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STORIE DI LUPI MANNARI Da Dumas a Kipling, da Pirandello a Lovecraft, le più belle storie di ogni tempo sulla figura più inquietante dell'immaginario orrorifico (1994) A cura di GIANNI PILO e SEBASTIANO FUSCO Indice Il Lupo Mannaro. Introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco PARTE PRIMA. MALE DI LUNA Il Lupo Mannaro di Gaio Petronio Arbitro La lupa bianca delle Montagne Hartz di Frederick Marryat Hugues, il Lupo Mannaro di Sutherland Menzies Lokis di Prosper Merimée Pelliccia Bianca di Edith Nesbit Il Lupo di Guy de Maupassant Il Marchio della Bestia di Rudyard Kipling Gabriel-Ernest di Saki (Hector Hugh Munro) Lupo-Che-Corre di Algernon Blackwood Male di luna di Luigi Pirandello Gli intrusi di Saki (Hector Hugh Munro) Il cane di Howard Phillips Lovecraft I Lupi Mannari del Castello Manglana di H. Warner Munn Testa di Lupo di Robert Ervin Howard Il lupo di St. Bonnot di Seabury Quinn La vendetta del Lupo Mannaro di H. Warner Munn Lupi nelle tenebre di Jack Williamson Vendetta Voodoo di Kirk Mashburn INTERMEZZO. LE BESTIE MANNARE L'Orso Mannaro di Walter Scott La Donna Pantera di Ambrose Bierce L'Uomo Toro di Henry S. Whitehead Il Cane Mannaro di Henry S. Whitehead
La Tigre Mannara di Hugh Clifford La Donna Gatto di Mary Elizabeth Counselman Dhoh di Manly Wade Wellman PARTE SECONDA. ACONITO, ARGENTO E BIANCOSPINO. Sahara di Gladys Gordon Pendarves Il Nero Segugio della Morte di Robert Ervin Howard Il Marchio del Mostro di Jack Williamson Lupo Mannaro di Manly Wade Wellman La Maledizione della Strega di Arlton Eadie La Donna Lupo di Bassett Morgan Tabù di Geoffrey Household Amore di Licantropo di Seabury Quinn L'Orrore Immortale di Manly Wade Wellman La pistola d'argento di Carl Richard Jacobi Il cane di Fritz Reuter Leiber Gli ambasciatori di Anthony Boucher Il Lupo Mannaro perfetto di Anthony Boucher Loup-Garou di Manly Banister La Caccia di Joseph Payne Brennan Lo spiazzo di Canavan di Joseph Payne Brennan La sua razza di Thomas M. Disch Azuna di Gianni Pilo I lupi affamati della steppa di John Wysocki Gesù di Gianni Pilo PARTE TERZA. NOTTI DI LUNA PIENA Il Signore dei Lupi di Alexandre Dumas La Maledizione Eterna di Jessie Douglas Kerruish I Figli del Lupo di Diane Detzer (Adam Lukens) Il Figlio della Notte di Jack Williamson APPENDICI Appendice I. Il Lai du Bisclavret Appendice II. Il Werewolf
Appendice III. Artù e Gorlagon Appendice IV. Dal Dictionnaire Infernal di Jacques Collin de Plancy Filmografia Bibliografia Schede degli Autori Il Lupo Mannaro Credesti tu, come taluni sogliono, che certe femmine volgarmente chiamate Parche esistano e siano capaci di fare ciò che loro si attribuisce: e cioè che possano predestinare un uomo alla nascita, acciò che questi, quando vuole, possa trasformarsi in lupo - che in tedesco vien detto werewulf - o in qualsiasi altra figura? Se ciò credesti, credendo che sia accaduto o possa accadere che ad una creatura divina sia dato di mutar forma e aspetto per opera d'altri che non Dio Onnipotente, devi per dieci giorni fare penitenza a pane e acqua. Dai Decretali di Burcardo di Worms, sec. XI Studiando nei loro ristretti habitat naturali i pochi lupi rimasti, gli etologi del secolo presente hanno scoperto - non senza sorpresa - che il presunto feroce predatore è in realtà d'abitudine un animale timido e mite, monogamo, sollecito con la prole, non aggressivo nei confronti dell'uomo. Una creatura cioè ben lontana dall'immagine leggendaria che le ha cucito addosso l'uomo, dipingendola come ladra, malvagia e avida di sangue: quasi che su di essa avesse proiettato, come in un esorcismo, i peggiori difetti che in realtà macchiano non la stirpe lupina, ma l'umanità stessa. Fra lupo e uomo vibrano peraltro straordinarie consonanze. Animale d'origine paleoartica, il lupo migrò con l'uomo primitivo dall'Eurasia all'America del Nord attraversando, durante le glaciazioni, lo Stretto di Behring, e seguì le stirpi indoarie nella loro diffusione nell'Europa e nel subcontinente indiano. Fra tutti gli animali selvaggi, è quello che maggiormente ha segnato la civiltà occidentale, prima come animale totemico, poi come manifestazione diabolica. Superior stabat lupus
Un canto funebre rumeno, recitato ancora agli inizi di questo secolo, dice: «Il lupo apparirà davanti a te... Prendilo come tuo fratello, perché il lupo conosce l'ordine delle foreste... Egli ti condurrà per via piana verso il Paradiso...». L'idea che il lupo sia uno psicopompo, cioè una creatura destinata a guidare nell'Aldilà le anime dei morti, è antica quanto la cultura delle stirpi d'origine indo-europea, come testimoniano le urne funerarie in forma di testa di lupo nelle quali i primitivi popoli nomadi custodivano le ceneri dei defunti. Per le popolazioni non stanziali, nelle quali la cultura dominante non era ancora quella agricola, ma quella della caccia, il lupo era un rivale, un competitore che, nella medesima nicchia ecologica, perseguiva le stesse prede. Ed era più abile, perché più veloce, dotato di sensi più acuti, capace di vedere di notte e «armato» dalla natura in modo terribile, con zanne e artigli. Per riuscire nella caccia, si doveva perciò ingraziarsene lo spirito: il che - nelle culture sciamaniche - avveniva per via imitativa; vale a dire, facendosi «invasare» dal Dio della Bestia sino ad assumerne i poteri, il comportamento, perfino l'aspetto. È nei rituali sciamanici delle culture nomadi paleolitiche che gli antropologi rintracciano le radici di quella che, più tardi, venne chiamata - con termine estensivo - «licantropia»: ovvero la capacità, da parte di esseri umani, di trasformarsi in determinate condizioni nell'animale totemico, ovverossia rappresentativo e protettivo della tribù. Per i cacciatori nomadi dell'Asia Centrale, questo animale era il lupo (per altri popoli, come vedremo, l'animale sarà diverso): lo Sciamano delle steppe, con l'aiuto dei rituali estatici e con l'assunzione del Fungo Sacro, l'Amanita Muscaria che dilata la coscienza, faceva discendere entro di sé lo Spirito del Lupo. Con indosso una pelle dell'animale totemico, ne assumeva anche l'aspetto: e così, quale Lupo-Dio, guidava le danze propiziatorie alla caccia, se non - come sembrerebbero dimostrare certe pitture rupestri - la caccia stessa. Della funzione totemica del lupo presso le genti indo-arie si ha traccia nelle infinite leggende che nacquero quando le religioni virili, «solari» e d'impianto sciamanico da loro portate, vennero a scontrarsi e fondersi con le religioni femminili, «lunari», e basate su riti della fertilità adottate dalle popolazioni europee autoctone che subirono l'invasione dei nomadi provenienti dalle steppe asiatiche, agli albori dell'Età del Bronzo. Molte «leggende degli inizi» (quelle che narrano della nascita di Dèi ed
Eroi, o della fondazione di città o luoghi sacri) vedono il lupo come protagonista. Nel mito greco, Febo e Artemide, le divinità legate a Sole e Luna, cioè gli astri luminiferi, vennero partoriti da Latona trasformatasi in lupa. Licaone, il capostipite dei Pelasgi, fondatore sul Monte Liceo della prima città, Licosura, si identifica, per via del nome, col lupo (lykos, in greco); e ih lupo vero e proprio verrà trasformato, quando il mito, col mutare delle condizioni culturali, assumerà valenze negative. «Figli del lupo» si proclamavano tanto i Celti quanto i Sabini: ed è per questo, forse, che a una lupa venne affidata la protezione dei due divini gemelli, Romolo e Remo, fondatori dell'Urbe. Secondo Diodoro Siculo, Osiride rinasce, dopo la divisione del suo corpo, sotto forma di lupo. E persino nella cultura mongola il Lupo Celeste è genitore di Eroi, l'ultimo dei quali fu Gengis Khan. Lykaion, territorio del lupo, era chiamato il bosco sacro che circondava il tempio di Febo ad Atene; Aristotele usava tenervi le sue lezioni, ed è questa l'origine del termine liceo. L'immagine del lupo viene così connessa a quella della sapienza, peraltro in conformità con le tradizioni che ne facevano un animale iniziatico, ovvero rivelatore di conoscenze occulte. Macrobio, nei Saturnalia, descrive una statua che si trovava nel tempio di Serapide, ad Alessandria; vi era raffigurato il Tempo come mostro tricipite: una testa di leone fra due teste di lupo. Il leone è il presente, ovvero ciò che sappiamo; il lupo è passato e avvenire, ovvero le cose che abbiamo dimenticato e quelle che non conosciamo ancora. Flegone descrive un Oracolo nel quale a profetizzare è la testa di un uomo sbranato da un lupo. D'altronde, nel nome del lupo è insita la radice lyk-, che è la stessa da cui deriva il nome luce: la creatura che vede al buio è dunque anche quella che dissipa le tenebre. L'antica sovrapposizione fra culti della caccia e culti della fertilità si rivela nei miti che vedono il lupo come animale propiziatore delle fecondazioni. In Anatolia - ancora oggi - nelle campagne le donne sterili invocano il lupo per avere figli. Nella Kamchatka i contadini, per le Feste Ottobrali, realizzano con il fieno il simulacro d'un lupo, cui recano voti perché entro l'anno si maritino le vergini del villaggio. Nell'antica Roma, il Dìo Luperco era protettore delle greggi; le sue feste, i Lupercali, che si tenevano a metà febbraio, vedevano i sacerdoti correre nudi tra la folla, armati di corregge di pelle di montone: dice Ovidio nei Fasti che le donne in età fertile colpite dalla sferza, sarebbero state fecondate entro l'anno. Nel corso dei Lupercali, un sacerdote, vestito d'una pelle di lupo, passa-
va una lama bagnata di sangue sulla fronte di due adolescenti: riproduzione simbolica, evidentemente, di antichi sacrifici umani che venivano tributati al lupo totemico. Questo particolare ci pone a contatto con il lato tenebroso dei culti del lupo. Creature d'inferno Nel passaggio dalle culture nomadi e cacciatrici a quelle stanziali e agricole, muta radicalmente il modo di considerare il lupo. Il cacciatore ha bisogno dello spirito dell'animale da preda che lo guidi ad uccidere; il contadino deve invece proteggere le greggi da chi vuole uccidere. Il sacrificio in onore del lupo, a poco a poco, da propiziatorio si trasforma in scongiuro: non si prega più perché il Grande Predatore intervenga, ma perché stia lontano. Le cerimonie sacrificali, il più delle volte con vittime umane, celebrate in onore del lupo, assumono valenze sinistre. Esemplare, in questo senso, è la leggenda di Licaone. I riti che, in origine, si tenevano sul Monte Liceo, in Arcadia, in onore del lupo erano di origine aria, e assumevano il carattere di sacrifici umani culminanti con un rito di antropofagia: parte della vittima veniva consumata dai celebranti. L'evoluzione culturale rende esecrabile questa modalità rituale, e la fantasia mitica elabora prontamente un episodio che fissi indelebilmente i nuovi parametri del sacro. Giove - racconta la leggenda, riferita da Ovidio nelle Metamorfosi, - si reca, in incognito, in visita a Licaone. Questi, incerto sulla natura umana o divina del suo visitatore, decide di sottoporlo a una prova, e gli ammannisce, a mo' di banchetto ospitale, le carni di uno schiavo (o, secondo altre versioni, di un altro ospite, o di un ostaggio, o addirittura del proprio figlio), e per primo ne gusta egli stesso: confida che un Dio avrebbe scoperto la vera natura del sacrificio. Sdegnato da tanta efferatezza, Giove arde con le sue folgori la reggia di Licaone e trasforma quest'ultimo in lupo. Il senso della leggenda è chiaro: il sacrificio cruento e cannibalesco, gradito un tempo alle divinità proprie d'un popolo nomade e cacciatore, è inviso invece agli Dèi di una società agricola e stanziale. Licaone, lupo fatto re, da re ritorna lupo. Sono infinite, in ambito classico, le leggende che segnano un passaggio analogo. Il pugile Demeneto (racconta Plinio nelle Storie Naturali), arcade come Licaone, avendo sacrificato un bimbo a Giove Attico, mangiatene le interiora, venne trasformato in lupo, e tale restò per nove anni; al deci-
mo, ritornò uomo, e vinse la gara di pugilato a Olimpia. Sempre degli antropofagi Arcadi si diceva che, per espiazione, dovessero ogni anno estrarre a sorte un membro della comunità; questi era immerso nelle acque di un lago e ne usciva trasformato in lupo, restando tale per nove anni, e poteva recuperare le forme umane soltanto se si fosse astenuto dall'antropofagia. Echi di questo mito si ritrovano, applicati alle più diverse popolazioni, fino al Medioevo. A poco a poco, lo Sciamano che assume in sé lo spirito del lupo a beneficio della tribù, si trasforma in creatura infernale dedita a pratiche esecrabili. I residui della primordiale religione sciamanica si trasformano già in epoca classica in culti infernali e stregoneschi. L'antica capacità degli Sciamani di identificarsi con gli animali totemici assume connotazioni tenebrose. Nasce la figura dello Stregone, in contatto per via diabolica con le istintualità più perverse. Il sacrificio umano, con il suo corollario cannibalico, da cerimonia sacrale trascende nelle pratiche abominevoli della profanazione dei cadaveri e della necrofagia, perversioni attribuite ai recipiendari dell'antico animismo sciamanico, ormai totalmente travisato e stravolto. Il potere della metamorfosi, ovvero la capacità di riprodurre le caratteristiche dell'animale totemico, già prerogativa sacerdotale, diventa segno di una punizione divina o frutto di un'alleanza con i poteri delle tenebre. Quanto al lupo, da animale propiziatorio, assume - e non le perderà più le caratteristiche di mostro antropofago, di belva feroce vomitata dalle tenebre e di creatura infernale. Da psicopompo, si fa guardiano del regno dei morti: Cerbero, che impedisce alle anime di uscire dal loro triste regno, è un lupo con tre teste. Ade, Re degli Inferi, porta un elmo di pelle di lupo che lo rende invisibile, e lo stesso valeva per Ajta, il Dio etrusco del mondo sotterraneo. Presso i Celti il lupo è carnivoro funebre, e lo si dipinge seduto sulle zampe posteriori, nell'atto di divorare un morto. Nasce anche la sua fama di persecutore di bambini (come tutti i predatori, i lupi aggrediscono di preferenza i cuccioli delle prede, meno capaci di difendersi): la lupa Mormolice era un dèmone femminile con la quale le madri greche minacciavano i loro pìccoli, corrispettivo, in qualche modo del «lupo cattivo» delle fiabe nostrane. Era stata nutrice del mostro infernale Acheronte, e si diceva che rendesse zoppi i bambini disobbedienti. Intorno alla fiaba di Cappuccetto Rosso, Dumézil (Les Dieux des Gérmains) traccia una serie di connessioni che riconducono agli antichi miti indo-europei, mentre Piettre fa notare che esistevano versioni del racconto
molto più truci di quella nota nel testo ingentilito di Perrault. In una di esse è presente un palese tema cannibalesco: dopo aver divorato quasi completamente la nonna di Cappuccetto Rosso, il lupo pone parte della carne e un po' di sangue in un bacile, e li fa mangiare e bere alla bambina; Piettre ne deduce una connessione con gli antichi sacrifici umani a sfondo antropofago con i quali veniva onorato lo Spirito del Lupo. Viene esaltato nel contempo il carattere di feroce combattente del lupo, che già i Greci associarono ad Ares, Dio della Guerra. Un tema che ebbe la sua diffusione più ampia soprattutto fra le genti nordiche. I guerrieri dalla pelle di lupo Nell'ottavo capitolo della Volsunga Saga è riferita la storia di Sigmundr e Sinfjotli che, attraversando una foresta, giungono a una casa nella quale giacciono addormentati due figli di re. Alla parete, sulle loro teste, sono appese due pelli di lupo: i due dormienti sono vittime di un incantesimo in seguito al quale soltanto una notte ogni dieci possono liberarsi della pelle di lupo e riprendere l'apparenza umana. Ma quella notte, sfiniti, non possono trascorrerla che dormendo. Sigmundr e Sinfjotli indossano, incautamente, le pelli, e il maleficio ricade su di loro. Non possono più liberarsene, e non parlano più con voce umana, ma con voce di lupo, anche se fra di loro continuano ad intendersi. Travolti dall'istinto delle belve, si gettano nella foresta, dove vagano per nove giorni, conducendo la vita dei lupi. Al decimo, recuperato l'aspetto umano, danno le pelli alle fiamme, perché non possano più nuocere ad alcuno. Dalla leggenda, una delle molte che nei miti nordici trattano di fiere e di trasformazioni in fiere (nella stessa Volsunga Saga, al capitolo quinto, è raccontato di come la madre del Re Siggeir abbia dilaniato, in forma di lupa, i figli di Volsung caduti prigionieri), traspare una concezione sinistra del lupo, considerato l'incarnazione del dolore e della lacerazione. Della diffusione delle credenze sulla trasformazione di uomini in lupi presso i popoli nordici, fa fede Olaus Magnus che, nella Historia de gentibus septentrionalibus, racconta di come la notte di Natale si radunino in un certo luogo molti uomini mutati in lupi, «li quali la notte medesima, con meravigliosa ferocità incrudeliscono, e contro la generazione humana, e contro gl'altri animali, che non son di feroce natura, che gl'habitatori di quelle regioni patiscono molto più danno da costoro, che da quei che naturali Lupi sono, non fanno. Percioché, come s'è trovato impugnato con
meravigliosa ferocità a le case de gl'huomini, che stanno nelle selve, e sforzami di romperle le porte, per poter consumare gl'huomini, e le bestie che vi son dentro». Dice ancora Olaus che questi uomini-lupo entrano nelle cantine ove è custodita la birra, e «quivi si bevono molte botti, e di quella e d'altre bevande, e poi lasciano le botti vote, l'una sopra l'altra, in mezzo della cantina. E in questa parte sono disformi dai naturali, e veri Lupi». Questi guerrieri così feroci e di così triste fama, venivano chiamati Ulfhedhnir, cioè guerrieri «dalla casacca di pelle di lupo». Così se ne dice nello Hràfnsmal: «Si chiamano pelli di lupo, / li si vede scuotere / gli scudi macchiati dal sangue dei caduti / arrossano le spade / quando giungono alla battaglia». Il carattere di questi guerrieri vi è descritto in modo scarno ma efficace, e ci porta alla mente l'immagine del combattente esaltato dal «furore» che, invaso dallo Spirito del Lupo, combatte al di là dei limiti umani. L'assunzione della veste ferina riproduce il gesto ancestrale dello Sciamano che, all'alba dell'uomo, in questo modo gettava un ponte tra natura umana e natura bestiale, quando ancora non era ben chiara, ma cominciava a delinearsi, la distinzione fra le due identità. Non era, peraltro, soltanto il lupo l'animale totemico con il quale si identificavano i guerrieri nordici. Affini agli Ulfhedhnir, i berserkr indossavano - come dice il loro nome - vesti di pelle d'orso: «Goditori di sangue / che si precipitano in battaglia, / schiera che combatte con giubilo», dice di loro ancora lo Hràfnsmal. Lupo e orso, nel mondo germanico, sono legati da una medesima aura di terrore. Nella Saga di Odd-della-Freccia, Gudmund narra che in sogno gli pareva di aver visto dalla nave un orso polare dall'aspetto pauroso, col pelo ritto, in atto di scagliarsi sui vascelli di passaggio per farli affondare. Sigurdhr interpreta il sogno come presagio di venti sfavorevoli, «perché l'orso pareva essere così lupesco». I guerrieri che venivano invasati dai due animali totemici, spesso combattevano a fianco a fianco, come è confermato sempre dallo Ulfhedhnir: «I Berserkr urlavano / ardevano della battaglia, / gridavano gli Ulfhedhnir / e scuotevano il ferro». La paura che il lupo e l'orso incarnano, è legata alla magia e alle forze occulte, risvegliate dai riti sciamanici. I guerrieri invasi dallo Spirito della Bestia hanno forza e resistenza sovrumane, non avvertono il dolore, non conoscono la paura, compiono atti prodigiosi: passano indenni tra le fiamme, sopravvivono alle ferite più atroci. Sono i poteri dello Sciamano,
riconoscibili attraverso tutte le culture. Gli antropologi, per esempio, hanno tracciato un parallelo fra i berserkr e gli Hirpi Sorani, i sacerdoti-lupo del Monte Soratte, eredi nell'antica Roma di un culto ancestrale: nelle feste di Apollo, entrati in estasi, camminavano sulle braci ardenti ululando come lupi. Come i loro animali totemici, i guerrieri-bestia sono sfuggiti e temuti. Chi li affronta e riesce a scampare la vita, soffre comunque qualche perdita, come avviene a chiunque venga a contatto con le manifestazioni di forze infere e tenebrose. Loro caratteristica è la furia cieca, incontrollabile, rivolta contro chiunque, anche i parenti e gli amici. Nella Saga di Odd-laFreccia, dodici fratelli berserkr, avendo trovato insoddisfacente un combattimento contro nemici troppo deboli, decidono di sfogare la furia che li travolge tornando a casa per uccidere il proprio padre. Nella Egilssaga, Skall-Grimr, berserkr e figlio di berserkr, preso da furia cieca, attacca il figlio; per impedirgli di sbranarlo, si sacrifica la sua nutrice. Dumézil, anche sulla base di considerazioni filologiche, fa risalire questo invasamento al furore dei Marut, i compagni di Indra, e del loro padre, il terribile Rudra, mettendo in luce una precisa eredità indoeuropea in questa classe di tradizioni germaniche. La veste stregata Non sappiamo se le invasioni da parte delle genti nordiche abbiamo avuto una qualche parte nella diffusione del mito degli uomini-lupo in tutta l'Europa. Con la conversione dei Vichinghi al cristianesimo, peraltro, la figura del berserkr perde l'aura di orrore sacrale, per assumere sempre più il carattere della maledizione diabolica, o del frutto di una mercificazione con le Potenze Infernali. In pratica, entra nella casistica della stregonerìa. La vestizione con la pelle ferina, da atto simbolico diventa strumento di un incantesimo: la pelle, si dice, è affatturata e trasforma in belva chi la indossa. La bevanda sacra (eredità forse del Soma vedico), a base di sostanze allucinogene, che secondo alcune tradizioni i berserkr assumevano insieme con la birra e l'idromele, diviene un filtro magico, un beveraggio da strega che determina la mostruosa metamorfosi. Si ricorre alle Sacre Scritture per tracciare l'equazione lupo = diavolo, equiparando agli eretici Streghe e Stregoni che - si diceva - mutavano forma per recarsi al Sabba infernale.
A quanti opponevano che sarebbe stato sacrilego attribuire al Diavolo il potere di cambiare una forma stabilita da Dio, si obiettava che la metamorfosi, in realtà, era illusoria, frutto di inganno diabolico. Al princeps huius mundi infatti - sempre secondo le autorità scritturali - era concessa la facoltà di confondere i sensi degli uomini. Sovvenivano in questo, ancora una volta, reminiscenze ancestrali. L'inganno del Diavolo - asserirono molti demonologi - non si esercitava direttamente sul corpo fisico, ma sul suo substrato psichico, su quella che gli occultisti chiamarono in seguito «proiezione fluidica». Una specie di «doppio» estroflesso dall'individuo, fatto di sostanza plasmabile tanto da poter assumere qualsivoglia forma, ma in qualche modo legato ancora al corpo fisico: infatti, una ferita inferta al «doppio» si riproduceva identica nel corpo materiale. Innumerevoli sono le storie di Streghe che, cosparsesi di fronte agli inquisitori il corpo di un qualche unguento soporifero, caddero addormentate e, al risveglio, riferirono d'aver partecipato al Sabba in veste di capro, di lupo, di gatto nero o di qualche altro animale selvatico. Se, in tale forma, avevano compiuto un atto esecrabile, ad esempio menato strage in un gregge, prontamente si riscontravano le prove dell'effettuato delitto. Se avevano subito ingiuria, sul loro corpo materiale si producevano i segni della ferita. Ancora una volta, di fronte a queste fole, si ripresenta l'immagine atavica dello Sciamano che, nelle antiche steppe, remota culla della civiltà attuale, entrato nell'estasi procurata dai riti e dalle sostanze magiche, sperimentava la regressione a uno stato pre-umano e pre-evolutivo, e l'«uscita da sé» caratteristica del sogno lucido. Gli stimmatizzati, gli isterici, gli allucinati, per secoli hanno dimostrato quanto potenti possano essere, sulla carne, gli effetti della suggestione psichica. All'epoca della «caccia alle streghe», nell'Europa cinquecentesca, la figura dell'Uomo-Lupo era ormai inestricabilmente legata con quella dello stregone, schiavo del demonio. Giunge così al punto più basso la parabola del lupo: da spirito tutelare, procacciatore di prede in questo mondo e guida delle anime nell'altro, a dèmone da esorcizzare o da evocare solo per assumerne l'avidità di sangue, infine a trastullo di Satana, camuffamento animalesco atto a coprire le azioni più esecrabili e nefande. Cede il sacro, per dar luogo al bestiale. Uomini e lupi
Il termine «Lupo Mannaro» deriva dal basso latino lupus homenarius, vale a dire (e in questo c'è un tocco di ancestrale ironia) «lupo che si comporta come un uomo». Più incerta l'etimologia del francese loupgarou: i più rintracciano nel termine garou una radice che significa «uomo», ma ci sembra più plausibile - certo più sottile - l'interpretazione di Collin de Plancy: loups dont il faut se garer, ossia «lupo dal quale occorre guardarsi», ovvero quello che, avendo assunto le abitudini feroci e aggressive dell'uomo, non si comporta con la timidezza tipica della sua naturale specie. Palesi invece le derivazioni dei termini inglese e tedesco (werewolf, werwulf): la radice indoeuropea wer- è la stessa da cui deriva il latino vir, «uomo». Altrettanto chiare le derivazioni nelle lingue slave: il polacco wilkolak, il russo volklak, il bulgaro vulkolak, lo sloveno volkodlak e così via. In tutte queste aree linguistiche e geografiche, il termine indica un essere umano che, per diversi motivi, assume forma e comportamento ferini, dandosi a stragi sanguinose e abbandonandosi ad atteggiamenti cannibalici. Le sue vittime preferite essendo - come per i Lupi Mannari delle fiabe - i bambini e i cuccioli delle greggi. In qualche raro caso, peraltro, il Lupo Mannaro recupera parte del suo antico retaggio di spirito-guida dell'umanità primeva errante nelle steppe, e diviene creatura depositaria di antiche saggezze, o soccorrevole, o testimone della potenza di Dio (si vedano, a questo riguardo, le narrazioni leggendarie riportate in Appendice). Negli anni dal Quattrocento al Seicento, l'Europa fu soggetta a vere e proprie epidemie di licantropismo (analoghe alle infezioni vampiriche che si verificarono durante il secolo successivo). Colpite in particolare furono regioni della Francia e della Germania, negli anni in cui più feroce si manifestò la caccia alle Streghe. Che i Lupi Mannari fossero creature del Diavolo era dato per certo: l'unica distinzione che si faceva era se la metamorfosi fosse effettiva o soltanto illusoria. Si tracciò (come poi per il vampirismo) un'eziologia, una diagnostica e una profilassi dell'infezione licantropica. Si può divenire Lupi Mannari per diversi motivi. In primo luogo, per una maledizione, scagliata direttamente da Dio, o per suo tramite da un sant'uomo, in seguito a comportamenti di particolare efferatezza. Il modello è, ovviamente, la trasformazione operata da Giove di Licaone in lupo, a punirne le tendenze cannibaliche. San Natale e San Patrizio sono accreditati di analoga impresa, a sca-
pito di intere popolazioni. Diviene licantropo anche chi nasce la notte di Natale (o in occasione di altre festività importanti, come il Capodanno o l'Epifania), in quanto il suo venire al mondo in un tempus sacro può apparire come un atto di profanazione. In molti casi, sono le donne adultere ad essere punite con la trasformazione in belve, per aver violato la santità del sacramento. Dormire a volto scoperto sotto la luna piena è anche, secondo molte tradizioni popolari, fonte di licantropismo. Si può diventare Uomini-Lupo anche per incidente: per esempio, venendo infettati dall'«acqua licantropica» che - a detta di alcune leggende - si raccoglie nelle orme lasciate da un Lupo Mannaro. L'idea che l'infezione possa essere trasmessa dal morso di un altro Uomo-Lupo è invece soltanto di origine cinematografica, mutuata probabilmente dalle modalità di trasmissione dell'infezione vampirica: nelle narrazioni tradizionali non ve ne è traccia. La causa di gran lunga più importante del licantropismo è peraltro di natura diabolico-stregonesca. Si diventa Lupi Mannari per intervento diretto del Diavolo, che dà origine così a una coorte di schiavi per il Sabba, scegliendoli fra persone dalla condotta particolarmente esecrabile. Oppure, si stringe un patto col Demonio, che in cambio dell'anima consegna una veste o una cintura di pelle di lupo, indossando la quale si subisce la mostruosa trasformazione. Grazie a filtri e unguenti speciali, Streghe e Stregoni erano in grado di mutare se stessi e gli altri in lupi; spesso si servivano dei tramutati come di cavalcature per recarsi al Sabba: in tal caso, le montavano al contrario, con la faccia rivolta verso la coda. La persona suscettibile di trasformarsi in Lupo Mannaro si può riconoscere (come il Vampiro) da una serie di tratti caratteristici: il corpo eccezionalmente peloso, gli occhi iniettati di sangue, la dentatura ferina, il temperamento irascibile. Scarse le difese. Il Lupo Mannaro sopporta (come i berserkr) le ferite più atroci, e la sua forza e agilità immense ne rendono difficile la cattura. Si dice (ma è tradizione più letteraria che effettiva) che sia sensibile all'argento: per cui si impiegavano per ucciderlo lame di quel metallo, o pallottole argentee benedette da un prete. Colpirlo in fronte con un forcone può costringerlo a riprendere l'aspetto umano e se, giunti in possesso della veste stregata, la si brucia, si impediscono ulteriori metamorfosi. I sistemi preventivi variano peraltro a seconda delle latitudini. In Europa, si può impedire il triste destino cui sono condannati i bimbi nati a Natale incidendo ogni anno, per tre anni, una croce sul loro piede sinistro
con un ferro rovente. Ad Haiti, si ricorre ad un sistema diverso: si fanno mangiare loro scarafaggi fritti con aglio e olio di ricino. Nel nostro Meridione, per sfuggire al suo inseguimento, basta gettargli addosso un mantello, o accecarlo con una forte luce, o salire una rampa di scale (al licantropo sono vietate). In certe regioni della Francia, si usava una terapia «robusta»: il presunto Lupo Mannaro in forma umana deve essere staffilato da fanciulle vergini con sottili bastoni di frassino, fino a ricoprirlo di sangue; quindi, gli si gettano addosso diverse mestolate di zolfo, olio di ricino, aceto e pece bollenti. Chi sopravvive, è guarito. Animali mannari Il lupo, e talvolta l'orso, sono gli animali più feroci dell'area europea. In altri continenti, il fenomeno dello zoo-antropismo assume diverse morfologie. In certe zone dell'Africa - Abissinia, Sudan, Nubia - l'animale mannaro è la iena. Gli Abissini pensavano che predisposti alla metamorfosi fossero coloro che esercitavano il mestiere di fabbro. Le iene mannare avevano un re, cui ogni notte doveva essere presentato come offerta un cadavere. I Nubiani credevano che a trasformarsi in iene, estromettendo durante il sonno il loro «corpo fluidico», fossero le suocere degli uomini sposati. Nell'Africa Centrale, gli Stregoni si trasformano in leoni e leopardi. Gli Uomini-Leopardo agiscono tuttora, e sono frequenti anche oggi i processi intentati per atti di cannibalismo rituale praticati da adepti di sette segrete che - a imitazione degli antichi Sciamani - si vestono di una pelle di belva, e armano le loro mani con unghie di leopardo per straziare le vittime. Si impiegano anche bevande eccitanti: negli anni Sessanta, era famoso il «tè di Lumumba», fatto bere ai ribelli congolesi per eccitare in loro la furia del berserkr: gli ossessi si gettavano contro le mitragliatrici, e sembravano insensibili ai proiettili che ne dilaniavano il corpo. A lungo gli Inglesi lottarono contro i Mau-Mau uomini-leone e si ha notizia anche di uomini-pantera, uomini-caimano, uomini-scimpanzé. Di molte di queste sette fanno parte anche donne. Nell'America Settentrionale la belva scelta per la trasformazione è ancora il lupo. Una tribù pellerossa, i Pawnee, si auto-definiva «stirpe di lupo» e, cacciando i bisonti, ne indossava la pelle e ne imitava la tecnica. I giovani erano condotti a spiare i lupi, per impararne il modus vivendi. Al Centro e al Sud, invece, ci si rivolgeva al giaguaro.
L'Asia è il regno della tigre. Uomini-tigre si trovavano (e forse si trovano ancora) in Malesia, a Burma, in India. Gli Stregoni invasi dallo spirito della tigre si comportano con inaudita ferocia; per recuperare la natura umana, occorre che passino attraverso una porta. Anche in Cina appaiono le trasformazioni in tigre, pur se non mancano, secondo le regioni, altri animali, fra cui il topo e la scolopendra. La volpe è presente soprattutto in Giappone, e non sempre peraltro agisce in senso malefico. Nella regione di Ninko, si dice che donne-volpi possano entrare in famiglie umane, sposarsi, e portare fortuna a chi le ha accolte. Lupi di carta Tutta questa massa di materiale leggendario non ha mancato, ovviamente, di interessare la narrativa. L'episodio del «versipelle» nel Satyricon di Petronio è la prima apparizione romanzesca del Lupo Mannaro, la cui sanguinosa figura corre poi per secoli nella poesia e nella fiaba: il «lupo cattivo» di Cappuccetto Rosso è una figura simbolica che ha sollecitato le interpretazioni più diverse. In epoca moderna, la prima apparizione del Lupo Mannaro si ritrova in un episodio del romanzo The Albigenses (1824) di Charles Maturin, uno dei creatori della narrativa gotica. Lo si incontra ancora, quindici anni dopo, in un altro capitolo di romanzo, The Phantom Ship (1839) di Frederick Marryat. La popolarità del Vampiro di Polidori giova anche alla figura del Lupo Mannaro, che conosce a metà dell'Ottocento un certo successo letterario, seppure non paragonabile a quello del sinistro succhiatore di sangue. Successo sancito dall'apparizione del solito romanzo-fiume venduto in dispense settimanali: Wagner the Wher-Wolf, di George William Reynolds, apparso fra il 1846 e il 1847. Di uomini e lupi si occuparono poi autori come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, Erckmann & Chatrian. Nell'ambito della letteratura popolare, tutti i «maestri del brivido» (citiamo Blackwood, Lovecraft, Conan Doyle) hanno dedicato racconti al truce mostro antropofago. Nel 1923, la comparsa in edicola di Weird Tales, la celebre rivista americana dell'Orrido, portò a una moltiplicazione di racconti licantropia: sulle sue pagine apparve fra l'altro il ciclo del «Lupo Mannaro di Ponkert», ispirato da Lovecraft e scritto da H. Warner Munn. Fu su una rivista concorrente, tuttavia, Unknown, diretta da John W.
Campbell, che apparve quello che a tutt'oggi è forse il più famoso romanzo licantropico: Darker than You Think (1948), di Jack Williamson, che rinnovò ampiamente il cliché ormai un po' logoro. Fra gli autori successivi, citiamo Whitney Strieber, cui si deve il bel romanzo Wolfen (1978), Tanith Lee con Lycanthia (1981) e il sempiterno Stephen King. Anche il cinema ha detto la sua in campo licantropico. Dopo una serie di pellicole di scarsa consistenza (si veda la Filmografia in questo volume), nel 1941 il personaggio «sfondò» con L'Uomo-lupo di George Waggner, che nel ruolo centrale consacrò l'attore Larry Talbot, il quale in seguito girò numerosi altri film come Lupo Mannaro, in molti dei quali compariva in coabitazione con altri mostri celebri, come Dracula e la creatura di Frankenstein. Confinato in pellìcole di serie B, negli anni successivi il lupo umano ha conosciuto poche punte di eccellenza. Negli anni Cinquanta, l'unica pellicola notevole è stata I Was a Teenage Werewolf (1957), di Gene Fowles, in cui la tematica si sposta in ambito giovanile. Da segnalare, dopo, The Howling (1980), di Joe Dante, fino alla prima pellicola di assoluta eccellenza, An American Werewolf in London (1981) di John Landis, divenuto rapidamente un cult-movie. Dopo, ben poco, fino al recentissimo Wolf (1993) di Michael Nichols, con Jack Nicholson nella parte del licantropo, che ha battuto tutti i record d'incasso ai botteghini dei cinema degli Stati Uniti, dove è stato proiettato. GIANNI PILO / SEBASTIANO FUSCO PARTE PRIMA MALE DI LUNA IL LUPO MANNARO di Gaio Petronio Arbitro dal Satyricon, II secolo D.C. LXII. «Il caso volle che il padrone andasse a Capua per vendere qualche cianfrusaglia fuori uso. Approfitto dell'occasione e persuado un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava d'un soldato coraggioso come un leone. Ci avviammo al canto del gallo: splendeva una luna che pareva giorno. Ma, arrivati a certe tombe, il mio uomo si nasconde a fare i suoi bisogni tra le pietre, mentre io continuo a camminare canticchiando e mi metto a contarle. Mi volto e che ti vedo? Il mio compagno
si spogliava e buttava le vesti sul ciglio della strada. Mi sentii venir meno il respiro e cominciai a sudare freddo. Senonché quello si mette a inzuppare di orina le vesti e diventa d'improvviso un lupo. Non crediate ch'io scherzi! Vi assicuro che non direi bugie per tutto l'oro del mondo. Ma che vi stavo dicendo? Ah, dunque, appena diventato lupo, si mette a ululare, ed entra nel bosco. Sul principio, io non sapevo più dove diamine fossi, ma poi, quando m'avvicino per raccogliere le vesti, le trovo mutate in pietre. Se non sono morto allora dalla paura, vuol dire che non muore più nessuno. Mi faccio forza e, snudata la spada, comincio a sciabolare le ombre fino a che non arrivo alla villa dove abitava la mia amica. Entrai che ero addirittura senza fiato, col sudore che mi colava giù per la schiena e due occhi spiritati. Non ce la facevo più a stare in piedi. La mia Melissa pareva stupita al vedermi in giro a un'ora simile e aggiunse: "Se tu fossi arrivato poco fa, ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nella villa e ha scannato tutte le pecore peggio di un macellaio. Ma anche se è riuscito a fuggire l'ha pagata cara, perché uno schiavo gli ha trapassato il collo con una lancia". Al sentire questo non riuscii a chiudere occhio durante tutta la notte e, fattosi giorno, me ne tornai di volo a casa di Gaio, il nostro padrone, come un mercante svaligiato. E quando arrivai nel punto in cui le vesti erano diventate pietre, non trovai più che sangue. Ma quando entrai in casa, vidi il soldato che giaceva disteso sul mio letto, sanguinante come un bue, e un medico che gli curava il collo. Capii finalmente che si trattava di un Lupo Mannaro, e da allora non mi fu più possibile dividere con lui un pezzo di pane, neanche se m'avessero ammazzato. Spieghi ognuno come vuole questa faccenda: per me, i vostri Geni me la facciano pagare se ho aggiunto qualcosa di mio.» LA LUPA BIANCA DELLE MONTAGNE HARTZ The White Wolf Of The Hartz Mountains di Frederick Marryat The Phantom Ship [cap. 39], 1837 1. Prima dell'una, Philip e Krantz si erano imbarcati, e navigavano sulla peroqua. Non avevano difficoltà a mantenere la rotta; le isole di giorno, e le nitide stelle la notte, erano la loro bussola. È vero che non seguivano la traiettoria
più diretta, ma quella più sicura, navigando le acque più tranquille, e puntando più verso Nord che verso Ovest. Molte volte furono inseguiti dai prahos malesi che infestavano le isole, ma la velocità della piccola peroqua era la loro sicurezza. In verità, l'inseguimento in genere, veniva abbandonato non appena la piccolezza del vascello veniva scoperta dai pirati, che pensavano di trovarvi poco o nessun bottino. Una mattina, mentre veleggiavano tra le isole, con meno vento del solito, Philip osservò: «Krantz, hai detto che ci sono stati degli avvenimenti nella tua vita, o ad essa connessi, che confermerebbero il misterioso racconto che ti ho confidato. Vorresti dirmi ora a che cosa ti riferivi?». «Certamente», replicò Krantz; «ho pensato spesso di farlo, ma una circostanza o l'altra me l'hanno finora impedito. Questa è, però, l'occasione adatta. Preparati perciò ad ascoltare una strana storia, strana, forse, quanto la tua.» «Do per scontato che hai già sentito parlare delle Montagne Hartz», osservò ancora Krantz. «Non ne ho mai sentito parlare, per quanto rammenti», replicò Philip; «ma in qualche libro ho letto di quelle montagne e degli strani avvenimenti che vi sono accaduti.» «È veramente una regione selvaggia», riprese Krantz, «e si raccontano molte storie strane al riguardo. Ma, per quanto strane siano, ho buoni motivi per crederle vere. Mio padre non era nato tra le Montagne Hartz, né vi risiedeva fin dall'inizio della sua vita. Era uno dei servi di un nobile ungherese, che aveva grandi possedimenti in Transilvania. Ma, sebbene fosse un servo, non era affatto povero e ignorante. In effetti, era ricco, e la sua intelligenza e rispettabilità erano tali che il suo Signore lo aveva elevato al ruolo di maggiordomo. Ma chiunque abbia la ventura di nascere servo, servo deve rimanere, anche se diviene un benestante: tale era la condizione di mio padre. Mio padre era sposato da cinque anni, e dal suo matrimonio erano nati tre figli: mio fratello maggiore Caesar, io (Hermann), e una sorella, Marcella. Sai bene, Philip, che il Latino è ancora la lingua parlata in quel paese, e questo è il motivo dei nostri nomi altisonanti. Mia madre era molto bella, purtroppo però, più bella che virtuosa. Fu vista e notata dal Signore. Mio padre fu mandato via a compiere qualche missione e, durante la sua assenza, mia madre, lusingata dalle attenzioni e vinta dall'assiduità di quel
nobile, cedette ai suoi desideri. Accadde che mio padre tornasse inaspettatamente, e scoprisse l'intrigo. La prova della colpa di mia madre era certa: egli la sorprese in compagnia del seduttore! Trascinato dall'impeto dei suoi sentimenti, aspettò l'occasione propizia, e uccise la propria moglie e il suo seduttore durante un convegno segreto. Conscio del fatto che, in qualità di servo, nemmeno la provocazione da lui ricevuta bastava a giustificare la sua condotta, raccolse frettolosamente tutti i soldi su cui riuscì a mettere le mani. Poiché eravamo nel cuore dell'inverno, attaccò i cavalli alla slitta, prese con sé i propri figli, e partì nel pieno della notte. Era già lontano prima che il tragico avvenimento fosse risaputo. Cosciente del fatto che sarebbe stato cercato, e che non aveva alcuna possibilità di fuga se restava in una zona qualsiasi del suo paese natio (in cui le autorità avrebbero potuto imprigionarlo), continuò la sua fuga senza soste finché non si seppellì nell'intrico e nella solitudine delle Montagne Hartz. Naturalmente, tutto quello che ti ho appena narrato, lo appresi solo in seguito. I miei ricordi più vecchi sono legati a un capanno rozzo, eppure comodo, in cui vivevo con mio padre, mio fratello e mia sorella. Si trovava ai confini di una di quelle vaste foreste che coprono la parte settentrionale della Germania. Intorno al capanno c'era qualche acro di terreno che, durante i mesi estivi, mio padre coltivava, e che, sebbene fruttasse uno scarso raccolto, era sufficiente al nostro sostentamento. In inverno, vi passavamo molto tempo dentro, poiché, quando mio padre andava a caccia, noi restavamo soli, e i lupi durante quella stagione si aggiravano incessantemente in cerca di preda. Mio padre aveva acquistato il capanno e il terreno circostante da uno di quei rudi abitanti delle foreste, che si guadagnano da vivere in parte cacciando e in parte bruciando il carbone, allo scopo di fondere l'oro delle miniere dei dintorni. Era lontano circa due miglia dalle altre abitazioni. In questo momento, ho davanti agli occhi quel paesaggio. Gli alti pini che si elevavano sulla montagna sovrastante, e la selvaggia distesa delle foreste che erano più sotto. Ci arrampicavamo sui rami e sulle cime più alte di quegli alberi per guardare il nostro capanno e la montagna che scendeva ripida nella vallata lontana. In estate la veduta era bella ma, durante il rigido inverno, non si poteva immaginare una scena più desolata.
Ho già detto che, in inverno, mio padre era impegnato nella caccia. Ogni giorno ci lasciava, e spesso chiudeva a chiave la porta per impedirci di uscire. Non aveva nessuno che l'aiutasse, o che si prendesse cura di noi: non era facile trovare una serva che volesse vivere in una simile solitudine. Ma, anche se ne avesse trovata una, mio padre non l'avrebbe ricevuta, perché era inorridito dal sesso, come la differenza del suo comportamento verso di noi - i suoi due figli maschi - e verso la mia povera sorellina Marcella, testimoniava a sufficienza. Potresti pensare che fossimo tristemente abbandonati a noi stessi. In verità, soffrivamo molto, perché mio padre, nel timore che potessimo farci del male, non ci permetteva di tenere il fuoco acceso quando lasciava il capanno. Perciò eravamo costretti a infilarci sotto i mucchi di pelle d'orso, e a stare il più possibile al caldo fino al suo ritorno. Poi, la sera, il fuoco scoppiettante era la nostra gioia. Che mio padre avesse scelto quel genere di vita irrequieta potrebbe apparire strano, ma il fatto era che non riusciva a stare tranquillo. Fosse per il rimorso di aver commesso un omicidio, fosse per la miseria risultante dal cambiamento di situazione, o per entrambi i motivi insieme, non era felice se non era in uno stato di attività. I bambini, comunque, se lasciati così a lungo a se stessi, acquistano una maturità non comune alla loro età. Così accadde a noi. E, durante i brevi giorni dell'inverno, stavamo in silenzio a pensare con nostalgia alle ore felici, quando la neve si sarebbe sciolta, le foglie sarebbero spuntate, gli uccelli avrebbero cominciato le loro canzoni, e noi saremmo stati di nuovo liberi. Così vivemmo, in questa maniera selvaggia e singolare, finché mio fratello Caesar ebbe nove anni, io sette, e mia sorella cinque, e avvennero quei fatti su cui è basato il racconto che sto per narrarti. Una sera mio padre tornò a casa più tardi del solito. La caccia non gli era andata bene e, poiché il tempo era molto rigido e molti centimetri di neve erano ammassati sul terreno, non solo era molto infreddolito, ma era anche di pessimo umore. Aveva portato della legna, e noi tre eravamo felici di aiutarci l'un l'altro a soffiare sui tizzoni per infiammarli, quando afferrò la povera piccola Marcella per un braccio e la spinse da parte. La bambina cadde, urtò con la bocca a terra, e sanguinò abbondantemente. Mio fratello corse ad alzarla. Abituata ai maltrattamenti, e timorosa di mio padre, lei non osò piangere, ma alzò gli occhi sul suo volto con un'espressione commovente. Mio padre
avvicinò il suo sgabello al camino, mormorò qualcosa di offensivo nei riguardi delle donne, e si dedicò ad attizzare il fuoco, che sia io che mio fratello avevamo abbandonato quando la nostra sorellina era stata trattata così brutalmente. Una fiamma allegra fu ben presto il risultato dei suoi sforzi, ma noi non ci raccogliemmo, come al solito, intorno al focolare. Marcella, ancora sanguinante, si ritirò in un angolo, e mio fratello e io portammo i nostri sgabelli accanto a lei, mentre mio padre si sporgeva verso il fuoco, cupo e solo. Rimanemmo in questo modo per una mezz'ora, finché l'ululato di un lupo, vicino alla finestra del capanno, ci fece trasalire. Mio padre si alzò di scatto, e afferrò il fucile. Quando l'ululato si ripeté, egli esaminò l'innesco, e poi rapidamente lasciò il capanno, chiudendosi la porta alle spalle. Tutti noi aspettavamo (ascoltando ansiosamente), perché pensavamo che, se riusciva a sparare al lupo, sarebbe ritornato con un umore migliore. E, sebbene fosse aspro con tutti noi, e soprattutto con la nostra sorellina, noi amavamo nostro padre, e ci piaceva vederlo allegro e felice: del resto, chi altro potevamo amare e rispettare? A questo punto, devo osservare che forse non ci sono mai stati tre bambini più affezionati l'uno all'altro. Noi non litigavamo, come fanno altri bambini. E se, per caso, nasceva qualche disaccordo tra mio fratello e me, la piccola Marcella correva da noi, ci baciava entrambi e, con le sue implorazioni, ci spingeva a fare pace. Marcella era una bambina gentile, amabile. Ho davanti agli occhi i suoi bei tratti. Ahimè! Povera, piccola, Marcella!» «È morta allora?», chiese Philip. «Morta! Sì, è morta! Ma come morì? Ma non devo anticipare, Philip; lasciami raccontare la mia storia. Aspettammo, ma lo sparo del fucile non si sentì, e allora il mio fratello maggiore disse: "Nostro padre ha seguito il lupo, e non tornerà subito. Marcella, lascia che ti laviamo il sangue dalla bocca, poi lasceremo quest'angolo e andremo accanto al fuoco a scaldarci". Facemmo in questo modo, e restammo accanto al camino fino a mezzanotte, chiedendoci a ogni momento che passava perché nostro padre non tornasse. Non immaginavamo che fosse in pericolo, ma pensavamo che avesse inseguito il lupo per molto tempo. "Andrò a guardare fuori per vedere se nostro padre sta venendo", disse mio fratello Caesar, andando verso la porta. "Fa' attenzione", disse Marcella, "i lupi devono essere in giro, e noi non possiamo ucciderli, fratello."
Mio fratello aprì la porta con molta prudenza, e solo di qualche centimetro, poi scrutò fuori. "Non vedo niente", disse, dopo qualche momento, e ci raggiunse accanto al fuoco. "Non abbiamo cenato", risposi io, perché mio padre di solito preparava da mangiare non appena tornava a casa e, durante la sua assenza, non avevamo nient'altro di cui cibarci che gli avanzi del giorno precedente. "E se nostro padre toma a casa, dopo la caccia, Caesar", disse Marcella, "sarà felice di trovare la cena pronta. Cuciniamo per lui e per noi." Caesar salì su uno sgabello, e prese delle provviste... ho dimenticato se fosse cervo o carne d'orso. Tagliammo la solita quantità di carne, e ci mettemmo a pulirla, come eravamo soliti fare sotto la sorveglianza di nostro padre. Eravamo impegnati a metterla nei piatti accanto al fuoco, in attesa del suo arrivo, quando sentimmo il suono di un corno. Ci mettemmo in ascolto... poi si sentì un rumore all'esterno e, un minuto dopo, mio padre entrò e introdusse una giovane donna e un uomo scuro e robusto, vestito da cacciatore. Forse ora farei bene a raccontare quello che mi fu noto solo anni dopo. Quando mio padre aveva lasciato il capanno, aveva scorto una grande lupa bianca a una trentina di metri di distanza. Non appena l'animale aveva visto mio padre, si era allontanato lentamente, ringhiando e digrignando i denti. Mio padre l'aveva seguito. L'animale non correva, ma si manteneva sempre a una certa distanza. E a mio padre non piaceva sparare finché non era più che certo che la sua pallottola avrebbe colto nel segno. Perciò continuarono ad avanzare per qualche tempo: ogni tanto la lupa lasciava molto indietro mio padre, quindi si fermava a ringhiargli contro in segno di sfida, e poi, quando lui si avvicinava, ripartiva a grande velocità. Ansioso di sparare all'animale (perché il lupo bianco è molto raro), mio padre continuò l'inseguimento per parecchie ore, durante le quali salì costantemente lungo la montagna. Devi sapere, Philip, che su quelle montagne ci sono luoghi particolari che si crede siano - e come la mia storia ti proverà, questa credenza è veritiera - abitati da influssi malefici. Sono ben noti ai cacciatori, che li evitano accuratamente. Ora, uno di questi luoghi, una radura nella foresta di pini che era più sopra del capanno, era stato segnalato a mio padre come pericoloso proprio per quei motivi. Ma, sia che non credesse a quelle storie superstiziose, sia che, nell'avidità della caccia le avesse trascurate, fu attirato dalla lupa
bianca in quella radura, dove l'animale rallentò. Mio padre si avvicinò, portò il fucile alla spalla, e stava per sparare, quando la lupa scomparve improvvisamente. Egli pensò che la neve gli avesse annebbiato la vista, e abbassò il fucile per cercare la belva, ma quella era scomparsa. Come avesse fatto a fuggire in quella radura, senza farsi vedere, era al di là della sua comprensione. Deluso dal suo insuccesso stava per ritornare sui propri passi, quando sentì il suono lontano di un corno. Lo stupore nel sentire un suono simile, a un'ora simile, in un luogo simile, fu tale da fargli dimenticare la delusione. Restò inchiodato al suolo. Dopo un minuto il corno suonò una seconda volta, e a una distanza inferiore. Mio padre restò immobile ad ascoltare. Il corno suonò una terza volta. Ho dimenticato il termine che serviva a definirlo, ma era il segnale - ben noto a mio padre - che indicava che un gruppo di cacciatori si era smarrito nei boschi. Dopo qualche minuto, mio padre vide un uomo sul dorso di un cavallo, con una donna seduta sulla groppa, entrare nella radura, e cavalcare verso di lui. Sulle prime, ricordò tutte le strane storie che aveva sentito a proposito degli esseri soprannaturali che si diceva frequentassero quelle montagne. Ma, quando la coppia si avvicinò, si accorse che erano esseri umani come lui. Non appena gli furono vicini, l'uomo che conduceva il cavallo gli parlò. "Amico cacciatore, siete nei boschi a quest'ora tarda, e questa è una fortuna per noi. Cavalchiamo da molto tempo, e temiamo per la nostra vita, che è in grave pericolo. Queste montagne ci hanno consentito di sfuggire ai nostri inseguitori ma, se non troviamo un riparo e del cibo, moriremo per la fame e per il freddo della notte. Mia figlia, che è dietro di me, è più morta che viva. Ditemi, potete aiutarci?" "Il mio capanno è a qualche miglio di distanza", replicò mio padre, "ma ho ben poco da offrirvi oltre un riparo dalle intemperie. Siete i benvenuti nella mia misera casa. Posso chiedervi da dove venite?" "Sì, amico, non è più un segreto. Siamo fuggiti dalla Transilvania, dove l'onore di mia figlia e la mia vita erano in pericolo!" Quest'informazione fu sufficiente a svegliare l'interesse di mio padre. Ricordò la propria fuga: ricordò la perdita dell'onore di sua moglie, e la tragedia con cui si era conclusa la storia. Offrì subito e con cordialità tutto l'aiuto che poteva loro fornire. "Allora, non c'è tempo da perdere, mio buon signore", osservò il cavaliere. "Mia figlia è gelata, e non ce la farà a resistere oltre all'inclemenza del
tempo." "Seguitemi", replicò mio padre, e li guidò verso casa. "Sono stato attirato tanto lontano, da una grande lupa bianca", osservò mio padre. "È arrivata fino alla finestra del mio capanno, altrimenti non sarei stato fuori a quest'ora della notte." "Quell'animale ci è passato accanto quando siamo usciti dal bosco", disse la donna, con voce argentina. "Stavo per sparargli", osservò il cacciatore; "ma, visto che ci ha reso un così buon servizio, sono lieto di averlo lasciato fuggire." In un'ora e mezza, durante la quale mio padre camminò a un passo veloce, il gruppo arrivò al capanno, e, come ho già detto, entrarono. "Siamo arrivati al momento giusto", osservò il cacciatore dalla pelle scura, annusando l'odore della carne arrostita. Poi si avvicinò al fuoco e osservò mio fratello, mia sorella e me. "Avete dei cuochi molto giovani, Meinheer!" "Sono felice che non dovremo aspettare", replicò mio padre. "Venite, signorina, sedetevi accanto al fuoco; avete bisogno di calore dopo quella lunga cavalcata al gelo." "E dove posso sistemare il mio cavallo, Meinheer?", osservò il cacciatore. "Mi prenderò io cura di lui", replicò mio padre, uscendo dalla porta del cottage. La donna, però, deve essere descritta nei particolari. Era giovane, e sembrava avesse una ventina d'anni. Indossava degli abiti da viaggio, bordati di una folta pelliccia bianca, e sul capo portava un cappello di ermellino bianco. I suoi tratti erano bellissimi, almeno così mi sembrava, e così dichiarò mio padre. I suoi capelli erano biondo chiaro, lucidi, splendenti e lucenti come uno specchio. La bocca, sebbene piuttosto grande quando era aperta, metteva in mostra i denti più candidi che abbia mai visto. Ma c'era qualcosa nei suoi occhi, brillanti com'erano, che spaventò noi bambini. Erano così irrequieti, così furtivi. A quell'epoca non avrei saputo dire perché, ma sentivo che c'era crudeltà in quegli occhi. Quando ci fece cenno di avvicinarci, ci accostammo a lei con timore. Eppure era bella, bellissima. Parlò con gentilezza a me e a mio fratello, ci diede qualche colpetto affettuoso sulla testa e ci carezzò. Ma Marcella non volle avvicinarsi. Al contrario, sgattaiolò via, si nascose sotto le coperte, e non volle nemmeno aspettare la cena che aveva desiderato con tanta ansia solo mezz'ora prima.
Mio padre, dopo aver sistemato il cavallo in un capanno vicino, tornò, e la cena fu disposta sul tavolo. Quando fu terminata, mio padre invitò la giovane a prendere possesso del letto, mentre lui sarebbe rimasto accanto al camino con suo padre. Dopo qualche esitazione da parte di lei, questa sistemazione fu accolta di buon grado, e io e mio fratello ci infilammo nell'altro letto con Marcella, perché fino a quel momento avevamo sempre dormito insieme. Ma non riuscimmo a dormire: c'era qualcosa di così insolito, non solo nel vedere gente estranea, ma nell'avere ospiti nel capanno quelle persone, che eravamo sconcertati. Per quanto riguarda la povera piccola Marcella, lei stava zitta, ma io mi accorsi che tremò tutta la notte, e talvolta mi parve che soffocasse un singhiozzo. Mio padre aveva tirato fuori dei liquidi, di cui faceva raramente uso, e lui e lo strano cacciatore erano restati a berli e a parlare accanto al fuoco. Le nostre orecchie erano pronte ad afferrare il più lieve bisbiglio, tanta era la nostra curiosità. "Avete detto che venite dalla Transilvania?", osservò mio padre. "Proprio così, Meinheer", replicò il cacciatore. "Ero uno dei servi della nobile casa di... Il mio Signore insisteva che abbandonassi mia figlia ai suoi desideri. Tutto è finito con qualche centimetro del mio coltello da caccia nel suo cuore." "Noi siamo compatrioti e compagni di sventura", replicò mio padre, prendendo la mano del cacciatore e stringendola con calore. "Veramente! Allora anche voi venite dalla Transilvania?" "Sì, e anch'io sono fuggito per salvarmi la vita. Ma la mia è una storia triste." "Come vi chiamate?", chiese il cacciatore. "Krantz." "Che cosa? Krantz di...? Ho sentito la vostra storia. Non avete bisogno di rinnovare il vostro dolore ripetendola ora. Benvenuto, benvenuto, Meinheer, e, posso anche dire, mio caro parente. Io sono il vostro secondo cugino, Wilfred di Barnsdorf", gridò il cacciatore, alzandosi e abbracciando mio padre. Riempirono i loro boccali di corno fino all'orlo, e bevvero l'uno dal bicchiere dell'altro, alla maniera tedesca. Poi la conversazione fu continuata a voce più bassa. Tutto quello che riuscimmo a sentire fu che il nostro nuovo parente e sua figlia avrebbero vissuto nel nostro capanno, almeno per il momento. Dopo circa un'ora, entrambi si abbandonarono sulle sedie e sembravano addormentati.
"Marcella, cara, hai sentito?", disse mio fratello sottovoce. "Sì", replicò Marcella, in un sussurro, "ho sentito tutto. Oh! Fratello, non posso sopportare la vista di quella donna... mi fa tanta paura." Mio fratello non rispose e, poco dopo, eravamo tutti e tre profondamente addormentati. Quando la mattina dopo ci svegliammo, scoprimmo che la figlia del cacciatore si era alzata prima di noi. Pensai che sembrava più bella che mai. Si avvicinò alla piccola Marcella e l'accarezzò. La bambina scoppiò a piangere, e singhiozzò fino a farsi scoppiare il cuore. Ma, senza dilungarmi nei particolari, dirò che il cacciatore e sua figlia si sistemarono nel nostro capanno. Mio padre e l'altro andavano a caccia ogni giorno, mentre Christina restava con noi. Lei adempiva a tutti i doveri casalinghi; era molto gentile con noi bambini, e gradualmente perfino l'antipatia di Marcella scomparve. Ma un grande cambiamento avvenne in mio padre. Sembrava aver superato la sua avversione al sesso, ed era molto attento a Christina. Spesso, dopo che suo padre e noi ci eravamo coricati, restava in piedi con lei a conversare a voce bassa accanto al fuoco. Avrei dovuto dire che mio padre e il cacciatore Wilfred dormivano in un'altra parte del capanno, e che il letto, occupato prima da lui, e che era nella stessa camera del nostro, era stato dato a Christina. I nostri ospiti erano da tre settimane al capanno quando, una sera, dopo che noi bambini eravamo stati mandati a letto, si tenne una consultazione. Mio padre aveva chiesto Christina in sposa, e aveva ottenuto sia il consenso della ragazza che quello di Wilfred. Dopodiché, ebbe luogo una conversazione che più o meno fu la seguente: "Potete prendere mia figlia, Meinheer Krantz, e avrete tutte le mie benedizioni. Io poi partirò per cercare un'altra abitazione. Non importa dove". "Perché non rimanete, Wilfred?" "No, no, sono chiamato altrove. Che ciò basti, e non fate altre domande. Avete mia figlia." "Vi ringrazio per avermi concesso la sua mano: terrò in grande stima vostra figlia. Ma c'è una difficoltà." "So che cosa vorreste dire. Non c'è nessun sacerdote in questa regione selvaggia, è vero, e non c'è nessuna legge da rispettare. Ma una cerimonia deve avvenire tra voi per soddisfare suo padre. Acconsentite a sposarla alla mia maniera? Se acconsentite, vi sposerò io stesso." "Acconsento", replicò mio padre. "Allora prendetela per mano. Ora, Meinheer, giurate."
"Giuro", ripeté mio padre. "Su tutti gli Spiriti delle Montagne Hartz..." "Be', e perché non su Dio?", lo interruppe mio padre. "Perché non sono dell'umore adatto", ribatté Wilfred. "Se preferisco questo giuramento, meno vincolante, forse, di un altro, certamente non mi vorrete contraddire." "Be', sia come volete, allora. Assecondo il vostro umore. Mi farete giurare su quello in cui non credo?" "Molti lo fanno, ed esteriormente sono cristiani", ribatté Wilfred. "Ditemi, voleve sposarvi, o porto via mia figlia insieme a me?" "Procedete pure", replicò mio padre con impazienza. "Giuro su tutti gli Spiriti delle Montagne Hartz, su tutti i loro poteri benigni o maligni, che prendo Christina come mia legittima moglie, che la proteggerò, la curerò e l'amerò per sempre, che la mia mano non si leverà mai contro di lei." Mio padre ripeté le parole dopo Wilfred. "E se mancherò al mio giuramento, possa la vendetta degli Spiriti ricadere su di me e sui miei figli. Possano essi morire per mano dell'avvoltoio, o di altre belve della foresta. Possa la loro carne essere dilaniata dalle membra, e le loro ossa sbiancare nelle foreste. Tutto questo io giuro." Mio padre esitò, quando Wilfred disse le ultime parole. La piccola Marcella non poté più trattenersi e, quando mio padre ripeté l'ultima frase, scoppiò in lacrime. Questa interruzione improvvisa parve sconvolgere il gruppo, e soprattutto mio padre. Parlò in tono aspro alla bambina, che controllò i singhiozzi, affondando il volto tra le coperte. Così avvenne il secondo matrimonio di mio padre. La mattina dopo, il cacciatore Wilfred montò a cavallo e partì. Mio padre riprese a dormire nel proprio letto, che era nella stessa stanza del nostro, e le cose andarono più o meno come prima del matrimonio. Solo che la nostra nuova matrigna non aveva più alcuna gentilezza nei nostri confronti. In realtà, durante le assenze di mio padre, ci picchiava spesso. Maltrattava soprattutto la piccola Marcella, e i suoi occhi fiammeggiavano quando guardava avidamente la graziosa e amabile bimba. Una notte mia sorella svegliò me e mio fratello. "Che cosa c'è?", disse Caesar. "Lei è uscita", sussurrò Marcella. "Uscita!" "Sì, è uscita dalla porta in camicia da notte", replicò la bambina. "L'ho
vista alzarsi dal letto, guardare nostro padre per vedere se dormiva, e poi andare alla porta." Che cosa l'avesse indotta a lasciare il letto, e uscire svestita, in una notte invernale così fredda, con la neve alta, ci era incomprensibile. Restammo svegli e, dopo un'ora, sentimmo l'ululato di un lupo vicino alla finestra. "C'è un lupo", disse Caesar. "Sarà fatta a pezzi." "Oh, no!", gridò Marcella. Dopo qualche minuto la nostra matrigna apparve: era in camicia da notte, come aveva detto Marcella. Non tirò il saliscendi, per non fare rumore, poi si avvicinò a un secchio pieno d'acqua, si lavò faccia e mani, e scivolò nel letto accanto a nostro padre. Tremavamo tutti e tre, e nemmeno capivamo il perché; ma decidemmo di stare attenti la notte seguente. Lo facemmo, e non solo la notte successiva, ma anche molte altre. E, sempre alla stessa ora, vedemmo la nostra matrigna alzarsi dal letto e lasciare il capanno. Dopo che lei era uscita, invariabilmente sentivamo l'ululato di un lupo sotto la nostra finestra, e al suo ritorno la vedevamo sempre lavarsi prima di ritornare a letto. Notammo anche che mangiava raramente e che, quando lo faceva, sembrava mangiare con disgusto. Ma quando prendeva la carne per preparare la cena, spesso, furtivamente, si infilava un pezzo di carne cruda in bocca. Mio fratello Caesar era un ragazzo coraggioso; non voleva parlare a nostro padre finché non ne avessimo saputo di più. Decise che l'avrebbe seguita fuori per sapere che cosa facesse. Marcella e io ci sforzammo di dissuaderlo dal progetto. Ma lui non ci diede ascolto. La notte seguente si coricò tutto vestito e, non appena la nostra matrigna lasciò il capanno, balzò in piedi, prese il fucile di nostro padre, e la seguì. Puoi facilmente immaginare in che stato di ansia restammo io e Marcella durante la sua assenza. Dopo qualche minuto sentimmo lo sparo di un fucile. Io non svegliai mio padre; restammo solo a tremare per l'ansia. Dopo qualche minuto, vedemmo la nostra matrigna entrare nel capanno: aveva il vestito insanguinato. Misi la mano sulla bocca di Marcella per impedirle di gridare, sebbene anch'io fossi allarmato. La nostra matrigna si avvicinò al letto di nostro padre, guardò per vedere se dormiva, poi si avvicinò al focolare e soffiò sui tizzoni per farli infiammare. "Chi è?", disse mio padre, svegliandosi. "Sta' tranquillo, caro", replicò la mia matrigna; "sono io. Ho acceso il fuoco per riscaldare dell'acqua. Non mi sento molto bene." Mio padre si girò dall'altra parte, e si riaddormentò subito. Ma noi conti-
nuammo a osservare la nostra matrigna. Si cambiò la camicia da notte, e gettò gli abiti che aveva indosso nel fuoco. Allora ci accorgemmo che sanguinava abbondantemente dalla gamba destra, come se avesse una ferita d'arma da fuoco. Si fasciò la gamba, poi si vestì e rimase accanto al fuoco fino al sorgere del giorno. Il cuore della povera piccola Marcella batteva forte accanto a me, come, del resto, batteva forte anche il mio. Dov'era nostro fratello Caesar? Da chi altri la nostra matrigna poteva essere stata ferita se non da lui? Alla fine mio padre si alzò, e allora parlai per la prima volta. Dissi: "Padre, dov'è mio fratello?". Esclamò lui: "Perché, dove può essere?". "Dio Misericordioso! Se penso a come ho dormito male questa notte", osservò la mia matrigna. "Ho sentito qualcuno aprire il saliscendi della porta; e, mio caro, che fine ha fatto il tuo fucile?" Mio padre lanciò un'occhiata al di sopra del camino, e si accorse che il suo fucile mancava. Per un momento parve perplesso; poi, afferrata una grande ascia, uscì dal capanno, senza dire nemmeno una parola. Non restò fuori a lungo. Dopo pochi minuti ritornò stringendo tra le braccia il corpo mutilato del mio povero fratello. Lo stese sul letto, e gli coprì il volto. La mia matrigna si alzò a guardare il corpo, mentre io e Marcella ci mettemmo in un angolo a piangere e singhiozzare amaramente. "Ritornate a letto, bambini", disse lei in tono aspro. "Marito", continuò, "tuo figlio deve aver preso il fucile per sparare a un lupo, e l'animale era troppo forte per lui. Povero ragazzo! Ha pagato cara la sua avventatezza." Mio padre non rispose. Avrei voluto parlare - dire tutto - ma Marcella, che aveva compreso la mia intenzione, mi tenne per un braccio, e mi guardò con uno sguardo così implorante che desistei. Mio padre, perciò, restò nella sua ignoranza. Ma Marcella e io, sebbene non comprendessimo il perché, sapevamo che la nostra matrigna era in qualche modo connessa alla morte di Caesar. Quel giorno, mio padre uscì a scavare una tomba. Dopo aver adagiato il corpo nel terreno, lo coprì di pietre, in modo che i lupi non potessero scavare e dilaniare il cadavere. Lo shock di quella tragedia fu molto duro per lui; per molti giorni non andò a caccia, sebbene ogni tanto lanciasse anatemi contro i lupi e giurasse di vendicarsi. Ma anche durante quei giorni di lutto, i vagabondaggi notturni della mia matrigna continuarono con la stessa regolarità di prima. Infine, mio padre prese il fucile per recarsi nella foresta, ma tornò subito
e aveva un'aria molto turbata. "Ci crederesti mai, Christina, che i lupi - maledetta sia la loro razza! sono riusciti a scavare la tomba del mio povero figlio, e ora del suo corpo sono rimaste solo le ossa?" "Veramente!", replicò la mia matrigna. Marcella mi guardò, e io lessi nei suoi occhi intelligenti tutto quello che avrebbe voluto dire. "Un lupo ulula sotto la nostra finestra ogni notte, padre", dissi io. "Ah, veramente! Perché non me lo hai detto prima, ragazzo? Svegliami la prossima volta che lo senti." Vidi la mia matrigna girarsi. Gli occhi le fiammeggiavano, e digrignava i denti. Mio padre uscì nuovamente, e coprì con un mucchio di pietre i poveri, sparuti resti di mio fratello che i lupi avevano risparmiato. Quello fu il primo atto della tragedia. Poi venne la primavera; la neve si sciolse, e a noi fu dato il permesso di lasciare il capanno. Ma io non lasciavo mai da sola la mia cara sorellina alla quale, dalla morte di mio fratello, ero ancora più affezionato di prima. In realtà, avevo paura di lasciarla sola con la mia matrigna, che sembrava provare un piacere particolare nel maltrattarla. Mio padre si interessava alla sua piccola coltivazione, e io ero in grado di aiutarlo. Marcella aveva l'abitudine di sedersi accanto a noi che lavoravamo, lasciando la nostra matrigna sola nel capanno. Avrei dovuto dire che, man mano che la primavera avanzava, diminuivano le camminate notturne della mia matrigna, e che non udimmo più l'ululato del lupo sotto la finestra dopo che io ne avevo parlato a nostro padre. Un giorno, mentre mio padre e io eravamo nel campo e Marcella era con noi, la mia matrigna uscì, disse che doveva andare nella foresta a raccogliere delle erbe, e che Marcella doveva andare nel capanno a controllare la cottura della cena. Marcella andò. La mia matrigna scomparve nella foresta, prendendo la direzione opposta a quella del capanno, e lasciando mio padre e me, per così dire, tra lei e Marcella. Circa un'ora dopo sentimmo delle grida provenire dal capanno - era la piccola Marcella a gridare. "Marcella si sarà scottata, padre", dissi io e gettai la vanga a terra. Mio padre lasciò cadere la sua, ed entrambi ci affrettammo verso il capanno. Prima che raggiungessimo la porta, si avventò fuori un grande lupo bianco, che fuggì a grande velocità. Mio padre non aveva armi; si precipitò nel capanno, e vi trovò la povera Marcella moribonda. Il suo corpo era orrendamente mutilato e il sangue che ne fluiva a-
veva formato una grande pozza sul pavimento del capanno. La prima intenzione di mio padre era stata quella di afferrare il fucile e inseguire il lupo. Ma fu paralizzato da quello spettacolo orrido. Si inginocchiò accanto alla sua bambina morente, e scoppiò a piangere. Marcella poté solo guardarci teneramente per qualche attimo e poi i suoi occhi si chiusero per sempre. Mio padre e io eravamo ancora accanto al corpo della mia povera sorella quando la mia matrigna entrò. Fu molto interessata a quella visione spaventosa, ma non parve impressionata dal sangue, come di solito lo sono le donne. "Povera bambina!", disse. "Deve essere stato quel grande lupo bianco che mi ha superato proprio ora, e mi ha spaventato. È morta, Krantz." "Lo so! Lo so!", gridò mio padre, in preda al dolore. Pensai che mio padre non si sarebbe mai ripreso dagli effetti di quella seconda tragedia. Pianse amaramente sul corpo della sua dolce bambina, e per molti giorni non volle seppellirlo, sebbene la mia matrigna gli chiedesse spesso di farlo. Alla fine si rassegnò, le scavò una tomba vicina a quella del mio povero fratello, e prese ogni precauzione perché i lupi non violassero i suoi resti. Ora mi sentivo veramente derelitto e abbandonato quando dormivo solo nel letto che prima avevo diviso con mia sorella e mio fratello. Non potevo fare a meno di pensare che la mia matrigna fosse implicata in quelle due morti, sebbene non riuscissi a spiegarmi come. Ma non avevo più paura di lei: il mio piccolo cuore era pieno di odio e di vendetta. La notte dopo che mia sorella era stata sepolta, mentre ero disteso a letto, mi accorsi che la mia matrigna si alzava e usciva dal capanno. Aspettai qualche minuto, poi mi vestii e guardai attraverso lo spiraglio della porta, che avevo socchiusa. La luna splendeva, e vidi il posto in cui erano stati sepolti mia sorella e mio fratello. E quale fu il mio orrore quando mi accorsi che la mia matrigna era impegnata a togliere le pietre dalla tomba di Marcella! Indossava la sua camicia da notte bianca, e la luna la illuminava in pieno. Stava scavando con le mani, e gettava le pietre dietro di sé con tutta la ferocia di una belva selvaggia. Mi occorse del tempo per ritornare in me e decidere che cosa dovessi fare. Alla fine mi accorsi che era arrivata al corpo e l'aveva sollevato dalla tomba. Non sopportai oltre. Corsi da mio padre e lo svegliai. "Padre, padre!" gridai. "Vestiti e prendi il fucile."
"Che cosa!", gridò mio padre. "Ci sono i lupi, è vero?" Saltò giù dal letto, si infilò i vestiti, e nella sua ansia non notò l'assenza della moglie. Non appena fu pronto, io aprii la porta, lui uscì e io lo seguii. Immagina il suo orrore, quando (impreparato qual era a una scena simile) egli vide, mentre avanzava verso la tomba, non un lupo, ma sua moglie, in camicia da notte, accucciata a quattro zampe accanto al corpo di mia sorella. Era troppo impegnata a staccare a morsi grandi pezzi di carne e a divorarli con l'avidità di un lupo per accorgersi di noi. Mio padre lasciò cadere il fucile; gli si rizzarono i capelli. Respirò pesantemente, e poi il respiro gli si fermò. Io raccolsi il fucile e glielo misi tra le mani. D'improvviso parve che un'ira intensa raddoppiasse il suo vigore. Abbassò il grilletto, sparò, e con un grido acuto cadde la vipera che egli aveva nutrito nel suo petto. "Dio del Cielo!", gridò mio padre e cadde a terra svenuto non appena ebbe scaricato il fucile. Io restai al suo fianco finché non rinvenne. "Dove sono?", disse, "Che cosa è avvenuto? Oh!... sì, sì! Ricordo ora. Che Iddio mi perdoni!" Si alzò e si avvicinò alla tomba. Quale fu il nostro stupore nello scoprire che, invece del cadavere della mia matrigna, come ci aspettavamo, sui resti della mia povera sorellina era distesa una grande lupa bianca. "La lupa bianca", esclamò mio padre, "la lupa bianca che mi attirò nella foresta... Capisco tutto ora... ho fatto un patto con gli Spiriti delle Montagne Hartz." Per qualche momento mio padre restò in silenzio, immerso in profondi pensieri. Poi sollevò con cura il corpo di mia sorella, lo rimise nella tomba, e lo ricoprì di pietre. Quindi schiacciò la testa dell'animale sotto il calcagno, delirando come un pazzo. Ritornò al capanno, chiuse la porta, e si gettò sul letto. Io feci la stessa cosa, perché ero stordito per l'orrore e per lo stupore. All'alba del giorno dopo fummo entrambi destati da forti colpi alla porta. Nel capanno entrò il cacciatore Wilfred. "Mia figlia... uomo... mia figlia! Dov'è mia figlia?", gridò pieno di rabbia. "Dove dovrebbero stare le vipere e i dèmoni, spero", replicò mio padre, alzandosi e mostrando una collera uguale. "E dove dovrebbe essere: all'Inferno! Uscite subito da questo capanno, o farete una fine peggiore." "Ah... ah!", replicò il cacciatore. "Vorresti fare del male a un potente Spirito delle Montagne Hartz? Povero mortale, che ha sposato un Lupo
Mannaro!" "Fuori da qui, demonio! Sfido te e il tuo potere." "E tu lo proverai il mio potere. Ricorda il tuo giuramento - il tuo solenne giuramento - di non alzare mai la mano contro di lei." "Io non ho fatto nessun patto con gli spiriti maligni." "Tu l'hai fatto e, se hai mancato al tuo giuramento, subirai la vendetta degli Spiriti. Tuo figlio morirà per mano dell'avvoltoio, del lupo..." "Via, va' via, demonio!" "E le tue ossa sbiancheranno nelle foreste. Ah... ah!" Mio padre, folle di rabbia, afferrò l'ascia e la sollevò sulla testa di Wilfred. "Tutto questo io giuro", continuava il cacciatore in tono derisorio. L'ascia si abbassò; ma passò attraverso il corpo del cacciatore. Mio padre perse l'equilibrio, e cadde a terra. "Mortale", disse il cacciatore, scavalcando il corpo di mio padre, "noi abbiamo potere solo su coloro che hanno commesso un omicidio. Tu ti sei reso colpevole di un duplice omicidio: pagherai la pena prevista dal tuo giuramento di matrimonio. Due dei tuoi figli sono morti, e il terzo li seguirà. E li seguirà davvero, perché il tuo giuramento è valido. Va': sarebbe una gentilezza ucciderti! La tua punizione sarà il vivere!" A queste parole lo spirito scomparve. Mio padre si alzò da terra, mi abbracciò teneramente, e si inginocchiò a pregare. La mattina dopo lasciò per sempre il capanno. Mi prese con sé, e diresse il suo cammino verso l'Olanda, dove arrivammo sani e salvi. Aveva dei soldi con sé; ma eravamo da poco ad Amsterdam, quando fu colto da una febbre cerebrale, e morì delirando. Io fui messo in un orfanotrofio, e dopo venni imbarcato sui vascelli. Ora sai tutta la mia storia. La domanda è: pagherò la pena prevista dal giuramento di mio padre? Io sono convinto che, in un modo o nell'altro, la pagherò.» 2. Al ventesimo giorno di navigazione fu visibile l'altopiano della costa meridionale di Sumatra: poiché non c'erano vascelli in vista, decisero di attraversare lo Stretto, e di fare rotta verso Pulo Penang, che si aspettavano, visto che avevano il vento a favore, di raggiungere in sette o otto giorni. Per la costante esposizione ai raggi solari, Philip e Krantz erano tanto abbronzati che, con le lunghe barbe e gli abiti musulmani, potevano essere
presi facilmente per indigeni. Avevano navigato tutti i giorni esposti al sole bruciante, e avevano dormito tutte le notti all'umido e al fresco. Ma la loro salute non ne aveva sofferto. Per parecchi giorni, da quando aveva confidato a Philip la storia della propria famiglia, Krantz era diventato silenzioso e malinconico. La sua consueta allegria era svanita, e Philip gliene aveva chiesto spesso la causa. Quando entrarono nello Stretto, Philip parlò di che cosa avrebbero fatto al loro arrivo a Goa. E Krantz aveva replicato con gravità: «Da qualche giorno, Philip, ho il presentimento che non vedrò mai quella città». «Non stai bene, Krantz», replicò Philip. «No, sono in ottima salute, sia fisica che mentale. Mi sono sforzato di liberarmi di questo presentimento, ma invano. C'è una voce che mi avverte di continuo che non starò a lungo con te. Philip, mi faresti il favore di accontentarmi in una cosa? Ho dell'oro con me che potrebbe esserti utile. Fammi il favore di prenderlo e tenerlo sulla tua persona.» «Che assurdità, Krantz!» «Non è un'assurdità, Philip. Tu non hai mai presentimenti? Perché io non dovrei avere i miei? Sai che non sono pauroso, e che non mi preoccupo di morire. Ma, a ogni ora che passa, il mio presentimento si fa più forte...» «Queste sono le fantasie di un cervello sconvolto, Krantz. Non c'è nessun motivo di credere che tu, giovane e sano, non viva in pace fino alla vecchiaia. Domani starai meglio.» «Forse sì», replicò Krantz, «ma tu devi acconsentire al mio desiderio e prendere quell'oro. Se mi sbaglio, e arriveremo sani e salvi, Philip, potrai restituirmelo», osservò Krantz, con un debole sorriso, «ma non dimenticare che l'acqua è quasi finita, e che dobbiamo trovare qualche ruscello lungo la costa per averne una nuova riserva.» «Ci stavo pensando quando hai incominciato a parlare di quello sgradevole argomento. Faremmo bene a cercare l'acqua prima dell'imbrunire e, non appena avremo riempito le giare, potremo riprendere la navigazione.» Quando ebbe luogo questa conversazione, erano sul versante orientale dello Stretto, a una quarantina di miglia in direzione nord. L'interno della costa era roccioso e montagnoso, ma digradava lentamente verso una pianura di foreste alternate a giungle, che continuava fino alla spiaggia. La zona sembrava disabitata. Costeggiando la spiaggia scoprirono, dopo qualche ora, un ruscello che scendeva a cascata dalle montagne, e si faceva
strada lungo la giungla, fino a versare il proprio tributo alle acque dello Stretto. Entrarono nella foce del ruscello, abbassarono le vele, e spinsero la peroqua controcorrente, finché furono abbastanza avanti da essere sicuri di trovare dell'acqua dolce. Le giare furono presto riempite, e stavano già pensando di ritornare al mare quando, attirati dalla bellezza del luogo, dalla frescura dell'acqua, e stanchi del loro lungo isolamento a bordo della peroqua, decisero di fare un bagno: un lusso poco apprezzato da coloro che non hanno vissuto situazioni simili. Si tolsero gli abiti musulmani, e si immersero nel ruscello. Si bagnarono a lungo. Krantz fu il primo a uscire. Si lagnò di sentire freddo, e si diresse verso la riva dove avevano lasciato gli abiti. Anche Philip si avvicinò alla spiaggia, con l'intenzione di seguirlo. «E ora, Philip», disse Krantz, «ho finalmente l'occasione buona per darti i miei soldi. Aprirò la mia fusciacca e ne farò uscire l'oro: così potrai infilarlo nella tua prima di indossarla.» Philip era in piedi sul fondo, e l'acqua gli arrivava alla vita. «Be', Krantz», disse, «immagino che, se deve essere così, così deve essere. Ma mi pare un'idea talmente ridicola. Comunque, fa' come vuoi.» Philip uscì dalla corrente e sedette accanto a Krantz, che era già impegnato a scuotere i dobloni dalle pieghe della fusciacca. Infine disse: «Ora che li hai tu, Philip, mi sento soddisfatto». «Quale pericolo puoi correre a cui non sia esposto anche io?», replicò Philip; «Comunque...» Aveva appena finito di pronunciare queste parole, quando ci fu un tremendo ruggito, seguito da uno spostamento d'aria simile a quello provocato da un vento impetuoso. Qualcosa lo spinse di lato. Sentì un grido, rumori di una lotta. Philip si riprese, e vide il corpo nudo di Krantz trascinato via velocemente da una tigre enorme. Guardò la scena con gli occhi spalancati. In pochi secondi l'animale e Krantz scomparvero nella giungla. «Dio del Cielo! Perché mi hai risparmiato?», gridò Philip, gettandosi con la faccia a terra per la sofferenza. «Oh, Krantz! Amico mio... fratello mio. Eri così sicuro del tuo presentimento. Dio misericordioso, abbi pietà, ma che sia fatta la tua volontà.» E Philip scoppiò a piangere. Rimase per più di un'ora immobile, senza curarsi dei pericoli da cui era circondato. Alla fine, ripresosi alquanto, si alzò, si vestì, e poi si risedette con gli occhi fissi sui vestiti di Krantz e sull'oro che era ancora sulla sabbia.
«Ha voluto darmi quell'oro. Aveva previsto la propria fine. Sì! Sì! Era il suo destino, e si è compiuto. Le sue ossa sbiancheranno nelle foreste, e lo spirito-cacciatore e la sua figlia-lupa sono stati vendicati.» HUGUES, IL LUPO MANNARO Hugues, The Were-Wolf di Sutherland Menzies 1838 1. Un tempo, su gran parte della Contea del Kent, si stendeva una grande foresta, i cui resti ai giorni nostri sono noti sotto il nome di Bosco di Kent. Dove la foresta allargava il suo manto impervio, a metà strada tra Ashford e Canterbury, durante il lungo regno del nostro Enrico II, una famiglia di origine normanna, gli Hugues (O Wulfric, com'erano di solito chiamati dagli abitanti sassoni di quel distretto), sotto la protezione delle leggi della foresta, aveva eretto un'abitazione solitaria e miseranda. E in quel rifugio silvano, impegnati nel lavoro di taglialegna, quegli sventurati reietti, perché tali erano per un motivo o per un altro, avevano vissuto per anni e anni un'esistenza precaria e appartata. Forse a causa dell'antipatia, radicata e ancora viva, contro la nazione usurpatrice di cui erano originari, o forse a causa di misfatti compiuti contro i loro superstiziosi vicini anglosassoni, venivano creduti Lupi Mannari. E, poiché veniva loro rifiutato il lavoro dai proprietari del circondario, la loro discendenza da un antenato licantropo venne confermata definitivamente. Non c'è da meravigliarsi che gli Hugues Wulfric non contassero nemmeno un amico nelle fattorie vicine, né tra i servi né tra gli uomini liberi, visto che avevano una reputazione così poco invidiabile. Infatti, venivano invariabilmente attribuite loro disgrazie che solo il caso aveva potuto provocare. Un incendio bruciava una fattoria. Un granaio deteriorato dal tempo, sovraccarico di un raccolto abbondante, crollava. I covoni di frumento venivano abbattuti sui campi da una tempesta. Il carbonchio distruggeva il grano. Il bestiame periva, decimato dall'afta. Un bambino deperiva per un male devastante. Una donna metteva al mondo un figlio prematuro. In ogni caso, erano sempre gli Hugues Wulfric a essere accusati apertamente. Venivano guardati di traverso, con paura mista a odio. Il dito accu-
satore del giovane e del vecchio li additava con amare imprecazioni. Insomma, erano classificati ferae natura, come quel mitico prototipo, ed erano trattati di conseguenza. Erano veramente terribili le storie che si raccontavano su di loro la sera intorno al camino acceso, mentre si filava il lino o si spennavano le oche. Quelle storie venivano confermate anche alla luce del giorno, mentre si conducevano le mucche al pascolo, e venivano discusse con abbondanza di particolari la domenica, tra la messa e i vespri, dai pettegoli radunati sul sagrato di Ashford. I fedeli ne parlavano alternando le maledizioni a più devoti segni della croce. Stregoneria, latrocinio, omicidi e sacrilegio, costituivano i tratti principali delle tragedie sanguinarie e misteriose di cui gli Hugues Wulfric erano i presunti attori. A volte i misfatti venivano attribuiti al padre, altre alla madre, e perfino la sorella non sfuggiva alla sua parte di diffamazione. Con piacere avrebbero attribuito un'indole feroce anche al bambino non ancora svezzato, tanto grande, tanto universale era l'orrore che provavano per quei figli di Caino! Il cimitero di Ashford, e la croce di pietra da cui si diramavano le strade per Londra, Canterbury e Ashford, situata a metà strada tra le ultime due località, fungevano, come affermava la tradizione, da teatri notturni alle gesta empie dei Wulfric. Si diceva che vi si recassero con la luna piena per rimpinzarsi dei cadaveri appena seppelliti, o per succhiare il sangue di qualche essere vivente che fosse stato abbastanza imprudente da avventurarsi in quei luoghi solitari. È vero che i lupi, durante gli inverni più rigidi, erano usciti dalle tane nelle foreste, erano entrati nel cimitero attraverso una breccia nelle mura, e, spinti dalla fame, avevano dissotterrato i morti. È vero anche che la Croce del Lupo, come i contadini la chiamavano comunemente, una volta si era macchiata di sangue. Un mendicante ubriaco era caduto e si era fratturato il cranio contro un angolo appuntito della base. Ma questi incidenti, così come una moltitudine di altri, erano attribuiti all'intervento malvagio dei Wulfric, sotto le spoglie diaboliche di Lupi Mannari. Questa povera gente, per di più, non si prendeva la pena di giustificarsi davanti a un'accusa così mostruosa. Erano al corrente di quale calunnia fossero vittime, ma erano altrettanto consci della propria impotenza a contraddirla. Ne soffrivano in silenzio, e fuggivano ogni contatto con coloro cui sapevano di fare orrore. Evitavano le strade maestre, e non osavano mai attraversare Ashford in pieno giorno, perciò facevano solo quei lavori
che si potessero svolgere in casa o nei luoghi solitari. Non andavano al mercato di Canterbury, né si accodavano ai pellegrini del famoso Santuario di Becket, né assistevano a tornei, balli e feste del raccolto. Il sacerdote aveva loro proibito di mettere piede in chiesa, e i bevitori di birra di mettere piede in osteria. La casupola primitiva che essi abitavano, era in calcare e argilla, con un tetto di paglia, in cui il vento aveva provocato enormi squarci. La chiudeva una porta di legno fradicio, piena di grandi buchi, attraverso cui le correnti d'aria avevano libero accesso. Quella misera dimora era situata a una distanza considerevole da ogni altra. Se, per caso, uno dei servi dei dintorni verso sera si smarriva nelle sue vicinanze, i timori superstiziosi gli impedivano di avvicinarsi troppo, non appena vedeva i vapori della palude alzarsi in volute verso il cielo dell'imbrunire. E, quando si avvicinava quell'ora che la tradizione chiama «tra il cane e il lupo» o «tra il falco e la poiana», i fuochi fatui cominciavano a baluginare intorno alla casa dei Wulfric. Essi, a quell'ora, cenavano tutti insieme - quando avevano di che cenare - e, subito dopo, si abbandonavano al riposo. Il dolore, la miseria e le esalazioni putride della canapa messa a macerare, da cui ricavavano abiti rozzi e poveri, contribuirono infine a portare malattia e morte in quella famiglia sventurata che, nel momento del bisogno estremo, non poteva nemmeno sperare nella pietà e nell'aiuto del prossimo. Il padre fu il primo ad ammalarsi, e il suo cadavere era ancora caldo quando la madre esalò l'ultimo respiro. Così quella coppia sfortunata terminò i propri giorni, senza il conforto del confessore e senza le cure di un medico. Hugues Wulfric, il loro figlio maggiore, scavò una tomba, vi depose i corpi avvolti in cenci di canapa al posto dei sudari, e vi collocò sopra qualche zolla di terra per segnare la loro ultima dimora. Un contadino, cui capitò di vederlo compiere quel sacro dovere al calar delle tenebre, si fece il segno della croce e fuggì a gambe levate, convinto di aver assistito a qualche incantesimo infernale. Quando trapelò la notizia vera, i pettegoli del vicinato si congratularono l'un l'altro per quelle due morti, che furono viste come il tardo castigo divino. Si parlò di suonare le campane a festa e di cantare Messe di ringraziamento per un simile atto di grazia. Era il Giorno dei Morti, e il vento gemeva lungo i pendii brulli delle colline, e fischiava tristemente tra i rami nudi degli alberi della foresta, le cui ultime foglie erano cadute da tempo. Il sole era scomparso. Una nebbia
densa e gelida si stendeva nell'aria come il velo funebre di una vedova, i cui giorni d'amore siano fuggiti precocemente. Nessuna stella splendeva nel cielo immobile e cupo. In quella casupola solitaria, che la morte aveva visitato di recente, gli orfani vegliavano accanto alla fiamma intermittente del focolare. Molti giorni erano trascorsi da quando le loro labbra si erano premute per l'ultima volta sulle mani fredde dei genitori. Molte tristi notti erano trascorse da quell'ora tragica in cui la loro dipartita li aveva lasciati soli al mondo. Poveri orfani! Erano entrambi nel fiore della giovinezza. Quanto tristi, ma quanto sereni apparivano nella loro sofferenza! Ma che cos'era quel terrore improvviso e misterioso che parve assalirli? Non era, ahimè, la prima volta da quando erano rimasti soli al mondo che si erano ritrovati a quell'ora della notte accanto al focolare, un tempo rallegrato dalle storie, antiche e belle, della madre. Spesso avevano pianto insieme ricordandola, ma fino a quel momento, la loro solitudine non si era mai rivelata così spaventosa. Pallidi come spettri, si guardavano tremanti l'un l'altro, mentre le fiamme guizzavano sui loro volti. «Fratello! Hai sentito quel grido che ogni eco della foresta ha ripetuto? Mi è parso che la terra rimbombasse del passo di un fantasma gigantesco, i cui respiri abbiano scosso la porta della nostra capanna. Il respiro dei morti si dice sia ghiacciato. Un brivido mortale mi ha scossa!» «Anche a me, sorella, è parso di sentire delle voci lontane, che mormoravano strane parole. Non tremare così: non sono forse vicino a te?» «Oh, fratello! Preghiamo la Santa Vergine affinché impedisca ai morti di entrare nella nostra dimora.» «Ma, forse, nostra madre è tra loro: viene, privata del conforto della confessione e del sudario, a visitare la sua prole derelitta. Oh, adorata! Forse non sai, sorella, che questo è il giorno in cui i morti abbandonano le tombe. Lasciamo la porta aperta, che nostra madre entri e riprenda il suo solito posto accanto al focolare.» «Oh, fratello, quanto è buio fuori, quanto umido e freddo è il vento! Hai sentito i gemiti dei morti intorno alla nostra capanna? Oh, chiudi la porta, in nome del cielo!» «Fatti coraggio, sorella: ho gettato sul fuoco quel ramoscello santo, colto in fiore la scorsa Domenica delle Palme. Scaccerà tutti gli spiriti cattivi, e così potrà entrare solo nostra madre.» «Ma che aspetto avrà, fratello? Si dice che i morti siano orribili da vedersi, che i loro capelli siano caduti, e le loro ossa scricchiolino orrenda-
mente. Allora, nostra madre sarà così?» «No, avrà i tratti che ci piaceva guardare. Avrà il tenero sorriso che ci salutava al ritorno dal lavoro. Avrà la voce che, da bambini, ci cercava quando le tenebre ci sorprendevano lontani dalla nostra casa.» La ragazza si apprestò a disporre la misera cena sull'asse traballante che serviva da tavolo. Era la sua ultima e pia offerta di amore filiale. La compì solo grazie a uno sforzo estremo, tanto debole era diventato il suo fisico. «Allora, facciamo entrare la nostra adorata madre!», esclamò la ragazza, ricadendo esausta sullo sgabello. «Le ho preparato la cena, perché non soffra la fame. Tutto è disposto come piaceva a lei. Ma perché, fratello, tremi come tremavo io prima?» «Non hai visto, sorella, quelle pallide luci alzarsi dalla palude? Sono i morti che vengono a sedere alla mensa preparata per loro. Zitta! Ascolta i tocchi funebri della campana d'Ognissanti arrivare nel vento e unirsi alle loro voci sorde... Ascolta, ascolta!» «Fratello, quest'orrore è insopportabile. Sento che questa è la mia ultima notte sulla terra! E non c'è una parola di speranza a confortarmi, tra queste voci spaventose? Oh, madre! Madre!» «Zitta, sorella, zitta! Hai visto le luci spettrali che annunciano i morti, splendere all'orizzonte? Hai udito lo scampanio prolungato della campana? Arrivano! Arrivano!» «Eterno riposo alle loro anime!», esclamarono i due orfani. Si inginocchiarono, quindi chinarono la testa, per il terrore e per il dolore. Quando pronunciarono quelle parole, la porta si chiuse con violenza, come se fosse stata sbattuta da una mano vigorosa. Hugues balzò in piedi, perché lo scricchiolio dell'asse che reggeva il tetto sembrò preannunciare la caduta della fragile struttura. Il fuoco d'improvviso si spense, e un gemito si unì alle raffiche di vento che fischiavano attraverso le fessure della porta. Nel sollevare la sorella, Hugues scoprì che anche lei non era più nel regno dei vivi. 2. Hugues, divenuto il capo della sua famiglia, composta di due sorelle più giovani di lui, le vide entrambe scendere nella tomba nel breve spazio di due settimane. E quando ebbe deposto l'ultimo corpo accanto a quello della madre, si chiese se non dovesse stendersi tra loro, e condividere il loro riposo eterno. Non fu con lacrime e sospiri che un dolore intenso come il
suo si manifestò, ma nella contemplazione muta e cupa delle tombe in cui erano sepolti i suoi congiunti e la sua felicità futura. Durante le tre notti successive lasciò, pallido e sparuto, la sua capanna solitaria per prostrarsi a turno davanti alle tombe. Per tre giorni non mangiò. L'inverno aveva interrotto i lavori nei boschi e nei campi. Hugues si era presentato invano nelle terre dei vicini a chiedere di trebbiare il grano, tagliare la legna, o condurre l'aratro. Nessuno voleva assumerlo per la paura di attirare su di sé la maledizione legata a chiunque portasse il nome di Wulfric. Il giovane si scontrò con dinieghi brutali da ogni parte. Veniva ingiuriato, minacciato, e si aizzavano i cani contro di lui. Lo privarono anche della misericordia riservata ai mendicanti di professione. In breve, si trovò coperto di ferite e di vergogna. Allora, doveva morire d'inedia o liberarsi delle torture della fame con il suicidio? Avrebbe preso quest'ultima risoluzione, se non fosse stato trattenuto sulla terra, a lottare contro il suo destino ingrato, dall'amore. Sì, quell'essere abietto, spinto dalla disperazione, contro la sua anima più vera, a odiare la specie umana in generale e a provare una gioia selvaggia nell'ingaggiare lotte contro di essa; quel paria che non confidava più in quel Dio che sembrava solo un apatico testimone delle sue persecuzioni; quell'uomo così isolato da quelle relazioni sociali, che sole ci ricompensano dei dolori e dei problemi della vita, senza altro sostegno che quello offerto dalla propria coscienza; quell'essere senza la prospettiva di un destino diverso dalla vita amara e dalla morte miserabile dei suoi congiunti defunti; quel giovane ridotto pelle e ossa dalle privazioni e dal dolore, gonfio di rabbia e di rancore, acconsentiva a vivere, ad aggrapparsi alla vita, perché, strano a dirsi, amava! Se non fosse stato per quel raggio divino che illuminava il suo sentiero spinoso, egli avrebbe volentieri rinunciato a quel pellegrinaggio solitario e faticoso in cambio del sonno sereno della tomba. Hugues Wulfric sarebbe stato il più bel giovane di tutta quella parte di Kent, se le vessazioni, contro cui doveva incessantemente combattere, e le privazioni che era costretto a subire, non avessero tolto il colore dalle sue guance e infossato i suoi occhi. Aveva la fronte sempre corrugata e lo sguardo torvo e orgoglioso. Eppure, nonostante la rabbia e la sofferenza gli stravolgessero i tratti, qualcuno, ignaro dei maligni pettegolezzi sul suo conto, non avrebbe potuto fare a meno di ammirare la selvaggia bellezza della sua testa. Il suo viso era nobile, incoronato da una profusione di capelli ondulati. Le proporzioni robuste e armoniose delle spalle erano intuibili al di sotto
degli stracci che le celavano. Il suo portamento era fermo e maestoso. I suoi movimenti non erano privi di una grazia rude, e il tono caldo della sua voce si accordava meravigliosamente alla purezza della sua lingua natia: il Franconormanno. In breve, differiva tanto dai suoi calunniatori, che si è costretti a credere che la gelosia e i pregiudizi non fossero estranei alle maligne persecuzioni di cui era oggetto. Solo le donne osarono per prime compatire la sua misera condizione, e si sforzarono di vederlo in una luce migliore. Brenda, nipote di Willieblud, il macellaio di Ashford, come le altre fanciulle della città, notò Hugues e lo apprezzò. Un giorno le era capitato di passare a cavallo attraverso un boschetto alla periferia della città mentre il giovane era alle prese con un maiale selvatico, un animale che, a causa della natura della regione, era incredibilmente difficile catturare da soli. Le maligne falsità dei vecchi pettegoli ronzavano continuamente nelle orecchie della ragazza, ma non diminuivano in nessun modo l'ottima opinione che si era fatta di quel Lupo Mannaro maltrattato e dall'aspetto avvenente. A volte, deviava dal suo cammino solo per incontrarlo e scambiare con lui un saluto cordiale. Hugues, dal canto suo, cosciente delle attenzioni di cui era divenuto oggetto, aveva alla fine preso il coraggio di guardare più da vicino la bella Brenda. Il risultato era che l'aveva trovata molto più graziosa e avvenente di tutte le fanciulle su cui si era posato il suo sguardo timoroso durante le brevi passeggiate al di fuori della foresta. La sua gratitudine era cresciuta in proporzione. E, quando i suoi lutti familiari erano arrivati a colpirlo uno dopo l'altro, aveva deciso di dichiarare a Brenda il suo amore, alla prima occasione. Era un inverno gelido - il periodo natalizio - lo scampanio lontano della campana del coprifuoco era cessato da tempo, e tutti gli abitanti di Ashford erano al sicuro nelle loro case. Hugues sedeva solitario, immobile, silenzioso, con la fronte tra le mani, lo sguardo fisso sui tizzoni che bruciavano debolmente nel focolare. Non si curava dell'aspro vento del Nord, le cui folate scuotevano il tetto di paglia e fischiavano attraverso le fessure della porta. Non sussultava alle rauche grida degli aironi che lottavano per la preda nella palude, né ai lugubri gracchii dei corvi annidati nel comignolo della capanna. Pensava ai suoi parenti morti, e immaginava che l'ora di raggiungerli sarebbe venuta presto. Il freddo intenso congelava il midollo delle sue ossa e la fame rodeva e torceva le sue viscere. Eppure, ogni tanto, il ricordo di quell'amore nascen-
te, di Brenda, acquietava improvvisamente la sua sofferenza e faceva splendere un debole sorriso sul suo volto. «Oh, santa Vergine! Fai che le mie sofferenze cessino presto!», mormorò, disperato. «Oh, se fossi veramente quel Lupo Mannaro che essi mi credono! Allora potrei restituire tutto il male che mi hanno fatto. In verità, non potrei nutrirmi della loro carne, né vorrei succhiare il loro sangue. Ma potrei terrorizzare e tormentare coloro che hanno portato i miei genitori e le mie sorelle alla morte, che hanno perseguitato la mia famiglia fino allo sterminio! Perché non ho il potere di trasformare la mia natura in quella di un lupo, se è vero che i miei antenati possedevano un potere simile, come tutti affermano? Almeno troverei qualche carogna da divorare, e non morirei in questo modo orribile. Brenda è il solo essere al mondo che si curi di me; è solo questa convinzione che mi riconcilia con la vita!» Hugues diede libero sfogo a queste riflessioni cupe. Le braci fumanti ormai emettevano solo un bagliore fievole e vacillante, lottando debolmente contro il buio circostante. Hugues ebbe orrore dell'oscurità che stava per piombargli addosso. Si sentiva gelare dai brividi di freddo un istante e l'istante dopo si sentiva scuotere dalle pulsazioni affrettate delle sue vene. Alla fine, si alzò per cercare qualcosa da bruciare, e gettò sul fuoco un mucchio di segatura, di erica secca e di paglia, che ben presto diedero vita a una fiamma chiara e crepitante. La sua provvista di legna era finita, e si diede alla ricerca di altro materiale con cui attizzare la fiamma morente del focolare. Mentre rovistava sotto la rozza stufa, tra il mucchio di cianfrusaglie che la madre aveva raccolto per cuocere il pane - manici di utensili, piedi di sgabelli rotti e frantumi di piatti - scoprì uno scrigno ricoperto di pelle conciata. Non aveva mai visto quell'oggetto: lo sollevò come se avesse scoperto un tesoro, e ruppe il coperchio che era assicurato con una corda. Quello scrigno, che era rimasto evidentemente chiuso a lungo, conteneva il travestimento completo da Lupo Mannaro. C'erano una pelle di pecora tinta, con guanti a forma di zampe, una coda, e una maschera con un muso allungato e fornito di una formidabile fila di denti di cavallo ingialliti. Hugues balzò all'indietro, terrificato dalla sua scoperta, così opportuna che gli pareva frutto di una stregoneria. Poi, ripresosi dalla sorpresa, tirò fuori uno alla volta i vari pezzi dallo strano contenitore. Quel travestimento era stato evidentemente usato, e si era danneggiato restando a lungo abbandonato. Poi gli vennero improvvisamente in mente i racconti meravi-
gliosi che gli faceva suo nonno, mentre lo cullava sulle ginocchia. Durante la narrazione di quelle storie, sua madre piangeva in silenzio, mentre lui rideva di cuore. Nella mente aveva una ridda di sensazioni vaghe e di propositi altrettanto indefinibili. Continuò il silenzioso esame di quell'eredità criminale e, a poco a poco, la sua immaginazione si animò di progetti vaghi e stravaganti. Fame e disperazione contribuirono a spingerlo oltre. Non vide più quegli oggetti attraverso un prisma insanguinato. Sentiva i suoi propri denti in quella maschera, ansiosi di mordere. Provò un desiderio inconcepibile di correre. Cominciò a ululare come se avesse praticato la licantropia per tutta la vita, e iniziò ad assumere l'apparenza e gli attributi della sua nuova vocazione. Un cambiamento così sorprendente avrebbe potuto difficilmente prodursi, se quella metamorfosi grottesca fosse stata veramente l'effetto di un incantesimo. La trasformazione fu dovuta anche a quella febbre che avrebbe prodotto una pazzia temporanea nel suo cervello congelato. Quasi senza accorgersene, si ritrovò travestito da Lupo Mannaro e, influenzato dalla sua maschera, balzò fuori dalla capanna, corse attraverso la foresta e uscì in aperta campagna. La terra era bianca per la brina gelata, ed era battuta dall'aspro vento del Nord. Ululando in un modo spaventoso, attraversò prati, pianure e paludi, simile ad un'ombra. Ma, a quell'ora e in quella stagione, non c'era nessun viandante a incontrare Hugues. Ormai l'aria pungente e la corsa avevano spinto al massimo la sua stravaganza e la sua audacia: ululava man mano che aumentava la sua fame. D'un tratto, il rombo pesante di un veicolo che si avvicinava, attrasse la sua attenzione. Sulle prime con indecisione, poi con una stupida fissità, lottò contro due suggerimenti che gli consigliavano nello stesso tempo di scappare e di avanzare. Il carro, o qualsiasi cosa fosse, continuava ad avvicinarsi. La notte non era completamente buia, ed egli vide il campanile della chiesa di Sashford a breve distanza: accanto vi era accatastata una pila di pietre rozze, destinate a una riparazione o a una aggiunta all'edificio sacro. Hugues corse all'ombra della catasta, si accucciò e, in questo modo, aspettò l'arrivo della sua preda. Si rivelò essere il carro coperto di Willieblud, il macellaio di Ashford, che due volte alla settimana portava la carne a Canterbury, e viaggiava di notte per essere tra i primi all'apertura del mercato. Di tutto questo Hugues era perfettamente a conoscenza, e la partenza del
macellaio gli suggerì l'ovvia deduzione che sua nipote dovesse essere sola in casa, perché il nostro robusto macellaio era da molto tempo vedovo. Per un istante esitò tra il proposito di presentarsi alla ragazza, visto che gli si offriva una così bella opportunità, e quello di attaccare lo zio per impadronirsi della sua scorta di carne. La fame ebbe la meglio sull'amore, per quella volta. Il fischio monotono con il quale il macellaio era abituato a incitare il suo magro cavallo avvertì il giovane di tenersi pronto. Ululò lamentosamente, balzò in avanti e afferrò il cavallo per il morso. «Willieblud, macellaio», disse, contraffacendo la voce e parlandogli nella lingua Franca dell'epoca. «Ho fame: gettami due libbre di carne se non vuoi morire.» «San Willifred abbi pietà di me!», gridò il macellaio terrorizzato. «Sei tu, Hugues Wulfric di Wealdmarsh, il Lupo Mannaro?» «Hai detto giusto: sono io», replicò Hugues, che era sufficientemente abile da sfruttare la superstizione di Willieblud. «Preferisco la carne cruda alla tua polpa grassa. Gettami, perciò, quanto ti chiedo e, ogni volta che partirai per il mercato di Canterbury, non dimenticare la porzione di carne per me. Se non ubbidirai, ti farò a pezzi.» Hugues, per esibire i suoi attributi di Lupo Mannaro allo spaventato macellaio, era salito sui raggi della ruota, e aveva messo una zampa anteriore sul bordo del carro, il che dava l'impressione che stesse annusando con il lungo muso. Willieblud, che credeva assolutamente nei Lupi Mannari così come credeva nel suo santo patrono, non appena vide quella zampa mostruosa, pronunciò una fervente invocazione al suo santo, afferrò il migliore pezzo di carne, e lo lasciò cadere a terra. Mentre Hugues si slanciava ad afferrare il cibo, il macellaio diede un colpo improvviso e violento sul fianco del cavallo, che partì al galoppo senza aspettare un nuovo invito della frusta. Hugues era così soddisfatto di quel pasto, che gli era costato così poco procurarsi, che si ripromise di ripetere quell'espediente, la cui esecuzione era facile e divertente nel medesimo tempo. Infatti, sebbene fosse affascinato dalla bella Brenda, trovava un piacere maligno nell'aumentare il terrore di suo zio Willieblud. Quest'ultimo, per un lungo periodo, non rivelò ad anima viva il suo terribile incontro e lo strano patto, che variava a seconda delle circostanze. Si sottometteva in silenzio all'imposta che il Lupo Mannaro chiedeva a ogni loro incontro, senza essere esigente riguardo al peso o alla qualità della carne. Non aspettava nemmeno più che gliela chiedesse. Faceva tutto il
possibile per evitare la vista di quella forma diabolica appesa alla fiancata del suo carro, e per non venire a contatto con quella zampa deforme che sembrava si tendesse a strangolarlo. Quella zampa una volta doveva essere stata una mano umana. In quell'ultimo periodo era diventato silenzioso e pensieroso. Partiva malvolentieri per il mercato, e sembrava temere l'ora della partenza. Non ingannava la noia del suo viaggio notturno fischiando al cavallo o canticchiando ballate, come gli piaceva un tempo. Invariabilmente, tornava di umore malinconico e irrequieto. Brenda era perplessa riguardo ai motivi che avevano potuto originare quella depressione che si era impossessata della mente di suo zio. Dopo vane congetture, passò a interrogarlo, tormentarlo, e supplicarlo, finché l'infelice macellaio, inerme davanti a quelle continue richieste, alla fine si sgravò del peso che aveva sul cuore. Raccontò la storia delle sue avventure con il Lupo Mannaro. Brenda ascoltò l'intero racconto senza né interrompere né commentare, ma alla fine: «Hugues è un Lupo Mannaro come me e te», esclamò, offesa che si potesse nutrire un sospetto simile contro la persona che lei amava. «È una stupida favola, o qualche furbo stratagemma. Penso proprio che tu abbia sognato tutto, zio Willieblud, perché Hugues di Wealdmarsh, o Wulfric, come lo chiamano gli ignoranti, è degno di tutt'altra stima». «Ragazza, è inutile parlarmi così di quest'argomento», replicò Willieblud, ostinandosi ad affermare la veracità della sua storia, «la famiglia degli Hugues, come tutti sanno, era composta da Lupi Mannari. Poiché, grazie al cielo, sono tutti morti, tranne uno, Hugues ha ereditato la zampa del Lupo Mannaro.» «Ti dico, e lo dichiarerò pubblicamente, zio, che Hugues è di natura troppo gentile e onesta per essere un servo di Satana e trasformarsi in una belva selvaggia, e che io non ci crederò finché non l'avrò visto con i miei occhi.» «Accidenti, lo vedrai presto, se verrai con me! È proprio lui, e mi ha confessato il suo nome: non ho riconosciuto la sua voce, ma non ho sognato la sua zampa poggiata sul carro. Ragazza, quell'uomo è alleato del Demonio.» Brenda era imbevuta di superstizioni quanto suo zio; l'unica eccezione fino a quel momento era stata per quel giovane che aveva accesso, per qualche strana perversione femminile, i suoi sentimenti. La sua curiosità femminile, in questo caso, determinò meno la sua decisione di accompa-
gnare il macellaio nel suo viaggio a Canterbury del desiderio di discolpare il suo amore. Era convinta che lo strano incontro fatto dal suo parente fosse l'effetto di qualche allucinazione. L'unico timore che provò salendo sul carro carico di carne insanguinata, fu quella di scoprirlo colpevole. Era mezzanotte quando partirono da Ashford, l'ora che è cara sia ai Lupi Mannari che agli spettri di ogni genere. Hugues era puntuale al luogo dell'appuntamento. I suoi ululati avevano ancora qualcosa di umano, e turbarono non poco la dubbiosa Brenda. Willieblud, comunque, tremava ancora di più di lei, e cercò la carne per il Lupo Mannaro. Quest'ultimo si alzò sulle zampe posteriori e tese una di quelle anteriori per ricevere il suo compenso, non appena il carro si fermò accanto alla catasta di pietre. «Zio, sto per svenire dalla paura», esclamò Brenda, stringendosi al macellaio, e chiudendo gli occhi. «Sciogli le redini e colpisci quella bestia, altrimenti sarà peggio per noi.» «Non sei solo, sciocco», gridò Hugues, temendo un tranello. «Se cerchi di ingannarmi, ti ammazzo subito.» «Non ci fare del male amico Hugues: sai che non risparmio la mia carne migliore per te. Manterrò fede al mio patto. È Brenda, mia nipote, che viene con me a fare delle spese a Canterbury.» «C'è Brenda con te? Sei veramente tu, più prospera e rosea che mai? Scendi, bella, e vieni a chiacchierare un po' con me.» «Ti scongiuro, buon Hugues, non spaventare così crudelmente la mia povera nipote, che è già morta di paura. Facci riprendere il nostro viaggio: l'ora del mercato si avvicina.» «Continua da solo allora, zio Willieblud: è con tua nipote che vorrei parlare, con ogni cortesia e onore. Se non me lo permetterai subito, e volentieri, vi ucciderò entrambi.» Invano Willieblud si esaurì in preghiere e lamenti, con la speranza di rabbonire il sanguinario Lupo Mannaro. Quest'ultimo rifiutò di accettare ogni sorta di compromesso in cambio di ciò che aveva chiesto e, alla fine, replicò con minacce orribili che gelarono il cuore a entrambi. Brenda, sebbene fosse la diretta interessata della discussione, non si mosse né aprì bocca, così grande era il terrore che l'aveva sopraffatta. Continuò a tenere gli occhi fissi sul lupo, che la scrutava attraverso la maschera. Si scoprì incapace di offrire resistenza quando fu trascinata fuori dal carro e deposta da una forza invisibile - così le parve - accanto alla catasta di pietre. Svenne senza nemmeno un grido. Il macellaio non era meno stupefatto dalla piega che avevano preso gli
avvenimenti, e cadde tra i suoi pezzi di carne come se fosse stato colpito da un fulmine. Immaginò che il lupo gli avesse frustato gli occhi con la coda. Quando tornò in sé, si trovò solo nel carro che correva a scossoni verso Canterbury. Sulle prime si mise in ascolto, ma invano, perché il vento non gli portò né le urla di sua nipote né gli ululati del lupo. Non riuscì però a fermare il cavallo che, preso dal panico, continuava a trottare come fosse stregato, o sentisse lo sprone di un diavolo pungergli i fianchi. Willieblud, comunque, arrivò alla sua meta sano e salvo, vendette la carne e ritornò ad Ashford, convinto di dover dire un De Profundis per sua nipote, il cui fato non aveva cessato di commiserare per tutta la notte. Ma quale fu la sua sorpresa nel trovarla a casa, un po' pallida per il recente spavento e per la mancanza di sonno, ma senza nemmeno un graffio. Ancora più sorpreso fu nel sentire che il lupo non le aveva fatto alcun male, ma si era accontentato, dopo che lei era rinvenuta, di accompagnarla alla loro casa. Sotto ogni aspetto, si era comportato come un corteggiatore piuttosto che come un sanguinario Lupo Mannaro. Willieblud non sapeva che cosa pensare. Quella cavalleria notturna nei riguardi di sua nipote aveva irritato ancora di più il robusto sassone nei confronti del Lupo Mannaro. Sebbene la paura di ritorsioni gli impedisse di attaccare apertamente Hugues, meditava di prendersi una vendetta segreta e sicura. Prima di mettere in atto il suo piano, gli venne in mente che avrebbe fatto bene a raccontare le sue disavventure al vecchio sacrestano e becchino della chiesa di St. Michael. Era un uomo di grande intelligenza e di profonda erudizione, ed era consultato come un oracolo dai vecchi fedeli e dalle fanciulle infelici per amore di tutta la zona di Ashford. «Non puoi uccidere un Lupo Mannaro», fu la risposta del sapiente alle ansiose richieste del tormentato macellaio, «perché la sua pelle è inattaccabile dalle lance e dalle frecce... Però è vulnerabile alla lama affilata di un'arma di acciaio. Ti consiglio di ferirlo leggermente, o di tagliargli la zampa, in modo da sapere con sicurezza se è veramente Hugues. Non correrai nessun pericolo, tranne che non gli procuri una ferita da cui non scorra sangue, perché, non appena la pelle gli viene tagliata, fuggirà.» Deciso a seguire il consiglio del sacrestano e, determinato a sapere quella stessa sera con che Lupo Mannaro avesse a che fare, nascose la sua mannaia, affilata per l'occasione, sotto il carico di carne sul carro. Si preparò a fare uso di quell'arma come primo passo per stabilire se Hugues e il ladro di carne erano la stessa persona, e per ritrovare la pace perduta. Il lu-
po si presentò puntuale come al solito, e chiese ansiosamente di Brenda, il che spinse il macellaio a portare a compimento il suo piano. «Ecco, Lupo», disse Willieblud, chinandosi come per scegliere un pezzo di carne: «ti do una porzione doppia stanotte. Alza la zampa, prendi il tuo compenso e ricordati della mia benevola carità.» «Me ne ricorderò, sciocco», ribatté il nostro Lupo Mannaro. «Ma quando avverranno le nozze solenni tra me e la bella Brenda?» Hugues credeva di non aver nulla da temere da parte del macellaio, della cui carne si appropriava tanto facilmente, e della cui nipote sperava di poter ottenere un possesso non meno legale. Egli amava veramente la fanciulla e, inoltre, vedeva l'unione con lei come un mezzo sicuro per entrare a far parte di quella società che l'aveva bandito così ingiustamente. Ma prima doveva riuscire ad intercedere presso i santi padri della chiesa affinché togliessero il veto posto contro di lui. Hugues stese la zampa sul bordo del carro ma, invece di porgergli un pezzo di bue o di montone, Willieblud sollevò la mannaia, e con un solo colpo tagliò di netto la zampa, che era appoggiata in modo così opportuno che sembrava messa sul ceppo. Il macellaio abbassò l'arma, e frustò il cavallo, il lupo urlò di dolore, e scomparve tra le ombre scure della foresta, nella quale, con il favore del vento, i suoi ululati si persero ben presto. Il giorno seguente, al suo ritorno, il macellaio, ridacchiando, depositò un panno insanguinato sul tavolo, accanto al tagliere su cui la nipote era impegnata a preparargli il pranzo. Il panno si aprì e mostrò allo sguardo inorridito della fanciulla una mano umana tagliata di recente, avvolta in una pelliccia da lupo. Brenda comprese che cos'era accaduto, strillò, scoppiò a piangere, e poi corse a indossare il mantello. Intanto suo zio si divertiva a girare e torcere la mano con una gioia feroce, esclamando, mentre tamponava il sangue che ancora ne scorreva: «Il sacrestano aveva ragione. Il Lupo Mannaro ha il suo punto debole, e ora che ho scoperto la sua vera natura non temo più le stregonerie». Sebbene il sole fosse già alto, Hugues giaceva sul suo giaciglio, contorcendosi per il dolore. Le coperte erano imbevute di sangue, così come il pavimento della sua capanna. Il suo volto, mortalmente pallido, esprimeva un dolore più morale che fisico. Lacrime spuntavano dalle sue palpebre arrossate. Ascoltava ogni rumore con un'inquietudine crescente, dolorosamente visibile sui suoi tratti distorti. Sentì un rumore di passi che si avvicinavano rapidamente, poi la porta fu aperta di colpo, e una donna si gettò accanto al suo giaciglio. Con un miscuglio di singhiozzi e imprecazioni
cercò teneramente il suo braccio mutilato, che, fasciato rozzamente con stracci di canapa, non nascondeva l'assenza della mano. Dal moncone scorreva ancora sangue. A quello spettacolo pietoso, aumentò le sue maledizioni contro il sanguinario macellaio, e mescolò i suoi lamenti a quelli della vittima. Quelle effusioni di amore e dolore, però, erano destinate ad essere bruscamente interrotte: qualcuno bussò alla porta, Brenda corse alla finestra per vedere chi fosse il visitatore che osava penetrare nella tana del Lupo Mannaro e, nel vedere di chi si trattava, alzò gli occhi e le mani al cielo, presa dalla disperazione, mentre i colpi alla porta diventavano più forti. «È mio zio», balbettò lei. «Ah, povera me, come me ne andrò di qui senza che mi veda? Dove mi nasconderò? Oh, qui, qui, vicino a te, Hugues, e moriremo insieme», si accucciò in un angolo buio dietro il suo giaciglio. «Se Willieblud alzerà la mannaia per ucciderti, colpirà prima il corpo di sua nipote.» Brenda si nascose in fretta dietro un mucchio di stracci, e sussurrò a Hugues di farsi coraggio. Quest'ultimo trovò appena la forza di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi cercavano invano un'arma con cui difendersi. «Buon giorno a te, Wulfric!», esclamò Willieblud, nell'entrare, stringendo in una mano un fazzoletto con i lembi legati, che sistemò sulla cassa che era accanto al sofferente. «Vengo ad offrirti un lavoro. Dovresti legare e affastellare delle fascine: so che sei veloce in questo lavoro. Lo farai?» «Sono malato», replicò Hugues, reprimendo l'ira che, nonostante il dolore, sprizzava dai suoi occhi selvaggi. «Non sono in condizione di lavorare.» «Malato, scioccone, sei veramente malato? O è solo pigrizia? Su, che cosa hai? Dammi la mano, che ti sentirò il polso.» Hugues arrossì, e per un istante si chiese se dovesse resistere a quella richiesta di cui aveva subito compreso il fine. Ma, per evitare di esporre Brenda, trasse la mano sinistra da sotto le coperte, tutte piene di sangue coagulato. «Non questa mano, Hugues, l'altra, la destra. Ahimè, hai forse perso la mano, e te la devo andare a cercare?» Hugues, il cui colorito rosso di rabbia impallidì rapidamente, non rispose agli scherni, né mostrò di prepararsi a soddisfare una richiesta tanto più crudele quanto più che l'oggetto di essa era a malapena celato. Willieblud rise, e ghignò, risvegliando malignamente le torture che aveva inflitto al sofferente. Sembrava ormai disposto ad usare violenza, piuttosto che an-
darsene senza aver ottenuto la prova decisiva a cui mirava. Già aveva cominciato a slegare il fazzoletto, dando sfogo nel frattempo a tutti i suoi implacabili dileggi. Hugues teneva la mano appoggiata sulle coperte ma, semisvenuto per l'ansia e per il dolore, non pensò di ritrarla. «Perché mi tendi quella mano?», continuò il suo persecutore instancabile, che ormai credeva di stare per ottenere la prova che desiderava così ardentemente. «Vuoi che te la tagli? Svelto, Mastro Wulfric: fai quanto ti ho chiesto. Ti ho domandato di vedere la tua mano destra.» «Guardala allora!», esclamò una voce soffocata, che non apparteneva a nessun essere soprannaturale, benché potesse sembrare non umana. E Willieblud, con disappunto e sorpresa, vide una seconda mano, sana e intera, che si stendeva verso di lui in silenziosa accusa. Egli indietreggiò, balbettò un grido di pietà, poi piegò per un istante le ginocchia. Quindi si sollevò e, impazzito dal terrore, fuggì dalla capanna, che credette fermamente fosse sotto il dominio di un dèmone. Non portò con sé la mano recisa che da allora in poi divenne una visione perpetua davanti ai suoi occhi. Tutti gli esorcismi potenti del sacrestano, a cui egli chiedeva di continuo aiuto e consiglio, fallirono nello scopo di cancellare quella visione. «Oh, quella mano! A chi appartiene allora quella mano maledetta?», gemeva continuamente. «È veramente quella di un dèmone o quella di un Lupo Mannaro? Certamente, Hugues è innocente: non ho visto forse entrambe le sue mani? Ma da dove veniva tutto quel sangue? C'è una stregoneria in fondo a tutta questa storia.» La mattina dopo, all'alba, il primo oggetto che colpì il suo sguardo nell'entrare nella sua bottega, fu la mano recisa che la notte precedente aveva lasciato sulla cassa nella capanna della foresta. Era stata privata della pelliccia di lupo, ed era appoggiata sul bancone insieme ai tagli di carne. Non osava più toccare quella mano, che ora credeva fosse veramente incantata. Ma, nella speranza di liberarsene per sempre, la gettò in un pozzo. Con disperazione, poco dopo la trovò sul ceppo. La bruciò nel giardino, ma non riuscì a liberarsene. Ritornò livida e disgustosa a infettare la sua bottega, e ad aumentare il rimorso che era incessantemente alimentato dai rimproveri della nipote. Alla fine, sperando si sfuggire alle persecuzioni di quella mano, gli venne in mente di portarla al cimitero di Canterbury, e tentare con esorcismi e con la sepoltura in terra consacrata di impedirle di ritornare alla luce del sole. Anche questo espediente fu provato, ma ahimè! il giorno seguente la vide inchiodata alla porta della bottega.
Sconfortato da quei rimproveri muti ma terribili, che gli toglievano la pace, e impaziente di annientare ogni traccia di un'azione che anche il cielo pareva rimproverargli, una mattina lasciò Ashford senza salutare la nipote. Qualche giorno dopo fu trovato annegato nel fiume Stour. Tirarono fuori il cadavere gonfio e livido, che era stato visto galleggiare tra le alghe. Fu solo con grandi sforzi che riuscirono a strappare al suo pugno contratto la mano spettrale che, nelle convulsioni della morte, aveva stretto saldamente. Un anno dopo questo avvenimento, Hugues, sebbene menomato di una mano, e di conseguenza Lupo Mannaro accertato, sposò Brenda, unica erede del commercio e dei beni del defunto macellaio di Ashford. LOKIS Lokis. Le Manuscript Du Professeur Wittembach di Prosper Merimée Revue des Deux Mondes, autunno 1869 Manoscritto del professor Wittembach 1. «Teodoro», disse il professor Wittembach, «datemi per piacere quel quaderno legato in pergamena, sulla seconda mensoletta, sopra lo scrittoio. No, non quello: il piccolo in ottavo. Ho raccolto in quelle pagine tutte le note del mio diario del 1866, o perlomeno le note che si riferiscono al Conte Szemioth.» Il professore si mise gli occhiali e, nel più profondo silenzio, lesse quel che segue: LOKIS con questo proverbio lituano in epigrafe: Miszka su Lokiu, Abu du tokiu «Entrambi sono una coppia e un paio»; letteralmente: «Michele con Lokis, pari entrambi».
