenomeno della probabilità? Molto difficile, si disse Barbee. D'altra parte, nulla, come aveva ripetutamente affermato Mondrick, era del tutto impossibile in siffatto universo statistico. La più remota impossibilità diveniva soltanto remotamente improbabile. Barbee, con un'alzata impaziente di spalle, si mise sotto la doccia. La
nuova fisica, con il Principio di Indeterminazione e il rigetto dei vecchi, comodi concetti di materia, spazio e tempo, e le bombe atomiche, diveniva di colpo così sconvolgente come il nero enigma della morte di Mondrick. Sotto la doccia, Barbee finì col chiedersi che cosa quella lampada di terracotta avesse significato realmente per Mondrick. Quale ricordo ancestrale della razza poteva essere simboleggiato in quel mito degli eroi fondatori dell'Urbe, generati dalla lupa? Barbee, che non era Jung, non avrebbe saputo dirlo. Si asciugò stancamente, si versò un robusto whisky per dormire meglio e se ne andò sotto le coperte con una rivista. Ma la sua mente si rifiutava di lasciarsi deviare da quel genere di pensieri. Perché Mondrick e i suoi amici, che erano evidentemente in preda al terrore, avevano preso precauzioni così complesse all'aeroporto, per poi mostrare di non averne prese a sufficienza? Questo evidentemente indicava la presenza di un pericolo ancora più grande di quanto i quattro uomini avessero immaginato. Gli occhi brucianti di Barbee a poco a poco avevano finito per chiudersi, mentre lui s'immaginava l'avvento del misterioso Figlio della Notte, il demoniaco profeta che avrebbe dato il via ai saturnali della rivolta. Vedeva un'alta figura imperiosa, ritta fra le rocce scheggiate di un fosco paesaggio alla Doré, terribile e cupo in una lunga tunica con cappuccio. Col fiato mozzo, Barbee si sporgeva a scrutare nell'ombra di quel cappuccio calato, nella speranza di riconoscere la faccia: e un candido teschio lo accoglieva col suo sogghigno. Si destò di colpo; ma non era stata l'impressione di quel sogno ossessionante che lo aveva svegliato, bensì la fremente intensità di un nebuloso stimolo che non sapeva definire. Una trafittura ferma, sottile e tenace come uno spillone, lo tormentava alla nuca. Si versò un'altra dose di liquore per attenuarla. Aprì la radio, udì un untuoso comunicato commerciale e richiuse in fretta. Un sonno terribile lo colse... E insieme la paura di dormire. Non riusciva a capire quel vago terrore del letto. Una graduale, strisciante apprensione, come se sapesse che lo strano malessere che ora lo ossessionava lo avrebbe posseduto del tutto quando si fosse addormentato. Ma non era soltanto... paura. Frammisto a essa, c'era il desiderio rodente che lo aveva svegliato, l'ansiosa aspettazione d'una fuga oscura e trionfale da tutto ciò che odiava. Né riusciva a capire bene ciò che provava per April Bell. Pensava che avrebbe dovuto sentire dell'orrore per lei. Dopo tutto, o era la strega che
affermava di essere, o, più probabilmente, non era che una povera squilibrata. In un modo o nell'altro, aveva quasi certamente causato la morte di Mondrick. Ma ciò che gli faceva più paura era quel misterioso qualcosa che ridestava in lui. Disperatamente, cercò di non pensare a lei. Ormai, era troppo tardi per telefonarle. E poi non era affatto sicuro di volerla vedere, sebbene quel vago desiderio interiore glielo facesse sospettare. Caricò la sveglia e se ne tornò a letto. Il sonno premeva su di lui con un'insistenza divenuta irresistibile. April Bell lo chiamò. La sua voce gli giungeva limpida, sopra il mormorio echeggiante del traffico. Era come uno squillo d'oro, più penetrante di un occasionale colpo di clacson o del lontano clamore di un tram. Giungeva dalle tenebre in onde di pura luce, verde come i suoi occhi di malachite. Poi gli parve di scorgerla, in distanza, come perduta nella città addormentata. Soltanto, April non era più una donna. La sua voce insistente, vellutata, era umana. I suoi lunghi occhi erano gli stessi, con la loro obliquità orientale. Ma ora la pelliccia bianca faceva parte del suo corpo. Perché April era diventata una lupa bianca, agile, aggressiva, potente. E la sua limpida voce umana lo chiamava, distinta nelle tenebre. «Vieni, Barbee, vieni, ho tanto bisogno di te!...» Lui era consapevole di trovarsi nella sua povera camera, sentiva il ticchettìo della sveglia, la comoda durezza del materasso sotto il suo corpo, la puzza di zolfo che veniva dalle fabbriche vicine dalla sua finestra aperta. Era evidente che non dormiva del tutto, ma quella voce che lo chiamava era così reale che cercò di rispondere. «Ciao, April», mormorò con voce dormiente, «domani, ti prometto che vengo davvero a trovarti. Chi sa, forse possiamo anche andare a ballare.» Bizzarramente, la lupa parve udire. «È ora che ti voglio, Barbee. Perché abbiamo una cosa da fare insieme... una cosa che non si può assolutamente rimandare. Devi venire subito a raggiungermi... Ti insegnerò come si fa a cambiare.» «Ma io non voglio cambiare», mormorò lui a bocca chiusa. «Lo vorrai anche tu. Tu hai la mia spilla di giada, vero? Ebbene, tienila stretta nella mano.» Gli parve di alzarsi, sempre addormentato, a tentoni, e di andare verso il comò, a frugare nella scatola da sigari in cerca della spilla. Poi, tenendola stretta nella palma, tornò a buttarsi sul letto.
«Ora, Will», e la sua voce vibrante sembrava colmare il nero vuoto che li divideva, «ascoltami: tu devi cambiare, come sono cambiata io. Sarà facile per te, Will. Tu puoi correre come corre il lupo, seguire una preda come fa il lupo, uccidere come uccide il lupo!» Sembrava essersi fatta più vicina, nella buia nebbia. «Su, andiamo, ti aiuterò io, Will. Tu sei un lupo, e la tua guida è la spilla che hai nella mano. Abbandonati, lascia che il tuo corpo sfumi...» Il suo cervello sembrava immerso in una foschia viscosa. Strinse la spilla, e cercò di obbedire. C'era come un lento, penoso fluire del suo corpo, come se si fosse attorto in posizioni mai assunte, tendesse muscoli mai usati. Un improvviso dolore lancinante lo soffocò, sprofondandolo in un abisso di tenebre. «Resisti, Will.» La voce insistente di April sembrava trafiggere le tenebre opprimenti. «Abbandonare ora, che sei già in parte mutato, potrebbe ucciderti. Ma riuscirai. Io ti aiuto, fino a quando non sarai libero. Ecco, lasciati andare, lascia che il tuo corpo si trasformi, così... tu stai fluendo come una corrente...» E a un tratto fu libero. I ceppi che lo avevano oppresso per tutta la vita s'erano bruscamente spezzati. Balzò leggero dal letto, e rimase per un istante a fiutare gli odori che appesantivano l'aria del suo appartamentino: il sentore forte di whisky che saliva dal bicchiere vuoto sul comò, l'umidità saponosa della camera da bagno e il putrido odore della sua bianchiera nella cesta dei panni sporchi. Era un'atmosfera irreparabile, aveva bisogno d'aria pura. Trotterellò rapido verso la finestra aperta e grattò con impazienza il chiavistello della persiana. Cedette, alla fine, e lui si lasciò cadere sulla terra umida dell'aiuola della sua padrona di casa. Si scrollò, fiutando con voluttà l'odore pulito di quel pezzettino di terra smossa e si diresse sul marciapiedi, nel sentore nauseante di benzina bruciata e gomma surriscaldata che si levava dall'asfalto della strada. Tese ancora l'orecchio al richiamo della lupa bianca e infine con un balzo si lanciò come una freccia lungo la strada. Libero... Non era più imprigionato in quel lento, goffo e insensibile corpo bipede. La vecchia spoglia umana gli era completamente estranea ora, gli sembrava quasi mostruosa. Quattro agili piedi erano senza dubbio meglio di due, e inoltre sembrava che una pesantissima cappa fosse stata tolta ai suoi sensi, che ne erano stati come ottenebrati.
Libero, forte, veloce! «Sono qui, Barbee, vicino all'università», chiamava la lupa bianca, oltre la città addormentata. «Corri, ti prego!» Si diresse per Commercial Street, verso lo scalo merci e l'aperta campagna, che si stendeva oltre il fascio di binari. A un tratto, si trovò davanti un poliziotto che faceva il suo turno di notte, ma con suo grande stupore l'uomo non lo vide, come se fosse stato trasparente. Attraversò i binari, proprio davanti a una sbuffante locomotiva in manovra, e corse verso ovest, a lunghi salti, sulla strada maestra, per sfuggire al lezzo di caldo vapore, cenere e metallo ardente. Scese nel fossato accanto all'acre asfalto della strada, e la terra era fresca e umida sotto i cuscinetti delle sue zampe elastiche come molle. In distanza, dietro un filare di alberi, un cane s'era messo ad abbaiare spaventato, ansimante. Annusò l'aria fredda e colse l'odore disgustoso del nemico atavico, vago per la distanza ma non per questo meno nauseante. Il vello che gli ricopriva il collo come una criniera si levò irto. Avrebbe insegnato ai cani a non ululare contro di lui. Ma il richiamo della lupa bianca lo raggiunse ancora, più pressante che mai. «Non perdere tempo dietro un cane randagio, Barbee. Abbiamo nemici di gran lunga più feroci da affrontare questa notte. Vieni!» Riluttante, si mosse verso la voce lontana, e il furioso abbaiare del cane si perse in lontananza. Qualche minuto più tardi, passava davanti a Trojan Hills, come Preston Troy aveva battezzato la sua lussuosa villa, a sudovest di Clarendon, sulla ondulazione collinosa dominante la valle che racchiudeva la città e gli stabilimenti industriali di Troy. Le luci erano spente nella villa maestosa, ma si vedeva una lanterna in movimento nelle scuderie, dove forse gli stallieri si affaccendavano intorno a un cavallo ammalato. Si soffermò per fiutare l'odore forte e gradevole dei corpi equini. «Fa' presto, Barbee!», pregò April Bell. A malincuore riprese la sua corsa a lunghi balzi, finché non gli giunse alle nari l'odore della lupa, acuto e fragrante come quello dei pini. La sua riluttanza scomparve e lui balzò innanzi, cercandola ardentemente. La lupa gli venne incontro sull'erba del prato, trotterellando, dopo essere sbucata fuori dalle siepi che circondavano l'università. I lunghi occhi verdastri della creatura rilucevano a mo' di benvenuto, quando gli toccò la punta del muso con un freddo bacio solleticante. «Quanto tempo ci hai messo!», e balzò via da lui. «Gran parte della not-
te è già trascorsa e noi abbiamo i nostri nemici da incontrare. Andiamo!» «Nemici?» Lontanissimo, dalla parte da cui era venuto, giunse loro il latrare disperato d'un cane. Emise un ringhio di odio. «Quello, intendi? I cani?» Gli occhi verdi rifulsero d'una luce maligna. «Chi può aver paura di quei botoli?» Le sue candide zanne lampeggiarono di scherno. «I nostri nemici sono esseri umani.» 7. La lupa bianca si mise a correre e Barbee la seguì. Non si era reso conto di quanto fosse tardi, ma gran parte della notte era già trascorsa. Le strade erano deserte, meno qualche auto ritardataria, e quasi tutti i semafori agli incroci erano spenti. Ma Barbee volle sapere dove fossero diretti. La lupa volse la bella testa a guardare il suo compagno, che era indietro di qualche passo. La rossa lingua le penzolava da un lato delle fauci, mostrando la candida minaccia delle zanne affilate. «Andiamo a trovare due tuoi amici.» E parve che sogghignasse maliziosamente. «Sam e Nora Quain.» «Perché dovremmo fare loro del male?», protestò Barbee. «Non sono nemici.» «Sono nemici perché sono esseri umani. Mortali nemici a causa di ciò che si trova nella cassa che Quain e Mondrick hanno portato dall'Asia.» «Ma sono miei amici», insistette Barbee, e sussurrò a disagio: «Che cosa c'è, in quella cassa?». «Qualcosa di mortale per la nostra specie», fu la risposta; «per il momento è tutto quello che siamo riusciti a scoprire. Ma la cassa è sempre a casa di Quain, sebbene lui si prepari a trasportarla domani all'Istituto. Ha sgombrato le stanze dell'ultimo piano, assunto guardiani, disposto ogni genere di difese contro di noi. Ecco perché dobbiamo agire ora. Daremo uno sguardo all'interno della cassa, questa notte, e cercheremo di distruggere qualsiasi arma abbiano portato da quei tumuli preumani per usarla contro di noi.» Un brivido scosse Barbee in corsa. «Che armi possono essere?», domandò. «Che cosa può esserci letale?» «L'argento, per esempio. Lame d'argento, proiettili d'argento... ti dirò il perché, quando avremo tempo. Ma il contenuto di quella cassa può essere qualcosa di più mortale dell'argento... e la notte sta fuggendo via rapida.»
L'edificio della Fondazione per le Ricerche Antropologiche era costituito da una snella torre di cemento bianchissimo, alta nove piani. Le luci erano accese in vari piani, e si udiva un picchiar di martelli, il ringhiante gemito di una sega, voci di operai. La luce abbagliante di un riflettore fece fare un salto a Barbee. E si sentiva un odore di vernice fresca, al quale era mescolato un sentore bizzarro, sconosciuto, quasi intollerabile per le loro nari di lupi. La lupa bianca gli si era posta accanto. «Vedi? Quain si aspetta qualche iniziativa da parte nostra, e sta trasformando la torre di Mondrick in una vera e propria fortezza. Dobbiamo assolutamente arrivare alla cassa questa notte. Domani, non potremo più giungervi.» Sottovento, il collie del professor Schnitzler cominciò a ululare. «Ma perché fa così?», domandò Barbee apprensivamente. «Gli uomini, a quanto sembra, non ci vedono, ma i cani si spaventano sempre quando siamo vicini.» April Bell emise un ringhio sommesso verso il cane ululante. «La maggioranza degli uomini non ci può scorgere», rispose. «Nessun vero essere umano, credo. Ma i cani ci sentono in modo particolare, e nutrono un odio spietato nei nostri riguardi. L'uomo preistorico che addomesticò il primo cane doveva essere già nemico implacabile della nostra specie.» Giunsero alla casetta di Pine Street, vicinissima alla torre di Mondrick, una casetta che Quain aveva fatto costruire l'anno in cui si era sposato. Barbee, ricordava, aveva bevuto un po' troppo alla festicciola che Quain aveva dato per inaugurarla, anzi, s'era praticamente ubriacato, per mascherare la delusione che gli aveva dato Nora... La lupa lo guidò dietro la casa, verso il garage, tendendo l'orecchio, fiutando l'aria, come in preda a un vago malessere. Barbee udì il suono lieve d'un respiro regolare da una finestra aperta, e percepì l'odore della piccola Pat nel recinto sabbioso, in giardino, dove la bambina giocava parecchie ore al giorno. Balzò davanti alla lupa bianca, con un ringhio minaccioso che gli gorgogliava nella strozza. «Non voglio che si faccia loro del male!», protestò. «Non comprendo bene che cosa tu voglia fare, ma queste persone sono amici miei, Sam e Nora e Pat!» La lupa sembrava sogghignare, con la rossa lingua pendula da un lato. «Non è di loro che dobbiamo occuparci stanotte», rispose. «È il contenu-
to della cassa che dobbiamo cercare di distruggere.» Barbee cedette, sebbene a malincuore. A un tratto, l'acuto odore di un cane lo ferì alle nari, e nell'interno della casa risuonò un guaito tremulo e rabbioso. La lupa bianca fece un balzo all'indietro, spaventata. Anche Barbee non poté dominare la profonda, cupa apprensione, che a quel guaito gli aveva fatto rizzare i peli sul collo. «È il cagnolino di Pat», spiegò. «La bimba lo chiama Grillo.» «Domani lo chiamerà in un altro modo», ringhiò la lupa. «No, non il povero Grillo!», disse Barbee. «La piccola ne avrebbe un dolore immenso!» Una porta a vetri si aprì e una specie di piumino da cipria si precipitò nel giardino abbaiando furiosamente. La lupa si ritrasse prontamente, e il cagnolino balzò su Barbee. Questi cercò di respingerlo con una zampata, ma il cagnolino gli addentò la zampa. La trafittura di quei dentini acuti come spilli destò in lui un furore selvaggio, travolgente. Soffocando un ruggito, azzannò il morbido corpicino bianco e lo scrollò fino a quando non cessò di guaire. Poi lo gettò sul mucchio di sabbia, e si forbì con la lingua le zanne su cui erano rimasti alcuni fetidi peli canini. La lupa bianca era scossa da un tremito: «Ignoravo l'esistenza di quel cane. Nora e la bambina erano fuori questa sera, quando sono venuta a vedere che cosa stesse facendo Sam, e probabilmente la bestiola era con loro. Non amo i cani... Aiutarono gli uomini a sconfiggerci, un tempo». Balzò verso la porta sul retro della casa. «Dobbiamo affrettarci ora, la notte sta finendo.» Barbee cercò di non pensare che la piccola Pat si sarebbe disperata il giorno dopo. «Perché, la luce del giorno è dannosa?» «Me n'ero dimenticata: non dovrai mai cercare di trasformarti, alla luce del giorno, o lasciare che il giorno ti colga mutato. I raggi del sole sono mortali, nelle condizioni in cui siamo adesso. Ne parlai una volta a uno di noi, un fisico famoso. Ha una teoria in proposito che mi sembra molto convincente... ma non abbiamo tempo di parlarne ora. Dobbiamo cercare quella cassa.» Con la zampa duttile e sottile dischiuse la porta, dalla quale aveva fatto irruzione poco prima il cagnolino, ed entrarono nell'atmosfera soffocante della casa. V'erano sentori di cibo, l'insopportabile odore di cane e l'acre pizzicore di un antisettico che Nora doveva avere sparso nella camera da bagno. E l'odore inconfondibile dei corpi umani.
S'udiva il ticchettio d'un orologio, dietro la porta semiaperta della cucina. Poi il motore del frigorifero si avviò all'improvviso, con uno scatto sonoro che li fece sobbalzare. Infine al loro udito finissimo si rese percettibile la respirazione pesante e regolare di Sam, quella più leggera di Nora, nella loro stanza. Pat si voltò nel suo lettino della nursery e mormorò nel sonno: «Grillo, vieni qui subito!». La lupa fece un balzo in avanti, e poi si volse verso il suo compagno, digrignando silenziosamente i denti in un sogghigno di soddisfazione. «Quain dorme, dunque! Sfinito, immagino! Meno male che quel botolo ringhioso è stato ridotto al silenzio. Evidentemente, Quain contava su di lui, in caso di pericolo. Ora, la cassa! Deve essere nel suo studio.» Barbee trotterellò verso la porta dello studio, attraverso la camera dove dormiva la bambina, che non si svegliò al silenzioso passaggio delle due ombre ferine. Barbee si alzò sulle zampe posteriori, per tentare la maniglia della porta con le anteriori. La maniglia non cedette. Ricadde allora sulle quattro zampe e si volse a guardare incerto la lupa bianca. «Vado a cercare le chiavi di Sam», propose. «Deve averle nella tasca dei...» «Aspetta, sciocco!» Lui s'era già avviato verso la camera da letto e lei dovette afferrarlo con le sue temibili zanne alla pelle del collo, per fermarlo. «Lo sveglieresti, o potresti camminare su qualche trappola. Le sue chiavi sono probabilmente protette da un anello d'argento, che ti avvelenerebbe al solo toccarlo. E poi chi sa quali altre armi Sam Quain può avere a portata di mano... relitti mortali dell'antichissima guerra che la nostra specie perdette contro l'uomo.» «Ma come possiamo entrare senza chiavi?» «Ora te lo mostrerò, ma prima devi sapere altre cose su questa nostra condizione di liberazione fisica, o finirai per ammazzarti senza accorgertene. Lo scienziato di cui ti ho parlato mi disse una volta che il legame fra mente e materia è la probabilità.» Barbee ripensò alla lezione tenuta sull'argomento da Mondrick. «Le creature vive», continuò, «sono più che semplice materia. La mente è un'entità autonoma, un campo di energia, creato dagli atomi e dagli elettroni del corpo in vibrazione, che domina le vibrazioni stesse attraverso il magnetismo e la probabilità atomica. Questo campo di energia vivente è alimentato dal corpo, ed è parte del corpo, di solito. Quello scienziato tendeva a ritenerlo qualcosa di molto affine al concetto di anima. Ora, questo
nodo di energia vitale è molto più vigoroso in noi che nella razza degli uomini autentici. Più fluido e meno subordinato al corpo materiale. Nello stato libero in cui ci troviamo in questo momento, noi semplicemente separiamo quel nucleo di energia vitale dal corpo e usiamo il circuito magnetico della probabilità per vincolarlo ad altri atomi, a piacere. Gli atomi dell'aria sono i più facili a controllarsi, perché l'ossigeno, l'azoto e il carbonio sono composti degli stessi atomi che generano il campo magnetico dei nostri corpi. E ciò spiegherebbe i pericoli da cui dobbiamo guardarci.» «L'argento? I raggi del sole? Non vedo colme...» «Le vibrazioni della radiazione solare possono ledere il nucleo d'energia mentale, incidere sulle sue vibrazioni. La massa del corpo lo protegge, naturalmente, quando siamo nel nostro stato normale; ma la trasparenza dell'aria, quando siamo liberi, non può offrire il minimo riparo. Che la luce del sole non debba mai sorprenderti libero!» «E l'argento?» «Si tratta anche in questo caso di vibrazioni. Nessuna materia è per noi una vera barriera, quando siamo in queste condizioni libere. Ecco perché possiamo fare a meno delle chiavi di Quain. Porte e pareti sembrano impenetrabili, lo so, ma il legno è composto principalmente di ossigeno e carbonio, e il campo magnetico della nostra mente può dominare gli atomi vibranti e passarvi attraverso, come nell'aria. Possiamo utilizzare anche molte altre sostanze con un po' più di sforzo. L'argento è l'eccezione mortale, come sanno bene i nostri nemici.» «E come mai?» «Ogni elemento ha frequenze differenti di vibrazioni elettroniche. E l'argento ha il tipo di vibrazione che ci è deleterio, perché non ha circuito di probabilità. Le armi d'argento possono ucciderci, Will, non dimenticarlo!» La lupa bianca stava ora completamente immobile, tendendo l'orecchio ai lievi rumori della casa, una zampa anteriore graziosamente alzata. Lui le si fece vicino. «Non lo dimenticherò. Ma come si chiama lo scienziato tuo amico?» «Geloso, Barbee?» «No, ma voglio saperlo. E voglio anche sapere chi è questo Figlio della Notte.» «Lo scoprirai da te, quando avrai superato le prove che ti attendono. E ora affrettiamoci, prima che Quain si svegli.» Trotterellarono entrambi verso la porta chiusa dello studio. La lupa si volse a guardarlo: «Ora che sai molte cose, posso aiutarti a passare, atte-
nuando le vibrazioni casuali degli elementi più pesanti che costituiscono il legno». Gli occhi verdastri della lupa si fissarono sui pannelli inferiori della porta, e Barbee ricordò ancora una volta la lezione di Mondrick sulla probabilità. La materia non è che spazio vuoto: soltanto le collisioni casuali degli atomi vibranti impedivano alla piccola lampada nera di cadere attraverso il piano apparentemente solido del tavolo. Nulla nell'universo è assoluto, solo le probabilità sono reali. E la mente è in grado di governare la probabilità. Sotto il fuoco verde degli occhi della lupa, la metà inferiore della porta si dissolse in una nebbiosa irrealtà. Per un istante Barbee poté vedere i neri perni dei cardini e tutto il meccanismo della serratura come attraverso una radioscopia. Quindi anche il metallo si dissolse, e la sagoma snella della lupa scivolò silenziosamente attraverso la porta. Barbee la seguì a disagio. Gli parve di sentire una lieve resistenza, là dove si trovavano - o si erano trovati - i pannelli di legno, come se qualcosa gli accarezzasse il vello grigio. Balzò da una parte, soffocando un ringhio. La lupa indietreggiò improvvisamente, urtando contro la spalla del compagno. Perché qualcosa, nella stanza, era un pericolo... mortale! Rimase immobile, fiutando il pericolo. L'aria chiusa della stanza era densa degli odori della carta, dell'inchiostro secco e dell'antica colla che venivano dai libri sugli scaffali, odori su cui dominava l'acuta fragranza della naftalina trapelante da un armadio e l'aroma del tabacco chiuso nella scrivania di Quain. Ma il tremendo sentore che lo aveva atterrito veniva dalla cassa pesantemente cerchiata che si trovava sul pavimento accanto alla scrivania. Era un sentore penetrante, stantio, come di qualcosa che fosse stato a muffire per lunghissimo tempo sotto terra. Lo riempiva di angoscia in modo inesplicabile, e gli ricordava il vago sentore indefinibile che aleggiava ai piedi della torre di Mondrick. La bianca lupa s'era immobilizzata al suo fianco, vigile e tesa con le fauci ancora aperte in una specie di ringhio congelato e gli occhi pieni di odio e di terrore. «È là, nella cassa», ammonì. «È la cosa che Mondrick ha scavato nelle tombe della nostra razza nell'Ala-shan, l'arma che già una volta ha distrutto il nostro popolo e che Quain intende usare ancora. Dobbiamo impadronircene... in qualsiasi modo... questa notte stessa.» Ma Barbee si andava ritirando, strisciando le zampe.
«Non posso», le disse. «Sto male, soffoco, quell'odore dev'essere velenoso. Torniamo all'aperto.» La lupa parve fissarlo con estremo disprezzo, digrignando i denti come in un sogghigno. Poi, coi bianchi peli irti, raccolta su se stessa come una molla, s'avvicinò alla cassa, lentamente, quasi strisciando. Barbee, con un immenso sforzo di volontà, sconvolto dall'odore, si costrinse a seguirla. La puzza era tale che traballò sulle zampe, scosso inoltre da brividi penosi. «Chiusa con un lucchetto! Sam deve avere previsto...» Ma poi vide gli occhi della lupa fissarsi sul fianco lavorato della cassa verde e si ricordò che era in grado di controllare le probabilità delle collisioni atomiche. Le tavole di legno si dissolsero in una nebbia opaca, rivelando tutte le viti di ferro che le connettevano. Le viti si dissolsero a loro volta, e poi i larghi cerchi metallici che fasciavano la cassa, e alla fine il lucchetto. A un tratto la lupa ringhiò, fremente d'una gelida ferocia. «Argento!», latrò, rinculando di nuovo. Perché all'interno delle pareti di legno dissolte si vedeva un rivestimento di bianco metallo battuto, che non si scioglieva in nebbia opaca. Gli atomi dell'argento non rispondevano ai loro poteri mentali. E il contenuto fetido della cassa continuava a restare invisibile. «I tuoi antichi amici sono scaltri, Barbee! Non avevo pensato alla possibilità d'una fodera d'argento. Ora dovremo proprio cercare le chiavi e tentare la serratura. E se anche così non riuscissimo, dovremo incendiare la casa.» «Non con loro dentro!», scattò Barbee. «La tua povera Nora!», lo beffò la lupa. «Perché hai lasciato che Sam te la portasse via? A ogni modo ricorreremo al fuoco solo in caso estremo perché le vibrazioni della materia in combustione sono molto nocive. Ora dobbiamo cercare le chiavi.» Stavano scivolando verso la porta e la camera da letto di Quain e di sua moglie, quando il telefono si mise a squillare, frantumando il silenzio con fulminea violenza. «Chi può essere l'idiota che telefona a quest'ora?», pensò Barbee. S'udì nella camera da letto sospirare lamentosamente, poi la voce addormentata di Quain. Il prossimo squillo di telefono avrebbe definitivamente svegliato Quain, trasformando lo studio in una trappola mortale per le due creature sotto spoglie di lupo. Ma con un balzo impressionante, la lupa bianca era saltata sulla scrivania e, prima che il telefono squillasse di nuovo, con entrambe le zampe anteriori aveva alzato il microfono e ora lo te-
neva sospeso a mezz'aria. Barbee udì la sottile voce precisa nel microfono chiamare disperatamente: «Sam? Sono Rowena Mondrick. Sam! Sam Quain, mi senti?». Nella camera da letto si udì un altro sospiro gemente, e infine la pesante respirazione di Sam Quain riprendere il ritmo regolare, risprofondandolo in un sonno massiccio di sfinimento. «Nora, sei tu?», insistette la voce sottile, che il terrore rendeva acuta. «Dov'è Sam? Pregalo di chiamarmi, ti prego, Nora. Devo avvertirlo di una cosa... digli che si tratta di Barbee.» La lupa depose il ricevitore sul tavolo e vi si accucciò accanto, mettendo a nudo le zanne candide, come se volesse stritolarlo, e nei suoi occhi verdi splendeva il fuoco di un odio inestinguibile. «Ma chi...» La voce nel microfono parve naufragare in un'onda di terrore. «Sam! Nora!... Ma perché non mi rispondete...» Poi un urlo risuonò nel microfono, così penetrante che Barbee non dubitò che avrebbe svegliato Sam Quain. E infine s'udì nel ricevitore uno scatto, perché Rowena all'altro capo del filo, come in preda al terrore d'una improvvisa rivelazione, aveva riattaccato il microfono. Lasciando il ricevitore sul tavolo, la lupa balzò di nuovo accanto a Barbee con un altro ghigno: «La vedova di Mondrick! Quella donna sa troppe cose di noi, ha visto troppo, prima di perdere gli occhi. Ciò che sa potrebbe rendere il contenuto della cassa ancor più pericoloso per noi di quanto già non sia». Le sue lunghe orecchie si appuntirono ancor di più, ed emise un altro ringhio. «Dovremo occuparci di lei, prima che riesca a comunicare con Quain.» «Ma non possiamo far del male a una povera cieca!», protestò Barbee. «E poi Rowena è mia amica, e mi vuol bene...» «Ti vuol bene! Sei ancora troppo ingenuo, Will!...» Ansimava un poco, la lingua le pendeva stanca da un lato delle fauci. «Sei proprio tu, invece, quello che lei vuol tradire.» Barcollò, dovette accasciarsi sul logoro tappeto dello studio, dove giacque scossa da un lungo tremito. «April!» E Barbee le sfiorò col muso l'umida punta del naso. «Siamo in trappola.» La lupa bianca ansimava penosamente. «Ecco perché... Quain se n'è andato a letto... lasciando la porta di casa socchiusa. Quella cassa è l'esca... su cui contava. E il suo maledetto contenuto ci uccide lentamente.»
Barbee aveva finito per dimenticarlo. Levò il muso aguzzo per fiutar l'aria. L'odore immondo sembrava essersi attenuato, era quasi gradevole ora. Torpidamente, lo fiutò ancora. «Non respirarlo!», disse la lupa bianca. «È veleno! Quain lo ha lasciato qui per ucciderci!» Si era abbandonata sul pavimento, e lunghi brividi di sofferenza passavano come onde sul bel corpo slanciato. «Dobbiamo fuggire subito di qua... e correre dalla tua... cara amica Rowena!» Poi giacque immobile e muta. «April!», ululò Barbee. «April!» La lupa bianca non si mosse nemmeno. 8. Si adagiò accanto alla lupa. Le esalazioni della cassa si facevano sempre più gradevoli e stupefacenti, quelle esalazioni, misteriose, antichissime, più antiche della storia, d'una sostanza occulta, rimasta sepolta per millenni sotto le sabbie dell'Ala-shan, insieme con le ossa delle sue vittime. Barbee aspirò ancora l'aria corrotta, profondamente. Un sonno immenso, meraviglioso, calava su di lui con le nere ali d'un vampiro grande come la notte. Chiuse gli occhi... Mentre la lupa, in un estremo sforzo di consapevolezza, riapriva i suoi: «Barbee, svegliati! Lasciami, Barbee, esci di qua... prima di morire!». La potenza magnetica della sua volontà aveva ormai un tale dominio sulla psiche di Barbee, che il lupo grigio obbedì all'ingiunzione disperata. Si sollevò sulle zampe malferme e, incapace di lasciarla, la prese per la morbida pelle del collo e lentamente, con uno sforzo gigantesco, la trascinò verso la porta, il più lontano possibile dalle emanazioni della cassa. Ma la porta si era di nuovo ricomposta in una solida barriera di materia compatta. Debole, la volontà della lupa bianca gli trasmise un nuovo comando: «Fissa la porta... Cerca di aprire la porta, dissolvendola... Io ti aiuterò con tutta la mia volontà...». Barbee fissava ora i pannelli della porta, cercava a tentoni, ogni tanto, un passaggio attraverso la loro compatta sostanza. Soltanto le probabilità sono reali, si ripeteva. Ma la porta restava impenetrabile. Sentì a un tratto il tremito dello sforzo immane che tendeva tutte le energie della bianca lupa al suo fianco. Tentò di unire la sua volontà a quello sforzo titanico, e lentamente, in modo vago, ebbe coscienza d'una nuova forza, d'un senso bizzarro di dilatazione e di potenza. Un grumo nebbioso apparve nel pannello.
Provò ad allargarlo. Il grumo si dilatò, a poco a poco divenne una cortina di vapori che alla fine si sciolse, lasciando un'apertura sufficiente al passaggio. Ripresa la lupa per la pelliccia, Barbee la trasse al di là della porta, dove l'effluvio letale non poteva più raggiungerli. Giacquero entrambi sul pavimento, ansanti, ebbri di stanchezza. Appena percettibile, nello studio sbarrato dietro di loro, s'udì la voce impaziente d'un telefonista risuonare nel microfono abbandonato sulla scrivania. Poi nella casa echeggiò un singhiozzo di Nora, dominata dal terrore pur nel faticoso dormiveglia in cui era immersa: «Sam!... Sam!». Il letto gemette, mentre Sam Quain si voltava agitato, ma senza svegliarsi del tutto. Barbee, soffocando, perché il terribile fetore aveva cominciato a trapelare dalla porta, riuscì a spingere a colpi di muso e di spalla la lupa bianca, attraverso la cucina di Nora, fino in giardino e poi sul prato. Salvi! La luce zodiacale andava già levando la sua colonna di pallido argento a oriente. Nelle fattorie oltre la città s'udivano i galli cantare. Un cane ululava chi sa dove. Il pericolo dell'alba s'avvicinava e la lupa bianca era sempre come priva di vita. Disperato, cominciò a lambirle la candida pelliccia. Il corpo sottile della lupa cominciò a palpitare, come sotto una respirazione che riprendesse il suo ritmo regolare. Debolmente, si rialzò. Ansimava, la rossa lingua penzolante. Gli occhi erano colmi di terrore. «Oh, Will, sarei morta in quella trappola, se tu non mi avessi portata fuori!» Le si incupirono maggiormente gli occhi. «Ciò che quella cassa contiene è ancora più letale di quanto immaginassi. Non siamo in grado di distruggerlo. Possiamo solo colpire coloro che sperano di usarlo contro di noi... e poi seppellirlo di nuovo, finché non sia di nuovo dimenticato, come sotto quei tumuli dell'Ala-shan.» Barbee scosse la testa, riluttante: «Colpire Sam? Nick? Rex?». «Tu non hai più amici tra gli esseri umani, Will, perché tutti gli uomini ci ammazzerebbero, se sapessero. È nostro dovere distruggere tutti i nemici del Figlio della Notte, prima di morire. Ma Quain non è più il primo della lista, dopo la telefonata che sai. È alla vedova di Mondrick che dobbiamo pensare, prima che riesca a parlargli.» «No, io non farò del male a quella povera donna! E tu dimentichi la sua cecità, perché è una creatura umana così reale...» «Ma tu non lo sei, Will...» E ancora una volta il muso lungo e sottile del-
la lupa parve tendersi in un sogghigno. «E non credo che lo sia del tutto nemmeno lei. Deve avere abbastanza del nostro sangue, per essere così pericolosa per la nostra specie. Ha imparato, poi, troppe cose dal marito e troppe altre deve averne viste in Africa. È un'avversaria temibile, ma noi dobbiamo tentare...» «No, io non farò nulla contro Rowena!» «Tu farai quello che devi fare, Will, perché sei quello che sei. Tu sei libero, questa notte, e tutte le tue inibizioni umane sono rimaste col tuo corpo addormentato. E stai correndo con me questa notte, come la nostra razza spenta correva un tempo, e abbiamo una preda umana da inseguire. Vieni, Will, prima che sia giorno.» Attraversarono veloci e lievi il gran prato, con la gradevole sensazione della brina che crepitava dolcemente sotto i loro cuscinetti, vigili a ogni suono e odore della città dormiente, e perfino i graveolenti sentori di un camion che passava - quello del lattaio - parevano fragranti, ora, dopo il fetore che li aveva quasi uccisi nello studio di Quain. A ovest dell'università, in University Avenue, si fermarono presso la vecchia casa di mattoni, dal giardino incolto. Barbee rimase indietro, nel vedere il velo di crespo nero pendere dalla porta d'ingresso, ma la lupa sottile e veloce si volse a guardarlo invitante, e il suo odore di bosco finì per dissolvere le sue ultime perplessità. Perché il suo corpo, ormai, giaceva lontano, e i suoi ceppi umani erano spezzati. La cosa che per lui contava di più era quella lupa bianca, così viva e affascinante. Lui era con il suo branco, ora, in cui tutti seguivano il Figlio della Notte. Attese con lei, presso la porta, che i pannelli si dissolvessero. La lupa bianca sussultò accanto a lui, e le nari di Barbee percepirono l'odore acuto e disgustoso di cane. A entrambi il pelo si rizzò ispido sul collo e la lupa bianca emise un ringhio sommesso e prolungato. A poco a poco, Barbee vide la parte inferiore della porta sfumare nell'irrealtà e poi, oltre la minuscola anticamera, la stanza così familiare, con la nera caverna del caminetto e la massa scura del gran piano a coda di Rowena. S'udirono anche dei passi frettolosi e si scorsero vaghe ombre muoversi nella casa buia. La serratura scattò e la porta fu spalancata di colpo. La lupa si ritrasse con un balzo dietro il suo compagno, digrignando silenziosamente i denti. Un'ondata di odori li sommerse, irrompendo dalla porta spalancata: quello della stufetta a gas che ardeva nel camino, e la densa dolcezza delle rose sul pianoforte; c'era anche il profumo di lavanda e di naftalina delle vesti di Rowena Mondrick e l'acre e caldo odore spauri-
to del suo corpo. Ma su ogni altro sentore dominava quello di cane. Quel lezzo lo colmò di un terrore più antico ancora del genere umano, destando in lui un odio di razza implacabile. Col pelo irto, le zanne a nudo, s'acquattò per affrontare un nemico da epoche immemorabili. Rowena Mondrick comparve sulla soglia, con al fianco, al guinzaglio, l'enorme cane che ringhiava sordamente. Avvolta in una vestaglia di seta nera, si fermò sulla soglia, alta e severamente eretta. La luce lontana di un lampione trasse riflessi pallidi dalla collana d'argento che aveva sul seno e dai bracciali e anelli d'argento massiccio. Rifulse gelida sulla punta di uno stiletto argenteo che la donna impugnava. «Aiutami», Barbee sentì che la lupa gli diceva, «aiutami ad abbatterla!» Quella cieca alta e sottile, che stringeva un pugnale acuminato e aveva accanto a sé una belva minacciosa, era stata un tempo sua amica. Ma ora Barbee sentì di odiarla, di detestare l'essere umano che era. Strisciando sul ventre, i due lupi mossero verso la preda. «Cercherò di afferrarla al braccio, mentre tu devi saltarle alla gola prima che possa servirsi di quella lama d'argento», fu l'ordine di April. La faccia bianca e sottile di Rowena era stanca, oscurata da una tristezza senza nome. La cieca piegò il capo da una parte e Barbee rabbrividì per la sconcertante impressione che le buie lenti nere potessero vederlo. «Will Barbee.» Ella pronunciò il nome a bassa voce, dolcemente, chinando il viso verso di lui, come se lo vedesse. E in quella voce il tono era solo di lieve rimprovero. «Sapevo il pericolo che correvi, e ti ho avvertito di guardarti da quella piccola strega perversa, ma non avrei mai creduto che tu rinnegassi la tua umanità così presto.» Barbee si volse a guardare la lupa bianca, già disposto a desistere, ma il feroce scherno delle sue zanne scoperte lo fermò. «È un grande dolore per me, Will», riprese la cieca, «che sia tu, ma ora so che hai ceduto al sangue nero che scorre nelle tue vene... avevo sempre sperato che tu potessi dominarlo: non tutti coloro che hanno sangue nero appartengono alla razza delle streghe, Will, lo so molto bene. Ma con te mi sono sbagliata.» Fece una pausa, più rigida che mai nella sua severa vestaglia di lutto. «So che sei qui, Will Barbee.» Gli parve di vederla rabbrividire, mentre stringeva con mano più ferma lo stiletto di puro argento. «E so quello che vuoi.» Il cane fissava gli occhi gialli sulla lupa bianca, seguendone ogni movimento e ringhiando con segreta ferocia. «Lo so, ma non sarà facile uccidermi.» La lupa, sempre strisciando, volse il capo a guardare il suo compagno:
«Tienti pronto», lo avvertì. «Quando le sarò sotto il gomito!» Il lupo grigio raccolse le forze e misurò la distanza che lo divideva dalla gola della cieca, pronto a balzare. Sapeva di dover obbedire, la sua umanità perduta non era più che un vago sogno, e la sola realtà per lui era il presente, ormai. «Ora!», disse la lupa. «In nome del Figlio della Notte!» Balzò silenziosa, mentre il suo corpo sottile formava una fulminea parabola bianca e le sue zanne afferravano il braccio della cieca. In attesa che questa lasciasse cadere il pugnale, Barbee sentì una cupa ferocia salire dal più profondo del suo essere, una sete divorante per la dolcezza del sangue. «Will!», singhiozzò Rowena. «Tu non puoi...» Trattenne il fiato, pronto a balzarle alla gola. Ma Turk lanciò un latrato, mentre Rowena, liberatolo, indietreggiava pazzamente trinciando l'aria con lo stiletto d'argento. Torcendosi a mezz'aria, la lupa riuscì a evitare la lama. Ma i pesanti braccialetti della cieca la colpirono con forza sulla testa lunga e sottile. Cadde, il bianco corpo fremente, e il cane le fu sopra e la azzannò alla gola. Divincolandosi sotto le sue fauci, gemette acutamente, e infine giacque immobile. Quel gemito liberò completamente Barbee delle sue ultime perplessità. Le sue zanne nel ferire la gola del cane andarono a urtare contro il massiccio collare d'argento. Il dolore atroce causato dal freddo metallo lo fece traballare, ottenebrandolo. «Non lasciarla, Turk!», gridò la cieca. Ma il gran cane aveva già abbandonato la lupa bianca e si girava per affrontare l'attacco di Barbee. La lupa riuscì a risollevarsi e si volse per fuggire: «Andiamo, Barbee. La donna ha troppo del nostro sangue nero, ed è troppo forte. Non possiamo aver ragione di lei, del cane e dell'argento!». E fuggì per il prato, seguita dal lupo grigio. La cieca li inseguì, muovendosi con una libertà di movimento ch'era terribile, ora. Il lampione lontano traeva nuovi riflessi dai monili ch'erano la sua vera armatura, e dalla lama sottile dello stiletto d'argento. «Prendili, Turk!», gridò con forza al cane. «Ammazzali!» A fianco a fianco, la lupa bianca e il lupo grigio correvano per la lunga via silenziosa e deserta verso il prato dell'università. Barbee si sentiva annebbiato e indolenzito dal duro colpo contro il massiccio collare d'argento e sapeva che il gran cane fulvo lo avrebbe raggiunto in breve. Già il suo
rabbioso abbaiare gli era alle terga, e allora, presso il prato, si voltò bruscamente, per opporre al nemico una disperata resistenza. Ma la lupa gli passò innanzi e corse incontro al cane. Saltellando graziosa davanti a Turk, si gettò poi di lato, fuggendo tentatrice, e il cane la seguì. Pareva irridere al suo assordante abbaiare coi suoi teneri guaiti. E così liberò il lupo grigio dal gran cane fulvo, attirandolo sempre più lontano, verso l'autostrada deserta, al di là del prato. «Prendili, Turk!», urlava la cieca, ormai prossima a Barbee, che si ritrasse da lei in preda a un cupo malessere. «Tienili, finché non ti ho raggiunto.» Barbee si accorse che la cieca lo seguiva correndo; ma era rimasta indietro di un intero blocco di case. A un tratto, inciampò contro l'orlo di un marciapiede e la povera donna cadde distesa sul cemento. Barbee sentì ancora una trafittura di compassione. La caduta improvvisa doveva averle fatto molto male. Ma l'istante dopo, la cieca era di nuovo in piedi e riprendeva l'inseguimento zoppicando. Il lupo grigio riprese il suo trotto silenzioso e imboccò finalmente l'autostrada dove aleggiava ancora l'odore della lupa frammisto a quello del cane. Quando si volse nuovamente a guardare, sotto il semaforo ammiccante, là dove Central Street attraversava l'autostrada, la cieca aveva perso molto terreno. Un'auto stava venendo verso di loro. Barbee si ritrasse dalla luce abbagliante dei suoi fari, che lo aveva semiaccecato, e si rifugiò in una viuzza laterale, in attesa che passasse. Quando ritornò sulla strada, Rowena era scomparsa. Il lontano abbaiare di Turk s'era definitivamente perduto, ma l'odore della lupa aleggiava ancora nell'aria, sebbene molto più tenue. Seguendo quell'odore, il lupo grigio si lanciò per un dedalo di viuzze trasversali, che lo portarono alla fine davanti all'ampia distesa dello scalo ferroviario. L'odore della lupa vi era quasi impercettibile, dominato da quello del grasso di macchina e del carbone bruciato che impregnavano le traversine, e dell'acido solforico nel fumo delle locomotive. Barbee tuttavia riuscì a non perdere la lieve traccia, fino a quando una locomotiva in manovra gli si parò dinanzi sbuffando, un frenatore ritto sul predellino con una lampada in mano. Il lupo balzò da una parte come una molla, ma un getto caldo di vapore lo avvolse assordante, sommergendo ogni altro odore che non fosse quello caldo e umido di olio e metallo. La traccia era perduta. Si mise a trotterellare stancamente, in cerchio, sull'ampio fascio di binari, ma non c'era nel-
l'aria che quel sentore di carbone e di macchine unte e ribollenti. Puntò le orecchie, ascoltando disperatamente: sibili di vapore, cozzi metallici nel deposito locomotive, e il lontano macinar dei mulini presso il fiume. Da una grande distanza oltre il fiume gli giunse il fischio di un treno in arrivo. Ma i fievoli latrati del cane fulvo erano scomparsi. Una trafittura penosa gli colpì gli occhi, quando volse il muso a guardare a Est, verso il primo verdastro chiarore dell'alba. La lupa bianca era scomparsa e la luce mortale del giorno lo minacciava; solo allora si accorse di non sapere come ritornare a casa e al suo corpo umano. Aveva ripreso a trotterellare sulle fredde parallele dei binari, senza meta, quando gli giunse nuovamente l'abbaiare di Turk, latrati stanchi e delusi, verso i mulini. Riprese allora la corsa in quella direzione, fiancheggiando una lunga fila di carri merci, che lo riparava in parte dal tormento di quel primo, vago albeggiare. Infine, vide la lupa bianca, che gli balzava incontro con una grazia molle e selvaggia insieme. Doveva avere abilmente condotto il cane lungo un ampio circolo, ma si vedeva che era stanca, ora, o indebolita dalla luce crescente, perché il cane stava guadagnando rapidamente terreno e i suoi latrati ricominciavano ad avere una nota di rabbiosa esultanza. Nuovamente, la lupa e il lupo ripresero la corsa l'uno accanto all'altra allontanandosi dallo scalo, ma seguendo i binari in direzione del fiume. Questo era ormai vicino: dall'ombra densa delle sue rive saliva l'umido lezzo della fanghiglia e delle foglie imputridite. Ma oltre il fiume la bianca fiamma dell'alba cominciava ad ardere terribile nel cielo. Ancora lontano, il treno fischiò una seconda volta. Raggiunsero il ponte strettissimo, lanciato arditamente sull'acqua nera, e la lupa vi proseguì la sua corsa, delicatamente passando da una traversina all'altra dell'unico binario. Barbee si fermò, pieno di un antico e vago terrore dell'acqua ribollente dei fiumi. Ma il cane coi suoi rabbiosi latrati gli era già addosso, e fu costretto a gettarsi sul ponte della ferrovia, scegliendo cautamente le traversine su cui camminare. Il cane lo seguì, impetuoso. Barbee si trovava a metà circa del ponte quando i binari cominciarono a vibrare. Poi il treno fischiò per la terza volta e il fanale che la locomotiva portava in testa apparve fulgido a una curva, a poco più d'un chilometro di distanza. Di nuovo, si fermò, atterrito; ma il cane gli era ancora dietro minaccioso, e lui nuovamente balzò in avanti, nel disperato tentativo di raggiungere il capo del ponte prima del treno. L'apparente stanchezza della lupa bianca era sparita, ora. Correva lunga
e sottile come una freccia molto innanzi, e Barbee la inseguì con uno sforzo mostruoso lungo il metallo sonante. Poi l'aria fu tutta sconvolta e l'intero ponte si mise a tremare. Barbee vide la lupa in cima al ponte, seduta presso i binari ad aspettarlo, irridendo al cane. Con un ultimo balzo le fu accanto, insieme con la ventata calda e polverosa del treno rombante. Fievole, gli giunse l'ultimo ululato atterrito del cane e il tonfo del suo gran corpo fulvo nelle acque nere. La lupa si scosse la cenere fuligginosa dal mantello, e si alzò con eleganza. «S'è fatto giorno, è tempo di ritornare a casa. Addio, Will.» La vide allontanarsi trotterellando lungo il binario, e Barbee a un tratto si ritrovò solo. La fiamma che ardeva a oriente lo trafiggeva, e fu colto dal terrore di caderne vittima. Come ritornare? Disperatamente, si protese a tentoni verso il suo corpo. Era solo vagamente consapevole del suo corpo, disteso, rigido e infreddolito, di traverso sul letto del suo appartamentino in Broad Street. Desiderò con tutto se stesso di possederlo, di muoverlo, come qualcuno che cerchi di svegliarsi da un sogno. Il primo sforzo fu debole e terribilmente doloroso, come se dipendesse da qualche facoltà mai usata prima d'ora. Ma il dolore stesso serviva da sprone. Ancora una volta sentì quello strano mutarsi, quel fluire della metamorfosi, e si levò a sedere tutto indolenzito sulla sponda del letto. La piccola camera era divenuta gelida durante la notte e Barbee si sentiva tutto intirizzito. Una strana ottusità lo possedeva, come se tutti i suoi sensi si fossero attutiti. Fiutò l'aria in cerca di tutti gli odori e sentori così acuti per il lupo grigio, ma le sue nari d'uomo non raccolsero nulla. Perfino l'odore di whisky era sparito dal bicchiere vuoto sul comò. Dolorante di stanchezza, si avvicinò zoppicando alla finestra e sollevò la tapparella. La grigia luce dell'alba faceva impallidire i lampioni per la via, e lei si ritrasse di scatto dal cielo pieno di luce, come se fosse la terrificante faccia della morte. Che sogno! Si asciugò la fronte del freddo sudore che ancora la ricopriva. Un dolore tenace gli pulsava nel canino destro: la zanna, si ricordò con profondo malessere, che aveva battuto contro il collare di Turk. Se erano questi gli effetti di qualche dose troppo abbondante di liquore, si disse, era proprio meglio darsi all'astinenza. Aveva la gola ruvida e secca. Si diresse zoppicando verso la stanza da bagno per bere un bicchier d'acqua e, allungando la sinistra verso il bic-
chiere, si accorse di tenere ancora stretta nella palma della mano destra la spilla di giada bianca. A bocca aperta, stette a guardarsi la mano intorpidita, e fu allora che si vide sul polso sottile un lungo graffio rossastro, là dove i dentini aguzzi di Grillo avevano morso, nel sogno, la zampa anteriore del lupo. Nulla di troppo strano, in tutto questo, si disse, ricordando le dissertazioni di Mondrick, all'università, sulla psicologia dei sogni: certi fenomeni del subcosciente, diceva Mondrick, erano sempre meno straordinari e istantanei di quanto sembrassero al sognatore. I suoi dubbi su April Bell, insieme con l'incredibile confessione della ragazza, lo avevano spinto durante il sonno ad alzarsi per andare a frugare nella vecchia scatola in cerca della spilla. Doveva essersi graffiato il polso con una di quelle lamette arrugginite, o forse con la spilla stessa. E tutto il resto non poteva essere che il suo sforzo inconscio di spiegare quel banale incidente, con l'abbondante materiale dei suoi desideri e dei suoi timori rimossi e sepolti nel subcosciente. Così doveva essere! Con un sorriso di sollievo si sciacquò la bocca arida e poi allungò con bramosia la mano verso la bottiglia di whisky per versarsi un goccio che lo aiutasse a cominciare una nuova giornata di quella sua vita da cani... Fece una smorfia, ricordando il disgustoso odor di cane del sogno, e rimise con fermezza la bottiglia al suo posto. 9. Provò a riaddormentarsi, ma i particolari del suo sogno lo ossessionavano talmente che dovette rinunciarvi e zoppicando tornò di nuovo alla finestra e l'aprì completamente alla cruda luce del giorno. Poi, disinfettata la misteriosa graffiatura e rasosi con gran cura, prese un'aspirina per addormentare il dolore che gli faceva il dente. Infine, visto che i dubbi e le apprensioni che gli causava l'incubo della notte non si placavano ai suoi vari tentativi di una spiegazione razionale, decise di telefonare a Rowena per accertarsi che fosse al sicuro nella sua casa col fedele Turk accanto. Formò il numero con un indice ancora intorpidito, e per un bel pezzo nessuno rispose: forse, sperò, tutti erano ancora comodamente addormentati nel loro letto. Finalmente, la voce acuta della signora Rye, la direttrice di casa, gli domandò piuttosto di malagrazia che cosa volesse. «Parlare alla signora Mondrick, se è già alzata.» «La signora non c'è.»
