CELIA REES SE FOSSI UNA STREGA (Sorceress, 2002) Per Terry e Catrin, che mi hanno seguito Introduzione Questo volume prende il via dalla notevole collezione di documenti nota come Le carte di Mary, ritrovate nascoste dentro una trapunta risalente all'epoca coloniale e identificate come il diario di Mary Newbury, una ragazza di quattordici anni, costretta a fuggire dall'Inghilterra nel 1659 dopo aver assistito all'esecuzione della nonna accusata di stregoneria. I diari descrivevano il suo viaggio verso l'America e la vita laggiù, in un insediamento puritano. Il racconto di Mary si concludeva a metà di una frase, mentre la ragazza era in procinto di abbandonare la colonia per non subire la stessa sorte della nonna. A parte una o due pagine aggiunte da una mano diversa, il diario finiva così, e con esso ciò che sapevamo della storia di Mary Newbury. Ancora prima di concludere la trascrizione, ho capito che volevo conoscere fino in fondo il destino di Mary. Molte persone hanno risposto al mio appello via e-mail e desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato a ricostruire le storie di molte persone che Mary incontrò. Ho cercato di inserire quante più informazioni era possibile nel testo; dove c'era troppo da aggiungere, ho rimandato alle note finali. Tuttavia questo libro è in primo luogo la storia di Mary, il personaggio più elusivo di tutti. Così devo infine ringraziare Agnes Herne e sua zia, Miriam Lazare, che l'hanno ritrovata per me. Senza il loro aiuto questo libro non sarebbe mai stato scritto. Alison Ellman Boston, MA. 1 Mary: Massachusetts, Novembre 1660 Se sono una strega, presto lo sapranno. Non avevo mai augurato del male a nessuno ma mentre fuggivo da Beulah rabbia e odio cozzavano dentro di me, facendo scintille come l'acciaio contro la pietra focaia. Non ho fatto
nulla di male, e allora perché sono stata costretta a fuggire? Le mie accusatrici, Deborah Vane e le altre ragazze, erano le colpevoli. Anche mentre mi accusavano di stregoneria, i loro occhi brillavano di calcolata malignità. La follia che contorceva i loro volti era simulata. Come non accorgersene? 'Coloro che sono ciechi e non vorranno vedere.' Mi sono tornate in mente le parole di mia nonna. Era una donna saggia; ma la sua saggezza non le ha procurato altro che dolore. È morta impiccata, ed ecco che mi attendeva lo stesso destino. Cercarono, e con la massima cura. Mi rannicchiai nella camera del travaglio di Rebekah, convinta di essere al sicuro per un po', ma chiesero di entrare perfino lì, con voci squillanti che parlavano di diritti e di doveri. Solo Marta li affrontò resistendo al reverendo Johnson, coraggiosa come un pettirosso davanti a un falco in picchiata. Se ne andarono a malincuore. Li sentii frugare il resto della casa, spostandosi da una stanza all'altra, i passi pesanti carichi di odio. Andai via, ma loro continuarono a cercarmi. Li sentii urlare nei boschi, vidi le loro torce, minuscole scintille di falò nell'oscurità. Udii i cani abbaiare e ululare. I cani sono più veloci degli uomini. Appena mi allontanai dalla città prese a nevicare, pallini di ghiaccio disseminati nel vento. La neve cominciò a scendere fitta, a imbiancare il suolo sempre di più, e per i cani sarebbe stato più facile trovarmi. Il primo a trovare le mie tracce fu il vecchio Tom, il cane da caccia di Josiah Crompton. È un cane da cerca, lui caccia con lo sguardo. Il vecchio Tom sbucò dalla macchia, venne verso di me e gettò indietro la lunga testa ossuta, facendo un verso profondo di gola, una via di mezzo tra un uggiolio e un abbaiare soffocato di trionfo. Gli altri cani lo raggiunsero correndo. Mi circondarono, le lingue penzoloni, gli occhi ardenti. Ero in trappola. Arretrai contro un albero e li guardai, aspettando che balzassero. Tom si avvicinò, e gli altri dietro; il cerchio si strinse, poi Tom si fermò. Rimase immobile, la testa inclinata, le corte orecchie piegate come se ascoltasse un rumore. Le urla degli uomini erano più vicine. Pensai che le stesse ascoltando, e che da un momento all'altro avrebbe cominciato ad abbaiare, ma invece no. Mi guardò un'ultima volta, si voltò e si allontanò, e tutti gli altri dietro in un'orda confusa. Ululati e uggiolii si spensero. Tom aveva allontanato la muta da me. Ero di nuovo sola nel silenzio gelato della foresta. Ho pensato di correre, ma la stanchezza mi ha sopraffatto. Sono scivolata giù, la schiena contro la ruvida corteccia dell'albero decisa a raccogliere le forze.
Sono qui da allora. La neve cade ancora, svolazza nell'aria e non fa rumore, mi sfiora le guance come dita di angeli, mi pesa sulle sopracciglia, si posa su di me; mi copre come una trapunta imbottita del piumino più fine. Non ho freddo, ma non riesco a muovermi. Braccia e gambe non sentono nulla. Dormire è morire, lo so, ma non riesco a stare sveglia. A volte spero quasi che tornino indietro, che mi trovino, ma subito scaccio questo pensiero. Meglio morire qui che essere catturata. Meglio congelare contro quest'albero che essere impiccata. 2 Boston, Massachusetts, Aprile, ore 20, ai giorni nostri Agnes cadde in avanti e sbatté forte la testa contro il vetro. Il salvaschermo vibrò e sobbalzò, poi il video si spense e lei rimase a guardare il proprio volto che la fissava di rimando, gli occhi dilatati da qualcosa più forte del dolore alla fronte. Che cos'era stato? Visione o sogno? Aveva freddo, gelava. Le sue dita erano esangui e raggrinzite, le unghie blu. Guardò la finestra, aspettandosi di veder scendere la neve, ma non c'era nulla. Il cielo serale era limpido e blu. Qualunque cosa fosse appena successa, era reale come qualsiasi altra sua esperienza. Non riusciva a smettere di tremare. Si alzò e sfilò dal letto la trapunta. Era utile quanto bella, una luminosa Stella Solitaria, il dono d'addio di Zia M. Agnes strinse forte i bordi, avvolgendola stretta attorno a sé, ma non riuscì lo stesso a scaldarsi. Battendo i denti, andò alla finestra e la aprì, affacciandosi sulla piazza. I lampioni al sodio si accendevano, tingendo di bronzo le foglie sugli alberi. Sull'altro lato della strada, le lampade da scrivania cominciavano a brillare nelle file di stanzette identiche alla sua. Chiuse la finestra e nell'oscurità che si addensava spostò lo sguardo, trasformando il vetro in uno specchio, e fissò il viso che rispondeva al suo sguardo. Alzò la mano e spinse indietro i capelli nerissimi. Li portava lunghi, sotto le spalle. Aveva solo diciotto anni, ma già qualche capello bianco spuntava dalla scriminatura. Avrebbe avuto una ciocca bianca in quel punto, come sua zia, e sua nonna prima di lei. S'incupì, le fitte scure sopracciglia abbassate. Sotto, gli occhi erano grigi, orlati di nero. Insoliti, soprattutto nella sua famiglia. Per il colore dei suoi occhi e lo sguardo remoto sua nonna l'aveva chiamata Karonhisake, Colei Che Scruta il Cielo.
Qui nessuno la chiamava così. Per i suoi compagni, per i docenti, della facoltà, era Agnes Herne. Il suo nome tribale veniva usato solo quando tornava alla riserva. Non cercava di nascondere il suo sangue nativo americano. Non lo celava e non lo ostentava. Era quella che era. Tornava a casa quando i tempi e le vacanze glielo consentivano, ma si era trasferita per frequentare il college e ora le piaceva vivere tenendo i settori separati. Aveva scelto di studiare antropologia. «Ci classificherai tutti come insetti in una bacheca» aveva commentato Zia M. Aveva riso, sbuffando fumo sui dinieghi della nipote. Poi aveva aggiunto: «Sta' attenta, tesoro, o ti trasformeranno in una spia in casa tua». Il freddo cominciava a passare, la stanza tornava alla sua temperatura normale. Agnes andò alla sedia, cercando di capire innanzitutto che cosa aveva dato origine a quell'esperienza. Fissò il salvaschermo che si dipanava sul monitor. Prima era lì seduta a pensare che forse aveva bisogno di una boccata di aria fresca. Le faceva male la testa ed era come se le spalle fossero scolpite nella pietra. Doveva aver chiuso gli occhi, solo per un istante, ed era stato allora che era successo. Scosse il capo, come se il gesto potesse dissipare la nebbia che la avvolgeva. Aveva decisamente vissuto qualcosa. Ne avvertiva ancora gli effetti. Non proprio una visione, ma certo più di un sogno. Non le era mai successo nulla del genere prima, nulla di così intenso. L'aveva lasciata stordita. Nel profondo sapeva che era tutta la vita che aspettava quel preciso momento. Nel frattempo il suo cervello lavorava, cercando di trovare una spiegazione razionale. Doveva essere una proiezione del libro che aveva appena letto. Aveva letto quasi tutto il giorno, saltando le lezioni per finirlo, ed era stanca e stordita quando era andata a controllare il sito. Aveva premuto un tasto, facendo sparire il salvaschermo, ed era comparso un volto, un volto di ragazza ombreggiato di nero sbiadito e seppia. Doveva essere Mary, la ragazza del libro. Agnes si scoprì a chiedersi chi fosse davvero quel viso. Una modella, forse? Una ragazza della strada? Era una foto d'archivio? Una ragazza Amish? O un'immigrante appena scesa dalla nave, catturata dalla macchina fotografica prima di intraprendere il lungo viaggio verso ovest? Chiunque fosse, era una buona scelta. La ragazza era giovane, lo si capiva, e c'era qualcosa di irresistibile nel suo viso. Le sopracciglia decise, il limpido sguardo diretto, le labbra appena dischiuse come se fosse sul punto di sorridere o parlare. Agnes stampò la pagina e la appese alla bacheca sopra la scrivania. Sotto
il volto c'era un messaggio simile a quello in fondo al libro. Dalla scoperta di questi diari, gli sforzi per rintracciare Mary Newbury e le altre persone menzionate nel resoconto sono proseguiti. Se avete informazioni riguardanti gli altri individui e le famiglie citate, per favore mettetevi in contatto con il nostro website www.witchchild.com, o scrivete ad Alison Ellman all'indirizzo
[email protected] Agnes rilesse il messaggio, anche se lo sapeva a memoria. Spostò il cursore finché non si trasformò in una manina, con l'indice puntato sull'indirizzo sottolineato, ma non cliccò. Sapeva qualcosa di Mary Newbury, di quanto le era successo, ma cliccare sarebbe stato un grosso passo, e non era sicura di volerlo fare. Soprattutto non ora, non dopo ciò che era successo. Era un segno. Ne sapeva abbastanza da riconoscerlo. Il potere di guarire ricorreva in famiglia, come la ciocca di capelli bianchi. Seguiva il ramo femminile. La zia, la nonna e sua nonna prima di lei avevano tutte seguito la via della medicina. «Se deve venire a te, verrà» le aveva detto la zia. «Naturale come il tuo ciclo. Non puoi evitarlo in nessun modo». Agnes non l'aveva nemmeno voluto. Ora la cosa era successa e non era affatto sicura sul da farsi. Rimase a lungo smarrita nell'indecisione, col dito alzato, la mano chiusa attorno al mouse. «Tieni la mente sgombra, non c'è modo di sapere chi verrà a visitarti». La voce della zia era di nuovo nella sua mente e Agnes si voltò, come se qualcuno avesse pronunciato le parole ad alta voce. Non c'era nessuno. La stanza era in ordine. Agnes era una persona precisa e le piaceva tenere le sue cose a posto. Le pareti erano allegre, con i poster e le stampe; qua e là erano disposti oggetti interessanti che aveva raccolto, cose che aveva portato da casa. Aveva sperato che l'effetto fosse accogliente, ma c'era voluto un po' perché qualcuno entrasse e lo apprezzasse. Si era sentita sola, lì. Molto sola. Gli amici di un tempo avevano deciso di studiare vicino a casa, o di non andare affatto al college, ma lei aveva voluto prendere un diploma, e aveva deciso di venire lì. La decisione era stata presa quasi per caso; c'erano così tante scuole, così tanti corsi. Aveva voluto andarsene e quello era un posto buono come un altro, ma quando era arrivata, non aveva trovato quello che si aspettava. Ora aveva qualche amico, alla casa degli studenti, in facoltà, ma all'inizio era stata dura. Allora i dubbi l'avevano tormentata, erodendo la sua fiducia. Era rimasta confi-
nata nella sua stanza, ad ascoltare le voci all'esterno alte e sonore, che si salutavano o fissavano appuntamenti, urlavano nel corridoio, strillavano dalle finestre. Dopo pochi giorni era come se si conoscessero tutti da sempre, mentre nessuno aveva nemmeno scoperto che lei era lì. Era rimasta per conto suo, sola nella sua stanza, a chiedersi se aveva preso la decisione giusta, se ce l'avrebbe mai fatta a passare l'anno. Era stata sola un sacco di volte prima, ma aveva sempre avuto qualcuno vicino, anche solo la sua mamma. Qui, ogni volto le era estraneo. Le grandi strade della città la facevano sentire più piccola, come se la sua vera natura fosse sgusciata sotto la pelle di un'altra persona. Per un po' aveva perfino pensato di andarsene, ma quei pensieri non erano durati a lungo. Aveva un debito con gli altri. Non poteva mollare la scuola senza motivo. Avevano fatto dei sacrifici. E poi lei non era una vigliacca. Da allora si era parecchio indurita: ora non le importava molto se era l'inizio di un tiepido fine settimana di primavera e tutti erano andati via. Non si aspettava di avere compagnia. Ma qualcuno era venuto a trovarla. La ragazza la guardava dalla parete mentre Agnes cominciò a digitare il suo messaggio. To:
[email protected] Cc: Bcc: Subject: Mary Newbury From: Agnes Herne Cara Ms Ellman, un'amica mi ha prestato il suo libro. Le è piaciuto molto e ha pensato che potessi apprezzarlo anch'io. Aveva ragione, l'ho letto d'un fiato senza fermarmi, ma c'era qualcosa che lei non poteva sapere. Una delle ragioni per cui non sono riuscita a smettere è legata a Mary, la ragazza al centro della storia. Agnes interruppe il rapido movimento delle dita. Digitare le parole successive l'avrebbe consegnata a una serie di eventi, e non c'era modo di dire dove questo potesse condurre. Esitò. Quando aveva letto la storia per la prima volta e aveva capito che poteva esserci un legame, il suo cuore aveva fatto un balzo, ma poi la ragione aveva cominciato a ribellarsi. Dopotutto aveva dato appena un'occhiata agli oggetti, e le storie potevano anche
parlare di qualcun altro, e non di Mary. Come faceva a essere sicura? Come si poteva essere sicuri che quella fosse la persona, l'unica fra tutti i morti senza nome che se n'erano andati? Più ci pensava, più le pareva improbabile. La zia ne avrebbe saputo di più, ma quello poteva essere il problema più grosso. Anche se quella era Mary, ottenere gli oggetti da Zia M, portarli in città, affidarli agli studiosi sarebbe stato difficile. Non solo difficile: impossibile. Perché erano speciali. Sacri. Zia M, custode di quelle cose, non lo avrebbe mai permesso. Aveva promosso campagne, raccolto petizioni per chiedere il ritorno degli oggetti sacri. Secondo lei, gran parte dei manufatti nativi americani in mostra nei musei erano stati ammassati come cianfrusaglie etniche, curiosità culturali, da collezionisti che non avevano idea del valore che avevano per le persone a cui erano stati sottratti. Per lei, erano oggetti rubati e basta. «Che diritto hanno di prendersi quelle cose? Sono una banda di profanatori di tombe!» La voce di Zia M riprese a echeggiare nella sua testa. «Gli piacerebbe, se noi cominciassimo a saccheggiare le loro chiese, a strappare le croci dall'altare, a rubare i calici e i crocifissi? E se ci mettessimo a scoperchiare le loro tombe e a tirar fuori i loro morti?» Ci fu una pausa, poi la voce fece ritorno, più forte di prima. «Non puoi averle, punto e basta. Piuttosto le butto nell'immondizia». Agnes pensò di lasciar perdere. Invece si ritrovò a digitare: Sono Kahniakehaca, Mohawk, parte degli Haudenosaunee, la Confederazione delle Sei Nazioni Irochesi. Vivo nella riserva a Nord dello Stato di New York, ma in questo momento mi trovo al college a Boston. Il cielo fuori era nero, la notte si era chiusa attorno a lei, rendendo possibile qualunque cosa. Ciò che lei scriveva, qualunque cosa scrivesse, sembrava irreale. La coperta le scivolò dalle spalle mentre continuava: Anche mia zia vive nella riserva. Lei è in possesso di alcuni oggetti simili alle cose che Mary avrebbe potuto portare con sé quando lasciò la colonia. Gran parte del nostro passato è raccontata in forma di storie e una di queste parla di una donna bianca che si unì al mio popolo. Non ricordo molto, purtroppo. Ho ascoltato la storia da piccola e suppongo di non essere stata molto attenta. E non posso nemmeno essere sicura che questa antenata sia Mary, ma quando ho letto il messaggio alla fine del libro ho
capito che dovevo mettermi in contatto con lei. Agnes guardò quello che aveva appena scritto, esitando di nuovo prima di cliccare su Send. Invece chiuse la finestra. Do you want to save changes to this message? Stava per cliccare No quando l'immagine sulla parete attirò il suo sguardo. Quegli occhi trattennero i suoi. Avrebbe pensato dopo a Zia M. Mentre Agnes rispondeva allo sguardo, la stanza cominciò a raffreddarsi di nuovo. Afferrò la coperta e se la avvolse stretta intorno, senza più riuscire a considerare quello che stava succedendo semplicemente come la proiezione di un sogno scatenata dalla lettura del libro. Era qualcosa di completamente diverso. Anche se non l'aveva cercato, era giunto fino a lei. Impossibile negarlo. Sentiva ancora il freddo. Ignorare un'esperienza così potente poteva rivelarsi decisamente pericoloso. Aveva conoscenza e poteri sciamanici sufficienti per sapere che, una volta, cominciata, una cosa del genere non se ne sarebbe andata. Doveva scoprire che cos'era e seguirla. Ovunque la portasse. A qualsiasi costo. Non aveva scelta. Il primo passo era ovvio. Fletté le dita irrigidite fino a riportare in loro un doloroso formicolio vitale, poi premette Send. 3
[email protected] Alison Ellman lavorava fino a tardi all'Istituto. Un'icona sbucò nell'angolo dello schermo informandola: You have mail. La ignorò, concentrandosi sul compito che la impegnava. Ormai aveva informazioni e file su tutti, praticamente. Tutte le persone citate nel diario di Mary: Martha, che poi era diventata sua amica; Jonah Morse e il figlio Tobias; la famiglia Rivers e la figlia Rebekah, amica di Mary; Elias Cornwell e il reverendo Johnson; la gente di Beulah; le ragazze che avevano accusato Mary; perfino Jack Gill, il ragazzo che Mary aveva incontrato sulla nave. C'erano tutti. Tutti tranne Mary. Era questo che la preoccupava. Distolse il pensiero per concentrarsi di nuovo su ciò che stava facendo: lavorava alla trascrizione dei diari di Elias Cornwell. Non era un documento completo, mancavano alcune parti, ma si era dimostrato una buona fonte per ciò che era successo a Beulah dopo che Mary era fuggita. Alison l'aveva letto tutto e aveva letto anche le altre sue opere nel tentativo di trovare
riferimenti al periodo trascorso a Beulah, e a Mary. A quel che pareva, Cornwell aveva un debole per Mary e non era stato il primo ad accusarla di stregoneria, ma quando la situazione si era arroventata si era unito al coro piuttosto disinvoltamente. Non aveva mai perso interesse per l'argomento, e la storia successiva del New England aveva offerto ampio materiale alla sua perizia. Le sue teorie erano alquanto scontate - Cotton Mather era andato più a fondo - ma c'erano un paio di riferimenti che forse erano basati sulle reali esperienze di Cornwell. Affioravano nei sermoni che aveva recitato in visita a insediamenti più remoti, alcuni molto simili a Beulah. Sembrava convinto che fossero assai in pericolo. Alison aggiunse un Post-it a quelli che già decoravano il suo computer, per ricordarsi di seguire quella traccia. Alla fine avrebbe trovato quello che cercava con tanta attenzione. Rilesse tutto il materiale raccolto. C'era solo ancora un breve pezzo da trascrivere e non voleva alzarsi dalla scrivania finché i guardiani notturni non avessero fatto l'ultimo giro e non avessero attivato gli allarmi. Alison si rilassò contro lo schienale della sedia, una volta conclusa la trascrizione dal diario di Cornwell. Era felice di non dover passare altro tempo con lui. Non era migliorato molto invecchiando. Era diventato solo più pomposo: le sue osservazioni erano sempre più estese e noiose via via che procedeva nei vari ministeri. Aveva sposato Sarah Garner, una delle ragazze che avevano testimoniato contro Mary, e certo aveva tenuto la giovane moglie occupata nel reparto maternità. Era passata da un parto all'altro ed era morta sul campo, per così dire. La nascita di un figlio se la portò via prima dei trent'anni. Appena dieci anni dopo aver lasciato Beulah la sua giovane vita era finita, la sua forza svanita, il suo corpo consunto. Alle altre ragazze non era andata meglio. Le principali accusatrici di Mary erano state Deborah Vane e sua sorella Hannah. Secondo Cornwell, Hannah non si era mai ripresa dalla sua 'possessione'. La follia momentanea nel suo caso divenne permanente. Entro un anno mori di una sorta di consunzione. Quanto a Deborah, la loro leader, aveva avuto quello che voleva e aveva sposato il reverendo Johnson, ma 'Attenta a ciò che desideri', non è così che dicono le streghe? Quel matrimonio non era stato felice. Dopo Johnson, Deborah era passata a Ned Cardwell, ma nemmeno quel legame aveva funzionato. I documenti testimoniavano una storia di sregolatezza e violenza domestica. Alla fine aveva lasciato Cardwell ed era finita in Virginia. Alison aveva la sensazione che anche laggiù non avesse avuto fortuna: probabilmente era finita nei bordelli di Jamestown o di qualche altro porto. (Vedi le note sto-
riche in fondo al volume.) Tutte le prove raccolte fino a quel momento indicavano che le scelte di vita di Deborah l'avevano condotta dritta nei bassifondi. Forse c'era qualcosa di inevitabile in questo, proprio come la follia di sua sorella Hannah, ma Alison aveva di nuovo quella sensazione che le faceva rizzare i peli delle braccia e della nuca: che fosse successo qualcos'altro. Forse Mary aveva davvero gettato il malocchio su di loro. Proprio come in quell'altro luogo più celebre. La leggenda di Salem non finiva con i processi alle streghe. I giudici e lo sceriffo non si allontanarono incolumi dalla corte e dal patibolo; se ne andarono oppressi da maledizioni. Molti di coloro che erano stati coinvolti andarono incontro a morti premature, così raccontavano le storie, e le maledizioni non finirono, ma si tramandarono di generazione in generazione. Una simile macchia scura si allargava sulla storia di Beulah. A eccezione di Cornwell, tutti gli accusatori e i potenziali persecutori avevano fatto una brutta fine, in un modo o nell'altro. I due principali tormentatori di Mary erano morti entro la fine dell'anno. Obadiah Wilson, il Cacciatore di streghe, morì soffocato nel suo stesso sangue. Johnson annegò in un dito d'acqua. A dire il vero la macchia si era dilatata finché non era rimasto nulla. Beulah era stata cancellata. Non appariva su nessuna cartina moderna, su nessuna cartina che Alison fosse riuscita a trovare. Aveva del tutto cessato di esistere. Poteva essere opera di Mary? Era stata davvero lanciata una maledizione? Alison si strofinò le braccia mentre la pelle d'oca aumentava. «Stiamo per chiudere, dottoressa Ellman». Le parole del sorvegliante la riportarono alla realtà. «Okay, Lloyd». Erano sciocchezze, ovvio. Alison prese la giacca dalla sedia. Era diventato freddo lì dentro, ecco tutto. Probabile che avessero spento il riscaldamento per la notte. Studiava quei puritani da tanto tempo che cominciava a pensare come una di loro. C'erano spiegazioni logiche per ogni singolo avvenimento. Le spiegazioni erano chiarissime. Ciascuno di quegli individui era responsabile del proprio destino, e tutti dovevano morire prima o poi, e di qualcosa. Non era tutto oscuro e cupo. Altri protagonisti della storia avevano avuto fortuna, a volte in condizioni quasi miracolose. Jonah e Martha, per esempio. Erano diventati amici di Mary, si erano presi cura di lei, e non era successo loro niente di brutto, per quello che ne sapeva Alison. Jonah aveva
aperto una farmacia proprio lì a Boston, in quello che oggi è il North End. Erano rimasti lì, a vivere una vita tranquilla in pace e prosperità finché non erano stati seppelliti tutti e due a Copp's Hill. La famiglia Rivers, insieme a Tobias e Rebekah, aveva vissuto molti più sconvolgimenti nella sua storia. John Rivers li aveva condotti attraverso lo Stato fino alla valle del fiume Connecticut, ai margini del mondo allora conosciuto. Là avevano sopportato ogni genere di pericoli e difficoltà. Rebekah e Tobias avevano perfino subito un attacco indiano nella cosiddetta Guerra di Re Philip. La loro città era stata abbandonata per un po', ma poi erano tornati. Erano sopravvissuti; anzi, erano vissuti nell'abbondanza, riuscendo a fondare una vera dinastia. Alison aveva ricostruito la loro storia con l'aiuto di uno dei loro discendenti e la trapunta correva come un filo attraverso tutti gli avvenimenti. Era passata da Martha a Rebekah e poi, secondo la tradizione familiare, era stata lasciata in eredità alle femmine della famiglia, da figlia a figlia o nuora. Un capriccio della storia familiare aveva condotto alla sopravvivenza della trapunta e dieci ragazze avevano ricevuto questa eredità. Dieci ragazze diventate donne da bambine, ciascuna passata al suo turno da fanciulla a signora, si erano passate la trapunta, e poi erano invecchiate prima che la morte e la tomba le reclamassero e le trasformassero in polvere. La trapunta aveva il suo file accanto a quello degli interpreti principali. Alison aveva informazioni su ognuno di loro, ormai. Tutto era catalogato e dimostrato, pronto per essere inserito nel secondo libro. Se mai ci fosse stato un secondo libro. Il lavoro sul diario di Cornwell l'aveva rincuorata, aveva creduto di arrivare da qualche parte. Ma ora fu assalita dallo sconforto. Non era una che si arrendeva facilmente, ma a volte le veniva voglia di mollare tutto. A che cosa serviva andare avanti? Il materiale che aveva scoperto sulla famiglia Rivers, su Martha e Jonah, su Jack Grill era interessante, perfino affascinante, ma non era abbastanza. Non sarebbe mai potuto bastare senza Mary. Senza di lei non ci poteva essere una seconda storia. Senza di lei c'era un buco nell'intero progetto. «Adesso chiudiamo, dottoressa Ellman». «Arrivo, Lloyd». Alison spostò il cursore per spegnere il computer. L'icona You have mail lampeggiava ancora nell'angolo. Aveva una gran voglia di chiudere tutto, ma non le piaceva rimandare le cose al giorno dopo.
From: Agnes Herne To: Alison Ellman Subject: Mary Newbury Cara Ms Ellman, un'amica mi ha prestato il suo libro. Le è piaciuto molto e ha pensato che potessi apprezzarlo anch'io. Aveva ragione, l'ho letto d'un fiato senza fermarmi, ma c'era qualcosa che lei non poteva sapere. Una delle ragioni per cui non sono riuscita a smettere è legata a Mary, la ragazza al centro della storia... Alison rimase immobile un istante, incapace di credere a ciò che vedeva. Distolse perfino lo sguardo per poi guardare ancora, aspettandosi che le parole si cancellassero o scivolassero in fondo allo schermo. Lesse l'e-mail da cima a fondo parecchie volte e poi si alzò e prese a passeggiare. Andò a consultare la grande cartina murale dell'America del nord-est, mentre la sua mente ripassava rapidissima le informazioni. Riserva Mohawk, alto Stato di New York. Il suo dito si spostò in su, vicino alla frontiera col Canada. Il Canada. Mohawk. Irochesi. Questo dava un senso nuovo a tutto. Aveva già pensato ai nativi americani, pensando che forse Mary si fosse unita a Penna Azzurra e alla sua banda, ma si era ritrovata con un pugno di mosche, un bel nulla. E se fossero andati in Canada? Aveva pensato anche a questo, ma senza una prova di qualche genere era come cercare in un pagliaio un ago che poteva anche non esserci. E un legame con gli Irochesi, con i Mohawk? Voleva dire che Mary poteva essere passata per Montreal. E questo apriva all'improvviso tantissime nuove possibilità di ricerca. Non era la zona di lavoro di Alison, ma poco importava. L'importante era sapere dove cercare, a chi chiedere aiuto. Aveva amici e colleghi lassù. Uno in particolare. Si chiese se potesse essere on-line in quel momento. Tornò alla scrivania, mentre l'inizio di un piano si formava nella sua mente. Ma prima doveva cercare quella ragazza. To: Agnes Herne Subject: RE: Mary Newbury Salve, Agnes. Grazie per avermi scritto! Sei la prima persona che segnala qualche traccia di Mary. Abbiamo informazioni su altre persone
coinvolte nella storia ma non c'è nulla su Mary, quindi qualunque cosa tu possa avere sarebbe un passo avanti. Potresti venire qui da me all'Istituto? Domani è troppo presto? Diciamo verso le undici? Se l'orario non ti va bene, forse puoi suggerire tu un momento migliore. Sono MOLTO ansiosa di parlare con te: non so dirti quanto sono eccitata al pensiero di quello che mi hai detto. Non vedo l'ora di incontrarti. Un saluto Alison Ellman «Adesso dobbiamo mettere l'allarme, dottoressa Ellman. Devo farle fretta». Alison non alzò lo sguardo dallo schermo. Stava già cercando siti, raccoglieva tracce, scriveva altri messaggi. «Può darsi che io stia qui tutta la notte. Tanto vale che mi chiudiate dentro. Ha del caffè?» «Certo». La guardia sorrise. «Nero amaro, giusto?» «Indovinato». 4 Il museo dell'Istituto Agnes prese un bus che attraversava la città per andare all'Istituto dove lavorava Alison. Era un imponente edificio con un colonnato, alla fine di un grande viale alberato. Agnes avanzò con passi scricchiolanti sul viale di ghiaia e salì i vasti gradini, senza sapere se entrare. Aveva sbagliato fermata ed era dovuta tornare indietro a piedi, ma era ancora in anticipo di quasi un'ora. Non le piaceva arrivare in ritardo, ma il viaggio era stata più breve del previsto e anche per lei l'anticipo era troppo. C'era bel tempo. Poteva aspettare li fuori, seduta sui gradini nel sole primaverile, o fare un giro per i giardini che portavano giù al fiume. Oppure poteva entrare a dare un'occhiata alla mostra. L'Istituto era famoso per la sua collezione sui nativi americani. Agnes pagò il biglietto e pensò di fare cenno all'appuntamento con Alison Ellman, ma la ragazza all'ingresso sembrava una neodiplomata e alzò appena gli occhi dal libro che stava leggendo. Così Agnes pagò i cinque dollari e cominciò a girare per le stanze segnalate come Collezione Indiana
Nord Americana. Una galleria correva tutto attorno alla grande sala tappezzata di pannelli di legno. C'erano cose provenienti da un sacco di posti, dal Messico all'Artico, ma i reperti non erano stati messi insieme o mescolati in modo arbitrario: invece erano stati disposti attentamente in ordine. Il visitatore era invitato a entrare in un labirinto pieno di svolte che mostrava la storia dei popoli nativi dai tempi più remoti fino al presente. Pannelli di testo sulla parete davano ragguagli su ogni epoca. Agnes si ritrovò a leggere le schede sull'impatto delle ondate di Europei che arrivavano nel paese. Le tornarono di nuovo in mente le parole di sua zia: «Non ha nessuna importanza che ci abbiano quasi cancellati tutti. Non importa. Basta che ci dicano com'è successo, e per loro è tutto a posto». Zia M avrebbe fatto un commento invelenito, qualunque cosa i curatori della collezione avessero cercato di dire. Agnes andò avanti, seguendo il percorso della mostra. Arrivò davanti alle tribù delle foreste del Nord-est e a oggetti un tempo appartenuti al suo popolo: mazze e tomahawk, collane wampum, cesti di strisce di frassino, scatole di corteccia di betulla, culle e pagaie da canoa. Poi vide oggetti appartenenti ad altre nazioni, passò davanti a cesti Cherokee, scudi e tepee dipinti dei popoli delle Pianure, poi arrivò ai tessuti Navaho, alle ceramiche Zuni, finché non si ritrovò sotto i totem giganti degli stati del Nordovest. Agnes sentì la voce di Zia M ancora più forte: «Hanno ottenuto gran parte di questa roba imbrogliando o rubando, oppure depredando direttamente le tombe. Hanno preso anche i resti, sai, a migliaia, i resti dei nostri antenati, chiusi in scatole per essere studiati, come un mucchio di ossa di dinosauro». C'erano ragioni da tutt'e due le parti. I musei si consideravano depositari e custodi di un'eredità culturale, investiti del compito di accrescere e diffondere una coscienza pubblica, in grado di facilitare la ricerca accademica e scientifica. Nessuno di questi argomenti faceva presa su Zia M. Lei si era schierata in prima persona in parecchie campagne, facendo pressione sui musei perché restituissero ciò che avevano in custodia, e con un certo successo. I resti umani non erano più in mostra. C'era la tendenza dilagante a toglierli dagli scaffali, a non infliggere loro l'indegno trattamento di sistemarli in polverose scatole di cartone o conservarli in vassoi a scompartì. Le ossa degli antenati venivano restituite alla loro terra d'origine per la se-
poltura, per essere interrati con le opportune cerimonie. Anche gli oggetti venivano restituiti ai legittimi proprietari, soprattutto quelli dotali di significato spirituale. Forse non rapidamente quanto avrebbe voluto Zia M, ma il processo era in corso. Agnes notò che alcuni oggetti sacri erano stati tolti dalla mostra. C'era una didascalia che spiegava l'assenza di maschere e sonagli di tartaruga usati nei rituali sacri del suo popolo. Ma un sacco di altre cose erano ancora lì. Per esempio, c'era una vetrina intera di bambole kachina. Venivano da sud-ovest e molti dicevano che non erano altro che bambole, intagliate e modellate per dare informazioni ai bambini Zuni e Hopi sugli esseri speciali che rappresentavano. Ma queste erano antiche e potenti. Possedevano lo spirito. Anche solo guardarle sembrava irrispettoso. Erano feticci e potevano essere strumenti di guarigione oppure venire usate nei gruppi di caccia e per le cerimonie. Non si limitavano a rappresentare una divinità: la incarnavano. Agnes fece un passo indietro, come se la vetrina fosse circondata da un campo di forza. Si guardò intorno, osservò le altre persone che passeggiavano. Non lo sentivano anche loro? Continuò, superando altri tessuti e vasellame, tornando sui suoi passi verso l'inizio della mostra. Rimase lì, persa nei suoi pensieri, davanti a una vetrina piena di culle e modellini di canoe in miniatura. Un orologio batté le ore in qualche galleria remota e Agnes guardò il suo. Era quasi ora. Mentre andava verso l'ingresso, un raggio o un sensore invisibile fece partire il basso, dolce suono di un tamburo ad acqua. I canti che lo accompagnavano erano Haudenosaunee, Irochesi delle Sei Nazioni. Stava ascoltando la voce del suo popolo, il Popolo della Lunga Casa. Che cosa le diceva la canzone? Di andare avanti? O di tornare indietro? Agnes guardò verso il banco: la ragazza era impegnata a parlare con qualcuno. Avrebbe potuto sgattaiolare fuori senza problemi. Dopotutto, che cosa sapeva di Mary? Un paio di storie che potevano riguardare chiunque. Erano gli oggetti che le accompagnavano a rendere possibile il legame. Senza di essi, nulla poteva essere dimostrato, e quella visita al museo aveva solo confermato quello che lei già sapeva: sua zia non le avrebbe mai permesso di averli, men che meno di portarli lì. Agnes avrebbe dovuto spiegarlo ad Alison Ellman, e sarebbe stato umilliante? Si rialzò il collo della giacca e affondò il mento nel petto. Era a metà del lucido pavimento di legno, diretta verso le pesanti porte di vetro, quando una voce alle sue spalle disse: «Scusa. Sei Agnes?»
5 Gli uffici dell'Istituto «Sono Alison Ellman». La donna che veniva incontro ad Agnes era sulla trentina e indossava abiti casual, una camicia azzurra e pantaloni beige. Era sottile e minuta, più bassa di Agnes, e piuttosto carina, con corti capelli biondo grano. «Come ha fatto a capire che ero io?» chiese Agnes. Alison guardò la giovane donna davanti a lei. Era vestita come una studentessa qualunque: scarpe da tennis, jeans, camicia bianca, giacca di jeans. Portava un orecchino a un orecchio: perline di turchese che terminavano con una piuma. Un sacco di ragazze portava gioielli etnici, ma le perline erano opache, il che suggeriva che erano antiche. Era snella, quasi magra, ancora più ragazza che donna, ma aveva fascino. Stava ben diritta e quando si muoveva lo faceva con grazia disinvolta. Aveva gli zigomi alti e lineamenti definiti: sopracciglia robuste e naso diritto sopra la bocca grande e piena, e il mento delicatamente arrotondato. La sua pelle era color del miele selvatico chiaro. Era alta, più alta di quanto Alison stimò a prima vista, più alta di lei. Mentre inclinava il capo per salutare, i lunghi capelli le caddero in avanti, morbidi e setosi, lucidi come l'ala del corvo. E gli occhi: gli occhi erano una sorpresa. Erano grigi come il cielo in un giorno di neve invernale. «Ti stavo osservando mentre guardavi la mostra. La guardavi in modo diverso dagli altri. A parte questo, diciamo che ho indovinato. Sono molto contenta di conoscerti, Agnes». Alison tese la mano e Agnes la strinse. La mano della ragazza era lunga e forte, le dita sottili. I polsi erano circondati da perline del potere e braccialetti dell'amicizia intrecciati con cuoio e fili di seta colorata. Alison riusciva a farsi rapidamente un'idea delle persone e quella ragazza le piacque, le piacque subito, qualunque cosa avesse o non avesse da dire. «Sono felice che tu ce l'abbia fatta. Il viaggio è andato bene? Ci hai trovato subito? Non puoi immaginare quanto sono eccitata. Da questa parte». Alison guidò Agnes verso una porta su cui c'era scritto Ingresso vietato al pubblico. «Gran parte del lavoro qui si svolge dietro le quinte. Quella che vedi in mostra è solo una parte dell'intera collezione, e il nostro lavoro naturalmente è molto, molto di più...»
Alison fece strada su per le scale, consapevole di parlare troppo. La sua postazione di lavoro era in un angolo di una stanza stipata di moderne cassettiere d'archivio e librerie con le ante di vetro piene di libri rilegati in cuoio dall'aria antica. L'area di Alison comprendeva un computer, un microscopio, un visore e una lampada con un ingranditore. «Sto lavorando al seguito delle Carte di Mary. Ti faccio vedere che cos'ho raccolto finora. Ho praticamente requisito questa parete». Agnes la seguì all'altro capo della stanza, oltre tavoli carichi di faldoni portadocumenti e cartelle legate con nastri. La parete era coperta da cima a fondo di cartine, grafici, alberi genealogici, stampate di computer, foto e riproduzioni di documenti. Post-it gialli coperti da una minuscola e piacevole scrittura punteggiavano il mare di carta come foglie d'autunno arricciate. Agnes osservò la parete da destra a sinistra, poi viceversa, scrutandola in fretta, ma attenta a non tralasciare nulla. Ne sapeva abbastanza di ricerca e quello era un ottimo lavoro, ma vide altro. Gli alberi genealogici tracciati a mano, i grafici disegnati con cura, le minuscole meticolose note stampate le dicevano che questa era un'opera d'amore che sconfinava nell'ossessione. «È un mucchio di lavoro. Davvero impressionante». Alison rimase in piedi, a braccia incrociate, studiando l'enorme bacheca attraverso gli occhialetti con la montatura di metallo. Sorrise, compiaciuta della reazione ottenuta. «Non ho fatto tutto da sola. Mi hanno dato un sacco di informazioni». Si protese per sistemare un Post-it lì lì per cadere. «Elias Cornwell è quassù con quello che è rimasto di Beulah. La famiglia Rivers è lassù vicino ai Morse. Ci sono Jonah e Martha». Accennò a zone diverse del lavoro. «Ti ricordi Jack Gill, il ragazzo della nave? Sono riuscita a rintracciare anche lui». «Come ha fatto a mettere insieme così tanto materiale?» «Le reazioni al libro e al sito sono state ottime: e anche la mia ricerca, naturalmente». Alison rise. «È il mio lavoro, dopotutto. Non è poi così difficile trovare informazioni su qualcuno, anche così lontano nel tempo. Il Commonwealth del Massachusetts è ben documentato, ci sono i registri fondamentali: nascite, morti, matrimoni, insieme con registri ecclesiastici, registri del tribunale, pietre tombali, documenti privati, che contengono lettere, se si è fortunati. Registri dei conti - si può dedurne molto - testamenti, ultime volontà, quello che la gente ha lasciato dietro di sé, a chi e in che quantità; ci sono anche le tradizioni familiari e le superstizioni, un sac-
co di materiale. L'importante è sapere dove andare a cercare. Devo moltissimo a Internet, naturalmente, e anche all'amore per la genealogia della gente del New England». Alison rise e s'interruppe. La sua risata aveva una sfumatura nervosa. Non voleva andare troppo in là, avvertiva che Agnes avrebbe potuto allontanarsi. Agnes comunque quelle cose le sapeva, quindi aveva ascoltato distrattamente. Voleva saperne di più sull'albero genealogico contrassegnato come Rivers-Morse. Si estendeva da una parete all'altra. A partire da Rebekah, quattordici generazioni si dipartivano da lei. «Che cos'è?» chiese, indicando una linea rosso sangue che serpeggiava tra i nomi della discendenza. «È la trapunta. Segue il ramo femminile, la linea delle donne». Alison usò una bacchetta per seguire il tracciato. «Comincia con Rebekah e va a sua figlia Mary Sarah, e a sua figlia, e via via fino alla decima generazione e a questa donna, Eveline Travers Harris». La linea rossa si fermava con lei, anche se l'albero genealogico continuava comprendendo altri tre nomi, in qualche caso quattro. «Che cosa è successo?» Alison indicò i nomi che si intrecciavano con Eveline Travers Harris: marito Clarence Edgar, morto in Francia, 1918; due bambini piccoli (Etta May, 3 anni, ed Earl Leonard, 18 mesi) morti di spagnola nel 1919. «Eveline è sopravvissuta. La sua morte è stata registrata nel 1981. Ma non si è mai risposata». «E allora che cos'è successo alla trapunta?» «Pare che Eveline non si sia mai ripresa da quello che era successo alla sua famiglia. Si è isolata, e si è dedicata a fare e collezionare trapunte e altri lavori di cucito. La sua morte ha infranto la tradizione familiare. Tutta la sua collezione di trapunte, che a quell'epoca era ampia e di valore, fu venduta a un collezionista privato». «E lei come l'ha avuta?» «L'acquirente, J.W. Holden, è morto parecchi anni fa. Era un collezionista a tutto campo, raccoglieva cose di ogni genere del periodo coloniale. Alla sua morte, la collezione andò alla Fondazione Holden: era così ricco da fondare un museo privato. Comunque, alla fine la trapunta fu catalogata assieme al resto, ma la scatola che la conteneva fu erroneamente attribuita all'artigianato coloniale. C'è voluto un po' di tempo prima che qualcuno capisse esattamente quanto fosse antica. Non si sono sentiti all'altezza, così
ci hanno chiamato perché uno dei nostri restauratori di tessuti andasse a dare un'occhiata». «Aha». Agnes faceva fatica a concentrarsi. Quasi non udì le ultime parole di Alison. «Posso vederla? La trapunta, voglio dire». «Certo. Hanno finito di lavorarci. Vieni con me. Non è qui, è nell'area tessuti. Immaginavo che l'avresti voluta vedere. Ho fatto preparare tutto per te». Attraversarono un deposito passando da porte a pressione azionate da carte magnetiche. Macchinari ronzavano e lucette rosse occhieggiavano in alto sulle pareti. Alison guidò Agnes attraverso un'altra porta in una stanza dove lavoravano i restauratori di tessuti. La trapunta era distesa su un tavolo, pronta. Alison s'infilò dei guanti di cotone prima di toccarla con delicatezza, accarezzandola e coccolandola, come se fosse una cosa viva immersa nel sonno. Agnes sapeva qualcosa dell'arte di fare trapunte dalla zia e dalla nonna. Ma questa non era affatto simile alle coperte a colori vivaci piene di disegni create da loro. Non era a patchwork, ma tutta in un pezzo. Il tessuto era più rozzo, più ruvido di quanto avesse immaginato. Il colore non era esattamente sbiadito, ma l'azzurro intenso si era addensato in un indaco scolorito. L'arte di fare la trapunta e disseminarla di motivi stava nei punti e lo si capiva a fatica, dal momento che il fondo era così scuro. Agnes si avvicinò per vedere meglio. Sapeva di non dover toccare. «Questi sono i motivi». Alison dispiegò un grosso foglio di carta. Separati dalla tinta base uniforme, i disegni presero vita: spuntarono felci, sventagliarono piume, fiorirono boccioli, s'intrecciarono foghe. I disegni erano decisi ma semplici, come i ricami di perline del popolo di Agnes. C'erano anche altri motivi: cuori e nodi e spirali astratte circondavano il disegno di una capanna in un boschetto di alti pini e una nave a vele spiegate. «Ehi! Non l'avrei mai detto...» Agnes scosse il capo: l'effetto che le faceva la trapunta era troppo difficile da spiegare. «Impressionante, vero?» Alison sorrise. «È difficile dire quanto sia preziosa, anche senza il diario all'interno. E il valore? Anche la nostra restauratrice non aveva mai visto prima una trapunta così antica. Non ha prezzo...» Alison continuò a parlare, descrivendo la provenienza della trapunta, mentre Agnes non smetteva di fissare i disegni. Non erano solo una raccolta casuale di motivi. Raccontavano una storia, completa di personaggi: Re-
bekah e Tobias, Martha e Jonah, perfino Penna Azzurra. Erano tutti lì assieme a Mary. «... come pepe da un portapepe». «Scusi?» Alison sorrise. «Mi dispiace di essere così noiosa». «Non lo è affatto». Agnes scosse il capo, imbarazzata. «Ho qualche difficoltà a concentrarmi, tutto qui. Non ho dormito bene, credo. Che cosa stava dicendo?» «Che a un certo punto il retro della trapunta fu danneggiato. Il materiale che la restauratrice ha trovato era relativamente recente e solo imbastito, in alcuni punti appena fissato con spilli, e gli spilli erano arrugginiti e danneggiavano l'antico tessuto. Non era una parte originale del lavoro, così abbiamo deciso di toglierla. Quando la restauratrice ha tolto il retro, ha scoperto il diario. La parte posteriore originale era stata bruciata, rendendo il tessuto friabile, causando la formazione di punti fragili e buchi. Il diario era nascosto nell'ovatta, nell'imbottitura tra il davanti e il retro; aveva cominciato a cadere fuori come...» Alison scrollò le spalle, voltando in su le mani guantate. «Pepe da un portapepe?» completò Agnes. «Proprio così. Per me è un miracolo». Alison lisciò la stoffa. «In circostanze normali il restauro richiede un intervento minimo. Sarebbe scorretto interferire o compromettere l'oggetto. Così anche se avessimo saputo che il diario era all'interno non avremmo potuto rimuoverlo». S'interruppe di nuovo e fece un sorrisetto, come per scusarsi in anticipo prima di dire una sciocchezza. «È quasi come se avesse deciso di scivolare fuori. Come se fosse giunto il momento di rinunciare ai segreti che aveva custodito per tutto quel tempo. Ti sembra folle?» Agnes scosse il capo. «Nemmeno un po'». Guardò l'altra donna: ora toccava a lei chiedersi quanto poteva fidarsi. «Una volta ho perso l'orologio. L'ho messo da qualche parte, mi sono voltata ed era sparito. Non sono più riuscita a trovarlo. La zia ha detto: 'Tornerà quando sarà il momento'. Lei crede che essere smarrito o essere ritrovato dipenda dall'oggetto». «Non l'avevo mai sentito prima, ma lo penso un po' anch'io. Ecco perché la trapunta è fondamentale per me. Tutto di essa ha un significato. La sua storia, la sua scoperta, tutto. Ecco perché volevo che fosse il centro della mostra». Alison s'interruppe e distolse lo sguardo. L'entusiasmo svanì dalla sua voce mentre aggiungeva: «Solo che adesso non credo che ci sarà mai una mostra».
