COLIN ANDREWS STATO DI SALUTE (Deep As The Marrow, 1996) A Meggan e Coates, all'inizio della loro vita in comune «Paura giorno e notte, paura fino al midollo.» JAMES BALDWIN, La prossima volta il fuoco Un grazie particolare a Robert Surgent per avere condiviso con me i suoi trucchi sugli autoscontri. Grazie anche a Mary, Meggan, Coates, Parvez Dara, Steve Spruill, Al Zuckerman e alla Fondazione nazionale contro le droghe. Mercoledì 1 «...e sai che cos'ha fatto Jimmy?» John VanDuyne si sforzò di seguire il racconto di sua figlia, una bimba di sei anni, sul compagno più cattivo della classe. Non gli era facile, perché non riusciva a distogliere lo sguardo dal viso adirato sul televisore della cucina. «No, Katie», le rispose. «Che cos'ha fatto?» La bimba ingollò un cucchiaio di riso soffiato e lo masticò in fretta. Era già quasi primavera ma il locale era buio, forse a causa del mobilio scuro. Se si fosse deciso a comprare la casa, avrebbe dovuto rendere la cucina un po' più luminosa. Ma rimandava sempre la decisione. Osservò la figlia mentre deglutiva, ansiosa di terminare il racconto, gli occhi lucidi per l'eccitazione. Occhi simili ai miei, pensò. Il viso tondo, la pelle chiara e i capelli lunghi e lucidi, invece, erano quelli della madre; e sarebbe diventata minuta e aggraziata come Marnie. Ma gli occhi erano della famiglia VanDuyne. «Be', ha preso la matita e...» continuò la piccola, ma John udì le parole «razzista» e «genocidio» e tornò a guardare il programma. Un membro del Congresso, un uomo di colore in quel momento molto adirato, con le
guance che gli tremavano per la rabbia, stava sparando a zero contro il Presidente. John lo conosceva, o meglio, aveva sentito parlare di lui: si chiamava Floyd Jessup. Nella mente gli passò come un lampo la definizione «democratico di New York». Fu costretto a sorridere di quel riflesso: una reazione naturale, dopo che si è vissuti a Washington per un po'. Nessuna sorpresa, per la reazione di Jessup. Il Presidente aveva effettuato l'annuncio la sera prima e il membro del Congresso sfogava il proprio malumore nel programma Good Morning, America nemmeno ventiquattr'ore dopo. Il suo staff non aveva perso un istante. «...e pensare che abbiamo appoggiato Thomas Winston, l'abbiamo aiutato a insediarsi alla Casa Bianca! E lui che cosa fa? Pianta un coltello nella schiena della comunità afroamericana, già oppressa!» John si costrinse a rivolgere di nuovo la propria attenzione a Katie e scoprì di avere perso le malefatte di Jimmy Clifton. Cercò di non darlo a vedere. «Ah, davvero? Si è ficcato nei guai?» «Certo!» esclamò Katie, annuendo rapidamente con un sorriso soddisfatto che rivelò una fessura: aveva perso il primo dentino solo una settimana prima. «È dovuto andare dalla preside, sorella Louise.» Battista fin dalla nascita, John aveva tuttavia deciso di iscrivere Katie a un istituto cattolico, la scuola elementare Sacra Famiglia, a Bethesda, che godeva di ottima fama ed era considerata una delle migliori del circondario. Aveva persino una lista d'attesa. John era soddisfatto che Katie vi si trovasse tanto bene. In principio la bambina aveva sofferto un po' per la separazione, cosa perfettamente comprensibile, visto quello che aveva passato, ma ormai non vedeva l'ora di prendere lo scuolabus per raggiungere i compagni. Era valsa la pena, esercitare tutta la sua influenza per ottenere che fosse ammessa. Esercitare influenza... era la cosa più importante, in quella città. Quando era internista ad Atlanta non ne sapeva niente. Ma aveva imparato presto: dopo un paio d'anni alla Sanità, come viceministro, era in grado di esercitare quanta influenza fosse necessaria, e della migliore. Guardò l'orologio. «Perderai l'autobus. Hai preso la compressa?» La bimba la cercò sulla tovaglia. «No, io...» «Eccola.» John alzò lo sguardo mentre sua madre si avvicinava a loro dalla parte opposta della cucina, reggendo un flaconcino. «Grazie, Nana», disse Katie allungando una mano.
Nana... Per gli amici era ancora Helga e John la chiamava mamma, una volta; ma era diventata Nana per tutta la famiglia quando Katie aveva cominciato a parlare. Ogni giorno John ringraziava il cielo perché la madre si era trasferita a casa loro, a Washington. Senza di lei, John e Katie non sarebbero stati in grado di tirare avanti. La donna depose sul palmo della nipotina una compressa rosa chiazzata di rosso. John osservò la madre e notò quanto fosse invecchiata, negli ultimi anni. Ne aveva settantacinque e li dimostrava tutti. Solo qualche anno prima aveva già i capelli del tutto bianchi, ma ne dimostrava dieci di meno. Era la prova lampante che lo stress fa invecchiare. Alta e snella - anche il padre di John aveva una statura notevole - cominciava appena a incurvarsi, ma si curava molto: aveva sempre la permanente e portava un filo di rossetto sin dalle prime ore del giorno. Il vivo colorito naturale accentuava l'azzurro degli occhi. Acquistava pochi abiti, ma di buona qualità, che poi indossava fino a consumarli. Niente tessuti sintetici, e faceva molta attenzione agli abbinamenti. Quella mattina indossava pantaloni beige e un pullover a collo alto, azzurro e nocciola. Katie si infilò in bocca la compressa e la mandò giù con un sorso di succo d'arancia. Avrebbe potuto masticarla ma il sapore non le piaceva, quindi aveva imparato a deglutirla intera. Era diventa una professionista. Una compressa due volte al giorno, tutti i giorni, per... quanto tempo? A John sarebbe piaciuto saperlo. Sapeva fin troppo bene ciò che sarebbe accaduto se la figlia avesse saltato una dose o due. La gola gli si strinse e sentì l'impulso di toccarla. Lisciò alcuni fili fuori posto dei suoi capelli neri e lucenti. Nana li pettinava ogni mattina e le faceva due treccine. Katie ne avrebbe preferita una sola, come quella che portavano le ragazze più grandi, ma Nana non la riteneva abbastanza elegante. Badava molto all'eleganza. Katie lo guardò. «Che cosa c'è, papà?» «Niente, perché?» «Hai un aspetto strano.» Lui fece gli occhi strabici. «Così va meglio?» «No!» scoppiò a ridere la piccola. «Adesso sembri scemo!» «Sembrerà ancora più scemo», interloquì Nana, come sempre la voce della ragione, «se perderai il bus e dovrà accompagnarti a scuola.» John consultò di nuovo l'orologio e si alzò in piedi. «Non posso. Stamattina ho un appuntamento con Tom.»
«Per il pasticcio che ha combinato?» chiese Nana con un cenno verso il televisore. «No. Il solito controllo.» La madre scosse il capo e strinse le labbra. «Be', questa volta Tommy l'ha fatta davvero grossa.» John annuì. «Sul serio, mamma. Davvero.» Abbottonò il blazer blu della divisa di Katie, sopra la tutina scozzese. Un'altra cosa che gli piaceva, della scuola elementare Sacra Famiglia: la divisa. Nessuna discussione su che cosa mettere, il mattino, o domande tipo: «Perché non posso mettermelo anch'io?» Tutte le ragazze portavano una tutina a scacchi azzurri e grigi, una camicetta bianca con un elegante colletto a punte arrotondate, calzettoni blu e scarpe bicolori; e tutti i ragazzi un blazer dello stesso tessuto con pantaloni blu. Ma per il cappellino non esistevano regole, quindi Katie aveva il permesso di indossare quello che preferiva: un basco rosso. Dopo che se lo fu sistemato in testa, iniziarono i preparativi per la partenza. «Hai preso il cestino del pranzo?» Lei lo sollevò. «Certo!» «La merendina di metà mattino?» «Eccola!» «Quella per il pomeriggio?» «Sicuro!» «La scatola delle matite?» La sollevò. «È qua.» «Il quarto di dollaro in caso di emergenza?» Si tastò la tasca del blazer. «Certo!» «Allora credo proprio che tu sia pronta per uscire. Saluta Nana.» Guardò la madre e la figlia che si scambiavano un veloce abbraccio e un bacio, poi prese Katie per mano e l'accompagnò fuori. Un frizzante mattino di aprile. La primavera era arrivata ma l'inverno non voleva andarsene. Era uno di quei giorni in cui si è contenti di essere vivi. Per John quello era il momento migliore della giornata, quello in cui si sentiva più vicino a Katie. Desiderava quell'intimità, ne sentiva un bisogno disperato. Aveva fatto tutto il possibile per stabilire un buon rapporto con lei, sforzandosi di farle capire che le volevano molto bene, che si prendevano cura di lei e che nessuno le avrebbe più fatto del male. Arrivati all'angolo si fermarono per aspettare lo scuolabus. «Credi che Jimmy Clifton si ficcherà nei guai anche oggi?»
Lei strinse le spalle. «Può darsi. Spero che non lo caccino via.» «Oooh», fece lui prendendola in giro e dandole un colpetto con il fianco. «Sembra che piaccia sul serio a qualcuna che conosco.» «Non è vero!» esclamò lei. «Solo che è divertente.» Ho l'impressione che la signorina abbia negato un po' troppo velocemente, pensò John, ma non insistette. Katie sembrava sinceramente preoccupata che il ragazzo fosse espulso. John dubitava che una cosa simile potesse accadere a Jimmy, figlio del senatore Clifton, ma non si poteva mai dire. Quelle suore non erano molto influenzabili. E avevano un elenco di altri cinquanta bambini pronti a prendere il suo posto. «Se è davvero divertente, forse sorella Louise lo terrà solo per le risate che riesce a strappare.» «Non è divertente fino a questo punto», osservò Katie. Mentre John scoppiava a ridere, il bus giallo della scuola girò l'angolo e scese lungo la strada. Le si accoccolò vicino e la strinse forte. «Papà vuole bene a Katie.» Lei gli buttò al collo il braccìno libero. «Katie vuole bene a papà.» La tenne stretta, gustando quel momento. Da qualche anno lei trovava troppo imbarazzanti quelle manifestazioni pubbliche di affetto, ma in quel momento essere abbracciata dal padre le piaceva molto. John si staccò da lei quando lo scuolabus si fermò accanto al marciapiede e lasciò che ne aprisse lo sportello da sola. Pochi istanti dopo agitava la mano e gli sorrideva da un finestrino. Lui restò a guardare finché il bus giallo e il basco rosso non furono troppo lontani, quindi tornò in casa. Niente male come abitazione, pensò avvicinandosi. Risaliva a vent'anni prima ed era la classica villetta con giardino, in un quartiere dominato da costruzioni coloniali. Un quartiere tipico di Washington. Nana lo tollerava appena. Diceva che era fuori del giro e non era comodo da raggiungere per gli amici. Ma quando mai lo andava a trovare qualcuno? Se l'avesse acquistata avrebbe dovuto apportare qualche modifica. Se l'avesse acquistata... Quand'era arrivato a Washington non sapeva se la città gli sarebbe piaciuta. E ancora non ne era certo. Quando il suo vecchio amico d'infanzia Tom Winston era diventato presidente degli Stati Uniti, gli aveva chiesto di raggiungerlo. Aveva detto di volere intorno a sé, a Washington, qualche ragazzo della Georgia, sostenendo che John lo stava già curando per la pressione alta e voleva che continuasse a farlo. Ma lui riteneva che la vera ragione fosse che Tom aveva
capito quanto soffriva, come la vita gli fosse crollata addosso, e gli aveva offerto una possibilità di cambiamento. John era andato a Washington in cerca di qualcosa di più di un nuovo ambiente: aveva sperato in una trasformazione radicale della propria vita. Non sapeva se l'aveva trovata, ma era un po' più tranquillo, in un certo senso, ed era già qualcosa, tanto per cominciare. Un buon inizio. 2 MacLaglen si era completamente immedesimato in «Snake». La sera prima stava guardando, sullo schermo panoramico di due metri e mezzo per sei, il presidente Winston che si suicidava politicamente, quando era giunta la telefonata che aspettava. Una sola parola: «Procedi», aveva fatto iniziare la trasformazione. Aveva chiamato Paulie e gli aveva annunciato che l'operazione era cominciata e il sequestro sarebbe stato effettuato il giorno dopo. Quindi si era collegato in rete per un po' e poi era andato a dormire. Allora era quasi del tutto ancora Michael MacLaglen. Ma quando aveva aperto gli occhi, il mattino dopo, era Snake, completamente. L'adrenalina aveva cominciato a scorrergli in corpo con un lieve ronzio, ma lui sapeva che il rumore si sarebbe intensificato durante il giorno in un rombo che sarebbe durato sino alla fine del sequestro. E ci sarebbero volute un paio di settimane, come minimo. Si leccò le labbra. Lo sperava proprio. Snake stava seguendo lo scuolabus giallo da più di un chilometro e mezzo, con la Jeep nuova, tamburellando con le dita sul volante e fingendosi impaziente come tutti quelli intrappolati dietro l'automezzo. Ma dentro era calmissimo, molto lieto che il codice stradale stabilisse che non poteva superare il veicolo, che lo costringesse a fermarsi ogni volta che prendeva a bordo un bambino, che gli vietasse di sorpassarlo quando le luci rosse lampeggiavano. Niente di più facile che seguire uno scuolabus. Lo osservò soddisfatto mentre faceva salire il «pacco» dal blazer blu e lo portava a scuola. In perfetto orario, come tutti i giorni. Mentre superava il padre del pacco gli lanciò un'occhiata: il dottor John VanDuyne. Alto più di un metro e ottantacinque, sui quaranta, capelli castani piuttosto lunghi che si stavano ingrigendo alle tempie. Vestiva sportivo ma tradizionale: pantaloni larghi, camicie con il colletto abbottonato e
maglioni. Proprio come me, pensò Snake. Si muoveva bene, camminava con passi lunghi e disinvolti. Forse alle superiori aveva giocato a pallacanestro: doveva aver avuto una buona capacità di tiro, ci avrebbe scommesso. Snello, spalle ampie, probabilmente stava attento a ciò che mangiava. Snake sapeva che si allenava regolarmente e che aveva un programma preciso per ogni giorno della settimana. Il dottore sembrava in forma, in apparenza, ma Snake pensava che dentro fosse uno smidollato. Viveva ancora con la madre. Un cocco di mamma. Una pappamolla. Bene. Sarebbe crollato subito e avrebbe fatto esattamente ciò che gli avrebbero chiesto. Così doveva essere. Snake non avrebbe tollerato nessun atto di eroismo e nessuna improvvisazione. Perché era già strano che il compenso provenisse da terzi e non dalla famiglia del sequestrato. La famiglia, cioè il dottore, avrebbe dovuto riprendersi il piccolo pacco in un altro modo. Preparati, dottore, pensò mentre si lasciava alle spalle VanDuyne e continuava sulla scia dello scuolabus. Il tuo programma subirà un cambiamento radicale. E molto presto. 3 Quando John rientrò, la madre era ancora in cucina, davanti al televisore, e guardava una ripetizione dei brani principali del messaggio presidenziale. ...possiamo spezzare la schiena a questi imperi del crimine. Possiamo far loro mancare il terreno sotto i piedi, dal punto di vista economico, privandoli delle decine di milioni, non milioni, ma miliardi di dollari, che rastrellano ogni anno con le loro attività illegali. E non occorre mobilitare l'esercito, organizzare contro di loro un attacco militare. Dobbiamo solo modificare alcune leggi... Lo guardò. «È diventato matto, Tommy Winston? Era ubriaco quando è andato davanti alla televisione, ieri sera?» Dalla voce, John capì che era sconvolta. Suo padre, oriundo olandese, aveva sposato una ragazza del paese di origine, che, quando si agitava, faceva salire la voce di almeno un'ottava e inseriva l'accento della sua lingua natale nel suo inglese più che corretto. «No, mamma, era perfettamente in sé.» «Dev'essere davvero impazzito. È l'unica spiegazione.» John strinse le spalle. «Non devi andare molto lontano per trovare uno
che la pensa come te. Il suo staff ha cercato di convincerlo a rinunciare; ma conosci Tom, quando si mette in testa qualcosa.» «Tu lo sapevi? Perché non l'hai detto a tua madre?» «Era un segreto. Ne ho avuto sentore l'ultima volta che sono stato alla Casa Bianca, ma non ho mai pensato che sarebbe andato fino in fondo. E poi mi hanno fatto promettere di non dirlo a nessuno.» «Nemmeno a tua madre?» «Nemmeno a mia madre.» Lei cominciò a premere i tasti del telecomando, soffermandosi su ogni canale quanto bastava per capire l'argomento. «Guarda... È uguale dappertutto. Parlano solo di quello. In Olanda una cosa simile non creerebbe un tale scompiglio. Ma qui...» Si riempì di nuovo la tazza di caffè. Sollevò il bricco per chiedere se John ne volesse, ma lui scosse la testa. «Tom se lo aspettava», la informò. «Immagina, spera, che il trambusto iniziale si esaurisca e che la gente smetta di reagire in modo emotivo e cominci a riflettere.» «Sai che cosa penso io, John VanDuyne?» ribatté lei. Il fatto che l'avesse chiamato per nome e cognome significava che era davvero seccata. «È bene che tu l'abbia presa solo in affitto, questa casa. Perché molto presto il tuo vecchio amico Tommy Winston lo ricacceranno in Georgia, con tutti quelli che ha portato con sé.» «Potresti anche avere ragione», ammise John. 4 Il traffico verso il centro, lungo Massachusetts Avenue, sembrava più intenso del solito e John ebbe più tempo per ascoltare ciò che dicevano alla radio a proposito del messaggio alla nazione che Tom aveva inviato la sera prima. Appena l'ebbe accesa udì la voce dell'amico. ...per venticinque anni abbiamo affrontato il problema con la massima energia da parte di tutte le istituzioni, e dove ci ha portati, tutto ciò? Abbiamo speso settecentocinquanta miliardi di dollari, abbiamo incarcerato centinaia di migliaia di persone, ma il problema si è aggravato. Forse che le strade sono più pulite, dopo tutte quelle centinaia di miliardi? Niente affatto. E allora, qual è la soluzione? Insistere nella stessa direzione?
Cambiò stazione, soffermandosi ogni volta che udiva una voce irritata. E accadeva spesso. Il turbamento era generale, ma non tutti erano adirati. Howard Stern la considerava un'idea magnifica, che avrebbe dovuto essere realizzata da molto tempo, mentre sembrava che Imus non sapesse che cosa pensarne. Ma nelle telefonate degli ascoltatori la condanna proveniva da ogni parte politica: destra, sinistra e centro. «Tommy, Tommy», fece a bassa voce. «Che cos'hai combinato?» Procedendo lentamente verso il centro, John smise di ascoltare la radio. Ripensò all'infanzia e a tutti gli anni trascorsi con il ragazzo della fattoria accanto. Dalle elementari fino alla Georgia State University, Tommy e lui erano stati inseparabili. Con tutto quello che avevano combinato... Dio, era una fortuna che fossero ancora vivi. Erano stati entrambi spericolati: avevano dato per scontato, come la maggior parte dei ragazzi, di essere immortali e che fossero gli altri a farsi male seriamente, quelli che non erano in gamba e agili come loro. Ma Tommy era sempre stato più scavezzacollo di lui. Era sempre stato l'amico ad architettare le imprese più rischiose. John rammentò quella volta in cui aveva scoperto di poter scendere con l'auto lungo il pendio della cava di sabbia fuori della città di Freemantle, in Georgia. Era scosceso e ripido, ma una sera, mentre cercava di capire quanto potesse arrivare vicino al bordo con la sua carriola, si era accostato troppo e l'auto aveva cominciato a scivolare giù. Per fortuna la sabbia era cedevole e aveva frenato la corsa. Era riuscito ad arrivare in fondo senza danni e ad allontanarsi dall'altro lato. Poi aveva preso a bordo Tom e gli aveva fatto venire una fifa blu ripetendo il percorso in senso inverso. L'impresa aveva dato a Tom un'idea magnifica. La sera dopo avevano fatto salire sul sedile posteriore Eddie Hennessy, un gran figlio di puttana, ed erano andati in giro per il bosco fingendo di cercare qualche coppietta da spaventare. Tom si lamentava perché Bonnie Littlefield l'aveva lasciato e diceva di essere così infelice da non avere nessun motivo per continuare a vivere. Aveva fatto in modo che la sua disperazione raggiungesse l'acme nel momento in cui si avvicinavano alla cava. Urlando: «Merda! Non posso andare avanti senza di lei!» aveva sterzato e superato il bordo. Sul sedile posteriore, Eddie Hennessy aveva strabuzzato gli occhi per la paura. Si era sporto in avanti, aveva afferrato Tom per il viso e il collo, aveva urlato di non voler morire e aveva invocato la mamma. John aveva riso tanto che per poco non se l'era fatta addosso, senza rendersi conto che
Tom non riusciva a vedere niente, con le braccia di Eddie intorno alla testa. In effetti aveva davvero perso il controllo dell'auto, che aveva fatto un testacoda, si era ribaltata e aveva girato tre volte su se stessa prima di fermarsi sul fondo. Nessuno aveva la cintura di sicurezza, ma in qualche modo se l'erano cavata con pochi graffi. John scosse la testa. Sul serio... vivi per miracolo. Dopo il college si erano persi di vista: Tom si era laureato alla facoltà di Legge della Duke University, John alla Tufts School of Medicine. Appena finito l'internato stava cominciando a praticare, quando aveva ricevuto una telefonata di Tom: «Penso di candidarmi come membro del Congresso. Vuoi darmi una mano?» Da allora, John aveva partecipato a tutte le campagne elettorali di Tom. Il fallimento del suo matrimonio aveva coinciso con l'inizio della presidenza Winston. Quando l'amico gli aveva offerto un incarico alla Sanità, John aveva colto al volo l'occasione. Ecco perché in quel momento si ritrovava a procedere a rilento intorno al Du Pont Circle. Il traffico si fece più scorrevole in corrispondenza di Connecticut Avenue, ma invece di continuare verso il ministero, John proseguì verso il centro. Quel mattino era atteso alla Casa Bianca. 5 «Non dovresti restare, Mac», protestò Paulie mentre il barbiere gli fissava intorno al collo l'asciugamano di plastica. «Voglio dire, so come farmi tagliare i capelli.» Quando Paulie lo chiamò «Mac», Snake si irrigidì: avrebbe dovuto sapere che non bisognava fare nomi, in presenza di altri. Ma si costrinse a calmarsi. Era un nome così comune... era come se l'avesse chiamato «tizio». Non gli piaceva, ma poteva andare bene, finché Paulie non lo chiamava Snake. Ma come avrebbe potuto? Quel nome l'avevano udito solo le famiglie e gli amici dei sequestrati. Per Paulie lui era semplicemente Mac. Né Mike né MacLaglen... semplicemente Mac. Snake inclinò la sedia fino a toccare il muro dello stanzino e fissò Paulie DiCastro: tarchiato, di altezza media, con barba e capelli rossi piuttosto lunghi, occhi azzurri e carnagione chiara. Era l'italiano dall'aspetto meno italiano fra tutti quelli che aveva conosciuto. Snake gli aveva fissato un appuntamento con uno dei barbieri di lusso di Connecticut Avenue, perché voleva un lavoro di alta classe. Chissà dove diavolo sarebbe finito, Paulie,
se avesse lasciato scegliere a lui. Da parecchi anni Snake lo ingaggiava per fare dei lavoretti. Perché, a parte le sue lagne, era un tipo su cui si poteva contare. Seguiva le istruzioni, e questo era importantissimo, per lui. Anche quando le cose erano diventate un po' rischiose, con l'ultimo pacco, Paulie non aveva mollato. Poppy era andata un po' su di giri, ma tutto era finito bene. Di solito si limitavano a sorvegliare i pacchi finché la famiglia o la società non pagava il riscatto, ma quella volta Paulie doveva eseguire il sequestro personalmente. Quella era la ragione per cui si era fatto crescere la barba. Due mesi prima Snake gli aveva detto di smettere di tingersi i capelli e di lasciarsi crescere la barba. Aveva un'aria piuttosto trasandata, ma il barbiere lo avrebbe fatto sembrare molto curato ed elegante. E quella sera stessa, con il pacco al sicuro, Paulie se la sarebbe tagliata. Chi avesse cercato uno con la barba non l'avrebbe preso in considerazione. Dopo il taglio dei capelli, ci voleva un abito decente. Paulie e la sua ragazza erano entrambi fissati per il nero. Lui indossava maglietta, pantaloni di cuoio, guanti senza dita, stivali e un lungo pastrano, tutto nero; e quasi sempre si tingeva anche i capelli di quel colore. E Poppy... La frangetta e i capelli lunghi fino alle spalle erano rosso vino, e si vestiva con abiti neri, attillati e scollati, con maniche traforate e calze a rete. Perfino il rossetto e lo smalto erano neri. Sembrava una puttana vestita da vampiressa. Aveva un paio di tatuaggi sulle braccia, in alto, che Snake non aveva mai visto da vicino, e un sacco di orecchini. Cristo, doveva averne dieci solo all'orecchio sinistro, l'ultima volta che l'aveva vista. E come se non bastasse aveva un anellino al naso e un altro a un sopracciglio. E chissà dove ne aveva ancora! Le uniche cose che non erano nere, di quella ragazza, erano la sua pelle e i capelli, che forse erano proprio neri naturali, quando non li tingeva di quell'assurdo colore. Snake non li capiva. Non si sarebbe vestito come Paulie neanche dopo morto. Era come avere una scritta che dicesse «Guardatemi!» Era meglio muoversi attirando il minimo di attenzione. «Pago io, Paulie. Sto soltanto controllando il mio investimento.» «Sì, ma mi sento come un bambino piccolo. Voglio dire, che cosa viene dopo? Un seggiolone?» Snake si concesse un sorriso. Paulie non era mai soddisfatto se non aveva qualcosa di cui lamentarsi. «Voglio solo essere sicuro che... come ti chiami, tu?» chiese Snake al
barbiere, pardon, all'acconciatore. «Raynoldo», rispose questi. Aveva una costituzione delicata, i baffi e i capelli scuri pettinati all'indietro, appiccicati al cranio. «Sì, Raynoldo. Voglio solo assicurarmi che tu faccia il lavoro come si deve. E questo significa via il codino.» «Ah, Cristo!» esclamò Paulie. «È proprio necessario? Voglio dire, non ci stiamo spingendo un po' troppo oltre?» Snake ignorò la domanda. Il codino era fuori discussione. «E voglio anche essere sicuro che la barba sia a posto», continuò. «La parola giusta è 'elegante'. Hai sentito, Raynoldo? Elegante.» «Sissignore», rispose lui. Rivolse a Snake un sorriso veloce, delicato. «Sarà elegante.» Forse crede che tra me e Paulie ci sia qualcosa, pensò Snake. «Della barba non me ne importa niente», si lamentò Paulie. «Voglio dire, me la sono lasciata crescere per divertimento. Ma il codino! Ce l'hanno moltissimi autisti. Posso...» Snake fu colto da una furia improvvisa. Maledetto idiota! Ha detto autista! Si alzò bruscamente e strappò le forbici dalle dita delicate di Raynoldo. Afferrò il codino di Paulie, lo tese con uno strattone e lo tagliò a pochi centimetri dalla nuca. «Parli troppo», disse restituendo le forbici a Raynoldo e buttando in grembo a Paulie il codino. «Fine della discussione.» Paulie lo guardò in cagnesco, ma non parlò. Bene, pensò Snake. L'importante è che sia chiaro chi comanda. Sentì la rabbia sbollire rapidamente com'era venuta. Era sempre così: un istante era pronto a uccidere, quello dopo era come se non fosse accaduto niente. Quegli scoppi d'ira non gli piacevano, ma a volte servivano. Come in quel momento: non avrebbe dovuto ascoltare altre lagnanze da parte di Paulie a proposito del cambio di abbigliamento che l'attendeva. Si sarebbe vestito nel modo appropriato per il sequestro di persona di quel mattino. Una livrea d'autista assolutamente impeccabile. Lanciò un'occhiata all'orologio. Si stava facendo tardi. «Bene», disse a Raynoldo. «È ora di cominciare. Rendilo rispettabile, e presto. Non abbiamo tempo da perdere.» 6 ...Quindi togliamo alle droghe il fascino dell'illecito. Rendiamole noiose e definiamo sciocche le persone che ne fanno uso. Una delle de-
finizioni della stupidità è l'incapacità di imparare dall'esperienza. Niente di ciò che abbiamo tentato ha funzionato. È passata da un pezzo l'ora di un cambiamento nella tattica... John azionò l'interruttore ed escluse la voce di Tom, quando si imbatté in un altro ingorgo in Pennsylvania Avenue. Le auto si erano ammassate sulla Diciassettesima strada. Quando arrivò a Lafayette Square ne comprese il motivo. «Di già?» Centinaia di persone avevano installato tavole e tende ovunque avessero trovato uno spazio libero; una tenda ospitava persino un raduno di preghiera improvvisato. Dall'altra parte del prato, un tempo parte di Pennsylvania Avenue, prima che nel 1995 fosse chiusa al traffico e trasformata in viale pedonale, vide alcuni dimostranti che cantavano, innalzando cartelli e sfilando davanti alla recinzione in ferro battuto. Lo spettacolo era cominciato. A poco a poco John si avvicinò al drappello di agenti dei Servizi segreti, armati e in uniforme, dall'aspetto arcigno. Uno di loro gli fece cenno di proseguire, ma lo lasciò avvicinare quando John tese dal finestrino il documento di identità e il lasciapassare. Conosceva quasi tutte le guardie, ma quel tipo doveva far parte dei rinforzi. Mentre esaminava i suoi documenti, John osservò: «Non hanno perso tempo, vero? Dev'essere tutta gente che si alza molto presto». La guardia grugnì. «Il primo gruppo è arrivato alle dieci di ieri sera.» Controllò il registro degli appuntamenti nella portineria, quindi tornò di corsa all'auto e restituì a John i documenti. «Spiacente per il ritardo, dottor VanDuyne, avrebbe dovuto dirmi subito chi era.» Sì, il medico personale del Presidente aveva una certa autorità. «Nessun problema. Capisco benissimo.» Mentre l'enorme cancello si richiudeva dietro la sua auto, dal selciato si sollevò una trave di ferro, come ulteriore impedimento all'entrata. John aveva sentito dire che era in grado di arrestare un camion di due tonnellate che procedesse a sessantacinque chilometri l'ora. Parcheggiò nella zona riservata ai visitatori, prese la valigetta nera dal bagagliaio, fissò il tesserino d'identificazione al taschino della giacca sportiva e girò l'angolo, svoltando verso sinistra. La Casa Bianca, o la Corona, come la chiamavano quelli dei Servizi segreti. Non li vedeva, ma era certo che la squadra di turno fosse appostata sul tetto. Si rendeva conto più del solito dei sensori ai raggi infrarossi, dei rilevatori elettrici, dei monitor audio e delle videocamere che controllava-
no ogni suo passo, inviando tutto al W-16, il comando dei Servizi segreti ubicato sotto la Sala Ovale. Cercò di dimenticarsene, di apprezzare la scena. Il parco stava rinverdendosi, sugli alberi spuntavano le gemme e il monumento a Washington dominava tutto come un custode di pietra. Lungo il Potomac i ciliegi erano in fiore: si fece un appunto mentale per ricordarsi di portare Katie e Nana a fare una passeggiata lungo la riva, il successivo fine settimana. In primavera Washington era stupenda. Ma quella primavera avrebbe potuto essere diversa... John affrettò il passo. Per fortuna aveva fissato l'appuntamento in anticipo. Era preoccupato per la pressione di Tom. Era già pericoloso rappresentare la prima linea di difesa sanitaria del leader del mondo libero, ma quando si trattava anche del più vecchio amico... Al piano terra, fra gli scaloni che incorniciavano il portico a sud, un altro agente in uniforme controllò i suoi documenti. Era una procedura insolita. La maggior parte delle volte entrava senza ulteriori intralci. Girò a sinistra, attraversò la zona dei ricevimenti diplomatici fino all'intrico di uffici dirigenziali dell'ala occidentale. Nell'atrio scorse un viso ben noto e dall'aspetto infelice. «Ehi, Bob», gli disse John. «Sto cercando il capo.» Robert Decker, agente speciale dei Servizi segreti, era un veterano. Sembrava infastidito e seccato. L'abito grigio era molto sgualcito, contrariamente al solito, come se l'avesse portato tutta la notte. E forse era proprio così. Fece segno alle sue spalle con il pollice. «Negli uffici dirigenziali. Vai a fargli un check-up, Doc?» John strinse le spalle. «Soltanto la pressione, come tutti i mesi.» «Fammi un favore, controllalo dal collo in su, visto che ci sei.» «È una faccenda preoccupante?» «Riceviamo già minacce di morte. Ho annullato tutti i viaggi, il che mi ha già procurato un sacco di lamentele. Parlagli, ti prego.» «Non vedo che cosa posso farci. Non può rimangiarsi ciò che ha detto.» «Certo che può farlo. Stasera può andare in televisione e dire di non avere mai fatto affermazioni simili. Potrebbe dare la colpa al suo gemello cattivo.» John aspettò inutilmente che Decker sorridesse. «Scherzi, vero?» «Guardami in faccia», ribatté lui. «Sembro uno che ha voglia di scherzare?» «È così grave?»
«Peggio di quanto ti immagini», ribatté Decker, e se ne andò. John proseguì. Si fermò nell'ambulatorio d'angolo, accanto allo studio del medico della Casa Bianca, per salutare Jeff Stein. Questi avrebbe potuto misurare la pressione al Presidente tutti i giorni, se fosse stato necessario, ma preferiva che lo facesse il suo vecchio amico. E a John non pesava. Era una maniera per restare in contatto con Tom, per aprire una breccia nel muro di «splendido isolamento» che si era inesorabilmente innalzato intorno a lui. Alla scrivania un'infermiera bionda di cui John non ricordava il nome stava facendo le parole crociate. «Dov'è il dottor Stein?» Lei nascose il cruciverba con una cartellina. John immaginò che il tempo potesse trascorrere molto lento, in un ambulatorio come quello. «È andato a prendere un caffè, dottore. Posso esserle utile io?» «Volevo solo avvertirlo che sono arrivato. Forse lo vedrò più tardi.» Quindi si diresse verso la porta con il sigillo presidenziale ed entrò. Gli uffici, sempre tranquilli e ordinati, erano in preda a un'attività frenetica: assistenti e segretarie correvano avanti e indietro, gridavano da un capo all'altro delle stanze e da una stanza all'altra, con i telefoni che squillavano di continuo. Non era affatto un'atmosfera di festa. Tutti avevano un'espressione preoccupata. E la più preoccupata di tutti era la minuscola donna di mezza età, dai capelli ricci, che si avvicinò a John: Stephanie Harris, l'addetto stampa della Casa Bianca. «Sei venuto a firmare i documenti per l'internamento, vero?» In seguito, davanti alle telecamere, sarebbe apparsa ottimista e decisa, ma in quel momento non era così. «No. Il solito controllo della pressione.» Lei tese un braccio. «Controlla la mia. Sarà un record.» «Credi di poter superare quella di Bob Decker?» «Assolutamente sì! Lui suppone che questo sia un incubo per i servizi di sicurezza? Non è niente, se lo paragoniamo alla catastrofe delle pubbliche relazioni! Il telefono non ha mai smesso di squillare, neppure per un istante. Sai quante chiamate riceviamo al giorno, in media? Quarantottomila. Ne abbiamo già ricevute altrettante a partire da mezzanotte, quasi tutte terribilmente incazzate. Quei maledetti fax hanno finito la carta tante volte che abbiamo smesso di rifornirli. Superare la pressione di Decker? Posso raddoppiarla!» John rise, ma si chiese se la pressione di Tom avrebbe superato quella di
Stephanie. «Dov'è?» Lei si voltò e indicò l'uomo alto, dall'aspetto tranquillo, con un abito blu scuro, che stava parlando con una donna giovane e carina. Una delle sue assistenti, suppose John. Il suo vecchio amico era un'isola di calma in un mare agitato: fu costretto a sorridergli. Il presidente Thomas Winston, nome in codice Rasoio, per i Servizi segreti, era come al solito elegantissimo. Non uno dei capelli neri fuori posto, un'adeguata quantità di grigio alle tempie, il viso abbronzato dai lineamenti decisi, che piaceva tanto alle telecamere, composto in un'espressione tranquilla e fiduciosa. John era disposto a scommettere che probabilmente la pressione di Tom andava benissimo. Era un uomo che provocava più ipertensione di quanta ne avesse lui. Tom guardò dalla sua parte e lo scorse. Sorrise, gli puntò contro un dito per indicargli di restare dov'era, concluse la conversazione con la giovane donna e gli si avvicinò. «Benvenuto al baraccone del luna park», lo salutò stringendogli la mano. «Ti avevo avvertito.» «Sì, vecchio mio. Tu e moltissimi altri.» Si voltò e indicò la giovane donna che aveva appena lasciato. «Vedi quella faccia d'angelo? È Heather Brent. Sarà la portavoce ufficiale presso i mass media a proposito del problema della depenalizzazione.» «Le darei più o meno dodici anni.» John stava esagerando, ma sembrava davvero tremendamente giovane. «Ha ventott'anni, è felicemente sposata e ha due figli. È un''argomentatrice' di classe mondiale e crede fermamente nella depenalizzazione. È in grado di farti a fette con le parole senza perdere una briciola di quel fascino innocente. Sarà un'arma potentissima, in questa guerra.» Si guardò intorno. «Andiamo di sopra, così potrai controllarmi la pressione in santa pace. Quaggiù sono tutti troppo agitati.» 7 Quando vide Paulie, Poppy per poco non svenne. Quando lui entrò la ragazza si stava allenando. Le bastò un'occhiata al nuovo taglio di capelli e iniziò a ridere tanto forte da crollare per terra. Non riusciva quasi a respirare. «Non sto poi tanto male», obiettò lui con un sorriso imbarazzato. Alla fine Poppy riuscì a reprimere le risa. Lo fissò senza fiato. Avrebbe
avuto un aspetto strano comunque, con i capelli rossi tagliati intorno alle orecchie e sulla nuca e con la barba non più lunga di mezzo millimetro e ben delineata intorno alle guance e al collo. Quasi non lo riconosceva. «Hai un aspetto così decisamente... normale. Come se gestissi una libreria o qualcosa del genere.» Si alzò da terra e lo abbracciò. Mentre compiva quel gesto gli sfiorò la nuca, nel punto in cui aveva avuto il codino. Riprese a ridere. «Oh, guarda, il collo! Non te l'avevo mai visto, prima!» Paulie la scostò con dolcezza, ma lei capì che cominciava ad arrabbiarsi. Lui si avvicinò allo specchio crepato sopra il divano malridotto e si guardò con attenzione. «Cristo, hai ragione. Sembro un topo di biblioteca, cazzo! Va bene, ma non sarà per molto. Sarà meglio che vada a cambiarmi.» Poppy sfregò via la sporcizia che l'aderente tuta nera aveva raccolto da terra. L'appartamento che Mac aveva affittato per il lavoro era proprio un buco. Per fortuna non ci sarebbero rimasti per molto. Si calmò quando si rese conto del significato del taglio dei capelli: il sequestro era imminente e l'avrebbe effettuato Paulie. Deglutì e sentì una fuggevole contrazione allo stomaco. La prima volta che l'aveva aiutato a sorvegliare uno dei pacchi di Mac, tre anni prima, tutta la faccenda le era sembrata uno scherzo. Erano rimasti in casa ad ascoltare musica e a mangiare cibi da asporto presi in un fast food e avevano fatto a turno per tenere d'occhio il tizio ammanettato e bendato nella stanza accanto. Quando era stato pagato il riscatto, l'avevano accompagnato in un luogo disabitato, fra i boschi, dalle parti di un'autostrada senza pedaggio, e l'avevano lasciato andare. Facile. Nessuna fatica, nessuna tensione e un sacco di grana, quando Mac aveva dato la sua parte a Paulie. Ma per quanti fossero, i quattrini non duravano mai a lungo. Tanti ne avevano tanti ne spendevano, indulgendo a un tenore di vita dispendioso. Si poteva proprio dire «dispendioso». Poppy era una forte consumatrice di anfetamina. Oh, qualche volta faceva una sniffata di coca, e fumava l'erba, certo, ma l'anfetamina era quella che preferiva. Quindi, quando Mac telefonava e diceva di avere un altro lavoretto di sorveglianza, forse due, tre volte l'anno, acconsentivano sempre. Lei si meravigliava perché non denunciavano mai la scomparsa dei pacchi. Paulie diceva che secondo Mac le persone sequestrate ogni anno erano moltissime. Era un'industria in espansione e lui vi aveva una parte importante. Ma che fosse vero oppure no, l'ultimo lavoro le aveva fatto perdere ogni interesse per la faccenda.
Seguì Paulie nella camera da letto più piccola e lo guardò indossare la divisa da autista. «Mac ti ha detto qualcosa, del sequestrato?» «No.» «Avrei preferito che non lo eseguissi tu, il sequestro.» Paulie si tolse gli orecchini, poi si levò tutto tranne gli slip neri che lei gli aveva regalato per Natale. Aveva circa sei anni più di Poppy, ma era ancora in forma, per essere vicino ai trenta. Forse aveva il naso un po' troppo grande e il viso un po' butterato, e i capelli ricci che le piacevano tanto si stavano diradando in cima alla testa. Ma quelli che l'avevano conquistata la prima volta che l'aveva visto erano stati gli occhi, azzurri e pieni di espressione. L'attraevano ancora. Non si allenava, ma aveva un corpo muscoloso per natura. E anche dei tatuaggi formidabili. Le piaceva in particolar modo la rappresentazione della «macabra mietitrice» sull'avambraccio destro. Si sarebbe eccitata, in quel momento, se non fosse stata tanto maledettamente preoccupata. Lui la guardò. «Perché no? Mi dà un extra. E la grana ci fa comodo.» «Sì, lo so, ma...» «Ma che cosa?» «Ma non voglio che tu ti faccia del male.» Lui sorrise. «Non ti preoccupare, niente di pericoloso. Il pacco crede di fare una corsa in macchina. Lo vado a prendere, apro lo sportello, lui entra, io chiudo e me ne vado. Semplicissimo.» «Pacco», ripeté lei. «Perché Mac li chiama sempre pacchi?» Mentre toglieva la camicia bianca dall'appendiabiti e se l'infilava, Paulie strinse le spalle. «È fatto così. Vuoi che ti spieghi Mac? È un genio. Come posso fare a spiegarti un genio?» Poppy gli si avvicinò e l'aiutò ad allacciare i bottoni. «Non so, vorrei solo che non fosse tanto spregevole.» «Non è spregevole. È assolutamente affidabile. Ci ha mai imbrogliato, con i quattrini? Ha mai cercato di farlo? No.» «Sì, ma l'ultima volta...» «D'accordo», ammise Paulie infilandosi i pantaloni grigi. «Le cose sono diventate un po' difficili, ma non è stata colpa nostra. È stata tutta colpa della famiglia del pacco.» Poppy rabbrividì. «Un po' difficili? A dir poco. Quel tizio...» «Senti, non è piaciuto neppure a me, ma ha funzionato, no? È tornato a casa, dalla famiglia, giusto? E non sta molto peggio di prima.» «Fai presto a dirlo, tu. Ti avevo detto che non volevo farlo mai più.»
Paulie le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. «Senti, Poppy. Non abbiamo fatto un patto? Non ti ho promesso che questa è l'ultima volta? Be', ho detto sul serio. Sarà una faccenda enorme, per questo Mac ci paga tanto. Da questo punto di vista è un brav'uomo. Se lui fa un colpo grosso, lo facciamo anche noi.» Il pensiero di una grossa somma era così piacevole. Solo loro due, senza impegni, senza Mac... «D'accordo, va bene», concesse Poppy infine. «Anch'io voglio quei soldi. Ma in tutto il mondo non c'è grana che basti a farmi ripetere quel che abbiamo dovuto fare nell'ultimo lavoro.» «Questo caso sarà diverso. Non dobbiamo preoccuparci che la famiglia del pacco non paghi, i soldi arrivano da un'altra parte.» Poppy lo fissò. «Non capisco.» «Be', neanch'io ho capito del tutto. Mac non mi ha detto niente di preciso, solo che paga qualcun altro. Dobbiamo sorvegliare il pacco per una settimana circa e poi sparire. Niente elementi di persuasione, niente preoccupazioni che qualcuno non voglia sganciare la grana...» A sentir parlare di «elementi di persuasione» e di quello che avevano dovuto fare l'ultima volta, Poppy rabbrividì. «Non mi piace lo stesso.» «Ehi, Poppy. duecentomila dollari in contanti per un lavoro di una settimana. Possiamo andarcene e non tornare mai più.» Gli buttò le braccia al collo e lo strinse forte. «Oh, spero che sia proprio così. E non voglio che tu riveda mai più Mac. Mi mette paura.» «Ehi, mi stai sgualcendo la camicia.» Poppy lo lasciò andare e l'aiutò a mettersi la cravatta grigio scuro, con l'elastico. Dopo di che lui si infilò la giacca, si mise il berretto e... Fece un largo sorriso. «Ancora non è niente. Sta' a vedere.» Si scostò e ficcò le mani in un sacchetto di carta che si trovava sul cassettone. Dopo avervi frugato e avere trafficato sul proprio viso, si girò di scatto e le si mise davanti con un inchino. «Et voilà!» La trasformazione era tanto straordinaria che Poppy fece un passo indietro. Il suo viso, normalmente rettangolare, sembrava rotondo, il naso era più largo e più schiacciato e gli occhi erano nascosti da un paio di lenti scurissime. L'unico tratto di pelle visibile era quello tra il bordo inferiore degli occhiali e quello superiore della barba. «Cristo, Paulie! Come diavolo...» Lui estrasse dall'interno della guancia un cilindro bianco e soffice e lo sollevò. «Qualche tampone di cotone, un dilatatore per le narici, un paio di
occhiali, e scommetto che potrei ingannare anche mia madre.» Andò in bagno a studiarsi allo specchio, molto compiaciuto di sé. «Non sarebbe forte? Voglio dire, immagina che vada da mia madre e le chieda: 'Signora DiCastro, ha visto Paulie, di recente?' Non sarebbe fortissimo?» Poppy gli si avvicinò alle spalle e gli mise le braccia intorno alla vita. Vedere Paulie trasformato a quel modo la faceva sentire molto meglio a proposito del sequestro. Eppure... «Sii prudente, Paulie. Va' a prendere il pacco, chiunque sia, e torna qui sano e salvo.» Lui annuì, guardandosi ancora allo specchio. «E poi mi taglio questa maledetta barba, mi tingo i capelli neri come prima e...» «E io riavrò di nuovo il mio vecchio Paulie.» Lui si voltò e la baciò. «Esatto.» Sfregò il bacino contro quello di lui. Stava cominciando a eccitarsi e non voleva che se ne andasse. «Ehm, mi piacciono, gli uomini in divisa. Che ne diresti se tu e io...» «Oh, no.» Paulie si staccò e tornò in camera da letto. «Sarebbe proprio bello se arrivassi in ritardo e non facessi in tempo a ritirare il pacco. Sai che cosa farebbe Mac? Non voglio nemmeno provare a pensarci.» Nemmeno Poppy. Lo seguì in camera e sul letto notò un paio di guanti di cuoio nero. «Ehi, Paulie, sono tuoi?» «Ah, sì. Per guidare. Me li ero quasi dimenticati.» «Niente impronte digitali, eh?» Lui scosse il capo e mostrò i polsi. «Niente tatuaggi.» «Oh, giusto.» Era tanto abituata alle lettere sulle sue dita, fra la prima e la seconda nocca, che in pratica non le vedeva nemmeno più. Ma gli altri le avrebbero notate, senza dubbio: AMORE, sulla mano sinistra, e ODIO, sulla destra. Lui si infilò i guanti e piegò le dita. «Come sto?» «Come se stessi per portare in macchina il Presidente.» «Chi lo sa?» Fece un largo sorriso. «Potrebbe essere proprio così.» «Non è divertente, Paulie.» «Sì, sarebbe un po' troppo anche per Mac.» La guardò. «Hai preparato tutto?» «Direi di sì.» «Andiamo a controllare la stanza un'ultima volta.» Lo seguì nella camera da letto principale, e la puzza le fece storcere il naso. Gli ultimi inquilini dovevano averci tenuto un cane. La stanza era
pregna di un lezzo aspro, acido. Paulie accese la luce e controllò le finestre. Vi aveva applicato delle tendine da oscuramento, poi vi aveva inchiodato sopra dei pannelli di compensato. Batté una scarpa contro la cassetta in fondo al letto. «Tutte le attrezzature sono a posto, vero?» «Sì.» «Sicura?» «Che cosa credi, che mi chiami Appleton?» Il sorriso di Paulie fu un po' stiracchiato. «No. Ancora non so chi sia questo Appleton. Continui a usare quel nome...» «Scusa.» Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa, a quel proposito. «È solo un'espressione di famiglia.» «Be', non importa. Voglio essere sicuro di avere tutto ciò che ci serve. Va bene?» «Certo.» Conosceva a memoria l'elenco: «Tre paia di manette, quindici metri di corda, nastro isolante, due torce elettriche con batterie di riserva, tre bende per gli occhi, un kit di pronto soccorso, un bavaglio, le maschere per noi e una buona provvista di capsule di Nembutal». Era il tranquillante che usava quando voleva dormire. Lo tenevano di scorta nel caso in cui il pacco diventasse irrequieto. «Perfetto. Allora siamo pronti.» Paulie tornò in soggiorno, si tolse il berretto e si infilò il lungo cappotto di cuoio nero, che nascondeva completamente la divisa da autista. Poppy gli lisciò il bavero. «Nervoso?» «No.» «Via», fece lei. «Di' la verità: devi esserlo, almeno un pochino.» «Va bene. Forse appena un pochino. Voglio dire, so che Mac ha progettato la faccenda fin nei minimi dettagli, eppure... le cose possono mettersi male. Qualche casino può sempre succedere.» Verissimo. Oh, Poppy lo sapeva bene. All'improvviso fu colta da una sensazione di paura. Non voleva che a Paulie succedesse qualcosa. Era un bravo ragazzo. Stavano bene insieme e andavano d'accordo sessualmente, e non la picchiava mai, cosa che non poteva certo affermare di certe carogne che aveva incontrato da quando... da quando era sola. Ma c'era qualcosa di più. Paulie si prendeva cura di lei. E ne aveva bisogno, perché quando cercava di fare da sola sembrava sempre che combinasse qualche pasticcio. Poteva immaginare di restare con Paulie per sempre. Perché, per quanto
ne sapeva, lui non desiderava figli. E a lei stava proprio bene. «Filerà tutto liscio», gli assicurò. «Sì, lo so. Sono solo un po' teso, ecco tutto. Mi servirebbe uno spinello, per rilassarmi.» «Proprio quello, ti ci vuole. Sai come la pensa Mac, a proposito della droga. Se capisce che hai fumato, ti ammazza.» «Hai ragione.» Drizzò le spalle, poi le prese la testa con le mani guantate e la baciò con passione sulle labbra. «Ci vediamo dopo.» Prima che potesse abbracciarlo un'ultima volta si diresse verso la porta che metteva nel garage. «Sii prudente.» Poppy lo guardò mentre faceva uscire a retromarcia il vecchio furgoncino bianco e scendeva lungo la strada a motore spento. «Che tutto vada liscio, per favore», sussurrò. Quasi una preghiera. Una volta pregava, ma come si poteva farlo per una cosa simile? Forse poteva chiedere che nessuno si facesse del male. Sì, qualcuno poteva esaudire quella supplica. Era arrivata la parte più difficile: l'attesa. Si stirò. Si sentiva tanto tesa. Una volta prendeva una pillola, per rilassarsi, ma aveva cambiato abitudini. Si riaccostò al televisore da quattordici pollici con videoregistratore incorporato che avevano portato con loro, e fece ripartire la cassetta con il programma di allenamento. Era il modo migliore che conoscesse per ammazzare il tempo. Abbassò il volume, fece partire l'ultimo disco dei Jawbox sul lettore portatile di cd e si mise all'opera. Era decisa a tornare in forma. Alle superiori era stata una vera atleta, ma si era lasciata andare. Droga e fast food non facevano certo bene. Mangiava ancora troppe porcherie, e avrebbe eliminato anche quelle. Ma prima di tutto la droga. Voleva uscirne, assolutamente. Durante l'ultimo sequestro si era tanto turbata che alla fine si era buttata a capofitto nella coca... e si era spinta troppo oltre. Non era mai arrivata a tanto. Si era presa una paura del diavolo. Era stato allora che aveva deciso: basta con la coca. E anche con i tranquillanti. Oh, ogni tanto si bucava, e teneva sottomano qualche tavoletta di anfetamina solo come aiuto per la dieta; ma, generalmente, aveva ricominciato a trattare bene il proprio corpo. E una volta finito quel lavoro avrebbe continuato a farlo. Una volta finito... L'operazione era appena cominciata e già aveva un brutto presentimento. Si concentrò sull'esercizio, aggiungendo manubri da un chilo per esercitare
la parte superiore del corpo. Sentì che il cuore accelerava i battiti, il sudore cominciava a farle luccicare la pelle. Sarebbe partita per un viaggio, non come quelli provocati dalla droga, ma di un altro genere. E quasi altrettanto bello. Quasi. 8 «Centocinquanta/novanta», annunciò John, non troppo contento di quelle cifre ma sollevato che non fossero andate alle stelle. Di solito misurava la pressione a Tom nell'ambulatorio al pianoterra, ma quel giorno l'aveva fatto di sopra, nella Sala Monroe. Si era recato al secondo piano della Casa Bianca molte volte, ma quella era stata la prima che vi aveva eseguito una rilevazione clinica. «Che cosa te ne pare?» chiese Tom. Si era tolto la giacca e aveva arrotolato la manica sinistra della camicia. «Al limite. E, in considerazione delle circostanze...» «Niente male.» John sganciò la banda elastica dal braccio di Tom. «Sta' attento al sodio. Non mi piace che la pressione diastolica sia ferma a novanta: se aumenta dovrò prescriverti una medicina.» «Vuoi dire che non posso più mangiare cotenne di maiale?» «Proprio così! Sono piene di grasso e di sodio. Veleno puro e semplice, per uno come te.» Mentre riponeva l'apparecchio per la misurazione della pressione sanguigna, Tom rimase in silenzio. Quando John alzò gli occhi, il Presidente guardava fuori della finestra. Notò il suo profilo aguzzo e comprese perché i Servizi segreti avesse scelto Rasoio come nome in codice. Mentre guardava i dimostranti oltre la recinzione sembrava piuttosto solo. «Sorpreso dalla reazione?» chiese John. Tom si girò e strinse le spalle. Aveva lasciato al piano inferiore l'espressione da «leader del mondo libero». «George Reedy dice che la Casa Bianca deruba la gente dei suoi istinti politici. Cominciamo a pensare di poter fare qualsiasi cosa.» Fece un sorriso tirato; aveva gli occhi esangui. «Forse ha ragione. Guardali un po'. Vogliono mettermi in croce.» «Ti aspettavi qualcosa di meno?» «Pensavo di essere stato abbastanza convincente, ieri sera. Un'ora intera nella fascia oraria di massimo ascolto... supponevo che sarei riuscito a convincerne qualcuno.»
«Probabilmente è stato così. Ma quelli che hai convinto non sono là fuori a dimostrare, e forse non riescono a mettersi in comunicazione tramite telefono o fax. O con la posta elettronica.» Fece una risata. «La posta elettronica! La coda è infinita!» «Probabilmente troverai moltissimi messaggi di approvazione su Internet. La rete è frequentata da un sacco di liberi pensatori.» Lui fissò John. «E a te, vecchio mio? Ti ho fatto cambiare idea?» Era chiaro che la risposta rivestiva molta importanza per lui, e a John sarebbe piaciuto molto potergli dire ciò che lui voleva sentirsi dire. La sera prima aveva guardato Tom annunciare che la settimana seguente si sarebbe recato all'Aia, al vertice internazionale sulle droghe, per perorare una sospensione delle ostilità nella guerra contro i narcotici. Conosceva già la maggior parte delle argomentazioni, ma aveva sperato che qualche magia della retorica gli avrebbe fatto cambiare idea. Strinse le spalle. «Dal punto di vista logico ti capisco. Ma da quello emotivo...» Scosse la testa e si batté il petto. «Qui dentro c'è qualcosa che non va d'accordo con l'idea di poter andare al supermercato più vicino a comprare dentifricio, filo interdentale e una dose di eroina.» Tom fece un sorriso tirato. «Anche tu, Bruto...» «Che cosa posso dire? Dovrai sostenere una battaglia. E campale.» E precipiterai tra le fiamme, vecchio mio. «Ho bisogno del tuo sostegno, Johnny.» «Non è vero. Sono solo una persona. Hai bisogno di quei quattrocentocinquanta e rotti tizi che stanno al Campidoglio.» «No, Johnny», obiettò a bassa voce. «Ho bisogno del tuo sostegno, di sapere che l'unica persona su cui ho sempre potuto contare mi sta ancora proteggendo le spalle.» Sporse la mascella verso i dimostranti, con aria di sfida. «Ma vincerò, con te o senza di te.» John conosceva quello sguardo. Ricordò la volta in cui, a diciassette anni, avevano scolato qualche birra dietro una stazione di servizio fuori Freemantle. Un paio di tizi avevano cominciato a prenderlo in giro per la sua auto vecchia e scassata chiedendo se sarebbe riuscita a superare gli ottanta chilometri l'ora. Tom non era stato in grado di dare una risposta affermativa, perciò aveva replicato: «Però posso fare tutta la strada fino a casa senza mai pigiare il pedale del freno». Nessuno ci aveva creduto, quindi l'avevano sfidato a provarlo. Era un'idea strampalata, una provocazione assurda: per arrivare a casa sua, dall'altra parte della città, avrebbe dovuto attraversare tutto il centro. Avrebbe
dovuto superare quattro semafori non sincronizzati. In quella città i semafori cambiavano quando cavolo pareva loro. John non si sarebbe mai aspettato che Tom li prendesse sul serio, ma lui aveva finito la birra e aveva detto: «Certo. Seguitemi e statemi a guardare. Se vedete accendersi le luci dei freni, anche una volta sola, potete prendervi la mia macchina». In verità nessuno voleva quel macinino minuscolo e arrugginito, ma dopo aver controllato il funzionamento delle luci dei freni erano saliti sui loro automezzi e l'avevano seguito. Tutti tranne John. Lui era salito accanto a Tom. Fuori discussione. Era sottinteso, scontato. Ed erano partiti. John tremava ancora, quando ricordava quel viaggio. Il primo semaforo l'avevano trovato verde ed era andato tutto bene. Ma gli altri tre erano diventati rossi proprio mentre Tom stava per arrivarci. Non aveva nemmeno rallentato. Manovrando il cambio come se fosse stato l'archetto di uno Stradivari aveva sorpassato le auto ferme, aggirandole a sinistra o dalla parte della banchina, e aveva superato l'incrocio senza mai toccare il freno. Aveva fatto lo stesso per gli altri due, e ogni volta il suo viso aveva avuto l'espressione di quel momento, con la mascella sporgente. E sembrava esigere ancora lo stesso genere di lealtà. Ma John non riuscì a costringersi a scivolare di fianco al guidatore, per quel viaggio. «Perché, Tom?» chiese. «Non solo è una cattiva tattica, ma anche una cattiva politica. Persino il tuo partito...» «Alla fine mi seguirà.» Girò il pugno contro il palmo dell'altra mano. «Quelli che mi irritano davvero sono coloro che vogliono ridurre i costi. Si lamentano per le spese del governo federale e io do loro l'occasione di effettuare un vero taglio: sessanta miliardi di dollari l'anno. Tutti gli anni. Per che cosa? La droga si trova per le strade con maggiore facilità di prima. Sessanta miliardi, Johnny. La verità è che ho bisogno di quei soldi. Ci sono modi migliori per spenderli.» «Ma il costo sociale...» «Come potrebbe essere più alto di quello che paghiamo adesso? Hai parlato di comprare l'eroina al drugstore più vicino. Ma lo puoi fare anche adesso, Johnny, all'angolo fuori del drugstore. La legalizzazione non cambierà la disponibilità, la droga si trova dappertutto anche adesso! E parli del costo sociale? Che cosa ne dici di tutti gli asociali del mondo che si scannano per ottenere una fetta dei profitti?» «Senti come la penso», osservò John. «Perché trasformarsi nel nemico?» «Ah, Johnny. Non considerare la cosa in quel modo. La droga permette
di fare tanti soldi che i cartelli sono riusciti a corrompere interi corpi di polizia, a comprare i governanti di intere città... città fornite di aeroporto. È sbalorditivo e fa rivoltare lo stomaco. E la cosa peggiore è che riescono a fare tutti quei soldi per una sola ragione: perché abbiamo dichiarato illegale la loro merce. Se la legalizzassimo, potremmo persino cominciare a tassare i profitti della vendita legale delle droghe. Prevedo un guadagno netto di settanta o ottanta miliardi di dollari.» «Tutto denaro sporco», osservò John. «Non più delle tasse sul tabacco o sull'alcol. Sono soldi che possiamo utilizzare per insegnare alle persone a stare lontane dalla droga e per rieducare i tossicodipendenti.» «Andiamo, Tom, vuoi davvero riscuotere tasse sul crack? Voglio dire, non abbiamo già abbastanza drogati e figli di drogati?» «Il crack non esisterebbe nemmeno, se la cocaina fosse legale. È come l'alcol a novanta gradi degli anni Venti. La gente lo comprava per correggere i drink. Aveva un mercato enorme, che è sparito da un giorno all'altro quando lo scotch, la birra e il vino sono tornati legali. Lo stesso succederà al crack quando potrai comprare polvere di cocaina, drink alla cocaina, persino gomma da masticare alla cocaina. Da dove credi che derivi il 'Coca' della Coca-Cola?» «Gomma da masticare alla cocaina... Cristo!» «Lasciamo perdere il crack. Ma che cosa...» Squillò il telefono. Tom alzò, il ricevitore, ascoltò per qualche istante, disse: «Grazie», e riagganciò. Si avviò verso la porta, facendo cenno a John di andargli dietro. «Qua dentro.» Lui seguì Tom nell'appartamento presidenziale; vi era un enorme televisore, acceso. John vi era stato un paio di volte, a bere qualcosa e a cena. Tom prese il telecomando e passò alla trasmissione Today. Stava parlando un uomo anziano, quasi pelato, con occhiali dalla montatura d'osso e lenti spesse. La didascalia sullo schermo diceva MILTON FRIEDMAN. «Friedman?» chiese John. «L'economista? Non era...» A quella domanda rispose lo schermo, su cui apparve la scritta: EX CONSIGLIERE DEL PRESIDENTE REAGAN. Bryant Gumble gli chiese che genere di America prevedesse dopo la depenalizzazione della droga e il professore rispose che prevedeva un'America con metà prigioni, metà detenuti, diecimila omicidi l'anno in meno, centri urbani in cui per la povera gente c'era la possibilità di vivere senza temere per la propria vita... Il professor Friedman rispose appropriatamente a parecchie altre do-
mande, sottolineando nelle sue dichiarazioni l'opportunità di legalizzare la droga, per ragioni economiche e anche filosofiche. Quando la stazione passò agli spot pubblicitari, Tom escluse l'audio e si rivolse a John. «Ecco perché vincerò la battaglia. Gli uomini del mio staff parlano con i mezzi di comunicazione da settimane. Le reti televisive, le riviste principali e le catene di quotidiani sono già pronte a sostenermi.» «Mentre venivo qui, in macchina, non mi è sembrato affatto così.» «In principio non possono esporsi del tutto, ma avrai notato che hanno trasmesso integralmente il mio messaggio. Cominceranno con un sostegno subliminale. Come Milton Friedman. Si è opposto alle leggi antidroga sin dall'inizio. Quand'era con Reagan le ha sostenute. I milioni di persone che l'hanno appena visto non lo sanno. L'hanno sentito dire che la droga dovrebbe essere legalizzata e hanno visto la scritta EX CONSIGLIERE DEL PRESIDENTE REAGAN.» Finse di essere un telespettatore: «'Reagan? Davvero? Ehm...?' Credimi, niente di quello che hai visto è una coincidenza. Nei mesi che verranno vedrete Friedman molto spesso. Ci saranno anche William F. Buckley e...» «Buckley?» John non ci credeva. «Tu e Buckley dalla stessa parte?» «Sostiene la depenalizzazione da anni e non ha avuto paura di affermarlo pubblicamente. Avremo giudici anziani di tutte le parti della nazione che rifiuteranno di occuparsi di casi di droga perché ritengono ingiuste le leggi...» «Tom, se credi che una cosa simile faccia qualche differenza...» «Tutte le notti, tutti i giorni, sottolineeranno ogni singolo delitto attribuibile ai profitti enormi, eccessivi derivanti dall'illegalità della droga, come pure tutte le statistiche che dichiarano che è impossibile vincere la guerra contro la droga. Credimi, questi argomenti verranno ribaditi molto bene. I fatti stanno dalla mia parte, John.» «Ma la gente non lo è.» «Lo sarà. Capirà che vi sarà sempre una notevole parte dell'umanità che vuole drogarsi e troverà il modo di procurarsi i narcotici. In questa nazione sono milioni; addirittura dodici fumano ogni tanto la marijuana. Nessuna legge li cambierà. E non possiamo rinchiuderli tutti.» «Non riesco a immaginare che il cittadino americano medio finisca con l'accettare i drogati.» «Un cambiamento di tattica non è una resa. Senti, ci sono milioni di americani che vogliono drogarsi con vari tipi di sostanze chimiche. Nella maggior parte dei casi si fanno solo del male, e se capita loro di nuocere a
qualcun altro mentre sono sotto l'effetto della droga abbiamo già leggi appropriate. Trattiamoli come persone che hanno un problema, non come criminali.» John fissò il suo vecchio amico. Tom irradiava sincerità e convinzione. Era un parlatore che incantava e sapeva padroneggiare gli strumenti della comunicazione. E ci credeva veramente. «Sai», osservò. «Potresti anche riuscire a farcela.» «Ci riuscirò. Forse non otterrò una legalizzazione completa, ma so di poter ottenere la depenalizzazione della marijuana. Sarebbe già un primo passo. E una volta partiti, è solo questione di tempo.» John stava cominciando a credergli. Il telefono squillò di nuovo. Tom rispose, ascoltò, poi si rivolse a John. «Devo tornare negli uffici. Heather si sta preparando a fare il giro dei talk show e ho bisogno di parlarle. Vuoi stare qui in giro?» John scosse la testa. «Devo andare in ufficio. Prima di sera la Sanità sarà impegolata fino al collo in questa faccenda. Ma voglio tornare a controllarti la pressione prima che tu parta per il vertice sulla droga.» «Buona idea. Ma non mi hai ancora risposto: stai dalla mia parte?» «Pubblicamente sì, certo. Ma privatamente... non ancora, Tom.» «Ci arriverai», affermò Tom con quel suo sorriso storto. «So che posso contare su di te.» John non ribatté, ma non era affatto sicuro come Tom. 9 Snake batteva i tasti fissando il monitor, mentre si inseriva nella banca dati della C&P Telephone, che per lui non aveva più segreti. Vi era entrato tutti i giorni, quella settimana, spianandosi la strada verso i programmi di commutazione, trovando il percorso di minor resistenza, quello che lasciava meno tracce. Ma questo era raramente il più diretto. Nelle ultime due settimane aveva studiato il sistema e ormai lo conosceva come le proprie tasche. Come ai vecchi tempi, alle superiori, quando passava la notte al computer, inserendosi nelle società telefoniche, nelle banche e nelle università di tutta la nazione in cerca della chiave elettronica, per il puro piacere di farlo. Non aveva mai rubato né distrutto nessun dato. E non aveva mai lasciato nessun messaggio di sfida, come faceva qualche altro pirata. Non cercava di attirare l'attenzione; voleva solo vedere sino a che punto sarebbe riuscito ad arrivare, quante barriere poteva su-
perare, quanto in fondo sarebbe giunto. Voleva solo conquistare il sistema in cui entrava, metterne fuori uso tutti gli elementi di sicurezza, aprirne tutte le porte, dichiarare di avere vinto e procedere oltre. In quel momento Snake risentì il brivido dei vecchi tempi e sorrise. Mikey MacLaglen era stato così idealista. Un così noioso moralista. Un tale stronzo. La novità, la grandiosità, l'immensità del cyberspazio gli incutevano tanta soggezione che si era lasciato sfuggire le infinite occasioni di sfruttare il potere che aveva. In verità non si era nemmeno reso conto di averlo. Meglio così, perché non avrebbe resistito alla tentazione, forse l'avrebbero beccato e sarebbe entrato nell'elenco dell'FBI degli hacker, i pirati informatici. No, grazie. Avrebbero potuto sorprenderlo anche al college. Studiava al MIT per ottenere una laurea breve in Ingegneria, quando aveva cominciato a inserirsi nella rete per conto dei compagni di corso che desideravano avere un po' di divertimento gratis. In qualche modo un pirata informatico che si chiamava Mitchell Fuller e il cui nome in codice era Brushman, aveva sentito parlare della sua abilità e gli aveva offerto un lavoro consistente nel copiare abusivamente dei programmi per parabole satellitari. Lo stipendio che gli offriva, di sei cifre in dollari, era quattro volte quello che inizialmente gli avrebbe assicurato la laurea, ammesso che fosse riuscito a trovare un lavoro, ed esente da tasse. Tutto era andato benissimo finché Fuller non gli aveva rubato un gioco di simulazione di cui Mac si era piratescamente impadronito, elegantemente, ma con enorme fatica. Quando lui si era lamentato, Fuller gli aveva riso in faccia e gli aveva chiesto: «Che cos'hai intenzione di fare, di denunciarmi?» Allora in MacLaglen era scattato qualcosa. Aveva sempre avuto un brutto carattere, ma quella era stata la prima volta in cui aveva perso le staffe. Era stato preso da una furia incontenibile: si era trovato in mano un cric e, senza neanche pensarci, aveva cominciato a colpire Fuller sulla testa. Prima che riuscisse a fermarsi, lui aveva perso i sensi. Scioccato, Mac aveva fissato il corpo sanguinante di quel figlio di puttana e si era chiesto che cosa avrebbe dovuto fare. Avrebbe desiderato ucciderlo, ma si era messo a pensare... e gli era venuta un'idea migliore. Aveva caricato Fuller nel bagagliaio dell'auto, poi aveva telefonato alla moglie e le aveva detto che non avrebbe più visto vivo il caro Mitchell se non avesse sganciato centomila dollari in contanti. E subito. Quando Fuller era rinvenuto, Mac l'aveva fatto parlare con la donna, perché le dicesse
come mettere insieme la somma. Il modo in cui l'aveva guardato quando Mac l'aveva richiuso nel bagagliaio, la paura nei suoi occhi che si chiedevano se avrebbero mai rivisto la luce del sole... in qualche modo avevano aperto a Mac un nuovo orizzonte. La moglie di Fuller aveva consegnato i soldi poche ore dopo e non aveva chiamato né polizia né FBI. Non poteva: avrebbero voluto sapere come si guadagnava da vivere il marito. Era andato tutto talmente bene che Mac si era pentito di non avere chiesto una somma maggiore. Ma bisogna rispettare i patti e, dopotutto, aveva incassato centomila dollari in meno di un giorno di lavoro. Aveva lasciato andare Fuller e aveva abbandonato l'hacking. Aveva scoperto un'attività più remunerativa. Così era nato Snake. Era stupefacente quanta gente facesse una barca di soldi fuori della legalità, o in attività lecite ma senza dichiararli. Erano diventate le vittime di Snake. Non erano dei combattenti. La vista di una rivoltella, l'accenno a un atto brutale con la promessa che ne sarebbero seguiti altri, facevano sentire loro che non erano più una persona ma una merce, un pacco, e li portavano a un'immediata collaborazione. A Snake piaceva telefonare alle mogli o ai soci in affari, minacciando ogni specie di lesione se non avessero pagato subito e senza chiasso. Anche se non potevano soffrire la vittima, erano costretti a farlo. Snake ricordava una volta in cui il socio di un pacco gli aveva detto di ammazzare pure quella carogna, e lentamente. Snake non era preparato a una cosa simile, ma aveva trovato la risposta giusta. Aveva detto che avrebbe fatto come l'altro diceva, e che mentre lo torturava gli avrebbe cavato fuori tutti i particolari della loro attività di contrabbando d'armi, che avrebbe registrato e mandato all'ATF. Snake aveva ricevuto il riscatto poche ore dopo. Come la moglie di Fuller, l'ultima cosa che desideravano quegli sciocchi era attirare l'attenzione di un ente federale. Purtroppo Snake non poteva agire da solo. Aveva bisogno di qualcuno che sorvegliasse i pacchi. Paulie DiCastro era proprio il tipo adatto. Era un libero professionista. Non era la persona più intelligente della Terra, ma non era nemmeno uno stupido. Ed era fidato: un tizio che si presentava quando gli si diceva, faceva ciò che doveva, soprattutto consegne, poi tornava a casa e teneva la bocca chiusa. Snake aveva usato Paulie per i primi lavori e tutto era filato magnificamente bene. Ma al terzo lavoro lui aveva portato con sé la sua nuova ragazza, Poppy. Paulie aveva giurato che era a posto e che le cose sarebbero
andate anche meglio. Avrebbero potuto sorvegliare a turno il pacco. Uno sarebbe stato di servizio mentre l'altro dormiva. A Snake l'idea non era affatto piaciuta, quella Poppy era un'incognita, ma ormai non c'era più il tempo di rimandare il sequestro. Aveva tenuto il fiato sospeso per la durata dell'operazione, ma era andato tutto bene. Così Paulie e Poppy erano diventati i suoi sorveglianti. Comunque quel lavoro era un po' diverso. Di solito Snake effettuava lui stesso il sequestro. Poteva dire che era più bravo, che aveva più esperienza, che era l'unico su cui poteva contare per non combinare guai, ma la verità era che gli piaceva. Gli piaceva vedere lo sguardo negli occhi della vittima quando capiva ciò che gli succedeva. Snake non aveva mai conosciuto una sensazione che si avvicinasse a quella che provava quando il pacco capiva che era diventato proprietà altrui, e una proprietà «rubata». Che la sua vita non gli apparteneva più. Che qualcuno aveva assunto il controllo del suo mondo. Qualcuno il cui nome era Snake. Anche in quel momento cominciava a provare quella sensazione. Ma quella volta sarebbe stato diverso perché si trattava di una bambina, e i bambini non si possono controllare. Quindi trovava più facile rinunciare al sequestro. Poi era in gioco una posta molto più grande, in quel caso. Erano coinvolte altre persone. Pezzi grossi. Snake preferiva agire per proprio conto, ma gli avevano fatto un'offerta che non aveva potuto rifiutare. Gli avevano promesso una fortuna, per quel lavoro; ma anche se non fosse stato così, a quei tizi non si poteva dire di no. Si era molto stupito che fossero al corrente della sua piccola attività e si era spaventato rendendosi conto di quanto sapessero. Gli avevano detto che erano contenti che lui fosse un esperto di sequestri di persona e che quindi lo ingaggiavano. Tutto lì. Non: «Vuoi fare un lavoro per noi»? Si era trattato più di: «Ecco quello che vogliamo tu faccia». Snake era sicuro che Paulie non avrebbe combinato pasticci. Sapeva che sarebbe stato l'ultimo lavoro che avrebbe effettuato per lui. L'aveva convinto Poppy. Aveva la netta impressione che avesse accettato quell'ultimo incarico perché la ricompensa era tanto grande. La ragazza si era molto spaventata, quando, nell'ultimo caso, le cose si erano messe un po' male. L'ultima volta che l'aveva vista le era sembrata un topolino su una griglia elettrica, in attesa della scossa seguente. Peccato. Paulie era un tipo affidabile. Sarebbe stato difficile sostituirlo. Ma questo capita quando ci si permette di affezionarsi troppo.
Si stirò, prese la calibro 38 special che teneva accanto alla tastiera - una Colt Cobra, nome significativo - e si voltò sulla sedia girevole per ammirare le attrezzature elettroniche di cui era fornita la stanza. Tre computer, tutti con il lettore di cd-rom, in funzione ventiquattr'ore al giorno, collegati a una stampante laser e a uno scanner a colori; tre telefoni cellulari, tutti addebitati abusivamente allo stesso conto, un televisore a schermo gigante, due videoregistratori e un lettore di cd, tutti collegati a una coppia di altoparlanti potentissimi. Il soggiorno sembrava davvero un negozio di elettronica, ma, diavolo, era lì che abitava, almeno per il momento. Gli piacevano le sue apparecchiature, specie il sistema satellitare che aveva copiato abusivamente non molto tempo prima. Ma non c'era niente da cui non potesse staccarsi. Aveva conti correnti bancari in tutte le parti del mondo e poteva comprarsi altri giocattoli in qualsiasi momento. Comunque si trasferiva sempre, almeno una volta l'anno. Per l'occasione aveva affittato un elegante cottage stile Cape Cod in un distinto viale di Alexandria. Salutava con un cenno i vicini quando loro lo facevano per primi. Era contentissimo di non conoscerne il nome. Perché preoccuparsi? Al termine di quel lavoro avrebbe traslocato di nuovo. Niente legami. Ti condizionavano i pensieri, ti vincolavano. Le donne erano la cosa peggiore. Come sanguisughe, volevano sempre attaccarsi. A chi serviva tutto quel fastidio? Poteva trovare in rete tutte le donne di cui aveva bisogno. Ritornò alla tastiera e compì gli ultimi passi per l'esecuzione del programma di smistamento. Dopodiché, per quanto riguardava i computer della C&P Telephone, la sua linea telefonica e quella del dottor John VanDuyne erano la stessa. Compose il numero della scuola elementare Sacra Famiglia a Bethesda. Aveva ricevuto moltissime informazioni, su quel posto. Ci mandavano i figli moltissimi uomini politici e persone importanti, e la preside, sorella Louise Joseph, aveva la reputazione di essere molto in gamba. Chissà? Forse il suo telefono aveva un dispositivo per l'identificazione di chiamata. Snake non voleva correre nessun rischio. A chi rispose al telefono disse di essere il dottor John VanDuyne e di avere bisogno di parlare alla preside con urgenza, a proposito della figlia. Mezzo minuto dopo udì una voce chiara e risoluta. «Sì, dottore. Sono sorella Louise. In che cosa posso esserle utile?» Snake chiuse gli occhi e cercò di diventare un altro. «Buongiorno, sorella. Si tratta di mia figlia Katie.»
«C'è qualcosa che non va?» «Be', sì. Sua madre ha avuto un grave incidente automobilistico ad Atlanta.» «Oh, mio Dio, mi dispiace tanto.» «Grazie. Ho ricevuto una telefonata dal reparto traumatologico, mi hanno riferito che è in condizioni critiche. Dovrò togliere Katie da scuola per qualche giorno e portarla laggiù. Non so quanto perderà...» «Le vacanze di Pasqua cominciano la settimana prossima, quindi non deve preoccuparsi più di tanto, della scuola.» Pasqua? Capitava così presto, la Pasqua? Snake non vi aveva nemmeno pensato. «Meglio così. Potrebbe essere l'ultima volta in cui Katie vede...» Interruppe la frase. «Mi dispiace tremendamente», ripeté sorella Louise. «Se possiamo essere utili in qualche modo...» «Grazie. Adesso devo correre in ufficio, poi andrò immediatamente a casa a fare i bagagli. Ho mandato un autista a prendere Katie e a portarla a casa.» «Una macchina? Che agenzia ha usato?» Snake fu colto da un brivido di allarme. Non aveva previsto di avvertirla in anticipo del nome. Avrebbe potuto decidere di controllare. «Oh, non ne ho ancora chiamata una. Quella che riuscirà a mandare là una macchina al più presto, suppongo.» Silenzio dall'altro capo del filo. Ovviamente l'idea di non sapere chi doveva aspettare non le piaceva per niente. Snake guardò il documento d'identità che aveva contraffatto. La Reliance Limo esisteva, certo, ma non aveva la più pallida idea di quale aspetto avesse la loro tessera. Nemmeno sorella Louise... almeno lo sperava. Le avrebbe comunicato quel nome, se proprio avesse dovuto farlo, ma preferiva rimandare il più possibile quel momento. Era quasi divertente. Infine lei disse: «Be'... si assicuri solo che l'autista abbia adeguati documenti di identificazione. Ci facciamo un dovere di essere molto prudenti, quando si tratta di qualsiasi cambiamento nella routine dei piccoli che ci sono stati affidati». «Questa è una delle ragioni per cui ha iscritto Katie alla Sacra Famiglia. Ma per favore, non le dica niente dell'incidente. Solo che è un ritorno a sorpresa in Georgia.» «Sostanzialmente è la verità.»
«Purtroppo. Le spiegherò tutto di persona quando arriverà a casa.» «Molto bene. Dica all'autista di presentarsi nel mio ufficio, quando arriva, e vi farò venire Katie. Le spiegherò che lei ha telefonato prima dell'arrivo dell'autista.» «Molte grazie, sorella.» Interruppe la comunicazione e si appoggiò allo schienale con il cuore in tumulto, i nervi a fior di pelle. Quant'era bravo! Tanto bravo che scoppiò a ridere. «Dio, se mi piace il mio lavoro!» 10 Paulie parcheggiò il furgoncino al livello inferiore del garage sotterraneo, come gli era stato indicato, e si guardò intorno. Non c'erano molte auto in giro e neanche un'anima viva. Riaccese la radio. Il vecchio automezzo prendeva solo le stazioni nazionali pubbliche. Girò la manopola, sperando invano di trovare un po' di musica. Di qualsiasi genere. Niente da fare! Solo i vecchi rimbambiti, i fanatici di notiziarii e i cristiani revivalisti ascoltavano le frequenze nazionali. Si fermò tra gli otto e i novecento megahertz e ascoltò una replica del discorso del Presidente sulla droga della sera prima. Abbozzò un largo sorriso. Sensazionale, quella roba. Legalizzare la droga. Che dirne? I commentatori affermavano che non era una grossa sorpresa, per quelli che prestavano attenzione, perché il Presidente e i suoi inviavano segnali da sei mesi; ma Paulie non si era mai interessato molto di politica. Droga legale? Strano, pensare di fare un salto al negozio di liquori, comprare una confezione da sei di birra e poi... «Ehm, ah, sì, già che ci sono, che ne dice di darmi un pacchetto di spinelli?» C'era qualcosa di stonato. Il rito dell'acquisto per la strada costituiva metà del divertimento: trovare lo spacciatore, trattare il prezzo, passare la grana, farti scivolare in tasca la roba e sgattaiolare via, sentendoti in gamba perché ce l'avevi fatta un'altra volta. Rendere tutto legale sembrava tanto... normale. Roba da gente priva di originalità. Spense la radio con rabbia. Dove si sarebbe andati a finire? Doveva calmarsi. Si sentiva come una molla pronta a scattare. Voleva portare a termine quel lavoro. Sorvegliare un pacco era abbastanza facile: Snake lo portava a casa, loro passavano qualche giorno, al massimo una settimana, nascosti in un appartamento in affitto e lo tenevano bendato e
legato al letto; un paio di volte al giorno gli davano da mangiare e lo accompagnavano in bagno. E dopo che il riscatto era stato pagato lo liberavano e se ne andavano. Semplicissimo. Ma questo... Effettuare il sequestro lui stesso era tutto un altro paio di maniche. Ebbe l'improvvisa visione di una mezza dozzina di auto di pattuglia, con il lampeggiatore in funzione e la sirena urlante, che lo circondavano fermandosi con grande stridore di freni, sportelli che si aprivano di scatto e uno sciame di agenti dei Servizi speciali che gli puntavano contro rivoltelle e fucili. Paulie rabbrividì. Le armi da fuoco non gli piacevano affatto. Non possedeva nemmeno una calibro 22. «Faccio l'amore, non la guerra», era il suo motto. E voleva arrivare a trent'anni. Da bambino era stato quasi sempre solo, perché la madre aveva due lavori per poter fare la spesa, mentre quel buono a nulla del padre viveva sfruttando una puttana, dall'altra parte della città, e non contribuiva neanche con un centesimo, dato che era «invalido». Sì, proprio. Un avvocato senza scrupoli e un medicastro drogato erano riusciti a farlo dichiarare invalido permanente, al cento per cento, in seguito a un incidente d'auto. Ma l'invalidità non gli impediva di fare sollevamento pesi nel garage dell'amica. In suo padre l'unica cosa permanente e al cento per cento era il fatto di essere uno stronzo. Ma prima di andarsene per sempre da casa, Paulie aveva fatto di suo padre un uomo onesto. L'aveva aspettato nel parcheggio del suo bar preferito e l'aveva picchiato con una mazza da baseball mentre apriva lo sportello dell'auto. Il vecchio non aveva mai capito che cosa l'avesse colpito. Paulie gli aveva anche preso il portafoglio per farla sembrare una rapina e l'aveva lasciato con tutte le ossa rotte. Adesso sei invalido al cento per cento, brutto figlio di puttana. Si era tolto un gran peso dallo stomaco. Il primo e ultimo atto violento che avesse commesso. Ma aveva fatto quasi ogni altra cosa. Aveva rubato, truffato, ingannato, mentito, minacciato, compiuto furti in acrobazia; aveva fatto il ladro di automobili, l'accompagnatore, l'autista, aveva venduto i biglietti delle lotterie clandestine. Un lavoretto delicato? Chiama Paulie DiCastro. Ci pensa lui. Ma non più, dopo quel lavoretto. Con il denaro di Mac non avrebbe dovuto fare niente per un periodo di tempo molto lungo. Inoltre Poppy ne aveva abbastanza di quella vita. Dopo l'ultimo colpo era cambiata. Aveva
cominciato ad allenarsi, a mangiare verdure e cose del genere. E a dire il vero aveva un aspetto decisamente fantastico. Non che prima non attirasse l'attenzione. Ricordava ancora la prima volta che l'aveva vista: era seduto in un bar di Manhattan, quando lei era entrata. Aveva addosso un abito elasticizzato aderentissimo, nero, che evidenziava ogni curva del corpo, non troppo magro ma niente affatto grasso. Alta, doveva essere quasi un metro e ottanta, bei fianchi, gambe lunghe e snelle e un seno ben fatto. I capelli rosso vino, che ondeggiavano mentre camminava, il modo in cui gli occhi azzurri truccati di nero guardavano da sotto una frangetta che sembrava incisa con lo scalpello, l'avevano fatto impazzire. L'anello al sopracciglio, il piercing all'ombelico e qualche tatuaggio fantastico: un cuore rosso su ogni avambraccio, con GLORY inciso nel destro e 89 su quello sinistro. Le aveva offerto qualcosa da bere, aveva scoperto che si era recata là per la gara di bevute che il bar organizzava quella settimana, proprio come Paulie. Poco dopo erano finiti a casa sua. E se aveva pensato che fosse bella in quel vestito, senza... mamma mia! Stava cominciando a diventargli duro solo a pensarci. Sì, Poppy era in gamba, e in molti sensi. C'erano alcuni punti del corpo che non gli aveva mai permesso di vedere, nemmeno quando era fatta, come c'erano cose di cui non parlava mai. Dovevano avere a che fare con i tatuaggi. Riusciva sempre a evitare di dargli spiegazioni. Comunque, in un modo o nell'altro, l'aveva conquistato. Quella che sembrava solo un'altra di una lunga fila di convivenze era diventata qualcosa di più. Molto di più. Era strano, ma Paulie era arrivato a un punto in cui non poteva nemmeno immaginare di vivere senza di lei. Un colpetto sul finestrino lo fece trasalire: Mac, appoggiato al vetro, lo stava fissando. «Cristo, Mac! Mi hai fatto venire una fifa blu.» Lui ordinò: «Fa' retromarcia e seguimi». Poi si allontanò. «Be', ciao anche a te, Mac», mormorò Paulie mettendo in moto. A proposito di gente strana... Mac lo era, decisamente. Sembrava un professore universitario o qualcosa di simile. Alto più di un metro e ottanta, con le spalle molto larghe, come un professore che si allenasse regolarmente. Indossava sempre mocassini, maglioni a girocollo o giacche di tweed: una aveva persino le toppe ai gomiti. Capelli castani, corti, niente gioielli, nemmeno un orecchino. Assolutamente normale. Finché non lo guardavi negli occhi. Paulie conosceva sicari, killer dal cuore di pietra, che avevano occhi più caldi di quelli di Mac.
Mac. Quel nome aveva qualcosa che l'aveva sempre turbato, soprattutto perché era l'unico che conosceva, di quell'uomo. Mac chi? Mac «il Coltello»? Forse. Ne portava sempre uno, infatti, e di quelli grandi. Ma aveva sempre anche un'automatica calibro 45. Mac «il Cannone»? Mac era un mistero. Non lo vedeva mai, fra un lavoro e l'altro. Paulie riceveva una telefonata, si presentava nel luogo indicato (poteva essere Kansas City, Phoenix, West Palm, un posto qualsiasi), sorvegliava il pacco, riscuoteva il denaro e tutto finiva lì. Fino alla volta successiva, Mac spariva dalla faccia della terra. Non che gli importasse molto. Paulie non desiderava certo frequentare un tipo come quello. Doveva essere una misura di sicurezza, perché Paulie non potesse denunciarlo alla polizia. Non che lui ci avesse mai pensato. Doveva difendere la sua reputazione di persona affidabile. E poi Mac era sempre stato onesto, con lui, non gli aveva mai dato meno del pattuito né l'aveva fatto aspettare. Erano cose degne di rispetto. E bisognava anche tener conto di come filavano lisci i lavori fatti per lui. Come macchine ben lubrificate. Tutto era sempre andato benissimo. Tranne che nell'ultimo caso. E se Poppy aveva deciso di mollare, sarebbe stato l'ultimo anche per Paulie. Avevano litigato sull'opportunità di fare anche quel lavoro, con Poppy che aveva urlato, aveva buttato per terra della roba e per poco non se n'era andata. Era stato allora che si era reso conto di quanto fosse diventata importante per lui. Quindi avevano fatto un patto: un ultimo lavoro, poi avrebbero smesso. Avrebbero preso i soldi e se ne sarebbero andati, avrebbero trovato un'isola, da qualche parte, e avrebbero solo dormito, preso il sole, mangiato e scopato. Sì. Portò il furgoncino nel punto in cui Mac stava facendo uscire, a retromarcia, una lucida limousine. Accennò a Paulie di prendere il suo posto. Lui parcheggiò il furgoncino, scese e passò una mano guantata sopra lo smalto nero dell'auto. «Magnifica. Dove l'hai trovata?» «Monta. Parleremo dentro.» Mentre Paulie saliva sul sedile anteriore destro, i vetri dei finestrini si alzarono. Quando lui chiuse lo sportello qualsiasi rumore esterno sparì. Come essere chiusi dentro una bara. «L'ho noleggiata», spiegò Mac a bassa voce, guardando dritto davanti a sé mentre estraeva una busta dalla tasca interna della giacca. «La targa del Maryland l'ho presa in prestito.» Paulie cercò di non mostrarsi troppo interessato alla busta, ma sperava di
trovarci dentro un po' di soldi. Era quasi al verde. «Ecco i documenti che ti serviranno», disse Mac. «Nel caso ce ne fosse bisogno.» Lui l'aprì, in cerca di qualche banconota. Ma la prima cosa che vide fu una serie di biglietti da visita. Ne sollevò uno. «Reliance Limousine Service. La ditta per cui lavoro?» «Per un'ora o due da questo momento, sì. Ci sono una tessera della Reliance Limo e una patente del Maryland intestata allo stesso nome. E anche istruzioni per la persona che vai a prendere, su carta intestata della medesima agenzia.» Paulie vuotò la busta, deluso per l'assenza di banconote ma ammirato dalla minuziosità di Mac. I documenti falsi erano perfetti. «Dove li hai trovati?» «Li ho fatti io.» «Sul serio?» «Occorrono solo uno scanner a colori, un programma di grafica e un po' di tempo.» «Fantastico.» Poi due righe attirarono la sua attenzione e lo fecero irrigidire. «Ehi, Mac, dice scuola elementare Sacra Famiglia?» Mac stava ancora guardando dritto davanti a sé. «Giusto.» «Vuoi dire che sequestrerò un bambino?» «Sì.» «Oh, merda! Oh, cazzo! Un bambino no!» Mac si girò verso di lui e lo trapassò con i suoi occhi di pietra. «Hai qualcosa contro i bambini, Paulie?» chiese con voce morbida come la seta... e altrettanto fredda. «No, ed è per questo che non voglio sequestrarne uno.» «Non considerarlo un bambino, ma un pacco. Solo un altro pacco.» «Sì, ma un pacco giovane. La gente è sconvolta dal sequestro di un vecchio, ma va su tutte le furie quando si tratta di un bambino.» «Non è che la molesteremo o cose del genere.» «La? Oh, merda! Una bambina? Magnifico. A Poppy non piacciono i bambini.» «Sarà meglio che questa le piaccia.» «Perderà del tutto la testa.» «Farà quello che le sarà ordinato.» Paulie avrebbe preferito che quelle parole avessero contenuto un po' più di calore. Ma Mac le aveva dette con lo stesso tono piatto che avrebbe im-
piegato per ordinare una tazza di caffè: nero, due zollette. La verità era che Poppy avrebbe fatto sul serio quello che le avrebbero detto... Fino a un certo punto... «Sei stato tu a farla entrare in gioco, io l'ho accettata. Finora Poppy ha avuto solo vantaggi senza troppa fatica. Adesso è il momento che si guadagni la sua parte. Per una settimana o due può fare la bambinaia.» Sorrise, con un freddo lampo dei denti. «Sì», ammise Paulie. Ma quella faccenda non gli piaceva... non gli piaceva per niente. «Quanti anni ha, questa bambina?» «Sei. Ma non spaventarti per l'età. Sarà una passeggiata. Ho telefonato alla scuola. Ti aspettano. Vai là, la fai salire, le metti la cintura di sicurezza come tutti i buoni guidatori prudenti, poi te ne vai piano piano e la porti qui. Che cosa c'è di più semplice?» «Perché non lo fai tu? Sarebbe ancora più semplice.» «Lo farei, ma a questa parte devi pensarci tu.» Poiché Paulie non fece nessun commento, Mac allungò un dito e gli diede un colpetto sull'avambraccio. Lui si irrigidì. Non gli piacevano quelle cose. Ma quando guardò Mac vide ciò che non riteneva possibile: aveva gli occhi ancora più freddi di prima. «Non starai facendo marcia indietro, vero, Paulie?» «No», rispose lui con un sospiro. Doveva ammetterlo: aveva paura di ritirarsi a quel punto. «Bene. Perché i patti sono patti.» «È proprio così.» Ma come diavolo avrebbe fatto a spiegarlo a Poppy? 11 Snake entrò nell'atrio del Marriott a Bethesda e si diresse verso la fila dei telefoni. Aveva già perlustrato la maggior parte degli alberghi più grandi all'interno della Beltway, e sapeva quali avevano il tipo di apparecchio che gli serviva. Naturalmente avrebbe potuto telefonare da casa, dall'auto o da un campo giochi, usando la scheda di modulazione a codificazione di impulsi sul modem del suo portatile, ma avrebbe dovuto chiamare con il cellulare, e quel tipo di telefono era sicuro quanto un altoparlante. Trovò un telefono Dataphone 2000 della AT&T e vi si sedette davanti. Le hall degli aeroporti e degli alberghi erano i posti migliori, per quei tipi
di telefono. Erano muniti di tastiera propria o di uno slot in cui poter inserire un computer portatile. Snake aveva portato il suo. Dopo aver fatto addebitare la chiamata a Charles Porter, nome con cui aveva aperto un conto solo per quel lavoro, inserì la presa e accese il computer. Mentre aspettava che l'apparecchio eseguisse il programma di avviamento si guardò intorno. Solo un paio di persone, e nessuna delle due stava facendo la minima attenzione a lui. Si inserì nel sito che aveva aperto da poco presso la Delphi, a nome di un inesistente Eric Garter, ottenne l'accesso a Internet e inviò il testo che aveva scritto in precedenza e caricato in memoria. Trenta secondi dopo, con il messaggio che correva in rete, disinserì il portatile dal telefono, lo chiuse e si diresse verso l'uscita che metteva nel parcheggio. Così facile, così anonimo, così assolutamente irrintracciabile. Così sicuro. Troppo, forse. Troppo facile. Quasi una delusione. 12 Paulie fermò la limousine davanti all'entrata principale della scuola elementare Sacra Famiglia. Non assomigliava molto a una scuola, più a una vecchia, grande casa a due piani di pietra scura e di cemento, interamente ricoperta di edera. Allungò una mano verso la chiave, ma esitò. Non voleva farlo. Non era giusto. Un conto è sequestrare un adulto, si disse, uno come te, che avrebbe dovuto coprirsi le spalle ma è stato imprudente, quindi qualcuno doveva pagare per riaverlo. Così è la vita: gli errori si pagano. Ma un bambino... merda. I bambini non sono in grado di proteggersi, non conoscono le regole. Sono bersagli facili. Ed esercitare forti pressioni su qualcuno tramite un bambino... era una cosa abietta. Peggio ancora, era indegna di un uomo. Paulie sbatté una mano guantata contro il volante. Accidenti, Mac! Ebbe la tentazione di ripercorrere a retromarcia il viale di accesso e di filarsene via sgommando. Di andare a prendere Poppy in quella topaia di Falls Church e di sparire da qualche parte. Ma Mac si sarebbe incazzato, e molto. Li avrebbe cercati e prima o poi li avrebbe trovati. E sarebbe stata una faccenda bruttissima. Uno solo sarebbe rimasto vivo, fra di loro, e Paulie dubitava molto di essere in grado di farcela.