«Eh!», sussultò Barbee, di colpo in preda al panico. «Datemi allora la signorina Ulford.» «Non c'è nemmeno lei.» «Ma... Ma dove...» «È andata via anche lei con l'ambulanza, per assistere la povera signora Mondrick.» Fu un miracolo se il microfono non gli cadde di mano. «Ma che cosa è successo?» «La signora, poverina, dev'essere quasi impazzita questa notte. Dopo il colpo terribile del marito, d'altra parte... E poi è sempre stata un po' stramba, no? dopo che quella belva le tolse gli occhi, laggiù in Africa...» Barbee inghiottì la saliva a fatica. «Che cosa è successo, esattamente?» «Si è alzata nel cuor della notte ed è uscita in strada con quell'enorme cane che si è incaponita a voler tenere. Secondo me, doveva essersi messa in testa di dar la caccia a qualcuno... a quello stesso leopardo, forse, che l'ha accecata. Fatto sta che è uscita con un tagliacarte d'argento, affilatissimo, ma per fortuna il cane s'è messo ad abbaiare, svegliando la signorina Ulford, che si è alzata e l'ha inseguita.» Muto e atterrito, Barbee ascoltava. «Poi il cane dev'essersi messo a correre, abbandonandola, ma la signora, povera cieca, l'ha inseguito fin dove ha potuto. La signorina l'ha trovata a una ventina d'isolati di distanza: incredibile per una donna della sua età, e cieca per giunta!» La donna sembrava trovare una soddisfazione morbosa nel suo racconto. «La signorina Ulford, più morta che viva lei stessa, è riuscita finalmente a riportare a casa la signora in un tassi. Sanguinava tutta perché s'era sbucciata, cadendo nel selciato, e sembrava che le avesse dato completamente di volta il cervello. Non voleva cedere quel pugnale affilato che aveva in mano, e hanno dovuto strapparglielo con la forza, mentre lei continuava a urlare non so che a proposito degli assassini che secondo lei il cane stava inseguendo. La signorina Ulford ha dovuto chiamare un'ambulanza e farla ricoverare a Glennhaven. Son venuti a prenderla un'ora fa, bisognava vedere come si divincolava e lottava con gli infermieri, povera donna, c'era pericolo che si ammazzasse!» «Perché non voleva andare a Glennhaven?» «Perché s'era messa in testa di andare a casa di Sam Quain. Era così frenetica, in proposito, che ho finito per telefonare al dottor Quain, ma la so-
cietà telefonica mi ha detto che avevano dimenticato di riagganciare il microfono. Ora la signora è a Glennhaven e speriamo che si rimetta. Posso esserle utile in qualche modo?» Barbee era impietrito, talmente impietrito, che non fu capace di rispondere. «Pronto?», disse la donna. «Pronto?» Lui non riuscì a trovare la voce e, impaziente, la signora Rye tolse la comunicazione. Barcollando, Barbee tornò nella stanza da bagno, si versò mezzo bicchiere di whisky, ma poi lo scaraventò, colto da un dubbio atroce, nel lavabo, senza assaggiarlo. Se il whisky lo aveva ridotto così, non doveva più berne una goccia. La piccola signorina Ulford aveva fatto bene, si disse cocciuto, a far ricoverare la povera cieca in manicomio. La tragedia dell'aeroporto era stata per lei il colpo di grazia, e i suoi stessi timori sulla sua sanità mentale dovevano avere contribuito alla formazione di quell'incubo grottesco. Con tetra caparbietà decise di chiudere gli occhi alle troppo numerose coincidenze tra realtà e sogno, di non avventurarsi su quella strada che conduceva alla follia e su cui la stessa Rowena s'era spinta. Cedendo a un impulso improvviso, telefonò ad April al Trojan Arms. Non intendeva parlarle del sogno, ma solo udire la sua voce e sapere dove si trovava. Si sarebbe scusato di non essere più andato a trovarla, il giorno prima, e le avrebbe chiesto un altro appuntamento. Fu con voce tremante, che chiese della signorina Bell. «Mi dispiace», disse l'uomo al banco, «ma non possiamo disturbare la signorina.» «Sono un amico», insistette Barbee, «vedrete che non si seccherà.» Ma l'uomo fu irremovibile e allora Barbee chiese del direttore. La pubblicità conta parecchio per un direttore d'albergo, e Gilkins infatti ci teneva, di regola, ad accontentare i giornalisti. Ma il caso di April Bell rappresentava, a quanto parve, l'eccezione a quella regola. «Spiacente, signor Barbee», mormorò con mortificata correttezza, «ma davvero non possiamo disturbare la signorina. Abbia pazienza, vecchio mio, la signorina, vede, dorme sempre fino a mezzogiorno e ha dato ordini precisi di non essere svegliata per nessunissimo motivo, a meno che non si tratti di un incendio o di un assassinio.» Barbee cercò di non rabbrividire alle ultime parole. La ragazza dai capelli di fiamma se la prendeva piuttosto comoda per essere una semplice praticante in un giornale della sera, quel genere di giornali che vogliono
tutti presenti fin dall'alba. Pregò che l'avvertissero che lui aveva telefonato, e s'impose di non pensare più all'incubo della notte. Si vestì in fretta e furia, si fermò a bere un caffè al bar dell'angolo e infine pilotò la sua vecchia baracca verso il centro. Aveva bisogno di sentirsi gente intorno. Esseri umani. Aveva nostalgia di voci familiari, di udire il ticchettìo delle macchine da scrivere e delle telescriventi, il fruscio martellante delle linotypes e il fracasso rombante delle rotative. Si fermò all'edicola di Ben Chittum davanti allo Star e chiese notizie di Rex. «È sconvolto», disse il vecchio, che sembrava anche lui piuttosto depresso. «La morte di Mondrick deve averlo colpito terribilmente. Si è fermato ieri un momento a salutarmi, dopo il funerale, ma non sembrava che avesse molta voglia di parlare. E poi doveva tornare subito all'Istituto.» Fece una pausa per accomodare meglio un pacco di giornali e poi scrutò attentamente Barbee: «Ma perché i giornali non ne parlano più?», domandò. «C'eri tu, all'aeroporto, e quella ragazza del Call. Mi parrebbe importante, quando un uomo come Mondrick muore in quel modo, se fossi io il capocronista. E invece i giornali quasi non ne dicono niente.» «Possibile?», rispose Barbee stupito. «Ero convinto che ne avrebbero fatto un servizio da prima pagina, con titolo enorme, che ho buttato giù un pezzo di almeno seicento parole. E poi ero abbastanza sconvolto anch'io e non mi sono curato di vedere che cosa possono aver tolto.» «Guarda», disse il vecchietto. E gli mostrò una copia dello Star della vigilia. Non una sola parola del suo articolo era stata stampata. Su una delle pagine interne, c'era soltanto l'annuncio del funerale di Mondrick alle due del pomeriggio. «Strano», disse, e con un'alzata di spalle si scrollò di dosso il piccolo enigma. Aveva ben altri misteri da risolvere, quando ne avesse avuto voglia. E attraversò la strada, lieto di ritrovarsi nell'ordinata confusione della sala cronisti. Sul suo tavolo trovò un familiare foglietto blu da memorandum, che gli comunicava di presentarsi da Preston Troy. Lo Star non era la più importante delle imprese industriali di Troy, che comprendevano stabilimenti, mulini, il Trojan Trust, la stazione radio e il circolo di baseball. Ma il giornale era il suo giocattolo favorito, tanto che sbrigava quasi tutti i suoi affari nello spazioso studio d'angolo che si era riservato sopra la sala cronisti. Barbee trovò l'editore che dettava una lettera a una sottile segretaria dai capelli d'un biondo tiziano (Troy era famoso per la raffinata bellezza delle sue segretarie). Era un uomo robusto e tarchiato, con un cerchio sottile di
capelli rossicci attorno alla cupola rosea della testa. Fissò Barbee con due scaltri occhi azzurri e fece ruotare il grosso sigaro da un angolo all'altro della bocca larga e sensuale. «Prenda la cartella Walraven», ordinò alla ragazza, poi i suoi occhi gelidi si posarono di nuovo su Barbee. «Il suo direttore mi dice che lei è un uomo in gamba, Barbee. Voglio offrirle la possibilità d'un servizio importante, firmato, per montare la candidatura del colonnello Walraven al Senato.» «Grazie, Presidente», disse Barbee, senza molto entusiasmo per il colonnello Walraven. «Ho visto che Grady non ha passato il mio pezzo sulla morte di Mondrick, ieri.» «Gli ho detto io di non pubblicarlo.» «Potrebbe dirmi perché?» E Barbee piantò gli occhi bellicosamente sul roseo volto del proprietario. «A me sembrava che fosse roba da prima pagina. Profondo interesse umano e tutto un lato misterioso, molto giallo: Mondrick, capisce, è morto mentre stava dicendo che cosa aveva portato dall'Asia in quella cassa verde... Ed è ancora valido, come servizio, Presidente.» Barbee cercò di soffocare l'irritazione che lo stava dominando. «Il verdetto del coroner è stato di morte per cause naturali, ma gli amici dello scienziato si comportano come se non credessero una sola parola del verdetto. Stanno nascondendo ciò che si trova nella cassa e hanno più che mai paura di parlare.» Ancora Barbee cercò di dominarsi. «Affidi a me questo lavoro, Presidente. Con un fotografo, monterò un servizio che farà di Clarendon la città più famosa del mondo. Voglio scoprire perché Mondrick è andato nell'Ala-shan, e voglio scoprire di che cosa hanno paura quegli uomini, e che cosa nascondono in quella cassa.» Gli occhi con cui Troy lo fissava erano duri e inespressivi. «Troppo sensazionale per lo Star.» La voce del Presidente s'era fatta bruscamente dittatoriale. «Non pensiamoci più, Barbee. Si metta a lavorare sul colonnello.» «Troppo sensazionale, Presidente? Ma se ha sempre sostenuto che la cronaca nera dev'essere la chiave di volta dello Star...» «Ho già fissato quella che dev'essere la linea del nostro giornale!», urlò quasi l'editore. «Non si stamperà una sola parola sul caso Mondrick. E non se ne stamperà una parola, come constaterà lei stesso, su nessun altro giornale importante.» Barbee cercò di non dare troppo a vedere il suo stupore. «Ma io non riesco a non pensarci, Presidente», protestò. «Devo assoluta-
mente scoprire che cosa nasconde Sam Quain in quella cassa. Ne sono ossessionato. Lo sogno la notte.» «Ci si dedicherà nelle ore libere... e a suo rischio e pericolo.» La voce di Troy era fredda e recisa. «Non certo per il giornale.» Osservò il suo dipendente con occhi penetranti, spostando ancora il grosso sigaro da un angolo all'altro della bocca. «Ah, un'altra cosa, Barbee: si metta in testa che il suo organismo non è una distilleria clandestina: meglio piantarla di bere.» Aprì un cassetto della scrivania e la sua dura faccia di sciolse. «Ecco un buon sigaro, Barbee.» La sua voce s'era fatta di nuovo calda e cordiale. «Qui c'è tutta la pratica Walraven. Voglio una serie di articoli biografici. La giovinezza di duri stenti, laboriosa, l'eroismo degli anni di guerra, le opere di beneficenza segreta, la felice vita domestica, le sue prestazioni ispirate al più alto senso patriottico durante la sua attività a Washington. E tralasci tutto quanto possa dispiacere agli elettori.» Che è parecchio, pensò Barbee. E ad alta voce: «Benissimo, Presidente». Ritornò al suo tavolo nella sala cronaca del giornale e cominciò a esaminare i ritagli che gli aveva dato il Presidente. Ma sapeva troppe cose di quelle che i ritagli tacevano, delle obbligazioni emesse per l'impianto di fognature cittadine e dello scandalo dell'autostrada, e perché la sua prima moglie lo aveva lasciato. Era difficile concentrarsi sull'insipido compito di riverniciare a nuovo un uomo simile per il Senato, e si accorse di fissare al di sopra della macchina per scrivere l'immagine sottile di un lupo che, su un calendario, ululava alla luna, e di pensare con nostalgia alla meravigliosa libertà, al potere straordinario che aveva goduto in sogno. Al diavolo anche Walraven. Barbee capì che era assolutamente necessario per lui arrivare alla conoscenza dei fatti che stavano sotto la morte di Mondrick, la follia di Rowena e l'assurda confessione di April Bell. Se poi lui non faceva altro che trarre pazzesche fantasie dal whisky e da una serie di coincidenze, tanto valeva saperlo. Diversamente... anche la pazzia, in fin dei conti, era preferibile all'insopportabile tran-tran d'un cronista dello Star. Cacciò il materiale Walraven alla rinfusa in un cassetto, e tratta la sua auto dal parcheggio percorse tutta Center Street verso l'università. Non riusciva a capire perché il caso Mondrick non rientrasse nella «linea» del giornale: non c'era mai cosa, prima, che fosse abbastanza sensazionale per Preston Troy. A ogni modo, giornale o non giornale, lui doveva sapere che
cosa ci fosse, in quella cassa. Fermò la macchina davanti alla villetta di Sam Quain: aveva esattamente lo stesso aspetto che aveva avuto nel sogno, c'era perfino il secchiello di latta arrugginito, con la paletta di Pat che aveva visto durante la notte sul mucchio di sabbia per i giochi. Picchiò, cercando di vincere il malessere che lo dominava, e Nora venne ad aprire dalla cucina dove stava lavorando. «Oh, Will... avanti!» Una blanda sorpresa le dilatava gli occhi azzurri, un po' sbattuti, parve al giornalista, e con le palpebre gonfie, come se non avesse dormito bene. Non poté fare a meno di fiutare l'aria, timoroso di percepire l'atroce fetore che doveva emanare dalla cassa chiusa dello studio. Ma nell'aria aleggiava solamente il caldo aroma dell'arrosto che Nora aveva messo nel forno. «Sono venuto a cercare Sam per intervistarlo ancora sulla spedizione e su quello che hanno trovato nell'Ala-shan.» La donna aggrottò la fronte. «Meglio non pensarci più, Will», rispose a disagio. «Sam non vuole parlarne con nessuno, nemmeno con me. Io non so che cosa abbiano portato in quella misteriosa cassa e Sam non ti direbbe niente.» «Dov'è Sam adesso?» «È andato all'Istituto. Ha un gran da fare, là, perché, mi ha detto, stanno impiantando un nuòvo laboratorio. Ha telefonato all'Istituto, quando si è svegliato questa mattina tutto impensierito, e Nick e Rex sono venuti a prendere lui e la sua cassa con una giardinetta. Non ha fatto nemmeno colazione.» Nora guardò Barbee con occhi imploranti. «Mi ha detto di stare tranquilla», riprese, «ma io sto tanto in pensiero. Poco fa ha telefonato per avvertirmi che questa sera non verrà a casa. Immagino che si tratti di una grande scoperta, che li renderà tutti famosi quando sarà resa nota, ma non riesco a capire il loro modo di fare. Sembrano tutti così... spaventati!» Si scosse, e riprese in tono più allegro: «Speriamo almeno che Rex dirà...». E s'interruppe, come chi ha parlato troppo. «Dirà che cosa?», insistette Barbee. «Sam mi ha detto di non parlarne a nessuno...» Torse il grembiule con le mani arrossate dal bucato. «Mi fido di te, Will, ma davvero non avrei dovuto parlarne... Promettimi almeno che non lo pubblicherai.» Un'ombra di terrore le incupì gli occhi. «Oh, Will, sono così sconvolta... non so che cosa fare.» Barbee le batté la mano sulla spalla grassoccia, tranquillizzante: «Non
stamperò nulla di quello che mi dirai», promise. «Sai, non è molto, a dir la verità», riprese lei in tono di gratitudine. «Semplicemente che Sam ha rimandato qui Rex, stamattina, a prendere la nostra macchina. Dovevo portarla al garage per farle stringere i freni. Sembra che Rex, mi ha detto Sam al telefono, debba andare con la nostra macchina a State College, stasera, a fare un discorso alla radio.» «Su che cosa?» «Non lo so... Sam mi ha solo detto che l'Istituto si è accordato con la radio per una trasmissione speciale, stasera. Mi ha pregato anzi di stare in ascolto al nostro apparecchio. Ma di non parlarne a nessuno. Io spero proprio che questa sera spiegheranno un poco tutti questi misteri. Tu non ne parlerai, vero, Will?» «Stai tranquilla. Oh, buongiorno, Pat, come stai?» La piccola Patricia uscì lentamente dalla nursery e s'attaccò alla mano della madre. I suoi occhi azzurri erano più arrossati di quelli di Nora e il suo visetto s'era composto come in una ferma espressione di non voler piangere più. «Sto bene, signor Will, grazie.» La sua vocina rivelò lo sforzo di non spezzarsi. «Lo sa? Il mio povero Grillo, lo hanno ammazzato questa notte.» Barbee sentì un gelido vento soffiare dalle tenebre della sua mente. Tossì per nascondere un sussulto di terrore. «Oh, ma è terribile!», disse. «E com'è stato?» Gli azzurri occhioni umidi tremarono. «Sono venuti due grossi cani, questa notte, uno bianco e uno grigio, per portare via la cassa del papà nello studio. Il povero Grillo è uscito per fermarli e allora il grande cane grigio lo ha ucciso.» Muto e sconvolto, Barbee si volse a gardare interrogativamente Nora. «Questo è quanto va ripetendo la bambina», rispose, con voce stanca. «Certo, il suo cagnolino è morto. Lo abbiamo trovato sul mucchio di sabbia questa mattina, proprio dove Pat mi aveva detto di guardare, quando si è svegliata piangendo.» La spalla della donna si alzò in un gesto d'impotenza davanti all'inesplicabile. «Io, a ogni modo», insistette risolutamente, «sono convinta che la povera bestiola sia stata travolta da un'automobile. Ci sono di quegli studenti che la notte guidano la macchina come forsennati. Probabilmente, Grillo si è trascinato fin sul mucchio di sabbia e Pat deve averlo udito gemere.»
«No, mammina, no!», protestò la piccola. «È stato quel grande cane grigio, che è venuto con un bel cane bianco, quando li ho sognati. Anche papà ha detto che era vero.» Nora accarezzò il volto della figlia, e rivolgendosi a Barbee: «Il fatto è che Sam è diventato pallido come un cencio, quando la bambina ha raccontato il suo sogno, ed è corso subito nello studio a vedere la cassa». Lo guardò preoccupata: «Sei pallido, Will... non ti senti bene?». «Ho fatto anch'io un sogno piuttosto buffo», disse Barbee cercando di sorridere. «Dev'essere stato qualcosa che m'è rimasto sullo stomaco. Be', ora farò un salto all'Istituto e cercherò di vedere Sam.» Pose una mano sulla schiena rotonda della piccola. «Mi dispiace proprio tanto per il povero Grillo, sai, cara?» La bimba si ritrasse di scatto di sotto alla sua mano e andò a nascondere il visetto rattristato dietro la gonna della madre. «Non credo che Sam sarà disposto a dirti qualcosa», stava dicendo Nora. «Ma se ti dicesse qualche cosa, Will... me lo farai sapere?» Lo accompagnò fin sulla soglia e, abbassando la voce per non farsi sentire dalla bimba: «Ti prego, Will, ho tanta paura, sapessi, e non so che cosa fare!». 10. Un basso, inconsueto silenzio, quasi di cattivo augurio, dominava i corridoi semideserti dell'Istituto fondato da Mondrick. Invece della ragazza che si aspettava di vedere al banco delle informazioni, Barbee trovò un uomo molto robusto e un po' troppo maturo per il maglione da studente che portava. «Spiacente, signore», disse facendo il cipiglio al giornalista, «biblioteca e museo sono chiusi oggi.» «D'accordo», rispose cortesemente Barbee, «ma io vorrei solo parlare al dottor Quain.» «Il dottor Quain è occupatissimo.» «Allora il dottor Spivak o il dottor Chittum.» «Occupatissimi anche loro.» Il cipiglio dell'omone si accentuò. «Niente visite, oggi.» Barbee stava ripassando mentalmente le sue strategie per la violazione di domicili particolarmente inviolabili, quando vide due uomini oziare nell'ascensore automatico. Anche loro sembravano un po' troppo maturi per i maglioni con l'emblema giallo e nero dell'università che avevano addosso,
e si misero a guardarlo a loro volta un po' troppo duramente. Il giornalista notò anche il gonfiore che avevano sotto la giacca, e ricordò che Quain aveva assunto alcune guardie per l'Istituto. Scribacchiò allora su un biglietto di visita: «Sam, risparmierai guai a te e a me, se mi riceverai subito». Spinse il biglietto con un dollaro sul tavolo e sorrise allegramente al guardiano, che lo fissava con occhio gelido. «Le dispiacerebbe far avere questo al dottor Quain?» In silenzio, l'uomo respinse il dollaro e portò il biglietto da visita verso l'ascensore. Zoppicava come un poliziotto stanco, e Barbee notò l'enorme rigonfiamento della sua rivoltella sotto la giacca. Sam Quain evidentemente era deciso a proteggere la cassa. Attese dieci infelici minuti sotto lo sguardo di pietra dell'omaccione, quando a un tratto Sam uscì a passo rapido dall'ascensore. Si sentì stringere il cuore all'aspetto sconvolto del giovane scienziato. Era senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate e le sue grandi mani esalavano un odore di sostanze chimiche, come se fosse stato interrotto durante qualche esperimento di laboratorio. La faccia non rasata era pallida e tesa dalla stanchezza. «Di qua, Will.» Posò gli occhi su Barbee senza amicizia e invitò con un gesto il giornalista a seguirlo fino in fondo al corridoio in una sala, che per qualche istante lasciò Barbee perplesso. Le pareti erano ricoperte di grandi carte geografiche che riproducevano i cinque continenti e di altre che Barbee capì essere ricostruzioni delle varie linee costiere e delle masse continentali scomparse nel passato geologico. Una serie di computer occupava un'estremità della sala, davanti a grandi schedari d'acciaio. Barbee si chiese fuggevolmente quali generi di dati e riferimenti Mondrick e i suoi collaboratori avessero raccolto e analizzassero in quella sala. Fiumi e montagne di quei continenti scomparsi, più antichi ancora delle leggendarie Lemuria e Atlantide, apparivano con particolareggiata evidenza: li attraversavano linee di frontiera colorate. Sam Quain si chiuse l'uscio alle spalle e andò a porsi accanto a un tavolo, volgendosi poi a guardare Barbee. C'erano alcune sedie, ma non ne offrì una a Barbee. Strinse un pugno, convulsamente, in un gesto inconscio di emozione controllata. «Meglio che la pianti, Will», disse con voce piena d'una contenuta veemenza. «Nel tuo stesso interesse.» «Dimmi perché», lo sfidò Barbee.
Uno spasimo d'angoscia contorse il volto emaciato di Quain. I suoi occhi dolenti si levarono per un attimo verso le carte geografiche di un remotissimo passato. Tossì, e la sua voce parve non potergli più uscire dalla gola. «Will, ti prego di non chiedermi questo!» Barbee sedette sull'angolo del tavolo. «Siamo amici, Sam... o per lo meno lo eravamo un tempo. Per questo sono venuto qui. Tu puoi dirmi cose che devo sapere... per motivi straordinariamente urgenti.» Il volto di Sam si chiuse. «Io non posso dirti nulla.» «Dammi retta, Sam!» Nella voce di Barbee vibrò una nota imperativa. «Che cosa cercava di dire il povero Mondrick quando morì? Che cosa avete trovato nell'Ala-shan, e che cosa contiene la cassa verde?» Scrutò il viso torvo di Quain. «E chi è il Figlio della Notte?» Tacque, in attesa, ma Quain deliberatamente non rispose. «Potresti anche rispondermi, Sam», insistette Barbee con asprezza. «Lavoro per un giornale, ricordatelo, e so come si fa a scoprire quello che si vuol tenere nascosto. Io scoprirò quello che nascondi, con o senza il tuo aiuto!» Sam Quain socchiuse gli occhi e il pomo d'Adamo gli salì e scese come a fatica sulla gola. «Non sai in che pasticcio vuoi andare a cacciarti», disse a un tratto con voce bassa e dolente. «Possibile che tu non possa lasciarci tranquilli in questa faccenda... finché resta ancora un po' della nostra amicizia? Cerca, per una volta tanto, di scordarti il mestiere che fai!» «Ma io non sono qui per lo Star», spiegò Barbee. «Il giornale non s'interessa alla cosa. Ma accadono fatti che io non riesco a capire. Debbo risolvere alcuni enigmi, Sam, che rischiano di farmi perdere la ragione!» Per un istante la voce gli venne a mancare. «So che tu e gli altri avete paura di qualche cosa, Sam. Se no, non avreste preso tutte quelle precauzioni per proteggere Mondrick all'aeroporto. E non avresti trasformato questo edificio in una fortezza... Qual è il pericolo, Sam?» Cocciuto, Quain scosse il capo. «È meglio che non ci pensi più, Will. La risposta non ti farebbe più felice...» Barbee si alzò tremando dal tavolo. «Qualcosa la so già», disse roco. «Abbastanza per farmi diventare pazzo.
Sento che stai scatenando una guerra terribile contro... qualcosa, e che ci sono dentro anch'io, Dio sa come. Ma io voglio stare dalla tua parte, Sam.» Sam sedette pesantemente nella poltrona dietro il tavolo, e si mise a giocherellare distratto con un fermacarte: la piccola lampada romana di Mondrick, vide Barbee, con i due gemelli figli di Marte e di una vergine protesi verso le mammelle di una lupa. «Qualunque cosa tu sappia può essere fonte di sciagura... per entrambi, Will.» Respinse bruscamente la lampada di terracotta lontano, e rimase per un lungo tratto in silenzio, guardando Barbee con occhi tormentati. «Temo che tu soffra di allucinazioni», riprese poi, con dolcezza. «Nora mi ha detto che in questi ultimi mesi hai lavorato molto e bevuto troppo, Will, e credo che abbia ragione. Hai bisogno d'un periodo di riposo. Perché non te ne vai da Clarendon per qualche giorno, prima che ti colga un esaurimento nervoso di prima grandezza? Posso aiutarti in modo che tu non abbia da spendere un soldo... se mi prometti di prendere oggi nel pomeriggio l'aereo per Albuquerque.» Barbee lo fissava muto e accigliato. «Vedi», riprese Quain, «l'Istituto in questi giorni ha una piccola spedizione nel Nuovo Messico, dove si fanno scavi in antiche caverne d'abitazione alla ricerca di resti che possano illuminarci sul perché l'homo sapiens era già estinto nell'emisfero occidentale quando vi giunsero gli amerindi. Ma tu non avrai bisogno d'annoiarti coi loro lavori.» Sorrise, incoraggiante. «Perché non ti prendi una settimana? Telefono io a Troy, per il permesso. Potresti anzi tirar fuori qualche corrispondenza per il giornale da questa gita nel Nuovo Messico. Ti prendi del bel sole, aria buona, fai del moto e ti dimentichi di Mondrick e tutto il resto. Eh?» E allungò il braccio verso l'apparecchio telefonico che si trovava sul tavolo. Ma Barbee scosse il capo. «Non mi lascio comperare, Sam.» Vide il rossore di rabbia di Quain. «Non so quello che vuoi nascondere, ma non mi farai tagliar la corda così facilmente. No, intendo restare e vedere come si mettono le cose.» Quain si alzò, rigido e freddo. «Mondrick non si fidava di te, Will... già molto tempo fa. Non ha mai voluto dirci perché. Può darsi che sbagliasse e può darsi che avesse ragione. Ma noi non possiamo correre rischi.» La sua faccia ora rivelava una decisa ostilità. «Mi dispiace che tu abbia deciso di essere irragionevole. Io non tentavo di corromperti, ma ora debbo veramente metterti sull'avviso: piantala, Will. Se non la smetti con le tue indagini in faccende che non ti
riguardano... saremo costretti a fartele smettere noi. Abbi pazienza, Will, ma le cose stanno così, e la colpa non è mia.» Scosse la testa ossuta e abbronzata con sincero rammarico. «Pensaci, Will. Ora devo andare.» Si diresse rapidamente verso la porta. «Un momento, Sam!», gridò il giornalista. «Se almeno potessi darmi una sola ragione convincente...» Ma Sam Quain chiuse l'uscio di quell'enigmatica sala alle loro spalle e si avviò per il corridoio come se non lo avesse udito. Barbee cercò di seguirlo, ma la porta dell'ascensore gli sbatté in faccia. Sentendosi addosso lo sguardo di granito dell'uomo dietro il banco delle informazioni, si ritirò da quella severa torre divenuta la cittadella dell'inesplicabile. Profondamente turbato, salì in macchina e ritornò in città. Guardò l'orologio, ma era ancora presto per andare a trovare April Bell. E, tutto sommato, il suo dovere sarebbe stato di lavorare per lo Star, dove la pratica Walraven lo attendeva in un cassetto del suo tavolo di redazione. Ma l'idea di fare di Walraven un uomo nuovo a beneficio dei suoi lettori lo nauseava, e improvvisamente capì che era Rowena Mondrick che doveva vedere al più presto. Glennhaven occupava un centinaio di acri sulle colline sopra il fiume, a sei o sette chilometri da Clarendon. Alberi folti riparavano gli edifici della clinica con la ricca chioma che l'autunno aveva tinto d'un caldo color di rame. Barbee entrò nella penombra discreta di un ampio vestibolo. Austero e opulento come il salone di una banca, sembrava un tempio dedicato al dio Freud, e la signorina snella seduta davanti a un centralino telefonico, al riparo d'una enorme scrivania di mogano, ne era la vergine sacerdotessa. «Vorrei vedere la signora Rowena Mondrick», disse Barbee, dandole un biglietto da visita. La ragazza si mise a sfogliare rapidamente un grosso registro di pelle nera, e gli rivolse un sorriso sognante. «Mi dispiace, signore, ma non vedo ancora segnato il suo nome. Tutte le visite devono essere richieste in anticipo, attraverso il medico curante della clinica. Se desidera fare la domanda...» «Ho bisogno di vedere la signora Mondrick immediatamente.» «Temo che sia impossibile, signore.» Il sorriso della bella figliola era addirittura un paradiso artificiale e la sua voce una carezza nel dormiveglia. «Per oggi almeno. Se vorrà tornare...» «Chi è il medico curante della signora?»
«Un istante, prego.» Le lunghissime dita d'avorio ripresero a scartabellare con grazia il nero registro. «La signora Rowena Mondrick è stata ricoverata stamane alle otto ed è in cura presso...» La voce della ragazza assunse una modulata intonazione di rispetto nel nominare non invano il dio del tempio: «Presso il dottor Glenn». «Allora mi faccia parlare con lui.» «Impossibile, signore», gorgheggiò la ragazza. «Il dottor Glenn riceve solo dietro appuntamento.» Barbee fu lieto di ritrovarsi fuori, nella pura aria autunnale. Un altro tentativo era fallito, ma c'era ancora April da vedere, e al pensiero il cuore gli diede un balzo nel petto. Le avrebbe reso la spilla e in qualche modo sarebbe riuscito a scoprire se anche April Bell aveva sognato... La vista della signorina Ulford, seduta su una panchina presso la fermata dell'autobus, interruppe il corso dei suoi pensieri. Fermò la macchina presso il marciapiede e le offrì il ritorno in città. La vivace donnetta accettò di buon grado. «Avrei dovuto farmi chiamare un tassì», disse scivolandogli accanto nella macchina, «ma sono così sconvolta per la povera Rowena che non so più quello che faccio.» «Come sta?» «Gravemente agitata, questo è quanto il dottor Glenn ha scritto sulla sua cartella clinica. È ancora in preda a una crisi di nervi e non voleva assolutamente che me ne andassi, ma Glenn ha detto che era necessario e che le avrebbe dato dei sedativi.» «Ma in che cosa consiste il suo disturbo?» «Paura ossessiva, l'ha chiamata Glenn.» «Di che cosa?» «Ricorda che aveva la mania di coprirsi d'argento? Bene, stamane le abbiamo tolto i monili d'argento che porta sempre con sé, quando l'abbiamo medicata delle sbucciature che si era fatta cadendo. Non vi dico che cosa è successo, quando si è accorta di non averli più addosso. È stata colta da una tale crisi di terrore, che Glenn mi ha mandato a casa a prenderglieli. E come mi ringraziava, poverina, quando glieli ho portati! E poi», continuò la voce nasale della buona donnetta, «c'è l'ossessione per Sam Quain. Rowena dice che deve assolutamente vederlo, che deve dirgli qualcosa di molto importante, ma non vuole telefonargli, non vuole scrivergli, non si fida nemmeno di me per fargli sapere quello che le preme tanto. Mi ha pregato di andare da lui e convincerlo ad andarla a trovare al più presto,
perché, dice, deve avvisarlo di qualche cosa. Ma naturalmente non può ricevere visite, finché si trova in quello stato.» Era quasi mezzogiorno quando Barbee depositò la signorina Ulford davanti alla vecchia casa di University Avenue, e si affrettò a correre in redazione, dove si gingillò coi ritagli su Walraven fino al momento di telefonare al Trojan Arms. Ma quando aveva già il microfono in mano, si accorse che tutto il suo entusiasmo per rivedere la ragazza dai capelli rossi era scomparso, sostituito da un inspiegabile senso di panico. Bruscamente, riattaccò il ricevitore. Era l'ora di colazione, ma non aveva fame. Si fermò in farmacia, per farsi dare una dose di bicarbonato, e poi al Mint Bar per un bicchierino di whisky del Kentucky. Questo lo rianimò, e allora pensò di andare a trovare Walraven nel suo studio d'avvocato, nella speranza di dimenticare un'incertezza e un'angoscia che stavano diventando per lui un'ossessione come quella della povera Rowena. L'uomo politico gli offrì con grande cordialità un altro whisky e cominciò a raccontare storielle sporche sui suoi avversari politici. Ma il buon umore del colonnello Walraven si dissipò quando Barbee alluse discretamente alle obbligazioni delle fognature cittadine; ricordò improvvisamente un impegno urgentissimo, e Barbee se ne tornò al suo tavolo di redazione. Non riuscì a lavorare. Aveva un bisogno tormentoso di sapere che cosa Rowena Mondrick dovesse dire a Sam Quain. E una lupa dagli occhi verdi seguitava a fissarlo beffarda, nel mezzo del foglio bianco inserito nella sua macchina per scrivere. Era inutile continuare a temporeggiare così, si disse a un tratto. Si scosse di dosso quella irragionevole paura di April Bell, mentre riponeva ancora una volta nel cassetto la cartella di Walraven; e una nuova paura lo colse: d'avere atteso troppo a lungo. Erano quasi le due: April doveva essere uscita da un pezzo, se lavorava veramente al Call. Salì in gran fretta sulla sua macchina, tornò a casa a prendervi la spilla e si lanciò a velocità pazzesca sulla North Main Street verso il Trojan Arms. Non lo stupì la vista della grossa macchina di Preston Troy nel parcheggio dietro il residence. Una delle ex segretarie più lussureggianti di Troy, sapeva, occupava un appartamento all'ultimo piano. Barbee non si fermò al banco: non voleva avvertire April e darle così modo d'inventare altre storielle sulla zia Agatha. Non attese nemmeno l'ascensore e prese a salire le scale fino al secondo piano. Neanche allora si stupì nel vedere la figura massiccia di Preston Troy
precederlo nel corridoio: probabilmente, l'ex segretaria si era trasferita in un altro appartamento. Cominciò a guardare i numeri sulle porte degli appartamenti. Questo era il 2-A, e quello il 2-B; il prossimo doveva essere il 2-C... E restò col fiato sospeso. Perché Troy s'era fermato, davanti a lui, sulla soglia del 2-C. Barbee guardava a bocca aperta, immobile nel corridoio. L'uomo basso e tarchiato in doppio petto ben stirato e cravatta d'un rosso clamoroso non stette a perdere tempo a suonare il campanello o a battere con le nocche delle dita. Aprì la porta con una chiave che aveva in tasca. Barbee sentì l'ossessionante asprezza vellutata della voce intima, bassa di April Bell, e poi la porta si richiuse. Tornò incespicando verso l'ascensore e premette il bottone della discesa con furia selvaggia. Si sentiva pieno di nausea, come se avesse ricevuto un gran pugno nello stomaco. Era vero, si disse, che non aveva diritti di sorta su April Bell. Lei gli aveva parlato di altri amici, oltre alla zia Agatha. Era chiaro che non poteva vivere in un residence del genere con quello che guadagnava al giornale. Ma Barbee era nauseato lo stesso. 11. Tornò in redazione: non c'era altro da fare. Aveva deciso di non pensare più ad April Bell, e di cercare sollievo a tutte le crudeli perplessità che uscivano dalle ombre della sua mente a tormentarlo coi suoi antichi rimedi: lavoro sodo e whisky puro. Riprese la cartella Walraven e batté d'un fiato un articolo sulle durezze patite nell'infanzia dal «Primo Cittadino di Clarendon», bellamente girando intorno ai fatti sordidi che bisognava omettere. Uscì poi per assistere a un comizio di cittadini indignati al grido di «Fermiamo Walraven!» e assunse un tono di garbata e signorile ironia per descriverlo nel modo in cui Grady diceva che Troy lo voleva scritto: come una riunione cioè di gentaglia prezzolata da inconfessabili interessi. Aveva paura di tornare a casa. Cercò di non pensare alle ragioni per cui aveva paura, ma indugiò in cronaca fino alla chiusura della terza edizione, e infine si fermò a bere qualche bicchierino con alcuni colleghi nel bar di fronte al giornale. In realtà, aveva paura di andare a letto. Mezzanotte era passata da un
pezzo e lui trasudava whisky e stanchezza quando attraversò in punta di piedi l'anticamera scricchiolante della tetra casetta di Bread Street e salì nel suo appartamentino. Sentì a un tratto di odiare con rinnovato vigore quella casa dall'odore stantio, le tappezzerie sbiadite, i mobili brutti e miseri; di odiare il suo posto allo Star e le ciniche menzogne del suo articolo su Walraven; di odiare Preston Troy, e April Bell, e se stesso. Stanco, solo e amareggiato, lo colse una gran pietà nei propri confronti. Non se la sentiva di scrivere tutte quelle immonde banalità che Troy esigeva dalla sua capacità di giornalista, e insieme non aveva il coraggio di piantare baracca e burattini. Era stato Mondrick che aveva distrutto la sua fiducia in se stesso, il suo orgoglio e il suo entusiasmo, anni prima, quando il rude scienziato aveva bruscamente spezzato la sua carriera di antropologo, senza volergliene dire la ragione. O tutto questo non era che un inutile piagnisteo, e il suo fallimento doveva essere attribuito solo alla sua incapacità? A ogni modo, la sua vita era ormai rovinata, distrutta. Non vedeva nessun avvenire davanti a sé... e aveva paura di coricarsi. Girellò per la stanza da bagno, e bevve ancora dalla bottiglia una lunga sorsata di whisky. Con la vaga speranza che potesse dargli una spiegazione plausibile del suo sogno, prese uno dei suoi vecchi libri di testo dallo scaffale e cercò di leggere il capitolo sulla licantropia. Il libro elencava le credenze primitive, stranamente universali, sulla possibilità da parte degli esseri umani di tramutarsi in pericolosi animali carnivori. Scorse rapidamente la lista dei Lupi Mannari, orsi e giaguari umani, tigri, alligatori, squali, gatti umani, leopardi umani, e iene umane. Le tigri mannare della Malesia, lesse, erano considerate invulnerabili nella loro metamorfosi; ma il linguaggio prudente, obiettivo, dell'autorevole accademico che aveva scritto l'opera appariva arido e monotono a paragone della realtà del suo sogno. Gli occhi cominciarono a bruciargli dolorosamente. Mise il libro da parte e se ne andò riluttante a letto. Una tigre mannara, pensò pigramente, sarebbe stata una trasformazione piena di vantaggi. Quasi con invidia ricordò le caratteristiche della tigre preistorica, dalle terribili zanne a forma di sciabola. Sonnecchiando, ruminò sul terribile potere di quella belva ormai estinta, dagli artigli tremendi e le spaventevoli zanne. E tutta la sua paura di addormentarsi si trasformò in un'ardente sete di vitalità e di forza. Questa volta fu più facile. Il flusso della metamorfosi fu quasi indolore. Balzò a terra, presso il letto, muovendosi poi in quello spazio angusto con
molle eleganza felina. Curioso, si volse a guardare la forma addormentata sotto le coperte, il magro e lungo corpo mortalmente pallido e immobile. I suoi nuovi occhi vedevano tutto nella stanzetta con straordinaria chiarezza, anche alla debole luce che filtrava, sotto la tapparella abbassata, dal lampione sull'angolo della strada. E improvvisamente si ricordò l'arte che April Bell gli aveva insegnato. Nulla era assoluto in nessun luogo: soltanto le probabilità erano reali. La sua mente libera era un complesso eterno di energia, che afferrava atomi ed elettroni mediante la catena della probabilità. Quella rete mentale poteva cavalcare il vento o passare attraverso il legno o il metallo: unica barriera insormontabile, il mortale argento. Fece uno sforzo per ricordare. La porta si fece nebbiosa. Il metallo della serratura e dei cardini apparve e si dissolse di nuovo. Scivolò attraverso l'apertura, passò silenzioso per l'anticamera ove giungeva la respirazione della signora Sadouski e degli altri suoi inquilini. Anche la porta d'ingresso si dissolse sotto la sua volontà, dopo di che si mise, invisibile, a trotterellare verso il Trojan Arms. April Bell gli venne incontro presso il minuscolo lago, orlato di ghiaccio, nel parco sull'altro lato della strada. Questa volta non gli apparve come lupa, ma come donna. Ma lui seppe, fin da quando la vide materializzarsi davanti alla porta dell'albergo, che si era lasciata dietro, addormentato, il suo vero corpo. Era completamente nuda, e i lunghi capelli le scendevano in onde scarlatte sopra i seni. «Devi essere forte, Will, per assumere questa forma!» C'era dell'ammirazione nella sua voce vellutata e nei suoi luminosi occhi verdi. Gli si fece accanto e lo grattò tra gli orecchi. «Sono contenta che tu sia così forte», gli disse, mentre lui ronfava dal piacere. «Perché non mi sento ancora bene: il tuo amico Quain mi ha quasi uccisa, con la sua trappola, la notte passata. E io stavo per chiamarti, Will, perché abbiamo un'altra missione da compiere stanotte.» Lo spaventoso felino si frustò i fianchi con la coda con apprensione. «Ancora?» Rivide la cieca Rowena cadere miseramente sull'orlo del marciapiede e rivolse un sordo mugolio alla donna dai capelli rossi, ritta presso i suoi fianchi possenti. «Non voglio più.» «Nemmeno io.» E si mise a titillarlo sotto le orecchie. «Ma ho scoperto che Rex Chittum è partito da Clarendon un'ora fa, con la macchina di Sam Quain. So che si propone di parlare alla radio, domani, dalla stazione dello State College. Temo che voglia concludere le dichiarazioni scientifiche co-
minciate da Mondrick all'aeroporto. Dobbiamo impedirglielo, Will.» «Un altro mio amico! No, Rex è un mio caro, vecchio amico!...» «Tutti i tuoi cari vecchi amici sono esseri umani, Will. E perciò sono nemici spietati, temibili, del Figlio della Notte. Ricorrono a ogni risorsa della scienza per scovarci e distruggerci. Dobbiamo servirci delle poche e deboli armi che possediamo. Non ti pare, Will?» Chinò la testa formidabile, dominato. Perché quella era la sua vera vita, con lei vicina e la sua mano morbida che gli accarezzava il mantello fulvo, traendone faville. Il mondo in cui Rex Chittum era stato suo amico non era più che un lontano incubo di penosi compromessi e di mortale avvilimento. «Allora andiamo», disse lei, salendogli in groppa: era senza peso per la sua nuova forza illimitata. Percorsero così Main Street fino a Center Street e proseguirono verso la campagna. La luna tramontava e nel cielo limpido e freddo brillavano le costellazioni autunnali. Ma anche alla blanda luce delle stelle Barbee poteva vedere tutto distintamente: ogni roccia e ogni cespuglio sui margini della strada. «Presto, Will», lo spronò April, premendo le ginocchia contro i suoi fianchi possenti. «Dobbiamo raggiungerli sul Sardis Hill.» Accelerò il passo, godendo del suo immenso potere, esultando del limpido gelo dell'aria, dei buoni odori di terra e di vita che gli sfioravano le nari, della calda levità della donna sul suo corpo. Ora sì che la sua vita era piena! April Bell lo aveva ridestato, lo aveva salvato da una morte squallida e lenta, ogni giorno più vera. «Più presto!», ansimò April. La buia pianura e i piedi delle colline fuggivano ai loro lati come una nube volante. Ma quando la strada cominciò a snodarsi sui fianchi dei colli più elevati, tra nere chiazze boscose, anche il suo cuore possente cominciò a palpitargli dolorosamente. Riconosceva i luoghi. Il padre di Sam Quain aveva un piccolo ranch da quelle parti, che poi era stato venduto dopo la sua morte. E Barbee e Sam andavano a caccia per quei boschi. I suoi fianchi pulsavano con forza, all'unisono col suo fiato anelante. «Mancheranno ancora una trentina di chilometri a Sardis Hill», protestò. «E la salita è ripida.» «Lo è ancora di più per la macchina del tuo amico... E poi c'è un motivo perché lo si debba raggiungere sul Sardis Hill.» «Quale?» «Noi non siamo mai così forti come ci sembra, in questo stato di libertà
fisica. Perché i nostri veri corpi sono stati abbandonati solo in parte e il nostro complesso mentale può attingere solo alle energie causali che può strappare agli atomi dell'aria, o di altre sostanze, mediante il circuito delle probabilità. Tutto il nostro potere sta nel controllo delle probabilità e noi dobbiamo colpire là dove quel controllo si rivela opportuno.» Scosse l'immensa testa felina, intollerante di quelle complicazioni teoriche. I paradossi della fisica matematica lo avevano sempre sbalordito, e ora gli bastava la consapevolezza della sua attuale potenza vitale, senza aver la curiosità di conoscerne la causa atomica. «Quali probabilità?», volle sapere. «Rex Chittum è al sicuro da noi, finché guida l'automobile con prudenza su un rettifilo pianeggiante... Quain deve averlo istruito e messo in guardia, e la probabilità che noi gli si possa fare del male è troppo esigua perché si possa afferrarla. Ma se corri», e le mani della donna si afferrarono alla sua fulva pelliccia, «in modo da raggiungerlo sul Sardis Hill, le probabilità ch'egli muoia si accresceranno enormemente quando si avvierà giù per quella doppia curva... Sento queste cose, e lo so: Rex Chittum ha paura. Accelererà troppo, malgrado gli avvertimenti di Quain.» April si distese sulla sua lunga groppa tigrata. «Più presto!», urlò nel vento della corsa che le fischiava alle orecchie. «Più presto, e uccideremo Rex Chittum sul Sardis Hill!» Rabbrividì sotto di lei, mentre si tendeva in uno sforzo gigantesco per raggiungere il massimo della velocità. Ora si vedevano i primi pini, e Barbee ne aspirò la pura fragranza, mentre i suoi occhi potevano distinguere ogni ago, ogni frutto, nitidamente, nella fievole luce degli astri. Infine, al di là della pineta, le rosse luci posteriori d'una macchina ammiccarono un paio di volte prima di scomparire. «Laggiù!», esclamò la ragazza. «Raggiungiamolo, Will!» Ancora uno sforzo, che tese i suoi lunghi muscoli fino a procuragli un dolore atroce e trasformò i suoi polmoni in due mantici lancinanti, e la strana coppia fu a pochi metri dai fanali rossi. L'auto arrancava lenta sul tratto più duro della salita che portava su, al passo di Sardis Hill. Era la piccola macchina convertibile, vide, che Nora aveva comperato durante l'assenza di Sam. La cappotta era aperta, malgrado il freddo della notte: Barbee ricordava, infatti, che non funzionava bene. Chino sul volante, rinfagottato in un gran cappotto nero, Rex Chittum aveva palesemente freddo e paura. «Bravo, Will», lodò April. «Ora seguiamolo così, da vicino, fino alla
curva.» Barbee rispose con un altro balzo, che lo riportò dietro la macchina. Il motore ringhiava faticosamente su per la salita ripidissima, e l'aria dietro la vettura puzzava di gomma calda e di benzina combusta. Rex Chittum si voltò, a guardarsi alle spalle con apprensione. La bruna testa era senza cappello: Barbee poteva distinguere quasi uno per uno i suoi capelli ricci, scomposti dal vento. Nonostante la stanchezza che gli rendeva il viso terreo e la paura che gli dilatava pazzamente le pupille, era ancora bello, come ai tempi lontani di loro, «Quattro Mulattieri»... Barbee brontolò sordamente: «Non voglio fargli del male... siamo andati a scuola insieme, e mi prestava sempre il suo ultimo dollaro, quando ne aveva più bisogno di me». «Corri, Will», mormorò April, «non farti distanziare.» Si voltò di scatto, levando le terribili zanne simili a due candide scimitarre lampeggianti. «Pensa a quel povero vecchio di Ben Chittum», si diceva. «Rex è tutto ciò che gli è rimasto al mondo. Si era ridotto a fare qualunque lavoro, a vestire stracci per mantenere Rex agli studi, quando erano venuti a stare a Clarendon. Perché spezzargli il cuore?» «Corri, Barbee», insisteva la voce limpida, spietata di April. «Dobbiamo fare il nostro dovere, perché siamo quello che siamo, tu e io.» Si pose ad accarezzargli la groppa. «Per salvare la nostra specie e difendere il Figlio della Notte.» Il corpo lungo e voluttuoso della donna aderiva, disteso, al suo fulvo mantello, e i suoi calcagni nudi premevano contro i suoi fianchi pulsanti. «Aspetta, sempre restando dietro la macchina, fino alla curva, quando Rex comincerà ad accelerare, quando il circuito delle probabilità sarà abbastanza forte... non lo senti crescere?...» Barbee si sentì invadere da un desiderio irresistibile di obbedire alla volontà di quella creatura, che era più forte della sua vita, che era la vita stessa. «Ecco!... Ora!» Barbee si lanciò avanti in un balzo spaventoso, ma la piccola macchina si allontanava, accelerando giù per la discesa dopo il passo. Gli artigli formidabili delle sue zampe anteriori si strinsero sull'asfalto, mentre le esalazioni che uscivano dal tubo di scappamento minacciavano di soffocarlo. «Attaccalo, ora!», lo spronò ancora la donna. «Ora che il circuito è forte a sufficienza!» Ancora un balzo spaventoso, e come un enorme gatto Barbee si trovò
aggrappato alla parte posteriore della macchina, con le zampe anteriori saldamente infisse nella cappotta e quelle posteriori posate sul paraurti e un parafango. «Uccidi, ora! Prima che il circuito s'interrompa!» Rex Chittum si volse ancora, a guardarsi alle spalle con occhi incupiti dall'ombra del terrore, e rabbrividì, nel suo pesante cappotto, sebbene non vedesse le terribili zanne a scimitarra incombere sul suo capo. E un lieve sorriso gli passò sul volto devastato dalla stanchezza e dalla tensione: «Ce l'ho fatta!», mormorò. «Sam diceva che il pericolo era...» «Ora!», sibilò per l'ultima volta April. «Mentre i suoi occhi non guardano la strada!» E Barbee non se la sentì più sulla groppa. Fulminee, perché il poveretto non soffrisse troppo, le lunghe zanne calarono lampeggiando. Rex Chittum gli era stato amico fedele e affettuoso in quel mondo morto, indistinto, del suo passato... di un passato ormai terribilmente remoto. E le zanne squarciarono con feroce determinazione la gola calda dell'uomo. Le mani si abbandonarono inerti sul volante. La macchina aveva tenuto una velocità troppo elevata, e questo, sentì Barbee, aveva intensificato il campo delle probabilità. I pneumatici fumarono sull'asfalto, sobbalzarono sulla ghiaia ai margini della strada, mentre l'automobile, sbandando, usciva dalla curva strettissima. Barbee si staccò dalla macchina nell'istante che questa precipitava oltre il ciglio. Rimase ansante, sulle quattro zampe, a guardare giù, nel precipizio. April gli venne accanto, e stettero entrambi a guardare, mentre lei gli si attaccava al mantello con mani fredde. L'auto, con le ruote ancora giranti e il motore acceso, fece tre capriole nel vuoto ai loro piedi e infine cozzò contro il pendio roccioso trenta metri più in basso. Con un fragore stridulo, s'appiattì, si spaccò, continuò in varie parti a rotolare, finché andò a sbattere contro un macigno, e là rimase immobile. «Ecco, Barbee. La polizia non si accorgerà mai che la gola di Rex non è stata squarciata dal parabrezza infranto. Il circuito delle probabilità ha creato anche questa combinazione.» Si scosse i lunghi capelli di fiamma lungo le spalle nude e si chinò a palparsi una caviglia. Il suo volto bianchissimo si contorse in una smorfia di dolore, mentre i suoi lunghi occhi verdi si volgevano a guardare la pallida immagine della luce zodiacale, che cominciava a sorgere nella cava oscurità del passo alle loro spalle.
«Mi son fatta male», mormorò, «e la notte è quasi al termine. Will, dovrai portarmi a casa.» Barbee s'accasciò presso un macigno, per aiutarla a salire in groppa e riprese la strada in senso inverso, fin sul passo e per la lunga discesa che li avrebbe riportati a Clarendon. Si sentiva stanco, colmo d'una sazietà che lo riempiva di tristezza. Tutto il folle orgasmo di poco prima lo aveva abbandonato. Aveva soltanto paura, una paura profonda della luce livida a oriente. Odiava la prigione angusta e squallida del suo corpo addormentato, ma doveva ritornarvi. Si scrollò, zoppicando stancamente verso le prime luci dell'aurora, ma April protestò duramente. Barbee non riusciva a dimenticare l'ombra d'orrore che aveva visto negli occhi di Rex, quando si era voltato a guardare attraverso di lui, prima che le zanne lo colpissero, e non riusciva nemmeno a non pensare al dolore del vecchio Ben. 12. Si svegliò che era già tardi. L'abbagliante fulgore del sole nella sua camera gli ferì gli occhi dolenti, e se ne ritrasse di scatto, prima di ricordarsi che il mortale potere della luce esisteva solo nel suo sogno. Un profondo malessere lo dominava. Una plumbea stanchezza gli dolorava per tutto il corpo e fitte lancinanti gli strinsero il cranio in una morsa di spasimo, quando si levò a sedere sul letto. Traballando, si diresse verso la stanza da bagno, tenendosi la testa tra le mani. La doccia, quasi bollente prima e subito poi gelida, gli fece bene, attenuando in parte la feroce emicrania. Un cucchiaino di bicarbonato effervescente, rimescolato in un bicchier d'acqua, gli rimise anche lo stomaco a posto. Ma la sua immagine allo specchio lo spaventò. Era d'un pallore cinereo, il suo volto, stiracchiato e dalla pelle cascante, mentre gli occhi affondavano nelle occhiaie livide e scintillavano come per febbre sotto le palpebre dagli orli arrossati. Cercò di sorridere, quasi a illuminare un poco la tetra stanchezza di quel volto, e le labbra esangui si torsero sardonicamente. Era la faccia d'un pazzo, quella, non di Will Barbee. Per l'ennesima volta, in quegli ultimi tempi, si disse che avrebbe fatto bene a smettere di bere e ad arricchire la sua dieta di vitamine, per disintossicarsi. Anche una buona rasatura avrebbe potuto giovare al suo aspetto spettrale, se soltanto fosse riuscito a non tagliarsi.
Stava preparando il rasoio quando squillò il telefono. «Will?... Parla Nora Quain.» La voce della donna era piena di strazio. «Sii forte, Will. Sam mi ha chiamato pochi minuti fa dall'Istituto... è rimasto là a lavorare tutta la notte... per dirmi di Rex... Il povero Rex era partito stanotte per lo State College, nella nostra macchina. Forse andava a una velocità eccessiva... o era nervoso per il discorso che doveva fare alla radio. A ogni modo, la macchina si è rovesciata, sul passo di Sardis Hill. E Rex è morto.» Il telefono scivolò di mano a Barbee. S'inginocchiò senza più forza e cercò il microfono a tastoni con dita bizzarramente intorpidite. «È morto sul colpo, ha detto a Sam la polizia», continuava la voce di Nora. «Il vetro del parabrezza gli ha quasi staccato la testa dal collo. È una cosa terribile, e mi sento in certo qual modo responsabile. I freni non funzionavano troppo bene, e non ho pensato di avvertirlo...» Barbee annuì nel microfono, silenziosamente. Lei stessa non poteva sapere quanto fosse terribile. Avrebbe voluto gridare, se la gola secca e dolente glielo avesse permesso. Chiuse gli occhi contro l'offensiva luce del giorno e gli parve di rivedere il volto bello e stanco di Rex, mentre si voltava a guardare attraverso la sua forma spettrale. «...era tutto quello che aveva», continuava la voce piangente di Nora. «So che tu sei il suo migliore amico, Will. Per due anni ha atteso in quella sua edicola che Rex tornasse a casa. Non si rassegnerà troppo presto... Dovresti dirglielo tu, Will. Non credi?» Barbee dovette inghiottire due volte, prima di rispondere in un roco bisbiglio: «Sì, certo, glielo dirò io». E, riattaccato il microfono, tornò barcollando nella stanza da bagno, dove prese la bottiglia e bevve tre lunghe sorsate di whisky. Il liquore lo rinfrancò e gli tolse, almeno per il momento, quel terribile tremito alle mani. Finì poi di radersi e, salito in macchina, si diresse verso il centro. Il vecchio Ben Chittum aveva già aperto l'edicola, quando Barbee fermò la macchina presso il marciapiede, e stava appendendo alcune riviste sopra lo sportello. Nello scorgere Barbee gli sorrise cordialmente, mettendo in mostra le gengive sdentate. «Ehi, Willy!», chiamò. «Che novità ci sono?» Barbee scosse il capo, senza sorridere, muto. «Sei impegnato, questa sera?» E, senza badare all'espressione addolorata del giornalista, lasciò le sue riviste e andò presso la macchina. «Te lo do-
mando perché», ed estrasse la nera pipetta dal taschino rigonfio del camiciotto, «questa sera preparo un pranzetto speciale per Rex.» Sempre muto, Barbee era sceso dall'automobile e ora, ritto sulle gambe che lo reggevano a stento, in preda a un malessere intollerabile, guardava il vecchietto che accendeva golosamente la pipa. «A Rex è sempre piaciuto molto il mio stracotto di manzo e la mia focaccia di biscotti al miele, fin da quando era bambino, e ricordo che venivi spesso anche tu a mangiarli. Ci farai un gran piacere, Will, se verrai anche stasera. Ora telefono a Rex...» Barbee si schiarì la voce. «Purtroppo ho cattive notizie per te, Ben.» La vitalità del vecchietto parve inaridirsi di colpo. Ansimò, fissò il giornalista e cominciò a tremare. La pipa gli scivolò dalle dita nodose e il cannello si spezzò sul marciapiede. «Rex?», sussurrò. Barbee inghiottì e fece un cenno affermativo col capo. «Una disgrazia?» «Sì, una disgrazia. Questa notte viaggiava in macchina sulle colline per conto dell'Istituto. E l'automobile è sbandata, su Sardis Hill. Rex è... morto. Ma non... non ha sofferto.» Ben Chittum rimase a lungo con gli occhi fissi nel vuoto, che si andavano lentamente colmando di lacrime. Erano occhi neri come quelli di Rex, e quando si persero così nel vuoto sembrarono improvvisamente quelli di Rex mentre si voltava a guardare, in quel terribile sogno, sotto la minaccia delle zanne a forma di sciabola. «Per questo avevo paura», disse il vecchio lentamente. «Nessuno di loro aveva la faccia giusta, quando sono tornati dalla spedizione. Ma Rex non ha mai voluto dirmi nulla. E ho ancora paura, Will...» Il vecchio si chinò stentatamente, per raccogliere la pipa spezzata, e con dita tremanti cercò di riconnettere i due pezzi. «Ho ancora paura», riprese, «perché penso che abbiano dissotterrato qualcosa in quel deserto che doveva restare sotto terra. Vedi, Rex mi disse un giorno, prima che partissero per l'ultima volta, che Mondrick andava in cerca dell'autentico Giardino dell'Eden, da dove è venuta la razza umana. Ho paura che l'abbiano trovato, Will... e che abbiano anche trovato cose che sarebbe stato meglio non trovare.» Si ficcò i pezzi della pipa in tasca. «Rex non sarà l'ultimo del gruppo a morire.»
I suoi neri occhi immobili tornarono lentamente a fissarsi su Barbee e solo allora parve accorgersi delle lacrime che li colmavano. Se li asciugò con un impaziente colpo di manica. Poi scosse il capo e se ne tornò zoppicando verso la sua fila di riviste ch'era rimasta mezza ciondolante sullo sportello dell'edicola. Barbee rimase ritto dove si trovava, troppo sconvolto per pensare ad aiutarlo. «Rex andava pazzo per il mio stracotto di manzo», mormorò il vecchio. «E per la focaccia di biscotti al miele. Te ne ricordi, vero, Will? Fin da quando era piccolo.» Come in sogno, chiuse l'edicola e Barbee lo portò all'obitorio. L'ambulanza non era ancora arrivata col cadavere, cosa che arrecò un certo sollievo a Barbee. Il giornalista lasciò il povero vecchio affidato alle cure affettuose di Parker, lo sceriffo di contea, e si diresse automaticamente verso il Mint Bar. Due doppi whisky non sortirono l'effetto di attenuare la terribile emicrania che gli pulsava nel cervello. La giornata era troppo luminosa e quella nausea molliccia che da qualche tempo compariva improvvisamente era tornata a torcergli lo stomaco. Rivedeva continuamente gli occhi di Rex che si voltava sotto la minaccia spaventosa che incombeva su di lui, e un terrore freddo e senza fine s'impadroniva a poco a poco della sua anima. Disperatamente, cercò di reagire. Cercò di muoversi, di ridere allegramente alla storiella di un altro cliente al banco del bar. L'uomo si trasferì a disagio su un altro seggiolino più lontano, e Barbee si accorse che il barista lo osservava con strana intensità. Pagò, e uscì sulle gambe malferme nella gran luce della strada. Aveva la febbre, era scosso da un brivido incessante e sapeva che non avrebbe potuto guidare. Lasciò la macchina e si fece portare da un tassi al Trojan Arms. La porta che nel sogno aveva visto sbarrata e attraverso la quale April s'era materializzata così facilmente era aperta, ora, e Barbee vi entrò rapido e barcollante e si buttò su per le scale prima che l'uomo dietro il banco riuscisse a fermarlo. Un cartello era appeso sulla porta del 2-C con la scritta «Non disturbare», ma il giornalista picchiò vigorosamente. Se il Presidente si trova ancora qui dentro, pensò Barbee, farà bene a nascondersi sotto il letto. April Bell era più affascinante e soave che mai in una vestaglia verde mare, più aperta e scollata di quanto fosse lecito. Aveva i lunghi capelli di fiamma sciolti sulle spalle e i suoi occhi verdi si accesero d'una luce brillante, quando riconobbero il giornalista. Le labbra non erano truccate.