«E perché no? Ha un sacco di cose». «Oh, certo. E abbiamo più di quello che hai visto qui, e praticamente su tutti. Tranne Tom Carter, il vecchio che viveva nel bosco. Non abbiamo niente su di lui, e su Mary». Fece un sorriso ironico. «Al momento il problema non è il vecchio Tom». Alison assunse un'espressione coraggiosa, ma la delusione, perfino il dolore, era evidente nei suoi occhi azzurro chiaro. Mary era il fulcro. Senza di lei tutto quel lavoro, tutte quelle ricerche non sarebbero approdati a nulla. Agnes abbassò lo sguardo. Dal momento del loro incontro era Alison quella che aveva parlato di più. Agnes non aveva detto quasi niente. Alison era prudente, cercava di non fare pressione su di lei, ma Agnes avvertiva il peso delle sue aspettative. Ora era il momento di parlare. «Posso vedere il diario originale?» «Oh, certo. È nella Sala Documenti. Seguimi». Qualche minuto dopo Alison depose i fogli sul tavolo, disponendoli a ventaglio davanti ad Agnes, spostando la luce in modo che vedesse meglio. «Ogni singolo foglio è stato restaurato e poi fotografato. Le copie sono più facili da maneggiare. I fogli erano piegati in modo da infilarsi nelle strisce create dal lavoro di cucito o in tasche delimitate dai punti». Sorvolò sulle infinite ore di penoso lavoro che ciò aveva richiesto. «Poi le pagine sono state fotografate, preparate per la trascrizione. La scrittura era facilissima da decifrare, quella è risultata la parte facile. Quando abbiamo finito, abbiamo dovuto ricostruire una sequenza. Le carte non erano numerate». Alison s'interruppe, temendo che Agnes non la seguisse. Stava di nuovo parlando troppo, per la tensione: era un modo di posticipare la delusione. «Ti piacerebbe vedere il diario originale?» «Sì. Molto». Le pagine erano conservate in cartelle singole, ciascuna inserita in una busta di plastica per proteggere la carta, scurita col tempo, che si sbriciolava ai bordi e ai margini, delicata e fragile come un papiro non srotolato. Alison prese la busta etichettata come Pagina 1. Le parole erano ravvicinate ma non strette, disposte con ordine. La scrittura era un corsivo straordinariamente disadorno, tracciato con eleganza e sorprendentemente facile da leggere. Avrebbe potuto essere moderno. Solo l'inchiostro sbiadito rivelava la sua appartenenza a un'altra epoca. Le lettere erano piccole ma regolari, i tratti fermi e nitidamente curvati. Mary ave-
va una bella grafia, non c'era da stupirsi che Elias Cornwell avesse voluto farla scrivere al posto suo. A parte qualche raro svolazzo trattenuto, c'era ben poco dell'inanellarsi elaborato che Agnes si era aspettata di vedere. Agnes lesse fino in fondo alla pagina e poi fece scorrere lo sguardo di nuovo verso l'alto. Si curvò per vedere più da vicino. La pagina dentro la busta di plastica aveva un angolo strappato, e quindi cominciava così: '...una strega. O meglio, qualcuno mi chiama così...' Era venuto il momento di parlare. «La nostra storia è molto diversa dalla vostra» disse, alzando lo sguardo su Alison. «O forse dovrei dire che il nostro modo di raccontare i fatti è diverso. Noi non abbiamo tutte queste cose». Indicò le pagine davanti a lei e l'altro materiale d'archivio accatastato intorno. «È stato scritto poco. Ma ci sono le storie. «Ogni raccontastorie narra come attingendo alla sua memoria. Mia zia mi raccontava storie che sembravano successe a lei da ragazza, ma invece le erano state raccontate da sua nonna, che le aveva ascoltate da sua nonna, e così via. È così che si stratifica la storia familiare». «E una di queste storie potrebbe parlare di Mary?» Alison non osava quasi respirare. «Credo di sì. È difficile stabilire le date, perché il tempo non si dilata in una lunga linea, così». Agnes allargò le braccia. «È più come se fosse tutto d'un pezzo. Passato, presente e futuro che girano, così». Unì le mani e fece un cerchio, unendo pollice a pollice e indice a indice. «Come se il passato fosse là fuori da qualche parte e gli eventi stessero ancora succedendo, ma in un luogo che non possiamo raggiungere». «E questa storia che cosa dice? Quella che secondo te potrebbe parlare di Mary, intendo». «Parla di una donna che venne da un altro luogo e fu adottata dalla tribù. Aveva due figli, uno scuro, uno chiaro, coi capelli biondi. Un figlio diventò un celebre guerriero, un capo. E l'altro?» Agnes s'incupì. «Già, non si sa che cosa gli è successo. Comunque, c'è chi racconta che lei sia arrivata da Rahwehras, il Tonante, perché arrivò in una tempesta, e in un momento in cui il nostro popolo era colpito da una grave malattia. Aiutò a curare i malati e rimase con loro, come potente sciamana». Agnes s'incupì di nuovo. «C'è dell'altro, credo, ma non riesco a ricordare». «Che cosa ti fa pensare che fosse Mary?» «C'è un mistero che circonda la sua provenienza, e alcune leggende dicono che aveva gli occhi grigi come i miei, color del fumo. Gli occhi sono
stati la prima cosa che mi ha fatto pensare a un possibile legame. Ma c'è dell'altro, ci sono un sacco di indizi. Mia zia ha una scatola. Grande così». Agnes unì di nuovo le mani a formare un cerchio. «È fatta di corteccia e ornata di ricami. Quando ero piccola mi piaceva osservarla. Lungo i bordi c'è un orlo di nodini che formano fiori bianchi e una fila di fragole rosse, e sul coperchio c'è un'erba, la gliceria. Ha un buon profumo quando la apri... non che io avessi il permesso di aprirla». «A quando risale?» chiese Alison. «Difficile dirlo, ma era stata fatta per contenere oggetti sciamanici. Anche Sim - mio cugino, più grande di me, è come un fratello maggiore; quando facevamo delle cose pericolose era sempre lui il primo - anche lui diceva di non toccarla. Ma sa come sono fatti i bambini, no?» Forse per la prima volta Agnes sorrise. Fu come un sole improvviso in un giorno nuvoloso. Alison rimase abbagliata. «Più gli dici di non fare una cosa, più vogliono farla». «E allora l'avete aperta?» Alison sorrise in risposta. Agnes fece un gran sorriso. «Ci può scommettere. Mi ricordo che aveva un piccolo fermaglio difficile da sfilare. Mi tremavano così tanto le mani che ho quasi rovesciato tutto». «E dentro che cosa c'era?» «Non tantissimo, almeno secondo me. Sono rimasta delusa. Non so che cosa speravo di trovarci, monete d'oro, forse, o anelli di brillanti. Ho trovato del materiale sciamanico, una collana di artigli d'orso, cinture wampum e una vecchissima collana consunta; ma c'era anche un anello che sembrava d'oro e un medaglione nero, tutto ossidato. In un angolo della scatola c'era un pezzetto di carta arrotolato, così vecchio che era diventato morbido e un po' peloso, come pelle di cerva. Non vi ho fatto molto caso, dopo aver controllato che non fosse scritto con un codice segreto, ma adesso che ci penso poteva essere un angolo. Quell'angolo». Indicò la busta di plastica sul tavolo. «Quello che manca». «C'era scritto qualcosa?» «Come ho detto» Agnes scosse il capo, «niente segreti». «Io potrei vedere se è scritto». Alison accese la lampada con l'ingranditore. «Leggerlo, anche. Potrei fare un sacco di cose. Confrontare gli strappi. Confrontare la carta. Potremmo dimostrare che era la stessa persona!» «Credo di aver visto giusto». Le sopracciglia scure di Agnes si unirono. «Ma ho visto quelle cose solo una volta. Dovrei rivederle per essere sicura».
«Forse potresti portarle qui». Agnes scosse il capo. «La scatola e il suo contenuto sono oggetti molto sacri. Dubito che mia zia permetterebbe di portarglieli via». «Potrei incontrarla. Chiederle se...» Agnes alzò le mani per smorzare l'eccitazione crescente di Alison. «Credo che sia meglio se vado a trovarla io, prima. Può essere parecchio ostinata e non ha voglia di perdere tempo coi musei, temo». «Credi di riuscire a convincerla?» Alison era preoccupata. «Ci proverò». «Sarebbe magnifico! Non hai idea di quello che significa per me, Agnes. Di quanto è importante. Quand'è che puoi andare?» «Oh, non so...» «Non vuoi perdere le lezioni?» «Non è quello. È un viaggio lungo in pullman» - scrollò le spalle, imbarazzata - «e poi c'è il biglietto. Al momento non ho molto denaro». «Non è un problema. Ti accompagno io». «Ehi, no!» Agnes fu ancora più in imbarazzo. «Non c'è bisogno. Non volevo dire questo. Non vorrei crearle dei problemi». «Nessun problema. E credo che ce ne sia bisogno, eccome. Almeno per me. Ho dei giorni di vacanza in arretrato, e decido io quando e come lavorare. Stavo pensando di fare un giro a Montréal e magari nel Québec. Ho amici lassù, e un collega alla McGill sta cercando delle fonti per mio conto. Potrei darti un passaggio». «Sarei fuori strada...» «Non di molto. Voglio vedere che cosa c'è lassù. I francesi tenevano registri molto più dettagliati degli inglesi, soprattutto a proposito degli indigeni. Mary potrebbe essere andata in Canada». La voce di Alison si fece più intensa. «Se così fosse, potrebbero esserci tracce di lei. Non ho nient'altro, quindi vale la pena di tentare. Devo provarci». «Se è sicura...» «È un'altra strada, tutto qui». Agnes rifletté un attimo prima di decidere. Non aveva espresso tutti i suoi dubbi su Zia M. In un certo senso sarebbe potuto essere più facile per Alison. Dopotutto, i libri non hanno lingue affilate come coltelli, e le biblioteche di regola non si rifiutano di dare informazioni. «Ok» disse alla fine. «Visto che va da quella parte, credo che potrei venire con lei». Dopotutto, un passaggio era un passaggio, pensò Agnes mentre ripren-
deva il bus per tornare al campus. Prima o poi doveva andare, e prima andava, meglio era. Le vere dimensioni della testardaggine di Zia M non erano la sola cosa di cui non aveva informato Alison. Non le aveva detto nulla della visione. La notte prima, Agnes praticamente non aveva chiuso occhio. Mary era entrata nei suoi sogni e non l'aveva lasciata in pace. Ed era ancora lì, che lei dormisse o fosse sveglia. Qualunque cosa facesse Agnes, ovunque si trovasse, la sua mente scivolava sempre indietro, verso la ragazza. Era lei la ragione per cui era uscita così presto, costretta dalla tensione, come se fosse il primo appuntamento con un ragazzo. Poi, sul bus, Mary aveva riempito i suoi pensieri tanto da farle perdere la fermata e costringerla a tornare indietro a piedi. Che cos'aveva detto Alison? 'Guardavi in modo diverso'. Agnes capì che era vero. Nella sala della mostra, era come se il suo sguardo fosse guidato da qualcun altro. Agnes si era sentita come drogata mentre era con Alison. In alcuni momenti la sua attenzione si era decisamente concentrata in modo da escludere quasi tutto, ma in altri momenti aveva fatto fatica ad ascoltare. Doveva essere sembrata maleducata, e non era affatto da lei. Non intendeva mancare di rispetto ad Alison. Condivideva il suo rapimento per la questione. Sapeva che cosa provava Alison perché cominciava a provarlo anche lei. Nel breve tempo in cui erano state insieme, aveva avvertito la fame di informazioni della donna, la sua paura e la sua euforia. Era quasi come essere innamorati. Parlare con Alison, guardare tutto quel materiale l'avevano calmata, ma il dolore non era cessato. Anche Agnes doveva scoprire qual era la storia di Mary. E forse anche quello non sarebbe bastato. Per Alison era una sorta di esercizio intellettuale, ma per Agnes era diverso. Agnes scattò giù dal bus, rischiando di perdere di nuovo la fermata. Il suo coinvolgimento era tale che non lo capiva fino in fondo. Togliersi Mary dalla testa avrebbe potuto condurla in luoghi in cui non voleva andare. Agnes sapeva prima ancora di aprire la porta che Zia M aveva chiamato, quindi non si stupì quando vide lampeggiare la lucetta della segreteria telefonica. Quel genere di cosa era già successo. Se era dotata di poteri telepatici, si limitatavano a cose minime. Fino a ieri. «Ciao, Agnes. Sono io. Se ci sei rispondi... Ok, vuol dire che non ci sei. Ti ho chiamato per dirti di andare a trovare quella donna. Poi vieni a trovare me, e subito». Agnes sorrise. Zia M sapeva già. Le sue facoltà telepatiche erano a un
livello molto più alto. Agnes non avrebbe dovuto preoccuparsi di cosa dire. Credeva che il messaggio fosse finito, ma continuò. «Oh, e finché non arrivi controlla di avere sempre addosso l'orecchino». La mano di Agnes corse al lobo per scoprire che l'orecchino era già lì. Doveva esserselo messo la mattina senza nemmeno pensarci. Sapeva il perché. Quelle perline avevano potere; la zia le aveva riportate dal deserto e aveva fatto l'orecchino per lei. La piuma marrone era di teiakoiatahkwas, il falco, una piuma spirito messa lì per proteggerla. Ma da cosa? Mary non voleva fare del male a lei, vero? 6 La strada (1) «Tutto a posto?» «Certo». Agnes gettò dietro la borsa e si sistemò sul sedile anteriore dell'utilitaria di Alison. «È un viaggio semplice» disse Alison mentre s'immetteva nel traffico. «Prendi la Mass Pike e poi giri a destra». Erano due estranee, con molte miglia da fare insieme. Agnes si sentiva a disagio nell'improvvisa intimità all'interno dell'auto. «Ho portato del materiale che forse ti piacerebbe vedere». Alison non distolse lo sguardo dalla strada. «Nella tasca della portiera, vicino alle cartine». Agnes sfilò alcuni documenti e cominciò subito a esaminarli. Avere qualcosa da leggere voleva dire non essere costretta a parlare. Diede una scorsa alla trascrizione dei diari di Elias Cornwell e poi passò al documento intitolato Jonah e Martha Morse. Quando ebbe finito, si rivolse ad Alison. «Crede che si siano mai incontrati?» «A Boston, vuoi dire? È possibile. Non se ne parla da nessuna parte, ma non vuol dire che non sia successo. Ci sono tante cose che non potremo mai sapere». «Chissà che cos'avrebbe detto loro, Elias Cornwell. Si sarebbe sentito in imbarazzo, non crede?» «Non avrebbe detto niente, secondo me. Quello di Beulah non era stato un bel periodo per lui. Credo che avrebbe preferito ignorare tutta la fac-
cenda. Stendere un velo pietoso». Agnes annuì. Era d'accordo. Aprì il fascicolo della famiglia Rivers. Alison controllò i cartelli che scorrevano sopra le loro teste. «Stiamo seguendo quasi la stessa strada che probabilmente presero i Rivers tantissimi anni fa: il Sentiero della Lunga Baia, un vecchio sentiero indiano che portava dritto attraverso la Valle del Connecticut. La trapunta dev'essere andata con loro, caricata su un carro». Alison agitò una mano fuori dal finestrino verso la superstrada a sei corsie, densa di traffico. Rise mentre un camion gigantesco la superava sfrecciando. «Un po' diverso, eh?» «Già». La strada era diventata ben più di un sentiero e autotreni mostruosi avevano rimpiazzato i carri, ma gli alberi fiancheggiavano ancora il percorso per miglia e miglia. A volte si diradavano per mostrare paesaggi diversi colline, forse - ma ben presto si infittivano di nuovo. Le tracce di insediamenti erano relativamente rare: tetti che spuntavano da una salita, cupole bianche che sbucavano nella tenda di fogliame. Viaggiare nel corridoio verde dava ad Alison l'impressione di essere fuori dal tempo. «Eh?» «Ho detto che c'è una barriera». Alison guardò in su. Erano quasi nello Stato di New York. Aveva guidato per circa cento miglia senza quasi accorgersene. «Forse è meglio fermarsi. Devo controllare la strada». «Laggiù». Alison accostò e imboccò la prima uscita. «Vuoi un caffè? Hai fame? Vuoi mangiare?» «Un tè freddo, grazie. No, non ho fame. La ringrazio». «Ti ho comprato un muffin». Alison si avvicinò al posto scelto da Agnes. Il traffico continuava a ronzare, e lo si sentiva anche attraverso gli spessi vetri. Agnes sbriciolò il muffin e lo mangiò lentamente, un pezzetto alla volta. Poi si lasciò andare contro lo schienale e guardò fuori dalla finestra. Le sue dita tormentarono l'orecchino che portava all'orecchio destro. «Bello, quell'orecchino» commentò Alison. «Volevo dirtelo ieri». «Oh, grazie». Agnes fece un sorriso incerto e si posò la mano in grembo. Non poteva dire ad Alison che il giorno prima non sapeva nemmeno di a-
verlo addosso. Dubitava che l'altra avrebbe capito. «Dove l'hai preso?» Alison bevve un sorso di caffè. «Oh, ehm, Zia M l'ha fatto con delle perline che ha portato a casa quando è andata nel deserto». «Zia M? È lei che stai andando a trovare?» «Sì». «Che cosa stava facendo nel deserto?» «Va alle cerimonie - powwow, riunioni tribali - viaggia di continuo». «E che cosa fa?» «È una sciamana». Agnes sperava che suonasse come un lavoro qualunque, come lavorare a una pompa di benzina. Non ci riuscì. «Non me l'avevi detto!» Alison posò la tazza e fissò Agnes. «È affascinante! Che cosa vuol dire, esattamente? Ho sempre desiderato saperlo». «Lei è, ehm, una curatrice, un'esperta di erbe native e di medicine naturali. Le fa e le vende. Anche su Internet, adesso. Ha il suo sito, gliel'ha fatto Sim l'anno scorso. Ha altri poteri, oltre quello di curare. Poteri spirituali. Ha passato anni a studiare con vari maestri, ha raccolto la conoscenza, ha imparato i metodi della tradizione. Insegna, anche, c'è molto interesse, oggi: la gente viene a cercarla per la propria crescita spirituale, per avere una visione, oppure ha bisogno di una guida spirituale». «Capisco. Una signora piuttosto potente». Agnes annuì. «È la sua missione, credo. La porta ovunque, fino in Canada, fin giù in Messico». «È stato là che ha trovato le perline di turchese?» «No. Direi in Arizona, ha amici tra i Navaho. O forse in Nevada, a volte va anche là». «Ha degli amici laggiù?» «Sì, e...» «E?» «La mia mamma». Le sfuggì prima che potesse trattenersi. «Sono sorelle, ma sono molto diverse». «La tua mamma? Non vive nella riserva?» «No». Agnes scosse il capo. «È a Las Vegas». «Las Vegas! Ehi! Che cosa fa?» «La croupier». Agnes aggrottò le sopracciglia per smorzare l'entusiasmo suscitato dalle sue parole. «Sembra eccitante, ma non lo è». «Non lo sapevo...»
«Perché dovrebbe?» Agnes guardò l'orologio e si alzò. «Non è meglio se andiamo?» «Sì, hai ragione». Alison la seguì fuori. Senza volerlo, aveva oltrepassato una sorta di linea tracciata fra loro. Erano di nuovo estranee in viaggio sulla stessa auto. Agnes prese un altro fascicolo e cominciò a leggere mentre Alison oltrepassava la barriera e prendeva la deviazione per Albany. «Come ha fatto a trovare queste notizie su Jack Gill?» «Eh?» Alison era di nuovo sull'autostrada. «Jack Gill. Come ha fatto a sapere di lui?» Agnes sventolò un mucchio di fogli col titolo Jack Gill. «Per caso. Ero a Nantucket. Con un'amica, per il fine settimana. Non avevo nemmeno pensato di cercare le tracce delle persone citate nel resoconto di Mary. Bastava trascrivere le pagine del diario. Sapevo di volerle trasformare in un libro, ma sarebbe stato su Mary. Su quello che è successo dopo, a Mary, o a chiunque altro, per quello che conta, non mi facevo domande. «Ero giù al porto quando mi sono vista davanti questa scritta: Richard A. Gill, Forniture per navi». «E che cos'ha fatto?» «Sono entrata, naturalmente. Sai, è buffo, ma era come se fossi stata guidata fin lì». «Dalla provvidenza?» Alison fece un gran sorriso. «Proprio così. Avevo appena finito la parte delle Carte di Mary in cui si parla dell'incontro di Mary con Jack sulla nave». «Crede che si siano incontrati ancora? Sarebbe magnifico, non crede?» «Sì, ma sarebbe stato come in un romanzo. Nella vita vera non succede». Alison premette l'acceleratore e superò una coda di traffico locale. «Credimi. Quei due non si sono mai più incontrati. Lo so per certo». «Come fa?» «C'è tutto nel documento». Agnes lo prese come un invito a leggere per un po'. «Allora non è morto come aveva visto Mary nella sua visione, travolto da una balena gigante?» «No». Alison scosse il capo. «È morto nel suo letto». Agnes si voltò di scatto, con la delusione dipinta in viso. «E la profe-
zia?» «Ci ho pensato anch'io. La sua prima partita, e Mary non riesce nemmeno a raggiungere la prima base». Alison sorrise comprensiva. «Non volevo farlo capire al vecchio, ma sono rimasta sconvolta». «Allora al primo tentativo ha fallito?» «Continua a leggere e vedrai. Immagino che quella della preveggenza sia una scienza inesatta». «E il portafortuna che i Gill portavano sempre con sé? Quello che portavano sempre in mare? Era...» «Una mezza moneta d'argento». «Come quella che lui aveva regalato a Mary?» «L'altra metà, direi. O almeno lo sembrava». «Lei l'ha vista?» «Aha. Lui ha una specie di piccolo museo. Era là, in una teca di vetro, su un cuscinetto di velluto». «E com'era?» «Più piccola di quanto mi aspettassi, e ridotta a una lamina sottilissima per essere stata portata così a lungo nelle tasche dei panciotti. Aveva un buco in un angolo, come se fosse stata appesa a un laccio o a una catena». «E Richard Gill l'ha tirata fuori per fargliela vedere?» «Sì. Ha aperto la teca con una chiavetta». Era difficile descrivere quello che aveva provato quando lui aveva infilato la mano nella teca e aveva estratto la moneta. Il fiotto di emozione aveva sorpreso perfino lei mentre reggeva nel palmo della mano quel sussurro d'argento. Era così leggero e sottile; non era rimasta traccia di una testa o di lettere, ogni disegno inciso si era del tutto consumato. L'aveva tenuta per un attimo solo prima di restituirla, sollevata. Temeva che si potesse sciogliere col tepore della pelle, temeva che potesse sbriciolarsi. Sembrava troppo fragile per essere metallo, troppo sottile, delicato come una foglia d'inverno. «Non ci sono mai stata» disse Agnes. «A Nantucket». «No? Devi venire con me la prossima volta. Conoscere Richard. Ti piacerebbe. È un vero tesoro». Alison si trattenne dal continuare, pensando che la ragazza potesse respingere il suo invito, ma non lo fece. «Sì, mi piacerebbe». Agnes le sorrise. «Sarebbe bello».
7 La strada (2) Stavano arrivando a un bivio in cui bisognava decidere qual era la strada migliore. La panoramica le avrebbe portate su attraverso gli Adirondacks. L'alternativa più rapida era la statale. Si fermarono di nuovo per mangiare e studiare la cartina. «Questa strada da Albany a Buffalo segue il vecchio sentiero Mohawk». Agnes lo tracciò col dito. «Lo sapevi?» Alison scosse il capo. «È strano, a pensarci. Come quando parlavi della pista presa dalla famiglia Rivers». Agnes continuò mentre studiava la cartina. «Queste superstrade seguono percorsi già profondamente tracciati nel territorio prima ancora che arrivassero gli europei». «Stavo pensando di andare comunque per di là». Alison sorrise. «E adesso ho deciso. Andiamo. C'è ancora parecchia strada». «Sei sempre vissuta nella riserva?» le chiese Alison. «No» rispose Agnes, e poi, pensando che forse era stata troppo brusca, aggiunse: «Una volta ci andavo solo per le vacanze, ma a un certo punto, quando avevo otto, nove anni, la vacanza è diventata permanente». «Cos'è successo?» Agnes tacque per un attimo, come indecisa. La superstrada continuava a distendersi miglio dopo miglio. «Non sei tenuta a dirmelo...» Alison non voleva far sentire Agnes assediata. «Nessun problema. La mamma e il papà si sono separati. Lui era nell'esercito e ci spostavamo spesso. Quando lui l'ha lasciato, non è riuscito a trovare lavoro. Litigavano di continuo per questo. Un giorno lui è uscito dicendo che andava a cercare lavoro e non è più tornato. La mamma mi ha mandato a stare con la nonna e con Zia M finché non avesse deciso cosa fare. E poi» Agnes scrollò le spalle «non sono più tornata da lei. Non rientravo nei suoi progetti. È partita per Las Vegas, ha trovato lavoro in un casinò, e io sono rimasta nella riserva con la nonna, Zia M e Sim». «La vedi? La tua mamma, dico». «Oh, certo» mentì Agnes. «Anche il papà». «Ma non abiti con nessuno dei due?»
«Preferisco di no. Il papà ha una nuova moglie. È a posto, ma...» Agnes alzò di nuovo le spalle. «E la mamma, be', sono troppo grande per lei, credo». «Cosa? Troppo grande per cosa?» «La faccio sembrare vecchia, per essere più precisa. Mi ha avuto quando era molto giovane, ma una figlia di diciotto anni ti tradisce quando stai cercando di passare per una trentenne». Agnes si rannicchiò nel sedile, incrociando le braccia. Fine della conversazione. Non c'erano altri documenti da leggere, così cominciò a guardare il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Alison probabilmente credeva che fosse addormentata. Agnes glielo lasciò credere. Non aveva intenzione di dormire, ma per il momento aveva finito di parlare. Tutto quel materiale. Tutte quelle persone. E se anche lei ne avesse avuto uno, che cos'avrebbe contenuto il suo file? Che cosa aveva da mostrare per la vita vissuta fino a quel momento? Un certificato di nascita, le pagelle scolastiche, un diploma di scuola superiore, un mucchio di voti e di test superati, tutto qui. E quello che non si poteva misurare? L'odore di sua madre quando usciva: profumo misto a sigaretta. L'odore di suo padre al mattino, dopobarba e popeline appena lavato. La sua felicità quando stavano insieme. Il suo dolore quando lui se n'era andato. Il modo in cui aveva aspettato e aspettato, sapendo comunque che non sarebbe tornato. Aveva sorriso quel giorno e l'aveva chiamata Nanetto, come sempre, ma lei aveva visto le lacrime nei suoi occhi e lui non era riuscito a guardarla mentre lei lo salutava con la mano. E i posti in cui erano vissuti? Il suo file avrebbe contenuto un bel mucchio di indirizzi. Basi militari dove le case erano tutte disposte in ordine come per una parata. Case a schiera che odoravano d'umidità. Miseri appartamentini con ingressi stretti e pareti sottili e gradini fuori su cui andare a sedersi quando le liti diventavano insopportabili. Tutte le scuole che aveva frequentato erano affiorate nella sua mente come un solo lungo corridoio. Di rado si era fermata abbastanza per fare amicizia con qualcuno. Ora tutti i volti si accalcavano, anonimi come nell'ora di punta. I ragazzi perfidi e quelli simpatici. Quelli che credevano che fosse ispanica; quelli che sapevano che non lo era; quelli a cui non importava. I ragazzi che la trattavano come una mostra ambulante e si aspettavano che facesse qualche danza e portasse copricapi da guerra per l'ora delle ricerche, quando non desiderava altro che essere una ragazzina normale
come tutte le altre. In un posto perfino gli insegnanti erano razzisti. Sua madre l'aveva portata via subito: Agnes era stata fiera di lei quel giorno. Dopo che il papà se riera andato, Agnes aveva pensato che sarebbero state bene insieme, lei e la mamma. Ecco perché era stato così doloroso quando era stata lasciata alla riserva. L'aveva presa proprio male. Ricordava il preciso istante in cui aveva scoperto che la mamma non sarebbe tornata a prenderla. Era il giorno prestabilito e lei era fuori sul portico, in attesa di sentire l'auto. Era tardi, quasi notte. Aveva aspettato tutto il giorno. Le auto passavano e tiravano dritto, nessuna rallentava per svoltare nel vialetto. Tutte le stelle erano in cielo quando Zia M le disse di rientrare. Sentiva ancora la rabbia, amara sulla lingua come una manciata di rame. L'aveva saputo ancora prima che Zia M parlasse. Forse aveva il potere, dopotutto. La sua rabbia era cresciuta, rendendola cieca a tutto. Odiava la riserva. Non voleva parlare con Zia M e la nonna, ma erano entrambe donne sagge e pazienti, sapevano che si sarebbe ripresa, così aspettarono. Nel frattempo Agnes picchiava tutti i bambini della classe che la guardavano in modo strano. Sim la fece smettere. Si era ritrovata circondata da ragazzi grandi: i fratelli e le sorelle dei suoi compagni di classe alla fine l'avevano presa. Sim era arrivato alle sue spalle e lei aveva pensato che avrebbe combattuto al suo fianco. Invece l'aveva abbracciata da dietro, stringendole i pugni nei suoi. «Non puoi picchiare il mondo intero, Agnes» le aveva detto. «Devi sapere quando lottare e quando no, e questa volta ti consiglio di lasciar perdere. Qualcuno di questi ragazzi ti ha fatto qualcosa?» Agnes scosse il capo. «Tu hai fatto qualcosa a loro?» Agnes scosse il capo con forza. «E ai loro fratelli e sorelle?» Ci volle un po', ma Agnes annuì. «In questo caso ci parlo io, con loro. Tu adesso vai a casa». Sim l'aveva salvata quella volta, e molte volte in seguito. L'aveva anche accompagnata al ballo di fine anno quando il suo cavaliere non si era fatto vedere. Quella era la vita, non date e registri, certificati e documenti. Nella mente di Agnes, le ragioni di quel viaggio avevano cominciato a cambiare. Gli oggetti che Alison desiderava stavano cessando di essere il suo primo pensiero. Nella mente di Agnes erano diventati proprio quello: chincaglieria,
cianfrusaglie inanimate. Erano appartenuti a Mary: e allora? Doveva scoprire più di quanto non fossero in grado di dire. La cosa importante, davvero importante, era la storia: e come ci sarebbe arrivata? Conosceva una sola via, e per questa doveva prepararsi mentalmente, conservare le sue energie. 8 La riserva Alison superò il segnale che diceva che si trovavano nel territorio della riserva. Ora erano in un'altra nazione, con leggi e sistemi di tassazione diversi. Fece scendere Agnes e fece inversione. C'era ancora un bel po' di strada per arrivare a Montréal e aveva fretta di partire, ma scrisse una serie di numeri di telefono che Agnes poteva chiamare dopo aver parlato con la zia. Agnes prese il foglietto e se lo infilò in tasca mentre osservava le luci di posizione che si attenuavano e svanivano. Era strano essere di nuovo sola, e faceva freddo, fuori dal tepore dell'auto. Andò verso un gruppo di edifici disposti attorno a un parcheggio per camion: un negozio che vendeva tabacco e sigarette con lo sconto e un paio di negozietti traboccanti di souvenir. Le merci tax-free erano una bella attrazione. La gente che si fermava per quelle poteva essere tentata di comperare anche dei regali. Uno di quei negozi apparteneva a Zia M: La via naturale; medicina naturale ed erboristeria - Miriam Lazare, ma era tutto buio. Agnes si allontanò da lì e pensò di entrare in uno dei posti da turisti, conosceva qualcuno là dentro, ma sulla porta deviò. La casa di sua zia non era lontana, e al momento non aveva voglia di parlare con nessuno. Aveva in testa un basso ronzio di sottofondo che non voleva andarsene. Anche la vista le sembrava distorta, come se stesse guardando attraverso lenti unte di vaselina. Quando giunse a casa della zia, si accorse che le luci erano spente. Sospirò e appoggiò la testa alla colonna del portico. Non l'aveva previsto. Entrò con la sua chiave e si guardò intorno. Non c'era nessuno, ma un messaggio incollato al frigo le diceva di andare al casinò. Che cosa ci faceva là sua zia? Agnes aveva rinunciato da tempo a cercare di capire Zia M, tanto valeva non lambiccarsi. Si mise lo zaino in spalla e uscì, diretta lungo la strada, dove l'insegna del casinò riversava nell'oscu-
rità una luce rosa caramella. Lo status di nazione poneva la riserva al di fuori delle leggi statali sul gioco d'azzardo e il casinò faceva grandi affari. Agnes superò le auto in attesa di essere parcheggiate dagli inservienti e andò verso la porta. Riconobbe il ragazzo sulla soglia: era Rickey. Era uscita con lui qualche volta l'ultimo anno di scuola superiore. Alla domanda su sua zia rispose solo con un'espressione perplessa, ma lui le disse che Sim era dentro. Lui di certo sapeva dov'era Zia M. Rickey le tenne aperta la pesante porta di vetro e lei entrò. Si stendevano davanti ai suoi occhi, ciascun banco sormontato dalle sigle dei dollari: americani da una parte, canadesi dall'altra. Nessuno la notò mentre passava. Gli occhi della gente erano fissi sui quadratini illuminati e lampeggianti, controllavano le ruote. Dita armeggiavano sui pulsanti, mani si spostavano dalle ciotole di monete alle macchine e viceversa. Era una serata tranquilla, almeno fino a quel momento, e l'atmosfera era sommessa come l'illuminazione. L'unico rumore era quello delle macchine che tintinnavano e l'occasionale chnk, clink, clink di una vincita. Le postazioni di blackjack erano ancora più tranquille, ciascuna immersa nella sua pozza di luce, alcune vuote, alcune occupate. Nessuno si voltò a guardarla; i giocatori non parlavano nemmeno tra loro. La missione del momento occupava tutto il loro interesse e richiedeva la loro concentrazione. C'era tensione nell'aria, la avvertiva. Vincere e perdere denaro era un affare serio. Agnes calpestò la moquette verde pistacchio, seguendo i sentieri illuminati oltre i tavoli dei dadi e le ruote della roulette, e raggiunse l'area in fondo, dove si giocava a poker. Sim doveva essere lì. Il poker era il suo gioco. Godeva di molta ammirazione. La gente si fermava solo per vederlo scommettere, per vederlo maneggiare le carte col suo disinvolto stile da mancino. Agnes ricordava i trucchi che lui le mostrava fuori sotto il portico quando erano piccoli. Come riusciva a increspare e a far scivolare le carte quasi fossero materia fluida. «Stai molto attenta» le diceva, ma lei non riusciva mai a stare abbastanza attenta da vedere come faceva, come poteva far apparire una carta nella tua tasca, come faceva a sfilartela da dietro l'orecchio. Ora viveva di quello. Il poker era un gioco che richiedeva abilità; non era come giocare alle macchinette. Niente trucchi, e nemmeno imbrogli, ma aveva mantenuto la sua destrezza da mago e la capacità di distrarre l'avversario. Riusciva sempre a capire l'altro giocatore, ad anticipare il suo
pensiero. Vinceva, anche. Non lì, era contro le regole, ma quando andava in altri posti - Las Vegas, Jersey City, o in altri Stati con le sale da gioco, Foxwoods o Turning Stone. Sim andava con lo zio Jeb, che qui dirigeva il casinò, e in genere giocava per una o due mani. Sapeva come equilibrare vincite e perdite. «Devi mollare quando sei in vantaggio e può essere difficile, ma devi farlo». Di solito si alzava dal tavolo con più soldi di quelli che aveva portato, ed era generoso col denaro deEe vincite. Ne aveva regalato parecchio ad Agnes per i suoi studi al college. Agnes lo vide attraverso la sala. Portava l'uniforme, giacca verde da smoking, sparato grigio, davantino di ruches bianche orlate di nero, cravattino di cuoio in stile western. I lunghi capelli neri erano legati all'indietro in una coda, sottolineando gli zigomi affilati e la sua magra bellezza. Si era fatto crescere i baffi, dall'ultima volta che Agnes l'aveva visto, una riga sopra il labbro non molto più spessa del laccetto della cravatta. Era come se fosse stata disegnata con la matita per le sopracciglia. Lo facevano sembrare più vecchio - Agnes immaginò che li avesse lasciati crescere per quello ma non stavano bene sul suo viso. I suoi occhi neri inclinati all'insù non si mossero nemmeno mentre lei si avvicinava al tavolo. La pelle color rame della sua fronte era arricciata, segno di profonda concentrazione. Le carte assorbivano tutta la sua attenzione. In effetti Sim l'aveva vista non appena era entrata, anche se non l'aveva dato a vedere. Distribuì le carte. Quante carte, servito, controllò le carte che venivano prese e posate, e controllò anche lei. Era magra. Troppo magra, stanca e preoccupata. Nervosa, anche, come se avesse inghiottito o fumato qualcosa, ma sapeva che non era quello il caso, non per Agnes. Lei sapeva di non doverlo interrompere mentre lavorava. Avrebbe finito di lì a un quarto d'ora. Allora sarebbe stato libero. Lei doveva vedersela non con lui ma con sua madre. Lui avvertì l'agitazione di Agnes già dall'altro capo della sala. «C'è tua cugina» gli sussurrò all'orecchio la cameriera mentre serviva i drink ai clienti. «Lo so. Dille che la raggiungo appena ho finito». Quando Brad lo sostituì, Sim si diresse verso Agnes. «Sei troppo giovane per stare qui. E solo per i maggiori di ventun anni. Come hai fatto a entrare?» «Uscivo con uno dei portieri». Agnes tracciò una linea sulla condensa che imperlava i lati del suo bicchiere.
«Quale?» «Rickey». «Lacrosse Rickey?» «Proprio lui». Sim annuì, come archiviando l'informazione. Agnes s'incupì. Lui aveva quasi otto anni più di lei ed era protettivo nei suoi confronti, come fosse suo fratello. A volte le piaceva, ma questo non gli dava il diritto di dare voti ai ragazzi con cui usciva. «Sto cercando Zia M». Fece girare e rigirare il bicchiere sul piattino, facendo tintinnare il ghiaccio come una serie di campanelle d'argento. «Be', non è qui. Lo sai che cosa pensa del casinò». «Credevo che fosse la sua passione». «Dice che preferisce i vecchi tempi del bingo; che era più divertente». «E i soldi che fa girare? Il gioco mi permette di studiare al college». «Sì, lo so, lo so, e dà una mano anche per la medicina e per la casa, il posto per i vecchi. Ma ci sono progetti di nuove espansioni e si chiede dove andremo a finire. È preoccupata. Vuole sapere quanto manca al momento in cui ci ridurremo ad azzuffarci e a lottare come una muta di cani per un mucchio di carne, o a quando non arriverà un cane davvero grosso e ci caccerà via tutti». «Credi che succederà?» «Non si può restare fermi». Sim alzò le spalle. «Se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro». «Si sta dando da fare?» «Diciamo che le sue opinioni sono ben note». «Ma allora dov'è? A un incontro?» Sim scosse il capo. «È su al lago». «Al Lago Specchio? Che cosa ci fa lassù?» «Aspetta te. Devo portarti io. Pronta? Finisci di bere. Dobbiamo andare. Prima però devo prendere una cosa». Si alzò e la guidò oltre i tavoli da gioco, attraverso una via di macchinette, fino al negozio di sigarette. «Carton o Marlboro, per favore, Denise». La donna dietro il banco gliene porse una stecca. Lui la passò ad Agnes. «Non fumo». Agnes gli rivolse uno sguardo perplesso. Sim rise. «Non sono per te. Sono per lei. Devi portare il tabacco, ti ricordi? Quando vai a trovare la sciamana, il tabacco è il dono tradizionale. Immagino che tu non sia qui solo per una visita ai parenti».
Agnes scosse il capo. «Allora mettile nello zaino e andiamo». Lei scrollò le spalle e lo seguì nel parcheggio. «Come sei arrivata fin qui?» chiese Sim mentre apriva la portiera del suo malandato pickup incrostato di fango. «Una certa Alison Ellman mi ha dato un passaggio». «Fin qui da Boston? Chiamalo passaggio». «Ha detto che non le importava». «Adesso dov'è?» «Ha proseguito per Montréal». «A quest'ora? Si vede che le piace molto guidare. Che cosa fa?» «Lavora in un museo». Agnes fece un gran sorriso vedendo l'espressione di Sim. «A vederla non si direbbe. È diversa». «Forte?» «Credo di sì». Sim annuì, riflettendoci. «Scusa la confusione» aggiunse, mentre Agnes si issava sul sedile del passeggero. «Io e i ragazzi siamo andati a fare una gita a Kahnawake». Agnes spazzò via gli incarti vuoti delle barrette e i sacchetti di patatine e trovò un posto per i piedi tra le lattine schiacciate e accartocciate che ingombravano il pavimento. Sim uscì a gran velocità dal parcheggio del casinò e non passò molto tempo che il cartello della riserva sbucò nell'oscurità e corse via. Le case sparpagliate si diradavano, le macchie di luce dei portici erano più distanziate. Una o due volte un cane abbaiò, ma loro puntavano verso l'oscurità, erano soli sulla strada. La notte era fredda e Sim aveva acceso il riscaldamento. Agnes si sfilò la giacca con qualche difficoltà. Sim aveva anche acceso la radio. Una banda locale, hip-hop nativo; una voce morbida, insistente, che spariva e riappariva, su una base di quello che poteva essere un tamburo ad acqua. L'effetto era quasi ipnotico. Agnes appallottolò la giacca per farne un cuscino e guardò fuori dal finestrino. Stava sorgendo la luna. Uno spicchio di luna, bianco come osso, brillava tra le betulle nude. Si vedeva e poi non si vedeva più, sì e no, sì no, adesso la vedi, adesso... «Ehi, Agnes, ti piace? Agnes!» Quando Sim non ottenne risposta la seconda volta, si voltò di lato per guardarla. Sembrava addormentata. Così abbassò il volume, e le sue dita rapide volteggiarono al ritmo pulsante del sottofondo mentre accompagnava la melodia con un sussurro.
9 Mary Movimento dietro la cortina di neve turbinosa, una forma che si delineava, grigia contro grigio. Sembrava un cane, balzava di qua, di là. Pensai che fosse di nuovo Tom, ma quella creatura era più grossa di petto e di testa, il muso era più allungato, gli occhi più piccoli, lo spazio tra di essi più ampio. Non era un cane: quello era un lupo. Grandi zampe s'alzavano e cadevano, sollevando pulviscoli di neve. Era una femmina, notai le mammelle mentre procedeva a balzi in cerca di una piccola creatura, un coniglio forse, o un topo, intrappolata sotto la neve. Ci giocava, aspettava di afferrarla, di spezzarle il collo tra i lunghi denti bianchi. Sbattei le palpebre per mandar via la neve, cercando di vederci meglio, e lei, attenta al minimo movimento, smise di saltare e si avvicinò. La lingua rossa penzolava dalla bocca aperta; il fiato formava un pennacchio di vapore nell'aria ghiacciata. All'improvviso capii. Non c'era nessun topo, nessun coniglio. Ero io la preda. Era venuta per me. Mi guardò con gli occhi gialli, la testa piegata da un lato, come se stesse decidendo se uccidermi subito o più tardi. Sperai subito. Si fece avanti a piccoli passi, accucciata bassa sul terreno, come un cane che guida un gregge. Alla fine eccola di fronte. Pensai: adesso mi prende. Adesso. Sentivo il suo fiato bollente su di me, ne inalai l'asprezza. Chiusi gli occhi, pronta al morso. Non venne mai. Invece di squarciarmi la gola, mi leccò il viso, più e più volte. La sua lingua ruvida disciolse la patina di ghiaccio sulle mie guance, rivitalizzando la pelle intirizzita e ormai come morta. Mi tirò, strattonando il mio giaccone, tormentando la mia manica. L'oscurità avanzava e la neve si faceva più fitta. Stava cercando di dirmi che era ora di andare, che dovevo seguirla. Cercai di alzarmi, ma non riuscivo a camminare. I miei piedi avevano perso ogni sensibilità, non mi reggevano. Non appena cercai di fare un passo, caddi faccia in avanti nella neve. Successe di nuovo e poi ancora, finché non sentii che la poca forza che avevo scorreva via da me. Lei mi guardò, la testa inclinata, come soppesando la situazione, e intanto la neve cadeva sempre più rapida finché quasi non la vidi più. Era come se l'aria stessa si addensasse come una salsa in un biancore schiumoso.
Alla fine si alzò. Pensai che mi avrebbe abbandonato, perché la notte incombeva, ma non lo fece. Cominciò a girare in tondo, come un cucciolo che insegue la propria coda. Non sembrava il momento adatto per giocare, ma poi capii: stava facendo una tana, una depressione nella neve. Scavò sempre più a fondo finché non ebbe ottenuto un'autentica caverna. Quando fu soddisfatta, venne da me e cominciò a strattonarmi. Ce la facevo appena a strisciare, ma riuscii a raggiungere quel punto. Si affaccendò attorno a me, spingendo indietro la neve col muso e premendola con le zampe, gentile come una brava massaia che cura la sua casa. Alla fine parve soddisfatta: fece un gran sbadiglio e si stiracchiò come se fosse pronta a dormire. Io abbracciai il mio fagotto e cercai di disfare le cocche, ma le mie dita erano congelate, rigide e inutili come pioli di legno. Dovetti usare i denti, ma alla fine riuscii ad aprirlo. Frugai in cerca di bacon e pane intinto nel grasso, le provviste datemi da Sarah Rivers. Fino a quel momento non avevo pensato a mangiare. Disfeci l'involto di stoffa e le gettai il bacon. Non lo inghiottì, ma lo prese con cautela, tra le zampe, e lo masticò con la massima delicatezza. Tenni il pane tra i polsi, strappai via la crosta, me la misi in bocca perché si sciogliesse e masticai un pezzetto alla volta. Il cibo mi restituì un po' di calore e di forza. Lei finì il bacon e si appallottolò accanto a me, la schiena contro la neve turbinante. Io mi rannicchiai al riparo del suo corpo, avvinghiandomi al suo lungo manto invernale, affondando le dita nei ruvidi peli grigi e neri per afferrare la pelliccia morbida che si trovava al di sotto, folta e candida. Il suo corpo emanava un gran calore. Tenni il viso vicino al pallido pelo morbido del suo petto e del collo e infilai i piedi nel suo ventre. Mi sentivo meglio. Il suo calore mi portò la vita, e la speranza. Rimanemmo distese, rannicchiate l'una contro l'altra, mentre la notte calava e il vento gridava, sollevando la neve sopra di noi finché non diventammo un semplice bozzo, una collinetta fra tante. 10 Tehionehkateh, acque chiare/acque brillanti, lago Specchio La prima cosa che Agnes sentì fu una manciata di ramoscelli fumanti agitati sotto il suo naso. Balzò all'indietro con uno strillo all'odore pungente di erbe bruciate.
«Calma!» Sua zia la teneva dolcemente tra le braccia. «Calma, adesso». «Credevo che stesse dormendo» disse Sim, la fronte aggrottata in una profonda ruga. «Avevo il riscaldamento alto, ma quando l'ho toccata era così fredda». «Non potevi saperlo. Aiutami a portarla in casa». Sim prese Agnes tra le braccia e la posò sulla brandirla nell'angolo. Ricordava di averci dormito da bambino. La coprì con la trapunta patchwork consunta, le aggiustò una ciocca di capelli, le posò una mano sulla guancia. Ora la sua pelle era calda, notò con sollievo. Sembrava così vulnerabile; lui avrebbe sofferto, se qualcosa l'avesse ferita. La sua bocca si mosse in un incantesimo silenzioso per tenerla lontana dal male. La amava come una sorella e si era preso cura di lei da quando era tornata alla riserva, e prima, quando veniva per le vacanze. Sim arretrò piano fino al centro della stanza. La capanna non cambiava mai. Il suo bisnonno l'aveva costruita con grosse assi, riempiendo le fessure di muschio e argilla per tenere lontani i venti invernali. C'era una sola stanza, con una cucina sotto la falda del tetto, in fondo, e un portico davanti che guardava verso il molo. Anche gran parte del mobilio era opera del vecchio. Sim non l'aveva conosciuto, era morto molto prima che lui nascesse, ma lo sentiva sempre molto vicino. Si chiamava Karonhiahkeson, Con le Nuvole. Il nome era stato assegnato durante la cerimonia dei nomi di mezzo inverno; ora era il suo nome. Sim era contento che nulla fosse cambiato nella capanna. Non c'era elettricità; l'interno era illuminato dalla morbida luce delle lampade a olio e riscaldato da una stufa a legna. Si guardò intorno. Poteva essere l'epoca della sua infanzia. Poteva essere cent'anni fa. Gli piaceva pensare che se il vecchio fosse tornato indietro avrebbe riconosciuto subito la sua dimora, e si sarebbe comunque sentito bene, a casa. Zia M entrò portando lo zaino e la giacca di Agnes. Appese la giacca allo schienale di una sedia. Poi si curvò in avanti all'improvviso, sfilando con cautela qualcosa dal colletto. «Che cos'hai trovato?» «Un orecchino». Lo sollevò per mostrarglielo. «Dev'essere rimasto impigliato quando si è tolta la giacca». Si avvicinò alla branda dove dormiva la nipote. «Sta bene?» Sim s'incupì di nuovo. «Ora che è con me starà bene. Vuoi qualcosa? Ho del caffè sul fuoco». «No, sono a posto. Devo vedere Joannie. Meglio che torni. Tieni». Fru-
gò nella tasca e pescò il suo telefonino. «Voglio che lo tenga tu». Alzò la mano per respingere le sue proteste. «Lo so che non vuoi il telefono quassù, ma così sto più tranquillo, ok?» «Come si fa a usarlo?» Sua madre guardò l'oggetto insospettita. «È facile. Premi qui per accenderlo, fai il numero e poi premi qui, visto? Se ci sono problemi, se hai bisogno di qualcosa, chiama. Promesso?» Sua madre annuì e se lo infilò in tasca. 11 Lago Specchio, primo giorno Agnes si svegliò in un letto estraneo: il materasso era gibboso, il telaio stretto. Tese la mano per afferrare l'orologio dal tavolo e le sue dita si chiusero sul vuoto. Aprì gli occhi e vide assi nude al posto della moquette. Non sapeva dove si trovava. Il panico le strinse lo stomaco. Poi alzò lo sguardo: ciuffi di salvia e trecce di gliceria pendevano dallo scaffale sopra il suo letto assieme a un paio di sonagli, uno ricavato da una zucca, l'altro da un carapace di tartaruga. Accanto pendeva una sacca da tabacco fatta con una pelliccia intera di foca, gli artigli incastrati a mo' di chiusura, il muso ripiegato sul mento. O l'avevano portata nella caverna di uno sciamano, oppure era da Zia M. «Come ti senti stamattina?» Zia M si accorse che era sveglia e si avvicinò con una tazza di infuso fumante. «Quante volte ti è successo?» Agnes sapeva che cosa intendeva dire. «Due. Appena prima di mettermi in contatto con Alison e mentre venivo qui». Era certa di confermare semplicemente ciò che Zia M sapeva già. «Bevi questo». Zia M le passò la tazza. «Come ti senti?» «Strana». Il nero tè alle erbe aveva un buon odore ma era amaro. «Stanca. E svuotata. Come se parte di me non fosse davvero qui». Era difficile da spiegare, ma tutto sembrava piatto attorno a lei. La sua vita sembrava pallida, priva di significato. Era come svegliarsi da un sogno e voler continuare a sognare. Era un desiderio, di più, una necessità. Una sorta di fame. Agnes voleva essere di nuovo con lei. «Mmm». Zia M bevve il suo tè e rifletté per un minuto. «Hai fatto bene a venire da me. Potrebbe essere sorella, e non volerti fare del male, ma...» Zia M non ebbe bisogno di dirlo; la paura e la preoccupazione erano e-
videnti nel suo sguardo. I morti non capiscono il valore che attribuiamo alla vita. Poteva semplicemente portare la ragazza con sé la prossima volta. Un altro episodio del genere, e Agnes poteva non sopravvivere. «Sai perché sono qui?» «Ma certo. E tu sai la mia risposta, vero? Non si può essere intime come noi due e non sapere che cosa pensa l'altra». «Quindi la risposta è no?» Zia M alzò le spalle. «Dipende da quello che vuoi. Io credo che le cose siano cambiate. Questa Alison vuole gli oggetti sciamanici, ma tu non sei sicura di volerglieli dare adesso. Giusto?» Agnes annuì. Per quanto cercasse di dissimulare i suoi pensieri, Zia M li capiva sempre. «In questo caso, devo dirti che lei è potente. Non puoi andare senza protezione. Ecco perché ti ho avvolto nella trapunta la prima volta che è successo». «E l'orecchino?» «Anche quello». «Come facevi a sapere di Mary? Roba da sciamani?» La zia ridacchiò. «Non proprio. Ho visto quella Alison Ellman in un programma televisivo, parlava della ricerca e chiedeva informazioni su di lei. Ho letto anche il libro. Abbiamo dei negozi quassù, sai». «Quindi credi che possa esserci un legame?» «Tra questa Mary e Katsitsaionneh, Colei Che Porta Fiori? Quasi di sicuro, direi. Lo si capisce dalla storia e da quello che portò con sé. Ho tenuto perfino una cerimonia usando l'anello e il medaglione, immaginando che sia una sorella e che il nostro dono di guarire ci arrivi in gran parte da lei. Pensavo che venisse da me, ma invece è venuta da te». «Perché? Cos'è successo?» La zia rifletté prima di rispondere. «Le parole sono potenti. Le sue sono state nascoste per tanto tempo e all'improvviso rivivono e girano il mondo. Tu hai quasi l'età che aveva lei quando le scrisse: questa potrebbe essere la ragione. I sogni che fai, queste visioni: chi ti dice che lei non sogni di te? Quello che succede nel nostro mondo può arrivare anche nel mondo degli spiriti». Per Zia M, gli spiriti di chi non vive più erano presenze palpabili, presenti nella vita quotidiana, e il mondo che abitavano era reale quanto il nostro. «Mi sta usando per raccontare il resto della sua storia?»