E poi aveva stipulato un patto. Non sapeva che si sarebbe trattato di una bambina, ma... un patto è un patto. Davvero? si domandò. O sono solo un vigliacco? Quanto in basso arriverai, Paulie? Quando dirai basta? Avrebbe dovuto ascoltare Poppy e rimanere fuori da quel lavoro. Con un grugnito di disgusto prese le chiavi e scese dall'auto. Si sistemò quell'assurdo berretto da autista e salì i gradini verso l'entrata. Nell'atrio una donna di mezza età, seduta a una scrivania, fece una telefonata, disse poche parole e lo condusse nell'ufficio della preside. Non c'era molta luce, ma lui tenne gli occhiali neri. Meno gente gli vedeva la faccia, meglio era. L'ufficio della preside... Cristo, quanti ricordi. Sorella Louise era anziana, tutta vestita di nero da capo a piedi. L'unica pelle in mostra era quella delle mani e del viso. Lo fissò attraverso gli spessi occhiali senza montatura, che le ingrandivano gli occhi azzurri e acquosi. La mascella sporgente dava una piega strana alla sua bocca, quando sorrideva. Come successe quando lo salutò. «Buongiorno, signor...?» «Anderson», rispose, contento di avere ricordato di guardare la tessera che gli aveva dato Mac. «James Anderson.» «Ed è venuto a prendere...» Che cos'è? Una trasmissione a quiz? Lo sa benissimo chi sonò venuto a prendere. «La figlia del dottor VanDuyne. Katie VanDuyne.» «Ah, sì. Il dottor VanDuyne ha telefonato e mi ha avvisato che sarebbe venuto qualcuno.» Sporse la testa dalla porta. «Camille, per favore, va' a prendere Katie VanDuyne e portala qui.» Poi si girò di nuovo verso Paulie e tese la mano. «Un documento, per favore.» Lui si frugò in tasca. Vecchiaccia sospettosa. Mac sarà anche stato uno spregevole bastardo, ma aveva pensato a tutto. Paulie estrasse la tessera della Reliance Limo e sperò che lei non notasse quanto gli tremava la mano quando gliela consegnò. Ma si tenne la patente. Non c'era nessun bisogno che si dimostrasse troppo pronto a collaborare. Mentre studiava la tessera, sorella Louise aggrottò la fronte. «In questo documento non c'è fotografia.» «Nossignore.» Lei alzò lo sguardo e lo studiò attentamente. Stava ancora sorridendo, ma Paulie cominciò ad avere una brutta sensazione, a proposito di quella suora. Aveva l'aria di una dolce vecchietta, ma in realtà era una donnaccia, scaltra ed estremamente sospettosa. «Soffre di qualche disturbo oftalmologico?»
«Scusi?» «Gli occhi, signor Anderson. Hanno qualcosa che non va?» «Nossignora.» «E allora perché tiene gli occhiali da sole anche al chiuso?» Paulie sentiva che stava cominciando a sudare. Non gli piaceva il modo in cui si stava svolgendo quella conversazione, e ancora meno la maniera in cui sorella Louise lo stava guardando. «Per abitudine, suppongo.» «Può toglierseli.» Paulie valutò quale sarebbe stata la condotta migliore. Rifiutare, e rendere la suora da eccessivamente prudente a del tutto sospettosa, o collaborare e superare l'esame. Si tolse gli occhiali. «Ecco», fece sorella Louise studiandolo a lungo. «Non ci vede meglio?» «Sissignora», rispose lui, cercando di non distogliere lo sguardo. «E per favore si tolga il berretto. Qui dentro non si sta con la testa coperta. È un cattivo esempio per i bambini.» «Sissignora», rispose assicurandosi di aprire bene la mascella, per non parlare a denti stretti. Si sentiva completamente nudo. Poi qualcuno che doveva essere Camille introdusse nell'ufficio una bambina dai capelli scuri, in una divisa scozzese. «Ciao, Katie», la salutò sorella Louise. «Questo è il signor Anderson. Prima ti ho detto che tuo padre ti porta a fare un viaggio in Georgia, ricordi? Adesso il signor Anderson ti porta a casa.» La bambina lo guardò con gli occhi azzurri e sorrise. Cristo, quant'era piccola. E carina. «Mi porterai dal mio papà?» «Sì, signorina», rispose Paulie usando tutto il suo fascino per far colpo su sorella Louise e sulla bambina. «L'accompagnerò a casa, poi porterò lei e il suo papà all'aeroporto. E di lì partirete per la Georgia, in vacanza.» Lei fece: «Oh», e basta. Non sembrava troppo felice. Le tese la mano. «Pronta?» «Certo», rispose mettendosi un baschetto rosso, poi si rivolse alla suora. «Arrivederci, sorella.» «Un momento», fece lei, fissando Paulie come se desiderasse avere i raggi x negli occhi. «Dimmi una cosa, Katie, hai mai visto il signor Anderson, prima di questo momento?» La bambina scosse la testa. «No.» Sorella Louise tamburellò con le dita sulla scrivania. «Credo che prima di lasciarvi andare, farò una telefonata.» Oh, Cristo! Chi vuole chiamare? «Non c'è molto tempo, signora.»
«Ci vorrà solo un istante», obiettò sorella Louise, componendo un numero che aveva letto da un elenco sulla scrivania. Il cuore di Paulie si mise a battere all'impazzata. La sua bocca, già secca per l'imbottitura di cotone, gli sembrò all'improvviso un tratto di autostrada nel deserto. Era una faccenda brutta. Molto brutta. Doveva afferrare la bimba e trascinarla via con sé? O semplicemente fare di corsa i cinquanta metri fino all'auto e filare via verso le colline? Lasciò sfuggire un respiro lungo e profondo e aspettò, sperando che Mac avesse previsto anche quell'eventualità. 13 Snake era a casa, davanti al computer. Era ancora collegato abusivamente al sistema della C&P, e precisamente alla linea della casa di VanDuyne, a controllare le telefonate. Due, fino a quel momento, entrambe per la madre: una compagna di bridge e il dottore in persona. Poiché entrambe provenivano da Washington, Snake le aveva lasciate passare. Quella che aspettava lui avrebbe avuto origine nel Maryland. Quell'eccesso di prudenza non era necessario, probabilmente, ma sarebbe stato un vero peccato mandare a monte tutta l'operazione per non aver aspettato mezz'oretta per controllare... Ecco! Snake si drizzò di scatto. Una telefonata dalla zona con il prefisso 301. Il numero corrispondeva proprio a quello della scuola elementare Sacra Famiglia. Paulie aveva forse combinato qualche guaio? Premette il tasto ENTER sulla tastiera, inviando un comando preprogrammato che avrebbe deviato la telefonata verso il suo numero. Rimase in attesa con la mano librata sull'apparecchio. E aspettò. Quando questo non squillò, guardò il monitor. Avevano forse riagganciato, alla Sacra Famiglia? No! La telefonata stava arrivando direttamente a VanDuyne. Merda! Snake batté in fretta i tasti, inviando un altro comando per dirottare la chiamata. Già due squilli, in casa di VanDuyne. Se la madre avesse preso la comunicazione... Quando il suo apparecchio squillò, Snake sobbalzò, poi alzò il ricevitore a metà del secondo trillo. Si schiarì la gola e modulò la voce in un tono morbido e uniforme. «Pronto?» «Dottor VanDuyne, sono sorella Louise della Sacra Famiglia.» «Sì, sorella. Non è arrivato, l'autista? Gli avevo detto...»
«Sì, è qui, dottore. Volevo solo fare un ulteriore controllo prima di consegnare sua figlia a un estraneo.» Snake chiuse gli occhi e ringraziò il cielo di essere rimasto collegato alla C&P. «Apprezzo molto la sua prudenza, sorella. L'autista dovrebbe essere Jim Anderson della Reliance Limo.» «Esatto. Molto bene. Allora lascerò che Katie vada con lui. Scusi se l'ho disturbata.» «Nessun disturbo, sorella, assolutamente. Di questi tempi non si è mai troppo prudenti.» Riagganciò e crollò sulla poltroncina, fissando il monitor con il cuore in tumulto. Sissignore, non si era mai troppo prudenti. 14 Paulie era così pieno di meraviglia, mentre cercava di immaginare come Mac fosse riuscito a compiere quella magia, che per poco non dimenticò di assicurare la bambina con la cintura di sicurezza. Aprì in fretta lo sportello posteriore e la sistemò. Una buona cosa, perché sorella Louise stava sulla porta a controllare ogni mossa. Gli tremavano un po' le dita e aveva le ginocchia alquanto traballanti. Nell'ufficio aveva pensato che tutto fosse andato a monte, ma Mac aveva rimediato. Era davvero un genio. «Che cos'è questa scatola?» chiese la bambina. «Oh», rispose lui. «Sono dei dolci.» «Per me?» «Per tutti i nostri clienti speciali. Si serva pure.» «La nonna non vuole che mangi dei dolci prima di pranzo.» «Ma questo è un giorno particolare. Il suo papà mi ha raccomandato di dirle che può mangiare tutti quelli che vuole. Si accomodi, non si faccia scrupoli.» Salì al posto di guida e accese il motore. «Saluti con la mano la preside», la esortò mentre si avviavano. Paulie si accertò di salutarla pure lui. Addio, vecchia carampana. Sei in gamba, ma io conosco un tipo che lo è ancora di più. E quel pensiero gli fece ricordare... Tirò fuori un cellulare e premette due tasti per comporre un numero in memoria. Pochi secondi dopo udì Mac chiedere: «Sì?» Voleva domandargli come aveva fatto a organizzare quella faccenda con il telefono, ma decise di non scostarsi dalla sceneggiatura. «Ho il carico e sono per la strada.»
«Bene.» E Mac interruppe la comunicazione. «Chi stai chiamando?» chiese una vocina dal sedile posteriore. «Quello che, ehm, organizza il lavoro. Gli ho comunicato che la sto accompagnando a casa. Come sono quei dolci?» «Deliziosi!» «Magnifico. Ne mangi pure quanti vuole.» «Bene. E quella coperta a che cosa serve?» «Se per caso le venisse freddo, oppure sonno.» «Ah. Il mio papà è un dottore, sai.» «Davvero?» «Sì, ma non cura più la gente.» «Ah?» Paulie si era sempre chiesto di che cosa si trattasse. Forse avrebbe ottenuto qualche informazioni dalla bambina. «Che cosa fa?» «Lavora con altri dottori. Ma non sono malati.» «Dove?» «In un palazzo grande, grandissimo.» E dire che pensava di ricavarne qualcosa. Paulie lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore. La bambina aveva la scatola di cioccolatini in grembo e ci dava dentro. Mangia, mangia, pensò. «Vuoi un cioccolatino, signore? Sono davvero buoni.» «No, grazie. Sono a dieta.» Guardò di nuovo nello specchietto. Molto carina. Contenta di mangiare i dolci e tanto piena di fiducia. Si era fidata completamente di lui... perché aveva detto che lo mandava il padre. Cristo, si sentiva proprio un verme. 15 Prima di uscire dalla Casa Bianca, John VanDuyne si fermò all'ufficio stampa e trovò Terri Londergan nel suo stanzino. Aveva la scrivania coperta di fogli, tutti pieni di appunti di vario genere. Teneva il ricevitore di un telefono stretto tra la spalla e l'orecchio e annotava velocemente qualcosa su un foglio. Alzò lo sguardo e gli sorrise, roteando gli occhi scuri e indicando il telefono. «Sì, ci sarà», disse. «Sono certa che ci sarà...» John la guardò mentre faceva la propria parte di viceaddetto stampa, rispondendo alle domande di qualche redattore di giornale o rivista. Gli piaceva il modo in cui i capelli corvini le coprivano il viso quando inclinava la testa e come la scuoteva per allontanarli. Il naso aguzzo e la mascella
forte erano addolciti dal sorriso delle sue labbra piene. Ah, quel sorriso. L'anno precedente gli aveva fatto percorrere l'intera lunghezza degli uffici, quando l'aveva notata mentre parlava con Stephanie Harris. Ed era rimasto là in piedi come uno sciocco finché lei non gliel'aveva presentata. Pochi minuti di conversazione con Terri l'avevano conquistato del tutto. Dopo, aveva sempre fatto in modo di imbattersi in lei durante tutte le sue visite alla Casa Bianca, ma era stato solo pochi mesi prima che aveva trovato il coraggio di chiederle di uscire con lui. Da allora era diventata una cosa regolare. Terri aveva circa trentacinque anni, dieci meno di John, ma aveva la padronanza di sé e la fiducia nelle proprie capacità di una persona più matura. Lei e Katie si erano conosciute e avevano trascorso qualche sera insieme, sul terreno neutro di un ristorante; e pareva che andassero d'accordo. Katie chiedeva sempre quando avrebbero rivisto Terri. John era disposto ad ammettere che forse aveva trovato qualcun'altra, che dopo Marnie avrebbe potuto esserci un'altra vita, persino un amore. «...naturalmente», stava dicendo lei. «Risponderà a tutte queste domande nel corso della conferenza stampa. Esatto. Esatto. Buona giornata. Arrivederci.» Riagganciò e piegò la testa sulla scrivania, appoggiandola alle braccia. Parlò voce nasale, tra la confusione di fogli. «Basta con le telefonate! Per favore, basta!» John posò la borsa sulla scrivania, si mise alle sue spalle e le massaggiò i muscoli tesi. Lei lasciò sfuggire un piccolo gemito e quel suono lo eccitò. «Ah, che bello. Tu lo sai di che cosa ha bisogno una ragazza.» «Mattinata dura?» «La più dura di tutte. Dieci volte di più. Ero... Sì, lì... Oh, sì... proprio lì... Ero d'accordo con lui al cento per cento, quando l'ho ascoltato.» «Ah, sì?» Quell'affermazione lo sorprese. Sapeva che Terri non faceva uso di droghe e, considerata la sua severa educazione cattolico-irlandese, riteneva che sarebbe stata contraria alla loro legalizzazione. Ma si era già mostrata una donna molto libera riguardo al sesso, quindi perché non avrebbe dovuto esserlo altrettanto riguardo alle droghe? «Sì, ma adesso non ne sono più tanto sicura.» «Perché?» «Le telefonate! Quando sono arrivata, alle sei di stamattina, ho trovato un sacco di chiamate dall'Europa. Da allora è stato un casino totale, i titolari di un notiziario, di uno show radiofonico locale, di una fanzine, di una chat-line, tutti quanti, nel mondo occidentale, vogliono maggiori informa-
zioni.» Sollevò il capo. «E, mio Dio, sulla costa occidentale si stanno appena svegliando. Impazzirò!» Lui rise. «Ecco una buona ragione per cambiare i tuoi principi.» «I miei principi sono saldissimi», ribatté girandosi verso di lui e ricambiando il sorriso. «Ma in questa città si impara presto a essere anche pratici.» «In altre parole, se la depenalizzazione causa del lavoro straordinario, la droga dovrebbe restare un crimine.» «L'hai capita, Doc» disse, ancora sorridendo. Lo tirò per la cravatta per avvicinare a sé il suo viso. «Vieni qui, dammi un bacio.» E lui la baciò sulle labbra. Gli piaceva la sensazione che gli provocavano quelle labbra sulle sue. Cominciò a pensare a... Il trillo del telefono gli confuse i pensieri. Lei alzò la cornetta senza interrompere il bacio e se la portò all'orecchio. John udì un brontolio incomprensibile. Terri si scostò da lui. «Dimmi», disse all'apparecchio. «Oh, magnifico! Sì, passamelo.» Si rivolse a John. «Devo assolutamente prendere questa telefonata.» «Certo. Siamo ancora d'accordo, per stasera?» Lei fece un'espressione afflitta. «Oh, non credo. Il capo ha indetto una riunione e Dio sa quanto durerà. Potrei dover restare qui fino alle dieci o alle undici. Forse anche dopo.» «Capisco.» «Sei un angelo. Facciamo domani, stessa ora, stesso posto.» «Affare fatto.» Sempre sorridendo, tornò a parlare al telefono. «Sì, sono io.» Mentre John la salutava con un cenno e se ne andava, gli mandò un bacio. Dirigendosi verso l'uscita, John si concesse un sorriso triste. Se prima non era in favore di quella faccenda della depenalizzazione, in quel momento era davvero contrario. 16 Quando Paulie riportò la limousine al livello inferiore del garage, la bambina era profondamente addormentata, grazie ai dolci corretti al valium. Un'idea magnifica. Forse avrebbe tenuto per sé quelli rimasti. Fece il giro di tutto il piano, per controllare se ci fosse gente che lasciava o riprendeva l'auto. Nessuno, tutto tranquillo.
Si fermò dietro il furgoncino, con lo sportello laterale dell'auto allineato con il portellone posteriore. Poi scese, aprì quest'ultimo, si sporse dentro la limousine e avvolse la bambina nella coperta. Ora veniva la parte più rischiosa. La parte del piano in cui qualcosa poteva andare storto. Si raddrizzò ed esaminò di nuovo la zona. Nessuno in vista. Strinse i denti e ci si mise di buona lena: trasferì in fretta il fagotto dall'auto al furgoncino, quindi chiuse a chiave il portellone. Respirava forte, e non per lo sforzo. Fatto. Il peggio era finito. Ormai non gli restava che lasciare la limousine al posto del furgone. Più tardi Mac sarebbe venuto a portarla via. Poteva rilassarsi. Guidare fino a Falls Church, portare in casa la bambina e... Oh, merda! Poppy! Se l'era dimenticata. Sarebbe andata fuori di testa, quando le fosse comparso davanti con quel pacco. La parte peggiore era finita? Non era nemmeno cominciata. 17 A John occorse un po' di tempo per uscire dalla zona intorno alla Casa Bianca. Quando infine arrivò alla Sanità dovette farsi strada a stento fra una folla apparentemente sterminata di amici, colleghi e burocrati che sì e no conosceva nell'atrio, in ascensore, lungo il corridoio, tutti con la loro opinione personale a proposito del messaggio presidenziale della sera prima. Finalmente raggiunse il rifugio relativamente sicuro del suo ufficio. Phyllis, la segretaria, gli porse una tazza di caffè e gli chiese: «Da dove vuole che cominci?» Era sui cinquant'anni, magra, con la pelle molto scura. I capelli ricci e corti le incorniciavano il viso stretto. Nonostante le prediche di John, Phyllis non aveva smesso di fumare: anche nei mesi più freddi dell'anno era possibile vederla in cortile, nell'intervallo, a dare dei tiri a una cicca. Sorrideva di rado e quasi sempre teneva la bocca storta, quasi avesse mangiato un limone. Quella mattina pareva gliene fosse capitato uno particolarmente aspro. «Che cosa ne diresti di qualcosa che non abbia niente a che fare con la depenalizzazione? Per esempio l'Operazione Medicina di base?» La parte più impegnativa del suo incarico alla Sanità era un programma che portava proprio quel nome. Aveva lo scopo di stimolare le facoltà di Medicina a sottolineare, nei propri piani di studio, l'importanza della Medicina di base e di incoraggiare gli studenti a diventare medici di famiglia e
seguire corsi di Medicina generale interna. Fino a quel momento aveva ricevuto una buona accoglienza. «Be'...» fece lei, sfogliando gli appunti, «un paio di facoltà indecise se chiamarla o no hanno telefonato per fissare una data.» «Ecco una buona notizia.» «Ma vogliono sapere se parlerà anche della depenalizzazione.» «Porca miseria.» Che gli piacesse o no, anche lui si trovava sotto i riflettori. «Va bene», rispose. «Fa' una scelta e fissa delle date.» «E per quanto riguarda la depenalizzazione delle droghe?» «Sii vaga il più possibile. Fissa solo la data.» Avrebbe evitato di parlare dell'argomento. Non era affatto un esperto di droghe o di leggi antidroga. Non aveva nessun titolo per parlarne. Ciò di cui voleva trattare era della palese necessità di medici di base, e per farlo si sarebbe introdotto a viva forza nel maggior numero possibile di facoltà di Medicina. John si lasciò cadere sulla poltroncina davanti alla scrivania e trovò il monitor acceso. Brava Phyllis, sempre efficiente. Nell'angolo inferiore destro notò che l'icona della posta elettronica lampeggiava. Inserì la parola d'ordine, l'unica cosa che Phyllis non poteva fare al suo posto, e trovò tredici messaggi. Vediamo se indovino di che cosa trattano. Li scorse rapidamente: nessuna sorpresa. Tutti si riferivano a un'unica cosa... tranne l'ultimo, che proveniva da Internet... Item 4321334 10:31 Da:
[email protected] Internet Gateway A: J.VANDUYNE01 John VanDuyne Ogg.: Katie Da:
[email protected] Ricevuto: da anon.nonet.uk da relay1 con SMTP (1.37.109.11/15.6) id AA080380591; 16:13:11 GMT Indirizzo per risposta: Ricevuto da: anon.nonet.uk (5.67/1.35) id AA26085; 10:31:16 +0200 Da:
[email protected] Message-Id: A:
[email protected] Oggetto: Katie
Katie l'abbiamo noi. Ci occupiamo di lei con molta cura. Non vogliamo soldi. Vogliamo solo che tu ci faccia un favore. Se lo farai, Katie ritornerà senza un graffio. Ma!!! Non sarai in grado di farci questo favore se qualcuno saprà che sei sottoposto a pressioni. Nessuno deve sapere che Katie è sparita. Nessuno!!! Chiaro??? Lo speriamo sinceramente. Se informerai della situazione un'autorità locale o federale per noi non avrai più alcun valore. E di conseguenza non lo avrà più nemmeno tua figlia. Ci sbarazzeremo di lei come di un oggetto inutile. ***SIAMO STATI CHIARI?*** Non dubitare della nostra decisione o risolutezza. È in gioco la vita di tua figlia. Non commettere stupidaggini. Lo verremmo a sapere. Ci rimetteremo presto in contatto con te. Snake =FINE= John rimase a fissare lo schermo. Se qualcuno aveva voluto fare uno scherzo, non era affatto divertente. Chi diavolo...? Guardò l'indirizzo per la risposta e notò la sigla del Regno Unito. Il messaggio era stato inviato dall'Inghilterra. Chi conosceva, in quella nazione, con un senso tanto disgustoso dell'umorismo? Poi si rese conto che il messaggio era giunto da uno di quegli innumerevoli server di cui aveva letto. La posta elettronica inviata tramite questi distributori era priva dei dati d'origine e anonima. Rabbrividì. Prese il telefono e compose il numero della scuola di Katie. Quando la segretaria rispose, chiese notizie della figlia. «Oh, sono venuti a prenderla un po' di tempo fa», gli disse lei. L'ufficio gli roteò intorno. Dovette afferrarsi alla scrivania per evitare di cadere all'indietro. Cercò di parlare, ma non ci riuscì, tanto era sconvolto. Tutte le lettere dell'alfabeto l'avevano abbandonato. «Dottor VanDuyne?» fece la donna. «C'è qualcosa che non va?» Quando non ricevette risposta neppure quella volta, annunciò: «Le passo sorella Louise». Mentre attendeva in linea continuò a tremare e a cercare di recuperare il fiato. Gli sembrava che il cuore avesse quadruplicato le sue dimensioni e minacciasse di esplodere fuori del petto. Un pensiero solo gli percorreva all'infinito le cellule grigie: non la mia
Katie! Per favore, mio Dio. Non la mia Katie! Gli occhi gli si soffermarono sul monitor e si bloccarono sul messaggio che compariva ancora sullo schermo... in particolare un paragrafo sembrò aumentare di dimensioni: Non sarai in grado di farci questo favore se qualcuno saprà che sei sottoposto a pressioni. Nessuno deve sapere che Katie è sparita. Nessuno!!! Sorella Louise parlò nell'apparecchio, con voce molto preoccupata. «Dottor VanDuyne? Qualcosa non va? Katie non è ancora arrivata a casa? È più di mezz'ora che se ne è andata con il suo autista.» John deglutì in fretta, cercando di inumidirsi la gola. Doveva essere molto prudente, ma doveva dire qualcosa. «Il mio autista...» «Sì. Anderson, della Reliance Limousine. Prima che uscisse le ho telefonato. Ho parlato con lei, vero? Santo cielo, non mi dica...» Voleva urlare: come ha potuto lasciarla andare via? «No, no», la interruppe in fretta. «È tutto a posto. Solo che la mia... la mia allergia sta tornando.» «Grazie al cielo. Per un momento... ma ormai dovrebbe essere a casa, no? Se vuole posso telefonare alla polizia e chiedere...» Oh, Cristo, no! Si costrinse a rispondere con una risata che dovette sembrare orrenda. «Be'... eccola qui... stanno voltando nel vialetto. Devono essere rimasti bloccati nel traffico. Grazie, sorella. Mi dispiace di averla disturbata.» «Nessun disturbo. Sono contenta che sia arrivata sana e salva. E buon viaggio ad Atlanta.» «Sì... grazie.» John riagganciò a fatica e si appoggiò alla scrivania. Atlanta... Atlanta? Tornò a fissare il monitor. Nonostante la posta elettronica, nonostante ciò che aveva detto sorella Louise, non riusciva ancora a crederci. Tutta la faccenda gli sembrava irreale. Doveva essere un sogno. Ecco, proprio così. Fra poco si sarebbe svegliato e... Il telefono squillò e lui fece un salto. Afferrò il ricevitore. «Che cosa c'è?» «Il ministro Grahmann sulla 22. Vuole...» «Digli che lo richiamerò.»
«Sì, ma...» «Lo richiamerò, Phyllis.» Stava quasi urlando. Come poteva disturbarlo in quel momento? «E non passarmi nessuna telefonata. Non parlo con nessuno, per adesso.» «Sta bene?» «Nessuna telefonata!» «Sissignore.» John si alzò a fatica dalla poltroncina e girò intorno alla scrivania reggendosi a fatica sulle gambe. Aveva la strana sensazione di volare. Gli pareva che l'ufficio si fosse rimpicciolito. Le pareti lo comprimevano. Katie. Oh, mio Dio, Katie. Dove l'avevano portata? Che cosa le stavano facendo? Che cosa volevano da lui? Si precipitò a rileggere il messaggio. ...Non vogliamo soldi. Vogliamo solo che tu ci faccia un favore. Se lo farai, Katie ritornerà senza un graffio. Un favore. Che genere di favore? Che cosa voleva dire? Non aveva nessuna abilità particolare. Che cosa potevano volere? Non riusciva a pensarci. Riusciva a pensare solo a Katie, tutta sola, circondata da estranei, terrorizzata... Cristo, se l'avesse persa... Andò alla finestra e guardò il cielo coperto. Non ne ho già passate abbastanza, mio Dio? Aveva bisogno di aiuto. Doveva chiamare l'FBI. Il loro quartier generale era proprio in Pennsylvania Avenue. Diavolo, poteva telefonare a Tom, lui avrebbe chiamato il direttore e tutto l'ente si sarebbe messo a setacciare la nazione in cerca di quella carogna, quello Snake. Poi un'altra parte del messaggio gli balzò agli occhi. ...Se informerai della situazione un'autorità locale o federale per noi non avrai più alcun valore. E di conseguenza non lo avrà più nemmeno tua figlia. Ci sbarazzeremo di lei come di un oggetto inutile. Ma non poteva gestire quella faccenda da solo. Che cosa ne sapeva, lui, di come si tratta con dei sequestratoli? Forse con l'aiuto di Tom avrebbe potuto tenere segreto il coinvolgimento dell'FBI. Non commettere stupidaggini. Lo verremmo a sapere... E quella era davvero la parte agghiacciante. «Lo verremmo a sapere.»
Ovviamente quello Snake aveva appreso moltissime cose sulle abitudini di Katie e sulle sue. Conosceva il numero di posta elettronica di John e... che cosa aveva detto, sorella Louise? «Prima che uscisse le ho telefonato.» Ciò significava che Snake era stato in grado di intercettare la chiamata dalla Sacra Famiglia. Il suo apparecchio era controllato? Sapevano tutto? Anche... Un pensiero lo colpì all'improvviso come una mazzata: il Tegretol che doveva prendere Katie! Ne aveva bisogno due volte al giorno. Se non lo prendeva... «Oh, Cristo!» esclamò, e ricadde sulla poltroncina. Premette il tasto per la funzione di risposta alla posta elettronica e batté un messaggio. Avrebbe voluto gridare a quel verme tutte le oscenità possibili e immaginabili, ma si trattenne. Se avesse irritato Snake, chi ne avrebbe subito le conseguenze? Sta' calmo, si disse. Resta freddo. Rifletti. Non lasciare che quel bastardo capisca di averti ridotto uno straccio. Adulalo, quello spregevole figlio di puttana. Snake, messaggio ricevuto e registrato. Non ne ho parlato con nessuno. Seguirò le vostre istruzioni alla lettera. Comandate voi. Per favore non fate del male a Katie. Ma per favore ascoltate. C'è una cosa che dovete sapere! Katie soffre di epilessia. Ha bisogno di prendere una medicina due volte al giorno, altrimenti le vengono le convulsioni. Le verrà una convulsione dopo l'altra finché non... Le dita si fermarono sopra la tastiera, rifiutando di digitare le parole seguenti. Ma lui le costrinse a proseguire. ...subentrerà la morte cerebrale. Dovete credere a ciò che dico. Non è un trucco. Avete mia figlia, che per me è la cosa più importante. Non ho la più pallida idea di come posso essere utile a voi o a qualcun altro, ma farò esattamente come dite, farò quello che volete ma dovete procurarle la medicina. Posso mandarvene, lasciarla da qualche parte o avvertire una farmacia di vostra scelta e fare in modo che la troviate là. Dovete credermi, non si tratta di un trucco! È un problema medico molto grave! John si appoggiò allo schienale e cercò nella sua confusa memoria quel
po' che sapeva della psicologia dei sequestratori. Ricordava di avere letto che molti tendevano a spersonalizzare le vittime. Cercò di aggiungere qualcosa che rendesse Katie un essere umano per quel pazzo. Katie ha sofferto molto, nella sua breve vita. So che pare difficile crederlo. Quante può averne passate la figlia di un medico, eh? Credetemi, il destino non è stato clemente con lei. L'epilessia è solo una parte. Non fatela soffrire ancora, vi prego. Non fatele del male. Farò qualsiasi cosa vogliate, ma non fatele del male. Udì un rumore, come un singhiozzo, e si rese conto che era la sua voce. Stava piangendo. Si asciugò in fretta gli occhi, aggiunse il proprio nome, poi premette il tasto che avrebbe inoltrato il messaggio: l'avrebbe messo in coda in Internet, l'avrebbe spedito al server che l'avrebbe poi passato a Snake, chiunque fosse. Fino al Regno Unito e ritorno? Quanto tempo sarebbe occorso? Dieci minuti? Un'ora? Due? Non ne aveva idea. Non ne sapeva molto, di Internet. Era un mondo immenso, dispersivo. Ma una cosa la sapeva: non poteva restare lì. Sarebbe diventato matto, ad aspettare la risposta. Quel pensiero gli rammentò che doveva mantenere il segreto. Che cosa sarebbe successo se Phyllis avesse conosciuto la sua parola d'ordine e avesse deciso di dargli una mano controllando la posta elettronica? Avrebbe scoperto di Katie. Ritornò alla scrivania e cambiò la parola d'ordine da KATIE a... che cosa? Non riusciva a pensare. Guardò il messaggio ancora presente sullo schermo e trovò un'unica parola, una che gli sarebbe stato impossibile dimenticare. Digitò SNAKE, serpente. Poi prese la giacca e scappò, distogliendo il viso mentre passava davanti a Phyllis. «Dottor VanDuyne», gli chiese lei, «esce?» «Sì», rispose senza voltarsi. «C'è qualcosa che non va?» «Sarò reperibile con il cercapersone.» Si affrettò lungo il corridoio, evitando di guardare negli occhi chi incontrava. Quando vide un gruppo di gente che aspettava l'ascensore prese le scale e scese a piedi. Pochi minuti dopo stava attraversando il centro, diretto a casa... ma non
per la via più breve. Doveva inventare una scusa per la madre. Non solo a causa di ciò che diceva il messaggio: «...nessuno deve sapere che Katie è sparita. Nessuno!!!» Ma anche perché non immaginava la sua reazione. Con gli occhi della mente la vedeva portarsi una mano al petto e accasciarsi. John avrebbe desiderato poterlo dire a qualcuno. A una persona sola, in modo da poter condividere quel fardello, da poterne parlare. Mai in vita sua, nemmeno nelle ore più brutte, quando Katie era ricoverata in rianimazione tre anni prima e non era ancora sicuro se sarebbe sopravvissuta, si era sentito tanto solo. Perché proprio Katie? si chiese. Per causa mia? Che cos'ho che possa volere qualcun altro? Di che genere di favore hanno bisogno quelli che tengono prigioniera mia figlia? Udì dei clacson suonare alle sue spalle e alzò lo sguardo. Il semaforo era diventato verde. Premette l'acceleratore, ma meno di cento metri dopo capì che non era in grado di procedere oltre. Si fermò al bordo della strada, appoggiò la testa al volante e cominciò a singhiozzare in maniera incontrollata. E se Katie fosse già morta? 18 Paulie aveva lasciato aperta la porta del garage, quindi dovette soltanto entrarvi con il furgoncino, spegnere il motore, scendere e chiudere la saracinesca. Buio, sicuro, tranquillo. Ma non sarebbe stato così per molto. Non dopo che Poppy avesse visto la bambina. Naturalmente era anche capace di fare la voce grossa, dirle di chiudere il becco e rassegnarsi a come stavano le cose. Ma quando Poppy non era contenta, in un certo senso non lo era nemmeno lui. Non era mai stato così con nessun'altra. Non riusciva a capirne la ragione. Comunque non aveva senso rimandare. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare la situazione. Prima lo faceva, meglio era. Aprì il portellone posteriore, prese fra le braccia il pacco avvolto nella coperta ed entrò in casa. Un'altra raffinatezza di Mac: scegliere sempre una casa con annesso il garage. «Ehi, tesoro!» gridò, stando attento a non chiamarla per nome ma cercando di adottare un tono disinvolto. «Sono arrivato, dopo una dura giornata trascorsa in ufficio.»
Lo aspettava in piedi, in soggiorno. Sorrideva, come lui aveva sperato che facesse. «Eccoti, tesoro», gli rispose. «È andato tutto...» Quando notò il fagotto che lui portava, il sorriso scomparve. «Che diavolo è?» «Il pacco.» Lei arretrò di un paio di passi e il suo viso assunse un'espressione strana, come se le avesse appena annunciato di avere l'Aids. «Oh, no. Oh, mio Dio, no. Non un bambino. Non dirmi che è un bambino!» «Sì, è una bambina, e ha sei anni.» «Oh, merda, Paulie. Merda!» «Ehi, parla piano. E non chiamarmi per nome. Adesso dorme, ma potrebbe svegliarsi da un momento all'altro.» «Riportala indietro! Di' al tuo amico che non vuoi avere niente a che fare con il sequestro di un bambino.» Era una stupidaggine. Non sarebbe stato lì a discutere con Poppy con la bambina in braccio. Cominciava a diventare pesante. Entrò nella «stanza degli ospiti» e la collocò con delicatezza sul letto. Più a lungo restava addormentata, meglio era. «Ormai l'ho sequestrata», disse. «Non posso tornare indietro. Siamo costretti a tenercela, che ci piaccia o no.» Poppy si era fermata sulla soglia e guardava Paulie, poi la massa informe sul letto, poi ancora Paulie. L'espressione scioccata era stata sostituita da un rossore che indicava pura e semplice rabbia. «Non riesco a credere che tu non mi abbia detto niente.» «Non lo sapevo. Come facevo, se non lo sapevo? Mi ha informato solo stamattina, quando sono andato a prendere la limousine.» «Non voglio avere niente a che fare con questa faccenda.» «Non piace nemmeno a me, ma ci siamo dentro.» «Che cosa vuoi dire con 'ci siamo'? Non ho firmato nessun contratto per sorvegliare una bambina. Io ne resto fuori.» Si voltò e si diresse verso l'altra camera da letto. Era una cosa tremenda. Paulie le corse dietro e l'afferrò per un braccio. Avrebbe voluto urlare, ma abbassò la voce in un aspro sussurro. «Non puoi piantarmi in asso, Poppy.» «Sta' a vedere.» «Abbiamo fatto un patto!» Gli occhi le lampeggiarono. «Il patto non comprendeva nessuna bambina! Potrebbe diventare un caso come quello di Lindbergh. Non voglio a-
verci a che fare! Adesso lasciami andare!» Le lasciò il braccio e lei continuò a dirigersi verso l'altra stanza. Non poteva trattenerla, avrebbe dovuto sorvegliare sia lei sia il pacco. Doveva ricorrere a qualcos'altro, forse il senso di colpa. Negli anni passati con Poppy aveva imparato che con lei il senso di colpa funzionava piuttosto bene. «D'accordo. Lasciami nei pasticci. Vattene e lasciami con una bambina di cui non so niente. Sarebbe già abbastanza brutto se fose un maschio, ma è una femmina. Come posso badare a una bambina?» Lei si fermò sulla soglia e si voltò, con gli occhi in fiamme. «Accidenti a te, Paulie!» «Ehi, piantala di chiamarmi per nome!» «Dovrei gridarlo ai quattro venti!» «Dovresti aiutarmi, Pop, tesoro. Siamo stati imbrogliati tutti e due, in questa faccenda. Credevo che fossimo una squadra. Non è giusto abbandonare la partita quando il gioco si fa duro.» Lei si mise a girare per la stanza mormorando di continuo: «Accidenti, accidenti, accidenti!» In un certo senso andava bene... almeno non stava facendo i bagagli per andarsene. «Non capisco perché t'incazzi con me», osservò. «Io non ne sapevo niente.» Lei si girò di scatto verso di lui. «Te l'avevo detto che non avremmo dovuto fidarci di lui! Ne ero sicura. Non volevo accettare questo lavoro, ma tu mi hai ascoltato? No! Hai detto...» Paulie la lasciò continuare. Stava sbollendo. Fra pochi minuti, forse, si sarebbe scaricata del tutto. Ci volle più di qualche minuto, ma alla fine si calmò e si fermò in mezzo alla stanza, guardandolo in cagnesco. «Va bene», annunciò. «Ti darò una mano. Ma che Dio mi aiuti, questa è l'ultima volta che abbiamo a che fare con chi sai tu. Chiaro?» «Come il sole», rispose lui, avvicinandosi per concludere il patto con un bacio. Ma lei si scostò. «Devo andare a controllare la bambina. E i bambini non li posso assolutamente vedere. Te l'ho mai detto?» «Un miliardo di volte.» «Be', non sono cambiata.» «Ma non hai mai detto il perché.» «Non mi piacciono, ecco tutto. Se mi fossero piaciuti, adesso ne avrei qualcuno. Ma non ce l'ho. Non avrò mai bambini. Mai. Capito?» «Certo.» Cristo, si comportava proprio come una pazza. «Niente bambi-
ni. A me sta bene.» Cercò di alleggerire la tensione. «Comunque questa è solo in affitto. Fra pochi giorni la ridiamo indietro.» «Sarà meglio», fece lei. «Perché non ne so più di te, per ciò che riguarda il badare ai bambini. Che cosa devo fare?» «Assicurati che quando si sveglia non possa muoversi o parlare... come tutti gli altri pacchi.» «Magnifico, Paulie», ribatté con un'occhiata velenosa. «Legare una ragazzina. Proprio magnifico!» La osservò entrare nella camera grande. Stava per offrirsi di aiutarla, ma ci ripensò. Sembrava una gatta selvatica pronta a cavargli gli occhi, se le si fosse avvicinato troppo. Meglio starle lontano e lasciarla fare a modo suo... e da sola. 19 Poppy si avvicinò con precauzione alla massa informe che stava sul letto, avvolta nella coperta, come se potesse sollevarsi e morderla. Non voleva che si svegliasse. Una bambina. Fra tutte le possibilità, proprio una bambina, accidenti. Come se la sarebbero cavata, con una femminuccia piagnucolosa? Cautamente sollevò la coperta e diede un'occhiata. Una cosina magra magra. Con una divisa. Di una scuola privata, probabilmente. Una bimba ricca. Ma quel brutto basco rosso... dove l'aveva preso? Poppy si inginocchiò per poterla guardare in viso. Rotondo, abbastanza bellino, con le labbra sporche di cioccolata. Bei capelli... lunghi, scuri, con le treccine. Si chiese di che colore avesse gli occhi, ma non aveva nessuna intenzione di sollevarle una palpebra per controllare. Mentre si inginocchiava, fissando la bambina, fu colta da uno strano pensiero. Quanti anni avrebbe avuto, Glory? Press'a poco la stessa età. Poteva essere simile a quella cosina? Aveva i capelli scuri e... Poppy si sporse e sollevò una palpebra alla bambina, solo il tempo necessario per vedere il colore degli occhi, poi la lasciò ricadere. Azzurri... proprio come quelli di Glory... Si riscosse. Era una cosa che non le faceva per niente bene. Da anni non pensava più a Glory... non si era permessa di pensarci. Glory non c'era più. Da tanto tempo. E non poteva tornare. Si sforzò di trovare il modo di legare, imbavagliare e bendare una bambina di sei anni. Le attrezzature che avevano erano per adulti.
20 «Accidenti!» Snake batté il palmo contro il Dataphone (in quel momento si trovava al Mayflower Hotel), e per poco non lo staccò dalla parete. Si guardò intorno. Un tizio che attraversava l'atrio si era fermato a fissarlo per un istante, poi aveva continuato a camminare. Probabilmente aveva pensato che stesse parlando con l'agente di cambio. Frenò la propria rabbia. Dopotutto, si collegava tramite quei telefoni d'albergo proprio per evitare di essere scoperto. L'ultima cosa che voleva era fare una scenata. Ma, accidenti, avrebbe sul serio desiderato sfondare lo schermo blu del Dataphone con la mano guantata. Rilesse la posta elettronica di VanDuyne sullo schermo del portatile, tanto per essere sicuro di non avere un'allucinazione, poi salvò il messaggio nel proprio disco fisso. La bambina era epilettica, maledizione! Tutte quelle eccellenti informazioni riservate su VanDuyne e la sua marmocchia, e neppure una parola sull'epilessia o sulla medicina che doveva prendere. Un pacco difettoso... il peggiore di tutti! Gli stava bene, dato che si era impegnato con qualcuno che non conosceva. Uno: non avrebbe mai dovuto toccare un cittadino onesto. Due: mai e poi mai la figlia di un cittadino onesto. Tre: non avrebbe mai dovuto sequestrare un pacco difettoso, sarebbe potuta andare storta qualsiasi cosa. Che cos'aveva in mano, adesso? La figlia malata di un cittadino onesto. Avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto... Si scollegò dal telefono e si allontanò prima di commettere qualche stupidaggine. Dopo essersi calmato andò a un altro telefono e chiamò il numero privato di Salinas. «Il Giardinello.» Snake si era aspettato che rispondesse il tirapiedi di Salinas, Allen Gold, ma quella voce aveva un accento molto evidente. «Sono io», ringhiò con rabbia. «Di' al tuo capo che il pacco è stato ritirato, ma è difettoso. Digli che voglio parlargli subito.» «Difettoso? Che cosa...?» «Lo dirò a lui. Spiegherò tutto una volta sola.» «Resta in linea.» Snake attese quello che gli sembrò un tempo lunghissimo, prima che il
tizio tornasse al telefono. «Adesso non c'è, ma sta arrivando. Dice di darmi il tuo numero e di aspettare là. Richiamerà quando arriverà.» Snake lesse il numero sull'apparecchio e riagganciò, poi si rilassò e attese. Non doveva ringhiare durante la conversazione imminente. Carlos Salinas non gli piaceva, non si fidava di lui e non avrebbe lavorato con lui, se avesse potuto scegliere, ma non si sbraitava con un tipo che aveva le mani in pasta nella maggior parte del traffico di droga a est del Mississippi. 21 Là dentro, puzzava. Carlos Salinas riusciva appena a respirare, nell'aria umida, pesante, sulfurea. E il bagliore delle potenti lampade al sodio gli perforava gli occhi anche attraverso le lenti scure. Eppure era impressionato, e molto. Si era recato in quel minuscolo appartamento nella parte sudorientale di Washington per vedere quali fossero realmente le possibilità di concludere un affare. E aveva trovato... un miracolo. «Guardate il mio ibrido nano», disse il loro ospite, un ex hippy magro, barbuto, di mezza età, con in testa un cappello da cow-boy, che si presentava come Jeff. Carlos sapeva che in realtà si trattava di Henry Walters, di quarantacinque anni, che abitava dalle parti di Dupont Circle e aveva fatto lo spacciatore indipendente di droga (solo allucinogeni) per la maggior parte della vita. «Lo chiamo 'Ibrido Lizard King Indica'. Guardate quei boccioli. Li ho clonati appena sei settimane fa e si potrebbe già cominciare il raccolto.» Carlos fissò il «mare verde» (il termine era di Jeff) e si stupì. Tutto il soggiorno era pieno di piante alte circa quarantacinque centimetri, con foglie seghettate e sommità pelose (Jeff le chiamava calici), che ondeggiavano avanti e indietro nell'aria mossa da tre ventilatori. Erano stipate in piscine per bambini posate su piattaforme metalliche. Le finestre erano sigillate da veneziane, nastro isolante e pesanti tende. Tubi di gomma serpeggiavano da una pianta all'altra, fornendo acqua e fertilizzante; alcuni caloriferi tenevano calde le radici, mentre alcune lampade al sodio le illuminavano con una luce artificiale ventiquattr'ore su ventiquattro. Un grande serbatoio metallico manteneva l'aria ricca di anidride carbonica per garantire il miglior livello di crescita. «E il bello dell'operazione», osservò Jeff, «è che è tutto computerizzato. La stanza è munita di sensori che regolano livello di luce, temperatura, u-
midità, anidride carbonica e acqua. Il modem del computer mi permette di controllare i miei mari verdi da una cabina telefonica, e un'interfaccia intelligente mi consente di effettuare qualsiasi cambio durante il collegamento. Ho munito i locali di rivelatori di movimento, quindi posso sapere se qualcuno si è introdotto a forza. E infine tutti i computer sono infettati dal Deicida, un virus che cancella l'hard disk se qualcuno non autorizzato cerca di introdurvisi.» «Sembra che tu abbia pensato a tutto», osservò Carlos. Era in un bagno di sudore. Una persona del suo peso non dovrebbe frequentare la giungla, nemmeno all'interno di una stanza. Ma nonostante il disagio era quasi ipnotizzato dal delicato ondeggiare delle foglie e dei calici. Sembravano... felici. Dove mai si trattavano così bene delle piante? Per un attimo fu travolto da un'ondata di nostalgia. Il suo primo contatto, nel mondo della droga, era stato con la marijuana. Molte notti senza luna sulla spiaggia a ovest di Cartagena, a trasferire balle di Colombian Red dai camion ai motopescherecci diretti alla costa del Golfo statunitense. Era il prodotto più redditizio, negli anni Settanta, quando la marijuana coltivata in America era di qualità molto scarsa. Il contrabbando l'aveva nel sangue. Dopotutto era un basco di Spagna. I suoi antenati avevano abbandonato il vecchio continente nel diciassettesimo secolo e si erano stabiliti nelle Ande, nella provincia di Antioquia, vicino a quella che sarebbe diventata la città di Medellin. Quando la Spagna aveva stabilito il prezzo dell'oro in Colombia, i suoi antenati l'avevano contrabbandato in Giamaica, dov'era più alto. Nel corso dei secoli era diventata una tradizione di quella provincia: fare uscire di soppiatto caffè, smeraldi e chinino; far entrare apparecchiature elettroniche, elettrodomestici e profumi, evitando i proibitivi dazi di importazione. Fedele a un'altra tradizione, suo padre l'aveva cacciato di casa quando aveva sedici anni e gli aveva detto: «Se hai successo manda dei soldi; altrimenti non tornare mai più». Aveva avuto successo. «Sì, la tecnologia è magnifica», stava dicendo Jeff, e Carlos fu riportato al presente. «Ma sono le piante a essere del tutto straordinarie: quasi due chili di sensemilla di prima qualità ogni cento. Roba di classe, non come quella che fumavo io all'inizio, capito? Quella conteneva sì e no l'uno per cento di THC, tetraidrocannabinolo. La Lizard King è roba da intenditori, ne contiene il quattordici per cento. Ti manda su di giri in modo fantastico. Ti fa guadagnare come minimo diciassette dollari per grammo.» «Quante piante ci sono in questa stanza?» chiese Carlos.
«Duecento.» Carlos lanciò un'occhiata ad Allen Gold, il suo sparuto amministratore con la faccia da lupo. «Allen?» Gold era in piedi vicino alla porta, con le braccia incrociate sul petto dell'abito di Armani, e le lampade al sodio traevano riflessi dai capelli biondi e dalla montatura metallica degli occhiali. «Fa sessantacinquemila dollari per ogni raccolto», annunciò senza esitazione. «Con circa otto raccolti l'anno, si può calcolare mezzo milione di dollari per ogni stanza, all'anno.» Carlos guardò Jeff. «Una bella somma. Perché hai bisogno di me?» «Voglio ingrandirmi», rispose lui. «L'erba è un'industria da più di trenta miliardi e non riesco a produrne abbastanza da accontentare la clientela. Sono pronto a passare ai magazzini. Pensa, un mare verde di quasi duemila metri quadri. Megagalattico!» «Non hai paura che il presidente Winston legalizzi il tuo prodotto?» «Non ci riuscirà mai. Questa è un'industria in crescita e ho bisogno di un banchiere, di qualcuno che abbia delle buone entrature... sai, per la sicurezza e cose simili. Quell'uomo sei tu.» Il cellulare di Allen squillò prima che Carlos riuscisse a rispondere. Il giovane dottore in Economia e commercio assunse un'espressione preoccupata, mentre mormorava qualche monosillabo nell'apparecchio. «Tutto a posto?» gli chiese mentre questi si voltava verso di lui. «È Llosa», rispose. «Ha ricevuto una telefonata dal nuovo appaltatore a proposito di un pacco difettoso. Insiste per parlarti subito.» Difettoso? Carlo sentì un'improvvisa contrazione allo stomaco. Era andato storto qualcosa? La bambina era stata ferita? Sperava di no. «Di' a Llosa che si faccia dare il numero e gli dica di aspettare dove si trova. Lo richiamerò dall'ufficio.» Mentre Gold riferiva le istruzioni, Carlos si diresse verso la porta. «Dobbiamo andare», annunciò. «Non dici niente?» obiettò Jeff. «Ho corso un rischio, a farti venire.» «Ci metteremo in contatto con te.» «Gradirei avere una riposta piuttosto presto. Dopotutto, non sto ringiovanendo.» «Devi essere paziente», lo esortò Carlos stringendogli una spalla con delicatezza. «Altrimenti potresti preoccuparti di non invecchiare, eh?» Jeff impallidì. «Ehi, non intendevo...» «Ci metteremo in contatto», ribadì Carlos con un ghigno truce mentre usciva all'aria più fresca, più respirabile, dello sporco corridoio. Non gli
piaceva che gli mettessero fretta. «Il nostro amico ha riferito qualche particolare che non mi hai riportato?» chiese a Gold quando furono sistemati sulla macchina, mentre l'autista li riportava a Georgetown. Gold scosse la testa. «No. È stato piuttosto enigmatico, accidenti.» La sua voce prese un tono piagnucoloso. «Come tutta questa faccenda del sequestro, del resto. Se mi avessi informato della situazione generale, avrei potuto essere utile.» Per quanto Carlos avesse una fiducia estrema in Gold, la «situazione generale» gliel'aveva tenuta nascosta. «Ogni cosa a suo tempo, Allen. Dimmi piuttosto che cosa ne pensi di quella piccola dimostrazione.» In realtà Carlos non desiderava parlare di marijuana, era molto più preoccupato per il difetto del pacco che aveva ritirato MacLaglen; ma non voleva ascoltare i piagnistei di Allen a proposito della fiducia che in quell'occasione non gli era stata concessa. «Una sistemazione come quella in un magazzino potrebbe essere molto lucrosa. Ma spero che tu non prenda in considerazione l'idea di investire...» «Io no», lo interruppe Carlos. «Ma posso metterlo in contatto con persone che hanno soldi...» «E prendere una percentuale.» Gold sorrise. «Così mi piaci. Per un attimo ho temuto che pensassi di rimetterti a trattare il prodotto.» «No.» Carlos scosse lentamente il capo. «Ne ho trattato più che abbastanza, ai miei tempi.» Per quanti anni era stato in attività? Di certo almeno metà della vita, e stava avvicinandosi ai cinquant'anni. Il suo primo contatto con la cocaina era avvenuto quando si era messo con un compaesano, Pablo Escobar, che trasferiva chili di polvere bianca dal Cile agli Stati Uniti dentro pneumatici di ricambio. Allora la coca aveva un mercato piuttosto ristretto, ma tutto era cambiato quando Pinochet aveva preso il potere, nel 1973. I raffinatori di cocaina erano fuggiti in Colombia, fra le braccia di Pablo Escobar e di Jorge Ochoa... proprio quando il consumo della coca aveva avuto un boom negli Stati Uniti. La Colombia, Medellín, il mondo, specialmente il mondo di Carlos, non sarebbero più stati gli stessi. Aveva fatto la sua parte di corriere della droga, lavorando con Los Pablos, ma con l'andar del tempo era diventato il paciere del gruppo. Aveva
scoperto di essere tagliato per riunire le fazioni in guerra, farle stipulare un accordo e far credere a ognuno che la parte avversa aveva fatto concessioni maggiori. E quindi, quando nell'aprile del 1981 Jorge Ochoa, El Gordo, il Grassone, aveva indetto un summit di tutti i trafficanti di cocaina più importanti, era stato naturale, per Pablo Escobar, mandare Carlos Salinas a rappresentare i propri interessi. 18 aprile 1981. Carlos non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui era atterrato sulla pista privata di Ochoa, nella sua tenuta sulla costa caraibica vicino a Barranquilla. Il Ciccione li aveva accolti di persona e li aveva accompagnati sino alla casa padronale. L'hacienda Veracruz, come Ochoa aveva battezzato la tenuta, aveva le dimensioni di una piccola provincia, con un suo zoo particolare e una stalla piena di preziosi caballos de paso, una razza molto pregiata di cavalli. I trafficanti erano arrivati divisi in fazioni concorrenti, come signori feudali che volevano proteggere a tutti i costi i propri territori; se ne erano andati con un accordo per consorziare risorse e prodotti nello sforzo congiunto di assicurarsi che sul loro mercato maggiore, gli Stati Uniti, le linee di fornitura restassero bene aperte. In seguito gli americani avrebbero affermato che la riunione aveva segnato l'inizio del cartello di Medellín. Era vero, riteneva, ma nessuno di loro aveva mai detto di far parte di un cartello. Erano la compañía. «Chiamalo», Carlos ordinò a Llosa mentre entrava nel lussuoso ufficio sul retro del ristorante. Questi compose il numero, poi gli passò il ricevitore del telefono stile Luigi XVI. Quando Carlos riconobbe la voce di MacLaglen non lo lasciò parlare, ma gli disse: «Resta in linea mentre controlliamo il collegamento». Fece cenno a Llosa di eseguire un'ispezione: lui era bravo. Mentre aspettava, Carlos Salinas agitò i suoi quasi centotrenta chili nella poltrona più grande del normale. La schiena gli doleva molto. Sebbene pochissime persone fossero a conoscenza dei suoi numeri privati, da anni Carlos non accettava telefonate in arrivo. Chissà da dove provenivano? Le sue indagini gli avevano assicurato che MacLaglen era prudente come lui, ma non ci si poteva più fidare nemmeno dei telefoni pubblici. L'America stava diventando uno stato fascista. Quasi come il suo paese di origine. Quindi richiamava sempre, usando la sua linea arcisicura, e mai un cellulare. Persino la sua linea di comunicazione era sospetta, quindi la con-
trollava e ricontrollava di continuo. Si chiese da quale dei suoi telefoni preferiti chiamasse MacLaglen. Conosceva le sue abitudini, le hall d'albergo e le cabine telefoniche che preferiva, i suoi complici, Paulie DiCastro e Poppy Mulliner. Probabilmente su Michael MacLaglen ne sapeva più di qualsiasi altro. Per quel lavoro Carlos avrebbe potuto usare qualcuno dei suoi compaesani. Dopotutto, i sequestri di persona erano un'arte, in Colombia. Ma aveva deciso che un americano sarebbe andato meglio. Non voleva che fosse coinvolto uno dei suoi, se qualcosa fosse andato storto. Carlos aveva sentito parlare di MacLaglen quando questi aveva sequestrato un trafficante di armi con cui era solito fare affari. Da quel momento l'aveva tenuto d'occhio, aveva visto come aveva trattato il sequestrato successivo, un contraffattore di videocassette. Molto bene. Aveva del talento. Avevano trovato l'uomo giusto. Llosa alzò lo sguardo dallo scanner e annuì. Prima di parlare, Carlos premette il pulsante del registratore. «Allora, Miguel, hai prelevato il pacco, mi hanno detto. Sono felicissimo che la prima fase sia stata completata.» Per quanto la linea risultasse pulita, Carlos riteneva che fosse meglio rivelare il meno possibile, per telefono. «Sì. Quella parte è andata bene. Ma il contenuto è difettoso.» «Così mi ha detto il mio socio. In che modo?» «Hai mai sentito parlare di epilessia?» «Epilessia?» Carlos si lisciò i baffi e lanciò un'occhiata a Gold. Epilessia? Aveva visto persone soggette a convulsioni dopo avere preso troppa cocaina. Era quello che faceva la bambina? «Stai dicendo che c'entra l'epilessia?» Gold era vicino alla finestra. Spalancò le braccia e si strinse nelle spalle, con l'espressione di uno che casca dalle nuvole. «Proprio così, accidenti», rispose MacLaglen. «Perché nessuno ne sapeva niente?» Buona domanda, pensò Carlos. Aveva ricevuto ottime informazioni riservate, sul Presidente e sul suo amico medico, e tutte gratis. Era seccato che fosse stata omessa una cosa tanto importante. Be', come si dice, tanto paghi e tanto ottieni. «O forse qualcuno lo sapeva», stava dicendo MacLaglen e Carlos sentì crescere la rabbia, «e si è dimenticato di avvisarmi?» «Calmati, Miguel. Nessuno si è dimenticato di dirti niente. Non so come, ma non ne siamo venuti a conoscenza. Dopotutto, non è una cosa che la gente ami mettere in mostra, Certo per un uomo del tuo talento non si
tratta di una difficoltà insormontabile.» «Non parlare così. È un problema serio. Rivela una buona dose di incapacità proprio alla fonte. Che cos'altro non sappiamo, señor?» «Ho la massima fiducia in te, Miguel. Tutto andrà bene.» «Occorrerà un maggior numero di contatti con il punto di origine del pacco. Più contatti ci sono, più è probabile che qualcosa vada storto.» Carlos stava perdendo la pazienza, con MacLaglen. Era ora di rimetterlo al suo posto. «Ho due parole da dirti, Miguel: pensaci tu.» Silenzio glaciale dall'altro capo del filo. Carlos lo lasciò durare per un po'. Aveva usato il bastone; era giunto il momento della carota. «Tra parentesi», soggiunse, «ti spetta la seconda rata. Puoi venirla a prendere oggi, e con l'occasione ti comunicherò la fase due.» «Sarò lì verso le cinque.» E la linea fu interrotta. «Manejate!» borbottò Carlos mentre riagganciava, poi si rivolse ad Allen Gold. «Il nostro amico è incazzato.» «Direi che ha tutto il diritto di esserlo», osservò lui. «È ingiustificabile. Ce l'avrebbero dovuto dire.» Si strinse nelle spalle. «Comunque, avrebbe potuto essere qualcosa di peggio. Se avesse avuto il diabete, MacLaglen avrebbe dovuto imparare a fare iniezioni di insulina.» Gold aveva ragione: avrebbe potuto essere peggio, ma era davvero ingiustificabile. Un cattivo servizio di informazioni poteva rovinare tutto. A Carlos sarebbe piaciuto punire adeguatamente il responsabile, ma la cosa non era realizzabile, dato che si trattava di una persona molto in alto in seno al governo degli Stati Uniti. «Più tardi arriverà MacLaglen, a ritirare la seconda rata.» «Bene», disse Gold prendendo un appunto sul blocco che portava sempre con sé. «Quante altre ce ne saranno?» «Una sola.» Gold fischiò. «Avrà bisogno di una carriola, per portare via tutti quei soldi in contanti.» «Non vedrà neppure un centesimo finché tutta la faccenda non sarà completamente finita.» «Su, Carlos, a che cosa serve questo sequestro di persona? Qual è il nostro scopo?» «Ogni cosa a suo tempo, Allen.» Si chiese se avrebbe mai potuto dirgli che lo scopo era quello di vedere il presidente Tom Winston morto o costretto ad abbandonare la carica. Carlos sospirò e si appoggiò all'indietro. Premette un pulsante per avvia-
re il massaggio automatico della parte inferiore della colonna vertebrale. Il calore e i pistoni imbottiti iniziarono ad alleviare il suo perenne mal di schiena. Ah, che piacere! Gli sarebbe piaciuto non dover portare da solo quel fardello, ma la faccenda era troppo delicata perché potesse confidarsi con qualsiasi altro, fosse pure Allen. Avrei dovuto rifiutare, pensò. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa, quando ho sentito parlare dei progetti di legalizzazione di Tom Winston. Ma come avrebbe potuto tacere? Ciò che minacciava il traffico della droga era un pericolo anche per lui. E minacciava ancora di più la compañía. Se solo non fosse stato El Mediador! Si era guadagnato quell'appellativo dopo il summit del 1981 all'hacienda Veracruz. In quell'occasione Carlos aveva fatto un'ottima impressione a Jorge Ochoa, tanto che El Gordo si rivolgeva sempre a lui quando la compañía aveva bisogno di qualcuno per sedare le risse fin troppo frequenti fra gruppi rivali. Era diventato El Mediador, il principale negoziatore della compañía. Trattava con i miserabili e con i pezzi grossi. Si era accordato con Cara de Piña Noriega per costruire dei laboratori di cocaina nelle giungle del Panama meridionale. Qualche tempo dopo aveva pagato i sandinisti perché concedessero l'uso delle loro piste di atterraggio agli aerei della compañía carichi di cocaina, come basi per il rifornimento di carburante. Per tutto il tempo aveva percepito la sua percentuale di prodotto, che rivendeva a Miami attraverso una sua rete di spacciatori. La vita era bella. Poi, nel 1988, era scoppiata la cosiddetta «guerra dei cartelli», e niente aveva potuto fermare lo spargimento di sangue. Carlos aveva cercato di ficcar loro in testa il concetto che c'erano miliardi per tutti, ma nessuno l'aveva ascoltato. Il suo vecchio amico Paulo Escobar era diventato matto e aveva dichiarato guerra al cartello rivale di Cali e addirittura al governo colombiano. Nelle strade di Medellín il sangue era corso letteralmente a fiumi. Carlos Salinas aveva assistito alla carneficina con crescente costernazione. Allora aveva una nuova moglie, la bella Maria, e avrebbe desiderato tenerla lontano dalla prima linea. Ma che cos'altro sapeva fare? Aveva deciso di approfittare della sua fama di mediatore per passare a un servizio ausiliario. Ma aveva bisogno di una guida. Quando aveva sentito parlare di un giovanotto che si chiamava Allen Gold, laureato di fresco in Economia e commercio a Wharton, arrestato per una faccenda di droga,
lo aveva tirato fuori di prigione e l'aveva assunto. Mediante varie coperture organizzate da Gold aveva cominciato a investire pesantemente nel capitale azionario di piccole banche indipendenti lungo tutta la Costa orientale. Una volta ottenutone il controllo, aveva cominciato a inserire i suoi uomini nel loro consiglio di amministrazione. La miglior mossa che avesse mai compiuto. Anche durante la guerra la polvere bianca aveva continuato a scorrere a fiumi, e lo stesso era accaduto ai profitti. E tutto quel denaro sporco aveva bisogno di essere riciclato. E chi era più affidabile del Mediador, Carlos Salinas? Anche quando la compañía di Cali aveva avuto la meglio su quella di Medellín, l'abilità di Carlos Salinas nelle trattative aveva continuato a essere molto richiesta. Nel 1992 Miguel Rodriguez Orejuela, uno dei leader di Cali, aveva chiesto il suo aiuto per l'approvazione del NAFTA, l'accordo di libero scambio tra i paesi del Nord America, da parte del Congresso. Carlos si era trasferito nella zona di Washington, e si era accertato che i soldi della compañía di Cali finissero nelle tasche giuste. Naturalmente aveva preso la sua percentuale e aveva ottenuto una gratifica quando il disegno di legge era stato approvato. Libero scambio... era magnifico. Non c'era più bisogno di piste aeree appartate e di voli rischiosi attraverso il confine. I messicani introducevano tutti i giorni nel Texas camion interi di prodotto colombiano. E Carlos Salinas aveva scoperto che Washington era molto più comoda di Miami, come centro di operazioni per le sue attività bancarie, specialmente con tutti gli amici altolocati che vi si era fatto durante le battaglie legislative per il NAFTA. La vita era ancora migliorata. Lo scenario del traffico di cocaina mutava da un anno all'altro, ma che importanza aveva? I boss andavano e venivano - Pablo Escobar era morto e la maggior parte dei leader della compañía di Cali erano in prigione - ma Carlos Salinas rimaneva. Gli arresti e le uccisioni avevano forse influenzato il traffico? Nemmeno un po'. L'unica conseguenza era stata che il potere delle compañías colombiane si era concentrato in un numero minore di mani, per la maggior parte in quelle di Emilio Rojas, ma non importava. Finché il traffico di droga fosse rimasto illegale, i profitti avrebbero avuto bisogno di essere riciclati. E Carlos era prontissimo a fornire il suo aiuto... in cambio di una percentuale, naturalmente. Ma per quel favore non avrebbe ricevuto semplicemente una percentuale. Per vanificare i piani del presidente Winston gli era stata offerta una ri-
compensa forfettaria: un miliardo di dollari. E se fosse riuscito nel suo intento sarebbe diventato ricco da far paura. Sarebbe diventato un mito. Se ce l'avesse fatta. Perché, se non ce l'avesse fatta... No, meglio non pensarci. Meglio pensare a come l'occasione di diventare un mito gli fosse capitata dieci settimane prima, quando aveva ricevuto una serie di telefonate anonime. Era stato usato un apparecchio per alterare la voce, ma alla fine Carlos aveva saputo di chi si trattava e ne era rimasto scioccato. Era un uomo che nessuna quantità di denaro avrebbe potuto comprare, eppure gli stava fornendo informazioni sui progetti del Presidente. Sulle prime Carlos non gli aveva creduto. Legalizzare le droghe? Tutte le droghe? Impossibile... inimmaginabile! Non si sarebbe mai potuto realizzare. Doveva essere un trucco, un piano assurdo per tendergli una trappola. Aveva riferito le informazioni, insieme con i suoi timori, a Emilio Rojas, il capo della compañía di Cali. All'inizio lui l'aveva preso in giro, poi aveva iniziato a indagare utilizzando le molte fonti di informazioni della compañía persino alla Casa Bianca, e aveva appreso che era vero. Non solo marijuana e allucinogeni presi occasionalmente, ma tutte le droghe, cocaina compresa. Quanto avevano riso, allora, pensando che, a prescindere da ciò che voleva quel Presidente loco, pazzo, gli americani non avrebbero mai accettato una cosa simile. Poi, mentre giungevano altri particolari dai pezzi grossi che conosceva Carlos, la compañía aveva cominciato a svolgere ricerche in maniera più seria. E ciò che era venuto a sapere aveva fatto sì che tutti se la facessero sotto dalla paura. Emilio Rojas si era recato di persona negli Stati Uniti per incontrarsi con Carlos. Emilio era venuto apposta per lui. Carlos ricordava di essersi trovato solo con lui in quella stessa stanza, ad ascoltare con lo stomaco contratto ciò che gli diceva Rojas del piano che prometteva una riduzione della criminalità e minori tasse, sostenuto dai media, dalle industrie farmaceutiche e dagli stati produttori di tabacco quel Thomas Winston avrebbe potuto anche farcela. Forse non una depenalizzazione completa, ma un passo in questa direzione che avrebbe alla fine annullato la maggior parte delle leggi contro le droghe. E tutto il mondo avrebbe di certo seguito l'America, come al solito. Rojas aveva ammesso che per un momento lui e la compañía si erano lasciati prendere la panico. Ma quando si erano calmati si erano messi a fare
progetti. Avevano esaminato tutte le possibilità. Nessuna somma sarebbe stata troppo grande. Come avrebbe potuto esserlo? Con un profitto di miliardi di dollari ogni mese, avrebbero speso qualsiasi importo fosse stato necessario. Sebbene Rojas avesse cercato di apparire calmo e fiducioso, Carlos era stato in grado di percepirne la paura e la rabbia. Non era una delle solite risse per ottenere una fetta maggiore del mercato, era una battaglia per la sopravvivenza. Quel gringo venuto dal nulla, quel Thomas Winston, avrebbe potuto spazzare via il loro impero mondiale con un semplice tratto di penna. Carlos era d'accordo: bisognava fermarlo. Ma come? Il primo pensiero fu una pallottola, ma quella soluzione era stata scartata subito. Morto ammazzato, Winston sarebbe diventato un martire, e quella era l'ultima cosa che desideravano. Li sentivano già: «Un eroico Presidente è stato abbattuto dai malvagi signori della droga. Dobbiamo continuare il suo progetto coraggioso ed eliminare quei criminali tanto potenti e arroganti da uccidere il Presidente per non perdere i loro sporchi guadagni! Non lasciate che i signori della droga ottengano ciò che vogliono! Onorate l'impegno del nostro Presidente assassinato! Legalizzate subito la droga!» No... un presidente Winston reso martire sarebbe stato un nemico più pericoloso di quanto non lo fosse da vivo. Dovevano fare in modo che sembrasse un incidente... o fosse ascrivibile a un suo difetto. La compañía aveva esaminato al microscopio il passato di Winston e aveva trovato molti esempi di giovanile esuberanza, ma niente che potesse screditarlo. Era sembrato un caso disperato finché... ...finché la fonte misteriosa di Carlos non aveva scoperto un elemento che Winston pensava di avere cancellato. Un ente statale l'aveva disseppellito in un controllo delle sue origini la prima volta che lui si era presentato candidato a una carica pubblica, poi l'aveva archiviato. Carlos l'aveva riferito, attribuendovi poca importanza. Invece era risultato molto rilevante. E quindi Rojas e lui si erano rivisti in quella stanza molto sicura e avevano organizzato un piano terribile ma stupendo. «Riguarda la depenalizzazione della droga, vero?» chiese Gold. Carlos fu distolto dalla sua fantasticheria. «Che cosa intendi dire?» «Il sequestro. L'hai tenuto in sospeso per settimane, poi, non appena il Presidente ha parlato, ieri sera, bam! hai chiamato MacLaglen al telefono. Dev'esserci un collegamento.»
Sono stato tanto limpido? si domandò Carlos mentre si alzava a fatica e si metteva a girare per l'ufficio. O davvero Gold era tanto intelligente? Era quella la ragione per cui l'aveva assunto. Sapeva che Allen non sarebbe stato affatto turbato da un complotto contro il Presidente, ma meno persone erano al corrente della cosa meglio era. Un vecchio detto del suo Paese era: tre uomini possono mantenere un segreto... se due sono morti. Si fermò davanti a una foto di Richard Nixon. Era dedicata a un altro, ma non importava. Quello che importava era l'uomo. «Una persona insignificante come Thomas Winston non mi preoccupa. Non ha un briciolo di coraggio.» Indicò la foto di Nixon. «Come può avere la faccia tosta di occupare la stessa carica di quest'uomo? Questo sì che era un Presidente!» «Nixon?» fece Gold alzando la voce di un'ottava. «Era uno stupido.» Carlos si voltò quanto più rapidamente gli consentiva la sua mole e puntò un dito contro Gold. «Devi mostrare rispetto, quando parli di un uomo come quello. È il Presidente che ha dichiarato per primo la guerra alla droga, nel 1972. Non saresti qui, se non l'avesse fatto. Non indosseresti quell'elegante vestito e non guideresti quella macchina tedesca di lusso che ti piace tanto. A quest'uomo devi tutto... a lui e a tutti i presidenti che hanno continuato la stessa battaglia dopo di lui. Quelli erano uomini!» Carlos si girò di nuovo verso la foto di Nixon e ne fissò il viso sorridente. «Perché Winston non può fare come gli altri? Seguire le loro orme? No, è un vigliacco, un hijo de puta che rovinerà tutto!» «Non ci riuscirà, assolutamente. L'unica cosa che rovinerà sarà la sua carriera politica.» Se solo sapessi quello che so io, pensò Carlos. Ritornò alla scrivania e si lasciò cadere sulla poltrona. Il massaggio automatico era ancora in funzione. Spinse contro lo schienale la schiena, ma il giovamento fu scarso. Avrebbe dovuto chiamare quella ragazza cinese, l'unica che sapesse togliergli la sofferenza. Quando gli passeggiava lungo la spina dorsale con quei suoi piedi minuscoli e lo massaggiava con gli alluci lo mandava al settimo cielo... Era la donna più desiderabile a cui riuscisse a pensare dopo sua moglie. Il pensiero di Maria lo rattristò. L'aveva conosciuta in occasione di un viaggio a casa. Allora era una ragazza, aveva sì e no vent'anni. Era una colombiana pura come lui, con una linea genealogica in grado di risalire fino agli antenati che vivevano in Spagna. Per la prima volta in vita sua Carlos
si era innamorato. Le aveva fatto la corte, l'aveva sposata e l'aveva portata negli Stati Uniti. Per dieci anni aveva conosciuto la felicità. Poi Maria aveva cominciato a cambiare. Era diventata triste, infelice. Si era trasferita in un'altra camera da letto, e tre settimane prima aveva affittato una villetta a schiera a Georgetown e vi si era trasferita. Carlos non avrebbe mai pensato che una donna potesse sconvolgerlo tanto. Ma non l'aveva perduta. Era una faccenda provvisoria. Sarebbe tornata. Avrebbe potuto costringerla a tornare, naturalmente, ma a che cosa sarebbe servito? Non voleva trasformarsi nel suo carceriere. Però era diventato il suo cane da guardia, la faceva sorvegliare notte e giorno. «Quali sono le ultime notizie da P Street?» chiese ad Allen. Lui alzò le spalle. «Fa shopping. Visita i musei. Fa altre spese. Va in biblioteca. Fa acquisti. Si è iscritta a un corso presso la Georgetown University...» «Quale?» «Qualcosa del programma di studi per le donne. Il nome esatto è scritto nel rapporto. Vuoi che...» «Non importa.» Sospirò. «Niente uomini?» Allen scosse il capo. «Né donne. Sembra che sia diventata una specie di monaca... con una carta di credito dell'American Express.» Carlos strinse i pugni per la delusione. La perra! Non la capiva. Invece sì, la capiva benissimo. Sapeva qual era il problema: gli Stati Uniti. Stava corrompendosi. Stava diventando americana. Doveva allontanarla dai talk show, dalle soap opera e dalle riviste che le mettevano in testa strane idee. Doveva riportarla a casa, in Colombia, che le piacesse o no. Una volta terminata quell'operazione, quando sarebbe diventato miliardario, avrebbe acquistato una proprietà ancora più grande di quella di Jorge Ochoa e vi avrebbe allevato caballos de paso magnifici, come aveva fatto il padre di lei. E là, di nuovo in patria, lei avrebbe rimesso la testa a posto. Sarebbe tornata la sua Maria. Ma dipendeva dal rovesciamento del presidente Winston. Bisognava sbarazzarsi di quel cabrón: tutto dipendeva da quello. Carlos prese il telecomando e lo schermo da sessanta pollici si accese sibilando. Vide due politici dal volto vagamente familiare, uno bianco, uno di colore, dietro un podio in quella che sembrava una conferenza stampa. «A proposito della politica che fa costituire strane coppie», osservò Gold. «Signore, Jessup e Wagner a fianco a fianco. Non cambiare.» Le scritte identificavano il nero come «membro del Congresso Floyd
Jessup - democratico di New York» e il bianco come «membro del Congresso Quincy Wagner - repubblicano della Carolina del Sud». Cercavano di superarsi nel criticare con ferocia il Presidente. Jessup gridava di «genocidio a un livello tale da far sembrare Adolf Hitler uno sterminatore da strapazzo!» mentre Wagner ammoniva a proposito della «distruzione della stessa fibra morale dell'America!» Gold stava ridendo. «La prima volta che vedo quei due d'accordo su qualcosa! È impressionante!» «Allen», gli disse Carlos, «vorrei che scoprissi dove si mandano i fondi per la campagna elettorale di quei due e spedissi a entrambi un assegno di duemila dollari, con un biglietto che li esorti a continuare il buon lavoro e a intensificare la guerra alla droga.» Gold annuì, continuando a ridere. «Sì, mi piace! Li addebiterò al conto corrente del ristorante. Non che ci sia bisogno di contribuire, neanche con un centesimo voglio dire, non possono fallire, ma mi piace l'ironia della cosa.» «E a me piace assicurarmi bene.» Carlos fece un po' di zapping, senza sapere che cosa stesse cercando. Qualcosa che lo aiutasse a tastare il polso alla nazione. Le proiezioni della compañía avevano previsto quella reazione iniziale piena di rabbia, ma affermavano che sarebbe stata seguita da un generale raffreddamento dei sentimenti quando gli esperti di relazioni pubbliche dei media e l'amministrazione avrebbero iniziato a convincere con le loro magie il pubblico e il Congresso. Si fermò su un canale in cui un uomo stava su un palcoscenico con un cartello in cui spiccava la parola DROGHE circondata da un cerchio rosso, con una riga pure rossa che l'attraversava. Sulla parte bassa dello schermo lampeggiava un numero verde. Riconobbe il reverendo Bobby Whitcomb. Tutti lo conoscevano. Negli ultimi due anni la sua influenza nel fondamentalismo cristiano era cresciuta notevolmente. In fondo al palco, dietro il cartello, si trovavano tre file di telefoni con centraliniste indaffarate. «Sembra un Telethon», osservò Gold. Il reverendo Whitcomb stava in piedi sull'orlo del palco, barcollando, con il microfono premuto contro le labbra, la mano libera che si agitava mentre alla lettera schiumava di rabbia. «...e vi dico che non potremo più vivere, lavorare o giocare sotto gli occhi del Signore se permetteremo che accada una cosa simile! Non potremo tenere alta la testa quando entreremo nella casa del Signore. In realtà Lui non porgerà orecchio alle nostre preghiere se non cacceremo quell'uomo
malvagio dalla Casa Bianca! Se non ripudieremo quell'uomo come capo della nostra nazione!» Il pubblico dello studio si alzò, applaudì, agitò le braccia. «E quindi dovete dare la vostra offerta subito! Date quello che potete, perché possiamo far partire immediatamente queste petizioni e inviare i nostri diaconi in ogni parte della nazione a raccogliere firme che richiedano l'impeachment del presidente Thomas Winston!» Durante lo scoppio successivo di entusiasmo, Gold si rivolse a Carlos. «Un impeach-a-thon! Devi lasciare che telefoni per impegnarmi a una donazione. E grossa. Devo farlo.» «Grossa quanto?» «Diecimila. Per una buona assicurazione è un ottimo metodo.» Carlos fu colto di sorpresa. «Diecimila dollari? Perché mai?» «Per ottenere la sua attenzione ci vogliono cinque cifre. Vedrai. Sarà uno spasso.» «Molto bene. Fa' pure.» Sullo schermo un coro in tunica cantava The Battle Hymn of the Republic; Carlos osservò Gold comporre il numero verde. Quando cominciò a parlare sfoggiò un accento decisamente del Sud. «Pronto? Parlo con il reverendo Whitcomb? Be', voglio parlare proprio con lui. Non mi dire che è impossibile, tesoro. Certo che è possibile. I diecimila che ho da dare dicono che lo è. Esatto. Diecimila dollari come offerta perché quel pagano che parla come Satana, che sniffa coca, che fuma erba, che si buca di ero venga cacciato dalla Casa Bianca. Ma non li avrete se non parlerò personalmente con il reverendo. Esatto. Sono Sinus... Billy Bob Sinus. Bene. Bene. Aspetto.» Ridacchiando come uno scolaretto, coprì il ricevitore con una mano e annunciò a Carlos: «Funziona! Sto aspettando che me lo passino!» Lui si chiese se il suo giovane mago della finanza non avesse assaggiato qualche campione dei prodotti. Gold tolse la mano e parlò nella cornetta. «Sì? Abbassare il televisore? Bene.» Coprì di nuovo il ricevitore e parlò a Carlos. «Devono avere un riverbero. Andrò nell'altra stanza. Tu continua a guardare.» Uscendo premette il pulsante della registrazione. Sullo schermo, il coro si interruppe bruscamente un istante dopo, a metà di una nota, e la telecamera si spostò sul reverendo Whitcomb. La rabbia di un momento prima sembrava del tutto dimenticata e lui sfoggiava un largo sorriso. «Sia lodato il Signore! In linea c'è un'anima buona che vuole
fare un'offerta per la causa.» Si portò all'orecchio un ricevitore. «Pronto? Con chi parlo?» Carlos riconobbe a stento la voce che usciva dall'altoparlante. «Reverendo Whitcomb, è proprio lei? Sia lodato il Signore! Che emozione! Io sono Billy Bob Sinus di Washington e guardo sempre il suo show. Lei è davvero la voce del Signore!» «Grazie, Billy Bob.» «Voglio aiutarla nella lotta contro quel Satana della Casa Bianca.» «Molto gentile da parte tua, Billy. In che modo?» «Con un contributo di diecimila dollari.» Il pubblico scoppiò in un applauso, mentre il reverendo Whitcomb sollevava le braccia e alzava gli occhi al cielo. «Sia lodato il Signore!» «Lo combatta, reverendo Whitcomb», sentì dire Gold al di sopra del chiasso. «Lo combatta finché non sarà ricacciato nelle fiamme dell'inferno da cui è venuto!» «Lo farò, Billy Bob!» esclamò il reverendo. «E con il generoso aiuto di persone buone come te vinceremo!» «Lo calpesti, reverendo Whitcomb. Calpesti quel Satana di Presidente fino a seppellirlo sottoterra, e vi sparga sopra del sale, in modo che non possa risollevarsi mai più!» «Grazie, Billy Bob. Questo...» «Lo inghiotta, reverendo. Inghiotta quell'Anticristo, lo mastichi per bene e lo sputi fuori e poi...» La telecamera si riportò sul coro, che riprese nel punto esatto in cui si era interrotto, mentre Gold ritornava nella stanza. Si lasciò cadere sul divano, ridendo così forte da non riuscire quasi a respirare. Anche Carlos si concesse una risata, un breve sollievo dalla tensione che gli faceva dolere così inesorabilmente i muscoli della schiena. Tante cose dipendevano da quella faccenda... tante... Quando infine smise di ridere, Allen si sollevò e si asciugò gli occhi. «Oh, mio Dio! Non ricordo di essermi mai divertito tanto!» «La posta in gioco è piuttosto alta, per divertirsi, non è vero? Riderai ancora, se il Presidente avrà la meglio?» «Questo potrà succedere quando nevicherà all'infermo.» «Lo spero», disse Carlos. Ma non posso starmene senza fare niente e contare sugli estranei, pensò.
22 Prima di dirigersi verso casa, John vagò in auto per un'altra mezz'ora. Vedeva tutto sfocato. Guidava automaticamente, incapace di pensare a qualcos'altro se non a Katie, se era viva e come la trattavano. Se in seguito gli avessero chiesto dov'era andato, dubitava che sarebbe stato in grado di rispondere. Infine si costrinse a ragionare, a concentrarsi. Doveva riprendersi ed escogitare qualche scusa da raccontare alla madre per spiegare la ragione per cui era uscito prima dall'ufficio e non sarebbe andato a prendere Katie alla fermata dello scuolabus, quel pomeriggio. Avrebbe dovuto essere una scusa davvero convincente. A sua madre sarebbe bastata un'occhiata per capire che qualcosa non andava. Quando svoltò nel vialetto aveva escogitato una ragione per il ritorno a casa. Ma per quanto riguardava Katie... Se solo fosse stato in grado di pensare! Appena entrato fu accolto da un fuoco di fila di domande. «John? Sei tornato? Che cos'hai?» Lui si massaggiò lo stomaco. «Un piccolo attacco di gastroenterite. Ce l'hanno un po' tutti al dipartimento. Mi ha preso subito appena dentro.» «Hai un aspetto terribile», osservò lei, scrutandogli il viso. «Mi sento peggio di quel che sembra, credimi.» «Posso portarti qualcosa? Un po' di minestrina?» «Grazie, ma non potrei mandar giù niente.» Almeno quello era vero. «Credo che berrò solo un po' di 7-Up e me ne andrò a letto.» «Va' di sopra. Te la porto io.» «Non importa, la prendo da solo.» Andò in cucina e si versò un bicchiere dalla bottiglia da tre litri che stava nel frigo. La madre lo seguì passo passo. «Guarirò presto, mamma. Queste faccende non durano più di ventiquattr'ore, poi spariscono senza lasciare traccia.» La lasciò ai piedi delle scale: lo fissava sfregandosi ansiosamente le mani. Che cosa avrebbe dovuto dirle, a proposito di Katie? Non era certo una sciocca. Averla sempre lì a dare una mano era una tale benedizione, ma in quel momento avrebbe preferito che fosse tornata ad Atlanta. Gli venne un'idea. Arrivato in cima alle scale, si girò. «Credo che mi stenderò sul divano dello studio», la informò. «Voglio seguire la seduta del Senato, e posso prenderla sulla C-SPAN.»
«Spero che ti rimetterai», disse lei torcendosi le mani. «Starò bene, mamma.» John chiuse la porta dello studio e si diresse subito verso il computer. Non era il massimo, né per velocità né per potenza, ma era più che sufficiente per le sue necessità casalinghe. Dopo essere entrato in carica alla Sanità aveva provveduto a collegarlo con quello del ministero, in modo da poter avere accesso ai file anche da casa. Non ne aveva approfittato granché, ma in quel momento quella possibilità rappresentava una benedizione del cielo. Appena l'apparecchio entrò in funzione si collegò con la Sanità, inserì il proprio numero di identificazione e attese l'apparizione dell'icona della posta elettronica. Nessun messaggio. Era lo stesso. Aveva pensato a molte cose che non aveva inserito nel primo invio. Accese la televisione e la sintonizzò sulla C-SPAN, poi cominciò a scrivere. La cosa di cui aveva bisogno più di tutto era la prova che Katie fosse viva. Per quanto fosse sconvolgente il fatto che l'avessero rapita, la paura che fosse morta era assolutamente insopportabile. Doveva sapere. E l'unico modo era parlarle. Sarebbe stato difficile organizzare una cosa simile? Farla arrivare a un telefono, farle pronunciare qualche parola? Avrebbe saputo che era viva e avrebbe potuto concentrarsi su ciò che doveva fare perché tornasse a casa. Decise di adottare un tono conciso, da uomo d'affari. Snake, addendum al messaggio di posta elettronica precedente: devo assolutamente avere la prova che Katie è viva. Volete un favore da parte mia, e va bene. Ma in cambio voglio indietro mia figlia... sana e salva. Per quello che ne so, potrebbe essere già morta e sepolta da qualche parte. Fu costretto ad appoggiarsi allo schienale e trarre un lungo, ansimante respiro. Mio Dio, fa' che non sia vero. Non vi farò nessun favore di nessun genere a meno che non mi sia fornita una prova decisiva che mia figlia è viva. Se non lo farete dovrò supporre che avete ucciso Katie e mi rivolgerò subito all'FBI. Voleva aggiungere che avrebbe lasciato perdere tutto e avrebbe dato la caccia personalmente a chiunque fosse responsabile di quella faccenda fino
alla fine dei tempi, ma sarebbe stata una provocazione troppo grande. Però era una verità assoluta. Comunque doveva addolcire il tono e cercare di nuovo di rendere Katie umana agli occhi di quel mostro. Ma se Katie è viva e sta bene, come dite, per favore trattatela bene. Fa un sacco di storie per mangiare, ma le piacciono i cereali Lucky Charms e i Doritos, e gli hamburger con il formaggio. Potete immaginare quanto questa esperienza sia sconvolgente, per lei. So che è terrorizzata. Per favore non arrabbiatevi se piange molto. Non l'ha chiesto lei, di essere rapita. Siate gentili con lei, per favore. Era tutto ciò che poteva scrivere senza crollare di nuovo. Inoltrò il messaggio all'indirizzo indicato da Snake. Se solo avesse osato chiamare l'FBI. Si chiese se loro sarebbero potuti riuscire a rintracciare l'indirizzo di posta elettronica di Snake. Ma non poteva. Se Snake era in grado di inserirsi sulla sua linea telefonica, che cos'altro sapeva? Poteva farlo sorvegliare da qualcuno. Non era il caso di rischiare... non con la vita di Katie in pericolo. Sì mise alla finestra e osservò il suo tranquillo quartiere, la gente che usciva per il pranzo, rientrava dopo lo shopping, portava a spasso il cane, giocava con i figli, conduceva la normale vita di ogni giorno mentre la sua era stata distrutta e rovinata. Non lo sapevano? Non riuscivano a percepirlo? Katie non c'è più! Sta bene, si ripeté più e più volte in una litania simile a una preghiera. Deve stare bene. Mentre alle sue spalle il programma della C-SPAN trasmetteva le attività del Congresso, John rimase alla finestra, cercando di sedare i propri sentimenti, di pensare, di trattenere le urla. 23 «Hai sentito?» chiese Poppy. Era seduta al tavolo della cucina, di fronte a Paulie; stavano mangiando due sostanziosi panini al tacchino. Era ancora furiosa con lui, ma avrebbe anche voluto che si radesse la barba e tornasse a tingersi i capelli, che riprendesse i suoi connotati abituali. «Sentito cosa?» borbottò Paulie. «Sss!» Si alzò e abbassò il volume del televisore. «Ascolta.» Lei l'aveva sentito, un debole rumore proveniente dalla ca-
mera da letto principale. Il rumore che sapeva sarebbe arrivato, il rumore che temeva. Un pianto sommesso. «La bambina si è svegliata.» «Meglio che tu vada a vedere.» «Perché proprio io? L'idea è stata tua.» «Via, Poppy, non farai così per tutta l'operazione, vero?» «Non ho nessuna intenzione di badare a una bambina», obiettò lei. «Non era compreso negli accordi.» «Bene», osservò Paulie. «La lasceremo piangere.» Addentò il panino e cominciò a sfogliare una rivista. Se era così che Paulie intendeva comportarsi, Poppy avrebbe fatto lo stesso. Prese a sua volta un giornale e lo sfogliò. Cercò di concentrarsi nella lettura di un articolo su Sharon Stone, ma vi rinunciò quando si accorse di aver letto lo stesso paragrafo una decina di volte. I singhiozzi soffocati le riempivano il cervello. «Accidenti!» esclamò. Si alzò e tirò il giornale a Paulie, seduto di fronte a lei. «E accidenti a te!» Lui la guardò e sorrise senza parlare. Poppy uscì a passi pesanti dalla cucina e si diresse verso la camera da letto principale. Prese dal divano la maschera e se la infilò... ma sulla soglia esitò. Una bambina che piangeva. Che cosa avrebbe fatto, con una bambina spaventata che piangeva? Di certo meglio di Paulie, ma non di molto. Oh, diavolo, facciamola finita. Aprì la porta e sporse la testa. La bambina era sdraiata sul letto, di schiena, con le mani legate alla testata. La benda e il bavaglio erano a posto, ma il basco era caduto e lei aveva gettato via la coperta scalciando. Che gambe magre! E stava piangendo. Era proprio uno schifo, spaventare a quel modo una bambinetta. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. Il pianto cessò e la bambina si irrigidì, tendendo le orecchie. Meglio non spaventarla ancora di più. Meglio dire qualcosa. «Non avere paura...» Diavolo, non sapeva nemmeno come si chiamava. «È tutto a posto. Nessuno ti farà del male.» Poppy si avvicinò al letto. Anche nella fioca luce della stanza oscurata vedeva che le guance sotto la benda erano bagnate di lacrime. «Senti, se prometti di non urlare ti toglierò il bavaglio. Affare fatto?» La bambina annuì.