«Oh, Will! accomodati!...» Barbee sedette nella capace poltrona che lei gli indicava, accanto a una lampada da lettura. Il proprietario del giornale non sembrava essere nei pressi, ma la poltrona aveva tutta l'aria di essere quella riservata a Preston Troy... dato che ben difficilmente April Bell poteva trovare interessante la lettura dell'ultimo numero di Fortune, sul tavolinetto accanto, o apprezzare i sigari contenuti nell'astuccio d'oro massiccio che a lui sembrava di aver già visto in passato. April si diresse con la morbida grazia felina del sogno verso il divano di fronte, per sedervisi, e Barbee ebbe l'impressione che zoppicasse lievissimamente. «Ti sei fatto vivo, finalmente!», gli disse con la sua strana voce roca e melodiosa insieme. «Mi domandavo perché non avessi più telefonato.» Barbee si premette le mani contro le gambe per dominare il tremito che le scuoteva. Aveva una gran voglia di chiederle un liquore, ma ne aveva già bevuti troppi e non sembrava che gli avessero dato il minimo sollievo. Si alzò bruscamente dalla poltrona che doveva essere di Preston Troy, inciampò nello sgabello e raggiunse con passo duro e legnoso l'altro capo del divano. I lunghi occhi della ragazza lo seguirono, vividi di un interesse lievemente malizioso. «April», le disse con voce soffocata, «l'altra sera al Knob Hill mi hai detto di essere una strega.» La ragazza gli sorrise beffarda. «Poveri noi, Will, chiunque ti sentisse penserebbe che a uno di noi due abbia dato di volta il cervello. Non senti anche tu l'assurdità della cosa? Mi hai fatto bere troppi dacquari, l'altra sera, questa è la verità, e l'alcool accende la mia immaginazione...» Barbee si strinse le mani con forza, per interrompere il tremito. «Ho fatto un sogno, questa notte. Mi sembrava di essere una tigre...» Non era facile continuare, il sorriso di April rendeva le sue parole assurde e ridicole all'estremo. «E c'eri anche tu, con me. Abbiamo assassinato Rex Chittum sul passo di Sardis Hill.» April inarcò impercettibilmente le sopracciglia. «Chi è Rex Chittum?», domandò, mentre i suoi occhi verdi battevano con innocenza. «Ah, sì, me l'hai detto, è uno dei tuoi amici che hanno portato quella misteriosa cassa dall'Asia.» Barbee s'irrigidì, accigliandosi all'indifferenza della ragazza. «Ho sognato che l'ammazzavamo», gridò quasi, «e stamattina ho saputo
che è morto!» «È una cosa strana, ma non insolita», osservò lei con calma. «Ricordo di essermi sognata mio nonno, la notte che morì.» La voce di April era carezzevole, piena di sfumature vellutate, ma lui continuava a sentirvi una punta lievissima di beffa. Le scrutò gli occhi: erano limpidi come laghi montani. «È un pezzo che dovrebbero migliorare la curva di Sardis Hill», aggiunse April con tono distratto, e subito dopo, cambiando argomento: «Mi hanno detto, qui, che hai telefonato ieri mattina». Con morbida grazia si scosse il fiume di capelli rossi sulle spalle. «Come mi dispiace che tu non mi abbia trovata alzata.» Barbee si mosse a disagio. Avrebbe voluto affondare le dita in quelle spalle di seta e trarne fuori la verità a scossoni... Ma forse quel tono impercettibilmente beffardo era frutto soltanto della sua immaginazione. Era livido di terrore... terrore di lei, o di qualche mostro annidatosi nelle profondità della sua anima? Si alzò bruscamente, cercando di nascondere il tremito che lo possedeva. «Dovevo restituirti una cosa, April.» Lei lo guardò, incuriosita, e non parve notare il tremito della sua mano, mentre Barbee si frugava in tasca e ne traeva la spilla di giada, che le offerse poi sulla palma madida. Lanciò un piccolo grido di delizia: «Oh, Will, la mia spilla perduta! La spilla di famiglia che mi aveva dato la zia Agatha! Non puoi immaginare quanto mi faccia piacere riaverla!». Si mise a far girare la piccola lupa per le dita, e parve al giornalista che il minuscolo occhio di malachite lo guardasse ammiccando per un istante. «Dove l'hai trovata?», gli chiese. Barbee avvicinò il volto a quello della ragazza, guardandola nel bianco degli occhi: «Nella tua borsa», rispose duro e reciso. «Infissa nel cuore di un gattino strangolato.» Il corpo lungo e sottile di April rabbrividì nella vestaglia verde, come in finto orrore. «Che cosa orribile! Sembri stranamente morboso, oggi, Will!» Lo scrutò con occhi limpidi. «Davvero, a guardarti meglio, si direbbe che non stai affatto bene. Vorrei sbagliarmi, ma ho l'impressione che tu beva più di quanto il tuo organismo possa sopportare.» Lui assentì con amarezza, pronto ad ammettere la sua disfatta nel gioco che stavano giocando; ammesso che la ragazza stesse giocando con lui una
strana partita, e non fosse tutto immaginazione da parte sua. «E la zia Agatha dov'è oggi?», domandò. «È partita.» Alzò le belle spalle in un piccolo gesto di voluta indifferenza. «Dice che l'inverno qui a Clarendon la fa riammalare di sinusite ed è voluta tornare in California. L'ho accompagnata all'aereo ieri sera.» Barbee, ritto davanti al divano, barcollò lievemente, e April gli si fece vicina, piena di sollecitudine. «Davvero, Barbee», gli disse, «non credi che faresti bene ad andare da un medico? Io conosco bene il dottor Glenn, e so che ha rimesso completamente in sesto una quantità di alc... di gente che beveva troppo.» «Non ti fare scrupoli», ribatté Barbee con asprezza, «dammi pure dell'alcolizzato, perché tanto è quello che sono.» Si avviò incerto verso la porta. «Forse hai ragione. È la semplice risposta a tutti i miei dubbi, la più semplice e convincente... Credo che andrò proprio a farmi visitare da Glenn.» «Ma non andartene subito», pregò April, correndogli innanzi, per mettersi davanti alla porta... e ancora lui ebbe l'impressione che zoppicasse impercettibilmente, proprio con la stessa caviglia che le doleva nel sogno. «Non ti sei mica offeso, vero?», aggiunse con dolcezza. «Il mio voleva solo essere un consiglio, nello spirito più amichevole.» Ma il senso della sua stanchezza, della sua inettitudine a ogni cosa, anche a risolvere l'enigma di April Bell, e il desiderio insopprimibile di lei, così remota e beffarda, lo spinsero ad andarsene, a fuggire di là pieno di vergogna. «Vieni un momento in cucina», gli stava dicendo. «Lascia che ti faccia una tazza di caffè e prepari un po' di colazione per tutti e due, se hai voglia di mangiare qualche cosa. Ti prego, Will... un po' di caffè ti farà bene.» Ma lui scosse il capo quasi con rabbia, non voleva che lei si facesse beffe di un vinto, gongolasse sulla sua anima tormentata. «No», disse. «Devo andare.» Doveva avere notato l'espressione con cui Barbee aveva visto il numero di Fortune e l'astuccio dei sigari presso la poltrona che aveva pensato appartenesse a Troy. «Almeno, accetta un sigaro», lo pregò con soavità. «Li tengo per gli amici.» Si mosse con la sua grazia felina verso l'astuccio e questa volta Barbee fu certo che zoppicasse; e impulsivamente le domandò: «Ti sei fatta male alla caviglia?». «Sì, ho inciampato per le scale, dopo avere accompagnato mia zia all'ae-
roporto.» Alzò le spalle, offrendogli l'astuccio dei sigari aperto. «Nulla di grave, a ogni modo.» Era grave, invece, e la mano magra di Barbee cominciò a tremare sulla scatola dei sigari con una tale violenza che April dovette prendere lei uno dei neri e forti Perfectos e spingerglielo fra le dita. Mormorando qualche parola di ringraziamento, si avviò incespicando verso la porta. Ma nonostante il suo turbamento era riuscito a leggere il monogramma inciso sull'astuccio d'oro: una P e una T intrecciate. E il sigaro era della stessa marca straniera che Troy gli aveva offerto ultimamente dopo averlo chiamato nel suo ufficio. Barbee aprì la porta a fatica, cercò di allontanare dal proprio volto l'espressione di amaro risentimento che sentiva e si voltò per salutare la ragazza. Lei lo stava guardando, ritta sulla soglia, col fiato sospeso. Forse la luce oscura dei suoi occhi era soltanto pietà, ma lui vi scorse uno scintillio segreto di sarcasmo. La vestaglia verde s'era dischiusa ancora un po', rivelando la pelle candida, e la sua bellezza lo ferì come una lama che gli attraversasse le carni. Le pallide labbra di lei gli rivolsero un piccolo sorriso, mentre gli dicevano: «Will, non te ne andare! Ti prego, Will...». Ma lui se n'era andato. Non poteva sopportare la pietà che vedeva, o il sarcasmo che immaginava; quel grigio mondo di dubbio e di sconfitta e di sofferenze era diventato troppo forte per lui. Per le scale, scaraventò il sigaro per terra e lo stritolò sotto il piede, e senza preoccuparsi dell'uomo dietro il banco, giù nel vestibolo, uscì dalla porta col suo passo barcollante. Sì, pensò ad alta voce, forse ha ragione, forse l'unica cosa da fare è andare dal dottor Glenn. Non aveva nessuna simpatia per istituti psichiatrici e simili, ma Glenn godeva fama nazionale e il giovane dottor Archer Glenn, come già suo padre, era riconosciuto come un eminente pioniere della nuova psichiatria. Time, ricordò Barbee, aveva dedicato tre colonne alle sue ricerche nel campo della correlazione tra anomalie fisiche e anomalie psichiche e alle sue brillanti innovazioni, quando prestava servizio nella Marina durante la guerra, alla rivoluzionaria tecnica psichiatrica della narcosintesi. Come già il padre, Glenn, sapeva Barbee, era un convinto materialista. Il vecchio Glenn era stato grande amico del famoso Houdini, e fino alla morte la sua passione dominante era stata l'osservazione e lo smascheramento dei falsi medium, astrologi e veggenti d'ogni specie. Il figlio continuava la campagna paterna: Barbee era stato a sentire varie
sue conferenze per conto dello Star, conferenze in cui il giovane scienziato aveva attaccato ogni culto pseudoreligioso fondato su spiegazioni pseudoscientifiche del soprannaturale. La mente, secondo il motto di Glenn, non era che una funzione squisitamente corporea. Quale migliore alleato? 13. La clinica sorgeva a qualche distanza dalla strada, riparata da una gaia cortina di foglie giallo-rosse dell'autunno, mentre i suoi vari edifici apparivano bianchi e severi al di là del fogliame. Barbee, vedendoli, cercò di scacciare la sensazione di angoscia che sempre provava alla vista di qualunque edificio che potesse ricordargli un manicomio. Quelle austere fortezze, si disse, erano cittadelle di sanità ed equilibrio contro gli ignoti terrori della mente. Fermò la macchina nello spazio ricoperto di ghiaia dietro l'edificio principale e si avviò a passo rapido lungo un lato dell'edificio verso l'ingresso. Guardando attraverso la siepe altissima che cingeva il prato che si stendeva dall'altra parte, Barbee scorse una paziente camminare eretta fra due infermiere vestite di bianco. Rimase col fiato mozzo. La paziente era Rowena Mondrick. Vestita d'un pesante abito nero a protezione dai rigori dell'aria, portava guanti neri e una sciarpa nera sui capelli bianchissimi. Le sue lenti brune parvero fissarsi minacciosamente sul giornalista. Barbee ebbe l'impressione che sussultasse e si fermasse per un istante. Ma già aveva ripreso la sua passeggiata dignitosa e fiera, tra le due infermiere, come se fosse sola. Colto da una pietà devastante, Barbee sentì il bisogno invincibile di parlarle: la sua mente malata, si disse, poteva ancora contenere le risposte alle mostruose domande che lo tormentavano. La verità, pensò, avrebbe potuto liberare entrambi. La cieca e le due infermiere si stavano allontanando da lui ora, si dirigevano a passo lento verso il gruppo di alberi che formava una specie di boschetto presso il fiume. Corse loro dietro, col cuore che gli martellava nel petto. «...il mio cane?», stava dicendo Rowena, la voce colma di angoscia. «Non mi è permesso nemmeno chiamare il mio povero Turk?» Una delle due infermiere, la più alta, le prese il braccio ossuto. «Può chiamarlo, signora Mondrick, se lo desidera», le rispose paziente-
mente, «ma non servirà a nulla, mi creda. Le abbiamo già detto che il cane purtroppo è morto, e che quindi sarà meglio per lei non pensarci più.» «Non è vero!», rispose Rowena con voce querula, acuta. «Non ci credo, e ho bisogno d'avere il mio cane qui con me. Vi prego di chiamare al telefono la signorina Ulford e dirle a mio nome di mettere un avviso su tutti i giornali promettendo una ricompensa molto elevata.» «Non servirà a nulla», ribatté sempre con molta dolcezza l'infermiera più alta, «perché un pescatore ha trovato il corpo del cane ieri mattina nel fiume, presso il ponte della ferrovia. Ha portato il collare d'argento alla polizia. Glielo abbiamo detto ieri sera, non ricorda?» «Me lo ricordo, ma io ho bisogno lo stesso del mio povero Turk, che mi protegga quando verranno per assassinarmi durante la notte.» «Oh, non ha più nulla da temere, ora», la rassicurò con voce allegra l'infermiera. «Qui non verrà nessuno a farle del male.» «Sono venuti una volta e verranno ancora!», ribatté Rowena con voce che l'esasperazione rendeva stridula. «Vogliono impedirmi di avvertire Sam Quain, e io devo farlo a ogni costo.» Si fermò bruscamente, afferrandosi con le tenaci dita sottili al braccio dell'infermiera. Barbee si fermò alle loro spalle, non per soprendere le sue parole, ma perché il colpo di quanto aveva sentito lo aveva raggelato: Turk era infatti morto, nel suo primo sogno. «La prego, infermiera», stava ora implorando la cieca. «Telefoni subito al dottor Sam Quain, Istituto Ricerche Antropologiche, e gli dica di venire subito qui da me.» «Sono desolata, signora Mondrick, lo sa bene», disse dolce e paziente l'infermiera, «ma è impossibile: il dottore dice che non può vedere nessuno, finché non starà meglio. Se solo volesse rilassare un poco i nervi, riposare e aiutarci a farla guarire al più presto, il dottor Glenn le permetterà di vedere chiunque...» «Ma non abbiamo tempo! Ho paura che ritornino questa notte per uccidermi, e io devo parlare a Sam!» Si volse torcendosi le mani all'infermiera. «Perché non mi accompagna all'Istituto, lei stessa, ora?» «Conosce anche lei il regolamento, signora Mondrick: non possiamo...» «Sam la ricompenserà largamente!», ansimò disperata Rowena. «E sarà lieto di spiegare tutto ai dottori... perché il mio avvertimento gli avrà salvato la vita, e non solo la sua vita... Presto, chiami un tassi, noleggi una macchina, rubiamone una!» «Possiamo mandare al dottor Quain un suo biglietto, signora...»
«No!», sibilò Rowena. «Un biglietto non servirebbe a nulla!» Barbee fece un passo innanzi e aprì la bocca per parlare. Le due infermiere gli voltavano ancora le spalle, ma Rowena s'era voltata e lui poteva ora fissare le lenti nere e il volto contratto della povera cieca. Pieno di compassione, Barbee si sentì gli occhi colmi di lacrime. «Ma perché, signora Mondrick?», diceva l'infermiera. «Quale pericolo può minacciare il dottor Quain?» «Un uomo di cui si fida», singhiozzò la cieca. Queste parole arrestarono Barbee un'altra volta. Anche se avesse voluto parlare, la gola serrata spasmodicamente glielo avrebbe impedito. Cominciò a ritirarsi in silenzio sul prato umido, ascoltando senza volere. «Un uomo che lui crede amico», ribadì Rowena. L'infermiera che non aveva ancora parlato guardò l'orologio e fece un cenno alla compagna, che annuì. «Abbiamo camminato parecchio, signora Mondrick», disse l'infermiera alta, «e ora è tempo di rientrare. Lei sarà stanca e farà bene a schiacciare un pisolino. Se ha ancora intenzione di parlare al dottor Quain, il dottor Glenn le permetterà di telefonargli, oggi nel pomeriggio.» «No», singhiozzò la cieca. «Non servirebbe a niente.» «Ma perché? Non ha un telefono?» «Sì, e anche tutti i nostri nemici lo hanno. Tutti quei mostri che fingono di essere uomini. Ascoltano tutto quello che dico e intercettano le mie lettere. Turk era stato abituato a riconoscerli al fiuto, ma ora Turk è scomparso. E il mio caro marito è morto. Non è rimasto nessun altro di cui possa fidarmi, tranne Sam Quain!» «Di noi può fidarsi, signora Mondrick», disse l'infermiera in tono affettuoso. «Ma ora dobbiamo proprio rientrare.» «Va bene», disse Rowena, «andiamo.» Si volse, come rassegnata, ma bruscamente si liberò con uno strattone delle due donne, colte di sorpresa, e si mise a correre via per il prato. «Signora Mondrick, che cosa fa! Via, non deve fare così!» Le due ragazze si misero a inseguirla, ma la poveretta correva con un'agilità incredibile. Per qualche istante parve guadagnare terreno e Barbee pensò che potesse raggiungere il gruppo d'alberi presso il fiume. Aveva quasi dimenticato che Rowena era cieca, ma a un tratto la povera donna inciampò nel sostegno di un innaffiatoio automatico e cadde bocconi sul prato. Le due infermiere accorsero e l'aiutarono a rialzarsi, e tenendola per le
braccia con dolce fermezza si avviarono verso l'edificio centrale. Barbee fu preso da un desiderio imperioso di fuggir via, quando vide le tre donne venire verso di lui, perché la follia di Rowena risolveva anche troppo l'enigma dei suoi sogni; ed era stato colto dal terrore che gli ispirava la frenetica lucidità intravista sotto l'apparente pazzia della cieca. «Buongiorno, signore», gli disse l'infermiera alta, squadrandolo incuriosita e tenendo Rowena più saldamente che mai. «Desidera qualche cosa?» «Ho lasciato ora la mia macchina nel parcheggio della clinica», disse Barbee indicando col mento lo spiazzo dietro l'edificio. «E vorrei vedere il dottor Glenn.» «È al di là della siepe che dovete andare», sorrise l'infermiera al suo errore evidente, «dove c'è il viale che gira intorno alla palazzina. E dia il suo nome alla signorina alla porta.» Barbee non la udì nemmeno, intento a osservare Rowena, che si era irrigidita al suono della sua voce e ora se ne stava muta e immobile fra le due infermiere, come gelata dal terrore. Gli occhiali neri erano caduti, o si erano spezzati, quando aveva inciampato, e ora le sue occhiaie spente e straziate aggiungevano una nota di orrore alla sua pallida faccia terrificata. «Sono Will Barbee.» Non voleva più parlarle, ora; aveva sentito anche troppo per la sua curiosità, ma non poté fare a meno di chiederle con la sua voce strozzata: «Dimmi, Rowena, che cosa devi dire a Sam Quain?». Ritta davanti a lui, gli spenti occhi colmi di un orrore immobile, la cieca fu scossa da un tale brivido, che le due infermiere credettero che volesse fuggire nuovamente, e le strinsero le braccia con maggior forza. La sua bocca livida si aprì come per un urlo, ma non ne uscì suono alcuno. «Dimmi, Rowena, perché quel leopardo nero ti aggredì in Nigeria?» Questa domanda gli era uscita dalla bocca nel modo più inatteso, senza che se ne rendesse conto. «E che specie di leopardo era?» La cieca strinse fermamente le labbra. «Che cosa cercava realmente Mondrick nell'Ala-shan?» Barbee sapeva che lei non intendeva rispondere, ma continuò, come spinto da una forza sovrumana: «Che cosa hanno riportato lui e Sam in quella cassa verde? Chi può aver voluto la loro morte?». Lei si ritrasse di scatto, scuotendo la testa. «Basta, signore», intervenne severamente l'infermiera, «non spaventi la signora! Se vuole veramente parlare al dottor Glenn, l'ingresso è laggiù.» Le due infermiere si avviarono, sostenendo la povera cieca.
«Ma chi sono questi nemici segreti?», insistette Barbee seguendole di qualche passo. «Questi assassini nell'ombra? Chi vuole uccidere Sam?» Lei si divincolò tra le forti braccia che la tenevano, voltandosi verso di lui. «Non lo sai proprio, Will Barbee?» E la sua voce lacerata gli parve orrenda come la sua faccia. «Possibile che proprio tu non lo sappia?» Poi con dolce violenza le due infermiere la portarono via per il prato. Barbee, sconvolto e disperato, tornò verso l'apertura della siepe, cercando di non pensare alle parole di Rowena, sperando contro se stesso che Glenn potesse aiutarlo. Nel tempio freudiano, la sacerdotessa sottile ed esotica lo accolse col suo sorriso fascinoso. Ma alla notizia che Barbee voleva vedere Glenn senza appuntamento, si mostrò contrariata e disse che il professore era anche questa volta terribilmente occupato. Barbee scosse il capo e cercò di parlare con la voce più normale possibile. «Senta», disse, «è urgente che io veda il dottor Glenn per una visita personale. È una cosa... personale.» Il sorriso della sacerdotessa era una carezza venuta dal lontano oriente. «Ma c'è il dottor Bunzel, allora», tubò la vestale. «È il nostro diagnostico. E il dottor Dilthey, dirigente del servizio neuropatologico. Sia l'uno che l'altro...» Barbee scosse il capo: «No», disse. «Ascolti: dica al dottor Glenn che sono venuto per vederlo. Dica semplicemente che ho aiutato una lupa bianca ad ammazzare il cane della signora Mondrick. Sono certo che troverà il tempo di ricevermi.» La sacerdotessa si dedicò al suo centralino telefonico e un minuto dopo i suoi occhi si volgevano luminosi su Barbee: «Il professore sarà lieto di riceverla fra un minuto», annunciò con una voce di velluto liquido. «L'infermiera Graulitz l'accompagnerà.» L'infermiera Graulitz era una bionda muscolosa, dalla faccia equina e gli occhi duri e limpidi come il cristallo. Il cenno del capo con cui salutò il giornalista era una fredda sfida, come se intendesse dargli una medicina molto cattiva e costringerlo a dire che era squisita. Barbee la seguì per un lungo corridoio silenzioso fino a un piccolo studio. Con una voce roca che ricordava la sirena di un rimorchiatore nella nebbia, la donna gli rivolse una serie di domande: quali malattie aveva avuto, chi avrebbe pagato la sua nota ospedaliera, quanto beveva di solito. Scrisse
le risposte su un cartoncino e gli fece firmare un modulo che lui non tentò nemmeno di leggere. Mentre Barbee firmava, la porta si aprì alle sue spalle. La donna si alzò e disse col suo vocione ronfante e soffocato: «Il professore è pronto per riceverla». Il celebre psichiatra era un bell'uomo, molto alto, con neri capelli ondulati e occhi nocciola lievemente fissi. Porse a Barbee una mano abbronzata dal sole e ben curata, sorridendo cordialmente. Guardandolo, Barbee ebbe l'impressione fuggevole di averlo conosciuto intimamente in passato e poi di averlo dimenticato. Impressione, pensò, che doveva dipendere dal fatto di essere venuto a sentire molte sue conferenze e di averne parlato sul giornale. «Buongiorno, signor Barbee», disse Glenn con voce profonda, stranamente riposante. «Di qua, prego.» Il suo studio era lussuosamente semplice, con due grandi poltrone di pelle, un divano con un foulard immacolato sul cuscino, orologio, portacenere e vaso di fiori su un tavolinetto, alti scaffali pieni di opere mediche e copie della Psychoanalytic Review. Dalle persiane socchiuse si godeva la vista del fiume e delle sue rive boscose e dell'autostrada, là dove si piegava a formare un'ansa. Barbee sedette, muto e a disagio. Glenn sedette a sua volta e si mise a battere una sigaretta, con noncuranza, sull'unghia del pollice. Emanava da lui un'aria di fiducia e di serenità, quanto mai rassicuranti. «Fuma?», disse Glenn. «E quali sarebbero i suoi disturbi?» Prendendo coraggio dalla calma dell'uomo, Barbee annunciò in tono drammatico: «Stregoneria!». Glenn non parve né sorpreso né impressionato; aspettava il resto, semplicemente. «O sono stato stregato», riprese Barbee disperatamente, «oppure vuol dire che sto perdendo la ragione.» Glenn esalò una nube di fumo leggero. «Mi racconti le cose per benino, se crede.» «La cosa è cominciata lunedì sera, all'aeroporto», iniziò Barbee, prima cautamente, poi con un senso crescente di benessere. «Quella ragazza dai capelli rossi ha attaccato discorso, mentre aspettavo l'arrivo dell'aereo della spedizione Mondrick...»
Raccontò della morte improvvisa di Mondrick, del gattino strangolato e dell'inesplicabile paura che i superstiti sembravano avere della cassa portata dalla spedizione. Descrisse il sogno in cui aveva corso la città sotto forma di lupo in compagnia di April Bell e in cui il cane Turk era morto... Spiando il volto di Glenn, Barbee poté scorgervi soltanto un interesse professionale di calma simpatia. «E questa notte, dottore, ho fatto un altro sogno. Mi sembrava di essere una tigre dai denti a sciabola... tutto era straordinariamente reale. Quella ragazza era ancora con me, e mi dava istruzioni su quello che dovevo fare. Abbiamo seguito la macchina di Rex Chittum sulle colline, e io ho ucciso Rex sul passo di Sardis Hill.» Parlandone, quel sogno gli sembrava meno orribile. Un po' della calma di Glenn sembrava essere passata nel suo stato d'animo. Riprese, con un lieve tono di distacco: «Ora, Rex è morto esattamente come io ho sognato di ucciderlo». Disperatamente, scrutò il volto dello psichiatra. «Mi dica, dottore, come è possibile che sogno e realtà combacino così perfettamente? Crede proprio che io possa avere ucciso Rex Chittum questa notte sotto la suggestione di un maleficio occulto, o sono già impazzito del tutto e non me ne sono ancora reso conto?» Con molta precisione, Archer Glenn congiunse insieme le punte delle dita. «Ci vorrà tempo, signor Barbee.» E la sua testa bruna annuì gravemente. «Sì, parecchio tempo. Io le proporrei di fermarsi qui a riposare per qualche giorno. Ciò permetterà al nostro corpo sanitario di occuparsi di lei nelle migliori condizioni possibili.» Barbee si alzò atterrito dalla poltrona. «Ma, che cosa mi dice dei miei sogni?», gracidò con voce strozzata. «Ho veramente commesso le cose che ho creduto di sognare? Oppure sono pazzo?» Glenn rimase immobile a guardarlo coi suoi placidi occhi sonnolenti, fino a quando il giornalista non ricadde a sedere nella sua poltrona. «Le cose che avvengono, spesso non sono così importanti come l'interpretazione che il nostro cervello, più o meno inconsciamente, tende a darne.» La voce profonda di Glenn risuonava con indolente noncuranza. «C'è un punto tuttavia del suo racconto che mi sembra molto significativo: ogni incidente che ha menzionato, dal fatale attacco d'asma di Mondrick alla disgrazia di cui è rimasto vittima Chittum... la stessa morte del cane della signora Mondrick... hanno una spiegazione naturale perfettamente logica.»
«È proprio questo che mi fa diventare matto», rispose Barbee, cercando di scoprire la minima reazione sotto la maschera di deliberata indifferenza dello psichiatra. «Tutto potrebbe essere pura coincidenza... ma lo è? Ma come posso avere saputo della morte di Chittum prima che qualcuno me lo dicesse?» Glenn staccò le punte delle lunghe dita e cominciò a battere un'altra sigaretta sull'unghia del pollice. «Spesso, signor Barbee, la mente ci inganna. Sotto stimoli di cui non siamo consapevoli, può accaderci di deformare i particolari delle cause e degli effetti. Questi errori di ragionamento non sono necessariamente prova di follia. Freud ha scritto tutto un libro sulla psicopatologia della vita quotidiana.» Indolente, accese la sigaretta con un accendino d'oro. «Vediamo di studiare con calma il suo caso, signor Barbee... senza tentare diagnosi estemporanee. Lei ha speso troppe energie, credo, in un lavoro per il quale non è esattamente tagliato. Ha ammesso di bere più di quanto possa assimilare. Deve essersi pur reso conto che una vita di questo genere doveva finire con un collasso, in un modo o nell'altro.» Barbee s'irrigidì. «Dunque, lei ritiene che io sia... pazzo?» Glenn scosse la testa ben fatta. «Non ritengo nulla di simile, e ho l'impressione che lei attribuisca un peso eccessivamente emotivo al problema della sua sanità mentale, signor Barbee. La mente non è una macchina e le condizioni mentali non sono tutte in bianco e nero. Un certo grado di anormalità mentale è completamente normale, infatti... e la vita sarebbe intollerabilmente monotona e piatta senza questa punta di anormalità.» Barbee ebbe un guizzo di penosa incertezza. «Per cui», continuò Glenn, imperturbabile, «evitiamo di arrivare a conclusioni troppo affrettate, prima di un attento esame fisico e psichiatrico.» Crollò il capo, gettando nel portacenere la sigaretta non accesa. «Potrei forse aggiungere, a ogni modo, che la signorina Bell la sconvolge evidentissimamente... e che lo stesso Freud descrive l'amore come una normale insania.» «E questo che cosa significherebbe?», domandò Barbee sogguardandolo con diffidenza. Il medico ricongiunse le punte delle dita. «In tutti noi, signor Barbee», disse, «si nascondono sentimenti inconsci di paura e di colpa. Sorgono nell'infanzia e danno un'impronta a tutta la nostra vita. Esigono di esprimersi
e riescono a farlo in modi che ben di rado potremmo immaginare. Anche l'individuo più sano ed equilibrato cela in sé questi segreti e insospettati motivi. Nel suo caso, per esempio, non crede possibile che, in un periodo in cui i suoi freni coscienti sono indeboliti da una combinazione di estrema stanchezza, violenta emozione ed eccesso di alcool, questi sentimenti sepolti abbiano cominciato a trovare espressione attraverso sogni particolarmente vividi o addirittura allucinazioni allo stato di veglia?» Barbee scosse il capo, più che mai a disagio. Un vago risentimento si andava impossessando di lui per il modo in cui Glenn aveva di sondarlo così freddamente. «Forse», continuò tranquilla la voce profonda dello psichiatra, «lei ha anche cominciato a sentirsi colpevole, in qualche modo, del disturbo che ha colpito la signora Mondrick...» «Non direi!», lo interruppe Barbee sgarbato. «Come potrei?» «La stessa violenza della sua protesta dà valore alla mia supposizione fortuita.» Il sorriso indolente di Glenn sembrava avere una sfumatura beffarda. «Ci vorrà un po' di tempo, come le ho già detto, per rintracciare il meccanismo dei suoi complessi principali. Ma il quadro generale mi sembra già piuttosto evidente.» «Cioè?» «I suoi studi universitari nel campo dell'antropologia debbono averle fornito una vasta conoscenza delle credenze primitive nella magia, nella stregoneria e nella licantropia. Sfondo clinico sufficiente a spiegare l'insolita direzione assunta dalle manifestazioni della sua fantasia.» «Può darsi», rifletté Barbee poco convinto. «Ma come può pensare che io possa sentirmi colpevole della malattia della signora Mondrick?» I sonnolenti occhi nocciola di Glenn divennero a un tratto singolarmente penetranti. «Mi dica... ha mai desiderato coscientemente di uccidere il dottor Mondrick?» «Che cosa?», s'indignò Barbee. «Ma no, mai!» «Cerchi di ricordare bene», insistette dolcemente il medico. «Eh?» «No!» s'incaponì Barbee con rabbia. «Perché avrei dovuto desiderare una cosa simile?» «Mondrick l'ha mai offeso?» Barbee si agitò un poco sulla poltrona prima di rispondere. «Anni fa, quand'ero ancora all'università e stavo per laurearmi, Mondrick bruscamente mi divenne ostile. Non ho mai saputo il perché. Mi re-
spinse, quando stava organizzando la sua Fondazione, prendendo invece Quain, Chittum e Spivak. Per parecchio tempo, capisce, gliene ho serbato rancore.» Glenn assentì, con aria compiaciuta. «Questo completa il quadro. Lei deve aver desiderato la morte di Mondrick, inconsciamente, badi, per vendicare l'offesa patita. Ha desiderato di ucciderlo e alla fine quando è morto, lei, in virtù della logica elementare, senza tempo, del subcosciente, si sente colpevole del suo assassinio.» «Ma non mi sembra», mormorò Barbee innervosito. «I motivi del mio rancore risalgono a una dozzina d'anni fa, e poi tutto questo non ha niente a che vedere con la malattia della signora Mondrick.» «Il subcosciente ignora il tempo», gli ricordò Glenn con dolcezza. «E poi io mi sono limitato a dire che forse lei si sente responsabile della malattia della vedova Mondrick. L'improvviso squilibrio della povera signora è ovviamente conseguenza della morte del marito. Se nel subcosciente si sente colpevole di questa, deve con ogni probabilità sentirsi colpevole anche di quanto è occorso alla vedova.» «No!» Barbee si alzò ancora una volta, tremando orribilmente. «Non posso sopportare che...» La bruna testa ben fatta annuì piacevolmente. «Esatto. Lei non può più sopportare tutto ciò, consciamente. Ed è per questo che il complesso di colpa è ricacciato nel subcosciente: dove, tra i suoi ricordi delle lezioni di antropologia impartite dallo stesso Mondrick, trova adattissimi mascheramenti con cui ossessionarla.» Barbee, sempre ritto davanti al medico, tremando, inghiottì la saliva con uno sforzo. «Dimenticare non significa sfuggire.» I sonnacchiosi occhi nocciola sembravano implacabili. «La mente esige una tassa per ogni adattamento che non riusciamo a fare. C'è una specie di giustizia naturale nei meccanismi del subcosciente - o, talvolta, una crudele parodia di giustizia - cieca e inevitabile.» «Ma quale giustizia? Non vedo...» «Appunto! Non vede, perché non può tollerar di guardare... ma questo non interrompe l'operazione dei suoi motivi inconsci. Lei si condanna per la follia della signora Mondrick, apparentemente. Il suo senso di colpa rimosso esige una punizione adatta al delitto. Mi sembra che lei stia inconsciamente ordinando secondo certe linee sogni e allucinazioni solo per espiare l'improvvisa follia di Rowena... anche a costo, in definitiva, del suo
stesso equilibrio mentale.» «No, non capisco», rispose Barbee, scuotendo il capo nervosamente. «E poi anche se capissi, la sua spiegazione non spiegherebbe tutto. C'è ancora il sogno della tigre dai denti di sciabola, con la morte di Rex Chittum. I miei pensieri relativamente alla signora Mondrick c'entrano ben poco con tutto questo, e Rex è sempre stato mio amico.» «Ma anche suo nemico», ribatté Glenn dolcemente. «Con Quain e Spivak fu scelto per la Fondazione, lei mi ha detto, mentre lei fu respinto. E questo fu un colpo grave. È impossibile che non abbia patito un sentimento di invidiosa gelosia...» «Sì, ma non un sentimento omicida!» «Inconsciamente, sì! L'inconscio non ha princìpi morali. È cieco ed egoista all'estremo. Il tempo non esiste e le contraddizioni non hanno valore, per l'inconscio. Lei ha desiderato il male per il suo amico Chittum, e alla sua morte ha cominciato a sopportare le conseguenze di quel desiderio colpevole.» «Molto convincente!», urlò quasi Barbee. «Ma dimentica un piccolo particolare: che io ho fatto quel sogno prima di sapere che Rex era stato ucciso.» «Lo so che lei lo pensa. Ma la mente ci gioca strani tiri, quando siamo in preda a certe emozioni, relativamente a cause ed effetti. Forse ha inventato il sogno dopo aver saputo della morte del suo amico, e invertito la sequenza dei fatti per trasformare le conseguenze in causa. O forse prevedeva che dovesse morire.» «E in che modo?» «Poteva sapere che doveva passare in macchina a Sardis Hill. Sapeva di certo che doveva essere stanchissimo e avere una gran fretta.» Gli occhi apatici si socchiusero. «E, mi dica... non sapeva proprio nulla dei freni difettosi di quella macchina?» Barbee dischiuse appena la bocca, stupito. «Nora mi aveva detto che avevano bisogno di una ripassata.» «Non vede, dunque, anche lei? L'inconscio è attentissimo a ogni stimolo e coglie qualsiasi occasione, si serve di qualunque stratagemma per esprimersi. Lei sapeva, coricandosi, che Chittum aveva tutte le probabilità di rompersi l'osso del collo su Sardis Hill.» «Probabilità», ripeté Barbee, con un brivido. «Forse lei ha ragione.» I freddi occhi nocciola erano fissi sul giornalista. «Sono un uomo razionale, signor Barbee, e respingo ogni teoria sopran-
naturale come superstizione. Il mio razionalismo si fonda esclusivamente su dati scientifici dimostrati in via sperimentale. Ma credo nell'inferno.» Il bruno psichiatra sorrise. «Perché ogni essere umano si fabbrica il suo piccolo inferno privato e lo popola con demoni di sua invenzione, che lo tormentino per i suoi peccati segreti, immaginari o reali che siano. È affar mio esplorare questi inferni individuali e smascherarne i diavoli per quel che sono. Di solito si rivelano meno terrificanti di quanto non sembrassero. Il Lupo Mannaro e la tigre dai denti a sciabola dei suoi sogni sono i suoi demoni privati, signor Barbee. Spero che le appaiano già meno terribili, ora.» Ma Barbee crollò il capo. «Non so... ma quei sogni sono stati d'una realtà impressionante.» E quasi con furore soggiunse: «Dottore, lei è maledettamente abile, ma in questo caso non si tratta di semplici allucinazioni create dal subcosciente. Sam e Nick stanno montando la guardia a qualcosa che ignoro, chiuso in quella cassa. Stanno ancora combattendo una battaglia accanita contro... non so che cosa. Sono amici miei, dottore». Parve sul punto di scoppiare in pianto. «Voglio aiutarli, non essere lo strumento dei loro nemici.» Glenn annuì, soddisfattissimo. «La sua stessa veemenza tende a confermare l'attendibilità della mia interpretazione, sebbene debba pregarla di non dare troppo peso ai miei commenti improvvisati in questa seduta, che è soltanto esplorativa.» Piegò il corpo da una parte per lanciare un'occhiata all'orologio. «Questo è tutto il tempo che possiamo concederci per oggi. Se desidera restare a Glennhaven, possiamo rivederci domani. Penso che farebbe bene a prendersi un paio di giorni di riposo, prima di cominciare in modo organico i nostri rapporti clinici.» Fece per alzarsi e avviarsi verso la porta, ma Barbee non si mosse dalla sua poltrona. «Resto, dottore». La sua voce tremava come d'impazienza. «Ma c'è un'altra domanda che devo farle subito.» Scrutò il volto sereno e abbronzato di Glenn. «April Bell mi ha detto di averla consultata una volta. È forse dotata di poteri... soprannaturali?» L'alta figura del medico si alzò lentamente dalla poltrona. «Il segreto professionale m'impedisce di parlare dei miei pazienti», disse. «Ma se una risposta di carattere generico può darle qualche sollievo, le dirò che aiutai mio padre ad analizzare migliaia di casi di cosiddetti fenomeni metapsichici di ogni genere, e devo ancora trovare un caso in cui le
ordinarie leggi della natura vengano meno.» Si volse fermamente verso la porta, ma Barbee rimase ancora seduto. «Il solo contributo scientifico realmente valido ai fenomeni metapsichici e di criptestesia è stato dato dagli studi fatti alla Duke University», aggiunse Glenn. «Alcuni dei risultati pubblicati tendenti a dimostrare la realtà della metapsichica e il controllo mentale delle probabilità sono abbastanza convincenti... ma temo che il desiderio di dimostrare l'esistenza di un mondo soprannaturale abbia accecato i ricercatori, fino a far loro commettere qualche grave menda nei loro metodi sperimentali o statistici.» Scosse il capo, con enfasi rattenuta. «L'universo è per me rigorosamente meccanicistico. Ogni fenomeno che vi si verifica, dalla nascita delle stelle alla tendenza degli uomini a vivere nel timore di forze soprannaturali, era già implicito nel super-atomo primitivo dalla cui esplosiva energia cosmica l'universo trasse appunto origine. Gli sforzi che alcuni eminenti scienziati vanno facendo per trovare giustificazione a una libera volontà umana e a una funzione creativa soprannaturale, che ovviino all'errore rappresentato, nella descrizione meccanicistica, dal principio di indeterminazione di Heisenberg, questi futili sforzi sono così patetici per me come il tentativo pagliaccesco di uno stregone di far piovere, spruzzando il terreno con un po' d'acqua. Tutto il cosiddetto soprannaturale, signor Barbee, è pura illusione, basata su emozioni male incanalate, osservazioni poco precise e pensieri irrazionali.» La calma faccia abbronzata sorrise, rincuorante. «Questo la fa sentire meglio?» «Sì, dottore.» Barbee gli prese la mano forte e nervosa, e provò ancora quello strano senso di agnizione, come se avesse ritrovato un forte vincolo dimenticato che li legasse l'uno all'altro. Glenn, pensò, sarebbe stato un alleato potentissimo. «Grazie», gli disse. «È esattamente quello che avevo bisogno di sentirmi dire!» 14. Nella piccola anticamera c'era l'infermiera Graulitz che lo stava aspettando. Cedendo completamente alla sua volontà sperimentata, Barbee telefonò all'ufficio di Troy, al quale espresse la sua necessità di passare qualche giorno a Glennhaven per una visita di controllo al suo sistema nervoso. «Ma certo, Barbee!» La voce aspra di Troy suonava calda e cordiale nel microfono. «Lei si è prodigato troppo in questi ultimi tempi... e so che il
povero Chittum era suo amico. Penserà Grady a sostituirla al giornale. Io ho una grande fiducia in Archer Glenn. Se ci sono difficoltà di carattere economico per le sue cure, non si preoccupi: dica a Glenn di telefonarmi; e non pensi al lavoro.» Balbettando i suoi ringraziamenti, il giornalista pensò che Troy dopo tutto non era poi tanto cattivo. Forse, era stato un po' troppo severo nel giudicarlo per la campagna Walraven e anche per le prove... «indirette» trovate nell'appartamento di April Bell. Cedendo ancora alla volontà della formidabile signorina Graulitz, Barbee si convinse di non aver bisogno di tornare fino a Clarendon per il suo spazzolino da denti e un pigiama, e nemmeno di andare al funerale di Rex Chittum. Docilmente, seguì l'infermiera lungo un passaggio coperto dall'edificio centrale a una dipendenza dal tetto di mattoni rossi. La donna lo pilotò attraverso la biblioteca, la sala di musica, la sala da gioco, la sala di soggiorno e la sala da pranzo. Lo presentò casualmente a parecchie persone, lasciandolo incerto su quali fossero i pazienti e quali facessero parte del personale della clinica. Barbee continuava a guardarsi intorno in cerca di Rowena Mondrick, e alla fine si decise a chiedere di lei. «È nel reparto agitati», rispose il vocione dell'infermiera. «L'edificio attiguo, attorno al quadrilatero. Ho sentito che oggi è peggiorata... qualcosa l'ha sconvolta mentre era fuori per la passeggiata. Non può ricevere visite, e lei dovrà fare a meno di vederla finché non sia migliorata.» La virago lo lasciò finalmente in quella che doveva essere la sua camera, al primo piano della dipendenza, con l'ingiunzione di suonare per l'infermiera Etting, qualora avesse avuto bisogno di qualche cosa. La camera era piccola, ma comoda, con un piccolo bagno annesso. Non gli fu data chiave della porta. Le finestre, notò il giornalista, erano di vetro rinforzato con filo di acciaio e munite di una specie di traliccio metallico, così che solo un serpente avrebbe potuto passarvi. Figurarsi! tanto non c'era argento!... si disse. E subito poi pensò: «Dunque, siamo già alla pazzia!». Si lavò la faccia e le mani sudaticce nel minuscolo camerino da bagno, osservando come tutto fosse studiato e costruito in modo da non avere né spigoli acuti né appigli per nodi scorsoi. Infine sedette stancamente sulla sponda del letto e si sciolse i lacci delle scarpe. La pazzia? Eppure non gli sembrava di essere pazzo, rifletté; ma del resto, qual era il pazzo che sapeva di esserlo? Si sentiva solo, confuso e stordito per quella lunga lotta per dominare e comprendere situazioni superiori
alle sue forze. Era bello potersi riposare per un po'. Barbee aveva meditato più volte sulla follia, spesso con una specie di cupo terrore... perché suo padre, che ricordava appena, era morto in uno degli squallidi edifici di un manicomio statale. Aveva vagamente immaginato che la perdita della ragione dovesse essere qualcosa di strano ed emozionante, accompagnato da un ininterrotto contrasto di orribili depressioni e accessi di straordinaria euforia. Ma forse non era che qualcosa come quello che lui provava ora, un ritirarsi apatico, sbigottito da problemi divenuti troppo ardui. Doveva essersi addormentato nel bel mezzo di queste cupe riflessioni; si accorse vagamente di qualcuno che cercava di scuoterlo per la colazione dell'una, ma fu solo dopo le quattro - al suo orologio - che si svegliò. Qualcuno gli aveva tolto le scarpe e gettato addosso una coperta. L'aria gli sembrava viziata e gli doleva un poco il capo. Aveva un gran bisogno d'un sorso di qualcosa di forte. Forse, era possibile far entrare di contrabbando una bottiglia di liquore. Anche se era per colpa del whisky che si trovava là dentro, un sorso doveva berlo. Alla fine decise, pur senza troppe speranze, di tentare con l'infermiera Etting. Levatosi a sedere sul letto, premette il bottone che pendeva da un filo elettrico a capo del letto. Muscolosa e abbronzata, l'infermiera Etting aveva una faccia da fumetti umoristici, con denti sporgenti e capelli color topo su cui erano evidenti le tracce di cure infinite e inutili. Sì, gli disse con voce nasale e precisa, gli erano consentiti un bicchierino prima di pranzo e non più di due dopo. Gli portò una dose generosa di eccellente bourbon e un bicchiere di soda. «Grazie!» Stupito di aver ottenuto da bere, Barbee era ancora vagamente risentito della noncurante sicumera di Glenn e del suo corpo sanitario. «Alla salute dei serpenti!» Bevve il liquore d'un fiato. Senza battere ciglio, l'infermiera se ne andò col bicchiere vuoto rotolando sulle gambe robuste. Barbee rimase disteso sul letto supino, le mani incrociate sotto la nuca, ripensando a tutto quello che Glenn gli aveva detto. Forse quell'irriducibile materialista aveva ragione. Forse il Lupo Mannaro e la tigre non erano state che allucinazioni... Ma non poteva dimenticare la vivida realtà delle sensazioni provate nei suoi terribili sogni. Nonostante tutti gli argomenti convincentissimi di Glenn, non aveva mai provato nulla di così reale e tangibile nella vita come ciò che aveva sentito e fatto in sogno. L'abbondante dose di whisky gli aveva di nuovo disteso i nervi, e si sentì riprendere dalla sonnolenza. Cominciò a pensare che sarebbe stato facilis-
simo per un serpente scivolare attraverso l'intelaiatura e la graticciata della finestra, appena la luce del giorno se ne fosse andata. Quando si fosse coricato, quella sera, si ripromise, avrebbe cercato di tramutarsi in un gigantesco, bonario serpente e si sarebbe recato ancora da April Bell. Se poi avesse trovato il Presidente con lei... bene, un boa constrictor lungo dieci metri poteva ben sistemare un ometto grasso come Preston. Un rumore lo svegliò di soprassalto dal dormiveglia in cui stava scivolando, e d'un balzo si levò dal letto. Di quel genere di fantasticherie doveva farne a meno, e lui era a Glennhaven proprio per imparare a guarirne. Le tempie gli pulsavano ancora e la nuca era trafitta dalle solite punture, ma ormai fin dopo il pranzo non c'era più niente da bere. Si lavò la faccia con acqua molto fredda e decise di scendere a pianterreno. Glennhaven non aveva nulla della cupa tetraggine e della sottintesa violenza che normalmente si attribuiscono agli ospedali psichiatrici. Faceva pensare piuttosto a una tenue terra sognata, dove anime timide e stanche si ritiravano sempre più dalla realtà del mondo esterno e anche da un'altra realtà di quello interiore. Nella sala di musica, quando Barbee si mise ad ascoltare il giornale radio che parlava di un incidente automobilistico, una ragazza esile, graziosa, lasciò cadere la calza che stava rammendando e corse via, scossa dai singhiozzi. Barbee si mise a giocare a dama con un ometto dalla faccia rosea e la barba bianca, che riusciva a rovesciare con un soprassalto la scacchiera ogni volta che Barbee gli soffiava una pedina, e poi si profondeva in scuse. A tavola, il dottor Dilthey e il dottor Dorn fecero un tentativo penoso e tutt'altro che fortunato di condurre una conversazione leggera e briosa. Barbee fu lieto di vedere le ombre del crepuscolo autunnale addensarsi fuori delle finestre. Tornò subito in camera sua, suonò per l'infermiera e ordinò i suoi due whisky in una volta sola. La signorina Etting era fuori servizio e una brunetta zitella e penosamente vivace, di nome Jedwick, gli portò le sue due misure di bourbon e un voluminoso romanzo storico d'aspetto vetusto che Barbee non aveva chiesto. La ragazza si diede poi un gran da fare per la stanza, preparando il pigiama sul letto, pantofole dalla suola di feltro sul tappetino, una vestaglia rossa sulla spalliera della sedia, spianando il letto e palesemente mostrandosi gaia e serena. Ma Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo quando finalmente lo lasciò solo. La doppia dose di liquore lo riempì di una profonda sonnolenza, sebbene
il suo orologio segnasse soltanto le otto e lui avesse dormito quasi tutto il giorno. Cominciò a spogliarsi e si interruppe per tendere l'occhio, in preda a un vago malessere. Lontanissimo, chi sa dove, aveva udito un ululato fievole, bizzarro. I cani delle case coloniche intorno a Glennhaven cominciarono ad abbaiare furiosamente, ma Barbee sapeva che non era stato un cane a ululare. Corse alla finestra, tendendo ancora l'orecchio, e percepì un altro tremulo ululato soprannaturale. Era la lupa bianca. Che lo attendeva, là, presso il fiume. Barbee tornò presso il gran letto invitante, e una tremenda paura lo colse. Secondo la logica razionale, scientifica di Glenn, lui doveva accarezzare nel suo subcosciente un odio geloso per Quain e Spivak. Nella logica pazzesca dei suoi sogni, April Bell era ancora decisa a ucciderli, a causa dell'arma ignota ch'essi custodivano nella cassa verde. Lo atterrì il pensiero di ciò che il terribile serpente avrebbe potuto commettere. Indugiò il più a lungo possibile, prima di coricarsi. Si pulì i denti con uno spazzolino nuovo fino a farsi sanguinare le gengive. Fece la doccia e con gran cura si tagliò le unghie delle estremità, indossando alla fine un enorme pigiama bianco. Avvolto nella rossa vestaglia che portava ricamato sulla schiena Glennhaven, sedette in una poltrona per un'ora cercando di leggere il romanzo storico. E intanto la lupa ululava. Lo stava chiamando, ma lui aveva paura di andare. Si mise a passeggiare nervosamente per la stanza, e un altro suono, ancora più debole dell'ululato, lo fermò di colpo. Era l'urlo di una donna, soffocato, ma non lontano, monotono e terrificante, l'urlo di una donna in preda al terrore e alla disperazione: era la voce di Rowena Mondrick. Richiuse in fretta la finestra e se ne andò a letto col libro, cercando di sprofondarsi nella lettura, di non udire più nulla, né la voce di Rowena, né il richiamo della lupa bianca, scacciando il sonno che gravava su di lui, sempre più torpido. Ma le parole si confondevano sotto i suoi occhi e il mondo fantasmagorico che lo attendeva lo attirava, con le sue immense possibilità, rispetto alla tetraggine e allo squallore di quello in cui viveva... A un tratto cedette: spense la luce, per abbandonarsi alla sua nuova realtà. Il libro gli cadde di mano... Ma lui non aveva più mani. Scivolò via dalla forma penosa e vuota che giaceva abbandonata, respirando appena, sul gran letto bianco. Lasciò che
il suo lunghissimo corpo fluisse sopra il tappeto, e sollevò la testa piatta e triangolare verso la finestra. Cadde sul prato sottostante, in un viluppo di spire possenti, e corse strisciando e ondulando, rapidissimo, verso gli alberi che nereggiavano presso il fiume. La lupa bianca gli venne incontro trotterellando fuori da un folto di salici, coi lunghi occhi obliqui fosforescenti d'una luce verde. Il rettile saettò la nera lingua sottile a sfiorarle il muso fresco e umido, e le scaglie lucenti del suo corpo compatto ondularono di voluttà all'estasi di quel bacio mostruoso. «Era per i troppi dacquari, dunque», sibilò, «che mi facesti credere la tua favola sulla stregoneria?» La lupa rise, con la rosea lingua penzolante da una parte delle fauci. «Non tormentarmi più», pregò lui. «Sai che mi stai facendo lentamente impazzire?» Lei gli lambì il muso piatto affettuosamente. «Sei sbigottito, lo so... i primi risvegli sono sempre molto penosi, fino a quando non hai imparato bene.» «Fuggiamo via di qua», propose lui, mentre un brivido passava ondulando sulle sue scaglie. «Rowena Mondrick sta urlando, là, nella sua stanza. Non posso sopportare quella voce. Voglio scappare via da lei e da tutta questa incertezza...» «Stanotte abbiamo un altro lavoro da fare, Will. Tre dei nostri più pericolosi nemici sono ancora in vita... Quain, Spivak e la cieca. La cieca l'abbiamo ridotta dove non può fare nulla di più pericoloso che urlare, ma Spivak e Quain sono ancora all'opera, e stanno imparando, si preparano a usare l'arma nascosta nella cassa.» Barbee avrebbe voluto protestare, ma cedette subito alla volontà di April. Nello splendido ridestarsi dall'incubo orrendo della sua vita quotidiana, tutti i valori si tramutavano, capovolgendosi. Avvolse nelle due ultime spire del suo corpo la forma sottile della lupa, fin quasi a soffocarla. «Tu vuoi la morte di tutti i miei ex amici», sibilò. «Ma se un giorno un dinosauro ti sorprenderà tra le braccia di Prestron Troy, non venirmi a piangere poi la sua sorte.» Allentò la stretta delle sue spire, e la lupa si scrollò il bianco mantello con disdegno. «Non osare toccarmi, rettile!» Si tese ancora verso di lei:
«Dimmi, che cosa rappresenta Preston per te?». D'un balzo, lei si sottrasse alle terribili spire. «Perché vuoi saperlo?» E le candide zanne della lupa si scoprirono come in un sogghigno. «Andiamo ora. Cose più importanti ci attendono.» Le ondulazioni del suo lunghissimo corpo spinsero Barbee in avanti accanto a lei, in fremiti fluenti di forza. La frizione delle scaglie lucenti sulle foglie cadute sollevava dal suolo un sommesso brusio. Il serpente procedeva agevolmente al fianco della lupa, la testa triangolare sollevata all'altezza di quella di lei. Il mondo notturno era stranamente diverso ora per lui. Il suo fiuto non era più così sottile come era stato quand'era lupo, né la sua vista così acuta come da tigre. Poteva udire il dolce mormorio del fiume, tuttavia, e il fruscio dei roditori nei campi e tutti gli impercettibili suoni degli animali e degli uomini addormentati nelle fattorie presso le quali passavano. Clarendon, a misura che vi si avvicinavano, divenne una terrificante cacofonia di motori, di freni stridenti, di clacson, di radio a tutto volume, di abbaiar di cani e di voci umane. La luce splendeva al nono piano della torre grigiastra dove Quain e Spivak combattevano la loro guerra segreta contro il Figlio della Notte; e un fetore indistinto ma percettibilissimo aleggiava nell'aria. La porta sbarrata si dissolse davanti alla coppia mostruosa e in breve furono nel vestibolo fortemente - e, per loro, penosamente - illuminato. Il fetore era molto più intenso là dentro, ma Barbee sperò che il rettile potesse resistervi meglio di quanto non avesse fatto il lupo. Due uomini dagli occhi duri e penetranti, troppo anziani per i maglioni universitari che indossavano, sedevano giocando a carte al banco delle informazioni presso gli ascensori. Mentre la lupa e il gran rettile passavano silenziosi, uno dei due uomini di guardia sbatté nervosamente sul tavolo le carte spiegazzate che aveva in mano e si tastò la grossa pistola d'ordinanza che aveva sull'anca sotto la giubba. «Abbi pazienza, Jug, ma non riesco a distinguere i fiori dalle picche, stasera...» La sua voce si abbassò, roca. «Di' quello che vuoi, ma questo servizio all'Istituto mi sta rovinando il sistema nervoso. Sembrava buono, in principio... venti dollari al giorno solo per non far entrare nessuno... ma non mi piace più come prima!» L'altro raccolse il mazzo di carte. «Perché, Charlie?» «Ma non senti?» E l'omaccione tese l'orecchio. «Tutti i cani di Claren-
don si sono messi a ululare, e io non posso fare a meno di chiedermi che diavolo stia succedendo. Questi professori dell'Istituto hanno paura di qualche cosa, ed è strano, a pensarci, il modo in cui se ne sono andati il vecchio Mondrick e Chittum. Quain e Spivak hanno l'aria di chi sa di essere il prossimo della lista. Non so che cosa abbiano in quella cassa misteriosa, ma non vorrei metterci sopra gli occhi per quaranta milioni!» Jug affondò lo sguardo nelle ombre lontane del corridoio, oltre la lupa e il serpente che scivolavano entro l'edificio, e lui pure, inconsciamente, si toccò la grossa pistola al fianco. «Venti dollari al giorno son venti dollari al giorno, Charlie, e tu ti stai suggestionando... Ma vorrei saperne anch'io qualche cosa di più. Non che io creda alle stupidaggini, che dicono le donnette, di qualche maledizione dissotterrata in quelle vecchie tombe in Mongolia, no, ma qualcosa devono avere trovato!» «Io non lo so e non lo voglio sapere!», disse Charlie. «Su, dai le carte. Meno ci pensiamo, a questa faccenda, e meglio è!» Sebbene i due uomini volgessero spesso, senza volerlo, ma con strana insistenza, gli occhi verso le ombre in fondo al vestibolo, non videro la lupa e il serpente sostare davanti alla porta, chiusa a chiave, delle scale, fino a quando una parte di questa si dissolse per lasciarli passare; e continuarono, annoiati e impazienti insieme, la loro partita. Il serpente seguì la lupa per otto piani di scale immerse nelle tenebre. Il terribile sentore, dolciastro, ributtante e putrido, s'era fatto più denso a mano a mano che la coppia saliva, tanto che a un certo punto la lupa dovette fermarsi, come davanti a una barriera atroce. L'immane rettile proseguì la sua rapida marcia ondulante. Un'altra porta, davanti a Barbee, divenne un denso rettangolo di nebbia, e la testa triangolare del serpente si volse a chiamare la lupa, riluttante a seguirlo nel fetore delle camere del nono piano. Una di quelle camere era stata attrezzata con banchi metallici, strumenti, provette e tutto l'occorrente per le più disparate analisi chimiche. Le esalazioni brucianti dei reagenti erano sommerse dal fetore mortale che emanava da un pizzico di polvere grigia, messa ad asciugare su un filtro di carta. Quella stanza era silenziosa, a eccezione del gocciolio lento di un rubinetto, ma tanto la lupa quanto il serpente arretrarono davanti al tanfo. «Vedi?», Barbee sentì che April gli diceva, «i tuoi ex amici stanno tentando di analizzare quell'antico veleno nella speranza di annientarci.» La camera attigua era un museo di scheletri articolati, appesi candidi a
sostegni metallici. Barbee si guardò intorno a disagio coi suoi neri occhi di rettile. Riconobbe le ossa abilmente riconnesse dell'uomo moderno e delle moderne scimmie antropomorfe e le bianche ricostruzioni di tipi scimmieschi di ominidi quali l'uomo chelleano, quello musteriano e il prechelleano. Altri reperti lo lasciarono perplesso; le ossa ricostituite erano troppo sottili, i denti nel sogghigno del teschio troppo aguzzi, i teschi stessi troppo lisci e allungati. Evidentemente Quain e Spivak prendevano misure e calcolavano rapporti, alla ricerca di elementi che permettessero loro di colpire il nemico. L'altra camera ancora era immersa nelle tenebre e nel silenzio. Grandi mappe a colori illustravano i continenti moderni e quelli del passato; i margini dei ghiacciai delle epoche glaciali erano tracciati come linee di un campo di battaglia. Entro vetrine di cristallo, si vedevano i quaderni di appunti e i diari di Mondrick. La lupa a un tratto emise un lieve ringhio e Barbee si accorse che i suoi occhi verdastri fissavano un largo frammento di arazzo medievale, chiuso in una cornice di vetro e appeso sopra la scrivania, come se si trattasse di un tesoro speciale. Il disegno sbiadito mostrava un gigantesco lupo grigio che spezzava tre catene che lo imprigionavano, per balzare su di un vecchio barbuto con un solo occhio. Studiando meglio l'antico tessuto, Barbee nel lupo riconobbe Fenris, demone della mitologia scandinava. Il vecchio Mondrick aveva una volta analizzato il mito antichissimo, paragonando la demonologia vichinga a quella greca. Generato dal malefico Loki e da una gigantessa, il lupo gigante Fenris aveva continuato a crescere fino a quanto gli dèi impauriti lo avevano incatenato. Fenris aveva spezzato due catene, ma la terza aveva magicamente resistito fino al terribile giorno di Ragnaròk, quand'era riuscito a liberarsi per aggredire Odino, signore degli dèi, rappresentato come un gran vecchio con un occhio solo. La lupa bianca aveva digrignato i denti e si ritraeva ora dalla tappezzeria sfilacciata. «Perché? Dov'è il pericolo che ci minaccia?», volle sapere Barbee. «Là, in quel tessuto e nella storia che narra... e in tutti i miti delle guerre e delle alleanze fra dèi, uomini e giganti, che la maggior parte del genere umano crede siano soltanto fiabe e leggende. Mondrick aveva capito troppe cose e noi l'abbiamo lasciato vivere troppo.» Fiutò ancora l'odore nauseabondo, d'una putredine dolciastra.