Quando uscì a Londra la prima traduzione lituana della Sacra Scrittura, pubblicai nella Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg un articolo, nel quale, pur tributando giuste lodi alla fatica del dotto interprete e alle pie intenzioni della Società Biblica, stimai di dover segnalare qualche lieve errore; non senza osservare, per giunta, come tale versione non potesse giovare, in definitiva, che a una parte soltanto delle popolazioni lituane. Infatti, il dialetto adoperato, sarebbe stato difficilmente compreso dagli abitanti delle circoscrizioni linguistiche zemaitiche, e cioè dalle popolazioni del Palatinato di Samogizia, il cui idioma si avvicina al sanscrito forse anche più dell'alto lituano. Questa osservazione, a dispetto delle critiche astiose che mi procurò da parte di un noto professore dell'Università di Dorpat, illuminò sull'argomento i membri del consiglio di amministrazione della Società Biblica, il quale consiglio non esitò a propormi il lusinghiero incarico di dirigere e curare la redazione del Vangelo di San Matteo in samogizio (Ero allora troppo preso dai miei studi sulle lingue transuraliche per accingermi a un lavoro più ampio che comprendesse i quattro Vangeli). Procrastinai dunque il mio matrimonio con la signorina Geltrude Weber e mi recai a Kovno (Kaunas), nell'intento di raccogliervi tutti i documenti linguistici, stampati o manoscritti, in lingua samogitica che mi fosse possibile rinvenire, senza escluderne, beninteso, le poesie popolari - o dainos - e i racconti e le leggende - o pasakos - da cui avrei attinto gli elementi per un glossario demaitico: un lavoro questo, che doveva, per necessità di cose, precedere l'altro della traduzione. Mi avevano dato una lettera per il giovane Conte Michele Szemioth, il cui genitore, mi assicuravano, aveva posseduto il famoso Catechismus Samogiticus di padre Lavicki, opera tanto rara che la sua stessa esistenza fu posta in dubbio, particolarmente dal professore di Dorpat del quale ho fatto cenno. Secondo le informazioni in mio possesso, la biblioteca del Conte Szemioth racchiudeva anche una vecchia collezione di dainos e una raccolta di poesie in prussiano antico. Scrissi dunque al Conte, per esporgli lo scopo della mia visita, ed egli mi rispose nel modo più cortese, invitandomi nel suo castello di Medintiltas per tutto il tempo richiesto dalle mie indagini.; Nella chiusa della sua lettera, mi diceva che aveva la pretesa di parlare il puro samogizio quasi altrettanto bene dei suoi contadini, e che inoltre sarebbe stato lieto di unire le sue fatiche alle mie per il buon successo di un'impresa che definiva nobile e interessante. Al pari di alcuni tra i più ricchi latifondisti di Lituania, professava la religione evangelica, della
quale mi onoro di essere ministro. Mi avevano anche parlato di una certa sua bizzarria di modi, la quale non gl'impediva tuttavia di essere molto ospitale, amico delle scienze e delle lettere, e pieno di una speciale benevolenza per coloro che le coltivavano. Perciò partii alla volta di Medintiltas. Fui ricevuto, sullo scalone del castello, dall'Intendente del Conte, il quale mi accompagnò immediatamente nella stanza che mi era stata assegnata. «Il signor Conte», mi disse, «è dolentissimo di non poter cenare stasera con il signor professore. Ma è tormentato dal mal di testa, un disturbo a cui disgraziatamente va un po' soggetto. Se il signor professore non vuole essere servito in camera, potrà cenare con il signor dottor Frœber, medico personale della signora Contessa. Si cena fra un'ora; non si cambia abito. Se il signor professore avesse comandi, ecco il campanello.» Detto questo, si ritirò con un profondo inchino. La stanza era spaziosa, ben arredata, ornata di specchi e ori. Da una parte, dava su un giardino, o meglio sul parco del castello; dall'altra, sull'ampio cortile d'onore. Nonostante l'avviso: «Non si cambia abito», stimai di dover cavare dal baule il vestito nero. Ero in maniche di camicia, intento a disfare il mio modesto bagaglio, quando il rumore di una carrozza mi fece correre alla finestra che dava sul cortile. Era entrato in quel momento un bel calesse, con sopra una signora vestita di nero, un signore e una donna vestita alla foggia delle contadine lituane, ma così alta e membruta che, sulle prime, fui tentato di prenderla per un uomo travestito. Costei scese a terra; intanto, due altre donne di non meno robusta complessione erano già apparse sulla scalinata. Il signore che ho detto si chinò verso la donna vestita di nero e, con mia grande sorpresa, slacciò un'ampia cinta di cuoio che la teneva legata al calesse. Notai che quella signora aveva i lunghi capelli bianchi molto arruffati e che gli occhi di lei, benché spalancati, parevano senza vita: si sarebbe detto un volto di cera. Dopo averla disciolta, colui che l'accompagnava le rivolse la parola, con il cappello in mano, in atto di profondo ossequio; ma lei non mostrò di badargli affatto. Allora, l'uomo si rivolse alle domestiche con un lieve cenno del capo. Subito, le tre fantesche afferrarono la signora vestita di nero e, nonostante gli sforzi che faceva per tenersi alla vettura, la sollevarono come una piuma e la portarono nell'interno del castello. Alla scena assistevano parecchi servi di casa, i quali davano a vedere di non scorgervi nulla di men che ordinario. L'uomo che aveva diretto l'operazione tirò fuori l'orologio, chiedendo se fosse pronta la cena.
«Tra un quarto d'ora, signor dottore», gli fu risposto. Mi fu facile intuire che quello era il dottor Frceber e che la gentildonna vestita di nero era la Contessa. Dall'età dimostrata da quest'ultima, conclusi che doveva essere la madre del Conte Szemioth, e dalle precauzioni usate nei suoi riguardi, che non avesse tutto il lume della ragione. Qualche minuto dopo, il dottore in persona entrò nella mia stanza. «Il signor Conte non si sente bene», mi disse, «e perciò sono costretto a presentarmi da me al signor professore. Il dottor Froeber, per riverirla. Son davvero lieto di conoscere uno scienziato, il cui merito è noto a tutti coloro che leggono la Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg. Vi tornerebbe gradito che si porti in tavola?» Risposi del mio meglio ai convenevoli del dottore, e gli dissi che, se quella era l'ora della cena, lo avrei seguito volentieri. Appena entrammo in sala da pranzo, un maggiordomo ci presentò, secondo le usanze del Settentrione, un vassoio d'argento carico di liquori e di certi antipasti salati, e ancora più pepati, adattissimi per stuzzicare l'appetito. «Consentitemi, signor professore», mi disse il dottor Frceber, «di consigliarvi, nella mia qualità di medico, un bicchiere di questa starka, genuina acquavite di cognac con quarant'anni di stagionatura. È la madre dei liquori. Prendete anche un'acciuga di Drontheim; nulla è meglio indicato per aprire e preparare il tubo digerente, organo importantissimo... E ora, a tavola! Perché non parliamo tedesco? Voi siete di Koenigsberg, e io di Memel, ma ho studiato a Jena. Così saremo più liberi, e la servitù, che conosce solo il polacco e il russo, non ci capirà.» Mangiammo dapprima in silenzio. Però, dopo il primo bicchiere di Madera, chiesi al dottore se il Conte era spesso afflitto dal disturbo che ci privava oggi della sua presenza. «Sì e no», rispose il dottore. «Dipende dalle escursioni che fa.» «Cioè?» «Quando va a zonzo per la strada di Rosienie, per esempio, ritorna con il mal di capo e di umore scontroso.» «Eppure, sono stato anch'io a Rosienie senza provare nulla di simile.» «Ciò dipende, signor professore, dal fatto che non siete innamorato.» Sospirai, pensando alla signorina Geltrude Weber. «E così», domandai, «la fidanzata del signor Conte sta a Rosienie?» «Sì, nei dintorni. Fidanzata!... Non saprei dire. Una vera civetta! Lo farà andar via di cervello, com'è già successo alla madre.»
«Infatti, sbaglio, o la signora Contessa è... malata?» «È pazza, caro signore, pazza da legare! E il più pazzo di tutti sono io, che sono venuto a star qui!» «Speriamo che le vostre cure le ridiano la salute.» Il dottore scosse la testa, esaminando attentamente il colore di un bicchiere di Bordeaux che aveva in mano. «Quale mi vedete, signor professore, ero Maggiore Chirurgo nel Reggimento di Kaluga. A Sebastopoli, dalla mattina alla sera non facevamo che tagliare braccia e gambe. Non parlo delle bombe che ci correvano dietro come le mosche al guidalesco dei cavalli. Eppure, male alloggiato e mal nutrito qual ero, non mi annoiavo come mi annoio qui, benché mangi e beva quanto c'è di meglio, con un alloggio principesco e gli onorari di un Medico di Corte... Ma la libertà, caro signore!... Figuratevi che, con quella diavola, non si gode un attimo di respiro!» «È affidata da molto tempo alla vostra esperienza?» «Da meno di due anni; ma saranno a dir poco ventisei anni ch'è pazza: da prima che nascesse il Conte. Non vi hanno detto questo a Rosienie né a Kovno? Allora ascoltatemi: è un caso che mi riprometto d'illustrare un giorno in un articolo sul Giornale medico di San Pietroburgo. Impazzì per uno spavento.» «Uno spavento? Com'è possibile?» «Uno spavento che ebbe. È uscita dalla famiglia dei Keystut... Eh! In questa casa, non ci si sposa con gente di bassa condizione! Discendiamo, noi, da Gedimino... Dunque, signor professore, tre giorni... o forse due giorni soltanto dopo il matrimonio, celebrato nel castello ove abbiamo il bene di pranzare (alla vostra salute!...) il Conte, padre del Conte attuale, se ne va a caccia. Le nostre gentildonne lituane, come non ho bisogno di dirvi, sono amazzoni compite. Va a caccia anche la Contessa... Non ricordo se precedesse, oppure seguisse i battitori... Il fatto è che, sul più bello, il Conte vede arrivare a tutto sprone il piccolo cosacco della Contessa, un ragazzo di dodici o quattordici anni. "Padrone", dice, "un orso sta portando via la padrona." "Dove?", chiede il Conte. "Da quella parte", risponde il piccolo cosacco. L'intera brigata corre al luogo indicato; da una parte, si trova il cavallo sgozzato, dall'altra il mantello di pelliccia a brandelli, ma la Contessa non si vede! Cercano, frugano il bosco in ogni direzione. Alla fine, un cacciatore grida: "Ecco l'orso!". Infatti, l'orso stava attraversando una radura, sem-
pre trascinando la Contessa evidentemente con l'intenzione di andarsela a divorare con comodo in un macchione, poiché quelle bestiacce sono ghiotte: sono come i frati, che ci tengono a non esser disturbati mentre mangiano. Sposato da due giorni appena, il Conte era molto cavalleresco. Voleva scagliarsi sull'orso, con il coltellaccio in pugno. Ma, caro il mio signore, l'orso lituano non si lascia infilzare come un cervo. Per fortuna, l'armigero del Conte, un tipaccio poco di buono, che per di più aveva bevuto quel giorno tanto da non distinguere più un coniglio da un capriolo, spiana la carabina e spara a oltre cento passi, senza darsi pensiero di considerare se la pallottola avrebbe colto la belva o la donna...» «E colse la belva?» «Secca. Non ci sono che gli ubriachi per fare di questi colpi. Vi sono poi anche le pallottole predestinate, signor professore, e abbiamo qui certi Stregoni che le vendono a un prezzo equo... La Contessa era tutta graffiata, priva di sensi naturalmente, e con una gamba rotta. La portano a casa, rinviene, ma il cervello se n'era andato. La portano a Pietroburgo; gran consulto, quattro dottoroni con patacche di tutti gli Ordini. "La signora Contessa è incinta", dicono, "e può darsi che il parto determini una crisi benefica. Sarà bene tenerla in campagna; aria buona, siero di latte, codeina..." Si pigliano ognuno cento rubli. Nove mesi dopo, la Contessa dà alla luce un maschietto ben formato; ma quanto a crisi benefica, tanti saluti!... Le sue furie raddoppiano. Il Conte le mostra il figlio: è una cosa che fa sempre effetto... nei romanzi. "Uccidetelo! uccidete la bestia!", grida lei. Per poco non gli torse il collo. Da quel giorno, è stato un continuo alternarsi di profonda ebetudine e di pazzia furiosa, con forte propensione al suicidio. Per farle prendere un po' d'aria, si è costretti a legarla, e per tenerla ci vogliono tre serve robuste. Tuttavia, signor professore, vi prego di notare questo particolare: quando sono stufo di sprecare il tempo con lei senza ottenerne ubbidienza, mi resta sempre per calmarla un mezzo infallibile: minaccio di tagliarle i capelli. Credo che un tempo li avesse splendidi. La civetteria! Ecco l'ultimo sentimento umano rimastole. Non è un fatto curioso? Però, se potessi trattarla a modo mio, forse la guarirei.» «E come?» «Spianandole ben bene le costole. Ho guarito in questa maniera venti contadine, in un paese ov'era scoppiata la furiosa pazzia russa, la licantropia: una donna, a un tratto, comincia ad ululare, una sua comare ulula an-
che lei e, in capo a tre giorni, ulula tutto il villaggio. Io, a forza di botte, le ho fatte rinsavire (Prendete una pollastrella: sono davvero tenere). Con la madre, però, il Conte non ha mai voluto che provassi.» «Come! Volevate che acconsentisse a questa orribile cura?» «Boh! Ha conosciuto tanto poco la madre; eppoi, sarebbe stato per il suo bene. Ma ditemi, signor professore, avreste mai creduto che la paura potesse togliere la ragione?» «Veramente, la posizione della Contessa era spaventevole... Trovarsi tra le unghie di una bestia così feroce!» «Ebbene, il figlio non somiglia a lei. Meno di un anno fa, si è trovato esattamente in una posizione identica ma, con la sua presenza di spirito, se l'è cavata come meglio non avrebbe potuto.» «Tra le unghie di un orso?» «Di un'orsa, ed era la più grossa che si fosse mai vista da un pezzo a questa parte. Il Conte si era provato ad attaccarla con lo stocco in pugno. Macché! Con un rovescio della zampa, la bestia svia la lama, adunghia il signor Conte e lo sbatacchia per terra, come io potrei sbatacchiare questa bottiglia. Lui, furbo, fa il morto... L'orsa lo fiuta un bel po', e dopo, invece di sbranarlo, gli dà una linguata. Il Conte ebbe l'accortezza di non muoversi, e la bestia se ne andò per la sua strada.» «L'orsa ha creduto che fosse morto. Infatti, ho sentito dire che quelle bestie non divorano i cadaveri.» «Meglio crederlo che andarlo a provare. Ma, in tema di paura, lasciate che vi racconti un fatto successo a Sebastopoli. Eravamo in cinque o sei intorno a una brocca di birra portataci proprio allora, dietro l'ambulatorio del famoso bastione n. 5. La sentinella grida: "Una bomba!". Ci buttiamo tutti a pancia a terra... Cioè, non tutti: un certo... ma il nome non ha importanza... un giovane ufficiale, arrivato di fresco, rimase in piedi, con il bicchiere pieno in mano, giusto nel momento in cui la bomba esplose. Questa, portò via la testa al mio povero collega Andrea Speranski, un ottimo ragazzo, e sfasciò la brocca. Fortuna che era quasi vuota. Quando ci rialzammo, dopo lo scoppio, vedemmo tra il fumo il nostro amico che si scolava l'ultimo sorso di birra come niente fosse. Lo credemmo tutti un eroe. Il giorno appresso, m'imbatto nel Capitano Ghedeonov, il quale usciva dall'ospedale. Mi dice: "Oggi pranzo con voi e, per festeggiare il mio ritorno, offro lo spumante". Ci sediamo a tavola, e c'era con noi anche quel tale della birra, il quale non sapeva nulla dello spumante. Gli sturano la bottiglia accanto... Paff! Il tappo gli schizza alla tempia. Lui dà in un grido e
sviene. Credetemi pure, il nostro eroe il giorno prima aveva avuto una fifa tremenda, e se tracannò la birra invece di scansarsi, fu semplicemente perché aveva perduto la testa: un fenomeno di automatismo del quale non aveva avuto coscienza. Infatti, signor professore, la macchina umana...» «Signor dottore», disse, entrando in sala, un domestico, «la Sdànova avverte che la signora Contessa non vuol mangiare.» «All'inferno!», borbottò il dottore. «Vado subito. Quando la mia diavoli avrà mangiato, se vi tornasse gradito, signor professore, potremmo fare un; partitina a preferenza o a duratshki...» Mi rammaricai con lui della mia ignoranza di quei giochi e, quando si recò a visitare l'inferma, mi ritirai nella mia camera e scrissi alla signorina Geltrude. 2. La notte era calda e avevo lasciato aperta la finestra che dava sul parco. Quand'ebbi finito la mia lettera, poiché non avevo ancora voglia di dormire, mi diedi a ripassare i verbi irregolari lituani e a ricercare nel sanscrito le ragioni delle loro singole peculiarità. Mentre ero profondamente assorto in quella occupazione, un albero abbastanza vicino alla mia finestra fu scosso con una certa violenza; udii un crepitare di rami secchi, e mi sembrò che qualche bestia molto pesante tentasse di arrampicarvisi. Ancora impressionato dalle storie di orsi narratemi dal dottore, mi alzai, non senza un certo batticuore e, a pochi piedi dalla finestra, scorsi nel fogliame un volto umano, rischiarato in pieno dalla mia lampada. Quell'apparizione non durò che un attimo, ma la luce singolare degli occhi che allora vidi mi colpì più di quanto non saprei esprimere. Mi ritrassi involontariamente, poi corsi di nuovo alla finestra e, con voce severa, chiesi all'intruso che cosa andasse cercando. Ma già quello si affrettava a scendere. Afferrato un grosso ramo, si calò penzoloni; quindi si lasciò cadere, e subito scomparve. Suonai il campanello e riferii al domestico ciò che era successo. «Forse il signor professore si sarà sbagliato.» «Sono certo di quello che dico», replicai. «Temo che vi sia un ladro nel parco.» «Impossibile, signore.» «Allora, è qualcuno di casa?» Il servo spalancava gli occhi senza rispondermi. Poi mi chiese se avessi
altri ordini per lui. Gli dissi di chiudere la finestra e mi coricai. Dormii benissimo, e non sognai né orsi, né ladri. La mattina dopo, mi stavo vestendo, quando bussarono all'uscio. Andai ad aprire e mi trovai a tu per tu con un bel giovane di statura aitante, in veste da camera di fine stoffa di Bukhara, con una lunga pipa turca in mano. «Vengo a chiedervi scusa», mi disse, «di aver così male accolto un ospite come voi, professore. Sono il Conte Szemioth.» Mi affrettai a rispondere che invece ero suo debitore per la magnifica ospitalità, e gli chiesi se si fosse liberato del suo mal di testa. «Non c'è male», rispose. «Perlomeno fino al prossimo accesso.» Queste ultime parole erano state pronunziate con una espressione di tristezza. Aggiunse: «Vi pare sopportabile questo soggiorno? Non dimenticate, vi prego, che vi trovate in mezzo ai barbari. Non bisogna aver pretese, in Samogizia». Lo assicurai che non mi sarei potuto trovar meglio; e intanto, mentre gli parlavo, non potei trattenermi dal fissarlo con una curiosità che sembrò anche a me impertinente. Il suo sguardo aveva un che di strano, che mio malgrado mi ricordò quello dell'uomo che avevo visto arrampicarsi sull'albero la sera prima... Ma come potrebbe essere - pensavo in cuor mio - che il signor Conte Szemioth si vada di notte arrampicando sugli alberi? Il Conte aveva la fronte alta e ben formata, per quanto un po' stretta. I lineamenti del volto erano perfetti: solo che gli occhi erano troppo vicini, e giudicai che tra le due sacche lacrimali non ci fosse lo spazio di un altro occhio, come vorrebbe il canone degli scultori greci. Lo sguardo era penetrante, e i nostri occhi, essendosi incontrati più volte involontariamente, li distoglievamo entrambi un po' impacciati. A un tratto, il Conte scoppiò a ridere esclamando: «Mi avete riconosciuto!». «Riconosciuto?» «Sì, mi scopriste ieri sera in atteggiamento davvero singolare.» «Oh, signor Conte!...» «Mi ero sentito malissimo per tutta la giornata, solo nel mio studio. Siccome ieri sera stavo meglio, sono uscito a fare due passi nel giardino. Ho visto la luce accesa in camera vostra, e non ho resistito a un moto di curiosità... Avrei dovuto dire chi ero e presentarmi, ma la mia posizione era proprio ridicola... Mi sono vergognato, e sono fuggito... Vorrete scusarmi per avervi scomodato nel vostro lavoro?» Il tono voleva essere scherzoso, ma il Conte arrossiva e, visibilmente,
non si trovava a suo agio. Feci del mio meglio per convincerlo di non aver serbato nessuna spiacevole impressione del nostro primo incontro e, per cambiare discorso, gli chiesi se davvero possedesse il catechismo samogitico di Padre Lavicki. «Può darsi; ma - ad esser sinceri - non conosco troppo bene la biblioteca del babbo. Gli piacevano i libri antichi e le rarità bibliografiche. Io non leggo che opere moderne. Ma faremo tutte le ricerche, signor professore. E così, ci volete far leggere il Vangelo in dialetto samogizio?» «Non pensate, signor Conte, che una versione della Sacra Scrittura nell'idioma di questo paese, sia un'impresa auspicabile?» «Certamente; per quanto, con vostra licenza, sarei tentato di farvi osservare come, tra le persone che conoscono soltanto il samogizio, non ve ne sia una sola che sappia leggere.» «Sarà; ma Vostra Eccellenza vorrà permettermi di farle notare che la principale difficoltà, per imparare a leggere, sta proprio nella mancanza di libri. Quando le popolazioni samogitiche disporranno di un testo a stampa, vorranno leggere e impareranno... È accaduto già per molti selvaggi... non che io voglia dare questo appellativo agli abitanti di questa contrada... D'altronde -soggiunsi - non è un fatto deplorevole che una lingua scompaia senza lasciar traccia di sé? Da una trentina d'anni il prussiano è diventato una lingua morta, e l'ultimo individuo che sapesse il comico è morto l'altro ieri.» «Peccato!», interruppe il Conte. «Alessandro di Humboldt narrava a mio padre di aver conosciuto in America un pappagallo, il quale era l'unico essere vivente che sapesse ancora qualche parola della lingua di una tribù oggi interamente distrutta dal vaiolo. Vi dispiace se faccio portare il tè qui?» Mentre sorbivamo il tè, la conversazione si svolse sulla lingua samogitica. Il Conte criticava il metodo di trascrizione del lituano seguito dai Tedeschi, e aveva ragione. «Il vostro alfabeto», osservava, «non si attaglia alla nostra lingua. Non avete né la nostra J, né la nostra L, e tantomeno la nostra Y o la nostra E. Ho una collezione di dainos pubblicati a Kcenigsberg l'anno scorso, e debbo sudare sette camicie per decifrare le parole, tanto sono stranamente raffigurate.» «Vostra Eccellenza allude certamente ai dainos di Lessner!» «Sì; è una poesia proprio sciatta: che ne dite?» «Forse avrebbe potuto trovar di meglio. Concedo che, così come si pre-
senta, la raccolta non ha che un interesse puramente filologico; ma credo che, cercando bene, si troverebbero senza dubbio fiori più leggiadri nella selva delle vostre poesie popolari.» «Ahimè! Ne dubito assai, a dispetto del mio patriottismo.» «Qualche settimana fa, mi hanno dato a Wilno una ballata veramente bella, e per giunta storica... L'afflato poetico è davvero degno di nota... Posso leggervela? L'ho qui nel portafoglio.» «Mi farete veramente piacere.» Chiestami licenza di fumare, si sprofondò nella poltrona. «Non gusto bene la poesia se non fumando», mi disse. «Il titolo è: I tre figli di Budris.» «I tre figli di Budris?», esclamò il Conte con un gesto di viva meraviglia. «Sì: Budris, come sa meglio di me Vostra Eccellenza, è un personaggio storico.» Il Conte mi stava fissando con occhi straniera uno sguardo indefinibile, il suo, tra timido e selvaggio, che dava un'impressione quasi molesta a chi non vi era avvezzo. Mi affrettai a leggere per liberarmene: I TRE FIGLI DI BUDRIS Poi che nell'ampio cortile del suo turrito castello Budris il nobile vecchio i suoi tre figli ha chiamato, tutti e tre lituani veri tutti e tre valenti nell'armi: «Figlioli», dice, «abbiadate i vostri nitrenti corsieri; tenete pronte le selle, e le grandi sciabole curve, le chiaverine acuminate. Dicono che da Wilno la guerra divampi in tre direzioni; da Wilno già corre la strage ai confini del mondo abitato.
Già muove contro ai Russi Olgerdo e Skirghello contro ai Polacchi e sui Cavalieri Teutonici di Kèistut si avventa il terrore. Andate pur voi, e vi assistano gli Dèi della Lituania! Budris or più non guerreggia ché troppo gl'incresce vecchiaia; ma voglio pur darvi un consiglio; figli dell'eroe, ascoltate: Tre sono i confini del mondo, tre sono le vie della gloria. Il primo di voi con Olgerdo nella pingue Russia si rechi, in riva dell'Ilmen pescoso e a Novgòrod cinta di mura, ricca d'ermellini e broccati. Là, più che ghiaccioli nel fiume, i mercanti han rubli ammucchiati. Con Kèistut vada il secondo, e cavalchi, e forte guerreggi. Ai lidi del torbido Baltico la marmaglia crociata disperda: là trovansi stoffe preziose, d'ambra son le dune del mare, sui chiari paramenti dei preti rubini scintillanti occhieggiano. L'ultimo passi il gran fiume, il Nièmen col prode Skirghello. Non rubli, non ricchezze opime troverà, ma servili aratri. Però lance e scudi mi porti e una nuora pei giorni miei tardi.
Le donne di Polonia, figlioli, Budris non vi trae in inganno, tra quante prigioniere si adducano son le prigioniere più belle. Beato colui che le impalma! Bianche come panna frullata, come gatte son pazzerelle; gli occhi come stelle sfavillano sotto le nere ciglia tremanti. Quand'ero anch'io giovine, ahimè! or è mezzo secolo, anch'io una prigioniera stupenda riportai con me di Polonia, e moglie mi fu, per cui vedovo pur da tanti lustri sospiro». Il vecchio i suoi figli gagliardi ora benedicendo accomiata. E balzano in sella, già partono... Eppoi nulla più... Le stagioni trascorron, l'autunno piovoso e l'inverno tetro... Non tornano... Non tornano i figli suoi forti e Budris già morti li piange; quand'ecco la neve, e nel bianco turbinio un uomo a cavallo. Chi mai esser può? la sua burka nasconde un pesante bottino. «È un sacco!», esulta il vegliardo. «Forse che il mio primo mi porta di Novgòrod i rubli sonanti?» «No, padre, una nuora vi porto dall'umida vasta Polonia...»
E passano i giorni, e si affaccia il vecchio sull'alto torrione; e turbina ancora la neve; e nel vento è un guerriero che avanza. Ecco, l'ampia burka ricopre pur ora un ricco fardello. «Figlio mio, tu certo mi porti l'ambra del paese tedesco?» «No, padre, ma un ben più prezioso, una nuora dalla Polonia.» Ora, tra l'infuriare del vento, nella neve, un uomo a cavallo per ultimo arriva, e ritardagli il passo la burka pesante. Ma prima che giunga, e le labbra pur muova, l'astuto vegliardo gli amici a convito chiamò. I fuochi negli alti camini per le terze nozze risplendono... «Bravo professore!», esclamò il Conte. «Pronunziate il samogizio ch'è un godimento ascoltarvi; ma da chi avete avuto questa graziosa daina?» «Da una nobile fanciulla che ebbi l'onore di conoscere a Wilno, in casa della Principessa Katazina Paç.» «E si chiama?...» «La panna Iwinska.» «La signorina Iulka!», esclamò il Conte. «Quella pazzerella! Me lo sarei dovuto immaginare! Caro il mio professore, conoscete il samogizio e tutte le lingue dotte, avete letto molti vecchi libri, ma vi siete lasciato mistificare da una ragazzina che ha letto solo romanzi. Vi ha tradotto, in samogizio più o meno corretto, una graziosa ballata di Mickiewicz, che voi non conoscete perché avrà tutt'al più gli anni miei. Se volete, ve la farò leggere in polacco, a meno che non preferiate l'ottima versione russa di Puskin.» Confesso che rimasi esterrefatto. Che gioia per il professore di Dorpat, se avessi pubblicato come originale la daina dei figli di Budris!
Invece di prendersi spasso della mia confusione, il Conte si affrettò, con squisita cortesia, a cambiare discorso. «E così», domandò, «conoscete la signorina Iulka?» «Ebbi l'onore di esserle presentato.» «E che ne pensate? Siate sincero.» «È una signorina molto simpatica...» «Vi piace dire così.» «...Graziosissima...» «Ma!» «Come sarebbe a dire? Non ha forse i più begli occhi del mondo?» «Sì...» «Una carnagione veramente abbagliante?... C'è un ghazel persiano, in cui un amante celebra la delicatezza di pelle dell'amata: "Quando beve vino rosso", dice, "lo si vede passare per la gola". La panna Iwinska mi ha ricordato i versi del poeta persiano.» «Forse lo stesso fenomeno avviene anche per la signorina Iulka; ma non so davvero se abbia sangue nelle vene... Certo non ha cuore... È come la neve: candida e... fredda.» Si alzò e passeggiò qualche minuto senza parlare, su e giù per la stanza, indubbiamente - o almeno così mi sembrò - per nascondere il suo turbamento; poi, fermandosi di colpo: «Scusate», disse, «mi pare che stessimo parlando di poesie popolari...». «Già, signor Conte.» «Ad ogni modo, bisogna riconoscere che ha tradotto Mickiewicz con molto garbo... "Bianca come panna frullata... come una gatta pazzerella... gli occhi come stelle sfavillano...". È il suo ritratto. Non vi sembra?» «Proprio così, signor Conte.» «In quanto alla sua birichinata... certo, assai fuori di posto... la povera figliola si annoia con quella vecchia zia... Fa una vita da convento.» «A Wilno, andava ai ricevimenti. La trovai a un ballo offerto dagli ufficiali del reggimento di...» «Ah, sì! La compagnia dei giovani ufficiali: ecco ciò che fa per lei. Ridere con questo, scherzare con quello, civettare con tutti... Vogliamo vedere la biblioteca del babbo, professore?» Lo seguii in un'ampia galleria con molti libri ben rilegati, ma che raramente venivano aperti, com'era facile capire dalla polvere che li copriva in testa e sul taglio. Figuratevi la mia contentezza quando, tra i primi volumi che trassi da uno scaffale, mi capitò in mano il Catechismus Samogiticus!
Non riuscii a trattenere un grido di gioia... Si deve credere che una misteriosa forza di attrazione ci muova a nostra insaputa... Il Conte prese il libro e, sfogliatolo con noncuranza, scrisse sulla prima pagina: Al sig. professor Wittembach, offerto da Michele Szemioth. Mi è impossibile esprimere tutta la mia riconoscenza in quel momento. In cuor mio, promisi a me stesso che, dopo la mia morte, il prezioso volume sarebbe andato a ornare la biblioteca dell'Università nella quale mi addottorai. «Vi prego di considerare questa libreria come il vostro studio privato», disse il Conte. «Qui, nessuno verrà mai a darvi fastidio.» 3. Il giorno appresso, dopo colazione, il Conte mi propose una passeggiata. Saremmo andati a vedere un kapas (nome lituano di quei tumuli che in russo vengono detti kurgan) famosissimo in tutta la contrada, in quanto i poeti e gli stregoni - il che fa tutt'uno - vi si davano anticamente convegno nelle occasioni solenni. «Posso offrirvi», mi disse, «un cavallo docilissimo. Mi rincresce di non potervi portare in carrozza ma, ad essere sinceri, la strada che seguiremo non è affatto carreggiabile.» Avrei preferito rimanere a prendere appunti in biblioteca, ma mi parve sconveniente manifestare un desiderio men che conforme a quello dell'ospite generoso; dunque accettai. I cavalli erano già pronti a piè dello scalone; nel cortile, un valletto teneva un cane al guinzaglio. Il Conte si fermò un attimo e, voltandosi dalla mia parte: «Professore, v'intendete di cani?». «Pochissimo, Eccellenza.» «L'intendente di Zorany, dove ho una tenuta, mi manda un cane spagnolo del quale dice mirabilia. Vi dispiace se gli do un'occhiata?» Chiamò e gli fu condotto il cane. Si trattava di una bestia magnifica, che aveva già dimestichezza con il servo e perciò saltava allegramente, tutta fuoco. Ma, a pochi passi dal Conte, mise la coda tra le gambe e si ritrasse di colpo, come in preda a un terrore subitaneo. Il Conte lo accarezzò, il che lo fece guaire lamentevolmente e, dopo averlo osservato per un attimo con occhio d'intenditore, disse: «Credo che sarà un buon cane. Abbiatene cura». E balzò in sella. Come imboccammo il viale del castello, il Conte mi disse:
«Professore, avete visto il timore di quel cane. Ho voluto che ne foste voi stesso testimone... Nella vostra qualità di scienziato, dovreste sapere sciogliere gli enigmi... Perché le bestie hanno paura di me?». «Davvero, signor Conte, mi state facendo l'onore di scambiarmi per Edipo. Non sono che un povero docente di linguistica comparata. Potrebbe darsi...» «Notate», interruppe il Conte, «che non frusto mai né i cavalli né i cani. Mi farei scrupolo di dare una staffilata a una povera bestia che fa una sciocchezza senza saperlo. Pure, non potete sapere quale avversione ispiri tanto a questi che a quelli. Perché si avvezzino a me, devo sempre sprecare il doppio del tempo e della fatica che normalmente si richiederebbero a un altro. Per esempio, quel cavallo che avete ora, ho messo non so quanto a ridurlo com'è adesso, voglio dire mansueto come un agnello.» «Credo, signor Conte, che gli animali siano fisionomisti e che si accorgano subito se le persone che vedono per la prima volta abbiano oppur no qualche simpatia per loro. Io credo che voi amiate le bestie solo per il giovamento che potete trarne; taluni invece hanno una predilezione naturale per certe bestie, le quali se ne avvedono sul momento. Io, per esempio, ho sin dall'infanzia una preferenza istintiva per i gatti. E i gatti assai di rado fuggono quando mi avvicino per accarezzarli; non solo, ma nessun gatto mi ha mai graffiato.» «È possibilissimo», assentì il Conte. «Infatti, io non ho quello che si dice il gusto degli animali... Non valgono affatto più degli uomini. Intanto, signor professore, vi sto conducendo in una selva nella quale vige tuttora il regno delle bestie, la matecznik, la grande matrice, la grande fabbrica degli esseri viventi. Proprio così, secondo le nostre tradizioni nazionali. Nessuno ne ha mai scandagliato i più profondi recessi, nessuno ha mai potuto raggiungere il centro di questi boschi e di queste paludi, salvo, beninteso, i poeti e gli stregoni, che s'intrufolano in ogni dove... Qua vivono tutti gli animali in perfetta repubblica... o sotto qualche altro governo costituzionale, che non saprei meglio precisare. Leoni, orsi, alci, jubr - i nostri uri -, tutta questa bella roba vive d'amore e d'accordo, insieme. Il mammut, la cui razza vi si è pure conservata, vi gode di un particolare prestigio; credo sia il capo della dieta. La loro polizia è molto severa e, quando trovano qualche bestia viziosa, la giudicano e la esiliano. Costei viene così a cadere dalla padella nella brace: non le resta che avventurarsi nel paese degli uomini, e poche scampano.» «Questa leggenda è veramente curiosa!», esclamai. «Ma, signor Conte,
avete menzionato l'uro. Forse questo nobile animale, descritto già da Cesare nei suoi Commentari, lo stesso, poi, cui i re merovingi davano la caccia nella foresta di Compiègne, esiste realmente in Lituania, come ho sentito dire?» «Certamente. Mio padre stesso uccise un jubr, con regolare licenza del Governo, s'intende: forse ne avete visto la testa nel salone. Io, finora, non ne ho visti mai, e credo che gli uri siano oggi molto rari. In compenso, abbiamo lupi e orsi a iosa. Anzi, se mi son provveduto di questo aggeggio (mi mostrava una cèccola circassa che aveva a tracolla), e se il mio scudiero porta una doppietta all'arcione, è proprio in previsione di un possibile incontro con qualcuno di cotesti messeri.» Cominciavamo a inoltrarci nella foresta. Il viottolo per cui andavamo presto scomparve. A ogni piè sospinto, eravamo costretti ad aggirare certi alberi enormi, i cui rami c'impedivano il passo. Qualcuno, già caduto sotto il peso degli anni, ci opponeva una specie di bastione, munito, si sarebbe detto, di un invalicabile sbarramento di cavalli di Frisia. Più in là, c'erano profonde paludi coperte di ninfee e di lenticchie d'acqua, e ancora più in là splendevano radure di erba smeraldina; ma guai a chi vi si fosse avventurato, perché quella lussureggiante e ingannevole vegetazione nasconde solitamente certe voragini melmose ove cavallo e cavaliere sprofonderebbero senza scampo... L'asprezza del cammino aveva interrotto la nostra conversazione, e io facevo del mio meglio per seguire il Conte, ammirato della imperturbabile avvedutezza con cui si orientava senza bussola e immancabilmente ritrovava la direzione ideale che occorreva seguire per raggiungere il kapas. Era chiaro che doveva avere una lunga esperienza di cacce in quelle foreste selvagge. Finalmente scorgemmo il tumulo, nel bel mezzo di un'ampia radura. Era molto alto e circondato di un fosso tuttora riconoscibile nonostante i cespugli e le frane. Pare che vi avessero già fatto degli scavi. Al vertice, notai i ruderi di una costruzione, delle pietre in parte calcinate. Da un cospicuo mucchio di ceneri frammiste a carbone e a cocci di rozzo vasellame, si poteva arguire che in cima al tumulo il fuoco era stato tenuto acceso per un periodo considerevole. Se si volesse prestar fede alla tradizione volgare, pare anzi che anticamente sui kapas si celebrassero sacrifici umani. Ma tra le religioni oggi scomparse, si può dire che non ve ne sia una cui non siano stati imputati consimili riti, e io dubito assai che, nei confronti degli antichi Lituani, un'opinione siffatta si possa ritenere fondata su rigorose testimo-
nianze storiche. Stavamo ridiscendendo dal tumulo per riprendere i cavalli, che avevamo lasciati al di qua del fosso, quando vedemmo avvicinarsi una vecchia, appoggiata a un bastone, con un canestro in mano. «Miei buoni signori», disse, quando ci ebbe raggiunti, «fatemi la carità per l'amor di Dio! Datemi da comprarmi un bicchiere d'acquavite che riscaldi le mie povere membra.» Il Conte le buttò una moneta d'argento, chiedendole che cosa facesse nel bosco, in un punto così lontano da ogni luogo abitato. Per sola risposta, gli fece vedere il canestro pieno di funghi. Non m'intendo molto di botanica, tuttavia mi sembrò che parecchi di quei funghi appartenessero a specie venefiche. «Buona donna», le dissi, «spero che non mangerete quella roba?» «Mio buon signore», rispose la vecchia con un mesto sorriso, «la povera gente mangia tutto ciò che il Signore vuol darle.» «Non conoscete il nostro stomaco lituano», aggiunse il Conte, «è foderato di latta. I nostri contadini mangiano qualunque fungo trovino, e meglio di così non potrebbero stare.» «Almeno, fate che non abbia da assaggiare l'agaricus necator che vedo nella sua cesta», esclamai. E nel dire quelle parole, stesi la mano per toglier via un fungo tra i più velenosi; ma la vecchia ritrasse lestamente il canestro. «Bada», mi disse con voce spaventata, «sono custoditi.... Pirkuns! Pirkuns!» Pirkuns, sia detto di sfuggita, è il nome samogizio della Divinità che i Russi chiamano Perun; è il Giove tonante degli Slavi. Per quanto mi stupisse che la vecchia invocasse un Dio pagano, mi meravigliai ancora di più nel vedere i funghi sollevarsi nel paniere. Spuntò fuori la testa nera di un serpente che vidi ergersi di un buon palmo sopra i funghi. Feci un balzo indietro e il Conte volse il capo a sputare dall'altra parte, secondo l'usanza misteriosa degli Slavi, che ritengono, come già gli antichi Romani, di scongiurare a quel modo i malefizi. La vecchia posò il canestro a terra, si accoccolò, e pronunziò certe parole incomprensibili che avevano tutta l'aria di una formula di stregoneria. Il serpente restò fermo per un minuto, poi si arrotolò al braccio rinsecchito della vecchia e scomparve nella manica della mantellina di pelle di pecora in cui, oltre a una logora camiciola, si compendiava - mi sembra - tutto il vestiario di quella Circe lituana. La vecchia ci guardava con un risolino di
trionfo, come un giocoliere che sia riuscito a eseguire un difficile gioco di prestigio. Si leggeva sul suo volto un'espressione mista di astuzia e di stupidità, abbastanza frequente nei pretesi stregoni, i quali, il più delle volte, sono a un tempo creduli e raggiratori. «Ecco», mi disse il Conte in tedesco, «un bel saggio di colore locale: una strega nell'atto d'incantare un serpente, all'ombra di un kapas, in presenza di un dotto professore e di un ignorante gentiluomo lituano. Che bel soggetto per un quadro di maniera del vostro conterraneo Knauss! Non volete farvi predire il futuro? Questa sarebbe una buona occasione.» Risposi che non mi sarei davvero curato d'incoraggiare simili pratiche. «Preferisco assai», aggiunsi, «chiederle se non sappia qualche altro particolare sulla curiosa tradizione di cui mi avete fatto cenno... Buona donna», feci quindi alla vecchia, «non avresti nessuna notizia di un angolo di questa selva ove le bestie vivono con un proprio governo, senza essere molestate dall'uomo?» La vecchia assentì con il capo e, sempre con quel suo risolino tra scemo e astuto: «Ne torno or ora», assicurò. «Le bestie hanno perso il re. Nobile, il leone, è morto; le bestie stanno per scegliersi un altro sovrano. Vai tu; sarai re, forse». «Che stai vaneggiando, nonnetta?», esclamò il Conte, scoppiando a ridere. «Sai per lo meno con chi parli? Ignori forse che il signore è... (come diavolo si dice professore in samogizio?)... che il signore è un uomo molto istruito, un saggio, un waidelote?» La vecchia lo fissò attentamente. «Infatti, sbaglio», disse. «Sei tu che dovresti andare laggiù. Tu sarai il loro re, non lui: sei grande, forte; hai zanne e artigli...» «Che ve ne pare degli epigrammi di cui ci gratifica?», mi chiese il Conte. «Conosci la strada, mammina?», le domandò. Con un cenno della mano quella indicò una parte della foresta. «Uhm!», fece il Conte, «e la palude, come fai a passarla?... Dovete sapere, signor professore, che da quella parte si trova una palude impraticabile, un lago di melma liquida velato d'erba verde. L'anno scorso, un cervo che ferii si gettò in quel pantano. L'ho visto affondare piano piano... In capo a dieci minuti, non se ne vedevano più se non le corna; poi, più nulla e, oltre a ciò, ci ho rimesso anche un paio di cani.» «Io, però, sono leggera», fece la vecchia ridacchiando. «Come no! Sono certo che attraversi la palude come niente, sul manico
della scopa.» Gli occhi della vecchia lampeggiarono d'ira. «Mio buon signore», disse, riprendendo il tono strascicato e naseggiante degli accattoni, «non avresti una pipata di tabacco da regalare a una poveretta?» E, abbassando la voce, aggiunse: «Faresti meglio a cercare il passaggio tra la palude, anziché recarti a Dowghielli». «Dowghielli!», esclamò arrossendo il Conte. «Che intendi dire?» Non potei trattenermi dal notare che quel nome produceva su di lui uno strano effetto. Era visibilmente impacciato; calò la testa e, per celare il proprio turbamento, si affannò più del necessario per aprire la borsa del tabacco, che teneva appesa all'impugnatura del coltello da caccia. «No, non andare a Dowghielli», ripeté la vecchia. «La colombella bianca non è roba per i tuoi denti. Che te ne pare, Pirkuns?» In quel punto, la testa del serpente sbucò dal collo della mantellina e si spinse fino all'orecchio della padrona. Il rettile, indubbiamente addestrato per quella funzione, muoveva la mandibola come per parlare. «Dice che ho ragione», spiegò la vecchia. Il Conte le diede una manciata di tabacco. «Mi conosci?», domandò. «No, mio buon signore.» «Sono il padrone di Medintiltas. Vieni a trovarmi uno di questi giorni. Ti darò tabacco e acquavite.» La vecchia gli baciò la mano e si allontanò rapidamente. In un attimo la perdemmo di vista. Il Conte era rimasto soprapensiero; legava e scioglieva i cordoni del suo zaino senza accorgersi troppo di quel che facesse. «Professore», disse dopo una pausa piuttosto lunga, «ora voi riderete di me. Quella vecchia birbona mi conosce più di quanto voglia dare a intendere, e la strada che mi ha indicato poc'anzi... Però, tutto considerato, non mi sembra un fatto così straordinario. Da queste parti, mi conoscono tutti, e questa gaglioffa mi ha certo visto più di una volta sulla strada del castello di Dowghielli... Laggiù abita una fanciulla da marito e lei ne ha concluso che io fossi innamorato... Inoltre, qualche altro pretendente le avrà unto la mano perché mi predicesse una sinistra ventura... Tutto questo è chiaro e lampante... Eppure, mio malgrado, le sue parole mi hanno scosso. Ne sono quasi spaventato... Voi ridete, e avete ragione... Ma il fatto è che avevo de-
ciso di andare a chiedere un invito a pranzo al castello di Dowghielli, e ora sono titubante... Sono davvero un bel pazzo! Vediamo, signor professore, decidete voi stesso. Che ne dite: andremo?» «Non mi permetterò davvero di esprimere un'opinione in proposito», risposi ridendo. «In fatto di matrimonio, non do mai consigli.» Avevamo intanto raggiunto i nostri cavalli. Il Conte balzò svelto in sella e, allentate le redini, esclamò: «Sceglierà il cavallo!». Il cavallo non ebbe esitazioni; infilò subito un viottolo che, dopo molti giri, andò a sbucare su una strada ferrata, e quella strada conduceva a Dowghielli. Mezz'ora dopo ci presentavamo allo scalone del castello. Lo scalpitare dei cavalli chiamò alla finestra una graziosa testa bionda. Riconobbi, tra due tendine, la perfida traduttrice di Mickiewicz. «Benvenuto!», disse. «Non potevate capitare più a proposito, Conte Szemioth. Mi è giunto or ora un vestito da Parigi. Non mi riconoscerete per quanto sarò bella.» Le tendine si richiusero. Nel salire la scalinata, il Conte diceva tra i denti: «Certo, non per me si preparava a indossare il vestito nuovo...». Mi presentò alla signora Dowghiello, zia della panna Iwinska, la quale mi accolse affabilmente e mi parlò dei miei ultimi articoli sulla Gazzetta di Scienze e Lettere di Koenigsberg. «Il signor professore», disse il Conte, «è venuto a lagnarsi con voi della signorina Giuliana, che gli ha giocato un pessimo tiro.» «È una bambina, signor professore; bisogna scusarla. Mi fa spesso disperare con le sue pazzie. A sedici anni, io avevo più giudizio di quanto ne abbia lei a venti; ma, in fondo, è una brava figliola, e ha tutte le più solide qualità. Ha un'ottima preparazione musicale, dipinge i fiori divinamente, parla con eguale facilità il francese, il tedesco, l'italiano... Ricama...» «E compone versi in samogizio!», aggiunse ridendo il Conte. «Questo, no!», esclamò la signora Dowghiello, a cui dovemmo narrare la birichinata della nipote. La signora Dowghiello era colta e conosceva le antichità della sua patria. La sua conversazione mi piacque enormemente. Leggeva molto le nostre riviste tedesche e aveva oneste nozioni in materia di linguistica. Perciò confesso che non mi accorsi del tempo impiegato nel vestirsi dalla signorina Iwinska. Non altrettanto può dirsi del Conte Szemioth, il quale si alzava, tornava a sedere, poi andava alla finestra, e tamburellava con le dita sui
vetri come un uomo a corto di pazienza. Finalmente, dopo tre quarti d'ora, la signorina Giuliana ricomparve seguita dalla governante francese. Portava con grazioso sussiego un abito la cui descrizione richiederebbe molte cognizioni che io non ho. «Non sono forse bella?», chiese al Conte Szemioth, girandosi lentamente perché potesse osservarla da ogni lato. Quanto a lei, non guardava né il Conte, né il sottoscritto: guardava l'abito. «Come, Iulka!», disse la signora Dowghiello. «Non saluti il professore, che è venuto a lagnarsi di te?» «Ah, professore!», esclamò la ragazza con una smorfietta graziosa. «Che ho fatto? Volete dunque mettermi in castigo?» «Signorina», risposi, «ci metteremmo in castigo noi stessi, se facessimo tanto di privarci della vostra presenza. Non solo non mi lagno, ma mi rallegro di avere appreso, grazie a voi, che la musa lituana è più che mai viva e fiorente.» Chinò la testa e, copertasi il viso con le mani, con l'avvertenza tuttavia di non scomporre la sua pettinatura: «Perdonatemi», disse, con il tono del bambino che abbia commesso un furterello di marmellata, «non lo farò più!». «Non vi perdonerò, cara pani», le risposi, «se non quando avrete mantenuto una certa promessa che vi piacque farmi a Wilno, dalla Principessa Katazyna Paç.» «Quale promessa?», domandò, rialzando il viso ridente. «Ve ne siete già scordata? Mi prometteste che, se ci fossimo ritrovati mai in Samogizia, mi avreste fatto vedere un certo ballo paesano del quale mi diceste mirabilia.» «Oh, la russalka! Se mi ci metto, sono affascinante, ed ecco proprio l'uomo che ci vuole.» Corse a un tavolino coperto di musica, sfogliò velocemente una partitura, la pose sul leggio del pianoforte e, rivolgendosi alla governante: «Vi prego, anima mia, allegro presto», le disse. E accennò lei stessa, senza nemmeno sedersi, il motivo del ritornello per indicare il tempo. «Venite qui, Conte Michele; siete troppo lituano per non ballare bene la russalka... Ma ballatela alla contadina, siamo intesi?» La signora Dowghiello avrebbe voluto fare qualche obiezione, ma invano. Io insistetti, e così il Conte, che però aveva le sue buone ragioni, poi-
ché la sua parte, come si vedrà, stava per essere quanto mai piacevole. La governante, dopo alcune note di prova, disse che forse gliela avrebbe fatta a suonare quella strana specie di valzer, e la signorina Iwinska, tolto di mezzo un tavolo e alcune sedie che potevano essere d'impaccio, afferrò il suo cavaliere per il bavero della giubba, trascinandolo in mezzo al salotto. «Dovete sapere, professore, che sono una russalka, per servirvi.» Fece un profondo inchino. «Le russalke sono ninfe delle acque. Ognuno di quei neri acquitrini che abbelliscono le nostre foreste ha la sua. Statene lontano! O la russalka esce, anche più bella di me - se possibile - e vi trascina là in fondo, dove, secondo ogni apparenza, vi sgranocchia a bocconcini...» «Costui», proseguì la signorina Iwinska indicando il Conte Szemioth, «è un pescatorello molto ingenuo, che mi si caccia tra le unghie, e io, per far durare il piacere, lo ammalierò ballandogli un po' attorno... Ah, per riuscirvi come si deve, mi occorrerebbe una sarafana. Che peccato!... Scusate il vestito, senza carattere e senza colore locale... Oh! e le mie scarpe! Non è possibile ballare la russalka con le scarpe ai piedi! E coi tacchi, poi!» Si tirò quindi su la veste e, scuotendo con molta grazia un bel piedino, a rischio di far vedere un po' la gamba, mandò la scarpetta a ruzzolare in fondo al salotto. L'altra scarpetta seguì la stessa via, e lei rimase così, sul nudo pavimento, senz'altro ai piedi che le calze di seta. «Tutto è pronto», disse alla governante. E il ballo ebbe inizio. La russalka gira e rigira intorno al cavaliere. Questi stende le braccia e vuole ghermirla, ma lei scivola sotto e gli sfugge. Lo spettacolo è assai grazioso; la musica, poi, ha un certo brio e una certa originalità. La figura si chiude quando il cavaliere, ormai convinto di stringere la russalka, tenta di baciarla, e lei muove un salto, lo colpisce sulla spalla, e lo fa cadere ai suoi piedi, tramortito... Ma il Conte improvvisò una variante, abbracciando forte la birichina e baciandola realmente. La signorina Iwinska emise un piccolo grido, arrossì molto e si buttò a sedere su un divano con aria imbronciata, dolendosi della stretta che lui, da quell'orso che era, le aveva dato. Vidi che il paragone non garbò al Conte. Infatti gli ricordava la disgrazia materna, e la sua fronte si rabbuiò. Io, ringraziai vivamente la signorina Iwinska e lodai la sua danza, cui mi sembrò di doversi riconoscere un carattere molto antico, ossia una certa affinità con le danze sacre dei Greci. Fui interrotto da un servo che annunziò il Generale e la Principessa Ve-
liaminof. La signorina Iwinska fece un balzo dal divano alle scarpe, nelle quali infilò in fretta i bei piedini, e corse subito incontro alla Principessa, cui fece lì per lì due profondi inchini. Notai che ogni volta sollevava agilmente il tacco. Il Generale, che si era portato appresso anche due Aiutanti di Campo, era venuto come noi a invitarsi a cena. In qualunque altro paese, penso che la padrona di casa si sarebbe trovata alquanto in imbarazzo per ricevere all'improvviso sei ospiti di buon appetito. Ma, nelle famiglie lituane, l'abbondanza e l'ospitalità sono tali che la cena fu ritardata, credo, di non più di mezz'ora. Solo che vi erano un po' troppi pasticcetti, caldi e freddi. 4. La cena riuscì molto allegra. Il Generale ci fornì dei ragguagli interessantissimi sulle lingue parlate nel Caucaso, parte delle quali sono arie e parte turaniche, benché esista una notevole similitudine tra i modi di vita e le usanze delle varie tribù. Dovetti parlare anch'io dei miei viaggi, dopo che il Conte Szemioth mi ebbe elogiato per la mia bravura nel cavalcare: egli infatti osservò di non essersi mai imbattuto prima di allora in un ministro del culto o in un professore capace di cavarsela con tanto onore in una galoppata come quella che avevo fatto in sua compagnia. E io stimai mio dovere spiegargli come, per la compilazione di un lavoro sullajingua dei Charruas affidatomi dalla Società Biblica, fossi vissuto tre anni e mezzo nella Repubblica dell'Uruguay, quasi sempre a cavallo, con gl'Indios della pampa. In questo modo, venni a narrare l'avventura toccatami la volta che mi smarrii in quelle sconfinate pianure, allorché rimasi tre giorni senza viveri e senz'acqua, costretto a seguire l'esempio dei gauchos che mi accompagnavano, e cioè ad aprire una vena al cavallo e a berne il sangue. Le donne presenti ebbero un grido di orrore. Il Generale osservò che i Calmucchi si comportano allo stesso modo in simili estremi. Il Conte mi chiese come avessi trovato quella bevanda. «Dal lato morale», risposi, «m'ispirava una grande ripugnanza; ma, fisicamente, ne trovai giovamento, e oggi le debbo anche l'onore di assistere a questa cena. Molti Europei, ossia molti bianchi, dopo una lunga consuetudine di vita con gl'Indiani, finiscono anche loro con l'abituarvicisi, e anzi, vi prendono gusto. Il mio ottimo amico, don Fructuoso Rivero, Presidente della Repubblica, raramente tralascia di levarsi questa voglia. Mi ricordo che un giorno, mentre si recava a un congresso in alta uniforme, gli capitò
di passare davanti a un rancho ove stavano levando del sangue a un puledro. Si fermò, scese da cavallo per chiedere un chufon, e cioè una succhiata; dopodiché pronunziò uno dei discorsi più eloquenti della sua vita.» «Il vostro Presidente è un orribile mostro!», esclamò la signorina Iwinska. «Vi chiedo scusa di dovervi contraddire, cara pani», replicai, «ma è un uomo assai distinto, di spirito veramente superiore. Parla a maraviglia parecchie lingue indiane difficilissime, soprattutto il charrua, per le innumerevoli forme assunte dal verbo, a seconda del regime diretto o indiretto, e persino dei rapporti sociali esistenti tra i vari interlocutori.» Stavo per illustrare alcune curiosissime peculiarità del meccanismo del verbo charrua, ma il Conte m'interruppe chiedendomi in che punto occorra salassare i cavalli, quando si desideri berne il sangue. «Per l'amor del cielo, caro professore», esclamò la signorina Iwinska con una comica espressione di terrore, «non glielo dite! Sarebbe uomo da sgozzare tutta la sua scuderia, e da divorare anche noi, finiti i cavalli!» Dopo questa uscita, le signore si alzarono di tavola ridendo, per andare a preparare il tè e il caffè, mentre noi ci disponevamo a fumare. Trascorso appena un quarto d'ora, dal salotto mandarono a chiamare il Generale. Lo volevamo seguire tutti, ma ci dissero che le signore non desideravano più di un uomo per volta. Un attimo dopo udimmo risuonare nel salotto grandi scrosci di risa e fragorosi battimani. «La signorina Iulka ne fa qualcuna delle sue», osservò il Conte. Vennero a chiamare lui. Nuove risate, nuovi applausi. Poi toccò a me. Nell'entrare in salotto, i visi di tutti i presenti si erano atteggiati a una gravità che non prometteva nulla di buono. Mi aspettavo qualche burla. «Signor professore», mi disse il Generale con il tono più protocollare che gli era possibile assumere, «le signore qui presenti sostengono che abbiamo fatto troppo onore allo spumante che si sono degnate di offrirci. Perciò, non ci accoglieranno nella loro gentile compagnia se non dopo una prova. Si tratterà di andare con gli occhi bendati dal centro del salotto fino a quella parete, e di toccarla col dito. Vedete bene che la cosa è semplice; basta camminare diritto. Vi sentite in grado di seguire la linea retta?» «Credo bene, signor Generale.» Subito, la signorina Iwinska mi mise un fazzoletto sugli occhi e, con quanta forza poté, me lo annodò sulla nuca. «Siete nel bel mezzo del salotto», disse. «Stendete la mano... Bene! Scommetto che non toccherete il muro.»
«Avanti, marc'!», fece il Generale. Non vi erano da fare più di cinque o sei passi. Avanzai molto lentamente, convinto di dovere urtare in qualche corda o in qualche sgabello, messo a tradimento sulla mia strada per farmi incespicare. Sentivo ridere sommessamente, il che accresceva il mio impaccio. Finalmente pensavo di essere a un pelo dal muro, quando il mio dito, che tenevo lungo disteso, affondò in qualcosa di freddo e di viscido. Feci una smorfia e un salto indietro che fece sbellicare i presenti. Mi tolsi la benda, e vidi di fronte a me la signorina Iwinska che reggeva in mano un barattolo di miele, nel quale avevo ficcato il dito, pensando di toccare il muro. Ebbi tuttavia la consolazione di vedere i due Aiutanti di Campo passare per la stessa prova e non fare miglior viso di me. Per tutto il resto della serata, la signorina Iwinska non smise un istante di dare libero corso alla sua indole scherzevole. Sempre motteggiatrice, sempre birichina, bersagliava ora questo ora quello con le sue celie. Notai però che se la prendeva soprattutto con il Conte, il quale, debbo riconoscerlo, non si offendeva mai e sembrava anzi prendere gusto alle sue punzecchiature. Invece, quando la giovane pigliava di mira l'uno o l'altro dei due Aiutanti di Campo, aggrottava le sopracciglia, e negli occhi vedevo allora lampeggiargli quella fiamma cupa che aveva veramente qualcosa di terrificante. «Pazzerella come una gatta, bianca come panna frullata.» Mi sembrava proprio che Mickiewicz, in quel verso, avesse voluto ritrarre la panna Iwinska. 5. Si vegliò fino a tardi. In molte case di grandi famiglie lituane si vedono magnifiche argenterie, bei mobili, preziosi tappeti persiani e non si hanno, come nella nostra cara Germania, buoni letti di piuma da offrire all'ospite stanco. Che sia ricco o povero, nobile o villano, uno slavo è sempre capace di dormire ottimamente anche su un pezzo di tavola. Il castello di Dowghielli non faceva eccezione alla regola generale. Nella stanza che ci fu assegnata, io e il Conte non disponevamo che di due divani ricoperti di marocchino. Ma questo non m'impressionava, poiché nei miei viaggi mi era spesso accaduto di dormire sulla nuda terra, e perciò risi alquanto delle imprecazioni del Conte circa la barbarie dei suoi compatrioti. Venne poi un servo, il quale ci tolse gli stivali e diede a ciascuno una veste da camera e un paio di pantofole.
Il Conte, levatasi la giubba, passeggiò un pezzetto senza parlare, su e giù per la stanza; quindi, fermatosi di fronte al divano sul quale mi ero già coricato, mi domandò: «Che ne pensate di Iulka?». «La trovo piacevolissima.» «Sì, ma è tanto civetta!... Credete che abbia veramente una simpatia per quell'ufficialetto biondo?» «Il Capitano?... Che volete che ne sappia?» «È un vanesio!... E dunque deve piacere alle donne.» «Non approvo la conclusione, signor Conte. Volete che vi dica il vero? La signorina Iwinska è assai più desiderosa di piacere al Conte Szemioth che a tutti gli Aiutanti di Campo dell'esercito.» Arrossì senza rispondere, ma mi sembrò che le mie parole gli arrecassero un vivo piacere. Passeggiò ancora un po' in silenzio poi, guardato l'orologio: «In fede mia», disse, «faremmo assai meglio a dormire, perché è tardi.» Prese quindi il fucile e il coltello da caccia, che erano stati portati nella nostra stanza, e li chiuse in un armadio, da cui tolse la chiave. «Volete tenerla?», mi domandò nel consegnarmela non senza mio vivo stupore. «Me ne potrei scordare, e voi avete più memoria di me.» «Il miglior mezzo per non dimenticare le vostre armi», gli dissi, «sarebbe di metterle su quel tavolo, accanto al vostro divano.» «No... e poi, a essere sinceri, non mi piace tenere armi vicino quando dormo... Vi dirò per quale ragione. Quando ero negli Ussari, a Grodno, dormii una volta nella stessa camera con un collega; le mie pistole erano su una seggiola, accanto a me. Durante la notte, mi svegliò una detonazione. Mi ritrovai con una pistola in mano; avevo sparato, e la pallottola era passata a due dita dal capo del mio collega... Non mi sono mai potuto ricordare del sogno che avevo fatto.» L'aneddoto mi turbò un poco. Va bene che a me non sarebbe toccata nessuna pallottola in testa, ma se consideravo l'alta statura e la complessione erculea del mio compagno di stanza, e le sue braccia nerborute coperte di nera lanugine, non potevo fare a meno di riconoscere che non gli sarebbe mancato il mezzo di strozzarmi con le mani, qualora avesse fatto un brutto sogno. Tuttavia, mi astenni dal mostrargli la minima inquietudine, e mi limitai a porre un candeliere su una seggiola vicino al divano; dopodiché mi accinsi a leggere il Catechismo di Lawicki, che avevo portato con me. Il Conte mi diede la buonanotte, si distese sull'altro divano, si rivoltò
cinque o sei volte, e infine parve assopirsi, benché stesse raggomitolato come quel tale amante di cui Orazio dice che, rinchiuso in una cassa, ha il capo che gli tocca le ginocchia rattratte: ...Turpi clausus in arca, Contractum genibus tangas caput... Ogni tanto lo sentivo sospirare forte o emettere una specie di rantolo nervoso che attribuivo alla sua strana giacitura. Sarà trascorsa così un'ora, e stavo per prender sonno anch'io. Chiuso il libro mi ero adagiato alla meglio sul mio lettaccio, quando uno sghignazzamento singolare del mio vicino mi fece trasalire. Guardai il Conte; aveva gli occhi chiusi, ma sussultava tutto e dalle labbra semiaperte gli uscivano poche parole, articolate appena: «Freschissima!... Bianchissima!... Il professore non sa quello che dice... Il cavallo non val nulla... Che ghiotto boccone!». Poi addentò selvaggiamente il cuscino su cui posava il capo ed emise una specie di ruggito così forte che si svegliò. Io rimasi fermo sul mio divano, fingendo di dormire. Però lo stavo osservando. Si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi, sospirò tristemente e rimase circa un'ora in quella posizione, assorto, mi pareva, nei suoi pensieri. Mi sentivo molto a disagio e in cuor mio dicevo che mai più avrei dormito vicino al Conte. A lungo andare, tuttavia, la stanchezza prevalse sull'inquietudine e, quando la mattina dopo vennero a svegliarci, dormivamo entrambi profondamente. 6. Dopo colazione, rientrammo a Medintiltas. Trovatomi solo a solo con il dottor Froeber, gli confidai che il Conte mi faceva l'effetto di non stare bene, che aveva sogni spaventosi, che forse era sonnambulo, e che poteva anch'essere pericoloso in quello stato. «Mi sono accorto di tutto questo», mi disse il medico. «Con quella sua complessione atletica, è nondimeno nervoso come una bella signora. Forse ha preso dalla madre... Anche lei, stamane, è stata di una irrequietudine indiavolata... Io non credo troppo alle ciance che si fanno sulle paure e le voglie delle donne incinte; ma una cosa è certa, e cioè che la Contessa è maniaca, e la mania si trasmette con il sangue...»
«Ma il Conte», ripresi, «ha tutta la sua ragione, è assennato, assai più colto - non lo nego - di quanto io stesso pensavo, ama leggere...» «D'accordo, d'accordo, caro signore; ma spesso è lunatico. Gli capita di starsene chiuso in camera per parecchi giorni di seguito, parecchie volte va in giro di notte, legge libri inauditi... metafisica tedesca... fisiologia... che so! Non più tardi di ieri, ne ha ricevuto un gran pacco da Lipsia. Debbo parlar chiaro? A ogni Ercole ci vuole la sua Ebe. Qui non mancano contadine graziosissime... Il sabato sera, dopo che hanno fatto il bagno, si scambierebbero per Principesse... E non ce n'è una sola che non sarebbe fiera di distrarre Sua Eccellenza... All'età sua, io, che il Diavolo mi porti!... Lui no, non ha amanti, e non si sposa, e qui sbaglia. Gli ci vorrebbe un diversivo.» Il materialismo grossolano del dottore mi urtava enormemente: perciò tagliai corto al nostro dialogo, con l'augurio che il Conte Szemioth trovasse una sposa degna. Ma confesserò che non mi aveva molto meravigliato la rivelazione del gusto del Conte per gli studi filosofici. Che quell'ufficiale degli Ussari, che quell'appassionato cacciatore leggesse opere di metafisica tedesca e si occupasse di fisiologia, era un fatto che capovolgeva tutte le mie supposizioni nei suoi riguardi. Il dottore, tuttavia, aveva detto il vero, come potei averne la prova quel giorno stesso. «Come spiegate, signor professore», mi domandò improvvisamente il Conte Szemioth verso la fine del pranzo, «come spiegate la dualità, o meglio la duplicità della nostra natura?...» E, poiché si avvide che non lo capivo perfettamente, aggiunse: «Non vi siete mai trovato in cima a una torre, oppure sull'orlo di un precipizio, combattuto contemporaneamente tra la tentazione di precipitarvi nel vuoto e un senso di terrore completamente opposto?». «Il fenomeno può spiegarsi mediante ragioni meramente fisiche», interloquì il dottore. «Primo: la stanchezza prodotta da uno sforzo ascensionale determina un afflusso di sangue al cervello...» «Non parliamo del sangue, dottore», esclamò il Conte con impazienza, «e scegliamo un altro esempio. Avete un'arma da fuoco carica. C'è il vostro migliore amico. Vi prende l'idea di piantargli una pallottola in testa. Concepite il più vivo orrore per ciò che può somigliare a un assassinio, eppure ne avete la tentazione. Io credo, signori miei, che se tutti i pensieri che ci frullano per la testa in men di un'ora... Ma parlavo con voi, signor professore, che pure ritengo un uomo saggio: credo, dunque, che se tutti i vostri pensieri si potessero vedere stampati, riempirebbero forse un in folio in base al quale non c'è avvocatucolo a cui non riuscirebbe di ottenere la
vostra interdizione, né giudice che non si affretterebbe a mandarvi in carcere o al manicomio.» «Quel giudice, signor Conte, non mi condannerebbe certamente per il delitto di aver indagato stamane, per più di un'ora, la legge misteriosa secondo cui i verbi slavi prendono il senso del futuro nel combinarsi con una preposizione; ma, quand'anche avessi avuto altri pensieri, quale prova addurreste contro di me? Io non sono padrone dei miei pensieri più di quanto lo sia degli accidenti esteriori da cui muovono; né dal fatto che un pensiero nasca in me, si può inferire un principio di esecuzione, o anche soltanto il proponimento di eseguirlo. Non mi è mai venuto in mente di uccidere chicchessia; ma, se anche mi frullasse l'idea di un assassinio, forse che la mia ragione non è qui presente per allontanarmene?» «Parlate della vostra ragione con molta sicumera; ma è sempre là presente, come dite voi, per dirigerci? Perché la ragione parli e si faccia ubbidire, è necessario riflettere; cioè occorre tempo e sangue freddo. Io chiedo se si abbia sempre questo e quello. Assisto, mettiamo, a un combattimento; sul più bello vedo una palla di cannone che sta per cogliermi di rimbalzo; mi scanso e vedo il mio amico, per il quale avrei dato la vita se avessi avuto tempo di riflettere...» Cercai di ricordargli i nostri doveri d'uomini e di cristiani, in uno con la necessità in cui ci troviamo d'imitare il guerriero della Scrittura, ognora pronto al combattimento; infine gli dimostrai che, nella diuturna lotta contro le nostre passioni, acquistiamo sempre nuove forze, sì da fiaccare e dominare più agevolmente il nemico interiore. Ma non mi parve convinto, e temo di non essere riuscito che a ridurlo al silenzio. Mi trattenni al castello un'altra decina di giorni. Feci anche un'altra scappata a Dowghielli, ma non vi pernottammo. La signorina Iwinska si comportò, come già la prima volta, da ragazzetta birichina e viziata. Esercitava sul Conte una specie di malia, e non dubitai più che lui ne fosse profondamente innamorato. Tuttavia, il Conte conosceva bene i suoi difetti e non si faceva illusioni: la sapeva civetta, frivola, indifferente per tutto ciò che non le tornasse di divertimento. Spesso mi accorgevo che soffriva nel vederla così poco ragionevole, ma bastava che quella gli facesse qualche moina perché si scordasse di tutto, e il viso, dalla gran gioia, gli s'illuminasse. Il giorno prima della mia partenza, il Conte avrebbe voluto trascinarmi una volta ancora a Dowghielli, forse perché tenessi in conversazione la zia mentre lui sarebbe andato a passeggio con la nipote nel giardino; però, a-
vevo molto da fare, e dovetti scusarmi, nonostante la sua insistenza. Ritornò per la cena, benché ci avesse detto di non aspettarlo; ma, a tavola, non riuscì a ingoiare un boccone. Per tutta la durata del pranzo, si mostrò cupo e di pessimo umore. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia e in quel momento i suoi occhi assumevano un'espressione sinistra. Quando il dottore uscì per recarsi dalla Contessa, mi seguì nella mia stanza e mi aprì il suo cuore. «Mi pento veramente», esclamò, «di avervi lasciato per andare a vedere quella pazzerella, che si burla di me e non ha simpatia che per le facce nuove. Per fortuna tutto è finito tra noi; ne sono profondamente disgustato, e non la vedrò più...» Al solito, passeggiò un pezzetto su e giù per la stanza, poi riprese: «Forse avete creduto che ne fossi innamorato? Così pensa anche quell'imbecille di un dottore. No, non l'ho mai amata. Il suo viso ridente mi divertiva, mi piaceva di vedere quella sua pelle bianca... Ma è tutto ciò che ha di buono... specie la pelle... Di cervello nemmeno a parlarne. Non ho mai visto in lei che una bella bambola, che fa piacere guardare quando si prova uggia e non si ha un libro nuovo... Certo, non si può negare che sia una bellezza... La pelle è meravigliosa... professore. Il sangue che corre sotto quella pelle, dev'essere migliore di quello di un cavallo... Che ne dite?». Scoppiò in una risata, ma quel riso faceva pena a sentirsi. Il giorno appresso mi accomiatai da lui per proseguire le mie indagini nell'Alto Palatinato. 7. Le mie esplorazioni si protrassero per due mesi, e posso dire che non esiste paesucolo, in Samogizia, dove non mi sia fermato e non abbia l'accolto qualche documento per il mio lavoro. Vorrei anzi avvalermi di questa occasione per ringraziare gli abitanti di quella provincia, soprattutto i signori Ecclesiastici, per l'aiuto davvero premuroso concessomi nelle mie ricerche, e per l'ottimo contributo che mi ha consentito di arricchire il mio dizionario. Dopo un soggiorno di una settimana a Szawlé, mi proponevo d'imbarcarmi a Klaipeda (il porto da noi chiamato Memel) per ritornare a casa, quando ricevetti dal Conte Szemioth la seguente lettera, portatami da un suo bracchiere:
Signor professore, Consentitemi di scrivere in tedesco; i miei solecismi sarebbero anche più numerosi, se mi arrischiassi a scrivervi in samogizio, e perderei ogni vostra considerazione. Già non so quanta ne possiate avere per me; e oltre a ciò mi chiedo fino a che punto la notizia che sto per darvi possa farmi aumentare nella vostra stima. Senz'altro preambolo, vi dirò che mi sposo; voi sapete bene con chi. Giove si prende spasso dei giuramenti degli innamorati, e lo stesso fa Pirkuns, il nostro Giove samogizio. Dunque sposerò proprio la signorina Giuliana Iwinska, il giorno 8 del mese prossimo, e voi sarete l'uomo più gentile che esista se vorrete assistere alla cerimonia. Tutto il contadiname di Medintiltas e dintorni verrà nella mia casa a divorare alcuni buoi e innumerevoli maiali; quando cotesta gente sarà ben brilla, danzerà sul prato, a destra del viale che conoscete. Vedrete costumi paesani e usanze degne della vostra attenzione. Io, sarò lietissimo di rivedervi, e così pure Giuliana. Aggiungerò che un vostro rifiuto ci metterebbe in un serio impiccio. Sapete, infatti, che professo la fede evangelica, così come la mia fidanzata. Ora, il nostro ministro, che risiede a trenta leghe da qui, è inchiodato a casa dalla gotta. Perciò, ardisco sperare che vorrete officiare in sua vece. Credetemi, caro professore, il vostro devotissimo, MICHELE SZEMIOTH In calce, a guisa di post scriptum, una mano femminile piuttosto graziosa aveva fatto questa aggiunta in lingua samogizia: Io, musa della Lituania, scrivo in zemaitico. Michele è un impertinente quando dubita della vostra approvazione. Quale altra donna, infatti, all'infuori di me, potrebbe essere tanto pazza da prendersi un giovanotto del suo stampo? Vedrete, signor professore, l'8 venturo, una sposa alquanto chic. Non è un vocabolo samogizio; è francese. Vi prego, almeno, di non distrarvi durante la cerimonia. Non mi piacquero né la lettera, né il post scriptum. Mi parve che i due fidanzati facessero mostra di una imperdonabile leggerezza in una occa-
sione tanto solenne. Però, ditemi voi: avevo il modo di rifiutare? Confesserò pure che lo spettacolo promesso dalla lettera mi tentava alquanto. Era lecito supporre che, nella folla dei nobili convitati accorsi nel castello di Medintiltas, non sarebbero mancate le persone colte in grado di darmi utili notizie. Il mio glossario samogizio era indubbiamente ricchissimo; ma il senso di molte parole raccolte dalla bocca di zotici contadini rimaneva tuttora avvolto per me in una parziale oscurità. Tutte queste considerazioni concorsero a farmi accettare l'invito del Conte, cui risposi che la mattina dell'8 sarei giunto a Medintiltas. Quanto ebbi da pentirmene! 8. Al mio affacciarmi sul viale del castello, vidi un gran numero di signore e signori in abito da mattino, parte riuniti a gruppi sulla scalinata e parte a passeggio nel parco; il cortile era pieno di contadini coi panni della domenica; e tutto il castello era in gala, ornato in ogni punto di fiori, di ghirlande, di bandiere e di festoni. L'Intendente mi accompagnò nella stanza che avevano preparato per me al pianterreno, scusandosi di non potermene offrire una migliore; ma il castello era così affollato che non era stato possibile riservarmi quella che avevo occupato precedentemente e che adesso era destinata alla moglie del Maresciallo della nobiltà. D'altronde, la mia nuova camera, situata sotto quella del Conte, era decentissima, con vista sul parco. Mi vestii in fretta per la cerimonia e indossai l'abito pastorale, ma gli sposi non si vedevano ancora. Il Conte si era recato a prendere la fidanzata a Dowghielli. Sarebbero dovuti comparire da un pezzo, ma la vestizione di una sposa non è affare di poco, e il dottore andava partecipando agli invitati che il pranzo si sarebbe tenuto dopo l'uffizio religioso; perciò gli appetiti impazienti avrebbero fatto bene a provvedersi a un certo tavolo guarnito di dolci e di ogni sorta di liquori. Notai, in tale occasione, come l'attesa disponga gli animi alla maldicenza; le madri di due graziose donzelle invitate al matrimonio non finivano di malignare sul conto della sposa. Era passato mezzogiorno quando una salva di mortaretti e di fucilate, annunziò l'arrivo di quest'ultima. Subito dopo, una sfarzosa carrozza imboccò il viale, tirata da quattro splendidi cavalli. Dalla schiuma che copriva il petto degli animali si capiva che non avevano nessuna colpa del ritardo. In carrozza non vi erano che la sposa, la signora Dowghiello e il Conte. Que-
sti balzò a terra e offrì la mano alla signora. La signorina Iwinska, con mossa piena di grazia e di fanciullesca civetteria, fece l'atto di nascondersi con lo scialle per sottrarsi agli sguardi curiosi che da ogni parte convergevano su di lei. Pure, si alzò in piedi nella carrozza, e stava per prendere a sua volta la mano del Conte, quando i cavalli del timone, forse spaventati dai fiori che i contadini facevano piovere sulla sposa, o forse anche in preda allo strano terrore che il Conte Szemioth ispirava agli animali, s'impennarono sbuffando; una ruota urtò il paracarro a piè della scalinata, e per un attimo vi fu da temere qualche accidente. La signorina Iwinska lanciò un piccolo strillo... Ma la nostra ansia fu breve. Il Conte, presala in collo, la trascinò di volata in cima dello scalone, non meno facilmente che se fosse pesata quanto una colomba. Applaudimmo tutti, per la sua prontezza e la sua cavalleresca galanteria. I contadini eruppero in fragorosi evviva. La sposa, tutta rossa in volto, rideva e tremava insieme. Il Conte, per nulla impaziente di disfarsi di quel grazioso fardello, sembrava un trionfatore, nel mostrarsi in quell'atteggiamento alla folla che lo attorniava... All'improvviso, una donna di alta statura, pallida, magra, con le vesti in disordine, i capelli sparsi e tutti i lineamenti del volto contratti dal dolore, comparve lassù, senza che nessuno l'avesse vista venire. «Dagli all'orso!», gridava con voce stridula. «All'orso! Qua i fucili!... Si porta una donna! Uccidetelo! Fate fuoco! Fate fuoco!» Era la Contessa. L'arrivo della sposa aveva richiamato tutti quanti sulla scalinata, nel cortile o alle finestre del castello, e anche le donne che custodivano la povera demente avevano dimenticato la propria consegna. Quella era fuggita e, senza che nessuno vi avesse fatto caso, era piombata in mezzo a noi. Fu una scena penosissima. Bisognò allontanarla a forza, nonostante le sue urla e la sua resistenza. Molti, tra gli invitati, non conoscevano la sua malattia. Si dovettero dare spiegazioni, e per un po' di tempo fu un gran sussurrare sottovoce. Non c'era viso che non fosse rattristato. «Pessimo augurio!», dicevano le persone superstiziose, le quali non sono scarse di numero in Lituania. Intanto, la signorina Iwinska chiese cinque minuti per mettersi l'abito e il velo nuziali, operazione che durò tuttavia un'oretta buona. Era più di quanto sarebbe occorso perché gli invitati che ignoravano l'infermità della Contessa ne apprendessero la cagione e i minuti particolari. Finalmente riapparve la sposa, magnificamente vestita e coperta di diamanti. La zia la presentò a tutti gl'invitati e, quando fu l'ora di passare nella
cappella, con mio vivo stupore, la signora Dowghiello assestò alla nipote, in presenza di tutti, uno schiaffo così sonoro da far rivoltare anche quelli che avessero avuto qualche distrazione. Lo schiaffo venne ricevuto con la massima rassegnazione, tra l'indifferenza generale; solo che un uomo vestito di nero scarabocchiò qualcosa su un foglio di carta che aveva portato con sé; quindi alcuni dei presenti sottoscrissero quella specie di verbale con la più assoluta noncuranza. Non fui in grado di conoscere la soluzione dell'enigma se non alla fine della cerimonia. Se avessi potuto intuirla in tempo, non avrei tralasciato di oppormi, con tutto il peso del mio ministero sacro, contro quella odiosissima usanza, che mira nientemeno che a tenere aperto uno spiraglio al divorzio, con il simulare un matrimonio a cui uno dei coniugi non si sarebbe sottoposto se non contro voglia e per un atto di costrizione materiale. Dopo l'ufficio divino, stimai mio dovere rivolgere alla giovane coppia alcune parole, con le quali mi applicai a farla riflettere sulla gravità e santità del vincolo che adesso la univa; e, poiché mi stava ancora sul cuore il frivolo post scriptum della signorina Iwinska, le ricordai che aveva ora abbracciato una nuova vita, non più contrassegnata da piaceri e da svaghi giovanili, ma piena di obblighi seri e di gravi prove. Mi sembrò che questa parte della mia allocuzione avesse molto effetto sulla sposa, non meno che su tutti coloro che capivano il tedesco. Il corteo, uscendo dalla cappella, fu accolto da salve di fucileria e grida di gioia. Si passò in sala e, siccome il pranzo era magnifico e l'appetito non scherzava, sulle prime non si udì altro che il rumore dei coltelli e delle forchette; ma poi, grazie anche ai vini di Sciampagna e di Ungheria, si cominciò a discorrere, a ridere, e a vociare. I commensali bevvero con entusiasmo alla salute della sposa e, appena si sedettero, un vecchio pan dai baffoni bianchi, si alzò, dicendo con voce stentorea: «Vedo con dolore che le nostre antiche usanze si vanno perdendo. Ma i nostri padri avrebbero fatto questo brindisi bevendo in bicchieri di cristallo. Una volta, si beveva nella scarpina della sposa, e persino nel suo stivaletto, poiché, ai tempi miei, le signore portavano stivaletti di marocchino rosso. Facciamo vedere, amici miei, che siamo tuttora veri Lituani. E tu, signora, degnati di levarti la scarpetta». La sposa, arrossendo, rispose con un risolino represso: «Vieni a prenderla, signore... ma io non berrò nel tuo stivale». Il pan non se lo fece ripetere. Con fare galante, si inginocchiò, s'impossessò di una scarpetta di raso bianco dal tacco rosso, l'empì di spumante e
bevette con tale maestria da non rovesciarsene più della metà indosso. Da una mano all'altra, la scarpetta fece il giro della tavola e tutti gli uomini tracannarono la loro parte, ma non senza fatica. Il vecchio nobiluomo pretese quindi che gli fosse ridata quella reliquia preziosa, e la signora Dowghiello fece dire a una cameriera di venire a riordinare l'acconciatura della nipote. Quel brindisi fu seguito da molti altri, e di lì a poco i convitati diventarono così rumorosi che non mi sembrò decente trattenermi più a lungo. Senza che nessuno se ne accorgesse, mi alzai per andare a prendere una boccata d'aria; ma, anche fuori mi toccò vedere uno spettacolo poco edificante. Domestici e contadini, a cui la birra e l'acquavite erano state somministrate senza risparmio, erano già in massima parte ubriachi. Vi erano stati alterchi e rotture di teste. Qua e là, sul prato del castello, si vedevano corpi privi di sentimento ravvoltolati nel brago, e i luoghi della festa arieggiavano molto, per l'aspetto generale, a un campo di battaglia. Sarei stato alquanto curioso di vedere da vicino le danze popolaresche, ma erano quasi tutte dirette da zingare sfacciate, e non mi parve onesto avventurarmi in quella gazzarra. Rientrai dunque nella mia stanza, feci un po' di lettura, poi mi svestii e quasi subito mi addormentai. Quando mi svegliai, l'orologio del castello batteva le tre. La notte era chiara, benché la luna fosse in parte velata da una nebbiolina leggera. Mi sforzai di riprendere sonno, ma invano. Secondo il mio solito in simili casi, pensai di prendere un libro e studiare; ma non trovai fiammiferi sottomano. Mi ero alzato e stavo girando un po' a tentoni per la camera, quando un corpo scuro, assai voluminoso, attraversò il riquadro della finestra e andò a cadere con un tonfo sordo nel giardino. La mia prima impressione fu che si trattasse di un uomo, e pensai che qualche ospite ubriaco fosse precipitato dalla finestra. Mi affacciai a guardare: ma non vidi nulla. Finalmente accesi una candela e, coricatomi di nuovo, diedi una buona ripassata al mio glossario finché non mi portarono il tè. Verso le undici, mi recai nel salotto, ove trovai molti occhi sbattuti e molti visi sfatti; seppi che a tavola si erano fatte le ore piccole. Né il Conte né la Contessa si erano ancora visti. Alle undici e mezzo, dopo molte celie di pessimo gusto, gl'invitati cominciarono a mormorare, prima sottovoce, e poi in maniera da essere intesi. Il dottor Frœber si pigliò la briga di mandare un cameriere a bussare alla porta del Conte. Trascorso un quarto d'ora, l'uomo ricomparve e, un po' commosso, disse di aver bussato una dozzina di volte, forse anche di più, senza ottenere
nessuna risposta. Ci consigliammo, la signora Dowghiello, il dottore e io. Il cameriere mi aveva attaccato la sua inquietudine. Salimmo tutt'e quattro insieme. Sull'uscio, trovammo la cameriera della Contessa in viva apprensione. Affermava che doveva essere successa qualche digrazia, poiché la finestra della sua padrona era spalancata. Mi ricordai con raccapriccio il corpo pesante caduto davanti alla mia finestra. Bussammo a più non posso. Nessuno rispondeva. Alla fine, il servo portò una spranga di ferro e scardinammo l'uscio... No! non mi va l'animo di descrivere lo spettacolo che si offrì ai nostri sguardi. La giovane Contessa era stecchita sul letto, con il viso orrendamente maciullato e la gola squarciata, in un lago di sangue. Il Conte era scomparso, e da quel giorno nessuno ne ha mai più avuto notizia. Il dottore esaminò l'orribile ferita della giovane sposa. «Non è stata una lama d'acciaio», esclamò, «a produrre questa ferita... Questo è un morso!» Il professore Wittembach richiuse il libro, e guardò il fuoco, pensoso. «E la storia finisce qui?», domandò Adelaide. «Finisce qui!», rispose il professore con voce lugubre. «Ma», rispose la sua interlocutrice, «perché l'avete intitolata Lokis? Nessuno dei personaggi porta questo nome.» «Non è un nome di persona», spiegò il professore. «Vediamo, Teodoro, mi sapete dire che cosa significa Lokis?» «Non ne ho idea.» «Se aveste approfondito come si deve la legge del trapasso dal sanscrito al lituano, riconoscereste in Lokis il sanscrito arksha o riksha. Si chiama lokis, in lituano, l'animale che i Greci chiamavano árktos, i Latini ursus e i Tedeschi bär. E ora potete afferrare il senso dell'epigrafe: Miszka su Lokiu Abu du tokiu. «Voi sapete che nel Romanzo di Reinardo, l'orso ha il nome di damp Brum. Gli Slavi lo chiamano Michele, Miszka in lituano, e tale soprannome è quasi sempre adoperato invece del nome generico, lokis. Allo stesso modo, i Francesi hanno dimenticato, a proposito della volpe, il nome neolatino di goupil o gorpil, sostituendovi quello di renard.» Ma Adelaide fece osservare che era già tardi, e la compagnia si sciolse.
PELLICCIA BIANCA The White Wolf di Edith Nesbit 1898 Il fuoco bruciava nel grande camino della fattoria, e la stanza echeggiava di voci, di risate e dei rumori di svariati lavori artigianali. Soltanto ai giovanissimi e ai vecchi era permesso stare senza far niente come al piccolo Rol, che stava giocando con un cucciolo, e alla vecchia Trella, che sferruzzava con mano malferma. La sera era calata precocemente, e i servi rientrati dai campi si erano riuniti in quell'ampia cucina che poteva ospitare dozzine di contadini. Alcuni uomini stavano intagliando il legno, e a costoro erano riservati i posti migliori e più illuminati, mentre altri preparavano o riparavano arnesi da pesca, e una grande rete teneva impegnate tre paia di mani. Tra le donne, alcune stavano scegliendo le piume d'oca per le trapunte, suddividendole secondo la qualità. Vi erano anche dei telai, sebbene per il momento non fossero usati, ma le ruote di tre arcolai giravano rapide, e il filo più fine e regolare usciva dalle dita della padrona di casa. Accanto a lei stavano alcuni fanciulli, impegnati anche loro a intrecciare stoppini per candele e lanterne. Al centro di ogni gruppo brillava un lume e, i più lontani dal camino, si riscaldavano a due. bracieri, regolarmente riforniti con tizzoni ardenti. Ma il bagliore delle fiamme giungeva fino agli angoli più remoti e prevaleva sul riflesso delle luci più deboli. Il piccolo Rol, stancatosi del suo cucciolo, lo abbandonò all'improvviso e si precipitò verso Tyr, il vecchio cane lupo che si scaldava accanto al fuoco, addormentato, e sussultava e gemeva in sogno. Rol si sdraiò al fianco di Tyr, cingendogli il collo possente con le sue braccine e mescolando i suoi riccioli al nero pelo dell'animale. Il cane gli concesse una leccatina distratta e poi si stiracchiò pigramente. Rol imitò un grugnito e scrollò il cane invitandolo a giocare, ma ottenne soltanto un placido sguardo e un ammiccare complice, subito spento. «Prendi questo, allora!», gridò Rol indignato per tanta indifferenza, e scaraventò il cucciolo contro il vecchio cane dignitoso che non lo aveva degnato di attenzione come compagno di gioco. Ma Tyr non gli badò, e allora il bimbo andò a cercare svaghi altrove. Il suo occhio notò i panieri di piuma d'oca allineati in un angolo. Scivo-
lato sotto il tavolo, cominciò ad avanzare a quattro zampe, perché l'idea di attraversare la stanza camminando normalmente in quel momento non lo divertiva. Quando giunse vicino alle donne, si immobilizzò per un attimo, con i gomiti appoggiati all'impiantito e il mento sul palmo della mano. Una delle donne lo vide e sorrise, e allora lui scivolò dietro le sue gonne, e così passò inosservato da una all'altra, finché ebbe l'occasione di impossessarsi di una bella manciata di piume. Stringendole in pugno attraversò di nuovo la stanza, sempre sotto il tavolo, e riemerse accanto alle filatrici. Si rannicchiò ai piedi della più giovane, protetto dagli sguardi delle altre, e ottenne la sua complicità mostrandole il suo bottino con un sorriso fiducioso. Rassicurato da un leggero cenno del capo, iniziò il gioco che aveva in mente. Prese un ciuffo di piume bianche e lo lasciò ricadere dolcemente sopra una ruota dell'arcolaio. Catturate dal moto vorticoso, le piume cominciarono a volteggiare in cerchi sempre più larghi, finché si dispersero come una soffice neve bianca. Gli occhi del piccolo Rol brillavano, e la chiostra dei suoi dentini si scoprì in un silenzioso sorriso di beatitudine. Altri ciuffi di piume subirono la stessa sorte, e svolazzarono come mosche prigioniere di una ragnatela, finché la provvista di Rol si esaurì. Il piccolo si sporse per controllare la possibilità di compiere una nuova spedizione verso l'altra estremità della stanza, e la sua spalla urtò contro la ruota, che si inceppò improvvisamente. Il filo si ruppe. «Rol, cattivo!», gridò la ragazza. Anche la ruota più veloce si arrestò, e la padrona di casa - zia di Rol - si chinò in avanti. Vide la testolina ricciuta del piccolo e, con un rimbrotto, lo rimandò accanto alla vecchia Trella. Rol ubbidì ma, dopo essere rimasto tranquillo per qualche minuto, si spostò di nuovo, evitando lo sguardo della zia. Si insinuò allora nel gruppo degli uomini, e subito questi badarono a controllare che i loro attrezzi non fossero a portata di mano del bambino. Rol riuscì lo stesso ad impossessarsi di uno scalpello, ma la sgridata dell'intagliatore lo impaurì, e sparì di nuovo sotto il tavolo. Là, imbronciato, si dedicò alla contemplazione delle gambe che lo circondavano, schermando gli occhi dalla luce del fuoco. Alcune di quelle gambe erano molto strane. Erano curve dove avrebbero dovuto essere diritte e diritte dove avrebbero dovuto essere curve. Rol disse fra sé: «Sembrano tutte intagliate in modo diverso». Alcune stavano modestamente ripiegate presso la sedia, altre si allungavano sotto il tavolo, invadendo il terri-
torio di Rol. A sua volta egli allungò le proprie gambette e le osservò dapprima con occhio critico e poi, dopo gli opportuni paragoni, con approvazione. Perché non tutte le gambe erano ben fatte come quelle laggiù? Le gambe apprezzate da Rol erano un po' in disparte dalle altre. Il bambino si avvicinò strisciando carponi e fece un secondo paragone. Il suo viso assunse un'espressione solenne, mentre pensava agli innumerevoli giorni che sarebbero trascorsi prima che le sue gambe diventassero così lunghe e forti. Si augurò che raggiungessero la perfezione del modello, dritte nelle ossa e salde nei muscoli. Pochi istanti dopo, Sweyn, il padrone di quelle lunghe gambe, sentì una manina che gli accarezzava un piede e, guardando in basso, incontrò lo sguardo del suo cuginetto Rol. Sdraiato sulla schiena, e sempre lisciando e accarezzando il piede del giovanotto, il bimbo rimase tranquillo e felice a lungo. Osservava il movimento delle mani abili e forti che afferravano ora l'uno ora l'altro utensile. Di quando in quando, un truciolo gli cadeva sul viso. Infine, Rol si raddrizzò con molta cautela, nel timore che uno spostamento brusco potesse irritare l'intagliatore e, incrociando le proprie gambe attorno alla caviglia di Sweyn, gli posò le mani sul polpaccio e la testa sul ginocchio. Rol era felice, e fu ancora più felice quando Sweyn interruppe il lavoro un attimo per battergli una mano sulla testa e tirargli i riccioli. Il bimbo rimase lì immobile, per quanto fosse consentita l'immobilità a membra così infantili. Sweyn si scordò di lui, e notò appena che Rol si staccava dalla sua gamba, per cui non si accorse che uno dei suoi coltelli gli veniva abilmente sottratto. Dieci minuti dopo, un lamento partì dal basso, alzandosi poi fino all'urlo di cui erano capaci i sani polmoni di Rol: la sua mano era lacerata da un taglio e sanguinava tanto copiosamente, il che lo aveva spaventato. Subito vi fu un grande accorrere per confortarlo, lavargli la ferita e fasciarla, non senza qualche affettuoso rimbrotto, finché le grida si placarono in intermittenti singhiozzi e il bambino, con il viso rigato di lagrime, tornò nel cantuccio dove Trella lo accolse scrollando il capo. Come reazione al dolore e alla paura, Rol trovò nel tepore del camino un rifugio ideale. Persino Tyr, anziché ignorarlo, si lasciò commuovere dai suoi singhiozzi e mostrò tutto l'interesse e la simpatia che poteva manifestare un cane, leccandolo e osservandolo attentamente. Rol si sentì oppresso da un po' di vergogna, e rimpianse di aver tanto strillato. Rammentò come un giorno Sweyn fosse rincasato con un braccio lacerato all'altezza
della spalla, dopo aver ucciso un orso; e come non si fosse lasciato sfuggire nemmeno un gemito, sebbene le sue labbra apparissero sbiancate dal dolore. Il povero Rol commentò allora quella sua debolezza con un sospiro supplementare. Le fiamme del camino cominciarono a narrare strane favole al bimbo, mentre il vento che si insinuava a tratti nella cappa fungeva da controcanto. La grande bocca nera di quella cappa, sospesa sopra il focolare, ingoiava spirali di fumo denso e mazzi di scintille, e più su si udivano gorgoglii e strani sibili e forse accadevano anche cose misteriose, poiché a volte il fumo arretrava come preso dal panico, o si condensava in lunghe volute sul tetto. E il vento si accaniva allora sulla sua preda, battendo collerico contro le imposte e contro le porte. In una pausa di silenzio tra due raffiche, Rol rialzò il capo sorpreso, in ascolto. Per un attimo anche le voci delle donne e degli uomini si erano acquietate, e fu possibile udire all'esterno il suono di una voce infantile, e il bussare di mani infantili contro la porta. «Aprite, aprite! Lasciatemi entrare», pigolò una voce che giungeva da un'altezza inferiore a quella del saliscendi. L'uomo che stava più vicino alla porta si alzò e l'aprì. «Non c'è nessuno qui», disse. Tyr rialzò la testa e lanciò un lungo ululato, forte, prolungato, quasi di terrore. Sweyn, rifiutandosi di credere che le orecchie lo avessero ingannato, si alzò e andò sulla soglia. Era una notte buia, con nubi gonfie di neve, che già era caduta in abbondanza. Non si notavano orme sulla bianca crosta gelata. Sweyn aguzzò lo sguardo, ma riuscì a distinguere soltanto quel cielo buio, quella neve, e l'ombra di un larice sulla collina. «Dev'essere stato il vento», disse. Poi richiuse la porta. Su molti visi era affiorata la paura. Il suono della voce infantile era stato molto chiaro, come limpide erano state le sue parole: «Aprite, aprite! Lasciatemi entrare». Il vento poteva far tintinnare il saliscendi, o battere contro l'uscio, ma non poteva imitare quella voce. E nemmeno il bussare delicato di una mano infantile. Inoltre, l'ululato del cane lupo pareva un cattivo presagio, da temersi più di ogni altra cosa. Le filatrici e gli intagliatori sussurrarono inquieti, finché un rimbrotto della padrona di casa li fece tacere. Quindi si sparse un silenzio inquieto e denso di disagio ma, a poco a poco, la paura si acquietò e il cicaleccio di sempre riprese.
Mezz'ora dopo, bastò un lieve rumore all'esterno per fermare ogni lingua e ogni mano. Tutti gli sguardi fissarono la porta. «È Cristiano; a quest'ora tarda!», esclamò Sweyn. No. Quel passo debole non apparteneva a un uomo. Lo accompagnò il tap tap di un bastone contro l'uscio, e una voce acuta chiamò: «Aprite, aprite! Fatemi entrare». Di nuovo Tyr rialzò il muso ed emise un ululato. Prima che l'eco della voce si fosse spenta, Sweyn era già balzato verso la porta, e l'aveva spalancata. «Nessuno!», ripeté in tono fermo, sebbene i suoi occhi brillassero inquieti. Vide di nuovo l'immobile distesa di neve, le nubi sempre più basse, e i larici scossi dal vento. Richiusa la porta senza alcun commento, fece ritorno al suo posto. Una dozzina di visi pallidi per la paura lo fissarono come se egli fosse in grado di fornire la soluzione dell'enigma. Quella muta richiesta turbò la sua fermezza abituale. Esitò, guardò prima sua madre - la padrona di casa poi la gente sgomenta e, infine, si fece con gravità il segno della croce. Vi fu uno svolazzare di mani mentre tutti ripetevano il suo gesto e il silenzio fu percorso da un grande sospiro, poiché il respiro trattenuto da molti fluì di nuovo per il magico sollievo legato al Segno della Croce. Persino la padrona di casa era turbata. Lasciò l'arcolaio e si avvicinò a suo figlio, col quale parlò per qualche minuto a voce così bassa che nessuno riuscì a cogliere il senso delle sue parole. Ma, poco dopo, ricuperò il suo tono autoritario, e tutti l'udirono rimproverare una delle ragazze: «È un pettegolezzo da gallina!», esclamò. Forse tentava di condannare negli altri i propri turbamenti e presentimenti. Nessuno osò più riprendere la spensierata conversazione di prima. Si mormorava a voce bassa e, di quando in quando, il silenzio permeava la stanza. Persino gli utensili venivano manovrati con cautela, quasi che ogni gesto dovesse arrestarsi quando di nuovo qualcuno avesse bussato alla porta. A un tratto Sweyn lasciò il tavolo e si avvicinò a un gruppo di giovani che stavano accanto all'ingresso, quindi si chinò fingendo di dar loro dei consigli. Il passo di un uomo risuonò nel portico antistante. «Cristiano!», esclamarono Sweyn e sua madre contemporaneamente: lui in tono fiducioso, lei con tono autoritario, quasi volesse rassicurare le filatrici ed evitare che gli arcolai si arrestassero. Ma Tyr rialzò il capo e ululò. «Aprite! Aprite! Fatemi entrare!»
Era la voce di un uomo, e la porta fu scossa dalle forti mani di un uomo. Sweyn sentì scricchiolare il legno dell'uscio mentre lo spalancava, ma fuori vide soltanto il portico deserto, la neve, il cielo, e i larici scossi dal vento. Sostò un lungo attimo sulla soglia. Il vento soffiava gelido, ma ancora più gelido era il brivido di paura che percorse veloce la stanza e fece accelerare il battito di ogni cuore. Sweyn agguantò un mantello di pelle di capra. «Sweyn, dove vai?», gli chiese sua madre. «Non mi spingerò oltre il portico, madre», rispose il giovane, e uscì richiudendo la porta. Avvoltosi nel mantello, si appoggiò per un istante alla parete del portico, quasi per raccogliere le proprie forze prima di affrontare il Demonio e le sue opere. Non giungevano voci dall'interno: si udiva soltanto il crepitio del fuoco. Il freddo era intenso. I piedi gli si stavano intorpidendo, ma Sweyn non volle batterli contro il suolo per scaldarli, perché quel suono non intimorisse chi stava chiuso in casa. Né voleva abbandonare il portico, per non lasciare impronte su quel manto di neve immacolata, dove sembrava che da due ore non fosse passato nessuno. «Quando il vento si calmerà, nevicherà di nuovo», pensò Sweyn. Per quasi un'ora vigilò immobile, ma non vide nessuno e non udì voci di sorta. «Mi congelerò se rimarrò qui più a lungo», borbottò infine, e rientrò. Una donna si lasciò sfuggire un grido mentre lui posava la mano sul saliscendi, e sospirò di sollievo quando lo vide. Nessuno gli fece domande; soltanto sua madre disse, con tono forzatamente disinvolto: «Non hai visto se Cristiano sta arrivando?», come se la sua unica preoccupazione fosse l'assenza del figlio minore. Sweyn si era appena avvicinato al fuoco, quando si udì bussare chiaramente alla porta. Tyr balzò in piedi, gli occhi lucenti come braci, i denti scoperti nel muso nero, i peli dritti sul collo; e, scavalcato Rol, si precipitò verso la porta, abbaiando furiosamente. Fuori una voce chiara e dolce stava chiamando. L'abbaiare di Tyr non permetteva di distinguere le parole. Nessuno osò precedere Sweyn. Egli avanzò con passo risoluto verso la porta, tirò il catenaccio e aprì. Una donna vestita di bianco entrò nella stanza. Non era un fantasma! Ma una donna viva, bellissima, giovane!
Tyr balzò verso di lei. Rapidissima, lei gli coprì il muso con un lembo della lunga veste, mentre estraeva dalla cintura una piccola ascia a due tagli, pronta a vibrare colpi per difendersi. Sweyn afferrò il cane per il collare e lo trascinò via. La sconosciuta rimase immobile sulla soglia con un braccio ancora alzato, finché la padrona di casa andò verso di lei e Sweyn, lasciato il furibondo Tyr in altre mani, chiuse la porta porgendo le sue scuse per una accoglienza così scortese. Allora la donna abbassò il braccio, riinfilò l'accetta nella cintura, allentò le pellicce che le circondavano il viso, e lasciò ricadere dalle spalle il lungo mantello bianco: il tutto, parve, con un unico movimento armonioso. Era una giovane alta e molto bionda. Indossava vesti di strana foggia, in parte maschili, ma non prive di femminilità. Una tunica di pelliccia le giungeva soltanto poco sotto il ginocchio. I polpacci erano coperti da calzari intrecciati, da cacciatore. Un berretto di pelliccia bianca che le scendeva fino alla linea delle sopracciglia, era ornato di frange di pelo, che le ricadevano sulle spalle e si intrecciavano sotto il mento. Spinto all'indietro, quel berretto rivelava due lunghe trecce bionde che le giungevano fino alla cintura ricoperta di borchie d'avorio, dove brillava l'accetta. Sweyn e sua madre guidarono la sconosciuta fino al focolare, senza porle domande o rivelare segni di curiosità, finché fu lei a raccontare di sua spontanea volontà la storia di un lungo viaggio iniziato per visitare alcuni lontani parenti, di una guida che non si era presentata all'appuntamento, e di una strada smarrita. «Da sola!», esclamò Sweyn stupefatto. «Si è spinta tanto lontano... almeno cento leghe da sola!» Lei rispose: «Sì», con un piccolo sorriso. «Superando le colline e le paludi! Ma gli abitanti di quei luoghi sono più selvaggi delle belve!» La donna posò la mano sulla sua accetta con un'occhiata di disprezzo. «Non temo né uomini né animali», dichiarò, «ma molti hanno paura di me», e narrò di attacchi subiti, di come si era difesa, e della sua audace, libera vita di cacciatrice. Le parole le uscivano dalla bocca lentamente, scelte con cura, quasi parlasse una lingua non troppo familiare; di quando in quando si interrompeva a metà frase, cercando il termine adatto. Divenne il centro di un gruppo di ascoltatori. L'interesse che suscitava dissipò, in una certa misura, il terrore ispirato prima dalle voci misteriose.
Non vi era nulla di inquietante in quella bella donna bionda, nonostante la stranezza del suo aspetto. Il piccolo Rol si avvicinò quatto quatto, fissando la sconosciuta con occhi sbarrati. Senza farsi notare, accarezzò un lembo del suo morbido mantello bianco che si era allargato sull'impiantito in larghe pieghe. Poi appoggiò la guancia sulla stoffa come in una carezza, e si spostò ancora di più verso le ginocchia della signora. «Come ti chiami?», le chiese. Il sorriso della sconosciuta, e la sua pronta risposta, salvarono Rol dal rabbuffo che si era meritato. «Il mio vero nome», disse quella fissando il bimbo, «suonerebbe strano per le vostre orecchie e per la vostra lingua. Il popolo di questo paese me ne ha dato un altro, e proprio a causa di questo», indicò il mantello, «mi chiamano Pelliccia Bianca.» Il piccolo Rol ripeté tra sé, sempre accarezzando il mantello: «Pelliccia Bianca, Pelliccia Bianca». Il bel volto, i capelli biondi e lo splendido vestito piacevano molto a Rol. Fissò gli occhi della sconosciuta con aria di curiosa incertezza, come un passero su un davanzale poi, all'improvviso, le appoggiò i gomiti sulle ginocchia, con un gridolino di sorpresa per la sua audacia. «Rol!», esclamò la zia. «Lasciatelo fare», disse Pelliccia Bianca, sorridendo e accarezzando il capo del bimbo. Rol rimase. Anzi, divenne più ardito e, sfidando l'autorità della zia, si arrampicò sulle ginocchia della sconosciuta. Le braccia di lei lo accolsero soffocando ogni protesta. Rol vi si annidò felice, tastando l'accetta, gli ornamenti eburnei della cintura, la fibbia del mantello, le trecce bionde; quindi soffregò il capo contro la morbidezza dei lembi di pelliccia, con la fiducia infantile nella bellezza. Pelliccia Bianca non si scoprì il capo, anzi, annodò di nuovo i lembi di pelliccia sotto il mento. Rol allungò la mano, mormorò quasi tra sé il nome: «Pelliccia Bianca, Pelliccia Bianca», poi cinse il collo della straniera con le braccia e la baciò, una, due volte. «Il bimbo vi molesta?», chiese Sweyn. «Nient'affatto!», rispose quella, con un calore così intenso che parve sproporzionato alle circostanze. Rol si raggomitolò di nuovo sulle sue ginocchia e cominciò a svolgere la benda che gli fasciava la mano. Si interruppe un attimo vedendo la tela im-
bevuta di sangue, ma poi continuò finché la sua mano non fu nuda e rivelò un taglio superficiale, anche se molto lungo. Tese quindi la manina verso Pelliccia Bianca, chiedendo la sua pietà e la sua simpatia. Vedendo quella ferita, e la benda macchiata di sangue, la donna respirò con affanno e strinse forte a sé Rol, poi sempre più forte, finché il bimbo cominciò a divincolarsi. Il viso della sconosciuta era nascosto dal capo di Rol, e nessuno poté notare la sua espressione, che si era contratta in un orrendo sogghigno. Lontano, oltre il filare di larici, aldilà delle colline, l'assente Cristiano stava affrettandosi sulla strada del ritorno. Era partito all'alba, per invitare a una battuta all'orso tutti i migliori cacciatori delle fattorie e delle capanne che si trovavano nel raggio di venti miglia. Ma, poiché era in ritardo, incurante della stanchezza, allungò il passo nella corsa, divorando le miglia che lo separavano da casa. Rallentò appena quando si addentrò nella fitta oscurità del bosco di larici, sebbene il sentiero fosse invisibile e, non appena si ritrovò all'aperto, scorse le luci della fattoria duecento metri più in basso. Stava per riprendere la corsa, quando si scostò con un balzo dalla pista, immobilizzandosi. Sulla neve spiccavano le tracce di un grosso lupo. Cristiano abbassò la mano sul coltello, la sua sola arma. Si inginocchiò, cercando di portare il suo sguardo all'altezza degli occhi della bestia, e si guardò intorno a denti stretti, il cuore che batteva un po' più in fretta del solito. Un lupo solitario, quasi sempre feroce e di grossa taglia, è una belva formidabile che non esita ad affrontare l'uomo. Le orme lasciate da quel lupo erano le più grosse che Cristiano avesse mai visto e, da quanto poteva giudicare, abbastanza fresche. Scendevano dai larici verso la pianura. Cristiano ringraziò il cielo per il ritardo che l'aveva tanto irritato prima. Buon per lui che non aveva incrociato la belva nel folto del bosco! Muovendosi con cautela, seguì le tracce. Lo condussero giù dalla collina, oltre il torrente ghiacciato, attraverso il terreno pianeggiante che portava alla fattoria. A quel punto, una persona meno esperta di Cristiano avrebbe cominciato a dubitare che quelle fossero orme di lupo, attribuendole piuttosto a Tyr o a un altro grosso cane. Ma Cristiano la sapeva troppo lunga per cadere in quell'equivoco. Stava seguendo delle tracce di lupo. Procedevano sempre diritte, verso la fattoria. Cristiano prima si sorprese, poi si preoccupò all'idea che la belva si fosse
avvicinata tanto all'abitato. Strinse il coltello e affrettò il passo, aguzzando gli occhi. Oh, se Tyr fosse stato con lui! Le orme sparivano davanti alla porta della fattoria, dove non c'era più neve. Cristiano sentì che il cuore gli balzava in gola. Il portico era deserto e nessuna traccia indicava che il lupo si fosse diretto da un'altra parte. I larici si profilavano diritti contro il cielo e le nubi sembravano più basse, poiché il vento era cessato e cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve. Cristiano si immobilizzò un attimo, come folgorato. Poi premette il saliscendi ed entrò. Il suo sguardo abbracciò i volti familiari, e tra questi colse la presenza della straniera, ammantata di pelliccia e bellissima. In un lampo intuì l'orrenda verità: sapeva chi era la donna. Soltanto pochi tra i presenti notarono il cigolio del saliscendi, poiché la stanza era colma di brusio e di movimento. Per l'ora di cena, tutti abbandonavano gli arnesi di lavoro e spostavano sgabelli e tavoli. Cristiano non ebbe chiara coscienza di quel che disse o fece; si mosse e parlò meccanicamente, con la vaga speranza che ben presto si sarebbe svegliato da quell'orrendo sogno. Sweyn e la madre immaginarono che fosse infreddolito e stanco, e gli risparmiarono inutili domande. Lui si trovò seduto accanto al fuoco, di fronte all'orribile Cosa che aveva assunto l'aspetto di una bella ragazza; osservò attento ogni sua mossa, poi la vide accarezzare il piccolo Rol e ne fu angosciato. Anche Sweyn era lì, lo sguardo fisso su Pelliccia Bianca, ma con un'espressione tanto diversa! Lei pareva non curarsi dell'attenzione di entrambi: non badava al freddo odio apparso negli occhi di Cristiano, o alla calda ammirazione di Sweyn. Quei due fratelli, che erano gemelli, apparivano molto diversi, nonostante la somiglianza fisica. Avevano un profilo regolare, capelli castani e profondi occhi azzurri; ma i lineamenti di Sweyn erano perfetti come quelli di un Dio mentre quelli di Cristiano apparivano più irregolari nei particolari. La linea della bocca era meno diritta, gli occhi troppo infossati, le guance più incavate di quelle di Sweyn. La statura era identica, ma Cristiano era troppo magro, mentre in Sweyn una salda struttura muscolare componeva una ideale figura maschile. Come cacciatore o pescatore, Sweyn non aveva rivali. In tutto il circondario era riconosciuto come il migliore nella lotta, nella danza, nel canto. Soltanto nella corsa poteva essere sorpassato dal fratello minore. Sweyn distanziava facilmente tutti gli altri, ma Cristiano lo batteva sempre. Cri-
stiano traeva ben poco vanto dall'agilità dei suoi piedi, poiché considerava le gambe come le membra meno pregevoli del corpo umano. Non invidiava l'atletica superiorità del fratello, sebbene in molte gare questi si fosse classificato onorevolmente come secondo. Lo amava come si ama un gemello: fiero delle qualità di Sweyn, entusiasta dei suoi successi, e umilmente soddisfatto che il suo grande affetto non fosse ricambiato in uguale misura, perché si riteneva meno degno di essere amato. Alla presenza delle donne e dei bambini, Cristiano non osava esprimere il proprio orrore con parole. Cercò di consultare il fratello, ma Sweyn non vide - o non volle vedere - i muti appelli che Cristiano gli rivolgeva, e tenne sempre gli occhi fissi su Pelliccia Bianca. Cristiano si scostò allora dal camino, incapace di rimanere passivo di fronte alla minaccia che incombeva su tutti. «Dov'è Tyr?», chiese all'improvviso. E subito notò il cane accucciato in un angolo: «Perché lo avete legato laggiù?». «Ha aggredito la nostra ospite», rispose qualcuno. Gli occhi di Cristiano si accesero. «Davvero?», disse e, alzatosi, si avvicinò a Tyr in silenzio. Il cane si drizzò per accoglierlo, mortificato e indignato quanto può esserlo una povera bestia. Cristiano gli accarezzò la testa nera. «Bravo Tyr! Bravo cane!», disse. Soltanto loro due sapevano la verità, e quel comune segreto fu di conforto per entrambi. Gli occhi di Cristiano si posarono di nuovo su Pelliccia Bianca, e Tyr si protese in avanti tendendo al massimo la catena! La mano di Cristiano accarezzò il collo del cane e sentì i suoi peli drizzarsi in una furia impotente. Anche lui cominciò a tremare, per una collera nata dalla ragione e non dall'istinto; si sentiva impotente moralmente come Tyr lo era fisicamente. Non osava toccare una donna. Non fosse stato per quell'apparenza, lui e Tyr sarebbero stati liberi di uccidere o di essere uccisi. Ritornò tra la gente per porre nuove domande. «Da quanto tempo è arrivata la straniera?» «Un'ora e mezzo prima di te.» «Chi le ha aperto la porta?» «Sweyn. Nessun altro ne avrebbe avuto il coraggio.» Il tono di quella risposta era misterioso. «Perché?», chiese Cristiano. «È accaduto qualcosa di strano? Ditemi tutto.» Gli narrarono a bassa voce delle invocazioni udite oltre la porta senza
che si manifestasse alcuna presenza umana; e degli ululati di Tyr, e della vana ricerca di Sweyn sotto il portico. Cristiano si rivolse al fratello, cercando con angosciata impazienza l'occasione di dirgli due parole in privato. La tavola era apparecchiata e Sweyn stava guidando Pelliccia Bianca al posto d'onore. Inconcepibile! Avrebbe spezzato il pane con loro sotto lo stesso tetto. Cristiano si fece avanti e, posata la mano sul braccio di Sweyn, gli sussurrò un urgente appello. Sweyn lo fissò stupito e scrollò il capo con stizza. Cristiano rifiutò allora di toccare cibo. L'occasione che attendeva si presentò, finalmente. Pelliccia Bianca chiese informazioni sulla Collina di Cairn, che avrebbe dovuto raggiungere quella sera stessa. La padrona di casa e Sweyn lanciarono un'esclamazione. «È lontana tre miglia», disse Sweyn, «e l'unico rifugio è una capanna cadente. Rimanete con noi questa notte e io vi accompagnerò domattina.» Pelliccia Bianca parve esitare. «Tre miglia», disse. «Allora sarà possibile vedere o udire un segnale.» «Ci starò attento», disse Sweyn, «e, se non vi sarà segnale, non ci lascerete.» Andò verso la porta. Cristiano lo seguì fuori, in silenzio. «Sweyn», chiese poi, «lo sai chi è quella donna?» Sweyn, sorpreso dal topo cupo e aspro della voce, domandò a sua volta: «Chi? Pelliccia Bianca?». «Sì.» «È la più bella donna che io abbia mai visto.» «È un Lupo Mannaro.» Sweyn scoppiò in una risata. «Sei impazzito?», chiese. «No. Vieni. Guarda con i tuoi stessi occhi.» Cristiano lo guidò ai limiti del portico, indicando la neve dove prima spiccavano le orme... prima, poiché ora non si vedevano più. La neve che cadeva abbondantemente le aveva cancellate. «Ebbene?», chiese Sweyn. «Se tu mi avessi ascoltato, e se fossi uscito poco fa, le avresti viste.» «Che cosa?» «Le orme di un lupo che arrivavano fino alla porta, ma nessuna orma che se ne allontanasse.» Era impossibile non rimanere colpiti dal tono di Cristiano, sebbene la sua voce fosse poco più che un sussurro. Sweyn scrutò ansioso il volto del
fratello, ma nell'oscurità non riuscì a distinguerne l'espressione. «Quando il freddo ti entra fino nel cervello è possibile avere delle visioni», disse Sweyn. «No», lo interruppe Cristiano. «Ho seguito quelle orme dalla collina fin qui. E non erano una visione.» Sweyn non si lasciò convincere. Cristiano si abbandonava spesso a strane fantasie, sebbene fino a quel giorno non avesse mai immaginato nulla di tanto stravagante. «Non mi credi?», chiese Cristiano, disperato. «Devi credermi! Ti giuro che è la verità. Sei cieco? Persino Tyr se ne è accorto.» «Domattina, dopo una buona notte di riposo, ti si saranno schiarite le idee. E allora ti consiglio di venire alla Collina di Cairn con Pelliccia Bianca. Se hai ancora dei dubbi, vedrai quali impronte lascerà sulla neve.» Irritato dall'evidente disprezzo di Sweyn, Cristiano si diresse bruscamente verso la porta. Il fratello lo trattenne. «Dove vai adesso, Cristiano? Che cosa hai intenzione di fare?» «Se tu non mi credi, mia madre mi crederà.» Sweyn rafforzò la sua stretta: «Non le dirai nulla», intimò con voce autoritaria. Di solito Cristiano ubbidiva docilmente al fratello, ma questa volta si liberò vigorosamente dalla mano che lo tratteneva e disse con tono altrettanto deciso: «Nostra madre deve sapere». Sweyn lo aveva preceduto sulla soglia e gli sbarrava il passo. «C'è stato abbastanza trambusto questa sera. Se davvero vuoi raccontarle questa tua storia, aspetta domani mattina.» Cristiano esitava. «Le donne si spaventano facilmente», insistette Sweyn, «e sono pronte a credere qualsiasi stupidaggine senza prove. Sii uomo, Cristiano, e combatti da solo contro questa folle idea del Lupo Mannaro.» «Se almeno tu potessi credermi», insistette Cristiano. «Io credo che tu sia uno sciocco», disse Sweyn che aveva perso la pazienza. «E, se non fossi tuo fratello, penserei che sei invidioso e che hai trasformato Pelliccia Bianca in un Lupo Mannaro perché ha sorriso a me prima che a te.» L'insinuazione non era priva di fondamento, perché gli sguardi teneri di Pelliccia Bianca si erano posati soltanto su di lui, e su Cristiano neppure per un istante. L'irritazione di Sweyn appariva sempre sincera e quasi perdonabile, perché giustificata.
«Se vuoi un alleato», continuò Sweyn, «confidati con la vecchia Trella. Nel bagaglio della sua saggezza, posto che la memoria non le venga meno, saprà trovare i consigli da darti per combattere un Lupo Mannaro nel modo più ortodosso. Se ricordo bene, dovrai sorvegliare la persona sospetta fino a mezzanotte, quando sarà costretta a riassumere la sua forma di animale, e non potrà più liberarsene se un occhio umano assiste alla metamorfosi; oppure, meglio ancora, dovrai spruzzarle mani e piedi con acqua benedetta, il che implica la morte sicura! Non temere, la vecchia Trella si dimostrerà all'altezza della situazione.» Il disprezzo di Sweyn non si manifestava più in tono scherzoso, poiché cominciava a sentirsi veramente seccato per quel mostruoso dubbio nei confronti di Pelliccia Bianca. Ma Cristiano era troppo angosciato per offendersi. «Parli come se si trattasse di una favola da donnette; ma se avessi visto quello che ho visto io, saresti pronto a seguire i consigli di Trella, con la speranza che abbiano effetto.» «Ebbene», disse Sweyn con una risata di scherno, «seguili pure, quei consigli. Non me ne importa nulla, purché tu non ne parli con nessuno. E ora, Cristiano, promettimi il tuo silenzio, e smettiamola di rimanere qui fuori a gelare.» Cristiano non rispose. Sweyn gli posò le mani sulle spalle e tentò invano di scrutare il suo volto nell'oscurità. «Finora non avevamo mai litigato, Cristiano.» «Io non ho mai litigato con te», replicò l'altro, rendendosi conto per la prima volta che la prepotenza del fratello gliene aveva spesso offerto l'occasione. «Pensala come vuoi», replicò Sweyn, «ma se parlerai di Pelliccia Bianca con qualcun altro, dicendo le cose che hai detto a me, litigheremo davvero.» Pronunciò quelle parole come un ultimatum, poi si voltò bruscamente e rientrò in casa. Cristiano, sempre più sgomento e preoccupato, lo seguì. «La neve cade fitta, e non si è vista neppure una luce.» Gli occhi di Pelliccia Bianca sorvolarono Cristiano come se nemmeno lo vedessero, e si posarono, vivacissimi, sul viso di Sweyn. «E non si è sentito nemmeno un richiamo?», chiese. «Avete udito il suono di un corno?» «Non ho visto nulla e non ho sentito nulla; e poi, segnale o no, questa
bufera di neve vi impedirebbe in ogni modo di recarvi laggiù.» La donna ringraziò con un sorriso, e il cuore di Cristiano si colmò di sconforto nel vedere quale luce quel sorriso aveva acceso negli occhi di Sweyn. Durante la notte, mentre tutti dormivano, Cristiano, che era il più stanco, vegliò davanti alla porta dell'ospite fin dopo mezzanotte. Non udì rumori di sorta, nemmeno il minimo fruscio. La metamorfosi di mezzanotte era dunque davvero una favola? Cristiano avrebbe dato il braccio destro per sapere se dietro quell'uscio si celava una donna o una bestia. Istintivamente posò la mano sul saliscendi, sebbene fosse sicuro che il paletto era stato tirato dall'interno. Ma l'uscio cedette, e Cristiano lo spalancò; un soffio d'aria gelida lo colse lì sulla soglia. La finestra era aperta e la stanza vuota. Cristiano poté andare a dormire con animo più sollevato. La mattina seguente, quando fu scoperta l'assenza di Pelliccia Bianca, tutti ne furono sorpresi e fecero parecchie congetture. Cristiano si chiuse nel silenzio; non disse nemmeno che aveva constatato che era fuggita prima della mezzanotte; e Sweyn, seppure evidentemente addolorato, pareva evitare qualsiasi discussione col fratello su quell'argomento. Soltanto Sweyn partecipò alla caccia all'orso; Cristiano trovò un pretesto per rimanere a casa, e il fratello si limitò a deprecarne l'assenza senza troppo insistere. Per tutto quel giorno, e nei seguenti, Cristiano non si allontanò mai di casa. Soltanto Sweyn notò quelle manovre, e ne fu chiaramente irritato. Il nome di Pelliccia Bianca non veniva mai pronunciato tra loro, sebbene lo si udisse spesso nella conversazione generale. Non passava quasi giorno senza che il piccolo Rol chiedesse quando sarebbe ritornata Pelliccia Bianca, così bella, e che baciava come un fiocco di neve. E se era Sweyn a rispondergli, Cristiano leggeva nei suoi occhi accesi che il ricordo di Pelliccia Bianca in lui non si era spento. Il piccolo Rol! Il biondo, allegro, dispettoso, piccolo Rol! Venne il giorno in cui i suoi piedi varcarono la soglia di casa per l'ultima volta; e non tornò più, né più si udirono le sue chiacchiere e le sue risate; e lacrime furono versate dagli occhi che non avrebbero più visto la sua testolina bionda, né viva né morta. Fu notato l'ultima volta una sera al crepuscolo, mentre fuggiva di casa con il suo cucciolo, ribellandosi ai richiami della vecchia Trella. Più tardi, quando la sua assenza cominciava a destare ansietà, il cucciolo era tornato alla fattoria, trascinando le zampette nella neve e gemendo: una povera be-
stiolina spaventata, senza la capacità o il coraggio di guidare le ricerche. Rol non fu più trovato. Non si riusciva a capire come fosse sparito senza lasciar tracce: forse era stato divorato da una belva? Cristiano udì pronunciare la parola «lupo», e un'orribile certezza affiorò nella sua mente: sapeva chi era quel lupo. Tentò di parlarne, ma Sweyn indovinò il suo proposito e lo afferrò per un braccio imponendogli il silenzio con la sua stretta imperiosa e con il suo sguardo implacabile. Cristiano cedette di nuovo alla volontà del fratello, e tacque. Se ne pentì prima che la luna nuova (la prima dell'anno) avesse chiuso il suo ciclo. Pelliccia Bianca tornò, e si presentò sorridendo come se fosse sicura di ottenere una buona accoglienza; e, in verità, una sola persona trasalì con orrore vedendo il suo bel viso e il suo bianco mantello. Il viso di Sweyn si illuminò di gioia, mentre quello di Cristiano si irrigidiva in un pallore di morte. Aveva promesso di tacere, ma non avrebbe mai immaginato che Pelliccia Bianca sarebbe tornata. A faccia a faccia con la Cosa, il silenzio era impossibile. Cristiano gridò: «Dov'è Rol?». Pelliccia Bianca non batté ciglio, e rimase imperturbabile mentre lo sguardo di Sweyn si posava minaccioso sul fratello. L'occhio di molte donne si inumidì al ricordo del bimbo, ma nessuno si stupì per la domanda di Cristiano, poiché pareva naturale. Rol si era annidato spesso nelle braccia della sconosciuta, baciandola, accarezzandola, e la sua mancanza non poteva non essere notata. Cristiano uscì in silenzio. C'era una sola cosa che lui poteva fare e senza indugio. Il suo orrore superava la curiosità di udire le contorte giustificazioni di Pelliccia Bianca e le sue sorridenti scuse per la bizzarra e scortese fuga da quella casa. O la facile favoletta che avrebbe raccontato per spiegare le circostanze del suo ritorno. Né voleva assistere al suo simulato dolore quando l'avessero informata di quanto era accaduto a Rol. Il più veloce corridore della regione cominciò la sua gara più dura, poco meno di tre leghe e ritorno, e che contava di coprire in due ore, sebbene la notte fosse senza luna e il terreno accidentato. Corse fendendo l'immobile aria fredda finché sentì il vento sulla faccia. La sagoma della fattoria sparì oltre un crinale alle sue spalle, e altre colline coperte di neve si profilarono all'oscuro orizzonte. Lui le superava tutte, mentre l'aria tagliata dalla sua corsa si richiudeva dietro di lui. Non prendeva nota dei punti di riferimento che potevano segnare il suo cammino, nemmeno quando ogni traccia di sentiero sparì sotto la neve. La sua
volontà era tesa a raggiungere la meta con velocità ineguagliabile, e le sue forze, mosse dal puro istinto, lo portavano avanti senza fargli commettere errori. Il suo cervello frattanto rimaneva inerte, passivo, accogliendo in quel suo vuoto immagini e suoni che si presentavano via via: Rol che piangeva, rideva, si rifugiava tra le braccia dell'orrenda Cosa: Tyr (oh, Tyr!) con le zanne scoperte nel muso nero; le donne che piangevano attorno al cucciolo, reso prezioso dall'ultima carezza di Rol; orme che arrivavano fino alla porta: un viso sorridente tra le pellicce, una donna così bella che sorrideva, sorrideva... e il volto di Sweyn. «Sweyn, Sweyn! Oh Sweyn, fratello mio!» La risata di scherno di Sweyn risuonò nel suo orecchio nonostante il sibilo del vento; il disprezzo di Sweyn lo assalì più rapido e acuto del morso del freddo alla gola. E tuttavia non si lasciò turbare dall'idea di quanto sarebbero aumentati lo scherno e il disprezzo del fratello se avesse saputo lo scopo di quella corsa. Per Cristiano tutta la vita era un mistero spirituale, che il denso velo della carne gli impediva di vedere chiaramente. Poiché egli sapeva che il suo corpo era legato alle forze complesse e antagoniste dell'anima, non gli sembrava impossibile che una sola forza spirituale si impossessasse di forme diverse per manifestarsi in modo più vario. Né gli costava grande sforzo il credere che come l'acqua pura lava ogni naturale sporcizia, così l'acqua santificata dalla consacrazione avrebbe potuto eliminare dal mondo di Dio quella sozzura che era quella Cosa soprannaturale e maligna. Perciò, con una velocità mai prima raggiunta, egli corse nella notte buia e immobile, coprendo le leghe che lo separavano dalla lontana chiesa dove la salvezza giaceva nell'acquasantiera presso la porta d'ingresso. La sua fede era salda come quella che produsse miracoli nei tempi andati, semplice come il desiderio di un bambino, forte come la volontà di un uomo. La sua assenza non fu notata in quelle ore che costarono un estremo sforzo ai suoi muscoli e ai suoi nervi. Nella fattoria si vivevano momenti sereni illuminati dalle parole e dai gesti che l'istinto di ospitalità suggeriva ai suoi abitanti. La cordialità e l'interesse rinascevano attorno alla bellezza della misteriosa visitatrice riapparsa tra loro. Ma Sweyn manifestava un calore molto più intenso di quello che sarebbe stato naturale in un ospite. L'impressione che durante la prima visita della sconosciuta lo aveva affascinato, e che da quel giorno era vissuta nella sua memoria, si acuì ora con la sua presenza. Sweyn, ancora senza com-
pagna, intuì che nella bionda Pelliccia Bianca si celava uno spirito forte e ardito come il suo, e una struttura così solida che soltanto le proporzioni fisiche potevano impedire il manifestarsi di una forza pari a quella dell'uomo più robusto. Eppure la sua pelle era così morbida, e non appariva gonfiata dai muscoli. Tutto l'amore che il suo naturale egoismo poteva concedergli, sbocciava ora in Sweyn, destato dall'ardente ammirazione per quella straordinaria straniera. Anzi, nella sua passione, c'era più ammirazione che amore, e dunque Sweyn non si sentiva impedito dall'esitazione dell'amante, da delicate riserve e da dubbi. In modo franco e audace egli la corteggiò con occhiate e parole, e con una destrezza che gli era particolare. Né lei era donna da lasciarsi corteggiare altrimenti. Teneri sussurri e sospiri non avrebbero conquistato il favore del suo orecchio; ma i suoi occhi si accendevano ammirati se udiva narrare un'audace impresa, e per simpatia la sua mano si spostava sull'accetta, e la stringeva. Quel gesto risvegliava ogni volta l'ammirazione di Sweyn; ne attendeva il ripetersi, lo provocava e gioiva nel vederlo. Era splendido il moto di quel polso, sottile e forte come l'acciaio, e della morbida mano che si chiudeva sul manico dell'accetta, pronta ad amministrare la morte. Mosso dal desiderio di sentire su di sé la pressione di quelle dita, l'audace ammiratore le propose di ascoltare una canzone di cacciatori, che veniva eseguita con accompagnamento ritmico di battimani. Subito Sweyn intonò i versi con la sua splendida voce e, mentre il coro attaccava, invitò la sconosciuta a battere le mani contro le sue: nonostante la rapidità del contatto, egli percepì, come sperava, la forza latente, il vigore che faceva vibrare la punta delle dita. Anche lei unì la sua voce a quella degli altri, presa dal fascino del ritmo e del suono. E poi cantò da sola. Per contrasto, o forse per valorizzare i toni caldi e profondi della propria voce, scelse una ballata triste, che si spegneva via via come un canto funebre. Via, lasciatemi andare! Volteggiano intrecci di neve e la buia terra dorme al di sotto. Lontano sulla pianura geme una voce di dolore là dove sarà sepolto il mio bambino...