«Forse vuole raccontare la sua storia a te». La zia si alzò e fece cenno ad Agnes di seguirla. Uscirono nel mattino che si risvegliava, nel clamore dei richiami degli uccelli. Agnes aveva dimenticato com'era bello lì. Il sole era sorto in uno slargo tra le colline e ora brillava su tutto il lago, rendendo luminosi i banchi di nebbia, trasformando l'acqua in argento cesellato. Gli alberi affollavano la spiaggia. Pini e abeti si specchiavano nel lago come ombre riflesse. Gruppi di betulle, i tronchi lucenti come platino, i rami sottili annebbiati dalle foglie nuove, si protendevano verso la superficie dell'acqua come ragazze che si lavano i capelli. «Togliti i vestiti. Devi andare dentro». «Cosa?» Agnes non se l'aspettava. Guardò verso l'acqua. La primavera era stata straordinariamente mite anche lassù, ma c'era ancora del ghiaccio. «L'acqua sarà gelata!» «Non ti ucciderà. Quando eravamo piccoli dovevamo rompere il ghiaccio per entrare. Non sarà una cosa facile, Agnes. Se vuoi affrontare la cosa, dobbiamo irrobustirti». Agnes obbedì. Fece il bagno nuda, non che il costume avrebbe fatto qualche differenza. Il ghiaccio si era ritirato dalla riva, ma l'acqua era così fredda che all'inizio la intorpidì completamente e Agnes pensò che non l'avrebbe sopportata. Ma era una nuotatrice esperta e quando si allontanò a robuste bracciate quella sensazione la abbandonò, sostituita dall'ilarità e da una sorta di pura meraviglia. Nuotò fino alla vecchia piattaforma per i tuffi e poi si voltò per tornare a riva. Uscì quando si sentì di nuovo invadere dall'insensibilità. Sua zia la aspettava con un asciugamano. La ricondusse alla capanna per la colazione: caffè e pancakes ricamati con sciroppo raccolto da Zia M con le sue mani. Sua zia si sedette di fronte a lei. Indossava una camicia scozzese da uomo, pantaloni di velluto e stivali da lavoro. Quando veniva quassù, si vestiva sempre in modo pratico. Portava i capelli raccolti in due trecce. Aveva una ciocca bianca da quando era giovane, come Agnes; ogni tanto si prendeva una treccia dalla spalla e osservava che il resto stava cominciando a confondersi col bianco della ciocca. Il suo volto era abbronzato perché stava all'aperto con qualsiasi tempo, e anche se aveva un'aria piuttosto severa, stava sorridendo. Anche se sua zia non voleva dirlo, Agnes sapeva di aver superato una sorta di prova. Zia M poteva essere burbera, dura a volte, ma in quel momento i suoi occhi neri scintillavano. Allora Agnes la amò più di quanto non amasse nessun altro, e seppe che Zia M la amava.
Si stava bene, lì con lei, meglio che in passato. Agnes non era proprio sicura, ma immaginava che avrebbero cominciato subito. Invece fu presto chiaro che non sarebbe stato così. Dopo colazione, Zia M le assegnò dei lavori nella capanna. Era rimasta chiusa tutto l'inverno e le foglie si erano infilate all'interno, insieme a rametti, polvere e qualche occasionale topo aveva lasciato i suoi escrementi. Quindi bisognava pulire i pavimenti, battere il vecchio tappeto a uncinetto; le finestre erano unte, e materassi e lenzuola stavano bene all'aria, adesso che c'era il sole. Bisognava tagliare la legna per alimentare la stufa e disporla in ordine vicino al camino. Il giorno si annunciava tiepido, ma ad Agnes fu ordinato di accendere il fuoco per riscaldare la stanza dopo il lungo gelo dell'inverno e per asciugare qualunque traccia di umidità del disgelo primaverile. Agnes spazzò attorno alle sedie a dondolo ai due lati del camino. Ripulì la tovaglia cerata distesa sul tavolo sotto la finestra e vi spinse sotto le sedie con lo schienale rigido. Uno scaffale correva lungo tutta una parete. Agnes spolverò sopra e attorno alle lattine ammaccate delle provviste e risistemò i libri. Una miscela di vecchie cartine, cataloghi di sementi ed erbari ammuffiti stava vicino a una selezione di tascabili strapazzati, gonfi d'umidità. Erano tenuti su da una pila di pietre del lago, alcune rotonde, altre ovali, lisce come uova. Mentre Agnes lavorava, Zia M si dava da fare per 'allietare l'ambiente', appendendo immagini ritagliate dalle riviste e coperte colorate a strisce e a zigzag per coprire le crepe sulla parete a calce. «Ecco. Così va meglio!» Fece un passo indietro per ammirare la sua opera, poi si avvicinò a toccare la parete che si sfioccava. «Ha bisogno di una mano fresca, ma credo che possa aspettare un altro giorno». Quando ebbero finito, Zia M fece dell'altro caffè. Lo preparava alla maniera antica, mettendo un pentolino di smalto blu sbeccato e annerito a scaldare sulla stufa, e stando a guardare finché il liquido marrone eruttava attraverso la spessa cupola di vetro in cima. «Niente latte né panna» disse Zia M mentre riempiva due boccali. Agnes aggiunse lo zucchero preso dalla ciotola su tavolo per addolcire la bevanda. «Oh, mi ero dimenticata. Ti ho portato queste». Agnes pescò nello zaino e posò la stecca di sigarette sul tavolo. Zia M prese il tradizionale dono di tabacco, con un cenno di assenso. «Grazie, ma ho smesso». Si rigirò tra le mani la scatola bianca e rossa.
«Fumare fa male alla salute, non lo sapevi? Portale a Jake, al capanno della pesca. Sono la sua marca preferita. Lui fuma ancora. Dice che è troppo vecchio per smettere». «Ma è dall'altra parte del lago! C'è ancora il ghiaccio là fuori, l'ho visto!» «Non è un problema, se stai attenta. Puoi prendermi delle esche, già che ci sei, e ho bisogno di provviste. Ecco». Diede ad Agnes una lista. «Se vai adesso, sarai di ritorno quando fa buio. Altrimenti appenderò una lampada giù al molo: tu segui la luce». Agnes trascinò la sbiadita canoa di plastica arancione fuori dalla copertura cerata e la portò fino all'acqua. Vi salì cautamente, sistemò il telo impermeabile e usò la pagaia per spingersi nell'acqua che sciabordava. Non andava in canoa da tempo e sperava di non aver perso la mano. Era un giorno azzurro e tranquillo praticamente senza vento, e lei scivolò sull'acqua, guidando la barca attraverso e attorno alle incrostazioni e ai banchi residui di ghiaccio che si scioglieva. I gesti le tornarono naturali come andare in bicicletta. Cominciò a godere della rinnovata abilità sull'acqua, anche se le faceva male la schiena per la posizione rattrappita e l'impugnatura della pagaia le irritava la mano, riaprendo le vesciche spuntate sul palmo dopo una mattinata passata a tagliare legna. Jake accettò le sigarette con un grazie e la mandò via con un paio di barattoli di vermi e larve colorate. Agnes andò dal capanno delle esche al negozietto che riforniva le barche e i turisti estivi, attese che il ragazzo mettesse insieme il suo ordine e trasportò a fatica i sacchetti di carta alla barca, sistemandoli a poppa e a prua. Doveva stare attenta, perché con il peso la canoa pescava di più in acqua. Le mani le facevano più male adesso, rallentando l'andatura. Il sole s'immerse a ovest, i raggi dilagarono sull'acqua e sembrava che la sua pagaia si immergesse nell'oro liquido e lo lasciasse colare. Agnes continuò ad avanzare verso la sponda più lontana mentre l'oscurità si addensava: l'azzurro del cielo diventava più intenso sopra di lei e spettri di nebbia candida salivano dal lago attorniandola. Guidò la barca con attenzione tra i blocchi di ghiaccio; sentiva i pezzi che colpivano con tonfi sordi i lati della canoa prima di allontanarsi galleggiando. Portò la canoa in una pozza di acqua sgombra. Le stelle brillavano sopra e sotto di lei e la luna riluceva come una moneta d'argento gettata sulla superficie increspata. Lasciò galleggiare la canoa, stando immobile più che
poteva, per non disturbare i cieli riflessi attorno a lei. Se restava immobile in quel modo, era quasi impossibile vedere dove finiva il cielo e cominciava il lago. In alto ardeva la Via Lattea: il Sentiero degli Spiriti, la Strada dei Fantasmi, la via percorsa dai morti nel loro viaggio verso ovest. Si apriva davanti a lei come un'autostrada di diamanti. Stava scendendo il freddo, la nebbiolina strisciante e l'acqua quasi gelata raffreddavano l'aria, ma lei non lo sentiva. Rimase a lungo a dondolarsi nella barca, guardando l'intensità silenziosa delle stelle. Si raccontava che ciascuna fosse un falò acceso da coloro che compivano il viaggio attraverso il cielo fino al luogo dove tramonta il sole. Quanti della sua gente erano andati da quella parte? Il numero era infinito come le foglie che spuntano a primavera e cadono alla fine dell'anno. Era possibile fare il viaggio a ritroso? Era possibile che un'anima lasciasse la terra dei morti e tornasse tra i vivi? Il bisogno di sapere era intenso. Un pesce balzò lì vicino, increspando l'acqua, spezzando l'incantesimo. Si voltò, spaventata dal rumore improvviso, e fermò la canoa che andava alla deriva. Ancora riluttante a disturbare la superficie tranquilla, immerse la pagaia con un gesto attento e si diresse verso la luce sicura che baluginava appesa al molo lontano. 12 Lago Specchio, secondo giorno, mattina Agnes sapeva che la zia la stava preparando a una ricerca visionaria, ma cominciava a trovare tutti quegli incarichi un po' noiosi. Le erano stati assegnati per un motivo, ma non le andava di immaginarsi quale fosse. Una sorta di prova, legata al fatto di umiliarsi davanti a un'altra persona e sottostare a una rigida disciplina. Quella mattina era stata mandata di nuovo a nuotare nel lago, che non era diventato più caldo. Poi era stata caricata di taniche di plastica e spedita a prendere l'acqua a una sorgente fredda nel cuore del bosco. Si diceva che l'acqua avesse qualità curative e che la sorgente non gelasse mai, per quanto freddo fosse l'inverno, e l'acqua non era mai stagnante o salmastra. Si chiamava il Luogo dell'Acqua Chiara. I trapper e i cacciatori bianchi la chiamavano il Pozzo delle Streghe. Era passato mezzogiorno quando Agnes la trovò. Riempì i due contenitori di plastica e poi si chinò a bagnarsi il viso, unendo le mani a coppa per
bere. Mentre si protendeva a guardare nella pozza profonda, la luce colpì monete, sassolini bianchi, cristalli di quarzo, e anche una o due perline. Offerte fatte alla Madre, perché l'acqua sgorga da lei e scorre libera e pura per darci la vita. Il suo popolo ne era convinto dalla notte dei tempi. Agnes non ci aveva mai creduto, ma si frugò in tasca e scagliò una monetina, offrendo la sua preghiera di ringraziamento mentre la moneta scintillava una o due volte alla luce del sole prima di affondare. Agnes ripartì, barcollando appena sotto il peso delle taniche piene. Probabilmente sarebbe dovuta stare all'erta in cerca di segni sciamanici, setacciare la foresta in cerca di punte di freccia, pietre speciali, ramoscelli incrociati in un certo modo, per capire se era pronta ad affrontare la cerimonia che sua zia aveva in mente, di qualunque cosa si trattasse. Agnes si rifiutò di fare una cosa del genere. Non voleva che fosse una sorta di dozzinale ricerca visionaria, come una delle messinscene che la zia avrebbe potuto allestire per la gente di città che veniva da lei in cerca di 'arricchimento spirituale'. I segni dovevano venire spontaneamente, secondo Agnes, altrimenti non avevano alcun valore. La neve era ancora visibile qua e là, alta fino a trenta centimetri nelle zone di ombra perenne, per il resto bassa e sporca. Ora che il sole era alto, Agnes si accorse di sudare. I contenitori dell'acqua erano pesanti e ad aumentare il suo disagio stavano arrivando i moschini neri. Non quanti ce ne sarebbero stati a stagione inoltrata, ma abbastanza da farle desiderare di aver portato con sé uno spray protettivo. I piccoli moscerini neri formavano nuvole attorno alla sua testa, le pungevano il collo e si appiccicavano alla pelle sudata. Con una tanica per mano, non poteva nemmeno cacciarli via. Una ghiandaia cantò molto vicino, ottenendo in risposta un altro grido. Agnes d'istinto si scostò quando l'uccello uscì dal suo nascondiglio librandosi sopra di lei, e imprecò quando il tappo a vite saltò via dalla tanica e l'acqua le bagnò tutta la gamba dei pantaloni. La zia non disse niente quando Agnes arrivò alla capanna; si limitò a toglierle di mano le taniche. Agnes attese di vedere quali altri compiti avrebbe dovuto svolgere. Zia M posò l'acqua e tornò lentamente verso Agnes, in piedi sulla soglia. Tese una mano e le tolse qualcosa dalla testa e dal colletto della camicia. Poi aprì la mano e mostrò due piume azzurre. Sorrise. «È il momento. Vieni con me». 13
Lago Specchio, secondo giorno, pomeriggio Un fuoco ardeva nella parte più lontana del prato. Le fiamme danzavano trasparenti alla luce del sole, facendo tremare l'aria come un miraggio. Pietre piatte erano disposte a scaldarsi al centro del focolare, bianco di cenere. Il calore era intenso quando Zia M condusse Agnes oltre il fuoco, verso una bassa cupola ricavata in parte nel fianco della collina. «Togliti i vestiti» le ordinò Zia M. «Entra». Agnes obbedì e si spogliò, poi spostò il bastone che teneva al suo posto il lembo di pelle che faceva da porta ed entrò in uno spazio oscuro che odorava di terra e di fumo acre. Sul pavimento c'era una serie di pietre di quarzo bianco che si diramavano da un masso centrale come i raggi di una ruota. Basse piattaforme di legno, rivestite di coperte e pelli di animale, erano disposte lungo le pareti. Agnes si sedette su una di queste. Non aveva mai partecipato prima a una cerimonia del sudore, non era mai stata in una capanna del sudore. Era abbastanza simile a una sauna, sia nel principio che nelle funzioni, ma Agnes aveva la sensazione che qualunque cosa succedesse lì dentro fosse un po' diversa da ciò che succedeva in un fitness club. Le cerimonie della capanna del sudore non facevano parte della tradizione degli Haudenosaunee, ma Zia M non era contraria a adottare e adattare abitudini di altri popoli. Le vie della saggezza erano molte. Non credeva che una sola religione, una sola nazione o un solo popolo avessero il monopolio della verità. Il suo sentiero l'aveva guidata verso insegnanti diversi di tradizioni diverse. Aveva riportato con sé ciò che aveva imparato, l'aveva incluso nella sua pratica quotidiana e aveva usato il suo potere sciamanico per aiutare, servire, istruire chi veniva da lei. Che importanza aveva se la cerimonia della capanna del sudore era Lakota? La tenda si aprì di nuovo. Zia M entrò e usò un bastone a forchetta per spingere una pietra incandescente sporca di cenere nel centro del cerchio. Riuscì a farla entrare in una depressione appena sotto il masso di quarzo bianco. Poi uscì e tornò con un'altra pietra che sistemò sull'altro lato, e poi ne portò altre ancora, finché non furono sei in tutto. Una per ogni punto cardinale, una per la terra e una per il cielo. Tornò per l'ultima volta e si rivolse ad Agnes. «Qui io sono Kanehratitake, Colei Che Porta Foglie, e tu sei Karonhisake, Colei Che Scruta il Cielo. Abbiamo lasciato Miriam e Agnes sulla so-
glia con i nostri abiti. Mi capisci?» Agnes annuì. «Bene. Ora parla quando te lo dico, fai come dico, e non interrompere. È chiaro?» Agnes annuì di nuovo. «Molto bene. Cominciamo». Zia M tolse da un involto la pipa sacra e la riempì di tabacco preso dalla pelle di foca. La pipa era corta, il fornello e il cannello di lucida pietra nera, insolita e molto antica. Zia M la accese e offrì il fumo alla terra e al cielo e ai quattro punti cardinali, poi porse la pipa ad Agnes. Agnes trasse una boccata, cercando di trattenere il fumo, ma le lacrimarono gli occhi e dovette sforzarsi per non essere soffocata da quel denso aroma acre. La zia posò la pipa nel centro del cerchio e prese pizzichi di erbe dai fasci appesi al soffitto. Gettò le foglie sulle pietre bollenti, dove si contrassero, si arricciarono e rimpicciolirono prima di ardere in piccoli sbuffi di fumo fragrante. La tenda si stava scaldando. Zia M lasciò scendere il lembo della porta e coprì l'ingresso con una coperta. Erano immerse in un'oscurità così totale che Agnes non riusciva a vedere le proprie mani. Scorgeva solo le pietre bollenti che brillavano rosse nell'oscurità, illuminando dolcemente il bozzo di quarzo al centro, dando alla roccia un riflesso rosa intenso e fluido. Zia M spruzzò dell'acqua con una penna d'aquila e la temperatura si alzò ancora finché Agnes quasi non lo sopportò più. Il sudore la ricopriva tutta, le incollava i capelli alla testa, scorreva lungo il suo corpo, gocciolava dalle sue ciglia, riversandosi come lacrime su tutto il viso. Si rizzò a sedere, con la sensazione di essere sul punto di svenire, e fu colpita da un'altra ondata di calore quando Zia M spruzzò altra acqua. Stava per cedere ancor prima che la prova fosse cominciata sul serio. Voleva urlare nell'oscurità densa di vapore soffocante, dire a sua zia che non ce la faceva, non poteva sopportarlo. Non era pronta. Tutto ciò era estraneo e profondamente spaventoso. Voleva supplicare, ottenere il permesso di andarsene, ma non le uscivano le parole. La sua gola si strinse, respingendole la voce giù nel petto, e la lingua era pesante nella sua bocca. Quando avevano cominciato Zia M era burbera e pratica come sempre, ma ora era diversa. Agnes non l'aveva mai vista così prima d'allora: stava parlando nella lingua antica e sembrava un'altra, una persona che non desiderava essere interrotta. Ammutolita, Agnes fissò la pietra di quarzo al centro. Il riverbero rosa cresceva e si intensificava; la superficie gettava
bagliori, ombre come di falena giocavano su di essa, come se qualcosa si muovesse nel suo cuore, in cerca di un punto da cui uscire. Sua zia continuò a parlare, intonando e cantando le sue nenie, evocando gli spiriti finché le parole parvero restare sospese a mezz'aria, danzando come polvere nel sole. Dietro le parole venne un pulsare di tamburo, fondo e nitido, costante e vicino come il pulsare del sangue nelle orecchie. Il sonaglio di tartaruga disseminò il suo rumore verso i quattro punti cardinali e piedi nudi percossero il suolo, girando intorno in una danza rituale. Agnes fece un ultimo sforzo per alzarsi e andarsene, ma era troppo tardi. Non poteva più resistere, ogni sua forza residua si stava esaurendo. Non riusciva più a stare seduta diritta o a tenere gli occhi aperti. Cadde all'indietro sul letto, il pelo setoso delle pelli e la morbida ruvidezza delle coperte di lana contro la pelle. Si sentì tutt'uno con il calore e l'oscurità, come se fosse diventata parte di essi, o essi fossero entrati in lei. Era come se non avesse peso. Le sue membra erano molli alle giunture. All'inguine, nei fianchi, lungo la spina dorsale le ossa, i muscoli e i tendini parvero disconnettersi. Non c'erano limiti in lei: si stava disciogliendo dall'interno, diventava nulla, parte di tutto. Agnes chiuse gli occhi al calore e al vapore della capanna. Si svegliò circondata da un'aria secca e fredda. Non era più Agnes, e nemmeno Karonhisake, Colei Che Scruta il Cielo. Non era più americana o Haudenosaunee. Era inglese, e si chiamava Mary, e si destò scoprendo che stava morendo, stava morendo congelata. 14 La storia di Mary La neve aveva cessato di cadere e il vento si era fermato. Mi svegliai in un bozzolo di ghiaccio e rimasi rannicchiata, assolutamente sorpresa di svegliarmi. Il cielo s'inarcava sopra di me, rarefatto in un azzurro lattiginoso attraverso la sottile crosta cristallina formata dal nostro fiato. Era come stare dentro un uovo. Mi svegliai da sola e ascoltai, aspettando il ritorno della lupa. Dov'era andata? Perché mi aveva abbandonato? Senza di lei sarei morta, stavo già morendo, era certo. Non potevo muovermi, quella caverna di ghiaccio sarebbe stata la mia tomba. Salvarmi e poi abbandonarmi: il pensiero mi colpì crudele e fece sgorgare lacrime che mi scivolarono lungo le guance
ghiacciandomi il viso. Stavo per arrendermi, per consegnarmi al mio destino, quando udii una voce: 'Abbi più fede. Non dubitare del mio amore. Solo perché non posso essere con te, non vuol dire che ti amo di meno'. Poi udii qualcos'altro, e non dal regno dello spirito. Veniva verso di me. Pensai che fosse lei che tornava, ma poi mi raggomitolai nella mia buca, trattenendo il fiato come se anche respirare potesse far crollare il tetto di delicato cristallo e tradirmi. Nessun lupo dal passo leggero avrebbe provocato quel rumore. La neve scricchiolò ancora e ancora all'avanzata regolare dell'uomo. Non molti, ma più di uno. Non ci furono urla o richiami mentre il passo si avvicinava. A parte il pesante arrancare, si muovevano in silenzio. Ogni passo era accompagnato da un suono frusciante di neve polverosa dello strato più superficiale. Non stivali. Scarpe da neve, come quelle che portano gli indiani. Il mio guscio di ghiaccio s'incrinò e s'infranse. Guardai in su, aspettandomi di vedere il volto dipinto di un estraneo, e vidi Penna Azzurra che mi guardava. Era avvolto fino agli occhi nelle pelli di procione. Non sapevo come mai fosse E, come mi avesse trovato in quella bianca distesa selvaggia, ma sapevo che era lui. Il mio viso era una maschera ghiacciata. Non riuscii nemmeno a rispondere al suo sorriso mentre i suoi occhi nero prugnolo si dilatavano per la gioia. Io risposi al suo sguardo, convinta che la mente mi ingannasse, che fosse un sogno. Un ultimo sguardo alla vita che avevo desiderato prima che il gelo si impossessasse di me e che io finissi nell'oscurità definitiva. Le braccia tese verso di me erano decisamente vere. I suoi denti bianchi si scoprirono in un gran sorriso mentre lasciava cadere il cappuccio del mantello di pelliccia e si chinava per sollevarmi dal mio sepolcro ghiacciato. S'inginocchiò, mi tolse la neve dal viso, poi gridò e un'altra figura spuntò alle sue spalle. Suo nonno, Aquila Bianca, avvolto in una pelle d'orso. Fece un passo avanti, il volto rugoso che si schiudeva in un sorriso. Si chinò, mi toccò il viso, il naso e le guance. Penna Azzurra si sfilò coi denti le manopole foderate di pelliccia e mi tolse con uno strattone i guanti di montone inzuppati. Tenne le mie mani fra le sue. Suo nonno mi tolse gli stivali e studiò la pelle delle mie mani e dei piedi come aveva fatto col viso. Disse qualcosa e si alzò. Penna Azzurra m'infilò con delicatezza le sue manopole calde e massaggiò i miei piedi nudi, soffiando su di loro e strofinandoli fra le sue mani.
«Che cos'ha detto?» Penna Azzurra sorrise: «Dice che lei si è presa cura di te». «Come avete fatto a trovarmi?» «Ieri notte il nonno ha sognato di incontrare una lupa nella foresta. Si è alzato prima della luce e mi ha detto di prepararmi per un viaggio, di portare pellicce e mocassini e manopole in più. L'abbiamo trovata che ci aspettava nella radura sotto la caverna. Si è voltata, ci ha fatto capire che dovevamo seguirla, e ci ha portato da te». «Com'è possibile? Ha fatto in modo che non congelassi. È stata qui con me. Non capisco». «Ci sono molte cose difficili da capire». Continuò a strofinarmi i piedi finché il sangue non tornò a circolare. Il dolore fu così acuto che urlai. Penna Azzurra sorrise. «Questo è buono. Il sentire ritorna come fuoco e ghiaccio insieme, ma è buono. Ecco. Ti ho portato questi». Frugò dentro le sue pellicce e tirò fuori un paio di mocassini invernali, foderati di pelo di coniglio, alti fino alle ginocchia come stivali. Erano tiepidi. Doveva averli tenuti vicino alla pelle. Me li infilò, sistemandoli abilmente sui miei piedi gelati. Prima ero priva di sensibilità; ora il ritorno della sensibilità portò con sé una piena di emozione dolorosa come il bruciore che avvertivo nelle dita delle mani e dei piedi. Mi aggrappai a lui, e lui mi accolse nel suo mantello di pelliccia, cedendomi il calore del suo corpo mentre singhiozzavo di sollievo e di gioia. Mi cancellò le lacrime dal viso e avvolse il manto di procione attorno a me, poi si voltò e preparò il fuoco. «Vedranno il fumo». Temevo quello che sarebbe successo se il fuoco avesse guidato fin lì gli uomini della colonia. «Non verranno con questo tempo». Fece un cenno ai mucchi di neve tutto attorno. «Affonderebbero fino ai fianchi. Non hanno scarpe per la neve». Mi sistemò vicino al fuoco. «Non stare troppo vicino. Il sangue deve tornare piano». Riempì di neve un pentolino di ferro e lo mise a scaldare. Da una borsa di pelle prese alcune foglie che sbriciolò e lasciò cadere nell'acqua. Quando l'infuso fu pronto, lo versò in un boccale di terracotta. «Bevilo e mangia». Mi diede una striscia di carne secca arricchita di grasso, aromatizzata e addolcita con ginepro e bacche. «Masticala piano». Poi mi lasciò per aiutare suo nonno a tagliare rami e alberelli da intrecciare per fare una barella. Quando fu pronta, mi avvolsero nelle pellicce,
nel mantello di procione e nella grande pelle d'orso, rimboccarono le coperte con cura e mi legarono alla barella. Gettarono neve sul fuoco sibilante, lo seppellirono e spianarono il terreno attorno. Si rimisero le calzature e Aquila Bianca passò un ramo per tutta la radura, così nessuno avrebbe capito che eravamo stati lì. Poi Penna Azzurra si fissò la briglia sulla fronte e cominciò a tirarmi. Avevo freddo fino al midollo, anche le pellicce non riuscivano a scaldarmi, ma il ritmo a scatti del viaggio mi calmò, e credo di aver dormito. Quando mi svegliai era quasi sera. Spuntavano le prime stelle ed eravamo ai piedi di un'alta collina. La riconobbi come il luogo della loro caverna invernale, ma non capivo come potessimo raggiungerla. «Dovete lasciarmi qui. Sono troppo debole per arrampicarmi...» «Non possiamo». Penna Azzurra mi zittì e lui e suo nonno rimasero in piedi, le teste piegate, ad ascoltare con attenzione un suono portato dal vento, un ululato che rispondeva a un altro ululato, remoto, poi vicino. Sussultai per la paura, pensando che potessero essere i cani della colonia. «Dobbiamo portarti lassù». Penna Azzurra cominciò a slegarmi. «I coloni non sono gli unici nemici. I Mohawk hanno fatto scorrerie nel nostro territorio. Potrebbero arrivare fin qui. Ogni luna diventano più audaci, anche in questo periodo di grande freddo». Un ululato fuso con un uggiolio risuonò di nuovo, questa volta molto vicino. M'irrigidii mentre una forma grigia affiorava dagli alberi ai margini della radura. Era una lupa, grossa. Mentre si avvicinava, la riconobbi. Doveva averci seguiti fin lì. Sedette sulla neve, gli occhi gialli all'erta. Aquila Bianca le parlò in tono di rispetto, umile ringraziamento e reverenza. Prese un pizzico di tabacco dalla sua borsa e lo lanciò in aria, perché il vento lo portasse da lei. «Che cosa fa?» «La ringrazia. Le offre il tabacco perché lei è spirito, manitou, molto potente e importante per te. Essere scelta da una così è un grandissimo onore. Il nonno pensa...» Ma non mi servirono altre spiegazioni. La guardai e gli occhi gialli si chiusero e si riaprirono luminosi. Non avevo bisogno che Aquila Bianca mi dicesse chi era. Era mia madre. Come mia nonna poteva entrare in una lepre, così lei aveva assunto la forma di
una lupa per salvarmi un'altra volta dalla malvagità degli uomini. Inclinai il capo e mormorai il mio grazie, dispiaciuta di aver dubitato di lei. Levò un ultimo basso ululato gemente e poi si voltò e si fuse con le ombre della foresta. La notte scendeva rapida e il gelo si faceva più pungente. Penna Azzurra mi sollevò sulle spalle e prese un sentiero stretto che zigzagava lungo il fianco della collina. Il percorso era ripido, sassoso, e a volte il sentiero spariva del tutto e lui era costretto ad arrampicarsi da una roccia all'altra. Temetti molte volte che il mio peso fosse troppo per lui, che mi avrebbe lasciato cadere, o che sarebbe scivolato e saremmo rotolati entrambi giù nell'abisso, ma lui continuò a salire, lentamente, con metodo, e finalmente arrivammo all'apertura della caverna che era il loro rifugio invernale. Suo nonno doveva aver preso un altro sentiero, perché era là davanti a noi e lo aiutò a trasportarmi nella galleria di roccia. La caverna era come la ricordavo. Una gran bocca si apriva nel fianco della montagna e portava in una stanza così grande che le sue pareti si confondevano nell'ombra. Aquila Bianca si accoccolò per alimentare le braci con bastoncini di pino e pigne, quando i legnetti si accesero aggiunse altra legna e mise delle pietre a scaldare. Penna Azzurra mi trasportò fino a un basso giaciglio ricoperto di pellicce. Mi sfilò i mocassini e i guanti. Cercai di mettermi a sedere. Non era giusto che facesse questo per me, ma le mie dita erano pressoché inutili nella loro goffaggine. Non riuscivo a slacciare il mantello, men che meno a cavarmela con i ganci, i bottoni e i lacci dei miei altri abiti. Gli dissi di andarsene, ma lui scosse il capo. «Sono bagnati. È necessario». Mi tolse gli abiti più esterni, inzuppati, ma gli dissi che potevo cavarmela con i lacci della biancheria. Mi voltò le spalle mentre finivo di spogliarmi. Scivolai nuda tra le spesse pellicce e lui ne portò altre. Pensavo di aver cominciato a scongelarmi, ma all'improvviso fui scossa da brividi violenti e attacchi di tremore che mi fecero battere i denti. Penna Azzurra avvolse pietre bollenti in pelli di cervo e le infilò nel mio giaciglio. Aquila Bianca venne a guardarmi, poi andò in un'altra caverna. Tornò con una pelle di orso bianco e me la gettò addosso; poi dalla sua sacca prese mazzetti di erbe e polveri avvolte nella corteccia. Staccò foglie dai fasci disseccati e le sbriciolò in una teiera nera, poi vuotò il contenuto di parecchi involti. Mescolando, aspirò l'aroma del sassofrasso e del sommacco.
Assaggiò l'infuso e lo addolcì col miele; poi si ritirò e lasciò solo Penna Azzurra ad occuparsi di me. Penna Azzurra mi portò la bevanda bollente. Quando non riuscii a tenere il boccale e i miei denti urtarono contro il bordo, mi tenne fermo il capo e mi versò il liquido in gola. E ancora non riuscivo a scaldarmi. Penna Azzurra sostituì le pietre che si stavano raffreddando con altre appena scaldate. Mi rimboccò la pelle di orso bianco più stretta. L'orso a cui era appartenuta vive molto a nord e ha il pelo più fitto di qualunque altra creatura; Penna Azzurra me lo disse, ma avrebbe potuto essere una coperta lisa del materiale più infimo, perché non sentivo ancora caldo. Penna Azzurra ammucchiò altra legna sul fuoco finché le fiamme non balzarono alte. Animali e uomini s'alzarono con loro. I disegni incisi e dipinti sulle pareti sembravano muoversi, scendere dalla pietra, finché la caverna non fu piena di divinità e spiriti in un cerchio infinito. Mentre danzavano, cantavano una canzone senza inizio né fine. Fui colta da una tale sensazione di paura e stupore che ripresi a tremare. Penna Azzurra non sapeva più che cosa fare, come prendersi cura di me. Alla fine mi diede il calore del suo corpo. Venne nel giaciglio con me, fece combaciare le sue membra con le mie e mi diede il suo tepore. Fu allora che cominciò il rombo di tamburi, prima lento, poi rapido; lento, poi rapido. Come il mio sangue. Come il mio cuore. Il rombo si fece più rapido e un flauto suonò, lento, penetrante e supplichevole, ma poi sempre più acuto, su per la scala, finché quasi non riuscii a sopportarlo. Poi la musica s'interruppe. La danza inquietante si fermò. Il mondo smise di vorticare e io non ebbi più freddo. 15 La Caverna degli Antenati Dovevo essermi addormentata di nuovo, perché quando mi svegliai Penna Azzurra non era più con me. Suo nonno indicò l'imboccatura della caverna e poi un disegno sul muro: un cacciatore curvo e rannicchiato, il corpo teso come l'arco che portava. Davanti a lui c'era un cervo, le zampe anteriori allargate, la testa cornuta piegata a terra, che pascolava ignaro. Annuii. Avevo capito. Penna Azzurra era andato a caccia. Mi alzai a sedere, poi ricordai che ero completamente nuda. Cercai i miei abiti, ma non c'erano. Il vecchio inclinò la testa verso di me come se
avvertisse il mio dilemma. Poi se ne andò, e tornò subito con una pila di abiti. Li scosse uno a uno e li dispose sul giaciglio. Gli indumenti erano pieni di grinze per essere stati a lungo ripiegati e lui li lisciò uno a uno con tocco garbato, come se trattenessero ancora il tepore di chi, amatissimo, li aveva indossati. Gli abiti erano molto belli, della più morbida pelle di cerva bianca, riccamente lavorati. Le sue lunghe mani magre sfioravano la pelle soffice, distendendo gli orli decorati, toccando il lavoro di perline e il ricamo su sprone, maniche e orli, muovendo le dita come un cieco nel ricordare e riconoscere. Si ritrasse e mi lasciò sola a vestirmi. Mi lasciai scivolare la tunica sulla testa e avvolsi e fermai la cintura attorno alla vita. M'infilai gli stretti pantaloni fissati al ginocchio da una giarrettiera e infilai i piedi in un paio di mocassini. L'abito era decorato sul davanti con pelo d'alce intrecciato e aculei di porcospino, quattro fiori coi petali rossi disposti in cerchio attorno a quello che sembrava un uccellino bianco. Sembravano fatti per me: mi andavano alla perfezione. Quando Aquila Bianca tornò e mi vide, sorrise. Sorrideva di rado, ma allora mi sorrise. Mi guardò per quella che mi parve un'eternità e i suoi occhi scuri si rannuvolarono, la gioia sostituita dalla tristezza. Disse qualcosa nella sua lingua e per un attimo parve ancora più triste. Poi se ne andò bruscamente e sparì in una piccola anticamera, lasciandomi sola ad aspettare. Mi intrecciai i capelli, perché non avevo una cuffietta per tenerli indietro. Non avevo bisogno di uno specchio che mi dicesse come mi avrebbe descritto la mia gente. Mi avrebbero guardata con orrore, si sarebbero allontanati da me con sprezzante pietà, anche se ero la stessa persona che indossava abiti di lino bianco o di lana grezza grigia. Rimasi seduta all'entrata della caverna ad aspettare il ritorno di Penna Azzurra, meditando sui cambiamenti che mi avevano travolto. Ero sua moglie quanto Rebekah lo era per Tobias, anche se nessuno aveva solennizzato o sancito la nostra unione. Non sarei potuta tornare. Mai. Non avrei portato la lettera della vergogna sulla manica. Non avrei rischiato che entrambi venissimo marchiati sulla guancia e cacciati a frustate dalla città. Sarei vissuta lì con lui. Non avrei rischiato di venire punita per qualcosa che non è peccato. Meditai sulle parole di Rut dei Moabiti: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi femerò; il tuo po-
polo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te». Fuori il vento gemeva e urlava; e la neve cadeva in una massa selvaggia e vorticosa, oscurando il tetro paesaggio invernale che si stendeva là sotto. Nonostante la furia degli elementi davanti a me, mi sentivo pervasa da una gran pace e tranquillità. Il fuoco alle mie spalle mi scaldava; i vestiti che Aquila Bianca mi aveva dato si adattavano al mio corpo come una seconda pelle. Proprio come Ruth con Giuda, sentivo di aver trovato la mia gente, che io appartenevo a loro. Penna Azzurra fece ritorno, ammantato di neve. I suoi occhi si dilatarono alla mia vista, ma non disse una parola. Si fece scivolare dalle spalle la carcassa di cervo che portava e chiamò suo nonno. Parlarono a voce bassa. Non riuscii a capire, ma osservai i loro volti per cercare di cogliere lo scambio. Penna Azzurra mi guardò perplesso, teso, perfino. Che cosa potevo aver fatto per offenderlo? Tutta la gioia che avevo provato al suo ritorno si dileguò e lo osservai ancora più attenta per capire che cosa aveva in serbo per me il destino. Senza di lui ero completamente perduta. Ma quello era l'ultimo motivo della mia disperazione. Ero in preda a emozioni che non avevo mai provato prima e che non sapevo definire. Sapevo solo che lui significava per me più della vita stessa. Se non mi avesse voluto, non avrei avuto nessun altro. Se si fosse allontanato da me ora, sarei andata all'imboccatura della caverna e mi sarei gettata sulle rocce di sotto. Un tale atto estremo non mi fu richiesto. Mentre ascoltava, si rischiarò in volto e via via assunse un'aria di comprensione. Potei respirare di nuovo. Penna Azzurra gettò le pellicce sul giaciglio e mi fece cenno di avvicinarmi al fuoco con lui. «Ti rende un grande onore» disse, alimentando le fiamme. «Più di quanto tu non sappia. Gli abiti che porti appartenevano a sua figlia, Uccello Bianco. Era la più piccola e la sua preferita, nata dal secondo matrimonio. All'inizio la chiamavamo Piccolo Uccello, perché rideva e trillava nella sua culla che dondolava appesa a un ramo. Quando è cresciuta, ha imparato a correre prima di camminare: sembrava che si staccasse da terra, come un uccello». «Che cosa è stato di lei?»
«È morta nella sua quindicesima estate. Per la malattia delle macchie, come la moglie di Aquila Bianca e i suoi altri figli, compreso mio padre, e anche mia madre, mio fratello e le mie sorelle. È morta quasi tutta la tribù. Aquila Bianca incolpò se stesso. Era powwaw, sciamano; la gente guardava a lui per farsi curare. Ma gli spiriti lo abbandonarono e non ebbe potere contro la malattia dell'uomo bianco. Non riuscì a salvare nessuno, nemmeno sua figlia, che gli era così cara. Non poté fare altro che seppellire la sua gente con le opportune cerimonie e preparare i morti per il loro viaggio verso la casa del gran dio Kiehtan, a sud-ovest. «Quelli erano gli abiti per il matrimonio di Uccello Bianco. Doveva essere sepolta con quelli, oppure sarebbero dovuti essere appesi agli alberi attorno al luogo della sua sepoltura, e restare lì finché non fossero diventati polvere». Guardò suo nonno, che era seduto e ci osservava. «Dice che Uccello Bianco tornò a lui in sogno e gli disse che per il viaggio nella Terra degli Spiriti sarebbero andati benissimo i suoi abiti di tutti i giorni. Disse che lui doveva conservare i vestiti più belli, quelli preparati per il suo matrimonio. Perché un giorno sarebbero stati necessari. Un giorno un'altra ragazza sarebbe arrivata nuda, e lui avrebbe dovuto vestirla e sarebbe stata una figlia per lui». «E quella sono io?» «Il tuo arrivo avvera la profezia. Ci sono anche altri segni. Gli antenati ti hanno accettato. La Madre Lupa ti ha protetto, è il tuo spirito custode, e questo ti rende parte del suo clan. Il nonno farà il segno su di te, così come io porto questo». Voltò la guancia per mostrare un ovale disegnato in nero, con la testa tonda, le zampe tozze e la coda a punta. «Vuol dire che io sono del clan della Tartaruga». Distolse lo sguardo da me, e la sua voce divenne un sussurro. «Vuol dire che possiamo sposarci». «Questo è buono». Tesi la mano, sfiorai le linee impresse sulla sua pelle liscia. «Perché noi siamo già sposati». Gli presi la mano, la mia stretta si fece più forte. «Non lo senti anche tu?» Sorrise timidamente, ancora con lo sguardo rivolto verso il basso, le lunghe ciglia ricurve che gli accarezzavano le guance. «Gli antenati hanno danzato alle nostre nozze, non li hai visti? Non li hai sentiti?» Annuii, d'improvviso timida quanto lui. «Uccello Bianco era là per dare la sua benedizione. Il nonno ha sentito il suo flauto». Così fu, e così doveva essere. Da quel giorno, vivemmo come marito e
moglie. 16 Eden Il mondo cambiò con il volgere dell'anno. L'inverno allentò la presa sulla terra. L'acqua sgorgò daEa montagna e la neve si ritirò, il bianco mantello arretrò verso la nostra fortezza sui monti. Via via che indietreggiava, le foglie riempivano di verde la foresta e ricoprivano gli alberi come un mantello di garza. Gli uccelli volarono da sud, annerirono il cielo giorno dopo giorno nel loro viaggio verso nord. Via via che i giorni si facevano più tiepidi, seguivo Penna Azzurra e scendevo con lui dalla nostra caverna, per cacciare, pescare, raccogliere ciò che la foresta offriva. Mi insegnò a usare l'arco e a uccidere, ma mi insegnò anche che c'è uno spirito in tutte le cose. Per lui, ogni forma di vita era sacra. Si disponeva in solenne preghiera davanti alla creatura a cui aveva tolto la vita, dicendo: «Ci dispiace, fratellino, ma il nostro bisogno è grande. Rendiamo onore al tuo coraggio e alla tua velocità e alla tua forza». Mi insegnò la sua lingua, e molte altre cose. Trovavamo gioia in tutto quello che ci circondava, fare il bagno nei laghi e nei ruscelli, stare in piedi sotto le cascate, rabbrividire nel freddo violento. Vagavamo mano nella mano fra le macchie della radura, raccogliendo fragole, prugne, dolce uva selvatica, nutrendoci a vicenda, riempiendoci la bocca dei frutti finché il succo non ci colava sul viso, gocciolava dal mento, scorreva nelle nostre gole. I boschi risuonavano della risata di Penna Azzurra. Ogni giorno era una gioia e ogni giorno il mio amore per lui cresceva finché non conobbe confini. Sapeva incantare le api e farsi dare il loro miele; si arrampicava in alto sugli alberi per cullare le selvatiche, fiere, ronzanti creature e convincerle a cedere i loro tesori. Portava via i loro favi, colmi e stillanti di dolcezza scura e appiccicosa, e me li portava. Trovammo prati di montagna e giacemmo nell'erba alta circondati dalle teste dondolanti dei fiori e ci bagnammo nel sole finché non diventai bruna quanto lui. Mi sembrava di essere in paradiso, che fossimo stati trasportati in un autentico Eden e lasciati lì a camminare nel giardino, un'altra Eva e un altro Adamo. Mai nella mia vita avevo conosciuto tanta estasi, tanta felicità.
Né l'avrei conosciuta di nuovo, anche se allora non lo sapevo. Vivevamo ogni giorno senza pensare al domani. Dall'alba al tramonto, il tempo sembrava estendersi al di là della durata normale. Desiderai di poter fermare del tutto lo scorrere del tempo, rallentare il sole nel suo corso e far durare ogni giorno per sempre. Una cosa del genere era impossibile. Per quanto volessi trattenerlo a me, ogni momento mi scivolava tra le dita e scivolava via come sabbia attraverso una clessidra. 17 La Camera delle Visioni Non passavo tutto il mio tempo con Penna Azzurra. Potevo essere sua moglie, ma ero anche figlia di Aquila Bianca, e sua allieva. Riluttante a separarsi da me, a volte Penna Azzurra doveva lasciarmi alla mia istruzione. Essa avveniva nella camera più interna della caverna, un posto a lui proibito. Era un luogo pieno di mistero. L'ocra delle pareti era caldo come il ventre del mondo. Dappertutto erano dipinte e incise figure che nella caverna non c'erano, ma queste erano manitou, dello spirito. Nicchie scavate nelle pareti segnavano i quattro punti cardinali e Aquila Bianca faceva offerte alle divinità che vi abitavano. Enormi dischi guardavano in basso, uno coi raggi, uno liscio, uno per il sole, uno per la luna. Uccelli di tuono saettanti galleggiavano e volavano tra i due dischi. Spiriti animali avanzavano furtivi e strisciavano dietro antichi arazzi che il tempo aveva reso sottili come ragnatele. Coperti di disegni a strisce e zigzag, erano stati portati dai primi popoli e si diceva che venissero da sud-ovest, dalla casa di Kiehtan. Quello era un luogo sacro. La prima volta che varcai la soglia sentii i peli delle braccia e del collo rizzarsi per la paura e la meraviglia. Molto più che in qualunque chiesa fossi mai entrata. Sentii di più. Mi sentii vicina a mia nonna; fu come se fossi tornata a casa da lei. Perché lei era convinta che tutte le cose sono sacre: il sole, la luna, la pioggia e il vento; la terra, la madre da cui tutto nasce. Vedeva il divino in tutte le cose che crescevano; in tutte le creature che camminavano, strisciavano, volavano o nuotavano; in ogni essere vivente sulla terra o nel cielo, in fiumi, laghi e mari. Rendeva onore a tutto nelle sue preghiere ogni sera e ogni mattina. Proprio perché aveva creduto in questo era stata impiccata.
Se fosse vissuta, mi avrebbe introdotto ai misteri. Ora si assunse questo compito Aquila Bianca. «Lo spirito è forte in te. Lo so. Sei nata per camminare sulla strada sacra e io sono qui per guidarti. Prima ti devo raccontare una storia». Non parlò subito. Sedette perfettamente immobile: una tale immobilità era una lezione che dovevo imparare. Il suo corpo era sottile e muscoloso, agile come quello di Penna Azzurra, ma il suo viso era segnato e intagliato da rughe e i suoi capelli legati in una treccia brillavano come funi d'argento ossidato. I suoi occhi scuri e infossati erano difficili da leggere nelle ombre della caverna, ma vidi una profonda tristezza mentre guardava nel pozzo della storia che stava per raccontare. Immaginai che riguardasse sua figlia, Uccello Bianco. Mi fissò e la sua infelicità parve raddoppiare. Non riuscii a capire come una tale tristezza potesse essere adombrata da un'altra. «Penna Azzurra ti ha detto che mia figlia è morta». Annuii. «Quello che non ti ha detto, era troppo giovane per saperlo, è che io l'ho riportata indietro dalla Terra dei Morti perché abitasse ancora con me». «Come?» «L'ho seguita. Fu una delle prime a cadere ammalata. Io ero powwaw, sciamano. Mia moglie mi supplicò di salvarla e io feci tutto ciò che potevo, ma ero impotente contro la malattia dell'uomo bianco. La malattia si propagava dall'uno all'altro così in fretta, come il fuoco in un campo di granoturco secco, e non potei fare nulla. Vegliai vicino al giaciglio di mia figlia dal giorno alla notte. Sentivo che mi scivolava via. Venne la sera e credo di essermi addormentato, perché quando mi svegliai era notte fonda. La vidi alzarsi e uscire: si muoveva con facilità e c'era forza nel suo passo, come se la malattia non fosse più in lei. Mi alzai, ma mi disse di tornare indietro; tre volte me lo disse e poi se ne andò, facendomi promettere di non seguirla. «Non potei mantenere la promessa. Uscii e vidi la sua forma bianca entrare nella foresta. Andai con lei, seguendo il sentiero che aveva preso tra gli alberi. Le foglie erano fitte per il rigoglio estivo ed era così buio che vedevo a stento dove posare il piede. «Il sentiero portava a un largo percorso che non riconobbi. Guardai in alto, pensando di vedere la strada nelle stelle, ma non c'erano stelle. Il cielo era vuoto. Guardai a terra. Era nuda, battuta dal passo di molti piedi, e quando mi guardai intorno vidi uomini e donne di nazioni diverse che
viaggiavano tutti insieme; alcuni erano vecchi, ma molti erano giovani, con neonati fra le braccia e bambini al seguito. «Procedevamo in silenzio e non mi guardavano. M'incamminai con loro, sempre verso ovest. Davanti a noi il cielo si addensava diventando notte, e nessuna luce spuntava a est. Molti passarono mentre viaggiavo, e io ne riconobbi alcuni, il mio figlio maggiore, sua moglie, gente della tribù che era morta da poco. Ogni giorno la folla aumentava. Scorrevano lungo la strada come un grande fiume. Non sapevo, non potevo immaginare che la malattia ne avesse presi così tanti. Cercai in tutta quell'enorme folla, ma non riuscii a trovare traccia di lei, finché alla fine giungemmo a una vasta pianura e qui vidi molti fuochi che brillavano. Ero arrivato in un posto dove la gente riposa prima di entrare nella grande casa di Kiehtan. Passai da un fuoco all'altro, osservando ogni volto illuminato dalla fredda luce bianca delle stelle, e alla fine la trovai. «La presi tra le braccia. Sembrava senza peso, era come sollevare degli abiti vuoti. Mi voltai e corsi via, giù per la strada che avevamo percorso. La folla si assottigliava mentre andavamo, finché non rimase nessuno. Mi fermai un po' a riposare e quando guardai in su vidi un brillio nel cielo. Il sole stava salendo quando la riportai indietro all'accampamento». «L'hai salvata? Salvata dalla morte?» Scosse il capo. «La mia gioia fu breve. La deposi sul suo giaciglio e la coprii con le pellicce più belle, di lupo nero e lince. Giacque tra la vita e la morte con il respiro ridotto a un soffio. Nei giorni che seguirono non peggiorò, ma non migliorò. Tutto attorno la mia gente moriva, chiedeva il mio aiuto, ma io non feci nulla. Non volevo abbandonarla un attimo. Anche se ormai sapevo di aver compiuto l'atto più grave, quello che tu chiameresti un peccato. Provavo vergogna e paura. Il poco potere che possedevo mi aveva lasciato e divenni pari a nulla, perché avevo abbandonato la mia gente nell'ora del bisogno e avevo cercato di prendere il posto degli dei, di ingannare la morte stessa». Allora tacque e fissò il fuocherello che si riduceva in cenere al centro della stanza. «Alla fine non ebbi scelta. Le presi io stesso la vita, mettendo la mano sul suo naso e sulla sua bocca, e questa volta lasciai che cominciasse il viaggio da sola. Quella notte venne a me in sogno e mi disse di non piangerla, che dovevo imparare ad accettare. Mi disse di conservare i suoi abiti da nozze per il giorno in cui sarebbe venuto qualcuno che avrebbe preso il suo posto nel mio cuore.