«Adesso giuralo.» Un altro cenno di assenso. Poppy le tolse il bavaglio. «Dove sono?» chiese la bimba con voce tremante. «Tu chi sei? Perché sono legata? Dov'è il mio papà?» «Starai qui con noi per un po'.» «Voglio il mio papà. Perché non è qui con me?» Tanto valeva dirglielo: «Non sa dove sei». Lei riprese a piangere, i singhiozzi diventarono sempre più forti. Altre lacrime colarono giù da sotto la benda. «Voglio andare a casa!» «Ricorda il nostro patto: non devi urlare. Se urli devo rimetterti il bavaglio.» La bambina si morse il labbro superiore per cercare di reprimere i singhiozzi. Fu un suono tanto penoso che Poppy provò una fitta al cuore. Si inginocchiò accanto al letto. «Ehi, senti», le disse piano. «Non avere paura. Non ti farò del male. Nessuno ti farà del male. Starai solo qui con noi per un po' di giorni.» «Voglio il mio papà!» Doveva farle cambiare argomento. «Come ti chiami?» «Katie.» «Un bel nome. Senti, Katie, hai fame?» Lei scosse il capo. «Devi andare in bagno?» Un cenno di assenso. «Hai una voce strana.» «Perché porto una maschera.» «E perché la porti?» «Perché non voglio che tu veda la mia faccia.» «Non riesco a vedere niente.» «Lo so. Ma la benda potrebbe scivolare. Siamo molto prudenti.» La bambina si strinse nelle spalle: o non capiva o non gliene importava niente. Avrebbe fatto meglio a importarle. «Va bene. Ecco come faremo. Ti slegherò le mani e ti accompagnerò in bagno. Tu entri e fai quello che devi fare, e, quando vuoi uscire, bussi. Capito?» Un altro cenno del capo. «Bene, allora.» Poppy cominciò a sciogliere le corde che le legavano i polsi. Di solito ad accompagnarli in bagno ci pensava Paulie, soprattutto perché fino a quel momento tutti i pacchi erano stati uomini. Lei non l'aveva mai fatto, ma conosceva la procedura. Di solito lui adoperava un paio di manette, ma lei
pensava che in quel caso non fosse necessario. «Ecco come funziona, Katie. La benda te la togli solo dentro il bagno. Quando hai finito te la rimetti e bussi, e io ti faccio uscire. Capito? Non devi mai toglierti la benda a meno che non te lo diciamo noi.» «Perché?» Quella domanda sorprese Poppy. Nessuno l'aveva mai fatta, prima. Ma certo, tutti gli altri conoscevano già la risposta. «Perché non voglio che tu veda la mia faccia.» «Pensavo che portassi una maschera.» Che cos'è, pensò Poppy. Un avvocato? «Sì. Ma non voglio che tu veda neanche quella.» «Perché?» «Perché... perché non voglio, ecco», rispose Poppy sciogliendo l'ultimo nodo. «Fatto. Adesso puoi metterti a sedere.» Prese la bimba per le spalle e la sollevò. Attraverso la stoffa del blazer e della divisa, Poppy la sentì tremare tutta. E ricordò di avere provato a volte la stessa sensazione quando qualcuno dei tizi con cui era stata diventava violento all'improvviso e si metteva a picchiarla. Ricordava quella sensazione di terrore, di essere in trappola, senza nessuno a cui chiedere aiuto. Era la peggiore sensazione del mondo... e forse la bambina stava provando proprio quella. Sentì l'impulso di abbracciare Katie, di stringerla forte per assorbire quel tremito. Niente da fare. Doveva assolutamente tenerla lontana. Non si sa che cosa potrebbe tentare di fare un bambino spaventato. Ma rassicurarla un po' non poteva far male. «Non avere paura, Katie. Andrà tutto bene. Immagina che sia una breve vacanza con dei parenti davvero strani.» Sì, pensò Poppy. Una vacanza con gli Appelton. Rabbrividì. «E quando sarà finita andrai a casa.» «Voglio andare a casa adesso.» «Adesso no. Ma presto, va bene?» Un cenno di assenso pieno di infelicità, poi: «E tu come ti chiami?» Un'altra domanda che la colse di sorpresa. Nessun pacco l'aveva mai fatta. Ma aveva la risposta pronta. «Jane», disse Poppy. «Jane Doe. E c'è anche mio marito John Doe.» Lei e Paulie si chiamavano sempre Jane e John Doe, quando custodivano un pacco, i nomi che generalmente vengono dati negli ospedali ai pazienti non identificati. «Puoi chiamarmi Jane, va bene?»
Un cenno del capo. «Va bene.» «Bene. Adesso andiamo in bagno. Alzati, ti guiderò tenendoti per le spalle. Ricorda: va' dentro, fa' quel che devi fare e bussa quando sei pronta per uscire.» Poppy guidò la bimba fino al gabinetto e chiuse la porta. «E ricordati di mettere la benda prima che ti faccia uscire.» Dall'altra parte dell'uscio udì che la bambina si rimetteva a piangere. «Voglio papà!» «Sta' tranquilla, Katie, tornerai da lui. Devi solo avere pazienza.» Merda, era uno schifo, fare una cosa simile a una bambina. E perché non aveva mai chiesto della mamma? 24 Snake si sistemò davanti a un Dataphone 2000 nella hall dello Hyatt. Aveva le istruzioni per la consegna della medicina già pronte per essere inviate tramite il portatile. Ma quando si inserì sul sito presso la Delphi intestato a Eric Garter fu sorpreso di trovarvi della posta elettronica in attesa. Poteva provenire solo da una persona. Era una faccenda che non gli piaceva. Le cose avrebbero dovuto andare in questo modo: Snake diceva a VanDuyne com'era la situazione e questi ne prendeva atto; poi gli diceva che cosa fare e lui accettava. E via di seguito: Snake, VanDuyne, Snake, VanDuyne... Non erano assolutamente previste quelle chiacchiere assurde per cui VanDuyne gli mandava due righe tutte le volte che gli pareva. Chi crede di essere, questo tizio? Che parli quando gli viene rivolta la parola, e basta. Snake si guardò intorno. La lettura della posta elettronica avrebbe prolungato il tempo della sua permanenza in quel posto, e ciò avrebbe comportato un aumento della possibilità che qualcosa andasse storto. Ma sembrava che nessuno gli prestasse attenzione. Scaricò in fretta il messaggio. Spostò il monitor del portatile in modo che nessuno potesse vederlo dall'atrio e richiamò il file. Certo, VanDuyne aveva inviato un altro messaggio, ed era un ultimatum! Un ultimatum, cazzo! Che faccia tosta aveva, quel tizio? Snake rintuzzò la rabbia. Che diavolo, faceva solo ciò che avrebbe fatto chiunque altro: voleva assicurarsi che lui fosse davvero in possesso della merce che diceva di avere.
Ce l'ho, amico, pensò. E cerca di immaginare quanto poco mi importa che cosa le piace. Qui comando io. Ti ci devi abituare. E anche a un'altra cosa, e presto: non c'è assolutamente nessuna possibilità che tu le parli. Che cosa crede? si disse. Che io trascini una bambina bendata fino a una cabina telefonica sicura per farle fare due chiacchiere con il papà? Figurarsi un po'. Richiamò sullo schermo il suo messaggio e vi aggiunse un paio di righe, poi lo caricò nella casella della posta elettronica, lo inviò tramite Internet, scollegò il computer e si affrettò a uscire. Aveva un brutto presentimento a proposito di quell'operazione. Prima quel casino con l'epilessia, e adesso il sequestro non era stato eseguito nemmeno da un giorno e quel VanDuyne stava già diventando un rompiscatole tremendo. Se il dottore avesse procurato altri guai avrebbe dovuto mandargli qualcuno che lo convincesse. 25 Finalmente! John era scivolato dentro e fuori dello studio per tutto il giorno, evitando Nana, controllando la posta elettronica, patendo le pene dell'inferno quando scaricava un messaggio dopo l'altro e constatava che si trattava solo di normali questioni relative alla sanità. Perché Snake non rispondeva? Doveva procurare il Tegretol a Katie prima di sera. Ma il cuore cominciò a battergli forte quando vide l'intestazione ANON.NONET.UK... il provider anonimo. Quando cominciò a leggere, tutta l'umidità che aveva in bocca sparì e gli si radunò sulle mani. Ordina telefonicamente la fornitura per un paio di settimane delle compresse per la tua bambina alla CVS all'angolo fra la Diciassettesima e K Street, in centro, e la preleveremo. Si tratta di un gesto di fiducia da parte nostra. Non tentare di imbrogliarci. Se ci sarà il minimo segno che la farmacia è sorvegliata, la medicina non sarà ritirata e chi ne soffrirà sarà tua figlia. Se qualcuno mi seguirà o mi fermerà, lei morirà pochi minuti dopo. Come già detto non abbiamo niente contro di te o contro la bambina, ma non si tratta di uno scherzo. Se collabori l'avrai indietro come nuova. Quanto a parlarle, niente da fare. Sarebbe troppo scomodo. Non insi-
stere, Doc. Non abbiamo molta pazienza. Fidati e tutto finirà bene. Snake Sentendosi all'improvviso privo di forze, John rimase a fissare lo schermo, leggendo e rileggendo il messaggio. Continuavano a saltargli agli occhi le frasi «ne soffrirà tua figlia e morirà pochi minuti dopo». Si sentiva lo stomaco in subbuglio. Temendo di essere sul punto di vomitare, si alzò di scatto e si precipitò nel bagno. Si piegò sulla tazza, ansimando, ma non venne fuori niente. Infine la nausea passò. Mentre, chino sul lavabo, si spruzzava il viso, udì un forte singulto. Si raddrizzò e lo udì ancora. Un gemito, quella volta... Dall'altra parte del corridoio. Oh, no. «Mamma!» Si affrettò a tornare nello studio e la trovò davanti al computer, a fissare il monitor, con le mani magre strette sullo schienale della poltrona. Si girò a guardarlo con il viso sconvolto, gli occhi sgranati, la pelle cinerea. «Johnny...» La voce le tremò e le venne meno. «Johnny, dimmi che si tratta di uno scherzo crudele!» Il suo primo impulso fu quello di mentire, ma a che cosa sarebbe servito? Quando, più tardi, Katie non fosse tornata a casa da scuola... Le si avvicinò e le mise un braccio intorno alla vita, guidandola delicatamente verso il divano. «Qui... siediti...» «Oh, mio Dio, allora è vero! Qualcuno ha rapito Katie! Perché? Oh, Signore, perché?» «Non lo so, mamma.» John le spiegò tutto ciò che era accaduto e la ragione per cui aveva paura di chiamare l'FBI. Mentre il racconto procedeva, sua madre sembrò riprendere possesso di se stessa. Non aveva mai avuto la tendenza a lasciarsi andare all'isterismo. Gli fece tutte le domande che lui si era posto milioni di volte: perché proprio Katie? Che genere di favore volevano da lui? «Ma stanno facendo in modo che Katie non rimanga senza medicina», osservò. «Penso che sia un buon segno, no? Significa che è viva e che vogliono che resti tale.» O vogliono solo che io lo creda, pensò, ma non lo disse. Avrebbero potuto ritirare le compresse e poi buttarle via. «Voglio... ho bisogno di più di un segno», ribatté. «Devo sapere, mamma.» Lei gli strinse un braccio. «Non irritarli, Johnny. Potrebbero rifarsi su
Katie.» Sì, potrebbero farlo... se è ancora viva. Annuì. «Sarò prudente. Sarò educato. Gli bacerò il culo, ma devo saperlo.» «John...» fece sua madre lentamente. «Non credi che potrebbe essere... opera di Marnie?» Lui la fissò. «Di Marnie?» «Sì, è pazza, lo sai.» «Perfettamente», assentì John, conoscendo benissimo gli strani comportamenti della ex moglie. Ma una cosa simile era troppo bizzarra anche per lei e molto lontana dalla sua portata. Poi Marnie era confinata in Georgia, sotto terapia intensiva. «Ti garantisco che non ha niente a che fare con questa storia.» «E allora, che cosa faremo?» «Prima di tutto, telefonerò per quella ricetta.» Chiamò il servizio informazioni, ottenne il numero del drugstore all'angolo di K Street con la Diciassettesima e ordinò di preparare al più presto cinquanta compresse masticabili di Tegretol 100 mg, a nome di Katie VanDuyne. Poiché non lo conoscevano, fu obbligato a fornire l'indirizzo e il numero di telefono dell'ufficio e il proprio numero di identificazione della DEA, la polizia federale antinarcotici. «Adesso tornerò a farmi vivo con Snake.» «Sii prudente, per favore.» «Gli dirò solo che la ricetta è pronta. Ma gli farò anche una domanda a cui può rispondere solo Katie. E gli dirò che finché saprò che Katie è viva farò qualsiasi cosa per mantenerla tale. Farò loro qualunque favore vogliano.» «Spero che tu possa farlo davvero.» «Anch'io, mamma.» Del resto, che cosa posso fare? Starmene qui ad aspettare? Telefonare ogni cinque minuti alla farmacia, per controllare se la medicina è stata ritirata? Si rese conto che stava per crollare. Se non faceva qualcosa sarebbe finito a pezzi. 26 Paulie parcheggiò il furgoncino in DeSales Street e andò a piedi fino al
Mayflower Hotel. Si fermò sull'entrata del bar e scrutò la folla del tardo pomeriggio in cerca di Mac. Ma che folla d'Egitto... era pieno solo a metà, e per la maggior parte i clienti indossavano dei completi eleganti. E lo chiamavano bar? Sedili imbottiti e pavimento lucido, e quasi nessuno fumava. Non era un bar... era un maledetto cocktail party. Mac aveva telefonato dicendo di avere una commissione per Paulie. L'aveva innervosito. Di solito, una volta iniziata la sorveglianza, non abbandonavano mai il pacco. Forse Mac faceva un'eccezione perché si trattava di una bambina. Eppure gli era sembrato un po' strano. Aveva voluto che chiedesse alla bambina se sapeva come fare a inghiottire le compresse, e chi era il personaggio televisivo che preferiva. Poppy aveva ottenuto le risposte senza difficoltà. Ma che cosa stava succedendo? Paulie vide uno che gli faceva cenno da un angolo e si avvicinò. Notò che quelli vestiti eleganti osservavano con aria ebete la sua tenuta di cuoio. In quel posto lui saltava decisamente agli occhi. Di solito non gliene importava, ma date le circostanze avrebbe preferito incontrarlo in un posto diverso. Mac era seduto con la schiena rivolta al locale. Aveva una camicia bianca e un blazer blu, con una spilla dell'Uomo Ragno sul bavero sinistro. Stava bevendo qualcosa di chiaro, con ghiaccio. «Perché ci vediamo sempre in qualche albergo?» sussurrò Paulie sedendosi di fronte a lui. «Devono pure esistere posti meno pubblici.» «Che cosa preferiresti?» ribatté Mac, con una smorfia sulle labbra sottili. «Un locale di infimo ordine sorvegliato dalla polizia ventiquattr'ore su ventiquattro, dove spiccheremmo fra i clienti abituali?» «Be', no, ma...» «Senti, Paulie, ti vedo in posti in cui un viso poco familiare è la regola e non l'eccezione. Se non capisci una cosa così semplice, hai un grosso problema.» «Va bene», ammise Paulie malvolentieri. Mac aveva ragione, come al solito. Quando il cameriere si avvicinò ordinò una birra. «Hai avuto le risposte che volevo?» chiese Mac. Paulie annuì. «Sì. Dice di essere molto brava a mandare giù le compresse. E più di tutti le piace Maggie Simpson. E allora, di che commissione hai bisogno?» «Il pacco deve prendere una medicina.»
«Oh, cazzo! È già abbastanza brutto che sia una bambina, e adesso salta fuori che è ammalata. Ecco perché avevi bisogno di sapere se era capace di mandare giù le compresse.» «Calmati. Deve solo prenderne una due volte al giorno.» «Facile, per te. Dov'è questa medicina?» «In una farmacia a pochi isolati da qui.» «E vuoi che vada a prenderla.» «Esatto.» Mentre il cameriere gli portava la birra, Paulie tacque. Era incazzato e preoccupato, ma cercò di mostrare solo l'incazzatura. «Che cosa mi viene, per esporre il culo in questo modo?» «Niente», ribatté Mac. «Fa parte del lavoro.» «Non è vero.» «Senti, Paulie», gli spiegò Mac con gli occhi in fiamme, chinandosi verso di lui e abbassando ancora di più la voce. «Questa faccenda non piace neanche a me. L'ho saputo dopo che era già stato effettuato il sequestro, è una novità assoluta. A me non viene nessun extra perché il pacco è ammalato, quindi non viene nemmeno a te.» Quella volta Paulie non se la sentì di cedere. «E se non le andassi a prendere, quelle compresse?» «Comincerebbe a dimenarsi per terra come una ballerina di break dance in preda a un'overdose e dopo poco morirebbe, e tu e Poppy dovreste trovare il modo di sbarazzarvi del cadavere. Inoltre avreste sulla testa una condanna per omicidio. Ma non per molto.» «Perché?» Lo sguardo degli occhi gelidi di Mac gli fornì la risposta. Paulie tamburellò sul tavolo. «Non mi piace per niente, sai.» «Fallo e basta. Hai ancora la barba. Ti metti gli occhiali scuri, ti liberi del cappotto di cuoio, ti infili una felpa con il cappuccio, entri ed esci dalla farmacia ed ecco fatto. Ti coprirò io.» «Oh, allora andrà tutto benissimo, vero?» fece Paulie in tono acido. «Non ho proprio niente di cui preoccuparmi.» 27 Da quando era entrato nel drugstore, a John pareva che fosse passato un secolo. Aveva guardato tutti i bigliettini di Pasqua almeno due volte, aveva esaminato tutte le uova di cioccolato e tutti i cestini, aveva letto i compo-
nenti di tutte le medicine da banco. Avrebbe potuto soffermarsi a lungo accanto alla rastrelliera delle riviste, ma era troppo lontana dal banco della farmacia. Doveva restare a portata di voce. Tutto quello che aveva letto era stato un puro esercizio visivo e niente di più. Non gli era rimasta nella mente neanche un'informazione. E se anche gli fosse penetrata nel cervello, non avrebbe potuto cavarne senso alcuno. Era troppo concentrato a tendere l'orecchio per udire il nome dato dalle persone che ritiravano le medicine. Continuava a dirsi che era stato un pazzo, ad andare là. Perché ho fatto una cosa simile? La mia presenza mette a rischio la vita di Katie. Perché c'era andato? Non si comportava mai impulsivamente. Di solito ponderava tutto. Raccogli i dati, agisci se è proprio necessario, ma altrimenti sta' pronto e vedi come si mettono le cose: le caratteristiche di un pessimo chirurgo ma di un ottimo internista. Che genere di padre l'avevano fatto diventare, quelle caratteristiche? A Katie sarebbero state risparmiate molte sofferenze se avesse agito prima, non appena si era reso conto che Marnie stava rivelando uno squilibrio mentale. Ma aveva amato la ex moglie e aveva creduto di poterla tenere sotto controllo. Sbagliato. Non avrebbe mai immaginato che avrebbe fatto ciò che aveva fatto. Forse era per quella ragione che in quel momento stava in agguato in quella farmacia. Forse aveva imparato che una vigile attesa non sempre serve a qualcosa. Specie quando si trattava di Katie. Senza dubbio non era tagliato per quel genere di cose. L'attesa l'aveva ridotto un cumulo di nervi scoperti. Non... Poi fu colto da un pensiero terribile: Snake mi conosce. Deve conoscermi. Ci ha spiati, aspettando l'occasione di rapire Katie. E se mi avesse già individuato e se ne fosse già andato, decidendo di mandare al diavolo la marmocchia di VanDuyne? Per poco non fece cadere il kit per colorare le uova di Pasqua che aveva in mano, mentre le orecchie gli si riempivano di un cupo ronzio. Oh, Cristo, che cos'ho mai fatto? Doveva uscire di lì. Forse non era troppo tardi. Poi, in tutto quel ronzio, udì la voce della ragazza al banco. «VanDuyne? Vado a controllare.» John dovette reggersi per non cadere. Era lui! Snake era lì! Stava ritirando le compresse. Resistette all'impulso di sbirciare sopra il bancone per dargli un'occhiata... ma la curiosità ebbe la meglio. Solo un'occhiata. Do-
veva sapere che faccia aveva quella carogna. Girò la testa quel tanto che bastava per inquadrare il banco delle ricette, fra un paio di cestini di uova di Pasqua posti sopra la vetrina. C'erano due persone: una vecchia dai capelli azzurrati e un tipo robusto con una tuta da jogging, con il cappuccio. John dubitava che Snake fosse una vecchia signora. Mentre guardava, la ragazza consegnò al jogger un sacchettino. John notò che questi aveva addosso un paio di guanti. Snake... era lui. Avrebbe potuto essere chiunque, persino Elvis Presley, con la barba, gli occhiali scuri e il cappuccio. Ma era Snake. Doveva essere lui. John sentì scomparire la debolezza di un attimo prima e fu preso da un'incontenibile impeto di rabbia. Quel figlio di puttana che aveva rapito Katie era a non più di cinque metri. Se avesse potuto mettergli le mani addosso, anche solo per poco, l'avrebbe fatto parlare, lo sapeva. Oh, sì, un paio di minuti insieme a lui e il signor Snake gli avrebbe raccontato tutto... tutto... Una piccola parte di lui fu terrorizzata da quell'istinto selvaggio, ma tutto sommato quella fantasia gli procurò un piacere indicibile. Ma doveva restare tale. Snake non agiva di certo da solo. Doveva avere almeno un complice, forse di più. Se John avesse anche solo torto un capello a quel tizio, Katie avrebbe subito conseguenze terribili. Non poteva fare altro che stare lì a osservare quel mostro uscire su K Street e svanire nel pomeriggio? Cristo, desiderava ardentemente potersi rivolgere a qualcuno che sapesse che cosa fare. Voleva telefonare a Bob Decker e chiedere a lui. Dei sequestri di persona non si occupavano i Servizi segreti, ma lui doveva saperne molto più di John. Guardò il jogger prendere il resto e dirigersi verso la porta. Prima di riflettere, John si ritrovò a seguirlo. Che cosa stai facendo? gli gridò una voce nella testa. Buona domanda. Non fare l'eroe, si disse. Non dargli la caccia. Non giocare al gatto e al topo. Cerca solo di vedere che direzione prende. Resta molto indietro, fuori di vista. Non si renderà conto che lo segui. Se sale in auto e se ne va, voglio solo guardare il colore, la marca e il modello del veicolo, impararne a memoria la targa. Ma mi fermerò lì. Non salirò sulla mia per andargli dietro. Però se andrà a piedi lo seguirò. Questo drugstore l'ha scelto lui. Perché? Perché tiene prigioniera Katie qui vicino? Se le cose stanno così, voglio saperlo. Devo saperlo.
Seguì il jogger sul marciapiede e lo osservò dirigersi verso la Diciassettesima strada. Era ancora pieno di rabbia, il selvaggio che aveva sotto la pelle lottava per liberarsi, ma si controllò. Gli diede un vantaggio di una trentina di metri circa, poi lo seguì. 28 Che diavolo? Snake stava di fronte alla CVS, dall'altra parte della strada, e rimase a bocca aperta a guardare il tizio che stava uscendo dopo Paulie. Aveva sorvegliato il drugstore per un po', prima dell'arrivo del complice, ma non aveva notato nessun segno sospetto. Nessun movimento dopo che Paulie era entrato, come sarebbe stato logico se avessero organizzato una trappola. Tutto sarebbe cominciato ad accadere quando Paulie avesse chiesto la ricetta per Katie VanDuyne. Ma non era successo niente. Paulie era uscito e aveva iniziato il percorso programmato; Snake sarebbe rimasto indietro e avrebbe controllato se qualcuno l'avesse seguito. E, accidenti, qualcuno l'aveva seguito davvero. VanDuyne. «Merda!» sibilò a denti stretti. Era proprio scemo? Che cosa credeva di fare? Poi Snake si rilassò. Se non altro la sua presenza provava che non aveva chiamato i federali. Se ci fossero stati loro, non gli avrebbero di certo permesso di avvicinarsi al drugstore. Quindi... era lì per conto proprio. Che incosciente, cazzo. Che cosa voleva fare, seguire Paulie fino a casa e liberare la cara figlioletta? Facile! Snake sapeva che Paulie avrebbe dovuto percorrere Farragut Square e poi scendere nella stazione della metropolitana. Corse fino a una fermata d'autobus in cima alla piazza e attese il suo passaggio. Vide che questi gli lanciava un'occhiata, ma senza nessun segno di riconoscimento. Quindici secondi dopo passò VanDuyne. Aveva gli occhi fissi sulla schiena di Paulie come se fosse stata l'unica altra persona per la strada. Snake guardò bene quegli occhi, e ciò che vide non gli piacque affatto. Doveva fare qualcosa, e subito. Ma che cosa? Con mille idee per la testa, lasciò a VanDuyne qualche metro di vantaggio poi si mise a seguirlo. Come previsto, Paulie scese nella stazione della metropolitana, VanDuyne lo seguì e Snake chiuse la fila. L'ora di punta
non era ancora cominciata, quindi il posto era abbastanza vuoto. VanDuyne si fermò contro una parete, guardando Paulie che acquistava il biglietto, Snake gli si avvicinò da dietro. Doveva agire in quel momento. E doveva essere prudente. Non poteva sapere in che forma fosse VanDuyne, dal punto di vista fisico e anche da quello emotivo. Una persona che aveva avuto il coraggio di andare in quel drugstore poteva essere capace di tutto. Poteva scoppiare come una bomba. E l'ultima cosa che Snake desiderava era una scenata in una stazione della metropolitana, in pieno centro. Allungò le mani verso VanDuyne. Prudenza... molta prudenza... 29 Per poco John non gridò, quando sentì le dita chiudersi sulla nuca e la voce sussurrare alle sue spalle: «Fermati, stronzo. Non pensare nemmeno di voltarti. Se mi vedi sei morto. E pure la tua marmocchia». John allungò una mano tremante e si appoggiò al muro con tutto il palmo, per cercare sostegno. Probabilmente ai passanti sembravano una coppia di amici, uno che stava male e l'altro che lo confortava. Se solo avessero saputo. Oh, Cristo, ho rovinato tutto! Povera Katie! Le faranno del male, ed era tutta colpa mia! Cercò di parlare, ma si sentiva la gola bloccata. Riuscì solo a emettere un debole mugolio. Provò di nuovo: «Per favore... ascolti...» «No!» La mano gli strinse la nuca, il sussurro divenne più rauco. «Ascolta tu! Sei un fottuto idiota, lo sai bene. La vuoi morta, tua figlia? È questo che vuoi?» «No! Oh, per favore, no!» «E allora perché seguivi il mio uomo?» La pressione sulla nuca aumentò. «Perché?» «...il mio uomo...» Snake era lui, non il tizio in tuta da jogging. Era lui che doveva convincere a prendersi cura di Katie. John chiuse gli occhi e si concentrò sulle parole da usare. Doveva riuscire a persuadere quella... quella bestia. «Perché è tanto importante, per me. È l'unica cosa importante che ho al mondo. È mia figlia. Non capisce? È mia figlia, è piccola, indifesa, ne sono responsabile io. Se le succede qualcosa è colpa mia. E se le succedesse sul serio qualcosa... qualcosa di davvero brutto.. non credo che riuscirei a
continuare a vivere. Capisce, adesso?» «Neanche un po', Doc», rispose Snake. L'estrema freddezza della voce colmò John di cupa disperazione. I sentimenti che aveva appena espresso non ricevevano comprensione alcuna, da parte di quell'uomo. Sarebbe stata la stessa cosa se avesse parlato swahili. «E sai che cos'altro non ha nessun senso, per me?» chiese Snake. «Che tu abbia disobbedito e spiato il mio uomo. Ti rendi conto di quello che significa, vero?» John fu colto dal panico. Non lo sapeva e non voleva saperlo. «Non ho chiamato nessuno, non l'ho detto a nessuno! Non ad un'anima viva! Ma dovevo sapere, non capisce? Venire qui è stata una pazzia, ma è questo l'effetto che mi fa non sapere se Katie è viva o morta! Mi rende pazzo! Deve credermi!» Seguì una lunga pausa. John trattenne il fiato, in attesa. Infine Snake parlò. «Bene, non vogliamo che tu diventi matto. No.» La mano lasciò il collo di John. «Resta dove sei, Doc. Faccia al muro. Guarda solo l'orologio. Aspetta dieci minuti prima di girare anche solo la testa.» «Ma Katie...» Un forte colpo alla schiena lo costrinse a interrompere la frase. «Neanche una parola, cazzo! Capito?» John annuì infelicemente. Si sentiva impotente. Cristo, se solo avesse avuto il fegato di girarsi, afferrare quel tizio, prenderlo per il collo e fargli dire dove si trovava Katie... Ma un gesto simile avrebbe potuto significare la fine della figlia... se non era già... Udì un rumore di passi che si allontanavano, diretti verso la scala mobile. Spinse indietro la manica della giacca e guardò l'orologio. Le quattro e undici minuti. Avrebbe dovuto rimanere lì fino alle quattro e ventuno, per pennettere di allontanarsi a Snake e al suo complice. Poi udì una voce gridare due parole dalla scala mobile: «Maggie Simpson!» Sulle prime non capì. Era Snake o qualcuno che cercava... Maggie Simpson! La bambina con il succhiotto dei cartoni animati che Katie amava tanto. Katie l'adorava! Poteva solo significare... L'unico modo in cui avrebbero potuto scoprirlo... È viva! Katie è viva! John si mise le mani davanti agli occhi e pianse per il sollievo.
30 Snake ascoltò i singhiozzi di VanDuyne, vide le sue spalle sussultare mentre si appoggiava contro il muro e gemeva, poi salì sulla scala mobile e uscì in strada. Non avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto lasciarlo soffrire, dato che si era comportato in modo tanto stupido; poi ci aveva ripensato. Se il fatto di non sapere di quella bimba lo faceva davvero impazzire era meglio dirglielo, per la buona riuscita dell'operazione. In caso contrario poteva diventare un'incognita. Che cos'altro avrebbe potuto tentare, la prossima volta? Quel tipo aveva una vena di pazzia lunga un chilometro. Certo, era là che piangeva come un bambino, ma Snake sentiva che avrebbe commesso un grosso errore, se lo avesse liquidato classificandolo un rammollito. Aveva percepito qualcosa di pericoloso, alla fermata dell'autobus, quando VanDuyne era passato inseguendo Paulie. Qualcosa negli occhi. Una certa crudeltà. Come in un animale da preda. Difficile identificarlo con quel piagnone là sotto, ma quegli occhi non mentivano. Snake batté il pugno contro il corrimano della scala mobile. Era per quello che non si sequestra mai un bambino. Da adulto ad adulto è una cosa... Un sequestro è il costo che si paga per un certo tipo di affari, per non essere stati abbastanza prudenti. I pacchi si leccano le ferite e se ne vanno, più poveri ma più saggi. Invece quando c'entra un bambino si è su un piano del tutto differente. Si toccano gli istinti primordiali. Le carte in gioco sono completamente diverse. Diventa una faccenda personale. E la gente diventa imprevedibilmente... pericolosa. Snake non ne capiva la ragione, ma se ne rendeva conto quando lo vedeva. E di certo l'aveva visto negli occhi di VanDuyne. Quindi gli aveva detto di Maggie Simpson. Per calmarlo. Per renderlo più prevedibile. Se avesse cominciato a pensare che la figlia era morta, avrebbe deciso di non avere più niente da perdere: una situazione molto brutta, in ogni senso. Arrivato sul marciapiede guardò l'orologio. Aveva perso troppo tempo con VanDuyne. Aveva lasciato l'auto al Mayflower, perciò prese a camminare veloce lungo Connecticut Avenue. Doveva affrettarsi, se voleva arrivare puntuale da Salinas. Pensò di nuovo a VanDuyne ed ebbe il presentimento che avrebbe pro-
curato dei guai. Prima della fine di quel lavoro avrebbe avuto bisogno di un elemento di persuasione. 31 Come previsto, Paulie salì sul convoglio della metropolitana e aspettò che la piattaforma si vuotasse, poi scese. E rimase a guardare. Non smontò nessun altro. Le porte si chiusero e il treno fu inghiottito dalla gola scura della galleria. Bene! Nessuno lo seguiva. Salendo in strada si concesse di rilassarsi. Da quando era entrato in quel drugstore era stato agitato come in piena crisi di astinenza, si era quasi aspettato che un nugolo di federali gli saltasse addosso non appena avesse chiesto quelle compresse. Si tastò la tasca per assicurarsi di avere il sacchetto del drugstore. Quanti rischi, per quel flaconcino. Ma le cose erano andate bene. Benissimo, anzi. Aveva chiesto a Snake un po' di soldi per la tuta e la ricetta e un piccolo extra per tenere calma Poppy. Controllò il cercapersone che aveva nell'altra tasca. Nessuna chiamata. Era la conferma che non era stato seguito; se avesse individuato qualcuno che gli stava alle costole, Snake gli avrebbe lasciato un messaggio. Quindi tutto era a posto. Sentì che la tensione diminuiva. Paulie passò davanti a un tizio appoggiato al muro: sembrava proprio che stesse piangendo. Forse stava male. O era ubriaco. Quel pensiero gli suggerì un'idea. Perché non comprare un po' di champagne per Poppy, bloccata in casa a sorvegliare la bambina? Le piaceva e avrebbe potuto ammorbidirla un po'. Sì, era una magnifica idea. Portale un magnum, accidenti. Vallo a comprare subito. 32 A Snake occorse un po' di tempo, ma finalmente riuscì a trovare un parcheggio dalle parti di M Street, a mezzo isolato dal Giardinello: aveva bisogno di avere l'auto vicina. Aprì il vano portaoggetti e avviò il registratore. Schioccò le dita davanti al torace: il ricevitore nel bottone della camicia recepì il rumore e l'ago fece uno scatto. Bene. Tutti i sistemi servivano... finché non si allontanava troppo. Prima
avvicinarsi al ristorante Snake girò un po' per Georgetown, tanto per assicurarsi di non essere seguito. Che cosa c'era di speciale, a essere proprietari di un ristorante? Si chiese mentre si accostava alla porta delle cucine. Attori, commedianti, disc jockey, artisti della televisione: sembrava che tutti ne volessero uno. Perché mai? Dava l'idea di essere una scocciatura tremenda. Controllò i bottoni della giacca e la spilla al bavero e bussò. Gli aprì una delle guardie del corpo di Salinas, un certo Llosa, un tipo corpulento con pelle scura e lineamenti pesanti da indio. Snake gli consegnò la pistola ma lui lo perquisì lo stesso. Assicuratosi che non avrebbe ammazzato il padrone, lo condusse nell'ufficio sul retro. «Miguel!» esclamò Salinas dalla poltrona con lo schienale reclinabile. L'abito di seta beige era stropicciato, dove si tendeva intorno ai rotoli di grasso, e il sorriso dai denti d'oro era privo di umorismo. «Sei in ritardo!» Al Grassone non piaceva aspettare? Che peccato. Snake non aveva intenzione di farlo incazzare, ma non voleva nemmeno leccargli il culo. «Ho dovuto procurare una medicina per la bambina», spiegò Snake in tono pungente. «Sai, quella bambina che nessuno sapeva fosse malata? Mi ha portato via più tempo del previsto.» «Ma adesso è tutto a posto, no?» «Sì.» «Ottimo!» Il suo sorriso era diventato sincero. «Allen, da' qualcosa da bere al nostro amico. Uno scotch, vero?» «Esatto. Con un po' di soda.» «Dagli la roba buona.» Il gregario di Salinas si precipitò a eseguire l'ordine. «Abbiamo un ottimo single malt di sessant'anni», disse Allen Gold. «A Carlos è costato tredicimila dollari, a un'asta.» Tredicimila dollari per una bottiglia di scotch? Che spreco. Snake si guardò intorno. Proprio come tutto il resto, in quel posto. Mobili scuri, massicci e con pesanti intagli, lampade Tiffany originali e tappeti persiani; e le pareti erano ancora peggio, con pesanti tende rosso vino e ogni tipo di vistosa arte colombiana. E tra i quadri, una foto con autografo di Tricky Dick, come chiamavano Richard Nixon. Molto strano. Gold diede a Snake lo scotch. «Invece della soda ho aggiunto un goccio di acqua di fonte», spiegò. «Niente bollicine che disturbino il sapore di
questa roba.» Snake soffocò una rispostaccia. Non serviva a niente, essere scortesi, ma si chiese come mai un tizio con una laurea in Economia facesse il fattorino. «Al successo del Progetto», disse Salinas, sollevando un bicchiere di vino rosso. Bevvero tutti. Snake schioccò le labbra. Lo scotch di sessant'anni era piuttosto buono, ma non valeva certo i cinquecento dollari al bicchiere che costava. «Allen», gli disse Salinas forbendosi i baffi. «Da' a Miguel la rata che gli spetta.» Gold si chinò e sollevò una borsa portadocumenti di cuoio. La diede a Snake. «Vuoi contarli?» «Adesso no», rispose lui. «Li conterò dopo.» Sorrise per rendere chiaro che stava scherzando. Salinas ridacchiò e il suo ventre tremolò come il proverbiale vaso di gelatina. Un uomo rotondo: un viso rotondo con bocca rotonda su un corpo rotondo. Aveva il sorriso color bianco e oro, tranne lo spazio fra gli incisivi superiori, abbastanza grande da poterci tirare dentro semi di cocomero. Sempre educato, cordiale, quasi cerimonioso. Eppure Snake sapeva che dietro la facciata esteriore e piena di allegria si nascondeva una mente dura come il diamante e acuta come un laser. Una mente ossessionata dalla sicurezza. Se ne era reso conto la prima volta che si erano visti in quel posto. Snake aveva registrato la conversazione (ammetteva di essere fissato anche lui per la sicurezza) con un microfono trasmettitore standard, ma quando aveva ascoltato il nastro tutto ciò che aveva udito erano stati trenta minuti di sibili. Quindi nell'ufficio di Salinas c'era un dispositivo di intercettazione per le microspie. E anche buono, visto che variava a caso frequenza e ampiezza. Ma c'era il modo di aggirarlo... Snake bevve un altro sorso di scotch e si lasciò cadere su una poltrona. «Bene. Ho la bambina. Ho il suo papà che sta sulla corda. Qual è il favore che dovrebbe fare?» Salinas lanciò un'occhiata a Gold. «Ci vuoi scusare, Allen, per favore?» Gold assunse un aspetto offeso. «Non credi di poterti fidare di me, in questa faccenda?» «Credo che ci si possa fidare di te in tutto e per tutto, Allen. Ma non penso che tu voglia la mia fiducia, in questo caso.» Gold lo fissò un istante, guardò Snake, poi alzò le spalle. «Va bene. Se è ciò che vuoi.» Fece per avviarsi verso la porta.
«È un peso che non desideri, Allen», gli disse Salinas sorridendo. «Va bene, andrò al bar.» Quando la porta si chiuse, Salinas disse: «È irritato. Pensa che dovrebbe sapere tutto dei miei affari, e forse ha ragione. Ma per questa faccenda non ne sono del tutto sicuro». Snake stava cominciando a sentirsi un po' a disagio, per quanto riguardava quella faccenda. «Credo che la tua domanda», continuò Salinas, «fosse: che favore mi aspetto da parte del dottor VanDuyne?» Bevve un altro sorso di vino. Dopo averlo deglutito non sorrideva più. La sua voce aveva un tono freddo e pragmatico. «Mi aspetto che il dottor VanDuyne faccia decadere dalla carica alla Casa Bianca il suo vecchio amico Thomas Winston.» Snake sentì che il bicchiere di scotch gli stava scivolando dalle dita. «Il Pre-presidente?» Non aveva mai balbettato in vita sua. «Il Presidente degli Stati Uniti?» Salinas annuì. Snake aveva la strana sensazione di galleggiare. Chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire un profondo respiro. Si era sempre reso conto che in quel lavoro la posta in gioco sarebbe stata alta: nessuno ti offriva una somma di denaro simile per esercitare pressioni su un burocrate della Sanità. Aveva cercato di immaginare che cosa potesse esserci sotto, ma non era riuscito a pensare a niente che giustificasse l'importanza di VanDuyne. La posta in gioco era alta, certo. Troppo alta. Aprì gli occhi. «La proposta di Winston di legalizzare le droghe... è di questo che si tratta, vero?» Salinas annuì di nuovo. «Quel vigliacco vuole rovinare i nostri affari. Cinquanta miliardi di dollari l'anno... spariti.» Schioccò le dita. «Così! Puoi capire che non possiamo permettere una cosa simile.» «Sì, certo», assentì Snake. Cinquanta miliardi l'anno giustificavano quasi tutto. In che faccenda si era ficcato? «Ma come farà, questo VanDuyne, a risolvere il nostro problema?» Salinas sorrise. «È il medico personale del Presidente. Gli diremo di somministrare al suo vecchio amico una dose di cloramfenicolo.» «Cloram... che?» Salinas fece un gesto verso il bloc notes sul tavolo, alla destra di Snake. «Scrivilo.» Compitò la parola mentre Salinas la ripeteva. «Cloram... Feni... ehm... colo.» «Che cos'è, un veleno?» «No. Questo è il bello. È un antibiotico. Di tipo vecchio, che non si usa
quasi più.» Snake fissò il nome sul foglio che aveva in mano. «Non capisco.» «Uno dei motivi per cui il cloramfenicolo viene usato di rado è che ha un effetto nocivo sul midollo di una piccola parte di pazienti.» «Che cavolo fa?» chiese Snake. «È come la bomba atomica su Hiroshima: il midollo osseo cessa di produrre le cellule ematiche. La malattia si chiama anemia aplastica. Non ne avevo mai sentito parlare; ma del resto, che cosa ne sappiamo di medicina? Comunque, negli ultimi mesi mi sono istruito... almeno da quando un certo informatore mi ha detto che Thomas Winston è quasi morto per quella ragione, quando aveva tre anni.» «E allora?» «Se ne prenderà un'altra dose accadrà la stessa cosa: il midollo spinale entrerà in sciopero. Lui si ammalerà, e potrebbe anche morire.» «Potrebbe? E se non muore?» Salinas si strinse nelle spalle. «Non è necessario che muoia. Preferirei che morisse, ma come minimo si ammalerà gravemente e non potrà andare al vertice dell'Aia. E se sopravviverà, la convalescenza sarà lunghissima. Troppo lunga per restare in carica. Dovrà dare le dimissioni.» «Quindi alla Casa Bianca ci andrà Robert Baldwin. E se decidesse di sostenere anche lui la legalizzazione delle droghe?» Salinas sorrise e scosse il capo. «Conosciamo il vicepresidente Baldwin. L'abbiamo...» Fece il gesto di mettersi una mano in tasca. «E perché non sparargli, a Winston? Non sarebbe più semplice e più efficace? Abbandonerebbe la carica di sicuro.» «No no», fece Salinas, piegandosi in avanti per la prima volta. Spiegò perché la compañía avesse scartato quell'idea. Snake annuì, ascoltando solo a metà. Vedeva già dei problemi. «D'accordo, farlo fuori non funzionerebbe. Ma che cosa succederà quando VanDuyne riavrà la figlia e dirà a tutti che è stato costretto a somministrare a Winston il clor... come si chiama? Il risultato sarà lo stesso: il Presidente diventerà un martire e voi non farete più affari.» Salinas sorrise. «Ma non riavrà mai sua figlia. Almeno non per molto. Subito dopo la loro felice riunione avranno un terribile incidente.» Snake si raggelò. «Non è cosa che faccia per me.» «Lo so. Ci penserò io.» «Bene. Ma i medici che l'avranno in cura non capiranno che gli hanno dato quella roba?»
«No, finché VanDuyne non glielo dirà. Il cloramfenicolo gli sarà uscito dall'organismo da un pezzo e loro non sanno niente del precedente attacco di anemia aplastica.» «Perché?» «Perché lui stesso l'ha fatto cancellare dalla cartella clinica anni fa. Quando si è presentato al popolo americano per essere eletto, Thomas Winston voleva avere un'anamnesi senza macchia.» «E allora come hai fatto...» Salinas sorrise. «Mio caro Miguel, ti sorprende che io abbia delle fonti di informazione eccellenti?» «No», rispose lui lentamente. «Niente affatto.» Snake cominciava a rendersi conto delle possibilità di Salinas. Il Presidente aveva dato l'annuncio solo la sera prima, eppure erano due mesi che stavano progettando il sequestro. Salinas ne era da tempo al corrente ed era pronto ad agire non appena Winston avesse fatto una comunicazione pubblica. E sapeva anche che aveva ripulito la propria cartella clinica anni prima. Quel tizio aveva informatori ad altissimo livello, nel governo stesso. Salinas si riappoggiò allo schienale. «Quindi, capisci? È tutto programmato. È un piano perfetto.» Quelle assicurazioni passarono sopra Snake come le promesse di un venditore di auto usate, e sentì aumentare la sensazione di gelo. Allen Gold, che conosceva nei minimi dettagli tutti i particolari dell'impero di Salinas, era stato mandato fuori della stanza. Ciò fece capire a Snake che il Grassone stava giocando quella partita con le carte molto nascoste. Forse solo lui e i suoi capi in Colombia erano a conoscenza del vero bersaglio. Le uniche altre persone che avrebbero saputo erano VanDuyne e lui stesso. E se stavano progettando di eliminare il dottore e sua figlia, sarebbe restato un unico sospeso: quello che riguardava «Miguel» MacLaglen e i suoi due complici. Che previsione di vita possono avere tre persone a conoscenza di cose in grado di far saltare per aria il cartello di Cali? E chi sarebbe stato il primo ad andarsene? I sicari, che non sapevano niente, o il tipo che aveva definito i particolari con Salinas? Snake bevve il resto dello scotch. Aveva bisogno di un po' di antigelo per eliminare il ghiaccio che gli si stava formando nelle vene. Guardò il bottone della camicia che nascondeva il microfono. Spero che
oggi funzioni. Il giorno dopo, di mattina presto, sarebbe tornato con un regalino per il Grassone... almeno lo sperava. Ma in quel momento doveva concentrarsi sui passi da compiere. Quell'operazione sarebbe risultata una vera resa dei conti. Tutto doveva procedere in modo perfetto. Se avesse commesso qualche imprudenza, la sua assicurazione non avrebbe avuto nessun valore. Si schiarì la gola. «Bene. Qual è il prossimo passo?» «Ovvio. Domattina subito ti metti in contatto con l'onorevole dottore e gli dici che se rivuole la sua preziosa figlioletta deve somministrare al suo amico e paziente una forte dose di cloramfenicolo.» «Come dovrebbe fare?» «Lasceremo che ci pensi lui. Si tratta di un padre affezionato che rivuole la figlia. Troverà il modo.» «E se... Supponiamo solo per un attimo che rifiuti. Che cosa succede?» «Tu gli dici che, se la settimana prossima il presidente Winston si presenterà al congresso dell'Aia, tu ucciderai la sua bambina... non prima di averle fatto alcune cose molto brutte. E come prova di ciò comincerai a restituirgli la figlia un pezzettino alla volta. Credo che tu abbia usato questo metodo anche in passato.» Snake annuì. «Ha un forte potere di persuasione. Non ho mai dovuto mandare più di un pezzo.» Per quanto fosse un tipo ansioso, il dottore voleva così bene alla figlia che non avrebbe avuto bisogno di nessun elemento di persuasione. O di uno solo, per essere messo in riga. «Bene. Allora sai che cosa fare. Mettiti in contatto con me domani, dopo aver parlato con il dottor VanDuyne.» «Verrò di persona», ribatté Snake. «Potrebbero essere cose di cui è meglio non parlare per telefono.» Ma la sua intenzione era di consegnare qualcosa di più di un semplice rapporto su VanDuyne. «Come vuoi. Llosa ti accompagnerà fuori. Arrivederci.» Snake pensò che quelle parole significassero che l'incontro era finito. Bene. Ne aveva avuto abbastanza, di Salinas, per quella giornata. Il sicario gli ridiede la pistola e Snake pensò che sarebbe stato lui a ricevere l'incarico di far fuori «Miguel» e i suoi complici. Ma Salinas avrebbe dovuto modificare il suo piano, almeno in parte. Una volta uscito, l'enormità della faccenda in cui si trovava coinvolto colpì Snake con tutta la sua forza. Percorse barcollando il vialetto di acces-
so e guardò lungo M Street, in entrambe le direzioni. Toglierò dalla circolazione il Presidente, il Presidente degli Stati Uniti, cazzo. Forse l'ammazzerò. Cambierò il corso della storia. Io! Non solo doveva badare a ciò che gli accadeva sotto il naso, doveva anche proteggersi le spalle. Poteva essere una faccenda troppo grande, per lui; ma, accidenti, quella sensazione gli piaceva, e molto. E il giorno dopo sarebbe stato ancora meglio. Avrebbe comunicato al dottore che doveva scegliere tra la figlia e il vecchio amico... fra quella bambina e il leader del mondo libero. Non era magnifico? Sì, se fosse riuscito a uscirne intero quel successo poteva guastargli il piacere di ogni altra cosa. Dove avrebbe potuto giocare ancora con in palio una posta tanto alta? Quello era il brivido più grande che avrebbe mai potuto provare. Doveva gustarselo fino all'ultima goccia. 33 «Quella povera bambina!» John resse la madre e lasciò che gli singhiozzasse sopra la spalla. L'inversione dei ruoli (la madre che piangeva sulla spalla del figlio) lo sconvolse. Non l'aveva mai vista così, nemmeno quando era morto il padre. «Non ti preoccupare, mamma, andrà tutto bene. Sappiamo che Katie è viva, e questo è l'importante. È viva e faremo in modo che rimanga tale. Scoprirò che cosa vogliono da me e lo farò, qualunque cosa sia. Poi la riavremo.» «Oh, quella povera bambina», ripeté lei. «Quella povera, povera bambina.» Pronunciava quelle parole di continuo. Cominciava a sembrare un disco inceppato, ed era una cosa che preoccupava John. Non poteva permettere che crollasse proprio in quel momento, non quando aveva bisogno di concentrarsi al massimo su come riavere Katie. «È più in gamba di quanto supponiamo, mamma. Lo siamo tutti. Abbiamo superato tante cose, supereremo anche questa. Hanno ritirato il Tegretol, quindi sappiamo almeno che potrà prendere la medicina.» Sperava che fosse davvero così, che non avessero preso la medicina semplicemente per salvare le apparenze. Per favore, pensò, chiunque tu sia, segui le indicazioni su quel flacone. Deve prendere il Tegretol due volte al giorno. Se non lo prende... «Quella povera, povera bambina!»
34 Nella seconda camera da letto, Paulie si sdraiò sulla schiena e fissò il buio, mentre Poppy dormicchiava con la testa sulla sua spalla. Era stata una sera magnifica. Era tornato dalla spedizione al drugstore con due pizze e un paio di magnum di champagne Cook. Non era di importazione, quindi non era troppo caro. Ne aveva assaggiato di quello a buon mercato e di quello carissimo, e si era ubriacato allo stesso modo. Le sorprese avevano ottenuto l'effetto previsto. Poppy era stata molto contenta, quando aveva visto che le aveva portato una pizza con le cime di rapa e le melanzane saltate a fuoco vivo. In quel periodo si era data alle verdure e quella era la combinazione che preferiva. Per sé lui aveva preso una pizza con salsiccia di manzo e maiale, molto piccante. Poppy aveva dato un po' della sua pizza alla bambina, che invece avrebbe preferito quella con la salsiccia (ottima scelta, piccola); poi si erano messi a mangiare e a far fuori le bottiglie. E la magia si era realizzata: avevano scopato come ricci, una volta sul pavimento del soggiorno, poi di nuovo a letto. Poteva andare meglio di così? Di che cosa aveva bisogno, se non di mangiare, di bere, di un tetto sopra la testa e Poppy a letto con lui? E fra poco avrebbero avuto un'enorme quantità di quattrini, che potevano durare moltissimo tempo, se stavano attenti. Mentre sbadigliava gli vennero in mente le compresse per la bambina. Erano ancora nella tasca del cappotto. Si era dimenticato di dirlo a Poppy, che doveva prenderne una due volte al giorno. Chiuse gli occhi e si abbandonò al sonno. Gliene avrebbe parlato il giorno dopo... le avrebbe detto delle compresse la mattina dopo... Giovedì 1 Nelle prigioni degli Stati Uniti vi sono più di un milione e centomila detenuti. La percentuale di persone incarcerate nel nostro paese è più alta che in tutti gli altri paesi del mondo. E una buona metà è dentro per reati connessi alla droga. Pensateci: cinquecentomila persone in galera per droga, e ognuna ci costa in media trentamila dollari l'anno; fanno
quindici miliardi ogni anno, ed è una cifra in aumento. Alcune di esse sono condannate all'ergastolo perché hanno coltivato marijuana. Gli assassini, in media, rimangono in prigione nove anni. E ne stiamo lasciando liberi un numero sempre maggiore, per fare spazio ai fumatori di marijuana. Mezzo milione di americani, che, per la maggior parte non hanno mai fatto del male a nessuno, tranne che a se stessi, rinchiusi... perché? Per avere voluto andare su di giri. John aprì gli occhi e si ritrovò al buio. Aveva dormito? Alla televisione trasmettevano una replica di alcuni brani delle osservazioni fatte da Heather Brent la sera prima, al Larry King Show. La luce filtrava dalle tapparelle. L'orologio del televisore indicava le sette e due minuti. Si mise a sedere, massaggiandosi gli occhi e il viso. Doveva essersi addormentato con la televisione accesa. L'ultima volta che aveva guardato l'ora erano le cinque e mezzo. Dio sapeva se aveva bisogno di sonno, sia dal punto di vista fisico sia da quello emotivo. Un po' di tregua dall'incessante spavento che gli dava la nausea. Era sfinito, eppure la mente non voleva arrendersi. Aveva cercato di inebetirla con la serie mattutina dei notiziari pubblicitari. Scese dal letto barcollando e percorse il corridoio. Sostò dinanzi alla porta della camera di Katie per l'ennesima volta da quando era andato a letto, e guardò dentro pregando di trovarcela. Era stato un brutto sogno, giusto? Sbagliato. Il letto di Katie era vuoto. Continuò fino alla stanza degli ospiti e di nuovo, per l'ennesima volta da quando era andato a letto, si collegò con la rete della Sanità. «Forza», sussurrò mentre il software si faceva strada verso la casella della posta elettronica. «Forza... fatti trovare.» Fissò lo schermo stando in piedi. Perché prendersi la briga di sedersi? Non sarebbe rimasto. Tutte le volte che aveva controllato era restato deluso, e non si aspettava niente nemmeno quella volta. Era troppo presto. Non pensava che i sequestratori fossero gente mattiniera. Poi udì il suono degli altoparlanti del computer: c'era della posta. Della posta! Lentamente, tremando, John si lasciò cadere nella poltroncina. Decise di leggere subito il messaggio e attendere che fosse scaricato sull'hard disk. Il cuore gli batté più forte quando vide l'intestazione dell'anonimo provider. Balzò con gli occhi al messaggio.
Vai alla cabina telefonica all'angolo nordovest di Franklin Square. Trovati lì alle nove in punto. Snake Era tutto lì? John premette il tasto di scorrimento del testo un paio di volte per vedere se c'era dell'altro, ma non trovò niente. Fissò il messaggio. Dove diavolo era, Franklin Square? Non l'aveva mai sentita nominare. Frugò nell'ultimo cassetto della scrivania e prese la carta di Washington che aveva comprato la prima volta che vi era giunto. Era un piccolo parco con l'angolo nordovest in corrispondenza di K Street e della Quattordicesima, a pochi isolati di distanza dalla farmacia dove aveva ordinato la medicina per Katie il giorno prima. Perché Snake non aveva semplicemente detto all'angolo tra la K e la Quattordicesima? Stava forse giocando? Scherzava con lui? Sì, era probabile, forse era così che si divertiva. Ma perché un telefono? Fino a quel momento Snake aveva tenuto tutti i contatti tramite la posta elettronica. Che cosa c'era di diverso, quel giorno? Perché doveva riferire a voce e non per iscritto? Senza dubbio si trattava del «favore» da fare. John si sentì percorrere da una sensazione di disagio. Che diavolo potevano volere da lui? Guardò l'orologio. Aveva ancora molto tempo. Avrebbe fatto una rapida doccia, si sarebbe costretto a mangiare qualcosa, poi sarebbe uscito per andare in centro. Voleva arrivare con un buon anticipo. Prima di andarsene dallo studio cancellò il messaggio. Nana non doveva leggerlo. Meno particolari sapeva, meglio era. Sentì che la stanchezza gli scivolava via di dosso. L'interminabile notte di attesa era finita. Era di nuovo in movimento. Ma in quale direzione? Si scosse di dosso la fredda paura che lo attanagliava. Qualunque cosa fosse, ce l'avrebbe fatta. La cosa importante era che aveva compiuto un passo avanti verso il ritorno a casa di Katie. 2 «Paulie! Paulie!» Scendendo dal letto gli si impigliò un piede nelle lenzuola e cadde per terra. Mezzo intontito, si snebbiò il cervello e si guardò intorno. Non si rendeva conto di dove fosse. Sapeva solo che Poppy stava urlando il suo
nome come se qualcuno le avesse infilato in corpo un pungolo da bestiame. Ma non era lì. Era in qualche altro punto della casa. Che casa? Ah, sì... quella a Falls Church. Poppy urlò di nuovo e Paulie si alzò in piedi e si precipitò in soggiorno. Vuoto. Si affrettò nella stanza degli ospiti e la trovò piegata sul letto del pacco, che sì lamentava e piangeva. Si voltò e gli si gettò contro. «Che cos'ha, Paulie? Che cos'ha?» Lui fissò la bambina. Aveva ancora le mani legate alla testata, come l'avevano lasciata, ma si agitava come un pesce tirato a secco. Aveva il respiro sibilante, i denti serrati, gli occhi rovesciati: le si vedeva solo il bianco. Non aveva mai assistito a una scena simile. «Falla smettere, Paulie!» stava dicendo Poppy, con la voce che le diventava da un gemito un grido. «Per favore, falla smettere!» Poi sembrò una scena presa di peso dall'Esorcista: la bambina emise un suono acuto, a metà strada fra un grugnito e un urlo, e inarcò la schiena finché non toccò il letto solo con la nuca e i calcagni. Restò in quella posizione per Dio solo sapeva quanto, finché a Paulie non venne la paura che si librasse sopra il letto o si spezzasse in due Poi all'improvviso crollò e rimase immobile. «Oh, mio Dio!» sussurrò Poppy. «Oh, mio Dio, Paulie, è morta?» Sembrava proprio morta, accidenti: bianca come un fantasma, non si muoveva, non respirava nemmeno. Aveva quasi paura ad andarle vicino, ma qualcuno doveva pur controllare. Mentre si avvicinava Poppy lo scostò e si inginocchiò accanto al letto. Sembrava che avesse paura a toccarla. «Che cosa devo fare?» gemette. «Che cosa devo fare?» Infine abbassò le mani e le posò sulla bimba. Le afferrò le spalle e la scosse. «Katie! Katie! Svegliati!» Poi batté i pugni sul torace della bambina. «Respira, accidenti!» Lei rabbrividì, tossì e fece un respiro. «Sia ringraziato Iddio!» esclamò Poppy. «Su, aiutami a slegarla.» Mentre si piegava sopra la bambina, si fermò e tastò il letto. «Oh, Cristo. Se l'è fatta addosso.» Paulie allentò la corda intorno a un polso mentre Poppy faceva lo stesso con l'altro. La pelle era arrossata per i violenti strattoni. Poppy le massaggiò il polso che aveva slegato. «Che cos'è successo, Katie? Come stai?» Ma lei fissò un punto oltre Poppy, con occhi spenti. Sembrava stordita.
Lei guardò Paulie. «Non ricomincerà mica, vero? Dimmi che non ricomincerà.» Paulie la osservò stupito. Non l'aveva mai vista in quel modo. Di solito era tanto fredda, specie quando si arrabbiava. Ma in quel momento... accidenti, aveva proprio perso la testa. «Calma, Poppy» le disse parlando lentamente, piano piano. «Calmati, per favore. Andrà tutto bene.» «Come fai a esserne sicuro?» chiese lei alzando la voce. «Che cos'ha, questa bambina, Paulie? Ti ha detto qualcosa, Mac?» Cristo, le compresse! Si sentì decisamente uno stupido. «Sì», rispose. «In effetti è questa la ragione per cui mi ha chiamato ieri sera. Per andarle a prendere delle compresse. È epilettica.» «Che cosa?» Si alzò in piedi e gli si mise davanti, con il viso bianco come quello della bambina. E con gli occhi spalancati... e molto strani. «È epilettica e non me l'hai detto?» «Ehi, io l'ho saputo solo ieri pomeriggio. Neanche Snake lo sapeva, fino a ieri. Ma va tutto bene, ho le compresse.» «Perché non me l'hai detto? Perché non gliene hai data una?» «Ehi, sai com'è andata ieri sera. Sono tornato, abbiamo mangiato e bevuto, poi ci siamo eccitati e me ne sono dimenticato.» Poppy chiuse gli occhi. Sembrava pronta a esplodere. «Valle a prendere. Dammele subito!» «Ehi, senti...» «Subito!» gridò. Paulie corse in soggiorno a cercare la felpa. Sapeva di trovarsi in una brutta situazione. Nessuna giustificazione. Assolutamente nessuna. Aveva combinato un grosso pasticcio. Era già abbastanza brutto che Poppy fosse tanto incazzata con lui, ma se l'avesse saputo Mac... Prese il flaconcino e glielo diede, poi vide che da bianca si faceva rossa in viso, mentre leggeva le indicazioni sull'etichetta. «Qui dice una compressa due volte al giorno, Paulie. Avrebbe dovuto prenderne una ieri sera, accidenti!» All'improvviso gli si avventò contro, lo tempestò di pugni, battendogli il torace come se fosse un tamburo. «Razza di un bastardo! Stupido figlio di puttana! Schifoso...» Le afferrò i polsi e la scosse. «Calmati, Poppy! Stai comportandoti come una matta! Che diavolo hai?» Lei si strappò dalla sua stretta e si girò di nuovo verso la bambina. «Po-
trebbe ricominciare da un momento all'altro, e non smettere più! E allora morirebbe! Tutto perché tu sei un maledetto stupido!» «Ehi, senti, non pensavo...» «Dobbiamo darle una di queste», lo interruppe lei. «Va bene, allora. Diamogliela.» Lei lo guardò e annuì. Sembrava che si fosse ripresa. Almeno per il momento. Risultò che le compresse si potevano masticare, ma a che cosa serviva? La bambina era svenuta. Non poteva masticare un bel niente. Poppy portò il flacone in cucina e cercò di schiacciare una compressa con la lama di un coltello, ma le mani le tremavano troppo. «Dalla a me», le disse Paulie dopo che aveva rovinato tre compresse. Lui ne sbriciolò una al primo tentativo e la guardò, sperando di ricevere almeno un sorrisetto, o forse un cenno di approvazione. Ma il suo sguardo era ancora di ghiaccio, senza nessun sintomo di disgelo. «Schiacciane un'altra», gli disse. «L'etichetta dice che ne deve prendere solo una.» «Voglio compensare quella che non ha preso ieri sera.» Merda. È sgradevole trovarsi nelle grane, ma peggio ancora se ci si è ficcati da soli. Ne schiacciò un'altra. Poppy riempì a metà di acqua un bicchierino da liquore e fece sciogliere la polvere. Ma far prendere la soluzione alla bambina era un altro paio di maniche. Non si svegliava. Infine la sistemarono in modo che mentre Poppy le reggeva la testa Paulie le aprì a forza la mascella; poi lei le versò in bocca il contenuto del bicchierino. Katie tossì ed ebbe un conato di vomito, ma Poppy le resse il capo finché non deglutì. Paulie tirò un sospiro di sollievo. «Ottimo. Adesso dovrebbe stare bene. Non è successo niente di male.» Poppy gli lanciò un'occhiataccia. «Non puoi dirlo con certezza.» «Certo. Ha preso la medicina...» «Va' via», gli ordinò. «Lasciami sola con lei.» Paulie voleva rimproverarla, dirle che non poteva parlargli a quel modo, ma era come se non fosse lì, come se fosse svanito in uno sbuffo di fumo. Poppy aveva preso in grembo la bambina e aveva cominciato a cullarla, parlandole all'orecchio in tono amoroso, come se fosse stata una bimba piccola. Sembrava a proprio agio, con quella ragazzina, quasi fosse sua madre o qualcosa del genere.
Se ne andò in soggiorno. Era strano. Non poteva permettere che Poppy non fosse sulla sua stessa lunghezza d'onda nel pieno di un'operazione. Dovevano andare d'amore e d'accordo... almeno finché non fosse conclusa. Non capisco, pensò lanciando un'occhiata verso la camera degli ospiti mentre Poppy cominciava a canticchiare a bocca chiusa, ha sempre detto di non poter soffrire i bambini, e con questa si comporta come se fosse sua madre o roba del genere. 3 John arrivò all'angolo nordovest di Franklin Square alle nove meno un quarto. Il telefono non lo stava usando nessuno, ma per quanto tempo sarebbe rimasto libero? Da un momento all'altro uno degli spacciatori di droga del posto avrebbe potuto requisirlo per tutto il giorno. Per evitare tale eventualità, John prese in mano il ricevitore, che puzzava di vomito, e finse di comporre un numero. Poi rimase lì con la cornetta all'orecchio, dando l'impressione di essere nel bel mezzo di un animato colloquio mentre con la mano libera teneva premuto il gancio. Attorno a lui i lavoratori uscivano dalla fermata della metropolitana di MacPherson Square e i senzatetto saltavano fuori dai loro nascondigli per iniziare a chiedere l'elemosina sul marciapiede. Il sole salì nell'aria caliginosa, riscaldando il parco e aumentando l'odore di rancido che il ricevitore emanava. John ne fu stomacato. Il sapore del caffè che aveva bevuto in fretta gli era rimasto sulla lingua e aveva il gusto della schiuma di un acquitrino. Dio, quanto avrebbe potuto resistere lì, fingendo di telefonare? Gli sembrava di avere passato in quel posto una mattinata intera. Finalmente l'apparecchio squillò, lui sobbalzò e tolse la mano dal gancio. «Pronto!» disse. «Sono VanDuyne.» «Ehi, hai fatto in fretta.» John riconobbe la voce: quella che aveva sentito nella stazione della metropolitana, il giorno prima. «Ero già qui. Ho promesso di collaborare. Ho ricevuto il messaggio sulla posta elettronica. Diceva di trovami qui alle nove, ed eccomi.» «Si è asciugato le lacrime?» Quella presa in giro fece desiderare a John di sferrare un pugno al ricevitore, ma si trattenne limitandosi a indurire la mascella. Perché dare a Snake quella soddisfazione? «Sì. Che cosa voleva dirmi?» «Non avere troppa fretta. Ti mando a un altro telefono.»
«Che cos'è, un gioco?» Una fredda risata. «Non ti preoccupare. Ho visto anch'io quei film. No, è solo una precauzione. Ti mando in un altro parco, a Lafayette Square. Sai dov'è?» Quella volta John lo sapeva. «Di fronte alla Casa Bianca.» «Esatto. Angolo di nordest, di fronte al palazzo dell'Amministrazione dei veterani di guerra. Solo quattro isolati da dove ti trovi. Ci vogliono cinque minuti.» La comunicazione si interruppe bruscamente. John guardò l'orologio: le nove e due minuti. Quattro isolati in cinque minuti. Avrebbe potuto farcela anche camminando all'indietro, ma prese ugualmente un'andatura da jogging. Non era ragionevole correre dei rischi. Arrivò in Lafayette Square e trovò il telefono in due minuti; gli venne un tuffo al cuore quando vide che qualcuno lo stava usando: una donna dalla corporatura pesante, con un paio di calzoni elasticizzati beige e un pullover a collo alto, bianco, a cui era appuntata una spilla con la scritta: FATTI SENTIRE! WINSTON DEVE SPARIRE! Una delle tante tra i dimostranti che affollavano ancora la piazza e marciavano in su e in giù davanti alla Casa Bianca. La donna stava chiacchierando tranquillamente. Aspettò un minuto e mezzo, mentre l'orologio ticchettava verso le nove e sette, ma lei non dava segno di voler smettere. Allora le si avvicinò e le disse: «Scusi, signora, ma aspetto una telefonata molto importante, proprio a questo apparecchio, fra un paio di minuti». Lei gli scoccò un'occhiata ma non disse niente. «La prego, signora, è molto importante.» Allora lei coprì il ricevitore e lo guardò in cagnesco. «Ah sì?» fece con un pesante accento newyorchese. «Che cos'è, il suo ufficio? Si cerchi un altro telefono. Ce ne sono un sacco, di liberi.» «Non capisce, non posso andare a un altro telefono. La chiamata mi arriverà proprio su questo apparecchio.» «La smetta di disturbarmi o chiamo un poliziotto.» Era l'ultima cosa di cui aveva bisogno, ma doveva assolutamente allontanarla da quel telefono. Mentre lo liquidava con un cenno e si voltava per continuare a parlare, a John venne un'idea. «Senta», propose infilandosi una mano in tasca. «La pagherò, perché mi ceda quel telefono.» In quel modo si conquistò il suo interesse. «Mi prende in giro?» Lui tirò fuori un po' dei contanti che aveva preso in fretta mentre usciva, trovò due biglietti da cinque dollari e glieli agitò sul viso. Vide che strin-
geva gli occhi. Non aveva più intenzione di menare il can per l'aia, vero? Lui non aveva più tempo, maledizione. «Dieci testoni per il telefono, signora. Prendere o lasciare.» Lei guardava i biglietti di banca. Li prenda signora, pensò John, prima che le strappi il ricevitore da quella mano grassottella e le dia un calcio che la farà arrivare fino al prato della Casa Bianca. «D'accordo», fece lei. Dopo quelle parole John allungò una mano e abbassò il gancio. «Ehi», protestò, «non avevo nemmeno salutato!» «I patti sono patti.» Le strappò il ricevitore di mano e lo sostituì con le due banconote. «Mille grazie.» Poi l'allontanò con una gomitata e si impadronì della cabina. Lei se ne andò borbottando «Ah, gli uomini!» A John non importava niente, se quella sconosciuta lo riteneva un emerito cafone: era padrone del telefono. Dieci secondi dopo squillò. «VanDuyne.» «Allora ce l'hai fatta. Bene. Parliamo di affari. È molto semplice. Da te vogliamo un piccolo favore. Se ce lo farai riavrai tua figlia.» «Un favore, sì. Ma quale?» «Un favore semplicissimo, che non comporta niente di criminale. Devi solo somministrare una medicina a uno dei tuoi pazienti.» John si appoggiò contro la parete della cabina. «Pazienti? Non esercito più. Credo che abbiate contattato l'uomo sbagliato.» Poteva essere davvero così? Poteva trattarsi di un terribile errore? «Davvero? Come va il tuo senso di orientamento, Doc?» «Che cosa intende dire?» «Voglio che ti volti verso sud. Ci riesci?» John si guardò intorno. «Sono già voltato verso sud.» «Bene. Che cosa vedi?» Vedeva il telefono. La cabina guardava a nord, e lui era rivolto verso la cabina. Non poteva voler dire... In lui si fece gradualmente largo un presentimento raggelante. Si spostò a destra e la vide. Al di là della piazza e della passeggiata, dietro la recinzione di ferro battuto... «La Casa Bianca?» Dovette fare uno sforzo per formulare quelle parole. «Ci sei arrivato.» «Ma...» Nel suo cervello i pensieri e le parole non trovarono la strada
per uscire, congelati dal freon che gli circolava nelle arterie. «Niente ma, Doc. Sei il medico personale del Presidente e prima della fine della settimana gli darai una dose di antibiotico.» John non riusciva ancora a parlare. Poteva solo fissare la Casa Bianca, immobile. «Mi stai a sentire, Doc? Se non...» «Sì, lo so!» sbottò. Conosceva l'ultimatum. Non aveva nessun bisogno di sentire ancora i particolari. Dio, è Tom il loro bersaglio. Gli sembrò di annegare. Cercò disperatamente di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, pur di restare a galla. E gli balzò alla mente una delle parole di Snake. «Antibiotico? Ha detto antibiotico?» «Esatto. Ma non un antibiotico qualunque. Il cloramfenicolo.» Lo disse con molta attenzione. «Hai capito, Doc? Cloramfenicolo.» «Sì», confermò John cupamente. «Ho capito.» «Ne hai sentito parlare?» «Certo.» Un antibiotico antiquato, che ormai si usava solo per la febbre tifoide e forse, ogni tanto, per la meningite. «Ma perché?» Poi si ricordò: forse una mezza dozzina di anni prima, quando Tom aveva cominciato a mirare alla presidenza, aveva chiesto al suo vecchio amico John di setacciare la sua anamnesi dal principio alla fine, per vedere se contenesse qualcosa che potesse eventualmente essere usato contro di lui. Esaminando le cartelle cliniche pediatriche di Tom si era imbattuto nella scritta NIENTE CLORAMFENICOLO, in grandi caratteri rossi, in cima a ogni foglio. Svolgendo un'indagine aveva scoperto che a tre anni Tom era quasi morto di anemia aplastica a causa di quell'antibiotico. Nella propria relazione John ne aveva accennato, senza tuttavia considerarlo un elemento importante. Ma gli strateghi della campagna elettorale di Tom erano stati di opinione diversa. Avevano detto che qualsiasi segno di menomazione fisica (persino potenziale) avrebbe potuto rappresentare un ostacolo. John l'aveva ritenuto ridicolo, e anche Tom, ma lui li pagava per la consulenza, quindi aveva seguito il loro consiglio: le vecchie cartelle pediatriche si erano «perdute». O così avevano ritenuto tutti. Come diavolo le avevano scoperte, Snake o quelli per cui lavorava? Ma che importanza aveva? L'essenziale era quello che poteva accadere a Tom se gli veniva somministrata un'altra dose di cloramfenicolo. Il suo sistema immunitario conteneva ancora gli anticorpi che gli avevano provo-
cato tanti guai quando aveva tre anni. In quel momento erano come cani da guardia addormentati, ma si sarebbero svegliati all'istante non appena avessero percepito l'odore di una molecola di quella sostanza. Purtroppo erano addestrati male. L'ultima volta avevano assalito il loro padrone, attaccandone il midollo osseo e impedendone la formazione, e avrebbero fatto la stessa cosa se fossero stati sguinzagliati di nuovo. Forse anche di peggio. Era probabile che Tom sarebbe sopravvissuto. L'ematologia e l'immunologia avevano compiuto passi enormi nei quarant'anni e più dalla prima reazione di Tom: disponevano di nuove medicine, c'erano i trapianti di midollo osseo, un numero molto maggiore di cure. Ma la gente moriva ancora, di anemia aplastica. Tom sarebbe potuto morire. Mosse le labbra, ma non uscì nessuna parola. Era atroce. Non potevano chiedergli di scegliere fra Katie e Tom, attendersi che lui... «Ci sei ancora, Doc?» «No!» esclamò. La parola gli esplose di bocca, e si rese conto che i passanti si erano voltati a guardarlo. Abbassò la voce. «Non lo farò.» «Allora non vedrai mai più tua figlia.» Il tono di Snake, freddo e pratico, fece traballare John. Si accasciò contro la parete della cabina. «No. Aspetti, Un momento, per favore. Potrebbe morire.» «L'idea è quella, Doc.» «Sì, sì. Però potrebbe anche non morire.» La mente di John si mise a lavorare con grande celerità, allo scopo di individuare un modo per evitare di dover commettere quel gesto. «Non l'ha ucciso la prima volta, quindi ci sono buone probabilità che non lo faccia questa volta.» «Allora dovrai dargli un'altra dose. E un'altra. E un'altra ancora. Finché non morirà o non sarà tanto malato da doversi dimettere.» «Non può chiedermi una cosa simile.» «L'ho già chiesta.» «Ho bisogno di un po' di tempo.» «Certo.» La parola grondava sarcasmo. «Prenditi pure tutto il tempo che vuoi. Accertati solo che stia troppo male per andare al vertice sulle droghe della settimana prossima.» «Allora si tratta di questo.» John guardò i dimostranti contro la depenalizzazione, da cui era circondato. Erano coinvolti anche loro? Forse qualcuno lo sorvegliava proprio in
quel momento? «Sì, Doc. Si tratta proprio di questo. Se il tuo vecchio amico, il presidente Winston, si farà vedere all'Aia, puoi scordarti di rivedere tua figlia.» «Oh, mio Dio!» John si sentì salire in gola un singhiozzo. «E non pensare di fare il furbo, per esempio di dire al tuo amico che si finga malato. Siamo molto bene introdotti, credimi. Lo verremmo a sapere. E sarebbe la fine per la tua bambina.» «Per favore. Vi pagherò. Venderò tutto quello che ho e vi darò fino all'ultimo centesimo, ma non fate del male a Katie.» «Qui non si tratta di venire a patti, Doc. O dai la medicina al tuo amico oppure no. Che cos'hai intenzione di fare?» John rimase immobile, come paralizzato, a fissare il logo della C&P sull'apparecchio, mentre la mente annebbiata cercava di formulare una risposta. Doveva dire di sì. Se non lo avesse fatto Katie sarebbe morta. Ma come avrebbe potuto farlo? Come avrebbe potuto avvelenare Tom? Mentre stava cercando di formulare una risposta, una mano gli balzò davanti e premette il gancio del ricevitore. «Che cosa?» John si voltò di scatto e vide la grassona di prima. Le staccò la mano dal gancio e si mise a urlare nel ricevitore. «Pronto? Pronto, è ancora lì? Pronto?» Ma udì solo il segnale di libero. Sbatté giù la cornetta e si voltò verso la donna. Cercò di controllare la rabbia che stava montando in lui. Voleva urlare, voleva piangere, voleva staccarle la testa. «Si rende conto di quello che ha fatto?» «Voglio indietro il telefono», gli disse lei, sventolandogli davanti una banconota. «Tutti gli altri sono occupati, rivoglio indietro il mio.» «Ha interrotto il mio colloquio!» «E allora? Lei ha interrotto il mio. Eccole cinque dollari; credo di poter tenere metà della somma, perché le ho lasciato il telefono, ma...» John digrignò i denti. Se non avesse desiderato che Snake richiamasse, avrebbe afferrato la cornetta e gliel'avrebbe ficcata in gola. «Vada via di qui», disse a bassa voce. Lei smise di parlare e fece un passo indietro, traballando. «Ehi, che cosa le prende?» John si piegò verso di lei e parlò ancora a denti stretti, pronunciando le parole con grande precisione: «Via di qui, o l'ammazzo». Non aveva mai minacciato nessuno, men che mai di morte, ma in quel caso diceva sul serio.
La donna dovette percepirlo, perché fece un altro passo indietro, quindi si allontanò in fretta. «Vado a chiamare un poliziotto!» John si voltò verso il telefono. «Squilla, per favore», sussurrò. «Ti prego.» Batté un pugno contro la parete della cabina. «Per favore!» Ma l'apparecchio rimase silenzioso. John attese, abbarbicato alla cabina, fra la gente che si muoveva intorno a lui, con una mano su ciascun lato, come se fosse una sua proprietà personale. Dopo cinque minuti cominciò a perdere la speranza. Quando fu trascorso un quarto d'ora capì che Snake non avrebbe più richiamato, ma rimase ancora lì, in attesa. Non riusciva a decidersi ad andarsene. Poi alzò lo sguardo e vide il donnone che gli si avvicinava, con un poliziotto alle calcagna. Non poteva avere a che fare con la polizia proprio in quel momento. E se Snake avesse mandato qualcuno a sorvegliarlo? Se gli avessero riferito di averlo visto parlare con un agente, non si poteva prevedere che cosa avrebbe fatto. John si voltò e si costrinse ad allontanarsi, a perdersi tra la folla. Si disse che era inutile rimanere in quel posto. Snake non avrebbe richiamato. Meglio andare al computer e inviargli un messaggio per spiegargli ciò che era accaduto. Prima lo faceva, meglio era. Eppure, in fondo all'anima, si sentiva come se avesse appena abbandonato la figlia in Lafayette Place. 4 Ha riagganciato! Snake si trovava in mezzo al traffico, in Pennsylvania Avenue, e ancora non riusciva a crederci. Il dottor John VanDuyne, quel padre apparentemente affezionato e devoto, aveva riagganciato in faccia al tipo che aveva in mano sua figlia. Che diavolo credeva di fare? Snake doveva ammettere che dopo che la comunicazione si era interrotta per un momento era rimasto sconcertato. Gli aveva detto: «O dai la medicina al tuo amico oppure no. Che cos'hai intenzione di fare?» E VanDuyne gli aveva sbattuto il ricevitore in faccia. Dopo essere stato molto su di giri la sera prima, tanto da non riuscire quasi a dormire, quella faccenda l'aveva buttato giù. Sapeva che quel tipo avrebbe rappresentato un problema. Forse era stato una specie di conseguenza delle sue parole. Dopotutto, l'aveva messo ko a parole, dicendogli ciò che doveva fare per riavere la fi-
glia. Si concesse un sorriso. Un bel dilemma, vero? Di quella stoffa erano gli eroi: capaci di scegliere tra il proprio vecchio amico, il leader del mondo libero, e la propria figlia. C'era qualcosa di quasi cosmico, ed era Snake che dirigeva la sinfonia delle sfere. Solo che VanDuyne non stava danzando con i passi giusti. Quello era un altro esempio della sua inaffidabilità. Era una totale incognita. Ma Snake sapeva che cosa occorreva per rimetterlo in riga. Avrebbe incaricato Paulie... subito dopo aver visto Salinas. Diede un colpetto all'audiocassetta che aveva nella tasca del giubbotto e deglutì. Per un'ora circa avrebbe camminato su una corda molto sottile. Quell'incontro doveva essere condotto nel modo giusto. 5 «E allora, Miguel, come ha accolto la notizia, il buon dottore?» Carlos Salinas era seduto alla scrivania, appoggiato allo schienale dell'enorme poltrona di cuoio. Quella mattina indossava un abito color antracite. Sotto i baffi gli aleggiava un sorrisetto divertito. «Non bene», rispose Snake. Avrebbe desiderato camminare in su e in giù, ma si costrinse a restare seduto. Lui e Salinas erano soli, nell'ufficio. Nessun segno di Gold. «L'abbiamo scosso per benino.» «E non hai dovuto spiegargli la reazione precedente del suo amico?» «No. Sembrava che ne fosse al corrente.» «Bueno. Come stanno le cose? Ha accettato il nostro ultimatum?» Snake valutò l'opportunità di riferire a Salinas tutta la verità (cioè che VanDuyne gli aveva sbattuto in faccia il ricevitore), e non lo fece. Non voleva che dubitasse nemmeno un poco che lui non avesse il controllo completo della situazione. «Lo farà, ma adesso è un po' traumatizzato. Ho deciso di mandargli un piccolo elemento di persuasione, per mantenerlo concentrato. Domani mattina farà i salti mortali per somministrare a Winston un po' di quel cloramfenicolo.» «Ottimo!» Salinas si batté le pesanti cosce. Il suo sorriso si allargò. «Sono davvero contento di avere affidato a te questa faccenda, Miguel.» Tra un minuto forse non lo sarai più tanto, pensò Snake. Si schiarì la gola. «A proposito di questa 'faccenda'», cominciò, «è molto più grossa di quanto immaginassi.»
Salinas strinse gli occhi. «Spero che non mi chiederai altri soldi. Abbiamo stipulato un accordo...» Snake sollevò le mani, con i palmi in fuori. «Assolutamente no. Un accordo va rispettato. No. No, quello che intendo dire è che la faccenda è tanto importante che potresti non volermi più in circolazione dopo che è stata portata a termine.» «Sì», ammise Salinas, annuendo e lisciandosi i baffi. «Capisco che tu possa temere una cosa simile. Ma non è il mio modo di agire.» «Il guaio è che non ne so niente, del tuo modo di agire. Non è molto tempo che ci conosciamo.» «Se avessi ammazzato tutti quelli che hanno fatto un lavoro per me, sarei fuori dal giro da chissà quanto.» «Giusto, ma questo non è un normale sequestro di persona. È una cosa grossa. La cosa più grossa che tu farai in tutta la tua vita, o io nella mia. Non voglio che sia l'ultima.» «Miguel...» «Un momento. Mi hai già detto che la mia squadra sarà sacrificata.» «Sì. Paulie DiCastro e Poppy Mulliner. Ieri sera non ne sei rimasto molto sconvolto, mi è parso.» Il fatto che Salinas conoscesse il loro nome non lo sorprese (sembrava che sapesse tutto), ma lo innervosì. «Non mi piace, ma capisco che possano essere considerati un problema. Il fatto è che non voglio essere scaricato insieme a loro.» Salinas lo stava fissando, come un cobra che ha visto una mangusta. «Ho la sensazione che tu voglia arrivare da qualche parte.» Snake si infilò una mano in tasca e tirò fuori la cassetta. Si piegò in avanti e la depose sulla scrivania di Salinas. «Che cos'è?» «La registrazione di alcuni nostri colloqui.» Il sorriso di Salinas si fece teso e torvo. «Impossibile.» «Perché hai un dispositivo che intercetta le microspie?» chiese Snake. «Ha funzionato con il primo colloquio, ho ottenuto solo sibili. Quindi ho cercato un filtro che eliminasse l'interferenza. Credo che la tua voce sia abbastanza riconoscibile, in questa cassetta. Specialmente nel colloquio di ieri, quando hai spiegato lo scopo dell'impresa.» «Mierda!» Salinas diventò rosso come un peperone e batté un pugno sulla scrivania, snocciolando una sfilza di imprecazioni in spagnolo. Non mi ucciderà, si disse Snake. Io ho la bambina, sono in contatto con
VanDuyne. Ha bisogno di me. Non può uccidermi. Dall'altra parte della scrivania Salinas chiuse gli occhi e si calmò. Poi li riaprì e guardò Snake in cagnesco. «Sono offeso. Avevamo concluso un patto.» «Anch'io ne ho concluso uno con la mia gente e non potrò rispettarlo. Le situazioni cambiano, no?» «E intendi ricattarmi?» «Assolutamente no, su quella cassetta ci sono anch'io, sai. Sono stato io a compiere il sequestro e a dire a VanDuyne quale dev'essere il riscatto. L'ultima cosa al mondo che voglio è che qualcuno ascolti quella cassetta. Voglio solo assicurarmi che tu sia molto interessato alla mia salute. Ne ho fatto una dozzina di copie e...» «Dodici cassette! Chingate!» In effetti ce ne erano solo altre quattro: una nel giubbotto, una nascosta a casa, una nella cassetta di sicurezza in banca e l'ultima presso un avvocato. Se Salinas avesse trovato quelle, Snake voleva che diventasse matto a rintracciare le altre. «Sono tutte al sicuro. Ma se mi succedesse qualcosa sarebbero recapitate all'FBI, alla DEA, ai Servizi segreti eccetera. So che siete immanicati con un sacco di gente, ma se questa faccenda salterà fuori nessuno vorrà esservi immischiato.» Salinas continuò a lanciare occhiatacce, ma non parlò. Snake era certo che sapesse quanto sarebbe stato difficile per i federali incriminare qualcuno sulla base di un'audiocassetta, ma come minimo gli avrebbero fottuto l'attività di riciclaggio del denaro sporco e gli avrebbero reso la vita un inferno. Quindi cercò di placarlo. Sebbene si fosse protetto, non desiderava certo che un uomo del genere fosse arrabbiato con lui. «Ehi, posso capire come ti senti. Avevi preso tutte quelle precauzioni complicate e all'avanguardia per eliminare ficcanasi e microspie e sei finito ugualmente su un'audiocassetta. Ma questo potrebbe salvarti in futuro. La tecnologia è in continuo cambiamento. Si deve stare sempre aggiornati, se non si vuole che qualcuno ti tenga in pugno.» Salinas non parlò, ma sembrava che si stesse calmando. «E considerala in questo modo: sapere che ho un'assicurazione di questo tipo mi permetterà di compiere un lavoro migliore. Voglio dire, mi sto già destreggiando tra la bambina e VanDuyne, e tra poco fregherò tutto il governo federale. Non voglio essere costretto a guardarmi sempre alle spalle, chiedendomi se stai tramando qualcosa anche contro di me. Sarebbe un
grosso elemento di distrazione.» Salinas continuò a fissarlo, ma non c'era alcun dubbio: la sua rabbia si stava spegnendo. Snake si piegò in avanti e sorrise. «E dimmi la verità: se le posizioni fossero invertite, tu non avresti fatto lo stesso?» Salinas fece un sorrisetto, quindi un cenno di assenso. Snake si rilassò. Che demonio di eloquenza che sono! «Suppongo che tu abbia ragione», ammise questi con un sospiro. «Non posso incolpare qualcuno perché si difende. E sì, questa faccenda mi insegnerà qualcosa.» Poi aggrottò la fronte. «Ma spero che tu non voglia estendere la copertura ai tuoi aiutanti.» Snake rifletté. Poteva salvare Paulie e Poppy. Con ogni probabilità vi sarebbe anche riuscito: in quel momento lo teneva in pugno, Salinas. Poi pensò alle conseguenze: a Paulie e Poppy con un sacco di quattrini, che si facevano tutti i giorni. Se uno di loro avesse appreso dell'uccisione di VanDuyne e della figlia, e di come lui fosse il medico personale del Presidente morto o gravemente malato... non ci sarebbe voluto un genio per tirare le somme. Ci si poteva fidare di un paio di tossici, in una faccenda del genere? Avrebbero fatto una corsa per vedere chi arrivava primo a spifferare tutto. No, l'idea di Salinas era la più sensata. Snake ne sostenne lo sguardo e scosse la testa. «Si tratta di una polizza strettamente personale. Nessuna copertura multipla.» 6 Se Snake si era sentito su di giri dopo essere uscito dal Giardinello la sera prima, quel giorno gli sembrava di viaggiare nella stratosfera. C'era riuscito! Aveva avuto la meglio sul cartello colombiano. Avevano abboccato! Almeno l'aveva fatto Salinas. Ma gli bastava. Aveva inviato un messaggio che era stato ricevuto chiaro e forte: Snake non lo fregate. Avviandosi all'auto cominciò a tirare pugni in aria, destro-sinistrodestro. Era Alì, era Tyson. Volava come una farfalla, bucava come un proiettile. Quando arrivò alla macchina capì di essere troppo eccitato per guidare. Un'auto? Un'auto? Anche un Concorde sarebbe stato troppo lento, cazzo! Prese il portatile dal bagagliaio e procedette per Georgetown come se fosse tutta sua. Su per la Wisconsin, poi a sinistra attraverso la Georgetown University, lungo le stradine acciottolate con i loro antiquati binari
del tram, oltre i palazzi con la facciata di mattoni, fino al campus. La passeggiata lo calmò abbastanza da permettergli di sistemarsi in biblioteca e di collegare il portatile. Si collegò con il suo sito presso la Delphi e controllò la posta elettronica. Quando vide il messaggio di VanDuyne fece un largo sorriso. Era un fiume di preghiere, di lamenti, di gemiti, affermava che si era trattato di un errore, che la comunicazione si era interrotta per un incidente e lo pregava di rimettersi subito in contatto con lui, e «per favore per favore per favore» non si rifacesse sulla cara, piccola Katie. Sì, be', forse era stato davvero un incidente e forse no. Forse VanDuyne stava facendo un giochino. Ma il capo era Snake. E lui non tollerava giochetti, neppure per un incidente. Iniziò a battere una risposta che diceva solo quello, a VanDuyne; poi si interruppe. No, nessuna risposta. Che quel pappamolla resti a preoccuparsi. Che diventi matto ad aspettare. La risposta l'avrà. Domani mattina. Con la posta reale. 7 Attraverso i fori per gli occhi della maschera, Poppy guardò Katie bere fino in fondo il bicchiere di latte. «Ne vuoi ancora?» La bimba scosse il capo. Poppy lanciò un'occhiata all'orologio. Dall'attacco erano trascorse tre ore. Si era svegliata circa un'ora prima ma a quanto pareva non si era ancora ripresa del tutto. Aveva un colorito migliore, ma i bei capelli scuri erano tutti arruffati. Almeno non aveva avuto un altro attacco, grazie a Dio. E non ne avrebbe più avuti, finché Poppy avrebbe avuto voce in capitolo. «Non hai fame?» Un altro diniego, poi un singhiozzo. «Voglio solo andare a casa.» Poppy l'abbracciò e la strinse forte. «Lo so, tesorino. Ci andrai molto presto, te lo assicuro.» «Ma quando?» «Non lo so, di preciso, ma non ci vorrà molto.» «È quello che dice sempre papà.»