La vecchia Trella si staccò dal suo angolino, scossa dall'emozione di un resuscitato ricordo. Aguzzò gli occhi velati verso la sconosciuta, e chinò il capo in modo che il suo unico orecchio buono potesse percepire ogni parola della canzone. Alla fine, mormorò con la voce acuta e tremula dei vecchi: «Così cantava la mia Thora. La mia ultima figlia, e la migliore. Che aspetto ha costei, che canta come la mia Thora? Sono azzurri i suoi occhi?». «Azzurri come il cielo.» «Così erano gli occhi della mia Thora. E i suoi capelli sono biondi, pettinati in trecce che le scendono fino alla vita?» «Esattamente», rispose Pelliccia Bianca, e strinse le mani che si protendevano verso di lei, guidandole a toccare per conferma ciò che avevano detto le sue parole. «Come la mia povera Thora morta», ripeté la vecchia, e poi le sue mani si arrestarono sulle spalle coperte di pelliccia, e si chinò in avanti e baciò il volto che la sconosciuta aveva alzato verso di lei, per ricevere un gesto d'affetto. In quell'atteggiamento le colse Cristiano rientrando. Ristette un momento. Dopo la totale oscurità della notte, il morso gelido dell'aria e la fatica silente di due ore di corsa la sua tensione si allentò al tepore della stanza, alla luce, e al mormorio lieto di voci umane. Ma subito una imprevedibile angoscia lo assalì, e intuì la possibilità di essere battuto dall'astuzia e dall'audacia della straniera, come se al momento della morte le rimanesse la capacità di trasformarsi in belva per inghiottirli tutti in un ultimo scatto. Guardò con orrore e pietà quella povera gente semplice, ignara del pericolo che minacciava la loro pace. L'orrenda Cosa, velata dalle sembianze di una splendida donna, costituiva tra loro il centro di un lieto interesse. Persino la povera Trella, la più debole e la più inerme di tutti, era stata imprigionata dal suo fascino. E da un attimo all'altro poteva rivelarsi un mostro orrendo, scatenandosi in quella comunità di donne, di ragazze e di uomini incauti. Soltanto lui era pronto a difendersi. Si sentì barcollare per un attimo, il tempo di un respiro e non di più, mentre sulla sua mente scivolava l'agonia del dubbio. Poi capì che non avrebbe mai rinunciato al suo proposito. Era solo? No, poteva contare anche su Tyr, e allora attraversò la stanza dirigendosi verso l'animale che, come lui, aveva capito.
Il pensiero è così al di fuori del tempo, che pochi secondi soltanto trascorsero da quando Cristiano abbassò il saliscendi a quando sciolse il collare di Tyr. Ma, in quei pochi secondi, le reazioni degli altri furono rapide come la folgore. I vigili occhi di Sweyn si erano posati sul fratello, e subito ogni sua fibra fu ostilmente all'erta. Intuendo, sia pure incredulo, lo scopo di Cristiano nel liberare Tyr, scattò in avanti, travolto dalla collera, pronto ad opporsi alla malvagità del fratello. Accanto a Sweyn si alzò anche Pelliccia Bianca, più pallida del suo mantello, gli occhi accesi e selvaggi. Balzò verso la porta, raccogliendo le vesti attorno a sé. «Il segnale!», ansimò. «Il suono del corno! Devo andare.» E aprì l'uscio. Per un prezioso istante Cristiano esitò con la mano sul collare già allentato di Tyr, pensando che se la Cosa non avesse abbandonato le sue spoglie di donna per assumere forma bestiale, le zanne di Tyr avrebbero ridotto in pezzi il suo onore di maschio. Poi udì la voce di lei e si voltò. Troppo tardi. Mentre varcava la soglia, Cristiano si precipitò in avanti con la fiala dell'Acqua Santa, ma Sweyn gli sbarrò il passo irresistibilmente e, nonostante i suoi sforzi, Cristiano riuscì a liberare soltanto un braccio. Con quel braccio, e sotto la spinta della disperazione, scagliò la fiala. La vide infrangersi sulla porta subito richiusa. Allora, mentre la stretta di Sweyn si allentava e lo stupore appariva sui volti lì attorno, Cristiano gridò: «Dio ci aiuti tutti! È un Lupo Mannaro!». Sweyn protestò: «Bugiardo! Bugiardo! Vigliacco», e le sue mani si strinsero attorno al collo del fratello in una morsa mortale, come se volesse uccidere quelle parole appena pronunciate. Poi, mentre Cristiano si difendeva, lo sollevò da terra e lo scagliò contro il muro. Là Cristiano giacque immobile, ma tanta era la collera che animava Sweyn, da indurlo a calpestare il corpo del fratello, finché la madre li separò gridando: «Vergogna!». Allora Sweyn si tirò in disparte, la fronte corrugata, i denti stretti, mentre Cristiano si alzava, barcollante e stupito. Il suo silenzio fu più di quanto Sweyn si aspettasse, e trasformò la sua collera in disprezzo. «È pazzo!», gridò allontanandosi dal fratello mentre parlava, evitando lo sguardo della madre, colmo di rimprovero per l'aperta manifestazione di un timore che stava celato in lei. Cristiano era troppo esausto per parlare. Il respiro gli usciva affannoso dalle labbra in sibili; i suoi muscoli avevano perduto lo scatto per la lunga fatica. Il suo fallimento recente lo tuffò in una cupa disperazione. Si senti-
va inoltre umiliato per l'attacco del fratello, e sconvolto nell'udire il suo disprezzo espresso senza riserve, poiché si rendeva conto che Sweyn aveva dominato i dubbi e l'eccitazione degli astanti con un gesto di violenza e con un giudizio tagliente ben lontani dall'affetto fraterno. Sweyn nel frattempo osservava Cristiano, stupito di avvertirne sempre lo sguardo su di sé; ed era uno sguardo di disperata angoscia, tale da scoraggiare il più furente aggressore. «Come un cane bastonato!», pensava Sweyn cercando di rianimare il disprezzo contro la crescente pietà. L'osservazione lo indusse a chiedersi come mai Cristiano fosse tanto esausto. Il respiro affannoso e l'inerzia dei muscoli gli rivelarono un lungo sforzo. E poi, come mai quasi due ore di assenza si erano concluse con un comportamento ostile verso Pelliccia Bianca? All'improvviso, i frammenti della fiala gli diedero la chiave del mistero, e indovinò tutto, fissando il fratello con stupore. Dimenticò che Cristiano aveva agito contro Pelliccia Bianca, e ammirò invece la sua velocità e la sua resistenza. Quella sera Sweyn e sua madre parlarono a lungo, dando consistenza al sospetto che Cristiano stesse perdendo l'equilibrio mentale e discutendone la causa evidente. Sweyn infatti, dichiarando il proprio amore per Pelliccia Bianca, insinuò che il fratello, animato da pari passione (poiché erano gemelli in amore come nella nascita), fosse stato indotto dalla gelosia a trasformare l'amore in odio. A un certo punto la ragione non l'aveva più sostenuto, e si era sviluppata una follia pericolosamente minacciosa e aggressiva. Così teorizzò Sweyn convincendo se stesso via via che parlava; convinse poi anche gli altri, semmai avessero avanzato dubbi sulla natura di Pelliccia Bianca; giustificando con ogni mezzo la sua fuga precipitosa, e mettendo a tacere la propria coscienza poiché tale fuga appariva invece senza motivo. Ma, poco tempo dopo, Sweyn perse il proprio vantaggio nell'ondata di orrore che sommerse di nuovo la famiglia. Trella sparì in modo misterioso. La povera vecchia uscì di casa in pieno giorno, per visitare un'amica malata in una casupola oltre il boschetto di lecci. Fu vista per l'ultima volta tra gli alberi, quando si fermò per rimandare alla fattoria la sua accompagnatrice, pregandola di recuperare un oggetto dimenticato. L'allarme si diffuse prontamente, e tutti gli uomini parteciparono alle ricerche. Ritrovarono il suo bastone in un cespuglio presso il sentiero, ma nessuna traccia di lei, perché una tormenta di neve aveva ricoperto ogni cosa. La gente della fattoria fu colta da un tale panico, che nessuno usciva più
da solo. Un pericolo noto si poteva affrontare: ma non quella insidiosa morte invisibile, che aveva falciato un bambino ancora immerso nei suoi giochi e una vecchia già vicina alla tomba. «Rol l'aveva baciata! Trella l'aveva baciata!», ripeteva incessantemente Cristiano in una sorta di ritornello frenetico, finché Sweyn lo trascinò via e lo tenne lontano dagli altri. Ma, da quel momento, tutti i ragionamenti e tutta l'autorità di Sweyn non poterono impedire i sospetti che si accumulavano contro Pelliccia Bianca. Il nome di lei, pronunciato prima con allegro affetto, veniva ora sussurrato soltanto, e con allusioni che Sweyn non riusciva a cogliere, ma che paventava. Per qualche tempo, l'ostilità che divideva i due fratelli si manifestò in Sweyn con una rigida indifferenza, in Cristiano con un pesante silenzio e una nervosa sorveglianza del suo gemello. Su Cristiano infatti, oltre all'angoscia, pesava il disprezzo di Sweyn, e il ricordo della loro violenta lite era una continua fonte di dolore. Sweyn, invece, più autosufficiente e meno sensibile, non poteva capire quanto fosse profonda la ferita inferta al fratello, e anzi, l'incessante sorveglianza di costui lo irritava. Per allontanare da sé quell'atmosfera di sospetto, pensò di fare qualche gesto di riconciliazione, e la mossa gli riuscì perfettamente. Un po' di gentilezza, qualche piccola attenzione, e subito Cristiano reagì con gratitudine, con un solievo che avrebbe commosso Sweyn se fosse riuscito a capire tutto; invece questo aumentò il suo segreto disprezzo. Tanto successo aveva avuto la diplomazia di Sweyn che, quando una sera egli trasmise a Cristiano un messaggio che lo convocava in un luogo poco distante, il fratello non ne mise in dubbio l'autenticità. E, quando non trovò nessuno al punto convenuto, pensò soltanto a un errore o a un equivoco, e si dispose al ritorno. Giunto in vista della fattoria, che giaceva tra la neve, il ricordo della notte in cui aveva seguito le tracce del lupo sorse vivo nella sua memoria, accompagnato da un indefinito ma angoscioso sospetto. Strinse con maggior forza lo spiedo per la caccia all'orso che portava con sé; tutti i suoi sensi erano all'erta, i muscoli tesi; l'eccitazione lo spingeva in avanti, la prudenza lo tratteneva, ed entrambe dettarono il ritmo della sua corsa verso una soluzione che ormai gli sembrava a portata di mano. Mentre si avvicinava all'ingresso del cortile, un'ombra leggera si mosse e sparì, come se un lembo di neve avesse acquistato una forza autonoma. U-
n'altra ombra scura si erse davanti a Cristiano. Sweyn gli sbarrava il passo, mentre l'ombra sfuggita poc'anzi doveva essere certamente Pelliccia Bianca. Erano stati insieme, vicinissimi. Forse Sweyn l'aveva stretta tra le braccia e baciata? La luna non brillava, ma le stelle emanavano luce sufficiente per rivelare che il volto di Sweyn era acceso dall'emozione. Si irrigidì vedendo il fratello, e gli si pose un dilemma: se Cristiano aveva visto tutto, come affrontarne la collera? Con autorità? Con indifferenza? Esitò tra le due ipotesi, e Cristiano incalzò: «Era Pelliccia Bianca?», chiese. «Sì, ebbene?», rispose Sweyn in un tono che implicava la sua possibilità di passare subito all'azione. Cristiano chiese: «L'hai baciata?» e quella domanda inattesa colpì Sweyn come una frustata, incrinò la sua audacia temeraria. Arrossì ancor più, eppure un sorriso sulle sue labbra rivelò la soddisfazione per il suo recente trionfo. Se davvero tra lui e il fratello fosse esistita la rivalità che egli immaginava, la sua espressione insolente sarebbe bastata per scatenare una tempesta. «Hai il coraggio di chiedermelo?», disse. «Sweyn, Sweyn, io debbo saperlo! L'hai baciata?» L'angoscia e la disperazione della sua voce irritarono Sweyn, poiché lui le interpretò come segni di una gelosia tanto travolgente da risultare intollerabile. «Sciocco!», gridò, perdendo il controllo di sé. «Conquistati anche tu una donna da baciare, e lascia in pace la mia. Non permetterò mai che tu baci quella che ho baciato io.» Allora Cristiano capì in quale equivoco fosse caduto il fratello. «Io... io...», gridò. «Io dovrei baciare Pelliccia Bianca, quella Cosa mortale? Sweyn, ma sei cieco, pazzo? Io voglio salvarti da lei, dal Lupo Mannaro!» Sweyn perse il lume degli occhi a quella rinnovata accusa, suggerita, come egli pensava, dal desiderio di vendetta, e per la seconda volta i due fratelli vennero violentemente alle mani. Ma Cristiano era ora troppo disperato per rispettare gli scrupoli; poiché in un'illuminazione della mente aveva intravisto una possibilità, e per essere libero di seguirla doveva immobilizzare il fratello. Grazie al cielo era armato, e dunque pari a Sweyn. Faccia a faccia con il suo avversario, lo costrinse ad alzare le braccia
premendolo con lo spiedo da orsi, e poi lo colpì allo stomaco così forte che Sweyn cadde a terra. A quel punto l'imbattibile corridore balzò via, per inseguire una vaghissima speranza. Sweyn, rialzandosi, fu al tempo stesso irritato e stupito da quella fuga, poiché sapeva che nel cuore del fratello non si celava ombra di codardia, e non era dunque possibile che avesse evitato un combattimento per timore della disfatta, o perché il disprezzo del probabile vincitore sarebbe stato umiliante. Sweyn si rendeva anche conto che un tentativo di inseguimento si presentava inutile; doveva dunque covare il suo rancore finché si fosse ripresentata un'occasione propizia. Poiché Pelliccia Bianca si era allontanata alla sua destra e Cristiano alla sua sinistra, la possibilità di un incontro tra loro non lo sfiorò nemmeno. Frattanto Cristiano, regolandosi su una vaga ombra che aveva intravisto sul crinale oltre la fattoria proprio mentre Sweyn lo attaccava, puntava tutte le sue speranze su un'unica carta: la propria velocità. Se ciò che egli aveva visto era davvero Pelliccia Bianca, immaginò che si dirigesse verso gli aperti spazi della pianura; e vi era una possibilità che, imboccando una scorciatoia e superando con un balzo uno stretto crepaccio, lui riuscisse a raggiungerla o anche a superarla. A quel che sarebbe accaduto poi, preferiva non pensare. Ecco ormai alle sue spalle quella rapida, fulminea corsa, e il rischio di morte mentre superava il crepaccio; si fermò in un avvallamento per riprendere fiato e per guardarsi attorno: sarebbe giunta? Era già passata di lì? Poi la vide arrivare. Avanzava con una rapida, morbida, silente andatura che non era né passo né corsa, le braccia avvolte nella pelliccia e strette al petto, i lembi del berretto richiusi attorno al viso; lo sguardo fisso su una distanza remota. Poi il ritmo del suo procedere fu bruscamente interrotto da Cristiano. «Pelliccia!» Si fermò di botto udendo il suo nome così mutilato e si trovò faccia a faccia con il fratello di Sweyn. I suoi occhi brillarono. Le sue labbra si sollevarono scoprendo i denti. La metà del suo nome, caricata di significato maligno dal tono di Cristiano, l'avvertì che si trovava davanti a un nemico. Tuttavia lasciò ricadere con grazia il mantello, e parlò come una donna gentile. «Che cosa vuoi?» Cristiano rispose con una solenne e terribile accusa:
«Hai baciato Rol, e Rol è morto! Hai baciato Trella, e Trella è morta! Hai baciato Sweyn, mio fratello, ma Sweyn non morirà!», poi aggiunse: «Tu puoi vivere fino a mezzanotte». Il balenio dei suoi denti e dei suoi occhi si ravvivò per un attimo, e per un attimo la mano si allungò verso l'accetta. Poi, senza una parola, Pelliccia Bianca, si voltò e balzò via agile sulla neve. E con uno scatto Cristiano la seguì, mantenendosi alle sue calcagna. Così corsero insieme, in silenzio, verso le vaste pianure coperte di neve dove nessun essere vivente all'infuori di loro si muoveva alla luce delle stelle. Mai come in quel momento Cristiano apprezzò la propria forza. Il dono della velocità e l'allenamento avevano ora per lui un valore inestimabile. Sebbene la mezzanotte fosse ancora lontana, egli nutriva fiducia che quella Cosa Bianca non gli sarebbe sfuggita. Poi, giunto il momento della trasformazione, quando le sembianze femminili non avrebbero più frenato come uno scudo la mano dell'uomo, lui avrebbe potuto uccidere o essere ucciso per salvare Sweyn. Aveva colpito il diletto fratello per estrema necessità, ma non poteva, per quanto grave fosse la ragione, colpire una donna. Corsero per un miglio, per due; Pelliccia Bianca in testa, Cristiano sempre a uguale distanza, così vicino che, di quando in quando, lo sfiorava un lembo di pelliccia. Nessuno dei due disse una parola. Lei non voltò mai il capo per guardarlo né cambiò direzione per sfuggirgli; avanzava in linea retta, sul terreno liscio o accidentato, conscia della vicinanza di Cristiano per il ritmico rumore dei suoi passi, e del suo respiro. Ad un tratto Pelliccia Bianca affrettò il passo. Fin dal principio Cristiano aveva ammirato la sua velocità, pur esultando nella certezza della propria superiorità. Ma, quando essa forzò l'andatura, lui si trovò messo a dura prova. Il suo animo tuttavia non cedette né la speranza diminuì nel suo cuore. E così continuò quella corsa disperata. Di quando in quando, Cristiano calcolava, dalla posizione delle stelle, quanto mancasse a mezzanotte: molto, ancora molto! Pelliccia Bianca proseguiva senza cedimenti, anch'essa convinta della propria forza, anch'essa decisa a superare indenne la fatale mezzanotte. E Cristiano reggeva alla fatica. Non poteva fallire, no non poteva! Vendicare la morte di Rol e di Trella sarebbe già stato un motivo sufficiente, ma per Sweyn avrebbe fatto anche di più. Lei aveva baciato Sweyn e Sweyn non
poteva morire: pensando alla salvezza di Sweyn lui non doveva cedere. Mai vi fu corsa come quella, nemmeno quando nell'antica Grecia un uomo e una fanciulla gareggiarono insieme con i loro destini come posta; poiché la velocità rimase costante per un'ora, poi per due, mentre le stelle sorgevano e tramontavano. Poi Cristiano vide e udì qualcosa che lo trafisse di paura. Là dove pochi alberi costeggiavano un declivio, qualcosa si mosse e ululò, e un'ombra nera si allargò sulla neve: era un branco di lupi all'inseguimento. Lui non avrebbe avuto paura delle bestie sole, convinto com'era di distanziarle in velocità, per quanto avessero quattro gambe. Ma temeva gli artifici di Pellicci Bianca, poiché nulla le impediva di avvalersi delle zanne feroci di quei lupi, suoi fratellastri naturali. Lei non fece alcun cenno agli animali, ma Cristiano, ubbidendo a un impulso e per assicurarsi che lei non gli sfuggisse, afferrò un lembo della sua pelliccia, sempre correndo. Lei si voltò con un ringhio, gli occhi furenti. L'ascia balenò nell'aria. Cristiano parò il colpo con lo spiedo, ma in modo incompleto, e l'ascia gli ferì il polso, costringendolo a mollare la presa. Proseguirono la corsa come prima, e Cristiano non perse terreno, sebbene la sua mano sinistra sanguinasse. Quel ringhio, per quanto addolcito da una gola femminile, la furia rivelata nel balenio degli occhi e dei denti, e la violenza con cui aveva vibrato l'ascia, distrassero Cristiano dal pensiero dei lupi che lo inseguivano da vicino, e si rese conto che un pericolo infinitamente maggiore lo precedeva, sotto le spoglie di quella Cosa mortale. Quando si voltò per guardarsi alle spalle, il branco si scostò bruscamente, e gli ululati degli inseguitori si mutarono in guaiti e gemiti. Tanto orrida era quella creatura per l'uomo e per le bestie. Si era avvolta più strettamente nella pelliccia, in modo che non ricadesse dietro di lei ma le giungesse appena alle ginocchia, senza con ciò spezzare il ritmo della sua splendida corsa. Teneva la testa alta come sempre, le labbra strette, le narici aperte. E non dava segno di stanchezza, nonostante lo sforzo implacabile. In Cristiano, invece, la fatica era evidente. La testa tendeva a ricadergli sul petto e il respiro gli usciva dalla bocca in stentati singhiozzi; lo spiedo da caccia gli sembrava un inutile peso. Il suo cuore pulsava come un martello, e un velo gli offuscava il cervello impedendogli di rendersi conto delle sue miserabili condizioni; ferito, disarmato, inseguiva quella Cosa che era una donna disperata e munita di accetta, e che poteva trasformarsi
da un momento all'altro in una belva con zanne ancora più pericolose. Le stelle, inclinandosi lentamente, indicavano che mancava un'ora a mezzanotte. La sua mente era così velata, che Cristiano ebbe l'impressione che Pelliccia Bianca fuggisse dalla posizione stellare, superandone il lento progredire con una corsa che ormai durava da giorni attorno al circolo polare, e che sarebbe durata all'infinito, a meno che lei rallentasse o che Cristiano cedesse. Ma lui non avrebbe ceduto. Da quanto tempo stava pregando perché le forze lo reggessero? Aveva cominciato quella corsa così fiducioso da non ritenere necessaria la preghiera; ora invece gli pareva l'unico modo per impedire che il cuore gli squarciasse il petto e che il suo cervello si obnubilasse del tutto. Un dolore acuto come un morso gli tormentava la mano sinistra ferita; non poteva liberarsene, ma pregò perché anche quello si alleviasse. Le limpide stelle in cielo rabbrividirono e Cristiano ne capì il perché: rabbrividivano vedendo ciò che stava dietro di lui. Lui non l'aveva mai intuito, prima, che le strane Cose si nascondessero agli occhi degli uomini assumendo la forma innocente di macchie d'alberi coperte di neve. Ma eccole che ora sgusciavano fuori dalle loro ingannevoli apparenze per seguirlo, e ridere della sua impotenza a strappare una Cosa sorella alla sue mentite spoglie. Lui sapeva che l'aria attorno a lui era affollata; udiva il ronzio di innumerevoli sussurri, ma i suoi occhi non potevano vederle, erano troppo agili e astute. Eppure non aveva dubbi sulla loro presenza; aveva visto monticelli di neve dileguarsi al suo passaggio; aveva visto gli alberi avvitarsi su se stessi in una immobilità che li rendeva irriconoscibili dietro i cespugli. Dopo quelle constatazioni, Cristiano notò che le stelle avevano ripreso il loro corso, e una coltre infinita di silenzio si era stesa sul mondo gelido e immobile, interrotta soltanto dal fruscio della falcata delle gambe che fuggivano, e di quelle che inseguivano, e dall'affannoso respiro di Cristiano. Per qualche istante egli capì che il suo unico scopo era di mantenere la velocità nonostante la fatica e il dolore, e di negare con ogni sua forza la possibilità che la donna gli sfuggisse o lo distanziasse prima della mezzanotte. Un incidente turbò il ritmo della corsa. Pelliccia Bianca fece un brusco balzo di lato e Cristiano, colto di sorpresa, si trovò a un passo da un pozzo, trascinato dal proprio impeto incontrollabile. Ma riuscì ad afferrarle il braccio destro, stringendolo saldamente nella propria mano, e rotolarono
assieme fin sul ciglio. L'istinto di autodifesa di Pelliccia Bianca fu così vigoroso, che bastò a controbilanciare lo slancio di Cristiano, trattenendo entrambi a un passo dal precipizio. Poi, prima che egli fosse certo di aver evitato la morte con un tuffo nel vuoto, vide la donna ergersi in uno scatto di pallida furia e, poiché il suo braccio destro era ancora imprigionato, con il sinistro vibrò un colpo d'ascia. L'impatto fu tanto violento da spezzare un osso del braccio di Cristiano, che ricadde impotente. Superando il dolore, il giovane balzò in avanti di nuovo, per recuperare i pochi metri di vantaggio che la donna si era già assicurata su di lui. Il pericolo evitato e l'improvviso smacco acuirono tutte le sue facoltà. Lui sapeva che ciò che stava inseguendo era senza dubbio una incarnazione della Morte; ferito e indebolito, era completamente alla sua mercé, se lei se ne fosse resa conto decidendo di approfittarne. Disperando ormai di riuscire a vendicare, o a salvare chicchessia, fu la forza della sua angoscia per la sorte di Sweyn che lo spinse a insistere nella corsa per precedere il suo gemello in quella morte segnata da un bacio. Doveva inseguire la Cosa fino alla mezzanotte, per vederla abbandonare quelle spoglie di donna, menzognere e seduttrici, e assumere quelle della bestia: ecco quanto restava dei suoi iniziali e ottimistici propositi. L'ultima ora prima della mezzanotte aveva perso metà dei suoi quarti e le stelle si innalzavano verso i minuti fatali, e di nuovo il suo cuore contratto, il suo cervello velato, e il dolore che gli trafiggeva entrambe le braccia, cospirarono per minare quella forza di volontà che, sola, gli permetteva di muovere i piedi. Il corpo di Pelliccia Bianca era così strettamente avvolto nel mantello che nemmeno un lembo di pelliccia si librava dietro di lei. Procedeva china in avanti, perdendo la compostezza eretta del vero corridore. A volte avanzava a balzi, affrettando l'andatura e costringendo Cristiano a sforzi disumani. Stupefatto, lui ormai dubitava della propria identità e della propria autentica forma. Lui non poteva essere veramente un uomo, come la Cosa sfuggente non era veramente una donna; lui aveva assunto l'aspetto di un uomo, ma che cosa vi si celasse dentro, non lo sapeva. E non sapeva nemmeno quale fosse la reale forma di Sweyn. Sweyn giaceva ai suoi piedi, là dove lui lo aveva colpito, suo fratello, lui! Era dovuto passare sul suo cor-
po per inseguire colei che aveva baciato Sweyn e che correva così veloce: «Sweyn... Sweyn.. Sweyn!». Perché le stelle non rabbrividivano più? Era certo giunta la mezzanotte! L'indomabile Cosa gli lanciò un'occhiata selvaggia e rise con scherno e trionfo. Cristiano ne capì il perché: entro pochi secondi, avrebbe potuto sfuggirgli per sempre. Da un lato il terreno sprofondava in un crepaccio ghiacciato; dall'altro si alzava una ripidissima parete di roccia; fra i due, c'era appena lo spazio per appoggiare un piede, ma non per reggere il peso di un corpo. Tuttavia, un cespuglio di ginepro, che si protendeva più in alto, offriva un buon appiglio per chi fosse stato abbastanza audace da aggrapparvisi per balzare oltre, verso la salvezza. Sebbene stessero trascorrendo gli ultimi secondi vitali, lei non resistette alla tentazione di lanciare quell'occhiata al suo inseguitore, e di ridere con disprezzo. Quella provocazione suscitò in Cristiano uno spasimo di volontà convulsa. Balzò in avanti, superò la donna prima che la sua risata si fosse spenta e le sbarrò il passo. Lei si precipitò su di lui, disperata; abbozzò una finta con il braccio destro, e poi scattò come una belva pronta ad uccidere. E lui, con un braccio sano e una mano impotente, e con una mano salda e un braccio rotto, riuscì a trattenerla. Caddero insieme. E, poiché sentiva che le forze gli sfuggivano dalle membra, Cristiano si aggrappò con i denti alla sua tunica, all'altezza delle ginocchia, proprio mentre Pelliccia Bianca credeva di averlo respinto. Rapida come il fulmine, afferrò l'ascia e lo colpì al collo, profondamente, una, due volte, e il sangue di lui schizzò fuori irrorandole i piedi. Le stelle toccarono la mezzanotte. L'urlo di morte che Cristiano udì non era uscito dalla sua bocca, che ancora stringeva la tunica. Fu un urlo che cominciò come strillo di donna e si chiuse sul guaito di una bestia. E, prima che l'oscurità scendesse sui suoi occhi morenti, Cristiano vide infatti la donna che lasciava il posto alla Cosa; o meglio la vita che lasciava il posto alla Morte, incomprensibilmente. Non avrebbe mai immaginato che nemmeno l'Acqua Santa avesse tanto potere di distruggere il male quanto il sangue sgorgato da un cuore puro in un atto di sacrificio e di devozione. La sua vera identità nascosta, che tanto aveva desiderato conoscere, divenne palpabile, identificabile. E gli apparve così: la grande, lieta, speranza di aver salvato il proprio fratello, troppo vasta per essere contenuta nella
forma di un unico uomo, cercava ora un'incarnazione infinita come le stelle. Di fronte a quella autentica realtà, che importanza aveva se il cervello dell'uomo affondò nel nulla, se il suo corpo non riuscì a sopportare il dolore del suo cuore e lo lasciò sfuggire dal rivolo rosso che gli sgorgava dal collo, se un velo nero cancellò per sempre la sua vista, l'udito, i sensi? Nell'alba grigia, Sweyn seguiva le orme di un uomo, di un uomo in corsa, come poté capire dal volume di neve spostata; e la direzione di quelle orme lo incuriosì, poiché più oltre si apriva un crepaccio. Anche la lunghezza della falcata attirò la sua attenzione: era esattamente simile alla sua. Capì allora che stava seguendo Cristiano. Preso dalla collera, si era illuso di rimanere indifferente all'assenza del fratello, prolungatasi ormai per tutta la notte; ma ora, vedendo le tracce di quella corsa disperata, fu colto da una sensazione di stupore e sgomento. Avrebbe dovuto aver più cura di quel suo povero, squilibrato gemello, che forse si era precipitato verso la morte. Il suo cuore sussultò quando giunse nel punto dove il crepaccio era stato superato con un balzo. Sweyn aggirò l'ostacolo e, tornato sull'altro lato, vide che le orme continuavano in linea retta. Sweyn esitò riflettendo; era irritato perché un uomo era riuscito a compiere quel balzo là dove lui non si era arrischiato a seguirlo; e seccato per essersi lasciato sopraffare da penose emozioni cercando invano di indovinare quale scopo perseguisse Cristiano nel lanciarsi in una simile impresa. Seguì quindi ancora le tracce del fratello, finché giunse al punto in cui le orme si raddoppiavano. Le seconde erano più piccole: erano orme di donna, sebbene la falcata apparisse più ampia di quanto di solito le gonne femminili consentissero. E se fosse stata Pelliccia Bianca? Un orrendo sospetto lo colse, così pauroso che si sforzò di non crederci. Eppure il suo viso divenne grigio come la cenere, e respirò con affanno per acquietare i battiti del suo cuore. Incredibile? Un esame più accurato gli rivelò che la donna aveva a un tratto aumentato la sua velocità, poiché le orme erano più profonde in corrispondenza della noce del piede, e più leggere in corrispondenza del tallone. Incredibile? C'era un'altra donna all'infuori di Pelliccia Bianca che potesse correre così? Il dubbio divenne certezza: stava seguendo le tracce lasciate da Pelliccia Bianca mentre fuggiva davanti a Cristiano. Quel crimine gli infiammò il cuore e il cervello, colmandoli di indigna-
zione. Un tale crimine commesso dal fratello, finora tanto amabile e lodevole, ma pazzo nella sua debolezza! Avrebbe ucciso Cristiano; anche se avesse avuto tante vite quante le orme lasciate sulla neve, gliele avrebbe strappate tutte, perché così voleva la sua sete di vendetta. In una tempesta di odio omicida continuò speditamente, guidato dalle orme che spiccavano chiarissime. Coprì un miglio dopo l'altro col petto ansante; ancor più tragica, degna di rispetto, gli sembrava quella splendida prova di Pelliccia Bianca che aveva retto tanto a lungo senza lasciarsi superare dalla famosa velocità di Cristiano. L'amore e l'ammirazione di Sweyn crebbero a dismisura, e con essi il dolore e la rabbia. Là dove le tracce erano inconfondibili, correva con tale prodigalità da sfiancarsi, e poi a tratti si trascinava pesantemente; a volte perdeva di vista le orme sul ghiaccio di uno stagno o in un punto battuto dal vento; ma tanto diritta era stata la linea seguita da Cristiano e da Pelliccia Bianca, che poco più oltre Sweyn ricuperava la loro pista. Trascorsero le ore fino alla metà di quel giorno d'inverno, e Sweyn giunse nel luogo dove la neve appariva calpestata da molte zampe, che si avvicinavano e di nuovo si allontanavano. Lupi! Lupi in caccia che avevano rinunciato alla preda! Che cosa incredibile! Poco più oltre trovò lo spiedo da caccia di Cristiano. La neve era macchiata di sangue, ma le tracce riprendevano ancora. Un rauco grido di esultanza uscì dalle labbra di Sweyn: «Ah, Pelliccia Bianca, mio povero, eroico amore! Hai vibrato un bel colpo!». La vista del sangue lo eccitò quasi fosse un animale da preda. Impazziva per il desiderio di stringere Cristiano alla gola fino all'ultimo respiro, o di picchiarlo, pugnalarlo a morte, o di farlo a pezzi, e allora, soltanto allora, avrebbe pianto come un bambino, come una fanciulla, sull'ingrata sorte del suo povero amore perduto. Avanti, ancora avanti, teso sulle tracce di quei due superbi corridori, stupefatto per la loro forza di resistenza, ma ignaro della loro velocità, poiché avevano coperto nelle tre ore prima della mezzanotte la distanza da lui percorsa tra un crepuscolo e l'altro. La luce del giorno ormai scemava quando giunse a un vecchio pozzo e vide come quei due avessero lottato disperatamente per evitare di precipitarvi. Nuove macchie di sangue lo spinsero all'odio contro il suo infame fratello; e le seguì fino al punto in cui, coagulato dal freddo, il sangue aveva smesso di gocciolare dalla ferita; si rallegrò a quella prova che dimostrava come Cristiano fosse stato lacerato profondamente, sentendo sorge-
re in sé il desiderio di colpirlo di nuovo e più efficacemente per appagare la sua brama omicida. Cominciò tuttavia a intuire che in tanta disperazione aveva tenuto vivo un germe di speranza e che ora tale germe si stava dilatando alimentato dal sangue del fratello. Proseguì quasi alla cieca, mosso ora da un accesso di speranza, ora da un accesso di angoscia, spasmodicamente teso verso la meta, per quanto terribile fosse, e oppresso dalla stanchezza di tutte le miglia percorse per giungervi. E la luce scivolò via dal cielo, lasciando il posto alle incerte stelle. Sweyn arrivò alla fine del suo inseguimento. Due corpi giacevano in poco spazio. Uno era quello di Cristiano, ma l'altro non era quello di Pelliccia Bianca. Là dove le sue orme cessavano, si trovava un grande lupo bianco. A quella vista la forza di Sweyn ricevette un colpo terribile; la sua anima e il suo corpo stramazzarono gemendo. Le stelle brillavano limpide e intense quando le sue membra immobili ebbero un brivido di coscienza. Debolmente si trascinò accanto al fratello morto, posò le mani su di lui, e rimase in quella posizione, senza osare guardare oltre. Era freddo, rigido, morto da ore. Eppure, quel cadavere era il suo unico riparo in un momento tanto orribile. L'anima di Sweyn, messa a nudo, tremava, aggrappandosi al cadavere con il suo bisogno di aiuto. Poi Sweyn si rizzò in ginocchio, sollevando il cadavere. Cristiano era caduto nella neve a faccia in giù, le braccia spalancate, e così il gelo lo aveva irrigidito. Era una posizione bizzarra, orrenda, resistente alla pressione di Sweyn, che lo depose di nuovo e si chinò per afferrarlo più in basso, con un lungo gemito partito dal cuore. Quando infine trovò la forza per sollevare il corpo del fratello e reggerlo tra le braccia, ben stretto al suo petto, cercò di affrontare la Cosa che giaceva più oltre. Quella vista gli riempì le membra di orrore e di paura. I sensi gli sarebbero venuti meno per pura codardia, se non avesse attinto energia dalle spoglie di Cristiano; così costrinse i suoi occhi a reggere allo spettacolo, e il suo cervello a registrare l'aspetto della Cosa. Non presentava nessuna ferita, soltanto sangue ai suoi piedi. Le forti mascelle, contratte in un selvaggio sogghigno, erano irrigidite dalla morte. E il suo bacio... non riuscì più a tollerare quello spettacolo, e si voltò senza guardarsi alle spalle. Il morto che reggeva tra le braccia, pur avendo piena coscienza di quel-
l'orrore, l'aveva seguito e affrontato per amor suo. Per amor suo aveva accettato l'agonia e la morte; sul suo collo si apriva un'atroce ferita, e un braccio e una mano erano coperti di sangue. Per amor suo! Lo conosceva soltanto ora da morto, come mai lo aveva conosciuto in vita: pronto a dare tutto se stesso per amore e per devozione. Ora Sweyn agognava all'annichilimento, pur di cancellare il tormento di sapersi tanto indegno di un amore così forte. La gelida pace della morte su quel viso lo affascinava. Non osò sfiorarlo con le labbra che ormai malediceva, le labbra insozzate dal bacio di quell'orrore che era stata la Morte. Si alzò faticosamente in piedi, sempre reggendo Cristiano. Il cadavere rimase rigido, gli occhi non completamente aperti, la testa un poco inclinata di lato, e le braccia spalancate. Era l'immagine di un crocifisso, e le sue mani insanguinate lo confermavano. Così il vivo e il morto ripercorsero quella pista che l'uno aveva affrontato in uno slancio d'amore e l'altro in uno slancio di odio. Per tutta la notte Sweyn arrancò nella neve, reggendo il peso del cadavere di Cristiano, ricalcando le orme che aveva seguito odiando e maledicendo con furia omicida quel fratello che, nel frattempo, aveva dato la vita per lui. IL LUPO Le Luop di Guy De Maupassant 1882 Ecco quel che ci raccontò il vecchio Marchese d'Arville, al termine del pranzo di Sant'Uberto in casa del Barone des Ravels. Durante la giornata avevamo ridotto agli estremi un cervo. Il Marchese era il solo fra i commensali che non avesse partecipato alla caccia, perché non lo faceva mai. Per tutta la durata della lunga cena, non avevamo fatto altro che parlare di stragi di animali. Persino le signore si interessavano ai racconti sanguinari e spesso inverosimili; chi raccontava dava anche una rappresentazione mimica degli attacchi e delle lotte contro gli animali, agitava le braccia e faceva rimbombare la voce. Il Signor d'Arville parlava con proprietà, persino con qualche tono poetico anche se un po' retorico, ma pieno d'effetto. Chissà quante volte aveva ripetuto la narrazione della storia perché la esponeva con fluidità, senza esitare, su parole scelte abilmente per suggerire vive immagini.
«Signori, io non sono mai andato a caccia, mio padre nemmeno, e neanche il nonno e il bisnonno. Questi era figlio d'un uomo che era stato un cacciatore più accanito di tutti voi. Morì nel 1764 e vi dirò in che modo. Si chiamava Jean, era sposato e padre d'un ragazzo che è stato il mio trisavolo. Abitava insieme al fratello minore, François, un nostro castello in Lorena, in mezzo a una foresta. François d'Arville non si era sposato per la passione della caccia. Dal primo all'ultimo giorno dell'anno, i due fratelli andavano a caccia senza tregua e senza stancarsene mai. Amavano soltanto la caccia, non comprendevano che la caccia, non parlavano d'altro e vivevano solo per essa. Nei loro animi c'era solo questa passione terribile, inesorabile. Li bruciava, li dominava totalmente, non lasciando posto per altro. Avevano proibito a chiunque di disturbarli quand'erano a caccia, qual che ne fosse il motivo. Il mio trisavolo era nato mentre suo padre cacciava la volpe. Jean d'Arville non interruppe la rincorsa, ma imprecò: "Accidenti! quel cretino avrebbe potuto aspettare l'hallalì!". Suo fratello François si mostrava ancora più appassionato di lui. All'alba andava a vedere i cani, passava poi ai cavalli, e quindi sparava qualche colpo ai volatili nei dintorni del castello sino al momento di andare a inseguire qualche animale di grossa taglia. In paese li chiamavano "il Signor Marchese" e "il Signor Cadetto" poiché, per la nobiltà d'una volta, non si faceva questione, come per i nobili di recente nomina, per i quali oggi s'è soliti stabilire una gerarchia verso il basso; infatti il figlio d'un Marchese non è più Conte, né quello d'un Visconte Barone, né il figlio d'un Generale Colonnello sin dalla nascita. Ma la meschina vanità del giorno d'oggi trova qualche vantaggio in questi compromessi. Torno ai miei antenati. Erano, così dicono, molto alti, d'ossatura enorme, pelosissimi, violenti e vigorosi. Il Cadetto, ancora più alto del Maggiore, aveva una voce tanto robusta che, secondo una leggenda di cui era orgoglioso, non c'era foglia nella foresta che non tremasse se si metteva a gridare. E quando tutti e due salivano a cavallo per andare a caccia, vedere quei due giganti inforcare gli arcioni sui loro purosangue doveva essere uno spettacolo superbo. Ora, verso la metà dell'inverno del 1764, il freddo fu talmente eccezionale che i lupi divennero feroci. Attaccavano i contadini isolati, la notte gi-
ravano attorno ai casolari, urlavano dal tramonto all'alba e massacravano tutte le bestie nelle stalle. Ben presto si sparse la voce d'un lupo colossale, dal pelame grigio chiaro, quasi bianco, che aveva divorato due piccini, azzannato il braccio a una donna, sgozzato tutti i cani da guardia del villaggio e che s'infilava senza paura sotto i recinti per venire a fiutare presso le porte. Tutti i contadini dicevano d'aver sentito il suo soffio potente che faceva tremolare la luce delle candele. L'intera provincia ne era terrorizzata. Appena faceva notte, nessuno aveva più il coraggio d'uscire di casa. Le tenebre sembravano essere la magica dimora dell'animale. I fratelli d'Arville decisero di stanarlo e di ucciderlo. Invitarono a questa caccia tutti i nobili della zona. Inutilmente. Per quanto si battessero i boschi e si frugasse ogni macchia, non lo s'incontrò mai. Furono uccisi dei lupi, ma non quello. E tutte le notti che seguivano quelle battute, come se avesse voluto vendicarsi, l'animale attaccava qualche viandante o faceva strage di bestiame sempre in posti lontani da dove lo avevano cercato. Una notte riuscì a penetrare nel porcile del castello d'Arville e divorò i due esemplari più pregiati. Incolleriti, i due fratelli considerarono il fatto come una sfida del mostro, come un'offesa diretta a loro. Presero tutti i segugi più robusti e abituati alla caccia grossa e si misero a caccia con l'animo pieno di furore. Dall'alba al momento in cui il sole imporporato si cela dietro i grandi alberi spogli, batterono la foresta là dov'è più fitta senza trovarlo. Alla fine tutti e due, furiosi e depressi, stavano tornando al passo dei cavalli percorrendo un viale bordato da alti cespugli, e si stupivano d'esser stati depistati da quel lupo, presi all'improvviso da un timore immotivato. Il Maggiore affermava: "Non è una bestia come le altre. Si direbbe che è capace di pensare come un uomo". Gli rispose il Cadetto: "Forse dovremmo far benedire un proiettile dal Vescovo nostro cugino, oppure pregare qualche prete di dire le parole opportune". Poi tacquero. Jean riprese: "Guarda com'è rosso il sole. Questa notte il grande lupo procurerà qualche disgrazia". Non aveva finito di parlare, quando il cavallo gli si impennò, mentre
quello di François prese a scalciare. Una siepe coperta da foglie secche s'abbatté davanti a loro e apparve una colossale bestia grigia che s'inoltrò subito nel bosco. I due fratelli lanciarono un rauco grido di gioia e, curvandosi sull'incollatura dei loro forti cavalli, si buttarono in avanti e spinsero con tutto il peso dei loro corpi; li lanciarono a una tale andatura, incitandoli, spronandoli in un delirio di gesti, di richiami, di pungolamenti talmente sfrenato, che quei robusti cavalieri sembravano sostenere pesanti animali tra le cosce e sollevarli come se stessero per volare. Corsero così, ventre a terra, distruggendo gli arbusti, scavalcando i fossati, superando i pendii, calandosi nelle forre e suonando il corno a pieni polmoni dietro ai servi e ai cani. Ed ecco che in quella cavalcata a perdifiato il mio antenato andò a battere con la fronte contro un ramo enorme che gli spaccò il cranio; e cadde a terra morto sul colpo, mentre il cavallo imbizzarrito s'era adombrato ed era sparito nel buio della foresta. Il minore dei d'Arville si fermò di colpo, saltò a terra, prese il fratello tra le braccia e si rese conto che dalla ferita fuoriusciva della materia cerebrale mista al sangue. Si sedette allora accanto a quel corpo, poggiò sui suoi ginocchi quel capo sfigurato e vermiglio e aspettò contemplando il volto immobile del fratello maggiore. A poco a poco fu preda della paura, una paura strana che non aveva ancora mai provato, paura del buio, della solitudine, della foresta deserta e anche di quel lupo stregato che era stato la causa della morte del fratello per vendicarsi di loro. Le tenebre infittivano, e il freddo acuto faceva scricchiolare gli alberi. Rabbrividendo, François si rialzò, incapace di rimanere più a lungo in quel luogo e rendendosi conto che stava per venir meno. Non s'udiva più niente, né guaiti di cani, né suoni di corno, tutto era silente fino all'invisibile orizzonte; e questo silenzio tetro della gelida sera aveva qualcosa di spaventevole e di innaturale. Prese tra le sue mani da gigante il corpo di Jean, lo sollevò e lo sistemò di traverso sulla sella per poterlo riportare al castello; poi riprese lentamente il cammino, con l'animo sconvolto come se fosse ebbro, incalzato da immagini orrende e sorprendenti. All'improvviso, sul sentiero invaso dal buio notturno, passò un corpo gigantesco. Era il lupo. Un fremito di spavento scosse il cacciatore, qualcosa di freddo, come una goccia d'acqua, gli scivolò sulla schiena e, come un
monaco tentato dal demonio, egli si fece un gran segno di croce, perdendosi d'animo per l'inatteso ritorno della belva raminga. Ma gli occhi gli si posarono sul corpo inerte steso davanti a lui e subito, con brusco passaggio dal timore all'ira, fu scosso da un fremito di incontenibile rabbia. Così pungolò il cavallo e si lanciò dietro il lupo. Lo seguì nel bosco ceduo, nei torrenti, nelle foreste più fitte, traversando zone che non riconosceva più, con l'occhio fisso sulla macchia bianca che stava fuggendo nella notte scesa sulla terra. Anche il suo cavallo sembra animato da una forza e un ardore nuovi. Andava al galoppo col collo teso in linea retta davanti a sé urtando alberi e rocce, mentre la testa e i piedi del morto penzolavano dalla sella. I rovi s'aggrovigliavano alla criniera, il muso sfiorava enormi tronchi macchiandoli di sangue, e gli speroni strappavano lembi di scorza dagli alberi. D'improvviso, cavallo e cavaliere uscirono dalla foresta e piombarono in un vallone, mentre la luna faceva la sua apparizione da sopra i monti. Era un vallone pietroso, chiuso da enormi rocce, senza uscite possibili, e allora il lupo, ridotto alle strette, tornò indietro. François lanciò un grido di gioia che l'eco ripeté simile al rombo del tuono, e saltò giù da cavallo, col pugnale in mano. L'irsuta bestia, dalla schiena rotonda, lo stava aspettando. I suoi occhi luccicavano come stelle. Ma, prima d'iniziare la lotta, il cacciatore, dopo aver abbrancato il fratello, lo depose su una roccia e, sostenendone la testa ridotta a un ammasso sanguinolento con qualche sasso, gli gridò nelle orecchie come se avesse parlato a un sordo: "Guarda guarda adesso!". Poi si buttò addosso al mostro. Si sentiva capace di buttar giù una montagna, di spezzare una pietra con le mani. La bestia tentò di azzannarlo, cercando di sfondargli il ventre, ma già lui l'aveva afferrata al collo e la strangolava lentamente, soffermandosi ad ascoltarne gli aneliti e i battiti del cuore. E rideva con una gioia atroce mentre aumentava gradatamente la sua formidabile presa e gridava come in delirio: "Guarda, Jean, Guarda!". Ogni resistenza poi cessò; il corpo del lupo s'afflosciò. Era morto. Allora François lo sollevò con le braccia e lo andò a gettare ai piedi del fratello ripetendo con voce piena di tenerezza: "Guarda, guarda Jean: eccolo qui". Rimise quindi sulla sella i cadaveri, l'uno sull'altro. E tornò indietro. Rientrò nel castello ridendo e piangendo contemporaneamente come
Gargantua alla nascita di Pantagruel; lanciava urla trionfali con l'impazienza di chi è molto allegro quando riferiva la morte del fratello. Anni dopo, parlando ancora di quella sera, diceva con le lacrime agli occhi: "Se soltanto quel povero Jean avesse potuto vedere come l'ho strangolato, sarebbe morto felice, ne sono certo". La vedova del mio antenato ispirò al figlio rimasto orfano quell'orrore per la caccia che si è trasmesso sino a me.» Il Marchese d'Arville tacque. Qualcuno domandò: «Questa storia è una leggenda, non è vero?». E il narratore rispose: «Vi giuro che è vera: totalmente». Allora una donna dichiarò con un fil di voce lieve: «Non ha importanza, è bello avere passioni così forti». IL MARCHIO DELLA BESTIA The Mark Of The Beast di Rudyard Kipling The Pioneer (Allabahad), 12 e 14 luglio 1890 I tuoi e i miei Dèi: chi di noi sa quali sono i più forti? Proverbio indigeno A est della città di Suez, dicono alcuni, cessa il controllo della Provvidenza. In quelle zone l'uomo è lasciato in balia degli Dèi e dei Diavoli dell'Asia, e la Provvidenza della Chiesa d'Inghilterra esercita solo di tanto in tanto un controllo abbastanza parziale sui destini degli Inglesi. Questa teoria spiega alcuni aspetti della vita in India: e può servire a dare in parte una spiegazione di questa vicenda. Il mio amico Strickland fa parte del Corpo di Polizia, e conosce gli indigeni quanto qualsiasi altro; egli può testimoniare a proposito degli eventi verificatisi. Dumoise, il nostro dottore, ha visto anche lui ciò di cui Strickland e io siamo stati testimoni. Tuttavia, le conclusioni che egli ha tratto, sono del tutto errate. Ormai è morto, è morto in una maniera piuttosto curiosa, che è stata descritta altrove. Quando Fleete giunse in India, possedeva un gruzzoletto e della terra sull'Himalaya, nei pressi di un luogo chiamato Dharmsala. Entrambi gli erano stati lasciati da uno zio, e lui era venuto per occuparsi dell'ammini-
strazione di quelle proprietà. Era un uomo di grossa corporatura, piuttosto pesante, di carattere amabile e inoffensivo. Le sue conoscenze circa la popolazione locale erano piuttosto limitate, e si lamentava delle difficoltà che incontrava nel cercare di comprenderne la lingua. A Capodanno scendeva a cavallo dalla sua tenuta tra le colline per festeggiare l'Anno Nuovo alla stazione, e alloggiava a casa di Strickland. L'ultimo dell'anno vi era una grande cena al Club, dove naturalmente il grado di euforia alcolica era sempre piuttosto alto. Quando gli uomini si radunano dagli angoli più lontani dell'Impero, hanno il diritto di prendersi delle libertà. La Polizia di Frontiera aveva inviato un drappello di ufficiali che non aveva visto più di venti bianchi in un anno intero e che erano abituati a cavalcare per quindici miglia per poter cenare nel fortino più vicino rischiando di ricevere una pallottola dai Khyber invece dell'aperitivo. Essi mostrarono di godere della sicurezza riacquistata: infatti tentarono di giocare a biliardo con un riccio arrotolato che avevano trovato nel giardino, e uno di loro portò la «palla bianca» in trionfo tenendola tra i denti. Una mezza dozzina di piantatori venuti dal Sud, parlavano con il Più Grande Bugiardo d'Asia, che tentava di superare le loro storie fantastiche raccontando contemporaneamente diverse storie ancora più incredibili delle loro. Erano venuti tutti. In quell'atmosfera si fraternizzava, e si contavano le perdite - dovute a morte e invalidità - di coloro che mancavano all'appello rispetto all'anno precedente. Era una notte di grande baldoria, e ricordo che cantammo «Il Valzer delle Candele» con i piedi nella Coppa del Campionato di Polo e le teste tra le stelle, e giurammo di essere amici per sempre. Poi, alcuni di noi se ne andarono ad annettere la Birmania, mentre altri tentavano di aprire il Sudan alla penetrazione bianca e furono invece aperti in due dagli indigeni in quella orribile mischia fuori Suakim; alcuni ottennero stelle e medaglie, altri si sposarono - e ciò fu un male - mentre altri fecero cose ancora peggiori. Altri infine rimasero prigionieri delle stesse catene e tentarono di far soldi nonostante la nostra esperienza fosse del tutto insufficiente. Fleete iniziò la serata bevendo sherry e bitter, bevve champagne regolarmente fino al dessert, poi passò al vino di Capri; pieno di whisky, prese il caffè con il Benedictine, altri quattro o cinque whisky e soda per migliorare i suoi colpi al tavolo da biliardo, birra alle due e mezza, e finì poi con del vecchio brandy.
Quando uscì dal Club alle tre e mezza della mattina, e si trovò a fronteggiare una gelata da quattordici gradi sotto zero, si irritò molto con il suo cavallo per aver tossito, e tentò di salire in sella saltando alla cavallina. Il cavallo s'imbizzarrì e corse via diretto verso la sua stalla. E così, Strickland e io formammo una Guardia del Disonore, per riportare Fleete a casa. Dovevamo passare attraverso il bazar accanto a un piccolo tempio dedicato ad Hanuman, il Dio Scimmia, la divinità più importante e degna di rispetto del luogo. Tutti gli Dèi hanno delle caratteristiche favorevoli, e tutti hanno i loro Sacerdoti. Per quanto mi riguarda, io do una grande importanza ad Hanuman e sono ben disposto verso la sua gente: le grandi scimmie grigie delle colline. Non si può mai sapere quando può tornare utile un amico. Mentre passavamo, scorgemmo una luce accesa nel tempio, e udimmo alcune voci di uomini che cantavano inni. In un tempio indigeno, i sacerdoti si svegliano a tutte le ore durante la notte per onorare il loro Dio. Prima che potessimo fermarlo, Fleete era corso su per i gradini, era entrato e, dando delle pacche sulle spalle dei due Sacerdoti, schiacciò il sigaro contro la fronte rosseggiante della statua di pietra di Hanuman. Strickland tentò di trascinarlo fuori, ma lui si sedette a terra e disse solennemente: «Vischto? Il Scegno della B-besctia! L'ho fatto io. Non è belliscimo?». In un istante il tempio divenne affollato e rumoroso, e Strickland, che sapeva quali conseguenze comportassero simili profanazioni, disse che sarebbero potute accadere delle cose spiacevoli. A causa della sua posizione di pubblico ufficiale e della sua lunga permanenza nel paese, nonché della sua tendenza di mischiarsi alla popolazione, i Sacerdoti lo conoscevano, e lui quindi si sentiva a disagio. Fleete si sedette a terra e rifiutò di muoversi. Disse che «il buon vecchio Hanuman» era un buon cuscino morbido. Poi, all'improvviso, un Uomo d'Argento uscì da una nicchia dietro la statua del Dio. Era del tutto nudo nonostante il freddo intenso, e il suo corpo riluceva come l'argento, poiché era uno di quelli che la Bibbia chiama «un lebbroso bianco come la neve». Inoltre non aveva un viso, poiché era ormai lebbroso da molti anni e la sua malattia lo aveva segnato profondamente. Ci chinammo per rimettere in piedi Fleete, mentre il tempio si riempiva di gente, spuntata dal nulla. Ma, all'improvviso, l'Uomo d'Argento ci corse incontro e, facendo un verso simile al miagolio di una lontra, abbracciò Fleete, abbandonando la testa sul suo petto prima che potessimo impedirglielo. Poi si ritirò in un angolo e rimase a miagolare mentre la folla bloc-
cava tutte le uscite. Fino a quel momento i Sacerdoti erano stati molto adirati. Ma, quando l'Uomo d'Argento toccò Fleete, parvero riprendersi. Dopo alcuni minuti di silenzio, uno dei Sacerdoti si avvicinò a Strickland e disse in perfetto inglese: «Porta via il tuo amico. Lui ha finito con Hanuman, ma Hanuman non ha finito con lui». Nella folla si aprì quindi un varco, e riuscimmo a portare Fleete in strada. Strickland era molto arrabbiato. Disse che avremmo potuto essere tutti e tre accoltellati, e che Fleete avrebbe dovuto ringraziare la sua buona stella per essere scampato incolume. Fleete non ringraziò nessuno. Disse che voleva andare a letto: era sotto l'effetto di una sbronza monumentale. Riprendemmo il cammino. Strickland era silenzioso e adirato. Poi Fleete fu preso da violenti brividi, e si ricoprì di sudore: disse che gli odori del bazar gli procuravano una gran nausea, e che si meravigliava del fatto che fosse permesso ai macelli di sorgere così vicini alle case degli Inglesi. «Non sentite l'odore del sangue?», chiese. Finalmente lo mettemmo a letto, mentre fuori sorgeva l'alba. Strickland mi invitò a bere un altro whisky e soda. Mentre bevevamo, lui parlò dell'incidente accaduto presso il tempio, e ammise che lo aveva totalmente disorientato. Strickland non sopporta l'idea di essere disorientato dal comportamento della gente locale: infatti il suo mestiere nella vita è quello di batterli sul loro stesso terreno. Ancora non è riuscito nel suo intento ma, tra quindici o venti anni, potrebbe aver compiuto qualche piccolo passo in avanti. «Avrebbero potuto dilaniarci», disse, «invece di miagolare. Mi chiedo cosa possa significare. Non mi piace affatto.» Dissi che il Comitato di Gestione del Tempio avrebbe probabilmente intentato una causa contro di noi per aver insultato la loro religione. Vi era una sezione del Codice Penale Indiano che contemplava proprio il tipo di reato commesso da Fleete. Strickland disse che sperava e pregava che avrebbero fatto proprio così. Prima di andarmene, gettai uno sguardo alla stanza di Fleete, e lo vidi sdraiato sul lato destro, mentre si grattava il bicipite sinistro. Poi andai a letto. Avevo freddo, ero depresso e infelice, ed erano le sette della mattina. All'una uscii a cavallo diretto verso la casa di Strickland per avere notizie sui postumi della sbornia di Fleete. Di sicuro sarebbe stata una sbornia
di dimensioni notevoli. Fleete stava facendo colazione. Non aveva una bella cera. Sembrava aver perso la pazienza e inveiva contro il cuoco il quale non gli aveva ancora servito una bistecca di maiale al sangue. Un uomo capace di mangiare carne cruda dopo una notte di stravizi, è un fenomeno degno di nota. Lo dissi a Fleete e lui rise. «Avete delle zanzare ben strane da queste parti», disse. «Sono stato mangiato vivo, ma solo in un punto.» «Vorrei dare un altro sguardo al punto in cui ti hanno morso», disse Strickland. «Forse adesso sarà guarito.» Mentre si cucinavano le bistecche, Fleete aprì la camicia e ci mostrò che appena al di sopra del bicipite sinistro vi era un segno: una copia perfetta delle macchie nere - le cinque o sei macchie irregolari disposte in circolo tipiche del manto del leopardo. Strickland guardò il segno poi disse: «Era solo rosa questa mattina. Adesso è diventato nero». Fleete corse verso lo specchio. «Per Giove!», esclamò. «Allora è una cosa grave! Di che si tratta?» Non potevano rispondergli. A quel punto arrivarono le bistecche, tutte rosse e sugose, e Fleete ne divorò tre in maniera molto sgarbata. Mangiava solo con i denti situati sul lato destro della mascella, la testa rivolta verso la spalla destra mentre dilaniava la carne. Quando ebbe finito, si rese conto di essersi comportato stranamente, e si scusò: «Non credo di essermi mai sentito tanto affamato in vita mia. Mi sono abbuffato come uno struzzo». Dopo pranzo, Strickland mi disse: «Non te ne andare. Rimani qui: rimani a dormire qui stanotte». Dal momento che la mia casa non distava più di tre miglia da quella di Strickland, quella richiesta mi parve assurda. Ma Strickland insistette, ed era sul punto di aggiungere qualcosa, quando Fleete lo interruppe e dichiarò con un certo ritegno di avere ancora fame. Strickland mandò un uomo a casa mia per prendere le mie cose e un cavallo, e noi tre scendemmo nelle scuderie per passare il tempo fin quando fosse stata l'ora di uscire a fare una cavalcata. Chi ama i cavalli non si stanca mai di ispezionarli e, quando due uomini passano il tempo in questo modo, raccolgono nuove conoscenze e bugie l'uno dall'altro. Nelle scuderie vi erano cinque cavalli, e non dimenticherò mai il momento in cui cercammo di avvicinarci a loro per guardarli. Sembravano impazziti. S'imbizzarrivano e nitrivano, e riuscirono quasi a strappare via i picchetti ai quali erano legati. Sudavano, tremavano, ed erano coperti di
schiuma; sembravano impazziti dal terrore. I cavalli conoscevano Strickland quanto i suoi cani, e questo rendeva la cosa ancora più strana. Lasciammo le scuderie preoccupati della possibilità che quelle bestie si azzoppassero in preda al panico, poi Strickland tornò indietro e mi chiamò. I cavalli erano ancora impauriti, ma ci permisero di carezzarli e di coccolarli, e appoggiarono i loro musi contro il nostro petto. «Non hanno paura di noi», disse Strickland. «Sai: darei tre mesi di paga per sentire cosa avrebbe da dire Outrage.» Ma Outrage era muto e poteva solo rannicchiarsi contro il suo padrone e soffiare attraverso le froge, come fanno i cavalli quando vorrebbero spiegare qualcosa ma non possono. Fleete si avvicinò mentre eravamo ancora nelle stalle. Non appena i cavalli lo videro, il terrore tornò a farli impazzire. Riuscimmo a malapena a fuggire senza che ci prendessero a calci. Strickland osservò: «Sembra che non ti amino, Fleete». «Sciocchezze!», disse Fleete. «La mia giumenta mi segue come un cane.» Si avvicinò quindi al suo cavallo che si trovava nel padiglione aperto. Ma, non appena oltrepassò le sbarre, quella caricò, facendolo cadere a terra, e scappò via, diretta verso il giardino. Io risi, ma Strickland non ne fu affatto divertito. Si afferrò i baffi con entrambe le mani, e li tirò fin quasi a strapparseli. Fleete, invece di andare ad inseguire ciò che gli apparteneva, sbadigliò, e disse che si sentiva assonnato. Poi rientrò in casa per sdraiarsi e dormire. Un modo molto sciocco di passare il Capodanno. Strickland si sedette con me nelle scuderie e mi chiese se avessi notato qualcosa di particolare circa il comportamento di Fleete. Risposi che mi pareva che mangiasse come un animale, ma questo avrebbe potuto essere il risultato della vita solitaria sulle colline lontano dalla compagnia raffinata ed edificante quale era la nostra. Strickland non parve divertito. Non credo che mi stesse ascoltando: infatti, il commento che fece subito dopo, riguardava il segno sul petto di Fleete. Risposi dicendo che poteva trattarsi di tafani. O che poteva essere un neo appena nato e visibile ora per la prima volta. Entrambi ci trovammo d'accordo sul fatto che fosse piuttosto sgradevole alla vista, e Strickland ebbe l'occasione di dirmi che ero uno sciocco. «Non posso dirti ora quello che penso», disse, «perché diresti che sono uno stupido. Ma devi rimanere con me per i prossimi giorni, se puoi. Vo-
glio che tu osservi Fleete, ma non dirmi quel che pensi fino al momento in cui decido di chiedertelo.» «Ma io ceno fuori stasera», risposi. «Anch'io», disse Strickland, «e anche Fleete. A meno che non cambi idea.» Camminammo in giardino, fumando, ma senza aggiungere nulla - perché eravamo amici, e perché i discorsi rovinano il buon tabacco - finché le nostre pipe non furono spente. Poi andammo a svegliare Fleete. Era già sveglio e si agitava muovendosi per la stanza irrequieto. «Dico io, ho di nuovo voglia di bistecche», esordì. «Posso averne?» Ridemmo, dicendogli: «Vai a cambiarti. I pony saranno qui tra qualche minuto». «Va bene», disse Fleete. «Verrò, quando avrò avuto le mie bistecche... al sangue, naturalmente.» Sembrava che stesse parlando sul serio. Erano le quattro del pomeriggio, e avevamo mangiato all'una. D'altra parte, era da molto tempo che ci chiedeva bistecche al sangue. Poi si mise i vestiti per andare a cavallo e uscì sulla veranda. La sua giumenta non era stata ancora ripresa, e il suo pony non gli permetteva di avvicinarsi. Tutti e tre i nostri cavalli erano imbizzarriti - impazziti dalla paura - e finalmente Fleete disse che sarebbe rimasto a casa e si sarebbe procurato qualcosa da mangiare. Strickland e io uscimmo, riflettendo sull'accaduto. Mentre passavamo davanti al tempio di Hanuman, l'Uomo d'Argento uscì e miagolò verso di noi. «Dev'essere uno dei Sacerdoti addetti al tempio», disse Strickland. «Credo che proverei un particolare piacere nel mettergli le mani addosso.» Non fu una gran galoppata quella sera all'ippodromo. I cavalli erano stanchi e si muovevano lentamente, come se avessero galoppato tutto il giorno. «È stato a causa della paura che si sono presi questa mattina», osservò Strickland. Questo fu il solo commento che fece durante l'intera cavalcata. Un paio di volte imprecò sottovoce, credo; ma quello non contava. Quando tornammo era già buio, e vidi che non vi erano luci accese nel bungalow. «I miei servi sono dei lazzaroni!», disse Strickland. Il mio cavallo si arrestò di scatto, sorpreso da qualcosa che aveva scorto sul sentiero dinanzi a noi. Fleete si alzò in piedi proprio davanti al suo muso.
«Cosa fai, grufoli in giardino?», disse Strickland. Ma entrambi i nostri cavalli si imbizzarrirono e rischiammo di cadere. Smontammo accanto alle scuderie e tornammo da Fleete, che si era accoccolato carponi sotto certi alberelli di aranci. «Cosa diavolo ti prende?», esclamò Strickland. «Niente, assolutamente nulla!», disse Fleete, parlando velocemente in tono molto concitato. «Ho fatto un po' di giardinaggio... una piccola escursione botanica, diciamo. L'odore della terra è veramente speciale. Credo che farò una passeggiata... una lunga passeggiata: sì, credo proprio che farò così!» Poi vidi che vi era qualcosa di molto sbagliato in tutto quello, e dissi a Strickland: «Cenerò a casa stasera». «Dio ti benedica!», esclamò Strickland. «Ehi, Fleete, alzati. Ti prenderai la febbre là sotto. Vieni a cena e accendiamo le lampade. Mangeremo tutti a casa.» Fleete si rialzò di malavoglia. «Niente lampade... niente lampade... È molto più bello qui. Mangiamo all'aperto e facciamoci portare delle altre bistecche - molte, e al sangue quelle con tanto sangue e tanto grasso!», disse. Beh, la sera, a dicembre, nell'India del Nord fa un gran freddo, e l'idea di Fleete poteva essere solo quella di un pazzo. «Entra», disse Strickland severamente. «Entra subito!» Fleete gli ubbidì e, quando arrivarono le lampade, ci accorgemmo che era tutto ricoperto di fango dalla testa ai piedi. Doveva di certo essere ruzzolato nella terra del giardino. Evitò la luce e si diresse verso la sua stanza. I suoi occhi avevano un aspetto orribile: ne traspariva una luce verde che non emanava da essi, e il suo labbro inferiore pendeva stranamente. Strickland disse: «Avremo dei guai... grossi guai... stanotte. Non levarti la tenuta da cavallerizzo». Aspettammo a lungo che Fleete ritornasse; nel frattempo ordinammo la cena. Lo sentivamo muoversi in camera sua, ma non vi era alcun lume acceso. Ben presto, in quella stanza si udì un prolungato ululare di lupo. La gente scrive con facilità del sangue che si gela nelle vene, dei capelli che si rizzano e altre cose del genere. Entrambe le sensazioni sono troppo orribili per potersi prendere alla leggera. Il cuore mi si fermò, come se fosse stato attraversato da un coltello. Strickland diventò bianco quanto la tovaglia che era stesa sul tavolo. L'ululato si ripeté, e venne riecheggiato da un altro lontano, oltre i cam-
pi. Quello fu il momento culminante di tanto orrore! Strickland si lanciò verso la stanza di Fleete: io lo seguii, e vedemmo Fleete mentre tentava di uscire dalla finestra. Emetteva suoni bestiali dal profondo della gola. Non riuscì a rispondere quando lo chiamammo. Sputò. Non ricordo bene quello che accadde poi. Credo che Strickland debba averlo stordito con un lungo bastone da passeggio, altrimenti non saprei spiegarmi come mi ritrovai a cavalcioni del petto di Fleete. Lui non riusciva a parlare, ma ringhiava solamente, e il suo ringhiare era quello di un lupo, non certo di un uomo. Lo spirito umano in lui doveva essersi indebolito tutto il giorno, per poi sparire completamente al tramonto. Stavamo affrontando la bestia che una volta era stata Fleete. La cosa trascendeva qualsiasi esperienza umana o razionale. Tentai di dire «Idrofobia», ma la parola non era adatta. Sapevo di stare mentendo. Legammo la bestia con le corde di cuoio della corda punkah e le legammo insieme i pollici e gli alluci. Quindi la imbavagliammo con un calzante da scarpe, che è un ottimo bavaglio, se adoperato in modo giusto. Poi la portammo nella sala da pranzo, e mandammo un uomo da Dumoise, il dottore, dicendogli di venire subito. Dopo aver spedito il messaggero, riprendemmo fiato. Strickland disse: «È inutile. Questa non è cosa da dottori». Anch'io sapevo che diceva la verità. La testa della bestia era libera, e la dimenava da parte a parte. Chiunque fosse entrato nella stanza avrebbe creduto che stessimo conciando una pelle di lupo. Questo era il particolare più sgradevole dell'intera vicenda. Strickland sedeva con il mento appoggiato sul pugno, e guardava la bestia mentre si dimenava sul pavimento, ma non diceva nulla. La camicia di Fleete, che era stata strappata nella colluttazione, mostrava il segno: la rosa di macchie nere sul bicipite sinistro. Si stagliava sulla pelle come una piaga. Nel silenzio, mentre guardavamo, udimmo un suono simile al miagolio di una lontra femmina. Allora ci alzammo tutti e due in piedi, e io, per parte mia, non Strickland, vomitai... letteralmente. Ci dicemmo, come gli uomini del Pinafore, che era stato il gatto. Dumoise arrivò, e non ho mai visto un uomo così piccolo, rimanere orripilato in maniera tanto poco professionale. Disse che si trattava di un caso di idrofobia acuta, e che non si poteva far nulla. Sarebbero stati solo dei palliativi che avrebbero servito a nient'altro che a prolungare l'agonia.
La bestia schiumava. Informammo Dumoise circa il fatto che Fleete era stato morso un paio di volte dai cani. Un uomo che alleva una mezza dozzina di terrier si deve aspettare un morso di tanto in tanto. Dumoise non poteva darci alcun aiuto. Poteva solo certificare il fatto che Fleete stesse morendo di idrofobia. La bestia a quel punto riprese a ululare, poiché era riuscita a sputare il calzascarpe. Dumoise fece presente che era pronto a certificare la causa di morte, e che l'epilogo della malattia era sicuro. Era un buon uomo, e si offrì di rimanere con noi, ma Strickland rifiutò quell'atto gentile. Non desiderava intristire il Capodanno di Dumoise. Gli chiese solamente di non rendere pubblica la vera causa della morte di Fleete. Così Dumoise ripartì, profondamente scosso. Appena il fragore delle ruote del carro si affievolì, Strickland mi informò sottovoce dei suoi sospetti. E io, che ormai ero d'accordo con le teorie di Strickland, ebbi tanta vergogna ad ammetterlo, che finsi di non credervi. «Se l'Uomo d'Argento avesse veramente desiderato colpire Fleete, per aver contaminato l'immagine di Hanuman, la punizione non avrebbe potuto abbattersi tanto presto.» In quello stesso istante, un grido dall'esterno si levò nuovamente, e la bestia cadde preda di un rinnovato parossismo. Tentò furiosamente di liberarsi, e allora tememmo che le corde che la tenevano avvinta avrebbero ceduto. «Guarda!», disse Strickland. «Se questo succede altre sei volte, mi prenderò le responsabilità del caso. Ti ordino di aiutarmi!» Andò quindi in camera sua, e tornò dopo alcuni minuti. Aveva preso il tamburo di una vecchia pistola, un pezzo di lenza, della corda robusta, e la pesante testiera del suo letto. Lo informai del fatto che le convulsioni erano giunte due secondi dopo il richiamo e che la bestia pareva molto indebolita. Strickland mormorò: «Ma non può prendersi la sua vita! Non può prendersi la sua vita!». Benché sapessi di andare contro le mie stesse convinzioni, dissi: «Potrebbe essere un gatto. Dev'essere un gatto! Se l'Uomo d'Argento è responsabile di tutto ciò, perché non osa venire fin qui?». Strickland dispose il legno nel camino, mise il tamburo nel fuoco, sparse la lenza sul tavolo e spezzò in due un bastone da passeggio. In tutto vi era quasi un metro di lenza, del budello unito al filo di ferro usato nella pesca Mahseer. Ne annodò i due capi, per formare un cappio.
Poi disse: «Come facciamo a catturarlo? Dobbiamo prenderlo vivo e incolume». Dissi che dovevamo affidarci alla Provvidenza, prendere i bastoni da polo, e scivolare senza far rumore verso la zona dei cespugli di fronte alla casa. L'uomo - o l'animale - che emetteva quelle grida, girava attorno alla casa con regolarità, come una sentinella. Avremmo potuto aspettarlo nascosti tra i cespugli, e attaccarlo di sorpresa. Strickland accettò, e così scivolammo fuori attraverso la finestra di un bagno, giungendo poi sulla veranda posta sulla facciata della casa, quindi attraversammo il sentiero principale e ci nascondemmo tra i cespugli. Alla luce della luna riuscimmo a vedere il lebbroso che spuntò da dietro l'angolo della casa. Era perfettamente nudo; di tanto in tanto miagolava, e si arrestava per danzare assieme alla sua ombra. Era una visione estremamente spiacevole e, pensando al povero Fleete che era stato portato ad un tale punto di degrado da una creatura simile, misi da parte i miei dubbi e decisi di aiutare Strickland a mettere in atto tutte le torture che si sarebbero rese necessarie: dai tamburi della pistola al cappio della lenza, dai lombi alla testa, e viceversa... Il lebbroso si arrestò per un momento sulla soglia della porta centrale, e allora noi gli saltammo addosso con i bastoni. Era molto forte, e tememmo che potesse sfuggirci o rimanere ferito a morte prima che riuscissimo a catturarlo. Credevamo che i lebbrosi fossero deboli, ma dovemmo ricrederci. Strickland riuscì a placcarlo e a farlo cadere, e io gli posi il piede sul collo. Miagolava in modo orribile e, anche attraverso i miei stivali da cavallerizzo, potevo sentire che la sua carne non era sana. Tentò di colpirci con la mano e i piedi deformi. Lo legammo con un guinzaglio per cani, facendolo passare al di sotto delle ascelle, e lo trascinammo all'indietro, verso il salone e fin dentro la sala da pranzo in cui giaceva la bestia. Lì lo legammo con delle cinghie da baule. Non tentò di scappare, limitandosi a miagolare di tanto in tanto. Il confronto tra quell'uomo e la bestia fu una scena indescrivibile. La bestia si inarcò all'indietro come se fosse stata avvelenata con la stricnina, gemendo in maniera pietosa. Diverse altre cose accaddero, ma non possono essere descritte a questo punto. «Forse avevo ragione», disse Strickland. «Ora gli chiederemo di curare questo caso.» Ma il lebbroso si limitò a miagolare. Strickland si fasciò la mano con un asciugamano e tolse i tamburi della pistola dal fuoco. Passai un pezzo del
bastone da passeggio attraverso il cappio della lenza e assicurai il lebbroso alla testiera del letto di Strickland. Compresi allora come possa accadere che uomini, donne e bambini possano sopportare di vedere una strega bruciata sul rogo. Infatti, la bestia gemeva distesa a terra e, benché l'Uomo d'Argento non avesse un viso, si potevano vedere le orribili sensazioni che provava passargli sulla carne liscia, proprio come delle ondate di calore che si liberino dal ferro incandescente: ad esempio, come i tamburi di una vecchia pistola. Strickland si protesse gli occhi con la mano per un momento, poi cominciammo il lavoro. Ma questa parte non può essere pubblicata. L'alba aveva cominciato a sorgere quando finalmente il lebbroso si decise a parlare. I suoi miagolii non erano stati molto soddisfacenti fino a quel momento. La bestia era svenuta, spossata, e la casa era molto quieta. Slegammo il lebbroso e gli ordinammo di togliere la maledizione. Lui strisciò verso la bestia e le pose la mano sul petto, a sinistra. Fu tutto. Poi cadde supino e gemette, riprendendo fiato. Osservammo la bestia, e nei suoi occhi vedemmo nuovamente l'anima di Fleete. Poi la fronte e gli occhi si ricoprirono di sudore e gli occhi - di nuovo occhi umani - si chiusero. Attendemmo per un'ora, ma Fleete dormiva ancora. Lo portammo allora nella sua stanza, e ordinammo al lebbroso di andarsene; gli demmo anche la testiera e il lenzuolo del letto per coprirsi, i guanti e gli asciugamani con cui lo avevamo toccato, e la frusta con cui lo avevamo legato. L'uomo si avvolse il lenzuolo attorno ai lombi e uscì dalla casa nella luce dell'alba senza miagolare e senza pronunciare una sola parola. Strickland si asciugò il viso e si sedette. Si udì il rintocco del gong, in qualche punto lontano della città, che annunciò le sette. «Sono passate esattamente ventiquattr'ore!», osservò Strickland. «In questo lasso di tempo ho fatto cose che causerebbero il mio licenziamento dal servizio, nonché il mio internamento in un ospedale psichiatrico. Secondo te, siamo ben desti, o è stato tutto un sogno?» Il tamburo incandescente della pistola, era caduto a terra e stava bruciacchiando il tappeto. L'odore che emanava era molto reale. Quella mattina alle undici andammo a svegliare Fleete. Osservammo che il segno nero del leopardo che aveva sul petto era sparito. Era solo molto intontito e stanco ma, non appena ci vide, disse: «Ah! Accidenti a voi. Vi auguro buon anno! Non mischiate mai gli alco-
lici. Sono quasi morto!». «Ti ringrazio della tua gentilezza, ma sei in ritardo», disse Strickland. «Oggi è il mattino del secondo giorno dell'anno. Hai dormito di gusto: più di ventiquattr'ore!» La porta poi si aprì e il piccolo Dumoise sporse la testa oltre la porta. Era venuto a piedi e credeva che vegliassimo Fleete. «Ho portato un'infermiera», disse Dumoise. «Ho pensato che potesse essere utile per accudire... alle necessità del caso.» «Benissimo!», disse Fleete, allegro, alzandosi a sedere sul letto. «Fate venire le infermiere.» Dumoise rimase senza parole. Strickland lo condusse fuori dalla stanza e gli spiegò che doveva esserci stato un errore nella diagnosi. Dumoise rimase in silenzio e si affrettò a lasciare la casa. Il dottore considerò lesa la sua reputazione professionale, ed era sul punto di offendersi per la rapida guarigione del paziente. Poi Strickland uscì. Quando tornò, disse che era stato al Tempio di Hanuman per fare ammenda per la contaminazione del Dio, e riferì che gli era stato solennemente assicurato che nessun bianco aveva mai toccato l'idolo, che egli era un'incarnazione di tutte le virtù, e che lui era in preda a un'illusione. «Che ne pensi?», chiese Strickland. Risposi: «Ci sono più cose...». Ma Strickland odia quella citazione, Dice che ne faccio uso troppo spesso. Poi accadde un'altra cosa curiosa, che mi spaventò più di quello che era accaduto durante la notte. Quando Fleete si fu rivestito, scese in camera da pranzo e annusò l'aria. Aveva uno strano modo di muovere il naso quando annusava. «C'è un orribile odore di cane qui», disse. «Dovresti cercare di tenere i terrier sotto controllo. Prova con lo zolfo, Strick.» Ma Strickland non rispose. Aveva afferrato lo schienale di una sedia, e all'improvviso cadde in preda a un attacco isterico. È uno spettacolo terribile vedere un uomo forte e robusto cadere preda di un attacco isterico. Poi fui colpito dal pensiero che in quella stessa stanza avevamo lottato per strappare all'Uomo d'Argento l'anima di Fleete, e che avevamo perso per sempre il nostro onore di Inglesi, e allora scoppiai anch'io in grandi risate, mentre Fleete ci guardava come se fossimo impazziti entrambi. Non gli raccontammo mai quello che avevamo fatto. Qualche anno più
tardi, quando Strickland si era già sposato ed era diventato un fedele membro della parrocchia per amore di sua moglie, riparlammo in maniera distaccata di quello che era accaduto, e Strickland suggerì di rendere nota la storia. Per quanto mi riguarda, non vedo come questo possa contribuire a svelare il mistero. Infatti, in primo luogo, nessuno crederebbe che questa spiacevole storia sia vera e, in secondo luogo, è ben noto agli uomini probi che gli Dèi pagani sono fatti di pietra e di ottone, e che ogni tentativo di aver a che fare con loro sotto altra forma deve essere sempre condannato. GABRIEL-ERNEST Gabriel-Ernest di Saki (Hector Hugh Munro) The Westminster Gazette, 23 mag. 1909 «C'è una belva selvaggia nei vostri boschi», disse Cunningham, l'artista, mentre veniva accompagnato in auto alla stazione. Era l'unica osservazione che aveva fatto durante il viaggio ma, visto che Van Cheele aveva parlato senza sosta, il silenzio del suo compagno non era stato evidente. «Una o due volpi di passaggio e qualche donnola stanziale. Niente di più spaventoso», disse Van Cheele. L'artista non disse niente. «Che cosa intendeva dire con belva selvaggia?», chiese Van Cheele poi, quando si trovavano sul marciapiede. «Niente, una mia fantasia. Ecco il treno», disse Cunningham. Quel pomeriggio Van Cheele andò a fare una delle sue frequenti passeggiate nella sua proprietà boscosa. Aveva un tarabuso impagliato nel suo studio, e conosceva il nome di molti fiori selvatici, perciò sua zia aveva qualche giustificazione nel definirlo un grande naturalista. Ad ogni modo, era un gran camminatore. Era sua abitudine prendere mentalmente nota di tutto quello che vedeva durante le sue camminate, non tanto al fine di aiutare la scienza contemporanea, quando per provvedersi di nuovi argomenti di conversazione. Quando le campanule cominciarono a fiorire, egli si fece obbligo di informare tutti di questo fatto. Quello che Van Cheele vide quel pomeriggio di particolare fu, però, qualcosa di molto lontano dalla normale sfera delle sue esperienze. Su una sporgenza rocciosa, a picco su un laghetto che si trovava in una valletta piena di querce, era disteso un ragazzo di circa sedici anni che si asciugava il corpo scuro e bagnato al sole. I capelli, umidi per un tuffo recente, erano
sparsi vicino alla testa, e gli occhi marroni, tanto chiari che avevano quasi il bagliore degli occhi delle tigri, si girarono verso Van Cheele con un'attenzione pigra. Era un'apparizione inaspettata, e Van Cheele si ritrovò impegnato nel processo, per lui nuovo, di pensare prima di parlare. Da dove diavolo spuntava fuori quel ragazzo? La moglie del mugnaio aveva perso un bambino circa due mesi prima - si supponeva che fosse stato trascinato dalla corrente del ruscello - ma era solo un bambino, non un ragazzo. «Che stai facendo lì?», domandò. «Ovviamente, prendo il sole», replicò il ragazzo. «Dove vivi?» «Qui, in questi boschi.» «Non puoi vivere nei boschi», disse Van Cheele. «Sono dei boschi molto belli», disse il ragazzo, con una sfumatura di condiscendenza nella voce. «Ma dove dormi la notte?» «La notte non dormo; è il periodo del giorno in cui sono più occupato.» Van Cheele cominciò a provare l'irritante sensazione di essere alle prese con un problema che gli sfuggiva. «Di che cosa ti cibi?», chiese. «Di carne», disse il ragazzo, e pronunciò quella parola con un tale gusto che sembrava la stesse assaggiando in quel momento. «Carne! Quale tipo di carne?» «Dal momento che vi interessa: conigli, uccelli, lepri, pollame, agnelli e, quando è la stagione, bambini... quando ne riesco a prendere uno. In genere, sono chiusi in casa la notte, quando io caccio. Sono quasi due mesi che non gusto carne di bambino.» Ignorando la natura scherzosa di quell'ultima osservazione, Van Cheele cercò di spostare la conversazione sulla possibilità che il ragazzo cacciasse di frodo. «Le spari grosse quando dici di mangiare le lepri. Le nostre lepri non sono così facili da prendere.» «La notte caccio su quattro zampe», fu la risposta alquanto sibillina del ragazzo. «Immagino che tu voglia dire che cacci con un cane?», azzardò Van Cheele. Il ragazzo si rotolò lentamente sulla schiena, e rise di un riso gutturale e strano, che era piacevole quanto un chiocchio e sgradevole quanto un rin-
ghio. «Immagino che nessun cane sarebbe molto ansioso di stare in mia compagnia, soprattutto la notte.» Van Cheele cominciò ad avvertire che c'era qualcosa di realmente insolito nel giovane dagli strani occhi e dallo strano modo di parlare. «Non posso permetterti di restare in questi boschi», dichiarò in tono autoritario. «Immagino preferiate che stia qui invece che nella vostra casa», disse il ragazzo. L'idea di quell'animale selvaggio e nudo nella casa ordinata di Van Cheele era allarmante. «Se non te ne vai tu ti manderò via io», disse Van Cheele. Il ragazzo si girò come un lampo, si tuffò nel laghetto e, in un attimo, si issò con il corpo bagnato e luccicante sulla riva dove stava Van Cheele. In una lontra quel movimento non si sarebbe notato; in un ragazzo, Van Cheele lo trovò piuttosto sorprendente. Un piede gli scivolò nel fare un involontario movimento all'indietro, ed egli si trovò disteso sulla riva resa scivolosa dalle alghe, con quegli occhi gialli e animaleschi a poca distanza dai suoi. Quasi istintivamente portò la mano alla gola. Il ragazzo rise di nuovo, una risata in cui il ringhio aveva quasi scacciato il chiocchio e poi, con un altro di quei suoi movimenti sorprendentemente fulminei, si tuffò in un intrico di erbacce e di felci. «Che animale selvaggio!», disse Van Cheele nell'alzarsi. E poi ricordò l'osservazione di Cunningham: «C'è una belva selvaggia nei vostri boschi». Camminando lentamente verso casa, Van Cheele cominciò a riandare con la mente ai vari avvenimenti locali in cui si potesse rintracciare l'esistenza di quel giovane selvaggio. Negli ultimi tempi, qualcosa aveva fatto diminuire la cacciagione, il pollame spariva dalle fattorie, le lepri erano diventate incredibilmente rare, e gli erano giunti all'orecchio i lamenti di chi aveva perso gli agnelli che pascolavano sulle colline. Era possibile che quel ragazzo selvaggio stesse veramente battendo la zona in compagnia di qualche cane intelligente? Aveva parlato di caccia «a quattro zampe» la notte, ma poi aveva accennato misteriosamente che a nessun cane sarebbe piaciuto avvicinarglisi, «soprattutto la notte». Era veramente sconcertante. E, poi, mentre Van Cheele ricordava i vari saccheggi commessi negli ultimi due mesi, arrivò improvvisamente a un punto morto, sia nella sua passeggiata che nei suoi ragionamenti.
Ripensò al bambino che era scomparso dal mulino due mesi prima. La teoria accettata da tutti era che fosse caduto nel ruscello e fosse stato portato via dalla corrente. Ma la madre aveva sempre detto di aver sentito un urlo dal lato della casa che era sul pendio della collina, dalla parte opposta all'acqua. Era impensabile, naturalmente, ma egli desiderava che il ragazzo non avesse fatto quella strana osservazione a proposito della carne di bambino mangiata due mesi prima. Cose così spaventose non si dovrebbero dire nemmeno per scherzo. Van Cheele, contrariamente al suo solito, non si sentiva disposto a comunicare ad altri la scoperta fatta nel bosco. La sua posizione di consigliere della chiesa e di giudice di pace gli sembrava in qualche modo compromessa dal fatto di dare asilo a una persona di dubbia reputazione sulla sua proprietà. C'era anche la possibilità di ricevere una pesante multa per i danni arrecati dalla scomparsa degli agnelli e del pollame. A cena, quella sera, fu insolitamente silenzioso. «Dove ti è andata a finire la lingua?», chiese sua zia. «Si direbbe che hai visto un lupo.» Van Cheele, che non conosceva i detti antichi, pensò che l'osservazione fosse piuttosto stupida. Se lui avesse visto un lupo sulla sua proprietà, la sua lingua sarebbe stata straordinariamente impegnata sull'argomento. La mattina, a colazione, Van Cheele era conscio che la sensazione di disagio riguardo all'episodio del giorno prima non era scomparsa del tutto. Decise di andare in treno nella vicina città sede del Vescovato, di cercare Cunningham e chiedergli perché avesse fatto quell'osservazione a proposito di una bestia selvaggia nei boschi. Quando ebbe preso questa risoluzione, il suo buon umore in parte ritornò, e canticchiava un motivetto quando si diresse nel soggiorno per fumare la sua solita sigaretta. Quando entrò nella stanza, il motivetto fu bruscamente interrotto da un'esclamazione. Graziosamente disteso sull'ottomana, in atteggiamento di riposo, c'era il ragazzo dei boschi. Era più asciutto dell'ultima volta che Van Cheele l'aveva visto, ma non si poteva notare nessun altro cambiamento nella sua toilette. «Come hai osato venire qui?», chiese Van Cheele con rabbia. «Mi avete detto che non dovevo restare nei boschi», disse il ragazzo con calma. «Ma non avevo detto di venire qui. E se mia zia ti vedesse?» E, al fine di minimizzare gli effetti della catastrofe, Van Cheele coprì il più possibile il suo ospite indesiderato con i fogli del Morning Post. In
quel momento sua zia entrò nella stanza. «Questo povero ragazzo si è smarrito e ha perso la memoria. Non sa chi sia né da dove venga», spiegò Van Cheele in tono disperato, lanciando una occhiata ansiosa al derelitto per vedere se stesse per aggiungere una sincerità sconcertante alle sue altre qualità selvagge. Miss Van Cheele fu enormemente interessata. «Forse la sua biancheria intima è cifrata», suggerì. «Sembra che ne abbia perso la maggior parte», disse Van Cheele, cercando freneticamente di tenere il Morning Post al suo posto. Un bambino nudo e senza casa affascinava Miss Van Cheele nello stesso modo in cui sarebbe stata affascinata da un gattino randagio o da un cagnolino abbandonato. «Dobbiamo fare tutto il possibile per lui», decise la donna, e in breve un fattorino, inviato in Canonica, dove c'era un servitore, tornò con degli abiti, una camicia, un paio di scarpe e della biancheria. Vestito, pulito e strigliato, il ragazzo non perse nulla della sua stranezza agli occhi di Van Cheele, ma sua zia lo trovò dolcissimo. «Dobbiamo dargli un nome dato che non sappiamo qual è il suo», disse lei. «Gabriel-Ernest, penso che vada bene. Sono due nomi graziosi e adatti». Van Cheele era d'accordo, ma intimamente dubitava che fossero stati dati a un ragazzino grazioso e ammodo. I suoi timori non furono diminuiti dal fatto che il suo spaniel, vecchio e posato, fosse fuggito dalla casa all'arrivo del ragazzo, e ora restasse ostinatamente a tremare e a guaire in un angolo del frutteto, mentre il canarino, di solito vocalmente impegnato quanto lo stesso Van Cheele, si fosse dato a rari e spauriti cinguettii. Era più che mai risoluto a consultare Cunningham senza perdere tempo. Mentre guidava verso la stazione, sua zia stava disponendo che GabrielErnest l'aiutasse ad intrattenere i bambini della sua Scuola Domenicale durante il tè di quel pomeriggio. Cunningham sulle prime non era disposto a parlare. «Mia madre è morta per una malattia mentale», spiegò, «perciò capirete quanto sia poco propenso a indugiare su qualsiasi fenomeno di natura fantastica che veda o pensi di vedere.» «Ma che cosa avete visto?», insisté Van Cheele. «Quello che penso di avere visto è qualcosa di tanto straordinario che nessun uomo sano di mente può credere sia realmente accaduto. L'ultima sera che sono stato da voi, ero seminascosto dalla siepe che è accanto al
cancello del frutteto, a guardare il bagliore del sole morente. A un tratto mi sono accorto della presenza di un ragazzo nudo, con il corpo bagnato da un tuffo recente in qualche laghetto vicino. Stava sul pendio della collina a guardare il tramonto. La sua posa ricordava tanto un selvaggio fauno del mito pagano, che immediatamente avrei voluto ingaggiarlo come modello, e stavo per chiamarlo. Ma proprio allora il sole scomparve, e tutto l'arancione e il rosa abbandonarono il paesaggio, lasciandolo freddo e grigio. E nello stesso momento accadde qualcosa di incredibile: anche il ragazzo scomparve!» «Che cosa! Svanì nel nulla?», chiese eccitato Van Cheele. «No, questa è la parte più spaventosa della storia», rispose l'artista, «c'era un gran lupo, dal pelo nerastro, dalle zanne bianche e crudeli, e con occhi gialli e selvaggi. Penserete...» Ma Van Cheele non si fermò a fare nulla di così inutile come pensare. Già stava correndo alla massima velocità verso la stazione. Rinunciò all'idea di un telegramma. «Gabriel-Ernest è un Lupo Mannaro», era un tentativo inadeguato per spiegare la situazione, e sua zia avrebbe pensato che si trattasse di un messaggio in codice di cui aveva omesso di darle la chiave. La sua unica speranza era di arrivare a casa prima del tramonto. La vettura pubblica che noleggiò alla stazione d'arrivo lo torturò con quella che a lui pareva una lentezza esasperante lungo le strade di campagna, che erano rosa e violette per i raggi del sole morente. Sua zia stava riponendo delle conserve e una torta quando lui arrivò. «Dov'è Gabriel-Ernest?», gridò quasi. «Sta accompagnando a casa il bambino dei Toop», disse sua zia. «Si stava facendo tardi, così ho pensato che sarebbe stato imprudente farlo tornare a casa da solo. Che bel tramonto, non è vero?» Ma Van Cheele, sebbene non fosse ignaro della luce che illuminava l'occidente, non indugiò a discutere sulla sua bellezza. A una velocità che la sua auto reggeva a malapena, corse lungo lo stretto viottolo che conduceva alla casa dei Toop. Da un lato correva il ruscello del mulino, dall'altro si ergeva lo spoglio pendio della collina. Una striscia rossa era ancora visibile all'orizzonte, e alla prossima curva avrebbe dovuto vedere la coppia male assortit di cui era all'inseguimento. Poi il colore abbandonò d'improvviso tutte le cose, e una luce grigia si distese sul paesaggio. Van Cheele udì un acuto grido di paura, e smise di correre. Nessuno vide mai più il bambino dei Toop e Gabriel-Ernest, ma gli abiti abbandonati di quest'ultimo vennero trovati sulla strada, così si dedusse
che il bambino fosse caduto in acqua, e che il ragazzo si fosse svestito e tuffato nel ruscello, nel vano tentativo di salvarlo. Van Cheele e qualche contadino che era nei pressi in quel momento, testimoniarono di aver sentito un grido di bambino proprio vicino al posto dove erano stati trovati gli abiti. Mrs. Toop, che aveva altri undici figli, si rassegnò al lutto, ma Miss Van Cheele era sinceramente addolorata per la scomparsa del suo trovatello. Fu per sua iniziativa che venne posta una lapide nella chiesa alla memoria di «Gabriel-Ernest, un ragazzo sconosciuto che coraggiosamente sacrificò la sua vita per un altro». Van Cheele assecondava la zia in molte cose ma rifiutò con decisione di sottoscrivere la lapide alla memoria di Gabriel-Ernest. LUPO-CHE-CORRE Running Wolf di Algernon Blackwood The Century, agosto 1920 L'uomo che gode di un'avventura estranea all'esperienza comune della sua razza e la comunica agli altri, non deve sorprendersi se viene preso per bugiardo o per pazzo, come Malcolm Hyde, impiegato d'albergo in vacanza, scoprì a tempo debito. Ma «godere» non è la parola giusta per esprimere le sue emozioni: la parola che avrebbe scelto lui sarebbe stata probabilmente «sopravvivere». Quando vide per la prima volta il Medicine Lake, fu colpito dalla sua bellezza tranquilla e scintillante, incastonata nelle vaste zone boscose e selvagge del Canada. In secondo luogo, fu colpito dalla sua solitudine estrema e, infine - questo, molto più tardi - dalla combinazione di bellezza, solitudine e atmosfera particolare, dovuta al fatto che era la scena della sua avventura. «Abbonda di pesci grandi», aveva detto Morton dello Sporting Club di Montreal. «Passate le vostre vacanze lassù, lungo la strada per Mattawa, a una quindicina di miglia ad ovest dello Stony Creek. Sarete completamente solo, fatta eccezione per un vecchio indiano che ha una capanna. Accampatevi sulla riva orientale se volete il mio suggerimento.» Poi aveva parlato per una mezz'ora di quello sport meraviglioso, ma per il resto non era stato molto comunicativo, e Hyde aveva notato che non gradiva le domande. Non aveva soggiornato a lungo sulle rive del lago. Se
era veramente un paradiso come affermavano Morton, i suoi scopritori e i pescatori più esperti della provincia, perché vi si era fermato solo tre giorni? «Scarseggiavano i vermi», fu la sua spiegazione. Ma, a un altro amico, aveva detto laconicamente «mosche», e a un terzo, come Hyde apprese in seguito, fornì la scusa che il suo meticcio si era «ammalato», e che era stato necessario un veloce ritorno alla civiltà. Hyde, comunque, non si curò molto delle spiegazioni; il suo interesse per esse fu risvegliato più tardi. «Abbonda di pesci» era una frase che gli piaceva. Prese il treno della Canadian Pacific fino a Mattawa, si accampò lungo lo Stony Creek, e da lì partì per la traversata in canoa di quindici miglia, senza un solo pensiero al mondo. Visto che viaggiava con pochi pesi, i punti in cui affluivano altri fiumi non gli crearono problemi. L'acqua era veloce e agevole, le rapide sormontabili; tutto andava per il verso giusto, come si usa dire. Di tanto in tanto vide dei pesci dirigersi verso acque più profonde, e fu molto tentato di fermarsi, ma non cedette alla tentazione. Si addentrò nel mondo immenso delle foreste che si stendevano per centinaia di miglia, conosciute solo dai cervi, dagli orsi, dagli alci e dai lupi, ma ignote all'uomo. Una regione selvaggia, solitaria e primitiva. La giornata autunnale era calma, le acque cantavano e scintillavano, il cielo azzurro si stendeva sereno su tutto, abbagliante di luce. Verso sera superò una diga di castori, aggirò una piccola punta, e posò per la prima volta gli occhi sul Medicine Lake. Sollevò la pagaia gocciolante: la canoa scese con una silenziosa scivolata nelle acque calme. Hyde lanciò un'esclamazione di gioia, perché la bellezza del lago gli aveva tolto il fiato. Sebbene fosse soprattutto uno sportivo, non era insensibile alla bellezza. Il lago formava una mezzaluna, lunga circa quattro miglia e larga quasi un miglio. I raggi dorati e obliqui del tramonto l'inondavano. Nessuna brezza increspava la superficie cristallina. Era così da quando il Dio Pellerossa l'aveva fatto, e sarebbe stato così finché Lui non l'avesse prosciugato. Altri abeti si schieravano lungo le rive, cedri maestosi si chinavano come se volessero dissetarsi, sumacchi cremisi brillavano a macchie fiammeggianti, e aceri splendevano di rosso e d'arancio. L'aria era frizzante come un vino, e silenziosa come un sogno. Era lì che i Pellirosse un tempo «facevano magie», con tutti i rituali selvaggi e le cerimonie tribali dei tempi antichi. Ma era a Morton, più che agli Indiani, che Hyde pensava. Se quel paradiso solitario e nascosto ab-
bondava di grandi pesci, doveva molto a Morton per quell'informazione. La pace lo invase, ma sotto covava l'eccitazione del cacciatore. Si guardò intorno con un occhio rapido ed esperto in cerca di un posto per accamparsi, prima che il sole si immergesse al di sotto delle foreste e scendesse il crepuscolo. La capanna dell'Indiano, illuminata in pieno dal tramonto sulla riva orientale, gli fu subito visibile; ma gli alberi erano troppo fitti in quel punto. Del resto, non desiderava stare così vicino all'abitante della capanna. Sul lato opposto, però, si trovava una radura ideale per un accampamento. Era già immersa nell'ombra: l'enorme foresta la ombreggiava all'imbrunire; ma quello spazio aperto lo attrasse. Pagaiò rapidamente verso la riva e l'esaminò. Il terreno era duro e asciutto, scoprì, e un piccolo ruscello correva spumeggiando lungo un lato e affluiva al lago. Anche quella foce sarebbe stata un ottimo posto per pescare. Era perfino protetta. Qualche salice segnava lo sbocco. Un campeggiatore esperto prende subito le sue decisioni. Era un posto perfetto, e qualche ceppo carbonizzato, nonché delle tracce di vecchi fuochi, gli dissero che non era stato il primo a pensarlo. Hyde era deliziato. Poi, improvvisamente, la delusione oscurò il suo piacere. Aveva portato a terra il suo equipaggiamento e aveva cominciato a montare la tenda, quando ricordò un particolare che l'eccitazione aveva spinto in un angolo remoto della sua mente: il consiglio di Morton. Ma non solo di Morton, perché il bottegaio a Stony Creek l'aveva confermato. Quell'uomo alto con i baffi radi e le spalle curve, abbigliato in camicia e pantaloni, gli aveva dato il consiglio finale insieme alla pancetta, alla farina, al latte condensato e allo zucchero. Aveva ripetuto le parole di Morton, che Hyde aveva quasi dimenticate: «Montate la vostra tenda sulla riva orientale. Al posto vostro, io lo farei», aveva detto al momento del commiato. Il bottegaio ricordava anche Morton. «Un uomo basso, scuro come un indiano e che emanava odore di boschi. Viaggiava con Jake, il meticcio.» Era sicuramente Morton. «Non si fermò a lungo, vero?», aggiunse in tono meditabondo. «State andando al Windy Lake, vero? Oppure al Ten Mile Water, forse?» Era stata la prima domanda che aveva fatto ad Hyde. «Al Medicine Lake.» «Veramente?», aveva detto l'uomo, come se ne dubitasse per qualche ragione oscura. Si toccò i baffi ispidi. «Veramente?», ripeté. E le ultime pa-
role arrivarono dopo una lunga pausa: il consiglio a proposito della riva migliore su cui accamparsi. Tutto questo gli tornò improvvisamente alla mente con una sfumatura di delusione e di noia perché, quando due uomini esperti concordano, la loro opinione non si può trascurare con leggerezza. Desiderò di aver chiesto più particolari al bottegaio. Si guardò intorno, meditò, esitò. Il posto che aveva scelto per accamparsi era senza dubbio sulla riva proibita. Quali mai potevano essere le obiezioni contro quella riva? Ma la luce si stava affievolendo; doveva decidere velocemente che cosa fare. Dopo aver guardato il bagaglio ancora imballato e la tenda montata a metà, prese la sua decisione mormorando una frase che inviava sia Morton che il bottegaio in luoghi molto meno piacevoli. «Devono avere qualche ragione», brontolò tra sé; «persone del genere di solito sanno quello che dicono. Immagino che farei meglio a trasferirmi sull'altra riva, almeno per stanotte.» Prima di ricaricare tutto sulla canoa, lanciò un'occhiata alla riva opposta. Dalla capanna dell'Indiano non si alzava fumo. Non aveva visto nessuna traccia di una canoa. Decise che l'Indiano non c'era. Allora, con riluttanza, abbandonò quell'ottima radura e pagaiò attraverso il lago. Un'ora e mezza dopo, la sua tenda era montata, la legna per il fuoco era stata raccolta, e due piccole trote erano già state prese per la cena. Ma i pesci più grandi, Hyde lo sapeva, lo aspettavano sull'altra riva, accanto alla piccola foce. Alla fine, si addormentò sul suo letto di rami balsamici, deluso e annoiato, chiedendosi come fosse possibile che una semplice frase l'avesse persuaso così facilmente, malgrado il suo parere contrario. Dormì come un sasso; il sole era già alto quando si svegliò. Ma il suo umore mattutino era molto diverso. La luce brillante, la pace, l'aria inebriante, tutto era così rallegrante per la sua mente da dissolvere le stupide fantasticherie della sera prima. Si meravigliò di essere stato tanto debole. Non aveva più esitazioni. Subito dopo colazione smontò l'accampamento, attraversò con la canoa la striscia di acqua scintillante, e si sistemò rapidamente sulla riva proibita, come ormai la chiamava, con un ghigno di disprezzo. E, più vedeva quella radura, più gli piaceva. C'era legna in abbondanza, acqua da bere, uno spazio aperto intorno alla tenda, e non c'erano mosche. La pesca, per di più, era magnifica. La descrizione di Morton era pienamente giustificata, e «abbonda di pesci grandi» per una volta non era un'esagerazione. Passò le ore inutili del primo pomeriggio a sonnecchiare al sole, o a pas-
seggiare nella boscaglia che era al di là dell'accampamento. Non trovò niente di insolito. Si bagnò in uno stagno freddo e profondo, e si divertì in quel piccolo paradiso solitario. Solitario, lo era certamente, ma la solitudine faceva parte del suo fascino. La tranquillità, la pace, l'isolamento di quel bel lago tra i boschi lo deliziavano. Il silenzio era divino. Hyde era soddisfatto. Dopo una tazza di tè, verso sera passeggiò lungo la riva per vedere i primi pesci che salivano a galla. La lieve increspatura sull'acqua e le ombre che si allungavano, erano buoni segni. Si sentiva un tonfo dopo l'altro, quando i grandi pesci salivano a galla, ghermivano il cibo, e svanivano nelle profondità. Si affrettò all'accampamento. Dieci minuti dopo aveva preso le canne e scivolava silenziosamente con la canoa sull'acqua tranquilla. La pesca era tanto buona e le trote si ammucchiavano tanto velocemente sul fondo della canoa che, nonostante il buio si infittisse, trovò difficile allontanarsi. «Un'altra», si disse, «e poi me ne vado.» Tirò in secco quell'«altra», e stava per staccarla dall'amo, quando il silenzio profondo della sera fu stranamente turbato. Improvvisamente si accorse di essere osservato. Un paio d'occhi, così gli sembrava, lo fissavano dalle ombre circostanti. Almeno, così interpretò quello strano turbamento del suo umore lieto; quella era la sua sensazione. Ne era stato assalito senza nessun preavviso. Non era solo. La grande trota viscida gli scivolò dalle mani. Restò immobile a guardarsi intorno. Non si muoveva niente: l'increspatura sul lago era scomparsa, non c'era vento, e la foresta era un ammasso purpureo di ombre. Il cielo giallo, che scoloriva velocemente, creava riflessi che infastidivano gli occhi e rendevano incerte le distanze. Ma non c'era nessun rumore, nessun movimento. Non vide nessuna figura. Eppure sapeva che qualcuno lo osservava, e un'ondata di un terrore irragionevole lo sommerse. La prua della canoa era contro la riva. In un attimo, e istintivamente, la allontanò e pagaiò verso l'acqua più profonda. L'osservatore, anche questo gli venne alla mente istintivamente, era vicino a quella riva. Ma dove? E chi era? Era l'Indiano? Quando arrivò nell'acqua più profonda, a una ventina di metri dalla sponda, si fermò e aguzzò occhi e orecchie per scovare qualche indizio. Provava un po' di vergogna, ora che quella strana sensazione iniziale si era attutita. Ma la certezza restava. Per quanto assurdo fosse, era sicuro che qualcuno lo osservasse con concentrazione e intensità. Ogni fibra del suo essere glielo diceva; e, sebbene non vedesse nessuna figura, nessuna sa-
goma sulla riva, avrebbe potuto giurare in quale gruppo di salici quella persona era nascosta a spiarlo. La sua attenzione era attratta da un gruppo in particolare. L'acqua gocciolava lentamente dalla pagaia che era poggiata di traverso sulla canoa. Non si udiva nessun altro suono. La tela della sua tenda brillava fioca. Cominciarono a vedersi le stelle. Hyde aspettava, ma non accadde niente. Poi, improvvisa com'era venuta, la sensazione passò, ed egli seppe che la persona che l'aveva osservato intenzionalmente era andata via. Fu come se una corrente si fosse spenta: il mondo tornò normale. Il paesaggio si svuotò come se qualcuno avesse lasciato una stanza. Quella sgradevole sensazione lo lasciò nel medesimo tempo, cosicché virò immediatamente la canoa verso la riva, la tirò in secco e, con la pagaia in mano, si avvicinò a esaminare il gruppo di salici che aveva identificato come nascondiglio dell'osservatore. Non c'era nessuno, naturalmente, né c'era traccia che vi fosse stato di recente un essere umano. Non c'erano né foglie né rami smossi, e nemmeno un ramoscello era stato spostato. Il suo occhio acuto ed esperto non trovò nessuna orma sul terreno. Ma, ciononostante, era certo che poco tempo prima qualcuno si fosse accovacciato proprio tra quelle foglie per osservarlo. Ne restò assolutamente convinto. L'osservatore, sia che fosse l'Indiano, un cacciatore, un boscaiolo, sia che fosse un meticcio vagabondo, si era ritirato: una ricerca sarebbe stata inutile, e stava scendendo la sera. Ritornò al suo piccolo accampamento più turbato di quanto volesse ammettere. Si cucinò la cena, appese il carniere a una fune, in modo che nessun animale predatore lo prendesse durante la notte, e si preparò a stare comodo fino all'ora di andare a letto. Inconsciamente, preparò un fuoco più grande del solito, e si sorprese a scrutare le profonde ombre che si stendevano oltre il falò e a tendere le orecchie per afferrare il minimo rumore. Restò in allarme, una condizione che gli era del tutto nuova. Un uomo che si trovi in condizioni simili e in un posto simile, non avverte il disagio finché il senso di solitudine non lo colpisce come qualcosa di troppo reale e vivido. La solitudine apporta fascino, piacere, e una bella sensazione di calma fino a che, o a meno che, non arrivi troppo vicina. Dovrebbe restare solo un ingrediente tra gli altri; non dovrebbe essere notato troppo direttamente, con troppa concretezza. Una volta che si sia avvicinata troppo, però, può facilmente attraversare lo stretto confine tra benessere e malessere, e il buio è il momento peggiore per questa transizione.
Può facilmente seguire una strana paura: la paura che la solitudine possa essere improvvisamente turbata, e il solitario essere umano si sente esposto ad ogni attacco. Per Hyde, ormai, quella transizione si era già compiuta. Quel senso troppo profondo di solitudine si era trasformato d'improvviso nella terribile condizione di non sopportare più di essere completamente solo. Era un momento difficile, e l'impiegato d'albergo comprese con esattezza la sua posizione. Non gli piaceva affatto. Sedeva con le spalle ai ceppi accesi, una figura stagliata sullo sfondo della luce del falò, mentre tutt'intorno a lui il buio della foresta si ergeva come un muro impenetrabile. Non vedeva nulla al di là del piccolo alone del suo fuoco da campo; il silenzio che lo circondava era il silenzio della morte. Non frusciava nessuna foglia, non sciabordava nessun'onda; lui stesso era immobile come un ceppo di legno. Poi, ad un tratto, divenne cosciente che la persona che l'aveva osservato era tornata, e che veniva fissato dallo stesso sguardo intenso e concentrato. Non c'era stato nessun avvertimento; non aveva sentito scalpiccii furtivi né scoppiettii di ramoscelli secchi. Eppure, il possessore di quegli occhi ferini era molto vicino, probabilmente a poco più di tre metri di distanza. Quella sensazione di vicinanza era schiacciante! Un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Questa volta, per giunta, era certo che l'uomo fosse accovacciato appena oltre la luce del falò, e quella era una distanza accuratamente calcolata. Avvertiva che l'osservatore era proprio davanti a lui. Per qualche minuto non mosse nemmeno un muscolo, eppure ogni suo nervo era pronto e attento. Tendeva gli occhi invano per penetrare l'oscurità, ma riuscì solo ad abbagliarli per il riflesso della luce. Poi, mentre cambiava posizione lentamente, con cautela, per avere un altro angolo di visuale, il cuore gli diede due tonfi contro le costole e i capelli gli si rizzarono sulla nuca, mentre aumentava la sensazione di gelo lungo la spina dorsale. Nel buio, di fronte a sé, vide due cerchietti verdastri che erano, senza dubbio, un paio d'occhi, ma non quelli di un Indiano o di un qualsiasi altro essere umano. Erano due occhi di animale che lo fissavano intensamente dall'oscurità. E questa certezza ebbe un effetto immediato e naturale su di lui. Perché, alla minaccia contenuta in quegli occhi, le paure dei milioni di cacciatori vissuti fin dall'origine dei tempi si ridestarono in lui. Per quanto fosse un impiegato d'albergo, gli istinti atavici sorsero dentro di lui e lo inondarono. La sua mano annaspò in cerca di un'arma. Le dita toccarono la testa di ferro della sua piccola ascia da campo e, all'improvvi-
so, tornò ad essere se stesso. La fiducia ritornò, e quella paura vaga e superstiziosa scomparve. Doveva trattarsi di un orso o un lupo che aveva sentito l'odore dei pesci ed era venuto a rubarli. Con un essere di quel genere sapeva istintivamente come comportarsi, pur ammettendo che, grazie a questo stesso istinto, la sua prima paura era stata di un genere completamente diverso. «Dannazione, scoprirò subito che cos'è», esclamò ad alta voce: afferrò quindi un tizzone ardente dal fuoco e lo lanciò con un tiro preciso verso gli occhi dell'animale che gli stava davanti. Il ceppo di abete cadde in una pioggia di scintille che illuminarono l'erba secca che si trovava ai fianchi della creatura: fiammeggiò per un attimo, poi si spense. Ma, in quell'istante di luce forte, egli vide con chiarezza chi era il suo visitatore. Un grande lupo era accucciato sulle zampe posteriori, e lo fissava attraverso il fuoco. Vide le zampe e le spalle, vide il pelo, vide anche i grandi tronchi di abete che erano dietro l'animale, e la macchia di salici che gli dava riparo. Il tutto creava un quadro vivido, netto, reso visibile in ogni particolare dal momentaneo lampo di luce. Con sua grande meraviglia, però, il lupo non fuggì dal ceppo acceso, ma si ritrasse solo di qualche metro, e si rimise a sedere sulle zampe a fissare, a fissare come prima. Cielo, come fissava! Hyde urlò per mandarlo via, ma non ottenne nessun effetto. L'animale non si mosse. Non sprecò un altro ceppo, perché ormai la sua paura era scomparsa. Un lupo era un lupo, e poteva restare lì quanto gli piaceva, purché non tentasse di rubargli il carniere. Ormai non era più allarmato. Sapeva che i lupi sono innocui in estate e in autunno, e anche quando si raccolgono in branchi durante l'inverno, attaccano l'uomo solo se sono in preda ad una fame disperata. Perciò restò ad osservare l'animale, gettò qualche bastoncino di legno nella sua direzione, e gli parlò perfino, chiedendogli se si sarebbe mai mosso. «Puoi restare lì per sempre, se vuoi», osservò ad alta voce, «perché tanto non puoi prendere i miei pesci, e il resto delle provviste lo porterò in tenda con me!» La creatura batté gli occhi grandi e verdi, ma non si mosse. Perché, allora, se la sua paura era scomparsa, pensava a certe cose mentre si agitava tra le coperte prima di addormentarsi? L'immobilità di quell'animale era strana, il suo rifiuto di girarsi e scappare era ancora più strano. Non aveva mai saputo prima di allora che potesse esistere un animale che non temeva il fuoco. Perché sedeva e lo osservava con quello sguardo
intento, con quei suoi occhi spaventosi? Come aveva fatto ad avvertire immediatamente la presenza del lupo? Un lupo, soprattutto un jupo solitario, è una creatura timida, ma quello non temeva né l'uomo né il fuoco. Ora, mentre era disteso nella comoda tenda, avvolto nelle coperte, il lupo era accucciato sotto le stelle, accanto alle braci morenti, con il vento gelido nella pelliccia, la terra fredda sotto le zampe, a guardarlo, a guardarlo fissamente. E forse sarebbe restato lì fino all'alba. Era insolito, e strano. Poiché non possedeva né immaginazione né ricordi, non richiamò alla mente nessuna riserva di visioni ataviche. Banale, concreto, un impiegato d'albergo in vacanza, era steso tra le coperte a farsi domande e a stupirsi. Un lupo era un lupo e niente più. Eppure quel lupo l'idea lo ossessionava - era diverso. In una parola, la parte più profonda del suo primitivo disagio restava intatta. Si girò e rigirò, e a volte rabbrividì durante il suo sonno agitato. Non uscì dalla tenda a vedere, ma si svegliò presto e non riposato. Ma con la luce del sole e il vento mattutino, l'incidente della notte prima fu dimenticato, divenne quasi irreale. Il suo zelo di pescatore era più forte. Il tè e il pesce erano deliziosi, la sua pipa non aveva mai avuto un gusto così buono, e la gloria di quel lago solitario tra le foreste primitive gli andò alla testa. Era un cacciatore davanti a Dio, e nulla più. Provò a pescare ai bordi del lago e, mentre era in preda all'eccitazione per aver preso un grande pesce, capì improvvisamente che il lupo era lì. Si fermò con la canna in mano, come se si fosse incagliata. Si guardò intorno, poi guardò in una direzione precisa. La brillante luce del sole rendeva ogni minimo particolare chiaro e netto: i massi di granito, i ceppi bruciati, i sumacchi cremisi, i ciottoli lungo la riva, ma senza rivelare dov'era nascosto l'osservatore. Poi spostò lo sguardo lungo la riva tra la macchia intricata e, improvvisamente, scorse quella sagoma familiare, quasi attesa. Il lupo era disteso dietro un masso di granito, cosicché ne erano visibili solo la testa, il muso e gli occhi. Si fondeva con lo sfondo. Se non avesse saputo che era un lupo, non l'avrebbe mai distinto dal paesaggio. I suoi occhi splendevano alla luce del sole. Hyde lo guardò. I loro occhi si incontrarono. «Gran Dio!», esclamò ad alta voce. «Be', sembra proprio un essere umano!» Da quel momento, involontariamente, stabilì un singolare rapporto personale con l'animale. E ciò che seguì confermò quell'indesiderabile impressione, perché l'animale si alzò immediatamente e scese verso la riva con passo deciso e tranquillo. Poi si fermò a guardarlo. Lo fissava negli occhi come un grande cane sel-
vatico, cosicché Hyde fu cosciente di una sensazione nuova e incredibile: il lupo voleva un cenno di riconoscimento da parte sua. «Bene, bene!», esclamò ancora, liberandosi di quella sensazione con il rivolgersi ad alta voce all'animale. «Questo supera tutto quello che ho visto nella mia vita! Che cosa vuoi, ad ogni modo?» Lo esaminò con più attenzione. Non aveva mai visto un lupo così grande. Era una bestia tremenda, un avversario difficile da combattere, rifletté, se si fosse mai arrivati a quel punto. Era accucciato assolutamente tranquillo e fiducioso. Nella abbagliante luce del sole, ne osservò ogni particolare: un lupo enorme, peloso, dai fianchi magri. I suoi occhi maligni guardavano fissi nei suoi, quasi come se l'animale avesse qualcosa di preciso in mente. Vide le sue grandi mandibole, i denti e la lingua che penzolava e gocciolava saliva. Eppure in quell'animale c'era ben poca traccia di selvatichezza o di ferocia. Era stupito e sorpreso oltre ogni limite. Desiderò che l'Indiano tornasse. Non capiva un comportamento tanto strano in un animale. I suoi occhi, la loro strana espressione, gli procuravano una sensazione insolita, imbarazzante. Si chiese se per caso gli stavano saltando i nervi. La bestia stava sulla riva e lo guardava. Per la prima volta desiderò di aver portato con sé un fucile. Con uno schiaffo sonoro, calò di piatto la pagaia sull'acqua, con tutta la sua forza, finché gli echi risuonarono come colpi di fucile e furono udibili da un'estremità del lago all'altra. Il lupo non si mosse. Hyde ammiccò con gli occhi e gli parlò come si parla ad un cane, un animale domestico, una creatura abituata alle maniere umane. L'animale ammiccò in risposta. Alla fine, aumentò la distanza dalla riva e continuò a pescare. L'eccitazione di quello sport meraviglioso attrasse la sua attenzione, quella superficiale, almeno. A volte dimenticò quasi l'animale; però, ogniqualvolta alzava lo sguardo, lo vedeva lì. Ma, peggio ancora, quando cominciò lentamente a pagaiare verso la riva, lo vide trottare lungo la spiaggia come se volesse tenergli compagnia. Nell'attraversare una piccola baia, Hyde raddoppiò la velocità delle remate, con la speranza di raggiungere l'altro punto prima del suo compagno indesiderato e indesiderabile. Immediatamente, l'animale cominciò a correre con quell'andatura rapida, instancabile che, tranne sul ghiaccio, supera nella corsa qualsiasi altra creatura a quattro zampe che corra nei boschi. Quando raggiunse quel punto distante, il lupo lo aspettava. Alzò la pagaia dall'acqua, e si fermò un momento per riflettere. Quell'attenzione così
viva - l'imbrunire e la notte dovevano ancora arrivare - non gli piaceva affatto. Il suo accampamento era vicino; doveva avvicinarsi a riva. Si sentì a disagio perfino nella luce splendente del giorno, quando, con suo grande sollievo, a circa un mezzo miglio dalla tenda, vide la creatura fermarsi di colpo e accucciarsi. Aspettò un momento, poi riprese a pagaiare. Il lupo non lo seguì. Non fece nessun tentativo di muoversi; era accucciato e lo guardava. Dopo qualche centinaio di metri, si girò a guardarlo: era ancora immobile, fermo dove l'aveva lasciato. Ed ebbe la sensazione assurda ma intensa, che la creatura avesse indovinato i suoi pensieri, la sua ansia, la sua paura, e ora gli stesse mostrando, quanto meglio poteva, che non nutriva alcun sentimento ostile, che non meditava di attaccarlo. Virò la canoa verso la riva e la tirò in secco; all'imbrunire si cucinò la cena ma l'animale non diede alcun segno. Certamente era accucciato poco lontano a guardare, ma non avanzava. E Hyde, ormai attento in un modo nuovo, fu acutamente cosciente della strana atmosfera assunta dalla sua personalità banale e comune: d'improvviso si rese conto che le sue relazioni con il lupo, già stabilite, avevano fatto un netto passo in avanti. Questo lo sorprese, ma la sorpresa non fu accompagnata dall'allarme che avrebbe certamente provato ventiquattro ore prima. Capiva il lupo. Era conscio di provare dei sentimenti amichevoli nei suoi confronti. Si spinse a tal punto da mettere qualche grosso pesce nel punto dove l'aveva visto la prima volta la notte precedente. «Se viene», pensò, «li mangerà volentieri. Io ne ho in abbondanza, ad ogni modo.» Ormai pensava al lupo come a una persona. Ma il lupo non si fece vedere finché Hyde non fu sul punto di entrare nella tenda molto tempo dopo. Erano quasi le dieci, sebbene le nove fosse l'ora in cui andava a dormire. Inconsciamente, l'aveva aspettato. Poi, mentre stava chiudendo la tenda, vide gli occhi nel posto in cui aveva messo il pesce. Attese, nascondendosi e aspettandosi di sentire il rumore di mandibole che masticavano, ma tutto rimase in silenzio. Solo gli occhi lampeggiavano fermi sullo sfondo dei boschi bui. Chiuse la tenda. Non provava la minima paura. Dopo dieci minuti era profondamente addormentato. Non doveva aver dormito molto perché, quando si svegliò, vide un debole bagliore rossastro attraverso la tela, e il fuoco non si era spento completamente. Si alzò e scrutò cautamente fuori. L'aria era molto fredda, e il suo respiro si condensava in nuvolette di vapore. Ma vide anche il lupo, perché si era avvicinato, ed era accucciato accanto al fuoco morente, a cir-
ca due metri dall'entrata della tenda. E questa volta, a una distanza così ravvicinata, ci fu qualcosa nell'atteggiamento della grande creatura selvatica che attrasse la sua attenzione con un fremito di sorpresa e uno shock improvviso che lo immobilizzò. Guardò, incapace di credere ai propri occhi. L'atteggiamento del lupo gli comunicava qualcosa di familiare che lui sulle prime non fu in grado di spiegare. La sua posizione gli faceva pensare a qualcos'altro con cui lui aveva familiarità. Che cos'era? Forse i sensi lo tradivano? Stava ancora dormendo o quello era un sogno? Poi, a un tratto, con un sussulto, riconobbe e capì. Il suo atteggiamento era quello di un cane. Una volta trovata la chiave di interpretazione, la sua mente fece un balzo spaventoso. Perché quello, dopotutto, era solo la scimmiottatura di un cane, era qualcosa di più vicino a lui, e di ancora più familiare. Buon Dio! L'atteggiamento, la posizione di riposo del lupo, avevano qualcosa di quasi umano. E poi, con una seconda scossa di pungente meraviglia, ebbe una rivelazione. Il lupo sedeva accanto al fuoco così come si sarebbe seduto un uomo. Prima che potesse soppesare la sua straordinaria scoperta, prima che la potesse esaminare nei particolari e con cura, l'animale, seduto in quella maniera spaventosa, sembrò sentire gli occhi dell'uomo fissi su di lui. Si girò lentamente a guardarlo in volto e, per la prima volta, Hyde sentì una paura superstiziosa, atavica, sommergere il suo intero essere. Sembrò trafitto dal terrore senza nome che si dice assalga gli esseri umani che si trovino d'improvviso davanti alla morte, ritrovandosi incapaci di parlare e di muoversi. Certamente, fu colto da quel momento di paralisi. Comunque, passò nello stesso modo singolare in cui era venuto. Perché quasi subito fu cosciente di qualcosa che andava al di là e al di sopra di quella imitazione di una posa e di un atteggiamento umani, qualcosa che fluiva lungo i suoi nervi non abituati, raggiungeva i suoi sensi, e forse perfino il cuore. L'improvviso mutamento fu straordinario, ma il suo risultato fu ancora più straordinario e inatteso. Eppure il fatto restava. Fu cosciente di un altro fattore che ebbe l'effetto di placare il suo terrore rapidamente com'era nato. Fu cosciente di una supplica silenziosa, inespressa, ma patetica. Vide in quegli occhi selvaggi un'espressione implorante, perfino struggente, che cambiò come per magia la sua paura in una simpatia spontanea. Il grande animale grigio, simbolo di crudele ferocia, sedeva accanto al fuoco morente e chiedeva aiuto. L'abisso tra esseri umani e animali in quel momento sembrò colmarsi. Era, naturalmente, incredibile. Hyde, con la coscienza ancora annebbiata
dal sonno e dai sogni, riconobbe, senza sapere come, quel fatto stupefacente. Si sorprese a fare un cenno di assenso al lupo e, immediatamente, senza rumore, la forma snella e grigia si alzò come un fantasma e si allontanò al trotto, con passo fermo, verso l'oscurità della notte. Quando la mattina dopo Hyde si svegliò, la sua prima impressione fu di avere sognato l'intero incidente. La sua natura pratica ebbe la meglio. La fresca aria autunnale era frizzante, il sole brillante non lasciava nessuna zona di penombra, e lui si sentiva forte nell'animo e nel corpo. Quando ripensò a ciò che era accaduto, arrivò alla conclusione che era completamente inutile ragionare. Non gli venne in mente nessuna spiegazione possibile del comportamento dell'animale: aveva a che fare con qualcosa di completamente estraneo alla sua esperienza. La paura, però, l'aveva lasciato del tutto. Rimaneva quello strano senso di amicizia. L'animale aveva uno scopo definito, e lo stesso Hyde era incluso in quello scopo. La sua simpatia era valida. Ma insieme alla simpatia c'era anche una curiosità intensa. «Se ritorna», si disse, «mi avvicinerò e scoprirò che cosa vuole.» Il pesce che aveva lasciato la sera prima non era stato toccato. Fu un'ora dopo la colazione che rivide l'animale: era ai margini della radura e lo guardava in un modo che ormai gli era divenuto familiare. Hyde immediatamente afferrò l'ascia e avanzò coraggiosamente verso il lupo, tenendo gli occhi fissi nei suoi. Era nervoso, ma si controllava. Nulla tradì il suo nervosismo. Un passo dopo l'altro, si avvicinò finché li separarono solo una decina di metri. Il lupo non aveva ancora mosso nemmeno un muscolo. La mascella inferiore era abbassata, e i suoi occhi lo osservavano intensamente. Lo lasciò avvicinare senza far capire quale fosse il suo umore. Poi, quando ci furono solo dieci metri tra loro, si girò di scatto e si avviò lentamente, guardandosi indietro prima da un lato e poi dall'altro, esattamente come avrebbe fatto un cane, per vedere se Hyde lo seguiva. Fu un viaggio singolare quello che fecero insieme l'animale e l'uomo. Furono subito circondati dagli alberi, perché lasciarono dietro di loro il lago, ed entrarono nella macchia intricata che era al di là dell'acqua. L'animale, notò Hyde, prese ovviamente i sentieri che lui poteva percorrere più facilmente. Gli ostacoli, che non significavano niente per un quadrupede esperto ma erano difficoltosi per un uomo, furono evitati dal lupo con un'intelligenza soprannaturale, mentre la direzione generale fu mantenuta accuratamente. Ogni tanto c'erano degli alberi abbattuti da superare; ma, sebbene il lupo li superasse con facilità, si fermava sempre ad aspettare che
l'uomo vi si arrampicasse a fatica e spuntasse dall'altra parte. Si addentrarono sempre più nel cuore della foresta solitaria in quel modo particolare. A Hyde parve che tagliassero l'arco della mezzaluna del lago. Infatti, dopo circa due miglia, riconobbe il grande promontorio roccioso che era a picco sulla riva settentrionale del lago. Dal suo accampamento aveva visto quel promontorio un cui lato scendeva ripido fino all'acqua. Aveva immaginato che fosse il posto in cui gli Indiani tenevano le loro cerimonie magiche, perché si ergeva isolato e la sua cima non era di facile accesso. E fu lì, vicino a un grande abete che era ai piedi del promontorio, che il lupo si fermò improvvisamente e diede per la prima volta espressione ai propri sentimenti. Si accucciò sulle zampe posteriori, alzò il muso, aprì le mascelle, ed emise un guaito lungo e sommesso che era molto più simile al lamento di un cane che al feroce ululato che in genere si associa al lupo. Nel frattempo, Hyde aveva perso non solo ogni paura, ma anche la cautela. E, piuttosto stranamente, quel guaito non risvegliò in lui nessuna emozione spiacevole. In quello strano suono, egli riconobbe lo stesso messaggio che comunicavano gli occhi: una richiesta di aiuto. Cionondimeno si fermò, un po' spaventato e, mentre il lupo aspettava, si guardò rapidamente intorno. Gli alberi erano giovani: evidentemente, prima quella era una piccola radura. Ascia e fuoco avevano fatto il loro lavoro, ma a un occhio esperto era chiaro che vi avevano lavorato degli Indiani e non uomini bianchi. Una parte dei rituali magici, senza dubbio, avveniva in quella piccola radura, pensò l'uomo, mentre avanzava verso il suo paziente compagno. La fine del loro strano viaggio era vicina, sentiva Hyde. Non aveva ancora fatto due passi, che l'animale si alzò e si mosse lentamente in direzione di alcuni cespugli bassi che formavano una macchia. Entrò tra i cespugli, voltandosi per assicurarsi che il suo compagno lo stesse guardando. I cespugli lo nascosero: un momento dopo riemerse. Compì due volte quella pantomima: ogni volta, quando riapparve, si fermò a guardare l'uomo con l'espressione più implorante che un animale riesce ad assumere. La sua eccitazione, intanto, aumentò, e quella eccitazione fu comunicata all'uomo. Hyde prese in fretta la propria decisione. Afferrò più strettamente il manico dell'ascia e si tenne pronto a usarla al primo segno di aggressività, e poi si mosse lentamente verso i cespugli, chiedendosi con un po' di paura che cosa sarebbe accaduto. Se si aspettava di essere sorpreso, le sue aspettative furono colmate; ma
fu il comportamento dell'animale a farlo trasalire. Gli saltellò intorno, scodinzolando come un cane allegro. Saltellava di gioia. La sua eccitazione era intensa, eppure dalla bocca aperta non proveniva alcun suono. Con un balzo improvviso, poi, saltò oltre Hyde nel folto di cespugli. Si fermò ai bordi, e cominciò a grattare con forza sul terreno. Hyde si fermò a guardare, e lo stupore e l'interesse allontanarono il nervosismo, perfino quando l'animale, nel suo movimento violento, toccò il suo corpo con il proprio. Hyde, forse, aveva la sensazione di vivere in un sogno, uno di quei sogni fantastici in cui può accadere qualsiasi cosa ma mai niente è sorprendente. Altrimenti, il modo in cui il lupo grattava e scalfiva il terreno gli sarebbe dovuto apparire un fenomeno impossibile. Nessun lupo, certamente nessun cane, avrebbe usato le zampe nel modo in cui le usava quell'animale. Hyde ebbe la sensazione strana, angosciante, di stare guardando mani e non zampe. Eppure, in qualche modo, la sorpresa naturale che avrebbe dovuto sentire era assente. Lo strano comportamento del lupo non gli sembrava del tutto innaturale. Nel suo cuore si sprigionò una corrente di simpatia e di pietà Fu cosciente di un grande dolore. Il lupo interruppe la sua attività e alzò gli occhi sull'uomo. Hyde allora agì senza più esitare. In seguito, non fu assolutamente in grado di spiegare la propria condotta. Seppe che cosa doveva fare, indovinò che cosa gli veniva chiesto, che cosa l'animale si aspettava da lui. Tra la sua mente e il muto desiderio che dilaniava la belva, si creò una comunicazione intelligente e intellegibile. Egli tagliò un ramo e lo affilò, perché le pietre avrebbero spuntato la lama dell'ascia, quindi entrò nel folto di cespugli per completare lo scavo cominciato dal suo compagno quadrupede. E, mentre lavorava, sebbene non dimenticasse la vicinanza del lupo, non gli prestò alcuna attenzione. Spesso gli voltava la schiena e si chinava sul duro scavo. In lui non c'era più né disagio né senso del pericolo. Il lupo era accucciato accanto ai cespugli e guardava i suoi movimenti. La sua attenzione concentrata, la sua pazienza, il suo desiderio intenso, la gentilezza e la docilità di quell'animale grigio, feroce e forse affamato, il suo piacere e la sua soddisfazione evidente nell'aver conquistato l'essere umano ai suoi fini misteriosi: tutti questi furono i colori dello strano quadro a cui Hyde pensò più tardi quando si trovò di nuovo a trattare con il gregge umano del suo albergo. In quel momento era cosciente soprattutto del grande dolore e della compassione. Tutta quella storia era, naturalmente, incredibile, ma questa sco-
perta avvenne più tardi, quando volle raccontare la sua esperienza agli altri. Lo scavo continuò per una mezz'ora prima che le sue fatiche fossero ricompensate dalla scoperta di un piccolo oggetto biancastro. Lo sollevò e lo esaminò: era l'osso di una mano umana. Seguirono in fretta molte altre scoperte. Il nascondiglio fu messo a nudo. Raccolse quasi tutto lo scheletro. Il teschio, però, lo trovò alla fine, e non l'avrebbe trovato affatto, se non fosse stato per il suo compagno attento e vigile. Era a qualche metro dal fosso appena scavato. Il lupo strofinò il muso sul terreno e Hyde capì che doveva scavare esattamente in quel punto per trovare il teschio. Tra le zampe del lupo ficcò il ramo nel duro terreno. Grattò la terra dall'osso e lo esaminò con attenzione. Era perfetto, tranne per il fatto che qualche animale selvaggio l'aveva morso, e le impronte dei denti erano ancora chiaramente visibili. Accanto ad esso, c'era la testa di ferro arrugginita di un tomahawk. Quest'ultimo e la piccolezza delle ossa gli confermarono l'idea che non si trattava dello scheletro di un uomo bianco, ma di un Indiano. Durante l'eccitazione della scoperta delle ossa, e poi del teschio ma, soprattutto, durante i momenti di intenso interesse in cui Hyde li esaminava, prestò poca attenzione al lupo. Era conscio che l'animale era accucciato e lo guardava, senza mai spostare gli occhi penetranti dalle varie operazioni, ma non fece alcun segno né si mosse. Sapeva che l'animale era contento e soddisfatto, sapeva anche di aver adempiuto al suo desiderio. L'ulteriore intuizione che ebbe, derivata, ne era certo, dal muto desiderio del suo compagno, fu forse la parte più interessante di tutta la sua esperienza. Raccolte le ossa nella sua giacca, le portò, insieme al tomahawk, ai piedi del grande abete, nel punto in cui il lupo si era fermato la prima volta. La sua gamba sfiorò il muso della creatura. Il lupo girò la testa a guardarlo, ma non lo seguì né si mosse mentre preparava la piattaforma di ramoscelli. Sul letto di rami appoggiò le povere ossa logore di un Indiano che era stato ucciso, senza dubbio, in un attacco improvviso o in un'imboscata, e ai cui resti era stata negata l'ultima grazia di una giusta sepoltura tribale. Avvolse quindi le ossa nella corteccia, e posò il tomahawk accanto al teschio. Accese un fuoco tutt'intorno alla pira, e il fumo azzurrino si alzò nella luce abbagliante della mattinata autunnale finché si perse in alto tra le cime degli alberi. Nel momento in cui aveva acceso il fuocherello si era girato a vedere che cosa stava facendo il suo compagno. Era accucciato a cinque, sei metri di distanza. Hyde vide che guardava intensamente la scena e che una delle
sue zampe anteriori era leggermente sollevata dal terreno. Non fece alcun segno. L'uomo finì il lavoro, e ne fu tanto assorbito che non ebbe occhi che per la cura del suo fuoco cerimoniale. Solo quando la piattaforma di ramoscelli crollò, lasciando cadere gentilmente le ossa bruciate sul terreno fragrante tra le soffici ceneri di legno, l'uomo si girò di nuovo, come se volesse mostrare al lupo che cosa aveva fatto, e vedere, forse, un'espressione soddisfatta in quegli occhi stranamente espressivi. Ma il lupo era scomparso. Non lo vide più: da nessuna parte c'era traccia della sua presenza, Hyde non era più osservato. Pescò come prima, camminò nella macchia che circondava l'accampamento, sedette a fumare accanto al fuoco la sera, e dormì tranquillamente nella tenda piccola e comoda. Non fu disturbato. Nella lontana foresta non si sentì nemmeno un guaito, nessun ramoscello schioccò sotto un passo fermo e pesante, non vide nessun paio di occhi. Il lupo che si comportava come un uomo era scomparso per sempre. Il giorno prima di partire Hyde notò che dalla capanna, che si trovava dall'altra parte del lago, usciva del fumo. Pagaiò fino all'altra riva per scambiare qualche parola con l'Indiano che evidentemente era tornato. Il pellerossa gli andò incontro mentre lui tirava in secco la canoa, ma fu subito chiaro che parlava molto male l'inglese. Sulle prime, emise solo dei grugniti familiari, poi, poco a poco, Hyde mise in pratica il suo vocabolario limitato. Il risultato, però, fu scarso. «Tu accampare lì?», chiese l'uomo, indicando l'altra riva. «Sì.» «Il lupo venire?» «Sì.» «Tu vedere lupo?» «Sì.» L'Indiano lo fissò per un momento, e il suo volto ramato e rugoso assunse un'espressione penetrante e curiosa. «Tu avere paura del lupo?», chiese dopo un momento di pausa. «No», replicò Hyde, in tutta sincerità. Sapeva che era inutile fare domande, sebbene desiderasse avidamente ottenere delle informazioni. L'altro non gli avrebbe detto niente. Era già una fortuna che l'uomo avesse toccato quell'argomento, e Hyde capì che il suo ruolo era solo rispondere, non porre domande. Poi, d'improvviso, l'Indiano divenne relativamente loquace. C'era timore reverenziale nella sua voce e nelle sue maniere. «Lui non lupo. Lui grande lupo stregone. Lui spirito di lupo.»