«Feci come chiedeva. Tenni i suoi vestiti e li portai qui. Ma accettare, com'era possibile?» Alzò le mani insieme in un gesto di disperazione. «Il mio cuore era piegato, contorto dalla pietà per me stesso, e annerito dalla rabbia contro gli dei. Non potevo tornare dal mio popolo». Volevo chiedergli che cos'aveva fatto e dov'era andato in quel tempo di grande dolore, ma distolse il viso e guardò verso ovest. Sapevo di non dover disturbare il suo silenzio. Alla fine parlò. «Seguii i miei piedi ed essi mi portarono a nord, nella terra della neve eterna, dove tutto è luce o buio. Abitai tra le genti che vivono nelle case di ghiaccio. Mi insegnarono il modo giusto di muoversi tra i mondi, e il linguaggio segreto degli animali. E volevo saperne ancora di più, così mi portarono attraverso il gran tetto di ghiaccio del mondo fino a una terra lontana di foreste. La terra dei Tungus, che chiamano la loro gente sacra shaman. Imparai molto da loro. Mi insegnarono che la vera saggezza viene solo dalla sofferenza. Divenni come uno che è morto, per poter tornare di nuovo alla vita. Volevo riportare la mia nuova conoscenza alla mia gente». Sorrise, allora, e il suo sorriso era amaro. «Ma quando tornai non c'era più nessuno. Il villaggio apparteneva all'uomo bianco. Era diventato Beulah sotto il capo Johnson. Ora vai. Penna Azzurra ti aspetta». Il tempo che trascorsi nella camera fu come un sogno. Nel centro c'era un grande disco, perfettamente tondo, scolpito in una pietra morbida. Conoscevo il suo scopo, ma ero intimorita all'idea di usarlo. Non volevo sapere che cosa sarebbe successo. Le visioni del futuro avrebbero potuto increspare la superficie del mio perfetto presente come il vento su un lago. Un giorno Aquila Bianca mi mandò a prendere l'acqua a una fonte speciale. La usò per riempire il recipiente nello stesso modo in cui mia nonna riempiva la sua ciotola da veggente. Poi mi ordinò di guardare dentro. Solo affrontandolo avrei smesso di averne paura. Vidi strane cose. A volte ciò che era successo, come in un sogno di memoria, a volte uno sguardo verso ciò che doveva succedere. A volte le cose che vidi non avevano spiegazione. All'inizio non ero in grado di guidare la visione; le scene arrivavano non richieste e non avevano significato per me. Vidi una città di pietra costruita tra una rupe rocciosa e un fiume nero e ampio. Vidi una città di luce con edifici fatti di cristallo incastonato di diamanti. Vidi il viso di una donna che rispondeva al mio sguardo. Non la conoscevo, ma lei conosceva me. Il suo sguardo era di paura e amore mescolati a profonda preoccupazione. Mi ricordò Martha, anche se i suoi ca-
pelli erano grigi e intrecciati al modo indiano. Aveva gli occhi e la pelle scura, e sembrava vestita da uomo: portava una camicia a scacchi, a colori vivaci. Mi interrogai a fondo su chi potesse essere o che cosa potesse volere da me. A volte incontrai mia madre vestita di velluto, come l'avevo vista la prima volta. Sussurrava in fretta, e io ascoltavo avida. La sua storia mi toccò nel profondo, ma quando tornai indietro non riuscii a ricordare una sola parola. Crebbi in abilità, vista e conoscenza vennero insieme, e un giorno la ciotola mi mostrò ciò che più temevo. Stava per succedere qualcosa che avrebbe minacciato il mio stato di perfetta felicità. Vidi un uomo che correva sul sentiero di una foresta, l'ombra delle foglie che gli macchiava la schiena. Il suo corpo brillava di sudore e di grasso d'orso spalmato sulla pelle contro le punture degli insetti. Correva senza far rumore ed era rapido. La visione recava un altro significato. Era come una minuscola incrinatura in un vetro perfetto che si sarebbe allargata e diramata fino a mandarlo in frantumi. Distolsi lo sguardo, profondamente nauseata. «Viene qualcuno». Anche Aquila Bianca lo vide. «Sarà qui quando il sole sarà al suo punto più alto nel cielo. Dobbiamo essere pronti». Penna Azzurra prese le armi mentre una voce salutava dal basso. Andò all'imbocco della caverna, con l'arco teso, poi rilasciò la corda e tolse la freccia. Fece cenno al visitatore di salire. Un giovane uomo, dell'età di Penna Azzurra o appena più vecchio, si arrampicò fino alla caverna. Il suo viso era dipinto e dalle ciocche dei suoi capelli, che al centro erano ritti in un'onda a cresta, pendevano delle piume. Indossava solo un gonnellino e dei mocassini, ma era armato di arco e frecce e un pugnale alla cintura. Penna Azzurra si fece avanti per salutarlo, abbracciandolo come un fratello. Il giovane s'inginocchiò davanti ad Aquila Bianca. «Nonno, sono stato mandato dal sachem Hoosac. Ha chiesto il tuo consiglio». «Perché? Ha altri powwaw e persone che lo consigliano». «Nessuno è grande o saggio come te. Sono venuti, i colòni. Dicono che la nostra terra è loro. Offrono beni e wampum. Hanno le carte e dicono che dobbiamo firmare. Dicono che dobbiamo...» «Chi lo dice?»
Ero rimasta nell'ombra, ma ora mi feci avanti. Il giovane spalancò gli occhi. «È yenghese!» Era la parola che usano per dire inglese. Aquila Bianca lo guardò. «È anche la sposa di Penna Azzurra e mia allieva». Le sopracciglia del giovane si inarcarono ancora di più alla vista del segno del lupo che Aquila Bianca aveva inciso sulla mia guancia con pigmento di cenere e una selce appuntita, ma si rivolse a me. «Qual è il tuo consiglio?» Allora parlai. «Non accettate nulla da loro e non firmate le loro carte né mettete il vostro segno su di esse». «Quello che dice...» Il giovane spostò lo sguardo da Aquila Bianca a Penna Azzurra. «... è anche la tua parola?» Aquila Bianca annuì. «Come dici, è yenghese, conosce i loro usi». «Molto bene. Tornerò e dirò a Hoosac quello che hai detto». Il giovane partì di corsa nella foresta. Aquila Bianca si ritirò nella Camera delle Visioni e quel giorno non ne uscì. «Dobbiamo andare. Seguirlo. Perché temo quello che farà Hoosac. Non ha la saggezza di suo padre ed è avido. Potrebbe benissimo barattare tutto con una manciata di ninnoli. E poi l'anno volge al termine. Occhi di Una Lupa avrà bisogno della compagnia di altre donne. Non dovremmo restare qui un altro inverno». Penna Azzurra guardò suo nonno, poi me, e sul suo volto si aprì un sorriso. Aquila Bianca sapeva, o aveva indovinato, una cosa che non avevo detto a nessuno. Aspettavo un bambino. 18 Lago Specchio, Capanna del Sudore Agnes si agitò e gemette nel sonno, ma Zia M sapeva di non doverla svegliare. Aprì la porta per far entrare l'aria. Il giorno si rinfrescava volgendo a sera. Versò l'acqua da un boccale di terracotta sul pavimento e ne spruzzò un po' sulla pelle bruciante di Agnes. Continuò a cantare la sua canzone mentre alimentava il fuoco all'esterno e poneva altre pietre a riscaldarsi. Quando furono bollenti, sostituì con esse quelle che si raffreddavano al centro della tenda. Lasciò ricadere i lembi dell'apertura e gettò erbe e poi acqua sulle pietre, mormorando la sua canzone, bassa, ora, a se stes-
sa. Gettò altra acqua sulle pietre roventi, riempiendo l'oscurità di calore e vapore, poi sedette a osservare la nipote. Agnes aveva perso la cognizione di sé. Il suo respiro era regolare e profondo come se avesse raggiunto uno stato al di là del sonno. Se qualcuno l'avesse pizzicata o tagliata con una lama, non se ne sarebbe accorta. Giaceva insensibile al mondo attorno a lei, come se fosse stata intagliata nel legno o nella pietra. Zia M aveva aiutato molte persone a intraprendere viaggi come quello. Da quando una visione infantile l'aveva segnata come una persona speciale, era aperta al mondo spirituale. In passato, quando era successo per la prima volta, Zia M aveva provato stupore, paura e confusione, proprio come Agnes. Sua nonna l'aveva aiutata, facendole da guida e proteggendola. Zia M aveva imparato molto dalla sua saggezza; ora la evocò perché desse forza a lei e ad Agnes. Zia M aveva continuato ad aiutare gli altri, ad agire come contatto tra loro e gli spiriti. Era un servizio che era fiera di poter offrire; ma non aveva mai lavorato con qualcuno che amava come amava Agnes. Il timore per la ragazza sgorgò dentro di lei, infiltrandosi nella sua concentrazione, minacciando di dissolvere la sua decisione di restare calma e non interferire con ciò che stava succedendo. Lottò con tutte le sue forze per allontanarlo dalla sua mente. Intervenire voleva dire far correre a sua nipote un rischio molto elevato. Agnes era andata oltre il suo potere. Era andata in un luogo che solo gli spiriti potevano raggiungere. Zia M vegliò per tutta la notte. Vegliare era tutto ciò che poteva fare, a parte assicurarsi che sua nipote stesse comoda, che il suo corpo non si raffreddasse. Era freddo, ora. Zia M s'infilò la vecchia camicia scozzese e uscì a sistemare altre pietre per mantenere calda la tenda, poi si avvicinò ad Agnes e le avvolse una coperta attorno al corpo. Per un attimo gli occhi della ragazza ebbero un bagliore, ma non erano quelli di Agnes: erano di un grigio più chiaro, più densi di pagliuzze d'oro, le iridi orlate e striate di nero. Occhi di Una Lupa, non era così che ti chiamavano i Pennacook? Un bel nome. Gli occhi si chiusero e Agnes sospirò. Zia M continuò a osservarla. «L'hai cercata, e l'hai trovata. Ti chiedo solo di non farle del male. Altrimenti io...» Io cosa? Zia M sapeva di non poter fare altro che osservare e aspettare la fine. Bruciò un po' di gliceria e di tabacco per onorare lo spirito e poi si dispose a vegliare di nuovo, seduta sul lato opposto della capanna rispetto ad Agnes. Aveva posto Agnes a ovest, la posizione del potere femminile, la
casa degli spiriti, il luogo dei sogni; lei era seduta a est, la posizione dello sciamano, il luogo del mistero, degli specchi, e degli echi. Sedette quasi immobile, immobile e senza età come una scultura di legno. Cominciò a cantare a bocca chiusa, piano, in tono basso, poi a ripetere un ritornello. Cantava per tenere Agnes lontana dal pericolo, per trasmetterle la sua forza, e cantando batteva il tempo con un sonaglio di tartaruga. Agnes tornò da lei appena prima dell'alba, mentre la foresta attorno echeggiava dei primi richiami degli uccelli. Zia M le si avvicinò e la aiutò ad alzarsi. Si levò a fatica, le gambe incerte, le ginocchia che cedevano. Era disabituata al suo corpo, come se fosse stata malata e costretta a letto per un lungo periodo. Tutto era inondato dalla luce dell'alba quando uscirono dalla capanna del sudore. Zia M la guidò fino alla riva. Agnes questa volta non pensò a nuotare. L'acqua era fredda, aggressiva, ma era rinfrescante. Risvegliò il suo corpo, se non la sua mente. La sua testa era ancora altrove. Zia M la avvolse in un asciugamano e la guidò di nuovo alla capanna. Agnes si distese sul letto, all'improvviso stanca. La sua mente cominciò a scivolar via. Stava diventando di nuovo Mary, questa volta lo sentì succedere. C'era qualcos'altro. Nell'attimo che ci volle per scivolare nella sua pelle, seppe che non era più una ragazza, ma una donna matura. 19 Weatuck, al villaggio La vita era dura, ma quale vita non lo è? Le parole vengono lente, ormai penso di rado in inglese. Il bambino che portai nel ventre dalla montagna si stava preparando per la sua missione d'inverno, il tempo in cui sarebbe andato nei boschi come un ragazzo e sarebbe tornato uomo. Mio figlio, Volpe Nera, si era già guadagnato il nome grazie alla sua natura furtiva nella caccia. Fiero e abile nei giochi dei ragazzi, aveva fatto tutto ciò che un ragazzo può fare per essere all'altezza della profezia di Aquila Bianca il giorno che gli fu scelto il nome, quando il suo bisnonno aveva detto che sarebbe diventato un grande guerriero e un capo. Il mio cuore di madre si era gonfiato di orgoglio in quel momento, nella certezza che così sarebbe stato.
Io avevo il mio posto. Ero accettata come Occhi di Una Lupa, moglie di Penna Azzurra, madre di Volpe Nera e Uccello Screziato. Lavoravo con le altre donne nel ciclo continuo di seminare e piantare, sarchiare e raccogliere. Avevo imparato a conciare le pelli e lavorarle fino a farle diventare morbide. Il lavoro non mi pesava. Non lo trovavo né più né meno difficile del lavoro che si faceva in una fattoria di coloni, o in un cottage inglese. Il lavoro di una donna non è mai finito, qui come ovunque, ma con una differenza. Le donne lavoravano tutte insieme senza mariti, padri o sorveglianti a incitare, redarguire o criticare. Ci aiutavamo a vicenda, spesso fra grandi risate e un buonumore diffuso. Nessun uomo ci diceva cosa fare. Nessun uomo avrebbe osato. I bambini correvano spaventando i corvi o giocavano dove potevamo vederli. Quando era più piccolo, Volpe Nera stava seduto con Uccello Screziato e le faceva bambole usando tutoli di granoturco mentre lei costruiva un villaggio di foglie. Per ogni stagione un lavoro diverso, e sarebbe continuato in quel modo finché non fossi stata vecchia e grigia e nonna. Una vita buona almeno quanto ogni altra. Ma stavano arrivando guai dal Sud come l'aroma di fumo portato dal vento, come l'odore dell'aria quando la foresta brucia. La notte prima c'era stato un segnale, un prodigio, così minaccioso da far rizzare i capelli e accapponare la pelle. Un'ombra era passata sulla luna, trasformando la sua faccia in sangue. Mentre guardavamo, l'ombra parve addensarsi e assumere la forma dello scalpo di un guerriero pendente dalla nuca di un teschio insanguinato. Si pensò di chiedere ad Aquila Bianca di interpretare tutto questo e io fui mandata da lui. Era ormai molto vecchio e viveva sempre di più nel mondo degli spiriti. Non si sentiva più utile a questo mondo e desiderava lasciarlo. Si era allontanato dalla vita del villaggio, dicendo che non aveva più consigli da dare. Normalmente i suoi desideri erano rispettati, perché era venerato da tutti, ma la luna con lo scalpo era un segno che non poteva essere ignorato. Io ero una delle poche persone che avevano il permesso di avvicinarsi a lui. Era raro per una donna, ma io ora ero powwaw, e potente anche. Mi aveva insegnato tutto quello che sapeva e anche se di rado prendevo parte alle cerimonie, i miei consigli erano seguiti, ed ero ricercata come guaritrice, come mia nonna prima di me. Da Aquila Bianca avevo appreso l'uso di ogni corteccia, radice e foglia della foresta, ma non era solo quello. Io avevo il potere nelle mani, più di quando ero una ragazza. «Deve venire da qui». Aquila Bianca faceva il pugno e si batteva il pet-
to. «Come da qui». Si batteva la fronte con un dito. Imparai a curare i sani e i malati insieme ed ero abile nel porre rimedio alle malattìe che venivano dal popolo bianco. La malattìa delle macchie, che era il nome del vaiolo, e le febbri malariche e le altre febbri che devastavano interi villaggi. Non ne morii, così potei curare i malati e preparare i morti per la sepoltura. Ma ero più di una guaritrice, avevo altri poteri. Ero temuta per la stessa ragione per cui si temono quelle che vengono chiamate streghe: sapevo evocare gli spiriti, sapevo mutare la mia forma in quella di un animale, potevo far male quanto curare, potevo uccidere quanto guarire. Aquila Bianca aveva scelto con attenzione il suo accampamento. Pochi si sarebbero arrischiati a calpestare un terreno così santo, così sacro. Io avanzai cauta per non disturbare i morti, sfiorando le loro vesti lacere che pendevano dagli alberi come ragnatele. Non si levava fumo quando mi avvicinai alla radura. Il suo wigwam era vuoto. Il suo fuoco era freddo. L'accampamento era pulitissimo ed era stato lasciato in ordine, ma i suoi pochi averi erano scomparsi. Se n'era andato. Avremmo dovuto affrontare il futuro senza di lui. Tornai al villaggio con un gran peso nel cuore, non volevo essere io a portare una notizia così triste, ad aggiungere presagio a presagio. Arrivai quando dalla lunga casa e dai wigwam usciva il fumo del fuoco della sera, alzandosi in fili. Presto le famiglie si sarebbero riunite per parlare della giornata e mangiare insieme. Mi fermai sulla collina sopra l'accampamento. Un gruppo di uomini a cavallo si allontanava, scendendo in fila lungo lo stretto sentiero. Cavalli e cappelli dicevano che erano inglesi. Aspettai che si fossero allontanati prima di incamminarmi lungo la collina, preoccupata di non farmi vedere da nessuno di loro. Non volevo che si sapesse che una di loro viveva con i nativi. Non se ne sarebbero accorti comunque. Io ero una donna nativa, e quindi invisibile. Tuttavia, facevo in modo di stare negli orti o di rimanere nel wigwam quando gli yenghesi venivano all'accampamento, che fossero vicini o commercianti. Vidi Penna Azzurra tornare dalla caccia con gli altri uomini. Avevano avuto successo. Borse gonfie di prede e fagotti di pellicce e piume pendevano dalle loro cinture ed essi ridevano, portando un cervo appeso ai pali. Uccello Screziato corse incontro a suo padre. Lui si chinò su di lei, la prese e la portò sotto il braccio come se fosse una creatura catturata nella foresta. Lei ridacchiò, agitandosi dal piacere. Era un loro gioco, che facevano da quando era piccola. Lui la sollevò sulle spalle, anche se ormai aveva otto
anni e le sue gambette gli arrivavano al petto. Lei gli prese le trecce come se fossero le redini di un cavallo e lo calciò nelle costole, non troppo dolcemente, per costringerlo a scalpitare e galoppare per lei. Lui si fermò a un suo ordine e la guardò, risero entrambi per qualcosa che lei disse e io risi con loro. Qualcosa del genere era successo quasi ogni giorno da quando Uccello Screziato aveva cominciato a strisciare fuori dalla sua culla. Era la sua diletta e lui la viziava. Non le avrebbe rifiutato nulla. Rimasi a guardare, col sorriso che mi si spegneva sulle labbra. Sapevo che era un attimo fuggente. L'ultimo così. Un momento da assaporare e conservare nella mente; un momento da non dimenticare. Al fianco di Penna Azzurra camminava Volpe Nera. Si avvicinava al quattordicesimo anno ed era grande per la sua età, alto quasi quanto suo padre, e fiero di aver partecipato alla caccia. Stava cercando di parlare di cose serie e s'irritò quando sua sorella lo interruppe. Lei gli aveva portato via Penna Azzurra. Volpe Nera era il mio primogenito e carissimo al mio cuore, ma l'amore di una madre non gli bastava. Voleva l'attenzione rispettosa del padre. Guardò a terra, cercando di dominare la rabbia. Di lì a un attimo sarebbe andato via da solo. La voglia di giocare era svanita. Voleva essere un uomo, anche se era ancora così ragazzo da mettere il broncio. In lontananza, dall'altra parte del fiume argenteo, c'era un altro villaggio. Il fumo si alzava anche da là, arricciandosi dai camini di pietra per distendersi nell'aria immobile di luglio. Gli insediamenti si nascondevano gli uni dagli altri dietro alti steccati ma da anni vivevano insieme in pace, perfino in amicizia. Guardai in basso e la mia tristezza s'infittì. Stava per finire anche quello. Non ero mai stata vicino all'insediamento inglese, anche se potevo vedere com'era cresciuto e si era sviluppato. Vedevo il loro stile di vita e mi ricordava molto Beulah. Presto i mariti sarebbero tornati coi figli al fianco, proprio come John Rivers; le madri sarebbero state in piedi sulla soglia, come Sarah, a chiamare i loro bambini perché rientrassero per la cena. Ero vissuta in un villaggio inglese e in un villaggio indiano e meditai su quanto poco in realtà fossero diversi nelle cose che contano: la casa, il focolare e la famiglia. Entrambi credevano nei sogni e nei prodigi. La luna con lo scalpo da guerriero brillava su tutti allo stesso modo, e probabilmente loro l'avevano guardata con pari inquietudine. Un tempo di dure prove si avvicinava ed entrambi avrebbero cercato la guida e la benedizione di un grande spirito. Che fosse Dio o Manitou, che importanza aveva il Suo nome?
Da mesi arrivavano i messaggeri, mandali da Metacom, sachem dei Wampanoag, che gli Inglesi chiamavano Re Philip. La disputa attuale era tra Metacom e gli uomini di Plymouth, ma le lamentele erano comuni. Ovunque i coloni inglesi usurpavano, imbrogliavano gli indiani sottraendo loro le loro terre tribali, cintavano i territori di caccia. Ma il problema era più profondo, perché i puritani non ammettevano differenze. Volevano che gli indiani negassero le proprie convinzioni e diventassero cristiani. Volevano che abbandonassero la loro vita nomade e scambiassero le pelli di daino con i tessuti, i gonnellini con le brache. Volevano che vivessero in villaggi permanenti, come gli Indiani Oranti, e che si aggiogassero all'aratro. Alla fine era successo. Metacom era uscito dalle sue terre tribali, aveva appiccato incendi a colonie, ucciso soldati mandati a proteggerle. Segnali erano disposti lungo i sentieri, incisi nella corteccia degli alberi perché fossero letti da chiunque passasse, ma per i coloni la guerra arrivava del tutto inaspettata, come la pioggia che cade su monti remoti irrompe nei fiumi per allagare le pianure. Gli inglesi che avevo visto lasciare il villaggio erano spaventati, atterriti alle notizie provenienti dal sud. Erano venuti a chiedere rassicurazioni sul fatto che nulla del genere sarebbe successo qui. Anche se il sachem era disposto a offrire queste rassicurazioni, alcuni degli inglesi in modo arrogante e spavaldo avevano minacciato la tribù nel caso si fosse unita a Metacom. Ciò provocò rabbia, in particolare tra i giovani. La gioia di una caccia riuscita fu dimenticata. Entrai in un accampamento dilaniato dai dissensi, pieno di tensione e di paura. Quella sera venne convocato un consiglio. Mi fu chiesto di unirmi a loro attorno al fuoco. Ero powwaw, una i cui sogni e visioni sono veri. Ero stata allieva di Aquila Bianca. Se lui non poteva esserci, io sarei stata al suo posto. Io ero anche Occhi di Una Lupa. Conoscevano tutti la mia storia. Conoscevo i modi degli inglesi, perché una volta ero una di loro. La lunga casa era affollata, l'aria densa di fumo del fuoco che bruciava al centro e delle pipe degli uomini seduti in cerchio attorno a esso. Hoosac, il sachem, sedeva col fratello Coos, che era muckquopauog, capo di guerra; di fronte a loro c'erano i suoi ahtaskoaog, gli uomini più importanti e i vecchi. Anche le madri dei clan erano presenti. Presi posto accanto a loro. La luce del fuoco balenava su volti tesi e cupi, brillava su muscoli e pelle. C'era uno straniero tra noi. I capelli e l'abito lo dicevano di una nazione
diversa. Aveva il viso dipinto coi colori di guerra. Era un Wampanoag mandato da Metacom. S'inchinò e chiese il permesso di parlare alla nostra gente. Ottenuto l'assenso del sachem, cominciò a parlare. «Metacom manda il suo saluto e molte cinture wampum». Tese le ampie fasce di conchiglie viola e bianche. «Manda queste per mostrare il suo amore per il popolo Pentucket. Dice che combatterà da solo se così dev'essere, ma fa appello a voi come a suoi fratelli, sta facendo appello a tutte le nazioni perché si uniscano per aiutarlo a cacciare gli inglesi dalla terra e respingerli in mare». Quando ebbe finito, Hoosac lo ringraziò per le parole e i wampum e si rivolse al suo consiglio: voleva conoscere il pensiero degli altri. «Io dico questo». Coos parlò dal suo posto alla destra del sachem. «Dobbiamo combattere. Metacom ha chiesto il nostro aiuto e noi dobbiamo unirci a lui. È tempo che ci leviamo contro gli inglesi. È tempo di riprenderci ciò che è nostro e rimandarli sulle loro navi di legno». «È troppo tardi per questo. Ce ne sono troppi. Avremmo dovuto farlo quando vennero per la prima volta sulla nostra terra». Hoosac si rivolse allo straniero. «E poi Wannalancet dice che dovremmo tenerci al di fuori di questa disputa. Questo problema non sarebbe sorto se l'uomo di Metacom non ne avesse ucciso un altro per poi rifiutare la punizione stabilita per questo dalle leggi degli inglesi». Tutto attorno al cerchio annuirono in molti. Wannalancet era Ketasontimoog, capo sachem dei Pennacook. La banda di Hoosac gli doveva obbedienza. «Perché dovremmo obbedire alle loro leggi?» Il Wampanoag sbuffò sprezzante. «Sono codardi. Sono molli. Se prendiamo le armi contro di loro, scapperanno via da noi come un gruppo di donne! Se non combattiamo, come possiamo vivere da uomini?» Anche a questo molti annuirono. Poi parlai io. «Non sono molli. Lotteranno con forza e sanno essere più spietati di chiunque possiate immaginare». Il guerriero Wampanoag mi lanciò un'occhiata sprezzante. Ero una donna e yenghese, secondo lui non dovevo proprio essere ascoltata. Hoosac vide quello sguardo. «Tutti coloro che sono invitati al consiglio hanno il diritto di essere ascoltati» disse, in tono mite ma pieno di autorità. «Tu hai parlato, ora è il suo turno. Questa è la nostra usanza». «E lei dice la verità». Uno dei vecchi, Penna Nera, parlò in mia difesa.
«Chi può dimenticare come gli inglesi hanno trattato il popolo Pequot? Allora ero un ragazzo, ma ricordo quando giunse la notizia di quello che gli inglesi avevano fatto ai Pequot a Fort Mystic. Attaccarono all'alba, sparando sull'accampamento e uccidendo chiunque cercasse di fuggire: uomini, donne, bambini, li abbatterono con i loro moschetti. Quattrocento in tutto. La strage fu così grande che anche i Narrangset e i Mohegan, che erano alleati degli inglesi e dei Pequot, anche loro furono spaventati e soffrirono per questo». «Penna Nera ha ragione». Un altro anziano prese la parola. «E non finì lì. Gli inglesi non si fermarono fino a quando tutti i Pequot furono morti o dispersi. Furono di una precisione spietata». Parlai di nuovo, e dissi loro di quando ero una bambina e l'Inghilterra era lacerata dalla guerra civile e con quanta violenza avevano combattuto gli uni contro gli altri, fratello contro fratello, vicino contro vicino. Come in Irlanda Cromwell aveva passato intere città a fil di spada. «E questi erano yenghesi, del tuo popolo?» Annuii. Hoosac scosse il capo davanti a tanta violenza. Stava invecchiando, era un uomo gentile e cauto. Il pensiero della guerra non gli incendiava il sangue come al fratello più giovane. Avrebbe voluto tenere il suo popolo fuori dalla battaglia per quanto possibile. La discussione continuò, ma Hoosac aveva deciso. La tribù non aveva dispute aperte con gli inglesi. Non si sarebbero impegnati, non ancora, almeno. Avrebbero aspettato, per il momento. La decisione del sachem non fu ascoltata da tutti. La folla nella lunga casa si era andata assottigliando. Il guerriero Wampanoag e Coos, il fratello del sachem, erano già usciti e altri giovani erano andati con loro, scivolando nella notte, decisi a unirsi alla lotta. La vita continuò come al solito per tutta l'estate fino all'autunno. Zappammo e curammo le piante che crescevano negli orti: granoturco, zucca, fagioli. Facevamo stuoie di giunco, preparavamo le pelli per abiti e mocassini, affumicavamo ed essiccavamo il pesce e la carne per i mesi invernali. Ma il lavoro veniva svolto senza il solito spirito allegro. Il buonumore negli orti era sopito, come nel villaggio. Quando gli uomini erano via a pesca o a caccia, le donne svolgevano i loro compiti quasi in silenzio, quasi senza far caso a quello che facevano, ciascuna persa in infiniti calcoli di quanto questa guerra sarebbe costata loro. Anche i bambini smisero di parlotta-
re e giocare e si dedicarono ai loro compiti, scacciare i corvi, portare l'acqua, togliere gli insetti dal granoturco che cresceva, perché ogni pannocchia raccolta era una sicurezza contro la fame e il bisogno. Anche quando gli uomini erano nei dintorni, l'atmosfera si alleggeriva a stento. Il ritorno dalla caccia di solito era un momento di festa, di abbondanza, ma ora c'era poca allegria. Seccavamo e affumicavamo la carne che gli uomini ci portavano e la mettevamo nei pozzi di stoccaggio, mentre gli uomini si raccoglievano a gruppi e parlavano a voce bassa. Nelle sere d'estate passate, dopo che avevamo mangiato, Volpe Nera e Uccello Screziato a volte giocavano insieme fuori dal nostro wigwam. Lui le aveva insegnato a giocare a ossicini, un gioco con cinque sassi che ricordavo della mia infanzia, mostrandole come fare a lanciarli in aria e riprenderli sul dorso della mano. Gli piaceva intagliare nel legno e le faceva delle bambole, oppure dei personaggi per il suo villaggio, e la aiutava a segnare i sentieri con le graziose pietre e conchiglie raccolte da lei. Il villaggio di Uccello Screziato cambiava con la stagione. Ora una palizzata di bastoncini appuntiti era eretta attorno a esso e un palo da guerra stava al centro, un tozzo pezzo di legno macchiato di rosso come se fosse sangue. Volpe Nera trovava di rado il tempo per giocare con sua sorella, ora. Molte notti scivolava fuori dal nostro wigwam per unirsi ad altri fuochi dove si parlava di guerra. Di giorno andava ad aiutare gli uomini che sistemavano le loro armi, facevano e impennavano frecce, lavoravano le lame dei loro tomahawk sulle cote ad acqua, lisciando gli orli fino a farli diventare crudelmente affilati, tenendo l'equipaggiamento in perfette condizioni. Per tutta l'estate fu come se stesse montando una tempesta. La guerra balenava come un lampo lontano, saettava attraverso le montagne a sud, a ovest, a nord, poi tutto intorno. Notizie delle battaglie tuonavano nelle nostre orecchie. Ogni giorno l'atmosfera si faceva più minacciosa. La guerra incombeva su di noi, che lo volessimo o no. 20 Sentiero di guerra Arrivò al tempo del raccolto del grano verde, quando il primo grano fu portato dagli orti. I chicchi erano gonfi, grassi e dolci come il latte e furono arrostiti e bolliti con carne di uccello e selvaggina. Prugne e uva e bacche
diverse furono mescolate per un pasticcio di farina di grano e sciroppo d'acero. Era il tempo dell'abbondanza, una celebrazione della generosità della terra. Coos, il fratello del sachem, mutò questo tempo di festa in una danza di guerra. Quando tornò dai combattimenti nel sud era un guerriero temprato e indurito, con una cicatrice fresca che gli orlava il viso dall'orecchio al mento. Aveva con sé la sua banda di guerra. Venne reso loro onore, fu dato loro il posto migliore al banchetto, fu scelta per loro la carne più buona. Alla fine del banchetto Coos si alzò, allargò le braccia e si rivolse agli uomini davanti a lui. «Fratelli miei, vi porto il saluto di Metacom...» Continuò a descrivere i progressi trionfali di Metacom e la sua parte in essi: i soldati uccisi, le città incendiate, le colonie sconfitte. Volpe Nera si chinò in avanti, bevendo ogni parola che diceva. Coos esortò i guerrieri ad alzarsi e unirsi a lui. Uno alla volta, gli uomini si alzarono e formarono un cerchio. Chiese chi altri sarebbe andato con lui. Volpe Nera si alzò per unirsi alla danza. «Non puoi! Sei troppo giovane!» gli gridai, ma lui si allontanò come se non mi avesse sentito. Mi rivolsi a Penna Azzurra. «Devi fermarlo». «È troppo tardi. È stato accettato». Penna Azzurra si alzò dal suo posto. «Tu non puoi!» Lo trattenni per un braccio, ma si liberò della mia presa. Ora si allontanava da me. «Devo! Vorresti vedermi disonorato? Oltraggiato da mio figlio, un ragazzo che non ha nemmeno quattordici estati? Se lui è pronto a calpestare il sentiero di guerra, io non posso restare fermo come un vecchio». Un urlo profondo salì dalla folla quando Penna Azzurra si unì agli altri uomini, perché era un abile cacciatore, sapeva seguire le tracce e si era dimostrato un combattente audace e astuto sul sentiero di guerra contro i Mohawk. In tempi normali sarei stata fiera di lui, ma ora deplorai il suo coraggio e desiderai che fosse zoppo, malato, debole: qualunque cosa, pur di tenerlo lì con me. Vidi la mia angoscia riflessa sui volti delle altre donne mentre i loro uomini si alzavano per lasciare i loro focolari e i fuochi e si radunavano al centro del villaggio. Le fiamme si levarono e le scintille volarono nello scuro cielo notturno.
I powwaw agitarono i loro sonagli di tartaruga, un rumore vuoto, ticchettante, rasposo, e poi partirono i tamburi, che segnarono un ritmo regolare e forte. La danza di guerra stava cominciando. Il suolo tremò ai tonfi e ai colpi dei piedi. La luce del fuoco brillava sui danzatori che si muovevano avanti e indietro e oscillavano, trasformando la loro pelle e i muscoli sudati in rame bruciato. Poi cominciò il canto, e ogni guerriero si unì al ritmo segnato dal battito dei tamburi e dallo scalpiccio dei piedi. Urla di guerra si levarono, strilli disumani, come il richiamo del gufo o dell'aquila. Coos levò una mazza con la testa sferica e una possente lancia, macchiata di rosso come se già fosse coperta di sangue, e la scagliò contro un fantoccio posto al centro del cerchio. Altri uomini colpirono il bersaglio a turno, mentre altri ancora levavano le mani al cielo per invocare gli spiriti. Penna Azzurra e Volpe Nera si unirono agli altri. Non riuscivo a distinguere un uomo dall'altro nel vortice della danza. Erano tutti presi dal tonfo dei tamburi e dal canto, ciechi a tutto il resto, e si muovevano come una cosa sola, come un serpente o una biscia mostruosa. Donne e bambini potevano solo stare a guardare rassegnati, perché sapevano che una volta uniti alla danza non c'era modo di uscirne. Il solo modo onorevole di abbandonare la danza era la morte. La danza continuò fino a notte fonda, ma io stavo troppo male per guardare ancora. Mi ritirai nel nostro wigwam e mi distesi sul giaciglio, raccogliendo le pellicce attorno a me, ma non riuscii a prendere sonno. Uccello Screziato si svegliò e volle sapere che cos'era quel rumore. Io la presi tra le braccia e la strinsi a me, cullandola finché non si riaddormentò al ritmo della danza di guerra. Penna Azzurra venne da me mentre nasceva il giorno. Urlai, quasi: dovette mettermi una mano sulla bocca. Per un attimo non riuscii a riconoscerlo nell'oscurità del wigwam illuminato solo dalle braci del fuoco. Era pronto per la guerra. La sua testa era rasata, tranne una sola cresta di capelli che correva dalla fronte alla nuca; il suo viso era dipinto per metà di rosso, per metà di nero. Non lo avrei riconosciuto se non fosse stato per la collana che portava al collo. L'avevo fatta io come regalo di nozze per lui, infilando perline e conchiglie. La mezza moneta d'argento al centro scintillò contro la sua gola quando si chinò a sfiorare la testa di Uccello Screziato, che ancora dormiva. Mi strinse a sé e mi tenne tra le braccia e mi baciò per l'ultima volta. Volevo sussurrargli il mio amore, pregarlo, implorarlo, supplicarlo, ma rimasi
in silenzio. Il mio cuore era gonfio, le parole avrebbero sciolto le lacrime, e non volevo oltraggiarlo piangendo. Volpe Nera era fuori, anche lui a testa rasata, gli occhi cerchiati di nero come la mascherina di un procione. La sua vista, lo devo confessare, mi fece versare lacrime. Era solo un ragazzo, troppo giovane per andare con i guerrieri. Ai miei occhi era ancora un bambino, il mio bambino, ma sapevo di non poterlo trattenere. Le mie parole di donna non sarebbero state ascoltate. Non potevo costringerlo a restare, sarebbe andato comunque. Non potei far altro che dargli la mia benedizione. Potevo non vederli mai più, ma essi se ne andarono senza che una parola fosse pronunciata. Infrangere l'usanza sarebbe stato di cattivo augurio e tra la gente di Penna Azzurra non c'è parola per dire addio. 21 Tempo di sogni Dormii sola, con Uccello Screziato sul giaciglio davanti a me. All'inizio dormì di fianco a me, ma la disturbavo con i miei sogni. Non sognavo di Penna Azzurra e Volpe Nera, il loro sentiero era chiuso per me. Invece sognai di Beulah. L'avevo già sognata prima. Cupi sogni di distruzione. Erba che cresceva sulle strade non più battute da anni. Era diventata un luogo deserto, con la foresta che cresceva incombente tutto intorno, intenta a riprendersi il villaggio. Alberelli sbucavano tra le assi del pavimento e le travi cadute; viti e rampicanti lentamente inghiottivano le case. Mi ero chiesta spesso e avevo meditato a lungo quale fosse stato il destino di coloro che avevo lasciato là. Nel corso degli armi avevo sognato anche loro. Mi ero risvegliata nei loro mondi. Ero entrata dalla fangosa strada di Boston, in quell'aria intrisa di mare, avevo fatto il mio ingresso nella Farmacia Jonah Morse e avevo annusato l'aria, tonica come una medicina, impregnata di canfora, liquirizia e zolfo. Avevo riconosciuto l'aroma del rosmarino e della salvia che crescevano nell'orto officinale dietro il negozio. Avevo sentito la campanella suonare alle mie spalle, visto Martha alzare lo sguardo dal banco, sorpresa di non vedere nessuno davanti a sé, gli occhi verdi penetranti come sempre, ma il caro volto più vecchio, più segnato, le guance inaridite e grinzose come la buccia di una mela messa a conservare per l'inverno. Solo allora Jonah uscì
dal suo dispensario, le bianche maniche della camicia protette fino al gomito da soffietti neri. Sembrava più piccolo, con le spalle curve, e si guardava intorno attraverso occhialetti cerchiati di metallo, chiedendosi chi o che cosa l'avesse distolto dalle sue bilancine, dal forno e dagli alambicchi ribollenti. Martha scosse il capo rivolta a lui e corse a chiudere la porta che si era spalancata per nessun motivo. Questo avevo visto nei miei sogni precedenti, ma ora il negozio era vuoto. La polvere giaceva sul pavimento e copriva gli scaffali. Non riuscii a capire dove fossero Jonah e Martha, ma temetti che la morte li avesse portati via entrambi. Mi svegliai col volto bagnato, perché mi sarebbe piaciuto rivedere Martha. Era stata buona con me e io l'avevo amata. Mi rimisi a dormire e il mio occhio sognante si rivolse a John e Sarah Rivers. Li vidi nella prosperità, i figli cresciuti. Sarah stava alla finestra, a guardare attraverso il vetro, e sapevo che i suoi pensieri erano rivolti a Rebekah. Avevo sognato Rebekah prima. L'avevo vista donna, con i bambini che crescevano. Con Tobias nella casa che lui le aveva costruito. Un'abitazione notevole, a due piani, con un'ampia facciata, le tavole che cominciavano a invecchiare, il pesante tetto coperto di tegole di legno che digradava verso il retro. L'aveva costruita quanto mai solida. Robusti granai fiancheggiavano la casa. Vivevano in una bella valle, circondata da terreno fertile, con un mulino che girava sull'ampio fiume inquieto. Vidi Tobias in piedi su un molo, a guardare mentre grandi chiatte dal fondo piatto, cariche di legname, venivano portate via dalla rapida corrente. Il fiume portava la sua ricchezza. Ora sognai Rebekah. Ma questo sogno era diverso. La casa ben costruita era chiusa e sbarrata. Dall'ampio camino di mattoni non usciva fumo. Dalle altre costruzioni si levava un muggito lamentoso, di mucche che dovevano essere munte, ma nessuno si mosse dalla casa o attraversò il cortile vuoto. Bruciature e ustioni macchiavano il rivestimento, mostrando che la casa aveva subito un attacco. C'era tensione nell'aria, un senso d'attesa. Gli uccelli mandavano i loro richiami acuti dalla foresta, prima uno, poi un altro, il richiamo di un merlo, il chiacchiericcio vuoto di una ghiandaia. Tutta la scena era immersa nella prima luce di un dorato mattino d'autunno. La foresta vicina giaceva ancora nell'oscurità. Sagome strisciarono ai bordi, prima un uomo, poi un altro. Alcuni si spostarono verso i capanni per portar via cavalli e bestiame. Altri reggevano tizzoni e frasche, pronti ad appiccare il fuoco alla base della casa di legno. Alcuni strisciavano vi-
cino al suolo, reggendo asce e tomahawk per fracassare porte e persiane. A un segnale invisibile, i pannelli si aprirono scivolando nella parte alta dei capanni e all'improvviso la facciata della casa brulicò di canne di moschetto. Il fumo si alzò a sbuffi tra secche detonazioni simili allo spezzarsi di rami. Gli indiani furono colti di sorpresa in un letale fuoco incrociato. Prima cadde un uomo, poi un altro. Le frecce in risposta tamburellarono innocue mentre le persiane scorrevano di nuovo al loro posto. Gli indiani si raccolsero di nuovo per sferrare un altro attacco e ripresero a strisciare in avanti, trascinando con sé frasche incendiate, ma di nuovo si trovarono sotto il tiro dei granai. Il capo fece segno di ritirarsi. I suoi uomini tornarono indietro, ma uno giacque intrappolato dietro un barile d'acqua. Prima mi erano sembrati un gruppo di stranieri, ma ora vidi tutto. Vidi vicino e lontano, come è possibile nei sogni. Sapevo chi era quello intrappolato. L'avevo portato nel ventre, l'avevo amato e guidato, l'avevo guardato crescere e diventare uomo da ragazzo che era. Ora era disteso nella polvere, gli occhi di procione, cerchiati di nero, dilatati, e ansimava come un animale, mentre la polvere si sollevava a ogni suo respiro serrato. Era piccolo ed esile. Troppo giovane per essere là, troppo giovane per combattere. Una vita appena cominciata era finita. Ci dispiace di ucciderti, fratellino... Avrei fatto qualunque cosa, dato qualunque cosa per salvarlo. 'Attenta a ciò che desideri', questo mi aveva insegnato mia nonna, ma dimenticai il suo consiglio e raccolsi tutto il mio potere. Mi slanciai verso di lui, ma un altro fu là prima di me. Penna Azzurra era tornato indietro. Vidi il suo viso dipinto per metà di rosso, per metà di nero. Venne di corsa, attirandosi il fuoco addosso. La prima palla di moschetto lo colpì alla spalla, la seconda alla schiena. Una terza lo fece girare su se stesso mentre il ragazzo rimaneva dov'era, immobile come un coniglio di fronte a un ermellino, gli occhi cerchiati di bianco dentro la tinta nera da procione. Andai di nuovo da lui, gli prestai la mia forza perché fuggisse. Alla fine si mosse. Mentre le palle di moschetto sollevavano nuvole di polvere attorno a lui, si alzò e corse via. Penna Azzurra incappò in un'altra scarica di fuoco. Cadde sulle ginocchia davanti a loro, le braccia larghe, la testa gettata indietro, poi crollò a terra. Il ragazzo in fuga si guardò indietro, gli occhi di procione si voltarono. Voleva correre da suo padre, l'uomo caduto, ma uno degli altri guerrieri prese Volpe Nera e lo trascinò via, nella foresta. Tutto tacque per un po'. Poi, da soli, a due a due, in folla, gli uomini u-
scirono dalla casa. Si diedero pacche sulla schiena, risero e sorrisero, per la gioia di essere vivi mentre altri giacevano morti. Si dispersero tra i caduti, calciando questo, voltando quello, come se fossero animali uccisi per passatempo. Uno o due sfilarono i coltelli e si chinarono sui corpo, decisi a prendere trofei. Allora una donna corse fuori e ordinò loro di smettere. Era alta e sottile. Sapevo che era Rebekah. Mandai il mio spirito da lei. Uno degli uomini era in piedi sopra Penna Azzurra con la spada levata come per spiccargli la testa. Non avrei visto mio marito mutilato. Lei si avvicinò e si chinò per vedere più da vicino il guerriero disteso a terra davanti a lei. Ordinò all'uomo di fermare la sua mano e si rialzò per rivolgersi a tutti loro. Era una donna ricca e importante; la sua parola veniva rispettata. Al suo ordine, i morti vennero portati via e lasciati al limitare della foresta. Sapevo che il sogno era vero. Ero in lutto ancora prima che Volpe Nera tornasse portando la collana che aveva tolto dal suo collo. «È morto bene». Volpe Nera mi depose la collana in mano. L'argento era annerito, le perline e le piume inzuppate, tinte di nero dal suo sangue. «È per te. L'ho portata perché tu sapessi. Ora sono un uomo, madre. Mi prenderò cura di te e di Uccello Screziato». La sua voce si spezzò sulle ultime parole. Era troppo addolorato per dire di più. Gridai, piansi apertamente. Simili manifestazioni di emozione lo turbavano, ma fece del suo meglio per consolarmi. Restammo in piedi insieme, uniti nel rimpianto di un padre che era stato più grande di chiunque altro e di un marito più caro della vita stessa. 22 Attacco I guerrieri di ritorno portarono la guerra con sé come una pestilenza. «State nascondendo dei fuggiaschi». Le parole inglesi risuonarono aspre nell'aria fredda, e cozzarono tra loro come ferro. «E ci è anche giunto alle orecchie che tenete qui una donna bianca». Il capitano cavalcava in testa a una colonna di soldati, venti, forse trenta uomini. Il suo messaggio venne riferito da un uomo che avevano portato con sé, John Samson. Indossava camicia, panciotto e braghe, e portava un moschetto; solo la lunghezza dei capelli lasciati sciolti e liberi tradi va la
sua identità di indiano. Lavorava al loro servizio come spia ed esploratore. Aveva detto loro dei guerrieri che erano tornati e della mia presenza all'accampamento. Senza il tradimento di lui e di quelli come lui, gli inglesi avrebbero avuto poche speranze di vincere quella guerra. Sarebbero andati barcollando da un'imboscata all'altra, presi all'amo da un nemico che continuava ad apparire e sparire come tante lanterne di zucca, a balenare da palude a foresta come fanno i fuochi fatui. Non erano abituati a questo genere di combattimenti furtivi. A loro piaceva prendere posizione e affrontare il nemico in campo aperto. Amavano combattere sul terreno solido. Imparavano, e imparavano in fretta. Aiutati da tribù che avevano dei conti da pareggiare. «Se non li consegnate, anche la donna bianca, per voi le cose si mettono male. Avete tempo fino all'alba di domani». Il capitano si guardò intorno. Le sue parole furono accolte dal silenzio. Nessuno si mosse, nessuno guardò dalla mia parte. Avevo la testa coperta, il viso sporco di cenere, e tenni lo sguardo fisso a terra. Attese una risposta. Non ottenendola, sospirò, impaziente. «Badate. All'alba di domani». Girò il cavallo e partì al piccolo galoppo verso l'ingresso, seguito dalle truppe e dai loro aiutanti indiani al trotto. Hoosac ordinò ai guerrieri di lasciare il villaggio e io andai con loro. Il tempo sarebbe stato freddo e umido. Un vento tagliente soffiava da nord e le colline intorno erano oscurate da buie nubi di pioggia. Uccello Screziato era già febbricitante. Una notte all'aperto con l'anno che volgeva all'inverno poteva solo peggiorare la sua malattia. Il mio giudizio era distorto dal dolore e dalla pena, e non l'avrei mai lasciata, ma pensai che sarebbe stata al sicuro, affidata a Hoosac e a sua moglie. La lasciai a loro, convinta che sarebbe stata molto più comoda nel calore della lunga casa che fuori alle intemperie con noi. Allestimmo dei ripari provvisori più in alto sopra il villaggio e ci preparammo all'attesa. Non volevamo mettere in pericolo la nostra gente. Quando i soldati fossero tornati all'alba a frugare l'accampamento, non avrebbero avuto motivo di assegnare punizioni per causa nostra. Non aspettarono fino all'alba, e non ebbero bisogno di scuse. Vennero prima che ci fosse luce nel cielo. Ci svegliammo ai rumori dell'attacco, all'odore del fumo nel vento, al bagliore del fuoco. Corremmo fino all'orlo della sporgenza rocciosa e guardammo giù verso il villaggio. Era il caos.