«Dobbiamo agire subito! Prima che questi due maledetti scoprano tutto quello che Mondrick e sua moglie sapevano, e trasformino questo luogo in un'altra trappola per noi!» Rizzò le lunghe orecchie ad ascoltare. «Vieni, Barbee... i tuoi ex amici sono dall'altra parte del corridoio.» Attraversarono il corridoio immerso nelle tenebre, e il lungo serpente strisciò dinanzi a lei attraverso la parte inferiore di un uscio chiuso a chiave. Ma poi sussultò, levando la nera testa in allarme, alla vista di Sam Quain e Nick Spivak. La lupa lo raggiunse, beffarda: «Siamo in tempo, credo. Questi sciocchi non devono avere scoperto l'identità del Figlio della Notte, e la cieca non deve essere riuscita a comunicare con loro, per avvertirli di circondarsi di argento. Ora potremo porre fine a questi mostri umani e salvare così il Figlio della Notte». I due uomini chiusi nella cameretta non parvero molto mostruosi a Barbee. Nick Spivak scriveva, stancamente semisdraiato sulla scrivania. Alzò la testa quando Barbee lo guardò, con un soprassalto nervoso. Dietro le lenti spesse, i suoi occhi erano iniettati di sangue, febbrili, spiritati, e la faccia livida dalla stanchezza era coperta da una barba di qualche giorno. Sam Quain dormiva su una branda lungo il muro. Era così sfinito che anche nel sonno la sua faccia era stirata e contratta per la stanchezza. Da sotto le coperte sporgeva il braccio robusto, a stringere una delle maniglie di cuoio della cassa, anche nel sonno. La cassa era sempre chiusa col lucchetto. Barbee fece uno sforzo mentale, a tentoni, verso il suo contenuto, e sentì quel massiccio rivestimento d'argento all'interno del ferro e del legno della cassa: una barriera che gli fece scorrere un freddo brivido lungo le spire. Indietreggiò già in preda a un vago malessere, annebbiato dal fetore immondo che emanava la cassa. La lupa gli si accucciò vicino, spaventata e in preda al malessere. Sempre alla scrivania, Spivak fissava coi suoi poveri occhi arrossati Barbee, ma non parve vedere né il serpente né la lupa. Rabbrividendo un poco, come di freddo, riprese infine il suo lavoro. Barbee gli fluì vicino, sollevando la lunga testa piatta per guardare di sopra la sua spalla magra e curva. Vide le dita tremanti di Spivak girare distrattamente il frammento stranamente conformato di un osso ingiallito dal tempo. Vide poi l'uomo prendere un altro oggetto sulla scrivania, e uno sgradevole torpore irrigidì le sue spire. Quell'oggetto era di gesso bianco. Sembrava il calco di una pietra a forma di cuore, profondamente incisa. Una parte dell'orlo ricurvo dell'origina-
le doveva essere stato appiattito dall'usura; doveva essersi spezzato, vide Barbee, e un pezzetto ne mancava. Il fetore dolciastro che ne emanava come una nube era così potente che dovette ritrarre la testa nera di scatto. «Dev'essere un calco della Pietra», spiegò la lupa, barcollando sulle zampe. «E la Pietra stessa deve trovarsi in quella cassa... col segreto che annientò la nostra specie inciso su di essa e protetto da quell'intollerabile emanazione. Non possiamo arrivare alla Pietra stanotte... ma penso che potremo impedire al tuo amico di leggere l'iscrizione.» Barbee si eresse come una nera colonna arabescata per vedere meglio sulla scrivania: Nick Spivak aveva ricopiato tutte le iscrizioni dal disco di gesso strofinando una matita su morbida carta gialla. Ora cercava di decifrarle, indubbiamente, perché i bizzarri caratteri eano sparsi in file e colonne su varie pagine, frammisti ad appunti e quadri sinottici in caratteri comuni. «Sei fortissimo questa notte, Barbee», anelò la lupa. «Posso vedere una sicura probabilità di morte per Spivak... un campo magnetico a cui tu puoi attingere...» Digrignò improvvisamente le zanne. «Uccidilo! Uccidilo finché esiste il nesso!» Rigidamente, penosamente, Barbee si costrinse a immergersi di nuovo nella nuvola di fetore letale che aleggiava intorno al calco di gesso. Spinse poi le spire ricoperte di scaglie verso l'uomo sfinito intento a scrivere, perché quell'uomo era un nemico del Figlio della Notte e tutto era cambiato, ormai. Nessuna cosa più, della sua vita diurna, era importante. Importava solo la sua nuova potenza, l'atteso arrivo del Figlio della Notte e l'amore della lupa dagli occhi verdi. Nervosamente, Nick Spivak, messi da parte i suoi appunti, studiava ora attraverso una lente il calco di gesso, come per cercare un errore fatto nel rilevare l'iscrizione. Crollò il capo, accese una sigaretta e la schiacciò subito nel portacenere. Infine si volse a guardare con la fronte aggrottata Sam Quain addormentato sulla branda. «Gran Dio!», mormorò. «Sono isterico, questa notte!» Allontanò da sé il calco e si chinò nuovamente sulle carte. «Se potessi almeno identificare quel maledetto carattere!» Si mise a succhiare la matita, aggrottando la fronte. «I creatori del disco riuscirono ad annientare quei demoni, un tempo, e la loro scoperta può riuscirvi ancora!» Le sue spalle curve si eressero risolutamente. «Vediamo... se il carattere alfa rappresenta veramente l'unità...»
Fu tutto quello che disse. Perché il rettile aveva scagliato la testa sottile tra il volto dell'uomo e il piano della scrivania. Tre volte il lunghissimo corpo si avvolse attorno all'uomo, poi, stringendo le spire, si tese con tutta la sua forza verso il campo magnetico della probabilità favorevole. Il volto affinato e smunto di Spivak si contrasse in un'espressione di orrore. Dietro le lenti, i suoi occhi sembravano prossimi a scoppiare. Aprì la bocca per urlare, ma un colpo secco infertogli dalla dura testa del rettile lo paralizzò alla gola. Il fiato gli usciva in un sibilo dal petto, che cedeva sotto la stretta terribile. Con le mani ad artiglio cercò di puntellarsi al tavolo per alzarsi in piedi. Ma le spire si strinsero ancora di più e il torace dell'uomo s'incavò in modo impressionante. Le dita brancicanti, in un ultimo sforzo frenetico, afferrarono il disco di gesso e lo scagliarono debolmente contro le costole di Barbee. Il freddo urto del suo tocco e l'odore intollerabile annebbiarono il serpente, le cui spire palpitanti si rilassarono un poco. Ma ormai il povero Nick era già morto. Il disco gli cadde dalle dita inerti e si spezzò sul pavimento. La lupa corse verso la finestra: «Presto! Quain si sta svegliando.» Barbee le corse accanto e si accinse a dissolvere la materia della finestra; ma la lupa scosse la testa sottile. «No. Dobbiamo riuscire ad aprire la maniglia. Non ci sono persiane e Spivak era sonnambulo, quando si trovava in condizioni di estrema stanchezza. E questa notte sembrava sfinito. È questo il circuito magnetico delle probabilità che ho trovato per aiutarti a ucciderlo.» Finalmente, dopo un lungo affaccendarsi con le zampe e le zanne, mentre il rettile cercava di aiutarla usando la dura testa come leva, la lupa riuscì a far girare la maniglia e ad aprire la finestra con uno schianto che fece sussultare Quain. Questi si mosse pesantemente sulla branda. «Nick», mormorò confusamente, «che diavolo sta succedendo?» Ma non si levò e la lupa avvertì: «Non può svegliarsi ora... ciò spezzerebbe il circuito». L'aria limpida e fredda che irrompeva dalla finestra dissolse in parte il fetore che li stordiva con la forza di uno stupefacente. Il rettile fu in grado di trascinare il corpo stritolato di Spivak presso la finestra. «Presto!» La lupa era imperiosa. «Gettalo giù! Dobbiamo andarcene di qua prima che Quain si svegli... e io devo fare ancora qualcosa di molto difficile, per le mie zampe.» Balzò sulla scrivania, con la leggerezza di un essere alato, e cercò di
stringere la matita che la mano di Spivak aveva abbandonato pochi minuti prima. Barbee avrebbe voluto sapere che cosa stava tentando di scrivere, ma un gemito di Quain nel sonno lo riscosse. Con uno sforzo indescrivibile, riuscì a far precipitare la massa di carne e ossa stritolate oltre il davanzale della finestra. Ma le sue spire dovettero scivolare su una goccia di sangue, perché il suo corpo perse la presa che lo manteneva sull'orlo della finestra, e cadde a sua volta. Udì dietro di sé l'ansiosa ingiunzione della lupa: «Fuggi di qua, Will!... prima che Quain si svegli!». Il suo lunghissimo corpo nero precipitò giù, nel vuoto, per nove piani d'altezza, ardentemente teso verso il rifugio - ora - di quell'altro suo misero corpo addormentato a Glennhaven. Udì, in basso, il tonfo sordo e netto dei resti di Spivak che si abbattevano sul viale di cemento ai piedi della torre. E continuò a precipitare a sua volta, finché non si abbatté - e il mutamento fu questa volta repentino, indolore - presso il suo letto a Glennhaven, comunissimo bipede, istupidito dal sonno. La testa gli doleva per il gran colpo dato per terra nel cadere dal letto. Si levò ritto, barcollando. Aveva un bisogno imperioso di bere qualcosa di forte. Lo stomaco era sconvolto, sembrava svolazzare per la stanza, e tutto il corpo era in preda a un sordo indolenzimento. Glenn, si disse, gli avrebbe detto, senza dubbio, che lui era rotolato per terra scivolando dai cuscini su cui s'era sostenuto per leggere, e che tutto quello spaventevole sogno era nato poi dal suo tentativo, inconscio e probabilmente d'origine alcoolica, di spiegare in qualche modo la caduta. 15. Intorpidito, tremante e pieno d'orrore per la certezza che quanto aveva sognato fosse vero, Will Barbee rimase qualche minuto in piedi accanto al letto, nelle tenebre. Finalmente, con un rauco sospiro d'infelicità si decise ad accendere la luce e a guardare l'orologio. Erano le due e un quarto. Tese la mano verso gli indumenti che aveva lasciato sulla seggiola, spogliandosi, ma l'infermiera aveva dovuto ritirarli mentre dormiva, perché trovò solo la vestaglia rossa e le pantofole dalla suola di feltro. Sempre tremante, e ricoperto di sudore, si coprì alla meglio, e premette il bottone del campanello. Poi, impaziente, ciabattò fuori della camera per
andare incontro all'infermiera del turno di notte, un'atletica e bonaria signorina Hellar, piuttosto matura. «Oh, signor Barbee, ma io credevo che fosse addormentato!» «Devo vedere Glenn!», le disse, frenetico. «Subito!» La larga faccia da lottatrice dell'infermiera si illuminò di un sorriso impietosito, mentre la sua voce mascolina cercava di farsi carezzevole: «Ma certo, signor Barbee... Perché non se ne torna intanto a fare un po' di nanna, mentre noi cerchiamo di tei...». «Madama», la interruppe Barbee in tono di feroce sarcasmo, «non è questo il momento di farmi vedere la vostra tecnica di imbonimento dei pazzi furiosi. Forse sono pazzo e forse non lo sono, non lo so ancora, ma pazzo o sano, devo parlare subito a Glenn. Dove si trova?» L'infermiera Hellar si rannicchiò su se stessa, come se si trovasse sul quadrato, davanti a un temibile avversario. «E cerchi di non fare la furba», le consigliò Barbee guardandola con occhi sfavillanti. «Può darsi che lei sappia trattare a meraviglia i pazzi comuni, ma il mio caso è specialissimo, capisce?» Gli parve di vederla assentire di malavoglia, e non poté fare a meno di aggiungere: «Chi sa come si metterà a correre, quando mi trasformerò in un sorcio enorme, tutto nero!». La donna cominciò a indietreggiare lentamente, un poco pallida, ora. «Voglio solo parlare a Glenn per cinque minuti, ma subito!», aggiunse con un urlo improvviso. «E se Glenn troverà da ridire, me lo metta in conto.» «Temo che verrà una nota piuttosto salata», osservò l'infermiera, «se sono questi i suoi sistemi!» Barbee la guardò sorridendo, e improvvisamente si buttò a terra a quattro gambe. «Buono, buono!», ammonì la donna, nervosamente. «Ora le mostro il suo alloggio.» «Brava la mia ragazza!» E si rialzò sulle due gambe. L'infermiera Hellar si fece prudentemente da parte, e volle che la precedesse per il corridoio e giù per le scale... e Barbee ebbe la sgradevole sensazione che la donna credesse realmente alla possibilità che lui si trasformasse in un enorme topo nero. Dalla porta sul retro dell'edificio, l'infermiera gli indicò la palazzina di Glenn immersa nelle tenebre, e fu manifesto che la forte Hellar trasse un sospiro di sollievo, quando lui si avviò da solo verso la palazzina.
Delle luci si accesero al piano superiore ancor prima che Barbee giungesse davanti alla porta, segno che l'infermiera aveva telefonato prima. Il soave e altissimo psichiatra in persona venne ad aprire, avvolto in una lussuosa vestaglia di gusto piuttosto barbarico. «Dunque, signor Barbee?» «È successo un'altra volta!», annunciò il giornalista in tono tragico. «Ho fatto un altro di quei sogni, e so che non si tratta semplicemente di un sogno. Questa volta ero un serpente. E ho ammazzato... Nick Spivak!» Tacque un istante per riprender fiato. «Deve chiamare la polizia. Lo troveranno morto sotto una finestra aperta al nono piano della torre dell'Istituto... e l'assassino sono io!» Barbee si asciugò la fronte madida, scrutando ansiosamente il volto del medico per scoprirne le reazioni. Lo psichiatra batté due o tre volte le pesanti palpebre sui sonnolenti occhi nocciola e si strinse nelle spalle sotto la vestaglia sontuosa. Sorrise appena, con simpatia, buttando indietro la bruna testa ricciuta, e in quel momento, ancora una volta, parve a Barbee di averlo già conosciuto, in epoche chi sa quanto remote. «Come», fece Barbee, «non vuole? Non vuole telefonare alla polizia?» Con molta calma, Glenn scosse il capo: «No, non possiamo farlo». «Ma Nick è morto, le dico! Era mio amico!» «Non siamo precipitosi, signor Barbee!» E Glenn alzò le forti spalle mollemente. «Se non si trova nessun cadavere, avremo dato una seccatura alla polizia per niente. Se si dovesse trovare un cadavere, potremmo trovarci in difficoltà a spiegare come lo abbiamo saputo...» La sua faccia abbronzata s'illuminò d'un sorriso cordiale. «Io, vede, sono un materialista convinto... ma gli uomini della polizia sono materialisti brutali!» Barbee batteva i denti: «Crede che io... abbia assassinato realmente Nick Spivak?». «No davvero», rispose la voce sedativa di Glenn. «La Hellar mi assicura che lei è stato profondamente addormentato fino a pochi minuti fa. E poi vedo un'altra possibilità molto interessante, che potrebbe spiegare il suo sogno.» «Sì?» E Barbee trattenne il fiato. «Quale?» Glenn batté ancora le palpebre insonnolite. «Lei ha cercato recentemente di risolvere un mistero che circonda, nella vita reale, la condotta del suo vecchio amico Quain e dei suoi colleghi. Consciamente, non è riuscito a trovare una soluzione attendibile, ma l'in-
conscio, non dimentichiamolo, è spesso molto più astuto di quanto noi ordinariamente sospettiamo.» Deliberatamente, congiunse le punte delle dita insieme. «Inconsciamente, signor Barbee, può aver sospettato che Nick Spivak sarebbe stato gettato da una certa finestra questa notte. Se il suo sospetto dovesse coincidere più o meno con la realtà, la polizia potrebbe avere trovato il suo corpo là dove lei ha sognato che sia caduto.» «Assurdo!», lo interruppe Barbee rabbiosamente. «Ma se con lui c'era soltanto Sam!» «Appunto! Appunto!» E la testa ben modellata dello psichiatra s'inclinò due o tre volte, come a dire: "Non te l'avevo detto?". «Il suo inconscio respinge l'idea che Sam Quain possa essere un assassino... e anche il suo modo di respingerla così veemente fa pensare che inconsciamente lei desideri che Sam Quain muoia per avere ucciso.» Barbee levò un pugno nocchiuto e peloso. «Basta con queste assurdità», gracidò più rauco che mai. «Tutto questo... tutto questo è diabolico!» Fece un passo innanzi, ansando, in cerca di un po' di fiato. «È pazzesco. Le ho già detto, dottore, che Sam Quain e sua moglie sono due miei vecchi amici.» Dolcemente, il medico domandò: «Tutti e due?». «Ma la pianti!», urlò Barbee, stringendo di nuovo i pugni. «Le proibisco... di dirmi simili cose!» Glenn si ritrasse con una certa premura verso l'anticamera illuminata. «Un consiglio, signor Barbee.» Sorrise ancora in modo disarmante, e annuì ancora. «La sua violenta reazione mi rivela che è stato toccato un punto molto sensibile, nascosto dentro di lei, ma non vedo la necessità di parlarne ulteriormente ora. E se dimenticassimo tutti i nostri problemi per questa notte e ce ne tornassimo a letto?» Barbee si calmò e ficcò i pugni nelle capaci tasche della vestaglia rossa. «D'accordo, dottore», disse stancamente. «Mi scusi per averla disturbata a quest'ora.» Stava per andarsene, ma a un tratto si voltò, colto da un pensiero improvviso. E con voce bassa e rotta, soggiunse in tono disperato: «Ma lei sbaglia di grosso, dottor Glenn: la donna che amo è April Bell». Con un lieve sorriso sardonico, Glenn chiuse la porta. Lentamente, Barbee tornò nella notte verso la sua stanza, dove solo due o tre finestre erano vagamente illuminate. Gli sembrava strano camminare su due gambe soltanto, vedendo sagome informi con miopi occhi d'uomo,
inconsapevole di tutti gli odori e i sentori dei suoi sogni. Glenn, si disse, era un ciarlatano, se non peggio. Nessuno psichiatra serio poteva essere di lingua tanto disinvolta. Era vero, lo ammetteva, una volta era stato innamorato di Nora, prima che sposasse Sam. Forse era andato a trovarla più spesso di quanto fosse giusto nei lunghi periodi delle assenze di Sam, ma le rivoltanti conclusioni di Glenn erano assurde. Quanto al telefonare alla polizia, doveva riconoscere che Glenn aveva ragione; e non poté fare a meno di rabbrividire alla sua diabolica insinuazione che Sam avrebbe potuto essere accusato del delitto. Doveva provvedere in qualche modo. L'atletica Hellar gli permise con una certa apprensione di servirsi del telefono del suo ufficio, e lui chiamò Nora. Lei venne a rispondere subito, come se fosse stata in attesa di una telefonata, e la sua voce sembrava già piena di paura. «Sam ha un apparecchio telefonico all'Istituto, vero?», le disse Barbee in risposta alla sua domanda angosciata. «Nora, ti prego, chiamalo immediatamente. Sveglialo, se dorme: e digli di cercare subito Nick Spivak.» «Perché, Will?», chiese lei con voce che sembrava sul punto di venir meno. «Perché ho motivo di ritenere che possa essere accaduto qualcosa a Nick. E credo che ora anche Sam si trovi in grave pericolo.» Per un lungo, lunghissimo istante, Nora non disse nulla. Barbee poteva udire il suo incerto respiro affannoso all'altro capo del filo e il ticchettio dell'orologio sulla scrivania, presso l'apparecchio telefonico. Alla fine, lei domandò con voce soffocata dall'emozione: «Ma tu, Will, come lo sai?». «Oh, fa parte del mio mestiere, Nora», le rispose a disagio. «Informazioni confidenziali, sai, tutti i cronisti sono organizzati in questo senso... Ma allora, già sapevi?» «Sam aveva appena finito di telefonare, quanto tu hai chiamato. Era disperato, Will... sembrava che avesse quasi perduto la ragione.» «Ma... ma che cosa è successo a Nick?» «È caduto dalla finestra!» La voce della donna suonò come squarciata dall'orrore. «Dalla finestra del loro laboratorio privato, all'ultimo piano della torre. Sam dice che è morto sul colpo.» L'orologio continuava a ticchettare calmo e regolare. «Ma hai detto che potrebbe capitare qualche cosa anche a Sam. Che cosa, Will?»
«Lui e Nick erano soli nel laboratorio, no? E custodivano qualcosa che a quanto sembra ha grande valore in quella cassa che hanno portato dalla Mongolia. Due degli uomini che sapevano che cosa fosse sono già morti... e la loro scomparsa rischia di assumere una fisionomia poco chiara, ora che anche Nick è morto... capisci?» «No, Will!», gridò Nora al telefono. «Non è possibile!» «La polizia penserà che Sam abbia ucciso Nick per quello che è contenuto nella cassa. È continueranno a pensarlo fino a quando non sapranno che cosa c'è, in quella cassa... Ma vedrai che Sam non vorrà dirlo.» «Ma non è stato Sam!», gridò spasmodicamente Nora. «Lo sai anche tu che Sam non potrebbe mai fare una cosa simile!» Il ticchettìo dell'orologio sulla scrivania faceva pensare a onde lente sulla morta superficie del silenzio. Alla fine, la voce sfinita di Nora risuonò ancora nel microfono: «Grazie, Will... Richiamerò subito Sam, per metterlo sull'avviso». E con rinnovata protesta che le saliva dall'anima: «Ma non è stato lui!». Barbee ritornò stancamente nella sua camera, si tolse vestaglia e pantofole e si gettò spossato sul letto. Cercò di riaddormentarsi, ma era pervaso da una strana irrequietezza. Il ricordo del sogno lo ossessionava. Dovette suonare per l'infermiera e farsi dare un sonnifero, ma non si addormentò, ed era ancora sveglio, quando udì il sussurro della lupa bianca. «Will!... Mi senti, Will Barbee?» «Ti sento, April», mormorò lui, in preda al torpore. «Buona notte, amore.» «No, Will!» La lupa aveva di nuovo il suo tono imperioso. «Devi tramutarti ancora questa notte, perché un altro compito ci attende.» «No, basta!», protestò Barbee. «Non voglio più sognare, e poi so benissimo che non ti sento in realtà, che il tuo richiamo non esiste.» «Oh, Barbee, non cercar d'ingannare te stesso... Lo sai bene che i tuoi non sono sogni. Ora ti prego di stare calmo e di ascoltarmi.» «No, non ti ascolto e non sognerò più, non voglio più sognare.» E agitava la testa sul cuscino, come per liberarla di lei e della sua ossessione. La voce della lupa squillò imperiosa nella sua mente come una frustata. «Will! Devi ascoltarmi, tramutarti nuovamente e raggiungermi! Subito! E assumi la forma più spaventosa che puoi! Abbiamo un nemico molto più terribile di Spivak da combattere.» «Quale nemico?»
«La cieca! Quella donna non è più nella clinica, dove nessuno bada alle sue farneticazioni. È scappata, Will, per andare ad avvertire Sam Quain!» Barbee sentì un brivido gelido correre lungo la spina dorsale, come quando gli si rizzava il pelo sul collo sotto la forma di lupo. Ma era umano ora, sentiva la carezza delle lenzuola sulla sua pelle d'uomo, e i rumori della clinica, lontani, soffocati, col suo ottuso udito umano: i passi distanti dell'infermiera Hellar, il russare d'un dormiente nella stanza accanto, un telefono che suonava con una certa impazienza, frequentemente: «Ad avvertire Sam? E di che?», domandò, semiaddormentato. Il sussurro della lupa sembrò a sua volta carico di terrore: «Rowena conosce il nome del Figlio della Notte!». Con un sussulto, Barbee aprì gli occhi, e levando il capo un poco sul cuscino per guardarsi intorno vide una lama di luce gialla filtrare nella stanza sotto la porta dal corridoio, scorse il pallido rettangolo evanescente della finestra. Era ancora umano, del tutto umano, ed era sveglio. Pure, il suo roco sussurro non poté fare a meno di chiedere: «Ma chi è questo misterioso cospiratore, che tanta paura faceva a Mondrick, questo tenebroso messia, il Figlio della Notte? Qual è il suo vero nome?». «Will, non lo sai ancora?» E c'era l'antica sfumatura beffarda nella domanda. Un'ira improvvisa lo colse: «Lo so, chi è», disse con impazienza. «È il tuo buon amico Preston Troy!» E rimase in attesa d'una risposta che non venne. Era solo nella sua stanza, desto e immutato. Poteva udire il frettoloso ticchettio del suo orologio e vederne il quadrante fosforescente, che segnava le quattro e quaranta. L'alba era lontana di due ore buone, ma lui non intendeva addormentarsi fino a che non avesse visto la luce del sole. Non osava... «No, Barbee», il lieve sussurro lo fece sobbalzare ancora una volta, «il Figlio della Notte non è Preston Troy, ma tu devi meritarti la conoscenza del suo nome. E puoi farlo questa notte stessa, uccidendo Rowena Mondrick.» Lui s'agitò rabbiosamente sul letto. «Macché!», protestò. «È chiusa qui dentro, sotto chiave, con un esercito di infermiere che fa buona guardia. Ed è cieca, oltre tutto!» «Eppure, la tua cieca è fuggita, e in questo momento sta dirigendosi verso Sam, per avvertirlo. Presto, Barbee. Assumi la forma più spaventosa, armati di artigli spietati, di zanne invincibili, perché dobbiamo ucciderla,
prima che faccia giorno!» «No!», urlò Barbee, e poi abbassò la voce per timore che l'infermiera potesse udirlo. «Ho finito, April Bell! Finito d'essere lo strumento dei tuoi piani demoniaci... di assassinare i miei amici... ho finito anche con te!» «Davvero, Barbee? Eppure...» Rabbrividendo, riuscì a levarsi, e quel tenue sussurro si spense. Il suo furore e la sua apprensione avevano spezzato quella terribile trama di illusione, quel miraggio; né lui aveva la minima intenzione di fare del male alla povera Rowena, nel sonno o in stato di veglia. Si pose a passeggiare per la camera sulle gambe malferme, sempre anelando per un po' di fiato, madido di gelido sudore. Il mostruoso sussurro era veramente cessato. Si fermò presso la porta, tendendo l'orecchio per assicurarsene. Tutto quello che poté udire fu un lieve russare singhiozzante e sommesso, interrotto ogni tanto da un gorgoglio soffocato: era l'ometto barbuto, che la sera prima aveva rovesciato la scacchiera della dama, il quale dormiva i suoi sonni agitati dall'altra parte del corridoio. Aprì cautamente la porta. Qualcuno urlava, in una parte lontana della dipendenza. S'udivano anche voci di donna, stridule, eccitate. Un rumore di passi affrettati. Lo sportello di un'automobile che si chiudeva con uno schianto rabbioso. E poi il ronzio d'un motore che si accendeva, lo stridere dei freni, mentre la macchina, partita a tutta velocità, risaliva il viale in curva verso il cancello d'ingresso. Rowena Mondrick era veramente fuggita: la certezza di questo lo colpì con la fredda precisione di un pugno in piena faccia. Forse, come il soave Glenn gli avrebbe poi indubbiamente spiegato, il suo subcosciente turbato aveva semplicemente interpretato tutti i rumori soffocati di allarme e di ricerca della fuggitiva come prolungato sussurro della lupa bianca. Silenziosamente, Barbee calzò le pantofole e s'infilò la vestaglia, non dimenticando di cacciarsi nelle tasche il portafogli e le chiavi. Non distingueva più che cosa fosse realtà e illusione. Non avrebbe saputo chiarire a Rowena quale pericolo la minacciasse: non osava prestare fede a quel sussurro. Ma questa volta intendeva prendere parte attiva a qualunque cosa dovesse succedere: e non come sicario del Figlio della Notte. Il corridoio era deserto, e lui corse silenziosamente fino alle scale, dove si fermò al suono rabbioso della voce del dottor Bunzel: «Farà bene a trovarla», diceva a un'infermiera. «Era affidata alla sua sorveglianza, specialissima sorveglianza. E lei sapeva che aveva già tentato di scappare.» U-
n'intonazione di scherno parve raddolcirgli la voce. «Non sarà passata attraverso il muro, vero?» «È proprio quello che si penserebbe, dottore», rispose la voce tremula e smarrita di una ragazza. S'udì una specie di ruggito da parte del dottor Bunzel. «Voglio dire, dottore, che non riesco a capire da dove sia uscita.» «Perché?» «Povera signora!» La ragazza sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Era in grande agitazione fin dalla passeggiata di ieri mattina. E non voleva dormire, pregava e ripregava che la lasciassi andare dal dottor Quain. Poi, verso mezzanotte, i cani dei dintorni si sono messi a ululare e la povera signora Mondrick ha cominciato a lanciare urla terribili. Sembrava che non volesse più cessare. Il dottor Glenn aveva ordinato di farle un'iniezione, se ce ne fosse stato bisogno, e io pensai che non era più il caso di attendere. Sono andata a prepararla e quando sono tornata, un minuto dopo, era scomparsa.» «Perché non ha dato l'allarme prima?» «Ho voluto assicurarmi che non si fosse nascosta nella corsia comune.» «Bisogna organizzare ricerche sistematiche. La signora è gravemente sconvolta e ho paura di quello che può commettere, abbandonata a se stessa.» Le voci si erano allontanate a poco a poco verso l'altro lato dell'edificio e, Barbee non udì la risposta dell'infermiera. Silenziosamente scese le scale e assicuratosi che nessuno lo vedeva, uscì dalla porta posteriore della dipendenza. Sapeva di essere perfettamente desto e nella sua forma umana, e conosceva il pericolo che minacciava Rowena: lo aveva saputo dagli stessi nemici spietati della povera cieca, e contava di servirsene per aiutarla, questa volta. Ma non conosceva tutte le regole di quello strano gioco, né quale ne fosse la posta, né chi fossero esattamente i giocatori. Era un sicario ribelle, e ora intendeva chiuderla, quella partita, per quel che riguardava lui, dalla parte degli uomini. 16. Intirizzito, gelato nella sua vestaglia di cotone rosso, Barbee trovò nelle tenebre la sua macchina dove l'aveva lasciata, nel parcheggio dietro l'edificio principale. Tratto il mazzo di chiavi di tasca, cercò di avviare il motore
facendo il meno rumore possibile. Un faro si accese improvviso, mentre lui faceva marcia indietro per imboccare il viale, e un omaccione vestito di bianco uscì dall'edificio, urlandogli qualche cosa. Ma Barbee non si fermò, lanciò la macchina a tutta velocità, evitò per miracolo alla fine del viale il custode che agitava pazzamente le braccia e imboccò l'autostrada buia. Guardando con ansia nello specchietto, vide che nessuno lo inseguiva, e allora rallentò, per dirigersi verso Clarendon lungo la nuova strada che fiancheggiava il fiume, scrutando intanto le tenebre per scoprire la cieca fuggiasca. Vedeva ogni tanto il lampeggiare dei fari delle rare automobili che, in lontananza, passavano sull'autostrada, ma sulla via lungo il fiume il traffico era nullo. La speranza di trovare Rowena cominciò ad affievolirsi quando giunse in vista del ponte, perché quel ponte era a oltre tre chilometri da Glennhaven e la cieca non poteva essere giunta da sola fin là, senza guida. E proprio in quell'istante la scorse, figura alta e solitaria, angolosa, che camminava con un passo lungo e legato, frettoloso, proprio davanti alla sua macchina. Era vestita di nero e, nelle tenebre, gli si era materializzata improvvisamente a breve distanza, tanto che Barbee si buttò con tutto il corpo sul freno, certo d'investirla. Ma non l'aveva toccata. Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo e lentamente fermò la macchina. Era arrivato in tempo per salvarla dal mostruoso pericolo che incombeva sul suo capo e gettare all'aria almeno uno dei piani del misterioso Figlio della Notte. Si era appena fermato, quando vide i fari di un'altra macchina alle sue spalle. Non c'era altro da fare, si disse, che prendere la cieca in macchina e portarla da Sam Quain. Un gesto tanto leale avrebbe restituito a Rowena l'antica sua fiducia in lui e sopito gli irragionevoli sospetti di Sam. Ma la cieca aveva udito lo stridere dei freni della sua macchina, perché ora correva via pazzamente nel cono di luce bianca gettato dai fari dell'auto. Poi la poveretta inciampò nel rialzo di cemento ai margini della strada, cadde carponi e si rialzò traballando, mentre lui, sceso di macchina, le gridava: «Rowena, aspettami!... Voglio aiutarti!». La donna parve sobbalzare, nel volgersi ad ascoltare. «Lascia che ti aiuti a salire sulla mia macchina, e ti porto da Sam Quain!» Ma la cieca riconobbe la sua voce, aprì la bocca in un urlo di terrore infinito e si rimise a correre, finché non andò a urtare contro il parapetto di cemento; allora, tenendovi sopra la mano come su una guida, lo seguì e si allontanò sopra il ponte.
Come istupidito, Barbee rimase fermo un istante; i fari della macchina inseguitrice si stavano avvicinando. Aveva pochissimo tempo per prendere Rowena a bordo, se voleva che arrivasse sana e salva da Sam. Ingranò la marcia, spinse l'acceleratore... e l'antica ombra di sgomento scese su di lui come una cappa tenebrosa. In quel momento aveva visto la lupa bianca. Sapeva che non avrebbe potuto vederla, perché in quel momento non sognava, e le mani ossute e pelose che stringevano tremanti il volante erano mani umane. La lupa balzò con languida eleganza dalle ombre oltre il margine della strada e venne a sedersi nel mezzo della pista di cemento. La luce dei fari traeva serici riflessi dal suo bianco mantello e rendeva fosforescenti gli straordinari occhi verdi. La luce doveva darle una gran noia, ma lui la vide sogghignare, la rosea lingua pendula da un lato. Ancora una volta Barbee schiacciò freneticamente il pedale del freno, ma non fece a tempo a fermare la macchina appena avviata. Nemmeno il tempo di chiedersi se la lupa fosse reale o soltanto la folle immaginazione di un accesso di delirium tremens. S'era venuta a sedere troppo vicino alla macchina, e lui, automaticamente, sterzò per non schiacciarla. Il parafango sinistro cozzò contro la barriera di cemento. Il volante parve affondarglisi nel petto, mentre la sua testa entrava in durissimo contatto col parabrezza. L'urlo dei freni, il fragore del metallo e dei cristalli che si spezzavano, tutto si dissolse in una muta tenebra. Il colpo alla testa doveva averlo stordito, ma solo per pochi istanti, perché lui si riadagiò a un tratto contro lo schienale del sedile, le mani sul volante, mentre cercava di riempirsi d'aria i polmoni e si accorgeva che il suo mal di capo era tornato più violento che mai. Tremando al freddo della notte, si strinse attorno al corpo rinsecchito la sottile vestaglia di cotone. La macchina s'era fermata diagonalmente attraverso il ponte. Il motore era spento, ma il fanale destro ardeva ancora. Barbee fiutò nell'aria l'odore della benzina combusta e della gomma rovente. «Ottimo lavoro, Will!», guai allegramente la lupa bianca. «Sebbene non mi aspettassi che questa fosse la tua forma più spaventosa!» E la vide puntargli addosso il fuoco verde dei suoi occhi da dietro una massa oscura, immobile, nel bianco fascio di luce del fanale rimasto. Non riuscì a distinguere la massa informe ai piedi della lupa, ma nulla si muoveva sul ponte e non si udivano più i passi atterriti della cieca. Un dubbio atroce gli attana-
gliò il cuore. «Lavoro preciso!», sogghignò ancora la lupa. «Ho potuto sentire il circuito quando ti ho chiamato poco fa: una cieca in fuga sull'autostrada, vestita di nero nel buio della notte e troppo impaurita per sentire l'arrivo improvviso di un'automobile, rappresenta una quasi certa probabilità di morte. Noi l'abbiamo afferrata molto abilmente. E credo, in fondo, che la tua forma fosse per lei la più spaventosa che si possa immaginare. La sua collana si è spezzata e tutte le perline d'argento si sono perdute, quando l'hai urtata. Sarà ben difficile, ora, che possa dire a Sam Quain il nome del Figlio della Notte.» La lupa bianca girò bruscamente il capo, rizzando le orecchie aguzze. «Stanno arrivando, quegli sciocchi di Glennhaven... Corri, Barbee, lascia la morta dove si trova!» «La morta!», ansimò Barbee. «Che cosa... che cosa mi hai fatto fare?» «Il tuo dovere nella nostra lotta contro il genere umano! E contro i bastardi traditori, come questa vedova, che cercano di rivolgere i poteri del nostro sangue contro di noi! Tu hai dato prova di te stesso, Barbee... Ora so che sei completamente con noi... Ma corri! Non farti trovare qui!» E con un balzo lunghissimo si allontanò nelle tenebre. Barbee rimase inerte, nella luce dell'automobile che si avvicinava. Poi scese e si avvicinò alla forma vestita di nero che giaceva immobile davanti all'occhio solitario della sua macchina. Singhiozzando di disperazione e di pietà raccolse il povero corpo tra le braccia: ma era troppo pesante per le sue forze esauste. E allora lo riadagiò per terra. Non c'era altro da fare. «Scappa, Will!» La voce della lupa gli giunse dalle tenebre. «O ti accuseranno di averla uccisa. Raggiungimi a casa mia, al Trojan Arms; e insieme ci recheremo dal Figlio della Notte!» Improvvisamente, il panico s'impadronì di lui. Semiaccecato dalle luci della macchina vicinissima, ormai, ritornò con un salto dietro il volante e premette il bottone della messa in moto. Il motore rombò obbediente, e allora lui cercò di fare marcia indietro, per staccarsi dal parapetto. Ma il volante non voleva girare. Si precipitò nuovamente fuori, nel bagliore bianchissimo del faro, e vide che il parafango s'era ripiegato contro la ruota. Cercò con le deboli mani tremanti, di raddrizzare quel maledetto parafango; ma le mani gli scivolavano, il metallo era duro e tagliente. Alla fine, cedette. L'altra macchina venne a fermarsi immediatamente contro la sua. «Ma, signor Barbee!» La voce seccata che proveniva da dietro il fulgore
accecante dell'altra macchina era quello del dottor Bunzel. «Vedo che ha avuto un piccolo incidente!» Barbee, frugando disperatamente sotto il parafango, constatò finalmente che il pneumatico non lo toccava più. Senza rispondere, tornò in gran fretta sulla macchina, tremando di terrore e di emozione. «Un momento, signor Barbee!» Udì un rumore di passi frettolosi sull'asfalto. «Lei ha diritto a essere trattato con la massima cortesia possibile finché rimane nostro ospite a Glennhaven, ma non dovrebbe ignorare che non può condursi come in un albergo, salvo permesso speciale del dottor Glenn. Temo che saremo costretti a...» Barbee non si curò di ascoltare oltre. Tra un fracasso di ferraglia e di vetri triturati ingranò la marcia indietro, cozzò violentemente contro l'altra auto, sterzò, ripartì a tutto acceleratore, spinto da una paura mostruosa, frenetica. Udì per un istante la voce di prima che urlava: «Barbee!... si fermi...». I fari dell'altra macchina erano scomparsi, e lui, scansando per miracolo il corpo per terra e slittando per un istante su qualcosa di viscido, rombava ora a tutta velocità sul ponte. L'altra macchina non poteva più inseguirlo. Calcolò che, costretto a tornare a piedi a Glennhaven, Bunzel non avrebbe potuto telefonare alla polizia prima di mezz'ora. Ma all'alba tutta la polizia di Clarendon si sarebbe lanciata alla ricerca di un pazzo furioso, che, affetto da mania omicida, correva le campagne in vestaglia rossa su una vecchia macchina chiusa macchiata di sangue. La disperata solitudine di chi precipita negli abissi del cosmo s'impadronì di lui mentre guidava la sua traballante automobile nella notte. Solitudine, disperazione, orrore. Qual era la realtà? Quale la sua allucinazione? L'universo intorno a lui era divenuto improvvisamente incomprensibile. E nessuno a cui rivolgersi, a cui chiedere aiuto! Quando fu nei pressi dell'università, fermò la macchina in una viuzza secondaria, dietro un vasto deposito di legnami, e si avviò zoppicando verso la casa di Sam Quain. Albeggiava. Dominò l'impulso frenetico di mettersi a correre e di nascondersi in un'altra viuzza, nel vedere un ragazzino con un pacco di giornali venirgli incontro in bicicletta, gettando un giornale ripiegato davanti a ogni porta. Cercando di darsi l'aria di un abitante del rione, appena alzato e uscito sulla soglia a dare un'occhiata al tempo, si fermò sull'orlo del marciapiede, frugandosi nelle tasche della vestaglia in cerca di spiccioli per il giornale.
«Lo Star, signore?» Barbee annuì: «Tieni il resto». Il ragazzino gli porse una copia e ne gettò un'altra verso la porta alle sue spalle, poi si allontanò pedalando; ma non senza avere lanciato, prima, un'occhiata penetrante alla vestaglia rossa. In gran fretta, Barbee aprì il giornale e i neri caratteri del titolo lo colpirono come una mazzata: UNA MALEDIZIONE PREISTORICA O UN ASSASSINO IN CARNE E OSSA FA LA SUA TERZA VITTIMA Nicholas Spivak, 31 anni, antropologo dell'Istituto di Ricerche, è stato trovato cadavere stamane ai piedi della torre dell'Istituto, mentre una finestra era aperta al nono piano della torre. Il cadavere è stato trovato da due guardie speciali, assunte dall'Istituto dopo che la morte aveva colpito due altri scienziati della Fondazione nel corso della settimana. Una maledizione preistorica perseguita forse i membri della spedizione tornati recentemente a Clarendon dai tumuli della Mongolia? I membri superstiti della spedizione smentiscono qualsiasi voce relativa a cose particolarmente misteriose che avrebbero dissotterrato dai presunti luoghi d'origine del genere umano, in quello che è oggi il deserto dell'Ala-shan, ma la morte di Spivak porta ora a tre il numero delle vittime tra coloro che parteciparono alla spedizione. Si cerca il dottor Samuel Quain, altro membro dell'Istituto, per informazioni in merito alla morte di Spivak, a quanto dichiarano il capo della polizia Oscar Shay e lo sceriffo T.E. Parker, secondo i quali la sua testimonianza dovrebbe gettare nuova luce sulle bizzarre coincidenze dei precedenti decessi. Ridendo della teoria relativa alla maledizione, Shay e Parker hanno lasciato intendere che una cassa dipinta di verde, portata dagli esploratori dall'Asia, potrebbe contenere una spiegazione meno misteriosa, ma più sinistra, dei tre decessi. Si ritiene che Quain fosse solo con Spivak nella stanza della torre, da cui le autorità di polizia dichiarano che cadde o fu gettato, schiacciandosi
al suolo. Il giornale sfuggì tra le dita intirizzite di Barbee. Pure, Quain non poteva essere l'assassino. Era impensabile. Un assassino, tuttavia, doveva pur esserci. Con la morte di Rowena, ormai le vittime salivano a quattro. Un cervello spietato sembrava essere all'opera, spietato e fornito di poteri soprannaturali: il cervello, ovviamente, del Figlio della Notte. Ammesso che questo nome celasse veramente un'entità pensante. Incerto ormai su tutto e su tutti, Barbee si affrettò per le quiete viuzze verso la casa di Sam, cercando di aver l'aria di chi ritiene che una passeggiata mattutina in una svolazzante vestaglia rossa sia la cosa più naturale di questo mondo. Eppure il mondo esterno, nel suo risvegliarsi al primo mattino autunnale, aveva un'aria quanto mai normale e credibile. Come il sorriso allegro che gli rivolse l'uomo in tuta, in attesa col pacchetto della colazione presso la fermata dell'autobus, un muratore, probabilmente, si disse Barbee. Ma, ragionò Barbee allontanandosi a passo sempre più rapido, incalzato dai suoi fantasmi, la città, così tranquilla e normale e reale, in verità si nascondeva sotto l'illusoria parvenza di un velo dipinto. La sua atmosfera lievemente assonnata celava orrori misteriosi, troppo terrificanti perché una mente sana potesse considerarli. Anche il muratore che gli aveva sorriso, col suo pacchetto della colazione sotto il braccio, quello stesso muratore poteva essere il Figlio della Notte. Nora venne ad aprirgli, con gli occhi rossi per la veglia e le lacrime. Era mortalmente pallida, e la sua tonda faccia lievemente lentigginosa esprimeva lo sconvolgimento in cui si trovava. «Oh, Will!», esclamò affettuosamente. «Come mi fa piacere che tu sia venuto! Dio, che notte è stata mai questa!» Ma nel vederlo a sua volta così sconvolto e disperato in quella strana acconciatura, gli fece un pallido sorriso di conforto. «Anche tu hai l'aria stanca, Will! Vieni in cucina, ti verso una tazza di caffè...» La seguì in cucina col cuore gonfio di gratitudine. Batteva i denti dal freddo. «Sam è in casa?», domandò ansioso. «Ho assoluto bisogno di parlargli.» Lei lo guardò con occhi dolenti. «No, non c'è», rispose laconicamente. «Strano, ho visto davanti alla porta la giardinetta della Fondazione», os-
servò. «Credevo che Sam fosse in casa.» Le labbra esangui di Nora si strinsero in un deciso riserbo. Camminarono in punta di piedi, passando davanti alla porta della nursery, e Barbee vide che le labbra di Nora tremavano, come se stesse per piangere. «Pat è ancora addormentata», sussurrò. «Credevo che si sarebbe svegliata, quando è venuta la polizia. Sono rimasti qui ore e ore, cercando di farmi dire dove fosse andato Sam...» Dovette vedere il sussulto di Barbee, perché si affrettò ad aggiungere con dolcezza: «Non preoccuparti, Will, non ho detto loro che mi avevi telefonato di avvertire Sam». «Grazie, Nora», e Barbee si strinse nelle spalle, sotto la sua vestaglia rossa. «Non che la cosa possa avere grande importanza, ma la polizia mi sta cercando per qualcosa di più grave ancora.» Nora non fece domande. Ma gli versò una tazza di caffè dalla caffettiera sul fornello elettrico, e glielo servì con un piattino di crema e la zuccheriera. «Grazie, Nora», ripeté lui. Sorseggiò la bevanda bollente, gli occhi pieni di lacrime di riconoscenza e di dolore. La sua solitaria disperazione si disciolse dal duro nodo in cui s'era raggrumata nel suo cuore, e improvvisamente annunciò proprio la cosa che non avrebbe voluto dire: «Rowena Mondrick è morta!». Nora lo guardò muta, gli stanchi occhi sbarrati. «È scappata da Glennhaven.» Una stolida perplessità gli rendeva la voce lenta e incerta. «È stata trovata morta sul ponte del Deer Creeck. La polizia crede che io l'abbia investita. Ma non è vero!» La sua voce si ruppe in una nota troppo alta e stridula. «Non sono stato io!» Nora sedette davanti a lui, dall'altra parte del tavolo di cucina. Scrutò il suo volto emaciato, e alla fine assentì, con un lieve sorriso di comprensione intenerita. «Parli e ti comporti esattamente come Sam», disse poi. «Era così stravolto, non riusciva a capire, e non sapeva che cosa gli convenisse fare.» Ancora una pausa, durante la quale il suo sguardo indugiò sulla faccia contratta di Barbee. «Will, c'è qualcosa di spaventevole sotto questa tragedia. Sono convinta che ne sei vittima innocente, proprio come Sam. Tu credi... credi veramente di poterlo aiutare?» «Credo che possiamo aiutarci a vicenda.» La donna rimase in silenzio un istante, mentre lui rimescolava il caffè. «Allora ti dirò di Sam», decise alla fine, inghiottendo la saliva come se stesse soffocando. «Perché Sam... ha bisogno di aiuto, terribilmente biso-
gno!» «Farò tutto quello che posso. Dove si trova ora?» «Non lo so... davvero!» Scosse la testa bionda, esasperata. «Non s'è fidato nemmeno di me... è questa la cosa terribile.» Inghiottì ancora, prima di dire: «Ho paura di non vederlo... più!». «Puoi dirmi esattamente che cosa è successo?» Lei cercò di vincere i singhiozzi. «L'ho chiamato subito dopo la tua telefonata. Gli ho detto che secondo te la polizia sarebbe venuta a cercarlo per interrogarlo sulla morte di Nick.» Guardò Barbee con aria perplessa. «Aveva una strana voce, quando gli ho detto questo. Mi ha chiesto come facessi tu a saperlo.» La sua voce si fece più recisa. «Come lo hai saputo, Will?» Barbee non riuscì a guardarla negli occhi. «Sai, i miei soliti informatori.» Si mosse a disagio, ripetendo la bugia inconsistente. «Non posso compromettere chi mi aiuta nel mio mestiere.» Fu per rovesciare il caffè, e mormorò: «Insomma, che altro ha fatto Sam?». «M'ha detto che doveva assolutamente scappare, ma non poteva dirmi dove. L'ho pregato di venire prima a casa, ma ha detto che non ne aveva il tempo. Perché non poteva dare spiegazioni alla polizia? ho chiesto. Perché non lo avrebbero creduto, m'ha risposto. Ha detto che i suoi nemici lo avevano messo nei guai con molta abilità... Ma chi sono i suoi nemici, Will?» Barbee scosse il capo come un automa. «È tutto un complotto, Will!», riprese, con voce che il terrore soffocava. «La polizia mi ha mostrato alcune cose che ha trovato... per farmi parlare. Mi ha detto quello che pensa. Non... non ci posso credere!» «Che cosa ti hanno fatto vedere?» «C'è un biglietto», rispose Nora debolmente, «scritto su un pezzo di carta gialla con la calligrafia di Sam... o un'imitazione della sua scrittura. Dice come abbiano bisticciato, tornando dalla spedizione, per il tesoro che avevano nella cassa. Sam lo voleva per sé, e ha cercato di convincere Nick ad aiutarlo... questo dice il biglietto.» Nora scosse il capo in una frenetica protesta. «Il biglietto dice anche che Sam avrebbe dato a Mondrick una dose eccessiva della sua medicina per il cuore, per ucciderlo all'aeroporto e impedirgli così di riporre il tesoro nel museo dell'Istituto. Sam poi avrebbe indebolito i freni e lo sterzo della nostra macchina, così che Rex sbandasse su Sardis Hill... è strano che Sam dovesse imprestargli la nostra vecchia macchina, quando all'Istituto ci sono macchine molto migliori. E infine il biglietto dice che Nick aveva paura
che Sam volesse ucciderlo, per mantenere il segreto sugli altri assassini e avere il tesoro tutto per sé.» Nora fu scossa da un singulto e la sua voce si fece più acuta. «La polizia crede al biglietto, capisci. Crede che sia stato Nick a scrivere in realtà il biglietto. Dicono che Sam e lui erano soli nella stanza. Hanno trovato una sedia spezzata, e una striscia di sangue fino alla finestra. Sono persuasi che Sam abbia ucciso Nick e poi lo abbia gettato dalla finestra... ma tu sai che Nick pativa di sonnambulismo... Ricordi, vero?» Barbee annuì, e vide la disperata speranza della donna. «Ricordo», disse, «e non credo che sia stato Nick a scrivere quel biglietto.» Era stata la lupa, pensò, quand'era balzata sul tavolo di Nick e aveva preso la sua matita nella zampa... ma questo faceva parte della sua pazzia, non poteva parlarne a nessuno, nemmeno a Nora. Barbee guardò la macchina dell'Istituto dalla finestra della cucina e indicandola col mento domandò: «Sam dunque è venuto qui?». «Oh!... Sam me l'ha mandata con un uomo dal garage della Fondazione perché la usassi al posto della nostra... quella in cui Rex si è ammazzato. Sam mi aveva detto al telefono che il nemico non avrebbe riconosciuto la nostra automobile, e invece...» Barbee abbassò ancora gli occhi sul resto del suo caffè. «E non sai nulla di Sam?» «So solo che se n'è andato.» Si asciugò le lacrime che continuavano a colmarle gli occhi. «Ma non so dove. Mi ha detto che la morte dei suoi tre amici gli imponeva un dovere importantissimo, che deve adempiere da solo. Non mi ha detto di che si tratta. Gli ho consigliato di prendere questa macchina, ma mi ha risposto che non aveva tempo di venire a casa. Contava di prendere un furgone dell'Istituto.» Si soffiò il naso in un tovagliolo di carta. «Will», mormorò, «che cosa possiamo fare per aiutarlo?» «Dobbiamo innanzi tutto trovarlo», disse Barbee, alzando la tazza con mano tremante, per inghiottire l'ultimo sorso di caffè. «Ma io credo di sapere... di sapere dove posso trovarlo. Perché lui sa che tutti gli agenti di polizia di quattro Stati saranno sguinzagliati alla ricerca di quel furgone entro mezzogiorno. Credo di sapere dove Sam andrebbe in un caso del genere.» Nora si chinò su di lui con espressione implorante sul volto.
«Dove, Will? Ti prego, dimmi, dove credi di poterlo trovare?» «È solo una supposizione», e Barbee si agitò inquieto nella sua vestaglia rossa, «forse mi sbaglio, ma non credo. Se non mi sbaglio, anche questa volta è meglio che tu non sappia. Immagino che la polizia sarà presto di nuovo qui... alla ricerca di me come di Sam.» Lei si portò le mani alla gola. «La polizia!», ripeté. «Will, non l'avvertirai, vero, del nascondiglio di Sam?», domandò con improvvisa diffidenza. «E non ti farai scoprire?» «Ma no, mia povera Nora!», non poté fare a meno di sorridere. «Saprò essere prudente, non sono meno in pericolo di Sam, sai. E ora, se tu mi dessi un po' di roba da portargli? Abiti pesanti, stivali, sacco a pelo, fiammiferi, una padella, un po' di scatolame, una carabina... immagino che tu abbia qui almeno una parte del suo equipaggiamento leggero della spedizione.» Lei assentì col capo, pronta a muoversi. «E avrò bisogno di quella macchina», aggiunse Barbee, «per raggiungerlo.» «Prendila pure. Prendi tutto quello che ti occorre... e lascia che io gli scriva un biglietto.» «Sì, ma facciamo presto, Nora. Dobbiamo aiutare Sam per qualcosa ancora più importante della sua sicurezza personale. Lui è l'ultima speranza... contro qualcosa peggiore di quanto la maggior parte degli uomini abbia mai temuto.» «Lo so, Will. Sam non ha mai voluto dirmi nulla, ma io l'ho sentito, questo, fin dall'istante in cui atterrarono al'aeroporto. È come se qualcosa si annidasse nell'ombra, invisibile, sogghignante, orrendo, troppo orrendo per avere un nome.» Ma l'aveva un nome, pensò Barbee. E questo nome era: il Figlio della Notte. 17. Con l'orecchio teso alle eventuali sirene di auto lanciate alla sua ricerca, Barbee si recò nel bagno per cambiare le pantofole e la vestaglia della clinica con un paio di scarpe e un costume kaki di Sam, infilandosi due paia di calze, perché le scarpe erano troppo larghe. Frattanto Nora aveva messo insieme provviste, coperte, indumenti, altre cose di prima necessità. Poi, mentre la donna scriveva il biglietto per il marito, Barbee fece un gran
pacco di tutte le robe. «Non dire ai poliziotti che mi hai visto», ricordò a Nora con un roco sussurro. «Non dir nulla... per quello che ne so, la stessa polizia potrebbe operare d'accordo coi nemici di Sam.» Poi, cogliendo un istante in cui la tranquilla viuzza era deserta, saltò in macchina e si avviò, sorridendo a Nora sulla porta con una speranza che non sentiva. Percorreva Pine Street alla velocità regolamentare di quaranta chilometri all'ora, quando udì una sirena alle sue spalle; si costrinse a mantenere la velocità legale, e dopo qualche istante respirò di nuovo. Una decina di chilometri più innanzi, piegò a nord e imboccò una strada secondaria, piena di fosse, verso le colline. Mentre guidava, analizzò l'intuizione che aveva avuto sul nascondiglio di Sam. Quain era cresciuto fra quelle colline. Non c'era dubbio che fosse scappato dall'Istituto con la cassa, e Barbee era certo di conoscere dove Sam avrebbe cercato di nasconderla. Durante le vacanze natalizie, tanti anni prima, lui aveva fatto una corsa a cavallo con Sam e Rex su per un viottolo che serpeggiava tra le colline fino a una vecchia segheria abbandonata. A un tratto, Sam aveva tirato le redini del suo cavallino scozzese per indicare agli altri una striscia fumosa sul dirupo roccioso, ossidato, che strapiombava sul Laurel Canyon. Quella striscia, disse Sam, indicava la presenza in quei paraggi d'una grotta indiana. Barbee sapeva che Sam doveva avere scelto quella grotta. Lontanissima dalle strade comunemente usate, era tuttavia accessibile a un guidatore come Sam. C'era abbastanza vegetazione per nascondere la macchina, anche a un ricognitore aereo. Con l'acqua vicina del Laurel Creek, legna a volontà per scaldarsi e un ricovero abbastanza capace e comodo per chiunque non andasse troppo per il sottile, quella grotta era una fortezza naturale, come lo era stata per migliaia di anni. Per due volte, Barbee fermò la macchina là dove la vegetazione la nascondeva a qualunque occhio indiscreto, e si arrampicò su un'altura a guardare la strada percorsa. Era deserta, segno che nessuno lo seguiva, ma le tracce fresche di pneumatici sul terreno gli indicarono che Sam doveva essere passato di là. Erano le dodici e mezzo quando il giornalista raggiunse il Bear Canyon. La giornata s'era fatta calda, ma pesanti nuvoloni nascondevano il sole, e
aveva cominciato a soffiare dal sud un vento caldo che prometteva la pioggia. Sotto il poggio rossastro che dominava il Laurel Canyon, scoprì la giardinetta di Sam, abilmente nascosta tra la vegetazione, là dove la strada di montagna serpeggiava fra un enorme masso di granito e una pianta che vi si piegava sopra. Barbee lasciò la sua macchina accanto alla giardinetta, e iniziò la marcia, curvo sotto l'enorme fagotto delle provviste per Sam. Si teneva bene in vista, salendo, perché conosceva Sam Quain, e cercar di seguirlo furtivamente equivaleva a un suicidio. E aveva la sensazione precisa che Sam tenesse la sua vita in sospeso. «Sam!», chiamò con voce resa tremante dall'apprensione. «Sono Barbee, con le provviste!» Ansimò di sorpresa e di sollievo quando vide la testa del fuggitivo apparire dietro il tronco di un'enorme quercia. La testa abbronzata di Sam era nuda, la camicia lacera e sporca di terra. Il corpo ossuto dell'esploratore sembrava piegato in due dalla spossatezza, ma la rivoltella che stringeva in mano era minacciosa come la dura voce che chiedeva: «Barbee... che diavolo stai facendo qui?». Barbee rispose informandolo succintamente della situazione e annunciandogli un biglietto di Nora. Ma la faccia minacciosa di Sam non si addolcì. «Dovrei ammazzarti, Barbee.» La sua voce era cambiata, suonava atona e dura. «Avrei dovuto ammazzarti molto tempo fa... io o Mondrick avremmo dovuto farlo. Ma ritengo che tu non sia del tutto perduto... il tuo avvertimento a Nora mi ha salvato dalla polizia, questa notte, e io ho un gran bisogno di quanto mi hai portato.» Barbee poté farsi avanti, curvo sotto il sacco, le mani alzate, fino a quando la rivoltella di Sam non gli fece segno di fermarsi. «Sam, puoi fidarti di me ora?» La voce di Barbee aveva un'intonazione di tremula preghiera. «Io voglio aiutarti, se tu volessi soltanto dirmi che cosa diavolo sta succedendo. Ieri sono andato a Glennhaven, dubitavo della mia ragione, forse è così, ma sento che si tratta di ben altro!...» Gli occhi arrossati di Quain si socchiusero per osservarlo meglio. «C'è ben altro è vero, molto di più», ribatté la voce aspra di Quain. Si udì un tuono rotolare brontolando in lontananza e le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere, mentre il vento s'era fatto bruscamente freddo e umido. «Su, prendi il sacco delle provviste», disse Barbee, «leggi il biglietto di
Nora e lascia che ti aiuti come posso.» Alla fine, con un gesto della rivoltella sempre stretta nella destra, Sam lo invitò a farsi innanzi. «Togliti da sotto la pioggia», mormorò. «Non ho idea di quale e quanta possa essere stata la tua parte, conscia o inconscia che sia, in tutto questo complotto demoniaco. Non so fino a che punto posso fidarmi di te. Ma immagino che non peggiorerà certo la situazione dirti quello che so.» La caverna era invisibile dal basso, anche se quella sottile striscia di fumo la tradiva. Facendosi precedere da Barbee barcollante sotto il sacco su per la salita, Quain, sempre con la rivoltella in pugno, prese ad arrampicarsi su gradini rocciosi in quello ch'era stato il letto d'un ruscello, dove un solo uomo armato avrebbe potuto tenere a bada un centinaio d'inseguitori. Simile a una fessura orizzontale alla fine di quell'angusta scaletta naturale, la grotta era stata scavata dallo scalpello del tempo fra due strati di durissima arenaria. Il soffitto era annerito dal fumo di fuochi antichissimi. Nascosta nell'angolo più tenebroso, là dove il tetto si abbassava fino a toccare il soffitto, Barbee vide la cassa venuta dall'Asia. Lasciò cadere l'enorme fagotto, guardando la cassa con aria significativa. «Non ancora», disse Sam, con rabbia. «Prima devo mangiare!» Barbee disfece la sacca e si mise a preparare il caffè; su un piccolo fornello, fece arrostire la pancetta, e aprì una scatola di fagioli. Servendosi d'una pietra piatta come di tavola, Quain mangiò e bevve avidamente. S'era posto tra Barbee e la cassa, e mangiava con la rivoltella a portata di mano. I suoi occhi iniettati di sangue, gonfi di stanchezza, andavano senza posa da Barbee a una curva della strada, visibile ai piedi della parete rocciosa. Il temporale si andava addensando sempre più minaccioso. I tuoni si facevano ancora più fragorosi e frequenti, e raffiche di vento rabbiose portavano fin dentro la caverna gelide gocce di pioggia. Fra poco una pioggia dirotta, si disse Barbee, avrebbe sommerso le piste chiudendoli in trappola in quella caverna. Finalmente Quain ripulì il suo piatto di stagno e Barbee disse ansioso: «Bene, Sam... dimmi, dunque». «Lo vuoi proprio sapere?» I febbrili occhi di Quain continuavano a scrutarlo. «Quando avrai saputo, ne sarai ossessionato, Barbee. Il mondo si trasformerà anche per te in un coacervo di orrori. Finirai per nutrire innominabili sospetti per ogni amico che hai... se sei innocente come sostieni di essere. Sapere quello di cui sei curioso potrà forse ucciderti.»