Dopodiché, bevve il tè che l'altro gli aveva preparato, serrò le labbra e non disse altro. La sua sagoma era visibile sulla riva, rigida e immobile, un'ora dopo, quando la canoa di Hyde girò l'angolo del lago a tre miglia di distanza, ed egli la tirò in secco per far risalire ai bagagli la prima rapida del suo viaggio di ritorno. Fu Morton che, persuaso da Hyde, gli fornì ulteriori particolari di quella che definiva «la leggenda». Un centinaio di anni prima, la tribù che viveva nel territorio al di là del lago aveva cominciato le annuali cerimonie magiche sul grande promontorio roccioso, posto sulla riva settentrionale. Ma non poté essere realizzata nessuna magia. Gli spiriti, dichiarò il capostregone, non avrebbero risposto. Erano offesi. Seguì un'indagine. Si scoprì che un giovane indiano aveva ucciso un lupo, un'azione severamente proibita, visto che il lupo era l'animale totem della tribù. A peggiorare la situazione, il nome del colpevole era Lupo-Che-Corre. Poiché l'offesa era imperdonabile, l'uomo fu maledetto e scacciato dalla tribù. «Va' via. Erra solo nei boschi e, se ti vedremo, ti uccideremo. Le tue ossa saranno sparse nella foresta e il tuo spirito non entrerà nei Beati Territori di Caccia finché un uomo di un'altra razza non le troverà e le brucerà.» «Il che significa», spiegò Morton laconicamente, e fu il suo unico commento alla storia, «probabilmente per sempre». MALE DI LUNA di Luigi Pirandello Corriere della Sera, 22 settembre 1913 Batà sedeva tutto aggruppato su un fascio di paglia, in mezzo all'aja. Sidora, sua moglie, di tratto in tratto si voltava a guardarlo, in pensiero, dalla soglia su cui stava a sedere, col capo appoggiato allo stipite della porta, e gli occhi socchiusi. Poi, oppressa dalla gran calura, tornava ad allungare lo sguardo alla striscia azzurra di mare lontano, come in attesa che un soffio d'aria, essendo ormai prossimo il tramonto, si levasse di là e trascorresse lieve fino a lei, a traverso le terre nude, irte di stoppie bruciate. Tanta era la calura, che su la paglia rimasta su l'aja dopo la trebbiatura, l'aria si vedeva tremolare com'alito di bragia. Batà aveva tratto un filo dal fascio su cui stava seduto, e tentava di batterlo con mano svogliata su gli scarponi ferrati. Il gesto era vano. Il filo di paglia, appena mosso, si piegava. E Batà restava cupo e assorto, a guardare in terra.
Era nel fulgore tetro e immoto dell'aria torrida un'oppressione così soffocante, che quel gesto vano del marito, ostinatamente ripetuto, dava a Sidora una smania insopportabile. In verità, ogni atto di quell'uomo, e anche la sola vista le davano quella smania, ogni volta a stento repressa. Sposata a lui da appena venti giorni, Sidora si sentiva già disfatta, distrutta. Avvertiva dentro e intorno a sé una vacuità strana, pesante e atroce. E quasi non le pareva vero, che da sì poco tempo era stata condotta lì, in quella vecchia roba isolata, stalla e casa insieme, in mezzo al deserto di quelle stoppie, senz'un albero intorno, senza un filo d'ombra. Lì, soffocando a stento il pianto e il ribrezzo, da venti giorni appena aveva fatto abbandono del proprio corpo a quell'uomo taciturno, che aveva circa vent'anni di più di lei e su cui pareva gravasse ora una tristezza più disperata della sua. Ricordava ciò che le donne del vicinato avevano detto alla madre, quando questa aveva loro annunziato la richiesta di matrimonio. «Batà? Oh Dio, io per me non lo darei a una mia figliuola.» La madre aveva creduto lo dicessero per invidia, perché Batà per la sua condizione era agiato. E tanto più s'era ostinata a darglielo, quanto più quelle con aria afflitta s'erano mostrate restie a partecipare alla sua soddisfazione per la buona ventura che toccava alla figlia. No, in coscienza non si diceva nulla di male di Batà, ma neanche nulla di bene. Buttato sempre là, in quel suo pezzo di terra lontano, non si sapeva come vivesse; stava sempre solo, come una bestia in compagnia delle sue bestie, due mule, un'asina e il cane di guardia; e certo aveva un'aria strana, truce e a volte da insensato. C'era stata veramente un'altra ragione e forse più forte, per cui la madre s'era ostinata a darle quell'uomo. Sidora ricordava anche quest'altra ragione che in quel momento le appariva lontana lontana, come d'un'altra vita, ma pure spiccata, precisa. Vedeva due fresche labbra argute e vermiglie come due foglie di garofano aprirsi a un sorriso che le faceva fremere e frizzare tutto il sangue nelle vene. Erano le labbra di Saro, suo cugino, che nell'amore di lei non aveva saputo trovar la forza di rinsavire, di liberarsi dalla compagnia dei tristi amici, per togliere alla madre ogni pretesto d'opporsi alle loro nozze. Ah, certo, Saro sarebbe stato un pessimo marito; ma che marito era questo, adesso? Gli affanni, che senza dubbio le avrebbe dati quell'altro, non eran forse da preferire all'angoscia, al ribrezzo, alla paura, che le incuteva questo?
Batà, alla fine, si sgruppò; ma appena levato in piedi, quasi colto da vertigine, fece un mezzo giro su se stesso; le gambe, come impastojate, gli si piegarono; si sostenne a stento, con le braccia per aria. Un mugolo quasi di rabbia gli partì dalla gola. Sidora accorse atterrita; ma egli l'arrestò con un cenno delle braccia. Un fiotto di saliva, inesauribile, gl'impediva di parlare. Arrangolando, se lo ricacciava dentro; lottava contro i singulti, con un gorgoglio orribile nella strozza. E aveva la faccia sbiancata, torbida, terrea; gli occhi foschi e velati, in cui dietro la follia si scorgeva una paura quasi infantile, ancora cosciente, infinita. Con le mani seguitava a farle cenno di attendere e di non spaventarsi e di tenersi discosta. Alla fine, con voce che non era più la sua, disse: «Dentro... chiuditi dentro... bene... Non ti spaventare... Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido... non ti spaventare... non aprire... Niente... va'! va'!» «Ma che avete?» gli gridò Sidora, raccapricciata. Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d'un braccio indicò il cielo, e urlò: «La luna!» Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocca. Asserragliata dentro, tenendosi stretta come a impedire che le membra le si staccassero dal tremore continuo, crescente, invincibile, mugolando anche lei, forsennata dal terrore, udì poco dopo gli ululi lunghi, ferini, del marito che si scontorceva fuori, là davanti la porta, in preda al male orrendo che gli veniva dalla luna, e contro la porta batteva il capo, i piedi, i ginocchi, le mani, e la graffiava, come se le unghie gli fossero diventate artigli, e sbuffava, quasi nell'esasperazione d'una bestiale fatica rabbiosa, quasi volesse sconficcarla, schiantarla, quella porta, e ora latrava, latrava, come se avesse un cane in corpo, e daccapo tornava a graffiare, sbruffando, ululando, e a battervi il capo, i ginocchi. «Ajuto! ajuto!» gridava lei, pur sapendo che nessuno in quel deserto avrebbe udito le sue grida. «Ajuto! ajuto!» e reggeva la porta con le braccia, per paura che da un momento all'altro, non ostante i molti puntelli, cedesse alla violenza iterata, feroce, accanita, di quella cieca furia urlante. Ah, se avesse potuto ucciderlo! Perduta, si voltò, quasi a cercare un'arma
nella stanza. Ma a traverso la grata d'una finestra, in alto, nella parete di faccia, di nuovo scorse la luna, ora limpida, che saliva nel cielo, tutto inondato di placido albore. A quella vista, come assalita d'improvviso dal contagio del male, cacciò un gran grido e cadde riversa, priva di sensi. Quando si riebbe, in prima, nello stordimento, non comprese perché fosse così buttata a terra. I puntelli della porta le richiamarono la memoria e subito s'atterrì del silenzio che ora regnava là fuori. Sorse in piedi; s'accostò vacillante alla porta, e tese l'orecchio. Nulla, più nulla. Stette a lungo in ascolto, oppressa ora di sgomento per quell'enorme silenzio misterioso, di tutto il mondo. E alla fine le parve d'udire da presso un sospiro, un gran sospiro, come esalato da un'angoscia mortale. Subito corse alla cassa sotto il letto; la trasse avanti; l'aprì; ne cavò la mantellina di panno; ritornò alla porta; tese di nuovo a lungo l'orecchio, poi levò a uno a uno in fretta, silenziosamente, i puntelli, silenziosamente levò il paletto, la stanga; schiuse appena un battente, guatò attraverso lo spiraglio per terra. Batà era lì. Giaceva come una bestia morta, bocconi, tra la bava, nero, tumefatto, le braccia aperte. Il suo cane, acculato lì presso, gli faceva la guardia, sotto la luna. Sidora venne fuori rattenendo il fiato; riaccostò pian piano la porta, fece al cane un segno rabbioso di non muoversi di lì, e cauta, a passi di lupo, con la mantellina sotto il braccio, prese la fuga per la campagna, verso il paese, nella notte ancora alta, tutta soffusa dal chiarore della luna. Arrivò al paese, in casa della madre, poco prima dell'alba. La madre s'era alzata da poco. La catapecchia, buja come un antro, in fondo a un vicolo angusto, era stenebrata appena da una lumierina a olio. Sidora parve la ingombrasse tutta, precipitandosi dentro, scompigliata, affannosa. Nel veder la figliuola a quell'ora, in quello stato, la madre levò le grida e fece accorrere con le lumierine a olio in mano tutte le donne del vicinato. Sidora si mise a piangere forte e, piangendo, si strappava i capelli, fingeva di non poter parlare per far meglio comprendere e misurare alla madre, alle vicine, l'enormità del caso che le era occorso, della paura che s'era presa. «Il male di luna! il male di luna!» Il terrore superstizioso di quel male oscuro invase tutte le donne, al racconto di Sidora. Ah, povera figliuola! Lo avevano detto esse alla madre, che quell'uomo
non era naturale, che quell'uomo doveva nascondere in sé qualche grossa magagna; che nessuna di loro lo avrebbe dato alla propria figliuola. Latrava eh? ululava come un lupo? graffiava la porta? Gesù, che spavento! E come non era morta, povera figliuola? La madre, accasciata su la seggiola, finita, con le braccia e il capo ciondoloni, nicchiava in un canto: «Ah figlia mia! ah figlia mia! ah povera figliuccia mia rovinata!» Sul tramonto, si presentò nel vicolo, tirandosi dietro per la cavezza le due mule bardate, Batà, ancora gonfio e livido, avvilito, abbattuto, imbalordito. Allo scalpiccio delle mule sui ciottoli di quel vicolo che il sole d'agosto infocava come un forno, e che accecava per gli sbarbagli della calce, tutte le donne, con gesti e gridi soffocati di spavento, si ritrassero con le seggiole in fretta nelle loro casupole, e sporsero il capo dall'uscio a spiare e ad ammiccarsi tra loro. La madre di Sidora sulla soglia si parò, fiera e tutta tremante di rabbia, e cominciò a gridare: «Andate via, malo cristiano! Avete il coraggio di ricomparirmi davanti? Via di qua! via di qua! Assassino traditore, via di qua! Mi avete rovinato una figlia! Via di qua!» E seguitò per un pezzo a sbraitare così, mentre Sidora, rincantucciata dentro, piangeva, scongiurava la madre di difenderla, di non dargli passo. Batà ascoltò a capo chino minacce e vituperii. Gli toccavano: era in colpa; aveva nascosto il suo male. Lo aveva nascosto, perché nessuna donna se lo sarebbe preso, se egli lo avesse confessato avanti. Era giusto che ora della sua colpa pagasse la pena. Teneva gli occhi chiusi e scrollava amaramente il capo, senza muoversi d'un passo. Allora la suocera gli batté la porta in faccia e ci mise dietro la stanga. Batà rimase ancora un pezzo, a capo chino, davanti a quella porta chiusa, poi si voltò e scorse su gli usci delle altre casupole tanti occhi smarriti e sgomenti, che lo spiavano. Videro quegli occhi le lagrime sul volto dell'uomo avvilito, e allora lo sgomento si cangiò in pietà. Una prima comare più coraggiosa gli porse una sedia; le altre, a due, a tre, vennero fuori, e gli si fecero attorno. E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un'aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui
povero innocente, con la pancina all'aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva «incantato». L'incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s'era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa andasse giù alla roba, a tenerle compagnia. «Chi? mia madre?» saltò a gridare a questo punto, avvampata d'ira, con occhi feroci, Sidora, spalancando la porta, dietro alla quale se ne era stata a origliare. «Voi siete pazzo! Volete far morire di paura anche mia madre?» Questa allora venne fuori anche lei, scostando con un gomito la figlia e imponendole di star zitta e quieta in casa. Si accostò al crocchio delle donne, ora divenute tutte pietose, e si mise a confabular con esse, poi con Batà da sola a solo. Sidora dalla soglia, stizzita e costernata, seguiva i gesti della madre e del marito; e, come le parve che questi facesse con molto calore qualche promessa che la madre accoglieva con evidente piacere, si mise a strillare: «Gnornò! Scordatevelo! State ad accordarvi tra voi? È inutile! è inutile! Debbo dirlo io!» Le donne del vicinato le fecero cenni pressanti di star zitta, d'aspettare che il colloquio terminasse. Alla fine Batà salutò la suocera, le lasciò in consegna una delle due mule, e, ringraziate le buone vicine, tirandosi dietro l'altra mula per la cavezza, se ne andò. «Sta' zitta, sciocca!» disse subito, piano, la madre a Sidora, rincasando. «Quando farà la luna, verrò giù io, con Saro...» «Con Saro? L'ha detto lui?» «Gliel'ho detto io, sta' zitta! Con Saro.» E, abbassando gli occhi per nascondere il sorriso, finse d'asciugarsi la bocca sdentata con una cocca del fazzoletto che teneva in capo, annodato sotto il mento, e aggiunse: «Abbiamo forse, di uomini, altri che lui nel nostro parentado? È l'unico che ci possa dare ajuto e conforto. Sta' zitta!» Così la mattina appresso, all'alba, Sidora ripartì per la campagna su quell'altra mula lasciata dal marito.
Non pensò ad altro più, per tutti i ventinove giorni che corsero fino alla nuova quintadecima. Vide quella luna d'agosto a mano a mano scemare e sorgere sempre più tardi, e col desiderio avrebbe voluto affrettarne le fasi declinanti; poi per alcune sere non la vide più; la rivide infine tenera, esile nel cielo ancora crepuscolare, e a mano a mano, di nuovo crescere sempre più. «Non temere,» le diceva, triste, Batà, vedendola con gli occhi sempre fissi alla luna. «C'è tempo ancora, c'è tempo! Il guajo sarà, quando non avrà più le corna...» Sidora, a quelle parole accompagnate da un ambiguo sorriso, si sentiva gelare e lo guardava sbigottita. Giunse alla fine la sera tanto sospirata e insieme tanto temuta. La madre arrivò a cavallo col nipote Saro due ore prima che sorgesse la luna. Batà se ne stava come l'altra volta aggruppato tutto sull'aja, e non levò neppure il capo a salutare. Sidora, che fremeva tutta, fece segno al cugino e alla madre di non dirgli nulla e li condusse dentro la roba. La madre andò subito a ficcare il naso in un bugigattolino bujo, ov'erano ammucchiati vecchi arnesi da lavoro, zappe, falci, bardelle, ceste, bisacce, accanto alla stanza grande che dava ricetto anche alle bestie. «Tu sei uomo,» disse a Saro, «e tu sai già com'è,» disse alla figlia; «io sono vecchia, ho paura più di tutti, e me ne starò rintanata qua, zitta zitta e sola sola. Mi chiudo bene, e lui faccia pure il lupo fuori.» Riuscirono tutti e tre all'aperto, e si trattennero un lungo pezzo a conversare davanti alla roba. Sidora, a mano a mano che l'ombra inchinava su la campagna, lanciava sguardi vieppiù ardenti e aizzosi. Ma Saro, pur così vivace di solito, brioso e buontempone, si sentiva all'incontro a mano a mano smorire, rassegare il riso su le labbra, inaridir la lingua. Come se sul murello, su cui stava seduto, ci fossero spine, si dimenava di continuo e inghiottiva con stento. E di tratto in tratto allungava di traverso uno sguardo a quell'uomo lì in attesa dell'assalto del male; allungava anche il collo per vedere se dietro le alture della Crocca non spuntasse la faccia spaventosa della luna. «Ancora niente,» diceva alle due donne. Sidora gli rispondeva con un gesto vivace di noncuranza e seguitava, ridendo, ad aizzarlo con gli occhi. Di quegli occhi, ormai quasi impudenti, Saro cominciò a provare orrore e terrore, più che di quell'uomo là aggruppato, in attesa.
E fu il primo a spiccare un salto da montone dentro la roba, appena Batà cacciò il mugolo annunziatore e con la mano accennò ai tre di chiudersi subito dentro. Ah, con qual furia si diede a metter puntelli e puntelli e puntelli, mentre la vecchia si rintanava mogia mogia nello sgabuzzino, e Sidora, irritata, delusa, gli ripeteva, con tono ironico: «Ma piano, piano... non ti far male... Vedrai che non è niente.» Non era niente? Ah, non era niente? Coi capelli drizzati su la fronte, ai primi ululi del marito, alle prime testate, alle prime pedate alla porta, ai primi sbruffi e graffi, Saro, tutto bagnato di sudor freddo, con la schiena aperta dai brividi, gli occhi sbarrati, tremava a verga a verga. Non era niente? Signore Iddio! Signore Iddio! Ma come? Era pazza quella donna là? Mentre il marito, fuori, faceva alla porta quella tempesta, eccola qua, rideva, seduta sul letto, dimenava le gambe, gli tendeva le braccia, lo chiamava: «Saro! Saro!» Ah sì? Irato, sdegnato, Saro d'un balzo saltò nel bugigattolo della vecchia, la ghermì per un braccio, la trasse fuori, la buttò a sedere sul letto accanto alla figlia. «Qua,» urlò. «Quest'è matta!» E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch'egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie. GLI INTRUSI The Interlopers di Saki (Hector Hugh Munro) The Bystander, 17 gennaio 1912 In una foresta di piante diverse, da qualche parte sui bastioni orientali dei Carpazi, c'era un uomo che se ne stava fermo nella notte invernale, intento a guardare e ad ascoltare, come se aspettasse che qualche creatura del bosco si facesse vedere e poi si portasse a tiro del suo fucile. Ma la cacciagione che stava aspettando con tanta ansia non era di quella che è permessa dal regolamento della caccia sportiva; Ulrich von Gradwitz pattugliava la foresta di notte in cerca di un nemico umano. Le terre boscose di Gradwitz erano molto estese e ricche di selvaggina; la sottile striscia di boscaglia scoscesa che le circondava non era rinomata per la selvaggina che ospitava o la caccia che vi si poteva fare, ma di tutte
quelle terre, era quella che il proprietario custodiva più gelosamente. Ai tempi di suo nonno, c'era stata una famosa causa legale per togliere quella terra a una famiglia di piccoli proprietari terrieri; la famiglia spodestata non aveva mai accettato il giudizio dei tribunali, e i rapporti fra tre generazioni delle due casate erano stati funestati da una serie di episodi di caccia di frodo e scandali simili. La guerra tra famiglie era diventata personale quando Ulrich si era ritrovato a capo della sua famiglia. Se c'era un uomo al mondo che detestava e al quale voleva male, questi era Georg Zynaem, erede della disputa e instancabile ladro di selvaggina, amante delle scorribande nella boscaglia coqtesa. La guerra forse si sarebbe calmata, o forse si sarebbe raggiunto un compromesso, se l'astio personale che divideva i due uomini non lo avesse impedito. Sin da ragazzi, erano stati assetati l'uno del sangue dell'altro, e ora che erano diventati uomini, ognuno pregava che l'altro cadesse sotto i colpi della malasorte. In quella notte invernale battuta dai venti, Ulrich aveva riunito i suoi guardacaccia per sorvegliare la foresta, non in cerca di prede quadrupedi, ma bensì per sorprendere i ladri che si sospettava avessero attraversato il confine della proprietà. I caprioli, che di solito durante le tempeste di vento rimanevano al riparo nelle cavità del terreno, quella notte correvano come posseduti, e fra le creature che di solito dormivano durante la notte, serpeggiava una certa agitazione. Certo nella foresta era presente un elemento di disturbo, e Ulrich riusciva ad immaginare da quale direzione venisse. Si allontanò, solo, dalle sentinelle che aveva fatto nascondere in cima alla collina, e percorse la ripida discesa facendosi largo nel fitto sottobosco, per riuscire a vedere - o a udire - qualche traccia dei malfattori, nonostante il fischio del vento e lo stormire incessante delle fronde. Se solo in quella notte furibonda, in quel luogo buio e isolato, egli avesse potuto imbattersi in Georg Zynaem, da uomo a uomo, senza testimoni... questo era il desiderio in cima ai suoi pensieri. Girò intorno al tronco di un faggio enorme, e si trovò faccia a faccia con l'uomo di cui andava in cerca. I due nemici si fissarono per un lungo attimo silenzioso. Entrambi imbracciavano un fucile, ed entrambi avevano il cuore pieno d'odio e la mente piena di pensieri omicidi. Era venuto il momento di lasciare libero sfogo alle passioni di tutta una vita. Ma, per un uomo che sia cresciuto secondo le regole di una cultura che predica il controllo delle passioni, non è facile sparare a freddo a un suo simile senza dire una parola, a meno che non sia stata recata offesa alla propria casa e al proprio onore.
Prima che i due avessero il tempo di vincere l'esitazione, un atto della stessa Natura ebbe il sopravvento. Un colpo di vento di forza inaudita aveva provocato uno schianto terribile sopra le teste dei due e, prima che fossero riusciti a scansarsi, erano già stati investiti da un faggio caduto. Ulrich von Gradwitz si trovò steso a terra, con un braccio spezzato e schiacciato sotto il suo stesso corpo, e l'altro quasi altrettanto inservibile, imprigionato in un fitto groviglio di rami. Aveva entrambe le gambe immobilizzate dal tronco caduto. I suoi piedi non erano stati schiacciati solo per via dei pesanti stivali da caccia che calzava ma, sebbene le sue fratture avrebbero potuto essere molto più gravi, era evidente che non sarebbe riuscito a muoversi se qualcuno non fosse venuto a toglierlo di lì. I rami, cadendo, lo avevano ferito al volto, e dovette scuotere via alcune gocce di sangue dalle ciglia prima di potersi rendere conto del disastro. Accanto a lui, così vicino che in una situazione normale avrebbe quasi potuto toccarlo, giaceva Georg Zynaem, vivo, che si dibatteva ma evidentemente era rimasto imprigionato. Tutto intorno ai due uomini erano sparsi rami spezzati. Il sollievo di trovarsi ancora vivo e l'esasperazione di sapersi imprigionato, fecero pronunciare a Ulrich un misto di ringraziamenti e di imprecazioni. Georg, quasi accecato dal sangue che gli colava sugli occhi, smise di dibattersi per un istante e poi fece una piccola risata di scherno. «Allora non sei morto, come dovevi essere, ma comunque non puoi muoverti!», esclamò. «Sei in trappola! È proprio da ridere: Ulrich von Gradwitz caduto in trappola nella sua stessa foresta. Questa sì che è giustizia!» E rise ancora, selvaggiamente e con scherno. «Io sono prigioniero nella mia foresta», replicò Ulrich. «Quando arriveranno i miei uomini a liberarci, però, forse desidererai essere in una situazione più favorevole: sei stato sorpreso a cacciare di frodo sulla terra del tuo vicino. Vergognati!» Georg per un po' non disse nulla; poi rispose, calmo: «Sei sicuro che troveranno qualcosa da liberare? Anch'io ho degli uomini con me, stasera, e saranno loro i primi a trovarci. Quando mi libereranno da questi rami maledetti, basterà un poco di sbadataggine da parte loro perché tu sia schiacciato da questo grande tronco. I tuoi uomini ti troveranno morto sotto un albero caduto. Per amor di convenienza, farò ugualmente le mie condoglianze alla tua famiglia». «Questo è un buon suggerimento», disse Ulrich con ferocia. «I miei uo-
mini avevano l'ordine di seguirmi dopo dieci minuti, e devono esserne già trascorsi almeno sette. Quando mi tireranno fuori, mi ricorderò di questa tua buona idea. Tuttavia, siccome sarai morto mentre rubavi selvaggina sulla mia terra, non credo che mi sarà possibile offrire condoglianze alla tua famiglia.» «Bene», ringhiò Georg, «bene! Risolviamo questa disputa fra noi, fino alla morte, e che nessun maledetto intruso si intrometta. Morte e dannazione a te, Ulrich von Gradwitz!» «Altrettanto a te, Georg Zynaem, ladro dei boschi e di selvaggina.» Entrambi parlavano con l'amarezza di una possibile sconfitta in mente, poiché ognuno sapeva che poteva passare molto tempo prima che i propri uomini venissero a cercarlo; era solo una questione di fortuna che l'uno o l'altro gruppo giungesse per primo fino a loro. Ormai entrambi avevano rinunciato alla inutile lotta per liberarsi dalla massa di legno che li teneva prigionieri; Ulrich ormai cercava solo di usare il braccio che aveva qualche possibilità di movimento per prendere la fiaschetta del vino che teneva nella tasca esterna del soprabito. Anche quando ebbe conclusa questa operazione, gli ci volle molto tempo perché riuscisse a svitare il tappo della bottiglia e a versarsi del vino in gola. Ma quel sorso sembrava mandato dal Cielo! L'inverno era ancora agli inizi, ed era caduta poca neve. Quindi i due uomini soffrirono meno freddo di quanto avrebbero potuto soffrirne, in quella stagione; tuttavia, il vino riscaldò e ravvivò l'uomo ferito, che rivolse uno sguardo quasi pietoso verso il suo nemico, che si sforzava di reprimere i gemiti di dolore e di stanchezza che volevano uscirgli dalle labbra. «Se ti lanciassi questa fiaschetta, riusciresti a prenderla?», gli chiese improvvisamente Ulrich. «C'è dentro del buon vino, e tanto vale non negarsi un po' di conforto. Beviamo dunque, anche se stanotte uno di noi dovrà morire.» «No, non riesco a vedere quasi nulla; ho gli occhi ingombri di sangue rappreso», disse Georg, «e comunque, non bevo vino insieme a un nemico.» Ulrich rimase in silenzio per qualche istante, ascoltando l'ululato stanco del vento. Nel suo cervello si stava formando un'idea, che cresceva piano piano e si rafforzava ogni volta che guardava quell'uomo in lotta contro il dolore e lo sfinimento. Tra il dolore e il languore che egli stesso provava, Ulrich sentiva quell'antico odio spegnersi. «Vicino», disse poco dopo, «fai pure come credi, se i tuoi uomini doves-
sero arrivare per primi. È giusto. Ma per quel che mi riguarda, ho cambiato idea. Se i miei uomini arrivassero per primi, tu sarai il primo ad essere liberato, come mio ospite. Per tutta la vita abbiamo litigato come dèmoni per questa stupida foresta in cui gli alberi non riescono nemmeno a resistere a un poco di vento. Comincio a credere che siamo stati degli stupidi. Nella vita ci sono cose più importanti che vincere una disputa di confine. Vicino: se tu mi aiuti a dimenticare questa disputa, io... ti chiederò di essere mio amico.» Georg Zynaem rimase in silenzio così a lungo che Ulrich credette fosse svenuto, forse per il dolore provocatogli dalle ferite. Invece cominciò a parlare lentamente, a scatti. «Pensa a come la gente ci guarderebbe, cosa direbbero se ci vedessero arrivare insieme nella piazza del mercato. Nessun uomo vivente ricorda di aver visto uno Zynaem e un von Gradwitz parlarsi in amicizia. E che pace ci sarebbe fra la gente dei boschi se stasera mettessimo fine alla nostra guerra. E se decidessimo di far la pace tra le nostre genti, nessuno potrebbe interferire, non ci sarebbero intrusi da fuori. ...Verresti a passare da me la notte di San Silvestro, e io verrei a mangiare alla tua tavola un altro giorno di festa... non sparerei mai nemmeno un colpo sulla tua terra, tranne se tu mi invitassi come ospite; e tu potresti venire a caccia con me nella palude, dove vivono le anatre. In tutto il paese nessuno potrebbe ostacolarci, se decidessimo di fare la pace. Ho sempre creduto che l'unico mio desiderio fosse di odiarti per tutta la vita, ma credo di aver cambiato idea anch'io in quest'ultima mezz'ora. Tu mi hai offerto da bere... Ulrich von Gradwitz, accetto di essere tuo amico!» Per un po' i due uomini rimasero in silenzio, rimuginando sui meravigliosi cambiamenti che quella improvvisa riconciliazione avrebbe potuto provocare. Rimasero stesi nella foresta buia e fredda, mentre il vento soffiava tra i rami nudi e fischiava attorno ai tronchi, e attesero gli uomini che avrebbero portato soccorso e libertà ad entrambi. Ognuno, fra sé, pregava che i propri uomini fossero i primi ad arrivare, in modo di avere l'occasione di mostrare quella nobile cortesia verso il nemico che era divenuto amico. Poco dopo il vento calò per qualche istante, e Ulrich spezzò il silenzio. «Gridiamo aiuto», disse, «ora che c'è meno vento, le nostre voci potrebbero arrivare lontano.» «Credo che gli alberi e il sottobosco lo impediranno», disse Georg, «ma possiamo provare. Insieme allora.»
I due emisero insieme un lungo grido da cacciatore. «Insieme, un'altra volta!», disse Ulrich qualche minuto più tardi, dopo aver atteso invano una risposta. «Stavolta credo di aver sentito qualcosa», disse Ulrich. «Io ho sentito solo questo maledetto vento», disse Georg con voce rauca. Ci fu di nuovo qualche minuto di silenzio, poi Ulrich lanciò un grido di gioia. «Vedo delle sagome nel bosco. Seguono la strada che ho percorso quando ho disceso la collina.» Entrambi gli uomini gridarono ancora, più forte che poterono. «Ci hanno sentiti! Si sono fermati. Ora ci hanno visti. Corrono verso di noi», esclamò Ulrich. «Quanti sono?», chiese Georg. «Non riesco a vedere bene», disse Ulrich. «Forse nove, o dieci.» «Allora sono i tuoi», disse Georg, «con me c'erano solo sette uomini.» «Bravi, stanno venendo più in fretta che possono», disse Ulrich soddisfatto. «Sono i tuoi uomini?», chiese Georg. «Sono i tuoi?», ripeté impaziente, poiché Ulrich non rispondeva. «No», disse Ulrich, con la risata idiota di un uomo colpito da una paura incommensurabile. «Chi sono?», chiese subito Georg, sforzandosi di scorgere ciò che l'altro avrebbe preferito non vedere. «Lupi.» IL CANE The Hound di Howard Phillips Lovecraft Weird Tales, febbraio 1925 Continuo, incessante, risuona nelle mie orecchie un cupo battito, un raspare d'ali d'incubo, un sommesso latrare lontano, come di un cane gigantesco che ulula nella notte. Non è un sogno, e non è neppure - temo - follia: troppe cose sono ormai accadute perché io possa rifugiarmi in simili illusioni pietose. St. John è ridotto ad un povero corpo a brandelli. Io soltanto conosco l'origine del suo tragico destino, ed è proprio questa consapevolezza che fa dilatare nel mio cervello il terrore di finire come lui. L'oscura Nemesi, buia
e informe, che mi trascina all'autoannientamento, si sta già muovendo veloce lungo i corridoi tenebrosi e interminabili della fantasia soprannaturale. Che il cielo perdoni a entrambi la follia e gli istinti morbosi che ci hanno condotti a una fine così orribile! Eravamo stanchi della banalità del mondo di tutti i giorni, che rendeva piatti e volgari anche gli impulsi romantici e gli estri avventurosi. Perciò, St. John e io, avevamo cominciato a seguire con entusiasmo tutti i movimenti estetici e culturali che sembravano prometterci un po' di sollievo dalla noia devastante. Ci addentrammo fra gli enigmi dei Simbolisti e le estasi languide dei Pre-Raffaelliti: ma ogni nuovo turbamento dell'anima perdeva presto vigore, e il tedio riprendeva inesorabile il suo dominio, scacciando il fascino della novità. Alla fine, trovammo un sollievo più stabile nella filosofia sepolcrale dei Decadenti: ma solo al prezzo di aumentare continuamente il vigore trasgressivo delle nostre sensazioni. Le divagazioni letterarie di Baudelaire e di Huysmans finirono presto per non procurarci più alcuna emozione, e alla fine non ci rimase altra risorsa che provare noi stessi, in prima persona, il brivido diretto delle esperienze innaturali. Fu questo inestinguibile bisogno di emozioni nuove che alla fine ci condusse alla più bassa delle turpitudini, alla più detestabile pratica umana, che persino ora, sconvolto dal terrore come sono, nomino con vergogna e disgusto di me stesso: l'aborrita abitudine di profanare le tombe. Non oso rivelare i dettagli delle nostre infami imprese, né descriverò, neppure in parte, i più orrendi trofei che ornavano l'abominevole museo che avevamo allestito nella grande e gelida magione di pietra nella quale vivevamo, St. John e io, soli e senza domestici. Il nostro museo era un luogo inimmaginabile e blasfemo, ove, con gusto infernale alimentato dalla nevrosi, avevamo raccolto un mondo di orrore e putrefazione per eccitare la nostre sensibilità ormai logore e illanguidite. Era una sala segreta, nel più profondo dei sotterranei, dove mostri enormi scolpiti nell'onice e nel basalto vomitavano da ampie bocche ghignanti una livida luce verde e arancione, e tubi d'aria nascosti facevano agitare in caleidoscopiche danze macabre file di scheletri che, la mano nella mano, intrecciavano lente evoluzioni sospese nell'ombra. Dai tubi uscivano a volontà gli odori che più si intonavano al nostro stato d'animo. Talvolta, aleggiava nell'aria immota il profumo sottile di tenui gigli funerari; talaltra, l'incenso narcotico di immaginari templi orientali e dei mausolei di sovrani defunti; altre volte ancora - come tremo al ricordo!
- si spandeva all'intorno il fetore spaventoso delle tombe appena scoperchiate: un tanfo che sconvolge l'anima e la ragione. Attorno alle pareti di quella cripta repellente facevano mostra di sé i sarcofagi aperti di mummie primeve, che si alternavano alle figure imbalsamate di corpi perfetti, mirabilmente conservati dall'arte del tassidermista, appoggiati a pietre tombali strappate ai più antichi cimiteri del mondo. Nicchie disposte qua e là, custodivano teschi di ogni specie e teste mozze conservate in diversi stadi della putrefazione. I crani pelati e variamente decomposti di nobili famosi si mostravano assieme ai volti radiosi incorniciati da capelli biondi di bimbi appena sepolti. C'erano sculture e quadri, tutti di soggetto infernale, in parte eseguiti da St. John e da me. Una cartella sigillata, con la rilegatura in pelle umana, conteneva disegni immondi e blasfemi che, secondo certe voci, erano stati eseguiti da Goya nel delirio. C'erano poi strumenti musicali il cui suono era ancora più inquietante della forma; con essi, St. John e io talvolta eseguivamo sinfonie stridenti, fondate su suoni morbosi e disarmonici che logoravano i nervi. In una serie di scrigni d'ebano intarsiato di madreperla erano poi conservati altri dei nostri tesori: il bottino predato dalle tombe. Mente umana non potrebbe mai immaginare quale quantità di lugubri reperti abbiamo rinvenuto in tanti anni di folli ricerche. Di questo infame bottino, soprattutto, non debbo parlare: per grazia di Dio, ho avuto il coraggio di distruggerlo molto prima di pensare a distruggere me stesso! Per noi, le spedizioni di saccheggio con le quali ci procuravamo i nostri reperti immondi erano eventi artisticamente memorabili. Non eravamo rozzi e ignoranti profanatori di tombe, ma operavamo soltanto quando si realizzava il concorso di più condizioni, legate allo stato d'animo, all'ambiente, al paesaggio, alla stagione, alla data, e alla luce lunare. Quelle imprese rappresentavano per noi la forma più squisita di espressione estetica, e ne curavamo i dettagli tecnici con meticolosa fantasia. Un'ora inadatta, un effetto di luce discordante, una manipolazione disattenta delle zolle pregne di humor mortis, potevano rovinare del tutto, per noi, la stimolazione estetica che seguiva all'esumazione dei sinistri e giganteschi segreti della terra. La nostra ricerca di scenari sempre nuovi e di situazioni sempre più morbose era febbrile e insaziabile. St. John era il capo delle nostre spedizioni, e fu lui a guidarmi nel luogo tetro e maledetto che ha segnato la nostra orrenda e ineluttabile condanna. Quale maligno destino ci attirò in quel sinistro cimitero olandese? Penso
che furono certe voci che avevamo raccolto, riguardanti la presenza, fra gli inumati, di un uomo misterioso sepolto ormai da cinque secoli, che ai suoi tempi era circondato da fama di empietà e che si diceva avesse a sua volta sottratto qualcosa di misterioso e prezioso da un antico sepolcro. Rammento i tratti salienti della scena. Sulle tombe splendeva la pallida luna d'autunno, che gettava lunghe ombre spaventose; all'intorno, alberi grotteschi si curvavano cupi sull'erba incolta e sulle lapidi corrose; intere legioni di pipistrelli dalle enormi dimensioni volavano in cerchio, stagliandosi contro la luna; l'antica chiesa coperta di edera malaticcia puntava un enorme dito spettrale verso il cielo livido; sotto i tassi e in boschi lontani, danzavano insetti fosforescenti simili a fuochi fatui; il vento notturno, che ci raggiungeva dopo essere passato su mari e paludi, portava con sé sentori di muffa, di vegetazione putrida, e di altre cose meno individuabili. Peggiore di ogni altra cosa, infine, un ululato lontano, debole e sommesso, come di un cane gigantesco che non riuscivamo a individuare né a localizzare, perveniva alle nostre orecchie rese ipersensibili dall'eccitazione. Quando udimmo per la prima volta quel remoto abbaiare, fummo colti da un brivido, ricordando le storie che ci avevano narrato i contadini. Perché ciò che stavamo cercando era stato ritrovato secoli addietro, in quel medesimo luogo, sbranato e dilaniato dalle zanne e dagli artigli di una bestia indescrivibile. Ricordo con quanta furia affondammo le vanghe nella tomba dello stregone, e come ci eccitava l'immagine mentale di noi stessi, del sepolcro, della livida luna che ci fissava, e delle ombre cupe; ricordo gli alberi contorti, i pipistrelli enormi, la chiesa decrepita, i fuochi fatui danzanti, gli odori mefitici, il vento notturno col suo lieve lamento, e soprattutto l'enigmatico, indistinto abbaiare della cui reale esistenza non potevamo neppure essere sicuri. Infine, scavando nel tumulo gonfio di umidità, le nostre vanghe colpirono qualcosa di solido. Emerse una lunga bara, dal legno marcito incrostato di muffe e depositi minerali del terreno, rimasto intatto per secoli. Malgrado l'età, le tavole erano incredibilmente dure e spesse, e fu solo con grande fatica che riuscimmo a scoperchiare il sarcofago, facendo leva con i nostri attrezzi. Il suo contenuto fu una festa per gli occhi. Nonostante i cinquecento anni trascorsi, della cosa sepolta era rimasto molto, orrendamente molto. Lo scheletro, benché mostrasse ancora le fratture provocate dalle fauci del mostro che lo aveva straziato, stava insieme con sorprendente solidità. Fissammo con occhi avidi il bianco cranio puli-
to, i lunghi denti ancora ben piantati nei loro alvei, e le orbite vuote che un tempo ospitavano i bulbi oculari, le cui pupille dovevano essersi illuminate della stessa luce morbosa che oggi accendeva le nostre alla vista degli ossari. All'interno della bara c'era anche uno strano amuleto, dal disegno insolito ed esotico, che evidentemente un tempo era appeso al collo del defunto. Era l'effigie, straordinariamente realistica, di un cane alato seduto sulle zampe posteriori, o di una sfinge dal volto semicanino. Era scolpita con arte finissima e gusto orientaleggiante in un unico pezzo di giada verde. L'espressione dei lineamenti bestiali trasmetteva una sensazione violenta di repulsione. Emanava un sentore impalpabile ma nettissimo di morte, furore, malvagità. Attorno alla base correva un'incisione in caratteri che né io né St. John riuscimmo a identificare. Sul fondo, come un marchio di fabbrica, era inciso un teschio orrendo e grottesco. Alla sola vista dell'amuleto, avevamo capito che doveva essere nostro. Quel tesoro bastava, da solo, a giustificare il nostro viaggio e la profanazione di quel sepolcro secolare. Anche se la foggia non ci era familiare, lo desideravamo, tanto più che, guardandolo attentamente, scoprimmo che non ci era del tutto sconosciuto. Era estraneo, certo, a qualsiasi arte e letteratura nota a studiosi sani ed equilibrati. Ma noi vi riconoscemmo la cosa cui allude, nel suo proibito Necronomicon, l'arabo pazzo Abdul Alhazred. L'osceno e spettrale idolo del culto dei divoratori di cadaveri che abitano l'inaccessibile Altopiano di Leng, nell'Asia Centrale. Rabbrividimmo, riconoscendo nell'immagine le fattezze descritte dall'antico demonologo arabo. Fattezze - egli scrisse - tratte da oscure manifestazioni soprannaturali degli spettri di coloro che tormentano e rodono i morti. Afferrato l'oggetto di giada verde, lanciammo un ultimo sguardo al teschio livido e alle sue occhiaie vuote, poi richiudemmo la bara e rimettemmo tutto nelle condizioni originarie. Ci stavamo allontanando in fretta da quel luogo orribile, con l'amuleto custodito in una tasca di St. John, quando ci parve di vedere i pipistrelli calare come una nuvola compatta sul terreno che da poco avevamo profanato, quasi a cercarvi un nutrimento disgustoso e sacrilego. Ma la luna d'autunno brillava troppo pallida e debole, e non ne fummo sicuri. Allo stesso modo, il giorno dopo, mentre salpavamo dall'Olanda diretti in patria, ci parve di udire il lontano, debole ululato di un cane gigantesco, che si perdeva oltre l'orizzonte. Ma il vento d'autunno gemeva triste e monotono, e non ne fummo sicuri.
Meno di una settimana dopo il nostro rientro in Inghilterra, cominciarono ad accadere dei fatti inquietanti. Come ho già detto, io e St. John vivevamo come reclusi. Privi di amici, soli e senza domestici, trascorrevamo la nostra esistenza in poche stanze di un antico maniero situato in una brughiera desolata e deserta. Perciò, ben pochi visitatori si prendevano il disturbo di bussare alla nostra porta. Da qualche tempo, però, eravamo infastiditi da un suono che assomigliava a un raspare notturno, non soltanto dietro le porte, ma anche dietro le finestre, comprese quelle che si trovavano più in alto. Una volta ci parve che un grande corpo scuro velasse la luce della luna dietro la finestra della biblioteca. Un'altra volta fummo certi di udire un rumore inquietante, come una vibrazione o un battito ritmico, leggero e paurosamente vicino. Cercammo, ma senza trovare nulla; di conseguenza, attribuimmo gli eventi alla nostra immaginazione, che ancora ci faceva risuonare nelle orecchie il debole ululato lontano che avevamo udito nel solitario cimitero olandese. L'amuleto di giada era adesso custodito in un tabernacolo nel nostro museo e, di tanto in tanto, vi accendevamo davanti una candela dal profumo aromatico. Andammo a leggere sul Necronomicon di Alhazred i suoi poteri e i legami che grazie ad esso si potevano accendere fra le entità fantomatiche e gli oggetti del mondo reale. Ciò che leggemmo ci sconvolse. Poi si insediò il terrore! La notte del 24 settembre 19.. udii bussare alla porta della mia camera. Sicuro che fosse St. John, dissi di entrare. Come risposta, udii una risata orrenda. Uscii dalla camera: nel corridoio non c'era nessuno. Quando destai St. John dal suo sonno, si disse del tutto ignaro del fatto. Guardandolo negli occhi, vidi che era preoccupato quanto me. Quella stessa notte dovemmo ammettere che il debole ululato lontano che risuonava nella brughiera non era un'illusione dei nostri sensi, ma una realtà spaventosa. Quattro giorni dopo, mentre ci trovavamo entrambi nel museo sotterraneo, udimmo un lieve, cauto raspare, dietro l'unica porta che dava sulla scala verso la biblioteca nascosta. La nostra agitazione fu duplice perché, oltre al timore dell'ignoto, avevamo sempre nutrito il terrore che la nostra macabra collezione potesse essere scoperta. Spente tutte le luci, avanzammo verso la porta e la spalancammo di colpo: sui nostri volti alitò una inspiegabile combinazione di rauchi bisbigli e risate ghignanti, che retrocedevano nel buio. Non facemmo alcuno sforzo per capire se fossimo impazziti, se avessimo sognato, o se fossimo ancora nel pieno delle nostre facoltà. Infatti, ci
eravamo resi conto, con cieco terrore, che quel biascicare incorporeo, quelle frasi smozzicate, erano in lingua olandese. Dopo di ciò, vivemmo invischiati in una palude di orrore crescente. Cercavamo di chiudere gli occhi sulla verità dicendoci l'un l'altro che all'origine di tutto c'era un cedimento dei nostri nervi, dovuto alla continua tensione di una vita intessuta di eccitazioni innaturali. Talvolta, però, ci piaceva di più drammatizzare la nostra situazione, e crederci vittime di una sorte funesta e insidiosa. Intanto, le manifestazioni soprannaturali erano diventate tante da non riuscire più a tenerne il conto. La nostra casa buia e solitaria aveva quasi preso vita, per la presenza di una entità maligna la cui natura non osavamo immaginare, mentre ogni notte l'ululato demoniaco echeggiava nella brughiera spazzata dal vento, sempre più alto. Il 29 ottobre scoprimmo, nella terra umida sotto la finestra della biblioteca, una fila di orme assolutamente indescrivibili. Erano sconcertanti, così come gli stormi di enormi pipistrelli che si andavano radunando fra le guglie dell'antico maniero in numero crescente e mai visto prima. Il 18 novembre, l'orrore giunse al culmine. Dopo il tramonto, mentre tornava a casa a piedi dalla tetra stazione ferroviaria, St. John venne assalito da uno spaventoso mostro carnivoro, e fatto a pezzi. Le sue urla altissime mi avevano raggiunto a casa. Accorso sul posto dell'orribile scena, era giunto in tempo per udire un battito d'ali nere e per scorgere una cosa oscura, nebulosa e indistinta, stagliarsi contro la luna sorgente. Quando gli parlai, il mio povero amico stava morendo, e non poté dare alcuna risposta coerente alle mie domande. Riuscì soltanto a mormorare: «L'amuleto, quella cosa maledetta...». Poi crollò, una massa inerte di carne straziata! A mezzanotte del giorno seguente lo seppellii in uno dei nostri giardini invasi da erbacce velenose, e sul suo corpo recitai uno di quei rituali demoniaci che in vita aveva tanto amato. Avevo appena pronunciato l'ultima frase quando, lontano, nella brughiera, si levò l'ululato di un cane gigantesco. La luna era alta nel cielo, ma non osai guardarla. E quando scorsi sulla brughiera soffusa della pallida luce dell'astro notturno, un'ombra grande e nebulosa che si muoveva rapida da un cespuglio all'altro, chiusi gli occhi e mi gettai a terra con la faccia in giù. Non so quante ore passarono. Infine, mi rialzai tremante, rientrai in casa barcollando, e resi un omaggio osceno e sacrilego all'amuleto di giada verde racchiuso nel suo tabernacolo.
Avevo paura, ormai, di abitare da solo nel vecchio maniero al centro della brughiera, e partii l'indomani per Londra, portando con me l'amuleto. Distrussi col fuoco l'empia collezione e, quanto non poteva essere bruciato, lo seppellii. Ma, dopo tre notti, udii nuovamente l'ululato lontano e, dopo una settimana, vedevo nel buio occhi misteriosi che mi fissavano. Una sera, mentre passeggiavo lungo il Victoria Embarkment per prendere una boccata d'aria di cui sentivo il bisogno, scorsi una forma nera oscurare la luce di un lampione che si rifletteva nell'acqua nel molo. Un vento più forte del vento notturno, passò sul mio viso come una raffica. Seppi allora che quanto era accaduto a St. John sarebbe presto accaduto anche a me. L'indomani avvolsi accuratamente in un drappo di seta nera l'amuleto di giada, e mi imbarcai per l'Olanda. Non sapevo se, restituendo l'idolo al suo silenzioso proprietario defunto, potessi aspettarmi una qualche forma di misericordia. Tuttavia, sentivo di dover agire secondo una qualche logica. Che cosa fosse quel cane mostruoso, e perché mi avesse seguito, erano interrogativi ancora vaghi. Ma avevo udito l'ululato lontano per la prima volta nell'antico cimitero olandese presso la chiesa in rovina, e tutti gli eventi successivi, comprese le parole pronunziate da St. John in punto di morte, contribuivano a collegare la maledizione con il furto sacrilego dell'amuleto. Perciò piombai nella più profonda disperazione quando scoprii, in una località di Rotterdam, che ignoti ladri mi avevano sottratto quell'unico viatico per una incerta salvezza. Quella notte l'ululato risuonò altissimo, e al mattino lessi sui giornali di un delitto abominevole compiuto nel quartiere più malfamato della città. La gente del luogo era terrorizzata, perché un crimine sanguinoso era stato commesso, con indicibile, brutale violenza, in un'abitazione che dava ricetto a individui dalla losca fama. Nello squallido tugurio, abitato da ladri, un'intera famiglia era stata dilaniata da criminali sconosciuti che non avevano lasciato tracce, mentre per tutta la notte era echeggiato, all'intorno, il latrare insistente di un cane gigantesco. Così, alla fine, fu con le mani vuote che mi ritrovai nell'orrido cimitero, dove una livida luna invernale gettava ombre contorte, e gli alberi nudi si piegavano tristi sull'erba inaridita e gelata e sulle lapidi corrose dal tempo. La chiesa ricoperta di edera puntava sempre il suo dito beffardo verso il cielo ostile, e il vento notturno ululava furioso passando sulle paludi coperte di ghiaccio e sui gelidi mari. Il latrato lontano era molto debole, e cessò di colpo quando mi avvicinai
all'antico sepolcro che un tempo avevo profanato. Roteando la pala, feci allontanare lo stormo di pipistrelli dalle dimensioni abnormi che volteggiavano bassi sulla tomba. Non so perché mi fossi spinto fin là, se non per pregare, o biascicare suppliche inutili e incoerenti all'indirizzo della cosa candida e silente che giaceva all'interno della bara. Qualunque fosse il mio scopo, attaccai col badile le zolle indurite dal gelo, animato da una disperazione che in parte era mia e in parte nasceva da una volontà dominante al di fuori di me. Lo scavo fu più facile del previsto, anche se a un certo punto vi fu una strana interruzione, quando un macilento avvoltoio piombò a picco dal cielo torbido e cominciò a beccare avidamente la terra della tomba, finché non lo uccisi con un colpo di vanga. Infine, arrivai alla bara lunga e corrosa, e ne sollevai l'umido coperchio ricoperto di verdi incrostazioni. Quella fu la mia ultima azione razionale. Nella bara antica di secoli, la cosa scheletrica che il mio amico e io avevamo depredato, dormiva rannicchiata su se stessa, attorniata da uno stuolo compatto di pipistrelli enormi e rigonfi di sangue, che pulsavano immersi anch'essi nel sonno. E non era uno scheletro nudo e silente, come quello che avevamo ricomposto nella cassa dopo il furto, ma un orrore ricoperto di sangue raggrumato, di lembi di carne appiccicati alle ossa e di ciuffi di capelli strappati a chissà quali corpi. Mi guardava, quell'incubo indescrivibile, fissandomi cosciente e maligno dalle orbite cave e fosforescenti. I suoi denti aguzzi e macchiati di sangue si aprivano in un ghigno beffardo e contorto che proclamava la mia ineluttabile condanna. E, quando da quelle fauci spalancate emerse un profondo, crudele ululato, come di un cane gigantesco, e vidi che i suoi luridi artigli insanguinati stringevano il fatale amuleto di giada verde che avevo perduto, non seppi far altro che gridare, e gridare, e gridare, e poi fuggire come un demente, finché le mie grida si dissolsero in scoppi di risa isteriche. La follia governa il vento che scende dalle stelle... zanne e artigli acuminati lacerano secoli di cadaveri... Cavalcando uno stormo di vampiri e un branco di Lupi Mannari, la morte viene distillata dalla notte, sulle oscure rovine dei templi di Belial, sepolti dal profondo dei secoli... L'ululato di quella mostruosità defunta, che cerca carne da appiccicare alle sue ossa, si fa sempre più vicino. Il raspare furtivo, il battito incessante di maledette ali d'incubo stringe sempre di più il cerchio attorno a me. Nella mia pistola, troverò l'oblio che è il solo rifugio da quelle cose che non
hanno nome, e che non devono averne. I LUPI MANNARI DEL CASTELLO MANGLANA The Bug-Wolves Of Castle Mangana di H. Warner Munn 1926 in The Master Fights Weird Tales, dicembre 1930
Leon Gunnar si trovava sugli spalti merlati del Castello Manglana. Era appoggiato a un moschetto e guardava pensieroso le profonde acque del lago Erne. Era la fine di ottobre dell'anno di Nostro Signore 1588. Manglana si trovava su un promontorio a picco sull'ampio lago, le cui onde lambivano la base delle mura del castello. Nessuna barca solcava il lago Erne. Erano state tutte affondate una settimana prima, quando O'Rourke, il proprietario del castello, si era ritirato con la sua famiglia e i suoi servi tra le montagne, lasciando Gunnar e altri otto Spagnoli a difendersi come potevano contro un esercito di centocinquanta Inglesi. Erano stati reclutati a Dublino ed erano condotti dal Lord Deputy dell'Irlanda. I suoi ordini erano di sbarazzare la zona occidentale e uccidere tutti coloro che erano fuggiti dai tredici galeoni naufragati su quella parte della costa. Una rondine sfiorò le acque tranquille del lago e lasciò una scia di cerchi che si allargavano. Leon sospirò e la seguì con lo sguardo, desiderando di avere anch'egli un paio d'ali con le quali lasciare quel paese selvaggio. Come avrebbe voluto volare in Scozia dai suoi parenti! Lo schiocco di un moschetto e un urlo di gioia lo risvegliarono dal suo sogno ad occhi aperti. Leon si voltò e vide un uomo barbuto, abbigliato con il mantello color zafferano dei soldati mercenari irlandesi, danzare sugli spalti. «Perbacco», gridò. «Questa volta ho preso quella sporca spia! Guarda come scalcia nella palude!» «Ben fatto, Cuellar!», lo complimentò Leon. «Non possiamo sprecare munizioni. Ogni colpo deve trafiggere il cuore di un inglese!» «Ragazzo!», sussurrò. «Non sai quanto sia vero. Oggi sono andato a ispezionare il deposito delle polveri e ho scoperto che tre dei barili di pol-
vere che ci ha lasciato O'Rourke erano di quelli raccolti sulle spiagge dopo i naufragi!» «È un bene?», chiese Gunnar. «No! Male! L'acqua in qualche modo è penetrata. Abbiamo solo mezzo barile e una dozzina di moschetti per combattere un esercito. Temo che la Señora Cuellar dovrà trovarsi un altro marito.» «Non vi abbattete», disse Leon. «Mantenete alto lo spirito: il tempo gioca a nostro favore, lo sapete. Gli Inglesi non conoscono la nostra forza, e un paio di forti piogge li affogheranno.» Indicò il lato interno del promontorio. A una distanza sufficiente perché i colpi di moschetto non potessero raggiungere i difensori, c'era l'accampamento degli Inglesi, posto sulla collina più alta di quella zona paludosa. Ogni tanto qualche soldato coraggioso lasciava l'accampamento e cercava di trovare il modo di attraversare l'acquitrino per entrare nel castello. Ma, dopo che i primi attacchi in gran numero erano finiti in una sconfitta sanguinosa, gli Inglesi si erano sistemati nell'accampamento e avevano cominciato ad aspettare che la fame spingesse gli Spagnoli tra le loro braccia. Con provviste di cibo per due mesi, questo non preoccupava gli assediati, ma la scarsa riserva di polvere da sparo era un fatto grave. Una volta che gli Inglesi avessero saputo che un uomo poteva penetrare nel castello senza che venisse fatto segno a colpi d'arma da fuoco, altri sarebbero seguiti. «Ah, Gunnar», rispose Cuellar, «non capisci i sentimenti di un padre. Tutti noi qui abbiamo una famiglia che ci aspetta, tranne te. Quando si vedono i propri figli crescere e l'espressione negli occhi della loro madre, non si vorrebbe stare ad aspettare che un altro uomo prenda il tuo posto! È quasi un anno che siamo partiti, e nessuno a casa sa che siamo ancora vivi e dove siamo! Sei approdato con quel galeone che ha fracassato il mio sulle rocce della Sligo Bay, hai detto. Ricordi quel monastero bruciato e i dodici Spagnoli impiccati alle travi della navata? Ma, per la pietà del Signore, anche noi avremmo potuto pendere da quel soffitto.» Leon annuì con forza. «E i Santi benedetti tutti calpestati sotto i loro piedi! Dio onnipotente! Li vedo ancora davanti agli occhi!» «Era terribile!», convenne Cuellar. «E solo un miracolo ha potuto salvarci da quei folli che saccheggiavano i relitti. Ricorderò per sempre nelle mie preghiere quel capo che mi ha salvato la vita.» Leon parlò con amarezza.
«Non credere che l'abbia fatto perché ama gli Spagnoli! Lui odia gli Inglesi come il diavolo, e ci ha dato protezione solo perché siamo loro nemici. Se gli fosse importato qualcosa di noi, ci avrebbe aiutati a tornare a casa invece di lasciarci qui.» «È vero», convenne Cuellar, «ma siamo vivi, ed è stato un miracolo che ci ha fatto raggiungere il suo castello!» Si fece il segno della croce, e Gunnar, nauseato, ritornò al suo posto di combattimento sul bastione orientale. Leon sapeva troppo bene che i Santi non avevano niente a che fare con l'aver raggiunto insieme a Cuellar e a un giovane ufficiale la dubbia protezione del Castello Manglana. Un compagno invisibile aveva viaggiato con i tre uomini; un compagno tanto potente da proteggere chi desiderava contro qualsiasi nemico! E lui, il terribile nemico del genere umano, si chiamava il Signore! Cuellar urlò a qualcuno che si trovava ai piedi della scala a chiocciola. «Gomez, di' a Ramon di portare su un altro fiasco di polvere e altri tre moschetti. Manda su Diego, Enrique e Rodriguez. Penso che quei rospi inglesi stiano per arrivare di nuovo!» Gunnar riattraversò il tetto piatto. Era vero che nell'accampamento c'era uno strano movimento, appena percettibile nell'oscurità del lago. Gli echi si stavano ancora spegnendo tra le scogliere del lago Erne, quando un tuono scosse il castello e, sia Gunnar che Cuellar, provarono una breve sensazione di vertigine come se la solida struttura ondeggiasse sotto di loro. Un gemito orribile venne da sotto, e le due vedette si guardarono negli occhi con timore. Un'idea si stava facendo strada nelle loro menti. Un uomo salì barcollando la scala e uscì sul tetto. I suoi capelli erano increspati e fumavano, un lato della faccia era senza barba, e scintille sprizzavano dai suoi abiti carbonizzati. Vide Cuellar e andò verso di lui, salutandolo militarmente: infatti era il capo, tacitamente riconosciuto, della piccola guarnigione. «Madre de Dios, Gomez, parla!», gridò Cuellar. «Che cosa ti è successo?» «Ramon», disse l'uomo, con difficoltà, con gli occhi che gli roteavano mentre annaspava per respirare, «è entrato nel... deposito... con... una torcia accesa...!» Poi cadde, ancora nella posizione del saluto, ai piedi di Cuellar. «Questa è la fine per noi.» Cuellar guardò Leon. «Gli Inglesi alla fine
sono riusciti a trascinare un cannone fino al loro accampamento, e ora la nostra polvere è tutta finita!» Leon infilò una mano sotto la giacca di pecora che indossava il soldato caduto. «Gomez è morto», annunciò. «Me l'aspettavo», fu la disperata risposta. «Andiamo a vedere quanti sono ancora vivi.» Mentre i due lasciavano il tetto, un altro scoppio lontano risuonò dall'accampamento, e Gunnar tornò indietro. «Andate. Io resterò di guardia qui, e chiamerò se c'è un attacco.» «Molto bene», replicò Cuellar. «Adios, amico. Questa e la fine!» E scomparve tra le onde di fumo che salivano lungo la scala a chiocciola. «Non è la fine!», mormorò una voce untuosa nell'orecchio di Gunnar. Riconobbe subito la voce. Il Signore stava facendo la sua solita visita notturna, approfittando del fatto che Gunnar era solo. «Sei del tutto spietato?», sbottò Gunnar con passione. «Non c'è alcuna pietà, alcuna umanità in te? Bestia! Dèmone! Diavolo! Disonori il nome di uomo! Sei un mostro! Nel nome di tutti i Santi, ti imploro: lasciami morire in pace!» Negli occhi del Signore si accese un lampo di fredda crudeltà. «Non farti ingannare dal corpo che ho assunto! Posso rivestire altre sembianze che potrebbero sorprenderti! Io non sono un uomo né una bestia. Presto saprai che non sono umano! Per quanto riguarda la misericordia e la pietà, le avevo molto tempo fa, ma mi sono state sottratte. Comunque, non sono venuto per dirti questo, ma per indicarti una via d'uscita e forse per aiutare quelli che sono con te.» La faccia di Gunnar si illuminò, ed egli avanzò di un passo verso quella strana creatura che lo aveva in suo potere, grazie a un patto di schiavitù stretto a bordo di un galeone che affondava, all'inizio dell'anno. «Qual è?», chiese con ansia. «Dimmelo, subito!» «Sai che stanotte è la Vigilia d'Ognissanti? È l'unica notte dell'anno, oltre la Notte di Santa Valpurga, in cui per un uomo è molto facile diventare un lupo dal tramonto all'alba.» Gunnar ridacchiò. «Tu puoi avere poteri meravigliosi e ammetto che sai renderti invisibile e sai placare le tempeste, ma nessun uomo può diventare un lupo! Questa è solo una superstizione irlandese e francese.» «Come già ti ho detto, io non sono un uomo. Tu sei troppo ignorante per
capire che quella che chiami superstizione è un fatto conosciuto e creduto vero in tutti i paesi e in tutte le epoche. Io, il Signore, sono quello che ha dato inizio a questa conoscenza sulla terra! Strappati i vestiti e vedremo che cosa si può fare la notte d'Ognissanti!» Gunnar esitò e il Signore lo incitò. «Spogliati!», gli ordinò di nuovo, e lo spagnolo, senza muovere gli occhi da quel volto contorto, cominciò a fare quello che gli era stato ordinato. Gli occhi rossi del Signore fissavano il giovane come se fossero stati di pietra. Gli si avvicinò. «Ti sto offrendo una scelta», disse con lentezza. «A bordo della Santa Ysabel ti ho promesso che vivrai fino alla tua morte naturale se mi darai il tuo corpo dopo la morte, e solo trent'anni se troverai necessario chiamarmi in tuo aiuto. Scegli ora, se vuoi diventare una creatura che disperderà gli Inglesi dell'accampamento come foglie al vento! Se lo farai, io domani provocherò delle tempeste che allagheranno le paludi e salveranno la vita ai tuoi amici. Se non lo farai, domani li vedrai morire quando i soldati prenderanno il castello, e sarai salvato da me. Allora, sarai cosciente per tutta la vita che avresti potuto salvare i tuoi amici e non l'hai fatto!» Leon Gunnar considerò il dilemma: a nessuno importava sia che lui vivesse o morisse. Trent'anni di vita, almeno, gli stavano davanti secondo i patti. In quegli anni poteva succedere qualcosa per sconfiggere i piani del Signore... Poi c'era anche la promessa che sarebbero state risparmiate le vite di Cuellar e degli altri. La Señora Cuellar... i bambini... la Spagna e l'amore... e finalmente il sole a riscaldare quei cuori stanchi! «Voglio lottare e chiedo il tuo aiuto», rispose Leon. «Trent'anni allora, ragazzo mio», ridacchiò lo gnomo nero e chinò la testa sul braccio di Gunnar. Il giovane sentì un dolore acuto nell'incavo del gomito. Il Signore indietreggiò e gli lanciò addosso un liquido dall'odore orrendo, mormorando degli incantesimi. Poi... Leon sentì un dolore indescrivibile. Fu come se tutte le ossa si fossero tirate, storte e rimesse violentemente a posto! Cadde sul tetto, gridando di dolore. Era un'allucinazione o era la verità che le sue grida suonavano come guaiti e ululati, invece che come parole? Il suo naso sembrava stranamente lungo; in effetti, non era più un naso, ma un muso. Quando spostò le mani verso il naso, le vide e ululò di nuovo. Non erano mani: erano (poteva essere mai vero?) le zampe pelose di un lupo!
Sentì un calcio violento nelle costole. Lo gnomo sembrava molto irritato. «Sta' zitto, stupido! Farai accorrere tutti! Guarda ora!» Il Signore si strinse il mantello nero intorno al corpo e si sporse in avanti. Gunnar voleva ansimare, ma emise un basso guaito di sorpresa, quando vide che improvvisamente il mantello nero non era più un mantello, ma una pelliccia nera! Poi il Signore cadde in avanti, le sue membra scheletriche si contrassero, la sua faccia mutò, e ora due lupi senza coda stavano fianco a fianco sul tetto del Castello Manglana. Gunnar sentì uno strano fremito percorrere le sue vene. Sembrava che qualcosa dello spirito feroce e alieno del Signore fosse passato in lui. Non era più un essere umano, ma una belva, e aveva le stesse sensazioni di un animale da preda. L'uomo era il suo nemico: non doveva ucciderlo? Sotto, nel castello, c'erano degli uomini! Avanzò, con le zampe rigide, verso le scale. I peli del collo gli si drizzarono e la bava gli cadde dalle avide mascelle. Lì l'odore degli uomini era intenso! Fece un passo avanti e lanciò un ululato lungo e spaventoso. Si sarebbe lanciato lungo le scale contro i suoi ex amici, se un gelido ordine non l'avesse fermato. Restò immobile, mentre il suo corpo era scosso da violenti tremiti. Non gli era rimasto niente della sua vita passata. Era solo una macchina costruita ad uno scopo, e questo scopo era uccidere finché fosse stato in grado di lottare. Nella sua mente si alzò la rossa marea dell'omicidio. Il lupo nero lo guardava con un'espressione di umorismo macabro. «Lo farai», annunciò, e le parole furono comunicate senza suono al cervello del lupo grigio. «Ci sono molti più uomini laggiù. Seguimi.» L'animale nero attraversò a grandi salti il tetto e balzò oltre una bassa apertura nei bastioni. Il lupo grigio si tuffò nel lago dopo il nero. Cominciarono a nuotare verso la riva. Mentre la raggiungevano, il cielo si coprì di nuvole, che erano apparse misteriosamente, visto che pochi minuti prima non ne era visibile nemmeno una. I due lupi affondarono fino al ventre nella melma, e si sforzarono di raggiungere un punto dove il terreno fosse più solido. Dalle pozze di acqua verdastra, piene di foglie marce e insetti morti, si alzava un tanfo di muffa. Una pioggerella picchiettava e sibilava sull'acqua limacciosa.
«Questa pioggia terrà le nostre prede al riparo», pensò il lupo grigio, e il nero chinò il capo come se quelle parole fossero state pronunciate. Balzarono in acque meno profonde, nuotarono un poco e poi avanzarono a fatica nel fango che risucchiava le zampe. Al di là c'era l'accampamento. Con cautela costeggiarono l'orlo della palude. Una sentinella si avvicinò. Il lupo nero lasciò indietro quello grigio e strisciò avanti, poi raccolse le zampe sotto il corpo e tese i muscoli d'acciaio. Un balzo, un singulto soffocato, quindi un tonfo nelle pozzanghere, e l'uomo giacque morto con la gola aperta e gorgogliante. Un'altra sentinella si avvicinò: scrutava attentamente le tenebre per scoprire la fonte di quel lieve rumore. Il lupo grigio balzò. Poi, entrambi con i musi bagnati di sangue, sgattaiolarono nell'accampamento addormentato e inerme. Come aveva supposto il lupo grigio, non si vedeva nessuno. Negli alloggi, qualcuno dormiva e qualcun altro sonnecchiava, ma tutto era tranquillo. Il ticchettio della pioggia soffocava qualsiasi rumore provocato da quelle zampe vellutate. Il lupo grigio si fermò e alzò le orecchie, vigile e pronto all'attacco, mentre il Signore riprendeva la forma umana. Lavorò per qualche istante intorno al cannone. Poi, di nuovo, due lupi senza coda trottarono nell'accampamento. C'era una tenda appartata rispetto alle altre, da cui proveniva un sonoro russare. Dopo un momento di esitazione, entrambi i lupi entrarono attraverso la bassa apertura. Quando ne uscirono, non si sentiva più russare. Gli occhi di tutti e due brillavano di una strana allegria quando si separarono. Il lupo nero scelse una fila di tende e il lupo grigio cominciò ad entrare e a uscire da quelle tende di un'altra fila. Sul terreno bagnato lasciavano una traccia di gocce di sangue a segnalare dov'erano passati. Dietro di loro lasciavano una pace che non sarebbe mai più stata rotta dagli occupanti delle tende che avevano visitate. Quell'andirivieni spaventoso continuò per molto tempo, senza interruzione. Il lupo nero aveva già finito due file di tende ed era a metà della terza, mentre il grigio uccideva, ebbro di morte, nella sua seconda fila, quando un uomo si svegliò da un incubo per vedere le zanne insanguinate e trovarsi immerso in una realtà ancora più orrida. Ebbe appena il tempo di gridare: «I Lupi Mannari!», prima che la spina dorsale gli fosse spezzata da quelle zanne d'acciaio. L'altro occupante della
tenda si svegliò, urlò qualcosa di incoerente e morì. Improvvisamente, ci fu parecchio movimento: degli uomini correvano tra le tende senza scopo, cercando la banda di nemici che li aveva colti di sorpresa. Non capirono con chi dovessero lottare finché non videro le due bestie, con le zampe di dietro stranamente più alte, che balzavano da una fila all'altra di tende. Un irlandese rinnegato, che faceva da guida alla truppa, si inginocchiò a quella vista. «I dèmoni!», urlò. «I lupi! I lupi! Ci attaccano i Lupi Mannari!» E strisciò con le mani e con le ginocchia nel fango, in direzione del cannone. Il grido di «Lupi Mannari!» fece il giro dell'accampamento aumentando il terrore dei soldati, cui erano già familiari le storie sugli uomini-bestia. Nel frattempo i due lupi, approfittando della confusione, balzavano sui soldati, li trucidavano, e li mordevano come belve rabbiose. Infine, con la testa bassa per evitare i colpi, attraversarono di corsa il centro dell'accampamento e si diressero verso il castello. Su un piccolo rialzo di terreno, si fermarono, e le loro figure si stagliarono nitide nel cielo più chiaro, ma si trovavano sulla linea di fuoco del cannone. La guida irlandese, pregando tra sé che il cannone fosse carico, abbassò il fusto e, circondato da una folla frenetica di soldati, diede fuoco alla carica. La scossa violenta che ne seguì, fece tremare tutto l'accampamento. Un lampo di luce livida illuminò le nubi che si accavallavano nel cielo, e frammenti di ferro e corpi mutilati volarono dappertutto, mentre nel Castello Manglana sei uomini si guardavano l'un l'altro. Non osavano sperare che l'uomo scomparso avesse trovato un modo di aiutarli. Le fragili tende erano cadute in molti punti e, quando i sopravvissuti all'esplosione si ricordarono dei lupi, il rialzo di terreno fu abbandonato. Un vento forte portò uno scroscio di pioggia. La pioggia cadde abbondante e costante finché la superficie del lago Erne coprì le paludi che erano alla base del promontorio e continuò a salire. Prima dell'alba, il Castello Manglana si sarebbe trovato su un'isola, e la pioggia, che avrebbe continuato a cadere per giorni, sarebbe stata sufficiente a rendere la posizione degli Inglesi insostenibile, prima che potessero procurarsi un altro cannone. Cuellar e altri cinque Spagnoli finalmente sarebbero ritornati alle proprie case. A miglia di distanza il Signore era avvolto nel suo mantello nero. Un lu-
po grigio stava accucciato ai suoi piedi. «Da quella parte», disse il tenebroso gnomo, «c'è Astrim». Da lì puoi raggiungere facilmente la Scozia. Ti ho già detto dove puoi trovare la tua unica parente e sono sicuro che ti piacerà. Corri ora, e arriva più lontano che puoi prima dell'alba. Prendi i vestiti del primo uomo che incontri un'ora prima dell'alba. Che cosa ha provocato l'esplosione del cannone? Vi ho aggiunto un'altra carica di polvere e ho riempito il fusto di fango! Arrivederci, Leon Gunnar, sei uno schiavo degno.» Un secondo dopo il lupo grigio era solo. Non indugiò, ma corse invece nella direzione che gli aveva indicato il Signore. La Señora Cuellar un giorno avrebbe rivisto il suo uomo, e non avrebbe mai saputo che un vagabondo, sconosciuto e solitario, aveva dato anni della propria vita perché sei uomini si potessero riunire alle proprie famiglie. E, anche se l'avesse saputo, non ci avrebbe creduto. Ma colui che si era sacrificato per salvare gli altri, corse nel buio verso Astrim e la Scozia con una fretta disperata. La mattina sarebbe stato un uomo normale, che non avrebbe mai più conosciuto il potere empio e i desideri blasmefi di quella notte insanguinata. TESTA DI LUPO Wolfshead di Robert Ervin Howard Weird Tales, Aprile 1926 Parlate di paura? Chiedo venia, messieurs, ma nessuno di voi conosce il vero significato della paura. No, ne sono sicuro. Siete tutti soldati, avventurieri. Conoscete le cariche dei reggimenti di Dragoni, la furia dei mari flagellati dal vento. Ma la paura, la vera paura quella che gela il sangue e fa rizzare i capelli, non l'avete mai conosciuta. Io sì. E fino al giorno in cui le Legioni delle Tenebre non eromperanno dalle porte dell'Inferno e il mondo finirà tra le fiamme, una paura simile non verrà più conosciuta dall'uomo. Vi racconterò la mia storia: ascoltatemi se volete. È accaduta molti anni fa, dall'altra parte del mondo, e nessuno di voi vedrà mai l'uomo di cui vi parlerò. D'altra parte, anche vedendolo, non lo riconoscereste. Tornate indietro negli anni insieme con me, fino al giorno in cui io, giovane e inesperto cavaliere, scesi dalla barca che mi aveva portato dalla na-
ve all'ancora nel porto, imprecai contro il fango che lordava il molo, e mi avviai verso il castello, dove mi aveva invitato un vecchio amico, Dom Vincente da Lusto. Era un uomo strano Dom Vincente, lungimirante: un uomo notevole, capace di vedere oltre gli orizzonti del suo tempo. Nelle sue vene, forse, scorreva il sangue degli antichi Fenici, quel popolo che, come ci narrano i preti, dominarono i mari e costruirono città in terre lontane e in tempi remoti. Il modo in cui aveva fatto fortuna era singolare: pochi uomini ci avrebbero pensato, e meno ancora ci sarebbero riusciti. I suoi possedimenti, infatti, si trovavano sulla costa occidentale di quel continente tenebroso e pieno di magia che sconcerta gli esploratori: l'Africa. Presso una piccola baia aveva disboscato la giungla fitta, aveva costruito il suo castello e i magazzini, e con pugno di ferro aveva strappato le ricchezze alla terra. Possedeva quattro navi: tre vascelli più piccoli e un grande galeone, che facevano la spola tra i suoi dominii e le città della Spagna, del Portogallo, della Francia e perfino dell'Inghilterra; carichi di legname prezioso, avorio e schiavi: le mille, incredibili ricchezze che Dom Vincente si era procurato col commercio e la rapina. Infatti la sua era un'impresa pazzesca, e un commercio ancora più strano. Eppure, avrebbe potuto crearsi un impero in quella terra di stregoni se non fosse stato per l'infame Carlos, suo nipote... ma sto anticipando il mio racconto. Ecco, messieurs: traccio una carta sul tavolo, alla buona, con l'indice intinto nel vino. Qui si trova il porticciolo poco profondo, e qui gli ampi moli. L'approdo era qui; si saliva lungo una stradicciola con ai lati le capanne che fungevano da magazzini, e che finiva davanti a un ampio fossato. Si attraversava uno stretto ponte levatoio e si arrivava davanti a una palizzata di alti tronchi infissi nel terreno, che cingeva il castello. La rocca era stata costruita sui modelli di un'epoca più antica, con in mente più la solidità che la bellezza. Era fatta di pietre portate da lontano: per molti anni i negri avevano faticato sotto la frusta per erigerne le mura, ma, appariva, una volta finita, inespugnabile. Era quello che volevano i suoi costruttori, perché i pirati berberi infestavano le coste e inoltre incombeva sempre il pericolo di una ribellione degli indigeni. Di fronte a ogni lato del castello, era stato liberato dagli alberi un tratto di circa un chilometro, ed erano state costruite strade attraverso i terreni paludosi. Un lavoro enorme: ma la manodopera abbondava. Bastava fare
un dono a un Capotribù, e quello forniva il necessario. E i Portoghesi sapevano far lavorare gli uomini! Meno di trecento metri a est del castello, scorreva un fiume ampio e poco profondo, che si gettava nel porto. Il nome mi sfugge di mente: era una parola indigena, e non sono mai riuscito a pronunciarla. Scoprii che non ero l'unico invitato al castello. Una volta l'anno, Dom Vincente faceva giungere nella sua rocca solitaria una schiera di allegri compagni, e passava qualche settimana di baldorie per ripagarsi delle fatiche e della solitudine del resto dell'anno. Era ormai notte, quando arrivai, ed era già in corso un grande banchetto. Fui accolto con gioia dagli amici, e venni presentato a quelli che ancora non conoscevo. Troppo stanco per partecipare con entusiasmo al festino, mangiai e bevvi in silenzio, ascoltai i brindisi e i canti, e studiai gli invitati. Conoscevo bene Dom Vincente, dato che ero suo amico intimo da anni; e anche Ysabel, la sua deliziosa nipote, una delle ragioni principali che mi avevano fatto accettare l'invito in quella terra selvaggia. Conoscevo e detestavo il secondo cugino di Ysabel, Carlos: un uomo viscido e intrigante, che somigliava a una faina. Poi c'erano un mio vecchio amico - Luigi Verenza, un italiano - e sua sorella, Marcita, che come al solito faceva la civetta con tutti gli uomini. Poi c'erano un tedesco basso e robusto, il Barone Von Schiller, e Jean Desmarte, un estroverso gentiluomo guascone; e Don Fiorenzo de Seville, un uomo magro, bruno, taciturno, che diceva di essere spagnolo e portava una spada lunga quasi quanto lui. C'erano anche molti altri, uomini e donne; ma è passato molto tempo, e non ricordo tutti i loro nomi e le loro facce. Un uomo tuttavia attirò il mio sguardo come la calamita dell'alchimista attira il ferro. Era snello, di statura di poco superiore alla media, vestito in modo semplice, quasi austero; stringeva una spada lunga quasi quanto quella dello spagnolo. Non furono però i suoi abiti né la sua spada ad attirare la mia attenzione: fu il suo volto. Un volto fine, aristocratico, segnato da linee profonde che gli conferivano un'espressione spettrale. Piccole cicatrici erano sparse sul mento e sulla fronte, come il ricordo di artigli selvaggi; e avrei giurato che gli occhi grigi, sempre socchiusi, avessero talvolta una fuggevole espressione allucinata. Mi rivolsi a Marcita e le chiesi il nome di quell'uomo, poiché non ricordavo se fossimo già stati presentati. «De Montour, della Normandia», rispose lei. «Un uomo strano. Non mi piace.»
«Vuoi dire che ha resistito al tuo fascino, mia piccola strega?», mormorai. La nostra lunga amicizia mi rendeva immune alla sua ira come alle sue astuzie. Ma Marcita non si arrabbiò e rispose pacatamente, sbirciandomi sotto le ciglia abbassate con insolito pudore. Continuavo a fissare De Montour: mi sentivo stranamente affascinato. Mangiava poco, ma in compenso beveva molto: parlava di rado e solo se qualcuno gli rivolgeva una domanda. Poi cominciarono i brindisi. Notai che i suoi compagni lo invitarono ad alzarsi per proporre di bere alla salute di qualcuno. Dapprima rifiutò; poi, dopo molte insistenze, si levò in piedi e rimase in silenzio per un momento, alzando il calice. Sembrava dominare e intimorire tutti. Poi, con una risata beffarda, levò il calice davanti a sé. «A Salomone, che ha imprigionato tutti i dèmoni!», esclamò. «E sia tre volte maledetto per quelli che si è lasciato sfuggire!» Un brindisi e una maledizione insieme! Tutti bevvero in silenzio, scambiandosi occhiate perplesse. Quella notte mi ritirai presto, stanco del viaggio e con la testa che mi girava per la potenza del vino delle ricche cantine di Dom Vincente. La stanza assegnatami si trovava nella parte più alta del castello, e guardava sulle foreste a sud e sul fiume. Era arredata con un rude splendore barbarico, come il resto del castello. Andai alla finestra e guardai l'archibugiere di guardia all'interno della palizzata; lo spazio vuoto, sgradevolmente spoglio nel chiarore della luna; la foresta; e il fiume silenzioso. Dai quartieri indigeni, vicino al fiume, salivano le strane note di un liuto primitivo che suonava una melodia barbara. Nel folto cupo della foresta, un ignoto uccello notturno lanciò il suo richiamo beffardo. Risuonarono mille note in risposta: uccelli, mammiferi, e lo sa il demonio cos'altro! Un grosso felino della giungla cominciò ad urlare in modo agghiacciante. Scrollai le spalle e mi allontanai dalla finestra. Senza dubbio in quelle ombre cupe si annidavano delle creature infernali. Qualcuno bussò alla mia porta: aprii ed entrò De Montour. Si avvicinò alla finestra e osservò la luna che splendeva fulgida. «La luna è quasi piena, vero monsieur?», osservò, girandosi verso di me. Annuii. Chissà perché, mi era parso di averlo visto rabbrividire. «Mi perdoni, monsieur, non la infastidirò oltre.» Si avviò per andarsene ma sulla soglia si girò e tornò indietro. «Monsieur», mormorò, con una tensione inspiegabile, «qualunque cosa
accada, questa notte sbarri la porta!» Poi uscì, mentre io lo seguivo sbalordito con lo sguardo. Mi assopii, mentre in lontananza si udivano ancora le grida degli invitati che continuavano a far baldoria. Sebbene fossi stanchissimo, e forse proprio per questo, dormii di un sonno leggero. Non mi svegliai fino al mattino successivo, ma i suoni e i rumori parvero giungermi egualmente attraverso il velo del sonno, e una volta ebbi l'impressione che qualcosa premesse contro la porta sbarrata. Com'era prevedibile, il giorno seguente molti ospiti mostravano i postumi di una sbornia e rimasero nelle loro stanze per quasi tutta la mattina, o scesero molto tardi. Oltre a Dom Vincente, solo in tre erano rimasti lucidi: De Montour, lo spagnolo (De Seville, come aveva detto di chiamarsi), e io. Lo spagnolo non toccava mai vino; De Montour, benché l'avessi visto berne quantità incredibili, non sembrava risentirne assolutamente. Le signore ci accolsero con molta grazia. «Sono davvero lieta», osservò Marcita, porgendomi la mano con un'aria compita che mi fece sorridere, «di constatare che tra noi ci sono dei gentiluomini che al vino preferiscono la compagnia delle donne. Quasi tutti sono straordinariamente intontiti, stamattina.» Poi, girando all'intorno gli occhi stupendi con aria provocante, aggiunse: «Credo anzi che qualcuno fosse addirittura troppo ubriaco, questa notte, per essere discreto... o forse non abbastanza ubriaco. Infatti, se i sensi non mi hanno ingannata, qualcuno ha cercato di aprire la mia porta, a notte fonda». «Ah!», esclamai, preso da un'ira improvvisa. «Chi mai...!» «No. Taci.» Si guardò intorno, per assicurarsi che fossimo soli, poi aggiunse: «Non è strano che De Montour, prima di andare in camera sua, ieri sera, mi abbia consigliato di sbarrare la porta?». «Strano», mormorai, ma non le dissi che anche a me De Montour aveva dato lo stesso avvertimento. «E non è strano, Pierre, che sebbene De Montour abbia lasciato il banchetto anche prima di te, abbia l'aria di essere stato alzato tutta la notte?» Scrollai le spalle. Spesso le fantasie delle donne sono assurde. «Questa notte», concluse lei, maliziosamente, «lascerò aperta la porta. Chissà chi riuscirò a catturare.» «Non farai una cosa simile!» Marcita scoprì i denti sottili in un sorriso sprezzante e mi mostrò un piccolo pugnale affilatissimo.
«Ascoltami, sventatella. De Montour ieri sera ha rivolto anche a me lo stesso avvertimento. Qualsiasi cosa sapesse, e chiunque si aggirasse questa notte per i corridoi, ciò che si tramava era più probabilmente un omicidio che un'avventura galante. Tieni la porta sbarrata. Donna Ysabel divide la stanza con te, non è vero?» «No. E di notte lascio andare le mie camieriere negli alloggi degli schiavi», mormorò lei, guardandomi maliziosamente tra le ciglia socchiuse. «A sentirti parlare ti si giudicherebbe una ragazza assai spudorata», le dissi, con la franchezza della gioventù e di una lunga amicizia. «Bada a te, damigella, o dirò a tuo fratello di sculacciarti.» Mi allontanai per rendere omaggio a Ysabel. La giovane portoghese era l'opposto esatto di Marcita: timida e pudica, era meno bella dell'italiana ma squisitamente graziosa, con un'aria incantevole, quasi fanciullesca. Un tempo pensavo... Ah! Quando si è giovani come si è sciocchi! Vi chiedo perdono, messieuss. Talvolta la mente di un vecchio divaga. È di De Montour, che volevo parlarvi: di De Montour, e del cugino di Dom Vincente. Una torma di indigeni armati si accalcava intorno alle porte, tenuta a distanza dai soldati portoghesi. Tra di loro c'erano alcune decine di giovani, uomini e donne, tutti nudi, incatenati per il collo: schiavi, catturati a qualche tribù guerriera e offerti in vendita. Dom Vincente andò di persona a esaminarli. Ci furono lunghe trattative, di cui mi stancai ben presto; mi allontanai, stupito che un uomo del rango di Dom Vincente si abbassasse a un genere di commercio tanto ignobile. Tornai indietro, tuttavia, quando giunse di corsa uno degli indigeni del vicino villaggio e interruppe la discussione con una lunga discussione rivolta a Dom Vincente. Mentre parlavano, arrivò De Montour e, poco dopo, Dom Vincente si rivolse a noi e spiegò: «Un taglialegna del villaggio è stato sbranato da un leopardo o da un'altra belva, questa notte. Era un giovane scapolo molto robusto». «Un leopardo? L'hanno visto?», chiese De Montour, e quando Dom Vincente rispose che si era dileguato nella notte, il francese alzò la mano tremando e se la passò sulla fronte, come per tergersi un sudore freddo. «Guarda, Pierre», disse Dom Vincente. «Ho qui uno schiavo che, meraviglia delle meraviglie, desidera spontaneamente diventare di tua proprietà. Anche se solo il Diavolo sa perché.» Mi condusse un jakri giovane e snello, un ragazzo, la cui dote principale
sembrava un allegro sorriso. «È tuo», fece Dom Vincente. «È ben addestrato e sarà un ottimo servitore. Ricorda: uno schiavo è meglio di un servo, perché gli bastano il vitto, uno straccio per coprire le vergogne, e qualche frustata per tenerlo a posto.» Scoprii presto perché Gola (così si chiamava il ragazzo) desiderava diventare il mio schiavo, scegliendomi tra tutti gli altri. Era per via dei miei capelli. Come molti elegantoni di quel tempo, li portavo lunghi fino alle spalle. Ero l'unico tra gli ospiti a portarli così, e Gola se ne stava seduto a guardarli in silenziosa ammirazione per ore e ore o fino a quando, stufo di averlo tra i piedi, lo buttavo fuori. Quella sera l'astio contenuto che covava tra il Barone Von Schiller e Jean Desmarte esplose come una fiammata. Al solito, la causa fu una donna. Marcita, che civettava sfacciatamente con entrambi. Quale imprudenza. Desmarte era un giovane fatuo e impulsivo, e Von Schiller era una bestia libidinosa. Ma quando mai, messieurs, una donna ha dato prova di saggezza? L'odio fra i due esplose in una furia omicida quando il tedesco cercò di baciare Marcita. In un istante, le spade si incrociarono. Ma, prima che Dom Vincente potesse urlare l'ordine di smetterla, Luigi si era gettato fra i duellanti e aveva fatto cadere loro le spade, dividendoli rabbiosamente. «Signori», disse, a voce bassa ma ardente, «vi sembra consono a gentiluomini del vostro rango battersi per mia sorella? Per le unghie di Satana, se non desistete, me ne renderete conto entrambi! Marcita, va' immediatamente in camera tua e non uscirne senza il mio permesso!» Marcita se ne andò perché, pur essendo un tipo indipendente, non osava contrastare quel giovane esile e dall'aria femminea quando una smorfia da tigre gli torceva le labbra e una luce omicida gli brillava negli occhi scuri. Ci fu poi uno scambio di scuse, ma dalle occhiate che i due rivali si scambiavano capimmo che il dissidio non era sanato e che sarebbe nuovamente divampato al minimo pretesto. Quella stessa notte, mi svegliai all'improvviso con una strana e inspiegabile sensazione di orrore. Non avrei saputo dire perché. Mi alzai, vidi che la porta era saldamente sbarrata, e notando Gola addormentato sul pavimento, lo svegliai con un calcio, irritato. Mentre lo schiavo si alzava in fretta, massaggiandosi, il silenzio fu rotto da un urlo orrendo che echeggiò nel castello e strappò un grido di sbalordimento all'archibugiere di guardia
alla palizzata: era l'urlo di una donna atterrita. Con uno strillo, Gola si buttò dietro il divano. Spalancai la porta e mi lanciai di corsa nel corridoio buio. Scesi a precipizio una scala a chiocciola: arrivato in fondo urtai qualcuno, e ruzzolammo a terra entrambi. L'uomo borbottò qualcosa, e riconobbi la voce di Jean Desmarte. Lo aiutai ad alzarsi e continuai a correre; lui mi seguì. Le urla erano cessate, ma tutto il castello era in subbuglio: grida, sferragliare di armi, luci che si accendevano. Dom Vincente chiamava a gran voce i soldati, uomini armati correvano per le stanze scontrandosi. In quella confusione tremenda, io, Desmarte e lo spagnolo arrivammo alla stanza di Marcita nell'istante stesso in cui Luigi si precipitava all'interno e raccoglieva tra le braccia la sorella. Entrarono altri con lanterne e armi gridando e chiedendo concitati cos'era successo. La ragazza giaceva in silenzio tra le braccia del fratello, i capelli sciolti sulle spalle e l'elegante camicia da notte lacerata che lasciava scoperto il corpo incantevole. Sulle braccia, sul seno e sulle spalle, erano visibili i segni di lunghi graffi. Dopo qualche istante aprì gli occhi, rabbrividì, poi urlò disperatamente aggrappandosi al fratello Luigi, supplicandolo di difenderla. «La porta!», gemette. «Non l'avevo sbarrata. E qualcosa è entrato nella stanza, al buio. Ho tentato di colpirlo con il pugnale, ma mi ha scagliata sul pavimento cercando di sbranarmi. Poi sono svenuta.» «Dov'è Von Schiller?», chiese lo spagnolo, con uno scintillio minaccioso negli occhi scuri. Ci guardammo: tutti gli ospiti erano presenti, tranne il tedesco. Notai che De Montour stava fissando la ragazza terrorizzata: il suo volto era ancora più scavato del solito. E mi parve strano che non fosse armato. «Già, Von Schiller!», esclamò rabbiosamente Desmarte. Alcuni di noi seguirono Dom Vincente nel corridoio. Cercammo in tutto il castello, e in un piccolo corridoio buio trovammo Von Schiller. Era steso a terra, in una chiazza rossa che si andava allargando. «Questa è opera di un indigeno!», esclamò Desmarte, sconvolto. «Assurdo!», fece Dom Vincente. «Nessun indigeno potrebbe entrare senza essere bloccato dai soldati. Tutti gli schiavi, incluso quello di Von Schiller, sono sottochiave nel loro alloggio, eccettuati Gola, che dorme nella stanza di Pierre, e la cameriera di Ysabel.» «Ma chi altro avrebbe potuto far questo?», esclamò furibondo Desmarte. «Voi!», esclamai bruscamente. «Se no, perché fuggivate così in fretta
dalla stanza di Marcita?» «Maledetto! È una menzogna!», gridò Desmarte. Sguainò fulmineo la spada e me la puntò al petto, ma lo spagnolo fu ancora più svelto. La spada del guascone tintinnò contro il muro e lui rimase immobile come una statua, con la lunga lama spagnola che gli toccava la gola. «Legatelo», ordinò impassibile De Seville. «Abbassate la spada, Don Fiorenzo», ordinò Dom Vincente, facendosi avanti e dominando la scena. «Jean, tu sei uno dei miei migliori amici, ma qui io rappresento l'unica legge e devo fare il mio dovere. Dammi la tua parola che non cercherai di fuggire.» «Ce l'hai!», rispose calmo il guascone. «Ho agito avventatamente, e me ne scuso. Non stavo fuggendo, ma i corridoi di questo maledetto castello mi confondono.» Di tutti i presenti, probabilmente uno solo gli credette. «Messieurs!», esclamò De Montour, facendosi avanti. «Questo giovane non può essere il colpevole. Rivoltate il tedesco.» Due soldati si affrettarono a eseguire. De Montour rabbrividì, tendendo la mano. Noi guardammo, e indietreggiammo inorriditi. «Quale uomo avrebbe mai potuto fare una cosa simile?» «Con un pugnale...», cominciò qualcuno. «Nessun pugnale provoca simili ferite», disse lo spagnolo. «Il tedesco è stato sbranato dagli artigli di una belva spaventosa.» Ci guardammo intorno, quasi aspettandoci che un mostro orrendo uscisse dalle ombre per avventarsi su di noi. Frugammo il castello palmo a palmo, ma non trovammo tracce di belve. Era già l'alba quando feci ritorno nella mia stanza, e scoprii che Gola si era barricato all'interno: dovetti impiegare quasi mezz'ora per convìncerlo a lasciarmi entrare. Gliele diedi di santa ragione per la sua vigliaccheria; poi gli raccontai l'accaduto, poiché capiva la mia lingua e riusciva a parlare un bizzarro miscuglio di idiomi diversi che chiamava orgogliosamente «francese». Spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi quando il mio racconto giunse al punto culminante. «Ju-ju!», bisbigliò impaurito. «Uomo dei feticci!» All'improvviso mi colpì un'idea. Avevo sentito raccontare certe storie poco più che accenni a leggende - sulla diabolica Setta del Leopardo, che esisteva sulla Costa Occidentale. Nessun bianco aveva mai visto uno dei suoi seguaci, ma Dom Vincente ci aveva parlato di uomini-belva che a
notte fonda si aggiravano nella giungle ricoperti di pelli di leopardo e uccidevano e divoravano. Un brivido di orrore mi corse lungo la spina dorsale: afferrai Gola così forte, da farlo strillare. «È stato un uomo-leopardo?», gridai, scuotendolo rabbiosamente. «Massa, massa!», ansimò lui. «Me buon figliolo! Uomo-ju-ju me prende! Meglio non dire!» «Me lo dirai, invece!», gridai. Gli ricamai la schiena finché Gola, agitando debolmente le mani in segno di protesta, promise di dire tutto ciò che sapeva. «No uomo-leopardo», mormorò, spalancando gli occhi in preda a una paura soprannaturale. «Luna, lei piena, trova taglialegna, lui sbranato. Trova altro taglialegna. Grande Massa (Dom Vincente) dice "leopardo". No leopardo. Ma uomo-leopardo, lui viene e uccide. Qualcosa uccide uomo-leopardo! Unghie. Artigli. Ahi, ahi! Luna ancora piena. Qualcosa viene in capanna solitaria: sbrana donna, sbrana altri. Uomo trova. Grande Massa dice "leopardo". Ancora luna piena, e trova taglialegna. Sbranato. Adesso viene in castello. No leopardo. Ma sempre orme di uomo!» Imprecai, sbalordito e incredutolo. Era vero, giurò e spergiurò Gola. C'erano sempre orme d'uomo che si allontanavano dalla scena degli omicidi. E allora perché gli indigeni non lo dicevano al Grande Massa, in modo che potesse dare la caccia a quel Demonio? A questo punto Gola assunse un'espressione astuta e mi mormorò all'orecchio: «Orme erano di uomo che porta scarpe!». Pur essendo certo che Gola mi avesse mentito, provai un brivido d'orrore inspiegabile. Allora chi era, secondo gli indigeni, il colpevole di quelle atroci uccisioni? E Gola rispose: «Dom Vincente». Ormai, messieurs, e sapete che la mia mente era un vortice. Che cosa poteva significare tutto quello? Chi - mi chiesi - aveva assassinato il tedesco e aveva cercato di violentare Marcita? Ma poi, ripensandoci, mi convinsi che lo scopo dell'aggressione doveva essere un omicidio, non la violenza carnale. Perché - mi chiesi ancora - De Montour ci aveva messi in guardia e poi aveva mostrato di essere ben informato del delitto, informandoci che Desmarte non poteva averlo commesso? Non riuscivo a capire.
La notizia dell'uccisione si diffuse subito tra gli indigeni, sebbene cercassimo di tenerla nascosta: divennero irrequieti e nervosi. Tre volte, quel giorno, Dom Vincente fece frustare un negro per la sua insolenza. Sul castello aleggiava ormai un'atmosfera di minaccia. Pensai di andare da lui per riferirgli ciò che mi aveva detto Gola, ma decisi di attendere ancora. Quel giorno, le donne rimasero nelle loro stanze, gli uomini erano cupi e nervosi. Dom Vincente annunciò che avrebbe raddoppiato le sentinelle e avrebbe organizzato delle ronde anche nei corridoi del castello. Mi sorpresi a pensare, cinicamente, che se i sospetti di Gola erano fondati le sentinelle non sarebbero servite a molto. Mi conoscete, Messieurs, e sapete che non sono il tipo che sopporta pazientemente una situazione del genere. E a quei tempi perdipiù ero giovane. Perciò, mentre bevevamo prima di ritirarci, gettai il calice sul tavolo e annunciai che a dispetto degli uomini, delle belve e dei diavoli, quella notte avrei dormito con la porta spalancata. E me ne andai in camera mia furibondo. Come la prima notte, si presentò De Montour. Aveva la faccia di un uomo che ha guardato oltre le porte spalancate dell'Inferno. «Sono venuto», disse, «per chiedervi... no, monsieur, per implorarvi di ritornare sulla vostra decisione.» Scossi il capo, irritato. «Avete deciso? Sì? Allora vi chiedo un favore: quando sarò entrato in camera mia, sbarrate la mia porta dall'esterno.» Feci ciò che mi aveva chiesto e tornai nella mia stanza, con la mente perduta in un labirinto di enigmi. Avevo mandato Gola nell'alloggio degli schiavi, e tenevo a portata di mano spada e pugnale. Non mi misi a letto: mi rannicchiai al buio in una grande sedia. Poi mi sforzai di non cedere al sonno. Per restare sveglio cominciai a riflettere sulle strane parole di De Montour. Mi era parso molto agitato. I suoi occhi facevano pensare a misteri terribili, a lui solo noti. Eppure non aveva il volto di un malvagio. Decisi di andare in camera sua, a parlargli. Percorrere i corridoi immersi nell'oscurità fu piuttosto sconvolgente, ma alla fine arrivai alla porta di De Montour. Chiamai sottovoce. Silenzio. Allungai una mano, e sentii sotto le dita frammenti di legno spezzato. Mi affrettai a usare la selce e l'acciarino che avevo portato con me, e alla luce dell'esca vidi la grande porta di quercia che pendeva dai robusti cardini, sfondata dall'interno. La camera di De
Montour era vuota. L'istinto mi spinse a ritornare in fretta nella mia stanza, senza far rumore, muovendo con cautela i piedi scalzi. Quando mi avvicinai alla porta mi accorsi che c'era qualcosa nelle tenebre davanti a me, qualcosa che veniva da un corridoio laterale e avanzava furtivamente. In preda al panico, balzai in avanti sferrando colpi alla cieca nell'oscurità. Il mio pugno centrò una testa umana, e un corpo crollò a terra di schianto. Accesi di nuovo un po' di esca. Sul pavimento c'era un uomo privo di sensi. De Montour. Accesi una candela e la posai in una nicchia; in quel momento il francese aprì gli occhi e si alzò, barcollando un poco. «Voi!», esclamai, quasi senza sapere ciò che dicevo. «Proprio voi!» De Montour si limitò ad annuire. «Siete stato voi, a uccidere Von Schiller?» «Sì.» Indietreggiai, soffocando un'esclamazione d'orrore. «Ascoltate.» De Montour alzò la mano. «Prendete la spada e trapassatemi da parte a parte. Nessuno vi farà del male.» «No!», esclamai. «Non posso.» «Allora», disse, concitato, «entrate nella vostra camera e sprangate la porta. Presto! La cosa tornerà!» «Quale cosa?», domandai, con un fremito d'orrore. «Se farà del male a me, ne farà anche a lei. Venga con me nella mia stanza.» «No, no!», gridò lui, arretrando con un balzo dal mio braccio proteso. «Preso, presto! Mi ha abbandonato per un istante, ma ritornerà.» Poi, a voce bassa, con un tono d'indescrivibile orrore: «Ecco, sta tornando! È qui, adesso!». E allora percepii qualcosa, una presenza informe, molto vicina. Un che di terrificante. De Montour stava eretto, le gambe larghe, le braccia all'indietro, i pugni stretti. I muscoli risaltavano sotto la pelle, gli occhi si spalancavano e si socchiudevano, le vene si gonfiavano sulla sua fronte come in un tremendo sforzo fisico. E, mentre guardavo, con mio grande orrore qualcosa di informe e senza nome apparve dal nulla e assunse una vaga consistenza. Come un'ombra, si avvicinò a De Montour. Si librava su di lui! Buon Dio, si fondeva, diventava una cosa sola con lui! L'uomo vacillò, e un profondo gemito represso gli sfuggì dalle labbra. La cosa indistinta svanì. De Montour barcollò. Poi si girò verso di me, e Dio voglia che non debba mai più vedere una faccia come quella. Era una faccia orrenda, bestiale. Gli occhi brillavano di una spaventosa
ferocia; le labbra contratte scoprivano i denti lucidi, che apparivano al mio sguardo sgomento più come zanne di belva che come denti umani. In silenzio, la cosa (non posso chiamarla uomo) avanzò verso di me. Ansimando per l'orrore, balzai indietro e varcai la soglia, nell'attimo stesso in cui la cosa si avventava nell'aria con un movimento sinuoso che in quel momento mi fece pensare a un lupo. Chiusi con violenza la porta, tenendola bloccata contro la cosa orrenda che si avventò più e più volte per sfondarla. Passò molto tempo prima che desistesse: poi sentii l'essere allontanarsi furtivamente nel corridoio. Debole, sfinito, mi sedetti e attesi, in ascolto. La brezza entrava dalla finestra aperta portando tutti gli odori dell'Africa, gli aromi e i fetori. Dal villaggio indigeno veniva il suono di un tamburo. Altri tamburi risposero, più lontani, lungo il fiume e nella boscaglia. Poi dalla giungla, orrendamente incongruo, si levò il richiamo acuto e prolungato di un lupo. La mia anima si rivoltò. All'alba giunse la notizia che gli abitanti del villaggio erano terrorizzati: una negra era stata aggredita da un diavolo della notte, ed era scampata a malapena. Io andai da De Montour. Mentre mi recavo da lui, incontrai Dom Vincente. Era perplesso e furioso. «Qualcosa d'infernale è all'opera nel castello», mi fece. «Stanotte, anche se non ne ho detto nulla a nessuno, qualcosa è balzato sulle spalle di uno degli archibugieri, gli ha lacerato la giubba di cuoio e l'ha inseguito fin sotto gli spalti. E poi qualcuno ha chiuso a chiave De Montour in camera sua, e lui è stato costretto ad abbattere la porta per uscire.» Passò oltre, borbottando tra sé; io scesi le scale, più sconcertato che mai. De Montour sedeva su uno sgabello, e guardava dalla finestra. Aveva l'aria stanca e disfatta. I lunghi capelli erano scarmigliati, gli abiti laceri. Con un brivido, vidi delle macchie rosse sulle sue mani e notai che le unghie erano spezzate. Quando entrai sollevò la testa e mi accennò di sedermi. Il suo volto era pesto e sconvolto, ma umano. Parlò dopo un momento di silenzio. «Vi racconterò la mia strana storia. Mai prima d'ora è uscita dalle mie labbra, e non so perché ve la narro sapendo che non mi crederete.» Ascoltai allora quella che senza dubbio era la vicenda più assurda, più fantastica, più sbalorditiva che un uomo avesse mai udito. «Anni fa», disse De Montour, «ero impegnato in una missione militare nel nord della Francia. Fui costretto a passare da solo attraverso i boschi di Villefère, infestati dai dèmoni. In quella foresta mostruosa fui aggredito da
una cosa inumana, orribile: un Lupo Mannaro. Lottammo sotto la luna di mezzanotte, e l'uccisi. Ora, questa è verità sacrosanta: se un Lupo Mannaro viene ucciso in forma semiumana, il suo spettro perseguiterà l'uccisore per tutta l'eternità. Ma se viene ucciso in forma di lupo, l'Inferno si spalanca per accoglierlo. Il vero Lupo Mannaro non è, come molti credono, un uomo che può assumere forma di lupo, ma un lupo che assume forma di uomo! Ora ascoltatemi bene, amico mio, e vi parlerò della sapienza infernale che possiedo, acquisita in molte azioni orrende e impartitami tra le ombre spaventose delle foreste notturne dove si aggirano dèmoni e belve. Dapprincipio il mondo era strano, deforme. Belve grottesche vagavano nelle sue giungle. Scacciati da un altro mondo, antichi dèmoni vennero in gran numero e si stanziarono su questo mondo nuovo e più giovane. Le forze del Bene e del Male guerreggiarono a lungo. Una bestia strana, conosciuta col nome di uomo, vagava tra le altre, e poiché il bene e il male devono avere forma concreta prima di realizzare il loro volere, gli spiriti del bene entrarono nell'uomo. I dèmoni entrarono invece in altre bestie, rettili e uccelli, e l'eterna lotta infuriò a lungo, ferocemente. Ma l'uomo vinse. I grandi draghi e i serpenti furono uccisi, e con loro i dèmoni. Salomone, il più saggio degli uomini, scatenò contro di loro una guerra senza quartiere e, grazie alla sua sapienza, li catturò e li incatenò. Ma alcuni dèmoni erano più feroci e arditi e, sebbene li scacciasse, Salomone non riuscì a vincerli. Avevano assunto forma di lupi. Col passare dei secoli, lupo e demonio si fusero. Il demonio non poteva più lasciare il corpo del lupo quando lo voleva. In molti casi l'indole selvaggia del lupo ebbe la meglio sulla sottigliezza del demonio e lo rese schiavo, così che il lupo ridivenne semplicemente una belva per quanto feroce e astuta. Ma i Lupi Mannari sono ancor oggi numerosi. Durante il plenilunio il lupo può assumere, per intero o in parte, la forma di uomo. Quando la luna è allo zenit, tuttavia, lo spirito del lupo riprende il sopravvento, e il Lupo Mannaro ridiventa un vero lupo. Ma se viene ucciso in forma umana, il suo spirito è libero di perseguitare l'uccisore per tutta l'eternità. Ora ascoltatemi bene. Credevo di aver ucciso la cosa dopo che aveva assunto la sua vera forma, ma l'avevo colpita un attimo troppo presto. La luna, sebbene vicina allo zenit, non l'aveva ancora raggiunto e la cosa non aveva assunto completamente la forma di lupo.
Ignaro, proseguii per la mia strada. Ma, all'appressarsi del successivo plenilunio, cominciai a percepire un influsso strano, maligno. Un'atmosfera di orrore aleggiava nell'aria attorno a me, e io provavo impulsi inesplicabili. Una notte, in un villaggio al centro di una grande foresta, l'influsso si presentò in tutta la sua potenza. Era notte, e la luna quasi piena si stava alzando sopra i boschi. E tra la luna e me vidi fluttuare nell'aria, appena discernibili, i contorni di una testa di lupo! Ben poco rammento di ciò che accadde poi. Ricordo vagamente che scesi nella strada silenziosa; ricordo di aver lottato, di aver resistito brevemente ma invano; il resto è una nebbia scarlatta fino a quando ritornai in me, la mattina dopo, e mi accorsi di avere gli indumenti e le mani incrostati e macchiati di sangue. Più tardi, udii gli abitanti del villaggio, inorriditi, parlare di una coppia d'innamorati che erano stati orribilmente massacrati appena fuori dall'abitato: sembrava fossero stati sbranati dai lupi. Fuggii dal villaggio in preda al terrore, ma non fuggii solo. Durante il giorno non sentii la presenza del mio spaventoso catturatore, e quando scese la notte e si levò la luna mi ritrovai ad aggirarmi nella foresta silenziosa: ero una cosa orrenda, un assassino, un demonio in forma di uomo. Dio, quante battaglie ho combattuto! Invano! Sempre la forza orrenda mi vinceva e mi spingeva in cerca di nuove vittime. Ma quando il plenilunio passava, il potere che la cosa aveva su di me cessava di colpo e ritornava solo tre notti prima del plenilunio successivo. Da allora vago per il mondo... fuggendo, fuggendo, e cercando di salvarmi dalla persecuzione. Ma la cosa mi segue sempre e, quando c'è la luna piena, s'impadronisce del mio corpo. Dio, le azioni orrende che ho commesso! Mi sarei tolto la vita già da molto tempo, ma non oso farlo. L'anima di un suicida è maledetta, e finirei per l'eternità tra le fiamme dell'Inferno. E, cosa ancora più orrenda, il mio cadavere vagherebbe in eterno sulla terra, animato e abitato dall'anima del Lupo Mannaro! Può esistere un pensiero più atroce? A quanto sembra sono immune alle armi dell'uomo. Molte spade mi hanno trafitto, molti pugnali mi hanno colpito: sono coperto di cicatrici. Eppure non mi hanno mai ucciso. In Germania mi catturarono e mi portarono al patibolo. Avrei posato con sollievo la testa sul ceppo. Ma la cosa s'impadronì di me: infransi i legami, feci una strage e fuggii. Ho vagabondato in tutto il mondo, lasciandomi dietro una scia di orrore e di sangue. Non esistono catene o celle che possano trattenermi. La cosa è unita a me
per l'eternità. Con disperazione ho accettato l'invito di Dom Vincente, perché nessuno sa della mia terribile doppia vita. Nessuno potrebbe riconoscermi quando sono preda del demonio; e pochissimi di coloro che mi vedono in quell'aspetto sopravvivono per parlarne. Le mie mani sono lorde di sangue, la mia anima è dannata alle fiamme eterne, la mia mente è lacerata dal rimorso delle mie colpe. Eppure non posso far nulla. Vi assicuro, Pierre, che nessuno ha mai conosciuto l'Inferno in cui vivo. Sì, sono stato io a sbranare Von Schiller, e ho cercato di uccidere anche Marcita. Non so perché non l'ho fatto: in passato ho ucciso indifferentemente uomini e donne. Ora, se volete farmi una grazia, prendete la spada e trafiggetemi: e col mio ultimo respiro io vi benedirò. Conoscete ormai la mia storia, e sapete di avere davanti un uomo posseduto per l'eternità dal demonio.» Quando lasciai la stanza di De Montour ero stupefatto, sconvolto. Non sapevo che cosa fare. Temevo che avrebbe finito con l'assassinarci tutti, eppure non riuscivo a risolvermi a raccontare ogni cosa a Dom Vincente. Provavo una profonda pietà per De Montour. Perciò serbai il segreto, e nei giorni seguenti andai più volte a cercarlo per parlare con lui. Tra noi si stabilì una vera amicizia. In quei giorni quel diavolo nero di Gola cominciò ad assumere un'aria di eccitazione repressa, come se fosse a conoscenza di qualcosa che desiderava disperatamente dirmi e tuttavia non volesse o non osasse parlarmene. Le giornate intanto trascorrevano tra banchetti, bevute e partite di caccia. Infine, una notte De Montour venne in camera mia e indicò in silenzio la luna che stava sorgendo. «Ascolta», disse. «Ho un piano. Farò sapere che vado a caccia nella giungla, e sarò assente parecchi giorni. Ma stanotte tornerò al castello, e tu dovrai rinchiudermi nella segreta che funge da magazzino.» Facemmo come aveva detto De Montour; e io scendevo di nascosto due volte al giorno nel sotterraneo, per portare cibo e bevande al mio amico. Aveva insistito per rimanere nella segreta anche di giorno, perché sebbene il demonio che lo dominava non avesse mai esercitato il suo influsso su di lui quando c'era il sole, e lui lo ritenesse privo di potere in quelle ore, non voleva correre rischi inutili. Mi accorsi in quel periodo che il nipote di Dom Vincente, il giovane Carlos dalla faccia di faina, stava sempre intorno a Ysabel, sua seconda cugina, che mostrava di non gradirne le attenzioni. Per quanto mi riguardava l'avrei sfidato volentieri a duello, perché lo di-
sprezzavo e lo detestavo, ma per la verità non era affar mio. Tuttavia sembrava che Ysabel avesse paura di lui. Il mio amico Luigi, tra l'altro, si era innamorato della graziosa portoghese, e tutti i giorni le faceva una corte spietata. E De Montour era chiuso nella cella e ripensava alle sue terribili imprese, e scuoteva le sbarre con le mani nude, mentre Don Fiorenzo si aggirava per il castello e i dintorni come un severo Mefistofele. Gli altri ospiti intanto andavano a cavallo, litigavano e si ubriacavano. Gola s'intrufolava dappertutto, e continuava a fissarmi come se fosse sempre sul punto di rivelarmi delle notizie sensazionali. C'è da stupirsi se i miei nervi erano sempre più tesi? Intanto gli indigeni diventavano sempre più cupi, torvi e intrattabili. Una notte, poco prima del plenilunio, entrai nella segreta dove era chiuso De Montour. Il mio amico, vedendomi, alzò la testa di scatto. «Corri un grave rischio, a venire da me di notte», mi disse. Scrollai le spalle e mi sedetti. Dalla finestrella, chiusa da una grata, entravano gli odori e i suoni dell'Africa. «Senti i tam-tam degli indigeni?», chiesi. «In quest'ultima settimana hanno suonato senza quasi mai smettere.» De Montour annuì. «Gli indigeni sono irrequieti. Penso che abbiano in mente qualche diavoleria. Hai notato che Carlos va spesso tra di loro?» «No», risposi. «Ma è probabile che ci sia presto uno scontro tra lui e Luigi. Luigi corteggia Ysabel.» Continuammo a parlare, finché all'improvviso De Montour divenne cupo e taciturno e mi rispose solo a monosillabi. La luna si era levata affacciandosi alla finestra e illuminava con i suoi raggi il volto di De Montour. La mano dell'orrore mi afferrò, mi strinse. Sulla parete, dietro De Montour, apparve un'ombra, un'ombra nettamente delineata, in forma di testa di lupo! Nello stesso istante De Montour ne avvertì l'influsso. Con un urlo balzò dallo sgabello. Si avventò con ferocia: e mentre io uscivo tremando, sbattendo e sprangando l'uscio dietro di me, lo sentii gettarvisi contro con tutto il suo peso. Mentre salivo correndo la scala, lo sentii percuotere selvaggiamente la porta rinforzata da fasce di ferro. Ma, nonostante la tremenda forza del Lupo Mannaro, l'uscio non cedette. Quando entrai nella mia stanza, Gola arrivò di corsa e mi riferì ansimando ciò che si era tenuto per sé durante tutti quei giorni. Lo ascoltai, incre-
dulo, poi mi precipitai in cerca di Dom Vincente. Mi fu detto che Carlos l'aveva pregato di accompagnarlo al villaggio, per acquistare altri schiavi. Il mio informatore era Don Fiorenzo de Seville: appena gli riferii in poche parole quanto mi aveva detto Gola, si affrettò ad accompagnarmi. Insieme ci precipitammo fuori dal castello, lanciando un avvertimento alle guardie, e attraversammo la spianata che portava al villaggio. «Dom Vincente, Dom Vincente, sta' in guardia, e tieni pronta la spada! Sei proprio uno stupido, ad avventurarti nella notte in compagnia di Carlos, il traditore!» Li raggiungemmo quando erano ormai vicini al villaggio. «Dom Vincente!», esclamai. «Torna immediatamente al castello! Carlos ti ha venduto agli indigeni! Gola mi ha riferito che vuole le tue ricchezze e Ysabel. Un indigeno terrorizzato gli ha parlato di orme di stivali scoperte nei luoghi in cui sono stati assassinati i taglialegna, e Carlos ha fatto credere ai negri che l'assassino sei tu! Questa notte gli indigeni si rivolteranno e uccideranno tutti gli uomini che si trovano nel castello, tranne Carlos! Non mi credi, Dom Vincente?» «È la verità, Carlos?», chiese sbalordito il mio ospite. Carlos rise beffardamente. «Quell'idiota dice la verità», rispose. «Ma non ti servirà a nulla.» Con un grido si gettò contro Dom Vincente. Una lama d'acciaio lampeggiò nel chiaro di luna, e lo spagnolo trapassò Carlos con la sua lunga spada prima che l'altro lo potesse colpire. Le ombre presero vita intorno a noi. Spalla a spalla, con spade e pugnali, affrontammo in tre cento nemici. Le lance balenavano, e urla infernali uscivano dalle gole dei selvaggi. Infilzai tre indigeni con altrettanti affondi e poi caddi stordito da un colpo di mazza; un attimo dopo Dom Vincente si accasciò su di me, con un braccio e una gamba trafitti da colpi di lancia. Don Fiorenzo era ancora in piedi, e la sua spada guizzava come una cosa viva; poi una carica degli archibugieri sgombrò la riva del fiume, e noi fummo trasportati nel castello. Le nere orde si gettarono all'assalto, con le lance che lampeggiavano come un'ondata d'acciaio, e un ruggito tonante e furioso salì al cielo. Più volte salirono i pendii, scavalcando a balzi il fossato, e alla fine cominciarono ad arrampicarsi sulla palizzata, ma ogni volta il fuoco dei cento e più difensori le costrinse ad arretrare. I negri avevano incendiato alcuni dei magazzini saccheggiati, e la luce delle fiamme gareggiava in intensità con quella della luna. Aldilà del fiu-
me c'era un magazzino di grandi dimensioni: le orde vi si raccolsero intorno, sfasciandolo e distruggendolo per fare bottino. «Vorrei che lo incendiassero», disse Dom Vincente, «perché dentro non c'è altro che qualche migliaio di libbre di polvere da sparo. Tutte le tribù del fiume e della costa si sono radunate per ucciderci e tutte le mie navi sono lontane, in navigazione. Potremo resistere per un po', ma prima o poi finiranno col superare la palizzata e ci annienteranno.» Scesi nella segreta in cui era rinchiuso De Montour. Lo chiamai, fermandomi davanti alla porta, e lui mi disse di entrare: il suo tono mi fece capire che il demonio l'aveva abbandonato per qualche istante. «I negri sono insorti», gli annunciai. «L'avevo capito. Come va la battaglia?» Gli raccontai del tradimento e dello scontro, e gli dissi della polveriera oltre il fiume. Balzò in piedi. «Per la mia anima dannata!», esclamò. «Giocherò ai dadi con l'Inferno, ancora una volta! Presto, fammi uscire dal castello! Cercherò di attraversare a nuoto il fiume e di dar fuoco alle polveri!» «È una pazzia!», ribattei. «Ci sono un mille negri in agguato tra la palizzata e il fiume, e sull'altra sponda ce n'è almeno il triplo. E il fiume è pieno di coccodrilli!» «Tenterò lo stesso!», mi rispose, illuminandosi in volto. «Se riesco a raggiungere la polveriera, ci saranno mille indigeni trasformati in torce che rischiareranno l'assedio; se verrò ucciso la mia anima sarà finalmente libera e forse potrà ottenere il perdono divino, perché avrò dato la vita per espiare le mie colpe.» Poi esclamò: «Affrettati, perché il demonio sta per tornare! Sento già la sua influenza! Svelto. Fai presto!». Corremmo verso la porta del castello, e De Montour ansimava come se stesse sostenendo una lotta terrificante. Davanti alla porta cadde bocconi, poi si alzò e la oltrepassò con un balzo. Fu accolto dalle urla selvagge degli indigeni. Gli archibugieri imprecarono contro di lui e contro di me. Affacciandomi dall'alto della palizzata, lo vidi guardarsi attorno incerto. Almeno venti negri stavano correndo verso di lui, con le lance levate. Fu allora che l'agghiacciante ululato del lupo salì al cielo, e De Montour si avventò. Inorriditi, gli indigeni si fermarono: e, prima che potessero muoversi di nuovo, lui fu in mezzo a loro. Udii delle urla folli, non di rabbia ma di terrore. Sbigottiti, gli archibugieri smisero di sparare.