Gli uomini erano già dentro la palizzata, e sparavano dentro i wigwam a chiunque vi giacesse dentro. Alcuni furono colpiti nel sonno, altri mentre tentavano di fuggire, zampettando via come topi da un granaio incendiato solo per essere falciati. Uomini, donne, bambini, non faceva alcuna differenza. Mentre i soldati attraversavano il villaggio, spararono in ogni abitazione. Le stuoie di paglia erano umide solo all'esterno. Gli strati interni fornivano un'esca eccellente. Le fiamme si levarono e le scintille volarono mentre i pali della struttura e le travi scricchiolavano. Tutto prese fuoco. Guardai la scena, agitata, cercando di vedere nel fuoco e nel fumo. Il terrore s'impossessò di me, strizzandomi il cuore, la gola, strappandomi il respiro. Una paura così grande che non riuscivo a vederci bene. Volpe Nera si lanciò in avanti, ma fu trascinato indietro bruscamente. «Aspetta! Siamo troppo pochi». Coos, il suo capo di guerra, lo trattenne. «Non possiamo fare nulla. Non ancora». Restammo a guardare mentre le truppe si ritiravano, conducendo con sé quelli che non avevano ucciso, prendendoli prigionieri. Si fermarono appena fuori dal villaggio in fiamme a legare loro le mani e aggiogarli insieme per il collo. Volpe Nera era in piedi vicino a me, e ci sporgemmo per vedere se Uccello Screziato era con loro. Capivo dall'altezza che alcuni erano bambini, ma non riuscii a riconoscerla. «L'hai vista?» gli chiesi. Volpe Nera scosse il capo. «Ma la troveremo. Ucciderò chiunque le faccia del male. Pagheranno quaranta volte per quello che fanno oggi». Coos riunì i guerrieri. «Li seguiremo. Sperando di coglierli di sorpresa». «Io vado giù al villaggio». Ero già partita. «È troppo pericoloso». Coos s'incupì. «Potrebbero mandare indietro degli uomini a saccheggiare o distruggere i magazzini. Non posso permettermi di mandare degli uomini con te». «Io non lo chiedo. Io sono Occhi di Una Lupa. Vado da sola». «No!» Volpe Nera fece un passo avanti. «Non te lo permetterò». «Tu sei mio figlio» dissi con dolcezza, «ma non puoi darmi ordini». «Allora verrò con te». Scossi il capo. «Il tuo dovere è altrove». La banda di guerra era già pesantemente ridotta. Avevano bisogno di tutti gli uomini, e lui era l'esploratore migliore che avevano. Avrebbe saputo sbucare nel bel mezzo degli inglesi senza che nessuno di loro se ne accorgesse. Poteva arrivare a pochi piedi da loro, a pochi pollici, e non l'avreb-
bero saputo. Si sarebbero ritrovati lunghi distesi con la gola tagliata prima che uno solo di loro capisse che il nemico era vicino. Questa era la sua magia speciale. Coos non poteva permettersi di lasciarlo indietro perché scendesse al villaggio con me. «Vieni» lo esortò Coos. «Dobbiamo fare in fretta, o se ne andranno». «Molto bene». Volpe Nera si rivolse a me. «Ma stai attenta. Ci rivedremo qui». Io scesi che le abitazioni fumavano ancora. Le lacrime mi accecavano, mi facevano inciampare, e caddi più volte sul sentiero. Pensai alla mia vita lì, a quando ero arrivata per la prima volta con Penna Azzurra e Aquila Bianca, io con il ventre appena rigonfio, e a quanto eravamo orgogliosi. Pensai alle mie amiche tra le donne. E alla mia diletta, la mia piccola Uccello Screziato. Non c'era nessuno che vedesse, così piansi apertamente. Come siamo noncuranti con la felicità quando crediamo che durerà per sempre! I morti giacevano dappertutto. Uomini disarmati, bambini, donne, erano morti dov'erano caduti, dopo essersi levati tentoni dal sonno. Molti non erano nemmeno usciti dai wigwam; le loro case erano diventate le loro pire. Subito pensai che Uccello Screziato fosse sfuggita. Spinsi via le stuoie carbonizzate dal fianco della lunga casa e avanzai tra il fumo. Non trovai traccia di lei, anche se trovai altri segni, tanti da riempire il mio cuore di pena. Pensai che fosse stata fatta prigioniera e che Volpe Nera l'avrebbe trovata e l'avrebbe riportata da me. Poi la vidi. Aveva cercato di fuggire, correndo sulle sue gambette rapide, ma poi doveva essere inciampata. Il suo piede era ancora intrappolato, aggrovigliato in un treppiede per cucinare caduto a terra. Giaceva come se dormisse, il volto privo di ferite, ma il fiore scuro del sangue le incorniciava la testa. Sapevo che era morta. Sedetti a terra, ghiacciata e stordita come quando Penna Azzurra mi aveva trovato reietta nella foresta. Desiderai che mi avesse lasciato là. Desiderai di essere morta quel giorno. Ricordai lo sguardo di Aquila Bianca, carico di tristezza. Già allora lui sapeva ciò che sarebbe successo. Una tale consapevolezza è un fardello penoso. Non c'era da stupirsi che avesse desiderato di lasciare questo mondo. Ero così persa nel dolore che non lo sentii finché non fu sopra di me. Non sentii nemmeno il suo cavallo. John Samson. Scivolò giù dalla sella e avanzò verso di me. Il suo passo era silenzioso. Anche se era vestito come un bianco, indossava ancora i
mocassini. «Sapevo che saresti tornata, Occhi di Una Lupa. So perché ti chiamano così. Non mi serviva il tuo cucciolo, ma tu... tu vali denaro». «Non avvicinarti». Mi alzai e sfilai il tomahawk che portavo alla cintura. «O per te sarà la fine». «Che cosa puoi fare, donna sola?» «Sei un traditore della tua gente e un assassino di bambini. Non meriti di vivere». «Che cosa farai? Mi farai un incantesimo?» Rise. «Ho sentito che sei abile nella stregoneria». «Vuoi vedere?» Gli scagliai contro la lupa che era in me. Il suo sorriso beffardo svanì e lui impallidì mentre una lupa ringhiante prendeva il mio posto. Avrei potuto ucciderlo, lacerargli la gola, ma non amo il sapore del sangue in bocca. Invece lo tenni bloccato mentre riprendevo la mia forma. Rimase in piedi davanti a me, immobile come una statua, senza vedere nulla, senza sentire nulla, finché il tomahawk atterrò con un tonfo letale al centro del suo petto. Allora guardò in giù, come se stesse pensando: 'Che cosa ci fa qui? Prima non c'era'. Poi crollò in avanti. Lo lasciai col suo sangue che scorreva a rivoli nel fango e raccolsi la mia bambina, Uccello Screziato. La portai al terreno di sepoltura in alto sulla collina sopra il villaggio devastato. La distesi sotto gli alberi, con le foglie rosse e gialle che le cadevano addosso, e poi andai a seguire gli uomini che avevano fatto questo a lei, a tutti noi. Vidi come se fossi un uccello, un falco in volo. Vidi la colonna di uomini diretti verso il fiume. La fila di prigionieri che barcollavano dietro di loro li rallentava. Vidi Volpe Nera e i guerrieri inseguirli. Potevo prestare loro la mia forza, ma se la colonna avesse raggiunto il fiume, la possibilità di coglierli di sorpresa sarebbe svanita. Oltre il fiume era terreno aperto. Una volta che i soldati l'avessero raggiunto, avrebbero avuto una facile via di fuga verso la città. Dovevano essere fermati. Strinsi un amuleto di uccello di tuono che Aquila Bianca mi aveva regalato. Evocai il suo potere in quel momento. Sulle montagne pioveva da giorni, da settimane ormai. La notte prima avevamo visto la luce dei lampi, sentito il rombo dei tuoni. Enormi nuvole nere si erano svuotate di pioggia, riempiendo ogni rigagnolo, ogni ruscello. Ora era tempo che tutta quell'acqua trovasse la sua strada verso il fiume.
Arrivò come una vibrazione, un fiotto, prima piccolo, ma presto si mutò in un muro enorme. Colse i primi cavalieri al guado. I cavalli persero l'equilibrio, gli uomini caddero e furono trascinati via nella furiosa massa d'acqua ribollente. Gli altri si voltarono, confusi. Fu allora che i guerrieri attaccarono. Udii le urla di uomini e cavalli; vidi il sangue zampillare nell'acqua come gocce di pioggia. Mi levai sempre più in alto finché non riuscii più a sentirli e a vederli. Poi tornai da Uccello Screziato. Scelsi un luogo sotto una robusta, giovane, diritta betulla d'argento. Il tronco brillava luminoso e le foglioline gialle piovevano addosso a entrambe mentre mi sfilavo perline e braccialetti, i doni che Penna Azzurra mi aveva dato, e li disponevo vicino a lei. Presi l'amuleto di uccello di tuono di Aquila Bianca e glielo posi sul petto, richiudendo le sue dita attorno a esso. Mi tagliai i capelli con un coltello e deposi le pesanti trecce sulle sue spalle. Strappai la corteccia dagli alberi e ve la avvolsi prima di disporla verso est, secondo l'usanza del popolo di suo padre. Poi sparsi la terra sopra di lei e le diedi il mio ultimo addio. Mi tornò in mente la storia che Aquila Bianca aveva raccontato nella caverna. Ora sapevo perché l'aveva raccontata. Sapeva che i giorni si sarebbero diretti verso questo giorno, anche nel tempo della mia giovinezza, nel momento del mio primo amore per Penna Azzurra, prima che Uccello Screziato fosse concepita. Saggezza e consapevolezza nascono dalla sofferenza. In quel momento lo capii, mentre gettavo la terra sul mio tesoro di bambina. Rimasi accoccolata a lungo ai piedi della sua tomba nella posa di chi vuole chiamare la morte a sé, con le ginocchia strette al petto e la testa posata sulle braccia incrociate. Subito ebbi intenzione di seguirla, di intraprendere il viaggio scelto da Aquila Bianca, ma avevo capito la lezione della sua storia. Queste cose non devono succedere. Invece pregai con tutta me stessa che Penna Azzurra si fermasse nel suo viaggio lungo la strada dei morti. Che i lacci dei suoi mocassini si spezzassero e mentre si chinava a legarli la sua Uccello Screziato venisse a lui, un leggero fuscello volante. Lui l'avrebbe presa in braccio e portata sulle spalle, come aveva fatto tante volte nella vita, ora anche nella morte, e sarebbero andati avanti insieme fino alla grande porta di Kiehtan. Mi sporcai il viso con le ceneri di un fuoco morto da tempo e mi disposi a vegliare per tutta la notte fino alla fredda luce dell'alba.
Viaggiai in sogno da Aquila Bianca, risalendo le montagne. Prima d'ora non avevo avuto bisogno di lui. Alla fine giunsi alla grande distesa rocciosa che saliva ripida fino alla Caverna degli Antenati. Era nevicato, la prima neve d'inverno, e la roccia grigia era ricoperta di esili monticelli disegnati dal vento in forma di delicate scanalature e creste. Il freddo era feroce, proprio come la prima volta che ero arrivata in quel posto. Ora vidi quello che allora non avevo avuto occhi per vedere. La rupe recava incisi strani disegni: forme vorticanti, cerchi e spirali. Alcuni erano lì da quando Mosè aveva camminato sulla riva del Nilo, da quando Noè aveva preparato la sua grande arca. Quelle non erano opere dell'uomo. Marchiavano il luogo come spirito, manitou. Erano state incise dai primi esseri per mostrare l'inizio e la fine delle cose. Aquila Bianca mi aspettava lì. Era vestito per un viaggio. Una faretra di frecce e una sacca di provviste gli pendevano dalla cintura, aveva l'arco sulla schiena. Disegni rosso e vermiglio erano disposti come una maschera sul volto bianco come i suoi capelli di neve. Non disse una parola di saluto. Mi toccò il viso, con le mani che tremavano come foglie mentre mi asciugava le lacrime dalle guance. Mi prese fra le braccia e mi strinse con la tenerezza del padre che non avevo mai conosciuto. Sentii la sua fragilità; le sue ossa sottili come quelle di un uccello sotto gli abiti. Poi sedemmo, con la rupe che torreggiava sopra di noi, e mi parlò. «Non possiamo vincere questa guerra». Disegnò per terra una mappa con un bastoncino. «Vedo una terra senza un posto per noi. Ho cercato di vedere la fine dell'arrivo degli uomini bianchi, ma non la vedo. Sono come la neve al tempo in cui si forma il gelo bianco». Tese la mano per raccogliere i radi fiocchi volteggianti. «Prima ce ne sono pochi, coprono a stento il terreno. Ma se guardi, vedi che ciascuno è diverso, e mentre i giorni avanzano verso il cuore dell'inverno ne cadono sempre di più, e ancora di più, finché il mondo è bianco, tutto ricoperto da loro. Allora la gente desidera che il sole ritorni, che le tiepide piogge di primavera la portino via. Solo che per noi non ci sarà il disgelo. Sarà inverno tutto l'anno». Alzò lo sguardo verso di me, gli occhi scuri imperscrutabili. «Faranno propria questa terra e non ci sarà posto per noi. Non smetteranno di venire finché la terra non sarà piena. Tu sai. Tu che sei nata tra loro. Cercheranno di riprenderti, ma tu non puoi tornare indietro. E non puoi nemmeno seguire la strada per l'ovest, per quanto tu possa desiderare di imboccarla. È chiusa per te finché non verrà il tuo tempo, e hai ancora molti anni. Hai sparso il
sangue del cuore, figlia mia, e la ferita è fresca dentro di te, ma devi andare avanti, il popolo ha bisogno di te. La tua vita è con il popolo, adesso». Alzò gli occhi al cielo, poi guardò le montagne che si ritiravano verso nord. «Vai dai nostri fratelli Pennacook. Se hai bisogno di me, ti guiderò. Prendi questa, è il segno che sarò con te». Si tolse una penna d'aquila dai capelli e me la porse, poi si alzò e mi aiutò ad alzarmi. «Ora è tempo di partire. Devo andare via da qui. Presto le foreste attorno risuoneranno dell'ascia dell'uomo bianco. I suoi aratri lacereranno la terra. Un giorno scaverà perfino questa montagna, prendendo la pietra per costruire e per bruciarla nei fuochi. È tempo che gli antenati dormano. Lasciamo che la terra li prenda con sé». Fissò la parete rocciosa, in alto. Sbatté le palpebre e il terreno tremò sotto i nostri piedi e le rocce cominciarono a rotolare. Quando la polvere si fu posata, non c'era più nessuna caverna. Era come se non ci fosse mai stata. Alzò le braccia. Le sue mani non tremavano e non vibravano più. Poi se ne andò, diretto a ovest, dove il sole tramonta. A ogni passo sembrava diventare più eretto, ogni falcata era più lunga, e alla fine da lontano l'avrei potuto scambiare per un giovane che tornava al suo villaggio dopo una caccia fortunata. Stavo per perdere un altro di coloro che avevo cari, ma non cercai di fermarlo o di richiamarlo. Come si fa a fermare uno spirito? 23 Primo spostamento Rimasi sul luogo della sepoltura finché non tornarono i prigionieri. Erano scortati dai guerrieri in groppa ai cavalli che avevano preso ai soldati. Coos, il capo guerriero, veniva per primo, e grossi cesti ricolmi pendevano dalla sua sella. In cima vidi una mano; era rivolta verso l'alto e aperta, come se fosse pronta a ricevere un dono. La base del cesto colava e gocciolava, le fibre erano intrise di sangue, annerite. Era la norma tagliare le teste e le mani dei nemici. Il sole tramontò, macchiando di rosso il cielo dell'ovest, mentre Hoosac radunava ciò che era rimasto della sua gente e si accampava temporaneamente nei boschi. Il tramonto fu accompagnato da un uguale brillìo a nord. Al di là della valle, un'altra città bruciava. Hoosac dispose sentinelle mentre seppellivamo il resto dei morti. Poi i
guerrieri costruirono il loro fuoco distante da noi. Avrebbero parlato del loro trionfo a lungo nella notte, raccontando ancora e ancora i loro successi, finché non fossero diventati parte della storia di ciascun uomo e ciascun uomo avesse avuto una parte nella storia. Così sarebbe passata nella memoria della banda. Volpe Nera non si unì a loro. Era tornato carico di cattivi presagi quando non aveva trovato Uccello Screziato tra i prigionieri, e quando gli dissi che cosa le era successo, reagì molto male. Le lacrime sciolsero i colori sul suo viso, macchiando le sue guance. Mi prese fra le braccia e rimanemmo stretti. Gli offrii tutto il conforto che potevo, ma si allontanò da me: la sua pena era troppo profonda per essere condivìsa. La mattina dopo lo trovammo che vegliava accanto a lei. Si era preso cura della sua tomba con grande attenzione, aveva ammucchiato la terra e disposto pietre su di essa così che nessun animale potesse violarla. Aveva setacciato la campagna in lungo e in largo, raccogliendo pietre e conchiglie da fiumi e laghi, e le aveva disposte in modi che le sarebbero piaciuti. Come nella vita, così nella morte, aveva fatto dei giocattoli per lei, intagliando figurine nei legnetti, e le aveva appese agli alberi, perché si muovessero e danzassero nella brezza, come aveva fatto sulla sua culla quando era una neonata. Ora si alzò e rimase in piedi a guardare verso est, immobile come una statua nei primi pallidi raggi del sole che sorgeva. Partimmo poco dopo l'alba, passando dal villaggio. Ciò che non poteva essere recuperato dalla devastazione fu spezzato, bruciato e disperso, il terreno fu disseminato di ceneri. Nell'andare, vidi che tutti osservavano con profonda attenzione ciò che vedevano. Sapevano che non sarebbero più tornati in quella terra. Ogni albero, ogni pietra, ogni piega delle colline, la curva precisa che il fiume disegnava nella valle, ogni angolo della terra natale fu affidato alla memoria, come uno che sente avvicinarsi la cecità e cerca di memorizzare il volto di una persona cara prima che cali il buio. Avevo già visto quell'espressione, sui volti di coloro che erano partiti dall'Inghilterra. Pensai a John Rivers e a Tobias e agli uomini di Beulah. Erano fieri e tenaci e nemmeno loro potevano tornare indietro. Non volevano rinunciare a ciò per cui erano venuti qui. Avevano armi in abbondanza, inoltre, e la loro gente non si ammalava né moriva. Questa era una battaglia all'ultimo sangue, e non c'era bisogno che Aquila Bianca mi dicesse chi avrebbe vinto. La strada per il nord ci portò a costeggiare l'insediamento inglese vicino
al nostro. Dietro la staccionata spezzata, il fumo ancora si arricciava levandosi dalle case lasciate bruciare tutta la notte. La devastazione passata lì era pari a quella del nostro villaggio, se non superiore, ma non mi diede soddisfazione. Mi sentivo lacerata tra due popoli. Rebekah e Tobias avrebbero potuto vivere lì, o John e Sarah, o io stessa. Il suolo era pieno di solchi, il fango semicongelato recava impressi i segni degli zoccoli e i passi confusi di molti piedi, calzati di pelle e di stivali. Dovevano aver portato con sé dei prigionieri: i mocassini lasciano poche tracce. «Nipmuc. Un grosso gruppo. Sono andati a ovest». Le tracce portavano al fiume, segnato dalla dispersione del bottino: stoffe lacerate, una scarpa gettata lì, una bambola. Laggiù, un basso schermo di salici mascherava una visione orrenda. La nebbia saliva strisciando dal fiume e si stendeva come un sudario sui corpi di donne e bambini ricoperti dal bianco gelo del mattino; il loro sangue formava grumi scarlatti. A tutti era stato preso lo scalpo. «Li hanno uccisi tutti!» Mi guardai attorno, sconvolta. «Non li hanno uccisi tutti. Hanno preso quelli che potevano camminare, che sarebbero sopravvissuti al viaggio». Volpe Nera continuò a fissare i tetri cumuli. «Avrebbero rallentato la marcia. Devono andare lontano per raggiungere un territorio sicuro e devono muoversi in fretta. Non potevano aspettare che perdessero le forze e poi lasciarli ai lupi o a morire di freddo». «Ma questi sono neonati! Bambini piccoli! È crudele!» «La guerra è crudele. Come fai a dire questo, Madre? Hai visto che cosa hanno fatto alla nostra gente, a Uccello Screziato». Incrociò le braccia e mi guardò con espressione d'accusa. Il suo viso era dipinto di fresco; la sua stretta cresta di capelli era decorata con nuove piume guadagnate nell'ultimo scontro. Le lacrime che aveva versato per Uccello Screziato avevano lavato via ciò che era rimasto della sua infanzia. Sembrava più grande dei suoi anni, molto più grande, e ancora più feroce, ma era mio figlio. Non mi sarei lasciata spaventare. «Possiamo almeno dar loro sepoltura». «Lascia che seppelliscano la loro gente». Si voltò. «Dobbiamo affrettarci, a meno che tu non voglia unirti a loro. I soldati potrebbero essere già in marcia». «Potrebbe esserci qualcuno vivo». Guardai verso l'insediamento. «Qualcuno che ha bisogno di aiuto».
«Con i Nipmuc?» La sua risata risuonò, dura e amara. «Non credo». L'insediamento Ero decisa ad entrare nell'insediamento e a vedere se qualcuno era ancora vivo. Fui seguita da altri, che vennero non per aiutare, ma per raccogliere ciò che i Nipmuc avevano lasciato, in cerca di cibo, coperte, qualunque cosa non fosse ancora stata presa. La guerra ci stava trasformando in avvoltoi, spazzini in mezzo alla devastazione. In molte delle case i tetti erano bruciati e le travi erano cadute, ma pareti e pavimenti erano rimasti relativamente intatti. Uomini e donne giacevano dov'erano stati abbattuti. Ognuno di loro era stato privato dello scalpo e non aveva più bisogno del mio aiuto. Varcai la soglia di una casa vicina al centro dell'insediamento. La porta era storta, i cardini spezzati, strappata e scheggiata dai colpi d'ascia. Il tetto era sparito; la casa era aperta alla furia degli elementi. A metà del pavimento il corpo di un uomo giaceva intrappolato sotto una catasta di travi bruciate. Non c'era nulla che potessi fare per lui. Era morto ancora prima che il tetto gli crollasse addosso. Il colpo di una mazza da guerra gli aveva fracassato il cranio come se fosse un guscio d'uovo. Lo scavalcai calpestando una distesa di piatti rotti caduti da un tavolo rovesciato. Nell'angolo, un giaciglio devastato ardeva piano, bauli portati da casa erano spalancati, il loro contenuto a terra. Pentole in frantumi ingombravano il freddo focolare colmo di cenere. Sotto i miei piedi c'era una botola che portava a una cantina. Non volevo unirmi al saccheggio, ma avevamo bisogno di cibo per il viaggio, per poter sopravvivere. Alzai la botola, pensando di trovare il deposito delle provviste per l'inverno. Invece trovai un ragazzo. Era disteso sulla schiena, con una grossa ferita alla fronte. Mi inginocchiai accanto a lui. La ferita era profonda e incrostata di nero, sangue fresco colava dagli orli irregolari. Giaceva privo di sensi, era di un pallore mortale, ma nel suo collo c'era un debole battito. Era vivo. Volpe Nera venne a vedere che cos'avevo scoperto. Quando lo vide, estrasse l'ascia e il coltello da scalpo. «No!» Gli fermai la mano. «È poco più di un ragazzo. Non morirà». Ero decisa a salvarlo. C'era già troppa morte attorno a me e io ero una guaritrice. Era mio dovere conservare la vita, non toglierla. Ordinai a Volpe Nera di portarlo all'aperto. Un ruscello correva attraverso il villaggio. Portai acqua da lì per bagnargli il viso e pulire la ferita. Le sue palpebre tremarono e si aprirono. Alla nostra vista svenne di nuovo, ma decisi di
portarlo con noi. Feci per lui una barella e ve lo legai, poi dissi a Volpe Nera di trascinarla mentre io la seguivo. Quando ci fermammo e ci accampammo per la notte, gli pulii di nuovo la ferita. Era ancora privo di sensi, così lo lasciai legato alla barella e perlustrai i boschi intorno in cerca del necessario per medicarlo. Grattai la resina dell'abete balsamico e raccolsi foglie di quercia e millefoglio per pulire e curare il taglio; corteccia di salice bianco da bollire e lasciare in infusione per alleviare il dolore. Quando ebbi tutto l'occorrente, mi affrettai a tornare indietro. Gli altri si erano accampati, allestendo ripari temporanei, tagliando pali dalla foresta intorno e stendendovi sopra stuoie di giunco che avevamo portato con noi. Volpe Nera aveva preparato un riparo e stava alimentando il fuoco. Il ragazzo era ancora legato alla barella. Lo slegai e lo deposi sul letto di foglie e rami d'abete che Volpe Nera aveva preparato per me. «L'ho fatto per te. Non per lui». Andò via, offeso perché avevo disdegnato le sue attenzioni, ma avevo ferite vere da curare, non solo sentimenti. Volpe Nera sarebbe tornato, a tempo debito. Misi una pentola a bollire sul fuoco per preparare l'infuso con la corteccia che avevo raccolto e mi disposi a medicare il ragazzo. Era ancora privo di sensi, nonostante il dolore che dovevo infliggergli. «Credi che si riprenderà?» chiese Volpe Nera al suo ritorno. Lo osservò con fredda curiosità, come se fosse un cane o un altro animale ferito che io avessi portato dentro per curarlo. Il viso del ragazzo era ancora mortalmente pallido, le lentiggini spiccavano come uno spruzzo di fango sulle sue guance. Volpe Nera si rabbuiò. S'inginocchiò. Per guardare più da vicino. «È macchiato. Ha le macchie come...» Si voltò di scatto, sopraffatto di nuovo dal dolore della perdita. Poi estrasse il coltello e afferrò una ciocca di capelli biondi spettinati. Era sporca e aggrovigliata, ma l'oro brillava qua e là. «No!» Lo presi per il polso. «Non lo farai». «Perché lui dovrebbe vivere, mentre lei è morta ed è là che giace nella terra fredda?» «La vita prende il posto della vita. È solo un bambino, com'era lei. Uccello Screziato: era quanto mai gentile di cuore e ora vorrebbe che noi ci prendessimo cura di lui, che lui avesse il suo giaciglio e il suo posto vicino al fuoco». Strinse forte il pugnale e continuò a fissare la pelle bianca e i capelli
biondi. «Lo so che è difficile per te. Il loro sangue scorre anche nelle tue vene. È duro essere divisi tra due popoli». «Per te, Madre, forse. Non per me. Io sono Pentucket». Allora mi guardò, gli occhi accesi da una mistura di odio e orgoglio. Pensai che mi avrebbe sfidato, ma non lo fece. Posò il coltello e promise di non fare del male al ragazzo. Poi se ne andò a dormire altrove. Promise con tanta facilità perché era convinto che la vita del ragazzo fosse ormai spacciata, ma io sapevo che non era così. Mi preparai un giaciglio ai suoi piedi, ma dormii poco. Alimentai il fuoco e tenni gli occhi su di lui, vegliando fino al mattino, sperando di salvare una vita contro tutte le altre perdute. Il ragazzo si svegliò mentre l'alba striava il cielo. I suoi occhi si aprirono, azzurri e vacui. Non capì quello che vedeva, ma rimase sveglio abbastanza da bere il decotto che avevo preparato e da inghiottire un po' di brodo prima di scivolare di nuovo nell'incoscienza. Temevo che il colpo che gli aveva fatto perdere i sensi l'avesse anche privato del senno. Perfino gli urti della barella non riuscivano a destarlo. La notte dopo, tuttavia, parve che stesse un po' meglio, abbastanza bene da alzarsi a sedere e osservare il mondo attorno a lui. I suoi occhi si dilatarono per l'enorme meraviglia: che cosa ci faceva lì, in viaggio con dei selvaggi? La sua paura diminuì quando gli parlai in inglese. «Ho capito dai tuoi occhi che non eri una di loro. Come mai sei finita tra loro? Ti hanno catturato?» «Te lo racconto un'altra volta». «Come mai mi trovo qui?» «Sei stato ferito. Adesso devi riposare e guarire». S'incupì, come cercando di ricordare chi era e che cos'era successo, poi trasalì per il dolore, perché anche se si stava rimarginando, la sua ferita era ancora fresca. «Non stancarti. Devi riposare». «Come faccio?» Cercò di rizzarsi a sedere. «Chi sei? Come ti chiami?» Glielo dissi. «No, il tuo nome vero. Il tuo nome inglese». «Nessuno mi chiama così da anni ormai, ma il mio nome è Mary». «Allora è così che ti chiamerò». «E tu come ti chiami?» Rifletté, facendo un'altra smorfia per il dolore alla testa. Chiuse gli oc-
chi, e le lacrime gli colarono giù dagli angoli. «Non me lo ricordo». «Non importa. Bevi questo». Gli diedi un sorso della mia piccola riserva di pozioni soporifere. Era debole e spesso ricadeva nell'incoscienza. Lo nutrivo con brodo quando era sveglio e pregavo che le sue forze tornassero in fretta. Sapevo che cosa facevano gli indiani dei prigionieri malaticci. Volpe Nera stava alla larga dal ragazzo. Non si offriva di aiutarmi a curarlo, e io non glielo chiedevo. Sapevo che cosa provava mio figlio per quel prigioniero, ma non avevo intenzione di abbandonarlo, non ora che stava meglio. Il ragazzo era giovane e fece in fretta a rimettersi in forze; con esse tornò la memoria. Si chiamava Ephraim Carlton. Aveva undici anni, anche se mi era parso più piccolo. Mi chiese che cos'era successo alla gente dell'insediamento. «Alcuni sono stati uccisi, alcuni sono stati portati via». «E il posto dove abitavo io?» Ricordai il corpo sotto le travi cadute, ma non era pronto per sentire. «Non saprei» dissi. «Non c'ero, non ho visto che cosa è successo. Uccisi o catturati». «Mi dispiace comunque sia andata. Erano brava gente. Non miei parenti, ma mi trattavano bene». «E la tua famiglia?» «La mamma non me la ricordo, e papà è morto. Ucciso in un incidente. Era fuori che tagliava gli alberi e uno è caduto dalla parte sbagliata, gli è andato addosso e l'ha schiacciato». «Abitavi da molto nell'insediamento?» Il ragazzo scosse il capo. «Sono stato un po' qua un po' là. Anche in Virginia, ma il clima non era adatto a pa'. E poi il signor Barker mi ha preso con sé dopo che pa' ha avuto l'incidente. Da allora ho lavorato per lui. Quando è cominciato l'attacco, ho dato una mano a respingere la prima ondata, poi siamo rimasti senza polvere da sparo. Il signor Barker ha voltato il fucile e si è messo vicino all'entrata pronto a colpire il primo selvaggio figlio di puttana che passava dalla porta, parole sue, eh, non mie. Ha detto a me e a sua moglie e alla sua bambina di nasconderci in cantina. Erano...» «Non c'erano. Forse le hanno portate via». «Forse». Lacrime gli scesero agli angoli degli occhi. «Prego che sia così.
Comunque» si asciugò il naso col dorso della mano «comunque mi sono messo davanti a loro per difenderle quando arrivavano i selvaggi. Abbiamo sentito che buttavano giù la porta e che gettavano la roba in giro e rompevano tutto. Poi silenzio, solo i passi dei mocassini pianissimo sul legno. L'abbiamo visto dalle fessure tra le assi del pavimento. Anche la bambina stava zitta, tanto aveva paura. Quasi non respiravamo, speravamo che non ci trovassero... ma poi si apre la botola. Io balzo avanti, pronto a combattere. Lo vedo che mi guarda, ha la faccia dipinta a spicchi e a strisce, bianco, nero e rosso. Non ho visto un uomo, E, quello era un diavolo. Poi vedo che alza il braccio e non mi ricordo più niente. «Devono aver portato via la signora Barker e la bambina e mi hanno creduto morto. Sono fortunato che non mi hanno preso lo scalpo». Si toccò la testa. «Troppo occupati con gli altri trofei per prendere i miei capelli, probabile». Ephraim migliorava di giorno in giorno, ma io ero preoccupata per Volpe Nera, per come sarebbero andate le cose fra noi. Capivo la sua gelosia e conoscevo la fonte della sua ostilità, ma doveva capire questo di me: ero una guaritrice ed era mio dovere offrire la mia abilità a chiunque ne avesse bisogno. Amico o nemico, non aveva importanza. Forse cominciava a capire, perché trovai piccoli doni di cacciagione fuori dalla nostra capanna: un quarto di cervo, due grasse anatre. Lo vidi come un segno del suo desiderio di fare la pace. Volpe Nera passava molto tempo con gli uomini della tribù, a cacciare e a prepararsi per la guerra, ma tornava a dormire al mio fuoco. Ero felice di questo, anche se si rifiutava di accettare la presenza di Ephraim. Il resto della tribù si preparava a partire per andare a sud e unirsi ad altre tribù sul Monte Wachusett dove Metacom aveva stabilito il suo accampamento invernale. Un grande esercito si stava radunando per attaccare le città inglesi. Non sarei andata con loro. Non volevo unirmi alla battaglia. Appartenevo a entrambe le parti e questo mi strappava il cuore dal petto. Non volevo vedere altre stragi. Mi dilaniava ancora di più il cuore vedere mio figlio andare con loro, ma ora era un guerriero e un esploratore di grande astuzia. Pochi erano bravi come lui. Era chiaro qual era il suo dovere. Quando venne il tempo della sua partenza, mi trattenni dal dirgli di stare attento, di non mettere a rischio la sua vita. Andava alla guerra. Non potevo far altro che offrire la protezione che era in mio potere di offrire. «Farò quello che posso per vegliare su di te. Intanto voglio darti questa».
Presi dalla mia borsa la piuma che Aquila Bianca mi aveva regalato. «Il tuo bisnonno l'ha data a me, e ora io la do a te. Che il suo spirito possa essere con te. Ti saluto, figlio mio». Prese la penna e se la fissò nella cresta. «Stai bene, madre mia. Spero che ci saranno altri a vegliare dal mondo dello spirito». Vidi dal suo sguardo che intendeva suo padre e Uccello Screziato. «E prego di non deluderli. Cercami, la sera e la mattina: io tornerò da te». Balzò sul suo cavallo e si voltò sulla sella e mi rivolse uno dei suoi rari sorrisi, e poi se ne andò, e il resto della banda con lui. Io ed Ephraim rimanemmo soli nella foresta. Ephraim era abbastanza forte da poter viaggiare, ormai. Camminava al mio fianco mentre viaggiavamo diretti a nord. «Devo dirtelo, Mary» mi annunciò mentre procedevamo. «Vedo come mio dovere fuggire appena possibile e andare in guerra». «La decisione è tua, ma ti consiglio di non provarci ancora». «Tu non mi fermerai». «Io non lo voglio, ma la foresta potrebbe. Sei ancora debole per le ferite e viaggiamo lontano dai luoghi che conosci. Ti perderai in un minuto. Ci sono pochi insediamenti così a nord e se ti trova una banda di guerrieri non avranno pietà di te». «Ma dove, dove stiamo andando?» Ephraim si guardò intorno. Non risposi. Avanzavo carica di una pena costante, addolorata nel profondo dell'essere. Mio figlio aveva preso il sentiero di guerra. Non sapevo se lo avrei mai rivisto. La paura per lui si sommava al mio dolore per la perdita di Penna Azzurra e del mio tesoro. Il mio cuore non aveva tempo di rimarginarsi. Ogni nuova alba riapriva la ferita. Il dolore era così acuto che nel primo attimo di consapevolezza e in ogni minuto di veglia era come se una lama affilata si rivoltasse nel mio cuore. 25 Quechee, il Luogo delle Cascate Rapide e Vorticanti Il nostro vagabondare fu interrotto da un uomo alto, in piedi vicino alla corrente tumultuosa e schiumante di un fiume in piena. Capii che era Pen-
nacook dal modo in cui portava i capelli e dai segni sulla pelle. Alla nostra vista si fece avanti, come se ci stesse aspettando. «Tu sei Occhi di Una Lupa». Si allontanò dal rombo dell'acqua, la mano alzata in segno di saluto. Era più vecchio di quanto sembrava al primo sguardo, e zoppicava, aveva una gamba più corta dell'altra. «Io sono Bagliore di Fuoco». «Come fai a sapere il mio nome?» «Mi è stato detto in sogno del tuo arrivo e sono stato guidato in questo posto». Si voltò e indicò. In alto sulla rupe alle sue spalle, un'aquila era posata sul ramo più alto di un abete bianco. «Conoscevo Penna Azzurra quando era un ragazzino, prima che la malattia arrivasse nel suo villaggio. Il gruppo di suo padre e il mio si univano per pescare nelle cascate». Sorrise e i suoi occhi si ridussero a fessure al ricordo delle risate condivise. «Mi tormentava molto, perché voleva sempre prendere parte ai nostri giochi, anche se era molto più piccolo. Lo chiamavo fratellino, e quindi tu sarai mia sorella». Mi guardò, il ricordo della gioia che si mescolava alla tristezza. «Soffro per la tua perdita. La tua pena è la mia pena». Non disse altro. Guardammo in alto tutti e due. Un battito d'ali annunciò la partenza dell'aquila. Si levò nel cielo sopra di noi e volò diritto nel cuore fiero del sole che tramontava. Svernammo nell'accampamento della banda Pennacook di Bagliore di Fuoco. Ci salutarono non come reietti in cerca di rifugio, ma come parenti. Condivisero liberamente tutto ciò che avevano: cibo, abiti e riparo. Portavo il marchio sulla guancia, e fu fatto spazio per me nella lunga casa del Clan del Lupo. Vivevamo come una famiglia, io ed Ephraim. Ephraim non cercò di fuggire. Come poteva? L'inverno e la foresta lo trattenevano più di qualunque staccionata. Eravamo molto più a nord di prima e il tempo era ancora più inclemente. Non sapevo dove saremmo andati quando io e il ragazzo avevamo cominciato a vagare, ma ora ero felice di aver trovato riparo nella calda fumosa oscurità dove molte famiglie vivevano assieme. Non ci mancava nulla. Ci diedero pellicce per vestirci e per coprirci. La tribù aveva cibo immagazzinato dopo il raccolto estivo, e la cacciagione era abbondante in quei vasti boschi del nord. Tagliai e cucii abiti nuovi per Ephraim, perché i suoi erano laceri, troppo leggeri per l'inverno e quasi consumati. Gli feci mocassini foderati di pelliccia e uno scaldacuore e braghe di morbida pelle di cervo. Mi assicurai che non venisse trattato come un prigioniero. Fu accettato come mio figlio. Gli insegnai alcune parole e
Bagliore di Fuoco gli insegnò a cacciare. Quando non era a caccia, stava con gli altri ragazzi, a scivolare con la slitta nella neve e sul ghiaccio. Spesso la sera Bagliore di Fuoco veniva a condividere il nostro focolare. Se aveva cacciato, ci portava la sua preda. Veniva da me come fratello. Era del Clan del Lupo, e ai membri dello stesso clan è proibito sposarsi. E poi io non cercavo marito. Dopo il mio Penna Azzurra, come potevo pensare a un altro? Dividevamo la nostra pena. Lui aveva perso la moglie per una malattìa l'anno prima e portava ancora con sé la tristezza. Sua figlia era sposata e viveva con il clan della madre. Suo figlio Naugatuck era con le bande di guerrieri nel sud. Cerva Bianca, la moglie di Naugatuck, stava con il clan della madre. Non aveva altri figli vivi; i due più piccoli avevano raggiunto la madre sul sentiero per la terra all'ovest. Accese la pipa con un tizzone. «In verità la malattia ne porta via più delle palle di moschetto, sempre di più ogni volta. Questa guerra è l'ultima fioritura del nostro potere». «Come mai?» Trasse una boccata di fumo dalla pipa e poi sbuffò, guardandomi attraverso le spire. «Come faccio a saperlo? Sono lontano dal fuoco del consiglio di Wannalancet». «Può essere, ma io vedo messaggeri andare e venire». Wannalancet, sachem dei Pennacook, era accampato al lago Winnipesaukee, a nord rispetto a noi. I messaggeri dal sud spesso si fermavano al nostro accampamento mentre andavano da lui. Uno dei messaggeri era Naugatuck, il figlio di Bagliore di Fuoco. Gli avevo chiesto di cercare Volpe Nera con la banda Pentucket e disse che lo avrebbe trovato. Mandai mocassini nuovi. I suoi ormai dovevano essere consumati e questi erano foderati di pelliccia di coniglio perché era il periodo più duro dell'inverno. Chiesi a Naugatuck di dirgli che stavo bene. Bagliore di Fuoco sapeva che avevo paura per mio figlio. «È al sicuro per il momento. È il tempo dei giorni più brevi, quando gli alberi si spaccano dal freddo. Nessuno combatte ora, nemmeno gli inglesi. Naugatuck mi dice che i guerrieri aspettano che il sole guadagni forza nel cielo, poi muoveranno contro le città inglesi». Sedemmo in silenzio, allora, pensando ai nostri figli. «Perché sei così lontano da Wannalancet?» «È cristiano. Io non voglio convertirmi a questa nuova religione. Per me
il Grande Spirito è il Grande Spirito: perché dovrei chiamarlo Dio? Per me sarà sempre Manitou». Per metà febbraio, i messaggeri portarono notizie di nuovi attacchi, di città saccheggiate e abbandonate lungo un'ampia frontiera da nord a sud. Per marzo, il tempo del ghiaccio che si scioglie, bande indiane erano penetrate fino a Medfield ed erano arrivate a minacciare Boston. Sapevo che mio figlio sarebbe stato nel cuore della battaglia. Ogni nuovo bollettino mi faceva soffrire in attesa di sue notizie. Naugatuck venne verso la fine di marzo e mi disse che Volpe Nera ne era uscito incolume. Doveva restare a sud, ma mandava un dono, una piccola testa di volpe fatta con la stessa pietra nera morbida usata per lavorare le pipe. Volpe Nera aveva ottenuto col baratto la pietra di pipa e l'aveva intagliata durante le lunghe ore morte degli accampamenti invernali. Era assai abile con le mani, e la volpe era fatta con gran cura, aveva gli occhi obliqui e la bocca che sogghignava. Era forata dietro le orecchie per poterla usare come fermaglio. Mi fece ridere fino alle lacrime. A Volpe Nera piaceva sempre fare cose che potessero essere utili. Con l'arrivo della primavera, il villaggio si spostò nella sua sede estiva. Per un po', la guerra fu dimenticata; tutti erano impegnati dal trasferimento. Le case furono smantellate, le stuoie slegate e arrotolate, i pali lasciati per il prossimo inverno. «Se sverneremo qui un'altra volta». Bagliore di Fuoco era venuto ad aiutarci. Stava caricando fagotti sulla sua portantina. Era pensieroso. «Perché no? Wannalancet è neutrale; e poi è cristiano». Avevo finito di fare il mio bagaglio e ne stavo preparando uno perché lo portasse Ephraim. Questi traslochi erano una gran fatica per tutti. Anche i bambini dovevano fare la loro parte. «Non fa alcuna differenza. Gli indiani cristiani sono stati portati via dalle città di preghiera e messi tutti insieme su un'isola nel porto di Boston». Strinse un laccio con violenza. «Ecco come gli inglesi ripagano la lealtà». Mi preparai a questo trasferimento con tutte le sue incertezze, e altre ancora. Ricordavo le parole di Aquila Bianca. Gli indiani non potevano certo vincere questa guerra. Avevo cercato di sfuggirle, ma si stava avvicinando. Non avevo pensato di tornare a vivere con la mia gente, ma se gli indiani fossero stati sconfitti, e io fossi stata riportata indietro, che cosa ne sarebbe stato di me allora? 26
Secondo spostamento Il percorso verso il loro luogo estivo ci portò su per il fiume Merrimack, e poi lungo fiumi più piccoli e infine trasportando il carico a piedi arrivammo alla vasta distesa del lago Winnipesaukee. Il luogo si stendeva dietro uno schermo di salici sulla riva sud del lago. In un giorno, il villaggio fu ricostruito e tutto era tranquillo mentre riprendevamo il normale ritmo di vita. Aiutai le donne a ripulire gli orti per la semina. Lavorai con Cerva Bianca, la giovane moglie di Naugatuck, la nuora di Bagliore di Fuoco. Ephraim correva con gli altri ragazzi, giocando a palla bastone e a palla coi piedi sul prato selvaggio, come aveva fatto Volpe Nera, come avevano fatto i ragazzi nel mio villaggio in Inghilterra tanti e tanti anni prima. Con la primavera e il tempo della semina, a volte era facile dimenticare che era in corso una guerra. Era ancora lontana, a sud, ma i messaggeri andavano e venivano sempre più spesso e Bagliore di Fuoco spesso veniva convocato all'accampamento di Wannalancet all'altro capo del lago. Mentre la stagione volgeva all'estate, le notizie dal sud divennero sempre più cupe. I messaggeri non parlavano più di vittoria. Parlavano di mancanza di polvere e munizioni, di Mohawk che si avvicinavano subdoli da ovest ora che l'attenzione non era concentrata su di loro. Soprattutto parlavano di fame e malattia, donne troppo lontane dai loro villaggi natali per coltivare qualunque cosa, uomini troppo occupati a combattere per cacciare. C'era poco cibo nelle città attaccate e quello che era stato portato via si consumava in fretta. La carestia incombeva sugli accampamenti. La guerra era come un'altalena e la parte inglese era certamente più pesante: aveva uomini, moschetti e denaro. Senza possibilità di rifornirsi di cibo, la sconfitta delle forze di Metacom era solo questione di tempo. E così doveva essere. I messaggeri isolati furono sostituiti da bande lacere che fuggivano da sud. Parlavano di un'enorme sconfitta. Ora i tamburi dell'adunata risuonavano nelle città del Commonwealth. Bande ostili venivano cacciate, inseguite e perseguitate per tutto il paese. Ogni indiano che si rifiutava di arrendersi non poteva aspettarsi atti di grazia. Sarebbe stato ucciso. Chi si arrendeva poteva aspettarsi di essere ridotto in servitù o venduto come schiavo. Le tribù si disperdevano. Gruppi nemici cercavano di fare la pace separatamente. Giunse notizia che Metacom era andato a sud, nella sua terra
natale. Gli davano la caccia attraverso le paludi come i ragazzi danno la caccia alle rane. Poi sentimmo dire che era morto. La sua testa era stata portata a Plymouth e conficcata su un palo come avvertimento e atto di vendetta. La morte di Metacom non pose fine alle persecuzioni. I soldati continuarono a dar la caccia agli indiani come a topi in un granaio. Molti gruppi fuggirono a nord da noi, in cerca di rifugio. Queste bande arrivavano stanche per il viaggio, molti erano malati e quasi tutti denutriti: offrivamo l'aiuto che potevamo dare. Fu un tempo di paura e stanca attesa. Volpe Nera e Naugatuck non erano tornati. Passavamo in rassegna ogni gruppo, cercando notizie di loro. Non sentivamo altro che voci e storie. Erano con questa o quella banda, con Metacom stesso. Avevano preso parte a questa battaglia o a quell'attacco. Naugatuck era stato ferito, ma Volpe Nera non aveva un graffio, era come se la sua vita fosse protetta da un incantesimo. Molte di queste storie erano vecchie di mesi; altre le avevamo sentite prima. Quando chiedevamo dove fossero al momento, o quando sarebbero tornati, ottenevamo in risposta sguardi vacui e silenzio. Ciascuno guardava alla propria sopravvivenza. Dovevamo solo aspettare. Alcune delle bande portavano con sé dei prigionieri inglesi. Molti di questi erano già stati riscattati, ma ne vidi alcuni arrivare con i loro catturatori che speravano in una ricompensa o in uno scambio. Mi tenevo alla larga dai prigionieri bianchi. Facevo in modo di assicurarmi che venissero date loro provviste e che fossero trattati bene, ma a parte questo mi tenevo a distanza. Non provavo alcuna lealtà verso di loro, nessun legame di sangue o parentela. Farmi riconoscere avrebbe richiesto spiegazioni, e una volta che avessero saputo la mia storia, sapevo quale sarebbe stato il loro giudizio nei miei confronti. Non erano legati o incatenati, potevano andare a venire a loro piacimento, ma venivano tenuti vicino alla foresta. Non si riunivano, erano sparpagliati nell'accampamento, stavano con le famiglie di coloro che li avevano catturati. Anche se cercavo di evitare la loro compagnia e di tenermi a distanza, sentii che una di loro mi osservava con attenzione. Era evidente che la mia presenza la affliggeva e la tormentava, e aveva l'aria di una che non ama gli enigmi. Conoscevo quel tipo di donna dai tempi di Beulah: sempre intenta a occuparsi degli affari degli altri. Mi ricordava la sorella di Martha, Goody Francis. Si chiamava signora Peterson. L'avevo vista in giro per l'accampamento. Benché scarna, con gli abiti quasi ridotti a brandelli, sa-
peva come sopravvivere nella prigionia. Non la sentii mai lamentarsi e aveva il dono di rendersi utile: cucendo, cercando cibo, svolgendo compiti. Fu proprio uno di questi compiti che la portò da me. Una sera si avvicinò al mio focolare con la scusa di prendere in prestito del cibo. «Ho visto il tuo ragazzo...» Anche vestito di pelli, Ephraim si rivelava come inglese per via dei capelli. Il sole dell'estate li aveva schiariti trasformandoli in seta di granoturco. «Sei prigioniera?» Si guardò intorno furtiva. «Dov'è il tuo padrone? Da quanto ti hanno preso? In che città?» «Non ho padroni. Non sono prigioniera. Vivo qui liberamente». «Com'è possibile?» I suoi occhi d'uvaspina si dilatarono per lo stupore e l'avidità di saperne di più. «Ho lasciato un insediamento molti anni fa». «Di tua spontanea volontà?» «Non proprio. Non ero più la benvenuta». Rimuginò su questa insolita circostanza. «Ho sentito solo una storia del genere. Un ministro di passaggio, non ricordo il suo nome, ci raccontò di una ragazza che aveva stregato un insediamento ed era fuggita per unirsi agli spiriti nella foresta». «A me non è successo niente del genere» dissi in fretta. «Ebbi un disaccordo con la mia padrona, per una questione personale di natura delicata». Abbassai lo sguardo, certa che avrebbe capito. «Lussuria?» Assunse un'espressione opportunamente spaventata. Annuii. «La mia padrona prese le parti del padrone contro di me. Ero ostinata in quei giorni, e sciocca, e fuggii. Mi persi nella foresta e fui trovata da una tribù di Pentucket. Sto con loro da allora. Quello che resta di loro, cioè. Mio marito fu ucciso a Pocumtuck, e mio figlio...» «Ti sei sposata con uno di loro!» Non riuscì più a guardarmi. Portò la mano alla bocca come per vomitare. Era molto più spaventoso della seduzione di una servetta da parte del padrone. Era qualcosa di troppo spaventoso per ottenere una qualunque approvazione. Sopra il colletto lacero e sporco, il suo collo divenne del colore del bargiglio di un tacchino. «Sì». «Capisco». Tenne gli occhi bassi, lontani da me. «E il ragazzo? Non è nato da... voglio dire, è così biondo. Non può essere un nativo, vero?» «No». Risi alla sua indignazione repressa. «Non è mio». Le dissi dov'era stato trovato. «Verrà restituito, a Dio piacendo. Come tutti noi».