«Quando?» «Quando siamo in macchina e io chiedo quanto ci vuole ancora per arrivare, lui dice sempre la stessa cosa: 'Ormai non ci vorrà molto'.» Poppy rise. «Sì, anche il mio diceva su per giù così, solo che era qualcosa come: 'Non è più molto lontano'. Mi sa che tutti i papà si assomigliano.» Tranne che il mio è morto. Pensò a suo padre, a come lei avesse appreso dell'infarto sei mesi dopo che era stato sepolto. Ricordava ancora la voce dello zio Jake, al telefono: «Non è stato un infarto. Gli si è spezzato il cuore. E sappiamo tutti e due chi è stato, a spezzarlo, vero?» Sì, lo sapeva. Verissimo. Katie si staccò e la fissò. «Perché porti la maschera di Minnie?» «Ti ho detto che non posso lasciare che tu mi veda il viso, ma ho pensato che questa ti sarebbe piaciuta. È così, vero?» «Sì.» «E che cosa ne dici dei vestiti nuovi?» Katie guardò la camicia scozzese e la tuta. «Vanno bene, credo.» Ha ragione, pensò Poppy. Vanno bene. Quasi. Aveva mandato fuori Paulie, a prendere altre maschere, vestiti e biancheria puliti. Si era limitata a dargli la misura. Con le maschere, Minnie per lei e Topolino per lui, era andata bene, ma con i vestiti... «Almeno sono asciutti.» Lei arrossì e distolse lo sguardo. «Mi dispiace.» Poppy l'abbracciò di nuovo. «Non dispiacerti! Non osare dispiacerti! Non è stata colpa tua, ma nostra. Ci siamo scordati di darti la medicina. Non capiterà mai più.» Che cosa mi prende? si chiese mentre stringeva a sé il corpicino magro. Non poteva soffrire i bambini. Non ne aveva mai voluti, ed ecco che tutto a un tratto l'unica cosa che desiderava era abbracciare e proteggere quella. Mi sembra di essere un'altra. Ricordava di essersi svegliata con il mal di testa e di avere udito tutto quel fracasso che proveniva da qualche parte della casa. Aveva cercato di svegliare Paulie, ma lui dormiva come un sasso. Quindi si era alzata ed era andata a vedere... ...e aveva perso la testa, quando aveva trovato la bambina nel pieno di un attacco. Non era la prima volta che aveva visto qualcuno con le convulsioni. Dio, no, ne aveva viste più che abbastanza e aveva sperato e pregato di non ve-
derne mai più. «Te lo assicuro, Glory», le sussurrò fra i capelli, «non succederà mai più.» Katie osservò: «Non mi chiamo Glory». Poppy si irrigidì. Glory? L'aveva davvero chiamata Glory? «Hai ragione», rispose in fretta. «Certo. Dove avevo la testa?» Si trattava di Glory, in fondo? Katie era forse la bambina che avrebbe potuto diventare Glory, se fosse sopravvissuta? Represse un brivido. Era una cosa che metteva paura. Eppure... Nell'altra stanza squillò il telefono. Lasciò Katie sul letto, aprì la porta e sporse la testa tanto da vedere Paulie che rispondeva. Doveva essere Mac. «Sì, sta bene... No, nessun problema. Le abbiamo dato le compresse secondo le indicazioni...» Poppy incrociò lo sguardo con lui e lo guardò male. Lui si strinse nelle spalle come per farle capire: che cosa potevo dirgli? Meglio niente, Paulie. Se Mac scopre che gli hai quasi rovinato il pacchettino ti concia per le feste. Era ancora incazzata nera, con lui. Davvero, come poteva essere così stupido, un uomo? Le aveva in tasca, accidenti. Doveva solo... Si costrinse a non pensarci più. Si imbestialiva tutte le volte che lo faceva. Meglio lasciar stare. Ma era ancora tremendamente incazzata. «Che cosa?» stava dicendo Paulie. «Mi racconti una balla!» Ah-ah. Che cosa c'è che non va? Paulie la guardò poi distolse subito lo sguardo. Le voltò le spalle e abbassò la voce, ma vide che gli si irrigidivano i muscoli e capì che stava discutendo. Le lanciò un'altra occhiata timorosa, poi portò l'apparecchio in camera da letto. Era ovvio che Paulie e Mac non erano dello stesso avviso su una questione. Si chiese di che cosa si trattasse. Non importava. L'avrebbe scoperto abbastanza presto. Chiuse la porta e tornò da Katie. Ci volle molto tempo, forse un quarto d'ora, prima che Paulie bussasse. «Vieni qui un momento?» Lei scivolò fuori, chiuse l'uscio e subito si tolse la maschera. Soffriva per il caldo e l'umidità, dentro a quella plastica. Si asciugò il viso con la manica, poi guardò Paulie. Cristo, aveva un'aria spaventata. Guardava in qua e in là per la stanza,
ogni cosa fuorché lei. «Che cosa c'è?» chiese. «Era Mac.» «Chi altri poteva essere. Che cosa voleva?» «Dice che il padre del pacco non collabora.» «Non collabora? Vuoi dire che non la vuole indietro?» «Non so, di preciso. Mac dice che gli fa passare dei brutti momenti.» Poppy lanciò un'occhiata verso la porta della camera da letto. Cristo! Qualcuno ti ruba la figlia e tu cavilli sul prezzo? Che genere di padre è mai questo? «Che figlio di puttana.» «Sì. Quindi...» Paulie aveva gli occhi fissi sul pavimento. «Quindi Mac vuole che mandiamo a quel tizio qualcosa per convincerlo.» Poppy si immobilizzò e guardò Paulie, che aveva ancora gli occhi a terra. Una volta aveva preso un pugno nello stomaco e in quel momento provò una sensazione identica. Le pareva di stare per vomitare. Ma la tenne sotto controllo. E controllò pure l'impulso di buttarsi contro Paulie e di mettersi a urlare come un'ossessa. Controllò tutto. E pian piano si trasformò in ghiaccio. E poi in acciaio. Nessuno avrebbe fatto del male a quella ragazzina. «No», disse a bassa voce. «Niente da fare.» Paulie alzò di scatto la testa, come se avesse preso uno schiaffo. La fissò come se fosse un'estranea. Ovviamente si era aspettato un'altra reazione da lei. «Ehi, Poppy, dobbiamo farlo.» «Davvero? Chi lo dice?» «Mac. Ti ho detto...» «Mac dice: 'Salta' e tu gli chiedi: 'Fino a che altezza?' È così che stanno le cose?» «Credi che voglia farlo? Credi che voglia fare del male a una bambina? Cristo, fammi il piacere! Ma il lavoro è di Mac.» «Anche se fosse il lavoro di Dio non me ne importerebbe niente... Nessuno toccherà quella bambina.» Fece per allontanarsi, ma lui le prese un braccio. «Senti, Mac voleva che mandassimo un dito. L'ho convinto a mandarne uno del piede. Un dito del piede, Poppy! Un ditino del cazzo! Non ne sentirà mai la mancanza!» Lei si liberò con un forte strattone. «Nemmeno un'unghia, Paulie! Nemmeno un capello! Hai capito?» «Bisogna farlo, Poppy!»
Si avvicinò alla stanza degli ospiti, si voltò e lo guardò. «Dovrai passare sul mio cadavere.» Capiva che in fondo Paulie non le credeva. Come avrebbe fatto per convincerlo? Come avrebbe potuto fermarlo? Fece un passo verso di lei. «Che tu voglia o no, bisogna farlo.» «Sul mio cadavere, ti ho detto. Prima di metterle addosso le mani dovrai ridurmi a polpette. So che sei capace di farlo. Ma lo farai davvero? Spero di no. Non credo che sia nel tuo carattere. Comunque, se lo farai, sarà meglio che tu mi uccida. È tutto quello che posso dirti, Paulie, sarà meglio che tu mi uccida. Perché se non mi ammazzerai e farai del male a quella bambina io ammazzerò te. Una notte, mentre dormi, ti pianterò un coltello nel cuore. Te lo giuro: fa' del male a quella bambina e una mattina, fra non molto, ti sveglierai morto.» Paulie si alzò e la guardò fisso, con le mani lungo i fianchi che si stringevano e si aprivano. «Stai davvero parlando sul serio, Cristo!» Lei annuì. Sì, era proprio così. Era una cosa che la stupiva. La conosceva appena, la piccola Katie, e già era pronta a morire per lei. Che diavolo le stava succedendo? «Dimentichi Mac, vero?» le disse. «Se non faremo quel che vuole, potremmo svegliarci morti entrambi. E allora potrà prendersi la parte che vuole, di quella bambina.» Quell'affermazione la colpì. Paulie aveva ragione. Mac voleva ciò che voleva. Ti pagava e si aspettava che obbedissi agli ordini. Chissà che cosa avrebbe potuto fare se gli dicevano di ficcarsi in quel posto l'elemento di persuasione. Paulie si passò le mani fra i capelli. «Magnifico! Se faccio quello che vuole Mac, mi ammazzi tu. Se faccio quello che vuoi tu, mi ammazza Mac. Come cazzo ho fatto a ficcarmi in questa faccenda?» Poppy si dispiacque per lui. Lo stava mettendo in un grosso pasticcio. Non voleva che facessero del male a Katie, ma neanche a Paulie. «Ci dev'essere un modo per uscire da questo dilemma», osservò. «Davvero?» ribatté Paulie. «E quale? Mac vuole che mandiamo al padre un pezzetto della bimba. Non accetterà niente di meno.» Poppy non si rese conto da dove le fosse balenata quell'idea, le venne fuori di getto: «Bene. Allora mandagli uno dei miei». Paulie la guardò a bocca aperta. «Sei diventata matta? Non è solo una pazzia, è una stupidaggine. Il padre si accorgerebbe subito della differenza. Che cosa ti succede, Poppy? Che cosa c'è fra te e quella bambina? Credevo che non li potessi
soffrire, i bambini.» «Sì», gli rispose. «Ma questa no.» Si appoggiò alla porta e all'improvviso si sentì infelice. Il ghiaccio e l'acciaio stavano fondendosi. Tremava tutta, dentro. «Non possiamo concludere un armistizio?» «Certo.» Con le mani sui fianchi, Paulie stava camminando in tondo. «Ma non ci aiuterà, quando Mac richiamerà per dirmi l'indirizzo a cui devo consegnare l'elemento di persuasione. Che cosa gli dirò?» «Penseremo a qualcosa.» Lui si fermò e la guardò. Sembrava preoccupato, e sul serio. «Non esserne tanto sicura.» «Credo di avere bisogno che tu mi abbracci», disse Poppy facendo un passettino verso di lui. Paulie continuò a fissarla, poi scosse la testa e spalancò le braccia. Non stava sorridendo (ne era ben lontano, in verità), ma lei aveva davvero bisogno di essere abbracciata. Gli si lasciò cadere contro e lo strinse a sé. «Non litighiamo, Paulie. Ci siamo dentro insieme, e insieme siamo molto più forti di Mac.» «Non ne sono tanto sicuro. Ma una cosa è certa, non siamo malvagi come lui. E questo ci procurerà dei guai.» «Penseremo a qualcosa.» «Sarà meglio.» La baciò sulla fronte. «Mi fai impazzire, lo sai? Sarai la mia rovina.» Poppy lo strinse più forte. Dio, sperava proprio di no. 8 Daniel Keane guardava il nipotino che saltava da un piolo all'altro sul castello di tubi metallici e provò un po' di nausea. Non perché temesse una sua caduta. No, in quel campo giochi dell'aristocratica cittadina di McLean, in Virginia, il terreno sotto scivoli e altalene era imbottito. Danny era già caduto due volte e si era rialzato rimbalzando. Il piccolo Danny, di cinque anni, portava il nome del nonno ed era pieno di illimitata energia. Proprio una scimmietta, su quei tubi. Ma il pensiero di Danny e di quanto fosse prezioso per tutti coloro che lo conoscevano lo indusse a rammentare la figlioletta di VanDuyne. Quello era il motivo della nausea. Dan sapeva come si chiamava: Katie. Sapeva tutto di lei e di suo padre.
E aveva trasmesso tutte quelle informazioni a Carlos Salinas. Che le aveva usate per sequestrarla. Dan non era sicuro che l'operazione fosse stata eseguita, ma il giorno prima aveva controllato e aveva appreso che VanDuyne se ne era andato dall'ufficio quasi subito dopo esservi arrivato e in seguito non si era più fatto vedere. Dan aveva un'idea molto chiara, e molto raccapricciante, del significato di quel fatto. Quel pover'uomo. Chissà che cosa doveva provare. Cercò d'immaginare le proprie sensazioni se qualcuno gli avesse detto che avevano rapito Danny e le trovò indicibili. E quella bambinetta... Il terrore che doveva aver provato a essere afferrata per strada o altrove e tenuta prigioniera da estranei. Ricacciò indietro una boccata di bile. Dio, sperava che la trattassero bene e che una volta finita tutta quella faccenda la liberassero senza farle del male. Ma non poteva esercitare nessuna influenza in quel senso. Aveva fornito le informazioni a quell'antipatico di Salinas e tutto era finito lì. Aveva dato alcuni suggerimenti sul modo in cui si sarebbero potute utilizzare al meglio, ma la decisione definitiva spettava a lui. Cercò di concentrarsi su Danny. Era una specie di addio al suo parco favorito. Carmela avrebbe portato la figlia e il nipotino in Florida per un paio di settimane. A Dan sarebbe piaciuto andare con loro, crogiolarsi sotto i raggi purificatori del sole e cercare di dimenticare ciò che accadeva a Washington. Ma doveva restare. Specie dopo che Winston aveva lanciato la bomba della depenalizzazione. Con gli ingranaggi in moto senza che lui potesse fermarli, doveva chiedersi se avrebbe agito allo stesso modo nel caso in cui avesse avuto la possibilità di tornare indietro e rivivere gli ultimi due mesi. Sì. Dubitava che avrebbe cambiato anche il più piccolo particolare. Troppe cose erano appese a un filo, cose tanto più importanti del benessere di una ragazzina. Era in pericolo un'intera nazione, una nazione piena di ragazzine come Katie VanDuyne... e di ragazzini come Danny. «Non date la colpa a me», sussurrò. Datela a quel Presidente da burletta, schifoso e smidollato. La nazione era già in ginocchio, ma la legalizzazione delle droghe sarebbe stato il colpo di grazia. Nessuno era riuscito a convincere Tom Winston a rinunciare a quella pazza crociata, Dio sapeva quanti l'avessero tentato, quindi bisognava esautorarlo.
Anche se ciò significava agire in collusione con persone che Dan disprezzava più del Presidente. Era, in senso letterale, un patto con il diavolo; e se per quella ragione fosse bruciato all'inferno, pazienza. Qualcuno doveva pur fermare Winston. Daniel Keane inviò al cielo una preghiera, non per sé ma per quella bambinetta. Pregò affinché quel piano pazzesco e temerario andasse a buon fine senza che nessuno ne soffrisse... Tranne il Presidente. 9 Lo schermo del computer diceva: NIENTE POSTA. John si batté la coscia con il pugno. Avrebbe preferito batterlo sulla scrivania, ma il rumore avrebbe fatto accorrere la madre, che avrebbe chiesto: «Che cosa c'è? Hai avuto notizie? Credi che stia bene? Perché non ti dicono che cosa vogliono?» E mille altre domande. Quand'era tornato da Lafayette Square le aveva mentito, le aveva detto che i sequestratori non gli avevano telefonato, che era rimasto lì come uno stupido ad aspettare che l'apparecchio squillasse. Una buona bugia. Aveva mantenuto l'ansia di Nana al livello a cui si era stabilizzata, appena sopportabile. E aveva spiegato la ragione per cui era corso al computer a mandare un messaggio di posta elettronica ai rapitori. Per quanto ne sapeva Nana, era per chiedere il motivo per cui non avevano chiamato. In realtà, era stato per spiegare che erano stati interrotti e per fissare un altro appuntamento telefonico. Una bugia era l'unico modo possibile. Come avrebbe potuto riferire a Nana ciò che volevano da lui? E, peggio ancora, che la telefonata era stata interrotta da una imbecille? Sarebbe crollata. Squillò il telefono. John lo fissò. Chi poteva mai essere? Di nuovo Phyllis? Si era dato malato, dicendole che aveva una brutta gastroenterite e non osava allontanarsi troppo dal bagno. Era molto improbabile che fosse in condizione di tornare il giorno dopo. Si sarebbero visti lunedì. Ma lei aveva telefonato per confermare la riunione con un comitato, pranzi con vari gruppi di sostenitori e una certa quantità di impegni ufficiali. In qualche modo era riuscito a sembrare coerente, anche se non sapeva quanto avrebbe potuto resistere. Se era ancora Phyllis, doveva dirle che qualunque cosa fosse avrebbe dovuto aspettare. Si sentiva troppo male per
essere in grado di pensare. Sollevò il ricevitore, ma non era Phyllis: era Terri. «Non sembri troppo malato.» Si fermò a riflettere un istante. Doveva parlargliene? Era una novità, per lui, dire tutte quelle bugie. Bisognava che restasse coerente. E mantenesse un tono leggero. «Dovresti essere qui ad ascoltare i gorgoglii delle mie interiora. Ma come hai fatto a saperlo?» «Ho telefonato al tuo ufficio. Phyllis mi ha detto che eri a casa con un'influenza che ti ha preso all'intestino. Niente di grave?» «Non credo. Uno di quei virus che durano due o tre giorni, credo.» «Suppongo che il nostro appuntamento di stasera sia annullato, eh?» John cercò a fatica una risposta. Appuntamento? Che appuntamento? Oh, mio Dio. Avrebbe dovuto cenare con Terri, quella sera. Se ne era completamente dimenticato. «Non parlarmene neanche, di mangiare. Ho rimandato il momento di telefonarti sperando che i sintomi passassero, ma niente da fare. Stavo per chiamarti.» «Vuoi che venga a darti un buffetto sulla guancia e a metterti un impacco freddo sulla testa?» «Sarebbe magnifico, ma proverò con la cura del sonno. Non voglio esporti a una cosa simile. Credimi, faresti volentieri a meno di ciò che mi è arrivato tra capo e collo.» Nessuno al mondo vorrebbe provarlo. Ma gli sarebbe piaciuto molto potersi confidare con lei. Desiderava condividere con qualcuno quel fardello schiacciante. Se avesse potuto dire a Terri alcune delle idee che gli erano venute, per sentire la sua opinione, forse avrebbe potuto trovare il modo di uscirne. Ma quanto sarebbe stato sicuro caricarla di quel peso? Se Terri avesse saputo che il bersaglio era il Presidente, dato che vedeva Decker e altri agenti dei Servizi segreti molte volte al giorno, per quanto sarebbe riuscita a tenere la bocca chiusa? No, doveva tenerlo per sé, solo per sé. Rifiutò l'offerta di una minestrina di pollo e rinviò la cena al martedì successivo, poi pose termine alla conversazione. Il martedì seguente. Come ne sarebbe uscito, da quella faccenda? L'invenzione del virus gli avrebbe permesso di far passare il fine settimana. Il lunedì mattina avrebbe dovuto architettare qualcos'altro. Controllò di nuovo la posta elettronica. Ancora niente, maledizione!
Guardò l'orologio. Quando aveva inviato il messaggio, quella mattina? Forse alle dieci e mezzo. In quel momento erano le sedici e trenta, erano passate sei ore e ancora non aveva ricevuto niente. Perché non rispondeva? Era finita? Avevano deciso che John non avrebbe fatto ciò che volevano e quindi si erano sbarazzati di Katie? Non ci poteva pensare. No, non poteva essere. E non sarebbe stato. Snake stava divertendosi con lui. Lo teneva un po' sulle spine. Be', era proprio così. Stava sulle spine ed era vicino a soffocare per la preoccupazione. Ma quando Snake si sarebbe rifatto vivo, che cosa gli avrebbe detto? Poteva acconsentire ad avvelenare Tom? Sì. Che scelta aveva, se non quella di dire a Snake ciò che desiderava sentire? Dire le cose giuste, poi trovare il modo di farlo per finta. Ma come, accidenti? Snake l'aveva già avvertito: «Non tentare nessun giochetto. Lo verremmo a sapere». John doveva tenerne conto. Chiunque fosse colui che era riuscito a scoprire la reazione di Tom al cloramfenicolo doveva avere delle fonti di informazione eccezionali. Ma doveva esserci un modo. Se John avesse potuto rilassarsi il tempo sufficiente a raccogliere i pensieri, sapeva che avrebbe potuto escogitare un modo di salvare sia Katie sia Tom. 10 «Ecco!» esclamò Poppy. Cerchiò l'articolo e strappò il foglio del giornale. Alzandosi dal tavolo della cucina si sentì sollevata. Aveva trascorso la giornata in una specie di galleria buia e in quel momento aveva visto la luce all'estremità. In soggiorno trovò Paulie che guardava il telefono. Si era seduto in un angolo del divano, il più lontano possibile dall'apparecchio, come se temesse che acquistasse vita e lo mordesse. «Hai finito di leggere?» le chiese, quasi ringhiando. «Adesso sei al corrente di tutte le notizie locali?» L'aveva mandato ad acquistare tutti i quotidiani della città, il Washington Times, il Post, il Banner, tutti quelli disponibili all'emporio più vicino. Poi si era messa a setacciarli. «Sì, ho finito», rispose. Dovette fare uno sforzo per evitare di fare un sorriso sciocco. Aveva trovato la soluzione a tutti i loro problemi. Be', forse non a tutti, ma almeno a quello principale, quello che li tormentava in quel momento. Era tanto or-
gogliosa di se stessa che si sarebbe messa a ballare. Ma prima voleva divertirsi un po' con Paulie. Non era stato del minimo aiuto, quindi se lo meritava. «Bene», disse lui. «Così adesso puoi forse pensare a ciò che dirò a Mac. Chiamerà da un momento all'altro, puoi scommetterci il culo.» «Oh, chiamerà, non ho nessun dubbio.» «E allora, che cosa gli dirò? 'Spiacente, Mac. Niente elementi di persuasione, con questo pacco. Poppy non me lo consente.' Giusto. Un momento dopo lo vedrai precipitarsi dentro da quella porta.» «Dirai che tutto è sotto controllo e che l'elemento di persuasione è pronto per la consegna.» Lui fece quella faccia arcigna che faceva sempre quando pensava che qualcuno avesse detto una stupidaggine. «Oh, giusto. E quando non lo consegnerò? Che cosa succederà?» «Oh, non ti preoccupare. Lo consegnerai. Nel momento stabilito.» Lui la fissò per un attimo o due, con gli occhi fuori delle orbite e la mascella ciondoloni. Oh, che bello. Lei fece molta fatica per evitare di scoppiare a ridere. Poi lui balzò in piedi, spalancando le braccia. «In che modo, Poppy? Sei ammattita, Cristo santo? Dove andrò a prendere un dito del piede di una ragazzina?» Bene. Il troppo stroppia. Spinse il giornale verso di lui. «Qui.» Mentre lui lo prendeva gli disse: «Ho fatto un cerchio intorno a quello che ti serve». Lui lesse per un po', poi la guardò. «Ma è... dovrò...» Lei alzò le spalle. «Chi è il miglior esperto in effrazioni che c'è in giro, Paulie, se non tu?» Sembrò che lui non intendesse negare quell'affermazione, quindi continuò a leggere. Infine alzò gli occhi e l'espressione mezzo incazzata e mezzo preoccupata che aveva avuto per tutto il giorno era cambiata. Fece un sorriso, seppure appena accennato. «Sai una cosa, Poppy? Penso che potrebbe funzionare.» «Io ne sono sicura.» Continuò a fissare il foglio, ad annuire, a sorridere. «Sei parecchio in gamba, per essere una ragazza.» Lei gli diede un pizzicotto sul braccio. «In gamba? Sono assolutamente straordinaria!» Lui l'abbracciò e scoppiarono a ridere. Sembrava orgoglioso di lei e a dire il vero anche lei era maledettamente orgogliosa di se stessa. Quando era stata l'ultima volta che si era sentita così? Poi lui l'allontanò da sé, improvvisamente serio.
«Però Mac non dovrà mai saperlo. Anche quando questa storia sarà finita, non possiamo lasciare che Mac sospetti minimamente quello che abbiamo fatto.» «Dopo la fine di questa storia non rivedremo mai più Mac. Esatto?» «Esatto. Quando telefonerà non saremo in casa.» Poppy lo abbracciò. Si sentiva come se le avessero tolto dalle spalle il peso del mondo intero. Gli avvicinò le labbra all'orecchio. «Sarà meglio che ti muova.» 11 Per trovare il posto a Paulie occorse più tempo di quanto avesse previsto. Dopotutto, non sapeva assolutamente niente di Arlington, in Virginia; ma le persone si dimostrarono molto servizievoli quando chiese la strada, e si perse solo due volte, passando davanti a un magazzino di articoli per la casa comprò un grosso paio di forbici da giardino. La ragazza giovane e bella che stava alla cassa lo indirizzò sulla strada giusta verso l'impresa di pompe funebri Lynch-MacDougal. C'erano in corso due veglie funebri. Paulie riteneva di essere abbastanza a posto per l'occasione, dato che era vestito tutto di nero. Entrò, con un aspetto appropriatamente triste, e controllò il sistema di sicurezza dei locali, o, come dicevano nei film, saggiò l'ambiente. Si sentiva a proprio agio a cercare cellule fotoelettriche, rilevatori di movimento, elettrocalamite alle finestre. Prima di occuparsi di sequestri di persona per Mac si guadagnava la pagnotta con le effrazioni. Gli facevano ancora comodo, quando il contante scarseggiava, fra un lavoro e l'altro. Una faccenda pulita. Entri quando il posto è vuoto, arraffi tutto quello che c'è in giro e te ne vai il più lontano possibile. Dentro e fuori. Niente confusione, niente disordine. Entri a tasche vuote e te ne vai con un po' di contanti e di gioielli. Quella volta ne sarebbe uscito con un dito del piede. Un po' strano, cavolo. Trovò il pannello di controllo vicino alla porta sul retro: sembrava semplice, allarmi solo a porte e finestre. Niente che lo costringesse a rimanere fuori, se avesse avuto la sua scatola di attrezzi, ma era rimasta a Brooklyn. Lì aveva bisogno di un trucco. Controllò il nome sul quotidiano che Poppy gli aveva dato. Edward Hadley, di sette anni. Secondo il necrologio, il piccolo Eddie si trovava lì «a
causa di varie ferite riportate in un incidente automobilistico». Mi dispiace, bimbo. Speriamo che non ti siano passati sopra i piedi. Vide il cartello con il nome Hadley ed entrò per una breve ispezione. Una brutta scena. Moltissimi genitori in lacrime e alunni delle elementari dall'aria confusa. Passò in fretta accanto alla bara. Il piccolo Eddie, almeno la metà superiore che era visibile, aveva un aspetto abbastanza buono. Si avvicinò a una finestra e fece un rapido controllo. Solo una microspia. Cristo, gli bastavano un diamante tagliavetro e una ventosa e sarebbe potuto entrare. Lanciò un'occhiata al parcheggio. No. Troppe luci, troppi palazzi tutt'intorno. Sarebbe stato esposto troppo a lungo. Voleva entrare e uscire senza che nessuno lo vedesse. Uscì di nuovo nel corridoio, dove vide un uomo con un completo e un grosso viso da irlandese, che dirigeva il traffico dei dolenti. A Paulie venne un'idea. Gli si avvicinò e lesse il nome sulla targhetta che aveva al bavero. MICHAEL L. MACDOUGAL. Uno dei proprietari. Avrebbe dovuto essere in grado di rispondere alla sua domanda. «State facendo un lavoro magnifico», cominciò Paulie. «Grazie. Facciamo del nostro meglio. Ma è così difficile, quando sono tanto giovani.» «Me lo immagino. Senta, dov'è...» «Ce ne sono tanti che muoiono giovani, di questi tempi.» Michael L. MacDougal stava scuotendo la testa. «Abbiamo ricevuto una povera ragazza poche ore fa. Intorno ai vent'anni. Sono tutti tanto giovani. Che cosa sta succedendo?» «Mi piacerebbe saperlo.» E vorrei che mi lasciasse dire due parole. «Dov'è la toilette degli uomini, fra parentesi?» MacDougal indicò oltre il cartello con il nome Hadley. «Il primo angolo a sinistra, in fondo alle scale.» «Dabbasso?» chiese Paulie, avviandosi. Magnifico! Nel suo percorso Paulie incrociò una donna con la faccia da cavallo, con un abito di tweed e una camicetta ornata di gale. La targhetta con il nome diceva EILEEN LYNCH. L'altro proprietario. Marito e moglie? si chiese. O forse una faccenda fra fratello e sorella. Chi vorrebbe quel tipo come moglie? Si affrettò giù per le scale e trovò una stanzetta con rivestimento in legno e un paio di divani malmessi. C'era una mezza dozzina di persone che fumavano. Sul soffitto un aspiratore. Una saletta per fumatori. Che premura. Scorse le due porte delle toilette e un'altra con la scritta PRIVATO. Entrò
nel bagno degli uomini e scoprì di averlo tutto per sé. Nello stanzino, sopra la tazza, c'era una finestrella che non sembrava collegata al sistema di sicurezza. Al di là, il parcheggio sul retro si estendeva al livello degli occhi. Girò la maniglia e la scosse. Cedette un poco, poi si bloccò. Erano anni che non era stata aperta, quella finestra, ma non riuscì a vedere niente che glielo impedisse. Tutto ciò che serviva era un po' di forza dal lato opposto e si sarebbe spalancata. Inserì un po' di carta igienica e lasciò la maniglia in posizione aperta, poi si avvicinò al lavabo per sciacquarsi le mani. Sorrise alla propria immagine nello specchio. Un lavoretto semplicissimo. Poi si accigliò, ricordando Poppy sola in casa con la bambina. Sperava che Mac non decidesse di capitare di persona per controllare l'elemento di persuasione. Quello sarebbe stato un bel guaio. 12 Poppy si sistemò la maschera di Minnie, poi slegò le mani a Katie e le tolse la benda. «Devi andare in bagno?» Lei scosse la testa senza parlare. Sembrava tanto abbattuta, povera bambina. Le sedette accanto, sul letto, e le massaggiò i polsi. «Ecco. Va meglio?» Katie la guardò con gli occhioni azzurri e fece un cupo cenno di assenso, poi fissò le mani di Poppy. «Perché hai le unghie nere?» «Perché mi do uno smalto di quel colore.» «Ah. Quando tornerò da papà?» «Presto. Molto presto.» Si domandò ancora una volta perché non chiedesse mai della mamma. Certo, anche Poppy era stata molto vicina al padre. La mamma aveva un posto fisso, alla cassa di un supermercato, quindi passava fuori casa la maggior parte delle giornate. Papà invece faceva lavori stagionali e a volte stava a casa per settimane. Dato che gli piaceva la pallacanestro e lei era figlia unica, le aveva insegnato presto a giocare. Passavano pomeriggi interi marcandosi a uomo. Papà, non sapevo nemmeno che fossi malato. Poppy guardò Katie e vide che aveva i capelli arruffati. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare, tenendola sempre legata al letto? «Che cosa ne diresti se ti sistemassi le treccine?» le chiese.
Katie si illuminò. «Potresti farmene una sola? La nonna non vuole mai.» «Niente in contrario. Una treccina sola in arrivo sul primo binario.» Il sorriso di Katie, con il dente che mancava e tutto il resto, fece provare a Poppy un brivido di piacere. Se basta questo per renderti felice, mia cara ragazzina, ti farò un milione di treccine. Poi il sorriso scomparve. «Non mi farai i capelli come i tuoi, vero?» Poppy si tastò quelli che uscivano dalla maschera. «Che cos'hanno che non va?» «Hanno un colore strano.» «Strano?» Poppy fece una risata. «Sono color notte profonda, tesorino, il rosa più forte che esista. Se lo applichi a capelli neri come i miei viene fuori il colore del vino rosso scuro.» «Comunque sia, non li voglio così, i miei capelli.» «Non ti preoccupare, non cambieremo il colore, faremo solo là treccina. Adesso girati e lascia che te li spazzoli.» Mentre si dava da fare con i capelli di Katie, non riuscì a evitare di pensare a Glory e di chiedersi se sarebbe potuta diventare così... «Come hai detto che ti chiami?» chiese Katie. Prima di riflettere le uscì di bocca il suo vero nome. «Poppy.» Accidenti a me! Proprio una cosa da Appelton! Cristo, e adesso che cosa faccio? La bambina sa come mi chiamo. «È un bel nome», osservò Katie. «Non vuole dire papavero?» Oh, be', ormai il danno era fatto. Ma forse non era poi tanto grave. Chiunque l'avesse interrogata avrebbe pensato che i rapitori avevano usato nomi finti, quindi non avrebbero dato peso a un nome come Poppy. Almeno lo sperava. «Sì. Papà mi chiamava sempre il suo papavero. Finché non sono cresciuta. Dopo mi chiamava il suo girasole.» «Adesso dov'è, il tuo papà?» Gli occhi di Poppy si velarono per un attimo. «Molto lontano.» «Dove sei nata tu? Molto lontano?» «No, io sono nata qui vicino.» Quella era una bugia, ma avrebbe dovuto depistare chiunque fosse andato in giro a cercare una Poppy nata nella Virginia settentrionale. Non c'era da preoccuparsi se fosse saltato fuori il suo vero nome. Non aveva mai detto a nessuno da dove veniva. Davvero, come si faceva a dire di essere nata a Sooy's Boot, nel New Jersey? Sooy's Boot! Come si faceva a pronunciare quel nome?
«Io invece sono nata molto lontano di qui, in Georgia.» «Lo pensavo, che fossi di qualche parte del Sud.» «Perché?» «Per l'accento, tesoro», spiegò imitando lo strascicare di Katie. «Non ho nessun accento.» «Oh, sì, ce l'hai...» Poppy si interruppe quando scoprì una depressione sul lato sinistro del cranio della bambina. «Ehi, che cos'è questa ammaccatura che hai in testa?» «Ho... ho avuto un incidente.» «Che tipo di incidente?» «Mi sono fratturata il cranio.» A Poppy si rivoltò lo stomaco. «Accidenti! Quand'è successo?» «Quand'ero piccola.» «Quand'eri...» Poppy dovette fare una risata. «Adesso non sei poi tanto grande. Almeno non sei nata in questo modo. Se fossi nata così, potrei credere che tu fossi un Appleton.» «Chi sono gli Appleton?» «Delle persone strane che stanno nel posto da dove vengo io. Molti di loro hanno la testa con una forma curiosa.» «Credevo mi avessi detto che eri cresciuta qui intorno.» «Sì», fece Poppy molto in fretta. «Sì, be', un luogo non molto lontano da qui.» Non lontano, in chilometri, pensò. Forse poco più di trecento. Ma tanto lontano in tutti gli altri sensi che avrebbe benissimo potuto trovarsi su Marte o in un posto del genere. Sooy's Boot... uno starnuto su una delle strade che attraversano il cuore dei Pine Barrens del New Jersey. Era nata e cresciuta là, e ciò la rendeva una Piney genuina, una ragazza della zona delle pinete. Che per la maggior parte della gente significava «povera zoticona». Ma non ricordava di essere stata povera, quando stava crescendo. Sua madre lavorava come cassiera al K-Mart e il padre seguiva il ciclo naturale della pineta: falciava lo sfagno in primavera, raccoglieva varie specie di mirtilli in estate, poi quelli palustri verso l'autunno e tagliava legna da ardere per tutto l'inverno. Avevano tutto il necessario. Finché non era morta la mamma. Aveva sempre avuto disturbi alle vene delle gambe e una era diventata rossa e infiammata. Sarebbe dovuta andare dal dottore, ma aveva sempre rimandato, finché un giorno, al lavoro, si era stretta il petto ed era crollata a terra. Era morta durante il percorso verso l'ospedale. Il medico legale aveva detto che da una vena era partito un
grosso grumo di sangue e le aveva bloccato il cuore. Così Poppy e il suo papà erano rimasti soli. Non aveva che lei. quindi l'adorava. E senza dubbio Poppy sarebbe ancora vissuta nella zona delle pinete, sarebbe diventata un'altra Piney, avrebbe sposato un ragazzo del posto e avrebbe allevato un mucchio di ragazzini... se non fosse stato per la pallacanestro. Sempre spazzolando i capelli a Katie, Poppy sorrise ricordando quei bei giorni. Cristo, se era brava. Papà le aveva insegnato tutti i fondamentali prima che compisse dieci anni e alle medie, durante l'intervallo, giocava con i ragazzi e non era da meno di loro. L'allenatore delle superiori le aveva dato un'occhiata durante le selezioni e l'aveva messa nella squadra universitaria. Aveva dovuto tollerare una buona dose di rancore, finché non avevano cominciato a vincere come non avevano mai fatto prima. Tutto merito mio, pensò. Nessuna vanteria. La pura verità. Era straordinariamente brava, riusciva ad aggirare chiunque le si muovesse incontro e quando la bloccavano arretrava e faceva un lancio da tre punti. E se si disperavano al punto da commettere fallo, ne segnava due su due, di tiri liberi: novantacinque per cento, dalla linea. Al terzo anno le avevano già offerto di ammetterla alla Rutgers University, nel New Jersey. Papà era al settimo cielo. Il suo papavero sarebbe andata al college. La grande palla rotonda avrebbe rappresentato il biglietto per uscire dalla povertà e dalla zona delle pinete. Poi aveva fatto una cosa degna degli Appleton: si era innamorata. Di Charlie Pilgrim, oltre tutto. Non poteva evitare una smorfia, quando ci pensava. Come aveva potuto comportarsi in modo tanto stupido? Be', una cosa tira l'altra, come succede spesso, e Poppy scoprì di essere incinta. E poiché non poteva di certo abortire (dopotutto era figlio di Charlie, ed erano innamorati), aveva dovuto abbandonare la pallacanestro. Naturalmente papà l'aveva presa malissimo. E la vista della sua faccia tutti i giorni, quando tornava a casa dalla scuola invece di allenarsi con la squadra, era diventata una tortura tale da risultare alla fine troppo difficile da sopportare. Quindi lei e Charlie erano scappati a New York, dove lui avrebbe trovato lavoro, poi si sarebbero sposati. Ma non era mai riuscito a ottenere un posto fisso, e non avevano mai celebrato il matrimonio. Erano finiti a carico dell'assistenza pubblica e avevano diviso con altre due coppie uno schi-
foso appartamento nel Lower East Side. Poi era nata la bambina. Era di una bellezza gloriosa e per quello l'avevano chiamata Glory. Poco dopo la bimba aveva cominciato a soffrire di convulsioni; i dottori del centro medico avevano detto che aveva un difetto al cervello, che in testa aveva qualcosa che non andava e le aveva procurato l'epilessia. Avevano provato con ogni genere di medicine, ma aveva continuato ad avere attacchi (i dottori li chiamavano convulsioni) fino all'ottantanovesimo giorno di vita, quando gliene era venuto un ultimo, inarrestabile, che era durato finché non era morta. Tutti i medici si erano molto dispiaciuti; qualche infermiera aveva persino pianto. Nessuno conosceva la ragione di quegli attacchi, ma Poppy la sapeva. Era il sangue della sua famiglia. Ne aveva un po' anche lei. Papà l'aveva sempre negato, ma ciò che era successo a Glory ne era la prova. Poppy aveva il sangue cattivo, come tutti gli altri delle sue parti. Dopo quello che era accaduto, non era facile starle accanto. Odiava i medici e tutte le persone vicine a lei, ma soprattutto odiava se stessa. Charlie non era riuscito più a sopportare. Avrebbe voluto riportarla a Sooy's Boot, ma lei non se la sentiva di rivedere il padre. Non dopo aver perduto la bambina a causa del sangue cattivo della gente che viveva da quelle parti. Quindi Charlie se ne era andato da solo. Probabilmente aveva raccontato ogni genere di balle su di lei, al suo ritorno. Ma a Poppy non importava. Voleva morire. E si sarebbe davvero potuta ammazzare, se non avesse scoperto la blasfema trinità: l'erba, la metedrina e la coca. Non facevano cessare la sofferenza, ma la rendevano sopportabile. Erano seguiti alcuni anni lunghi e bui, che ormai erano un confuso ricordo. Cercò di non pensare alle cose che aveva fatto per tirare avanti. Aveva frequentato persone molto malvagie, aveva anche fatto delle marchette, nei momenti di disperazione, era andata in overdose un paio di volte ed era stata picchiata ancora più spesso, e sarebbe benissimo potuta essere morta, se non avesse incontrato Paulie. Lui le aveva cambiato la vita, e le piaceva pensare che lei aveva cambiato quella di Paulie... in meglio, naturalmente. Il suo unico rimpianto era di non essere mai tornata a casa, nemmeno per una visita. Era stata tanto presa da se stessa da non avere mai immaginato che papà potesse star male... che non sarebbe vissuto per sempre. E poi non c'era più... non ci sarebbe più stato... e lei non l'aveva saputo
se non dopo che era stato sepolto da sei mesi. Forse è proprio quello che farò quando sarà finita questa faccenda, pensò mentre finiva di fare la treccia a Katie. Badare alla bambina le aveva risvegliato un desiderio. Aveva creduto che non avrebbe mai voluto tornare a Sooy's Boot, ma in quel momento... Sentiva il desiderio di tornare a casa. Nella zona delle pinete aveva ancora dei parenti. Forse avrebbe potuto riprendere i contatti... se qualcuno avesse ancora voluto parlarle. «Devo andare in bagno», annunciò Katie. «Certo, tesoro. Così potrai controllare la treccia allo specchio.» Erano già a metà strada quando squillò il telefono. Poppy chiuse in fretta la bambina nel bagno. «Sta' lì finché non vengo a prenderti», le disse; poi corse a rispondere. Alzò il ricevitore al quarto squillo e si fece scivolare sulla nuca la maschera di Minnie. «Pronto?» «Perché ci hai messo tanto?» Riconobbe la voce: Mac. «Portavo in bagno il pacco.» Cristo, se odiava quella parola. «Passamelo.» Intendeva Paulie. Poppy sapeva quanto Mac odiasse fare nomi o accennare a qualcosa di specifico per telefono. Parlargli era come non dire le cose. Forse riusciva a capirlo, ma poteva almeno dire «Ciao» o «Come va?» Cristo, quanto lo odiava, quel tizio. Prima se ne liberavano, meglio era. Non ne vedeva l'ora. «Non c'è.» «Dove diavolo è andato?» «Fuori.» Se vuole notizie, pensò, faccia almeno lo sforzo di chiedermele. «Non raccontarmi balle, ragazza. Dov'è?» «A far spese. A procurarsi degli attrezzi.» «Attrezzi? Che cosa mi racconti? Ha preso l'elemento di persuasione? È imballato e pronto per la consegna?» «Non ancora.» Silenzio all'altro capo del filo, poi una voce così bassa e glaciale che per poco non lasciò cadere il ricevitore. «Sarà meglio che ti spieghi.» Si era preparata. Aveva provato tutto il discorso. «Sarà fatto. Solo che è un po' più difficile dell'altro. La superficie su cui lavorare è più piccola, se capisci quello che intendo.» «Allora tornate all'originale. Come l'ultima volta.» Certo, Mac, pensò lei. Un dito della mano. Sicuro. Quando nevicherà al-
l'inferno. «In un modo o nell'altro, è una situazione diversa. Non possiamo imbottire d'alcol questo pacco come abbiamo fatto con l'altro.» Che incubo era stato. «Allora adoperate qualcosa di diverso. O forse dovrei venire lì io e sorvegliare l'operazione.» Oh, Cristo, no! No, no, no! «Non importa, Mac. Ci pensiamo noi. Sarà fatto non appena torna.» «Sì? Che attrezzo è andato a comprare?» «Una mannaia da macellaio.» Un altro silenzio da parte di Mac, più breve. Quando parlò di nuovo, la sua voce era meno tesa. «Sì, quella dovrebbe andare bene.» «Sarà una cosa veloce ed elegante», fece lei, costringendosi a parlare. Non riuscì a impedirsi di soggiungere: «Ma non importa come si considera la cosa, è una faccenda orribile. Voglio dire, ha solo...» «Attenta! Attenta a quello che dici.» «Va bene, ma...» «Niente ma. E non fare la sentimentale con me. Un piccolo elemento di persuasione renderà le cose molto più facili e permetterà di concludere più in fretta. E poi, non ne sentirà mai la mancanza.» E non dimenticherà mai ciò che le hanno fatto due estranei quando aveva sei anni. Ma ci penserò io, a far sì che non abbia bisogno di dimenticare. Poppy sospirò con tutto il rimpianto che riuscì a mettere insieme. «Suppongo che tu abbia ragione.» «Supponi? Sarà meglio che tu creda che ho ragione. Digli che chiami la mia segreteria, se c'è qualche problema, altrimenti sa dove deve recapitarlo.» Mac riagganciò nel bel mezzo del suo «Sì». Cristo, non lo poteva soffrire. Si rimise la maschera e fece uscire Katie dal bagno. Aveva bisogno di coccolare un po' quella bambina, per eliminare l'amaro che le aveva lasciato in bocca il colloquio con Mac. 13 Paulie si era nascosto in un folto d'alberi di fronte all'impresa di pompe funebri Lynch-MacDougal, dall'altra parte della strada, e aveva aspettato che tutte le persone in lutto se ne fossero andate. Attese finché tutte le finestre non furono buie, poi emise un gemito quando vide Michael e Lydia
apparire sulla soglia della porta che dava sul retro. Le luci del parcheggio, accidenti! Non lasciatele accese. È uno spreco di energia. A quanto parve, alla coppia non importava. Chiusero a chiave e si diressero ognuno verso la propria auto, poi se ne andarono nella medesima direzione. Non era ancora riuscito a capire in che rapporti fossero quei due e in realtà non ci teneva a saperlo. Aveva un problema: le lampade al sodio che circondavano il parcheggio non lasciavano neanche un angolino d'ombra tutt'intorno alla costruzione. Sarebbe stato come commettere un'effrazione in pieno giorno. Ma bisognava farlo. Almeno la finestra del bagno era dall'altra parte, e quel fatto gli concedeva un po' di riparo. Si controllò le tasche: lampada a stilo, forbici da giardino, i guanti di cuoio che aveva usato come autista il giorno prima. Guardò la strada. Quando non ci fu nessun'auto in vista attraversò d'un balzo e si diresse come un fulmine verso la porta posteriore dell'impresa di pompe funebri. Si fermò un istante, ansimando, assumendo un'aria innocente, mentre cercava di notare se avesse attirato l'attenzione di qualcuno. Non si era mosso niente. Si accovacciò, scorse il bianco della carta igienica che aveva lasciato per segnalare la finestra giusta e le diede una spinta. Si aprì con facilità. Paulie si rotolò sul ventre, spinse le gambe nell'apertura e scivolò dentro. Ebbe qualche difficoltà a far passare le spalle, ma vi riuscì con una torsione e si ritrovò in piedi sopra la tazza. Chiuse la finestra e accese la lampada a stilo. Nella buia saletta per fumatori cercò la porta con la scritta PRIVATO. Aveva pensato a quel che poteva esserci là dentro e gli era venuta un'idea. Entrò e illuminò il locale. Proprio ciò che aveva sospettato: file di bare di legno lucido. Era lì che tenevano le casse da morto. Con la lampada in bocca, si spostò da una cassa all'altra, provando la chiusura di ciascuna. Niente di difficile. Erano su per giù dello stesso tipo. Aveva temuto di incontrare difficoltà con quella di Eddie Hadley. Si preoccupava sempre di usare la lampada il meno possibile, quando c'erano finestre. Laggiù poteva stare tranquillo, ma al pianterreno aveva visto molte vetrate. Mentre si voltava per andarsene, la lampada colse un riflesso argenteo in un angolo in fondo al locale. Sembravano lavabi e banconi di acciaio inossidabile. Doveva essere là che Lynch e MacDougal eseguivano le opera-
zioni di imbalsamazione. Su una tavola scorse una figura coperta da un lenzuolo. Il prossimo cliente? Paulie sapeva che sarebbe dovuto andare di sopra, all'appuntamento con il dito del piede di Eddie Hadley, ma fu attratto irresistibilmente da quella tavola. Solo un'occhiata. Non occorreva più di un istante... Avvicinandosi si fece un'idea di dove fosse la testa. Sollevò il lenzuolo e illuminò il volto di una ragazza dai capelli castani. Bianca come il lenzuolo, ma sembrava che dormisse, che se l'avesse scrollata avrebbe aperto gli occhi e l'avrebbe guardato. Doveva essere la giovane di cui aveva parlato MacDougal. Paulie sollevò ancora il lenzuolo: nuda come una danzatrice del ventre, e molto ben fatta. La fissò, chiedendosi di che cosa fosse morta. Peccato. Era una vera bellezza. Lasciò ricadere il lenzuolo e si diresse di sopra. Trovò la stanza di Hadley ed entrò. La lampada gli mostrò la via da seguire fra le sedie. Arrivò alla bara e scoprì che l'avevano chiusa. Per me va bene, pensò. Non gli garbava molto l'idea che il bambino lo guardasse mentre gli tagliava il dito. Tastò la bara finché non trovò la chiusura della parte inferiore, l'aprì e la sollevò. Un altro rapido sprazzo di luce per orientarsi e... «Che mi venga un accidente!» Il bambino non aveva addosso né pantaloni, né scarpe né calze. Per Paulie le cose sarebbero state più facili, certo, ma era un vero choc. Se vestivano la parte di sopra, avrebbero dovuto vestire anche il resto, no? «Va bene, Eddie, ragazzo mio, è giunto il momento di dare il tuo contributo alla causa.» Non poteva evitare di usare la lampada, ma almeno avrebbe avuto il coperchio della bara tra sé e la finestra. Tirò fuori di tasca le forbici da giardino, si ficcò in bocca la lampada e si piegò sui piedi del bimbo. Trovò il mignolino del piede destro, vi mise intorno le forbici e strinse. Neanche una minima parte della resistenza che si era aspettato. Un po' di pressione, un debole rumore, ed ecco pronto l'elemento di persuasione, proprio su misura. Si mise in tasca le forbici e prese in mano il ditino. Non aveva mai fatto una cosa simile, prima. Una cosina minuscola, grande la metà del filtro di una sigaretta e quasi dello stesso colore, ma più pesante. Guardò meglio e si accorse che l'estremità tagliata era umida e rossastra, ma non sanguinava. Forse era un problema, ma ci avrebbe pensato dopo.
Ormai aveva preso ciò per cui era venuto e voleva andarsene. Guardò l'orologio: niente male, da porta a porta, o meglio da finestra a finestra, in dieci minuti. Tirò fuori il sacchetto che aveva portato, ma mentre stava per infilargli dentro il ditino se lo sentì sfuggire di mano. «Cazzo!» Non era caduto dentro al sacchetto, quindi doveva essere finito per terra. Cristo, doveva trovarlo. Paulie si inginocchiò e cominciò a dirigere il raggio della lampada sul pavimento. Magnifico... la moquette era beige... e spessa. La solita fortuna. La cosa più semplice sarebbe stata tagliare l'altro mignolino e lasciar perdere quello. Ma qualcuno l'avrebbe trovato e avrebbe voluto sapere da dove veniva. E ci avrebbe scommesso il culo che i giornali e le televisioni avrebbero cominciato a gridare ai quattro venti che qualcuno andava in giro a tagliare i ditini dei piedi ai bambini, e allora Mac gli avrebbe dato la caccia per farlo fuori. No. Doveva trovare quello. Almeno era più basso della finestra e la lampada a stilo non sarebbe stata notata da fuori. Ma dov'era finito, quel maledetto affare? Non si rese conto di quanto tempo restò per terra, in ginocchio, accovacciato, carponi, steso sul ventre, illuminando qua e là con il raggio della lampada. Gli parve un'eternità, ma infine tra le fibre della moquette individuò una sporgenza più chiara, a circa un metro dalla bara. Era lui? Sì. Per poco non pianse per il sollievo. Come diavolo aveva fatto ad arrivare fin lì? Doveva essere rimbalzato e rotolato, accidenti. Ma che importava? L'aveva recuperato e non l'avrebbe più perso. Ancora disteso sul pavimento, sigillò il ditino nel sacchetto e se lo ficcò in fondo alla tasca anteriore dei jeans. Poi si alzò, risistemò la parte inferiore della bara di Eddie e la richiuse. «Grazie, amico. Sei stato davvero...» Le parole gli si strozzarono in gola. Fuori della finestra... nel parcheggio... un'auto. Cristo! Da dov'è venuta? Sarà arrivata mentre ero sul pavimento. Ma chi...? Nell'entrata udì il debole rumore di una serratura che si apriva. Si immobilizzò come una statua e rimase in ascolto. La porta sul retro si schiuse con uno scricchiolio. Udì un pannello di allarme che cominciava a suonare, per poi smettere quando fu inserito di nuovo il codice di sicurezza. Udì qualcuno che canticchiava a bocca chiusa. Un uomo. MacDougal? Sì. L'auto nel parcheggio era la sua. Quando nel corridoio si accese una luce, Paulie si rannicchiò dietro la bara, ma invece di proseguire in quella dire-
zione MacDougal scese dabbasso. Sulle prime Paulie imprecò: era la sua via di uscita. Sarebbe stato bloccato finché MacDougal non fosse andato via, e quanto tempo sarebbe rimasto? Va bene, si disse. So di chi si tratta. Ma perché è venuto? Riuscì a pensare a un'unica ragione per giustificare il ritorno di MacDougal a quell'ora e il fatto che si fosse diretto al piano di sotto: doveva imbalsamare la bella ragazza sulla tavola. Merda, poteva impiegarci ore, e Paulie non aveva tutta la notte a disposizione. Mac voleva una telefonata, dopo la consegna dell'elemento di persuasione. Se non l'avesse ricevuta presto avrebbe cominciato a innervosirsi... avrebbe potuto decidere di andare a controllare il pacco. Poi Paulie si rese conto di una cosa: l'allarme era stato escluso. Avrebbe potuto scivolare fuori della porta sul retro: camminare, non più strisciare. Si deve approfittare delle occasioni. Uscì nel corridoio e si diresse verso il retro, muovendosi con precauzione, seguendo il muro, dove era meno probabile che le assi del pavimento scricchiolassero. Ma mentre passava davanti al pannello di sicurezza si fermò e trattenne un gemito. La spia era rossa: MacDougal aveva riarmato il sistema di allarme. Bene. C'era solo una cosa da fare. Se si trovava in quella stanza a fare qualunque cosa facciano i becchini alle ragazzine defunte, probabilmente non avrebbe udito Paulie scendere dabbasso e scivolare fuori della finestra del bagno. Una mossa rischiosa, ma fattibile... se si avevano le palle per provarci. Paulie sapeva che se non le avesse avute avrebbe fatto meglio a trovarle da qualche parte, perché doveva assolutamente andarsene. Si diresse al piano di sotto, procedendo con la maggiore cautela possibile. La moquette lo aiutò. Quando raggiunse il fondo delle scale sbirciò nella sala fumatori e vide che era vuota. Benissimo. La porta della stanza con la scritta PRIVATO era aperta a metà, e udì la voce di MacDougal provenire dall'interno: parlava, non canticchiava più. Il caso peggiore che poteva capitare a Paulie era entrare nel bagno e trovare l'impresario che si faceva una cacata. Stava per aprire la porta del bagno quando udì MacDougal mutare il tono di voce. Gemeva, faceva rumori strani. Paulie sapeva che non poteva permettersi digressioni, ma doveva vedere che cosa stava accadendo.
Si avvicinò furtivamente, appoggiò il naso alla superficie esterna e spostò la testa finché non riuscì a sbirciare dall'altra parte. In fondo alla stanza, il corpo nudo e grasso di MacDougal si agitava sopra la ragazza morta distesa sul tavolo da imbalsamazione. Affascinato e disgustato insieme, Paulie rimase a guardare per qualche istante, poi si allontanò. I rumori animaleschi che si lasciava sfuggire MacDougal erano una copertura perfetta per la sua uscita. Scuotendo il capo, Paulie tornò nel bagno. Eccentrici... il mondo ne era pieno. 14 Poppy udì la porta del garage che si alzava. Sbirciò fuori e vide entrare il furgoncino. Finalmente! Cristo, era stato via tanto che aveva pensato gli fosse capitato qualcosa. Più tempo del previsto poteva significare solo guai. Almeno adesso sapeva che non l'avevano beccato. Ma se non fosse riuscito a prendere il ditino? Doveva averlo preso. Non riusciva a pensare a nessun altro modo per uscire da quel casino. Aspettando che entrasse trattenne il fiato. Poi gli saltò letteralmente addosso. «Ce l'hai? Per favore di' di sì. Per favore!» Le lanciò un'occhiata innocente. «Che cosa? Che cosa dovevo prendere?» «Paulie! Non farmi una cosa simile!» Infine lui sorrise. «Certo che ce l'ho.» Gli si abbandonò contro. «Oh, grazie al cielo! Ero così preoccupata.» «È stato facile. Vuoi vederlo?» «No, grazie tante. Preferisco di no.» «Forse sarebbe meglio se ci dessi un'occhiata.» Lei fece un passo indietro e lo guardò. «Perché? Non dirmi che il bambino morto era nero o qualcosa del genere.» «No. Bianco come il pacco. Ma manca qualcosa, una cosa di cui abbiamo bisogno se dobbiamo andare fino in fondo.» «Che cosa?» «Il sangue. L'elemento di persuasione non otterrà il suo scopo se lo mandiamo in queste condizioni. Dobbiamo spargere sul bordo un po' di sangue fresco.» Poppy deglutì. Aveva ragione. Lei non ci aveva pensato. «Bene. Possiamo adoperare il mio.»
Lui scosse la testa lentamente. «E se paparino lo fa esaminare, tanto per essere sicuro che è della figlia? Non possiamo correre questo rischio. Ci serve il suo.» «No no», fece lei arretrando di un altro passo. «Niente da fare.» «Poppy», spiegò lui parlando lentamente. «Mi sono fatto in quattro per salvare il ditino del piede della tua amichetta. Per completare il lavoro abbiamo bisogno solo di qualche goccia del suo sangue. Quello che si ricava da una puntura di spillo, santo cielo. Altrimenti sarai responsabile di ciò che succederà quando Mac arriverà con la notizia che il padre del pacco dice che quello non è il dito della figlia.» Aveva ragione. Non le piaceva, ma era l'unica maniera. Una punturina era un prezzo molto piccolo da pagare per salvare tutto un dito. Sospirò. «Va bene. Ma prima fammi parlare con lei.» Era abbastanza sicura che sarebbe riuscita a far capire a Katie una cosa simile. Quella sera erano state abbastanza vicine. Come lo chiamano? Un buon rapporto? Sì, così. Katie e io abbiamo stabilito un buon rapporto, stasera. Venerdì 1 Il nome completo della marijuana è canapa indiana, e si tratta di una pianta molto utile. Produce la fibra naturale più robusta che si conosca. I primi tessuti e la maggior parte della tela per vele si tessevano con questo filato. Infatti, la parola olandese che significa canapa è canvas, che in inglese significa tela. SAPETE che occorrono quattro acri di alberi dell'età di ventiquattro anni, per ottenere la stessa quantità di carta che produce un acro di canapa? E senza l'impiego di candeggianti e di diossina? Si possono ottenere metanolo, olio da cucina, proteine vegetali, medicamenti... e l'elenco potrebbe continuare. La canapa è un prodotto ad alta redditività che non richiede neanche una sovvenzione. È da stupidi mantenerlo nell'illegalità. John abbassò il volume del televisore, attutendo il suono della voce di Heather Brent. Era un bip quello che aveva udito? Sembrava che giungesse da più in giù lungo il corridoio, dallo studio... e dal computer. Un vero bip, o solo un'illusione? Probabilmente l'aveva solo immagina-
to. Si sedette sul bordo del letto e si sfregò il viso. Un'altra notte insonne. Un'altra serie di spedizioni infruttuose fino al computer in cerca della posta elettronica di Snake. Aveva pregato tutta la notte per avere notizie dai rapitori. Ormai era arrivato al punto di udire rumori inesistenti. Ma doveva controllare. Aveva lasciato il computer collegato alla rete della Sanità. Se fosse arrivata della posta elettronica avrebbe fatto un bip. Quella carogna, pensò John mentre percorreva il corridoio per un ennesimo controllo dell'icona della posta elettronica, mi sta davvero punendo, per quell'interruzione. Forse pensa che non avere notizie per un giorno intero mi abbia tormentato tanto che sarò estremamente arrendevole e farò tutto ciò che vogliono. Be', non sbaglia di molto. John aveva deciso di acconsentire, a parole, senza richieste o riserve di nessun genere, a tutto ciò che esigeva Snake. Ma per tutto il tempo aveva cercato un modo per evitare di avvelenare Tom. Ancora non sapeva come, ma era certo che avrebbe escogitato qualcosa. Entrò nello studio e guardò lo schermo con gli occhi socchiusi. Era davvero... Si avvicinò. Sì, l'icona della posta elettronica stava lampeggiando. Scaricò il messaggio. Proveniva dall'anonimo provider, sia ringraziato il cìelo!, ma erano solo undici parole: Controlla la posta normale, poi manda la risposta tramite quella elettronica. La posta normale? Ma il postino passa solo... La cassetta della posta. John si infilò un paio di pantaloni e corse fino al marciapiede. Aprì lo sportello della cassetta delle lettere e vi trovò una busta imbottita. Fece per prenderla, poi esitò al pensiero che potesse trattarsi di una bomba o di un ordigno dall'aspetto innocuo. Si sentì sconvolto al pensiero che Snake o un suo uomo, forse il tizio in tuta che era andato al drugstore, si fosse fermato lì non molto tempo prima, ma lo scacciò. Se avesse guardato fuori della finestra avrebbe potuto scorgerli. Con cautela mise dentro la mano e tolse la busta. Leggera. Non poteva contenere molto di più che carta. Controlla la posta normale, poi manda la risposta tramite quella elettronica. Poteva solo significare che erano istruzioni scritte. O forse qualche nuova richiesta.
Un unico modo, per scoprirlo. Traendo un profondo respiro, strinse il lembo di apertura e tirò. Vi infilò dentro una mano, ma non trovò nessun foglio. Solo un sacchettino di plastica. Lo estrasse e lo fissò. Sulle prime pensò che fosse vuoto, poi scorse qualcosa in un angolo. Qualcosa di piccolo. Non più grande di un'unghia. Bianco... e rosso... e il rosso si era sparso sulla superficie interna dell'involucro. Il cuore si mise a battergli forte... con dita tremanti si piegò per guardare meglio. E quando si rese conto di che cos'era, le gambe gli cedettero e cadde in ginocchio con un angosciato urlo di dolore e di disperazione, così lungo e forte che i cani del vicinato si misero ad abbaiare. 2 Snake percorse in fretta il sentiero fino alla casa. Avrebbe preferito limitare i contatti con Paulie ai telefoni e ai bar degli alberghi, ma si faceva vedere almeno una volta per ispezionare la sistemazione. Ciò che non gli piaceva era la possibilità che qualcuno si ricordasse di lui o della sua auto, nell'improbabile eventualità che la casa fosse in qualche modo collegata al sequestro. E per quella ragione aveva in testa un berretto degli Orioles e il bavero rialzato. La targa della Virginia sulla Jeep era presa in prestito e sarebbe stata buttata nel Potomac una volta finita tutta la faccenda. Nonostante tutte quelle precauzioni si sentiva nudo come un verme. Ma ciò non intaccò il suo buonumore. Quella mattina aveva avuto notizie da VanDuyne e tutto era sotto controllo. Avvicinandosi alla porta ispezionò rapidamente la casa. I fiori color burro della forsythia cresciuta male lungo le fondamenta facevano ben poco per togliere alla costruzione l'aspetto trasandato. Il prato non era gran che, ma sembrava risvegliarsi dopo l'inverno. La manutenzione del cortile faceva parte del contratto annuale d'affitto, ma sarebbero stati tutti molto lontani prima che avesse bisogno di una tosatura. Bussò alla porta. «Sono io. Tutti al loro posto?» Li aveva avvertiti della visita per telefono. Voleva che il pacco fosse ben nascosto, quando arrivava. Paulie aprì la porta. «Sì. Va tutto bene. Entra.» Mentre l'uscio si richiudeva alle sue spalle, Snake allungò un braccio e gli strinse la mano. «Hai fatto un buon lavoro, con quell'elemento di persuasione. Ha fun-
zionato come una formula magica.» È sempre una buona politica, elogiare un po' i gregari, quando se lo meritano. Un complimento non costa niente e qualche volta è meglio dei soldi. Qualche volta. Vide Poppy seduta sul divano a leggere una rivista. Lei non alzò gli occhi e lui non si prese la briga di salutarla. Quella puttana era una grandissima rompiballe. «Ah sì?» fece Paulie sorridendo fra la barba. «Come fai a saperlo?» «Stamattina ho ricevuto un messaggio da parte sua. Si sta facendo praticamente in quattro per collaborare.» «Così ci ha creduto, vero?» Snake si accorse che Paulie e Poppy si erano scambiati una rapida occhiata. Che cosa stava succedendo? «Creduto? Che cosa c'era da credere? È il dito del piede di sua figlia.» «Sì, lo so. Ma potrebbe aver pensato che fosse già morta e che le avessimo semplicemente tagliato un ditino, o qualcosa del genere. Ma certo, con il sangue fresco sul dito, avrà creduto che è ancora viva.» Snake non aveva mai sentito Paulie chiacchierare tanto, e non gli piaceva affatto. «C'è qualcosa che non va, Paulie?» «Che non va?» Gli lanciò un'occhiata strana, circospetta. «No. Perché dovrebbe esserci qualcosa che non va?» «Perché non ti comporti come al solito.» «Forse perché non ha mai dovuto molestare un bambino, prima d'ora», intervenne Poppy. Snake non si prese la briga di guardarla. «Nessuno ha molestato nessuno. E chi ti ha chiesto qualcosa, a ogni modo?» «Come lo chiami, tagliare un dito del piede a una bambina di sei anni?» chiese brusca. «Non è stata una passeggiata. E per fortuna non le è venuto un attacco, accidenti.» A quel punto non aveva scelta, dovette guardarla, e fu sorpreso dalla rabbia e dalla repulsione che le vide negli occhi, come se stesse guardando qualcosa strisciato fuori da sotto un sasso. Ricacciò l'impulso di avvicinarsi a lei e di farle cambiare quell'espressione a forza di schiaffi. «Attacchi?» «Sì, gli attacchi per cui prende quelle compresse.» Infine capì. «Ah, volevi dire convulsioni.» Disse quella parola con molta acidità. «Hai bisogno di migliorare il vocabolario, tesoro.» «E tu devi lavorare sulle tue fonti. Come mai non sapevi che le venivano
degli attacchi?» Snake ne aveva avuto abbastanza, di quella puttana. Si rivolse a Paulie. «Di' alla tua ragazza di non parlare se non viene interpellata.» «Ha il diritto di esprimere la sua opinione.» «Quando voglio sapere l'opinione di qualcuna con i capelli rosso vino gliela chiedo.» Paulie alzò le mani. «Bene, bene. Voleva solo dire che è stato parecchio rischioso tagliare quel dito. Spero ne sia valsa la pena.» Snake si concesse un attimo per calmarsi. «Sì. Ne è valsa la pena. Avresti dovuto vedere il messaggio del padre. Assolutamente fuori di sé. Se fosse stato su un foglio di carta sarebbe stato macchiato di lacrime.» Sorrise. Leggendo le parole supplichevoli di VanDuyne aveva quasi potuto udire i suoi singhiozzi. Per favore, oh, per favore, oh, per favore, non fatele più del male! «Suppongo che tu sia orgoglioso di te stesso», osservò Poppy. Le voleva... le voleva proprio... «Via, Poppy», intervenne Paulie, lanciandole un'occhiataccia. «Sì», continuò Snake, ignorandola. «Niente più discussioni da parte di papà. È disposto a fare tutto quello che vogliamo.» «E che cosa vogliamo che faccia?» chiese Paulie. «È una cosa che deve restare fra me e le altre persone interessate. Meglio che tu non lo sappia.» Non voleva che scoprissero che gliel'avevamo comunicato solo trentasei ore prima. E adesso che lo sapeva, non l'avrebbe certo riferito a quei due. «E allora, dov'è il pacchettino?» chiese a Paulie. Lui indicò la porta che dava nella camera da letto principale. «Là dentro.» «Bene, darò soltanto un'occhiata, per finire il giro di ispezione.» «Sta dormendo», intervenne Poppy. Non sapeva proprio quando doveva stare zitta, quella puttana? «Bendata?» chiese a Paulie. «Certo. È la procedura standard.» «Bene.» Si avviò verso la porta. «Allora farò solo capolino.» Poppy si alzò e si mise accanto all'uscio, con uno sguardo preoccupato che andava da Paulie alla porta, a Snake, e faceva di nuovo il giro. «Non farlo. La sveglieresti. Non sai quanto abbiamo dovuto penare per farla addormentare.»
«I baby sitter sono pagati per queste cose.» Le passò davanti e aprì la porta. La luce era spenta, quindi cercò l'interruttore e lo azionò. Poppy gli scivolò davanti e si mise ai piedi del letto. Sembrava molto nervosa, si mordeva le labbra, si sfregava le mani. Come se il pacco fosse stato sua figlia. Ma Snake dovette ammettere che tutto sembrava a posto: il pacco era bendato e legato alla testata del letto, come doveva essere. Indossava una camicia scozzese e una tuta. Al piede sinistro una scarpa da ginnastica, al destro una grande fasciatura. Annuì e uscì, lasciando indietro Poppy. Paulie non aveva ancora un aspetto normale. Era una cosa che preoccupava Snake. Non voleva che quei due si lasciassero cogliere dal panico. L'operazione avrebbe dovuto continuare ancora per un po'. «Ehi», osservò con un sorriso. «Sta benissimo. Per quanto si può vedere non si capisce nemmeno che cosa le avete fatto. E non sentirà mai la mancanza di quel dito.» «Sono molto contento che abbia funzionato», osservò Paulie, «perché non so se ce la farei, se volessi un altro elemento di persuasione.» «Che cosa c'è, Paulie? Stai diventando uno smidollato?» «No. Solo che...» Snake si sentì invadere dalla rabbia. Era ora di far capire a quei due chi comandava. «Solo un bel niente! Tu lavori per me, e se ti dico di tagliarle una mano, cazzo, o chiedi 'Quale?' o sei fuori!» Ma Paulie stava scuotendo la testa. Fissava il pavimento, ma non cedeva di un millimetro. «Va bene», disse. «Allora ne siamo fuori. Cercatene degli altri, per fare i lavori sporchi. Noi non vogliamo tagliare a pezzi un bambino. Non è giusto.» Quelle parole scossero Snake. Cercare qualcun altro? Dove diavolo avrebbe trovato un altro sorvegliante, in questa fase dell'operazione? Quel lavoro stava andando a rotoli. Prima aveva dovuto stipulare una polizza di assicurazione con Salinas, poi aveva dovuto avere a che fare con quell'imprevedibile VanDuyne, e adesso i peones minacciavano la rivoluzione. Che cosa sarebbe successo, dopo? «È una minaccia?» Paulie scosse la testa. «No. Ti dico solo come stanno le cose. Andremo
avanti come vuoi, ma non ti procureremo altri elementi di persuasione.» Snake non riuscì a trovare qualcosa da dire che non fosse malvagio. Dato che non poteva fare ciò che realmente desiderava, cioè piantare una pallottola in faccia a Paulie, decise di andarsene. Sì. Che rimangano a chiedersi quale sarà la mia prossima mossa. «Mi terrò in contatto», disse, e si avviò verso il portone. Attraversando il cortile fumava di rabbia. E pensare che si era sentito in colpa quando aveva gettato Paulie e Poppy in pasto agli uomini di Salinas, una volta finito tutto. Era una prova di quanto fosse inutile il senso di colpa. Sbarazzarsi di quei due era un'idea magnifica. Ne aveva fin sopra i capelli, di Paulie e della sua puttana. 3 Appena la porta si chiuse alle spalle di Mac, Poppy gettò le braccia al collo di Paulie. «Sei stato magnifico! Come gli hai tenuto testa... proprio magnifico!» Lo sentiva tremare, ma non ne avrebbe parlato, nemmeno per un milione di dollari. «Sì, be', non mi è piaciuto il modo in cui ti si è rivolto. Hai capito che cosa voglio dire? Il troppo stroppia.» Lo guardò in viso e si rese conto che in lui qualcosa era cambiato. Aveva cominciato a essere silenzioso la sera prima, dopo che avevano prelevato il sangue a Katie. Poppy l'aveva tenuta ferma, mentre Paulie aveva le inciso il mignolino del piede con l'angolo di una lametta da barba. Avrebbero dovuto fasciarla in ogni modo, per far sembrare che le avevano tagliato davvero il dito quindi perché non prendere il sangue proprio da quel punto? E Katie era stata molto brava. Aveva fatto una smorfia e si era lamentata un po', ma tutto era finito lì. Aveva detto che era abituata alle punture, per tutti gli esami del sangue che doveva fare da quando prendeva la medicina. Dopo essere tornato dalla consegna dell'elemento di persuasione, Paulie era diventato ancora più silenzioso e aveva continuato così per tutto il mattino. Aveva pensato che fosse ancora incazzato con lei perché l'aveva fatto andare in quell'impresa di pompe funebri, ma si rese conto che si trattava di qualcos'altro. Qualcosa di più profondo. «Che cosa c'è, Paulie? Che cosa ti tormenta?» Lui si scostò e andò alla finestra. Restò lì, con le mani sprofondate nelle
tasche, a fissare il cortile. «Non so», disse infine. «Stanotte non ho dormito molto. Mi sono messo a pensare; non mi capita spesso, ma questa volta non sono riuscito a evitarlo. Ho continuato a pensare a come ti sei opposta a me ieri. Voglio dire: Mac dice: 'Tagliale un dito', io lo convinco ad accontentarsi di un dito del piede e sono disposto a farlo; ma tu dici di no, che una cosa simile non la farai, non permetterai che avvenga. Eri disposta a rischiare tutto, per impedirla. Mi sono arrabbiato, lo sai, ma dopo ne sono stato molto colpito. Hai tirato una riga e hai detto: 'Ecco, qui è dove mi fermo. Non attraverserò questa riga, e non lo farà nessun altro, finché ci sono io'. Quindi ieri notte ho pensato: dov'è la mia riga? Voglio dire, ce l'ho, io, una riga? O so solo aspettare che un tipo come Mac mi dica che cosa fare e poi mi comporto come un robot? Che genere di uomo è una persona simile? Te lo assicuro, Poppy, non sono pensieri allegri.» Lei si avvicinò alla finestra e gli passò le braccia intorno alla vita, premendogli il viso contro la schiena. Si sentiva quasi sul punto di cadere in pezzi. Non osò parlare, perché sapeva che avrebbe cominciato a piangere forte. Era una cosa stupefacente: i pensieri di cui parlava Paulie erano gli stessi che si erano fatti strada in lei dall'ultimo lavoro di sorveglianza. In!ei si erano insinuati a poco a poco... almeno finché non aveva visto Katie con le convulsioni, poi ne aveva preso coscienza tutt'in una volta. Invece Paulie ne era stato colpito all'improvviso. «A novembre compirò trent'anni», osservò lui. «E, accidenti, mentre ero a letto ho ripensato al mio passato e sai che cosa ho visto? Niente. Niente di niente, maledizione. Voglio dire, se morissi adesso, rimarrebbe una traccia di me, da qualche parte? Qualcosa che dica: Paulie DiCastro è esistito? No, non c'è. Quindi ieri notte ho deciso che avrei cominciato a tirare delle righe. Che avrei imparato a dire: 'Basta, non andrò oltre questo punto'. Voglio dire, devi avere qualcosa da sostenere, nella vita; io non ho mai sostenuto niente, in realtà, ma le cose cambieranno. Non lo dico bene. Ma capisci quello che voglio dire?» Poppy lo strinse più forte. «Certo che sì, perfettamente. Forse questa è una svolta, per noi, Paulie. Forse da questa faccenda bruttissima possiamo cavarci qualcosa di buono. Prendiamo i soldi che ci spettano, andiamo da qualche parte e li adoperiamo per costruire qualcosa.» «Sì, ma che cosa? Non so fare niente di lecito. Che cosa so fare, se non prendere ordini?» «Non ti preoccupare. Troveremo un sistema. Non siamo del tutto stupi-
di. Ma la cosa importante è che tireremo un altro genere di linea: fra la vita vecchia e quella nuova. E non guarderemo mai più indietro.» «Sì», acconsentì lui voltandosi a guardarla. Le scrutò il viso. «Tu e io. Possiamo riuscirci.» Poppy premette il viso contro la spalla di Paulie. Non si era mai sentita tanto vicina a lui. 4 «Sarai in grado di mettere insieme tanti soldi?» chiese Nana. John guardò la madre da dov'era seduto, davanti al computer, e si preoccupò. Lei non conosceva neanche metà di tutta la faccenda, sì e no un decimo, e sembrava già che stesse per crollare. Aveva i capelli spettinati, gli abiti sgualciti, le guance, un tempo rosa, pallide e tirate. E continuava a stringersi i lati della gola con la punta delle dita come se faticasse a respirare. Non poteva certo dirle la verità sul favore che doveva fare, né tantomeno su... sul ditino di Katie. Quindi le aveva mentito. Le aveva detto che i rapitori non volevano un favore, da lui, ma soldi: un milione di dollari. «Sì», le rispose piano. «Si stanno muovendo gli ingranaggi. Ho fatto chiamare delle persone che mi devono dei favori e in banca sta lavorando un gruppo di funzionari addetti ai prestiti. Dovrei riuscire a radunarli in un paio di giorni.» «Un paio di giorni? E Katie dovrà restare prigioniera per tutto questo tempo? Come puoi...» All'improvviso lui si adirò. Prima di riuscire a frenarsi gli sfuggì un urlo. «Non credi che la voglia indietro anch'io? Oggi stesso? In questo stesso istante? Non è che possa semplicemente compilare un assegno!» La vide ritrarsi, e quello spense la sua rabbia. Protese un braccio e le afferrò una mano. «Scusa, mamma. Sono molto nervoso. Faccio quanto meglio posso, più in fretta che posso.» Lei gli diede un colpetto sulla mano. «Lo so, Johnny. Non avrei mai dovuto... ma non riesco a sopportare il pensiero che Katie resti prigioniera di quella gente un istante più del necessario.» Prigioniera, pensò lui, sentendo di nuovo la nausea. Fosse solo quella la parte peggiore. «Mi metterò a dormire. Quelle pillole che mi hai dato mi hanno fatto venire sonno.» La sera prima aveva cominciato a darle un tranquillante. Desiderava po-
terne ingollare qualcuno anche lui, ma doveva restare all'erta, doveva mantenere il controllo della situazione. «Brava, mamma. Sdraiati e cerca di dormire. Così il tempo passerà più in fretta.» Dopo che se ne fu andata, si alzò e scese in cucina. Aprì lo sportello del frigorifero e guardò dentro. Capiva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma l'appetito era scomparso, forse per sempre. Chiuse lo sportello ma non si allontanò. Gli occhi corsero al freezer. Riusciva quasi a vederlo attraverso lo sportello, ancora nel sacchetto di plastica, chiuso in una busta bianca nascosta dietro i vassoi per i cubetti di ghiaccio: il mignolino del piede di Katie. Non si era fatta l'illusione di riattaccarlo, comunque il congelamento non era il modo migliore per conservarlo. Ma che cos'altro poteva fare? Dopo essersi trascinato a casa e avere vomitato, aveva portato nel seminterrato il sacchettino e il suo contenuto, e là aveva potuto piangere senza che la madre lo udisse. Ricordava di avere tremato, sudato e singhiozzato per qualche minuto, poi era stato come se un circuito dentro di lui avesse fatto scattare un interruttore. Si era come insensibilizzato. Era rimasto là, con il sacchetto in mano, senza guardarlo: aveva solo fissato lo spazio davanti a sé. Infine si era alzato e aveva cominciato a camminare, cercando di concentrarsi. Non poteva lasciarsi andare. Doveva prendere decisioni da cui dipendeva la vita di Katie. Ma prima di tutto il dito del piede... quel ditino orrendo, prezioso, sanguinante. Non poteva lasciare che Nana lo vedesse e non riusciva a sopportare il pensiero di lasciarlo andare in putrefazione. Doveva fare qualcosa, e l'unica cosa che gli era venuta in mente era stato il freezer. Pensare... Dio, era un tale problema. Cercare di costringere i pensieri a mantenere un certo filo, una loro ragionevolezza... era un tale sforzo. Dopo avere nascosto il dito, era riuscito a mettersi al computer e a inviare una risposta a Snake. Non era del tutto coerente, ma a John non importava. Voleva solo dire a quel mostro che avrebbe fatto qualsiasi cosa avesse chiesto, ma che per favore non facesse più del male a Katie. E diceva sul serio. Snake aveva chiarito la sua posizione: lui aveva in mano tutte le carte buone. John si torturava per la scelta fra il suo migliore amico e la figlia. Ma il ditino di Katie aveva annullato il dilemma... aveva scelto Katie. Katie sarebbe sopravvissuta.
E Tom avrebbe dovuto trovare qualche altro modo per farlo. La risposta di Snake, che gli aveva fatto gelare il sangue, aveva rafforzato quel proposito. Ora ci capiamo! Sai che cosa devi fare. Fallo presto. Molto presto. O valuteremo la tua capacità come risolutore di puzzle. John si staccò via dal congelatore e si avvicinò al telefono. Si impedì di farsi domande, di fare supposizioni, concentrandosi sul compito che doveva affrontare. Estrasse le pagine gialle e scorse l'elenco dei medici generici. Trovò un certo dottor Adelson, un internista che abitava su a Friendship Height, ne trascrisse l'indirizzo e il numero telefonico. Usando il suo nome cominciò a chiamare le farmacie del centro finché ne trovò una provvista di una piccola scorta di cloramfenicolo. Nel tono più naturale che riuscì ad assumere comunicò una prescrizione per un certo Henry Johnson: «Fategli una ricetta per una confezione di Cloromicetina 250 da venti capsule, quattro capsule al giorno, non ripetibile». Quando il farmacista chiese l'indirizzo e il numero di telefono, John gli fornì quelli del dottor Adelson. Bene... il signor Johnson avrebbe potuto ritirare la medicina dopo circa mezz'ora. John si appoggiò indietro e chiuse gli occhi. Il primo passo era fatto. Doveva procedere al secondo. Ma mentre prendeva in mano il ricevitore del telefono suonarono alla porta. Lui sobbalzò e per poco non lasciò cadere l'apparecchio. Non un fattorino... ti prego, mio Dio, non un altro pezzo di Katie! Rimise a posto la cornetta e si costrinse ad andare ad aprire. Stringendo i denti afferrò il pomello e lo girò. Sul primo gradino c'era una donna sui quaranta, attraente, con una pelliccia di visone e scarpe dal tacco alto. I lunghi capelli neri erano fermati sulla nuca con una spilla d'oro. Aveva il viso truccato alla perfezione. Sorrideva, ma negli occhi aveva un'aria di sfida. Quando la vide, John arretrò barcollando. Era impossibile. «Ciao, John.» Quella voce... tanto dolce, tanto fredda, modulata in modo tanto perfetto. «Marnie!» La sua voce era stridente come una pala d'acciaio che strisciasse sul calcestruzzo. «Che cosa fai qui?» «Sono venuta a trovare mia figlia.» «Ma... ma dovevi stare in Georgia!»
«Mi hanno rilasciata.» «Non ci credo!» «È vero, John. Sono guarita. Sto facendo una cura e finché prendo la dose giusta di medicina sto bene. In pratica, se continuo a fare progressi, il dottor Schuyler dice che in autunno potrei provare a diminuire la dose. Non è magnifico?» John si sentì girare la testa. Non era possibile. Marnie doveva essere ricoverata nel Centro psichiatrico di Manetta. Che cosa stava facendo, a Washington? E perché proprio adesso? Fra tutti i momenti possibili, perché doveva comparire proprio in quello? «Non m'importa un bel niente di quel che dicono il dottor Schuyler o qualsiasi altro, il tribunale ha stabilito che non devi uscire dalla Georgia.» Lei continuò a sorridere. «Ci ha pensato il dottor Schuyler. Adesso sto abbastanza bene per viaggiare. E voglio vedere Katie.» «No», fece John scuotendo il capo con tutta la forza che riuscì a raccogliere. «Niente da fare.» «Sono sua madre, John.» Il sorriso si indebolì. «Ho il diritto di...» «Non hai nessun diritto!» esclamò sentendo salire la rabbia. Quel sentimento gli piaceva: era bello provare qualcosa di diverso dalla nausea e dal terrore. «Ci hai rinunciato, ricordi? I patti erano questi: tu non andavi in prigione e io ottenevo la custodia esclusiva. E le cose rimarranno in questo modo.» Infine il sorriso svanì. «Voglio vedere Katie. Non puoi impedirmi di vedere mia figlia.» «Lo posso e lo farò. Se non andrai via chiamerò la polizia e dirò agli agenti che sei evasa da un ospedale psichiatrico della Georgia.» «Non è...» «E riferirò anche che esiste un ordine del tribunale, tuttora valido, che ti proibisce di avvicinarla. Allora, li chiamo o te ne vai?» Marnie fece un passo indietro e le sue labbra cominciarono a tremare. «Non è giusto, John.» «Con me non funziona, Marnie. E non voglio sentire parlare di giusto o ingiusto. Fa' un favore a tutti quanti e torna in Georgia. Subito.» «Spero che ti occupi di lei meglio che di te stesso. Hai un aspetto orribile.» «Ciao, Marnie.» Chiuse il portone e vi appoggiò contro la fronte. Per favore va' via. Devo affrontare già più di quanto possa sopportare. Non posso pensare anche a te.
Dio, se la odiava, non la poteva proprio soffrire. Essendo un uomo illuminato degli anni Novanta, e per di più medico, sapeva che i malati di mente non si potevano ritenere responsabili dei propri atti. Ma ciò non significava che si dovesse perdonarli. E John non avrebbe mai perdonato Marnie per ciò che aveva commesso. Non importava che avesse chiamato a raccolta un esercito di psichiatri per dichiararla stabile dal punto di vista mentale ed emotivo e perfettamente in grado di rientrare in società; non avrebbe mai permesso che Marnie tornasse nella vita di Katie. Si mise in punta di piedi e sbirciò dalla lunetta nella parte superiore del portone. Il cortile era vuoto. Marnie se ne era andata. E avrebbe fatto meglio a stare lontana, o avrebbe rovinato tutto. Ma sarebbe tornata, non ne dubitò neppure per un istante. «John?» La voce della madre, che proveniva dal piano di sopra. «Sì, mamma?» «C'era qualcuno?» «Un commesso viaggiatore, mamma. Va' a riposare. Se succederà qualcosa te lo farò sapere.» Katie, Tom, la mamma, Snake, Marnie: per quanto sarebbe stato in grado di mantenere in aria tutte quelle palle senza farle cadere? Sentendosi sul punto di esplodere, John tornò in cucina e si accinse al compito di avvelenare il Presidente degli Stati Uniti. Facendosi animo, compose il numero diretto per parlare con Betty Kenny. Aveva cominciato come stenografa nell'ufficio di Tom quando lui era un semplice membro del Congresso. L'aveva seguito al Senato e in quel momento era la sua segretaria personale e ne controllava l'agenda degli appuntamenti. Per arrivare a Tom bisognava superare la «Corazzata Betty». Ma John le piaceva e sapeva quanto avesse a cuore il benessere del capo. «Ciao, Betty», la salutò cercando di apparire allegro e spensierato, senza però avere la più pallida idea se ci fosse riuscito. «Sono John VanDuyne. Domani avrei bisogno di passare qualche minuto con il tuo capo per misurargli la pressione. Ci sarà?» Incrociò le dita. Per favore, di' di sì. «Ciao, John. Fammi controllare. Non sei già venuto l'altro giorno?» «Sì, mercoledì. E quello che ho visto non mi è piaciuto affatto.» La voce di lei calò di tono. «Davvero?» Era preoccupata. «Probabilmente non avrei dovuto dirlo. Dimentica quello che hai appena
sentito, va bene?» «Non dirò una parola. Lo sai. Ma voglio sapere una cosa: dovrei essere preoccupata?» Lui approfittò della sua apprensione. «Non era altissima, ma voglio tenerla d'occhio. Specie se andrà a L'Aia quest'altra settimana.» «Capisco. Vediamo... ha una riunione nella Sala Ovale alle dieci... Non ci vorrà molto, vero?» «Dieci minuti, al massimo un quarto d'ora.» «Bene. Perché non tenere libera la mezz'ora fra le nove e mezzo e le dieci? Che cosa ne dici?» «Perfetto.» Quella parola gli fece venire l'amaro in bocca. Dopo qualche chiacchiera interruppe la comunicazione e si accasciò, tremando. Fase due completata. Al telefono era stato freddissimo, come guidato dal pilota automatico, ma in quel momento il peso di ciò che stava meditando di fare lo schiacciò di nuovo. Specie se andrà a L'Aia la settimana prossima... Ma farò tutto ciò che posso per impedirglielo, pensò John. Se si farà vedere in quel posto, Katie morirà. Farò in modo che si ammali, si disse per la millesima volta da quando aveva aperto la cassetta delle lettere, quella mattina; ma non morirà. Forse ci andrà vicino, però le cure mediche d'avanguardia fornite al Presidente degli Stati Uniti gli permetteranno di riprendersi. E se il cloramfenicolo non avesse avuto nessun effetto sul midollo spinale di Tom? Era possibile. Che cosa sarebbe accaduto? E se avesse avuto una reazione ritardata, che fosse comparsa solo dopo qualche settimana? Snake non avrebbe creduto neanche per un momento che avesse davvero somministrato a Tom una dose del farmaco. John avrebbe voluto gridare, ma la madre si sarebbe svegliata. Era il momento di procedere ancora con il pilota automatico. Guardò l'orologio. Doveva andare in quella farmacia, fingere di essere Henry Johnson e ritirare la medicina. Sto diventando un maestro dell'inganno, pensò. Ho mentito a mia madre, a Terri, in ufficio, a un farmacista, alla segretaria di Tom, e domani mentirò al mio migliore amico. Si rese conto, con una sensazione di nausea, che l'unica persona con cui era stato sempre sincero era Snake.
Sabato 1 «John?» Riconobbe la voce e si irrigidì. Aspettava l'ascensore per il primo piano della Casa Bianca, urlandogli in silenzio di affrettarsi ad arrivare prima che lui incontrasse qualcuno che conosceva. Troppo tardi. Si voltò e vide Terri sopraggiungere dal corridoio. Si costrinse a sorridere. «Terri. Non pensavo che lavorassi nei fine settimana.» «Non esistono fine settimana, in un'emergenza di questa portata.» Il suo sorriso scomparve mentre si avvicinava. «Stai bene?» «Penso di sì. Perché?» «Perché hai un aspetto orribile.» Mai come mi sento veramente. «Grazie del complimento.» «No, sul serio.» Mentre lo scrutava aggrottò la fronte. «Dev'essere stato un virus coi fiocchi.» Virus? Che cosa... Ah, sì, la balla del virus. Doveva stare attento a restare coerente con tutte quelle bugie. Un altro sorriso forzato. «Non rinuncerei a una serata con te per qualcosa di meno importante.» «Non mi sono resa conto... sei certo che puoi già uscire di casa? Sembri completamente esausto.» «Sono solo stanco. Un altro giorno e dovrei tornare normale.» La porta dell'ascensore si aprì e lui vi entrò in fretta, pregando che non fosse diretta anche lei al piano di sopra. Per fortuna rimase fuori. Sorrise, ma con un'espressione preoccupata. «Riguardati, John.» «Certo. Ti telefonerò per sentire quando sei libera. Combineremo qualcosa.» La porta si chiuse, separandoli. Si appoggiò alla parete. Dio, che situazione imbarazzante! Almeno aveva creduto che era stato male. Non aveva certo dovuto fingere il proprio malessere. Tastò la tasca laterale della giacca sportiva e sentì la sporgenza cilindrica del tubetto. Il cloramfenicolo. Aveva staccato l'etichetta, facendo diventare anonime le capsule: piccoli assassini mascherati.