De Montour si lanciò in mezzo al gruppo dei negri, e questi fuggirono lasciando sul terreno tre compagni. Il francese li inseguì per una decina di passi: poi si fermò e rimase immobile. Dopo essere stato così per un momento, mentre le lance gli volavano intorno, si voltò e si diresse di corsa verso il fiume. A pochi passi dalla riva, un'altra schiera di negri gli sbarrò la strada. Nelle lingue di fiamma delle capanne incendiate, la scena era perfettamente visibile. Una lancia trapassò la spalla di De Montour. Senza rallentare, se la strappò dalle carni e la usò per trafiggere un indigeno, poi scavalcò il cadavere per avventarsi sugli altri. I negri non ebbero il coraggio di affrontare quel bianco posseduto dal demonio. Fuggirono urlando, e De Montour balzò sulla schiena di uno di loro e lo abbatté. Poi si alzò, barcollò, e si lanciò verso la riva del fiume. Si fermò solo per un attimo, poi scomparve tra le ombre. «In nome del Diavolo!», ansimò Dom Vincente, che mi aveva raggiunto. «Che razza d'uomo è mai quello? Era De Montour?» Annuii. Le urla degli indigeni salivano più forti del crepitare degli archibugi. Si erano ammassati intorno al grande magazzino oltre il fiume. «Si preparano per un assalto in forze», disse Dom Vincente. «Credo che questa volta riusciranno a superare la palizzata. Ah!» Uno schianto parve squarciare i cieli! Una lingua di fiamma raggiunse le stelle, e il castello tremò per l'esplosione. Poi il silenzio. Il fumo, disperdendosi, mostrò solo un grande cratere là dove prima sorgeva il magazzino. Potrei descrivervi la carica che Dom Vincente, benché ferito, guidò fuori dal castello giù per il pendio, per avventarsi sui negri sopravvissuti all'esplosione e inebetiti dal terrore. Potrei descrivere il massacro, la vittoria, l'inseguimento degli indigeni in fuga. Potrei anche raccontarvi, messieurs, come mi trovai separato dagli altri e vagai a lungo nella giungla, incapace di ritrovare la strada per la costa. Potrei raccontarvi ancora di come venni catturato da una banda di razziatori di schiavi, e di come riuscii a fuggire. Ma non è mia intenzione farlo. Sarebbe una lunga storia: ed è di De Montour invece che voglio parlare. Riflettei molto a quanto era accaduto, e mi chiesi se De Montour aveva raggiunto la polveriera e l'aveva fatta saltare o se l'esplosione era stata opera del caso. Mi sembrava impossibile che un uomo, anche se posseduto dal demonio, riuscisse ad attraversare quel fiume brulicante di coccodrilli. Comunque, se aveva fatto esplodere il magazzino, certamente doveva esse-
re rimasto ucciso nella deflagrazione. Una notte, mentre avanzavo stanco nella giungla, ormai vicino alla costa, vidi sulla riva una piccola capanna di paglia. Mi avviai in quella direzione, pensando di dormire là dentro se gli insetti e i rettili me l'avessero permesso. Quando varcai la soglia mi fermai, impietrito. Su un rozzo sgabello c'era seduto un uomo. Alzò la testa quando entrai, e i raggi della luna gli investirono il volto. Arretrai con un fremito di orrore. Era De Montour, e la luna era piena! Mentre me ne stavo lì immobile, incapace di fuggire, lui si alzò e venne verso di me. Il suo volto, sebbene straziato com'era logico attendersi da un uomo che ha visto l'Inferno, era tranquillo, razionale. «Entra, amico mio», disse, e nella sua voce c'era un'immensa serenità. «Entra e non aver paura di me. Il demonio mi ha lasciato per sempre.» «Ma come hai fatto a vincerlo?», esclamai, stringendogli la mano. «Ho combattuto una lotta spaventosa, mentre correvo verso il fiume», mi rispose. «Infatti il demonio mi aveva in suo potere e mi spingeva ad avventarmi contro gli indigeni. Ma, per la prima volta, la mia mente e la mia anima hanno avuto il sopravvento sia pure per un breve istante, ma un istante lungo a sufficienza per farmi portare a termine il mio scopo. E credo che tutti i Santi del Paradiso siano accorsi in mio aiuto, poiché offrivo la vita per salvare altre vite. Mi sono gettato nel fiume e ho cominciato a nuotare, e subito i coccodrilli si sono affollati intorno a me. Li ho combattuti, dominato di nuovo dal demonio. Poi, all'improvviso, la cosa mi ha abbandonato. Allora sono risalito sull'altra sponda e ho incendiato il magazzino. L'esplosione mi ha scagliato lontano, e ho vagato per molti giorni nella giungla con la mente confusa. Poi è venuto il plenilunio, ed è tornato ancora, ma non ho sentito più l'influsso del demonio. Sono libero, libero!» E una prodigiosa nota di esultanza (no, di esaltazione) vibrò nelle sue parole: «La mia anima è libera! Per quanto possa sembrare incredibile, il demonio ora giace in fondo al fiume o dimora nel corpo di qualcuno di quei feroci rettili che nuotano nelle acque cupe del Niger». IL LUPO DI ST. BONNOT The Wolf Of St. Bonnot di Seabury Quinn
Weird Tales, dicembre 1930 La festa con cui Norval Fletwood celebrò l'inaugurazione delle Dodici Querce, la sua nuova villa di campagna, fu funestata da un tragico avvenimento. Le giornate di venerdì e di sabato erano trascorse piacevolmente. Più di una lepre aveva imboccato la via del carniere e, da lì, quella del tegame. La domenica mattina, invece, gli ospiti cominciarono a detestare la città, il teatro, i night-club, e quei rapporti affollati e tranquilli che riuscivano a trovare solo nella vita di tutti i giorni. La pioggia, spinta e frustata dal vento proveniente da Nord-Ovest, cominciò a cadere sin dalle prime ore del giorno. Da metà pomeriggio, l'autunno abbandonò definitivamente il campo di battaglia e l'inverno si impossessò del mondo, come una tribù di barbari cattura e saccheggia una città. Il tardo vento novembrino correva intorno alla casa, torcendo e sbattendo le porte, urlando canzoni oscene nella canna fumaria del camino e lottando selvaggiamente con le enormi dodici querce situate di fronte alla villa e che le davano il nome. Gli ospiti erano stanchi, come fossero marinai appena salvati da un naufragio. Lo potevano vedere dalle facce spossate dei loro compagni. A rendere il tutto più insopportabile, ci fu il fatto che, caduta ormai la sera, sotto le folate del vento fortissimo, si interruppe la linea elettrica che portava la preziosa energia alla villa. La radio cessò di propinare la sua musica jazz e, nello stesso istante, tutte le luci della villa si spensero. Anche il motore del grande frigorifero che si trovava nella dispensa, si fermò ronzando. Piccoli zampilli di fiamma si accesero qui e là, rivelando la presenza di alcuni fiammiferi. Furono recuperate poche candele e subito accese. Le loro fiammelle, fievoli e tremolanti, tramutarono l'oscurità, nera come la pece, in un imbrunire indeterminato. Gli ospiti si sedettero nella semioscurità osservando con attenzione il susseguirsi degli avvenimenti e aspettando l'opportunità di trovare una scusa ragionevole per poter dire buonanotte e per poter scappare ognuno dalla compagnia degli altri. «Qualcuno potrebbe suonare della musica da ballo», brontolò uno. «Anche se avessimo un valente musicista, mancherebbe sempre il pianoforte», rispose Fleetwood cupamente. «I tecnici della centrale elettrica di Dodson sono decisamente lenti nelle riparazioni, almeno così mi hanno detto.» «È troppo buio per poter fare una partita a bridge: non riuscirei neanche
a riconoscere se hai giocato picche o quadri.» «Io non giocherei neanche se ci fosse la luce. L'altra notte ho perso troppo: più di quanto possa permettermi.» «Non credo che la Società Elettrica stia dimostrando di poter assicurare un servizio efficiente. Se ci fossi io...» «Oh, so io cosa possiamo fare!», proruppe improvvisamente Mazie Noyer, grassoccia, sulla quarantina, e indecentemente civettuola, con la sua voce alta e sottile che non sembrava potesse provenire da una donna bassa e grassa. «Una seduta spiritica! Questa è proprio la notte ideale: fredda, scura e spettrale. Forza, venite tutti. Io sarò la medium. Mangiamo uno spuntino e poi cominciamo.» «Attento», bisbigliò Jules de Grandin nelle mie orecchie. «Amico Trowbridge, non scherzare con loro. Mettere le mani su un tavolo per evocare spiriti, è più rischioso che bruciarsi le dita. Sì: lascia che siano gli altri a rovinarsi da soli!» Fleetwood, la sua giovane moglie e sette dei loro ospiti attraversarono la sala da pranzo seguendo la sottana provocatoriamente agitata dalla signorina Noyer. Io e de Grandin ci sedemmo su una panca ricoperta di pelle vicino a un camino; eravamo al di fuori della stanza dove si sarebbe svolta la seduta spiritica. Da lì riuscivamo quasi a vedere, malgrado l'oscurità quasi totale, la tenue forma circolare che le persone stavano formando intorno al tavolo. Eravamo nascosti alla loro vista dal buio che ci circondava, e ciò ci dava un piacevole senso di sicurezza. L'anello si formò velocemente. Ogni membro del gruppo pose le sue mani sul tavolo pulito. I pollici di ogni persona si toccarono e le dita si estesero sino a che i mignoli non entrarono in contatto con quelli del vicino di destra e di sinistra. «Credo che dovrò cantare», suggerì la Noyer. «Madame Northrop spesso inizia le sue sedute spiritiche con un inno. A cosa servirà...» Seguì qualche istante di silenzio, poi, in falsetto, iniziò il canto: Di Angeli di luce vestiti Chiamiamo la schiera maggiore, Chiamiamo dei giusti gli spiriti La cui fede è mutata dal dolore. Concluse quei versi quasi sillabando le parole. Parlò ancora, in preda a riverente timore, come se veramente credesse a quella pagliacciata.
«Spiriti dei defunti, noi siamo qui riuniti in questa notte scura insieme a voi. C'è qualcuno presente in questa stanza? Se c'è, faccia notare la sua presenza battendo un solo colpo sul tavolo.» Un'altra pausa; quindi il suo invito fu seguito da un colpo secco e dal sibilo prodotto dal bussare sul legno mal stagionato. Jules de Grandin prese l'accendino dalla tasca della sua giacca e accese una puzzolente sigaretta francese, quindi guardò impazientemente dietro la porta che conduceva oltre la stanza. «Insensée», sussurrò sdegnosamente. «Il buon Dio le ha dato un cervello piccolo e colmo di sciocche stupidaggini.» «Oh, stupendo!», esclamò la medium con un tono di voce molto alto. «Sei uomo o donna? Per favore, bussa una volta se sei un uomo, due volte se sei una donna.» Il francese alzò la testa bionda e guardò in avanti, mentre le sue orecchie si orientavano verso il salone. Pur convinto che si trattava di una finzione, ogni muscolo del suo corpo era teso in uno stato di profonda attenzione, come si poteva facilmente notare dalla sua silhouette che si stagliava contro il muro. Attraverso la luce fioca dalle candele, udimmo l'eco di un colpo tagliente e incisivo. «Un uomo!» La voce di Mazie Noyer uscì con un sussurro di sgomento. «Chi sei, anzi, chi sei stato? Dove e quando sei vissuto? Colpisci una volta per A, due volte per B, tre volte per C e così via.» Ancora una volta ci fu in istante di pausa, quindi cominciò un lento e ben distinto bussare, come se il tavolo fosse colpito da un tirapugni affilato. Sette colpi, seguiti da nove, quindi dodici, di nuovo dodici, poi cinque, continuarono fino a formare: «Gilles Garnier, St. Bonnot, nel regno di Re Carlo». «Dieu de Dieu, ha detto Gilles Garnier di St. Bonnot!», esclamò de Grandin con un sussurro raspante e penetrante. «Amico Trowbridge, questo non è più un semplice gioco. Dobbiamo intervenire subito, immediatamente, senza perdere tempo. Andiamo.» Si alzò di scatto dalla panca e si avviò verso la stanza da pranzo, ma si fermò a metà strada. Girò lo sguardo intorno, come fa un cane da caccia che ha sentito nell'aria l'odore della preda. A me sembrò di vedergli vibrare con eccitazione le punte affilate dei mustacchi incerati, quasi fossero le vibrisse di un gatto irritato e attento. Quando de Grandin si fermò, fui pervaso da un improvviso brivido di
eccitazione, quasi di terrore. Un suono debole, ma continuo e crescente, sembrava provenire da lontano, dall'oscurità, dalla collina boscosa che si trovava un miglio o poco più oltre i pascoli. Il rumore era così tenue che poteva a malapena essere dissociato dal fischiare cupo del vento. Ma, con costanza drammatica, cresceva e si gonfiava, sia di tono che di volume. Era come un ululato lungo e tirato che si alzava in un crescendo acuto. Poi calò sino a sembrare un lamento, ma subito riprese in un pianto tremolante e senza speranze; penetrante come il lamento di un uomo che cerca di sfuggire alla caccia delle Furie. Improvvisamente si sentì provenire dalla stanza un lamento soffocato, come se una delle persone sedute intorno al tavolo fosse stata strozzata e annaspasse per respirare; poi un urlo che sembrò rispondere a quello che proveniva dall'esterno della villa. Era come se un corpo fosse straziato da una tortura troppo crudele per poter essere sopportata: «Ow-o-o-o-O-OO!». Crescendo in forza si ripeté disperatamente, andando poi a smorzarsi: «Ow-O-O-O-o-o-oo!». Quello strano pianto mezzo riluttante e mezzo esaltante era stato emesso così velocemente, che era impossibile determinarne l'esatta provenienza dalla sala da pranzo. «Nom d'un chat noir, chi emette questi suoni scimmieschi?», disse de Grandin in tono di sfida. Entrò nella sala da pranzo come se stesse per esplodere: i suoi occhi erano accesi dall'ira e sul suo volto si leggevano i segni della furia: «Pazzi, bêtes, non sapete che cosa state facendo! Beffarsi di loro è come invitarli a distruggere...». Si fermò e, come a dar forza alle sue parole, ritornò la luce, inondando la grande villa di improvvisa lucentezza e illuminando la scena nella stanza come un tableau vivant su un palcoscenico. Fleetwood e altre otto persone erano sedute intorno al tavolo, con le mani ancora premute sul piano di legno, sbigottiti, con una espressione inebetita stampata sui volti e sbattendo gli occhi come civette per l'improvviso sfolgorio. Hildegarde, moglie di Fleetwood da appena sei mesi, e per la quale era stata costruita la villa, aveva invece la testa appoggiata sul tavolo. I suoi capelli sciolti, color bronzo scuro, erano sparsi sul piano di quercia di fattura fiamminga. Il suo volto era pallido come avorio scolpito, le labbra, lievemente aperte, mostravano due file identiche di piccoli denti color bianco latte. «Mio Dio!», esclamò de Grandin, «è svenuta! Questo scherzo folle è stato troppo forte per lei.» Ancora adirato, girò intorno al tavolo osservando i volti pallidi dei partecipanti alla seduta spiritica. «Chi ha lanciato quelle
urla irriverenti?», domandò ferocemente. Il piccolo francese lanciò un'occhiata indagatrice alla donna svenuta. «Amico Trowbridge, se puoi, occupati di lei», ordinò risoluto, accennando con la testa verso Hildegarde, quindi fissò Mazie Noyer. «Mademoiselle, la colpa è vostra; credo proprio che sia stata lei a produrre quei suoni!», aggiunse freddamente rivolto alla medium. «Io?», rispose la signorina Noyer visibilmente scandalizzata. «Non mi è mai passato per la mente di fare queste cose! Sono stata sorpresa come tutti gli altri quando ho sentito quelle urla inumane; e venivano proprio da questa stanza!» Scosse le spalle in un gesto di disgusto e lanciò uno sguardo fulminante a de Grandin. «Credo proprio che lei si sia sbagliato dottor de Grandin», insistette lei. «Credo che mi debba delle scu...» «Mille pardons, Mademoiselle», la interruppe acidamente il francese. «Qualsiasi cosa possa aver detto è ormai troppo tardi per rimediare. Comunque credo che una serata noiosa sarebbe stata preferibile alla vostra stupida evocazione di forze che noi non conosciamo. Ora possiamo solo sperare che non sia avvenuto nessun danno irreparabile.» Si girò e si inchinò ai presenti con fredda cortesia. «Messieurs, Mesdames», disse. «Si è fatto tardi e tutti noi domani abbiamo degli affari che ci attendono in città. Suggerisco di cercare i nostri soprabiti prima di rimanere di nuovo al buio.» Si girò sui calcagni, e lasciò la stanza senza degnare di uno sguardo Mazie Noyer e senza dare la minima spiegazione alle sue accuse. Dottor Trowbridge, porterò mia moglie in città per una visita urgente. Per favore vediamoci domani. FLEETWOOD Passai il telegramma a Jules de Grandin e sogghignai mentre leggeva il foglio con attenzione. «Perché sei così serio?», domandai, prendendo una focaccia al miele dalla teglia rovente. «Da quando Adamo ed Eva hanno lasciato il Paradiso Terrestre e si sono dedicati alla pratica dell'economia familiare, cose come queste sono all'ordine del giorno. Ovviamente Norval e Hildegarde sono agitati, ma in fondo si tratta di una normale funzione biologica e...» «Ah, bah!», mi interruppe. «Amico mio, tu mi deludi, mi irriti. Credi proprio che Madame e Monsieur Fleetwood siano in attesa di un felice evento? Spero che tu abbia ragione, ma ho paura che non sia così. Telegra-
ferebbe solo per questo? Ti vogliono vedere con urgenza, immediatamente, per qualcosa che credo non segua il normale corso della natura. Già, credo che non si tratti dell'attesa di un figlio...», colpì il telegramma con la punta della sua forchetta, «ci deve essere qualcosa di più sinistro. Sono molto preoccupato per Madame Hildegarde per quanto è successo quella notte alle Dodici Querce quando è svenuta sentendo le urla prodotte con chissà quale trucco da Mademoiselle Noyer in quella casa scura. E...» «Non dire assurdità», commentai. «Spero che si tratti veramente di assurdità», rispose seriamente. «Amico mio, se sarà così, vedrai che io sarò il primo a sorridere.» Il giorno seguente restai in casa, in attesa dei Fleetwood; ma venne l'ora della cena senza che avessi loro notizie. «Accidenti», brontolai, «speriamo che vengano presto. Stasera, al Teatro Accademia, danno Re Lear, e spero proprio di poterlo vedere. Se si sbrigano, riuscirò a entrare prima della metà del secondo atto e...» «Eh bien, devi essere paziente, vecchio mio», consigliò de Grandin. «A meno che non mi sia sbagliato, credo che assisterai a una tragedia che Monsieur Shakespeare non ha mai nemmeno sognato. Inoltre penso che ormai stiano per arrivare...» Si girò per guardare la porta d'entrata e, come se fosse stato evocato, dalla porta entrò Norval Fleetwood. «Ho lasciato Hildegarde nella casa di Passic Boulevard», disse, rispondendo alla domanda espressa dall'agitarsi delle nostre mani, «e ho pensato che fosse meglio farle lasciare la villa e...», si interruppe come se il pensiero delle parole che stava per pronunciare gli impedisse di parlare. Riprese dopo un po'. «...Ho pensato che sarebbe stato molto meglio che parlassi con lei prima che visiti mia moglie.» «Ah!», fu il semplice commento di de Grandin. In lui si poteva avvertire un tono di trionfo, e io lo fulminai con una occhiata veloce. Quasi in risposta al francese, Fleetwood scosse il capo. «Dottor Trowbridge, io sono molto preoccupato per le condizioni di mia moglie», mi disse. «Si ricorderà di quella folle seduta spiritica che Mazie Noyer ha tenuto la domenica notte di due settimane fa, quando mancò la luce alle Dodici Querce. Tutto è cominciato proprio in quel momento.» «A-ah?», mormorò de Grandin. «Quali sono i sintomi del disturbo?», chiesi lanciando un'altra occhiata fulminante al piccolo francese. «Io... vorrei saperlo anch'io, signore. Hildegarde passò quella notte in continua agitazione, come un bambino che ha paura del buio. Il giorno do-
po si alzò con lo sguardo perso nel vuoto. Andai in città per lavorare e tornai prima che facesse scuro. Arrivai a cena con circa un'ora di ritardo, ma lei non aveva mangiato e disse che non aveva appetito. Tutto ciò era molto strano: come lei sa, Hildegarde ha sempre goduto di ottima salute. Ma...», mi fissò con quell'espressione tra il serio e il faceto che ogni persona usa in queste circostanze, «...be', dottore, lei può capire cosa io abbia sospettato.» Questa volta era il mio momento di gioire; Hildegarde era quasi sicuramente incinta. Non feci alcun segno a de Grandin, e attesi che Fletwood riprendesse a parlare. «Dovevano essere passate da poco le ventidue», continuò, «quando sentii il profondo e lungo latrare di un cane provenire dal prato adibito a pascolo. Pensai che qualcuno nelle vicinanze avesse delle bestie e che, durante la notte, le lasciassero libere di correre. Dottor Trowbridge, quella sera sentii quel cane una volta o due, ma mai così vicino come la prima volta...» Si fermò di nuovo, deglutendo convulsamente e tamburellando nervosamente sul bordo del tavolo con la punta delle dita. Distolse il suo sguardo da me, come uno scolaro che sta per confessare una marachella. «Sì?», dissi interrompendo quel silenzio lungo e imbarazzante. «Lei ricorda quel lamento terribile e inumano che si è sentito nella stanza da pranzo quella domenica notte? Il dottor de Grandin accusò Mazie Noyer di averlo prodotto lei.» Io annuii. «Non era stata Mazie; era stata Hildegarde!» «Ma non ha senso», obiettai decisamente. «Hildegarde era svenuta, non può essere stata lei!» «E invece sì. Lo so perché, la notte dopo, quando quell'infernale latrare risuonò sotto le nostre finestre, lei cominciò a rotolarsi nel letto e a tossire come se fosse in preda a un incubo.» Ancora una volta interruppe il suo racconto: sembrava che stesse cercando di radunare il suoi pensieri per poterli poi descrivere velocemente. «Allora lei gettò via le coperte, si mise in ginocchio e rispose al latrare del cane!» «A-a-ah!» Jules de Grandin appoggiò le palme delle mani sulle ginocchia. Si guardò quindi le scarpe da sera di coppale pensando sicuramente che quella era una storia davvero eccitante. «E allora, Monsieur, cosa successe?» La voce di Fleetwood si fece tremula: era come se fosse in preda a una rabbia ingovernabile. «Era solo l'inizio! La scossi, e lei sembrò svegliarsi.
Per più di un'ora rimase ai limiti dell'incoscienza, stringendo tra le mani le lenzuola, rotolando la testa sul cuscino e lamentandosi dolorosamente a ogni istante. Doveva essere mattina quando finalmente si addormentò. Comunque quel latrato si sentì ancora un paio di volte: allora Hildegarde si svegliava agitata, e cadeva poi in un sonno profondo.» «Naturalmente sua moglie era molto spaventata», lo interruppi. «No, non lo era affatto! Sembrava che il suo unico desiderio fosse quello di uscire dalla villa per raggiungere quel malefico cane... fremeva per andare!» Lo fissai incredulo, ma ciò che disse dopo mi lasciò senza fiato. «La notte dopo andò!» «Cosa?», urlai. «Proprio così. Il latrato si fece sentire durante la cena, Hildegarde lasciò coltello e forchetta ed ebbe una crisi isterica. Andai verso lo sgabuzzino, entrai, e presi un fucile per dare a quella bestia la scarica di pallettoni che si meritava. Uscii dalla villa ma non lo trovai. Feci per numerose volte il giro della casa e, alla fine, vidi oltre il bosco un'enorme bestia bianca e pelosa. Purtroppo era lontana, oltre la gittata del mio fucile, e così non potei spararle. Rientrai poco dopo mezzanotte con la strana sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto. Subito mi recai al letto di Hildegarde; ma lei non era più lì. Era passata circa un'ora e mezza da quando l'avevo lasciata. Mentre attraversavo le varie stanze della casa alla sua vana ricerca, sentii di nuovo il latrare del cane. Quando raggiunsi la finestra per vederlo, rimasi impietrito. Quell'enorme bestia bianca si trovava sul prato intorno alla villa e stava facendo le feste ad Hildegarde leccandole il viso. Sì, lei stava lì, con una temperatura di circa zero gradi e con indosso solo una vestaglia da notte. Giocava con quella bestia e l'accarezzava, come se fosse stato il suo animale prediletto per tutta la vita!» «Dopo aver visto questa scena, lei che cosa ha fatto?», gli chiesi. «Sono uscito», rispose semplicemente. «Il terreno era ghiacciato, e sono corso attraverso il prato cercandola disperatamente. Quando la trovai, il cane non c'era più. Lei era lì, sola, che batteva i denti per il freddo. La chiamai e lei... mi guardò...», le parole uscivano lente e la sua voce era quasi strozzata. «Attesi un attimo, quindi le toccai gentilmente una spalla.» «Poi che cosa successe?», chiesi dolcemente. «Lei mi guardò e ringhiò. Ha presente un lurido cane bastardo che arric-
cia le labbra quando vi avvicinate a lui? Dottor Trowbridge, mia moglie mi guardò proprio in quel modo; e dalla sua gola uscì una specie di brontolio selvaggio, come quello di un cane poliziotto pronto ad attaccare. Mi spaventai e rimasi senza fiato per alcuni istanti. Quando mi ripresi, lei si era calmata, tornando quasi completamente alla normalità. Le chiesi: "Cara, cosa stai facendo qui?", ma lei mi guardò, stordita e assiderata, senza rispondere. La presi in braccio, la portai all'interno della casa, e la misi nel suo letto. Si addormentò immediatamente. La mattina dopo non ricordava più nulla, e allora le dissi ciò che era accaduto. Nei giorni che seguirono, il cane si fece sentire più volte, ma sempre di notte.» «Quando?», chiese con un filo di voce de Grandin. «La notte dopo, quella ancora seguente, e così via. Ogni notte viene a ululare intorno alla casa come fosse uno spettro. Sebbene mia moglie si sia mossa nel suo letto ed abbia risposto qualche volta a quella bestia, non è più uscita, ma solo perché io ero lì a impedirle di farlo.» «Senta, signor Fleetwood», dissi con calma, «tutto ciò è molto angoscioso, ma non penso che si debba allarmare eccessivamente. L'altra notte, quando Hildegarde svenne e io la visitai, mi accorsi che non si sentiva bene. Lei vi ha detto qualcosa, vero?» «Voi dite...» «Proprio così. Forse lei non ne era consapevole, ma io sospettavo che qualcuno avrebbe occupato una culla alle Dodici Querce prima del prossimo giugno. Non credo di violare nessun segreto professionale, se vi dico che più di una paziente, nelle stesse condizioni di Hildegarde, ha avuto comportamenti piuttosto strani. Una signora, mi ricordo, non sopportava l'odore del pesce e non poteva vederne uno senza avere una crisi isterica. Un'altra invece, manifestava un desiderio smodato per le aringhe secche e, più puzzavano e più erano salate, più ne divorava. In alcuni casi la gestante sta così male da sembrare pazza, senza speranza. Invece, con la nascita del bambino, ritorna alla perfetta normalità. Nel caso di Hildegarde, si tratta sicuramente di zoofilia, il cui sintomo è un amore anormale verso gli animali. Come può immaginare, si tratta di un disturbo piuttosto raro, ma per nulla preoccupante. Sono sicuro che tutto si risolverà entro brevissimo tempo.» Il giovane marito mi sorrise, e io rimasi sorpreso perché anche de Grandin sembrava condividere la mia opinione. «È proprio così», disse a Norval. «Anch'io, in questi casi, ho assistito a comportamenti stranissimi. Mentre porta un'altra vita nel suo ventre, nes-
suna donna più essere considerata pienamente responsabile di ciò che compie. Si rassicuri, amico Trowbridge, è normale. Ora sta provando un po' di paura, ma vedrà che noi due l'assisteremo nel miglior modo possibile. Ci chiami immediatamente al rimanifestarsi di questi disturbi: verremo da lei senza perdere un solo istante.» «Vecchio mio, la sola cosa decente che potevi fare era darmi ragione», dissi ringraziandolo dopo che Fleetwood aveva chiuso la porta. «Mi venivano i brividi al solo pensiero che tu tirassi fuori qualcuno di quei tuoi assurdi discorsi sull'occultismo, impaurendo a morte quel poveretto. Così avremmo dovuto risolvere due casi clinici invece di uno.» Mi guardò serio, tamburellando sull'angolo del tavolo con le unghie ben curate, segno evidente di una recente visita dalla manicure. «Credo di essere un ipocrita spregevole», rispose. «Non credo minimamente a una sola delle parole che ho detto. Sono sicuro che qualcosa di malvagio è penetrato nel nostro mondo, qualcosa che lacera, che ha bisogno di sangue, qualcosa che noi dobbiamo ricacciare da dove è venuto il più presto possibile. Caro amico, tutto ciò che ho detto sulle possibili crisi maniaco-depressive che possono portare, in casi di gestazione, anche alla momentanea pazzia, è vero. Ma questo caso è completamente diverso. Normalmente una donna giovane può provare un amore profondo verso un animale. Ne ho viste alcune accarezzare teneramente con le loro dita la morbida pelliccia di un gattino, o il pelo ruvido di un cane pastore; ma non le ho mai, e ripeto mai, viste rispondere con ululati di quel tipo a una bestia selvaggia. Nessuna è mai corsa a piedi nudi in una notte invernale alla ricerca di un animale selvaggio. Amico mio, ho paura che ci troviamo solo all'inizio di una terribile partita. Ancora...», alzò le spalle sconfortato, «...sono preoccupato per ciò che potrà accadere, e anche molto presto, parbleu! Cerchiamo di nascondere la verità al giovane Fleetwood il più a lungo possibile per...» Il suono del campanello del telefono dell'ufficio troncò le sue parole. «Dottor Trowbridge, sono Norval, Norval Fleetwood. Telefono da casa. Hildegarde è fuggita! Nancy, la domestica di colore, mi ha detto che ero appena uscito, quando un cane ha cominciato a latrare sotto le finestre della casa. Hildegarde è diventata di colpo selvaggia, isterica, urlando e piangendo come se stesse rispondendo alla bestia. Quindi è corsa fuori. Non è ancora tornata. Nancy è diventata quasi bianca dal terrore e non ha idea su quale direzione possa aver preso Hildegarde. Cosa devo fare?» «Aspetti un momento», dissi, mentre mettevo de Grandin al corrente dei
fatti. «Mon Dieu, così presto? Non lo pensavo neanche io!», piagnucolò il francese. «Digli di aspettarci, mon vieux, saremo lì da lui in un istante, prima ancora di subito!» «Amico mio, il tuo paese è decisamente bagnato di spiritismo», insistette de Grandin come arrivammo di fronte all'abitazione cittadina dei Fleetwood in Passic Boulevard. «Non ti avevo forse detto che sarebbe accaduto?» «Sciocchezze!», risposi stizzito. «Che cosa ha a che vedere lo spiritismo con la scomparsa di Hildegarde? Credo che tu ti riferisca alla seduta spiritica delle Dodici Querce, quando qualche spiritosone si è messo a ululare nel salotto, scioccando quella povera ragazza e facendola svenire. Tutto è spiegabile con un sistema nervoso piuttosto fragile che non è stato in grado di sopportare un'esperienza simile. Avrebbe dovuto avere più cura della sua salute. Se ci avesse pensato, ora non si troverebbe in queste condizioni.» «Oh?», disse sarcasticamente. «E così i tuoi pazienti, quando si trovano in crisi depressive o in stato di aberrazione mentale, si alzano dal letto ululando come cani e...» «Naturalmente!», dissi interrompendolo. «Norval ha detto che la moglie gli ha ringhiato in faccia: Questo è un sintomo tipico. Sai anche tu che l'avversione verso il marito è una delle manifestazioni più comuni di questo genere di aberrazioni.» «E del cane - per ora continuiamolo a chiamare così - e del cane che la segue e che la chiama, che spiegazione dai?», insistette lui. «Forse ti conviene ignorarlo, oppure ti sei dimenticato di lui?» «Balle!», lo canzonai. «La campagna è piena di randagi notturni e...» «E anche la città», insistette il francese. «Cani che ululano alle finestre delle signore proprio nel momento in cui il marito esce?» «Allora dimmi, mio caro de Grandin, visto che hai già risolto il caso: cosa c'entra il cane con Hildegarde?» «Del cane so poco o niente», replicò a bassa voce. «Potremmo parlare di un caso di zoofilia, come tu hai detto al giovane Fleetwood, ma...» «Ma cosa?», gli domandai. «Parla! Qual è la tua idea?» «Va bene», scosse la testa con un fare solenne. «Questo è il mio pensiero: il cane, come noi l'abbiamo chiamato, non è un cane, bensì un lupo o, ancora meglio, un Loup-garou, che voi chiamate Lupo Mannaro. Si è servito dell'opportunità datagli dalla seduta spiritica dell'odiosa Mademoiselle
Noyer per tornare e...» Cominciai a ridere forte. «Sei fantastico!», gli dissi. «Speriamo che sia così», rispose deciso. «Io, Jules de Grandin, sono conosciuto come uno dei migliori illusionisti del mondo, ma in questo caso vorrei tanto fare la figura dello zoticone superstizioso. Sì!» «Sì», rispose la domestica di colore alle nostre domande frettolose, «sono al servizio della signora Hildegarde, da quasi sette anni. Il signor Norval aveva lasciato da poco la casa, quando ho sentito un forte ululato provenire da sotto le finestre della stanza della signora Hildegarde. Come lei lo sentì, si alzò dal letto e rispose alla bestia con lo stesso urlo.» «Ci racconti tutto con calma dall'inizio», disse de Grandin alla domestica. «Oggi ci siamo trasferiti qui dalla campagna. Io e la signora Hildegarde avevamo molto freddo. Per riscaldarci, ho pensato di preparare un drink, del gin con un po' di limone. L'ho portato alla signora, ma lei non l'ha voluto. Era molto nervosa e si agitava come si agita un piccolo cane che, terminato un bagno nel fiume, si scrolla l'acqua di dosso. Verso le diciannove ho servito la cena e i signori hanno mangiato. Dopo aver finito, la signora è salita nella sua camera. La stavo aiutando a riporre i vestiti e a indossare un pigiama di chiffon nero, quando è entrato il Signor Fleetwood dicendo che sarebbe andato a trovare il Dottor Trowbridge. Dopo circa cinque minuti, ho sentito un ululato provenire da sotto le finestre della stanza. "Nancy!", mi disse la signora Hildegarde, "l'hai sentito anche tu?" "Certamente, l'ho sentito perfettamente", risposi. "Cosa pensa che sia?" Rimase per un attimo attonita, quindi cominciò a parlare velocemente: "No, No, non voglio; non voglio; te lo sto dicendo; non voglio!". Poi si rivolse verso di me: "Nancy, mi sta prendendo, di' a Norval che l'amo...". Improvvisamente smise di parlare, fece una strana smorfia con la lingua, evidenziata dal digrignare dei denti. Gli occhi le si fecero fissi e vitrei, e una specie di ringhio le venne su dalla gola. Le mani si strinsero a pugno e le sue dita si serrarono come se dovesse schiacciare qualcosa di durissimo. Per tutto il tempo, restai rintanata dietro il sofà che si trova nella stanza. Ero terrorizzata e pensavo che da un momento all'altro mi saltasse addosso.» «Sì, e poi?», chiese de Grandin avvicinando i suoi occhi piccoli e lucenti al volto della domestica. «Dopo quel momento di esitazione, si avvicinò alla finestra, pronunciò
delle strane parole in una lingua straniera, guardò verso il basso, ed emise un ululato lugubre e prolungato. Quindi si girò e corse per le scale ringhiando e soffiando. Ecco: questo è tutto ciò che accadde!» «Mademoiselle, non si ricorda cosa disse la signora, quando guardò fuori dalla finestra?» «No, proprio no. Parlava in una lingua che non aveva nulla a che fare con l'inglese!» «Ci pensi molto attentamente, Mademoiselle. Quasi tutto dipende da lei. Non si ricorda almeno che tipo di suono ha emesso e che strane parole ha pronunciato?» La donna roteò gli occhi e aspirò profondamente una boccata d'aria, quindi strinse le labbra e le guance le si gonfiarono come se lo sforzo mnemonico potesse essere aiutato dalla pressione del suo respiro. Finalmente disse: «Poteva suonare più o meno così: jere raven, proprio così», replicò espellendo l'aria con un respiro esplosivo. «Jere raven, jere raven?», mugugnò de Grandin a se stesso. «Jere... Barbe d'un porc, ho capito! Je reviens: io torno! N'est-ce-pas, Mademoiselle?», disse inquisitoriamente alla donna. «Sì, disse proprio così! Come avevo detto io: jare raven. Avevo indovinato!» Il francese mi lanciò uno sguardo rapido e trionfante. «Mio vecchio amico, ora cos'hai da dire?», mi domandò. «Niente, solo che...» «Tres bon! Per ora basta il "niente", il "solo" verrà più tardi. Dobbiamo prima cercare la signora Hildegarde.» Decidemmo che non era il caso di telefonare alla Polizia; cominciammo quindi a pattugliare le strade fredde e deserte. Passarono circa tre ore, ma nessuno di noi la vide, e in nessun modo riuscimmo a ottenere informazioni su Hildegarde Fleetwood. Non restava che avvertire Norval del fallimento delle ricerche e leggere nei suoi occhi la cocente realtà dei fatti. Mi fermai un istante vicino al portico che si trovava nei pressi della casa per mettere il cappuccio invernale al radiatore della mia automobile, cosa che avrei dovuto fare già da molto tempo. Come mi girai verso la scala della casa, la mia attenzione fu attratta da un flebile lamento proveniente dalla macchia di lecci nani situata vicino all'atrio della casa. Subito mi feci strada tra i sempreverdi, e de Grandin accese la sua torcia elettrica tascabile, illuminando l'ombra sotto di loro.
Hildegarde Fleetwood era accucciata e raggomitolata in un angolo del muro. Il fragile pigiama di chiffon nero che indossava era ormai un cencio strappato. Le mancava una delle pantofole nero-satinate. Sotto il costume diafano, la pelle era coperta da numerosi graffi. I piedi, lividi e sanguinolenti, erano macchiati di argilla rossa. C'era del fango sulle sue caviglie, e altre macchie di terra si trovavano sulle ginocchia, le braccia e le mani. Le unghie delle dita delle mani erano altrettanto sporche. Altro fango era presente sul volto, e i capelli erano impastati di terriccio. Stava cercando di pettinarsi con le unghie i capelli color bronzo, lunghi e lisci. L'impresa era decisamente ardua. «Mio Dio!», esclamai, chinandomi. Presi la donna ormai quasi assiderata tra le mie braccia, e mi diressi verso le scale che conducevano alla casa. Il piccolo francese mi aiutò come meglio poté, illuminandomi la strada con la sua torcia tascabile, precedendomi di un passo e aprendomi la porta dell'ingresso. «Finalmente», mormorò sottovoce, «finalmente! Caro amico, visto che hai nominato Dio, devo riconoscere che lassù sei certamente un raccomandato. Ed è un bene perché, prima che questa storia finisca, avremo bisogno del Suo aiuto; e naturalmente di quello di Jules de Grandin.» Applicammo subito a Hildegarde una terapia antiassideramento. Una spugnatura con acqua tiepida seguita da un massaggio con alcool e con panni di flanella morbida, riattivò la sua circolazione. Una tazza di brodo ristretto, somministrato con un cucchiaio, diede poi al suo volto pallido una sembianza di colore. Le feci un'accurata visita medica, cercando eventuali sintomi di congestione, ma riscontrai solo un leggero stato confusionale. Le somministrai del bromuro come sedativo, e feci capire a Norval come fosse importante che mi chiamasse immediatamente se le condizioni della moglie fossero mutate. Quindi io e de Grandin lasciammo la casa. Quando giungemmo nel mio studio scossi la testa sconfortato. «Questo caso sembra più serio di quanto pensassi all'inizio», ammisi finalmente. «Bene», annuì de Grandin risoluto. «Sì, mio caro amico, è davvero molto serio. Sì, certamente!» «Mordieu, i miei peggiori timori sono stati tutti confermati! È diabolico, infernale! Leggi, amico, leggi e piangi, tu che avevi detto che le mie teorie erano tutte baggianate: poi mi dirai chi era che diceva parole folli! Madame Hildegarde è posseduta dal Demonio?», gridò Jules de Grandin
nel bel mezzo della colazione leggendo la prima edizione del Morning Journal. Mi porse il giornale con le mani tremanti dall'eccitazione e mi indicò un articolo nell'angolo superiore destro della prima pagina: PROFANATORI APRONO LA TOMBA DI UNA RAGAZZA Rimosso il corpo dalla bara, Sottratti gigli dalle mani della morta. Il corpo è stato lasciato dissepolto Ricercata donna in nero Il guardiano del cimitero fugge per lo spavento Una o due persone, lavorando nel silenzio del St. Rose's Cemetery, sulla Andover Road a due miglia a nord di Harrysonville, hanno profanato una tomba, estraendo dalla bara il corpo di Monica Doyle, di 16 anni, figlia di Patrick Doyle, abitante al 163 di Willow Avenue, in Harrysville, morta mercoledì scorso e sepolta ieri mattina. Tra le esili mani incrociate sul petto della morta, era stato lasciato un rosario e un mazzo di gigli bianchi; i profanatori hanno preso i fiori che hanno poi trafugato. La ragazza aveva i vestiti funebri lacerati in alcuni punti e il suo corpo è stato rinvenuto nella bara rivoltato. Il coperchio del feretro è stato rimesso al suo posto dagli sconosciuti profanatori, ma la tomba non è stata richiusa. Il crimine si presenta decisamente misterioso, se si aggiunge che il guardiano del cimitero, Andrew Fischer, ha visto una strana donna vestita di nero e accompagnata da un mostruoso cane bianco, aggirarsi nel cimitero durante la notte. La profanazione è stata scoperta questa mattina quando Ronald Flander, 25 anni, e Jacon Rupert, di 31, stavano preparando la fossa per un funerale che si sarebbe dovuto svolgere poco dopo. Hanno subito notato dei mucchi di terra fresca, nei pressi della tomba della signorina Doyle. Allora si sono avvicinati e hanno visto la tomba violata e la bara dissepolta. La profanazione della tomba di Monica Doyle è sicuramente uno dei crimini più gravi commessi nel New England, se si esclude l'assassinio di Sara Humphreys di cinque anni fa. Come certo
ricorderete, tutto avvenne sul campo da golf del Sedgemoor Country Club, che si trova due miglia oltre il cimitero, anch'esso sulla Andover Road. Una delle teorie avanzate è che la profanazione sia stata attuata da un gruppo di persone in preda a fanatismo religioso e suggestionate dalla credenza popolare che vuole che un giglio sepolto con un corpo, cresca rigoglioso sul cadavere. L'apertura della tomba avrebbe quindi avuto il solo scopo di impossessarsi di questi «strani» fiori. La Polizia sta esaminando attentamente ogni piccolo indizio, ed è convinta di risolvere il caso in breve tempo. Si è dichiarata sicura di poter arrestare il colpevole entro ventiquattr'ore. Terminai di leggere l'angosciante storia, quindi fissai de Grandin con occhi colini di terrore. «È terribile... diabolico... proprio come hai detto tu!», ammisi. «Chi...» «Ah bah, perché mi dici di andare a prendere la ciotola quando vedi il gatto che esce dalla sala da pranzo con i baffi sporchi di cibo?», disse il francese visibilmente contrariato. «Forza, andiamo! Non dobbiamo perdere un solo istante.» «Andiamo? Ma dove?» «Al cimitero di St. Rose, ovviamente. Dai, sbrigati! Ci vuole rapidità mio caro. La Polizia è alla ricerca di prove, almeno così dice il nostro loquace giornalista. Potrebbe aver già ripulito la zona e quindi non potremmo usufruire dei loro stessi indizi!» «Credi che arresteranno veramente qualcuno?» «Dio ce ne scampi e liberi!», rispose. «Forza, sbrigati, mon vieux, ti prego!» Nel piccolo ufficio di cemento del cimitero di St. Rose, l'aria era riscaldata da una piccola stufa di forma ovoidale. Il carbone ardente era di un intenso color rosa, e infondeva alla stanza un calore tale, che faceva pensare più a una torrida giornata agostana, che a una fredda mattina di dicembre. Il vento fischiava incanalandosi tra gli angoli della casa e lottava con i rami spogli degli alberi che punteggiavano il cimitero piccolo e cupo. Il signor Fischer, viso rotondo, occhi blu, di mezza età, indossava una giacca bianca e, dal modo in cui si comportava, sembrava che, più che in un cimitero, si trovasse nella propria abitazione. Sporse la testa, per salutarci, da dietro una copia del Morgen Zeitung che stava leggendo con inte-
resse. «Giornalisti?», si informò con un forte accento tedesco. «Non ho nulla da aggiungere a quanto ho già detto. Non potete lasciarmi finalmente un po' in pace?... È da stamattina che...» «Avete pienamente ragione», lo interruppe de Grandin aprendosi in un veloce e ironico sorriso, «ma vorremmo rubarle giusto un minuto del suo preziosissimo tempo. E, visto che è così importante, accetterebbe un piccolo compenso per poche informazioni?» Vidi appena un istante una macchia verde, e le banconote cambiarono rapidamente di mano con la rapidità con cui un prestidigitatore fa scomparire le carte da gioco. Da annoiato che era, Andrew Fischer si mostrò subito cortese e attento. «Va bene, cosa posso fare per voi?» Il piccolo francese tirò fuori il suo portasigarette, ne offrì una a Fischer e, con cura infinita, ne prese una per sé. «Prima di tutto», disse, «vorremmo sapere qualcosa sull'apparizione della misteriosa donna vestita di nero e che, almeno apparentemente, sembra aver commesso il fatto dissacrante. Può dirci qualcosa di lei?» «Certamente che posso», disse di sua spontanea volontà. «Saranno state le ventuno e trenta o le ventidue. Di solito chiudo il cancello principale alle venti e quello posteriore intorno alle ventuno e trenta. Stavo giusto chiudendo quello posteriore per poi andare a casa a dormire, quando sentii, tra il fischiare del vento, il rumore sordo di un colpo e un fruscio. Andai a controllare, e mi accorsi che si era rotto il lucchetto del cancello principale. Era vecchio e arrugginito, ma in effetti mi sembrò strano che potesse essersi rotto da solo: in fondo non è che ci fosse stato tutto quel gran vento. Così mi misi alla ricerca di un pezzo di corda, o qualcosa di simile, per poter legare il cancello. Mi diressi verso il capannone degli attrezzi. Si trova al di là del terreno consacrato, dove seppelliamo i suicidi e i bambini morti prima di essere battezzati. Gli uomini incaricati di scavare le fosse avevano ammucchiato gli attrezzi nel capanno disordinatamente. Stavo per entrare per mettermi alla ricerca della corda in quel mare di oggetti, quando da un cespuglio saltò fuori una donna piuttosto alta insieme al cane più grande e orrendo che avessi mai visto. Gott in Himmel!», disse, smettendo di parlare in americano ed esprimendosi nell'idioma dei suoi antenati. Quindi riprese normalmente: «Ero terrorizzato!». Il francese, sovrappensiero, gettò la cenere della sua sigaretta sul lino-
leum che ricopriva il pavimento di cemento della stanza. «Saprebbe descrivere la donna?», disse lentamente, lanciandomi un'occhiata veloce. Quindi fissò con fare minuzioso le volute di fumo che uscivano dalla sua sigaretta. Fischer pensò per un istante. «Non ne sono sicuro», disse. «È accaduto tutto così improvvisamente. È come se fosse uscita dal nulla, e devo ammettere che ero molto più ansioso di correre via, piuttosto che di osservarla attentamente. Comunque era molto alta, almeno più alta di una testa di una donna normale; credo anche fosse molto bella. Era magra, con dei lunghi capelli che le coprivano parzialmente il volto e le spalle. Indossava qualcosa di nero, senza maniche, e aveva... non so come spiegarlo esattamente... Ecco, potrei dire che aveva uno sguardo diabolico e crudele.» «Diabolico? Come?» «Aveva sul volto una specie di sorriso, come se fosse contenta di incontrarmi. Ma era un ghigno, più che un sorriso, io lo chiamerei così; una specie di sguardo selvaggio e piacevole allo stesso tempo. E il cane! Mein Gott! Era grande come il cucciolo di un elefante. Aveva il muso lungo e appuntito, e teneva aperte le sue fauci rosse, enormi e terribili. Gli occhi erano stretti e lunghi come quelli di un cinese, e lampeggiavano nell'oscurità come fossero quelli di un gatto!» «Si è mosso per attaccarvi?» «No, non mi sembrava intenzionato a farlo. Stava solo lì, con una zampa alzata, pronto a saltarmi addosso, ma non si è mosso. La donna si trovava dietro di lui, con i capelli al vento, e una mano sulla groppa del cane; entrambi mi ringhiavano ferocemente! Anzi, la bestia ringhiava e la donna la imitava, quasi rispondendole. Non attesi oltre e corsi subito via. Credo che anche voi avreste fatto altrettanto!» «Non ha idea da dove possano essere venuti?» «No. Sono tornato qui il più velocemente possibile, ho chiuso le porte e ho usato un mobile per barricarmi all'interno!» «Uhm. Possiamo vedere la tomba della sfortunata Mademoiselle Doyle?» Una antipatia razziale si accese nello sguardo di Fischer quando de Grandin usò quella parola in francese, ma, il ricordo del recente e cospicuo indennizzo, gli fece superare l'astio atavico. «Sicuro», acconsentì con minore cordialità e gettandosi sulle spalle un
giubbotto di pelle incartapecorita. «Andiamo.» La bara e la terra erano state rimesse nel sepolcro violato. Nel posto dove giaceva Monica Doyle nel suo riposo eterno, sembrava che la terra rossa avesse subito una profonda ferita. Il piccolo francese osservò attentamente il terreno circostante, quindi affondò il suo coltellino nella terra prelevando un campione del fango con cui avevano riempito la fossa; poi si alzò scuotendo il capo. «E ora, se lei sarà così gentile da mostrarci il luogo dove ha incontrato quella strana visitatrice, non la disturberemo più», disse al guardiano. Il cimitero era piuttosto piccolo, dovendo provvedere a una clientela ricca ma limitata. Molte tombe, più che di fiori, erano ricoperte d'erica. Evidentemente era cresciuta durante l'ultima estate. Ora, nel dicembre brullo, aveva un'aria desolata che mi lasciò depresso come il suono distorto di una musica melanconica. Anche gran parte degli alberi del cimitero erano spogli. La parte riservata agli indigenti e ai non battezzati, si trovava in uno stato decisamente peggiore. Non c'erano né erica né piante grasse. I sepolcri che avevano una pietra tombale erano ancora più malinconici di quelli che non l'avevano. Si trattava di semplici lapidi di legno o pietra, dipinte di bianco e incise così rozzamente che qualsiasi mendicante le avrebbe rifiutate come riconoscimento della propria tomba. Dopo aver camminato per un breve tratto, il guardiano si fermò nei pressi di un folto cespuglio. «Ecco, erano qui», annunciò risoluto, fissando de Grandin con uno sguardo non certo amichevole. «Ora però sbrigatevi; ho da fare. Non posso stare con voi tutto il giorno.» Ancora una volta, de Grandin ispezionò il terreno. Con il suo coltellino smosse il fango rosso e appiccicoso, osservando attentamente il luogo dove Fischer era rimasto terrorizzato. Poi si rialzò e, con un passo breve e strano, si diresse verso la linea formata da alcuni pioppi della Lombardia che servivano come frangivento lungo il muro posteriore del cimitero. «Ehi, non posso più aspettare», disse il guardiano riscaldandosi. «Devo fare una quantità incredibile di cose. Se volete chiedermi qualcos'altro, mi troverete nel mio ufficio.» Detto questo, si girò e ci lasciò. «Sale caboche», mormorò de Grandin lanciando uno sguardo gelido al guardiano che si stava allontanando. «Meglio così, ora non ci serve più. L'assenza è il miglior regalo che potesse farci. Sbrighiamoci, amico Tro-
wbridge: vado avanti io, se tu permetti.» Dalla tasca del panciotto tirò fuori il suo accendino, l'accese, e dalla giacca prese una candela di paraffina. «Ero proprio sicuro che mi sarebbe servita.» Mi spiegò che avrebbe fatto colare il grasso della candela sino a colmare l'interno di una piccola impronta di scarpa impressa nel terreno umido. «Perché diamine lo stai facendo?», chiesi, mettendomi di fronte a lui per fare scudo con il mio corpo contro il vento. Mi sentii imbarazzato per lo sguardo curioso lanciatomi da un passante. «Parbleu, credo che farò costruire una casa di mattoni in cui racchiuderò tutte le tue domande senza senso!», rispose ironicamente, versando delicatamente la paraffina calda all'interno della depressione e aspettando ansiosamente che si indurisse. Quando la paraffina si fu ben raffreddata, la prese con molta cura, la pulì dalla terra che vi si era attaccata, e la ripose in due fogli di carta. La prese così delicatamente che sembrava avesse per le mani un neonato con appena un giorno di vita. Quindi si rialzò e procedette metodicamente attraverso il cimitero annotando attentamente, su di un foglio, ogni impronta femminile che incontrava. «Dubito che la Polizia abbia rilevato queste impronte», mi disse, «a meno che questo caso non sia stato affidato al buon Sergente Costello. È sicuramente il più in gamba di tutti. Io e lui abbiamo lavorato molte volte insieme.» Quando tutto era stato ormai osservato con grande soddisfazione da parte sua, ci dirigemmo verso l'uscita. «Merci beaucoup, Monsieur l'allemand-transplanté!», disse ironicamente, alzando il suo cappello di feltro verde e uscendo dal cancello. «Dannata rana!», rispose il guardiano. E con quello scambio di amenità lasciammo il cimitero. «Lentamente, caro Trowbridge, guida lentamente, per favore», ordinò. Si era seduto sul sedile posteriore, e osservava attentamente la vegetazione che si trovava lungo il bordo della strada, ora a destra, ora a sinistra. Una volta o due mi fermai su sua richiesta. Scese poi dalla macchina e fece un giro, addentrandosi per un breve tratto nel sottobosco. Finalmente, quando avevamo ormai impiegato quasi un'ora per percorrere appena quattro miglia, ritornò dalla sua investigazione con in volto stampato un sorriso di soddisfazione. «Triumphe!», annunciò, mostrandomi ciò che aveva appena trovato. Era una pantofola da notte nero-satinata!
«E ora, se sarai così buono da lasciarmi qui, te ne sarò infinitamente grato», mi disse quando raggiungemmo il centro della città. Circa un'ora più tardi entrò nella mia stanza delle visite mediche. I suoi occhi brillavano d'esultanza, e lo stesso sorriso di soddisfazione che avevo visto solo pochi minuti prima nel bosco, si librava sotto le punte aguzze dei suoi mustacchi biondi e incerati. «Mio incredulo Tommaso, vuoi proprio vedere la prova?», mi disse. «C'est pourquoi, e io te l'ho portata. Regardez: questa...», scartò attentamente un pacchetto e ne rovesciò il contenuto sulla scrivania, «...è l'impronta dell'orma che ho rinvenuto al cimitero. Questa...», tirò fuori dalla tasca della giacca la pantofola che aveva trovato sul bordo della strada, «...è quella che ho trovato nei pressi del cimitero durante le mie ricerche. E questa...», prese da un'altra tasca una pantofola nera, «...è la scarpa che Madame Hildegarde indossava l'altra notte quando ha vagato senza conoscenza all'esterno della casa. Me la sono fatta dare, meno di un'ora fa, dalla femme de chambre che abbiamo interrogato l'altra notte. Ora presta la massima attenzione. Osserverai che le scarpe sono identiche, salvo che una è rotta e l'altra no. Entrambe sono sporche dello stesso fango rosso, il fango che ho rinvenuto nel cimitero di St. Rose. Noterai anche che entrambe si adattano perfettamente alle impronte rilevate al cimitero. Enfin, sono ognuna la compagna dell'altra. Sono entrambe le scarpe di Madame Hildegarde. Con queste ai piedi, l'altra notte ha lasciato la sua casa, dirigendosi al cimitero con quella specie di lupo bianco per andare a disseppellire il cadavere di Mademoiselle Doyle! Mio caro amico, la misteriosa "donna in nero" era proprio lei, e, partitié de Dieu, il suo compagno era lo spirito redivivo di Gilles de Garnier, il Lupo Mannaro di St. Bonnot, che è penetrato nel nostro mondo attraverso la porta che Mademoiselle Noyer ha aperto durante quella maledetta seduta spiritica, quella domenica notte alle Dodici Querce! Ed è per questo che lei ride e ghigna come un cane! Ti dico che le cose stanno proprio così! Plût à Dieu, non saprei dare un'altra spiegazione!» «Io invece non rido», dissi. «In un primo momento ero incline a pensare che si trattasse di uno dei tuoi soliti scherzi sui fantasmi, ma ciò che è venuto alla luce intorno a questo caso è così strano e terribile che credo proprio che tu abbia ragione. Insieme siamo stati testimoni di questo fatto, e ora non sono più disposto a scherzare. Ma dimmi...» «Tutto ciò che posso!», rispose impetuosamente porgendomi le mani.
«Cosa vuoi sapere?» «Se l'animale in compagnia di Hildegarde è veramente un Lupo Mannaro, perché hanno dissotterrato il corpo della giovane Doyle? Io ho sempre sentito parlare di licantropi che divorano esseri viventi.» «E anche i morti», replicò. «Vi sono diversi tipi di licantropi: alcuni uccidono cani e pecore, ma attaccano l'uomo solo se sono a loro volta attaccati; altri sono come iene e predano i morti. Altri ancora, i più pericolosi, bramano carne umana e cercano e uccidono donne, bambini e anche uomini, quando non sono disponibili prede più deboli. Nel nostro caso, questo abominevole Garnier forse preferisce dei morti inermi come vittime delle loro incursioni, perché...» «Loro incursioni?», gli feci eco inorridito. «Loro...» «Ahimè sì. È proprio la verità. La povera e sfortunata Madame Hildegarde è divenuta come il suo dominatore e padrone Gilles Garnier. Anche lei è un loup-garou. Ma ancora la sua mente non è stata completamente ottenebrata. Ricordi come piangeva l'altra notte? Diceva "No, no, io non verrò". E poi, quando ha lasciato alla femme de chambre un messaggio d'amore e d'addio per suo marito prima di lasciare la casa per raggiungere il suo spettrale padrone? Ricordi il fango che abbiamo trovato sotto le sue unghie rotte? Credo proprio che lei abbia aiutato il lupo a estrarre dal terreno la bara di Monica Doyle. Sono sicuro che le cose ormai stanno a questo punto.» «Ma perché loro non hanno...», iniziai, ma la domanda mi si strozzò in gola. «Ma perché loro non hanno... mangiato...», mi fermai nauseato. «Per quello che la ragazza stringeva nelle mani.» Rispose. «Il rosario e i gigli che loro hanno strappato a morsi e portato via. Io ne ho trovati alcuni brandelli nella terra vicino alla tomba, sebbene la Polizia avesse già fatto la sua ispezione. Inoltre, il corpo della fanciulla era stato benedetto con l'incenso e l'acqua santa. Ah, pardieu, queste cose li hanno sconfitti. Non potevano più sfogare la loro collera sul corpo, e allora lo hanno rigettato capovolto nella bara come se si trattasse di un grave insulto.» Si alzò, attraversò velocemente la stanza per sgranchirsi le gambe e continuò con rinnovata energia. «Ora seguimi attentamente», disse, sedendosi sull'angolo della scrivania e fissandomi senza battere ciglio. «Tu hai familiarità con quella che viene chiamata la "nuova psicologia" di Freud e Jung. Per il tuo lavoro dovresti almeno averne sentito parlare. Bene: tu sai che ci sono verità che noi preferiamo dimenticare. Ogni gran-
de desiderio, ogni odio, ogni passione, ogni idea di lussuria, viene catalogata nella nostra mente e indirizzata in un recesso di subconscio. Noi non siamo capaci di richiamare queste informazioni. Ma, in occasioni particolari, come può essere una seduta spiritica, riusciamo a liberare tutti i desideri repressi e proibiti: invidia, malizia, odio o bramosia, che sin da fanciulli abbiamo incamerato nel nostro cervello. Noi sappiamo, come hanno rilevato recenti studi di psicologia, che leggi fisse e immutabili governano i nostri processi mentali. C'è, ad esempio, la legge di somiglianza, che evoca l'associazione di idee. Vi è la legge di integrazione, che spacca le immagini mentali in frammenti e, che inabilita il subconscio a riunire queste immagini nella figura completa dell'evento o della scena vissuta, come i pezzi di un puzzle che non siamo capaci di ricomporre. Bene. Pensa ora a dieci o dodici persone sedute in perfetto silenzio intorno ad un tavolo. Vi sono tutte le condizioni che possono condurre a uno stato di ipnosi: oscurità, il focalizzare insieme lo stesso oggetto, la mancanza di influenze esterne che possano distrarre l'attenzione dei presenti. In queste condizioni, la loro mente si apre. Le normali inibizioni che la morale tiene prigioniere nel nostro subconscio, vengono così liberate; è come se una sentinella si fosse addormentata permettendo l'apertura furtiva dei cancelli del castello! Ora ci sono le condizioni ideali per un'invasione. Eh bien, amico mio, non pensare che il nemico ne approfitti lentamente. Non è assolutamente così. Se alla seduta spiritica è presente anche una sola persona la cui mente sia predisposta al male, ecco che il Potere del Maligno penetra all'interno del cancello e l'ignaro tramite diventa a lui collegato. Quando i cancelli della psiche sono lasciati aperti, qualsiasi forza può oltrepassarli. Ora, chi pensi che potrebbe essere più facilmente attaccabile? Madame Hildegarde, non è vero? Essendo incinta, il suo flusso sanguigno, tutto il sistema circolatorio, deve avere cura di due persone. Al cervello arriva perciò meno sangue, e quindi la capacità di resistenza diminuisce. Andiamo avanti. Consideriamo ora ciò che è successo alle Dodici Querce. Un colpo sul tavolo ci ha fatto capire che lo spirito di un uomo vuole entrare in comunicazione con noi. Gli chiediamo il nome. Eh bien, e che risposta! Dice il suo nome e la paura si è fatta sentire nei presenti che lo hanno riconosciuto. "Gilles Garnier, che vive a St. Bonnot durante il regno di Re Carlo", come lui stesso ci ha detto sfrontatamente. Hai mai sentito parlare di lui?», si interruppe per un attimo inarcando le sopracciglia inter-
rogativamente. «No, non avevo mai sentito il suo nome», risposi. «Bien. Credo che, come te, nessuno dei presenti lo conoscesse. Il suo nome, la nazionalità, l'epoca in cui è vissuto, tutto potrebbe far pensare a qualcosa di molto "romantico" per una congrega di stupide zucche vuote. Non è successo forse proprio questo? Sì, e in misura piuttosto marcata. Ah, ma Jules de Grandin lo conosce! Come tu hai studiato la storia della medicina, dell'anestesia, delle piaghe che hanno flagellato il nostro povero mondo, così io ho studiato questi altri flagelli che hanno distrutto corpi o menti e, a volte, entrambi. Ascoltami: ti dirò chi è e che cosa ha fatto Gilles Garnier. Nel 1573, quando Carlo IX salì al trono di Francia, viveva a St. Bonnot, vicino alla città di Dole, un individuo chiamato Gilles Garnier. Era un contadino zoticone, dal carattere decisamente sgradevole. Più una persona lo conosceva, più si allontanava da lui. Viveva sempre da solo e, nella regione, era conosciuto come "l'eremita". Ma questo nome non intendeva attribuirgli un carattere di santità; anzi, tutt'altro! Venne così l'estate di quell'anno fatale e, con essa, furono inoltrate molte lamentele al Parlamento di Dole. I contadini che vivevano nei pressi della città, denunciarono il furto di pecore dall'ovile, il ritrovamento dei corpi morti dei cani da guardia e persino la scomparsa di bambini trovati poi orrendamente dilaniati lungo la strada o le siepi. Tre menestrelli girovaghi, tutti veterani di guerra ed esperti spadaccini, che si erano accampati nel bosco di St. Bonnot, furono trovati morti, malgrado tutt'intorno vi fossero i segni di una strenua resistenza. Mi sembra inutile aggiungere che i loro corpi erano quasi irriconoscibili. Tutti gli abitanti della regione erano terrorizzati e, anche se armati, gli uomini preferivano non muoversi di notte dalle proprie case, perché un loup-garou, o Lupo Mannaro se preferisci, reclamava per sé quelle terre dal tramonto sino all'alba. La sera dell'8 novembre 1573 era una sera come tutte le altre. I campi erano ormai privi di vegetazione e le ultime foglie avevano lasciato recalcitranti la compagnia dei rami degli alberi. Tre spaccalegna stavano tornando velocemente alle loro case a Chastenoy dal loro lavoro, quando sentirono le grida di una giovane ragazza provenire dal fitto sottobosco. Il pianto della bimba si mischiava all'abbaiare di un lupo. Brandendo le loro asce, si fecero strada nella boscaglia dirigendosi verso il luogo da dove provenivano le grida. In una piccola radura, videro questa terribile scena: una bimba di dieci anni si trovava con le spalle appoggiate
ad un albero e si difendeva, come meglio poteva, con il suo bastone da pastore. Di fronte a lei si ergeva una creatura mostruosa che non aveva cessato il suo abbaiare diabolico e che stava attaccando la fanciulla con denti e artigli. Il corpo della ragazza era già ricoperto di sangue, a causa delle numerose ferite. Come i tre boscaioli uscirono allo scoperto, urlando e dirigendosi con le asce verso la bestia, questa si dette alla fuga, scomparendo istantaneamente nel fitto del bosco. Gli uomini avrebbero voluto inseguirla, ma le loro attenzioni furono ovviamente tutte per la bambina, stremata e gravemente ferita.» Si fermò per accendersi un'altra sigaretta, quindi proseguì: «In un processo», mi chiese, «quando due testimonianze sono contraddittorie, tutti i testimoni hanno uguale possibilità di essere creduti?». «Credo che sarebbe appoggiata la tesi espressa dal maggior numero di testimoni», risposi. «Molto bene. Questo direbbe la logica, ma non fu così. Il giorno dopo, quando i tre taglialegna raccontarono il fatto alle autorità, uno disse che l'assalitore della fanciulla era un uomo con dei foltissimi capelli, ma gli altri due dissero che si trattava di un lupo dal pelo grigio molto lucente e con gli occhi decisamente umani. Ti ricordi che l'amabile Monsieur Fischer questa mattina ci ha detto che la bestia che l'aveva terrorizzato la notte precedente aveva gli occhi di un cinese? Comunque, a St. Bonnot non si credette alla tesi del lupo, e non furono ordinate ulteriori indagini. Il 14 novembre scomparve un ragazzo di otto anni. Il bambino era stato visto per l'ultima volta all'interno della casamatta per i balestrieri che si trovava presso i cancelli della città. Poi era svanito, come se fosse stato inghiottito dalla terra stessa. Morbleau, era stato inghiottito, ma non dalla terra! No! Questa volta alcuni indizi piuttosto chiari, indicavano in Gilles Garnier, "l'eremita", il responsabile dei recenti avvenimenti. Un sergent de ville e sei archibugieri andarono ad arrestarlo. Lo presero sotto la loro custodia verso mezzogiorno del 16 novembre. Venne subito processato. È strano, ma molto spesso accade che, persone implicate in crimini anche molto gravi, una volta arrestati, confessino i loro reati senza aspettare che siano prodotte prove contro di loro. E così accadde. Garnier ammise di aver fatto un patto con il Diavolo, per mezzo del quale, dal sopraggiungere dell'oscurità sino al canto del gallo, poteva trasformarsi in lupo.
Furono chiamati coloro che potevano testimoniare contro di lui: alcuni dei contadini derubati che l'avevano visto nella notte, ma soprattutto la giovane ragazza salvata vicino a Chastenoy. La testimonianza della giovane fu molto importante, perché identificò il prigioniero dai suoi occhi. Inoltre fu presa l'impronta dei denti di Garnier e confrontata con i segni dei morsi che la fanciulla aveva ancora impressi nella carne. Quando avviene la metamorfosi, un Lupo Mannaro mantiene denti e occhi della controparte umana. Le impronte risultarono quindi identiche. Garnier ammise di averla attaccata e raccontò molti altri episodi simili. Nel giorno dei festeggiamenti di San Michele, aveva attaccato con morsi e artigliate una ragazza di dieci/dodici anni, vicino al bosco di La Serre. L'aveva poi trascinata all'interno di un boschetto divorandola. Ci fu anche chi rafforzò la sua storia, andando a recuparare i resti del corpo mutilato. Il quattordicesimo giorno dopo Ognissanti, sempre in forma di lupo, aveva ucciso e divorato un ragazzo. Il venerdì antecedente la festa di San Bartolomeo aveva catturato e ucciso un giovane di dodici anni e lo avrebbe mangiato se non fossero arrivati alcuni contadini. Questi uomini furono rintracciati e confermarono la storia di Gilles Garnier. Anche qui ci fu un conflitto di testimonianze. Alcuni giurarono che lui era in forma umana, altri deposero che si trattava veramente di un lupo. Ma tutti dissero che urlava e ringhiava come una bestia. Ti ricordi la data in cui Mademoiselle Noyer ha effettuato la seduta spiritica alle Dodici Querce?» «Aspetta... mi sembra...», feci un veloce calcolo mentale, «sì, era il 26 novembre.» «Précisement», annuì. «Ed era il 26 novembre 1573 quando Gilles Garnier, altrimenti noto come il Lupo Mannaro di St. Bonnot, fu riconosciuto colpevole, portato mezzo miglio fuori dalla città, appeso a una corda per le caviglie e arso vivo!» «Coinciden....», iniziai a dire dubbioso. «Coincidenze? Ma, diavolo!», proruppe de Grandin. «Amico mio, ma di che cosa hai bisogno? Lo spirito di quell'uomo si è liberato nell'aria, invisibile ma potente, per quasi quattro secoli. Nell'anniversario della sua esecuzione è più forte il ricordo della vita trascorsa sulla terra. La rabbia e l'ansia di tornare ancora una volta a predare, hanno evidentemente accresciuto le sue forze psichiche. Ha bussato di nuovo al cancello del nostro mondo, come il lupo cattivo nella favola de les trois petit cochons, bussa alla porta e, notando la sua debolezza, l'abbatte con un solo soffio! Sì. In-
dubbiamente le cose stanno proprio così.» «Ma senti», controbattei, «sono d'accordo con te quando parli di problemi psicologici che possono aver influenzato le azioni di Hildegarde: non voglio contraddirti su questo. Ma come può Garnier, essere riuscito a manifestarsi materialmente nel nostro mondo? Io posso anche avere visioni di fantasmi, o di spettri, o come diavolo tu li voglia chiamare, ma l'essere che Fischer ha visto nel cimitero o che Norval Fleetwood ha osservato nel prato delle Dodici Querce insieme a sua moglie, non è incorporeo. Chi ha riesumato il corpo della giovane Doyle dalla sua tomba, rimettendolo poi nella bara, non poteva essere che qualcosa di materialmente concreto. Anche supponendo che l'insanità mentale abbia dato a Hildegarde una forza soprannaturale, è impensabile credere che lei sia riuscita a fare tutto ciò da sola!» «Ineguagliabile Trowbridge!», piagnucolò allegramente. «Quando tutto mi sembra ormai cupo e scuro, tu mi mostri una luce di speranza. Io e te siamo il solo barlume di salvezza per Madame Hildegarde.» Lo fissai a bocca aperta, quindi: «Nel mondo...». Con un gesto gentile, de Grandin mi fece segno di azzittarmi. «Prestami attenzione», ordinò. «Hai risolto questo problema dannatamente complesso con la più semplice delle soluzioni. Tu sai, o comunque te lo sto dicendo ora, che un fenomeno molto comune associato alle sedute spiritiche, è la produzione di luce. Molti medium hanno il potere di attrarre o emettere luce. Io stesso ho assistito a questi fenomeni, partecipando ad alcune sedute tra esperti del settore. Ma cos'è questa luce? Alcuni pensano che si tratti dell'essenza del vero fenomeno spiritico, energia naturale dell'uomo che si manifesta sotto forma di ondate di luce canalizzate dai pensieri dei membri del circolo della seduta spiritica. Ma, al tempo stesso, questa essenza sembra sia qualcosa di più sostanziale di una semplice emissione di vibrazioni capaci di essere riconosciute come luce. Questa che noi stiamo vivendo è la prova indubbia che la materializzazione di uno spirito inizia durante la seduta spiritica. La British Society for Psychical Research e la Société d'Études Psychiques, l'hanno attestato dopo studi scientifici seri e approfonditi. Ma come è possibile la materializzazione? Uno spirito è il fantasma di quello che una volta era stato un uomo. Ma, in effetti, di quell'uomo non vi è più il corpo. Sono proprio questi ultimi che visitano le sedute spiritiche, sperando nella materializzazione. Non possono materializzarsi da soli, così come un muratore, anche esperto, non può costruire una casa se prima non si è procurato i materiali grezzi con
cui edificarla. È così anche per gli spiriti. Una particolare forma di energia viene irradiata dalle persone presenti alla seduta spiritica: è qualcosa di molto simile alle onde radio. Questa energia è chiamata psicoplasma. Se nell'aria vi è una presenza massiccia di questa forza, il fantasma, spirito demoniaco, può assorbirla, riuscendo così a modificare le vibrazioni della sua essenza, contraendosi sino a divenire solido e ponderabile, ricostruendosi così un corpo, non necessariamente identico a quello originale. In circostanze normali, al termine della seduta spiritica, lo psicoplasma ritorna alla mente di chi lo ha generato. Ma supponiamo che vi sia uno spirito che abbia un grande desiderio di tornare ancora una volta a vivere su questo mondo e che voglia quindi riavere un corpo solido: cosa fa? Già sai qual è la risposta, e ora comprendi qual è il pericolo di una seduta spiritica. È possibile fornire inconsapevolmente una struttura corporea a una entità maligna. Ed è quello che è successo nel nostro caso.» «Sì?», domandai. «E qual è la soluzione del problema che secondo te io avrei trovato?» «Pardieu! Riformare la seduta spiritica con le stesse persone, e fare in modo che Gilles Garnier torni da dove è venuto... Forse non funzionerà, ma dobbiamo provarci; e dobbiamo farlo assolutamente questa notte.» Passò tutto il pomeriggio al telefono, cercando di parlare con i dodici membri che avevano partecipato alla seduta spiritica alle Dodici Querce. Quando li rintracciò e tutti ebbero accettato di venire quella sera nella casa di città di Fleetwood, de Grandin si alzò in piedi esausto. «Amico mio, non mi aspettare per pranzo», disse mestamente. «Preferirei tagliarmi un dito, piuttosto che perdere quel maialino che Nora McGinnis sta arrostendo in cucina, ma su di noi incombe qualcosa di più importante. Mangerò in un albergo a New York. Hélas!» «Ma dove stai andando?» «Devo fare una prenotazione presso un'agenzia teatrale.» «Una prenotazione...» «Calmati! Hai capito esattamente quello che ho detto. Ci vedremo questa sera alle venti da Monsieur Fleetwood. Mi fido di te. Fai in modo che nessuno del gruppo lasci la casa prima del mio arrivo. Au plaisir de vous revoir.» Erano appena rintoccate le ventuno e trenta al grande orologio a cucù che si trovava nel salone di casa Fleetwood, quando arrivò de Grandin.
Nella stanza erano radunati i partecipanti a quella dannata seduta spiritica. Erano imbarazzati e piuttosto irritati per l'attesa; Norval stava facendo del suo meglio per intrattenerli. Hildegarde, smunta e pallida, non sembrava aver risentito fisicamente dell'avventura della notte precedente. Sedeva vicino al fuoco, e a volte dei brevi brividi le percorrevano il corpo, anche se la temperatura della stanza era molto elevata. Uno sguardo sgomento era stampato sul suo volto. A ogni suono di clacson proveniente dalla strada, un lampo di paura le si accendeva negli occhi, quindi si alzava di scatto dalla sedia con una contrazione convulsa che le attraversava le guance e moriva sulle labbra. Insieme a de Grandin, entrò un uomo giovane e pallido. Indossava abiti piuttosto semplici, i suoi capelli erano corti e scuri, e aveva dei malinconici occhi infossati. «Professor Morine, Dottor Trowbridge.» De Grandin introdusse l'estraneo nella stanza. «Monsieur Fleetwood, Professor Morine.» «Il Professore è un esperto di ipnotismo», spiegò a bassa voce. «In questo momento si trova senza lavoro, ma una persona al bureau d'enregistrement dei lavoratori dello spettacolo, me lo ha raccomandato, senza riserve, per il suo indubbio talento. La sua tariffa per stanotte è di cento dollari. Per lei va bene, Monsieur?», chiese, guardando inquisitoriamente Norval Fleetwood. «Se aiuterà Hildegarde a guarire, pagherò il doppio.» «Molto bene. Diciamo allora centocinquanta dollari. Penso che potremo contare sulla discrezione del Professore. Ha promesso di dimenticare tutto ciò che vedrà e sentirà stanotte in questa casa.» «Va bene, va bene», rispose Fleetwood nervosamente. «Cominciamo.» «Très bien. È tutto pronto? Mi scusi, Madame Hildegarde: potrebbe uscire da questa stanza per un minuto?» Norval sussurrò qualcosa all'orecchio di sua moglie. Come la donna uscì, il francese riprese a parlare a tutto il gruppo. «Messieurs, Mesdames, noi siamo qui riuniti, questa notte, per replicare le condizioni che hanno portato all'indisposizione di Madame Fleetwood. Vi assicuro sul mio onore che tutto quello che stiamo facendo non è per qualche scopo personale. Solo se necessario, sarete sottoposti a un leggero procedimento ipnotico. Personalmente posso assicurarvi che non ci sono pericoli di alcun genere. Siete d'accordo?» Anche se riluttanti, gli ospiti, uno dopo l'altro, acconsentirono. Venne poi il turno di Mazie Noyer.
«Io non voglio», rispose brevemente. «Non prenderò parte a questo ridicolo modo di procedere. Lei vuole impossessarsi della mia mente per farmi fare la figura della stupida. Lo so! Non acconsento!» «Mademoiselle», protestò de Grandin, «non le interessa vedere Madame Fleetwood guarire dalla sua malattia? Se rifiutate, vi assumete una grande responsabilità.» «Non mi interessa che Hildegarde stia bene oppure no. Potrebbe anche morire prima che io acconsenta ad essere ipnotizzata. Il fatto è che lei vuole vedermi impazzire!» «Parbleu, in questo la natura mi ha preceduto», borbottò de Grandin, ma poi disse a voce alta: «Va bene, Mademoiselle, come lei desidera. Ci vuole scusare mentre portiamo avanti il nostro lavoro?». Con un inchino gelido si allontanò da lei e condusse gli altri all'interno di una stanza adiacente. Da qui erano stati rimossi i mobili, escluso un tavolo rotondo e una mezza dozzina di sedie. Poco dopo, de Grandin tracciò sul pavimento un pentacolo composto da due triangoli intrecciati. Su ognuna delle cinque punte pose una candela di cera, un pugnale corto e tagliente con la punta rivolta verso l'esterno del pentacolo, e un piccolo crocifisso. Il tavolo si trovava all'interno dello strano disegno. Norval condusse Hildegarde nella stanza, quindi chiuse la porta. Tutti presero posto intorno al tavolo. Il Professor Morine cominciò a camminare lentamente intorno al cerchio formato dai partecipanti, accarezzando con le mani le fronti di ogni persona. Dopo aver terminato il giro, sussurrò con voce calmissima: «Dottore: è tutto pronto. Sono in stato di trance. Cosa facciamo ora?». Il francese accese le candele una ad una, mormorando una sorta di preghiera o di incantesimo per ogni fiamma. Osservò per un istante le tenui fiammelle, quindi si girò verso il Professore. «Se per lei va bene, vorrei essere io a parlare», rispose. De Grandin prese cinque piatti d'argento da sotto il tavolo e versò dentro di questi un liquido scuro e denso preso da una grossa fiasca. Da una bottiglia centellinò un liquido scuro come il primo, ma molto meno denso. Come richiuse la seconda fiasca, mi accorsi che l'aria era pervasa da un piacevole odore di vino di Porto. Ognuno dei cinque piatti fu messo su una delle cinque punte del pentacolo. Si sentì un suono stridulo provenire da sotto il tavolo. Era de Grandin che aveva preso tre incensieri ecclesiastici. Ne tenne uno per sé, e diede gli
altri uno a me e uno a Morine. Erano carichi e pronti ad essere accesi. «Prendeteli e accendeteli, amici mei», ordinò, «e agitateli verso qualsiasi cosa compaia nell'oscurità, senza esitazioni di alcun genere.» Poi si rivolse alle persone sedute intorno al tavolo. «Ora concentratevi con tutte le vostre forze. Cercate di non pensare a nulla. Ecco: così va bene. Quando ve lo dirò, ripetete più volte queste parole: "Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!".» Ci fu qualche secondo di pausa, poi riprese: «Ecco: ora!» Come il leggero mormorio di un vento estivo lontano molte miglia, un coro basso e monotono cominciò a recitare: «Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!». Il parlottio del coro continuava da oltre cinque minuti. L'incessante ripetizione aveva su di me un effetto soporifero. Fissavo le fiammelle delle candele che illuminavano fiocamente la stanza, e facevo uno sforzo terribile per distrarre la mia mente da quell'incessante litania, sperando che terminasse al più presto. «Perché hai fatto venire quell'ipnotista di professione?», sussurrai a de Grandin. «Vedo che stai svolgendo un ottimo lavoro. Perché hai coinvolto nella storia anche un estraneo?» «Tiens», rispose sottovoce, «qui ci sono molti soggetti: avevo previsto anche la presenza della recalcitrante Mademoiselle Noyer. Per influenzarli tutti e per usare su di loro la mia magia, mi sarei dovuto stancare troppo e, le bon Dieu, devo avere la mente libera e pronta per ogni eventuale segnale d'allarme. Attendez! Sta arrivando!» Una sensazione di freddo intenso mi attraversò il corpo. La stanza era perfettamente chiusa, ma le fiammelle delle cinque candele si agitavano e danzavano come se qualcuno soffiasse su di loro. Vidi muoversi una tenda e ingenuamente pensai che forse del vento passava attraverso le fessure degli stipiti, poi, ad un tratto, si udì un rumore strano e leggero. Sembrava quello che produce un gatto quando lecca il latte dalla sua ciotola. Sulla superficie del liquido luminescente si formarono dei cerchi concentrici: era come se qualcuno agitasse il liquido, come se una lingua invisibile lo stesse bevendo. Il livello si abbassò sempre di più, sempre di più, sino a che il piatto non fu totalmente vuoto. De Grandin si mosse lentamente, senza produrre alcun rumore. Afferrò uno dopo l'altro i piatti d'argento trascinandoli all'interno delle linee del pentacolo.
Di nuovo il monotono ritornello: «Gilles Garnier, restituiscimi quello che mi hai preso!», rintronò nelle mie orecchie. Improvvisamente, nell'angolo più lontano della stanza, mi sembrò di vedere una fosforescenza leggera ed eterea. Sempre più luminosa, sempre più luminosa poi, da quella nebbia, prese forma, prese sostanza... un lupo bianco mostruoso e irsuto. Era acquattato lungo il muro nell'angolo della stanza! La bestia era più grande di un mastino, più di un pastore scozzese. Dalle sue enormi fauci spalancate, pendeva una lingua rossa e famelica dalla quale colava un liquido vermiglio. Ma, la cosa più orribile, non era la dimensione del mostro, ma il suo aspetto, con quegli occhi stranissimi. Le orbite erano così incavate che sembrava come se le pupille si trovassero all'interno dei fori di un teschio. Il suo sguardo era crudele, cattivo come quello di un uomo vizioso, astuto e deciso. Sembrava avesse lo sguardo più di un essere umano dedito al male, che di una belva, brutale per feroce istinto. Per un istante il mostro guardò verso l'alto, quindi, con un ululato di collera, si alzò sulle quattro zampe e ci caricò. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscimi quello che ci hai preso!», urlò de Grandin avanzando verso un angolo del pentacolo per incrociare la carica del Lupo Mannaro. Agitò il suo incensiere di fronte a sé, e una nuvola d'incenso si liberò nell'aria, raggiungendo il lupo che latrò inferocito. Quando la bestia toccò il limite della linea di gesso del pentacolo tracciato attraverso la stanza, si fermò di colpo, come se fosse entrata in contatto con un muro solido. Cominciò ad abbaiare selvaggiamente e incessantemente, soffocando e annaspando tra la nuvola d'incenso. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!», ordinò di nuovo de Grandin. La grande bestia bianca lo guardò interrogativamente, si abbassò sino a che il suo ventre non entrò in contatto con il pavimento della stanza, e cominciò lentamente a girare intorno al pentacolo uggiolando tra l'impaurito e l'adirato. «Maledetto rifuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!»: l'inesorabile comando fu profferito un'altra volta. Improvvisamente, la cosa-lupo sembrò cominciare a perdere sostanza. Era come se la forza di coesione delle molecole del suo corpo diminuisse di efficacia. Attraverso il suo corpo, riuscivo a vedere la parete opposta della stanza: ormai era come se la bestia fosse composta di vapore. Perse i suoi colori rossi e bianchi, e divenne luminosa come una figura dipinta con
vernice fosforescente su una parete scura. La testa, il tronco, gli arti, la coda, si allungarono, separandosi l'uno dall'altra. Due piccoli globi di gas luminoso si alzarono da quello che era il corpo del lupo. Raggiunsero il soffitto, fluttuando un istante nell'aria, quindi si diressero verso il monotono brusio che proveniva dalle persone sedute intorno al tavolo. Ogni volta che un globo giungeva a contatto con uno degli ospiti, svaniva, ma non come una bolla di sapone; era come se qualcosa di invisibile lo succhiasse lentamente. Era come vedere il livello del latte che si abbassa in un bicchiere in cui è stato immerso un biscotto. Un solo globo luminoso, piuttosto piccolo e a forma di pera, rimase a sobbalzare contro l'intonaco del soffitto. Tornò di nuovo verso il basso: si muoveva come una mosca che è volata inavvertitamente in una stanza e che percorre un circolo vizioso alla ricerca di un'uscita che la porti all'esterno. «Maledetto rifiuto dell'Inferno, restituiscici quello che ci hai preso!», ordinò de Grandin fissando la riluttante palla di fuoco. «Ritorna da chi...» «Ehi! Mi sono stufata di aspettare! Cosa state combinando qui?» Mazie Noyer irruppe nella stanza. «Se state facendo qualcosa di occulto voglio...» «Pour l'amour de Dieu, attenzione!», gridò de Grandin alla donna. Lei, senza minimamente ascoltare le parole del francese, attraversò uno degli angoli del pentacolo, rovesciando e spegnendo una candela. «Non sopporterò più a lungo i vostri insulti e le vostre angherie, miserabile pezzente d'un francese!», disse urlando in direzione di de Grandin. «Io...» La sfera luminosa riprese improvvisamente consistenza e ricadde pesantemente sul pavimento producendo un tonfo sordo. Per un attimo rotolò avanti e indietro come impazzita, poi sembrò contrarsi, prendere consistenza e velocemente si condensò nella forma di un piccolo lupo bianco. Non era più grande di un topo, ma era la copia perfetta della enorme bestia che ci aveva minacciato solo qualche istante prima; e, come lei, era implacabilmente selvaggia. Con un ululato molto più forte e violento dello squittio di un topo, si lanciò attraverso la stanza, puntando direttamente verso l'angolo del pentacolo dove si era spenta la candela. «Pardieu, Monsieur le loup-garou, credo che ci rincontreremo solo in una dimensione che non è di questa terra!», gridò de Grandin, e infilzò la lama tagliente nel piccolo corpo del mostro che si stava dirigendo verso di lui.
La piccola cosa selvaggia morì lentamente, in preda a orribili convulsioni. Con denti e artigli, aveva cercato invano di estrarsi lo stiletto dalla carne. Un fiotto di sangue e un ululato di agonia fuoruscirono dalle sue fauci spalancate; infine cessò di lottare continuando comunque a tremare in una pozza di sangue. «Oh! Voi crudele, odioso e spregevole individuo, avete ucciso quel povero animale indifeso come se niente fosse!», urlò Mazie Noyer infuriata. Dopo aver recitato quella brutale tiritera, si avvicinò al povero de Grandin rifilandogli un sonoro ceffone sulle guance. Come il palmo della mano e le dita lo colpirono, si formò, sul volto di de Grandin una chiazza rossa; ma era nulla, rispetto all'espressione livida che assunse al sentire quei rabbiosi insulti. «Strega! Megera! Alleata delle Potenze dell'Inferno!», urlò furioso. «Se potessi, la getterei tra le fiamme e attenderei che il suo corpo divenisse cenere, così che i suoi familiari non possano riavere neanche il suo cadavere! Se ne vada, altrimenti mi dimenticherò del suo sesso e...» Si gettò verso di lei, mentre nei suoi occhi brillava uno sguardo d'odio che ricordava quello dei serpenti. «Lo farebbe», controbatté lei usando ora un tono di voce decisamente timido e impaurito. «Sono sicura che lei avrebbe veramente il coraggio di colpirmi!» «Sicuramente», mi disse de Grandin nel mio studio due ore più tardi, «amico mio, devi ammettere che avevo preso ogni possibile precauzione. Il pentacolo è stato apprezzato in tutti i secoli come una protezione decisamente efficace contro il potere del Male. Gli spiriti malvagi, anche i più potenti, sono ostacolati da questo prezioso strumento. Su ognuno dei cinque angoli, ho messo una candela benedetta presa dalla chiesa, un crocifisso e avevo un pugnale immerso in acqua santa. Gli spiriti malvagi che si sono materializzati nel nostro mondo, ma che non hanno preso possesso di un altro corpo umano, non possono fronteggiare l'acciaio appuntito. Probabilmente, le forze psichiche che si sprigionano dalle menti umane, concentrate nella seduta spiritica, si catalizzano sul pugnale e sono distruttive per lo spirito. Oltre le candele, mi sono fatto dare dal buon Curato tre stecche di incenso concentrato. Mordieu, è stato veramente difficile convincerlo, ma quando si è reso conto che gli oggetti sacri mi servivano per combattere una invasione sacrilega proveniente dall'altro mondo, mi avrebbe voluto dare l'intero maiale, come dite voi americani. L'incenso, come hai
potuto vedere, è decisamente ripugnante per uno spirito malvagio, e in particolare se si tratta di fantasmi di spiriti morti da molto tempo. Eh bien, pensavo che ormai la frittata fosse fatta, quando quella specie di donna abominevole, la Noyer, è entrata all'interno della stanza, rovesciando la candela guardiana. La sua cattiveria e la sua normale angheria hanno formato un'aura di disturbo, e ha così dato alla piccola nuvola di psicoplasma, che ancora non era stata assorbita, il nutrimento necessario per trasformarsi ancora una volta in un Lupo Mannaro, anche se di dimensioni ridotte. Dovevo ucciderlo immediatamente col coltello consacrato, perché ormai era penetrato all'interno del pentacolo protettivo e perché avrebbe riacquistato le sue dimensioni normali. Cordieu, non voglio neanche pensare a cosa sarebbe accaduto di noi! E credo anche che sarebbe meglio per noi dimenticare ciò di cui siamo stati testimoni.» «Che cosa c'era in quei piatti d'argento?», gli chiesi. «Un'esca», rispose con un ghigno. «Si trattava di sangue e vino, amico mio, vino e sangue. Per gli spiriti malvagi questa miscela è particolarmente gustosa. Per esempio, nella celebrazione di una messa noire, che è poi la cerimonia durante la quale gli affiliati pregano Satana, un calice viene riempito di vino e sangue sgorgato dalla gola di un bimbo sacrificato. Mi sono procurato un po' di sangue fresco all'ospedale, ho prelevato dalla tua dispensa del Porto, e così ho fatto la mia esca. Il Lupo Mannaro è venuto, ma io non l'ho lasciato bere a tutte le scodelle. No. Dopo che aveva svuotato la prima, ho rimosso le altre ponendole all'interno del pentacolo, ed esse sono divenute per noi un'arma preziosa. Uno non nutre un nemico prima di incontrarlo. Sarebbe assurdo. Tutto ciò mi ricorda che...» «Che cosa?», chiesi, appena egli si azzittì mostrando uno dei suoi ormai proverbiali ghigni. «Che il vino usato per la miscela è veramente eccellente, e che io ho una sete dannata. Ciò che influenzava la mente di Madame Hildegarde, ormai non è più in questo mondo, e lei non ha più nulla da temere. Privo del suo corpo, Gilles de Garnier non può farle alcun male. Fortunatamente non ci sono casi urgenti che richiedano l'intervento del magistrale Jules de Grandin, perciò...», si alzò e si produsse un profondo inchino, «...se permettete, credo che berrò sino a cadere in uno stato di totale incoscienza e chi mi sveglierà prima di domani a mezzogiorno, può cominciare sin da ora a recitare le sue ultime preghiere!» LA VENDETTA DEL LUPO MANNARO
The Return Of The Master di H. Warner Munn Weird Tales, luglio 1927 Ora io, Adam Grant, il narratore, devo introdurmi personalmente in questi racconti. Tutte le storie precedenti sono state scritte per spiegare che cosa so e che cosa ho vissuto. Non pensate che sia stato facile coprire un periodo di tempo di oltre quattro secoli e mezzo, da quando Wladislaw Brenryk, l'Ungherese, cominciò a vivere il suo tragico destino. Solo con estrema difficoltà e molti viaggi, sono riuscito a ricostruire i fatti nudi e crudi, deducendoli dalle statistiche di molti paesi, con simpatia, affetto e orgoglio. Sì, orgoglio! Perché questi sono i miei antenati, la mia gente, la mia famiglia. Ho tentato di raccontare le storie di pochi di loro. Sono molti altri i racconti che avrei potuto narrare, ma lo spazio e il tempo a mia disposizione sono limitati. Forse, un giorno... ma come Kipling usava dire: «Questa è un'altra storia». Non credo che esista un'altra famiglia tanto duramente provata, o che abbia affrontato un nemico così orribile con tale prolungato coraggio, per un periodo di tempo tanto lungo. Se l'affetto di Ivga Brenryk non si fosse diretto su Hugo Gunnar, se lei non avesse volontariamente barattato la sua vita, tutto questo non sarebbe mai successo. Infatti, dovunque si stabilirono i sette rami della famiglia, lì, prima o poi, è arrivato il Signore. Ah, be'! Tutta la storia non è altro che l'insieme delle vite delle varie persone. Ho cercato di raccontare le storie dei pochi che hanno influito sulla storia: la mia gente, i miei antenati, perché Ishmael, il figlio di quella coppia sfortunata, Ansel Grant e Achsah Young di Windsor, era un mio diretto antenato. Ishmael sembra fosse stato trascurato dal Signore. Almeno si sa che abitò a Salem, nel Massachusetts, durante la caccia alle streghe del 1692, senza essere coinvolto nei suoi orrori. Sebbene sia certamente più di una coincidenza il fatto che vivesse lì proprio in quel momento. Probabilmente fu lui ad attirare l'attenzione del Signore su quella zona. Evidentemente, lui stesso la pensava in quel modo. È documentato che vendette la sua fattoria e si trasferì a Deerfield. Forse provò un certo sol-
lievo nel garantire l'incolumità al proprio giovane figlio, che avrebbe potuto essere scelto dal Signore come vittima della generazione successiva. Se anche fu così, la sua pace terminò durante la terribile notte di mercoledì 29 febbraio 1703 quando, durante una violenta bufera, più di trecento Francesi e Indiani assalirono la città. Questa mi sembra più di una coincidenza. Ma forse fu una fortuna per quel ramo della mia famiglia. Ansel Grant fu ucciso da un tomahawk all'età di 77 anni e fu tumulato insieme a più di cinquanta cadaveri. Suo figlio Ishmael, e la moglie, Purity, furono presi prigionieri, ma furono liberati durante la battaglia di Greenfield Meadow, quando le bande di Hatfield e Hadleu misero in fuga gli Indiani con più di un centinaio dei loro prigionieri. Però, il loro figlio di nove anni, Nehemiah, fu separato dai genitori e fuggì insieme ad altri. Sopravvisse all'arduo viaggio di trecento miglia attraverso montagne e foreste, fino al Quebec. Lì, sebbene molti fossero stati rilasciati dietro riscatto, il bambino fu adottato da una famiglia Mohawk e gli fu dato il nome di Akahenyon, che vuol dire il Diffidente, o l'Astuto. Non ritornò mai più, benché sia documentato che suo padre e sua madre implorarono Joseph Dudlay, Capitano Generale e Governatore Supremo di Sua Maestà della Provincia del Massachusetts, nel New England, con una petizione datata 3 marzo 1706, affinché il Commonwealth pagasse il riscatto per il loro figlio. Il nome di Astuto gli si adattava bene. Egli, sebbene in apparenza diventasse uno dei Soluriquois, non dimenticò mai di essere inglese e virtualmente un prigioniero. Il suo unico figlio, avuto da Pretty Brook, la sua moglie Mohawh, fu chiamato Assan, un nome che le piacque, non sapendo che in inglese Assan significava John. Fu sotto il nome di John Grant, che il giovane taciturno e scuro di pelle si trasferì da Louisburg nel New England, dopo che i coloni inglesi avevano conquistato quella temibile fortezza nel 1744. Di conseguenza sembrerebbe che, in quei vagabondaggi, questo ramo della famiglia si sia smarrito, ignorato o in qualche modo dimenticato dal Signore, finché io, involontariamente, con le mie ricerche, mi sono fatto notare da lui. Avevo un amico che aveva approfondito lo studio dell'Occulto. La sua specialità erano gli incunaboli. La sua attività secondaria era la filosofia, la sua passione le ricerche dell'Occulto, il suo divertimento la collezione di
libri rari. Nella sua biblioteca vidi il Necronomicon (nell'edizione rarissima, in lettere gotiche, stampata in Germania nel 1443). Lui non mi permise né di leggerlo né di sfogliarlo perché, come disse, era probabile che nemmeno lo stesso arabo pazzo Alhazred sapesse quanto fosse pericoloso per chi non era in grado di prendere le giuste precauzioni. Inoltre, dubitava che io avessi la pazienza o la capacità di premunirmi. Ma io lessi, inorridendo a ogni pagina, il Libro di Eibon, i Misteri del Verme di Ludvig Penn e gli Unausprechlichen Culten di Von Junzt. Fu in questo volume che mi imbattei per la prima volta in un riferimento al Signore. Era una breve nota a piè di pagina, un riferimento alquanto sarcastico alla credenza popolare che la Guerra dei Trent'Anni fosse stata in qualche modo fomentata dal Diavolo. Von Junzt osservava: «Satana è stato sopravvalutato per troppo tempo. Ci sono dèmoni peggiori, più antichi di quelli noti alla mitologia cristiana». Brenryk lo sapeva. La sua conoscenza non era forse racchiusa nella sua stessa pelle? E, scarabocchiata al margine, c'era un'annotazione in una grafia minuta: «Vero. L'ho dato a Garnier di Bois Verdes: una famiglia un tempo nota come Gunnar». Seguiva un monogramma scritto a spirale e al contrario, che, visto in uno specchio dopo averlo decifrato, si leggeva: GUNTIUS. Lo feci notare al mio amico. Lui rise. «Non darei molta importanza a quella annotazione. C'era uno stregone scozzese che si chiamava Guntius e che scomparve alquanto misteriosamente, ma questo accadde circa trecento anni fa. Naturalmente gli Scozzesi e i Francesi erano in buoni rapporti a quell'epoca... be', almeno dal periodo di Giovanna d'Arco fino a Culloden. Suppongo che il vecchio stregone avesse affidato un libro rilegato in pelle umana a qualche amico o cugino, perché glielo conservasse. Questo sempreché la frase non abbia racchiuso un significato più semplice, privo di doppi sensi: "Racchiuso nella sua stessa pelle", potrebbe significare che a Garnier fosse stato semplicemente rivelato un segreto che Brenryk - mai sentito prima questo nome - conservava solo nella sua mente.» «Hai mai sentito parlare di Bois Verdes?» «Non esiste su nessuna cartina della Germania né dei Paesi Bassi. I primi due nomi certamente non sono francesi, benché Bois Verdes sembri esserlo. Perché ti interessa tanto?»
«Veramente non lo so. Ho la stranissima sensazione di dover scoprire qualcosa. Non è solo curiosità. Non almeno una curiosità normale. Si sono mai rilegati libri in pelle umana?» «Oh, sì. Molti. Io ne ho tre nella mia collezione.» Mentre ne guardavo uno e ne tastavo la rilegatura, simile a fine camoscio e meravigliosamente bianca, con pori quasi invisibili, egli continuò: «Era un'abitudine macabra abbastanza diffusa nella Francia del Diciassettesimo Secolo. Quello che tu hai in mano, per esempio, fu rilegato da un aristocratico con ampie strisce di pelle ricavata dalla schiena di una sua amante morta. È un libro di poemi d'amore. La leggenda vuole che egli la uccise per avere il materiale con cui rilegare il volume! Comunque, Von Junzt era un cognome austriaco, Brenryk un cognome ungherese. Sospetto che Guntius fosse tedesco, ma che avesse scelto la Scozia, perché era un paese più sicuro dell'Europa. Tutta la gente pratica e dalla testa dura non è adatta agli eccessi di fantasia». Io fui d'accordo, ma con qualche riserva. «Bois Verdes sembra francese. Garnier lo è certamente. Gunnar potrebbe esserlo tramite qualche antenato normanno, forse.» «Sembra alquanto strano che questi cognomi abbiano un suono simile. Può essere che siano i vari rami di una stessa famiglia? Scommetto con te qualche dollaro che, non solo posso trovare Bois Verdes, se tuttora esiste ma, se la famiglia Garnier o Gunnar vi abitano ancora, ti riporterò quel libro che parla di dèmoni, più antichi e potenti di quel diavolo particolare che si chiama Satana! Scopriamo chi è veramente da incolpare per tutto il male che esiste al mondo!» «È andata!», disse il mio amico. «Scommettiamo mille dollari? E, se trovi il libro e me ne porti una copia, te ne darò altri mille. Cinquemila, se mi procuri l'originale.» Ci stringemmo le mani per ratificare l'accordo e le mie lunghe ricerche ebbero inizio. Chiamatemi Adam, chiamatemi Ishmael, chiamatemi pazzo. Diventai un vagabondo, un cacciatore di vecchie biblioteche. Mi accecai gli occhi su schede sbiadite e illeggibili di libri antichi e rari. Qualcuno avrebbe potuto essere distrutto già da tempo o tenuto chiuso in sotterranei. Leggendo volumi maledetti quali i Frammenti di Celaeno, le Rivelazioni di Glaaki e il Cthaat Aquadingen, divenni un credente. Ma fu solo quando scoprii il Cultes des Goules del Conte d'Erlette che appresi dove si trovavano le strade del villaggio Bois Verdes e scovai la
locanda di proprietà di Pierre Garnier. Me lo ingraziai, e ottenni una copia del libro in suo possesso. Offrendogli di dividere gli incassi, ottenni anche il permesso di pubblicarlo. Uscì sotto forma di romanzo, con il titolo: Il Lupo Mannaro di Ponkert. In questo modo, anche se mi servii dello pseudonimo con il quale scrivo, vinsi la mia scommessa pur se ad un costo terribile. Non valeva certo mille dollari sapere che ero diventato la vittima predestinata dello spietato Signore e che avevo causato la morte di Pierre Garnier. Era un uomo amabile, ed eravamo più che amici. Quando scoprimmo di essere lontani cugini e gli ultimi membri di una famiglia perseguitata dall'odio vendicativo del Signore, entrambi ne fummo spaventati. Era possibile che quell'antica maledizione sopravvivesse ancora? Presto l'avrei appreso. Io, che rintracciai le ragioni dell'inizio della maledizione e che scoprii quanti avevano sofferto a causa di essa, ne vidi la fine. Sì, ho l'autorità per parlare. Io so. Ero presente! E ora dedico una parola ai curiosi. Non fu un compito semplice rintracciare i rami intricati che discendevano dalla diaspora dei sette figli di Hugo Gunnar e Ivga Brenryk. Se non fosse stato per l'evidente desiderio di ciascuno di conservare in parte il cognome della famiglia, trasformandolo per adattarlo al paese in cui aveva deciso di vivere, questo progetto sarebbe stato quasi irrealizzabile. Così com'era, divenne estremamente difficile associare determinati individui alle calamità che, senza dubbio, colpirono le loro patrie di elezione. Dovunque saltassero fuori cognomi come Gunnar, Grenier, Gunther, Ganger e Guntius, la connessione era vaga, ma nella mia mente era una certezza. Altri, che non ho rintracciato, possono fornire delle spiegazioni a chi sia interessato. Naturalmente il mio cognome, Grant, comune quanto Smith o Black, entrò nell'intreccio delle discendenze per pura coincidenza. Eppure coincidenze simili sembrano più che casuali. Esiste veramente un Dio che ci indica la strada? Mi chiesi quante altre derivazioni del cognome Gunnar si sarebbero potute scoprire con pazienti ricerche. Ormai è superfluo. La famiglia si è estinta, e la maledizione è morta, spero. Le mie indagini su quei trecento anni non sono state esaurienti. Possono esistere altri racconti, altrettanto orribili, che testimoniano il coraggio dello spirito umano quando si trovi di fronte all'ignoto e alla morte.
Mi viene in mente, per esempio, il caso di Urbain Grandier e delle Suore Orsoline, o quello di Gilles Garnier, bruciato vivo a Dole, il 18 gennaio 1574 per licantropia. Penso all'antenato di Pierre Garnier, Jean Grenier, che subì lo stesso destino per lo stesso motivo a Les Sandes (non lontano da Bois Verdes) nel 1603: il cambiamento del cognome si rivelò inutile. Come pure Else Gwinner, denunciata per stregoneria, e condannata a morte senza pietà, a Offenburg in Germania qualche anno dopo. Se qualcuno è curioso di sapere, lascio al suo giudizio il caso di Isobel Gowdie e Isobel Grierson, scozzesi. Non ho rintracciato alcuna connessione con la famiglia Gunnar, ma forse esiste: circostanze sospette puntano in questa direzione. Vorrei sapere di più del mio parente che andò a vivere nelle Isole delle Spezie. Sfuggì all'opprimente Signore? Da qualche parte ci sono miei cugini dalla pelle scura che suonano strumenti esotici e pregano ancora nel Tempio Batang, ignari che il Signore ci ha lasciati, coscienti solo di quanto i loro padri soffrirono a causa sua! Il mio unico consiglio a coloro che sono sufficientemente curiosi è di indagare a partire da questi suggerimenti, così come ho fatto io, con particolare attenzione ai disastri avvenuti negli ultimi trecento anni. Potrete esserne inorriditi, potrete stupirvene, ma sono sicuro che vi convincerete dell'esistenza del Signore. Ora, leggete e verrete a conoscenza del modo in cui il Signore terminò la sua vita, non interamente per mano mia, sebbene avessi una parte nel suo trapasso. Passarono gli anni, dopo la pubblicazione del libro Il Lupo Mannaro di Ponkert, che uscì in una tiratura limitata ma ottenne un discreto successo. Mi ero ormai appassionato al compito di ricostruire i vagabondaggi dei figli di Gunnar e avevo intenzione di proseguire le ricerche necessarie a completare questa raccolta di racconti, quando fui interrotto da un cablogramma proveniente da Bois Verdes. A questo punto devo dire che all'epoca non avevo scoperto i miei rapporti con quella famiglia. Non sapevo nulla del tragico destino di Achsah (Gunther) Yonge, non avevo mai sentito parlare di Ansel o Ishmael Grant. Tutto questo accadde in seguito. Dopotutto, quanti sanno qualcosa della vita dei loro nonni, per non parlare di quello che accadde ai loro lontani antenati? Il cablogramma diceva:
M. Grant, Non avete bisogno del mio nome per capire da chi vi arriva questo messaggio. Non oso essere più esplicito. Se volete soccorrere un amico che vi ha aiutato quando non avrebbe dovuto, e che necessita disperatamente del vostro aiuto proprio a causa di ciò che ha fatto per voi, venite subito alla locanda in cui siete stato in passato. Nel nome di Dio, venite subito. Una settimana di ritardo potrebbe essere fatale per chi è terrorizzato e versa in un pericolo terribile. P.G. La prima emozione che provai fu la gioia. Pierre Garnier era vivo. Naturalmente, avevo capito da chi proveniva quel messaggio. Ma perché quel mistero? Quella segretezza? Avrei capito, se il cablogramma non fosse stato firmato con le iniziali. Ma quel tono sofferente, così estraneo al placido carattere di Pierre! Rilessi: «Una settimana di ritardo potrebbe essere fatale». Il tragitto fino a Boston in treno e quello fino a Parigi in aereo, mi parvero entrambi lunghissimi, e io mi crucciai per l'indugio. Ma l'ultima tappa, da Parigi a Bois Verdes, fu atrocemente lenta e difficile. Bois Verdes è fuori dalle carte geografiche, come si suol dire, ed è mal servita. Nei pressi non c'è nessuna strada principale e al villaggio arriva solo una stradina di campagna. Forse, se non fosse per un'altra strada proveniente da Nord che l'attraversa, in quel posto non ci sarebbe affatto un villaggio. Certamente non c'erano molte scuse per la locanda, che sorgeva ad una certa distanza dal villaggio. Credo che la cosa fosse intenzionale, visto che in passato si era guadagnata una reputazione «piccante», e i carrettieri e i pastori dei dintorni desideravano che le loro necessità fossero soddisfatte con discrezione. Perciò, a sole dieci miglia da Parigi, fui costretto a cambiare treno e, per fortuna - così pensai - arrivai appena in tempo per prendere la coincidenza. Nel primo treno avevo avuto tutto lo scompartimento per me, ma così non fu nel secondo. Mentre correvo lungo il marciapiede, il treno già si stava muovendo e tutte le porte erano chiuse. Quasi disperato, corsi più avanti. Una mano mi fece cenno, una porta si aprì. Quando la raggiunsi, vi lanciai la mia borsa
da viaggio, balzai sul predellino e, senza fiato, chiusi la porta dietro di me. Le orecchie mi ronzarono, ma sono sicuro che sentii qualcuno dire: «Sì, è sicuramente lui!». Sprofondai nel sedile che era vuoto, e mi guardai intorno con gratitudine. Capii allora che era stata una manina guantata a farmi cenno, ma un uomo a parlare. C'erano due viaggiatori nella carrozza: una donna snella, vestita di nero, con un velo che le celava i tratti, e un ometto agile e svelto che aveva in sé qualcosa di repellente. Avvertii una certa animosità nel momento in cui entrai, e la stranissima sensazione di essere atteso. A mia volta, sentii sorgere in me l'avversione. Se esiste l'amore a prima vista, c'è anche il suo contrario. Provavo un odio che apparentemente era immotivato. Mi vergognai di me stesso, soprattutto quando l'ometto sorrise e fece un gesto gentile, dicendo in un tono calmo e lento, come se scegliesse attentamente le parole: «Voi... siete... agile, Monsieur». Se l'aspetto quell'uomo destava in me ripugnanza, la sua voce la destava ancor di più. Gli diedi una risposta convenzionale, aprii il quotidiano, e finsi di esserne profondamente interessato. Quando capì che non riusciva a trascinarmi in una conversazione, scelse un altro modo per divertirsi. Ora penso che, se avessi capito la vera natura del grido d'aiuto di Pierre e la natura del nemico che avrei dovuto fronteggiare, non avrei mai lasciato gli Stati Uniti. Sono un tipo sedentario, non uso alla violenza, una persona dedita ai libri, ed ero stato felice di vivere quella vita tranquilla. In precedenza, i miei divertimenti erano derivati solo dalle ricerche nelle biblioteche, in modo passivo, ma sufficiente a soddisfarmi. Qualcuno potrebbe considerarmi noioso, ma non possiamo essere tutti sportivi e violenti. In verità, non avevo idea che, nel trovarmi di fronte a quell'ometto sgradevole, stessi non solo mettendo in un grave pericolo il mio corpo, ma soprattutto la mia anima. Continuai a leggere il mio giornale, ma non potei fare a meno di notare che la donna era estremamente irrequieta. Mi lanciava continue occhiate, come potevo capire dai movimenti della sua testa, sebbene il velo pesante le nascondesse il volto. Era ovvio che lei e l'ometto erano compagni di viaggio, ma ebbi l'impressione che non fosse l'amicizia ad unirli. Lui le tenne un rapido monologo nell'orecchio, avvicinandosi mentre la donna si ritraeva, e guardando spesso nella mia direzione. Non riuscii a capire molto di quello che diceva, tranne che sembrava la stesse spingendo a fare qualcosa che lei rifiutava di fare. La donna non rispose e, quando
abbassai il giornale con l'intenzione di esprimere le mie rimostranze, un cenno quasi impercettibile della sua mano mi avvertì che la cosa non mi riguardava. Ripresi la lettura e seguii con attenzione le azioni dell'ometto. Quando vidi che era ormai schiacciata contro la parete dello scomparto, mi parve necessario intervenire. Posai il quotidiano, mi alzai, mi chinai cortesemente, per quanto me lo consentissero le oscillazioni della vettura, e chiesi in tono educato: «Quest'uomo vi sta disturbando, Madame?». «No, Monsieur», disse a bassa voce. «È mio fratello.» Il suo tormentatore saltò su, giallo di rabbia. «Fratello di una femmina? Io? Tu menti, sfacciata, e me la pagherai!» Quindi la colpì sulla bocca con la mano aperta. Poi si rivolse a me e cominciò: «Signore, vi sarei grato se badate ai fatti vostri. Il vostro momento arriverà abbastanza presto...». Con un vigore che mi sorprese, lo colpii nello stesso modo, ma con la mano stretta a pugno. Mi aspettavo che l'ometto cadesse. La donna gridò. Lui rise, ma non barcollò. Con una forza sorprendente per una persona dalla complessione così fragile, mi afferrò la gola. Ricordò che notai con distacco come le sue dita potenti fossero estremamente calde, quasi brucianti. La mia bocca si aprì, ne uscì la lingua. Lampi di luce mi fiammeggiarono davanti agli occhi. Capii di essermi scontrato con una forza maggiore della mia, ma la mente umana è così strana che, in quel momento di estremo pericolo, mi chiesi quale insolito metabolismo avesse quell'uomo. Raccolsi tutte le mie forze e colpii ripetutamente, ma i miei pugni non erano niente contro quell'avversario mortale. Quell'ometto, che avrebbe potuto facilmente stare in piedi al di sotto del mio braccio teso, stava per uccidermi! Barcollai ciecamente attraverso la carrozza e, lottando per respirare, andai a sbattere contro la parete. Dovevo avere il volto nero, e nelle orecchie mi scorrevano cascate d'acqua. Attraverso la nebbia scura vidi i suoi occhi accendersi di bagliori rossastri. Ghignò. Ormai non avevo più forza. Allora, vidi la donna avvicinarsi a noi, sentii dell'aria fredda colpirmi il volto quando la porta si spalancò, mi accorsi che tirava le mani che mi stavano strangolando e, ad un tratto, il mio strano nemico lasciò la presa. Con le ultime forze, mi afferrai a un corrimano, e scagliai tutto il peso delle mie mani sulla sua faccia mentre lui si protendeva verso di me. Sentii i suoi denti affondarmi nel polso. Poi cadde all'indietro attraverso la porta aperta e colpì il terreno, dove rimbalzò una volta e giacque mentre il treno procedeva barcollando.
La donna mi afferrò gli avambracci, singhiozzò, sollevò il velo e, apparentemente con grande sforzo, mi guardò negli occhi. Le labbra le si schiusero. Aveva un'espressione d'attesa, come se pensasse che io la dovessi riconoscere, ma il suo volto, segnato dalle rughe, mi era del tutto sconosciuto. Si abbandonò sul sedile, si coprì il volto con le mani e allora mi accorsi che piangeva. Mi sedetti accanto a lei e le toccai una spalla. «Madame, non piangete, ve ne prego. Volevo solo difendervi. Certamente non avevo intenzione di creare una situazione così incresciosa. Non avrei mai interferito se avessi pensato che questo non era il vostro desiderio. Fermerò il treno, in modo che si possa cercare il vostro compagno di viaggio.» E allungai una mano verso il freno d'emergenza. Con una forza terribile, mi tirò di nuovo a sedere, e mi trattenne. «Fermare il treno? Piuttosto pregate che non si fermi mai, e pregate per tutti gli Dèi che conoscete che lui sia morto o moribondo. Non è per questo che piango. Non mi riconoscete, cher Monsieur? Un tempo non vi ero sconosciuta!» Si tirò la pelle flaccida sulle tempie. Le rughe le si spianarono un poco. Il mio silenzio ebbe il valore di una risposta. Si girò, cominciò a battere sul finestrino con le dita guantate, poi affondò la testa tra le mie braccia e scoppiò in un pianto dirotto. Tra i singhiozzi, si sentivano parole rotte dal pianto. «Vecchia! Vecchia! Ed ero tanto giovane! Quanto sono orribile! Quanto sono cambiata! Ho solo ventisette anni e sembra che ne abbia cento. Un tempo mi conoscevate bene, Monsieur Grant e io... vi adoravo: ero molto giovane e voi eravate gentile con quella ragazzina che vi serviva. Avete dimenticato Regina Noël che serviva ai tavoli al Blue Falcon?» «Regina!», ansimai, scrutando quel volto sciupato. Avevo veramente conosciuto la cameriera graziosa e impertinente, pronta al riso e allegra quanto uno scoiattolino, ma era accaduto dieci anni prima. Una fanciulla dalla fragile bellezza non diventa una vecchia stanca nel giro di un decennio. «Impossibile! Non c'è nessuna somiglianza.» Cadde il silenzio. Il treno continuò a sferragliare, divorando chilometri e chilometri. Lei alzò la testa di scatto, con fare provocatorio, adirata. «Sì, ero Regina! Ora non so chi sono, tranne il fatto che sono schiava di un Demonio.»
«Un Demonio?» Le mie labbra formarono quella parola, ma non ne uscì alcun suono. «Quello che avete visto! Lui... Il Nero! Il Nemico, si definisce lui stesso. Non capite che era un complotto per uccidervi? Speravo che avreste ucciso me. È un miracolo che siate riuscito a sfuggirgli. Aveva programmato quell'incidente per mesi in modo da farvi cadere in suo potere. Voi avete, per caso, distrutto i suoi piani al primo scontro. Ma non durerà a lungo. Lui mi possiede e presto possiederà voi. Sento che ci sta seguendo!» «Calmatevi. Quell'uomo è morto. Non vi darà più fastidio.» Riprese a piangere. «Non capite, vero? È il vostro terribile destino a spaventarmi. Vi ha attirato fin qui per raggiungere i suoi scopi... e voi mi parlate dei miei problemi.» «No», dissi, con un braccio intorno alle sue spalle, «non capisco. Io sono venuto dopo aver ricevuto una lettera dal mio amico Pierre, in cui mi chiedeva aiuto.» Si girò a guardarmi con aria mesta. «Ho scritto io quel messaggio. Riuscite ad immaginare chi mi ha costretto?» Un altro attacco di singhiozzi scosse il suo fragile corpo. La strinsi a me, e lei non oppose resistenza. «Parlatemene, Regina. Vi aiuterò. Come è accaduto tutto questo?» «Solo Dio ci può aiutare, ora.» La sua voce era la desolazione stessa. «Siamo perduti, ma vi racconterò tutto. Cominciò poco dopo la vostra partenza, dieci anni fa. Pierre era così buono con me!» Soffocò un singhiozzo. «Non potevo sopportare di vederlo indebolirsi, e non tolleravo il modo in cui ciò stava accadendo. Oh, Maria, Madre Dolorosa, abbi misericordia e proteggi noi peccatori dai poteri del Cane Nero! Tre anni lo vedemmo lentamente deperire, quell'uomo nobile, coraggioso! Poi, una notte, mi chiamò: mi aveva sempre considerato come una figlia, ricordate?» Io annuii. «Era andato deperendo costantemente. Per un certo periodo rifiutò di dormire nel suo letto: dormiva nella sua vecchia poltrona accanto al camino. Sentiva sempre freddo, e negli ultimi tempi era molto pallido. Il cuore mi sanguinava a vederlo! Quella notte mi chiamò e io andai.
"Regina, questa notte morirò. Lo sento. Ma, prima di lasciarti, ho da dirti qualcosa. C'è un libro in uno dei cassetti del cassettone. Portamelo." Feci quanto mi aveva detto. Lo ricordate? Quel libro rilegato in pelle, con quattro pagine di legno? Quello che aveva appeso un frammento di catena?» «Certamente, che me lo ricordo. È il libro da cui ho copiato la storia che in seguito ho pubblicato per una rivista.» Si liberò dalla mia stretta, aveva gli occhi spalancati per la paura e l'orrore. «Voi avete pubblicato... quella storia? Monsieur Grant, non c'è da stupirsi che Lui vi voglia catturare!» «Ditemi di Pierre.» Con grande sforzo si controllò e continuò. «"Regina", disse, "non devi leggerlo. Potrebbe arrecarti dolore. Guarda attentamente e capirai il perché." Sollevò la debole mano alla gota e ne tolse una benda. "Guarda da vicino, ragazza mia", ripeté con un bisbiglio, come se temesse di essere udito da qualcuno. "Che cosa vedi?" "Due piccole ferite", risposi. "Vi siete tagliato mentre vi radevate?" "No, cara", replicò, sorridendo come se gli costasse fatica, "sii coraggiosa e non temere per me. Tu mi sei cara e io non posso fidarmi di nessun altro, nemmeno di un sacerdote. Chi mi può credere, se non tu che ti sei presa cura di me con tanta dedizione e affetto? Sono perseguitato da un Dèmone. Questo è il segno di un Vampiro." In qualche modo, non ero veramente spaventata. Non penso che il significato delle sue parole mi fosse chiaro. Ma lui continuò: "Stanotte morirò. Lo sento con chiarezza. Non piangere per me, cara: sono vecchio, e ho vissuto abbastanza. Morirò ma, dopo che sarò morto", la sua voce severa mi fece rabbrividire, "ti imploro: segui le mie istruzioni alla lettera! Io sono il discendente di un uomo sfortunato che, quattrocento anni fa, divenne un Lupo Mannaro. Mentre progettava di ribellarsi al suo crudele Signore, fu tradito, e la sua mente venne imprigionata. Mentre era stregato da quell'incantesimo, in lui avvenne una trasformazione. Come avvertimento agli altri membri del branco, fu costretto ad uccidere la moglie. Fortunatamente - o sfortunatamente per me - la sua figlioletta fu salvata, e in seguito tutti i Lupi Mannari vennero catturati e uccisi: tutti tranne il capo. La ragazzina crebbe, si sposò ed ebbe dei figli: tutti maschi. Questi, quando appresero la loro temibile eredità, si sparsero in tutto il mondo,
perché su tutti loro gravava una maledizione. Fino ai nostri giorni, viene scelto un membro di ogni generazione e viene preso dal Signore come pagamento per il tradimento del mio antenato. Così, di quella famiglia, gli unici discendenti siamo io e un altro uomo, il mio buon amico, Monsieur Grant, che vive nel New England, in America. Te lo ricordi?" Io annuii, ma non parlai», mormorò Regina. «Amavo il vecchio Pierre. Era come un padre per me. Non potevo credere a quello che stava dicendo, eppure non riuscivo a parlare. Che cosa avrei potuto fare per confortarlo? "Di' al mio amico che sono morto, ma non dirgli nient'altro, altrimenti cadrebbe in potere del mostro, venendo qui. Non potrebbe aiutarmi. Né potrebbe vendicarmi. Parlo, per così dire, già dalla tomba. Ora sto per chiederti di fare una cosa spaventosa per una ragazzina. Eppure sono certo che tu sarai coraggiosa." "Cercherò di fare qualsiasi cosa sia necessaria", dissi. Lo vedevo appena, e i miei occhi erano pieni di lacrime. "Lo so. So che lo farai. Monsieur Grant sa qualcosa di questa storia, ma ancora non sa di essere colpito dalla Maledizione. Non sa di essere mio parente. Ho dei documenti da mandargli, con nomi, statistiche importanti, che lo stupiranno. Forse ne rimarrà terrorizzato, ma almeno starà in guardia. È uno scrittore, cosa che io non sono. Può ricostruire la vita di coloro che hanno vissuto prima di noi. Può raccontare le loro storie meglio di me. È suo dovere farlo! Chi altri può mettere il mondo in guardia? L'umanità è indifesa davanti a quel Dèmone." Pierre andò a uno scrittoio e ne trasse una pesante busta sigillata, che portava già l'indirizzo e i francobolli. "Va' subito", disse. "Per prima cosa, spedisci questa lettera, poi va' dal sacerdote e portalo qui. Quando tornerai, sarò morto. Devi dire al sacerdote tutto quello che ti ho detto, sotto il vincolo della segretezza. A meno che egli non esegua determinati atti, io diventerò un Vampiro dopo la morte, e vivrò di nuovo. Sarò un mostro. Tu e il sacerdote dovete aprire la tomba prima della mezzanotte dello stesso giorno in cui sarò stato sepolto. Voi due soli dovete segarmi la testa dal corpo e riempirmi la bocca, le narici e le orecchie di aglio. Su ogni occhio mettete una croce d'argento e trapassatemi il cuore con uno spillone d'argento.
Poi rimettete tutto nella tomba, riempitela di terra, e su di essa versate acqua e aceto bollenti. Se lo farete, il buon Dio vi benedirà come vi benedirò io, ma se mancherete di farlo... ah, piccola mia, io ti perdonerò, ma temo che anche tu sarai in pericolo mortale!" Presi la lettera, ma - Dio e il vecchio Pierre forse mi perdoneranno - io non sarò mai capace di perdonarmi! Invece di spedire subito la lettera, andai prima dal sacerdote. Non era in casa. Avevo il terribile presentimento che fosse accaduto qualcosa di brutto. Ritornai alla locanda, invece di andare al villaggio. Quando entrai nella stanza, scoprii che Pierre aveva capito tutto meglio di me. Era veramente morto, come aveva predetto. C'era un'altra persona nella stanza seduta sul bordo del letto. Non spedii mai la lettera. È ancora nella locanda, di nuovo nello scrittoio. Se sopravviveremo a tutto questo, forse non sarà troppo tardi perché voi facciate quello che Pierre voleva. Ma credo che nessuno di noi due sopravviverà. So che per me è troppo tardi. Io sono perduta! Ho sbagliato e sono una schiava. Oh, il mostro mi promise grandi cose; "Regina! Regina di nome, e Regina sarai di fatto su molti sudditi fedeli che io ti procurerò." Dio misericordioso», gridò la donna, balzando in piedi. «Guardatemi: questa è la faccia di una Regina?» La feci risedere accanto a me. «Andate avanti», dissi con voce rauca. «La locanda venne chiusa dopo il funerale e non è stata mai più riaperta. Il Signore vi abita insieme a un'altra persona, e la gente considera quel posto stregato. Monsieur Grant, lui è alle nostre spalle. Sono sicura che non è morto. Forse è ferito, ma ha delle risorse a cui non credereste. Oggi l'Inferno è libero e ci sono poche speranze. Forse, se riusciste a prendere quella lettera, a ritornare in qualche modo in America, e riusciste a pubblicare quello che scoprirete, potreste avvertire l'umanità del pericolo mortale in cui versa. Avete già provato una volta, e il vostro scritto è stato preso per un'opera di fantasia. Questa volta, dovete convincere la gente che è la verità. So che lui vuole la vostra morte, ma sarà una morte vivente! Ha giurato di dare inizio con voi a un branco di Dèmoni, e di aggiungervi continuamente altre persone, finché tutta la Francia non sarà in suo potere.
Quel cablogramma l'ha dettato lui. L'ho spedito dietro suo ordine. Ora sapete tutto. Se potete scappare, fatelo, e non pensate più alla povera Regina!» Era pallida ed esangue. Stavo per parlare, quando a un tratto lei sussurrò: «Ssstt! Avete sentito?». Non avevo sentito niente, tranne i rumori del treno, e stavo per dirlo, quando lei fece un gesto impaziente per zittirmi. Aprì la porta e insieme guardammo indietro. Non vidi niente d'insolito. Regina disse: «Sento che sta arrivando. Siete armato?». E poi: «Troppo tardi, troppo tardi!», aggiunse, indicando un punto. Lungo i binari, dietro di noi, qualcosa svolazzava intorno al treno. Aveva la forma di un pipistrello, ma un pipistrello di quelle dimensioni spaventose non si era mai visto da quando l'uomo si è tirato fuori dal fango e ha cominciato a respirare l'aria con i polmoni. Arrivò rapidamente su di noi, superò il treno in corsa, poi si librò in volo al di sopra degli alberi, delle case e dei fili. Discese di nuovo in una scivolata, quindi si tuffò velocemente verso la pianura. Continuava a crescere, mentre volava lungo i campi già superati. Ben presto volò parallelo al treno, oltrepassò la nostra carrozza e svolazzò verso la testa del convoglio. «Che i santi proteggano il macchinista!», sussurrò la giovane donna, la bocca spalancata per l'orrore. Il treno, nel percorrere una curva, si piegò a semicerchio, e dal punto in cui eravamo vedemmo la creatura tuffarsi verso i finestrini di ogni vagone, restare immobile per un attimo, poi volare verso la carrozza successiva. Sapevamo che cosa cercava. Non ebbi bisogno di sentire la voce tremante di Regina dire: «E lui!» per sapere chi cercava il mostro. Il treno si raddrizzò. Non potevamo più vedere avanti, ma nel vento ci arrivavano trilli acuti, quasi troppo alti per essere uditi. Le strida, dolci, acute e penetranti, arrivavano sempre più forti e più vicine. Alla fine fummo scorti. Sentii il calore del corpo della donna tremare contro di me. Nella mia stretta protettiva, il suo corpo si irrigidì. La carrozza oscillò e allora pensai che fosse a causa del potente battito delle ali, che erano ormai parallele alla nostra vettura. Avevo visto il pipistrello di Giava, l'esemplare più grosso di tutte le specie note. In qualche modo, il nostro inseguitore gli somigliava. Aveva il
muso appuntito, e non aveva quel naso allungato e schiacciato, tipico dei pipistrelli comuni, perciò, da questo punto di vista, non sembrava tanto alieno. Ma le sue dimensioni! E il rosso fiammeggiante delle narici raggrinzite, mentre fischiava e sibilava per la rabbia! La velocità del suo passaggio mi fece comprendere che eravamo alla sua mercé, protetti per il momento solo dalle pareti della vettura. Immaginate il vostro incubo più spaventoso. Chiudete gli occhi! Siete inseguiti da una creatura volante con un corpo di circa due metri, priva di pelo in alcuni punti, ferita e selvaggia, considerate le contusioni e un lungo squarcio sanguinante. La gran parte del suo corpo è coperta di un pelo marrone, rognoso e sporco, che sfuma in un grigio cenere sul ventre. Il fango incrostato sul pelo opaco non ancora secco, la fa sembrare più spaventosa. Non vi potete muovere. Siete raggelati, guardate, aspettate il balzo! Osservate quelle ali lunghe tre metri colpire l'aria mentre il treno e il terrore corrono fianco a fianco. Ma per noi non era un sogno. Noi non potevamo risvegliarci. Eravamo inermi e terrorizzati. Il treno lanciò un fischio perché ci approssimavamo a un passaggio a livello. Come se si fosse spaventata per quel rumore, la creatura voltò la testa verso di noi, continuando a volare. Immaginate la testa di un pipistrello della misura di una piccola tinozza. Quelle erano le dimensioni della sua testa. Immaginate, se ci riuscite, una bocca, ornata di lunghe setole nere, che faceva smorfie e mormorava parole incomprensibili contro di noi, scoprendo zanne curve e bianche. E, orribili sopra ogni altra cosa, costituiti solo dalle pupille, nelle quali ci riflettevamo come in specchi di ambra nera e lucida. Quegli occhi erano completamente malvagi. Vi si celava una promessa inesprimibile a cui non osavo nemmeno pensare. Ebbi una strana idea. Quel pipistrello era finito all'Inferno contro la propria volontà. Torturato, perduto, folle - un orrore soprannaturale velava i suoi occhi - immagino le cose che doveva avere visto, volando in quegli Inferi cupi, preso tra fumi soffocanti, ustionato e bruciato da fiamme livide. Ma un giorno era riuscito a volare verso l'aria aperta e pura, di nuovo libero, ma con dei ricordi che niente poteva cancellare! Fu un attimo di lucidità e di intuizione. Solo molto più tardi capii quanto fossi arrivato vicino alla verità. Il fischio stridette di nuovo. Ruppe l'incantesimo che ci aveva irrigiditi.