«Non ha parenti là, per quello che so. Quando verrà il tempo deciderà lui se restare o andare». «Tornare alla vita civile o vivere coi selvaggi?» Mi guardò. Che scelta poteva esserci? «Non hai altri figli?» «Avevo una figlia». Mi fermai un momento, dubitando che la mia voce avrebbe sopportato le parole. «È morta». «Anch'io ho delle figlie. Mi dispiace per la tua perdita». Il suo sguardo di comprensione fu abbastanza sincero, ma dietro di esso aleggiava il pensiero che una mia figlia era comunque meglio morta, glielo lessi negli occhi. «Sono state rapite?» le chiesi. Scosse il capo. «Il padre le aveva fatte trasferire in una città sicura. Io dovevo seguirle, ma...» S'interruppe un istante, colta di nuovo dall'angoscia per tutto ciò che era successo, che aveva visto. «È capitano dell'esercito. Il capitano Peterson. Forse hai sentito parlare di lui». Scossi il capo. «È piuttosto famoso tra la nostra gente». Nel suo sguardo si mescolavano orgoglio e disprezzo. «Le mie ragazze...» Si ricompose e proseguì. «Le mie ragazze erano al sicuro quando i selvaggi ci hanno attaccato. Ringrazio Dio per questo. Temo che non sarebbero sopravvissute». «Ti hanno trattato male?» «Non proprio, e non ho subito oltraggio, ma la vita tra loro è durissima». «Non più che per loro». «C'è del vero in questo». Posò lo sguardo sulle unghie spezzate e annerite, sulle mani sporche. «Chiedo a Dio la Sua forza per poterlo sopportare». Poi corse via, il suo padrone la chiamava. Non era un uomo ingiusto, ma lei lo temeva. Le mandai cibo e abiti nuovi, e feci quello che potevo per assicurarmi che il suo padrone non fosse troppo duro con lei, perché alcuni prigionieri venivano trattati con crudeltà, anche se spesso per colpa loro. Riuscì a venire ancora da me, e questa volta portò con sé un pezzo di Bibbia strappata, che aveva ottenuto scambiando qualcosa con un indiano. Entrò presa dall'entusiasmo, citando Ezechiele, capitolo 18, versetto 27: «E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha commesso e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso». Io le dissi che la mia anima non aveva bisogno di essere salvata. Non mi consideravo malvagia e, secondo il mio punto di vista, mi ero sempre sforzata di fare ciò che era giusto e legittimo. Mi guardò come se avessi detto qualcosa di enormemente blasfemo. Da
quella volta la vidi assai poco. Non fece alcun tentativo per avvicinarsi, ma spesso avvertii il suo sguardo su di me. O, più precisamente, su Ephraim. Lo fermava, lo chiamava per chiedergli di svolgere questo o quel compito insignificante, poi lo tratteneva a chiacchierare. Quando lo interrogavo, diceva che gli parlava della Bibbia e gli chiedeva se era ancora fedele alla sua fede. «E tu che cos'hai risposto?» «Sì, per quanto posso». «Vuole sapere dell'altro?» Ephraim non rispose. Me lo avrebbe risparmiato, ma era un ragazzo molto sincero e i suoi colori chiari gli rendevano difficile dissimulare. «Che cos'altro ha detto?» «Mi ha chiesto...» Esitò, arrossì ancora di più, e poi abbassò la voce riducendola a un sussurro. «Ha chiesto se pratichi la stregoneria. Aveva sentito... l'aveva sentito dire». Sentii il mondo crollarmi addosso. «E tu che cos'hai risposto?» Cercai di mantenere un tono leggero, anche se molto dipendeva dalla risposta che lui le aveva dato. «Ho risposto, certo che no! Le ho detto, le ho detto che sei una guaritrice, e per questo sei onorata e rispettata. Ho detto che mi hai salvato la vita e anche quella di molti altri. Ha detto: 'Vuoi dire tra gli indiani?' Io ho detto che può anche chiamarli pagani, ma che tu non vedi nessuna differenza tra loro e i cristiani». «Capisco. Ti ha chiesto altre cose?» «Sì. Mi ha chiesto se preghi». «E tu che cos'hai risposto?» «Ho detto, certo che sì, ma alla tua maniera». S'interruppe. «E le ho detto che eri costretta, visto che eri lontana dalla chiesa e dalle normali funzioni da tanto, tanto tempo». Mi guardò «Ho sbagliato? Ho detto qualcosa di sbagliato, Mary?» «Certo che no». Gli arruffai i morbidi capelli di seta. «Non preoccuparti». «Se l'ho detto, non volevo». S'incupì, era molto agitato, ora. «E mi dispiace sul serio. Ho detto solo la verità, però». La sua fronte si spianò mentre un nuovo pensiero gli affiorava alla mente. «Non può far del male, vero?» 27
Un brutto momento Per il tempo del raccolto la guerra era finita. Naugatuck e Volpe Nera furono tra gli ultimi guerrieri a tornare all'accampamento. Arrivarono polverosi e stanchi per i molti giorni di viaggio. Erano magri e denutriti, gli abiti laceri, i mocassini consumati e i piedi sanguinanti, ma erano vivi. L'intero accampamento uscì a salutarli e fu quasi impossibile avvicinarsi nella calca. Poi la folla si separò e lui venne da me. I mesi di ansiosa attesa si sciolsero in un momento di pura gioia e io non ebbi bisogno di dirgli quanto ero felice di vederlo. Poi andò con gli altri uomini alla capanna del sudore, per essere ripulito e rivestito per le celebrazioni. Io mandai gli abiti nuovi che avevo fatto durante la lunga attesa e mi unii alle altre donne. Raccogliemmo tutto ciò che riuscimmo a trovare per allestire un banchetto di bentornato. C'era stato ben poco da festeggiare negli ultimi mesi, e tutti furono invitati senza eccezione. Non tutti, però, accolsero l'invito. La signora Peterson rimase accanto al suo focolare. Al sommo dei festeggiamenti, notai che qualcun altro era assente. Ephraim era scomparso. Pensai che fosse con gli atri ragazzi, che correvano qua e là persi in giochi selvaggi, ma non lo trovai con loro. Lo trovai nell'accampamento della signora Peterson. Disse che si sentiva fuori posto, ora che Volpe Nera era tornato. Tornò con me in quell'occasione, ma prese a trascorrere sempre più tempo con la donna inglese. Lei lo salutava con prontezza e lo riempiva di attenzioni. Forse lui sentiva che lo trascuravo nella mia gioia per il ritorno di mio figlio. Forse aveva un po' soggezione di Volpe Nera. Mio figlio era ormai un guerriero maturo, con una reputazione formidabile, e benché mantenesse la promessa e non si mostrasse sgarbato col ragazzo, non mostrava nemmeno amicizia nei suoi confronti, e io capivo perché Ephraim potesse temerlo. Ora che la guerra era finita, Wannalancet fu convocato a Dover per incontrare un certo maggiore Richard Waldron e stabilire le condizioni della pace e consegnare i prigionieri. Dipendeva da Ephraim decidere se andare con loro o meno. Io mi sarei rattristata a vederlo andare, più di quanto non volessi lasciargli capire, ma dissi che avrebbe potuto scegliere una volta venuto il momento. Avevo dato la mia parola, e non sono tipo da rimangiarsi una promessa. Pensavo ancora che sarebbe potuto restare con me, ma il giorno stabilito
partì con la signora Peterson. Non aveva nessuno che lo reclamasse, perché come lui stesso aveva raccontato non aveva parenti vivi nella colonia, ma la signora Peterson si sarebbe presa cura di lui. Non potevamo definirci amiche, però me lo promise. Bagliore di Fuoco consigliò a Volpe Nera e Naugatuck di non andare all'incontro. Riteneva che Wannalancet sbagliasse nel concedere fiducia agli inglesi. «Siamo tutti loro nemici, ora». Era così che la vedeva lui. E meno male che i nostri figli ascoltarono il suo avvertimento, perché molti di quelli che andarono non tornarono più. Anche se Wannalancet agiva in buona fede, fu ingannato. Andò a fare la pace con gli inglesi, nazione con nazione, ma Waldron la vedeva in un altro modo. Ai suoi occhi, Wannalancet nascondeva dei fuggiaschi e questo era un atto di guerra. A centinaia furono uccisi e molti di più vennero presi prigionieri per essere venduti come schiavi, o qui o nelle Indie. Fu una banda furiosa di guerrieri quella che tornò agli accampamenti. Wannalancet si sentiva ingannato e tradito. Prima era stato neutrale, ma questo fece degli inglesi i suoi nemici. Ora che Volpe Nera era con me, costruii una nuova abitazione separata dalla lunga casa. Bagliore di Fuoco veniva spesso a sedere al nostro focolare, a parlare della guerra con Volpe Nera, a fumare la pipa e portare notizie dal fuoco del consiglio. Una sera era con noi, appena prima che la notte calasse, quando qualcuno bussò all'ingresso del wigwam. Era uno degli uomini di Bagliore di Fuoco. Si fece avanti a fatica attraverso l'apertura trasportando qualcosa tra le braccia. Sulle prime credetti che portasse un cane o un animale ferito. Poi vidi la testa che reggeva sul braccio. I capelli biondi erano rasati, ridotti a una corta peluria, ma seppi che era Ephraim. Aveva i piedi insanguinati, i mocassini laceri; braccia e gambe erano graffiate e segnate da rami e spine; il suo viso era gonfio e tumefatto per le punture degli insetti. I suoi vestiti avevano un odore acre, di letame. Dissi al guerriero di deporlo a terra e tagliai via le pelli sudicie che lo ricoprivano. Bagliore di Fuoco lo portò alla capanna del sudore e là gli uomini lo lavarono e lo curarono. Tornò avvolto in pellicce, e fu messo a dormire. Dormì fino alla sera del giorno dopo. Si svegliò affamato, ma ancora così debole che gli tremavano le mani e urtava il cucchiaio di corno contro la ciotola. Lo imboccai, e poi disfeci il suo fagotto per cercare abiti puliti per lui.
«Hai tenuto il mio fagotto?» «Non ho buttato via niente di tuo». «Bene. Perché credo che resterò». «Che cosa è successo?» «Non mi piaceva. Non mi piaceva com'erano con me». «La signora Peterson?» «Non tanto lei. Suo marito. Il capitano». «Non ti trattava bene?» «Non era solo quello». Distolse lo sguardo da me, gli occhi all'improvviso gonfi di lacrime. «C'erano anche altre cose». Aspettai che si riprendesse e continuasse. «Quando ho capito com'era, ho cambiato idea. Volevo tornare da Wannalancet, ma mi tenevano là. Quella donna, la signora Peterson, ha cominciato a tormentarmi. Mi ha fatto lavare, e non troppo gentilmente, anche se non avevo bisogno di lavarmi. Mi ha messo dei vestiti da ragazzo. Mi ero dimenticato come pizzica la lana sulla pelle, e gli stivali mi facevano male ai piedi. Ho chiesto che mi restituisse i miei vestiti, almeno i mocassini, ma era come se avessi chiesto una cosa sporca. «Hanno cominciato a pregare per me e a farmi le prediche. Mi ero dimenticato di quanto sono dure le panche di legno, e il ministro lassù a dir bugie. La signora Peterson, a lei non badavo tanto, ma suo marito aveva certe idee su come dovrebbe essere un ragazzo, e non andavano tanto bene per me. Ha cominciato a fare discorsi sull'ordine e la disciplina e tutto il tempo tiene lì una bacchetta che batte contro l'altra mano scandendo le parole. Guardo le ragazze, le sue figlie. Ascoltano a testa bassa, e non osano incrociare il suo sguardo, e nemmeno il mio. «Quella sera sono a letto che penso a tutta la faccenda. Il mio pa' non era così, ed era tanto tempo che qualcuno non mi diceva cosa fare, o mi dava degli ordini senza una ragione. Lei dice che non sono un servo, ma è così che mi sento. Così striscio fuori nel cuore della notte, io ci vedo al buio, so muovermi senza far rumore. Trovo i miei vestiti, quelli che mi avevi fatto tu, messi sul mucchio del letame. Non sanno di buono, ma me li metto lo stesso, pensando che nasconderanno il mio odore se mi fanno seguire dai cani. Quando sorge il sole sono sul sentiero del nord. Avevo guardato bene da che parte eravamo arrivati, come mi ha insegnato Bagliore di Fuoco. «Non ero solo. Un esercito intero era in marcia. Inglesi a cavallo. Ho visto quello che hanno fatto. Li hanno abbattuti come cani. Alcuni erano Nashua, credo, dai segni che avevano. Ma alcuni li conoscevo. Erano stati qui
tutto il tempo, mai andati sul sentiero di guerra, ma i soldati non chiedevano, sparavano e basta. Alcuni li hanno colpiti alla schiena. Ecco quanto sono codardi. Nessun uomo lo farebbe. Hanno preso anche gli scalpi, che razza di gente bianca farebbe una cosa simile?» «Come fai a sapere che non era un'altra tribù?» «Erano bianchi. Ho visto le orme degli zoccoli ferrati nel fango e nel sangue e più tardi quella notte ho visto il loro accampamento. Subito dopo sono capitato in un villaggio incendiato. Allora ho cominciato a correre, senza fermarmi. Avevo paura di quello che avrei trovato. Avevo paura che foste andati via, avevo paura che...» Si morse il labbro fino a farlo diventare sempre più rosso, cercando di trattenere le lacrime. «Sono contento che non sia successo, ecco. «Sono tornato perché... l'unica famiglia che ho è qui». Mi guardò. «Tu sei la cosa più vicina a una mamma che ho mai conosciuto. E...» Guardò Bagliore di Fuoco, gli occhi lucenti di lacrime non versate. «E ho pensato che visto che pa' adesso è morto, ho pensato che potevo scegliermene un'altro, e quello non era il capitano Peterson». Bagliore di Fuoco sorrise e tese la mano a sfiorare la testa spinosa del ragazzo. «Un uomo sarebbe contento di avere un figlio così. Naugatuck sarà fiero di chiamarti fratello». «Anch'io ne sarei fiero». Volpe Nera aveva ascoltato tutto il tempo, disteso sul suo giaciglio. Si alzò dal suo posto nell'ombra e venne verso il ragazzo. «Ti sei dimostrato coraggioso e astuto come qualunque guerriero dei nostri. Hai sofferto molto per tornare e sei qui perché hai scelto il tuo popolo. Ora sei uno di noi». Sfilò il coltello da scalpo, ne saggiò la lama sottile e affilata mentre si accoccolava vicino a Ephraim. Il ragazzo non trasalì nemmeno quando il coltello incise la carne alla base del suo pollice. Volpe Nera si tagliò nello stesso modo e unì le loro mani, legandole con la sua fascia in modo che il sangue colasse unito. «Ora siamo dello stesso sangue. Siamo fratelli, io e te». Ephraim aprì la bocca, ma non ne uscì una parola. Però il suo viso si riempì di lacrime. Volpe Nera attese che il ragazzo si calmasse, poi lo sollevò e lo portò al suo giaciglio. Bagliore di Fuoco scosse il tabacco nella sua borsa e riaccese la pipa. «I nostri fuochi a sud sono stati spenti col sangue. Non possiamo tornare indietro».
«Non possiamo restare qui». Volpe Nera tornò. Ephraim ora dormiva. «Conosco questo Peterson. Ephraim ha fatto bene a fuggire da lui, ma è un uomo spietato e non gli piace essere sconfitto. Verrà a cercare il ragazzo». «Wannalancet parla di andare a nord, nella terra dei francesi». «In Canada?» chiesi. «Alcuni dei nostri sono già là, nel posto che i francesi chiamano St François». Si protese e tolse un tizzone dal fuoco per accendere la pipa. «I francesi non amano gli inglesi. Non può esserci pace, ora». «Dobbiamo unirci a loro». Volpe Nera si accoccolò vicino al fuoco. Bagliore di Fuoco fece una smorfia. «Il posto è pieno di Abiti Neri, ci zampettano come pulci su un cane». «Abiti Neri?» Non avevo mai sentito quella parola, ma fui colta da un gelo improvviso, come quando un'ombra passa sul sole. «Gesuiti». Rise, ma senza gioia. «A confronto i tuoi puritani sono un mucchio di grasse pernici». «Allora dove andremo?» Volpe Nera faceva fatica a trattenere l'impazienza. «Ciascuno deve decidere per sé. È difficile abbandonare la terra dove sei nato, dove sono nati i nonni e i loro nonni. Pensavo che sarebbe stata la terra dei miei figli, dei figli dei miei figli, ma questo non è dato. Siamo sradicati come alberi nella foresta. È come se un vento potente ci strappasse dalle nostre radici». I suoi occhi divennero opachi, come castagne dimenticate da una stagione all'altra. Si accovacciò sui talloni, i gomiti sulle ginocchia, il capo posato sugli avambracci, e rimase a lungo così. Si alzò e ci lasciò senza un'altra parola. Passarono i giorni e Bagliore di Fuoco rimase in quello stato di melanconia. Evitava la compagnia, camminava vicino al lago, o se ne andava in canoa dalla prima luce al cadere della notte. Volpe Nera era deciso a partire, ma io obiettai che volevo restare ancora un po'. Bagliore di Fuoco era stato un buon amico per me. Non l'avrei abbandonato proprio adesso. Il terzo giorno, venne da me Naugatuck. Era preoccupato per suo padre. «Cerca di decidere che cosa fare. Non puoi aiutarlo?» mi chiese il giovane. «Tu sei forte nello spirito, così dice Volpe Nera». «Il futuro è chiuso per me come per te o chiunque altro. Bagliore di Fuoco cerca la solitudine perché sta cercando un segno». Annuì. I dischi di rame che pendevano dalle sue orecchie e gli adornavano il collo brillarono alla luce del fuoco.
«Così fa la sua gente. Altre tribù stanno partendo. Speriamo che gli spiriti gli parlino presto, o potrebbe scoprire di essere l'unico a restare qui al lago». Passò una settimana, poi Bagliore di Fuoco venne da me al sorgere del sole. Capii subito che era successo qualcosa. Il suo passo era leggero, non pesante e strascicato, e quando spinse da parte il lembo di pelle per entrare nel mio wigwam, i suoi occhi erano pieni del loro antico fuoco. Gli chiesi di spezzare il digiuno con noi e poi mandai Ephraim a giocare con gli altri ragazzi. Vidi dalla sua espressione che aveva ricevuto il segno che voleva. Restammo seduti in silenzio finché non fu pronto a dirmi che cosa aveva visto. «Ieri notte mentre camminavo vicino al lago ho sentito il richiamo delle oche selvatiche. Più tardi ho sognato che ero nello stesso posto e guardando in alto ho visto le loro lunghe file volare sopra di me, sparse nel cielo come enormi punte di freccia lavorate. Nel sogno capivo le loro parole. Parlavano del lago e del Luogo della Selce». Mi accigliai e scossi il capo. I sogni sono della massima importanza per stabilire che cosa fare; ma non riuscivo a capire il significato di questo. «Che cosa vuol dire?» «Andremo a Missisquoi, il luogo che gli Abenaki chiamano Mazipskoik, il Luogo della Selce. Hanno un villaggio là, su una grande acqua che chiamano Bitawbagw, il lago che i francesi hanno chiamato Champlain». «L'hai detto a Naugatuck?» Bagliore di Fuoco annuì. «Gli ho raccontato il mio sogno e aveva anche lui in mente questo piano». Volpe Nera parlò. «Io e lui passeremo l'inverno a cacciare e disporre trappole, così avremo delle pellicce da scambiare. Per continuare questa lotta ci servono polvere e moschetti, e per averli dobbiamo andare dai francesi a Mount Royale». 28 Alison Ellman Alison amava Montréal. Era due volte straniera, essendo canadese e francese ad un tempo, e questo le piaceva. Era come se non fosse uscita da
mesi dall'Istituto, men che meno da Boston. Era bello andar via. Aveva prenotato un albergo nel Quartiere Latino. Dovette ammettere che si stava divertendo, anche se le sue ricerche non procedevano troppo bene. Contava sulle conoscenze locali e il suo contatto alla McGill non suonava troppo speranzoso. L'avrebbe incontrato a cena, per quel momento forse lui avrebbe potuto avere qualcosa da dirle. Nel frattempo, era libera di passare la giornata a fare la turista, a camminare per il vecchio porto e Vieux Montréal, riprendendo confidenza con la città. «La tua ragazza è un enigma». Questo le disse il suo amico Glen quando si incontrarono in uno dei ristoranti della città vecchia. «Se è stata qui, non c'è traccia di lei». Alison si versò un bicchiere di vino e cercò di mascherare la delusione. «Ma sarebbe potuta venire qui?» «È assolutamente possibile». Glen inghiottì un boccone della sua bistecca. «Soprattutto se è rimasta coinvolta nella Guerra di Re Philip. Fu uno scontro davvero violento. Le tribù del New England si presero una bella batosta e molti di loro vennero a nord; alcuni portarono con sé dei prigionieri bianchi». «Ma lei non sarebbe stata una prigioniera». «Una donna bianca con una tribù di nativi? L'avrebbero notata». Glen finì le sue frites e si premette il tovagliolo sulle labbra. «Vedo se riesco a trovarti qualcos'altro. Ho un collega alla UQAM. Potrebbe sapere qualcosa. È più il suo campo. Ho chiamato il suo ufficio. È andato a un convegno ma dovrebbe tornare fra un giorno o due». Non c'era altro da fare che aspettare. Alison decise che sarebbe anche potuta andare su a Québec. Aveva amici in città e si era ripromessa di passare del tempo con loro. Poteva dormire da loro e poi fare il giro delle biblioteche, consultare gli archivi da sola cercando riferimenti a Mary. Tornò a Montréal a mani vuote, sentendosi un po' più che scoraggiata. Quando entrò nella sua stanza, la luce dei messaggi sul telefono brillava. Chiamò la reception. «Mademoiselle Ellman? Abbiamo un fax per lei». Alison si alzò, poi si sedette, poi si rialzò. Percorse la stanza avanti e indietro, col fax in mano. Mary era stata lì. Forse aveva calpestato le stesse strade calpestate da Alison. L'amico di Glen gli aveva dato una nota su una donna bianca, inglese, che viaggiava con una banda di nativi in fuga dal New England dopo la Guerra di Re Philip. Aveva perfino suggerito un
possibile itinerario che potevano aver scelto per arrivare lì. Alison rimase in piedi alla finestra, cercando di evocare la presenza di Mary. Di solito le piaceva stare vicino al cuore della città, ma ora i rumori che salivano dalle strade tutto intorno servivano solo a peggiorare la sua agitazione. Mary era un enigma, Glen aveva ragione. Quello che aveva scoperto non faceva che confermarlo. Poneva più domande di quelle a cui rispondeva. Com'era arrivata lì? Che cosa le era successo lungo il cammino? Dov'era andata dopo? Le risposte su Mary non erano nella città moderna; e nemmeno nei libri, nei musei e nelle biblioteche. Erano con Agnes. Alison sedette sul letto, meditando sull'importanza della ragazza. Agnes non si era fatta viva; Alison non sapeva nemmeno bene dove fosse, ma avrebbe dovuto trovarla. Era ora che le loro ricerche si unissero. 29 Lago Specchio Agnes si svegliò di nuovo senza sapere dov'era o chi era, ma ricordava tutto. Le scene tornarono vivide, nuove di zecca. Era come avere accesso alla memoria di qualcun altro, non era rimasto nulla della sua. Sapeva di dover fare qualcosa. Zia M era seduta al tavolo vicino alla finestra. Si avvicinò non appena vide che Agnes era sveglia. «Stai bene? Vuoi qualcosa? Ti posso preparare qualcosa?» Zia M era consapevole di agitarsi come una vecchia gallina, ma era così felice di avere di nuovo con sé la nipote. Parecchie volte lacrime erano spuntate dagli occhi di Agnes, come se qualunque cosa stesse vedendo fosse insopportabile. Zia M era stata assai tentata di svegliarla in quei momenti, pur sapendo che un simile intervento sarebbe stato pericoloso. «Sto bene». Zia M sorrise sollevata. «Be', non proprio bene». Agnes s'incupì, la mente ancora rannuvolata, i pensieri densi. «Ho bisogno che tu faccia una cosa». «Oh, che cosa?» «Ho bisogno che tu ascolti». Sua zia annuì. Capiva. Quando Agnes parlò di nuovo, fu per riferire la storia come si dispiegava, scena dopo scena. Sua zia ascoltò con aria grave, l'espressione immutabile di chi è da tempo abituato ad affidare la paro-
la parlata alla memoria. Quando Agnes ebbe finito, Zia M prese le mappe e le aprì. «Devono essere partiti più o meno da qui». Indicò con un dito tozzo il lago dalle rive frastagliate sulla mappa. «E devono aver seguito questi corsi d'acqua». Si alzò dal tavolo e cercò un pennarello in un vasetto. La punta scricchiolò mentre tracciava una spessa linea nera sulla mappa. Continuò a parlare, segnando il percorso che potevano aver seguito. Mentre Zia M parlava, Agnes lo vide, metà nel proprio mondo, metà in un altro. Partirono al tempo delle foglie che cadono. Canoe cariche di tutto ciò che avevano, tutto ciò che sarebbe servito loro per l'inverno in arrivo: cibo, vasellame, abiti, pellicce e coperte, stuoie per costruire ripari. Gli uomini lavorarono per preparare le canoe di corteccia di betulla, ricucirono i bordi con radice di abete nero e le calafatarono una a una con la resina per essere sicuri che fossero impermeabili. Rialzarono i bordi perché contenessero il carico in più e decorarono le imbarcazioni da poppa a prua, bagnando e grattando la corteccia, incidendo segni per proteggere e conservare. Dipinsero le pagaie con resina mista a tintura, poi la grattarono via per mostrare le cose che avevano visto nei loro sogni. I vecchi, i bambini, i cani e i bagagli furono sistemati al centro delle canoe. Donne e uomini presero posto davanti e dietro. Uno a prua e uno a poppa, per manovrare e guidare, due al centro per far avanzare l'imbarcazione. Le manovravano con grande abilità, sfruttando il risucchio per muoversi contro il flusso principale dell'acqua. Mentre pagaiavano cantavano, recitando le storie della tribù, dalle origini all'attuale spostamento, e ogni affondo di pagaia raccontava al fiume i loro sogni. Zia M elencò i nomi dei fiumi e delle catene montuose e Agnes vide l'acqua stringersi tra enormi rupi scoscese e trasformarsi in candidi rivoli ribollenti, rotolare sulle rocce, vorticare attorno a massi grandi come case. In alcuni punti i fiumi divennero ancora più stretti e bassi, finché non si esaurirono del tutto. Allora dovettero uscire dall'acqua e trasportare le canoe e il carico finché non ritrovarono un torrente. Il viaggio fu una serie di lampi: l'alba che impallidiva nel cielo a est, il sole che scompariva dietro gli alberi segnando l'acqua luccicante con righe di oscurità. Falò rossi che scintillavano su una lingua di terra che sporgeva su un ruscello in corsa, o sulle rive di un lago solitario dove anatre e oche si riposavano nel corso del viaggio verso sud. Uomini che cacciavano,
quasi invisibili nelle ombre della foresta. Donne che cercavano bacche, nocciole, e mettevano da parte i frutti dell'autunno per l'inverno in arrivo, proprio come fa lo scoiattolo. Agnes vide da vicino piante medicinali, si voltò per annuire e sorridere a una giovane donna che non aveva mai visto ma che sapeva essere Cerva Bianca, la giovane moglie di Naugatuck. Sentì la necessità di affrettarsi, di raccogliere nocciole, semi, foglie, radici e corteccia, prima che la terra gelasse e venisse coperta dalla neve. Vide la flottiglia dondolante seguire la corrente di fiumi grandi e piccoli finché non raggiunse un luogo dove due grandi fiumi si univano. Da lì il ritmo fu più rapido. A nord l'inverno viene presto. Viaggiarono sotto cieli azzurri, ma le foreste stavano cambiando: gli alberi sopra di loro li spruzzavano di una pioggia d'oro. Risalirono nuove montagne; i fiumi erano rapidi e selvaggi. Il gelo orlava il suolo e imbiancava i rifugi temporanei. «Direi che ci dovrebbero essere» disse Zia M piano, mentre il suo pennarello si fermava nel punto del grande spartiacque, dove una rete di fiumi cedeva il posto a un'altra. Il percorso era ripido e complicato. Fu necessario trasportare tutto, spesso facendo parecchi viaggi, finché non raggiunsero l'inizio di un altro fiume ancora. Il Winnoski. Quello era il fiume che cercavano. Correva giù diritto fino al lago. Zia M indicò il lago Champlain, una forma stretta e contorta, una macchia azzurra sulla mappa. Agnes avvertì la velocità del fiume sotto di sé. Stava intraprendendo un viaggio terrificante, da voltastomaco, verso il lago, che non si chiamava più Champlain ma Bitawbagw, la Porta del Paese. Si sentì quasi male mentre il gonfiore e il movimento delle onde faceva beccheggiare e scartare la canoa. Poi ecco che non era più nell'imbarcazione, ma si librava sempre più in alto, mentre il sole tramontava, trasformando l'acqua in un foglio rosso. Ora guardava giù, la linea sottile delle canoe che puntavano a nord: fragili e minuscole, come barchette di foglie fatte da bambini, sull'enorme distesa d'acqua. 30 Mary: Missisquoi, il Luogo della Selce Il villaggio Abenaki, che i francesi chiamavano Missisquoi, era diventato una città: la popolazione era stata di molto accresciuta dalle bande in fu-
ga, come noi, dalla guerra nel sud. Le genti indiane sono generose e tradizionalmente disponibili alla condivisione; si aiutano a vicenda nei periodi difficili. Gli Abenaki avevano teso la mano dell'amicizia a chiunque volesse afferrarla, e ora il fumo si arricciava da miriadi di fuochi di cucina e aleggiava nell'aria immobile, disteso su un accampamento estesissimo fatto di gente di molte nazioni diverse. Non riuscii a capire dove ci saremmo potuti sistemare tra quell'immensa moltitudine, ma incontrammo dei Pennacook che erano arrivati prima di noi e trovammo rifugio tra loro. C'erano altre genti, oltre ai nativi. Francesi. Li trovai molto diversi dai miei compatrioti. Bagliore di Fuoco mi chiese: «Diversi come?» Gli risposi: «Quanto i Pennacook sono diversi dagli Irochesi». I primi che incontrai si chiamavano nella loro lingua coureurs des bois. Erano trapper e mercanti di pellicce, e a prima vista avrebbero potuto essere scambiati per le genti, con le quali facevano affari. La loro pelle era bruciata dal sole e portavano i capelli lunghi. Indossavano gonnellini e pelli. Solo gli stivali e le barbe li distinguevano da quelli che definivano les sauvages. Gli indiani portavano sempre mocassini e si toglievano i peli dal viso, consideravano sgradevoli le barbe. Questi coureurs des bois erano diversi in un altro modo. Gli uomini indiani si lavano tutti i giorni, anche d'inverno, spezzando il ghiaccio dei laghi o dei fiumi, e si strofinano la pelle con la sabbia o la ghiaia, mentre molti dei mercanti puzzavano intensamente. Alcuni di loro erano ottime persone che ammiravano sinceramente, condividevano e cercavano di seguire lo stile di vita indiano. Ma altri fraintendevano ciò che vedevano, prendevano i capelli lunghi e la libertà nell'abbigliamento come scusa per lasciarsi andare a un sudiciume trasandato. Interpretavano la libertà delle ragazze nel dispensare i loro favori ai prescelti come un cedimento morale ed erano forti consumatori di liquori, che bevevano fino a ubriacarsi, incoraggiando anche gli altri a quest'abitudine. Alcuni indiani amavano bere; dicevano che intensificava le loro visioni. Qualunque cosa fosse stata vista in quel modo era falsa e priva di valore, ma questo aveva ben poco potere su chi aveva già cominciato ad apprezzare il brandy francese. Questi uomini erano diversi da tutti quelli che avevo incontrato prima, bianchi o indiani. Cambiavo cammino per evitarli, ma Ephraim ben presto ne fu incantato. Amava ascoltare i loro discorsi, quello che poteva seguire.
Si erano spinti più in là di qualunque uomo bianco nel cuore profondo del continente e parlavano a lungo di ciò che avevano trovato laggiù: laghi grandi come mari, cascate tonanti, illimitate praterie e grandi fiumi che, dicevano loro, portavano fino all'oceano dell'ovest. Fin da allora Ephraim fu preso nel profondo dal desiderio di diventare uno di loro. Non gli impedivo di andare al loro accampamento ma questo voleva dire che a volte dovevo andare a cercarlo. Fu in una di queste circostanze che incontrai per la prima volta quello che chiamavano Le Frenais. Trovai Ephraim giù vicino al lago, seduto fuori da una delle stamberghe dove bevevano. Lo chiamai e lui si alzò obbediente; poi uno di loro avanzò barcollando verso di noi. Era un nuovo arrivato, e celebrava il suo ritorno dal mondo selvaggio, come facevano molti, bevendo troppo e comportandosi liberamente con qualunque donna gli capitasse a tiro. «Chi sei?» «Chi sei?» gli chiesi in risposta. Vacillò, sorpreso dalla mia insolenza. «Vieni qui, selvaggia...» Fece per afferrarmi ma fu trattenuto da uno dei suoi compagni. Gli uomini attorno a lui erano di tribù diverse. C'erano alcuni del New England tra i francesi e gli Abenaki. «È yenghese». L'uomo che lo tratteneva per il braccio parlava algonquin e sembrava uno del sud. Pocumtuk, forse, o Nashua. «Viaggia con una banda di Pennacook». «Prigioniera?» Si scrollò di dosso la mano dell'indiano e si rivolse a me. «Non sono prigioniera». Parlai nella lingua comune. Non sapevo il francese, allora. «Chi è il tuo padrone? Quanto vuole per te? Prenderei te e il ragazzo insieme. Può farmi comodo una donna come te. Anche il ragazzo. Gli inglesi pagano bene per la restituzione dei prigionieri». «Non sono prigioniera» ripetei. «E nemmeno il ragazzo. Non abbiamo un prezzo». «Io sono ricco». Barcollò davanti a me. «Pelli, fucili, oro». «Niente. Ho detto». «Così costa meno». Rise e sogghignò e fece per afferrarmi, come era abituato a fare con le altre donne. Lo spinsi via. Era così ubriaco che perse l'equilibrio. Scivolò nel fango e cadde sul sedere ossuto, le ginocchia nodose piegate come
quelle di un vitello; il gonnellino scivolò da una parte a mostrare la lunghezza delle sue bianche cosce magre. La caduta suscitò molte risate tra i suoi compagni. Non fecero nemmeno il gesto di aiutarlo mentre cercava di alzarsi e non riusciva a trovare un appiglio. Più sprofondava nel fango, più ridevano, finché lui non cominciò a imprecare, anche contro di me. Lo guardai dall'alto in basso. «Attento a chi maledici» dissi in inglese. «Se non vuoi che il male ti torni indietro triplicato». Dentro di me lo vedevo come un maiale. Fece per alzarsi ma lo spinsi di nuovo a quattro zampe, costringendolo a rivoltarsi e grugnire sul terreno sporco. Tutto attorno a lui le risate raddoppiarono, fino alle lacrime. Quando fece per rialzarsi, lo vidi come un cane. Si levò sulle zampe di dietro, le mani piegate come zampe, e se ne uscì con una serie di latrati e poi una scarica di uggiolii acuti. Sconvolto, mi guardò, mentre nei suoi occhi i fumi dell'alcol lasciavano il posto a vero e proprio panico. Si guardò intorno, gli occhi sgranati, cercando aiuto. Gli altri arretrarono. L'allegria attorno a lui si spense e tutti mi fissarono. Sentii dire 'jongleuse', la loro parola per indicare una strega, anche se allora non ne conoscevo il significato. Nessuno dei nativi mi volle guardare negli occhi, e uno si fece il segno della croce. Feci rivoltare Le Frenais di nuovo sulla schiena e permisi che uno del suo gruppo lo aiutasse a rimettersi in piedi. Se ne andò barcollando, sostenuto dai suoi amici, e io tornai al mio fuoco. Questo incontro mi turbò. Sapevo che mi ero fatta un nemico, ma Le Frenais uscì dai miei pensieri via via che l'inverno serrava la sua morsa. C'erano troppe persone tutte ammassate. La malattia assediava l'accampamento, colpiva allo stesso modo nativi e bianchi. Io ero una guaritrice, e le mie capacità erano richieste. Uno dei primi a soffrirne fu il prete. L'Abito Nero. Era un gesuita, un membro della Compagnia di Gesù la cui missione era convertire i pagani. Prendevano il nome dalle lunghe tonache nere e dai mantelli col cappuccio che portavano. Astemi e celibi, schizzinosi nelle loro abitudini, devoti fino al martirio, questi francesi erano diversi da Le Frenais e dalla sua razza come un orso è diverso da un lupo. Quest'uomo era arrivato in canoa da Mount Royale, risalendo il lago a fatica con il suo mondo legato sulla schiena. Aveva allestito altare e tabernacolo per servire coloro che erano già di fede cattolica, nella speranza di convertire gli altri. Aveva costruito una piccola cappella, che si distingueva dalle altre costruzioni per due bastoni uniti a formare una croce.
Non so quante anime avesse salvato, ma veniva tollerato. Aveva più successo di quelli che avevano cercato di diffondere la loro fede in Inghilterra. La nonna mi aveva raccontato della sorte di un gesuita rifugiatosi in un maniero locale. Quando era stato scoperto, era stato trascinato fuori dal suo nascondiglio e impiccato. Io lo evitavo. Avevo le mie ragioni per non apprezzare i preti di qualunque colore. Ma Cerva Bianca aveva parenti tra gli Abenaki e alcuni di loro erano di fede cattolica. Vennero da me perché disperavano per la sua vita. Era ammalato e non consentiva loro di curarlo, non voleva mangiare il cibo che gli portavano. Temeva la stregoneria, senza dubbio, ma volevano dargli semplicemente un decotto di erbe. Erano convinti che a me avrebbe dato retta visto che ero yenghese e venivo dall'altra parte del mare. Non condividevo questa loro sicurezza; tuttavia accettai di andare a trovarlo. Seduto su un rozzo giaciglio, scriveva e faceva schizzi in un libriccino che teneva sempre con sé. Aveva da poco lasciato la Francia, a quel che si diceva. Da quando era arrivato qui, si era fatto crescere la barba nel tentativo di acquistare un aspetto severo, ma quella peluria mascherava ben poco la sua giovinezza. Giudicai che non avesse ancora trent'anni ed era bello, anche se il pallore della malattia aveva reso la sua pelle simile a pergamena. I suoi occhi marroni erano affossati in grigie occhiaie, ma scintillarono luminosi quando mi videro. Attribuii questo alla febbre che gli consumava il corpo, senza capire lo zelo che alimentava la sua missione. Gli dissi chi ero e perché ero venuta. «Ho sentito parlare di te». Si puntellò su un gomito e mi rivolse uno sguardo frammisto di curiosità e perplessità. Parlò in inglese, ma lentamente, come se ciascuna parola venisse richiamata da un lontano ricordo. Anche se la sua casa era fatta di corteccia al modo degli Abenaki, era piena di mobili venuti dalla Francia. Un tavolo, uno scrigno intagliato, una ciotola di metallo e calici per bere, una tovaglia da altare coperta di fitti ricami. Rimasi in piedi un attimo e mi guardai intorno. Non vedevo cose del genere da molto tempo; erano familiari, eppure estranee alla mia vista. L'effetto era curioso, come se un mondo fosse avvolto nell'altro. «Mi dicono che sei malato». Mi avvicinai a lui mentre si rimetteva disteso nel letto. «Mi curo da solo». Indicò la lancetta e la ciotola sul tavolo. Indeboliva ancora di più il suo corpo con i salassi.
«Direi piuttosto che ti stai uccidendo. Sarebbe meglio che prendessi i rimedi che ti portano le donne». «Non credo nei loro rimedi e non ho appetito per il loro cibo. Mi disgusta». «I loro rimedi sono eccelsi quanto quelli che potresti trovare a Parigi. Quanto al cibo, te lo preparerò io, se prometti di mangiarlo». Curai la sua malattia e preparai il cibo per lui. Si chiamava Luc Duval. Veniva dalla Normandia ed era di famiglia ricca, ma aveva sempre desiderato unirsi alla chiesa. Aveva trovato la sua vocazione grazie a un suo tutore gesuita. Quell'uomo aveva trascorso un periodo in Inghilterra come missionario cattolico. Da lui Luc aveva imparato l'inglese ed era avido di impararne ancora; in cambio mi insegnò un po' di francese. Era anche desideroso di imparare la lingua comune delle tribù. Ci confondevamo nello sforzo di cercare un significato insieme, a volte parlando in tre lingue contemporaneamente, ma via via che il tempo passava diventammo più abili e ci trovammo più a nostro agio. Mentre gli tornavano le forze, gli tornava la curiosità. Voleva sapere della mia vita e di come ero arrivata lì. Voleva sapere come ero finita tra i selvaggi. «Io non li considero selvaggi» risposi. «Ho sentito molto parlare della loro barbarie, dei loro riti e della loro crudeltà». «I nostri riti possono sembrare strani ad altri occhi. Non credono nel battesimo». «Perché? È la loro via per la salvezza». «Lo chiamano magia d'acqua, e lo collegano alla morte, perché è allora che vedono il rito celebrato più spesso». Si accigliò, incapace di accettare un simile fraintendimento. «E la loro crudeltà?» Lo guardai. Chi eravamo per parlare di crudeltà? Com'era possibile che fossero più crudeli di noi con noi stessi e con i nostri nemici? Proprio in quel momento la testa di Metacom si decomponeva in cima a un bastone a Plymouth. Nel suo paese o nel mio, quanti avevano patito? Quanti erano morti? Abbattuti per le strade, bruciati sul rogo, impiccati, trascinati e squartati, messi alla ruota e torturati, marchiati col ferro incandescente, flagellati con le fruste? «La ferocia è dovunque» dissi. «Vivono nello squallore. Come hai potuto scegliere di vivere con loro?»
«Non la penso così». «La scomodità, il fumo...» Risi, ricordando il cottage di mia nonna con una sola stanza e un letto per due. «Non sono di origini elevate come te. La mia casa aveva poche comodità ed era tutt'altro che libera dal fumo. Perché sei venuto qui, se trovi questa vita così poco adatta a te?» «Sono venuto perché era mio dovere» disse semplicemente. «Non ho paura di morire. Seguo le orme dei martiri. Prendo come esempio Padre Jogues, che fu ucciso dagli Irochesi, e Padre Gerard, il mio superiore, che soffrì moltissimo a opera di una banda di Mohawk. Solo dal tormento può venire la vera gloria. Solo attraverso la sofferenza possiamo conoscere il dolore di Cristo sulla croce». Non avevo risposte a questo. Ciò che stava dicendo era di gran lunga estraneo a qualunque convinzione avessi incontrato tra gli indiani. Non c'era da stupirsi che trattassero gli Abiti Neri con sospetto. La guarigione gli restituì il suo fervore. «Sono venuto a battezzare, a salvare le anime, a portarle a Dio, ma dappertutto incontro resistenza, anche se la Chiesa è salvezza. La strada per il paradiso!» Cercai di spiegare che il paradiso cristiano voleva dire lasciare parenti e compagni, non solo su questa terra, ma per l'eternità. Non capiva quanto potesse essere solitario questo cammino, perché dopo la morte quasi tutti volessero scegliere di prendere la lunga strada per l'ovest. «Faccio lenti progressi. È vero. Forse non riescono a capire il mio messaggio». All'improvviso mi guardò. «Ma tu...» Il suo sguardo era timido, ma non celava il brillio del fuoco nei suoi occhi. Ero perduta come chiunque egli giudicasse pagano. Era un fanatico, convinto fino al midollo della sua rettitudine quanto il reverendo Johnson, o Cornwell, o chiunque altro dei puritani che avevo conosciuto. Non avevo alcuna intenzione di scambiare una tirannia con un'altra. «Non sono della tua religione, né lo sarò mai. Con me sprechi le tue energie». Da allora non fui più così disinvolta in sua compagnia; ma più lo evitavo, più lui mi cercava. Un giorno mi sorprese vicino al lago. «Mary, devo parlarti». «Cosa c'è?» «Perché non vieni più da me?» «Ti sei ristabilito. Non hai più bisogno di me».
