Peter Maas
Sommergibile Squalus Ore Terribili The terrible Hours © 1999
In memoria di Charles "Swede" Momsen, uno di q...
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Peter Maas
Sommergibile Squalus Ore Terribili The terrible Hours © 1999
In memoria di Charles "Swede" Momsen, uno di quegli uomini straordinari che raramente, nella vita, si ha la fortuna di incontrare. «È dal mare che il mondo ha, per così dire, cominciato a vivere, e chi sa che in esso, un giorno, non debba anche finire!» Il capitano Nemo − Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari -
1 Era un martedì: il 23 maggio 1939. A New York, i grandi magazzini Bloomingdale's erano impegnati nella promozione di una nuova meraviglia dell'elettronica per le case americane: la televisione. La United Airlines aveva cominciato, in gran pompa, a pubblicizzare un volo commerciale senza scalo da New York a Chicago della durata di sole quattro ore e trentacinque minuti. Un giovane center fielder dei New York Yankees, tale Joe di Maggio, era sul punto di conquistare il suo primo titolo di miglior battitore della major league. L'adattamento cinematografico del romanzo Cime tempestose, con l'attore inglese Laurence Olivier alla prima interpretazione da protagonista in un film di grande successo, era giunto alla sesta trionfale settimana di proiezioni. Un altro romanzo destinato a diventare un classico della letteratura americana - l'affresco hollywoodiano di Nathanael West, i7 giorno della locusta - veniva definito dal «New York Times» «dozzinale» e «volgare». I monarchi britannici Giorgio V ed Elisabetta, durante una visita in Peter Maas
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Canada, incontravano per la prima volta le cinque gemelle Dionne. A Londra, l'ambasciatore americano Joseph P. Kennedy informava un'associazione di sarti inglesi che non avrebbero mai conquistato quote di mercato negli Stati Uniti se non avessero smesso di creare pantaloni dalla vita così alta e camicie così lunghe. A Berlino, mentre l'Europa era sull'orlo della guerra, Hitler e Mussolini sottoscrivevano un'alleanza militare tra Germania e Italia con l'esplicita intenzione di «rifare» il continente. In Asia, intanto, i giapponesi avevano appena concluso l'ennesima settimana di stragi indiscriminate ai danni della popolazione cinese. Quel martedì, di mattina, nella scenografica cittadina costiera di Portsmouth, New Hampshire, ricca di esempi di architettura federale e vie di ciottoli del tardo Ottocento, il contrammiraglio Cyrus V. Cole, comandante della base navale locale, la più antica degli Stati Uniti, ricevette una delegazione di autorità in visita. Cole era un piccoletto irascibile, con un testone notevole e uno sguardo penetrante che lo facevano apparire più grosso di quanto non fosse. Pur non essendo un sommergibilista, aveva una particolare simpatia per gli uomini che lavoravano sui pigboats della marina. Il suo unico figlio serviva su uno di questi, e lui, prima di essere distaccato alla base navale di Portsmouth, specializzata nella costruzione di sommergibili, aveva comandato la flotta sottomarina degli Stati Uniti. Scherzando amava ripetere: «Mi hanno rispedito a vedere come sono fatti!». Quando uno degli ospiti in visita gli domandò se auspicasse il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto che minacciava l'Europa, l'ammiraglio rispose negativamente, ma aggiunse che, se li avessero costretti a intervenire, i loro nemici se ne sarebbero amaramente pentiti. «Si sente sempre parlare dei sommergibili tedeschi», dichiarò, «ma quelli che costruiamo qui a Portsmouth sono di gran lunga superiori.» Proprio quel pomeriggio l'ultimo esemplare aggiuntosi alla flotta - lo Squalus - sarebbe rientrato alla base dopo una serie di immersioni di collaudo. Cole promise agli ospiti un giro a bordo di quel sommergibile, per dar loro modo di rendersene conto di persona. «Squalus? Che nome!» Cole confessò di aver dovuto fare delle ricerche. «E il nome latino del pescecane: di taglia piccola, ma molto vorace», aggiunse, sorridendo. Peter Maas
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Dopodiché Cole affidò i suoi ospiti al capitano Halford Greenlee, responsabile del settore produttivo della base. Il loro arrivo, fissato con brevissimo preavviso, aveva costretto Greenlee a rinunciare ai suoi piani di raggiungere nottetempo l'ancoraggio dello Squalus e salirvi a bordo quel mattino stesso. Greenlee aveva atteso con ansia quel momento. Suo genero, il guardiamarina Joseph Patterson, era il più giovane ufficiale del sommergibile. «Mi dispiace, ma oggi non potrai uscire a bordo dello Squalus», gli disse Cole. «Be', non sarà la fine del mondo», rispose Greenlee. «Ci andrò un'altra volta.» Due giornalisti del «Portsmouth Herald», inviati presso la base per altre ragioni, furono i primi civili a capire quel che era successo. Dopo aver raccattato ogni brandello di informazione disponibile, tornarono di corsa al giornale. Alcuni minuti dopo, passate da poco le due del pomeriggio, le telescriventi della Associated Press trasmisero a tutti i giornali e alle stazioni radio del paese il primo inatteso e allarmante bollettino: SOMMERGIBILE SQUALUS A PICCO AL LARGO DEL NEW ENGLAND.
2 La base navale di Portsmouth occupava un isolotto situato tre miglia a monte della foce del fiume Piscataqua, una tortuosa gora soggetta alle correnti di marea. Per evitare di avere a che fare con i flussi e i riflussi del Piscataqua, che comportavano innalzamenti e abbassamenti di livello superiori ai due metri, durante i quali la corrente poteva raggiungere una velocità di dodici nodi abbondanti, lo Squalus, dopo una giornata di manovre d'addestramento, si era fermato per trascorrere la notte in un'insenatura rocciosa presso il luogo in cui il fiume sfocia nell'Atlantico settentrionale. La moglie del tenente di vascello Oliver Naquin, comandante dello Squalus, aveva deciso di fare ai loro due bambini un regalo speciale. Nel tardo pomeriggio li aveva portati in automobile all'insenatura dove lo Squalus fluttuava nell'acqua bassa al riparo di un frangiflutti oceanico. Peter Maas
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Naquin e il suo equipaggio, però, erano impegnati a tirare a lucido l'interno del sommergibile per l'ispezione prevista al loro ritorno alla base cosicché, al loro arrivo, la moglie e i bambini non avevano trovato nessuno a rispondere ai loro saluti. Frances Naquin ci avrebbe ripensato spesso nelle terribili ore che li attendevano.
*** Lo Squalus era l'ultimo arrivato tra i sommergibili veloci della marina militare americana, lungo poco meno di 90 metri e largo poco più di 7 metri e mezzo, per una stazza di 1450 tonnellate. Velocità stimata in superficie: sedici nodi. In immersione, propulso a batteria, poteva raggiungere i nove nodi. Apparentemente, era stata messa tutta la cura possibile nella sua progettazione. Era assolutamente all'avanguardia... e assolutamente letale. Sopraccoperta, disposto nel senso della lunghezza, presentava un ponte fissurato in teak da cui affiorava una sorta di isolotto ovale d'acciaio alto circa 5 metri e mezzo, contrassegnato a vernice bianca, su entrambi i lati, dal numero 192: ufficialmente denominato bridge fairwater, era universalmente noto come «torretta». Disponeva anche di due valvole ad azionamento idraulico, funzionanti come normali rubinetti, dette "valvole di aspirazione superiori": una, caratterizzata da un'apertura di circa 80 centimetri, serviva a convogliare aria nei quattro motori diesel a 1600 cavalli durante la navigazione in superficie. L'altra, di circa 40 centimetri di diametro, provvedeva all'aerazione del sommergibile. Sul ponte era montato, inoltre, un cannone da tre pollici: serviva a dare il colpo di grazia a obiettivi già colpiti o come ultima risorsa per contrastare eventuali attacchi di navi nemiche. L'America intera, in un certo senso, navigava a bordo dello Squalus, in quel martedì di maggio. I membri dell'equipaggio provenivano da ventotto stati diversi. Per metà erano sposati. Si trattava, in maggioranza, di esperti sottufficiali, il novanta per cento dei quali sfoggiava le mostrine d'argento raffiguranti coppie di delfini che denotano i sommergibilisti qualificati. Dei cinquantasette uomini che di norma vi operavano, solo uno era assente: un macchinista che era stato ricoverato in ospedale con una commozione cerebrale dopo essere stato colpito, il sabato precedente, da una palla da softball nel corso della sfida con l'equipaggio dello Sculpin, sommergibile gemello dello Squalus. Peter Maas
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Come gran parte dei marinai semplici, Gerry McLees si era arruolato nei primi anni della Grande Depressione. Al fatto di essere cresciuto in quel periodo si era aggiunta, nel suo caso, la sfortuna di vivere nel Kansas, uno degli "stati delle praterie", colpiti da una siccità senza precedenti: il terreno di superficie seccava, e veniva soffiato via dal vento. La fattoria del padre - 360 acri fino ad allora fertilissimi - riusciva a stento a mantenere la famiglia di sei persone. Quindi, all'età di diciotto anni, con cinquanta centesimi di dollaro in tasca, McLees aveva raggiunto in autostop un centro di reclutamento a Topeka. E non se ne sarebbe mai pentito. Gli sarebbe rimasto impresso nella memoria il viaggio di ritorno a casa, in licenza dopo il corso d'addestramento: durante il tragitto aveva dovuto tenersi un fazzoletto umido premuto sulla faccia per proteggersi dalla polvere sollevata senza sosta dai venti. I sommergibilisti erano tutti volontari. In parte, com'è ovvio, erano attratti dalla paga: in aggiunta alla mensilità-base di cinquantaquattro dollari, comune a tutti i marinai, a quei tempi un sommergibilista riceveva un bonus del venticinque per cento, nonché la cifra forfettaria di un dollaro a immersione per un totale di "non più di quindici dollari mensili". Oltre a questo, però, influiva la minore importanza attribuita al protocollo rigorosamente rispettato, invece, sulla flotta di superficie -, il maggior cameratismo e l'idea di entrare a far parte di qualcosa di speciale. A un neofita, lo Squalus, con la sua incredibile serie di aggeggi stipati all'interno dello scafo, sarebbe apparso alquanto claustrofobico, ma agli occhi di McLees - divenuto, ormai, aiuto elettricista di III classe - risultava persino spazioso in confronto agli altri sommergibili su cui aveva servito. Tanto più che lo Squalus non solo era dotato di aria condizionata, ma anche di gabinetti. McLees era in libera uscita con un paio di altri marinai scapoli, Lloyd Maness, uno spilungone della Carolina del Nord, anch'egli aiuto elettricista, e un nerboruto torpediniere di lontane origini portoghesi, Lenny de Medeiros, da New Bedford, Massachusetts. Dopo la partita di softball del sabato si erano imbucati nella loro birreria preferita, il Club Cafe, dove potevano bere a credito fino al giorno di paga. Stavano prendendo in giro Maness. Di lì a sette giorni doveva fare da testimone al matrimonio di un altro membro dell'equipaggio. «Hai già imparato a memoria le battute?», gli domandò McLees. «Battute? Quali battute?» Peter Maas
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«Come? Quando consegnerai l'anello non dovrai dire nulla?» «A me non ha detto niente nessuno.» «E l'anello?», incalzò de Medeiros. «L'hai messo in un posto sicuro?» «L'anello ce l'ha lei», rispose Maness, timidamente. Alle sette e trenta del mattino, lo Squalus si avviò verso il mare aperto costeggiando l'insenatura dov'era ancorato. La sua chiglia era stata messa in cantiere a Portsmouth nell'ottobre 1937. Nel settembre dell'anno successivo era stato varato in presenza di una folla esultante, mentre la banda Frank E. Booma, della Legione americana di stanza in città, suonava Anchors Aweigh e l'inno nazionale. Erano venuti, poi, i mesi dell'installazione dei motori diesel ed elettrici e di tutti gli ulteriori apparati necessari al suo funzionamento. Molti membri dell'equipaggio avevano cominciato a prestarvi servizio ben prima che i lavori fossero terminati e, osservandolo prendere forma, avevano familiarizzato con ogni più piccolo dettaglio delle sue delicate apparecchiature. Il difficile compito di guidarlo e gestirlo, del resto, lo rendeva indispensabile. Un errore, anche piccolo, nell'esecuzione delle routine operative avrebbe potuto trasformare il sommergibile, da scaltro predatore delle profondità marine qual era, nella loro tomba. Le tre settimane successive sarebbero state dedicate ai collaudi ufficiali, prima dell'entrata in servizio effettivo. Per quel giorno era prevista la diciannovesima immersione di prova. La prima immersione dello scafo senza equipaggio, per verificarne la tenuta stagna, aveva avuto luogo all'inizio di aprile, quando il sommergibile era ancora alla fonda. In seguito, si erano verificati problemi con l'apertura della grossa valvola di aspirazione da 80 centimetri. L'intero pezzo comprendente la valvola era stato smontato, aggiustato e rimontato, e non aveva più creato fastidi. La prima immersione di prova, con l'equipaggio a bordo e il ponte e le strutture superiori ancora incompiute, era avvenuta nel corso dello stesso mese, nella rada di Portsmouth. Alla riemersione erano stati rilevati danni ai supporti di uno dei motori, ma di entità relativamente ridotta. Durante un'immersione in mare aperto, poi, si era verificata una breve disfunzione del collegamento elettrico tra un lanciasiluri e il suo registratore. L'immersione di prova di quel martedì era di fondamentale importanza in vista dell'ispezione finale. In combattimento, la riuscita delle manovre previste avrebbe potuto segnare il discrimine tra la vita e la morte. Con le Peter Maas
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casse di zavorra vuote, lanciato alla massima velocità in superficie, lo Squalus doveva eseguire un'immersione d'emergenza ad altezza di periscopio - cioè a poco meno di sei metri - in sessanta secondi. In un precedente tentativo, lo Squalus aveva fallito l'obiettivo per cinque secondi. Questa volta, però, Oliver Naquin era determinato a ottenere un risultato sensibilmente migliore. Naquin era in piedi sul ponte dello Squalus che si dirigeva verso sud. Era piuttosto soddisfatto di come procedevano le cose. Tra l'equipaggio sembrava regnare una perfetta armonia, e lui era rimasto particolarmente impressionato dal modo in cui il sommergibile aveva manovrato a bassa velocità nel corso delle operazioni di lancio dei siluri a salve. Alla sua sinistra, sfilò una schiera di desolate isole rocciose - le Isles of Shoals - disposte parallelamente alla costa. La storia di questi isolotti è curiosa. Le compagnie di pesca inglesi vi avevano installato delle basi nel 1615, cinque anni prima, cioè, che i pellegrini della Mayflower toccassero terra a Plymouth Rock. Inoltre, su una delle isole - Smutty Nose Island erano stati trovati oro e argento, a conferma delle voci che raccontavano di un tesoro sepolto dai pirati. Naquin, un trentacinquenne dal naso aquilino che si era laureato nel 1925 ad Annapolis, era nato e cresciuto in Louisiana. In gioventù aveva dimostrato un certo talento come trombettista, ricevendo persino la proposta di un provino con l'orchestra di Paul Whiteman, una delle più importanti dell'epoca. La vita vagabonda, però, non gli si addiceva, e con una brusca inversione di marcia Naquin finì tra le braccia della marina militare. Per un ufficiale come Naquin, il servizio sui sommergibili offriva la possibilità di una carriera rapida, e tutto, fino a quel momento, si era svolto secondo le sue aspettative. Sul ponte, accanto a lui, Harold Preble fumava l'ennesima Carnei, l'ultima prima dell'immersione. Preble, il funzionario civile della base incaricato di sovrintendere alle prove, era a bordo per verificare che tutto, sullo Squalus, funzionasse a dovere. Da ventidue anni svolgeva quel compito, passando al vaglio tutti i sommergibili costruiti a Portsmouth, e sebbene esulasse dalle sue competenze, apprezzava l'abilità dei membri dell'equipaggio nell'eseguire le operazioni loro assegnate. A suo parere, il merito era in gran parte di Naquin, un uomo che solo raramente - o forse mai - alzava la voce: i suoi gelidi occhi azzurri parevano più che sufficienti Peter Maas
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per tenere tutti al proprio posto. Preble, insomma, riteneva che lo Squalus fosse il miglior sommergibile da lui mai ispezionato; migliore persino dello Sculpin, il sommergibile gemello costruito subito prima. Mai un natante appena costruito aveva manifestato così pochi problemi: fino a quel momento, solo un difetto a una valvola, un sostegno di motore surriscaldato e un problema elettrico di poco conto. Fatta eccezione per i tempi di ricarica dei lanciasiluri, lo Squalus era, secondo Preble, destinato a superare tutte le prove in mare. Naquin osservò il sole mattutino scomparire dietro un banco di nubi grigie cariche di presagi. A causa delle dense e improvvise nebbie causate dall'incontro delle acque intiepidite dalla Corrente del Golfo con quelle fredde provenienti dal Labrador, l'unico dato certo in materia meteorologica, in quella zona, era l'incertezza più assoluta. Il vento si intensificò, sollevando una maretta fastidiosa che spruzzava veli di schiuma bianca oltre la prua. A dritta, due pescatori di aragoste stavano già rientrando in porto. «A quanto pare, non sembra che ci perdiamo poi una gran giornata», disse Naquin.
*** Il luogo prescelto da Naquin per l'immersione si trovava a cinque miglia dalle Isles of Shoals, in direzione sud-est. Sotto i suoi piedi, all'interno del doppio scafo, al di là delle casse di zavorra e dei serbatoi del carburante, lo Squalus era diviso in compartimenti perfettamente isolabili per mezzo di paratie ovali a tenuta stagna. La camera di lancio prodiera era dotata di quattro lanciasiluri. Torpedini di sei metri erano fissate, su entrambi i lati, a rastrelliere dotate di un sistema di pulegge atte a portarle in posizione di caricamento. Tra i proiettili erano state ricavate alcune cuccette. Procedendo verso poppa, si incontravano la batteria anteriore e la minuscola cabina privata di Naquin, oltre agli alloggiamenti degli altri quattro ufficiali e dei quattro sottufficiali capo. C'erano poi la dispensa e lo spazio mensa. Attraverso un boccaporto si raggiungeva una prima metà dei 126 accumulatori all'acido di piombo da 750 chili l'uno che consentivano allo Squalus di muoversi sott'acqua. Sotto la torretta era situato il centro nevralgico del sommergibile, la Peter Maas
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camera di manovra, con i due periscopi. Qui trovavano posto tutte le apparecchiature indispensabili al funzionamento del natante: il centro per le comunicazioni interne, i volanti per manovrare i timoni di profondità, le leve per allagare o svuotare le casse di zavorra. E c'era anche il quadro di controllo che indicava se il sommergibile era pronto per l'immersione. Attraverso una paratia a tenuta stagna, dalla camera di manovra si passava nel compartimento della batteria di poppa. Qui dormiva e mangiava buona parte dell'equipaggio: prima si incontrava una serie di trenta cuccette disposte una sopra l'altra a gruppi di tre; quindi, era la volta della cambusa e di alcuni tavoli per la mensa. Sotto questo compartimento era collocata la seconda metà degli accumulatori. Anche per l'altro aiuto elettricista John Batick, come per Gerry McLees, lo Squalus era stato una vera rivelazione: più spazioso, veloce e agile dei sommergibili su cui aveva fino ad allora servito. Con le maniche della camicia di denim arrotolate a mostrare il ritratto tatuato della moglie, Batick non smetteva di meravigliarsi nel constatare che in mensa poteva bere un caffè senza dar di gomito nelle gengive di chicchessia. Il compito di McLees e Batick consisteva nel controllare, rispettivamente, le batterie prodiere e poppiere durante l'immersione. Completata questa operazione, Naquin intendeva spingere lo Squalus al massimo della velocità appena sotto la superficie, per un'ora. McLees raggiunse Batick in mensa per il caffè e gli domandò di quale compartimento preferisse occuparsi. Batick rispose che per il momento sarebbe rimasto dov'era. Se Naquin avesse ordinato una seconda immersione, si sarebbero presentati. Oltre la batteria di poppa c'erano due sale macchine, gli unici compartimenti non separati tra loro dalla paratia a tenuta stagna, con il cupo rimbombo dei quattro diesel di superficie che ricevevano aria attraverso i grossi condotti collegati alla valvola d'aspirazione superiore aperta, mentre fili di fumo brunastro esalavano sull'acqua dai tubi di scarico. Nella seconda sala macchine c'erano anche i motori che azionavano le eliche del sommergibile. Quando lo Squalus si immergeva completamente, questi due motori - che altrimenti funzionavano in combinazione con i diesel - si collegavano ai due gruppi elettrogeni. Oltre a Harold Preble, c'erano altri due civili sul sommergibile: un ispettore della General Motors, ditta produttrice dei motori diesel, e un elettricista veterano della base, addetto alla verifica del perfetto funzionamento degli impianti elettrici. Peter Maas
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La coda del sommergibile era dotata di una potenza letale: ai quattro lanciasiluri prodieri se ne aggiungevano altri quattro nella camera di lancio poppiera, fatti per lanciare testate al TNT, al posto dei siluri a salve che avevano a bordo quel mattino. Durante l'immersione, sarebbe spettato a Sherman Shirley, da North Little Rock, Arkansas, presidiarla. Shirley era il promesso sposo cui Lloyd Maness avrebbe dovuto fare da testimone. Quest'ultimo non aveva trovato per nulla divertenti le battute che McLees e de Medeiros gli avevano rivolto il sabato precedente. Maness era l'addetto alla rilevazione del voltaggio della batteria di poppa. Quel compito era ordinaria amministrazione per lui, ma il testimone a un matrimonio non l'aveva mai fatto e, dunque, domandò a Shirley se nel corso della cerimonia gli sarebbe toccato dire qualcosa. «Cristo, no!», rispose Shirley, diretto alla sua postazione a poppa. «Devi soltanto darmi l'anello.» E Maness ne aveva tratto spunto per ulteriori preoccupazioni: Maness ricordava di aver visto un film in cui il testimone, nel momento cruciale, non riusciva a trovare l'anello. C'era un altro uomo, nella camera di lancio poppiera, che stava pensando alla moglie: Bobby Gibbs, quand'era di stanza a Shanghai, in servizio nella flotta asiatica, aveva conosciuto e sposato una rumena. Quando era stato assegnato allo Squalus l'aveva temporaneamente lasciata a Lexington, Carolina del Sud, dove lui aveva i genitori. Ma la padronanza dell'inglese della moglie era molto limitata, e la sistemazione si era rivelata poco opportuna, al punto che la donna aveva deciso di prendere un treno per Portsmouth, dove quella sera avrebbe dovuto incontrarsi con Gibbs. Si era, però, sparsa la voce secondo cui il comandante avrebbe potuto ordinare, dopo l'immersione del mattino, un'ulteriore esercitazione al lancio dei siluri, e Gibbs si era lamentato, a colazione, del fatto che se non avessero imboccato il Piscataqua con la giusta marea avrebbero rischiato di restare all'ancora fuori dalla base. Il più giovane ufficiale a bordo, il guardiamarina Joseph Patterson, detto "Pat", doveva sovrintendere alle operazioni nei compartimenti di poppa. Si trattava di un incarico insperato, per Patterson, laureatosi solo tre anni prima ad Annapolis, e apriva per lui prospettive di carriera molto interessanti. Aveva già superato gli esami per diventare sottotenente di vascello e aspettava da un giorno all'altro la conferma ufficiale. Era molto amato dall'equipaggio, persino da certi anziani che erano già in marina Peter Maas
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quando lui aveva appena smesso di portare il pannolino. Aveva capelli biondi tagliati cortissimi e un torace possente e si muoveva con l'agile grazia di un atleta. Era stato, del resto, capitano della squadra di atletica leggera dell'Accademia navale e aveva partecipato alle Olimpiadi di Berlino del 1936, ottenendo un quarto posto nella finale dei 400 metri a ostacoli. Da quasi un anno era sposato con Betty, la figlia del capitano Greenlee, e aveva programmato, per la sera dell'indomani, di andare con lei a Boston ad attendere i propri genitori in arrivo da Oklahoma City, loro città d'origine, per aiutarli a organizzare la festa del primo anniversario di matrimonio. Patterson era rimasto deluso nel vedere che Greenlee non si era presentato per partecipare all'immersione di prova. Evidentemente, doveva essere successo qualcosa. Al pari del suocero, aveva deciso infine di infischiarsene: ci sarebbero state molte altre occasioni.
3 Superata White Island, l'ultima delle Isles of Shoals, Naquin ordinò di puntare verso sud-est. Il settore della piattaforma continentale da lui prescelto per l'immersione era caratterizzato da una profondità media di circa ottanta metri. Il sole continuava senza più speranze il suo gioco a rimpiattino con le nuvole incombenti. Lo Squalus avanzava tra onde lunghe che si infrangevano sull'impiantito in teak del ponte, per poi scivolare indietro lungo il nero scafo d'acciaio. In coperta, Naquin veniva sferzato in viso dagli spruzzi d'acqua salata. Aveva in mente di far svolgere, nel pomeriggio, un'esercitazione al lancio dei siluri e sperava che il tempo non peggiorasse. Il giorno prima, tutti gli otto siluri a salve erano stati recuperati, e Naquin sapeva che l'ammiraglio Cole apprezzava molto l'attenzione prestata al contenimento dei costi. Alle otto e tredici minuti, secondo il giornale di bordo, Naquin diede ordine di notificare a Portsmouth le coordinate precise del luogo dell'immersione. Nel suo angusto cubicolo accanto alla camera di manovra, l'operatore radio Charles Powell trasmise il messaggio in alfabeto Morse. In qualche modo - o in fase di trasmissione o in fase di ricezione - le cifre vennero però confuse. Nessuno si rese conto che la posizione effettivamente riportata si trovava a circa cinque miglia a est del Peter Maas
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luogo in cui lo Squalus sarebbe stato inghiottito dagli abissi. Il 23 maggio, praticamente tutti gli uomini dell'equipaggio avevano una postazione da occupare durante l'immersione. In genere, le cose andavano diversamente: una volta unitosi al resto della flotta, l'equipaggio sarebbe stato diviso in tre gruppi, che si sarebbero dati il cambio ogni quattro ore. Durante queste immersioni di prova, però, gli uomini erano quasi tutti in servizio, e chi non era attivamente impegnato si limitava a osservare o a trascrivere dati utili alle statistiche sulle prestazioni del sommergibile. Naquin ordinò di prepararsi all'immersione. Sotto di lui, in camera di manovra, il suo secondo, Walter Doyle jr., anch'egli atleta di successo ad Annapolis, ingiunse all'equipaggio di prendere posizione. Doyle, un taciturno irlandese dai capelli neri, era l'ufficiale responsabile di quell'immersione. Sarebbe stato accolto anche a West Point, ma aveva preferito la marina, spaventato dai racconti sulla vita di trincea uditi dal padre, che era stato maggiore dell'esercito durante la Prima Guerra mondiale. Sullo Squalus aveva l'opportunità di fare l'esperienza che gli avrebbe infine consentito di comandare un sottomarino. Gli uomini della camera di lancio prodiera erano già in azione. Nell'eventualità che Naquin decidesse di sparare qualche colpo subito dopo l'immersione, il sottotenente di vascello John Nichols, ventottenne ufficiale responsabile dell'artiglieria e dei siluri, aveva ordinato loro di disporre un proiettile in posizione di caricamento. Mentre si accingevano a prelevarne un secondo, arrivò l'ordine di Doyle, e Nichols comandò di interrompere le operazioni finché lo Squalus non avesse completato l'immersione. Nichols, di norma, avrebbe dovuto trovarsi in camera di manovra, davanti all'elaboratore di dati impiegato nella gestione dei sistemi d'arma l'equivalente di un mirino in una pistola - ma voleva assistere alle esercitazioni di caricamento dei siluri, aspetto al cui riguardo Naquin aveva manifestato insoddisfazione. Nichols aveva persino pensato di ispezionare la camera di lancio poppiera, ma non c'era più tempo. E poi aveva piena fiducia nelle capacità del guardiamarina Joseph Patterson. Nichols verificò, allora, che gli sportelli dei lanciasiluri fossero chiusi e raggiunse la batteria di prua, al di là della cabina di Naquin. Un addetto alla mensa filippino, uno dei due che servivano i pasti agli ufficiali e ai sottufficiali capo, stava sciacquando in un lavandino alcuni strofinacci Peter Maas
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sporchi. A Lawrence Gainor, un burbero capo elettricista sulla quarantina che prestava servizio sui sommergibili da almeno vent'anni, era affidato il rilevamento dei dati tecnici relativi alla batteria di prua, con la collaborazione di un marinaio che prendeva materialmente nota. Gerry McLees, intanto, stava passando al livello inferiore del sommergibile per ispezionare direttamente le batterie. Subito dopo, Nichols informò Doyle, in camera di manovra, che i due compartimenti di prua erano pronti all'immersione. Dopo la laurea conseguita nel 1930 all'Accademia navale, Nichols era stato assegnato alla nave da guerra Maryland, ma aveva poi firmato come volontario per servire sui sommergibili. «Sai, c'è un inconveniente», gli aveva detto un collega ufficiale della Maryland. «E quale sarebbe?» «Se un sommergibile affonda, non è che puoi scappare a nuoto.» Nella batteria di poppa, due soli uomini erano liberi da incarichi in vista dell'immersione. Uno era il cuoco, Bobby Thompson, da Nashville, Tennessee. Avendo preparato la colazione per tutti, era in piedi da diverse ore. Terminato il lavoro alle otto meno un quarto, aveva annunciato che durante l'immersione avrebbe dormito e si era ritirato in cuccetta. L'altro era un aiuto farmacista di I classe, Ray O'Hara, l'ultimo arrivato tra gli uomini dell'equipaggio, distaccato sullo Squalus nel week-end precedente. Dopo colazione, O'Hara aveva raggiunto l'armadietto delle medicine in fondo al compartimento, dove un marinaio ventunenne, Robert Washburn, si lamentava per un raffreddore. Essendo al suo primo incarico su un sommergibile, O'Hara fu estremamente scrupoloso. Misurò la temperatura di Washburn, vide che aveva qualche linea di febbre e si accinse a prendere dell'aspirina dall'armadietto. Quando toccò a John Batick, il tatuato, scendere al livello inferiore per controllare la seconda metà del gruppo elettrogeno, questi, diversamente da McLees, richiuse la botola sopra di sé a causa del continuo viavai nel compartimento superiore, lungo una dozzina di metri e stipato di cuccette su entrambi i lati. Presso la paratia a tenuta stagna che separava la batteria di poppa dalla camera di manovra, Lloyd Maness si preparò alle stesse rilevazioni che avrebbe svolto il capo elettricista Gainor sulle batterie di prua. In caso di Peter Maas
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emergenza, Maness aveva il compito di precipitarsi in camera di manovra, chiudendosi la paratia alle spalle. A uno dei tavoli della mensa, Bill Boulton, marinaio di I classe, si stava togliendo di dosso la tenuta antiintemperie. Era appena rientrato dal ponte principale, ormai coperto dall'acqua: una volta rimossa la bandiera e accertatosi che non vi fossero funi penzolanti, si era richiuso il boccaporto alle spalle. Poteva prendersela comoda, ora, fino al momento della riemersione. In cambusa, l'aiuto cuoco dello Squalus, Will Isaacs, stava preparando il pranzo con la collaborazione di due marinai. A causa dello spazio ridotto, era costretto a cucinare e servire in diversi turni, e la prima ondata di marinai affamati sarebbe arrivata poco dopo la riemersione. Basilio Galvan, da Manila, secondo addetto alla mensa degli ufficiali e dei sottufficiali capo, domandò - di ritorno dalla batteria di prua - che cosa prevedesse il menu del giorno. «Spaghetti e polpette», rispose Isaacs, ma poiché l'immersione era ormai imminente spense il forno elettrico, per evitare che durante la discesa dello Squalus, il sugo potesse traboccare dalla padella in cui le polpette stavano cuocendo, causando un cortocircuito. Passando di corsa, Galvan calpestò la botola sotto la quale si trovava Batick e, transitando accanto alla prima serie di cuccette, vide sdraiato su una di esse il cuoco incaricato della colazione. Come preannunciato, nonostante tutto il trambusto, Thompson se la dormiva beatamente. Sfiorò anche un aiuto elettricista veterano, Jud Bland, intento a sistemarsi sulla testa la cuffia con microfono incorporato. Bland doveva occuparsi, durante l'immersione, del telefono della batteria di poppa. In tutti i compartimenti c'era un addetto alle comunicazioni, come lui incaricato di notificare la situazione alla camera di manovra. Nella sala macchine anteriore, il marinaio di I classe Joshua Casey attendeva con le cuffie sulle orecchie l'ordine di spegnere i grossi motori diesel che al momento stavano spingendo lo Squalus a una velocità di sedici nodi. Al fianco di Casey c'era Gene Hoffman, aiuto macchinista di I classe, che non vedeva l'ora di guadagnarsi i gradi del suo superiore. Passeggiando avanti e indietro da un motore all'altro, Hoffman sentiva di poter vantare su di essi quasi un diritto di proprietà. Era stato inviato Peter Maas
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presso lo stabilimento di Cleveland della General Motors che li avrebbe costruiti e aveva assistito al loro assemblaggio pezzo per pezzo, per otto lunghi mesi. Quindi, era tornato con i motori a Portsmouth, per installarli sullo Squalus. Nell'eventualità di guasti o problemi durante i collaudi, sul sommergibile era pronto a intervenire anche un esperto della General Motors. Fino a quel momento, però, tutto aveva funzionato a meraviglia. Nel caso di una seconda immersione nel pomeriggio, era previsto che Hoffman si scambiasse di posto con un altro aiuto macchinista veterano, Charlie Yuhas, distaccato in camera di manovra. Per quella sera, la moglie di Hoffman, Mae, aveva invitato Yuhas, che era scapolo, a cena a casa loro, con l'intenzione di presentargli una ragazza che lei riteneva potesse piacergli. Insieme a Hoffman, anche il capo macchinista John Chestnutt era stato a Cleveland. Padre di tre figli - due maschi e una femmina - Chestnutt si era guadagnato i gradi di capo solo sei mesi prima. Alla nascita dell'ultimo figlio, sua moglie Ellen aveva ripreso a supplicarlo di farsi trasferire dal sommergibile al servizio in superficie. Gli aveva detto che non ce la faceva più a sopportare i ricorrenti incubi che le mostravano suo marito imprigionato in quella tomba sott'acqua, e lui aveva infine promesso di prendere seriamente in considerazione l'ipotesi. Del resto, con la promozione di Hoffman, ci sarebbero stati un po' troppi capi a bordo. Nel frattempo, per quei collaudi in mare, avrebbe dovuto continuare a servire sullo Squalus e si trovava nella sala macchine di poppa, dove gli ordini sulla velocità da tenere, diramati da Naquin, venivano messi in atto. In totale, il mattino del 23 maggio c'erano diciotto uomini nelle due sale macchine. Nella camera di lancio poppiera, agli ordini del tenente di vascello Nichols, il guardiamarina Patterson stava eseguendo le sue esercitazioni di caricamento siluri. Fu allora che il telefonista Al Priester, riferì dell'ordine, trasmesso da Doyle, di prepararsi all'immersione. Priester sfoggiava tatuaggi elaborati come quelli di John Batick. Sull'avambraccio sinistro faceva capolino Braccio di Ferro, mentre sul bicipite destro campeggiava un alloro commemorativo con l'iscrizione "Across the Equator". Quando aveva ricevuto l'ordine di presentarsi a rapporto sullo Squalus, la moglie era rimasta sul lato atlantico del Canale di Panama, dove Priester aveva fino ad allora servito. Contava di rivederla nel giro di un mese, in Peter Maas
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occasione di uno scalo; si sarebbero ricongiunti una volta scelta la base che avrebbe ospitato lo Squalus. Si parlava di destinazioni nel Pacifico: o Manila o Pearl Harbor. Patterson attraversò rapidamente le sale macchine e quella della batteria di poppa. Giunto in camera di manovra comunicò a Doyle che i compartimenti di poppa erano pronti, per poi tornare al suo posto a osservare il passaggio dal rombo della propulsione diesel al ronzio di quella elettrica.
*** Sul ponte di comando con Naquin, il sottotenente di vascello Robert Robertson, ufficiale di rotta e di manovra, proveniente da uno sputo di paese sperduto del Texas, eseguì un rilevamento con il sestante e comunicò al capitano che il punto prescelto per l'immersione distava circa un miglio e mezzo. Erano le 8,30, ora della marina. In camera di manovra, l'ufficiale incaricato Doyle disse: «Informate il capitano che il sommergibile è pronto all'immersione». Il sottufficiale assistente di II classe Charles Kuney riferì il messaggio a Naquin via telefono. Sempre dal ponte, Naquin ordinò: «Avanti tutta, in emersione!». Voleva che lo Squalus raggiungesse la velocità massima, e il sommergibile obbedì, lanciato oltre i sedici nodi. Quindi, diede ordine di notificare l'imminenza dell'immersione. Nel suo cubicolo, l'operatore radio Powell inviò a Portsmouth il secondo messaggio: il sommergibile sta per immergersi e resterà sott'acqua per un'ora. Portsmouth confermò di aver ricevuto. Powell interruppe la comunicazione e si accinse a ritrarre l'antenna. A quel punto, Naquin ordinò: «Pronti all'immersione». Lanciò un'ultima fiduciosa occhiata tutt'intorno. A parte i due pescatori di aragoste incrociati poco prima, lo Squalus era in perfetta solitudine. Naquin, per ultimo, si calò attraverso il boccaporto della torretta e con l'aiuto del suo quartiermastro Frankie Murphy lo richiuse. Anche senza conoscerne il cognome, si capiva a prima vista, dalle sue lentiggini, che Murphy era irlandese. Essendo del quartiere di Charlestown, a Boston, aveva trascorso il week-end a casa, e sua madre l'aveva rimproverato perché si era Peter Maas
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appisolato durante la messa domenicale. «Dovresti inginocchiarti e ringraziare il Signore che ti conserva sano e salvo su quell'orribile affare su cui navighi», gli aveva detto. Richiuso il boccaporto, Naquin udì il segnale acustico del primo avviso d'immersione. Avviò il suo cronometro da polso e discese la stretta scala a pioli che lo condusse in camera di manovra. In camera di manovra c'erano dieci uomini, pronti a dare avvio alle operazioni che avrebbero portato lo Squalus sotto la superficie dell'acqua. Walter Doyle era al centro della camera, leggermente spostato verso l'estremità anteriore del compartimento. Da quella posizione, ruotando leggermente il capo, era in grado di tenere d'occhio tutti gli indicatori e gli strumenti di controllo essenziali del sommergibile. Harold Preble osservava: sistemato alle spalle di Doyle, con un piede posato su una cassetta degli attrezzi e l'altro sull'ultimo piolo della scala che scendeva dalla torretta, godeva di una prospettiva praticamente identica. Aveva due cronometri, uno per ogni mano. Quando risuonò il primo segnale acustico, Doyle aveva già verificato la funzionalità del periscopio numero 1, si era assicurato che gli addetti alle casse di zavorra e alla pressione dell'aria fossero in posizione e aveva ordinato agli operatori dei timoni di profondità di prua e di poppa di controllare le grosse pinne sporgenti dallo scafo, che agivano nell'acqua in modo analogo ai flap degli aerei nell'aria. Aveva osservato con estrema attenzione il quadro di controllo - che chiamavano "albero di Natale" - e aveva ottenuto la conferma di quanto riportato da Nichols e Patterson: il sommergibile era pronto all'immersione. Il quadro era cosparso di luci rosse e verdi, raffiguranti ciascuna una particolare apertura dello scafo o della sovrastruttura: ermeticamente chiusa se la luce era verde, aperta se la luce era rossa. Sul quadro comparivano solo otto lucine rosse, tra le tantissime verdi: quattro di esse indicavano le valvole di scarico dei motori diesel; una era quella della valvola a farfalla da cui spuntava l'antenna; un'altra per il boccaporto d'accesso al ponte, sulla parte superiore della torretta. Le due spie rosse che restavano erano collegate alle due grosse aperture - situate nella parte laterale superiore della torretta, appena sotto il ponte - che, quando il sommergibile si trovava in superficie, convogliavano aria verso i motori diesel e, soprattutto, all'interno degli spazi occupati dall'equipaggio. Peter Maas
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Erano entrambe protette da una lastra d'acciaio traforata e sarebbero rimaste aperte fino al momento dell'immersione. E il momento era ormai prossimo. Tutto doveva svolgersi con estrema rapidità. In camera di manovra, l'atmosfera si riscaldò sensibilmente, lasciando trapelare una lieve tensione. Doyle diede ordine ai timonieri di prua e di poppa di predisporre i timoni per l'immersione rapida. Contemporaneamente, a suo comando, le casse di zavorra principali che cingevano lo scafo vennero aperte, per dar luogo all'immersione a pelo d'acqua. C'era un altro serbatoio - detto cassa d'emersione di prua - sistemato sul davanti, tra i lanciasiluri, che determinava l'inclinazione della prua durante l'immersione. Oltre a questi c'erano alcuni serbatoi ausiliari più piccoli, utili per consentire allo scafo di mantenere l'assetto migliore sott'acqua. Il mare inondò questi serbatoi attraverso le valvole aperte sulla parte inferiore. Sulla parte superiore, invece, c'erano degli sfiatatoi che, lasciando defluire l'aria, consentivano il loro riempimento. Quando il sommergibile doveva riemergere, chiaramente, si verificava il processo inverso. A immersione completata questi sfiatatoi venivano chiusi, e getti di aria compressa, prodotta da cilindri azionati in camera di manovra, facevano fuoriuscire l'acqua dalle stesse valvole da cui era entrata. In rapida successione, Doyle ordinò l'apertura delle valvole e degli sfiatatoi della cassa d'emersione di prua e delle casse di zavorra 1 e 2. Fu poi la volta delle casse 3 e 4, che dovevano, però, essere riempite solo parzialmente. Prima di ordinare l'apertura dei relativi sfiatatoi, attese di essere certo che lo Squalus fosse ermeticamente sigillato. Quell'informazione doveva fornirgliela il quadro di controllo. I suoi occhi non se ne sarebbero più staccati. Vide la spia del boccaporto della torretta passare dal rosso al verde, dopo che Naquin e Murphy lo ebbero richiuso, subito emulata dalla spia dell'antenna. Toccò poi a quelle degli scarichi dei motori. Quando si spensero i diesel, in camera di manovra calò un silenzio terrificante. D'improvviso tutti ebbero l'impressione di respirare molto rumorosamente. Sull'"albero di Natale" della camera di manovra, rimanevano due sole luci rosse: quelle delle valvole di aspirazione principali, che si chiudevano contemporaneamente per mezzo di un'unica leva, azionata, quel mattino, dall'aiuto macchinista di II classe Al Prien, che aveva svolto il medesimo Peter Maas
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compito su un altro sommergibile, prima di essere assegnato allo Squalus. Prien azionò la leva delle valvole d'aspirazione principali. All'istante, le due ultime lucine rosse diventarono verdi. Il tenente di vascello Doyle chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, il quadro di controllo era completamente verde. Lo Squalus era in sicurezza. Per avere un'ulteriore conferma, Carol Pierce, altro esperto aiuto macchinista, fece fuoriuscire aria da uno dei banchi di cilindri pressurizzati. Se all'interno dello scafo la pressione aumentava, il sommergibile era da considerarsi ermeticamente chiuso, a tenuta stagna. Dalla postazione alle spalle di Doyle, Pierce annunciò: «Sommergibile in pressione, signore». Doyle sollevò la destra e protese due dita. A questo segnale, il capo torpediniere Roy Campbell, il soldato semplice di grado più elevato, premette un bottone, e sul sommergibile riecheggiò il secondo ah-uuu-gah ah-uuugah, ultimo segnale acustico prima dell'immersione. Propulso a batteria, lo Squalus scivolò sotto la superficie dell'oceano. All'esterno, un ipotetico spettatore avrebbe visto la fredda acqua dell'Atlantico settentrionale ribollire sotto il suo scafo affusolato, inghiottire il cannoncino da tre pollici situato sul ponte e circondare la base della sua torretta. E all'improvviso, l'avrebbe visto scomparire.
*** In camera di manovra, dopo il secondo segnale acustico, Campbell si voltò d'istinto verso il quadro di controllo e vide che era completamente verde. Anche il sottufficiale assistente Kuney, addetto alle comunicazioni della camera di manovra, vide che era verde. Kuney sperava, ogni volta, di ricevere notizia della chiusura di una qualche valvola prima della comparsa della luce verde sul quadro di controllo, ma anche questa volta aveva vinto il quadro. Pure Al Prien, lasciando la leva delle valvole d'aspirazione principali, vide che il quadro di controllo era verde. E anche Harold Preble, ancora con i cronometri in mano. In contemporanea con il secondo segnale acustico, Oliver Naquin posò il Peter Maas
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piede sul gradino inferiore della scala della torretta. Anche lui notò che sul quadro non comparivano spie rosse. Passò accanto a Preble e raggiunse il suo vice in postazione di comando. Concentrò la propria attenzione sull'indicatore di profondità. A poco meno di dieci metri sotto la superficie, lo Squalus ebbe un'esitazione. Era normale, in immersione: segnalava l'esaurimento della spinta iniziale del sommergibile. In breve, però, contro la pressione montante del mare, entrarono in azione i motori elettrici, che consentirono di riprendere la discesa. A dieci piedi, Preble disse a Naquin: «Va bene, va bene. Stavolta ce la fate». «Stavolta», disse Naquin, «andrà tutto a meraviglia.» L'indicatore di profondità si muoveva sempre più rapidamente: dodici metri... quindici metri... All'interno della torretta, Frankie Murphy vide l'acqua salire oltre i piccoli oblò. Doyle ordinò ai timonieri di prua e di poppa di ridurre gradualmente l'angolazione dei timoni: voleva che lo Squalus recuperasse la posizione orizzontale a una profondità di circa venti metri. A diciassette metri, profondità prevista per il rilevamento del tempo di immersione, esclamarono all'unisono: «Ci siamo!». Fermarono i loro cronometri e confrontarono i risultati. Il tempo impiegato superava di poco più di un secondo il minuto netto, il tempo che Naquin sperava di realizzare. «Bene, bene», ripeté Preble. Naquin sorrise. Era andata meglio di quanto credeva. Gli restavano tre settimane per esercitarsi nelle immersioni rapide e migliorare il tempo della prestazione. Si spostò al periscopio 1, ne afferrò il manubrio e si chinò leggermente ad appoggiare fronte, naso e zigomi sul visore circondato di gomma. All'improvviso, percepì uno strano movimento nell'aria. Un istante dopo, l'addetto alle comunicazioni Kuney spalancò gli occhi incredulo, ma non per quel che vedeva, bensì per quel che stava sentendo. Per la prima volta gli giungeva via telefono una notizia che non era confermata dal quadro di controllo. Gridando, riferì la sconvolgente notizia: «Signore! Le sale macchine! Si stanno allagando!».
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4 Si chiamava Charles Bowers Momsen. Aveva quarantatré anni ed era capitano di corvetta della marina americana. Quasi tutti lo chiamavano Swede, "lo Svedese". Gli avevano dato questo soprannome ad Annapolis e gli era rimasto appiccicato, nonostante i suoi antenati fossero tedeschi del nord e danesi. Del resto, sarebbe parso perfettamente al suo posto sul ponte di una nave da carico scandinava. Era alto, aveva un'indomabile chioma castano chiaro, mascella squadrata e modi pacati. La sua aria posata, però, celava una straordinaria combinazione di intelligenza, competenze scientifiche e doti da uomo d'azione. Molti l'avrebbero definito il miglior sommergibilista americano di tutti i tempi, ma lui era, prima di tutto, un essere umano. E le sue qualità umane risultavano subito evidenti. Prima di Momsen, quando un sommergibile colava a picco, la sorte degli uomini a bordo era segnata, a parte rarissimi casi particolarmente fortunati. Da quando la marina americana, nel 1900, si era dotata del primo sommergibile, l'Holland, si era sempre accettato tacitamente il fatto che in caso di affondamento non ci fosse scampo. Lo Svedese, però, la pensava diversamente. E, in quel martedì di maggio del 1939, Momsen era di sicuro la persona più esperta e competente al mondo in fatto di salvataggi sottomarini. Tutti gli strumenti di intervento per tentare di salvare un sommergibile colato a picco - bombe fumogene, radio boe telefoniche, nuove tecniche di immersione a elevate profondità, boccaporti d'emergenza e polmoni artificiali, oltre a una grande campana d'immersione a forma di pera, detta "camera di salvataggio" - erano direttamente il frutto della sua pionieristica audacia inventiva, o avevano assunto una qualche utilità solo a seguito dei miglioramenti da lui introdotti. Nessuno di questi strumenti, però, era mai stato sperimentato sul campo in occasione di un vero affondamento. Per Swede Momsen, il momento di verificare quale fosse il suo valore sarebbe arrivato presto. Come sempre, anche quel 23 di maggio Momsen si alzò alle sei del mattino e raggiunse la cucina, al piano inferiore di casa sua, nel nord della Virginia, per prepararsi la prima delle innumerevoli tazze di caffè che ingurgitava in una giornata. Molti erano i pensieri che gli occupavano la mente. Nei venti mesi Peter Maas
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precedenti aveva comandato gli esperimenti a grandi profondità di un'unità speciale di palombari presso la base navale di Washington. Sotto la sua guida, era stato conseguito un importantissimo risultato. L'aria che noi tutti respiriamo è una miscela di due gas invisibili - ossigeno e azoto - le cui caratteristiche benefiche mutano completamente sotto l'effetto della pressione del mare. Alla profondità ancora relativamente ridotta di dieci metri, l'ossigeno - che rappresenta circa un quinto di una normale inspirazione - diventa sempre più tossico. Con la pressione che si registra a una profondità di sessantacinque metri, all'incirca sette volte superiore a quella che sperimentiamo in superficie, la stessa quantità di ossigeno può risultare fatale, causando convulsioni e coma. A sessanta metri, anche l'azoto costituisce un'insidia. Sotto pressione, si diffonde nel sangue e nei tessuti, provocando un'alterazione dello stato di coscienza che inibisce il pensiero razionale, simile all'effetto di certe droghe, ed è nota con il nome di "embolia gassosa" o "malattia dei cassoni". Se un palombaro inesperto risale in superficie troppo rapidamente, l'azoto presente nei suoi tessuti torna in circolo nel sangue, sotto forma di bolle che si insediano nelle giunture, causando atroci sofferenze e, in assenza di un rapido intervento, l'invalidità o la morte. Momsen, però, nel corso di una serie di complesse e fondamentali prove, aveva sostituito l'azoto con un altro gas inerte e atossico: l'elio. Dopo di che aveva attentamente determinato la quantità di elio necessaria a un palombaro, in base alla profondità e a seconda che questi fosse in fase di immersione o di emersione. Aveva infine dimostrato che questa nuova miscela di elio e ossigeno consentiva ai palombari di operare efficacemente ben oltre i novanta metri; per l'epoca rappresentava un record. (Il successo di questa miscela ampliò di molto le possibilità umane di esplorare le profondità marine. Senza la sua invenzione, ad esempio, sarebbero impossibili le imprese subacquee che al giorno d'oggi ci appaiono d'ordinaria amministrazione. Alcuni decenni dopo, un'evoluzione di questa idea sarebbe servita, in una delle operazioni spionistiche più brillanti della Guerra Fredda, a piazzare microspie sui cavi telefonici sottomarini che collegavano Mosca ad alcune remote basi di sommergibili sovietici con missili a testata nucleare). I primi tempi, tuttavia, erano stati duri. Più di una volta, nel grande serbatoio pressurizzato in cui Momsen svolgeva i suoi esperimenti, i palombari erano stati colpiti da embolia. Proprio pochi giorni prima Peter Maas
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dell'incidente dello Squalus si era verificato un caso particolarmente drammatico. Mentre la pressione all'interno del serbatoio veniva gradualmente attenuata a simulare una risalita, il palombaro all'improvviso si era raggomitolato. A coloro che seguivano l'esperimento attraverso gli oblò era parso immediatamente un altro caso di embolia gassosa. La normale procedura, in quelle circostanze, prevedeva un rapido aumento della pressione cui doveva far seguito una diminuzione più lenta. Momsen era pronto a dare l'ordine, ma d'istinto si era trattenuto. L'elemento su cui si era basato era apparentemente di poco conto: il palombaro colpito non aveva lamentato l'acuto dolore che in genere accompagna un vero attacco di embolia. Dunque, lasciando i suoi assistenti a bocca aperta, Momsen aveva ordinato che la pressione all'interno del cassone venisse azzerata: il palombaro privo di sensi era stato poi estratto e trasportato in tutta fretta in camera di decompressione. Un successivo prelievo di campioni d'aria all'interno del cassone avrebbe indicato la presenza di tassi letali di monossido di carbonio prodotto da lubrificanti bruciati nei compressori. Se la pressione fosse stata aumentata, il palombaro sarebbe morto all'istante. Grazie a Momsen, si era salvato in extremis. Episodi come questo producevano l'effetto di rendere incrollabile la fiducia riposta in Momsen dai suoi palombari. Del resto, nel corso dei suoi vasti e avventurosi studi sui sistemi per salvare la vita di sommergibilisti intrappolati in fondo al mare, non aveva mai chiesto a chicchessia di tentare imprese che lui stesso non avesse già superato. Il mattino del 23 maggio, Momsen stava appunto pensando alla base navale di Portsmouth. I suoi test invernali in laboratorio erano praticamente conclusi. Ora si trattava di sperimentare in mare. Di lì a dieci giorni, contava di portare la sua squadra di palombari a Portsmouth, dove avrebbero lavorato per tutta l'estate. Vi avevano già spedito un bel po' di materiale, e un'altra spedizione era fissata per quel pomeriggio. Spese una mezz'ora abbondante per scrivere una lettera di accompagnamento con tutte le raccomandazioni relative all'immagazzinamento e alla custodia del materiale fino al suo arrivo. Quindi, tornò al piano superiore con il succo di frutta e il caffè per la moglie Anne, che era a letto con l'influenza. Momsen quel giorno le aveva promesso che sarebbe tornato a casa presto dal lavoro per starle vicino. Dato che il clima era sgradevolmente caldo e afoso - la prima vera giornata Peter Maas
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del genere, quell'anno - Momsen indossò un vestito di lino e si calcò un panama in testa. Salì sulla berlina Packard comprata nuova due anni prima a Shanghai, al momento di tornare negli Stati Uniti per prendere servizio. Procedendo lungo il Potomac diretto alla base navale di Washington, si consolò al pensiero del clima fresco di cui avrebbe presto goduto al largo delle coste del New England.