Non riusciva ancora a credere che sarebbe stato capace di compiere quell'azione. Solo per Katie... Nel corridoio del primo piano si imbatté in Bob Decker, l'ultima persona al mondo che desiderasse vedere quella mattina. Tutti quegli anni di addestramento e di esperienza... avrebbe capito che qualcosa non andava nell'attimo stesso in cui l'avesse visto. Il grosso agente dei Servizi segreti gli diede una rapida occhiata e subito il tubetto nella tasca di John sembrò quadruplicare dimensioni e peso. Gli parve un barattolo di fagioli al forno, che gonfiava il tessuto, esposto alla vista di tutti. «Ehi, Doc, non sembri granché in forma.» «Un virus, Bob. Ma sto ricuperando.» Fece per indicare la porta della Sala Ovale e notò che la mano gli tremava. La lasciò cadere e fece un cenno con il capo. «È là dentro?» «Sì. Ha detto che ti aspettava. Come sta?» «Sono qui proprio per verificarlo.» John salutò e percorse in fretta il corridoio. Giunto alla porta si fermò. Non posso farlo. Ma ce l'avrebbe fatta. Aveva trovato il modo di riuscirci: dare la colpa a Tom. Era tutta colpa di Tom. Se non si fosse buttato in quel progetto idiota della depenalizzazione Katie non sarebbe stata rapita. In quel momento sarebbe stata a casa tranquilla, a guardare i cartoni animati. Katie avrebbe ancora tutte e dieci le dita dei piedi! Proprio così, Tom. La tua figlioccia, la bambinetta che ti chiama «zio» è stata mutilata. Non per qualcosa che abbia commesso lei, ma per qualcosa che hai fatto tu. Fissò il sigillo presidenziale e pensò: qualunque cosa ti succeda è colpa tua, Tom. Non sono stato io, ma tu, a mettere in moto tutta la faccenda. Chi la fa l'aspetti, non si possono evitare le conseguenze. Così sarebbe riuscito a farlo. Arrabbiandosi. Alimentando il proprio furore fino a un punto in cui sarebbe stato capace di commettere qualsiasi azione. Indurendo la mascella, bussò ed entrò. E si immobilizzò. Era stato altre volte nella Sala Ovale e gli era sempre accaduta la stessa cosa. Vedere Tom dietro quella scrivania, con la luce che filtrava dalle alte finestre alle sue spalle, il tappeto blu con il grande sigillo presidenziale, con intorno le bandiere degli Stati Uniti, del presidente e delle forze armate, non mancava mai di mettergli soggezione, di commuoverlo. Vedendo
l'amico in quello studio riusciva veramente a credere che Tommy Winston era diventato presidente degli Stati Uniti. Tom alzò lo sguardo, sorrise, poi si accigliò. «Ehi, Johnny, vecchio mio, hai un aspetto orrendo.» Ed è tutta colpa tua. John ripeté confusamente la spiegazione del virus, ma capì che Tom lo ascoltava appena. «Indovina chi verrà qui a mezzogiorno», disse battendo un foglio sulla scrivania. Era eccitato, carico, pieno di entusiasmo a stento contenuto. «Floyd Jessup e il reverendo Whitcomb, a offrire il loro sostegno.» Fece una risata. «No, ma è quasi come se fosse così.» Tamburellò di nuovo sul foglio. «Le delegazioni meridionali quasi al completo, almeno tutte quelle degli Stati produttori di tabacco.» «Di che cos'hanno paura... che la marijuana faccia diminuire la vendita delle sigarette?» «Scherzi? Vogliono coltivarla, anche se insistono a chiamarla canapa. Con le vendite di sigarette in continuo calo, hanno bisogno di un nuovo prodotto e la canapa è proprio quello che ci vuole.» Vedi? Vedi? Per questo Katie mi è stata portata via ed è stata mutilata! A causa del tuo progetto sbagliato ed egoistico! «Quindi vogliono vendere l'erba invece delle bionde? Magnifico.» «Veramente», osservò Tom, «credo che sarebbero soddisfatti anche se avessero scoperto un incrocio crittogamico per niente adatto a essere fumato. Sembra che infine abbiano capito che sostenendo un mutamento delle leggi fanno il proprio interesse. Sono solo i primi. Succederà, John. La valanga ha cominciato a scendere a valle.» Spero che tu sia orgoglioso e felice che Katie stia soffrendo per te. Tom continuò a chiacchierare mentre John si metteva lo stetoscopio, smorzando così il rumore della sua voce. Gonfiò la fascia, guardò l'ago salire, poi cominciare a scendere. Ascoltò il sangue che ritornava nell'arteria sotto il diaframma, così forte e vitale. Avrebbe mutato quel sangue, impedendo l'alimentazione delle piastrine e dei globuli bianchi e rossi, diluendolo, deteriorandolo, ostruendo il suo passaggio fino a farlo diventare un rivoletto non più in grado di alimentare i tessuti. Cancellò quel pensiero, cancellò tutti i pensieri. Non poteva permettersi di pensare, di essere se stesso, di provare qualsiasi sentimento che non fosse la rabbia. Per dieci minuti doveva essere un guscio vuoto, un automa che eseguiva un programma: misurare la pressione del sangue, mentire sui
suoi valori, somministragli le capsule e andarsene. La pressione sanguigna di Tom era centoquaranta/ottantotto. Meglio di mercoledì. Normale tendente all'alto. «Be', come vado?» chiese il Presidente mentre John toglieva la fascia. «È più alta.» Una bugia. Vedi? Mi hai reso un bugiardo. «Più alta? Mi sorprende. Sono molto meno stressato dell'altra volta. Ero certo che sarebbe stata migliore.» «Proviamo con l'altro braccio, tanto per controllare anche lì.» John fece quel che doveva e ottenne centotrentotto/ottantotto. Scosse le testa. «No. Qui è ancora più alta.» Un'altra bugia. «Accidenti», esclamò Tom. «Sto attento con il sale. Che cos'altro posso fare?» «Credo che forse dovrei darti una medicina.» «Ah, John, preferirei di no. Lo sai.» Non contraddirmi. «Sì, ma la settimana prossima andrai a quel congresso e sarà molto stressante. Non voglio che la pressione ti vada alle stelle mentre sei là.» Lui scosse la testa. «Non so...» Fa' il bravo! Prendi la medicina, comportati da uomo! «Ti darò una piccola dose di un farmaco contro l'ipertensione, tanto leggero che non te ne accorgerai nemmeno.» Tom esitò, poi si strinse nelle spalle. «Va bene. Se lo dici tu. Mi fido ti te. Se non posso fidarmi di te, di chi diavolo posso fidarmi?» John non riuscì a guardarlo. Nascose l'imbarazzo infilandosi la mano nella tasca. «Temevo che si sarebbe giunti a questo, quindi sono venuto già preparato.» Tom rise. «Come il boy scout che non sei mai stato.» «Sì. Proprio così.» Aveva le dita tanto sudate e tremanti che faticò a prendere il tubetto. Infine ci riuscì e lo aprì a fatica. «Tendi la mano.» «Qui?» chiese Tom. «Adesso?» John fece in modo di sorridere. «Ti conosco, Tom. Se scrivessi una ricetta tu ordineresti a qualcuno di andare in farmacia, poi rimanderesti. 'Comincerò la settimana prossima', diresti. Ho ragione?» «Mi conosci troppo bene.»
«Sì. E so che la settimana prossima non arriverebbe mai.» Riuscì a far cadere due capsule sul palmo di Tom. Non pensare. Non provare altro che rabbia. «Ecco. Una volta che hai cominciato continuerai, credo. Quindi voglio starti a guardare mentre prendi queste due.» John si avvicinò a un tavolino con una brocca d'acqua e dei bicchieri e ne riempì uno a metà. Si girò e lo diede a Tom. Lui lo prese e fissò l'amico. «Sei sicuro di stare bene? Stai tremando come uno che abbia il delirium tremens.» «Il virus. Credo di non essere ancora guarito del tutto.» Temendo di vomitare, John si allontanò e guardò fuori delle finestre, verso il prato a sud. Non riusciva a guardare. Fra trenta secondi sarebbe fatta. Le capsule di gelatina si sarebbero sciolte nello stomaco di Tom e avrebbero liberato il loro contenuto. L'antibiotico avrebbe iniziato a farsi strada nel sangue, facendo entrare in funzione gli anticorpi micidiali per sferrare l'attacco al midollo spinale di Tom. E presto questo avrebbe cominciato a deteriorarsi. Presto... «No!» John si voltò di scatto e balzò sopra Tom. «Fermati! Non prenderle!» Ma lui aveva già portato il bicchiere alle labbra. John glielo tolse di mano con un colpo e lo mandò a frantumarsi per terra. Afferrò Tom per la gola. «Sputale! Per l'amor del cielo, non mandarle giù!» Tom strabuzzò gli occhi per lo choc. Barcollarono entrambi all'indietro, urtando la poltrona. «Sputale, maledizione! Sputale!» Tom si divincolò, si girò e sputò. John avanzò per controllare se erano uscite entrambe le capsule, ma si sentì afferrare rudemente. «Signor Presidente! Sta bene?» John riconobbe la voce: Bob Decker. Tom si appoggiò alla scrivania, sfregandosi la gola e guardando John con gli occhi sgranati. «Sì. È lui che sta male. In nome del cielo, John, che cos'hai?» La Sala Ovale sembrò stringerglisi intorno. C'era Bob Decker... ormai i Servizi segreti erano coinvolti... e Snake aveva detto che avrebbe ucciso Katie... E all'improvviso non riuscì più a fingere. Tre notti senza dormire, sentendosi morire a poco a poco, a cercare di sostenere tutto il fardello sulle proprie spalle... si lasciò andare alla stretta di Decker. «Katie... hanno preso Katie!» All'improvviso Tom gli si mise davanti e lo afferrò per le spalle. «Katie? Chi ha preso Katie?»
John scosse la testa. «Non lo so. L'hanno rapita mercoledì mattina.» «Rapita?» esclamò Tom. «Oh, merda! Katie no!» John sentì che la stretta di Decker si allentava. «Se si tratta di sequestro di persona farei meglio a...» «No!» gridò John. «Per favore, no! La uccideranno.» «Chiudi la porta, Bob», gli ordinò Tom, «e vediamo di chiarire questa faccenda.» «Ma...» «Stiamo parlando della mia figlioccia.» Il tono di Tom era diventato all'improvviso più aspro. «Chiudi quella porta, accidenti.» «Sissignore...» 2 «Il dito di un piede?» Tom batté un pugno sulla scrivania. Era impallidito. «Ti hanno mandato il dito di un piede?» John annuì. Aveva raccontato tutta la storia. Un resoconto sconnesso, ma credeva di non avere tralasciato nessun particolare importante. Dalla poltrona guardò Decker, in piedi da un lato, con le mani dietro la schiena, impassibile; e poi di nuovo Tom. «Mi dispiace, Tom.. Non... Non sapevo che cosa pensare... ma credevo di non avere scelta...» Ho condannato Katie. Quel pensiero continuava a martellargli il cervello. Perché non ho potuto lasciare che Tom ingoiasse quelle capsule? si chiese. Che razza di padre sono? Snake lo scoprirà. E allora... «Non l'avevi davvero», replicò Tom, «eppure non l'hai fatto. Anche con la vita della povera Katie in pericolo non ci sei riuscito. Onestamente, John, se le posizioni fossero state invertite, mi sarei comportato allo stesso modo.» Batté di nuovo il pugno sulla scrivania. «Quelle carogne senza cuore! Non riesco a credere che sia potuta accadere una cosa simile.» Guardò Decker. «Che cosa facciamo, prima di tutto, Bob?» Decker si sfregò la mascella, a disagio. «Be', per prima cosa dobbiamo pensare al delitto che è stato commesso qualche istante fa.» «Che cosa?» «Un attentato alla vita del Presidente degli Stati Uniti. È...» Tom alzò una mano. «Basta così. Per quanto mi riguarda non è successo niente.» «Mi dispiace, signore, ma non mi è consentito ignorare...»
«Ignorare che cosa? Hai visto qualcuno che mi ha fatto qualcosa, o ha cercato di farmi qualcosa?» «Ho sentito che lui ha detto di averle somministrato quelle capsule.» «E adesso senti me dire che non me le ha date. E senza la conferma della presunta vittima non hai niente in mano. Quindi lasciamo cadere l'argomento e andiamo avanti. Che cosa facciamo?» Decker sospirò. «Va bene, la prima cosa da fare è chiamare l'FBI. Sono loro gli esperti in rapimenti, e avremo bisogno di accedere al loro laboratorio criminologico. Poi...» «No!» esclamò John alzandosi. «Non puoi farlo. Se capiscono che sono stato smascherato non servo più a niente. E se non ho valore io, non ha valore nemmeno Katie. La uccideranno!» «Possiamo tenere tutto nascosto», obiettò Decker. «No!» John sentì che il tono della propria voce stava salendo, ma non gliene importava. «Lo verranno a sapere! Hanno qualcuno infiltrato. Forse proprio alla Casa Bianca.» Si rivolse a Tom. «Se sono riusciti a scoprire la reazione che ti procura il cloramfenicolo, verranno sicuramente a sapere sicuro che non ti ho dato quelle capsule e che ti ho detto tutto! Per favore! Deve esserci un altro modo!» «Ha ragione, Bob», assentì Tom. «Devono avere un servizio informazioni eccezionale. E, fra parentesi, hai qualche idea di chi possano essere questi di cui stiamo parlando?» «Be' sappiamo che si tratta di droga», cominciò Decker. «Hanno detto chiaro e tondo a VanDuyne che non vogliono che lei vada al congresso dell'Aia. È probabile che siano colombiani, o forse messicani.» Si sfregò la mascella. «E credo che abbia ragione a pensare a informazioni che vengono dall'alto. Hanno prelevato la ragazzina il giorno dopo il suo discorso.» Tom annuì. «Quindi sapevano ciò che avrei detto e avevano pronto un piano. Chi è quel figlio di puttana? Lo giuro, se lo scopro...» Si girò di scatto: «...ma lo troveremo. Il problema è: che cosa facciamo adesso?» «Lasci che ci pensi», fece Decker. John guardò l'agente dei Servizi segreti girare per la Sala Ovale, fissando il pavimento, le proprie scarpe marroni, lucide, poi il soffitto. John avrebbe desiderato uscirsene con un proprio piano, ma aveva la mente annebbiata, inerte, vuota. Infine Decker tornò accanto alla scrivania di Tom. «Be', ecco un'idea. Non è perfetta, ma è la migliore che sia riuscito a farmi venire in mente in così poco tempo. Perché non proviamo un ap-
proccio a due livelli? Solo tre persone sanno che non ha preso quelle capsule. Lasciamo le cose come stanno. Noi tre costituiamo il primo livello.» «E il secondo?» chiese Tom. «Una piccola unità operativa», lanciò una rapida occhiata a John! «Una minuscola unità operativa costituita da membri scelti dei Servizi segreti, dell'FBI e della DEA, la polizia federale antinarcotici che...» «Lo scopriranno!» lo interruppe lui, sentendosi cogliere dal panico. «Appena sapranno che esiste un'unità operativa, Katie morirà!» «No, se viene limitata a persone che conosco bene e se il Presidente proibisce loro di parlarne con chiunque, anche con i propri superiori.» «Considerala cosa fatta», assentì Tom. John non sapeva che cosa dire. Decker conosceva davvero persone assolutamente fidate? Esisteva davvero una persona assolutamente fidata? Forse poteva funzionare. Forse. Ma se non avesse funzionato... «Però c'è un grosso problema che non hai considerato», John disse a Tom. «Si aspettano che tu ti ammali. Se non sarà così...» «Credo che siamo in grado di sistemare anche questa faccenda», disse Decker. Si rivolse a Tom. «Ma bisognerà che lei si faccia ricoverare all'Ospedale navale di Bethesda. Il suo ufficio affermerà che si tratta solo di un controllo, ma le persone che stanno dietro questa faccenda capiranno che lei sta male.» Tom congiunse le dita di entrambe le mani e si appoggiò allo schienale, riflettendo. «Bene, a Bethesda hanno la suite presidenziale... Per qualche giorno posso portare avanti da là gli affari di Stato... Non è un buon momento...» Alzò gli occhi e incrociò lo sguardo di John. «Ma faremo così.» John sentì un nodo alla gola. «Grazie, Tom. Non sai...» «Si tratta di Katie. Ed è stata rapita e mutilata a causa della nostra amicizia. Sono fatti che mi coinvolgono. La riprenderemo, sta' sicuro.» John si rilassò e chiuse gli occhi. Voleva crederlo. Doveva crederlo. 3 Bob Decker accompagnò VanDuyne all'ascensore, poi tornò nella Sala Ovale. Era rimasto senza fiato. L'avevano scampata bella. Era stata evitata una catastrofe, ma i Servizi segreti non potevano attribuirsene il merito. Eppure se VanDuyne avesse lasciato che Rasoio mandasse giù quelle capsule anche se era il suo miglior amico, i Servizi sarebbero stati aspramente criticati.
Comunque era acqua passata. Rasoio era salvo, la cospirazione era stata scoperta e ormai veniva il bello: rintracciare quei figli di puttana. Forse non era poi tanto bello. La fuga di notizie lo irritava moltissimo. Direttamente al di sotto della Sala Ovale c'era il W-16, il comando dei Servizi segreti. La talpa si trovava forse tra i cento agenti scelti del gruppo assegnato alla Casa Bianca? Decker detestava l'idea, ma doveva considerare anche quella possibilità. Doveva scegliere con cura chi avrebbe fatto partecipare a quell'operazione. Ma il primo passo era stato compiuto. Aveva mandato a casa VanDuyne perché comunicasse ai rapitori tramite la posta elettronica che aveva somministrato al Presidente la medicina che avrebbe dovuto ucciderlo; ma quella parte non la capiva ancora bene. Poi il dottore sarebbe dovuto tornare con fotocopie di tutti i messaggi che aveva ricevuto dai sequestratori... e con il dito del piede della figlia, compreso l'involucro dentro cui era arrivato. Chissà? Forse avrebbero avuto un colpo di fortuna e avrebbero trovato un'impronta digitale o un altro elemento che li avrebbe aiutati a restringere le ricerche. Nella Sala Ovale trovò Rasoio che guardava fuori delle finestre. Quando Decker si chiuse la porta alle spalle lui si girò. «Voglio che la cosa venga risolta rapidamente, Bob.» Aveva gli occhi in fiamme per l'ira. «Voglio prendere quelle carogne. Voglio che resistano all'arresto e si becchino un sacco di botte. Voglio che gli facciate molto, molto male, prima che li portiate dentro.» Decker non aveva mai visto Rasoio tanto arrabbiato; si rese conto che stava parlando sotto l'influsso delle emozioni e che la cosa migliore era semplicemente assentire. «Sissignore.» «Ma tutto deve svolgersi davvero presto. Voglio che quella ragazzina torni a casa prima del congresso dell'Aia.» «Faremo del nostro meglio, ma senza una mobilitazione completa...» Rasoio annuì. «Capisco. Avete una mano legata dietro la schiena. Ma quel è il tuo piano? Chi hai intenzione di far partecipare?» «Be', penso che possiamo limitare il secondo livello a un elemento dell'FBI e a uno della DEA. Informarli di tutto, tranne che del fatto che Lei non ha preso le capsule.» «Perché anche la DEA?» «Per il collegamento con la droga. Avremo bisogno di un po' di informazioni su chi potrebbe stare dietro questo piano. E forse occorrerà anche rivolgersi alla CIA...»
«Santo cielo, perché?» «Il provider anonimo del Regno Unito. Se lo identificassimo potremmo risalire, attraverso il suo computer, fino a questo Snake.» «Bene. Ma tienili all'oscuro il più possibile. Hai già qualcuno in mente, per il secondo livello?» «Sissignore. Gerry Canney del Bureau. Ha aiutato a risolvere il caso Duncan Latham, se ricorda.» Rasoio fece un sorriso mortificato. «Come posso dimenticarlo?» «Ha appena avuto la promozione a un posto di supervisore. È onesto e in gamba. E sa anche tenere la bocca chiusa.» «Perfetto. E della DEA?» «Ho qualche possibilità di scelta. Pensavo a Dan Keane. Fa parte dell'ufficio di Washington.» «So chi è. Un brav'uomo.» «Lo conosco da anni e non riesco a pensare a nessuno che conosca il mondo della droga e non possa soffrire i narcotrafficanti più di lui.» «Bene. Canney e Keane. Mandali a chiamare. Voglio parlare con loro personalmente. Voglio chiarire loro che anche se i sequestri di persona riguardano l'FBI e i narcotrafficanti la DEA, di questa faccenda te ne occupi tu. Non voglio liti intestine fra gli enti governativi. Voglio che lo sentano dalla mia stessa bocca prima che io vada a Bethesda.» Decker dovette ammirare il modo in cui Rasoio comprendeva tutti i problemi pratici che avrebbe dovuto affrontare la miniunità operativa. Ricordò i litigi fra il ministero della Giustizia e quello del Tesoro nel 1994, quando qualcuno aveva sparato a casaccio dei colpi contro la Casa Bianca. Le manovre per avere il controllo della situazione tra i Servizi segreti, l'FBI e l'ATF erano stati molto imbarazzanti. Ma se il capo avesse indicato chiaramente sin dall'inizio la gerarchia di comando, Decker era sicuro che tutta l'operazione sarebbe filata liscia. «Quando andrà dentro?» «Nel pomeriggio, subito dopo avere incontrato la tua squadra.» Abbassò la voce. «Trova una soluzione, Bob, entro martedì, perché quel giorno partirò per l'Aia, per andare al congresso sulla droga, e partirò comunque.» Decker deglutì. Si sentiva come se l'avessero preso a pugni. «In tre giorni, signore? Non me ne concede molto, di tempo. Non possiamo...» «È tutto quello che mi è consentito. Voglio bene a John. È il migliore amico che abbia mai avuto. E voglio bene a sua figlia come alla mia. Diavolo, sono il suo padrino. Ma sono anche l'uomo che detiene questa carica.
In quanto Presidente, non posso farmi influenzare dal terrore e dal ricatto, e di certo non permetterò che qualche schifoso sedicente signore della droga determini la politica degli Stati Uniti. Parto per l'Aia martedì, e voglio salire sull'Air Force One sapendo che Katie VanDuyne è tornata da suo padre. Sono stato chiaro, Bob?» «Perfettamente, signore.» «Allora muoviamoci,» Uscendo dalla Sala Ovale e affrettandosi a scendere nel W-16, Bob Decker sentì che le budella gli si contorcevano. Martedì! Come diavolo avrebbe potuto portare a termine quell'operazione in tre giorni? 4 Ho parlato di cose pratiche, ma lasciatemi fare una considerazione filosofica, per un momento. Siamo tutti d'accordo che ognuno di noi è proprietario del suo corpo? Mi sembra la pietra miliare di tutti i diritti umani. Se concordiamo su questo, che cosa dà a un'altra persona il diritto di stabilire quali sostanze, cibo, bevande o qualsiasi altra cosa, si possono introdurre nel proprio corpo? È una decisione personale, che dovete prendere voi. E se una persona non ha il diritto di stabilirlo, non l'hanno nemmeno due... dieci, cento, un milione o cento milioni. Si tratta sempre del vostro corpo. Personalmente credo che assumere droghe sia una cosa molto stupida, ma credo anche che sia un diritto degli esseri umani. Paulie abbassò il volume della radio. Aveva udito ridacchiare la bambina, in soggiorno? Piegò all'indietro la sedia e sporse la testa oltre lo stipite della porta della cucina, per dare una sbirciata. Una scena molto strana: Poppy aveva la maschera di Minnie e la bimba una benda finta al piede, e tutt'e due giocavano a sul divano. Era andato in cucina per liberarsi di quella maledetta maschera di Topolino che doveva portare in presenza della bambina. Forse non era poi indispensabile, dato che l'aveva già visto nelle vesti di autista della limousine e aveva ancora la barba, che si sarebbe tagliato non appena quella faccenda fosse finita; ma perché rischiare che lo vedesse meglio di quanto non fosse strettamente necessario? Poppy alzò lo sguardo e lo vide. «Vuoi giocare?» Con la maschera non le vedeva il viso, ma qualcosa gli diceva che stava
sorridendo. «No, a meno che non passiate al poker.» «Ehi, potremmo anche», osservò lei. «Te lo faremo sapere.» Lui fece un largo sorriso e scosse la testa. Il fatto che avesse resistito a Mac aveva rotto il ghiaccio fra di loro. Erano tornati a formare una squadra, ed era bello. Le guardò ancora per un istante. Quando era con la bimba, Poppy sembrava un'altra. Più dolce, più vivace, più felice di quand'era con lui. E allora che cosa sono, geloso? Forse. L'idea di dividere Poppy con qualcuno, anche per una settimana soltanto, non gli piaceva particolarmente. Ma come poteva essere geloso di una bambina? E poi si trattava di una di quelle cose fra ragazze, come quando due si conoscono è cominciano a condividere tutti quei segreti a proposito di cose che un ragazzo non direbbe mai a uno del suo stesso sesso, nemmeno se lo conoscesse da un milione di anni. Ma il rapporto tra quelle due sembrava qualcosa di più. Sembrava una faccenda davvero profonda. Be', di qualunque cosa si trattasse, sarebbe finita in una settimana o poco più, quando la bambina sarebbe tornata dai genitori. E all'improvviso Paulie ebbe un cattivo presentimento sul modo in cui ciò sarebbe avvenuto. Agitò il braccio sulla soglia e fece un basso fischio. Quando Poppy alzò lo sguardo le chiese: «Puoi venire qui un minuto?» Poppy annuì da dietro la maschera, poi si rivolse alla bambina. «Torno subito. Tu sta' qui... e non muovere nessuna di quelle pedine.» La bambina ridacchiò. «Va bene.» Entrò in cucina e si lasciò cadere sulla sedia di fronte a Paulie, dall'altra parte del tavolo. Si tolse la maschera e si asciugò il viso. Aveva le guance arrossate per il caldo. «È caldo, qua dentro, vero?» osservò Paulie. Lei annuì e sorrise. «Che cosa volevi dirmi?» Paulie esitò, non era sicuro di come fosse meglio dirlo. «Si tratta di te e della bambina.» «Ha un nome, sai? Puoi chiamarla Katie.» «Non voglio chiamarla per nome. Non voglio sapere niente di lei.» «Perché no? È una bambina dolcissima.» «Sono sicuro di sì, Poppy. E tu ti stai attaccando troppo a lei.» «Che cosa vuoi dire con 'attaccando troppo'?» Ah-ah. Si accorse che drizzava la schiena. «Voglio dire...»
«Senti, Paulie, è una bambinetta spaventata. Dev'essere la cosa più brutta che le sia mai capitata. Sto cercando di rendere la situazione il più possibile piacevole per lei, finché si trova qui. Che cosa c'è che non va?» «Ti stai attaccando a lei.» «E allora?» «Troppo. Come se fossi sua madre o qualcosa del genere.» «Sì, be', non credo che l'abbia, la mamma.» «Forse è così, ma non puoi pensare che potresti diventarlo tu. Dovrai salutarla la prossima settimana, o al più tardi quella dopo.» Lei si appoggiò allo schienale a abbassò gli occhi. «Lo so.» «E se continui così soffrirai, e molto.» «Andrà tutto bene.» Paulie non le credette neppure per un attimo. Immaginava Poppy che piangeva, si attaccava alla bambina e non voleva abbandonarla, non voleva lasciarla al posto di riconsegna stabilito. Il rapimento in se stesso era la parte più rischiosa di quei lavori, ma la restituzione del pacco non lo era poi molto meno. Non bisognava che qualcuno si lasciasse prendere dalle emozioni al momento critico. E a parte quello, non voleva certo vedere Poppy a pezzi dopo la fine di quella faccenda. «Non ne sono sicuro.» Protese un braccio e le sfiorò una mano. «Vedo già una persona con il cuore infranto, quando si tratterà di dirle addio.» Lei lo guardò e sorrise. «Andrà tutto bene. Solo non voglio che si impaurisca, ecco tutto.» Si alzò e girò intorno al tavolo, poi gli si sedette in grembo e lo baciò sulla bocca. «Questo perché ti preoccupi per me.» Si sistemò la maschera di Minnie e tornò in soggiorno. Paulie la guardò mentre si sedeva con la bambina e riprendeva la partita. Ebbe una specie di incubo a proposito di Poppy che commetteva una pazzia dopo la fine dell'operazione, come scoprire dove abitava e passare vicino alla casa con l'auto per darle un'occhiata... «Solo per vedere come sta... assicurarmi che stia bene...» A quel pensiero Paulie rabbrividì. Era un comportamento suicida. E a proposito di desideri suicidi, se Mac fosse entrato proprio il quel momento? Se fosse entrato all'improvviso e avesse visto il pacco slegato, che giocava in soggiorno? Sarebbe andato su tutte le furie. E se avesse scoperto che la bambina aveva ancora tutte le dita dei piedi?
Meglio non pensarci. Il giorno prima Paulie gli aveva resistito, ma si chiese come avrebbe fatto se Mac fosse diventato violento. E sarebbe accaduto, se avesse scoperto che avevano preso il dito di un altro bambino per usarlo come elemento di persuasione. Se lo scopre, pensò Paulie a disagio, speriamo che sia molto tempo dopo la fine di questa operazione. 5 Snake si guardò intorno nell'atrio dello Sheraton. Nessuno che avesse puntato gli occhi sul suo portatile. Rilesse l'ultimo messaggio di posta elettronica di VanDuyne. Fatto. Due capsule di cloramfenicolo da 250 mg somministrate oggi alle 10. Ho fatto la mia parte. Quando riavrò Katie? Somministrate, eh? Molto professionale. Quando riavrò Katie? Mai, amico. Ma non poteva dirlo a VanDuyne. Mac si guardò di nuovo intorno. Ancora nessuno nei paraggi, quindi richiamò la risposta che aveva già preparato e apportò qualche cambiamento, ma dopotutto sapeva abbastanza bene che cosa dirgli. Ne abbiamo parlato anche prima, ma penso che tu non sia stato ad ascoltare. Quindi lo ripeto. Il momento in cui riavrai tua figlia dipende dalla gravità della malattia del tuo amico. Quanto più si ammala, meglio è. Se torna in attività fra un paio di giorni dovrai fare qualcos'altro. In nessun caso libereremo tua figlia prima di due settimane. Voglio essere chiaro, in modo che non possano esserci equivoci: vogliamo che quel tizio decada dalla carica. Se non possiamo ottenere questo, vogliamo che rimanga ammalato per molto tempo. Se neanche quello funziona, come minimo vogliamo che non possa andare al vertice sulla droga. In parole semplici, se il tuo amico va a quel vertice non vedrai mai più ciò che resta di tua figlia. Snake sorrise. Gli piaceva soprattutto l'ultima parte, «ciò che resta di tua
figlia». Ecco ciò che si definiva «ribadire il concetto». Caricò il messaggio tramite il sito aperto presso la Delphi a nome di Eric Garter per mandarlo al provider, poi si disinserì. Staccò il computer e telefonò a Salinas. «Pronto.» La voce di Gold. Snake non aveva voglia di parlare con quel grassone, quindi perché non far fare a lui la parte del fattorino? «Di' al tuo capo che la cosa è stata fatta alle dieci di stamattina. Adesso aspettiamo.» Riattaccò e sorrise. Era una bella sensazione, Voleva ricordare a Salinas che non controllava tutto lui. Snake non era un mercenario ai suoi ordini, era un appaltatore indipendente. Tastò il sottile rettangolo dell'audiocassetta che portava sempre con sé, nella tasca del giubbotto. Era lei che l'avrebbe aiutato a restare indipendente... e dalla parte giusta del campo. Uscì dalla parte anteriore dell'albergo e osservò il traffico di mezzogiorno in Connecticut Avenue. Leggero, per essere quello un sabato di sole. Tutti i bravi abitanti dei sobborghi erano probabilmente a casa a curare i giardini e a dare il fertilizzante ai prati. E adesso che cosa faccio, per il resto della giornata? si domandò. Forse una gita fino a Falls Church, apparentemente per controllare il pacco ma soprattutto per esercitare un po' di pressione su Paulie. Perché lui era un prezzolato e aveva cominciato a comportarsi come un appaltatore indipendente. Snake era ancora arrabbiato per il giorno prima. Che faccia tosta, dirgli che per quel pacco non avrebbero più dovuto esserci degli elementi di persuasione. Chi diavolo credeva di essere? Bene... Snake aveva la rivoltella nella Jeep. Poteva essere il momento buono per agitarla sotto il naso di Paulie. Niente spari, niente minacce, solo farla vedere appesa alla cintura, far sapere a tutti e due che era lì, carica e pronta all'uso. Era giunta l'ora di ristabilire la gerarchia. 6 Attraverso il parabrezza dell'auto a noleggio, Marnie osservava la casa di John. Si sentiva tutta irrigidita e scomoda, per la lunga e attesa, ma poteva valerne la pena, per vedere ancora una volta Katie. Dov'è mia figlia, John? Era perplessa. Aveva sorvegliato la casa tutto il pomeriggio del giorno
prima e non aveva visto Katie tornare da scuola. Doveva averla fatta sgattaiolare dentro chissà come. E di certo lei aveva accettato volentieri quel sotterfugio. Complottavano sempre, quei due, condividevano segreti a cui non la facevano partecipare. Non la meriti, John, pensò. Ho più diritti io di te, su di lei. Tu non l'hai portata nel grembo per nove interminabili mesi di nausea e gonfiore. Tu non hai trascorso ore di sofferenza e di urla, per partorirla. Tu non hai dovuto sopportare i chili in eccesso e le brutte smagliature rosse. Tu non hai dovuto restare a casa con lei un giorno dopo l'altro, ad ascoltarne i pianti incessanti. È mia, me la sono meritata. Non hai nessun diritto di tenermela lontana. E se non fosse stato per i tuoi amici esperti medici e per quel giudice di parte, Katie sarebbe stata affidata a me. Non vai bene per lei, John, continuò. Sei sempre stato troppo indulgente. Così si può rovinare un bambino. Ha bisogno di me, John, adesso più che mai. So che probabilmente me l'hai messa contro, ma posso invertire le parti. Ho bisogno solo... Vide arrivare l'auto di John e si accovacciò sul sedile. Dov'era andato? A trovare Katie? A portarla a casa? Con precauzione sollevò la testa e lo guardò voltare nel vialetto di accesso. 7 John scorse l'auto mentre girava per entrare in casa. Nuova di zecca, bianca. Si ricordava di averla vista parcheggiata all'angolo quando aveva portato a Bob Decker, alla Casa Bianca, il dito del piede di Katie: un viaggio surreale nel traffico del centro, con il mignolino della figlia nel ghiaccio dentro il frigo portatile accanto a sé sul sedile anteriore. Ma a quel punto non aveva quasi più capacità di reazione. In quel momento credette di vedere la stessa auto parcheggiata dall'altro lato della strada, con almeno una persona a bordo, forse due. L'FBI? I Servizi segreti? Uno dei rapitori? Meglio ignorarlo. Quando entrò, Nana lo aspettava. Era nell'ingresso, in vestaglia, e aveva un aspetto vecchio e trascurato: non l'aveva mai vista così. Con le dita si pizzicava la gola... «Qualche notizia?» chiese. John si era chiesto se comunicare alla madre di avere informato gli enti federali. Infine aveva deciso che si sarebbe solo preoccupata ancora di più
per le minacce dei rapitori contro Katie. Quindi, per il momento, avrebbe continuato con la bugia del riscatto. «Ancora no, ma credo di poter mettere insieme i soldi questo pomeriggio tardi.» «Oh, grazie al cielo! E allora Katie tornerà a casa?» «Dopo che li avrò consegnati. Almeno lo spero. Ho seguito le istruzioni alla lettera, ma non mi hanno ancora detto che cosa fare dei soldi.» «Una somma tanto grande», osservò lei affondando ancora di più le dita. «Come farai a restituirla?» Lui strinse le spalle e le rispose ciò che avrebbe detto se i rapitori avessero davvero chiesto del denaro. «Adesso non voglio preoccuparmi di quello. Avrò il tempo di farlo dopo che Katie sarà tornata.» «Sì, sì», assentì lei. «Che Katie ritorni a casa. Adesso dobbiamo preoccuparci di questo.» Mentre si girava e tornava in cucina con passo strascicato, John entrò nel soggiorno e lanciò un'occhiata fuori da una finestra. L'auto bianca era ancora dall'altro lato della strada. E all'improvviso sentì il bisogno di vedere chi fossero. Non per parlare con loro, non per affrontarli o sapere il loro nome... solo per vederli. Attraversò in fretta la cucina, passò davanti alla madre che stava bevendo del caffè e uscì dalla porta sul retro. Tagliò per il cortile dei vicini poi corse davanti e attraversò il viale. Si trovò sullo stesso lato dell'auto bianca e le si avvicinò da dietro. Sul paraurti posteriore vide l'adesivo di una società di noleggio. Passò di fianco allo sportello posteriore, a quello anteriore, il sedile a destra era vuoto, al cofano; una rapida occhiata all'indietro e vide... «Marnie!» Si lasciò invadere dall'ira. Avrebbe potuto rovinare tutto! Aprì di scatto lo sportello anteriore sinistro. Gli occorse tutta la propria capacità di autocontrollo per non trascinarla fuori dell'auto e strangolarla. «Che diavolo fai, qui?» Lei si piegò su se stessa e si portò una mano alla bocca. «John!» «Che cosa? Dimmelo! Che cosa credi di ottenere, stando qui?» «John... non sei in te.» Voleva ribattere. Dirle: dovresti capirlo, sui tutto sul non essere in sé, ma si trattenne. Aveva ragione. Fece un passo indietro e respirò a fondo. «Va' via.» «Voglio vedere mia figlia. Non mi permetti di parlarle, quindi ho pensa-
to che se avessi aspettato qui forse l'avrei vista, se non altro di sfuggita.» «Non è più tua figlia.» «Sarà sempre mia figlia! E voglio sapere che cosa ne hai fatto!» «Che cosa ne ho fatto? Che cosa intendi...» «Ieri Katie non è tornata a casa da scuola. Ero qui a sorvegliare.» «Oh, no!» Che cosa doveva fare, con quella donna? Avrebbe rovinato tutto. «Oh, sì! Dove la nascondi? Che cosa ne hai fatto, di mia figlia?» John non poteva rispondere a quella domanda, non poteva inventare un'altra bugia. La fissò per qualche istante, poi passò all'offensiva. «La stai spiando, vero?» Marnie sgranò gli occhi. «Che cosa?» «Avrei dovuto supporre che avresti fatto una cosa del genere. Stai cercando di rapirla.» Tirò fuori dalla tasca una penna e un foglio. «Be', non la farai franca.» Si portò dietro l'auto e cominciò a scrivere. Marnie si sporse dallo sportello aperto e lo fissò. «Che cosa credi di fare?» «Chiamerò l'FBI e darò loro il numero di targa. Riferirò che non solo hai violato un'ordinanza del tribunale ancora pienamente valida che ti ingiunge di stare lontana da tua figlia, ma che hai attraversato alcuni confini tra gli Stati per spiarla e rapirla. Sono reati federali.» «Stai bluffando.» «Perché mai dovrei farlo? L'ordinanza del tribunale è reale; ho dei testimoni che tu sei stata qui in agguato. E allora tutti i dottor Schuyler del mondo non saranno in grado di tenerti fuori della prigione.» Lei storse la bocca in una smorfia. «Figlio di puttana!» Chiuse di colpo lo sportello, avviò il motore e se ne andò. John guardò il foglio che aveva in mano. Aveva il numero di targa di Marnie. Perché non dare seguito alle minacce? Darlo a Decker e lasciare che le sguinzagliasse dietro l'FBI. Farla scappare mettendole addosso una fifa blu. La situazione era a un punto delicato. Non avevano certo bisogno di un'incognita come Marnie, che combinasse dei guai e forse finisse con il provocare la morte di Katie. L'aveva già quasi fatto una volta. Non bisognava dargliene un'altra occasione. Ma anche se Katie fosse stata in casa al sicuro, insieme a Nana, Marnie avrebbe comunque rappresentato una minaccia. Che diavolo stava combinando, a Washington, innanzitutto?
John si ficcò in tasca il foglio e corse in casa. Sapeva chi avrebbe potuto rispondere a quella domanda. Il dottor William Schuyler di Marietta, in Georgia. Poteva essere anche sabato, e lui poteva avere il fine settimana libero, ma John aveva il numero telefonico di casa. Andò nello studio, chiuse la porta, lo trovò e lo compose. Rispose la moglie. John borbottò il proprio nome, affermando che aveva urgenza di parlare con Bill. Rimase in attesa, ribollendo, digrignando i denti. Il dottor William Schuyler, uno stronzo pieno di sé che credeva di possedere la bacchetta magica. Nessuno era tanto squilibrato da non reagire alle cure incomparabili del dottor Schuyler. «Pronto?» «Sono John VanDuyne.» «Ah.» «Sì. Proprio 'ah'. Vuoi sapere chi sta aggirandosi furtivamente nel mio quartiere?» «Via, John. Aggirarsi furtivamente è un termine così esagerato.» Il tono mellifluo, la dizione precisa, il comportamento altezzoso. A John tornò tutto in mente in un attimo: lui seduto sul banco dei testimoni, con la testa calva che brillava per le luci sul soffitto, le mani grassocce sul vasto addome mentre sputava fuori le sue inesauribili chiacchiere psicologiche, finché la corte non era stata inondata di parole vuote che a tutti erano sembrate fatti. «Credi che aggirarsi furtivamente sia un'espressione esagerata? Che cosa ne dici di stare in agguato? Quello è il termine giusto. Sta in agguato per rapire Katie. E afferma che tu hai detto che va bene così.» «È un'assurdità, John, e tu lo sai benissimo. Le ho detto che la ritengo ristabilita in misura tale che delle visite sotto sorveglianza potrebbero essere benefiche sia alla madre sia alla figlia. Ora, se ha dato a queste parole un'interpretazione scorretta, fino al punto di intendere...» «Ti copri sempre il culo, eh? Ma questa volta ti sei messo in una posizione pericolosa. Non avevi il diritto di dire una cosa simile a una paziente squilibrata. Dovevi...» «Squilibrato è un termine tanto...» «Sta' zitto e ascolta! Conosci i termini dell'accordo. Nessuna accusa penale se ottenevo la custodia esclusiva di Katie e se Marnie si sottoponeva a una psicoterapia intensiva per dieci anni. I patti erano questi. Nessuna incertezza. Per dieci anni non deve avvicinarsi a Katie.» «Ma è una cosa tanto irragionevole.»
«E rischiare di ammazzare la figlia lo è? Conosci la sua storia quasi altrettanto bene quanto me. Per poco non ha sfondato il cranio di Katie con un attizzatoio. L'ha odiata dal giorno stesso in cui è nata.» «Odiare è un termine tanto vago...» «Zitto, accidenti! Perché la odia non lo so, e non lo sai nemmeno tu. Forse non lo sapremo mai. Non m'importa, di saperlo. Mi importa solo di Katie. E se a mia figlia capita qualcosa a causa della tua negligenza, pagherai tu, Schuyler.» «Se pensi di potermi fare causa...» «Fare causa?» John sentì la propria risata: un suono orribile. «No, Schuyler, non pagherai con i soldi e nemmeno con la licenza professionale. Pagherai come pagherà Katie. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa capiti a lei capiterà anche a te. Raddoppiata. Capito? Capito?» Stupefacente. Il dottor William Schuyler era rimasto senza parole. John riagganciò e fissò i rami degli alberi fuori della finestra. Aveva detto sul serio. Nelle ultime ventiquattr'ore, non sapeva quando, non sapeva come, aveva deciso di dedicare il resto della vita a trovare chi aveva amputato il mignolino di Katie. Immaginava che i federali non avrebbero saputo che pesci pigliare, ma che l'indomabile John VanDuyne in qualche modo li avrebbe rintracciati e messi alle strette... e poi si sarebbe fatto strada fino a loro con una sega in mano. E avrebbe aggiunto all'elenco lo stimatissimo dottor Bill Schuyler. Se Katie avesse subito danni maggiori a causa di Marnie, avrebbe fatto in modo che lui sperimentasse tutto in prima persona... John incrociò le braccia sulla scrivania e vi appoggiò sopra la testa. Emise un rumore a metà strada fra una risata e un singhiozzo. Marnie non è l'unica ad avere bisogno di uno psichiatra. 8 «Quello che voglio sapere è la ragione per cui questo pazzo va ancora in giro in libertà.» Bob Decker alzò gli occhi dagli appunti. La domanda l'aveva fatta Dan Keane della DEA. Snello, con i capelli d'argento, sui cinquantacinque; la sua carnagione, solitamente rosea, era diventata progressivamente più pallida mentre Bob procedeva a spiegare la ragione della loro presenza. Era seduto fra Gene Canney dell'FBI, un bell'uomo biondo, e Jim Lewis della CIA, dai capelli rossi un po' radi.
«Per un insieme di ragioni», rispose Bob. «La principale delle quali è che lo vuole il Presidente. L'hai sentito da lui stesso pochi minuti fa.» Era ancora stupito per essere riuscito a radunare in così poco tempo quella miniunità operativa. Un miracolo che si era in grado di compiere solo se si aveva alle spalle tutta l'autorità del potere esecutivo. Erano stipati in un ufficio del W 16, il comando dei Servizi segreti proprio sotto la Sala Ovale. Bob aveva abbassato le tapparelle, chiuso a chiave la porta e sistemato nel corridoio due agenti in uniforme con l'ordine di non fare avvicinare nessuno a meno di tre metri dall'uscio. Aveva ragguagliato la squadra sulla situazione, descrivendo tutto così come era successo. Si era allontanato dai fatti solo quando aveva detto che Rasoio aveva mandato giù le capsule e che VanDuyne aveva confessato, sopraffatto dal rimorso. Poiché era troppo tardi per fare una lavanda gastrica (Bob non sapeva se era vero, ma si aspettava che lo credessero), Rasoio si sarebbe fatto ricoverare in osservazione a Bethesda. Bob non riteneva necessario ingannare quegli uomini; li conosceva tutti e avrebbe affidato loro la propria vita. Ma Rasoio lo voleva, e così sarebbe stato. «Le altre ragioni», soggiunse, «sono che VanDuyne è il tramite con chiunque sia dietro a questa faccenda. Abbiamo bisogno che stia fuori, a scambiare messaggi con quei tizi. E la terza è che stiamo cercando di salvare la vita a una ragazzina. Katie VanDuyne è la figlioccia di Rasoio e lui vuole che ciò che ne rimane torni a casa intero.» Bob considerava l'ultimo obiettivo di scarsa importanza. Lo scopo principale era quello di proteggere Rasoio da qualsiasi attentato. «Ciò che ne rimane?» chiese Canney. Bob si voltò e mise il frigo portatile sulla scrivania. «Sì. I rapitori gli hanno mandato un dito del piede della figlia per convincerlo che facevano sul serio. È lì dentro.» Canney trasalì. La smorfia evidenziò le sottili cicatrici provocate da un incidente d'auto, sei anni prima: Gerry era sopravvissuto, la moglie no. Bob sapeva che aveva una figlia dell'età di Katie VanDuyne. «Oh, mio Dio», sussurrò Keane. All'improvviso era impallidito e aveva cominciato a sudare. Bob sapeva che aveva dei nipotini; probabilmente stava immaginando uno di loro in una situazione simile. Solo Jim Lewis non sembrava scosso. Ma era un tipo poco impressionabile. «Lo porterò al laboratorio al più presto», disse Canney. «Ma che cosa
dico? Devo attribuirlo a un caso specifico.» «Ti darò il numero del caso prima che tu vada via. Rasoio sta parlando con il tuo direttore proprio adesso.» «Che cosa ti serve, dai miei?» chiese Jim Lewis. «Quel provider anonimo del Regno Unito.» Bob gli porse una busta. «Le copie di tutta la posta elettronica inviata a VanDuyne. Trovalo, trova chi è Snake e avremo fatto un bel passo avanti.» «Snake?» chiese Conney. «Hai detto Snake?» «Ti suona familiare?» «Sì, l'ho sentito, questo nome, collegato a un paio di sequestri di persona... Credo che in un caso, quando riteneva che le cose non procedessero abbastanza spedite, abbia mandato un dito di un sequestrato.» «Dev'essere lo stesso tizio.» Bob batté le mani e le sfregò. Era magnifico. La squadra non era costituita neanche da mezz'ora e stava già marciando. «Bene. Prendi il dossier su di lui e...» «Mi spiace, nessun dossier. L'informazione era accessoria, il genere di roba che si impara quando si sta cercando qualcos'altro. Non sappiamo niente di quell'uomo, tranne che sembra specializzato nel sequestro di persone che non chiamano a gran voce la polizia.» «Quindi abbiamo a che fare con degli esperti», osservò Bob. Non era una bella notizia. Significava che probabilmente Snake aveva perfezionato quella tecnica prima di sequestrare la figlia di VanDuyne. Si rivolse a Keane. «Riteniamo che dietro a questa faccenda ci sia il mondo della droga, Dan. Chi sono, quelli più probabili?» «Eh?» Keane pareva lontano mille miglia. Sembrava ipnotizzato dal frigo. Bob si chiese che cosa lo stesse tormentando. Ripeté la domanda. «Posso solo fare qualche supposizione», rispose Keane lentamente, come se scegliesse le parole con molta cura. «Il cartello di Cali, e in questi giorni significa soprattutto Emilio Rojas, è quello che si becca la fetta maggiore della torta, ma i trafficanti messicani hanno il maggior numero di contatti con gli Stati Uniti. Potrebbe trattarsi di Rojas che opera tramite i messicani, o dei messicani che agiscono per conto proprio.» Bob nascose la propria irritazione. Aveva sperato in un'analisi un po' più approfondita, da parte del vicedirettore della DEA. «Tu che cosa dici?» «Io dico i messicani. In Colombia i sequestri di persona sono un'arte; a-
vrebbero fatto intervenire gente del loro Paese. Ma penso che i messicani possano avere assoldato un talento locale. Teniamo d'occhio Carillo, Garcia, Esparragosa e gli altri pezzi grossi. Controllerò se qualcuno di loro ha attraversato il confine di recente.» Era un po' meglio. «Bene. Sappiamo tutti che cosa dobbiamo fare. Non perdete tempo. Questa faccenda ha la precedenza assoluta.» Avrebbe desiderato dir loro che avevano solo fino a martedì, ma lo sapevano solo Rasoio e lui. «Rivediamoci qui alle diciotto, anche prima, se salta fuori qualcosa.» Mentre cominciavano ad alzarsi Bob disse loro: «So che non è necessario che ripeta ciò che ha detto il Presidente quando siete arrivati, ma lo farò ugualmente. Niente di ciò che viene detto qui deve uscire da queste pareti. Non importa chi ve lo chieda, il direttore del vostro ente, un senatore o un ministro, voi non gli direte niente. Rasoio ha firmato un ordine esecutivo in quel senso, quindi siete fuori dei guai. Non è che non volete parlarne, vi è stato proibito. E voglio sapere subito il nome di chi insiste con voi a questo proposito». Dan Keane fu il primo ad andarsene, sembrava avere una gran fretta, e fu seguito da Jim Lewis. Gerry Canney rimase indietro, con il frigo portatile che gli pendeva da una mano. «Grazie per avermi chiamato. Apprezzo la fiducia.» Bob sorrise e pensò al rischio che avevano corso qualche anni prima, con un certo dottor Latham. «Non è la prima volta che lavoriamo insieme in occasione di un complotto contro il Presidente. Ma forse questa volta non avrai mai la possibilità di parlarne.» Canney strinse le spalle. «Lo terrò per le mie memorie. Ma più che altro voglio che quella bimba ritorni a casa viva.» «Pensi a Martha?» chiese Bob. «Come posso non pensarci? Katie VanDuyne ha solo un paio d'anni di meno.» Lanciò un'occhiata al frigo. «Non so che cosa farei se qualcuno...» Rabbrividì. «Capisco», fece Bob. I suoi ragazzi erano adolescenti, ma sembrava che non fosse passato molto tempo da quando erano piccoli e inermi. Quando Gerry se ne fu andato, Bob si mise a prendere appunti e a organizzare le informazioni in suo possesso. Non poteva farsi assegnare una segretaria, per quel caso; quindi doveva pensarci lui stesso. Non era stato un cattivo inizio. Dan Keane che seguiva le tracce di Snake attraverso i signori della droga. Jim Lewis che lo faceva attraverso il
provider anonimo. Gerry Canney che lo faceva tramite il ditino di Katie VanDuyne. Snake, chiunque tu sia, dovunque tu sia, la chiave sei tu. E sei nella merda. Perché ti troveremo, e quando ti avremo trovato ti torchieremo come non lo sei mai stato. Ti torchieremo finché non ci avrai detto per chi lavori. Poi li troveremo e torchieremo anche loro. E presto troveremo il tizio che ha dato avvio a tutta la faccenda. Entro martedì, a Dio piacendo. 9 Dopo una rapida sosta in ufficio per prendere la borsa portadocumenti, Dan Keane si affrettò lungo la Sesta strada, verso il Mall. Le probabilità di imbattersi in qualcuno che conosceva, in centro e il sabato mattina, erano zero, in pratica; ma lui tenne lo stesso gli occhi aperti, continuando a guardarsi intorno, non riuscendo a scacciare il pensiero che qualcuno potesse seguirlo. Era solo paranoia, lo sapeva. Il piano si stava attuando sotto i suoi occhi. La maglia più debole era sempre stata VanDuyne, e infatti era crollato. Ma non prima di avere somministrato a Winston quell'antibiotico, grazie al cielo. Era quello che importava: togliere dalla circolazione il Presidente. E bisognava assicurarsi che nessuno collegasse il complotto ai cartelli della droga. Perché, se fosse stato stabilito quel legame, la causa della depenalizzazione ne avrebbe tratto vantaggio: esattamente l'effetto opposto a quello che Dan si proponeva di ottenere. Almeno lui era al sicuro, finalmente. Niente che lo col legasse a VanDuyne, ai rapitori o a Salinas. E per diminuire la possibilità che quest'ultimo fosse associato al complotto, tutta l'organizzazione doveva essere smantellata subito. Ma la bambina? Che cosa le sarebbe accaduto? Cercò di non pensarci. Sì, lei aveva un nome, ma tentò di tenerlo nascosto in fondo ai recessi della mente, continuò a ripetersi che si sarebbe salvata, ma sapeva benissimo che non era affatto così. O Dio del cielo, quale mostro è capace di tagliare un dito del piede a una bambina? Dan lo sapeva benissimo. Ed era semplicemente un'altra prova che quegli schifosi bastardi dovevano essere eliminati, non legalizzando il loro sporco traffico ma scovandoli, radunandoli, rinchiudendoli lontano dalla società civile e buttando via la chiave.
Dan conosceva il nome di quel particolare mostro. Gli avrebbe parlato quello stesso giorno. Non molto tempo dopo. La ragazzina si sarebbe salvata. Ma anche se non fosse andata così... Non riusciva a credere di pensarlo davvero, ma anche se non si fosse salvata, anche se non fosse riuscita a tornare a casa, si trattava di una sola vita. Se fosse stato l'unico mezzo per porre fine ai progetti di depenalizzazione di Winston, quella vita sarebbe stata sacrificata per salvarne innumerevoli altre. Continua a pensare al quadro generale, si disse. Non lasciare che le minuzie ti inghiottano. Cos'è mai la vita di una ragazzina, a fronte del disfacimento della fibra morale di una nazione? Una piccola vita... Scorse un telefono vicino al museo dell'Aria e dello Spazio e vi si avvicinò. Tolse dalla borsa l'apparecchio a batteria per alterare la voce e si guardò intorno. Nei pressi non c'era nessuno. Lo collegò al microfono, infilò un quarto di dollaro nella fessura e compose il numero. Era certo che Salinas registrasse quelle conversazioni e facesse di tutto per localizzarle. Buona fortuna. Dan usava ogni volta un telefono diverso, e nell'improbabile eventualità che quei nastri arrivassero in tribunale l'apparecchio per distorcere la voce avrebbe confuso qualsiasi tentativo di identificarla. Quando risposero disse: «Passami Salinas». Le prime volte c'erano state alcune discussioni sul fatto che avrebbe dovuto essere richiamato. Dan aveva sempre rifiutato. Non lo facevano più. Quando udivano la sua voce distorta gli passavano subito la comunicazione. «Sì?» udì la voce di Salinas. «Chi parla?» Si immaginò quel grassone, in poltrona o su un divano, con il ventre cascante fra le cosce allargate. Quand'è stata l'ultima volta che ti sei visto il cazzo, brutto porco? Mio Dio, quanto odiava quell'uomo. Per quello era entrato nella DEA, per liberare il mondo dai suoi simili. Ma Salinas non era uno stupido. Dan doveva riconoscerlo. Anche lui riteneva che le telefonate fossero registrate, perciò faceva la parte dello sciocco. Nessuno l'avrebbe messo in trappola. E quindi iniziarono il loro balletto verbale. «Sai maledettamente bene, chi parla», fece Dan. «Scusa, non avevo riconosciuto la voce. La comunicazione dev'essere un po' cattiva.» «Giusto. La peggiore di tutte. Ecco quello che devi sapere: il bersaglio sarà ricoverato in ospedale oggi pomeriggio, fra qualche ora.» «Mi dispiace per il signor Bersaglio, ma non credo di conoscerlo.»
«Può darsi che tu conosca il suo dottore. Poco dopo aver dato la medicina al bersaglio ha confessato. Un certo numero di enti governativi è impegnato a dipanare la matassa.» Una lunga pausa all'altra estremità del filo. Dan era certo che quella fosse l'ultima cosa che Salinas avrebbe voluto sentire. «Ma il signor Bersaglio è malato?» «Non ancora, ma si aspetta di diventarlo. Ovviamente il dottore non serve più a niente, quindi bisogna sciogliere immediatamente il gruppo di pressione e restituirgli il suo pezzo di valore.» «Pezzo di valore?» «Sì. La cosa preziosa che gli hai portato via.» «No», ribatté Salinas. «Non credo che sia possibile. Vedi, non si è attenuto ai termini dell'accordo, quindi non può attendersi la restituzione della sua proprietà. Inoltre è più... come dire?... prudente che non resti in circolazione.» Dan chiuse gli occhi e ripeté il mantra: il quadro generale... lascia perdere i dettagli... considera il quadro generale... Deglutì. «Sarai così deciso anche a proposito degli altri componenti del gruppo?» «Certo. È piccolo. Nessuno sentirà la mancanza dei componenti.» «Nessuno deve metterli in relazione con te o con la tua attività.» «Non rimarrà nessuna traccia. Come posso venire collegato a qualcosa che non è mai esistito?» In effetti, come? Dan riagganciò ed ebbe un conato di vomito. ...lascia perdere i particolari... guarda sempre il quadro generale... Come diavolo aveva fatto a impegolarsi in una faccenda del genere? Dovette chiedersi quante persone, alla DEA, non potevano soffrire Winston e il suo progetto. Risposta facile: tutti quanti. Che cos'altro pensare di qualcuno che ha condannato all'estinzione la tua professione, il tuo lavoro di una vita? Quanti avevano avuto l'idea di cospirare con il nemico, per fermare Winston? Qualcuno forse sì. Ma ne conosceva solo uno che aveva avuto il fegato necessario, che aveva a cuore il proprio dovere e la propria patria tanto da andare fino in fondo. Daniel J. Keane. Ma le sue ragioni erano davvero tanto pure e idealistiche? Voleva credere che fosse così, ma nei momenti di maggiore onestà, alle tre di notte,
quando si ritrovava sveglio con gli occhi spalancati a fissare il buio, si rimproverava aspramente, sussurrando che era motivato non tanto dai principi quanto dall'autoconservazione. Aveva dedicato alla DEA la maggior parte della propria vita lavorativa, e quando infine era in buona posizione per diventare amministratore Winston aveva progettato di rendere superflua e di togliere ogni importanza alla carriera di Dan. L'ente avrebbe potuto continuare a esistere, ma solo come guscio vuoto, come organo inutile, con un'importanza pari a quella dell'appendice nel corpo umano. Aveva stipulato un patto con il diavolo solo per salvare la propria carriera? No. Non poteva accettare una cosa simile. Lui era migliore. Però sorgeva un'altra domanda: quando hai unito le tue forze con il nemico, non sei forse diventato il nemico stesso? Ma lui non si era unito al nemico, lo stava solo usando. Il suo scopo era nobile. Uno scopo tanto nobile e sublime da permettere che una bambina morisse perché esso potesse essere raggiunto? «Espierò», disse a bassa voce. «Giuro sulla vita dei miei figli e dei miei nipoti che non appena questa faccenda sarà finita dedicherò ogni momento della vita, finché campo, a scovare Carlos Salinas e i suoi simili e a farli mettere dentro. Senza dubbio quell'uomo pensava di avere un alleato nei ranghi elevati del governo. Si sbagliava, e di molto». 10 Carlos sbatté giù la cornetta e fece cenno a Llosa di spegnere il registratore. «Il nostro amico ha interrotto la comunicazione. Credo di averlo sconvolto. La registrazione è buona?» Llosa si tolse la cuffia e alzò il pollice. «Adesso chiama quel pendejo di MacLaglen. Digli che gli devo parlare immediatamente.» Mentre Llosa attraversava la stanza per andare al telefono Carlos si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Mierda! Aveva temuto proprio quello. MacLaglen non aveva spaventato abbastanza il dottore ed erano entrati in gioco i federales. Ciò significava che era giunto il momento di fare un rapido repulisti. Sbarazzarsi della bambina e dei due aiutanti di MacLaglen: ucciderli e seppellirne i cadaveri in un posto in cui nessuno li avrebbe mai scoperti. Carlos sapeva che ad Alexandria stavano pavimentando un nuovo parcheggio. Un posto perfetto.
Gli sarebbe piaciuto mettere anche MacLaglen nella tomba di cemento armato, come aveva pensato all'inizio, ma quel cabrón l'aveva raggirato. Sospirò. Ah, be', la cosa non era poi tanto brutta. MacLaglen era un professionista. Era un rischio accettabile. E aveva convinto il dottore a somministrare a Thomas Winston il cloramfenicolo. Quello era l'importante. Il Presidente si faceva ricoverare in ospedale. Quando la notizia fosse giunta in patria, Emilio Rojas ne sarebbe stato soddisfatto. Ormai Carlos doveva solo sperare che la medicina funzionasse. Non aveva più potere su ciò che sarebbe accaduto. La confessione del dottore significava solo che il repulisti sarebbe iniziato prima del previsto. Non era un problema. Llosa finì di parlare al telefono e si voltò verso di lui. Gli si rivolse in spagnolo. «Gli ho lasciato una comunicazione sulla segreteria. Dovrebbe richiamare da un momento all'altro.» «Gli hai detto di mettersi in contatto immediatamente?» «Come mi avevi ordinato.» «Bene. Quando chiama segui la solita procedura.» Llosa annuì e se ne andò. Carlos si chiese se il dottore avesse creduto davvero che non avrebbero scoperto la sua confessione e se si fosse reso conto di avere condannato la figlia. Che pazzo spericolato. 11 Poppy sudava, dietro alla maschera di Minnie, mentre in soggiorno faceva qualche esercizio ai manubri. Katie stava guardando i cartoni animati. Quando udì sbattere lo sportello di un'auto davanti alla casa Poppy lanciò un'occhiata dalla finestra. Il cuore cominciò a batterle all'impazzata, come se avesse appena preso un grammo di crack. «Oh, Cristo! È Mac!» Udì una sedia della cucina ribaltarsi di colpo mentre Paulie si precipitava nella stanza. «Che cosa? Dove?» In preda al panico, Poppy si portò al centro della stanza. «Là fuori! Sta venendo qui!» «Merda!» Paulie indicò Katie. «Portala via di qui! Io penserò a far sparire le tracce. Sbrigati!» Poppy afferrò Katie per le ascelle, la sollevò e la trascinò in fretta nella
camera degli ospiti. «Che cosa c'è?» chiese la bambina. «Perché avete tanta paura?» Poppy la depose sul letto e chiuse la porta. «È il nostro capo. Non deve sapere che ti lasciamo andare in giro per casa senza benda.» «Perché no? Guardavo solo...» Poppy pose un dito sulle labbra di Katie e sussurrò: «Sss. Sono le regole del capo. Devi stare molto tranquilla, mentre lui è qui. Tranquilla come un topolino. Va bene?» Lei fissò Poppy e usò lo stesso tono bisbigliato. «Va bene.» «Magnifico.» Poppy nascose quegli occhioni azzurri dietro la benda. Con le dita che le tremavano, ebbe qualche difficoltà a fare il nodo, ma infine riuscì a legarlo ben stretto sulla nuca di Katie. «Bene.» Si tolse la maschera e disse: «Adesso sdraiati e lascia che ti leghi le braccia». La bimba fece il broncio e singhiozzò. «Non voglio che mi leghi.» Oh, Cristo, Katie, pensò Poppy mordendosi le labbra, non farmi arrabbiare proprio adesso; non con Mac che sta per entrare in casa. «Sss! Per favore, Katie, devi stare zitta. Ti ho detto che devi stare tranquilla come un topolino, ricordi? Be', bisogna anche che ti leghi. Le regole le ha stabilite il capo. E non gli piace che si trasgrediscano.» Lei singhiozzò di nuovo e parlò più forte. «Ma fa male!» E in quel momento Poppy udì il portone che si apriva e la voce di Mac. Non riuscì a capire le parole, ma era lui. Oh, Cristo, fa' che non venga subito qui. Dammi solo un altro mezzo minuto. «Va bene, va bene. Non ti legherò stretto. Non ti farà male, te lo prometto, ma devi sembrare legata stretta, capito? Le regole del capo, ricordi? Non vuoi che finisca nei guai, vero?» La bambina scosse la testa. «No...» «Va bene, allora. Adesso svelta. Sdraiati e lasciami fare quello che devo; non sentirai niente, te lo assicuro.» Katie tirò un po' su con il naso, ma si stese sul letto e alzò le mani per farsele legare. «Sei proprio un bravo soldatino», sussurrò Poppy. Ma le dita le tremavano ancora di più. Riuscì a stento a reggere la corda, comunque la piegò in qualcosa che sembravano nodi. «Va bene. Sei legata. Ti fa male?» Katie scosse la testa.
«Magnifico. Adesso...» Poppy lanciò un'occhiata ai piedi di Katie. Il cuore le batteva forte da quando aveva scorto la Jeep di Mac, ma accelerò ancora. Il piede sinistro della bambina aveva calzino bianco, ma il destro era... scalzo! «Cristo, dov'è finita la benda?» Katie dimenò le dita nude. «Penso che sia caduta.» No! Non era possibile! Non con Mac a pochi metri di distanza! Guardò sul pavimento, guardò sopra le coperte, ma non la trovò. E poteva entrare da un momento all'altro. «Va bene, senti», le disse. «Ti coprirò le gambe. Non agitarle, anche se senti un po' di caldo, tienile sotto le coperte, Capito?» Katie annuì. «Brava», le disse Poppy. Si piegò sul letto e le diede un bacio in fronte, proprio sopra la benda. «Non appena il capo se ne va faremo un'altra partita. Va bene?» Katie sorrise. «Bene.» Poppy sistemò le coperte e fece qualche passo indietro per controllare. Sembrava tutto a posto. Un ultimo sguardo alla bambina... ed era giunto il momento di affrontare Mac il Mostro. Andò nel soggiorno, chiudendosi la porta alle spalle. Vide Paulie in piedi accanto al divano e Mac che girava per la stanza e faceva roteare il mazzo di chiavi che aveva in mano. Indossava un paio di jeans e un giubbotto degli Orioles, aperto. Percepì la tensione nell'ambiente. Mac si fermò e le sorrise, ma era un finto sorriso. «Ti prendi cura del nostro piccolo tesoro?» Poppy annuì. «L'ho appena...» Aveva la bocca tanto secca che dovette schiarirsi la gola. «L'ho appena messa giù perché dorma un po'.» «Bene. Sapevo che saresti andata proprio bene, per questo lavoro. Una bella chioccia per il pacco.» Poppy lanciò furtive occhiate per la stanza. Sembrava che Paulie avesse fatto un buon lavoro. La scacchiera e le pedine erano spariti, e anche la maschera di Topolino. Non aveva mai fatto ordine, lei credeva che non ne sarebbe mai stato capace. Dove l'aveva ficcata, tutta quella roba? Sotto il divano? «Il tuo amichetto mi stava giusto dicendo che spera non sia rimasto nessun risentimento per il nostro piccolo contrattempo di ieri.» Contrattempo? Di che cosa stava parlando, Mac? Aveva uno sguardo strano, negli occhi. Stava forse cercando una ragione per litigare?
«Non abbiamo nessun risentimento contro nessuno», ribatté Poppy. «Vogliamo solo che questa faccenda finisca, e presto.» Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma scorse una macchia bianca accanto alla gamba posteriore del tavolino. Non voleva chinarsi, quindi dovette metterla a fuoco con la coda dell'occhio. Qualcosa di bianco con una traccia di rosso... Oh, Cristo, la benda! La benda del piede di Katie! Se Mac l'avesse notata avrebbe cominciato a fare domande, forse avrebbe voluto vedere il piede della bambina! Oh, Gesù! Oh, Cristo! Oh, Madre di Dio, non poteva lasciare che Mac la vedesse! «Sono sicuro che è così», le disse Mac. Poi si rivolse a Paulie. «Ma devo considerare questa dichiarazione come una scusa?» Poppy si spostò piano piano verso il tavolino. Se almeno avesse potuto mettersi fra Mac e la benda... Paulie strinse le spalle. «Se vuoi. Dico solo che il capo sei tu, sei tu che dai gli ordini, ma noi abbiamo dei limiti.» Poppy vide che Mac si toglieva il giubbotto degli Orioles e lo buttava su una sedia. Aveva cercato di renderlo un gesto casuale, ma non appena Poppy scorse l'impugnatura della rivoltella che spuntava dalla fondina di cuoio, vicino al cercapersone che portava in cintura, capì che non era affatto così. Che intenzioni ha, Mac? si chiese. Vuole cercare di spaventarci? Io sono già spaventata, anche troppo. Si accorse che anche Paulie aveva notato quel gesto. Non parlarne, Paulie, pensò, augurandosi che potesse leggerle il pensiero. Non dargli questa soddisfazione. Si spostò ancora più vicino alla benda. Era più importante che mai impedirgli di vederla. «Vediamo se ho capito bene», dichiarò Mac. «Dici che sono il vostro capo, ma solo fino a un certo punto. Al di là, il capo sei tu?» «No, Mac», rispose Paulie in tono pacato. «Non intendevo affatto quello. Volevo solo dire che mi hai ingaggiato, non comprato.» Lui lo fissò come se stesse pensando a ciò che aveva detto. Poppy utilizzò la pausa per accostarsi al tavolino. Ormai aveva il piede vicino alla benda. Avrebbe desiderato mettervelo semplicemente sopra e tenerla lì sotto, ma c'era la sedia di mezzo. Bene, sarebbe restata in quella posizione e l'avrebbe nascosta agli occhi di Mac. Ma lui ricominciò a girare per la stanza. Poppy si sentì raggelare dal ter-
rore. L'avrebbe vista, lo sapeva. «Penso che tu abbia proprio ragione, Paulie», stava dicendo Mac. Cristo, si stava spostando verso di lei. Non poteva non vederla. Poppy mise il piede destro sul tavolino e cominciò a trafficare con i laccetti della scarpa da ginnastica, come se il nodo si fosse sciolto. Mac era a circa un metro e mezzo da lei. Con il cuore che le batteva forte lo disfece, poi con un forte rumore di disappunto si girò, si sedette sul bordo del tavolino e si chinò per allacciarsi la scarpa. Quando ebbe le mani vicino al pavimento, afferrò furtivamente la benda e l'appallottolò nel pugno. L'ho presa! «Che cos'è?» chiese Mac. Aveva smesso di far roteare le chiavi e la stava fissando. Guardò lui, poi la propria mano. Che cosa poteva dirgli? «Oh, solo un fazzolettino.» Mac stava per dire qualcosa quando il suo cercapersone squillò. Lo alzò per leggere il messaggio, e intanto Poppy tirò su con il naso, se lo soffiò in fretta e si infilò in tasca la benda, trattenendo il fiato. Premette un pulsante e spense l'apparecchio. «Subito potrebbe richiedere un po' di tempo», borbottò; poi riprese a girare per la stanza. «Sì, Paulie», disse parlando a bassa voce, come se non avesse qualcosa di preciso da dire, come se stesse solo ammazzando il tempo, «ma se una persona accetta un incarico, non dovrebbe eseguirlo?» «Certo», rispose Paulie. «Prendi me e Poppy, per esempio. Siamo stati ingaggiati per sorvegliare un pacco. E questo va bene. Questo è l'incarico e noi lo portiamo a termine. Ma non abbiamo accettato di fare a fettine una bambina. Non era nelle specifiche, per così dire.» Poppy ascoltava appena. Stava ferma, fiaccata, e faceva profondi respiri mentre i muscoli si rilassavano e il battito cardiaco si normalizzava. Adesso andava tutto bene. Finché Mac non fosse entrato là dentro e non avesse controllato il piede di Katie, erano certi del successo. Poi udì uno scatto, alzò gli occhi e pensò che il cuore le si sarebbe fermato del tutto: sulla soglia della camera degli ospiti c'era Katie, senza corde ai polsi, senza benda sugli occhi e senza calzino al piede destro. Vincendo il panico, Poppy si girò di scatto e vide che Mac aveva la schiena voltata. Ma Paulie l'aveva vista e aveva fatto una faccia come se avesse ingoiato mezzo metro di filo spinato. Poppy si preparò a scattare verso la porta, per afferrare Katie e spingerla di nuovo dentro, ma la bambina parlò: «Devo andare in bagno».
Mac si girò di scatto e il tempo parve fermarsi, come se il proiettore del film della loro vita si fosse arrestato con uno stridio. Pareva che tutta l'aria fosse stata risucchiata via dal soggiorno, ma non importava perché nessuno respirava. La vita di Poppy s'immobilizzò per un istante, come in una foto. Ma solo per un istante, lungo e pieno di sofferenza. Poi tutto riprese, orribilmente. Fissando Katie, Mac strabuzzò gli occhi e diventò rosso per la rabbia. «Cosa cazzo? È... È...» Sembrava non credere ai suoi occhi. Poi li sgranò ancora di più indicando il piede nudo. «Le dita dei piedi! Come mai ha ancora tutte le dita dei piedi?» «Ehi, Mac», fece Paulie. «Le cose non stanno come credi.» Mac estrasse la rivoltella dalla cintura. Armò il cane e mirò a Katie. Poppy non riuscì a muoversi. Sembrava incollata al tavolino, al pavimento. Ma fu capace di urlare. «Mac, no! Cristo, no!» Non riuscì a capire se lui l'avesse udita oppure no. Forse temeva il rumore dello sparo e l'attenzione che avrebbe suscitato. Comunque fosse, rimise l'arma nella fondina. «Cristo santo!» gridò e si guardò intorno per cercare qualcosa, Poppy non riuscì a capire cosa, continuando a ripetere: «Cristo santo!» «Calma, Mac», stava dicendo Paulie. A quanto pareva, questi non riusciva a trovare ciò che voleva in soggiorno, quindi andò in cucina. Finalmente Poppy riuscì a muoversi. Paulie la stava guardando con un'espressione affranta, le fece cenno di far sparire Katie, ma Poppy lo stava già facendo. Stava trascinando Katie nella camera da letto quando Mac ricomparve. Il viso gli era ritornato del colore normale, ma aveva perso ogni espressione, e gli occhi... gli occhi erano vuoti e freddi, come se in essi fosse sparita ogni traccia di umanità. Nella destra aveva qualcosa di lungo e sottile. Mentre passava davanti alla finestra la luce del sole si rifletté sulla sua superficie d'acciaio. Oh, Cristo, un coltello... quello grande, lungo almeno trenta centimetri, che aveva visto nel cassetto degli utensili da cucina. Mentre stringeva Katie contro di sé e si nascondeva in camera, Poppy gemette. Oh, no, non poteva... non voleva cercare di tagliarle il ditino adesso, vero? Non poteva essere. «Paulie!» gridò. «Paulie, ha un coltello!»
Ma lui l'aveva già preceduta. Si mise davanti alla porta e tese le mani. «Fermati dove sei, Mac. Non commettere una pazzia. Le cose non stanno come sembra.» Mac rallentò, ma senza fermarsi. «Ah no?» chiese con una voce fredda come gli occhi. «Abbiamo consegnato l'elemento di persuasione proprio come avevi detto tu», spiegò Paulie sparando le parole come una mitragliatrice. «Il dito del piede di un ragazzino. Solo che non era di questa bambina. E ha funzionato, no? Voglio dire, hai detto tu stesso che quel tipo era pronto a fare qualsiasi cosa, dopo avere aperto la busta. Quindi non è successo niente di male. Ha funzionato tutto come doveva, no? Allora a che cosa serve tagliarle il dito adesso? Quale vantaggio porterebbe?» Infine Mac si fermò. Fissò Paulie con uno sguardo disgustato. «Sei proprio un idiota, cazzo. Che cazzo mi importa del dito, adesso. Mi ha visto! Ci ha visto tutti!» Quelle parole furono come lance che trafissero il cuore di Poppy. La ucciderà! Ucciderà la mia piccola Katie! «Andrà tutto bene», fece Paulie. «Certo che sì», ribatté Mac riprendendo a muoversi. «Appena l'avrò fatta fuori.» Cercò di aggirarlo, ma lui gli bloccò il passo. «Ehi, Mac, non puoi dire sul serio. Quella bambina non la puoi eliminare!» «Fatti da parte, Paulie! Non finirò certo in prigione perché una mocciosa è in grado di denunciarmi.» Lui lo spinse indietro. «Basta, Mac, rifletti.» Allora Mac si infuriò. Digrignò i denti e tirò un fendente. Poppy urlò. «Attento, Paulie!» Lui fece un salto indietro, toccandosi un braccio. Aveva la mano bagnata di rosso. «Figlio di puttana! Mi hai ferito!» Poppy conosceva quel tono di voce. Paulie si era incazzato. Avanzò verso Mac, schivò un altro colpo, poi si avvinghiarono, scalciando, imprecando, grugnendo, sbuffando come animali mentre cercavano entrambi di conquistare il controllo del coltello. Poppy spinse Katie di nuovo sul letto. «Sta' qui e non muoverti!» Tornò in soggiorno e si strinse contro il muro mentre Paulie e Mac si dibattevano sul pavimento. Doveva trovare il modo di fermare Mac. Ma come? Poi, accanto al tavolino, scorse i pesi con cui si stava allenando.
Sì! Ne afferrò uno e lo sollevò proprio mentre Paulie si portava sopra Mac. Strisciò più vicino, in cerca di un varco, aspettando di poter colpire la testa di Mac. Poi udì Paulie emettere un forte «Ah!», un incrocio fra un grido strozzato e un gemito di agonia, e nello stesso orribile istante vide la punta del coltello spuntare dalla schiena della sua camicia, con una macchia che le si allargava intorno. Poppy urlò il suo nome e si buttò in avanti, proprio mentre Mac stava spingendo via Paulie da sopra di sé. Aveva quasi dimenticato il manubrio che aveva in mano, ma quando vide Mac rialzarsi lanciò un urlo che non aveva mai immaginato di poter emettere, un grido di rabbia e di paura simile allo stridio di un camion con i freni difettosi. Mac la guardò e per un attimo lei si crogiolò nello sguardo di improvviso terrore di cui si riempirono i suoi occhi quando la vide e si rese conto di quale oggetto gli aveva sollevato sopra la testa. Gridò «No!» e cercò di alzare una mano, ma era troppo tardi. Poppy lo colpì con l'estremità del manubrio proprio in mezzo agli occhietti glaciali e maligni, schiacciandogli il naso. Il sangue si sparse su tutto il viso, lui batté la testa contro il pavimento e non si mosse più. Poppy se ne disinteressò immediatamente, gettò in terra il manubrio e si avvicinò a Paulie, che stava disteso sul pavimento con il manico nero del coltello che gli sporgeva dallo stomaco, proprio sotto lo sterno. La camicia nera non lasciava vedere il rosso del sangue, era solo un po' più scura e bagnata. E lui era tutto bagnato. Aveva il viso bianco come un cencio e sembrava che faticasse a respirare; Poppy non voleva pensarci, non voleva credere che potesse accadere, ma capì che il suo Paulie stava morendo. «Paulie?» Lui guardò lei, poi il manico che gli spuntava dalla camicia. Lo toccò con le dita che gli tremavano. Mentre sussurrava sibilando cercò di sorridere. «Non è brutto come sembra. Me la caverò.» Poppy cercò di trattenere i singhiozzi, ma senza riuscirci, e cominciò a piangere. «Oh, Cristo, Paulie, ti è uscito dalla schiena!» Lui batté le palpebre. «Davvero? Oh.» Guardò il manico e lo toccò di nuovo. «Aiutami a tirarlo fuori.» «No! Non posso!» «Fa tanto male, Poppy. Devi tirarlo fuori. Per favore.» «Va be-bene.» Toccare quel manico era l'ultima cosa che avrebbe voluto
fare, ma se faceva tanto soffrire Paulie... Si costrinse a circondarlo con entrambe le mani, lo serrò leggermente e tirò. Paulie si irrigidì e gemette. «È bloccato!» La sua voce salì fino a diventare un lamento. «Non ci riesco, Paulie!» «È la mia unica possibilità. Tiralo fuori! Subito!» Tremando e singhiozzando, Poppy intensificò la stretta e tirò il manico con tutte le sue forze. Dopo una resistenza iniziale, uscì all'improvviso e per poco lei non cadde all'indietro. Quando Poppy si drizzò, Paulie era ancora più pallido di prima, ma le sorrideva. «Oh, così sto meglio.» Ma quando guardò la ferita vide il sangue che ne sgorgava e scendeva dai fianchi di Paulie. All'improvviso lui contrasse tutto il corpo e la guardò. Riuscì a stento a udirne la voce. «Forse avremmo dovuto lasciarlo dentro.» E poi non c'era più. Non si mosse, non emise nessun altro rumore; aveva gli occhi ancora aperti e la guardava, ma Paulie non c'era più. No... non poteva essere... «Paulie?» fece. «Paulie?» Lasciò cadere il coltello e si piegò su di lui, con le braccia tese, quando qualcosa le urtò una gamba. Si girò. Mac si stava muovendo. Aveva il naso schiacciato e sembrava che gli avessero tirato in faccia un pomodoro maturo, ma le palpebre battevano. Stava rinvenendo. Allora Poppy capì che doveva ammazzarlo. Non poteva permettere che l'uomo che aveva ucciso Paulie e che voleva uccidere Katie facesse un altro respiro. Cercò il manubrio e vide che era rotolato lontano. Fece per alzarsi e andarlo a prendere quando notò il manico della rivoltella infilata nella cintura di Mac. Sì. Con la sua stessa rivoltella. Ma mentre iniziava a estrarla una mano le strinse il polso. Mac le lanciò uno sguardo stordito. «Niente da fare, puttana.» Poppy mise l'altra mano sull'arma e la liberò con uno strattone, però Mac le stringeva ancora il polso. E utilizzò anche l'altra mano, cercando di togliergliela. Ma Poppy non la mollava. Sapeva che da questo dipendevano la propria vita e quella di Katie. All'improvviso l'arma sparò e Poppy sentì qualcosa sfiorarle la guancia. Così vicino, il rumore fu tanto assordante che per poco non perse la presa.
Abbassò gli occhi e notò le dita di Mac sul grilletto, poi lo guardò e vide che le sorrideva, sicuro di avere la meglio su di lei. Tanto per fargli capire che non era così, Poppy piegò la rivoltella, che fece fuoco di nuovo. La pallottola gli recise una ciocca di capelli. Il suo sorriso scomparve. Se non si fosse appena ripreso da un forte colpo e non avesse avuto a che fare con una persona che si teneva in allenamento molto più di lui, l'avrebbe già sopraffatta. Ma era ben lontano dalla sua forma migliore, mentre Poppy era al massimo e sapeva che avrebbe dovuto impadronirsi in fretta di quella rivoltella, prima che la muscolatura più sviluppata e il maggior peso di Mac la fiaccassero. Infilò il pollice nel grilletto, sopra il suo, e premette forte spingendo contemporaneamente la canna verso di lui. Un altro colpo, che gli pizzicò la spalla prima di fracassare una finestra. Lui fece una smorfia e sobbalzò. Mentre un po' di sangue cominciava a filtrare attraverso il buco nella camicia, lui si mise a scalciare sul pavimento, cercando di far leva su di lei. Poppy continuò a fissarlo senza parlare. Ormai non lottavano più per il possesso della rivoltella ma per dare una direzione alla canna, e lui dovette vedere qualcosa negli occhi di lei, perché assunse un'espressione spaventata. Infine i suoi piedi dovettero trovare un punto d'appoggio, perché all'improvviso si mosse di traverso per rovesciarla e intrappolarla sotto il suo peso. Se ci fosse riuscito avrebbe ottenuto il controllo della situazione. Poppy concentrò tutte le sue forze per imprimere un'ultima disperata torsione alla canna, sollevandola e schiacciando il grilletto. Il lampo le bruciò il mento; Mac urlò e si accasciò, con il sangue che gli sgorgava dal lato destro della testa. La sua presa si allentò e all'improvviso la rivoltella fu tutta di Poppy. Lei arretrò muovendosi a tentoni con gambe, braccia e sedere; poi si stese ansimando, con l'arma puntata contro di lui. Armò il cane e rimase pronta a sparargli di nuovo. Ma lui non si mosse. Era steso di schiena, con braccia e gambe aperte, l'occhio destro tutto rosso, la testa in una pozza di sangue che si stava allargando. Mac era morto. Aveva ammazzato un uomo, ma andava bene. Non era un uomo... era Mac. Lui aveva fatto fuori Paulie e stava per uccidere... Katie! Poppy si rese conto che una bambina stava urlando. Lasciò cadere la rivoltella e corse nella camera degli ospiti, dove la trovò accovacciata in un angolo, bianca come un cencio, con le mani sulle orecchie, gli occhi stretti
e la bocca spalancata. Sollevò quel corpicino tremante e lo tenne contro di sé. «Tutto a posto, bambina», le sussurrò vicino alle orecchie. «Tutto a posto. È finita e nessuno ti farà del male. Poppy si prenderà cura di te. Adesso sei al sicuro. Al sicuro.» Al sicuro... Poppy si rese conto che non era affatto così. Quanti colpi avevano sparato? Tre? Quattro? Non riusciva a ricordarlo. Ma di certo qualcuno stava telefonando al 911 proprio in quel momento, per riferire che Sylmar Street si era trasformata nell'OK Corral. Doveva andarsene da lì. Ma dove? Non aveva nessun posto in cui andare. E non aveva soldi. Ci pensava sempre Paulie, a... Paulie! Oh, Cristo, il povero Paulie era morto nell'altra stanza... Ricacciò indietro un singhiozzo. Non poteva pensare a lui. Doveva mettere in salvo Katie e se stessa. «Ecco che cosa faremo. Ce ne andremo in un altro posto, un posto nuovo di zecca in cui non fanno del male a nessuno. Va bene? La prima cosa che devi fare è chiudere gli occhi.» Katie non parlò, ma quando Poppy la guardò aveva gli occhi chiusi. Forse erano così già da prima. La portò fuori, guardando avanti e distogliendo la bambina dal soggiorno imbrattato di sangue. Una volta in cucina, la depose su una sedia. «Sta' qui, Katie. Non muoverti. Torno subito.» Lei rimase immobile, con gli occhi chiusi. Poppy tornò in soggiorno, vincendo la nausea che la colse passando vicino ai cadaveri. Sangue dappertutto. Non voleva restare lì, ma aveva bisogno di soldi. E ancora di più delle chiavi del furgoncino. Senza guardarlo (non poteva sopportare di vederne il viso esangue), girò intorno al corpo di Paulie e si inginocchiò appena fuori della macchia rossa e umida che lo circondava. Si allungò verso di lui, poi si ritrasse. Povero Paulie. Non riusciva nemmeno a guardarlo. Ma doveva farlo. Non era il momento di restare lì inginocchiata a torcersi le mani. Stava arrivando la polizia, accidenti. Facendosi forza e guardando solo con la coda dell'occhio, si costrinse a tastargli le tasche. Quelle davanti erano vuote. Mordendosi le labbra lo fece rotolare di fianco (quant'era pesante!) e trovò il portafoglio, ma non le chiavi del furgoncino. Quei soldi non l'avrebbero portata lontano. Lanciò un'occhiata a Mac.