«Credevo che fossimo amici». «Gli amici non cercano di guardare l'uno nell'anima dell'altro». «Anche se temono che vada perduto qualcosa per cui nutrono un grande rispetto?» «Che cosa vuoi dire?» «Tu porti il nome della Madre Santa. Perché vuoi negare il suo nome e prenderne un altro? Non è solo che sei protestante; temo che tu sia caduta in un errore più profondo. So che sei rispettata tra questa gente, ma credevo che fossi onorata per le tue capacità di guaritrice. Ma ora ho saputo che c'è di più. Ti considerano una sciamana, una strega. Anche i francesi qui condividono questa convinzione. Proprio oggi uno dei coureurs des bois è venuto a chiedermi di ascoltare la sua confessione e di togliergli una maledizione che tu gli avresti inflitto». Voleva dire Le Frenais. Nella vita si teneva alla larga da me, ma nei sogni aveva cominciato a perseguitarmi. «Una cosa del genere è ripugnante». Il viso di Duval si contorse in una rapida ondata di disgusto. «Terribile». «Allora non ascoltare». «Non lo neghi?» Mi guardò con orrore. «Che cosa c'è da negare? Quello che credo sono affari miei». «Pregherò per te». «Non sarai il primo». «Vedo che la preghiera non basterà». La tristezza nel suo sguardo non estinse lo zelo. Nonostante la sua giovinezza, la sua convinzione era assoluta e il suo impegno d'acciaio. «Non lo permetterò. Ti salverò. Ti istruirò...» Non volevo essere salvata. Volevo stargli lontana. Una volta avevo trovato la sua compagnia stimolante, ma ora mi turbava. I miei sogni erano pieni di disagio. A volte Le Frenais fuggiva da me in un campo di un candore terribile. A volte un grande uccello volava sopra di me, sovrastandomi con la sua ombra, oscurando tutto quanto. A volte il mio sentiero era denso di nebbia e sbarrato da un'enorme palizzata di picche alte parecchi piedi. Chiesi a Bagliore di Fuoco come interpretava questi sogni, ma era irritabile, inquieto. Soffriva molto e fu ulteriormente indebolito dal dolore per una vecchia frattura nella coscia destra, dove le ossa non si erano saldate bene. Pensai che sarei stata più al sicuro in mezzo alla natura selvaggia. Medi-
tai di accompagnare Volpe Nera e Naugatuck nella caccia d'inverno, ma non c'è modo di cambiare il destino. Era chiaro che Bagliore di Fuoco non avrebbe potuto affrontare un inverno della foresta. La gamba malandata lo avrebbe reso più di peso che d'aiuto, e inoltre la sua gente aveva bisogno di lui qui. Poi Cerva Bianca venne da me con aria timida e mi disse che aspettava un bambino. Nonostante i miei dubbi, avrei dovuto mettere da parte le mie paure e pensare alle altre persone, ma quando Volpe Nera e Naugatuck andarono al loro accampamento invernale, li supplicai di portare Ephraim con loro. Non volevo che si ficcasse nei guai o che prendesse brutte abitudini. Andava ancora a trovare i mercanti francesi, contro il mio divieto. Molti di loro cercavano nell'alcol una facile via di fuga dalla pigrizia e dalla noia dell'inverno. Sarebbero stati contenti che Ephraim si unisse a loro, anche se era solo un ragazzo. Cercai di evitare i guai. Stavo sulle mie, ben lontano dalla cappella coperta di corteccia e dai fetidi tuguri in riva al lago, ma un pomeriggio, vicino al tempo dei giorni più brevi, quando la notte scende presto, i miei passi mi portarono vicino alla spiaggia. La sagoma di un uomo si stagliò nell'oscurità che andava addensandosi e all'improvviso Le Frenais era lì. Feci per aggirarlo, ma mi bloccò il cammino. Sentii l'alcol nel suo respiro e i suoi occhi azzurri stentavano a mettermi a fuoco, ma si muoveva in fretta per un uomo divorato dal bere. «Toccami e sarà la tua fine». Sogghignò rivolto a me, mostrando denti marroni e spezzati. «Ti darò una lezione. Vieni qui, strega!» Capii dai suoi occhi che cosa intendeva, e che ci stava pensando da un po'. Era una creatura debole e disprezzabile, ma era un uomo, e conosceva il modo migliore per vendicarsi di una donna. Non c'era nessuno che mi potesse aiutare nei dintorni; anche se ci fosse stato, dubito che qualcuno sarebbe venuto in mio aiuto. Scivolai via dalla sua presa e fuggii, ben sapendo che cos'avrebbe fatto se mi avesse presa. Corsi verso il lago che ora era un campo di ghiaccio, spesso parecchi piedi. La notte scendeva, e con lei la neve, un grosso banco grigio soffiava giù dalla cima del lago con stupefacente rapidità. Era quasi come se Hobbomock, oscuro spirito delle acque profonde della notte, del vento di nordovest, stesse calando verso di noi in una grande tempesta di neve. Ben presto il biancore vorticò attorno a noi, facendo girare il mondo, riducendolo a nulla. La paura che avevo di Le Frenais andò smarrita nella necessità di trovare riparo. Tempeste come quella lasciano il mondo privo
di contorni; è facile perdere ogni senso dell'orientamento e morire a pochi metri da un riparo sicuro. Inciampai in una canoa rovesciata sulla riva e mi nascosi sotto di essa. Aspettai lì che la tempesta calasse. Quando riemersi, scoprii che terra e acqua erano indistinguibili sotto uno spesso mantello di neve. Non c'era traccia di Le Frenais, nessun segno di nessuno, mentre tornavo a casa. Le Frenais era sparito. Alcuni dissero che aveva preso una slitta ed era andato a caccia, ma la sua attrezzatura era ancora nella sua capanna. Non fu pianto a lungo, ma la sua scomparsa era un mistero. Alcuni dissero che era stato visto strillare e urlare sul ghiaccio, in fuga da una sagoma oscura che lo inseguiva. Per un po' se ne parlò, ma l'inverno serrò la sua morsa e ciascuno pensò alla propria sopravvivenza. Le Frenais fu ben presto dimenticato. I pescatori lo trovarono al tempo del disgelo, che galleggiava tra i blocchi di ghiaccio. Lo riconobbero dalla croce che aveva cominciato a portare al collo, quella che gli aveva dato l'Abito Nero. Lo portarono su alla chiesa perché l'Abito Nero lo seppellisse e mettesse i bastoni a croce sopra di lui, ma la piccola cappella di corteccia era deserta. Duval di recente era stato richiamato a Mount Royale, così fecero il meglio che potevano. 31 Mount Royale Non avevo mai atteso con tanta avidità il ritorno della primavera, anche se il primo dono del ghiaccio che si spezzava sul lago era stato il corpo gonfio e mangiucchiato dai pesci di Le Frenais. Forse avrei dovuto prenderlo come un presagio, ma non lo feci. Distolsi la mente da quel pensiero, invece. La nuova stagione avrebbe riportato i cacciatori all'accampamento. Una caccia invernale reca in sé molti pericoli e non avevamo avuto notizie da quando ci avevano lasciato. Bagliore di Fuoco e io vigilavamo ogni giorno, e ciascuno di noi cercava di nascondere all'altro il proprio timore. Poi, in un giorno tiepido che preannunciava l'estate, un messaggero risalì la riva del lago. Erano state avvistate delle canoe. Ci affrettammo a correre al molo, e questa volta non fummo delusi. Volpe Nera e Naugatuck stavano per attraccare sani e salvi, la canoa così carica di pelli che non c'era quasi posto per Ephraim. Il mio cuore si gonfiò alla loro vista. Erano magri
dopo un inverno nelle foreste del nord, ed Ephraim aveva l'aria di chi ha bisogno di una bella strigliata, ma erano salvi e per questo io resi grazie. Era andata bene; il loro bottino fu ammirato da tutti. Mettemmo insieme quello che era rimasto dall'inverno e li festeggiammo con un banchetto che durò fino a notte fonda, ascoltando le loro storie, bevendo la loro presenza. Volpe Nera e Naugatuck furono modesti di fronte all'ammirazione generale e pieni di lodi per la parte giocata da Ephraim nella caccia. I due giovani uomini risero mentre Ephraim ricominciava a raccontare daccapo, sostenendo che se non fosse stato per lui sarebbero tornati a mani vuote. Mi regalò una collana di artigli di un orso che giurò di aver ucciso con le sue mani. Allora Volpe Nera smise di ridere e disse che era vero; Ephraim si era dimostrato un cacciatore coraggioso e intrepido. Lo chiamavano Lince per i suoi capelli variegati e il suo modo furtivo di muoversi nella foresta. Volpe Nera parlò con orgoglio, e la contentezza riempì il mio cuore nel vederli insieme. Ora erano davvero fratelli, mostravano l'assoluta fiducia e la profonda intimità che nascono quando si dipende l'uno dall'altro per la sopravvivenza. La loro sollecitudine reciproca mi fece assai più piacere della quantità di pelli di castoro. Erano tornati con molte pelli da vendere, ma ben presto appresero che non ci si doveva fidare dei commercianti di Missisquoi. Avevano sentito dire che avrebbero ottenuto un prezzo migliore se avessero portato le loro pelli a Mount Royale. Io acconsentii ad andare con loro, perché anche là i mercanti avrebbero potuto cercare di imbrogliarli. Capivo la lingua e i segni fatti sulla carta. Avevano bisogno di me e io fui felice di andare. Fu un sollievo abbandonare il sovraffollato accampamento invernale, che il disgelo di primavera stava trasformando rapidamente in un fetido mare di fango. Lasciammo Bagliore di Fuoco, Cerva Bianca e il resto della sua banda a levare le tende. Era già stato deciso che, una volta che le pellicce fossero state vendute, saremmo tornati con le vettovaglie ottenute in cambio e saremmo partiti per la terra natale dei Pennacook nel sud. Alcuni non avrebbero intrapreso quel viaggio. Avevano già deciso di restare con gli Abenaki. Bagliore di Fuoco si tormentò a lungo per questo, ma erano tutti liberi di scegliere, e lui era deciso a tornare indietro. Andammo in canoa, seguendo i corsi d'acqua, finché non giungemmo alla città che i francesi stavano costruendo tra il fiume e la montagna. Era diversa da qualunque città avessi visto. Era circondata da una robusta palizzata, come se ci si aspettasse un attacco da un momento all'altro e anche
se gran parte delle costruzioni all'interno erano di legno, alcune erano di pietra, e rendevano la città ancora più simile a una fortezza. Le minacce dall'esterno erano reali. La città era soggetta agli attacchi degli Irochesi e i soldati vegliavano di continuo. Gli abitanti erano altrettanto preparati agli attacchi di tipo spirituale. Un'enorme croce di legno guardava giù dalla china della montagna e stavano sorgendo chiese vicino al porto e lungo le strade appena tracciate. Monache e preti si mescolavano con indiani di molte nazioni diverse. A parte le monache, c'erano poche donne in circolazione, e ancora meno bambini. Sembrava una città fatta di uomini. I commercianti di pelli avevano i depositi giù vicino al fiume ed erano imbroglioni quanto quelli di Missisquoi. I beni che ci offrirono in cambio erano esigui e non comprendevano fucili, munizioni e polvere. Il commerciante levò in alto le braccia, con un sorriso beffardo e sprezzante, facendo segno che servivano molte più pelli. Volpe Nera e Naugatuck lo squadrarono con espressione indecifrabile. Avevano già messo braccia di distanza tra lui e loro. Guardai quei due giovani uomini eretti, alti, le belle facce perfette, insultati da un sudicio, meschino, deforme relitto umano alto a stento la metà di loro e quasi privo di denti. Il suo alito sapeva di brandy mescolato a odor di tomba. Avevano rischiato la vita per quelle pelli e non avevo intenzione di vederli imbrogliati. Feci un passo avanti e mi rivolsi a lui in francese. «E adesso fanno parlare le donne?» Si voltò come rivolto a una platea, poi zoppicò in avanti, osservando il mio viso. «Ma tu non sei una di loro, vero?» Tese una sudicia zampa coperta da un mezzo guanto verso di me, e mi toccò il seno. Si voltò verso Naugatuck. «Quanto?» «Troppo per te, Devois». Un francese che ci aveva osservati si fece avanti. I suoi movimenti erano lenti, quasi felini nella loro pigrizia. Non era vestito per i boschi selvaggi, e non lo giudicai un soldato, anche se portava sciabola e pistola. Era vestito di velluto e pizzo e aveva un gioiello all'orecchio. I suoi capelli pendevano in boccoli cosparsi di olio e la sua barba corta era tagliata con cura. Quando si avvicinò, colsi l'aroma speziato del suo profumo. Mi guardò e sorrise. «Tu devi venire con me». Anche se non aveva l'aspetto di un soldato, era accompagnato da soldati. Fece loro un cenno, e in due si fecero avanti, i fucili spianati. Naugatuck e Volpe Nera s'irrigidirono, le loro mani corsero alle armi. Erano pronti a
lottare, ma io li dissuasi scuotendo il capo. Erano in un luogo pieno di nemici: soldati e commercianti, indiani di nazioni diverse. Rischiavano di perdere tutto, compresa la vita. Volpe Nera tremava in tutti i muscoli, ma alla fine tolse la mano dall'impugnatura del coltello. «Ragazzo ragionevole». L'uomo sorrise; i suoi occhi erano di uno scuro, nebuloso azzurro. Contenevano uno scintillio fugace di divertimento, ma erano freddi come pietre. «Ora, per conto mio, non vorrei proprio vedervi imbrogliati». Levò un dito verso il mercante, e le vettovaglie raddoppiarono e raddoppiarono ancora. Ora comprendevano i preziosi moschetti. Quando fu soddisfatto, fece cenno che l'affare era concluso. «Portate via tutto prima che cambi idea». Naugatuck e Volpe Nera rimasero immobili. Avevano ottenuto le vettovaglie, ma sarebbe stato vergognoso prenderle. «Ora. O non avrete nulla». Volpe Nera avrebbe rifiutato, ma gli feci cenno di prendere le cose offerte. Non era un imbroglio. Avevano fatto uno scambio alla pari. Ora quelle cose appartenevano a loro. «È tutto tuo». Si rivolse a Naugatuck. «Capisci?» Naugatuck inclinò il capo. «Questa no». Posò la mano sulla mia spalla. «Tu devi venire con me. Anche il ragazzo». Si guardò attorno, ma Ephraim aveva imparato molto nel periodo trascorso nella foresta. Poteva andare e venire in silenzio come qualunque ragazzo indiano, e non c'era da nessuna parte. «Non importa, lo troveremo più tardi. Petit sauvage con i capelli come un angelo, non possiamo certo perderlo, vero? Ora, madame, se siete pronta...» Il suo tono era gentile e insieme minaccioso. Era chiaro che ero prigioniera. I soldati ci scortarono, davanti e dietro. Volpe Nera balzò in avanti, Naugatuck con lui, ma i soldati incrociarono i moschetti e li respinsero. Gridai a Volpe Nera, gli ordinai di lasciar perdere. Non volevo vedere il cervello di mio figlio sparso davanti a me. Naugatuck era un bel giovane uomo, il figlio del mio amico, e la sua graziosa giovane moglie portava suo figlio in grembo. Non volevo che il suo sangue fosse versato per me. Dovevo andare con i francesi, non c'era via d'uscita.
32 Le Grand Il nome del mio padrone era Le Grand, ma questo fu tutto ciò che mi disse. Non mi fornì altre informazioni, su se stesso o sul motivo per cui ero stata catturata. Fui condotta in una stanza; una ragazza Hurone portò del cibo, e dell'acqua per lavarmi, ma quando uscì chiuse la porta a chiave. Andai alla finestra. Non c'era modo di calarsi e i soldati facevano la guardia davanti alla casa. Ero prigioniera. Fuggire non sarebbe stato facile. Quella notte dormii tra lenzuola per la prima volta in diciassette anni, ma sognai la foresta. Ero di nuovo una ragazza, e Penna Azzurra mi rincorreva. Lo sentivo chiamarmi e sentivo la sua risata echeggiare mentre fuggivo da lui. Mi stava raggiungendo; lo sentivo avvicinarsi sempre di più. Rallentai deliberatamente perché mi prendesse, voltandomi rapida, piena di trepida aspettativa, ma lui si limitò a sorridere e se ne andò. Ora ero io a inseguirlo, ma era fuori dalla portata della mia vista. Arrivai a una caverna ed entrai, pensando che avrei potuto trovarlo lì, e seguii un labirinto di tunnel che si dipanava finché non mi persi nel tracciato. Al centro sedeva Aquila Bianca nella sua Camera delle Visioni. Alzò gli occhi dal fuoco che ardeva vicino a lui. Si alzò quando mi vide, e la sua ombra diventò un uccello mostruoso sulla parete alle sue spalle, con le ali spiegate come un uccello di tuono. Arretrai e avvertii l'ombra di enormi ali sopra di me. Credetti di vedere un'aquila, ma le penne del manto erano di un nero polveroso e lacere come quelle del corvo. Lottai e mi agitai, ma enormi unghie coperte di scaglie, artigli affilati come rasoi mi immobilizzavano e l'enorme uccello si accovacciò su di me come un corvo si sistema su una carcassa. Il lungo becco mi colpì, lacerando il mio abito di pelle di cervo, tentando di strapparmi il cuore dal petto. Mi svegliai coperta di sudore, senza capire dov'ero. In una stanza, in una casa: la sola idea mi era estranea dopo aver dormito per tanti anni sotto cortecce e stuoie. Giacqui fissando il legno compatto del soffitto. Un fuoco brillava nel focolare. Mi alzai alla sua luce, decisa a vestirmi, e scoprii che i miei abiti erano stati portati via mentre dormivo. Quando la ragazza Hurone tornò nella mia stanza, le parlai nella lingua comune. Non sapevo se potevo fidarmi di lei, ma le chiesi di avvertire
Volpe Nera. Volevo che gli dicesse dove mi trovavo, che ero sotto stretta sorveglianza ma non ero stata oltraggiata né ferita: non ancora. Non rispose, ma annuì come se avesse capito. Non dissi di più, non sapendo quanto potevo contare su di lei, ma avevo detto abbastanza perché mio figlio capisse che non potevo fuggire facilmente da sola e che qualunque genere di attacco diretto era inutile. Non potevo far altro che aspettare e raccogliere tutte le informazioni possibili dal francese. A parte questo, dovevo affidarmi a Volpe Nera perché trovasse una soluzione. Il pensiero di mio figlio mi confortò, perché era molto abile ed era astuto quanto il suo nome. Se qualcuno poteva tirarmi fuori di lì, era lui. La ragazza Hurone mi riempì una vasca e dispose dei teli perché mi asciugassi, poi se ne andò. Fare un bagno caldo era un lusso enorme, e devo ammettere che indugiai a lungo nell'acqua profumata. Tornò con degli abiti per me: un vestito con la gonna ampia e le sottogonne, le maniche a spicchi e un corpetto aderente. Gli abiti europei erano strani e opprimenti sul mio corpo, ma dovevo tenermeli o andare nuda. I miei mocassini erano stati portati via con i miei abiti, ma preferii andare scalza piuttosto che strizzare i miei piedi in quelle scarpe. Passai la giornata da sola, chiusa a chiave nella mia stanza. Poi, verso sera, la ragazza tornò. Era venuta per condurmi dal suo padrone, ma portava anche un messaggio da Volpe Nera. Mi disse che Naugatuck era tornato a Missisquoi, ma Volpe Nera ed Ephraim erano nei dintorni. Stavano nascosti. Gli uomini di Le Grand cercavano Ephraim e correva voce che Le Grand offrisse una taglia su di lui. «Tuo figlio ha detto 'Non preoccuparti, non lo troveranno'. Ha detto anche...» Aggrottò la fronte, come sforzandosi di ricordare qualcosa che non aveva capito. «Ha detto di ricordare Coos e la caccia d'autunno». Allora era un ragazzo di nove o dieci anni. Coos gli aveva proibito di unirsi alla sua battuta di caccia, dicendo che la sua mancanza di esperienza avrebbe fatto fuggire gli animali. Volpe Nera li aveva seguiti comunque, strisciando nel loro accampamento, e aveva preso non solo le pelli più belle ma anche il coltello da frecce di Coos. Il suo comportamento furtivo era diventato leggendario. Sorrisi al ricordo, ma ero sconvolta dalla preoccupazione. Questa casa era una fortezza, e penetrarvi poteva dimostrarsi troppo perfino per Volpe Nera. La ragazza Hurone disse che avrebbe scoperto dell'altro quella sera, ma era ansiosa di non far aspettare il suo padrone. Mi portò alla sua presenza tenendo lo sguardo incollato a terra.
Monsieur le Grand - Jean Le Grand - era seduto all'estremità di un lungo tavolo in un'ampia stanza illuminata da molte candele. La luce brillava calda sul legno lucido e traeva riflessi dal vetro, dall'ottone e dall'argento. Le pareti erano coperte di arazzi dai ricchi colori. Non avevo mai visto un simile lusso, né pensato che esistesse in una qualunque di queste colonie tagliate con l'accetta. Mi invitò a cenare con lui. Mangiammo con stoviglie di cui non avevo mai visto il pari e bevemmo da bicchieri finissimi, ma trovai il cibo non di mio gusto, troppo salato e troppo raffinato insieme, e il vino mi stordì. «Non resterò qui. Non puoi costringermi». Allargò le mani coperte di anelli. «Scoprirai che posso». «Chi sei?» «Sono un mercante, un commerciante, un imprenditore, anche se i tuoi compatrioti mi danno altri nomi. Loro mi chiamano corsaro». «Un bucaniere?» Fece una smorfia, come se trovasse il termine offensivo. «Agisco per conto della Francia, ma sono noto per aver fermato navi fuori dal porto di Boston e deviato i loro carichi altrove». Si abbandonò sulla sedia. «Tu sei mia ospite qui finché il tuo destino non verrà deciso. Il governatore è molto interessato alla tua presenza. È stato lui a chiedermi di cercarti e di trattenerti qui». «Come facevi a sapere di me?» «Ti stavamo cercando. Anche il ragazzo. Un certo capitano Peterson è venuto a Québec a chiedere se c'erano dei prigionieri tra le bande che fuggivano da sud. Vedo che conosci il suo nome». Mi stava osservando attentamente. Non vidi ragione di negarlo. «Ha chiesto in particolare notizie di una donna e un ragazzo che viaggiavano insieme ma non erano legati da vincoli di sangue». «E perché?» Le Grand mi rivolse un mezzo sorriso. «Sembrava convinto che il ragazzo fosse in pericolo». «Come potrebbe?» Fissai Le Grand, allibita. «Non gli farei del male come non lo farei a mio figlio». «Proprio così. Tuo figlio è sauvage. Ti sei accoppiata con loro e hai assunto i loro usi pagani, così dice Peterson. È un uomo retto e teme per l'anima del ragazzo. È assai ansioso di allontanarlo da un simile stile di vita e restituirlo ai suoi parenti». «Il ragazzo non ha parenti».
«Non è quello che dice Peterson. C'è uno zio a Rhode Island, desideroso di rintracciarlo. Offre una ricca ricompensa». Sorrise. «La preoccupazione di Peterson non finisce col ragazzo. La sua ansia si estende anche a te. È un'offesa per lui - per tutti gli inglesi - che tu debba vivere come fai». «Che cosa vuole da me?» «Vuole il tuo ritorno. Che cos'abbia in mente per te poi, non sta a me dirlo». Le Grand rise. «Non essere così preoccupata. Sei in territorio francese, e i capitani inglesi non hanno alcuna autorità. Il tuo destino non è stato ancora deciso». Nonostante le sue parole, la mia mente correva rapida. Se fossi stata riportata indietro, quanto tempo sarebbe passato prima che tutta quanta la mia storia venisse scoperta? La colonia era un posto piccolo. Qualcuno avrebbe certo saputo della mia fuga da Beulah, delle sue ragioni, e del sospetto da cui ero stata colpita. Come mi avrebbero giudicata, ora che per di più vivevo con i selvaggi? Rimasi seduta, persa nei miei pensieri. Una serva entrò e mormorò qualcosa all'orecchio di Le Grand. Lui annuì in fretta, come se fosse quella la notizia che stava aspettando. La serva si ritirò e Le Grand si rivolse a me. «C'è qualcuno che vuole parlare con te. Padre Gerard». «Un Abito Nero?» «Preferirebbe essere chiamato gesuita. È a capo dell'ordine, qui. Vuole convertirti». Mi guardò senza battere ciglio. «Secondo me avrebbe più fortuna se cercasse di convertire le bestie selvatiche della foresta, senza badare ai selvaggi, ma questi gesuiti sono ostinati. Eccone un altro che vuole salvare la tua anima immortale. Consideralo un onore, Mary. Vieni. Sta aspettando in biblioteca». Si alzò dal suo posto e mi fece segno di seguirlo. Entrammo in una stanza foderata di scaffali di libri rilegati in cuoio e arredata con tavoli per lo studio. Un prete sedeva vicino al fuoco che ardeva alto nel grande camino di pietra. I ciocchi che bruciavano emanavano un gran calore, ma lui si curvava in avanti come se ne fosse avido e ne volesse di più. La sua sedia era disposta abbastanza vicina perché la gonna del suo abito si bruciasse. Aveva i capelli grigi e la barba, e il viso tirato era inciso da profonde rughe, come scolpite da una lunga sofferenza cronica. Non sembrava sofferente in quel momento, anche se non si alzò a salutarmi. Teneva un grosso bastone vicino al fianco. Le sue mani erano posate sui braccioli della poltrona: una nascosta nell'abito e chiusa a pugno, l'altra penzoloni, carica di anelli che scintillavano alla luce del fuoco.
«Sono Padre Gerard». Mi fece cenno di sedere di fronte a lui. Ora sapevo la ragione del dolore inciso nel suo volto. Gli mancavano tutte le dita della mano sinistra. Quello che avevo scambiato per un pugno era una nocca coperta di pelle rosea e grinzosa. Avevo già visto quella mutilazione, effetto della tortura in uso tra gli Irochesi. Ogni dito era stato segato via usando l'orlo affilato di una conchiglia. Ci voleva un uomo molto coraggioso per sopportare quella prova senza urlare. Guardai il gesuita con nuovo rispetto. Doveva essere rimasto in silenzio, altrimenti non sarebbe stato con noi ora. «Ti aspettavo, Mary». Pronunciò il mio nome alla maniera francese. «Se non fossi venuta da noi, saremmo venuti noi da te». «Come fai a conoscere il mio nome?» «Padre Luc Duval. I suoi appunti ci hanno avvertito della tua presenza nel territorio». Tese un libriccino piccolo e macchiato che prima era posato sul suo ginocchio. «All'inizio era preoccupato per il tuo bene. Per una donna bianca vivere tra i selvaggi non è, ah...» Cercò la parola giusta. «Conveniente». «Vivo con loro per scelta» dissi con semplicità. «Non voglio essere salvata. Dov'è Padre Luc?» Mi guardai intorno, aspettandomi di vederlo, col suo viso giovane e rasato con cura. «Non è qui. È partito per un'altra missione. Questa volta tra gli Irochesi». Uno sguardo passò tra i due francesi. «Temo che cerchi il martirio. Prima di partire, comunque, ha voluto che ti cercassi. È stato assolutamente fermo su questo». Gli occhi neri del gesuita balenarono nella mia direzione. «Teme per la tua anima immortale, vedi. Certi... certi eventi descritti qui...» e sfogliò le pagine rilegate, macchiate d'acqua «devono essere considerati molto seriamente. Se fossero veri, o si dimostrasse che sono veri...» Spostai lo sguardo da lui a Le Grand. «Mi dispiace, non capisco». Il prete mi guardò, gli occhi luminosi, scintillanti come quelli di un corvo nel suo viso devastato. «Mettiamola in modo più semplice. Dicono che sei una maga. Che hai ucciso un uomo. Un uomo chiamato Frenais». «Le Frenais» lo corressi. «Allora lo conosci?» «Ma certo». «E allora? E vero? Hai avuto parte nella sua morte?»
«Io non l'ho toccato. La vita qui è pericolosa, e d'inverno ancora di più. Un errore, qualunque errore, può essere fatale. Le Frenais beveva. Il bere rende gli uomini ottusi e noncuranti di se stessi, della loro vita e di molte altre cose». «Hmm». Il gesuita mi scoccò uno sguardo penetrante. «Dicono che c'è di più riguardo la sua morte. Gli indiani dicono che è stato visto correre sul ghiaccio nel cuore di una tempesta, strillando come se il Diavolo in persona lo stesse inseguendo, in fuga da un'ombra che lo rincorreva». «E perché non dovrebbero? È una bella storia da raccontare attorno a un fuoco invernale. Agli indiani piacciono le belle storie. In questo non sono diversi da noi». Il gesuita chiuse il libro di scatto. «Io non sono qui per metterti alla prova, Mary. Spero che non arriveremo a questo. I nativi sono ingenui e superstiziosi. La tua fama è di' lagata tra di loro. Una donna bianca che vive tra loro riverita come una maga? Non va bene. Abbiamo già abbastanza difficoltà a convertirli. Ci sono alcuni» e scoccò uno sguardo a Le Grand «che ti vorrebbero riconsegnare agli inglesi, ma io non sono più sicuro di sapere a che cosa servirà. Sto prendendo accordi perché tu resti con le sante sorelle finché non avrò deciso sul da farsi. So che le sorelle faranno del loro meglio per portarti alla Chiesa. Ascolta bene i loro insegnamenti, perché la tua vita potrebbe dipendere da essi». Si alzò, appoggiandosi pesantemente sul suo bastone, usando la mano buona come sostegno. Zoppicò verso la porta, rifiutando l'aiuto offertogli da Le Grand. L'andatura del gesuita era grottesca. Da come camminava giudicai che fosse nato con un piede deforme e quella gamba molto più corta dell'altra. Venire in questo posto in quello stato, vivere questa vita, sopportarne il rigore! Questi gesuiti erano duri, duri come i nativi che cercavano di convertire. «Che cosa voleva dire?» chiesi a Le Grand. «Perché la mia vita dipenderà da questo?» Sapevo bene che cosa voleva dire, ma per decidere sul da farsi avevo bisogno della sua conferma. «Convertire una come te porterà altre greggi all'ovile. Altrimenti...» «Altrimenti che cosa?» Non rispose in modo diretto. Invece raccolse il libriccino che Gerard aveva dimenticato e me lo agitò davanti al viso. «Ti chiamano Loup Garou». Riconobbi le parole. Le avevo già sentite a Missisquoi.
«Un lupo mannaro? È una creatura nata dalla pura superstizione». Mi sentii gravata da un'enorme stanchezza. Quanto poco sapevano di simili cose. «Non cammino nella notte e non mi sveglio nuda in un fosso con le labbra bagnate di sangue». Sollevò il libro di Duval. «Dicono che hai ucciso un uomo con la stregoneria». «Come ho detto al prete, la vita qui è pericolosa di per sé. Non c'è bisogno di stregonerie». «Allora tu sei una strega? Lo sai che cosa facciamo alle streghe?». Non risposi, così mi informò. «Le bruciamo. Questo è il destino che ti attende se non ti converti. I santi aumentano, qui, sia francesi che nativi. Forse Padre Gerard vuole che tu ti unisca alla loro compagnia come una preziosa convertita, oppure...» «Oppure?» «Sarai la sua Giovanna d'Arco personale». «Allora mi consegnerai a lui?» Indovinai dalla sua espressione che non l'avrebbe fatto, ma ne trassi una ben magra consolazione. A quel che pareva, sarei finita come un pesciolino dalla padella nella brace. Sedette nella poltrona appena lasciata vuota da Padre Gerard. «I gesuiti sono potenti qui, è vero, ma io ho altri progetti per te. Ho una nave che salperà presto, fra un giorno, due al massimo, e tu sarai a bordo». «E che cosa intendi fare tu di me? Consegnarmi a Peterson?» «Non ho ancora deciso. Lasciarti con le sorelle e i gesuiti sarebbe uno spreco. Ho un amico che è prigioniero a Boston, un corsaro come me. Le autorità di laggiù potrebbero essere interessate allo scambio. Questa è l'idea del capitano Peterson. Ma io potrei anche non farlo». «E che cosa potresti fare invece?» Tacque, come per riflettere. «Potrei voler scambiare il ragazzo, una volta catturato, e lo prenderemo presto. Ho messo una bella taglia su di lui e gli abitanti di Montréal, francesi o nativi, cederebbero le loro donne per denaro. Ma non credo che consegnerò te a Peterson». «Che cosa farai di me?» «Ho una mezza idea di portarti in Francia». Sorrise, i denti bianchi contro il nero della barba. «Sei una bellezza sotto tutto quel sudiciume nativo, e la tua storia è cosi esotica. La belle sauvage. La corte è avida di distrazioni di ogni genere. Faresti sensazione». Il suo tono s'indurì quando non risposi. «O me, o il convento. Pensaci bene».
«E se non scelgo né l'una né l'altra cosa?» «Lo sai che cosa rimane». Scrollò le spalle eleganti. «C'è sempre il supplizio». Mi strinsi le braccia, come se sentissi già le fiamme sfiorarmi i piedi. Sorrise. «Ma potremmo non arrivare a questo. Tu tremi. Ecco». Si alzò e gettò altri ciocchi sul fuoco, e suonò una campana per chiamare una serva. «Ordinerò del vino caldo per noi. Le notti sono ancora gelide in quest'epoca. «Tu mi interessi, Mary» disse, quando il vino fu arrivato. Aveva l'aria di un uomo che ha visto molto e si sorprende di rado. «Ho conosciuto molte donne nella mia vita, ma non ne ho mai incontrata una come te». Mescolò il liquido nella ciotola davanti a lui e versò col mestolo un po' del liquore fumante in un bicchiere d'argento. «Bevi! È fatto con una mia ricetta, credo che ti piacerà». Mi porse il bicchiere e mi osservò mentre bevevo. La bevanda scaldava, un misto di brandy e vino, inebriante per l'aroma delle spezie: noce moscata, chiodi di garofano e cannella. Mentre bevevo, mi parve di assaporare un retrogusto di qualcos'altro, qualcosa di pesante e potente. Lo guardai con aria interrogativa. «È meglio berlo lentamente». Sorrise di nuovo. «Contiene un alcolico forte, lo scambio con gli olandesi, lo chiamano genever. Ora dimmi, come hai fatto a ritrovarti tra i selvaggi? Voglio saperne di più. E non preoccuparti. Nella mia famiglia non siamo estranei alla magia. Qualunque cosa mi dirai non uscirà da queste mura». Qualunque cosa contenesse la bevanda, scoprii che la lingua mi si scioglieva. Mi ritrovai a dirgli tutto. Tutto ciò che mi era successo. Quando ebbi finito, si protese in avanti e riempì il mio bicchiere. «Sapevo che non mi avresti deluso. Siamo una bella coppia, tu e io». Fece un gran sorriso, mostrando denti d'oro su entrambi i lati della bocca. Questa volta il sorriso si estese agli occhi blu scuro. «Mi chiamano Loup de la Mer, Lupo di Mare. Ora tocca a me raccontare». Era di famiglia nobile, anche se non faceva uso del titolo. «Sono quello che si dice la pecora nera. Mio fratello è un prete, come Gerard, anche se preferisce restare in Francia; l'altro fratello è a corte, ma per me la vita di laggiù è tetra e soffocante. Ero destinato a diventare soldato, ma mi sono stancato di uccidere olandesi nel fango delle Fiandre. Volevo l'avventura, e l'ho trovata in mare. Ho interessi ovunque: qui, e nell'Est, e nelle Indie Occidentali». Sorrise di nuovo, questa volta con mag-
giore dolcezza, come davanti a un'immagine interiore che poteva vedere solo lui. «Ti piacerebbe laggiù, Mary. È così caldo, non c'è questo maledetto freddo, e così verde, un verde luminoso e c'è una luce diversa, non come in queste foreste scure e tetre. Le isole sono piene di colori. Fiori e frutta crescono ovunque, e insieme, come nell'Eden. Gli uccelli volteggiano tra di essi, blu, rossi, gialli; alcuni sono piccoli così». Disegnò la forma di una nocciola col cavo del pugno. «Si librano come api, prendono il nettare col becco, che hanno sottile come un ago». «Sembra davvero un luogo meraviglioso». «Oh, lo è. Lo è. Il mare è caldo come il sangue, di una tinta d'acquamarina trasparente, con la sabbia bianca come il lino. C'è un posto che ho costruito, un posto speciale vicino alla spiaggia dove posso stare solo. Mi piace guardare l'oceano». S'interruppe. «Avevo pensato di portarti in Francia, ma ora credo che ti porterò là. Che cosa ne dici, Mary? Ti piace? Potrai vivere libera, libera come sei vissuta qui. Non verresti con me?» Il suo pensiero aveva preso una piega diversa da quello che mi aspettavo. L'avevo giudicato un avventuriero, spietato e freddo, il cuore trasformato in ghiaccio da un mondo aspro e privo di misericordia. Ora vedevo il fuoco nella sua anima e la ragione del suo vagabondare. Volevo rispondergli, ma i miei pensieri si rifiutavano di prendere forma. Sentii la lingua ispessita. All'improvviso era difficile muoversi. Il calore del fuoco, il vino speziato avevano diffuso un languore insinuante nelle mie membra. Cercai di alzarmi e barcollai. Fu pronto ad afferrarmi, passandomi un braccio attorno al corpo. Spinse indietro i miei capelli con l'altra mano e sfiorò il segno del clan sulla mia guancia. «Belle sauvage» sussurrò, il suo alito profumato di vino caldo sulla mia pelle mentre voltava il mio viso verso il suo. Da lungo tempo non sentivo le mani di un uomo. Forse fu il vino, o la droga, quale che fosse, che vi aveva versato. Forse fu la forza del suo bacio. Ma non feci resistenza quando mi tenne stretta, e quando mi condusse nella sua stanza, ci andai liberamente. 33 Ephraim Mi svegliai nel suo letto, tra lenzuola di lino finissimo. Ero sola e dalla
luce capii che era tardi. Doveva essere uscito per sbrigare i suoi affari. Mi ridistesi contro cuscini di piuma d'oca e cercai di dare un senso a ciò che era successo, ma la mia mente era lenta e i miei sensi ottusi. Il sapore che avevo in bocca mi disse che il vino caldo era stato mescolato con papavero. La ragazza Hurone entrò reggendo un vassoio, che posò su un tavolo vicino al letto. Cercai di parlarle, ma non mi guardò, e si ritirò immediatamente. Mi alzai e indossai una veste di seta che era stata preparata per me. I miei abiti della sera prima erano spariti, e al loro posto erano stati disposti indumenti assai più belli, di seta e velluto. Mi tornò alla mente una vecchia filastrocca: 'Tre vestite di lana, tre vestite di stracci, tre del miglior velluto...' Il cibo preparato per me aveva sapore di manna. Caldi panini bianchi che si scioglievano in bocca come dolci, riccioli di ricco burro giallo, e una ciotola di una densa bevanda scura con un sapore intenso e dolce insieme. Non l'avevo mai assaggiata prima, ma sapevo che era cioccolata. La ragazza tornò, per riempirmi la vasca e portar via il mio vassoio. Le parlai in francese, poi nella lingua comune, ma era come se all'improvviso non comprendesse né l'uno né l'altra. Si affrettò ad andarsene, lanciandomi uno sguardo prima di uscire, lasciando che i suoi occhi parlassero per lei. Trascorsi la giornata immersa in profondi pensieri. Non avevo mai conosciuto simili ricchezze prima. Potevano essere mie per sempre. Non dovevo far altro che acconsentire alla sua offerta. Camminai avanti e indietro per la casa, soppesando una vita contro l'altra. Se cercavo dei segni, uno almeno era chiaro. Non mi era stata mai mostrata tanta deferenza, ma non potevo andarmene. I soldati sulla porta non mi avrebbero lasciato passare. Il laccio poteva essere di seta, ma quella era pur sempre una trappola. Le Grand tornò verso sera, annunciando che saremmo partiti con la marea del mattino. Ero rimasta sola tutto il giorno e la vergogna suscitata dall'atteggiamento della ragazza Hurone era cresciuta di ora in ora. Ero decisa a sfidarlo, ma avevo dimenticato il suo fascino, la sua bellezza, la sua capacità di stregare. Bevve alla mia salute con vino dorato mentre cenavamo, e poi mi nutrì di dolcetti e parlò della nostra vita insieme. Fui presa di nuovo dall'incantesimo, proprio io che sapevo qualcosa di quest'arte. Quando andammo a letto, potevo ben credere che venisse da una famiglia di maghi. Fummo svegliati da un rumore proveniente dal basso. Una voce chiamò
Le Grand. S'infilò camicia, braghe e stivali, mentre io indossavo una veste e andavo alla finestra a vedere che cosa succedeva. Due soldati erano davanti al portone principale, e trattenevano una sagoma coperta di pelli. La tenevano alla nuca, come un gatto che lotta. Erano grandi quasi il doppio, ma tuttavia avevano difficoltà a tenerlo fermo. Le grandi porte si aprirono ed Ephraim fu scagliato sulle lastre di pietra dell'ingresso. Sentii un rumore di lotta di sotto e poi il tonfo di passi sulle scale ed Ephraim che mi chiamava. Andai alla porta della camera e me lo trovai davanti. Si fermò di botto. «Mary!» «Lotta come un gatto selvatico». Le Grand arrivò alle sue spalle, ansante. «I miei uomini sono coperti di tagli, graffi e calci». «Lince, così mi chiamano» annunciò Ephraim, sorridendo. Si rivolse a Le Grand. «Sono venuto di mia spontanea volontà. I tuoi uomini non hanno il diritto di trattarmi in quel modo». «Ti chiamano in modo appropriato». Le Grand fece una smorfia e tese il braccio. Il polsino della camicia era strappato, e il suo braccio mostrava solchi profondi che già si gonfiavano e colavano sangue. «Devo provvedere a questo. Tornerò». E se ne andò, lasciandomi sola con Ephraim. «Sei ferito?» chiesi al ragazzo. «Nemmeno un po'». Entrò nella stanza, incapace di togliermi gli occhi di dosso. «Che cosa guardi?» «Sei diversa» disse, con sincero stupore. «Come una signora. Devo dire, Mary, che ti sei ripulita proprio bene». «Non badarci». Lo interrogai. «Perché sei venuto qui e hai lasciato che ti catturassero così?» «Era il solo modo per arrivare a te. Mi ha mandato Volpe Nera. Ha un piano». Immaginai che cosa fosse. A volte i guerrieri si lasciano catturare deliberatamente e portare in un accampamento nemico. Una volta all'interno, lavorano con i loro compagni all'esterno per aiutare i prigionieri a fuggire. Era un'idea astuta, ma rischiosa. «È estremamente temerario». «Ma Mary...» «Ascoltami. C'è una ragione per cui Le Grand ti ha fatto cercare. Sei entrato da solo in una trappola».
«Come?» «Perché non mi hai detto che avevi ancora parenti nella colonia?» «Che parenti?» «Le Grand dice che uno zio ti cerca». «Quale zio? Io non so di nessuno zio». «Il capitano Peterson è stato a Québec. Dice che un tuo zio di Rhode Island vuole averti con sé». Il volto di Ephraim si rannuvolò per un momento mentre ricordo e consapevolezza affioravano insieme. «È diventato quacchero. Lui e pa' sono venuti nelle colonie insieme. Pa' non ha voluto abbracciare la sua nuova fede e si sono allontanati. Pa' non parlava mai di lui». Alzò le spalle. «È tutto quello che so. È successo ancora prima che nascessi. Che cosa vuole da me?» Ephraim sedette sul letto e mi guardò. «Non mi ha mai voluto prima». «Be', adesso ti vuole. Dobbiamo tornare indietro. Le Grand vuole scambiarti con un suo amico bucaniere». «E tu?» «Per me ha altri progetti». Ephraim si guardò intorno, guardò me, il letto dietro di me, la giacca di Le Grand posata su una sedia, i miei vestiti distesi. S'irrigidì come un animale che all'improvviso avverte un pericolo che prima non aveva percepito. «Ora capisco tutto». Si alzò e percorse la stanza, ispezionando ogni angolo. «E allora?» Si lasciò scivolare a terra e si accoccolò, con la testa tra le mani. «La ragazza Hurone ce l'aveva detto. Ecco perché abbiamo dovuto agire così in fretta e così a rischio. Ha detto che Le Grand voleva portarti via con lui, ma non ha detto esattamente in quale veste». Allora mi sorrise, il viso contorto in un'espressione di scherno sdegnoso che aveva copiato dai trapper francesi quando parlavano di donne. Avrei dovuto colpirlo perché mi mostrava tanta insolenza, ma il suo disprezzo mi bruciò l'anima. Me lo meritavo. Mi sentii arrossire. «Volpe Nera» continuò Ephraim, «non può entrare. La casa è troppo ben sorvegliata; è impossibile. L'unica possibilità di portarti via sarà al momento della vostra partenza. Aspetterà al molo. È convinto che non lo noteranno, tutti gli indiani sono uguali per loro. Ha preparato tutto. Ma adesso sembra proprio che non ne valga più la pena». Mi guardò. «Come hai
potuto fargli questo?» «È un guerriero, adesso. Un uomo. Non ha bisogno di me». Ma mentre parlavo sapevo che non era vero. Non avevo risposte alla domanda di Ephraim. Era come se avessi camminato in un sogno. Non disse altro, ma i suoi occhi azzurri furono più eloquenti, molto più di quanto potesse immaginare. Mi voltai, mentre mi spuntavano le lacrime, ricordando un'altra separazione nella stanza di una locanda inglese, molti, molti anni prima. «Non torno da Peterson» disse alla fine. «E nemmeno da uno zio che non conosco. Meglio morire. Vado con Volpe Nera, o verrò ucciso mentre lo raggiungo. Ti avverto, Mary». Come potevo spezzare un cuore così? Pensai a Volpe Nera, che aspettava da qualche parte nel buio. Avevano rischiato tutto per me. Come potevo aver acconsentito a un simile tradimento? In quel momento mi stupii di aver pensato di restare con Le Grand: davvero dovevo essere stata stregata. 34 Volpe Nera Era quasi l'alba e Le Grand era già andato al porto. Gli ultimi, più preziosi carichi venivano portati sulla nave e lui non si fidava dei goffi balordi e delle canaglie ladruncole della casa dei commerci. Voleva essere là a controllare coi suoi occhi. Noi dovevamo seguirlo in tempo per approfittare della marea del mattino. I porti sono luoghi affollati e quando una nave sta per partire c'è sempre molta confusione. Al molo c'era un gran caos di passeggeri e marinai mescolati con commercianti che erano venuti per vedere i loro beni caricati al sicuro a bordo. Alcuni nativi si muovevano nella folla: molti erano portatori, altri facevano scambi, altri erano solo curiosi. Canoe beccheggiavano vicino agli scafi delle navi. Ephraim corse fino al limitare del molo, come sopraffatto da una fanciullesca eccitazione davanti a suoni e visioni a lui nuovi. Tornò e mi disse in inglese che la canoa di Volpe Nera era in acqua. Un paio di soldati ci scortarono, ma sembrava che sapessero che ero speciale per Le Grand, e così la sorveglianza non era rigorosa, ed erano bene attenti a non prendersi libertà. Mi guardai attorno, come stupita dalla folla, e ben presto vidi Volpe Nera in lontananza, confuso con gli altri nativi, intento a trasportare un fagotto di pellicce come per venderle. Non eb-
be bisogno di avvicinarsi. Usò il linguaggio silenzioso dei boschi, quello che usano i cacciatori quando non possono far rumore. Ephraim gli rispose con lo stesso linguaggio e Volpe Nera scivolò fuori dalla folla per andare a recuperare la sua imbarcazione. Non c'era traccia di Le Grand. I soldati che ci sorvegliavano erano lenti, pigri dopo una notte di baldoria. Camminavano e sbadigliavano parlando tra loro, bevendo brandy per scacciare il freddo che saliva dal fiume, strappando i peli al cane che li aveva morsicati la notte prima. Mi avvicinai, parlando piano, come si farebbe per rabbonire una pariglia di cavalli. Erano già storditi e lenti per l'alcol e il freddo e l'ora: era molto presto. Fu abbastanza facile cullarli ancora un po', finché non ci notarono più. «Come hai fatto?» mi chiese Ephraim mentre ci confondevamo con la folla. «Magia». I due soldati erano seduti su un barile e guardavano fisso davanti a sé, immobili come statue. «Magia parlante. Me l'ha insegnata Aquila Bianca». Ce la svignammo tra la folla. I moli prima della partenza di una nave sono pieni di confusione, ciascuno è intento ai propri affari, e cosi nessuno notò i nostri spostamenti, né fece caso al rapido affondo di una pagaia e al lieve rumore di una barca di nativi che fende le acque. Una nebbiolina a banchi saliva sul fiume. Sperai che avrebbe nascosto la nostra fuga mentre filavamo lungo la schiera di moli, finché non trovammo un ancoraggio deserto. Lì ci nascondemmo tra i pali umidi, disposti fitti come una foresta, e aspettammo che Volpe Nera scivolasse verso di noi. «Non ne parlerò più» disse Ephraim mentre ci abbracciavamo, «se mi dici una cosa». «Cosa?» Sapevo di che cosa stava parlando. «Perché l'hai fatto, Mary? Perché hai pensato di restare con lui invece che con me e Volpe Nera?» «Non è stato per colpa tua, o di Volpe Nera. Non riesco a spiegarlo, davvero. E poi...» Guardai i suoi occhi sgranati di bambino, la sua fronte di cucciolo aggrottata. «Sei ancora troppo giovane. Un giorno capirai». «È stata una specie di follia?» Ephraim era riluttante a lasciar perdere; non gli piacevano gli enigmi. Risi. «Puoi ben dirlo. Forse ha usato una sorta di magia». «E ha funzionato? Perfino su di te?» Ephraim mi fissò, lo sguardo pieno di meraviglia.
«Sì». Sorrisi, assaporandone ancora il gusto: un misto di amaro e dolce, come la sua cioccolata. «Ha funzionato. Perfino su di me». La marea era quasi piena, e ci lambiva i piedi. Ben presto sarebbe cambiata. Mi chiesi se Le Grand si fosse già accorto della mia sparizione. Voleva partire; sapevo solo questo. Non avrebbe voluto aspettare un'altra marea con la nave carica e pronta; inoltre gli affari lo attendevano e ciò che desiderava era partire subito. Avrebbe rischiato tutto per me? Come in risposta, un cannone rimbombò. Sperai che segnalasse la partenza della nave, ma voci urlavano lungo i moli e si avvicinavano. Gridavano il mio nome. Mi stava cercando. Mi guardai indietro e lo vidi in alto sulla battagliola della nave, che ordinava agli uomini di sparpagliarsi nella folla densa. I suoi marinai formicolavano sul sartiame, gli sguardi acuti percorrevano la riva su e giù in cerca di nostre tracce. Guardarono il fiume. Le Grand non era uno sciocco. Doveva aver detto loro di cercare una canoa nativa. Un paio di barche si allontanarono dalla riva, in cerca di Volpe Nera. «Laggiù!» Ephraim indicò un punto in cui gli uomini correvano, simili a una fila di fantasmi attraverso la nebbiolina grigia. Seguivano il nostro percorso. Ben presto avremmo sentito il tonfo dei loro piedi calzati negli stivali sul molo di legno. Un secondo gruppo veniva verso di noi dall'altra direzione e intanto la marea incombente saliva lungo i pali, costringendoci ad arretrare verso la riva. Guardai il fiume, scrutando tra i vortici di nebbia, sperando di vedere Volpe Nera che pagaiava verso di noi. Non c'era traccia di lui. Forse era stato catturato, o era stato costretto a deviare per evitare i suoi inseguitori. Forse la forte corrente lo aveva spinto al centro del fiume. Eravamo in trappola. Se fossimo rimasti avremmo rischiato di essere inghiottiti dall'acqua che saliva; se fossimo usciti dal nostro nascondiglio, ci avrebbero certo avvistato. 35 Kaniatarakaronte, la Porta per il Paese Un richiamo venne dal lago, un inquietante grido di uccello acquatico. Ephraim rispose con un altro grido e una canoa si fece avanti. Salimmo in fretta, e ciascuno prese una pagaia, perché eravamo inseguiti. Volpe Nera guidò la canoa nella corrente principale. Canoe native e lunghe barche ci
seguivano, alcune da vicino, altre scendevano in acqua dai moli disposti lungo la riva. Giocammo al gatto e al topo, dentro e fuori dai banchi di nebbia, ma le altre barche avanzavano, minacciandoci da diverse direzioni. Usa la magia che hai a disposizione, questo mi aveva detto Aquila Bianca. Trasformai la foschia in una nebbia torbida. Gli uomini urlarono e imprecarono mentre le canoe urtavano e cozzavano tra loro, e noi puntammo verso il centro del fiume, contando sul fatto che le rapide correnti ci avrebbero allontanato dal pericolo. Urla e grida svanirono. Città e moli scivolarono alle nostre spalle, sostituiti da basse rupi minacciose e dalla silenziosa, incombente presenza dei boschi. Volpe Nera puntò su una piccola baia, e io sostituii i miei abiti stranieri con l'abbigliamento indiano. Lasciai il vestito che Le Grand mi aveva regalato sulla sabbia. Le ampie gonne e sottane giacquero al limitare dell'acqua, simili a una donna annegata gettata sulla spiaggia. Continuammo a pagaiare, usando il flusso della corrente per farci strada verso il fiume Richelieu che ci avrebbe riportati al lago Champlain. Avremmo attraversato tutto quel vasto corso d'acqua e poi avremmo puntato a est, seguendo il percorso che Bagliore di Fuoco, Naugatuck e il resto della loro banda stavano seguendo per tornare alla loro terra natale. Questa era la nostra intenzione, ma il destino aveva predisposto un futuro diverso per noi. Non avremmo mai rivisto i nostri amici Pennacook. Eravamo sul lago, minuscoli come frammenti di cenere su uno specchio, quando si scatenò la tempesta. Un improvviso vento a raffiche arrivò alle nostre spalle e quando ci voltammo non vedemmo più il confine tra aria e acqua. Il lago era nero come il cielo. Era come se i due elementi volessero sposarsi. L'acqua vorticava in enormi zampilli turbinosi, mentre onde alte come quelle dell'oceano si levavano e minacciavano di inghiottire la nostra fragile imbarcazione. Puntammo verso la riva est, ma era come se un'enorme mano ci spingesse a ovest. Eravamo impotenti. La tempesta era come una bestia ululante che calava sul lago verso di noi. La pioggia cadeva così fitta che non vedevamo né terra né cielo né acqua. Volpe Nera borbottò che Hobbomock doveva essere davvero arrabbiato. Era come se le profezie del popolo si stessero avverando. Come se un enorme serpente abitatore del lago si fosse svegliato e fosse sul punto di levarsi squamoso e gocciolante dall'acqua, per divorarci interi.