5 Il grido improvviso di Kuney che annunciava l'allagamento delle sale macchine lasciò tutti di sasso, come ipnotizzati dal quadro di controllo. Le lucine dell'albero di Natale continuavano inspiegabilmente a essere tutte verdi. Impossibile! Per un istante, sui volti dei presenti si dipinse una perfetta espressione stupefatta. Eppure, l'impossibile si stava avverando. Per qualche ragione, la più sciagurata delle eventualità incombeva su di loro. Malgrado quanto segnalato dal quadro di controllo, la grossa valvola d'aspirazione dell'aria che comunicava con i diesel ormai spenti non si era richiusa, o forse si era riaperta. Con forza inaudita, tonnellate e tonnellate di acqua marina stavano inondando le sale macchine, come se un grosso idrante antincendio fosse improvvisamente impazzito. Lo strano spostamento d'aria percepito da Naquin alcuni istanti prima era l'effetto del flusso d'aria sospinto dall'acqua prepotentemente penetrata all'interno dello scafo dello Squalus. Naquin fu il primo a riscuotersi. «Svuotare la cassa di zavorra principale!», gridò. Non fece quasi in tempo a finire di pronunciare l'ordine, che Walter Doyle gridò: «Svuotate la cassa d'emersione di prua!». I membri dell'equipaggio presenti in camera di manovra, ancora paralizzati, si riscossero a loro volta e passarono all'azione. Al Prien, l'aiuto macchinista addetto in fase di immersione alle leve delle valvole e degli sfiatatoi, aveva già chiuso gli sfiatatoi dell'aria delle casse di zavorra. Accanto a lui, Carol Pierce, che appena prima dell'immersione, appena aveva insufflato aria all'interno del sommergibile per accertarsi che fosse ermeticamente sigillato, abbassò la leva che avrebbe sospinto aria all'interno della cassa d'emersione di prua, a una pressione di circa 250 chilogrammi per centimetro quadrato. Il banco numero 1 emise il getto Peter Maas
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d'aria. In camera di manovra, giunse come un sibilo cupo e lontano. Un attimo dopo, ripeté l'operazione con tutte le casse di zavorra principali, per svuotarle dall'acqua. Due aiuto artiglieri, Gene Cravens e Gavin Coyne, orientarono i timoni di profondità di prua e di poppa in modo da favorire la risalita immediata. Prien, dopo aver chiuso gli sfiatatoi dell'aria, rimase a fissare la leva che avrebbe dovuto chiudere le valvole d'aspirazione principali. La impugnò e cercò di tirarla ulteriormente verso di sé, ma senza successo. Era già completamente abbassata. Charles Kuney restò pietrificato, con le mani posate sulla cuffia per premerla sulle orecchie. L'ultima comunicazione giuntagli dai compartimenti di poppa era stata un grido disperato: «In superficie! Torniamo in superficie!». Kuney non era in grado di dire da quale compartimento fosse giunto. Lo Squalus fremette. A circa venticinque metri di profondità, per uno sconvolgente istante, rimase sospeso tra il fondo dell'oceano e la superficie. Quindi, diede l'impressione di rispondere positivamente all'introduzione di aria nelle casse di zavorra. La prua si inclinò verso l'alto, e il sommergibile risalì persino di qualche metro, riuscendo forse a sbucare con il naso tra le onde soprastanti. Ma il peso crescente della coda ebbe il sopravvento. Lo Squalus cominciò inesorabilmente a precipitare di poppa negli abissi dell'Atlantico settentrionale. Lo Squalus si inclinò così bruscamente che Naquin dovette aggrapparsi al manubrio del periscopio numero 1 e appoggiarsi alla struttura d'acciaio del secondo periscopio situato alle sue spalle per riuscire a tenere i piedi a terra. "Incredibile!", "continuava a pensare. "Com'era potuto accadere?". Mentre Pierce lanciava getti d'aria nelle casse di zavorra, Harold Preble corse in suo aiuto. Afferrata con una mano la base del giroscopio, il sovrintendente ai collaudi della base navale di Portsmouth si inginocchiò alle spalle di Pierce e tentò di attivare un cilindro d'aria di riserva per contribuire a un più rapido svuotamento dei serbatoi dall'acqua. Per aprire la valvola dovette ricorrere a una chiave fissa. Mentre era impegnato in questa operazione, un potente getto d'acqua lo colpì alla nuca, gettandolo a terra. Anche Pierce e Roy Campbell ne vennero investiti. Pierce, scavalcando Preble, impugnò la chiave fissa e terminò il lavoro, che finì, però, per rivelarsi inutile. Peter Maas
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Dopo aver aiutato Preble a rialzarsi, Campbell chiuse un condotto del sistema di aerazione da cui aveva cominciato a sgorgare acqua a fiotti. Il mare, ormai, si era fatto strada nei meandri di tubi che percorrevano lo Squalus. In camera di manovra, l'acqua salmastra usciva a spruzzi da almeno una decina di aperture diverse. Gli uomini erano freneticamente impegnati a chiuderle, sfruttando qualunque appiglio per mantenersi in piedi. A quel punto, Campbell udì, alle sue spalle, un forte sibilo, di pessimo auspicio, che ricondusse ai due gabinetti situati dietro la camera di manovra a dritta. Arrancò tra un banco di pulviscolo spumeggiante che fuoriusciva da un tubo di scarico del secondo gabinetto. Incontrò non poche difficoltà nel girare il rubinetto a volantino che avrebbe bloccato la perdita, ma alla fine riuscì nell'impresa. Dopo di che, chiuse tutte le valvole che gli capitarono sotto mano. Di fronte a Campbell, solo nel suo cubicolo, l'operatore radio Powell stava riponendo la sua trasmittente dopo l'invio a Portsmouth del secondo avviso di immersione, quando l'acqua cominciò a uscire da un condotto d'aerazione davanti a lui. Fece per chiudere una valvola che, in teoria, avrebbe dovuto interrompere il flusso, ma prima che potesse metterci mano, il fiotto si ridusse a una bava. Powell ne dedusse che qualcuno doveva aver chiuso un'altra valvola, più a monte nel sistema. Decise, in ogni caso, di chiudere anche la valvola che aveva di fronte e si avviò, in precario equilibrio, nella camera di manovra vera e propria, per scoprire che cosa stava succedendo. In alto, le luci presero a tremolare e, con un ultimo guizzo, si spensero. Entrò in funzione il sistema di illuminazione d'emergenza, ma subito anche questo si mise a fare le bizze. Nella camera di lancio prodiera, non appena gli giunse notizia che le sale macchine si stavano allagando, il tenente di vascello Nichols ordinò a Lenny de Medeiros di chiudere il portellone a tenuta stagna. Nello stesso istante, vide spuntare la testa e le spalle di Gerry McLees dalla botola che introduceva alla batteria di prua. A quel che pareva, in quel compartimento non erano sorti problemi. Quando la prua si sollevò bruscamente, de Medeiros pensò che, qualunque fosse il problema, non doveva essere poi così grave: il sommergibile sembrava sul punto di tornare in superficie. In quell'istante il siluro a salve pronto per il caricamento uscì di posto e prese a scivolare verso il basso. Avrebbe schiacciato tutto e tutti sulla sua Peter Maas
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traiettoria, se Nichols, il torpediniere di I classe Bill Fitzpatrick e il giovane marinaio Donny Persico non si fossero avventati a bloccarlo, per fissarlo nuovamente in posizione. Nichols riuscì, infine, a infilare una fune nell'anello situato sulla punta del siluro e a imbrigliarlo. Dai condotti d'aerazione filtravano, misti ad aria, spruzzi di acqua marina poco consistenti. Quando de Medeiros chiuse le valvole, gli spruzzi cessarono completamente. A quel punto, però, capì che il sommergibile stava lentamente affondando e che di riemergere non se ne parlava. Aveva visto Gerry McLees, distaccato presso la batteria di prua, ma non ricordava quale fosse la postazione assegnata al suo collaboratore più prossimo, Lloyd Maness. Come gli altri, in quel silenzio agghiacciante non poteva far altro che aspettare. E sperare. Nella batteria di prua, quando lo Squalus diede per un istante l'impressione di poter risalire, una caffettiera volò per la dispensa sfrecciando accanto a Feliciano Elvina, uno degli addetti alla mensa, che la raccolse e cercò di rimetterla a posto. La caffettiera, però, cadde di nuovo; Elvina, allora, la sistemò a terra, in un angolo. Con estremo fastidio, notò che dal rubinetto sgorgava dell'acqua che aveva già inzuppato le spugne che aveva appena strizzato e posato nel lavandino. Borbottando tra sé, Elvina si sporse in corridoio per cercare di capire che cosa stesse succedendo. Udì delle grida, ma non avendo ancora dimestichezza con l'inglese, non intese quel che dicevano. Vide l'amico e collega Basilio Galvan, di ritorno dall'indagine sul menu di mezzogiorno. Lo guardò con aria interrogativa. Galvan, che aveva già servito sui sommergibili, si strinse nelle spalle, ed Elvina, alla sua prima esperienza, non riuscì a capire se l'amico fosse preoccupato. In realtà, oltre che preoccupato, Galvan era sorpreso da quegli inattesi sviluppi; come veterano, però, preferì non darlo a vedere. Elvina, infine, si arrese e ritornò nella dispensa, accucciandosi accanto alla caffettiera. Alien Bryson, aiuto macchinista, era al telefono della batteria di prua quando udì l'urlo. E Gerry McLees stava chiudendo la botola sopra di sé quando udì l'allarmato annuncio di Bryson. McLees tornò immediatamente al livello superiore per vedere di che si trattava. Il capo elettricista Lawrence Gainor si era sistemato presso l'estremità posteriore del compartimento per compiere i rilevamenti al voltmetro. Non aveva ancora fornito alcun dato a Ted Jacobs, un operatore radio impiegato Peter Maas
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in fase di immersione per trascrivere quei dati su un registro, ma avrebbe presto avuto il suo bel daffare. Per certe persone il momento della verità giunge così inaspettato da non consentire la benché minima riflessione. Nel caso di Gainor, tutta la sua ventennale esperienza di sommergibilista entrò immediatamente in azione, innescata da quell'insondabile meccanismo per cui c'è chi è portato a fuggire e chi, invece, parte all'attacco, chi cerca un appiglio o un'opportunità e chi, invece, si abbandona alla rassegnazione. Gainor raggiunse subito la paratia a tenuta stagna che divideva la batteria anteriore dalla camera di manovra e, con l'aiuto di Jacobs la chiuse. Vide, dall'altro lato, i getti d'acqua prorompere dagli sbocchi della rete di tubi e, subito dopo, schiaffeggiare l'oblò. Per quel che ne sapeva, la camera di manovra poteva benissimo essere completamente allagata. Non c'era tempo per riflettere. Quando le luci del compartimento della batteria cominciarono a tremolare, Gainor diede un'altra occhiata ai suoi voltmetri. Segnalavano un calo vertiginoso della tensione elettrica. In qualche punto dell'impianto doveva essersi verificato un grave cortocircuito. Afferrò una torcia elettrica e si fece strada verso prua, in salita, verso la botola del compartimento. Quando guardò oltre la botola, fu accolto da una visione terribile. Dense fiammate bianco-azzurrine si protendevano tra una batteria e l'altra formando archi di venti centimetri. Fendendo l'oscurità, proiettavano ombre grottesche contro le pareti dello scafo. Si era sviluppato un calore così intenso che gli elementi esalavano vapore e il materiale di isolamento cominciava a sciogliersi. Mentre continuava nella sua rovinosa caduta, lo Squalus era sul punto di essere sventrato da una gigantesca esplosione, prima ancora di toccare il fondo. Senza indugiare, Gainor si infilò nella botola. Le grosse batterie, alte circa due metri, riempivano completamente lo spazio di quel vano, fatta eccezione per un angusto corridoio che le separava. Da solo, guardandosi dalle lingue di fuoco che lo lambivano, si acquattò in quello stretto passaggio e cercò a tentoni i due interruttori generali. Individuato l'interruttore a dritta, lo disinserì. Quindi, si voltò a babordo per spegnere anche l'altro. Di lì si sprigionò un arco terrificante che gli balenò davanti alla faccia. Se solo l'avesse sfiorato avrebbe fatto una fine orribile. Gainor era certo che sarebbe morto fulminato prima ancora di poter toccare l'interruttore. Ciononostante, non ebbe esitazioni e con un ultimo sforzo Peter Maas
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disperato lo disinserì. Quei micidiali archi svanirono. Rimase fermo per un po', nel tentativo di raccogliere le idee. Quindi, si avviò su per la scaletta. Nella batteria di poppa, Lloyd Maness si ritrovò in una situazione altrettanto scoraggiante. Come Gainor, anche Maness si accingeva a leggere le indicazioni del voltmetro, e al pari del collega non aveva ancora fornito alcun dato all'addetto alla trascrizione, Art Booth. E non gliene avrebbe forniti. Per Maness e Booth le prime fasi della procedura di immersione si erano svolte nel modo previsto. Booth, sul suo registro, aveva annotato l'ora. Insieme avevano atteso che la lancetta del voltmetro si stabilizzasse dopo il passaggio alla propulsione elettrica. Dalla camera di manovra giungeva la voce dell'ufficiale incaricato Doyle che dava i consueti ordini. All'improvviso, furono investiti dallo stesso spostamento d'aria percepito da Naquin. Subito dopo sentirono il grido di sorpresa di Kuney che annunciava l'allagamento delle sale macchine. Nella batteria di poppa si scatenò l'inferno. Andò via la luce. Al fioco bagliore delle lampadine d'emergenza, l'acqua penetrava da ogni parte. Maness raggiunse rapidamente la paratia a tenuta stagna tra la batteria di poppa e la camera di manovra, sul lato di quest'ultima - sua postazione di competenza in caso di allarme - e si preparò a chiuderla. Non appena fu in posizione, arrivò anche Booth. Più in là, nella batteria di poppa, l'aiuto elettricista di I classe Jud Bland era in servizio al telefono del compartimento. Quando gli giunse la notizia, fece fatica a crederci. Poi, però, fu travolto dall'acqua. Dapprima, pensò di chiudere le valvole dei soprastanti condotti di aerazione. Non sapeva esattamente dove si trovassero. Aveva servito per dodici anni nella flotta di superficie, e non solo sullo Squalus era alla sua prima esperienza, ma non era neppure mai stato distaccato nella batteria di poppa. Mentre Bland cercava le valvole, al fievole bagliore delle luci di emergenza, lo Squalus si inclinò con violenza verso l'alto, costringendolo in ginocchio. Si rese conto che la situazione era degenerata ben oltre il punto in cui la chiusura di alcune valvole potesse avere qualche effetto. Quando il senso di quegli improvvisi avvenimenti gli fu chiaro, Bland si lanciò di corsa verso la camera di manovra. Maness gli urlò di sbrigarsi. Il marinaio Bill Boulton giunse trafelato alle spalle di Bland. Poco prima Peter Maas
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era seduto a un tavolo della mensa, con gli occhi fissi nel vuoto, ad asciugarsi dopo essersi occupato, sul ponte, delle apparecchiature esterne del sommergibile. Era rimasto sbalordito nel veder scorrere l'acqua nel compartimento della batteria. Per un attimo, aveva temuto di non aver chiuso il boccaporto del ponte principale e, d'istinto, si era alzato per controllare. Si era reso conto, a quel punto, che l'acqua imbarcata dal compartimento gli circondava ormai i piedi. Mentre tentava di raccapezzarsi, l'acqua aveva cominciato a sgorgare da un gran numero di tubi in tutto il compartimento e, prima che potesse rendersene conto, a causa dell'improvvisa inclinazione del sommergibile, era affluita verso di lui, coprendolo fino alle caviglie. Boulton si era precipitato in avanti, mentre altri spruzzi lo sottoponevano a un impietoso tiro incrociato. In preda all'angoscia, Boulton aveva arrancato alla cieca verso la camera di manovra, finché non si era accorto di aver superato Maness, in postazione sulla soglia. All'estremità posteriore della batteria di poppa, Rob Washburn stava ancora aspettando che il farmacista O'Hara gli somministrasse l'aspirina per il raffreddore quando fu investito dall'acqua, che sprizzò con una potenza esplosiva dal condotto situato sopra l'armadietto dei medicinali, gettando Washburn a terra sul lato mancino del compartimento. Si era appena rimesso in piedi quando lo Squalus si inclinò repentinamente, atterrandolo di nuovo. Anche in questo caso, però, riuscì a rialzarsi. O'Hara stava rovistando nell'armadietto, quando l'acqua sbucò da sopra la sua testa, sfiorandolo. A quel punto, le boccette dei medicinali cominciarono a rotolar giù dagli scaffali. D'istinto, O'Hara tentò di afferrarle al volo, ma un attimo dopo si ritrovò seduto a terra, nell'acqua alta poco meno di una spanna. Si girò e si rialzò aiutandosi con entrambe le mani. Alla sua destra vide Washburn, che fino a poco prima era il suo paziente, e lo seguì. L'inclinazione dello Squalus era ormai tale che Washburn per procedere dovette arrampicarsi con fatica alle cuccette disposte lungo il compartimento, imitato da O'Hara, poco più indietro. Raggiunse la camera di manovra, e Lloyd Maness, sulla soglia, invitò O'Hara a sbrigarsi. In cambusa, Will Isaacs, il cuoco, attendeva con impazienza che lo Squalus si stabilizzasse per poter riaccendere il forno e finir di cuocere le polpette. Ad aiutarlo in mensa c'erano il marinaio Alex Keegan e un addetto alle macchine di II classe, Roland Blanchard. Al momento Peter Maas
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dell'immersione, Keegan era nel gabinetto dell'equipaggio, sul lato opposto del corridoio. Isaacs e Blanchard non lo rividero più. Al primo allarme acustico, Blanchard si era affrettato a chiudere una valvola del condotto di aerazione dello scafo che correva lungo la mensa. Era un incarico di sua pertinenza, in immersione, e come in altri casi aveva incontrato difficoltà nel girare il volantino, nuovo e poco scorrevole. Dalla valvola uscì dell'aria sospinta dall'acqua retrostante, e la pressione nel condotto aumentò al punto che Blanchard non riuscì più ad azionare il volantino. Dopo l'improvviso spostamento d'aria, Isaacs rivolse uno sguardo interrogativo lungo il corridoio, verso la cambusa, e fu colpito al volto da un potente getto d'acqua. Si spostò dalla traiettoria e guardò a poppa, verso la paratia leggermente aperta della sala macchine anteriore, da cui proveniva l'acqua. Isaacs si precipitò a chiuderla ermeticamente e, rialzatosi, guardò attraverso il piccolo oblò. Vide una scena spaventosa: un'impetuosa cateratta penetrava rombando all'interno del sommergibile attraverso la valvola d'aspirazione situata sopra i motori diesel. Li aveva praticamente già inghiottiti. Rimase a fissare la scena come in trance. In cambusa, Blanchard aveva rinunciato all'impresa di girare il volantino e si era avviato lungo il corridoio. Quando lo Squalus si inclinò all'insù, tutta l'acqua della batteria di poppa si rovesciò verso di lui. Blanchard avanzò controcorrente, agitando furiosamente le braccia per mantenere l'equilibrio. Risalito per circa un terzo del compartimento, scivolò e finì con la testa sott'acqua. Ebbe l'impressione di essere trascinato nuovamente verso il basso, ma all'ultimo istante riuscì ad afferrare un sostegno d'acciaio e si risollevò in piedi con una foga selvaggia. Da quel sostegno raggiunse con la forza della disperazione la più vicina serie di cuccette e, di lì, le altre. L'acqua non era più tanto alta, in quel punto, ma continuava a filtrare copiosa da tubi e condotti, rendendo precario l'equilibrio. Alzando gli occhi, in fondo al passaggio, vide che la porta della camera di manovra cominciava a chiudersi. Blanchard lanciò un grido. Maness lo udì e riaprì la porta. Per Isaacs il tempo stava scadendo. Con il viso premuto contro quel vetro, però, sembrava incapace di riscuotersi dalla terrificante visione della sala macchine anteriore. Non c'erano uomini, lì dentro, soltanto il turbolento oceano. Solo a quel punto si rese conto di essere immerso Peter Maas
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nell'acqua gelida fino alla vita. Neanche il tempo di muoversi, e gli era arrivata alle ascelle. Si allontanò in preda al panico dalla porta spingendosi con i piedi e poi nuotando, ma andò a urtare uno dei tavoli della mensa nascosti dalla marea montante. Isaacs finì sott'acqua, ma fece in tempo ad aggrapparsi a una gamba di uno dei tavoli fissati a terra e a risalire, sputando acqua salata. Proseguì nel suo sforzo e Maness, indugiando un ultimo istante sulla porta, lo intravide. Isaacs riuscì a infilarsi in camera di manovra e cadde in ginocchio, boccheggiante. Ora Maness non poteva più esitare. Anzi, per alcuni terribili secondi, si ebbe quasi l'impressione che avesse atteso troppo. Due volte aveva praticamente riaperto la paratia della camera di manovra: prima per Blanchard, poi per Isaacs. Scrutò nel compartimento buio. Ringraziò Dio per non avergli fatto scorgere nessun altro: non ce l'avrebbe fatta a chiudere la porta in faccia a una persona implorante. Il compito si rivelò più difficile del previsto. La paratia, dalla batteria di poppa, scorreva tracciando un breve arco e finiva per combaciare con una curva struttura di ferro che ostruiva il resto del corridoio. Di norma, quando lo Squalus era in posizione orizzontale, il portellone scivolava comodamente sui cardini. In quella circostanza, però, il sommergibile aveva la poppa inclinata verso il basso di circa 50°, cosicché Maness dovette tirarlo verso di sé come se fosse una botola. Una botola interamente d'acciaio, fatta eccezione per la piccola finestrella, che pesava alcune centinaia di chili. Doveva far tutto da solo. Non c'era abbastanza spazio perché qualcuno potesse aiutarlo. Maness si sporse in avanti e tirò, con l'acqua che già traboccava oltre il gradino della soglia. Fece un ulteriore sforzo, puntando i piedi ai lati dell'apertura, con enormi perle di sudore che gli si materializzavano sulla fronte. Il portellone cominciò a muoversi gradualmente ma con costanza, per poi bloccarsi a metà, senza andare né su né giù. Maness digrignò i denti. Producendo un ultimo poderoso sforzo, con le braccia e le gambe vibranti per la tensione e le spalle che minacciavano di uscirgli di posto, cercò nuovamente di sollevare il portellone, che questa volta, fortunatamente, si chiuse. Dall'altra parte c'era Sherman Shirley. Maness poteva solo sperare che il matrimonio non dovesse andare a monte e che Sherman fosse barricato al sicuro nella camera di lancio poppiera. Peter Maas
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John Batick, invece, aveva fatto la scelta sbagliata. Diversamente da Gerry McLees, era rimasto al livello inferiore della batteria di poppa, e quando la botola fu richiusa sopra di lui - non ebbe più scampo. Pochi istanti dopo, in un turbine di bollicine d'aria, lo Squalus toccò dolcemente il fondo dell'Atlantico settentrionale prima con la poppa, poi con la prua. All'interno se ne accorsero a malapena. Il sommergibile si posò con tutta la chiglia sul fondale, con un'inclinazione verso l'alto di circa undici gradi. Le luci d'emergenza erano spente e l'impianto di riscaldamento fuori uso. Lo Squalus giaceva senza speranze a poco più di 70 metri di profondità. La temperatura all'esterno dello scafo, era gelida. In camera di manovra, Roy Campbell proiettò la luce di una torcia elettrica al di là dell'oblò della paratia che Maness aveva appena chiuso. Una maligna pellicola di acqua oleosa rivestiva il vetro sull'altro lato. Non erano ancora le 8,45. Erano trascorsi meno di cinque minuti dal quando lo Squalus aveva intrapreso la sua immersione. In superficie era come se non fosse mai esistito.
6 L'ammiraglio Cyrus Cole era arrivato nel suo ufficio alla base navale di Portsmouth alle otto in punto, in perfetto orario. A parte la delegazione di autorità che avrebbe dovuto ricevere, lo aspettava una giornata perfettamente normale. Oltre ai consueti lavori di costruzione e riparazione, solo due navi di sua competenza avrebbero preso il mare. Oltre allo Squalus, anche il sottomarino gemello Sculpin doveva partire per una crociera di collaudo di due mesi in Sudamerica. Cole era di ottimo umore. Appassionato scultore dilettante, aveva appena terminato un busto dell'ammiraglio David Farragut, il quale, nel corso della battaglia di Mobile Bay, durante la Guerra di Secessione, aveva pronunciato il celebre ordine: «Damn the torpedoes! Full speed ahead!» [lett. "Al diavolo i siluri! Avanti tutta!"]. Sperava di poter lasciare la base abbastanza presto per poter andare a seguire le operazioni di fusione del busto. Appena prima di introdurre le autorità in visita, l'assistente-capo di Cole passò all'ammiraglio le trascrizioni dei messaggi inviati dallo Squalus, che informavano dell'ora, del luogo e della prevista durata dell'immersione del mattino. Peter Maas
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Quando l'incontro ebbe termine, Cole si mise a consultare una pila di documenti ammucchiati sulla sua scrivania. Nessuno a Portsmouth si preoccupò più di tanto per il fatto che lo Squalus non era riemerso all'ora prevista. Non era la prima volta che un sommergibile risaliva con qualche ritardo. Presto, però, i minuti di ritardo diventarono un'ora. Cole chiamò il suo aiutante, il capitano di corvetta John Curley. «Perché non abbiamo ancora notizie dello Squalus?», domandò. Curley, che presto sarebbe partito per mare in missione e aveva passato la giornata a istruire l'ufficiale che doveva sostituirlo, rispose: «Non saprei, signore. Stavo appunto per sottoporle la questione. Comincio a essere un po' preoccupato». «Anch'io», disse Cole. «Si tratta sicuramente di una dimenticanza, ma preferirei accertarmene al più presto.» Prima che Curley potesse lasciare l'ufficio di Cole, l'ufficiale in servizio presso la radio della base si presentò per riferire che da venti minuti cercava senza successo di stabilire un contatto con lo Squalus. Cole ordinò a Curley di telefonare alla base navale di Charlestown, a Boston, per vedere se da lì riuscivano a mettersi in comunicazione con il sommergibile. Quando il tentativo si rivelò inutile, l'apprensione del contrammiraglio registrò una brusca impennata. Eppure, gli riusciva difficile pensare al peggio. Si ricordò delle parole entusiastiche di Harold Preble a proposito dello Squalus e si tranquillizzò ripensando al caso di quell'altro sommergibile di Portsmouth, il Pollack, che pochi mesi prima aveva tralasciato di comunicare l'avvenuta riemersione dopo una missione di routine. Cole aveva immediatamente dato ordine al Pike di andare a verificare e aveva scoperto che si trattava di un falso allarme: il Pollack era riemerso con la valvola dell'antenna radio parzialmente aperta. Benché il problema fosse stato risolto rapidamente, la radio era rimasta temporaneamente fuori uso. Curley, però, tornò ben presto a riferire notizie allarmanti che provenivano da una stazione di vedetta della Guardia costiera sulle Isles of Shoals. Lo Squalus era stato visto passare di lì, diretto a sud-est, circa tre ore prima e, al momento, del sommergibile non c'era traccia all'orizzonte. Cole non aveva più dubbi: qualcosa doveva essere andato storto. Dopo un attimo di stizza, afferrò gli ultimi dispacci inviati dallo Squalus e uscì di corsa dall'ufficio. Mancava poco alle undici. Peter Maas
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Sul ponte dello Sculpin, il capitano di corvetta Warren Wilkin sovrintendeva agli ultimi preparativi prima della partenza da Portsmouth. Wilkin, soprannominato "Wilkie", era in condizioni psicofisiche ottimali. Dopo settimane di addestramento e prove, lo Sculpin era ormai, a tutti gli effetti, parte della flotta della marina militare. Lungo la sua rotta verso meridione, si sarebbe fermato a Newport e a Rhode Island, per caricare i siluri (veri) e poi dirigersi verso Coco Solo, nella zona del Canale di Panama. Wilkin restò sorpreso nel veder arrivare Cole in tutta fretta all'ormeggio dello Sculpin: fece appena in tempo a scendere fino al ponte principale che l'ammiraglio era già a bordo. Tralasciando i convenevoli, Cole disse: «Wilkie, voglio che salpiate immediatamente. Non ne siamo certi, ma lo Squalus potrebbe essere nei guai... Guai seri. Questo è il luogo dell'immersione. Voglio che passiate da quelle parti e che riferiate al più presto». Quando Wilkin si capacitò dell'ordine ricevuto, Cole se n'era già andato. Rientrato in ufficio, l'ammiraglio mandò a chiamare il capitano Halford Greenlee. «Hal,» gli disse, «abbiamo un problema. Bisogna spargere la voce, anche se forse, ormai, è risaputo. Non abbiamo più ricevuto notizie dallo Squalus dopo l'immersione. Non è affatto un buon segno. Ho già inviato lo Sculpin in ricognizione.» Livido in volto, Greenlee si scusò e tornò nel suo ufficio. Sua figlia Betty e il guardiamarina Patterson - detto «Pat» - erano sposati da poco più di undici mesi. Nel precedente week-end, era sorto il problema di stabilire se lei e Pat sarebbero riusciti a trascorrere insieme il primo anniversario di matrimonio, prima che lo Squalus partisse per unirsi alla flotta. Che cosa le avrebbe detto, ora, Greenlee? La giovane coppia abitava in un appartamento in città, ma temendo di trovare la figlia sola a casa, Greenlee scelse di non telefonare lì, bensì a casa propria, dove si trovava suo figlio Bob, tenente dell'esercito in licenza. Fu la moglie del giovane Greenlee, Jacqueline, a rispondere. Non avrebbe mai più dimenticato il tono di voce del suocero. «Betty non è lì, vero?» «No, papà. E' successo qualcosa di grave?» «Potrebbe essere affondato», biascicò Greenlee. «Che cosa? Non capisco.» «Il sommergibile di Pat, lo Squalus.» Peter Maas
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Più o meno alla stessa ora Frances, moglie di Oliver Naquin, partì dalla casa che avevano in affitto alla volta della base, ignara - ovviamente - del fatto che lo Squalus già da qualche ora non dava notizie di sé. Lungo la strada doveva fare una sosta. Aveva promesso a Betty Patterson che sarebbe passata a prenderla. Dopo aver assistito alla partenza dello Sculpin, le mogli degli ufficiali dello Squalus avrebbero portato a pranzo le mogli di chi era partito, per risollevare loro un po' il morale. Nel pomeriggio, invece, avevano in programma una partita a bridge. Quando svoltò l'angolo dell'isolato in cui abitavano i Patterson, trovò Betty ad attenderla, assai inquieta, sul marciapiede, in compagnia di suo fratello Bob. «Mio padre vuole che vada subito a casa sua,» disse, «ma Bob non vuole dirmi perché.» Quando Betty ebbe preso posto sull'automobile di Bob, questi si rivolse Frances Naquin e disse: «Sarà meglio che venga anche tu». A Portsmouth, Cole non poteva far altro che restare seduto ad attendere l'esito delle ricerche di cui aveva incaricato lo Sculpin. Con il trascorrere dei minuti, nel suo ufficio si radunò una parte dei suoi ufficiali di stato maggiore. A mezzogiorno, lasciatosi alle spalle il Piscataqua, lo Sculpin inviò il suo primo e poco tranquillizzante rapporto: «Lo Squalus non è stato avvistato. Stiamo cercando di stabilire un contatto mediante apparecchiature acustiche e procediamo verso il luogo dell'immersione». La risposta di Cole fu immediata. «Comunicate allo Sculpin» ordinò, «di continuare a perlustrare la zona finché non trovano qualche traccia.» E agli ufficiali riuniti nel suo ufficio disse: «Purtroppo, signori, credo che le cose si stiano mettendo molto male». Temendo il peggio, decise di non correre rischi. Non bisognava perdere neanche un minuto. Se effettivamente era accaduto quel che più temeva, occorreva agire alla svelta. Innanzitutto, verificò i programmi operativi di una delle navi assegnate dalla marina al soccorso dei sommergibili, la Falcon, e scoprì che si trovava alla sua base di New London, Connecticut. Quindi, telefonò a Washington e si fece passare il comandante Charles Lockwood jr., responsabile della flotta sottomarina presso l'ufficio del capo delle operazioni navali. Gli descrisse la situazione difficile e incerta, che dava adito alle più Peter Maas
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fosche previsioni, e chiese l'autorizzazione all'invio della Falcon alla volta di Portsmouth. «È fondamentale che ci sia anche Charles Momsen», aggiunse Cole. «La sua presenza è determinante. E l'unica persona in grado di risolvere questo problema. So che ha in programma di venir qui per l'estate. Non è in viaggio da qualche parte, vero?» «No, no, non ti preoccupare. È con la sua unità di palombari.» Lockwood, che aveva servito a lungo come sommergibilista, dopo una breve pausa aggiunse: «Grazie a Dio, non si è mai arreso».
7 Alla base navale di Washington, Charles Momsen stava addentando un panino croccante al prosciutto, il suo pranzo abituale. Uno dei suoi palombari era nel cassone pressurizzato a simulare una risalita da 15 metri di profondità con elio e ossigeno, che avrebbe richiesto almeno un'altra ora. Momsen era stato accolto dai suoi uomini con qualche battuta di spirito, quella mattina, quando si era presentato con un panama in testa. «Sarà questa la nostra divisa estiva, signore?» aveva domandato uno di loro. Per il resto, la giornata era proseguita come di consueto. Meditava, non appena il palombaro fosse uscito dal cassone, di lasciar liberi i suoi uomini, per poter mantenere la promessa fatta alla moglie di ritornare a casa presto. Squillò il telefono. Fu lo stesso Momsen a sollevare la ometta, convinto che si trattasse della fidanzata di qualcuno dei suoi palombari più giovani. Avevano l'abitudine di chiamare all'ora di pranzo. All'altro capo, invece, c'era il comandante Lockwood, che con voce tesissima, gli disse: «Swede, abbiamo grossi problemi. Lo Squalus, a Portsmouth, potrebbe essere affondato. Anzi, tutto sembrerebbe confermare questa ipotesi. Temiamo il peggio. Sarebbe dovuto tornare alla base più di tre ore fa. Cole ha mandato lo Sculpin in ricognizione, ma ancora non si hanno notizie». «Dov'è successo?» «A sud-est delle Isles of Shoals. A circa cinque miglia, credo. Non sappiamo a quale profondità.» «Probabilmente, sarà tra i sessanta e i novanta metri, se non ricordo male. Certo, non di meno, se il punto è quello.» Peter Maas
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«Non c'è tempo da perdere» disse Lockwood. «Si sta avvicinando un fronte, e le previsioni annunciano nebbia fitta. Abbiamo allertato un aereo. Ci sarà posto per te e altri tre uomini. Gli altri della tua unità ti raggiungeranno al più presto.» «Dov'è la Falconi» «A New London», rispose Lockwood. «Li abbiamo già avvertiti. Se so qualcosa, ti richiamo.» Momsen posò lentamente la cornetta. Dopo quattordici anni di lavoro, l'ora era giunta. E a dispetto delle critiche severe, delle parole di scherno e dello scetticismo con cui il suo lavoro era stato accolto, le lunghe giornate di fatica e le notti passate a fantasticare e a pianificare trovavano ora piena giustificazione. La marina era controllata dagli ammiragli del naviglio di superficie. «Chi si crede di essere questo Momsen? Jules Verne?» aveva commentato beffardo uno di loro. Se fosse stato presente e avesse avuto occasione di replicare, Momsen avrebbe probabilmente risposto: «Sì, credo proprio di essere una specie di Jules Verne». Da ragazzino era rimasto affascinato da Ventimila leghe sotto i mari. Anzi, quel libro aveva avuto un'influenza determinante nella sua scelta di arruolarsi in marina: per abitare i sommergibili, per "vivere sotto l'oceano", come aveva scritto Verne. Se non ci fosse stato lui, l'equipaggio dello Squalus non avrebbe avuto speranze. Le ricerche e le esercitazioni di Momsen non erano mai state messe alla prova in occasione di un vero disastro, ma ecco che il momento era arrivato. E nelle condizioni peggiori, per giunta, dati il tempo instabile, l'acqua gelida e la notevole profondità, superiore a quella prevista nei loro tentativi sperimentali. Con la precisione che lo caratterizzava, Momsen preparò metodicamente la partenza in dieci minuti. Poiché in un primo tempo poteva portare con sé solo tre uomini, scelse i due dottori distaccati presso la sua unità e il palombaro più esperto. Ordinò agli altri di restare all'erta e di tenere d'occhio la situazione del palombaro che si trovava ancora nel cassone pressurizzato. Nell'esperimento costituiva un passaggio cruciale nella definizione della miscela di elio e ossigeno, e non voleva che andasse a monte all'ultimo minuto. Infine, telefonò alla moglie, per spiegarle quel che era successo, e a una famiglia di vicini, per chiedere che si curassero di lei. Si ricordò persino di far mettere la sua Packard in garage. Nulla fu tralasciato, tranne il panino al prosciutto che stava mangiando al momento Peter Maas
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della chiamata di Lockwood. Prima di Momsen, ben poca attenzione era stata prestata al problema del salvataggio dei sommergibilisti. Ci si limitava a sperare nella buona sorte. Se un sommergibile affondava - come del resto accadeva con esasperante regolarità - i più fortunati morivano alla svelta, per annegamento. Di tanto in tanto, ci pensava la dea bendata - o qualche ingegnoso espediente - a salvare gli uomini dell'equipaggio. Era accaduto all'O-5, un sommergibile della Prima Guerra mondiale, speronato da un cargo della United Fruit Company e colato a picco nelle calme e limpide acque di una baia all'estremità atlantica del Canale di Panama. Si era posato sul fondale di sabbia bianca a circa dieci metri di profondità, facilmente raggiungibile per mezzo delle gigantesche gru galleggianti del Canale. Attorno alla prua e alla poppa del sommergibile erano stati fatti passare dei cavi d'acciaio, e le gru l'avevano poi recuperato senza problemi. Dopo di che, in meno di tre ore, anche gli uomini dell'equipaggio erano stati tratti in salvo. Era accaduto all'S-5. Si era immerso nell'Atlantico al largo di Cape May, New Jersey, con le aperture dei lanciasiluri aperte. L'equipaggio, però, era riuscito a mettersi in salvo a poppa, e il sommergibile era affondato in acque abbastanza basse da consentirgli, una volta svuotate le casse di zavorra poppiere, di riemergere con la parte posteriore. L'equipaggio aveva quindi praticato un buco nello scafo, facendone poi fuoriuscire un tubo con una piccola bandiera bianca svolazzante. Alla fine, un mercantile si era avvicinato per dare un'occhiata a quella stranezza e aveva lanciato l'allarme. Fortunatamente, l'oceano era rimasto tranquillo mentre i soccorritori praticavano un'apertura più ampia nella parte emersa dello scafo, consentendo agli uomini dell'equipaggio di uscire uno alla volta. Era accaduto anche all'O-15, il primo sommergibile capitanato da Momsen. Impegnato in un tentativo di record, si era immerso, a tutta forza e con un'inclinazione notevolissima, nelle acque di Coco Solo. Quando Momsen aveva dato l'ordine di risalita, i timoni di profondità a prua avevano smesso di rispondere ai comandi, e il sommergibile aveva proseguito nella sua discesa. Aveva provato ad azionare il sistema di risalita d'emergenza, ma era troppo tardi. L'O-15 era finito sul fondale fangoso che lo aveva avviluppato. Nei terribili attimi che erano seguiti, Momsen aveva cercato una soluzione al problema e, alla fine, l'aveva Peter Maas
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trovata. Malgrado il fango, era riuscito a far aprire, almeno in parte, gli sportelli esterni dei lanciasiluri, provocandone un allagamento controllato. Quando aveva fatto espellere l'acqua dal primo lanciasiluri, come per sparare un proiettile, non era accaduto nulla, così come al secondo tentativo. Al terzo, il sommergibile si era mosso, sia pure di poco, mentre al quarto, il movimento era stato decisamente più forte. Gli uomini a bordo, con il fiato sospeso, avevano infine sentito il natante staccarsi dal fondo. Questi erano alcuni dei casi conclusisi felicemente. Ma nel 1925 c'era stato anche il caso dell'S-51 che, mentre procedeva in una notte senza luna sulla superficie dell'Atlantico, al largo di Block Island, era stato squarciato dalla nave passeggeri City of Rome. In quanto comandante del sommergibile gemello S-1, era stato lo stesso Momsen ad accorgersi dell'eloquente strato di gasolio e delle orribili bolle d'aria che provenivano da una profondità di circa quaranta metri. Rievocando l'episodio, in una lettera spedita a un amico, avrebbe scritto: «Cercammo di stabilire un contatto via radio, ma in risposta non ricevemmo che silenzio. Quelli di noi che erano sul ponte non poterono far altro che rimanere a fissare il mare, ammutoliti. Nessuno a quei tempi aveva la minima idea su come soccorrere un sommergibile affondato o come fuggirne. Eravamo disperati. Mi sentii inutile come non mai». Ma Momsen avrebbe presto avuto ben altro da ricordare: alcuni mesi dopo vide i volti orribilmente contorti e le dita maciullate degli uomini dell'S-51; non erano morti subito, e avevano trascorso gli ultimi istanti della loro vita tentando di forzare con le unghie i boccaporti di quella bara d'acciaio. Due anni dopo era toccato all'S-4. In un pomeriggio di dicembre, nel corso di alcune manovre di addestramento al largo di Provincetown, a Cape Cod, mentre era immerso a una profondità di pochi piedi, era stato squarciato da una lancia della Guardia costiera lanciata all'inseguimento di un'imbarcazione di contrabbandieri di rum. Incredibile a dirsi, tutti i quaranta uomini dell'equipaggio erano sopravvissuti all'urto, colando a picco con il sommergibile a una profondità di circa 30 metri: una distanza inferiore a quella che in un campo da baseball separa la casa base dalla seconda base. Molte navi si erano radunate nel punto dell'incidente, ma non avevano potuto fare nulla. Un ululante e gelido grecale aveva cancellato le residue Peter Maas
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speranze di riportare il sommergibile in superficie. Per quasi tre giorni, gli uomini imprigionati all'interno avevano continuato a percuotere penosamente lo scafo nella speranza di essere uditi. Ma con il passare delle ore, il battito si era affievolito, per poi spegnersi del tutto. E ora era la volta dello Squalus. La carriera di Charles Momsen in marina aveva rischiato di concludersi ancor prima di cominciare. Era entrato all'Accademia navale di Annapolis nel 1914. Durante il suo primo anno di corso, in primavera, era scoppiato uno scandalo a proposito di alcune promozioni facili, cosicché la difficoltà degli esami dell'autunno successivo fu notevolmente aumentata. Trecento allievi dell'Accademia non riuscirono a superarli e dovettero rassegnare le dimissioni. Tra questi figurava anche Momsen, che aveva però sbagliato soltanto la prova di spagnolo. Per via del suo carattere, si rifiutò di abbandonare il cammino intrapreso e cercò, in breve, di ricandidarsi per intercessione dell'eletto al Congresso del distretto di cui faceva parte St Paul, Minnesota, dove lui risiedeva. Le probabilità di successo erano scarse. Il repubblicano che aveva sostenuto la sua prima iscrizione aveva perduto il seggio a beneficio di un democratico. E il padre di Momsen - un uomo d'affari - era un attivista del partito repubblicano. Ciononostante, Charles Momsen non esitò a perorare con insistenza la propria causa presso il nuovo rappresentante democratico del suo distretto, Carl C. Van Dyke. Questi, infine, si arrese, spiegando le ragioni della sua decisione in una lettera al padre di Momsen. «Sia chiaro» scrisse, «che la mia decisione di sostenere la candidatura di tuo figlio dipende esclusivamente da lui.» Come tutti i membri della sua classe, fu costretto a ripetere il primo anno di Accademia, ma a causa di una programmazione accelerata dovuta alla Prima Guerra mondiale, conseguì il titolo e fu nominato guardiamarina nel 1919. Dopo due anni di monotonia sulla nave Oklahoma, nella primavera del 1921 giunse l'opportunità tanto attesa. Presso la scuola per sommergibilisti di New London venne bandito un concorso per addestrare una nuova leva di ufficiali, e Momsen si iscrisse immediatamente. Il capitano della Oklahoma lo prese da parte. «Credo che tu abbia davanti una brillante carriera», gli disse. «Ti consiglierei di ripensarci. Solo la feccia della marina finisce sui sommergibili.» E il capitano della Oklahoma non era certo l'unico a pensarla così. Peter Maas
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L'orgoglio della marina si basava soprattutto sulla flotta di superficie. I sommergibili erano a malapena tollerati come una sorta di nuovo sistema d'arma - piuttosto abietto, a dirla tutta - e non erano certo il posto giusto per un giovane ufficiale interessato alla carriera. Un laureato ad Annapolis, poi, andava incontro a un duplice inconveniente: non solo avrebbe dovuto affrontare i rischi impliciti in quella scelta, ma avrebbe anche avuto a che fare con gente di estrazione molto più bassa. Le condizioni di vita, inoltre, erano disastrose. Lo stress psicologico causato dal fatto di dover stare chiusi in quello spazio angusto si rivelava spesso intollerabile. Il primo sommergibile su cui Momsen ebbe occasione di salire era una capsula che disponeva di metà dello spazio esistente sullo Squalus. Il suo ormeggio consisteva in una sorta di supporto mobile disposto lungo un siluro. La roba di Momsen rimase sempre dentro lo zaino che si era portato. C'era solo un lavandino; niente doccia o infrastrutture per lavare i vestiti. A causa delle durissime condizioni, veniva fornita una razione di cibo extra, ma questo, dal lato pratico, non si traduceva in un vero vantaggio, dato che, in mancanza di refrigerazione, la carne fresca finiva spesso per andare a male prima di poter essere cucinata. In questi casi, poi, per gettarla fuoribordo dai boccaporti erano necessarie operazioni memorabili. Il burro, conservato in lattine da cinque litri, dopo un paio di giorni sciaguattava completamente liquefatto. Non essendoci strumenti per la distillazione, l'acqua potabile era severamente razionata e non era poi tanto male se veniva fatta bollire con un po' di caffè. L'aria condizionata era uno dei temi preferiti nei sogni a occhi aperti, mentre l'odore all'interno dello scafo - una combinazione di fumi di scarico dei diesel, sudore, calzini sporchi e vestiti non lavati - era qualcosa a cui difficilmente ci si poteva abituare. Non c'erano gabinetti. Quando si viaggiava sotto la superficie, si era ridotti a usare un secchio mezzo pieno di nafta. E, come diceva un vecchio capitano, «nella nafta anche i pesci rossi finiscono per puzzare». In superficie, ci si poteva legare al parapetto del ponte principale, ma il più delle volte, sul più bello, si era costretti a interrompere la seduta a causa delle onde. Data la situazione, i sommergibilisti manifestavano una creatività prosaica che non aveva riscontri in altri reparti della marina. Strimpellando il suo ukulele, Swede Momsen, di tanto in tanto, accompagnava i suoi uomini in qualche ritornello salace: Peter Maas
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I sommergibili non hanno il gabinetto Chi li abita porta calzoni di pelle a campana, sporge il pisello oltre il parapetto e strilla come un figlio di puttana. La maniera di uscire da un sommergibile in caso di problemi durante un'immersione era un argomento su cui nessuno aveva voglia di soffermarsi. Ai tempi in cui Momsen frequentava la scuola per sommergibilisti, la questione veniva accuratamente evitata. A volte, nel cuore della notte, non si poteva fare a meno di pensare alle tonnellate di acqua circostanti, a solo pochi centimetri dalla pelle. Da lì a immaginarsi intrappolati senza speranze sul fondo dell'oceano il passo era breve. Qualsiasi accenno al riguardo era considerato disdicevole. Ogni volta che si verificava un incidente, ognuno si limitava a pensare che a lui non sarebbe successo. Oppure la si buttava in filosofia. Dopo tutto, si usava dire, si poteva finire male anche solo attraversando una strada. Inizialmente, Momsen la pensava come gli altri. Dopo un anno e mezzo, nel 1923, in qualità di sottotenente di vascello ricevette per la prima volta l'incarico di comandare un sommergibile, il vecchio O-15. Fu un periodo entusiasmante, e Momsen così descrisse il proprio stato d'animo a un amico: All'improvviso, non c'era più nessuno a cui appoggiarsi. Ero io il responsabile della vita di quei ventisette uomini - tra ufficiali e marinai -, della loro incolumità, del loro futuro. Alla cerimonia, le loro famiglie erano comprensibilmente in ansia. Le mogli e i figli di quegli uomini mi squadravano, domandandosi forse se meritassi fiducia come custode della salute di chi portava loro a casa il pane. Durante l'addestramento avevo sempre pensato di potercela fare e che comandare un sommergibile sarebbe stato facile. Ora, invece, so cosa comporta. Ogni ordine dev'essere attentamente soppesato. In caso contrario, per il sommergibile sarebbe la fine. Una volta immerso, le pareti dello scafo vengono avvolte da tonnellate d'acqua, e se qualcosa va storto, non c'è più nulla da fare: l'unica è evitare che accada! L'equipaggio scruta ogni mia Peter Maas
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espressione ed emozione e ascolta attentamente ogni mia parola, che si tratti di un ordine o di una semplice osservazione. Quando sono al periscopio, sento su di me gli occhi dei miei uomini, i quali - te lo posso garantire - sanno esattamente quel che sta succedendo in superficie. Condividono l'orgoglio di servire in marina e l'onta di chi sta sotto il mare. Persino la più banale delle manovre, come quella di condurre il sommergibile all'ormeggio, è importante. Se un capitano esita, lascia le frasi a metà e si mette a sbraitare come un matto, gli uomini dell'equipaggio, una volta sbarcati, dovranno sfogarsi, e ci sarà un gran numero di occhi neri e di nasi rotti, la sera, in birreria. Se invece il sommergibile manovra "leggero come una piuma", li si sentirà traboccare d'orgoglio per sé e di stima per chi li comanda. Soprattutto, ho notato il grande divario esistente tra il capitano in seconda e il suo superiore: l'uno ha la possibilità di eseguire un'ultima verifica, l'altro no. Ma comandare una nave, portarla per mare - e sotto di esso - è un'esperienza grandiosa! Non la cambierei con nulla al mondo. Nonostante le spiacevoli limitazioni di quello sfortunato natante, Momsen era rimasto incantato dallo strepitoso potenziale nascosto sotto la superficie del mare. Posto che pensasse ai rischi cui andava incontro a ogni viaggio, non lo dava a vedere. Neppure quel terribile tuffo sul fondale fangoso l'aveva turbato. Era una di quelle cose che andavano messe in conto. Per quell'imponente, giovane capitano dagli occhi azzurri, la vita a bordo di un sommergibile era quanto di meglio si potesse sperare. Nulla - gli pareva - era in grado di smorzare il suo entusiasmo. In un tardo pomeriggio di ottobre, mentre procedeva verso il suo ormeggio presso la base navale di Philadelphia, l'O-15 emerse sbuffando dal Golfo del Messico. L'aria era pesante e in via di peggioramento, mentre una sinistra onda lunga avanzava da sud-est. Nel corso della notte seguente, montò un vento da nord che, dopo essersi intensificato, piegò in direzione est. Prima dell'alba, soffiava ormai fortissimo e costante, contribuendo a rendere il mare sempre più agitato. L'O-15 si ritrovò intrappolato tra le fauci di un mostruoso uragano. Intorno a mezzogiorno, il sommergibile arrancava con vertiginosi su e Peter Maas
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giù tra gli enormi frangenti, e Momsen si ritrovò con l'equipaggio più afflitto dal mal di mare che la storia ricordi. Immergersi era impossibile. Quel vecchio natante non poteva andare abbastanza in profondità da sfuggire all'azione di quegli impressionanti marosi. Inoltre, la perturbazione sembrava destinata a durare ben oltre l'autonomia concessa dalle batterie. Momsen non poteva far altro che cercare di governarlo in superficie. Fece sistemare una grata di legno sul boccaporto aperto della torretta, per consentire un afflusso di aria sufficiente e, al contempo, impedire alle ondate di invadere il sommergibile, e si legò al ponte con una doppia fune. Il mare era sempre più gonfio e il vento ululava minaccioso in faccia a Momsen. Enormi montagne di acqua si sollevavano in cielo e, dopo un attimo di esitazione, gli si rovesciavano addosso. Non aveva mai visto nulla di simile. Sembravano alte trenta metri. Ogniqualvolta l'O-15 veniva sommerso da una di queste vorticanti masse d'acqua, Momsen tratteneva il respiro. Ogni volta aveva l'impressione che non sarebbe più riemerso. L'uragano infuriò impetuoso per tutta la giornata, mentre al calar della sera si fece, se possibile, ancor più violento. Nella luce sempre più fioca, vide la battagliola del ponte principale completamente deformata e la protezione di metallo del ponte di comando appallottolata come carta. Andò avanti così per tutta la notte, e l'O-15 continuò a beccheggiare e a sopportare brusche e incessanti oscillazioni di quaranta o, persino, cinquanta gradi. Verso le cinque di mattina, il sommergibile si ritrovò nell'occhio del ciclone. Il vento si placò di colpo. Il mare si fece praticamente piatto. Il cielo mostrava uno strano bagliore verde pallido che Momsen trovò intollerabilmente inquietante. Dal ponte, gridò al suo timoniere di tenersi pronti all'imminente ripresa delle onde. Meno di mezz'ora dopo, la tregua ebbe termine e il vento cominciò a percuoterli dalla direzione opposta. Pochi istanti dopo, i colossali cavalloni ricomparvero infuriati più che mai. Per tutta la giornata l'O-15 rimase in balia di quei temibili colpi. Finalmente, sul far della sera, i venti rallentarono e il mare cominciò a decrescere. Momsen era rimasto attaccato al ponte per trentacinque ore di fila, senza dormire, con il solo e raro ristoro, in quella tempesta, di un panino alla cipolla passatogli attraverso il boccaporto dall'addetto alla mensa. Quando l'uragano diede segno di volersi placare, Momsen mandò a chiamare l'unico altro ufficiale a bordo, un guardiamarina appena Peter Maas
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diplomato alla scuola per sommergibilisti, affinché prendesse il comando. Questi si presentò e salutò fievolmente, quasi incapace di parlare e tantomeno di stare in piedi. Quando l'O-15 ebbe raggiunto, sia pure a fatica, il porto di destinazione, il giovane ufficiale presentò domanda di trasferimento: qualunque posto gli sarebbe andato bene, purché fosse il più lontano possibile dai sommergibili. Quello che a Momsen sarebbe rimasto più impresso, invece, fu la visione del caos spaventoso che regnava sottocoperta: uomini che gemevano e vomitavano in ogni angolo. A ogni beccheggio o rollio del sommergibile, una quantità di oggetti, secchi di vomito rovesciati e capi di vestiario abbandonati scivolavano avanti e indietro. In cambusa era persino peggio, dato che il pavimento era trasformato in un viscido ammasso di prugne, fagioli, terraglie infrante e pentolame vagante. Ciononostante, il cuoco era in servizio, impiastrato di grasso e sanguinante per una ferita alla fronte. Con una mano aggrappata a un tubo si teneva in piedi, nell'altra stringeva il manico di una padella in cui stava friggendo delle patate. «Avrà sicuramente una fame da lupo, signore! Tra un minuto avrò pronto qualcosa per lei!» Momsen, con un enorme sorriso, rispose: «Ci sarà sempre, in paradiso, un posto speciale per gente come te, caro il mio cuoco!». La sua disinvolta esuberanza avrebbe presto subito un duro colpo, e Momsen non sarebbe stato più lo stesso. Nell'estate del 1925 si trasferì alla grande base dei sommergibili di New London per assumere il comando dell'S-1. Divenuto ormai un comandante con tutti i crismi, Momsen era al colmo dell'euforia. Benché i sommergibili della classe S presentassero svariati inconvenienti, restavano pur sempre il massimo che la marina, con le sue priorità di bilancio, avesse da offrire in questo campo. L'S-1, dal canto suo, disponeva di un'ulteriore attrattiva: al suo ponte principale era stato fissato un serbatoio in grado di reggere un ricognitore su un galleggiante affondabile, e Momsen non vedeva l'ora di cominciare a lavorare in quel progetto sperimentale. Il 25 settembre, però, l'ufficiale in comando presso la base gli telefonò a casa, nel cuore della notte, per riferirgli notizie assai preoccupanti. Durante un'esercitazione notturna, l'S-51 era stato speronato e presumibilmente affondato da una nave passeggeri in un braccio di mare a est di Block Island, tra la punta di Long Island, Martha's Vineyard e Nantucket. Peter Maas
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Momsen sbarrò gli occhi, sgomento. L'S-51 faceva parte della sua divisione. Gli ufficiali di quel sommergibile erano suoi amici. Decise che era il caso di correre alla base. Quando il suo sommergibile fu pronto, con l'equipaggio destinato alla guardia notturna, Momsen lo lanciò nell'oscurità in direzione del luogo della collisione. Giunse a destinazione verso l'alba. Una boa di segnalazione gettata in mare dalla City of Rome sobbalzava tra i flutti. Nient'altro. Momsen girò più volte, lentamente, intorno alla boa, ma non trovò altra traccia. Decise di interrompere quell'inutile perlustrazione e si mise a seguire la rotta lungo cui la nave passeggeri aveva proceduto, pensando che potesse essersi trascinata dietro il sommergibile per un tratto. La sua supposizione si rivelò corretta. A due miglia dalla boa, in direzione nord-est, una delle vedette dell'S 1 scorse tracce di nafta e bolle d'aria che tumultuavano in superficie. Momsen aggirò la chiazza luccicante e sempre più estesa alla ricerca di frammenti del relitto. O di corpi. A quei tempi non esistevano ancora i sonar. Cercò di stabilire un contatto con l'S-51 per mezzo di un oscillatore subacqueo che diffondeva a ventaglio onde sonore nell'acqua. A più riprese trasmise il segnale di chiamata dell'S-51, ma senza ottenere risposta. Era sopraffatto dal senso di impotenza. Non vi era nulla che potesse fare. Quando furono raggiunti da una flottiglia di altri vascelli, le prospettive non migliorarono. A quel punto, un membro del suo equipaggio esclamò: «Dio mio! Poveracci!». Momsen lo spedì immediatamente sottocoperta. A beneficio di chi era rimasto sul ponte, ma anche per sé, disse: «Se non altro, è accaduto tutto molto rapidamente. Probabilmente non se ne sono neppure accorti». Con il pensiero indugiò, in particolare, su un giovane tenente di vascello che si chiamava Jim Haselden. Erano stati compagni di corso ad Annapolis. Avevano frequentato la scuola per sommergibilisti nello stesso periodo e fatto insieme il primo viaggio di addestramento. Quando, infine, l'S-51 fu recuperato, Momsen scoprì che Haselden non era morto tanto rapidamente, a giudicare dalle dita ridotte a brandelli nel tentativo di forzare un boccaporto bloccato da quindici tonnellate di acqua marina. Di notte, la maschera dell'amico morto agitò a lungo i suoi sonni. Di giorno, cresceva in lui la rabbia. Doveva pur esserci una maniera per salvare uomini come Haselden e il suo equipaggio o, quantomeno, per concedere loro una possibilità di scampo. Sì, ma quale? Per settimane si Peter Maas
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arrovellò sul problema e, a un certo punto, un barlume di idea cominciò a prendere forma. Quanto più ci pensava tanto più gli piaceva. L'idea era semplice. Una grande camera di salvataggio metallica, a forma di campana, doveva essere calata - sospesa a cavi d'acciaio - e sistemata per mezzo di bulloni (a occhio e con anello) su un boccaporto esterno del sommergibile affondato. Una volta sistemata la campana e aperto il boccaporto, i soccorritori avrebbero potuto calarsi all'interno o gli uomini intrappolati uscire da sé. Per far ciò, Momsen pensò di far saldare intorno ai boccaporti di prua e di poppa una piatta lastra d'acciaio simile a una rondella, in modo che la campana, giunta a contatto con quella lastra, avrebbe racchiuso ermeticamente il boccaporto. Progettò anche una guarnizione di gomma da applicare al bordo della campana per avere la garanzia della tenuta stagna. Una volta calata la campana sul boccaporto, la pressione dell'aria al suo interno sarebbe stata ridotta, per far aderire la guarnizione alla lastra circostante il boccaporto. Se il sommergibile, però, era parzialmente allagato, la pressione combinata dell'acqua e dell'aria avrebbe potuto rompere il sigillo. Momsen, dunque, adottò un'ulteriore precauzione. Prima di aprire il boccaporto, la campana sarebbe stata saldamente fissata al sommergibile. Momsen studiò e ristudiò il progetto molte volte. Ne discusse a fondo con altri comandanti, e nessuno di loro trovò alcunché da ridire. Mise il progetto per iscritto con dovizia di particolari, allegandovi una serie di schizzi esplicativi. Consegnò il frutto del suo lavoro al capitano Ernest J. King. Questi, che durante la Seconda Guerra mondiale avrebbe comandato la marina statunitense, lo esaminò e a Momsen disse: «Momsen, sono convinto che tu abbia avuto un'idea grandiosa». King affidò il progetto al Bureau of Construction and Repair della marina, perché gli fornissero una valutazione tecnica. La sua nota di accompagnamento diceva: «L'oggetto in questione può essere di grande utilità ai fini del salvataggio di sommergibilisti intrappolati sui loro natanti». Nessuno, però, si degnò di rispondere. Inizialmente, Momsen non se ne preoccupò. Non c'era ragione di attendersi una risposta a breve termine. L'analisi del problema, del resto, richiedeva tempo. Ma quando le settimane di silenzio divennero mesi, e i Peter Maas
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mesi erano sul punto di raggiungere l'anno, la delusione cominciò a farsi sentire. Il progetto doveva avere qualche grave inconveniente di cui nessuno, a New London, si era accorto. Era di nuovo al punto di partenza. Si ripromise di studiare nel dettaglio un altro progetto di salvataggio su cui aveva già riflettuto. Era difficile, però, rimettersi al lavoro senza sapere perché la campana fosse risultata inadeguata. Un giorno, però, lo scoprì. In un modo che mai si sarebbe aspettato. Gli toccò, per un certo periodo, prestare servizio in terraferma: gli ordini giunti a New London prevedevano il suo trasferimento, tra tutti i posti possibili, proprio al Bureau of Construction and Repair. Poiché era ancora contrariato per non aver ricevuto risposte al suo progetto, si domandò se tra le due cose vi fosse un nesso. Quando si presentò a rapporto, però, nessuno ne fece parola. Fu distaccato al reparto sommergibili. Il primo giorno Momsen lo trascorse nel disbrigo delle consuete formalità. Nel pomeriggio, tuttavia, ebbe occasione di frugare in una cassetta che conteneva le pratiche in attesa di essere prese in esame, lasciategli dal suo predecessore. Scosse il capo, incredulo e sbalordito. In fondo a quel mazzetto di fogli, trascurato per tutto quel tempo, trovò il suo progetto per la costruzione di una campana di salvataggio e la nota di accompagnamento di King - tutto il suo lavoro, insomma - così come era arrivato da New London. Restò ammutolito. Fu sopraffatto dall'angoscia al pensiero di Haselden e dell'S-51, di tutti quei mesi inutilmente passati in attesa. Come stordito, rilesse a fatica il proprio scritto. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno. Lo conosceva a memoria. Seduto alla sua scrivania, si interrogò sul da farsi, ma era troppo arrabbiato per poter pensare ad alcunché. Il mattino seguente, la rabbia era ormai smaltita. Nel modo più diplomatico possibile, decise di far pressione affinché il Bureau esaminasse la sua proposta, ma la reazione fu gelida. Chi diavolo era questo nuovo tenente di vascello? Era arrivato sì e no da due giorni e già tentava di promuovere le sue idee balorde sul soccorso agli equipaggi dei sommergibili. Come se fosse stato il primo a pensarci. Da anni, ormai, il Bureau sbatteva la testa su quel problema! Momsen insistette, ma non ci fu nulla da fare. Il progetto gli fu restituito con una nota anonima: «Impraticabile dal punto di vista dell'arte marinaresca». Peter Maas
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Momsen si infuriò. I problemi legati all'arte marinaresca non erano di competenza del Bureau, la cui funzione era, invece, soltanto quella di esprimere un parere sulla fattibilità di progetti come il suo. E questo nessuno l'aveva ancora fatto. La questione, gli fu detto, era chiusa. Essendo un tenente di vascello qualunque, non poteva andarsene di sua volontà. Certo, avrebbe potuto rinunciare alla carriera che si era scelto, ma aveva due figli e una moglie da mantenere e, poi, l'unico campo in cui aveva avuto occasione di dimostrare la propria abilità era il comando dei sommergibili. Per un tragico destino, a poche settimane dal definitivo rifiuto della sua proposta, al largo di Cape Cod, affondò l'S-4. A Washington, Momsen se ne stava seduto al suo tavolo a leggere gli angosciosi dispacci mentre l'equipaggio del sommergibile moriva lentamente d'asfissia. Uno degli ultimi messaggi inviati da quegli uomini sventurati chiedeva l'impossibile: «Per favore, fate presto!». I titoli dei giornali generarono clamore in tutto il paese. Migliaia di lettere inondarono il Dipartimento della marina. Lasciate perdere i sommergibili, insistevano alcuni. Altri chiedevano che si trovasse un modo per salvare quegli uomini. Con grande preoccupazione degli alti gradi, molte lettere - in cui si chiedeva un'inchiesta e si indicavano passate negligenze - erano state indirizzate al Congresso. Di nuovo, un bizzarro destino volle che fosse proprio Charles Momsen la persona incaricata di rispondere alle lettere. Fu quasi sul punto di mandar tutto all'aria, perché lui, purtroppo, sapeva che con la sua campana si sarebbe potuto fare qualcosa. Alla fine, tutti gli avrebbero dato ragione. A mano a mano che quelle lettere colme di indignazione si accumulavano sulla sua scrivania, Momsen cominciò a riconsiderare un'idea con cui si era baloccato durante la lunga attesa di una risposta in merito al suo primo progetto. Questa prevedeva un tipo di approccio assolutamente inedito al problema del salvataggio dei sommergibilisti e, soprattutto, non richiedeva autorizzazioni ufficiali di sorta. Con un pugno di volontari, si accinse, con rinnovata determinazione, al compito di definirla, tradurla in pratica e, infine, metterla alla prova. Si trattava di un'apparecchiatura mediante la quale gli uomini intrappolati all'interno di un sottomarino potevano respirare risalendo in superficie a nuoto. Peter Maas
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Il mondo l'avrebbe un giorno chiamata "il polmone di Momsen". Sull'onda del positivo riscontro ottenuto, poté finalmente rispolverare il vecchio progetto della campana, con la benedizione della marina. Per la vita dei quaranta membri dell'equipaggio dell'S-4 era troppo tardi. Ma le speranze di chi, sullo Squalus, ancora era vivo erano riposte nelle invenzioni di Momsen. Per metterle alla prova, aveva più volte sfidato l'ignoto. Un giornalista, un giorno, gli domandò quale fosse la cosa che più temeva, nell'eventualità di un altro incidente a un sommergibile. «La mia paura più grande è quella di non essere lì», disse.