Aveva sempre grosse somme in contanti. Si alzò e gli si avvicinò. Le fu più facile frugargli in tasca. Aveva solo la testa insanguinata e di lui non le importava niente. Tirò fuori il portafoglio e fece un sospiro di sollievo quando lo vide pieno di biglietti da venti e da cinquanta dollari e di una mezza dozzina di carte di credito, tutte intestate a un nome diverso. Ottimo. Lei e Katie erano ben provviste. Adesso avevano bisogno di un automezzo. Scorse le chiavi della Jeep di Mac per terra, accanto alla rivoltella. Fece per prenderle, poi ci ripensò. Non era un genio, ma si rese conto che quell'auto era parcheggiata di fronte alla casa, quando erano stati sparati i colpi. Qualcuno avrebbe potuto segnare il numero di targa. Sarebbe stato meglio prendere il furgoncino. Tranne che per un paio di rapide uscite, era rimasto sempre in garage. Balzò in piedi e andò nella loro camera da letto: le chiavi erano sul cassettone. Le prese, insieme alla sua borsetta, e tornò in cucina. A metà strada lasciò cadere tutto. Una rivoltella, una borsetta, due portafogli e le chiavi... Troppa roba, per tenerla tutta in mano. E probabilmente avrebbe anche dovuto prendere in braccio Katie. Aveva bisogno... Su una sedia scorse il giubbotto di Mac. Non voleva avere niente che fosse appartenuto a quella carogna, ma in quel momento non era in grado di fare troppo la schizzinosa. Se lo infilò e mise tutto in tasca. Poi prese Katie e si diresse verso il garage. «Vieni, tesoro», le disse. «Ce ne andiamo via di qui.» Mentre apriva la porta fra la cucina e il garage udì squillare ancora il cercapersone di Mac. Chiunque lo chiamasse, gli sarebbero venuti i capelli bianchi, ad aspettare una risposta. 12 «Sei certo di chiamare i numeri giusti?» chiese Carlos. Llosa annuì con forza. «Sì!» «Ho provato anch'io», soggiunse Allen Gold. «Allora perché non risponde, quell'hijo de puta? L'ha sempre fatto.» «Forse ha spento il cercapersone», suggerì Allen, «oppure gli si è scaricata la batteria.» «E la segreteria?» Allen si strinse nelle spalle. «Chissà ogni quanto la controlla?» Carlos si stava preoccupando. Non era possibile che MacLaglen non re-
stasse in contatto in un momento tanto critico. Era molto sconsiderato da parte sua, e per quel poco che Carlos lo conosceva lui non era affatto sconsiderato. In fondo allo stomaco gli stava nascendo un brutto presentimento: qualcosa era andato storto. Fece un cenno ad Allen. «Voglio che tu prenda con te Llosa e che passiate in auto davanti a casa sua.» «Sappiamo dove abita?» «Ad Alexandria. Ti darò l'indirizzo. E te ne darò anche un altro. Ma devi passarci davanti e nient'altro. Non suonare il campanello, non fermare nemmeno la macchina. Comprende?» «Certo.» «Telefona immediatamente, se vedi qualcosa.» Li guardò andarsene, poi tornò al suo massaggio alla schiena. Aveva i muscoli molto contratti. Qualcosa era andato storto... se lo sentiva. 13 Il sole era alto e luminoso in un cielo senza nubi, ma era come se Poppy guidasse tra la nebbia. Riusciva a stento a sentire le mani sul volante. Era intorpidita in tutto il corpo. Spinse al massimo il furgoncino lungo la 95 nord attraverso il Maryland, poi si stabilizzò a circa novantacinque chilometri l'ora. Le sarebbe piaciuto andare a centocinquanta, a trecento, ma non era certo il caso di farsi fermare da un agente della stradale. Novantacinque andavano bene. Lanciò un'occhiata a Katie, assicurata al sedile con la cintura di sicurezza. Nei giorni precedenti era stata una ragazzina chiacchierona, ma da quando erano uscite dalla casa Poppy non aveva sentito un suono uscire da quelle labbra. Poverina... Aveva visto cose che nemmeno un adulto dovrebbe vedere, figuriamoci una bambina di sei anni. Appena arriviamo in qualche posto, pensò Poppy, dovrò darmi da fare con lei. Indurla a parlare. E pensare a che cosa fare di lei. Sì. Appena arriviamo in qualche posto. Ma dove stava andando? E che cosa avrebbe fatto, una volta arrivata? La mia prossima mossa, pensò. Una buona domanda. Che cosa faccio, adesso? Avrebbe voluto che ci fosse Paulie. Lei non era brava, in quel genere di cose, ma lui avrebbe saputo che cos'era meglio fare. Il pensiero di Paulie le provocò un dolore al petto. Ricordò la sua buffa
risata, il sorriso storto, i suoi tentativi di apparire un duro quando era tutt'altro che cattivo. E ora era morto. Non lo voleva ricordare in quel modo, inzuppato di sangue, il viso pallido come un cencio, gli occhi fissi. Voleva ricordarlo a letto, mentre le faceva provare sensazioni meravigliose... «Perché piangi?» La voce di Katie la fece sobbalzare. Poppy si toccò le guance e ritrasse la mano tutta bagnata e macchiata di mascara. Tirò su con il naso e soffocò i singhiozzi. Non posso crollare proprio adesso. Devo farmi forza per amore di Katie. «Perché sono triste.» Come mai aveva detto una cosa simile? Non voleva cominciare a rispondere a domande sull'amore e sulla morte. «Oggi ho... perso un amico carissimo.» Sentì che qualcosa la toccava. Guardò in basso e vide la manina di Katie che le dava dei colpetti sull'avambraccio. «Non ti preoccupare. Sarò io la tua amica.» E quella frase non fece che provocare altre lacrime. Sono un rottame, si disse. Se non mi fermo e non mi rimetto in sesto va a finire che ammazzo tutt'e due. Poco a nord di Baltimora, prima dell'uscita per Edgewood, scorse un'insegna che diceva BENZINA - RISTORO ALLOGGIO. Non aveva mai sentito parlare di quella cittadina e pensò che forse andava bene. Chi l'avrebbe cercata a Edgewood, nel Maryland? Prese la rampa dell'uscita 77 e il primo posto che incontrò apparteneva alla catena Best Western. Ai due angoli c'erano un Denny e un McDonald's. Perfetto. Parcheggiò, spense il motore e rimase lì, senza riuscire a muoversi. Le pareva di pesare un paio di tonnellate. Si sentiva così completamente sola, tanto incerta. Era la cosa giusta da fare, fermarsi lì? Che cosa avrebbe fatto Paulie? Probabilmente avrebbe detto: «Porta il furgoncino fuori della strada, fermati da qualche parte e resta lì finché non hai fatto un piano. Non andartene in giro alla cieca». Bene, avrebbe fatto un piano. Ma prima di tutto doveva pensare a come avrebbe pagato la stanza. In contanti o con una carta di credito? Aprì il portafoglio di Mac ed esaminò le carte. Tutti quei nomi diversi... James King, Eric Coral, Francis Black, Steven Garter, Jason Rattle, William Boa... carte rubate o conti veri intestati a nomi finti? Strano, pensò. Tutti nomi di serpenti. Non poteva trattarsi di una coincidenza. E ricordò quello che Paulie diceva sempre di lui: «un tipo che bada molto ai particolari». Non era il tipo da andare in giro con carte di credito
pericolose. Probabilmente si riferivano tutte a conti correnti reali. Bene. Le avrebbe usate a rotazione e avrebbe risparmiato i contanti. Senza dubbio Mac non avrebbe denunciato che erano state rubate. «Come mai hai la faccia tutta nera?» chiese Katie. Poppy si guardò nello specchietto retrovisore. Aveva le guance piene di macchie. «Il mascara. Mi piace mettermene un mucchio.» «Perché? E perché hai anche le labbra tutte nere?» «Perché anche il rossetto che adopero è nero, sciocca.» Poppy si chiese perché Katie facesse tutte quelle domande, poi si rese conto che non l'aveva mai vista senza maschera fino a quel mattino. «E perché porti degli orecchini in faccia?» Poppy si guardò di nuovo nello specchietto. Quasi non se ne accorgeva più, del bottoncino di diamante nella narice sinistra e del sottile anello d'argento inserito nel sopracciglio destro. Nessuno di quelli che frequentava ci faceva caso. Diavolo, la maggior parte ne aveva più di lei. Molti di più. Ma in un mondo di persone normali erano particolari che la facevano notare. Prima di allora non le era mai importato. Le piaceva sfoggiarli, anzi. Era come mandare affanculo tutti quei bigotti. Ma in quell'occasione l'ultima cosa che desiderava era essere notata. Gli anelli bisognava toglierli. Ma non tutti. «Vuoi vederne un altro?» Sollevò la camicetta e mostrò a Katie l'ombelico forato. «Che cosa ne dici di questo?» La bambina fece una smorfia. «Ohhh! Perché...» «Adesso basta con le domande. Andiamo a prenotare una stanza.» «Ci fermiamo qui?» Le brillarono gli occhi. «Oh, magnifico! Spero che il letto abbia le Dita Magiche per il massaggio!» E Poppy fece una cosa che non avrebbe mai creduto di poter fare ancora: sorrise. 14 «Credo che siano successi dei guai.» Allen aveva detto di telefonare da un parcheggio di Falls Church. Le sue parole fecero contrarre i muscoli della schiena di Carlos. «Racconta.» «A casa sua niente. Ci siamo passati davanti due volte e non abbiamo visto nulla di insolito. Ma al secondo indirizzo sembra che sia arrivata la fine
del mondo.» La casa di Falls Church. Carlos chiuse forte gli occhi. Lo sapevo! «Che cos'è successo?» «Piedipiatti dappertutto. Sembra che ci sia stata un'irruzione o qualcosa del genere. Non abbiamo potuto vedere bene.» «L'auto del nostro amico... la Jeep?» «Non lo so. Voglio dire, con tutte le auto di pattuglia e i camioncini della Scientifica, chi ha potuto dare un'occhiata? Siamo passati e abbiamo allungato il collo come normali curiosi, ma i piedipiatti ci hanno fatto proseguire. Comunque abbiamo visto un cadavere.» «Era...» «Non abbiamo capito. Era coperto da un lenzuolo dalla testa ai piedi e lo stavano portando in un'ambulanza.» Mierda! Probabilmente era un disastro. Ma non poteva lasciar capire ad Allen o a Llosa che era sconvolto. «Ritornate subito. Dobbiamo stabilire un piano.» Riagganciò e si tamburellò il ventre. Aveva delle conoscenze, al quartier generale della polizia. Si sarebbe messo in contatto con loro e si sarebbe fatto dire che cos'era accaduto nella casa di Falls Church. La possibilità peggiore era che MacLaglen fosse morto. Ciò significava che quella maledetta cassetta sarebbe stata consegnata molto presto a parecchi enti federali. E quindi Carlos si sarebbe diretto verso il suo aeroporto privato, dove teneva l'aeroplano nuovo. MacLaglen vivo ma in prigione era una eventualità quasi altrettanto brutta. Era un duro, ma avrebbe dovuto affrontare accuse gravissime. Quanto tempo sarebbe occorso prima che denunciasse chi l'aveva ingaggiato? Secondo Carlos non avrebbe resistito più di un giorno. Anche un MacLaglen detenuto avrebbe causato un rapido viaggio fino all'aeroporto. E Maria? Se avesse dovuto fuggire non sarebbe potuto tornare. Era possibile che non la rivedesse mai più. Sarebbe dovuta partire con lui, che le piacesse o no. Avrebbe ordinato a Llosa di andare a prendere quella perra e di trascinarla fino all'aeroporto. Ma dove poteva andare? Per quanto riguardava l'estradizione, la Colombia sarebbe stata la nazione più sicura, ma quella era solo una delle sue preoccupazioni. Dopotutto, aveva fallito. Con quella maledetta cassetta o con la confessione, MacLaglen avrebbe rivelato il complotto per assassinare il presidente Winston organizzato dal cartello della droga. I tentativi
di far cessare l'attività alla compañía si sarebbero intensificati. Emilio Rojas non lo avrebbe di certo accolto a braccia aperte. Probabilmente avrebbe dovuto trovare una nuova patria. Se ne sarebbe preoccupato in seguito. Cercò il numero di telefono dell'aeroporto. La cosa migliore in quel momento era telefonare per assicurarsi che il jet fosse pieno di carburante e pronto per il decollo. 15 «Ehi, ecco le notizie», fece Poppy. «Lascia lì un momento.» «I notiziari non mi piacciono», ribatté Katie. Puntava il telecomando contro il televisore del motel, con il pollice sui tasti. Era nel bel mezzo di uno zapping quando Poppy aveva scorto il titolo NOTIZIE PRINCIPALI su uno dei canali di Washington. «Un minuto solo, tesoro. Voglio soltanto sentire una cosa.» Poppy si piegò in avanti per ascoltare meglio. La notizia principale sembrava essere l'improvviso ricovero del presidente Winston all'Ospedale navale di Bethesda, «per un controllo, prima di partire per un viaggio in Europa la settimana prossima». «Guarda, è lo zio Tom», osservò Katie. «Certo, tesoro. Lasciami ascoltare, d'accordo?» Quella bella donna senza un capello fuori posto, Heather Nonsochi, che sembrava non avesse mai bevuto una birra, per non parlare di fumare uno spinello, comparve a fare pubblicità alla legalizzazione delle droghe. Considerate ciò che abbiamo ottenuto educando la gente ai pericoli del fumo. Negli anni Cinquanta l'americano medio consumava quasi sei chili di tabacco l'anno. Adesso la media è di poco più di tre chili e diminuisce ancora. Eppure il tabacco può essere acquistato legalmente. Con i narcotici illegali si è verificata la tendenza opposta. La conclusione è ovvia: è più facile occuparsi dei problemi provocati da una droga legalmente ammessa ed educare il pubblico a evitarne l'uso di quanto sia possibile con una sostanza illegale. Impiegando come modello la campagna contro il fumo non vedo nessun motivo per cui non si possa ridurre, negli Stati Uniti, il consumo delle droghe legalizzate di una stessa percentuale.
Magnifico, pensò Poppy, proprio mentre ne sto uscendo. La giornalista continuò a dar conto di proteste contro la depenalizzazione e terminò con un servizio a proposito del reverendo Whitcomb che invocava l'ira di Dio sulla testa del presidente Winston. Accidenti. Niente, su un duplice omicidio a Falls Church. Forse si era sbagliata, forse nessuno aveva chiamato la polizia. Voleva dire che Paulie poteva trovarsi disteso ancora là e vi sarebbe rimasto finché il padrone di casa non ci sarebbe andato per riscuotere l'affitto o qualcuno non avesse segnalato il fetore. Poppy non riusciva a sopportare quell'idea. Se non avesse sentito niente neanche il giorno dopo, avrebbe fatto una soffiata alla polizia di Falls Church. Certo, era probabile che l'assassinio di due illustri sconosciuti non potesse competere con tutto il casino provocato dal Presidente. «Va bene», disse a Katie, «guarda pure quello che vuoi, adesso.» Ma il canale rimase quello. Poppy guardò Katie e vide che due grossi lacrimoni le stavano rotolando giù dalle guance. Le si avvicinò e le mise un braccio sulla spalla. «Che cosa c'è, piccola Katie?» «Voglio andare a ca... a casa», fece lei. Poppy la strinse più forte. «Lo so, tesoro.» Ma io non voglio lasciarti andare, pensò. Paulie non c'è più, e adesso sei tu tutto quello che ho. Ma sapeva che era necessario. Doveva solo escogitare un modo per farla ritornare dai suoi senza finire in prigione. Poppy la strinse ancora. Forse poteva tenerla con sé un altro po', solo finché... Si irrigidì, colpita da un pensiero orribile. La polizia non sarebbe stata la sola a cercare Katie. Non appena le persone per cui lavorava Mac avessero scoperto che lui era morto e il suo prezioso pacco non si trovava, si sarebbero messe anche loro alla ricerca della bambina. E cercheranno anche me. Non c'era possibilità di scelta. Per il bene di Katie, Poppy doveva farla tornare a casa quella sera stessa. All'improvviso provò il desiderio di mettersi a piangere. Non riusciva a credere quanto si fosse affezionata a quella ragazzina. Come se avesse riempito uno spazio vuoto dentro di sé, un vuoto che non sapeva nemmeno di avere. E quando Katie fosse tornata a casa, Poppy sapeva che avrebbe lasciato un vuoto ancora più grande, tanto gran-
de che avrebbe potuto inghiottirla. Accidenti, si disse, smettila di pensare a te stessa, per una volta. Katie non è tua e se resta con te le faranno del male o la uccideranno. Chi ci dà la caccia, chiunque sia, cerca una ragazza piena di anelli che si trascina dietro una bambina. Sarà meglio per entrambe se ci separiamo. «Sai una cosa?» fece con la maggiore vivacità che riuscì a fingere. «Vedremo di trovare il modo di realizzare il tuo desiderio. Di riportarti dal tuo papà.» Katie si raddrizzò e la guardò. «Davvero? Vado a casa?» «Sì, tesoro. Vai a casa.» Katie le buttò le braccia al collo e strinse forte. «Oh, grazie! Grazie!» Poppy fu sul punto di piangere. «Sentirò la tua mancanza, piccola Katie», disse tirando su con il naso. «Non piangere», le disse la bambina. «Potrai venirmi a trovare. Giocheremo e ti farò vedere tutte le mie bambole.» «Certo», fece lei cupamente. «Sarà magnifico.» Non ti rivedrò mai più, piccola Katie... Poppy si liberò dall'abbraccio e si alzò. Si asciugò gli occhi e disse: «Bene. Prima di tutto bisogna mettersi in contatto con il tuo papà. Non è che tu sappia il tuo numero di telefono, eh?» Katie lo snocciolò in fretta. «Sei una ragazza in gamba», le disse Poppy. «Papà me l'ha fatto imparare a memoria, se mi fossi persa.» Bene. E poi? Si chiese se fosse abbastanza in gamba da uscirne senza che la prendessero. Che cosa avrebbe fatto Paulie? 16 John rispose al primo squillo e sbatté quasi il ricevitore contro la parete della cucina, per la fretta. Non voleva svegliare la mamma. «Il dottor VanDuyne?» Una voce maschile, bassa, dal tono ufficiale. «Sì. Chi parla?» «Sono il sergente James Waltham, del dipartimento di polizia di Falls Church. Ha una figlia che si chiama Katie, signore?» Oh, no. Oh, mio Dio, per favore no! Aprì la bocca ma non riuscì a parlare. Protese una mano alla cieca, trovò lo schienale di una sedia e vi si lasciò cadere. Finalmente... «Sì?»
«Abbiamo trovato un flacone di compresse che, a quanto pare, le appartengono.» «Compresse? E Katie? Avete trovato Katie?» «Nossignore. Solo le sue compresse. Sa dove si trova sua figlia?» «È stata...» No, non dirglielo. «In gita. Dove le avete trovate?» «Sulla scena di un omicidio.» «Un omicidio? Mio Dio! Non è lei...» «Nossignore, la vittima non è lei. Ma abbiamo trovato qualche indumento da bambina, un'uniforme della scuola Sacra Famiglia e...» «Oh, mio Dio!» «Dov'è sua figlia, signore?» «Senta, vengo subito. Mi dica dove si trova il posto e sarò lì tra un quarto d'ora.» Il sergente Waltham compitò il proprio nome e diede a John l'indirizzo del dipartimento di polizia. Lui riagganciò e chiamò il numero privato di Decker. Gli ripeté ciò che gli era stato comunicato quasi parola per parola. «Che significa, Bob?» «Adesso come adesso non sono in grado di fare una supposizione. Ma potrebbe trattarsi di un colpo di fortuna, per noi. Tu resta lì. Io andrò a vedere che cosa...» «Neanche per sogno! Io so che vestiti aveva! Sono in grado di identificarli!» Non si rendeva conto, Decker, che doveva vedere con i propri occhi quel blazer e quella tuta, toccarli, sentirli fra le mani? «No. Resta lì. Potresti ricevere della posta elettronica...» «Ti ho dato la password, la posta elettronica la puoi controllare tu. Io vado a Falls Church. Ci vediamo là!» E riagganciò. Mentre John si avviava all'armadietto dell'ingresso per prendere una giacca, il suo cellulare iniziò a suonare. Lo afferrò. «Il dottor VanDuyne?» Una voce di donna, questa volta, giovane ma roca. Due telefonate in fila con la stessa domanda. Ma chi aveva il numero del suo cellulare? «Sì? Chi è?» «C'è qualcuno che vuole parlarle.» Un fruscio, un crepitio, poi la voce di una bambina. «Papà?» John sapeva di chi era quella voce, ma per un attimo la sua mente si rifiutò di riconoscerla. Non era possibile, non poteva essere... doveva essere una specie di scherzo crudele...
«Papà, sono io, Katie...» Allora la cucina si mise a girargli intorno, «Katie, mio Dio, Katie, sei tu?» Si rese conto di stare gridando, ma non riuscì a evitarlo. Pensava che sarebbe scoppiato per la gioia. «Sei proprio tu?» «Sì, sì.» «Dove sei? Come stai?» «Bene.» 'Bene'... diceva sempre 'bene'... Quelle carogne le avevano tagliato un dito del piede e lei stava bene. «Vengo a casa.» John si appoggiò contro la parete e cercò di evitare i singhiozzi. «Oh, Katie, quanto ho sentito la tua mancanza! Dove sei? Vengo a prenderti subito!» «Adesso non è un buon momento.» La donna aveva ripreso la comunicazione. «Potrà riaverla stasera.» John era confuso. Che cosa stava accadendo? Dov'era il tranello? «Ma come... perché?» «Diciamo che il vero rapitore è morto e io ho Katie con me e la restituirò. Ma non voglio finire in prigione, capito quello che intendo?» ...il vero rapitore è morto? Doveva riferirsi all'omicidio di Falls Church, dove avevano trovato le compresse di Katie... che cosa aveva passato, quella povera bambina? «Vuoi dei soldi? Ti darò tutto quello che ho. Ti...» «Non voglio i suoi soldi. Ho una bambina dolcissima che non vede l'ora di tornare dal papà, e farò in modo che il suo desiderio si avveri. Vieni alla Maryland House, sulla 95. Aspetta di sopra, vicino ai telefoni, verso le nove. Sarò lì insieme a Katie. E niente polizia, d'accordo? Facciamo in modo da uscirne tutti e due felici e contenti. Ci vediamo alle nove.» «Un momento!» Un altro crepitio e poi la voce di Katie: «Ciao, papà!» Un clic, ed era sparita. Restò lì, con il ricevitore all'orecchio, cercando un eco della voce di Katie, senza sapere se ridere o piangere. Infine si girò per riagganciare e vide la madre sulla soglia. «Katie?» chiese, affondando le dita nel collo. «Era Katie?» Lui riuscì solo ad annuire. Le buttò le braccia al collo e cominciò a singhiozzare. «Ti ho sentito gridare», disse lei. «Sembrava che parlassi a...» «È viva, mamma! Era lei! È viva, sta bene e la riavrò, mamma. Katie tornerà a casa stasera!»
17 L'agente Samson lo raggiunse nel parcheggio della Casa Bianca. Bob Decker stava aprendo lo sportello della propria auto quando lo vide correre sull'asfalto, agitando un foglio di carta. «Che cos'è, Tom?» «Le intercettazioni di VanDuyne!» disse lui soffiando mentre raggiungeva l'auto. «Ho pensato che dovessi vederle.» Bob scorse il foglio e non riuscì a trattenere un teso sorriso. Tutto il complotto stava crollando. Sembrava che qualcuno dei rapitori stesse mollando e che qualcun altro volesse salvarsi il culo. «Da dove chiamava, quella donna?» «Dal posto di cui parla per lo scambio... la Maryland House.» «Che cos'è?» «Un posto di ristoro sullo spartitraffico della 95. Sai, Servizio informazioni per turisti, hamburger, yogurt.» Si schiarì la gola. «Sembra un rapimento. Come mai siamo coinvolti...» «Un amico di Rasoio», lo informò Bob. Samson annuì. Non aveva bisogno di sapere altro, non ne avrebbe mai saputo di più. Controllava un'intercettazione e doveva trascrivere tutte le conversazioni. Oltre a ciò era all'oscuro di tutto. «Ha telefonato al cellulare», lo informò. «Forse pensava che nessuno avrebbe potuto ascoltare. Sembra che non si rendano conto del pericolo che corrono.» Bob annuì: ascoltava solo a metà. Era inutile mandare qualcuno alla Maryland House. Se ne sarebbe andata da un pezzo, prima che ci arrivassero. Meglio aspettarla la sera. Si chiese se VanDuyne gli avrebbe riferito di aver ricevuto quella telefonata. Decise di stare ad aspettare. La donna aveva detto: niente polizia, e il dottore rivoleva indietro la figlia. Bene. L'avrebbe riavuta. E Bob avrebbe preso la donna. Doveva avere a che fare con ciò che era accaduto nella casa di Falls Church dov'erano state trovate le compresse dalla bambina ed era probabile che sarebbe arrivato alle conclusioni prima della fine della settimana. Immaginò la soddisfazione di andare all'Ospedale navale di Bethesda la sera del giorno dopo e dire a Rasoio che la figlioccia era salva e i cospiratori erano in prigione o in fuga. Sarebbe stato bello, molto bello.
18 Poppy lo sentì infine nel notiziario delle diciotto... Oggi, a Falls Church, un omicidio misterioso. Gli abitanti di una tranquilla strada suburbana hanno chiamato la polizia quando hanno udito degli spari. Nella casa, un morto. Ma la vittima, non ancora identificata, è deceduta per ferite da arma da taglio... Negli stessi paraggi, ad Alexandria... In un certo modo, ascoltarlo al notiziario lo rendeva ufficiale. Paulie era morto. Poppy fu sul punto di mettersi a piangere, poi si trattenne. L'uomo non ancora identificato? Perché non «uomini»? In quella casa aveva lasciato due cadaveri. Paulie era stato accoltellato e Mac aveva una pallottola in testa. Come mai avevano parlato solo di Paulie? A meno che... Fu colta da una fitta di paura, aguzza come la lama che aveva ucciso Paulie. «Oh, Cristo!» esclamò balzando in piedi. «Posso cambiare canale, adesso?» chiese Katie. «Certo», le disse Poppy senza guardarla. Andò alla finestra e sbirciò da dietro il bordo della tenda. La leggera pioggerellina faceva luccicare il parcheggio. L'insegna dell'Holiday Inn si rispecchiava sulla superficie bagnata. Un istante prima si era sentita tanto sicura. Aveva programmato ogni particolare. Quella sera lei e Katie sarebbero ritornate sulla 95, ma non si sarebbero fermate alla Maryland House. Quando avevano chiamato il papà di Katie, aveva annotato qualche numero dei telefoni del posto. Alle nove in punto avrebbe chiamato a uno di quegli apparecchi e avrebbe detto al padre che avrebbe trovato la figlia ad aspettarlo al Roy Rogers del prossimo posto di ristoro sull'autostrada senza pedaggio che continuava dalla Maryland House. Poi avrebbe lasciato Katie in un séparé con un hamburger e delle patatine fritte. Se il papà di Katie era come le altre vittime di Mac, probabilmente non aveva denunciato il rapimento alla polizia. E anche se l'avesse fatto, tutti gli agenti si sarebbero trovati alla Maryland House. Lei se ne sarebbe andata da un pezzo, quando avrebbero trovato Katie. A Poppy si sarebbe spezzato il cuore, ma la bambina sarebbe stata al sicuro, a casa con la propria famiglia, dov'era il suo posto. Però non sarebbe stata in salvo, se Mac fosse stato ancora vivo. Poppy vedeva ancora i suoi occhi quand'era uscito dalla cucina con quel
coltello. Mi ha visto in faccia! Solo due persone erano in grado di collegare Mac al rapimento e all'assassinio di Paulie, ed erano entrambe in quella stanza. La sia pur minima probabilità che Mac fosse ancora vivo cambiava tutto. Tutt'un altro paio di maniche, se Mac era sopravvissuto. Ma come poteva essere? Gli aveva sparato in testa. Doveva saperlo. Prima di prendere qualsiasi altra decisione doveva esserne certa. Si rivolse a Katie. «Vado in fondo al corridoio a prendere una soda. Tu vuoi qualcosa?» «Posso prendere una bibita?» «Certo.» «Papà non vuole mai.» Papà, papà. Mai mamma. Poppy si costrinse a sorridere. «Be', io non sono il tuo papà. Torno subito.» Era rischioso, lo sapeva, forse era una stupidaggine, ma non poteva rimandare. Attraversò in fretta il parcheggio, sotto la pioggerella, fino alla stazione di servizio della Shell e trovò un telefono a gettoni. Una chiamata all'ufficio informazioni le fornì il numero del dipartimento di polizia di Falls Church, e poco dopo stava parlando con un investigatore della Omicidi. Questi continuava a chiederle come si chiamava e lei sospettò che cercasse di trattenerla all'apparecchio. «Senta», gli disse, «lo dirò solo una volta: conosco il nome dei morti che avete trovato nella casa di Sylmar Street. Quello che è stato pugnalato si chiamava Paulie DiCastro. Quello ucciso con una rivoltella...» «Un momento, un momento», l'interruppe l'agente. «Non hanno sparato a nessuno. C'è solo una vittima.» Oh, no. Oh, Cristo, no. Sta mentendo. «No. Lei sa benissimo che ce n'erano due! Tutto quello che posso dirle del tizio ammazzato con un colpo di arma da fuoco è che si chiamava Mac e che era il padrone della Jeep blu parcheggiata là davanti.» «Che Jeep blu? Ha il numero di targa?» Poppy riagganciò. All'improvviso la pioggerella era diventata gelata e la notte molto più buia. Rabbrividì e si guardò intorno, con l'impressione di essere sorvegliata. Mac era vivo! Ma com'era possibile? L'aveva visto disteso sul pavimento con una pallottola in testa. In qualche modo era sopravvissuto. Riattraversò di corsa il parcheggio, si nascose nella sua stanza e chiuse a
chiave la porta. Vide Katie seduta sul letto, con gli occhi incollati alla televisione. Come poteva restituire quella bambina al padre con Mac vivo e a caccia di loro due? Suo padre non avrebbe saputo proteggerla. Di Katie Mac sapeva abbastanza da essere riuscito a rapirla. Quanto tempo gli sarebbe occorso per trovare un fucile e piantarle in corpo una pallottola, la prima volta che usciva sulla soglia di casa? Poppy rabbrividì. Katie non poteva assolutamente tornare a casa quella sera. Sperava che le informazioni che aveva fornito alla polizia di Falls Church li avesse indotti a dare la caccia a Mac. Ma finché non lo beccavano, la bambina sarebbe stata più sicura con lei. Katie la guardò. «Non avevano bibite?» Accidenti! Si era dimenticata della roba da bere. «Non ne ho viste. Vuoi che vada a prendere qualcos'altro?» «Fa lo stesso. Prenderò la compressa con l'acqua.» La compressa? Oh, Cristo! Ce l'ho, la medicina? Poppy prese la borsetta dal comodino e la vuotò sul letto. C'erano un po' di Valium, la patente, qualche banconota e degli spiccioli, ma non la medicina di Katie. Corse fino all'armadio e tolse dalla gruccia il giubbotto di Mac. Forse aveva infilato il flaconcino in una delle tasche mentre se ne andava. Credeva di no, ma doveva controllare. Le vuotò tutte, trovò il portafoglio di Paulie, qualche moneta e una cassetta, che cadde per terra. Ma non il flaconcino di Katie. Si accasciò sul bordo del letto e si torse le mani. Con tutto l'orrore, la confusione e il panico aveva dimenticato le compresse. Cristo, che cos'altro poteva andare storto? Si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza. Era il momento di prendere una decisione. Doveva procurarsi la medicina per Katie. Ricordava l'etichetta sul flacone: «Tegretol 100 mg». Se non riusciva a farselo dare non c'era altra scelta: Katie doveva tornare a casa. Un'eventuale minaccia da parte di Mac non sarebbe stata grave quanto quella assolutamente certa di un attacco, se non avesse preso una o due di quelle compresse. Poppy doveva procurarsene qualcuna. Ma dove? Come? Prese l'elenco del telefono e sfogliò le pagine gialle. 19 Carlos ascoltò la voce distorta che parlava forte nel ricevitore.
«Che razza di operazione stai conducendo, Salinas? Ho appena saputo che un flacone di compresse appartenente alla bambina è stato trovato in una casa di Falls Church in cui qualcuno è stato ucciso. Che diavolo sta succedendo?» Carlos fissò il soffitto. Per favore, Dio, se mai farai qualcosa per me fa' questo, e subito. «Un morto?» chiese. «È stato identificato?» «Sì. Hanno ricevuto una soffiata e hanno controllato le impronte. Si tratta di un teppista da quattro soldi che si chiamava Paulie DiCastro.» Grazie, mio Dio, pensò Carlos. Farò una grossa offerta alla chiesa. «Nessun altro? Nessuna donna? Nessuna bambina?» «Nessun segno di altre persone, ma stanno cercando. E intensamente. Perché ora questa faccenda è collegata all'altra. Meglio sgombrare il campo. E in fretta.» La comunicazione si interruppe e Salinas riagganciò. Si rivolse ad Allen che stava riempiendo una valigia di documenti che prelevava da uno schedario. «Credo che possiamo rilassarci per un attimo. Allen.» «Rilassarci?» fece lui, con il viso più bianco del solito. «E come faccio?» «Be', hai insistito per sapere i miei affari con MacLaglen, e adesso li sai.» Sorrise. «Non ti senti meglio?» Quando Carlos aveva pensato che sarebbe dovuto fuggire aveva informato Allen del piano per dimettere dalla carica Winston. Dopotutto, doveva sapere la ragione per cui correvano all'aeroporto. Lui non ricambiò il sorriso di Carlos. «Se vuoi dire 'te l'avevo detto', fa' pure. Ma adesso, se non ce ne andiamo di qui...» «Calmati. MacLaglen non è morto. È ancora vivo ed è libero.» Allen lo fissò. «Ne sei certo?» «La mia fonte.» Allen si avvicinò barcollando a una poltrona e vi si accasciò. «Che sollievo! Ma perché non ci richiama?» «Questo non lo so. È successo qualcosa. Forse una lite. Magari sta cercando un nuovo nascondiglio per la bambina. O, ancora meglio, un posto per sbarazzarsene. Continua a provare a metterti in contatto con lui. Prima o poi risponderà.» Carlos era d'accordo con la voce al telefono: era ora di chiudere bottega.
20 «Vede, ho un problema con mio nipote», disse Poppy al farmacista, con voce tanto bassa che lui dovette piegarsi in avanti per capirla. «Mi è venuto a trovare e in camera sua ho trovato queste compresse. Non che non mi fidi di lui, ma mi sono chiesta: 'Che cosa sono?' Lei capisce...» Il farmacista annuì, continuando a guardarla da sopra le lenti. A quanto pareva quel vecchio non riusciva a staccare gli occhi dall'anello che portava al sopracciglio. Viveva forse in una caverna? Non ne aveva mai visto uno prima? Per più di un'ora aveva guidato con le pagine gialle in grembo, controllando un drugstore dopo l'altro. Finalmente si era decisa per uno piccolo ma con una grande vetrina anteriore, che si chiamava Doc's Pharmacy, lungo una traversa della strada principale, in un palazzo che sembrava costruito ai tempi che Berta filava. «Sarò lieto di identificarle per lei», disse il farmacista come se gli facessero di continuo quel genere di domande. Forse era «Doc» anche lui, ma più probabilmente il Doc originale era suo nonno. Un po' burbero, ma si stava avvicinando l'ora della chiusura e sembrava che non vedesse il momento di andarsene a casa. «Me ne dia una e controllerò.» «Il fatto è che non ne ho. Ce ne era solo una, nel flacone, e ho pensato di non potergliela portare via. Ma ricordo il nome sull'etichetta. Diceva 'Tegretol 100 mg'. È roba nociva? Voglio dire una specie di droga?» «Suo nipote soffre di convulsioni?» «Vuole dire di attacchi?» «Sì, suppongo che li possa chiamare così. Il Tegretol viene usato proprio per, ehm, gli 'attacchi'.» «Non lo so. Mia sorella non me ne ha mai parlato e adesso è in viaggio e non posso mettermi in comunicazione con lei per chiederglielo. Se potesse farmi vedere una compressa...» Lui sospirò. «Certo. Aspetti qui.» Poppy lo osservò mentre andava vicino agli scaffali sul retro e tornava al banco con un flacone di plastica bianca. Fece cadere qualche compressa in un vassoio e gliene diede una. «È questa?» Poppy alzò alla luce la preziosa compressa, ma restò con gli occhi fissi sul flaconcino posato sul banco a una trentina di centimetri. Tanto vicino. Così tentante. Avrebbe solo dovuto allungare un braccio, afferrarlo e correre fuori.
E forse l'avrebbero presa subito. Troppa gente in giro, troppo traffico per la strada. Non poteva rischiare. «Sì», confermò. «Sono queste. Me ne può vendere qualcuna?» «No, senza ricetta.» «Ma gliene è rimasta solo una.» Poppy fece scivolare sul banco un biglietto da venti. «Solo un paio, per tenerlo a posto finché non riesco a mettermi in contatto con mia sorella?» Il farmacista scosse la testa. «Mi piacerebbe aiutarla, ma è illegale.» Discussero per lungo tempo, ma quel vecchiaccio non si spostò di un millimetro. Le diede tutta una serie di consigli che avrebbero funzionato perfettamente se la sua storiella fosse stata vera, ma non aiutarono Poppy neanche un po'. Proprio quando lei arrivò al culmine della disperazione, tanto da essere disposta ad afferrare il flacone e a fuggire, lui avvitò il coperchio del flacone e le porse la compressa che aveva in mano. «Può prendere questa», le disse. «Forse le concederà un po' di tempo in più.» «Grazie. Che cosa le devo?» «Lasci perdere. Comunque non posso vendere il flacone, una volta manomesso.» Poppy si alzò in punta di piedi e osservò dove andava, annotando mentalmente la sezione degli scaffali sul retro in cui l'aveva messo. Poi guardò la compressa che aveva in mano. Almeno Katie non avrebbe dovuto passare la notte senza medicina. Quel vecchio era stato carino. Quasi le dispiaceva, quello che avrebbe dovuto fare. 21 John uscì dalla 95 ed entrò a motore spento nel parcheggio della Maryland House. Trovò un posto sotto un lampione e guardò il grande edificio di mattoni in stile coloniale, accovacciato su un'altura a circa quarantacinque metri di distanza. Le gocce di pioggia sfavillavano per le luci che splendevano dalle sue finestre. Guardò l'orologio: segnava le otto e trentacinque. Era presto, ma l'anticipo non sarebbe mai stato troppo per una cosa del genere. Rimase in auto e rabbrividì. Non per la pioggerella, perché là dentro stava al caldo e all'asciutto. Il freddo proveniva dall'interno.
Qualcosa era andato terribilmente storto, in quella casa di Falls Church in cui avevano tenuta prigioniera Katie... tanto che un uomo era stato pugnalato a morte. E se qualcos'altro fosse andato storto quella sera e Katie fosse rimasta ferita? Alla stazione di polizia John aveva identificato i suoi indumenti. Sarebbe stato male per la preoccupazione che qualcuno l'avesse molestata sessualmente, se non avesse udito la sua voce un'ora prima. Era sembrata molto normale, quasi felice. Ne era stato contento, ma non riusciva assolutamente a capire. Era stata rapita, le era stato amputato il dito di un piede, avrebbe dovuto sembrare persa, scioccata, incoerente, e invece era sembrata vivace, esuberante, proprio come un tempo. Come aveva detto Katie stessa: «Stava bene». Come se fosse uscita una sera con la zia preferita, invece che con la sua carceriera. Santo cielo, chi era la donna che aveva telefonato? Aveva percepito qualcosa nella sua voce, una preoccupazione sincera per Katie. Si augurò di avere ragione. E si augurò di avere fatto la cosa giusta, a non riferire a Decker della telefonata di Katie. «Penso che lo scoprirò presto, vero?» si disse ad alta voce mentre scendeva dall'auto nell'aria umida e andava in cerca dei telefoni. 22 «Eccolo che arriva», osservò Gerry Canney. Bob Decker aveva parcheggiato nella sezione sud. Strinse gli occhi per guardare attraverso il parabrezza gocciolante e vide VanDuyne procedere sotto la pioggia verso la Maryland House. Ottima l'illuminazione, fra le lampade al mercurio e il riflesso dell'insegna fluorescente della stazione di servizio alle loro spalle. Sbadigliò. Una giornata lunga e dura, ma non si sentiva affatto stanco. Era piuttosto nervoso, pieno di eccitazione e di preoccupazione. «I tuoi sono appostati?» Canney fece per rispondere, poi alzò una mano mentre suonava l'auricolare del suo walkie-talkie. Estrasse il proprio microtelefono. «Buon lavoro, Trevor», disse. «Tienila d'occhio.» Bob si irrigidì. «L'abbiamo individuata?» «È la moglie di VanDuyne. L'ha seguito dalla casa di lui. Le ho messo alle costole un agente che si chiama Trevor Hendricks. Una volta era pilota
acrobatico. Quando sono arrivati a pochi chilometri da qui lui l'ha bloccata dietro qualche macchina particolarmente lenta finché VanDuyne non è stato fuori di vista. Si trova ancora sulla 95, a nord di qui, e continua a cercare di raggiungerlo.» Bob sorrise. «Bel lavoro. Mi piace.» VanDuyne gli aveva riferito della moglie e di come gli facesse ogni genere di domande imbarazzanti su dove si trovasse Katie. L'avvocato del dottore gli aveva inviato parte del dossier del tribunale su Marnie VanDuyne... una signora molto confusa, mentalmente. Bob aveva detto a Canney di mettere qualcuno anche dietro a lei. Aveva fatto bene. Alzò lo sguardo verso le luccicanti finestre della Maryland House, un grande palazzo di mattoni, in stile coloniale, posto su una piccola altura al di sopra dei parcheggi. Con i grandi camini e le finestre dai vetri a pannelli sembrava un palazzo patrizio decaduto che tollerasse i turisti per coprire le spese... finché non si individuavano le insegne dei locali per mangiare e divertirsi. Un luogo pieno di fermento, con viaggiatori di tutte le età, di tutte le forme, di tutte le dimensioni, di tutti i colori della pelle, che si precipitavano dentro e fuori; con gli autobus turistici che li vomitavano a orde, anche a quell'ora. «Un posto stupefacente, dentro», osservò Canney. «I telefoni sono al secondo piano, con una banca e un servizio di fotocopie e di fax. Sembra più un ufficio, che un posto di ristoro.» «Che cos'hai detto ai tuoi?» Canney si strinse nelle spalle. «Solo ciò che devono sapere, niente di più. Hanno tutti le foto di Katie e di VanDuyne. Sanno che si tratta di un rapimento e forse, si spera, della restituzione della vittima.» «Esatto. Si spera.» Canney si girò verso di lui. «Pensi anche tu quello che penso io?» Bob annuì. «Che sia una trappola? Sì. È un'ipotesi ragionevole, specie dopo quel cadavere a Falls Church. DiCastro doveva essere implicato. Voglio dire, le impronte della bambina sono dappertutto, nella camera da letto, nel bagno e nel soggiorno. È stata là. Quello che non capisco è che eravamo tanto sicuri che fosse un'operazione del cartello, eppure questo DiCastro non è collegato con il mondo della droga.» «Almeno per quanto ne sappiamo», osservò Canney. «Giusto. Comunque non è il tipo in cui mi aspettavo di imbattermi. Forse il cartello non c'entra. Ma con il Presidente che si è ricoverato a Bethe-
sda oggi, chiunque vi sia dietro può ritenere che VanDuyne abbia concluso il suo lavoro. Ciò toglie qualsiasi valore sia a lui sia alla figlia.» «Peggio ancora», ribatté Canney. «Non servono più a niente. Anche DiCastro non serviva più a niente, e guarda che fine ha fatto.» «Sì», ammise Bob, augurandosi che VanDuyne non lo conoscesse. Gli sarebbe piaciuto gironzolare lui stesso per la Maryland House. «È questo che mi preoccupa.» 23 Poppy passò tre volte davanti alla farmacia, finché non fu sicura che le strade fossero deserte. Non sapeva nemmeno come si chiamava quella città. Ma che diavolo, erano solo le undici e mezzo di sera e sembrava che fossero già tutti a letto. Parcheggiò il furgoncino al buio, dietro l'angolo del negozio, e prese gli attrezzi che aveva comprato in una ferramenta: una lampada tascabile, due mattoni e una mazza da baseball. Lasciò i barattoli di vernice a spruzzo sul pavimento del veicolo. Contorcendosi sul sedile, infilò il giubbotto di Mac e mise un mattone in una tasca e la lampada nell'altra. Si infilò sulla faccia la gamba tagliata da un collant e nelle mani un paio di guanti da lavoro; poi con una afferrò l'altro mattone e con l'altra la mazza. Pronta. Ma non riuscì a muoversi. Il cuore le batteva tanto forte che le sembrava di vibrare tutta. Rimpianse di non essere più in gamba, di non sapere escogitare un altro mezzo per ottenere la medicina. Ma che cos'altro poteva fare? Bisogna accontentarsi di quello che si ha. Adesso non posso tornare indietro, pensò. Devo entrare, uscire e tornare da Katie. Povera bambina. Poppy le aveva trovato una bibita e vi aveva schiacciato dentro un Valium. Ora si era profondamente addormentata, laggiù al motel. Le era dispiaciuto moltissimo lasciarla sola, ma era chiusa a chiave e al sicuro... ammesso che esistesse un posto sicuro, con Mac che dava loro la caccia. Il mattino dopo Katie si sarebbe svegliata un po' intontita e Poppy avrebbe dovuto raccontarle una bugia, dirle che aveva continuato a dormire proprio quando avrebbe dovuto tornare dal papà, ma che era lo stesso perché presto avrebbero organizzato un altro appuntamento. Giusto. Presto. Solo che Poppy non avrebbe detto quanto presto. Almeno Katie avrebbe avuto il suo Tegretol. Lo sperava.
Forza, si disse. Lasciando il motore acceso, scese e si portò di corsa sul davanti del drugstore. La velocità era essenziale. Gettò il primo mattone contro la metà inferiore della vetrina con tutta la forza che aveva. Il vetro andò in frantumi, lasciando una larga apertura e facendo scattare un allarme assordante. Dovette combattere contro la tentazione di fuggire. Invece estrasse il secondo mattone. L'apertura era abbastanza grande per potervi passare attraverso, se si accovacciava; ma con la fortuna che si ritrovava il vetro poteva cadere proprio in quel momento. Probabilmente le avrebbe tagliato la testa. Quindi lanciò il secondo mattone più in alto, facendo crollare la maggior parte della vetrata. Impiegò la mazza per togliere alcune schegge aguzze, poi entrò. Con la lampada accesa per vedere dove andava, saltò fino al pavimento, corse verso la parte posteriore, volteggiò sopra il banco e trovò il flacone di Tegretol proprio dove l'aveva lasciato il farmacista. Tanto per confondere le cose, rovesciò tutto quello che trovò a portata di mano sugli scaffali, poi tornò in fretta alla vetrina. Saltò sul marciapiede, corse sino all'auto e si allontanò a luci spente. Respirava affannosamente, sudava, tremava per la paura e per l'eccitazione mentre si guardava intorno in cerca di luci rosse lampeggianti. Nessuna in vista. Fino a quel momento, tutto bene. Concedetemi solo un paio di minuti ancora prima che... Luci lampeggianti, rosse e blu, comparvero lontano, sulla strada che stava percorrendo. Si accostò al marciapiede e si accovacciò per non essere vista, tremando nell'attesa. Cominciò a recitare una specie di mantra: «Non mi hanno visto... non mi hanno visto...» Qualche istante dopo un'auto di pattuglia le sfrecciò accanto, con la sirena spenta. Appena fu passata lei alzò la testa e attese che il veicolo girasse l'angolo che portava al drugstore con grande stridore di gomme. Poi riprese a muoversi, sempre a luci spente, accelerando con grandissima cautela in modo da non attirare l'attenzione. Presto fu lontana dal negozio un chilometro e mezzo, poi tre. Accese le luci. Quanto tempo le aveva preso tutta la faccenda, dal primo mattone al momento in cui si era allontanata? Un minuto e mezzo? Paulie ci avrebbe messo meno, l'avrebbe fatto meglio, ma ciò che importava davvero si trovava sul sedile accanto a lei: un flacone intero di Tegretol.
«Non è stata una bella cosa», osservò ad alta voce, «ma ha funzionato.» Diede un colpo al cruscotto e rise. «Ha funzionato!» Siamo a posto, Katie, pensò mentre accelerava per tornare al motel. Adesso possiamo restare insieme finché vogliamo. 24 «Eccolo che torna», annunciò Canney. Bob Decker guardò l'orologio. L'una e ventotto. Si girò sul sedile per dare sollievo alle articolazioni irrigidite e vide VanDuyne che scendeva la rampa della Maryland House. Una persona diversa dall'uomo che era salito agilmente cinque ore prima. «Poveretto.» «Sì. Te lo assicuro, sono contento di non esserci stato io, lassù. Non so se avrei potuto resistere a guardarlo mentre aspettava per tante ore una telefonata che non è mai arrivata. Ti strappa il cuore.» Bob lo fissò. «Ti stai immedesimando in lui, Gerry?» «Non posso evitarlo. Se fossi io a! suo posto e se fosse di Martha che aspettassi di avere notizie... E sai qual è la cosa peggiore? Potremmo essere stati noi, la ragione per cui non ha riavuto indietro la figlia.» Bob annuì. Ci aveva già pensato. «Credi che ci abbiano individuato?» «È possibile. Forse chi stava per restituire la bambina si è accorto di qualcosa e si è spaventato.» «O forse si è spaventata la squadra dei sicari.» Canney non rispose subito. Osservarono entrambi l'auto di VanDuyne uscire dal parcheggio e avviarsi verso la 95 in direzione sud. «Un'idea sensata», rispose infine. «Non faccio che dirmelo. In continuazione. Tra poco lo crederò davvero.» Bob conosceva quella sensazione. Per un'ora aveva continuato a ripetersi che forse quella sera avevano salvato la vita a VanDuyne. E allora, perché si sentiva un buono a nulla? Domenica 1 Un'altra conseguenza della guerra contro la droga è stata la rapida espansione dell'Aids. Poiché non permettiamo ai tossicomani che si iniettano la droga per via endovenosa di acquistare legalmente aghi steriliz-
zati, essi impiegano quelli già usati. Questa è la ragione per cui il quarantaquattro per cento dei nuovi casi di Aids sono correlati al consumo di droga. «Gli sta bene», potrebbe affermare qualcuno; ma quelle persone trasmettono il virus a coloro con i quali hanno rapporti sessuali, che di conseguenza diffondono ancora di più l'Hiv nella comunità eterosessuale e a tutti i bambini che nascono da questi contatti. I bambini nati con l'Aids sono le vittime civili della guerra della droga. Guardateci, pensò John. Siamo un quadro di Hopper. Si immaginò di essere un estraneo in piedi sulla soglia della cucina, a contemplare la scena. Nana era seduta a un capo del tavolo rettangolare, per metà girata nella direzione opposta, con gli occhi fissi sul televisore. Stavano trasmettendo Meet the Press, ma lui dubitava che la madre vedesse Tim Russert o udisse una parola di ciò che Heather Brent stava dicendo. John era seduto all'altra estremità e fissava il cortile posteriore e le finestre da cui il sole entrava senza scaldarlo. Due persone nella stessa stanza, unite solo da un vincolo di sangue. Vivida luce ed estraniazione. Edward Hopper avrebbe colto immediatamente l'occasione per comporre una delle sue scene. Ma quella era solamente l'apparenza. In realtà lui e la madre si erano commiserati a vicenda fino a tardi, quella notte, avevano diviso tanta sofferenza che la pura e semplice spossatezza emotiva e fisica esigeva che per un poco si ritirassero in se stessi. Una pausa. Che scopo avevano avuto a mandarlo alla Maryland House, la sera prima? Uno scherzo crudele? Quell'incubo era iniziato per ragioni politiche (cacciare Tom dalla Casa Bianca), quindi aveva assunto un tono quasi personale. Che cosa avevano ottenuto, oltre che infliggergli una sofferenza psichica? Era stata davvero una tortura, una incontenibile sofferenza, aggirarsi in quel posto di ristoro, esaminare a fondo ogni viaggiatore che si affrettava verso i bagni o acquistava uno yogurt, imprecando contro chi usava un telefono per il timore che i rapitori stessero cercando di chiamarlo proprio con quell'apparecchio. E con il trascorrere delle ore le sue speranze si erano affievolite, passando da una crescente incertezza alla desolante evidenza che Katie non sarebbe tornata da lui. Ci aveva così creduto! La donna che aveva telefonato era sembrata sinceramente preoccupata per la bimba. Aveva cambiato ide-
a? O peggio... una persona collegata con il complotto era già morta... era andato storto qualcos'altro? E se anche fosse andato tutto liscio, se anche Katie e quella donna fossero state al sicuro in un'altra casa di un'altra città, sua figlia non aveva il Tegretol. Avevano contato le compresse nel flacone trovato a Falls Church, ed era risultato che ne mancavano solo poche. John sospirò. Quella era un'altra cosa che aveva nascosto a Nana, ma che si spalancava davanti ai suoi occhi come un pozzo senza fondo: in quello stesso momento Katie poteva essere in preda alle convulsioni. Il telefono squillò e John corse a rispondere. Buone notizie? Cattive? L'apparecchio era come un'arma carica: portare all'orecchio il ricevitore era giocare alla roulette russa. «Buone notizie, Doc, almeno credo.» Bob Decker. John pensò che avrebbe dovuto chiedere chi parlava, se non l'avesse riconosciuto. L'agente tendeva a non badare troppo ai convenevoli, ma John apprezzava il suo comportamento pratico. «Davvero lo credi?» «Sì. Si tratta del dito del piede.» Sembrava un po' incerto, e non poteva essere un buon segno. John lanciò un'occhiata alla madre, che si era raddrizzata sulla sedia, in ascolto. Liquidò con un cenno il suo sguardo interrogativo e coprì il ricevitore. «Solo un aggiornamento», le disse. «Nessuna novità.» Lei non sapeva ancora niente, del dito del piede e lui voleva che le cose restassero così. Con la maggior disinvoltura possibile tirò il cordone del telefono e girò l'angolo per portarsi nel corridoio. Poi si appoggiò alla parete, preparandosi. «Che cosa c'è?» «Non è di tua figlia.» «Che cosa?» John non sapeva se ridere o piangere. «Una faccenda straordinaria. Ho parlato già due volte con il laboratorio criminale dell'FBI. Dicono è pieno di liquido per imbalsamare.» «Per imbalsamare?» Doveva parlare a bassa voce... solo un sussurro. «Ma c'era del sangue fresco. L'ho visto io stesso.» «Hai ragione, e il gruppo corrisponde a quello di tua figlia, ma...» «Un momento. Come fai a conoscere il suo gruppo sanguigno?» «Le cartelle cliniche dell'ospedale... quando ha subito quella ferita al capo.» «Ah. Giusto.» Naturalmente dovevano aver condotto ricerche approfondite su Katie, per cercare di scoprire tutte le informazioni che la riguarda-
vano. «Comunque, il laboratorio è certo al cento per cento che il sangue sul dito non proviene da quello, che è privo di vita da giorni.» John tirò il fiato. Grazie a Dio aveva parlato con Katie il giorno prima. Se non l'avesse fatto si sarebbe convinto che la figlia fosse morta. «È assurdo!» «È evidente. Ma la faccenda è ancora più strana. Il dito appartiene a un ragazzo.» «Un ragazzo? Come diavolo hanno fatto a capirlo?» «Hanno fatto un esame del DNA. Hanno trovato un cromosoma Y.» John cercò di rallentare i pensieri che gli turbinavano nella mente, cercò di afferrare qualche elemento coerente. Un cromosoma Y... le femmine non lo possiedono, quindi il dito non poteva appartenere a Katie. «Non c'è possibilità di errore?» chiese. «Questo è quanto mi hanno detto. I ragazzi del laboratorio mi hanno riferito di avere controllato e ricontrollato: il sangue è XX, ma le cellule del dito sono XY.» John si morse il labbro. Avrebbe desiderato prendere a pugni la parete e mettersi a piangere. Ma la confusione impediva il sollievo. Perché mandare il dito di un ragazzo morto? I rapitori erano ovviamente delle carogne assassine... il cadavere insanguinato nella casa di Falls Church ne era la testimonianza... eppure avevano corso il rischio di mandare un dito finto piuttosto che tagliarne davvero uno a Katie... «Secondo te è ragionevole tutta questa faccenda, Doc?» «No, non riesco a immaginare...» «Neppure io. Sei sicuro di non poterci aiutare?» «Che cosa intendi dire?» «C'è qualcosa che non ci hai detto?» John si irrigidì. Sospettavano che l'avessero contattato? L'avevano seguito, la notte scorsa? Era stato tentato di dire a Decker di avere parlato con Katie, il giorno prima, ma la donna era preoccupata che l'arrestassero. E se qualcuno della squadra di Decker l'avesse seguito e l'avesse fatta scappare per la paura? Accidenti a te se le cose stanno davvero così, pensò. Potrei non avere un'altra possibilità. «No. Ti ho detto tutto quello che so. E non ho più sentito una parola da parte di Snake.» Vero... tutto vero. Una pausa, prima che Decker rispondesse. «Bene. Ma diccelo subito, se vieni a sapere qualcosa. Ogni particolare potrebbe essere importante.»
«Certo. Ma adesso che cosa succede?» «Ho una riunione con la nostra piccola unità operativa fra circa un'ora. Ti terrò informato.» Mentre riagganciava, John si chiese: era solo frutto della sua immaginazione, o Decker aveva sottolineato in modo particolare il «ti»? Che cosa gliene importava, accidenti? Era preoccupato per Katie. Dov'era? Che cosa le stavano facendo? 2 «Ma voglio andare a casa! Voglio vedere papà!» Poppy osservò Katie sporgere il labbro inferiore. Sembrava che stesse per mettersi a piangere. Non poteva sopportare il pensiero che era stata lei a provocare quelle lacrime. «Ci andrai, tesoro», le disse abbracciandola. «È andata come ti ho detto, ieri ti sei addormentata e non ho voluto svegliarti. Ma sai una cosa? Gli telefoniamo un'altra volta, oggi, e parlerai con lui. Va bene?» Katie annuì. «Va bene.» «Magnifico. Come ti senti?» «Bene.» Quella mattina la povera bambina era un po' intontita a causa del Valium. Era stata un'ottima cosa, che Katie fosse «partita» la sera prima, perché dopo essere andata a letto vicino a lei Poppy aveva cominciato a pensare a Paulie e la bambina l'avrebbe sentita piangere fiumi di lacrime. Era la cosa più bella che le fosse mai capitata, ed era morto. Ed era stata colpa sua, perché l'aveva indotto a infrangere le regole di Mac. Se avesse tenuto la bocca chiusa, accidenti... Ma in quel caso, che cosa sarebbe successo a Katie? Perché la vita doveva essere tanto complicata? Be', sì, forse avrebbe potuto essere semplice, se non si fossero trovati coinvolti con Mac. Poppy si era tenuta stretta a Katie per tutta la notte. Non sapeva come avrebbe fatto a resistere fino alla mattina, senza di lei. L'alba era sorta grigia e nuvolosa, ma si erano rianimate entrambe dopo un paio di focaccine dolci comperate nel locale dall'altra parte dell'autostrada senza pedaggio. E tornate nella loro stanza, lei avrebbe desiderato trovare qualche cartone animato per distrarre Katie; ma tutte le stazioni erano piene di mezzibusti che, se non blateravano contro la legalizzazione delle droghe, facevano supposizioni sulle ragioni del ricovero in ospedale
del Presidente. Come se importasse a qualcuno. «Come mai hai le mani tutte rosse?» chiese Katie. Poppy se le guardò. Unghie nere e dita rosso sangue. Stranissimo. Si alzò e si avvicinò alla finestra. «Vieni qui e te lo faccio vedere.» Tirò la tenda. «Guarda il furgoncino.» Katie premette il viso contro il vetro. «E nero!» Come un carro funebre, pensò Poppy. «Certo. L'ho verniciato io ieri sera.» L'aveva portato sul retro del motel e l'aveva parcheggiato accanto al capannone di un magazzino. Là, lontano da occhi indiscreti, aveva vuotato un barattolo dopo l'altro di vernice a spruzzo. Le dolevano ancora le dita. Certo non era carino, accidenti, ma chiunque avesse perlustrato le autostrade alla ricerca di un furgoncino bianco avrebbe probabilmente trascurato quello. Almeno lo sperava. Poppy lasciò cadere la tenda e guardò la stanza del motel. Non potevano restare lì... Aveva fatto addebitare il conto a una delle carte di credito di Mac, pensando che fosse morto. Ma non era morto. E se avesse avuto modo di rintracciarla attraverso le carte di credito? Dovevano andarsene di lì. Ma prima era necessario fare qualche cambiamento. «Bene», propose Poppy. «Allora giochiamo. Che cosa ne diresti...» simulò di essere indecisa. «Oh, non so... per esempio a far finta?» Katie aveva ormai dimenticato il broncio di poco prima. «E che cosa dovremmo fingere?» «Vediamo... perché non fingiamo di essere dei ragazzi? Non sarebbe divertente?» «Ragazzi?» Katie non ne pareva molto sicura. «Come possiamo fare?» «È facile. Cambiamo la pettinatura e gli indumenti e ci comportiamo come degli scemi. Sai...» Poppy fece una smorfia. «Boh!» Katie scoppiò a ridere. «Boh! È facile.» «Ma dobbiamo sembrare dei ragazzi.» Un sorriso ancor più largo. «Vuoi dire vestirci con abiti da ragazzi?» «Esatto! E tagliarci i capelli.» Katie si portò le mani alla testa e il suo sorriso svanì. «Tagliarmi i capelli? Oh, non...» «Sì, li taglieremo, li tingeremo, li pettineremo in modo diverso. Sarà divertentissimo!» Ma Katie non era convinta.
Deve accettarlo, pensò Poppy. Ho cambiato il colore del furgoncino, cambierò anche la targa e il motel, ma se vogliamo sopravvivere tutte intere devo cambiare anche «noi». Si era fermata in un negozio a comprare tutto l'occorrente. Doveva persuadere Katie. «Guarda», disse prendendo un paio di forbici. «Faccio io per prima.» Si afferrò una ciocca di capelli e cominciò lentamente a tagliare. 3 Nel piccolo ufficio del W-16 Dan Keane ascoltava con crescente orrore Gerry Canney che aggiornava l'unità operativa sulle indagini del laboratorio criminale dell'FBl. «E ora la scoperta più recente: sulla moquette della casa di Falls Church hanno trovato sangue di due gruppi diversi. Entrambi freschi. Uno appartiene al morto, Paulie DiCastro; l'altro non è stato identificato, ma di certo non appartiene a Katie VanDuyne.» Sta saltando fuori tutto, pensò. Avrebbe voluto fuggire da quella stanza. Intervenne Decker. «Bene. Adesso, dal Regno Unito, Jim dice che la CIA ha trovato il provider anonimo che ha usato quello Snake.» Jim Lewis si schiarì la gola. «Si chiama Steve Fletcher, ma si rifiuta di confessare dove nasconde il computer. La soluzione più facile sarebbe seguirlo e rubarglielo. Poi esaminiamo il disco fisso e troviamo l'indirizzo di posta elettronica di Snake. Deve avere aperto un conto con un server privato, per entrare in Internet, e lo individuiamo tramite quello. Ma rubare il CPU significherebbe chiudere il server e interrompere qualsiasi comunicazione da parte di Snake. Quindi stiamo lavorando con i Servizi segreti britannico per fare pressioni su Fletcher in modo che ci dia quell'indirizzo. Se ci sembra che questo sistema comporti troppe lungaggini burocratiche abbiamo altre possibilità.» «Per esempio?» chiese Decker. «Lo spiegherò se e quando sarà il caso.» Dan si raddrizzò. Se possono risalire a Salinas tramite Snake, siamo fregati. Se la malattia di Winston fosse col legata ai cartelli della droga, la depenalizzazione non avrebbe più ostacoli! Decker annuì. «Giusto.» Poi si rivolse a Dan: «E infine, che cosa ha trovato la DEA?» Dan si leccò le labbra secchissime. La verità era che aveva finto di darsi da fare ma non si era spinto molto avanti. Quello però non poteva dirlo a
Decker. «Teniamo gli orecchi aperti. Non ho parlato specificatamente di rapimenti o di complotti di assassinio, ma ho dato istruzioni di controllare presso tutti gli informatori quali sono le reazioni dei trafficanti e del cartello alla minaccia di depenalizzazione.» «E allora?» «Ancora niente.» Era vero. Troppo presto per sentire qualche cosa di sostanzioso, ma il poco che stava arrivando era negativo. Salinas aveva fatto un bel lavoro, ma sembrava che avesse ingaggiato un gruppo di dilettanti per realizzarlo. «Bene», fece Decker. «Le cose stanno così. Abbiamo moltissimi indizi, moltissime nuove informazioni, ma anche un sacco di nuove domande, accidenti. Se il dito che ha ricevuto VanDuyne non è di sua figlia, di chi è? O piuttosto, di chi era? Perché mandare il dito di un altro? Sappiamo che Katie è stata nella casa di Falls Church, almeno per un po', ma adesso dov'è? E perché è stata spostata? Perché in quella casa è stato assassinato un teppista di piccolo calibro come Paul DiCastro? Faceva parte dell'operazione sin dall'inizio o cercava di intrufolarvisi? A chi appartiene l'altro sangue trovato sulla moquette? A un altro dei rapitori o a un estraneo? E dove si trova questo ferito? Si tratta di un'operazione in grande stile oppure no? I rapitori hanno avuto un animato litigio? Chi è la donna che ha telefonato a VanDuyne e gli ha offerto di restituirgli la figlia, senza alcun riscatto, per poi non farsi vedere? Che diavolo sta succedendo?» «Proprio così, maledizione», intervenne Canney. «È il sequestro di persona più strano che abbia mai visto o di cui abbia sentito parlare. Un momento sembra un'operazione altamente sofisticata, quello dopo pare opera di un dilettante.» Hai capito bene, pensò Dan. Ma Carlos Salinas è un professionista. Forse alcune delle persone che ha ingaggiato possono avere combinato qualche pasticcio, ma proprio in questo momento sta sistemando tutto. Si costrinse a rilassarsi. Sarebbe andato tutto bene. Salinas avrebbe ripreso presto il controllo della situazione, se non l'aveva già fatto. Non avrebbe lasciato la minima traccia. 4 «Dov'è?» Carlos batté i pugni sulla scrivania. «Potrebbe essere ovunque», osservò Allen. «Abbiamo sorvegliato la ca-
sa, quindi sappiamo che non è là. Dobbiamo aspettare che telefoni.» L'esperto in Economia sembrava agitato e Carlos ne era contento. Che abbia pure paura di me. Che sia spaventato non solo per i suoi guadagni futuri, ma per il suo benessere fisico. Per la sua vita. Perché Carlos stesso aveva paura. MacLaglen poteva essere vivo, ma poteva essere ferito e nascondersi da qualche parte, o perfino essere moribondo. Carlos non era preoccupato per la salute di quel cabròn, ma perché la sua sparizione poteva far scoprire quella maledetta cassetta. «Voglio che lo troviate!» Si rivolse a Llosa. «Raduna qualche uomo. Abbiamo una sua foto: fa' fare delle fotocopie. Sappiamo che gli piace telefonare dagli alberghi. Andate in giro. Andate da un albergo all'altro e cercatelo.» Era rischioso, ma non poteva starsene ad aspettare che accadesse qualcosa. Llosa annuì e tirò fuori una rivoltella. «E quando lo trovo devo...» «No!» Non voleva che Allen, Llosa o qualsiasi altro sapesse della cassetta. «Portalo qui da me. Deve dare molte spiegazioni e i morti non possono farlo.» 5 Poppy si guardò i capelli nello specchio del bagno. «Cresceranno di nuovo», si disse per la centesima volta da quando li aveva tagliati. La frangetta era sparita, come pure il colore rosso vino, i capelli erano nerissimi e aderenti alle tempie. Un po' retrò e stile anni Ottanta: normalmente non si sarebbe pettinata così neanche morta, ma l'idea era di trasformarsi per salvare la pelle. Controllò il resto della tenuta: jeans abbondanti, camicia di cotone molto grande, scarpe da ginnastica. Si era tolta gli orecchini, l'anello al sopracciglio e il bottoncino alla narice. Niente trucco, niente smalto, e nonostante tutto era improbabile che potesse passare per maschio. Comunque Mac avrebbe dovuto guardarla molto bene, per riconoscere la Poppy Mulliner che aveva conosciuto. Katie invece era tutta un'altra cosa. Poppy tornò nella camera e ammirò il proprio operato. La bambina era seduta sul letto e faceva un po' di zapping. Era stata alquanto noiosa, durante la trasformazione, ma in quel momento sembrava avere dimenticato tutto. Ne era valsa la pena: sembrava davvero un ragazzino.
Un ragazzino dai capelli rossi. Poppy aveva cercato di farla bionda, ma la soluzione schiarente aveva dato come risultato un rosso scuro. Andava bene lo stesso, aveva pensato. I capelli biondi sarebbero stati più belli, ma con il taglio cortissimo, la maglietta dei Jets, i jeans e le scarpe uguali a quelli di Poppy sembrava pronta per andare all'allenamento di baseball. Spero che funzioni, pensò. Almeno abbastanza a lungo perché tu possa metterti in salvo e io sparire. Sorrise e batté le mani. «Ehi, fratello. Andiamo. Che cosa ne diresti di telefonare a papà?» Katie lasciò cadere il telecomando e corse all'apparecchio. «Posso fare il numero?» «Certo. Ma andiamo a cercare un altro telefono, va bene?» Prima di uscire Poppy eliminò ogni traccia della loro presenza. Anche se qualcuno avesse scoperto che erano state lì non avrebbe assolutamente capito che si erano tagliate e tinte i capelli. Fermò il furgoncino dal nuovo colore rosso a una stazione di servizio, preparò una manciata di spiccioli, lasciò che Katie componesse il numero del cellulare del papà e quando lui rispose tenne il microfono tra di loro. «Ciao, papà, sono io.» «Katie!» esclamò una voce maschile. «Oh, grazie al cielo, sei tu! Che cos'è successo? Pensavo che saresti tornata ieri sera. Ho aspettato tanto.» Poppy udì che la voce si incrinava e quasi si spezzava per l'emozione. Accidenti, pensò. Avrei dovuto fargli sapere che non ci sarei andata. Non l'aveva mai visto, ma dalla voce si capiva che era un brav'uomo che voleva bene alla figlia e desiderava tanto riaverla. «Mi sono addormentata», disse Katie. «Stai bene?» «Certo. Abbiamo giocato a far finta e sai che cos'abbiamo fatto?» Poppy le tolse il ricevitore. «Adesso lascia parlare me, d'accordo?» Non si poteva sapere chi stesse ascoltando. Forse persino Mac. Paulie diceva che era un genio. Avrebbe potuto intercettare il telefono della casa di Katie, ma come fai a intercettare un cellulare? Non ci sono fili. «Mi dispiace, per l'altra sera», cominciò. «Ho dovuto cambiare i piani, per così dire.» «Purché Katie stia bene. Ma ha bisogno della medicina...» «Tutto a posto», interruppe Poppy. Una pausa all'altro capo della linea, poi: «Ma le compresse erano rimaste...»
«Non si preoccupi. Mi prendo cura di lei. Non lascerò certo che le vengano degli attacchi.» «Posso chiederle come ha fatto a procurarsele? Voglio dire, è il dosaggio giusto?» «Esattamente uguali a quelle del flacone. Ho dovuto rapinare un drugstore, per prenderle.» Dopo un'altra pausa, ancora più lunga: «Ha fatto questo per Katie... Deve starle a cuore parecchio, vero?» «Certo. È una bambina magnifica. Assolutamente magnifica. Ma perché ha quell'ammaccatura in testa?» «Un incidente. Una frattura al cranio. È stato quello a provocare l'epilessia.» Si schiarì la gola. «Senta, posso chiederle... è intera? Voglio dire, le dita del piede...» «Sì, le ha ancora tutte e dieci. Come ha fatto a capire che quello che ha ricevuto non era suo?» «Un esame di laboratorio. È stata lei... voglio dire, a non volere...» «A non volere che le facessero del male? Certo. Io e Paulie. E per questo Paulie è stato ucciso.» «Il morto che era nella casa?» Fu il turno di Poppy, di sentirsi un nodo alla gola. Deglutì. «Sì. Era un bravo ragazzo. È morto per proteggerla.» «Non... non so come ringraziarvi... Non sarò mai in grado di ringraziarvi abbastanza... ma non capisco...» «È una storia lunga e non ho tempo di raccontarla. Ma deve sapere una cosa: il tizio che ha ucciso Paulie è ancora vivo. Per questo non ho portato Katie, ieri sera. Io pensavo che fosse morto. Voglio dire, gli avevo ficcato una pallottola in testa. Gli avevo...» «Lei?» «Be', sì. Stava cercando di fare del male a Katie. Lei l'ha visto, quindi le dà ancora la caccia. Se gliela ridò indietro, bisogna che la faccia proteggere.» «Oh, si fidi di me, avrà la protezione migliore del mondo. Le garantisco che appena torna a casa la sorveglieranno l'FBI, i Servizi segreti, la DEA, persino la CIA.» Poppy si sentì rivoltare lo stomaco. Tutte quelle sigle di enti federali. E se stessero già cercando Katie? Significava che cercavano anche lei. All'improvviso desiderò porre fine alla telefonata. «Proteggeranno anche lei», udì dire il padre di Katie.
«Oh, non so. Non ho le mani del tutto pulite, in quest'affare.» «Mi creda, se riporta indietro Katie e li aiuta si può concludere ogni genere di accordi.» «Credo che preferirei scomparire, se non le rincresce.» Continuò a pensare: FBI, Servizi segreti, DEA, CIA, diede un'occhiata all'orologio. Era stata al telefono troppo a lungo. Pensò in fretta. Come poteva far tornare a casa Katie? Non poteva lì, non poteva restare più a lungo nella zona di Washington. Dove poteva andare? Poi le venne in mente. «Bene, senta. Ecco come faremo: ci incontriamo domani ad AC e le restituisco Katie.» «AC?» «Atlantic City.» A Paulie piaceva il blackjack; frequentavano i casinò regolarmente. «Stasera scenda al Bally's Park Place, dando il suo vero nome, e io mi metterò in contatto. Domani riavrà indietro Katie.» «Non possiamo organizzare qualcosa oggi?» «Mi spiace. Dovremo farlo domani. Il Bally's, non se lo dimentichi.» E riagganciò. «Non me l'hai fatto salutare», protestò Katie. «Oh, mi dispiace, tesoro. Ma sai una cosa? Domani torni da lui, di sicuro.» Il sorriso di Katie e la luce nei suoi occhi trafissero il cuore di Poppy come spade. Non sentirai la mia mancanza? Almeno un po'? 6 Tutte le volte che Dan Keane credeva che le cose non potessero andare peggio, la situazione precipitava. Recatosi all'ultimo aggiornamento dell'unità operativa cercò di sembrare calmo mentre Decker riassumeva le informazioni più recenti. Ma non era facile. «...e quindi sembra che l'operazione del sequestro di persona sia fallita. Se dobbiamo credere alla donna che ha telefonato a VanDuyne, i rapitori hanno avuto un litigio sul fatto di tagliare un dito del piede alla bambina. Il disaccordo ha causato la morte di Paul DiCastro e il ferimento di qualcuno chiamato Mac. Questo Mac può essere Snake oppure no. Secondo la donna ha una ferita al capo. Di conseguenza abbiamo emesso un mandato per un individuo con una ferita alla testa, ufficialmente indiziato per l'omicidio di Falls Church. Stiamo setacciando tutti i pronto soccorso in un raggio di ot-
tanta chilometri.» Devo telefonare a Salinas, pensò Keane. Deve cominciare anche lui a controllare da parte sua gli ospedali. «Vogliamo quel tizio. Dobbiamo prenderlo prima che arrivi a Katie VanDuyne. Dopo potremo collegarlo al rapimento e all'omicidio. Con quei capi d'accusa contro di lui so che possiamo farlo cedere e denunciare chi l'ha incaricato di questo lavoro.» Prese la parola Canney. «Ma prima abbiamo bisogno di avere Katie VanDuyne viva e in buone condizioni. Abbiamo rintracciato l'ultima telefonata da un apparecchio a gettoni di Edgewood, nel Maryland, ma potrebbero trovarsi in qualsiasi punto fra quello stato e Atlantic City. Se stabilissimo un posto di controllo sull'autostrada per Atlantic City e fermassimo tutti i veicoli potrebbe spaventarsi. Vogliamo indietro Katie. Naturalmente ci piacerebbe prendere anche la donna che la tiene con sé, ma ci accontenteremo di Katie. È in grado di identificare Mac. In questo momento è lei, la chiave di tutta l'operazione.» «Giusto», assentì Decker. «Questo sarà l'ultimo nostro incontro, per un po'. Stasera Gerry e io andremo ad Atlantic City. È là che VanDuyne dovrebbe riavere Katie. Metteremo una cimice nel suo telefono e ci terremo pronti a intervenire, accertandoci che niente vada storto. No, un momento, pensò Keane. Perché rischiare un'altra telefonata? Sono pulito. Non ho legami con loro. Lasciamo le cose come stanno. Giusto. Tutto è già andato a catafascio. Che se ne preoccupi Salinas. Per lui era giunto il momento di lavarsi le mani di tutta la faccenda. Che la ragazzina tornasse a casa dal padre, che Decker e Canney prendessero quel rapitore ferito. Non importava. Era certo che Salinas si era «isolato» dal complotto. E se quel tizio che mancava avesse rappresentato una minaccia, Salinas avrebbe provveduto a fare in modo che non avesse l'occasione di parlare. Ciò che importava era che il piano aveva funzionato. Quel pazzo di Winston era ricoverato all'Ospedale navale di Bethesda e non in viaggio verso L'Aia. Il piano di depenalizzazione si avviava verso il deragliamento. Senza di lui, non sarebbe mai più potuto tornare sui binari. E il merito era suo. Dopo la riunione Dan si diresse subito a casa, a Georgetown. Era ancora presto, in quel pomeriggio di sole, ma aveva bisogno di bere qualcosa. E di forte. Avrebbe preferito che Carmela e i ragazzi non fossero andati in Florida, non si sentiva di stare solo quel giorno. Mentre entrava in casa il telefono stava squillando. Si affrettò in fondo allo stretto atrio e prese la comunicazione.
«Salve, signor Keane.» Per poco Dan non si lasciò cadere su una sedia, quando riconobbe quella voce. Non riuscì a parlare. «Pronto?» disse Carlos Salinas. «È ancora lì?» Fa' finta di niente. «Chi... chi parla?» Una risata. «Lei sa molto bene chi parla. E io so chi è lei.» Dan non parlò. Era come il suo corpo si fosse tramutato in pietra... pietra fredda. «Non ho ricevuto sue notizie, di recente, così ho telefonato per sentire se sta bene.» «Sto bene», riuscì a dire Dan. Era impossibile. Salinas non era in grado di risalire a lui. Si era coperto in modo totale. «Che cosa vuole?» «Vorrei qualche notizia. L'amigo che abbiamo perduto è irreperibile. Forse che l'ha ritrovato qualcuno?» Fa' finta di niente! «Non so di che cosa stia parlando.» «Davvero? Mi dica, riconosce questa voce?» Dan udì un clic, poi una registrazione. «Che genere di operazione disorganizzata stai facendo, Salinas? Ho appena saputo che un flacone di compresse appartenente alla bambina è stato trovato in una casa di Falls Church in cui qualcuno è stato ucciso. Che diavolo sta succedendo?» Dan fu colto dalla nausea. La mia voce! L'apparecchio di distorsione non ha funzionato? «Com'è possibile?» «Viviamo proprio in un mondo pieno di miracoli, vero? Ciò che è nascosto può essere scoperto. Ciò che è distorto può essere messo in chiaro.» La voce di Salinas perse il tono leggero. «Adesso mi dica, señor, quali sono gli ultimi sviluppi?» Dan provò una rabbia feroce, contro se stesso, contro quel trafficante schifoso; e cercò una via d'uscita da tutto quanto. Poteva parlare (la possibilità che il suo telefono fosse sotto controllo erano praticamente zero) ma aborriva l'idea di diventare una pedina di quell'individuo. «Presto, señor, non abbiamo molto tempo. La cosa dovrebbe preoccupare anche lei, perché se vado in prigione io, la mia raccolta di cassette mi segue. Dov'è il nostro amico?» Dan si accasciò. Era in trappola. «Nessuno lo sa. Si suppone che sia feri-
to alla testa. Lo stanno cercando in lungo e in largo. Sarà meglio che faccia in modo di trovarlo per primo.» «E la bambina?» «A quanto pare ha visto il nostro amico ed è in grado di identificarlo. Domani una donna la restituirà al padre ad Atlantic City.» «Una donna... Molto interessante. Controllerò. E spero di sentirla spesso. Si ricordi, la sua libertà è legata alla mia.» La comunicazione si interruppe. Dan rimase con il ricevitore che gli penzolava dalla mano. Dentro si sentiva come morto. L'unica cosa che si agitava in lui era la paura. Non più per il proprio paese e per la propria carriera. Ormai temeva per la libertà, per la vita. Che cos'ho mai fatto? Lunedì 1 «Sei un macello», borbottò Snake mentre nella camera del motel, davanti allo specchio del bagno, si curava le ferite. «Ma sei vivo.» Era un vero miracolo. Ciò che era accaduto quel sabato era un ricordo confuso. Aveva la vaga sensazione di avere ripreso i sensi in quella casa vuota (Paulie era steso al suo fianco, ma non contava più) e di essersi messo in piedi a fatica, senza riuscire a vedere dall'occhio destro. Quella che rammentava meglio era la sofferenza, l'atroce sofferenza nell'occhio e nella parte destra della testa, e il sangue che gli colava lungo il collo. Aveva preso un asciugamano e se l'era legato intorno al capo. In qualche modo aveva trovato le chiavi dell'auto. Le aveva prese, insieme alla rivoltella, ed era riuscito ad arrivare barcollando fino alla Jeep. Ce l'aveva fatta a guidare e per tutto il percorso il cercapersone aveva trillato, inviandogli fitte acutissime alla testa. Non voleva tornare a casa, ma quella puttana gli aveva rubato portafoglio e giubbotto e aveva bisogno di contante. E molto. Conosceva un tizio nella parte nordorientale di Washington, un medico la cui licenza era stata ritirata perché gli piacevano troppo le sostanze vietate e perché aveva l'abitudine di prescriverle. Ma lui continuava a esercitare. Il suo nome era noto: ti sei beccato una ferita che non vuoi sia denunziata, va' dal dottor Möller. Ma quello stronzo accettava solo contanti. Il dottore aveva dato dei punti al solco irregolare che la pallottola aveva
scavato nell'angolo dell'occhio destro di Snake, attraverso la tempia, fino a un punto sopra l'orecchio destro: aveva avuto molta fortuna, perché l'arteria temporale era stata solo scalfita. Aveva raddrizzato il naso fratturato, ma non aveva potuto fare niente per l'occhio. La pallottola aveva provocato un'emorragia intraoculare, il lampo della canna l'aveva bruciato ed era del tutto fuori uso. Forse un oftalmologo avrebbe potuto salvarlo, ma il dottore ne dubitava. Come minimo un intervento avrebbe richiesto giorni interi e con ogni probabilità un ricovero in ospedale, e il dottor Möller non conosceva nessuno specialista del ramo che fosse disposto a non denunciare la ferita da arma da fuoco. Quindi quella faccenda era chiusa. Chiamatemi Occhiomorto. L'emorragia era cessata, ma il dolore era continuato per un pezzo: fitte sorde all'interno del cranio, trafitture continue nel cuoio capelluto e nel naso, insieme a punture nell'orbita, saltuarie ma tremende, come provocate da frammenti di vetro. Gli antidolorifici che prendeva a raffica non riuscivano quasi per niente a lenire la pena. Applicò dell'antibiotico a una garza e lo premette contro quell'orrore arrossato che una volta era stato il suo occhio. Poi incominciò ad avvolgersi il capo con una benda da cinque centimetri. A un certo punto lasciò cadere il rotolo e afferrò il lavandino stringendone il bordo, mentre il bagno cominciava all'improvviso a girargli intorno. Erano due giorni che la testa gli faceva quel brutto scherzo. Il dottor Möller gli aveva detto che doveva aspettarselo: una sindrome da commozione cerebrale, o una cosa del genere. Qualunque nome avesse, metteva paura. Non voleva che gli capitasse quando stava guidando. Ma quel giorno doveva assolutamente farlo. Doveva uscire dal quartiere e trovare un telefono. Si era fermato al primo motel che aveva incontrato dopo essere uscito dal dottor Möller, lungo Rhode Island Avenue. Doveva essere l'unico bianco in un raggio di oltre tre chilometri. Non avrebbe di certo telefonato da quella stanza. Probabilmente avrebbe dovuto andare nella zona federale, per trovare un apparecchio che funzionasse o non fosse monopolizzato da un trafficante. La stanza smise di oscillare e lui abbandonò la stretta sul lavandino. Finì di avvolgersi la testa con la benda e contemplò il proprio operato. La fasciatura gli circondava la fronte, scendeva sull'occhio e gli copriva tutta la parte destra della testa, orecchio compreso. Non era perfetta come quella
del dottore, ma sarebbe servita allo scopo. Pensò a Poppy e l'impeto di odio e di rabbia gli attuti per un istante la sofferenza. Era tutta opera sua. Che cos'aveva pensato di fare? Di sparargli e di scappare con la bambina. Che cosa passava per quella testa matta? Quando le avesse messo le mani addosso... Vedeva ancora il suo sguardo mentre premeva il grilletto. Era pazza, quella puttana. E c'era mancato poco che non l'uccidesse. Una fottuta cagna aveva avuto la meglio su di lui. Come diavolo era potuto succedere? Certo, quella botta in testa l'aveva stordito, comunque era una cosa di cui non avrebbe mai parlato. E Paulie. Snake non riusciva assolutamente a immaginare che cosa gli fosse preso. Era così semplice tagliare un dito del piede del pacco e mandarlo a padre. Che bisogno c'era di farla tanto lunga, cazzo? Perché non aveva obbedito? Avrebbe potuto essere ancora vivo. Oppure no. Perché si era messo in mezzo, quando Snake aveva voluto far fuori il pacco? Non aveva senso. Non era una cosa da Paulie. C'era un'unica spiegazione: Poppy. Aveva soggiogato lui e probabilmente aveva stabilito una specie di rapporto materno con il pacco. Snake ricordava il modo in cui l'aveva presa in braccio quando stava per farla fuori. Sì. Doveva essere quello. E aveva trasmesso l'infezione a Paulie. Che stupidaggine! Sì. Era tutta colpa di Poppy. Nella stanza accanto il cercapersone squillò di nuovo. Merda, Salinas non rinunciava proprio mai? Bene, era una faccenda che non poteva rimandare oltre. Doveva chiamarlo. Per fortuna, le cose non sembravano poi tanto brutte. Non era probabile che Salinas sapesse ciò che era accaduto nella casa di Falls Church. I notiziari avevano parlato dell'omicidio, ma niente l'aveva collegato al rapimento. Nessuno aveva fatto il nome di Paulie e il Presidente era ancora a Bethesda, Salinas doveva esserne contento. Snake immaginava di poterlo convincere di avere ancora la bambina e che tutto fosse sotto controllo. Potevano continuare a fare false promesse a VanDuyne mentre aspettavano che Winston morisse. Intanto avrebbe perlustrato tutto il paese per trovare Poppy e quella marmocchia. E quando l'avesse trovata... oh, quando l'avesse trovata... Si sarebbe lasciato andare alle fantasie più tardi. Prima doveva arrivare a un telefono.
2 Decker stava uscendo dal W-16 quando l'aveva chiamato Rasoio. L'aveva ragguagliato sugli ultimi sviluppi. «Allora adesso John è ad Atlantic City?» «Sissignore. È sceso al Bally's ieri sera. Abbiamo messo delle spie nella sua stanza mentre era fuori a cena. Sto andando là anch'io.» «Crede davvero di poter gestire questa faccenda da solo?» «Sembra di sì. Non ci ha avvisati delle telefonate che ha ricevuto.» «Be', tenetelo d'occhio. Assicuratevi che riprenda Katie senza che le sia fatto del male. E voglio che facciate in modo che accada oggi. Fatemelo sapere nell'attimo stesso in cui sarà in mani sicure. Appena mi avvisate vado via di qui. In questo ospedale sto diventando matto.» «Sissignore», rispose Decker, cercando di assumere un tono neutro, mentre ricordava lo sguardo abbattuto di VanDuyne quando era uscito dalla Maryland House il venerdì sera. Ma doveva essere accaduto qualcosa. «Non credere che non capisca ciò che sta passando John. E nemmeno che non sia preoccupato per Katie. Lo sono, e molto. Ma qui si tratta di cose della più grande importanza. Appena vengo a sapere che è in salvo posso comparire di nuovo in pubblico e far capire a chiunque stia dietro a questo complotto che ha fallito.» «Sissignore. Faremo tutto il possibile.» «E di' a John di darmi un colpo di telefono alla Casa Bianca appena torna a casa con Katie.» «Senz'altro, signore.» Decker riagganciò e chiamò Gerry Canney, che faceva parte della squadra di sorveglianza ad Atlantic City. «Ancora nessun contatto, da parte della donna?» «No. Il dottore ha solo telefonato alla madre. Ma c'è un problema.» «Quale?» «La moglie. L'ha seguito sin qui.» «Avevo pensato che il tuo uomo l'avesse tagliata fuori, l'altra volta.» «Quello aveva in mente. E la stava seguendo quando è rimasto bloccato per un incidente tra un camion e un autobus sull'autostrada a pedaggio. Lei è svicolata via e lui non è più riuscito a raggiungerla.» «Sappiamo dove si trova?» «Non esattamente, ma dev'essere da qualche parte vicino al Bally's. Stiamo attenti, se si fa vedere e sembra che abbia intenzione di procurare
guai, la isoleremo.» «D'accordo. Questa volta non voglio che nessun elemento metta in forse il trasferimento. E nemmeno Rasoio lo vuole.» «Gli hai parlato?» «Ho appena concluso la comunicazione con lui. Vuole che la faccenda sia sistemata oggi.» «Ho capito.» Decker riagganciò e si diresse verso la base dell'Aeronautica militare di Andrews per prendere un elicottero. Sarebbe arrivato ad Atlantic City in due ore. Il pensiero che la ex di VanDuyne andasse in giro senza sorveglianza lo preoccupava. Non erano neanche le nove del mattino e già qualcosa era andato storto. Che cosa sarebbe successo, ancora? 3 «Fammi parlare con lui.» «Che cosa?» Una pausa. «Sei...» Snake riconobbe la voce di Gold, ma aveva un accento strano. Teso. «Sì, sono io. Ecco dove sono.» Cominciò a leggere il numero del telefono dell'albergo quando Gold lo interruppe. «Un momento, fammi prendere una penna.» Come? Gold aveva sempre una stilografica nel taschino della camicia. Mentre aspettava, Snake lanciò una rapida occhiata nell'atrio. Il movimento improvviso gli procurò un altro attacco di vertigini. Si afferrò all'apparecchio per evitare di oscillare. Non voleva che lo prendessero per ubriaco. L'avrebbero buttato fuori a calci. L'atrio si fermò e lui vide che nessuno gli prestava attenzione. Una grossa felpa con il cappuccio alzato e il paio di occhiali da sole più grande che era riuscito a trovare nascondevano il novanta per cento della fasciatura. Eppure gli pareva di portare sul capo un'insegna al neon con la scritta lampeggiante: GUARDATEMI... GUARDATEMI... «Va bene», disse Gold. «Adesso ce l'ho. Dammi il numero.» Snake glielo lesse e stava per riattaccare quando Gold gli disse: «Adesso è, ehm, indisposto, quindi ci potrebbe volere un po' di più, per richiamarti. Porta pazienza». Snake ebbe la visione di Salinas sul cesso, con i rotoli di grasso che formavano una cascata, ma scacciò quell'immagine. «Bene. Aspetterò.» Non era entusiasta, all'idea di starsene nell'atrio del-
l'albergo con quella fasciatura. Alcune persone lo fissavano. Se qualcuno li avesse interrogati, si sarebbero ricordate di lui. «E allora, ehm, dove sei stato?» Chiacchiere inutili da parte di Gold. L'ultima cosa che desiderava. «Impegnato. E da voi come va?» «Be', ti abbiamo chiamato con il cercapersone per giorni interi.» «Davvero? Forse dovrei farlo revisionare. Dev'essere troppo bassa la carica della batteria. Non ho sentito niente.» «Sì. Sarebbe bene che la facessi controllare. Lui doveva parlare con te di questioni importanti.» «Davvero?» Snake premette il gancio ma continuò a tenere il ricevitore accanto all'orecchio senza fasciatura, mentre aspettava di essere richiamato. Lui doveva parlare con te di questioni importanti. Non gli era piaciuta affatto, quella frase. Possibile che Salinas sapesse che cos'era successo in quella casa? Si appoggiò al fianco della cabina. Desiderava che facesse in fretta a richiamarlo. E che quelle cabine fossero muniti di sedili. Si sentiva debole, tremava, e la testa, quella maledetta testa, gli faceva un male atroce. Avanti, grassone! Facciamola finita! Poi l'apparecchio squillò e Snake lasciò andare il gancio. «Sì.» Salinas: «Miguel, che piacere parlarti. Ero preoccupato per te». Quel tono scatenò un brivido lungo la schiena di Snake. Troppo calmo, troppo cordiale. «Perché mai?» «Non riuscivo a trovarti. Non rispondevi al cercapersone.» «Come ho detto al tuo tirapiedi, devo sostituire la batteria.» «Fallo, per piacere. E adesso dimmi, come va il pacco?» «Bene.» «Tutto sotto controllo?» Sa qualcosa, maledizione! «Perché me lo chiedi?» «Perché ho sentito dire delle cose.» Ah-ah. «Davvero?» Snake cercò di mantenere un tono leggero, ma il suo stomaco si contrasse. «Per esempio?» «Oh, che il dottore ha parlato al telefono con il pacco, che una donna gli ha promesso di restituirglielo...» No! «...e che un laboratorio governativo ha scoperto che il dito del piede che
doveva essere del pacco proveniva in realtà da un ragazzino, un ragazzino imbalsamato.» Merda! «Vediamo... che altro? Ah, che un cadavere trovato a Falls Church viene collegato al pacco e che stanno ricercando un uomo noto come Snake e uno noto come Mac, forse la stessa persona, gravemente ferito in quella casa.» Snake aveva davvero bisogno di sedersi. Sudava e tremava, e non per la febbre. Ma anche se avesse avuto una sedia a portata di mano, non avrebbe potuto farlo. Doveva andare via di lì. «Non riagganciare, Miguel», gli disse Salinas, e la sua voce era piena di acredine. «Non abbiamo ancora finito di parlare. E se ti guardi intorno sono sicuro che scorgerai un viso familiare.» Snake si girò, quella volta lentamente, e soffocò la sorpresa quando scorse Llosa a meno di due metri di distanza, un sorriso sulla faccia butterata, la destra nella tasca della giacca. Capì la causa degli indugi: Gold che cercava una penna, Salinas che era indisposto e quindi non poteva richiamare subito. Tattiche dilatorie per scoprire da dove proveniva la telefonata e dare a Llosa il tempo di trovarlo. Che maledetto imbroglione! Snake deglutì. «Lo vedo. Che cosa ci fa, qui?» «Stava già cercandoti. Adesso ti accompagnerà fino a un magazzino che ho in affitto. Ci incontreremo là. Poi avremo una discussione molto approfondita, io e te. Voglio alcune risposte.» Snake lanciò un'altra occhiata a Llosa e si accorse che non era solo. Qualcuno l'aveva raggiunto. Snake non l'aveva mai visto prima, ma dalla carnagione e dall'abbigliamento non ebbe alcun dubbio: era un altro colombiano. «Non dimenticare le cassette», disse a Salinas. «Tienile presenti.» «Me le ricordo benissimo. Discuteremo anche di quelle.» Snake sapeva che genere di discussioni aveva in mente Salinas: probabilmente con ganci da carne e pungoli per il bestiame come argomenti. Avrebbe voluto conoscere l'ubicazione di tutte le cassette e lui sapeva che l'avrebbe rivelata, di tutte quante, alla prima fitta di dolore. Il pensiero di aggiungere la tortura alla sofferenza che aveva già sopportato negli ultimi due giorni lo faceva sentire ancora più debole di quanto non fosse. Doveva pensare alla svelta, fare qualcosa per evitare la passeggiata con Llosa e il suo amico.
Un pensiero gli girava nel fondo della testa, qualcosa di brutto... parlare delle cassette gliel'aveva fatto venire in mente. Una cassetta.... il giubbotto sparito... Poi il ricordo lo colpì, e forte, dandogli un po' di nausea. Aveva pensato che le cose si fossero messe male, ma all'improvviso erano peggiorate, e di molto. «La ragazza ha una delle cassette», annunciò. Salinas rimase in silenzio per un istante. «Non ti credo, Miguel.» «È vero, lo giuro. Mi ha rubato il giubbotto mentre ero svenuto. In una tasca c'era una copia della cassetta. Adesso ce l'ha lei.» «Allora dovremo trovarla.» «La troverò io. La conosco da anni. La conosco meglio io dei tuoi uomini. Se qualcuno riuscirà a trovarla, quello sono io.» Molto poco vero. Quello che sapeva di quella puttana di Poppy Mulliner era ciò che aveva sentito da Paulie, e non era granché. Quasi niente, in realtà. Ma Salinas lo ignorava. «No me jodas! Llosa ti accompagnerà là... dove sarai al sicuro. È una misura di precauzione per la tua incolumità.» «Senti», fece Snake, ormai furioso. Doveva assolutamente convincere quella palla di grasso. «A me interessa trovarla quanto a te. La cassetta doveva essere ascoltata solo se fossi morto. Ci sono anch'io! Se l'ascoltano rischio il culo anch'io, tanto quanto te!» Salinas emise una lunga sfilza di imprecazioni in spagnolo. Snake riuscì a capirne ben poco, ma l'idea era chiara. Infine esaurì la rabbia e concesse a Snake di cercare Poppy. Ma voleva che Llosa l'accompagnasse. Altre discussioni, poi lo convinse che non solo la presenza di Losa l'avrebbe rallentato, ma che sarebbe stato meglio se l'avessero cercata separatamente. «Molto bene. Cercala per conto tuo. Ma niente scherzi, quando la trovi. Concludi la faccenda e fammelo sapere immediatamente.» «Ti manderò la sua testa.» «La troverai ad Atlantic City. Si metterà in contatto con il dottore oggi stesso, per restituire il pacco. Lui è sceso al Bally's Park Place.» Come fa a saperlo? si chiese Snake, meravigliato come sempre degli informatori di Salinas. «Parto subito.» Lanciò un'occhiata a Llosa e al suo compare, che rimanevano in speranzosa attesa. «Ma sarà meglio che tu parli al tuo amigo, qui, per fargli sapere del cambiamento.»