In risposta, arrivò dall'esterno un lamento aspro. A un tratto la bestia alata si alzò a candela, facendoci ombra con le sue ali nervate e senza piume. L'oscurità piombò verso di noi. Quando entrammo nel tunnel, vidi la creatura alzarsi quasi perpendicolarmente per superare la collina che stavamo attraversando. Scoprimmo che potevamo muoverci. Tirai un lungo sospiro di sollievo. Regina si lasciò cadere, semisvenuta, sul sedile. Io mi sporsi su di lei per tenerla ferma e aprii la mia borsa da viaggio. Indumenti volarono per tutto lo scompartimento, mentre cercavo l'automatica che di solito portavo con me quando viaggiavo. Quando finalmente sentii il freddo metallo della canna, uscimmo alla luce. Era il tramonto. Il sole, rosso cupo, era tagliato a metà dalla cima della collina che avevamo attraversato. Contro la sua luce abbagliante si stagliava una macchia nera che volava, simile a una falena carbonizzata. Aspettammo. Ben presto vedemmo il nostro inseguitore vicino alla carrozza. Un'ala gigantesca grattò contro il vetro del finestrino. Mentre le sue ali si aprivano di nuovo in tutta la loro estensione per un altro colpo e il corpo repellente era tutto scoperto, scaricai sei pallottole nel punto dove l'ala e il tronco si congiungevano. Alla musica del tintinnio dei vetri e delle strida di dolore, il pipistrello danzò, si alzò, cadde, fece qualche capriola, poi finì a terra in un ammasso confuso di membrane coriacee. Il treno continuò a correre. La strinsi in un abbraccio di gioia. «Se n'è andato! Il Signore è morto!», gridai. «Nessuno potrà mai dirlo. Non lo si può uccidere. Eccolo!» Ritrasse il capo dal vetro rotto. Ora il suo viso aveva perso completamente il colore ed era grigio e stanco. Guardai indietro e sentii il sangue ritrarmisi dalle guance. Un orrore gelido mi pervase e la pelle d'oca mi fece formicolare collo e braccia. In lontananza, dietro di noi, sobbalzava una figura nera, simile a un grande cane sgraziato. Correva zoppicando, ma ci inseguiva a una velocità spaventosa. Correva sui campi arati, scompariva alla nostra vista e poi riappariva ogniqualvolta lo distanziavamo. Si avvicinava alla velocità di una rondine. Poi il sole tramontò. La notte si addensava su di noi quando scendemmo dal treno. Avevo pensato di proseguire il viaggio, visto che Pierre era ormai morto, ma que-
gli avvenimenti avevano destato in me una rabbia tale che sognavo di vendicarlo in qualche modo. Come mi aspettassi di farlo, non ne avevo la minima idea. Mi ero scontrato con il Signore una volta e avevo avuto la meglio. Ma ero sicuro che, se aveva fatto tanto per farmi arrivare fino in Francia, ci saremmo sicuramente incontrati di nuovo, non importava cosa facessi per sfuggirgli. Meno ancora riuscivo a immaginare da che cosa ci saremmo dovuti guardare. Quel poco che avevo letto nei libri antichi, e che avevo visto, mi diceva che il pericolo poteva apparire sotto qualsiasi forma. Ci affrettammo in direzione della locanda. Se dovevo lottare con le Forze del Male quella notte, era meglio su un terreno familiare che altrove. Il cammino fino al villaggio era lungo e, come ho già detto, la locanda si trovava a metà strada. Ad un tratto Regina si fermò. Le sue dita affondarono nel mio braccio. «Ascoltate», sussurrò. «Sentite? Sta arrivando, ed è vicino!» Sulle prime non udii nulla, poi mi arrivò un lieve scalpiccio di piedi proveniente dall'altra parte della siepe, che fiancheggiava il lato sinistro della strada. Non vedevo con chiarezza in quella penombra. Qualcosa ci guardava attraverso la siepe: una forma grande e rigonfia era al di là dei cespugli. Le mie letture mi avevano fornito qualche nozione. Non sono particolarmente coraggioso, ma mi sentivo armato delle mie conoscenze. Raccolsi due bastoncini di legno e, mentre Regina si accucciava dietro di me, li incrociai e avanzai con decisione verso il nostro indistinto inseguitore. «Oh, Vampiro! Lupo Mannaro! Cane dell'Inferno!», gridai. «Guarda questo Simbolo di Santità e trema! Guarda questa croce! Ecco il Signore, il nostro Dio, che soffrì per noi sulla Croce! Ti scongiuro in nome del Cristo Bianco di svanire e non turbare più questo paese.» Confesso di non capire che cosa accadde poi. L'incantesimo, così affermano i testi arcani, è una formula sicura e non ha mai mancato di funzionare in tutti i casi in cui è stato usato. Ma in quel caso, non funzionò. La bestia si lanciò contro di me. Ma di che cosa era fatta quella siepe? Non lo seppi mai, però era d'ostacolo alla creatura, che rimbalzò con un ululato di rabbia e di frustrazione. In quel momento ebbi paura. Eppure ero grato ai miei libri, perché ora sapevo che non poteva oltrepassare la siepe. Ricordai che questa continuava per tutta la strada, quasi fino al villaggio. Il nostro persecutore era dal lato sbagliato, ma potevano esserci delle aperture. Ce n'era qualcuna prima che potessimo raggiungere un qualche rifugio sicuro? Durante la mia ulti-
ma visita, non c'erano case prima della locanda. Ora ce n'erano? Qualcuno ci avrebbe fatto entrare, sempre che ce ne fosse stato il tempo? Ci affrettammo a proseguire. Forse avevo fatto qualche errore nel pronunciare l'esorcismo. Forse il Signore, perché non poteva essere altri che lui, era protetto contro gli Incantesimi Minori. In questo caso, eravamo privi di difesa. La mia speranza era di tentare di arrivare oltre la locanda, di raggiungere il villaggio, e trovare il sacerdote locale. Nella sua casa saremmo stati sicuri per la notte. Poi, l'indomani, alla luce del giorno, mi sarei procurato i poteri degli uomini santi contro quel figlio dell'Inferno e lo avrei rispedito da dov'era venuto. Quando cominciammo a vedere le luci davanti a noi, frugai freneticamente la mia memoria alla ricerca di altri esorcismi. Decisi di provarne uno che i libri ritenevano fosse molto efficace. Mi fermai ancora una volta. Regina mi tirò per un braccio. La allontanai, mi girai verso la siepe dietro la quale si scorgeva la forma scura e tracciai in aria il Segno della Croce. Poi dissi a voce alta: «Ti esorcizzo, spirito impuro, nel nome di Gesù Cristo. Trema, o Satana, nemico della fede, nemico del genere umano, tu che hai portato la morte del mondo, che hai privato gli uomini della vita, e ti sei ribellato contro la giustizia! Corruttore del genere umano, fonte del male, origine dell'avarizia, della discordia e dell'invidia, scompari per sempre!». Un grido di Regina e il fragore della creatura che si lanciava contro la siepe, furono i soli risultati. Ma non riuscì a penetrare la nostra unica protezione. Allora compresi che il potere che lottava contro di noi era così antico e malvagio, così innaturale e alieno, che solo una magia antica come lui poteva vincerlo. Naturalmente allora non avevo alcun sospetto dell'identità del Signore, e non lo ebbi per molto tempo. Solo quando le mie ricerche mi portarono alla scoperta dei manoscritti, da cui sono state tratte le due storie del Mago Guntius e del suo sfortunato cugino, capii veramente che cosa avevo incontrato quella notte e che cos'altro avevo visto in quel luogo. In un certo qual modo, è un caso fortuito che Guntius avesse seppellito quei manoscritti nel suo laboratorio segreto del Castello dello Stregone. Se il castello non fosse stato abbattuto, e ogni pietra non fosse stata segnata, numerata e spedita nel Texas occidentale perché il Castello fosse ricostrui-
to, non si sarebbe mai saputo che il Signore non era né un abitante di questo mondo né dei reami dell'Occulto. Ma era reale, i suoi poteri erano letali! Le sue trasformazioni erano temibili quanto quelle di qualsiasi Dèmone della mitologia, sia che derivassero dalla magia, sia che fossero originate da una scienza a noi incomprensibile. Il pericolo era grave, e noi ci affrettavamo avanti. Camminavamo lungo una strada fangosa, scivolando nel letame di quel viottolo non asfaltato e molto battuto. Sentivo come sottofondo ai nostri rumorosi tonfi, tre passi e una pausa. Era uno zoppichio dal ritmo costante che manteneva il nostro passo dall'altra parte della siepe. Un uggiolio soffocato che aveva un tono di desiderio frustrato, fece quasi svenire la mia compagna, che divenne un peso morto su di me. Sorreggendola, la spinsi ad andare avanti perché ci trovavamo in una situazione pericolosa. Lei non poteva o non voleva muoversi. Infine, quando mi parve caduta in uno stato d'incoscienza, l'afferrai per le spalle. La scossi con violenza, e allora lei parlò. Rispose debolmente, piano, alle mie implorazioni. Diceva una parola alla volta: «Non restate! Allontanatevi da me! Qualcosa... non so che cosa... sta succedendo...». Poi, mentre era appoggiata a me, sentii il suo corpo tendersi in ogni muscolo. Lei balzò lontana, e le sue dita si allargarono come se cercasse di allontanare qualcosa dalla testa e dal cuore. «No! No! Ah-h, Signore... questo no!» E a me gridò: «Correte!». Poi cominciò a strapparsi di dosso la giacca e gli indumenti. Scorsi le sue spalle nivee e i seni sodi, che contraddicevano il volto rugoso, e allora capii! Corsi a tentoni nell'oscurità, pregando che più avanti ci fosse qualche luce. Mi ritornava ossessionante alla mente una frase folle, tremenda, della storia di Wladislaw Brenryk: «Quando il mio corpo si trasformava in quello del lupo, provavo tutto il terrore di una bestia selvaggia costretta nei vestiti di un uomo!». Dietro di me - grazie a Dio molto lontano - si alzò un gemito, un urlo lamentoso che aveva in sé trionfo e disperazione! Accanto a me non sentivo più nessun rumore proveniente dalla siepe, ma il silenzio era più spaventoso di quanto lo sarebbe stato un ringhio. Cominciai a correre, caddi, corsi di nuovo. Dov'era il Signore? Che cosa stava progettando? Quanto mi era vicino?
Quando le luci del villaggio divennero più visibili, capii che non le avrei mai raggiunte, perché, a grandi balzi, alle mie spalle stava arrivando qualcosa di bianco, delle dimensioni di un collie. Presi la pistola. Pur sapendo che cosa dovevo fare, non potei sopportare l'idea di fare fuoco direttamente su quella creatura. Uno sparo al di sopra della testa la fermò. Corsi, ma quella mi seguì. Mi girai di nuovo, ma la pistola era scarica e sparai a vuoto, solo per chiedere aiuto e per minacciare, mentre mi giravo e riprendevo a correre. Si muoveva con lentezza, mantenendo le distanze, poi, preso coraggio, cominciò ad accorciare la distanza tra noi. A un tratto riconobbi l'ambiente circostante. La locanda abbandonata era chiusa. Lanciai la mia automatica e la sentii cadere con un tonfo sulla creatura. Poi udii un guaito, un uggiolio e, mentre correvo verso l'edificio che si trovava ai bordi della strada, dei passi che correvano molto vicino a me. Pregai che la porta non fosse chiusa a chiave. Arrivai al gradino - la creatura ansimava alle mie calcagna - e, quando mi lanciai contro la porta, una seconda creatura caricò dall'altra direzione. Il Signore era corso avanti, aveva trovato un'apertura nella siepe e tutti e tre ci eravamo trovati contemporaneamente davanti alla porta! La porta si sfondò. Io venni gettato sul pavimento e le due bestie, poiché avevano urtato una contro l'altra, si bloccarono sulla soglia per un secondo. Dalla posizione supina in cui mi trovavo, spinsi entrambi i piedi contro la porta che oscillava, e quella si chiuse violentemente tra me e quelle mascelle bavose. Penso che mai, in tutta la mia vita, abbia udito un suono più gradito di quel benedetto scatto della serratura. Silenzio all'interno della locanda, silenzio e terrore! All'esterno c'erano le due belve a caccia di preda. Trattenni il respiro, ascoltai. Si sentiva lo strano ritmo della creatura ferita, tre passi raggruppati quindi una pausa, avvertita più che udita, e di nuovo tre passi. Una serie di scalpiccii delicati passarono come un vento avido e ansioso intorno all'edificio. Un guaito affamato che mi fermò il cuore, e poi fece tremare il mio corpo, quando divenne un ululato selvaggio. Intrecciati in quella trama di terrore, quei due stavano intessendo un altro filo. Vi fu quindi un tonfo pesante di piedi nudi che battevano, sordi e inanimati, sulla terra. Il respiro mi sibilò tra i denti. Lo trattenni finché delle onde rosse non mi annebbiarono gli occhi. Per qualche secondo non udii più quel nuovo rumore. Ma avvertivo, sebbene non sapessi spiegare il perché, che quell'essere era al di là delle passioni umane, che le armi che gli
uomini usano l'uno contro l'altro, non avrebbero sconfitto quel nemico. Perché un nemico lo era di certo. Sospettavo, anzi ero quasi sicuro, di sapere che cosa fosse a camminare come un automa intorno alla locanda in una sarabanda mortale. Non c'era elettricità nella locanda, come non ce n'era nel piccolo villaggio. Pierre si era sempre affidato alle lampade a petrolio e alle candele. Alla luce di un fiammifero, frugai nelle stanze sventrate, da cui era stata rubata ogni cosa di valore. Puzzavano, perché vi si erano rifugiati degli animali. Cercai di respingere quell'idea in un angolo della mente. Sapevo bene che cosa vi aveva trovato riparo dalla luce del sole. Quanto desiderai che un miracolo spazzasse via la notte e così potessi vedere sorgere il sole che apportava salvezza. Ma la notte era appena cominciata. Per proteggermi con la luce, come un ponte che arrivasse fino al mattino, trovai quattro mozziconi di candele, il più lungo dei quali non superava i cinque centimetri, e una piccola lampada piena a metà di petrolio. Eppure mi sentii più a mio agio una volta che un paio di candele furono accese. Sapevo di non essere in condizioni normali. Ero solo una massa tremante di nervi, che fremeva e sussultava al suono dei passi che camminavano all'esterno. Esaminai i chiavistelli delle porte e delle finestre. I vetri non c'erano più, ma i pesanti scuri di legno erano al loro posto ed erano sbarrati. Nauseato dal pesante lezzo, mentre i miei piedi calpestavano le foglie secche sparse sul pavimento, continuai le mie ricerche. La porta sul retro era marcia, e la serratura arrugginita. Ovviamente, le creature erano sempre entrate dalla porta principale. Visto che non poteva essere aperta dalle zampe di animali, quali essi erano ora, presto ci avrebbe provato qualcuno con sembianze umane? O forse l'altra cosa che camminava su due gambe, in loro compagnia? Con una forza che in seguito mi sorprese, strappai una breve sezione del pavimento d'assi, l'assicurai bene contro quella porta, e mi sentii sollevato. Un altro pezzo del pavimento mi fornì un randello. Non avevo armi in quella situazione disperata, e non mi illudevo che quella sarebbe servita a qualcosa. Mi consolavo con il pensiero che ero meglio preparato ad affrontare i miei nemici di quanto lo fosse stato l'ungherese Brenryk. Non ero forse armato della conoscenza di secoli? Ma i miei esorcismi avevano fallito nel momento del bisogno. Un sapere più antico e più potente poteva ancora prevalere. Ero certo di essere al sicuro finché durava la luce, anche se fio-
ca. È scritto nell'antico inno persiano a Ormuzd (Spirito Puro di Luce) che dice: Coloro che seguono Ahriman Lo temeranno! Coloro che camminano con me Con il mio potere lo conquisteranno! Anche i ghoul e i rakshasa hanno paura della luce! Non pensavo che quelle creature fossero da meno. Aspettavo l'alba mentre le candele ondeggiavano, sebbene l'aria fosse immobile. C'erano rumori continui. Alcuni sembravano di origine malvagia, altri sembravano innocenti. L'edificio era pieno di scricchiolii e piccoli rumori, che un orecchio ansioso poteva interpretare come suoni provenienti da creature pronte a balzare, ma che poi si rivelavano del tutto naturali. Il mio cuore si fermò. Cadde polvere dall'intonaco scrostato del soffitto! Contemporaneamente al rumore di qualcuno che camminava al piano superiore, si sentì uno schianto potente quando la porta fradicia, divelta dai cardini, si abbatté rumorosamente sul pavimento della locanda. Sulle assi frantumate, avanzò zoppicando una bestia nera. E, dietro di essa, un bruto grosso e goffo, dalle sembianze umane ma privo di espressione e sgraziato, attraversò con movimenti legnosi la soglia. La creatura scura e pelosa si avvicinò con un balzo incerto ma, quando entrò nel cerchio della luce, arretrò e lanciò un grido gutturale. Tentò ancora di avanzare, ma mi accorsi che ogni movimento le procurava dolore. Mentre la bestia si avvicinava, si mosse anche l'uomo che le era alle spalle, con gli occhi fissi in una sorta di ottusa adorazione del Signore. Accesi frettolosamente le altre due candele e avvicinai una delle fiamme al lucignolo della lampada. Il Signore rallentò e si fermò man mano che la luce aumentava e diventava ferma. Sembrava che nessuno dei due osasse avanzare, perché anche il nuovo venuto si bloccò. Insieme, indietreggiarono verso il riparo della notte. Ero stanco mentalmente e fisicamente. In quella faccia gonfia, maligna, brutalizzata dai vizi peggiori e segnata dal marchio di una corruzione a malapena tenuta a bada da una forza empia che non riuscivo nemmeno ad immaginare, riconobbi l'uomo che era stato uno dei miei migliori amici: Pierre Garnier, un morto vivente! Arretrai, quindi mi avvicinai alle luci, attento a non gettare ombra sui
miei nemici. Indietreggiai ancora... e urtai contro un corpo caldo e soffice che stava dietro di me. Si mosse, e il cuore mi si fermò. Mi girai di scatto, pronto a lottare per la mia vita. Regina mi guardò coraggiosamente. Era avvolta in una delle pesanti tende delle stanze del piano superiore. I suoi occhi imploravano protezione, ma erano limpidi e umani nella loro espressione supplichevole. Le presi una mano e insieme affrontammo il nostro comune nemico. Il vento che entrava dalla porta aperta fece oscillare la fiamma delle candele. Non osammo tentare di respingere le creature. Potevo solo pregare che le luci non venissero a mancare, mentre la Vita e la Morte giocavano una partita sulle pareti, con le ombre come pedine e due anime umane come posta! Era una scena che il pennello potrebbe descrivere meglio della penna. Un pennello tenuto da Brueghel o Kley; forse un Angarola o un Sime con una punta d'acciaio e acido, o Willy Pogany, usando entrambe le tecniche, avrebbero potuto catturare quel momento orrido, soprannaturale. Ma le parole non sono malleabili. La Magia Nera e quella Bianca erano venute alle prese in quella locanda abbandonata, quella notte. Luce e Ombra erano in guerra, e il prezzo per cui lottavano aspettava la fine della battaglia, senza avere il potere né di lottare né di scappare! Figure informi strisciavano sulle pareti, balzavano su di noi! Si ritiravano negli angoli con contorcimenti riluttanti. La notte sgorgava attraverso la porta aperta. Il buio e tutto il male antico, che gli uomini sanno si cela in esso, era acquattato appena oltre la soglia. Il Signore riprese le sue sembianze umane. Si contorse e rimodellò la sua figura. Il braccio sinistro gli pendeva flaccido al fianco. La spalla era un ammasso sanguinolento che si irrigidiva al vento freddo. Era nudo e nero, il suo corpo era nodoso e gonfio, il colorito non era naturale ma sembrava il risultato di una malattia o di una forza maligna che avesse torturato tutto il suo corpo e l'avesse sformato. Quando le candele oscillavano, orridi fantasmi si scontravano sul soffitto, e al loro inseguimento si lanciavano bandiere ondeggianti. Bandiere di Luce, intolleranti del Male, scacciavano quei laceri ospiti della Notte. Le piccole fiamme vacillavano violentemente, ma la lampada, protetta da un tubo di vetro, bruciava ferma e salda. Quando le ombre correvano sulle pareti, talvolta mi sembrava assumes-
sero forma umana: lottavano come se tentassero di rompere e spaccare la superficie piatta. Mi sembrava che da certe angolazioni quelle ombre fossero uomini e donne che ondeggiavano, si avvicinavano alla porta e la minacciavano con le braccia tese. Poi, una solida cortina di buio le copriva, e le spingeva verso di noi quando la fiamma delle candele diminuiva d'intensità. Trattenevamo il fiato finché gli stoppini non fiammeggiavano di nuovo. Notai che una candela era quasi finita. «Quando sarà spenta», pensai, «ci assaliranno? Le luci restanti saranno abbastanza forti da difenderci?» Bruciò più bassa e meno costante. Era rimasto solo un anello di cera. Poi lo stoppino cadde nella cera sciolta, e la fiamma si spense. Le ombre insorsero. Le due creature avanzarono di un passo: questo fu tutto. Per il momento non osavano venire più vicine, ma la luce si stava affievolendo in fretta. Le spire fameliche della notte sembravano saperlo. Ora coprivano più frequentemente le ombre che si contorcevano sulle pareti. Pensavo a cos'altro c'era da fare. Non potevamo scappare da nessun'altra parte, e non potevamo difenderci: non c'era nascondiglio dove loro non ci avrebbero raggiunti. Perciò, mentre le ombre saltellanti danzavano e si muovevano sulle pareti e gli spaventosi cacciatori sbirciavano, noi, con quanto più coraggio ci fosse possibile, aspettavamo. «Coraggio!», sussurrai a Regina. Lei sorrise e si sfiorò un livido sulla guancia che stava cominciando ad annerirsi. Pensai che doveva essere il segno lasciato dalla pallottola della mia pistola. Le lanciai uno sguardo di compassione, ma lei lo equivocò. «Non abbiate paura», disse. «Non può cambiarmi ora. Sto resistendo al suo potere, e lui sta cercando solo di farvi abbassare la guardia. Sento che altri ci stanno aiutando, ma voi dovete resistere alla sua influenza con tutta la forza. Possiamo ancora sfuggirgli, a meno che non vi sottomettiate. Allora vi chiamerà da lui, dovunque vi possa raggiungere.» Avvertii che una spossatezza crescente mi prendeva. Quanto desideravo riposare! «Sonno!», mi veniva ordinato. «È stupido contrapporsi a me! Riposa, e io ti darò il mondo come giocattolo! Vieni da me e ti darò il riposo!» Era una voce carezzevole, una richiesta insistente. Avanzai lentamente. Non avvertivo più la presenza di Regina. Un'altra candela si spense. Il mio nemico mi venne incontro. Improvvisamente, mani invisibili alzarono una barriera tra noi. Sebbene la spingessi ansiosamente, cercando di obbedire, e la terza fiamma si spegnesse, fui riportato con fermezza contro la parete. Le ombre mi trattenne-
ro. Quando guardai il Signore furioso per la rabbia, vidi che niente lo tratteneva dall'entrare, ma l'aria sembrava palpitare di vita nuova. Vita che esultava gioiosamente del piacere di esistere. Vita che pulsava per uno scopo definito che non poteva essere negato. Sono sicuro che anche Regina l'avvertisse. La sua faccia giovanevecchia si avvicinò alla mia. La baciai. Le misi un braccio intorno alla vita e la strinsi forte a me. Fianco a fianco aspettammo. La cosa che era stata Pierre fece scorrere la lingua rossa sulle zanne appuntite e ci guardò. Era evidente che non aveva paura. La sua faccia brutale non era illuminata dall'intelligenza. Su quei tratti erano scritti solo una crudeltà indicibile e un desiderio famelico. E quello era l'amico che avevo amato. Ma colui che. aveva apportato morte e distruzione a tante persone, che era l'incarnazione del Male, alla fine capì che cosa significava la paura. La sensazione di oppressione diminuì. Mi sentii libero di muovermi di nuovo e tornai a pensare lucidamente. Un peso soffocante era stato sollevato dal mio cranio. Allora, anche il muro lasciò la sua presa. Me ne allontanai di poco, mentre nella stanza la luce aumentava a dismisura. Corpuscoli di fiamma fredda e guizzante cominciarono a raggrupparsi. Si raccolsero nella stanza, scivolando attraverso gli scuri che sbarravano le finestre rotte e attraverso la porta aperta. Qualcuno sembrava uscire dallo stesso corpo del Signore. Capii con sicurezza che era così, quando ne vidi uno uscirgli lentamente dal petto. Egli si ritrasse. Il corpuscolo indugiò come se lo stesse esaminando con attenzione, quindi si riunì agli altri. Ora il Signore sembrava più alto e meno gonfio. Il suo colorito era più grigiastro che nero, e notai che il suo volto sembrava più severo che crudele. Mi ricordava il Lucifero di Doré, quando era appena stato scacciato dal Paradiso e non era ancora Signore dell'Inferno. Nella sua dannazione c'era la malvagità, ma c'era anche un certo orgoglio arrogante, un qualcosa di indefinibile che io ammiravo. Avevo paura dei miei stessi pensieri. I piccoli fuochi fatui continuavano a fluire dalle pareti, dal pavimento, dal soffitto e dal corpo del Signore. Ora era molto più magro e alto, e diritto... non era più nero, e nemmeno grigio. Stava diventando un uomo molto bello e, mentre guardavo e mi meravigliavo della trasformazione, cerchi di luce continuavano a raggiungermi. Mi stupii della loro quantità. «Che cosa possono essere, Regina?»
«Aspettate», rispose. La paura era scomparsa dalla sua voce. «Penso di saperlo.» Ora, intorno ad ogni nucleo di luce, si era formata una specie di foschia, come nebbia attorno a un lampione stradale. Poi la foschia si inspessì, si addensò, e cominciarono ad apparire dei corpi. I loro indumenti rappresentavano tutti i periodi della storia e tutti i paesi. È difficile esserne sicuri, ma penso che il primo, e il più vicino al Signore - come se fosse stato l'ultimo ad uscire - fosse un uomo abbigliato con una tunica babilonese, ornata di nappe e frange. Vicina a questi, c'era una donna anziana e bassa. Questi due, quando si solidificarono, afferrarono il Signore, ognuno per un braccio. Le loro dita sembravano fatte d'ombra, ma lui non poteva - o non tentava - di allontanarle. Si erse orgogliosamente, aspettando, mentre altri gli si affollavano intorno. La stanza non era grande, ma mi parve che le pareti si fossero allontanate a una distanza grandissima. Era come se una vasta armata di stranieri, che volevano il nostro bene, fosse venuta a liberarci. Noi eravamo al centro di quella folla amichevole. Fianco a fianco, accanto a un impetuoso cavaliere spagnolo, stava uno zingaro con un fazzoletto maculato, vestito di cuoio lucido e bottoni dorati. Più lontano, riconobbi un gladiatore romano che teneva la mano sulla spalla di un lanciere persiano, la cui armatura risaliva alle conquiste di Alessandro. Una vecchiaccia rugosa e orrenda, con il naso a uncino e i denti sporgenti e vacillanti, era sostenuta da un bonzo cinese. Vicino a loro, vidi i volti scuri degli orientali e le tuniche verdi dei Maomettani, che ritenevano sacro il colore verde. E sul petto di ciascuno, simile a un cuore fiammeggiante - o a un'anima vivente - splendeva cupamente il fuoco centrale. «È la rivolta degli schiavi», mormorò Regina, «questi sono coloro che hanno sofferto a causa della dominazione del Signore. Gli spiriti dei morti sono venuti a salvarci. Oh Dio, ti ringrazio! Ringraziate Iddio, Monsieur Grant! Siamo stati liberati!» «Forse», replicai. «Guarda! L'ultima candela si è consumata.» La situazione era statica. Nessuno si muoveva, mentre la candela sgocciolava. In quell'istante di indecisione fu come se il tempo si fermasse. Ebbi il tempo di pensare. Capii che cosa voleva dire Regina, che cosa stava guardando. Non so se lo chiamate anima, id, ego o essenza di una persona. So solo
che... ogni nucleo terso e splendente era l'Io indistruttibile che rende un individuo quello che è. Il Signore si era nutrito di quella materia duratura e immortale, nei lunghi secoli di vendetta nei quali il corpo di Althusar, il babilonese, aveva dato asilo non solo alla sua anima prigioniera, lo spirito dominante del Signore, ma anche a quelle di molti altri. Di conseguenza, l'entità prigioniera di Nithryhs si era nutrita delle anime intrappolate nel suo corpo. Aveva appreso molto dai prigionieri. Ma non abbastanza. Non aveva capito che, essendo indistruttibile, ogni anima guadagnava una porzione di forza dai propri compagni. Per quanto fosse potente la magia della strega babilonese - figlia arcana, e forse perfino un avatar di Nergal, l'Oscuro dei Due fiumi - per quanto fosse terribile la forza e l'odio dell'alieno prigioniero, il momento della rivolta era inevitabile. Fortunatamente per me e per Regina, quel momento era arrivato durante la nostra vita e in un momento terribile. Era vero. Degli amici, anche solo perché condividevano con noi il fatto di essere umani, erano venuti in nostro aiuto. Non tutti gli spiriti provenivano dal corpo del Signore. Alcuni si affrettavano alla lotta uscendo dal corpo di Vampiri, Lupi Mannari e ghoul. Arrivavano da tutti i luoghi stregati della terra, perché in varie epoche il tocco corruttore del Signore aveva creato quelle creature da innocenti esseri umani. Credo che in tutto il mondo quei corpi infetti stessero cominciando a decadere rapidamente. Dovettero verificarsi molte sparizioni strane e inesplicabili in varie città e paesi del mondo. Non mi sono curato di cercare tra i quotidiani di quel tempo. Mi basta sapere che io e la persona che amo abbiamo trovato la salvezza e la felicità durante quella notte terribile. E non io solo. Come ho già detto, il nostro nemico non era più uno gnomo nero e informe. Con la liberazione di coloro che erano prigionieri nel corpo di Althusar, la sua figura riprese per poco l'aspetto che aveva in passato. Ora era forte, diritta e bella. Ma i suoi occhi erano diversi. Bruciavano di un dolore che il viso severo non rivelava. C'era ancora della ferocia repressa in quella faccia, ma una rassegnazione crescente la stava sostituendo. Il Signore sapeva, e aspettava la fine. Lo stoppino cadde nella cera sciolta. Fiammeggiò e si spense. Le ombre ritornarono, ma il Signore e il Morto-Vivente, che gli era accanto, non avanzarono. Erano stati immobilizzati e, sebbene fosse evidente che deside-
ravano scappare, rimasero a fissare la folla minacciosa che si infittiva. Un membro di quella compagnia sussurrante era più opaco degli altri. Negli spasmi della lotta titanica, singhiozzava e ansimava, e la sua luce nebulosa divenne più fioca mentre il suo corpo diventava più visibile. Quando la sua forma divenne più pronunciata, le miriadi di corpuscoli raggianti persero la brillantezza, come se egli prosciugasse il loro ectoplasma e la loro forza. Il rosso di un'uniforme divenne rosa, l'armatura del cavaliere, prima traslucida, divenne diafana, trasparente, e scomparve davanti ai miei occhi. Uno ad uno, i membri di quella strana folla divennero invisibili, ma sapevo che erano ancora tutti presenti e che stavano prestando la loro forza al loro compagno, che diventava sempre più concreto ad ogni secondo. Il Signore era diventato la preda. Come lui aveva paralizzato gli altri, mentre esercitava la sua volontà su di loro, così ora era tenuto in una morsa da cui non c'era via di scampo. Ma non si sottometteva tranquillamente alle sue passate vittime. Lottava strenuamente per la propria vita. Grandi gocce di sudore gli apparvero sulla fronte mentre lanciava la sua potente forza di volontà contro la forma che diventava sempre più chiaramente umana. I suoi tremendi poteri mentali lottavano contro la forza combinata della folla ormai invisibile, e spingevano qua e là per la stanza quella forma semiconcreta. Presa nei vari turbini di forza, la figura volteggiava come una foglia al vento. Quando colpiva le pareti o il pavimento, non si feriva. Non era ancora solida. Era una scena potente, che non aveva eguali con nient'altro si fosse mai visto nel mondo. L'incredibile e l'impossibile stavano accadendo davanti ai nostri occhi. Il Male che aveva trionfato fin da tempi remoti stava per essere sconfitto, e da entità che un tempo erano state esseri umani. Non era altro che una rivoluzione. Mi sentii orgoglioso di essere uomo, di appartenere alla razza dominante. In un impeto di potere diedi il mio debole contributo alla lotta. Poiché era ovvio che il Signore non desiderava che lo straniero diventasse forte, io desiderai con tutte le mie forze che lo diventasse. Mi piace pensare che fu quella mia aggiunta di energia a far pendere da una parte i piatti della bilancia che fino a quel momento era stata in equilibrio. Ad un tratto, senza preavviso, un uomo, concreto come voi o come me, stava al centro della stanza. Era vestito di un panno blu, ruvido e pesante.
Intorno alla gola portava un collo di pelliccia e sulla testa un cappello di astrakan nero. Quando avvenne la trasformazione, la stanza pulsò e vibrò di gioia. Gli esseri invisibili gioivano. Durante la battaglia delle volontà si poteva udire solo il pesante respiro del cadavere vivente, al di sopra del folle battito dei nostri cuori, ma ora la stanza echeggiò dei lunghi scoppi di un riso selvaggio e spaventoso. Era lo straniero che rideva. Parlò. La sua era una lingua a me sconosciuta eppure compresi le sue parole. «Sono tornato», disse, con una voce lenta e gelida. «Ho appreso tutto quello che sai tu. Mi riconosci?» Il Signore non rispose, ma vidi che era scosso. Il corpo giovane e bello, che aveva assunto per così breve tempo, stava ora invecchiando con rapidità. I suoi capelli divennero bianchi, e la sua schiena si incurvò, mentre i secoli gli scorrevano addosso. Presto, pensai, sarà cadente, inerme e vecchio. Lo straniero continuò. «Prima di morire, pregai di poterti avere come mia vittima. Ho aspettato molti anni. Ho atteso che arrivasse il mio momento. Ora, ti affrontiamo tutti insieme. Ci riconosci?» Una voce gracchiante replicò: «Siete vermi del pianeta Terra, sì!». «Allora», ringhiò lo straniero, «preparati a morire!» Nonostante tutto quello che avevo letto, nonostante tutto quello che avevo visto quella notte, non credevo ancora sul serio alla possibilità della trasmutazione. Stavo per convincermene. Vidi un uomo diventare Lupo Mannaro! Si strappò l'abito blu e si erse, nudo e gigantesco, davanti a noi. Poi cadde carponi, gli arti gli si contorsero, e divennero zampe lunghe e scarne. Sulle mani spuntarono artigli e cuscinetti. Su tutto il corpo cominciò a crescergli il pelo. La testa si strinse, la bocca si allargò e si allungò in un muso, mentre le orecchie diventavano appuntite e si tiravano indietro. I suoi occhi erano iniettati di sangue per la rabbia. Cercò di parlare, ma emise solo un guaito. Era ormai una bestia, e capii chi era quando già nella mia mente si formavano le parole. «Wladislaw Brenryk, Lupo Mannaro di Ponkert, non c'è dubbio che questo ti dà il diritto alla vendetta. Prenditi la rivincita! Uccidilo!» E il Cane dell'Inferno balzò. Mirò dritto alla gola del Signore, ma invece gli afferrò il braccio che gli
pendeva lungo il fianco. Sentii uno scatto secco e capii che l'osso si era spezzato. Il Signore barcollò sotto il colpo, gemette e cadde sulle ginocchia. La bestia lasciò la presa e cercò di afferrargli la gola. Questa volta ci riuscì, ma vidi che le zanne non penetravano nella pelle. Giocava con il suo nemico. Con una pesante zampa sul torace del Signore lo teneva fermo, e gli ringhiava sulla faccia. Per assaporare la vendetta, indugiò troppo a lungo. Pierre, il Vampiro, un ammasso di muscoli senza cervello, si lanciò in avanti e afferrò la bestia ai lombi, sebbene la creatura gli mordesse ferocemente le braccia. Grazie alla forza di volontà del Signore, il cadavere si era riempito di energia! Nel mio cervello si riversavano dei balbettii. Sapevo che provenivano dall'invisibile compagnia. Erano molte voci eccitate che mi ordinavano: «La lampada! Getta la lampada! Non possono superare le fiamme!». «Ma l'Ungherese? Che cosa ne sarà di Brenryk?» «Non riceverà alcun danno. Ha assunto questa forma solo perché lo desideravamo.» «E Pierre?» «È morto», fu la risposta, «ma è legato alla terra finché il Signore è vivo. Sarà una benedizione per lui. Se sbagli, non potremo colpire di nuovo, e tu e la donna diventerete come noi. Non hai paura per la sorte di voi due? Il fuoco arreca una morte pura. Lancia la lampada!» Il Morto-Vivente si preparava a dilaniare il lupo. Il Signore cominciò ad alzarsi. «Ora!» Il coro divenne un urlo. Gettai la lampada. Riempita in parte di petrolio e in parte di gas caldo, esplose quando colpì il pavimento. Il liquido in fiamme zampillò sulle tre creature e arrivò alla porta accanto alla quale lottavano. Si sparse sulle foglie secche. La via di fuga era bloccata. Si allontanarono barcollando dalle fiamme e furono sospinti in un angolo, dove, simile a fuoco elementale, la morte avanzava verso di loro lambendo avidamente i loro corpi. Divelsi le sbarre che bloccavano la porta e scappammo. L'ultima visione che ebbi delle tre creature fu attraverso una lingua di fuoco. Pierre guardava stolidamente la luce. Il Signore giaceva a terra, senza lottare con il lupo che gli era addosso. Mentre guardavo, un bagliore chiaro si alzò dal corpo
di Brenryk, che divenne nebbioso, assunse la forma di un uomo e scomparve. La sua missione era compiuta. L'ultimo suo sguardo fu diretto a me. Esprimeva gratitudine. Poi le mura crollarono. Pierre cadde, colpito da una trave. Vidi un'espressione di pace passare sul volto del Signore. Per un altro istante, fu di nuovo Althusar. Poi si alzò una colonna di fiamme che distrussero tutto. Regina e io fuggimmo verso la salvezza, nella luce grigia dell'alba. La gente accorreva dal villaggio. Si raccolsero intorno a noi e guardarono a bocca aperta quelle fiamme improvvise. E io non seppi più niente. Sono seduto nella mia sedia a leggere le parole che ho appena scritto. Morbide mani mi chiudono gli occhi. Mi giro a ricevere il bacio e l'abbraccio affezionato che mi attendono. Sembra solo un incubo quello che ho vissuto contro la mia volontà, ma tutto va bene. Spiegammo alla gente che, nel passare davanti alla locanda, avevo visto un vagabondo aggredire una giovane donna. Avevo lottato per liberarla e nella zuffa si era rovesciata una lampada. Qualcuno, penso, credette alla mia storia, ma vidi che altri furtivamente si facevano il Segno della Croce. Sono certo che furono tutti felici di vederci partire. Parte della storia la rivelai al sacerdote del villaggio, sotto il vincolo della segretezza. Egli pronunciò un anatema sulle rovine, ma dubito che valesse molto. Ho ancora più fede nel forte vento che si alzò e sparse quelle ceneri lontano. Solo una magia potente potrebbe ricomporre quel temibile giramondo. Ma non penso che la cosa ci riguarderebbe. L'alieno della lontana Nithryhs è andato via: è tornato, ne sono certo, da dove era partito tanti secoli fa. Anch'egli ha una storia da raccontare che, spero, possa far desistere altri della sua specie dal venire qui. Il mondo ha sofferto molto a causa sua. Ricordate però che fu un essere umano a renderlo ciò che era: né uomo né bestia. Egli si vendicò sull'umanità. Se è possibile ammirare un nemico, ammiriamo il suo coraggio, la sua forza e la sua tenacia. Le sue azioni furono terribili. Le cicatrici che ha lasciato fanno parte delle nostre leggende, delle nostre paure e della nostra storia. Ma ci siamo liberati di lui. Capisco che avremo ancora sofferenze e dolore su questo pianeta. Non mancheranno malattie, catastrofi e guerre. Queste sono cose fami-
liari agli esseri umani... ma saranno problemi nostri causati da noi stessi, non da lui. Il Signore è tornato a casa. LUPI NELLE TENEBRE Wolves Of Darknes di Jack Williamson Strange Tales Of Mystery And Terror, gennaio 1932 1. Mi fermai involontariamente, rabbrividendo, sul piazzale coperto di neve della stazione. Un suono strano, misterioso, e in un certo senso terrificante, si udiva nel chiarore spettrale della luna in quella notte d'inverno. Era un ululato tremolante e lontano che si ripercuoteva sul mio corpo con brividi ben più freddi del penetrante morso dell'aria immota e ghiacciata. Ero ben conscio che quel suono lugubre che lacerava i nervi doveva essere l'ululato dei lupi grigi, chiamati anche lobo, sebbene non li avessi più sentiti da quando ero piccolo. Ma quel suono conteneva una nota di profondo terrore che nemmeno le tremanti apprensioni della fanciullezza avevano mai colto nella voce dei grandi lupi. C'era un non so chè di acuto, di strano, in quel lamento arcano, che proveniva da un punto remoto in un pulsare ritmico. Era qualcosa che induceva a pensare che l'ululato giungesse da delle gole umane tese in uno sforzo inumano... Lottando con me stesso per liberarmi da quel frutto della mia immaginazione, mi affrettai ad attraversare il piazzale ghiacciato precipitandomi nel caldo della squallida sala d'aspetto. Il locale era ben illuminato da alcune semplici lampadine e una stufa rovente lo riempiva di un calore piacevole. Ad ogni modo, ero ben contento di aver lasciato all'esterno quell'ululare lontano e non m'importava granché di aver trovato il tepore di un riparo. Accanto alla stufa sedeva un uomo alto, completamente assorto - con attenzione febbrile - in un solitario fatto con delle carte da gioco unte, disposte su una cassa da imballaggio che stringeva tra le ginocchia. Portava un giubbotto di pelle sformato e lucido per l'eccessivo uso. Una delle guance abbronzate era rigonfia di tabacco, e le labbra erano striate di macchie color ambra. Sembrò stranamente colto di sorpresa dal mio ingresso subitaneo, e con un brusco sussulto spinse via la cassa, balzando contemporaneamente in
piedi. Per un istante i suoi occhi mi fissarono ansiosi, poi sembrò sospirare di sollievo. Aprì lo sportello della stufa e, dopo aver sputato sulla fiamma crepitante, tornò a sedersi. «Ben arrivato, signore», disse con un tono strascicato leggermente forzato e rauco. «Mi ha quasi spaventato. Ci ha messo tanto, a entrare, che credevo non fosse sceso nessuno.» «Mi sono fermato ad ascoltare i lupi», gli spiegai. «Un suono sinistro, non crede?» Mi rivolse uno sguardo indagatore con occhi strani e apprensivi, restando a lungo in silenzio. Poi esordì in modo sbrigativo: «Be', cosa posso fare per lei?». Mentre avanzavo verso la stufa, aggiunse: «Sono Mike Connell, il Capostazione». «E io sono Clovis McLaurin», mi presentai. «Dovrei rintracciare mio padre: il dottor Ford McLaurin. Abita in una fattoria da queste parti.» «Ah, lei è il figlio del dottor McLaurin, eh?», disse Connell, assumendo un atteggiamento visibilmente cordiale. Quindi si alzò e sorrise, spostando la cicca di tabacco all'altra guancia, e mi strinse la mano. «Sì. L'ha visto ultimamente? Tre giorni fa ho ricevuto da lui uno strano telegramma. Mi chiedeva di venire subito. Pare che si trovi in qualche guaio: ne sa niente lei?» Connell mi guardò con un'espressione ambigua. «No», rispose alla fine. «In questi ultimi tempi non si è visto. Sono due o tre settimane che nessuno della fattoria si fa vivo qui a Hebron. Vede: sono anni che non viene giù una nevicata come questa, e non è facile andare in giro. Però non so proprio come hanno fatto a mandare un telegramma senza venire in città. E qui non li ha visti nessuno.» «Lei conosce di persona mio padre?», gli chiesi, sempre più preoccupato. «Be', no... non proprio», ammise il Capostazione. «Ma l'ho visto abbastanza spesso quando è venuto qui a Hebron con Jetton e sua figlia. C'è parecchia roba per loro, qui alla stazione. Scatole e casse: dalle etichette si direbbero apparecchiature scientifiche, ma di preciso non saprei. Però quella Stella Jetton è un bel pezzo di ragazza: davvero stupenda!» «Sono tre anni che non vedo mio padre», dissi al Capostazione, nella speranza di guadagnarmi la sua comprensione e di ottenere qualsiasi eventuale aiuto potesse offrirmi per raggiungere il ranch attraversando l'insolita coltre nevosa che ammantava le pianure del Texas occidentale. «Sono stato
in un istituto di medicina nell'Est, e non vedo il babbo da quando è venuto qui nel Texas tre anni fa.» «Lei è dell'Est, eh?» «New York. Ma ho trascorso qui un paio d'anni con mio zio, quand'ero piccolo. Il babbo ha ereditato la fattoria da lui.» «Sì, lo so. Il vecchio Tom McLaurin era mio amico», mi spiegò il Capostazione. Erano trascorsi tre anni da quando mio padre aveva lasciato la Cattedra di Astrofisica di un'Università dell'Est, nel 1928, per venire in questo ranch isolato e condurre i suoi nuovi esperimenti. L'eredità di suo fratello Tom, oltre alla fattoria, comprendeva una certa quantità di denaro, così mio padre aveva potuto rinunciare alla propria occupazione accademica e dedicarsi interamente ai problemi astrusi su cui stava lavorando. Dato che mi interessava più la scienza medica che quella matematica, io non avevo seguito completamente il lavoro di mio padre, sebbene di solito l'avessi aiutato nei suoi esperimenti quando disponeva solo di un piccolo appartamento e di misere attrezzature. Sapevo, ad ogni modo, che aveva elaborato uno sviluppo della geometria non-euclidea di Weyl in una direzione del tutto differente da quelle scelte da Eddington e da Einstein, che conduceva a delle implicazioni riguardanti la struttura del nostro universo davvero stupefacenti. La sua nuova teoria dell'elettrone-onda, che completava lo smantellamento della struttura atomica planetaria di Bohr, era stata altrettanto sensazionale. La prova richiesta dalla sua teoria era il confronto esatto della velocità dei raggi di luce ad angoli retti. Per l'esperimento si rendeva quindi necessaria la disponibilità di un vasto spazio all'aperto, e che possedesse un'atmosfera limpida, priva di polvere o di fumo. Da qui la scelta di mio padre circa l'utilizzazione della fattoria come luogo in cui portare a compimento il lavoro. Dato che desideravo restare all'istituto universitario e non ero in grado di aiutarlo ulteriormente, il babbo aveva scelto come suo assistente e collaboratore il dottor Blake Jetton, anch'egli studioso di fama grazie ai suoi notevoli studi sulla propagazione della luce e sulle recenti modifiche della teoria quantistica. Il dottor Jetton, come mio padre, era vedovo. Aveva un'unica figlia, di nome Stella, che trascorreva parecchi mesi dell'anno insieme a loro al ranch. Sebbene non l'avessi vista che rare volte, potevo senza dubbio di-
chiararmi d'accordo con il Capostazione circa il fatto che fosse una ragazza graziosa, anzi la ricordavo come una fanciulla dotata di notevole avvenenza. Tre giorni prima avevo ricevuto quel telegramma da mio padre. Si trattava di un messaggio allarmante, formulato in modo strano, in cui mi implorava di raggiungerlo senza perdere un solo istante. Diceva che la sua vita era in pericolo, sebbene non accennasse minimamente alla natura di questo pericolo. Incapace di comprendere pienamente il messaggio, mi ero affrettato a raccogliere alcuni effetti personali strettamente necessari, tra i quali non avevo tralasciato di mettere una piccola pistola automatica, e senza indugio ero salito sul primo treno Espresso. Avevo trovato la distesa del Texas Panhandle coperta da quasi trenta centimetri di neve; un inverno così severo non si registrava da diversi anni. E quando ero sceso dal treno nel villaggio solitario di Hebron, ero stato accolto da quei terribili e misteriosi ululati. «Era un telegramma urgente... molto urgente», dissi a Connell. «Devo raggiungere il ranch stanotte, se è appena possibile. Lei non sa come potrei arrivarci?» Per un po' Connell rimase in silenzio, guardandomi con un'espressione che tradiva una certa paura. «No, non saprei», rispose poi. «Ci sono quindici chilometri da qui al ranch. E lungo la strada è tutto deserto: non c'è anima viva. C'è quasi mezzo metro di neve, e non credo che un'auto ce la farebbe. Potrebbe farsi dare uno strappo da Sam Judson col suo carro, domani.» «Pensa che mi porterebbe là anche adesso?» Il Capostazione scosse la testa a disagio; guardò nervosamente il deserto di neve che brillava sotto la luna fuori dalle finestre, e parve che si mettesse in ascolto carico d'ansia. Io stesso riuscii a fatica a reprimere un brivido. «No, penso proprio di no!», esclamò poi Connell all'improvviso. «Da un po' di tempo non è troppo salutare uscire di notte in questi paraggi.» S'interruppe un istante; poi, lanciandomi una fuggevole occhiata inquieta, mi domandò di colpo: «Penso che abbia sentito quell'ululato, vero?». «Sì. Lupi?» «Hmmm, sì... credo proprio di sì. È un maledettamente strano! Sono dieci anni che non si vede un loafer da queste parti. Hanno cominciato a farsi sentire proprio dopo l'ultima bufera di neve.»
(Loafer, a quanto pare, era un termine locale derivato dalla parola spagnola lobo che indicava appunto il lupo grigio della prateria, un animale molto più grosso del coyote e un nemico temuto da tutti i rancheros del Sud-Ovest finché non era stato quasi completamente sterminato.) «Pare che ci sia un intero branco di quelle bestie che se ne va a caccia qui attorno», proseguì Connell. «Hanno ucciso un bel po' di bestiame nelle ultime settimane, e...», s'interruppe, abbassando la voce, «... e anche cinque uomini!» «I lupi hanno ucciso delle persone?», esclamai. «Sissignore», affermò il Capostazione lentamente. «Josh Wells e il suo aiutante sono stati uccisi circa due settimane fa... sì, con venerdì, saranno due settimane giuste. Li hanno uccisi mentre si trovavano fuori nella prateria. Poi è toccato a Simms. Il vecchio, sua moglie e la piccola Dolly. Li hanno attaccati proprio fuori dal recinto delle mucche, credo, mentre stavano mungendo. Abitavano a tre chilometri dal paese. Rufe Smith è andato a trovarli domenica. Nel recinto c'erano delle bestie morte e c'erano i secchi del latte tutti sfasciati in un mucchio di neve sotto la tettoia. Di Simms e della sua famiglia nemmeno l'ombra, invece!» «Non ho mai sentito dire che i lupi attaccassero la gente in questo modo!» Connell spostò nuovamente la cicca di tabacco e mormorò: «Neanch'io. Ma vede, signore... questi non sono lupi comuni!». «Come sarebbe a dire?» «Be', dopo che i Simms erano spariti ci siamo riuniti in una specie di squadra di volontari e siamo andati a caccia di quelle bestiacce. Di lupi non ne abbiamo trovati, però abbiamo trovato delle tracce nella neve. Di giorno non c'è in giro nemmeno l'ombra di un lupo! Be', c'erano queste impronte nella neve», ripeté lentamente. «E vede, signore, quelle tracce di lupo, maledizione, erano troppo lontane l'una dall'altra per essere quelle di una bestia normale. Quei lupi devono fare dei balzi di una decina di metri!» Quindi Connell piombò nel silenzio, fissandomi con una strana espressione. Io ero sconvolto. Naturalmente ero abbastanza incredulo circa quanto avevo sentito, ma il Capostazione non mi sembrava il tipo che ha appena finito di abbindolarti con qualche storiella fantasiosa, dato che i suoi occhi rivelavano un terrore autentico. E poi ricordavo che mi era parso di riconoscere dei toni umani negli strani ululati che avevo udito in lontananza.
Non c'era alcuna buona ragione per cui potessi credere di trovarmi semplicemente di fronte a una superstizione locale. Per quanto diffuse possano essere le leggende sulla licantropia, deve ancora giungermi notizia di un racconto di Lupi Mannari narrato da un texano dell'Ovest. Il racconto del Capostazione era stato troppo particolareggiato e ricco di elementi concreti perché fossi indotto a ritenerlo un parto di fantasia o una paura radicata segretamente nel profondo dell'animo. «Il messaggio di mio padre era urgentissimo», ripetei a Connell. «Devo assolutamente raggiungere la fattoria stasera. Se l'uomo di cui mi ha parlato non vorrà portarmi, noleggerò un cavallo e andrò da solo.» «Se Judson accetta di uscire al buio con quei lupi in giro, è proprio un imbecille!», disse con tono convinto il Capostazione. «Ma niente le impedisce di chiederglielo. Dovrebbe essere ancora alzato, a quest'ora. Abita in quella casa bianca, appena girato l'angolo dietro il negozio di Brice.» Connell mi seguì verso il piazzale per indicarmi la strada. Non appena la porta fu aperta, sentimmo di nuovo il ritmico, intenso ululato proveniente da lontano attraverso la candida distesa nevosa. Non riuscii a reprimere un brivido. Dopo avermi indicato la casa di Sam Judson, tra le poche e sparse abitazioni che costituivano il villaggio di Hebron, Connell rientrò in tutta fretta nella stazione, chiudendosi la porta alle spalle. 2. Sam Judson possedeva una tenuta che distava un chilometro e mezzo da Hebron, ma era andato ad abitare nel villaggio in modo che sua moglie potesse occuparsi dell'ufficio postale. Mi affrettai verso la casa di Judson attraversando parecchie strade ghiacciate, felice che Hebron potesse permettersi il lusso dell'illuminazione elettrica. L'ululare distante del branco di lupi mi riempiva di una paura vaga e inspiegabile, ma non diminuiva la mia determinazione di raggiungere il ranch di mio padre il più presto possibile, per risolvere l'enigma del telegramma che mi era stato inviato. Quando bussai alla porta, Judson venne ad aprire. Era un uomo robusto che indossava una tuta rattoppata di un azzurro sbiadito e una camicia di flanella marrone. Era quasi completamente calvo, e la sua testa nuda e abbronzata sembrava una striscia di cuoio scuro. Il volto, largo, era coperto da una barba nera che doveva avere parecchie settimane. Judson mi squadrò con un misto di nervosismo e di paura.
Mi condusse quindi nella cucina posta sul retro della casa, una stanzetta squallida con le pareti coperte da una serie disordinata di pentole e padelle. La stufa economica era accesa; a quanto pare, Judson doveva essere stato seduto tenendo i piedi appoggiati nel forno, intento a leggere un giornale che ora si trovava sul pavimento. Mi fece accomodare su una sedia scricchiolante e allora mi presentai. Disse che conosceva mio padre, il dottor McLaurin, dato che veniva a ritirare la posta nella stanza anteriore adibita appunto ad ufficio postale. Ma aggiunse che da tre settimane non si era più fatto vivo nessuno del ranch, forse perché la neve rendeva gli spostamenti difficoltosi. Mi spiegò che ora al ranch vivevano cinque persone: mio padre, il dottor Jetton e sua figlia Stella, e due meccanici provenienti da Amarillo. Gli parlai del telegramma che avevo ricevuto tre giorni prima e Judson suggerì che forse mio padre poteva essere venuto in paese di sera, imbucando il telegramma all'ufficio telegrafico con il denaro necessario per l'invio. Ma disse che era strano che non avesse parlato con nessuno, e che nessuno l'avesse visto. Allora chiesi a Judson che mi portasse subito al ranch e, alla mia richiesta, il suo atteggiamento cambiò: sembrava maledettamente spaventato! «Non ha poi così fretta da voler partire stanotte, vero, signor McLaurin?», domandò. «Possiamo sistemarla nella stanza libera, e domani la porterò al ranch con il carro. Il viaggio è lungo, per farlo di notte.» «Sono molto ansioso di arrivare al ranch», gli spiegai. «Sono preoccupato per mio padre. C'era qualcosa che non andava quando mi ha telegrafato: qualche guaio serio. La pagherò più che adeguatamente, e vedrà che ne varrà la pena.» «Non si tratta di soldi», mi disse. «Sarei felice di farlo gratis per il figlio del dottor McLaurin. Ma penso che anche lei li abbia sentiti i lupi, vero?» «Sì, li ho sentiti. E Connell, alla stazione, mi ha detto alcune cose in proposito. Hanno proprio attaccato degli uomini?» «Sì.» Per alcuni istanti Judson rimase in silenzio, e mi fissò con due occhi strani. Poi riprese: «E non è tutto qui. Alcuni di noi hanno visto le tracce. E c'erano anche impronte di uomini!». «Ma io devo raggiungere mio padre», insistetti. «Dovremmo essere abbastanza al sicuro in un carro. E poi lei avrà un'arma, no?» «Sì, ho un fucile», ammise Judson. «Ma non è che abbia molta voglia di trovarmi di fronte ai lupi!» Mi ostinai: alla fine, quando gli offrii cinquanta dollari per il viaggio, lui
cedette. Ma disse che lo faceva - io gli credetti - più per cortesia verso un amico che per denaro. Andò nella stanza da letto, dove sua moglie stava già dormendo, la svegliò, e le spiegò che si apprestava ad accompagnarmi. La donna era piuttosto spaventata, come ebbi occasione di giudicare dal tono della voce, ma si calmò sentendo dei cinquanta dollari. Allora si alzò - era un tipo alto ed estremamente bizzarro in camicia da notte color porpora e cuffietta intonata - e si diede da fare per prepararci un po' di caffè sulla stufa ancora calda e per trovarci qualche coperta perché potessimo avvolgercela addosso sul carro, dato che la notte era freddissima. Nel frattempo, Judson accese una lampada a kerosene, che era quasi inutile nel riflesso brillante della luna, e si recò nella stalla dietro la casa per preparare il veicolo. Mezz'ora dopo stavamo uscendo dal villaggio a bordo di un leggero carro tirato da due cavalli. I loro zoccoli affondavano nella crosta superficiale di neve a ogni passo, e le ruote del carro facevano altrettanto, scavando un solco in cui si infilavano saldamente producendo un curioso scricchiolio. Il nostro procedere era lento, e io mi preparai a un viaggio di parecchie ore. Sedevamo vicini sul sedile a molle, pesantemente infagottati e con delle coperte che ci riparavano stese sulle ginocchia. L'aria aveva un morso pungente, ma non c'era vento, quindi pensai che in fondo non potevo lamentarmi. Judson si era legato alla cintura un vecchio revolver, e inoltre disponevamo di una doppietta e di un fucile a ripetizione che stavano appoggiati sulle nostre ginocchia. Una volta fuori dal villaggio di Hebron, ci trovammo circondati su ogni lato da una candida distesa di neve quasi perfettamente liscia. Era interrotta soltanto dalle file di paletti che sostenevano i reticolati e che a quanto pareva rappresentavano per Judson l'unico punto di riferimento. Il cielo era inondato da un'opalescenza spettrale, e sulla neve sfavillavano milioni di diamanti di gelo. Per circa un'ora e mezza non accadde nulla degno di nota. Le luci di Hebron impallidirono e, a poco a poco, svanirono alle nostre spalle. Non incontrammo alcuna abitazione lungo quel deserto di neve sconfinato. L'impressionante ululato, ad ogni modo, si faceva sempre più forte. Poi quei lamenti misteriosi cambiarono d'un tratto posizione. Judson al mio fianco rabbrividì e parlò nervosamente ai due cavalli che arrancavano a fatica nella neve. Poi si voltò verso di me e disse in tono conciso: «Credo che stiano arrivandoci alle spalle, signor McLaurin».
«Be', in questo caso lei può sempre tirarsene dietro qualcuno, per scuoiarlo domani», gli risposi. Le mie intenzioni erano state quelle di mettergli un po' di buonumore, ma la mia voce era stranamente brusca, e aveva un tono che suonava falso perfino alle mie orecchie. Per alcuni minuti avanzammo in silenzio. All'improvviso, notai un cambiamento nelle urla del branco. Quel ritmo strano e profondo si fece improvvisamente più concitato. Quei lugubri lamenti sembrarono cedere il posto a rapidi guaiti di bramosia, un suono che aveva in sé un elemento ventriloquiale che ci impediva di individuarne esattamente la direzione di provenienza. Le note rapide e smaniose sembravano giungerci da una dozzina di punti sparsi lungo la distesa candida alle nostre spalle. I cavalli si allarmarono. Drizzarono le orecchie e guardarono indietro, riprendendo il cammino con rinnovata foga. Vidi che gli animali stavano tremando. Uno di loro di colpo sbuffò. Quel rumore inaspettato urtò i miei nervi già strapazzati, e allora mi afferrai in maniera convulsa alla sponda del carro. Judson impugnava saldamente le redini e si puntellava con i piedi contro il cassone del veicolo, parlando sommessamente ai due cavalli spaventati per calmarli. Se non fosse stato per quello, forse si sarebbero già dati alla fuga. Si voltò poi verso di me e disse sottovoce: «Di lupi ne ho sentiti, ma non ululano in questo modo. Questi non sono i soliti lupi!». E, ascoltando i latrati del branco, capii che aveva ragione. Quegli ululati avevano una sfumatura insolita e aliena, una caratteristica intrinseca che non era di questa terra. È difficile farne una descrizione, perché era qualcosa di completamente estraneo. Mi balenò nella mente, allora, che, se fossero esistiti dei lupi negli antichi deserti di Marte - ormai morti da secoli forse avrebbero potuto produrre simili lamenti, mentre si lanciavano all'inseguimento di una creatura indifesa spingendola verso una morte crudele. «Credo che ci siano alle calcagna», disse improvvisamente Judson, con voce sommessa e stentorea. «Guardi dietro di noi, signore.» Mi voltai sul sedile a molle, scrutando l'immensa pianura coperta da un manto di neve abbagliante. Per alcuni minuti aguzzai invano lo sguardo, sebbene l'urlo del branco invisibile crescesse rapidamente d'intensità. Poi scorsi delle macchioline grigie che spiccavano dei balzi, molto lontane dietro la pista lasciata dal carro. Normalmente un lupo avrebbe dovuto arrancare a fatica attraverso la spessa coltre nevosa, dato che la crosta su-
perficiale non era abbastanza solida per sostenerne il peso. Ma le cose che vedevo, agili ombre grigie dalla forma indefinita, avanzavano invece a grandi balzi, con una velocità stupefacente. «Li vedo», mormorai con voce tremante a Judson. «Guidi lei», mi disse allora, mettendomi in mano le redini e afferrando il fucile a ripetizione. Quindi si voltò sul sedile e cominciò a sparare. I cavalli tremavano e sbuffavano. Nonostante il freddo, i loro corpi ansanti grondavano di sudore. Improvvisamente, dopo che Judson aveva aperto il fuoco, strinsero il morso e si ribellarono alla guida fuggendo disperatamente, affondando nella neve e trascinando il carro privo di controllo. Per quanto mi sforzassi di riprenderli alla mano, strattonando con forza le redini, il mio tentativo si rivelò del tutto inutile. Judson ben presto finì il caricatore. Dubito che fosse riuscito a colpire qualcuna delle bestie che ci inseguivano... infatti era praticamente impossibile mirare con precisione stando sul carro che ondeggiava e traballava. E, anche se il veicolo fosse stato immobile, i nostri inseguitori che spiccavano quei balzi selvaggi avrebbero costituito un bersaglio difficile. Judson gettò il fucile scarico nel cassone del carro e si girò verso di me con una faccia pallida e spaventata. Aveva la bocca aperta e gli occhi sbarrati dal terrore. Sbraitò qualche parola incoerente che non riuscii ad afferrare, e agguantò le redini. Impazzito evidentemente di paura, maledisse i due cavalli che abbrancavano nella neve e li frustò, come se credesse di poter distanziare il branco. Per un po' mi aggrappai alla sponda del carro traballante. Poi i cavalli, sbuffando, fecero uno scarto inaspettato, rompendo quasi il timone del carro e per poco non facendolo rovesciare. Il sedile a molle si staccò dai fermi e cadde nell'interno del cassone. Io fui sballottato oltre la sponda di tutto il busto e per un attimo disperato tentai di arrampicarmi nuovamente a bordo. Ma i due cavalli fecero un altro balzo in avanti e allora fui proiettato nella neve. Infransi la sottile crosta ghiacciata, e lo spesso strato di neve soffice sottostante attutì la mia caduta. In pochi istanti riuscii a risollevarmi in piedi, portandomi freneticamente le mani al volto per liberarmi gli occhi da quella sostanza bianca e farinosa. Il carro era ormai a un centinaio di metri. I cavalli, pazzi di paura, stavano ancora fuggendo, con Judson in piedi sul cassone che maneggiava furiosamente le redini ondeggiando avanti e indietro, incapace di frenarli.
Quando ero stato sbalzato, i cavalli avevano girato bruscamente e ora stavano lanciandosi a capofitto in direzione di quel misterioso branco di belve ululanti! Judson, urlando e imprecando pazzo di terrore, veniva trascinato indietro verso quelle grigie ombre indistinte che saltavano nella notte lanciando spaventosi ululati soprannaturali. L'orrore scese su di me simile a un'enorme ondata che mi paralizzava l'anima. Provai un folle desiderio di fuggire, di correre e correre attraverso la distesa innevata finché non avessi cessato di udire il lamento di quello strano branco. Con uno sforzo mi controllai, frenai il tremito del mio corpo e deglutii per inumidirmi la gola secca. Sapevo che con il mio misero arrancare non sarei mai riuscito a distaccare le ombre grigie sorprendentemente agili che balzavano nei riflessi lattei della luce lunare in direzione del carro. Fu allora che mi ricordai di essere in possesso di un'arma, l'automatica calibro 25 che tenevo sotto un'ascella. Lo strano messaggio di mio padre mi aveva infatti spinto a portare con me quella piccola arma mortale e ad infilarmi in tasca alcuni caricatori di proiettili. Con mani tremanti mi sfilai un guanto e frugai sotto gli abiti in cerca della pistola. Alla fine estrassi la minuscola ma pesante automatica, piacevolmente calda per il contatto con il mio corpo, e feci scattare indietro l'otturatore per accertarmi che ci fosse un colpo in canna. Poi rimasi fermo in quella distesa nevosa che mi arrivava quasi alle ginocchia, e attesi. Il lugubre ululato alieno del branco mi paralizzò letteralmente per il terrore. Il carro doveva trovarsi a circa quattrocento metri da me, quando le indistinte macchie scure del branco abbandonarono la pista e deviarono per tagliargli la strada. Vidi allora sottili lingue di fiamma giallastre, e udii secche scariche di armi da fuoco, seguite dal sibilo lancinante dei proiettili. Judson, almeno così supponevo io, doveva aver abbandonato le redini e tentava di difendersi con i fucili e la sua vecchia pistola. Poi le macchie grigie circondarono il carro. Sentii l'urlo di un cavallo agonizzante, il suono più straziante e orribile che io conosca, se si escludevano gli ululati soprannaturali di quel branco. Una massa di figure in lotta sembrò dibattersi a ridosso del carro. Seguirono ancora alcune detonazioni, quindi un grido echeggiò sinistro sulla prateria innevata, un grido che racchiudeva in sé un misto di atroce sofferenza e di terrore inconcepibile...
Capii che si trattava di Judson. Dopodiché non rimase altro che l'agghiacciante lamento delle belve, un coro mostruoso che non si era ancora placato. Presto, spaventosamente presto, quel coro alieno parve avvicinarsi. E vidi allora delle forme grigie che si staccavano dalla macabra scena della tragedia e avanzavano a balzi... verso di me! 3. Non sono assolutamente in grado di spiegare il terrore che mi prese quando mi resi conto che le belve si erano lanciate sulle mie tracce. Il mio cuore parve arrestarsi, tanto che pensai che sarei svenuto; poi cominciò a pulsarmi profondamente nella gola. Avevo il corpo improvvisamente madido di sudore gelido, i muscoli tesi spasmodicamente, e stringevo la pistola con tanta forza da avvertire un certo dolore alla mano. Avevo deciso di non fuggire, ritenendo inutile un eventuale tentativo di sottrarmi alla caccia del branco. Ma la mia decisione di resistere a ogni costo era ben poca cosa rispetto alla paura che mi ossessionava. Mi misi a correre attraverso la levigata distesa di neve. I miei piedi sprofondavano nella sottile sfoglia di ghiaccio e arrancavo a fatica, con i polmoni in fiamme. La neve sembrava divertirsi a ostacolarmi, quasi fosse un demone malvagio. Molte volte incespicai e caddi, ma mi rialzai sempre con la forza della disperazione avanzando di nuovo ormai stremato, singhiozzando di terrore e ansando nell'aria gelida. Ma la mia fuga ben presto volse al termine. Le cose che mi stavano inseguendo erano in grado di procedere a una velocità di gran lunga superiore alla mia. Voltandomi, quando non avevo coperto nemmeno un centinaio di metri, le vidi avvicinarsi, forme ancora vaghe nel chiarore lunare. Mi accorsi però che gli inseguitori erano soltanto due. Improvvisamente, il mio pensiero tornò alla piccola automatica che stringevo in mano. La sollevai e scaricai tutti i proiettili, sparando il più rapidamente possibile; ma anche se colpii qualcuna di quelle forme grigie, dovevano essere senz'altro invulnerabili alle mie pallottole. Avevo trovato in tasca un secondo caricatore e stavo tentando con dita tremanti di infilarlo nella pistola, quando quelle cose giunsero sufficientemente vicine perché potessi vederle in modo distinto. A quel punto le mie mani si paralizzarono; ero troppo sorpreso e sconvolto per completare il caricamento della pistola.
Una delle due forme grigie era un lupo, uno scarno lupo della prateria dal lungo pelo ispido, una bestia enorme alta quasi un metro che stava spiccando balzi che coprivano diversi metri. I suoi grandi occhi avvampavano di una misteriosa luce verdastra, una luce innaturale, strana, terribile, e in un certo senso ipnotica. L'altra era una ragazza! Era una cosa incredibile, che ottenebrò e fece vacillare la mia mente già offuscata dal terrore. Dapprima pensai che si trattasse di un'allucinazione ma, mentre lei si avvicinava a lunghi salti con la stessa rapidità del lupo grigio, fui costretto ad accettare quanto vedevano i miei occhi. Ricordai allora la mia impressione di aver udito delle voci umane nelle grida del branco; ricordai anche quanto Connell e Judson mi avevano detto circa la presenza di orme umane frammiste a quelle dei lupi nelle tracce lasciate dal branco. La ragazza era vestita in modo piuttosto leggero, per trovarsi fuori all'aperto nel freddo pungente di quella notte invernale. Apparentemente indossava solo una leggerissima sottoveste di seta bianca, lacera, che le penzolava da una spalla e non le arrivava nemmeno alle ginocchia. Aveva il capo scoperto, e i suoi capelli, che alla luce lunare sembravano di uno strano biondo pallido, erano corti e scarmigliati. Le braccia vellutate e le piccole mani, le gambe, e perfino i suoi piedi guizzanti, erano nudi. La sua pelle era bianca, di un candore freddo, esangue, lebbroso. Quasi bianca quanto la neve. E i suoi occhi scintillavano di un riflesso verde! Erano come gli occhi del lupo, brillanti di una terribile fiamma di smeraldo, la fiamma di una vita aliena, estranea a questo mondo. Erano malvagi, crudeli, ripugnanti! Erano gelidi come le distese cosmiche al di là della luce delle stelle e ardevano di un'intelligenza maligna, più forte e spaventosa di quella di qualsiasi creatura terrestre. Le sue labbra e le sue guance, di un candore alabastrino, erano segnate da una macchia gocciolante di color rosso scuro che spiccava quasi nera al chiarore fioco. Rimasi come pietrificato, svuotato di ogni residua energia per l'orrore e l'incredulità. La ragazza e il lupo avanzarono balzando fianco a fianco nella neve, come dotati di una forza e di un'agilità soprannaturali. E, mentre si facevano più vicini, io subii un altro shock terrificante. Il volto della ragazza mi era familiare, nonostante il pallore cadaverico,
l'infernale riflesso maligno degli occhi verdi, e la macchia rossastra sulle gote e sulle labbra. Quella donna era la ragazza che io avevo ammirato, e che avevo persino sognato di poter amare, un giorno. Era Stella Jetton! Quella ragazza era la deliziosa figliola del dottor Blake Jetton che, come ho detto, mio padre aveva portato con sé in quel ranch del Texas come assistente nei suoi rivoluzionari esperimenti. Mi resi conto che doveva essere stata trasformata in qualche modo spaventoso. «Stella!», gridai. Più simile a un urlo atterrito di angoscia e incredulità che a una voce umana, quel nome uscì dalla mia gola inaridita dalla paura. Io stesso sussultai udendo quel mio appello rauco, stentoreo e ansante. L'enorme lupo grigio si diresse verso di me, come se stesse per balzarmi alla gola. Ma si fermò a qualche metro di distanza, accucciandosi nella neve e mi guardò con quegli orribili occhi verdi da cui trapelava un'espressione di guardinga e strana intelligenza. La ragazza si fece ancora più vicina, prima di fermarsi e di restare a guardarmi con i suoi occhi terribili, simili a quelli della belva, luminosi e verdi. Il volto, per quanto di un pallore spettrale e orrendamente macchiato di rosso, era proprio quello di Stella Jetton. Ma gli occhi non erano i suoi! Poi parlò. La sua voce conteneva ancora qualcosa del suono che mi era familiare, ma ora possedeva un tono nuovo e strano. Racchiudeva lo stesso mistero alieno e minaccioso degli occhi e della pelle lebbrosa, la medesima sfumatura dei lugubri ululati lamentosi del branco che ci aveva seguito. «Sì, sono Stella Jetton», disse. «Come sei chiamato tu? Sei tu Clovis McLaurin? Hai ricevuto un telegramma?» A quanto pare non mi conosceva. Perfino la formulazione delle sue parole era un po' strana, come se stesse parlando una lingua con cui non aveva molta dimestichezza. La deliziosa ragazza, quella ragazza che avevo conosciuto un tempo, era cambiata spaventosamente. Pensai che doveva essere stata colpita da qualche forma di follia, da cui aveva tratto quella forza soprannaturale che aveva dimostrato di possedere quando correva con il branco di lupi. Doveva trattarsi di un caso di licantropia davvero molto particolare, immaginai. «Sì, sono Clovis McLaurin», risposi con voce tremante. «Ho ricevuto il telegramma di mio padre tre giorni fa. Dimmi cosa c'è che non va: perché ha usato quelle parole nel messaggio?»
«Non c'è nulla che non va, amico mio», rispose la strana creatura. «Noi desideravamo semplicemente la tua assistenza in un certo esperimento di grande singolarità, che abbiamo cominciato ad attuare. Tuo padre ora attende al ranch, e io sono venuta per condurti da lui.» Quel discorso era assurdo. Riuscii ad accettarlo solo partendo dal presupposto che chi aveva parlato soffrisse di uno spaventoso sconvolgimento mentale. «Tu mi sei venuta incontro?», esclamai, combattendo contro l'orrore che stava per sopraffarmi. «Stella, non devi startene fuori al freddo così poco coperta. Devi prendere il mio cappotto.» Cominciai a togliermelo ma, come mi ero in un certo senso aspettato, lei rifiutò di accettarlo. «No. Non mi serve. Il freddo non può nuocere a questo corpo. E adesso devi venire con noi. Tuo padre ci attende in casa per attuare il grande esperimento.» Aveva detto noi! Inorridii ancora di più notando che la ragazza considerava lo scarno lupo uguale a lei. Poi balzò in avanti con un'agilità incredibile nella direzione in cui io e Judson stavamo viaggiando prima. Con un braccio nudo e di un pallore cadaverico, mi invitò a seguirla. Il grande lupo grigio si mosse a balzi, dietro di me. Stimolato di colpo ad agire, ricordai la pistola caricata a metà che stringevo in mano. Con un gesto brusco finii di inserire il caricatore nuovo, feci scattare l'otturatore, e poi scaricai tutti i colpi addosso alla belva dagli occhi verdi. Una strana calma era scesa su di me. I miei movimenti furono sufficientemente controllati, quasi calcolati. Sono certo che la mia mano non tremasse. Il lupo si trovava solo a pochi metri ed era praticamente impossibile mancarlo, non centrarlo con almeno un proiettile. Sono sicuro di averlo colpito numerose volte, poiché sentii le pallottole conficcarsi nel suo corpo scarno, vidi l'animale vacillare sotto il loro impatto, e notai dei ciuffi di pelo grigio cadere in terra nella luce lunare. Eppure non morì. I suoi terribili occhi verdi non mostrarono il benché minimo cenno d'esitazione e continuarono a fissarmi con quella loro espressione sinistra di malvagità infernale. Non appena gli ebbi scaricato addosso tutti i colpi - mi erano occorsi solo alcuni secondi per sparare i sette proiettili - udii un ringhio selvaggio emesso dalla ragazza. Mi ero girato per metà nella sua direzione quando il
suo corpo pallido si scagliò contro di me con la velocità di un proiettile. Caddi sotto di lei, alzando istintivamente un braccio per proteggermi la gola. E fu un bene che l'avessi fatto, perché sentii i suoi denti mordermi il braccio e la spalla, mentre sprofondavamo insieme nella neve. Sono certo che urlai. Lottai con lei selvaggiamente, finché non udii di nuovo la sua strana voce non umana. «Non devi avere paura», disse. «Non vogliamo ucciderti. Vogliamo solo il tuo aiuto per un esperimento importantissimo. Per questo motivo devi venire con noi. Tuo padre attende. Il lupo è nostro amico e non ti farà del male. E la tua arma non può ferirlo.» Dalla gola del lupo, che non si era più mosso da quando gli avevo sparato, uscì un bizzarro guaito inarticolato, come se la bestia avesse capito le parole della ragazza e stesse confermandole. Lei mi gravava ancora addosso con tutto il suo peso, tenendomi schiacciato nella neve. I suoi denti insanguinati si trovavano a pochi centimetri dal mio viso e le sue dita affondavano nel mio corpo quasi fossero artigli dotati di una forza sovrumana. Dalla gola le uscì un basso grugnito bestiale, poi riprese a parlare. «Verrai dunque con noi alla casa, dove tuo padre ci aspetta per condurre l'esperimento?», mi chiese con quella voce terribile tanto simile agli ululati del branco di lupi. «Verrò», acconsentii, leggermente sollevato nel constatare che quella coppia di belve non voleva divorarmi subito. La donna - non posso chiamarla Stella poiché, tranne che nel corpo, lei non era più Stella - mi aiutò ad alzarmi. Non mosse alcuna obiezione quando mi chinai a raccogliere la pistola che era caduta nella neve e l'infilai in tasca. Lei e il lupo grigio, che chissà come i miei proiettili non erano riusciti ad uccidere, si allontanarono a grandi balzi sulla candida distesa innevata. Io li seguii, arrancando al massimo delle mie possibilità, con la mente piena di supposizioni confuse e ottenebrata dal terrore. Ormai non avevo più dubbi circa il fatto che la donna si considerasse un membro del branco, e che lo fosse effettivamente. Sembrava che tra lei ed il grande lupo che camminava al suo fianco esistesse uno strano rapporto empatico. Doveva trattarsi di una qualche forma di pazzia, pensai, per quanto non avessi mai letto di casi di licantropia dai sintomi così terribilmente esage-
rati come quelli che lei presentava. È ormai noto che alcuni pazzi hanno una forza sovrumana, ma il modo in cui lei correva e balzava sulla neve era qualcosa che esulava dai limiti della comprensione e del raziocinio. Senza contare poi gli altri particolari che la teoria della malattia mentale era incapace di spiegare. Il pallore cadaverico della sua pelle, la terribile luminosità verde degli occhi, il modo in cui parlava... come se l'inglese rappresentasse per lei una lingua straniera, ma di cui possedeva una discreta padronanza. L'andatura sostenuta dalla donna e dal lupo era troppo rapida per me. Per quanto arrancassi al limite delle mie possibilità, non riuscivo a muovermi con la velocità che loro desideravano. Né potevo restare indietro perché, ogni volta che mi attardavo, il lupo mi raggiungeva, ringhiando minacciosamente. Dopo essermi trascinato per alcuni chilometri, i polmoni mi dolevano ed ero pressoché cieco dalla fatica. Per l'ultima volta incespicai e caddi pesantemente nella coltre nevosa. Quando tentai di risollevarmi, i muscoli indolenziti rifiutarono di rispondere e allora rimasi steso là, pronto a sopportare qualsiasi cosa il lupo potesse farmi, piuttosto che sottopormi all'agonia di uno sforzo ulteriore. Ma questa volta fu la donna a raggiungermi. Io ero semi-svenuto, ma mi resi vagamente conto che mi stava sollevando, e che mi caricava sulle sue spalle. Dopodiché i miei occhi si chiusero; ero troppo stanco per osservare ciò che mi circondava. Però, da una sensazione di ondeggiamento, capivo in maniera nebulosa che mi si stava trasportando. Infine le tossine dello sforzo sostenuto presero il sopravvento sui miei tentativi di restare cosciente. Sprofondai nel sonno tipico della spossatezza, dimenticando che i miei arti stavano gelando e che ero trasportato sulle spalle di una donna che possedeva gli istinti di un lupo e la forza di un demonio; una donna che, l'ultima volta che l'avevo vista, era stata una creatura assolutamente umana e adorabile... 4. Non riuscirò mai a dimenticare le sensazioni che provai al mio risveglio. Aprii gli occhi in un'oscurità attenuata soltanto da una fioca luminosità rossa. Ero steso su un letto, o un divano e, avvolto in alcune coperte. Delle mani, che perfino al mio corpo gelato sembravano fredde come ghiaccio, stavano massaggiandomi gambe e braccia. E terribili occhi verdastri flut-
tuavano nell'oscurità soffusa di sfumature scarlatte, fissandomi dall'alto con un'espressione orribile. Spaventato, ricordando quanto era accaduto nel chiarore lunare come un vago incubo, chiamai a raccolta i miei sensi smarriti e con uno sforzo mi levai a sedere sulle coperte. È strano, eppure la prima impressione che colpì la mia mente confusa fu la vista degli sgradevoli fiori verdi che spiccavano in file monotone sulla squallida tappezzeria macchiata. Nella luce rossastra della stanza sembravano di una lugubre tinta nera, eppure risvegliarono ugualmente in me un vecchio ricordo. Mi resi conto che mi trovavo nella sala da pranzo della fattoria, dove ero venuto a trascorrere due estati con lo zio Tom McLaurin molti anni prima. Quella camera dall'illuminazione grottesca conteneva pochissimi mobili. Il divano su cui giacevo si trovava accanto a una parete, di fronte a un lungo tavolo circondato da una mezza dozzina di sedie. In fondo alla stanza vi era una grossa stufa, e dietro di essa un secchio pieno di carbone e una cassa contenente dei ramoscelli di pino per accendere il fuoco. La stufa era spenta e la stanza era freddissima. La debole luce scarlatta proveniva da una piccola lampada elettrica appoggiata sul tavolo, provvista di una lampadina rossa del tipo usato dai fotografi nelle camere oscure. Senza dubbio dovetti recepire tutte quelle impressioni in maniera inconscia, dato che la mia mente atterrita era completamente presa dalle persone che occupavano la stanza. Mio padre, chino su di me, era intento a strofinarmi le mani, mentre Stella mi stava massaggiando i piedi che sporgevano dalle coperte. E anche mio padre aveva subito lo stesso spaventoso, misterioso cambiamento della ragazza! La sua pelle esangue era di un freddo pallore cadaverico, e le sue mani erano gelide quanto quelle di un morto irrigidito. E i suoi occhi, che mi osservavano con una strana e terribile circospezione, brillavano di un fulgore verdastro, simili a quelli di Stella e del grande lupo grigio. Lei stessa, quell'essere orribile che un tempo era stato l'adorabile Stella, non era cambiata. Aveva sempre quella pelle cadaverica, quegli occhi dalla strana luminescenza verde e quelle macchie sul viso, che adesso apparivano nere nella tetra luce rossastra. Nella stufa non ardeva alcuna fiamma, eppure, nonostante il gelo che impregnava la stanza, lei indossava ancora la stessa sottoveste di seta bianca strappata di prima. Mio padre - o almeno la cosa che una volta era mio
padre - portava solo una leggera camicia di cotone, da cui erano state strappate le maniche, e un paio di calzoni logori. Le braccia e i piedi erano nudi. Constatai un'ennesima cosa spaventosa. Mentre il mio respiro si condensava in bianche nuvole di cristalli ghiacciati nell'aria gelida, dalle narici di mio padre e di Stella non usciva alcuna traccia di vapore. Dall'esterno potevo sentire il lugubre lamento soprannaturale del branco. E, di tanto in tanto, i due guardavano con inquietudine in direzione della porta, quasi fossero ansiosi di raggiungere i loro simili. Quando mio padre parlò, mi ero già sollevato a sedere e mi guardavo attorno con un misto d'incredulità e di confusione. «Siamo felici di vederti, Clovis», mi disse piuttosto freddamente e senza mostrare alcuna emozione, con un atteggiamento del tutto diverso dai suoi modi solitamente gioviali e affettuosi. «Sembra che tu abbia freddo, ma tra poco tornerai ad essere normale. Sorprendentemente, noi abbiamo bisogno di te per un esperimento che non possiamo portare a termine senza la tua assistenza.» Parlava lentamente, incerto, come uno straniero che ha tentato di imparare l'inglese da un dizionario. Rimasi fortemente perplesso, anche se davo per scontato che sia lui che Stella soffrissero di uno squilibrio mentale. E la sua voce aveva un certo tono lamentoso, che ricordava gli ululati del branco. «Ci aiuterai?», domandò Stella con la stessa, terrificante inflessione. «Spiegatemi! Spiegatemi tutto quanto, per favore!», sbottai. «Altrimenti impazzirò! Perché tu correvi insieme ai lupi? Perché i tuoi occhi hanno quella luminosità verde, e la tua pelle è di un pallore mortale? Perché siete così freddi? Perché questa luce rossa? Perché non c'è alcun fuoco acceso?» Mentre farfugliavo tutte quelle domande, loro rimasero a fissarmi in silenzio nella strana stanza, con quello sguardo agghiacciante. Per alcuni minuti restarono zitti. Poi, negli occhi di mio padre apparve un'espressione astuta, e dalla sua bocca uscì di nuovo quella voce agghiacciante. «Clovis», mi disse, «tu sai che siamo venuti qui allo scopo di studiare la scienza. Ed è stata effettuata una grande scoperta, un'enome scoperta riguardante le risorse della vita. I nostri corpi sono cambiati, come tu puoi vedere. Sono diventati macchine migliori e più forti. Il freddo non li danneggia, a differenza del tuo. Perfino la nostra vista è migliore, quindi non ci occorrono più luci intense.
Ma ci manca ancora il successo perfetto. Le nostre menti sono state cambiate e noi non ricordiamo ciò che un tempo sapevamo. E sei tu che noi desideriamo come nostro aiutante per aggiustare una nostra macchina che è stata rotta. Noi vorremmo che ci aiutassi, cosicché a tutta l'umanità possiamo portare il dono della nuova vita, che è forza eterna e non conosce morte. Noi cambieremo tutti con la nuova scienza che abbiamo scoperto.» «Vorresti dire che hai intenzione di trasformare la razza umana in tanti mostri simili a voi?» Mio padre ringhiò con la ferocia di un animale da preda. «Tutti gli uomini riceveranno il dono della vita simile alla nostra», ribadì. «La morte non sarà più. E noi richiediamo il tuo aiuto... e l'otterremo!» La sua voce conteneva un intenso tono di maleficio di minaccia. «Tu sarai nostro aiuto. Tu non rifiuterai!» Si piantò di fronte a me digrignando i denti e incurvando le dita come fossero artigli. «Certo che ti aiuterò!», riuscii a balbettare con voce tremante. «Ad ogni modo non sono molto bravo come sperimentatore.» Ero sicuro che un rifiuto avrebbe rappresentato un mezzo per commettere uno spiacevolissimo suicidio. In quei minacciosi occhi verdi brillò una luce trionfante di astuzia, l'astuzia del folle che ha appena perpetrato un abile inganno. «Puoi venire adesso, così da vedere la macchina?», domandò Stella. «No», risposi in fretta, cercando delle ragioni per guadagnare tempo. «Ho freddo. Devo accendere un fuoco e scaldarmi. E poi ho fame, e sono molto stanco. Devo mangiare e dormire.» Ed era tutto quanto vero, tra l'altro. Il mio corpo era interamente ghiacciato per le ore trascorse all'aperto. Gambe e braccia mi tremavano ancora. I due si guardarono scambiandosi degli strani suoni gutturali, simili a lamenti bestiali. Sembrava che quello, e non le parole, fosse il loro linguaggio naturale, e che il loro inglese fosse solo una lingua appresa superficialmente da poco tempo. «Vero», disse mio padre, e guardò verso la stufa. «Accendi un fuoco se devi. Quello che ti occorre è qui?» E indicò con aria interrogativa il carbone e i legnetti, come se il fuoco fosse una cosa del tutto nuova e sconosciuta per lui. «Noi dobbiamo andare all'esterno», aggiunse. «La luce del fuoco è dannosa per noi, come il freddo per te. E in un'altra stanza, chiamata...», esitò visibilmente, «...chiamata cucina, ci sarà cibo. Là ti aspetteremo.»
Seguito dalla ragazza, uscì silenziosamente dalla camera. Rabbrividendo per il freddo, mi affrettai verso la stufa: le braci erano spente, e da parecchi giorni non veniva accesa. Scossi la cenere, accesi un fiammifero che trovai in tasca e lo buttai sulla grata, riempiendo poi la stufa di ramoscelli e carbone. In pochi minuti si levò una fiamma crepitante, di fronte alla quale mi accovacciai con un senso di gratitudine. Poco dopo la porta si aprì lentamente. Stella lanciò un'occhiata guardinga per vedere se c'era della luce nella stanza, poi entrò. La stufa, perfettamente chiusa, non lasciava filtrare alcun bagliore. La pallida ragazza dagli occhi verdi aveva le braccia cariche di cibo, un curioso assortimento raccolto evidentemente a casaccio in cucina. C'erano due pagnotte, della pancetta affumicata, una lattina chiusa di caffè, un sacchetto di sale, una scatola di farina d'avena, un barattolo di lievito, una dozzina di confezioni di cibo in scatola, e perfino una bottiglia di lucido per la stufa. «Tu mangi questo?», mi chiese con la sua voce stranamente animalesca, deponendo il tutto sul tavolo. Era una situazione quasi ridicola, eppure in un certo senso anche terribile. Sembrava che non avesse la minima idea riguardo i bisogni alimentari umani. Provando finalmente un piacevole tepore, e letteralmente affamato, mi accostai al tavolo ed esaminai lo strano assortimento che c'era sopra. Scelsi una pagnotta, una scatoletta di salmone e una di albicocche. «Alcune di queste cose si mangiano così come sono», azzardai, chiedendomi come avrebbe reagito. «Altre devono essere cotte, invece.» «Cotte?», domandò immediatamente lei. «Cosa vuol dire?» Poi, mentre io restavo zitto per la sorpresa, aggiunse: «Vuoi forse dire che devono essere calde e sanguinanti dell'animale?». «No!», urlai. «No. Per cuocere un cibo lo si riscalda. E di solito si aggiunge del condimento, come il sale, per esempio. È un procedimento abbastanza complesso che richiede una notevole abilità.» «Capisco», disse. «E tu devi consumare simili generi per mantenere il tuo corpo integro?» Le risposi di sì, poi le dissi che mi serviva un apriscatole per il cibo confezionato. Dopo avermi chiesto una descrizione di tale arnese, andò in cucina e tornò quasi subito con l'apriscatole. Anche mio padre era rientrato nella stanza. I due mi osservarono con quegli strani occhi verdi mentre mangiavo. Il mio appetito non ne era certo
stimolato, ma cercai di portare avanti il pasto il più a lungo possibile per rinviare qualsiasi cosa mi riservassero per quando avessi finito. Entrambi mi rivolsero parecchie domande. Domande simili a quella di Stella riguardante la cottura, circa argomenti normalmente noti anche a un bambino. Non si trattava comunque di domande stupide... affatto! Entrambi mostravano di avere un'intelligenza quasi soprannaturale. Ricordavano tutto, e rimasi impressionato dalla loro abilità nel collegare i fatti che fornivo loro, per svilupparne altri. I loro occhi mi fissarono incuriositi quando, incapace di protrarre ulteriormente la finzione di avere ancora fame, estrassi una sigaretta e cercai un fiammifero per accenderla. Quando la fiammella brillò, lanciarono un urlo come se fossero in agonia e si coprirono gli occhi, balzando indietro tremanti. «Distruggi quella cosa!», ringhiò mio padre inferocito. Spensi la minuscola fiamma, sorpreso dai suoi effetti. I due si scoprirono gli occhi, sbattendo le palpebre. Trascorsero parecchi minuti prima che si riavessero completamente dalla loro sbalorditiva paura della luce. «Non fare più luce quando noi siamo vicini», ringhiò mio padre. «Ti lacereremo il corpo se dimentichi!» E scoprì i denti, arricciando le labbra come un lupo e lanciando un altro terribile ululato. Stella corse ad una finestra che guardava a Est, aprì gli scuri e sbirciò nervosamente fuori. Vidi che stava sorgendo l'alba. La ragazza uggiolò in maniera strana, rivolta a mio padre. Anche lui era inquieto, come una preda braccata dai cani, e roteava gli enormi occhi verdi intorno a sé. Si voltò quindi verso di me con fare ansioso. «Vieni», disse. «La macchina che noi con il tuo aiuto ripareremo, è nella cantina sotto la casa. Il giorno arriva. Noi dobbiamo andare.» «Non posso», protestai. «Sono stanco morto: sono stato in piedi tutta la notte, devo assolutamente riposarmi, prima di mettermi a lavorare a una macchina. Ho tanto sonno che non riesco nemmeno a connettere.» Mio padre rivolse un guaito lamentoso a Stella, come se stesse parlando in una strana lingua lupesca. Lei gli rispose nello stesso modo, poi mi disse: «Se il riposo è necessario al funzionamento del tuo corpo, puoi dormire fino a quando la luce non sparirà. Seguimi». Aprì la porta in fondo alla stanza, mi fece attraversare una sala buia, e quindi mi fece entrare in una piccola camera da letto che conteneva un let-
tino, due sedie, una toeletta e un armadio. «Vedi di non andartene», mi avvertì con un ringhio, «o noi ti seguiremo sulla neve!» Quindi la porta si chiuse e rimasi solo. Una chiave cigolò sinistramente nella serratura. La piccola stanza era fredda e buia. Mi infilai in fretta a letto e, per un po', rimasi sveglio ad ascoltare. L'ululato spaventoso del branco, che era continuato per tutta la notte, sembrò farsi più intenso e vicino. Poi cessò con pochi uggiolii acuti, apparentemente proprio fuori dalla mia finestra. Con l'alba, il branco era venuto nella casa! Mentre la luce crescente del giorno filtrava nella cameretta, mi sollevai sul letto per esaminarne di nuovo il contenuto. Era una stanza ordinata, tappezzata di fresco. La toeletta era coperta da un vivace drappo di seta su cui erano disposti ordinatamente degli articoli da toeletta femminili. In un angolo, sotto una tenda, erano appesi alcuni abiti, un berretto di colore brillante, e un maglione. Sulla parete c'era una foto... un mio ritratto! Mi resi conto che la stanza in cui ero stato chiuso a chiave fino al calar della sera doveva appartenere a Stella. Ora capivo anche che nessuna spiegazione terrena, nessuna forma di pazzia, poteva spiegare ciò che avevo visto e sentito. Era un pensiero presente nella mia mente fin dall'inizio, ma avevo tentato di relegarlo in un angolo, in cerca di una spiegazione più semplice. Avevo pensato a Marte... e adesso mi rendevo conto che si riferiva a qualcosa di alieno, qualcosa che non apparteneva a questo mondo. Stella e mio padre erano posseduti da entità aliene, entità intelligenti e malvagie. Le loro personalità umane erano state scacciate, o assoggettate... e le entità usurpatrici ora volevano il mio aiuto... Passai ad esaminare le finestre, nell'eventualità di una fuga. Ce n'erano due, rivolte a oriente. All'esterno, comunque, erano state fissate trasversalmente due assi massicce, talmente vicine da togliermi qualsiasi speranza di riuscire a sgusciarvi in mezzo. Un'ispezione della stanza non rivelò alcun oggetto con cui potessi tentare di rimuoverle. Del resto, avevo troppo sonno ed ero troppo spossato per tentare la fuga. Al pensiero dei quindici chilometri di neve spessa e farinosa che mi separavano da Hebron, abbandonai subito l'idea. Sapevo che, nelle condizioni in cui mi trovavo, non sarei mai riuscito a percorrere una distanza simile nel corso di quella breve giornata invernale. E rabbrividii al pensiero di poter essere raggiunto sulla pianura innevata dal branco.
Mi coricai di nuovo sul letto di Stella, che conservava ancora una leggera fragranza di profumo, e ben presto mi addormentai. Il mio sonno, per quanto profondo, fu agitato. Ma nessun incubo avrebbe potuto essere così sconvolgente come la realtà da cui avevo trovato scampo per qualche ora. 5. Dormii per gran parte della breve giornata invernale. Al mio risveglio il sole stava tramontando. Una luce grigia scendeva sullo sterminato deserto di neve all'esterno delle mie finestre sbarrate, e il pallido disco della luna quasi piena stava sorgendo nel cielo crepuscolare a oriente. Non si scorgeva traccia di alcuna abitazione lungo le miglia di quella candida distesa, e provai un'acuta sensazione di completa solitudine. Non potevo contare su alcun aiuto esterno nell'affrontare la strana e paurosa situazione in cui mi ero inaspettatamente trovato. Se dovevo sfuggire a quei mostri che si celavano nei corpi delle persone a me più care, dovevo fare affidamento esclusivamente sulle mie forze. E sarebbe toccata esclusivamente a me l'impresa di restituire loro le personalità che possedevano un tempo. Ancora una volta esaminai le robuste traverse di legno che ostruivano le finestre. Sembravano inchiodate saldamente alla parete da entrambi i lati e io non trovai alcun attrezzo adatto a tagliarle. Avevo ancora i fiammiferi in tasca, comunque, e pensai che forse avrei potuto bruciarle. Ma non c'era il tempo sufficiente per una simile operazione prima che le tenebre facessero tornare i miei catturatori, e inoltre non gradivo per niente il pensiero di fuggire con il branco che mi inseguiva. E poi avevo di nuovo fame e sete. Scese l'oscurità, mentre giacevo sul letto tra gli effetti personali di un'adorabile ragazza nei cui confronti avevo nutrito sentimenti di tenerezza, e aspettavo che lei arrivasse con la notte, in compagnia dei suoi terribili alleati, per trascinarmi incontro a un orrendo destino che mi era ancora ignoto. La grigia luce diurna svanì impercettibilmente nel pallido chiarore argenteo della luna. All'improvviso, senza alcun segno rivelatore, la chiave girò nella serratura. Stella, o l'entità aliena che dominava il grazioso corpo della ragazza, scivolò nella stanza con una grazia sinistra. «Immediatamente tu verrai», disse con quella voce lupina. «La macchina
aspetta l'aiuto di te nel grande esperimento. Subito vieni. Il tuo debole corpo è riposato?» «D'accordo», dissi. «Certo, ho dormito. Però adesso ho di nuovo fame e sete. Devo assolutamente bere e mangiare qualcosa, prima di mettermi ad armeggiare con una macchina.» Ero deciso a posticipare il più a lungo possibile qualsiasi prova mi fosse riservata. «Il tuo corpo potrai ancora soddisfare», acconsentì la donna. «Ma impiega non troppo tempo!», ringhiò minacciosa. La seguii nella stanza da pranzo. «Prendo acqua», mi disse, e uscì silenziosa dalla porta. La stufa era ancora tiepida. L'aprii, attizzai le braci e aggiunsi altro carbone, ottenendo ben presto una fiamma crepitante. Poi spostai la mia attenzione sul cibo che era avanzato. I resti del salmone e delle albicocche erano gelati sui piatti, e allora li appoggiai sulla stufa a scaldarsi. Poco dopo Stella fu di ritorno con un secchio contenente un blocco di ghiaccio. Evidentemente sorpresa dal fatto che non potessi bere l'acqua in forma solida, mi lasciò deporre il recipiente sulla stufa affinché il ghiaccio si sciogliesse. Mentre attendevo accanto alla stufa, mi rivolse innumerevoli domande, molte delle quali così elementari da risultare ridicole se mi fossi trovato in una situazione meno tragica, altre riguardanti invece le più recenti e astruse teorie scientifiche, di cui la ragazza sembrava possedere una conoscenza superiore alla mia. Mio padre apparve all'improvviso con le braccia cadaveriche piene di libri. Li depose sul tavolo e mi fece un brusco cenno esortandomi a dare un'occhiata. Aveva portato La teoria della relatività di Einstein, Gravitazione ed Elettricità di Weyl, e due dei suoi volumi stampati privatamente. Si trattava di Tensori Spazio-temporali e del volume di ipotesi matematiche intitolato Universi interdipendenti, le cui bizzarre implicazioni avevano creato molta sensazione tra gli studiosi ai quali mio padre aveva inviato delle copie del libro. Cominciò allora ad aprire quei volumi e a bombardarmi di domande a cui spesso non fui in grado di rispondere. Tuttavia, la maggior parte dei suoi interrogativi riguardavano semplicemente la grammatica o il significato delle parole del testo. Sembrava che riuscisse ad afferrare facilmente l'essenziale del discorso, mentre la lingua gli creava delle difficoltà. Le sue domande erano esattamente quelle che avrebbe potuto rivolgere
un essere super-intelligente di Marte, nel caso avesse tentato di leggere dei trattati scientifici senza possedere però una padronanza completa del linguaggio in cui erano scritti. Anche i suoi stessi testi sembravano risultargli poco familiari, come quelli degli altri scienziati. Eppure scorse le pagine a una velocità impressionante, fermandosi solo occasionalmente per chiedere un chiarimento, e parve acquisire una conoscenza completa del testo man mano che procedeva. Quando mi lasciò libero di consumare il mio pasto, il cibo e l'acqua erano ormai caldi. Bevvi, poi mangiai pane, salmone e albicocche, con la massima lentezza che il coraggio mi consentiva. Li invitai a dividere il pasto con me, ma i due rifiutarono seccamente. La serie di domande nel frattempo continuò. Poi, di colpo, concludendo evidentemente che avevo mangiato a sufficienza, si incamminarono verso la porta ordinandomi di seguirli, e io non osai fare altrimenti. Mio padre si fermò all'estremità del tavolo e prese la lampada rossa, unica fonte luminosa della stanza. Attraversammo di nuovo la sala buia e uscimmo da una porta sul retro della fattoria. Mentre percorrevamo un tratto innevato alla luce lunare, io rabbrividii per l'ennesima volta udendo il gemito lontano del branco in cui echeggiava ancora quella nota terribile che ricordava degli organi vocali umani tesi in uno sforzo inaudito. A pochi metri da noi si trovava la porta della cantina. Il seminterrato dell'abitazione era stato evidentemente ampliato in maniera considerevole di recente, dato che il cortile posteriore era pieno di cumuli di terriccio, alcuni dei quali coperti di neve, altri neri e spogli. I due fecero strada lungo i gradini che immettevano nella cantina; mio padre portava ancora la lampada che rompeva debolmente l'oscurità con un fievole bagliore cremisi. La cantina era spaziosa e intonacata accuratamente. Non aveva subito lavori di ampliamento, ma accanto alla porta si apriva un passaggio scuro che scendeva verso scavi situati a una profondità maggiore. Al centro del pavimento c'erano i rottami di uno strano macchinario che era stato evidentemente danneggiato di proposito. Lì accanto notai infatti un'accetta, senza dubbio l'oggetto causa della devastazione. Il pavimento era cosparso di schegge di vetro, appartenenti a valvole termoioniche infrante. La macchina stessa era un ammasso di cavi aggrovigliati, di bobine contorte e di magneti piegati, sistemato in maniera incomprensibile all'e-
sterno di un grande anello di rame, del diametro di un metro abbondante. L'anello di rame era montato perpendicolarmente su un telaio metallico, di fronte al quale vi era uno scalino di pietra sistemato in modo da lasciar supporre che servisse per salire e penetrare attraverso l'anello. Vidi però che era praticamente impossibile farlo, poiché sul lato opposto vi era un ammasso di apparecchiature contorte... e un grande specchio parabolico di metallo lucido al centro del quale era avvitato un oggetto che aveva tutta l'aria di un tubo catodico spezzato. Era una macchina davvero sconcertante, che aveva subito una distruzione pressoché totale. Escludendo l'anello di rame e quel gradino di pietra, le altre sue parti erano quasi tutte contorte o infrante. In fondo alla cantina c'era un generatore di piccole dimensioni, un piccolo motore a benzina collegato a una dinamo, del tipo usato a volte nelle case isolate per fornire corrente elettrica. Vidi che quello non era stato danneggiato. Da un banco vicino alla parete, mio padre raccolse una valigetta da cui tolse un rotolo di cianografie e un fascio di fogli infilati in una cartelletta di cartoncino. Sparse tutto quanto sul banco e vi appoggiò vicino la lampada rossa. «Questa macchina, come vedi, è stata danneggiata, con nostra grande sfortuna», mi disse. «Queste carte dicono il metodo di costruzione da seguire nel montaggio di simili macchine. Il tuo aiuto è necessario nel decifrare quello che dicono. E la nuova macchina porterà una grande e forte vita, come noi abbiamo, a tutto il tuo mondo.» «Hai detto tuo mondo!», gridai. «Dunque ammetti di non appartenere a questa terra? Tu sei un mostro, un mostro che ha rubato il corpo di mio padre.» Entrambi ringhiarono come belve, scoprendo i denti e fulminandomi con un terribile sguardo dei loro occhi verdastri. Poi nelle pupille di mio padre affiorò di nuovo una subdola espressione d'astuzia. «No, figlio mio», mi disse con un uggiolio animalesco. «Un nuovo segreto di vita noi abbiamo scoperto. Grande forza esso dà ai nostri corpi. La morte non più temiamo. Ma le nostre menti sono cambiate. Molte cose non ricordiamo. Dobbiamo chiedere il tuo aiuto per leggere questo che un tempo noi abbiamo scritto...» «Sciocchezze!», esclamai. «Non ti credo. E che io sia dannato se vi aiuterò a riparare quel congegno infernale, e a trasformare altri esseri umani in mostri come voi!»
I due balzarono verso di me. I loro occhi brillavano orrendamente sulla pelle pallidissima; le loro dita erano incurvate come artigli e dalle loro bocche ringhianti gocciolava saliva. «Tu aiuterai!», urlò mio padre. «O il tuo corpo noi atrocemente distruggeremo. Lo divoreremo lentamente, mentre tu vivi ancora!» Accecato dal terrore persi l'uso della ragione, e con un grido selvaggio e tremolante mi lanciai verso la porta. Era un gesto disperato, poiché era impossibile sfuggire a esseri dotati della loro forza soprannaturale. Con urla impressionanti si scagliarono dietro di me insieme, gettandomi sul pavimento e addentandomi selvaggiamente alle braccia e al corpo. Per alcuni istanti lottai sorretto dalla disperazione, mi contorsi e scalciai, riparandomi la gola con un braccio e colpendo alla cieca con l'altro. Poi mi immobilizzarono definitivamente, e non mi restò altro che imprecare e lanciare una vana richiesta di aiuto. La donna, bloccandomi le braccia contro i fianchi, mi sollevò con facilità e mi caricò sulle sue spalle. Il suo corpo a contatto del mio era freddo come ghiaccio. Lottai con furia ma inutilmente, mentre lei imboccava il tenebroso pendio del passaggio che conduceva nei recenti scavi sottostanti la cantina della casa. Dietro di noi, mio padre raccolse la lampada rossa e le carte del progetto, seguendoci nel tetro cunicolo. 6. Impotente tra quelle braccia mostruosamente forti, sebbene avessero il gelo e il pallore di un cadavere, venni trasportato lungo una stretta rampa di scalini in un'alta sala sotterranea pervasa da una fioca luce rossastra che non proveniva da alcuna fonte visibile, tanto da sembrare un tetro lucore sanguigno prodotto dall'aria stessa. Le pareti del locale sotterraneo erano lisce e scurissime, di una misteriosa sostanza nera come l'ebano. Venni trasportato per diversi metri lungo quella cavità stranamente illuminata, finché non arrivammo in un locale più ampio, con un alto soffitto a volta e ogive sorretto da una doppia fila di colonne massicce e nerissime. Nelle pareti erano scavate numerose e buie nicchie ad arco. Anche questa sala più ampia era illuminata in maniera tetra da una luce spettrale e scarlatta che non sembrava irradiarsi da nessun punto definito. Era un posto silenzioso e terribile, una specie di cattedrale delle tenebre
consacrata al male e alla morte. Una sinistra atmosfera di orrore indicibile pareva sprigionarsi da quelle pareti buie come la notte, simile ai soffocanti fumi d'incenso offerti a un'informe Divinità dell'Orrore. La fioca luce rossastra avrebbe potuto provenire da ceri invisibili bruciati in riti proibiti di sangue e di morte. Il silenzio stesso era come un'entità malvagia e tangibile che strisciava su di me staccandosi da quei muri d'ebano. Mi fu concesso ben poco tempo per poter riflettere sugli interrogativi suscitati da quel luogo. Cos'era quella materia nerissima delle pareti? Da dove proveniva quel livido, lucore sanguigno? Da quanto tempo era stato costruito quello strano tempio del terrore? E a quale Divinità demoniaca era consacrato? Ma non ebbi l'opportunità di cercare una risposta a quelle domande, anzi, non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dal mio naturale stupore nel trovare un posto simile sotto il terreno di una fattoria del Texas. La ragazza che mi trasportava mi lasciò cadere a terra, accanto a un pilastro che aveva un diametro di mezzo metro abbondante, e lanciò un guaito stridulo come quello di un cane affamato. Si trattava evidentemente di un richiamo, dato che due uomini apparvero nell'ampia navata centrale del tempio, verso la quale io ero voltato. Due uomini... o piuttosto due mostruosità malvagie celate in corpi umani. I loro occhi brillavano di quella verde fiamma aliena, e i loro corpi, sotto gli abiti stracciati, erano spaventosamente bianchi. Uno di loro mi si avvicinò con un pezzo sfilacciato di corda, probabilmente un frammento di laccio che avevano trovato di sopra. Più tardi capii che quei due dovevano essere i meccanici provenienti da Amarillo e che, come mi aveva detto Judson la notte del nostro viaggio fatale, erano stati assunti da mio padre. Non avevo ancora visto il dottor Blake Jetton, il padre di Stella, che era stato l'assistente capo di mio padre in varie indagini scientifiche... indagini che avevano avuto un risultato terrificante! Mentre la donna mi teneva contro la colonna, gli uomini mi afferrarono le braccia, le tesero dietro il pilastro e le legarono. Io scalciai, lottai, li maledissi, ma invano. Il mio corpo sembrava stucco molle di fronte alla loro terrificante forza. Una volta legatemi le mani, mi passarono una seconda corda attorno alle caviglie, stringendola saldamente contro la colonna color ebano. Ero così del tutto impotente in quel misterioso tempio sotterraneo, in balìa di quelle quattro creature che sembravano possedere una superintelli-
genza infernale unita alla forza e alla natura di lupi. «Guarda lo strumento che noi dobbiamo costruire!», esclamò la voce ringhiante di mio padre. Fermo di fronte a me con il rotolo di progetti tra le mani cadaveriche, mi indicò un oggetto che fino a quel momento non avevo scorto in quel macabro baluginio rossastro. Al centro dell'alta navata principale, tra le file gemelle di neri pilastri, c'era una lunga e bassa piattaforma di pietra d'ebano, da cui si ergeva un'intelaiatura metallica simile a quella della macchina distrutta che avevo visto di sopra, nella cantina. Il telaio sosteneva verticalmente un enorme anello di rame, molto più grande dell'anello appartenente all'apparecchio devastato. Il suo diametro era di circa tre metri e mezzo, se non di più; la sua curva superiore si innalzava verso la buia volta del locale, luccicando stranamente nell'atmosfera sanguigna e spettrale. Dietro l'anello era stato sistemato un gigantesco specchio parabolico argenteo di metallo lucido. Ma l'apparecchiatura era evidentemente incompleta. Le complesse valvole termoioniche, le delicate bobine, i magneti e l'intricata cablatura, di cui avevo osservato i resti inservibili nel rottame dell'altra macchina, non erano ancora stati installati. «Guarda!», urlò di nuovo mio padre. «Lo strumento da cui verrà sulla tua terra la grande vita che è nostra. Il progetto su questi fogli abbiamo fatto. Dal progetto abbiamo costruito la macchina piccola, e abbiamo condotto a noi stessi la vita, la forza, l'amore del sangue...» «L'amore del sangue!» Sussultai, lanciando un urlo angosciato, e fui di nuovo quasi sopraffatto dall'orrore che incombeva in quello strano posto. Mi accasciai contro le corde tremando di paura. Negli occhi della cosa che un tempo era stata mio padre comparve ancora quella luce d'astuzia. «No, non temere», mi calmò con un tono lamentoso. «La tua lingua è nuova per me, e io dico quello che non intendo. Non devi avere paura... se farai il nostro volere. Se non lo farai, allora noi assaggeremo il tuo sangue. Ma la nuova vita è giunta solo a pochi. Poi la macchina si è rotta, per colpa di un uomo, e i nostri cervelli sono cambiati; così noi non ricordiamo come leggere i progetti che abbiamo fatto un tempo. Il tuo aiuto vogliamo nel ricostruire una nuova macchina. Per te e per tutta la tua specie di vita!» Mio padre ringhiò in direzione della donna. Lei allora si gettò carponi e si scagliò contro di me come un lupo, con terribili ululati!
Mi prese con i denti i calzoni, sulla metà della coscia destra, e diede uno strappo verso il basso. Poi me li affondò nella carne e cominciò a rosicchiare lentamente... Non mi produsse una ferita profonda, ma il sangue, che appariva nero in quella luce terribile, prese a gocciolare lungo la mia gamba... sangue che di tanto in tanto lei leccava con gusto, smettendo momentaneamente di rosicchiare. Era chiaro che tutto ciò veniva fatto con il preciso scopo di causarmi il massimo del dolore e della paura. Per alcuni minuti, forse, lo sopportai... minuti che sembrarono secoli. Il dolore in sé era atroce, ma non quanto lo era il terrore del luogo e della situazione in cui mi trovavo. Lo strano tempio delle tenebre, dal pavimento nero, le pareti nere, i pilastri neri, il soffitto a volta nero; la fioca luce color sangue, senza fonti apparenti, che lo pervadeva; lo spaventoso silenzio, rotto soltanto dai miei gemiti e dal lieve rumore dei denti che rosicchiavano; il mostro demoniaco che mi stava di fronte nel corpo di mio padre, che mi fissava tenendo in mano gli schemi e i pezzi della macchina, e che aspettava che parlassi. Ma la cosa più orribile era che il demone che mi stava addentando possedeva il corpo della cara, adorabile Stella! La ragazza stava ora affondando i denti con un rumore scricchiolante. Mi dimenai, urlando per il dolore atroce mentre grondavo di sudore. Diedi alcuni strattoni furiosi ai legami che mi bloccavano, cercando di spezzare la corda che imprigionava la mia gamba torturata. Dalla gola di lei si levarono avidi e rabbiosi grugniti. Il suo viso, di un pallore cadaverico, era di nuovo sporco di sangue, come la prima volta che l'avevo visto. Ma lo strazio della mia gamba continuava, interrotto solo occasionalmente quando lei si fermava a leccarsi le labbra con un'orribile espressione di soddisfazione. Alla fine non riuscii più a sopportare quella tortura. Anche se il destino della Terra dipendeva da me, come ero convinto, non potevo più resistere. «Basta! Basta!», gridai. «Parlerò!» Mio padre si avvicinò a me con uno sguardo in cui bruciava una verde fiamma malvagia, e mi srotolò di fronte agli occhi uno dei fogli contenenti i disegni e i dati delle strane valvole che dovevano essere montate all'esterno dell'anello di rame. Dalle sue labbra uscì quel curioso lamento animalesco con cui quei mostri comunicavano tra di loro. Uno dei meccanici mutati gli si avvicinò allora, portando in mano le parti di una valvola: filamenti, placca, griglia, schermatura, elettrodi ausiliari e il tubo di vetro in cui dovevano essere sigillate.
Le parti evidentemente erano state costruite con la massima conformità possibile alle istruzioni scritte, permessa dalla imperfetta conoscenza dell'inglese di quegli esseri. «Ci sono i piani di queste parti», disse mio padre. «Se sbagliate, tu devi dire dove sbagliate. Descrivi come metterle assieme. Parla rapido, o morirai con lentezza!» E ringhiò minaccioso. Sebbene non fossi assolutamente un esperto in fisica, vidi abbastanza facilmente che gran parte di quei pezzi erano inservibili, nonostante fossero stati fabbricati con sorprendente precisione. Sembrava che quelle creature non possedessero alcuna conoscenza dei principi fondamentali che erano alla base del funzionamento della macchina che stavano tentando di costruire... eppure, nel fabbricare quei pezzi, avevano compiuto delle realizzazioni che sarebbero state al di fuori della portata della nostra scienza. Il filamento era costruito in metallo, abbastanza bene... ma era troppo spesso, e la corrente che avrebbe condotto avrebbe fatto saltare la valvola. La griglia era costruita in maniera eccellente... ed era di radio metallico! Valeva una piccola fortuna, ma era del tutto inadatta a una valvola termoionica. La placca era evidentemente di quarzo puro, fuso. Era modellata con una precisione che mi sorprese, ma anch'essa era inservibile. «Parti sbagliate?», latrò eccitato mio padre, avendomi senza dubbio letto qualcosa in faccia. «Indica quanto sono sbagliate! Descrivi come farle corrette!» Io serrai le labbra, deciso a non rivelare nulla. Sapevo che la spaventosa metamorfosi di mio padre e di Stella era avvenuta tramite la macchina ora distrutta, e non volevo collaborare alla trasformazione di altri esseri umani in simili mostri diabolici. Ero certo che quell'apparecchiatura, una volta completata, avrebbe costituito una minaccia per l'intera umanità. Piuttosto riluttante, la ragazza si alzò, leccandosi le labbra scarlatte. Mio padre - io continuo sempre a chiamare il mostro con questo nome, ma quello non era mio padre - mi mise gli schemi sotto gli occhi, mostrando nel palmo della mano le minuscole parti che componevano la valvola. Dovetti usare tutta la forza di volontà di cui disponevo per distogliere la mente dal dolore pulsante della ferita alla gamba. Ma riuscii a spiegare che il filamento avrebbe dovuto essere molto più sottile, che il radio non era adatto per la griglia, e che la placca doveva essere costruita con un metallo conduttore, invece che con del quarzo. Fece fatica a comprendere i termini scientifici da me usati. Il nome tungsteno, per esempio, non significava niente per lui, finché non gli spiegai le
caratteristiche e il numero atomico di tale metallo. Al che lo identificò immediatamente, e parve possedesse al riguardo una conoscenza perfino superiore alla mia. Per lunghe ore risposi alle sue domande e fornii spiegazioni. Alcune volte fui tentato di rifiutare di farlo, ma il ricordo insopportabile dei denti che mi rodevano la gamba finì sempre col costringermi a parlare. La conoscenza scientifica e l'abilità dimostrate nella costruzione delle parti della macchina, una volta capite correttamente le istruzioni, mi sorpresero. Quei mostri, che avevano rubato quei corpi umani, sembravano possedere una loro conoscenza scientifica notevole, specialmente nella chimica e in certi rami della fisica. Però l'elettricità, il magnetismo e le moderne teorie della relatività e dell'equivalenza, sembravano nuove per loro, probabilmente perché quegli esseri provenivano da un mondo i cui fenomeni naturali erano differenti dai nostri. Da una delle cavità che si aprivano nella grande sala, portarono uno strano congegno luccicante che consisteva in una serie di sfere e di bulbi collegati tra loro e costruiti con una specie di cristallo. Un blocco di pietra calcarea, che doveva provenire dagli scavi del tempio sotterraneo, venne posto in una capiente sfera inferiore del macchinario, e si dissolse lentamente formando un denso gas iridescente color viola. Allora, quando mio padre o uno degli altri volevano costruire qualcosa una placca o una griglia metallica, una bobina, un interruttore o qualsiasi altro pezzo occorrente alla macchina - modellavano una piccola copia dell'oggetto desiderato con una sostanza biancastra e molle, simile a cera. Il modello veniva quindi posto in uno dei bulbi di cristallo che veniva riempito con il gas violetto, probabilmente un derivato formato dai protoni e dagli elettroni del calcare scisso. L'operatore del congegno azionava un controllo, e al momento giusto toglieva dal bulbo di cristallo... non il modello, bensì l'oggetto finito, formato del materiale desiderato! Non mi spiegarono il processo, ma sono certo si trattasse di formare nuovi atomi partendo dagli elettroni e dai positroni originali; un processo che era esattamente l'opposto della disintegrazione. Si poteva partire da atomi semplici come quelli dell'idrogeno o dell'elio, e si ottenevano poi carbonio, silicio, o ferro. E poi argento, se si desiderava, oppure oro! E infine radio o uranio, i metalli più pesanti. L'oggetto veniva tolto quando gli atomi avevano raggiunto il numero adatto per la formazione dell'elemento richiesto.
Con quell'apparecchio meraviglioso, i cui risultati superavano i sogni più folli degli alchimisti, la realizzazione dell'enorme macchina al centro della navata procedeva a una velocità impressionante, una velocità che mi terrorizzava. Pensai allora che avrei potuto ritardarne la costruzione escogitando qualche espediente. Spremendomi il cervello, stanco e offuscato dal dolore, cercai un trucco che potesse sviare i miei astuti avversari. L'idea migliore che mi si presentò fu quella di fornire una falsa interpretazione della parola «vuoto». Se fossi riuscito a nasconderne il vero significato a mio padre, lui avrebbe lasciato aria nelle valvole, che sarebbero saltate non appena data corrente. Quando alla fine mi domandò cosa volesse dire quella parola, gli spiegai che indicava uno spazio chiuso. Ma lui aveva consultato opere scientifiche, oltre a sfruttare la mia povera consulenza tecnica. Quando quelle parole uscirono dalle mie labbra, mi balzò addosso con un ringhio terrificante, cercando di ghermirmi la gola. Se non fosse stato per un'affrettata simulazione di ottusità e di paura, la mia parte in quell'orribile avventura avrebbe potuto giungere a una prematura conclusione. Protestai la mia sincerità, adducendo come scusa che la mia mente era sfinita e che non riuscivo più a ricordare argomenti scientifici, che avevo ancora bisogno di mangiare e di dormire. Poi mi accasciai contro le corde, con il capo penzolante, rifiutando di rispondere anche di fronte alla minaccia di ulteriori torture. E, a dire il vero, vi era ben poca finzione nella mia stanchezza, perché non avevo mai passato una giornata così logorante, una giornata in cui gli orrori si erano succeduti così di continuo. Alla fine mi slegarono, e la ragazza, percorrendo il passaggio di prima, mi condusse di nuovo in casa; ero troppo esausto per camminare da solo. Quando uscimmo nel cortile coperto di neve, il lontano lamento del branco mi colpì un'altra volta i timpani. A Est, sulla sconfinata distesa di neve, il pallido disco della luna dai freddi riflessi stava sorgendo. Era di nuovo notte! Ero rimasto nel tempio sotterraneo per più di ventiquattro ore. 7. Ero di nuovo nella piccola stanza che un tempo era stata di Stella, tra i suoi oggetti personali, cogliendo un occasionale sentore del suo profumo. Era una cameretta ordinata e semplice, ed io avevo la sensazione di violare
un luogo sacro. Ma non avevo scelta, del resto, poiché le finestre erano bloccate e la porta era chiusa a chiave. Stella, o meglio dovrei dire la «donna lupo», mi aveva lasciato fermare nell'altra stanza per mangiare e bere qualcosa, e mi aveva perfino concesso di cercare il mobiletto dei medicinali da cui avevo prelevato una bottiglia di disinfettante da applicare alla gamba ferita. Ora, seduto sul letto in un freddo raggio di luce lunare, versai il liquido bruciante e fasciai la gamba con una benda ricavata da un lenzuolo pulito. Poi mi alzai e andai alla finestra: ero deciso a fuggire se la fuga fosse stata possibile, o a farla finita definitivamente in caso contrario. Non avevo alcuna intenzione di tornare vivo in quel tempio infernale. Ma, mentre raggiungevo la finestra, udii debole il lugubre ululato del branco, e cominciai a tremare inorridito, guardando quel bizzarro deserto di neve argentea che luccicava nella foschia opalescente della luna. Poi colsi di sfuggita due occhi verdi che si muovevano, e lanciai un grido. Un enorme lupo grigio stava andando avanti e indietro tranquillamente sotto la finestra, alzando di tanto in tanto il muso e fissando le mie finestre con occhi malvagi. Una sentinella per controllarmi! Alla mia disperazione assoluta si aggiunse allora il peso gravoso della fatica. Mi sentii improvvisamente stremato, fisicamente e mentalmente. Mi accasciai barcollando sul letto e scivolai sotto le coperte senza nemmeno spogliarmi, addormentandomi quasi all'istante. Al risveglio trovai ad accogliermi una giornata fredda e grigia. Un vento gelido sibilava inquietante attorno alla vecchia casa, e il cielo era coperto da tetre nubi bluastre. Balzai dal letto provando un notevole senso di ristoro dopo la lunga dormita. Per un istante, nonostante il giorno cupo, avvertii uno straordinario senso di sollievo; per quell'attimo fuggevole mi sembrò che tutto quanto era accaduto fosse solo un incubo orrendo da cui stavo risvegliandomi. Poi tornarono i ricordi, accompagnati da un dolore sordo alla gamba ferita. Mi chiesi come mai non mi avessero riportato nell'orrido tempio dalla luce rossastra prima dello spuntare del giorno; forse dovevo aver dormito troppo profondamente perché mi svegliassero. Ricordando il lupo grigio, guardai nervosamente dalla finestra. Se n'era andato, ovvio. Sembrava proprio che i mostri non sopportassero la luce del giorno, o qualsiasi altra luce che non fosse il terribile lucore sanguigno del
tempio. Mi gettai una coperta sulle spalle, dato il freddo intenso, e cominciai subito a studiare un sistema per fuggire. Ero deciso a conquistarmi la libertà o a morire nel tentativo. Per prima cosa esaminai ancora le finestre. Le traverse esterne, quantunque di legno, erano solidissime, e anche sforzandomi al massimo, non riuscii a spezzarle. Nella stanza non trovai niente che fosse adatto a tagliarle o a spaccarle senza impiegare ore di duro lavoro. Alla fine mi concentrai sulla porta, ma pugni e calci non sortirono alcun effetto sui solidi pannelli. La serratura aveva un aspetto robusto, e poi non avevo né la capacità, né gli attrezzi per forzarla. Ma mentre ero lì a fissare la serratura, mi venne un'idea. Avevo ancora una piccola automatica e due caricatori pieni. I miei carcerieri avevano mostrato solo disprezzo per quell'arma minuscola, e io non vi facevo più alcun affidamento dopo averne constatato la sorprendente inefficacia nell'uccidere quel lupo grigio. Indietreggiai, presi la pistola e scaricai, senza fretta, tre colpi nella serratura. Quando provai ancora ad aprire la porta, mi accorsi che continuava a non cedere. Allora spinsi e girai la maniglia in continuazione finché, con un secco scatto, la porta si spalancò. Ero libero. Se solo fossi riuscito a raggiungere un luogo al sicuro prima che l'oscurità spingesse allo scoperto quel branco misterioso! Mi fermai nella vecchia sala da pranzo per bere e mangiare affrettatamente, poi uscii dalla porta anteriore perché non osavo avvicinarmi a quell'infernale tana sotterranea nemmeno di giorno, e con una fretta disperata mi incamminai nella neve. Sapevo che il piccolo centro di Hebron distava quindici chilometri in direzione Nord. Sulla spessa coltre nevosa erano visibili ben pochi punti di riferimento, e le nubi grigie nascondevano il sole. Ma io presi ad arrancare lungo un reticolato che sapevo mi avrebbe guidato nella direzione giusta. Lentamente, la casa colonica ingiallita dal tempo, una struttura mal progettata e mal costruita dal tetto di assicelle grigiastre, rimpicciolì sulla candida distesa alle mie spalle. I fabbricati annessi, piccoli, più vecchi e in rovina della casa stessa, parvero raggrupparsi con l'abitazione, fino a formare un'unica macchia bruna sulla smisurata desolazione della prateria innevata. La crosta superficiale, per quanto più ghiacciata e solida della notte maledetta in cui ero arrivato, era ancora troppo fragile per sorreggere il mio
peso. A ogni passo si incrinava sotto i miei piedi, facendomi affondare fino alle caviglie. La mia avanzata era una lotta dolorosa e spietata. Gli orrori e gli sforzi estenuanti degli ultimi giorni mi avevano svuotato di qualsiasi energia. Ben presto mi ritrovai ansimante, con i piedi pesanti come piombo e un dolore sordo alla gamba ferita, un dolore intollerabile. Se la neve fosse stata abbastanza ghiacciata da sostenere il mio peso e permettermi così di correre, avrei potuto arrivare a Hebron prima dell'oscurità. Invece, affondando a ogni passo fino alla caviglia, non riuscivo assolutamente a muovermi con rapidità. Non avevo nemmeno coperto, a mio avviso, la metà della distanza che mi separava da Hebron, quando le tenebre di quella giornata grigia e deprimente sembrarono calare su di me. Mi resi conto, con un fremito d'orrore, che la mia fuga non era iniziata di prima mattina. Avevo l'orologio fermo e, poiché il sole era stato coperto da nubi plumbee, non avevo alcuna nozione del tempo. Sfinito per quell'intero giorno di torture trascorso nel tempio, dovevo aver dormito per più di mezza giornata: la notte mi aveva sorpreso quando ero ancora ben lontano dalla meta. Distrutto dalla fatica, mi ero trovato già diverse volte sul punto di fermarmi e riposare, ma il terrore mi infuse nuove energie e continuai ad arrancare il più rapidamente possibile, evitando però di mettermi a correre, cosa che avrebbe esaurito troppo presto le mie ultime forze. Avevo forse percorso un altro chilometro e mezzo, quando sentii l'agghiacciante ululato del branco. Dapprima lo sentii lontanissimo, basso e lamentoso, con quella sua orrenda nota umana, poi però si fece più forte, e divenne una serie di guaiti striduli e avidi. Capii allora che il branco che aveva assalito me e Judson si era lanciato sulle mie tracce. Il terrore che mi prese, un terrore pazzesco, assoluto e lacerante è inimmaginabile. Urlai e persi ogni controllo. Il mio corpo passava continuamente da ondate di calore a brividi e sudori freddi. Avevo la gola riarsa, e vacillavo mentre il cuore mi batteva cupo in tutto il corpo. Fuggii come un forsennato. Corsi con tutte le mie forze ma, dopo alcuni istanti, sembrò proprio che avessi dato fondo a ogni mia energia. Di colpo mi sentii oppresso dalla fatica e barcollai, quasi incapace di reggermi in piedi. Una foschia rossastra, punteggiata da lampi di candide fiamme, mi danzava di fronte agli occhi. La vasta piana di neve mi roteava attorno in maniera assurda.