8 Il fascio della torcia elettrica che Roy Campbell proiettava oltre l'oblò della paratia chiusa, era l'unica fonte di luce in camera di manovra. Oliver Naquin raggiunse Campbell e osservò quell'oleosa pellicola d'acqua sull'altro lato della paratia. Quando le luci d'emergenza dello Squalus, all'impatto con il fondale, si spensero, l'improvvisa oscurità indusse in tutti un senso di assoluta solitudine. All'istante, l'accaduto apparve loro in tutta la sua gravità. Nel giro di pochi secondi, però, la disciplina militare prese il sopravvento. Non ci fu il minimo segno di panico. Su ordine di Naquin, dalla rastrelliera vennero prelevate tre lanterne a mano. Lo spettrale bagliore che proiettarono consentì di ristabilire il contatto tra gli uomini. Per un attimo rimasero a guardarsi l'un l'altro, dopo di che gli occhi di tutti si fissarono sulla faccia tirata di Kuney, ancora in postazione al telefono, nelle cui orecchie continuava a risuonare l'ultimo grido giunto dai compartimenti di poppa. «Qualche segnale da poppa?», domandò Naquin, con calma. «No, signore», sussurrò Kuney. Naquin afferrò il telefono. Benché già conoscesse la sorte di chi si trovava nella batteria posteriore, a poppa c'erano altri tre compartimenti: non poteva credere che fossero tutti morti. Ma dalle sale macchine anteriore e posteriore non giunse alcun segnale. Restava la camera di lancio poppiera. Se qualcuno si era salvato dalla violenta irruzione dell'acqua, non poteva essere che lì. Con estrema cautela, Naquin disse: «Camera di lancio poppiera, Peter Maas
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rispondete». Fece una pausa. «È il capitano che parla. Rispondete.» Ma la risposta non arrivò. "Forse", pensò, "i circuiti sono fuori uso", ma quando provò a mettersi in comunicazione con la batteria anteriore, Gainor rispose immediatamente. «Com'è la situazione, lì?», domandò Naquin. Con estrema sobrietà, Gainor riferì che, mentre il sommergibile precipitava verso il fondo, le celle della batteria anteriore avevano rischiato di andare in corto circuito, ma che aveva fatto in tempo a disinserire gli interruttori generali. Naquin sapeva bene quali rischi doveva aver comportato, per Gainor, l'atto di calarsi in quel compartimento. Ora, dunque, le azioni eroiche erano diventate due: quella di Maness e quella di Gainor. Naquin pregò che non se ne rendessero necessarie altre. Al telefono, dalla camera di lancio prodiera, Nichols chiamò Naquin e disse: «Non c'è luce, ma per il resto stiamo bene. Abbiamo imbarcato un po' d'acqua: nulla di grave. Il compartimento è sicuro». La situazione, dunque, era la seguente: dei sette compartimenti in cui lo Squalus era diviso, i tre anteriori sembravano per il momento in sicurezza; mentre tre di quelli posteriori erano stati certamente invasi dall'acqua. Il cuoco, Will Isaacs, l'ultimo che fosse riuscito a fuggire dalla batteria posteriore, aveva descritto a Naquin lo spaventevole dilagare dell'oceano cui aveva assistito nelle sale macchine. Stando al resoconto di Isaacs, l'acqua sembrava essere entrata dalla valvola d'aspirazione superiore. Ma perché il quadro di controllo non aveva segnalato che la valvola era aperta? Quanto alla camera di lancio poppiera, esisteva qualche probabilità che qualcuno fosse sopravvissuto al terrificante tuffo. Naquin, però, di illusioni a questo riguardo non se ne faceva. L'essenziale, ora, era ricevere aiuto. E in fretta. Il primo pensiero di Naquin andò alle due imbarcazioni di pescatori d'aragoste che aveva distrattamente osservato dal ponte: in loro bisognava sperare, affinché a Portsmouth giungesse notizia delle difficoltà dello Squalus. Ordinò all'artigliere di I classe Gene Cravens di sparare un fumogeno rosso di soccorso, per segnalare l'incidente subito dal sommergibile. I fumogeni erano in camera di manovra, in un apposito contenitore di cui Cravens faticava ad aprire il coperchio, insolitamente resistente. Dapprima imputò le difficoltà alla propria inettitudine, ma l'ingresso dell'acqua nei compartimenti di poppa aveva indotto in camera di manovra una pressione doppia rispetto alla norma. Alla fine, Cravens riuscì a Peter Maas
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sbloccare il coperchio, inserì un fumogeno nella canna cilindrica dell'eiettore e lo lanciò verso la superficie. Sbucando tra le onde, sarebbe salito in cielo per circa venticinque metri, con una traiettoria arcuata, per poi esplodere in una rossa nube allarmante. Ma non servì a nulla. Il viavai di sommergibili era cosa normale in quelle acque. Come si sarebbe appurato in seguito, nessuno su quei due pescherecci aveva prestato particolare attenzione allo Squalus, mentre procedevano verso casa tra i flutti spumeggianti. Non appena Cravens ebbe sparato il fumogeno, Naquin si mise in contatto telefonico con Nichols. «John,» disse, «rilascia la boa telefonica.» La boa, di un giallo brillante e dal diametro di circa un metro, trovava posto a livello del ponte principale in corrispondenza della camera di lancio prodiera ed era collegata al sommergibile da un cavo contenente un filo telefonico. Il momento era topico. Benché, dopo lo sviluppo del "polmone" di salvataggio e della campana di immersione di Momsen, la boa facesse ormai parte a pieno titolo di qualunque equipaggiamento per il salvataggio, non era mai stata impiegata in caso di incidenti potenzialmente fatali per molti uomini. Il messaggio stampato sulla boa recitava: SOMMERGIBILE AFFONDATO IN QUESTO PUNTO. TELEFONO ALL'INTERNO. Naquin non era ancora riuscito a determinare quanti fossero i sopravvissuti. Ordinò a Frankie Murphy, il suo quartiermastro, di fare il conto. I nomi degli uomini asserragliati nei compartimenti di prua furono trasmessi a Murphy da Kuney. Alla flebile luce della lanterna, il quartiermastro procedette al mesto appello. Come Naquin temeva, l'esito si rivelò pesante. Dei cinquantanove uomini presenti sul sommergibile al momento dell'immersione, solo trentatré avevano risposto alla chiamata. Nel silenzio che seguì, tentarono tutti di riscuotersi dal panico e di non pensare all'incessante pressione esercitata dall'acqua penetrata nei tubi e nei condotti che percorrevano lo Squalus in tutta la sua lunghezza. Subito, però, si verificò un evento che li costrinse a pensarci. Si udì un debole gorgoglio e, un istante dopo, in camera di manovra cominciò a sgorgare nafta, seguita da un potente getto di acqua salata. Will Isaacs, già fradicio per aver dovuto nuotare al fine di uscire dalla batteria posteriore, ne fu Peter Maas
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investito in pieno e fu travolto. Cercò di rimettersi in piedi, ma non riusciva a far presa sul fondo reso viscido dal gasolio. Altro carburante gli copriva il volto, impedendogli di vedere. Per un attimo, Isaacs ebbe la certezza che fosse giunta la sua ora, ma subito Roy Campbell lo aiutò a rialzarsi. Il problema fu in breve risolto. Una delle valvole principali dell'impianto idraulico aveva ceduto. Naquin non ebbe quasi il tempo di ordinare la chiusura di tutte le valvole secondarie dell'impianto, che l'ordine era già stato eseguito. Il flusso, alla fine, si estinse. A causa dell'inclinazione di circa undici gradi assunta dal sommergibile, gran parte dell'acqua e della nafta si raccolse nella parte posteriore della camera di manovra, raggiungendo un'altezza di circa trenta centimetri. Altre minacce, però, incombevano. Durante l'immersione, l'aiuto macchinista Carlton Powell era stato assegnato alla sala di pompaggio, proprio sotto la camera di manovra. Mentre verificava che le valvole di aspirazione e di scarico delle pompe tenessero, la sua torcia elettrica illuminò un eloquente ribollire sulla carena, in prossimità della paratia che divideva la sala di pompaggio dalla batteria posteriore allagata. Non riuscendo, però, a capire con precisione quale ne fosse l'origine, chiamò la camera di manovra. Naquin si presentò immediatamente al boccaporto e, dopo un accurato e ansioso esame, concluse che la falla non sembrava ingrandirsi in misura apprezzabile. Ordinò a Powell di unirsi agli altri in camera di manovra e di controllare di tanto in tanto la situazione. Qualcuno si mise a ripulire alla meglio la camera di manovra. Naquin continuava a sperare che almeno uno dei pescherecci avesse notato il loro fumogeno di soccorso. Ordinò a Cravens di lanciarne un secondo. Non erano trascorsi neanche venti minuti da che il più moderno sommergibile della marina statunitense si era trasformato in una carcassa inerte e, per alcuni, in una tomba. Il capitano in seconda Walter Doyle ebbe un'idea. Lo Squalus era dotato, nella parte inferiore dello scafo, di una serie di casse di zavorra secondarie che non erano ancora state pompate di aria. Che cosa sarebbe accaduto se le avessero svuotate dell'acqua che ora le riempiva? Naquin ritenne che fosse, quantomeno, il caso di provare. Doyle e l'ufficiale meccanico e di navigazione, il sottotenente di vascello Robert Robertson, immisero aria pressurizzata nella cassa d'assetto di poppa progettata per consentire allo Squalus di procedere orizzontalmente sotto la superficie del mare. Peter Maas
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Robertson ebbe la netta sensazione di una leggera risposta da parte del sommergibile, ma quando guardarono gli indicatori di profondità e di assetto, videro che nulla era cambiato. Mentre si accingevano a ripetere l'operazione con le casse ausiliarie di prua, Naquin li fermò. Non voleva rischiare che l'inclinazione dello Squalus aumentasse, perché questo avrebbe complicato le operazioni di applicazione della campana di salvataggio al boccaporto d'emergenza situato nei pressi della camera di lancio anteriore. Se tutto andava come sperava, la campana di Momsen li avrebbe tirati fuori sani e salvi. Benché il numero dei polmoni di Momsen a disposizione fosse più che sufficiente per l'equipaggio, Naquin aveva deciso di utilizzarli solo in ultima istanza. Temeva che a quelle profondità, nell'acqua ghiaccia dell'Atlantico settentrionale, a qualcuno potesse sfuggire la presa sul cavo di risalita e fosse colto da fatali attacchi di embolia gassosa. Al momento in superficie non c'era neppure una nave pronta a raccoglierli. Fino ad allora, rumori di eliche - che annunciavano l'arrivo di imbarcazioni - non se n'erano sentiti. Naquin fu indotto a ritenere che i razzi di segnalazione non fossero stati avvistati. Le probabilità di un salvataggio in tempi brevi erano sfumate. E questa era la cosa peggiore: si trovavano a una notevole profondità, e a ogni minuto trascorso su quel fondale i rischi aumentavano, ma nessuno conosceva la posizione dello Squalus. Nella migliore delle ipotesi, ci sarebbero voluti almeno altri quaranta minuti perché alla base di Portsmouth qualcuno avesse motivo di sospettare qualcosa. Naquin poteva solo sperare che l'addetto alle comunicazioni a terra, di chiunque si trattasse, appartenesse alla categoria degli apprensivi. Mentre i suoi uomini si stringevano intorno a lui cercando di mantenere la calma, Naquin si rassegnò all'inevitabile: avrebbero dovuto farsi coraggio e affrontare la situazione. Rivolgendosi a loro, disse: «Sappiamo bene qual è la nostra situazione. Il sommergibile non è in grado di riemergere da solo. Abbiamo lanciato la boa di segnalazione anteriore e continueremo a sparare razzi di segnalazione a intervalli regolari. È solo questione di tempo: i soccorsi arriveranno. Dobbiamo rimetterci alla loro prontezza. Per ora non mi aspetto novità». Harold Preble, che era rimasto molto sorpreso per il modo in cui lo Peter Maas
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Squalus era precipitato a fondo, cercò di risollevare il morale di tutti. Gli tornò in mente la reazione avuta pochi mesi prima dall'ammiraglio Cole quando il Pollack tardava a dar notizia dell'avvenuta riemersione. «Se non chiamano, tra poco usciamo a cercarli», aveva detto. C'erano nove cuccette riservate agli ufficiali negli alloggi ricavati nella batteria anteriore, e dieci brande a scomparsa nella camera di lancio prodiera. Entrambi questi compartimenti sembravano essere stati relativamente risparmiati dalla nafta e dall'acqua che avevano, invece, trovato un varco fino all'affollata camera di manovra. Naquin meditava di trasferirvi i più provati tra i suoi uomini; in particolare, quelli fuggiti dalla batteria di poppa. Proprio mentre stava per dare l'ordine di aprire le paratie a tenuta stagna, sul telefono interno Kuney disse: «Capitano, c'è Gainor. Dice che è urgente». Dopo aver impedito che le batterie anteriori andassero in corto circuito e causassero un'esplosione destinata a sventrare lo Squalus, Gainor aveva previsto un ulteriore pericolo, fatale come l'annegamento, ma infinitamente più sinistro. Se nelle celle degli accumulatori fosse entrata dell'acqua salata, la reazione chimica avrebbe sprigionato esalazioni letali di acido cloridrico che avrebbero in breve saturato il compartimento. Era andato a controllare e aveva scoperto che di acqua ce n'era: sebbene non fosse moltissima, il pericolo era concreto. Naquin rinunciò immediatamente al proposito di utilizzare la batteria anteriore come ricovero. Ordinò a Gainor di andare con gli altri quattro uomini che erano con lui a prelevare tutte le coperte e a razziare la dispensa di tutto lo scatolame e di spostarsi, poi, nella camera di lancio prodiera. Subito dopo, ordinò di aprire per un istante la paratia della camera di manovra dal lato della batteria anteriore per prelevarne coperte, materassi e una tanica di acqua potabile da cinquanta litri. Dalla camera di lancio prodiera fece, inoltre, portare alcuni polmoni di Momsen. In caso estremo, avrebbero potuto servire come maschere antigas. In camera di manovra c'erano ventitré uomini. Per ridurre l'affollamento ne furono mandati cinque - tra cui Harold Preble - in camera di lancio anteriore. Di lì sarebbero giunti gli eventuali soccorsi. Benché tra le persone a bordo fosse probabilmente il massimo esperto di sommergibili, Preble era anche, formalmente, un civile, e le tradizioni della marina militare prevedevano che fosse lui il primo a lasciare il natante in avaria. Il cibo, per il momento, non costituiva un problema. Oltre a quello che Peter Maas
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era stato prelevato dalla dispensa, c'era una scorta d'emergenza anche in camera di manovra. Quanto all'aria, il discorso era diverso: era il bene più prezioso e più scarso. Per limitarne il consumo al massimo, Naquin ordinò ai suoi uomini di parlare solo se strettamente necessario e di muoversi solo per eseguire i compiti loro assegnati. In caso di urgenze metaboliche sarebbe stato fatto passare un secchio. In camera di manovra, gli uomini stesero le incerate sul pavimento fradicio e si sistemarono uno accanto all'altro sotto le coperte. Alcuni di loro stavano già rabbrividendo di freddo. A quel punto, Naquin diede inizio al suo primo giro d'ispezione. Si fece strada tra quelle sagome sdraiate e, aperta la porta della batteria anteriore, si introdusse nel compartimento desolato. Facendosi luce con la sua torcia elettrica, procedette all'interno e, chinatosi a sollevare la botola del corridoio, vide sul fondo l'acqua che lambiva pericolosamente le celle della batteria. Si ritirò, quindi, nella sua minuscola cabina, unico angolo privato dello Squalus, simbolo speciale del suo nuovo comando, dove si sentì più solo che mai. Allungò d'istinto una mano verso un cassetto, ne estrasse una piccola foto incorniciata della moglie e dei suoi due figli - una femmina di nove anni e un maschio di quattro - e se la mise nella tasca della giacca. Nel momento di uscire dalla cabina, notò che la sedia del suo scrittoio era rovesciata. La rimise a posto con cura e si diresse verso la camera di lancio anteriore. Faceva più freddo, lì, rispetto alla camera di manovra - protetta dal doppio scafo - ma il compartimento era praticamente asciutto. Gli uomini fissarono su di lui sguardi carichi di aspettative, ma Naquin aveva ben poco da dire. «Entro breve, dovrebbero arrivare i soccorsi», spiegò. «Dovete stare tranquilli. Senza parlare. Provate a dormire, se riuscite.» Si diede la pena di lodare Gainor per il suo coraggio. Quindi, prese da parte il tenente Nichols. «John, avvertimi non appena riuscite a stabilire un contatto», gli disse. «Riferisci che, a mio parere, la valvola d'aspirazione superiore è rimasta aperta; che la batteria di poppa e le due sale macchine sono allagate; e che dalla camera di lancio poppiera non abbiamo notizie certe. Spiega loro che, se la valvola d'aspirazione è aperta, devono mandare dei palombari a chiuderla e ad attaccare delle pompe per svuotare i compartimenti di poppa. Dell'acqua che resta nelle casse di zavorra possiamo occuparci noi.» Quando si era ormai voltato per andarsene, Peter Maas
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aggiunse: «Un'ultima cosa, John. Continua così». Nichols, uscito da soli tre anni dalla scuola per sommergibilisti, ne fu profondamente toccato. «Grazie, signore», rispose. Vedendolo andar via, si rese improvvisamente conto di quale fardello pesasse sulle spalle del suo comandante. Era qualcosa che gli altri uomini a bordo non potevano realmente condividere. Benché fosse intrappolato a una profondità da cui nessun sommergibilista si era mai salvato, Nichols percepì di dover sentirsi grato almeno per un fatto, di non essere nei panni di Naquin. Quando il capitano rientrò in camera di manovra, correva la seconda ora da che lo Squalus era colato a picco. Ordinò di spegnere due delle tre lanterne a mano per prolungarne l'autonomia. Dopo di che, andò a sedersi accanto alla sagoma incurvata di Lloyd Maness. Questi si stava mordendo le nocche con una furia tale che Naquin poté vedere il sangue, e lacrime silenziose che gli rigavano le guance. «Ascoltami», disse Naquin al povero aiuto elettricista. «Io ti devo la vita. E come me, tutti gli altri, qui. Hai fatto il tuo dovere. Non dimenticartene. Anzi, hai fatto ben più che il tuo semplice dovere. A tutti quelli che, su questo sommergibile, potevano salvarsi, hai dato l'opportunità di sopravvivere. Non so dove tu abbia trovato la forza di chiudere quel portellone quando è stato il momento di farlo; l'importante, però, è che tu l'abbia fatto. Mi hai sentito?» Maness annuì, senza rispondere. Poco dopo le dieci del mattino Naquin fece sparare un terzo razzo di segnalazione. Sapeva che questa decisione si sarebbe rivelata inefficace: difficilmente, a Portsmouth, avrebbero potuto mettersi in allarme così rapidamente per il fatto che la notizia della riemersione dello Squalus non era ancora giunta. Tuttavia, Naquin non riuscì a resistere al pensiero che in zona potesse esserci qualche imbarcazione: un peschereccio d'altura, magari, di ritorno dopo una puntata ai Grand Banks verso il porto di Gloucester, Massachusetts, situato trenta miglia a sud di Portsmouth. Alle 10,24 fu sparato un quarto razzo. Il quartiermastro Murphy, che teneva il giornale di bordo, prese nota. Dalla camera di lancio prodiera ne sentirono il gorgoglio. Il tenente Nichols aveva appena terminato di illustrare a Preble il funzionamento del polmone di Momsen. «Soprattutto, però,» avvertì Nichols, «non bisogna mai lasciare il cavo di risalita.» Peter Maas
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Charlie Yuhas, uno degli uomini lì trasferiti da Naquin, rabbrividì di freddo. A pochi centimetri di distanza, sulla paratia, poteva vedere un luccichio, come di ghiaccio in formazione. Rabbrividì ancora di più quando pensò a Gene Hoffman, rimasto in sala macchine. Sopraffatto da un'indicibile tristezza, si rese conto che quella cena a casa Hoffman, in occasione della quale la moglie di Gene avrebbe dovuto presentargli quella ragazza che aveva scelto per lui, non ci sarebbe mai stata. Rannicchiato come un cencio, in una cuccetta vicina, ancora fradicio e sporco di nafta, Will Isaacs continuava a rivivere la sua fuga in extremis dalla batteria di poppa e si rammentò che in cambusa, quando aveva rilevato Bobby Thompson, il cuoco della colazione, questi gli aveva detto che durante l'immersione avrebbe schiacciato un pisolino. Anche Isaacs l'aveva fatto diverse volte ed era profondamente turbato al pensiero di Thompson che doveva essersi svegliato appena in tempo per comprendere quello che stava accadendo. L'idea di morire in quel modo lo riempì di orrore; si sforzò di pregare per la salvezza di Thompson e degli altri. Per l'umidità e il freddo, però, i denti gli battevano così forte da impedirgli di proferir parola. Riuscì soltanto a borbottare: «Dio, concedi alle loro anime di riposare in pace!». Lenny de Medeiros era di guardia presso la linea telefonica della boa di segnalazione. Di nuovo, dopo il lancio del quarto fumogeno, si premette d'istinto le cuffie sugli orecchi, ma non percepì altro che il lento sciabordio delle onde intorno alla boa. In un primo momento, lui e McLees avevano temuto che Maness non ce l'avesse fatta, ma Isaacs, al suo arrivo dalla camera di manovra, aveva raccontato come Maness lo avesse salvato. De Medeiros era nato e cresciuto a New Bedford, Massachusetts. Come la maggior parte dei sommergibilisti, aveva sempre messo in conto la possibilità di finire così. Credeva, però, che una simile, sfortunata eventualità si sarebbe verificata in qualche remoto angolo del mondo e non vicino alle spiagge dove andava a nuotare da ragazzo. In camera di manovra il capo elettricista Campbell rifletteva sulle bizzarrie della sorte. La sera precedente, all'ancora, aveva scritto a un suo pari grado, in servizio su uno dei vecchi sommergibili della classe S, del piacere di stare a bordo dello Squalus. Campbell aveva concluso con un poscritto: «Faresti meglio a chiedere il trasferimento, prima che ti mandino in pensione». Dopo aver copiato l'indirizzo, aveva infilato la busta in una tasca laterale dei suoi calzoni di tela grezza. E là si trovava ancora. Se Peter Maas
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anche fosse uscito vivo di lì, pensò Campbell, quella lettera non l'avrebbe certamente spedita. Seduto accanto a Campbell, anche il marinaio Donny Persico aveva modo di esercitare il suo sarcasmo. Sua madre gli aveva fatto un'assicurazione sulla vita, ma una clausola della polizza stabiliva che il contratto sarebbe stato nullo se lui fosse morto in un incidente con il sommergibile. Lloyd Maness aveva apprezzato le parole rivoltegli da Naquin. In fondo, sapeva che, al momento di chiudere il portellone, non aveva fatto altro che il suo dovere. Era sicuro che chiunque altro avrebbe agito allo stesso modo. Era stato accuratamente addestrato per una simile eventualità, e la sua reazione all'improvviso allagamento del sommergibile era stata automatica. Nessuno, però, gli aveva spiegato come si sarebbe sentito dopo. Sebbene avesse tenuto aperta quella porta abbastanza a lungo da consentire a sei uomini di mettersi in salvo, non poteva evitare di pensare a quelli che non ce l'avevano fatta. Nel suo privato tormento, c'era una domanda che continuava a riemergere. Quanti di loro erano rimasti ad annaspare nel buio, urlando freneticamente di tenere la porta aperta ancora per pochi secondi, con la voce coperta dal ruggito delle acque? Ricordò di aver visto, quand'era giunto l'ordine di immersione, John Batick affacciato alla botola della batteria di poppa. E c'era anche Sherman Shirley. Maness era angosciato dalla prospettiva di dover spiegare quel che era successo alla fidanzata di Sherman Shirley, una ragazza del New Hampshire che si chiamava Ruth De Sautels. Si illudeva che Sherman fosse in salvo nell'ultimo compartimento a prua. A questo si aggiungeva la desolante consapevolezza che, alla successiva immersione di prova dello Squalus - già programmata - sarebbe toccato a lui governare i motori elettrici a poppa. Al pari di Maness, un terzo abbondante degli uomini in quel momento distaccati a prua si sarebbe potuto trovare a poppa. Ognuno di essi rimuginava sulle circostanze che avevano voluto altrimenti. Nessuno di loro considerò che chi era morto subito, alla prima ondata, forse poteva ritenersi fortunato. Essere ancora vivi era l'unica cosa che importava. L'aiuto macchinista di II classe Carol Pierce, di Kansas City, che amava giocare a dadi, era assolutamente certo che alla fine sarebbero stati salvati. Se quel suo collega macchinista non fosse stato ricoverato all'ospedale per un trauma cranico patito durante la consueta partita di softball del sabato, Peter Maas
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Pierce sarebbe stato assegnato alle sale macchine ormai allagate. Nella redistribuzione dei compiti che ne era seguita, Pierce era stato distaccato in camera di manovra alle leve dell'aria compressa. Pensò a come sarebbe stato bello tirare un paio di dadi, con una fortuna del genere. Naquin, intanto, si concentrò su una preoccupazione più pressante. Visto che i primi lanci dei razzi di segnalazione non avevano dato risultati, decise di attendere un po' prima di spararne altri. Erano passate da un pezzo le undici, e ancora non c'era traccia dei soccorsi su cui contava. Era conscio dell'esistenza di una variabile che avrebbe potuto mandar tutto a rotoli: le condizioni atmosferiche. Benché la stagione fosse ormai un po' troppo inoltrata perché potessero verificarsi quelle "tre giorni" di vento che di tanto in tanto percuotevano le coste del New England da nord-est, gli tornarono in mente le nuvole sospinte dal vento che, quando aveva abbandonato il ponte, cominciavano ad ammassarsi. Sia pur a fatica, accantonò questi pensieri. In ogni caso, sulle condizioni atmosferiche lui non poteva intervenire. Una cosa, almeno, gli era di consolazione. Se in quel punto la profondità era di circa ottanta metri, Naquin sapeva che, da quelle parti, la piattaforma continentale presentava gole e spaccature ben più significative. Una di queste, nota come lo Scoglio di Jeffrey, precipitava bruscamente fino a 200 metri. La profondità operativa massima dello Squalus era appunto di ottanta metri circa. Il punto critico era fissato a 175 metri, profondità nei cui dintorni lo scafo sarebbe fatalmente imploso. In camera di manovra, Naquin udì due uomini dell'equipaggio che parlavano del destino toccato ai loro compagni rimasti a poppa. Non riuscì a identificarli, ma neppure gli interessava. Quel che aveva da dire era rivolto a tutti. Si alzò di scatto e sibilò: «Smettetela! Non voglio più sentir chiacchiere. Quel che è stato è stato, e parlare non serve né a quelli rimasti a poppa né a noi». Quindi, su suggerimento di Walter Doyle, fu intrapresa una nuova iniziativa al fine di aiutare eventuali navi di soccorso a individuare il luogo dell'incidente. Fu lo stesso capitano in seconda a occuparsene. Avanzò con una tanica di nafta da cinquanta litri nell'acqua accumulatasi sul lato posteriore della camera di manovra e ne rovesciò il contenuto in uno dei gabinetti. La speranza era che, tirando l'acqua, il carburante salisse fino in superficie a formare una chiazza intorno alla boa di segnalazione. Trascorsi venti minuti, Naquin ordinò a Cravens di sparare il quinto Peter Maas
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razzo fumogeno. Quando fuoriuscì dall'eiettore, l'artigliere lo accompagnò esclamando: «Vai, piccolo, vai!». In quel silenzio forzato, la tensione e la speranza si fecero palpabili. Doveva essere la volta buona. E, invece, non accadde nulla. Quando le aspettative a breve termine si furono smorzate, l'equipaggio intrappolato mantenne, nonostante il disastro incombente, un'ammirevole disciplina. Per distrarre i suoi uomini, Naquin diede disposizione di organizzare un pasto. Ai fagioli in scatola vennero preferite ananas e pesche sciroppate. La frutta - l'ananas, soprattutto - diede loro un minimo di calore. Quaranta minuti dopo mezzogiorno, Cravens lanciò un sesto fumogeno. Erano trascorse quattro ore, ormai, dal momento dell'immersione dello Squalus. Naquin era stupito. Gli pareva che a Portsmouth avessero avuto tempo a sufficienza per entrare in azione. Con tutta probabilità, qualcosa era andato malauguratamente storto. Ma che cosa? A Portsmouth, l'ammiraglio Cole e il suo stato maggiore erano altrettanto perplessi. Poco dopo mezzogiorno, lo Sculpin aveva comunicato di essere giunto nel presunto luogo dell'immersione. Depistato dall'errato messaggio trasmesso dallo Squalus, non aveva trovato traccia del sommergibile scomparso: né frammenti galleggianti in superficie, né chiazze di nafta. Nulla. Cole, assai contrariato, ordinò di continuare nelle ricerche. Nessuno degli uomini del suo staff aveva la benché minima idea di quale potesse essere il problema. Nell'Atlantico settentrionale, le alte onde profilate di bianco presentavano una cupa sfumatura metallica, come di peltro, e il cielo era interamente coperto di gonfie nuvole grigie. Mentre lo Sculpin si aggirava sbuffando per l'oceano in cerca di tracce del sommergibile gemello, una mezza dozzina di vedette scrutava la superficie del mare. Sottocoperta, le sue apparecchiature subacquee a onde sonore scandivano inutilmente il segnale di chiamata dello Squalus. Nell'ultimo messaggio pervenuto a Portsmouth, lo Squalus aveva ribadito che la longitudine del punto di immersione era di settanta gradi e trentuno primi ovest. Solo in seguito si sarebbe scoperto che la longitudine effettiva era di settanta gradi e trentasei primi ovest. Ciò significava che lo Peter Maas
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Squalus era affondato cinque miglia più a est rispetto al luogo in cui lo Sculpin aveva cominciato a cercarlo. La situazione peggiorò quando Warren Wilkin, il comandante dello Sculpin, ordinò di muovere verso sudest per seguire, sotto la superficie, la rotta prevista dello Squalus, allontanandosi ancor più dal luogo dell'incidente. Lo Sculpin avrebbe potuto proseguire nelle ricerche all'infinito, se non fosse stato per un giovane guardiamarina, Ned Denby, che era di vedetta sul ponte battuto dal vento. Distogliendo per un istante lo sguardo per asciugarsi gli occhi dagli spruzzi delle onde, Denby ebbe la ventura di volgersi dal lato giusto al momento giusto. Ogni muscolo del suo corpo si irrigidì. Gli parve di vedere come una macchia dietro di loro, bassa sull'orizzonte. Sbatté le palpebre e guardò meglio. La macchia era ancora lì, e parve a Denby che potesse trattarsi della scia lasciata da un fumogeno di soccorso. Riferì immediatamente la notizia. Wilkin puntò il suo binocolo nella direzione indicata da Denby, ma non ricavò alcuna certezza. Per un attimo aveva avuto l'impressione di vederla, ma subito era scomparsa. Forse era solo un punto in cui le nuvole erano più scure. Ciononostante, informò Portsmouth del presunto avvistamento. Nessuno sul ponte proferì parola quando Wilkin ordinò che lo Sculpin invertisse la rotta alla massima velocità. Quindici minuti dopo, gli uomini intrappolati nello Squalus udirono per la prima volta il frullare delle eliche dello Sculpin in avvicinamento. Quello che Denby aveva fortunosamente intravisto era il sesto fumogeno, lanciato dopo che l'equipaggio aveva finito di consumare il primo pasto in fondo al mare. Ci fu un sommesso gioire, ma l'umore prevalente tendeva piuttosto a un cauto sollievo. Già troppe volte le loro speranze si erano levate in cielo insieme ai razzi fumogeni, e ora temevano che gli orecchi stessero giocando loro un macabro tiro. Il rumore delle eliche, però, si fece più forte e inequivocabile. Il tenente Naquin ordinò a Cravens di sparare un altro fumogeno. Esplose in aria a trecento metri circa dallo Sculpin leggermente a dritta. Subito dopo le vedette individuarono la boa telefonica che cavalcava il mare tempestoso. Quando lo Sculpin la raggiunse, fu in tutta fretta ripescata per mezzo di ganci d'accosto e sollevata sul ponte, e il suo cavo assicurato intorno a una galloccia. Wilkin afferrò il telefono. Un attimo dopo, nella camera di lancio prodiera dello Squalus, a circa Peter Maas
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ottanta metri di profondità, Lenny de Medeiros sentì le parole: «Squalus, rispondete. Qui è lo Sculpin. Che cosa è successo?» «È lo Sculpin», disse de Medeiros al tenente di vascello Nichols, passandogli alla svelta le cuffie. Nichols si sforzò di controllare le emozioni e descrisse la situazione a bordo dello Squalus. Infine, aggiunse: «Attenda, le passo il capitano». Oliver Naquin stava già arrivando dalla camera di manovra. Passarono all'incirca trenta secondi prima che dicesse, con contenuta euforia: «Pronto, Wilkie». Ma proprio mentre Wilkin stava per rispondere, lo Sculpin si impennò sulla cresta di un'onda e la comunicazione si interruppe. Teso intorno alla galloccia, il cavo telefonico della boa, ultimo legame dello Squalus con il mondo emerso, si spezzò. Ora era davvero perduto.
9 Quando alla base navale di Portsmouth giunse il messaggio di Wilkin che riferiva del presunto avvistamento di un fumogeno rosso, la tensione era diventata quasi intollerabile. L'ammiraglio Cole ordinò al rimorchiatore del cantiere, il Penacook, di prepararsi a partire immediatamente. Un'altra telefonata fu indirizzata al comandante Lockwood, del Dipartimento della marina. Pochi minuti dopo, la notizia della scomparsa dello Squalus fu diramata a tutte le basi della marina e le stazioni della guardia costiera sparse lungo la costa nord-occidentale. Prima della fine della giornata, sarebbe stata organizzata la più imponente operazione di salvataggio sottomarino mai tentata. L'urgente richiesta trasmessa da Cole per ottenere l'intervento della nave da salvataggio Falcon fu provvidenziale. All'epoca, la marina possedeva cinque esemplari della campana inventata da Charles Momsen, ora universalmente nota come "camera di salvataggio". L'unico che si trovasse nei paraggi era appunto a bordo della Falcon, un dragamine riconvertito della Prima Guerra mondiale. Purtroppo, la richiesta d'intervento in tempi rapidi - inoltrata al capitano Richard Edwards, comandante della base di New London - trovò la vecchia nave assolutamente impreparata. Era in corso, infatti, la sua Peter Maas
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annuale revisione: le caldaie erano spente; la grossa e pesante camera di salvataggio era stata rimossa; e l'equipaggio era in libera uscita. Edwards promise che l'avrebbe fatta approntare per la partenza al più presto. La polizia e le squadre addette alla sorveglianza a terra cominciarono a radunare i membri dell'equipaggio e i palombari di complemento, mentre un gruppo di tecnici in servizio, a ranghi ridotti, si mise febbrilmente al lavoro per rimettere in funzione le caldaie. Il vapore era essenziale non soltanto per la propulsione della nave, ma anche per azionare gli argani necessari a caricare a bordo la camera di salvataggio, senza la quale la Falcon non sarebbe stata di alcuna utilità. Sul ponte, il giovane e lentigginoso comandante, tenente di vascello George Sharp, camminava avanti e indietro in preda alla rabbia e alla frustrazione. Quando lo Sculpin inviò il suo secondo messaggio, che annunciava, con tanto di coordinate, il ritrovamento della boa telefonica, fu possibile spiegare il ritardo nella localizzazione dello Squalus. La causa dell'errata trascrizione dei dati della longitudine, invece, non fu mai determinata con certezza. I sospetti si concentrarono sulla particolare somiglianza, nel codice Morse, delle rappresentazioni dei numeri 1 e 6, costituiti rispettivamente da un punto e quattro linee e da quattro punti e una linea. A un certo punto, in fase di trasmissione o di ricezione dovevano essere stati inavvertitamente scambiati. Per Cole e gli altri, a Portsmouth, la notizia del ritrovamento della boa fu un duro colpo. Fino a quel momento, nonostante i loro timori, erano rimasti aggrappati all'esile speranza che tutto potesse risolversi in un falso allarme. Ora, quella speranza era definitivamente sfumata. Con l'ammiraglio Cole a bordo, il Penacook percorse il tratto finale del Piscataqua. La velocità massima di questo rimorchiatore era di circa sette nodi, ma questo aspetto, al momento, non preoccupava più di tanto l'ammiraglio Cole. L'importante era che lo Sculpin avesse scoperto il punto in cui lo Squalus era affondato. C'era ben poco da fare, finché la flotta di salvataggio che si stava armando non avesse raggiunto il luogo dell'incidente. La misera consolazione che Cole aveva cominciato a concedersi, svanì dieci minuti dopo, quando gli fu consegnato un nuovo, raggelante messaggio dello Sculpin: «Il cavo della boa si è spezzato. Siamo all'ancora dov'è affondato lo Squalus. Attendiamo istruzioni». Nulla di più inatteso e gravido di conseguenze nefaste poteva accadere. Peter Maas
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Quel cavo non era solo l'unico collegamento esistente tra lo Squalus e la superficie, ma anche la guida necessaria ai palombari per tendere un altro cavo, lungo il quale la camera di salvataggio avrebbe raggiunto il sommergibile affondato. Cole si ritirò in timoniera tremendamente scosso. Per tutta la mattina, preso dai tentativi di capire che cosa fosse capitato allo Squalus e, poi, dall'organizzazione delle operazioni di salvataggio, non aveva avuto modo di soffermarsi sull'eventualità di un disastro completo. Solo ora quell'orribile pensiero cominciava a prendere forma. «Maledizione,» sbottò, rivolto al comandante del Penacook, primo nostromo David Ullman, «non possiamo accelerare?» Ullman, che mai prima si era trovato a dover subire le ire di un alto ufficiale, riuscì a cavare un nodo supplementare dalle sue affaticate caldaie. Ciononostante, ci volle più di un'ora perché il nero profilo dello Sculpin comparisse all'orizzonte, e quasi altrettanto occorse per raggiungerlo. Da quel momento, Cole avrebbe utilizzato lo Sculpin come posto di comando; fu subito trasferito a bordo del sommergibile per mezzo di una scialuppa, operazione peraltro complicata dalla crescente turbolenza del mare. Cole non si curò di appurare se il cavo si sarebbe ugualmente rotto anche qualora non fosse stato legato alla galloccia dello Sculpin. La sua prima e fondamentale preoccupazione era quella di recuperare lo Squalus, a qualunque costo. Il comandante dello Sculpin indicò una seconda boa che aveva fatto disporre non appena si era verificata la rottura del cavo telefonico e informò Cole che, per mezzo delle apparecchiature a onde sonore, avevano individuato un oggetto che poteva essere lo Squalus. I dati, però, erano approssimativi, e per intervenire a quelle profondità l'approssimazione non era certo una base sufficiente. A Cole non restò che attendere l'arrivo di altri soccorsi. Ordinò a David Ullman, che era rimasto sul Penacook, di sistemare altre boe, a un centinaio di metri a nord e a sud dalla boa calata dallo Sculpin. «Non ho tempo per fare discorsi», disse a Ullman. «Voglio soltanto che troviate lo Squalus.» Quando entrambe le boe di segnalazione furono sistemate, il Penacook cominciò a scandagliare il fondale tra esse compreso per mezzo di un rampino. Nel frattempo, dallo strato di nubi sovrastante sbucò un aereo da ricognizione della Guardia costiera, che prese a tracciare pigre traiettorie a Peter Maas
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forma di 8, attento a scorgere eventuali membri dell'equipaggio dello Squalus riemersi con il polmone di Momsen. Il semplice fatto di notare i primi tangibili segnali dell'arrivo di ulteriori mezzi di soccorso ebbe l'effetto di risollevare gli animi. Nella cabina-radio dello Sculpin, intanto, si accumulavano messaggi per Cole relativi al procedere delle operazioni. Il capitano di corvetta Charles Momsen era già in volo verso Portsmouth. Il suo arrivo era previsto per la prima serata. La sua unità subacquea sperimentale sarebbe arrivata subito dopo. Il grosso rimorchiatore Wandank che Cole aveva chiesto al cantiere navale di Charlestown, a Boston, si stava preparando a mollare gli ormeggi. Diverse lance e motovedette della Guardia costiera incaricate di trasportare uomini e materiali da Portsmouth erano già in viaggio. A New York City, l'incrociatore pesante Brooklyn, dotato di strutture mediche e di altre centinaia di metri di tubi per l'invio di aria, sfilò davanti al profilo della lower Manhattan. La partenza era avvenuta con una fretta tale che quasi un terzo dell'equipaggio era rimasto a terra. Nella sua scia avanzava un altro rimorchiatore, il Sagamore, con nove galleggianti di salvataggio e una chiatta con gru al seguito. Da New London giunsero notizie confortanti. Con straordinaria reattività, sebbene la Falcon fosse momentaneamente in disarmo, la camera di salvataggio e i palombari avevano ripreso posto a bordo già un'ora dopo la conferma dell'affondamento dello Squalus. Mentre la Falcon si avviava sbuffando verso la foce del fiume Thames, Richard Edwards - uno dei primi uomini a cui Cole si era rivolto, comandante della base di New London e del Secondo Squadrone Sommergibili, di cui faceva parte anche la Falcon - si preparava a partire per il luogo dell'incidente a bordo del cacciatorpediniere Semmes. La sua principale preoccupazione era data dagli ultimi bollettini meteorologici: per la costa del New England era prevista una nebbia fitta che avrebbe potuto creare problemi alla Falcon. Più a nord, sotto le Isles of Shoals, l'ammiraglio Cole aveva altre preoccupazioni: tutti i palombari e le camere di salvataggio del mondo sarebbero stati inutili se non si fosse riusciti a determinare l'esatta posizione dello Squalus. Dal ponte dello Sculpin, Cole non staccò neppure per un istante gli occhi dal Penacook che faceva lentamente la spola tra le due boe di segnalazione che avevano gettato in mare per delimitare l'area delle ricerche. Peter Maas
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Lo sbuffante Penacook era un'immagine tipica di Portsmouth, impegnato com'era, quotidianamente, in piccoli lavori di routine nelle acque del porto cittadino. C'era un che di strano e di incongruo nel vederlo in azione in un contesto così drammatico. Dal punto di vista formale, Ullman non poteva neppure esserne considerato il capitano, dato che la nave non era destinata a missioni come quella. La designazione tecnica era di ufficiale incaricato. A causa dell'infimo status, il Penacook non aveva neppure il caratteristico colore grigio Navy, ma una scialba sfumatura di marrone. Sul ponte, accanto a Cole, il capitano Halford Greenlee, crucciato in primo luogo per la presenza del genero sullo Squalus, disse: «Credi che ce la farà?». «Non lo so», rispose Cole. «Ma è la nostra unica carta.» Ullman aveva appena completato il terzo infruttuoso passaggio sul presunto luogo dell'affondamento quando un marinaio addetto alla fune dello scandaglio entrò in cabina per riferirgli quel che lui già sospettava. Il rampino del Penacook era troppo leggero per poter raggiungere il fondo. Ullman decise di fare un ultimo tentativo. Ridusse la velocità del rimorchiatore, in modo da consentirgli appena di mantenere l'abbrivio, nella speranza che questo permettesse al rampino di scendere fino a una profondità utile, ma l'iniziativa non ebbe successo. Ullman non aveva scelta. Ordinò di riavvolgere la fune e si presentò a rapporto da Cole. Il piccolo e testardo ammiraglio elaborò un ultimo stratagemma. Dopo averne discusso con il capitano dello Sculpin, diede ordine di sostituire il rampino del Penacook con un'ancora di riserva, presente sul sommergibile, che si rivelò, quantomeno, abbastanza pesante. Ma quel tozzo rimorchiatore faticava non poco a trascinarla, mentre le bianche creste delle onde si levavano più alte, ora, e il gonfio strato di nubi sovrastante non pareva tanto più lontano dello Squalus affondato. Il problema di Ullman era facilmente esemplificabile: era come gettare una penna stilografica da una finestra al terzo piano di un palazzo e, dopo essersi bendati gli occhi, provare a ripescarla con un pezzo di spago e uno spillo piegato. Di tanto in tanto il rampino del Penacook si impigliava in qualche cosa, ma poi si disincagliava beffardamente. Le Isles of Shoals (Isole delle Secche) erano state così denominate a ragion veduta: i fondali circostanti erano cosparsi di relitti di scafi, alcuni dei quali più vecchi di un secolo. Peter Maas
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All'aereo della Guardia costiera si erano aggiunti altri velivoli partiti da Boston, carichi di fotografi e operatori televisivi. Nel tardo pomeriggio, però, le nubi sempre più basse costrinsero tutti gli aerei ad abbandonare la scena dell'incidente. Poco dopo le diciassette, il rimorchiatore Wandank si mise in panna accanto allo Sculpin. Cole ordinò di mettere immediatamente in funzione il potente oscillatore subacqueo nella speranza di stabilire un contatto con lo Squalus. Dalle profondità oceaniche giungevano deboli e indecifrabili colpi di martello. Pochi minuti dopo, mentre il Penacook stava compiendo un ulteriore passaggio, dalla superficie del mare eruppe un nuovo razzo segnalatore sparato dallo Squalus. Certo, poteva servire al massimo da indicazione generale. Tanto più che il fumogeno era esploso su un'area già perlustrata due volte da Ullman. Mezz'ora dopo, giunse sul posto anche il rimorchiatore civile Chandler, che aveva a bordo un medico, tre aiuto farmacisti e cinquanta coperte dell'Ospedale navale di Portsmouth. Una barca noleggiata da giornalisti abbordò lo Sculpin. Avevano scorto l'emblema con due stelle che segnalava la presenza di Cole sul sommergibile. Uno dei giornalisti gridò: «Non potremmo venire a bordo?». L'ufficiale di guardia che si trovava sul ponte rispose che avrebbe domandato all'ammiraglio. Dopo un po', aiutandosi con un megafono, annunciò: «Non più di tre persone, ma fate attenzione». Dopo aver tirato a sorte, tre giornalisti si cimentarono in un insidioso salto per aggrapparsi a una scaletta dello Sculpin. Cole li incontrò subito. Presto il mondo intero sarebbe stato informato della rottura del cavo telefonico fissato alla boa, ma Cole decise di minimizzare. «Non sappiamo in che condizioni siano gli uomini dell'equipaggio, né quanti ne sopravvivano. Speriamo siano tutti salvi. Più tardi, se sarà possibile, li estrarremo dal relitto. Grazie, signori. Speriamo, domani, di potervi dare le notizie che tutti auspichiamo... Sì, domani.» Sul Penacook, Ullman si accorse a malapena dei nuovi arrivati. Il suo titolo di primo nostromo testimoniava della sua grande esperienza marinaresca, e Ullman ebbe bisogno fino all'ultimo briciolo della sua competenza per governare quel malconcio naviglio impegnato a dragare il fondale con l'ancora di scorta dello Sculpin. Pur non essendo particolarmente aitante, era rimasto aggrappato al timone per più di quattro Peter Maas
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ore, togliendone di tanto in tanto una mano solo per trangugiare qualche tazza di caffè. La sua fronte era corrugata per una forte emicrania cronica che lo affliggeva. Cole temeva che venisse improvvisamente colpito da un accesso debilitante, ma Ullman era animato da uno zelo che non ammetteva cedimenti. Era determinato a localizzare lo Squalus e non aveva intenzione di arrendersi. Alle 19,30, nella crescente oscurità, il Penacook trovò qualcosa sul fondo dell'oceano, più o meno lungo la retta ideale che univa le due boe gettate da Ullman. Questa volta, il grosso rampino di fortuna rimase saldamente impigliato. All'interno dello Squalus, il disagio più grave era dato dal tormentoso freddo umido. E dall'attesa. C'erano diciotto uomini in camera di manovra e altri quindici in camera di lancio prodiera. Entrambi i compartimenti erano immersi nel buio, se si escludeva la fioca luce delle lanterne a mano. In camera di manovra, le valvole di tanto in tanto sfrigolavano e sibilavano sotto la pressione dell'acqua, come se dovessero saltare da un momento all'altro, tenendo tutti col fiato sospeso. Sotto coperte fradice, gli uomini giacevano ammucchiati, su materassi o direttamente a terra, sul linoleum. Altri sedevano con la schiena appoggiata alle paratie, con le ginocchia raccolte contro il petto. Molti erano ancora bagnati a seguito dell'allagamento iniziale. Nessuno parlava. Si muovevano il meno possibile. Di tanto in tanto, risuonava un colpo di tosse, uno starnuto, un gemito inarticolato di uomini intorpiditi dalla scarsità di ossigeno. Ognuno aveva accanto a sé un polmone di Momsen, da usare nel caso in cui fossero stati costretti a evacuare il sommergibile, o se l'acido cloridrico avesse cominciato, inopinatamente, a filtrare dalla batteria anteriore. Interrotta bruscamente la sua conversazione con il comandante dello Sculpin Warren Wilkin, Oliver Naquin continuò a controllare il telefono, nella speranza che il problema all'origine dell'interruzione si risolvesse. Non fu neppure sfiorato dall'idea che il cavo potesse essersi spezzato. Alle due del pomeriggio, la temperatura si era ormai sensibilmente abbassata. C'era un altro problema che non poteva essere ignorato. Espirando, gli uomini stavano saturando il compartimento di anidride carbonica. Naquin aveva fatto aprire una lattina di una speciale sostanza assorbente, ma ne aveva fatto rovesciare solo un quarto del contenuto. Oltre che dell'assorbente per l'anidride carbonica, lo Squalus disponeva di Peter Maas
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una scorta di ossigeno puro in fiasche, ma Naquin voleva conservarlo fino all'ultimo. Non aveva idea di quanto tempo avrebbero trascorso intrappolati lì sotto, e il silenzio in superficie gli appariva a ogni minuto più inquietante. Benché avesse in dotazione un kit per l'analisi dell'anidride carbonica nell'aria, decise di non usarlo perché temeva che l'operazione avrebbe ottenuto l'effetto di attrarre sul problema più attenzione del dovuto. Preferì indovinare quale fosse la qualità dell'aria sulla base della nausea e delle difficoltà respiratorie e scelse di non far nulla per ridurne la lieve tossicità, che aveva il vantaggio di indurre sonnolenza negli uomini: in questo modo sarebbero rimasti più tranquilli, e il tempo sarebbe passato più rapidamente. Quando arrivò il Penacook, all'interno dello Squalus ne udirono chiaramente le eliche in funzione. Gli uomini furono assai rincuorati dalla presenza di un'altra nave. Ma, poiché il piccolo rimorchiatore continuava inopinatamente a fare avanti e indietro sopra le loro teste, occorse loro ben poco per comprendere che in superficie avevano perso i contatti con lo Squalus e che il Penacook si era semplicemente unito alle ricerche. «Se non altro, sanno che siamo quaggiù da qualche parte», borbottò Jud Bland con tono rassegnato, rivolto a Lloyd Maness, il suo salvatore. Lo stoicismo dimostrato dai suoi uomini, nonostante la forte pressione a cui erano sottoposti, colpì profondamente Naquin. Non c'era stato il benché minimo segno di paura, non un lamento per il freddo, né un sospiro di impazienza o di disperazione. Condividevano le coperte sull'affollatissimo pavimento o giacevano abbracciati, nel tentativo di stare più caldi. Alle quattro e mezza Naquin fece un nuovo giro di ispezione nella camera di lancio a prua. Attraversando il compartimento della batteria anteriore, notò mestamente quanto fosse più caldo rispetto agli altri due occupati dagli uomini, ma colse anche le vaghe zaffate di acido cloridrico. Nella camera di lancio anteriore, parlò con il tenente di vascello Nichols. Naquin gli aveva chiesto di riferire in superficie, lungo il cavo telefonico legato alla boa, il suo sospetto che la causa dei problemi dello Squalus fosse la valvola di aspirazione dell'aria nei motori diesel. Aveva anche detto a Nichols di chiedere l'invio di palombari per chiudere la valvola sospetta e attaccare una pompa in grado di svuotare dall'acqua i compartimenti allagati. Negli attimi di confusione seguiti alla rottura del Peter Maas
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cavo, però, Naquin si era dimenticato di domandare a Nichols se avesse fatto in tempo a riferire il messaggio in superficie. Fu con estrema soddisfazione che ne ascoltò la risposta affermativa. Dopo aver riflettuto per tutto il pomeriggio, Naquin aveva concluso che questa soluzione era certamente da preferirsi all'impiego della camera di salvataggio. Alla nona ora dall'incidente, nei due compartimenti agibili dello Squalus venne sparso altro assorbente per l'anidride carbonica. E per la prima volta furono stappate anche le fiasche di ossigeno, per migliorare la qualità dell'aria. Fu approntata una cena a base di fagioli in scatola, pomodori e frutta. Ancora una volta, l'ananas fu la principale attrazione. Poco dopo, lo Squalus fu raggiunto dall'insistita pulsazione di nuove, poderose eliche. Alle 17,21 - secondo la precisa registrazione effettuata da Frankie Murphy - l'acuto tinnire di un oscillatore consentì di identificare la nuova imbarcazione: era il Wandank, che sollecitava una risposta. Per fornire la risposta richiesta, Naquin inviò in torretta il radiotelegrafista di I classe Art Booth e il segnalatore di II classe Warren Smith. Lì, i due rimossero una parte del rivestimento in sughero, per mettere a nudo le pareti di acciaio dello Squalus, e a turno batterono ripetutamente il messaggio - «Vi sentiamo» - con dei martelli: un colpo per il punto, due colpi in rapida successione per la linea. All'interno del sommergibile il rumore delle martellate era assordante. Ma riuscivano, in superficie, a ricevere il loro messaggio? Ben presto scoprirono che così non era. Nello Squalus calò un silenzio così teso da risultare quasi palpabile. Passarono cinque, dieci minuti. Quando ne furono trascorsi venti, Naquin ordinò: «Cravens, spara un altro fumogeno». D'un tratto, il silenzio in camera di manovra fu rotto. Sin dall'ora di cena Rob Washburn aveva tentato di resistere a un attacco di brividi. Questo giovane marinaio, alla sua prima esperienza su un sommergibile, era già seriamente raffreddato al mattino e nella fuga dalla batteria di poppa si era completamente inzuppato. Non poté più trattenersi: cominciò suo malgrado a battere i denti e fu colpito da violenti tremori. Naquin gli fu immediatamente accanto. Si tolse la giacca pesante e la mise sulle spalle di Washburn. L'aiuto farmacista, Roy O'Hara, si avvicinò subito dopo. Diede a Washburn la propria coperta e lo sostenne. Oltre a questo, O'Hara poteva fare ben poco, a parte sussurrargli all'orecchio: «Tieni duro. Presto andrà meglio». Poco dopo le sei, l'oscillatore del Wandank tornò in funzione. Il Peter Maas
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messaggio che inviò, però, non era per nulla rassicurante: «Ci sentite?». All'interno della torretta, Smith rispose affermativamente. Trascorse uno scoraggiante quarto d'ora senza che dal Wandank giungesse risposta. Naquin, temendo che il suo piano per recuperare lo Squalus non avesse trovato ascolto, decise di inviare personalmente un messaggio. Smith e Booth, una parola per uno, si occuparono di tradurlo in codice Morse con i martelli: «Potete immettere aria nei compartimenti a poppa della camera di manovra? Noi abbiamo aria per le casse di zavorra». I successivi messaggi del Wandank, però, lo lasciarono quanto mai perplesso. Non avevano la benché minima relazione con la sua domanda. Era costretto a supporre che lo Squalus fosse troppo in profondità perché il loro martellare sullo scafo potesse risultare decifrabile. Ora il Wandank domandava: «Quanti ufficiali e uomini d'equipaggio ci sono nei compartimenti non allagati? State imbarcando altra acqua?». Senza farsi troppe illusioni sull'efficacia dei loro tentativi, Naquin dettò una risposta assai sintetica: «Trentatré. No». Quel che più faceva rabbia era, di contro, la perfetta ricezione dei messaggi da parte del Wandank. A Naquin pareva di vivere il classico incubo in cui ci si ritrova a gridare inascoltati, fermi all'angolo di una strada affollatissima. Quando il clangore dei martelli svanì nelle vastità sottomarine, poterono quantomeno aggrapparsi alla consapevolezza che un contatto biunivoco, per quanto tenue, era stato ripristinato. «Sentiamo i vostri colpi,» segnalarono dal Wandank, «ma molto debolmente. Ripetete ogni parola tre volte.» L'euforico brusio all'interno del sommergibile tacque non appena il Wandank riprese: «Quanti gradi di rotazione sull'asse orizzontale?». Smith e Booth si rimisero all'opera. Era toccato loro un incredibile castigo. Il freddo, nella torretta, era di gran lunga più pungente che in camera di manovra, mentre l'aria era altrettanto scadente. Sia pur boccheggiando e reprimendo a fatica le ondate di nausea, non manifestarono il benché minimo cedimento nell'esecuzione della serie di punti e linee. Anzi, quando i loro sforzi ebbero riscontro, si dedicarono all'impresa con rinnovata caparbietà. Naquin cercò di ridurre la risposta ai minimi termini: «Nessuna rotazione. Prua inclinata verso l'alto di undici gradi». Anche così, però, occorse a Smith e Booth una mezz'ora buona per terminare. Quando ebbe ripetuto per la terza volta l'ultima parola, Smith si rese conto di essere Peter Maas
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immerso, nonostante la temperatura gelida, in un bagno di sudore appiccicaticcio, e vomitò. Naquin rimandò entrambi in camera di manovra, sostituendoli con Charles Powell, il telegrafista che aveva inviato i messaggi contenenti le coordinate del luogo d'immersione, e con il segnalatore Ted Jacobs; in quel momento si trovavano entrambi nella camera di lancio a prua. Smith e Booth, assai provati, scesero dalla torretta. Naquin stava per dar ordini affinché gli uomini più vicini ai due marinai esausti condividessero con loro le coperte, ma non fu necessario, perché era già stato fatto. Consultando il suo orologio, alle sette e mezza, Naquin ebbe il vago sentore che la situazione fosse cambiata. Gli ci volle un minuto per rendersi conto di che cosa si trattava. Le vibrazioni prodotte dal motore del Penacook erano improvvisamente cessate. Scartò l'ipotesi che ciò potesse essere dovuto alle cattive condizioni atmosferiche: se così fosse stato, il Wandank vi avrebbe fatto cenno. E non poteva credere che le ricerche fossero state interrotte, anche solo temporaneamente. Non restava, a suo avviso, che una sola possibilità: il rimorchiatore aveva o, forse, credeva di avere agganciato lo Squalus. Naquin attese con ansia la conferma alle sue supposizioni. Ma alle otto, visto che non giungevano notizie, ordinò a Powell e a Jacobs di martellare il seguente messaggio: «Ci avete localizzato?». Per tutta risposta, dalla superficie giunse la richiesta di descrivere la situazione all'interno del sommergibile. La replica di Naquin si esaurì in cinque parole, rivolte ai propri uomini non meno che ai soccorritori: «Condizioni soddisfacenti, ma fa freddo». Per qualche ragione - forse a causa di una stratificazione termica delle acque oceaniche che in molti casi defletteva le onde sonore - questo messaggio dello Squalus fu ricevuto chiaramente e per intero. E avrebbe in seguito elettrizzato milioni di lettori di quotidiani e ascoltatori radiofonici infondendo in loro l'illusione - in mancanza di notizie diverse - che l'intero equipaggio fosse ancora in vita. A quel punto, inaspettatamente, l'oscillatore del Wandank fornì l'informazione che Naquin attendeva sin da quando il Penacook aveva smesso di passare avanti e indietro sopra le loro teste: «Crediamo di aver agganciato lo Squalus». Naquin sperò ardentemente che fosse vero, ma c'era un piccolo, antipatico dettaglio che gli era impossibile ignorare: all'interno del Peter Maas
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sommergibile non avevano udito o percepito nulla che potesse anche solo lontanamente indicare l'avvenuto aggancio.