Salinas sospirò. «Passamelo.» Snake sollevò il ricevitore e gridò a Llosa. «Ehi! Il capo ti vuole.» E mentre Llosa riceveva nuovi ordini, Snake passò in rassegna ciò che sapeva di Atlantic City; cioè niente, in pratica. Non c'era mai stato. Il gioco d'azzardo era per gli stupidi. Non importava. Sarebbe andato là quel mattino stesso e si sarebbe informato. In un modo o nell'altro avrebbe trovato quella puttana e la bambina, avrebbe ripreso la cassetta e avrebbe sistemato le ultime faccenduole in sospeso. Poi sarebbe sparito. Al diavolo l'ultimo pagamento. Voleva andare il più lontano possibile da Carlos Salinas. In quel momento Singapore sembrava proprio un posto adatto... Dopo Atlantic City. 4 Marnie teneva d'occhio gli ascensori da sopra la copia omaggio di USA Today. Aveva seguito John sin lì con un'auto a nolo diversa, rossa quella volta. Aveva persino parcheggiato vicino a lui nel garage del Bally's, l'aveva seguito all'interno e l'aveva visto prendere una camera. Era stanca, ma non aveva nessuna intenzione di mollare. Il mattino presto si era sistemata nell'atrio dell'albergo e da quel momento era stata di sentinella. Prima o poi John avrebbe dovuto farsi vedere. E allora l'avrebbe portata fino a Katie. Che cosa stai combinando? Marnie era certa che la bambina non fosse a casa. Un paio di volte aveva sbirciato le finestre nell'ora di cena, e aveva visto solo John e quel maresciallo di sua madre. Doveva avere nascosto Katie da qualche parte, in un altro dei suoi crudeli tentativi di tenerle separate. Ma se non sei qui per vedere Katie, che cosa stai combinando? Giochi d'azzardo? Che tipo di padre nasconde la figlia alla madre (Dio solo sa dove l'ha ficcata) e se ne va a gironzolare in un casinò? E dice che io sono un cattivo genitore... e che sono pericolosa. Una bella faccia tosta! Probabilmente era andato lì per incontrare una delle sue puttane. Non era mai riuscita a coglierlo sul fatto, ma era certa che avesse relazioni sessuali con altre donne anche prima del divorzio. Katie era al corrente di tutto, ma
copriva sempre i segreti di John... non importava su che cosa. Sempre a nascondermi tutto, quei due, pensò. L'hai corrotta, John, lo so. Ma è ancora piccola. Nessun danno è permanente. La riprenderò. La salverò. La raddrizzerò. 5 Il telefono squillò alle undici e due minuti. John lo sapeva perché era rimasto seduto sul letto dalle sette e tredici, a guardare i numeri rossi dell'orologio avvicinarsi a mezzogiorno. «Ciao, papà.» «Katie!» John si sentì sollevare. Sembrava così vicina. All'improvviso fu certo che quella volta avrebbe funzionato. L'avrebbe riavuta con sé. «Ciao, tesoro. Dove sei?» «Con Poppy.» Poppy.... era lei quella... All'improvviso la donna prese la comunicazione. «Ehi, sarà meglio che dimentichi quello che ha appena sentito.» «Sentito che cosa?» chiese John. «Questo è lo spirito giusto.» Sperava che si capissero. Se aveva salvato il dito del piede di Katie e la sua stessa vita e gliela restituiva indenne (aveva detto di aver rapinato un drugstore per assicurarle il Tegretol) avrebbe dimenticato tutto ciò che sapeva di lei. Nessun tribunale al mondo sarebbe riuscito a fargli ricordare il suo nome o la sua voce. «Siamo pronti, oggi?» «Sì. Scenda lungo il Boardwalk alle tre e si fermi vicino ai telefoni tra il Boardwalk Rogers e il Planet Hollywood.» «Dove sono?» «Poco più giù del punto in cui si trova lei. È facile riconoscere il Rogers, assomiglia a una chiesetta di ceramica. Chiamerò il primo telefono a sinistra e le farò sapere dove potrà prendere Katie.» Le tre... sembravano lontane anni. «Non possiamo anticipare un po'?» «Le tre. Devo sistemare alcune faccende. Non vogliamo che qualcosa vada storto, vero?» «D'accordo. Il primo telefono a sinistra. Alle tre. Capito. Ma ci sarò molto prima. Mi telefoni anche prima, se vuole.»
John intendeva trovarsi nei pressi di quel telefono verso le due. Non voleva che si ripetesse una scena come quella di Lafayette Square, la settimana prima. Quella volta niente discussioni su chi poteva usare l'apparecchio. L'avrebbe preso e non l'avrebbe mollato. 6 Bob Decker prese la telefonata di Canney all'apparecchio dell'auto, arrivando ad Atlantic City dall'aeroporto. Consultò l'orologio. «Alle tre? Riesci a mandare qualcuno al telefono per sistemare...» «È già per la strada. Ma abbiamo bisogno di più uomini, appostati lungo tutto il Boardwalk, perché farà una scena da Hollywood.» «Che cosa vuol dire?» «Lo sai. Come nei film. L'hai visto di certo... quando il rapitore continua a far correre una persona da un telefono all'altro. È stato fatto vedere tante volte che i rapitori veri sono arrivati a pensare che quello sia il modo in cui va fatto.» «Questo è il mio primo sequestro di persona», osservò Decker. «Dovrò crederti sulla parola.» «In realtà è abbastanza efficace, specialmente se anche chi chiama continua a cambiare apparecchio.» «Quindi suppongo che l'ultimo posto in cui dobbiamo concentrare le truppe siano proprio i telefoni.» «Hai capito bene. Ci puoi scommettere che VanDuyne verrà mandato da qualche altra parte. Ah, dalla telefonata abbiamo ricevuto un regalo: la donna si chiama Poppy.» «Poppy... potrebbe davvero essere il suo nome, o potrebbe semplicemente essere una tossica.» «Lo so. Ma stiamo controllando a New York, dove abitava DiCastro. Forse avremo un colpo di fortuna.» «Bene. Per quanto riguarda gli uomini, vediamo quanti ne puoi prendere dal Bureau; io chiamerò Keane per sentire quanti ne può fornire la DEA. Credo che dovrebbero avere un discreto numero di agenti, qui ad Atlantic City, la città dei divertimenti.» Decker riagganciò e si rilassò. A quanto pareva le cose si stavano mettendo bene. Forse potevano concludere l'operazione prima delle quattro. 7
Che posto schifoso, pensò Snake, vicino a un telefono a gettone all'incrocio di New York Avenue con l'Atlantic, in attesa che Salinas richiamasse. Non somigliava affatto all'Atlantic City che aveva visto in televisione, ma al Bronx. Non era nemmeno molto contento di trovarsi fuori della Jeep, ma l'impiego del telefono dell'auto era proibito. Si sentiva di merda. L'emicrania non voleva abbandonarlo. Avrebbe voluto battere la testa contro il marciapiede: in un certo senso, poteva essere meglio di quel dolore acuto e incessante. E guidare era stato un puro e semplice inferno. Con un occhio solo gli mancava la profondità di percezione e aveva corso il rischio di andare a sbattere almeno una mezza dozzina di volte. Il sole era tremendamente caldo e lui sudava e sentiva prurito, sotto le bende; era tanto vivido che gli faceva dolere l'occhio distrutto anche attraverso le lenti scure e la benda. Era intontito, nauseato, sofferente... e dentro quella maledetta felpa stava soffocando. Avrebbe voluto ammazzare qualcuno. Un nero magrissimo gli si avvicinò, attraversando un appezzamento di terreno vuoto, e gli porse un volantino. Il suo primo istinto fu quello di allontanarlo con un cenno (non era certo interessato alla pubblicità di uno spettacolo di spogliarello o di un'agenzia di accompagnatrici) ma decise di prendere il foglio piuttosto di correre il rischio di avere qualche tossico lì vicino mentre parlava con Salinas. Ma anche dopo che ebbe preso il foglio quel tizio rimase lì a fissargli il viso, la fasciatura. «Che cosa guardi?» sbottò Snake. «Niente.» Il tipo si allontanò. «Proprio niente.» Snake appallottolò il volantino. Stava per buttarlo nel canale di scolo quando scorse la parola RICOMPENSA. Lo spiegò di nuovo e lesse dei mille dollari offerti per informazioni su due fuggitive, una diciottenne e la sua sorellina. La descrizione corrispondeva perfettamente a quella che Snake aveva fornito a Salinas quella mattina, prima di partire da Washington. Poppy non aveva diciott'anni, ma il resto corrispondeva. Tutti coloro che l'avessero vista con quella ragazzina non si sarebbero lasciati scoraggiare dal fatto che non aveva esattamente l'aspetto di un'adolescente. Avrebbero tirato fuori una moneta per chiamare il numero indicato in fondo al foglio. Solo mille dollari? Salinas sarebbe stato disposto a pagare un milione,
per mettere le mani su Poppy e sulla bambina. Poi Snake si rese conto che il Grassone non poteva far sapere quanto fossero importanti. Era la cifra giusta per un paio di ragazze scappate da casa, e a qualcuno sarebbe servita per comprarsi un bel po' di crack. Si chiese quanti volantini fossero in circolazione. Era probabile che ogni tossico e ogni spacciatore di Atlantic City ne avesse uno. Ce ne dovevano essere migliaia, in città, e tutti rappresentavano un profitto giornaliero, per i trafficanti. Tutti quei soldi... milioni e miliardi di dollari che affluivano da ogni parte. Non c'era da stupirsi se Salinas e i suoi capi volevano eliminare chi desiderava legalizzare il loro traffico. Il telefono squillò. Era Salinas che si mise a parlare come una mitragliatrice. «Il dottore aspetterà una chiamata davanti al Boardwalk Rogers. Sta' certo che la consegna non avverrà in quel posto. Il suo telefono non è sicuro. Ti chiameremo subito, dopo che verrà contattato, quindi tieni il cellulare a portata di mano. Sii prudente. In giro ci sono moltissimi federali.» E tutto finì lì. La comunicazione si interruppe. Salinas doveva essere proprio disperato se gli diceva che lo avrebbe contattato tramite il cellulare. Ma Snake conosceva dei trucchi per eliminare la vulnerabilità di quegli apparecchi. Il più ovvio era chiamare qualcuno che si trovava a un telefono a gettoni e fargli fare una chiamata veloce ed enigmatica al cellulare. Comunque, Snake non avrebbe perso tempo a preoccuparsi. Salinas era in gamba. Era bravo, quando si trattava della sicurezza delle comunicazioni telefoniche. Quello che Snake voleva sapere era che cosa avrebbe dovuto fare con le informazioni che gli aveva passato Salinas, specie con la città che pullulava di federali. Se avesse avuto bisogno di un po' di assistenza? Che cosa avrebbe dovuto fare, reclutare un gruppo di tossici? Certo. In quel momento la cosa migliore che potesse fare era girare nella zona dei casinò e sperare nella fortuna. O che la fortuna abbandonasse Poppy. 8 «Posso esserle utile?» Per poco Poppy non urlò per lo spavento. Si girò di scatto verso la commessa e rispose: «N-no, stavamo solo guardando. Gr-grazie».
Cristo, pensò, tremando dentro mentre la ragazza sorrideva a Katie. Sobbalzo proprio per la minima cosa. Poppy e Katie avevano passato gli ultimi dieci minuti nella parte posteriore del Peanut World, il più grande negozio del Boardwalk di articoli da regalo e dolciumi. Prima aveva guardato magliette, felpe, berretti, portacenere, ditali, ogni cianfrusaglia possibile e immaginabile, tutte con la scritta «Atlantic City»; poi avevano ammirato elefanti, alligatori, gatti, cani e altri animali fatti di conchiglie; quindi si erano spostate al banco dei dolciumi e avevano contemplato le caramelle fondenti al cioccolato, quelle morbide e le gelatine di frutta, fingendo di decidere che cosa acquistare. Almeno Poppy fingeva. Ma non erano lì per comprare dolci. L'attrazione vera era costituita dalla vista dei telefoni sul Boardwalk, a meno di cinquanta metri a sud dell'entrata. «È dura scegliere, eh?» disse a Katie la commessa, poi guardò Poppy. «Crede che al suo ragazzino piacerebbe assaggiare un campione?» Lei represse un sorriso: sembrava davvero un bambino dai capelli rosso tiziano. Ma Katie si accigliò e si mise le mani sui fianchi. «Non sono...» Poppy la interruppe velocemente. «Certo che gli piacerebbe.» Mentre la commessa si voltava per prendere qualche dolce dai contenitori diede di gomito a Katie e sussurrò: «Facciamo finta, ricordi?» «Tieni, ragazzino, senti che buoni.» Poi si allontanò. Poppy si guardò intorno nel negozio affollato. Grazie a Dio era una giornata calda e soleggiata. Il Boardwalk era pieno di gente uscita per godere della giornata quasi estiva: dopotutto la primavera era vicina ed erano rimasti rintanati tutto l'inverno. Solo che parevano tutti centenari, cosa che sottolineava la presenza di Poppy e Katie più di quanto alla ragazza piacesse. Quando aveva spinto dentro in fretta Katie non aveva nemmeno osato lanciare un'occhiata ai telefoni, ma in quel momento sentì che poteva rischiare una sbirciata. Mentre la bambina scartava un bastoncino alla fragola e cominciava a masticarlo, Poppy si portò nella parte anteriore del negozio; mischiandosi a un gruppo di gente in fila per acquistare biglietti della lotteria, guardò a sud lungo il Boardwalk. Dal cielo verde azzurro la luce si rifletteva sull'oceano di un blu più intenso. La sabbia bianca, disseminata di alghe, era sparsa lungo il Boardwalk, dove due persone sostavano presso la fila dei quattro telefoni: una donna accanto a quello di mezzo, un uomo alto, dai capelli scuri, in piedi accanto all'apparecchio di sinistra. Quello di Katie. E lui assomigliava un
poco alla figlia. No... le assomigliava moltissimo. Allora Poppy se ne rese conto. La perderò. All'improvviso le si serrò la gola. Si voltò a guardare la bambina, che sgranocchiava allegramente un bastoncino cominciando a scartarne un altro. Lei guardò Poppy e la salutò agitando un braccio, sorridendo con un enorme pezzo di dolce che le gonfiava la guancia. Poppy sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. Erano passati solo cinque giorni da quando aveva posato gli occhi su quella bambina e in quel momento non sapeva come avrebbe potuto vivere senza lei. Non posso lasciarla andare via. Sapeva di doverlo fare, una bambina doveva stare con il proprio papà. Eppure... Le si avvicinò di corsa e la prese in braccio, stringendola forte. «Ti voglio bene, Katie.» Lei le mise le braccia intorno al collo. «Anch'io ti voglio bene, Poppy. Non puoi venire a stare con me?» «Oh, mi piacerebbe moltissimo, tesoro, ma adesso non posso. Devo andare in certi posti.» «E quando torni?» «Certo. Se il tuo papà è d'accordo.» «Glielo chiederò, va bene?» «Va bene.» Come posso riuscire a fare una cosa simile, Cristo? Come posso lasciarti andare? Mentre Poppy chiudeva gli occhi e cercava di ricacciare indietro le lacrime, sentì Katie che si irrigidiva e sussurrava: «La mamma». «Vorrei esserlo, tesoro, ma tu hai...» «No. Quella è la mia mamma.» Poppy si immobilizzò. Che diavolo stava facendo in quel posto, la madre di Katie? Proprio in quel negozio? L'aveva riconosciuta nonostante il colore dei capelli e gli abiti da ragazzo, ed era entrata? Poppy non riusciva a capire come qualcuno avesse potuto individuare Katie a meno che non fosse stata vicinissima; ma forse le madri hanno una specie di istinto che permette loro di riconoscere i propri figli. Va bene, si disse. Resta calma. Tenendo ancora Katie contro il cuore che le batteva forte, fece mezzo giro su se stessa, lentamente e con la massima disinvoltura.
Il negozio era pieno di donne. Nessuna di loro, a quanto pareva, stava guardando lei o Katie. «Non segnarla con il dito», sussurrò Poppy. «Dimmi solo dov'è.» «Vicino all'entrata», le disse Katie, accostandole la bocca all'orecchio. «Con quel grande cappello.» Poppy la vide: grandi occhiali scuri, largo cappello di paglia, come si possono comprare dappertutto lungo il Boardwalk, portato sopra una sciarpa di seta avvolta intorno alla testa. Era allergica al sole, o pensava che fosse un travestimento. E non sapeva nemmeno che in quel momento erano proprio dietro di lei. Era troppo indaffarata a guardare fuori della porta l'uomo che doveva essere il padre di Katie. Ecco come stavano le cose: il papà doveva avere detto alla mamma che la figlia sarebbe stata restituita quel giorno e la povera donna non era riuscita a starsene lontana. Di nuovo quel groppo in gola. Doveva assolutamente restituire Katie ai suoi. Era la cosa giusta da fare. E all'improvviso Poppy si rese conto che le veniva offerta un'occasione d'oro per farlo. Aveva pensato di chiamare il telefono dove stava aspettando il papà di Katie e di dirgli che l'avrebbe trovata nel negozio di dolciumi alla sua sinistra. In precedenza, con una delle carte di credito di Snake, aveva noleggiato un cellulare solo per quella telefonata. Era stata molto chiara con il papà di Katie: nessuno doveva essere coinvolto in quella faccenda. Ma non poteva prevedere una cosa simile. Se l'aveva detto alla madre avrebbe potuto dirlo anche ai federali. Quindi doveva supporre che fossero in molti ad aspettare il momento dello scambio. Forse tutti si attendevano che lei agisse come le rapitrici dei film, che telefonavano alle persone e le mandavano a un altro apparecchio per la seconda chiamata, poi a un altro ancora e così via. Ma se invece lei avesse detto al padre di Katie sin dalla prima telefonata dove poteva trovarla? Chi si sarebbe aspettata una cosa simile? Bene, forse era un piano degno degli Appleton, ma era il migliore che fosse riuscita a escogitare. E, Appleton o meno, pareva giusto. Avrebbe lasciato lì Katie a masticare rumorosamente i bastoncini, sarebbe uscita dal negozio, avrebbe percorso il marciapiede, sarebbe salita sul furgoncino e avrebbe chiamato il suo papà con il cellulare mentre si allontanava. Non le piaceva lasciare la bimba da sola, ma si sarebbe trattato di pochi minuti poi sarebbe arrivato lui, forse con miliardi di piedipiatti e di federali che scia-
mavano nel negozio seguendolo. Avrebbe buttato via il cellulare e avrebbe continuato a guidare... e a piangere per tutta la strada fino a casa. Per tutta la strada fino a casa... Da dov'era venuta, quella frase? Non aveva più una casa. E a Sooy's Boot non c'era nessuno che volesse rivederla. A casa... Sooy's Boot non era poi tanto lontana. Era quella la ragione per cui aveva scelto Atlantic City? Per avere la possibilità di correre a casa subito dopo? Si scrollò di dosso quelle domande. Se ne sarebbe preoccupata in seguito. Per prima cosa doveva restituire Katie ai suoi. «Senti, tesoro», sussurrò. «Ti lascio andare da tua madre...» «No!» Katie le strinse più forte le braccia al collo. «Non voglio!» «Devi andarci, tesoro», insistette Poppy, profondamente commossa che la bambina volesse restare con lei. «Devi tornare a casa. La mamma ti riporterà dal papà.» Katie si drizzò e si guardò intorno. «Papà? Papà è qui?» Poppy si meravigliò per il cambiamento della bambina quando aveva parlato del padre. Decisamente era la cocca di papà. Come lo sono stata io... una volta. «Non proprio qui. Ma è vicino. Va' dalla mamma e presto raggiungerai anche papà. Va bene?» «Va bene.» Poppy la mise giù e le riassettò la maglietta dei Jets. Si morse il labbro per evitare di piangere. Devo andarmene via di qui prima di cominciare a frignare. «Adesso devi fare la brava», la esortò accovacciandosi davanti a lei e lisciandole i capelli cortissimi. «Buona fortuna, sii felice e pensa a me, qualche volta. Va bene?» «Va bene.» Poppy la strinse di nuovo forte fra le braccia. Non avrebbe mai voluto lasciarla andare ma sapeva che se non fosse uscita subito da quel negozio sarebbe scoppiata. «Ti voglio bene, ragazzina.» «Anch'io, Poppy.» Si costrinse a lasciare Katie. «Perché piangi?» «Perché sentirò la tua mancanza.» Si asciugò gli occhi sulla manica di flanella. «Ecco che cosa farai. Aspetterai un istante o due mentre io esco di
qui, poi andrai da tua madre e le dirai: 'Ciao, mamma'. Sei capace?» Katie annuì, con gli occhi azzurri che si spostavano avanti e indietro fra la madre e Poppy. «Ma tu dove andrai?» «Fuori.» Non era una bugia. Sarebbe andata davvero fuori, molto lontano, e più lontano ogni secondo che passava. «Capito? Aspetta finché non sono fuori, poi vai da lei.» «Va bene.» Poppy si rialzò e diede un ultimo sguardo a quel visetto. Le toccò le guance, poi in qualche modo trovò la forza di voltarsi, di passare in fretta davanti alla madre di Katie, che fissava ancora i telefoni all'esterno, e di uscire incespicando alla luce del sole pomeridiano. Sentendosi come se si fosse strappata il cuore e l'avesse lasciato là insieme ai souvenir, voltò a destra e tenne la testa bassa mentre a forza muoveva un piede dopo l'altro per allontanarsi dal Boardwalk. Riuscì a scendere la rampa che portava alla strada, ma la tensione che le si era accumulata dentro non le permise di procedere oltre. Si nascose incespicando nell'oscurità di una banchina di carico, si accasciò contro un muro e cominciò a singhiozzare in maniera incontrollabile. 9 «Ciao, mamma.» Marnie face un sobbalzo e si voltò. Un ragazzino, un monello con i capelli arancione, le tirava la sottana e la guardava. Lei gli allontanò la mano con un gesto. «Va' via», disse. «Non sono tua...» Ma quegli occhi... quegli occhi azzurrissimi... Guardò meglio. «Oh... mio Dio...» Era Katie! Sentendosi all'improvviso debole, cadde su un ginocchio e l'afferrò per le spalle. «Che cosa ti ha fatto? I tuoi capelli! I tuoi indumenti!» «Poppy...» «Così si fa chiamare adesso? Poppy? Che cos'altro ti fa fare?» Abbracciò Katie, ma la bambina non ricambiò. Rimase rigida, di legno, come se avesse paura: tutta opera di John, senza dubbio. Era una prova lampante di come le avesse riempito la testa di orribili menzogne nei suoi confronti. All'improvviso Marnie fu travolta dalla rabbia. John era tanto esperto a stravolgere la verità. E adesso stava trasformando Katie, non solo nell'ani-
ma ma anche nel corpo. Bastava guardarla. Come aveva potuto conciare così la propria figlia? Che perversione era mai quella? Schiarirle i capelli e vestirla da ragazzino? C'era qualcosa di malato, in cose simili, di molto malato. Un genere di malattia che i giudici dovevano conoscere, dovevano vedere con i propri occhi... «Ti porto a casa, Katie», le disse. La bambina si rilassò. «Bene! Voglio vedere papà!» Poppy... Papà... quella povera bambina non sapeva neppure come chiamare il padre. Marnie guardò nel Boardwalk. John era ancora accanto ai telefoni. Quella carogna senza scrupoli! Lasciare da sola la povera Katie mentre aspettava una telefonata. Ma di chi? Di qualche bambola? O peggio... di qualcuno a cui piacevano le femminucce vestite da maschietti? Le si rivoltò lo stomaco. Il mondo era malato, e le ragazzine come Katie avevano bisogno di essere protette dagli sfruttatori, specie se chi le sfruttava era il padre. John fissava l'oceano. Le sembrò il momento migliore per muoversi. Marnie prese in braccio Katie e la fece uscire dal negozio, tenendo il viso della figlia e il suo voltati nella direzione opposta. Una quindicina di secondi dopo si trovavano in strada, fuori dalla vista da chi si trovasse sul Boardwalk. Marnie tirò un sospiro di sollievo e depose Katie al suolo. La prese per mano stringendola forte e la condusse verso il garage del Bally's. «Dove andiamo?» chiese lei. «A prendere la macchina.» «E poi andiamo da papà?» «No. Poi andiamo all'aeroporto. Torniamo a casa.» Ci sono un avvocato e un giudice a cui interessa molto vederti come sei. E allora cambieranno l'ottima opinione che hanno del dottor John VanDuyne. Katie si liberò con uno strattone. «No! Voglio andare da papà, voglio vederlo!» «Lo vedrai, te lo prometto.» Quando dovrà comparire in tribunale. «Voglio andare da lui subito!» Marnie afferrò l'avambraccio di Katie e la tirò verso la vetrata che circoscriveva nel garage la zona dell'ascensore.
«Niente discussioni. Andiamo.» «No!» Marnie sentì crescere la propria ira. Con la coda dell'occhio notò la gente sul marciapiede vicino a loro. Non voleva provocare una scenata. Mentre trascinava Katie alzò la voce, ma la conservò nauseantemente dolce per coloro che si trovassero a portata d'orecchio. «Andiamo, bambina», le disse. «In ascensore potrai premere il pulsante. Il numero tre. Conosci il numero tre, vero?» Un ascensore era aperto e Marnie spinse dentro la figlia. «No!» urlò Katie. «Non voglio stare con te! Voglio stare con papà!» Quello fu il colmo. Prima di rendersi conto di ciò che faceva, Marnie premette il pulsante numero tre, poi allungò a Katie un meritato schiaffone. Mentre gli sportelli si chiudevano, il rumore produsse un'aspra eco nella minuscola cabina. «Adesso basta», le disse. Guardò Katie che si copriva il viso con la mano libera e singhiozzava piano. «Una cosa che imparerai, e bene, è fare ciò che ti si dice ed essere educata.» La cabina si fermò al terzo piano, lo sportello si aprì e Marnie uscì, tirandosi dietro Katie che singhiozzava ancora. Un'altra vetrata. Entrò nel parcheggio e si guardò intorno. Dove aveva lasciato l'auto? All'improvviso udì un rumore a sinistra e la porta delle scale si spalancò: una giovane donna con un paio di jeans e una camicia scozzese le si avvicinò a grandi passi, respirando pesantemente come se avesse corso. Aveva capelli corti, nerissimi, e gli occhi arrossati. Sembrava che avesse pianto. Quegli occhi lampeggiarono, quando vide Katie. Parlò mentre camminava, con i denti scoperti in un ringhio. «Brutta puttana!» Poi Marnie provò un violento dolore al viso, quando la donna le rifilò un pugno sul naso. 10 La cara mammina arretrò traballando mentre il naso cominciava a sanguinare. Lasciò andare Katie e si portò le mani al viso. Si mise a gridare e quindi Poppy la colpì di nuovo, dritto allo stomaco. Lei grugnì, si piegò in due e si allontanò barcollando, come se fosse sul punto di scappare di corsa. Poppy fece per inseguirla, con i pugni alzati, ansiosa di colpirla ancora.
Era rimasta rannicchiata nella zona di carico a piangere e a commiserarsi, e di là aveva scorto la madre che trascinava Katie per la strada, verso il garage del Bally's. Aveva capito immediatamente che qualcosa non andava. Perché non aveva portato Katie dal suo papà? Le aveva seguite nel garage e aveva visto, proprio mentre si chiudevano gli sportelli dell'ascensore, che la donna schiaffeggiava la bambina. Allora era corsa su per le scale con la voglia di uccidere, era arrivata al terzo livello e aveva visto Katie con le lacrime sul viso e un grande segno rosso sulla guancia. Poppy si era sentita scattare qualcosa dentro, e, Cristo, era stata una sensazione magnifica schiacciare il naso di quella strega. Avrebbe desiderato continuare a picchiarla, farle sentire che cosa si provava. Quella strega cercò di mettersi a correre. Ancora piegata in due, si allontanò barcollando, ma non arrivò lontano. Colpì con la testa un grosso sostegno di cemento armato. Poppy udì il rumore e poi la vide abbattersi al suolo come un sacco vuoto. Rimase in piedi sopra di lei, aspettando che si rialzasse, ma lei non si mosse più. E all'improvviso la furia sparì com'era venuta. Poppy si voltò e corse da Katie. La prese in braccio e la portò verso le scale. «Vieni, tesoro. Ce ne andiamo via di qui.» Aveva parcheggiato il furgoncino dall'altra parte della strada, in uno spazio riservato a una chiesa. Dappertutto c'erano cartelli che vietavano la sosta, ma sul cruscotto aveva lasciato un appunto che parlava di noie al motore e avvisava che era andata a chiamare un meccanico. «Per favore, per favore, per favore, non trainatemi via!» Era rischioso, certo, ma non voleva restare intrappolata in uno di quei garage a più livelli, se avesse dovuto andarsene in fretta. Come in quel momento. Poppy depose Katie nel sedile di fianco al suo e le fissò la cintura di sicurezza, poi si immise in Pacific Avenue. Non sapeva ancora dove andare: superò veloce il centro medico e si diresse verso Atlantic Avenue. Era vietato svoltare a destra con il rosso, ma lei girò ugualmente, tanto per continuare a muoversi. Mentre frenava perché sulla Kentucky un semaforo era rosso, si rivolse a Katie, che stava ancora singhiozzando piano. «Sei arrabbiata con me perché ho picchiato tua madre?» Katie tirò su con il naso. «No, Sono contenta. Mi ha fatto male», rispose tenendosi la guancia arrossata. «Mi fa sempre del male.»
«Ah sì? Be', non te ne farà mai più.» «È quello che aveva detto anche papà, ma me l'ha fatto lo stesso.» Il tuo papà non è molto bravo a mantenere le promesse, vero? pensò Poppy. Se lo fosse stato, questo non sarebbe mai accaduto. Ma in un certo senso era contenta che le cose non fossero filate lisce. Era un segno. Poppy non credeva molto né ai segni né a tutte quelle ridicole cerimonie religiose; ma Cristo, se qualcosa poteva essere interpretata come un'indicazione che Katie stava meglio con lei che con i suoi, quella scena nel garage lo era sul serio. Un segno assolutamente chiaro. E per me va benissimo, pensò, guardandola. Ti terrò con me finché vivrò. Ti alleverò come avrei fatto con Glory. Non passerai un momento da sola e non dovrai mai preoccuparti che ti facciano del male. Cristo, che cos'avevano, tutti quanti? I bambini avrebbero dovuto essere preziosi. Erano indifesi. Dipendevano dagli adulti in tutto, per così dire... per il cibo, per gli abiti, per un tetto sopra la testa. E per la sicurezza. Gli adulti dovevano proteggere i piccoli finché non fossero stati in grado di farlo da soli. Così doveva essere. Che razza di mondo era quello in cui una bambina aveva paura delle persone che avrebbero dovuto proteggerla? Si piegò e baciò Katie sulle guance con molta delicatezza. «Ecco. Così ti senti meglio?» Katie smise di singhiozzare, ma sembrava pronta a ricominciare a piangere da un momento all'altro. «Non sembri ancora molto contenta. Che cosa ne diresti se ci fermassimo a mangiare al primo McDonald's che incontriamo?» Lei annuì e... finalmente sorrise. «E credo che ti farebbe bene anche un forte abbraccio, Katie. Che te ne pare?» Un altro cenno di assenso. Poppy le sganciò la cintura di sicurezza e la prese tra le braccia. «Nessuno ti farà più del male, Katie. Te lo assicuro. D'ora in poi avrai una casa sicura e felice. Come la mia.» La verità di quelle parole la colpì come un pugno. Quand'era piccola aveva avuto davvero una casa felice. Qualche volta le cose non andavano troppo bene dal punto di vista finanziario, ma lei si era sempre sentita al sicuro e desiderata. E per il fatto che il papà aveva tanti fratelli, c'erano sempre stati molti parenti, intorno a loro. Ed erano ancora là, abitavano ancora a Sooy's Boot. Forse l'avrebbero ripresa con loro. Forse se si fosse fatta vedere con Katie e avesse detto: «Questa è mia figlia... questa è la nipotina di vostro fratello Jake...» forse
avrebbero messo una pietra sopra al passato e l'avrebbero accolta. Sì. Tornare nella zona delle pinete. Nessuno avrebbe pensato di cercarla là. E anche se l'avessero cercata non l'avrebbero mai trovata. «Katie», le disse, «ti piacerebbe vedere il posto dove sono nata? Vuoi conoscere i miei zii e le mie zie? So che a loro piacerebbe conoscere te. Vuoi? Possiamo...» L'auto dietro di loro suonò il clacson. Poppy alzò gli occhi e vide che il semaforo era diventato verde. In fretta riagganciò la cintura di sicurezza di Katie e riprese a muoversi. «Sì», fece Poppy eccitandosi sempre di più. «Faremo proprio così.» Andiamo a casa. 11 Snake stava percorrendo lentamente Atlantic Avenue, soprattutto perché era grande e larga e sembrava la strada principale della città. Tutto il pomeriggio era andato su e giù per le strade secondarie, in cerca di un furgoncino bianco, in cerca di una donna con una bambina. Ne aveva viste moltissime, ma nessuna donna aveva i capelli color rosso vino e nessuna bambina assomigliava al pacco. Aveva la radio della Jeep sintonizzata su una stazione locale e ascoltava le notizie di Atlantic City. Non sapeva con certezza che cosa si aspettava di sentire, ma voleva sentire se succedesse qualcosa. Invece sentì il reverendo Whitcomb. ...come possiamo essere sicuri che il presidente Winston sia ricoverato per un controllo? Come possiamo essere sicuri che non l'abbia fatto invece per liberarsi di un'assuefazione alla droga? Forse quella è proprio la ragione per cui è tanto deciso a legalizzare quei veleni! Infuriato, Snake gli tolse la parola spegnendo la radio. Imbecille! Non sono state le droghe a mandare all'ospedale Winston! È stato Snake! Non c'è andato per disintossicarsi, ma per causa mia! Stava attraversando la Kentucky e guardò a sinistra quando udì un clacson. Un furgoncino rosso tardava a ripartire con il semaforo verde. Il modello che cercava... peccato che non fosse bianco. Rallentò. Verniciato in modo schifoso... come se fosse stato un lavoro fatto a spruzzo. Guardò il conducente. Una brunetta punk che abbracciava
un ragazzino con capelli biondastri. Niente di simile a... Poi la brunetta si voltò per controllare lo specchietto laterale e lui la vide meglio in faccia: Poppy! Snake fece un'inversione a U che provocò un paio di arrabbiati colpi di clacson (che andassero affanculo) e attraversò la Kentucky proprio mentre il semaforo cambiava. Cominciò con lo stare a tre auto di distanza dal furgoncino, poi a due. Accarezzò la rivoltella che aveva nella tasca della felpa. Non c'era cosa che desiderasse più di accostarsi al veicolo e trasformarne la cabina in un colabrodo con tutti i sei colpi che aveva nel tamburo. E se non fosse stato per quella maledetta cassetta avrebbe fatto proprio così: se la sarebbe goduta un mondo. Ma doveva rimandare quel piacere. E forse era meglio. Pregustare il momento, poi bloccarla in un punto in cui avrebbe potuto guardarla negli occhi. Strapparsi le bende e farle vedere le proprie ferite. Vedi come mi hai conciato, puttana? Pensavi di avermi ammazzato, eh? Ma Snake è duro a morire. Snake è risorto. Tu non ci riuscirai. Poi sarebbe stato a osservare la sua testa che esplodeva in mille pezzi. Oh, sì. Sarebbe stato bello. Molto bello. Ma prima doveva riprendere quella cassetta. Concentrò l'attenzione sul furgoncino, sempre mantenendo due auto di distanza. L'aveva a portata di mano; doveva solo pazientare e attendere il momento giusto per compiere la propria mossa. Notò che la targa del Maryland era stata sostituita con una del New Jersey e sorrise. Una trasformazione completa, eh, Poppy? Vernice nuova, targhe nuove, capelli nuovi per te e per la bambina. Credi di avere ingannato tutti, eh? E forse è così. Tutti fuorché me. 12 «È per te.» Bob Decker attraversò la roulotte in cui aveva costituito il centro di coordinamento, in un lotto di terreno vuoto dalle parti di Indiana Avenue. Era Canney. «L'abbiamo trovata.» Il cuore gli balzò in petto. Grazie a Dio! «Katie?» «Ah, no», rispose Canney. «Mi dispiace. Penso che avrei dovuto dirlo in
un altro modo. Intendevo la donna, Sappiamo chi è.» «Ah.» Bob cercò di nascondere il proprio disappunto. Per un attimo aveva creduto che fosse tutto finito. «Chi è?» «Poppy Mulliner. Circa tre anni fa è stata arrestata due volte, a New York. Una per taccheggio, l'altra per adescamento. In entrambi i casi, condannata con la condizionale. Da allora è rimasta pulita, in pratica.» «Certo. Sì è data ai sequestri di persona.» Bob aveva ascoltato all'infinito le registrazioni delle telefonate di Poppy Mulliner a VanDuyne e aveva trovato difficile conciliare l'affetto che sentiva nella sua voce con la capacità di capire i bambini. «Ho mandato la sua foto per fax, e la passiamo a tutti quelli che abbiamo sparpagliato in giro. A meno che non abbia cambiato stile, non credo che dovrebbe essere difficile identificarla. È una vera bellezza, anche se un po' strana, come aspetto.» «Magnifico. Mandamene una qui. Qualcos'altro?» «Cerchiamo di saperne di più. Una cosa che posso dire di lei è che non è molto brava a mantenere gli appuntamenti.» Bob guardò l'orologio. «Sì, lo so. Sono le tre e dieci e non ha ancora telefonato.» «Non credi che stia solo facendo false promesse a quel povero disgraziato?» Povero disgraziato è l'espressione giusta, pensò Bob. VanDuyne deve passare le pene dell'inferno, là sul Boardwalk. Immaginò se stesso lassù, attaccato al telefono e alla speranza che squillasse... Era contento di essere entrato nei Servizi segreti e non nell'FBI. Non era tagliato, per i sequestri di persona. Si lasciava coinvolgere dal punto di vista emotivo. «In un certo senso, non credo che sia così», disse a Canney. «L'hai sentita, nelle registrazioni. Ha rubato in un drugstore per fare in modo che Katie non restasse senza medicina. Una che si preoccupa tanto per quella ragazzina non è capace di torturare il padre.» «Forse si preoccupa troppo.» Bob non aveva considerato quell'aspetto. «Vuoi dire che non riesce a lasciarla andare?» «Non sarebbe la prima volta.» «O forse ci ha individuati. Non posso soffrire l'idea che oggi siamo proprio noi a impedire a quell'uomo di riavere la figlia.»
«Siamo nascosti abbastanza bene. Quelli della DEA sono piuttosto bravi a mescolarsi con la gente.» «Speriamolo.» Un'altra occhiata all'orologio: le tre e dodici. Su, signora. Telefona. Togli dai guai quel povero disgraziato. 13 Snake seguì il furgoncino quando voltò a sinistra sulla Delaware e prese la White Horse Pike. Esce di città, pensò. Perfetto. Meno gente c'era più facile sarebbe stato. Le restò attaccato fino a quando lei non entrò in un McDonald's, in una città chiamata Absecon. Si fermò lungo il bordo della strada, dall'altra parte, e la osservò mentre si metteva in fila per andare a mangiare. E adesso che cosa faccio? La sua testa dolorante formicolava di domande e di possibilità. Dov'era diretta? A un motel? La cassetta poteva trovarsi sul furgoncino o dove aveva preso alloggio. Se aveva una stanza da qualche parte, la cosa migliore da fare era seguirla fin là e sistemare tutto subito. Ma se fosse tornata a Washington? Se avesse preso la 95 senza più fermarsi forse non avrebbe avuto un'altra occasione. Quella poteva essere la migliore opportunità di recuperare la cassetta. Ma come fare? Poi Snake si rese conto che poteva usare a proprio vantaggio il rapporto materno che a quanto pareva Poppy aveva instaurato con il pacco proprio ciò che aveva fatto fallire tutta l'operazione. Vide un'auto fermarsi dietro il furgoncino. Con un altro veicolo davanti, questo era bloccato nella corsia per il ristorante. Adesso o mai più. Snake estrasse la rivoltella dal marsupio della tuta, accelerò, piegò bruscamente dentro il McDonald's e si fermò di colpo aprendo nello stesso tempo la portiera. Scese d'un balzo, spalancò lo sportello anteriore destro del furgoncino e afferrò la bambina. Con un unico movimento le mise una mano sulla bocca e le premette la canna dell'arma contro la testa. Poi guardò Poppy, che si era immobilizzata al volante, con gli occhi sgranati, la bocca spalancata. Sembrava una deficiente. Quel modesto esercizio fisico gli aveva provocato un forte ronzio al capo, ma si costrinse a fare un largo sorriso.
«Sorpresa, puttana! Sono ancora in circolazione!» Poppy mosse le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Allungò le braccia verso la bambina, ma Snake la spinse indietro. «Non ci pensare nemmeno. Dammi la cassetta.» «La cassetta?» «Non fare la furba con me! Le faccio saltare la testa in un secondo. E tu lo sai.» «No-non ce l'ho!» Non mentiva. Snake le vedeva il terrore negli occhi. Era paralizzata dalla paura che facesse del male alla marmocchia. «Dove cazzo è?» «L'ho lasciata...» Gli occhi persero la concentrazione, come se cercasse di ricordare. «Hai una stanza da qualche parte? L'hai lasciata in un motel, cazzo?» Come poteva essere cosi maledettamente stupida? Poi si rese conto che con ogni probabilità non aveva la più pallida idea di ciò che conteneva. Il camioncino non era dotato di registratore. Dove avrebbe potuto ascoltarla? «Sì», disse lei in un roco sussurro. «L'ho lasciata...» «Allora dobbiamo andarla a prendere!» fece Snake. Si mise in tasca la rivoltella ma continuò a tenere la bambina per la gola. «Tu facci strada. Io e la bambina ti seguiremo.» «No!» esclamò lei allungandosi verso Katie. «Per favore!» Snake fece scendere la bambina con uno strattone e la trascinò verso la Jeep. Non riusciva a vedere granché, con un occhio solo, ma si guardò intorno per controllare se qualcuno li avesse notati. Era probabile che sembrasse una lite in famiglia. Una cosa era certa: Poppy non avrebbe chiamato la polizia. Lo sportello della Jeep era aperto e il motore ancora acceso. Mentre sollevava la bambina per spingerla dentro, all'improvviso qualcosa di pesante gli si abbatté sulla schiena. Un urlo acuto gli riempì le orecchie e da dietro delle dita si sporsero a graffiargli gli occhi, quello sano e quello malato, tirandogli la fasciatura. Doveva essere Poppy, poteva solo essere lei, ma gli sembrò di essere assalito da un animale selvatico. L'orbita dell'occhio destro gli procurò fitte terribili; lui urlò e lasciò andare la bambina. Improvvisamente la cosa più importante dell'universo fu allontanare quelle dita dagli occhi, dalla testa. Poi qualcosa (un pugno, un
braccio, chi lo sa?) gli colpì il lato destro del viso, proprio sulla ferita suturata. Non una botta molto potente, ma avrebbe potuto benissimo essere stata sferrata con un martello da fabbro. La sofferenza lo fece cadere in ginocchio, in preda a conati di vomito, mentre tutto gli girava intorno. Fiocamente udì una bambina piangere, udì Poppy che le diceva: «Andiamo, tesoro, ti ho ripreso», poi dei passi che si allontanavano. Stava andandosene, ma a Snake risultò difficile preoccuparsene. Rimase abbrancato al selciato, perché se avesse lasciato la presa sarebbe caduto nello spazio. 14 Ansimante, tremante, impaurita più di quanto non fosse mai stata, Poppy lasciò cadere Katie sul sedile a destra, sbatté lo sportello e fece il giro del veicolo per sedersi al volante. Mise in moto, sterzò tutto a destra, saltò il cordolo della corsia e uscì sgommando. Mentre raggiungeva l'autostrada si rese conto che forse avrebbe dovuto prendersi il tempo di investire Mac e di cancellarlo per sempre dalla loro vita. Ma ormai era troppo tardi. Bisognava solo andarsene, muoversi, porre tra di loro chilometri e chilometri. Che andasse a farsi fottere la cintura di sicurezza... Mentre percorreva la 30 verso ovest strinse a sé Katie, che singhiozzava e tremava. «Ce ne andiamo via di qui, tesoro. Non ti preoccupare di quell'uomo. Andiamo in un posto sicuro. Un posto in cui nessuno potrà darci fastidio.» Cristo, che rischio avevano corso! Mac ad Atlantic City. Come aveva fatto a sapere che erano lì? Era rimasta paralizzata dalla vista di quella rivoltella puntata alla testa di Katie. Ed era quasi morta quando lui l'aveva strappata fuori del furgoncino e aveva cominciato a trascinarla via. Sapeva che se fosse riuscito a far salire la bambina sulla Jeep non l'avrebbe vista mai più. Mac voleva una cassetta! Quale cassetta? L'unica a cui riusciva a pensare era quella che aveva buttato via nel Maryland. Che cosa poteva mai contenere? Ma chi se ne frega! Il fatto era che non poteva accompagnare Mac dove l'aveva lasciata, e lui avrebbe certo fatto qualcosa di terribile, quando se ne fosse reso conto.
Era stato il momento in cui aveva smesso di pensare ed era stata travolta da un istinto cieco: era scesa con un balzo dal furgone e gli era saltata sulla schiena, emettendo suoni animaleschi mentre lo graffiava e lo picchiava con tutta la forza che aveva Non aveva ancora capito bene ciò che era accaduto, ma l'importante era aver ripreso Katie. Dopo meno di due chilometri fu colta da un tremito inarrestabile, ma non osò fermarsi. Quando le passò si sentì esausta. Aveva bisogno di piangere. Quante cose simili sarebbe ancora riuscita a sopportare? Per quanto tempo avrebbe resistito? Ma non poteva mettersi a piangere proprio in quel momento. Non davanti a Katie. La povera bimba aveva bisogno di sentirsi al sicuro, e come poteva farla sentire protetta una buona a nulla piagnucolante? Bene, pensò, ma come faccio a sentirmi sicura io? Specie dopo che Mac mi ha trovata. Non avrebbe nemmeno dovuto sapere che ero ad Atlantic City. L'avevo detto a una sola persona, al padre di Katie. Quello stupido. A chi altri l'aveva detto, oltre che a quella psicotica della madre della bambina? Che famiglia! Per fortuna Katie sarebbe rimasta con lei, da quel momento in poi. Poppy aveva proprio l'intenzione di... Abbassò gli occhi e sul sedile vide il cellulare che aveva noleggiato. Sì... perché no? Aveva il numero di quel telefono a gettoni. Se papà stava ancora aspettando, gli avrebbe detto chiaro e tondo che cosa pensava. 15 Bob Decker andava su e giù entro il ristretto spazio della roulotte di coordinamento. Le tre e quarantadue, e la donna non aveva ancora telefonato. Lui ne sarebbe uscito pazzo, ma il povero VanDuyne doveva soffrire le pene dell'inferno, laggiù sul Boardwalk. Lo sportello all'estremità opposta si aprì e Gerry Canney entrò trascinandosi dentro una chiazza di sole pomeridiano. Indossava pantaloni da ciclista e una canottiera. Con i capelli biondi e le braccia muscolose sembrava un surfer. Quasi. Avrebbe avuto bisogno di un'abbronzatura. «Sembri proprio a tuo agio.» Canney sorrise. «Sono in incognito, sai.» Agitò un foglio. «Altre informazioni su Poppy. È una ragazza del Joisey. Un'indigena.» «Anch'io vengo di là.» «Stai scherzando.»
«No. Sono nato proprio da questa parte del ponte George Washington, in un posto che si chiama Hackensack.» Canney scosse la testa. «Hackensack... Sooy's Boot. Che strani nomi avete. Com'è che non sembra affatto che tu venga dal Joisey?» Il modo in cui Canney pronunciava Jersey stava cominciando a infastidire Bob. «Perché quasi nessuno di noi dice 'Joisey', a meno che non vi si sia trasferito da Brooklyn.» «Se lo dici tu. La nostra amica Poppy invece sembra che vi si sia trasferita dal sud. Ma è nata proprio a Sooy's Boot, nel New Jersey.» «Sooy's che?» «Boot, Sooy's Boot.» «Mai sentita nominare.» «Non si trova nemmeno nelle carte geografiche che ho consultato. Ho trovato un Sooy Place, ma non è quella. Alla fine ho dovuto telefonare a Trenton. Anche loro hanno avuto delle difficoltà, poi l'hanno localizzata a nordovest da qui, La città più vicina si chiama Chatsworth.» «Anche questa non so dov'è.» «Da qualche parte a nord della Wharton State Forest. Sembra che sia tra i boschi. Proprio in mezzo ai boschi.» All'improvviso Bob ebbe un'illuminazione. «Nella zona delle pinete. Che sia dannato se non è una Piney.» «Che cosa?» «Significa che è nata nei Pine Barrens, una foresta enorme che occupa quasi tutta la parte centrale dello Stato.» «Una Piney, eh?» «Sì. Non sempre è un complimento. Qualche volta viene usato come l'equivalente di zoticone, cosa che probabilmente non è molto lontana dal vero, da quello che ho sentito. I Piney sono stati associati con matrimoni fra consanguinei, distillerie di liquore di contrabbando e...» «Ehi!» li interruppe Harris dalla postazione nell'angolo, vicino alle apparecchiature di controllo. «Il telefono ha appena squillato.» Si tolse la cuffia. «È lei!» «Mettilo sul viva voce», gli disse Canney. «E comincia con la ricerca della provenienza.» «Grazie al cielo», mormorò Bob. Ma la sua crescente sensazione di sollievo fu cancellata dalla voce irata che riempì la roulotte.
16 «Sei proprio uno stupido, lo sai?» Le parole della donna, di cui John riconobbe la voce, lo colpirono come un pugno. Cercò a fatica una risposta. «C'è... qualcosa che non va?» Era una domanda così sciocca, naturalmente c'era qualcosa che non andava. «Katie sta...» «Sì, sta bene... tranne che ha preso uno schiaffo. Non ti si può certo dire grazie, papà!» L'ultima parola fu come se la sputasse. «Uno schiaffo?» Gli si rivoltò lo stomaco. «Oh, no, non l'ha...» «Io? Pezzo di cretino! Io non le torcerei un capello! Ma tua moglie... quella è una storia del tutto diversa!» «Mia moglie? Marnie? Oh, mio Dio!» Come aveva fatto a immischiarsi in quella faccenda? Aveva preso Katie, in qualche modo? Solo a pensarci si sentì male. «Non... non è mia moglie. Siamo divorziati.» «Ma non tanto da non dirle dei nostri progetti ad Atlantic City?» «Io non le ho detto niente. Deve...» «Sì, be', ho pensato che sarebbe stato sicuro lasciare Katie con sua madre, poi ho visto che la massacrava di botte, povera bambina. Quindi gliele ho date di santa ragione. Ma la mamma è l'ultimo dei problemi, oggi. È ricomparso Mac.» «Mac?» «Il tizio che l'ha rapita. Ha cercato di riprendersela.» «No!» «Sì! Hai parlato quando non dovevi farlo. E l'hai fatto con le persone sbagliate. È come se avessi alzato un cartello con la scritta: OGGI POMERIGGIO RIPRENDERÒ KATIE AD ATLANTIC CITY. Be', lascia che ti dica una cosa: non la riavrai. Me la tengo io. Starà meglio con me che con te e quella strega che dovrebbe essere sua madre. Sono certissima che sarà più al sicuro.» A John parve che la terra gli sprofondasse sotto i piedi. «No, per favore! Lei non capisce! Ho...» «Smettila di far finta di avere il cuore infranto, papà. Hai mandato a monte tutto. Ed è solo colpa tua.» «Poppy, per favore! Ha capito male! Mi faccia parlare con Katie. Ho...» Nella comunicazione cambiò qualcosa. «Pronto? Pronto?» La linea si era interrotta. Aveva riagganciato.
John si appoggiò alla cabina, sentendosi sul punto di esplodere per il dolore. Ma a quello si stava mescolando un'altra emozione... Hai parlato quando non dovevi farlo. E l'hai fatto con le persone sbagliate... Non era vero, non l'aveva detto ad anima viva... Ma ciò non significava che nessuno stesse ascoltando. ...Hai mandato a monte tutto. Ed è tutta colpa tua... No... non era vero. La colpa era di qualcun altro. E aveva una qualche idea di chi potesse essere. Una nuova emozione, la rabbia, cominciò a farsi strada. Stringeva ancora il ricevitore con una mano sudata. Lo sollevò e parlò con i denti tanto stretti che la mascella gli fece male. «Hai sentito tutto, Decker? È tutto registrato? Allora registra anche questo: io torno nella mia stanza. Sono certo che sai dove si trova. Voglio vederti là. Altrimenti verrò a cercarti a Washington. Adesso o più tardi, in un modo o nell'altro devi spiegarmi tutto.» E riagganciò. 17 Bob Decker trasalì all'aspro clic che rimbombò nella roulotte. Harris escluse il viva voce mentre Canney si voltava verso di lui. «Ahi ahi.» «Merda», fece Bob. «Che cos'altro può andare storto? Abbiamo perso la ex di VanDuyne che in qualche modo ha trovato Poppy Mulliner mentre noi non ci siamo riusciti. Non abbiamo trovato quel Mac o Snake che sia, ma lui è riuscito a trovare Poppy. Abbiamo tanti uomini dappertutto e non l'abbiamo vista nemmeno di sfuggita. Accidenti!» Pochi minuti prima aveva immaginato di poter fare una telefonata trionfante alla suite presidenziale a Bethesda, per informare Rasoio che la sua figlioccia era sana e salva e lui avrebbe potuto andare all'Aia senza alcun senso di colpa. E adesso... «Come affronterai VanDuyne? Pensi di riuscire a calmarlo con qualche risposta evasiva?» Bob scosse la testa. «No. Ha il diritto di sapere. Ci andrò.» «Vuoi che venga anch'io?» Bob sorrise. «Per fornirmi protezione?» «Non rifiutare troppo presto.» Indicò l'apparecchio. «Sembrava molto arrabbiato.»
«Sì. E ha il diritto di esserlo.» Bob si rivolse a Harris. «E la provenienza?» «Un cellulare. Ha usato un ripetitore di Absecon, quindi è all'interno, rispetto a dove ci troviamo.» Si strinse nelle spalle. «Mi dispiace. Non ho avuto il tempo di fare un'identificazione più particolareggiata.» «Ci scommetto che sta dirigendosi verso i Pine Barrens», osservò Canney. «Se solo sapessimo che veicolo guida, potremmo...» Schioccò le dita. «La ex di VanDuyne! Deve aver visto Poppy Mulliner, quindi forse anche il mezzo che usa.» «Bella pensata», ammise Bob. «Ma lascia che ti chieda una cosa. Sono un po' preoccupato che questo Mac si sia fatto vedere qui intorno. Come diavolo ha fatto a sapere che VanDuyne o Poppy o Katie avevano l'intenzione di venire ad Atlantic City?» Canney si strinse nelle spalle. «Sappiamo che non aveva una microspia nel telefono di VanDuyne, perché le nostre attrezzature avrebbero registrato la presenza di qualcun altro sulla linea. Probabilmente l'ha seguito sino a qui. Come ha fatto la sua ex.» «Sì, è possibile; ma in un certo senso non tornano i conti. Mi immagino VanDuyne seguito dal nostro uomo misterioso e dalla sua ex, e poi dal tuo uomo che tallona quest'ultima... metà della gente sulla 95 che segue VanDuyne fino ad Atlantic City. Non so, Gerry...» «Lascia che senta da Trevor. Lui era sulla strada. Vedremo che cosa dice lui. Ma dev'essere così. In che altro modo potrebbe essere? Solo quattro persone, da noi, sapevano che cosa stava succedendo.» «Tre», corresse Bob. «Jim Lewis è nel Regno Unito. Non mi sono mai preso la briga di informarlo a proposito di Atlantic City.» «Appunto. Tu non hai parlato, io non ho parlato e Dan Keane non ha parlato nemmeno lui, di certo. Senz'altro VanDuyne è stato seguito.» «Penso che tu abbia ragione.» Si alzò. «Bene. È ora di affrontare il dottor VanDuyne.» «Buona fortuna.» Canney consultò l'orologio. «Vado a togliere tutti dal lungomare e a dir loro di cercare Marnie VanDuyne. Potrebbe essere lei a dare la svolta che ci auguriamo.» «Lo spero anch'io. Ci servirebbe proprio.» 18 John non ebbe bisogno di guardare dallo spioncino della porta della sua
stanza d'albergo per sapere chi aveva bussato. Mentre apriva fece a se stesso la promessa che avrebbe tenuto sotto controllo la rabbia. Sì, era furioso, ma era un adulto, un essere umano razionale. Un medico, santo cielo! Non avrebbe commesso nessuna azione violenta. Ma quando spalancò l'uscio e vide Decker lì in piedi, a confermare i suoi sospetti, non riuscì a trattenersi. Udì un piccolo grido (la sua voce come non l'aveva mai sentita) e all'improvviso strinse la mano a pugno e la portò fulminea contro il viso di Decker. L'agente dei Servizi segreti spostò di scatto la testa e John colpì solo l'aria. Quando questi gli afferrò il polso destro lui cercò di colpirlo con la sinistra, ma Decker bloccò anche quella. «So che stai soffrendo. Doc», disse in tono pacato mentre John lo guardava pieno di rabbia. «Ma questo non è il tuo campo.» John sapeva che aveva ragione. Non era un lottatore. In tutta la vita non aveva mai fatto del male a nessuno. Abbassò lo sguardo, si ritrasse e Decker lo lasciò andare. Sentendosi infelice, impotente, inutile, inerme, si voltò e rientrò nella stanza traballando. Provò l'impulso di afferrare una lampada e di mandarla a fracassarsi contro la grande finestra panoramica con un'ampia veduta sull'Atlantico. Almeno sarebbe stato in grado di agire su qualcosa, anche se solo su una vetrata. «Si terrà Katie», disse, cercando disperatamente di evitare che la sua voce si spezzasse. Non davanti a Decker, mio Dio, non poteva andare in pezzi di fronte a quell'uomo. «Ed è colpa tua.» Lui chiuse la porta e obiettò: «Non è giusto. Abbiamo tenuto tutto strettamente riservato. Abbiamo...» John si girò di scatto e gli puntò contro un dito. «Hai intercettato i miei telefoni! Sapevi tutto dei miei piani, conoscevi tutte le mosse che avrei fatto. E lo stesso quella carogna che ha rapito Katie. Era qui, accidenti, in questa città, e aspettava l'occasione di riprendersi mia figlia. C'è una fuga di notizie, Decker! C'è una talpa!» Lui non batté ciglio. «La nostra talpa l'ha detto anche alla tua ex moglie?» La domanda fece sobbalzare John. Aveva ragione. Come aveva fatto Marnie ad arrivare fin lì? «Dovevate tenerla d'occhio.» «Lo stavamo facendo», rispose Decker. «Le stavamo dietro quando ti ha seguito mentre andavi alla Maryland House. L'abbiamo bloccata in modo
che non potesse interferire negativamente sul trasferimento.» «Mi ha seguito?» Non aveva idea che... «E anche fino ad Atlantic City. Un incidente sull'Interstatale ci ha impedito di tenerla lontana. Quindi chi può dire che Snake non abbia fatto lo stesso?» John guardò i cavalloni, fuori della finestra. Aveva ragione. «Mio Dio, quanta gente mi ha tenuto d'occhio?» Quando Decker esitò a rispondere, John si voltò e lo guardò. Aveva la fronte aggrottata, l'espressione turbata.... come se fosse appena stato colto da un pensiero, che tuttavia ricacciò subito. «Casa tua è sorvegliata in questo momento», disse Decker. «Nel caso in cui prendano di mira tua madre.» John si lasciò cadere di colpo sul bordo del letto e lo fissò. L'orrore per ciò che aveva appena detto... Nana? «Mio Dio! Non ho mai neanche immaginato...» «Ma noi sì. E la verità è, Doc, che avresti dovuto informarci di quelle telefonate.» «Perché?» ribatté John sentendosi riprendere dalla rabbia. «A voi non importa niente di Katie. So qual è il vostro obiettivo principale, e non è riportare a casa lei. Vero?» Per la prima volta Decker distolse lo sguardo. E John sentì un minuscolo impulso di trionfo. Ti ho pescato, brutto figlio di puttana. «Voglio riportarla a casa, credimi. Ma hai ragione. Il mio primo obiettivo è salvaguardare il Presidente e arrestare gli organizzatori del complotto. Però non dire che non mi importa niente di tua figlia. Non è vero.» John lo fissò. Non sapeva perché, ma gli credeva. Squillò il telefono. John fece un balzo per rispondere. Poteva forse...? Poppy aveva forse cambiato idea? Ma no... Una voce maschile che chiedeva di Decker. Gli passò il ricevitore e tornò accanto alla finestra. Alle sue spalle udì l'agente dire: «Senti, vieni qui a parlamene. Sì, c'è, ma non vedo nessuna ragione per cui non dovrebbe saperlo». Mentre riagganciava, John si voltò. «Non dovrei sapere che cosa?» «Nuove informazioni su Poppy e Snake. Le sentiremo insieme.» John si rese conto che Decker stava facendo un bel gesto nei suoi confronti. «Grazie», disse piano. «Te ne sono molto grato.»
Mentre aspettavano che la persona che aveva telefonato salisse dall'atrio, Decker lo informò di ciò che sapevano di Poppy Mulliner e della loro teoria a proposito delle violenza accadute nella casa di Falls Church. Un uomo dai capelli biondi, che sembrava appena arrivato dalla spiaggia, fu presentato come agente di sorveglianza speciale Gerry Canney, dell'FBI. Sembrava esitante a parlare davanti a John, ma poi cedette di fronte alle insistenze di Decker. «Va bene», disse infine guardando John. «Abbiamo ricevuto una telefonata dal pronto soccorso del centro medico di Atlantic City: una donna che ha affermato di essere stata picchiata in un garage, dove le è stata rapita la figlia. Abbiamo controllato, e indovinate chi era?» «Marnie», azzardò John. «Giusto. Dice che aveva trovato la figlia che si aggirava da sola in un negozio di souvenir...» John ricordò un grosso emporio a nord del telefono a gettoni accanto al quale aveva trascorso quasi tutto il pomeriggio. «Per caso quello...» Canney annuì. «Sì, il Peanut World. A poco meno di cinquanta metri dal punto in cui si trovava lei.» «Ah, no.» Si sentì cogliere dalla nausea. Katie gli era stata così vicina. «Ha affermato che stava portando Katie in macchina quando una donna di poco più di vent'anni, con i capelli neri, ha cominciato a picchiarla. Le ha rotto il naso, le ha fatto perdere i sensi.» John chiuse gli occhi. Sì! Quante volte aveva desiderato fare la stessa cosa? Far sentire a Marnie ciò che lei aveva fatto a Katie. Ma non aveva mai alzato una mano su di lei. Continuava a dirsi che era ammalata, che non riusciva a trattenersi. Grazie ancora, Poppy Mulliner... «La conseguenza di tutto ciò è che abbiamo una buona descrizione di Poppy, molto diversa dalla foto segnaletica di tre anni fa, credetemi... e dei cambiamenti che ha apportato all'aspetto di Katie.» «Cambiamenti?» Canney spiegò il nuovo look di Katie: abiti da ragazzo, capelli corti, schiariti. «Ma adesso viene la parte migliore. Abbiamo setacciato il garage e la zona intorno, ed è saltato fuori che qualcuno ha visto una donna e un bambino che corrispondono alla descrizione di Poppy e di Katie salire su un furgoncino rosso. Li aveva notati perché erano parcheggiati in una zona ri-
servata alla chiesa.» Decker si batté un pugno sul palmo. «Magnifico! Hai diffuso la descrizione?» «Subito prima di venire qui. Ce l'hanno i piedipiatti della polizia statale del New Jersey e tutti gli agenti municipali. Abbiamo coperto tutte le strade principali. Ma sono pronto a scommettere che non caveranno un ragno da un buco.» «Perché?» chiese John. «Perché non è su una strada principale. Scommetto tutto lo stipendio dell'anno prossimo che sta andando verso la zona delle pinete. Verso casa... a Sooy's Boot.» Decker si era alzato. «Bene. Allora andiamo.» Si alzò pure John. «Vengo anch'io.» «Niente da fare», obiettò Canney. «Giustissimo, niente da fare», ribatté lui. «Niente da fare, non mi lascerete indietro. Se Katie è a Sooy's Boot, è là che devo andare. Se non mi prendete con voi ci vado da solo.» «Senta», insistette Canney, «ho una bambina anch'io. La capisco. Ma non possiamo permettere che lei metta a rischio un'indagine federale.» Ma John si stava rivolgendo a Decker. «Me lo devi, Bob.» Decker esitò, poi fece un cenno a Canney. «Lo portiamo con noi.» Lui sgranò gli occhi. «Che cosa? Non possiamo...» «Ne discuteremo dopo. Adesso dobbiamo metterci in viaggio.» Si rivolse a John. «Fa' i bagagli e...» «Al diavolo i bagagli. Qui non c'è niente di cui non possa fare a meno. Andiamo.» Il dolore, la rabbia, la frustrazione delle ore appena trascorse sparirono. All'improvviso John si sentì di nuovo vivo. Tieni duro, Katie, sto arrivando. 19 Poppy passò davanti alla casa tre volte, prima di raccogliere il coraggio di fermarsi. «È qui che sei nata?» le chiese Katie. «No. Questa è la casa dello zio Luke, il fratello di mio padre. Erano molto legati.» Tanto, pensò, che forse non vorrà nemmeno parlarmi. Restò lì a fissare
la cassetta delle lettere: N. 528... LUKE MULLINER. «Il padre si chiamava Mark e aveva cinque fratelli: Matthew, Luke, John, Peter e Paul. Tutti i ragazzi Mulliner erano stati molto legati, ma il padre aveva sempre trovato Luke il più simpatico. Era quello che vedeva più spesso, e quindi era lo zio che aveva conosciuto meglio. E a cui aveva voluto più bene. Sapeva che zio Luke si era infunato, quando lei era rimasta incinta e aveva dovuto smettere di giocare a pallacanestro, non per il fatto in se stesso ma per il fallimento del sogno di suo padre, che aveva voluto così disperatamente che lei andasse all'università. E se si era tanto infuriato per quella ragione, pensava Poppy, l'avrebbe mai perdonata per essere scappata e avere lasciato solo papà? E per non essersi fatta vedere al suo funerale? Non sapevo neanche che fosse morto! Ma con ogni probabilità non sarebbe contato niente. Tutti i Mulliner avevano la tendenza a portare fino alla tomba i propri risentimenti. E il brutto carattere dello zio Luke era leggendario. Esaminò il cortile. Il prato era ingombro di erbacce, trascurato, e avrebbe avuto bisogno di essere tosato. Nel vialetto d'accesso c'era un vecchio pick-up. Dietro, il minuscolo ranch con due stanze da letto che era la casa dello zio Luke da molto tempo prima che Poppy nascesse. Per lei era come se fosse stato lì da sempre, nascosto tra i fitti pini nani. E in tutti quegli anni non era stata costruita nessun'altra casa, nei pressi. Quella dello zio Luke era ancora l'unica, su quel lungo tratto di asfalto pieno di buche e sgretolato. Anche nella penombra vedeva che avrebbe avuto bisogno di una mano di vernice. Lo stesso valeva per il serbatoio di propano che si intravedeva dietro l'angolo destro: perdeva i pezzi. Notò anche che il capanno degli attrezzi, nel cortile posteriore, pendeva a sinistra. E tutto quello la rattristò. A quanto pareva, lo zio Luke non curava più le cose come era abituato a fare una volta. Non che fosse troppo vecchio. Non doveva avere ancora compiuto i cinquanta. Forse si sentiva solo. La moglie, zia Mary, era morta poco dopo la mamma e l'unico figlio, Luke Junior, che di certo non era più piccolo, probabilmente era sposato e viveva per conto suo. Quindi per chi valeva la pena di tenere in ordine la casa? In soggiorno si accese una luce. «È in casa», osservò ad alta voce. Non poteva rimandare ancora. «Vieni, tesoro, vediamo se lo zio Luke ci farà entrare.»
Prese in braccio Katie e andò fino alla porta. La mise sullo scalino, allungò un braccio per bussare... ed esitò. Pronunciò una breve preghiera: se dirà di no, che lo dica e basta. Che non cominci a urlare e a gridare. Oggi Katie ne ha viste già troppe. E io mi sento come se stessi per scoppiare. Bussò, ma nessuno venne ad aprire. Mentre stava per riprovare la porta si spalancò di scatto. Era grande e grosso, come suo padre, ma invecchiato, più pesante, più grigio, con moltissime rughe che si scorgevano sotto la barba di tre giorni. Però la pesante camicia a scacchi rossi e neri e i pantaloni verdi erano gli stessi, e gli occhi azzurri penetranti come sempre. In fondo al petto sentì un forte dolore. Cristo, quanto le ricordava il padre. Lui la guardò e chiese: «Che cosa vuoi?» «Zio Luke? Sono io, Poppy.» La sua espressione non mutò. «Poppy chi?» Il dolore sì intensificò e si chiese: la prenderà così? Come se non esistessi? «Tua... tua nipote. Poppy Mulliner, la bambina di Mark.» Lui strinse gli occhi. «Non sei una bambina. E non assomigli alla Poppy che conoscevo io.» La sofferenza si fece più intensa. Non farmi una cosa simile, zio Luke. Non ho un altro posto dove andare. «Sono io, zio Luke. Ho... ho bisogno di un rifugio.» Come se non avesse parlato. «La Poppy che conoscevo è scappata e ha lasciato solo suo padre. L'ha quasi ammazzato. E non si è neppure presa la briga di venire al suo funerale.» «Non...» «Spero che tu non mi stia dicendo che sei quella Poppy.» Non funzionava. Se ne sarebbe dovuta andare, lo sapeva. Era inutile cercare di parlare ancora a quell'uomo impassibile. Ma doveva dirgli... «Credo di essere quella Poppy, e anche di non esserlo. Non più. Da quando me ne sono andata sono capitate moltissime cose, la maggior parte brutte. Adesso ho bisogno di aiuto. Ho pensato di poter tornare qui, che forse tu...» Il dolore le salì in gola e la strinse, tanto che quasi non riuscì più a parlare. La stava cacciando... era solo ciò che si meritava. Avrebbe dovuto capirlo... non sarebbe mai dovuta tornare in quel posto... Non riusciva a credere che potesse farle così male.
Lanciò un ultimo sguardo allo zio Luke e credette di vedere i suoi occhi addolcirsi. «Quella è tua figlia?» chiese indicando Katie con un cenno. Poppy scosse la testa. Non chiedermi di Glory! Sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime. «No. Lei è morta... a tre mesi», disse con voce soffocata. Lui parve colpito da quella notizia. «Morta?» Non poteva parlare di Glory. Doveva andarsene prima di sembrare una vera e propria idiota. «Mi dispiace di averti disturbato, zio Luke.» Non riuscì a dire di più. Mentre prendeva in braccio Katie e faceva il primo passo verso il furgoncino, udì un rumore tormentato, quasi un... singhiozzo. Si voltò a guardare lo zio Luke e lo vide appoggiato allo stipite, con il volto tirato e la bocca piegata. Ai suoi occhi velati sembrò uguale alla maschera tragica che aveva visto fuori dei teatri. Il petto dello zio sussultò e lui emise un altro rumore: quello era davvero un singulto. Poi le fece cenno di avvicinarsi. Lei ritornò fino al gradino e lui la prese tra le braccia, stringendola a sé. «Oh, Poppy», fece con una voce alta e strana. «Mi manca tanto. Oh, mio Dio, non hai idea di quanto mi manchi il tuo papà.» E poi si misero a piangere entrambi, gemiti e singhiozzi dirompenti. E per la prima volta da parecchi giorni Poppy si sentì al sicuro. Era a casa. 20 «Non capisco», disse VanDuyne nel parcheggio del Pineconer Motel. «Perché aspettiamo domani? Dovremmo fare qualcosa.» Bob Decker vide Canney fare un gesto come per dire «si accomodi». Sospirò. Forse portare VanDuyne era stato un errore, ma sentiva di doverglielo. Ed era il modo migliore per tenerlo sotto controllo. «Lo stiamo facendo, Doc», obiettò. «Degli uomini stanno setacciando Sooy's Boot in questo stesso momento, stanno facendo il punto della situazione.» «Dovrebbero fare qualcosa di più. E perché non siamo là noi, invece di essere qui a Tuckerton, o come si chiama questo posto?»
«Prima di tutto», rispose Bob, «hai idea di quanti Mulliner abitino da queste parti? Da' un'occhiata all'elenco del telefono, più tardi; e quelli sono solo gli abbonati. Per trovare gli altri dobbiamo consultare l'anagrafe, e anche così ne resteranno fuori. Secondo, a Sooy's Boot o là vicino non c'è nessun motel. E, terzo...» Bob indicò la pineta che circondava il motel, che sembrava infittirsi da un minuto all'altro mentre la luce si affievoliva, «guardati intorno, Doc. Questo sarà anche il New Jersey e tu ti troverai a cinquanta o sessanta chilometri da Philadelphia, ma sei anche sul margine di boschi molto folti. Migliaia di miglia quadrate di pini nani. Niente lampioni, niente cartelli stradali. La maggior parte delle strade non è asfaltata e quelle che lo sono non hanno nemmeno la mezzeria. Qui la gente si perde in pieno giorno. Che cosa credi che riusciremmo a fare, al buio? Poppy Mulliner potrebbe nascondersi da qualsiasi parte.» «Quindi semplicemente rinunciamo?» Decker nascose la propria irritazione, perché quell'uomo stava diventando quasi pazzo per la preoccupazione. «Lo sai benissimo, che non rinunciamo. Stiamo interrogando tutti i Mulliner che riusciamo a trovare e un paio di elicotteri della base aerea di Lakehurst sta sorvolando sistematicamente la zona, in cerca di quel furgoncino rosso.» A Bob sarebbe piaciuto potere organizzare una ricerca su ampia scala, reclutare i piedipiatti della polizia statale, lo sceriffo della contea, la Guardia Nazionale; ma aveva ancora l'ordine di mantenere riservata l'operazione. «Però abbiamo bisogno della luce. Quando si alzerà il sole vedrai moltissimo movimento. Domani setacceremo questi boschi a palmo a palmo. La troveremo.» «Se è là», fece VanDuyne. «Oh, certo che c'è», intervenne Canney. «Se avesse cercato di scappare verso nord o verso sud l'avremmo presa. Conosce questi boschi e sa che può nascondersi qui. Ma non per molto.» «Quindi va' a dormire», Bob invitò VanDuyne. «Ci muoveremo alle prime luci dell'alba.» Lui esitò, come se volesse soggiungere dell'altro, poi alzò le spalle e si diresse verso la sua stanza. «Finalmente», fece Canney. «E io che credevo che fosse difficile mandare a letto la mia piccola Martha.» «Torniamo in auto», propose Bob. «Ho avuto notizie da Jim Lewis.» Canney si illuminò. «È riuscito ad arrivare al provider?» Bob annuì, ma non parlò finché non furono chiusi nel bozzolo sicuro
dell'auto. «Non so come ci sia riuscito e non gliel'ho chiesto, ma sospetto che abbia fatto rubare da qualcuno il database del server di questo provider e l'abbia copiato. Comunque, hanno trovato un conto intestato a Snake con indirizzo di ritorno presso la Delphi. La quale è stata dispostissima a collaborare. Snake è il soprannome di un certo Eric Garter che paga i loro servigi tramite una carta di credito della Visa i cui estratti conto vengono inviati a un recapito postale. L'indirizzo sul computer della Visa è fasullo. Eric Garter non esiste.» Canney si sfregò il viso. «Neanche le mie notizie sono tanto buone. Ho avuto una lunga conversazione con Trevor. Lui dice che l'unica a seguire VanDuyne fino ad Atlantic City è stata la sua ex.» «Deve sbagliarsi.» «È quello che gli ho detto io, ma lui ha affermato che in certi tratti la sua auto, quella di VanDuyne e quella della ex erano le uniche. Assolutamente impossibile che li seguisse qualcun altro. È stato piuttosto sicuro, a questo proposito. E Trevor è maledettamente bravo.» Bob si sentì rivoltare lo stomaco. «Sai quello che stai dicendo.» «Sì. C'è qualcuno che è marcio.» «Ma lo sapevamo solo in tre.» «Bene. Esaminiamo questo aspetto. Lascia che ti faccia una domanda: i Servizi segreti verrà danneggiato dalla depenalizzazione?» «Diavolo, no. Probabilmente dovremo ingrandirci per fornire servizi di sicurezza extra.» «Esatto. E per quanto riguarda l'FBI, le droghe sono quasi un'attività secondaria. Quindi i nostri stanziamenti non caleranno.» «Basta», fece Bob. «Ho capito dove vuoi andare a parare e...» «Chi è l'ente federale che verrà maggiormente danneggiato, Bob?» «Stai parlando di Dan Keane...» «Bene, risponderò da solo alla mia domanda: quella che verrà eliminata dalla depenalizzazione sarà la DEA.» Bob si sentì cogliere dalla rabbia. Era una supposizione senza fondamento, ingiusta. «Conosco Dan da dodici anni. Nessuno odia la droga più di lui. Nessuno ha combattuto più duramente i trafficanti.» «Esatto. Forse li odia tanto che non vuole smettere di combatterli.» La semplice logica di quella conclusione tolse la parola a Bob per un istante. Ma non sempre la logica corrisponde alla verità. Aveva parlato con Dan appena mezz'ora prima. Era impensabile...
«Non può essere. Non ci credo.» «Va bene», cedette Canney. «Tu lo conosci. Ti crederò sulla parola.» «C'è un'altra spiegazione», suppose Bob. «Ancora non ci abbiamo pensato.» Un'altra spiegazione... doveva esserci... Ma quale? 21 «Ho cercato in tutta la città e non sono riuscito a trovarla», Snake comunicò a Salinas. Per la telefonata aveva usato l'apparecchio nel parcheggio del motel. Non era la zona migliore di Atlantic City, ma lì il suo aspetto attirava meno l'attenzione. «Perché non è in città», osservò lui. «È fuggita nei grandi boschi al centro dello Stato.» Snake sussultò per un'altra fitta di dolore alla testa e all'occhio. Dal pomeriggio le medicine avevano calmato la sofferenza, ma le fitte erano ancora frequenti e forti. Era tutta colpa di Poppy, di quella puttana. Che diavolo le era preso? Quella maledetta bambina non era sua, eppure si era buttata contro di lui come una madre che proteggesse uno dei suoi cuccioli... Non era nemmeno sembrata un essere umano, con quell'urlo. Una puttana completamente ammattita... «Grandi boschi? Siamo nel New Jersey. Non c'è niente di grande.» «Gli altri non sono d'accordo. Per domani organizzano una ricerca in grande stile. E prevedono di trovarla, lei e il pacco. Domani.» Salinas sottolineò la parola, e il fatto non sfuggì a Snake. Domani... Chiuse l'occhio buono e cercò di organizzare i pensieri. Se avessero trovato Poppy avrebbero trovato anche la cassetta. Forse non l'aveva con lei quel pomeriggio, ma dopo la scenata che lui aveva fatto al riguardo era disposto a scommettere gli anni che gli restavano da vivere che era tornata indietro, l'aveva presa, l'aveva ascoltata e aveva capito che elemento aveva in mano per accordarsi con i governativi. La cassetta avrebbe fatto finire lui in una prigione federale e avrebbe costretto Salinas a chiudere bottega e a lasciare gli Stati Uniti. Se ne sarebbe andato, ma non avrebbe dimenticato. In qualunque prigione l'avessero messo, per quanto fosse efficace il suo sistema di sicurezza, avrebbe fatto in modo che qualcuno l'uccidesse.
E se anche Poppy l'avesse persa, poteva denunziarlo come quello che aveva organizzato il rapimento. E allora, come unico individuo che avrebbe potuto collegare Salinas con il complotto, quanto avrebbe resistito? Comunque fosse, scommettere sulla durata della propria vita non sembrava un rischio particolarmente alto. Quindi il giorno dopo si sarebbe trattato di vincere o morire, proprio in senso letterale. Ma lui era Snake. Poteva farcela. E non solo per salvarsi la pelle. Poppy l'aveva colpito per due volte: due volte. In entrambe le occasioni l'aveva colto di sorpresa. Non ci sarebbe stata una terza volta. Non avrebbe perso tempo con le minacce. L'avrebbe fatta fuori nel momento stesso in cui l'avesse scorta, poi avrebbe perquisito il cadavere e il furgoncino. E se non avesse trovato la cassetta, sarebbe stato lo stesso. Ma niente scherzi, quella volta: Poppy l'avrebbe fatta fuori. «Credo che faresti meglio a rientrare», gli disse Salinas. «Dobbiamo fare dei piani di emergenza nel caso in cui salti fuori quella cassetta.» Snake sapeva che cosa intendeva. Niente da fare. «Ho ancora domani. Un sacco di tempo.» «Tu sei solo, loro in molti e hanno gli elicotteri. Non puoi sperare...» «Se potessi trovare un po' di aiuto, accidenti, potrei arrivare io per primo, maledizione!» Avrebbe voluto urlare a Salinas: «Non sai con chi hai a che fare? Tu stai parlando con Snake. Sono in grado di rovesciare la situazione a danno dei federali e delle stupide palle di grasso come te. Posso volgere a mio vantaggio le operazioni di ricerca». «Di che cosa hai bisogno?» «Più che altro di informazioni. Tu hai una buona fonte. Ecco quello che mi serve.» Snake cominciò a snocciolare un elenco. 22 «Quella eri tu?» chiese Katie indicando la foto nell'album. Seduta sul divano nel soggiorno dello zio Luke, Poppy fissava la propria immagine a diciassette anni, nella vecchia divisa da pallacanestro con il numero ventitré, i capelli tirati all'indietro in un codino fino a metà schiena, le lunghe gambe scoperte, le ginocchia bitorzolute piegate, in posizione sulla linea di fallo per battere un tiro libero.
Erano passati solo dieci anni... eppure sembrava una persona diversa, come se fosse una foto di un altro secolo. Guardò quel viso fresco, quegli occhi limpidi che avevano la prospettiva di un futuro differente... Non avevano idea di ciò che le avrebbe riservato il decennio seguente. «Sì, sono io.» L'altra me stessa. Lanciò un'occhiata allo zio Luke. «Non posso credere che tu abbia conservato tutta questa roba.» «Che cos'altro avrei dovuto fare? Non sono riuscito a buttarla, dopo che tuo padre è morto. E poi...» Girò il capo dall'altra parte. «E poi che cosa?» «Mi aveva chiesto di conservare i tuoi album e le tue coppe. Diceva di... sapere che un giorno o l'altro saresti tornata.» Poppy chiuse gli occhi e piegò indietro la testa. Non voleva rimettersi a piangere. Quanto dolore che aveva provocato nella sua vita. Cos'aveva che non andava? Ormai aveva più di venticinque anni... Cristo, si penserebbe che adesso dovrei riuscire a combinare qualcosa di buono. «Zio Luke...» La interruppe un colpo alla porta, impellente. In un impeto di panico abbracciò Katie. Poi una voce gridò, dall'altro lato dell'uscio: «Luke! Sono io, Matt!» Poppy si calmò ma non del tutto. Lo zio Matt... andava bene, almeno lo sperava. Lo zio Luke le lanciò una strana occhiata, poi aprì. Lo zio Matt, una versione più magra e barbuta del fratello, entrò tutto eccitato e si mise a parlare a raffica. «Luke, in città va in giro della gente a chiedere di...» Si interruppe quando vide Poppy e Katie. «Ciao, zio Matt.» Lui sgranò gli occhi. «Sei tu, Poppy?» Lei annuì. Matt deglutì. «Allora è proprio vero. C'è della gente che ti cerca. Dicono che sono del governo e che tu hai...» «Non credergli», lo interruppe, superando il colpo. Come poteva Mac, i federali, chiunque, sapere che dovevano cercarla lì? «Nemmeno che siano davvero del governo.»
Fornì loro una versione leggermente emendata degli avvenimenti, disse qualcosa sul fatto che lei e Katie avevano assistito a un delitto e che dei delinquenti cercavano di chiudere loro la bocca. Stava cercando di far tornare a casa Katie, dal suo papà, ma qualcosa andava sempre storto. «Quelli che vanno in giro dicendo che sono federali potrebbero non esserlo?» chiese zio Luke. Poppy annuì e nascose un sorriso. Annunciare che si faceva parte del governo federale, o di qualsiasi governo, era il modo sicuro per far chiudere in se stessa la gente di quelle parti. «Ti sei sempre messa nei guai, Poppy» disse lo zio Matt. «Hai spezzato il cuore a tuo padre. Lo sai, vero?» «Calma, Matt», intervenne lo zio Luke, mettendogli una mano sulla spalla. «Ne abbiamo già parlato. Adesso quello che dobbiamo fare è portarla in qualche posto in cui nessuno la trovi finché non chiariamo chi è quella gente.» «È abbastanza facile», disse zio Matt. «Nascondiamola dagli Appleton.» Poppy avrebbe fatto un gran salto sul divano, se non avesse avuto in grembo Katie. «Oh, no! Non da loro!» «In che altro posto potresti stare, ragazza mia?» disse zio Matt. Controlleranno tutti i Mulliner che ci sono nella zona delle pinete. Ma nessuno controllerà gli Appleton, nemmeno se riuscissero a trovarli.» Oh, Cristo, pensò lei. Non dagli Appleton. «Ha ragione, Poppy», disse lo zio Luke. «Ti porterò da loro alle prime luci dell'alba. Appena riuscirò a vedere la strada. Non ti preoccupare. Loro ti accoglieranno. Sei della famiglia.» Lo sapeva. E quel pensiero le dava la nausea. Avrebbe quasi preferito dovere affrontare di nuovo Mac, che trasferirsi dagli Appleton. 23 Steso sullo scricchiolante letto del motel, Bob Decker guardò ancora la radiosveglia. Quasi mezzanotte. Aveva bisogno di dormire, accidenti. Si sarebbero messi in cammino tra cinque ore circa. Ma il pensiero di una talpa nella loro piccola squadra lo teneva sveglio. E i sospetti di Gerry Canney su Dean Keane continuavano a girargli per la mente. ...E forse li odia tanto che non vuole smettere di combatterli...
Che cos'era l'unica cosa che gli avevano ficcato in testa in tutti quegli anni trascorsi nei Servizi segreti? Non dare mai niente per scontato. Quindi non poteva dare per scontato nemmeno Dan Keane. Per quanto dubitasse di quell'eventualità aveva elaborato un piano per controllarlo. Ma non era in grado di farlo da solo. Protese una mano verso il telefono e compose il numero della stanza di Canney. Martedì 1 «Dove siamo?» chiese Katie guardando fuori del finestrino del furgone. «Siamo in mezzo ai boschi, tesorino. Proprio in mezzo.» Poppy guardò fuori del parabrezza, stringendo gli occhi, nella fioca luce che precedeva l'alba, mentre seguiva il pick-up dello zio lungo una strada secondaria stretta e tortuosa. Le erbacce cresciute nello spazio tra i solchi delle ruote sfregavano contro il telaio. I pini nani alti una dozzina di metri si stringevano ai fianchi della strada, vi si piegavano sopra, sembravano aprirsi sulla sua testa mentre passava per richiudersi subito dopo. Da ragazza vi era stata molte volte, con il padre, quando vi faceva una scappata per portare agli Appleton qualche torta natalizia o per fare provvista del loro brandy di mele; ma non aveva mai imparato la strada. Quelle volte non aveva guidato lei, e non aveva mai notato che un tratto del percorso sembrava assolutamente uguale a un altro, come se girassero in tondo. Le sarebbe piaciuto poter accendere i fari, ma lo zio Luke aveva detto che era più sicuro tenerli spenti, altrimenti gliel'avrebbe portata la sera prima. Era stata una piccola fortuna. Gli Appleton erano già abbastanza brutti di giorno, ma di notte... Rabbrividì. «Questo posto mi fa sentire sola», osservò Katie. «Proprio così. Ma a certi non fa l'effetto che fa a noi. E non gli va di avere a che fare con gli altri, quindi gli piace.» E certa gente non dovrebbe farsi vedere dagli altri... Almeno nessuno avrebbe potuto trovare lei e Katie laggiù... nemmeno in un milione di anni. Ma era una cosa che valeva nei due sensi: là era persa come tutti gli altri... al sicuro ma in trappola.
Finalmente lo zio Luke fece una brusca svolta a destra e si fermò in una piccola radura. Nella sabbia erano parcheggiati disordinatamente altri quattro pick-up, in vari stadi di arrugginimento. Il furgoncino di Poppy portò il totale dei veicoli a sei. «Bene», disse lo zio Luke mentre aiutava a scendere lei e Katie. Con la mano libera reggeva una brocca da un gallone e il sacco a pelo che aveva dato loro in prestito. «Adesso state vicino a me finché non hanno capito chi siamo.» «Non sanno che arriviamo?» Mentre si guardava intorno, Poppy si sentì stringere lo stomaco. Alberi... nient'altro che alberi, e sabbia, e sottobosco... e un sentiero che si inoltrava nella macchia. «Come avrei potuto fare ad avvisarli?» «Non hai...» Troncò la frase. Stava per dire qualcosa a proposito di telefonare, ma si ricordò che in quella zona non esistevano linee. Non c'era nemmeno l'elettricità, o l'acqua corrente. «Fa niente.» Portò in braccio Katie lungo il sentiero, tenendosi alle calcagna dello zio. Almeno c'era più luce. Mentre il sentiero prendeva a salire il cielo senza una nuvola si schiarì. Sarebbe stata un'altra bella giornata. «Sono altri zii, questi che andiamo a trovare?» chiese Katie. «Oh, no», le rispose Poppy, «non sono parente di...» «Certo che lo sei», obiettò zio Luke. «Be', sì», ammise desiderando che fosse stato zitto. «Nella zona delle pinete tutti sono parenti, in un modo o nell'altro. Volevo dire...» «No, questi sono parenti sul serio. Il bisnonno Samuel, il tuo trisnonno, ha dato in moglie una sorella, Anna, a Jacob Appleton. Questa gente sono tuoi zii e tue zie.» Poppy avrebbe voluto allungare un calcio allo zio Luke. Perché doveva mettersi a dire cose del genere davanti a Katie, accidenti? Non voleva che quella bambina sapesse che lei aveva un po' del sangue degli Appleton. Zio Luke si fermò all'improvviso e Poppy gli andò a sbattere contro. «Ehi di casa, salve!» gridò lui. Poppy fece un salto mentre una voce urlava, da non più di tre metri di distanza alla loro sinistra: «Chi diavolo va in giro così presto?» «Sono io, Luke Mulliner. Con me c'è mia nipote Poppy, e lei ha con sé una bambina piccola.» Un tipo brizzolato, che avrebbe potuto avere sessant'anni oppure ottanta, magro come il pino nano dietro il quale si nascondeva, uscì allo scoperto.