«Voglio sapere», disse Barbee. «Sarà il tuo funerale.» Quain aveva ripreso la rivoltella. «Ricordi che cosa disse Mondrick lunedì sera all'aeroporto, quando fu assassinato?» «Dunque, Mondrick fu assassinato?», osservò Barbee dolcemente. «Mediante un gattino nero... strangolato, vero?» La faccia non rasata di Quain divenne ancora più livida. I suoi occhi si dilatarono in un'espressione di orrore, fissando Barbee, e la sua mano puntò la grossa rivoltella verso il giornalista, mentre con voce rauca Sam chiedeva: «Come l'hai saputo?». «Ho visto il gattino. Molte cose orribili sono accadute, che non riesco a capire... ecco perché ho dubitato di avere perduto la ragione.» Guardò la cassa alle spalle di Quain, forse perché il lucchetto scintillava nell'ombra come se fosse d'argento. «Ricordo le ultime parole di Mondrick: "Fu centomila anni fa...".» Un'altra raffica di vento e pioggia penetrò nella grotta, facendo rabbrividere Barbee nel vecchio maglione di Sam che Nora gli aveva dato. E quando il tuono si fu calmato, Quain disse: «Ci fu un tempo in cui gli uomini vivevano tutti in caverne come questa. Un tempo in cui gli uomini erano dominati da un terrore così ossessionante da riflettersi ancor oggi nei miti e nelle superstizioni di ogni terra e nei sogni segreti di ogni uomo. Perché quei nostri lontanissimi antenati erano perseguitati e ossessionati da un'altra e più antica razza semi-umana, che Mondrick volle chiamare Homo lycanthropus». «Uomo-lupo mannaro?» «Sì, o uomo lupo. Mondrick volle chiamarli così, per certe particolari caratteristiche delle ossa, del cranio, dei denti... caratteristiche che si possono notare ogni giorno.» Barbee ripensò agli strani scheletri che il serpente e la lupa avevano visto in quella strana camera della torre. Ma si guardò bene dal farne cenno: sapeva che Sam Quain lo avrebbe ucciso. L'acqua entrava ora nella caverna, e Sam trascinò la sua preziosa cassa in un angolo più riparato. «Ma quella razza rivale non aveva nulla di scimmiesco», riprese. «Il sentiero dell'evoluzione non procede sempre salendo: i Cromagnon, per esempio, erano esemplari umani migliori di quelli che si possono trovare oggi. L'albero della famiglia umana ha sviluppato bizzarre diramazioni... e quella razza di stregoni», Barbee non poté fare a meno di sussultare, «devono
essere stati i nostri più strani cugini.» La pioggia ora cadeva con un'intensità diluviale con una specie di rombo ininterrotto. «Per risalire alle vere origini di quella tragedia razziale, bisogna andare ancora più lontano nel tempo, ad almeno mezzo milione di anni fa e anche più... alla prima delle due più importanti ere glaciali del Pleistocene. La prima era glaciale con i suoi intermezzi di clima meno rigido durò quasi centomila anni, e creò il popolo degli stregoni.» «E avete trovato le prove di ciò nell'Ala-shan?», mormorò Barbee. «Parzialmente. Sebbene l'altopiano del Gobi non fosse mai stato completamente invaso dai ghiacci... le sue zone desertiche divennero umide e fertili durante le epoche glaciali ed è là che i nostri antenati neolitici ebbero la loro rapida evoluzione. La razza degli stregoni discendeva da un tipo affine di ominidi rimasti prigionieri dei ghiacci nelle regioni più elevate a sudovest, verso il Tibet. Mondrick ne trovò resti in una caverna, che aveva scavato prima della guerra, oltre la catena dei Nan-shan. Quello che noi trovammo sotto quei tumuli funebri del deserto, durante l'ultima spedizione, completa la storia, costituendone inoltre un capitolo piuttosto impressionante.» Barbee fissava come distratto i pesanti fili della pioggia. «Quelle tribù rimaste prigioniere dei ghiacci seppero affrontare la sfida del ghiacciaio. Ogni secondo i ghiacciai si facevano più alti e minacciosi e la selvaggina era sempre meno numerosa e gli inverni divenivano sempre più duri. O adattarsi alle mutate condizioni o morire. Le tribù seppero sviluppare, col lento passar dei millenni, nuovi poteri mentali.» Barbee ripensò al Principio di Indeterminazione di Heisenberg, e al circuito che collegava la mente alla materia attraverso il controllo delle probabilità. «Davvero?», disse. «Quali poteri?» «Non è facile precisare. Cervelli morti non lasciano fossili nel terreno, capisci. Ma Mondrick era convinto che avessero lasciato tracce nei miti, nel linguaggio e nelle superstizioni. Studiò per molti anni questi ricordi razziali e ha potuto ottenere maggiori prove dopo che ebbero inizio gli esperimenti della Duke University in parapsicologia e metapsichica.» Barbee si sbalordì talmente che rimase a guardare Quain a bocca aperta. «Quei nomadi intrappolati dai ghiacci sopravvissero», continuò Quain, «avendo sviluppato poteri che permisero loro di predare i loro più fortunati cugini della zona del Gobi. Telepatia, chiaroveggenza, virtù profetiche...
tutti questi poteri certamente. Mondrick tuttavia era convinto che essi possedessero un dono più sinistro.» Barbee si accorse di respirare a stento. «Le prove in questo senso sono quasi universali. Quasi ogni popolo primitivo è ancora ossessionato dalla paura del loup garou, in un aspetto o nell'altro: di una creatura, cioè, apparentemente umana che può assumere la forma della belva più feroce della località, per assalire e predare l'uomo. Questi stregoni, secondo Mondrick, appresero a lasciare i loro corpi ibernanti nelle caverne elette a domicilio, correndo le distese ricoperte di ghiacci, come lupi, orsi o tigri... per andare a caccia di selvaggina umana.» Barbee fu lieto di non avergli parlato dei suoi sogni. «E così, in questo loro modo diabolico, quegli ominidi circondati dal gelo risposero alla sfida della natura e conquistarono il ghiacciaio. Verso la fine della glaciazione di Mindel - 400.000 anni fa, come tutto tende a provare - avevano praticamente conquistato il mondo. In qualche migliaio di anni i loro terribili poteri avevano sopraffatto ogni altra specie del genere Homo. Tuttavia l'Homo lycanthropus non sterminò le razze conquistate, meno che nelle Americhe. Solitamente lasciavano vivere i superstiti, come loro schiavi e loro cibo. Avevano imparato ad amare il gusto del sangue umano, senza il quale non potevano più vivere.» Barbee ricordò la gioia con cui la tigre aveva affondato le zanne terribili nella gola di Rex Chittum e l'orrore che lo colse fu tale che temette di non poterlo nascondere a Quain. «Per centinaia di migliaia di anni», continuò Quain, «per tutto il principale periodo interglaciale, la razza degli stregoni fu la nemica e la crudele padrona del genere umano. Furono gli scaltri sacerdoti e le divinità malefiche. Furono gli spietati genitori d'ogni orco, demone, mostro divoratore di uomini delle leggende popolari di tutti i continenti. Fu una incredibile, degradante oppressione cannibalistica. Se ti sei mai domandato perché la nascita di ogni vera civiltà umana abbia richiesto tanto tempo, ora hai la risposta. Il loro mostruoso potere durò fino al ritorno del freddo durante le glaciazioni di Riss e di Wurm della seconda età glaciale. Ma non erano mai stati molto numerosi; i predatori, infatti, non possono mai essere così numerosi come gli animali di cui si nutrono. Forse il tempo aveva finito per minare il loro vigore razziale. «A ogni modo, quasi centomila anni fa, i tipi atavici dell'Homo sapiens si rivoltarono. Il cane era stato addomesticato, probabilmente da tribù che avevano seguito la ritirata dei ghiacciai per sottrarsi al dominio degli stre-
goni. Il cane si rivelò un alleato sicuro. Abbiamo trovato le prove di quella strana guerra sotto i tumuli sepolcrali dell'Ala-shan. I veri uomini sembrano avere imparato a portare amuleti di argento alluvionale contro i poteri degli stregoni e poi veri e propri gioielli di quel metallo. Mondrick riteneva che dovesse esserci una base scientifica all'opinione che solo un'arma d'argento potesse uccidere un Lupo Mannaro, ma non riuscì mai stabilirlo. Noi abbiamo letto la storia di quella rivolta e riportato oggetti sufficienti a dimostrarla.» Quain indicò con la testa la cassa alle sue spalle. «Perline d'argento, lame e punte di freccia di argento puro. Ma lo stesso argento non era sufficiente: streghe e stregoni erano scaltri e forti. Gli uomini dell'Ala-shan inventarono allora un'altra arma, più potente ed efficace, che trovammo sepolta sotto quegli antichissimi tumuli con le ossa delle streghe morte... senza dubbio perché restassero morte. Gli uomini vinsero», concluse Quain con voce stanca, «non subito e tutt'altro che facilmente. Il popolo delle streghe era forte e restava tenacemente attaccato al suo antico dominio. La terribile guerra durò per tutto il periodo achelleano e quello musteriano. Gli uomini di Neanderthal e di Cromagnon morirono... vittime delle streghe, secondo Mondrick. Ma i progenitori dell'Homo sapiens sopravvissero, e portarono avanti la guerra. L'uso dei cani si diffuse, insieme con la conoscenza dell'argento e il potere di quell'altra arma. Prima che sorgesse l'alba della storia scritta, la specie delle streghe era stata quasi sterminata.» «Quasi?», disse Barbee. «Fu una razza durissima a morire. Uno dei loro ultimi clan dovette essere quello dei primi sacerdoti e dominatori dell'antico Egitto: la prova sembrerebbe abbastanza evidente nelle divinità animali e semianimali che gli Egizi adoravano, e i generi di demoni e di magia nera che temevano. Ho visto eccellenti riproduzioni di tipi di Homo lycanthropus, dal caratteristico cranio allungato, sulle pareti di tombe egizie. Ma anche quel clan fu finalmente conquistato - o assorbito - durante il periodo di Imhotep.» Un gran lampo illuminò la sinistra tensione dei lineamenti di Quain. «Perché il sangue dei conquistatori non era più puro.» I suoi duri occhi guardarono scintillando Barbee. «Fu questa la terribile scoperta di Mondrick. Noi siamo degli ibridi.» Barbee attese, col fiato sospeso. «La cosa non è facile a capirsi. Le due specie sono sempre state profondamente nemiche, pure l'incrocio ha avuto luogo. Secondo Mondrick, messe nere e sabba di streghe sono residui di bestiali cerimonie a cui le figlie
degli uomini furono costrette a partecipare. Ci sono altri indizi, forse, nella superstizione degli incubi e in tutti i miti sulle unioni di divinità e di donne umane... quella razza di stregoni doveva essere stranamente passionale! A ogni modo, il connubio è avvenuto!» Nel rombo dei tuoni che echeggiavano nella cupa caverna, la stanca voce di Quain aveva assunto un lento e roco tono cantilenante. «Dalle profondità di un passato spaventoso, la nera fiumana di quel sangue mostruoso scorre nelle vene dell'Homo sapiens. Noi non siamo del tutto umani... e quell'eredità straniera ossessiona il nostro subcosciente coi cupi conflitti e gli intollerabili stimoli che Freud ha scoperto e cercato di spiegare. E ora quel sangue perverso è in rivolta. Mondrick ha scoperto che l'Homo lycanthropus sta per vincere questa antichissima, feroce guerra delle specie, dopo tutto!» 18. Irrigidito sulla pietra bagnata che gli serviva da sedile Barbee ascoltava. Fuori, la pioggia s'infittì ancora di più, tra un crescente fragore di tuoni, precipitando da un cielo completamente nero. «Lo so che non è facile credere tutto ciò», riprese la voce rauca di Sam, «ma puoi vedere prove innumerevoli intorno a te... perfino la Bibbia, ricordati, ordina la distruzione delle streghe.» Barbee ricordò ciò che gli aveva raccontato April Bell a proposito di suo padre e di sua madre. «Infatti la storia biblica del Giardino dell'Eden», continuò Sam con voce sempre più stanca, «non appare che come una condensazione simbolica della storia di quella tragica guerra di specie. Il serpente sta per uno stregone, ovviamente. La maledizione che la sua scaltrezza ha fatto ricadere su Eva e il suo seme è chiaramente l'eredità del licantropismo che noi tutti ancora portiamo. I serpenti del nostro tempo si sono stancati di mordere la polvere, a ogni modo; vogliono sorgere ancora! Il popolo delle streghe ha lasciato un ampio strascico di prove lungo tutte le età. C'è un disegno paleolitico in una caverna di Ariege, nella Francia meridionale, che data dall'epoca in cui il popolo degli stregoni dominava e che mostra la trasformazione di uno stregone in un cervo dalle corna ramificate: queste forme innocue devono essere state assunte per influire sui docili adoratori umani senza terrorizzarli troppo. Il popolo delle streghe tramava ancora, per riconquistare l'antica supremazia; in Egitto, durante il regno di Ramsete III,
alcuni ufficiali e varie donne del suo harem furono processati, come si legge in un annale superstite, per avere fatto immagini di cera del Faraone, con incantesimi e riti magici, per nuocergli. I loro geni, tuttavia, dovevano essere già molto dispersi e le loro antiche arti dovevano essere quasi dimenticate, se sentivano la necessità di ricorrere a espedienti così infantili per concentrare i loro poteri distruttivi. La mitologia greca, come scoprì Mondrick, è in realtà una sola grande reminiscenza di un altro clan di licantropi. Il dio Giove, che rapisce le figlie degli uomini le quali divengono così le madri di semidei e di eroi, è chiaramente uno stregone che non ha perduto né i suoi poteri né le sue passioni. Proteo, lo strano vecchio marino che poteva cambiare la sua forma a volontà, era un altro licantropo. La stessa terribile storia si è ripetuta in Scandinavia, come nelle leggende popolari di ogni altro popolo. Il lupo gigante Fenris era nato da un'altra unione innaturale e divenne il demone dei Vichinghi. Sigmund il Volsungo fu un altro mago di sangue misto che doveva ricoprirsi d'una pelle di lupo per poter diventare lupo.» Barbee rabbrividì ancora, e non disse nulla della pelliccia bianca di April Bell. «Le streghe del medioevo, costrette finalmente a uscire dall'ombra dalla giusta ira dell'Inquisizione, non erano che le poche superstiti di un clan di streghe bastarde, che si sforzavano di mantenere in vita le arti e le cerimonie di quell'antica stirpe pagana. I diavoli che le megere si radunavano ad adorare solitamente assumevano forme animali: non erano che stregoni trasformati. Il celebre Gilles de Rais, processato per la sua eresia nel quindicesimo secolo, era probabilmente licantropo per un quarto, troppo debole e ignorante per sfuggire al boia, al quale era stato consegnato per i suoi immondi delitti. Giovanna d'Arco, che fu bruciata per stregoneria, era in realtà una meticcia in cui il lato umano nella sua più elevata ascesi mistica aveva finalmente preso il sopravvento. E in tempi più recenti i cacciatori di stregoni tra gli Zulu hanno continuato a loro insaputa l'opera necessaria dell'Inquisizione. Perfino in Europa, il mostruoso antichissimo culto pagano non è mai stato sradicato del tutto: la vecchia religione è una patetica sopravvivenza, in certi paesi latini, che ancora ha dei seguaci fra gli strati meno evoluti delle popolazioni agricole.» Sam Quain scosse enfaticamente la testa. «No, Barbee, non si può negare l'evidenza. Mondrick la trovò in ogni ramo dello scibile. Gli ospiti di tutte le nostre prigioni e dei nostri manicomi sono le vittime di quella antica tara ereditaria, spinti dagli impulsi criminali della loro ascendenza di li-
cantropi, o resi folli dal conflitto psicologico che li tormenta tra lo stregone e l'uomo, quella che cioè è una vera e propria schizofrenia! Gruppi sanguigni e indici cefalici forniscono altre prove: quasi ogni uomo che si esamini rivela alcuni caratteri fisici ereditati dai licantropi. L'esplorazione freudiana dell'inconscio ha rivelato un'altra fonte di prove impressionanti: che Freud tuttavia non seppe identificare. Ci sono poi tutti questi recenti esperimenti universitari nel campo della parapsicologia, sebbene la maggior parte degli sperimentatori non immagini ancora le cose sgradevoli che si avviano a scoprire; e naturalmente gli odierni licantropi cerchino di minimizzare o screditare le loro straordinarie scoperte.» Barbee ritrovò finalmente la voce. «Non capisco», disse. «Se l'Homo Lycanthropus è stato veramente sterminato...» «Non ricordi le leggi sull'ereditarietà di Mendel? Le unità della cellula germinale che controlla i caratteri ereditari sono dette geni, e si trovano nell'uomo in numero di molte migliaia; ognuna causa o contribuisce a causare la comparsa di certe caratteristiche in un individuo. Ogni nato eredita una duplice serie di geni dai genitori: il rapporto sessuale è in realtà uno stratagemma per rimescolare i geni, e le leggi della probabilità garantiscono l'unicità di ogni persona.» Le probabilità e il circuito della mente, pensò Barbee... «I geni, come ricorderai, possono essere soltanto o dominanti o recessivi. Noi riceviamo i nostri geni a coppie, uno da ognuno dei genitori, e il gene dominante può nascondere la presenza di un gene recessivo: un gene dominante per gli occhi neri può nascondere il gene recessivo che produce occhi azzurri. Questo è innocuo, ma ve ne sono di sinistri. Uno di questi geni recessivi è quello che produce i sordomuti. Normali sordomuti ibridi cioè una persona con un gene recessivo per la sordità e uno dominante per l'udito - non può essere distinto dalle persone normali mediante un esame normale. Ma è portatore del sordomutismo. Se due portatori di questa tara si sposano, le probabilità derivanti della mescolanza dei geni daranno un figlio su quattro completamente normale, due ibridi normali e un quarto sordomuto.» «Ma che cosa ha a che fare tutto questo con le streghe?», domando Barbee. «Ha a che fare moltissimo. Il sangue umano, o germoplasma, per usare una parola più precisa, porta ancora le tracce dell'Homo lycanthropus. La
razza degli stregoni non è scomparsa realmente, perché i loro geni continuano a vivere, trasmessi insieme con quelli dell'Homo sapiens. Il caso è un po' più complicato di quello del sordomutismo e molto più sinistro. Perché comprende varie centinaia di geni recessivi, secondo i risultati di Mondrick, invece di uno solo. Lui trovò che ci vuole la combinazione di varie paia di geni licantropici per riprodurre completamente il dono della percezione ultrasensibile, e gran parte dei geni licantropici sono recessivi.» Barbee scosse violentemente il capo, come per protestare, e poi si immobilizzò di nuovo, temendo che quella muta protesta lo avesse tradito. «Ci sono stati ritorni di caratteri ereditari. Non molto spesso, fino a quando si lascia in pace la natura. È tutta una faccenda di probabilità, e tu puoi prevederne l'esito. Ma ogni uomo vivente è portatore dei geni, e molti dei nati con caratteri ereditari recessivi, lo sono solo in parte. Letteralmente milioni di mutazioni sono possibili tra l'Homo sapiens puro e il puro licantropo. Le recessioni parziali, coloro cioè che ereditano un sedicesimo, forse, del gene della stregoneria, posseggono quei poteri che alla Duke University sono stati definiti ESP, o extrasensorial perceptions. Sono veggenti, dotati di poteri telepatici. Malinconici, ipertesi, infelici, il più delle volte, a causa dell'inconscio contrasto dei loro caratteri ereditari. Li si trova tra i fanatici religiosi, tra i medium, tra gli schizofrenici e i criminali patologici. Unica fortunata eccezione, un genio: tu sai quale possa essere il vigore degli ibridi. Quelli che nascono con caratteri ereditari più pronunciati sono di solito abbastanza consapevoli dei loro insoliti doni e molto solleciti nel nasconderli. Nel medioevo, finché l'Inquisizione tenne vivo l'antico vigore nel dar la caccia a negromanti e streghe, questi tipi venivano di solito scovati e bruciati. Oggi la loro vita è più facile. Sono in grado di sfruttare fino in fondo le loro qualità metapsichiche e tramano per riconquistare la loro antica supremazia. Passano molto tempo a coltivare il moderno scetticismo scientifico nei riguardi di ogni fenomeno soprannaturale: parola questa, diceva Mondrick, che è stata coniata dalla loro astuta propaganda e che sta in realtà per quella, molto più corrispondente, di superumano.» Barbee pensava ad April Bell, si diceva che evidentemente lei rappresentava un ritorno di caratteri ereditari, che era veramente una strega e lui era caduto vittima delle sue malie. «Alcuni individui, in numero molto scarso, devono ereditare ogni generazione circa un quarto di geni dei licantropi. Ci sono streghe e stregoni che hanno sangue di licantropo per un quarto, ma non sempre sanno ciò
che sono. Hanno percezioni notevolmente superiori, sanno usare in modo quasi inconsapevole alcuni dei loro strani poteri ancestrali e posseggono buona parte del sorprendente vigore degli ibridi. La chiave della loro vita è il conflitto di due razze. Il male si mescola al bene, in loro, combatte il bene, si nasconde sotto una maschera di bene... le loro vite contorte prendono strane direzioni.» La verità - finalmente! - si faceva strada in Barbee, e lo stringeva in una morsa più gelida ancora del vento spruzzato di pioggia che irrompeva ogni tanto nella semi-oscurità della caverna. «Mondrick passò molto tempo a cercare una prova definitiva del gene licantropico», riprese Quain, «ma senza molto successo. Non è difficile identificare tratti fisici come la forma di un cranio o i gruppi sanguigni, ma sfortunatamente queste particolarità non sono collegate molto intimamente con le caratteristiche mentali più pericolose. Nessuna delle sue prove fu conclusiva, anche se molte si rivelarono indicative.» Barbee fissò Quain e trattenne per un attimo il respiro: «È stato per questo...», cominciò e non poté finire. «Non devi prendertela, Will», rispose Sam, e nella penombra il suo volto rivelò per la prima volta un'espressione d'affetto. «Le prove rivelarono che tu porti una pronunciata tara licantropica, e Mondrick fu costretto a rinunciare a te... non poteva, capisci, correre rischi, data la natura delle sue ricerche. Ma come ti dicevo i risultati non sono conclusivi. E anche se lo fossero, molti parziali licantropi sono ottimi cittadini, utili spesso alla società: Mondrick mi confessò una volta che le sue prove avevano rivelato una forte tara licantropica nella sua stessa moglie.» Ecco perché... si disse Barbee. Doveva essere stato il suo sangue e le sue qualità chiaroveggenti che avevano reso la cieca così pericolosa per le altre streghe. Era stata la sua nera ereditarietà che l'aveva mandata prima a Glennhaven e poi alla morte. Ma Barbee non voleva parlare di Rowena. «E streghe e stregoni di sangue puro?», domandò, sempre in preda al suo malessere. «Chi sono?» «Non dovrebbero esisterne più. Anche di chi ha sangue puro per tre quarti non ne dovrebbe nascere più d'uno per generazione, in base alle leggi di probabilità dei geni, e del resto se ve ne sono devono essere troppo scaltri per farsi scoprire, soprattutto in un paese come l'America. No, non devono esserci più licantropi puri ormai, sebbene io dubiti che uno debba esserci. Mondrick scoprì gravi indizi relativi all'esistenza di un capo segreto della razza di streghe, nato con una vastissima eredità dei loro poteri.
Un satana occulto, che si muove insospettato fra gli uomini, tramando per il ritorno del loro immondo dominio sulla nostra specie.» Quain lo fissava con una tale intensità, che Barbee ebbe un guizzo di disagio sulla sua pietra. «Il Figlio della Notte?», mormorò. «Ricordo la frase del povero Mondrick. Ma come possono sperare streghe e negromanti di riavere l'antico dominio sull'uomo, quando il ritorno dei caratteri ereditari ha luogo solo attraverso il gioco delle probabilità?» «Non è più così!», rispose Quain con uno scoppio rabbioso di voce. «È questa l'ultima e più preoccupante scoperta di Mondrick, quella che voleva annunciare al mondo, quando la razza malefica lo assassinò. I recessivi hanno ripreso a congregarsi in clan segreti. Accoppiandosi tra loro hanno capovolto le probabilità sfavorevoli, accrescendo enormemente quelle di recessione.» Barbee annuì. Il controllo mentale delle probabilità poteva avere un ruolo molto preoccupante in quel rimescolare i geni per giungere alla nascita di un licantropo puro... «Il complotto deve avere avuto inizio parecchie generazioni fa», riprese Sam Quain. «Secondo Mondrick, qualche clan segreto deve avere sempre tramandato il ricordo dell'antica supremazia e la decisione di riconquistarla. Lavorano sott'acqua, cauti e spietati. Disponendo dei loro segreti poteri, è facile per loro fare quello che le prove di Mondrick non poterono: scoprire la tara nascosta in uomini che possono non sapere di averla. Trovati i veicoli di questa tara, ricorrendo alla moderna scienza della selezione biologica, filtrano i geni ed eliminando quelli dominanti dell'Homo sapiens per giungere alla nascita del capo potentissimo che attendono, del mostruoso messia che chiamano il Figlio della Notte.» Sempre sotto lo strano sguardo fisso di Sam, Barbee dette un altro guizzo e abbassò gli occhi, volgendoli verso la cassa. «Posso vedere quello che c'è dentro?», domandò. La mano di Quain fu pronta ad afferrare la rivoltella. «No, Barbee.» Dai suoi occhi era scomparsa ora ogni traccia di amicizia. «Può darsi benissimo che tu non sia pericoloso, ma non posso correre il rischio di fidarmi ora, proprio come non lo poté Mondrick quando vide i risultati della sua analisi. Quanto ti ho detto non pregiudica nulla, perché sono stato attento a non rivelarti nulla che i capi dei clan malefici già non sappiano delle nostre scoperte. Ma non puoi assolutamente guardare entro quella cassa.» Sul volto di Barbee dovette apparire un'ombra di quella che
era la sua intima mortificazione, perché la voce di Quain si raddolcì. «Abbi pazienza, Will. Posso dirti, comunque, una parte di ciò che essa contiene. Si tratta di armi d'argento, che gli uomini usarono nella loro lunga guerra contro le streghe. Ci sono poi ossa calcinate, spaccate... di uomini che persero le loro battaglie. E lo scheletro completo di un Homo lycanthropus, trovato in uno di quei tumuli... con l'arma lasciatagli accanto, affinché non si muovesse di là.» La sua voce si fece di nuovo piena di un odio selvaggio. «Quella stessa arma sconfisse le streghe una volta e le sconfiggerà ancora... quando gli uomini impareranno a servirsene. Questo è tutto quello che posso dirti, Barbee.» «Ma chi è il Figlio della Notte?», domandò il giornalista. «Lo sai?» «Potresti anche essere tu. Intendo dire che può essere chiunque. Noi conosciamo l'aspetto fisico dell'Homo lycantrophys, le ossa delicate, le orecchie aguzze e lunghe, i crani rotondi e allungati, i denti aguzzi, particolarissimi. Ma le caratteristiche fisiche e mentali non sono molto collegate nei caratteri ereditari, come ha scoperto Mondrick, e perfino il Figlio della Notte potrebbe non essere di sangue totalmente puro.» Un'espressione di orrore si diffuse lentamente sulla faccia di Sam. «Ecco perché sono venuto a rifugiarmi qui, Barbee, invece di difendermi in tribunale. Non posso fidarmi di nessuno. Non posso stare a contatto della gente. In maggioranza sono prevalentemente umani, ma non dispongo di un modo sicuro per distinguere i mostri dagli uomini. Non ho mai potuto essere del tutto certo che Nick o Rex non fossero spie delle streghe. Sembrerà odioso, ma mi sono perfino chiesto se Nora...» La voce di Quain si spense, portata via da una raffica di vento. Barbee aveva bisogno di sapere molte cose. Ma sapeva che Sam lo avrebbe ucciso se gli avesse domandato tutte le cose che aveva in mente. Scosse il capo, e disse: «Mi lascerai almeno aiutarti, Sam? Ne ho bisogno, sai. Devo farlo... per non impazzire del tutto, dopo quello che mi hai detto». Scrutò con disperata tenacia la faccia cupa di Sam: «Non possiamo in qualche modo identificare il Figlio della Notte e denunciare al mondo la razza delle streghe?». «Era anche l'idea di Mondrick.» Sam scosse il capo. «Avrebbe potuto giovare quattro secoli fa, prima che i clan riuscissero a screditare gli ultimi nemici che loro restavano con l'Inquisizione. Oggi i licantropi nelle università e nei laboratori possono dimostrare che non esiste il popolo dei li-
cantropi. I licantropi che hanno giornali possono ridere e far ridere di chiunque affermi l'esistenza di creature così assurde come le streghe; e altrettanto si dica dei licantropi che siedono nei governi del mondo.» Barbee vide che il crepuscolo s'addensava sul cielo già oscuro per il temporale. Tra poco sarebbero scese le tenebre e le radiazioni mentali sarebbero state libere di tessere la loro ragnatela. Barbee sapeva che April avrebbe chiamato, e lui avrebbe avuto un'altra trasformazione; sapeva soprattutto che il prossimo a morire sarebbe stato Sam Quain. «Sam!» E la sua voce aveva una disperazione spasmodica. «Che cosa possiamo fare?» Sam Quain alzò lievemente la rivoltella, come in un gesto inconscio, e il suo volto era contratto da una profonda riflessività. Gli stanchi occhi incassati dell'esploratore scrutarono Barbee e alla fine Quain annuì. «Non posso dimenticare l'analisi che Mondrick condusse nei tuoi riguardi», disse. «Non mi piace l'espressione della tua faccia, Barbee, e nemmeno mi piace che tu sia venuto qui. Scusami, se le mie parole possono sembrarti offensive, ma devo proteggermi. Ho bisogno di aiuto, tuttavia, e tu puoi vedere quanto disperatamente.» I suoi occhi si volsero a guardare di scorcio la cassa alle sue spalle. «E perciò ti darò il modo di aiutarmi.» «Grazie, Sam!», sussurrò Barbee con fervore. «Dimmi quello che devo fare.» «Innanzi tutto, c'è una condizione che tu devi capire.» Barbee attese, gli occhi sulla rivoltella puntata. «Al primo sintomo di tradimento da parte tua, dovrò ucciderti.» «Capisco», mormorò Barbee, inghiottendo convulsamente. «Ma tu credi... credi proprio che io possa essere un... ibrido?» E gli mancò il fiato, quando vide Quain annuire. «Probabilmente lo sei, Barbee. Sebbene i geni umani predominino nella misura di mille a uno, quasi ogni essere umano porta una lieve traccia del licantropo... sufficiente a provocare qualche inconscio conflitto tra i normali istinti umani e quell'eredità straniera. È questo che gli psichiatri hanno trascurato in tutte le loro teorie di psicopatologia.» Barbee attese, respirando un po' meglio. «L'analisi di Mondrick rivelò che tu porti più geni di licantropo della maggioranza degli esseri umani», continuò Quain. «Io posso vedere benissimo i segni del conflitto entro di te... ma non mi sembra che la parte umana si sia già arresa.» «Grazie, Sam!» Un nodo di calda dolcezza strinse la gola di Barbee.
«Farò qualunque cosa per te.» Sam Quain rifletté. Il temporale era cessato e s'udiva solo il lento gocciare dell'acqua nel silenzio della caverna. Battendo quasi i denti dal freddo, Barbee attendeva. Una luce spietata aveva finalmente disperso le tenebrose incertezze della sua vita da sveglio e spiegato gli orrori ossessionanti dei suoi sogni. Riteneva ora di comprendere il feroce conflitto che lo dilaniava, la guerra fra l'umano e il diabolico. L'umano doveva vincere! Strinse i pugni e trattenne il respiro per sentire meglio. «Mondrick aveva un piano», disse Sam a bassa voce. «Voleva cogliere il clan dei licantropi di sorpresa, con una dichiarazione alla radio, provvedendo poi a istituire un equivalente scientifico dell'Inquisizione per paralizzare il Figlio della Notte. Ma è stato assassinato, con Nick e Rex... e noi ora dobbiamo tentare qualcosa di diverso. È una campagna in sordina quella che dobbiamo iniziare. Intendo raccogliere un piccolo gruppo, segreto, un solo uomo alla volta. Questo non esige che io debba identificare gli ibridi, perché dovrò soltanto trovare poche persone che non facciano parte di quel clan tenebroso. Ogni licantropo che sa della nostra conoscenza dovrà essere eliminato.» Barbee assentì energicamente. «Ora tu dovrai tornare a Clarendon. Desidero che tu stabilisca i primi contatti in mia vece con quelli che noi sceglieremo per la nostra legione segreta. Io devo restare qui.» E lanciò un'altra occhiata alla sua preziosa cassa mentre Barbee diceva: «Per esempio, chi penseresti che valga la pena di cominciare a saggiare? Che ne diresti del dottor Archer Glenn, per esempio? È uno scienziato di valore, un razionalista...». Sam Quain scosse il capo, cocciutamente. «È proprio il tipo di cui dobbiamo diffidare. Il tipo che si ride delle streghe come d'una sciocca superstizione, forse è proprio lui il figlio di una strega. No, Glenn ci chiuderebbe nel suo reparto agitati, insieme con la povera signora Mondrick.» Barbee fu lieto di constatare che Sam non aveva saputo della morte della povera cieca. «Dobbiamo scegliere un tipo d'uomo diverso», stava dicendo Quain. «Il primo uomo della lista è per me il tuo principale.» «Preston Troy?», ribatté Barbee, ammiccando dallo stupore. «È un uomo influente, certo, e ha un sacco di milioni, ma non è precisamente un idealista. È stato lui a ideare quasi tutte le ruberie di Walraven e a trarne il maggior profitto. Quando ha divorziato, la moglie gli aveva chiuso in faccia la
porta della sua camera da dieci anni. Mantiene quasi tutte le belle ragazze di Clarendon...» «Compresa una certa tale?» E Sam sorrise brevemente. «A ogni modo, non importa. Secondo Mondrick, la maggior parte dei santi doveva avere almeno un ottavo di sangue licantropico. La loro santità è una specie di compensazione mistica della tara inumana. Può anche darsi che un tipo come Troy sia un umano quasi puro. Te la senti di iniziare gli approcci stasera?» Barbee stava per scuotere il capo. La rete della polizia a cui era riuscito a sfuggire la mattina doveva essere tesa un po' da per tutto, ora. Lo stesso Preston non avrebbe esitato a trattenerlo, per poi far pubblicare dal giornale un titolo enorme: LO STAR CATTURA UN CRIMINALE DEL VOLANTE «Non sei convinto?», disse Sam. «No, no, convintissimo», s'affrettò a rispondere Barbee. Non era più il momento di confessare che la polizia lo cercava per avere investito Rowena Mondrick. E con la macchina dell'Istituto, lui poteva sempre raggiungere indisturbato Preston Troy. Era forse possibile conquistare quel capitano d'industria brutalmente realistico alla strana causa di Quain. Cercò di nascondere la sua apprensione con un sorriso. Chinandosi sotto il basso tetto della caverna, già pronto ad andarsene, tese la mano a Sam. «Siamo in due», sussurrò, «contro il Figlio della Notte.» «Ne troveremo altri... dobbiamo trovarli.» Quain si alzò a sua volta, stancamente. «Perché tutte le leggende che parlano di un'umanità degradata e tormentata da creature malefiche, non sono che ricordi ancestrali del dominio spaventevole delle streghe.» Quain vide poi la mano che Barbee gli porgeva, e la allontanò gestendo con la pistola. «Scusami, Barbee, ma dovrò prima vederti alla prova. Meglio che tu ti affretti, ora!» 19. Una nebbia gelida aveva preso il posto della pioggia, ma torrenti di acqua giallastra precipitavano lungo i fianchi del dirupo, e quando Barbee arrivò tutto fradicio all'automobile dell'Istituto, il crepuscolo e la nebbia bagnata s'erano alleati a immergere il mondo circostante nelle tenebre.
Barbee fu costretto ad accendere i fari, ma nessuna lupa bianca balzò in mezzo alla strada per fermarlo, né la sirena della polizia fece sentire il suo lungo ululato. Erano le otto, quando Barbee fermò l'auto sul viale della gran villa del milionario, a Trojan Hills. Il giornalista conosceva bene la casa per esservi stato altre volte, in occasione di altri servizi speciali voluti dal Presidente. E lo sollevò notevolmente il notare che la sala da pranzo era al buio. Salì le scale, fino al primo piano, dove Troy aveva lo studio, e picchiò alla porta. La voce aggressiva del milionario chiese chi diavolo d'un accidente fosse. «Presidente, sono Barbee», mormorò il giornalista in tono angosciato. «Ho bisogno di vederla subito... perché non sono stato io a investire la signora Mondrick.» «No, eh?» Dal tono non si sarebbe detto che Troy gli credesse molto. E dopo una breve pausa: «Avanti». Lo studio era in realtà un enorme salone, con un gran bar luccicante a un'estremità e le pareti decorate da trofei di caccia e nudi dipinti a olio. L'aria sapeva di sigaro e di cuoio, vi si respirava importanza e denaro, e Preston diceva spesso infatti che s'era fatta più storia in quella stanza che nello stesso palazzo del Governatore. La prima cosa che Barbee vide fu un cappotto di pelo bianco gettato sulla spalliera d'una sedia, dal quale un minuscolo occhio di giada sembrava guardarlo maliziosamente sopra una spilla. Barbee ne fu colpito come da una mazzata. «Dunque, Barbee?» In maniche di camicia, con un sigaro nuovissimo in bocca, Troy stava ritto presso un'enorme scrivania di mogano ingombra di carte, portacenere e bicchieri. Sul volto massiccio, roseo del milionario si vedeva un'espressione di cauta aspettazione. «Non è stata allora la sua macchina a investire la signora Mondrick?» «No. Presidente.» Barbee riuscì a distogliere lo sguardo dalla pelliccia di April Bell. «Hanno cercato di invischiarmi in un pasticcio... esattamente come hanno fatto con Sam Quain!» «Hanno cercato... chi sono questi signori?» «È tutta una storia tremenda, Presidente... Se lei avesse la pazienza di ascoltarmi...» Gli occhi di Troy erano pallidi e freddi. «Lo sceriffo la troverebbe indubbiamente interessante», disse il milionario. «E anche i medici di Glennhaven.» «Ma io non sono... pazzo!» Barbee stava quasi per singhiozzare. «La
prego, Presidente, mi ascolti, prima.» «E va bene», disse l'altro, la faccia impassibile. «Un momento.» Si diresse con passo deciso al bar, preparò due whisky con soda e li portò sulla scrivania. «Sentiamo.» «Vede, io credevo di stare impazzendo», cominciò Barbee, «fino a quando non ho parlato con Sam Quain. Ora so di essere stato stregato...» Cercò disperatamente di essere convincente, e intanto cercava di capire che cosa passasse per la testa dell'uomo. Vide, mentre raccontava tutto quello che Sam gli aveva detto, il grosso sigaro spegnersi e il bicchiere col liquore attendere dimenticato sulla scrivania. Ma gli occhi socchiusi di Troy erano impenetrabili. «E così Mondrick e gli altri scienziati della sua Fondazione sarebbero stati assassinati da queste streghe o stregoni che siano?», disse Troy, succhiando il sigaro con aria riflessiva. «E ora lei vorrebbe che io l'aiutassi a combattere questo Figlio della Notte?» Barbee, inghiottendo, annuì disperatamente. Troy lo osservò per un lungo istante con quei suoi occhi neutri e duri. «No, non credo che lei sia pazzo!» Una specie d'interesse velato si diffuse sul duro tessuto della sua faccia, e Barbee cominciò a sperare. «Forse queste streghe stanno veramente tramando per mettere nei guai lei e Quain... perché questa teoria di Mondrick spiega molte cose. Anche il motivo per cui uno sente improvvisamente simpatia per qualcuno e non si fida per niente di un altro... perché ci senti il sangue nero in quelle vene!» «Mi crede, dunque?», ansimò Barbee. «Ci aiuterà?...» Il testone di Troy assentì con decisione. «Voglio assicurarmi di molte cose coi miei propri occhi», disse. «Torneremo insieme in quella grotta stasera, sentirò Quain e forse riuscirò a dare un'occhiata alla sua cassa misteriosa. Se Quain saprà essere convincente come lo è stato lei, potrete contare su di me, Barbee... fino al mio ultimo centesimo e al mio ultimo respiro.» «Grazie, Presidente!», sussurrò Barbee più roco che mai. «Col suo aiuto, possiamo avre molte probabilità dalla nostra!» «Si capisce!», tuonò aggressivamente la voce di Troy. «Lei è venuto dall'uomo giusto, Barbee. Solo mezz'ora per prepararmi. Dirò a Rhodora che devo uscire per motivi politici e che può anche andare da sola alla festa di Walraven. Il bagno è laggiù, se vuole lavarsi e rinfrescarsi.» Barbee rimase realmente impressionato dalla faccia che lo specchio del bagno gli rimandò: una faccia non solo stanca, barbuta e stravolta come
quella di Sam Quain, ma con qualcosa che non aveva ancora visto, qualcosa che gli ricordava gli scheletri sogghignanti dell'Homo lycanthropus che il serpente aveva veduto. Uno sgradevole sospetto gli attraversò a un tratto la mente: tornò in gran fretta nello studio e con molta cautela staccò il ricevitore. Fece in tempo a sentire la voce di Troy. «Parker? Ho un uomo per te. È quel Barbee che è scappato dal manicomio e ha investito la Mondrick. Era un mio dipendente, sai, e ora me lo son visto capitare in casa. Non c'è dubbio che questo disgraziato deve tornare subito in manicomio... Non hai idea delle assurdità che mi ha raccontato. Puoi venire qui subito?» «Certo, signor Troy», disse lo sceriffo. «Venti minuti.» «Stai attento, a ogni modo. Ho l'impressione che sia pericoloso. Cercherò di tenerlo a bada al primo piano, nel mio studio.» «Bene, signor Troy.» «Un'altra cosa, Parker. Barbee dice di aver visto Sam Quain... l'uomo che cercate per gli omicidi della Fondazione. Dice che Quain è nascosto in una grotta del Laurel Canyon, sopra Bear Creek. Sapete, Barbee e Quain erano vecchi amici, e potrebbero anche essere d'accordo. Con un po' di persuasione, Barbee potrebbe anche condurvi alla grotta.» «Grazie, signor Troy!» «Parker, figurati, sai bene che lo Star è per la legge e l'ordine. Tutto quello che voglio in cambio è poter dare un'occhiata all'interno di quella cassa. Ma sbrigati: non mi piace la faccia di Barbee.» Senza far rumóre, Barbee riappese il microfono. Poi restò un attimo vacillante, mentre le pareti della stanza gli giravano pazzamente intorno. Sapeva di aver tradito Sam Quain, di averlo consegnato, forse, al Figlio della Notte. Perché quel passo terribilmente falso era tutto colpa sua. Sì, certo, era stato Quain a volerlo mandare da Troy: ma perché lui non aveva osato dirgli che April Bell era una strega e Preston Troy il suo più intimo amico? Troppe cose aveva avuto paura di dirgli, e ormai era troppo tardi. Ma era veramente troppo tardi? Un nuovo, difficile proposito gli si offrì alla mente. Tendendo l'orecchio, si levò silenziosamente le scarpe e uscì in punta di piedi dallo studio. La porta della camera da letto di Troy era dischiusa, e Barbee poté dare un'occhiata all'interno e vedere la figura tozza dell'affarista voltarsi da un cassetto che aveva aperto: nel pugno grassoccio stringeva una rivoltella.
Il ritratto d'una ragazza stava sul comò, e Barbee vi riconobbe le fattezze di April Bell. Selvaggiamente, per un istante, si augurò d'essere di nuovo il serpente gigantesco. Ma no, la sola idea gli dava i brividi. Non voleva tramutarsi più. Corse silenzioso come un'ombra giù per le scale, fino alla vettura dell'Istituto tutta chiazzata di fango, ferma sul viale. Accese il motore il meno rumorosamente possibile e si diresse verso la strada maestra senza accendere i fari. Quando fu di nuovo sulla strada, piegò a ovest e premette l'acceleratore fino in fondo. Forse era ancora in tempo per riparare al suo madornale errore. Se fosse riuscito a tornare alla grotta prima di Parker, forse Quain gli avrebbe dato retta e insieme avrebbero potuto trasportare via la cassa, caricarla sull'automobile e scappare insieme da Clarendon. Perché ormai era chiaro che Preston Troy era il Figlio della Notte. Non lampeggiava più, ma il vento soffiava sempre violentissimo, portando spruzzi di pioggia gelida. Il tergicristallo rallentò il suo movimento a semicerchio a mano a mano che la macchina accelerava. Perché Barbee sapeva che April Bell, la strega al servizio di Troy, il Figlio della Notte, lo stava inseguendo. Lo stava inseguendo per andare con lui a uccidere Sam Quain. Il Figlio della Notte aveva vinto. Il gelo della disperazione ancora una volta s'impossessò di Barbee, che ormai era scosso da un brivido quasi continuo. E quella disperazione era fatta di panico. Lanciò la macchina verso le colline, spinto da una forza irresistibile. Il contachilometri sfiorava i centodieci. Il tergicristallo si fermò quando la macchina cominciò a salire, e in breve la pioggia appannò completamente il parabrezza. Un autocarro a fari spenti sbucò all'improvviso dalla nebbia, e la macchina lo evitò per miracolo. L'ago del contachilometri era ora sui centoventi. Ma la lupa bianca, lunga e sottile, era dietro di lui; Barbee lo sapeva, e i suoi occhi andavano continuamente allo specchietto, per vederla. Ma la nebbia era da per tutto. La salita si faceva sempre più ripida e le curve erano sempre più strette ma Barbee non rallentava mai. Era su questa stessa strada che la gran tigre dalle zanne a sciabola aveva dato la caccia a Rex Chittum. Barbee rivide le colline perdute nella notte come gli occhi della tigre le avevano viste, e i suoi incubi ripresero a ossessionarlo.