Continuai ad avanzare barcollando. Ogni passo mi costava un enorme sforzo di volontà; sentivo che ero sul punto di crollare, ma lottavo disperatamente per trovare la forza di alzare nuovamente il piede. Intanto, gli orribili ululati si facevano più vicini, finché il loro suono non mi martellò nel cervello. Alla fine, incapace di muovere un altro passo, mi voltai a guardare. Per alcuni istanti rimasi lì, barcollando e ansando concitato. Le urla agghiaccianti del branco erano vicinissime, ma non riuscivo a scorgere nulla. Poi, attraverso le nubi, un ampio raggio spettrale di luce lunare illuminò la distesa di neve dietro di me. Allora vidi il branco. Il massimo dell'orrore! Lupi grigi che spiccavano balzi: animali scarni dagli occhi verdastri. E tra di loro, delle strane figure umane! Pupille di smeraldo che fissavano, gelide e spietate. Corpi di pallore cadaverico vestiti solo di stracci. E Stella era alla testa del branco! Mio padre la seguiva, come pure degli altri uomini: tutti avevano gli occhi verdi e la pelle di un bianco immondo. Alcuni erano orrendamente mutilati, e altri così malridotti che avrebbero dovuto essere già morti! Judson, l'uomo che mi aveva condotto fuori da Hebron, era con loro. La carne livida gli pendeva a brandelli dal corpo, aveva perso un occhio, e l'orbita vuota sembrava cauterizzata da una fiamma verde. Il suo torace era lacerato in modo inconcepibile. Quell'uomo era stato anche... completamente sventrato! Eppure il suo corpo mostruoso balzava accanto ai lupi! Altri erano in condizioni altrettanto orribili. Uno era privo di testa. Una foschia scura sembrava concentrarsi sopra il livido moncone del suo collo, e in essa splendevano malvagi due tizzoni verdi. Nel gruppo c'era anche una donna. Le era stato strappato un braccio e il suo petto nudo era dilaniato, ma correva con gli altri componenti del branco, ululando a bocca spalancata e con gli occhi verdastri che brillavano. Poi, in quella compagnia grottesca, scorsi anche un cavallo, un possente animale grigio che avanzava spiccando salti impressionanti. Anche nei suoi occhi scintillava il fuoco malvagio di un'intelligenza maligna che non apparteneva a questa terra. Si trattava di una delle bestie di Judson, anch'essa vittima dell'orrida metamorfosi. Dalla sua bocca, tra un luccichio di denti giallastri, uscivano urla terrificanti. L'orda infernale, ringhiando, si avvicinò sempre di più, guizzando velocissima verso di me da tutte le direzioni. La mia mente non riuscì a sopportare l'orrore di quella situazione. Una pietosa oscurità mi avvolse, mentre, barcollando, cadevo sulla neve.
8. Mi risvegliai nel silenzio assoluto di un sepolcro. Per un po' rimasi ad occhi chiusi, analizzando le sensazioni del mio corpo ghiacciato e dolente, avvertendo il dolore sordo e pulsante della ferita alla gamba. Rabbrividii al ricordo delle esperienze spaventose vissute negli ultimi giorni, soprattutto al ricordo dell'orrore opprimente nell'attimo in cui il branco - lupi, uomini, cavalli, orrendamente mutilati e dai demoniaci occhi verdi - mi aveva raggiunto sulla prateria innevata. Per un po' non osai aprire gli occhi. Alla fine, facendomi forza e preparandomi ad eventuali nuovi orrori che avrebbero potuto attendermi in quel luogo, sollevai le palpebre. Il mio sguardo si affacciò sul macabro lucore cremisi del tempio dai pilastri d'ebano. Mi trovavo accanto a una di quelle pareti nere come la notte, steso su un mucchio di stracci e coperto sommariamente da un panno. Oltre la fila di massicce colonne cilindriche, vidi lo strano macchinario con l'enorme anello di rame che emanava strani bagliori nella fioca luce sanguigna. Lo specchio parabolico sembrava sprigionare un rossore intenso di rubini fusi, e le numerose valvole termoioniche, ora montate sui loro supporti, irradiavano la stessa incandescenza. La macchina sembrava ormai completata; livide figure dagli occhi verdi vi erano affaccendate, muovendosi con rapidità ed efficienza meccanica. Fui subito impressionato dal fatto che si muovessero più come macchine che come esseri umani. Si trattava di mio padre, di Stella e dei due meccanici. Restai immobile, a osservarli di nascosto, per parecchio tempo. Evidentemente mi avevano portato in quella camera sotterranea per togliermi qualsiasi possibilità di tentare una seconda fuga. Cominciai a esaminare l'eventualità di strisciare lungo la parete verso il passaggio che conduceva di sopra, e poi di imboccarlo a tutta velocità. Ma vi erano poche speranze che riuscissi a farlo senza esser visto. E poi non avevo alcun modo di sapere se fosse giorno o notte; sarebbe stata una follia darmi alla fuga nelle tenebre. Sentii che la piccola automatica era ancora sotto il braccio; non si erano minimamente preoccupati di togliermi quell'arma di cui non avevano alcun timore. All'improvviso, prima che avessi osato muovermi, vidi che mio padre mi si stava avvicinando. Alla vista ravvicinata della sua pelle cadaverica e dei suoi malefici occhi verdastri, non riuscii a reprimere un fremito. Mi immobilizzai, cercando di fingere di dormire.
Ma avvertii il glaciale contatto delle sue dita sulla spalla e fui trascinato in piedi in modo brusco. «Altra assistenza ci devi dare», uggiolò la sua voce animalesca. «E non più verrai riportato indietro vivo, se dovessi essere tanto sciocco da fuggire!» E il tono lamentoso della sua voce si concluse con un ringhio sinistro. Mi trascinò verso quell'apparecchio fantastico che scintillava nel macabro chiarore. Al pensiero che mi legassero ancora alla colonna, mi persi completamente d'animo. «Vi aiuterò!», urlai. «Farò quello che vorrete. Ma non legatemi, per l'amor del cielo! Non fatemi azzannare da lei!» La mia voce doveva essersi mutata in un grido isterico. Mi sforzai di assumere un tono più calmo, arrovellandomi il cervello in cerca di un appiglio. «Se mi legate un'altra volta, morirò», implorai vigorosamente. «E poi, se mi lasciate libero, potrò aiutarvi con le mie mani!» «Sarai libero da legami, allora», disse mio padre. «Ma ricorda! Vattene, e noi non ti riporteremo vivo!» Mi condusse accanto alla grande macchina. Uno dei meccanici, ad un uggiolio di comando di mio padre, srotolò di fronte a me uno schema e cominciò a rivolgermi parecchie domande riguardanti l'impianto di cavi per collegare le numerose valvole, le bobine e i magneti disposti intorno all'enorme anello di rame. Pareva che il suo strano cervello non possedesse alcuna idea circa la natura dell'elettricità; così mi toccò spiegargli i principi fondamentali. Tuttavia afferrava ogni nuova nozione con una prontezza stupefacente e sembrava vederne istintivamente le applicazioni pratiche. Apparve così chiaro che la grande macchina era praticamente finita; in un'ora circa, i collegamenti dei cavi vennero completati. «E ora, cosa ancora dev'essere costruito?», domandò mio padre. Mi resi conto che non si era provveduto affatto all'elettricità necessaria per il funzionamento delle valvole e dei magneti. Sembrava proprio che quegli esseri ignorassero la necessità di una fonte energetica. Un'altra possibilità di fermare l'esecuzione del loro piano diabolico, pensai allora. «Non lo so», risposi. «Da quel che posso vedere, la macchina segue tutte le norme costruttive. Non saprei che altro fare.» Mìo padre ringhiò qualcosa a uno dei meccanici, che prese subito il pezzo di corda insanguinata con cui ero stato legato in precedenza. Stella balzò verso di me, arricciando le labbra in un avido ringhio bestiale, con un
luccichio di denti. Un terrore incontrollabile mi scosse, e mi indebolì le ginocchia fino a farmi barcollare. «Aspettate, fermatevi!», urlai. «Ve lo dirò, se non mi legherete!» Si fermarono. «Parla!», latrò mio padre. «Presto, descrivi!» «Alla macchina occorre energia motrice. Elettricità, forse.» «E da dove proviene l'elettricità?» «C'è un generatore, su in cantina presso l'altra macchina. Quello potrebbe adattarsi allo scopo.» Mio padre e il mostro che un tempo era Stella mi spinsero lungo la sala dei pilastri neri facendomi salire poi per il passaggio che conduceva in cantina. Arrivati, indicai loro il generatore, e tentai di spiegare sommariamente come funzionava. I due si chinarono e afferrarono la base metallica dell'apparecchio. Con la loro forza incredibile lo sollevarono e lo trasportarono verso il passaggio per trasferirlo nella sala della macchina, costringendomi però a camminare davanti a loro e frustrando così un'altra mia speranza di tentare una fuga improvvisa verso l'esterno. Proprio mentre stavano sistemando il generatore - il motore a benzina e la dinamo, assieme, dovevano pesare diverse centinaia di chili - sulla piattaforma nera accanto alla gigantesca macchina misteriosa si verificò un'interruzione. Dal passaggio si sentì uno strisciare di piedi, seguito da quel misto di suoni secchi e lamentosi che i mostri usavano apparentemente come sistema di comunicazione. E, nella vaga luce rossastra, tra le alte file di colonne tenebrose, apparve il branco! C'erano enormi lupi dal corpo scarno. Uomini orrendamente dilaniati... Judson, e gli altri che avevo visto. Il cavallo. Tutti i loro occhi erano di quel verde luminoso, accesi di un fuoco spaventoso e maligno. Le labbra degli uomini, i musi dei lupi e perfino quello del cavallo, erano macchiati di scarlatto. Portavano... la preda! Sulle spalle lacerate di Judson penzolava inerte e coperto di sangue il corpo straziato di una donna... sua moglie! Uno dei lupi trasportava sul dorso il corpo maciullato di un uomo, e lo teneva fermo con le fauci, girando il muso di lato. Un altro portava un vitello chiazzato. Altri due lupi stringevano nelle bocche grondanti di sangue i corpi inerti di due coyote. E uno degli uomini reggeva in spalla i resti di un enorme lupo grigio.
Quei corpi esanimi vennero gettati in un cumulo orribile sotto la navata centrale del tempio, accanto alla strana macchina che pareva un altare di morte. Il sangue si sparse sul pavimento nero, coagulandosi in spessi grumi viscidi. «A questi noi portiamo vita», ringhiò mio padre rivolto a me, indicando con il capo lo spaventoso mucchio di corpi dilaniati. Rabbrividendo e sconvolto dall'orrore, caddi per terra coprendomi gli occhi. Ero in preda a una nausea insopportabile. La mia mente, ottenebrata e confusa, stava vacillando, e si rifiutava di prendere in considerazione il significato di quella scena orribile. L'essere demoniaco che si celava sotto le spoglie di mio padre mi sollevò violentemente in piedi, mi trascinò verso il generatore e cominciò ad assediarmi con una serie di domande riguardanti il suo funzionamento e il modo in cui collegarlo allo strano macchinario con l'anello di rame. Mi sforzai di rispondere ai suoi interrogativi cercando, ma invano, di dimenticare in quel modo il mio orrore. Ben presto i collegamenti vennero completati. Sotto la sorveglianza di mio padre, esaminai il motore e vidi che era già fornito di carburante. Poi lui tentò di metterlo in moto, ma non sapeva come far funzionare correttamente il carburatore. Allora, sotto la costante minaccia della corda insanguinata e delle fauci aguzze della donna-lupo, mi misi all'opera attorno al piccolo motore finché, dopo aver tossicchiato alcune volte, quello non si accese con uno scoppio regolare. Mio padre mi fece premere l'interruttore che forniva alla strana macchina la corrente del generatore. Dalle bobine si sollevò un lieve ronzio. Le valvole si accesero di una debole incandescenza. E una cortina d'oscurità sembrò calare improvvisamente attraverso l'anello di rame. Sembrava che un nero assoluto fluisse dallo strano tubo catodico sistemato posteriormente, e che venisse poi riflesso dallo specchio parabolico. Un disco di fitta e assoluta oscurità riempiva così l'anello. Per alcuni istanti fissai la scena sconcertato. Poi, quando i miei occhi cominciarono lentamente ad assuefarsi, scoprii che riuscivo a vedere attraverso il disco... a vedere in un orrendo mondo da incubo. L'anello era diventato un'apertura che si affacciava su un mondo alieno, un mondo d'orrore e di tenebre. Il cielo di quel mondo era di un nero indescrivibile e inconcepibile, era più nero della notte più buia. Non aveva stelle, non aveva corpi celesti, non
mostrava nemmeno un fievolissimo baluginio che ne spezzasse la terribile e opprimente intensità. Oltre l'anello era visibile una vasta distesa della superficie di quell'altro mondo. Basse colline, desolate e consumate dal tempo, che sembravano nere al pari del lugubre cielo. Tra di esse scorreva un largo fiume stagnante, le cui acque pigre e cupe brillavano di una vaga luminosità spettrale, un pallido bagliore che aveva qualcosa di immondo e disgustoso. E sopra quelle basse e antiche colline, tondeggianti come il petto gonfio di un cadavere, cresceva una vegetazione ripugnante. Orride, oscene parodie di piante normali, dalle foglie lunghe e strette, simili a serpi. Sembravano contorcersi animate da una vita spaventosa e contraria alla natura; coprivano le colline in grovigli disgustosi e si spingevano fino nelle fetide acque del fiume. I loro viticci tentacolari, simili a rettili, emettevano una pallida luce spettrale, livida e verdastra. E su una collina, sopra il fiume e la giungla oscena, sorgeva l'equivalente di una città. Un ammasso caotico di marciume rossastro. Una chiazza immonda di cupo inquinamento cremisi. Non si trattava forse di una città... almeno, non nel senso che noi attribuiamo alla parola. Sembrava una specie di nube di tenebre, orribile e sfumata di sangue, che spingeva i suoi repellenti tentacoli striscianti lungo la bassa collina; una chiazza di malvagia nebbia color cremisi. Protuberanze ed escrescenze, folli e repellenti, si innalzavano intorno in una grottesca caricatura di guglie e torri. La città era immobile. Compresi istintivamente che una sordida e abominevole forma di vita senziente regnava all'interno di quella spaventosa contaminazione scarlatta. Mio padre salì sullo scalino di pietra di fronte all'anello di rame, e cominciò a lanciare un ululato misterioso in quel regno oscuro. In risposta, la caotica città d'incubo sembrò agitarsi leggermente. Cose scure, nere masse fetide, sembrarono muoversi strisciando dalle sue disgustose protuberanze per sciamare verso di noi attraverso l'immonda vegetazione brulicante. Le tenebre del male assoluto strisciavano da quel mondo d'incubo per penetrare nel nostro! Per lunghi istanti, un folle terrore mi paralizzò in un'impotenza totale. Poi, di colpo, nacque in me il coraggio che mi portò alla disperata decisione di ribellarmi ai miei mostruosi dominatori, incurante della minaccia della corda insanguinata. Strappai i miei occhi dalla terrificante attrazione che pareva trascinarli
verso la ripugnante città, in quell'orrido mondo di male inconcepibile. Mi accorsi che nessuno mi controllava più. I verdi occhi dei mostri che mi stavano accanto erano fissi con avidità, ammaliati dall'anello di rame attraverso il quale era visibile il mondo alieno. Sembravano non rendersi conto della mia presenza. Se solo fossi riuscito a distruggere la macchina, prima che quell'orrore strisciante penetrasse sulla terra! Avanzai istintivamente, ma mi fermai, accorgendomi che sarebbe stato impossibile danneggiare seriamente la macchina a mani nude, prima che i mostri mi vedessero e attaccassero. Allora pensai alla piccola automatica che avevo ancora in tasca, e che nessuno si era degnato di togliermi. Sebbene i proiettili fossero innocui per i corpi dei mostri, avrebbero invece potuto arrecare seri danni al macchinario. La estrassi rapidamente di tasca e cominciai a sparare con decisione mirando alle valvole. Non appena la prima valvola si frantumò, l'immagine di quel mondo orrendo tremolò e svanì. Dietro l'anello di rame tornò di nuovo visibile l'enorme specchio parabolico. Almeno momentaneamente, le nere forme del male assoluto erano state chiuse fuori dal nostro mondo! Mentre continuavo a sparare, sbriciolando le valvole e le altre parti più complesse e più delicate della macchina, un urlo agghiacciante si levò dal gruppo di mostri umani e animali colti di sorpresa. Le creature mi si scagliarono addosso lanciando spaventosi ululati. 9. Furono le lingue giallastre della fiamma della pistola a salvarmi. Dapprima quel branco di esseri si era gettato nella mia direzione, con grida di atroce sofferenza causata evidentemente dalla vista della luce. Io avevo continuato a far fuoco deciso a danneggiare il più possibile la macchina prima che mi fossero addosso. Ma all'improvviso quelli indietreggiarono con guaiti agghiaccianti, coprendosi gli occhi e scivolando al riparo dietro le massicce colonne nere. Quando la pistola fu scarica, alcuni ripresero ad avanzare verso di me. Ma sembravano ancora scossi, deboli e incerti. Con gesti concitati frugai nelle tasche in cerca dei fiammiferi; prima non mi ero reso conto degli effetti devastanti che aveva la luce su di loro. Ne trovai solo tre. Pareva che non me ne fossero rimasti altri.
I mostri, dopo essersi ripresi dall'effetto dei bagliori della pistola, mi stavano di nuovo balzando addosso nel tetro chiarore rossastro, mentre io tentavo disperatamente di creare altra luce. Il primo fiammifero mi si spezzò tra le dita. Ma il secondo avvampò con una vivida fiamma gialla. Le belve si ritrassero ancora con gemiti, mentre io reggevo alta la fiammella, e si ripararono all'ombra tremolante dei pilastri. La mia mente sconvolta e offuscata fu rischiarata dalla speranza di poter fuggire, e acquistò rapidamente la sua efficienza. Tenendoli a distanza con la luce, avrei potuto raggiungere l'aria aperta. Senza contare, mi resi improvvisamente conto, che doveva essere già giorno, fuori. Sì, era mattino, e il branco era stato spinto a nascondersi nella tana dalla luce del sole nascente! Il più rapidamente possibile, senza spegnere la debole fiamma con la corrente prodotta dai miei movimenti, avanzai lungo la grande sala sotterranea, tenendomi nella navata centrale per paura che i miei nemici mi seguissero strisciando all'ombra delle colonne. Prima che raggiungessi il passaggio che portava in superficie, una folata d'aria colpì il fiammifero spegnendolo. Mi trovavo di nuovo immerso in quella foschia scarlatta in cui, all'estremità posteriore del tempio, guizzavano malvagie pupille verdastre. Un ululato di rabbia tornò a farsi sentire, seguito dal rapido muoversi dei passi dei mostri. Mi restava un solo fiammifero. Mi chinai, lo strofinai con cautela sul pavimento nero e lo sollevai sopra il capo... Nuovi guaiti di dolore. Le belve batterono ancora in ritirata. Trovai l'imboccatura del passaggio, che infilai in tutta fretta, proteggendo la preziosa fiamma con la mano piegata a coppa. Nel salone alle mie spalle si levarono le urla agghiaccianti del branco. Sentii i mostri riversarsi nel passaggio. Quando raggiunsi la vecchia cantina, il fiammifero si era ormai consumato. Mi voltai e lasciai che gli ultimi bagliori rischiarassero il tunnel. Altre urla di sofferenza e di terrore, e i mostri si ritirarono dal passaggio. Improvvisamente, il fiammifero si spense. Nella folle fretta sbattei contro la parete, trovai gli scalini che portavano fuori e mi precipitai disperatamente. Il branco intanto stava risalendo il passaggio con una velocità che non mi era assolutamente consentita.
Alla fine la mia mano si posò sulla porta che chiudeva la scala. Dietro quella porta c'era l'abbagliante luce del giorno. E nel medesimo istante, dita fredde come quelle di un cadavere mi serrarono la caviglia in una morsa stritolante. Con un gesto incontrollato, spinsi una mano verso l'alto. La porta si spalancò, sbattendo rumorosamente. Sopra di me apparve un vivido cielo azzurro, in cui il sole del mattino sfolgorava accecante. La sua calda radiosità mi fece lacrimare gli occhi ormai abituati alla penombra rossastra del tempio. Alle mie spalle si levarono di nuovo atroci gemiti animali. La morsa attorno alla mia caviglia si strinse in modo convulso, poi si allentò. Voltandomi, vidi Stella ai miei piedi, rannicchiata e tremante come in preda a spasimi insopportabili, che lanciava urla bestiali di sofferenza. Sembrava che la luce abbagliante del sole l'avesse stroncata del tutto, indebolendola a tal punto da non permetterle più di ritirarsi come avevano invece fatto gli altri. Improvvisamente mi trovai a vederla come un'adorabile fanciulla che soffriva, e non come un mostro demoniaco. Mi sentii lambire da una tenera ondata di compassione per lei... forse perfino d'amore. Se avessi potuto salvarla, e restituirle la sua vera personalità! Mi precipitai giù dai gradini, l'afferrai per le spalle, e cominciai a portarla verso la luce del giorno. Il suo corpo aveva ancora quel pallore e quel rigore cadaverici, e conservava tuttora un residuo della sua forza sovrumana. La ragazza si dimenò tra le mie braccia, ringhiando e cercando di addentarmi. Per un istante i suoi occhi lanciarono un ultimo guizzo malvagio ma, non appena la luce li colpì, lei li chiuse, urlando e tentando di ripararli con un braccio. La portai su, sotto un sole sfolgorante. Prima pensai di chiudere la porta della cantina e di cercare di bloccarla. Poi mi resi conto che la luce diurna, filtrando lungo la scala, avrebbe tenuto lontani i mostri molto più efficacemente di qualsiasi porta sbarrata. Era ancora mattino presto. Il sole doveva esser sorto da un'ora circa, e brillava nel cielo terso riflettendosi sulla neve in una miriade di accecanti bagliori prismatici. L'aria, comunque, era ancora fredda; non c'era il minimo accenno di disgelo, e non ci sarebbe stato finché la temperatura non avesse subito uno sbalzo considerevole. Mentre stavo lì al sole, sorreggendo Stella, si verificò in lei uno strano
cambiamento. I suoi latrati lamentosi si spensero lentamente. Le sue convulsioni di dolore si affievolirono, come se una marea di vita aliena stesse defluendo, abbandonando il suo corpo. Dopo un ultimo spasmo improvviso le sue membra si afflosciarono. Notai quasi subito che stava mutando colore. L'orrido pallore cadaverico stava lentamente cedendo il posto al normale colorito roseo di una persona sana. Lo strano gelo soprannaturale era sparito; dove il suo corpo era a contatto col mio, sentii una traccia di tepore. Poi il suo petto si sollevò. Respirava. Sentivo il suo cuore pulsare lentamente. I suoi occhi erano ancora chiusi, mentre lei giaceva inerte tra le mie braccia come se stesse dormendo. Liberai una mano e delicatamente le sollevai una palpebra. L'occhio era di un azzurro limpido... di nuovo normale. La sinistra fiamma verdastra era scomparsa. Per qualche ragione che non capivo, la luce diurna aveva purificato la fanciulla, liberando il suo corpo dall'immonda e crudele forma di vita che l'aveva posseduto. «Stella! Svegliati!», gridai. La scossi leggermente, ma lei non si mosse. Sembrava profondamente addormentata. Comprendendo che ben presto lei sarebbe gelata per l'aria glaciale, la portai allora in casa, nella sua stanza, dove ero stato imprigionato io, e la distesi sul letto, coprendola con alcuni panni. Ma la ragazza non accennò a riprendersi. Per un'ora, forse, cercai con ogni mezzo che conoscevo, e che era disponibile, di destarla da quel profondo stato di coma o di sincope in cui versava. Ma lei continuava a non riacquistare conoscenza. Era una situazione davvero sconcertante. Stella, la vera Stella, era stata espropriata del proprio corpo da un immondo essere alieno. Quella malvagia forma di vita era stata distrutta dalla luce, eppure la ragazza non era ancora rientrata in possesso del proprio organismo. Alla fine pensai di provare con un influsso ipnotico... io sono un buon ipnotizzatore e ho studiato a fondo quella tecnica e i fenomeni mentali affini. Un'impresa disperata, forse, dato il profondo stato d'incoscienza di Stella, ma ero costretto a ricorrere anche al minimo appiglio. Esercitando tutta la mia volontà per richiamarla, mettendole la mano sulla morbida fronte o passandola lentamente sul suo bel viso esangue, le ordinai ripetutamente di aprire gli occhi. E all'improvviso, quando ero ormai sul punto di piombare di nuovo nella
disperazione, le sue palpebre si scossero leggermente e si aprirono. Naturalmente poteva essersi trattato di un risveglio naturale, sebbene molto insolito, e non del risultato dei miei sforzi. Ma i suoi occhi azzurri si dischiusero e mi fissarono. Però non aveva ancora riacquistato uno stato di coscienza normale. Le sue pupille spente non rivelavano alcuna espressione di vita, erano annebbiate dal sonno e pareva che si fossero aperte in seguito a una risposta meccanica ai comandi che le avevo impartito. «Parla, Stella. Parla. Parlami!», gridai. Le sue pallide labbra si mossero. «Clovis.» Pronunciò il mio nome con voce debole e incolore, ancora impastata dalla narcosi del sonno. «Stella, cos'è accaduto a te e a mio padre?», le urlai. E questo è ciò che mi raccontò, con voce esile e inespressiva. Ho condensato il racconto, dato che spesso la sua voce stanca si affievolì e si spense, cosicché dovetti incitarla, interrogarla, quasi costringerla a continuare. «Mio padre è venuto qui per aiutare il dottor McLaurin nel suo esperimento», cominciò lei lentamente e con espressione monotona. «Io non ho capito completamente di cosa si trattasse, ma so che cercavano altri mondi esistenti accanto al nostro. Altre dimensioni interdipendenti con la nostra. Il dottor McLaurin stava elaborando questa sua teoria da molti anni, basando il suo lavoro sulle nuove matematiche di Weyl e di Einstein. Il nostro universo non è semplice. Mondi e mondi sono fianco a fianco, come le pagine di un libro... e ogni mondo è ignoto a tutti gli altri... strani mondi che si toccano, girano affiancati, eppure sono divisi da mura difficili da abbattere. Il segreto è nella vibrazione. Perché tutta la materia, la luce, il suono, tutto il nostro universo, non è che vibrazione. Tutte le cose materiali sono formate di particelle vibranti di elettricità... gli elettroni. E ogni mondo, ogni universo, ha il proprio ordine di vibrazione: attraverso ogni mondo vi sono miriadi di altri mondi, sconosciuti e invisibili, che vibrano, ognuno secondo un proprio ordine. Il dottor McLaurin sapeva tramite la matematica che quegli universi dovevano esistere, ed era suo desiderio esplorarli. Venne qui, in cerca di solitudine, perché nessuno curiosasse nei suoi segreti. Aiutato da mio padre e da altri uomini, aveva faticato per anni a costruire la sua macchina. Una macchina che, se avesse funzionato, avrebbe cambiato la velocità di
vibrazione della materia e della luce, e avrebbe modificato la vibrazione della nostra dimensione portandola alla velocità vibrante di altre. Con quella macchina il dottor McLaurin avrebbe potuto vedere miriadi di altri mondi e anche visitarli. La macchina era stata completata. E attraverso il suo grande anello di rame noi abbiamo visto un altro mondo. Un mondo di tenebre con un cielo nerissimo. Sulle sue colline si contorcevano schifose piante verdi dalla mostruosa forma di rettili. Ed era dominato da una vita aliena e malvagia. Il dottor McLaurin era penetrato in quel mondo oscuro, e l'orrore del luogo aveva distrutto la sua mente. Era tornato pazzo, e cambiato in maniera strana. Aveva gli occhi che brillavano di una luce verde, e la sua pelle era bianchissima. E da quel luogo portò con sé delle cose... cose striscianti e appiccicose di un nero disgustoso, che rubavano i corpi di uomini e di animali. Esseri viventi e malvagi che sono i signori di quella dimensione delle tenebre. Uno è strisciato in me, impossessandosi del mio corpo e dominandolo. Ricordo ciò che ne ha fatto solo come un sogno confuso. Per quella cosa io non ero che una macchina. Sogni confusi. Sogni terribili, in cui correvo sulla neve a caccia di lupi, e tornavo con le prede perché quelle cose nere strisciassero in loro facendole rivivere. Sogni in cui torturavo mio padre, che le creature aliene non avevano soggiogato, dapprincipio. Mio padre è stato torturato, azzannato. È stato il mio corpo a farlo, non io. Io ero lontana e vedevo tutto come in un brutto sogno. Le creature nere non conoscevano il nostro mondo. La luce le distrugge perché è una forza estranea alla loro dimensione. E, dato che non avevano alcuna difesa contro la luce, hanno scavato una tana profonda in cui ritirarsi di giorno. Per loro il nostro era un mondo completamente nuovo e non conoscevano niente, né la lingua, né le macchine... Hanno costretto mio padre a insegnare loro a parlare, a leggere i libri, ad azionare la macchina con cui sono venute. Quelle cose stanno progettando di costruire nubi nere che nascondano il sole per sempre, così il nostro mondo sarà buio come il loro. Vogliono impadronirsi dei corpi di tutti gli uomini e di tutti gli animali, e usarli come macchine per quello scopo. Quando mio padre ha saputo quale era il loro piano, non ha più voluto rivelare altro. È così il mio corpo lo ha azzannato... mentre io ero lontana, mentre guardavo ma non potevo evitarlo. Lui ha finto di accettare le loro
richieste, e lo hanno lasciato libero. Con un'ascia, allora, ha distrutto la macchina, in modo che nessun'altra creatura maligna potesse passare in questa dimensione. Poi si è fatto saltare le cervella con una revolverata, così non avrebbero più potuto torturarlo e costringerlo a collaborare. Le creature nere non sapevano da sole come riparare la macchina. Ma in alcune lettere avevano appreso dell'esistenza di Clovis McLaurin, che sapeva qualcosa sulle macchine. Lo hanno mandato a chiamare, per torturarlo come era stato torturato mio padre. La mia mente era di nuovo piena di dolore, perché Clovis mi era caro. Ma il mio corpo ha torturato anche lui perché aiutasse le creature aliene a costruire una nuova macchina. Poi Clovis ha distrutto la macchina. E poi... poi...» La debole voce di Stella si affievolì e i suoi occhi azzurri, ancora annebbiati da un sonno confuso, rimasero fissi nel vuoto. Il suo strano stato di trance era davvero intenso. Non ricordava nemmeno che stava parlando con me! 10. La storia raccontata dalla ragazza era terribile e sorprendente. In parte, quasi incredibile. Eppure, per quanto volessi metterla in dubbio e desiderassi ridimensionare la portata degli orrori che essa prometteva al mondo, sapevo che doveva corrispondere al vero. Eminenti scienziati hanno discusso abbastanza frequentemente circa la possibile esistenza di altri mondi, di altri piani di realtà strettamente affiancati al nostro. Infatti non c'è niente di solido o impenetrabile nella materia del nostro universo. Si pensa che l'elettrone sia solo una vibrazione nell'etere, e, con ogni probabilità, esistono campi di forza vibranti che formano altri elettroni, altri atomi, altri soli e altri pianeti, prospicienti il nostro mondo eppure non in grado di manifestare esplicitamente la loro esistenza. Solo una esigua banda delle vibrazioni dello spettro è visibile ai nostri occhi come luce. Se i nostri occhi fossero sintonizzati su altre bande, superiori all'ultravioletto o inferiori all'infrarosso, quali strani e nuovi mondi potrebbero affacciarsi di prepotenza nel nostro campo visivo? No, non potevo dubitare di questa parte del racconto di Stella. Mio padre aveva compiuto, più di chiunque altro, studi circa l'esistenza di questi mondi a noi invisibili, e aveva pubblicato le sue scoperte, complete di prove matematiche, nel suo sorprendente lavoro intitolato Universi interdipendenti. Se mai fossero stati scoperti questi mondi paralleli, a rigor di lo-
gica mio padre sarebbe stato l'uomo più adatto a effettuare la scoperta. E io non potevo dubitare che fosse riuscito nel suo intento... perché avevo visto di persona quell'orrendo universo da incubo, al di là dell'anello di rame! E avevo visto, in quel mondo alieno e oscuro, la città delle striscianti creature nere. Potevo quindi credere senza dubbio alcuno anche a quella parte della narrazione che riguardava le entità maligne che rubavano i corpi di uomini e di animali. Forniva una soluzione razionale di tutti i fatti che avevo osservato fin dalla notte del mio arrivo a Hebron. All'improvviso pensai che ben presto gli esseri mostruosi avrebbero riparato la macchina, senza il bisogno di alcun aiuto da parte mia. Dopodiché nuove orde di nere creature avrebbero attraversato il varco per impadronirsi del nostro mondo, per rendere schiava l'umanità. Come aveva detto Stella, per servirsi di noi nella trasformazione della terra in un pianeta di tenebre simile al loro repellente luogo d'origine. Dovevo fare qualcosa per contrastarle. Combatterle... combatterle con la luce! La luce era l'unica forza in grado di annientarle, la forza che aveva liberato Stella dalla schiavitù. Ma dovevo trovare fonti luminose più efficaci di una manciata di fiammiferi. Delle lampade si sarebbero adattate allo scopo; un riflettore, forse. Ed ero deciso a portare Stella a Hebron, se lei fosse stata in condizioni di muoversi. Dovevo raggiungere il villaggio per trovare ciò che mi serviva, ma non riuscivo a sopportare l'idea di lasciarla in balia dei mostri una volta calata la notte, di lasciare che s'impadronissero ancora del suo bel corpo per i loro fini immondi. Vidi che su mio ordine la ragazza si muoveva, si alzava e riusciva a camminare, per quanto lenta e rigida, come una sonnambula. Eravamo ancora di prima mattina e io pensai che, aiutandola a camminare, avremmo potuto coprire la distanza che ci separava da Hebron, prima che scendesse l'oscurità. Cercai tra le sue cose e trovai degli indumenti adatti: calze di lana, scarponcini, calzoni pesanti, maglione, guanti e berretto. I suoi tentativi di vestirsi furono lenti e impacciati, come quelli di un bimbo stanco che cercasse di togliersi i vestiti semi-addormentato, e così dovetti aiutarla. Non sembrava che avesse fame, ma quando sostammo nella sala da pranzo, dove gli avanzi del cibo erano ancora sul tavolo, le feci bere del latte. Stella lo fece in modo meccanico. Io, invece, mangiai con voracità, nonostante gli infausti presagi del ricordo del pasto consumato a quel tavolo alla vigilia del mio primo tentativo di fuga.
Poi ci incamminammo nella neve, seguendo il reticolato come la prima volta. Accanto alle mie vecchie impronte si notavano quelle del branco di inseguitori composto da lupi, uomini, e dal cavallo. Adesso comunque si avanzava con maggiore facilità, dato che la neve soffice era stata pressata da tutti quei piedi. Camminavo con un braccio attorno alla vita di Stella, e a volte dovevo quasi sorreggerla di peso. Le parlavo per incoraggiarla, ma lei reagiva con tentativi lenti e meccanici. La sua mente sembrava lontanissima, e i suoi occhi erano velati da strani sogni. Mentre le ore di faticosa avanzata passavano, stringendo il suo corpo tiepido contro il mio, mi accorsi di amare moltissimo quella fanciulla. Il sole raggiunse lo zenit e cominciò a calare lentamente verso Ovest. Mentre la sera si avvicinava, Stella parve stancarsi... o forse si trattava solo di un intensificarsi del suo stato di trance. Comunque reagiva sempre più lentamente ai miei incitamenti e, quando la mia voce cessava di spronarla, lei rimaneva immobile, come persa in strane visioni. La incitai disperatamente a proseguire, comandandole con decisione di tener duro. I miei occhi si posavano ansiosi sul sole ormai al tramonto. Sapevo che ci restava poco tempo per arrivare al villaggio prima di sera; era assolutamente necessario affrettarsi. Alla fine, quando il sole affiorava ancora di poco sopra un bianco orizzonte, avvistammo Hebron. Un gruppetto di macchie scure sulla sconfinata distesa di neve. Dovevamo essere a circa quattro chilometri dalla meta. Sembrava però che Stella continuasse ad affondare sempre più nello strano mare di sonno da cui solo l'influsso ipnotico era riuscito a levarla. Quando ci lasciammo alle spalle un altro chilometro, la ragazza rifiutò di reagire alle mie parole. Respirava lentamente e con regolarità, ma aveva chiuso gli occhi. Io non potevo fare nulla per risvegliarla. Il sole era calato sull'orizzonte innevato e tingeva la prateria occidentale di pallide fiamme porpora. L'oscurità era ormai prossima. Disperato, mi caricai il corpo inerte di Stella sulle spalle e avanzai barcollando sotto quel nuovo fardello. Mancavano non più di tre chilometri a Hebron, e nutrivo una certa speranza di raggiungere il paese con la ragazza prima che fosse buio. Purtroppo la neve era tanto alta da rendere estenuante perfino l'avanzata di una persona non carica, e il mio corpo era già stremato dalle terribili esperienze cui era stato sottoposto ultimamente. Prima di aver coperto barcollando mezzo chilometro, mi resi conto dell'inutilità dei miei sforzi.
Eravamo al crepuscolo. La luna non era ancora sorta, ma la neve splendeva argentea sotto gli ultimi bagliori spettrali del tramonto che inondavano ancora il cielo. Le mie orecchie erano tese per poter udire subito la voce dello spaventoso branco, ma intorno a me si drappeggiava un sudario di silenzio assoluto. Continuai a procedere fiaccamente con la fanciulla. Di colpo notai che il suo corpo, a contatto delle mie mani, stava diventando stranamente freddo. Preso dall'ansia, la deposi allora sulla neve, per esaminarla... tremando per la premonizione dell'orrore imminente. Il corpo di Stella era un pezzo di ghiaccio, e aveva pure assunto un pallore assurdo. Era bianca come quando l'avevo vista correre sulla neve in compagnia del lupo. Ma le sue gambe e le sue braccia, stranamente, non si erano irrigidite; erano ancora inerti, afflosciate. Non era dunque il gelo della morte che stava fluendo in lei; era il gelo di quella vita aliena che, scacciata dalla luce, stava impossessandosi nuovamente della ragazza con l'avvento dell'oscurità! Capii che ben presto non sarebbe più stata una fanciulla umana, bensì un'orrenda donna-lupo. Per alcuni istanti rimasi accovacciato accanto al suo corpo inerte, implorandola di rispondermi e di seguirmi, e urlando quasi come un ossesso. Poi mi resi conto che era inutile, e che mi trovavo in pericolo. Quella forma di vita mostruosa sarebbe rifluita di nuovo in lei. E lei mi avrebbe ricondotto a quella insopportabile prigionia nel tempio sotterraneo, per fare di me uno schiavo dei mostri... o forse un membro della loro malvagia società. Dovevo fuggire, per il bene stesso di Stella. E del mondo intero. Meglio abbandonarla adesso e proseguire da solo, che farmi riportare indietro. Forse avrei avuto un'altra possibilità di salvarla. Inoltre, dovevo rendere la ragazza inoffensiva, in modo che non potesse inseguirmi una volta schiava di quell'orribile forma di vita aliena. Mi sfilai il cappotto e la camicia. Freneticamente strappai la camicia in tante strisce che attorcigliai, formando delle corde improvvisate. Poi accostai le caviglie di Stella e le legai saldamente. La voltai bocconi, le incrociai le braccia inerti dietro la schiena e le bloccai i polsi insieme. Dopo, come ultima precauzione, mi tolsi la cintura e gliela allacciai stretta attorno ai fianchi sopra i polsi incrociati, immobilizzandoli definitivamente. Per finire, allargai il cappotto sulla neve e vi deposi sopra Stella, perché volevo che fosse il più comoda possibile. E ripartii vero Hebron, un grup-
petto di luci bianche che brillava nelle ombre del crepuscolo. Non avevo mosso che pochi passi, quando qualcosa mi fece fermare e guardare indietro spaventato. Il corpo inerte e pallidissimo della ragazza era ancora steso sul cappotto. Poco più in là, intravidi una cosa strana e orripilante muoversi con rapidità tra le ombre grigie della sera. Era qualcosa di incredibile e di orrendo. Si trattava di una massa di tenebra che scivolava sulla neve, una nube strisciante di nerezza immonda, informe e tentacolata. Era priva di arti e di tratti definiti... solo quelle nere appendici simili a serpi, che estrofletteva per muoversi. Ma, all'interno della cosa, brillavano due punti verdi... che sembravano occhi! Verdi pupille malefiche, infiammate di una malvagità demoniaca! Era una creatura viva. Un ammasso vivente di tenebra, diverso da qualsiasi forma di vita superiore, anche se in seguito ho pensato che assomigliasse a un'ameba, una massa fluente di poltiglia protoplasmica, un animale unicellulare. Al pari dell'ameba, quell'essere alieno si muoveva estroflettendo stretti pseudopodi dalla massa centrale. E gli orribili occhi verdi, nei quali pareva concentrarsi la sua vita aliena, forse corrispondevano ai vacuoli o nuclei dei protozoi. Mi resi conto, paralizzato da un senso d'orrore indicibile, che si trattava di un mostro proveniente dal nero mondo d'incubo che stava oltre l'anello di rame. E che veniva a reclamare di nuovo il corpo di Stella, a cui era ancora collegato da qualche vincolo. Sebbene sembrasse solo strisciare o scivolare, il mostro si spostava con una rapidità pazzesca... molto più veloce dei lupi stessi. L'avevo scorto solo da un istante, e già aveva raggiunto il corpo di Stella. Si fermò, rimanendo sospeso su di lei, in una fitta e viscida nube in cui spiccavano quegli spaventosi occhi verdastri. Per un istante il mostro celò il corpo della vittima con le sue appendici striscianti e informi, che si contorcevano come orridi tentacoli. Poi fluì all'interno di Stella. Sembrò penetrarle nelle narici e nella bocca. La nube nera sospesa diminuì progressivamente. Le pupille verdi rimasero invece all'esterno fino all'ultimo, poi parvero affondare negli occhi della ragazza, che di colpo si animò in modo terribile. Stella si dimenò, lottando contro i legami con forza sovrumana, rotolando dal cappotto nella neve in preda a tremende convulsioni. I suoi occhi erano di nuovo aperti... e brillavano, non di vita propria, bensì del terribile
fuoco delle pupille malvagie che li avevano occupati. Dalla gola di lei si levò l'agghiacciante ululato che ormai conoscevo fin troppo bene, un urlo bestiale in cui risuonava una misteriosa eco umana. Un latrato di richiamo per il branco. Quel suono infuse vigore ai miei arti paralizzati. Nei pochi istanti occorsi all'essere alieno per impadronirsi del corpo di Stella, io ero rimasto immobile, inchiodato sul posto dall'orrore della scena. Mi voltai e corsi come un pazzo verso le luci tremolanti di Hebron. Alle mie spalle la donna-lupo continuava a dimenarsi per rompere le corde, ululando per chiamare a raccolta il branco! Quelle luci baluginanti parevano farsi gioco di me. Sembravano vicinissime sulla distesa innevata eppure, mentre correvo, si allontanavano danzando. Sembravano muoversi come lucciole e si fermavano finché non le avevo quasi raggiunte, per poi ritirarsi ancora, scintillando remote sulla neve. Dimenticai la mia estrema stanchezza, dimenticai il dolore pulsante della ferita riaperta, e corsi disperatamente come mai avevo corso prima. Non avevo ancora coperto metà della distanza, quando udii alle mie spalle la voce dell'orda. Uno strano e remoto uggiolio che cresceva d'intensità rapidamente. La donna-lupo aveva lanciato il richiamo, e ora il branco veniva a liberarla. Continuai a fuggire. I miei passi sembravano miseramente lenti. I piedi affondavano nella neve, che sembrava avvinghiarli con malefiche dita demoniache. E le luci, in apparenza così vicine, sembravano fuggire da me in una danza beffarda. Grondavo di sudore e i polmoni mi pulsavano atrocemente. Il cuore sembrava martellarmi alla base del cervello. Avevo la mente sommersa da un mare di dolore. Ma continuavo a correre. Le luci di Hebron divennero fiammelle irreali, ingannevoli fuochi fatui. Tremolavano dinanzi a me in un mondo deserto di grigia oscurità, e io mi affannavo per raggiungerle in una foschia d'atroce sofferenza. Non sentivo nient'altro che i lamenti del branco. Ero talmente esausto da non riuscire a connettere. Ma mi resi conto all'improvviso che i miei inseguitori erano vicinissimi. Forse girai il capo e lanciai un rapido sguardo. Oppure può darsi che io ricordi il branco solo come lo vedevo nella mia immaginazione. Comunque conservo un'immagine molto vivida di scarni lupi grigi che spiccavano balzi ululando, affiancati nella loro corsa da pallide figure umane con le pupille verdastre.
Tuttavia continuai la fuga, combattendo le nere nebbie della spossatezza che mi offuscavano il cervello. Un'inerzia atroce sembrava opporsi ai miei sforzi, come se stessi nuotando contro corrente, e corsi... corsi... non vedendo, non pensando che alle luci di Hebron, luci così vicine, ma che fuggivano sempre dinanzi a me. Poi improvvisamente mi trovai steso sulla neve morbida, con gli occhi chiusi. Quel dolce giaciglio era un'oasi di benessere per il mio corpo stremato. Rimasi là, inerte. Non tentai nemmeno di risollevarmi, non mi rimaneva più una goccia di forza. L'oscurità calò su di me... uno stato d'incoscienza che neppure gli ululati del branco potevano vincere. Quei sinistri latrati sembrarono affievolirsi lentamente, poi tutto scomparve. 11. «Direi che è proprio scoppiato, vero, signore?» Una voce aspra si insinuò nella mia mente distrutta dalla stanchezza. Delle mani robuste stavano sollevandomi in piedi. Aprii gli occhi e mi guardai attorno, confuso. Due uomini vestiti in modo trasandato stavano sorreggendomi. E un terzo, che riconobbi come il Capostazione, teneva in mano una lanterna. Di fronte a me, vicinissime, c'erano le luci di Hebron che prima sembravano sfuggirmi beffarde. Mi accorsi che ero crollato proprio ai bordi del villaggio, talmente vicino alle poche luci stradali che il branco non aveva potuto avvicinarsi a me. «Ah, è lei, McLaurin?», fece Connell sorpreso, riconoscendomi. «Credevamo che avessero preso lei e Judson.» «Infatti», riuscii a rispondere. «Ma non mi hanno ucciso. Io sono riuscito a fuggire.» Ero troppo spossato per rispondere alle loro domande. Ricordo solo vagamente che mi portarono in una casa e mi spogliarono; mi addormentai mentre stavano esaminando la ferita alla gamba, tra esclamazioni inorridite alla vista dei segni dei denti. Mi svegliai il giorno dopo, verso mezzogiorno. Accanto al letto sedeva un ragazzino irrequieto di forse dieci anni. Disse di chiamarsi Marvin Potts, figlio di Jed Potts, proprietario di un emporio a Hebron. Suo padre era uno degli uomini che mi avevano trovato quando la loro attenzione era stata attirata dagli ululati del branco. Ora mi trovavo appunto in casa dei Potts. Il ragazzo chiamò sua madre. La donna, sentendo che avevo fame, mi
portò quasi immediatamente del caffè, biscotti, pancetta e patate fritte. Mangiai con discreto appetito, sebbene fossi ancora lontano dall'essermi ripreso completamente dalla mia disperata corsa per sottrarmi all'orda di belve. Mentre stavo mangiando, ancora a letto appoggiato su un gomito, entrò il padrone di casa, accompagnato da Connell, il Capostazione, e da altri due uomini. Erano tutti ansiosi di conoscere la mia storia. La raccontai in breve, tralasciando le parti che, a mio giudizio, sarebbero risultate incredibili a quelle persone. Mi spiegarono che il branco aveva mietuto altre vittime umane. Una fattoria isolata era stata attaccata la notte prima e tre uomini erano scomparsi. Mi dissero anche che la signora Judson, affranta per la perdita del marito, era uscita nella neve a cercarlo e non aveva più fatto ritorno. Dal canto mio, ricordavo benissimo che alla fine lo aveva trovato... Mi rimproverai, amareggiato, di aver spinto quell'uomo ad avventurarsi in quel viaggio notturno con me. Mi informai se non si erano presi provvedimenti per dare la caccia al branco. Mi risposero che lo sceriffo aveva organizzato una squadra di cittadini che si era spinta fuori Hebron diverse volte. Si erano trovate numerose tracce di lupi e di uomini che correvano affiancate, una pista facile da seguire, dunque. Ma, mi parve di capire, i cacciatori non erano stati poi molto smaniosi di raggiungere la preda. La neve era alta e impediva di muoversi rapidamente, e loro non avevano avuto alcuna intenzione di incontrare il branco di notte. Le tracce non erano mai state seguite per più di nove o dieci chilometri fuori da Hebron. Lo sceriffo era rientrato al comando di Contea, diciotto chilometri lungo la ferrovia, promettendo che sarebbe tornato quando la neve si fosse sciolta a sufficienza per permettere spostamenti più agevoli. E i pochi abitanti di Hebron, per quanto profondamente turbati dal destino dei loro vicini che erano stati uccisi dal branco, erano troppo terrorizzati per organizzare una battuta per proprio conto. Quando accennai alla mia intenzione di trovare qualcuno che tornasse con me al ranch, la mia proposta fu accolta in modo evasivo da tutti. L'esempio della morte di Judson era impresso chiaramente nella mente dei presenti, e nessuno voleva rischiare di farsi sorprendere lontano dal paese di notte. Mi resi conto che dovevo agire da solo, senza alcun aiuto. Per gran parte della giornata rimasi a letto, recuperando le forze, perché sapevo che avrei dovuto disporre di tutte le mie energie per affrontare la
dura prova che mi attendeva. Comunque, mi informai sui mezzi che avrei trovato in paese, e preparai il piano per il mio folle tentativo di abbattere la minaccia che incombeva sull'umanità. Con l'aiuto del ragazzo, Marvin, che funse da mio rappresentante, acquistai un calesse, completo di un ronzino e dei finimenti; i miei tentativi di affittare un veicolo o di assumere qualcuno che mi conducesse sul posto si erano rivelati un fallimento clamoroso. Il ragazzino si diede da fare anche per procurarmi altre attrezzature. Gli feci comprare una dozzina di lanterne a benzina, con una scorta abbondante di reticelle e due fustini di combustibile da venticinque litri. Constatando che la scuola di Hebron vantava scarse forniture di attrezzatura da laboratorio, mandai Marvin in cerca di nastri al magnesio e di zolfo. Il ragazzo tornò con un bel mazzetto di sottili strisce metalliche, tagliate in varie lunghezze. Per facilitarne l'accensione, intinsi quindi l'estremità di ogni fascetta dentro dello zolfo fuso. Mi comprò anche due potenti torce elettriche con pile e lampadine di scorta, delle munizioni per la mia automatica, e due dozzine di candelotti di dinamite con capsule e micce. Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora, sentendomi molto meglio. La ferita alla gamba stava rimarginandosi rapidamente e aveva cessato di causarmi forti sofferenze. Mentre sedevo con i Potts a consumare una frugale colazione, li assicurai che quello stesso giorno mi ripromettevo di tornare nella tana del branco, da cui ero fuggito, per farla finita definitivamente con quelle belve. Prima che avessimo fino di mangiare, sentii la chiamata del tipo da cui avevo comprato il calesse, che veniva a consegnarlo e a riscuotere il generoso prezzo che gli avevo garantito tramite la mediazione di Marvin Potts. Il ragazzo uscì con me. Ritirammo il veicolo e facemmo il giro dei pochi negozi di Hebron, raccogliendo le cose che il ragazzo aveva acquistato per me il giorno prima: le lanterne, il combustibile, le torce elettriche e la dinamite. Era ancora prima mattina quando lasciai Marvin alla fine della strada, ricompensandolo con una banconota, e mi spinsi da solo nella neve, verso il ranch isolato dove avevo vissuto orribili esperienze. La giornata, sebbene limpida, era fredda. La neve non accennava a sciogliersi ed era spessa come sempre. Il ronzino avanzava lento, mentre i suoi zoccoli e le ruote del calesse affondavano con un secco scricchiolio nella crosta superficiale ghiacciata.
Quando Hebron svanì alle mie spalle e mi trovai circondato soltanto dallo sterminato deserto di neve luccicante, fui preso da un senso di paura, da un violento desiderio di affrettarmi a raggiungere qualche posto affollato di uomini. Nella mia immaginazione anticipai il terrore della notte, quando il branco sarebbe uscito di nuovo, lanciandosi sulla prateria innevata. Come sarebbe stato facile tornare indietro, prendere il treno per New York e dimenticare quel luogo orribile! No, sapevo che non avrei mai potuto scordare la minaccia di quello spaventoso mondo, nero come la notte, che si apriva oltre l'anello di rame, abitato da una razza che progettava di impadronirsi della Terra per farne una seconda sfera di tenebra immonda. E Stella? Non sarei mai riuscito a dimenticarla. Ora sapevo di amarla, sapevo che dovevo salvarla o morire con lei. Spronai il cavallo ad avanzare nella solitaria distesa. Raggiunsi la fattoria poco dopo mezzogiorno, ma mi restava ancora un buon margine di luce diurna. Mi misi all'opera immediatamente. C'era parecchio da fare: vuotare le scatole ammucchiate sul calesse; riempire le lanterne di combustibile, pompare l'aria all'interno e assicurarmi che funzionassero in modo soddisfacente; innescare i candelotti di dinamite; provare le torce elettriche; caricare la pistola e riempire i caricatori di riserva; sistemarmi nelle tasche in modo razionale i fiammiferi, le munizioni, le pile per le torce, e i nastri di magnesio. Il sole era ancora alto quando ultimai i preparativi. Allora misi il cavallo nella stalla sul retro della casa, chiusi la porta a chiave e la barricai, per assicurarmi che l'animale fosse completamente bloccato, nel caso qualche orrida metamorfosi lo mutasse in un mostro dalle pupille verdi. Poi entrai in casa, portando con me una lanterna accesa: era silenziosa e deserta. Tutti i mostri evidentemente erano là sotto. La porta della cantina era chiusa, e anche la minima fessura era stata ostruita per impedire che filtrasse luce. Accesi tutte le lanterne e le disposi circolarmente attorno all'ingresso della scala. Quindi spalancai la porta. Dal passaggio sottostante si levò un ululato orribile! Sentii il rumore dei piedi che si affrettavano a ritirarsi lungo il tunnel, tra latrati rabbiosi e aspri gemiti selvaggi. Un'ondata fisica di orrore nauseante mi inondò di brividi, al pensiero di avventurarmi in quel tempio sotterraneo dal lucore rossastro dove ero stato testimone e vittima di orrori indicibili. Indietreggiai tremando. Ma, al pen-
siero di mio padre e dell'adorata Stella giù in quel covo e posseduti dai mostri, riacquistai coraggio e mi avviai verso l'imboccatura spalancata che conduceva nel tempio edificato dalle belve aliene. Prima avevo pensato di lasciare le lanterne in cerchio attorno all'imboccatura del passaggio, e di portarne una sola con me. Ora invece mi resi conto che avrebbero impedito con maggiore efficacia la fuga dei mostri se le avessi disseminate lungo il tragitto. Ne raccolsi sei, tre per mano, e cominciai a scendere gli scalini. I loro possenti raggi illuminarono la vecchia cantina con un chiarore graditissimo. Ne deposi una al centro del pavimento dello scantinato; altre tre le sistemai lungo il cunicolo in pendenza che portava negli scavi sotterranei. Avevo intenzione di deporre le altre due lanterne sul pavimento del tempio, e poi di tornare in superficie a prenderne altre. Speravo che la luce liberasse l'intero branco dall'invasore alieno, come si era verificato nel caso di Stella. Avrei approfittato del loro stato di incoscienza per trasportare all'aperto Stella e mio padre, e gli altri uomini in condizione di poter riprendere a vivere normalmente. Poi avrei distrutto la macchina e il tempio con la dinamite. Giunsi in fondo al passaggio, sbucando nella vasta sala nera sorretta dalla doppia fila di colonne. Il chiarore intenso proiettato dalle lanterne, che ronzavano lievemente, disperse l'oscurità venata di quel lucore rosso sangue. Udii un coro agghiacciante di urla animali da cui traspariva una sofferenza atroce e, in fondo alla lunga sala dietro i massicci pilastri, vidi forme dagli occhi verdastri che si acquattavano al riparo, accalcandosi nell'ombra. Deposi le due lanterne per terra ed estrassi dalla tasca una delle potenti torce elettriche. Il suo fascio intenso e penetrante sondò le tenebre al di là delle poderose colonne nere. Forme umane e di lupi, urlanti e spaventate, lanciarono gemiti acuti quando vennero raggiunte dal raggio, e si accasciarono sul nero pavimento. Fiducioso, avanzai per frugare ogni angolo recondito con il brillante fascio luminoso. La mia fiducia si rivelò quasi fatale... Avevo sottovalutato l'astuzia e l'abilità dei miei nemici. Quando mi accorsi del globo nero, il mio piede vi era appoggiato sopra. Era una sfera perfetta di tenebra pura, un globo di circa trenta centimetri che pareva tornito in un cristallo nero come la notte. Ormai non potevo evitarlo e, quando lo toccai, parve esplodere. Si udì
un sordo e minaccioso plop, poi la sfera sprigionò un'oscurità fluttuante, un gas nero che mi avvolse nel suo buio sudario soffocante. Mi voltai come impazzito, precipitandomi indietro verso il passaggio che conduceva alla luce del sole. Ero completamente accecato. Le lanterne sfolgoranti erano assolutamente invisibili, e ne urtai una con i piedi mentre avanzavo freneticamente. Poi inciampai e sbattei contro la fredda parete del tempio. Tastai febbrilmente la superficie... ma in entrambe le direzioni, fin dove riuscivo a spingermi con le braccia, il muro era assolutamente liscio. Dov'era il passaggio? Avanzai barcollando per alcuni metri, tenendo sempre le mani sulla parete. No, il cunicolo doveva trovarsi dalla parte opposta. Mi girai. I latrati mostruosi e trionfanti del branco colpirono le mie orecchie; sentii i loro piedi muoversi e attraversare il tempio. Allora corsi lungo la parete, ma inciampai e caddi sopra una lanterna rovente. Mi balzarono addosso... Lo strano baluginio rossastro del tempio mi circondava di nuovo. Mi trovavo ancora legato ad uno di quei pilastri neri e massicci, impotente e bloccato dalla medesima corda insanguinata. Di fronte a me c'era lo strano macchinario che, cambiando le vibrazioni della materia, apriva una breccia comunicante con altri universi contigui... con la Dimensione Nera. La luce rossastra si rifletteva come una sfumatura di sangue sull'anello di rame e sul grande specchio parabolico. Vidi con un certo sollievo che le valvole erano spente, il generatore silenzioso, e le tenebre scomparse dall'anello. Di fronte, però, era stato eretto uno spaventoso altare, su cui erano deposti i corpi straziati e sanguinanti di uomini e donne, di lupi grigi, di piccoli coyote e di altri animali. Il branco aveva fatto buona caccia nelle due notti in cui ero stato assente! Le cadaveriche e mostruose creature, i corpi orrendamente mutati di mio padre e di Stella e degli altri, mi circondavano. «Il tuo ritorno è una cosa buona», guaì in toni bestiali l'essere che occupava il corpo di mio padre. «Il fabbricatore di elettricità non funziona. Tu che torni lo farai muovere ancora. La strada deve essere di nuovo aperta, perché una nuova vita giunga a questi che attendono.» E indicò il cumulo di cadaveri grondanti di sangue. «Poi la nuova vita anche a te noi condurremo. Troppe volte sei fuggito. Tu diverrai uno di noi. E noi cercheremo un uomo che agisca come noi di-
ciamo. Ma prima deve la via essere aperta di nuovo. Dal nostro mondo la vita verrà. Per prendere i corpi degli uomini come macchine. Per fare un gas di tenebre come quello che hai trovato in questa sala, per nascondere tutta la luce del tuo mondo e renderlo a noi adatto.» La mia mente vacillò inorridita al pensiero dell'inconcepibile e assurda minaccia che si alzava come un orrido spettro a fronteggiare l'umanità, al pensiero che presto anch'io non sarei stato altro che una semplice macchina. Il mio corpo, gelido e pallido come un cadavere, avrebbe svolto compiti innominabili al comando delle creature delle tenebre, e i loro occhi verdastri sarebbero divampati nelle mie orbite! «Presto, spiega il metodo per far funzionare il fabbricatore di elettricità», mi venne ordinato, con un ringhio malvagio e minaccioso, «o noi roderemo la carne dalle tue ossa, e cercheremo un altro che eseguirà il nostro volere!» 12. Acconsentii ad accendere il generatore, sperando che nel frattempo mi si presentasse qualche opportunità di ribaltare nuovamente la situazione. Ero più che certo che non avrei potuto fare niente finché rimanevo legato alla colonna... e la minaccia che avrebbero trovato un altro uomo per sostituirmi come loro insegnante mi fece capire che dovevo piazzare in fretta il colpo giusto. I mostri erano convinti che, per azionare il generatore, avrebbero avuto bisogno di qualcosa di più di un mio semplice aiuto verbale. Uno dei meccanici mi slegò e mi accompagnò verso la macchina, stringendomi un braccio in una dolorosa morsa di dita fredde come ghiaccio. Discretamente, abbassai una mano per tastarmi le tasche. Erano vuote! «Non fare luce!», giunse il ringhio d'avvertimento di mio padre che aveva intravisto il mio gesto. I mostri si erano finalmente resi conto che era opportuno perquisirmi. Guardandomi attorno vidi le cose che mi avevano tolto, accatastate alla base di un pilastro. L'automatica, i caricatori, le torce, le pile, i fiammiferi e le fascette di nastro al magnesio. C'erano anche le due lanterne che avevo portato con me nel tempio, e che erano state evidentemente spente dal gas nero che mi aveva accecato. Due lupi grigi montavano di guardia accanto agli oggetti, fissandomi in maniera sinistra.
Dopo aver armeggiato per qualche istante attorno al motore, scoprii che si era fermato per mancanza di carburante. Dopo che avevo danneggiato la macchina, i mostri avevano continuato a lasciarla in funzione finché non era finita la benzina. Spiegai a mio padre che non avrebbe funzionato senza altra benzina. «Fallo girare e produrre elettricità», disse, ripetendo il ringhio minaccioso, «o roderemo la carne dalle tue ossa e troveremo un altro uomo.» Dapprima provai a insistere che non potevo trovare della benzina senza recarmi in qualche luogo abitato, ma quando mi trascinarono verso la corda insanguinata per sottopormi a nuove torture, confessai che avrei potuto usare il combustibile delle lanterne. Erano sospettosi. Mi frugarono ancora per accertarsi che non avessi addosso altri mezzi per produrre luce. E controllarono attentamente anche le lanterne in cerca di eventuali sistemi di accensione che non richiedessero l'uso di fiammiferi. Alla fine mi portarono le lanterne. Con mio padre che mi stringeva un braccio, versai la benzina nel serbatoio del motore. Sarebbe stato comunque difficilissimo travasarlo senza rovesciarne un po', e in ogni modo mi preoccupai di versarne per terra il più possibile, senza destare sospetti. Riuscii a formare una piccola pozzanghera di benzina sotto lo scappamento, dove una scintilla avrebbe potuto incendiare i vapori. Poi mi fecero accendere il generatore. Le bobine tornarono a ronzare e le valvole termoioniche si illuminarono. Lo strano tubo catodico centrale sembrò produrre una massa oscura che lo specchio parabolico rifletté nell'anello di rame. Per la seconda volta, guardando attraverso l'anello, vidi la Dimensione Nera. Dinanzi a me si stagliava un cielo di oscurità assoluta, con luride acque stagnanti in cui baluginava una luminescenza putrescente e basse colline ammantate da quella vegetazione ripugnante che si contorceva come un ammasso di serpi, sprigionando una fioca luce verdastra. E su una di quelle colline c'era una città. Una macchia caotica di rosso malvagio, una chiazza di tenebra cremisi, di corruzione rossastra. Si allungava sulla collina come un mostro di rossa bruma dagli innumerevoli tentacoli. E dalla città si innalzavano orride appendici, verruche e protuberanze assurde, parodie macabre di torri e minareti. Era immobile. E all'interno della sua fetida oscurità scarlatta si celavano
cose nere e striscianti... innumerevoli orde di cose simili all'abominevole mostruosità che avevo visto fluire nel corpo di Stella. Neri orrori viventi, informi e delle pupille verdastre. I mostri attorno a me ulularono attraverso l'anello in quel mondo nero... lanciando un richiamo! E ben presto, dall'anello fluì un fiume di inconcepibile orrore informe... Indescrivibili mostri di un universo alieno. Esseri ripugnanti che dimoravano nelle tenebre... la razza della Dimensione Nera! Spaventosi occhi verdi nuotavano in masse striscianti d'oscurità maligna. Sciamarono ricoprendo il cumulo di cadaveri che giacevano al suolo. E i morti risorsero a una abominevole e assurda vita! Cadaveri mutilati e corpi lacerati di lupi, balzarono ritti ringhiando e guaendo. E gli occhi di ognuno erano i malvagi occhi di fiamma smeraldina delle cose che erano entrate in loro. Io ero ancora accanto al piccolo motore scoppiettante. Mentre balzavo indietro, alla vista dello spaventoso spettacolo di quei morti che risorgevano a vita sacrilega, i miei occhi si posarono disperatamente sulla pozza di benzina. Non si era ancora incendiata. Accarezzai la fuggevole idea di cercare di impregnarmi la mano di benzina e di metterla di fronte allo scappamento per farne una torcia vivente. Ma era troppo tardi, e le dita gelide e inflessibili di mio padre continuavano a serrarmi dolorosamente un braccio. Poi mio padre lanciò un ululato lamentoso. Un'oscena e informe massa strisciante, dalle orbite scintillanti di aliena fiamma verde, si staccò dal fiume nero che si riversava dall'anello e avanzò verso di me. «Ora tu diverrai uno come noi!», annunciò mio padre. La cosa stava dunque venendo per fluire nel mio corpo, per rendermi suo schiavo, per mutarmi nella sua macchina! Urlai, lottai contro le mani crudeli che mi bloccavano. Folle di terrore, bestemmiai e implorai... promettendo di consegnare ai mostri il mondo intero. Ma la cosa strisciante continuò ad avanzare. Crollai, inzuppato di sudori gelidi, tremante, nauseato per l'orrore. Proprio allora, come avevo sperato e pregato, il motore fece uno scoppio irregolare. Dallo scappamento uscì una vampata di scintille, seguita da una cupa esplosione di vapori. Un improvviso lampo giallo illuminò il tempio... E una colonna di fiamma tremolante si levò dalla pozza di benzina ac-
canto al motore. Le creature nere vennero distrutte dalla luce... e svanirono! Il tempio si trasformò in un pandemonio di acuti ululati di dolore, di corpi confusi che si dibattevano in preda al panico. La morsa attorno al mio braccio cedette, e mio padre crollò al suolo, strisciando verso l'ombra dei pilastri e riparandosi gli occhi. Vidi che i lupi avevano abbandonato la sorveglianza alle cose che mi avevano sequestrato, e mi precipitai in quella direzione. In un istante le mie mani tremanti afferrarono una delle torce elettriche. Con gesti frenetici trovai l'interruttore e lo feci scattare. Con il fascio abbagliante spazzai l'ampia sala e il coro infernale di lamenti animali crebbe d'intensità. Poi accesi la seconda torcia e, arraffando in fretta la pistola, le munizioni, i fiammiferi e il nastro al magnesio, mi ritirai accanto alla pozza di benzina incendiata. Questa volta mi mossi con estrema precauzione, sondando con il raggio luminoso di fronte a me per evitare di inciampare in un'altra bomba d'oscurità. Credo comunque che la mia cautela fosse inutile. Sono sicuro, da quanto ebbi modo di vedere in seguito, che ne era stata preparata una sola. Accostandomi al motore mi resi conto che stava ancora funzionando, tenendo così aperto il varco che immetteva nella Dimensione Nera. Interruppi l'erogazione di carburante e il piccolo motore tossicchiò affannato, spegnendosi. Il muro di tenebre svanì dall'anello di rame interrompendo il collegamento con l'orrido mondo appartenente a un altro universo. Poi appoggiai frettolosamente le torce sul pavimento, mettendole in modo che proiettassero i fasci di luce in direzioni opposte. Presi i fiammiferi, accesi l'estremità di una striscia di nastro al magnesio, a cui avevo aggiunto dello zolfo per facilitarne l'accensione. Il nastro s'incendiò subito formando un bianco bagliore accecante che pareva un sole in miniatura. Lo scagliai attraverso la sala. La sua luce vivida descrisse una parabola, spezzando le ombre dietro i pilastri. Le belve nascoste e impaurite ulularono in preda a nuove atroci sofferenze e caddero sul nero pavimento, tremando e contorcendosi in maniera convulsa. Io continuai ad accendere sottili strisce metalliche e a gettarle in ogni angolo della sala per scacciare l'oscurità grazie alla loro scintillante fiamma candida. I latrati si fecero sempre più deboli, e gli uggiolii lamentosi cessarono. I
lupi e gli uomini giacevano immobili. La loro violenta lotta contro gli spasmi d'agonia era finita. Dopo aver lanciato l'ultima striscia di magnesio, presi l'automatica e sparai nel serbatoio del motorino, appiccando poi il fuoco al rivolo di liquido che fuoriusciva. Mentre una nuova colonna di luce sfavillante divampava verso l'alto, mi affrettai in direzione del passaggio che conduceva in superficie, attento a non calpestare un'altra di quelle sfere che eruttavano tenebra. Trovai le lanterne ancora accese, poiché i mostri evidentemente non erano riusciti a spegnerle. Corsi all'esterno, raccolsi le sei lanterne che avevo lasciato là e che scintillavano ancora nel crepuscolo imminente, e tornai velocissimo nel tempio. I mostri erano ancora inerti e privi di conoscenza. Sistemai le lanterne sul pavimento, disponendole in modo che ogni recesso fosse rischiarato efficacemente. Andai poi a prendere altre due lanterne e un fustino di combustibile, e riempii anche quelle lampade da cui avevo tolto la benzina per versarla nel motorino del generatore. Quindi girai per la sala sotterranea, sempre tenendo due lampade vicine, e distesi i gelidi corpi rannicchiati, rivoltandoli in modo che volgessero la faccia verso la luce. Trovai Stella. Il corpo della ragazza era ancora integro, a parte il pallore impressionante e lo strano gelo. Poi fu la volta di mio padre. C'era anche l'ammasso dilaniato che un tempo era stato il corpo di Judson. E il cadavere decapitato di Blake Jetton, il padre di Stella. Controllai pure molti altri corpi straziati di esseri umani, e le carcasse gelide di lupi, di coyote, del cavallo e di alcuni altri animali. In mezz'ora circa il cambiamento fu completo. L'assurdo gelo della forma di vita aliena aveva abbandonato le vittime. La maggior parte dei corpi si irrigidirono rapidamente in un tardivo rigor mortis. Anche mio padre era senza dubbio deceduto. Il suo corpo rimase freddo e immobile, nonostante lo strano gelo che l'occupava fosse svanito. Ma la squisita figura di Stella tornò a scaldarsi, pervasa di nuovo dal tenue rossore della vita. La ragazza respirava e il cuore le pulsava lentamente. La trasportai nella cantina e la deposi sul pavimento tra due lanterne, per prevenire ogni eventuale ritorno dell'invasore alieno mentre finivo il macabro lavoro che mi attendeva di sotto. Non c'è bisogno che mi addentri in inutili dettagli...
Quando ebbi usato metà della scorta di dinamite, non rimase alcun frammento riconoscibile, né della macchina maledetta, né dei corpi posseduti dalla mostruosa forma di vita. Innescai l'altra dozzina di candelotti accanto ai pilastri e nelle pareti del tunnel... Nessuno metterà mai più piede nella grande sala sotterranea che ho chiamato a volte tempio. Ultimato il lavoro, portai Stella in camera sua e la misi delicatamente a letto. Vegliai con ansia tutta la notte, mantenendo una brillante illuminazione nella stanza, ma non si verificò alcun segno di quanto temevo. Stella dormì profondamente, ma in modo normale, e sembrava ormai completamente libera da eventuali infestazioni residue del mostruoso parassita che un tempo era in lei. Dopo una nottata stressante giunse l'alba, e un chiarore rosato si diffuse sulla neve. La fanciulla si stiracchiò. Due profondi occhi azzurri si aprirono e mi fissarono: erano occhi sorpresi e ansiosi, da cui trapelava un'espressione interrogativa. Occhi non più offuscati come un tempo da strani sogni. «Clovis!», esclamò Stella con la sua vera voce dal tono morbido. «Clovis, cosa fai qui? Dov'è papà? Dov'è il dottor McLaurin?» «Stai bene?», le chiesi ansioso. «Stai bene, Stella?» «Bene?», fece lei, sollevando il suo stupendo viso sorpreso. «Ma certo! Cosa dovrei avere? Il dottor McLaurin tenterà il suo grande esperimento oggi. Sei venuto ad aiutarlo?» Allora capii, e ne fui immensamente felice, che tutti gli orribili ricordi erano stati cancellati dalla sua mente. Stella non ricordava nulla di quanto era accaduto a partire dalla vigilia dell'esperimento, causa di quella catena di cose terrificanti. Guardò improvvisamente dietro di me, verso la mia fotografia appesa alla parete, con un'espressione curiosa, e arrossì leggermente acquistando un aspetto ancora più attraente grazie a quel lieve rossore accentuato. «Non te l'ho data io quella foto», l'accusai. Volevo evitare, per il momento, qualsiasi domanda riguardante suo padre, o il mio, o l'esperimento. «L'ho avuta da tuo padre», confessò lei. Ho scritto questo resoconto in casa del dottor Friedrichs, il famoso psichiatra di New York, mio intimo amico. Mi recai da lui non appena io e Stella raggiungemmo New York, e da allora mi ha tenuto presso di sé sotto costante osservazione. Mi assicura che in poche settimane sarò perfettamente ristabilito. Ma a
volte dubito che riacquisterò del tutto il mio equilibrio normale, poiché gli orrori di quell'invasione da un altro universo sono incisi troppo profondamente in me. Ora non sopporto di restare solo al buio, o perfino alla luce lunare: tremo ogni volta che sento il latrato di un cane, e cerco precipitosamente la presenza di luci brillanti e la compagnia di esseri umani. Ho raccontato al dottor Friedrichs la mia storia, e lui mi crede: mi sono deciso a scriverla in seguito alla sua insistenza. È una verità storica, sostiene il mio amico, il fatto che le leggende, i miti ed il folklore si basino su eventi reali. E non esistono leggende più diffuse di quelle riguardanti la licantropia. È importante osservare come non solo i lupi siano oggetto di tali leggende, bensì gli animali più feroci di ogni paese. In Scandinavia, per esempio, le leggende riguardano gli orsi; nel continente europeo, i lupi; in Sudamerica, i giaguari; in Asia e in Africa, i leopardi e le tigri. È pure importante notare come la credenza nella possessione da parte di spiriti maligni, e la credenza nei Vampiri, siano collegate alla diffusissima credenza dei Lupi Mannari. Il dottor Friedrichs pensa che, in seguito a qualche incidente cosmico, questi mostri della Dimensione Nera abbiano potuto accedere al nostro mondo anche in precedenza; e che quelle leggende, stranamente diffuse ovunque, siano ricordi popolari di orrori che hanno colpito la terra quando quelle abominevoli mostruosità si impossessavano dei corpi degli uomini e di animali feroci, e andavano a caccia nelle tenebre. Si potrebbe aggiungere parecchio d'altro a sostegno di questa teoria, ma io lascerò che la mia esperienza parli da sola. Stella viene spesso a trovarmi, ed è più adorabile di quanto non mi fossi mai reso conto. Il mio amico mi assicura che la mente della fanciulla è assolutamente normale. Sostiene che la sua amnesia è un fatto naturale, dal momento che la sua mente dormiva quando l'entità aliena dominava il suo corpo. E afferma anche come sia impossibile che venga posseduta di nuovo. Io e Stella contiamo di sposarci entro poche settimane, non appena il dottor Friedrichs stabilirà che sono sufficientemente guarito. VENDETTA VOODOO Voodoo Vengeance di Kirk Mashburn Weird Tales, novembre 1934
1. «Mi interesso di ricerche sugli psicopatici, dei suoi effetti sui crimini e cose del genere, ma non di casi privati», informò freddamente i suoi visitatori il dottor Forest Loring. «Non c'è niente in questo caso che possa farmelo considerare come un'eccezione.» Il Capitano Frane arrossì di rabbia sotto l'abbronzatura del suo volto magro ma dai lineamenti ben marcati. Gli occhi scuri della ragazza con il volto pallido che si trovava al suo fianco si riempirono di una rassegnazione sempre più cupa. «Il nostro comune amico, il Procuratore Distrettuale, mi ha consigliato di venire da lei...», cominciò a dire Frane, ma venne interrotto bruscamente. «Credo che me lo abbia già detto prima», ribatté il Dottor Loring. «L'ho aiutato in un paio di casi perché coinvolgevano fattori interessanti per il tipo di ricerca psicologica di cui mi occupo. Nel vostro caso non si ravvisano neanche gli estremi del crimine. Sua moglie sembra soffrire di mania di persecuzione, il che non può davvero giustificare l'interruzione di alcuni esperimenti davvero molto urgenti e importanti che sto portando avanti.» Cercando di controllare la rabbia mentre si girava verso la moglie, Frane disse semplicemente: «Vieni, cara. Andiamo». Mentre si stava alzando, un cupo grugnito risuonò sotto la finestra aperta che si trovava a fianco del dottor Loring. Una testa ispida con un muso sottile e appuntito comparve alla vista; lunghe zanne ricoperte di saliva brillarono in un ghigno saturnino. Con le zampe anteriori poggiate sul davanzale, un essere mostruoso dall'aspetto di un lupo fece capolino dalla finestra con gli occhi rossi infuocati dalla ferocia. Natalie Frane soffocò un grido. «Ecco, ci siamo!», esclamò suo marito, con la voce non del tutto ferma. «Probabilmente, la paura che mia moglie nutre nei confronti del suo fratellastro, è una "mania di persecuzione", ma il suo cane - a meno che quel mostro non sia davvero un lupo! - ci ha seguiti fin qui!» Senza fretta, il Dottor Loring aprì un cassetto della sua scrivania. Ne tirò fuori un oggetto che rassomigliava a una piccola pistola automatica, la puntò in direzione della finestra e una sottile striscia di liquido, dello spessore di un ago, partì in direzione del cane. Con un grugnito, che all'improvviso si mutò in rantoli soffocati, l'orribile
muso scomparve dalla vista; i respiri affannosi diminuirono rapidamente. L'odore di ammoniaca, che si era diffuso nella stanza, svanì quasi all'istante. «Un'arma molto efficace, come ho già potuto constatare in altre occasioni», annunciò con calma il Dottor Loring. «Diceva che il cane appartiene al poco simpatico parente di sua moglie? Chiamerò Tou-Tou per scoprire come ha fatto a penetrare nel giardino.» «Quel selvaggio è in grado di scavalcare muri ben più alti del suo», gli rispose Frane con un sorriso triste. Prese il suo cappello e il bastone proprio mentre la porta si apriva e TouTou, l'emaciato servitore haitiano del dottore, scivolava nella stanza. Porse al suo padrone una piccola scatola avvolta nella iuta, con questa laconica spiegazione: «Hanno suonato alla porta; sono andato a rispondere e ho trovato questo. Fuori, non c'era nessuno». Il Capitano Frane, ex marine con quattro anni di servizio ad Haiti al suo attivo, capì le parole del patois creolo. Appena l'uomo di colore fu uscito, il Capitano si rivolse a guardare con disagio il misterioso pacchetto. «Non posso fare a meno di chiedermi», prese a dire con fare esitante, «se Polynice Poynter non abbia qualcosa a che fare con questa faccenda. Il suo orribile segugio non si stacca mai da lui, ed è chiaro che siamo stati seguiti fin qui. Poynter potrebbe aver mandato quel pacchetto come avvertimento affinché lei non accetti di occuparsi del nostro caso. Se è così, e la cosa sarebbe perfettamente in sintonia con la sua natura teatrale, è probabile che si tratti di qualcosa di spiacevole, e persino di pericoloso.» Il Dottor Loring agitò delicatamente il pacchetto, che apparentemente sembrava essere una scatola di cartone avvolta nella carta, e lo tenne vicino all'orecchio. Con un'espressione vaga dipinta sul volto, decise poi: «Bene, andiamo a vedere di che si tratta! Vuole avvicinarsi, Capitano?». Dopo aver chiesto a Mrs. Frane di accomodarsi di nuovo al suo posto e di aspettare, condusse il marito verso un bagno dove aprì i rubinetti del lavandino. Quando ci fu abbastanza acqua da riempirlo completamente, il dottore vi immerse la scatola, ancora avvolta nella carta così come l'aveva ricevuta. L'oggetto era leggero e galleggiava. 2. Prendendo in prestito il bastone che Frane teneva ancora in mano, il
Dottor Loring immerse il pacchetto nell'acqua. Con grande attenzione spinse il puntale del bastone nella carta che lo ricopriva e poi nella scatola. Quando l'acqua entrò nel foro, si udì un lieve fruscio che proveniva dall'interno della scatola. Con un movimento del polso, il Dottor Loring allargò il buco nella scatola ormai fradicia e tirò via il bastone. «Ora guardi», invitò. Per un attimo non accadde nulla. Poi, sgusciando attraverso il piccolo varco che lui aveva praticato, venne fuori un serpentello nero ricoperto di scaglie; circa settanta centimetri di sinuosa e convulsa lunghezza seguirono la testa del serpente. Il rettile nuotò avanti e indietro con la lingua biforcuta che usciva fuori a intervalli brevissimi e con sorprendente rapidità mentre tentava vanamente di arrampicarsi sulla liscia porcellana del lavandino. «Un Fer-de-lance, se ne ho mai visto uno!», esclamò il Dottor Loring. Frane annuì, pallidissimo sotto la pelle abbronzata. «Poynter potrebbe averlo rubato allo Zoo, o può averlo portato, insieme ad altri, da Haiti: è capacissimo di fare una cosa del genere!», disse il Capitano. «Così questo Poynter è stato ad Haiti?», rifletté il dottore. «Lui è haitiano», lo corresse Frane. Poi anticipò con sufficienza la domanda inespressa del dottor Loring. «Sì, è un meticcio con un ottavo di sangue nero. Si ricordi che ho detto che è il fratellastro di mia moglie.» «Se è stato lui a spedire il serpente, è senza dubbio un vero farabutto!», affermò accalorandosi il dottore. «Quelle cose», disse indicando il lavandino, «sono una specie maledettamente sgradevole e pericolosa.» «Lo so», convenne Frane con calma; «ho visto ciò che sono in grado di fare. Ma d'altra parte», ricordò ironicamente, «a Polynice Poynter piacciono proprio le cose sgradevoli, come quella di creare "manie di persecuzione", per esempio!» «Mi racconti i particolari prima di ritornare da sua moglie, quelli che deve aver tralasciato prima», gli chiese a bruciapelo il Dottor Loring. Quindi storse la bocca e aggiunse: «Credo di aver preso in antipatia il suo Polynice Poynter! Forza, svelto!», lo incalzò dal momento che Frane esitava. «Mi riferisca i fatti veramente importanti: com'è possibile che un meticcio con un ottavo di sangue nero sia il fratello di sua moglie, e i motivi che ha per volerle fare del male.» «È semplice», rispose Frane. «Il padre di mia moglie Natalie era coltivatore di canna da zucchero ad Haiti. La madre di Natalie morì e suo padre si risposò con una donna haitiana che era stata la sua amante per molti anni;
per così tanti anni che tutti a Port au Prince credono che Polynice, che ha circa trent'anni, sia figlio naturale del vecchio Poynter. Ad ogni modo, Poynter lo adottò legalmente dopo aver sposato la madre. Questa situazione risultò insopportabile per Natalie: io la sposai e, subito dopo, rassegnai le dimissioni per lasciare Haiti con lei. Per quanto riguarda il motivo di cui lei parla», continuò in fretta, «a meno che non sia cambiata di recente, la legge di Haiti proibisce inderogabilmente ai bianchi di possedere terre ad Haiti. Così il vecchio Poynter ha investito i suoi guadagni qui negli Stati Uniti con tale accortezza che, alla sua morte, Natalie ha ereditato una notevole fortuna. È semplicissimo: se Natalie muore senza figli, tutto sarà suo. Capisce?» «Il motivo è semplice», ammise il Dottor Loring. «Ma, in effetti, che cosa ha veramente fatto questo Polynice? Lei mi ha detto solo che sia la mente che il fisico di sua moglie, si stanno distruggendo a causa della paura che ha di lui, ma su cosa si basino i timori di sua moglie, di questo lei non mi ha parlato. Mi racconti ciò che finora si è tenuto per sé.» Il Capitano Frane esitò. «Deve capire», disse alla fine, «che Natalie è nata ad Haiti. Cose che sembrerebbero assurde per la maggior parte delle ragazze americane, sono invece molto serie per lei. Haiti è un'isola molto particolare, Dottor Loring, e Natalie crede nei riti voodoo.» «Ah!», annuì il Dottore, «ho capito. È tutto molto chiaro! Questo Polynice ha convinto sua moglie di essere in possesso di oscuri poteri e sfrutta la situazione per influenzarla. Sa in che modo?». Frane fece un gesto vago e imbarazzato. «Le ha fatto credere che lei, la sua anima, o almeno una parte di essa... oh, al diavolo! È infantile, ma finirà per uccidere Natalie se lei non lo fermerà. Lei crede che Polynice abbia messo una parte di lei in un pezzo di mogano, un pezzetto di legno essiccato non più grande di un libro di piccole dimensioni. E ogni giorno le ripete, per telefono o di persona, che lui distruggerà quel pezzetto di legno, e quindi anche lei, molto presto.» «E lei morirà, se lui lo distrugge», confermò prontamente il Dottor Loring. «La forza della suggestione rende la cosa ragionevolmente certa. Ma», disapprovò, «qualsiasi psicologo, anche alle prime armi, avrebbe potuto risolvere il vostro problema... Ad ogni modo lo farò io stesso. Lo ripeto: non mi piace questo Polynice che spedisce serpenti alla gente.» Rifletté un attimo e poi aggiunse: «L'unica difficoltà è rappresentata da quel pezzetto di legno. Fortunata-
mente, averlo non è assolutamente necessario; ma renderebbe tutto più semplice». «È Natalie stessa che lo conserva», gli rispose Frane preso dall'ansia. «Ora si trova nella sua borsa.» Il Dottor Loring strinse le labbra in un fischio silenzioso. «Davvero furbo questo Polynice!», concesse. «Questa è stata una mossa da maestro: lasciarlo tenere a lei. In questo modo, il potere della sua suggestione si rafforza ogniqualvolta lei lo guarda, e tenta costantemente di tenerlo lontano da ogni pericolo. La suggestione è la forza più potente del mondo, Capitano Frane. In questo caso sarà il fuoco con cui combatteremo il Diavolo. Venga! Abbiamo ancora a disposizione quasi tutto il pomeriggio, e lo useremo per disorientare questo Stregone voodoo che è nato nella giungla africana.» 3. Una volta tornati nello studio, Frane informò con calma sua moglie che il Dottor Loring ci aveva ripensato su e aveva deciso di accettare il suo caso. Il dottore la guardò attentamente per la prima volta. Natalie Frane era almeno di una dozzina d'anni più giovane del marito; doveva avere più o meno venticinque anni, giudicò il Dottor Loring. Avrebbe potuto essere bella, se non fosse stato per l'espressione ossessionata del volto e per i suoi occhi tristi. Istintivamente si ricordò del periodo in cui aveva esercitato l'attività di semplice medico generico, e automaticamente disapprovò il suo pallore, che veniva messo ancora più in risalto dai capelli neri tirati indietro in una semplice crocchia all'altezza del collo. Assomigliava a una Madonna pallida e preoccupata; proprio il tipo impressionabile e ipersensibile facile preda di subdole influenze. «Sono venuta perché John ha voluto così, Dottor Loring», disse in tono di difesa. «Dubito che un medico sia in grado di aiutarmi, o anche solo capire ciò che fiacca la mia forza e la mia volontà.» «Mia cara», la rassicurò gentilmente il Dottor Loring, «è vero che sono un medico. Ma sono anche uno psicologo, che vuol dire molto di più. Inoltre sono uno psichiatra, e questo vuol dire ancora di più.» Si chinò verso di lei confidenzialmente: «Al di là di tutto questo, ho vissuto e studiato ad Haiti. Ho vissuto tra gli indigeni come uno di loro, per portare avanti le mie ricerche scientifiche.
Ne so dei riti Voodoo almeno quanto Polynice, più altre cose di cui lui non ha neanche una vaga cognizione. Io posso aiutarla. Me lo permetterà?». Natalie Frane alzò la testa per guardarlo in volto; e ciò che vide portò uno spiraglio di lieve e incredula speranza sul suo viso. Impulsivamente gli prese la mano. «Sì!», bisbigliò. «Oh, sì!» C'era un divanetto nello studio, a causa dell'abitudine del dottore di schiacciare un pisolino nei momenti più strani; e verso quel divanetto condusse la ragazza. «Si stenda», la persuase. «Si metta comoda e si rilassi.» Dopo che si fu sistemata, riprese a parlare: «Do per scontato che quando», contemporaneamente si avvicinò alla borsa che lei ancora teneva stretta tra le mani, «quando il fatto è accaduto, lei era o addormentata o in uno stato di coma apparente. Le stesse condizioni sono necessarie per sortire un effetto contrario...». Continuando a parlare, il Dottore sistemò uno strano congegno sulla sua scrivania, una serie di piccoli specchi racchiusi in una normale cornice. Una funicella inserita in una presa del muro faceva girare gli specchi. Mentre giravano, si confondevano in un disco di luce scintillante e ipnotica. Natalie Frane guardò quella luminosità girevole che attirava ineluttabilmente i suoi occhi e, fissandola, emise un sospiro e si rilassò. La preziosa borsa cadde dalle sue mani afflosciate. «Un utile aiuto meccanico alla pratica dell'ipnosi», spiegò il Dottor Loring, facendo fermare gli specchi girevoli. Dopo aver rimosso il congegno, spinse un pulsante sotto la sua scrivania. «Portami un'accetta, o un coltello pesante: quel machete che usi per potare le siepi sarebbe l'ideale», ordinò poi quando apparve Tou-Tou. «Quando la sveglierò», comunicò a Frane, «le diremo che qualsiasi parte del suo ego potesse essere racchiusa nel pezzetto di mogano è stata obbligata a uscire e le è stata restituita. Una volta che lei abbia accettato ciò, le mostreremo come prova il pezzo di legno spaccato in due. Dopodiché, lei non dovrà fare altro che tenere questo Polynice alla larga da sua moglie. A mano a mano che il tempo passerà, i ricordi che sua moglie ha di Haiti si offuscheranno e scompariranno.» Tou-Tou ritornò con il machete, un arnese con la lama lunga e ben affilata. Frane prese il pezzo di legno dalla borsa di sua moglie, e il Dottor Loring lo mise su una rivista che si trovava sulla scrivania. Il machete si sollevò e, subito dopo, ricadde. Il legno, secco e stagionato, si divise esatta-
mente in due parti. Ma né Frane né il dottor Loring videro cadere i due pezzi. Esattamente nello stesso momento in cui la lama penetrava nel pezzo di legno, Natalie Frane urlò. Lanciò un urlo e poi sembrò che stesse per soffocare: quindi continuò a emettere dei gemiti strozzati come se le sue corde vocali non riuscissero ad articolare dei suoni normali. Si irrigidì in tutte le parti del corpo e, con un movimento inconsulto, tirò su le ginocchia. «Mio Dio!», urlò il Dottor Loring «Questa non è una pagliacciata: è uno sconvolgente, terribile e genuino rito Voodoo!» «Che sta succedendo? Che diavolo ha fatto?» «Non è il momento delle spiegazioni ora!», tagliò corto il dottore mettendosi subito all'opera. «Si tolga da qui...» Uscì precipitosamente dalla stanza e, un attimo dopo, fu di ritorno con una siringa ipodermica tra le mani. «La sua maledetta macchinazione non può riuscirgli: almeno non completamente, mentre lei è sotto ipnosi», mormorò rivolto più a se stesso che a Frane. «Ma lo stato di coma non durerà ancora molto; e, se si sveglia ora... morirà! E allora...» Il Dottor Loring affondò l'ago nel braccio di Natalie e, mentre lo adagiava di nuovo sul lettino, lei si rilassò sotto l'influenza del narcotico. Ma anche ora c'era una strana tensione nel suo corpo immobile. Il dottore si girò verso Frane: «Sa come rintracciare quel demonio?». «Polynice? Sì, per telefono. Ma, per amor di Dio, che cosa...» «Ora non c'è davvero tempo da perdere!», lo interruppe brusco il Dottor Loring. «Telefoni a Polynice: gli dica esattamente ciò che è accaduto. Gli dica che acconsentirà a tutte le sue richieste, se lui verrà qui immediatamente e mi aiuterà a sciogliere quest'incantesimo Voodoo. Gli dica tutto quello che vuole, ma lo faccia venire qui immediatamente. Si muova!» 4. Frane cercò febbrilmente nell'elenco telefonico e lo gettò via con un'imprecazione. Compose il numero «Informazioni», e il Dottor Loring gli sentì chiedere il numero di cui aveva bisogno. Poi Frane posò lentamente il ricevitore con un'espressione avvilita dipinta sul volto. «Il suo numero telefonico è privato. L'operatrice non ha voluto darmelo. E», aggiunse disperato, «io non ho assolutamente idea di dove viva.»
«Se non riusciremo a portarlo qui entro breve tempo...» Ciò che il Dottore voleva dire era perfettamente chiaro. «Cosa?», sbottò l'ex Capitano di Marina. «Sta cercando di dirmi che, ora che ha scatenato la crisi, non è capace di riparare al malfatto? Faccia qualcosa! Lei si è vantato di saperne più di Polynice... non può fare ciò che farebbe lui?» «Polynice non avrebbe potuto salvare sua moglie», rispose paradossalmente il Dottor Loring. «Io invece lo farò. Ma Polynice è un elemento necessario.» «Lei mi parla con degli enigmi», si irritò Frane. «Io ho messo Natalie nelle sue mani, fidandomi ciecamente, ed ora ecco qual è il risultato! Ha spinto le cose a un punto tale che ora non sa più controllarle. E io non so neanche cosa è accaduto a mia moglie, né perché. Se lei lo sa, è arrivato il momento di dirmelo!» «Ho fatto un pasticcio», ammise il Dottor Loring con amarezza. «È stata colpa di quel fer-de-lance. Pensavo che si trattasse di una volgare messa in scena, ma invece è stata una mossa astutissima. Mi ha portato fuori strada, mi ha fatto diventare una marionetta nelle mani di Polynice. Pensavo che stesse facendo leva sulle paure di sua moglie fino a farla cedere ai suoi finti riti Voodoo. Ci sono pochissimi veri adepti, anche tra gli haitiani papalois... ma Polynice è evidentemente uno di quelli.» «Vuol dirmi forse che esiste davvero la Stregoneria?» L'incredulità combatteva in Frane la terribile paura che le parole del dottore fossero vere, mentre con gli occhi sbarrati guardava in direzione del divano. «Stregoneria nel senso in cui la intende lei, no», rispose prontamente il Dottor Loring. «Non c'è nulla che non possa essere spiegato in termini scientifici, anche se alcune volte le spiegazioni non sono molto chiare. Il Voodoo, come Magia Nera, non è nient'altro che autosuggestione indotta. È un fenomeno abbastanza comune tra i selvaggi e le popolazioni semicivilizzate, trovare degli individui dotati di un notevole controllo psichico. Polynice ne è dotato perché ha una parte delle sue radici nella giungla. Ha dominato la mente di sua moglie facendole credere che lui ha costretto una parte di lei - qualcosa che in mancanza di un termine migliore, potremmo definire la sua essenza spirituale - a entrare in quel pezzetto di mogano. In effetti, dal momento che è riuscito a convincerla del fatto, lui è davvero riuscito a farlo! Il fatto sussisteva, ma non la danneggiava in alcun modo finché le cose
rimanevano così. Ma, quando ho violentemente distrutto il pezzo di legno, si è scatenata una reazione psicologica simpatica, come lei ha visto. Nel suo stato di coma, lo shock psicologico è stato parzialmente neutralizzato; ma, se si svegliasse ora, ciò che avverrebbe è paragonabile al tentativo di far partire un motore con la batteria praticamente scarica. Dobbiamo ricaricare le sue batterie psicologiche prima che riprenda conoscenza ed esaurisca le poche forze che le rimangono. Altrimenti...» Il Dottor Loring allargò le braccia in un gesto più eloquente di qualsiasi parola. «E lei ha bisogno di Polynice per salvarla?», gemette Frane. «Perché?» La ragazza sul divano riprese a muoversi e la domanda non ottenne alcuna risposta mentre il dottore le si precipitava accanto. Le dita lunghe e sottili del Dottor Loring le sollevarono il polso poi, senza dire una parola, il medico riempì di nuovo la siringa ipodermica. 5. Dopo aver somministrato il sonnifero, il Dottor Loring si girò ad affrontare Frane. «È la dose massima che posso azzardarmi a darle», annunciò molto lentamente. «Una dose più forte la ucciderebbe. La manterrà in stato di coma per altre tre, quattro ore.» I suoi occhi rimasero fissi in quelli di Frane per un lungo e terribile minuto. Sul volto del Capitano Frane era dipinto un inferno di disperazione quando si girò a guardare il corpo immobile e indifeso di sua moglie. Il dottore spinse il bottone che stava sotto la sua scrivania. «Tou-Tou», chiese all'haitiano, «hai capito cosa è accaduto qui?» Gli occhi di Tou-Tou avevano un'espressione lugubre mentre giravano intorno alla stanza. Annuì senza parlare. «C'è un modo», chiese esitante, quasi spaventato, il Dottor Loring, «un modo... per venirne fuori?» «Uno», rispose Tou-Tou con voce sommessa. I due si scambiarono un'occhiata significativa; sembrava che si fossero capiti all'istante. Il Dottor Loring annuì lentamente mentre Tou-Tou usciva dalla stanza. «Un solo modo», mormorò tra sé, pallido in volto. «Un solo modo... e non si riesce a trovare Polynice.» Frane sollevò il capo dalle mani. Nei suoi occhi si leggeva una rabbia omicida.
«Polynice...», bisbigliò cupamente. «Se Natalie morirà, la legge non potrà toccarlo, ma Dio lo guardi!» Poi rimasero seduti in attesa, senza parlare. La punta della lingua di Frane passava lentamente sulle sue labbra secche... Squillò il telefono. Il Dottor Loring portò il ricevitore all'orecchio con una mossa fulminea; poi fece segno a Frane. «Vogliono lei», disse. Guardandolo, il Dottore vide che gli occhi vuoti di Frane si erano illuminati per l'eccitazione. «È Polynice!», urlò Frane, stendendo una mano tremante verso il ricevitore. «Cosa devo dirgli?» «Gli dica... no lasci fare a me!», scattò il Dottor Loring. Afferrò la cornetta del telefono e parlò con voce secca e decisa. «Pronto!... Parla il Dottor Loring. Mrs. Frane è qui e si trova in condizioni molto critiche per la distruzione di un certo pezzetto di mogano: lei mi capisce, naturalmente. Ho assoluto bisogno della sua assistenza per riportarla in condizioni normali, per guarirla dal potere mesmerico con cui lei la tiene in pugno. Per avere il suo aiuto, Mr. Frane è disposto ad accettare tutte le sue condizioni. Le do la mia parola d'onore che non ci sarà in futuro nessuna rappresaglia da parte sua o della Polizia... Oh, sì! Credo che la mia testimonianza renderebbe piuttosto realistica un'azione criminale!» Le labbra del dottore si tesero in un risolino sardonico, e a bella posta aggiunse: «Lo stesso Capitano Frane è in condizioni pietose. Farà meglio a venire immediatamente». Dopo che il ricevitore fu rimesso al suo posto, si girò verso Frane con un'espressione trionfante. «Quell'ultima frase sul fatto che lei fosse ridotto a pezzi, ha fatto colpo su di lui. Non ha saputo resistere a venire qui a gongolare. Tra l'altro si sente molto sicuro di sé.» «Lei gli ha promesso l'immunità più completa!», controbatté amaramente Frane. «Non è vero!», lo contraddisse il Dottor Loring. «Gli ho detto che lei era pronto ad accettare qualsiasi condizione per salvare sua moglie... il che è vero; e che non ci sarebbe stata alcuna azione criminale...» Fece una pausa e con le dita armeggiò sotto il bordo della sua scrivania. «Non ce ne sarà alcun bisogno!», aggiunse con calma, sottintendendo
qualcosa che Frane non riuscì ad afferrare. 6. Il Dottor Loring schiuse le labbra per parlare mentre Tou-Tou scivolava nella stanza, poi esitò. Dopo aver lanciato a Frane uno sguardo indeciso, cambiò la sua prima decisione e fece segno all'haitiano di andar via. «Devo fare i preparativi per quando arriverà il nostro ospite», spiegò all'improvviso. La porta si chiuse dietro di lui. Frane camminava avanti e indietro per lo studio e i suoi occhi spiritati continuavano a soffermarsi sul volto pallido ed esangue del corpo che giaceva immobile sul piccolo divano. Appena il Dottor Loring rientrò nella stanza, Frane sollevò lo sguardo. «Ha l'aria di chi ha sistemato tutto», osservò lentamente Frane, «e aspetta solo che accada qualcosa.» «Certo», annuì cupo il Dottore, «sono pronto a combattere il Diavolo con le sue stesse armi!» Qualsiasi domanda Frane fosse stato pronto a fare, fu rimandata dal debole suono del campanello dall'altra parte della casa. «Ci siamo», esclamò piano il Dottor Loring, con gli occhi che gli brillavano, «quel demonio sta arrivando!» Attraverso la porta socchiusa, Tou-Tou parlò in fretta nel suo francese patois: «È lui! Senza il cane non entrerà». Il dottor Loring fece schioccare le dita con un'esclamazione. «Il cane, Tou-Tou! Sei d'accordo anche tu che il cane può benissimo sostituire una capra?» Gli occhi dell'haitiano mandavano lampi mentre usciva dalla stanza. Tornò introducendo un uomo a fianco del quale camminava un cane macilento del tutto simile a un lupo, con le zampe rigide per la paura. Era lo stesso animale che aveva ringhiato fuori dalla finestra del dottore. L'uomo che non ebbe bisogno di nessuna presentazione essendo il tanto desiderato Polynice, era di statura media, ma robusto. La sua carnagione, leggermente itterica piuttosto che scura, non tradiva la sua origine ibrida, né tantomeno i capelli che erano lisci e neri. Il suo tratto più caratteristico erano gli occhi diabolici e ipnotici: scuri e lucidi come l'ambra nera. «Ah!», mormorò, con un leggero accento inglese e un piccolo inchino. «Il Dottor Loring, presumo, e l'esimio Capitano Frane!» Poi con soddisfat-
ta malizia, aggiunse: «E la mia povera sorellastra!». I muscoli erano ben in evidenza sulle mascelle serrate di Frane, ma il Dottor Loring si rivolse all'haitiano con voce incalzante: «Entri, prego. Non abbiamo tempo da perdere». Dopo avergli stretto a malincuore la mano, il meticcio avanzò nella stanza. «Contrariamente a quanto crede il Capitano Frane, io non ho nulla contro sua moglie o, sì... contro i suoi possedimenti. Certo non sono io il colpevole del suo deplorevole disordine mentale, e non sono un uomo di scienza. Anche se sono molto desideroso di rendermi utile, non c'è nulla che io posso fare per aiutarla, Dottor Loring.» «Così lei pensa di rimanere qui a godersi la scena di Mrs. Frane che muore quando uscirà dal suo stato comatoso?» La voce del dottor Loring era falsamente gentile. «Bene, allora si è completamente sbagliato. Lo shock che ha subito è troppo grande perché lei possa porvi rimedio, anche se volesse.» «E allora perché mi ha fatto venire qui?», mormorò Polynice. «Perché io ora sono in grado di aiutarla! Ma per lei sarà molto dura!» Con un gesto improvviso, il dottor Loring chiamò in causa Tou-Tou che piombò come un'ombra impaziente. Il macilento uomo di colore fece un balzo in avanti e il cappio di una corda andò ad avvolgere le spalle del meticcio imprigionandogli le braccia. Ma non avevano considerato la reazione di quella specie di lupo feroce che si precipitò in difesa del suo padrone non appena quello lanciò un urlo di rabbia. Con balzi furiosi si avventò contro Tou-Tou che, per difendersi dalle sue zanne affilate, lasciò cadere la corda. Polynice in un attimo si liberò del cappio e tirò fuori una pistola dalla tasca superiore della giacca. Con un salto si diresse verso la finestra aperta, ma subito Frane gli si parò davanti. Con la mano tesa colpì Polynice al polso, e dalla pistola partì un proiettile; la pistola rotolò quindi sul pavimento. Il pugno dell'ex marine andò a segno spingendo Polynice contro la scrivania, sulla quale era sistemato un pesante machete. Dita scarne e olivastre si protesero verso l'arma; la lama assassina sibilò quindi in direzione di Frane che riuscì a stento a farsi da parte. Mentre Polynice tentava di nuovo di guadagnare la finestra, dalla quale avrebbe avuto via libera, il Dottor Loring lanciò la propria figura sottile al suo inseguimento. Qualcosa brillò nel pugno del dottore e si conficcò nella spalla sinistra dell'haitiano.
Lanciando un urlo di dolore e di rabbia insieme, Polynice fece roteare il machete che descrisse una curva assurda. Il Dottor Loring riuscì a malapena a evitare il colpo. Prima che riuscisse a voltarsi verso il dottore, o a lanciarsi su Frane, che stava correndo di nuovo verso di lui, Polynice inciampò e lasciò cadere il machete sul pavimento. «Non lo colpisca!», gridò il Dottor Loring. Ma Frane si era già bloccato e fissava il volto di Polynice contratto dal dolore. «Dannazione a te!», sibilò l'itterico haitiano. Sarebbe crollato sul pavimento, se non fosse stato per il Dottor Loring che lo afferrò e lo sostenne. Con l'aiuto di Frane, mise Polynice su una sedia. «Decisamente forte il sedativo di quella siringa!», boccheggiò il dottore. «Ma non durerà ancora per molto. Leghiamolo.» Erano stati troppo impegnati per seguire la battaglia di Tou-Tou con il cane. Ora, quando Frane si girò per raccogliere la corda, l'uomo di colore stringeva con una mano il cane alla gola e sembrava tenere la situazione sotto controllo. Il vestito di Tou-Tou era ridotto a brandelli e la mano che aveva libera sanguinava; ma il cane sembrava stordito, domato. Aveva gli occhi incredibilmente vitrei. «Torci il collo di quella bestiaccia!», grugnì Frane mentre, con la corda tra le mani, attraversava con ansia la stanza verso la povera ragazza che era rimasta immobile sul divanetto. «No», lo contraddisse il dottore; «ci sarà ancora utile. Portalo in giardino, Tou-Tou.» Mentre il Dottor Loring si chinava su Natalie, Frane legava Polynice alla sedia. Soddisfatto che le condizioni della ragazza non fossero peggiorate, il dottore rivolse la sua attenzione al prigioniero. 7. Polynice dava già segni di riprendere conoscenza. Il dottore aiutò il processo mettendogli sotto il naso una bottiglia di sali. Il metìccio spostò di lato la testa e con un lamento si contorse sulla sedia. Tirandolo per il mento, il dottore gli fece trangugiare qualcosa che aveva miscelato in un bicchiere. Polynice aprì lentamente gli occhi che, piano piano, si schiarirono e si riempirono di odio. «Ora l'effetto è passato», osservò il Dottor Loring. «È un bene; perché voglio che capisca ciò che sto per dirle.»
Non dando a Polynice l'opportunità di interromperlo, continuò seccamente: «Lei sa tutto sui riti Voodoo, proprio come me! Li ho studiati per mesi sulle montagne vicino al confine con la Dominica. Il mio domestico è originario di quella regione, come avrà già avuto modo di capire.» «Lei non ne sa abbastanza per salvare Mrs. Frane!», lo provocò Polynice. «Ah! Qui si sbaglia», lo corresse con calma il Dottor Loring. «Fino a che la sua influenza sarà così incondizionata, è vero che non posso liberare la sua mente.» Si fermò deliberatamente e poi aggiunse: «Così ho pensato di eliminarla!». Il suo interlocutore sbiancò, assumendo un colorito letteralmente cadaverico. «Lei non oserà tanto!», sibilò Polynice. «Mi sono preoccupato di far sapere a più di una persona che sarei venuto qui.» «Lei mi crede troppo sciocco», si prese gioco di lui il Dottor Loring. «Non intendevo nulla di così brutale e, in questo caso, così inutile come la violenza fisica... Nel caso in cui Mrs. Frane muoia, non c'è alcun modo per farla sottoporre al giudizio della Legge; né la Polizia potrà proteggere Natalie Frane in seguito se io annullo solo temporaneamente la sua influenza. Ma io propongo di farle conoscere le mie condizioni», la sua voce divenne furibonda, «cioè di punirla una volta e per tutte per il crimine che ha commesso!» «Lei non oserà farmi del male!», ripeté Polynice, ma aveva le labbra tirate. «Davvero?», sibilò il Dottor Loring. «Senza dubbio lei ha già capito ciò che ho in mente. Sì, parlo delle cerimonie petro: cosa le ricordano la ragazza e la capra? Bene, caro mittente di serpenti, deve sapere che Tou-Tou era un papaloi delle montagne haitiane; e lui dice che il suo cane potrà tranquillamente sostituire la capra. E, anche se certo lei non è una giovane vergine, tuttavia credo che ci riusciremo!» Frane aveva ascoltato con impazienza e senza capirci praticamente niente, ma la minaccia del dottore era atrocemente chiara per Polynice. «Quello no!», urlò, cercando disperatamente di liberarsi della corda che lo legava. Si affannò senza speranza e poi, all'improvviso, smise qualsiasi tentativo. Un sorriso astuto e malvagio gli si dipinse sul volto. «È in possesso della droga che si dà alla ragazza prima della cerimonia?», chiese con voce trionfante. «Io credo di no, e lei non può farne a
meno. Il suo narcotico non potrà sostituirla: la mente deve essere sotto controllo, non resa insensibile. L'unico altro modo è quello di ipnotizzarmi, e la mia mente non cederà mai alla sua! Lei non sarà in grado di ipnotizzarmi, e non oserà uccidermi!» «In tutti i casi, prendo in parola la sua sfida», gli rispose il Dottor Loring, con un sorriso ironico. «Ma c'è troppo poco tempo per mettere a repentaglio la vita della mia paziente solo per soddisfare la mia vanità. Ho rimandato la cosa fino ad ora solo perché era necessario che la sua mente fosse del tutto consapevole di ciò che sta per accadere. Si sta già facendo scuro; e stanotte la luna sorge quasi al crepuscolo...» Sulla scrivania venne di nuovo sistemato il congegno con gli specchi. Mentre aggiustava gli specchi, il Dottor Loring, quasi scusandosi, disse a Polynice: «I poteri psichici che lei ha ereditato dai suoi Stregoni africani non possono molto contro la scienza moderna». Senza riuscire a capire, ma molto a disagio, l'haitiano osservò gli specchi che cominciavano a girare. Realizzò troppo tardi che era ormai in trappola. Tentò disperatamente di distogliere lo sguardo; le vene ingrossate erano ben evidenti sulle sue tempie sudate. Per alcuni lunghi minuti Polynice combatté un'angosciosa e silenziosa battaglia con quell'oggetto che fiaccava la sua volontà. Poi, con un sospiro soffocato si rilassò sulla sedia, con gli occhi spalancati che non vedevano nulla. 8. Tou-Tou scivolò dentro come un'ombra misteriosa. Dietro all'impassibilità della sua faccia scura c'era una brama profonda. Un vistoso fazzoletto era legato intorno alla sua testa ricciuta e aveva in mano una bacchetta attorcigliata in modo molto strano. «Ho fatto un bastone con le ossa del serpente che quello ha mandato!», quasi cantò in quel suo impacciato patois. «Il cane è pronto e la luna sta per sorgere.» «Anche lui è pronto», gli comunicò cupo il dottore. Indicando Natalie, disse a Frane ciò che doveva fare: «La prenda tra le braccia. Spero che una buona parte di quanto sta per accadere raggiunga il suo subconscio per registrare la sensazione della sua liberazione... Forza!». Dopo aver afferrato Polynice per un braccio, mentre Tou-Tou prendeva l'altro, il dottor Loring mormorò in tono di comando:
«Alzati! Vai dalle tue divinità, vai da Damdalla!». Un po' strisciando, un po' trasportato, Polynice avanzò in mezzo ai due. Frane prese delicatamente tra le braccia Natalie e li seguì. La luna, una falce crescente, fece capolino sopra l'alto muro che circondava il giardino. I fiori, che durante il giorno erano un tripudio di colori, volgevano verso l'alto le loro corolle bianche e spettrali sotto la luce della pallida luna. Il gruppo si mosse verso una macchia di arbusti secretivi nel centro del giardino. L'orribile cane, legato ai cespugli, prese a uggiolare man mano che si avvicinavano. Frane adagiò sua moglie in una sdraio da giardino che trovò lì vicino. Il Dottor Loring lasciò la presa sul braccio di Polynice e aiutò Frane ad aggiustare lo sdraio finché la ragazza non giacque quasi completamente stesa. Il dottore quindi le passò leggermente le dita sulla fronte, con un ordine sommesso: «Riposa e osserva come l'Inferno si riprende il suo Diavolo». Tou-Tou aveva costretto Polynice a mettersi carponi di fronte al cane che nel frattempo si era tranquillizzato. L'esangue macchia del volto dell'uomo si trovava a pochi millimetri di distanza dal muso della bestia. «Lei deve seguire con molta attenzione le fasi del rituale», bisbigliò il Dottor Loring a Frane. «Sono psicologicamente vitali.» Si allontanò e tirò fuori dalle tenebre qualcosa che era stato precedentemente sistemato lì, pronto per l'uso; Frane si rese conto con stupore che si trattava di una grande chitarra. Accovacciatosi con quell'assurdo oggetto sul prato davanti a lui, il dottore cominciò a tamburellare lievemente sul suo retro. Tou-Tou si dondolò sui piedi seguendo il ritmo vibrante e misterioso delle dita tamburellanti. «Legba, apri la strada! Grande Damballa-Ouédo, prendi ciò che offriamo!» Smise di ballare e si chinò sulla coppia così malamente assortita. L'uomo e la bestia, con il volto e il muso che quasi si toccavano, mantenevano la loro singolare immobilità. La bacchetta, con le vertebre intrecciate del serpente, descrisse su di loro antichissime figure misteriose. Il dottore proseguì nel percuotere il tamburo improvvisato, sempre con lo stesso, monotono tempo. «La cosa è fatta!», annunciò Tou-Tou, con la voce ridotta a un sussurro. Il rullo del dottore divenne più alto e potente fino a raggiungere uno staccato acuto e imperativo. La luce della luna fece brillare per un attimo il
coltello che Tou-Tou impugnava. Un accenno di urlo, disumano, ma che pure assomigliava a una voce umana, si spense in un gorgoglio soffocato. Il cane ricadde sul fianco, contorcendosi per pochi secondi. «Mio Dio!», Frane non riuscì a trattenere un grido. «Polynice...» «È Polynice?», chiese il Dottor Loring con le dita ormai immobili. Perché Polynice aveva gettato indietro la testa... e ululava come un lupo in direzione della luna! «Porti di nuovo in casa Mrs. Frane. Subito! Potrebbe svegliarsi da un momento all'altro, e non voglio che veda nulla di tutto ciò, non quando sarà cosciente.» 9. Natalie stava già cominciando a stiracchiarsi quando Frane l'adagiò di nuovo sul divanetto nello studio. Il Dottor Loring si chinò su di lei e le sentì brevemente il polso. «Ancora pochi minuti e sarà completamente sveglia e normale. Nel suo subconscio la mente ha registrato la sua liberazione dalla minaccia di Polynice. Ciò dovrebbe aver compensato lo shock che ha subito quando ho spaccato il pezzo di mogano.» «Ringrazio Dio per tutto ciò!», esclamò Frane con convinzione. «Ma Dottor Loring! E Polynice? Quel cane urlava come un essere umano, e Polynice ringhiava contro tutti e quattro noi come un cane. Avevo letto di Sacerdoti Voodoo che riuscivano a fare scambi di questo genere, ma non ci credevo... Dannazione, non ci credo neanche adesso!» «Naturalmente no», convenne il Dottor Loring; «ma Polynice ci credeva! Ogni singola cellula del suo cervello è marcata per sempre dall'impressione che ha ricevuto e ci ha creduto nel momento in cui Tou-Tou ha tagliato la gola al cane. Per tutti i fini pratici, la sua personalità era nel cane quando quello è morto, e quella del cane in lui. È la stessa cosa che è capitata a sua moglie, che si è ripetuta in lui. Le avevo detto che avremmo combattuto il Diavolo con le sue stesse armi! Così abbiamo evitato un efferato delitto che la legge sarebbe stata impossibilitata a smascherare, e il criminale è stato punito.» Controllò il suo orologio e aggiunse: «Ho telefonato alla Polizia; dovrebbero venire a prendere Polynice nel giro di pochi minuti. Domani firmerò i documenti che lo faranno rinchiudere nel Manicomio Statale».
S'interruppe per avviarsi velocemente verso il divanetto. Frane raggiunse per primo la moglie, mentre la ragazza stava aprendo gli occhi. Il marito, col viso tirato per l'ansia, l'aiutò a sollevarsi per mettersi seduta. «Mi sento molto stanca», sospirò lei. Aveva il viso tirato ed era terribilmente pallida. Il Dottor Loring si fece deliberatamente da parte. Natalie Frane sgranò gli occhi e le dita le corsero alla bocca per soffocare un urlo. Poi, un'espressione sorpresa calò sul suo volto; un lieve rossore le colorò le guance esangui. «Oh, John!», gridò rivolgendosi al marito con l'ombra di un sorriso che finalmente esprimeva un sollievo insperato. «Hai tagliato in due il pezzo di legno! Quindi il Voodoo non esiste!» «Precisamente!», approvò con decisione il Dottor Loring proprio mentre suonava il campanello. Con la moglie stretta tra le braccia, il Capitano Frane riuscì appena a trattenersi dall'impulso di contraddirlo. Attraverso la finestra aperta arrivarono i lontani, terribili ululati di dolore di un cane, ululati che avevano una nota strana, misteriosamente umana. INTERMEZZO LE BESTIE MANNARE L'ORSO MANNARO The Wer-Bear di Walter Scott 1827 Hringo, Re dell'Upland, aveva un unico figlio di nome Biorno, il più bello e il più valoroso di tutta la gioventù norvegese. Già abbastanza in là con gli anni, il Re si innamorò di una strega, che scelse come seconda moglie. Tra il giovane Biorno e Bera, la bella figliola di un vecchio guerriero, c'era stato un tenero sentimento già dai tempi della loro infanzia, ma la nuova Regina concepì una passione incestuosa per il suo figliastro e, per soddisfare tale passione, convinse suo marito, mentre si accingeva a partire per una di quelle spedizioni piratesche che costituivano le campagne estive dei monarchi scandinavi, a lasciare a casa il Principe. In assenza di Hringo, lei rivelò a Biorno la sua impura passione, ma fu respinta con un moto di violento sdegno. L'ira della matrigna fu senza confini. «Andrai nella foresta!», esclamò, colpendo il Principe con un guanto di
pelle di lupo. «Andrai nella foresta, e vivrai solo delle greggi di tuo padre! Vivrai cacciando, e morirai cacciato!» Da quel momento in poi, il Principe Biorno non fu più visto, e i guardiani del bestiame del Re cominciarono a rendersi conto che ogni notte un orso di dimensioni immense e di colore nero, feroce oltre ogni dire, faceva strage fra le greggi. Tutti i tentativi di uccidere o di catturare quell'animale risultarono vani; e tutti si rammaricavano invano dell'assenza di Biorno, il cui unico divertimento consisteva nel cacciare gli animali da preda. Bera, fedele innamorata del giovane Principe, aggiunse le sue lacrime al lutto della gente. Mentre si trovava in un luogo appartato, immersa nella sua malinconia, fu spaventata dall'avvicinarsi di un orso mostruoso, proprio l'animale che era il terrore di tutto il paese. Non poteva fuggire, quindi la fanciulla rimase ferma ad aspettarlo, ed era sicura che la morte fosse ormai vicina, quando l'animale cominciò a farle le feste, si rotolò ai suoi piedi e la guardò con degli occhi in cui, nonostante l'orribile trasformazione, lei ravvisò lo sguardo del suo amante perduto. Bera ebbe poi il coraggio di seguire l'orso sino alla sua caverna dove, durante alcune ore del giorno, l'incantesimo gli permetteva di riprendere forma umana. L'amore che la donna provava vinse ogni ripugnanza, e la fanciulla continuò a vivere nella caverna di Biorno, godendo della sua compagnia nei momenti in cui era libero dall'incantesimo. Un giorno il Principe guardò sua moglie con aria triste, e disse: «Bera, si avvicina la fine della mia esistenza. La mia carne diverrà presto un pasto per mio padre e per i suoi cortigiani. Ma guardati dalle minacce e dalle lusinghe della mia malefica matrigna, nel caso dovesse cercare di convincerti a partecipare a quel banchetto orrendo. Partorirai tre figli, che saranno la meraviglia di tutto il Nord». Poi fu l'ora dell'incantesimo, e lo sfortunato Principe uscì dalla caverna per andare a cacciare le greggi. Bera lo seguì da lontano, piangendo. Ora si udiva il suono dei corni da caccia. Il vecchio Re, di ritorno dalle sue scorribande, aveva riunito un gruppo di armati per uccidere la bestia che saccheggiava le sue campagne. Il povero orso si difese con valore, uccidendo molti cani e alcuni cacciatori. Ma alla lunga, stremato, cercò protezione ai piedi di suo padre. I suoi gesti di supplica furono vani, e gli occhi dell'affetto paterno si dimostrarono meno acuti di quelli dell'amore della sua donna. Biorno fu ucciso dalla
lancia di suo padre, e le sue carni furono cucinate per farne un banchetto regale. Bera fu riconosciuta, e spedita al cospetto della Regina. Come Biorno aveva previsto, la Maga cercò di convincere Bera a mangiare quella carne, che a quei tempi era considerata un piatto da Re. La Maga supplicò e minacciò la fanciulla invano, dopodiché comandò che si usasse la forza. Bera fu costretta a ingoiare un boccone della carne dell'orso. Le fu messo in bocca un secondo boccone, ma riuscì in qualche modo a risputarlo da parte. Poi fu mandata a casa di suo padre. Qui, dopo qualche tempo, partorì tre figli, due dei quali avevano subito, nel corpo e nell'indole, gli effetti dei bocconi che la loro madre era stata costretta a ingoiare al banchetto del Re. Il figlio più grande somigliava a un alce dalla cintola in giù, e quindi fu chiamato Elgfrod. Si dimostrò uomo di forza non comune ma dai modi selvaggi, e divenne ladro di professione. Thorer, il secondo figlio di Bera, era bello e ben formato, tranne che per il fatto che aveva un piede di cane; e così fu chiamato Piedecanino. Ma Bodvear, il terzo figlio, era un modello di perfezione sia nel corpo che nella mente. Vendicò la morte di suo padre uccidendo la Regina Maga, e divenne il campione più famoso dei suoi tempi. LA DONNA PANTERA The Eyes Of The Panther di Ambrose Bierce In The Midst Of Life, 1908 1. Un uomo e una donna (la natura li aveva uniti) sedevano su una panchina rustica, nel tardo pomeriggio. L'uomo era di mezza età, snello, bruno, con l'espressione di un poeta e l'aspetto di un pirata: un uomo da guardare più di una volta. La donna era giovane, bionda, graziosa, con qualcosa nella figura e nei movimenti che suggeriva la parola «felina». Indossava un vestito grigio con strani disegni marroni nella trama. Poteva anche essere bella, ma non lo si poteva dire a prima vista, perché i suoi occhi distraevano l'attenzione da tutto il resto. Erano grigio-verde, lunghi, stretti, con un'espressione che sfidava ogni analisi. Si vedeva solo che erano inquietanti. Cleopatra poteva avere avuto occhi simili.
L'uomo e la donna stavano parlando. «Sì», disse la donna, «ti amo, Dio lo sa quanto! Ma sposarti, no. Non posso, né potrò.» «Irene, lo hai detto tante volte, ma negandomi sempre una spiegazione. Ho il diritto di sapere, di capire, di sentire e provare il mio coraggio, se ne possiedo. Dammi una ragione.» «Per amarti?» La donna sorrideva attraverso le lacrime e il pallore. Il che non commosse l'uomo. «No, non c'è alcun motivo per questo. Una ragione per non sposarmi. Ho il diritto di sapere. Devo sapere! Voglio sapere!» Si era alzato e le stava davanti con i pugni serrati, accigliato... si poteva dire che fosse addirittura minaccioso. La guardava come se potesse tentare di strangolarla per sapere. Lei non sorrideva più, e sedeva guardandolo semplicemente in viso con uno sguardo fisso, deciso, che era del tutto privo di emozione o di sentimento. Eppure aveva qualcosa che placò il suo risentimento e lo fece rabbrividire. «Sei deciso a sapere?», chiese lei con un tono completamente meccanico, che avrebbe potuto essere il suo sguardo reso sonoro. «Se ne hai voglia... se non è chiederti troppo.» Apparentemente questo signore del creato cedeva una parte del suo dominio sulla sua favorita. «Molto bene: allora saprai. Sono pazza.» L'uomo sussultò, poi la guardò incredulo e capì che doveva fingersi divertito. Ma, di nuovo, il suo senso dell'umorismo gli venne a mancare e, nonostante il suo scetticismo, era profondamente turbato da ciò che non credeva. Tra le nostre convinzioni e i nostri sentimenti non c'è una buona intesa. «È quel che direbbero i medici», continuò la donna, «se sapessero. Personalmente, preferirei chiamarlo un caso di possessione. Siediti e ascolta quello che ho da dirti.» L'uomo riprese posto in silenzio accanto a lei sulla panchina rustica al margine della strada. In alto davanti a loro, sul lato orientale della vallata, le colline erano già immerse nella luce del sole che tramontava, e la tranquillità che li circondava aveva quella particolare qualità che prelude al crepuscolo. Qualcosa della sua misteriosa e significativa solennità si era trasmessa allo stato d'animo dell'uomo. Nel mondo spirituale, come in quello materiale, esistono segni e presagi della notte.