10 In volo su un bimotore anfibio decollato dalla stazione aeronavale di Anacostia, Charles Momsen era all'oscuro delle difficoltose ricerche e ignorava che le comunicazioni con lo Squalus fossero interrotte. Dovendo scegliere tre soli tra i suoi uomini, non aveva avuto esitazioni. I tenenti di vascello Al Behnke e Pete Yarbrough erano entrambi medici distaccati dalla marina presso l'unità subacquea sperimentale di Momsen. La loro presenza sarebbe risultata fondamentale nel caso in cui gli uomini dello Squalus fossero stati costretti a sfidare il gelo di quei quaranta fathom, nell'Atlantico settentrionale, con il polmone artificiale. Il terzo uomo, nell'eventualità di un'imprevedibile emergenza, era il capo metallurgico Jim McDonald, palombaro di prim'ordine che, durante la sperimentazione della nuova miscela di elio e ossigeno ideata da Momsen, aveva fissato in 160 metri il record di immersione simulata nel cassone pressurizzato. A Momsen non sfuggiva l'aspetto paradossale della situazione. Erano anni che si preparava senza tregua a una simile evenienza, eppure in quel momento non aveva un'idea precisa di quali difficoltà avrebbe incontrato. Allacciato al suo sedile, non poteva fare a meno di domandarsi se non avesse per caso trascurato qualcosa, se non vi fosse un qualche beffardo segreto del mare da lui ignorato. In seguito, in una lettera alla moglie, così avrebbe descritto la sensazione provata in quel frangente: «Non mi ero mai sentito così insicuro. Avevo l'impressione che tutti gli dèi mi stessero mettendo alla prova». Momsen aveva ben ragione di pensarlo. Quando, per la prima volta, aveva sottoposto a chi di dovere i progetti della sua campana d'immersione, le altre ipotesi allo studio miranti al salvataggio dei sommergibili erano quanto di più rozzo si potesse immaginare. Secondo una teoria che aveva molto credito, era possibile riemergere con la testa all'interno di una sfera d'aria. Per pura curiosità, Momsen l'aveva sottoposta a prova, scoprendo purtroppo un inconveniente decisivo. Durante la risalita, la sfera si disintegrava. Proprio quando il rifiuto del suo progetto per la campana di immersione Peter Maas
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- poco prima del tragico incidente che aveva visto perire tutti gli uomini dell'S-4 - stava quasi per indurlo ad abbandonare la marina disgustato, nella sua fertile immaginazione aveva cominciato a prendere corpo una nuova e audace idea, imperniata sulla fuga dal basso piuttosto che sul salvataggio dall'alto. L'idea si fondava su una premessa: se un uomo era in grado di respirare stando in piedi nell'acqua immerso fino al mento, poteva respirare anche in una borsa sistemata sul petto a un'altezza corrispondente a quella dei suoi polmoni. Posto che la scorta d'aria venisse rinnovata, non si poteva forse si domandò Momsen - respirare per mezzo di quella specie di borsa anche sott'acqua? Sembrava logico, anche se nessuno ci aveva mai pensato prima. Quanto al suo funzionamento, la questione era diversa. Questa volta, però, per mettere alla prova la sua teoria Momsen era deciso a evitare i canali ufficiali. Dopo l'amara esperienza fatta con la campana, riteneva di non avere scelta. Per ottenere il supporto tecnico che gli occorreva, si rivolse invece a un giovane ingegnere di ampie vedute, tale Frank Hobson che lavorava al Bureau of Construction and Repair e si occupava di ricerca e sviluppo. Tanto più che Hobson essendo un civile, poteva permettersi di ridere della mentalità ristretta dell'ambiente della marina. Hobson trovò subito assai intrigante l'idea di Momsen e accettò di rovistare tra i suoi documenti alla ricerca di materiale relativo alla fuga da sommergibili in avaria. Riuscì, in tal modo, a recuperare proposte di svariati congegni, che si erano, però, dimostrate impraticabili. Sebbene fossero stati ogni volta presentati in pompa magna, tutti quegli apparecchi si erano rivelati o troppo ingombranti o troppo complicati, e nessuno si era mai dato la pena di avviare un serio programma per addestrare i sommergibilisti al loro uso. Momsen, dunque, non aveva potuto far altro che partire da zero. Si trattava di un'impresa temeraria, perché implicava un approccio inedito a un mondo alieno, senza per giunta poter contare su stanziamenti di sorta; bisognava lavorare praticamente da soli, sostenuti esclusivamente dalla fiducia nei propri mezzi e dalla determinazione a non farsi intralciare. Il suo primo problema - il rinnovamento della scorta di aria - si rivelò di facile soluzione. La calce sodata era già nota per le sue capacità di assorbire l'anidride carbonica, ossia il gas tossico prodotto dall'espirazione. Occorreva trovare, però, un modo per rimpiazzare l'ossigeno consumato Peter Maas
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durante la risalita in superficie. Dopo un'intera giornata di ricerche condotte in una biblioteca specializzata in medicina, Momsen si convinse della necessità di una provvista di ossigeno puro. L'ossigeno poteva essere tranquillamente utilizzato per riempire il polmone artificiale perché all'inizio della risalita i polmoni di colui che se ne sarebbe servito sarebbero stati pieni d'aria. Poiché durante la risalita, per eseguire la decompressione, l'aria contenuta nei polmoni veniva espulsa, occorreva una scorta di ossigeno per rimpiazzarla. E poiché l'organismo utilizza solo la quantità di ossigeno di volta in volta necessaria, sarebbe bastato fornirne la quantità sufficiente a portare a termine la risalita. Quella sera, Momsen andò a coricarsi con la certezza di aver risolto la questione. L'indomani mattina, invece, non era più tanto sicuro. E se la scorta di ossigeno necessaria avesse richiesto un contenitore troppo ingombrante? Il conseguente aumento della galleggiabilità dovuto al polmone artificiale avrebbe sospinto troppo rapidamente in superficie colui che lo indossava, con gravi problemi fisici dovuti all'eccessiva velocità della decompressione. Le dimensioni del contenitore, dunque, rappresentavano il fattore cruciale, e per più di un motivo: doveva essere abbastanza grande da contenere una quantità di ossigeno tollerabile a livello polmonare e sufficiente a risalire in superficie, ma doveva anche essere abbastanza piccolo da consentire il controllo della velocità di risalita. Momsen, che aveva studiato con la prospettiva di servire come ufficiale di marina su una nave di superficie, si ritrovò a doversi immergere in acque piuttosto profonde. Ai tempi non si sapeva praticamente nulla delle condizioni che un uomo avrebbe dovuto affrontare nelle profondità oceaniche e dei cambiamenti che tale contesto avrebbe potuto indurre nella sua chimica interna. Sin dal principio, però, l'istinto suggerì a Momsen che il contenitore d'ossigeno dovesse funzionare, per quanto possibile, proprio come un polmone, oltre a essere sistemato sul petto. Aveva la sensazione che questo sarebbe servito anche a mantenere i suoi esperimenti in carreggiata. E aveva ragione. La capacità media dei polmoni umani, espressa nell'unità di misura dei liquidi, era stata calcolata nell'ordine dei cinque litri; dunque, inspirare ed espirare in un contenitore di quelle dimensioni non costituiva un problema. Il suo polmone artificiale risultava, inoltre, sufficiente a risalire per almeno cento metri, misura che Momsen stabilì tenendo conto della crescente profondità raggiunta dai sommergibili nelle Peter Maas
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immersioni di prova. Nel calibrare la capacità della borsa su quella dei polmoni veri, tenne conto anche del pericolo di una risalita troppo rapida: il polmone artificiale avrebbe accresciuto la galleggiabilità di meno di quattro chili. Dallo studio dei suoi precedenti tentativi di progettare mezzi di salvataggio subacquei, Momsen aveva tratto una lezione fondamentale: avevano tutti il difetto di essere troppo complicati. Spalleggiato dalla competenza tecnica di Hobson, però, riuscì infine a produrre un progetto apparentemente realizzabile. Il contenitore, di gomma e assai simile a una borsa per l'acqua calda, doveva essere fissato al collo e legato, per sicurezza, anche intorno alla vita. Al suo interno, un recipiente di calce sodata serviva a filtrare l'anidride carbonica. L'apertura della borsa era collegata al boccaglio per mezzo di due tubi: uno per inspirare l'ossigeno e l'altro per l'espirazione. Una valvola sul fondo della borsa permetteva all'ossigeno in eccesso di fuoriuscire quando la pressione decresceva con la profondità. Tra il boccaglio e i tubi c'era un'altra valvola che serviva a interrompere l'afflusso di ossigeno una volta raggiunta la superficie, trasformando la borsa con l'ossigeno residuo in un salvagente. L'unico accessorio aggiuntivo era uno stringinaso. Produrre un prototipo in grado di funzionare, però, fu ben più difficile che progettarlo. A questo scopo Momsen chiamò a collaborare il capo mitragliere Clarence Tibbals, che dirigeva la scuola per palombari della base navale di Washington. Tibbals, veterano del mare, si era guadagnato una medaglia al valore per l'opera svolta nel tentato salvataggio degli uomini rimasti intrappolati sull'S-4, e non ci volle molto per convincerlo ad adibire il suo laboratorio alla realizzazione del progetto. La scelta dei materiali, però, costrinse a un'ulteriore, notevole prova d'ingegno. La gomma necessaria fu recuperata da vecchie camere d'aria; da qui, la presenza sul primo polmone artificiale di Momsen di una grossa e decorativa chiazza rossa. A meno di un mese dall'inizio dei lavori - il 25 febbraio 1928 - il polmone artificiale era pronto per la sperimentazione, nel bacino per la prova dei modelli navali presso la base. L'ufficiale incaricato, nel concedere a Momsen il permesso di utilizzare l'impianto fuori orario, si limitò a dire: «Ehi, Swede, se il tuo desiderio è quello di imitare i pesci, chi sono io per impedirtelo? Fammi il piacere di non affogare, però: non ci Peter Maas
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farei una bella figura». Momsen, invece, faceva un figurone con il suo costumone di lana, la borsa di gomma chiazzata di rosso appesa al collo e una molletta per il bucato a mo' di stringinaso. Entrò nel bacino dal lato dove l'acqua era più bassa e proseguì fino a trovarsi immerso fin sopra il naso. Rimase a respirare attraverso la sua borsa per una trentina di secondi. Poi, salutando solennemente Hobson e Tibbals, fece un ulteriore passo e si immerse completamente. La prima prova durò meno di tre minuti, ma per i sommergibilisti di tutto il mondo fu l'inizio di una nuova era. Momsen si ripresentò al bacino per molte sere consecutive, per sguazzare sul suo fondale a circa tre metri di profondità, usando come zavorra un pezzo di ferro recuperato e immaginando di procedere tra i compartimenti di un sommergibile incagliato senza rimedio sul fondo dell'oceano. Tre settimane dopo era pronto a passare al cassone pressurizzato che veniva usato da Tibbals e dai suoi palombari per simulare le condizioni di immersione. Nel cassone parzialmente riempito d'acqua veniva introdotta aria compressa a piacere, secondo la profondità desiderata, a partire da quindici metri. Momsen descrisse questa sua prima esperienza in una lettera a un amico. Si udiva il sibilo dell'aria e si sentiva l'intenso calore provocato dalla pressione aggiuntiva. A un tratto, la pressione in corrispondenza delle orecchie si fece quasi intollerabile. Mi tappai il naso e soffiai più che potei. A quindici metri riempii la borsa di ossigeno e infilai la testa sott'acqua aggrappandomi a una fune attaccata a un'ancora. Dalla stazione di controllo all'esterno del cassone, attraverso l'oblò, Tibbals osservava attentamente ogni mia mossa. Feci un cenno d'intesa con la mano e lui aprì la valvola di scarico della borsa per consentire alla pressione interna di decrescere alla velocità che si verifica durante una risalita. Pur essendo fermo, infatti, avevo l'impressione di riemergere. La borsa si sgonfiava a mano a mano che la pressione diminuiva e il gas in eccesso fuoriusciva, come previsto, attraverso la valvola sul fondo della borsa. Partendo da una profondità simulata di quindici metri, Momsen Peter Maas
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raggiunse - con tappe intermedie a trenta, quarantacinque, sessanta e ottanta - il traguardo dei cento metri. Sebbene agli esperimenti partecipassero anche alcuni palombari della squadra di Tibbals, Momsen era sempre il primo a eseguire ogni nuovo test. Se nel loro tentativo di sondare l'ignoto si fosse verificato un incidente, lui se ne sarebbe sentito responsabile; inoltre, benché fino a quel momento tutto si fosse svolto senza intoppi, non riusciva a liberarsi della sensazione che vi fosse in agguato un pericolo imprevisto. Una volta completati i test nel cassone pressurizzato, Momsen si trovò di fronte uno strano paradosso. Per poter tentare una risalita, doveva prima trovare il sistema per immergersi abbastanza in profondità. Fu Tibbals a fornire la soluzione. Aveva ascoltato i racconti di Momsen a proposito di quel suo vecchio progetto della campana subacquea e decise di prenderne in prestito alcuni accorgimenti, adattandoli all'occorrenza. In questo caso, la "campana" sarebbe stata costituita dal fondo di un barile di sottaceti, requisito nella mensa delle reclute, con due assi verticali fissate al bordo tagliato del mezzo barile e unite da una traversa. Dopo aver zavorrato e calato in acqua questo aggeggio, Momsen poteva posare i piedi sulla traversa e, con la testa e le spalle all'interno del mezzo barile, respirare l'aria lì contenuta. Un tubo che giungeva in superficie consentiva di rinnovare la scorta d'aria, mentre una fune regolava i movimenti del barile. Una volta raggiunta la profondità prestabilita, Momsen non doveva far altro che districarsi da quell'aggeggio e risalire in superficie. Decise di inaugurare il barile dei sottaceti in un cassone profondo venti metri, generalmente impiegato per sperimentare le mine. Non avendo a disposizione gli strumenti di controllo del cassone pressurizzato, per raggiungere quella profondità fu necessario applicare un nuovo accessorio all'essenziale concezione del polmone artificiale: una fune per la risalita legata in superficie a una boa di legno. Lungo la fune, nei punti in cui era prevista una fermata, attaccò dei pezzi di sughero. A ogni fermata avrebbe fatto una sosta, misurata con un certo numero di respiri, per consentire un'adeguata decompressione durante la risalita. La prima risalita dal mezzo barile fu cautamente svolta a una profondità di sei metri, ma nell'estate successiva, risalite dalla profondità massima consentita dal cassone sarebbero ormai risultate ordinaria amministrazione. A ogni nuovo tentativo, Momsen faceva invariabilmente lo stesso elettrizzante pensiero. Se fosse stato all'interno di un sommergibile in fondo al mare e fosse Peter Maas
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riuscito a trovare una via di fuga, ora avrebbe potuto raggiungere la superficie sano e salvo. Benché in giro si sapesse che Momsen stava lavorando alla realizzazione di un qualche mezzo di salvataggio subacqueo, nessuno aveva dato troppo peso alla notizia. Per seguire da vicino la tragedia dell'S-4 erano intervenuti i migliori ingegneri e tecnici del paese, ma di proposte praticabili non ne erano ancora scaturite. Momsen, allora, decise che era giunto il momento di dare un'efficace dimostrazione delle possibilità del polmone artificiale e trovò sulle carte nautiche una fossa del fiume Potomac profonda trentacinque metri nei pressi di Morgantown, Maryland. Poiché il barile di sottaceti non era abbastanza solido per resistere alle violente correnti del Potomac, si dovette mettere insieme un apparecchio simile, ma fatto d'acciaio, che fu trasportato a Morgantown a bordo del minisommergibile Crilley. Il mattino del loro arrivo, però, le correnti troppo impetuose del fiume costrinsero ad attendere condizioni più favorevoli. Il margine di errore era ridotto al minimo. Non appena la corrente si fu calmata, il nuovo apparecchio fu calato nel Potomac. Era semplicemente una scatola di tre piedi per quattro di base e alta meno di un metro. Come il suo malsicuro predecessore, era dotato, in basso, di una specie di piattaforma. Quando Momsen si immerse, il sole era quasi allo zenit, ma prima ancora di arrivare a sei metri di profondità le acque del fangoso Potomac si rivelarono di un nero impenetrabile. Proseguendo nella discesa, Momsen sentì l'acuto dolore agli orecchi causato dalla pressione più che quadruplicata rispetto alla superficie. Proprio mentre si domandava quando avrebbe avuto fine quella caduta, la piattaforma si posò con un lieve tonfo e cominciò a sprofondare a poco a poco nel molle letto del fiume. Per un attimo ebbe la spaventosa impressione di essere inghiottito, ma la fanghiglia si fermò appena sotto le ginocchia. La cosa peggiore, però, era il tremendo fetore. Prima ancora di gonfiare il polmone artificiale per mezzo di una borraccia d'ossigeno, Momsen si mise lo stringinaso. Dopo aver rilasciato la boa che avrebbe portato in superficie un capo della fune di risalita, Momsen mise alla prova il polmone artificiale. I consueti, deboli ticchettii delle valvole risultarono spettralmente amplificati nel silenzio della scatola d'acciaio. Quando il suo respiro ebbe assunto un ritmo normale, Momsen si accucciò nel fango, pronto a dare inizio all'ascesa. Così facendo, le sue dita strofinarono contro una pietra, che Peter Maas
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Momsen raccolse e si infilò dentro la parte superiore del suo costume intero. Quand'era ragazzino, per dimostrare di essere riusciti a raggiungere il fondo della cava in cui si andava a fare il bagno, bisognava riemergere con una manciata di ciottoli. La tentazione di compiere quel gesto fu troppo forte per potervi resistere. Per controllare la velocità, Momsen si avvinghiò mani e piedi alla fune. Quell'impresa non aveva nulla a che vedere con le risalite in acqua limpida nel cassone per i test delle mine, e dovette combattere contro l'istinto di accelerare. Dopo un po', il fiume assunse un color marrone, che diventò via via più chiaro, per poi lasciare il posto all'azzurro brillante del cielo che Momsen aveva lasciato una decina di minuti prima. Tenne levata in aria la pietra che aveva prelevato sul fondo, finché non fu certo che tutti l'avessero vista, e poi la gettò con noncuranza nel Potomac, dietro di sé. Fu un momento indimenticabile per tutti i presenti. La profondità da cui Charles Momsen era risalito era la stessa a cui si era fermato l'S-4 dopo il tragico incidente. Le condizioni favorevoli consentirono ad altri tre palombari che avevano collaborato con Momsen di ripetere con successo l'esperimento, prima che la marea tornasse a montare. Un ampio sorriso di soddisfazione si dipinse sul volto di Momsen quando, per celebrare la vittoria su tutta la linea, venne legata all'antenna del Crilley una trionfante ramazza. Lo stato maggiore della marina venne a sapere degli eventi di Morgantown come tutti: leggendo i giornali l'indomani. Mentre il test era in corso, un tizio che aveva l'aria da liceale aveva cominciato a fare segni con le mani e a gridare con un'insistenza tale da costringere Momsen a mandargli una barca a remi. Era A.W. Gilliam, un apprendista reporter del «Washington Star». Dopo aver provato l'ebbrezza di una risalita dalla profondità di sei metri, Gilliam era tornato alla redazione del giornale con lo scoop della sua vita. L'indomani, quando il Crilley fece ritorno a Washington, ad accoglierlo c'era una notevole schiera di alti ufficiali, alcuni dei quali con la faccia rossa di vergogna. Tra essi, il capo delle operazioni navali in persona, l'ammiraglio Charles Hughes, che parlò per tutti, rivolgendosi a Momsen: «Che diavolo stai combinando, giovanotto?». La notizia guadagnò i titoli d'apertura di molti giornali nazionali, e la marina, ovviamente, diede in tempi rapidi l'approvazione per nuovi test. Momsen scelse di svolgerli nella baia di Chesapeake, in acque profonde Peter Maas
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quarantacinque metri - quattro fathom in più rispetto alla profondità a cui si era incagliato l'S-51, quel mattino in cui Momsen aveva scorto, nel punto dell'affondamento, l'eloquente chiazza di nafta. Poiché la località prescelta era molto esposta agli agenti atmosferici, fu necessaria una nave appoggio più grande, e a questo scopo, da New London, fu inviata la Falcon, la stessa imbarcazione che sarebbe stata rimessa rapidamente in funzione per prestare soccorso allo Squalus. La scelta si rivelò particolarmente azzeccata, dato che la nave in questione aveva già partecipato agli infruttuosi tentativi di salvare la vita agli uomini dell'S-51 e dell'S-4. Tra i membri del suo equipaggio figuravano elementi coinvolti in entrambi i tentativi di salvataggio, e Momsen restò profondamente commosso quando, alla vigilia della prova di Chesapeake Bay, una loro delegazione si presentò al suo cospetto. «Signore,» disse il portavoce del gruppo, «ci preme che lei sappia quanto siamo orgogliosi di averla a bordo.» Come misura precauzionale, tenuto conto della profondità, Momsen decise di legarsi in vita una fune di sicurezza. Credeva che sarebbe tornata utile nel caso in cui qualcosa non avesse funzionato. Invece, mancò poco che gli fosse fatale. A causa di alcuni problemi tecnici di trascurabile importanza, Momsen fu calato in acqua solo a pomeriggio inoltrato, cosicché al momento di intraprendere la risalita, una volta sistemato il polmone artificiale, si ritrovò immerso in un'oscurità non meno paurosa di quella del Potomac. Non appena risalì di una quindicina di metri, fu costretto a fermarsi. Gli ci volle un minuto per rendersi conto di quel che era successo: la fune di sicurezza era inopinatamente tesa e gli impediva di proseguire. Dopo un paio di lievi e inutili strattoni, dedusse che la fune doveva in qualche modo essersi impigliata all'apparecchio servito per l'immersione. Cercò, in prima istanza, di liberarsi con una mano, tenendosi con l'altra alla fune di risalita. Vedendo, che non funzionava, rifletté sull'opportunità di tirare con forza, sennonché coloro che in superficie erano addetti alla fune di sicurezza avrebbero potuto interpretare quei movimenti come una richiesta di essere tirato su. Se questo fosse avvenuto, Momsen sarebbe stato nuovamente trascinato verso il fondo; ci sarebbe stato un ulteriore ingarbugliamento della fune o, peggio ancora, sarebbe rimasto imprigionato alla scatola d'acciaio che aveva appena lasciato. L'unica soluzione che gli venne in mente fu quella di ridiscendere lungo Peter Maas
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il cavo di risalita per scoprire dove si fosse impigliata la fune di sicurezza. Quella scelta comportava preoccupazioni di non poco conto, perché la scorta di ossigeno a disposizione cominciava a scarseggiare. Aveva già usato una parte del prezioso gas, e l'aumento della pressione cui andava incontro ridiscendendo minacciava di farne fuoriuscire dal polmone artificiale una quantità ulteriore, lasciandone troppo poco per consentirgli, poi, di tornare in superficie. Di alternative, però, non ce n'erano, e Momsen dovette scendere aggrappandosi alla cieca, una mano dopo l'altra, circondato dalle cupe profondità della baia. La mossa si rivelò azzeccata. Toccato il fondo, tirò a sé la fune di sicurezza e vide che s'era impigliata in un angolo della piattaforma che lo aveva sostenuto durante la discesa iniziale. La liberò con un brusco movimento del polso e si accinse a risalire. Giunto in superficie e issato a bordo della Falcon, Momsen esaminò il polmone artificiale e scoprì che rimaneva ossigeno sufficiente a malapena per altri due minuti, cioè per altri trenta respiri. L'inconveniente, però, non aveva riguardato il funzionamento del polmone. Nuovi esperimenti condotti nella baia di Chesapeake si svolsero senza intoppi, cosicché Momsen si preparò al test più probante che avesse mai eseguito. Nei precedenti esperimenti con il polmone artificiale era mancato un elemento determinante: un sommergibile con cui verificare l'efficacia dell'invenzione. Da quando era stato recuperato - tre mesi dopo l'incidente che l'aveva trasformato nella bara dei suoi quaranta uomini d'equipaggio - l'S-4 era rimasto ad arrugginire nella base navale di Charlestown. Dapprima, qualcuno aveva pensato di rimetterlo in servizio, ma quei propositi non avevano avuto seguito. Poi, Momsen era venuto a conoscenza dell'intenzione di venderlo per pochi soldi e aveva prontamente fatto pressioni presso i suoi superiori affinché fosse affidato a lui. Aveva in mente di farsi chiudere all'interno dell'S-4, ma ciò che lo animava non era il semplice sprezzo del pericolo. In proposito, ebbe modo di osservare: «Non ha molto senso dire a un povero sommergibilista che può risalire da trenta metri di profondità se poi gli è impossibile uscire dal sommergibile». Momsen diresse personalmente i lavori di riconversione dell'S-4. La camera di manovra e la batteria furono ristrutturate per accogliere lo staff degli sperimentatori. Gli altri tre compartimenti - camera di lancio, sala Peter Maas
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macchine e vano motori - sarebbero stati riservati all'allagamento e alla fuga previsti dall'esperimento. Le modalità della fuga vennero determinate con grande astuzia. A un boccaporto nel vano motori, Momsen fece fissare una "gonna" d'acciaio che si protendeva all'interno del sommergibile per poco più di un metro. L'idea consisteva nel far uscire l'equipaggio di un sommergibile affondato rimuovendo innanzitutto la protezione del boccaporto per far entrare l'acqua attraverso le valvole. Allagando il compartimento, l'acqua avrebbe compresso l'aria fino a far saltare il boccaporto vero e proprio. Una volta che l'acqua avesse raggiunto il livello dell'apertura inferiore della "gonna", la pressione interna e quella esterna avrebbero trovato un punto di equilibrio, creando una sacca d'aria nella parte alta del compartimento in cui i fuggitivi, prima di uscire dal boccaporto e muovere verso la superficie, avrebbero avuto il tempo di indossare il polmone artificiale. In tutto questo, però, restava un'incognita. Nessuno poteva avere la certezza che nel compartimento allagato rimanesse aria sufficiente a garantire la sopravvivenza. Momsen l'avrebbe verificato sulla propria pelle. Lo scafo risorto dell'S-4 fu nuovamente affondato il 6 febbraio 1929 al largo di Key West, Florida. Mentre una piccola flottiglia di imbarcazioni di appoggio vigilava in superficie, Momsen e Ed Kalinoski, un magrissimo capo silurista di Jersey City che aveva partecipato anche ai primi esperimenti di risalita nel Potomac, si trovavano nella camera di manovra dell'S-4 con l'equipaggio di prova. Non appena toccarono il fondo a circa tredici metri dalla superficie, i due si introdussero nel vano motori e vi si chiusero. Kalinoski rimosse la protezione del boccaporto e, subito dopo, Momsen aprì le valvole per allagare il compartimento. L'acqua coprì rapidamente il pavimento. La videro salire fino alle ginocchia e, poi, fino ai fianchi. «Signor Momsen», disse Kalinoski, «prego Dio che lei sappia quel che sta facendo.» Le condizioni dei veri incidenti, costati un gran numero di morti, non avrebbero potuto essere riprodotte più fedelmente. La pressione all'interno del vano motori continuò ad aumentare. All'improvviso, con un violento rumore, il boccaporto si spalancò, lasciando penetrare nel sommergibile altra acqua. A intervalli di alcuni secondi, mentre enormi bolle d'aria tentavano di uscire dal boccaporto, si verificavano turbolente interruzioni del flusso d'acqua. Il livello dell'acqua, all'interno, continuò a crescere a Peter Maas
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una velocità paurosa finché non raggiunse il bordo inferiore della gonna d'acciaio, appena sotto il mento dei due uomini. Da quell'istante, il deflusso dell'aria e l'afflusso dell'acqua si interruppero. Tutto tacque. L'acqua, che fino a pochi istanti prima montava con furia, sciabordava ora tranquillamente contro le paratie del compartimento. Le cose erano andate esattamente come Momsen aveva previsto. Kalinoski afferrò la fune di risalita, ne legò un'estremità a una galloccia del sommergibile e spedì l'altro capo in superficie, dopo averlo fissato a una boa. A quel punto, lui e Momsen gonfiarono i loro polmoni artificiali. Fu Momsen il primo a uscire. Infilò la testa nell'acqua e, attraversata la gonna d'acciaio, attese la comparsa di Kalinoski. Data la limpidezza e la gradevole temperatura dell'acqua, fu tutto molto più facile rispetto ai precedenti tentativi nel Potomac e nella baia di Chesapeake. In questo caso, però, il risultato fu di gran lunga più significativo: solo quattordici mesi prima, otto uomini erano morti senza possibilità di fuga in quello stesso vano motori da cui Momsen e Kalinoski erano appena usciti senza difficoltà. Benché avesse già in programma di tentare una fuga da trenta metri di profondità - misura massima prevista dagli ordini ricevuti - Momsen sapeva che i sommergibili come l'S-4 erano stati progettati per immergersi fino a una profondità doppia e non vedeva l'ora di tentare anche da sessanta metri. Quel progetto suscitò non poca agitazione; gli alti gradi della marina, occupati a crogiolarsi nell'unanime apprezzamento del mondo, temevano che qualcosa potesse andare storto, così come, dal principio, si erano mostrati scettici sul possibile funzionamento del polmone artificiale. Ma la riuscita di un tale esperimento, sostenne Momsen, avrebbe costituito un potente stimolo psicologico per tutti i sommergibilisti che dovevano imparare a usare il polmone artificiale. La storica risalita avvenne da una profondità di sessantadue metri, e il ricordo di quell'impresa non avrebbe più abbandonato Momsen. Nessuno era mai riuscito a risalire sano e salvo da quelle profondità senza un casco da palombaro. Quando uscì dal sommergibile era quasi il crepuscolo. Si fermò per un attimo, aggrappato al cavo di risalita, per ammirare la scena circostante. L'effetto degli ultimi raggi di sole che filtravano fin lì gli diede l'impressione di stare sospeso nella luce di una luna incredibilmente brillante. Sotto di lui, il bianco fondale sabbioso era costellato di spugne e chiazze di alghe dolcemente oscillanti, mentre l'S-4 era disteso sotto i suoi Peter Maas
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occhi come un gigantesco mostro marino addormentato. Se ne sprigionava una silenziosa colonna di luccicanti bolle d'aria, utile a tenere alla larga eventuali squali. Alzando gli occhi, invece, non vide altro che le spettrali sagome della mezza dozzina di natanti che in superficie attendevano la sua ricomparsa. Gli parevano lontanissime, ma a quella vista si riscosse dalla sua fantasticheria e riprese a salire. Giunsero valanghe di telegrammi di congratulazioni, a cominciare da quello della Casa Bianca. La marina decise di aggiungervi un ulteriore riconoscimento: la medaglia al valore. Nella motivazione si leggeva: «Il tenente Momsen ha ripetutamente e volontariamente rischiato la vita per condurre esperimenti in un campo che la scarsità di informazioni disponibili rendeva assai pericoloso. [...] È al suo spirito d'iniziativa, al suo coraggio e alla sua perseveranza [...] che si devono lo sviluppo del polmone artificiale e la riuscita della sua sperimentazione». Ma ancora più importante, per Charles Momsen, fu la notizia che il segretario della marina aveva firmato una commessa per settemila polmoni artificiali. Oltre a questo, tutti i nuovi sommergibili e quelli già in servizio sarebbero stati dotati di un boccaporto d'emergenza. A dieci anni di distanza, ci fu l'incidente dello Squalus. In viaggio verso Portsmouth, mentre Momsen si dibatteva tra decine di domande irrisolte riguardo alle condizioni del sommergibile, il pilota dell'aereo, tenente Seymour Johnson, si presentò con cattive notizie sul tempo. «Si stanno addensando le nubi su Portsmouth», disse. «Farò del mio meglio, ma non posso garantire nulla.»
11 Come molti colleghi impegnati, come lui, sulla costa orientale, il corrispondente radiofonico della CBS Bob Trout, tra i più noti degli Stati Uniti, credeva di aver scelto il mezzo più veloce per raggiungere Portsmouth: l'aereo. Quel pomeriggio Trout si trovava in uno studio di Manhattan, dove stava provando il suo intervento nel programma serale intitolato The Time to Shine Show. Nel bel mezzo delle prove, era stato convocato dal direttore dei servizi speciali che gli aveva detto dell'affondamento dello Squalus. Aveva piantato tutto ed era salito su un'auto che lo attendeva per portarlo all'aeroporto di Newark, da dove sarebbe partito su un idrovolante. Trout aveva lasciato di corsa lo studio, Peter Maas
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seguito da un rappresentante dello sponsor dello show serale che strillava: «Non mi importa di cosa è affondato! Non può farci questo!». C'era una certa foschia al momento del decollo, ma quando il velivolo fu in prossimità dello stretto di Long Island, il Trylon e la Perisphere dell'Esposizione mondiale di New York erano chiaramente visibili. Lungo la costa del Connecticut, però, il pilota dovette abbassarsi a una quota di 500 piedi per tenersi al di sotto di un massiccio fronte di nubi in avvicinamento. Quando si trovarono a sorvolare lo Yale Bowl, a New Haven, furono completamente avvolti dalla nebbia. Il pilota, avrebbe raccontato Trout, «si abbassò e dopo una virata si lanciò in picchiata, riacquistando la posizione orizzontale in prossimità dell'acqua, per poi piegare verso l'entroterra sin quasi a Hartford», per poi arrendersi e depositare Trout a New London. A tarda notte il corrispondente della CBS prese un treno che l'avrebbe condotto a Dover, New Hampshire, circa dieci chilometri a monte di Portsmouth. Il capostazione di New London gli disse che, sebbene i vagoni-letto fossero tutti prenotati, non avrebbe avuto problemi a trovare una cuccetta. In realtà, fu per pura fortuna che Bob Trout riuscì a salire su quel treno, gremito di giornalisti, fotografi, commentatori, tecnici radiofonici e cineoperatori, che avevano avuto tutti lo stesso problema. «Eravamo lì» avrebbe raccontato Trout, «per dare conto di un grave incidente, ma di quel che accadeva sapevamo probabilmente meno di chiunque altro.» In precedenza, quel giorno, non appena si era saputo della problematica situazione del sommergibile, davanti alla casa di mattoni rossi in cui, all'interno della base di Portsmouth abitava il capitano Greenlee, erano stati messi due marine di guardia. Bob Greenlee il figlio del capitano, vi aveva già condotto la sorella Betty e Frances Naquin, dopo la telefonata del padre che aveva promesso di raggiungerli per spiegare loro la situazione prima di imbarcarsi sul Penacook con l'ammiraglio Cole. «Ancora non sappiamo con precisione che cosa sia successo», disse il capitano. «Il sommergibile ha dei problemi, ma abbiamo fondati motivi di credere che Pat e Oliver stiano bene. Pochi minuti fa lo Sculpin ha riferito di aver scorto un fumogeno di segnalazione sparato dallo Squalus, e date le circostanze è la migliore notizia che potessimo ricevere.» Quando il capitano Greenlee se ne fu andato, Bob e sua moglie Jacqueline uscirono Peter Maas
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per incontrare le mogli degli altri ufficiali dello Squalus che avevano in programma di pranzare con le mogli degli uomini dello Sculpin. Frances Naquin andò alla finestra e si mise a scrutare nel vuoto. Non poteva fare a meno di ripensare alla sera precedente, al viaggio in macchina con i suoi due figli fino all'ormeggio dello Squalus per salutare il marito. La lieve delusione provata quando non lo avevano visto salire sul ponte assumeva improvvisamente una importanza capitale: era forse stata un cupo presagio di quel che sarebbe accaduto. Poi, però, si rimproverò per aver indugiato in quei pensieri. Come moglie dell'ufficiale in comando del sommergibile, doveva mantenere un certo contegno, per lui e anche per sé. Quando la notizia dell'affondamento fu confermata, dalla base partirono altre telefonate. Circa un terzo dell'equipaggio dello Squalus aveva fatto trasferire le mogli e le famiglie negli appartamenti o nei bungalow in affitto costruiti alle spalle delle belle e vecchie case che caratterizzavano Portsmouth e la città gemella di Kittery, Maine, situata sulla riva opposta del Piscataqua. La notizia dell'incidente si sparse rapidamente nell'unitissima comunità formata dalle famiglie dei marinai. E prima ancora che giungesse la notifica ufficiale, un cupo corteo di donne stava già attraversando il ponte che collegava Kittery alla base. Cole aveva nominato portavoce il suo aiutante John Curley, che fece del proprio meglio per rassicurare le famiglie riunite negli uffici amministrativi della base. In principio, per certi versi, il suo compito fu semplificato dalla mancanza di comunicazioni tra Portsmouth e il luogo dell'incidente. Nella breve conversazione svoltasi tra lo Sculpin e lo Squalus prima della rottura del cavo telefonico, non si era parlato di vittime. Curley, quindi, ne dedusse che gli uomini presenti sul sommergibile affondato fossero tutti vivi. L'equivoco durò fino alla tarda serata del 23 maggio, sebbene il Wandank già da molto tempo avesse avuto notizie che solo trentatré uomini dell'equipaggio erano ancora in vita. Nella confusione creata dal tentativo di decifrare i messaggi inviati a colpi di martello dallo Squalus, questa informazione, in un primo momento, non era stata riferita a Portsmouth. Tutti si attennero all'unico importante messaggio che in superficie avevano compreso chiaramente: «Condizioni soddisfacenti, ma fa freddo». La maggior parte delle donne, fugata - almeno per il momento - la paura Peter Maas
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più grande, era pronta ad aggrapparsi a qualunque appiglio e si lasciò convincere da Mabel Gainor. Con il tono laconico che avrebbe probabilmente adottato anche il marito, disse: «Lawrence si è già trovato nei guai. Ce la farà». In seguito, quel giorno, Frances Naquin avrebbe fatto eco al suo ottimismo in una dichiarazione, riferita da Curley, nella quale si sottolineavano gli imponenti sforzi che la marina stava compiendo per salvare l'equipaggio e si riaffermava la convinzione che tutto potesse risolversi «nel giro di ventiquattr'ore». Non tutti, però, erano altrettanto ottimisti. Anche ammesso che fossero tutti vivi, ce l'avrebbero fatta gli uomini dello Squalus a risalire da una profondità a cui mai nessun sommergibile era precipitato? L'inquietudine era evidente sul volto di Ellen Chestnutt, che aveva più volte implorato il marito di abbandonare il servizio sui sommergibili. Per tutto il pomeriggio e per buona parte della sera, non smise un attimo di fare avanti e indietro, con la figlia più piccola in braccio e gli altri due figli al seguito, tra gli uffici della base, la casa dei Greenlee, la riva del fiume e Kittery. La moglie di Don Smith, l'uomo della General Motors a bordo dello Squalus, era in preda a uno speciale tormento. Al giovane esperto di motori diesel era già capitato, quell'anno, di trovarsi a bordo di un sommergibile - il Permit - colato temporaneamente a picco durante un collaudo al largo di Halifax, Nuova Scozia. Era stata un'esperienza angosciante, e dopo la nascita dell'ultima figlia gli Smith avevano a lungo discusso sull'opportunità di cambiare lavoro. Alla fine, avevano deciso che quelle preoccupazioni erano infondate e, anzi, avevano comprato una casa a Portsmouth, dove lui sarebbe diventato il rappresentante in pianta stabile della GM presso la locale base navale. Quando Curley diramò i nomi e le città di provenienza degli uomini intrappolati nel sommergibile, i giornalisti si sparpagliarono per intervistare i loro familiari. La madre di Frank Murphy raccontò all'«Evening American» un episodio piuttosto succulento. «Mio figlio», dichiarò la donna, «mi ha raccontato che lo Squalus è stato in avaria per più di un'ora nel corso di una missione di una settimana terminata venerdì scorso.» Suo figlio, aggiunse Anne Murphy, le aveva detto che se in quell'occasione lo Squalus fosse stato a quindici piedi di profondità per loro sarebbe stata la fine. E nel week-end precedente, di ritorno a casa, le aveva chiesto di pregare per lui. «Mio figlio sapeva che sarebbe accaduto Peter Maas
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qualcosa.» Le sue dichiarazioni furono mestamente accolte e registrate dalle autorità navali. Mentre i mezzi di soccorso muovevano verso la scena del disastro, era già stata organizzata un'altra operazione che, nei mesi a venire, avrebbe dovuto accertare le modalità e le ragioni dell'affondamento del più avanzato sommergibile della marina militare americana. Per non essere da meno della concorrenza, il «Boston Herald» raggiunse a New Bedford la madre di Lenny de Medeiros e riferì che la donna, dopo essere scoppiata in un pianto inconsolabile, aveva gridato: «Dio mio! Lo sapevo che quel sommergibile sarebbe affondato!». A Brooklyn, New York, la moglie del marinaio Bill Boulton venne a sapere dell'incidente dalla radio. Era stata a Portsmouth la domenica precedente per aiutare la sorella a curare la madre inferma. A una festa cui aveva partecipato prima di lasciare Portsmouth - ricordò - un uomo dell'equipaggio che aveva bevuto troppa birra continuava a berciare che nulla avrebbe mai potuto affondare lo Squalus, finché qualcuno non lo aveva fatto tacere. Secondo il «Daily Mirror», però, ciò che a quella ventenne, sposata solo da pochi mesi, era rimasto più impresso erano le ultime parole del marito: «Dammi un altro bacio, come portafortuna». A Washington, D.C., la madre di Will Isaacs era a casa di vicini quando udì alla radio la notizia. «Oh, poveri ragazzi!» esclamò. A parte questo, però, non si allarmò più del dovuto. Era certa che il sommergibile su cui prestava servizio il figlio si chiamasse Sculpin. Rientrata a casa, sfiorata dal pensiero che Will potesse comunque figurare tra i marinai in pericolo, voltò la cartolina che il figlio le aveva spedito per la festa della mamma. Fu con orrore che nello spazio riservato all'indirizzo del mittente lesse: «c/o U.S.S. Squalus». A Cristobal, nella zona del Canale di Panama, un lancio d'agenzia della United Press riportò una dichiarazione della moglie di Al Priester, Jeanette: «Non so cosa dirvi. Non ho mai provato nulla di simile. Non posso far altro che pregare Dio per la vita di Al». Cullando tra le braccia la figlioletta di due anni, aveva raccontato con voce tremante di come lei avesse cercato di vederlo, lo Squalus, quando aveva incrociato dalle parti del Canale durante la travagliata crociera di collaudo. Doveva continuamente interrompersi per correggersi, perché d'istinto le veniva da parlare al passato. Tutte queste donne, dovunque si trovassero, avevano almeno qualcuno a Peter Maas
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cui rivolgersi per ricevere un po' di conforto. Non altrettanto poteva dirsi della moglie rumena di Bobby Gibbs. Maria Gibbs aveva già da un pezzo lasciato la casa dei suoceri, in South Carolina, quando la radio diede le prime notizie sull'incidente. I genitori di Bobby si misero immediatamente in contatto con uno zio che abitava a Washington, il quale giunse alla Union Station per tempo e, provvisto di una sommaria descrizione della donna, riuscì infine a individuarla. Quando, però, cercò di qualificarsi e di spiegarle la ragione della sua presenza lì, si rese conto che l'inglese di Maria Gibbs non era sufficiente a comprenderlo. A quel punto, il treno partì, e lo zio si vide costretto a saltare a terra. Maria avrebbe fatto il resto del viaggio da sola, senza aver capito quale fosse il problema, ma con la netta sensazione che a suo marito fosse accaduto qualcosa di terribile. Per tutto il pomeriggio, nell'isolamento della casa dei Greenlee, le mogli degli ufficiali dello Squalus rimasero sedute in fremente attesa, bevendo un'infinità di tazze di caffè e senza neppure sfiorare il vassoio di sandwich che era stato portato. L'umore si fece nettamente più cupo quando giunse la notizia secondo cui alcuni compartimenti di poppa del sommergibile erano allagati. Il fardello più gravoso pesava sull'animo di Betty Patterson, che sapeva bene che l'abituale postazione del marito in fase di immersione era nella batteria di poppa. Ciononostante, la sua reazione fu di assoluta compostezza. «Pareva sentisse che Pat era ancora vivo», avrebbe ricordato in seguito sua cognata Jacqueline. Compito di Jacqueline era quello di filtrare le telefonate preoccupate degli amici e di fare periodicamente da tramite con il capitano di corvetta Curley. Intorno alle cinque del pomeriggio, restò sbalordita nel ritrovarsi in comunicazione telefonica transoceanica con un giornale di Londra. «Quella telefonata da Londra» avrebbe raccontato, «ci aprì gli occhi: fu improvvisamente chiaro che il mondo intero seguiva la vicenda ed era in attesa al nostro fianco.» A centocinquanta miglia a sud di Portsmouth, il capitano della Falcon, tenente di vascello George Sharp, stava imprecando sul ponte della sua nave contro la cattiva sorte. Abbandonato il corso del fiume Thames a New London e imboccato lo stretto di Long Island, Sharp aveva pensato di guadagnare tempo passando all'interno di Fishers Island, il buen retiro per miliardari situato a sud-est Peter Maas
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della foce del Thames. Quasi subito, però, si era imbattuto in un fitto banco di nebbia, che l'aveva costretto a rinunciare alla rotta prevista in favore della via più lunga. La Falcon faceva parte di una serie di imbarcazioni costruite nel 1917 per ripulire i mari dalle mine tedesche. Cinque di queste erano state in un secondo tempo adibite a compiti di soccorso e salvataggio e distaccate presso altrettante basi di sommergibili in punti chiave del globo: la Falcon a New London, la Mallard a Coco Solo, nella zona del Canale di Panama, la Ortolan a San Diego, la Widgeon a Pearl Harbor e la Pigeon a Cavite, nelle Filippine. Oltre che su una camera di salvataggio ciascuna, queste navi potevano contare su sistemi di pressurizzazione dell'aria per le immersioni e le operazioni di salvataggio, su una camera di decompressione per i palombari e su tutto il complesso equipaggiamento da essi utilizzato. Ma rappresentavano anche l'unica vera sconfitta patita da Charles Momsen nei suoi tentativi di conferire la massima efficacia alle operazioni di salvataggio sottomarine. Gli inconvenienti da lui riscontrati in quelle navi erano numerosi. La loro velocità massima, intorno ai dodici nodi, non era adeguata nei casi in cui, come per gli incidenti sottomarini, la tempestività era un fattore determinante. Lunghe poco meno di sessanta metri, con una larghezza massima di undici, avevano un ponte e uno spazio di stivaggio molto limitati che trasformavano in un incubo la gestione dei chilometri di pompe, funi, cavi d'acciaio e catene di cui erano dotate. Inoltre, a causa della loro stazza ridotta, sulle 1600 tonnellate, erano in completa balia del mare ogniqualvolta le condizioni atmosferiche erano poco meno che ottimali, come in occasione del salvataggio dello Squalus. Tuttavia, pur non essendo riuscito a far costruire imbarcazioni appositamente progettate allo scopo, Momsen ottenne un cambiamento di impostazione. Fino al 1929, i capitani di quelle cinque navi erano stati scelti senza far caso al loro curriculum. Da quel momento in poi, invece, a seguito delle pressioni esercitate da Momsen, i candidati avrebbero dovuto avere esperienza come sommergibilisti e palombari. In un ambiente come quello della marina militare, che tra gli ufficiali di superficie incentivava un tipo di competenza generale rispetto alla specializzazione, Momsen sottolineò con diplomazia l'importanza psicologica di una simile novità. «In questi casi» argomentò, «è fondamentale poter contare su un Peter Maas
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comandante che parli la stessa lingua del palombaro e che abbia consapevolezza dei problemi legati al soccorso sottomarino e a un tentativo di fuga da un sommergibile.» Sharp, il comandante della Falcon, si era appena congedato dal servizio sottomarino e non dovette fare grandi sforzi di immaginazione per indovinare quale fosse la situazione all'interno dello Squalus. E il maltempo che si addensava gli parve una sorta di affronto personale. La Falcon era, da tutti i punti di vista, una nave predestinata: era stata impiegata nel corso degli esperimenti di Momsen con il polmone artificiale e la campana e, mentre fendeva la nebbia diretta verso lo Squalus affondato, pareva all'inseguimento dei fantasmi del suo passato. Poche miglia a dritta le acque avevano inghiottito l'S-51. Più in là, la Falcon sarebbe passata da Massachusetts Bay, dove l'S-4 era andato incontro alla sua orribile fine. In entrambi i casi, la Falcon aveva assistito impotente, ma questa volta era diverso: ora disponeva della camera di salvataggio. In previsione del passaggio della Falcon, il Canale di Cape Cod era stato chiuso e sgomberato, ma la nave non avrebbe raggiunto il luogo dell'incidente prima dell'alba. Al pari di Bob Trout, anche gli altri giornalisti, giunti da ogni angolo degli Stati Uniti per dare conto del disastro dello Squalus, erano stati ostacolati dal cattivo tempo. Eppure, tre ore dopo il primo lancio d'agenzia, alcune decine di operatori dell'informazione già sciamavano in auto all'interno della base di Portsmouth e cominciavano a inviare notizie da una sala stampa allestita in tutta fretta nella sede degli uffici amministrativi. Tra i primi arrivati, la maggioranza era della zona di Boston, dove ben nove quotidiani si facevano una feroce concorrenza. La prima importante notizia, riferita loro da Curley, riguardava il piano suggerito da Naquin di riportare a galla lo Squalus chiudendo la valvola d'aspirazione e attaccando al sommergibile una pompa che dalla superficie fosse in grado di aspirare l'acqua dai compartimenti allagati. Per fare questo, aggiunse Curley, sarebbero ben presto giunti a Portsmouth il capitano di corvetta Charles B. Momsen, «uno dei massimi esperti di immersione a grandi profondità della marina americana», e la Falcon, appositamente attrezzata per operazioni di soccorso. Con il trascorrere della serata, le congetture dei giornalisti cominciarono a incentrarsi in misura crescente sui compartimenti allagati del Peter Maas
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sommergibile. Curley continuava a sostenere - in perfetta buona fede - che non risultava ci fossero morti sullo Squalus. Citando alcuni ufficiali presenti sul luogo dell'incidente, Curley disse: «Può darsi che nei compartimenti di poppa vi fossero otto o dieci uomini, ma si ha l'impressione che l'allagamento [...] non sia stato così grave da impedire loro di mettersi in salvo». Sottoposto al fuoco di fila delle domande, però, Curley ammise di non poter giurare che tutti gli uomini a bordo dello Squalus fossero al sicuro nei compartimenti anteriori. Più avanti, nella notte, quattro giornalisti di Boston decisero di risolvere la questione. Nonostante le condizioni climatiche avverse, noleggiarono un peschereccio basato a Kittery e si fecero portare sul luogo del disastro. Fu un viaggio che nessuno di loro avrebbe mai dimenticato. Pochi minuti dopo aver lasciato il corso del Piscataqua per il mare aperto, con la barca in balia di onde alte due metri, erano già zuppi d'acqua e in preda a una violenta nausea. Impiegarono tre ore per coprire le quindici miglia che li separavano dalla loro meta. Quando il proprietario della barca si avvicinò il più possibile a quello che si sarebbe rivelato essere il Wandank, Harry Crockett, della Associated Press, afferrò un megafono e, rivolto a una scura sagoma umana che aveva scorto sul ponte della nave appoggio, gridò: «Quanti sono i morti sullo Squalus?». Il marinaio del Wandank, di rimando, disse: «Non si sa di preciso. I ventisei rimasti intrappolati nei compartimenti di poppa sono dati per dispersi». Il ritorno a Portsmouth fu, se possibile, persino peggiore dell'andata: a causa di una potente onda, Crockett finì lungo disteso sul ponte della barca e si scarnificò una mano su un grosso arpione d'acciaio usato dai pescatori d'aragoste. Al rientro alla base, Crockett scese a terra barcollante, perdendo così tanto sangue da suscitare in un collega l'impressione che indossasse «un guanto rosso brillante». Ma rifiutò di farsi medicare finché non ebbe trasmesso la notizia alla redazione del suo giornale. Solo allora le famiglie degli uomini presenti sullo Squalus appresero che tra essi c'erano dei dispersi. L'agghiacciante incognita ora riguardava la loro identità.
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Poco dopo mezzanotte, ignara delle ultime notizie, Frances Naquin salì sulla sua auto e tornò a casa, avendo ricevuto assicurazione che le cose, fino al mattino seguente, non sarebbero cambiate. Davanti alla porta della sua abitazione trovò un capannello di giornalisti. Prima ancora che potessero proferire parola, sbottò: «Vi prego, signori. Ho avuto una pessima giornata». In casa trovò ad attenderla una vicina: le aveva lasciato in custodia i bambini, che erano, al momento, già addormentati. «Prego che Oliver torni sano e salvo», disse. Quando la vicina se ne fu andata, Frances si avviò su per la scala interna, ma a un certo punto si fermò e si sedette su un gradino. "Ora, finalmente, posso piangere", pensò.
12 Il tenente Seymour Johnson, il pilota dell'aereo su cui viaggiava Momsen, era riuscito a evitare in gran parte la nebbia che avvolgeva la costa seguendo una rotta che sorvolava l'entroterra. Quando fu il momento di tornare a puntare verso il mare, poté approfittare di una tregua. La cappa si sollevò per un tempo appena sufficiente a consentirgli di azzardare un atterraggio sul Piscataqua. Chiese a tutti i passeggeri di indossare i giubbotti di salvataggio. «Abbiamo carburante per effettuare un solo tentativo», disse. «Se non ce la facciamo, dovremo tornare a Newport o a New London.» Charles Momsen non lo invidiava neanche un po'. Neppure i sommergibili, con i loro potenti motori diesel, osavano avventurarsi sul fiume se le acque non erano assolutamente calme. A quell'ora, poi, con la notte incombente, bisognava anche fare i conti con tutte le radioboe, le boe cilindriche e le boe luminose che costellavano il tumultuoso corso del Piscataqua. Alle sette e mezza, però, più o meno alla stessa ora in cui si sperava che il Penacook fosse riuscito ad agganciare lo Squalus, Johnson atterrò sull'acqua senza incidenti. «È andata bene, mi pare», disse Momsen. Johnson, sorridendo, rispose: «Be', considerando chi avevo a bordo, non avevo molta scelta, o no?». Per prima cosa, al suo arrivo, Momsen chiese notizie della propria squadra di palombari, che avrebbe dovuto arrivare in volo dopo di lui. Il maltempo, gli fu detto, li aveva costretti ad atterrare a Newport. Quindi, Peter Maas
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illuminato dai flash dei fotografi, salì immediatamente a bordo di una lancia della Guardia costiera per compiere l'ultimo tratto del suo viaggio. La pioggia, che aveva continuato a cadere a sprazzi per tutto il pomeriggio, aumentò d'intensità. Rabbrividendo dal freddo, Momsen si rese conto di avere ancora addosso il vestito di lino e il panama, ormai tutto gualcito e sudicio, che si era messo al mattino per andare al lavoro. Sulla lancia, qualcuno gli porse una giacca a vento. Come in altri casi analoghi, l'emergenza che si trovò ad affrontare quel 23 maggio non aveva nulla di impersonale. Momsen conosceva Oliver Naquin e il capitano in seconda Walter Doyle. Conosceva alcuni dei più anziani tra i sottufficiali dello Squalus. Conosceva, in particolare, Harold Preble, perché aveva intrattenuto con lui una corrispondenza a proposito della precisione di certi cronometri che aveva utilizzato nel corso di esperimenti subacquei nel giugno dell'anno precedente. A causa del mare agitato - che non gli impedì, peraltro, di ingurgitare con riconoscenza un paio di sandwich - solo verso le undici giunse a destinazione. A un certo punto, nella nebbia e nella pioggia, scorse davanti a sé un incerto bagliore che si faceva tanto più spettrale quanto più si avvicinavano. All'ancora, disposti a formare un cerchio ideale del diametro di circa 300 metri, c'erano lo Sculpin e i rimorchiatori Penacook, Wandank e Chandler. Avevano puntato tutte le luci disponibili sull'area circostante un carabottino a cui il Penacook aveva fissato la fune dello scandaglio. All'esterno di questo perimetro, incrociavano a bassa velocità due motovedette della Guardia costiera che proiettavano le loro luci sulle nere onde profilate di bianco, alla ricerca di eventuali sommergibilisti giunti improvvisamente in superficie con il polmone di Momsen. Nel quadrato ufficiali dello Sculpin, Momsen fu accolto dall'ammiraglio Cole. «Charles, non puoi immaginare quanto sia felice di vederti», disse Cole. «La situazione è pessima, ma poteva essere anche peggiore. Andrò immediatamente a ufficializzare la notizia. Ti metterò al comando di tutte le operazioni di immersione.» Poi, Cole gli fornì tutti gli aggiornamenti del caso, e Momsen scoprì che il cavo telefonico legato alla boa si era spezzato. «Ho dato ordine al Penacook di scandagliare il fondo e, sebbene non ne siamo certi, crediamo di aver agganciato lo Squalus. Quel che mi preoccupa è il fatto che sul sommergibile nessuno abbia avuto l'impressione che l'aggancio sia realmente avvenuto.» Peter Maas
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«E la Falcon?», domandò Momsen. «Sta arrivando; è in ritardo a causa della nebbia. Se siamo fortunati, sarà qui più o meno tra sei ore.» Cole proseguì nel suo aggiornamento. Spiegò a Momsen che un contatto con lo Squalus era stato ristabilito grazie alle martellate in codice Morse, ma la ricezione era chiara solo a tratti. Il messaggio con cui Naquin informava che le condizioni sul sommergibile erano buone, nonostante il freddo, era stato seguito dalla notizia che nei compartimenti anteriori si trovavano trentatré uomini con abbondanti scorte alimentari, di acqua e di assorbente per l'anidride carbonica. Naquin aveva spontaneamente riferito, disse inoltre Cole, che la pressione nei compartimenti ancora asciutti equivaleva a quella registrabile a nove metri di profondità, quasi il doppio, dunque, rispetto alla pressione atmosferica in superficie. «Ci servono altre informazioni?», domandò Cole. «No, signore,» rispose Momsen, «ma credo che sarebbe meglio, d'ora in avanti, limitare al minimo le domande da rivolgere agli uomini dello Squalus. Conviene che restino tranquilli e risparmino al massimo le loro energie: continuando a martellare sullo scafo si stancherebbero.» «Sono d'accordo», disse Cole. «Cionondimeno, vorrei informarli del tuo arrivo. Il loro morale ne sarà sollevato non poco.» «E' molto generoso da parte sua», replicò Momsen. «In tal caso, può dir loro che una pressione come quella che c'è all'interno del sommergibile non provoca alcun danno.» Cole, quindi, gli sottopose la proposta di Naquin di prosciugare i compartimenti allagati del sommergibile. A Cole l'idea era parsa così allettante che aveva autorizzato il suo portavoce a diffondere la notizia secondo cui quel metodo era quello che, al momento, aveva maggiori probabilità di essere scelto. Per Momsen, però, il problema era appunto quell'apparente semplicità. Essendo l'ultimo arrivato nella squadra di salvataggio di Cole - e nonostante l'ammiraglio gli avesse appena conferito il comando delle operazioni - Momsen si comportò nella maniera più diplomatica di cui era capace. Benché in cima alla lista delle possibili cause dell'incidente vi fosse - per riconoscimento unanime - l'apertura della principale valvola d'aspirazione, di fatto nessuno poteva esserne certo. Inoltre, mettere in opera le indispensabili funi di salvataggio era ben più difficile a farsi che a dirsi. Momsen poteva vantare una grande esperienza come palombaro di Peter Maas
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profondità e sapeva bene che le capacità mentali di un uomo sottoposto, mentre è al lavoro, alla pressione che si registra a ottanta metri sotto la superficie del mare, si riducevano praticamente a quelle di un bambino. Se anche la nuova miscela di elio e ossigeno fosse stata disponibile - e così, purtroppo, non era - l'operazione si sarebbe comunque rivelata di una straordinaria complessità. Ma pure ipotizzando un iniziale successo, nessuno era in grado di garantire che i compartimenti allagati potessero essere prosciugati, che fosse possibile pompare aria compressa a sufficienza fino a quelle profondità o che lo Squalus, in ultima istanza, potesse realmente essere recuperato. «Ammiraglio,» disse Momsen, «il problema è sempre lo stesso. A quanto pare, non riusciamo mai ad avere un incidente subacqueo in posti dove sia facile intervenire. Secondo me, o quegli uomini risalgono da soli o toccherà a noi andarli a prendere.» Momsen aveva da obiettare anche su un altro punto, ma poiché al riguardo non c'era più nulla da fare tenne l'obiezione per sé: all'arrivo dello Sculpin sul luogo del disastro, lui non avrebbe esitato a ricorrere al polmone artificiale. La sua fiducia in quello strumento non si basava certo su semplici sensazioni. A seguito dell'adozione del progetto del polmone da parte della marina, Momsen aveva sovrinteso alla costruzione di due ingegnosi cassoni per la sua sperimentazione, a New London e a Pearl Harbor. Quei cassoni avevano una profondità di circa 33 metri, con due serrande mobili rispettivamente a 16 e a 6 metri dall'estremità superiore. Quasi mille uomini vi avevano sperimentato la sua invenzione finché, all'improvviso, in rapida successione, due palombari erano morti, entrambi in soli sei metri d'acqua. Era stato assalito da ogni sorta di dubbi. Non riusciva a credere che si potesse morire risalendo da una profondità accessibile senza danno a qualunque nuotatore di normali capacità. Nelle prime fasi dello sviluppo del polmone artificiale, il timore di aver trascurato qualche pericolo nascosto lo aveva costantemente preoccupato. «Non mi sono forse crogiolato,» scrisse Momsen nel suo diario, con un tono di rimprovero verso se stesso, «in un'ingannevole sicurezza dopo il successo dei miei esperimenti?» Poiché la marina si era pubblicamente impegnata nella promozione del polmone di Momsen, la notizia dei due decessi fu tenuta segreta finché il Bureau of Medicine and Surgery non ebbe completato un urgente esame Peter Maas
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dei due fatali incidenti, in collaborazione con la School of Public Health dell'università di Harvard. Ancora una volta, però, risultò che la causa non era da ricercarsi nel polmone artificiale. Si scoprì, invece, un aspetto fino a quel momento ignoto delle forze misteriose che l'uomo deve affrontare sotto la superficie del mare. I due palombari erano morti semplicemente perché avevano trattenuto il respiro. La spiegazione di quegli eventi - ora ampiamente nota, ma ignorata a quei tempi - teneva conto del fatto che un palombaro, quando si immerge, ha i polmoni pieni d'aria che si comprime con l'aumentare della pressione subacquea. Chi invece riempia i polmoni d'aria o di ossigeno quando si trovi già a sei metri di profondità, incamera all'incirca la metà dell'aria che inspirerebbe in superficie, benché lo spazio da essa occupato sia il medesimo. Se il palombaro in questione trattiene il respiro, l'aria durante la risalita si espande. Gli specialisti di Harvard scoprirono che meno di un chilogrammo di pressione in eccesso sui polmoni umani è sufficiente a immettere nel flusso sanguigno, e, di lì, nel cervello, bolle d'aria letali. A sei metri di profondità, la pressione in eccesso ammonta a circa tre chilogrammi e mezzo. Informato sugli esiti degli studi svolti, Momsen si sovvenne di certi racconti su uomini dispersi a grandi profondità che, al momento di riemergere, "esplodevano". Forse, rifletté, non si trattava affatto di fantasie. Da quel momento in poi, però, tutto era filato liscio. E come gli altri sommergibilisti, anche gli uomini dell'equipaggio dello Squalus avevano dovuto dimostrarsi capaci di usare il polmone artificiale prima di essere arruolati nel servizio sottomarino. Neppure le acque gelide in cui lo Squalus era affondato, che tanta preoccupazione avevano suscitato in Cole e in Naquin, avrebbero fatto mutare opinione a Momsen, se fosse arrivato prima. Dopo aver portato a termine gli importanti test del polmone al largo di Key West, l'antica nemesi di Momsen, il Bureau of Construction and Repair, minacciò di ritirare l'approvazione al progetto se lui non fosse stato in grado di dimostrare la funzionalità della sua invenzione in presenza di temperature più rigide. «Fu la direttiva più capziosa,» avrebbe in seguito ricordato Momsen, «che avessi mai ricevuto in tutta la mia carriera in marina.» Nel gennaio seguente, dunque, Momsen salì a bordo della Falcon, scelta per trainare l'S-4 fino a un punto al largo di Block Island, dove le acque erano profonde una trentina di metri. La giornata era freddissima, il cielo Peter Maas
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coperto di nuvole, la temperatura dell'oceano di poco inferiore allo zero. Non appena lui e il suo compagno di immersioni preferito, Edward Kalinoski, furono saliti sull'S-4 per cominciare la discesa in fondo al mare, cominciò a nevicare. Per un test di resistenza non avrebbe potuto sperare in condizioni peggiori. Vestiti di soli costumi da bagno, i due uomini attesero che il livello dell'acqua all'interno del sommergibile giungesse a equilibrare la pressione esterna, per poter aprire il boccaporto di fuga. Momsen uscì per primo, seguito da Kalinoski, che gli si aggrappò a una caviglia. L'unico momento di inquietudine si ebbe quando riemersero in superficie. Nevicava fortissimo, infatti, e la Falcon non si vedeva. Subito, però, furono raggiunti da una piccola imbarcazione che li raccolse. Quando furono nuovamente a bordo della Falcon, Pete Yarbrough, lo stesso medico che Momsen avrebbe portato con sé a Portsmouth, riservò loro una piacevole sorpresa: una grossa tazza di caffè corretto con una sana dose di alcol etilico. L'episodio contribuì a fare di Momsen una specie di personaggio leggendario. Benché fosse rigorosamente vietato bere alcolici in servizio e fosse ancora in vigore la legge proibizionista, un suo memorandum di elogio per quello che lui stesso aveva battezzato «Caffè Royal» indusse a emendare il manuale dei rifornimenti alimentari della marina per includervi una certa quantità di alcol etilico per tutti i palombari operanti in acque particolarmente fredde. «Alla sua salute!», gli scrisse un riconoscente beneficiario di questo mutamento. Dato, però, che l'equipaggio dello Squalus era intrappolato sul fondo del mare già da quindici ore, fiaccato dal freddo, dall'aria viziata, dall'impalpabile inquietudine dovuta alla grave situazione, anche Momsen accettò l'idea che si facesse ricorso al polmone artificiale solo in ultima istanza. Dunque, avrebbero atteso la Falcon con la sua camera di salvataggio. Il fatto che un simile strumento fosse disponibile era merito esclusivo di Charles Momsen. Benché impegnato nella realizzazione del polmone artificiale, non aveva mai abbandonato il suo originario progetto della campana subacquea. L'occasione di rispolverarlo si presentò a seguito della prima spettacolare dimostrazione del polmone artificiale nelle acque del Potomac. Chiamato a spiegare il suo funzionamento davanti a una speciale commissione presidenziale sulla sicurezza dei sommergibili, tardivamente istituita a seguito del disastro dell'S-4, Momsen - al termine Peter Maas
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della sua presentazione del polmone artificiale - si lanciò in un lungo elogio della sua campana. Quando un membro della commissione, formata in prevalenza da civili, gli domandò perplesso perché quel progetto non fosse stato precedentemente sottoposto agli appositi organismi della marina, Momsen - dopo una lunga e imbarazzata pausa - rispose che la proposta era stata presentata. Ottenuto, d'improvviso, il via libera, Momsen cominciò a sviluppare la campana subacquea procedendo, parallelamente, con le verifiche sul polmone. Si ricordò del cassone sperimentale su cui il suo primo sommergibile, l'S-1, trasportava un idrovolante. Quel progetto non aveva avuto molto seguito, cosicché il cassone, infine, era stato rimosso. Momsen stabilì che quel cassone, segato a metà, avrebbe funzionato alla perfezione come modello pilota per quel che aveva in mente. Dietro sua richiesta, il cassone fu recapitato alla base navale di Brooklyn, dove un giovane e brillante ufficiale del settore Costruzioni, il tenente Morgan Watt, cominciò a trasformare i progetti abbozzati da Momsen in disegni assai dettagliati. Avendo operato esclusivamente sulla base delle loro congetture, dovettero cercare di prevedere tutte le possibili incognite di un tentativo di salvataggio, dato che a qualunque trascuratezza in fase progettuale sarebbero corrisposte conseguenze fatali in fase operativa. Uno degli inconvenienti della campana originariamente concepita da Momsen consisteva nella necessità di sistemarla con rapidità e precisione sul boccaporto del sommergibile. La sua soluzione, al riguardo, prevedeva che la campana andasse a posto da sola. Un palombaro si sarebbe immerso per attaccare al boccaporto due cavi fissati, all'altra estremità, a bobine che si trovavano all'interno della campana. Questa, una volta calata in mare con la zavorra appena sufficiente a tenerla a galla, sarebbe scesa direttamente fino al boccaporto e avrebbe potuto fare tutti i viaggi necessari per recuperare gli uomini rimasti nel sommergibile. L'idea di utilizzare prima di tutto un palombaro condusse all'individuazione di un ulteriore pericolo. Un palombaro sarebbe stato necessario in qualsiasi caso. Un qualunque detrito o un cavo molle posato sul boccaporto avrebbero pregiudicato l'indispensabile tenuta stagna della camera di salvataggio. Ulteriori migliorie furono introdotte in corso d'opera, con Momsen impegnato contemporaneamente nei test del polmone artificiale in Peter Maas
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svolgimento al largo di Key West - che faceva la spola dalla Florida. Sulla parte superiore della campana venne creato un boccaporto che facilitasse l'ingresso dell'operatore e l'uscita dei sommergibilisti recuperati. Poiché, inoltre, si prevedeva una parziale o completa immersione dei motori azionanti le bobine, li si dotò di un'alimentazione ad aria compressa, invece che elettrica. Per facilitare la risoluzione del problema della galleggiabilità positiva della campana - in modo che questa rimanesse sempre asciutta mantenendo al suo interno una pressione uguale alla pressione dell'acqua in cui fosse immersa - in prossimità del bordo inferiore venne dipinta una striscia verde. Se l'acqua fosse rimasta al di sotto di questa striscia, la galleggiabilità sarebbe stata positiva, mentre in caso contrario la galleggiabilità sarebbe stata negativa, e la campana sarebbe affondata. Una volta terminata, la campana aveva l'aspetto di un bicchiere rovesciato, con un diametro di circa un metro e mezzo e un'altezza di poco superiore ai due metri. Watt era così entusiasta che decise di eseguire lui stesso un test in un bacino di carenaggio della base, allagato per l'occasione. Non senza una certa angoscia, scoprì quanto fossero importanti i cavi guida da fissare al boccaporto del sommergibile. In mancanza di essi, era praticamente impossibile controllare la campana. Per prima cosa, Watt espulse l'aria presente nella campana. Questo, naturalmente, rese la campana più pesante, facendola immergere. Quando, però, Watt aprì il condotto dell'aria compressa per stabilizzare la sua posizione, l'aria non affluì con la dovuta rapidità. Allora aumentò bruscamente la pressione, ma la campana tornò a razzo in superficie, dove si capovolse, per poi affondare di nuovo. Fortunatamente, la campana toccò il fondo in posizione corretta, e Watt evitò, così, di annegare. A quel punto, però, ne aveva abbastanza, e dovette intervenire una gru per riportarlo, non senza ignominia, all'asciutto. Tuttavia, il test non era stato affatto inutile. Momsen, infatti, commentò: «Tu sei fradicio, ma io ho capito qualcosa». Rimandò ulteriori esperimenti con la campana per concludere i test del polmone artificiale, culminati nella storica risalita da settanta metri. Altro tempo trascorse per organizzarne la produzione in serie e per mettere a punto le procedure di addestramento al suo utilizzo. Nel frattempo, si dovette costruire intorno al boccaporto del vano motori dell'S-4 una specie di collare d'acciaio atto a combaciare con la guarnizione di gomma della Peter Maas
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campana. Quello strano aggeggio fu inviato in Florida su un treno e poi sistemato sulla Falcon. Con l'S-4 al traino, la nave si diresse verso una zona di secche nel Golfo del Messico, dove il mare era profondo all'incirca venticinque metri. Quando il sommergibile si fu posato sul fondo, un palombaro della Falcon attaccò i cavi guida ai bulloni a occhio saldati all'interno del collare circostante il boccaporto. Quindi, Momsen e il capo torpediniere Charles Hagner, che faceva parte dell'equipaggio dell'S-4, presero posto all'interno della campana. Durante la discesa in quell'acqua limpida potevano chiaramente vedere il loro obiettivo, che raggiunsero con un rumore sordo. I due uomini, in piedi sul ponte in trenta centimetri d'acqua, ma con il corpo ancora protetto dalla campana, riuscirono a disporla in posizione sul boccaporto, senza difficoltà. Ora veniva la parte più importante. Nessuno disse nulla. Non ce n'era bisogno. Sapevano entrambi fin troppo bene che se la guarnizione non fosse stata in grado di garantire la tenuta stagna, se si fosse verificato qualche errore nella progettazione o nella realizzazione della campana, sarebbero morti in pochi secondi. In teoria, semplicemente riducendo la pressione dell'aria all'interno della campana, sarebbe stato il mare stesso a spingerli con forza contro il collare del boccaporto. Per assicurare la tenuta, poi, Momsen suggerì a Hagner di stringere quattro bulloni che aveva ideato per fissare più saldamente la campana al collare. A quel punto, fece girare una valvola a volantino per far uscire l'aria dalla campana, osservando il livello dell'acqua con quello che, in seguito, avrebbe definito «un vivido interesse». La tenuta si rivelò perfetta. Il livello dell'acqua si mantenne stazionario, e la formazione della condensa, causata dall'abbassamento della pressione di quell'aria satura, fornì un'ulteriore conferma del fatto che tutto procedeva come previsto. Momsen, con mano tremante, aprì lentamente il boccaporto dell'S-4. Aveva avvertito il comandante del sommergibile, il tenente Norman Ives, che in quella fase sarebbe entrata dell'acqua, e in effetti se ne riversò all'interno un centinaio di litri. Esauritosi il flusso di acqua, Momsen guardò in basso e vide il tenente Ives che lo stava fissando. Nonostante tutte le prove eseguite con il polmone artificiale, fu improvvisamente sopraffatto da un'emozione che lo lasciò senza parole. Alla fine, però, si ricompose e pronunciò le famose parole che, fino ad allora, mai erano state proferite sotto la superficie del mare: «Chiedo il permesso di salire a Peter Maas
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bordo». Ives scelse i due membri dell'equipaggio da "salvare". Il boccaporto fu richiuso e i bulloni aggiuntivi vennero rimossi. Nella campana fu fatta entrare aria finché la pressione non eguagliò quella del mare e, quando la guarnizione si staccò dal sommergibile, la campana partì verso la superficie. Benché questa prima dimostrazione fosse stata condotta in condizioni rigorosamente controllate, sia il principio sia la fattibilità erano stati dimostrati. Il sogno coltivato nei giorni e nelle notti seguiti all'affondamento dell'S-51 si era infine avverato. Per perfezionare la campana, Momsen eseguì un gran numero di test. In un caso, arrivando in prossimità dell'S-4 affondato, notò che i due cavi per la discesa e la risalita si erano inspiegabilmente incrociati e stabilì, nel progetto definitivo, che un solo cavo sarebbe bastato. Un'altra volta prese a bordo un carico più pesante del solito e scoprì che la campana faceva fatica a risalire. Ciò gli suggerì l'idea di una zavorra portatile da scaricare per compensare il peso aggiuntivo dei sommergibilisti da salvare. La zavorra sarebbe stata di acqua marina, contenuta in bidoncini su cui gli uomini, durante la risalita, avrebbero anche potuto sedersi. Il progetto funzionò alla perfezione, fatta eccezione per un particolare. Come lo stesso Momsen scrisse, in un ironico memorandum inviato al Bureau of Supply, «I bidoncini di zavorra che avete inviato sono arrivati a destinazione. Le elaborate maniglie sui loro coperchi, però, ne impediscono l'utilizzo come sedili». In due casi, mancò poco che morisse. In particolari condizioni la campana avrebbe potuto trovarsi a dover svuotare un compartimento allagato del sommergibile o, quantomeno, a far abbassare il livello dell'acqua per consentire ai suoi operatori di calarsi all'interno. L'S-4 era posato a venti metri di profondità, con il vano motori allagato e le valvole aperte. Momsen e Hagner, nella campana, raggiunsero normalmente il boccaporto. Una volta assicurata la tenuta stagna, i bulloni vennero stretti ulteriormente. Momsen non sapeva con precisione quale pressione avrebbe trovato nel compartimento allagato, ma immaginò che fosse uguale a quella del mare circostante. Così era, infatti, quando cominciò ad aprire il boccaporto, e aumentò la pressione dell'aria per evitare che la campana venisse inondata. Aumentando ulteriormente la pressione, riuscì a far uscire gran parte dell'acqua presente nel compartimento attraverso le valvole aperte. Peter Maas
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Dopodiché Momsen e Hagner si introdussero nel vano motori. Nel caso di un vero incidente, avrebbero potuto chiudere le valvole e prestare tutto l'aiuto necessario. Momsen, con il telefono di cui era dotata la campana, inviò un messaggio per il tenente Ives, che si trovava nella camera di manovra dell'S-4, per comunicare che tutto era andato bene. Ives poteva pompare o far uscire, come meglio credeva, il resto dell'acqua presente nel compartimento. Ma quando Momsen e Hagner chiusero il boccaporto e tentarono di allentare i bulloni, questi cominciarono a dare problemi. Non era che l'inizio. Troppo leggere per sopportare l'immensa forza esercitata su di loro, le filettature dei bulloni cominciarono a spanarsi. Se improvvisamente avessero ceduto, la campana sarebbe schizzata in superficie. Charles Momsen si mosse più rapidamente che mai. Ridusse immediatamente la pressione dell'aria all'interno della campana, comprimendo la guarnizione contro il collare del boccaporto e alleviando la tensione dei bulloni. A quel punto, Hagner riuscì a svitarli a dovere. Durante la risalita, rivolse a Momsen un educato suggerimento: «Signore, credo che dovremmo utilizzare bulloni più grossi». Ancora peggio, e non di poco, andò un successivo test nello stretto di Long Island, con l'S-4 a circa quaranta metri di profondità. Per il compagno di Momsen, il capo artigliere Francis Church, si trattava della prima esperienza con la campana subacquea. Mentre oscillavano a causa della consueta galleggiabilità positiva, furono improvvisamente investiti da una di quelle violente correnti che si registrano spesso in quella parte dello stretto. Nonostante il cavo che li collegava alla Falcon, la campana fu spostata di colpo, al punto che i cavi di discesa si ritrovarono inclinati di circa quindici gradi rispetto alla verticale. La tensione supplementare fece bloccare uno dei motori ad aria. Momsen spense il secondo motore per cercare di rimettere in funzione il primo, ma così facendo perse momentaneamente di vista il livello dell'acqua. Quando tornò a prestarvi attenzione, vide che l'acqua aveva già superato la striscia verde che determinava la soglia di pericolo. Momsen aumentò bruscamente la pressione dell'aria, ma era troppo tardi. La campana stava precipitando per conto suo. E ciò accadde con una rapidità tale che gli uomini della Falcon addetti ai cavi di recupero non riuscirono a bloccarli. Quanto più la campana scendeva, tanto più l'aria, al Peter Maas
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suo interno, veniva compressa dall'acqua che saliva. La campana evitò per miracolo di colpire l'S-4 per soli tre metri e si salvò anche da una decina di massi sparsi sul fondale che Momsen poté intravedere attraverso l'oblò. Al momento, l'unico danno patito era la lieve perdita di sangue dal naso di Church, causata dal brusco aumento della pressione. Il collegamento telefonico era ancora in funzione. Chiese all'ufficiale in comando sulla Falcon di fissare il cavo di recupero a un argano e di seguire attentamente le sue istruzioni. Era un'operazione delicata. Momsen doveva tenere la campana a un determinato livello di galleggiabilità negativa, perché in caso contrario avrebbero dovuto fare i conti con il problema opposto a quello occorso. Quando arrivarono al punto in cui il guaio aveva avuto origine, il motore malfunzionante riprese improvvisamente a funzionare. Momsen, di conseguenza, chiese alla Falcon di allentare il cavo. Portò la campana in condizioni di galleggiabilità positiva e ridiscese verso l'S-4 per portare a termine l'esercizio di salvataggio. «In ogni caso, hai imparato molte cose,» disse a Church, a mo' di consolazione, «soprattutto riguardo a ciò che non va fatto.» Nonostante questi intoppi e altri ovvi inconvenienti nel progetto, la campana si era rivelata un grande successo. Il passo successivo consistette nel migliorare il progetto definitivo; fu presentato, a questo proposito, un rapporto contenente tutti i suggerimenti delle persone che avevano partecipato ai test, per trasformare la campana subacquea in una camera di salvataggio vera e propria. Questa nuova camera presentava due compartimenti divisi da una paratia orizzontale, dotata di una botola. Il compartimento superiore avrebbe accolto i passeggeri seduti in cerchio sui bidoncini per la zavorra, contenenti ciascuno una trentina di litri di acqua marina, che potevano essere svuotati proporzionalmente al peso delle persone da riportare in superficie. Sarebbe stato dotato di un telefono, di valvole ad azionamento rapido per l'introduzione e l'espulsione dell'aria compressa. Il compartimento inferiore avrebbe ospitato il motore ad aria e una bobina per un solo cavo. Di norma, il compartimento sarebbe stato pieno d'acqua. In caso di necessità, però, avrebbe potuto essere svuotato grazie a una cassa di zavorra circostante caratterizzata dalla stessa capacità, per poter regolare a dovere la galleggiabilità. Prima di poter mettere in pratica tutti questi accorgimenti, Momsen fu distaccato, per intervento del Bureau of Construction and Repair, Peter Maas
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all'addestramento dei sommergibilisti nell'uso del polmone. Nel frattempo, la realizzazione delle migliorie venne affidata al capitano di corvetta Alien McCann, giunto a Key West quando i test sulla campana erano già in corso. Quando, nell'autunno del 1930, la versione definitiva della camera di salvataggio fu approntata, Momsen e McCann la misero alla prova nello stesso bacino di carenaggio della base di Brooklyn in cui il povero Watt se l'era cavata per il rotto della cuffia. La camera si comportò esattamente come previsto, riuscendo persino ad atterrare su un simbolico boccaporto inclinato a più di trenta gradi. Dopo di che fu caricata sulla Falcon per il test definitivo al largo di New London. Fu sigillata e calata a 130 metri per un'ora. Quindi Momsen la provò sull'S-4, immergendosi tra forti correnti, nell'acqua gelida, limpida, profonda o bassa. Funzionò senza problemi in tutti i casi, e perciò ne fu ordinata una per ognuno dei comandi sottomarini statunitensi sparsi per il mondo. La vicenda, però, ebbe anche un risvolto spiacevole. Momsen, con la sua ostinazione nel voler salvare la vita ai sommergibilisti, aveva calpestato un po' troppi piedi, aveva fatto arrossire un po' troppe persone, aggirato troppi canali burocratici. Persino il nome «polmone di Momsen» era stato inventato dalla stampa, mentre la denominazione ufficiale era, invece, «dispositivo di salvataggio sottomarino». Questa volta non si sarebbero corsi rischi. Benché la campana fosse stata concepita, difesa, sviluppata e sperimentata da Momsen, che aveva messo in gioco la sua vita a questo scopo, la camera di salvataggio fu ufficialmente battezzata «camera di salvataggio di McCann». Nove anni dopo, seduto nel quadrato ufficiali dello Sculpin, Momsen si curava relativamente di quella delusione. Gli importava soprattutto che la sua creazione superasse quell'inesorabile prova. Aveva mandato il palombaro McDonald a dormire. Se per qualche ragione fosse stato necessario immergersi, avrebbe dovuto essere il più possibile riposato. I tenenti di vascello Behnke e Yarbrough, invece, rimasero con Momsen, che ne trasse non poco conforto. Behnke non aveva uguali quanto a conoscenza del modo migliore di usare la miscela di elio e ossigeno, mentre Yarbrough era un grande esperto nel trattamento dell'embolia. Momsen aveva spesso manifestato la sua preoccupazione per il fatto che i due dottori, essendosi prestati ai suoi esperimenti sottomarini, avessero rinunciato a promozioni che, seguendo strade più consone agli Peter Maas
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ufficiali medici della marina, avrebbero certamente ottenuto. Nessuno dei due, però, aveva mai voluto sentir parlare di un trasferimento. «Non capita spesso l'occasione di partecipare a eventi storici», aveva detto Behnke. In quelle prime ore mattutine del 24 maggio, comunque, pur concedendosi qualche riflessione sul passato, Momsen aveva da curarsi soprattutto del presente: il Penacook aveva davvero agganciato lo Squalus o quella grossa fune attaccata al carabottino sobbalzante nell'acqua nera si era semplicemente impigliata in qualche vecchio relitto? A Portsmouth, Frances Naquin dormiva profondamente. All'improvviso, però, fu svegliata da un rumore di sirene che squarciò il silenzio della notte. Erano le auto della polizia che scortavano il resto dell'unità subacquea sperimentale di Momsen, composta da dodici palombari in tutto. Dopo che gli aerei su cui viaggiavano erano stati costretti ad atterrare a Newport, i palombari erano stati condotti a tutta velocità verso nord. Quelle sirene segnalavano che un primo gruppo stava arrivando.