Ancora una volta fu il grigio Lupo Mannaro, che spezzava la spina dorsale del cagnolino, il serpente gigantesco, che scivolava in cima alla torre a stritolare Nick Spivak, la tigre, con la strega nuda in groppa, che correva su quelle strade a sgozzare Rex Chittum. Sempre con l'acceleratore premuto fino in fondo, continuò a tenere la macchina saettante sulla strada tortuosa, preoccupato solo di fuggire. Alzava gli occhi allo specchietto, e fuggiva. Perché una morbosa tentazione cominciava ora a tormentarlo: su un angolo dello specchietto c'era un piccolo fermaglio la cui sagoma ricordava uno pterosauro, il mostruoso rettile alato di remote età geologiche, e l'immagine di quel serpente alato cominciò a ossessionare Barbee. D'altra parte, glielo aveva detto Sam Quain: sapere dell'Homo lycanthropus era orrore e follia. E ormai lui non avrebbe potuto riposare mai più, trovare mai più un porto di pace. Sarebbe stato perseguitato per sempre, braccato dai cacciatori del mistero, perché conosceva il loro segreto. L'auto sobbalzò, giungendo sul passo, e rombò poi lanciandosi giù per la discesa. Da un cartello stradale che i suoi fari avevano bruscamente illuminato, Barbee seppe di essere a Sardis Hill. Sapeva che lo aspettava la terribile curva, dove la tigre s'era servita del circuito di probabilità per sgozzare Rex Chittum. Già sentiva i pneumatici bagnati slittare sull'asfalto; non gli occorreva nessuna percezione speciale per vedere quanto la sua morte fosse probabile ora; ma non cercò nemmeno di rallentare la macchina, lanciata ormai come un sasso da una fionda. «Maledetta!», sibilò all'indirizzo della lupa, che sapeva d'avere vicinissima, proprio dietro la macchina. «È ben difficile che tu riesca a prendermi, ora!» Scoppiò a ridere, trionfante; rise del sogghigno di lei che non gli faceva più paura, degli uomini di Parker e delle camicie di forza del manicomio di Stato. Guardò ancora lo specchietto appannato e lanciò un sorriso di sfida al Figlio della Notte. No, i cacciatori misteriosi non lo avrebbero braccato più! Premette ancora sull'acceleratore e vide la curva apparire tra la pioggia. «Che tu sia maledetta, April!» Sentì le ruote slittare, e non cercò di fermarle. «Non potrai più tramutarmi, ora!» Slittando lateralmente, la macchina abbandonò l'asfalto bagnato. Il volante gli girò violentemente tra le mani, e lui lo lasciò girare. L'automobile cozzò con un sobbalzo contro un macigno sul ciglio della strada e infine precipitò per il dirupo. Barbee s'abbandonò contento, in attesa del crollo
finale. «Addio!», sospirò alla lupa bianca. 20. Non provò dolore, come aveva temuto. Per un istante, dopo che la macchina si fu abbattuta sul davanzale di roccia con un orrendo stridore di metallo straziato, la tortura fu intollerabile, ma Barbee quasi non avvertì l'urto finale. Dopo pochi istanti di tenebra assoluta, fu cosciente ancora una volta. Una delle ruote anteriori girava ancora, lentamente, sul suo capo. Un liquido gli gocciolava rapido accanto; sentì l'odore di benzina e prima che il carburante s'infiammasse riuscì a trascinarsi via da sotto il cumulo di rottami che lo schiacciava. Fu con uno stupore non privo di sollievo che s'accorse che il suo corpo, sebbene ammaccato e dolente, non sanguinava nemmeno. Rotto e intirizzito dai morsi rabbiosi del gelido vento gravido di pioggia, stava dirigendosi barcollando su per l'erta verso la strada, quando la lupa bianca ululò sul ciglio. Cercò di fuggire alla tremula nota di trionfo di quell'ululato, ma uno sfinimento indescrivibile lo possedeva. Inciampò, e allora si lasciò cadere sulla petraia bagnata, appoggiandosi con le spalle a un macigno viscido di pioggia, e se ne stette così a guardare la figura sottile della lupa sopra di lui, sul ciglio della strada, esattamente nel punto dove la macchina era precipitata. Udì la voce di April Bell: «Ma dunque, Will!». E il tono era lievemente sardonico. «Hai proprio cercato di scappare?» Afferrò una manata di terriccio e sassi e gliela scagliò contro con un gesto fiacco e pesante. «Maledetta!», singhiozzò. «Non vuoi neanche lasciarmi morire?» La lupa venne graziosamente giù per l'erta e, mentre lui tentava inutilmente di alzarsi per fuggire, gli leccò la faccia. «Vattene via!» S'era levato faticosamente a sedere e cercava di respingerla con un braccio debolissimo. «Che diavolo vuoi ancora da me?» «Solo aiutarti, quando hai bisogno di me.» Sedette davanti a lui, le bianche zanne ridenti. «Ti ho seguito per stabilire un circuito di probabilità che ti aiutasse a liberarti. So che deve essere doloroso e sconvolgente, ma tra
poco ti sentirai molto meglio.» Ma lui si ritrasse dalla lupa, che tentava di sfiorargli ancora la faccia col suo muso umido e fresco. «Vattene al diavolo!», inveì roco. «Non puoi neanche lasciarmi morire?» «No, Barbee. Ora non morirai mai più.» Lui rabbrividì. «Eh?», fece. «E perché?» «Perché, Barbee...» La lupa rizzò bruscamente le lunghe orecchie e volse la testa ad ascoltare, in un'immobilità totale. «Te lo dirò in un altro momento... Ora ho la percezione di un altro circuito che dobbiamo prepararci a sfruttare... Riguarda Sam Quain. Ma il tuo amico non può nuocerti, almeno per il momento, e mi vedrai tornare presto.» Il suo freddo bacio lo stupì, e poi corse via fulminea, lasciandolo là, semidisteso sui sassi. Rimase così per un tempo lunghissimo, sotto la pioggia sottile che lo penetrava fino alle ossa. La lupa bianca non tornava. Dopo molto tempo, sentendosi tornare un poco le forze, riuscì ad alzarsi e ad arrampicarsi penosamente su per il dirupo, mentre il motore di un autocarro gemeva potente lungo la salita in curva di Sardis Hill. Traballando, Barbee si pose in mezzo alla strada, nella luce dell'autocarro, agitando pazzamente le braccia; ma l'autista, accigliato, non gli badò. Barbee agitò il pugno, urlando. La gran ruota dell'autotreno lo sfiorò, e il veicolo proseguì la corsa, rallentando tuttavia nell'iniziare l'ultimo tratto, il più ripido, della salita. Barbee poté vedere che il camion era vuoto, e il tendone posteriore di chiusura sbatacchiava al vento. Senza pensare corse dietro al veicolo, che ora procedeva a passo d'uomo, mentre l'autista cambiava la marcia. Con uno sforzo sovrumano si arrampicò sul camion e penetrò nella tenebra sotto il tendone. Non c'erano che vecchie coperte militari, che puzzavano di muffa e dovevano essere servite a coprire dei mobili. Barbee si avvolse in una di quelle coperte e stette disteso sulle altre, gli occhi stancamente fissi sulla strada che sembrava dipanarsi nera sotto i suoi piedi. Era sconfitto, e non aveva più dove rifugiarsi. Perfino la morte gli aveva chiuso la porta in faccia. Non gli restava ora che un bisogno animalesco di sottrarsi alla gelida pioggia e l'apprensione di veder tornare la lupa bianca. A un tratto si accorse che il camion prendeva la direzione di Glennhaven, e bruscamente Barbee ebbe ancora uno scopo. Sarebbe tornato da Glenn. Sentiva il bisogno del consolante scetticismo materialista dello psichia-
tra. Attese che il camion rallentasse sulla curva presso Glennhaven, e si lasciò cadere sull'asfalto bagnato. Intorpidito e dolente com'era, cadde lungo disteso per terra. E vi rimase per un po', la faccia sull'asfalto, così sfinito e annebbiato da non sentire nemmeno il freddo tocco della pioggia. Il latrato acuto di un cane, in una fattoria vicina, lo scosse dal suo torpore, e lui si alzò faticosamente e si avviò barcollando come un ubriaco. Altri cani si posero a ululare, quando arrivò ai due pilastri quadrati che segnavano l'ingresso di Glennhaven. Prima di entrare, si voltò a guardarsi paurosamente alle spalle, ma non vide gli occhi verdi d'una lupa seguirlo. Quando l'alta figura dello psichiatra venuto ad aprire si disegnò sulla soglia della sua abitazione privata, Barbee vide che sul suo volto abbronzato non c'era nessuna sorpresa. «Salve, Barbee. Sapevo che lei sarebbe tornato.» Barbee rimase là sulla soglia, vacillando, passandosi la lingua sulle labbra stranamente torpide, insensibili. «La polizia?», domandò in un sussurrò. «È qui?» Glenn lo gratificò del suo cordiale sorriso lievemente ironico. «Oh, non preoccupiamoci della legge in questo momento», ammonì. «Lei è conciato veramente male.» I suoi occhi si posarono sull'impermeabile infangato e lacero, sulla faccia barbuta e spettrale. «Perché non si riposa un po' e lascia che il nostro corpo sanitario risolva i suoi problemi? Telefoniamo allo sceriffo che lei è qui, sano e salvo, e rimanderemo le seccature con la polizia fino a domani. Va bene?» «Sì», disse Barbee, un po' incerto. «Ma c'è una cosa che voglio che lei sappia. Io non ho investito la signora Mondrick!» Glenn batté le palpebre, sonnacchioso. «Lo so che c'è il suo sangue sul parafango della mia macchina», riprese Barbee al colmo dell'agitazione. «Ma è stata una lupa bianca ad ammazzarla.» Glenn annuì con aria placida. «Potremo parlarne con molto più comodo domattina, signor Barbee. Ma comunque siano andate le cose - nella realtà o nella sua immaginazione - voglio che lei sia certo che m'interesso molto al suo caso. Mi sembra profondamente sconvolto, ma intendo usare ogni risorsa della psichiatria per aiutarla.» «Grazie», mormorò Barbee. «Ma lei continua a credere che l'abbia uccisa io.» «L'evidenza dei fatti è quella che è.» Sempre sorridendo, Glenn comin-
ciò a indietreggiare cautamente. «Non deve più cercare di scappare, Barbee, o bisognerà che io la trasferisca a un altro reparto, domattina.» «Reparto agitati», osservò Barbee con amarezza. «Scommetto che ancora non sapete come Rowena Mondrick sia riuscita a scappare di là!» Glenn alzò le spalle con una certa indifferenza. «Il dottor Bunzel è ancora sbalordito per questa faccenda», ammise con la sua solita flemma. «Ma non dobbiamo preoccuparci di nulla questa sera. Ora lei dovrebbe tornare nella sua stanza, fare un bel bagno caldo e dormire un po'...» «Dormire!», ripeté Barbee, rauco fino all'afonia. «Dottore, se mi addormento, tornerà la solita lupa a tramutarmi in qualche spaventevole fiera, per spingermi a uccidere Sam Quain. Non la si vede... nemmeno io riesco a vederla in questo momento... ma non ci sono muraglie che le impediscano di passare.» Glenn sorrise ancora, assentendo svagato. «Sta venendo!», gridò Barbee. «Sente i cani?» S'udivano i cani atterriti ululare in tutte le case coloniche dei dintorni. Barbee si mise a tremare violentemente. Glenn attese sulla soglia, il volto più placido che mai. «La lupa bianca è April Bell», sussurrò Barbee. «È stata lei che ha assassinato Mondrick e che mi ha spinto a uccidere Rex e Nick. E l'ho vista, sul corpo di Rowena, leccarsi le zanne.» Si mise a battere i denti. «Verrà appena mi sarò addormentato, per farmi tramutare ancora e poi uccidere Sam!» Glenn alzò le spalle. «Lei è stanco», disse in tono professionale. «E quindi molto eccitato. Lasci che le dia qualcosa per farla dormire...» «Non voglio niente.» Barbee cercò di impedire alla sua voce squarciata di levarsi in un urlo. «Si tratta di qualcosa di molto peggiore della follia... Devo riuscire a farle capire! Senta quello che stasera mi ha detto Sam Quain...» E precipitosamente, confusamente, riprese a parlare di Homo lycanthropus e di streghe e di età glaciali e di ibridi. «Dunque, dottore», domandò quand'ebbe finito, «che ne dice ora?» Deliberatamente, col suo vecchio gesto meditativo, Glenn congiunse le punte delle dita. «Lei è malato, signor Barbee», disse con voce dolce e profonda. «Lo rammenti. Troppo malato per vedere la realtà se non nello specchio deformante delle sue stesse paure. La sua storia dell'Homo lycanthropus, direi,
non è che un parallelo isterico e deforme della verità. È vero che alcuni studiosi di metapsichica hanno interpretato certi loro risultati, alla Duke University, come una prova scientifica dell'esistenza di uno spirito distinto dal corpo, che può influire in qualche modo sulla probabilità degli eventi nel mondo materiale e può anche sopravvivere alla morte fisica.» Qui Glenn approvò con un cenno del capo, come soddisfatto delle sue stesse parole. «Ed è vero», riprese, «che l'uomo discende anatomicamente da animali più o meno selvaggi. Noi tutti abbiamo ereditato caratteristiche che non ci servono più nella società civile. La mente inconscia sembra talvolta una tenebrosa caverna di orrori e gli stessi fatti spiacevoli sono spesso espressi attraverso il simbolismo della leggenda e del mito. Ed è anche vero che assistiamo con una certa frequenza al ritorno di caratteri ereditari recessivi, veri e propri ritorni atavici molto interessanti.» Barbee scosse il capo con una specie di contenuto furore. «Ma tutto questo non spiega minimamente il problema delle streghe!», disse esasperato. «Non spiega il circuito di probabilità col quale cercano di assassinare Sam! Io non voglio addormentarmi per poi uccidere Sam Quain, capisce?» «La prego, signor Barbee», la voce del medico era piena di calda amicizia, «non vuole proprio cercar di capire? La sua paura di dormire non è che la paura dei suoi desideri inconsci, che il sonno libera. La strega dei suoi sogni non può rivelarsi se non per il simbolo del suo amore, di cui si sente colpevole, verso la signora Quain, e i suoi pensieri omicidi non sono forse che la naturale conseguenza di un odio inconscio e geloso per il marito.» Barbee strinse i pugni, squassato da un furore muto. «Lei ora non può che negare queste idee», riprese Glenn. «Deve imparare ad accettarle, ad affrontarle e a usarle su di una base realistica. Sarà questo il fine della nostra terapia. Non c'è nulla di speciale in tali paure. Tutti i vivi le esprimono...» «Tutti i vivi», lo interruppe Barbee, «sono tarati dal sangue di strega.» Glenn assentì affabilmente. «È l'espressione fantasiosa di una fondamentale verità scientifica. Tutti patiscono gli stessi conflitti interiori...» Barbee udì dei passi sul viale alle sue spalle e si voltò con un singulto soffocato di terrore. Non era la sottile lupa bianca, ma soltanto l'equina infermiera Graulitz e l'atletica Hellar. Guardò con aria accusatrice lo psichiatra. «Farà bene ad andarsene tranquillamente con loro, signor Barbee. La
metteranno a letto e l'aiuteranno a fare un bel sonno riparatore...» «Le ho detto che non voglio dormire, che ho paura...», singhiozzò Barbee. Trattenne il fiato e fece per correre via. Ma le due amazzoni vestite di bianco lo presero per le braccia e lui cedette subito, tanto era spossato e infreddolito. Lo portarono nella sua stanza; una doccia calda gli stroncò quel terribile batter di denti e il letto fresco di bucato era insidiosamente riposante. «Resto di guardia qui, nel corridoio», gli disse la Hellar. «Le farò una iniezione se non si addormenta da bravo subito.» Ma non fu necessaria nessuna iniezione. Il sonno lo avvolse in una rete ondeggiante e maliosa, irresistibile. Cercò di lottare contro di essa... fino a quando qualcosa lo costrinse a guardare la porta chiusa. I pannelli inferiori si andavano lentamente dissolvendo. La lupa si materializzò nell'apertura e venne avanti trotterellando. Sedette in mezzo alla stanza, fissandolo con occhi divertiti, pieni di attesa. La lingua le penzolava rosea tra le zanne bianchissime. «Puoi aspettare fino a che si faccia giorno», le disse lui stancamente. «Ma non puoi farmi tramutare, perché tanto non dormirò.» «Non c'è più nessun bisogno che tu dorma», ed era la voce bassa e vellutata di April. «Ho detto or ora al tuo fratellastro che cosa è successo questa notte a Sardis Hill, e lui ne è rimasto molto contento. Dice che devi essere potentissimo, perché nemmeno le infermiere si sono accorte di nulla. Ha detto anche che ormai potrai trasformarti quando vorrai, senza l'aiuto del sonno, perché non hai più resistenze umane da sopraffare.» «Che cosa stai dicendo?» E Barbee si levò prontamente a sedere sulla sponda del letto, aggrottando la fronte. «Che cosa le infermiere non hanno visto?» «Non lo sai proprio, Will?» «Ma che cosa? E chi è il mio fratellastro?» «Possibile che Archer non ti abbia detto nulla? Dev'essere così.» La lupa scosse significativamente la bella testa. «Probabilmente intendeva impiegare tutto un anno per ridestare i tuoi poteri ancestrali, come fece con me... a quaranta dollari l'ora. Ma il clan non può attendere. Ti ho liberato bruscamente, stanotte, perché dobbiamo pensare a Sam Quain, e la tua parte umana ti rendeva troppo riluttante.» Barbee batté le palpebre senza capire. «Non ti capisco», disse, «e non credo affatto di avere un fratellastro. Che io non abbia mai conosciuto i
miei genitori non vuol dire. Mia madre morì nel mettermi al mondo e mio padre fu rinchiuso poco dopo in manicomio. Sono stato allevato in un istituto fino all'università, quando sono andato in pensione dalla signora Mondrick.» «Ma questa è tutta una fiaba!» La lupa rise silenziosamente. «Naturalmente è esistito un Luther Barbee... ma lui e la moglie erano stati pagati per adottarti. Accadde loro di scoprire quale mostricino inumano tu fossi. Ecco perché la donna dovette essere uccisa e l'uomo posto in condizione di non nuocere... prima che parlassero troppo.» Barbee scosse la testa in una tempesta di dubbi. «Insomma», disse di malavoglia, «che cosa sarei secondo te?» «Tu e io siamo creature eccezionali, Barbee. Siamo nati in seno al genere umano, con metodi e fini particolarissimi, ma siamo solo in minima parte umani.» Barbee si afferrò alle sbarre del letto. «Chi era mio padre?» «Il vecchio dottor Glenn. Ecco perché Archer Glenn è tuo fratellastro. È di qualche anno soltanto più vecchio di te e rappresenta un esperimento genetico riuscito in modo meno perfetto.» Barbee ricordò quella sensazione di vecchia familiarità dimenticata che aveva provato in presenza di Glenn. «E mia madre?» «Tu la conoscevi molto bene. Era una donna che tuo padre aveva scelto per i suoi geni... la portò a Glennhaven come infermiera. Era molto dotata dei nostri poteri ancestrali, ma non riuscì mai a superare le resistenze opposte dalla sua parte umana. Fu abbastanza sciocca da credere che tuo padre la amasse e non lo perdonò mai quando venne a sapere la verità. Si unì ai nostri nemici umani.... ma tu eri già nato.» Barbee si sentì venire la pelle d'oca. «Non era per caso...», e inghiottì convulsamente, «Rowena Mondrick?» «Rowena Stalcup, allora. Era ignara dei suoi poteri, finché tuo padre non cominciò a ridestarli. La inorridì l'idea di averti generato dal suo matrimonio, anche quando credeva che tu saresti stato umano.» «E io l'ho uccisa! Mia madre!», mormorò Barbee inorridito. «Era la nostra nemica più accanita! Finse di unirsi al clan di tuo padre e poi usò le arti che aveva appreso per scappare e consegnare i segreti del clan a Mondrick. Fu lei che mise Mondrick per la prima volta sulle nostre tracce. E continuò a lavorare con lui fino a quando uno di noi l'accecò, in Nigeria, mentre lei stava per scoprire una di quelle Pietre, quelle armi discoidali, più micidiali dell'argento, che i nostri nemici della preistoria sep-
pellivano coi nostri antenati uccisi per tenerli nelle loro tombe.» Prendendosi la testa fra le mani, Barbee mormorò: «Oh, se l'avessi saputo!». E poi, evitando di guardare la lupa: «Che cosa voleva dire a Sam?». «Il nome del Figlio della Notte. Ma noi abbiamo agito molto bene, tu soprattutto, Will, quando hai finto di essergli amico... Perché tu sei uno dei nostri, Will, e il più potente che abbiamo generato, così potente che dovrai essere il nostro capo. Tu sei colui che noi chiamiamo il Figlio della Notte.» 21. Si aprì la porta e l'infermiera fece capolino nella stanza buia scuotendo il capo in mite rimprovero: «Ah, signor Barbee», lo ammonì dolcemente. «Prenderà una polmonite se rimarrà là seduto a chiacchierare tra sé tutta la notte. Se ora, quando torno con l'iniezione, non la trovo a letto...» «Non ti troverà», disse la lupa, quando l'infermiera se ne fu andata. «E ora è tempo di muoverci. Sam Quain sta sfuggendo agli uomini dello sceriffo, lungo una pista che loro non conoscono. E sta trasportando la cassa. Possiede la sola arma che possa veramente nuocerti, Barbee, e dobbiamo fermarlo, prima che impari a servirsene. Su, andiamo!» Barbee si attaccò alle sbarre del letto. «Non credo di essere il Figlio della Notte», disse, «e non intendo fare del male a Sam.» La lupa gli sfiorò, implorante, col muso il ginocchio e Barbee fu completamente soggiogato da quel muto richiamo. Le sue mani abbandonarono le sbarre del letto. Rivide l'alato pterosauro dello specchietto e fu posseduto dal desiderio cocente di avere la sua potenza. Subito una volontà spietata, tesa verso una vitalità mostruosa scese nel suo corpo, che gli parve si dilatasse, si gonfiasse e accrescesse fino a chiudere in sé l'intero universo. E una forza gigantesca fluiva in lui tepida e inebriante. E anche la lupa si trasformava. Si era rizzata sulle zampe posteriori, e diveniva sempre più alta. Le curve sottili del suo corpo si colmarono, la bianca pelliccia scomparve. Con un gesto pieno di grazia, April scosse i lunghi capelli rossi dietro le spalle nude. Con febbrile eccitazione, Barbee avvolse fra le sue ali robuste la donna nuda, e baciò le sue labbra fresche con la lunga lingua di rettile. Ridendo, lui accarezzò la sua testa ricoperta di scaglie. «Abbiamo prima un'altra cosa da fare», disse scivolando via dall'abbrac-
cio. «Ci aspetta un appuntamento con la probabilità, e con il tuo vecchio amico Quain.» April gli saltò sulla groppa elastica e ricoperta di piastre come una sella, e la parete si dissolse davanti alle due figure l'una aggrappata all'altra. Con un senso di sorpresa, vide che il letto d'ospedale era vuoto. Ma quel piccolo enigma non lo turbò: era meraviglioso sentirsi di nuovo libero, e il morbido peso della ragazza nuda sul suo dorso lo eccitava. Ed ecco, navigavano alti nella notte nuvolosa, tra le ultime raffiche spruzzate di pioggia. Sotto di loro si stendeva la strada delle colline. Poi, a un cenno di April, il rettile volante scese lentamente, planando, sulla curva di Sardis Hill, dove tre automobili erano ferme, insieme a un'autombulanza. Due uomini vestiti di bianco stavano portando una forma scura su di una barella. «Quello è il tuo corpo», gli disse April. «I tuoi poteri sono cresciuti, e tu non ne hai più bisogno. Sei libero.» «Sono libero? Morto, intendi...?» «No, perché ora non morirai più, soprattutto se impediremo a Quain di usare l'arma terribile che ha contro di te. Tu sei il primo della nostra razza il quale, nei tempi moderni, sia in grado di sopravvivere materialmente, nonostante la morte del corpo. Te ne sei separato, come una larva dalla crisalide.» Continuò a volare rigido, con un gran freddo dentro. «Mi dispiace, tesoro.» Sentì il tremito di un'improvvisa tenerezza incrinare la voce di April. «Lo so, è una sensazione terribile, sapere di avere perduto il proprio corpo, anche se non ne hai più bisogno. Ma dovresti essere felice.» «Felice?», replicò, amaramente. «Di essere morto?» «No... felice di essere libero!» Una sommessa eccitazione tremava nella voce di April. «Presto ti sentirai diverso, Will. Perché ora tutti i tuoi immensi poteri ancestrali si desteranno rapidamente, con la scomparsa delle barriere umane. Tu possiedi tutta l'eredità e i preziosi segreti dei nostri clan, quell'eredità che la nostra gente, dispersa nel mondo, ha conservato e tramandato attraverso le lunghe epoche oscure nelle quali gli uomini credevano di avere vinto la loro lunga battaglia.» Le grandi ali nere tremarono nell'aria. «Tesoro... non devi avere paura!» Dolcemente, le dita di April accarezzarono le grandi piastre del sauriano. «Lo so... ti senti strano e solo... come mi sentivo io, quando mi rivelarono la verità per la prima volta. Ma non
resterai solo per molto tempo.» Una quieta esultanza riempì la sua voce. «Vedi, Archer Glenn dice che anch'io sono abbastanza forte per sopravvivere alla morte del corpo.» Navigava lento nel cielo nuvoloso, e le grandi ali parevano pesanti e torpide. «Certo, dovrò aspettare che il nostro erede sia nato... un figlio il cui sangue sia così puro da poter essere un nuovo padre per la nostra razza. E dovrò darlo alla luce nella mia forma umana, perché anche lui dovrà celarsi tra gli uomini.» Sentì che il corpo di April s'irrigidiva, teso da quell'indomabile proposito. «Ma poi anch'io potrò essere separata dal corpo», aggiunse, dolcemente. «E sarò con te per sempre!» «E come?», disse lui, aspramente. «Per essere entrambi dei fantasmi?» «Non provare compassione per la tua sorte, Will Barbee!» Rise, in quel momento, scuotendo i capelli di fiamma sulla schiena nuda, e affondando i talloni nudi nel corpo squamoso del rettile volante. «Perché ora tu sei quello che nella leggenda gli uomini hanno chiamato un vampiro, e dovresti esserne felice. Il tuo vecchio amico Quain, e tutti gli uomini, hanno bisogno di compassione... non tu!» «No!», ansimò lui, ancora incredulo. «Non ti credo.» Si abbassò di nuovo, planando con le ali stanche, descrivendo un circolo lento sui due uomini che portavano la sua parte umana via dai rottami dell'auto, verso l'ambulanza in attesa. Uno di loro scivolò sulla roccia umida, e per poco la barella non cadde con il suo terribile carico. Ma sapeva che ormai questo non aveva importanza. Era quello lo strano funerale di tutto il suo passato umano. «Quando Archer cominciò a insegnarmi le antiche arti, provavo quasi una sensazione di orrore, e di angoscia», stava mormorando felice April Bell. «Il pensiero di nascondersi nelle tenebre, forse anche nella propria tomba, e uscire di notte a nutrirsi del sangue degli uomini! Mi parevano storie così orrende, così raccapriccianti, ma ora la penso diversamente. Ora so che è questa la nostra vera vita!» Silenziosamente, rabbrividendo nell'aria, Barbee osservò i due uomini infilare il loro carico nell'ambulanza. E si chiese quali potessero essere i prodigi realizzabili dalle particelle di energia della mente, dal disegno di energia che formava il pensiero; e si rammentò che Sam Quain non gli avesse detto qualcosa di più su ciò che la spedizione Mondrick aveva trovato sotto quegli antichi tumuli funerari del remoto Ala-shan. «Era così che il nostro popolo viveva, un tempo», stava dicendo la strega
bianca, in tono lieto. «Prima che gli uomini imparassero a combatterci. Ed è questo il nostro modo naturale di vivere, perché le libere trame mentali possiedono dei poteri meravigliosi. Le nostre menti possono sopravvivere quasi per sempre, a meno che non vengano distrutte dalla luce, o dall'argento, o da quelle orribili pietre che gli uomini seppellivano con noi.» April a un tratto tese la testa verso il Nord, come in ascolto. «Ora dobbiamo trovare Quain», disse. «Sento che il circuito si forma.» Il nero pterosauro volò lento e maestoso verso il Nord-est, oltre il Laurel Canyon. E a un tratto lo scorsero. Faticosamente inerpicandosi su per i gradini smussati che gli stessi Indiani dovevano avere scavato nella roccia, Sam Quain, spingendo la pesante cassa avanti a sé, saliva lentamente verso la vetta di una collina. Infine, dopo un'ultima spinta alla cassa, vi montò sopra e giunto sulla vetta, ansante, con un altro gigantesco sforzo trascinò la cassa oltre il ciglio roccioso e se la caricò sulle spalle. Si soffermò solo un istante a guardare, in basso, oltre il torrente, lontanissimi, gli uomini dello sceriffo, incerti sulla via da seguire. E poi riprese la sua faticosissima marcia. «Ora!», ingiunse April. Chiudendo le nere ali, Barbee calò verticalmente come un masso. Sam Quain parve improvvisamente conscio del pericolo. Cercò di allontanarsi il più rapidamente possibile dal precipizio da cui era venuto, e barcollò, male in equilibrio sotto il peso della cassa. Alzò la faccia devastata dalla stanchezza e un orrore indicibile vi si dipinse. Doveva avere imparato da Mondrick a liberare le cariche magnetiche della mente, perché la sua bocca si aprì e a Barbee parve di udire il suo nome, gridato in tono d'estrema angoscia: «Oh, sei dunque tu... Will Barbee!». Gli artigli dello pterosauro afferrarono la cassa. Ne emanava l'orrendo fetore e il solo tocco di essa raggelò il gran corpo del rettile. Con le ali quasi paralizzate, il mostro tuttavia non abbandonava la cassa. Strappata dalle mani di Quain, la cassa rimbalzò sull'orlo roccioso del precipizio. Barbee riuscì a staccarne gli artigli, e la vide precipitare, cozzando contro le sporgenze rocciose, finché non si spaccò su un ripiano pietroso, ove il suo contenuto si sparse. Barbee poté vedere armi d'argento annerite dai millenni, frammenti d'ossa e un oggetto a forma di disco, che splendeva d'una terribile luce violetta, agli occhi del sauriano, radiazione ancor più mortale di quella solare.
Era forse uranio radioattivo quel metallo più mortale dell'argento? Infine, rotolando lento sul pendio roccioso, il contenuto della cassa precipitò di nuovo nell'abisso sottostante e Barbee vide il tremendo disco violetto sparire nelle acque profonde del torrente. Sam Quain frattanto era scomparso. «Ora che l'arma micidiale è distrutta», disse Barbee, «Sam Quain non rappresenta più un pericolo mortale. E del resto, che può fare, braccato com'è dalla polizia?» April Bell era scesa dalla groppa del rettile alato. Per un attimo parve di malumore. Poi Barbee la vide scuotere la fiammante capigliatura e restringersi, abbassarsi, tramutarsi, finché non fu di nuovo la snella ed elegante lupa bianca. Mettendo in mostra le zanne in un sogghigno malizioso, prese a correre verso le pendici fittamente boscose, dove le immense ali nere non avrebbero potuto inseguirla. «Aspettami, April!» La metamorfosi gli era facile ormai, e il rettile alato si tramutò rapidamente nel robusto lupo grigio. Fiutando nell'aria l'odore inebriante della lupa, la seguì rapido e silenzioso, là dove le tenebre erano più dense, dove lo avrebbero trattenuto per sempre. APPENDICI APPENDICE I Il Lai du Bisclavret [Tratto da Maria di Francia, Lai du Bisclavret, Paris, L. Curmer, 1842. Maria di Francia scrisse i suoi Lais in dialetto francese intorno al 1160, dedicandoli a Enrico II Plantageneto. In quello che qui riportiamo, è contenuta una delle prime testimonianze letterarie riguardanti il loup garou (N.d.C).] Bisclavret è il nome del Lupo Mannaro in Bretagna, ma i Normanni lo chiamano Garolf. Garolf è il lupo, una bestia selvaggia, che quando è arrabbiato divora gli uomini, fa gran male, e vive e vaga nelle grandi foreste. Ma ora lasciamo stare tutto ciò, perché voglio raccontarvi di Bisclavret, l'uomo-lupo. Nella Bretagna viveva un barone, di cui ho udito lodi da destare meravi-
glia. Era un cavaliere bello e valoroso, e si comportava nobilmente. Era nelle grazie del suo signore e stimato da tutti i suoi vicini. Egli sposò una donna di condizione pari alla sua e, inizialmente, le dimostrava molto amore. Il suo amore era ricambiato; ma una cosa lei non tollerava: infatti, per tre giorni alla settimana il suo sposo si assentava, né sapeva cosa facesse o dove andasse; e nessuno ne sapeva nulla. Una volta che lui era ritornato a casa di buon umore e senza preoccupazioni, lei cominciò a interrogarlo e a sollecitarlo: «Signore», gli disse, «mio bello e dolce amico, vorrei domandarvi una cosa, ma me ne manca il coraggio e temo di suscitare la vostra collera, cosa che mi incute molto timore». Quando egli l'udì, la cinse col braccio, l'attirò a sé, la baciò, e le disse: «Signora, domandate pure! Non c'è nulla di quanto possiate chiedermi a cui io non vi risponderò, se lo so». «In verità», rispose la donna, «ora mi sento rassicurata. Signore, io vivo in grande angoscia nei giorni in cui voi siete lontano da me. Il mio cuore si colma allora di un immenso dolore e mi viene tanta paura di perdervi, che se non troverò subito conforto, potrei anche morirne! Ditemi dunque dove andate, dove vivete, dove vi nascondete. Ho il sospetto che vi sia un'altra donna che degnate del vostro amore, se così fosse sarebbe un'azione vile!» «Signora», disse il barone, «che Iddio abbia pietà di me! Se ve lo dico, me ne verrà gran danno, perché vi allontanerò dal mio amore e perderò me stesso.» Quel che udì, non parve affatto alla dama una cosa da nulla. E tante volte gli ripeté la domanda, e così lo lusingò e lo blandì, che alla fine egli le raccontò la sua avventura senza nascondere nulla. «Signora, nei giorni in cui sto lontano da voi io divento un lupo! Allora m'inoltro nella grande foresta, nel più fitto del bosco, e vivo di preda e di rapina.» Dopo che le ebbe confessato tutto, lei gli chiese se si spogliasse o rimanesse vestito. «Signora», rispose l'uomo, «io rimango tutto nudo.» «Ditemi, vi prego, dove mettete i vostri vestiti!» «Signora, non ve lo posso dire, perché se li perdessi manterrei per sempre le sembianze del lupo! Non troverei nessun rimedio, fin tanto che non mi fossero restituiti. Ecco perché non voglio che si sappia.» «Signore», gli rispose la dama, «io v'amo più d'ogni cosa al mondo. Voi non dovete nascondermi nulla e mai dovete temere di me: altrimenti che amore sarebbe il vostro? Che male ho fatto, per quale peccato ho perso la
vostra fiducia? Ditemelo, altrimenti ne morrò!» Tanto lo assillò e lo angustiò, che alla fine le disse tutto: «Sul limitare del bosco, di fianco alla strada per dove io m'inoltro c'è una vecchia cappella. Là c'è, sotto un cespuglio, un gran macigno cavo all'interno: io vi nascondo i vestiti, fin quando non ritorno a casa». La dama dopo aver sentito questa storia era diventata tutta rossa dalla paura: questa rivelazione l'aveva sconvolta. Cominciò a pensare tutti i modi per sfuggirgli, ora che non aveva più il coraggio di dormire al suo fianco. C'era un cavaliere nella contrada che l'amava da lungo tempo e le faceva una corte assidua, senza che lei lo ricambiasse né gli avesse mai dato qualche speranza. Gli inviò un messaggio e gli rivelò le sue intenzioni: «Amico rallegratevi! Ciò per cui avete sofferto, ora ve lo concedo senza indugiare oltre; ormai non ci sarà più nessun ostacolo: il mio amore e la mia persona sono nelle vostre mani; fate di me la vostra amica!». Lui la ringraziò di tutto cuore e ascoltò le confidenze ch'ella gli fece. Gli raccontò come il suo signore solesse allontanarsi e cosa gli accadeva; gli indicò la strada che conduceva nella foresta e lo indusse a sottrarre gli abiti. In questo modo Bisclavret fu tradito e messo allo sbaraglio dalla sua sposa. Poiché lui si allontanava spesso, tutti pensarono che se ne fosse andato definitivamente. Per molto tempo continuarono a cercarlo, senza trovarlo, finché decisero di non occuparsene più. E la dama sposò allora il cavaliere che l'aveva lungamente amata. Trascorse così un anno, fino al giorno in cui il re andò a caccia. Egli s'era inoltrato nella foresta dove viveva Bisclavret. Appena i cani furono sguinzagliati, subito scovarono l'uomo-lupo. Fu inseguito dai cani e dai cacciatori, e stavano ormai per ucciderlo e per sbranarlo, quando egli vide il re. Si diresse verso di lui a implorare pietà, afferrò la sua staffa e cominciò a lambirgli la gamba e il piede. Il re rimase stupito dal comportamento del lupo e chiamò i suoi compagni, dicendo: «Signori, venite! Guardate questa meraviglia, come questa bestia si umilia! Essa ha l'intelligenza dell'uomo, e chiede grazia. Cacciate via tutti questi cani e badate che nessuno la ferisca! Questa bestia ha senno e cuore! Sbrigatevi, partiamo! A questa bestia prometto la salvezza, e per oggi non voglio più cacciare». Sulla strada del ritorno, Bisclavret gli andava dietro, standogli vicinissimo e non intendeva lasciarlo. Il re lo condusse allora nel suo castello. E ne fu assai lieto, perché non aveva mai visto un lupo simile. Lo teneva come
una meraviglia e lo trattava con molta dimestichezza. Ordinò a tutti i suoi di averne cura e che non gli fosse recata alcuna offesa, ma che fosse ben nutrito e saziato. Tutti lo rispettavano volentieri; se ne stava tutto il giorno accucciato tra i cavalieri e presso il re; e non c'era nessuno che non gli volesse bene, tanto era buono e mansueto, e non disubbidiva mai. Dovunque il re si recasse, lui non voleva mai separarsene, gli stava sempre vicino e gli dimostrava la sua fedeltà. Un giorno, però, accadde qualcosa di insolito. Il re invitò a corte tutti i baroni che erano suoi vassalli per fare festa e fare atto d'omaggio. Tra questi c'era anche il cavaliere che aveva preso la moglie di Bisclavret. Egli era ignaro di quello che stava per succedergli. Appena giunse al palazzo, Bisclavret lo riconobbe e, con un salto, si avventò su di lui: lo afferrò coi denti, e lo trascinò via con sé. Sicuramente lo avrebbe dilaniato, se il re non l'avesse richiamato e minacciato con un bastone. Durante quel giorno tentò di azzannarlo altre due volte. Tutti si meravigliarono molto di questo fatto, poiché non aveva mai dimostrato ostilità contro nessuno. A corte tutti pensarono che dovesse esserci una spiegazione a questo suo comportamento: certamente il cavaliere gli doveva aver fatto qualche offesa di cui ora egli si voleva vendicare. Ma quella volta non accadde nulla, perché la festa terminò e i baroni si congedarono e fecero ritorno nei loro castelli. Fra i primi a partire fu il cavaliere che Bisclavret aveva assalito. Non trascorse molto tempo, e quel re si recò nella foresta dove aveva trovato Bisclavret, che quel giorno era con lui. Si fermò a pernottare in quella contrada. Quando la moglie di Bisclavret lo seppe, si fece tutta bella e il giorno dopo si recò dal re a presentargli ricchi doni. Appena Bisclavret la vide venire, nessuno più riuscì a trattenerlo e le si scagliò contro, strappandole, per vendetta, il naso. Era la peggiore delle cose che avrebbe mai potuto farle. Lo minacciavano da tutte le parti e l'avrebbero abbattuto se non fosse intervenuto un saggio cavaliere a prenderne le difese: «Sire», disse, «ascoltatemi! Questa bestia è stata con voi; e non c'è nessuno fra noi che non l'abbia vista a lungo e spesso starci assai vicino. Non ha mai aggredito e recato offesa a nessuno di noi, tranne a questa donna. Sono certo che deve nutrire qualche rancore nei confronti suoi e del suo consorte. Costei è la moglie del cavaliere che tanto amavate e che è scomparso ormai da molto tempo, senza sapere cosa gli sia accaduto. Chiedete, quindi, alla donna il motivo dell'odio di questa bestia per lei. Sicuramente lei lo sa». Il re raccolse il suo consiglio e fece interrogare la donna. Costrettavi dalle insistenze e dalla paura lei finì col confessare come aveva tradito il suo
signore e sottratto i suoi abiti; riferì tutta la storia che le era stata narrata dal suo signore e la sua metamorfosi. Confessò di avergli sottratto gli abiti e che da quel giorno lui era scomparso; pensava, anzi era sicura, che quel lupo fosse Bisclavret. Il re allora chiese gli abiti, e malgrado lei non volesse, se li fece portare per darli a Bisclavret. Questi, però, sembrava non avere alcuna intenzione di indossarli. Il cavaliere che aveva già dato i suoi consigli al re disse: «Sire, non dovete fare così! Costui non oserà mai rivestire i suoi abiti davanti a voi né mutare il suo aspetto di bestia. Voi non potete immaginare che cosa questo può comportare: egli ne ha immensa vergogna. Sarà bene condurlo nelle vostre camere e portargli i suoi vestiti: allora lo lasceremo solo per molto tempo, e poi vedremo se diventerà uomo!». Il re stesso lo condusse via e poi richiuse tutte le porte: dopo un po' di tempo ritornò facendosi accompagnare da due baroni. Entrarono tutti e tre nella camera, e sul letto stesso del re trovarono il cavaliere che dormiva. Il re corse ad abbracciarlo, lo strinse a sé e lo baciò. Appena poté, gli rese tutti i suoi domini, e lo ricoprì di doni. Scacciò la donna dalla contrada e la bandì dal regno: lei se ne andò assieme al cavaliere con cui aveva tradito il suo signore. Da lui ebbe molti figli, e tutti si potevano ben riconoscere dall'aspetto e dal volto: poiché molte donne della famiglia, ed è la pura verità, nacquero senza naso e vissero così sfigurate. APPENDICE II Il Werewolf [Tratto da B. Thorpe, Yule-Tide Stories, a Collection of Scandinavian and North German Popular Tales and Traditions, London, H.G. Bohn, 1853, pp. 5-15. È una delle più interessanti testimonianze sull'incidenza della figura del Lupo Mannaro nel folklore nordico, e in particolare svedese (N.d.C).] C'era una volta un re, che governava su un grande regno. Era sposato con una bellissima regina, da cui ebbe solo un figlio, una bambina. Così, com'era naturale, la piccola era per i suoi genitori la pupilla dei loro occhi, ed era amata più di ogni altra cosa, tanto che non pensavano a niente con tale gioia se non al piacere che avrebbero avuto una volta che fosse divenuta adulta. Ma molte cose andarono contro le loro aspettative; infatti prima che la principessa uscisse dall'infanzia, la regina, sua madre, si ammalò
e morì. Ora, come si può immaginare, ci fu una grande tristezza non solo a corte, ma nell'intero regno, poiché la regina era amata moltissimo da tutti. Lo stesso re era così profondamente afflitto che decise di non sposarsi mai più, ma riversò tutto il suo affetto e le sue attenzioni sulla principessa. In questo modo trascorse un considerevole arco di tempo; la giovane principessa cresceva giorno dopo giorno sempre più alta e bella, e qualsiasi cosa desiderasse, in ogni momento, le veniva concesso immediatamente dal padre; aveva molti servitori intorno a sé, con l'unica mansione di essere a disposizione per eseguire tutti i suoi ordini. Tra questi c'era una donna che era stata precedentemente sposata e aveva due figlie. Era una persona gioviale, con una lingua persuasiva, e sapeva bene come mettere insieme le parole; a tutto ciò si aggiungeva il fatto che fosse tenera e flessibile come la seta; ma il suo cuore era pieno di artifici e di ogni genere di falsità. Non appena la regina morì cominciò a escogitare piani su come avrebbe potuto diventare moglie del re, e come le sue figlie avrebbero potuto essere onorate come figlie del re. Con questo obiettivo cominciò col conquistarsi l'affetto della principessa; elogiava oltre misura tutto quello che diceva o che faceva, e tutti i suoi discorsi terminavano col sostenere quanto sarebbero stati felici se il re avesse preso una nuova moglie. La conversazione cadeva sempre più spesso su questo argomento, finché, alla fine, la principessa non poté fare a meno di credere, che tutto quello che la donna diceva fosse vero. Quindi, le chiese quale tipo di moglie fosse più consigliabile che il re scegliesse. La donna, con un lungo giro di parole, dolce come il miele, rispose: «Dipendesse da me dare un consiglio in un caso del genere, desidererei soltanto che lui potesse scegliere come sua regina una che sia buona con la mia piccola principessa. Io so solo questo: fossi così fortunata da essere l'oggetto della sua scelta, penserei solo a quello che potrebbe far piacere alla principessa; e se desiderasse lavarsi le mani, una delle mie figlie dovrebbe reggere la bacinella, e l'altra porgerle l'asciugamano». Disse alla principessa queste e tante altre cose così che lei le credette, come i bambini sono pronti a credere qualsiasi cosa venga loro detta. Ora, non passava giorno che il re non fosse assillato dalle sollecitazioni della figlia, la quale lo pregava incessantemente di sposare la premurosa cameriera personale; ma il re rifiutava. Ciononostante, la principessa non desisteva dalle sue suppliche, ma ne parlava sempre, proprio come era stata istruita dall'infida cameriera. Un giorno, mentre lei stava parlando con la solita insistenza, il re l'interruppe dicendo: «Vedo molto bene che alla fin fine deve essere come hai deciso tu, sebbene sia assolutamente contrario ai
miei desideri; ma avverrà solo a una condizione». «Qual è la condizione?», chiese piena di gioia la principessa. «Poiché è per amor tuo», rispose il re, «che mi risposo, dovrai promettermi che se in un qualsiasi momento, in avvenire, tu non dovessi essere contenta della tua matrigna o delle tue sorellastre, non dovrò essere afflitto dalle tue lamentele e dalle tue lagnanze.» La principessa fece la promessa, e si stabilì quindi, che il re avrebbe sposato la cameriera e l'avrebbe dichiarata regina di tutto il regno. Con il passare del tempo, la figlia del re crebbe fino a diventare la ragazza più bella di tutto il paese, mentre le figlie della regina erano brutte sia nella persona che nell'indole, così che nessuno spendeva una buona parola in loro favore. Numerosissimi, quindi, erano i giovani principi e i cavalieri, che venivano da tutte le parti a chiedere la mano della giovane principessa, mentre nessuno pensava di chiedere in matrimonio una delle due figlie della regina. Per questo motivo la matrigna era terribilmente contrariata in cuor suo, sebbene riuscisse a nascondere i suoi sentimenti, mostrandosi all'esterno tenera e umile come sempre. Tra i corteggiatori c'era il figlio di un re di un paese distante, giovane e valoroso che amava appassionatamente la principessa, e anche lei era sensibile alla sua corte, e, in risposta, gli si promise. La regina guardava a tutto questo con occhio invidioso; poiché avrebbe voluto che il principe sposasse una delle sue figlie, decise che i due giovani non dovevano unirsi. Da quel momento i suoi pensieri si indirizzarono esclusivamente a come distruggere loro e il loro amore. Subito gli si presentò un'opportunità, in quanto in quel periodo si ebbe notizia che un nemico aveva invaso il paese, e il re fu costretto a scendere in campo. La principessa, in quest'occasione, ebbe subito modo di rendersi conto di che genere di matrigna aveva: il re non era ancora partito che la regina cominciò a mostrare la sua vera indole. Era adesso tanto crudele e maligna, quanto prima sembrava essere dolce e compiacente. Non passava giorno in cui la principessa non sentisse maledizioni e parole dure; né le figlie della regina erano inferiori alla madre in malvagità. Ma un destino ancora più crudele attendeva il giovane principe, il fidanzato della principessa. Mentre era impegnato in una battuta di caccia, smarrì la strada e si trovò separato dai suoi compagni. Approfittando dell'occasione, la regina esercitò su di lui le sue arti malvagie, e lo trasformò in un «Lupo Mannaro», in modo che, per il resto dei suoi giorni, fosse un predatore della foresta. Quando calò la sera, e il principe non ricomparve, i suoi uomini ritornarono a casa e si può facilmente immaginare da quale dolore fu presa la principessa quando venne informata come si era conclusa la caccia. Pianse
e versò lacrime giorno e notte, senza che le venisse dato alcun conforto. Anzi, la regina rideva del suo dolore, e, nel suo cuore malvagio, gioiva del fatto che tutto si fosse svolto conformemente ai suoi desideri. Mentre un giorno la principessa stava seduta nella sua camera, le venne l'idea di vedere la foresta in cui il giovane principe era scomparso. Andò, quindi, dalla matrigna e le chiese il permesso di recarvisi per cercare di dimenticare per un po' la sua grande afflizione. La regina le negò recisamente il consenso, poiché era sempre più propensa a dirle di no che ad accontentarla. Ma la principessa la supplicò così ardentemente che alla fine la matrigna non poté negarle più a lungo il permesso; solo ordinò che una delle sue figlie l'accompagnasse e la sorvegliasse. Ne nacque una lunga discussione fra la madre e le figlie, in quanto nessuna delle due voleva andare con la principessa dicendo che non ne avrebbero tratto nessun piacere dal momento che lei non faceva altro che piangere. La regina insistette che una delle sue figlie doveva andare con la principessa, anche se malvolentieri. Le ragazze allora lasciarono il palazzo e raggiunsero la foresta, dove la principessa prese piacere a vagare tra gli alberi e ad ascoltare il canto degli uccellini pensando all'amico che amava tanto e che ora aveva perduto. La figlia della regina la seguì per tutto il tempo, con il cuore pieno di rancore per la principessa e per il suo dolore. Dopo aver vagato per un po' di tempo giunsero a una piccola capanna lontana, nel buio della foresta. Proprio in quel momento la principessa fu presa da una sete bruciante e pregò la sorellastra di accompagnarla nella capanna, affinché potesse avere un sorso d'acqua. A questa richiesta la figlia della regina divenne ancor più di cattivo umore e disse: «Non basta che io ti segua su e giù per questa foresta selvaggia? Ora, solo perché sei una principessa, mi chiedi di entrare in quella lurida tana. No, i miei piedi non varcheranno quella soglia. Se vuoi andare, va' da sola». La principessa non ci pensò su due volte, ma fece come aveva detto la sorellastra ed entrò nella capanna. Nella piccola stanza vide una vecchia donna seduta su uno scanno, la quale sembrava così afflitta dagli anni che le tremava la testa. La principessa la salutò, come era nelle sue abitudini, con tono amichevole, dicendole: «Buona sera, buona donna! Posso chiederle un piccolo sorso d'acqua?». «Certo, sii la benvenuta», rispose la vecchia, «chi sei tu che vieni sotto il mio umile tetto con un saluto così gentile?» La principessa le disse che era la figlia del re e che era uscita per distrarsi, con la speranza di dimenticare, in una certa misura, la sua grave affli-
zione. «Qual è il dolore che ti tormenta?», chiese la vecchia. «Ho buone ragioni per soffrire», rispose la principessa, «e per non essere mai più felice. Ho perso il mio unico amore, e solo Dio sa se mai ci incontreremo.» Quindi raccontò alla vecchia tutto ciò che era successo, mentre le lacrime scorrevano a fiumi dai suoi occhi, così che nessuno si sarebbe potuto trattenere dal provare pietà per lei. Quando ebbe terminato, la vecchia disse: «Hai fatto bene a confidarmi il tuo dolore; ho avuto molte esperienze e forse posso darti qualche consiglio. Quando uscirai di qui vedrai un giglio che cresce nel campo. Questo giglio non è come gli altri, ma possiede molte qualità meravigliose. Affrettati, dunque, a coglierlo. Se puoi farlo, tutto andrà bene; dopodiché verrà qualcuno che ti dirà cosa dovrai fare». Quindi si separarono; la principessa, dopo averla ringraziata, riprese il cammino, e la vecchia rimase seduta sul suo scanno, scuotendo la testa. La figlia della regina era rimasta fuori della porta per tutto il tempo, lamentandosi e irritandosi perché la principessa indugiava tanto. Quando uscì fuori dovette sentire molti rimproveri dalla sorellastra, come era da aspettarsi: ma lei vi diede pochissima importanza, pensando solo come avrebbe potuto trovare il fiore di cui aveva parlato la vecchia. Si inoltrò ulteriormente nella foresta e, in quel preciso istante, il suo sguardo si posò su un punto, di fronte a lei, dove c'era un bellissimo giglio bianco in piena fioritura. Nel vederlo fu così felice, subito corse per coglierlo, ma all'improvviso il giglio svanì per ricomparire un po' più distante. La principessa era ora oltremodo impaziente e non badava più alla voce della sorellastra, ma continuava a correre, sebbene ogni volta che allungava la mano per cogliere il fiore esso fosse già svanito, e per ricomparire subito dopo più in là. Così continuò per un po' di tempo, e la principessa si addentrava sempre più nel fitto della foresta, mentre il giglio per tutto il tempo appariva e svaniva, per mostrarsi poi di nuovo, e ogni volta sempre più alto e più bello di prima. Così la principessa, alla fine, giunse ai piedi di un'alta montagna, dove, volgendo lo sguardo verso la vetta, scorse il fiore, proprio sulla sommità, brillante e radioso come la stella più luminosa. Cominciò allora a scalare la montagna, incurante sia degli arbusti che dei sassi che c'erano sul tragitto, tanto grande era il suo ardore. Quando alla fine ebbe raggiunto la cima della montagna, ecco che il giglio non si mosse più, ma rimase fermo. La principessa allora si chinò e lo colse, e se lo mise in seno, così piena di gioia che dimenticò la sorellastra e tutto il mondo
circostante. La principessa non riuscì a saziarsi della vista di quel bel fiore. All'improvviso le venne in mente cosa avrebbe detto la sua matrigna, quando sarebbe ritornata a casa, per essere stata fuori tanto a lungo. Si guardò intorno prima di tornare al palazzo, ma gettando uno sguardo dietro di sé, vide che il sole era tramontato, e che solo una striscia di giorno indugiava ancora sulla cima della montagna; mentre sotto di lei la foresta appariva così scura e tenebrosa che non sperava di trovare la via attraverso di essa. Ora si sentiva estremamente stanca ed esausta, e non vedeva nessuna alternativa se non quella di trascorrere la notte là dove si trovava. Sedendosi su una roccia, con le gote appoggiate sulle mani, piangeva e pensava alla sua malvagia matrigna e alle sorellastre, a tutte le cattive parole che avrebbe dovuto sentire ritornando a casa, al re suo padre, che era assente, e all'amato che non avrebbe mai più rivisto; ma, per quanto le lacrime le scorressero in abbondanza, lei non ci faceva caso, talmente era presa dal suo dolore. Era ormai calata la notte, tutto era avvolto dalle tenebre, spuntarono le stelle e restarono in cielo, ma la principessa continuava ancora a stare seduta nello stesso luogo, piangendo senza interruzione. Mentre era così seduta, persa nei suoi pensieri, udì una voce che la salutava: «Buona sera, bella fanciulla! Perché siedi qui da sola e triste?». Trasalì molto sorpresa, come si può facilmente immaginare, e, voltatasi vide un vecchietto piccolo piccolo, che chinava il capo in segno di saluto e sembrava sinceramente benevolo. Lei rispose: «Ho buone ragioni per essere triste, e non essere mai più felice. Ho perso il mio amato, e, inoltre, mi sono smarrita nella foresta, e ho paura di essere divorata dagli animali selvaggi». «Oh», disse il vecchio, «non ti abbattere per questo. Se mi obbedirai in tutto quello che ti dirò, io ti aiuterò.» La principessa subito acconsentì, vedendosi abbandonata da tutti. Il vecchio, quindi, tirò fuori una selce e un acciarino, e disse: «Bella fanciulla! Ora, in primo luogo, devi accendere un fuoco». La figlia del re fece come gli era stato chiesto, raccolse della torba, ramoscelli, e legna secca, e accese un fuoco sulla cima della montagna. Dopo che ebbe fatto ciò, il vecchio le disse: «Ora vai oltre sulla montagna e troverai una pentola piena di pece liquida: portala qui». E la principessa così fece. Il vecchio continuò: «Ora metti la pentola sul fuoco». La principessa obbedì. «Ora, quando la pece comincierà a bollire», disse il vecchio, «metti il giglio bianco nella pentola.» Questo sembrò alla principessa un ordine molto severo, e implorò con ardore affinché potesse conservare il
suo giglio, ma il vecchio disse: «Non mi hai promesso che mi avresti obbedito in tutto quello che ti avrei chiesto? Fa' come ti dico, e non te ne pentirai». La principessa allora, distogliendo gli occhi, gettò il giglio nella pentola che bolliva, sebbene ciò l'addolorasse profondamente, tanto le era caro quel bellissimo fiore. Nello stesso istante si udì un cupo lamento dalla foresta, come il grido di un animale selvaggio, che si faceva sempre più vicino, e si trasformò in un orrendo ululato, così che la montagna ne riecheggiò in tutte le direzioni. Nello stesso momento si udì un fruscio e uno scricchiolio tra gli alberi, i cespugli si aprirono, e la principessa vide un enorme lupo grigio che avanzava correndo fuori dalla foresta, proprio di fronte al punto dove erano seduti. Presa dal terrore, sarebbe volentieri fuggita, ma il vecchio disse: «Presto, corri sulla cima della montagna, e, quando il lupo si avvicinerà, svuota su di lui la pentola di pece». La principessa, sebbene così atterrita da essere a stento cosciente di quello che faceva, cionondimeno seguì l'indicazione del vecchio, e versò la pece addosso al lupo, proprio nel momento in cui venne correndo verso di lei. Ed ecco accadere un prodigioso evento: aveva appena fatto questo, quando il lupo cambiò: la grande pelle grigia gli si staccò dal corpo, e, in luogo di un animale vorace e selvaggio, apparve un giovane avvenente con gli occhi rivolti verso la cima della montagna. Quando la principessa si fu ripresa dalla paura e poté guardare verso di lui, colui che vide di fronte a sé altri non era che il suo amato, che era stato trasformato in un Lupo Mannaro! Ognuno può immaginare quali fossero le sensazioni della principessa in quel momento. Tese le braccia verso di lui, ma non riusciva né a parlare né a rispondere, tanto grande era la sua sorpresa e la sua gioia. Ma il principe corse su per la montagna e l'abbracciò con tutto l'ardore del più sincero amore, e la ringraziò per avergli restituito la sua forma. Né si dimenticò del piccolo vecchio, ma lo ringraziò con molte parole gentili per il suo efficace aiuto. Si sedettero, quindi, sulla cima della montagna e conversarono amabilmente tra di loro. Il principe raccontò come fosse stato tramutato in lupo, e tutte le privazioni che aveva dovuto sopportare mentre era costretto a vagare per la foresta; la principessa gli raccontò del suo dolore e di tutte le lacrime che aveva versato durante la sua assenza. Così rimasero seduti per tutta la notte, noncuranti delle ore che passavano, fino a quando le stelle cominciarono gradatamente a rititarsi dinanzi alla luce del giorno, e gli oggetti circostanti divennero visibili. Quando sorse il sole, videro un'ampia strada che andava dai piedi della collina quasi fino al palazzo reale. Allora
il vecchio disse: «Bella fanciulla, girati. Vedi qualcosa laggiù?». «Sì», rispose la principessa, «vedo un cavaliere su un cavallo madido di sudore; cavalca lungo la strada a tutta velocità.» «Quello», disse il vecchio, «è un messaggero del re, tuo padre. Egli seguirà immediatamente con tutto il suo esercito.» La principessa era ora felice oltre ogni limite, e desiderava subito scendere per incontrare suo padre; ma il vecchio la trattenne, dicendo: «Aspetta: è ancora troppo presto. Vediamo prima cosa accade». Dopo un po' di tempo, il sole splendeva radioso, e i suoi raggi battevano sul palazzo, giù, davanti a loro. Allora il vecchio disse: «Bella fanciulla, girati. Vedi qualcosa laggiù?». «Sì», rispose la principessa, «vedo molte persone uscire dal palazzo di mio padre, alcuni andare lungo la strada, mentre altri si affrettano verso la foresta.» Il vecchio disse: «Sono i servitori della tua matrigna. Ha inviato una parte a incontrare il re e a dargli il benvenuto, mentre l'altra si sta dirigendo verso la foresta alla tua ricerca». Quando sentì ciò, la principessa si preoccupò, e fu indotta, con difficoltà, a rimanere, perché desiderava andare giù dalla gente della regina; il vecchio la trattenne e disse: «Aspetta ancora un po'; vediamo prima come si svolgeranno le cose». Per un certo tempo, la principessa restò con lo sguardo rivolto verso la strada per la quale stava per arrivare il re. Allora il vecchio disse di nuovo: «Bella fanciulla, girati. Vedi qualcosa laggiù?». «Sì», rispose la principessa, «c'è un grande subbuglio nel palazzo di mio padre, e ora sono impegnati ad addobbare di nero l'intero palazzo.» Il vecchio disse: «È la tua matrigna con la servitù. Vogliono far credere a tuo padre che tu sei morta». A questa notizia la principessa fu presa dall'angoscia, e implorava con fervore: «Lasciami andare, lasciami andare, affinché io possa risparmiare a mio padre un così grande dolore». Ma il vecchio la trattenne, dicendo: «No, aspetta. È ancora troppo presto. Vediamo prima come si svolgeranno le cose». Passò ancora un po' di tempo, il sole si stagliava alto nel cielo, e l'aria spirava calda sui campi e sulla foresta; ma la regale fanciulla e il piccolo vecchio restavano seduti sulla montagna dove li abbiamo lasciati. Osservavano ora una piccola nube che si sollevava lentamente all'orizzonte, che diventava sempre più grande e si avvicinava sempre più lungo la strada; e, come si mosse, videro che scintillava di armi, e scorsero elmi che si muovevano e vessilli che ondeggiavano, udirono il rumore metallico delle spade e il nitrito dei cavalli, e, alla fine, riconobbero le insegne reali. Ora, è facile immaginare che la gioia della principessa esplodesse, e che lei desi-
derasse soltanto andare a salutare suo padre. Ma il vecchio la trattenne, dicendo: «Girati, bella fanciulla. Vedi qualcosa nel palazzo del re?». «Sì», rispose la principessa, «vedo la mia matrigna e le mie sorellastre venire fuori vestite a lutto, tenendo bianchi fazzoletti sul volto e piangendo amaramente.» Il vecchio rispose: «Fingono di addolorarsi per la tua morte; ma aspetta un momento, dobbiamo ancora vedere come si svolgeranno le cose». Poco dopo, il vecchio chiese di nuovo: «Bella fanciulla, girati. Vedi qualcosa laggiù?». «Sì», rispose la principessa, «li vedo venire portando una bara nera. Ora mio padre ordina che sia aperta. Ed ecco, la regina e le sue figlie cadono in ginocchio, e mio padre le minaccia con la spada.» Il vecchio disse: «Il re desiderava vedere il tuo cadavere, e così la tua malvagia matrigna è stata costretta a confessare la verità». Nell'udire ciò, la principessa supplicò ardentemente: «Lasciami andare, lasciami andare, che io possa consolare mio padre per il suo grande dolore». Ma il vecchio la trattenne ancora dicendo: «Segui il mio consiglio, e resta qui ancora un po'. Non abbiamo ancora visto come andrà a finire il tutto». Trascorse ancora un altro po' di tempo, e la principessa, il principe e il vecchio, restavano ancora seduti sulla montagna. Quindi, il vecchio disse: «Girati, bella fanciulla. Vedi qualcosa laggiù?». «Sì», rispose la principessa, «vedo mio padre, la mia matrigna e le mie sorellastre, venire da questa parte con tutti i loro servitori.» Il vecchio continuò: «Ora sono partiti alla tua ricerca. Scendi ora, e porta la pelle di lupo che sta di sotto». La figlia del re obbedì, e il vecchio disse: «Mettiti sul margine della montagna». E lei così fece, e, nello stesso momento, vide la regina e le sue figlie venire lungo la strada proprio sotto la montagna dove stavano seduti. «Ora», disse il vecchio, «getta la pelle di lupo dritto giù.» La principessa obbedì e gettò la pelle di lupo come aveva ordinato il vecchio. Essa cadde esattamente sulla malvagia regina e sulle sue due figlie. Ed ecco che accadde un evento prodigioso: la pelle non aveva ancora toccato le tre donne che quelle cambiarono il loro aspetto, emisero un orrendo ululato, e furono trasformate in tre feroci Lupi Mannari, che a tutta velocità si precipitarono nella foresta selvaggia. Questo era successo subito prima che il re in persona con tutti i suoi uomini giungesse ai piedi della montagna. Quando guardò in alto e vide la principessa, in un primo momento non riusciva a credere ai propri occhi, e rimase immobile, pensando che fosse uno spettro. Il vecchio allora gridò: «Bella fanciulla, affrettati a scendere giù e rallegra il cuore di tuo padre».