Tenne puntato il fucile, mentre dava loro una rapida occhiata. E Poppy lo guardò a sua volta. Aveva la tuta piena di strappi, un capo di abbigliamento che a Soho sarebbe stato di moda. Ai piedi portava un paio di scarpe da ginnastica senza calzini e le caviglie erano molto sporche. Le mani non avevano un aspetto migliore. Sembrava che l'occhio sinistro gli fissasse il naso, mentre peli grigi gli uscivano a ciuffi dal cuoio capelluto. La schiena era piegata e contorta, e per quella ragione era curvo in avanti e verso destra. Ricordava quell'Appleton da quando era bambina, sebbene fosse cambiato quasi in tutto. In tutto tranne che nella lingua. Continuava ancora a leccarsi le labbra. Ogni due o tre secondi la lingua rossa e spessa usciva di scatto e gli percorreva la bocca, poi spariva di nuovo. Poppy si ricordava di quella lingua. «Sì», disse infine lui, «sembri proprio una Mulliner.» «E tu sei Lester, vero?» disse lo zio Luke. «Non vengo da un po'.» «Esatto», fece lui abbassando il fucile. Non tese la mano. «Venite. Vi accompagno fino alla casa.» Guardò la brocca che dondolava da un dito di Luke. «Sei venuto a prendere del brandy di mele?» «Sì. È da un po' che l'ho finito e ne sento la voglia.» «È tremendamente buono, vero?» «Proprio così.» Poppy rammentò di avere rubato un po' del brandy di mele del papà, quand'era adolescente. Roba forte: non per niente la chiamavano folgore del New Jersey. E nessuno lo faceva meglio degli Appleton. In realtà, era su di giri per averne bevuto, quando lei e Charlie l'avevano fatto e aveva concepito Glory. Ma non era stata colpa degli Appleton. Salirono per un altro centinaio di metri e giunsero a un'ampia radura piena di fumo azzurrino, e in mezzo, estesa disordinatamente... la casa. Poppy si fermò e la fissò, mentre le tornava in mente tutto. La casa... la strana casa degli Appleton. Sembrava che all'inizio non fosse stata più di una baracca con un solo locale. Poi qualcuno doveva avere aggiunto un capannone da un lato e forse una camera dall'altro, quindi un ampliamento del capannone, e così via. Era perché i figli degli Appleton, quando diventavano adulti, non se ne andavano via, ma aggiungevano solo un'altra parte di casa per sé. Poppy pensava che, se gli Appleton fossero stati un clan ricco e rispettabile come i Kennedy, quella specie di costruzione sarebbe stata chiamata un compound. Ma quella era solo una massa disordinata. Una massa disordinata
che aveva come camini tratti di tubo zincato, e tutti quei camini stavano emettendo fumo. A quanto pareva, la costruzione era stata messa insieme usando il materiale di scarto disponibile, senza nessuna preoccupazione che fosse simile a quello usato in precedenza. Nessuna parte sembrava avere qualcosa in comune con quelle vicine. Lamiera ondulata inchiodata a compensato accanto a pannelli truciolari e assicelle di copertura di cedro. Tetti di abete rosso, rivestimenti in vinile, lamiera o vecchi tappeti e linoleum fissati ad assicelle di legno. Inchiodata a una parete notò una pelle di daino, e più a sinistra tre conigli morti, appesi a testa in giù a una corda per stendere. Girò di lato la testa di Katie, in modo che la bambina non vedesse che cosa era accaduto a Bambi e a Tippete. Gli Appleton abitavano lì da tempo immemorabile. Tutti. Nessuno se ne andava e non accettavano nessun estraneo. Ciò significava che, senza altre persone tra cui scegliere, dovevi accoppiarti con qualcuno con il quale avevi un rapporto di parentela piuttosto stretto. Quella era la ragione per cui moltissimi Appleton avevano la tendenza a essere deboli di testa, e lo si vedeva benissimo. «C'è gente, tutti quanti!» gridò Lester. «Genteee!» Allora cominciarono a uscire. Uomini con camicie sporche e jeans o pantaloni da lavoro, donne in abiti da casa macchiati, quasi tutti senza scarpe, con piedi scalzi duri come il cuoio e dello stesso colore. Chi era calvo e con il cranio deforme, chi aveva la testa troppo grande, chi troppo piccola, chi la pelle e i capelli bianchissimi e gli occhi rosa, alcuni sembravano quasi normali a una prima occhiata, ma la seconda ti diceva che non avevano tutte le rotelle a posto. E i bambini... alcuni correvano in tondo senza posa, altri stavano immobili e si dondolavano, e altri ancora continuavano a guardare fisso. Una bambinetta, accanto alla madre, si morsicava l'avambraccio. Poppy sentì che le braccia di Katie le si stringevano intorno al collo in un abbraccio pieno di paura. «Voglio andare a ca-casa», gemette. «Voglio papà.» E nell'intimo Poppy sapeva che doveva succedere. Katie non poteva restare lì, non poteva stare in nessun posto, con Poppy. Forse erano stati la paura, lo stress, il panico, forse era stato il caldo: il giorno prima, per un momento di pazzia, aveva davvero pensato di poter tenere con sé Katie. Ma allora si rese conto che era impossibile. Troppa gente le stava cercando. Voleva il meglio, per Ka-
tie, e una vita trascorsa in fuga non lo era di certo. «Lo so, tesorino. E farò in modo che tu ritorni da lui. Appena sarà sicuro.» Sarebbero rimaste lì quel giorno: solo il giorno, non vi avrebbero trascorso la notte... assolutamente no. Forse lo zio Luke poteva tornare a Sooy's Boot a cercare i federali... assicurarsi che fossero davvero loro e aiutarla a concludere un accordo, per così dire. Sì, poteva funzionare. Aveva salvato la vita a Katie, due, forse tre volte, e si era presa cura di lei. Perché non avrebbe potuto ottenere la condizionale e una qualche specie di protezione in cambio? Diavolo, anche un breve soggiorno in una prigione federale sarebbe stato meglio che andare a vivere con gli Appleton. 2 Appena Dan Keane si fu seduto alla scrivania, telefonò Bob Decker. Che siano buone notizie, per favore, pensò, sapendo che le buone notizie per lui sarebbero state pessime per l'agente. Desiderava disperatamente che quell'incubo finisse. Un'altra telefonata da parte di Salinas, la sera precedente, lo aveva informato dell'esistenza di un'audiocassetta in possesso di Poppy Mulliner, una cassetta che avrebbe fatto cadere tutto il castello di carte. E poi aveva richiesto numeri di telefono e frequenze di chiamata, e quando Dan ne aveva domandato la ragione gli era stato risposto di non preoccuparsene, di fare solo ciò che gli era stato detto. Fare solo ciò che mi è stato detto... Carlos Salinas che gli parlava a quel modo! Che dava ordini a Dan Keane. Solo due giorni prima sarebbe stato un fatto impensabile! «Abbiamo trovato Poppy Mulliner», lo informò Bob Decker. «Viva?» Il cuore e i polmoni di Dan smisero di funzionare mentre attendeva la risposta. Per favore di' morta. «Vivissima.» Quasi singhiozzò, mentre gli organi riprendevano le loro funzioni a velocità tripla. Oh, Dio! Oh, merda! «Parla?» «Ho detto che l'abbiamo trovata, non presa.» «Non capisco.»
«Sta in un motel di una città che si chiama Tuckerton, l'Adamston Motel. La bambina è con lei. Potremmo arrestarla adesso, ma poiché sembrano abbastanza al sicuro e in buone condizioni, abbiamo deciso di aspettare per vedere che cosa fa. Le abbiamo intercettato il telefono. Forse avremo un colpo di fortuna e chiamerà qualcuno dei suoi complici. Le concederemo tutta la giornata. Se entro stasera non succederà niente, oppure sembrerà che se ne vada, l'arresteremo.» Dan urlò dentro di sé: «È finita! Hanno messo le mani sulla donna, le metteranno anche sulla cassetta. E adesso che cosa faccio?» «Dan?» Lui si schiarì la gola e si sforzò di mantenere un tono di voce calmo. «Magnifico lavoro. Ha già telefonato a qualcuno?» «No. Ma è ancora presto.» «Vero. Tienimi informato, per favore.» «Vuoi venire qui a prendere parte all'azione?» «Mi piacerebbe, Bob.» Era l'ultimo posto sulla terra in cui desiderava trovarsi. «Ma i tuoi ragazzi stanno facendo un bellissimo lavoro, mi sentirei superfluo. Manterrò la posizione qui. Tra parentesi, si sa come sta il paziente?» Dan aveva cercato di avere notizie sulle condizioni di Winston tramite tutte le fonti di cui disponeva, ma era come se intorno alla suite presidenziale dell'Ospedale navale di Bethesda fosse stato innalzato un muro, e da esso filtrava un unico messaggio: «Il Presidente sta bene. Nient'altro che esami di routine che dovrebbero terminare presto». Non significava niente. In quello stesso momento Winston sarebbe potuto essere in fin di vita e il comunicato non sarebbe stato diverso. «Quello che sento dire è che sta bene. E tu?» «Lo stesso. Spero che sia vero.» «Preghiamo tutti per lui», fece Decker. Non proprio tutti, pensò Dan mentre riagganciava. Si tenne la testa con le mani tremanti e chiuse gli occhi. Era questione di sei o sette ore soltanto, forse meno, e Decker sarebbe entrato in possesso di quella cassetta. Voleva fuggire, ma dove? Non aveva nessun posto in cui andare. Doveva tener duro. Fece un profondo respiro. Va bene. Sei o sette ore. Forse bastavano perché Salinas riuscisse a fare qualcosa. Era in pericolo anche il suo culone. Come si chiamava quel motel? Infilandosi la giacca, scese in fretta a pianterreno e uscì nella Sesta stra-
da. Aveva già telefonato a Salinas una volta, quel giorno, per comunicargli i numeri e le frequenze che aveva richiesto. Stava per richiamarlo un'altra volta, ma non per fare la parte del fattorino, cazzo. Scelse un telefono diverso da quello dell'ultima volta, in Maryland Avenue. Come al solito, esplorò la zona per accertarsi che non ci fosse nessuno troppo vicino. Tutto libero. Solo un tizio con un carretto che vendeva ciambelline salate, diretto verso il centro commerciale. Dan inserì il quarto di dollaro, parlò con qualcuno, poi riagganciò. Mentre aspettava che lo richiamassero guardò il cielo. Sembrava un'altra giornata calda. Il tizio delle ciambelline era ancora più giù, che trafficava con il carretto. A quanto pareva gli si era bloccata una ruota. In un giorno simile si sarebbe sistemato vicino allo Smithsonian Institute e avrebbe fatto soldi a palate, probabilmente dichiarandone solo una piccola parte. L'apparecchio squillò. «Sì?» La voce di Salinas. Dan venne immediatamente al sodo. Non voleva passare un secondo più dello stretto necessario a parlare con quel rospo. «La donna è stata individuata all'Adamston Motel di Tuckerton, nel New Jersey. La stanno sorvegliando per scoprire con chi entra in contatto. Se lei può intervenire, meglio che lo faccia subito. Il suo destino sta nelle sue mani.» E riagganciò. Ecco, si disse. Anche il mio destino è nelle tue mani, Salinas. Fa' qualcosa, accidenti. Poi si interruppe. Voglio che Salinas ammazzi qualcuno. E se ci riesce, probabilmente ucciderà anche la ragazzina. Per che cosa? Per salvare il mio culo senza valore. Ma all'inizio le mie intenzioni erano giuste. Mi sono compromesso per una buona ragione, per una causa giusta. L'ho fatto per la nazione, accidenti. Dovrebbe pur contare qualcosa. Forse sì. Da qualche parte. Ma quel pensiero non alleviò il peso che gli gravava sul petto. Mentre si allontanava, Dan notò che l'uomo delle ciambelline stava prendendo a calci la ruota bloccata. Che vita, quando la cosa peggiore che ti poteva capitare era un incidente del genere. Per un attimo, Dan desiderò di poter essere al suo posto. Io spingerei il carretto e lascerei lui a nuotare nel mare di merda in cui mi sono cacciato.
3 «Era un'insegna della Esso, quella che abbiamo appena passato?» chiese Decker mentre si dirigevano verso Sooy's Boot. «Sì», rispose Canney dal sedile accanto. «È come se fossimo tornati indietro nel tempo.» E di quanto, pensò Decker. Una città dei Pine Barrens sembrava consistere in un distributore di benzina, un noleggio di canoe e mezza dozzina di cabine di compensato su lastre di cemento che chiamavano case. Si trovavano su una strada di campagna senza banchine, solo una casa ogni tanto, generalmente con un'insegna che offriva in vendita uccelli da richiamo. Un cimitero poteva avere una dozzina di pietre tombali e non di più. Scorse molte insegne di club di pescatori e cacciatori e persino di un club di armi da fuoco ad avancarica. Ebbe la sensazione che in quel posto potevano esserci più armi a testa che in qualsiasi altra parte della nazione. Dal retrovisore, Bob guardò VanDuyne seduto sul sedile posteriore della limousine a noleggio. Aveva parlato poco, da quando l'aveva preso a bordo un'ora prima, per andare a fare colazione. Aveva un aspetto orribile, un viso terreo, i vestiti stropicciati, si era rasato male. «L'ho preso al banco del motel», disse Canney sollevando un opuscolo. «Tutto sui Pine Barrens. Sapevi che sono grandi come lo Yosemite Park? Un milione di acri di pini nani. E siamo in una delle zone meno popolate, in media una persona ogni venti chilometri quadrati. Nelle pinete ci sono luoghi mai visti da occhio umano. Ci pensi?» «Sembra proprio che non ci siano speranze», osservò VanDuyne dal sedile posteriore, dando infine qualche segno di vita. «È per questo che abbiamo bisogno degli elicotteri», osservò Bob. «Credi che serviranno a qualcosa?» «Possono coprire una zona molto più grande, Cominceranno la ricerca da Sooy's Boot e si muoveranno verso l'esterno. Segnaleranno qualsiasi cosa che assomigli anche vagamente a un furgoncino rosso, e noi lo controlleremo da terra.» Squillò un cellulare. Decker controllò se fosse il suo, ma era quello di Canney. «Davvero?» chiese. Guardò Bob e annuì con un gesto significativo. Oh, merda, pensò Bob. Oh, no. Mentre parlava al telefono Canney scrutò fuori. «Aspetta. Fammi arrivare a un telefono a gettoni e...» Scosse la testa. «Che cosa sono? Pazzo? Va
bene. Dammi i particolari essenziali, e senza nomi... è un cellulare, ricordalo.» Mentre lui faceva una serie di cenni, Bob imprecò in silenzio contro se stesso. Non aveva creduto che potesse davvero trattarsi di Dan Keane. Altrimenti avrebbe trovato migliori informazioni depistanti, avrebbe scelto un motel esistente e l'avrebbe sorvegliato nella speranza che chiunque stesse informando sarebbe uscito allo scoperto. Infine Canney pose termine alla telefonata. «Va bene», osservò Bob, sapendo che cosa sarebbe venuto dopo. «Dimmi tutto.» «È lui, d'accordo. Abbiamo dei carretti muniti di minicamere e di microfoni parabolici. Uno di loro è arrivato a una trentina di metri da lui, che stava a un telefono a gettone. Abbastanza vicino. Non sappiamo chi ha chiamato ma ha citato Tuckerton e l'Adamston Motel.» «Oh, no.» Bob si sentì venire la nausea. Dan Keane... che diavolo gli era preso? «Ci dev'essere una spiegazione.» «Che cosa c'è che non va?» chiese VanDuyne. «Niente», gli rispose Canney. «Potremmo anche dirglielo», osservò Bob. «Abbiamo trovato la talpa.» VanDuyne si sporse in avanti. «Figlio di puttana! Chi è?» «Non è cosa da rendere nota.» «Ho il diritto di saperlo! Se non fosse per lui avrei già riavuto Katie. Quella carogna l'ha fatta quasi uccidere!» «E tu hai quasi ucciso il Presidente!» esclamò Bob, furente di rabbia. «Avevano preso mia figlia!» «E come fai a sapere che non abbiano preso la moglie di quest'uomo? O uno dei suoi nipotini?» VanDuyne si lasciò cadere di nuovo contro lo schienale, lentamente. «Se è così, allora gli sono vicino. Non c'è niente... assolutamente niente di peggio che avere la vita di qualcuno a cui vuoi bene appesa al filo di una tua cattiva azione.» «Fa' controllare dai tuoi», Bob disse a Canney. «Ma con discrezione... con molta discrezione.» E mentre Canney telefonava, Bob continuò lungo la strada per Sooy's Boot, sperando quasi che Dan Keane fosse stato costretto a quel tradimento da una minaccia alla sua famiglia piuttosto che da una minaccia alla sua carriera. Eppure... la prospettiva dei miliardi di stanziamenti dirottati dal tuo ente
a un altro... chissà che effetto poteva avere su un uomo? 4 Snake finì di riprogrammare il terzo cellulare e si stirò. Tutto sistemato. La testa e l'occhio gli facevano ancora male, ma non quanto il mattino. Non si sentiva certo bene, ma non era più frastornato e a quanto pareva le pillole calmavano il dolore meglio di prima. Andò in bagno per darsi una controllatina. Dopo avere fatto incetta di apparecchiature elettroniche, la sera prima, aveva tolto tutte le bende tranne la pezza sull'occhio e aveva dormito in quel modo. Era risultata una buona mossa: le lacerazioni sul cuoio capelluto si erano asciugate. Intorno alle suture erano restate alcune croste, ma in generale avevano un aspetto abbastanza pulito. Si tolse la benda e si studiò allo specchio. Era piuttosto spaventoso, cazzo. Con la testa rasata per metà, i punti a zigzag e l'occhio destro del tutto rovinato, assomigliava a Terminator dopo una brutta giornata. E gli piaceva. Non che volesse mantenere un aspetto simile per tutta la vita, ma quel giorno gli faceva comodo. Aveva pensato di fare la mummia, con la testa bendata e la felpa con il cappuccio, ma così era meglio. Avrebbe fatto venire la cacarella a quei montanari del Jersey. Avrebbe anche spaventato Poppy, ci avrebbe scommesso. Avrebbe lasciato che lo guardasse bene, prima di farla fuori. Si abbottonò la camicia di cotone. Si fissò sull'occhio destro, delicatamente, la benda che aveva comprato la sera prima. E sopra di essa fece scivolare un paio di occhiali da sole molto scuri. Canticchiando a bocca chiusa cominciò a radunare le attrezzature. Era ora di muoversi. 5 «È impossibile», disse Carlos Salinas. «Deve trattarsi di un nuovo motel non ancora sull'elenco.» «Ti dico che non esiste!» Rosso in viso e sudato, Allen Gold era in piedi dall'altra parte della scrivania. «Il servizio informazioni ha detto che in e-
lenco non esiste nessuna voce, vecchia o nuova, per un Adamston Motel a Tuckerton o in qualsiasi altra località della Ocean County. Anche al municipio mi hanno detto che non ne hanno mai sentito parlare. Sai che cosa significa, vero?» Carlos lo sapeva benissimo. «Mierda!» «Esatto! Mierda fino alla gola! Ci sono addosso!» «Può darsi», rispose Carlos mantenendosi calmo all'esterno e cercando di rimanerlo anche dentro. Non era il momento di lasciarsi cogliere dal panico. Non ancora. «E può darsi di no. Di certo significa solo che stanno addosso al señor Keane. Quella falsa informazione potrebbe essere un'esca per farci uscire allo scoperto.» «Io dico che dobbiamo andarcene», esclamò Allen, con il fiato corto come se avesse appena salito di corsa una decina di rampe di scale, «Chiudiamo baracca e burattini e filiamocela!» Carlos era tentato di dargli retta. Il suo istinto di sopravvivenza lo spingeva a fuggire, ma la sua educazione di paisà lo tratteneva. Si fugge forse dalla casa in fiamme, se esiste la possibilità di spegnere l'incendio? No di certo. Aveva lavorato troppo a lungo e duramente, per arrivare a quella posizione. Non l'avrebbe abbandonata così in fretta. «Non così di furia, Allen. Non siamo in pericolo.» «Con il cavolo che non lo siamo!» «Pensaci un istante. Non sanno chi siamo, altrimenti non avrebbero usato un trucco tanto goffo. Non hanno l'intenzione di attirarci allo scoperto: prima di compiere una qualsiasi mossa avremmo ovviamente controllato l'esatta ubicazione del motel. No, mio giovane amico, più ci penso più sono sicuro che l'hanno fatto per confermare i loro sospetti a proposito del señor Keane.» Ma quelle parole non calmarono Allen. «Va bene, quindi non siamo ancora caduti sulle braci. Ma siamo nella padella. Se sospettano di Keane, significa che non possiamo fidarci delle sue informazioni.» «Evidente. Non accetteremo più nessuna sua telefonata.» «Ma quel che è peggio», soggiunse Allen, «è che se sanno già che Keane è sporco e lo possono provare, quanto tempo ci vorrà prima che si mettano d'accordo con lui per fargli rivelare con chi parlava?» «Non molto», ammise Carlos. «Non molto, davvero.» Ci aveva già pensato. Nel corso di un'unica telefonata il señor Daniel Keane si era trasformato da un bene prezioso a un potenziale pericolo. Naturalmente che cosa poteva dire, Keane, oltre che aveva parlato con Carlos Salinas? Inoltre non
aveva nemmeno una prova che tali conversazioni avessero avuto effettivamente luogo. Eppure rappresentava un pericolo. Lo stesso valeva per MacLaglen. Erano le due uniche persone in grado di collegare il nome di Salinas con il sequestro di persona e con l'avvelenamento del Presidente. A lui piaceva eliminare le voci passive dal suo bilancio. MacLaglen era protetto dalla cassetta, ma Keane... «Devo pensarci su», concluse. «Forse telefoneremo per l'ultima volta al señor Keane.» 6 «Sissignore», disse Bob Decker, e gli porse il cellulare. «È per te.» John fissò l'apparecchio. «Per me?» Chi poteva mai telefonargli, in quel posto sperduto, nell'auto di Decker? John prese il telefono. Poteva solo significare... «Johnny, sono io.» «Tom!» «Come stai, vecchio mio?» Come diavolo credeva che stesse? «Non abbiamo ancora ripreso Katie. Ma lo sai.» «Sì. Però ci siamo vicini. Non ci vorrà ancora molto. Tra un paio d'ore sarà sana e salva.» «Speriamo che Dio ti ascolti.» John voleva chiedergli perché gli aveva telefonato in quel posto sperduto. Ma non lo fece. Lasciò la domanda in sospeso. Tom si schiarì la gola. «John... fra poco me ne andrò da Bethesda.» Anche con l'aria condizionata, il sole quasi estivo aveva mantenuto l'interno dell'auto troppo caldo. Ma John rabbrividì. «Che cosa?» «Devo farlo, Johnny. Domattina devo essere al vertice sulle droghe.» «Ma hanno ancora in mano Katie! Avevi detto...» «È come se fosse già libera, John. È...» «Non è vero! Siamo in mezzo ai boschi, Tom... boschi enormi! Potrebbero nasconderla qui per giorni, per settimane!» «Sai che se pensassi che per Katie ci fosse ancora il benché minimo pericolo rimarrei qui; ma il complotto, la cospirazione, comunque tu voglia chiamarla, è fallita. È ovvio che la donna con cui è Katie si prende cura di
lei e...» «Senza dubbio si preoccupa anche per la propria vita. L'unica cosa che sappiamo di sicuro di questa Poppy Mulliner è che è nata nei boschi del New Jersey, ha dei precedenti penali ed è stata complice nel rapimento di mia figlia. Il resto sono chiacchiere. Per quel che ne sappiamo potrebbe ingannarci, raccontarci delle storie per concludere un accordo con chiunque abbia avuto un litigio. Un tizio è già morto. Lei potrebbe usare Katie come mezzo per salvarsi.» «John...» «Se compari in pubblico sano come un pesce capiranno di avere fallito. Faranno quello che possono per ridurre le perdite, per eliminare qualsiasi cosa li possa collegare al complotto. E Katie è uno degli elementi di collegamento.» Aveva tanta paura... la piccola Katie nelle mani di quelle bestie senz'anima. «Per favore, Tom, ti supplico. Ancora un giorno. L'avevi promesso.» «John...» Un lungo silenzio, poi: «Devo farmi vedere... al momento giusto e in forma perfetta. Sai che cos'hanno detto di me, che mi sto liberando dall'assuefazione, che sono in riabilitazione, che ho avuto un crollo... tutte spiegazioni razionali per le mie idee irrazionali». «Che cosa importa quello che dicono! Non si tratta di un discorso, non è in gioco una reputazione ma la vita di Katie!» «Lo so, John. Non credere che non lo sappia. E non sottovalutare il mio affetto e la mia preoccupazione per lei. Ma si tratta di un gruppo di criminali che vuole imporre una certa politica agli Stati Uniti, John. Il giuramento che ho fatto quando sono entrato in carica mi impedisce di scegliere tra la nazione e una ragazzina a cui voglio un mondo di bene. Se potessi fare a modo mio...» La paura fredda e nauseante fu sostituita da una rabbia crescente. «Balle, Tom! Balle!» John premette il tasto per porre termine alla comunicazione. Fissò per un istante il telefono, poi guardò Decker, concentrato a guidare lungo la tortuosa strada secondaria, diretto verso il Mulliner che seguiva sull'elenco. «Va via dall'ospedale», annunciò. «Va all'Aia.» «Lo sapevo.» «Da quanto?» Decker gli lanciò un'occhiata, poi tornò a guardare la strada. «Sei sicuro di volerlo sapere?» «Certo.»
«Da sabato.» John chiuse gli occhi e premette il capo contro il poggiatesta. Da sabato! Quindi Tom aveva sempre avuto l'intenzione di andare al vertice dell'Aia, sia che Katie fosse salva sia che non lo fosse. Faceva male pensarlo. Tom... proprio Tom, fra tutte le persone. Aveva tenuto in braccio Katie, quand'era stata battezzata. Come poteva... John si sentiva come se una lancia l'avesse fissato allo schienale trapassandogli il cuore. Dio, se faceva male. Sempre tenendo gli occhi chiusi, domandò: «Quanto ci vorrà, prima che lo scoprano i rapitori?» «Se ascoltano la radio o la televisione, in qualsiasi parte del mondo si trovino, lo sapranno immediatamente. L'Ospedale navale di Bethesda è tenuto sotto assedio dai mezzi di comunicazione. Nell'istante stesso in cui metterà un piede fuori del portone, sarà su tutti i canali.» «Hai sentito quello che gli ho detto. Che cosa ne pensi?» «Che cambi le cose? Non lo so, Doc. Vorrei saperlo, ma non lo so. Dipende tutto da questa Poppy Mulliner, no? Se gioca pulito dovremmo essere a posto. Se ci ha raccontato delle storie... be'... dobbiamo sperare di arrivare per primi.» 7 Snake era nella Jeep e fissava il cellulare che aveva in mano. Accidenti se sono bravo, cazzo! All'apparecchio era proprio il Presidente degli Stati Uniti. E non stava male. Non lo era mai stato. Aveva fatto finta. Tutta la faccenda dell'Ospedale navale di Bethesda era stata una cortina fumogena. Per fortuna aveva avuto l'idea di chiedere a Salinas i numeri e le frequenze dei cellulari usati dai responsabili della ricerca. Si era anche fatto dare la frequenza degli elicotteri. Dopodiché si era trattato semplicemente di comprare un paio di cellulari e di riprogrammarli in modo che squillassero insieme agli altri. Come precauzione, aveva escluso i microfoni in modo da eliminare il rischio che udissero qualche rumore ambientale provocato da lui. Per tutta la mattina aveva intercettato le telefonate di un tizio che si chiamava Canney e di un altro che si chiamava Decker. Quasi tutte prive di importanza... tranne l'ultima. Accidenti! Quando l'avrebbe detto a Salinas... Merda, sarebbe saltato fino al soffitto.
Snake doveva ammettere che anche lui era molto incazzato. E in imbarazzo. Il dottore l'aveva fregato... non aveva dato al Presidente il cloram con quel che seguiva e aveva spifferato tutto ai federali... E dire che credeva che avessero amputato un dito del piede alla figlia! Che padre era mai quello? Di questi tempi non ci si poteva fidare proprio di nessuno. Ma la buona notizia era che i federali non sapevano dove si trovassero Poppy e la bambina, e quindi non avevano la cassetta. Aveva ancora un po' di tempo, aveva ancora qualche possibilità. Se avesse potuto trovare Poppy per primo, prendere la cassetta, poi far fuori lei e la bambina, sarebbe stato salvo. E anche Salinas. Ed entrambi avrebbero potuto vivere felici e beati, di preferenza in due continenti diversi. Continuò a guidare, soprattutto su e giù per la 539, controllando i progressi della ricerca tramite i cellulari intercettati e seguendo i rapporti degli elicotteri con la ricetrasmittente manuale. Se avessero individuato Poppy o il suo veicolo sarebbe stato uno dei primi a saperlo. Doveva solo sperare di riuscire ad arrivare per primo. 8 Allen Gold si precipitò nell'ufficio, bianco come un cencio. «Oh, Dio! Oh, mio Dio! Dov'è il telecomando? Bisogna che tu lo veda! Presto!» Carlos Salinas indicò un angolo della scrivania e rimase a guardare Allen che lo prendeva in mano e cominciava a premere freneticamente i tasti. Lo fece quasi cadere due volte, prima che lo schermo prendesse vita. Mentre l'immagine si metteva a fuoco Carlos si sollevò per metà dalla poltrona: un Thomas Winston in perfetta salute, circondato dalle guardie dei Servizi segreti, stava uscendo dall'Ospedale navale di Bethesda per dirigersi verso la propria auto. Stordito, sentendosi come se qualcuno gli avesse ficcato nel ventre una trave da due pollici per quattro, Carlos riuscì solo a fissare lo schermo, mentre il calore gli abbandonava tutto il corpo. No! Válgame Dios! Impossibile! Guardò la scritta nell'angolo inferiore sinistro dell'inquadratura: CNN, DIRETTA, mentre le parole del cronista gli filtravano lentamente attraverso il cervello.
Come ho detto prima, Bernard, questa è una sorpresa bella e buona. L'addetta stampa del presidente ha annunciato pochi minuti fa che oggi sarebbe uscito dall'ospedale, ed eccolo lì. Il fatto che non sia stato comunicato in anticipo può essere dovuto a ragioni di sicurezza. Come sappiamo tutti, il presidente ha ricevuto numerose minacce di morte, dopo avere annunciato una settimana fa che intendeva depenalizzare tutte le droghe. E in effetti oggi la sua guardia del corpo pare più folta del solito. Devo dire che sembra in ottime condizioni, e nell'ovvio tentativo di zittire tutte le recenti dicerie il personale medico dell'ospedale di Bethesda ha emesso un bollettino affermando che il presidente Thomas Winston ha superato brillantemente tutti gli esami e che la sua salute è ottima. Di nuovo... «Com'è potuto succedere?» chiese Carlos quando riuscì a parlare. «Non è ovvio?» La voce di Allen era altissima, sembrava quasi che squittisse. «Non è mai stato malato! Non ha mai preso le pillole, cazzo! Ci ha preso in giro per tutto il tempo! Sanno di Keane... poi prenderanno anche MacLaglen... e dopo toccherà a noi!» Carlos si afflosciò. No... non poteva accadere una cosa simile. Per quale ragione era potuto andare tutto tanto storto? Era un piano perfetto: come mai era fallito così miseramente? Allen distolse il viso dal televisore e si piegò sulla scrivania. «Dobbiamo andarcene via di qui, Carlos!» Erano giorni che lo diceva. E infine dovette convenirne anche lui. Gli Stati Uniti non erano più un buon posto, per loro. Ma dove sarebbe potuto andare? In patria? Carlos fu invaso da una sensazione di freddo e di nausea quando si rese conto che la stessa scena di qualche istante prima era stata vista senza dubbio in un altro ufficio, a Cali, in Colombia. Era certo che Emilio Rojas avesse guardato il presidente Winston, tutto sorrisi e cenni di saluto, scioccato come lui. L'unica differenza sarebbe stata l'altra sensazione che accompagnava quella sorpresa. Lì si trattava di sgomento, in Colombia si sarebbe trattato di rabbia. No, la Colombia poteva essere più pericolosa In realtà aveva denaro sufficiente per vivere in qualsiasi parte della Terra. Doveva solo far ruotare un mappamondo e scegliere un punto. Perché non la Spagna? Sì, la terra delle sue origini. Sarebbe ritornato nella terra dei suoi avi.
Annuì. La Spagna: era strano, ma trovava qualcosa di molto soddisfacente nella piega che avevano preso gli avvenimenti, come se si fosse trattato della chiusura di un cerchio, della fine di un viaggio che aveva riguardato tante generazioni. Guardò il suo collaboratore finanziario, sudato e pieno d'ansia. Un passivo o un attivo? Dopo qualche istante decise che Allen gli sarebbe ancora stato utile. Avrebbe avuto bisogno del suo aiuto per spostare il denaro fra le banche svizzere e quelle delle isole Cayman, in cui aveva depositato la maggior parte del suo patrimonio. «Fa' i bagagli», disse ad Allen. «Ma solo le cose strettamente indispensabili.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Sia ringraziato Dio!» «E mandami Llosa. Abbiamo da sistemare qualche sospeso, prima di andarcene.» 9 «Tu sei mia cugina?» Poppy guardò l'Appleton che le stava, o per meglio dire, torreggiava davanti a lei. Lei e Katie si trovavano fuori della parte della casa di Lester quando quel tipo si era avvicinato e per così dire aveva cominciato a guardarle fisso. Avrebbe potuto avere poco meno di vent'anni come trenta; doveva essere alto quasi due metri e pesare sui centotrentacinque chili. Dondolava avanti e indietro sui piedi scalzi, con le mani dietro la schiena. Aveva i capelli sottili, castani e crespi; indossava una salopette sopra una camicia di flanella, e ne sentiva il puzzo fin da dove si trovava. Ma il suo viso la sconcertava ancora di più. Con la testa grande e allungata e il naso pure lungo, le ricordava un cavallo... un cavallo grasso senza la metà dei denti. «Sì, direi di sì», rispose Poppy costringendosi a parlare. «Sono tua cugina Poppy.» Lui rise, e, accidenti, sembrò proprio un nitrito. «E io sono tuo cugino Levon.» Poi guardò Katie. «E chi è questa cugina?» Lei era rimasta aggrappata alle cosce di Poppy e vi si premette contro tanto forte che sembrò cercasse di fondersi con esse. «Questa è Katie, e non è della famiglia. È solo un'amica. Mi prendo cura di lei per conto del suo papà.» «Molto carino», osservò Levon, ancora guardando fisso. «Siete tutt'e due
molto carine.» Non farti delle idee, pensò Poppy. La sua impressione quanto alle pratiche sessuali era che gli Appleton non fossero molto schizzinosi. Non desiderava saperne di più. All'improvviso Levon tolse le mani da dietro la schiena e porse qualcosa a Katie. «Ecco», disse. «È per te.» La bimba emise un gemito e si strinse ancora di più contro le cosce di Poppy. A lei occorsero solo pochi attimi per capire che cosa le stesse offrendo Levon. Era fatta di stoffa sfilacciata e sporca e sembrava imbottita. In modo molto strano aveva un qualcosa di vagamente umano. «È la mia bambola», spiegò Levon. «Ce l'ho da quand'ero piccolo. L'ho portata, così Katie ci può giocare.» «Grazie, Levon», disse Poppy, commossa. «Sei stato davvero... gentile.» Lo guardò e vide che sorrideva, spingendo la bambola verso Katie. Voleva davvero dargliela, ma Poppy sapeva che lei non l'avrebbe nemmeno toccata. E non c'era modo di rifiutare. Facendosi forza, allungò una mano e prese la bambola con la punta delle dita. «Adesso Katie è un po' spaventata, con tutte queste... facce nuove.» Cristo, stava per dire «strane». «Perché non viene a giocare con i bambini. Facciamo...» Fu interrotto da un ronzio improvviso. Un motore di qualche genere, con un sordo ronzio, si avvicinava riempiendo di rumore l'aria. E poi lo vide... un elicottero. Levon cominciò a correre in giro, chiamando Lester con urla fragorose. Lui girò l'angolo zoppicando, veloce quanto poteva consentirglielo la spina dorsale anchilosata. «Alle armi!» gridò. «Quelli dell'ATF sono venuti per le distillerie! Prendete le armi, tutti quanti!» Poppy si guardò intorno e dappertutto vide degli Appleton che correvano, si infilavano in casa e ricomparivano con fucili e rivoltelle. «Meglio andare dentro», suggerì Lester avvicinandosi. «Potrebbe essere una cosa seria.» Poppy si mise sotto la tettoia ma non volle entrare in casa. Era certa che non si trattasse di un elicottero dell'ATF; più probabilmente cercavano lei e non le distillerie clandestine. Non voleva dirlo a Lester, ma non poteva permettere che gli Appleton si mettessero nei pasticci con i federali per causa sua.
«Non sparate», ammonì. «Vi ficchereste solo nei guai.» Lester guardò l'elicottero, che non si era ancora portato sopra le loro teste. Restava sospeso sul bordo della salita. «Non cerchiamo guai», rispose, «ma li procureremo di certo, se qualcuno comincia.» «No. Non capisci...» All'improvviso l'elicottero girò e se ne andò. «Meglio per loro», fece Lester sputando per terra. «Meglio per loro, accidenti.» Sì, ma peggio per me, ci scommetto. 10 «Guarda!» esclamò VanDuyne, indicando oltre il parabrezza. «Tracce di pneumatici. E sembrano fresche.» Bob Decker nascose il proprio sollievo. Finalmente un segno di vita intelligente. Avevano lasciato la 563 una quarantina di chilometri prima. A un certo punto l'asfalto era scomparso, e avevano continuato a procedere su sabbia ben compattata. Ma per andare dove? Non solo non avevano visto un essere umano, ma non avevano nemmeno notato una qualsiasi traccia di civiltà. Nemmeno rifiuti. Tranne che per i solchi che stavano seguendo, quella zona doveva essere rimasta uguale dalla scoperta di Cristoforo Colombo. La sensazione di isolamento era più che opprimente; Bob la trovava del tutto sconvolgente. Aveva cominciato a sospettare che si fossero irrimediabilmente persi, ma quelle impronte suggerivano che la civiltà poteva essere non tanto lontana. «Un momento!» esclamò VanDuyne. «Fermati.» Decker aggirò i rami di un albero caduto che sporgevano sulla strada, frenò e fermò la grossa berlina. «Che cosa c'è?» «L'albero caduto. È la seconda volta che l'incontriamo. Quelli sono i nostri pneumatici. Abbiamo girato in tondo.» Si accasciò contro lo schienale. «È una disperazione! Da stamattina non abbiamo fatto nessun progresso, per trovare Katie, e ora...» Batté un pugno contro lo sportello. Bob Decker fissò lo stretto sentiero di sabbia che gli si stendeva davanti e dovette ammettere che VanDuyne aveva ragione. Si erano persi. Avevano fatto molte deviazioni, pensando che la strada li avrebbe infine riportati
verso Sooy's Boot. Ma avevano solo girato in tondo. Quanto avrebbe resistito ancora, quel povero disgraziato, prima di scoppiare? Il suo amico più vecchio e più caro l'aveva abbandonato nel momento del maggior bisogno (Bob comprendeva perfettamente le ragioni di Rasoio, ma era certo che VanDuyne non la vedesse in quel modo) e la figlia non si trovava. Poi erano rimasti chiusi tutti e due dentro quella berlina per tutto il giorno. E infine si erano persi. Bob nascose il proprio disagio e la propria frustrazione e quando rispose cercò di sembrare ottimista. «Non è vero. Abbiamo coperto una zona molto vasta, abbiamo parlato con moltissimi Mulliner...» «Ma siamo già a metà pomeriggio e non abbiamo nessun indizio su dove possa trovarsi.» «Sappiamo dove non è. Sappiamo...» «Hai detto che l'avremmo trovata oggi, Bob. Lo credi ancora?» In realtà, le probabilità di trovarla diminuivano ogni ora che passava. Ma non era detto che non potesse ancora accadere. «Ci rimangono molte ore di luce.» Proprio un bel modo di evadere la domanda. «Non ne sono così sicuro», disse VanDuyne allungando il collo e indicando oltre Decker. «Vedi quelle nuvole? Sono cumulonembi. Sta arrivando un temporale. E anche molto forte, sembra.» Bob guardò le nuvole che si erano ammassate a occidente. All'inizio erano chiare e gonfie, ma avevano inghiottito il sole e stavano diventando nere e minacciose. Sì. Un temporale avrebbe rappresentato un problema. «Telefonerò a Canney per sentire come va lui», annunciò. L'agente dell'FBI si era separato da loro per coprire un'altra zona insieme con un collega. «Forse è...» All'improvviso l'auto fu riempita da una serie di scariche. «SSD, mi sentite? SSD, parla Ricerca Uno.» Bob afferrò la ricetrasmittente. «Ti sentiamo Ricerca Uno. Qualche notizia?» «Sotto di noi c'è un veicolo simile a veicolo oggetto.» Dato che quello era un canale libero e chissà chi altri stava ascoltando, veicolo oggetto era il nome in codice che avevano scelto per il furgoncino rosso. «Parcheggiato o in movimento?» «Fermo. È in sosta in una piccola radura con altri quattro o cinque auto-
mezzi... a valle di una casa dall'aspetto molto strano.» «Magnifico. Dove sei?» «Sopra un bosco molto fitto, circa cinque chilometri a sudest di Sooy's Boot. Trentotto gradi quarantasei primi nord, settantaquattro gradi trentatré primi ovest, per l'esattezza.» Bob lanciò un'occhiata a VanDuyne, che per tutto il giorno aveva fatto le funzioni del navigatore. «Serve a qualcosa?» VanDuyne scosse la testa e indicò una zona della mappa del luogo quasi completamente verde. «Qui non risulta niente, nemmeno una strada.» «Come faccio per arrivarci, Ricerca Uno?» «Be', vediamo una strada che non è segnata in nessuna delle nostre carte. L'unico modo perché riusciate ad arrivarci è che qualcuno vi faccia da guida, e suppongo che dovremo essere noi. Dateci la vostra posizione attuale e vi troveremo. Poi potrete seguirci fin là.» «Ci siamo persi, Ricerca Uno.» VanDuyne stava consultando di nuovo la carta. «Digli che ci troviamo da qualche parte a sud della 532 e a ovest della 563.» «Ricevuto. Portatevi in una radura e agitate una camicia o qualcosa di simile. Vi saremo sopra la testa fra poco.» «Credo che sia la volta buona», osservò VanDuyne fissando ancora la carta. Sembrava trasformato, come se qualcuno l'avesse collegato a una presa e gli stesse iniettando corrente elettrica. «Me lo sento.» «Non alimentare troppo la speranza. Ci devono essere moltissimi furgoncini rossi, da questa parti.» VanDuyne scosse la testa. «In tutto il giorno ne abbiamo individuati solo tre, tutti parcheggiati di fianco alla strada. Questo è il primo nascosto in mezzo ai boschi. È quello di Poppy. Lo so. Troveremo Katie.» «Se posso citare le tue parole: 'Speriamo che Dio ti ascolti'.» Poi gli venne in mente una cosa e sbatté la mano contro il cruscotto. «Sai che cosa ci servirebbe? Un GPS. Perché non ho pensato di prenderne uno?» «Che cos'è?» «Un Global Positioning System, un gruppo di posizionamento universale. Ti dice esattamente dove ti trovi.» VanDuyne alzò le spalle. «Finché abbiamo un elicottero che ci fa strada, non ne abbiamo bisogno.» Sì, ammise Bob tra sé, ma avrei dovuto pensarci. Invece non mi è passato neppure per la mente. Comunque VanDuyne aveva ragione. Li avrebbe portati là l'elicottero. E
poi, come si faceva a pensare a tutto? 11 Snake uscì dalla 563 in un posto minuscolo che si chiamava Jenkins. Collegò al tetto la ventosa dell'antenna del GPS, poi risalì e accese il portatile. La scheda del GPS era già inserita nello slot. Comparve subito la griglia. Premette alcuni tasti e attese che il programma ricevesse i segnali dal satellite a chilometri e chilometri di altezza, eseguisse una triangolazione in base a essi e indicasse la sua posizione esatta. A Snake piaceva molto quella procedura: usare il sistema di satelliti del ministero della Difesa degli Stati Uniti, costato miliardi di dollari, per farla in barba agli enti governativi. Il portatile emise un lieve bip quando un puntino lampeggiante comparve al centro della griglia, accanto alle coordinate. «Bene», osservò Snake ad alta voce. «Quello sono io. Ora vediamo quant'è lontano questo veicolo oggetto.» Immise le coordinate che aveva copiato dalla conversazione dall'elicottero seguita sulla ricetrasmittente VHF. Pochi istanti dopo il suo puntino balzò nella parte in basso a sinistra dello schermo e una stella lampeggiante comparve in quella superiore destra. Le coordinate indicavano: 11,2 km - 43° NE. Niente affatto lontano... in linea d'aria. Ma su strada poteva significare venticinque, trenta, cinquanta chilometri... Se fosse riuscito a trovarla, una strada. Il software era in grado di collegarlo a una carta stradale e di condurlo a destinazione, ma non nella zona delle pinete. Peccato che il GPS non fosse in grado di scaricare dal satellite una foto dell'area. Forse l'anno successivo. Ma era dotato della cosa più utile dopo quella: nell'hard disk era contenuta una carta della parte centrale del New Jersey. Fissò il puntino lampeggiante sulla città di Jenkins, inserì la scala e voilà, poteva cominciare a darsi da fare. Doveva trovare il modo di portare il puntino fino alla stella lampeggiante prima che ci arrivassero i federali. Forse il veicolo oggetto non era il furgoncino di Poppy, ma non poteva starsene lì senza fare niente. Udì un sordo brontolio e guardò il cielo. Un tuono. Quel temporale stava sopraggiungendo molto in fretta. Inserì la marcia e si avviò. Non era come avere un elicottero da seguire,
ma almeno sapeva quando si dirigeva nella direzione esatta e quando se ne allontanava. E sarebbe arrivato dalla parte opposta. Forse era già più vicino dei federali. E chissà? Il temporale l'avrebbe aiutato a giungere sul posto prima di loro. Oltrepassò una zona di alberi bruciati. Un fulmine? Un campeggiatore negligente? Comunque fosse, sembrava che in quel punto si fosse verificato un incendio non da poco. Tutti i tronchi erano anneriti e i rami più piccoli erano stati fatti cadere dalle fiamme. Ma gli alberi non si erano seccati. Qualche ramoscello si faceva strada fra la corteccia carbonizzata e metteva fuori nuovi aghi di un verde intenso. Non si riesce a farli morire, questi maledetti. Poi sogghignò. Forse questo per me è un buon posto, rifletté. Non importa quello che gli capita, seguitano a spuntare. Io sono proprio come i tuoi pini, Poppy, pensò. Non riesci ad ammazzarmi, non riesci a fermarmi. Continuo ad andare avanti. E sto arrivando per te, puttana. 12 Dan Keane guardava fuori della finestra del suo ufficio, chiedendosi perché non aveva ricevuto altre notizie da Decker. Erano passate da poco le tre del pomeriggio. Era accaduto qualcosa, in quel motel di Tuckerton? Avrebbe dovuto telefonare lui? Se avesse chiamato, non sarebbe parso troppo interessato? Ma come si poteva sembrare troppo interessati a una cosa del genere? Sì, avrebbe dovuto telefonare. Altrimenti era inutile che rimanesse lì. Ma mentre allungava una mano per prendere il telefono, l'interfono ronzò. Poteva essere Decker. Premette il pulsante. «Sì?» «Hanno appena chiamato da un ristorante», annunciò la segretaria. «Un ristorante?» «Sì. Molto sgarbati. Hanno detto che avrebbe dovuto telefonare per confermare una prenotazione. Il Gia... non so che cosa. Hanno riagganciato prima che riuscissi a scrivere tutto il nome.» Dan si irrigidì. Il locale di Salinas. Avevano chiamato in ufficio? Oh, Signore. Potevano essere solo brutte notizie. «Lo conosco.» «Vuole che...»
«No, grazie. Ci penserò io più tardi. Non passarmi le telefonate, Thelma. Vado a fare una passeggiatina.» Non appena mise piede sulla Sesta strada il caldo lo colpì. Sembrava estate. Si tolse la giacca di lana e andò in cerca di un telefono. Camminando fu invaso da cupi pensieri. Che cosa poteva avere da dirgli, Salinas? Era così importante da correre il rischio di telefonargli nell'ufficio della DEA? Scorse un telefono all'angolo con la NASA e si diresse verso l'apparecchio accelerando il passo. Pescò dalla tasca un quarto di dollaro e compì il solito esame della zona, per accertarsi che nessuno fosse troppo vicino. Il campo era abbastanza sgombro. Nemmeno un carretto di ciambelline salate, quella volta, solo un fattorino in bicicletta che procedeva verso di lui. Nessun problema, quei tizi vanno davvero forte. L'avrebbe già superato prima che terminasse di comporre il numero. Trovò la moneta e la infilò nella fessura. Mentre attendeva il segnale si guardò intorno un'altra volta. Il fattorino l'aveva quasi raggiunto: casco da corsa, occhiali neri di tipo sportivo, tuta elasticizzata molto aderente, una snella bici di marca francese. Ma sembrava che avesse rallentato. Mentre Dan lo guardava estrasse dalla borsa un oggetto metallico e glielo puntò contro prima che lui potesse riconoscerlo: un'automatica munita di silenziatore. Vide alcuni minuscoli lampi illuminare il foro nero della canna. Senza riuscire a muoversi, senza riuscire a gridare, sentì le pallottole che lo colpivano. Nessun dolore lacerante, fu una sensazione più simile a pugni che lo martellavano al torace e all'addome, che gli esplodevano nella schiena, sollevandolo da terra e gettandolo all'indietro. Per un attimo vide l'azzurro intenso del cielo, poi quel colore, la strada, la città, il mondo intero si affievolirono e scomparvero. 13 «Avanti, figlio di puttana, avanti!» A John VanDuyne sembrava che la spalla fosse sul punto di uscire dall'articolazione, ma non avrebbe desistito. Mentre affondava i piedi nella sabbia e spingeva il paraurti posteriore della berlina con tutte le sue forze, i lampi continuavano a illuminare il cielo. Le gomme giravano a vuoto, spargendo sabbia che il vento gli ributtava sul viso. Accidenti alle trazioni posteriori, a ogni modo! Perché diavolo continuavano a farle?
Chiuse stretti gli occhi e spinse più forte. L'auto dondolò in avanti, con la gomma che si sollevava a metà dal solco che si era scavato. «Continua!» gridò a Decker, al di sopra del tuono e del brontolio del motore. «Ci siamo quasi... Siamo...» Poi l'auto riprese a scivolare all'indietro e lui non riuscì a evitare che tornasse a affondare nella sabbia. John si appoggiò al paraurti e batté il pugno contro il bagagliaio. Avrebbe voluto urlare. Avevano proceduto benissimo, seguendo l'elicottero lungo i solchi sabbiosi che qui costituivano la strada, quando all'improvviso avevano fatto una curva e si erano trovati davanti un daino. Decker aveva frenato di colpo, l'animale era ritornato con un balzo nella boscaglia, e da quel momento non si erano mossi di un centimetro. E stava cominciando a piovere, grosse gocce che schizzavano sull'auto, sulla sua testa e sulla sua schiena. John guardò il cielo grigio, basso, e si chiese se fosse possibile che le cose peggiorassero ancora. Una saetta gli diede una specie di risposta, quindi salì a fatica e si lasciò andare sul sedile del passeggero. Decker era in comunicazione con qualcuno tramite la ricetrasmittente. «Bene, Speciale Uno. Buon ritorno. E grazie.» John sapeva con chi stava parlando: con l'elicottero. «Se ne vanno?» Decker annuì. «Tornano alla base. Il tempo sta diventando troppo brutto.» John annuì in silenzio. Se l'era aspettato. «Ehi», fece Decker, «sono rimasti finché hanno potuto, forse anche un po' troppo. Spero che rientrino a Lakehurst senza difficoltà.» «Capisco. Solo che...» Poi le cateratte si aprirono e la pioggia cominciò a cadere a catinelle. «Tieni duro», gli disse Decker. «Siamo vicini. La pioggia dovrebbe rendere più compatta la sabbia e aiutarci a uscire da questo buco. Appena smetterà ci muoveremo di nuovo.» «Ma in quale direzione? Dovremo aspettare l'elicottero che ci...» «No. Mi hanno dato istruzioni. C'è una strada più stretta che taglia a destra, a meno di un chilometro. Seguiamo quella per circa millecinquecento metri e cerchiamo un sentiero a destra. Il furgoncino è là.» La pioggia si fece più intensa, riducendo la visibilità quasi a zero. I pini scomparvero. Con l'assordante martellamento sul tetto dell'auto e il continuo brontolio del tuono, avrebbero benissimo potuto trovarsi proprio sotto le Cascate del Niagara.
Il mondo era limitato a John, Decker e l'auto. 14 Spegnendo la ricetrasmittente Snake sorrise: non ne avrebbe più avuto bisogno. Continuò ad avanzare adagio sotto la pioggia. Non faceva molti progressi, ma se la cavava mille volte meglio di VanDuyne e del suo amico federale. Insabbiati e senza elicottero per guidarli, se mai si fossero liberati. Che vergogna. Si rese conto che avrebbe potuto trovarsi nelle stesse condizioni di quei due, se non fosse stato per la Jeep con la trazione a quattro ruote motrici. Controllò di nuovo il portatile e vide che era più vicino che mai. Il programma del GPS gli diceva che la stella lampeggiante che rappresentava la sua destinazione era da qualche parte a un chilometro e mezzo alla sua sinistra. Scosse la testa meravigliato davanti all'ironia del fatto che usava apparecchiature ad alta tecnologia per effettuare una ricerca in una zona che doveva essere una delle capitali della bassa tecnologia nella nazione. Scrutò tra la pioggia. Doveva procedere con cautela, cercare una strada, un sentiero, una pista percorsa dai daini, qualsiasi cosa che voltasse a sinistra. Era buio come fosse notte, accidenti. In quelle condizioni era già difficile vederci con entrambi gli occhi, ma quando ne avevi uno soltanto... Poi fuori del finestrino accanto a lui vide qualcosa e frenò di colpo. Tolse la condensa e scrutò attraverso l'acquazzone. Due tracce nella sabbia, che conducevano a sinistra. Era stato un bene che l'occhio accecato fosse dal lato destro e che un lampo avesse illuminato la zona al momento giusto; altrimenti avrebbe di certo superato quel punto. Con un ampio sorriso, fece retromarcia e voltò. Sono quasi arrivato, Poppy, puttana. Spero che ti stia godendo le ultime ore di vita. 15 «Ho paura», disse Katie aggrappandosi a Poppy mentre il tuono scuoteva il pavimento e il vento fischiava tra le pareti. «Va tutto bene, tesorino», la rassicurò Poppy, seduta sul sacco a pelo,
cullando la bimba avanti e indietro. «Il temporale finirà presto.» «Ha paura dei temporali?» chiese Lester Appleton, leccandosi le labbra mentre collocava un recipiente di latta sotto una crepa. In tutto c'erano dodici contenitori, sparsi per il pavimento. «Anche quasi tutte le donne e i bambini. Saranno tutti nascosti sotto il letto. Lo fanno sempre, quando tuona. Quella bambinetta farà bene ad abituarcisi, se dovrà restare. Ne vengono di piuttosto forti, da queste parti.» Non resterà qui, voleva dire Poppy, ma non desiderava essere scortese. Tutti gli Appleton erano stati molto gentili con loro, quel giorno. Alcuni avevano detto che si ricordavano di lei quando arrivava con il papà, da bambina, ma forse se lo immaginavano soltanto. La cosa più importante era che avevano accolto bene lei e Katie, avevano diviso con loro la casa e il cibo... anche le loro bambole, se le si poteva chiamare così. Le idee degli Appleton su ciò che era pulito e su ciò che era cotto, su ciò che era commestibile e ciò che aveva un buon sapore distavano anni luce da quelle di Poppy, ma erano pieni di buone intenzioni. Tutto quello che avevano era suo. Dopotutto, era una di famiglia... Lester aveva detto che per il momento potevano dormire da lui. Da lui... un locale di poco più di tre metri per quattro illuminato da due lampade al cherosene: una su una cassa da imballaggio che gli serviva da comò, l'altra appesa al soffitto, che non era più alto di un metro e ottanta. Le pareti scricchiolavano e vibravano sotto la sferza del vento, che faceva oscillare la lampada appesa. E la luce che si spostava creava strani giochi sull'occhio di Lester Appleton, quello che gli fissava il naso. Un altro scoppio di tuono e Katie strinse Poppy ancora più forte. «Spero che le distillerie non subiscano danni», osservò Lester bevendo un sorso da una brocca di ceramica. «Magari avessi la schiena in condizioni migliori... dovrei essere anch'io là fuori a dare una mano.» Scosse la testa. «Prima l'eliocottero, adesso il temporale. Brutti segni. Lo sento... succederà qualcosa di tremendo.» Alla vista dell'eliocottero Poppy era corsa fino alla radura per nascondere il furgoncino sotto un boschetto. Forse, come diceva il proverbio, aveva chiuso la stalla quando i buoi erano già scappati, ma l'aveva fatto comunque. Poi era arrivato il temporale e tutti gli uomini validi, fra cui, per fortuna, anche Levon, che stava dedicando loro attenzioni eccessive, erano usciti per assicurarsi che le distillerie non subissero danni e che l'acqua non spegnesse i fuochi. Il brandy di mele era la loro risorsa principale. Lo vende-
vano in cambio di contanti e lo barattavano con altri prodotti. Poppy si chiese come andassero le cose fra lo zio Luke e i federali. Aveva detto che avrebbe cercato di concludere un accordo. Che cosa gli faceva perdere tanto tempo? 16 Carlos Salinas staccò dalla parete la foto di Nixon e la gettò nella valigia, poi si guardò intorno. Non restava niente da cui non avrebbe potuto separarsi, niente che non potesse essere sostituito con una semplice telefonata. Per quanto riguardava gli archivi, Allen conservava tutte le informazioni delicate nel computer dell'ufficio, con un codice segreto. Aveva copiato i dati pertinenti su una cartuccia ZIP e aveva cancellato l'hard disk, poi Carlos aveva ordinato a Llosa di sparargli contro alcuni colpi da 9 mm, tanto per essere sicuro. «Tutto a posto?» chiese Allen, facendo capolino nella stanza per la terza volta in altrettanti minuti. Carlos annuì. Peccato, pensò. Dover lasciare gli Stati Uniti e quella splendida sistemazione. Ma se la depenalizzazione fosse andata avanti avrebbe dovuto comunque cessare l'attività. Gli dispiaceva di non poter portare con sé Maria, ma era una faccenda provvisoria. L'avrebbe mandata a prendere in seguito. Llosa aspettava alla porta sul retro. Avvicinandosi Carlos gli fece un cenno. Questi uscì, poi ritornò dentro a precipizio. Carlos si fermò di colpo. «Che cosa c'è?» «Un'auto! Nel vialetto!» «Oh, no!» gemette Allen. «Oh, Dio! Oh, per favore, no!» «Silenzio!» sibilò Carlos mentre il cuore cominciava a battergli forte. Si rivolse a Llosa: «C'è qualcuno dentro?» «Non ho visto nessuno.» «Guarda di nuovo.» Lui socchiuse la porta e sporse il capo. «Non vedo nessuno.» «Potrebbe non essere niente di serio», fece Carlos. «Ma ci blocca la strada.» Carlos pensò all'aereo che aspettava, rifornito e pronto a decollare. Se solo fosse riuscito ad alzarsi in volo... Si rivolse ad Allen. «Chiama un carro attrezzi. Fa' venire qualcuno a
spostarla. Subito!» Lui annuì, con un debole sorriso. «Giusto. Non vado certo vicino a quella macchina, assolutamente.» Nell'attimo in cui prese in mano il telefono Carlos udì un rombo, sentì il pavimento tremare, vide la porta andare in mille pezzi mentre una palla di fuoco entrava inghiottendo prima Llosa poi lui, dopo che un milione di frammenti di legno gli ebbero stracciato l'abito di seta e strappato dal corpo la maggior parte della carne. 17 Quando Snake arrivò nella radura vide quattro o cinque pick-up ma nessun furgoncino. Cominciò a imprecare e a picchiare sul volante, infuriato. Più si era avvicinato a quella stella lampeggiante sulla mappa del GPS, più era cresciuta l'aspettativa di trovare Poppy, di metterle le mani addosso, di vendicarsi. Ne aveva bisogno, così come aveva bisogno della cassetta, e quella necessità si era accresciuta in lui fino al punto di farlo quasi scoppiare. Ma lei non c'era! Doveva essere scappata dopo avere visto l'elicottero. Ancora imprecando cominciò a invertire la marcia, e in quel momento lo scorse, nascosto dietro un pick-up proprio al bordo della radura. Snake saltò giù dalla Jeep e corse là sotto la pioggia battente. Sì! Era lui. Era il furgoncino di Poppy. Ma lei dov'era? Girò intorno allo spiazzo: doveva esserci un modo per uscirne, un sentiero che portava alla «casa dall'aspetto strano» di cui aveva parlato il pilota dell'elicottero. Poi lo trovò. Un'interruzione nella boscaglia. Estrasse la rivoltella dalla cintura e si avviò, guidato dai lampi. 18 John aveva acceso la radio dell'auto, sintonizzandola su un programma di sole notizie, nella speranza che annunciassero quando prevedevano la fine del temporale. Invece si ritrovò ad ascoltare Heather Brent. Lasciate che vi annoi con altre statistiche. L'anno scorso la polizia federale, statale e locale ha effettuato più di un milione di arresti connessi
con la droga. Il settanta per cento era motivato dal possesso, non dalla vendita o dalla produzione, al semplice possesso. Ma non stanno nemmeno «grattando» la superficie. L'anno scorso sei milioni e mezzo di persone hanno fatto uso di cocaina. Il dodici percento degli americani ammette, ammette, ripeto, di usare droghe illegali. Quanti non lo ammettono? Se continueremo la guerra alle droghe dovremo cercare di mettere in prigione tutte quelle decine di milioni di americani. Vogliamo farlo davvero? Non sarebbe meglio che le risorse e il tempo che sono stati impiegati l'anno scorso per quel milione e più di arresti fossero utilizzati per la lotta contro rapinatori, stupratori, omicidi, contro chi picchia la moglie e abusa dei minori? «Vorrei avere a mia disposizione un po' di quelle risorse e di quegli uomini in questo momento», mormorò Decker. John cambiò stazione. Voleva notizie sul tempo, non sentire Heather Brent. «Che sia dannato», fece Decker guardando nel retrovisore. «Sta arrivando qualcuno.» John VanDuyne si girò sul sedile e guardò attraverso il lunotto appannato. Sembrava proprio di sì, due fari indistinti ballonzolavano verso di loro sotto l'acquazzone. «Buon Dio, non abbiamo visto nessuno per ore, e adesso... è un miracolo.» Un grande pick-up con grosse gomme si fermò alla loro destra. John abbassò il finestrino e vide un viso segnato dal tempo che gli sorrideva dalla cabina. Un viso simile, ma con la barba, fece capolino oltre la spalla del guidatore. «Sembra che abbiate trovato un po' di sabbia molle», osservò questi. «Può aiutarci a venirne fuori?» chiese John. L'autista scosse la testa. «Ormai quella roba è diventata come una minestrina in brodo. Forse dopo che l'acqua sarà scorsa un po' via.» Disperato, John stava per chiedergli un passaggio quando udì sbattere uno sportello e dietro il pick-up vide un altro paio di fari. Un tipo con un giornale sopra la testa si stava dirigendo verso di loro. Signore... era Canney, l'agente dell'FBI. «Venga!» gli urlò indicando con un pollice alle sue spalle. «Venga nella nostra auto!» Si rivolse al guidatore del pick-up. «Sono con noi.» Lui annuì e alzò il vetro del finestrino.
John non si prese neanche la briga di dirlo a Decker. Scese d'un balzo e seguì Canney. Pochi istanti dopo l'agente, tutto gocciolante, gli si mise accanto sul sedile posteriore della berlina dell'uomo dell'FBI. Mentre il pick-up ripartiva Canney presentò il conducente: agente speciale Geary. Lui fece un cenno di saluto e seguì il pick-up. «Come mai voi non vi siete impantanati?» chiese Decker asciugandosi il viso. Canney si strinse nelle spalle. «La trazione anteriore, suppongo. Senta, quei due sul pick-up sono zii di Poppy Mulliner. Ci portano da lei.» John si spinse in avanti e afferrò Canney per una spalla. «L'hanno vista? Katie sta...» «Katie sta bene. Lei e Poppy si sono nascoste presso certi parenti dei Mulliner che vivono nei boschi.» «Ed è là che ci portano?» Quando Canney annuì, John avrebbe desiderato abbracciarlo. «Sia ringraziato il cielo!» È quasi finita, pensò. Pochi minuti ancora e Katie sarà in salvo. «Volevano addivenire a un accordo», li informò Canney. «Se Poppy si fosse arresa, potevamo fare qualcosa per lei? Ho risposto di sì, diavolo. Le ho perfino offerto protezione come teste, se depone per l'accusa. Che cosa ne dici, Bob?» «Per me, nessun problema», rispose lui. «Lei è un angelo, a confronto di certe altre persone a cui è stato offerto un accordo simile.» John sentì che Decker gli dava una gomitata. «E tu che ne pensi, Doc? Protesterai, se faremo un accordo con la signorina Mulliner?» «Assolutamente no», rispose lui, e diceva sul serio. «Ho la sensazione che lei sia l'unica ragione per cui mia figlia è ancora viva. Ridatemi Katie e per quanto mi riguarda lei può anche restare libera.» «Bene», fece Canney, poi si rivolse di nuovo a Decker. «E sai che cos'è successo alla talpa di cui abbiamo parlato?» Fu il turno di Decker a piegarsi in avanti. «Che cosa?» «L'hanno fatta fuori. Con quattro proiettili da 9 mm a punta cava.» Decker fece una smorfia e abbassò la testa. «Dove?» «Sul marciapiede vicino al suo ufficio... mentre stava per telefonare ancora una volta. E un'altra cosa: non so se ci sia un rapporto diretto, ma oggi pomeriggio un ristorante è andato in briciole per un'esplosione, in M Street. Il proprietario, un colombiano con ottime relazioni che si chiamava Carlos Salinas, era all'interno del locale.»
Decker annuì. «Coprono tutte le tracce, cancellano tutte le connessioni. Non riusciremo a incolpare nessuno, di questo complotto.» Poche ore prima, John sarebbe stato vivamente interessato all'identità della talpa e al nome delle persone coinvolte nel rapimento della figlia. In quel momento non gliene importava niente. Portatemi solo da Katie, pensò, desiderando però che l'auto potesse volare. 19 Il temporale si intensificò proprio quando Poppy pensava che non potesse peggiorare. L'ultimo tuono fu tanto forte da farle credere che la casa sarebbe stata abbattuta dalle onde sonore. Quindi quando la porta si spalancò, lasciando che il vento e la pioggia entrassero vorticando nella minuscola stanza, lei credette che si trattasse solo della burrasca. Poi vi fu un lampo e lei vide qualcuno sulla soglia. Sulle prime pensò che fosse Frankestein... con una benda a un occhio. Poi lui sorrise e lo riconobbe. Mentre Mac entrava nel locale lei urlò. «Ciao, Pop...» fece lui. Ma non terminò mai la parola. Lester gli balzò davanti. «Ehi! Che diavolo credi...?» Mac sollevò di scatto una mano e Poppy vide la rivoltella che stringeva. Lester l'afferrò e l'arma sparò, con un forte rumore, come quello di una bomba. Un getto d'acqua sgorgò da un ennesimo foro nel tetto. Poppy rimase stretta a Katie, che urlava terrorizzata, guardando i due lottare per il possesso della rivoltella. Lester resisteva bene, ma lei non intendeva lasciale niente al caso. Si guardò intorno per cercare qualcosa con cui colpire Mac e scorse la brocca appoggiata al muro. Mentre le si avvicinava strisciando, un'altra detonazione riempì la stanza. Sentì fischiare la pallottola proprio fra la sua testa e quella di Katie. La bambina era rannicchiata per terra, con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie, e urlava a perdifiato. Senza un istante di esitazione la prese in braccio e corse verso la porta. Doveva portare Katie all'aperto (lo sparo successivo avrebbe potuto colpire una delle due), poi sarebbe tornata per aiutare Lester. Aveva trasportato Katie a poco più di cinque metri di distanza, sotto la pioggia buia come la notte, quando alle sue spalle udì un terzo colpo, se-
guito da un grido di dolore. Poppy girò l'angolo della casa, poi si fermò e sbirciò indietro, sperando, pregando che ad apparire sulla soglia fosse Lester. Passò un bel po' di tempo, ma alla fine qualcuno sbucò dalla porta e si guardò intorno. Mac. Con un breve grido, Poppy si girò di scatto e sfrecciò in direzione della boscaglia dietro la casa. Non l'aveva vista... oppure sì? Forse sarebbe andato dall'altra parte. Con Katie ancora in braccio, attraversò gli arbusti per poco più di tre metri, poi si voltò e si accovacciò dietro un albero, ansimando. Sia lei sia Katie erano inzuppate fino al midollo. Non esisteva riparo da quella pioggia, sembrava che il vento la indirizzasse verso di loro da tutte le direzioni. Katie rabbrividiva contro Poppy e si mise a piangere. «Voglio andare a casa! Voglio papà!» «Zitta, tesoro», sussurrò Poppy presa dal panico, tappando delicatamente la bocca della bambina con una mano. «Se ti sente, ci troverà.» Cullò Katie, cercando di calmarla. Con il favore del buio, della pioggia e del tuono, forse avrebbero potuto resistere lì finché gli altri Appleton non fossero tornati dalle distillerie... se restavano in silenzio. Sembrò che Katie si fosse calmata, finché una saetta non colpì un albero alla loro destra, a non più di tre o quattro metri, e il tuono successivo le fece cadere per terra lunghe distese. Allora Katie gemette terrorizzata e continuò per un pezzo dopo che il tuono fu cessato; Poppy capì che Mac aveva sentito. Come avrebbe potuto non udirla? Dovevano spostarsi di lì, ma non poteva fare neanche un metro, con la bambina in braccio. Avrebbe dovuto lasciarla. «Katie», le disse deponendola a terra, «vado a cercare aiuto. Tu resta qui e rimani in silenzio. Io torno subito.» Almeno lo spero. Katie gemette di nuovo e si strinse a lei. «No! Non lasciarmi sola!» «Devo farlo, tesoro», le rispose staccandosela di dosso. «È l'unica speranza. Tieni duro e non fiatare.» Le diede un rapido bacio in fronte e resistette all'impulso di abbracciarla... Non sarebbe riuscita a staccarsene. Poi si voltò e scivolò via. Si sentiva una miserabile a lasciarla da sola, al freddo, tutta fradicia, in lacrime e spaventata quasi a morte; ma era l'unica possibilità. Almeno Katie sarebbe sopravvissuta. Il rammarico lasciò il posto alla paura, mentre attraversava i cespugli tutta rannicchiata, facendo il maggiore rumore possibile.
«Aiuto!» gridò mentre correva. «Aiuto! Hanno ammazzato Lester! Che qualcuno mi aiuti!» Non sarebbe stato troppo, tutto quel chiasso? Voleva farsi seguire da Mac, ma non di certo che la trovasse. A destra vedeva la casa degli Appleton. Alcune finestre, e tanto per cominciare non ce ne erano molte, erano illuminate, ma la maggior parte sembrava buia e vuota. Credette di scorgere qualcuno muoversi lungo un fianco della costruzione, ma non ne fu certa. Le donne e i bambini erano proprio tutti nascosti? Avevano paura del temporale o degli spari? Dov'era Levon, quando aveva bisogno di lui? Vista la sua mole sembrava che potesse spaccare in due Mac con una mano sola. Con il cuore che le batteva forte continuò ad agitarsi tra i cespugli, allontanandosi da Katie e urlando con quanto fiato aveva. Era impossibile che Mac non riuscisse a sentirla. Fra un tuono e l'altro sostò a guardarsi intorno, con le orecchie tese. Udì la pioggia, il proprio respiro rauco... e qualcos'altro: rami che sfregavano, ramoscelli che si spezzavano. Il rumore si avvicinava proprio nella sua direzione. Oh, Cristo, aveva funzionato. Era riuscita ad allontanare Mac da Katie, ma ora doveva trovare il modo di sopravvivere lei, fino all'arrivo degli aiuti. Doveva continuare a muoversi. Ma da che parte? Dov'era, lui? Da che direzione proveniva il rumore? Così mescolato a quello della pioggia sembrava giungere da tutte le parti... come la pioggia stessa. All'improvviso, il forte crac di un ramo che si spezzava, alla sua destra. Vicinissimo! Poppy si buttò a sinistra, procedendo più in fretto che poté. In quel punto il sottobosco era fitto e doveva muoversi di lato per scivolarvi attraverso. Un vantaggio, essere più piccola di Mac: quei boschetti l'avrebbero rallentato più di lei. Quando all'improvviso i cespugli diventarono più radi, per poco non cadde ed entrò barcollando in una piccola radura. Lì poteva davvero procedere svelta. Ma si fermò di colpo quando vide l'ombra circa tre metri davanti a sé. Non riuscì a scorgerne il viso, ma riconobbe la voce dall'unica parola che pronunciò. «Puttana!» Mentre Poppy urlava e si voltava per scappare nella direzione da cui era venuta, vide un lampo e udì uno sparo. Mancata! Si rannicchiò e piegò a sinistra. Vide la casa davanti a sé.
Per favore, fa che riesca ad arrivarci! Se avesse potuto frapporre la casa fra Mac e sé forse ce l'avrebbe fatta. Un altro colpo, e all'improvviso le parve di essere stata investita da un camion. Un dolore schiacciante, violento, alla schiena si fece strada fino al torace e la fece cadere in avanti. Sentì il terreno colpirle la fronte, poi smise di provare qualsiasi sensazione. Prima che l'oscurità si impossessasse di lei, il suo ultimo pensiero fu di terrore: Katie là da sola... senza nessuno che la protegge... Mi dispiace tanto... Katie! 20 Snake corse dove era stesa Poppy e la girò sulla schiena. Le si inginocchiò accanto e le spinse la canna della rivoltella contro la mascella. Avrebbe voluto premere il grilletto, Dio se avrebbe voluto farlo, ma non era ancora il momento. Digrignò i denti e si trattenne. «La cassetta!» gridò. «Dov'è la cassetta? Dimmelo e non ammazzerò la bambina!» Non era vero, neppure lontanamente. Ma che importanza aveva? Lei non rispose e Snake si infuriò. Mentre alzava il braccio per darle uno schiaffo un lampo gli mostrò i lineamenti, il sangue sulla camicetta e il filo scuro che le colava dall'angolo della bocca. «Merda!» Che sfortuna, accidenti. Non era mai stato più di un mediocre tiratore e quando gli sarebbe bastato ferire Poppy, l'aveva ammazzata. Si infilò la rivoltella nella cintura e cominciò a frugarle le tasche. Aveva già perquisito la topaia in cui l'aveva trovata. Non aveva niente, addosso. Niente! Snake balzò in piedi. La bambina. Poppy era corsa via senza bambina. Ciò significava che l'aveva lasciata da qualche parte. E forse avrebbe trovato anche la cassetta. Si guardò intorno, cercando di ricordare dove aveva udito le prima grida di aiuto... Da quella parte, vero? Snake si avviò in quella direzione. 21 «Hai sentito?» chiese Decker scendendo dall'auto. «Sembrava uno sparo.»
John tese le orecchie e si chiese come avesse fatto l'agente a udire qualcosa con la pioggia, i tuoni e gli sportelli che sbattevano. Nella semioscurità sbirciò verso il furgoncino rosso nascosto fra il gruppo eterogeneo di pick-up. I fratelli Mulliner erano scesi dal loro veicolo e controllavano la Jeep tutta infangata parcheggiata in mezzo alla radura. «Questa non è dei nostri, Luke», stava dicendo quello con la barba. «Non è dei nostri, niente affatto.» «Sarà meglio che saliamo fino alla casa», fece il più grosso, ed entrambi presero dei fucili da caccia dalla rastrelliera del pick-up. «Katie è là?» chiese John. Lo guardarono da sotto le tese gocciolanti dei cappelli. «Lei è il papà della bambina?» chiese il più grosso. John annuì. «Sta bene?» «Stamattina sì. Andiamo.» John seguì i Mulliner, che trovarono come per miracolo un sentiero nel sottobosco. Sentì che qualcuno gli afferrava un braccio. «Meglio che andiamo prima noi, dottore», gli disse Canney. Non si voltò nemmeno. Allontanò la mano e continuò a camminare. Da Katie... L'aveva quasi ritrovata e sarebbe stato il primo a vederla, accidenti. Su per la collina, fino a una radura dove i lampi intermittenti rivelavano una casa sconquassata, a struttura irregolare, che sembrava progettata da uno schizofrenico. Il Mulliner più grosso, John aveva dedotto che si chiamasse Luke, accelerò il passo e si diresse senza indugi verso un rettangolo di luce che si riversava fuori da una porta aperta. Una volta dentro, si precipitò sulla sinistra e gridò: «Lester!» John entrò dietro di lui, abbassando la testa, e si immobilizzò per lo choc alla vista di un vecchio con la scoliosi alla spina dorsale steso sul pavimento, ansimante, con la camicia coperta di sangue. «Katie?» chiese John, quasi incapace di parlare, mentre girava in tondo, scrutando dalle finestre di quella sporca stanzetta, pregando di vedere il suo visino che ricambiava il suo sguardo. «Dov'è Katie?» «L'ha presa Poppy», rispose Lester. «E lui le ha inseguite.» «Chi?» domandò Decker. «Un tizio con una benda sull'occhio.» «Snake!» esclamò l'agente. Canney annuì. «Dev'essere lui.» «Mi ha sparato», stava raccontando Lester, «poi è andato dietro a
Poppy! Correte a cercarla!» «Hai bisogno di cure, Lester», gli disse Luke. «Chiamerò qualcuno per restarti...» «Corri!» esclamò lui. «La mia ferita sembra peggio di quel che è. Dovete aiutare Poppy. Quel tipo è uscito con una furia omicida. L'ammazzerà di sicuro!» John non aspettò il seguito. Snake stava inseguendo Katie! In preda al panico uscì sotto il temporale e cominciò a gridarne il nome. «Katie! Katie!» Udì qualcuno che lo raggiungeva e gli dava una forte botta sulla schiena. Si voltò e vide Canney che lo guardava male. «La smetta!» John si arrabbiò... nessuno poteva dirgli di non cercare la figlia. Afferrò Canney per il davanti della camicia. «Ma è qui fuori!» gridò. «Dobbiamo trovarla!» «Però non siamo i soli a cercarla», obiettò Canney, allontanando le mani di John. «Se le risponde, Snake potrebbe trovarsi più vicino a lei. Ci pensi.» John si rese conto che Canney aveva ragione. «Ma che cosa...» Proprio in quel momento uno dei Mulliner uscì di corsa dalla casa con un fucile da caccia. Cominciò a urlare. «Poppy! Sono lo zio Luke! Resta dove sei. Veniamo a cercarti. Facci sapere quando uno di noi ti si avvicina. Ti proteggeremo.» Si voltò verso Canney e indicò diverse direzioni della fitta boscaglia che bordava la zona dietro la casa. «Sparpagliatevi e avanzate nel sottobosco. Continuate a chiamarla.» I due Mulliner si allontanarono. John vide che i tre federali si guardavano, poi Decker si strinse nelle spalle. «Finché a nessuno viene un'idea migliore», disse, «suggerisco di seguirli.» Poi, rivolto a John: «Forse faresti meglio a restare qui e...» «Niente affatto», ribatté lui, e cominciò ad avanzare in una delle direzioni che Luke aveva indicato. I rami del sottobosco gli si attaccavano agli abiti e alla pelle, ma continuò a farsi strada, chiamando e pregando di ottenere risposta. «Poppy, sono io! Il padre di Katie! Sono qui con i tuoi zii.» Di continuo: «Poppy, sono io...» Arrivato alla base di una piccola altura vide un lampo. Guardò in alto e gli si fermò il respiro. Un uomo era in piedi sulla cima, enorme, e teneva qualcosa fra le braccia. Qualcosa che aveva le dimensioni di un bambino ed era privo di sensi.
Oh, mio Dio, pensò. È Snake? Avrei dovuto prendere un'arma! Poi una voce gridò: «Lei è il papà di Katie?» Non era quella di Snake. «Sì, sì, sono io.» La sagoma cominciò a scendere in fretta verso John. Dio se era grande. «Credo che sia ferita.» «Oh, no!» John avanzò barcollando, con le braccia tese. Ti prego, Dio, non adesso, non quando è tanto vicina a tornare a casa! «La dia a me!» L'omone gliela depose delicatamente in braccio e John la strinse a sé. Katie? Poi si rese conto che era proprio lei, oh, sì, era Katie, la sua Katie. Oh, quanto tempo c'è voluto! Ed era fradicia, fredda, ma il suo cuoricino batteva. Avrebbe voluto gettarsi in ginocchio, seppellire il viso nelle treccine inzuppate e singhiozzare per l'indicibile gioia e per il sollievo di riaverla con sé, ma doveva portarla via di lì, portarla dentro, dov'era asciutto e avrebbe potuto vederla alla luce e... «L'ho trovata in una gola», lo informò il gigante. «Credo che sia caduta e abbia battuto la testa.» Oh, no, non la testa! Non ancora la testa! John si voltò e cominciò a portarla verso la casa illuminata. «Dov'è Poppy?» gli chiese il gigante che era rimasto alle sue spalle. «Si è nascosta da qualche parte», gli rispose John continuando a camminare. «Un uomo con una benda su un occhio sta cercando di ucciderla. Gli zii e qualcun altro sono andati a cercare di aiutarla.» «Vado anch'io», disse il gigante. «La troverò. La salverò dall'uomo con un occhio solo.» John si voltò. Alla luce di un lampo scorse il viso dell'uomo e gli venne spontanea una diagnosi: sindrome del cromosoma X fragile. «Sì», gli disse. «E... grazie di avere trovato Katie.» Ma il gigante stava già allontanandosi nel senso opposto, trascinandosi fra la boscaglia. «Tieni duro, Katie», disse John avvicinandosi alla casa. «Adesso papà ti ha trovata e non ti lascerà più.» Infine uscì dal sottobosco. Si mise a correre e portò Katie verso una porta aperta da cui filtrava una luce. «Così l'avete trovata», osservò Lester mentre John entrava abbassando la testa e si lasciava cadere in ginocchio, ansimante. John riuscì solo ad annuire, mentre deponeva delicatamente Katie sul pavimento e le controllava le condizioni della testa. Sul cuoio capelluto trovò un taglio che sanguinava, lungo circa due centimetri e mezzo, dalla
parte opposta alla frattura, grazie al cielo, con un ematoma che stava gonfiandosi al di sotto. Le sollevò in fretta le palpebre e osservò le pupille che si contraevano. Bene! Il respiro era debole ma regolare. Avrebbe potuto essere addormentata. Tranne che per il sangue... Era caduta e aveva battuto la testa? O aveva avuto una convulsione, là fuori? Comunque fosse, aveva subito un notevole trauma cranico. Doveva portarla in ospedale. Diede un'occhiata a Lester. Il vecchio era appoggiato a una parete e si comprimeva il fianco sinistro che sanguinava con uno straccio sporco. Era pallido ma vigile. «Lei sta bene?» «Quanto può stare bene uno che abbia un buco nel fianco, immagino. Ma non credo che la pallottola abbia fatto più che trapassare i cuscinetti di grasso sui fianchi e una natica.» Lester fece una smorfia e bevve un sorso da una grande brocca di ceramica. «Fa un male cane, ma questo allevia il dolore. Ne vuole un po'? Toglie la sensazione di freddo.» John scosse la testa. Sapeva che avrebbe dovuto visitare anche il vecchio, ma non riusciva a staccarsi da Katie. Poi udì un rumore alle sue spalle e si voltò verso la porta, sperando di vedere Decker o Canney o anche uno dei Mulliner. Ma si trattava di qualcun altro. John non lo guardò bene... non se ne concesse il tempo. Vide la benda sull'occhio e si precipitò attraverso la stanza, con le braccia tese, le dita piegate, emettendo un grugnito animalesco. Sei giorni di rabbia, di paura, di terrore, di frustrazione repressi avevano infine trovato un bersaglio. Snake! Colpì l'uomo con la spalla, abbattendolo. Poi gli fu sopra e lo coprì di pugni, gli tempestò il viso; desiderava strappargli la pelle dal corpo, continuare a picchiarlo finché non fosse ridotto a poco più di una sottile gelatina sanguinolenta. Ma l'attacco durò solo pochi secondi e la sua fantasticheria fu mandata in frantumi dall'assordante esplosione di una rivoltella a pochi centimetri di distanza e da un colpo alla spalla destra che lo fece girare su se stesso e lo stese sulla schiena in preda a un acuto dolore. Snake gli stava sopra, con l'unico occhio fiammeggiante, i denti scoperti, i capelli scuri incollati alle lacerazioni suturate che gli attraversavano la parte rasata del cranio, la rivoltella puntata contro gli occhi. «Mi hai mentito, VanDuyne», disse prima di premere il grilletto.
Ma non accadde niente. Nella nebbia della sofferenza John vide l'indice di Snake ripetere il gesto più volte, udì il cane scattare, ma non partì nessun colpo. John gli diede un calcio alle gambe e gli fece perdere l'equilibrio, ma solo per un attimo. Poi Snake balzò in avanti e lo colpì alla testa con la rivoltella scarica. Mentre John si sforzava di non perdere i sensi, Snake gli si mise a cavalcioni e gli strinse la gola. «Volevo farlo fin dalla prima volta che ti ho visto», sussurrò mentre comprimeva con i pollici la trachea di John. «A te e a Poppy... perché per causa vostra...» John lo percosse con la sinistra, ma la stanza gli girava intorno, aveva la vista offuscata, non aveva più forze e gli mancava l'aria, oh, Dio, se gli mancava l'aria. E proprio quando stava per non vederci più scorse un'ombra dietro Snake, vide qualcosa che si muoveva, poi intorno alla testa di Snake si formò un'aureola di liquido ambrato. La stretta intorno al collo di John si allentò mentre l'uomo si irrigidiva e l'unico occhio si sgranava; la mascella gli cadde, lui si afflosciò sul lato sinistro e scomparve dalla vista di John. Al suo posto una giovane donna con capelli molto corti e neri, il viso pallido come un cencio, le labbra cianotiche sporche di sangue e i resti della brocca di ceramica di Lester che le penzolavano dalla mano. I cocci erano sparsi intorno al corpo inerte di Snake. La donna barcollò come fosse ubriaca, poi cadde in ginocchio e lo fissò. Mosse le labbra, ma senza riuscire a parlare. Vagamente, John udì la voce di Lester provenire dal retro. «L'hai beccato, Poppy! L'hai beccato proprio bene!» 22 Poppy voleva chiedere di Katie, ma le mancava completamente il fiato. Le sembrava di essere sul punto di annegare, come se il torace fosse sul punto di scoppiare, e le gambe non la reggevano. Davanti a sé vedeva un tunnel di nebbia nera e a sinistra, alla fine del tunnel, scorse Katie. Cercò di avvicinarsi a lei, ma cadde sul ventre. Mentre strisciava nella sua direzione la nebbia nera si intensificò restringendo il tunnel. Tese un braccio. Doveva toccarla... un'ultima volta... solo una volta, prima che la nebbia nera inghiottisse tutto... 23
Quando Poppy cadde in avanti, John cercò di sollevarsi a sedere. Respirava con difficoltà per il dolore e vedeva le stelle. Si spinse in su con il braccio sinistro, ma ogni minimo movimento spostava i frammenti d'osso nella spalla, ed era come se fosse colpito di nuovo. Infine, dopo che fu riuscito a mettersi in piedi, sostenendo il braccio destro con il sinistro, vide la donna che Lester aveva chiamato Poppy... che strisciava verso Katie, che allungava un braccio per toccarla. «Ehi, Poppy», udì chiedere Lester. «Che cosa ti ha fatto? Che cosa ti ha fatto alla schiena?» John scorse le bolle rosso sangue raggruppate intorno al foro, che andavano su e giù con il suo respiro sempre più debole. Mio Dio... una ferita al torace, aspirante. Com'era riuscita ad arrivare fin lì, con quel tipo di ferita? Mentre John, in ginocchio, cercava di accostarsi a lei, la stanza gli girò intorno. Poppy... gli aveva salvato la vita pochi istanti prima e aveva salvato quella di Katie molte volte, e adesso... che cosa voleva fare? Era abbastanza vicino per vedere gli occhi vitrei di Poppy, fissi su Katie mentre cercava di toccarla. Sa di essere in punto di morte, pensò. Non c'era niente che potesse fare per lei, non in quel luogo, neanche se avesse avuto le braccia buone. Niente di niente. No... forse qualcosa c'era. Si girò di colpo, ignorando la fitta che provò quando lasciò andare il braccio destro e allungò il sinistro per prendere la mano di Katie. La strinse e la tirò verso la mano tesa di Poppy, poi piegò le dita della donna intorno a quelle della bambina. Guardò il viso di Poppy e credette di vederla sorridere mentre nei suoi occhi la luce si spegneva e le bolle sulla schiena si spezzavano... senza che altre le sostituissero. Sebbene John non l'avesse mai conosciuta e avesse parlato con lei per telefono solo tre volte, fu sopraffatto da un tremendo senso di perdita, come se una gemma grezza fosse stata inghiottita dalla terra. Poi si sentì svenire. Il dolore, l'emorragia... sapeva che la propria pressione sanguigna stava precipitando. Si spostò pian piano all'indietro e cercò di coprire il più possibile Katie con il proprio corpo, finché non fossero giunti i soccorsi. La stanza cominciò a oscurarsi... a confondersi; non ne fu sicuro, ma gli sembrò di vedere un gigante entrare e cadere di fianco a Poppy... pensò di sentire Lester che gli parlava... che lo chiamava Levon e gli diceva di fare
qualcosa... pensò di vedere l'omone afferrare Snake per i piedi e trascinarlo fuori. Poi tutto diventò grigio... 24 Quando tornò in sé la minuscola stanza era piena di gente e di voci. Si rese vagamente conto che Canney gli chiedeva di Snake: che cos'era successo, dov'era andato... «Andato?» Cominciò a dire qualcosa a proposito del fatto che non era andato da nessuna parte, ma colse un'occhiata di Lester dall'altra parte della stanza. «Come le ho detto, caro signore del governo», ribadì quest'ultimo, «è entrato, poi è uscito traballando!» John non capì, ma dal suo sguardo comprese che avrebbe dovuto confermare; quindi mormorò qualcosa di appena coerente a proposito del fatto che ignorava del tutto dove fosse andato. «Lo voglio io!» esclamò Luke Mulliner, inginocchiandosi, con gli occhi pieni di lacrime, sul cadavere di Poppy coperto da un lenzuolo. «Voglio trovarlo io per primo!» «Lo troverai», disse Lester a bassa voce. «Potrai non essere il primo, ma non ti preoccupare, Luke, lo troverai.» Mentre l'agente Geary gli sistemava una benda di fortuna al braccio destro, Decker gli si avvicinò portando tra le braccia un fagotto avvolto in una coperta. Si inginocchiò e gli fece vedere il viso di sua figlia: aveva gli occhi aperti, ma sembrava frastornata. «Katie!» Dio, quanto desiderava stringerla! Ma il braccio destro era fuori uso e riusciva appena a sollevare il sinistro. «Sei salva, Katie.» Lei annuì. Si trovava ancora sotto choc. L'avrebbe mai superato? Poi lo aiutarono a mettersi in piedi. Canney si appoggiò sulle spalle il braccio sinistro di John e lo afferrò per la cintura. «Agente Canney», fece John. «E io che pensavo di non piacerle.» Lui sorrise, ma era un sorriso teso. «Lei è un emerito rompicoglioni, Doc, e la sto solo portando fuori di qui il più presto possibile. Spero che, adesso che ha riavuto Katie, non me la troverò più fra i piedi.» «Le sue speranze saranno esaudite.» John uscì zoppicando, aggrappato alle spalle di Canney, e guardò il cielo. Il temporale si era spostato: la pioggia era cessata e il cielo, meno coperto, faceva supporre che il sole po-
tesse far capolino prima di tramontare. Poi si guardò intorno e li vide, gli Appleton. Quelli troppo bassi e quelli troppo alti, quelli diritti e quelli curvi, quelli troppo pallidi e quelli dalla pelle chiazzata, quelli lisci e quelli pieni di bitorzoli: erano tutti nella radura davanti alla casa e fissavano gli estranei che avevano invaso il loro regno. Un saluto silenzioso e quasi lugubre a chi se ne andava. John li esaminò, individuando altri casi di cromosoma X fragile, casi evidenti di neurofibromatosi, di pseudoxantoma elastico, un paio di sindromi di Marfan, e quella bambina che si mordeva il braccio... avrebbe potuto trattarsi di un caso di sindrome di Lesch-Nyhan. «Sono un mucchio di tipi davvero strani. Cristo», sussurrò Canney. «Mi fanno venire la pelle d'oca.» «Sono tratti recessivi», spiegò John. «Che cosa?» «Matrimoni fra consanguinei. Fanno venir fuori ogni genere di geni difettosi.» Anche noi costituiamo uno spettacolo abbastanza strano, pensò John osservando la loro piccola processione. Matt Mulliner faceva strada nella discesa del pendio, seguito da Luke che portava il cadavere di Poppy avvolto in un lenzuolo, poi venivano Geary e Decker con Katie. Con la coda dell'occhio John vide Levon che portava in braccio Lester con la stessa facilità con cui Decker portava Katie. «Non appena vi avremo portato tutti e tre all'ospedale», disse Canney, «torneremo in forze a cercare Snake. Non dobbiamo più preoccuparci di essere molto prudenti.» «Se sta parlando del tipo con la benda all'occhio», osservò Lester da dietro, «dubito che sarà necessario.» «Non lo lasceremo certo perdere, stia sicuro.» «Non dico questo. Dico solo che la zona delle pinete ha un modo particolare di occuparsi della gente di quel tipo.» John guardò Lester e colse il suo ammiccamento. Che cosa intendeva? Ricevette la risposta pochi minuti dopo, quando arrivarono alla radura e trovarono Snake a faccia in giù in una pozzanghera. Geary gli corse vicino con la rivoltella spianata, ma lui era morto da un pezzo. «Dev'essere inciampato», osservò Lester. Geary e Matt Mulliner faticarono, a sollevare il cadavere, perché il viso di Snake era incastrato molto a fondo nel fango. Finalmente riuscirono a liberarlo, provocando un forte rumore di risucchio. «Dev'essere inciampato molto pesantemente», fece Canney scoccando
un'occhiataccia a Lester. John si chiese se l'agente avesse notato le mani infangate di Levon. Ma Lester non si scompose. «Come ho detto, la gente delle pinete ha un modo particolare di occuparsi di quelli come lui.» E all'improvviso John si rese conto che la morte di Snake chiudeva il cerchio. E finita, pensò, e con quel pensiero si sentì svenire di nuovo. Dovette appoggiarsi a Canney un po' di più, finché non lo adagiarono sul sedile posteriore della berlina. Stava già quasi per perdere i sensi, e il dolore procuratogli dal trasferimento per poco non lo fece venire meno; ma resistette perché Decker gli stava deponendo accanto Katie. John le mise intorno il braccio sano e se la strinse vicino. Finalmente era al sicuro. Le baciò la fronte e si sentì colmo di gratitudine. Per Decker, Canney, i Mulliner, persino gli Appleton, ma soprattutto... Guardò Luke che si sedeva sul sedile di destra del pick-up, stringendo ancora il cadavere di Poppy, avvolto nel lenzuolo. Sembrava che non riuscisse a staccarsi da lei. Grazie, Poppy Mulliner, disse mentalmente John, dal profondo del cuore, dal profondo dell'anima. Dovunque tu sia, grazie. Mentre Decker, Geary e Matt sollevavano il cadavere di Snake, John udì il fratello con la barba dire loro di gettarlo nella parte posteriore del pickup, «...con il resto dell'immondizia.» «Katie, Katie, Katie», sussurrò John, stringendola più forte, senza quasi riuscire a trattenere le lacrime, «è così bello riaverti con me.» Lei lo guardò. Sembrava già più sveglia. Gli rivolse un lieve sorriso, quindi richiuse gli occhi. Sussurrò un'unica parola: «Poppy». John avrebbe desiderato che avesse detto papà, ma accettava Poppy... Avrebbe accettato qualsiasi cosa: gli bastava sentire la sua voce... FINE