13 Nella notte, la decisione di Naquin di risparmiare le riserve d'ossigeno, tenendo all'interno del sommergibile un'aria lievemente tossica, fece sì che molti uomini si appisolassero. E questa, per loro, fu una fortuna, perché il freddo si era fatto, nel frattempo, sempre più rigido. Rannicchiato sotto la sua coperta nella camera di lancio prodiera, Charlie Yuhas scoprì una mano, per sgranchirsi le dita, ma la ritrasse immediatamente: dopo pochi secondi, infatti, si era reso conto che stava già per intirizzirsi. Accanto a lui, Harold Preble ricordava come gli fosse parsa tiepida la temperatura nella sala della batteria anteriore, quando alcune ore prima l'aveva attraversata. Aveva nutrito una tale fiducia in un rapido salvataggio che, passando davanti alla porta della cabina privata di Naquin, non era riuscito a resistere alla tentazione di scarabocchiarvi sopra con una matita: «Tutto bene, per quanto possibile». Aveva completato il messaggio annotando l'ora - 9,30 - e sottoscrivendolo con il suo solo nome corredato da uno svolazzo. Immaginava che sarebbe stata un'emozionante testimonianza dello spirito dell'equipaggio, una volta tornati sani e salvi in superficie. Benché le cose non stessero procedendo secondo le sue Peter Maas
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aspettative, Preble non prese neppure in considerazione altre eventualità. Trovava pure un che di umoristico nella sua situazione. Lui, che era sempre stato piuttosto schizzinoso, aveva provato fastidio, dopo cena, a causa dei pezzi di ananas impigliatisi tra i denti. Per rimuoverli aveva utilizzato l'unico strumento che gli era riuscito di trovare nella fioca luce: un calzino lasciato da qualcuno sulla cuccetta su cui era sdraiato. Con l'avanzare della notte, cercò di concentrarsi su qualcosa per non pensare al freddo. Ma fu inutile. Quel che più desiderava non poteva averlo. Preble avrebbe fatto praticamente qualunque cosa per fumarsi una sigaretta. Il tenente di vascello Nichols non dubitò neppure per un istante che sarebbe sopravvissuto. Personalmente, non avrebbe avuto difficoltà a ricorrere subito al polmone di Momsen. Tuttavia, non toccava a lui decidere. Eppure, nonostante la pressione dell'acqua gelida e le difficoltà della risalita, era certo che, almeno all'inizio, gli uomini dello Squalus avrebbero avuto sufficiente energia per raggiungere la superficie. Nelle prime ore, oltre alle spiegazioni fornite a Preble - l'unico che non avesse effettuato l'addestramento alla fuga -, aveva ripassato ad alta voce le informazioni chiave per l'uso del polmone artificiale servendosi di un manuale che era in dotazione a tutti i sommergibilisti: una volta pronti per la fuga, ricordarsi di tapparsi il naso e di soffiare forte per alleviare la pressione sui timpani; continuare a respirare normalmente; mai mollare la presa sul cavo di risalita; sostare per il tempo previsto a ogni segnale di fermata lungo il cavo, per evitare l'embolia; una volta in superficie, chiudere il boccaglio e la valvola sul fondo del polmone artificiale, in modo che l'ossigeno in esso rimasto lo trasformi in un salvagente, finché non si viene recuperati. «Se ci sono domande» aveva detto Nichols, «parlate pure.» Ma nessuno aveva aperto bocca. «Okay», aveva allora aggiunto. «La cosa più importante è risparmiare quanta più aria è possibile. Se non ci mettiamo a gironzolare e a chiacchierare inutilmente, ci resta ossigeno a sufficienza.» Mentre parlava, poco dopo che lo Squalus si era posato sul fondale, Nichols si era domandato se non fosse il caso di pronunciare un fervorino, di quelli che il suo allenatore di football del liceo usava far loro alla fine del primo tempo se la squadra stava prendendo una batosta. Aveva scartato l'idea. Si sarebbe sentito ridicolo nel tentare di risollevare il morale di un veterano come Gainor o anche Harold Preble. E con il passare delle ore non ebbe una sola occasione per pentirsi della sua decisione. I Peter Maas
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sommergibilisti erano davvero gente speciale, pensò. Quell'ufficiale in servizio sulla nave da guerra Maryland, che gli aveva detto che servire sui sommergibili era da pazzi, non l'avrebbe mai capito. Osservando gli uomini raccolti nella camera di lancio anteriore, Nichols fu sopraffatto dall'emozione. Poteva ben dire di essere circondato da un gruppo di uomini eccezionali. Nessuno aveva mostrato il benché minimo segno di panico. Persino Feliciano Elvina, l'addetto alla mensa, sconvolto dal modo improvviso in cui lo Squalus era colato a picco, se ne stava seduto con calma a ripassare quel che gli avevano insegnato sulle tecniche di fuga. Elvina, però, aveva una preoccupazione particolare: durante l'addestramento, aveva avuto problemi con lo stringinaso a causa della piatta conformazione del suo naso. In caso di emergenza, pensava, è fondamentale sistemare lo stringinaso sulle narici nel punto da cui meno probabilmente sarebbe scivolato via. Per alcuni, mantenere la disciplina necessaria costava un enorme sforzo di volontà. Raccolto su un materasso che aveva recuperato nella sala batteria anteriore, Gerry McLees era in preda a un gelo che non aveva nulla a che fare con la temperatura dell'Atlantico settentrionale. Aveva continuato a domandarsi com'era successo che fosse toccato a lui trovarsi nella batteria anteriore al posto di John Batick. Infine, riuscì a ricostruire: al momento dell'immersione, Batick stava ancora finendo il caffè in mensa. McLees non sapeva se Batick fosse vivo o meno, ma quando aveva domandato a Will Isaacs se ce l'avesse fatta, questi aveva risposto che, purtroppo, temeva di no. Isaacs era stato l'ultimo a fuggire dal compartimento allagato e di Batick non aveva notizie. McLees rabbrividì sotto la sua coperta. "Buon Dio!", pensò. "Tutto per una mezza tazza di caffè! " I due uomini per cui il tenente Nichols nutriva più preoccupazioni erano Ted Jacobs e Charles Powell, che si prodigavano a inviare messaggi in superficie a furia di martellate. Per rispondere a una domanda del Wandank, intorno alle nove di quella prima sera, riguardo al numero e alla posizione dei sopravvissuti, avevano compiuto uno sforzo tremendo. Ripetendo faticosamente tre volte ogni parola, avevano risposto: «Quindici nella camera di lancio prodiera. Diciotto in camera di manovra». Lo sforzo li lasciò senza fiato. Jacobs stava già vomitando, mentre Powell era sul punto di imitarlo. Nichols non poté far altro che spargere altro assorbente Peter Maas
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per l'anidride carbonica e altro ossigeno. Continuarono a martellare fin quasi a mezzanotte. Poi, fortunatamente, le richieste di informazioni dalla superficie cessarono, grazie all'intervento di Charles Momsen. Sarebbero trascorse due ore prima che il Wandank segnalasse il suo arrivo: «Momsen dice che una pressione come quella all'interno del sommergibile non provoca danni». L'ammiraglio Cole aveva ragione: la notizia risollevò il morale a tutto l'equipaggio. «E' lui la nostra speranza», disse Lawrence Gainor. La camera di lancio prodiera, per quanto scomoda e fredda, era rimasta all'asciutto, a parte un breve afflusso d'acqua attraverso i condotti di ventilazione nell'ultimo tratto della discesa. Nella camera di manovra, invece, benché avvolta dal doppio scafo che in caso di guerra sarebbe servito a proteggere le sue delicate strumentazioni dagli attacchi con cariche di profondità, la situazione era peggiore: l'acqua era molta. Per Walter Doyle, quel freddo umido che lo avviluppava e gli penetrava sempre di più nelle ossa superava ogni immaginazione. Qualunque cosa potesse mai capitargli in futuro, Doyle era convinto che il freddo provato in quelle ore tremende non lo avrebbe mai potuto dimenticare. Insieme all'aria viziata, il freddo li aveva completamente prostrati. Avevano ormai rinunciato da un pezzo agli scherzosi bisbigli che, per quanto sciocchi, nel pomeriggio avevano contribuito ad alleviare la tensione. «Credete che ci porteranno giù delle bistecche per cena?», aveva domandato Bill Boulton. «Come fai a pensare al cibo in questa situazione?», gli avevano risposto. «Sarebbe molto meglio una bella bionda.» Comunque, un tacito senso di sfida accomunava tutti, compreso l'aiuto farmacista Ray O'Hara, che non solo era l'ultimo arrivato a bordo, ma anche al suo primo incarico su un sommergibile. Sotto il suo occhio vigile, il giovane Washburn, che per tutta la sera era stato in preda a terribili brividi, aveva infine ceduto a un sonno febbrile. A quel punto, Gavin Coyne, un aitante aiuto macchinista in servizio sui sommergibili da diciannove anni, diede di gomito a O'Hara e disse: «Ti sarai pentito di aver accettato di lavorare sotto il mare». «Fossi in te, non ci scommetterei la fattoria», rispose O'Hara. Quando lo Squalus aveva toccato il fondo, Al Prien aveva controllato che la leva della valvola d'aspirazione superiore fosse nella posizione di chiusura. All'ora di cena, quando era stata accordata la possibilità di Peter Maas
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muoversi un po', Prien aveva ricontrollato per convincersi di non aver sognato. "Visto?", avrebbe voluto gridare. "È chiusa." Quel pensiero lo angustiava. E come fosse stato al cospetto di una spettrale corte di inquisitori, continuava a ripetere tra sé e sé: "Io la valvola l'ho chiusa. Ho abbassato completamente la leva. Ho controllato sul quadro di controllo. Non una sola lucina lasciava supporre che ci fossero problemi: erano tutte verdi, finché il quadro non si è spento". Come Prien, anche il sottotenente di vascello Robert Robertson era tormentato dalla mancata chiusura della valvola d'aspirazione superiore, posto che fosse quello il problema. Aveva presenziato all'installazione e ai test di quella valvola, a Portsmouth. E aveva anche assistito, il 30 aprile, alle riparazioni resesi necessarie dopo che la stessa valvola aveva mancato di aprirsi durante un'immersione di prova nel porto: era stata rimossa e reinstallata, e da quel momento aveva sempre funzionato a meraviglia meglio di prima, quantomeno. All'inizio dell'immersione, mentre lo Squalus già scivolava sotto le onde, Robertson si trovava nella torretta. Pochi secondi dopo che gli era giunta la voce secondo cui qualcosa era andato storto, aveva udito un sibilo provenire dal serbatoio di alimentazione idraulico situato proprio sotto di lui. La valvola d'aspirazione superiore era controllata idraulicamente. "Sarà stata quella la causa?", si domandava. "Si era forse rotto qualche elemento dell'impianto idraulico?" Quelle questioni, però, gli posero un ulteriore interrogativo. Perché il quadro di controllo non aveva segnalato il problema? A differenza della valvola, il quadro funzionava elettricamente. Sembrava impossibile che si fosse guastato tutto allo stesso tempo. Anche considerando i rigorosissimi esami da superare per potersi arruolare nel servizio sottomarino, Roy Campbell era strabiliato dall'impeccabile comportamento mantenuto dagli uomini presenti in camera di manovra. Essendo il marinaio semplice di grado più elevato a bordo dello Squalus, Campbell rivestiva un duplice ruolo. Da una parte, fungeva da tramite tra Naquin e il resto dell'equipaggio; dall'altra, era una sorta di confessore per chiunque, tra i marinai, avesse avuto un problema che non osava sottoporre a qualche ufficiale. Di conseguenza, si era preparato a intervenire al primo segnale di sconforto. Nessuno, però, ne aveva dato il benché minimo cenno. Di fronte a Campbell, Carlton Powell prese un'assennata decisione. Era certo, come tutti gli altri, che nulla sarebbe rimasto intentato per tirarli Peter Maas
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fuori di lì. Ma poteva anche darsi che qualcosa andasse male e lo Squalus, come l'S-51 e l'S-4, venisse recuperato dopo essersi ormai trasformato, per lui e per gli altri, in una grottesca bara. Powell, che durante l'immersione aveva saldamente tenuto la sua postazione presso le pompe, non era certo uno che si spaventava facilmente. Decise, però, di prendere in considerazione l'ipotesi che quelle fossero le sue ultime ore nel mondo. In tal caso, c'erano alcune cose da sistemare. Powell si frugò le tasche alla ricerca di un pezzo di carta e di una matita e mise per iscritto le sue ultime volontà, affinché tutti i suoi beni terreni passassero alla moglie. Esitò, non sapendo bene come cominciare, ma poi scrisse: «Io, Carlton B. Powell, nel pieno delle mie facoltà mentali e fisiche...». Frankie Murphy aveva, se non altro, un motivo per rallegrarsi. Il compito di tenere il giornale di bordo, quantomeno, serviva a distrarlo dal pensiero del freddo. E, poco dopo aver annotato il messaggio del Wandank che riferiva dell'arrivo di Momsen, scrisse: «Gli uomini, per quanto possibile, cercano di riposare. Spargimento dell'assorbente per l'anidride carbonica». Con questo, il primo contenitore della sostanza assorbente, che Naquin aveva ordinato di aprire dodici ore prima, fu svuotato. Ne rimanevano una mezza dozzina, ma Naquin era deciso a centellinarli. Il primo contenitore di ossigeno aperto era ancora pieno per circa un terzo. Come Nichols, aveva un'ulteriore borraccia ancora chiusa a disposizione. Un quinto contenitore rimase nella sala batterie anteriore, finché il comandante non decise quale compartimento ne avesse più bisogno. Tutto sommato, Naquin calcolò che restava loro abbastanza ossigeno per resistere altri tre giorni. Se si fosse rivelato necessario, avrebbe potuto ricorrere all'aria delle bombole normalmente utilizzate per svuotare le casse di zavorra, anche se ciò avrebbe fatto aumentare la pressione a cui già erano sottoposti, senza peraltro ridurre la quantità di anidride carbonica. Nel rivivere lo strazio di quel tuffo sul fondo del mare, Naquin cercava, come tutti gli altri, una spiegazione all'improvviso allagamento delle sale macchine di poppa, ma non poteva far altro che formulare ipotesi. Era giunto a una sola conclusione certa: sia la valvola di aerazione sia quella di aspirazione dei motori diesel erano chiuse al momento dell'immersione. Come spiegare, altrimenti, il fatto che il quadro di controllo fosse interamente verde, o il fatto che il sommergibile fosse in pressione? Naquin era riuscito a scendere dalla torretta, aveva chiacchierato con Peter Maas
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Preble in camera di manovra sulla riuscita dell'immersione e aveva preso posto al periscopio, prima di sentire il primo allarmante spostamento d'aria. La grossa valvola dei diesel si era inspiegabilmente aperta dopo l'immersione. Per conto suo, non poteva esserci altra spiegazione plausibile. In ogni caso, si rassegnò all'idea che nulla poteva essere tentato prima dell'arrivo della Falcon. Evidentemente, in superficie avevano deciso di non intraprendere nulla fino a quel momento. Insieme al messaggio del Wandank relativo all'avvenuto aggancio dello Squalus, era giunta la notizia che l'arrivo della Falcon era previsto per le tre di notte. Passata la mezzanotte, però, il momento dell'arrivo era stato posticipato di un'altra ora e mezza. Naquin sperava che non intervenissero ulteriori ritardi. Era preoccupato per gli effetti del freddo sugli uomini. Non ne aveva fatto menzione nei suoi messaggi perché non voleva creare indebito allarme in superficie. Per la stessa ragione, nonostante la falla nella sala di pompaggio, alla domanda se i compartimenti occupati stessero imbarcando acqua, aveva risposto di no. Intorno a mezzanotte, l'ultimo controllo aveva registrato una crescita del livello di poco più di mezzo metro. Nulla indicava che la falla si stesse ampliando. La maggior parte degli uomini stava dormendo o riposando tranquillamente. Naquin si mantenne all'erta elaborando, tra sé e sé, alcuni problemi di matematica. Non appena ne risolveva uno, passava al successivo. Intorno alle due e mezza di notte, percepì il rumore di altre eliche. Le sue orecchie allenate di sommergibilista le riconobbero: si trattava di un cacciatorpediniere. Benché non potesse averne conferma, aveva ragione. Erano le eliche del Semmes, con il capitano Richard Edwards, comandante di New London, a bordo. Sullo Sculpin, dopo aver parlato con l'ammiraglio Cole, Momsen annunciò che sarebbe andato un po' a riposare. La mattina successiva l'avrebbe atteso una giornata molto faticosa, e lui voleva essere perfettamente in forma. Cole si meravigliò di come Momsen fosse in grado di ragionare freddamente in un momento come quello. E questo rinnovò la sua convinzione che si trattasse dell'uomo giusto per quel lavoro. Nulla pareva innervosirlo, pensò Cole. «Nel frattempo» disse, «vedrò se riesco a Peter Maas
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procurarti dei vestiti adeguati.» Alle quattro di notte, Momsen venne svegliato. All'orizzonte, si profilava la sagoma della Falcon.
14 Nella tetra e grigia alba del 24 maggio, il cielo era coperto quando Swede Momsen vide avvicinarsi la Falcon. Come le altre imbarcazioni sulla scena del disastro, lo Sculpin si era allontanato di almeno 700 metri, su richiesta del comandante della Falcon, George Sharp, che desiderava disporre di abbondante spazio di manovra. All'interno dello Squalus si sentì l'oscillatore del Wandank che avvertiva di non sparare altri razzi di segnalazione, perché la Falcon stava ormeggiando sopra di loro, anche se non era esattamente vero. Le condizioni atmosferiche difficilmente avrebbero potuto essere peggiori per Sharp. Sospinto da un vento rigido e tagliente, il mare stava improvvisamente tornando a gonfiarsi. Le raffiche si susseguivano, riducendo talvolta la visibilità quasi a zero. Sottoposto ai loro effetti, Sharp dovette manovrare la Falcon intorno al carabottino gettato in mare dal Penacook per portarsi nel punto sovrastante lo Squalus. Il piano di Sharp consisteva nel creare un ormeggio a quattro punti, calando quattro ancore a formare un approssimativo quadrato intorno al sommergibile. Gli ci vollero quattro ore di snervante lavoro per portare saldamente la Falcon nel punto desiderato. E quando, infine, ci riuscì, non fu per molto. Il vento cambiò bruscamente e cominciò a spedire ondate contro la Falcon quasi di traverso. Le sue ancore, incapaci di mantenerla in posizione, cominciarono a vagare. Il Wandank si avvicinò con cautela per fornire il suo aiuto, calando un'ancora a babordo del baglio della Falcon per poi trasferire la fune sulla nave di soccorso. Ma neppure con cinque ancore Sharp riuscì a ottenere la stabilità necessaria. La nave, anzi, cominciò a rollare con violenza. In quelle condizioni, se avessero calato in mare la camera di salvataggio o anche solo un palombaro, sarebbero andati incontro a un disastro certo. Un urto violento contro la fiancata della nave avrebbe molto probabilmente messo fuori uso l'unica camera di salvataggio disponibile. Tutti i timori di Momsen riguardo all'utilizzo di posamine riconvertiti della classe della Falcon come navi di soccorso sembravano prendere corpo sotto i suoi occhi. Peter Maas
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Sharp, ovviamente, poteva ripetere tutta l'operazione daccapo, ma le ore che sarebbero trascorse - quando anche pochi minuti potevano essere decisivi - rendevano quell'opzione impraticabile. Dopo aver consultato l'ammiraglio Cole e il proprio immediato superiore, il capitano Edwards, Sharp optò invece per una soluzione rischiosa. Dirigendo personalmente con un megafono i macchinisti, fece aumentare la pressione in modo da mantenere la posizione, mentre la corda di prua di un'ancora e quella d'anca di un'altra furono scambiate di posto. Eseguita questa operazione, fece girare la nave, in modo da rivolgerla in direzione del vento. Ciò non impedì che la nave beccheggiasse, ma di certo la situazione era migliorata rispetto al rollio di trenta gradi che aveva sopportato fino a poco prima. Tanto più che con questa manovra, le ancore erano sprofondate nel fondale, rendendo la posizione più stabile. Sharp concluse la manovra alle 9,45. Non appena ebbe finito, la natura parve volersi far beffe di lui. Il vento e il mare, infatti, si calmarono, e persino le nubi cominciarono ad aprirsi.
*** Swede Momsen, nel frattempo, era occupato dai suoi preparativi. All'arrivo della Falcon, la sua unità subacquea sperimentale comprendente il capo macchinista in seconda Bill Badders, che con Jim McDonald condivideva il record di immersione con miscela di elio e ossigeno, a una profondità di 160 metri - era salita a bordo dello Sculpin. Con loro era arrivato anche il comandante Alien McCann - da cui aveva preso il nome la camera di salvataggio - in veste di consulente tecnico della squadra di soccorso di Cole. Momsen lo accolse cordialmente, non ritenendolo in alcun modo responsabile per l'affronto subito. Momsen aveva anche il controllo operativo del contingente di palombari della Falcon guidato dal tenente Julian Morrison. E, prima ancora che la Falcon cominciasse a gettare le ancore, lo aveva fatto trasferire a bordo dello Sculpin. Poiché questo sommergibile era identico allo Squalus, pretese che tutti i palombari lo studiassero in ogni dettaglio, affinché - una volta raggiunto il sommergibile affondato nelle buie profondità del mare sapessero esattamente dove si trovavano. Con la Falcon finalmente in posizione, tutto fu pronto per l'inizio della drammatica operazione. Prima, però, Momsen prese una decisione Peter Maas
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cruciale, riflesso della scrupolosa cura che aveva sempre caratterizzato il suo lavoro. Conosceva personalmente la maggior parte dei palombari della Falcon e si rese conto che la tensione, tra essi, era elevatissima. Gli uomini della sua unità e quelli della Falcon erano tipi duri e orgogliosi, e qualunque eccesso nella naturale rivalità esistente tra i due gruppi si sarebbe potuto rivelare rovinoso. Quindi, Momsen decise di formare gruppi misti. Non ci sarebbero stati favoritismi. A turno, tutti avrebbero partecipato all'operazione. Inoltre, decise che sarebbe stato un palombaro della Falcon il primo a immergersi. Quell'orientamento era perfettamente comprensibile, ma Momsen colse tutti di sorpresa scegliendo come primo palombaro un robusto aiuto nostromo che si chiamava Martin Sibitsky. La carriera di Sibitsky, infatti, era appesa a un filo. Un paio di mesi prima aveva rischiato di essere congedato a causa di un attacco di embolia subito - secondo il rapporto sulla vicenda - in acque relativamente basse. Momsen conosceva Sibitsky molto bene. Quando aveva ricevuto quel rapporto, a Washington, aveva stentato a crederci e si era inventato una scusa per andare personalmente a New London a verificare. A seguito di una discreta indagine, aveva concluso che Sibitsky doveva essere sceso a una profondità di molto superiore a quella riportata e aveva fatto in modo di concedergli un'altra occasione. Cole, Momsen e i dottori Behnke e Yarbrough si trasferirono sulla Falcon. Sibitsky era pronto a immergersi, vestito della sua pesante muta di tela gommata. Attaccati alle maniche aveva guanti simili a muffole con le dita lunghe raccolte a due a due. Intorno alla vita aveva una cintura piena di piombo, sostenuta da passanti incrociati e bloccata da un terzo passante sotto il cavallo. Le gambe erano inguainate per evitare infiltrazioni di aria che avrebbero pregiudicato la galleggiabilità. Indossava anche scarpe di gomma con suole di piombo per aggiungere ulteriore peso e stabilità. Infine, presentava un'innovazione promossa da Momsen: una muta di biancheria riscaldata elettricamente, regolata da un accumulatore situato sulla Falcon. Nel complesso, il suo ingombrante equipaggiamento raggiungeva all'incirca il quintale. Momsen gli si avvicinò e gli bisbigliò all'orecchio: «Sibitsky, c'è una ragione precisa per cui voglio che sia tu il primo a immergersi». «Sì, signore. La ringrazio.» «Non devi ringraziarmi. Fa' semplicemente il tuo lavoro come sai.» Peter Maas
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«Non la deluderò, signor Momsen.» Sibitsky fu aiutato a salire sulla piattaforma di immersione, fissata a un paranco della Falcon. Gli misero in testa il grande casco metallico con la visiera di vetro spesso. Gli attaccarono i tubi dell'aria sulla parte superiore del casco e fu dotato di una fune di sicurezza. Sibitsky venne aiutato a oltrepassare il parapetto e calato in mare sulla piattaforma. Su tutte le navi che circondavano la Falcon, i marinai affollavano i parapetti e osservavano in silenzio. Da Portsmouth era arrivata una lancia della Guardia costiera carica di giornalisti. Proprio in quell'istante, il sole fece capolino tra le nuvole. Quando Sibitsky ebbe cominciato la sua discesa lungo la fune dello scandaglio del Penacook, un raggio di sole illuminò il punto in cui si era appena immerso. «È un segno del destino», disse Al Behnke a Momsen, levando un pollice fiducioso. «Ce la faremo.» Momsen si mantenne ininterrottamente in contatto telefonico con Sibitsky. Immergendosi a quelle profondità senza la rivoluzionaria mistura di elio e ossigeno, potendo contare solo sull'aria, sarebbe potuta capitare qualunque cosa, anche al palombaro più esperto. In condizioni di pressione estrema, l'azoto in eccesso che entrava in circolo era in grado di causare ogni sorta di aberrazione. C'era chi si sentiva allegramente sbronzo, chi di umore tetro; altri, addirittura, svenivano. Talvolta poteva capitare di patire una temporanea cecità. Momsen si era trovato spesso a non riuscire più a distinguere la destra dalla sinistra. In un modo o nell'altro, le condizioni erano di assoluta anormalità: ogni gesto richiedeva la massima concentrazione, e anche per svolgere i compiti più elementari occorreva, in genere, continuare a ripeterseli ad alta voce. Momsen sapeva bene che cosa si provava. Ricordava ancora molto vivamente un episodio di cui era stato protagonista durante un'immersione di prova a cento metri di profondità. La missione non poteva essere più banale: consisteva nel rimuovere un cappuccio da un tubo simboleggiante il condotto d'aerazione d'emergenza di un sommergibile, per poi attaccarvi un riduttore che consentisse di applicarvi un tubo. Ricordava di aver tolto il cappuccio e applicato il riduttore a mano. Quindi, aveva attentamente ripetuto a se stesso: «Ora devo stringerlo con una chiave». Aveva trovato la chiave, l'aveva fissata intorno al riduttore e aveva cominciato a girarlo, ma questo gli era caduto. Momsen, a quel punto, si era reso conto di aver girato dalla parte sbagliata. Peter Maas
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Quando Sibitsky ebbe raggiunto i 50 metri di profondità, Momsen gli domandò come stava. «Va tutto bene», rispose Sibitsky. «Nessun problema.» A meno di 70 metri, fu lo stesso palombaro a riferire che tutto procedeva senza intoppi. «Il sole arriva fin qui. La visibilità è migliore del previsto.» Poco dopo, aggiunse: «La fune dello scandaglio cade a piombo. Devo essere vicino, ormai». Mentre Momsen era in ansiosa attesa, la fosca sagoma dello Squalus cominciò a poco a poco a prendere forma sotto Sibitsky. Sulla Falcon, accanto all'ammiraglio Cole irrigidito dalla tensione, Momsen sentì Sibitsky che diceva: «L'ho visto. Ho individuato il sommergibile». Dopo una pausa, Sibitsky aggiunse: «Ci sono. Sono sul ponte». «In che punto?», domandò Momsen, con calcolata calma. «Che cosa vedi?» Sibitsky doveva lottare contro la tremenda pressione dell'oceano per mantenersi lucido. «Aspettate un attimo», disse. «Ve lo dico tra un attimo.» «Fa' con calma, Sibitsky», gli disse Momsen. «Ecco, sì!», riprese Sibitsky. «Vedo il verricello. È proprio davanti a me. Sono sulla prua.» «Riesci a vedere il boccaporto?», domandò Momsen. «Se vedo il boccaporto? Sì, eccolo. Lo vedo. Ce l'ho sotto gli occhi.» Nonostante le forti probabilità contrarie, il Penacook non solo aveva trovato lo Squalus, ma si era anche agganciato al parapetto di babordo, a meno di tre metri dal boccaporto su cui si sarebbe dovuta posare la camera di salvataggio. Una delle regole auree di Momsen consisteva nel far precedere qualunque operazione di salvataggio dall'immersione di un palombaro. La camera di salvataggio non doveva mai essere calata alla cieca, e quel caso ne diede la conferma più evidente. «Mi sto avvicinando al boccaporto», disse Sibitsky. «Ehi! C'è un cavo, o qualcosa del genere, sul portellone. Ora lo tolgo.» Si trattava del cavo telefonico della boa lanciata dallo Squalus, che, dopo essersi spezzato, era ricaduto proprio sul boccaporto e avrebbe impedito alla camera di salvataggio di fissarsi saldamente. Sibitsky si chinò e spostò il cavo. Persino questo gesto apparentemente semplice richiese uno sforzo tremendo. «Il boccaporto è sgombro», riferì infine. «Ci sono sopra.» Peter Maas
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Momsen lo avvertì che avrebbero immediatamente calato la fune per la discesa della camera di salvataggio. Nell'attesa, Sibitsky diede qualche colpo con la pesante suola di piombo delle sue scarpe per informare della propria presenza gli uomini intrappolati nello Squalus. All'interno del sommergibile, però, l'equipaggio - avvertito dell'arrivo di un palombaro da un messaggio del Wandank - lo aveva già sentito muoversi sul ponte. Nella camera di lancio anteriore, Lenny de Medeiros si era arrampicato all'interno della sporgenza cilindrica prevista per l'uscita d'emergenza con il polmone artificiale. Pur non riuscendo a decifrare quel che Sibitsky diceva a Momsen, de Medeiros ne sentiva la voce e decise di dare qualche martellata per esprimere il suo sollievo. Sibitsky alzò gli occhi e vide arrivare la fune per la discesa della camera di salvataggio. Poco dopo, il suo maniglione gli penzolava davanti al petto. «Okay», disse a Momsen. «La fune è arrivata. Aspettate.» Come al rallentatore, allungò una mano per afferrare il maniglione, ma fallì. «Maledizione! L'ho mancato», gridò. Momsen reagì rapidamente, ma con estrema tranquillità, al tono allarmato di Sibitsky. «Va tutto bene», disse per rassicurarlo. «Non ti preoccupare. Abbiamo sbagliato noi. Te la rimandiamo subito.» Momsen fece recuperare la fune, per poi farla calare di nuovo. «Avvertimi quando vedi il maniglione», disse. «Sì, sì. Ecco, lo vedo!», rispose poco dopo Sibitsky. Questa volta riuscì ad afferrarlo. Sporgendosi in avanti fin quasi a sdraiarsi sul ponte dello Squalus, fissò il maniglione a un grosso anello situato al centro del boccaporto. «Maniglione attaccato», disse. «Sono pronto a risalire.» Prima, però, diede un'ultima pedata sul boccaporto a mo' di saluto. Sibitsky aveva trascorso ventidue minuti sullo scafo dello Squalus. Ce ne vollero altri quaranta per tornare in superficie, compiendo le soste intermedie necessarie a evitare attacchi di embolia. Solo a quel punto il freddo cominciò a farsi sentire attraverso la muta. Momsen non avrebbe potuto chiedergli di più: il trentatreenne aiuto nostromo, nonostante le proibitive condizioni, aveva dato una grandissima prova di resistenza e di presenza di spirito. Sibitsky fu riportato a bordo e mandato di corsa, per precauzione, nella camera di decompressione. Con un cenno d'intesa, Momsen gli rivolse il tradizionale elogio in uso tra i marinai: «Ottimo lavoro, Sibitsky!». Peter Maas
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La camera di salvataggio fu approntata. Cole voleva che il primo a scendere fosse uno dei medici, ma Momsen, spalleggiato da McCann, lo dissuase, sostenendo che, se qualche elemento dell'equipaggio fosse stato in precarie condizioni, avrebbe potuto ricevere cure di gran lunga più appropriate in superficie, tanto più che l'incrociatore Brooklyn, frenato dalla nebbia notturna, era segnalato a meno di mezz'ora di distanza dal luogo dell'incidente. Quel che serviva, invece, era un rifornimento di coperte e di assorbente per l'anidride carbonica, torce elettriche, minestra calda, caffè e panini. Momsen aveva anche un'altra ragione per non far scendere un medico: questi sarebbe andato ad accrescere di una unità il numero delle persone da recuperare. Si era discusso a lungo sul numero di viaggi necessari a riportare in superficie i trentatré uomini divisi tra la camera di manovra e la camera di lancio prodiera e si era giunti alla conclusione che cinque viaggi sarebbero bastati: quattro con sette uomini ciascuno e l'ultimo con cinque. Alla fine, però, Momsen aveva deciso di provare a farcela in quattro viaggi. A Cole aveva spiegato che c'erano altri rischi di cui tener conto. Benché il tempo volgesse momentaneamente al bello, non si poteva esser certi che durasse, e ogni viaggio in più faceva crescere le probabilità di un incidente fatale, dovuto alla meccanica o a errore umano. Al primo viaggio, quindi, sarebbero stati recuperati sette uomini, per valutare il funzionamento della camera di salvataggio, e se questa avesse dimostrato di potercela fare, si sarebbe passati a otto nel viaggio successivo. Se tutto fosse andato per il verso giusto, poi, negli ultimi due viaggi sarebbero risaliti nove uomini per volta. «Sta a te decidere, Swede», disse Cole. E Momsen, come i fatti avrebbero dimostrato, non sarebbe potuto essere più lungimirante. Verso mezzogiorno, la camera di salvataggio fu messa in mare. Il giornalista Bob Trout disse, rivolto a milioni di ascoltatori: «Noi giornalisti, qui, non sappiamo neppure come chiamarla. Il nome ufficiale sarebbe "camera di salvataggio", ma è più simile a una grossa campana. Tutti, però, siamo consapevoli di stare per assistere a un evento storico». Momsen sovrintese alle operazioni di messa in mare con i due operatori all'interno. Per la prima volta, gli uomini intrappolati in un sommergibile Peter Maas
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affondato sarebbero stati riportati vivi in superficie, e da una profondità ritenuta fino ad allora irraggiungibile. Neppure la campana - alta poco più di tre metri e larga al massimo poco più di due - era mai scesa così in profondità durante le prove cui era stata sottoposta. Collegata alla Falcon da un cavo per il recupero, la campana galleggiava a sei o sette metri di distanza. Il suo compartimento inferiore non era ancora allagato; la cassa di zavorra e i quattordici bidoncini ausiliari si riempirono di quel tanto che bastava a garantirne la galleggiabilità positiva, lasciandone in vista solo la grigia parte superiore. Oltre al cavo che sarebbe stato utilizzato per recuperarla in caso di emergenza, la univano alla Falcon due tubi per l'aria e i cavi elettrici per il telefono e l'illuminazione interna. Due minuti dopo, uno degli operatori della camera di salvataggio, Walt Harmon, riferì a Momsen che lui e il suo compagno, John Mihalowski, erano nel compartimento superiore pronti all'immersione. «Scendete», ordinò allora Momsen. Harmon avviò il motore ad aria e la bobina cominciò a muovere il cavo di discesa che Sibitsky aveva attaccato allo Squalus. La camera scivolò sulla superficie dell'oceano per una quindicina di metri come un enorme scarafaggio marino. Dopo di che, quando la cassa di zavorra fu svuotata e il compartimento inferiore fu allagato, scomparve alla vista. Nella camera di manovra del sommergibile, Naquin ricevette dal Penacook un messaggio che riferiva dell'imminente arrivo della camera di salvataggio e chiedeva di scegliere sette uomini per il primo viaggio di risalita. Sul telefono interno, il comandante diede ordine a Nichols di scegliere i cinque in condizioni fisiche peggiori, da affiancare a Preble. «Il settimo sarai tu, John», aggiunse Naquin. «Voglio che ci sia un ufficiale, in superficie, per qualsiasi evenienza.» Naquin disse anche che lui e gli altri uomini presenti in camera di manovra sarebbero rimasti tranquilli finché il primo scaglione non fosse uscito dal sommergibile. Raggiungere la camera di lancio in quel momento sarebbe servito soltanto a creare sovraffollamento e confusione. Nichols, però, aveva una domanda da porre: nel corso della notte, dal Wandank, avevano chiesto di eliminare qualunque dato confidenziale relativo all'incidente, e lui non sapeva come regolarsi. Naquin gli disse di lasciar perdere. Trenta minuti dopo l'inizio della discesa, a 50 metri di profondità, la Peter Maas
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camera di salvataggio si fermò. Erano sorti problemi al tubo dell'aria che doveva ridurre la pressione in modo da mantenere la giusta galleggiabilità e l'acqua, all'interno, a un livello adeguato. Harmon continuò a tenere informati gli uomini in superficie sull'andamento della discesa, finché a un certo punto, sbirciando fuori dall'oblò, disse: «Sommergibile in vista». La camera di salvataggio si posò lentamente sul piatto collare d'acciaio che circondava il boccaporto di emergenza. La cassa di zavorra che circondava la camera fu riempita, mentre il compartimento inferiore fu svuotato. L'enorme forza dell'oceano sigillò al boccaporto la guarnizione di gomma che profilava il bordo inferiore della camera di salvataggio. «Operazione compiuta», disse Harmon, quando fu certo della tenuta stagna. Mihalowski aprì la botola che divideva i due compartimenti della camera e si calò in quello inferiore, contenente alcuni centimetri di acqua. Attaccò i quattro bulloni d'acciaio agli anelli circostanti il boccaporto del sommergibile che, infine, fu aperto. Dalla Falcon, Momsen lo sentì sbattere contro la parete della camera di salvataggio con un tonfo. Ma alla crescente agitazione subentrò d'improvviso un attimo di gelo. «Il boccaporto del sommergibile è aperto,» disse Harmon, «ma dall'interno non giungono segnali.» Nichols, infatti, aveva tenuto chiuso il boccaporto in fondo al cilindro metallico di fuga in attesa che un tubo di drenaggio risucchiasse l'acqua penetrata dal compartimento inferiore della camera. Fatto questo, il boccaporto inferiore fu aperto. Mihalowski guardò giù nella luce fioca. Riuscì a malapena a distinguere le facce pallide che lo scrutavano di rimando. Momsen, finalmente, udì Harmon pronunciare le parole magiche che attendeva. «Mihalowski li ha visti!» «Sentendo quelle parole,» avrebbe scritto in seguito, «ho provato un'emozione che non saprei descrivere.» Anche Mihalowski e gli uomini dello Squalus rimasero senza parole. Fu come se tutti fossero stati colpiti da un improvviso mutismo. «Be', eccoci», disse infine. «Ora vi passo della minestra, caffè e panini.» Bastò questo a rompere il ghiaccio. De Medeiros scherzò: «Come? Niente tovaglioli?». Mihalowski sentì un'altra voce: «Ehi, ragazzi, quanto ci avete messo?». Peter Maas
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Mihalowski rise. «Abbiamo trovato traffico», replicò. Oltre a Preble, per la prima risalita Nichols scelse Will Isaac, il cuoco, e Roland Blanchard, in servizio in cambusa al momento dell'immersione, cioè gli ultimi due uomini fuggiti dalla batteria di poppa; quindi Gerry McLees e Charlie Yuhas, che più degli altri sembravano patire il freddo; e, infine, Ted Jacobs, che dopo aver svolto nella notte il faticosissimo compito di martellare contro lo scafo continuava a vomitare. Mihalowski e Harmon li aiutarono a uno a uno a salire nel compartimento superiore della camera di salvataggio. Quando furono tutti seduti, Mihalowski calò nel sommergibile un tubo di ventilazione e diede aria alla camera di lancio prodiera. Dopo di che Harmon annunciò: «Il boccaporto del sommergibile è chiuso. Siamo pronti per la risalita». Momsen ordinò di scaricare 400 chili di zavorra per compensare il peso dei sette passeggeri aggiuntivi e mantenere la galleggiabilità positiva. «Zavorra scaricata», rispose Harmon. «Sganciatevi», disse Momsen. «Allagate il compartimento inferiore. Riempite d'aria la cassa di zavorra principale.» Quest'ultima operazione richiese quattordici minuti. «Ci stiamo staccando», informò Harmon. «Stiamo risalendo.» La camera di salvataggio si mosse lentamente verso la superficie, con il motore ad aria operante all'inverso. E mentre la bobina srotolava il cavo attaccato al cappuccio del boccaporto dello Squalus, il cavo di risalita veniva issato sulla Falcon. All'interno della camera di salvataggio, i sette sopravvissuti, sconvolti, erano praticamente senza parole. Nessuno di loro l'aveva mai vista da dentro. Dopo un po', Will Isaacs disse: «Ci stanno tirando su dalla Falcon?». «No», rispose Harmon. «Il motore che sentite aziona una bobina che ci fa scendere e risalire.» «Ah», fece Isaacs. Quando la camera di salvataggio era ormai prossima alla superficie, fu scorta dai corrispondenti delle radio e dei giornali, che si trovavano su una mezza dozzina di aerei in sorvolo sulla zona a bassa quota. A dieci metri dalla superficie, parve a un corrispondente del «Daily News» di New York come una «massa informe e verde». Finalmente, emerse tra le deboli onde, a non più di cinque metri dalla Falcon. Per mezzo di arpioni fu fatta accostare, dopo di che due marinai vi salirono in cima per aprire il Peter Maas
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boccaporto. Il tenente Nichols fu il primo a far capolino. Dalle navi circostanti si levarono grida di gioia. Nichols strizzò gli occhi abbagliato dalla luce del sole e, nel tentativo di uscire, inciampò, ma fu issato a bordo della Falcon dalle braccia protese di alcuni uomini. Il secondo a uscire fu Harold Preble. Giunto sul ponte della nave, scorse Momsen, con cui aveva discusso della precisione dei cronometri forniti alla sua unità subacquea sperimentale. Lo abbracciò idealmente con un enorme sorriso. La prima cosa che disse fu: «Swede, stai pur certo che ti procurerò subito dei nuovi cronometri». Quando anche gli altri furono a bordo della Falcon, il comandante Andrew McKee, un ufficiale dello staff di Cole che aveva partecipato ad alcuni dei primi esperimenti di Momsen, guardò quest'ultimo con grande stupore. «Ehi, Swede,» disse, «come fai a essere così tranquillo in un momento come questo?» In alcune pagine dedicate alla ricostruzione di questo frangente, Momsen scrisse: «Forse ho sbagliato mestiere. Non credevo di essere così bravo a recitare. Mi sforzai di mantenere la calma, ma quello fu certamente il momento più elettrizzante della mia vita. In quell'istante si condensavano undici anni di preparativi, passati a combattere lo scetticismo di molti e a cercare di prevedere tutti i possibili inconvenienti. Come sarei potuto essere calmo?». Quell'atmosfera festosa, però, si placò ben presto quando Nichols fornì l'elenco dei sicuri sopravvissuti. Quando i nomi furono trasmessi a Portsmouth e riferiti ai media, il comune sentire che aveva fino a quel momento legato le mogli dei sommergibilisti dello Squalus si infranse. Per molte ore si erano attaccate alla speranza che l'intero equipaggio fosse sopravvissuto. Poi, era giunta la notizia secondo cui, probabilmente, ventisei uomini - dati per dispersi non ce l'avevano fatta. E ora di quegli uomini si conosceva l'identità. In precedenza, quella mattina, Evelyn Powell, moglie dell'aiuto macchinista che nella notte aveva scritto le sue ultime volontà, aveva fatto irruzione negli uffici dell'amministrazione gridando: «Non ce la faccio più a sostenere questa attesa!». Le avevano detto di ripresentarsi di lì a un'ora: il tentativo di salvataggio era in corso. Presto avrebbero avuto notizie certe. Peter Maas
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Al suo ritorno, sentì che il nome del marito compariva nell'elenco dei sopravvissuti. Le lacrime presero a sgorgarle copiose sul viso. «Avevo quasi abbandonato ogni speranza», singhiozzò, in presenza di un gruppo di giornalisti. «È un'emozione meravigliosa.» Poco distante, Ellen Chestnutt, che aveva vagato a lungo nei paraggi della base prima di prestare ascolto a chi la supplicava di riposarsi, venne a sapere che il marito figurava tra i dispersi. «Non è possibile!», gridò. «Stanotte ho visto il corpo di John che galleggiava in mare. Ho tanto pregato che non fosse vero!» Nella confusione che regnava nella sede dell'amministrazione della base, il crudele gioco di chi era e di chi non era sopravvissuto si ripeté in presenza dei giornalisti che chiedevano informazioni al capitano di corvetta Curley. Le macchine da scrivere ticchettavano e i telefoni squillavano senza sosta. Mary Jane Pierce, fresca sposa dell'aiuto macchinista che, al momento dell'immersione, aveva notificato che il sommergibile era in pressione, non riusciva a contenere la propria gioia. «Tutte le volte che si è imbarcato per un viaggio,» esultò, «gli ho sempre detto che non ero preoccupata. È duro a morire.» Subito, però, si corresse: «Vi prego di non fraintendermi. È solo un modo di dire che abbiamo noi a Kansas City». Betty Patterson, che - secondo la descrizione del fratello - era prostrata dall'angoscia, restò rinchiusa nella casa paterna. I genitori del marito erano arrivati da Oklahoma City. Avevano saputo dell'incidente all'aeroporto di Chicago, in occasione di uno scalo. Il fratello di Betty riferì a un giornalista del «Boston Globe» che lei, almeno per il momento, non voleva credere alla morte del marito. La tragedia delle famiglie trovò subito eco nell'intera città di Portsmouth. Margaret Batick ci era nata e cresciuta. In preda a un pianto irrefrenabile, fu condotta all'ospedale cittadino. Altre donne, tra cui la moglie di Gene Hoffman, furono consolate dal cappellano della base. Stella Hathaway, magra e bionda, sposata da due anni con il macchinista di I classe John Hathaway, che era in servizio nella sala macchine anteriore con Hoffman, si rifiutava di pensare al peggio. Si aggrappò disperatamente a una dichiarazione di Curley: «Non possiamo affermare nulla di definitivo sulla sorte degli uomini che non compaiono nell'elenco dei sicuri sopravvissuti. Al momento, non disponiamo di informazioni certe». Peter Maas
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I giornalisti, ormai, avevano saputo di Lloyd Maness e di Sherman Shirley. Alcuni di loro rintracciarono la fidanzata di Shirley, che stava a casa dei genitori a Dover. Lei mostrò loro la fede matrimoniale che Maness le aveva lasciato in custodia. «Mi ha detto che qui sarebbe stata più al sicuro», riferì. «Ma finché non avrò la certezza che Sherman è morto, io non mi rassegno. È troppo bravo per finire così. Non posso e non voglio crederci.» Quando la radio cominciò a diramare le notizie, queste scene di angoscia e di gioia si ripeterono in tutta la nazione. Ci fu una sola eccezione. Per qualche ragione, nell'elenco dei sopravvissuti in possesso di Nichols non figurava il nome del marinaio di I classe Bill Boulton. A Brooklyn, sua moglie Rita ebbe un mancamento quando seppe che probabilmente era morto. Solo dopo cinque ore di strazio, le fu annunciato che era vivo. E, a quel punto, svenne di nuovo. Il tenente Nichols era l'unico degli uomini della camera di lancio prodiera che, durante la notte, non aveva avuto modo di chiudere occhio. La tensione della responsabilità per gli uomini rimasti sotto il mare, infine, ebbe il sopravvento, e quando la lancia Harriet Lane attraccò a Portsmouth con il primo gruppo di sopravvissuti, dovette essere sbarcato su una barella. Gli altri, scarmigliati e avvolti nelle coperte, scesero sulle loro gambe. Il primo a mettere piede a terra fu Charlie Yuhas. Prima che fosse caricato su un'autoambulanza, un giornalista fece in tempo a domandargli: «È contento di essere di nuovo sulla terraferma?». Yuhas lo guardò come se avesse a che fare con un deficiente e rispose: «Prova a indovinare».