La principessa non aspettò che glielo dicesse una seconda volta, ma, prendendo il suo amato per la mano, fu in un istante ai piedi della montagna. Quando raggiunsero il punto in cui stava il re, la principessa si precipitò tra le braccia del padre e pianse di gioia; anche il giovane principe scoppiò a piangere, lo stesso re versò lacrime, e per tutti quelli presenti al loro incontro fu uno spettacolo delizioso. Ci fu una grande gioia e si scambiarono abbracci, la principessa raccontò tutto quello che aveva sofferto da parte della sua matrigna e delle sue sorellastre, tutto circa il suo amato principe, e il piccolo vecchio che li aveva così gentilmente aiutati. Ma quando il re si voltò per ringraziarlo il vecchio era già scomparso, e nessuno seppe dire chi fosse o dove fosse andato. Il re e tutto il suo seguito ritornarono al palazzo, e sulla strada del ritorno, si parlò molto del piccolo vecchio e di quello che la principessa aveva subito. Giunti a casa, il re ordinò che fosse preparato un sontuoso banchetto, a cui invitò tutte le persone più distinte ed elevate in grado del suo regno; concesse sua figlia al giovane principe, e le loro nozze furono celebrate con giochi e festeggiamenti per molti giorni. Anch'io ero ai festeggiamenti, e, cavalcando attraverso la foresta, mi imbattei in un lupo con due giovani cuccioli; essi erano affamati e sembravano soffrire molto. Ho appreso che non erano altri che la malvagia matrigna e le sue due figlie. APPENDICE III Artù e Gorlagon [«Arthur and Gorlagon», in Folklore, London, vol. XV, 1904, pp. 40-60. Una testimonianza relativa al Werewolf nella tradizione anglosassone si trova in questo componimento, giunto a noi da un manoscritto latino del XIV secolo, ma risalente a un ben più antico originale gallese. L'episodio del Lupo Mannaro si inserisce in una vicenda più complessa, della quale si riportano qui soltanto le parti che ci interessano (N.d.C).] C'era un re, a me ben noto, nobile, compito, e famoso per il suo senso di giustizia e la sua sincerità. Egli si era fatto uno splendido giardino che non aveva eguali, e vi aveva fatto piantare e seminare tutte le specie di piante di alberi da frutta, ed essenze di vario genere. Tra i vari arbusti che crescevano nel giardino, c'era un meraviglioso alberello sottile della stessa altezza del re, che era germogliato e aveva incominciato a crescere nella stessa
notte e nella stessa ora in cui lui era era nato. Ora per quanto riguarda quest'alberello, era stato stabilito dal fato che chiunque lo avesse tagliato e, strofinandolo sulla testa con la parte più sottile, avesse detto: «Sii un lupo e abbi l'intelletto di un lupo», esso sarebbe diventato improvvisamente un lupo, e avrebbe avuto l'intelletto di un lupo. Per questo motivo, il re custodiva l'alberello con grande cura e con grande diligenza, poiché non aveva dubbi che da esso dipendeva la propria sicurezza. Perciò, circondò il giardino con un solido e ripido muro, e permetteva solo al guardiano, che era uh suo amico fidato, di accedervi; ed era sua abitudine visitare quell'alberello tre o quattro volte al giorno, e di non prendere cibo finché non lo avesse fatto, anche se avesse dovuto digiunare fino a sera. E lui solo capiva completamente questa faccenda. Ora, questo re aveva una bellissima moglie, ma sebbene fosse così bella a vedersi, non si dimostrò fedele, e la sua bellezza fu la causa della sua rovina. Infatti, lei era innamorata di un giovane, figlio di un re pagano, e preferendo il suo amore a quello del suo signore, si dava gran pena per coinvolgere il marito in qualche pericolo, così che il giovane potesse legalmente godere degli amplessi che desiderava ardentemente. Avendo notato che il re entrava molte volte al giorno nel giardino, e desiderando conoscerne la ragione, spesso si era proposta di fargli delle domande al riguardo, ma non aveva mai osato. Ma finalmente un giorno che il re era ritornato dalla caccia più tardi del solito, e secondo la sua abitudine era entrato nel giardino da solo, la regina, ansiosa di sapere, e incapace di tollerare che la cosa le fosse ancora nascosta (poiché è costume delle donne voler sapere tutto), quando il marito fu ritornato e si fu seduto a tavola, gli chiese con un sorriso traditore perché andasse nel giardino così spesso, e perché vi fosse stato anche quella sera tardi e prima di mangiare. Il re le rispose che era una cosa che non la riguardava, e che non aveva nessun obbligo di rivelarglielo; per cui essa diventò furiosa e, sospettando ingiustamente che lui fosse solito congiungersi con un'amante nel giardino, gridò: «Chiamo a testimone tutti gli dèi del cielo che non mangerò più con te da questo momento, finché non mi avrai rivelato il motivo». E, alzatosi improvvisamente da tavola, si ritirò nella sua camera da letto, fingendo abilmente di essere malata, e rimase a letto per tre giorni senza toccare cibo. Al terzo giorno, il re, vedendo la sua ostinazione e temendo che la sua vita potesse essere messa in pericolo per questo motivo, incominciò a pregarla e a esortarla, con parole gentili, di alzarsi a mangiare, dicendole che la cosa che desiderava conoscere era un segreto che non avrebbe mai osato
svelare a nessuno. A questo lei replicò: «Non dovresti avere segreti per tua moglie, e dovresti sapere per certo che preferirei morire piuttosto che vivere sapendo che sono amata così poco da te». Il re non riuscì con alcun mezzo a persuaderla a rifocillarsi. Allora, essendo di carattere troppo mutevole e irresoluto e troppo legato da affetto a sua moglie, le rivelò come stava la cosa, dopo averle fatto giurare che non avrebbe mai tradito il segreto con alcuno, e che avrebbe considerato l'alberello sacro quanto la sua vita. La regina, avendo ottenuto da lui quello che aveva così ardentemente desiderato e bramato, cominciò a protestare la sua grande devozione e il suo amore, sebbene avesse già concepito nella sua mente un espediente con cui poter attuare il crimine che aveva meditato da tanto tempo. Così, il giorno dopo, mentre il re era andato a caccia nella foresta, afferrò un'ascia, e entrata di nascosto nel giardino, abbatté l'alberello e se lo portò via. Quando vide ritornare il re, nascondendo l'alberello nella manica, che scendeva lunga e ampia, gli andò incontro sulla soglia e, gettandogli le braccia al collo, lo abbracciò come se avesse voluto baciarlo; ma all'improvviso tirò fuori l'alberello dalla manica e lo colpì sulla testa con questo più volte, gridando: «Sii un lupo, sii un lupo», e voleva aggiungere «e abbi l'intelletto di un lupo», ma disse invece: «abbi l'intelletto di un uomo». Immediatamente quanto aveva detto si realizzò: il re fuggì veloce nella foresta inseguito dai cani che lei gli aveva sguinzagliato dietro, ma il suo intelletto umano rimase inalterato. [...] La regina, messo in fuga il suo legittimo sposo, subito mandò a chiamare il giovane di cui ho parlato, e avendo affidato nelle sue mani le redini del governo, divenne sua moglie. Nel frattempo il lupo, dopo aver vagato per due anni nei recessi della foresta in cui si era rifugiato, si unì con una lupa selvaggia, da cui ebbe due cuccioli. Ricordando il torto subito dalla moglie (poiché era ancora in possesso del suo intelletto umano), pensava ansiosamente come avrebbe potuto vendicarsi di lei. Ora, presso quella foresta c'era un castello dove la regina era solita recarsi spesso a soggiornare con il re. Così, questo uomo-lupo colse l'occasione e, una sera, prese con sé la lupa con i cuccioli e irruppe inaspettatamente nella città, e avendo trovato i due bambini che sua moglie aveva generato con quel giovane, che giocavano, per caso, sotto la torre senza nessuno che li custodisse, li attaccò e li uccise, dilaniandoli crudelmente membro a membro. Quando gli astanti si resero conto, troppo tardi, di ciò che era successo, si diedero a inseguire i lupi gridando, ma questi quando si videro scoperti,
fuggirono rapidamente e si misero in salvo. La regina, comunque, sopraffatta dal dolore per quella sventura, diede ordine ai suoi servi di far buona guardia contro il ritorno dei lupi. Non era trascorso molto tempo che il lupo, non ritenendosi ancora soddisfatto, visitò di nuovo la città con i suoi compagni e, imbattendosi in due nobili conti, fratelli della regina, che giocavano presso le porte del palazzo, li attaccò e, strappategli le budella, diede loro una orribile morte. Sentendo le urla, i servi accorsero e, chiuse le porte, catturarono i due lupacchiotti e li impiccarono. Ma il lupo, più astuto degli altri, sfuggì alle grinfie di coloro che cercavano di trattenerlo e se ne andò illeso. [...] Sopraffatto dal dolore per la perdita dei suoi lupacchiotti e impazzito per l'immensa sofferenza, faceva incursioni notturne contro le greggi e le mandrie di quel paese, e le attaccava compiendo tali stragi che tutti gli abitanti, riunita una grande muta di cani, si riunirono e stettero in agguato per dargli la caccia e catturarlo. Il lupo, non potendo resistere a queste vessazioni quotidiane, si trasferì in una regione vicina e lì riprese le sue usuali stragi. Comunque, fu subito scacciato da quel luogo dagli abitanti, e fu costretto ad andare in un'altra regione: e qui cominciò a sfogare la propria rabbia con furia implacabile, non solo contro le bestie ma anche contro gli esseri umani. Ora accadde che in quella regione regnasse un giovane re, di carattere mite e famoso per la sua saggezza e per la sua clemenza, e quando gli furono riferite le innumerevoli stragi di uomini e bestie compiute dal lupo, fissò un giorno per andare a scovare e cacciare la fiera con una grande schiera di cacciatori e di cani. Tanto grande era la paura che incuteva il lupo, che nessuno nei dintorni osava andare a dormire, ma tutti facevano la guardia per tutta la notte contro le sue incursioni. Così, una notte in cui il lupo era andato in un villaggio vicino, assetato di sangue, e stava sotto la gronda di una casa ascoltando attentamente una conversazione che stavano facendo, gli capitò di sentire l'uomo che era più vicino a lui dire come il re avesse deciso di scovarlo il giorno dopo e di catturarlo, e aggiungere molte parole sulla clemenza e la generosità del re. Quando il lupo ebbe udito ciò, ritornò tremante nei recessi della foresta, meditando su quale sarebbe stata per lui la cosa migliore da fare. All'alba i cacciatori e il seguito del re, con una enorme muta di cani, si addentrarono nella foresta, facendo risuonare l'aria del suono dei corni e delle loro grida; e il re, accompagnato da due dei suoi amici più fidati, seguiva a passo più moderato. Il lupo si nascose nei pressi della strada dove sarebbe passato il re, e, quando tutti erano passati e vide il re che si avvicinava (poiché dal
suo contegno capì che era il re), abbassò la testa e gli si accostò da dietro; afferrando il piede destro del re con le zampe, cominciò a leccarlo affettuosamente come un supplice che chiede perdono, con tutti i mugolii di cui era capace. I due nobili che proteggevano la persona del re, vedendo questo lupo enorme (non ne avevano mai visto uno così grande) gridarono: «Signore, ecco il lupo che cerchiamo! Ecco il lupo che cerchiamo! Colpiscilo, uccidilo, non lasciare che questa bestia odiosa ci attacchi!». Il lupo, per niente intimorito dalle loro grida, seguiva dappresso il re e lo leccava dolcemente. Il re rimase enormemente commosso e, osservando il lupo per un po' di tempo e vedendo che non c'era ferocia in lui, ma sembrava piuttosto uno che implorava perdono, ne rimase stupito; ordinò che nessuno dei suoi uomini osasse fargli del male affermando di aver notato dei segni di intelligenza umana nell'animale. Così, abbassando la mano destra per accarezzare il lupo, gli dette dolcemente dei colpetti sulla testa e gli grattò le orecchie. Quindi lo afferrò e cercò di tirarlo su, ma il lupo, comprendendo che il re aveva intenzione di farlo salire sul cavallo, diede un balzo, e si accucciò felicemente sul collo del destriero davanti al re. Il re richiamò i suoi seguaci e ritornò a casa. Non era andato molto lontano quand'ecco un cervo di grandi proporzioni farglisi incontro nel pascolo della foresta con le corna ramificate alzate. Allora il re disse: «Voglio vedere se il mio lupo possiede valore e forza, e se può abituarsi a obbedire ai miei ordini». E, gridando, aizzò il lupo contro il cervo e lo spinse con un cenno della mano. Il lupo, ben sapendo come catturare questo genere di preda, spiccò un balzo e inseguì l'animale, e giuntogli di fronte, lo attaccò, lo afferrò per la gola e lo fece cadere morto davanti agli occhi del re. Allora il re lo chiamò e disse: «In verità, bisogna lasciarti vivo e non ucciderti, dal momento che sai come renderci tali servizi». E preso con sé il lupo, ritornò a casa. [...] Così il lupo rimase con il re, e questi gli voleva molto bene. Qualunque cosa il re ordinasse, lui la eseguiva, e non mostrò mai alcun segno di ferocia né fece del male ad alcuno. Ogni giorno, all'ora di pranzo, stava a tavola dinanzi al re, con le zampe anteriori ritte, mangiando il suo pane e bevendo dalla sua stessa coppa. Ovunque il re andasse, lo accompagnava, e anche di notte non andava a dormire da nessun'altra parte se non al fianco del letto del suo padrone. Ora avvenne che il re doveva compiere un lungo viaggio, fuori dal suo regno, per incontrare un altro re, e doveva partire subito, ed era impossibile che potesse ritornare prima di dieci giorni. Così chiamò la regina e le dis-
se: «Poiché devo partire subito per questo viaggio, affido questo lupo alla tua protezione, abbine cura in mia assenza, e provvedi alle sue necessità». Ma la regina già odiava il lupo per la sagacia che aveva notato in lui (e anche perché spesso accade che la moglie odi quello che il marito ama), e disse: «Mio signore, temo che quando tu sarai partito, lui mi attaccherà durante la notte se starà al suo solito posto, e mi dilanierà». Il re rispose: «Non aver timore di questo, poiché non ho notato alcun sintomo di ciò in tutto il tempo che è stato con me. Comunque, se nutri qualche dubbio, farò fare una catena e lo farò legare alla scaletta del mio letto». Così il re ordinò di fabbricare una catena d'oro, e quando il lupo fu legato alla scala, si affrettò a partire per la faccenda che lo attendeva. [...] Il re partì e il lupo rimase con la regina. Ma lei non dimostrò la cura che ne avrebbe dovuto avere. Infatti stava sempre legato, sebbene il re avesse ordinato di tenerlo alla catena solo di notte. Ora, la regina amava di illecito amore il valletto del re, e andava a fargli visita ogni volta che il re era assente. Così, dopo otto giorni che il re era partito, si incontrarono nella camera da letto a mezzogiorno e si infilarono nel letto insieme, noncuranti della presenza del lupo. Quando il lupo li vide lanciarsi l'uno negli empi abbracci dell'altro, arse di rabbia, con gli occhi fiammeggianti e con i peli del collo irti, e cominciò a cercare di scagliarsi su di loro; ma era trattenuto dalla catena con cui era legato. Ma quando vide che non avevano intenzione di desistere dall'inquinità che stavano commettendo, digrignò i denti e si diede a scavare il suolo con le zampe, e dando sfogo alla sua rabbia, con terribili ululati tese la catena con una tale violenza che si spezzò in due. Liberatosi, si avventò furiosamente sul valletto, lo scaraventò giù dal letto, e lo azzannò così violentemente da lasciarlo mezzo morto. Alla regina non fece alcun male, ma la fissò solo con i suoi occhi carichi di veleno. Udendo i gemiti di morte del valletto, i servitori scardinarono la porta e irruppero nella stanza. Quando le chiesero la causa di tutto quel tumulto, l'astuta regina inventò una storia menzognera, dicendo ai servi che il lupo aveva divorato suo figlio e che aveva ridotto il valletto in quelle condizioni mentre questi cercava di sottrarre il fanciullo alla morte, e che avrebbe fatto lo stesso con lei, se non fossero arrivati in tempo per soccorrerla. Così il valletto fu portato, più morto che vivo, nella camera degli ospiti. La regina, temendo che il re potesse in qualche modo scoprire la verità di tutta la faccenda, e pensando a come vendicarsi del lupo, fece rinchiudere
il bambino, che aveva detto essere stato divorato dal lupo, insieme alla nutrice, in una stanza sotterranea e ben lontana da qualsiasi accesso; così tutti furono convinti che fosse stato realmente divorato. [...] Dopo questi eventi, giunse notizia alla regina che il re stava ritornando prima del previsto. Allora l'ingannatrice, piena di astuzia, gli andò incontro con i capelli tagliati corti, con le guance graffiate e i vestiti macchiati di sangue, e nel vederlo gridò: «Ahimè! Ahimè! Mio signore, oh me infelice! Quale perdita ho sofferto durante la tua assenza!». A questa vista, il re rimase stupito e chiese cosa fosse mai accaduto; e quella rispose: «Quella tua maledetta bestia, dico tua, di cui io avevo sempre sospettato in tutto questo tempo, ha divorato tuo figlio tra le mie braccia; e quando il tuo valletto ha cercato di sottrarlo alla morte, la bestia lo ha azzannato e lo ha quasi ucciso, e avrebbe fatto lo stesso con me se non fossero sopraggiunti i servi: guarda, il sangue del piccolo schizzato sui miei vestiti è la prova di quanto è accaduto». Aveva appena finito di parlare, quand'ecco il lupo, udito l'avvicinarsi del re, balzò fuori dalla camera da letto e si gettò tra le braccia del re come se ne fosse ben degno, saltellando intorno gaiamente, e facendo moine più gioiosamente di quanto non avesse mai fatto prima. Il re, diviso da sentimenti contrastanti, non sapeva cosa fare, da un lato pensava che sua moglie non poteva aver mentito, dall'altro pensava che se il lupo fosse stato colpevole di un così grande delitto nei suoi confronti, certo non avrebbe osato andargli incontro con tali balzi di gioia. Mentre la sua mente era incerta su questi avvenimenti, e rifiutava di prendere cibo, il lupo, sdraiato vicino a lui, gli toccò dolcemente il piede con la zampa, gli afferrò con la bocca il bordo del mantello, e con un movimento della testa lo invitò a seguirlo. Il re, che capiva i segnali abituali del lupo, si alzò e lo seguì per varie stanze fino alla camera sotterranea dove era nascosto il fanciullo. Trovando la porta sprangata, il lupo batté tre o quattro volte con le zampe, come per chiedere che gli venisse aperto. Ma poiché ci fu un certo ritardo per cercare la chiave - infatti la regina l'aveva nascosta -, il lupo, incapace di attendere oltre, si tirò un po' indietro e, sfoderando gli artigli dalle quattro zampe, si scagliò a capofitto contro la porta, e colpendola, la scaraventò in mezzo alla stanza, spezzata e scardinata. Poi, balzando in avanti, prese il bambino dalla culla con le sue ispide zampe e lo alzò verso il viso del re per farglielo baciare. Il re si meravigliò e disse: «C'è qualcosa in questo che non riesco a comprendere». Quindi, uscì dietro al lupo, che gli faceva strada, e lo condusse
presso il valletto morente; e quando il lupo lo scorse, il re riuscì a stento a impedirgli di aggredirlo. Il re, quindi, sedendosi di fronte al letto del valletto, gli chiese il motivo di questa sua malattia, e l'incidente che gli aveva provocato queste ferite. L'unica cosa che riuscì a fargli confessare, fu che nel tentativo di salvare il bambino, il lupo lo aveva aggredito; e chiamò la regina a testimone della verità di quanto diceva. Il re in risposta disse: «Tu stai certamente mentendo: mio figlio è vivo, non è affatto morto, e ora che l'ho trovato e ho scoperto sia te che la regina colpevoli di tradimento nei miei confronti, e di aver costruito menzogne, temo che possa esservi ancora qualche altro inganno. Ho capito il motivo per cui il lupo, incapace di tollerare la disgrazia del suo padrone, ti ha così brutalmente attaccato, in maniera contraria alla sua indole. Confessami, quindi, tutta la verità, altrimenti, giuro di fronte alla maestà del sommo cielo, che ti consegnerò alle fiamme per farti bruciare». Allora il lupo gli si gettò contro e lo schiacciò, e lo avrebbe azzannato di nuovo se non fosse stato trattenuto dai presenti. Che c'è ancora da dire? Poiché il re insisteva, ora con minacce ora con lusinghe, il valletto confessò il crimine di cui si era reso colpevole e lo pregò umilmente di perdonarlo. Ma il re, preso da un eccesso di collera, ordinò che il valletto fosse condotto in prigione, e immediatamente ordinò che si riunissero i principali uomini di tutto il suo regno, e con loro indagò sulle circostanze di quel grande crimine. Fu emessa la sentenza: il valletto fu scorticato vivo e impiccato. La regina fu squartata dai cavalli e gettata tra le fiamme. [...] Dopo questi eventi il re meditò a lungo e con grande attenzione sulla straordinaria sagacia e diligenza del lupo, e parlò della cosa più approfonditamente con i suoi consiglieri, asserendo che un essere dotato palesemente di una così grande intelligenza doveva avere l'intelletto di un uomo: «Poiché nessuna bestia», sostenne, «è mai stata in possesso di tanta intelligenza, o ha dimostrato tanta devozione a qualcuno, come questo lupo ha mostrato verso di me. Infatti, egli capisce perfettamente qualsiasi cosa gli diciamo, fa tutto ciò che gli viene ordinato, sta sempre vicino a me, ovunque io sia: si rallegra quando sono lieto e, quando sono triste, si addolora anche lui. E dovete sapere che uno che ha vendicato con tanta severità il torto che mi è stato fatto, deve essere stato, certamente, un uomo di grande sagacia e talento, e deve aver assunto la forma di lupo per qualche magia o per qualche incantesimo». A queste parole il lupo, che stava presso il re, mostrò grande gioia, e leccandogli le mani e i piedi, e strofinandosi sulle sue ginocchia, rivelava dall'espressione del suo atteggiamento e con i gesti di tut-
to il suo corpo che il re aveva detto la verità. Allora il re disse: «Guardate con quanta gioia ha accolto quanto ho detto, e mostra con segni inequivocabili che ho detto la verità. Non vi può essere più alcun dubbio riguardo a questa faccenda: ah, se mi fosse concesso di scoprire se con qualche atto o espediente fosse possibile restituirlo alla sua condizione di un tempo, darei i miei beni terreni; anzi darei anche la mia vita». Così, dopo una lunga riflessione, il re alla fine decise che il lupo doveva guidarlo e prendere qualsiasi direzione volesse per terra o per mare. «Forse», disse, «se riuscissimo a raggiungere il suo paese, potremmo scoprire cosa è successo e trovare qualche rimedio.» Così il lupo fu lasciato libero di andare dove voleva, ed essi lo seguivano da presso. Subito si diresse verso il mare, e si gettò impetuosamente nelle onde come se volesse attraversarlo. Ora, il suo paese era contiguo a quella regione, ma ne era, comunque, separato da un lato dal mare, mentre era accessibile per terra da un'altra direzione, ma con un tragitto più lungo. Il re, vedendo che voleva attraversare il mare, diede subito l'ordine che si mettessero in acqua le imbarcazioni e che l'esercito si riunisse. [...] Il re, armata la sua nave, e armato debitamente il suo esercito, intraprese la navigazione con un grande schieramento di soldati, e il terzo giorno approdò sano e salvo nel paese del lupo; quando raggiunsero la riva, il lupo fu il primo a saltare giù dalla nave, e faceva loro chiaramente capire, con il suo solito gesto del capo e con altri segni, che questo era il suo paese. Allora il re, prendendo con sé alcuni uomini, si affrettò in segreto verso una città vicina, ordinando al suo esercito di restare a bordo della nave fino a quando non avesse indagato la faccenda e non fosse ritornato. Comunque, era appena entrato nella città che tutto il corso degli eventi gli divenne chiaro. Infatti, tutti gli uomini di quella provincia, di alta e di bassa condizione, gemevano sotto l'intollerabile tirannia del re che era succeduto al lupo, e tutti rimpiagevano il loro signore, che con l'astuzia e l'inganno di sua moglie era stato trasformato in lupo, ricordando quale nobile e gentile signore fosse stato. Avendo scoperto ciò che voleva sapere, e avendo accertato dove viveva allora il re di quella provincia, il re ritornò in gran fretta alla sua nave, ne fece scendere le truppe, e, attaccando il suo avversario all'improvviso e inaspettatamente, uccise o volse in fuga tutti i suoi seguaci, e fece prigionieri sia lui che la regina, riducendoli in suo potere. [...] Il re, facendo assegnamento sulla vittoria, riunì un consiglio degli uomini più importanti del regno, e mostrando la regina alla vista di tutti
disse: «O donna perfida e malvagia, quale follia ti ha indotta a tramare un così grande tradimento contro il suo signore! Ma io non voglio scambiare più a lungo parole con chi è stata giudicata indegna di avere rapporti con chiunque: rispondi solo alla domanda che ti faccio; ti farò morire di fame e di sete e tra raffinate torture, se non mi mostrerai dove è nascosto l'alberello con cui hai trasformato tuo marito in lupo. Forse, potrà riacquistare la forma umana che ha perduto». Lei giurò di non sapere dove fosse l'alberello, dicendo che tutti sapevano che era stato spezzato e gettato nel fuoco. Allora, poiché non voleva confessare, il re la affidò ai torturatori, affinché fosse quotidianamente torturata e sfinita con le punizioni, non concedendole né cibo né bevande. Così, alla fine, costretta dalla durezza delle punizioni, consegnò l'alberello al re. Il re lo prese dalla sue mani e, col cuore pieno di gioia portò il lupo al centro della stanza e, strofinandogli la testa con la parte più robusta dell'alberello, pronunciò queste parole: «Sii un uomo e abbi l'intelletto di un uomo». Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole, che subito seguì l'effetto sperato. Il lupo divenne un uomo, come era stato prima, sebbene molto più bello e avvenente, dotato ora di tale grazia da poter capire subito che era una persona di grande nobiltà. Il re vedendo il lupo che stava di fronte a lui trasformarsi in un uomo di tanta bellezza, e provando pietà per i torti che l'uomo aveva subito, gli si fece incontro con grande gioia e lo abbracciò, baciandolo, compiangendolo e versando lacrime. E mentre si abbracciavano l'un l'altro emisero così lunghi sospiri e versarono tante lacrime, che tutte le persone che stavano intorno furono spinte al pianto. L'uno ringraziava per tutta la gentilezza che gli era stata mostrata, l'altro si rimproverava di essersi comportato con minore considerazione di quanto avrebbe dovuto. Cosa aggiungere? Tutti mostravano una grande gioia, e il re, ricevuto l'atto di sottomissione dei notabili, secondo l'antica usanza, rientrò in possesso della sua sovranità. Infine i due adulteri furono condotti alla sua presenza, e gli fu chiesto che cosa pensava si dovesse fare di loro. Egli condannò il re pagano a morte. Quanto alla regina, la ripudiò soltanto, e per la sua innata clemenza le risparmiò la vita. L'altro re, ricevuti gli onori e carico di preziosi doni, come era conveniente, ritornò nel suo regno. Qui termina la storia del Lupo Mannaro, che doveva servire a chiarire i dubbi cui Artù cercava una risposta, ed è per bocca dello stesso Gorlagon che viene a conoscenza di un'altra verità sconvolgente: il Lupo Mannaro del racconto altri non era che lo stesso re che gli aveva raccontato la storia. «Se la cosa fosse nota solo a me, o Artù, non te la racconterei per nessu-
na ragione, ma poiché essa è nota a tutti coloro che siedono con me a tavola, non provo alcuna vergogna che anche tu ne venga a conoscenza. Quella donna che sta seduta di fronte a me, è colei che, come ti ho appena raccontato, ha commesso un così grande delitto contro il suo signore, cioè contro me stesso. In me puoi riconoscere quel lupo che, come hai sentito, fu dapprima trasformato da uomo in lupo, e poi di nuovo da lupo in uomo. Quando divenni un lupo è evidente che il regno in cui per prima cosa mi diressi fu quello del mio secondo fratello, Gorleil. E il re che si prese tanta pena per me non puoi aver dubbi che fosse mio fratello più giovane, re Gargol, da cui sei andato per primo. La testa insanguinata che quella donna seduta di fronte a me abbraccia nel piatto che ha di fronte a sé è quella del giovane per amore del quale lei si è macchiata di un così grande crimine contro di me. Infatti appena riassunsi le mie sembianze originarie, nel risparmiarle la vita, la sottoposi a quest'unica pena; doveva avere sempre la testa del suo amante davanti a sé, e ogniqualvolta bacio la donna che ho preso in moglie al suo posto, deve imprimere dei baci su colui per il quale ha commesso quel crimine. Ho fatto imbalsamare la testa per evitare che si putrefacesse. Sapevo che non c'era punizione peggiore per lei di una perpetua esibizione di fronte a tutti della sua grande malvagità.» [...] Artù scese da cavallo e mangiò, e il giorno seguente ritornò in patria dopo un viaggio di nove giorni, profondamente meravigliato di quanto aveva sentito. APPENDICE IV Dal Dictionnaire Infernal di Jacques Collin de Plancy [Jacques Albin Simon Collin, detto de Plancy dal suo luogo di nascita (1794-1881), fu uno dei grandi eruditi della Francia del primo Ottocento, nutriti di spirito volterriano e animati dall'ansia di spazzar via la superstizione dal mondo. Poligrafo straordinariamente fecondo, pubblicò repertori sulla civiltà feudale, sulle tradizioni popolari, nonché di agiografia, demonologia, occultismo. La sua opera più celebre è il Dictionnaire Infernal: amplissima silloge, in un migliaio di fitte pagine, di documenti, biografie, informazioni riguardanti il mondo della Magia, la Stregoneria, l'Occulto, le superstizioni e così via. Pubblicato per la prima volta nel 1818, il Dictionnaire ebbe varie edizioni con diversi ampliamenti e profonde modifiche, derivanti dall'evoluzione spirituale del de
Plancy, che dopo esser partito da posizioni radicalmente anticlericali, che attribuivano alla Chiesa Cattolica la responsabilità principale della sopravvivenza delle credenze superstiziose, nel 1834 si convertì, rinnegò le opere precedenti, divenne collaboratore del Migne (l'editore delle celebri Patrologie Latina e Greca, 217 volumi la prima, 162 la seconda), e si diede a scrivere opere di pietà e devozione. In questo senso, rielaborò i materiali inseriti nel Dictionnaire Infernal, rivedendo l'immagine della Chiesa, e attribuendole il ruolo di propagatrice della verità: tanto che la sesta e definitiva edizione dell'opera, del 1863, reca l'Approvazione del Vescovo di Arras. Non ne tradì, tuttavia, l'impostazione fondamentale, ovvero la dimostrazione delle radici superstiziose del «pensiero occulto» antico e moderno. Il Dictionnaire Infernal è un'opera di capitale importanza per l'ampiezza incredibile delle fonti esaminate, lo scrupolo delle citazioni e dei riferimenti bibliografici, la vastità della trattazione. Gli argomenti principali vengono esaminati con voci apposite che sono di fatto sintetiche ma esaurienti monografie. In queste pagine, riproduciamo quella attinente ai Lupi Mannari, con l'aggiunta di una serie di voci singole relative alla licantropia.] 1. La licantropia Vengono chiamati «Lupi Mannari», nei testi di Stregoneria, quegli uomini e quelle donne che sono stati trasformati, o si trasformano, in lupi; ovvero quelli che si travestono per fingere tale trasformazione, e talvolta credono - per un'abominevole forma di follia - d'essersi effettivamente cangiati in lupi, e di tali belve prendono le abitudini e i costumi. L'espressione francese Loupsgarous vuol dire loups dont il faut se garer: lupi dai quali ci si deve guardare. I Lupi Mannari sono stati per lungo tempo il terrore delle campagne: era opinione comune che gli Stregoni non potessero cambiarsi in lupi se non con l'aiuto del Diavolo. Molti demonologi hanno anzi espresso l'opinione che tali mostri fossero Stregoni che il Diavolo stesso trasformava in lupi costringendoli a errare per i campi, lanciando urla spaventose. La loro esistenza è attestata da Virgilio, Petronio, Solino, Strabone, Pomponio Mela, Dionisio Afro, Varrone e da tutti i giureconsulti e demonografi dei secoli passati. Soltanto sotto Luigi XIV, nella seconda metà del Seicento, si co-
minciò a dubitarne. L'Imperatore Sigismondo fece discutere in sua presenza, da un conclave di sapienti, la questione dei Lupi Mannari, e fu unanimemente stabilito che la mostruosa metamorfosi era un fatto accertato e costante. Un malfattore che volesse compiere qualche soperchieria, non aveva che da spacciarsi per Lupo Mannaro per terrorizzare e mettere in fuga chiunque. A tale scopo non aveva bisogno di trasformarsi davanti a tutti in lupo: bastava la fama. Molti delinquenti vennero arrestati come Lupi Mannari, pur rimanendo sempre con sembianze umane. Pencer, nella seconda metà del Cinquecento, riferisce che in Livonia, sul finire del mese di dicembre, ogni anno si trova qualche sinistro personaggio che intima agli Stregoni di trovarsi in un certo luogo: e, se loro rifiutano, il Diavolo stesso ve li conduce, distribuendo nerbate così bene assestate da lasciare immancabilmente il segno. Il loro capo va avanti per primo, e migliaia di Stregoni vanno dietro di lui; infine attraversano un fiume, varcato il quale si cambiano in lupi e si gettano su uomini e greggi, menando strage. Un giorno venne preso al laccio un Lupo Mannaro che correva per le vie di Padova; gli si tagliarono le zampe, e il mostro riprese tosto forma d'uomo, ma con mani e piedi mozzati. Il fatto è riferito da Fincel. L'anno 1588, in un villaggio distante due leghe da Apchon nelle montagne d'Alvernia, un gentiluomo, trovandosi una sera alla finestra, vide un cacciatore di sua conoscenza e lo pregò di recargli la sua cacciagione. Il cacciatore promise e, dopo essersi inoltrato nella pianura, si trovò di fronte un grosso lupo che gli veniva incontro. Prese la mira con l'archibugio, ma lo mancò. Il lupo gli si scagliò addosso e lo assalì con ferocia. Difendendosi con il coltello da caccia, l'uomo gli tagliò una zampa, e il lupo storpiato si mise in fuga, scomparendo alla vista. Siccome la notte era ormai prossima, il cacciatore tornò alla casa del suo amico, il quale gli chiese se avesse fatto buona caccia. L'altro trasse dal carniere la zampa che aveva tagliato al presunto lupo: ma, con gran meraviglia, vide che quella zampa si era trasformata in una mano di donna. Al dito aveva infilato un anello d'oro, che il gentiluomo riconobbe come appartenente alla propria moglie. Andò allora subito a trovarla, e la vide che sedeva presso il fuoco, con il braccio destro nascosto sotto il grembiule. Siccome ricusava di farlo vedere, il marito le mostrò la mano che il cacciatore gli aveva consegnata, e l'infelice, così scoperta, confessò di averlo assalito in forma di Lupo Mannaro. Il gentiluomo, sdegnato, la consegnò alla
giustizia che la fece salire al rogo. Che pensare di questa storia, raccontata da Boguet come avvenuta ai suoi tempi, all'inizio del Seicento? Era forse la trama abominevole di un marito che voleva liberarsi della moglie? Nel Poitou, i Lupi Mannari erano comunissimi. Quando i creduloni ne sentivano le urla per le vie - il che avveniva soltanto a mezzanotte - si guardavano bene dallo sporgersi alla finestra, perché sarebbero stati sgozzati. Da quelle parti si assicura ancor oggi che si può costringere un Lupo Mannaro ad abbandonare la sua forma assestandogli un colpo di tridente in mezzo agli occhi. Daniel Sennert, celebre medico che venne chiamato «il Galeno di Germania», nel capitolo quinto del suo trattato Malattie occulte, riferisce una serie di fatti dai quali risulta come l'abitudine di certi indiavolati di correre in giro come lupi, presenti numerose analogie con il misterioso impulso che trasportava al Sabba certi individui i cui corpi, durante tali escursioni, erano come rattrappiti. Una donna accusata d'aver corso in forma di lupo, rassicurata dalla promessa del giudice d'aver salva la vita se avesse dato dimostrazione di ciò che era in grado di fare, si unse il corpo d'un unguento particolare e cadde addormentata. Non si risvegliò che tre ore dopo. Raccontò allora di essersi tramutata in lupo, e di aver sbranato una pecora in un villaggio di cui fornì il nome; si andò sul posto, e si vide che in effetti la pecora indicata era dilaniata e morente. Come spiegare una cosa del genere? È noto peraltro che la qualità distintiva dei Lupi Mannari è un immenso gusto per la carne fresca. Delancre assicura che essi sgozzano i cani e i bambini; che li mangiano con eccellente appetito; che camminano a quattro zampe; che ululano come veri lupi; che hanno ampia bocca, occhi di fuoco e zanne acuminate. Si dice, nella Saintonge, che la pelle dei Lupi Mannari è di una durezza tale da renderli invulnerabili alle pallottole ordinarie. Sono necessarie perciò pallottole benedette in certe ore particolari della notte in una cappella dedicata a Sant'Uberto (il protettore dei cacciatori): in tal caso il mostro può essere ucciso, e la sua forma bestiale svanisce. D'altra parte, le cerimonie di benedizione delle pallottole sono assai complicate, e necessitano di molte cose preziose o difficili a trovarsi, come i quadrifogli: è per questo che tanto spesso i Lupi Mannari riescono a sfuggire agli agguati, tanto che ben pochi possono asserire di aver veduto da vicino tali mostri, se non nella loro forma bipede. Queste credenze si
legano ad altre simili diffuse fra le popolazioni del Nord, e sono connesse a molte delle leggende dei carbonai tedeschi, che per via del loro mestiere vivono isolati nei boschi. Bodin racconta senza arrossire che, nel 1542, si videro un mattino ben centocinquanta Lupi Mannari su una piazza di Costantinopoli. Nel romanzo Persilete e Sigismondo, ultima opera di Cervantes, si incontrano isole abitate da Lupi Mannari e Streghe che si mutano in lupe per allevare la loro prole. In questo caso si tratta di un romanzo. Delancre racconta invece come vero il seguente aneddoto attribuito a un Duca di Russia, il quale, avvertito che un suo suddito si trasformava in ogni sorta di bestia, lo mandò a cercare e, dopo averlo incatenato, gli comandò di dar prova dei suoi poteri: al che lui si trasformò subito in lupo. Il Duca aveva preparato due mastini, i quali gli si avventarono contro e lo fecero a pezzi. Al medico Pomponace, che morì nel 1525, venne condotto un contadino affetto da licantropia, il quale gridava ai suoi vicini di fuggire se non volevano essere divorati. Siccome il poveretto non aveva per nulla forma di lupo, i buoni villici avevano cominciato a scorticarlo per vedére se per caso non avesse il pelo sotto la pelle, come si dice avvenga per queste creature. Non avendone trovato traccia, lo avevano portato dal medico. Pomponace lo guarì, sentenziando che non si trattava altro che di un ipocondriaco. Nel 1615 J. de Nyauld pubblicò un trattato dal titolo Lycanthropie, che chiama anche «follia lupesca» e «licaonia», e di cui ammette incontestabilmente la realtà. Uno studioso di Beauvoys-de-Chauvincourt, Jacques Rickius, gentiluomo angevino, aveva già stampato nel 1599, a Parigi, un volume intitolato Discorsi della licantropia, o della trasmutazione di uomini in lupi. Claudio, Priore di Lavai, aveva dal canto suo pubblicato alcuni anni prima un altro libro sullo stesso argomento, dal titolo Dialoghi della licantropia. Tutti affermano l'esistenza dei Lupi Mannari. Ciò che è più singolare, è che ancora all'inizio dell'Ottocento non v'era villaggio che non avesse i suoi Lupi Mannari, ovvero persone malviste che passavano per tali. Nel 1804, un certo Marechal abitava nel villaggio di Longueville, a due leghe da Mery-sur-Seyne. Era taglialegna e si occupava anche di diversi mestieri che si praticano in solitudine, e dunque sono tradizionalmente consoni agli Stregoni. Con l'aiuto del Diavolo, tutte le notti si tramutava in lupo o in orso, e terrorizzava la gente. Una notte, un giovane contadino si armò di fucile e ri-
mase ad aspettarlo. Presolo di mira, lo fallì; e il lupo, che aveva pure lui un suo fucile, sparò a sua volta al contadino, ferendolo a una gamba. L'uomo, sbigottito nel trovarsi di fronte un lupo armato di schioppo, fuggì via zoppicando. Avvertite del caso, le autorità mandarono i gendarmi a prendere il taglialegna, e non si trovò nel preteso Stregone altro che un malvivente, che si dava a ruberie nel corso di scorribande notturne. Ora, non può non sorgere spontanea una domanda: com'è possibile che un finto Lupo Mannaro atterrisca per anni un intero paese, senza che la giustizia gli ponga le mani addosso? Un tal caso è frutto soltanto d'ignoranza, superstizione e sospetto. Siccome tra i villani incolti vi sono molti malvagi, essi si temono l'un l'altro; per di più, hanno appreso dall'esperienza che non sempre la giustizia è giusta. E ragionano così: «Se denunciamo un colpevole, ed esso non è posto in condizioni di non nuocere, ci facciamo un nemico implacabile». I contadini sono vendicativi e, dopo anche dieci anni di galera, tornano a prendersela con i loro denigratori. Meglio allora dar la colpa ai Lupi Mannari: dall'Inferno, è più difficile tornare che dalla gattabuia. 2. Uomini e lupi LA «BESTIA» DEL GÉVAUDAN Nel giugno del 1764 una fanciulla venne assalita da una belva nella foresta di Merçoire presso Langogne in Francia. Pur ferita, riuscì a fuggire, e così descrisse il mostruoso animale: «È grosso come un vitello, con il petto ampio, il collo robusto, le orecchie dritte, il muso da levriero, la gola nera con due denti laterali lunghi e affilati, la coda sfrangiata e una striscia bianca che va dalla sommità della testa all'estremità della coda stessa. Si muove a balzi lunghissimi». Nei mesi successivi, la regione del Gévaudan fu invasa dall'orrore: la «bestia» assalì e straziò innumerevoli donne e bambini. Una fanciulla, Jean Denis, venne assalita e riuscì a fuggire: ma impazzì per lo spavento e non recuperò mai la ragione. Una sua sorella, Jeannette, cadde invece sotto gli artigli del mostro. L'8 ottobre del 1764 due cacciatori spararono al lupo, che però, pur colpito almeno quattro volte, riuscì a fuggire. Senza esito, gli diedero la caccia prima un reggimento di Dragoni a cavallo, poi il più celebre uccisore di lupi della zona, un certo Denneval, che nella stessa regione aveva raccolto 1200 trofei.
Si disse che si trattava di un Lupo Mannaro, accusando un boscaiolo, un certo Antoine Chastel, che venne imprigionato insieme con tutta la sua famiglia. Ma la bestia, quasi per sfida, raddoppiò i suoi misfatti. Dopo essere sfuggita ai colpi di un nobiluomo dei dintorni, il Signor de la Chaumette, che disse di averla ferita al collo, il 16 giugno del 1765 assalì una bambina, poi salvata in extremis; il 21 dello stesso mese sbranò un ragazzo di 14 anni, divorò una donna di 45, e trascinò via un'altra bambina, di cui non venne trovata più traccia. Antoine Chastel fu liberato, e il Re in persona - Luigi XV - affidò all'Archibugiere di Corte, Antoine de Beauterne, l'incarico di abbattere il mostro. Il 21 settembre dello stesso anno, de Beauterne uccise un lupo gigantesco, lungo quasi due metri. Imbalsamato, l'animale venne portato al Palazzo Reale, e si disse che era la fine del mostro. Ma non era vero: a novembre, il mostro ricominciò a uccidere: il Re tuttavia, per nascondere lo smacco, ordinò che le notizie al riguardo venissero censurate. Non si conosce il numero esatto delle nuove vittime: pare che, soltanto nel maggio e nel giugno del 1767, non siano state meno di quattordici. Terrorizzati, i contadini organizzarono battute di centinaia di persone, mentre in tutte le parrocchie si tenevano processioni e preghiere alla Vergine. A una delle battute, il 19 giugno del 1767, partecipò anche Jean Chastel, padre dell'uomo che era stato accusato d'essere il licantropo. In precedenza, aveva fatto benedire da un prete tre pallottole di fucile ottenute fondendo medaglie d'argento che avevano impresso il volto della Madonna. L'uomo si appostò sulla Sogne d'Auvert, aprì un libro di preghiere e attese. La bestia gli si presentò di fronte all'improvviso, incalzata dai cani. Jean Chastel lesse a voce alta le sue preghiere, mentre il lupo, immobile, lo fissava. Poi, lentamente, si tolse gli occhiali, puntò il fucile, e fece fuoco. La bestia cadde. «Ora, non ucciderai più!», esclamò l'uomo. Si racconta che, nel punto in cui il mostro infernale stramazzò a terra, da allora non cresca più l'erba. BISCLAVRET È il nome che danno i Bretoni al Lupo Mannaro. Spesso si tratta non di un lupo ma di una volpe, che si getta davanti ai cavalli dei cacciatori e li terrorizza. Si pensa che tale animale dal comportamento insolito sia in realtà uno Stregone che ne ha preso la forma; nei tempi andati, si credeva che se una
dama sconosciuta veniva a offrire dei rinfreschi ai cacciatori subito dopo l'apparizione del Bisclavret, questa era in realtà una fata, e non conveniva fidarsene. Edouard d'Anglemont ha consacrato al Bisclavret una delle sue leggende poetiche, e Marie de France, nel Lai du Bisclavret, ne ha fatto una creatura dall'animo gentile e ben disposta verso gli esseri umani. GILLES GARNIER Lupo Mannaro condannato a Dôle, sotto Luigi XIII, per aver divorato molti bambini. Lo bruciarono vivo e le sue ceneri vennero sparse al vento. «Henry Comus, Dottore in Legge e Consigliere del Re, dimostrò durante il processo che Garnier aveva preso una fanciulla di dieci anni in una vigna, e l'aveva uccisa e trascinata sino al bosco di La Serre dove, non contento di mangiarne egli solo, ne aveva portato un pezzo a sua moglie. Un altro giorno, trovandosi sotto forma di lupo - trasformazione orribile sotto la quale senza dubbio egli andava in caccia - aveva parimenti ucciso e divorato un giovinetto a una lega da Dôle, fra Gredisans e Monotée. Infine, sotto forma d'uomo e non di lupo, aveva preso un fanciullo di dodici o tredici anni e l'aveva portato in un bosco per sgozzarlo.» (da Jules Garinet, Histoire de la Magie en France, Parigi 1818.) GILLES GERMAR Infame delinquente, nato a Lione e arrestato a Dóle per i suoi crimini, all'epoca delle guerre per le riforme. Confessò, senza esservi costretto, che un giorno, travestito da Lupo Mannaro, aveva sgozzato in un bosco una ragazza e, dopo averne divorato la carne delle braccia e delle gambe, aveva portato il resto ai familiari, che dividevano i suoi orribili gusti; che il mese successivo, sempre sotto forma di Lupo Mannaro, aveva ucciso un'altra fanciulla per mangiarla, ma ne era stato impedito dal sopraggiungere di tre persone, alla cui vista si era dato alla fuga; che quindici giorni dopo, nella vigna di Grédisans, aveva ucciso un bambino e ne aveva mangiato la carne delle braccia e delle gambe; e infine che, stavolta in aspetto d'uomo e non di lupo, aveva ucciso un ragazzo di dodici o tredici anni nel bosco di Pérouze. Stava appunto disponendosi a divorarlo quando era stato arrestato. Questo turpe antropofago, il cui caso è citato da Jean Bodin nella Demonomania, venne condannato al rogo.
JEAN GRENIER Lupo Mannaro vissuto intorno al 1600. Accusato dalla Strega Jeanne Garibaut e da altri di aver divorato alcuni bambini, nonostante avesse appena quindici anni, confessò d'essere figlio di un «Prete Nero», cioè di un sacerdote che celebrava i riti del Sabba, che indossava una pelle di lupo, e gli aveva insegnato molti segreti. Venne condannato a servire per tutta la vita in un convento, dove si convertì. Fra i testimoni a suo carico vi fu anche Marguerite Poirier, una ragazza di tredici anni; dichiarò che un giorno, mentre guardava il gregge in pianura, Grenier si era gettato su di lei in forma di lupo, e l'avrebbe divorata se non si fosse difesa con un bastone, col quale l'aveva colpito sulla schiena. Affermò anche che Grenier le aveva detto di potersi mutare in lupo a volontà, e che amava bere il sangue e mangiare le carni di fanciulli e fanciulle; tuttavia, non ne mangiava mai né le braccia né le spalle. LICAONE Figlio di Foroneo Re d'Arcadia, cui diede il nome di Licaonia. Eresse sulle montagne la città di Licosauro, la più antica di tutta la Grecia, e vi innalzò un altare a Giove Liceo, sul quale cominciò a sacrificare vittime umane. Uccideva e mangiava tutti gli stranieri che capitavano sul suo territorio. Un giorno, Giove stesso gli chiese ospitalità, e Licaone si preparò a togliergli la vita durante il sonno; ma prima volle assicurarsi se non fosse un dio, e gli fece servire a cena le carni di un suo ospite (secondo altre versioni, di un proprio figlio). Un fuoco vendicatore suscitato da Giove consumò il suo palazzo, e Licaone fu mutato in lupo: circostanza che gli conferisce il dubbio privilegio d'essere stato il primo Lupo Mannaro. Ovidio, in una delle sue Metamorfosi, riprende la leggenda, e in alcuni versi descrive per la prima volta la trasformazione di un uomo in lupo: La veste in folto vello si tramuta, passano in gambe le protese braccia; lupo diventa, e ancor della perduta
forma ritien la manifesta traccia: ché nella fronte, già da pria canuta, sta quel piglio tuttor d'ira e minaccia; scintillan gli occhi, e pinta è nella fiera sua complession de l'odio l'orma atroce... I LUPI MANNARI DI OSSORY Racconta Giraldo di Cambria (1147-1223) nella sua Topographia Hibernica, una storia così singolare che merita la si narri. Una notte, un sacerdote che stava compiendo a piedi un lungo viaggio venne avvicinato da un lupo. Parlandogli con voce d'uomo, l'animale lo pregò di amministrare l'Estrema Unzione alla sua compagna, che era prossima a morire. Gli spiegò che apparteneva alla gente di Ossory, nell'Ulster, sulla quale pesava una maledizione lanciata da San Natalis abate, in seguito alla quale due membri della comunità ogni sette anni dovevano assumere la forma di lupi e abbandonare il paese. I due dovevano essere un uomo e una donna. Pur stupefatto, l'ecclesiastico seguì l'animale fino a una radura in un bosco, ove giaceva una lupa. Per rassicurare il sacerdote sulla vera natura dell'essere che aveva di fronte, il lupo abbassò con una zampa la pelliccia della compagna morente, tirandola giù dalla testa fino all'ombelico: e apparvero le fattezze di una vecchina. Il sacerdote somministrò allora l'Estrema Unzione, e il lupo tirò nuovamente su la pelliccia. JACQUES RAOLLET Lupo Mannaro della provincia di Maumusson, presso Nantes, che venne arrestato e condannato a morte dal Parlamento di Angers. Durante l'interrogatorio, chiese a un gentiluomo presente se ricordasse di aver tirato un colpo d'archibugio contro tre lupi; alla risposta affermativa, confessò d'essere uno di quei tre lupi, aggiungendo che, senza l'intervento del gentiluomo, avrebbe certo divorato una fanciulla che aveva trascinato lì vicino. Il cacciatore di Streghe Jacques Rickius, nel suo Discours de la lycanthropie, afferma che quando Raollet venne preso, aveva i capelli lunghi sulle spalle, gli occhi incassati nella testa, le sopracciglia aggrottate, le un-
ghie adunche, e puzzava talmente che era impossibile stargli vicino. Quando si vide condannato dalla Corte di Angers, confessò di aver divorato carri ferrati, mulini a vento, avvocati, procuratori e sergenti, precisando che questi ultimi gli erano parsi talmente duri e stoppacciosi che non li aveva potuti digerire... SAN PATRIZIO E GLI UOMINI LUPO Il venerato Patrono d'Irlanda contende a San Natalis abate l'inquietante primato dell'aver dato origine a una stirpe di Lupi Mannari. La leggenda è riferita dal Kongs Skugsjo (Specchio dei Re), opera norvegese in prosa risalente al 1250. Vi si racconta che il buon San Patrizio, irritato perché una tribù di uomini primitivi l'avevano accolto con ululati simili a quelli dei lupi, aveva chiesto all'Altissimo di fare in modo che i loro discendenti dovessero ricordarsi nei secoli della loro insolenza. Di conseguenza, da allora, tutti i discendenti maschi di quella tribù, in certi periodi si. trasformano in lupi. Alcuni di loro lo sono per sette anni, e poi ridiventano uomini per altri sette, e così via; altri diventano belve per un periodo di sette anni, e poi riprendono per sempre la forma umana. PETER STUMPF Nato a Bedburg presso Colonia, quest'infame Stregone (le cui nefandezze sono riferite da Jean Bodin) si sentì portato al Male dall'età di dodici anni fino alla morte. Partecipò al Sabba, si legò a spiriti e Dèmoni, e infine concluse un patto con Satana. In cambio dell'anima, il Principe dell'Inferno gli affidò una cintura di pelle di lupo che, indossata, lo trasformava in una fiera bramosa di sangue, fortissima e feroce, con gli occhi di fiamma, il corpo possente, zanne e artigli formidabili. Tolta la cintura, riprendeva la forma umana. Con l'aiuto di tale magico ornamento, Peter Stumpf cominciò a battere le campagne, dando la caccia a ragazze, donne e bambini. Quando scorgeva delle fanciulle che giocavano fra di loro, si mutava in lupo; mentre le vittime fuggivano via terrorizzate, ne afferrava una e, dopo averla violentata, la uccideva in modo indicibilmente crudele. In tutto, fece sedici vittime, di cui tredici bambini e due donne incinte, cui strappò il feto dal ventre e ne mangiò il cuore. Si macchiò anche di in-
cesto, violentando la figlia e la sorella. Un altro figlio lo uccise, mutato in lupo, e ne divorò il cervello dopo averlo estratto dal cranio. Sfogò la sua furia anche su pecore, agnelli, capre e altri animali. Il regime di terrore da lui instaurato durò vencinque anni; poi venne catturato dai gendarmi e - sottoposto a tortura - confessò subito tutti i suoi misfatti, denunciando anche, come sue complici, la figlia da lui sedotta e una sua amante di nome Katherine Trompin. Il 28 ottobre 1589 venne giustiziato in modo consono alle sue efferatezze. Lo legarono a una ruota di carro e, mediante cesoie roventi, lo dilaniarono in dieci pezzi, mentre con una mazza di legno gli venivano frantumate le braccia e le gambe. Gli venne tagliata la testa, e il resto del corpo fu ridotto in cenere in un rogo sul quale vennero fatte salire la figlia e l'amante. Dopo l'esecuzione venne innalzato un palo, sulla cui cima fu posta la ruota cui era stato legato lo Stregone; sul mozzo issarono la sua testa, e ai raggi vennero sospese sedici figurine di legno, simbolo delle sue vittime. MICHEL VERDUNG Stregone della Franca Contea, catturato nel 1521 insieme con tali Pierre Burgot e Gros-Pierre. Wierus, nella Pseudomonarchia Daemonum, riferisce i fatti che diedero luogo al supplizio dei tre personaggi. Tutti confessarono di essersi dati al Diavolo. Michel Verdung aveva condotto Burgot presso Château-Charlon dove entrambi, recando in mano una candela verde che mandava una fiamma azzurra, avevano offerto sacrifici e ballate in onore del Diavolo. Dopo essersi unti di grasso, si erano trasformati in lupi. Sotto tale forma, vivevano in tutto e per tutto come le belve. Burgot confessò di avere ucciso un fanciullo con i suoi artigli e le zanne di lupo, e lo avrebbe anche mangiato se i contadini non gli avessero dato la caccia. Michel Verdung confessò a sua volta di avere ucciso una giovinetta occupata a raccogliere piselli in un giardino, aggiungendo che insieme con Burgot ne aveva sbranate e divorate altre quattro. Precisò il tempo e il luogo dei delitti, e l'età delle vittime. Aggiunse che si servivano anche di una polvere che faceva morire le persone. Tutti e tre questi Lupi Mannari vennero condannati a essere arsi vivi. Le loro tristi imprese sono raffigurate in un quadro che fino a qualche tempo
fa poteva vedersi in una chiesa di Poligny. Nel dipinto, ciascuno dei Lupi Mannari aveva la zampa destra armata di coltello. Filmografia THE WEREWOLF (1913), di Henry McRae. U.S.A., prod. Bison per Universal (film muto). THE WHITE WOLF (1914). U.S.A., prod. Nestor per Universal (film muto). THE FOX WOMAN (1915) regia di Lloyd Ingraham. U.S.A., prod. Majestic per Mutual (film muto). Soggetto: da una storia originale di John Luther Long. Interpreti: Signe Auer, Seena Owen, Elmer Clifton, T. Sampson. LE LOUP-GAROU (1923), di Pierre Bressol e Jacques Roullet. Francia, prod. Pathé (film muto). Interpreti: Léon Bernard, Jean Marau, Simone Jaquemin, Jeanne Delvair, Medeleine Guitty, Pierre Juvenet, Volbert. THE WEREWOLF OF LONDON (1935), di Stuart Walker. Tit. it.: Il segreto del Tibet. U.S.A., prod. Universal. Sceneggiatura: Harvey Gates, John Colton e Robert Harris. Soggetto: Robert Harris. Produttori: Stanley Bergerman e Robert Harris. Musica: Karl Hajos. Direttore artistico: Albert D'Agostino. Fotografia (bianco e nero): Charles Stumar. Montaggio: Milton Carruth e Russell Schoengarth. Make-up: Jack Pierce. Effetti speciali: John P. Fulton. Interpreti: Henry Hull, Valerie Hobson, Warner Oland, Lester Matthews, Zeffie Tilbury, Lawrence Grant, Clark Williams, Reginald Barlow. THE WOLF MAN (1941), di George Waggner.
Tit. it.: L'Uomo Lupo. U.S.A., prod. Universal. Sceneggiatura: Curt Siodmak. Produttore: George Waggner. Fotografia (bianco e nero): Joe Valentine. Direttori artistici: Jack Otterson e Robert Boyle. Musica: Hans J. Salter, Frank Skinner. Montaggio: Ted Kent. Make-up: Jack Pierce. Effetti speciali: John P. Fulton. Interpreti: Lon Chaney Jr., Claude Rains, Evelyn Ankers, Bela Lugosi, Maria Ouspenskaya, Warren Williams, Forrester Harvey, J.M. Kerrigan, Harry Cording, Doris Lloyd. THE CAT PEOPLE (1942), di Jacques Tourneur. Tit. it.: Il Bacio della Pantera / Il figlio della notte. U.S.A., prod. R.K.O. Sceneggiatura: De Witt Bodeen. Produttore: Val Lewton. Aiuto regista: Doran Cox. Fotografia (bianco e nero): Nicholas Musuraca. Montaggio: Mark Robson. Direttori artistici: Albert D'Agostino e Walter E. Keller. Musica: Roy Webb. Costumi: Renie. Suono: John L. Cass. Interpreti: Simone Simon, Kent Smith, Tom Conway, Jane Randolph, Alan Napier, Elizabeth Dunne, Alec Craig, Elizabeth Russell, Dot Farley. THE UNDYING MONSTER (1942), di John Brahm. U.S.A., prod. 20th Century Fox. Sceneggiatura: Lillie Hayward e Michel Jacoby. Soggetto: dal romanzo di Jessie Douglas Kerruish. Fotografia (bianco e nero): Lucien Ballard. Produttore: Bryan Foy. Produttore esecutivo: William Goetz. Direttori artistici: Richard Day e Lewis Creber.
Montaggio: Harry Reynolds. Musica: Emil Newman e Davin Raksin. Interpreti: John Howard, Heather Angel, James Ellison, Bramwell Fletcher, Heather Thatcher, Aubrey Mather, Halliwell Hobbes, Ely Malion, Heather Wilde, Charles McCraw, Alec Craig. LE LOUPS DES MALVENEUR (1942), di Guillame Radot. Tit. it.: Il Lupo dei Malasorte. Francia, prod. U.T.C. Sceneggiatura: François-Vincent Bréchignac. Fotografia (bianco e nero): Pierre Montazel. Musica: Maurce Thiriet. Interpreti: Pierre Renoir, Madeleine Sologne, Gabrielle Dorziat, Marcelle Géniat, Michel Marsay, Louis Salou, Yves Furet. FRANKENSTEIN MEETS THE WOLF MAN (1943), di Roy William Neill. Tit. It.: Frankenstein contro l'Uomo Lupo. U.S.A., prod. Universal. Sceneggiatura: Curt Siodmak. Produttore: George Waggner. Direttori artistici: John B. Goodman e Martin Obzina. Make-up: Jack Pierce. Fotografia (bianco e nero): George Robinson. Effetti speciali: John P. Fulton. Montaggio: Edward Curtiss. Musica: Hans J. Salter. Interpreti: Lon Chaney Jr., Bela Lugosi, Ilona Massey, Lionell Atwill, Patrick Knowles, Dennis Hoey, Rex Evans. THE RETURN OF THE VAMPIRE (1944), di Lew Landers. U.S.A., prod. Columbia Pictures. Sceneggiatura: Griffin Jay. Soggetto: da un'idea di Kurt Neumann. Produttore: Sam White. Direttore artistico: Lionel Banks. Fotografia (bianco e nero): John Stumar e L.W. O'Connell. Effetti Speciali: Aaron Nibley.
Montaggio: Paul Borofsky. Musica: Mario Castelnuovo-Tedesco. Interpreti: Bela Lugosi, Nina Foch, Frieda Inescort, Matt Willis, Miles Mander, Roland Varno. THE CURSE OF THE CAT PEOPLE (1944), di Gunthur Von Fritsch e Robert Wise. Tit. It.: Il giardino delle streghe. U.S.A., prod. R.K.O. Sceneggiatura: De Witt Bodeen. Soggetto: Val Lewton. Produttore: Val Lewton. Aiuto regista: Harry D'Arcy. Fotografia (bianco e nero): Nicholas Musuraca. Make-up: Mel Berns. Montaggio: J.R. Whittredge. Direttori artistici: Albert S. D'Agostino e Walter E. Keller. Set decoratori: Darrell Silvera e William Stevens. Musica: Roy Webb. Interpreti: Simone Simon, Kent Smith, Jane Randolph, Ann Carter, Elizabeth Russell, Julia Dean, Eve March, Juanita Alvarez, Charley Bates. THE CRY OF THE WEREWOLF (1944), di Henry Levin. U.S.A., prod. Columbia Pictures. Sceneggiatura: Griffin Jay e Charles O'Neal. Soggetto: Jay Griffin. Produttore: Wallace MacDonald. Fotografia (bianco e nero): L.W. O'Connell. Montaggio: Reg Brown. Interpreti: Nina Foch, Stephen Crane, Osa Massen, Bianche Yurka, Barton MacLane, Fritz Leiber, John Abbott, Fred Graff. THE HOUSE OF FRANKENSTEIN (1944-45), di Erle C. Kenton. Tit. it.: Al di là del mistero. U.S.A., prod. Universal. Sceneggiatura: Edward T. Lowe. Soggetto: Curt Siodmak.
Produttore: Paul Malvern. Fotografia (bianco e nero): George Robinson. Direttori artistici: John B. Goodman e Martin Obzina. Set decoratori: Russell A. Gausman e J. Andrew Gilmore. Montaggio: Phillip Chan. Musica: H.J. Salter e P. Dessau. Make-up: Jack Pierce. Effetti Speciali: John P. Fulton. Interpreti: Boris Karloff, Lon Chaney Jr., Anne Gwynne, J. Carrol Naish, Elena Verdugo, John Carradine, Sig Rumann, George Zucco, Julius Tannen, Frank Reicher, Brandon Hurst, Glen Strange. THE HOUSE OF DRACULA (1945), di Erle C. Kenton. Tit. it.: La casa degli orrori (Dracula nella casa degli orrori). U.S.A., prod. Universal. Sceneggiatura: Edward T. Lowe. Soggetto: George Bricker e Dwight V. Babcock. Produttore: Paul Malvern. Fotografia (bianco e nero): George Robinson. Direttori artistici: John B. Goodman e Martin Obzina. Set decoratori: Russell A. Gaussman e Arthur D. Leddy. Make-up: Jack Pierce. Effetti Speciali: John P. Fulton. Montaggio: Russell Schoengarth. Musica: Edgar Fairchild. Interpreti: Lon Chaney Jr., John Carradine, Martha O'Driscoll, Jane Adams, Onslow Stevens, Glenn Strange. THE CATMAN OF PARIS (1946), di Lesley Selander. U.S.A., prod. Republic. Sceneggiatura: Sherman L. Lowe. Produttore: Marek M. Libkov. Direttore artistico: Gano Chittenden. Fotografia (bianco e nero): Reggie Lanning. Effetti speciali: Howard e Theodore Lydecker. Montaggio: Harry Keller. Musica: Dale Butts.
Interpreti: Carl Esmond, Lenore Aubert, Adele Mara, Douglas Dumbrille, Gerald Mohr, John Dehner, Anthony Caruso, Fritz Feld, Robert J. Wilke, Tanis Chandler, Maurice Cass, Paul Marion. THE WEREWOLF (1956), di Fred. F. Sears. Tit. it.: Il Mostro della California. U.S.A., prod. Columbia. Sceneggiatura: Robert E. Kent e James B. Gordon. Produttore: Sam Katzman. Fotografia (bianco e nero): Edwin Linden. Direttore artistico: Paul Palmentola. Montaggio: Harold White. Make-up: Clay Cambell. Musica: Mischa Bakaleinikoff. Interpreti: Steven Ritch, Joyce Holden, Don Megowan, Eleanore Tanin, Kim Charney, Harry Lauter, Larry J. Blake, Ken Christy. THE CAT GIRL (1957), di Alfred Shaughnessy. Tit. it.: Psichus. G.B., prod. Insignia AIP. Sceneggiatura: Lou Rusoff. Produttori: Lou Rusoff e Herbert Smith. Produttore esecutivo: Peter Rogers. Fotografia (bianco e nero): Peter Hennessy. Direttore artistico: Eric Saw. Montaggio: José Jackson, Interpreti: Barbara Shelley, Robert Ayres, Kay Callard. I WAS A TEENAGE WEREWOLF (1957), di Gene Fowler Jr. U.S.A., prod. Sunset Productions AIP. Sceneggiatura: Ralph Thornton. Produttore: Herman Cohen. Fotografia (bianco e nero): Joseph La Shelle. Direttore artistico: Leslie Thomas. Montaggio: George Gittens. Make-up: Phil Scheer. Musica: Paul Dunlap.
Interpreti: Michael London, Yvonne Lime, Whit Bissell, Tony Marshall, Barney Phillips, Louise Lewis, Ken Miller, Joseph Mell. EL HOMBRE Y EL MONSTRUO (1958), di Rafael Baledon. Tit. it.: Il prezzo del demonio. Messico, prod. A.B.S.A. Sceneggiatura: Alfredo Salazar. Soggetto: Raul Zenteno. Produttore: Abel Salazar. Fotografia (bianco e nero): Raul Martinez Solares e Charles Najera. Musica: Cesar Carrion. Montaggio: Charles Savage. Interpreti: Enrique Rambal, Martha Roth, Abel Salazar, Anita Blanch, Ofelia Guilman, José Chavez, Carlos Suarez, Mary Carmen Vela, Any Lauren Baledon. PUSANG ITIM (1959), di Cirio Santiago. Filippine, prod. People's Pictures. Interpreti: Johnny Moteiro, Cynthia Zamora, Laura Delgado, Carlos Varga. LA CASA DEL TERROR (1959), di Gilberto Martinez. Messico, prod. Diana Films/Clasa Mohme & Azteca. Sceneggiatura: Gilberto Martinez, Juan Garcia, Fernando De Fuentes. Soggetto: G. Martinez. Fotografia (bianco e nero): Raul Martinez. Musica: Luiz Hernandez. Make-up: Lester André. Interpreti: Lon Chaney Jr., Yolanda Varela, German Valdez, Yerye Beirute, Oscar Ortiz De Pinedo, Alfredo Barron, Consuelo Guerrero De Luna, Augustin Fernandez, Linda Varlés, Raymond Gaylord. LYCANTHROPUS (1961), di Richard Benson. Italia/Austria, prod. Royal Films.
Sceneggiatura: Julian Berry. Fotografia (bianco e nero): George Patrick. Produttore: Jack Forrest. Produttore esecutivo: Guido Giambartolomei. Direttore artistico: Peter Travers. Musica: Francis Berman. Montaggio: Julian Attenborough. Interpreti: Barbara Less, Carl Schell, Curt Lowens, Maurice Marsac, Mary McNeeran, Annie Steiner. FRANKENSTEIN, EL VAMPIRO Y CIA (1961), di Benito Alazraki. Messico, prod. Calderon. Sceneggiatura: Alfredo Salazar. Produttore: Guillermo Calderon. Fotografia (bianco e nero): Enrique Wallace. Direttore artistico: José Rodriguez. Montaggio; José Bustos. Musica: Cesar Carrion. Interpreti: Manuel Valdes, Martha Elena Cervantes, Nora Veyràn, Roberto G. Rivera, José, Jasso, Joaquin Garcia Vargas. MA FEMME EST UNE PANTHERE (1961), di Raymond Bailly. Francia, prod. U.F.A. Comacuco/Françis Lopez. Sceneggiatura: Gerard Carlier. Fotografia (bianco e nero): Walter Wottitz. Musica: Francis Lopez. Interpreti: Jean Richard, Jean Poiret, M. Serault, Silvana Blasi, Jean-Max, Marcel Lupovici. THE CURSE OF THE WEREWOLF (1961), di Terence Fisher. Tit. it.: L'implacabile condanna. G.B., prod. Hammer Film (Universal). Sceneggiatura: John Elder. Soggetto: dalla novella The Werewolf of Paris di Guy Endore. Produttore: Anthony Hinds. Fotografia (Technicolor): Arthur Grant. Musica: Benjamin Frankel.