Incontrando di rado il suo sguardo, e, ogni volta che lo faceva, sempre cosciente del timore indefinibile che, nonostante la loro bellezza felina, gli incutevano gli occhi di lei, Jenner Branding ascoltò in silenzio la storia raccontata da Irene Marlowe. Per rispetto ai possibili pregiudizi del lettore verso l'ingenuità di un narratore inesperto, l'autore osa sostituire la sua versione con quella della donna. 2. In una piccola casa di tronchi formata da un'unica stanza miseramente e rozzamente ammobiliata, rannicchiata per terra contro una delle pareti, c'era una donna che stringeva un bambino al petto. Fuori, una fitta foresta si stendeva per molte miglia in ogni direzione. Era notte, e la stanza era immersa nella più profonda oscurità: nessun occhio umano avrebbe potuto scorgere la donna e il bambino. Eppure qualcuno li osservava, da vicino, con attenzione, senza neanche un attimo di distrazione. Questo è l'argomento cardine sul quale si impernia la narrazione. Charles Marlowe apparteneva a quel genere - ora estinto in questo paese - di pionieri dei boschi: uomini che si trovavano a proprio agio nelle solitudini silvane che si stendevano lungo il pendio orientale della valle del Mississippi, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico. Per più di cento anni, questi uomini si erano spinti verso Ovest, una generazione dopo l'altra, con carabina e ascia, strappando alla natura e ai suoi figli selvaggi, qui e là una estensione di terreno da arare, per poi cederla velocemente ai loro successori meno temerari ma più parsimoniosi. Da ultimo si erano riversati attraverso il limite della foresta nell'aperta campagna ed erano svaniti come se fossero precipitati da una scogliera. I pionieri dei boschi non esistono più; il pioniere delle pianure, il cui facile compito era di sottomettere, occupandoli, due terzi del paese con una generazione, era un essere diverso e inferiore. Con Charles Marlowe, nella solitudine, dividendo i pericoli, le difficoltà e le privazioni di quella strana vita senza vantaggi, c'erano sua moglie e suo figlio ai quali, come tutti quelli per i quali le virtù domestiche sono una religione, era attaccato appassionatamente. La donna era ancora abbastanza giovane da essere avvenente, e abbastanza nuova al tremendo isolamento del suo destino da essere ancora allegra. Nel negarle la grande capacità di godere della felicità che le semplici soddisfazioni della vita nella
foresta non avrebbero potuto soddisfare, il Cielo l'aveva trattata benevolmente. Nei lavori domestici abbastanza leggeri, nel suo bambino, nel marito e nei suoi pochi libri sciocchi, trovava abbondante nutrimento per le sue necessità. Una mattina di mezza estate, Marlowe staccò la carabina dai ganci in legno sul muro e manifestò la sua intenzione di andare a caccia. «Abbiamo abbastanza carne», disse la moglie. «Per favore, oggi non uscire. Ho fatto un sogno la notte scorsa: oh, una cosa terribile! Non riesco a ricordare cosa, ma sono pressoché sicura che si avvererà se tu esci.» È doloroso confessare che Marlowe ricevette questa solenne dichiarazione con minore gravità di quanta fosse dovuta alla natura misteriosa della calamità preannunciata. A dire il vero, rise. «Cerca di ricordare», disse. «Forse hai sognato che Baby aveva perso l'uso della parola.» La supposizione era ovviamente suggerita dal fatto che Baby, aggrappato alle frange della giacca da caccia del padre con tutte e dieci le dita grassottelle, esprimeva in quel momento il suo senso della situazione in una serie di esultanti ghu-ghu ispirati dalla vista del cappello in pelle di procione del genitore. La donna si arrese allo scherzo benevolo. Così, con un bacio alla madre e uno al bambino, l'uomo lasciò la casa e chiuse la porta per sempre sulla sua felicità. Al calar della notte non era ancora tornato. La donna preparò la cena e aspettò. Poi mise Baby a letto e cantò dolcemente finché non si fu addormentato. Nel frattempo, il fuoco nel camino, sul quale aveva cucinato la cena, si era spento, e la stanza era illuminata da una sola candela. In seguito la poggiò sulla finestra aperta come segnale di benvenuto se il cacciatore fosse arrivato da quella parte. Aveva premurosamente chiuso e sbarrato la porta contro quegli animali selvaggi che l'avessero preferita alla finestra aperta: non era al corrente delle abitudini degli animali da preda nell'entrare - non invitati - in una casa, benché, con previsione tutta femminile, avesse considerato la possibilità che potessero entrare dal comignolo. Mentre la notte passava lentamente, divenne non meno ansiosa, ma più assonnata; infine appoggiò le braccia sul letto accanto al bambino, e la testa sulle braccia. La candela sulla finestra si consumò, crepitò e brillò per un momento, poi si spense inosservata: la donna dormiva e sognava. Nel suo sogno sedeva accanto alla culla di un secondo figlio. Il primo
era morto. Anche il padre era morto. La casa nella foresta non c'era più e l'abitazione nella quale viveva le era sconosciuta. C'erano pesanti porte di quercia, sempre chiuse e, fuori dalle finestre, fissate agli spessi muri di pietra, c'erano delle sbarre di ferro, evidentemente (pensò) a difesa dagli Indiani. Osservava tutto questo con infinita autocommiserazione, ma senza sorpresa, emozione questa sconosciuta nei sogni. Il bambino nella culla era invisibile sotto la copertina, che qualcosa la spinse a spostare. Quando la tolse, scoprì la faccia di un animale selvatico! Lo shock di quella tremenda scoperta svegliò la donna, tremante nell'oscurità della sua capanna nel bosco. Mentre la sensazione della realtà circostante tornava lentamente, toccò il bambino per assicurarsi che non fosse un sogno, e il suo respiro le confermò che tutto andava bene; non poté comunque evitare di passargli una mano sul viso, leggermente. Poi, spinta da un impulso che probabilmente non avrebbe saputo spiegare, si alzò e prese tra le braccia il bambino addormentato, tenendolo stretto al petto. La testa della culla del bambino poggiava contro la parete alla quale volgeva le spalle stando in piedi. Alzando gli occhi, vide due oggetti luminosi che brillavano nell'oscurità con un bagliore verde rossastro. Pensò che fossero due carboni nel camino ma, con il ritornare del senso dell'orientamento, arrivò anche la consapevolezza inquietante che non erano dalla parte giusta della stanza. Inoltre erano troppo in alto, quasi a livello degli occhi... dei suoi occhi. Erano gli occhi di una pantera! La belva stava davanti alla finestra aperta proprio di fronte a lei, a non più di cinque passi di distanza. Nulla, se non quei terribili occhi, era visibile ma, nel terrificante tumulto delle sue sensazioni, quando la situazione si svelò alla sua comprensione, seppe in qualche modo che l'animale si teneva in piedi sulle zampe posteriori, appoggiandosi con le anteriori al davanzale della finestra. Questo era segno di un interesse ostile, non di una semplice e indolente curiosità. La consapevolezza di quell'atteggiamento aumentava il suo terrore, e accentuava la minaccia di quegli occhi tremendi nel cui fuoco costante si consumavano la forza e il coraggio della donna. Sotto il loro silenzioso interrogativo, lei rabbrividì e si sentì mancare. Le ginocchia cedettero e, poco alla volta, cercando di evitare ogni movimento brusco che avrebbe potuto far balzare la belva su di lei, si abbassò sul pavimento, si rannicchiò contro il muro, e tentò di proteggere il bambino con il suo cor-
po tremante senza abbassare lo sguardo da quegli occhi luminosi che la stavano uccidendo. Non un pensiero per il marito le venne in mente nella sua angoscia, non la speranza né l'idea di salvezza o di una fuga. Le sue capacità di pensare e di sentire si limitavano a un'unica dimensione: il terrore che l'animale saltasse, il contatto del suo corpo, l'urto delle sue grandi zampe, la sensazione dei suoi denti sulla gola, e il suo bambino sbranato. Immobile e nel silenzio più assoluto, aspettò il suo destino... i momenti diventavano ore, anni, secoli; ed ancora quegli occhi diabolici mantenevano la loro fissità. Tornando alla sua capanna a notte inoltrata, con un cervo sulle spalle, Charles Marlowe tentò di aprire la porta. Ma quella non cedette. Bussò, ma non ebbe risposta. Posò allora il cervo per terra e si diresse verso la finestra. Mentre girava l'angolo della casa, gli sembrò di sentire un rumore di passi furtivi e un fruscio nel sottobosco, ma erano rumori troppo leggeri anche per un orecchio esperto come il suo. Giunto alla finestra, e sorpreso di trovarla aperta, scavalcò il davanzale ed entrò. Tutto era buio e silenzioso. Brancolò fino al camino, sfregò un fiammifero e accese una candela. Poi si guardò in giro. Acquattata contro il muro, sul pavimento, c'era sua moglie che serrava il bambino al petto. Quando si precipitò verso di lei, la donna si alzò e proruppe in una risata, lunga, forte e meccanica, priva di gioia e di senso: una risata non diversa dallo sferragliare di una catena. Non sapendo il motivo di quella risata, l'uomo le tese le braccia. La donna vi depose il bimbo. Era morto, soffocato a morte dall'abbraccio materno. 3. Questo è quanto era accaduto una notte in una foresta, ma Irene Marlowe non raccontò tutto a Jenner Branding; né lei sapeva tutto. Quando terminò di parlare, il sole era sceso dietro l'orizzonte e il lungo crepuscolo estivo iniziava ad incupirsi nelle cavità della terra. Branding rimase in silenzio per alcuni istanti, aspettando che la narrazione proseguisse per collegarsi con la conversazione che l'aveva introdotta. Ma anche la narratrice rimaneva in silenzio, lo sguardo lontano, le mani che le si aprivano e chiudevano in grembo, quasi che i suoi movimenti fossero indipendenti dalla sua volontà. «È una storia terribile e triste», disse Branding alla fine, «ma non capisco. Charles Marlowe è tuo padre, lo so. È invecchiato prima del tempo,
affranto da un grande dolore: l'ho visto, o ho creduto di vederlo. Ma, scusami, hai detto che tu... che tu...» «Che sono pazza», disse la ragazza, senza un movimento della testa o del corpo. «Ma, Irene, hai detto... per favore, cara non guardare da un'altra parte... hai detto che il bambino era morto, non impazzito.» «Sì, quello... io sono la seconda figlia. Sono nata tre mesi dopo quella notte: a mia madre fu misericordiosamente concesso di lasciare questa vita donandola a me». Branding rimase ancora in silenzio; era leggermente stordito, e non riuscì subito a pensare cosa dire. Irene aveva ancora il viso voltato. Nel suo imbarazzo, allungò le mani verso quelle di lei che si chiudevano e si aprivano sul suo grembo, ma qualcosa, non avrebbe saputo dire cosa, lo trattenne. Ricordò allora, vagamente, che non gli era mai piaciuto prenderle la mano. «È verosimile», riprese, «che una persona nata in tali circostanze sia come gli altri... sia quello che si chiama normale?» Branding non rispose; era preoccupato da un nuovo pensiero che stava prendendo forma nella sua mente; quello che uno scienziato avrebbe chiamato un'ipotesi, e un investigatore una teoria. Avrebbe potuto gettare una nuova luce, quantunque fosca, sul dubbio circa l'equilibrio di lei, che quella affermazione non aveva dissipato. Il paese era ancora giovane, e i villaggi intorno scarsamente popolati. Il cacciatore di professione era ancora una figura familiare, e tra i suoi trofei c'erano teste e pelli di ogni tipo di animale. Talvolta venivano narrati dei racconti non molto credibili di incontri notturni con animali selvaggi lungo delle strade solitarie, quindi di bocca in bocca venivano ingranditi per poi scemare fino ad essere dimenticati. Una recente aggiunta a questi apocrifi, originati apparentemente per generazione spontanea in parecchie famiglie, era quello di una pantera che spaventava i vari membri della famiglia guardandoli di notte dalle finestre. L'aneddoto aveva causato il suo piccolo brivido di eccitazione, e aveva anche ottenuto l'onore di essere riportato nel quotidiano locale; ma Branding non vi aveva prestato attenzione. La sua somiglianza con la storia che aveva appena ascoltato gli parve ora più che accidentale. Non era possibile che quella storia avesse suggerito l'altra? O che, trovando condizioni favorevoli in una fantasia morbosa e fertile, si fosse sviluppata nel tragico racconto che aveva appena ascoltato?
Branding ricordava alcune circostanze e caratteristiche della storia della ragazza, delle quali, con la mancanza di curiosità tipica dell'amore, finora non aveva tenuto conto: la sua vita solitaria con il padre, nella casa del quale nessuno apparentemente era ben accetto, e il suo strano timore per la notte, al quale i suoi conoscenti attribuivano il fatto che non si facesse mai vedere dopo il tramonto. Certo, in un animo come quello, l'immaginazione, una volta accesa, poteva divampare in una fiamma sfrenata, penetrando e avviluppando l'intera struttura. Che lei fosse pazza, benché questa convinzione gli procurasse il più atroce dei dolori, non poteva più dubitare; aveva confuso solo un effetto del suo disordine mentale con la sua causa, mettendo in relazione con la propria personalità le divagazioni dei locali fabbricanti di leggende. Con la vaga intenzione di provare la sua nuova «teoria», e non sapendo come cominciare, disse gravemente, ma senza esitazione: «Irene, cara, dimmi... Ti prego di non offenderti, ma dimmi...». «Ti ho detto», lo interruppe la donna, parlando con un appassionato fervore che non aveva mai notato in lei, «ti ho già detto che non posso sposarti: che altro dovrei dirti?» Prima che potesse fermarla, era saltata giù dal sedile e, senza un'altra parola o uno sguardo, si era allontanata tra gli alberi verso la casa di suo padre. Branding si era alzato per trattenerla: rimase a guardarla in silenzio fin quando scomparve nell'oscurità. Improvvisamente sussultò come se fosse stato colpito da un'arma da fuoco; il suo viso assunse un'espressione di stupore ed allarme: in una delle ombre nere nelle quali era scomparsa, aveva colto una rapida, breve apparizione di occhi scintillanti! Per un istante rimase stordito e confuso; poi si precipitò nel bosco dietro di lei, gridando: «Irene, Irene, attenta! La pantera! La pantera!». Un momento dopo era passato oltre il confine della foresta nell'aperta campagna e vide la gonna grigia della ragazza scomparire nella casa del padre. Non c'era nessuna pantera. 4. Jenner Branding, Procuratore Legale, viveva in un villino al limite della città. Proprio dietro la sua abitazione c'era la foresta. Essendo scapolo, e perciò - per il draconiano codice morale del tempo e del luogo - privato dell'unico tipo di servizio domestico conosciuto nei dintorni, la «ragazza a ore», mangiava all'albergo del villaggio dove c'era anche il suo ufficio.
Il villino accanto al bosco era una dimora mantenuta, senza grandi costi in verità, come prova di prosperità e rispettabilità. Sarebbe stato difficile per uno che il giornale aveva indicato come «il più insigne avvocato del tempo» non possedere una casa, benché a volte avesse sospettato che le parole «casa» e «abitazione» non fossero strettamente sinonimi. La sua consapevolezza della diversità e la sua volontà di risolverla erano argomenti di deduzione logica, poiché era risaputo che, poco dopo la costruzione del villino, il suo proprietario aveva inutilmente tentato l'avventura matrimoniale, arrivando, in verità, al punto di essere rifiutato dalla bella ma eccentrica figlia del vecchio Marlowe, il recluso. Tutti credevano a questo fatto poiché lui stesso lo aveva raccontato mentre lei no: un rovesciamento del comune ordine delle cose che difficilmente avrebbe mancato di convincere. La camera da letto di Branding si trovava sul retro della casa, con una singola finestra che dava sulla foresta. Una notte fu svegliato da un rumore alla finestra; difficilmente avrebbe potuto dire che cosa fosse. Con un piccolo brivido, si tirò su a sedere nel letto e afferrò la pistola che, con una previdenza veramente encomiabile per uno abituato a dormire al pianoterra con la finestra aperta, aveva messo sotto il cuscino. La camera era assolutamente buia ma, non essendo spaventato, sapeva dove dirigere lo sguardo: e là lo volse, aspettando in silenzio ciò che sarebbe potuto accadere. Adesso poteva distinguere vagamente l'apertura della finestra, un quadrato di nero più chiaro. Poco dopo, apparvero sul bordo inferiore due occhi scintillanti che ardevano di una luce malevola indicibilmente terribile! Il cuore di Branding fece un grande balzo, poi sembrò si fermasse. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale e tra i capelli; quindi sentì il sangue che gli abbandonava le guance. Non avrebbe potuto gridare neanche per salvarsi la vita; ma, essendo un uomo coraggioso, neanche per salvarsi la vita avrebbe voluto farlo, anche potendo. Il suo corpo vile tremava, ma lo spirito era di materia più forte. Lentamente quegli occhi scintillanti si sollevavano con un movimento costante e sembrava si avvicinassero: lentamente la mano destra di Branding si sollevò e impugnò la pistola. Sparò! Accecato dal lampo e stordito dallo scoppio, Branding tuttavia sentì, o pensò di sentire, l'alto urlo selvaggio della pantera, così umano nel suono, così diabolico nella sua immaginazione. Dopo esser saltato giù dal letto, si vestì in fretta e, pistola alla mano,
balzò alla porta, dove incontrò due o tre uomini che venivano correndo dalla strada. A una breve spiegazione seguì una cauta ricerca intorno alla casa. L'erba era bagnata di rugiada; sotto la finestra appariva calpestata e parzialmente livellata per un vasto spazio, dal quale una traccia tortuosa, visibile alla luce di una lanterna, conduceva nei cespugli. Uno degli uomini inciampò e cadde sulle mani, che, quando si alzò e se le fregò, erano viscide. Esaminandole, apparvero rosse di sangue. Disarmati, uno scontro con una pantera ferita non attirava certo quegli uomini; tutti tranne Branding tornarono indietro. Con la lanterna in una mano e la pistola nell'altra, si spinse coraggiosamente nel bosco. Dopo aver superato un difficile sottobosco, giunse in un piccolo spiazzo, e lì il suo coraggio fu ricompensato, poiché vi trovò il corpo della sua vittima. Ma non era una pantera. Quel che era, ancor oggi, è scritto su una lapide consumata dalle intemperie nel cimitero del villaggio, e per molti anni fu quotidianamente attestato dalla figura curva accanto alla tomba e dal viso segnato dal dolore del vecchio Marlowe. Pace all'anima sua, e all'anima della sua strana e infelice creatura. Pace. Pace e perdono. L'UOMO TORO The Black Beast di Henry S. Whitehead Adventure, 1931 1. Oltre la Piazza del Mercato della Domenica di Christiansted, sull'Isola di Santa Cruz, dalla parte della casa chiamata del Vecchio Moore, dove ho abitato per una stagione - ossia sul lato meridionale dell'antica Piazza del Mercato della Città Vecchia, costruita sul sito abbandonato della precedente città francese di Bassin - sorge, piena di austera e scolorita maestà, un'altra casa più grande, conosciuta con il nome di Casa Gannett. Per quasi mezzo secolo Casa Gannett era rimasta vuota e chiusa, e la solida facciata che dava sulla Piazza del Mercato aveva un aspetto cupo e triste. Le finestre sprangate, oltre alle pietre scure e scolorite dal tempo, conferivano alla dimora un aspetto arcigno e cupo. Durante quei cinquant'anni circa in cui era stata chiusa e in cui aveva assistito accigliata allo spettacolo che le offriva la massa di gente che passa-
va dinanzi alla sua mole massiccia e alle sue porte sprangate, diverse persone avevano tentato di riaprirla. Una casa di quel genere, una delle più grandi dimore private in tutte le Indie Occidentali, nonché una delle più belle, era un peccato che restasse chiusa, lasciata a se stessa, solo perché si venne a sapere - quello era il volere del suo capriccioso proprietario, misterioso e assente, che l'isola non aveva più visto da molto tempo. Una simile preda naturalmente stimolava l'interesse dei potenziali affittuari. Io so, anche perché me lo ha rivelato lui stesso, che il Reverendo Fratello Richardson, della Chiesa Anglicana, aveva tentato di installarvi un convento per le sue consorelle nel 1929. Tentai io stesso di affittarla per una stagione, l'anno in cui, non essendovi riuscito, presi invece la Casa del Vecchio Moore, una palazzina con strane finestre, stanze dalle generose dimensioni, ed enormi portali, attraverso i quali innumerevoli volte il Vecchio Moore era passato portando con sé, se dobbiamo credere a certe dicerie, il suo strano fardello di apprensione, tremando e attendendo con paura gli eventi... Una ricerca effettuata presso gli uffici governativi aveva rivelato che a Christiansted viveva il vecchio avvocato Mailing, un notabile che ricordava bene il periodo della dominazione danese; questo personaggio aveva un enorme valore per gli ufficiali governativi quando si trattava di districarsi tra gli antichi registri danesi. Era lui che si occupava di Casa Gannett. Herr Mailing, interrogato a sua volta, fu cortese ma deciso: la casa non poteva essere affittata per nessun motivo. Tali erano le istruzioni che gli erano state impartite, registrate nei suoi archivi. No, era impossibile, fuori questione. Ricordo anche che fece degli oscuri riferimenti a un vecchio scandalo. Bevendo un bicchiere di eccellente sherry offerto dall'ospitale Herry Mailing, gli posi diverse domande. Le risposte indicarono che i Gannett ancora in vita erano del tutto irremovibili su quel punto. No, non avevano alcuna intenzione di tornare. Fino a quel momento non erano stati necessari restauri. La casa infatti aveva la solidità di una fortezza. Non avevano addotto alcun motivo circa la loro intenzione di tenere sfitta la loro proprietà di Christiansted? No... e Herr Mailing non poteva fare altrimenti. No: aveva già scritto per ben due volte. Una volta, di recente, per conto del Rettore della Chiesa Anglicana. Inoltre, dieci o undici anni prima, un professore di Berlino che soggiornava sull'isola aveva concepito l'idea di fondare una scuola tropicale per necessità didattiche, e aveva messo l'occhio su quella vecchia magione. No: era stato impossibile.
«Ebbene, skaal, Herr Canevin! Allora... ne beva ancora... la prego! Un uomo non può viaggiare su una gamba sola: sa? È uno dei nostri vecchi proverbi.» Ma, tre anni dopo questo incontro con Herry Mailing, finalmente la vecchia casa fu riaperta. L'ultimo dei Gannett, a quanto pare, era partito dalla città di Edimburgo per il mondo dei più, e il titolo era passato al ramo cadetto che non aveva alcuna connessione né aveva mai risieduto nelle Indie Occidentali. Le nuove istruzioni di Herr Mailing, trasmessegli per mezzo di un avvocato di Aberdeen, gli intimavano di affittare la proprietà alle migliori condizioni possibili, di inviare notizie sulle offerte formulate, di stimare i restauri necessari, e di inviare ad Aberdeen queste stime. Herr Mailing non era uomo da rendere pubblici gli affari privati dei suoi clienti. Io ne fui informato grazie alla signora Ashton Garde, durante un tè che si tenne nel vasto salone di Casa Gannett. Una Casa Gannett linda e rimessa a nuovo che lei aveva affittato per una stagione. Al mogano del Diciottesimo Secolo preesistente la signora aveva unito diversi elementi di mobilio più leggero. Questo aveva avuto l'effetto di trasformare la dimora simile a un austero castello in una delle residenze più belle che io abbia mai avuto il piacere di visitare. La signora Garde, una vedova americana, aveva più di quarant'anni, ed era la più deliziosa e affascinante donna del mondo. Era una padrona di casa raffinata, possedeva notevoli sostanze, ed era madre di tre figli. Di questi, una figlia sposata viveva in Florida, e non visitava i Garde che durante l'inverno a Santa Cruz. Gli altri figli, Edward, da poco laureato a Harvard, e Lucretia, di ventiquattro anni, vivevano con la madre. Benché Edward, un atleta, non fosse un conversatore, entrambi - in maniera diversa - avevano ereditato il fascino materno e la bellezza del padre. Il ritratto di quest'ultimo - uno splendido quadro di Sargent - era appeso sopra uno dei due enormi camini che si fronteggiavano ai lati del vasto salone. Era appeso piuttosto in basso al di sopra della mensola del camino, poiché questo era molto alto. Ricordo che, durante la mia prima visita presso i Garde, ci sedemmo vicino al punto in cui era appeso quel ritratto; notai che la signora Garde, che aveva disposto che il tavolino da tè fosse posto in asse con il camino, si era poi seduta di fronte a me, lungo l'asse maggiore dell'ambiente in cui ci trovavamo, e di tanto in tanto lanciava un'occhiata in alto, presumibilmente verso il ritratto.
Ho una mentalità analitica, anche a proposito delle minuzie. Immaginai che stesse tentando di giudicare l'effetto del quadro nella nuova posizione, come fanno le persone prima di abituarsi a nuove dislocazioni degli oggetti e agli aspetti ambientali di una casa nuova o temporanea. Una volta che la mia attenzione fu attratta dal quadro, feci un commento, e mi alzai per esaminarlo da vicino. Ne fui ripagato. Ma la signora Garde, come per schermirsi, fece vertere la conversazione su altri argomenti. Lì per lì la mia attenzione per questi dettagli fu solo passeggera. Ma, durante il ricevimento seguente, nei momenti in cui non era occupata a versare il tè ai suoi numerosi ospiti, i suoi sguardi in tralice, diretti in alto e verso un punto alla sua destra, e i suoi impegni di padrona di casa, la costrinsero a tornare più volte in quell'angolo. Non diedi un rilievo particolare a questi fatti. Essi non richiedevano un'analisi: tuttavia li registrai. Vidi spesso i Garde durante le settimane seguenti. Poi, avendo deciso da qualche tempo di dirigermi verso le altre isole fino alla Martinica, quando seppi che la Margaret, una nave della Bull-Insular Line che faceva la spola tra le isole superiori vi ci sarebbe diretta, mi imbarcai. Non li vidi per più di due settimane durante le quali rinnovai la mia conoscenza dei Francesi della Martinica, oltreché dell'interessante capitale della Martinica, Fort de France. Tornai a visitare i Garde poco dopo il mio ritorno a Santa Cruz al termine di quel viaggio, e trovai la signora Garde sola. Edward e Lucretia giocavano a tennis, e avrebbero cenato con i Covington alla Hermon Hill Estate House. Mi resi conto immediatamente che la signora Garde era cambiata. Sembrava in preda a una infinita stanchezza. Pareva rimpicciolita, quasi fragile. Gli occhi, bruni e brillanti, del tipo che spesso si ritrova nelle persone di carnagione scura, ora parevano enormi e, quando mi guardava, i suoi sguardi erano intervallati da occhiate frettolose verso il ritratto del marito, e non riuscii a fare a meno di notare che la sua espressione ora aveva un aspetto che si può descrivere solo con la parola «spiritata». Lì per lì rimasi sorpreso. Quel fenomeno mi incuriosiva molto. Era una di quelle cose evidenti che ci colpiscono direttamente, senza mezze misure, come un colpo improvviso al volto. Il cambiamento presagiva in qualche modo una tragedia. Mi rese subito irrequieto, e mi commosse profondamente, poiché la signora Garde mi piaceva molto, e avevo pregustato la frequentazione di quella famiglia. Notai che la mano le tremava mentre mi
porgeva la tazza del tè, e che lanciò uno di quegli sguardi in tralice verso l'alto e a destra, proprio mentre compiva quel gesto ospitale. Bevvi metà del contenuto della tazza, ma nessuno parlò. Poi, guardando la signora Garde, la sorpresi mentre lanciava un altro sguardo in quella direzione. Stava abbassando lo sguardo proprio in quel momento. Incrociò il mio e, forse, avvertì una parte della sollecitudine che nutrivo verso di lei in quel momento in maniera particolare. Il suo volto serio arrossì un poco. Abbassò lo sguardo, e si dette da fare con gli oggetti posti sul vassoio rotondo. Allora le parlai. «Lei non sembra aver goduto di buona salute, signora Garde. Se mi è permesso dirlo, non mi è parso di vederla nel pieno della sua forma, questa volta.» Tentai di assumere un tono leggero per poter avere notizie su un fatto che mi stava realmente molto a cuore, in modo da lasciare spazio per una risposta altrettanto faceta. Lei mi rivolse uno sguardo tragico. Non vi era alcun sorriso sul suo viso teso. Il tono inaspettato della sua risposta mi fece balzare in piedi. «Signor Canevin... mi aiuti!», disse semplicemente, guardandomi diritto negli occhi. In meno di due secondi aggirai il tavolino da tè, e afferrai le sue mani tremanti, che erano fredde come il ghiaccio. Le tenni strette e la guardai. «Con tutto il mio cuore», dissi. «Ditemi, per favore, quando potrete - ora o più tardi - di cosa si tratta.» Lei espresse i suoi ringraziamenti per quella mia assicurazione con un cenno del capo. Ritirò quindi le mani, si adagiò contro la sedia di canne intrecciate, e chiuse gli occhi. Pensai che stesse per svenire, e forse, intuendo questo, riaprì gli occhi e disse: «Sto bene, Mr. Canevin... vale a dire per quanto riguarda il presente immediato. Non vuole sedersi, e finire il suo tè? Gliene verso un'altra tazza». Con un certo sollievo ripresi il mio posto e, mentre sorseggiavo una seconda tazza di tè, osservai la padrona di casa. Aveva fatto uno sforzo notevole per riprendere il controllo. Rimanemmo per diversi minuti in silenzio. Poi, quando rifiutai di prenderne una terza tazza, la signora chiamò il maggiordomo che portò via il tè e mise le sigarette sul tavolo tra di noi. Solo dopo che il suo servitore fu uscito di nuovo dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, lei si sporse verso di me spinta da un forte impulso e mi raccontò quello che era accaduto.
Nonostante il suo stato di agitazione - che era molto evidente - e lo stato in cui si trovavano i suoi nervi, e che ho cercato di descrivere, la signora Garde giunse subito al punto senza tergiversare. Mentre parlava, mi accorsi che doveva aver meditato sulle frasi da usare nell'esprimersi. Lo fece in maniera molto chiara e concisa. «Signor Canevin», iniziò, «senza dubbio lei avrà notato i miei sguardi verso la parete al di sopra del camino. È diventato una specie di tic. Lei lo avrà certamente osservato, vero?» Le dissi che supponevo che i suoi sguardi fossero diretti verso il ritratto di suo marito. «No», riprese la signora Garde, fissandomi come se volesse evitare che il suo sguardo vagasse involontariamente verso quel punto al di sopra del camino, «non guardavo il quadro, signor Canevin. Piuttosto un punto proprio sopra al ritratto: circa un metro al di sopra della cornice superiore, per essere precisi.» A questo punto fece una pausa, e non riuscii a fare a meno di guardare verso il punto che mi aveva indicato. Mentre volgevo gli occhi, intravidi le sue mani affusolate, piuttosto belle. Erano strette attorno al bordo del tavolino, come se stesse afferrando qualcosa di solido e materiale - un'àncora per i suoi nervi tesi - e osservai che le nocche erano bianche per la pressione con cui stringeva il bordo del tavolino. Non vidi null'altro che un ampio spazio vuoto, una grigia parete verniciata che arrivava fino all'alto soffitto e che sovrastava il ritratto. Uno spazio vuoto, lasciato vacante dal suo senso artistico, si sarebbe detto, dalla persona che aveva avuto il buon senso di lasciare il quadro di Sargent solo sulla grigia parete. Rivolsi nuovamente lo sguardo alla signora Garde e mi accorsi che mi fissava con aria risoluta. Pareva tenesse lo sguardo fisso sul mio volto grazie a un enorme sforzo di volontà, costringendosi a non guardare la parete. Assentii con fare rassicurante. «La prego, continui, se non le dispiace, signora Garde», dissi, appoggiandomi allo schienale della mia poltrona, e accesi una sigaretta che avevo preso dalla scatola d'argento posta sul tavolo fra noi. La signora Garde si rilassò e si appoggiò allo schienale della poltrona, ma non smise di fissarmi. Quando riprese a parlare, lo fece lentamente, con un certo sforzo. Istintivamente mi resi conto che aveva dovuto fare un notevole sforzo per prendere quella decisione e che, se non si fosse concentata in quel modo, avrebbe perso il controllo, e avrebbe urlato.
«Forse lei avrà letto il libro di Du Maurier, Il Marziano, signor Canevin», mi disse e, quando assentii, riprese: «Rammenterà certo il momento in cui la vista di Josselin comincia a venir meno, e lui è disorientato e molto preoccupato dalla scoperta di un punto debole all'interno del suo occhio sano: questo fatto viene enfatizzato dalla cecità dell'altro, e lui ne è molto scosso. Pensa che stia diventando completamente cieco, finché un oculista dal continente non lo rassicura rivelandogli l'esistenza del punctum caecum, un punto di cecità totale in linea con l'asse visivo del nervo ottico. Rammenta quell'episodio?». «Perfettamente», dissi io, e assentii in maniera rassicurante. «Ebbene, ricordo di aver compiuto io stessa delle ricerche per trovare il mio punctum caecum, quando ero ragazza», riprese la signora Garde. «Immagino che molte persone abbiano provato a ripetere l'esperimento. Naturalmente esiste un asse visivo al di fuori di ciascun punctum caecum, alla sinistra del normale fuoco visivo dell'occhio sinistro, e in un punto simmetricamente opposto a questo, alla destra del fuoco dell'altro occhio. Oltre a questa variazione della nostra visione normale, ho appurato che esiste un'altra condizione, particolarmente manifesta nella mezz'età. La linea retta della visione normale si logora, diciamo, e la visione stessa, specialmente per coloro che hanno usato molto la vista - per ricamare, leggere o per un lavoro di tipo professionale che richiede una visione concentrata diventa meno acuta rispetto ai casi in cui la visione viene esercitata da un'angolazione insolita.» Fece una pausa, e mi guardò come per accertarsi del fatto che seguissi il suo discorso. Ancora una volta assentii. Avevo ascoltato con attenzione ogni sua parola. La signora Garde, riprendendo il discorso, entrò nel vivo dell'argomento. «Appena giungemmo qui, signor Canevin, la prima cosa a cui pensai fu di trovare un luogo adeguato per questo ritratto del signor Garde.» Non lo guardò, ma indicò il ritratto con un gesto della mano. «Ho esaminato quella sezione del muro per trovare quale sarebbe stato il punto migliore. Decisi che quel punto era il migliore, e ordinai al maggiordomo di piantare un chiodo nel punto che avevo scelto. Il quadro fu appeso lì ed è tuttora nel posto che scelsi allora. Durante questa operazione io avevo esaminato a lungo la parete vuota. Ma, quando il quadro fu messo al suo posto, mi resi conto... compresi che vi era qualcosa... qualcosa, signor Canevin, che diventava sempre più chiaramente distinguibile con il passare del tempo, più definita.
Sopra al quadro vi era qualcosa che si trovava al di fuori del mio angolo visivo oltre il punto cieco del mio occhio sinistro. Quando ero seduta e guardavo in alto a sinistra, mi sembrava sempre più distinta. Naturalmente, avevo guardato il quadro molte volte, per assicurarmi che avessi trovato il punto giusto sulla parete. Così facendo, la parte dell'occhio che non era tanto logorata dall'uso, mi mostrava il punto che vi ho indicato. Come vi ho detto, esso si trova a circa un metro al di sopra del ritratto del signor Garde. Signor Canevin, quella cosa è cresciuta... cresciuta!» Improvvisamente la signora Canevin perse il controllo di sé. Si nascose il volto tra le mani tremanti e, appoggiandosi al tavolo come una bambina che gioca a moscacieca, nascose il volto tra le braccia, e il suo corpo slanciato cadde preda di tremiti e di singhiozzi incontrollabili. Questa volta compresi che la miglior cosa da fare era di sedere in silenzio, e attendere che la povera signora, così scossa, si riprendesse dal suo attacco isterico. Attesi quindi pazientemente tentando mentalmente di rassicurare la padrona di casa, per quanto possibile, della mia simpatia nei suoi confronti e del mio desiderio di aiutarla in qualsiasi modo. Piano piano, come avevo previsto, gli spasimi dei singhiozzi diminuirono d'intensità, e alla fine cessarono del tutto. La signora Garde sollevò la testa, si ricompose, e mi guardò di nuovo. Questa volta con maggior calma e compostezza. Come spesso accade, quel momento di pianto isterico, benché l'avesse molto scossa, le aveva fatto bene. Riuscì perfino a sorridermi mestamente. «Temo che lei mi giudichi una persona di poco carattere, signor Canevin», disse finalmente. Sorrisi in silenzio. «Quando sarà possibile, credo che sarebbe meglio se potessi saperne di più», dissi. «Cerchi, per favore, di dirmi esattamente cosa vede sulla parete, signora Garde.» La signora Garde acconsentì con un cenno del capo, e passò un po' di tempo a ricomporsi. Fece persino uso del suo portacipria, e alla fine riuscì perfino a sorridere. Poi, improvvisamente tornata seria, disse semplicemente: «È la testa e una parte del corpo - la parte superiore frontale, per essere più precisi, signor Canevin - di un animale che pare un giovane toro. Dapprima solo la testa era visibile. Poi, col tempo, sono apparse le spalle e il collo. È una cosa grottesca, assurda; non le pare?
Ma, signor Canevin, per quanto strano le possa sembrare...». Abbassò lo sguardo sulle mani che si agitavano nervosamente, poi, con evidente sforzo, tornò a guardarmi. Il suo viso improvvisamente era orribilmente impallidito al di sotto del velo di cipria fresca. «Signor Canevin, questa non è la cosa più terribile. Si potrebbe infatti spiegarla come un'illusione ottica, o qualcosa del genere. È piuttosto...», esitò di nuovo abbassando contemporaneamente lo sguardo poi, con uno sforzo ancor maggiore di prima riprese a guardarmi, «è piuttosto... l'espressione... di quel muso, signor Canevin! Si tratta di un'espressione del tutto umana, l'assicuro: è terrificante, e ha un'aria che si potrebbe definire di rimprovero! Inoltre, signor Canevin, vi è del sangue, un grosso fiotto di sangue, che cola dal centro della fronte sul naso di quella povera creatura! È una visione assolutamente patetica, signor Canevin! Un'esperienza terribile da provare. Mi ha sconvolto la vita. È tutto qui, signor Canevin: la testa, il collo e le spalle di un giovane toro, con il sangue che gli cola lungo il muso, e quell'espressione...» Immediatamente, sentendo quella dettagliata descrizione della straordinaria impressione ottica della signora Garde, le mie facoltà analitiche caddero preda di una grande confusione. Nel suo racconto trovai punti di contatto con alcune cose che sapevo circa le credenze dei negri a proposito degli spettri e di altri fenomeni simili delle Indie Occidentali, faccende circa le quali non sono del tutto privo di esperienza. Il toro, pensai subito, era il principale soggetto dei sacrifici del culto voodoo nelle isole, e ovunque abbiano prevalso gli antichi Dei africani della Guinea. Ma un toro con un'espressione simile a quella descritta dalla signora, con il sangue che gli colava lungo il naso, apparso in un punto della parete al di sopra della mensola del camino di Casa Gannett: be', questo era senza dubbio un rebus! Mi ricordo che feci scivolare in avanti la sedia, e sollevai una mano perché la signora Garde ascoltasse quello che stavo per dirle. Avevo avuto un'idea. «Per favore, signora Garde», chiesi. «Potrebbe dirmi se la visione che mi ha descritto è vicina alla parete... o meno?» «È ben staccata dalla parete», rispose la signora Garde, sforzandosi di esprimersi con precisione. «Pare, direi, che sia distanziata di circa un metro dalla parete vera e propria, nella nostra direzione. Naturalmente... non è al di là del muro, voglio dire e, ho omesso di dirle, signor Canevin, che, quando fisso l'immagine per un certo lasso di tempo, la testa e le spalle sembrano slittare in avanti e verso il basso. Sembrerebbe che l'animale sia
stato appena ferito, e stia per crollare a terra morto.» «Grazie», dissi. «Deve esserle costato molto darne una descrizione tanto chiara e precisa. Tuttavia, da un punto di vista psicologico, è molto facile capire che questo non può che giovarle. Lei ha condiviso con un'altra persona questa sua esperienza. Questo naturalmente, è un passo nella giusta direzione. Ora, signora Garde, mi permette di prescriverle una cura?» «Naturalmente, signor Canevin», rispose la signora Garde. «Francamente, questa cosa mi ha ridotto in uno stato pietoso, e sono pronta a tutto pur di trovare qualche sollievo. Ovviamente, non ne ho fatto parola con i miei figli. Non ne ho parlato con nessuno al di fuori di voi. Non è certo una cosa che si possa discutere... con chiunque.» Mi inchinai dal punto oltre il tavolo al complimento sottinteso, a quell'espressione di fiducia nei miei confronti. Dopotutto, ero una semplice conoscenza della signora Garde. «Suggerisco», dissi, «che l'intera famiglia Garde faccia un'escursione per le isole, simile al viaggio che io ho appena terminato. La Samaria, della Cunard Line, sarà a St. Thomas giovedì. Oggi è lunedì. Sarebbe molto semplice prenotare per telegrafo o per mezzo di un cablogramma, inviandolo a St. Thomas. Parta per due o tre settimane, e torni solo quando si sente pronta a farlo. Mi lasci le chiavi di Casa Gannett, signora Garde.» La padrona di casa assentì. Aveva ascoltato con viva attenzione il mio suggerimento. «Lo farò, signor Canevin. Credo che Edward e Lucretia non si opporranno. Infatti, hanno espresso la loro invidia nell'apprendere del vostro viaggio in Martinica.» «Bene», dissi in tono incoraggiante. «Siamo d'accordo allora. Dovrei forse aggiungere che il Grebe salperà per St. Thomas domattina. Sarebbe un'ottima cosa se riusciste a trovarvi posto. Telefonerò immediatamente al Segretario Comunale per il permesso, e consulterò il dottor Pelletier che è l'ufficiale sanitario della città: è un uomo di larghe vedute, e ha una vasta esperienza di casi simili a questo.» Nuovamente la signora Garde assentì docilmente. Evidentemente, era giunta al punto in cui avrebbe portato a termine qualsiasi suggerimento intelligente per mettere fine a quella orribile visione che la perseguitava. La famiglia Garde salpò a bordo della piccola nave governativa che faceva la spola tra le Isole Vergini e Portorico alle otto del giorno seguente. Li salutai dalla banchina del porto di Christiansted, e il pomeriggio seguente un telegramma da St. Thomas mi informò del fatto che il dottor
Pelletier era stato di grande aiuto e che le prenotazioni per la crociera di tre settimane nelle Isole erano state effettuate; sarebbero partiti a bordo della nave della Cunard Line. Ne fui molto sollevato, finalmente. Mi ero assunto una grossa responsabilità dando alla signora quei consigli. Ora, per tre settimane, ero padrone di Casa Gannett. Disposi, per mezzo del maggiordomo della signora Garde - un bianco che lei aveva portato con sé - che fosse data alla servitù una giornata di permesso per un picnic, una forma molto comune di svago tra i negri delle Indie Occidentali. Infatti, la signora mi aveva dato carta bianca circa l'intera faccenda. Inoltre, ordinai al maggiordomo di prendersi qualche giorno di permesso. Gli feci osservare che poteva andare a St. Thomas con il Grebe e tornare il giorno seguente. Vi erano molti bei negozi a St. Thomas. Il maggiordomo obbedì senza fare alcuna obiezione, e io mi recai a visitare il Reverendo Richardson, il Rettore della Chiesa Anglicana. Il Reverendo, quando gli raccontai l'intera storia, non fece altro che assentire con un'espressione di grande saggezza, tipica di certi abitanti delle Indie. Lui aveva passato la sua intera vita di sacerdote a combattere la «stupidità» dei negri. Sapeva esattamente quello che doveva fare, senza bisogno di altri suggerimenti da parte mia. Il giorno in cui la servitù era assente da Casa Gannett, il Reverendo Richardson venne con la sua borsa nera e compì il rito esorcistico dappertutto, ripetendo le sue formule e benedicendo ogni stanza con l'Acqua Santa. Poi, dopo aver accettato solennemente la banconota da venti franchi che gli diedi per i suoi poveri, e dopo avermi benedetto, il buon prete ripartì. I suoi servizi senza dubbio non gli parvero al di fuori dei suoi compiti quotidiani. Ora ero più sollevato. Come anche i più esperti conoscitori della Magia Voodoo di Haiti - quell'isola infestata di serpenti - ammettono nel corso delle loro sacre liturgie settimanali (quando ogni altare dedicato al Serpente è spogliato dei suoi simboli più nefasti, che vengono poggiati a faccia in giù sul terreno, coperti di frasche e il crocifisso prende il loro posto sull'altare), Dio è infinitamente più potente del più potente Serpente della Guinea, e di tutti gli Dei suoi affiliati! Io credo sia sempre meglio non correre rischi. Dopo questo episodio, attesi il ritorno della signora Garde. Di tanto in tanto andavo a parlare con Robertson, il maggiordomo. Per il resto lasciavo che l'aria marina agisse in maniera salutare sulla signora Garde, fidu-
cioso che al suo ritorno, dopo quel diversivo, le sue orribili visioni sarebbero cessate. Dal mio punto di vista il problema era piuttosto complesso. Naturalmente non avrei avuto pace finché non mi fossi accertato con qualsiasi mezzo delle circostanze di quelle strane apparizioni di cui la signora mi aveva raccontato di fronte al tavolino da tè. Nel corso dei miei processi mentali in cui avevo esaurito le mie conoscenze occultistiche circa le credenze delle Indie Occidentali, mi ricordai del vecchio avvocato Mailing. Ecco chi poteva custodire la chiave del mistero! Ho alluso brevemente a ciò che potrebbe definirsi la vaga ombra di un antico scandalo che aleggiava attorno a Casa Gannett. Se esisteva un evento precedente connesso con la vicenda presente, e qualcuno tra i vivi ne era a conoscenza, questa persona non poteva essere altri che Herr Mailing. Lui aveva già passato il suo ottantesimo compleanno, aveva conosciuto di persona, in gioventù, Angus Gannett, l'ultimo della famiglia a risiedere nella casa, ed era stato incaricato di sorvegliare la proprietà da una vita. Quindi, dopo aver pensato a lungo al modo in cui dovevo presentare la questione a quel vecchio conservatore, mi diressi da Mailing. Herr Mailing mi ricevette con tutta la cortesia tipica del Vecchio Mondo, che rende la visita più comune un'occasione cerimoniosa. Mi offrì il suo ottimo sherry. Usò perfino la formula: «A cosa, signor Canevin, devo l'onore di questa visita tanto piacevole?». Dopo aver chiacchierato circa diverse faccende di interesse locale, mi apprestai a introdurre con le necessarie cautele l'argomento che mi stava a cuore. Non tenterò di dare un resoconto completo del modo in cui giungemmo finalmente al cuore dell'argomento, né dell'impasse piuttosto lunga che si creò rapidamente tra il vecchio avvocato e me. Capivo chiaramente quale fosse il suo punto di vista. Le caute domande avevano a che fare con faccende private, e quindi pressoché sacre, di un suo vecchio cliente. La sua professionalità gli intimava il silenzio: un silenzio cortese, un silenzio circondato e edulcorato da diversi commenti strategicamente definibili come un palliativo. Ma, nonostante tutto, un silenzio definitivo quanto la solitudine di Quintana Roo nel mezzo delle giungle dello Yucatan. Ma ne uscì una parola chiave. Consciamente o inconsciamente io l'avevo probabilmente tenuta in serbo istintivamente. Non avevo fornito alcun dettaglio circa la descrizione fatta dalla signora Garde. Ossia, non avevo rive-
lato nulla circa la natura o la qualità della cosa che l'aveva colpita. Finalmente, battuto su tutti i punti dalla resistenza del vecchio conservatore, feci detonare la mia potenziale bomba. E funzionò! La parola chiave era «toro». Quando giunsi al punto del racconto in cui descrivevo ciò che la signora Garde aveva visto sopra il camino a Casa Gannett, e pronunciai quella parola, pensai per un istante che il vecchio gentiluomo, che era violentemente impallidito e aveva le labbra decrepite di un colore bluastro, stesse per svenire. Tuttavia non svenne. Con una certa sollecitudine si versò un bicchiere del suo ottimo sherry, lo bevve, con mano quasi ferma appoggiò il bicchiere sul tavolo, poi si voltò verso di me e disse: «Aspettate!». Attesi mentre il vecchio percorreva il corridoio, e ascoltai i passi attutiti delle sue pantofole, mentre andava alla ricerca di qualcosa. Quando tornò, il suo aspetto era quello abituale, le guance erano tornate del solito colore rossiccio, e il sorriso benigno di una vecchiaia innocente trionfava nuovamente sulle sue vecchie labbra. Pose sul tavolo di mogano accanto allo sherry un faldone di tipo antiquato. Mi lanciò un'occhiata e, assentendo gravemente con il capo tra sé e sé, Herr Mailing mi porse un documento con un inchino cerimonioso. Lo presi e ascoltai ciò che il vecchio gentiluomo aveva da dire, mentre ne scorrevo il contenuto. Conteneva molte pagine di carta a righe, del tipo che ho visto in uso negli antichi registri delle piantagioni. Lo tenni con vivo interesse mentre ascoltavo le parole di Herr Mailing. «Signor Canevin», disse, «le do questo, amico mio, perché contiene una spiegazione di ciò che vi ha turbato... naturalmente. Si tratta del resoconto esatto di ciò che accadde a Casa Gannett, nell'autunno del 1876, quando Herr Angus Gannett, l'ultimo proprietario, era appena tornato dagli Stati Uniti dove si era recato in visita a certi parenti, e per visitare l'Esposizione del Centenario a Philadelphia. Credo che lei troverà che questo documento, questo racconto, spiega cose che adesso è impossibile... persino concepire! Mi considero libero di mostrarglielo, giacché l'autore è morto. Penso di essere legato ai miei doveri solo per quanto riguarda l'uso del documento durante la vita del testatario, ossia del narratore. Non si tratta di un testamento: infatti è un resoconto. Immagino, signore, che lo troverà molto interessante. Per me è stato così!» Con un inchino ringraziai Herr Mailing della sua grande cortesia, e in-
trapresi la lettura. 2. Gannett House, Christiansted, D.W.I. 25 Ottobre 1876 Mio buon amico e fratello Rudolf Mailing, Quello che sto per scrivere conterrà tutte le istruzioni per te circa il modo di amministrare le mie proprietà e la residenza di città sul lato meridionale della Piazza del Mercato della Domenica di cui ti affido la custodia amministrativa. È mio intento, il ventinovesimo giorno di questo mese, salpare per l'Inghilterra, diretto alla città di Edimburgo. Il mio domicilio in quella città sarà: MacKinstrie's Lane, 19, una traversa di Clarges Street. A questo indirizzo perverranno tutte le comunicazioni necessarie, sia a livello personale sia quelle concernenti la proprietà, qualora se ne creasse la necessità. Voglio che tutta la casa sia chiusa dopo la mia partenza e mantenuta in questo stato, e che l'inventario degli oggetti al momento della chiusura da te stilato, sia mandato per posta a Edimburgo il prima possibile. Ti devo una spiegazione - e me ne rendo conto - di questa mia brusca partenza. Mi accingo a fornirtela. Ti chiedo di osservare la più completa segretezza per tutta la durata della mia vita naturale sulla base della fratellanza che, come Fratello Massone, tu naturalmente riconoscerai benché ti venga notificata in maniera tanto informale. Terrai dunque segreto questo rapporto confidenziale seguendo le regole della Confraternita. Comincerò ricordando in parte ciò che tu già conosci. Alla morte di mia madre, Jane Alicia MacMutrie Gannett, mio padre, il deceduto Fergus Gannett, ha causato a me e ai suoi parenti in Scozia un gran dolore, avvalendosi di un sollievo che in realtà costituisce una piaga che affligge numerosi gentiluomini di razza caucasica e molte altre classi sociali qui nelle Indie Occidentali. In breve, mio padre si legò a una certa Angelica Kofoed, una mulatta della nostra casa, che era stata la cameriera personale di mia madre. Questo avvenne nell'anno 1857. Come ben sai, da questa unione nacque un figlio. Mio padre, che avrebbe potuto esentarsi da ogni obbligo legale secondo le leggi vigenti nelle Indie Occidentali pagando la somma di quattrocento dollari alla madre, scelse invece, a causa di quell'infatuazione, di riconoscere il figlio e, attra-
verso un processo previsto dal codice legale, decise di legittimarne la nascita. Io avevo poco più di dieci anni quando nacque il bambino chiamato poi Otto Andreas Gannett, proprio qui nella casa in cui ora scrivo queste parole. Da allora in poi, mio padre troncò ogni relazione con Angelica Kofoed, le diede una pensione a vita e, non appena il piccolo fu svezzato, la costrinse a emigrare nell'isola di St. Vincent, dove era nata. Il mio fratellastro, Otto Andreas Gannett, rimase invece a casa nostra, accudito da una balia, e crebbe sotto il nostro stesso tetto come un membro della famiglia. Devo dire che sarebbe stato più facile per me lottare contro la ripugnanza e l'odio che nutrivo per il mio fratellastro se lui non avesse avuto un pessimo carattere, sviluppatosi dall'infanzia fino all'età adulta in maniera da precludere ogni altro atteggiamento da parte mia. Sarò più esplicito, dicendo che Otto Andreas aveva ereditato solo poco più di un ottavo di sangue negro, e pareva quindi di razza caucasica. Non vorrei che sorgesse un malinteso su questo punto. Sono al corrente del fatto che alcuni dei nostri migliori cittadini qui nelle Indie Occidentali hanno sangue misto. Nel migliore dei casi questa è una questione delicata, almeno per quanto riguarda la situazione qui nelle isole. Sia sufficiente affermare che le peggiori caratteristiche della razza negra si manifestarono man mano che Otto cresceva e diventava un uomo. Egli ha oggi, e avrà per lungo tempo, una pessima reputazione anche tra i negri dell'isola. Una reputazione dovuta alla sua malvagità e alla sua lussuria, alla pessima scelta di amicizie, a un comportamento egoistico e peggio ancora. Infatti, manifestò sempre un'incurabile tendenza a occuparsi delle pratiche malvage e stupide dei negri. Con gran vergogna per la nostra casa, ebbe stretti rapporti con questo mondo per molto tempo, fino alla sua morte, avvenuta nell'autunno di quest'anno, il 1876. Mi riferisco alle credenze conosciute sotto il nome di obeah. È da notare che proprio per questo motivo io riuscivo a malapena a sopportarlo. Fortunatamente mio padre lasciò questa terra cinque anni fa, prima quindi che questa esecrabile tendenza verso il potere del Demonio si fosse manifestata chiaramente all'attenzione del mio vecchio genitore. Ringrazio Dio di aver chiamato a sé mio padre prima che fosse costretto a portare questa croce. Non fornirò altri dettagli, limitandomi a dire che il cumulo di tante qualità negative nel mio fratellastro fu la causa della mia partenza per gli Stati Uniti il 2 Maggio del 1876. Come tu ben sai, lasciai qui Otto Andreas dopo
un suo solenne giuramento di buona condotta, pensando di riuscire a sfuggire al continuo contatto con lui. Infatti mi era diventato ormai insopportabile. Mi recai quindi a New York e di lì a Philadelphia, dove intervenni all'Esposizione del Centenario sperando di distrarmi. Più tardi, all'inizio di Ottobre, visitai diversi nostri parenti negli Stati del Maryland e della Virginia. Ritornai in patria salpando da New York e facendo scalo a Portorico, il diciannove Ottobre. Sbarcai nel West-End, e pernottai presso un nostro amico, Herr Mulgrav, il Giudice della Corte di Frederiksted, e grazie al Reverendo dottor Dubois e alla cortesia della Chiesa Anglicana del WestEnd, che molto gentilmente mi prestò la sua carrozza a cavalli, giunsi dopo un viaggio di quasi trenta chilometri a Christiansted il mattino seguente. Giunsi poco prima dell'ora di colazione, un quarto d'ora prima dell'una di pomeriggio. Mio caro amico e fratello, vorrei informarti che non ero stato tanto ingenuo da pensare che la mia lunga assenza in America avrebbe avuto l'effetto di correggere il carattere del mio fratellastro. Ero anzi sicuro che avrei dovuto fronteggiare nuove nefandezze, nuove stupidaggini da parte sua, perpetrate durante la mia assenza. Mi aspettavo quindi che il mio ritorno a casa non sarebbe stato molto piacevole. Avevo ampie prove che questa mia paura non fosse infondata. Arrivai a casa mia, quindi, in uno stato mentale non completamente sereno. Ero partito per assicurarmi un po' di pace. Tornavo ora a fronteggiare l'ignoto. Nessun uomo in pieno possesso delle sue facoltà - lo dico deliberatamente, con l'intenzione di avvertirti, amico mio, mentre leggi ciò che sto per scrivere - avrebbe tuttavia potuto immaginare ciò che mi attendeva! Avevo ricevuto un avvertimento circa lo stato di cose sulla strada che avevo percorso tra qui e Frederiksted. Come tu ben sai, i negri sull'isola mostrano chiaramente in volto quali siano i loro pensieri, in certi momenti. Altre volte invece possono essere del tutto imperscrutabili. Mentre passavo, osservai i negri lungo la strada o al lavoro nei campi, ma non vidi null'altro sui loro volti se non la pietà e la compassione. Ai miei orecchi giungevano numerosi mormorii, mentre tra loro dicevano: «Povero signorino!». Oppure commenti come: «Oh, Dio! Casca dalla pentola nella brace!». Questo naturalmente era poco rassicurante. Eppure non ne fui sorpreso. Mi ero aspettato guai, dei quali Otto Andreas era la causa e la radice.
Non ti nascondo che mi aspettavo qualcosa di brutto. Entrai nella casa stranamente silenziosa, e la prima cosa che avvertii fu un odore terribile! Probabilmente sarai sorpreso di questo. Ma ti sto dando il resoconto dei fatti. Lasciai che il cocchiere del dottor Dubois portasse all'interno il bagaglio a mano, poi mi diressi verso la porta, la spalancai ed entrai; le mie narici immediatamente furono assalite da un odore terribile, un fortissimo fetore di stallatico. Mi attanagliò la gola. Chiamai a gran voce i servi, lasciando la porta aperta in modo che Jens potesse entrare con le mie valigie, e per far uscire quell'odore nauseabondo. Chiamai quindi Herman, il maggiordomo, e Josephine e Marianna, le cameriere. Chiamai anche Amaranth Niles, la cuoca. Sentendo il suono della mia voce, i servi, che non avevano saputo del mio arrivo durante la notte precedente, arrivarono di corsa. I loro visi erano istupiditi e assenti, come accade ai negri quando hanno qualcosa da nascondere. Ordinai loro di portare le valigie nella mia stanza, poi mi voltai per dare a Jens una ricompensa per il suo disturbo. Quando mi girai, trovai solo Josephine che mi fissava dalla soglia di una porta: gli altri due erano già spariti con il mio bagaglio. Le altre cose, i bauli e i colli pesanti, sarebbero stati mandati da Frederiksted nel pomeriggio su un carro. «Cos'è questo odore terribile, Josephine?», chiesi. «La casa puzza come una porcilaia, ragazza mia. Cosa è accaduto? Forza, parla!» La ragazza era ferma sulla porta. Il suo viso era imperscrutabile. Si torse le mani. «Oh Dio, Signore, non saprei», rispose con quella falsa ingenuità tanto irritante che i negri possono fingere quando vogliono. Non dissi nulla, perché non desideravo inaugurare il mio ritorno a casa con una sfuriata. Inoltre, quell'orribile odore poteva non essere colpa della ragazza. Andai a sinistra, lungo il corridoio interno, ed entrai nel salone attraverso la porta d'ingresso, che trovai chiusa. L'aprii, ed entrai. Mailing, amico mio, preparati. Tu sarai - a dir poco - sorpreso, per così dire. Lì nel centro del salone, con il collo rivolto verso chiunque apriva la porta del salone, cioè, in questo caso, io stesso... vi era un giovane torello, nero come il carbone! Accanto, sul pavimento, nel mezzo del tappeto di Bukhara che mio nonno aveva riportato dal suo viaggio nel Turkestan nel 1837, vi era una cesta
piena di erba fresca e di carote. Sullo stesso tappeto vi era un grosso secchio d'acqua. Dalla bocca del torello pendevano dei ciuffi d'erba, e mi fissò a lungo, come per dire: «Chi osa disturbarmi nella mia dimora?». A quel punto persi il controllo. Un torello nel salone di casa mia, nella mia casa di città... era troppo! Corsi via, verso il corridoio, chiamando i servi: Herman, Josephine, e Marianna. Vennero, e mi guardarono dall'alto affacciati alla balaustra delle scale, le facce grigie per la paura. Imprecai violentemente contro di loro, come potrai immaginare. Perfino il buon dottor Dubois proverebbe il desiderio di esprimersi in quel modo se tornando un giorno al Rettorato trovasse un torello acquartierato nel salotto buono! Tuttavia, le mie parole non ottennero alcuna risposta eccettuati gli sguardi ottusi che ho già descritto. E quando, nel mezzo della mia invettiva, apparve la vecchia Amaranth Niles, la cuoca, accorsa dalla cucina mentre stringeva ancora un lungo cucchiaio nella mano grassoccia, e che era stata con noi fin dalla mia nascita avvenuta ventotto anni prima, anche lei assunse la stessa espressione ottusa. Improvvisamente smisi di inveire, chiamandoli stupidi, ingrati, lazzaroni e pendagli da forca. Mi venne in mente ben presto che quelle gesta non potevano essere opera loro. Doveva essere l'ultima malefatta del mio fratellastro Otto Andreas. Ora lo capivo chiaramente. Mi ricomposi, e mi rivolsi al povero Herman in tono più benevolo. «Vieni, Herman: porta quella bestia fuori da questa casa, immediatamente», dissi, indicandogli la porta spalancata del salone. Ma Herman, nonostante il mio ordine fosse stato inequivocabile, non si mosse. Il suo viso divenne di una tinta color cenere, e mi lanciò uno sguardo implorante. Poi, lentamente, levò le mani al di sopra del capo e rimase lì sulla scala, guardando con aria tremante oltre la balaustra, e gridò: «Non posso, signore, lo giuro di fronte a Dio... non posso!». Rivolsi uno sguardo abbastanza calmo a Herman, e gli dissi: «Dov'è il signor Otto Andreas?». A quella domanda semplicissima, le due cameriere cominciarono a piangere e a gridare, e la vecchia Amaranth Niles, la cuoca, che aveva osservato la scena con occhi sgranati dalla porta, si voltò con un'agilità del tutto inaspettata e fuggì per cercare rifugio in cucina. Il viso di Herman, se mai era possibile, si era schiarito di un tono. Con fare esitante, l'uomo si sforzò di scendere dalle scale, afferrandosi rigidamente alla balaustra. Quindi si voltò e mi si avvicinò, il viso grigio e inquieto, mentre il sudore gli imperlava la fronte. Cadde in ginocchio di
fronte a me sul pavimento del corridoio e, sollevando le mani al di sopra del capo, gridò: «Lui morto, signore, il giorno prima di ieri, signore: è la verità, padrone!». Ti confesso, Mailing, che, sentendo questa notizia, mi parve che il corridoio ruotasse intorno a me, tanto era inaspettata. Forse i miei amici non ne erano stati informati. Ma un'altra questione si presentava alla mia mente disorientata, una domanda che avrebbe chiarito perché non ne ero stato informato. «A che ora è morto, Herman?», riuscii a dire. Ero io ora a tenere stretta la balaustra. «Tardi, signore», rispose Herman, ancora in ginocchio, dondolando da una parte all'altra. «Forse due ore dopo la mezzanotte, signore. Lui sepolto il giorno dopo, signore, cioè ieri pomeriggio, alle due. Il corpo non teneva bene, e poi, signore, noi non sapevamo del vostro arrivo.» Ecco perché i Mulgrav non me lo avevano riferito. Semplicemente, non erano stati messi al corrente della morte del mio fratellastro. Secondo il normale corso degli eventi, essendo piuttosto distanti da Christiansted, non ne avrebbero saputo nulla fino ad oggi. La mia prima reazione - lo ammetto - fu di profondo sollievo. Otto Andreas - confesso di averlo pensato - non mi avrebbe creato altri problemi. Non avrebbe più danneggiato nessuno con i suoi difetti, la sua arroganza, le sue empietà e le sue villanie. Ma non era così... Poi, quasi meccanicamente, suppongo, il mio pensiero si rivolse al soqquadro che regnava nel salone, a quell'animale da stalla che vi era rinchiuso, e al tappeto intriso di letame. Mi rivolsi a Herman e gli dissi: «Alzati, Herman! In piedi! Non c'è motivo che ti comporti in questo modo. Naturalmente mi sono molto adirato quando ho visto quell'animale nel salone, e lo sono ancora. Dimmi...», chiesi, mentre l'uomo si alzava tremante, «chi ce lo ha messo, e perché non è stato portato via...». A queste parole Herman prese a tremare dalla testa ai piedi, e di nuovo il suo viso scuro, che era quasi tornato al suo solito colorito, divenne grigio dalla paura. Mi accorsi che l'uomo che avevo di fronte non era impaurito dalla mia presenza, ma vi era qualcos'altro che lo terrorizzava. Naturalmente sono abituato alle stranezze dei negri. Gli parlai di nuovo, con gentilezza, dando voce a un'idea che mi era venuta in precedenza e che aveva arrestato il mio primo sfogo d'ira. «È stato il signor Otto Andreas a condurre la bestia in casa?»
Herman apparentemente non era in grado di parlare, e assentì. «Forza, amico, portalo via subito!», ordinai. Con mia grande stizza, Herman cadde nuovamente in ginocchio ai miei piedi, mormorando sconsolato di non poter obbedire ai miei ordini. Lottai per conservare la pazienza. Era stato fortemente messo alla prova, pensai. Presi Herman per una spalla, lo feci rialzare, e lo feci camminare, senza che opponesse resistenza, lungo il corridoio fino al mio ufficio. Chiusi quindi la porta alle nostre spalle e mi sedetti alla scrivania dove scrivo ora, e dove solitamente faccio i miei conti. Mi resi conto che Herman tremava ancora; vi era qualcosa che non riuscivo a capire. «Vai e porta del rum e due bicchieri, Herman», ordinai, sforzandomi di parlare con calma e gentilezza. Herman lasciò la stanza in silenzio. Rimasi ad attendere il suo ritorno, molto turbato. Il toro avrebbe dovuto aspettare. Da ciò che avevo visto, sembrava che fosse rimasto in quella casa un giorno intero o forse più. L'odore era insopportabile, nonostante la porta fosse chiusa. Herman ritornò, e poggiò il rum e i bicchieri sul tavolo. Ne versai una dose generosa per lui, e una più piccola per me. Bevvi quindi il mio rum e porsi a Herman l'altro bicchiere. «Bevi, Herman», gli ordinai, «poi siediti. Desidero parlarti.» Herman bevve il rum, sgranando gli occhi quando ripetei il mio ordine, e si sedette inquieto sul bordo della sedia che gli avevo indicato. Lo fissai. Bere il rum gli aveva giovato. Infatti aveva smesso di tremare. «Ora ascoltami», dissi. «Ti prego di dirmi, con parole semplici e chiare, perché non hai portato il toro fuori dal salone. Lo devo sapere: forza, dimmelo!» Nuovamente Herman si gettò ai miei piedi e vi rimase. Mormorava: «Ti prego di credere, padrone, che non posso farlo». Questo era troppo. Lasciai da parte il mio senso di autocontrollo, afferrai quel furfante nero per il collo, lo feci rialzare, e presi a scuoterlo di santa ragione. Lo presi a pacche sul viso. Lui non opponeva resistenza, poveraccio. «Adesso me lo dirai», lo minacciai, «o, per Dio, ti romperò ogni osso di quel tuo corpo di negro buono a nulla! Forza, dimmelo subito: basta con queste stupidaggini!» Herman s'irrigidì. Si sporse in avanti, e bisbigliò tremante alcune frasi nel mio orecchio. Non osava, a quanto pareva, menzionare il nome ad alta voce. Mi disse che Pap Joseph, il demoniaco papaloi nero, come lo chia-
mano loro, lo Stregone, aveva ordinato che il torello non fosse spostato dal salone. Inoltre, una volta cominciata la confessione, mi disse che il mio fratellastro aveva tenuto quella bestia immonda nella casa per diversi giorni prima della sua morte improvvisa. Riesci a immaginarlo, Mailing? I due avevano fatto una serie di complicati preparativi, lì nel salone, per qualche sporco obeah che avevano deciso di fare. Il torello vi era stato portato tre giorni prima. Herman aggiunse altri particolari del tutto superflui e, finalmente, disse che per quanto poteva capirne lui - che non aveva assistito ad alcuna delle fasi delle loro Magie Nere e stregonerie, di cui altri negri erano stati testimoni - Otto Andreas era morto all'improvviso e inaspettatamente, nel mezzo delle loro cerimonie, e che Pap Joseph stesso aveva ordinato a Herman di non rimuovere il torello dalla sala in nessun caso. Pap Joseph aveva aggiunto che sarebbe stato proprio lui, Pap Joseph in persona, a portarlo via. Bisognava dargli cibo ed acqua - per questo erano stati posti nella stanza il secchio e il cibo - e tutto doveva essere lasciato com'era. Questo, naturalmente, spiegava molte cose. Tuttavia sapere il motivo del non voler eseguire i miei ordini, non spiegava il resto. La creatura disgustosa era, per così dire, ancora al pascolo nel mio salone. Era una cosa inspiegabile: perché lo Stregone aveva dato degli ordini tanto ridicoli? Per capire questo, bisognava conoscere bene le loro cerimonie e le altre stupidaggini del genere. Tuttavia mi resi conto che Herman era troppo impaurito: tutti i negri temono questo Joseph come la peste e il Diavolo in persona, e nulla lo avrebbe convinto a togliere l'animale dalla stanza. Mandai via Herman, e mi diressi lungo il corridoio verso la sala. Qui, per la prima volta, mi resi conto di quanto mi disorientasse la presenza di quel torello che occupava con tutta calma il mio salone. La prima volta infatti non me ne ero completamente reso conto. Sul lato orientale del salone, una grande piattaforma di legno, molto robusta, con una rampa inclinata che serviva da accesso, era stata costruita ai piedi della parete, e arrivava fino alla mensola di marmo sopra il camino. Quella piattaforma, delle dimensioni di circa tre metri quadri, pareva un'estensione del camino all'interno della sala. Compresi subito, come lo comprendi tu ora, quale fosse il significato di quella costruzione. La piattaforma era una specie di altare voodoo. Riti molto complicati, facenti parte delle più alte manifestazioni delle loro pratiche nefande, vi erano stati perpetrati. Avevo la bocca completamente
secca per l'indignazione: il figlio di mio padre, Fergus Gannett - sia pure di colore - si era prestato a tanta empietà, prendendo parte a tale opera! Dovevo trovare una corda con la quale legare il toro per condurlo fuori. Infatti era del tutto libero, e ora stava fermo, intento a guardare fuori da una delle finestre, senza neanche un collare. Uscii dalla stanza, chiudendomi la porta alle spalle, ed ero sul punto di chiamare Herman e di ordinargli di prendere una corda, quando pensai che sarebbe stato meglio cercare qualcuno che mi aiutasse. Vedi: non avrei certo potuto condurre la bestia fuori di casa e portarla sulla strada pubblica. Sarebbe stata una scena ridicola, che mi avrebbe segnato per gli anni a venire, quando sarei stato fatto segno di derisione e di pettegolezzi tra i negri della città, anzi, di tutta l'isola. Allora chiamai Herman e, quando egli venne, non gli chiesi una corda, ma gli ordinai di procurarmi una carrozza. Quando questa apparve, dieci minuti dopo, ordinai a Herman di portarmi a Macartney House. Sì, mi ero deciso, a costo di dovermi confidare con Macartney, ma avrei fatto bene ad avvalermi di lui. Possedeva infatti molti capi di bestiame. Macartney che consegnava un torello, magari facendolo passare dal retro da uno dei suoi braccianti, non avrebbe creato molta curiosità in città. Pensavo a questa decisione durante i dieci minuti che ci vollero per arrivare da Macartney e, quando arrivai, lo trovai a casa: con lui vi era Cornelius Hansen, il genero, che aveva sposato sua figlia Honoria. Spiegai a quei gentiluomini che il mio eccentrico fratellastro, da poco defunto, aveva portato un capo di bestiame nel salone poco prima di morire, e chiesi loro di aiutarmi a liberarmi di quella bestia. Entrambi acconsentirono. Erano quasi le tre del pomeriggio quando giungemmo a casa. Macartney aveva portato uno dei suoi bovari, che era seduto a cassetta accanto a Herman, e aveva con sé una corda e una cavezza. Entrammo con quell'uomo in casa, e c'incamminammo lungo il corridoio interno diretti verso il salone. A questo punto, caro Mailing, devo raccontarti un evento molto strano! Il torello, che era ancora giovane e non ancora cresciuto, non era però tanto docile e placido quanto ci si sarebbe potuto aspettare. In breve, ti dirò che, non appena la creatura ci vide entrare, e vide l'uomo con la corda e la cavezza, prese a comportarsi come se fosse indemoniata! Si mise a correre per tutta la stanza, rovesciando i mobili e frantumando alcuni oggetti, rovesciandone altri, sempre inseguito dal bovaro.
Macartney, il signor Hansen ed io tentavamo di circondarla. Finalmente si rifugiò proprio sulla piattaforma di assi! Sì, fuggì lungo la rampa e rimase immobile, ormai circondata, con il muso ricoperto di schiuma, le narici tese, e uno sguardo pieno di una emozione straordinaria, indescrivibile, sul suo volto bovino. L'animale rimase immobile mentre noi lo guardavamo, poi Macartney sbottò: «Perdiana, signor Gannett, questa bestia ha un'espressione umana in quegli occhi maledetti!». Lanciai uno sguardo al toro e mi resi conto che Macartney aveva ragione! L'animale aveva un'espressione molto umana, che esprimeva la sua volontà di non lasciare la sala! La cosa era del tutto ridicola, a parte il fatto che le sue pazze corse mi costavano un patrimonio. Infatti il falegname avrebbe dovuto lavorare a lungo su tutto quel mobilio ridotto in pezzi. Macartney ordinò al negro di salire sulla rampa e di mettere la cavezza al collo della bestia ormai intrappolata, e lui tentò di obbedire. Era arrivato quasi in cima, quando all'improvviso il torello caricò, e scaraventò l'uomo a terra rompendogli un braccio tra la spalla e il gomito. A questo punto persi del tutto la pazienza. Quella sciocchezza era durata abbastanza. Sembrava che le malefatte del mio fratellastro mi avrebbero perseguitato anche dalla tomba, per cui decisi che avrei posto fine a quella storia all'istante. «Occupatevi del vostro uomo, Macartney», dissi. «Io tornerò immediatamente. Portatelo fuori, se necessario, e Herman lo condurrà all'ospedale municipale.» Lasciata la stanza, mi diressi lungo il corridoio fino al mio studio, e presi una pistola dal cassetto della scrivania, dove la tengo abitualmente. Tornai nella sala passando davanti a Macartney e ad Hansen che stavano accompagnando il poveraccio con il braccio rotto - che gemeva in maniera pietosa - fino alla carrozza che li aspettava in strada. Con la pistola in mano mi avvicinai alla piattaforma. Il torello era ancora lì: non aveva fatto alcuno sforzo per discenderne. Camminai diritto lungo la stanza e mi misi di fronte alla piattaforma, poi sollevai la pistola, e presi attentamente la mira, puntando al centro della fronte della bestia. Proprio mentre premevo il grilletto, vidi l'espressione negli occhi dell'animale. Poi compresi appieno quello che Macartney aveva detto, circa lo sguardo di quella bestia! Se ne avessi avuto il tempo, lo confesso, Mailing, anche dopo tutte le provocazioni e gli affanni che mi aveva procurato, l'a-
vrei risparmiato. Ma era troppo tardi. La pallottola colpì la bestia in piena fronte. Essa barcollò sulle zampe, e un gran fiotto di sangue scorse lungo il suo naso roseo e si riversò sugli assi della piattaforma. Poi, all'improvviso, le quattro gambe non la ressero e cadde con un tonfo sordo sulle assi, facendo vibrare con il suo peso la piattaforma. Rimase quindi immobile, con la testa che sporgeva oltre il gradino della piattaforma. La lasciai dov'era, mentre il sangue si spargeva sul pavimento di mogano, e uscii dalla stanza, certo che la faccenda fosse conclusa. Ma, mentre cominciavo a pensare alle riparazioni e alle pulizie necessarie, mi sorse nella mente un pensiero terribile. Avevo l'impressione bizzarra e illogica che, per quanto strana ti possa apparire, mi porterò fino alla tomba: avevo l'impressione di aver gravemente interferito in qualche maniera inesplicabile e misteriosa, con l'estremo desiderio del mio fratellastro Otto Andreas! Macartney e suo genero stavano percorrendo il corridoio. Avevano già sistemato il bovaro nella carrozza, e allora li condussi nella sala da pranzo per offrir loro da bere. Poggiai quindi la pistola sul tavolo. «Ha sparato a quell'animale, allora?», commentò Macartney. «Sì», risposi, «e questo pone fine ai nostri problemi. Il vino e il rum sono qui sul tavolo. Prendete i vostri bicchieri, signori... Vi è una sola cosa, riguardo alla quale desidero ricevere il vostro parere.» Bevemmo insieme una misura di rum. Poi, posati i bicchieri e la bottiglia accanto alla pistola, avvicinammo le poltrone, e allora confidai a quei gentiluomini - che sono come noi membri della Loggia dell'Armonia di St. Thomas - dopo averli sottoposti formalmente al Rito del Silenzio, il fatto che il mio defunto fratellastro aveva portato uno Stregone in casa mia, per compiervi i suoi riti infernali. Entrambi furono d'accordo con me una volta che ebbi loro spiegato l'accaduto. Era una faccenda che richiedeva misure immediate. Dovevamo parlare con Knudsen, il Capo della Polizia, anch'egli un Massone, fortunatamente. Una volta giunti a quella conclusione, non perdemmo tempo. Mi scusai con loro e, lasciandoli in compagnia della bottiglia e dei lori bicchieri, presi la pistola, la rimisi al suo posto, e scrissi un breve messaggio al Capo della Polizia Knudsen. Poi ordinai a Marianna di portarlo a Christiansted. Knudsen rispose alla chiamata alle quattro precise e, dopo che fu arrivato, ci sedemmo per prendere il tè nella sala da pranzo, e per discutere il da
farsi. Knudsen fu d'accordo con noi. Avrebbe mandato immediatamente un paio di gendarmi, avrebbe arrestato Pap Joseph, e lo avrebbe imprigionato nel forte, per poi trasferirlo sulla scena del suo ultimo delitto quella sera stessa alle nove. Macartney e Hansen promisero che sarebbero tornati a quell'ora, e Herman, che era appena tornato dall'ospedale, li ricondusse a Macartney House. Knudsen e il suo prigioniero - ammanettato tra due gendarmi che sedevano con lui nel corridoio su tre sedie fin dalle otto e quarantacinque - furono i primi ad arrivare. Alle nove giunsero Macartney e Hansen. Knudsen e io sedemmo nel mio studio in attesa degli altri due. Lui bevve un paio di bicchieri, ma io rifiutai di bere ancora. Quando giunsero Macartney e suo genero Cornelius Hansen, mandammo via i gendarmi. Knudsen ordinò loro di attendere all'estremità del corridoio. Intanto portammo il prigioniero nello studio, e lo facemmo sedere. Ci sedemmo quindi attorno a lui e lo guardammo. Quell'uomo era piccolo, nero, e ben vestito: tranne che per l'espressione maligna, pareva una persona normale. Eppure, una sola parola al mio maggiordomo, aveva fatto in modo che un vecchio servitore della mia famiglia che era stato al nostro servizio per più di trent'anni, avesse rifiutato di eseguire l'ordine che gli avevo impartito di togliere quella bestia immonda dal mio salone! Avevo mandato a casa la servitù, senza tenere con me neanche Herman. Quindi avevamo tutta la casa a disposizione. Knudsen assentì verso di me non appena ci fummo sistemati, e allora mi rivolsi allo Stregone. «Joseph», dissi, «sappiamo che tu sei stato in questa casa con il signor Otto Andreas, e che hai usato il mio salone per i tuoi incantesimi. Questo naturalmente ti pone al di fuori della legge. Il codice proibisce che si pratichi l'obeah nelle Indie Occidentali Danesi, e tu hai infranto la Legge. Inoltre, giacché lo hai fatto in casa mia, io sono stato coinvolto nel caso. Ho parlato della faccenda con questi signori e, per essere franchi, vi sono delle cose che non mi sono ben chiare. In particolare vorrei sapere perché ho trovato un capo di bestiame acquartierato nella mia dimora, il che, da quel che ne so, è opera tua. Ti abbiamo portato qui per sentire la tua versione dei fatti. Se risponderai con chiarezza a quello che vogliamo chiederti, Herr Knudsen mi assicura che non sarai scaraventato in prigione, e non sarai punito. Se rifiuti, la legge seguirà il suo corso. Ti chiedo quindi di spiegarci pienamente perché quell'animale era nella mia casa e qual è stato il ruolo di Andreas in questa faccenda. Questi sono
i due punti sui quali vogliamo sapere tutti i dettagli.» Mailing: quell'uomo si rifiutò semplicemente di parlare. Non riuscimmo a cavarne una sola parola. Tentò Macartney, poi il signor Hansen. Finalmente Knudsen, che fino ad allora non aveva detto nulla, prese la parola. «Se ti rifiuti di rispondere a queste due domande», disse, «farò io in modo che tu parli.» Fu tutto. Non passò più di mezz'ora; ad ogni modo, il mio orologio indicava le dieci meno un quarto quando facemmo una pausa. Macartney, Hansen e io ci scambiammo sguardi disorientati. A quanto pareva, non riuscivamo ad aver ragione di quel maledetto ostinato. Poi, nella pausa che seguì, Knudsen, il Capo della Polizìa, mi rivolse queste parole: «Con il vostro permesso vorrei mandare i miei uomini in cucina». Mi inchinai. «Qualsiasi cosa vogliate, Herr Knudsen», replicai, e Knudsen si alzò e uscì in corridoio: attraverso la porta mezza socchiusa lo udimmo parlare ai gendarmi. Poi tornò e si sedette in silenzio, fissando il negro che ora, per la prima volta, appariva un po' irrequieto. Dava segno del suo stato d'animo con un caratteristico roteare degli occhi. Al di fuori di questo, fu molto poco comunicativo, proprio come era accaduto fino ad allora. Rimanemmo quindi in attesa fino a qualche minuto dopo le dieci. Knudsen e il negro erano rimasti in silenzio, e gli altri parlavano a bassa voce fra loro. Poi, trascorsi otto minuti dopo le dieci, uno dei gendarmi bussò alla porta e porse a Knudsen, che si era alzato per aprire, un secchio pieno di tizzoni, e le baionette delle carabine dei due uomini, staccate dai fucili probabilmente proprio per ordine dell'ufficiale. A quel punto ebbi la sensazione che qualcosa di spiacevole stesse per accadere. Sapevo che Knudsen aveva una reputazione di uomo probo e giusto. Lui era, come tu ben sai, uno degli ufficiali dell'Esercito Danese. Come uomo abituato a comandare gli uomini, non ammetteva stupidità da parte dei criminali o di altri con cui doveva avere a che fare durante lo svolgimento della sua professione. Pose il secchio di tizzoni al centro della stanza, e immerse le punte delle due baionette nella brace ardente. Poi si rivolse all'uomo in attesa accanto alla porta, e gli ordinò: «Porta qui Larsen, Krafft, e lega quest'uomo, mani e piedi». L'ufficiale aveva parlato in danese, una lingua che credo fosse sconosciuta al negro. Eppure mi accorsi che fece una smorfia a quelle parole, che chiaramente avevano a che fare con il trattamento che gli era riservato,
e il suo viso scuro assunse un aspetto grigiastro, il che nei negri equivale all'impallidire. I due gendarmi tornarono subito. Mentre Krafft faceva il saluto, l'altro disse: «Non abbiamo corda, Herr Commandant». Mi ricordai che la corda del bovaro di Macartney, che era stato portato in ospedale, era rimasta in casa. Mi ricordai che era rimasta a terra accanto all'orrida piattaforma, e io stesso avevo lasciato la stanza dopo aver ucciso la bestia. Nessuno era tornato nella sala da sette ore. «Mi perdoni, Herr Knudsen», dissi, alzandomi in piedi. «Se mandate un uomo ad accompagnarmi, gli darò io una corda.» Knudsen parlò a Krafft, che fece un altro saluto e, facendosi da parte in modo che potessi uscire nel corridoio, mi seguì da presso mentre lo percorrevo diretto verso la porta che dava sul salone. Mailing, amico mio, esito a descriverti quel che accadde poi. Eppure devo continuare il racconto, dopo questa lunga storia che ti ho già descritto in oltre un giorno di lavoro, per riuscire a far sì che tu comprenda. Tenterò di scrivere con chiarezza tutta questa terribile e incredibile faccenda, che con il suo orrore mi ha tanto colpito, e che mi ha causato una sofferenza mentale che durerà finché vivo. Essa infatti è la ragione per la quale lascio l'isola sulla quale ho vissuto una vita intera, che amo, che considero la mia patria, e dove vivono tutti i miei amici. Ascolta, allora, amico mio, quello che devo assolutamente porre per iscritto in modo che tu capisca. Giunto alla porta, la spalancai, e ci investì quell'odore orribile che aveva permeato completamente l'intera casa nonostante le finestre spalancate. Sfregato un cerino, accesi la lampada più vicina, un lume di ottone situato poco lontano dalla porta accanto al pianoforte Broadwood di mia madre. Grazie a questa luce il gendarme Krafft e io avanzammo nella stanza verso l'angolo opposto, verso la piattaforma. L'animale vi giaceva ancora, la testa riversa oltre il limite delle assi. All'alba del giorno seguente, dietro mio ordine, Herman e altri due braccianti l'avrebbero dovuto rimuovere e ripulire immediatamente la stanza. A due terzi del percorso mi fermai e, indicando la zona in cui giaceva la corda sul pavimento di mogano, dissi a Krafft che l'avrebbe trovata in quel punto. Con la coda dell'occhio vidi che accennava un silenzioso «signorsì». Intanto, io avevo cominciato ad accendere un altro grosso lume. Infatti, la luce della prima lampada, a causa del grosso paralume, illuminava in
maniera piuttosto fioca. Eravamo quindi ancora in penombra e la mensola e la piattaforma che la sovrastava erano immerse nel buio. Avevo appena acceso il lucignolo di questa seconda luce, quando udii il grido di Krafft. Lasciando cadere a terra la scatola dei fammiferi, mi voltai di scatto, e vidi il soldato con le mani sollevate verso il viso in un gesto di orrore, crollare a terra svenuto a non più di cinque passi dalla piattaforma. Guardai verso di lui e, per un attimo, i miei occhi rimasero abbagliati dalla vicinanza della fiamma che avevo appena acceso. Poi, Mailing, amico mio, vidi quel che lui aveva visto. Quel che aveva causato le urla di un poliziotto abituato a tutto, e che lo aveva fatto cadere a terra in preda agli spasimi del più puro terrore. E mentre guardavo quella scena, avvertii che la stanza aveva preso a rotearmi attorno, e fui convinto di trovarmi alla fine della mia vita terrena. Anch'io crollai a terra, indifeso davanti al cupo terrore di quella visione inaudita. Caddi a terra e, mentre svenivo, udii dietro di me le voci agitate di Knudsen, Macartney e del giovane signor Hansen. Costoro, attirati dall'urlo di Krafft, si erano infatti affrettati ad affacciarsi alla porta. Avevo visto in maniera indistinta nella poca luce delle due lampade ad olio, non la testa del torello che avevo annientato: avevo visto la testa e le spalle del mio fratellastro Otto Andreas, il buco nero sulla fronte e il sangue rappreso sul suo viso contorto. Ti ora il suo volto pendeva esanime e orribile a vedersi oltre il limite della piattaforma voodoo... Mi ripresi nel mio studio, circondato dai miei amici, e avvertii delle gocce d'acqua, fredda sul viso e sul collo, mentre il sapore del brandy mi pungeva la gola. Ero disteso a terra supino e, guardando in alto, vidi il gendarme Larsen, che ancora sorvegliava il negro tenendogli una pistola puntata alla nuca. Mi alzai a sedere con l'aiuto del giovane signor Hansen. Knudsen volgeva le spalle al gruppo. Afferrando una delle baionette che era ormai incandescente, nella mano guantata, pronunciò un ordine secco. Larsen costrinse il negro ad alzarsi dalla sedia e lo fece sdraiare, ancora legato, sul pavimento. L'attesa mi diede una leggera nausea. Chiusi gli occhi; avevo deciso di non interferire con quello che Knudsen stava facendo. Lui conosceva certi metodi ed era lì, dopotutto, dietro mia richiesta, per costringere quel criminale a confessare ciò che avrebbe svelato i misteri di cui volevamo venire a capo.
Ben presto tornai a sedere sulla mia sedia, grazie alle sollecite misure prese nei miei confronti, e fui in grado di ascoltare le parole che Knudsen rivolgeva al prigioniero steso a terra, supino. Vidi anche il viso pallido e distorto di Krafft, sulla soglia. Anche lui sembrava essersi ripreso. Abbrevio la descrizione di questa faccenda piuttosto scabrosa, e che mi nauseò fin nel profondo dell'animo. Tuttavia era necessario procedere in quel modo se volevamo ottenere quelle informazioni. Per dirla in breve, lo Stregone, anche nella sua situazione di grande pericolo, rifiutò di rispondere. Knudsen stesso gli strappò la camicia e applicò la baionetta incandescente al torace del malcapitato. Un orribile odore di carne ustionata si levò immediatamente e io chiusi gli occhi, nauseato a quella vista. Il negro urlò per il dolore insopportabile, poi serrò le labbra turgide e scosse la testa ignorando gli ordini ripetuti più volte da Knudsen di rispondere alle nostre domande. Poi Knudsen rimise la baionetta al suo posto, immergendola a fondo tra i carboni ardenti, e prese la seconda. Stringendola in pugno, rimase in piedi sovrastando il negro. Gli si rivolse quindi con tono secco, freddo e duro: «Amico, ti avverto! Non lascerai questa casa da vivo. Ti torturerò in tutto il corpo con queste baionette, finché non risponderai alle domande che ti abbiamo fatto». Alla fine di questo discorso, premette bruscamente il piatto della lama della baionetta sull'addome del negro. Dopo un grido di dolore angosciante, Pap Joseph capitolò. Assentì con il capo, e dalle labbra contorte gli uscì un gemito di assenso. Immediatamente lo facemmo rialzare e i gendarmi lo fecero sedere fra loro. Poi, con voce strozzata, roteando gli occhi, in preda a un'angoscia mentale che sovrastava di molto le sue orribili ferite, ci raccontò quel che segue... A quanto pare esistono due tipi di «sacrifici supremi» alle divinità oscure della religione voodoo. Il primo è il sacrificio umano, che essi chiamano del «capro senza corna». Secondo il nostro interlocutore non è stato mai praticato nelle isole. Il secondo tipo di cerimonia è quella del «battesimo». Quest'ultimo era proprio quello che era stato perpetrato in casa mia! E, benché non si sarebbe mai potuto indovinare a questo punto della narrazione che ti faccio in forma privata, caro Mailing... Otto Andreas stesso era il candidato. Avrei forse dovuto menzionare il fatto che il suo corpo, sepolto da un giorno e mezzo, e che era stato visto sia da me che da Krafft pendere sul-
l'orlo della piattaforma sacrificale, era stato tolto da quel luogo. Ora era stato ricomposto da Knudsen e da Larsen su quattro sedie nel salone, e vi era rimasto per tutto il periodo in cui Macartney e Hansen avevano tentato di farmi tornare in me e di riportarmi nello studio. Sul suo corpo c'erano tracce di terra e pezzi di legno di pino. Il culmine di quell'ignominioso rito che essi empiamente chiamano battesimo, è il sacrificio di un animale. Alle volte si tratta di una capra, altre volte di un giovane toro. In questo caso era stato scelto un toro. Prima che l'animale venga sgozzato, il candidato che si appresta al battesimo si pone carponi, denudato, e deve «confrontarsi» con la capra o il toro. Sì, Mailing, questo l'ho saputo dalle labbra distorte dal dolore di quel mascalzone. I due, ossia il candidato e l'animale sacrificale, si fissano a lungo negli occhi. Si crede infatti che, in questo modo, per un certo periodo di tempo, i due si scambino le personalità. Pare incredibile che si possa credere una cosa simile, eppure è così. Nel corso della cerimonia, quando il sacerdote ufficiante determina l'avvenuto scambio delle personalità, l'animale viene ucciso all'improvviso, sgozzandolo con un machete affilato o con un coltello per tagliare le canne da zucchero. A questo punto, la personalità dell'essere umano ritorna alla sua sede naturale. Eppure, una certa parte rimane nell'animale: infatti, alla morte della vittima sacrificale, essa ne esce e si pone sotto la protezione della cosa che essi chiamano il Serpente di Guinea. Questi infatti è l'oggetto finale delle loro devozioni, e ad esso è offerto il sacrificio del candidato. Tali sono i princìpi alla base del battesimo voodoo, nei termini nei quali ci sono stati spiegati. Questo è ciò che sarebbe accaduto nel caso di Otto Andreas, se non fosse sopravvenuto qualcosa di imprevisto. Naturalmente si può facilmente capire lo stress mentale e fisico a cui si sottopone un candidato in tali condizioni. Nel caso del mio fratellastro, esse risultarono addirittura insostenibili. Otto Andreas era morto all'improvviso, senza dubbio a causa di un attacco cardiaco dovuto allo sforzo, lì sulla pedana, pochi minuti prima che Pap Joseph stesso sacrificasse il toro. I seguaci del voodoo credono che le personalità in quel momento fossero scambiate. In altre parole, la mancata liberazione e il mancato ritorno alle rispettive sedi naturali, che sarebbero avvenute grazie al coltello sacrificale, fecero in modo che l'«anima» della vittima sacrificale morisse al momento della morte improvvisa di Otto Andreas, e... l'anima di Otto Andre-
as rimase nel torello. «E così, signore», terminò Pap Joseph, con un sorriso demoniaco, rivolto verso di me, «tu hai distrutto la vita di tuo fratello, signore, quando ti sei affrettato a uccidere quel torello!» Lo Stregone, da quanto risultava dal resto del racconto, aveva ordinato al vecchio Herman di tenere il torello nel salone, poiché ignorava che sarei tornato di lì a poco. Aveva fatto questo perché stava «facendo una Magia» per fare in modo che le anime «si scambiassero di nuovo». Naturalmente era stato necessario seppellire il corpo di Otto Andreas. Ma, ci assicurò, se il torello fosse stato lasciato al suo posto, si sarebbe ritrasformato in Otto Andreas, un processo che richiedeva non solo una grande sapienza in fatto di Magia, ma anche un notevole impiego di tempo! Vi erano solo due cose che potevamo fare quella notte. Pap Joseph fu rimandato a Christiansted, e fu disposta la sua liberazione il giorno seguente alle sei di mattina. Poi, noi quattro avvolgemmo il cadavere di Otto Andreas in una coperta, e lo portammo al cimitero. Quando arrivammo, Hansen e Knudsen si accinsero a scavare con due pale che ci eravamo procurati, per recuperare la bara. Era una notte di plenilunio. Naturalmente, a quell'ora, non vi era nessuno nei pressi del cimitero. La terra ci parve insolitamente cedevole, anche tenendo conto del fatto che si trattava di una sepoltura recente. Una pala cozzò contro il legno a circa un piede di profondità. Macartney diede il cambio al genero. Io mi offrii di fare lo stesso per Knudsen, ma lui rifiutò. Entro un minuto, esclamò con tono incerto: «Cos'è questo?». Si accucciò nella fossa e con la mano guantata scavò nella terra soffice, rivelando ciò che aveva scoperto. Mailing: avevano dissotterrato una bara frantumata, una bara che aveva perso tutte le caratteristiche tipiche dello stretto ricettacolo destinato a raccogliere i resti degli esseri umani. Non sorprendeva il fatto che fosse letteralmente esplosa, vista la cosa mostruosa che si stava rivelando pian piano ai nostri occhi. Non scoprimmo del tutto ciò che avevamo trovato sotto il manto di terra consacrata. Non ce n'era bisogno, Mailing! Ciò che trovammo fu un arto rigido e ossuto, appartenente a un quadrupede munito di corna. Questo fu ciò che Knudsen aveva liberato dalla terra con la sua mano guantata. Vi era sepolto un torello, proprio nel punto in cui trentasei ore prima altri uomini avevano interrato il corpo del mio defunto fratellastro, Otto Andreas Gannett. Pap Joseph, a quanto pareva ob-
bligato nonostante la sua reticenza a piegarsi alla forza, ci aveva detto il vero. Rapidamente allargammo la fossa, per potervi adagiare il cadavere che avevamo portato e, lasciato un cumulo più alto di quello che avevamo trovato nonostante lo avessimo spianato con le pale, tornammo rapidamente e in silenzio a casa mia. Lì, come si conveniva a membri della nostra Confraternita Massonica, giurammo che al di fuori di queste informazioni indirizzate a te, nostro confratello, nessuno di noi, per la durata della mia vita naturale, avrebbe mai rivelato nulla di quello che avevamo udito, a nessuno. Knudsen si assunse la responsabilità per i suoi gendarmi e, vista la reputazione di cui gode in fatto di disciplina, sono sicuro che essi non diranno nulla circa gli eventi a cui assistettero. Dunque, Fratello, il resoconto servirà a spiegarti perché parto da Santa Cruz diretto in Scozia. Quella è la terra dalla quale è venuta la mia famiglia da diverse generazioni, quando queste isole furono finalmente aperte alla colonizzazione dei piantatori e di altri Danesi grazie alla generosità del governo danese. Non posso più rimanere in questa casa maledetta, dove accadono cose tali da far perdere il senno a un uomo. Quindi pongo la proprietà nelle tue mani servizievoli ed efficienti, amico, mio, con la certezza di aver reso chiari i motivi della mia decisione. Porto con me in Scozia il mio vecchio e fedele servo, Herman. Non lo lascerò qui alla mercé di quel pestifero criminale di Pap Joseph. Lui infatti ha contravvenuto agli ordini dello Stregone a causa mia. Non si può dire cosa accadrebbe a quel povero diavolo, se non lo proteggessi io. Rimango a tua disposizione. Fedelmente Angus Gannett P.S. Knudsen naturalmente insiste nel dire che alcuni negri seguaci di Pap Joseph, hanno semplicemente scambiato il corpo del mio fratellastro con quello del torello, nell'intervallo intercorso dopo che io sparai all'animale, durante il quale la sala rimase deserta. A.G. 3. Terminata la lettura, restituii a Herr Mailing il manoscritto. Lo ringraziai
per la sua straordinaria cortesia, per avermi permesso di leggerlo, poi mi diressi subito a Casa Gannett per rivedere il salone in cui quegli eventi prodigiosi si erano verificati. Robertson mi fece entrare, e mi sedetti nel posto solitamente occupato dalla signora Garde. Poi Robertson mi portò il tè su un grande vassoio circolare. Non riuscii a fare a meno di lanciare uno sguardo al punto dove una volta era sorta la piattaforma di assi, sulla quale aveva avuto luogo il battesimo voodoo. Lo strano rito era stato interrotto poco prima del momento culminante dal collasso di Otto Andreas, che aveva tanto desiderato far parte dei devoti del Serpente, e che ormai era morto da tempo. Questi sono gli strani avvenimenti delle nostre Indie Occidentali. Ebbene, Dio si era dimostrato come sempre molto più forte del Serpente. Ero sicuro che non si sarebbero mai più riviste quelle strane manifestazioni. La grottesca visione che dopo tanti anni si era proiettata sul muro, quel toro dall'espressione «quasi umana», dagli occhi patetici e leggermente adombrati da un velo di rimprovero descritto dalla signora Garde, era stato lo stesso che aveva guardato il cupo scozzese che con mano ferma aveva alzato la pistola e aveva mirato in un punto tra gli occhi della bestia. La signora Garde tornò alla sua dimora temporanea, dopo aver beneficiato del suo viaggio per mare. La sua mente era stata presa da altri pensieri, e l'orrore sul muro accanto al ritratto del marito era stato cancellato dalla sua mente. Come previsto, il fenomeno non si ripeté. Naturalmente, la signora Garde si affrettò a chiedere come avessi fatto, e in che modo fossi riuscito a far sì che l'apparizione che aveva distrutto la sua serenità d'animo e la sua felicità non si manifestasse più. Tuttavia io non desideravo spiegarle l'accaduto, e riuscii a evitarlo sempre. La signora Garde apparteneva alla Chiesa Unitaria di Boston, e gli Unitari di Boston tendono a vedere le cose da un punto di vista intellettuale. Non è quindi facile per loro comprendere la natura di pratiche legate alla frequentazione dell'Aldilà, o l'esorcismo delle case, che invece fanno parte dell'ordinaria amministrazione per il buon Reverendo Richardson. Inoltre non ho dubbi circa il fatto che la signora Garde rimase così contenta per la sparizione del fenomeno, che probabilmente lo attribuì a ciò che normalmente viene chiamato «stress visivo». Non vi era nulla che le rammentasse il torello dal muso insanguinato e dagli occhi patetici, che cadeva colpito a morte. Di Otto Andreas Gannett non rimase alcun ricordo a Christiansted.
Quell'inverno trascorremmo molte divertenti serate danzanti e ricevimenti per il tè nella magnifica sala di Casa Gannett. IL CANE MANNARO Jumbee di Henry S. Whitehead Weird Tales, settembre 1926 Il signor Granville Lee, il più Virginiano di tutti i Virginiani, tornò dalla Grande Guerra con un polmone distrutto dall'Yprite, e il suo dottore gli prescrisse di passare un inverno nel clima speziato e dolce delle Antille, le isole minori dell'arcipelago delle Indie Occidentali. Lui scelse una delle isole americane, St. Croix, la vecchia Santa Cruz - l'Isola della Santa Croce - battezzata da Colombo in persona durante il suo secondo viaggio, e famosa in passato per la qualità del suo rhum. Come ultima cosa il signor Lee si rivolse a Jaffray Da Silva per ottenere informazioni precise sulla magia locale. Le informazioni furono accompagnate, dopo due mesi di permanenza, da un generale miglioramento della sua salute, e allora cominciò a considerarle della massima importanza, grazie anche alle prove irrefutabili che aveva avuto circa la persistenza della magia sull'isola. Il contatto con gli usi locali era stato sufficiente a smussare la sua sensibilità ereditaria, e a farlo sentire quasi a suo agio mentre sedeva con il signor Da Silva nella fresca galleria della bellissima casa appartenente a quel gentiluomo, sita all'ombra di una bougainvillea di oltre quarant'anni, un certo pomeriggio. Era il momento delle chiacchiere e del riposo, che va dalle cinque del pomeriggio dall'ora di cena. Una brocca di vetro piena di spumante rum-swizzel era posta sul tavolo tra di loro. «Ma ditemi, signor Da Silva», disse l'americano, mentre sorbiva il secondo bicchiere della fresca bevanda, «lei non ha mai incontrato uno "Jumbee"? Ne ha mai visto uno? Eppure ammette con franchezza di credere nella loro esistenza!» Non era la prima domanda che il signor Lee poneva circa gli Jumbee. Aveva interrogato i piantatori, aveva parlato della questione degli Jumbee con i negozianti di colore, persone intelligenti ed educate, e perfino a Christiansted, l'altra città - più grande - che sorgeva sul lato settentrionale dell'isola. Aveva perfino menzionato l'argomento parlando con un paio di braccianti dei campi di canna da zucchero, neri come il carbone. Infatti era
rimasto abbastanza a lungo sull'isola e poteva finalmente comprendere - in una certa misura - quello strano dialetto che Lafcadio Hearn, in occasione della sua visita a St. Croix molti anni prima, non aveva riconosciuto come «vero inglese»! Delle differenze molto marcate caratterizzavano le risposte che gli erano state date. I piantatori e i negozianti avevano sorriso, chi più chi meno, e avevano risposto che erano stati i Danesi a inventare gli Jumbee, per tenere i loro braccianti dentro casa la notte, in modo che potessero godere di una notte intera di sonno salutare, e per diminuire il rischio di essere depredati del raccolto non ancora maturo. I braccianti che lui aveva interrogato avevano invece alzato gli occhi al cielo ma, siccome la scena accadeva in pieno giorno, avevano abbandonato la loro espressione abitualmente impassibile e gli avevano regalato larghi sorrisi. Avevano inoltre cercato di sottolineare quanto disprezzassero le superstizioni a cui erano soggetti i loro fratelli di colore, e lo avevano assicurato con frasi ambiguamente scelte che lo Jumbee era in realtà un parto dell'immaginazione. Nonostante ciò, il signor Lee non era soddisfatto. Qualcosa mancava: qualcosa di molto interessante, gli pareva. Qualcosa di molto diverso da «Fratello Coniglio» e altre simili storie che avevano popolato la sua infanzia in Virginia. Inoltre, aveva letto un libro sulla Martinica e sulla Guadalupa, quegli antichi gioielli della Corona francese, e non aveva dovuto leggere a lungo prima di imbattersi nella parola «Zombi». Dopo quella volta, almeno, seppe che i Danesi non avevano "inventato" lo Jumbee. Aveva udito parlare vagamente della credenza dei braccianti secondo la quale Sven Garik, che era tornato da poco in Svezia, e Garrity, uno dei piantatori minori ancora sull'isola, erano dei «lupi»! Licantropia e metamorfosi animale, a quanto pareva, facevano parte di quello strano tessuto di leggende locali. Il signor Jaffray Da Silva era per un ottavo di sangue un africano. Quindi, secondo l'uso isolano, era considerato di colore, il che - nelle Indie Occidentali - era molto diverso dall'essere "nero". Il signor Da Silva era stato educato alla maniera europea. Secondo tutti i diritti e gli usi della società delle Indie Occidentali, il signor Da Silva era un gentiluomo di colore, il cui status sociale era chiaro e definito come un cammeo. Quelle isole erano per lo più popolate da persone come il signor Da Silva. Nonostante la differenza del loro status da quello che avrebbero avuto in Nord America, sulle isole godevano di certi vantaggi. Per la mentalità
delle Indie Occidentali, un uomo la cui eredità derivava per sette ottavi dal rango patrizio, con tanto di autentico stemma di famiglia, aveva il diritto di essere trattato di conseguenza. Per questo motivo i molti segretari del signor Da Silva, e tutti coloro che lo conoscevano, lo trattavano con una certa deferenza, gli si rivolgevano dicendo «Signore», e si toglievano il cappello alla maniera europea quando lo incontravano. A questi saluti naturalmente il signor Da Silva rispondeva invariabilmente, anche a quelli provenienti dai più umili, una caratteristica questa che distingue ovunque il vero gentiluomo. «Anche i miei amici ridono, signor Lee», rispose, con un sorriso tollerante, che per un attimo ravvivò il suo melanconico viso color avorio. «Ridono di me, perché ammetto di credere negli Jumbee. È possibile che chiunque abbia una goccia di sangue africano creda nella Magia e cose simili, tuttavia io sembro esserci particolarmente portato! È una questione di esperienza, per quanto mi riguarda, signore, e i miei amici sono liberi di sorriderne, se vogliono. La maggior parte... be', forse in realtà non ammettono di credere in certe cose con la stessa franchezza con cui lo ammetto io!» Il signor Lee sorseggiò il suo swizzel freddo. Aveva sentito parlare di quanto fosse difficile riuscire a far parlare Jaffray Da Silva delle sue esperienze, e sospettava che sotto la squisita cortesia del suo ospite si celasse l'austera fierezza che odia di essere messa in ridicolo, nonostante il suo sorriso denotasse tolleranza. «La prego, proceda, Signore», lo esortò Mr. Lee, il quale era del tutto ignaro di aver scelto proprio la parola che, nel suo paese, era riservata ai gentiluomini di puro sangue caucasico. «Quando ero giovane», iniziò il signor Da Silva, «intorno all'anno 1894, vi era un mio amico danese di nome Hilmar Iversen, che viveva qui in città vicino alla chiesa morava, su quella che la gente locale chiama la collina Foun'Out. Iversen lavorava per il Governo come impiegato, e il suo ufficio era nel Forte. Sulla strada del ritorno a casa, si fermava qui ogni pomeriggio a prendere uno swizzel e a fare due chiacchiere. Eravamo amici, ottimi amici. Lui allora aveva passato da poco la cinquantina, ed era un tipo rubicondo, molto grasso e, come molti di coloro che avevano la sua corporatura, soffriva di cuore. Una notte venne un ragazzo a chiamarmi. Erano le undici, e stavo sistemando la zanzariera sul mio letto, pronto a coricarmi. La servitù era tornata a casa, e così aprii io stesso la porta. Ero in camicia e pantaloni, e in
mano portavo una lampada, per vedere cosa fosse accaduto. O meglio, lo sapevo perfettamente: il messaggero era venuto a informarmi che Iversen era morto!» Mr. Lee si alzò a sedere di scatto. «Come facevate a saperlo?», chiese, con gli occhi sgranati. Mr. Da Silva buttò via i resti della sigaretta. «Alle volte mi capita di sapere in anticipo le cose», rispose, lentamente. «In questo caso, Iversen e io eravamo stati grandi amici da lungo tempo. Avevamo parlato a lungo di magia e di cose del genere, ad esempio di poteri occulti, di manifestazioni soprannaturali, eccetera. È un argomento di conversazione molto comune da queste parti, come avrete notato. Ne sentireste parlare ancora di più se continuaste a vivere qui e adottaste gli usi e la mentalità della gente di quest'isola. Per la verità, signor Lee, Iversen e io avevamo fatto un patto. Colui che sarebbe "partito" per primo, doveva tentare di avvertire l'altro. E vede, signor Lee; io avevo ricevuto l'avvertimento di Iversen meno di un'ora prima. Ero rimasto seduto qui nella galleria fino alle dieci. Stavo seduto proprio sulla sedia in cui vi trovare voi ora. Iversen aveva avuto un attacco cardiaco. Io gli avevo fatto visita proprio quel pomeriggio: aveva lo stesso aspetto di altre volte in cui era stato soggetto a un attacco. Infatti intendeva tornare in ufficio la mattina seguente. Nessuno di noi, ne sono sicuro, aveva pensato che esistesse la possibilità di un improvviso peggioramento della sua salute. Non ne avevamo nemmeno parlato nel nostro accordo. Be', erano circa le dieci, come ho detto, quando a un tratto udii Iversen avvicinarsi attraversando quello spiazzo laggiù, e venire verso la casa lungo il sentiero di ciottoli. Apparentemente era passato attraverso il cancello da Kongensgade - la strada Reale, come viene chiamata oggi - e io sentivo i suoi passi pesanti risuonare chiaramente sui ciottoli. Zoppicava appena. Passo pesante... passo leggero; toc-toc ... toc-toc; era proprio il vecchio Iversen. Non ci si poteva sbagliare. Quella notte non vi era la luna. La mezzaluna calante si sarebbe mostrata circa un'ora e mezza più tardi, ma a quell'ora il giardino era ancora immerso nel buio. Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai all'imboccatura delle scale. A dirvi la verità, signor Lee, avevo un vago sospetto - ho una certa predisposizione per queste cose - che non fosse proprio Iversen. Come posso esprimermi? Dentro di me vi era l'idea che si trattasse di lui, venuto a tentare di tener fede al suo accordo, e il mio istinto mi assicurava del fatto che era appena
morto. Non posso dirvi come facessi a saperlo, ma era così, signor Lee. E così attesi, proprio lì, dietro il punto in cui siete ora voi, in cima alle scale. I passi si avvicinavano pian piano. Ai piedi delle scale, nell'ombra dei cespugli di ibisco, era appena meno buio che sul sentiero. Una luce fioca proveniva dalla lampada all'interno della casa. Sapevo che, se era Iversen, sarei stato in grado di vederlo nel momento in cui i passi fossero usciti dalla profonda oscurità che regnava tra i cespugli. Non parlai. I passi si avvicinarono a quel punto, poi lo oltrepassarono. Aguzzai la vista tentando di distinguere qualcosa nel buio, ma non vidi nulla. Allora seppi, signor Lee, che Iversen era morto, e che stava tenendo fede al nostro accordo. Tornai qui e mi sedetti: poi attesi. I passi salirono le scale, quindi procedettero lungo il pavimento della galleria, diritto verso di me. Si arrestarono qui, signor Lee, proprio accanto a me. Io sentivo che Iversen era in piedi accanto a me.» Il signor Da Silva indicò il pavimento con la mano affusolata ed elegante. «All'improvviso, nel silenzio, avvertii i capelli rizzarmisi sul cuoio capelluto, e diventare diritti e rigidi. Sentii dei brividi corrermi lungo la schiena, signor Lee! Tremavo come un uomo febbricitante per la malaria, seduto qui sulla mia sedia. Dissi: "Iversen, ora capisco! Ho paura!". Sbattevo i denti come fossero castagnole, signor Lee. Continuai: "Iversen, vattene, per favore! Hai tenuto fede al nostro accordo. Mi dispiace di mostrare tanta paura, ma la carne è debole! Non ho paura di te, vecchio amico, ma tu cerca di capirmi! Non è una paura normale: la mia mente è a posto, Iversen, ma ho un attacco di panico, quindi ti prego di andartene, amico mio". Fino a che non avevo parlato rivolto a Iversen, come le avevo detto, signor Lee, era regnato il più perfetto silenzio: infatti i passi si erano arrestati poco lontano dal punto in cui ero seduto. Ma, quando pronunciai quelle parole e chiesi al mio amico di andarsene, avvertii distintamente che si allontanava, e seppi che aveva compreso il senso di quanto dicevo! Improvvisamente, signor Lee, era come se quei passi non ci fossero mai stati, e lei può comprendere in che senso. È difficile da esprimersi a parole. Immagino che, se fossi stato uno dei braccianti, a quel punto mi sarei trovato a metà strada tra qui e Christiansted, ma non ero tanto spaventato da non riuscire a sopportare la situazione. Dopo aver ripreso il controllo di me stesso, e quando non ebbi più la pelle d'oca e i brividi ebbero smesso di corrermi su e giù per la schiena, mi al-
zai, sentendomi molto stanco, signor Lee. Era stata un'esperienza assai faticosa. Entrai in casa a bere un bel bicchiere di brandy francese: mi sentii subito meglio, mi sentii di nuovo me stesso. Presa una lanterna, l'accesi, poi mi avviai lungo il sentiero diretto al cancello che dava sulla Kongensgade. Vi era una sola cosa che volevo vedere laggiù in fondo al giardino. Volevo assicurarmi che il cancello fosse chiuso. E infatti così era. Quella grande sbarra di ferro che lei ha visto, era al suo posto. È stata usata per chiudere quel vecchio cancello fin dal Diciottesimo Secolo, immagino. Non avevo pensato che qualcuno avesse veramente aperto il cancello, ma ora lo sapevo per certo. Non vi erano orme sul sentiero di ciottoli, signor Lee. Guardai bene: i segni lasciati dalla scopa di saggina dello sguattero dopo aver chiuso il cancello erano intatti. Ero soddisfatto e non più spaventato, neanche un po'. Tornai qui, mi sedetti, e pensai alla mia lunga amicizia con il vecchio Iversen. Mi sentii molto triste sapendo che non lo avrei mai più rivisto da vivo. Non si sarebbe mai più fermato da me a bere uno swizzel e a fare due chiacchiere. Intorno alle 11 entrai in casa e, stavo per coricarmi, quando sentii bussare alla porta d'ingresso. Vede, Mr. Lee, io già sapevo cosa significava. Andai ad aprire in camicia e calzoni, scalzo, con la lampada in mano. Non avevamo la luce elettrica, allora. Alla porta trovai il servo di Iversen, un giovanotto di circa diciotto anni. Era mezzo addormentato, e molto scosso. Mi guardò e non disse nulla. "Cosa c'è, ragazzo?", gli chiesi. "Signora Iversen mi ha mandato da lei, Signore. Per favore venire a casa; signor Iversen morto." "A che ora è morto, ragazzo; lo sai?" "Io no riuscito vedere che ora era, Signore. Madama Iversen venire svegliare me dove io dormire in stanza sul retro, Signore, e mandato a chiamare voi... Io penso lui morto un'ora fa, Signore." Mi rimisi le scarpe e gli altri vestiti, poi presi un bastone da passeggio marca St. Kettis Supplejack - gliene procurerò uno: è uno di quei bastoni da passeggio di legno di vite, molto utili nelle notti scure - e mi diressi verso Casa Iversen con il ragazzo. Quando giunsi vicino alla chiesa morava, vidi qualcosa sulla strada di fronte a noi, sul ciglio della strada. Erano più o meno le undici e un quarto, e le strade erano deserte. Quello che vidi mi incuriosì e volli fare una prova. Mi arrestai, e dissi al ragazzo di correre avanti e di dire alla signora I-
versen che sarei stato lì a momenti. Il ragazzo prese a trottare in avanti. Era un negro di razza pura, signor Lee, ma passò accanto a quello che io avevo visto senza neppure notarlo. Virò leggermente per evitarlo, e credo che forse in quel punto allungasse leggermente il passo, ma fu tutto.» «Cosa avevate visto?», chiese il signor Lee, interrompendo la narrazione. Aveva parlato con il fiato sospeso: il suo polmone sinistro non era ancora del tutto guarito. «Il Jumbee appeso», rispose il signor Da Silva, con il suo solito tono di voce. «Sì! Lì sul ciglio della strada vi erano i tre Jumbee. Vengono nominati nella Storia di Stewart McCann. Forse lei ha letto quel libro, vero?» Il signor Lee assentì, e il signor Da Silva recitò: «"Lì rimasero appesi, e nessun piolo di scala ne sosteneva i piedi penzolanti nel vuoto". «E c'è un'altra strofa nella Storia», riprese, sorridendo, «che descrive un tipico gruppo di Jumbee Appesi: "Una giovane, un ragazzo e una megera". Be', vi era il prescritto numero di Jumbee, che parevano penzolare nell'aria. Non vi era molta luce, ma riuscii a distinguere un ragazzo di circa dodici anni, una ragazza, e una vecchia rinsecchita, alla quale l'autore della Storia di Stewart McCann si riferiva con la parola "megera". A questo proposito, signor Lee, fu lui stesso a informarmi del fatto che aveva dato due piedi ai suoi Jumbee più che altro per esigenze metriche: una licenza poetica! Gli Jumbee Appesi non hanno piedi. È una delle loro caratteristiche. Le loro gambe terminano all'altezza delle caviglie. Hanno gambe sproporzionatamente lunghe e molto magre, gambe africane. Sono sempre neri, sapete? I loro piedi - quando ne hanno - sono sempre nascosti da una specie di nebbia che giace sul terreno ovunque li si veda. Si muovono di sbieco e ancheggiano, come fa un vero africano spostando il peso su un piede solo per far riposare l'altro oppure si grattano la caviglia che ne sostiene il peso con le dita dell'altro piede. Non dondolano come se pendessero da una corda: non è questo il significato del loro nome. Non ruotano sul loro asse. Ciò che è caratteristico è il fatto che fronteggiano sempre colui che si avvicina... sempre... Avanzai lentamente e li oltrepassai; e quelli mi fronteggiavano sempre. Ci sono abituato... Dopo essere salito lungo le scale della casa fino alla galleria sulla faccia-
ta, trovai la signora Iversen che mi aspettava. Vi era anche sua sorella con lei. Rimasi seduto con loro per quasi un'ora. Arrivarono anche due vecchie negre che erano state chiamate dalla campagna. Queste vecchie vengono chiamate a preparare i morti per la sepoltura. Poi convinsi le signore a ritirarsi, e mi accinsi a rincasare anch'io. Era passata da poco la mezzanotte: da circa un quarto d'ora. Presi il mio cappello dalla cappelliera su cui erano appesi tre o quattro cappelli appartenenti al povero Iversen, poi afferrai il bastone da passeggio, uscii dalla porta, e mi trovai nel piccolo loggiato in cima alle scale. Ci sono circa dodici o tredici gradini che portano dal loggiato alla strada. Mentre cominciavo a scendere, mi accorsi che una terza vecchia era seduta, tutta rannicchiata, sull'ultimo gradino, e mi volgeva le spalle. Pensai subito che doveva essere una compagna delle altre due; una delle preparatrici dei morti. Immaginai che forse aveva avuto paura a rimanere sola nella loro catapecchia, e quindi che le avesse accompagnate fino in città - sono come bambini per certi aspetti - poi, sentendosi troppo umile per poter entrare in casa, si fosse seduta ad aspettare sul gradino, e si fosse addormentata. Avrete certamente sentito quel proverbio, vero? Ce n'è uno che si adatta perfettamente alla situazione che mi ero prefigurato: "Lo scarafaggio non porta gli stivali che scricchiolano quando entra nel pollaio!". Significa: "Sii riservato quando sei in presenza dei tuoi superiori!". Piuttosto curioso! Povere donne! Cominciai a scendere i gradini e mi avvicinai alla vecchia. Una piccola falce di luna era salita in cielo mentre ero ancora seduto con le signore e, grazie a quella luce, tutto aveva l'aria ben definita e chiara. Vedevo la vecchia con la stessa nitidezza con cui vedo voi, signor Lee. Infatti vedevo il viso di quella povera creatura mentre scendevo le scale e intanto tentavo di trovare in tasca una monetina per dargliela: per il tabacco e lo zucchero, come si dice da queste parti! E mi chiedevo, nel frattempo, come mai non si fosse ancora alzata in piedi per fare uno di quegli strani piccoli inchini: "Lo scarafaggio si inchina alle galline", dice un vecchio proverbio. Pareva che la vecchia fosse caduta in un sonno profondo: infatti non si era mossa affatto, benché in circostanze normali avrebbe dovuto sentirmi. La notte era molto quieta, e la gente di qui ha un udito straordinariamente fine, come quello di un cane o di un gatto. Ricordo bene la fragranza che si levava dalle tuberose della signora Iversen piantate nei vasi sulla ringhiera
del loggiato, che si spandeva come un ruscello nella notte, "dando il benvenuto alla luna"! Era un profumo intensissimo. Signor Lee, quando mi voltai nuovamente a guardare lungo quelle scale dopo quello che fu poco più di un quinto di secondo di disattenzione, la vecchia negra rannicchiata sull'ultimo gradino, apparentemente addormentata, era sparita! Era svanita nel nulla! Inoltre, signor Lee, un piccolo cagnolino bianco, grande quanto un barboncino francese, stava salendo di corsa le scale e mi veniva incontro. Ad ogni saltello, ad ogni passo in avanti, il cane diventava più grande. Pareva ingigantirsi sotto i miei occhi. A quel punto cominciai ad avere veramente paura: ero letteralmente terrorizzato. Capivo che, se quell'"animale" fosse riuscito a toccarmi, sarei morto, di una morte assolutamente certa. La vecchietta era una "sheen"... chien, naturalmente. Lei avrà sentito parlare della licantropia - la trasformazione da uomo in lupo - naturalmente. Ebbene, quella era una delle forme in cui il fenomeno si manifesta. Non so che nome abbia. "Caninotropia", forse. Non lo so, ma è qualcosa... qualcosa di imparentato con la licantropia, un cugino di secondo grado in linea retta, signor Lee. La vecchia era un Cane-Mannaro! Naturalmente non ebbi il tempo per pensare, per cui dovetti affidarmi al mio istinto. Brandii il bastone da passeggio con tutta la forza di cui ero capace, e percossi con violenza la testa della bestia. A quel punto essa si trovava solo a un passo da me, e potevo vedere la debole luce lunare brillare sulla bava che le pendeva dalle fauci. In quell'attimo mi pareva grande quanto un cane di medie dimensioni: della taglia di un lupo, signor Lee, e di un colore bianco mortifero. Ero disperato, e la forza con cui lo colpii mi fece perdere l'equilibrio. Non caddi, ma mi ci vollero un paio di secondi per rimettermi in piedi. Quando sentii di nuovo la terra sotto i piedi, mi guardai attorno disperatamente, da tutte le parti, in cerca del "cane". Ma anch'esso, come la vecchia, era scomparso. Mi guardai attorno con pensieri che potete ben immaginare dopo una simile esperienza, alla luce chiara e fioca della luna. Per diversi metri attorno alla base delle scale non vi era un solo punto - nemmeno un buco - in cui il "cane" o la vecchia potevano essersi nascosti. Né vi era sul loggiato, largo solo pochi metri, e che era poco più di un pianerottolo. Poi mi giunse all'orecchio, ormai reso fino dalle esperienze di quella notte, un suono proveniente dalla piantagione che si stendeva sul retro della casa di Iversen: il suono attutito di piedi nudi. Qualcuno... qualcosa... stava
correndo disperatamente verso l'entroterra dell'isola, verso le colline, per rintanarvisi. Poi, alle mie spalle, le due vecchie incaricate di preparare il corpo di Iversen per il funerale, corsero fuori dalla casa. Erano molto scosse e gridavano concitatamente, senza che riuscissi a capirle. Dovrò darvi un'idea del loro modo di parlare. "O, Il Buon Dio vi protegga, Mister Jaffray, Signore... il Joombie, il Joombie! La 'Sheen', Mister Jaffray! Lui andato, Signore?" Rassicurai le povere vecchie, e ritornai verso casa.» Il signor Da Silva interruppe improvvisamente il racconto. Lentamente cambiò posizione, poi prese una sigaretta e l'accese. Il signor Lee rimase in un silenzio assoluto, e non si mosse. Il signor Da Silva riprese il discorso con calma. «Vedete, signor Lee, io credo che le Indie Occidentali siano diverse da ogni altro posto al mondo. L'ho affermato molte volte, benché non abbia mai lasciato le isole, tranne una volta da giovane, quando visitai Copenhagen. Le ho detto esattamente quel che accadde quella sera particolare.» Il signor Lee emise un sospiro. «La ringrazio, signor Da Silva, la ringrazio di cuore», mormorò soprapensiero, e si apprestò ad alzarsi in piedi. Il suo orologio militare indicava le sei. «Prendiamo assieme del swizzel fresco, almeno, prima che ve ne andiate», propose il signor Da Silva. «Da queste parti c'è un detto: "Un uomo non può viaggiare con una gamba sola!" Forse lo avete già sentito.» «L'ho sentito», rispose il signor Lee. «Knud, Knud! Mi senti, ragazzo? Knud: di' a Charlotte di spezzare un altro blocco di ghiaccio... Hai sentito? Fai presto!», ordinò il signor Da Silva. LA TIGRE MANNARA The Were-Tiger di Hugh Clifford The Further Side Of Silence, 1927 Anima morta prima che la vita finisca, Corpo che è corpo d'una Bestia, dotato di un cervello umano che osa e progetta, Eccomi pronto al banchetto!
Strappo, sbrano e uccido coi denti, gli artigli e le mascelle, e mi aggiro all'alba coi sensi all'erta, avvertendo persino quando cambia il vento. Anima che languisce nell'angoscia eterna, la tua vita è breve, quindi sarà meglio che tu ti affretti prima che le Forze del Male ti trascinino all'inferno. Il canto del Loup-Garou Se chiedete un'opinione sull'argomento a quella stimabile associazione di sapienti che è la Società per la Ricerca del Soprannaturale, essi vi risponderanno che il fatto che in ogni età si sia creduto ai fantasmi, alla magia e alle streghe, è già un elemento sufficiente per giustificare queste cose, e anzi, a rendere estremamente probabile la loro esistenza. Non sta certo a me o a quelli come me mettere in discussione l'opinione di questi saggi dell'Occidente, ma se i fantasmi, gli spettri, le streghe e i posseduti debbono esser dati per veri sulla base di questa osservazione, allora mi sia consentito, per lo stesso motivo, di sostenere la causa del Loup Garou, della Tigre Mannara e di tutta la loro famiglia sanguinaria. Ovunque ci siano bestie selvagge che predano i figli dell'uomo, si annida la credenza che i peggiori mangiatori di uomini, i più rapaci, siano proprio gli esseri umani stessi, che abbiano assunto temporaneamente una forma animale grazie alla Magia Nera, per soddisfare la loro inestinguibile sete di sangue. Questa credenza cerca di spiegare la grandissima sete di sangue di una bestia facendone risalire l'origine a un essere umano, e sembrerebbe basarsi su una constatazione molto cinica del carattere sanguinario della nostra specie. L'uomo, sia bianco che scuro, sia giallo che nero, ha trovato ognuno per strade diverse la stessa spiegazione del medesimo fenomeno. Tutte le razze umane approvano quindi quel proverbio malese, il quale dice che siamo tutti come il pesce toman, che preda i propri simili. Questa opinione, che è generalmente accettata, sembra credibile proprio per il fatto che non è per nulla lusinghiera nei confronti di coloro che l'hanno formulata. La gente ignorante e volgare potrebbe pensare che essa è il fondamento della credenza di cui sto parlando, se non vi fosse anche il verdetto di quella Società per la Ricerca del Soprannaturale di cui vi parlavo
poc'anzi. Inchinandoci di fronte a tale autorità, dobbiamo accettare il Loup Garou e tutta la sua genìa come realtà incontestabili. Non dobbiamo quindi attribuire il Loup Garou - come invece abbiamo teso a fare - a una paura mortale delle bestie selvagge unita alla conoscenza approfondita degli aspetti spiacevoli della natura umana primordiale. I dotti europei che vivono in una terra dove persino la natura, ove possa esser vista dalle case, reca i segni profondi dell'azione dell'uomo, tendono a pensare che l'Età della Superstizione è stata ormai relegata nella soffitta del passato. Di tanto in tanto si risvegliano da questi pensieri, quando una strega viene torturata in una capanna da un bog (mostro simile ad un orso) irlandese; ma nemmeno un tale fatto che si verifica così vicino alle loro case basta per far loro uscire di mente del tutto questa opinione preconcetta. Il vero problema è che non riescono a liberarsi dall'idea che il mondo è tutto popolato di dotti europei come loro, e da qualche altra persona di minore importanza. Non si rendono conto che numericamente essi non sono che una goccia nel mare dell'umanità. Ma, d'altra parte, è possibile sapere una cosa molto bene, ma non rendersene nemmeno conto. Così, si sono formati questa opinione del tutto sbagliata. Infatti, in realtà, l'Età della Superstizione dura oggi come quando negli anni passati le streghe venivano bruciate a Smithfield, oppure morivano coi polmoni pieni d'acqua, legate a una panca che veniva immersa nell'acqua. Nelle zone più remote della penisola malese viviamo ancora nel Medio Evo, e conserviamo tutte le connotazioni proprie dei Secoli Bui. La magia e gli spiriti maligni, la stregoneria, le fatture e i filtri d'amore, gli amuleti e gli incantesimi, costituiscono per l'indigeno una realtà di vita quotidiana, come lo sono il miracolo della crescita del riso e i misteri della riproduzione delle specie. Questo non solo dev'essere noto, ma accettato, sia come teoria che come fatto, se si vuole capire e apprezzare la visione della vita degli indigeni. I racconti del Fantastico e del Soprannaturale provocano interesse e paura in un malese, ma certo non sorpresa. Ogni malese sa che in passato sono accadute cose strane, e continuano a succedere ogni giorno a lui e ai suoi compagni. Ad alcuni capita di essere colpiti da un fulmine, mentre altri scampano indenni; accade inoltre che alcuni facciano delle strane esperienze, mentre altri vivono e muoiono senza essere mai toccati dal Sopran-
naturale. Nella percezione del malese, i due casi sono del tutto paralleli e, sebbene possano essere entrambi un argomento di discussione, e provocare paura e sbigottimento, nessuno dei due può essere considerato un fenomeno senza precedenti, tale da provocare sorpresa e meraviglia. Quindi, per un indigeno, l'esistenza del Loup Garou malese è un fatto, non una semplice credenza. Il malese sa che è una realtà. Se ci fosse bisogno di prove, se ne potrebbero trovare moltissime: la testimonianza di uomini assennati le cui parole, pronunciate in un tribunale, convincerebbero anche la giuria più ostinata a emettere una condanna, e sarebbero più che sufficienti a far impiccare anche il più innocente degli imputati. I Malesi sanno bene che Haji Abdallah, indigeno del piccolo stato di Korinchi a Sumatra, fu trovato nudo in una trappola per le tigri, e tornò libero solo dopo aver risarcito il prezzo dei bufali che aveva sbranato dopo aver assunto le sembianze di una tigre. Sanno che innumerevoli uomini di Korinchi hanno vomitato piume dopo aver mangiato dei polli, anch'essi dopo aver assunto le sembianze di una tigre. Altri uomini della stessa razza hanno abbandonato vesti e masserizie sul ciglio della strada per lanciarsi nella boscaglia, dalla quale poco dopo usciva una tigre. I Malesi sanno che tutti questi fatti sono successi, e continuano ad accadere anche oggi nella terra in cui vivono. Di fronte a queste prove schiaccianti e evidenti, le vuote assicurazioni dei dotti europei che le Tigri Mannare non esistono e non sono mai esistite, non fanno che provocare derisione e una certa dose di disprezzo. La Valle Stretta si trova fra le colline che dividono Pahang da Perak. È popolata da Malesi di diverse razze. Vi sono i Rawa e i Menengkabau di Sumatra, gente che usa titoli altisonanti e vanterie per nascondere la sua estrema povertà. Vi sono i Perak che vengono dalla ridente Valle Kinta, che cercano metalli o diventano bravi commercianti. C'è gente fuggita da Pahang, che si è stabilita da tempo in questa zona, e la feccia di Giava, di Sumatra e della Penisola. Fu in questo luogo che udii il racconto sulla Tigre Mannara che qui riporto. Mi fu raccontato da Penghulu Mat Saleh, che a quel tempo era, e forse lo è ancora, il capo di questa varia umanità. Qualche anno fa giunse nella Valle Stretta un mercante Korinchi chiamato Haji Ali con i suoi due figli, Abdulrahman e Abas. Come usa fare quella gente, giunsero con un pesante carico di sarong - il costume o perizoma degli indigeni - attraversando la foresta e i villaggi in fila indiana. Vendevano la loro merce agli indigeni del luogo, con dei trucchi astuti e mercanteggiando senza pietà.
Benché fossero venuti per commerciare, rimasero anche dopo che ebbero venduto tutto, perché ad Haji Ali quel luogo piaceva. Comprò un pezzo di terra, e si mise all'opera con i suoi due figli piantando noci di cocco e riso. Era gente beneducata e tranquilla che andava alla moschea ogni venerdì per le preghiere collettive e, siccome erano ricchi, furono subito benvoluti dai loro vicini più poveri. Così accadde che, quando Haji Ali fece sapere che desiderava prendere moglie, ci fu un certo trambusto fra i genitori di ragazze da marito e, benché egli avesse ormai superato la mezza età, Haji Ali ebbe diverse proposte fra cui scegliere. La ragazza che scelse si chiamava Patimah. I suoi genitori erano poveri contadini che si guadagnavano da vivere coltivando i campi in uno dei villaggi confinanti. Era una fanciulla graziosa, grassoccia e rotonda, di carnagione chiara. Aveva un viso felice che avrebbe rallegrato suo marito, e delle dita abili per servirlo. Fu pagata la dote, e per l'occasione fu dato un banchetto di dimensioni proporzionate alle ricchezze di Haji Ali. Dopo che fu trascorso un tempo conveniente, la sposa fu portata alla casa di suo marito, fra i frutteti e le palme. Di solito, in quei paesi è tradizione che lo sposo rimanga in casa del suocero per molto tempo dopo il matrimonio, ma Haji Ali possedeva già una bella casa di vimini e fango, dipinta di bianco e di nero e con un tetto di paglia spessa. Inoltre, Haji Ali aveva sposato la figlia di un povero, quindi poteva dettare condizioni sia a lei che ai genitori. La fanciulla obbedì abbastanza volentieri: in fondo lasciava la povertà per la ricchezza, una misera capanna per una bella casa. Avrebbe inoltre lasciato i genitori che sapevano come farla lavorare fino a consumare anche l'ultimo briciolo di forze che aveva, per unirsi a un marito che sembrava gentile, indulgente e generoso. Nonostante ciò, tre giorni più tardi fu vista battere i pugni sulla porta dei suoi genitori all'alba: tremava, aveva i capelli in disordine e gli abiti zuppi della rugiada che bagnava gli sterpi tra i quali aveva corso. Aveva gli occhi dilatati dall'orrore, ed era pazza di paura. La storia che raccontò - il primo atto de