15 Non appena la camera di salvataggio intraprese la sua prima ascesa, Naquin si preparò a sgomberare la camera di manovra. «C'è qualcuno che si sente troppo debole per farcela da solo?», domandò. Nessuno rispose. La successiva preoccupazione riguardava la quantità di acido cloridrico che poteva essersi accumulato nella batteria anteriore. A quell'ora, poteva Peter Maas
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aver raggiunto livelli letali. Di conseguenza, ordinò a tutti di indossare il polmone artificiale da usare come maschera antigas durante il trasferimento nella camera di lancio prodiera. In quest'ultima, il tenente di vascello Nichols aveva lasciato il comando a Gainor. Sul telefono interno, Naquin gli disse di far indossare il polmone artificiale anche agli otto uomini lì rimasti, finché il trasferimento non fosse stato completato. «Non aprire la porta finché non ci senti bussare», ordinò Naquin. Il sottotenente di vascello Robertson aprì il portellone che immetteva nella batteria anteriore. Naquin fu l'ultimo ad abbandonare la camera di manovra. Mentre gli uomini entravano nella camera di lancio, si fermò un istante, aprì la botola che portava alle batterie vere e proprie e scorse, grazie alla sua torcia elettrica, una nube giallo-verdastra che prese a turbinare verso di lui. Richiuse in fretta la botola e si rallegrò che quei fumi mortali non fossero fuoriusciti. Nella camera di lancio prodiera, i nuovi arrivati inalarono l'aria fresca introdotta mediante i tubi d'aerazione della camera di salvataggio. Malgrado questo, e nonostante la minestra e il caffè, il freddo tornò ad assalirli, costringendoli nuovamente a stringersi per riscaldarsi. Sulla Falcon, Momsen si rivolse a Cole dicendo: «Questa volta proveremo a portar su otto uomini. Vediamo che cosa succede». Poiché nel primo viaggio i due operatori della camera di salvataggio, Harmon e Mihalowski, erano entrambi membri dell'equipaggio della Falcon, Momsen sostituì Mihalowski con Bill Badders, il capo macchinista in seconda che faceva parte della sua squadra sperimentale di palombari, co-detentore del record di immersione. La Falcon informò gli uomini rimasti sullo Squalus che la seconda discesa era imminente. Poco dopo, a missione iniziata, si registrò il primo piccolo problema. Il dispositivo della bobina su cui scorreva il cavo di discesa non funzionava bene, e per risolvere il problema la camera di salvataggio dovette essere riportata in superficie. Bastarono pochi minuti per sistemare il dispositivo manualmente, e la discesa poté riprendere senza ulteriori incidenti. Poco dopo le tre del pomeriggio, Harmon riferì: «I bulloni sono fissati. Stiamo aprendo il boccaporto del sommergibile». Naquin attese che l'acqua contenuta nel compartimento inferiore della camera di salvataggio defluisse. Peter Maas
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Attraverso un piccolo oblò situato sul boccaporto inferiore, intravide la luce della torcia elettrica puntata verso di loro da Badders e, quindi, aprì. Aveva già deciso di mandare gli altri quattro uomini che erano riusciti a fuggire dalla batteria posteriore: Washburn, Boulton, Bland e O'Hara. Poiché notò che Gainor tossiva in modo preoccupante, chiamò anche lui. Quanto agli altri, la decisione sarebbe stata inevitabilmente arbitraria. Eppure l'equipaggio conservò un'incredibile disciplina. Nessuno cercò di attirare l'attenzione di Naquin, nessuno si fece avanti o accampò speciali motivazioni: rimasero tutti in silenzio, in attesa delle decisioni del comandante. Prima di chiudere il boccaporto del ponte, Badders immise nel compartimento altra aria fresca. «Non vi preoccupate, ragazzi», disse. «Torniamo subito.» Quando riemersero, Momsen si trovò a dover prendere una decisione inattesa e difficile. La camera di salvataggio galleggiava tra i flutti con tale fatica da lasciar supporre che gli otto uomini recuperati in quel secondo viaggio fossero il massimo che poteva trasportare in condizioni di sicurezza. Poiché nel sommergibile c'erano ancora diciotto uomini, sarebbe stato necessario compiere il quinto viaggio che Momsen sperava di evitare. Pur non essendoci nulla di particolarmente strano, l'istinto - che tanto in passato l'aveva sostenuto, nel suo procedere per tentativi ed errori - gli inviava segnali d'allarme di ogni tipo. Come a conferma del suo disagio, il cielo prese nuovamente a rannuvolarsi, il vento aumentò d'intensità, il tetro Atlantico settentrionale si ingrossava sempre di più. Molte erano le cose che potevano andar male in condizioni atmosferiche sfavorevoli. E se le ancore della Falcon avessero ripreso a vagare? Momsen non voleva neppure pensarci. Cionondimeno, si rassegnò all'inevitabile. Si rivolse a Cole e disse: «Ammiraglio, temo che alla fine dovremo fare cinque viaggi». Reso euforico dall'iniziale successo della camera di salvataggio, Cole ne fu minimamente turbato. «Nutro nei tuoi confronti tutta la fiducia possibile, Charles.» Momsen lasciò Badders nella camera di salvataggio per la terza missione e sostituì Harmon con Mihalowski. «Fate salire otto uomini», disse loro. «Non di più.» Sorsero ulteriori problemi con il solito dispositivo della bobina, ma ben Peter Maas
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presto la camera di salvataggio scomparve sotto la superficie. Il resto della discesa proseguì normalmente. Perfezionata la congiunzione al boccaporto, Badders informò che gli uomini dello Squalus stavano per prendere posto nella camera. In quell'istante, nella parte anteriore della Falcon, il capitano di corvetta Roy Sackett ebbe un attimo di incredulità. Membro dello staff di Cole, Sackett si era appena allontanato da lui e da Momsen per sovrintendere alla distribuzione di coperte e caffè al secondo gruppo di sopravvissuti, prima del loro ritorno a Portsmouth. Aveva l'impressione che i conti non tornassero. All'improvviso capì di che cosa si trattava. Correndo a poppa, gridò: «Momsen, c'è stato un errore nel conteggio! Nell'ultimo viaggio le persone recuperate erano nove, non otto!». Pur reagendo con un sorriso soddisfatto, Momsen non poté dilungarsi ad apprezzare il significato della scoperta di Sackett. Subito, un unico pensiero si impadronì di lui. Si mise immediatamente in contatto con Badders. «Contrordine! Recuperare nove uomini - ripeto, nove uomini invece di otto. Dite al capitano di scegliere i più leggeri.» E poco dopo i nove uomini sbucarono in superficie. Tra essi Roy Campbell, Lenny de Medeiros e Al Prien. Una volta a bordo, la difficile prova che avevano affrontato risultò evidente dalle loro facce stravolte, dalle barbe incolte, dagli occhi cerchiati di rosso. Erano intirizziti fin nelle ossa e così stanchi da non riuscire a proferir parola. A Momsen, però, fecero un'impressione fantastica. Toccò all'aiuto macchinista Gavin Coyne dare un'idea delle loro condizioni. Uscendo dalla camera di salvataggio, Coyne tentò di mantenersi in equilibrio, barcollò per un secondo e ricadde all'interno. Due marinai della Falcon si chinarono e, afferratolo, lo aiutarono a uscirne. Coyne inspirò a pieni polmoni l'aria dell'oceano e avrebbe ricordato per sempre il bruciore provato alla gola. La testa gli girava, e la schiena e i muscoli delle gambe gli dolevano mentre lo trasportavano sulla nave che lo avrebbe condotto a terra. Qualcuno gli domandò quale fosse il suo nome, ma lui non fu in grado di rispondere. Dei trentatré uomini barricatisi nei compartimenti anteriori, rimanevano sullo Squalus soltanto Naquin, Doyle e sei marinai. Per il loro recupero Momsen scelse Jim McDonald - il palombaro da cui si era fatto accompagnare nel viaggio fino a Portsmouth - e Mihalowski. Persino il recalcitrante dispositivo della bobina, che aveva creato a Peter Maas
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Momsen qualche preoccupazione, funzionò alla perfezione, e la camera di salvataggio scivolò così sotto la superficie per il quarto e ultimo viaggio di quella lunga giornata. In media, ogni discesa aveva richiesto un'ora. Altri quarantacinque minuti trascorrevano con la camera di salvataggio attaccata allo Squalus. Le risalite avevano richiesto meno tempo - più o meno mezz'ora ciascuna - dato che il movimento era da una pressione maggiore a una minore. Sulla base di questi calcoli, Momsen determinò che tutto si sarebbe concluso entro le nove di quella sera. Non si poteva dire che fosse troppo presto. Stava già facendo buio. Il mare dava segno di voler riprendere impeto. Sul ponte della Falcon cominciavano a cadere grosse gocce di pioggia. Giunti a Portsmouth, i sopravvissuti del secondo gruppo furono trasportati all'ospedale della base. Si scoprì che il nome del marinaio Bill Boulton non faceva parte dell'elenco dei sopravvissuti fornito da Naquin. Il fatto che Boulton, ritenuto disperso e, presumibilmente morto, fosse invece vivo riscosse le donne i cui uomini figuravano tra i dispersi e ravvivò in loro le speranze. Se c'era stato un errore, potevano benissimo essercene stati altri. Mabel Gainor, invece, che fino a quel momento si era sentita istintivamente sicura del fatto che il marito fosse salvo, fu assalita da una tormentosa incertezza. Era sulla banchina in attesa, Mabel, quando attraccò la lancia che avrebbe dovuto riportarlo a Portsmouth, ma tra gli uomini che scendevano a terra non lo vide. «Dov'è?», gridò. «Dov'è mio marito?» Finalmente, lo scorse. Gainor, particolarmente provato per via della sua eroica discesa nel vano della batteria anteriore, veniva portato verso di lei su una barella. Il timore che vi fosse un errore indusse Elizabeth Ward, moglie del telegrafista Marion Ward, a non allontanarsi un solo istante dall'edificio dell'amministrazione. Si sforzava di controllare le sue emozioni, pur senza smettere di tormentare, la fede che portava al dito. Quando giunse notizia che la quarta e ultima missione della camera di salvataggio era in corso, la sua consolazione principale consisteva nel fatto che la normale postazione del marito si trovava nella parte anteriore del sommergibile. E aveva ragione. Sennonché, in quella particolare immersione di prova, Ward era stato distaccato nella sala macchine a Peter Maas
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poppa per contribuire alla registrazione dei dati relativi alla prestazione. La giovane sposa dell'aiuto macchinista di II classe Elvin Deal anch'egli in servizio nella sala macchine a poppa - avvicinava in lacrime ufficiali e giornalisti rivolgendo loro sempre la stessa domanda: «È vero che hanno sentito nuovi colpi sullo scafo?». E aggiungeva: «Mio Dio! Come vorrei sentir dire che è vivo!». Nessuno sapeva più cosa dire. Bob Trout, nel servizio serale, così descrisse l'atmosfera: «Qui, al quartier generale delle operazioni di soccorso, nell'edificio amministrativo della base, le macchine per scrivere che hanno furiosamente ticchettato per una notte e un giorno, vengono ora a malapena sfiorate. Solo ora gli ufficiali della marina possono rilassarsi sulle sedie girevoli e i malconci reporter hanno il tempo di pensare a radersi e a cambiarsi la camicia. Per molti di loro, la vicenda sembra conclusa, la corsa contro il tempo appare vinta. Coloro che non ce l'hanno fatta sono morti ieri mattina, al momento dell'incidente. I sopravvissuti, invece, sono già stati o stanno per essere riportati in superficie - a quanto si dice - grazie alla campana subacquea». L'ultima edizione del «Boston Evening American» titolò: «CAMPANA DI SALVATAGGIO» EVACUA I SOPRAVVISSUTI DAL SOMMERGIBILE Per tutto il giorno, Frances Naquin affiancò il cappellano della base nel prestare sostegno alle mogli, alle fidanzate e ai parenti disperati, riuniti nell'edificio del1'amministrazione. La sera, però, rientrò a casa presto per dare un'occhiata ai bambini. «Papà sarà presto a casa», disse loro. Quindi, andò a casa di amici per cena, in attesa di raggiungere la base per accogliere il marito al suo arrivo. L'umore, a quella cena, era assai festoso. Ricevette i complimenti per le capacità di comando del marito e per l'ammirevole condotta da lei tenuta in quei lunghi momenti di terrore. Il padrone di casa fu chiamato al telefono. Frances Naquin aveva lasciato il numero di quell'abitazione al capitano di corvetta Curley; e pensò che, forse, stavano cercando lei, ma si sbagliava. Ci fu una seconda telefonata, e poi una terza. A poco a poco si rese conto che la conversazione tendeva a evitare l'argomento dello Squalus. Per un po' fece finta di nulla. Infine, incapace di trattenersi, domandò: «C'è qualcosa che Peter Maas
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non va? Di che si tratta?». «Mi dispiace, Frances,» rispose il padrone di casa, «ma sembra che la campana si sia impigliata da qualche parte. Sono certo, però, che Oliver se la caverà. Stanno facendo tutto il possibile per riportarli in superficie.» Sul ponte della Falcon, alla luce dei riflettori, sotto il cielo senza luna dell'Atlantico settentrionale, Momsen si accingeva ad affrontare un imprevisto tanto più maligno per il fatto di essersi verificato proprio quando tutto sembrava procedere per il meglio e l'oceano pareva aver restituito quelle che fino a quel giorno aveva reclamato come vittime sacrificali. La quarta discesa della camera di salvataggio era stata, fino a quel momento, la meno problematica di tutte. Dopo un'ora esatta da che aveva lasciato la superficie, Jim McDonald aveva riferito che il boccaporto del sommergibile era stato aperto per evacuare gli ultimi sopravvissuti. I sommergibilisti avevano preso rapidamente posto nella campana, e Naquin, in quanto ufficiale in comando, era stato l'ultimo a lasciare lo Squalus. Il suo orologio segnava le otto meno nove minuti. Quindi, con un velo di tristezza nella voce, aveva annunciato: «Abbiamo abbandonato il sommergibile». Venti minuti dopo, con lo svuotamento della zavorra principale, la camera di salvataggio si era staccata e aveva cominciato a risalire. Fu a una profondità di poco superiore ai 50 metri che si verificò l'intoppo. La camera di salvataggio si fermò. Al telefono, McDonald disse a Momsen: «Il cavo si è incastrato nella bobina». Prima che Momsen potesse rispondere, McDonald riferì altre brutte notizie. A seguito dello sforzo imprevisto, il motore ad aria preposto al funzionamento della bobina si era spento. McDonald e Mihalowski tentarono disperatamente di farlo ripartire, ma senza successo. «Aumentate la galleggiabilità e tenete il freno tirato», suggerì Momsen. Il freno veniva normalmente utilizzato per controllare il movimento di risalita della camera di salvataggio in prossimità della superficie. Aumentando la galleggiabilità e tenendo, al contempo, il freno tirato, era forse possibile sbrogliare il cavo, e per un attimo parve che ci fossero riusciti, ma compiuto un altro breve tratto, la camera si arrestò di nuovo. «Siamo di nuovo bloccati», disse McDonald con voce piana e priva di emozione. Peter Maas
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Momsen fece un ultimo tentativo per ripristinare la bobina. Un secondo cavo, detto «cavo di recupero», univa la parte superiore della camera di salvataggio a un argano situato sulla Falcon. «Astenetevi da qualunque manovra», disse a McDonald. «Vi tiriamo su con il cavo di recupero.» Ma neppure questa soluzione ebbe fortuna. Alcune spire del cavo di discesa sospinsero il cavo di recupero sul lato opposto della bobina, creando un groviglio inestricabile. Era inutile perdere altro tempo: il cavo di discesa, irrimediabilmente attorcigliato, dovette essere sganciato dallo Squalus. Per ottenere un po' di gioco, Momsen ordinò a McDonald di allagare la zavorra principale. Al contempo, fece mollare il cavo di recupero. La camera di salvataggio, lentamente, riprese a scendere. Quando fu giunta a una profondità di 70 metri, Momsen diede istruzione a McDonald di tenerla ferma lì. Per completare l'opera, a quel punto, sarebbe occorso l'intervento di un palombaro, e Momsen scelse il capo torpediniere Walter Squire, un omone fortissimo, di circa un quintale. Erano passate da poco le nove, quando Squire si tuffò. Si calò lungo la stessa gomena utilizzata al mattino da Sibitsky. E si trovò davanti una scena di una stranezza inquietante. Posandosi sul sommergibile, vide la luce proveniente dall'interno della camera di salvataggio. Fu allora che la circostanza fortuita per cui il Penacook aveva agganciato lo Squalus proprio nei pressi del boccaporto di fuga si rivelò massimamente utile. Guidato da una piccola luce a batteria montata sul suo casco, si chinò per sbrigare il lavoro. Cercò di sganciare il cavo dall'anello del boccaporto, ma non ci riuscì. Riprovò, ma inutilmente. Momsen percepiva il suo respiro affannoso. «Non riesco a sganciare il cavo», ansimò Squire. «È troppo teso.» «Resta dove sei», gli disse Momsen. «Ti mandiamo giù delle cesoie.» Armato di un paio di grosse lame, Squire cercò a tentoni il cavo. Per resistere alla narcosi da azoto, continuava a ripetere: «Devo tagliare il cavo». In superficie, Momsen lo sentiva rantolare per lo sforzo. «Devo tagliare il cavo», diceva Squire tra sé. I secondi passavano, ma a un certo momento, con le forze che cominciavano a svanire, il palombaro ebbe ragione del cavo. «Ce l'ho fatta. L'ho tagliato», esultò. «Benissimo», rispose Momsen. «Ti riportiamo in superficie.» Quando si staccò dallo scafo, Squire vide la camera di salvataggio oscillare, finalmente disincagliata, e sfiorare un lato della torretta. Peter Maas
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Sulla Falcon, Momsen si concesse il primo sospiro di sollievo da quando la bobina si era bloccata. Ora che la camera di salvataggio era nuovamente libera di muoversi, poteva essere riportata in superficie con l'argano del cavo di recupero. All'interno della camera, McDonald registrava ad alta voce i loro progressi: «Settanta metri. Procediamo regolarmente». La risalita proseguì alla costante velocità di un metro e mezzo al minuto. Sulla Falcon, erano tutti intenti a osservare il cavo che riemergeva riavvolgendosi. A un tratto, sotto i loro sguardi inorriditi, alcune fibre d'acciaio del cavo cominciarono ad allentarsi. In qualche punto, evidentemente, si erano spezzate. Momsen restò ammutolito. Non sapeva che, poiché il cavo originale si era rivelato troppo corto, quello impiegato al momento era stato ottenuto giungendo diversi pezzi. Avrebbe dovuto tenere, ma i morsetti utilizzati per la giuntura dovevano essere leggermente scivolati, creando una trazione ineguale sulle diverse fibre. Considerando la tensione a cui erano sottoposte, pensò Momsen, sotto la superficie dovevano essere esplose come fuochi d'artificio. Non appena vide il cavo allentarsi, diede ordine di fermare l'argano. Si era preparato all'eventualità di un qualche intoppo, ma non aveva previsto la possibilità di una lunga serie di inconvenienti in rapida successione. Tuttavia, non c'era tempo per rammaricarsene. McDonald aveva fermato la camera di salvataggio a 65 metri. Per salvare le fibre del cavo che ancora tenevano, Momsen gli ordinò di allagare la cassa di zavorra principale. La camera di salvataggio riprese a muoversi lentamente verso il fondo. «A che profondità siete?», domandò Momsen. «L'indicatore segna 77 metri», rispose McDonald. Momsen e Alien McCann trovarono un pieno e immediato accordo sulla successiva mossa da compiere: un palombaro sarebbe dovuto scendere per fissare alla camera di salvataggio un nuovo cavo di recupero. Erano ormai le nove e mezza, e gli ultimi otto sopravvissuti del disastro dello Squalus, invece di essere su una barca, pronti per tornare a Portsmouth, erano di nuovo al punto di partenza, sul fondo dell'oceano. Sedevano in cerchio sui bidoncini di zavorra ausiliari. Oltre ai due ufficiali, Naquin e Doyle, c'erano Charles Kuney, che sullo Squalus presidiava il telefono della camera di manovra, e Alien Bryson, il Peter Maas
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telefonista della batteria anteriore, che non avrebbero mai più dimenticato le voci di quelli che dai compartimenti di poppa avevano supplicato di riemergere. Accanto a loro, Donny Persico, il marinaio che per poco non era rimasto schiacciato dal finto siluro sfuggito al controllo durante l'incidente, e Carol Pierce, che aveva vanamente insufflato centinaia e centinaia di chilogrammi di aria pressurizzata nelle casse di zavorra. Completavano il gruppo Gene Cravens, che, nell'attesa sul fondo del mare, aveva lanciato i razzi di segnalazione, e Charles Powell, il telegrafista che Naquin aveva tenuto con sé fino alla fine, nell'eventualità che risultasse necessario, tra un viaggio della camera di salvataggio e l'altro, trasmettere ulteriori messaggi con il martello dall'interno dello scafo. Non stavano correndo un pericolo fisico immediato. La camera di salvataggio non era riscaldata, e il freddo continuava ad attanagliarli. Però avevano la luce e un ricambio continuo dell'aria; inoltre, le comunicazioni con la Falcon erano ottime. Mancava persino qualsiasi traccia di stress psicologico. Durante l'iniziale ascesa e, poi, nel corso dei tentativi di rimettere a posto la bobina impigliata, erano rimasti tutti in silenzio. Ora, mentre attendevano di essere recuperati dal fondo del mare, parve a Momsen di cogliere scambi di battute di spirito. Quando la camera di salvataggio, liberata dal cavo di discesa, andò a sbattere contro la torretta del sommergibile, McDonald disse: «Ehi, sembra Ripley Believe It or Not: una collisione tra una camera di salvataggio e la torretta di un sommergibile a più di settanta metri di profondità è proprio roba da non credere!». Mihalowski divise un paio di tavolette di cioccolato e le distribuì. «Non ce l'avresti una bistecca?», domandò Kuney. «Quella ti aspetta in superficie. Riferisco subito l'ordinazione. Come la vuoi?» «Ben cotta.» «Per me, al sangue», disse Pierce. «Ben detto», concluse McDonald e, con grande stupore di Momsen, diresse il coro in un'interpretazione di Old MacDonald Had a Farm.
*** Quando Squire fu tornato a bordo, un altro palombaro, il torpediniere di Peter Maas
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I classe Jesse Duncan, gli diede il cambio, calandosi nel mare nero per andare ad agganciare un altro cavo di recupero. Mentre seguiva nella sua discesa il cavo sfilacciato, incorse in un grave problema. Giunto praticamente a destinazione, non poté evitare che il nuovo cavo si intrecciasse a quello della camera di salvataggio. Per districarli dovette fare appello a tutte le energie di cui disponeva, ma a ogni tentativo il cavo che lui stringeva nella mano destra lo tirava bruscamente verso l'alto. Gli pareva di avere il braccio completamente paralizzato. «Ho un problema», comunicò Duncan. Stava esalando più anidride carbonica - "fumo", nel gergo dei palombari - di quanta il sistema di aerazione del suo casco potesse ricambiarne. «Continua a parlare», gli disse Momsen con calma. «Io... Io... non...», bofonchiò. Non era in grado di connettere, e svenne. Dovette essere issato in superficie, e alla svelta. Fu portato di corsa nella camera di decompressione della Falcon, dove sarebbe stato sottoposto alla medesima pressione esistente alla profondità a cui aveva subito l'incidente e poi riportato, per gradi e lentamente, alla pressione normale. Prima, però, riuscì a riportare notizie da far rizzare i capelli. Il guasto del cavo era peggiore di quanto avessero immaginato, dato che ne restava intatta una sola fibra d'acciaio, delle dimensioni di una normale corda. La decisione di inviare là sotto un altro palombaro, con il rischio che facesse la stessa fine, era delle più drammatiche, ma le condizioni del cavo di recupero lo rendevano indispensabile. «Non possiamo far altro che rischiare», disse Momsen a Cole. Incaricato della missione fu il metallurgico di I classe Ed Clayton. Per accrescere le sue possibilità di successo, Momsen diede ordine che, separatamente, venisse calata in profondità anche una lampada subacquea da mille watt. Durante la discesa di Clayton, però, la lampada si impigliò nella parte sfilacciata del vecchio cavo di recupero. Clayton continuò ugualmente la sua discesa finché non raggiunse la parte superiore della camera di salvataggio. Più volte tentò di agganciare il nuovo cavo. Dagli oblò della camera filtrava della luce, ma non abbastanza da consentirgli di vedere quel che stava facendo. Tuttavia, fornendo una straordinaria prova di determinazione, Clayton non volle darsi per vinto. Squire, da parte sua, per tagliare il cavo di discesa, aveva armeggiato sul fondo del mare per otto minuti, mentre per tentare di eseguire l'operazione in cui ora anche Clayton era impegnato erano stati Peter Maas
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spesi altri quindici minuti. Infine, trascorsi trentatré minuti, anche i cavi di Clayton si ingarbugliarono. Le sue mani, guantate di tela gommata, erano così fredde da aver perso qualsiasi sensibilità. Il terrore si manifestò nella sua voce con crescente evidenza. Parlava a scatti. Momsen si rese conto che Clayton stava perdendo i sensi. «Ti tiriamo su», disse. Per Momsen, mandare in immersione un terzo palombaro era fuori discussione. Erano già capitati due gravi incidenti consecutivi con palombari di rara perizia per tentare di agganciare quel cavo. Se non ce l'avevano fatta loro, non ci sarebbe riuscito nessuno. Eppure, in qualche modo, gli uomini chiusi laggiù dovevano essere salvati. E non c'era tempo da perdere. Anche la loro capacità di mantenere i nervi saldi aveva un limite. Le condizioni atmosferiche e del mare, d'altra parte, pur non peggiorando, non accennavano a migliorare. Dopo aver esaminato la difficile situazione con Cole e McCann, Momsen si risolse ad adottare una strategia rischiosa, da ultima spiaggia. «E' un azzardo, ma non abbiamo scelta», disse a Cole. Il piano che presentò faceva tremare i polsi. Per recuperare la camera di salvataggio non potevano più utilizzare l'argano della Falcon. Un'onda improvvisa capace, nonostante il quintuplice ancoraggio, di indurre nella nave un rollio, avrebbe certamente spezzato quell'unico filo che la teneva agganciata alla camera di salvataggio. La rottura del cavo telefonico legato alla boa era un ricordo ancora fresco nella loro memoria. Se fosse capitato di nuovo, per quegli uomini in fondo al mare sarebbe stata la fine. Momsen, allora, per scongiurare una simile eventualità, avrebbe dato disposizioni agli operatori della camera di salvataggio di scaricare zavorra per attestarsi a un livello di galleggiabilità poco meno che neutro. In tal modo, la trazione esercitata sul cavo sfilacciato sarebbe stata ridotta al minimo, ma sarebbe risultata sufficiente a riportare la camera di salvataggio in superficie. La differenza consisteva nel fatto che l'operazione di sollevamento doveva essere compiuta da mani sensibili a ogni più piccolo movimento della Falcon. Ed estremamente reattive, per giunta. Ottenuto l'assenso di Cole, Momsen si mise in comunicazione con McDonald. Gli spiegò il piano e gli disse: «Non appena ti darò il via, dovrai scaricare zavorra finché non ti dirò di fermarti. Se la galleggiabilità Peter Maas
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tende a diventare positiva, avvertimi immediatamente». Le loro speranze erano letteralmente appese a un filo. Dieci uomini afferrarono il cavo, Momsen a guidare la fila, con McCann subito alle spalle. La folla di ufficiali e marinai raccolta sul lato destro della Falcon osservava col fiato sospeso. Sull'incrociatore Brooklyn e su altre navi della flotta di salvataggio i binocoli andavano a ruba. A mezzanotte in punto, Momsen portò in tensione il cavo di recupero e ordinò a McDonald di immettere aria nelle casse di zavorra per quindici secondi. La camera di salvataggio non rispose alle sollecitazioni. Momsen ordinò di continuare a immettere aria per altri quindici secondi. Ma non ottennero alcun risultato. Sul ponte della Falcon regnava il silenzio più assoluto, rotto soltanto dalla voce di Momsen. L'unico elemento su cui potesse orientarsi era la tensione del cavo che teneva tra le mani. Se avesse sbagliato i suoi calcoli facendo scaricare troppa zavorra alla camera di salvataggio, questa sarebbe partita verso l'alto per finire, con tutta probabilità, a sfracellarsi contro lo scafo della Falcon. Se ne avesse fatta scaricare troppo poca, l'unico filo che teneva legata la camera di salvataggio alla Falcon si sarebbe spezzato, rispedendola in malo modo a fondo, priva anche dei fragili tubi di aerazione. Gli uomini all'interno sarebbero stati spacciati. Per la terza volta, Momsen ripeté a McDonald: «Immetti aria nelle casse di zavorra per altri quindici secondi». Era consapevole di muoversi pericolosamente sul filo della galleggiabilità positiva, ma quando diede ordine di provare a tirare il cavo, la camera di salvataggio non si mosse. Se avesse ordinato di soffiare aria per altri quindici secondi, le casse di zavorra si sarebbero praticamente svuotate a metà. Ciononostante diede l'ordine. Trascorsi questi ultimi quindici secondi, la tensione del cavo parve allentarsi. Al comando di Momsen, il gruppo di uomini che doveva tirare il cavo fece uno sforzo supremo. Il cavo risalì, infine, di un breve tratto all'interno del parapetto. La camera di salvataggio si era finalmente staccata dal fondo. Un minuto dopo era risalita di più di un metro e ora fluttuava sospesa a 76 metri di profondità. Il silenzio, all'interno della camera, era interrotto soltanto dalle risposte di McDonald agli ordini di Momsen, a cui faceva seguito il rumore dell'aria immessa nelle casse di zavorra. McDonald e Mihalowski - che aveva ormai abbandonato il suo abituale sorriso - operavano con rapidità e Peter Maas
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con perfetto sincronismo, in quello spazio angusto, per azionare le leve da cui dipendeva la galleggiabilità, oltre che la loro sorte. Trascorsi quattro minuti, McDonald comunicò: «L'indicatore di profondità segna 67 metri». «Com'è la galleggiabilità?», domandò Momsen. «Non so perché, siamo un po' pesanti», rispose McDonald. Momsen ordinò di svuotare le casse di zavorra per altri dieci secondi. In superficie, le onde erano alte poco meno di due metri. Gli uomini addetti alla trazione del cavo accompagnavano il movimento della Falcon, mollando un po' quando saliva e tirando quando scendeva. Un metro alla volta, la camera continuò a risalire. Sul ponte della nave il freddo era pungente, ma quanto più il cavo risaliva tanto più Momsen si sentiva colare il sudore lungo la schiena. A un tratto, arrivò un'onda più violenta del solito. Una vedetta riuscì a scorgerla appena in tempo. Se la camera di salvataggio fosse stata collegata all'argano, non ci sarebbe più stato nulla da fare. «Siamo a 26 metri dalla superficie», riferì McDonald. Infine, giunse il momento che Momsen aveva tanto atteso. Dall'oceano spuntò il tratto del cavo in cui si era verificato il cedimento, con le gocce d'acqua che ne colavano illuminate dai riflettori della Falcon. Osservò quel tratto di cavo risalire poco a poco verso di lui. Squire aveva visto bene: una sola fibra di quel cavo aveva tenuto. La tentazione di imprimere uno strattone, per farla finita, era quasi irresistibile. In ultimo, un marinaio riuscì ad afferrare saldamente il cavo al di sotto del punto danneggiato. Il resto fu semplice. Recuperarono agilmente il resto del cavo e videro spuntare tra i flutti la camera di salvataggio proprio accanto alla Falcon. Il lungo viaggio verso casa era felicemente terminato. Era il 25 maggio, ore 0,38. Erano passate all'incirca trentanove ore dall'inizio dell'immersione di prova dello Squalus. L'ultimo dei sopravvissuti a uscire dalla camera di salvataggio fu Naquin. Momsen osservò da vicino mentre altri lo aiutavano a scendere sul ponte della Falcon. «Benvenuto a bordo, Oliver», disse Momsen, al colmo della gioia. «Non puoi immaginare quanto sia felice di essere a bordo», replicò Naquin, stringendogli la mano. L'ammiraglio Cole prese da parte Momsen e con voce rotta dalla commozione gli disse: «Swede, se ti dicessi che hai fatto uno splendido Peter Maas
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lavoro non esprimerei che una minima parte dell'ammirazione che provo per te in questo momento». A Portsmouth, Hanson W. Baldwin, inviato del «New York Times», inviò il suo pezzo per l'ultima edizione. Baldwin, anch'egli laureato ad Annapolis, scrisse: «L'uomo, questa notte, ha vinto una grande sfida con il mare».
16 Pareva improbabile che qualcuno fosse sopravvissuto nei compartimenti di poppa dello Squalus. Naquin aveva ribadito all'ammiraglio Cole la propria convinzione che quei compartimenti fossero completamente allagati, con l'unica possibile eccezione della camera di lancio poppiera, e che tutti i tentativi di stabilire un contatto con gli uomini che vi erano rimasti intrappolati non avevano avuto esito. Tuttavia, per fugare ogni dubbio, un tentativo andava fatto. Quando il capitano William Amsden, che faceva le veci di Cole a Portsmouth, annunciò che dopo il completamento della quarta missione con la camera di salvataggio, le operazioni di soccorso erano sospese fino al mattino, si levarono immediatamente le grida di protesta delle mogli e dei parenti dei dispersi. Amsden negò in tutta fretta che ciò costituisse un'ammissione della perdita di ogni speranza in merito alla loro sorte. Dopo aver discusso con Momsen, Cole inviò un dispaccio a Portsmouth: «Riprenderemo le operazioni di soccorso sulla parte posteriore dello Squalus». Alla camera di salvataggio erano stati applicati, nottetempo, nuovi cavi di discesa e di recupero. Dopodiché la Falcon dovette mollare gli ormeggi per posizionarsi sopra la camera di lancio poppiera del sommergibile. Questa volta, però, il vento soffiava piano; splendeva il sole; e la superficie dell'oceano era liscia, come di vetro. Momsen non aveva ancora impiegato neppure un ufficiale come palombaro o come operatore della camera di salvataggio, perché intendeva dimostrare che anche i marinai semplici erano perfettamente in grado di svolgere quel lavoro. La procedura da seguire, però, in questo caso sarebbe stata diversa. L'operazione era oltremodo pericolosa, benché doverosa, ma non si aveva certezza che vi fosse ancora qualcuno da salvare. Per questa ragione, che si trattasse di ufficiali o meno, avrebbe accettato solo Peter Maas
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volontari. Il primo passo consisteva nello spostamento del cavo di discesa per i palombari a poppa del sommergibile, per potervi collegare il nuovo cavo di discesa della camera di salvataggio. Il tenente di vascello Julian Morrison, che guidava la squadra di palombari della Falcon, era atteso da una lunga e faticosa immersione. Morrison era uno degli uomini più stimati da Momsen, che lo aveva soprannominato «Joe Boats», per il modo con cui si gettava in mare. Morrison iniziò la sua missione nel primo pomeriggio. Impiegò tre minuti per giungere sul ponte dello Squalus. Recise la grossa fune penzolante dal lato sinistro del parapetto, se la avvolse facendo diversi giri intorno al polso e si diresse verso la parte posteriore. Superando la torretta, riferì che in quel mondo silenzioso la visibilità era ottima, superiore - forse - ai quindici metri. La sua voce risuonava chiara e tranquilla, nonostante i 50 chilogrammi di pressione per pollice quadrato a cui era sottoposto. Informò Momsen di aver localizzato il boccaporto della camera di lancio poppiera. Osservò anche che la boa di segnalazione, su quel lato, era ancora al suo posto. Tornò verso la parte anteriore del sommergibile per cinque metri circa, allo scopo di legare il cavo di discesa al parapetto. Tutto era filato così liscio che Momsen meditava, per evitare un'altra immersione, di mandar giù subito a Morrison il cavo di discesa della camera di salvataggio affinché lo agganciasse al sommergibile. Ben presto, però, gli effetti della pressione cominciarono a superare la soglia di tolleranza del giovane ufficiale. Convinto, a un certo punto, di essere intento ad assicurare il cavo allo Squalus, si rese improvvisamente conto di stare semplicemente agitando le braccia su e giù, senza costrutto. Si riscosse con un grande sforzo di volontà e si mise a fare - così almeno credeva - due nodi a mezzo collo. «Ho fissato il cavo», disse. Dopodiché, ebbe un momentaneo mancamento. Quando rinvenne, si meravigliò nel vedere, invece dei due nodi a mezzo collo che credeva di aver fatto, il cavo arrotolato più volte intorno al parapetto e terminante in una serie di nodi parlati semplici chiusi dai due nodi a mezzo collo a cui credeva di essersi limitato. Mentre si interrogava su questa stranezza, sentì Momsen che diceva: «Joe Boats, preparati a risalire. Ti stiamo riportando in superficie». Purtroppo, però, prima di aggrapparsi, per farsi tirare su, al cavo lungo il Peter Maas
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quale era disceso, dato lo stato confusionale in cui si trovava, si era infilato sotto il parapetto. «Sei impigliato», gli comunicò con concitazione Momsen. «Torna sul sommergibile.» Morrison, in qualche modo, aveva capito qual era il problema, ripassò in senso opposto sotto il parapetto e - come avrebbe in seguito dichiarato a un aiutante della Falcon - si ricordò «a malapena» di risalire. Il seguente tentativo di agganciare il cavo di discesa fu un totale insuccesso. Un sottufficiale, il mitragliere William Baron, raggiunse lo Squalus, ma quando Momsen cercò di mettersi in comunicazione con lui non ebbe risposta. Fu immediatamente riportato in superficie. Chi conosce la sensazione che si prova su un aereo in fase di atterraggio, se gli orecchi non riescono ad adattarsi al cambiamento di pressione, ha forse una vaga idea di quale atroce dolore deve aver patito Baron, a una pressione otto volte superiore al normale. Il terzo tentativo, operato dall'aiuto nostromo di I classe James Baker, lasciò tutti con i nervi a pezzi. Si posò sullo Squalus e, dopo essersi orientato, informò di essere pronto a ricevere il cavo da agganciare. Non appena ebbe afferrato la maniglia, si diresse a poppa. Baker, però, non si accorse che il cavo da agganciare si era attorcigliato, in prossimità del parapetto, alla fune lungo la quale era sceso, e la maniglia gli sfuggì dalle mani. Provò a recuperarla, ma quando raggiunse la fune di discesa, la maniglia era scomparsa. Come già aveva fatto con Sibitsky il giorno prima, Momsen rassicurò il palombaro: «Non ti preoccupare, ti rimandiamo subito il cavo. Accertati che non ci siano impedimenti sul boccaporto». La seconda volta, Baker fece molta attenzione a non far girare il cavo intorno alla fune di discesa e lo portò fino all'anello situato al centro del boccaporto della camera di lancio. A quel punto, però, sorsero nuovi imprevisti. Praticamente sdraiato a pancia in giù sul sommergibile, ebbe a un tratto l'impressione che il dente della maniglia, invece di essere integrato nel dispositivo di aggancio, penzolasse da questo appeso a una catena. Respirando con crescente concitazione nell'inutile sforzo di afferrare il dente della maniglia, fece appannare il visore. Ebbe sufficiente presenza di spirito per assumere la posizione eretta e aprire di un giro la valvola di scarico del suo casco, risolvendo così il problema dell'appannamento. Quindi, tornò a osservare il dente della maniglia e, Peter Maas
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vedendolo nella posizione corretta, scoppiò a ridere. Momsen, preoccupato, lo chiamò via telefono. «Baker», gli domandò, «ti senti bene?». «Sto bene», fu la risposta. «Non tiratemi su. Sono perfettamente lucido. È difficile da spiegare. Il fatto è che il dente della maniglia è esattamente lì dove lei, signore, mi aveva detto.» Un minuto dopo, Baker annunciò: «Il cavo di discesa per la camera di salvataggio è fissato al boccaporto». Tutto era pronto per la rischiosa quinta missione della camera di salvataggio. Bill Badders fu scelto come operatore in comando; John Mihalowski come suo assistente. Fu una discesa diversa da tutte le precedenti. I due sapevano di mettere a repentaglio la loro vita. Momsen aveva parlato fuori dai denti, con loro. Aveva spiegato che la camera di salvataggio non sarebbe stata in grado di assicurare la consueta tenuta stagna, una volta applicata al boccaporto. Avrebbero dovuto operare nella convinzione che la camera di lancio fosse allagata e che la pressione, al suo interno, fosse uguale a quella del mare circostante o, addirittura, superiore, posto che vi fosse rimasta imprigionata, alla sommità, una bolla d'aria iper-compressa. A differenza delle missioni precedenti, la pressione all'interno del compartimento superiore della camera di salvataggio, una volta stabilito il contatto con il sommergibile, sarebbe stata aumentata in modo da sostenere il previsto violento afflusso d'acqua e aria. Per rimanere attaccati allo Squalus potevano contare soltanto sui bulloni della camera di salvataggio. Il minimo errore di valutazione sarebbe costato loro la vita, ma c'era un altro particolare assai inquietante: una volta che la camera fosse stata pressurizzata, non ci sarebbe più stata la possibilità di scaricare l'anidride carbonica prodotta dal loro respiro. Avrebbero dovuto agire in fretta per accertare se vi fossero sopravvissuti: non era consigliabile prolungare i tentativi oltre i venti minuti. Se fossero svenuti, Momsen non avrebbe potuto far nulla per salvarli. La prima fase della discesa si ripeté come negli altri casi: Badders e Mihalowski allagarono la cassa di zavorra principale e immisero aria nel compartimento inferiore della camera. Dopo di che, con la camera di salvataggio legata al solo cavo di discesa fissato sul boccaporto dello Squalus, la pressione dell'aria nel compartimento superiore venne progressivamente aumentata fino a coincidere con quella dell'oceano circostante. Badders aprì la botola comunicante con il compartimento inferiore e, con l'acqua alle caviglie, avvitò i bulloni per fissare la camera Peter Maas
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di salvataggio al boccaporto. Un minuto dopo, Mihalowski, in posizione presso le valvole della pressione nel compartimento superiore, riferì che Badders era sul punto di forzare il boccaporto della camera di lancio. Eseguì l'operazione con la massima cautela, ma fu investito di sorpresa da un getto d'aria che affluì nella camera. Subito dopo, intorno alle gambe di Badders il livello dell'acqua cominciò a salire. «Aumenta la pressione!», urlò a Mihalowski. Questi reagì prontamente. Il mare esitò e, infine, si ritrasse. Badders si inginocchiò e scostò il portellone in modo da poter guardare all'interno del sommergibile, ma non vide altro che acqua. La camera di lancio di poppa era completamente allagata. Quando Mihalowski riferì la notizia, Momsen colse una certa alterazione nella sua voce. Quei due uomini erano sottoposti a una pressione tremenda da ben diciassette minuti. «Chiudete il boccaporto», ordinò. «Tornate su.» Il lavoro di Charles Momsen era ben lungi dall'essersi concluso. Lo Squalus doveva essere recuperato e condotto a Portsmouth, per tentare di determinare le cause per cui, la mattina di quel 23 maggio, era finito in fondo al mare. Nel paese si erano già diffuse spiacevoli teorie secondo le quali l'incidente era da attribuire a un sabotaggio. Quelle teorie avevano tratto spunto da un'intervista concessa da alcuni superstiti dell'incidente, in cui Al Prien non solo si diceva assolutamente certo di aver chiuso la valvola d'aspirazione principale, ma affermava anche di aver osservato il quadro di controllo, «e nessuna delle spie luminose segnalava problemi». Su questa base, il «Chicago Tribune» pubblicò un articolo in cui si dava notizia dell'avvio di un'importante indagine sulla possibile presenza di spie nelle basi impegnate nella costruzioni di navi da guerra. La preoccupazione crebbe al punto che il capitano Amsden fu costretto a dichiarare: «Malgrado alcune ipotesi circolate sulla stampa, non abbiamo elementi per affermare che vi siano stati errori o atti di sabotaggio. [...] La base navale di Portsmouth è protetta contro qualsiasi forma di spionaggio». I benefici prodotti da questo chiarimento svanirono quando Amsden, cedendo all'insistenza di cineoperatori e fotografi, consentì ad Al Prien di farsi immortalare nel giorno successivo alla sua dichiarazione. Mentre i fotografi facevano il loro lavoro, un giornalista cercò, improvvisamente, di intervistare Al Prien. «Ho detto», sbottò Amsden, «che Prien non può essere intervistato! Volete farmi finire davanti alla Peter Maas
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Corte marziale?». Gli ambienti della marina temevano, piuttosto, che la causa fosse da ricercare in un difetto delle valvole. Benché tutti concordassero nel ritenere che il problema avesse riguardato il grosso tubo che portava alla sala macchine, si restava nel campo delle supposizioni. E poi, se anche fosse stato vero, si trattava forse di un difetto nella progettazione? Occorreva assolutamente scoprirlo. Un sommergibile gemello della nuova classe sarebbe stato consegnato a Portsmouth nel giro di qualche giorno; di un altro era previsto il varo entro un mese; altri ancora erano in produzione. Il capitano Greenlee, responsabile esecutivo della base gravemente colpito dalla sciagura - si espresse al riguardo come meglio non si sarebbe potuto: «Nessuno sa che cosa sia successo, perché nessuno è ancora andato a vedere. Tutti i discorsi sulle valvole sono basati su semplici congetture. La causa del disastro resterà sconosciuta finché non sarà possibile esaminare il relitto in un bacino di carenaggio». Le speranze, in questo senso, erano tutte riposte in Momsen e nei suoi palombari. Sarebbe stata necessaria un'operazione senza precedenti per recuperare il relitto dello Squalus - cento metri di lunghezza per 1450 tonnellate di peso - dal fondo dell'oceano su cui giaceva, inerte e con lo scafo parzialmente sepolto nel fango, a 81 metri di profondità, a quindici miglia di distanza dalla destinazione prevista. I numeri, di per sé, erano già abbastanza impressionanti, ma a questo bisogna aggiungere che, nella lotta che presto avrebbe avuto inizio, il sommergibile parve quasi prender vita, come animato da una sinistra e indomabile volontà. Inizialmente, tra sé e sé, Momsen dubitava delle possibilità di riuscita di una simile operazione. E senza la miscela di elio e ossigeno sviluppata sotto la sua guida dall'unità sperimentale subacquea di Washington, sarebbe stato addirittura impensabile. Il destino, però, aveva provveduto ancora una volta a collocarlo al posto giusto nel momento giusto. Momsen aveva assunto il comando di quell'unità appena venti mesi prima, nel 1937. Quella decisione - aveva detto ironicamente - si era rivelata «ricca di soddisfazioni». Dopo la stimolante esperienza come istruttore nell'uso del polmone artificiale e della campana di salvataggio in ciascuna delle principali basi di sommergibili della marina militare, Momsen aveva languito a bordo dell'incrociatore pesante Augusta, nave ammiraglia della flotta statunitense di stanza in Asia, in una missione in cui aveva dovuto spesso dar prova, a grande richiesta, della sua competenza nell'uso Peter Maas
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dell'ukulele. Prima degli esperimenti di Momsen, la profondità a cui un palombaro poteva immergersi, la durata dell'immersione e le condizioni operative in fondo al mare erano severamente limitate dal fatto di usare, per la respirazione, aria comune; la quale - benché solo raramente la si consideri in questi termini - è una miscela gassosa composta all'80% da azoto e per il 20% da ossigeno. Per i palombari, l'elemento dannoso di questa miscela è l'azoto. Se si risale troppo rapidamente in superficie, si viene colpiti da embolia gassosa, comunemente designata, in inglese, dal termine bends [to bend: piegare, storcere - ndt] per via delle innaturali contorsioni che può indurre in chi ne è vittima. Quando un essere umano è sottoposto a una notevole pressione, non tutto l'azoto presente nell'aria cui attinge per respirare viene espulso mediante espirazione. Una parte di esso entra in circolo e si diffonde nei tessuti, trasportato dal sangue, un po' come avviene con l'anidride carbonica aggiunta alle bevande gassate. Se la pressione decresce lentamente, l'azoto esce tranquillamente, così com'è entrato, ma un abbassamento troppo rapido della pressione dà origine a una scia di bollicine, come in una bottiglia di spuma a cui sia stato improvvisamente tolto il tappo. Le bolle, poi, tendono a raccogliersi in corrispondenza delle articolazioni ossee. Il dolore, anche in caso di attacco lieve, è straziante. Se, invece, l'attacco è grave, le bolle intasano completamente le vene e possono causare la morte istantanea. Un'insidia ancora maggiore, in immersione, era costituita dal modo in cui l'azoto colpisce il sistema nervoso centrale inibendo la coordinazione neuro-muscolare. Questo fenomeno, unito all'aumento del tasso di anidride carbonica all'interno del casco, finisce per mettere i palombari fuori combattimento. Momsen e il suo staff specializzato di medici dovevano trovare un modo per contrastare gli effetti negativi dell'azoto, oppure individuare un gas con cui sostituire l'azoto nella miscela utilizzata per respirare sott'acqua, allo scopo di consentire immersioni a maggiori profondità; bisognava ridurre il rischio di perdere coscienza e aumentare la possibilità di ritornare in superficie il più rapidamente possibile. L'ossigeno, che non dà luogo a bolle nel sangue durante la decompressione, pareva la risposta più ovvia. Sotto pressione, però, la sua tossicità può causare tremori alle labbra e alle palpebre del palombaro, Peter Maas
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che, nel giro di pochi secondi, viene colpito da una cecità totale e da attacchi convulsivi di tipo epilettico. Disponibile quasi esclusivamente negli Stati Uniti, l'elio fu per la prima volta studiato ai fini del suo utilizzo in immersioni di profondità nel 1925. La marina americana, per un certo periodo, ne aveva esaminato le proprietà, ma il progetto - assai circoscritto - era caduto nell'oblio. Con Momsen quel progetto riprese vigore. I primi esperimenti avevano mostrato che l'elio poteva rappresentare un miglioramento. D'altro canto, si era anche dimostrato che non poteva certamente essere considerato il rimedio universale. In un palombaro, la miscela di elio e ossigeno poteva causare embolia come e più dell'aria normale. Momsen, però, con l'instancabile collaborazione dei dottori Behnke e Yarbrogh, si arrovellò fino a fornire una spiegazione definitiva degli effetti dell'elio sull'organismo di un palombaro in azione. Sin dall'inizio fu un lavoro duro, spesso ingrato, soprattutto a causa delle difficoltà incontrate nella decompressione. Il grande cassone per le immersioni di cui era dotata la base navale di Washington fu teatro di quotidiane scene di orrore, a causa dei continui attacchi di embolia sofferti dai palombari. La partita si svolgeva sul piano delle ipotesi, dell'intuizione, dell'infinito succedersi di tentativi ed errori. Come nel caso delle altre ricerche di Momsen, non esistevano precedenti su cui basarsi. Fino a quel momento, i più importanti esperimenti nel campo erano stati condotti dagli inglesi, che avevano provato una miscela composta, in parti uguali, da elio e azoto, con il minimo di ossigeno necessario a garantire la sopravvivenza. Si ipotizzava che i due gas agissero in modo reciprocamente autonomo, una volta assorbiti dall'organismo. Se così fosse stato, sarebbe stato possibile calibrare i tempi di decompressione sull'uno o sull'altro gas, dimezzando la durata della risalita dei palombari. Poiché, però, nulla di tutto ciò si era verificato, gli inglesi avevano concluso che il ricorso all'elio per le immersioni subacquee in alto mare fosse inutile. «Se avessero proseguito nei loro esperimenti», annotò Momsen sul suo diario, «provando elio e ossigeno senza azoto, ne avrebbero certamente scoperto il grande pregio, nella possibilità che concedeva ai palombari di pensare lucidamente anche sotto pressione.» Ma prima di poter dimostrare la sua ipotesi, Momsen avrebbe dovuto superare difficoltà di ogni tipo. Nella sua ostinata odissea tra le forze misteriose che agiscono sull'organismo umano sotto la superficie del mare, Peter Maas
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Momsen tentò persino una variante della soluzione trovata dagli inglesi. Nei primi venti minuti di immersione ai palombari venne somministrata una miscela di elio e ossigeno, dopo di che si passava all'aria normale per altri venti minuti. Si sperava che l'elio, essendo - rispetto all'azoto - di gran lunga più leggero e dotato di una velocità di diffusione di molto superiore, venisse eliminato dall'organismo durante la somministrazione di aria normale. Se avesse funzionato, un palombaro avrebbe potuto restare in immersione per ore, purché ogni venti minuti passasse dalla miscela di elio e ossigeno all'aria normale e viceversa, con un breve periodo di decompressione solo negli ultimi venti minuti di aria prima della riemersione. Purtroppo, però, non funzionò. Ogni volta si verificavano gli attacchi di embolia. Momsen non si arrese. Per mesi concepì con estrema cura e mise alla prova approcci diversi al problema, ma senza successo. L'esperimento, però, non fu del tutto inutile, perché gli diede modo di stabilire che, in fase di decompressione, tutti i diversi gas componenti la miscela dovevano essere tenuti in considerazione. Da qui, giunse alla sua fondamentale risoluzione: in primo luogo, per sfruttarne al massimo le caratteristiche, l'elio doveva essere l'unico gas miscelato all'ossigeno; in secondo luogo, bisognava ridurre al minimo la quantità di elio assorbita dall'organismo del palombaro e massimizzare la percentuale di ossigeno. Fu un banale esperimento a rivelare platealmente la superiorità in immersione di questa miscela, rispetto all'aria normale. Un impiegato distaccato presso l'unità subacquea fu sottoposto, con la sua macchina da scrivere, a una pressione equivalente a quella che si registra tra i 60 e i 70 metri sott'acqua. Per i primi cinque minuti - mentre eseguiva, copiando, banali esercizi di dattilografia - gli fu fatta respirare dell'aria normale. Quindi, nei cinque minuti seguenti, ripeté gli stessi esercizi respirando la miscela di elio e ossigeno, per valutare quali fossero gli effetti sulla coordinazione cervello-muscoli. Momsen restò sorpreso quando il volontario gli disse di esser certo di aver lavorato meglio con l'aria normale. Di fatto, i risultati dimostrarono esattamente l'opposto. L'aria normale lo aveva sprofondato in uno stato di ingannevole sicurezza che aveva inibito la sua capacità di giudizio. Respirando elio e ossigeno, invece, era decisamente più reattivo e lucido, e si accorgeva subito quando capitava - di aver premuto un tasto sbagliato. Il numero di parole digitato nelle due circostanze era più o meno uguale, ma respirando aria Peter Maas
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aveva commesso il triplo degli errori e saltato, nel copiare, intere righe di testo senza neppure rendersene conto. Appurato questo fatto, Momsen si dedicò alla ricerca di un metodo per riportare, rapidamente e senza rischi, in superficie un palombaro da notevoli profondità. Ogni tentativo di ridurre i tempi di decompressione provocò seri problemi di embolia. Alla fine, decise di tornare alla tabella di marcia prevista per i palombari che risalivano respirando aria normale. Con sgomento notò che tale scelta non aveva cambiato nulla. Il numero dei colpiti da embolia nelle immersioni di prova restava incredibilmente alto, prospettando seri problemi anche di tipo morale. Ossessionato e spiazzato - al pari dei medici della sua unità - da quel misterioso fattore che, all'improvviso, minacciava di far fallire l'intero progetto, Momsen registrava ogni notte sul suo taccuino l'andamento degli esperimenti: «Dove diavolo sbaglio? Che cosa fa di diverso l'elio rispetto all'azoto?». Un mattino, sul presto, si svegliò con la risposta. Un palombaro che respiri aria normale comincia la sua lunga e noiosa risalita effettuando pause di decompressione relativamente brevi, la cui durata aumenta quanto più si avvicina alla superficie. Il problema - Momsen ne era certo - era costituito dalla prima pausa. L'elio, con la sua elevata velocità di diffusione, veniva espulso dai tessuti del palombaro con una tale rapidità, rispetto all'azoto, che il sangue non aveva il tempo di assimilarlo, dando luogo in tal modo alla formazione delle bolle tipiche dell'embolia. Se un palombaro dotato della miscela di elio e ossigeno faceva la prima pausa della sua risalita quando erano trascorsi almeno sette minuti dall'inizio, la frequenza dei casi di embolia precipitava improvvisamente vicino allo zero. A ciò si aggiunse un'altra conquista che ridusse in modo drastico i tempi di permanenza in acqua per i palombari in decompressione. In un approfondito studio sulla tolleranza all'ossigeno dell'organismo umano sotto pressione, il dottor Behnke aveva scoperto che se a una profondità di poco superiore ai quindici metri si cominciava a somministrare ossigeno puro a un palombaro che avesse superato la sua fase di tossicità, non solo si preveniva la formazione di bolle, ma si accelerava anche l'eliminazione dell'elio dal suo organismo. Ciò significava che un palombaro, dopo una prima pausa, poteva essere fatto risalire abbastanza rapidamente fino a una profondità di circa quindici metri. Dopo di che, invece di restare a penzolare sott'acqua in quel punto, sarebbe stato riportato direttamente in Peter Maas
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superficie, condotto in tutta fretta nella camera di decompressione e sottoposto, nuovamente, alle condizioni di pressione esistenti a quindici metri di profondità. Restava molto lavoro da fare, ancora: tutti i calcoli, tanto complessi quanto essenziali, per stabilire nuove norme fisiologiche per le immersioni, definire i limiti della resistenza umana, determinare la composizione ottimale della miscela di elio e ossigeno. Si trattava, però, di aspetti marginali. Erano usciti dal vicolo cieco, e nessun ostacolo pareva più insormontabile. I palombari potevano gettarsi alle spalle le vecchie, superstiziose regole - mangiare sempre una mela prima di un'immersione, digiunare nel giorno della missione e non bere alcolici la vigilia - a cui si ricorreva per prevenire l'embolia. Con l'immersione simulata di Badders e McDonald, nel cassone pressurizzato, a oltre 160 metri di profondità, la disciplina subacquea fu posta per la prima volta su una solida base scientifica. Questi progressi diedero luogo anche a importanti innovazioni nella progettazione degli scafandri, che erano rimasti immutati nel corso dei cent'anni trascorsi da quando l'inventore tedesco August Siebe ne aveva sperimentato il prototipo. I palombari con respiratore ad aria soffrivano terribilmente il freddo. Con l'elio, però, era molto peggio. Il calore corporeo si dissipava così rapidamente che la temperatura massima tollerabile a lungo dall'organismo umano si aggirava intorno ai 15 °C. Eppure, negli abissi spalancati dall'introduzione della miscela di elio e ossigeno, le basse o bassissime temperature erano la regola. Momsen sottopose il problema a un industriale di New York, che aveva appena creato tute riscaldate elettricamente per i piloti d'aereo, e ne ricavò una speciale biancheria con imbottiture elettrificate poste tra due strati di lana. Dato che si aveva anche a che fare con l'ossigeno, Momsen richiese anche una protezione contro la malaugurata possibilità di un incendio, ricevendo in risposta una nuova fornitura di mutandoni con le parti elettriche isolate da involucri di fibra di vetro. Le profondità da quel momento accessibili; inoltre, rendevano più pericolosa che mai la formazione di anidride carbonica. Se è vero che, in superficie, l'anidride carbonica in piccole quantità non è particolarmente dannosa, occorre tener conto che la sua nocività aumenta in proporzione alla profondità e finisce per causare atroci problemi di asfissia. Il sistema di ventilazione aperto, che consisteva nel fornire ai palombari una quantità Peter Maas
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indefinita di aria da espellere in mare, era impensabile con la miscela sintetica di elio e ossigeno, che solo in quantità limitata poteva essere immagazzinata a bordo di una nave. Momsen, allora, inventò il "casco a elio". A differenza dei caschi ad aria, questo faceva tutt'uno con un pettorale da palombaro, pensato allo scopo di prevenire le perdite di gas. All'interno, era dotato di un ingegnoso dispositivo di riciclaggio che aspirava l'elio e l'ossigeno, facendo prima passare la miscela attraverso un contenitore di assorbente per anidride carbonica, per poi rimetterla in circolo. Benché, al momento dell'incidente dello Squalus, il casco a elio fosse ancora in fase di sperimentazione, le sue prestazioni avevano già dimostrato che sarebbe stato possibile ridurre dell'ottanta per cento la quantità di elio e ossigeno. Nel volgere di una ventina di mesi, dunque, l'arte dell'immersione subacquea, nei suoi principi fondamentali e nelle sue prospettive, fu completamente rivoluzionata. «A un tratto» scrisse Momsen, in quei giorni, «abbiamo spostato il limite di profondità ritenuto sicuro per il funzionamento dell'organismo umano oltre i 150 metri e, in prospettiva, oltre i 300 metri, rendendo accessibili centinaia di migliaia di miglia quadrate di crosta terrestre, con incredibili riserve di tesori naturali tutte da scoprire. Ed è soltanto l'inizio. Di certo, verrà il giorno in cui l'uomo porrà sotto il proprio dominio gran parte delle profondità marine.» Ora, però, per Momsen non si trattava di svolgere le verifiche in mare del lavoro svolto in laboratorio, previste per l'estate di quel 1939. Senza preavviso, l'intero equipaggiamento - il casco a elio, gli scafandri riscaldati, l'ossigeno da usare in decompressione, la miscela di elio e ossigeno in sostituzione dell'aria normale - era chiamato a sostenere una prova decisiva. Paragonato a quel che ancora restava da fare, il salvataggio dei sopravvissuti dello Squalus sembrava un gioco da ragazzi.