Montaggio: Alfred Cox. Direttore artistico: Don Mingaye. Suono: Jock May. Effetti speciali: Les Bowie. Interpreti: Clifford Evans, Oliver Reed, Catherine Feller, Anthony Dawson, Hira Talfrey, John Gabriel, Anne Blake, Ewen Solon, Martin Matthews, Denis Shaw. THE BEAUTY AND THE BEAST (1963), di Edward L. Cahn. U.S.A., prod. Harvard (United Artists). Sceneggiatura: George Bruce e Orville H. Hampton. Soggetto: dalla fiaba omonima di Madame Le Prince De Beaumont. Fotografia (colore): Gilbert Warrenton. Produttore: Robert E. Kent. Direttore artistico: Franz Bachelin. Make-up: Jack P. Pierce. Montaggio: Robert Carlisle. Interpreti: Joyce Taylor, Mark Damon, Eduard Franz, Michael Pate, Merry Anders, Dayton Lummis, Walter Burke. THE DEVIL WOLF OF SHADOW MOUNTAIN (1964), di Gary Kent. U.S.A., prod. Prin. Sceneggiatura: Gene Pollock. Produttori: James H. Nicholson e Samuel Z. Arkoff. Fotografia (Pathecolor-Panavision): Floyd Crosby. Direttore artistico: Daniel Haller. Effetti speciali: Roger George e Joe Zonar. Musica: Fred Feitshans. Interpreti: Frankie Avalon, Annette Funicello, Martha Hyer, Keenan Wynn, Harvey Lambeck, John Ashley, Candy Johnson, Tim Carey, Dolores Wells, Janos Prohaska, e la partecipazione straordinaria di Boris Karloff. URSUS IL TERRORE DEI KIRGHISI (1964), di Anthony Dawson e Ruggero Biola. Italia, prod. Adelphia Compagnia Cinematografica. Interpreti: Reg Park, Mireille Granelli, Ettore Manni, Furio Meni-
coni, Maria Teresa Orsini, Lily Mantovani, Serafino Fuscagni. DR. TERROR'S HOUSE OF HORRORS (1964), di Freddie Francis. Tit. it.: Le cinque chiavi del terrore. G.B., prod. Amicus. Sceneggiatura: Milton Subotsky. Produttori: M. Subotsky e Max J. Rosenberg. Fotografia (colore, scope): Alan Hume. Direttore artistico: Bill Constable. Effetti speciali: Ted Samuels. Musica: Elisabeth Lutyens, Tubby Hayes. Interpeti: Peter Cushing, Christopher Lee, Michael Gough, Donald Sutherland, Neil McCallum, Ursula Howells, Peter Madden, Katy Wild, Edward Underdown. THE HOUSE OF THE BLACK DEATH (1965), di Harold Daniels e Reginald Le Borg. U.S.A., prod. Taurus Films. Sceneggiatura: Richard Mahoney. Soggetto: dal romanzo The Widderbum Horror di Lora Crozetti. Produttori: William White e Richard Shotwell. Produttore esecutivo: Eldon C. Tollett. Fotografia (bianco e nero): Murray De Atley. Make-up: Nicholas Christie. Interpreti: Lon Chaney Jr., John Carradine, Andrea King, Tom Drake, Dolores Faith, Sabrina, Jerome Thor, Sherwood Keith, Margaret Shinn, Catherine Petty, George André, Katherine Victor. LA LOBA (1965), di Rafael Baledon. Messico, prod. Sotomayor. Sceneggiatura: Ramon Obòn. Produttore: Jesus Sotomayor. Fotografia (bianco e nero): Raul Martinez. Musica: Raul Lavista. Interpreti: Kitty De Hoyos, Joaquin Cordero, José Elias Moreno, Noe Murayama, Adriana Roel, Crox Alvarado, Roberto Canedo, Ramon Bugarini.
LAS MUJERAS PANTERAS (1966), di René Cardona. Messico, prod. Cinematografica Calderon. Sceneggiatura: Alfredo Salazar. Interpreti: El Angel, Ariadne Welter, Elizabeth Campbell, Eric del Castillo, Manuel Valdes, Eda Lorna. EL CHARRO DE LAS CALAVERAS (1966), di Alfredo Salazar. Messico, prod. Barragan Produtions. Sceneggiatura: Alfredo Salazar. Produttore: Miguel Angel Barragan. Interpreti: Dagoberto Rodriguez, David Silva, Alcia Caro, Pascual Garcia, Laura Montez, Rosario Montez. THE ORRIBLE DESIRES OF THE WEREWOLF (1967), di R.E. Harriman. G.B./Francia/R.F.T., prod. Movie/SC/R.3. Sceneggiatura: Mark Rights e Charley S. Cartne. Soggetto: Fred Blackberry. Produttori: Bold Dalero e Marius Chaudes Rahle. Fotografia (colore, scope): Henry G. Hehzi. Direttore: artistico: Frank Feu. Effetti speciali: Etienne De La Maison. Make-up: Joseph Sauze. Montaggio: Claude Grablard. Musica: Charles M. Boules. Interpreti: Kus Camrad, Isabelle Thecon, Don Rooster, Claude Secs, Brown Dale, Robert D. Everhappy, Nimsy Belle, Dik Lane, John Hair, Joseph Leeps, Edward Barati. DR. TERROR'S GALLERY OF HORRORS (1967), di David L. Hewitt. U.S.A., prod. Dora-Borealis. Sceneggiatura: David Prentiss, Gary Heacock, Russ Jones. Produttori: David L. Hewitt e Ray Dorn. Direttore artistico: Ray Dorn. Make-up: Jean Lister. Fotografia (colore, scope): Austin McKinney.
Montaggio: Tim Hinkle. Interpreti: Lon Chaney Jr., John Carradine, Rochelle Hudson, Roger Gentry, Ron Doyle, Vie McGee, Mitch Evans, Russ Jones, Karen Joy. SANTO Y BLUE DEMON CONTRA LOS MONSTRUOS (1968), di Gilberto Martinez. Messico, prod. Sotomayor. Sceneggiatura: Rafael Garcia Travesil e Jesus Sotomayor. Produttore: Jesus Sotomayor. Fotografia (Eastmancolor): Raul Martinez. Effetti speciali: R.M. Solares. Make-up: Maria Del Castillo. Musica: Gustavo Carrion. Scenografie: José Tirado. Interpreti: Santo, Blue Demon, Heidi Blue, Jorge Rado, Carlos Andra, Adalberto Martinez, Vincente Lara Cacama, David Alvizu, Gerardo Capeda, Manuel Leal, Fernando Rosales, Elsa Maria Tako, Yolanda Pons. UDOLIC VCEL (1968), di Frantisek Vlacil. Cecoslovacchia, prod. Barrandov. Sceneggiatura: F. Vlacil, Koerner & Masa. Fotografia: F. Uldrych. Musica: Zdenek Liska. Direttore artistico: J. Goetz. Interpreti: Peter Capek, Jan Kacer, Vera Galatikova. LA MARCA DEL HOMBRE LOBO (1968), di Enrique Lopez Eguiluz. Tit. it.: Le notti di Satana. Spagna, prod. Maxper. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Soggetto: Jacinto Molina. Direttore artistico: José Luis Ferrer. Fotografia (eastmancolor): Emilio Foriscot. Make-up: Luis Ruiz. Montaggio: Francis Janmandreau.
Musica: Angel Artega. Interpreti: Paul Naschy alias Jacinto Molina, Dianik Zuracowska, Rossana Yànni, Manuel Manzaneque, Aurora De Alba, Julian Ugarte, Victoriano Lopez, José Nieto, Carlos Casaravilla, Gilberto Galban. LA NOCHE DEL HOMBRE LOBO (1968), di René Govar. Spagna/Francia, prod. Kin Fims (colore). Sceneggiatura: Jacinto Molina, René Govar, C. Beliaro. Soggetto: Jacinto Molina. Interpreti: Paul Naschy, Peter Beaumont, Monique Brainville, Helene Vatelle. TORE NG DIYABLO (1969), di Lauro Pacheco. Filippine, prod. Santiago. Sceneggiatura: José Flores Sibal. Soggetto: Nela Morales. Produttore: Larry Santiago. Musica: Pablo Vergara. Interpreti: Jimmy Morato, Pilar Pilapil, Rodolfo Garda, Lucita Soriano, Ramon D'Salva, Diana Dean, Ricky Santiago, Vince Juarez, Mars Mercado. LOS MONSTRUOS DEL TERROR (1969), di Tulio De Micheli. Tit. it.: Operazione terrore. Spagna/Italia/R.F.T., prod. Jaime Prades/Eichberg/Int. Jaguar. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Produttore: Jaime Prades. Direttore artistico: Adolfo Cofino. Make-up: Francisco Rafael Ferrer. Fotografia (Eastmancolor, TotalVision 70 mm): Godfredo Pacheco. Montaggio: Francisco Rafael Ferrer. Musica: Franco Solima. Interpreti: Michael Rennie, Karin Dor, Paul Naschy, Manuel De Blas, Ferdinando Murolo, Gene Reyes. LA FURIA DEL HOMBRE LOBO (1970), di José Maria Zabalza.
Spagna, prod. Maxper Productions. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Fotografia (eastmancolor, techniscope): Leopoldo J. Villasenan. Make-up: Carlos Paradela. Effetti speciali: Antonio Molina. Montaggio: Luis Albarez. Musica: Angel Arteaga e Ana Satroya. Interpreti: Paul Naschy, Perla Cristal, Michael Rivers, Diana Montes. LA NOCHE DE WALPURGIS (1970), di Leon Klimovsky. Tit. it.: Le Messe Nere della Contessa Dracula. Spagna/R.E.T., prod. Piata/Hi Fi/Atlas Productions. Sceneggiatura: Jacinto Molina e Hans Munkell. Soggetto: Jacinto Molina. Direttore artistico: Ludwing Orny. Make-up: José Morales. Fotografia (technicolor): Leopoldo Villasenor. Effetti speciali: Antonio Molina. Montaggio: Antonio Jimeno. Musica: Anton Garcia. Interpreti: Paul Naschy, Gaby Fuchs, Barbara Cappell, Patty Shepard. O HOMEN LOBO (1971), di Raffaello Rossi. Brasile, prod. Pinheiro Fimmes. Sceneggiatura: Raffaelo Rossi. Fotografia (colore): Antonio B. Thomé. Montaggio: R. Rossi. Musica: Gabriel Migliori. Interpreti: Claudia Cerin, Raffaello Rossi, Lino Braga, Toni Cardi, Osmano Cardoso. DOCTOR JEKYLL EL HOMBRE LOBO (1971) regia di Leon Klimovsky. Spagna, prod. Filmaco/Gonzales. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Fotografia (eastmancolor): Francisco Fraile.
Make-up: Miguel Sese. Effetti speciali: Antonio Molina. Direttore artistico: J. Alguero. Musica: Anton Garcia Abril; Adolfo Watizmann. Interpreti: Paul Naschy, Shirley Corrigan, Jack Taylor, Barta Barry, Luis Induni, Elsa Zabala. WEREWOLVES ON WHEELS (1971), di Michel Levesque. Tit. it.: La notte dei demoni. U.S.A., prod. Southstreet/Fanfare. Sceneggiatura: Michel Levesque e David M. Kaufman. Produttore: Paul Lewis. Produttore esecutivo: Joe Solomon. Fotografia (colore DeLuxe): Isidore Mankofsky. Direttore artistico: Alien Jones. Montaggio: Peter Parasheles. Musica: Don Gere. Interpreti: Stephen Oliver, Severn Darden, D.J. Anderson, Deuce Berry, Billy Gray, Barry McGuire. DRACULA CONTRA EL DOCTOR FRANKENSTEIN (1971), di Jesus Franco Manera. Tit. ital.: Dracula contro Frankenstein. Spagna/Francia, prod. Fenix. Sceneggiatura: Jesus Franco Manera. Soggetto: J.F. Manera e Paul D'Ales. Produttore esecutivo: Arturo Marcos. Fotografia (eastmancolor): José Climent. Make-up: Monique Adelaide ed Elisenda Villanueva. Montaggio: J.R. Aventer. Musica: Daniel White. Interpreti: Dennis Price, Howard Vernon, Alberto Dalbes, Fernanda Bilbao, Mary Francis, Brandy, Luis Barbo. THE BOY WHO CRIED WEEEWOLF (1972), di Nathan Juran. U.S.A., prod. Universal/RKF. Sceneggiatura: Bob Homel. Fotografia (technicolor): Michael P. Joyce.
Make-up: Tom Burman. Effetti speciali ottici: James W. Elkin. Musica: Ted Stovall. Interpreti: Kerwin Matthews, Elaine Devry, Robert J. Wilke, Scott Sealey, Jack Lucas, Susan Foster, George Gaynes, Loretta Tempie. SANTO Y BLUE DEMON CONTRA DRACULA Y EL HOMBRE LOBO (1972), di Miguel M. Delgado. Messico, prod. Calderon/Azteca. Sceneggiatura: Alfredo Salazar. Produttori: Guillermo Calderon. Fotografia (colore): Rosalio Solano. Scenografie: Alberto Lopez. Make-up: Marguerita Ortega. Montaggio: Jorge Bustos. Direzione musicale: Gustavo Carrion. Interpreti: Santo, Alejandro Cruz, Aldo Monti, Eugenia San Martin, Augustin Martinez, Nubia Marti, Raul Martinez. THE RATS ARE COMING! THE WEREWOLVES ARE HERE! (1972), di Andy Milligan. U.S.A., prod. Mishkin. Sceneggiatura: Andy Milligan. Fotografia (colore): Andy Milligan. Produttore: William Mishkin. Scenografie: Elaine. Make-up: Lois Marsh. Interpreti: Hope Stansbury, Jacqueline Skarvellis, Noel Collins, Berwick Kaler, Ian Innes, Joan Ogden. EL RETORNO DE WALPURGIS (1973), di Carlos Aured. Spagna, prod. Lotus Film. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Fotografia (eastmancolor): Francisco Sanchez. Make-up: Fernando Florido. Effetti speciali: Pablo Perez. Interpreti: Paul Naschy, Fabiola Falcòn, Maria Silva, Eduardo Calvo, Vidal Molina, Inés Morales, José Manuel Martin.
BLOOD (1973), di Andy Milligan. U.S.A., prod. Bryanston/Kent/Damiano. Sceneggiatura: Andy Milligan. Interpreti: Allan Berendt, Hope Stansbury, Patty Gaul, Pamela Adams, John Wallowitch, Ève Crosby. THE WEREWOLF OF WASHINGTON (1973), di Milton Moses Ginsberg. U.S.A., prod. Diplomat Pictures. Sceneggiatura: Milton Moses Ginsberg. Fotografia (technicolor): Bob Baldwin. Scenografie: Nancy Miller-Corwin. Montaggio: M.M. Ginsberg. Musica: Arnold Freed. Make-up: Bob O'Bradovich. Effetti ottici: Optical Group. Interpreti: Dean Stockwell, Jane House, Biff McGuire, John Garson, Beeson Carroll. THE BEAST MUST DIE (1973), di Paul Annett. G.B., prod. Amicus. Soggetto: dalla storia There Shall Be No Darkness, di James Blish. Fotografia (colore): Jack Hildyard. Make-up: Paul Rabiger. Effetti speciali: Ted Samuels. Scenografie: John Stoll. Musica: Douglas Gamley. Interpreti: Calvin Lockhardt, Peter Cushing, Charles Gray, Marlene Clark, Tom Chadbon, Ciaran Madden, Anton Diffring, Michael Gambon. NAZARENO CRUZ Y EL LOBO (1974), di Leonardo Favio. Argentina, prod. Choila Prods. Sceneggiatura: Zuhair Jury. Soggetto: da un programma radiofonico di J.C. Chiappe. Fotografia (colore): J.J. Stagnaro.
Scenografie: M.A. Lumaldo. Musica: J.F. Caffi. Produttore: Leonardo Favio. Interpreti: Alfredo Alcon, Juan José Cantero, Nora Cullen, M. Magali. THE LEGEND OF THE WEREWOLF (1974), di Freddie Francis. G.B., prod. Tyburn. Sceneggiatura: John Elder. Fotografia (colore): John Wilcox. Scenografie: Jack Shampan. Make-up: Jimmy Evans e Graham Freeborn. Effetti speciali: Charles Staffel. Musica: Harry Robinson. Interpreti: Peter Cushing, David Rintoul, Lynn Dalby, Stefan Gruff, Mark Weawers, Roy Castle, Marjorie Yates, Norman Mitchell, Hilary Labow, Pamela Green, Michael Ripper, David Bailie. LA BÊTE (1975), di Walerian Borowczyk. Tit. it.: La Bestia. Francia, prod. Argos. Sceneggiatura: W. Borowczyk. Fotografia (eastmancolor): Barnard Daillencourt, Marcel Grignon. Make-up: Odette Berroyer. Produttore: Anatole Dauman. Scenografie: Jacques D'Ovidio. Montaggio: W. Borowczyk. Musica: Domenico Scarlatti. Interpreti: Sirpa Lane, Lisbeth Hummel, Elisabeth Kahson, Pierre Benedetti, Guy Tréjan, Dalio. LA MALDICION DE LA BESTIA (1975), di Miguel Iglesias. Tit. it.: Il licantropo e lo Yeti (solo in televisione). Spagna, prod. Profilmes. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Fotografia (eastmancolor): Tomàs Pladevall. Make-up: Adolfo Ponte. Interpreti: Paul Naschy, Silvia Solar, Gil Vidal, Grace Mills, Ve-
ronica Miriel, Luis Induni. WOLFMAN-A LYCANTHROPE (1977), di Worth Keeter III U.S.A., prod. Omni/EOC. Sceneggiatura: Worth Keeter III. Fotografia (colore): Darrell Cathcart. Scenografie: Gunther Foster. Musica: Arthur Smith, David Floyd. Interpreti: Earl Owensby, Ed Grady, Victor Smith, Maggie Lauterer, Kristina Reynolds, Sid Rancer. CRY WOLF (1980), di Leszek Burzynski. G.B., prod. PPP. Sceneggiatura: Stan Hey. Fotografia: Robert Krasker. Make-up: Tom Smith. Production designer: Don Taylor. Musica: estratti dal film La guerra dei mondi (1953). Interpreti: Paul Maxwell, Rosalind Ayres, Stephen Greif. THE HOWLING (1980), di Joe Dante. Tit. it.: L'Ululato. U.S.A., prod. Avco Embassy Pictures/Int. Film Investors/Wescom. Sceneggiatura: John Sayles e Terence H. Winkless. Soggetto: dal romanzo omonimo di Gary Brandner. Fotografia (colore CFI): John Hora. Effetti speciali: Roger George. Special make-up: Rob Bottin. Montaggio: Mark Goldblatt, Joe Dante, Kent Beyda. Musica: Pino Donaggio, diretta da Natale Massara. Produttori: Michael Finnell, Jack Conrad. Interpreti: Dee Wallace, Patrick MacNee, Dennis Dugan, Christopher Stone, John Carradine, Slim Pickens, Margie Impert, James Murtaugh, Dick Miller, Roger Corman, Forrest J. Ackerman. WOLFEN (1981), di Michael Wadleigh. U.S.A., prod. Orion Pictures/Warner Bros. Sceneggiatura: M. Wadleigh e David Eyre. Soggetto: dal romanzo omonimo di Whitley Streiber.
Fotografia (colore, scope): Gerry Fisher. Produttore: M. Wadleigh. Make-up: Carl Fullerton. Effetti speciali visivi: Robert Black, Betsy Bromberg e altri. Interpreti: Albert Finney, Edward James Olmos, Gregory Hines, Diane Venora, Tom Noonan, Dick O'Neill. AN AMERICAN WEREWOLF IN LONDON (1981), di John Landis. Tit. it.: Un lupo mannaro americano a Londra. U.S.A., prod. Lycanthrope Films. Soggetto e sceneggiatura: John Landis. Fotografia (colore): Robert Paynter. Produttore: George Folsey. Make-up speciale: Rick Baker. Montaggio: Malcom Compbell. Musica: Elmer Bernstein. Interpreti: David Naughton, Jenny Agutter, Griffin Dunne, John Woodvine, Frank Oz, Lila Kaye, Don McKillop, Paul Kember. A CULPA (1981), di A. Victorino d'Almeida. Portogallo. Sceneggiatura: A.V. d'Almeida. Make-up: Luis de Matos. Effetti speciali: Luis de Matos e A. Maria Rocha. Interpreti: Sidney Felipe, Estrella Novais, Mario Vergas, Marilia Gama, Riu Mendes, Paula Guedes. CAT PEOPLE (1982), di Paul Schrader. Tit. it.: Il bacio della pantera. U.S.A., prod. Universal. Soggetto: Dewitt Bodeen. Sceneggiatura: Alan Ormsby. Fotografia (colore): John Bailey. Montaggio: Jacqueline Gambas. Musica: Giorgio Moroder, David Bowie. Interpreti: Nastassia Kinski, Malcom McDowell, John Heard, Annette O'Toole, Ed. Begley Jr., Scott Paulin, Lyna Lowry, Ron
Diamond, Neva Gage. LA BESTIA Y LA ESPADA MAGICA (1983), di Jacinto Molina. Spagna/Giappone, prod. Acònito Films. Sceneggiatura: Jacinto Molina. Interpreti: Paul Naschy, Sara Mora, Yoko Fuji, Shigeru Amachi, Beatriz Escudero. STONE BOY (1984), di J. Erastheo Navoa. Filippine, prod. Cinex Films. Sceneggiatura: Joeben Miraflor. Interpreti: Nino Mulhach, Jimi Melendrez, Isabel Rivas. LADYHAWKE (1984), di Richard Donner. Tit. it.: Lady Hawke. U.S.A./Italia, prod. 20th Century Fox/Warner Bros. Sceneggiatura: Edward Khmara, Michael Thomas e Tom Mankiewicz. Fotografia (technovision, technicolor, De Luxe): Vittorio Storaro. Scenografie: Wolf Kroeger e Giovanni Natalucci. Costumi: Nanà Cecchi. Montaggio: Stuart Baird. Musica: Andrew Powell e Alan Parson. Effetti speciali: John Richardson. Interpreti: Matthew Broderick, Rutger Hauer, Michelle Pfeiffer, Leo McKern, John Wood, Giancarlo Prete. THE COMPANY OF WOLVES (1984), di Neil Jordan. Tit. it.: In compagnia dei lupi. G.B., prod. Palace Production/ITC. Sceneggiatura: Angela Carter, Neil Jordan. Soggetto: dal racconto omonimo di Angela Carter. Fotografia (colore): Bryant Loftus. Make-up: Christopher Tucker. Effetti speciali: Alan Whibley, Peter McDonald, John Campbell. Montaggio: Rodney Holland. Musica: George Fenton. Direttore artistico: Stuart Rose. Produttori: Chris Brown, Stephen Wooley. Suono: David John
(Dolby Stereo). Interpreti: Angela Lansbury, David Warner, Stephen Rea, Tusse Silberg, Sarah Patterson, Graham Crowden, Kathryn Pogson, Brian Golver, Micha Bergese. THE HOWLING II (1985), di Philippe Mora. U.S.A., prod. Grante Film. Sceneggiatura: Robert Sarno, Gary Brandner. Soggetto: dal romanzo Howling II di Gary Brandner. Produttore: Steven Lane. Fotografia (colore): G. Stephenson. Montaggio: Charles Bornstein. Special make-up: Jack Bricker, Scott Wheeler e Steve Johnson. Musica: Steve Parsons. Interpreti: Christopher Lee, Annie McEnroe, Reb Brown, Sybil Danning, Marsha A. Hunt, Judd Omen. TEEN WOLF (1985), di Rod Daniel. Tit. it., Voglia di vincere. U.S.A., prod. Wolfhill. Sceneggiatura: Joseph Loeb HI e Matthew Weisman. Produttori: Thomas Coleman, Michael Rosenblatt. Direttore artistico: Rosemary Brandenberg. Fotografia (colore): Tim Suhrstedt. Musica: Miles Gooman. Montaggio: Lois Freeman-Fox. Make-up: Therese Austin. Interpreti: Michael J. Fox, James Hampton, Susan Ursitti, Matt Adler. THE SILVER BULLET (1985), di Daniel Attias. Tit. it., Unico indizio la luna piena. U.S.A., prod. Intl. Film Corp./Dino De Laurentiis. Sceneggiatura: Stephen King. Soggetto: dal romanzo The Cycle of the Werewolf di Stephen King. Fotografia (colore): Armando Nannuzzi. Direttore artistico: Giorgio Postiglione.
Effetti speciali: Carlo Rambaldi, Francesco e Gaetano Paolocci. Montaggio: Daniel Loewenthal. Musica: Jay Chattaway. Produttore: Martha Schumacher. Interpreti: Gary Busey, Corey Haim, Everett McGill, Megan Follows, Terry O'Quinn, Robin Groves, Leon Russom, Billi Smitrovich, Joe Wright. DEADTIME STORIES (1987), di Jeffrey S. Deiman. Tit. it.: Buonanotte Brian. U.S.A., (film a episodi, uno dei quali licantropico). Interpreti: Nicole Picard, Scott Valentine, Catheryn de Prume. THE HOWUNG III. THE MARSUPIALS (1987), di Philippe Mora. U.S.A. Interpreti: Barry Otto, Imogen Annesley, Dashna Blahova, Max Fairchild, Frank Thring, Michael Pate, Barry Humphreys. TEEN WOLF II (1987), di Christopher Leitch. Tit. it.: Voglia di vincere II. U.S.A. Interpreti: Jason Bateman, Kim Darby, John Astin, Paul Sand, James Hampton, Mark Holton. HAUNTED HONEYMOON (1987), di Gene Wilder. Tit. it.: Luna di miele stregata. U.S.A. Interpreti: Gene Wilder, Gilda Radner, Dom DeLuise, Jonathan Price, Paul L. Smith, Peter Vaugham, Bryan Pringle. THE HOWLING IV: The originai Nightmare (1988), di John Hough. Tit. it.: Howling IV. U.S.A. Interpreti: Romy Windsor, Michael T. Weiss, Anthony Hamilton, Susanne Severeid.
LONE WOLF (1988), di John Callas. Tit. it.: Lone Wolf. U.S.A. Interpreti: Dyann Brown, Kevin Hart, Jamie Newcomb, Ann Douglas. MY MOM'S A WEREWOLF (1988), di Michael Fischa. Tit. it.: Mamma è un lupo mannaro. U.S.A. Interpreti: Susan Blakely, John Saxon, Katrina Caspary, Ruth Buzzi. WAXWORK (1988), di Anthony Hickox. Tit. it.: Waxwork-Benvenuti al Museo delle Cere o Illusione infernale. U.S.A. Interpreti: Zach Galligan, Deborah Foreman, David Warner, Michelle Johnson, Patrick MacNee, Dana Ashbrook, Miles O'Keeffe, Charles McCaughan, J. Kenneth Campbell, John Rhys-Davies. THE HOWLING V: THE REBIRTH (1989), di Neal Sundstròm. Tit. it.: Howling V. U.S.A. Interpreti: Victoria Caitlin, Elizabeth Silverstein, Mark Foulkner, Stephanie Shockley, William Stavin. BYE BYE RIDING HOOD (1989), di Marta Meszaros. Tit. it.: Ciao ciao, Cappuccetto rosso. U.S.A. Interpreti: Pamela Collyer. THE HOWLING VI: THE FREAKS (1990), di Hope Perello. U.S.A. FILMOGRAFIA 1069 Interpreti: Brendan Hughes, Michelle Matheson, Bruce Martyn Payne, Jered Barclay, Sean Gregory Sullivan, Antonio Fargas, Carlos Cervantes.
CURSE OF THE WEREWOLF (1991), di Mark Pirro. U.S.A. WOLF (1994), di Mike Nichols. U.S.A. Interpreti: Jack Nicholson, Michelle Pfeiffer, James Spader, Kate Nelligan. Bibliografia Ecco una bibliografia essenziale sul licantropo, estrapolata dall'enorme produzione esistente. ABBOT, G.F. Macedonian Folklore, Cambridge University Press, 1903. ANDREE, R., Ethnographische Parallelen und Vergleiche, Stuttgart, J. Maier, 1978. BAESECKE, G., Vor-und Frühgeschichte des deutschen Schrifttums, Halle, 1940. BARING-GOULD, The Book of Werewolves: Being an Account of a Tenible Superstition, London, Smith, Elder & Co., 1865. BEAUVOYS DE CHAVINCOURT, Discours de la Lycanthropie ou de la transmutation des hommes en loups, Paris, J. Rezé, 1599. BRANSTON, B„ Gli dèi del Nord, Milano, Il Saggiatore, 1969. CHIARI, G., «Il lupo mannaro», in AA.W., Mal di luna, Roma, Newton Compton, 1981. DALYELL V.J.G., The Darker Superstition of Scotland, Edinburgh, Waugh & Innes, 1834. DI NOLA, A.M., «Animale, trasformazione in», in Enciclopedia delle religioni, Firenze, Vallecchi, 1970, vol. I, coll. 395-407. DUMAS, G., «Les loups-garous», in Journal de psycologie normale et pathologique, 4, 1907. FRAZER, J.G., Le trésor légendaire de l'humanité, Paris, Libraire de France, 1925, pp. 41-50 («Les loups-garous»). GRIMM, J., Deutsche Mythologie, Goettingen, Dieterichsche Buchhandlung, 1854, vol. II. GUNTERT, H., Uber altislandische Berserker-Geschichten, Heidelberg, J. Horning, 1912.
HARDWICK, C, Traditions, Superstition, and Folklore, Manchester, A. Ireland & Co., 1972. HERTZ, W., Der Werwolf. Beitrag zur Sagengeschichte, Stuttgart, 1862. HÓFLER, O., Kultische Geheimbunde der Germanen, Frankfurt am Main, M. Diesterweg, 1934. KRET-ZENBACHER, L., Kynokephale Dämonen südosteuropaischer Volksdichtung. Vergleichende Studien zu Mythen, Sagen, Masken brauchen um Kynokephaloi, Werwölfe und südslawische Pesoglavci, München, R. Trofenik, 1968. LAUBE THEOPHILUS, Dialogi und Gespràche von der Lycanthropia, oder der Menschen in Wölff-Verwandlung, Frankfurt, A. Heyl, 1686. LEUBUSCHER, R., Ueber die Wehrwolfe und Tierwandlungen im Mittelalter, Berlin, 1850. MACCULLOCH, J.A., «Lycantrophy», in J. HASTING (a cura di), Encyclopedia of Religion and Ethics, Edinburgh, 1913, vol. III, 206220. MEI, M., De Lycanthropia, Witteburgae, 1654. MOLLER, J.F., De transmutatione hominum in lupos, Lipsia, 1673. NYNAULD, J. DE, De la Lycanthropie, transformation et exstase des sorcières, Paris, J. Millot, 1615. OLRIK, A., Ragnarök Die Sage von Weltuntergang, Berlino, 1922. OLSEN, M., (a cura di), Volsunga saga ok Ragnarssaga Lojbroka, Kobenhaun, 1906-1908, capp. V-VIII. PAVOLINI, P.E., «Il lupo mannaro come motivo letterario», in Lares, 8, 1937, 3-13. PRIEUR LAVAL, C., Dialogue de la Lycanthropie, ou transformation d'hommes en loups, vulgairement dit loups-garous, et si telle se peut faire, Louvain, J. Maes & P. Zangre, 1596. PRZYLUSKI, J., «Les confreres des loups-garous dans les societés indo européennes», in Revue de l'Histoire des Religions, 121, 1940, pp. 128-145. RICKIUS, Discours de la licantropie. SCHNEIDER, H., Germanische Heldensage, Berlin-Leipzig, 1928. SEARBOROUG, D., The Supematural in the Modern English Fiction, New York-London, G.P. Putnam's Sons, 1917. SMITH, K.F., «An historical study of the werewolf in literature», in
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ALGERNON BLACKWOOD nacque in Inghilterra, e precisamente nel Kent, nel 1896. Dopo aver effettuato gli studi nella sua terra natale, emigrò in Canada, dove però rimase poco tempo dato che partì nuovamente per stabilirsi negli Stati Uniti. Qui, facendo tesoro di precedenti esperienze nel campo giornalistico conseguite quando si trovava in Canada, riuscì a farsi assumere da due prestigiose testate quali il New York Times e il Sun. La sua apparizione nel campo della letteratura fantastica risale solo al 1926, quando ormai aveva raggiunto la trentina. Ottimo scrittore di racconti di «atmosfera», di lui vanno citati obbligatoriamente il romanzo breve The Willows, e il Ciclo di John Silence, investigatore dell'Occulto. ANTHONY BOUCHER è lo pseudonimo generalmente usato dallo scrittore William Parker White. Il suo primo racconto fantastico, Snullbug, comparve nel 1941 sulle pagine di Unknown, rivista della quale divenne un collaboratore fisso - come anche per Astounding - nei primi anni Quaranta. La valenza che maggiormente caratterizza i suoi scritti è lo Humour, del quale è uno stupendo esempio il romanzo breve The Compleat Werewolf scelto per questa antologia, che narra delle avventure di un Lupo Mannaro arruolato nell'F.B.I. Critico e recensore (scrisse per parecchio tempo per il New York Times e per il New York Herald Tribune), fu anche direttore editoriale della prestigiosa rivista tuttora esistente, The Magazine of Fantasy and Science Fiction. Oltre alla Fantascienza e alla Fantasy, si cimentò con successo anche nel campo del Mistery, dove uscirono diversi suoi romanzi. JOSEPH PAYNE BRENNAN nacque nel 1861 nel Maryland. Scrittore di una certa vena, è comunque ricordato maggiormente come amico di Mark Twain e curatore delle edizioni postume di quest'ultimo The Mysterious Stranger (1916) e Mark Twain's Autobiography (1924). Tra gli scritti di Brennan, una parte preponderante sono quelli della narrativa per ragazzi. Un suo buon romanzo di Fantascienza è The Great White Way del 1901, che narra di una razza di telepati che abitano l'Antartide dove capita il protagonista della storia, che finisce con lo sposare la loro Principessa. Morì a Euclid, nell'Ohio, nel 1937. HUGH CLIFFORD nacque nel Maine il 18 luglio del 1868. Dopo aver conseguito la Laurea in Medicina, si dedicò alla Narrativa Fantastica e pubblicò diversi racconti sui pulps che furono accolti favorevolmente dagli appassionati del genere. Anche se le sue preferenze vanno dichiaratamente
alla Fantascienza, questo non gli ha impedito di scrivere anche di Horror e di Fantasy, come appunto nel caso del racconto presente in questo volume. La sua fine è avvolta dal mistero: fu infatti trovato morto in fondo a un canyon nell'aprile del 1928. MARY ELIZABETH COUNSELMAN è una scrittrice americana che nacque nel New Jersey il 4 agosto del 1884. Dotata di un non comune talento, scrisse parecchie storie che apparvero nelle riviste fantastiche nel periodo che va dal 1923 al 1937, anno della sua morte. Oltre che su Weird Tales - come il racconto scelto per questa antologia - altri suoi racconti furono pubblicati su All Story Magazine e Famous Fantastic Misteries. La critica americana l'ha paragonata come stile a Abraham Merritt e G.G. Pendarves, il che è un biglietto da visita di tutto rispetto. DIANE DETZER è una scrittrice americana che fece uso di diversi pseudonimi nel periodo in cui si dedicò alla Narrativa Fantastica: per questo probabilmente il suo vero nome non è molto conosciuto dagli appassionati del genere, dato che non ne fece quasi mai uso. Il suo primo racconto apparso su una rivista professionale è The Tomb, che vide la luce su Science Fiction Stories. Al suo attivo annovera una serie abbastanza cospicua di romanzi e racconti tra i quali, quello presente in questa antologia, si fa notare per l'originalità con cui viene trattato il tema dei Lupi Mannari. Altri suoi romanzi sono The Sea People, The Glass Cage e Alien World. THOMAS M. DISCH è nato nel Minnesota, ma ha risieduto a New York diverso tempo a periodi alterni. Dopo aver lavorato in banca e aver viaggiato parecchio all'estero (è stato in Italia, Turchia, Inghilterra e Messico) si è dedicato a tempo pieno alla professione di scrittore di Fantascienza, Horror e Fantasy, conseguendo degli ottimi risultati e molti consensi sia da parte della critica specializzata che dei lettori. His Own Kind, presente in questa antologia, è un ottimo racconto che si fa notare per la sua collocazione a metà strada tra la Fantascienza e il realismo del Mito. Da una sua produzione nel campo della Narrativa Fantastica veramente copiosa, va estrapolato il romanzo 334, che viene generalmente ritenuto la migliore opera in assoluto di Disch, e che è stato adottato come libro di testo in diverse Università sia negli Stati Uniti che in altri Paesi, Italia compresa.
ALEXANDRE DUMAS nacque a Villiers-Cotterets nel 1802. Romanziere vivace, brioso e pittoresco, conquistò il successo nonché il favore di un vastissimo pubblico grazie alla sua produzione letteraria di stampo popolaresco e avventuroso. I romanzi da lui scritti non si contano, e sono tutti belli: non si può però prescindere dal citare in modo particolare la trilogia comprendente Le Trois Mousquetaires (1844), Vingt Ans Apres (1845), e Le Vicomte de Bragelonne (1848/50) che hanno reso celebri in tutto il mondo le figure di D'Artagnan, Athos, Porthos e Aramis, così come Le Comte di Montechristo (1845/46) ha reso famosi i personaggi del Conte omonimo e dell'Abate Faria. Ma anche in campo più propriamente fantastico Dumas si è espresso felicemente spaziando tra Lupi Mannari e Vampiri, come dimostra il romanzo Le Meneur des Loups presente in questa antologia. ARLTON EADIE nacque a Cincinnati, negli Stati Uniti, nel 1862. Figlio della Guerra di Secessione americana, dovette al padre, un Pastore protestante, una rigida educazione che lo portò, prima a completare gli studi secondari, e poi a conseguire la Laurea in Giurisprudenza. Affascinato da tutto ciò che era Narrativa Fantastica o del Soprannaturale, scrisse diversi racconti che uscirono sulle riviste popolari statunitensi nei primi decenni del Novecento. Il racconto presente in questo libro è, a detta dei critici, il migliore in assoluto tra quelli apparsi. Morì per una congestione polmonare nel 1937. GAIO PETRONIO ARBITRO è giunto sino a noi attraverso il Satyricon, un misto di prosa e di poesia che narra le vicende di Encolpio e Ascilto, che si svolgono in una Roma imperiale dove regnano incontrastati la lussuria e il degrado fisico e morale. Le notizie su questo scrittore latino del 1 secolo d.C. non sono molte e, perlopiù, ci vengono da Tacito, che lo descrive nel XVI Libro degli Annali come un uomo assai raffinato, amante del lusso e di tutti i piaceri che la vita del tempo era in grado di offrirgli: lo stesso Nerone lo nominò «Arbitro del gusto e dell'eleganza». Nello straordinario affresco descritto nel Satyricon, spicca il racconto di un Lupo Mannaro che abbiamo scelto per questa antologia e che senza ombra di dubbio è il primo che tratti di questo specifico. GLADYS GORDON PENDARVES è lo pseudonimo con il quale - i primi due nomi erano solo due G puntate - scriveva Gladys Gordon Tre-
nery. Nato nel 1875, sin da giovane era molto affascinato da tutto ciò che riguardava la narrativa esotica, tanto che una caratteristica precipua dei suoi racconti è quella di presentare spesso questa valenza. Scrisse parecchi racconti per Weird Tales (come anche quello presente in questa raccolta) e, nell'arco di dieci anni, dal 1927 al 1937, pubblicò ben ventisei storie, alcune delle quali, senza alcun dubbio sono tra le più belle che abbiano visto la luce su questa mitica rivista. GEOFFREY HOUSEHOLD nacque il 18 settembre del 1868 nel Kent. Figlio di un Pastore protestante, dopo aver frequentato con successo i vari ordini di studi, si diede all'insegnamento che fu la principale attività cui si dedicò. In campo letterario scrisse diversi racconti di narrativa normale e altri incentrati sul Soprannaturale: tra questi, Taboo è veramente una splendida storia che la critica inglese ha definito una delle storie più terrificanti che siano mai state scritte sul tema dei licantropi. Questo racconto, apparso nel 1939 nell'antologia The Salvation of Pisco Gabar and Other Stories, precedette di un anno la morte dell'autore, avvenuta nell'agosto del 1940. ROBERT ERVIN HOWARD nacque a Peaster nel Texas, nel 1906, e trascorse tutta la sua breve vita (morì infatti suicida nel 1936) nella cittadina di Cross Plains che si trova assai vicina al suo paese natale. Uno dei Tre Moschettieri di Weird Tales (gli altri due erano Clark Ashton Smith e Howard Phillips Lovecraft), nonostante il brevissimo arco della sua esistenza, annovera una produzione letteraria semplicemente enorme, che va dal celeberrimo Ciclo di Conan, ai racconti fantastici, a quelli di pirati, a quelli storici, per finire poi con i gialli, le commedie e i romanzi western. Sicuramente uno dei migliori - se non il migliore - degli scrittori americani di Fantasy, oltre a quanto sopra detto, vanta al suo attivo anche il Ciclo di Solomon Rane e il Ciclo Celta, da noi pubblicati nella collana La Compagnia del Fantastico. CARL RICHARD JACOBI nacque nel 1908 nel Minnesota. La sua principale attività a parte ovviamente quella di scrittore, fu quella di giornalista presso parecchie testate, la più importante delle quali fu il Minnesota Quarterly. È fuor di dubbio che è stata la sua produzione di Narrativa Fantastica a procurargli una fama mondiale e, anche se la maggior parte dei suoi scritti vertono sull'Horror e sul Fantastico classico, non possiamo
dimenticare che scrisse anche parecchia Fantascienza, soprattutto del genere avventuroso. Come tanti altri scrittori suoi coetanei, anche Jacobi iniziò a pubblicare i suoi racconti su Weird Tales, e il primo di questi fu Mive del 1932. In seguito, molti dei suoi scritti più belli furono raccolti in tre stupende antologie: Revelations in Black del 1947, Portraits in Moonlight del 1964, e Disclosures in Scarlet del 1972. JESSIE DOUGLAS KERRUISH nacque a Southampton il 23 dicembre del 1879. La storia letteraria di questa autrice è quanto mai singolare ove si pensi che, in pratica, tutta la sua produzione si estrinseca nel romanzo presente in questa raccolta. Peraltro va detto che - secondo il parere di critici e lettori - questa storia, data alle stampe nel 1922, è sicuramente una delle più avvincenti che siano mai state scritte in materia di Lupi Mannari, e anche noi non facciamo fatica ad avvalorare questo assunto. Morì a Birmingham il 4 febbraio del 1940. RUDYARD KIPLING nacque a Bombay nel 1865. Dopo aver compiuto gli studi in Inghilterra, nel 1882 tornò in India, dove divenne redattore della Civil and Military Gazette di Lahore, e cominciò a pubblicare liriche e racconti. Rientrato nel 1889 in Inghilterra, ottenne nel 1907 il Premio Nobel per la Letteratura. Morì nel 1936. Tra le sue opere più celebri Il Libro della Giungla, Il secondo Libro della Giungla, Capitani coraggiosi e Kim. Precursore della moderna Fantascienza, Kipling ha immaginato - specie nei suoi racconti fantastici - mondi sconosciuti che proiettano ombre inquietanti sulla nostra esistenza quotidiana. Nelle sue creazioni fantastiche, che sono tra le meno esplorate ma che sicuramente costituiscono i più vigorosi esempi della sua produzione narrativa, convivono scienza e magia, passato e futuro, sogno e realtà, nonché determinismo occidentale e fatalismo orientale. FRITZ REUTER LEIBER è un altro dei «Grandi» scrittori americani di Narrativa Fantastica. Laureatosi in Psicologia e Fisiologia all'Università di Chicago, frequentò anche un seminario di un anno di teologia presso lo stesso istituto. Successivamente fu per un certo periodo direttore editoriale di Science Digest, nonché insegnante presso l'Accademia di Arte Drammatica di Chicago. Cominciò a scrivere nei primi anni Trenta e, anche se i campi del Fantastico da lui toccati includono sia la Fantascienza che la Fantasy e l'Horror, non v'è alcun dubbio che i migliori risultati li abbia
conseguiti negli ultimi due. Per quanto attiene alla Fantasy, non c'è nessuno al mondo tra gli appassionati del genere che non conosca il Ciclo di Fafhrd e del Gray Mouser che, nell'arco complessivo dei vari volumi usciti a tutt'oggi, conta oltre trenta milioni di copie vendute in tutto il mondo. Un episodio di questo celeberrimo Ciclo, I'll Met in Lankhmar, ha vinto sia il Premio Hugo che il Premio Nebula, ossia i due maggiori premi a livello mondiale per quanto attiene alla Narrativa Fantastica. Ma si è detto che non solo nel campo della Fantasy Fritz Leiber ha dato ottima prova di sé: anche nella Narrativa Horror i risultati sono stati più che lusinghieri e vale la pena di citare qualche titolo che ormai è entrato a far parte del pantheon di questo genere di narrativa come Burn, Witch, Burn!, Conjure Wife e Our Lady of Darkness. E, per non fare torto all'Horror, Leiber ha vinto anche in questo campo il Premio Hugo e Nebula con il romanzo breve Gonna Roll the Bones. Che dire ancora di quessto grandissimo scrittore? Che ha vinto un'altra serie di Premi Hugo con i romanzi The Big Time e The Wanderer, Four Ghosts in Hamlet, Catch that Zeppelin e Ship of Shadows; il Premio August Derleth e il Premio Lovecraft con Belsen Express, e infine il Grand Master per il complesso della sua produzione narrativa nel campo della Fantasy. Nel complesso, siccome un po' di cifre non fanno mai male, notiamo che ha collezionato ben diciotto premi, a fronte di una produzione che, in cinquant'anni di attività, ha ormai oltrepassato i 500 tra romanzi e racconti che non presentano mai flessioni o scadimenti di qualità, a riprova della validità di questo grande scrittore nell'arco di un periodo di tempo lunghissimo. HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT nacque nel 1890 a Providence, nel Rhode Island. Cresciuto in un ambiente familiare poco felice, dopo un'infanzia trascorsa in totale solitudine, ancora in giovane età, fu costretto ad affrontare terribili difficoltà economiche, contro le quali lottò fino alla fine dei suoi giorni. Si guadagnò da vivere con il mestiere ingrato e mal pagato di revisore dei testi narrativi di aspiranti scrittori. Grazie ai suoi romanzi e racconti, ispirati a una singolarissima concezione del Cosmo, è l'unico scrittore americano a poter rivaleggiare con Edgar Allan Poe. Divenuto, ancora vivente, una vera e propria «leggenda», morì nella sua Providence, alla quale era intimamente legato, il 15 marzo del 1937. Moriva l'uomo, nasceva il mito. FREDERICK MARRYAT è un altro autore inglese che, come Algernon
Blackwood, nacque nel Kent, solo un centinaio d'anni prima di quest'ultimo e, precisamente, nel 1786. Dopo un periodo di vita militare nella quale conseguì il grado di Capitano della Marina di Sua Maestà Britannica, si dedicò all'attività di scrittore che peraltro aveva sempre praticato - sia pure in maniera non continuativa - da quando aveva ventidue anni. D'altronde, che l'amore per la Narrativa Fantastica fosse un... male di famiglia, lo sta a dimostrare anche sua figlia Florence, apprezzata autrice di questo specifico, tra i cui scritti vanno sicuramente ricordati The Ghost of Charlotte Gray, The Blood of the Vampire e The Strange Transition of Hannah Stubbs. Il racconto scelto per questa antologia è tratto da un romanzo, The Phantom Ship, del 1837, ed è veramente molto bello. Il Cap. Marryat morì a Portsmouth nel 1848. GUY DE MAUPASSANT (1850/1893) è considerato uno dei massimi rappresentanti del Naturalismo, e nella sua narrativa si pone come spettatore di una realtà in cui conta soltanto l'istinto di sopravvivenza del singolo. Ciò non gli impedì di scrivere alcuni dei più bei racconti fantastici della letteratura francese. Il suo stile, che insiste sulla rappresentazione meticolosa delle cose, fino a far loro assumere un rilievo simbolico che ne trascende il senso reale, fa assumere al tessuto delle sue trame fantastiche un rilievo concreto del tutto particolare. SUTHERLAND MENZIES è lo pseudonimo di una scrittrice gotica americana del secolo scorso: Elizabeth Stone. Nata nel 1808, cominciò a scrivere racconti gotici o comunque vertenti sul Soprannaturale in giovane età, e la produzione ascritta a suo nome e senz'altro rilevante. La storia prescelta per questa antologia, Hugues il Lupo Mannaro, è del 1838 e, a parte il fatto che ci troviamo di fronte a uno scritto di tutto rispetto, va notata doverosamente l'analogia con il similare racconto di ErckmannChatrian, Hugues le Loup. Autrice tra le più prolifiche nel campo della Narrativa Gotica, la sua produzione fantastico-orrorifica è tutta di ottimo livello, e degna di stare alla pari con la produzione similare dell'Ottocento inglese. La Mary Wilkins Freeman, altra famosa autrice americana di storie fantastiche, ebbe a dichiarare di aver letto tutta la produzione della Stone, che riteneva un modello da seguire. La Stone morì nel 1876 in Virginia. PROSPER MERIMÉE (1803/1870) fu amico di Stendhal e personaggio
influente alla Corte di Napoleone III. La sua narrativa segna il passaggio tra il Romanticismo e il Realismo, specie con il romanzo breve Colomba, del 1840. Si applicò a varie tematiche fantastiche e, oltre al racconto presente in questa antologia, uno dei più famosi incentrati sul tema della licantropia, non si possono non citare La visione di Carlo XI e La Venere d'Ille, due splendide storie di fantasmi. Nella raccolta di liriche La Guzla (di sua composizione, anche se finse di averle tradotte dall'illirico) inserì diversi componimenti afferenti un'altra importantissimo figura dell'immaginario orrorifico, quella del Vampiro. BASSETT MORGAN è in realtà lo pseudonimo di un'autrice di nome Grace Jones (1885-1974), che ha pubblicato alcuni racconti nei Magazine degli anni trenta, tra cui Weird Tales e Argosy. H. WARNER MUNN nacque nel 1903 nell'Indiana. Scrittore fantastico di razza, esordì nel 1925 su Weird Tales, ed è proprio di quell'anno il suo primo racconto basato - manco a dirlo! - sui Lupi Mannari. È opinione comune che, dopo aver letto questo suo racconto, sia stato H. P. Lovecraft a spingerlo a scrivere su questa tematica, e studi recenti accreditano la tesi che il «Solitario di Providence» abbia addirittura partecipato alla stesura di alcuni suoi scritti. Dalla penna di Warner Munn però non sono uscite solo storie fantastiche: tra l'altro infatti annovera al suo attivo un robusto poema sulla figura di Giovanna d'Arco. HECTOR HUGH MUNRO è un autore inglese che scrisse quasi sempre adottando lo pseudonimo di Saki. Nato nel 1870, dopo aver frequentato le scuole secondarie, si laureò in Lettere e si dedicò alla carriera giornalistica nella quale riscosse parecchi consensi (e nella quale si fece parecchi nemici) con i suoi articoli estremamente pungenti. Sotto il suo vero nome scrisse un romanzo ambientato in un futuro nel quale la Germania ha invaso la Gran Bretagna e occupato Londra: Arthur C. Clarke, il grande autore di 2001 Odissea nello spazio, ha più volte affermato che si tratta senza alcun dubbio della sua opera migliore. La sua produzione fantastica e orrorifica è molto copiosa, e scritti che trattano del tema del Soprannaturale si trovano in diverse sue antologie tra le quali è obbligatorio citare Beasts and SuperBeast e The Complete Short Stories of Saki della quale ultima GabrielErnest fa parte. Morì nel 1916.
EDITH NESBIT nacque in Inghilterra, nel Kent, nel 1858. Dopo aver effettuato gli studi in Germania e a Brighton, tornò nel Kent dove trascorse la maggior parte della sua vita. Famosa e apprezzata scrittrice di libri per l'infanzia, in questo settore raggiunse una fama eguagliata solo da pochi altri autori. A parte un romanzo scritto in collaborazione con il marito, diede alle stampe molti racconti fantastici usciti su riviste o in antologie, tra i quali vanno annoverati molti tra i più bei racconti di fantasmi in assoluto scritti nell'Inghilterra dell'Ottocento. Morì nel 1924. GIANNI PILO è nato a Tripoli nel 1939. Laureato in Giurisprudenza, vive e lavora a Roma. Dalla personalità estremamente poliedrica, nel campo del Fantastico è sicuramente una delle figure più rappresentative a livello nazionale e internazionale. Ha vinto il Premio World Science Fiction, il Premio Eurocon, il Premio Sidera, il Premio Amatrix e numerosi Premi Italia per la Narrativa, la Saggistica e la Critica. È stato per diversi anni Direttore Editoriale della Fanucci, ha curato la Sezione del Fantastico per la Rizzoli, e attualmente, oltre a dirigere la Divisione del Fantastico della Newton Compton, collabora a diverse testate giornalistiche. Una notevole quantità di libri reca la sua firma come autore o curatore: per la Newton Compton, tra i molti titoli usciti, ricordiamo l'Opera Omnia di Lovecraft in cinque volumi, Tutti i romanzi e racconti fantastici e dell'orrore di Conan Doyle in tre volumi e l'antologia Storie di Vampiri uscita in questa collana. In particolare, per quanto attiene allo specifico dei Lupi Mannari, ha scritto una Saga composta di sei volumi ciclici, della quale fanno parte i due racconti presenti in questo volume. LUIGI PIRANDELLO, nato ad Agrigento nel 1867, si laureò a Bonn in Filologia nel 1891. Fu Capuana a introdurlo nel mondo letterario e culturale della Capitale, dove iniziò la sua attività letteraria e teatrale. Dal 1897 al 1892 si dedicò all'insegnamento, e contemporaneamente diede vita a quella messe enorme di romanzi, novelle e commedie, che gli frutteranno nel 1934 il Premio Nobel per la letteratura. Nel 1929 era stato nominato Accademico d'Italia e, sempre in quell'anno, lasciò l'editore Bemporad per affidare tutta la sua produzione a Mondadori, che non lascerà più. Il 10 dicembre del 1936 morì nella sua casa di via Bosio a Roma. SEABURY QUINN nacque nel 1889 nello Stato di Washington, negli Stati Uniti. Laureatosi in Giurisprudenza nel 1910, alla Narrativa Fantasti-
ca si dedicò nel 1919 con il primo dei racconti del celeberrimo Ciclo di Jules de Grandin. I risultati ottenuti in questo campo furono veramente notevoli, ove si pensi che apparve sulla mitica rivista Weird Tales con oltre centotrenta racconti: cifra questa che, nei trentuno anni di vita di questa pubblicazione, non fu mai raggiunta da alcun altro autore. Va peraltro doverosamente annotato che, per tutto il periodo in cui uscì Weird Tales, Seabury Quinn fu senza ombra di dubbio lo scrittore più amato dagli appassionati di Narrativa Fantastica. Dei racconti apparsi su Weird Tales, ben 93 fanno parte del Ciclo di Jules de Grandin, un investigatore dell'Occulto che con il suo assistente, il Dottor Trowbridge (la somiglianza con Sherlock Holmes e il Dottor Watson non è un caso), affronta qualsiasi avventura che spazi nel Soprannaturale. WALTER SCOTT (1771-1832) figlio di un avvocato di Edimburgo, si dedicò alla carriera forense, ma svolse contemporaneamente una grande attività letteraria. Durante la sua infanzia un vecchio capo giacobita gli aveva narrato le proprie imprese (perfino un duello col famoso Rob Roy), e queste rievocazioni, insieme con le esperienze nella contrada di Liddlesdale, con le letture di poemi cavallereschi, di antiche cronache, di documenti storici, formarono la base della preparazione di Scott alla creazione del «romanzo storico». Nel 1802 pubblicò una raccolta di ballate scozzesi, importantissima (Ministrelsy of the Scottish Border), e negli anni successivi poesie e poemi, che preludono al contenuto e alla sensibilità dei romanzi. Con Waverley, uscito anonimo nel 1814, si inizia la serie dei romanzi ambientati nella Scozia del Sei e Settecento. Ivanhoe (1820), ambientato all'epoca di Riccardo Cuor di Leone, rompe il ciclo; dopo, un susseguirsi tumultuoso di opere a un ritmo che, accelerato da un disastro finanziario, portò l'autore a una fine prematura. KIRK MASHBURN è uno dei tanti autori apparsi su Weird Tales dei quali si sa poco o niente. Lin Carter, che aveva effettuato diverse ricerche relativamente ad autori sconosciuti pubblicati su Weird Tales, disse che si trattava di un commerciante di prosciutti del Michigan che nutriva una passione sviscerata per la Narrativa Fantastica. Il racconto presente in questa antologia, Voodoo Vengeance, è senz'altro buono. Nato nel 1900, Washburn è morto nel 1968. MANLY WADE WELLMAN nacque nel 1903 in Angola da genitori
americani. Dopo aver compiuto gli studi sia in Angola che negli Stati Uniti, si dedicò subito all'attività di scrittore a tempo pieno e, a soli ventiquattro anni, pubblicò su Weird Tales il suo primo racconto Back to the Beast. Da quel momento, la sua produzione nel campo della Narrativa Fantastica è stata a dir poco copiosa e si è estrinsecata sia nel campo della Fantascienza, che della Fantasy, che nel Fantastico vero e proprio. Tra i suoi scritti vi sono delle serie assai importanti, tra le quali una menzione particolare va fatta per il Ciclo di John Thunstone che, pubblicato interamente su Weird Tales, ha come protagonista un uomo dotato di poteri psichici che sfrutta per investigare l'Occulto. HENRY S. WHITEHEAD nacque a Elizabeth, nel New Jersey, il 5 marzo del 1882. Dopo aver studiato nel Connecticut, frequentò la Berkeley School a New York, e poi si iscrisse all'Università di Harvard, dove si laureò in Lettere. Datosi agli studi religiosi, fu ordinato Diacono della Chiesa Episcopale nel 1912 e, dopo essere stato per un anno Curato a Torrington nel Connecticut, venne nominato Rettore della Chiesa di Cristo, carica questa che mantenne per cinque anni fino al 1917. Come diversi altri scrittori di Narrativa Fantastica della sua generazione, il suo approccio con questo genere di letteratura avvenne sulle pagine dei pulps dell'epoca, e in particolare molti suoi scritti videro la luce sulla mitica rivista Weird Tales, come quelli presenti in questa antologia. Morì nel 1932. JACK WILLIAMSON è il nome abbreviato dello scrittore americano John Stewart Williamson. Nato nel 1908 in Arizona, dopo aver vissuto un certo periodo di tempo nel Messico e nel Texas, si è stabilito in una villa isolata del Nuovo Messico dove vive attualmente e... scrive. Con Williamson ci troviamo di fronte a uno dei «mostri sacri» della Narrativa Fantastica, e i suoi 65 anni di ininterrotta attività in questa particolare branca della letteratura, sono costellati di continui successi e di riconoscimenti a tutti i livelli, vuoi accademici, che della critica togata e non, che dei lettori. Mettersi qui a parlare della sua produzione vorrebbe dire scrivere pagine e pagine solo per dare un'idea approssimativa del valore di questo grande scrittore, per cui ci limiteremo a citare il famosissimo Ciclo della Legione dello Spazio, ispiratore di tutta una serie di opere su questo tema, quello della Legione del Tempo, e il famosissimo Gli Umanoidi del 1949, cui recentemente ha dato un seguito. Oltre che da solo, Williamson ha scritto a quattro mani con altri autori famosi del settore come Frederick Pohl e James
Gunn, con entrambi i quali ha dato vita a dei Cicli famosi che sono entrati a far parte della storia della Narrativa di Fantascienza. Nell'arco della sua lunga vita i riconoscimenti non gli sono mancati, ove si pensi che ha collezionato il Premio Hugo per Il Millennio dell'Antimateria, il Premio Pilgrim, il Premio H.G. Wells, il Grandmaster e il Premio Nebula, in quest'ultimo riconoscimento preceduto solo dal collega Heinlein. In materia più specificatamente fantastico-orrorifica, la sua produzione è stata altrettanto se non più felice che in campo fantascientifico, come più sopra esplicitato, solo che, in questo settore, la parte più copiosa e qualificata della sua produzione, ha visto la luce negli anni che vanno dal 1928 al 1950, con una prevalenza di presenze sulla rivista Weird Tales. A dimostrazione della felice vena mostrata da Williamson in campo prettamente orrorifico, ecco in questa antologia ben tre suoi scritti che trattano il tema dei Lupi Mannari e, tra tutti, sicuramente emerge il romanzo Il Figlio della Notte che a nostro parere - come peraltro secondo molti critici e lettori - è forse il miglior romanzo in assoluto mai scritto sui Licantropi. Williamson, oggi quasi novantenne, è stato per diversi anni Presidente della importante Associazione degli Science Fiction Writers of America. JOHN WYSOCKI è un autore americano assai interessante, anche se le notizie che lo concernono sono assai poche. I numerosi racconti che ha scritto in ambito Soprannaturale, privilegiano nettamente la Narrativa Horror e di Heroic Fantasy: The Lean Wolves Wait, il racconto presente in questa antologia, ha una singolarissima ambientazione nonché un ritmo narrativo molto serrato che ne fanno uno scritto assai notevole. FINE