17 Pronostici troppo precoci avevano fatto sperare in un'operazione di recupero rapida. E dire che sembrava facile. Alcuni tubi ad aria compressa avrebbero liberato dall'acqua i compartimenti di poppa del sommergibile, ne avrebbero svuotato le casse di zavorra e prelevato il carburante ancora presente nei serbatoi. Una volta alleggerito da tutto questo peso, il Peter Maas
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sommergibile sarebbe stato sollevato dal fondo e trainato fino a Portsmouth. Questo, naturalmente, presupponeva la chiusura ermetica di tutte le valvole, per evitare che l'acqua potesse nuovamente riempire i compartimenti che dovevano essere svuotati. Un palombaro, però, scoprì che la valvola d'aspirazione del motore principale era effettivamente aperta, sebbene il quadro di controllo, al momento dell'immersione, non l'avesse segnalato. Lo stesso Momsen provò, sullo Sculpin, a chiudere manualmente dall'esterno quella valvola, e trovò l'operazione così complessa da ritenerla impraticabile alla profondità a cui si trovava lo Squalus. Sarebbe stato impossibile svuotare dall'acqua i compartimenti allagati e, quindi, riportare il sommergibile in superficie. A Portsmouth, dopo essersi consultati con Washington, l'ammiraglio Cole e i suoi assistenti concepirono un nuovo piano. L'operazione di svuotamento dei serbatoi di carburante per mezzo di aspiratori sarebbe stata comunque eseguita. Altri aspiratori sarebbero stati impiegati per svuotare le casse di zavorra. Dopo di che, dei cavi legati a chiatte sommergibili sarebbero stati fatti passare sotto la prua e la poppa dello Squalus, che sarebbe stato riportato verso la superficie in tre tappe: in un primo momento, doveva essere fatto salire di circa venticinque metri e trainato in acque meno profonde; quando, poi, si fosse nuovamente posato sul fondo, l'avrebbero sollevato di altri venticinque metri. Il terzo strappo era previsto alla foce del Piscataqua, per portare lo Squalus a una profondità inferiore ai tredici metri, oltre la quale sarebbe stato impossibile trainare il relitto lungo il fiume fino alla base. Sulla carta, il piano pareva ben congegnato. Momsen, però, pur condividendo in linea di principio questa opinione, aveva l'impressione che gli uomini dello staff di Cole fossero un po' troppo ottimisti nel ritenere che l'operazione non avrebbe richiesto più di tre settimane. Si trattava di un salto nel buio mai tentato prima: il sommergibile, più lungo di un campo da football e, per una metà abbondante, pieno d'acqua, si trovava a una profondità di ottanta metri e lo si sarebbe dovuto trainare sott'acqua per circa quindici miglia. Momsen era preoccupato soprattutto per la grande quantità di missioni previste per i palombari. Nello staff di Cole qualcuno aveva persino chiesto, incontrando la recisa opposizione di Momsen, che si introducessero nello Squalus per chiudere le valvole Peter Maas
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secondarie. Le prime immersioni riportarono tutti bruscamente alla ragione. Sebbene la miscela di elio e ossigeno non fosse ancora disponibile, Momsen aveva fretta di fissare un cavo di discesa permanente prima che a quello utilizzato provvisoriamente nella fase di salvataggio dei superstiti potesse accadere qualcosa. Una fune da sei pollici sarebbe dovuta bastare, pensò. Affidò l'incarico di fissare la fune al cannoncino principale del ponte di poppa all'aiuto nostromo Joseph Alicki e al suo omologo Forrest Smith, entrambi operatori molto esperti. Quando Alicki e Smith riferirono di essere giunti sul sommergibile, venne lanciata loro la nuova fune, dotata di zavorra e fissata con un maniglione al vecchio cavo. Quando la fune fu a portata di mano, Alicki la afferrò e si spostò verso il cannone, chiedendo alla Falcon di dire a Smith di lasciargli più corda. Non ottenendo risultati, Alicki si voltò e vide il collega accasciato sul ponte. Alicki mollò la cima, si avvicinò a Smith, controllò la sua valvola per accertarsi che stesse ricevendo aria e cominciò a scuoterlo. Smith, che si trovava nel gorgo della stupefazione da azoto, avrebbe in seguito ricordato «di essere stato come riscosso da un sonno profondo». La prima cosa che vide fu la nuova fune che penzolava a poco più di un metro dal sommergibile. Cercò di aiutare Alicki a recuperarla, ma Momsen, ormai alquanto preoccupato, ordinò loro di risalire. Alicki si avviò per primo, seguito da Smith che, poco dopo, svenne nuovamente. Quando si riprese, Alicki lo stava sistemando sulla grossa piattaforma di metallo con cui i palombari vengono calati in acqua e recuperati. Momsen, allora, fece procurare una nuova fune di discesa. Per il momento, si sarebbe accontentato di una più maneggevole, del diametro di quattro pollici. Per assicurarla al cannone sul ponte dello Squalus scelse il primo nostromo Orson Crandall. Ma anche Crandall, non appena ebbe messo piede sul sommergibile, fu sopraffatto dagli effetti narcotizzanti dell'azoto contenuto nell'aria. Convinto di riferire in superficie dell'avvenuto contatto con lo Squalus, stava in realtà biascicando frasi insensate e fu immediatamente recuperato. Di tutto l'episodio, in seguito, avrebbe ricordato soltanto di essere stato «strattonato con violenza» prima di perdere completamente conoscenza. Rinvenendo, Crandall si ritrovò incastrato sotto la piattaforma di immersione. Dopo che ebbe spiegato, sia pur a fatica, la sua situazione, gli fu data più corda, in modo da potersi Peter Maas
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togliere d'impaccio. Con ciò, per quel giorno, le immersioni furono interrotte. Come inizio, non si sarebbe potuto immaginare di peggio. Momsen, dissimulando la sua delusione, andò a rincuorare i palombari. Quando questi gli si fecero intorno, sul ponte della Falcon, disse loro scherzosamente che la colpa era tutta di «quei maledetti gnomi, laggiù». Dopo una breve pausa, uno dei palombari, domandò: «Scusi, signore, può ripetere?». Quando Momsen ebbe ripetuto, il volto del palombaro si illuminò: «Ah», fece, «voleva dire "ganomi"». Momsen non si azzardò ad approfondire la questione. Da quel momento, però, i «ganomi» divennero parte integrante del loro gergo quotidiano oggetto di maledizioni e anche di scherzi - responsabili di qualunque inconveniente potesse verificarsi. L'uso si diffuse ben presto tra i ranghi della marina militare. In seguito, nei posti più disparati, sarebbe capitato a Momsen di dover spiegare che cosa fossero mai; in quei casi, rispondeva sempre allo stesso modo, per alimentare la leggenda di queste straordinarie creature: «Sono una speciale varietà di diavoli di mare in cui ci siamo imbattuti al largo di Portsmouth». L'incolumità dei palombari era sempre la sua prima preoccupazione. Che si immergessero respirando aria o la miscela di elio e ossigeno, si esponevano a terribili rischi. Nel groviglio di tubi e cavi che, a poco a poco, finirono per addobbare lo Squalus, era facile che un palombaro causasse per errore un'interruzione del proprio rifornimento di aria. Provato dallo sforzo, questi avrebbe potuto aprire un po' troppo la valvola per il controllo della pressione, «gonfiando» lo scafandro e tornando in superficie in pochi secondi, morto o, magari, invalido per sempre. Peggio ancora, cadendo dal sommergibile, avrebbe potuto essere vittima di un temibile evento denominato, dai palombari, «squeeze» [termine che, con accezioni diverse, indica compressione violenta - ndt]. Il nome spiega già tutto. La pressione, all'interno del casco di uno scafandro, deve essere sempre più o meno uguale, con un minimo margine di approssimazione, a quella del mare circostante. In caso di improvvisa caduta, il palombaro deve mantenere in equilibrio la pressione interna e quella esterna (che cresce, ogni due piedi, in ragione di una libbra per pollice quadrato). Se non ci riesce, lo «squeeze» lo colpisce a partire dai piedi, investendo poi tutto il corpo fino a concentrarsi all'interno del casco. Sul ponte della Falcon fu montato un sistema di altoparlanti, per Peter Maas
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garantire a Momsen di essere udito, in qualsiasi momento e circostanza, da tutti coloro che operavano sott'acqua. Ogni palombaro era tenuto a rimanere in continuo contatto con la superficie via interfono, anche solo per dire che tutto procedeva senza intoppi. Un silenzio sospetto o il minimo segno di un comportamento incoerente erano immediatamente seguiti dall'ordine di risalita, a cui occorreva obbedire senza discussioni. Altrettanto importante era infondere nei palombari la massima fiducia nell'autorità di chi dalla superficie li comandava. «Mai rimproverare, criticare o riprendere un palombaro mentre è in acqua», disse Momsen a beneficio di chi operava in superficie. «In particolare, non voglio né vedere né sentire addetti all'interfono che alzano la voce o mostrano segni di impazienza o di nervosismo. E, infine, nessuno deve permettersi di criticare un palombaro anche dopo che sia riemerso: se ha fallito la sua missione, sarà già sufficientemente dispiaciuto da non aver bisogno che qualcuno glielo ricordi.» Quando le immersioni ebbero inizio, la grandiosa portata delle operazioni di recupero dello Squalus apparve evidente a tutti. Nove giorni dopo il suo affondamento, era toccato al nuovo sommergibile inglese Thetis precipitare di prua sul fondo del Mare d'Irlanda. A bordo c'erano centotré uomini e, sebbene il boccaporto sul ponte di poppa si trovasse a sei o sette metri dalla superficie, solo in quattro erano riusciti a uscirne vivi. Momsen poteva contare su un totale di cinquantotto palombari, tre dei quali maestri nel loro campo; il resto era composto per la maggior parte da elementi di prima classe con esperienza di immersione fino a circa settanta metri e da alcuni di seconda classe che non erano mai scesi sotto i trenta metri. Alcuni di essi facevano parte della sua unità subacquea sperimentale, altri provenivano dalla scuola di immersione di Washington, dalla Falcon, dalla base sottomarina di New London e da una serie di altri comandi. Molti erano per Momsen dei perfetti sconosciuti, e spiegar loro i dettagli delle operazioni da compiere fu un'impresa assai delicata. Inoltre, era importante che tutti facessero un adeguato numero di immersioni, non solo per ragioni di orgoglio, ma anche per il bonus che per ogni missione veniva pagato. Alla fine, decise di dividerli in tre squadre ben assortite che avrebbero operato con due giorni di sosta ogni quattro di lavoro, ciascuna con la giusta percentuale di palombari meno esperti da addestrare sul campo. Peter Maas
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Oltre ai successi ottenuti con il polmone artificiale, con la camera di salvataggio e con la miscela di elio e ossigeno, Momsen aveva al proprio attivo un ulteriore titolo per meritare la cieca fiducia di quegli uomini temprati. Nel 1925, quando era colato a picco l'S-51, diversi palombari considerati esperti si erano rivelati assolutamente inadeguati. Due anni dopo, in occasione dell'incidente dell'S-4, la situazione non era di molto migliorata. Momsen aveva persino scoperto un tale con la qualifica di palombaro che non aveva mai indossato uno scafandro in vita sua. A quel punto, la svolta. Nel 1929, sotto la sua egida, tutti i palombari di prima classe erano stati sospesi d'ufficio, con l'obbligo di sottoporsi - per riguadagnare quella qualifica - a un programma di addestramento completamente rinnovato. Ebbene, il primo ufficiale della marina ad aver effettuato con successo quell'addestramento era stato proprio Charles Momsen. Un palombaro intervistato durante le operazioni di recupero dello Squalus da un giornalista del «Boston Traveler» ebbe modo di spiegare il sentimento che lui e i suoi colleghi provavano per Momsen. «Quando sei in fondo al mare» disse, «è come se il signor Momsen ti fosse accanto. E quando pensi a questo, puoi tranquillamente smettere di lavorare "con una mano per il governo e una mano per te", come diciamo noi: si lavora con tutt'e due le mani per lo "Svedese".» Momsen, del resto, doveva poter contare su tutta la loro dedizione. Dopo il primo inutile tentativo di fissare una fune di discesa permanente, i passi falsi si susseguirono. Lo sforzo delle operazioni di recupero superava di gran lunga quello richiesto dal salvataggio dei sopravvissuti. Fu chiaro, ben presto, che la sola aria normale non era sufficientemente affidabile a profondità superiori ai sessantacinque metri. Operazioni che, sullo Sculpin, richiedevano pochi secondi, richiedevano diverse immersioni sullo Squalus, talvolta persino senza successo. Quando i palombari portarono giù una fune e provarono a farla passare sotto la prua del sommergibile, ebbero un successo immediato, ma effimero. Ripetere l'operazione a poppa, data l'inclinazione dello Squalus, sarebbe stato ben più difficile. Nessuno, però, immaginava fino a che punto lo sarebbe stato. Per far passare sotto la poppa il cavo per l'imbracatura da traino, occorreva che un palombaro si calasse sul fondo, raggiungesse la parte posteriore del sommergibile e passasse la cima a un secondo palombaro Peter Maas
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calatosi sul fondo dall'altro lato. Ci si domandava se il primo palombaro sarebbe riuscito ad arrivare abbastanza indietro da far passare il cavo tra le pale dell'elica e lo scafo, oltre a temere per il rischioso salto di sette metri dal ponte del sommergibile sul fondo del mare. Quando il palombaro spiccò il salto, però, si ritrovò subito a contatto con uno spesso e morbido strato fangoso, la cui superficie era a mezzo metro dal ponte del sommergibile. L'estremità posteriore dello Squalus era completamente sepolta. Ancora peggiori furono le prestazioni del nuovo, indispensabile «casco a elio», appositamente progettato per il riciclo della nuova miscela. Il suo perfezionamento era appunto uno degli obiettivi a cui miravano le prove già messe in programma da Momsen per l'estate. I caschi erano stati spediti in tutta fretta da Washington. Toccò all'aiuto artigliere di I classe Louis Zampiglione, detto «il Greco», effettuare la prima discesa con uno di quei caschi in testa. Restò in immersione per trentatré minuti e riferì che tutto funzionava alla perfezione. Non provava neanche in minima parte quella sensazione di fiacca ebbrezza che assale solitamente i palombari con respiratore ad aria normale. La soddisfazione di Momsen, però, fu di breve durata. Nelle immersioni successive, il dispositivo che aspirava elio e ossigeno, facendolo passare attraverso l'assorbente di anidride carbonica, manifestò gravi disfunzioni, che generavano pericolose irregolarità nei flussi di gas. «Avrei dovuto immaginarlo», borbottò Momsen rivolto al tenente Thomas Willmon, che con Behnke e Yarbrough formava il suo staff medico. Nel corso delle sperimentazioni condotte a Washington sulla miscela di elio e ossigeno, Zampiglione aveva rivelato caratteristiche fisiologiche assai strane, che avevano fatto impazzire chi era impegnato a stabilire una serie di valide regole da seguire nelle immersioni subacquee. Sembrava addirittura immune all'embolia. Si era giunti al punto che gli esperimenti nei cassoni pressurizzati superati positivamente da Zampiglione dovevano essere ripetuti da altri palombari prima di poterli considerare davvero riusciti. Momsen ritenne di non avere scelta. Il casco a elio era essenziale ai fini del recupero dello Squalus, ma doveva essere rimandato a Portsmouth per un'accurata verifica della circolazione dei gas al suo interno. I palombari, nel frattempo, avrebbero dovuto continuare a immergersi respirando aria. Tuttavia, sebbene si aspettassero gli effetti della narcosi da azoto a 80 Peter Maas
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metri di profondità, restarono stupiti dalla loro intensità. Il dottor Behnke aveva una risposta. «Charles,» disse, «non riusciamo a espellere l'anidride carbonica dal casco con sufficiente rapidità, e questa - a quanto pare amplifica gli effetti dell'azoto». Il manuale di immersione, che alla profondità a cui dovevano operare indicava una pressione di ottanta chilogrammi, fu messo da parte. Per aumentare la ventilazione, Momsen elevò la pressione nei tubi dei respiratori a 120 chilogrammi per pollice quadrato. Fu una soluzione empirica, ma funzionò. Il 5 giugno, dopo cinquantotto immersioni, erano state assicurate tre funi di discesa in punti diversi dello Squalus. In ciascuno dei tre compartimenti di poppa era stata introdotta aria compressa per espellerne l'acqua, mentre altri tubi erano stati attaccati a tutte le casse di zavorra. Mentre a Portsmouth si continuava a lavorare sul casco a elio, Momsen si era temporaneamente dotato, a bordo della Falcon, di una ventina di bombole di elio e ossigeno con cui rifornire i palombari dotati di normali caschi. I consumi di questa miscela, però, erano tali da consentire, in un giorno, un numero limitato di immersioni. Incredibilmente, fino a quel giorno si era verificato un solo grave incidente. Il torpediniere di I classe John Thompson si era fatto sfuggire di mano la fune di discesa. Via interfono, prima che in superficie potessero reagire, erano giunte le parole fatali: «Sto cadendo!». Thompson, però, aveva avuto fortuna. Era ancora in sé al momento dell'impatto con il fondo ed era riuscito ad aumentare la pressione all'interno dello scafandro, evitando così lo «squeeze». Fino a quel giorno, però, si era trattato di un gioco da ragazzi al confronto di quel che si prospettava. Quando si era scoperto che la poppa dello Squalus affondava di almeno sei metri nel fondo dell'Atlantico settentrionale, Momsen aveva subito escluso l'ipotesi di mandare dei palombari a scavare un tunnel sotto il sommergibile. A quelle profondità era troppo pericoloso. Aveva ideato, invece, una bocchetta da collegare a un tubo lungo circa due metri, dotato della stessa curvatura dello scafo del sommergibile. Approntato questo dispositivo, la Falcon vi avrebbe fatto arrivare, mediante tubi ad alta pressione, un getto d'acqua in grado di aprire nel fango del fondale un varco attraverso cui far passare prima un cavo e poi le imbracature da traino. Il comandante Andrew McKee, l'ufficiale anziano del Construction Peter Maas
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Corps membro della squadra di salvataggio di Cole, aveva trasmesso subito a Portsmouth l'ordine di mettersi al lavoro. E il 5 giugno la «lancia» - questo il nome attribuito al dispositivo - arrivò a bordo della Falcon. All'inizio, tutto andò a meraviglia. Il primo palombaro che scese riuscì a sistemare in posizione le prime due sezioni del tubo in un baleno. Tuttavia, una volta rimosso il condotto dell'aria per aggiungere la sezione di tubo successiva, ben cinque palombari di fila, compresi i maestri McDonald e Badders, fallirono nella loro missione, soprattutto a causa del movimento della Falcon nella maretta, che rendeva impossibile l'innesto dei pezzi. L'indomani, montata finalmente la terza sezione del tubo, ci si rese conto che la bocchetta si era spostata, orientandosi in direzione opposta rispetto allo Squalus, cosicché tutta l'operazione dovette essere ripetuta daccapo. «Perdoni il linguaggio,» disse un palombaro a Momsen, «ma quei maledetti gnomi, laggiù, stanno imperversando.» Trascorsi altri due giorni, la lancia era penetrata di quattro metri nel fango. I palombari, uno dopo l'altro, si applicarono con costanza, con progressi variabili tra il metro e mezzo e i venti centimetri. Il 10 giugno, finalmente, la lancia superò il punto più basso dello scavo, ma quando mancavano all'incirca due metri e mezzo di fondale da perforare per sbucare a babordo dello Squalus, la lancia si incagliò, rifiutandosi ostinatamente di procedere. Per completare il lavoro fu inserito all'interno della lancia un filo simile a uno scovolino da idraulico, ma dopo aver raggiunto un punto che, secondo i calcoli, doveva trovarsi un metro e mezzo oltre la bocchetta del dispositivo, anche il filo si bloccò. Fu effettuato un tentativo disperato per penetrare nel fondale dove si riteneva che, a portata di mano, fosse impigliato lo scovolino. Il risultato fu spaventoso. Come spesso accadeva, la riserva di elio e ossigeno nell'apparecchiatura provvisoria adottata da Momsen era esaurita. Quindi, l'aiuto mitragliere di III classe Orval Payne, della Falcon, alla sua prima immersione, veniva rifornito di aria normale. Giunto sul fondo, disse improvvisamente che non riusciva più a vedere nulla. Un istante dopo, strillando confusamente, disse che i suoi tubi erano fuori uso e annunciò che se ne sarebbe liberato. Subito, però, svenne, e questa fu la sua salvezza. Quando Payne ricomparve in superficie, i suoi tubi dell'aria recavano i segni di alcuni fendenti. Nel pomeriggio, per tentare di liberare lo scovolino, si immerse Walter Peter Maas
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Squire, il massiccio capo torpediniere che aveva compiuto al buio l'impresa di recidere i cavi intrecciati della camera di salvataggio. Squire toccò il ponte di poppa dello Squalus, trascinò l'idrante a babordo e ottenne dalla Falcon l'acqua alla pressione richiesta: poco meno di centocinquanta chilogrammi per pollice quadrato. Riferì di aver praticato un buco, largo poco più di mezzo metro e profondo più di un metro, nel punto in cui riteneva si trovasse lo scovolino. Quindi, annunciò che avrebbe scavato un altro buco. Poiché, però, stava già operando da quattordici minuti senza interruzione, Momsen non ne volle sapere. «Okay,» rispose Squire, a malincuore, «sono pronto a risalire.» Nonostante le ripetute chiamate, però, Squire non si fece più sentire. «Tiratelo su», ordinò Momsen. Gli addetti alla manovra delle funi riferirono di avere l'impressione che fosse molto pesante. Intontito dal tremendo sforzo, aveva aperto la valvola della pressione del suo scafandro. A 50 metri dalla superficie, si "gonfiò" e schizzò verso l'alto, riemergendo accanto alla Falcon e sobbalzando tra le onde nello scafandro teso al massimo, come una grottesca caricatura dell'omino Michelin. Senza perdere un istante, il maestro palombaro Jim McDonald si gettò in mare e, raggiunto Squire, lo trascinò sulla piattaforma di immersione che era stata recuperata al primo segnale di pericolo e chiuse la valvola. Fu un'impresa strabiliante. McDonald non sapeva nuotare. «Al momento, non ci ho pensato», avrebbe raccontato in seguito. Issato sulla Falcon, Squire fu liberato del casco e apparve cianotico, completamente privo di sensi. Il suo corpo inerte, con tanto di scafandro, fu portato di corsa in camera di decompressione, dove il dottor Willmon e il capo farmacista Harold David lo accompagnarono in una brusca immersione simulata ad alta pressione. Quando l'indicatore della camera di decompressione segnalò una pressione di trentacinque chilogrammi per pollice quadrato, Squire cominciò a dar segni di voler rinvenire. Immediatamente, con gli occhi ancora velati, fu colto da orribili convulsioni e si mise a urlare per l'intollerabile dolore. Willmon e David non poterono far altro che immobilizzarlo. Momsen chiese l'intervento del massimo esperto di embolia del suo staff, il dottor Pete Yarbrough, e del palombaro McDonald, per aiutare a tenere fermo Squire. Dopo quattro minuti di attesa in anticamera per adattarsi alla pressione, poterono finalmente intervenire in aiuto di Willmon e David. I Peter Maas
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quattro tagliarono lo scafandro di Squire, che nel giro di mezz'ora si calmò leggermente, pur continuando a soffrire di dolori e spasmi atroci. Reggendogli il capo, Yarbrough cercò di entrare in comunicazione con il palombaro sofferente guidandolo lentamente nella sua risalita simulata. «Squire,» continuava a ripetere, «ti stai preparando a risalire. Mi senti? Sei pronto alla risalita.» Alla fine, Yarbrough ce la fece. «Mi sto preparando a risalire», disse Squire. Poi, all'improvviso, rovesciò gli occhi, lanciò un grido angosciato, afferrò il cavo del telefono installato nella camera e, nel patetico tentativo di arrampicarvisi, lo sradicò dal muro. Dopo di che ripiombò nell'incoscienza. Yarbrough, con pazienza, ripeté il tentativo di simulare la risalita. «Squire,» riprese, «stai risalendo.» Quindi, mentre la pressione diminuiva lentamente, ripeté più volte: «Squire, sei sulla piattaforma... Sei sulla piattaforma». Squire, riscuotendosi, gemette e con un profondo sospiro, infine, rispose: «Sono sulla piattaforma». Seguendo passo passo, con una continua riduzione della pressione nella camera, le fasi di una normale risalita, interrotto soltanto da brevi accessi di panico di Squire, Yarbrough lo riportò alle condizioni di pressione normali. Dopo tre ore e mezzo, Squire parve essersi del tutto rimesso. Undici minuti dopo, però, fu assalito da un lancinante dolore al braccio sinistro e fu prontamente riportato in camera di decompressione. Nonostante il nuovo attacco di embolia, Squire questa volta mantenne la lucidità. Il dolore scomparve a una pressione di una dozzina di chilogrammi, che fu gradualmente ridotta nel corso della notte mediante quello che i palombari definivano «prosciugamento» notturno. Il mattino dopo, quando fu dimesso, Momsen gli diede un permesso di tre giorni. «Ubriacati, e bevi finché non finisci i soldi», gli consigliò. Quindi, in una riunione dello staff impegnato nelle operazioni di recupero, osservò con perfetta levità che le immersioni subacquee non erano prive di pericoli. Nessuno ebbe alcunché da obiettare. Il 15 giugno, la lancia originale venne abbandonata. Tutti i tentativi di trovare l'elusivo sorvolino erano falliti. «Suvvia,» disse Momsen ai suoi scoraggiati palombari, «pensate a tutte le cose che abbiamo imparato.» Peter Maas
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Lui, infatti, era tutt'altro che demoralizzato. Da Portsmouth stava per arrivare una nuova lancia che lui e McKee avevano ideato. Disponeva di innesti studiati appositamente per evitare che le sezioni del tubo perdessero l'allineamento e di piccoli fori da cui potesse fuoriuscire acqua soprattutto quando la bocchetta era rivolta verso l'alto. Oltre a ciò, i difetti del casco a elio furono eliminati, cosicché si poté mettere fine alle immersioni con i vecchi caschi. Il problema principale era l'intasamento dei sottili tubi d'aspirazione del sistema di circolazione del casco da parte della miscela gassosa, raffreddata dalle basse temperature di quegli abissi. Su ordine del dottor Behnke, la calce sodata utilizzata per assorbire l'eccesso di anidride carbonica fu sostituita da un composto a base di potassa caustica, lo Shell Natron. Oltre a essere efficace come assorbente di anidride carbonica, presentava anche notevoli proprietà deumidificanti. Il tubo d'aspirazione, nel frattempo, fu modificato in funzione della profondità a cui si trovava lo Squalus. Anche il nuovo telefono a valvole termoioniche sviluppato dalla Radio Corporation of America contribuì notevolmente al successo finale. Le comunicazioni mediante interfono erano, prima di allora, poco efficaci, al punto che i palombari erano spesso costretti, per ricevere le comunicazioni provenienti dalla superficie, a chiudere i tubi dell'aria, causando in tal modo un rapido aumento dell'anidride carbonica. Il rumore prodotto dal riciclo dell'elio, in realtà, era di gran lunga più forte di quello causato dall'aria normale. Momsen, però, ricorse all'aiuto di Philip Drinker, un vecchio amico che insegnava a Harvard. Questi realizzò in breve un silenziatore, sul genere di quelli impiegati nei tubi di scappamento delle automobili, che funzionava così bene da indurre l'aiuto nostromo di II classe George Crocker, al primo esperimento con quel nuovo dispositivo, a chiedere di essere riportato in superficie dopo che era disceso per poco più di trenta metri. Innervosito dal silenzio, si era convinto di non ricevere gas respirabili a sufficienza. Vi furono ancora immersioni sfortunate, dato che troppo numerose erano le variabili in gioco, ma nonostante alcune eccezioni, l'introduzione del casco a elio ebbe un effetto magico sul morale e sulle capacità operative. Alcuni palombari si sentirono limitati nei movimenti a causa della biancheria riscaldata elettricamente da un accumulatore installato sulla Falcon. Tuttavia, era un male necessario. Quando due palombari chiesero di potersi immergere senza indossarla, Momsen decise di lasciarli provare. Peter Maas
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Non appena ebbero raggiunto il fondo, implorarono di essere riportati in superficie. Il lavoro con la nuova lancia cominciò non appena lo strumento fu disponibile. Nel corso di quell'operazione tanto delicata, Momsen non aveva smesso per un solo istante di tenere d'occhio gli attriti o gli accessi d'ira tra i suoi uomini. Ma a quel punto fu lui a dover contenere la propria rabbia, perché i pezzi di tubo non erano lunghi due metri, come previsto, bensì più di due metri e mezzo, e risultavano, perciò, poco maneggevoli. Anche disponendo del casco a elio, i lavori furono di molto complicati. Quando la bocchetta e circa cinque metri di tubo erano stati infilati nel fondo fangoso, per collegare il pezzo di tubo successivo furono necessarie tre immersioni. Dopodiché, i lavori procedettero più speditamente. Dal ponte dello Squalus, i palombari di volta in volta attaccavano nuovi tratti di tubo, risistemavano il condotto dell'aria e spingevano con tutte le loro forze, mentre l'acqua proveniente dalla Falcon continuava a fluire. Nel pomeriggio del 20 giugno, dopo che il giorno precedente il lavoro era progredito di pochi centimetri, Martin Sibitsky riferì entusiasticamente che il suo pezzo di tubo era penetrato «di colpo». Un brusio carico d'aspettativa si levò dal ponte della Falcon. Poiché la lancia avvolgeva la chiglia dello Squalus per più di una dozzina di metri, era solo questione di tempo. Invece di far applicare un altro pezzo di tubo, Momsen decise di far immergere il maestro carpentiere di II classe Virgil Aldrich con il compito di infilare un filo all'interno della lancia. Dalla Falcon eruppe un grido di gioia quando Aldrich riuscì a far penetrare il filo per circa venti metri. Da qualche parte, sull'altro lato dello Squalus, il filo era sicuramente spuntato dal fondale. Al tramonto, il palombaro Osco Havens si immerse per individuare il punto. Data l'ora, però, dopo dodici minuti di tentativi nell'oscurità più cupa, dovette arrendersi. Il giorno dopo, lasciando la supervisione dei palombari a "Joe Boats" Morrison, Momsen tornò a terra per la prima volta dall'inizio delle operazioni di recupero. Era il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno. Casualmente, nello stesso giorno, l'ammiraglio Cole ne compiva sessantaquattro. I due stavano sorseggiando un cocktail quando furono raggiunti dalla notizia che il filo, infine, era stato localizzato. «Be', Swede,» domandò Cole, «che cosa ne pensi?» «Ammiraglio,» rispose Momsen, «credo che questo sia il miglior Martini che io abbia mai bevuto.» Peter Maas
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Una volta trovata l'estremità del filo, all'interno della lancia vennero fatte passare funi sempre più grosse. Dopodiché la lancia venne fatta girare intorno al sommergibile e riportata in superficie. Per il 29 giugno, nonostante il tempo talvolta pessimo, a tutte le casse di zavorra del sommergibile e ai serbatoi contenenti complessivamente 360 tonnellate di gasolio erano state attaccate tutte le pompe di aspirazione del caso. In una circostanza, che aveva fatto accapponare la pelle anche a Momsen, si era persino sfiorata la tragedia. Il maestro carpentiere di II classe Edward Jodrey stava scivolando come al solito lungo la fune di discesa, quando all'improvviso la Falcon aveva rullato con violenza a causa di un'onda inattesa. La fune si era inizialmente allentata, per poi tendersi all'estremo, proiettando Jodrey lontano. Questi si era salvato dallo «squeeze» solo grazie al fatto che Momsen, a seguito della caduta di Thompson, aveva ordinato che, per qualsiasi evenienza, dalla Falcon fosse esercitata una salda presa sulla fune di sicurezza di tutti i palombari. Le imprevedibili condizioni del mare avevano reso tutti nervosi. Dalla murata della Falcon penzolavano più di trenta pompe, funi e cavi di vario tipo. C'era il rischio costante che tutti questi «spaghetti» - come li chiamavano i palombari - si attorcigliassero o si staccassero: sarebbe bastata una forte tempesta. Ma quando arrivò, la crisi colse tutti impreparati. Il 3 luglio arrivò da Portsmouth il rimorchiatore Sagamore, con una chiatta a traino carica di equipaggiamento per i soccorsi. Gettò l'ancora a una distanza apparentemente cospicua dalla Falcon, ma all'improvviso si levò una forte brezza che fece staccare l'ancora. Poco dopo era già attorcigliata agli ormeggi della Falcon situati sopravvento. Il capitano del Sagamore cercò disperatamente di disincagliarsi dando vapore, ma l'elica tranciò la fune. Con la Falcon che si spostava inesorabilmente sottovento, ufficiali e marinai si misero a correre sul ponte per allentare qualunque legame con lo Squalus; mentre settimane di lavoro estenuante rischiavano di essere vanificate, una piccola barca tentò immediatamente di fissare un nuovo ormeggio. Al calar della sera, la Falcon era tornata nella posizione iniziale. Grazie all'incredibile prodigarsi di tutti, funi e pompe erano intatte, essendo state interamente srotolate o gettate fuori bordo dopo essere state fissate a una boa... con una sola preoccupante eccezione. Peter Maas
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Il prezioso cavo principale fatto passare sotto la poppa dello Squalus aveva cominciato a sfilacciarsi. Nessuno sapeva quali fossero le sue reali condizioni, cosicché fu inviato un palombaro a verificarlo. Seguendo il cavo nella sua discesa, questi scoprì - a circa trenta metri di profondità che il cavo non era completamente reciso. Riuscì, infine, a sistemare un morsetto al di sotto del tratto danneggiato del cavo, che fu poi nuovamente assicurato alla Falcon. Era stata una giornata di estrema tensione, ma tutti si convinsero che il peggio fosse passato. Il tenente di vascello Karl Wheland, uno degli ufficiali palombari che assisteva Momsen, osservò in proposito: «Che cos'altro potrebbe andare storto?». Il piano per il sollevamento dello Squalus dal fondo dell'oceano, nelle sue linee fondamentali tracciate dagli ufficiali del Construction Corps, implicava una serie di mosse perfettamente coordinate. Per conferire al sommergibile il massimo di galleggiabilità, nelle casse di zavorra che ne circondavano lo scafo sarebbe stata introdotta aria compressa, svuotandole dall'acqua. Altra aria sarebbe stata immessa nei serbatoi del carburante. La maggior parte della forza di sollevamento, però, sarebbe stata prodotta da una serie di galleggianti fissati alla prua e alla poppa dello Squalus. Questi galleggianti erano, in pratica, dei grossi cilindri d'acciaio, lunghi una decina di metri e con un diametro di circa quattro. Sarebbero stati riempiti d'acqua, calati in mare e agganciati alle catene e ai cavi dell'imbracatura sistemata intorno allo scafo del sommergibile. A quel punto, l'acqua contenuta nei cilindri sarebbe stata fatta defluire, conferendo a ciascun galleggiante una forza di sollevamento di circa otto tonnellate. Sebbene i galleggianti operassero sulla base di principi assai semplici, nella pratica si dovettero fare i conti con mostruose difficoltà. Momsen, tra tutti gli ufficiali presenti, era l'unico che avesse mai concretamente operato con essi. La loro introduzione era stata approvata dal Congresso nel 1929, dopo la tragedia dell'S-4, e Momsen ne aveva utilizzati due nel quadro di alcune simulazioni di recupero. I palombari cominciarono a posizionare i galleggianti il 4 luglio. A metà del complicato lavoro, Momsen incontrò un vecchio amico, il comandante Henry Hartley, che subentrò a McCann in veste di assistente tecnico nello staff di Cole. Hartley era al comando della Falcon quando la nave aveva presenziato impotente alle tragedie dell'S-51 e dell'S-4. Riparlando di quei giorni davanti a una tazza di caffè, Hartley disse: «Per Dio, Swede! Puoi ben essere fiero di te». Non si trattava di un ozioso complimento. Da Peter Maas
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quando i sopravvissuti dello Squalus erano stati salvati, il mondo era stato scosso, oltre che dall'incidente del Thetis, da un'altra grave sciagura sottomarina. Il sommergibile francese Phenix era affondato, durante un'immersione di prova, al largo dell'Indocina, e nessuno dei settantuno uomini del suo equipaggio si era salvato. Le circostanze dell'incidente del Phenix rimasero avvolte nel mistero. Era finito a 100 metri sotto la superficie del mare. Alcuni giorni prima, a seguito del salvataggio degli uomini dello Squalus, la marina francese aveva ordinato quattro camere di salvataggio. Il 12 luglio, infine, a dispetto di alcuni drammatici momenti dovuti alle bizze del mare, i sette galleggianti da usare nel primo tentativo di sollevamento furono sistemati a diverse profondità. Cinque furono collocati sopra i compartimenti di poppa allagati; due di essi, posti più in alto, uno accanto all'altro, a una profondità di circa venticinque metri, vennero denominati «galleggianti di controllo», perché una volta giunti in superficie sarebbero serviti a controllare la poppa del sommergibile, soprelevata rispetto alla parte anteriore. Sopra la prua furono disposti due soli galleggianti: uno a poco più di quaranta metri di profondità e l'altro - a scopo di controllo - a circa trenta metri. Spesso toccò agire sulla base di congetture. Era impossibile sollevare contemporaneamente le due estremità del sommergibile perché non si conosceva il peso e il baricentro dell'acqua contenuta nei compartimenti di poppa. Né si poteva prevedere la forza di risucchio esercitata dal fango nel momento in cui la poppa del sommergibile fosse stata liberata. Con le pompe attaccate alle casse di zavorra, ai serbatoi del carburante e ai galleggianti, tutte collegate a una centralina situata sulla Falcon e destinata a regolare i flussi di aria compressa, il piano prevedeva di sollevare prima la poppa e poi la prua. Una volta che lo Squalus - orientato in direzione opposta rispetto a Portsmouth - fosse stato sollevato dal fondo dell'oceano, il rimorchiatore Wandank l'avrebbe trainato in direzione nordovest lungo una rotta precedentemente scandagliata dallo Sculpin. Per impedire che l'imbracatura fissata ai galleggianti anteriori si sfilasse durante il sollevamento, le catene e i cavi relativi vennero assicurati ai timoni di profondità ancora protesi dello Squalus. Quanto all'imbracatura collegata ai galleggianti di poppa, Momsen poteva solo sperare che le catene e i cavi fossero stati accuratamente sistemati tra la chiglia dello Squalus e i sostegni delle eliche. «Comunque,» disse a «Joe Boats» Peter Maas
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Morrison, «lo scopriremo presto.» L'operazione di «insufflazione e traino» sarebbe cominciata il mattino seguente, 13 luglio, posto che le condizioni atmosferiche lo consentissero. Difatti, l'indomani, il cielo era limpido, e il mare calmo. Terminata la fase delle immersioni, il comando delle operazioni di sollevamento fu affidato al capitano di corvetta Frank Tusler, del Construction Corps. Momsen e Morrison, nel frattempo, sarebbero saliti ciascuno su una baleniera a motore dotata di palombari per avvicinarsi tempestivamente ai galleggianti di controllo, una volta che questi fossero riemersi. Sulla Falcon, quando Tusler ordinò di mettere in funzione le diverse pompe, gli spettatori più interessati all'operazione erano certamente Oliver Naquin e altri tredici sopravvissuti dello Squalus, distaccati sulla nave a supporto dell'equipaggio sovraffaticato. Le pompe, infine, con misurata intensità, svolsero il loro compito. Intorno alla baleniera di Momsen, l'acqua cominciò a ribollire lentamente. Con il passare dei minuti, però, le bolle si intensificarono e si ingrandirono, salendo in superficie non più una alla volta, bensì a scie tumultuose che ricadevano forsennatamente nell'acqua, spargendosi in una vorticosa schiuma gorgogliante che vomitava gigantesche meduse, mentre sotto la superficie dell'oceano si percepiva il tonante frastuono dell'acqua impazzita. Momsen non aveva mai visto né udito nulla di simile. D'improvviso, da quel furioso ribollire, sbucarono come previsto i due galleggianti fissati ai compartimenti di poppa dello Squalus. Per un attimo, parve che si fossero staccati dai cavi che dovevano trattenerli, ma subito tornarono a posarsi sulla superficie, saldamente assicurati. Momsen e Morrison li raggiunsero sulle loro baleniere, ne chiusero le valvole e li predisposero al traino. La prima fase del sollevamento si era conclusa: la poppa dello Squalus era risalita di circa venticinque metri dal fondo. Quel pomeriggio furono riempiti d'aria anche i galleggianti fissati a prua, oltre alla cassa di zavorra anteriore numero 1, situata sotto la camera di lancio. Poiché l'operazione non fu sufficiente, fu introdotta aria compressa anche nella più ampia cassa di zavorra numero 2, appena dietro la prima. Nel corso di questa operazione, però, quando ancora la cassa di zavorra non era stata svuotata per intero dall'acqua, la prua cominciò a risalire. Nel bel mezzo di un'altra eruzione acquea, Momsen vide il galleggiante di controllo anteriore schizzare fuori dall'oceano. Lo raggiunse immediatamente, ma nel frattempo emerse anche il galleggiante Peter Maas
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più basso, che avrebbe dovuto fermarsi a circa quaranta metri di profondità. Momsen realizzò che qualcosa doveva essere andato storto. E aveva ragione. L'inerzia della prua in risalita, l'aria in espansione all'interno della cassa di zavorra numero 2 e l'acqua all'interno dello Squalus avevano liberato una forza incontrollabile di centinaia di tonnellate. Con i galleggianti che cozzavano tra loro, l'aria che fuoriusciva dalle pompe danneggiate e i cavi spezzati che schioccavano da tutte le parti, Momsen diede l'ordine di indietreggiare in tutta fretta. Così facendo, salvò la propria vita e quella dei tre uomini che erano con lui. A poco più di cinque metri dalla baleniera, la prua dello Squalus, simile al muso di un gigantesco pescecane ferito, balzò fuori dal mare, ergendosi sulla superficie. Ne uscì quasi in verticale. Mentre Momsen osservava la scena intimorito, il sommergibile spuntò di circa dieci metri e, prima di scomparire con un assordante risucchio, restò come sospeso in aria per una frazione di secondo, imprimendogli indelebilmente nella memoria l'immagine dell'acqua che scrosciava sul piccolo «192» stampinato sulla prua. Dopo quarantanove giorni spesi nel tentativo di recuperarlo, lo Squalus era di nuovo sul fondo dell'oceano. Sulla Falcon, il capitano di corvetta Tusler disse: «Gesù onnipotente! A momenti ci lasciavi le penne, Charles». Momsen trovò la forza di sorridere. «Chiamami Achab», rispose.
18 Il contrammiraglio Cole riuscì a malapena a nascondere il proprio malumore, nel rapporto reso al capo delle operazioni navali. «Sulla base delle conoscenze acquisite con l'esperienza,» scrisse, «è ora possibile supporre che lo sfortunato esito del sollevamento sarebbe stato evitato se fossero stati osservati alcuni accorgimenti, come ad esempio l'impiego di due galleggianti superiori di controllo, invece di uno solo.» Tra sé e sé, invece, Momsen nutriva la convinzione che il sollevamento dello Squalus con un solo galleggiante superiore di controllo a prua sarebbe riuscito se non fosse stato commesso un altro grave errore. Dopo che la prima e più piccola cassa di zavorra anteriore, svuotata dall'acqua, si era rivelata insufficiente a garantire la galleggiabilità necessaria, la si Peter Maas
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sarebbe dovuta allagare di nuovo prima di svuotare la cassa di zavorra numero 2. «È impossibile» disse a Morrison, «controllare una cassa di zavorra mezza vuota mentre sta risalendo.» Momsen, però, era soprattutto preoccupato da un'altra questione. I palombari erano tutti di pessimo umore. Ai loro occhi, le continue e quotidiane immersioni - con il rischio che qualcuno potesse non riemergere - e il faticosissimo compito di approntare il sommergibile per il recupero si erano tramutate in un'orribile beffa. Credevano che lo Squalus fosse sfuggito al controllo, quando era ormai a portata di mano, a causa di qualche grave errore di calcolo compiuto dagli ufficiali del Construction Corps. Malcontenti, si radunarono sul ponte della Falcon a piccoli gruppi; i fortissimi venti provenienti da nord-est non potevano certo risollevare il loro morale. L'operazione di recupero, comunque, doveva riprendere, e Momsen era determinato a impedire che le lamentele dei palombari sfuggissero di mano. Li convocò, quindi, e disse loro: «D'accordo, il nostro piccolo castello di carte è crollato. Ma se vi interessa sapere che cosa faremo ora, vi rivelerò un segreto: ne costruiremo uno migliore». Malgrado il tono sempre tranquillo e le maniere cordiali, Momsen era circondato da un'inequivocabile aura d'autorità. Anche nelle situazioni più confidenziali, gli uomini da lui comandati gli si rivolgevano sempre con un «signor Momsen». In quel caso, però, quando Momsen ebbe finito di parlare, un palombaro gridò: «Facciamogliela vedere, Swede!». Il solo compito di riordinare i cavi e le pompe nello spazio limitato del ponte della Falcon fu un'impresa erculea. Due giorni dopo che lo Squalus era balzato fuori dall'acqua, il mare si placò, e i quattro galleggianti emersi poterono essere avvicinati e preparati per essere condotti a Portsmouth in vista di una revisione completa. Con ciò rimasero tre galleggianti, di cui si ignoravano condizioni e ubicazione. Ma il mistero più fitto riguardava il sommergibile. Naturalmente, il primo palombaro in grado di raggiungerlo lo avrebbe trovato avvoltolato in decine e decine di metri di funi attorcigliate, catene e gomene. Ma era forse sprofondato ancora di più nel fango? Si era posato con la chiglia, consentendo così ai palombari di sfruttarne il ponte, o si era rigirato, rendendo il loro lavoro più insidioso che mai? E, infine, l'avrebbero trovato completamente allagato? I boccaporti si erano forse spalancati a causa del brusco sbalzo di pressione subito durante la risalita? Peter Maas
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Momsen ricevette una lettera di «auguri» da un compagno dell'accademia di Annapolis in servizio su una nave da guerra. Allegato alla lettera, c'era un titolo di giornale: POCHE SPERANZE PER LO SFORTUNATO SOMMERGIBILE. Nel pomeriggio del 16 luglio, un palombaro si calò lungo una fune per cercare di localizzare i galleggianti smarriti. Sceso di una trentina di metri, si imbatté in un groviglio di pompe che, per il resto della sua permanenza sott'acqua, tentò di sciogliere il più possibile. Il lavoro fu completato dal palombaro successivo. Il terzo palombaro, all'ultima immersione della giornata, riferì buone notizie. Aveva scorto due galleggianti, ancora legati all'imbracatura disposta intorno alla poppa del sommergibile. Ciò significava che la terrificante prospettiva di far passare un'altra lancia sotto la chiglia dello Squalus era scongiurata. Del terzo galleggiante, che doveva trovarsi a circa 60 metri sopra la poppa del sommergibile, non c'era traccia. Momsen interruppe temporaneamente le ricerche, per concentrarsi sui due galleggianti che avevano ritrovato, benché l'opera di rimetterli in funzione non fosse certo cosa facile. Ci vollero quattordici immersioni, miracolosamente senza incidenti, per dipanare il fitto groviglio di cavi spezzati che li circondavano e per sostituire con cura le pompe dell'aria danneggiate. Poi, toccò al maestro carpentiere di I classe Henry Frye scendere a ispezionare il ponte di poppa dello Squalus. Quasi subito perse l'orientamento, e il suo rapporto - che, su richiesta di Momsen, ogni palombaro una volta risalito era tenuto a presentare a un sottufficiale addetto a questa funzione - fornì un quadro assai cupo di ciò che li aspettava. «Appena raggiunto il sommergibile» disse Frye, «mi sono impigliato nelle funi allentate. Non potevo muovermi per cercare di capire se fossi a dritta oppure a babordo. Credevo che la fune di discesa dovesse essere a dritta e ho riportato un'inclinazione approssimativa di sei gradi, ma poi mi sono reso conto che la fune di discesa si trovava a babordo.» Il tenente di vascello Morrison confermò l'inclinazione a babordo di sei gradi. Mentre scivolava nuovamente sul fondo, lo Squalus aveva cominciato a rullare, ma fortunatamente non aveva avuto il tempo di ruotare più di tanto. Morrison scorse un incredibile intrico di funi e pompe Peter Maas
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e, facendosi largo, fece un'ulteriore positiva scoperta: il boccaporto della camera di lancio anteriore era ancora chiuso. Momsen decise di sfruttare il più possibile l'intreccio che avvolgeva il sommergibile. Lo sforzo richiesto da una «pulizia generale» a quella profondità era semplicemente improponibile. Ulteriori immersioni apportarono altre buone notizie. Benché l'imbracatura del galleggiante di prua fosse irrimediabilmente perduta, i timoni che la tenevano bloccata erano stati, chissà come, risparmiati. La parte posteriore dello Squalus, inoltre, era sprofondata molto meno di prima nel fango, mentre i tre compartimenti anteriori sembravano ancora liberi dall'acqua. Ciononostante, ai palombari toccò un duro lavoro: dovettero controllare tutti i giunti e le valvole di sicurezza dello Squalus, cambiare tutte le pompe danneggiate, far passare una nuova catena sotto la prua, far salire i due galleggianti che erano stati ritrovati, nonché cercare e infine recuperare quello scomparso, situato in posizione quasi verticale sul fondo del mare. La sola operazione di recupero di questo galleggiante richiese sei giorni. Come se non bastasse, i palombari furono colpiti da un'epidemia di raffreddore di testa: molti dovettero marcare visita perché la congestione nelle trombe di Eustachio impediva ai loro orecchi di adattarsi agli sbalzi di pressione. Poi, per tre giorni consecutivi, la zona delle operazioni fu battuta da un forte vento da nord-est. Quando il vento si placò, sopraggiunse un fitto banco di nebbia che parve volersi trattenere in eterno e li costrinse all'inattività. Già nelle giornate limpide, la visibilità sott'acqua era un fattore imprevedibile: nel giro di un'ora poteva passare da quindici metri a non più di un braccio. Nulla era in grado di deprimere Momsen più di quell'umido sudario che li avvolgeva. Immerso da un po' nella nebbia, accanto a Morrison - mentre la Falcon pareva stranamente azzittita e il silenzio era rotto soltanto dai monotoni segnali acustici diffusi sull'acqua dalle navi vedetta, per avvertire le imbarcazioni di passaggio di tenersi alla larga - Momsen infine sbottò: «Cristo! Come la odio!». «Che cosa, signore?» «La nebbia! Non ci si può far niente.» Eppure, nonostante tutti gli intoppi, il 3 agosto anche l'ultimo galleggiante prese la via del ritorno a Portsmouth per essere riparato. In quello stesso giorno al capitano di corvetta Momsen fu ufficialmente conferita la promozione. Benché lui non Peter Maas
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ne avesse fatto parola con nessuno, la notizia trapelò, e a un certo punto, sulla Falcon, Momsen si ritrovò circondato da palombari sorridenti che gli porsero il lucente cappello da comandante della marina. «Be'» disse, dopo aver recuperato il suo abituale aplomb, «è davvero un cappello stupendo. Spero che mi vada bene.» «Capitano», disse Cole, «sono certo che le starà benissimo.» La collocazione dei galleggianti per il secondo tentativo di sollevamento dello Squalus si sarebbe svolta in modo molto diverso. A poppa vennero sistemati sei galleggianti, invece dei cinque utilizzati in occasione del primo tentativo. A venticinque metri di profondità sarebbero stati impiegati tre galleggianti di controllo, con uno intermedio a cinquanta metri e i due inferiori a poco più di sessanta. Mutamenti ancora più drastici vennero introdotti a prua: erano previsti un galleggiante a poco più di sessanta metri e altri tre di controllo a poco meno di venticinque metri dalla superficie, per evitare che si ripetesse la scena della riemersione temporanea dello Squalus. Nonostante una serie di temporali ciclonici, che diedero luogo a fortissimi venti fino a sessanta nodi, il 12 agosto, di prima mattina, i galleggianti erano pronti per il secondo tentativo di sollevamento. A parte il sistema di traino, tutto il resto rimase sostanzialmente uguale. Dato che lo Squalus aveva sempre la prua rivolta lontano da Portsmouth, il Wandank l'avrebbe trainato all'indietro in direzione nord-ovest per circa un miglio e mezzo, dove il sommergibile sarebbe tornato a posarsi sul fondale che in quel luogo, sulla base dei rilevamenti eseguiti dallo Sculpin, doveva essere profondo poco più di cinquanta metri. A quel punto, se si fosse riusciti a mantenere una galleggiabilità sufficiente, lo Squalus sarebbe stato immediatamente risollevato e portato in direzione nord, dove la profondità era di circa trenta metri e il fondale sabbioso e compatto, tra le Isles of Shoals e la terraferma, prima dell'ultimo strappo necessario a risalire il corso del Piscataqua. Il capitano di corvetta Tusler avrebbe sovrinteso, a bordo della Falcon, all'immissione di aria nelle casse di zavorra, nei serbatoi del carburante e nei galleggianti. Momsen e Morrison si sarebbero nuovamente imbarcati sulle baleniere per legare i galleggianti, una volta che fossero emersi, e per seguire le operazioni in modo da evitare che le funi si aggrovigliassero. Ancora una volta, sopra la poppa del sommergibile, Momsen osservò il Peter Maas
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crescente ribollire dell'acqua e udì, sotto di sé, lo spaventoso rombare che culminò tre ore dopo in un'esplosione di acqua spumosa. Dal suo epicentro sbucarono i tre galleggianti di controllo, che dopo essere stati, per un attimo, nuovamente inghiottiti dall'acqua, tornarono infine a galla, allineati «come soldati in parata», secondo la descrizione di Momsen. I palombari li abbordarono all'istante, si arrampicarono su di essi - tenendosi in precario equilibrio sulle sobbalzanti e arrotondate superfici superiori - e segnalarono, poco dopo, di averli fissati con sicurezza. Un'attesa carica di tensione si impadronì della piccola flotta quando ebbero inizio i lavori sulla prua. Poiché i galleggianti di controllo erano stati gonfiati nella notte, non restava che introdurre aria compressa in un galleggiante e in un serbatoio di carburante; il ribollire dell'acqua fu meno pronunciato rispetto a prima. Non servì altro. Ironia della sorte, i tre galleggianti di controllo anteriori emersero questa volta come meglio non avrebbero potuto. La prua dello Squalus era risalita di una ventina di metri dal fondo, mentre la poppa si trovava di poco più in alto. Il Wandank cominciò a trainare il relitto alla velocità di un nodo. Subito si sviluppò un'intensa corrente di marea diretta verso sud, che lo costrinse ad accelerare fin quasi a due nodi, correggendo leggermente l'orientamento verso est. La Falcon seguiva poco lontano, con un altro cavo legato alla prua del sommergibile. "Meglio di così non poteva andare", pensò Momsen, guidando la propria baleniera intorno ai galleggianti di controllo: era tutto a posto. Si alzò persino una brezza da nord, come a volerli sospingere. Erano trascorsi un'ora e dodici minuti dall'inizio delle operazioni di traino, e la zona prescelta dallo Sculpin si trovava a poco più di settecento metri. All'improvviso, dal Wandank partì uno stridente segnale d'allarme: lo Squalus si era fermato. Ciò avvenne con una tale rapidità che il tenente George Sharp, capitano della Falcon, riuscì appena a evitare di oltrepassare il traino e di andare a sbattere contro i preziosi galleggianti. Ci fu un attimo di confusione totale. Poi, quando la prua dello Squalus cominciò a ruotare, tracciando un arco di un centinaio di gradi, apparve chiaro - e i palombari di Momsen ne avrebbero dato presto conferma - che la poppa del sommergibile si era incagliata in una minima sporgenza sul fondo dell'oceano che lo Sculpin non aveva rilevato. La sporgenza era così piccola che, se fossero passati pochi metri più a destra o più a sinistra, l'avrebbero tranquillamente evitata. Ciononostante, il sommergibile Peter Maas
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rimase, in buona parte, sollevato di circa sei metri dal fondale. Cole sperava di poterlo disincagliare quella sera stessa, con l'alzarsi della marea, ma neanche quando il Wandank ebbe aumentato i giri del motore fino a otto nodi lo Squalus riuscì a muoversi. A quel punto, decisero di far scendere i galleggianti superiori di una trentina di metri, per tentare di portare lo Squalus oltre la sporgenza fino alla meta intermedia prevista, a cinque miglia da lì. Il giorno successivo, però, una maretta piuttosto consistente rese impossibile qualunque immersione e impedì il verificarsi di un altro evento da tutti attesissimo: la visita alla Falcon del presidente Roosevelt, che passava nei paraggi a bordo dell'incrociatore Tuscaloosa, diretto verso la sua residenza estiva di Campobello, nel Maine. Finalmente, il 17 agosto, dopo alcuni giorni di lavoro per l'aggiustamento dei galleggianti e la verifica dell'equilibrio relativo, fu ripetuta la complessa procedura di introduzione dell'aria nelle casse di zavorra e nei serbatoi del carburante, che per l'esecuzione dei lavori dei giorni precedenti erano stati nuovamente allagati. Dopo di che, i galleggianti di poppa tornarono a salire. Sulla sua baleniera a motore, Swede Momsen attese come al solito che anche i galleggianti di prua riemergessero. Ma l'attesa, questa volta, fu vana. «Oh, Cristo!» bisbigliò il maestro palombaro McDonald, alle sue spalle, «non riemergono.» Si era ripetuta la situazione verificatasi il 13 luglio: dopo che la cassa di zavorra numero 1 era stata riempita, non era accaduto nulla. La lezione, però, era servita. Prima che il capitano di corvetta Tusler desse ordine di svuotare dall'acqua la grande cassa di zavorra numero 2, la numero 1 fu riempita di nuovo. E funzionò. Quella sera, la prua si sollevò, e i galleggianti di controllo riemersero. Per sicurezza, furono attaccate gomene da otto pollici alle imbracature di sostegno e di traino, nel caso queste ultime, in quel trambusto, si fossero danneggiate. Fu una mossa previdente, perché non appena le operazioni di traino furono riprese uno dei cavi di supporto del relitto si spezzò. Lo Squalus avrebbe seguito una rotta a zigzag per evitare le secche. La luce fosca del tardo pomeriggio non fece altro che peggiorare le cose, ma questa volta lo Sculpin fece strada senza mai smettere di scandagliare i fondali. Tre natanti, inoltre, furono dislocati in punti chiave lungo il tragitto: il sommergibile Sargo, la motovedetta 410 della Guardia costiera e, infine, la cannoniera Sacramento. Quest'ultima, reliquia che risaliva a Peter Maas
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prima della Grande Guerra e ultimo dei vascelli della marina che ancora funzionava a carbone, aveva servito così a lungo nei mari dell'Asia da guadagnarsi la definizione di «spettro galoppante della costa cinese». Per la Sacramento, carica di vele stracciate tanto a prua quanto a poppa, questa sarebbe stata l'ultima missione. Dovendo accelerare le operazioni, per via dell'incombere della sera, il Wandank spinse, nei tratti rettilinei, fino a otto nodi, rallentando a uno o due nodi in quelli curvilinei, il tutto senza intoppi di sorta, finché lo Squalus non si arenò dolcemente sul fondale sabbioso a circa trenta metri dalla superficie, proprio come previsto. La sabbia era così compatta da consentire ai palombari di camminarvi sopra tranquillamente e di passare sotto la prua e la poppa del sommergibile senza pericolo. Per la prima volta, vennero inviati sul fondo a due a due, per controllare che tutti i boccaporti del ponte fossero chiusi, al pari delle valvole dello scafo. I membri più anziani della squadra addetta al recupero non riuscirono a resistere all'idea secondo cui, liberando dall'acqua i quattro compartimenti di poppa allagati, i galleggianti, così difficili da controllare, sarebbero divenuti inutili. Per svuotare i compartimenti, occorreva innanzitutto chiudere dall'esterno la principale valvola d'aspirazione dell'aria, operazione che a una maggiore profondità risultava impraticabile. A quel punto, però, si manifestarono altre falle, perlopiù in prossimità dei lanciasiluri poppieri, che era impossibile tappare. E, benché - insufflando e aspirando - una parte dell'acqua fosse stata effettivamente rimossa, i compartimenti non potevano certo dirsi prosciugati. Che piacesse o meno, furono costretti a ricorrere ai galleggianti. Gli ufficiali del Construction Corps che facevano parte della squadra di recupero stabilirono che, con le trentatré pompe collegate alle casse di zavorra e ai serbatoi del carburante dello Squalus, sarebbero bastate due coppie di galleggianti da disporre ognuna su un lato della poppa. L'aiuto mitragliere di I classe Walter Harmon - uno degli operatori della camera di salvataggio in occasione della prima drammatica missione - e un altro palombaro furono incaricati di far passare i cavi tra i sostegni delle eliche sotto la poppa. Momsen non poté fare a meno di pensare a quante cose erano cambiate. In quattordici minuti, infatti, riuscirono a compiere ciò che, ad altre profondità, aveva richiesto un mese di lavoro. A un certo riguardo, però, quei pensieri si rivelarono prematuri. Lo Peter Maas
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Squalus non sarebbe stato trainato da prua, benché fosse questa la parte che sarebbe stata sollevata per prima. Mentre il pompaggio dell'aria era prossimo al compimento, l'intera parte anteriore del sommergibile, sotto lo sguardo sgomento di Momsen, balzò fuori dall'acqua, ruotò pesantemente a babordo di circa sessanta gradi e, con l'aria che sfiatava da casse e serbatoi, sprofondò di nuovo. Si decise di procedere ugualmente al sollevamento da poppa, ma poiché la prua non rispondeva alle sollecitazioni, anche la poppa fu lasciata nuovamente affondare. Il maestro palombaro Jim McDonald, sulla baleniera di Momsen, sintetizzò a meraviglia il sentimento generale: «Prima abbiamo visto la prua, poi la poppa. Non sarebbe il caso di vederle tutt'e due insieme, ora?». «Così sia», fu la risposta di Momsen. Per migliorare la funzione di controllo, sarebbe stato necessario fissare alla prua altri due galleggianti. Prima di tutto, però, Momsen doveva cercare di capire di quanto fosse ruotato lo Squalus dopo il violento rollio subito. Lo strumento che, a questo scopo, fu affidato al palombaro Joe Alicki mancava di alcune rifiniture scientifiche, ma avrebbe svolto la sua funzione. Consisteva di due assi inchiodate ad angolo retto, con un cavo zavorrato che pendeva da un'estremità di una di esse. Alicki avrebbe dovuto disporre l'asse inferiore di traverso sul ponte principale e, poi, segnare il punto in cui il cavo lo toccava. Misurando il triangolo così ottenuto, calcolò che l'inclinazione a babordo dello Squalus era di circa trentaquattro gradi e, perciò, ancora rimediabile. All'alba del 30 agosto, malauguratamente in anticipo, la prima delle mostruose tempeste che sempre, nel mese di settembre, cominciano a sferzare le coste del Maine si abbatté su di loro con una violenza tale da costringere la Falcon a legare a delle boe tutte le sue pompe, per poi cercare riparo a Portsmouth. Due giorni dopo, però, poté riprendere la sua posizione. Erano tutti così ossessionati dal pensiero di dover riportare lo Squalus alla base che - dopo aver vissuto come monaci di clausura, dimentichi del mondo esterno - la diramazione di un bollettino che riguardava da vicino molti di loro, affisso sulla Falcon e indirizzato a tutte le navi e a tutte le installazioni navali, non provocò la minima emozione. Era cominciata la Seconda Guerra mondiale. «La Germania» recitava il bollettino, «ha invaso la Polonia. Combattimenti e bombardamenti in corso. Adottate le contromisure Peter Maas
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previste.» Il mare era ancora troppo grosso per poter disporre i galleggianti di prua. Un palombaro si immerse per verificare le condizioni del sommergibile e scoprì che il boccaporto della camera di lancio poppiera si era aperto. Ciò fornì ai tecnici dello staff di Cole l'occasione di riesumare un piccolo progetto, cui Momsen si era opposto sin dall'inizio, che prevedeva l'ispezione subacquea dello Squalus. Dato che il boccaporto era aperto, perché non mandare un palombaro a chiudere la paratia della camera di lancio? Gran parte dell'aria utilizzata nei precedenti tentativi di svuotare i compartimenti di poppa era fuoriuscita dai lanciasiluri. Con la paratia e le valvole di aerazione chiuse, avrebbero quantomeno potuto tentare di svuotare dall'acqua le sale macchine e la batteria di poppa. Dopotutto, lo Squalus si trovava a trenta metri di profondità, non più a ottanta. Momsen rimase sbalordito. «Ammiraglio,» disse, «non mi interessa la profondità a cui si trova lo Squalus. E poi, comunque, immergersi in trenta metri d'acqua non è esattamente come entrare in una vasca da bagno. Mandare un palombaro in quel compartimento è la cosa più pericolosa che si possa immaginare. Il diametro del boccaporto non supera i settanta centimetri. Quando facevo il palombaro, una volta sono riuscito a malapena a passare da un boccaporto che aveva un diametro di quasi ottanta centimetri. In ogni caso, se qualcuno dovesse entrare nel sommergibile, Dio solo sa a che cosa andrebbe incontro. Provi a immaginare che cosa succederebbe se la fune di sicurezza si spezzasse o se i tubi dell'aria smettessero di funzionare... Secondo me, poi, un lavoro del genere non solo è pericoloso, ma anche inutile.» Alla fine, però, dovette cedere. Momsen non poteva assumersi l'onere della missione perché, secondo i regolamenti della marina, l'età di un palombaro doveva essere inferiore ai quarant'anni. Del resto, non si sarebbe mai sognato di ordinare a chicchessia di fare una cosa del genere. Il dilemma fu risolto quando il tenente Morrison si offrì volontario, mentre l'aiuto nostromo di I classe Forrest Smith gli avrebbe retto la fune dall'esterno, sul ponte dello Squalus. Prima che al giovane tenente venisse calcato in testa il casco dello scafandro, Momsen gli si avvicinò e disse: «Fa' attenzione, Joe Boats». Quindi, seguì con ansia il procedere della missione sull'interfono. Non appena si fu posato sullo Squalus, Morrison cominciò a lamentare Peter Maas
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problemi. Già solo il passaggio attraverso il cilindro sottostante l'apertura del boccaporto fu difficile. Fatto questo, la cintura e la valvola di controllo dell'aria di Morrison si impigliarono ripetutamente nei pioli della scaletta che dall'interno dello Squalus raggiungeva il boccaporto. Per procedere nella discesa, un piolo alla volta, dovette distendere e premere le braccia lungo i fianchi. All'improvviso, annunciò: «Non mi arriva più aria. La valvola deve essersi impigliata da qualche parte». Per alcuni secondi - «i più lunghi della mia vita», avrebbe confessato Momsen rimase in attesa. Solo come estrema ratio avrebbe ordinato a Morrison di risalire, dato che questi, impigliato com'era in quello stretto passaggio, rischiava di danneggiare lo scafandro. Quando, infine, Momsen stava quasi per richiamarlo, Morrison riuscì a riaprire la valvola dell'aria e disse: «Tutto OK. Sto scendendo. Con il casco sono mezzo metro sotto l'entrata del boccaporto. Ehi, un attimo! Con i piedi continuo a urtare qualcosa che ostruisce il fondo del passaggio. Non riesco a vedere di che si tratta.» Per Momsen, fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Joe Boats» ordinò, «torna su.» Non senza fatica, Morrison riattraversò il boccaporto, con l'aiuto di Smith. Quando fu, di nuovo, sul ponte del sommergibile, calarono un riflettore subacqueo all'interno del boccaporto. La visibilità era assai scarsa; l'acqua nel compartimento era melmosa. Ma riuscirono comunque a vedere quale fosse l'ostacolo che aveva impedito l'ingresso: la faccia e un braccio di un cadavere. E sotto il primo corpo sembrava essercene un altro. Quella sera Momsen chiese di poter conferire in privato con l'ammiraglio Cole. «Signore,» esordì, «se devo continuare a svolgere il mio ruolo di ufficiale palombaro...» Non dovette aggiungere altro. Cole lo interruppe. «Swede,» disse, «ho già capito. Non ci saranno altri tentativi di penetrare nel sommergibile finché non sarà in bacino di carenaggio.» Pochi giorni dopo, Morrison - avendo ottenuto un trasferimento già più volte rimandato nel corso dell'estate - fu sollevato dal suo incarico di ufficiale in seconda nella squadra di recupero per assumere il comando del suo primo sommergibile, il Sea Lion. «Joe Boats,» disse Momsen mentre Morrison si preparava a partire, «sei un ufficiale di prim'ordine, uno dei migliori, e sono convinto che farai molta strada. Mi dispiace che tu non possa rimanere per assistere al gran finale.» Peter Maas
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Sei mesi dopo, Momsen sarebbe inorridito nel venire a sapere della morte di Morrison, per un colpo partito accidentalmente dal fucile che stava pulendo. L'11 settembre tutto era pronto per l'ultimo sollevamento, a parte le condizioni atmosferiche. Nella notte un vento da sud-est che toccò i quaranta nodi costrinse a rinunciare. Nel tardo pomeriggio, però, il vento girò, cominciando a soffiare da nord-ovest, e poi, a poco a poco, si placò. L'indomani mattina il tenente George MacKenzie, che aveva preso il posto di Morrison, risalì da un'immersione di controllo con notizie raggelanti. Il vento e il mare avevano causato dei danni: lo Squalus era in equilibrio precario e tendeva sensibilmente a ruotare sempre più a babordo, con l'inclinazione che era già aumentata di dieci gradi. MacKenzie disse che l'aveva visto muoversi. Il tempo volava. Quella sera, Cole ricevette le notizie che attendeva con ansia: le previsioni meteorologiche per il 13 settembre. «Venti leggeri o moderati da nord e da nord-est. Parzialmente nuvoloso. Condizioni di visibilità massima. Mare piatto.» All'alba del 13, l'ultimo sollevamento ebbe inizio. Cole contava che lo Squalus imboccasse a ritroso il corso del Piscataqua per le 13,30, ora in cui le sue acque erano ancora in stanca. Poco dopo le otto, i galleggianti di poppa riemersero e, dopo un istantaneo affondamento, ricomparvero in superficie. La pompa collegata a uno di essi si era rotta, sprigionando un potente getto di aria e acqua. Momsen e l'equipaggio della sua baleniera vi si avvicinarono in tutta fretta, riuscendo appena in tempo ad applicarvi una valvola di emergenza. Benché fosse ancora visibile, il galleggiante era quasi completamente sommerso. Due ore dopo riemersero, insieme ai galleggianti di prua, anche il periscopio e la torretta. «Ce l'abbiamo fatta!», gridò qualcuno. Ma così non era. Malgrado tutta l'aria che vi era stata introdotta, non appena riemerse, lo Squalus rullò lentamente e affondò, trascinando con sé anche i galleggianti di poppa. A mezzogiorno, era di nuovo sul fondo. Non avevano scelta. Non fu neppure possibile, per ragioni di tempo, mandare un palombaro a verificare in che condizioni si trovasse. La procedura di introduzione dell'aria fu ripetuta daccapo. Ci fu un furioso ribollire sopra la poppa, ma i galleggianti non si videro. L'insufflazione continuò, ma non accadde nulla. A quel punto, per la prima volta dopo Peter Maas
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settimane e mesi, erano sul punto di ammettere la sconfitta. Lo Squalus non sarebbe mai stato recuperato. Sui volti torvi degli uomini della Falcon, della baleniera di Momsen e di tutte le altre imbarcazioni che facevano parte della flottiglia di recupero, si dipinse a poco a poco lo sconforto. Forse fu proprio questo scoraggiamento generale che fece il miracolo. Nessuno, almeno, ha mai saputo fornire una spiegazione più plausibile. All'improvviso, i galleggianti di poppa spuntarono nuovamente dall'acqua, seguiti - a distanza di un'ora - da quelli di prua. Subito dopo, avvenne l'incredibile. Come una sorta di enorme ed esausto salmone, il sommergibile riemerse lentamente accanto alla Falcon: prima, di nuovo, il periscopio e la torretta, sempre più alta, benché leggermente inclinata a babordo, con il «192» chiaramente visibile a dritta e il ponte di comando danneggiato, probabilmente in occasione della violenta riemersione del 13 luglio. Il ponte principale rimase appena sotto il pelo dell'acqua, con l'attrezzatura di sollevamento piegata e attorcigliata, che restò in vista finché il sommergibile non si stabilizzò. Ci vollero cinque minuti - dopo che Momsen e i suoi palombari ebbero assicurato i galleggianti, chiudendo alla svelta l'ultima valvola di una pompa che perdeva - per avere la certezza di averlo addomesticato. «Ho appena imparato una cosa su me stesso», disse Momsen a Cole. «Non credevo di essere capace di trattenere il respiro così a lungo.» Quel pomeriggio il Wandank cominciò a trainare lo Squalus. Era tardi per poter approfittare della stanca del fiume e, poiché - anzi - la corrente di marea contraria nello stretto e tortuoso corso del Piscataqua cominciava a intensificarsi, alle operazioni si unì anche il rimorchiatore civile Chandler, per prestare aiuto in caso di necessità. Nel frattempo, il vecchio e affidabile Penacook si affiancò alla Falcon per darle manforte. Sostarono appena all'esterno della foce del fiume. Cole dovette prendere una decisione la cui responsabilità ricadeva interamente sulle sue spalle. Lo Squalus si trovava a una profondità di una dozzina di metri; con la bassa marea media prevista nel giro di un'ora e mezza, c'erano due punti da oltrepassare in cui l'acqua sarebbe stata altrettanto bassa. L'attesa dell'acqua alta, però, comportava altri possibili rischi. «Okay,» disse, «andiamo.» Il primo dei punti difficili si trovava poco più a valle di un vecchio faro che sorvegliava il lato nord del porto di Portsmouth. Lì, lo Squalus toccò il Peter Maas
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fondo, ma con una grande prova di competenza marinara la Falcon tenne duro finché il Wandank non ebbe accelerato a sufficienza per trainare il sommergibile oltre la gobba. All'ingresso del porto, le bandiere dei vascelli che incontrarono erano tutte rispettosamente a mezz'asta. Migliaia di persone affollavano entrambe le rive e osservavano in silenzio, nella luce sempre più debole, quella strana processione, vagamente funebre, che avanzava controcorrente. Anche dopo che il sole fu tramontato, rimasero lì, immobili, a decifrare i suoi progressi grazie alle luci delle navi da traino. Poi, nel silenzio della notte che incombeva, si udì un brusio allarmato. Le luci si erano fermate. Procedendo verso l'entroterra, il Piscataqua si snoda oltre la base navale di Portsmouth con un'ampia, doppia curva a S. Alla prima ansa della S, lo Squalus toccò nuovamente il fondale: era quello il secondo dei tre punti del canale caratterizzati da acque basse. Anche lì, la spinta del fiume raggiunse la massima violenza, con flussi in costante movimento a parte la breve fase di calma assoluta al susseguirsi di due correnti di marea. Il sommergibile cominciò, addirittura, a deviare; se si fosse incagliato in quel punto sarebbe stato un disastro. Il responsabile del porto di Portsmouth, capitano Shirley Holt, che aveva assunto la direzione dell'operazione di traino, fu pronto a ordinare un'audace manovra per portare bruscamente lo Squalus verso il lato est del canale, facendogli costeggiare la rocciosa sporgenza della base dove l'acqua era più profonda. Il Wandank accelerò fin quasi a rompere il cavo da rimorchio. E lo Squalus, infine, riuscì a passare. Alle otto di quella sera era posato sul fondale del fiume a circa trenta metri dalla sua destinazione ultima, il posto di fonda numero 6. L'equipaggio della baleniera di Momsen si affrettò a fissare delle funi ai galleggianti, mentre il Penacook e il Chandler accorsero per evitare che lo Squalus venisse investito in pieno dalla marea montante. Quando il livello dell'acqua aumentò, lo Squalus raggiunse finalmente la meta prevista. Le operazioni di pompaggio dell'acqua cominciarono immediatamente, in modo da prepararlo al più presto per il bacino di carenaggio. Per il resto, la missione poteva dirsi compiuta. Centotredici giorni dopo la fatale immersione, lo Squalus era rientrato alla base. C'era voluta la più grande operazione di salvataggio sottomarino e di recupero a grandi profondità di tutti i tempi. Peter Maas
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Dopo aver assistito all'inquietante riemersione dello Squalus nell'abbagliante luce dei riflettori, Charles Momsen quella sera, nel redigere il suo diario, si lasciò andare a un tono leggermente iperbolico, che però gli perdoniamo volentieri. «Mentre osservavo quella scena,» scrisse, «ho creduto di veder sorgere dalle acque un tridente e una corona, seguiti dal volto rabbuiato di Nettuno, privato infine del suo trofeo.» Lo svuotamento dello Squalus dall'acqua proseguì per tutto il giorno successivo, e verso la mezzanotte il sommergibile era quasi pronto per essere portato in bacino di carenaggio. Fino a quel momento, dalle sale macchine erano stati recuperati cinque cadaveri che, rinchiusi in sacchi grigi, erano stati portati all'obitorio dell'ospedale della base navale di Portsmouth. Quattro ore più tardi, lo scafo dello Squalus era interamente emerso. Altri diciassette cadaveri furono trovati nella camera di lancio poppiera in cui Morrison aveva tentato di penetrare. Risultò chiaro che quegli uomini avevano, quantomeno, avuto una morte rapida. Il mare aveva fatto irruzione così all'improvviso che nessuno di loro era riuscito a raggiungere i polmoni artificiali, che si trovavano, infatti, allineati lungo la rastrelliera. Il torpediniere di II classe Al Priester, addetto alle comunicazioni in camera di lancio, fu trovato seduto con la schiena eretta tra un armadietto e un tubo lanciasiluri, con le cuffie ancora in testa, come fosse in attesa di un messaggio dalla camera di manovra. Il marinaio di II classe John Marino, un ragazzo dello Iowa alla sua prima esperienza su un sommergibile, fu recuperato nella batteria di poppa, nei pressi della zona mensa dove avrebbe dovuto servire il pasto. Nessuno, tra coloro che erano riusciti a sgattaiolare fuori dal quel compartimento, ricordava di averlo visto lì. Il marinaio di prima classe Alexander Keegan, che aveva lasciato la cambusa proprio al momento dell'immersione, fu trovato nel gabinetto della batteria. Nel conto rientrano altri due uomini. Tagliando con la fiamma ossidrica il guscio metallico del vano della batteria di poppa, trovarono la venticinquesima vittima, l'aiuto elettricista di I classe John Batick, che vi si era recato per controllare il funzionamento degli accumulatori. Il ventiseiesimo corpo - quello del cuoco di II classe Thompson, che al momento dell'immersione stava dormendo dopo aver preparato la colazione - non fu mai trovato. Momsen si fece un'idea di quel che poteva Peter Maas
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essere successo. Dopo l'incidente, gli uomini raccoltisi in camera di manovra avevano udito un forte e inspiegabile clangore. Era possibile che Thompson, intrappolato nel compartimento, si fosse istintivamente arrampicato fino al boccaporto della batteria di poppa, lo avesse sganciato e avesse atteso l'attimo in cui la pressione si sarebbe stabilizzata per aprirlo e tentare disperatamente di uscire dal sommergibile. Una sacca d'aria intrappolata all'interno aveva forse spalancato il boccaporto, che si era poi richiuso sotto la pressione dell'acqua circostante. La protezione del boccaporto, in ogni caso, era rimasta chiusa per quasi tutta la durata delle operazioni di recupero. I palombari avevano preso l'abitudine di azionare, ogni volta che potevano, la campana di bordo dello Squalus, e per far ciò dovevano salire in piedi proprio su quel boccaporto. A un certo punto, però, dopo l'inatteso inconveniente del 12 agosto, il palombaro Jesse Duncan, dirigendosi verso la campana di bordo, aveva scoperto con sua grande sorpresa che il boccaporto era aperto. In un modo o nell'altro, il corpo di Thompson doveva esserne uscito. Con lo Squalus in bacino di carenaggio, si poté procedere alla fase conclusiva dell'indagine. La commissione d'inchiesta, dopo aver raccolto le dichiarazioni scritte di tutti i sopravvissuti, decise di interrogarli nuovamente, giungendo persino a chiedere conto al quartiermastro di I classe Frank Murphy dell'articolo di giornale in cui si era sostenuto, citandolo in forma indiretta, che lo Squalus aveva già avuto problemi in precedenza. Murphy negò di aver detto alcunché di simile. Alcuni membri della commissione, accompagnati da Naquin e dal suo secondo, il tenente Walter Doyle, ispezionarono la camera di manovra per tentare di risolvere il mistero della valvola d'aspirazione dell'aria nel motore principale che era rimasta aperta. Dopo aver introdotto il fluido apposito nell'impianto idraulico, Doyle azionò la leva che avrebbe dovuto chiudere sia la valvola del motore principale sia la valvola d'aerazione. Quest'ultima si chiuse, mentre l'altra non rispose al comando. Era questo, si domandò Naquin, quel che era accaduto il 23 maggio? Non l'avrebbero mai appurato. Dopo aver introdotto altro fluido nell'impianto idraulico, Doyle ripeté l'operazione, e le due valvole, questa volta, si chiusero entrambe. La commissione interrogò, tra gli altri, anche Momsen e il capitano Richard Edwards. Il rapporto conclusivo presentato al Dipartimento della Peter Maas
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marina non indicava responsabilità personali nel disastro. Certificò, anzi, che gli ufficiali e l'equipaggio del sommergibile erano «ben addestrati e in perfetta efficienza». Il capitano Naquin, vi si affermava, «ha dimostrato notevoli capacità di comando al momento dell'incidente subito dall'U.S.S. Squalus e nel corso delle operazioni di soccorso». Il rapporto stabilì ufficialmente che l'incidente era «da attribuirsi a un guasto meccanico del dispositivo di chiusura della valvola d'aspirazione del motore». Il che, ovviamente, suscitò indirettamente la questione di come fosse accaduto. Quella questione, però, non fu approfondita, perché non era possibile ottenere una risposta certa, ma soltanto prove indiziarie. Quando fu provata la leva delle valvole d'aspirazione, si scoprì che il dispositivo di chiusura non era a posto. Per molti sommergibilisti, questa fu la conferma della teoria secondo cui la valvola d'aspirazione del motore era chiusa al momento dell'immersione, ma era poi stata inavvertitamente riaperta a una profondità di circa venti metri. Pur riconoscendo che il guasto meccanico non poteva essere individuato per tempo a causa di un guasto elettrico del quadro di controllo, il rapporto adombrò l'ipotesi che potesse esservi stato «un errore nella lettura dell'indicatore da parte del personale incaricato». Nonostante gli elogi che nel rapporto gli venivano rivolti, Oliver Naquin non avrebbe mai più avuto l'agognato comando di un altro sommergibile. La sua carriera si era interrotta virtualmente già nel mese di giugno, quando - nel corso di una prima indagine - il capitano Edwards, in qualità di comandante del 2° squadrone sommergibili, aveva inviato al comandante delle forze sottomarine un rapporto in cui si affermava: «Lo Squalus ha deciso, secondo un'abitudine ormai diffusa, di immergersi con alcune valvole esterne degli impianti di aspirazione e di aerazione aperte. Tale pratica è da ritenersi non solo inutile, bensì anche pericolosa». Le valvole a cui faceva riferimento Edwards venivano azionate a mano nelle sale macchine. Praticamente nessuno, tra i comandanti di sommergibili, si curava di farle chiudere, perché - come ebbe a dire Momsen - erano «difficilissime da raggiungere, soprattutto quella nella sala macchine di poppa». Nei sommergibili nuovi, inoltre, tendevano a incepparsi. Il rapporto inviato al Dipartimento della marina rilevava il fatto che quelle valvole fossero aperte. Il ministro, a sua volta, nella nota "disciplinare" conclusiva dichiarò: «Se quelle valvole esterne fossero state Peter Maas
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chiuse prima dell'immersione [...] solo i tubi degli impianti si sarebbero allagati, non i compartimenti». Non aveva importanza che Naquin fosse stato semplicemente sfortunato. Per la legge del mare, la colpa era del comandante. Naquin fu trasferito, servì con onore su navi di superficie durante la Seconda Guerra mondiale e andò in pensione con il grado di contrammiraglio. Momsen sposò la teoria della riapertura delle valvole dopo l'immersione. A suo parere, le leve delle valvole esterne erano tutte troppo vicine e potevano aver indotto all'errore. Gli ammonimenti della commissione d'inchiesta furono nei fatti più istruttivi delle sue scoperte. Per prevenire il rischio che la leva delle valvole principali d'induzione potesse essere azionata inavvertitamente, su tutti i sommergibili in servizio fu installata una protezione atta a isolarla dalle altre leve. Nei sommergibili in costruzione, invece, quella leva fu collocata altrove e dotata di una forma distintiva. In fase di progettazione, furono introdotte anche altre cruciali modifiche. In caso di improvvisa irruzione dell'acqua, invece di chiudere le valvole di rinforzo interne girando a mano le apposite rotelle, sarebbe bastato, da quel momento, che un membro dell'equipaggio azionasse delle leve per far sì che quelle valvole venissero automaticamente chiuse dalla pressione del mare. Le stesse modifiche furono applicate anche alle valvole principali d'aspirazione esterne situate sul lato della torretta. La risposta doveva trovarsi tra queste raccomandazioni contenute nel rapporto, perché quanto accaduto allo Squalus non capitò più ad alcun sommergibile americano. Momsen lasciò Portsmouth con un encomio sul suo ruolino di servizio per la sua «eccezionale freddezza, capacità di giudizio, competenza e senso di responsabilità» nel salvataggio dei trentatré sopravvissuti dello Squalus. L'elogio proseguiva: «In questo periodo ha avuto luogo il massimo sforzo mai tentato nel campo delle immersioni subacquee. Su 640 immersioni, effettuate in condizioni spesso proibitive, non si sono registrati incidenti mortali né casi di gravi lesioni ai palombari, il che testimonia della costante vigilanza, dell'abilità professionale, della competenza tecnica e della lungimiranza del comandante Charles Bowers Momsen». Nel congratularsi con lui, il dottor Al Behnke, disse, scherzando: «Be', Peter Maas
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Swede, a quanto pare i nostri test estivi sulla nuova miscela di elio e ossigeno sono andati bene, no?».
19 Un'ultima crudele beffa doveva aggiungersi alla saga dello Squalus... e dello Sculpin. In bacino di carenaggio, il sommergibile recuperato fu trovato in condizioni incredibilmente buone. Vi fu ben poco da sostituire, a parte l'impianto elettrico. Persino strumenti delicati come la bussola giroscopica e l'elaboratore di dati furono agevolmente riparati. Fu riarmato il 15 maggio 1940 e ribattezzato Sailfish. Si diceva che fosse stato il presidente Roosevelt in persona a suggerire il nuovo nome: pare che le foto dello Squalus che erompeva dall'oceano, scattate in occasione del primo sfortunato tentativo di recupero, gli avessero ricordato un istioforo [sailfish] durante un salto. E, alla fine dell'estate dello stesso anno, riprese le immersioni di collaudo a sud delle Isles of Shoals. Gran parte dell'ex equipaggio era stato assegnato ad altri incarichi, ma quattro dei suoi membri tornarono a prestarvi servizio: i tre grandi amici Gerry McLees, Lenny de Medeiros e Lloyd Maness, insieme a Gene Cravens. Il nuovo comandante, il capitano di corvetta Morton Mumma jr., era uno che pretendeva una ferrea disciplina. La storia di quel sommergibile sembrava gravargli sulle spalle. McLees avrebbe ricordato, in seguito, che Mumma aveva convocato lui e gli altri superstiti dello Squalus per avvertirli che non avrebbe tollerato di sentir pronunciare il vecchio nome del sommergibile. Qualora altri membri dell'equipaggio avessero rivolto loro domande in merito all'incidente, avrebbero dovuto ignorarli. Per quel che lo riguardava, disse Mumma, lo Squalus non era mai esistito. Quell'editto, ovviamente, era privo di senso. Il ritorno in servizio di quel natante era l'argomento più discusso tra i sommergibilisti d'America. Per molti di essi, quel sommergibile portava sfortuna. Giunsero perfino a coniare un nome tutto loro: Squalfish. Ogni volta che prendeva il mare, gli equipaggi degli altri sommergibili raccomandavano: «Ehi, non dimenticatevi di chiudere le valvole d'aspirazione principali, quando vi immergete». «A dir la verità» avrebbe ammesso in seguito Gerry McLees, «ci pensavamo sempre anche noi.» Peter Maas
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Nell'inverno del 1940, il Sailfish fu distaccato presso la flotta del Pacifico. Non appena giunsero a Pearl Harbor, parve a Mumma che il sommergibile fosse perseguitato dalla sua storia. Gli fu assegnato l'ormeggio accanto a quello dello Sculpin. Mumma cercò di farsi assegnare un posto diverso, ma il comandante della sua divisione respinse la richiesta. La paranoia di Mumma si aggravò quando venne a sapere che su una delle navi in servizio a Pearl Harbor si trovava Oliver Naquin. Diede immediatamente disposizioni - nell'eventualità che Naquin facesse la sua comparsa - di non farlo salire a bordo per nessuna ragione. E Naquin, una sera, sul presto, in effetti si presentò. L'imbarazzato ufficiale di guardia fece notare, nel modo più diplomatico di cui fu capace, l'assenza di qualsivoglia invito a visitare il sommergibile. «Il capitano ha imposto una regola rigorosissima», disse. «Niente visite.» «Ah, capisco», fece Naquin. Nell'autunno del 1941, Mumma ricevette, come il capitano dello Sculpin, l'ordine di unirsi alla flotta Asiatica nelle Filippine. Alla base navale di Cavite, Mumma era logorato da tutto quel parlare di guerra. «Pareva non vedesse l'ora che succedesse qualcosa», avrebbe poi ricordato McLees. Finché, nel giorno dell'attacco a Pearl Harbor, dal lato opposto della baia di Manila non giunse un messaggio tramite luci di segnalazione: DAL COMANDANTE DELLA FLOTTA ASIATICA. IL GIAPPONE HA DATO INIZIO ALLE OSTILITÀ. ADOTTATE CONTROMISURE PREVISTE. C'erano ventinove sommergibili di stanza a Cavite. Presero tutti il mare, prevedendo un'invasione giapponese. Lo Sculpin scortò per un breve tratto un convoglio, composto da sommergibili, aerei e navi d'appoggio ai cacciatorpediniere e diretto a sud verso posizioni più sicure, per poi partire in perlustrazione lungo la costa dell'isola di Luzon. Il vecchio Squalus fu inviato nel golfo di Lingayen, a metà circa della costa occidentale di Luzon, dove erano previsti sbarchi dei nemici. Mentre i bombardieri giapponesi eseguivano il loro primo passaggio sopra Manila, lo Squalus individuò navi trasporto nemiche nelle acque del golfo. Si immerse ad altezza di periscopio e lanciò due siluri contro una di esse. Un tecnico audio che presidiava l'idrofono segnalò che il secondo siluro aveva centrato il bersaglio, ma non c'era stata esplosione. Mumma si mostrò sbalordito. L'efficienza dei detonatori Mark 6 installati sui siluri doveva essere l'arma segreta della flotta sottomarina. Peter Maas
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Un attimo dopo, vide incorniciato nel periscopio un cacciatorpediniere giapponese lanciato a tutta velocità nella loro direzione. Mumma ordinò un'immersione a 80 metri. Subito, però, il tecnico audio riferì che erano stati individuati dal sonar. Visibilmente scosso, Mumma stentava a crederci. I comandanti dei cacciatorpediniere gli avevano assicurato che, con le nuove possibilità offerte dalla tecnologia del sonar, una volta che avessero individuato un sommergibile, gli uomini a bordo di quest'ultimo avrebbero anche potuto cominciare a nominare gli eredi. D'altra parte, però, gli avevano anche detto che i radar giapponesi non erano altrettanto sofisticati. «Mio Dio!» disse Mumma, secondo la successiva ricostruzione di McLees, «forse abbiamo incrociato un cacciatorpediniere americano.» «No», gli fu risposto. «La frequenza è diversa.» Pochi istanti dopo, intorno a loro presero a esplodere le bombe di profondità. Il sommergibile vibrava per le onde d'urto, ma riuscì ad allontanarsi senza particolari danni. Col volto cinereo, Mumma si rinchiuse nella sua cabina, vittima - probabilmente - di una crisi di nervi. Inviò un messaggio in cui si parlava di un brutale attacco nemico e si chiedeva il permesso di tornare alla base. A Cavite fu sollevato dal comando. Ripensando a quei momenti, Gerry McLees avrebbe generosamente commentato: «Non era proprio capace, ma fu abbastanza uomo da accettarlo. Avrebbe potuto metterci in un sacco di guai». Poco meno di due anni dopo, nel novembre 1943, lo Sculpin era impegnato nella sua nona missione bellica di sorveglianza. Era dislocato al largo di Truk, la principale base navale giapponese nel Pacifico occidentale. In collaborazione con altri sommergibili, doveva intercettare le navi da guerra nemiche nel quadro dell'imminente invasione di Tawara e di altri atolli delle Isole Gilbert in mano ai giapponesi, più a est. La sera del 18 novembre, il radar dello Sculpin individuò un convoglio giapponese proveniente da Truk che si affrettava in direzione dell'arcipelago delle Gilbert. Fu stabilito, per la notte, di procedere in superficie parallelamente al convoglio, per poi assumere, al mattino, la posizione d'attacco. All'alba, mentre si avvicinava ad altezza di periscopio, sul sommergibile notarono con sospetto che il convoglio stava avanzando verso di loro. Lo Sculpin si immerse immediatamente, ma il convoglio Peter Maas
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formato da quattro cacciatorpediniere, un incrociatore e una nave da carico - vi passò sopra senza che accadesse nulla. Apparentemente, non lo avevano individuato. Il capitano del sommergibile attese circa un'ora prima di riemergere e tentare una manovra di aggiramento, ma si ritrovò in trappola. Lo Sculpin, infatti, era stato scorto, e un quinto cacciatorpediniere che seguiva il convoglio a una certa distanza lo stava attaccando a velocità di abbordaggio, costringendolo a battersi in superficie. Con quel cacciatorpediniere, però, non ci fu partita. Una granata colpì il ponte e la torretta dello Sculpin, uccidendo quattro ufficiali - tra cui il capitano - e mettendo fuori uso le valvole di aspirazione principali. Un altro proiettile esplose sul ponte anteriore. L'ultimo ufficiale rimasto a bordo, normalmente addetto alle immersioni, non ebbe scelta: diede ordine di abbandonare il sommergibile e di affondarlo. I sopravvissuti si gettarono in mare con i giubbotti di salvataggio e furono fatti prigionieri. Il vecchio Squalus, nel frattempo, si trovava a nord di Truk con il compito di intercettare il traffico da e per il Giappone. Lo comandava il capitano di corvetta Robert E.M. Ward. Appena prima della sua partenza da Pearl Harbor, l'ultimo dei membri dell'equipaggio originario ancora a bordo, Gerry McLees, era stato trasferito su un altro sommergibile. «Devo ringraziare la mia buona stella, per questo», avrebbe poi affermato. «Non so come avrei fatto a continuare a vivere. Sarei stato sopraffatto dagli incubi.» La notte del 3 dicembre, nella sua zona di operazioni, si abbatté un potente tornado. Alle 17,45 Ward annotò sul diario di bordo: «Riemergiamo mentre è in corso un tifone. Mare tremendo, venti di 40-50 nodi, pioggia battente e visibilità dopo il crepuscolo variabile tra 0 e 400 metri». A quel punto, il radar di Ward registrò alcune presenze. Poco lontano stava passando un convoglio giapponese. Scelse il segnale più intenso, che era anche il più vicino, e attaccò. Nonostante la furia del vento e del mare, il sommergibile inseguì con tenacia il suo bersaglio per dieci ore, sparando un siluro dopo l'altro. Al mattino, Ward fece cautamente spuntare il periscopio e vide una portaerei giapponese ferma sull'acqua. Bastarono tre siluri per affondarla. Ward e il suo equipaggio, però, ignoravano che a bordo della portaerei si trovavano i ventuno sopravvissuti dello Sculpin, il sommergibile gemello Peter Maas
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che aveva ritrovato lo Squalus dopo l'incidente del 23 maggio 1939. Uno solo di loro, il marinaio George Rocek, riuscì a salvarsi dall'affondamento della portaerei.
Epilogo Charles Momsen, malato di cancro, morì il 25 maggio 1967. Si era congedato su sua richiesta nel 1955, con il grado di vice ammiraglio. La marina, che aveva servito con tanta dedizione e intelligenza, gli assicurò la sepoltura che si addiceva al suo rango. Ma, in realtà, non aveva mai saputo bene che fare di lui. Momsen era fisicamente prestante, in un ambiente in cui la presenza fisica aveva una grande importanza, e come ufficiale aveva uno stato di servizio superbo. I documenti sulla sua idoneità erano pieni di giudizi come «ottimo... coraggioso... eccezionale personalità». Tuttavia, con grave scorno dei suoi superiori, dava sempre l'impressione di voler mutare lo status quo. Già nel 1939, ai tempi del disastro dello Squalus, aveva sostenuto con insistenza: «Dovremmo cominciare a progettare e costruire sommergibili che possano immergersi a più di 300 metri di profondità e procedere, sott'acqua, a venti nodi di velocità». «Se non ricordo male» mi disse una volta, «la cosa più gentile che mi abbiano detto in quell'occasione fu che avevo proprio un grande talento come umorista.» Il 7 dicembre 1941, era responsabile delle operazioni presso il Comando del 14° Distretto navale. Poco dopo le sette di quella domenica mattina, fu svegliato dall'ufficiale di guardia che gli riferì la notizia, giunta dal cacciatorpediniere Ward in servizio di picchetto, dell'avvistamento e del probabile affondamento, al largo, di un sommergibile non identificato. In effetti, si trattava di uno dei mini-sommergibili che i giapponesi speravano di far penetrare nel porto. Momsen telefonò immediatamente al suo diretto superiore. «Ne sei sicuro?» «È quanto mi è stato appena riferito.» «Accertatene, allora», fu la torpida risposta. In precedenza si erano già diffuse voci di contatti con sommergibili non identificati che si aggiravano intorno alle Hawaii. Quelle voci, però, si erano tutte rivelate infondate. E sebbene tutti si aspettassero lo scoppio Peter Maas
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della guerra da un momento all'altro, si riteneva che il Giappone avrebbe colpito le Filippine o altri possedimenti occidentali nel Sud-est asiatico. Momsen era informato di quegli allarmi apparentemente infondati, ma di avvistamenti e affondamenti di sommergibili non si aveva certezza. Consapevole di rischiare una lavata di capo per aver scavalcato la catena di comando, ordinò a un secondo cacciatorpediniere, il Monahan, di affiancarsi al Ward. A quel punto, altri comandi delle Hawaii erano stati informati del rapporto diramato dal Ward. Eppure, a parte l'azione intrapresa da Momsen, nessuno dichiarò lo stato di allerta. La convinzione diffusa era che il Ward doveva essersi sbagliato. Quando raggiunse il suo posto di comando, Momsen venne a sapere che il Monahan si era imbattuto in un secondo mini-sommergibile. Ormai, però, la prima ondata di aerei giapponesi aveva già cominciato a bombardare le navi americane ancorate nella rada di Pearl Harbor. I proiettili dei mitragliatori dei caccia sibilavano dappertutto. Con orrore, vide l'Arizona saltare in aria e l'Oklahoma inclinarsi paurosamente. Mentre la marina tentava di reagire, Momsen contribuì a organizzare un nuovo comando, denominato Hawaiian Sea Frontier, e ricevette l'incarico di aiutante del capo di stato maggiore. Nel giro di un anno, però, promosso capitano, tornò ai suoi amati sommergibili per comandare il 2° squadrone sottomarino sotto la guida di un suo vecchio amico, il contrammiraglio Charles Lockwood, comandante della flotta sottomarina del Pacifico, lo stesso che in quel fatidico 23 maggio aveva inviato Momsen a Portsmouth. Ben presto, questo nuovo incarico lo condusse a una nuova sfida con la morte. Dall'inizio della guerra, Lockwood aveva trovato, nei rapporti dei comandanti dei sommergibili di ritorno dalle loro missioni, continue e aspre lamentele per i problemi avuti con i detonatori Mark 6. Lo sviluppo e la produzione di questi detonatori erano avvenuti in gran segreto. Poiché erano stati dati in dotazione solo nell'estate del 1941, i capitani dei sommergibili avevano con essi poca familiarità. Dopo un po', fu chiaro che si trattava di un colossale fallimento. Una caratteristica dei nuovi detonatori consisteva nel fatto che non era più necessario colpirli direttamente. Presentavano, invece, un dispositivo d'innesco "magneticamente condizionato" che entrava in azione quando il siluro penetrava nel campo magnetico di una nave nemica fatta di ferro o acciaio. In teoria, parevano costituire un enorme progresso nel campo della Peter Maas
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produzione di siluri. Nella pratica, però, molti detonatori esplodevano prima di essersi abbastanza avvicinati al bersaglio da far danni. Un comandante, inferocito, accusò ben tredici lanci fallimentari. Un altro riferì che sei degli otto siluri sparati erano esplosi prima del dovuto. Un terzo, invece, testimoniò di aver lanciato in rapida successione tre siluri che erano esplosi a poca distanza dal bersaglio senza causare danni. Il morale dei comandanti e degli equipaggi dei sommergibili divenne motivo di seria preoccupazione, finché non fu dato ordine di smantellare il dispositivo magnetico. Subito, però, insorse un altro problema, ancora più inquietante. I capitani dei sommergibili e gli ufficiali addetti ai siluri erano stati addestrati a posizionarsi - per un'ideale linea di tiro - perpendicolarmente al bersaglio. Di continuo, però, giungeva notizia che i siluri lanciati in questo modo ad alzo zero il più delle volte fallivano il bersaglio. Ancora più stupefacente era poi il fatto che, sparando con angolazioni meno favorevoli, riuscivano in molti casi a colpire l'obbiettivo. Secondo il Bureau of Ordnance, che riteneva i siluri e i detonatori perfettamente funzionanti, tutte queste lamentele erano semplicemente alibi per gli errori. La situazione si risolse quando il sommergibile Tinosa incrociò un bersaglio da sogno, una petroliera senza scorta da 20.000 tonnellate, della classe massima di cui i giapponesi disponessero. Il Tinosa sparò una salva di quattro siluri in posizione da manuale, praticamente perpendicolare. Almeno due dei siluri colpirono il bersaglio senza esplodere. La petroliera accelerò per allontanarsi, ma il sommergibile riuscì a riportarsi sotto e a sparare altri due siluri da un'angolazione sconsigliata. Esplosero entrambi e immobilizzarono la petroliera. Il Tinosa si avvicinò per completare l'opera a una distanza di circa 800 metri. Furono lanciati perpendicolarmente altri otto siluri senza effetto. Le testate avrebbero potuto benissimo essere caricate a segatura. Il capitano, infuriato, risparmiò il suo ultimo siluro e fece ritorno a Pearl Harbor. Riferì a Lockwood che neanche un cieco avrebbe potuto mancare il bersaglio. Ma quando i tecnici degli armamenti esaminarono il siluro rimasto non trovarono alcun difetto. I comandanti dello squadrone di Momsen erano altrettanto arrabbiati e frustrati. E Momsen era dalla loro parte. Aveva fatto personalmente esperienza della rigidità burocratica, cosicché si presentò da Lockwood con un'idea. Vicino a Pearl Harbor sorgeva la piccola isola di Kahoolawe, Peter Maas
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caratterizzata da ripide rupi che cadevano a strapiombo in acque relativamente basse. «Perché non portiamo là un carico di siluri» disse, «e li spariamo contro le rupi? Al primo proiettile inesploso, potremo scoprire qual è il problema.» Lockwood ammise che si trattava di una proposta ragionevole. «Sennonché» disse, «non mi va l'idea che tu finisca a trovare san Pietro per aver tentato di esaminare un proiettile inesploso contenente trecentocinquanta chili di TNT.» Momsen partì alla volta di Kahoolawe a bordo del sommergibile Muskellunge, scortato dalla Widgeon, nave gemella della Falcon. Con sua grande sorpresa, il primo siluro esplose normalmente. Il secondo, però, fallì. In occhialini e costume da bagno, Momsen lo individuò nell'acqua limpida a quindici metri di profondità, con la testata parzialmente aperta. Utilizzando un casco speciale per le immersioni a basse profondità, un aiuto nostromo, John Kelly, si calò lungo una fune zavorrata e fissò un cavo di recupero alle pinne di deriva del siluro, che venne poi sollevato con estrema cautela sul ponte della Widgeon. Ben consapevoli del grave pericolo che ciò comportava, Momsen e altri ufficiali lo esaminarono. All'impatto con il bersaglio, il percussore del detonatore Mark 6 era progettato per muoversi lungo delle guide e colpire la capsula dell'innesco, che a sua volta faceva esplodere il TNT. Nel siluro portato a bordo della Widgeon, Momsen scoprì che il percussore aveva raggiunto la capsula facendo a malapena contatto, con una forza insufficiente a causare l'esplosione. Il mistero fu dunque risolto. Se il siluro colpiva perpendicolarmente, il rinculo dovuto alla collisione impediva al percussore di colpire la capsula. Quando, invece, il siluro colpiva obliquamente, la decelerazione era molto minore e consentiva così l'esplosione. Ulteriori test confermarono questa ipotesi. Lockwood ordinò immediatamente ai suoi comandanti di sommergibili in mare di lasciar perdere, per il momento, quanto appreso durante l'addestramento e di sparare il più lontano possibile dalla perpendicolare rispetto al bersaglio. Il Bureau of Ordnance riconobbe, infine, che il progetto del detonatore era difettoso e promise di elaborare una soluzione. Lockwood, però, con i suoi sommergibili impegnati in continue missioni di guerra, non poteva aspettare. Di conseguenza, Momsen e gli ufficiali delle officine del servizio sommergibili di Pearl Harbor si misero al lavoro. Alleggerirono il Peter Maas
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percussore, per ridurre l'attrito in fase di scorrimento lungo le guide. Quell'autunno, il sommergibile Barb partì alla ricerca di navi nemiche armato di venti siluri con il percussore modificato. Lockwood notò che «tutti i principali problemi dei detonatori sono all'improvviso scomparsi». Charles Momsen fu insignito di una medaglia al valor militare. La motivazione recitava: «Con infinita pazienza e acutezza analitica [...] il capitano Momsen ha personalmente sovrinteso all'indagine per determinare i punti deboli del detonatore dei siluri allora in uso [ed] è riuscito nell'impresa di sviluppare un nuovo detonatore di gran lunga migliore. In fase di sperimentazione, dopo che un siluro lanciato contro una rupe era rimasto inesploso, si è immerso con grande sprezzo del pericolo per contribuire al recupero del siluro stesso al fine di sottoporlo a un ulteriore esame». Ma Momsen bramava soprattutto il mare, e inventò un modo di condurre la guerra sottomarina mai impiegato prima nel Pacifico. Nell'Atlantico, sciami di sommergibili tedeschi, detti «branchi di lupi», continuavano ad attaccare grossi convogli alleati provenienti dall'America e diretti in Inghilterra. La marina statunitense non aveva adottato questa tattica perché non disponeva di un numero sufficiente di sommergibili per coprire le vaste distese del Pacifico e perché i convogli giapponesi non erano mai tanto numerosi. Con il procedere della guerra, però, il numero di sommergibili a disposizione della flotta del Pacifico aumentò, mentre convogli nipponici sempre più numerosi - che non potevano essere affrontati da singoli sommergibili - continuavano a essere segnalati nello specchio d'acqua relativamente circoscritto del Mar Cinese orientale. Vennero studiati diversi approcci su una tavola da giochi di guerra che era servita, un tempo, come pista da ballo degli ufficiali del comando sommergibili di Pearl Harbor. Ne risultò una tecnica radicalmente diversa da quella adottata dai tedeschi. I sommergibili che perlustravano l'Atlantico settentrionale venivano guidati a formare i «branchi» da radio che trasmettevano dalle basi in terraferma. Una volta cominciato l'attacco, però, ciascun sommergibile agiva autonomamente. Nella versione americana, invece, i branchi avrebbero attaccato in modo strettamente coordinato, comunicando tra loro per mezzo di onde sonore sottomarine a bassa frequenza. Inoltre, i gruppi di sommergibili sarebbero stati composti da un numero inferiore di unità rispetto ai tedeschi. Sebbene i convogli giapponesi fossero costituiti da un numero maggiore Peter Maas
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di navi, raramente superavano le dodici o quattordici unità. Il numero ottimale fu dunque fissato a tre sommergibili per branco. La strategia di base prevedeva che un sommergibile colpisse a dritta del convoglio, un altro a babordo e il terzo da dietro, per finire le navi già colpite. Il 1° ottobre 1943, Momsen era al comando del primo branco in partenza da Midway verso il Mar Cinese orientale. Due dei tre sommergibili impiegati non avevano mai combattuto. Ciononostante, e a dispetto degli inconvenienti tipici di una missione sperimentale, i tre sommergibili rientrarono alla base dopo sei settimane con 101.000 tonnellate di naviglio nemico affondato o danneggiato e un notevole patrimonio di esperienze al loro attivo. Lockwood adottò immediatamente questa tattica, e al termine del conflitto altri 117 branchi furono lanciati contro i giapponesi con enorme successo. Elogiato come «maestro della guerra sottomarina» e per aver sviluppato «una dottrina d'attacco nella quale i sommergibili sono in grado di agire in gruppo e in profondità, in acque controllate dal nemico, mantenendo la piena capacità di offesa», Swede Momsen fu insignito della Navy Cross. Fu poi richiamato a Washington dal comandante in capo della marina, ammiraglio Ernest J. King. Mentre era in volo verso est, Momsen non poté fare a meno di interrogarsi su quale importante incarico volessero affidargli. Se era richiesta la sua presenza, doveva necessariamente trattarsi di qualcosa di grosso. L'intrattabile King venne immediatamente al sodo. «Momsen,» grugnì, «devi assolutamente risolvermi questo dannato problema della posta.» "Dev'essere uno scherzo", pensò Momsen. Ma non lo era. «Non sto scherzando», disse King. «Tu forse credi che la mia principale preoccupazione sia quella di spazzar via i giapponesi dai sette mari... Ebbene, ti sbagli!» Indicò una pila di lettere sistemata su un tavolo in un angolo del suo ufficio. «Le vedi quelle? Sono lettere inviatemi da membri del Congresso e del Senato, e parlano tutte della stessa cosa: il servizio di posta della marina. Secondo loro, farebbe schifo. Mi stanno facendo impazzire. Hai carta bianca.» King notò, infine, l'espressione perplessa di Momsen. «Swede,» aggiunse allora, «se mi risolverai il problema, non avrai da pentirtene.» Nel giro di tre mesi, Momsen ristrutturò completamente il servizio postale della marina. E King mantenne la parola data. «Devo ammettere che la situazione è molto migliorata», disse. «Ora avrei un altro lavoretto per te.» Peter Maas
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Si trattava di comandare la potente South Dakota, ammiraglia della flotta del Pacifico. Sotto il comando di Momsen, la South Dakota operò alle Marianne e a Iwo Jima, appoggiò l'invasione di Okinawa e fu la prima nave americana a bombardare l'isola giapponese di Honsu. Un giorno, al largo di Okinawa, Momsen stava sorvegliando le operazioni di carico di granate e polvere esplosiva da una nave di rifornimento che aveva affiancato la South Dakota. All'improvviso, da una delle torrette anteriori sotto di lui cominciò a levarsi un'orribile nube di fumo giallo. Il fumo aumentò. Dopo di che, si udì una detonazione soffocata, e la grande nave tremò. In qualche modo, era avvenuta la cosa peggiore che si potesse temere. Si era verificata un'esplosione nella torretta, e la South Dakota era sul punto di saltare in aria, mettendo a repentaglio la vita di un migliaio di uomini. Momsen si mise subito in contatto con l'ufficiale addetto alla verifica dei danni. «Allagate tutti i depositi, torretta numero due», ordinò. Con la coda dell'occhio, vide la nave di rifornimento e tutte le altre imbarcazioni nei paraggi allontanarsi in tutta fretta. Ci fu una seconda esplosione e, poi, altre tre, in rapida successione. Nonostante la sua enorme stazza, la South Dakota tremò ripetutamente. Il comandante sul campo, contrammiraglio W.A. «Ching» Lee, acquartierato a bordo e richiamato dalle esplosioni fuori dalla sua cabina, raggiunse Momsen sul ponte di comando. Un quartiermastro che si trovava nei pressi avrebbe, in seguito, ricostruito lo scambio di battute. «Per Dio, Swede!», esclamò Lee. «Che diavolo sta succedendo?» «Credo che i depositi anteriori stiano esplodendo.» «Gesù Cristo! Che cosa hai in mente di fare?» «Ho dato ordine di allagare i depositi.» «Ma l'ordine è stato eseguito?» «Spero di sì, ammiraglio. Ma non ho intenzione di chiedere conferma», Momsen indicò il cielo. «In ogni caso, lo sapremo presto. Se non è stato eseguito, nel giro di trenta secondi saremo lassù.» Il disastro sfiorato provocò altri problemi tra Momsen e la burocrazia della marina. L'incidente che per poco non aveva fatto saltare in aria la South Dakota era assai raro, ma era già inspiegabilmente capitato su altre navi in analoghe circostanze. In quel caso, però, Momsen poté contare su un testimone, un marinaio che stava entrando nel deposito al momento della prima esplosione. Fortunatamente, la porta che stava attraversando si Peter Maas
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chiuse a causa dell'esplosione, e il marinaio si salvò. Secondo costui, l'esplosione era avvenuta mentre due uomini dell'equipaggio stavano trasportando nel deposito un bidone di polvere esplosiva. All'interno di questi bidoni la polvere era racchiusa in un sacco di seta. Momsen concluse che l'attrito tra l'acciaio e la seta aveva prodotto la scintilla che aveva causato l'esplosione. Gli esperti del Bureau of Ordnance, cui ancora bruciava la vicenda dei detonatori difettosi, obiettarono educatamente che Momsen, questa volta, si sbagliava di grosso. Egli, però, come al solito, insistette e riuscì a trovare sostegno sufficiente per tentare di dimostrare la sua ipotesi. Per un mese le operazioni di carico di esplosivi simulate proseguirono senza risultati. All'ultimo giorno dei trenta previsti per i test, però, si produsse la scintilla. E la diatriba ebbe fine, con l'abbandono dei sacchi di seta per la polvere esplosiva. Finita la guerra, Momsen tornò a operare nel settore prediletto: i sommergibili. Con il rango di contrammiraglio, fu nominato aiutante del capo delle operazioni navali per la guerra sottomarina. E fu proprio in questo ruolo che lasciò una consistente eredità di cui tuttora la marina militare si giova. Mentre la guerra di Corea stava per concludersi, io servivo come addetto stampa in marina. Negli ultimi tre mesi di servizio, ero stato assegnato all'ufficio della marina al Pentagono agli ordini del capitano Slade Cutter. Questi, noto per aver realizzato il calcio decisivo nella partita che nel 1934 aveva visto contrapposti l'esercito e la marina, aveva anche, in veste di comandante di sommergibile, ottenuto il terzo miglior risultato in assoluto quanto a tonnellaggio di navi giapponesi affondate durante la Seconda Guerra mondiale. Per ben cinque volte aveva conquistato la Navy Cross, massima onorificenza conferita dalla marina. Fu da lui che venni a sapere di Charles Momsen, nonché di un rivoluzionario e, allora, segreto, sommergibile: l'Albacore. Quando il contrammiraglio Hyman Rickover, allora capitano, cominciò a lavorare sulla propulsione nucleare, ebbe modo di sperimentarla - al fine di una riduzione dei costi - su un sommergibile chiamato Nautilus. Se gli esperimenti fossero andati a buon fine, gli ammiragli delle portaerei, che avevano sostituito i loro omologhi delle navi da battaglia come figure centrali nella gerarchia navale, prevedevano di estendere gli impianti per la Peter Maas
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produzione di energia atomica per alimentare le portaerei e le navi che facevano loro da scorta. E così fece Rickover, che era riuscito ad avviare il progetto grazie alla posizione preminente conquistata nell'ambito della Commissione per l'energia atomica. Momsen, però, aveva in mente qualcosa di diverso. Storicamente, i sommergibili - a causa della loro dipendenza dall'energia elettrica - erano navi di superficie che, di tanto in tanto, potevano immergersi. Il loro progetto di base - compreso quello del Nautilus - era imperniato su questo principio. Eppure, con l'avvento dell'energia nucleare, era possibile concepire un "vero sottomarino", che riemergesse solo occasionalmente. Dotato dello scafo giusto, secondo le parole di Momsen, «un sommergibile non avrebbe più dovuto squagliarsela come una mucca terrorizzata, a uno o due nodi di velocità, a una profondità di poche decine di metri, mentre i suoi inseguitori facevano piovere bombe di profondità fino a esaurire le scorte». Al contrario, il sommergibile poteva trasformarsi in aggressore e, anzi, diventare - in potenza - l'arma principale della marina, la spina dorsale della flotta. Parlare apertamente di ciò che aveva immaginato gli sarebbe probabilmente valso un rapido trasferimento in manicomio. E il giovane tenente di vascello che anni prima, giunto a Washington, aveva visto malamente accantonato il suo progetto della campana subacquea aveva imparato la lezione: bisognava evitare lo scontro aperto. L'astuzia era la chiave per aggirare la burocrazia. Momsen sapeva che la marina, in cui dominavano le portaerei, ben difficilmente avrebbe stanziato i fondi necessari a un progetto così rivoluzionario. Tuttavia, sapeva anche che gli ammiragli delle portaerei temevano i sommergibili. Di conseguenza, fu quella la leva di cui si servì. La sua proposta parlava di un bersaglio per l'esercitazione di gruppi di sommergibili d'attacco. L'approvazione fu immediata. Poiché, in quanto bersaglio, il nuovo sommergibile non doveva possedere armi, Momsen fece in modo che nel progetto fosse coinvolto esclusivamente il Bureau of Ships. I progettisti, perciò, furono invitati a non tener conto delle indicazioni dei vari uffici addetti agli armamenti, alla progettazione, alla navigazione e alla costruzione e riparazione, dato che questi, secondo Momsen, finivano sempre per farcire i sommergibili come «tacchini». Le istruzioni fornite ai progettisti furono precise: «Lasciate perdere le prestazioni di superficie. Concentratevi esclusivamente sulle Peter Maas
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capacità subacquee in grado di fornire la massima velocità con il minimo consumo. In caso di dubbio, pensate alla velocità!». Furono condotte indagini su ogni mezzo immaginabile - compresi gli aerei e i piccoli dirigibili - in cerca di elementi utili a conseguire la perfezione idrodinamica voluta da Momsen. Venne condotta una serie infinita di test. Furono prodotti più di venticinque modelli in scala, di misura variabile tra i due e i venticinque metri. Con punta arrotondata e scafo ampio a mezza nave, la versione finale aveva l'aspetto di un pesce con la testa da merluzzo e la coda da sgombro. Nella parte superiore era dotato soltanto di una slanciata e sottile torretta, detta «vela». Alla parte posteriore della torretta era attaccato un timone manovrabile simile a una pinna dorsale. Dato che le doppie eliche dei sommergibili convenzionali erano concepite soprattutto ai fini della navigazione in superficie e finivano per limitare la spinta subacquea, il nuovo sommergibile possedeva una sola elica a cinque pale. Il nuovo sommergibile fu chiamato Albacore e venne armato il 5 dicembre 1953. Rivolgendosi agli ufficiali e all'equipaggio, Momsen disse: «Questo natante, su cui molte speranze si appuntano, può aprire la via al dominio dei mari da parte dei sottomarini». Nonostante la limitata energia delle sue batterie convenzionali, l'Albacore era in grado di raggiungere, in breve, i trenta nodi di velocità. La velocità, però, non era la sua unica caratteristica. La camera di manovra pareva la cabina di pilotaggio di un jet, con l'ufficiale di immersione che, seduto in un comodo sedile ribaltabile dotato di cintura di sicurezza, determinava la rotta e la profondità con un unico «bastoncino». I membri dell'equipaggio - durante le manovre di immersione, di arresto, di inversione e di ripartenza a gran velocità - potevano appendersi a sostegni fissati al soffitto, come passeggeri del metrò. Con gran divertimento di Momsen, solo come bersaglio l'Albacore poteva dirsi un fallimento. Infatti, per velocità e agilità di manovra, surclassò qualunque mezzo posto al suo inseguimento. Ci sarebbe voluto del tempo, ma la conclusione era inevitabile: è dall'Albacore che ha preso spunto il design di tutti i sottomarini moderni a propulsione nucleare. Come le navi da battaglia avevano perso la loro lotta per la supremazia contro le portaerei, così l'energia nucleare del Nautilus unita al design dell'Albacore trasformò i sottomarini nella spina dorsale della flotta. Al Pentagono, il capitano Cutter mi affidò l'incarico di raccogliere tutte Peter Maas
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le informazioni sull'Albacore, trascurando i retroscena che ne avevano consentito lo studio. «È inutile rincarare la dose», disse ridendo. «Otterremmo soltanto di far arrabbiare un mucchio di ammiragli.» Nonostante il suo petto coperto di decorazioni, Cutter aggiunse che Charles Momsen era il miglior sommergibilista che la marina avesse mai avuto. E fu allora che mi raccontò alcune cose sul suo conto e sullo Squalus. Io dello Squalus non avevo mai sentito parlare. In un fine settimana mi recai alla New York Public Library per cercare articoli di giornale relativi all'incidente e rimasi stupito di fronte alla quantità di titoli sull'argomento, ma anche al modo in cui, in breve tempo, la notizia pareva essere stata dimenticata, forse a causa dell'incombere della Seconda Guerra mondiale. Dopo il mio congedo, chiesi a Cutter di farmi conoscere Momsen, che nel frattempo era andato in pensione e viveva ad Alexandra, Virginia. Avrebbe potuto continuare a servire in marina, ma mi spiegò che dopo l'Albacore si era reso conto di aver fatto tutto il possibile, in quel campo. Un po' uomo di scienza e un po' profeta, si era emancipato da una visione puramente militare dei milioni di metri cubi di acqua che coprono il globo. Per lui, erano diventati esaltanti, ricchi di significato e stimolanti quanto lo spazio siderale, ed era diventato consulente civile di una serie di compagnie interessate all'esplorazione e allo sfruttamento dell'enorme potenziale esistente sotto gli oceani. Trovai un uomo modesto nel modo di fare, apparentemente a proprio agio con se stesso, ma con quell'aura di autorità che i suoi palombari gli avevano sempre riconosciuto. Gli riferii che il capitano Cutter mi aveva detto, in tono solo parzialmente scherzoso, che il suo vero manuale d'addestramento era stato Ventimila leghe sotto i mari. «Ah, certo», rispose Momsen, con sguardo luccicante. «Il mio vero mentore, il capitano Nemo.» Nel corso di alcuni incontri, riuscii a farlo parlare di sé, di come e perché avesse scelto la carriera in marina. E quando raccontò delle umiliazioni e delle difficoltà incontrate, lo fece senza dar segno della benché minima amarezza. Insistetti su questo punto. Non lo avevano ferito? Come gli era riuscito di perseverare? «Il momento peggiore», disse, «fu dopo l'incidente dell'S-4, quando dovetti smaltire la posta e spiegare perché il suo equipaggio non fosse stato salvato. Allora, fui tentato di mollare. Ma Peter Maas
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poi ci fu il momento in cui il primo sopravvissuto dello Squalus uscì dalla camera di salvataggio, che mi ripagò di tutto.» Dopo una pausa, aggiunse: «Ti dirò: mi piaceva la marina e mi piacevano i sommergibili. Nella carriera militare, si capisce presto che forse per valide ragioni - il modo migliore per tirare avanti consiste nel rimanere nel gruppo. Nel corso della mia carriera, invece, credo di aver seguito un percorso un po' troppo personale. È accaduto anche in altre armi. Quando un ufficiale dotato di iniziativa e immaginazione abbandona la via tracciata, finisce per avere dei problemi. I suoi superiori si irrigidiscono nei loro sistemi, indifferenti o addirittura ostili alle nuove idee. A volte è semplicemente perché le nuove idee non sono venute in mente a loro. Spesso, quando mi presentavo con delle proposte innovative, mi facevano sentire come un delinquente e finivo per dover difendere non solo la mia proposta, ma anche me stesso per aver osato formularla. Però mi è capitato - un po' troppo raramente, forse - di incontrare chi dicesse: "Mi sembra una buona idea. Proviamo". Ora mi piace pensare che la situazione sia molto migliorata». Mi concesse di consultare i suoi diari; parte della sua corrispondenza personale e ufficiale; i suoi appunti preparatori per il polmone artificiale, per la campana subacquea e per le sperimentazioni della miscela elioossigeno; i suoi dossier per il salvataggio e il recupero dello Squalus; il giornale di bordo della prima missione dei sommergibili in branco; e le trascrizioni dei suoi seminari, compresa un'allocuzione rivolta, poco prima di andare in pensione, ai comandanti di sommergibili della flotta del Pacifico, e spiritosamente intitolata «Sommergibili che ricompaiono dopo 50 anni d'immersione». Intervistai anche i sopravvissuti dello Squalus e molti degli ufficiali e degli uomini che hanno operato o lavorato con lui negli anni di servizio in marina. Per il «Saturday Evening Post» scrissi un lungo articolo su Momsen e sullo Squalus. Non molto tempo dopo, Momsen si ammalò gravemente. Andai a trovarlo a St Petersburg, Florida, dove si era trasferito con la moglie Anne. Fu terribile vedere quell'uomo indomito così malridotto. Mi diede altre lezioni di coraggio. Del cancro che lo affliggeva disse: «Ci sono cose per cui non si può fare proprio niente». Si strinse nelle spalle e aggiunse: «Come la nebbia». Trasformai l'articolo in uno scritto più ampio, ma uscì in un periodo che non poteva essere peggiore. Nel 1968 furono assassinati Martin Luther Peter Maas
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King e Robert F. Kennedy. In occasione della Convention del Partito Democratico si verificarono gravi incidenti. Il paese era in tumulto a causa della guerra del Vietnam. L'uccisione di quattro studenti alla Kent State University per mano della guardia nazionale dell'Ohio, nel corso di una manifestazione contro la guerra, era ancora molto recente. L'ultima cosa a cui la gente poteva interessarsi era la vicenda di un militare e di un sommergibile affondato trent'anni prima. I tempi, però, cambiano. Oggi, questo paese sa esaltarsi per i propri eroi, e Momsen rientra di certo in questo novero. Decisi, quindi, di riprendere l'argomento, di svolgere ulteriori ricerche sulla carriera di Momsen e di affrontare aspetti della vicenda che avevo trascurato. A questo scopo, tornai a Portsmouth, dove - incastonata nel cemento - si può vedere la sovrastruttura del vecchio Squalus, insieme a una parte del ponte. Dopo la morte di Charles Momsen, vi è stata aggiunta l'esile torretta dell'Albacore. Si tratta di monumenti a ciò che rappresentarono e alla memoria degli uomini che vi prestarono servizio. Ma valgono, soprattutto, come silenziosi tributi a un vero eroe. FINE
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