Perdemmo tutto. Anche gli abiti ci furono quasi strappati di dosso mentre venivamo scagliati sulla riva. Dovevamo sembrare morti, distesi tra i tronchi e le foglie, coperti di fango del lago. Mi svegliai sentendo voci aspre al mio orecchio, che parlavano una lingua che non avevo mai sentito prima. Fui colpita nelle costole e sulla schiena con un bastone o l'impugnatura di una lancia, e poi venni rivoltata con un piede. La suola era morbida, come di mocassino. Quelli erano nativi, chiunque fossero. Aprii un occhio e vidi giochi di perline che non avevo mai visto prima. Questa gente indossava braghe fino alle ginocchia, pelli di cervo decorate da piume, tessuti rossi ottenuti negli scambi con gli olandesi, e lunghi gonnellini con le frange. Uno era arricciato da una larga cintura, riccamente decorata, con un'ampia sciarpa di tessuto annodata morbida su una spalla. Portavano un formidabile spiegamento di armi: mazze di guerra, tomahawk e coltelli da scalpo. Uno aveva una lancia. Vi si appoggiò mentre ci osservava. I loro volti erano dipinti, di rosso, giallo, blu e bianco, ma non ne conoscevo i segni. Anche i capelli erano acconciati in modo diverso, e due di loro li portavano a calotta con una ruota di tre penne. Si allontanarono un po' e parlarono piano. Il tono era curioso più che ostile. Non ne avevo mai visto uno in vita mia, ma sapevo chi erano, e conoscevo la loro reputazione. Erano guerrieri Irochesi, forse Mohawk, e come tali temuti più di chiunque altro. Anche i nomi con cui venivano chiamati, Irochesi, Mingo, Mohawk, Maquas - vipere, infidi, cannibali, codardi - indicavano il terrore che ispiravano. Ma sapevo che eravamo al sicuro. Per il momento, almeno. Non ci avrebbero ucciso mentre eravamo lì distesi in quello stato, perché farlo sarebbe stato un atto di vigliaccheria. Dopo una breve consultazione, tornarono da noi. Uno di loro afferrò Ephraim per i capelli. Non per prendergli lo scalpo. Prendere uno scalpo in quel modo sarebbe stato come mangiare una carogna. Stava osservando il colore. Due andarono al lago con secchi di legno a prendere acqua da gettarci addosso. Non potevo stare lì a far finta di dormire per sempre. Al secondo secchio rabbrividii e mi rizzai a sedere. Gettarono altra acqua su Volpe Nera, lo trassero in piedi e lo schiaffeggiarono forte, facendogli sanguinare il naso. Gridai loro di smettere in tutte le lingue che mi salirono alle labbra. Uno di loro mi si avvicinò. «Français?» Scossi il capo. «Inglese».
«Kiohensaka?» I suoi occhi si dilatarono per la sorpresa. «Lui?» chiese in francese, indicando Volpe Nera che giaceva a terra agitandosi. Uno dei guerrieri lo colpì di nuovo mentre l'altro gli legava le mani. «Pennacook. È mio figlio». «E quest'altro?» Indicò Ephraim, ancora semisvenuto. «Anche lui è mio figlio». Annuì, accettando questa informazione, poi si alzò in un solo agile movimento. Indicò se stesso e i suoi uomini. «Haudenosaunee. Irochesi. Kahniakehaka. Mohawk. Verrete con noi». 36 Alison Hau-de-no-sau-nee. Alison sillabò le parole tra sé. Gente della Lunga Casa. Kah-nia-keh-aka. Gente della Selce. «Posso aiutarla?» «Oh!» Alison distolse lo sguardo dal manifesto che stava osservando. «Oh, vorrei questo». Prese un acchiappasogni da un espositore vicino al suo gomito. «E sto cercando qualcuno». «E chi sarebbe?» chiese la donna mentre incartava l'oggetto e batteva lo scontrino. «Una ragazza. Si chiama Agnes Herne». «Dieci dollari». Alison le porse il denaro. «Conosce Agnes?» «Forse». La donna era cauta. «Che cosa vuole da lei?» «È una mia allieva» improvvisò in fretta Alison. «Mi sta aiutando in una ricerca. È venuta a intervistare sua zia». «È Miriam. Il negozio laggiù». La donna indicò la vetrina col pollice. «Non c'è, però. È rimasto chiuso tutta la settimana». «Dov'è?» «Non saprei». La donna scosse il capo. «Miriam fa sempre quello che vuole. Sim dovrebbe saperlo. È suo figlio». «Dove posso trovarlo?» «Posso indicarle la sua casa. Ma non credo che ci sia adesso. Probabilmente è su al casinò». Alison ringraziò la donna e uscì. Il casinò era più su, lungo la stessa via.
L'insegna al neon rosa era sbiadita dalla luce chiara del mattino, ma non si poteva non notarla. Era la cosa più alta per miglia e miglia. Sim le venne incontro al bancone dell'ingresso. Non sembrò molto sorpreso di vederla, ma quando Alison spiegò quello che voleva fare, le disse che stava per cominciare a lavorare. «Sono in auto. Mi dica dov'è e ci andrò». Sim scosse il capo. «È meglio se la accompagno io. Deve prendere delle strade sterrate. Potrebbe perdersi». «Allora aspetterò. Quando finisce?» «Forse posso trovare qualcuno che mi sostituisca. Diciamo verso mezzogiorno». «Ok». «Che cosa farà intanto?» Alison si guardò intorno. «Non sono mai stata prima in un casinò. Sembra eccitante». «Ehi, ehi...» La fronte di Sim si arricciò. «Stia attenta. Potrebbe perdere tutto. Sul serio! Giochi solo alle slot. Meglio evitare la roba più grossa...» «Me la caverò benissimo». «Ok. A più tardi». Quando si incontrarono di nuovo, Alison era raggiante. Aveva un sacchetto di monete da incassare. «Avete un gran bel posto qui» disse contando i dollari. «È piccolo, paragonato ad altri posti, ma ci stiamo espandendo e c'è un sacco di spazio per allargarsi. Adesso stiamo valutando l'opportunità di mettere il gioco in rete». «Ed è una bella cosa?» chiese Alison mentre uscivano nel parcheggio. «Quasi tutti la pensano così». «Compresa la sua mamma?» Sim s'incupì, grattandosi la guancia col pollice. «Diciamo che ha qualche problema». «Sembra un tipo deciso». Sim fece un gran sorriso. «Può ben dirlo». «Agnes sembra davvero affezionata a lei». «Sì, sono molto vicine». «Agnes ha detto che siete cresciuti insieme. Che lei è come un fratello». Sim sorrise, sorpreso. «Ha detto questo?» «Sì, ha detto questo».
«Sua mamma l'ha praticamente scaricata qui. È stata una vergogna. Soffriva tanto che non faceva che azzuffarsi a scuola, e non parlava con nessuno. Ho dovuto prendermi cura di lei, capisce?» «E sua madre?» «Oh, Agnes non vuole nemmeno vederla adesso, ma la mamma dice di darle tempo. La mamma dice che non è stata colpa sua, che Dina, la madre di Agnes, era poco più di una bambina quando ha avuto Agnes. È convinta che quando Agnes sarà un po' cresciuta tornerà». «E lei che cosa pensa?» «Può darsi. Agnes ha passato brutti momenti, è come se fosse sospettosa». S'interruppe. «Però lei le piace». «Sì?» Alison si sentì stranamente compiaciuta. «Come fa a saperlo?» «Lo so e basta. È un onore. Agnes non si fida di molte persone. Soprattutto di fuori. S'impara a non fidarsi». «Come? Anche oggi?» «Anche oggi». Sim le tenne aperta la portiera mentre Alison si metteva alla guida. «Il mio pickup è quello nero laggiù. Mi segua da vicino». 37 Lago Specchio «Ragazzi, quella Alison. Com'è insistente! Ha dato la caccia a Sim per tutta la riserva. Adesso lui la sta portando qui». «Come fai a saperlo? Altra roba da sciamani?» «Non proprio» ridacchiò Zia M, mostrando il cellulare. «Stavo guardando questo affare mentre tu dormivi, e ha cominciato a suonare. Era Sim. La sta portando qui». «Quando arrivano?» «Presto. Non è certo il momento migliore. Li ho quasi rimandati indietro». «Come mai?» Agnes voleva vedere Alison. Voleva sapere che cos'aveva scoperto, ed era ansiosa di raccontarle che cos'era successo lì. «Perché non è ancora finita e io non voglio interruzioni. Dobbiamo seguire tutto il percorso fino in fondo, fino a dove lei ci porterà, e non credo che ci siamo ancora, no? Non ti voglio qui quando arrivano». «Perché no?»
«Ti deconcentra. Non manca molto al loro arrivo. Ho una mezza idea di rispedirli indietro. Tu vai via, fai una pausa». Agnes uscì dalla capanna, come le era stato ordinato. Aveva da tempo rinunciato a capire Zia M. E poi per il momento aveva assunto il ruolo dell'apprendista dello sciamano, dell'assistente maga, e come tale doveva fare quello che le veniva ordinato. Imboccò il sentiero che portava sopra la capanna. Da lì poteva vedere la strada e la gente che andava e veniva. In lontananza si udì il ronzio di un motore, poi un altro, un'auto dietro qualcosa di più grosso. Dovevano essere loro. Affrettò il passo per raggiungere un punto migliore. Forse sarebbe scesa comunque, solo per dire 'ehi'. Potevano riprendere quando Alison fosse ripartita. Non sarebbe successo nulla, non subito. Le sue gambe erano pesanti e le faceva male la schiena, come se camminasse da giorni. All'improvviso si sentì sfinita, come se anche solo un altro passo fosse troppo per lei. Scivolò giù, posò la schiena contro un enorme albero della foresta, e chiuse gli occhi. 38 Il castello Mohawk Ci avevano legato con radici di pino nero e poi uniti con una corda di vite intrecciata. Ci costrinsero a muoverci, due davanti a noi, due dietro. Mantenevano un crudele ritmo di corsa sui sentieri della foresta ed era difficile stare al passo con loro. Eravamo indeboliti dopo essere quasi annegati e non mangiavamo da una notte e un giorno. Volpe Nera era instancabile come i guerrieri Mohawk, ma Ephraim stava peggio di me. Era allo stremo delle forze. Barcollava, i passi incerti, il viso pallido, sudato, la pelle bluastra attorno alla bocca. Rischiava di svenire da un momento all'altro. Una simile debolezza l'avrebbe reso privo di valore, e la sua vita sarebbe stata perduta. Caddi a terra, la schiena contro un albero, e giurai che non potevo andare oltre. Anche se sapevo che rischiavo di morire per questo, dovevo costringerli a una sosta. Gli uomini che ci avevano catturato si allontanarono per parlare tra loro. Uno era deciso a ucciderci subito, ma il loro capo respinse la proposta. Non mancava molto al cadere della notte, quindi la sosta era opportuna. Ordinò agli altri di accamparsi. Ci lasciarono legati a un albero, impastoiati come bestie, per essere sicuri che non fuggissimo.
Ci portarono dell'acqua e ci nutrirono con farina di granoturco secca, inumidita un po' per renderla mangiabile. Era il cibo tipico dei guerrieri durante gli spostamenti e lo stesso che mangiarono loro. Era secco ed era poco, ma ci diede un po' di nutrimento e restituì le forze a tutti. Ephraim strisciò vicino a me. «Non puoi usare la magia parlante come hai fatto coi soldati?» Scossi il capo, indicando gli amuleti che portavano al collo e sul petto. Su di loro non avrebbe funzionato. Continuammo così per altri tre giorni. La quarta notte facemmo solo una sosta brevissima, e riprendemmo il cammino non appena la luce spuntò nel cielo a est. Eravamo vicini al loro villaggio natale e quello era un giorno speciale per loro; avevano fretta di arrivare a casa. Il percorso era difficile, fangoso sotto i piedi e coperto da un intrico di giunchi ed erbacce. Ci misero fretta, ci costrinsero ad accelerare, ci colpirono con le mazze, ci pungolarono con le lance, ci rimproveravano se inciampavamo. Andammo avanti con riluttanza. Viaggiare era meglio che arrivare. Non si capiva che cosa intendessero fare di noi; se ciò che ci aspettava era la morte, non sarebbe stata rapida. Il giorno prometteva afa, e la nebbia si increspava levandosi dal terreno paludoso. Il sentiero che percorremmo era inquietante, attraversava un cimitero dove gli abiti penzolavano dagli alberi come stendardi laceri e il teschio cieco e ramoso di un'enorme creatura cornuta vegliava su tutto. Al di là del cimitero si estendeva l'accampamento. Era disposto su un terrapieno: un grande insediamento circondato da una palizzata irta di pali appuntiti fatti con alti alberi incrociati tra loro. Sorgeva davanti a noi, ingobbito come un porcospino. Io inciampai, e mi sarei fermata se non fossi stata brutalmente spinta in avanti. Avevo visto questo luogo in sogno e ogni visione, ogni suono era minaccioso, dai sassi sul sentiero ai brontolii delle nostre guardie allo scricchiolio dei loro mocassini. Dalle alte piattaforme le sentinelle ci videro arrivare e gridarono, annunciando la nostra presenza a coloro che stavano all'interno. Per entrare si passava attraverso una doppia fila di pali disposti gli uni sugli altri. Ci infilammo in quello stretto passaggio ed entrammo nel villaggio vero e proprio. Sentii il suono dei tamburi, e dei canti, e il tonfo di piedi che danzavano. Eravamo arrivati in un momento di festa o cerimonia, ma non appena apparimmo, ogni rumore cessò. 39
Casa L'intero villaggio era lì riunito. Venimmo liberati dai lacci, e potemmo massaggiarci mani e polsi in modo da riattivare la sensibilità. Ora non temevano più che fuggissimo. Bambini piccoli balzarono fuori dalla folla accalcata per lanciarci sassi e insulti. Mostrarono attenzione particolare per Ephraim, attratti dai suoi capelli, dalla sua diversità. Lui sapeva che cosa ci si aspettava da lui e come doveva comportarsi. Rimase immobile, a braccia incrociate, adottando lo sguardo remoto di Volpe Nera, suo fratello. Volpe Nera si stava già concentrando, preparava la mente a quanto sarebbe potuto accadere. Doveva dimostrare che il suo coraggio era all'altezza di qualunque prova. Mostrarsi debole, implorare pietà voleva dire che avrebbero potuto prendere la sua anima, e la sua forza; oppure sarebbe diventato uno spirito terrestre e non avrebbe mai raggiunto le pianure del cielo. Doveva essere in grado di sopportare qualunque cosa. Potevano sottoporlo alla più dolorosa tortura allo scopo di mettere alla prova la sua forza d'animo oltre misura. Potevano fare lo stesso a noi e costringerlo a guardare. Potevano portarci tutti in un luogo dove la morte sarebbe venuta come un'amica pietosa. Ci sarebbero potuti volere tre giorni per morire. Gli uomini che ci avevano catturato si fecero indietro e ci lasciarono alla mercé degli altri. Tre donne uscirono dalla folla e ci guardarono come un padrone potrebbe guardare un servo al mercato degli schiavi, o un fattore le bestie che deve comprare. Le donne portavano i segni del clan sulle guance: tartaruga, lupo, orso. Erano le madri dei clan, che governavano le lunghe case che dominavano il villaggio. Avrebbero deciso loro della nostra sorte. Le donne si fermarono davanti a noi. Una mi fece voltare la testa, notando il segno dell'orso sul lato sinistro del mio viso. Era come il suo. Mi guardò negli occhi e sorrise. Le altre donne fecero spogliare Volpe Nera ed Ephraim e si ritrassero per valutarli. Osservarono la potenza flessuosa del corpo di Volpe Nera, si meravigliarono davanti al candore sorprendente della pelle di Ephraim in contrasto con il bruno del suo viso e delle mani. Infine si voltarono e a un loro cenno la folla smise di agitarsi e cominciò a disporsi in una doppia fila. Le donne percorsero il corridoio che si andava formando e si ritirarono
nelle loro lunghe case. Erano edifici notevoli, coperti di corteccia, più grandi di tutti quelli che avevo visto in passato, e ospitavano da dieci a quindici fuochi; erano grandi abbastanza da accogliere da venti a trenta famiglie. Le case erano contrassegnate dalle insegne dei clan sopra le porte. Le donne si disposero con gli altri capi sulla soglia delle varie abitazioni. Decisero la sorte dei prigionieri. Il villaggio doveva aver subito delle perdite, perché fu stabilito che non saremmo stati torturali e bruciati: saremmo stati adottati. Ma prima avremmo dovuto correre tra due file lungo cui si era disposta la gente: uomini, donne, bambini, tutti armati di fruste, mazze, bastoni, qualunque cosa avessero a portata di mano con cui picchiarci. Dovevamo raggiungere la porta della casa. Barcollare, non farcela, cadere ci avrebbe reso privi di valore e saremmo stati uccisi. Volpe Nera andò per primo. Mazze e bastoni calarono per colpirlo, ma tagliarono l'aria mentre lui avanzava, balzando a destra e a sinistra, evitando piedi e gambe tesi per farlo inciampare. Fu dall'altra parte prima che si fossero accorti del suo passaggio. L'uomo che ci aveva catturato sorrise, profondamente ammirato. Fece cenno a Volpe Nera di andare alla Casa della Tartaruga. Gli uomini sulla soglia si fecero avanti per salutarlo, gli diedero pacche sulla schiena, lo abbracciarono, lo accolsero come un fratello. Poi toccò a Ephraim. Era in piedi accanto a me, con la schiena diritta, e guardava avanti, ignorando le beffe rinnovate dei bambini che scagliavano letame, ma tremava come un puledro di un anno prima della sua prima gara. «Mi prenderò cura di te» sussurrai. Annuì e partì rapido come Volpe Nera, ma era più giovane ed era stato indebolito dal viaggio e dalla prova sul lago. Ben presto ricevette colpi pesanti sulla schiena e sulle spalle e questo lo fece rallentare. Un colpo alla coscia gli fece piegare la gamba, ma riuscì a tenersi in piedi accoccolandosi, il corpo inclinato sulla gamba indebolita, prendendo colpi da destra e sinistra. Pensai che ce l'avrebbe fatta da solo. Poi un bambino, il volto ghignante di cattiveria, tese il piede. Ephraim stava per inciampare e cadere faccia avanti nel fango. Fissai la fila. Tutto rallentò. Il bambino perse l'equilibrio e cadde di fronte a Ephraim che lo scavalcò e riuscì a trascinarsi avanti. Ormai gli mancava solo un piccolo tratto e l'altro ragazzo a terra era d'intralcio agli altri, che non riuscivano a coordinare i loro colpi. Fendettero l'aria o urtarono gli uni contro gli altri. Guardarono le loro armi con
stupore, ma Ephraim ormai li aveva superati e correva barcollando verso le case. Avrebbe voluto seguire Volpe Nera, ma la madre del clan della Casa del Lupo lo afferrò. Lo prese fra le braccia e quasi lo trasportò fino alla porta. Lo sguardo della donna tornò verso di me. Toccava a me camminare attraverso la doppia fila. Le donne non devono correre. La folla abbassò le armi e si fece da parte per lasciarmi passare. Fummo lavati, nutriti con abbondanza, rivestiti con abiti nuovi. Ci eravamo dimostrati valorosi e ora eravamo Kahniakehaka. Popolo della Selce. L'adozione è comune in molte nazioni, per sostituire persone morte di malattia o in guerra. Ben presto capii perché eravamo stati accolti nella tribù. La malattia abitava la lunga casa del Clan del Lupo. Era mezzogiorno, ma c'erano ancora persone sulle brande; o si strappavano le vesti nella morsa della febbre, o giacevano in un torpore che rallentava i loro movimenti. Mi avvicinai e vidi che le mani e i volti erano coperti di piaghe e pustole. Avevano la malattia delle macchie, quella che gli inglesi chiamano vaiolo. La madre del clan osservava tutto dal suo posto vicino al focolare centrale, e il suo viso era preoccupato e carico di pena. Una malattia così può uccidere quasi tutti prima di aver fatto il suo corso. Si rivolse a una donna più piccola che si alzò rapida dal suo posto e mi raggiunse. «Mi chiamano Wahiakwas, Colei che Coglie Bacche, sono Pennacook, come te. Sono stata presa in una razzia nel mio villaggio molti anni fa. Mi portarono qui in questo periodo dell'anno, nella luna delle fragole, e fui adottata dai Kahniakehaka». Guardò i corpi distesi intorno. «Si sono ammalati quando è venuto un mercante. Era olandese. Quello che chiamano asseroni, uno che fa i coltelli. Non sapevano che era ammalato, altrimenti non l'avrebbero mai lasciato entrare, ma adesso...» «Quanto tempo fa?» La guardai. «Quanto tempo fa è venuto qui?» «Non molto. È una settimana da quando si è ammalato...» «Quanti sono ammalati così?» «Quattro o cinque per ogni casa...» Era tardi, ma poteva ancora servire, e avrebbe evitato ad altri di prendere la malattia. «Di' alla madre del clan che vorrei parlare con lei». La madre del clan mi portò dal capo. Lui avrebbe dovuto approvare il
mio piano. Era in piedi a un capo della casa, in attesa che mi avvicinassi. Il suo viso era coperto di segni incisi, attorno alla testa portava avvolte pelli di donnola coronate da un cerchio di penne d'aquila. Attorno alla vita portava un notevole carico di cinture wampum. Non era alto, i suoi uomini intorno a lui lo facevano sembrare ancora più piccolo, ma badavano a tenersi a una certa distanza. Indossava il suo potere come un mantello. Ascoltò in silenzio mentre gli spiegavo il mio piano. «Perché?» chiese a Colei che Coglie Bacche. «Perché vorrebbe fare questo?» «Loro sono malati e io sono una guaritrice» risposi, usandola come interprete. «La tua gente ora è la mia gente». «Molto bene». Guardò i suoi guerrieri. «È deciso». La casa fu costruita lontano dal villaggio, fuori dalla palizzata. Mi portarono i malati sui loro giacigli e poi mi lasciarono sola. Chiesi di portare fiori appena colti, tutti quelli che trovavano, per rendere la casa fresca e salubre, e di portare le erbe e le medicine di cui avevo bisogno, raccogliendole nella foresta. Poi dissi loro di lasciarmi e di venire solo per portare altri ammalati. Dovevano lasciare il cibo e l'acqua fresca oltre la staccionata che ordinai di costruire. Avevo già quindici pazienti, di cui molti bambini. Mi disposi a curarli meglio che potevo, sperando che il compito non fosse troppo arduo. Feci un fuoco e misi una pentola a bollire per preparare un infuso di erbe per lavare le loro piaghe e cercare di evitare l'infezione. Presi a pestare e sminuzzare, preparando unguenti e decotti per abbassare la febbre e purificare il sangue. Mentre lavoravo cantavo una vecchia canzone nella mia lingua, 'Presto, presto quando è primavera...' La cantava la nonna nel nostro cottage. Sentivo il suo spirito attorno a me e feci appello a lei perché mi trasmettesse la sua forza. La luce della prima notte sbiadiva mentre sedevo davanti al mio fuoco, circondata da tutti i lati dai gemiti dei malati e dal lamento dei morenti. All'improvviso sentii l'aria nella casa cambiare. Il lembo della porta fu spinto all'indietro e qualcuno entrò. Udii il tintinnio e il raschio di un sonaglio di tartaruga e un volto sbucò dall'oscurità mutevole. Una donna normale avrebbe fatto un salto. Pensai davvero che fosse uno spirito, la manifestazione terrena di un dio. Il cuore mi balzò in petto e gli ordinai di fermarsi. Io non ero una donna normale. Io ero powwaw. Ero una maga.
Attesi, immobile, e lo guardai avanzare in cerchio, come un grosso gatto potrebbe accerchiare la sua preda. Il corpo e gli abiti erano di un uomo, ma il mantello sembrava fantastico, tessuto, pelle e pelliccia, tutto cucito insieme e ornato con dischi di conchiglia, rame e ferro. Il mantello tintinnò mentre lui mi danzava attorno, e il suo viso era enorme, deformato e distorto, con capelli arruffati come ali di corvo, gli occhi due enormi spazi cavernosi, la pelle dello stesso colore del sangue. Frugai nella mia borsa e gli offrii del tabacco. Si allontanò da me col suo morbido passo felino e si avvicinò ai miei pazienti, danzando lungo le file e cantando, agitando il sonaglio sopra di loro, calando le mani sui loro corpi. Anche i più irrequieti si calmarono al suo passaggio, e quando fece ritorno l'intera capanna parve piena di pace e tranquillità. Raggiunse il punto in cui io lo aspettavo in piedi e si fermò accanto a me. Avvertii il potere che emanava, come il calore del fuoco. Si tolse la maschera e mostrò un volto brutto e deforme quasi quanto la sembianza che l'aveva nascosto. Un occhio era chiuso, la palpebra floscia. Un enorme taglio, fatto da un tomahawk o da un'accetta, fendeva quel lato del suo viso dalla fronte alla mascella, intaccando il segno del Clan dell'Orso che portava sulla guancia. L'altro lato era intatto. Il solo occhio scuro brillava d'intelligenza, ma la pelle era profondamente solcata da brutte cicatrici. Rimase lì davanti a me, un uomo, ora, e un uomo segnato, ma io non avvertii alcuna diminuzione del suo potere. «Sono Satehhoronies, Alto Cielo, perché vedo lontano come un uccello che vola alto». Mi rivolse l'occhio cieco. Capii che cosa voleva dire: non servono gli occhi per vedere. «Sono Ronaterihonte, Colui che Tiene Fede. Sono anche un guaritore, come te». Alzò la maschera che reggeva fra le mani. «Questo è colui che divento quando faccio le cerimonie. Questo è colui che mi porta il potere di guarire. Questo è intagliato nel legno di tiglio vivo; ha molto orenda, quello che tu chiami manitou». Parlò nella lingua usata dalle tribù del New England. Quando lo guardai, rispose al mio pensiero. «Parlo molte lingue». Ripeté la frase in inglese, poi in francese e in quello che ritenni olandese. Poi sorrise e il suo viso diventò quasi bello, mostrando come doveva essere stato prima di essere così devastato e sfregiato dalla malattia e dalla guerra. «Sono venuto per aiutarti». Le mani gli salirono al viso e sfiorarono la pelle bucherellata. «Come puoi vedere, ho avuto questa malattia prima». «Quelli che l'hanno avuta una volta di solito non si ammalano».
«È vero. E tu? Questa malattia uccide anche l'uomo bianco». «Quando ero piccola l'ho avuta in una forma più debole. Vaiolo delle vacche, la chiamava mia nonna. Me l'ha data lei». «Te l'ha data?» Annuii. «Ha preso della materia da una delle piaghe sulle mani di una lattaia, poi ha fatto un taglietto nella mia pelle. Chi guariva da quella malattia non prendeva mai la forma peggiore, così diceva, e credo che sia vero». «Potrebbe esserci della saggezza in questo». Si allontanò dal fuoco e mi tese la mano. La sua stretta era calda e forte. «È una cosa buona quello che fai, Mary». «Come fai a conoscere il mio nome?» «Io so molto». Il suo sguardo diventò remoto e misterioso. Poi aprì il suo sorriso storto. «Potrei dire attraverso la magia, ma in verità me l'ha detto il ragazzo. Ora hai un nuovo nome, lo sai?» «Come mi chiamano?» «Ti chiamano Katsitsaioneh, che vuol dire Colei Che Porta Fiori. Vieni, c'è molto da fare». Così rimase e mi aiutò a combattere la malattia, e io devo ammettere che senza di lui sarei stata tra i morti che ogni giorno portava via. Aiutò a curare i malati e diede conforto ai morenti. Quando andavano al di là di noi, seppelliva i loro corpi con tutte le dovute cerimonie. Ma continuavano ad arrivarne, sempre di più. Un giorno mi chiese di nuovo della saggia idea di mia nonna per guarire l'epidemia. Glielo dissi e rimase seduto a riflettere per lungo tempo. «Forse possiamo fare lo stesso. Prendere la materia da uno quasi guarito e introdurla sotto la pelle degli altri della tribù». «E se muoiono?» «Se continua così» mi rivolse uno sguardo desolato «moriranno tutti. Parlerò con i miei fratelli guaritori. Poi potremo discuterne in consiglio, poi il popolo deciderà». Non credevo che avrebbero acconsentito a mettere in atto un piano così drastico, e venne discusso a lungo attorno al fuoco del consiglio, ma alla fine fu approvato. Nessuno di noi sapeva se la nostra cura avrebbe funzionato. All'inizio parve peggiorare le cose, ma via via i casi divennero sempre meno, finché
un giorno non arrivò nessuno. Il tempo si estese a una settimana, poi due. Nessun altro venne da noi con la malattia. I pazienti rimasti si ripresero. Dopo mesi di lavoro estenuante, non avevamo più niente da fare. Uscimmo quando le foglie non erano più verdi, e il popolo ci acclamò, ci acclamò entrambi. 40 La casa della medicina Tutti i miei pazienti se n'erano andati. La casa che era stata fatta per loro era vuota. Mi disposi a pulirla, spazzai fuori e bruciai i pagliericci, poi arsi ginepro e tabacco per purificare. Non c'erano fiori in quel tempo, così raccolsi abete e pino per il loro aroma fresco e acuto. Mentre lavoravo, l'idea mi colpì nitida come una campana che suona. Non mi sarei unita agli altri nella lunga casa del Clan del Lupo all'interno della palizzata. Sarei rimasta lì. I malati sarebbero venuti da me. Mi sarei presa cura di loro, proprio come la nonna mi raccontava che facevano le suore molto tempo fa, prima che gli uomini di Re Henry le cacciassero via e lasciassero che il loro convento, infermeria e tutto, andasse in rovina. Spiegai a Satehhoronies che questo era ciò che intendevo fare. Rifletté per un po', poi disse: «Il popolo mi rispetta, ma mi teme, anche». Sfiorò la maschera a terra vicino a lui. «Temono questa». Poi portò la mano al viso sfigurato. «E temono questo». Scosse il sonaglio di tartaruga. «Temono questo, ohtonkwa, lo spirito, ma tu non temi nulla. Io starò con te». La compagnia non mi mancava. Wahiakwas, Colei Che Raccoglie Bacche, veniva spesso a trovarmi, portando altre donne, e sedevamo e lavoravamo insieme. Mi mostrarono come lavoravano la corteccia di betulla e le pelli con peli di alce tinti. Io mostrai loro come mi era stato insegnato a ricamare, usando aghi d'acciaio ottenuti commerciando con gli olandesi, e lavoravamo insieme, rendendo belli gli oggetti normali. La prima cosa che feci fu una scatola per le cose a me care, la seconda fu un fodero di pugnale perché Ephraim lo indossasse alla sua cerimonia del nome. Ephraim veniva a trovarmi spesso. Gli piaceva parlare con Satehhoronies, perché lo sciamano aveva viaggiato molto e il ragazzo adorava ascoltare i suoi racconti sui luoghi che aveva visitato.
Satehhoronies scelse il nuovo nome di Ephraim. Sarebbe stato chiamato Kaheranoron, Strani Ciuffi di Grano. Il nome era appartenuto a uno che era partito per il mondo degli spiriti e la cerimonia del nome si tenne al banchetto del grano maturo. Era un'occasione importante, che segnava non solo l'accoglienza di Ephraim nella tribù e nel clan, ma anche il suo primo passaggio all'età adulta. Era tempo che lasciasse il fianco di sua madre. Io mi sarei preoccupata per lui, perché non aveva padre ora che Bagliore di Fuoco se n'era andato, ma Volpe Nera ci sarebbe stato. L'avrebbe aiutato. Anche Volpe Nera ebbe un nuovo nome. Ora era Tekaionhake, Due Fiumi. Un nome che gli era stato dato da un altro che era arrivato da Kaniatarakaronte, la Porta del Paese, il nome Mohawk per il lago Champlain. Fu accettato e ammirato per la sua forza, il suo coraggio e il valore con le armi. Ephraim non poteva chiedere una guida migliore nel mondo degli uomini. Ephraim cresceva di giorno in giorno, proprio come il granoturco del suo nuovo nome, e diventava forte, abile nella caccia e nei modi dei guerrieri. Io lo osservavo con l'orgoglio che ogni madre prova e sentivo la pena di una madre, anche se non lo lasciavo trapelare. Sapevo che non avrebbe preso il sentiero di guerra e ne ero felice, ma sapevo anche che non sarebbe rimasto lì. I ritmi della vita del villaggio erano troppo lenti per lui. Era avido di eccitazione e via via che cresceva, cresceva anche la sua inquietudine. In primavera gruppi di guerrieri andarono a Kahnawake, il villaggio Mohawk fuori da Mount Royale. Andarono a prendere pelli di castoro dalla gente che viveva laggiù, da vendere ad Albany perché i prezzi olandesi erano più alti. Un gruppo ci andava ogni anno; era un gruppo così che ci aveva trovato semiannegati sulla riva del lago. Ephraim era desideroso di andare con loro. Tornò, sano e salvo, ma sapevo che sarebbe venuto l'anno in cui i guerrieri sarebbero ritornati e lui non sarebbe stato con loro. Non aveva mai dimenticato le storie che aveva sentito a Missisquoi, raccontate attorno ai fuochi fumosi dai coureurs des bois. Sapevo che era solo questione di tempo prima che andasse a unirsi a loro. La distanza era già lì nei suoi occhi, il desiderio di ampi orizzonti e cieli remoti. «Vado di nuovo a nord, Mary» venne a dirmi appena prima della partenza del gruppo. Usava ancora il mio nome inglese quando eravamo soli. «E questa volta non tornerai?» gli chiesi, indovinando la sua risposta. Non rispose subito. «Ti ricordi quando ti ho regalato questa?» Prese la collana di artigli d'or-
so che portavo ancora attorno al collo. «Ero così orgoglioso. Volevo così tanto essere tuo figlio, fare tutto quello che sapeva fare Volpe Nera...» «Sei un figlio per me. E io sono fiera di te». Tesi la mano a toccargli il viso. Era alto, ora, e la sua guancia era coperta da una sottile peluria bionda. Il suo corpo aveva le linee definite di quello di un uomo, ma aveva il sorriso grande di un ragazzo e i suoi occhi erano pieni di speranza e attesa. «E ti renderò ancora più fiera, Mary. Ho in mente di raggiungere quei francesi. Ho sentito dire che si spingono ancora più a ovest». I suoi occhi s'illuminarono ancora di più al pensiero di questa avventura. «Seguono i laghi, uno che si versa nell'altro, finché l'ultimo è grande come il mare. Ho parlato anche con Satehhoronies, e dice che ci sono enormi montagne al di là, dove l'uomo bianco non è mai arrivato, e pianure e foreste e fiumi che nessun uomo bianco ha mai visto. Porse daranno il mio nome a un fiume, o a un lago, o a un'alta vetta. O forse io ne chiamerò una come te». Mi sorrise di nuovo, ma i suoi occhi azzurri erano annebbiati da visioni del futuro e pensieri d'addio. «Comunque, è là che voglio andare, Mary. Voyageurs, è così che li chiamano, ed è quello che voglio essere». «Allora devi seguire il tuo destino. Prima che tu vada, ho una cosa per te». Sapendo che il giorno stava arrivando, avevo preparato una bandoliera che accompagnasse il fodero del pugnale. La tenne fra le mani, studiando i disegni che avevo fatto, che mostravano la nostra vita insieme: lupo, lince, volpe, nella foresta, sul lago e sulle montagne; il tutto orlato da un bordo di acqua mossa, e fiori e fusti di grano. Se la passò sulla testa e la sistemò attraverso il petto. «Grazie» disse. «Grazie, Mary. La metterò sempre, così ti porterò con me». E poi Ephraim mi lasciò, e non tornò da Kahnawake con gli altri uomini. Si unì a una spedizione francese diretta a ovest. Diventò un voyageur. Veniva a trovarci quando il suo cammino lo riportava da questa parte. Arrivava con un fagotto pieno di doni e una riserva di storie fantastiche da raccontare. Restava un mese, forse più, ma poi diventava irrequieto, desideroso di riprendere i suoi percorsi vagabondi. Non visse mai più una vita davvero stanziale. Mi restava un solo figlio. Volpe Nera, ora Tekaionhake. Avrebbe sempre chiamato Ephraim fratello, ma non intendeva andarsene dal villaggio. Già i suoi occhi erano rivolti verso una giovane donna, Kanehratitake, Colei Che
Porta Foglie. Fu chiaro che presto ci sarebbe stato un matrimonio. Mi dedicai ai preparativi, scambiando tessuto rosso ottenuto dagli olandesi, conciando pelli fino a farle diventare di un candore morbidissimo e tingendo altre pelli di un nero vellutato. Poi cominciai a tagliare e ricamare gli abiti per lui. Feci tutto il lavoro da sola, decisa a far sì che mio figlio fosse il più bello degli sposi. Tekaionhake si uni alla sua sposa nella lunga casa di sua madre. La sua vita era con la tribù, ora. La giovane sposa di Tekaionhake non ebbe vita facile. Temeva per lui come avevo fatto e facevo ancora io, perché lui amava il sentiero di guerra. Si stava dimostrando un guerriero temibile, noto per la sua natura furtiva, era coraggioso fino alla temerarietà e così spietato che si guadagnò l'ammirazione di un popolo noto per le sue qualità guerriere. Era stimato, e il suo valore sarebbe cresciuto. La guerra tra Francia e Inghilterra si stava avvicinando. Queste due nazioni avrebbero messo i popoli nativi gli uni contro gli altri, ma i Kahniakehaka avevano sempre amato la lotta e non c'era modo di tenerveli fuori. Tekaionhake combatté col resto della sua tribù schierandosi dalla parte degli inglesi, il popolo che aveva ucciso suo padre. Tale è la stranezza della vita. La guerra ci teneva occupati, ma io e Satehhoronies curavamo tutti allo stesso modo: malati, feriti, guerrieri o prigionieri, non faceva differenza. La nostra capanna divenne famosa. Non solo tra gli Haudenosaunee, il Popolo della Lunga Casa, ma tra altre nazioni. Molti vennero, e da tutte le quattro direzioni: giovani, vecchi, uomini, donne, indiani, africani ed europei. Insegnammo loro tutto ciò che sapevamo dell'abilità del guaritore. Tutto ciò che chiedevamo loro era che venissero in pace e deponessero ogni odio e differenza, lasciandoli, come le loro armi, fuori dalla porta. È questo il modo in cui vissi la mia vita. 41 Lago Specchio Agnes si sentì liberata. La sensazione fu quasi fisica. Si alzò mentre il sole sprofondava sull'acqua e si diresse alla capanna, il passo più rapido e veloce di quanto non fosse da parecchio tempo. Il furgone di Sim era sparito, ma l'auto di Alison era ancora là. La luce si riversava sul portico dalla porta aperta per metà. Vide Zia M seduta al tavolo. Di fronte a lei sedeva Alison. Erano immerse in una fitta conversa-
zione. La lampada a olio gettava una luce morbida su un caos di documenti e mappe aperte tra di loro. Agnes esitò, poi si fermò, guardando da fuori. Fino a quel momento erano state solo lei e Zia M, nessun altro era stato coinvolto. Zia M risolse il suo dilemma. Si alzò e venne sulla soglia. «Entra, Agnes. Viene freddo e voglio chiudere la porta». Agnes sedette al tavolo per cominciare l'ultima parte della storia di Mary. Alison ascoltò con attenzione rapita fino alla fine, interrompendo Agnes solo ogni tanto per cambiare il nastro del piccolo registratore che aveva portato con sé. «Hanno fondato una società segreta di medicina aperta a uomini e donne, e a tutte le tribù, anche ai bianchi» concluse Agnes. «Ecco tutto. È così che ha vissuto la sua vita». Il dito di Alison premette il pulsante 'off. Alzò lo sguardo verso Zia M, pronta a chiedere se questa società segreta di medicina era ancora attiva ai nostri giorni. Qualcosa negli occhi della donna più anziana le disse che sarebbe potuta essere la domanda di troppo. «Alison deve raccontarti quello che ha scoperto a Montréal». Zia M avvertì la domanda incombente e fu ansiosa di deviarla. Le logge segrete della medicina non si dovevano discutere. «Oh, be'...» Alison rise. «Credevo che fosse una gran cosa, ma sbiadisce rispetto a quello che avete scoperto voi». Guardò Agnes. «Scriverai tutta la storia per me?» «Sì, certo». «Magnifico». Alison sorrise. «Voglio inserirla nel libro 'come fu raccontata ad Agnes Herne'. Appena prima che entrassi, tua zia stava per mostrarmi la scatola». «Ah, sì. La scatola». Zia M si alzò e tirò fuori un baule da sotto il letto. Lo aprì e ne tolse qualcosa. Portò l'oggetto da loro reggendolo nelle mani a coppa, come se stesse trasportando un nido pieno di uova d'uccello. Lo posò al centro del tavolo. Una scatola di corteccia di betulla decorata con ricami di pelo d'alce. Agnes la riconobbe subito. «Potrebbe essere la stessa?» chiese Alison con voce soffocata, gli occhi spalancati come se fosse una cosa viva. Zia M scosse il capo. «Quasi certamente no». Sorrise quando Agnes rimase un po' delusa. «Non credo che sia importante». Rigirò la scatola fra le mani. «I disegni sono la cosa importante, non il materiale. Quelli erano
destinati a rimanere, lavorati da ogni donna che l'ha rifatta. In questo modo sono sempre nuovi». «Fammi vedere». Agnes si protese sul tavolo. Il fermaglio che chiudeva il coperchio era una testina nera di volpe. Non l'aveva notata la prima volta, allora era solo un fermaglio. Era ancora difficile da aprire. Lo torse per farlo uscire dall'anello di erba intrecciata e sollevò il coperchio, inclinando la scatola in modo che anche Alison potesse vedere l'interno. «Oh, cielo!» Alison rimase senza fiato. Agnes non vedeva quegli oggetti dall'infanzia. Non aveva chiesto di vederli appena arrivata. C'erano state questioni più urgenti. Allora non aveva voluto vederli. Ora li guardò. Si chinò, per vedere più da vicino. Sembravano più piccoli, di misure più umane e più sciupati, come succede con le cose ricordate o immaginate, o a lungo attese ma mai viste. Non erano meno speciali per questo. «Prendili» disse Zia M. «Non siamo in un museo». Agnes scosse il capo. No. Non voleva toccarli. Al momento era abbastanza guardarli. Nemmeno Alison voleva toccarli. Non se la sentiva, non prima di Agnes, ma faceva fatica a tenere le mani sul tavolo. «Potrebbero proprio essere suoi» disse, la voce che si alzava per l'eccitazione. «Quella strisciolina di carta sarebbe la sola prova necessaria. E il mezzo scellino d'argento al centro della collana?» Piegò il capo per avvicinarsi. «Deve coincidere. Dovrei portarli con me per esaminarli...» Si rivolse a Zia M, all'improvviso ansiosa, memore di quello che le aveva detto Agnes: non voleva dare nulla per scontato. «Insomma, se, be', se non le dispiace. Se darà il suo permesso». «Non sono miei». Zia M alzò le spalle. «Prego?» Alison era decisamente confusa. «Non sono miei. Non sono io la proprietaria». Fece un cenno verso Agnes. «Meglio chiedere a lei». «Oh, no, Zia M». Agnes alzò le mani. «Non accetto nessun no». Spinse la scatola verso la nipote. «Tienili tu. Te li sei guadagnati. Ora sono tuoi». «No». Agnes sorrise, risistemò con cura il coperchio e spinse la scatola attraverso il tavolo. «Non per ora, almeno. Voglio che li tenga Alison, perché siano studiati. Poi voglio che vadano nella sua mostra». Alison si protese, e le loro mani si incontrarono nell'atto di dare e riceve-
re. Alison era stata quasi sopraffatta dall'emozione, quando aveva visto la scatola aperta. E ora il pensiero che venisse affidata alla sua custodia la fece quasi svenire. Quegli oggetti le venivano prestati, ed era un grandissimo onore. Aveva parlato tutto il giorno; parlato e fatto domande. Ora non riuscì a pensare a niente da dire. Riuscì solo a guardare Agnes e a sorridere in risposta, un sorriso pieno di stupore e gratitudine. «Quel tuo registratore è ancora acceso, Alison?» Zia M si rivolse alla donna più giovane. «La storia non è ancora finita, sai. Allora» e si assestò sulla sedia, unendo le mani sul tavolo. «Tekaionhake, suo figlio, quello che chiamavano Volpe Nera, ebbe una figlia. Fu chiamata Ojijiagauh, Piccolo Fiore, perché era come sua nonna. Aveva il suo aspetto, i suoi modi, la sua risata. Divenne una bella giovane e seguì la strada della medicina. «Quando Katsitsaionneh, Colei Che Porta Fiori, finalmente fu messa a riposare, sua nipote liberò un uccello bianco sulla sua tomba, com'era abitudine, per portare il suo spirito in alto e farlo volare verso le pianure del cielo. Mentre lasciava andare l'uccello, una ghiandaia sfrecciò fuori dalla foresta. Volarono via insieme, sempre più su, finché non furono puntini nel grande azzurro del cielo, finché non furono più visibili. Questa è la storia che mi è stata raccontata. Questa è la storia delle nonne». Agnes ascoltò sua zia che la raccontava e fu come incontrare se stessa sulla via del ritorno. La storia che aveva vissuto e quella appena raccontata ora erano una cosa sola. Questo avrebbe dovuto portare a una sorta di conclusione; invece la fece sentire sola. Ora che Mary l'aveva lasciata, si sentiva vuota e ancora più persa di prima. S'incupì e guardò sua zia, con gli occhi grigi che chiedevano aiuto. «A volte è difficile». Zia M si alzò. «È difficile per noi trovare il nostro posto, capire dove stiamo nel mondo. Per come la vedo io è così». Zia M aprì un'altra scatola ed estrasse una cintura wampum. Era lunga una sessantina di centimetri e larga una quindicina, fatta di numerose perline bianche e viola lavorate in un motivo ripetuto. «Mai visto una di queste?» chiese ad Alison. «Solo in un museo, ma so quanto sono importanti». Sapeva che le cinture erano molto speciali, sacre. Leggi, trattati venivano stretti con quelle. Contenevano la storia del popolo. «Sono contenta». Zia M era severa. Non le piaceva il modo in cui i wampum, gehsweda, erano stati disonorati, sviliti e trattati senza alcun rispetto nel corso degli anni. Prima dagli europei che avevano confuso il valore con il denaro, poi dai collezionisti, e
ora da gente ignorante che usava la parola come un termine dello slang. «Wampum non è mai stato usato dai popoli nativi come denaro. Queste cinture portano il mondo, il codice, la legge. Sono sacre, sono una parte vivente di noi. Vengono ancora usate e lo saranno sempre. Ciascuna perlina è trattata con grande rispetto, ma ciascuna perlina è molto piccola». Mostrò lo spazio di mezzo millimetro tra pollice e indice. «Da sole cadono e si sparpagliano». Aprì il palmo e voltò la mano. «Ma se le metti insieme hai qualcos'altro. Insieme fanno qualcosa di grande. Insieme conservano il mondo». Guardò Agnes. «È così che la vedo: tu, io, Mary, le persone della sua vita, la gente di cui Alison ha scoperto tante cose, Alison stessa, noi siamo come le perline di questa cintura. Guardaci separate e non riesci a dire molto. Ma mettici insieme e potrai leggere la storia tutta intera». Note storiche Nota 1. Elias Cornwell (? 1631-1713) Il reverendo Elias Cornwell fu uno scrittore prolifico. Il suo archivio contiene molte pubblicazioni, compresi libelli e sermoni, anche se sono i diari che qui ci interessano. Questi si estendono per parecchi volumi, coprendo tutta la vita del religioso, dai suoi giorni a Cambridge alla sua carriera finale come integrato e rispettato ministro a Boston. I passi che si riferiscono al suo periodo a Beulah sono interessanti perché forniscono una prospettiva molto diversa della fuga di Mary da Beulah, e offrono anche ulteriori informazioni sul destino di altri coinvolti nella sua storia e sul destino della comunità stessa. I passaggi significativi sono qui riportati. Estratto dai diari di Elias Cornwell (dai volumi 6 e 7) 1° Novembre 1660 Mi corre l'obbligo di riferire di alcuni dolorosi e terribili eventi di recente occorsi qui a Beulah. Essi riguardano l'orfana Mary Newberrie. Questa fanciulla (esito a definirla tale, così insudiciando, come lei fa, tutto il genere femminile, non ultime le immacolate vergini, gli autentici fiori della nostra comunità, che ella ha usato con tanta crudeltà), fu accolta tra noi con suprema carità cristiana. Del tutto ignari, noi covammo in seno un
serpente, una serva del Maligno stesso. Solo Dio sa quale strage ci avrebbe inflitto se non fosse stata scoperta. Ma Egli veglia sempre su di noi, come un padre, ed è mia profonda convinzione che Egli mandò il Suo servo, Obadiah Wilson, come un santo Angelo per liberarci dal male. 2 Novembre 1660 'L'empio fugge anche se nessuno lo insegue' (Proverbi, 28, 1) e così fu con lei. È fuggita dalla città. E benché abbiamo cercato con grande cura, per una notte e un giorno in un'area assai estesa, nessuna traccia di lei fu reperita. Gli uomini hanno fatto ritorno dalia battuta di ricerca. Il tempo si è volto a un rigore alquanto stravagante anche per questo duro clima, con gran gelo e neve che vola troppo rapida perché si veda alcunché. I gruppi dei cercatori hanno rischiato di perdere uomini, o cani, o entrambi. Non hanno trovato nulla. Nessuna traccia. Niente orme nella neve, che ricopre il suolo di uno spesso strato. Alcuni dicono che è stata lei a evocare la neve per nascondere la sua fuga e ha riempito le proprie tracce via via che le lasciava. Altri dicono che non ci sono tracce. Dicono che è volata via, come si dice che quelle della sua razza siano in grado di fare. 3 Novembre 1660 La neve ha turbinato e il vento ha ululato tutta la notte scorsa. Con la luce del giorno finalmente la tempesta si è placata, ma la neve raggiunge le gronde delle case. Ritengo inutile cercare ancora, ma il reverendo Johnson manda ancora fuori gli uomini e ordina loro di portare con sé tutti i cani che hanno. È deciso a non lasciarla fuggire. 5 Novembre 1660 Gli uomini sono di ritorno e riferiscono che non c'è ancora traccia di lei. È come se fosse sparita. I più superstiziosi si aggrappano con forza ancora maggiore alla certezza che sia volata via su un bastone o sia stata portata via dai diavoli. I meno fantasiosi sono inclini a credere che giaccia sepolta nella neve, congelata nella foresta, o che sia stata presa dai lupi o da altre feroci creature selvagge che abitano nei suoi recessi. Io prego con fervore che così sia e che questa perfida creatura, questa figlia di Satana, sia davvero perita. E pensare che io ebbi teneri pensieri verso di lei! Il sangue mi si raggela nelle vene a questo pensiero. Il reverendo Johnson, saggio per tanti altri
aspetti, fu saggio anche in questo. Perché mi mise in guardia anche quando cercai di proteggerla e protestai la sua innocenza, citandomi dai Proverbi, Capitolo 5, versi da 3 a 5: 'Stillano miele le labbra di una straniera e più viscida dell'oro è la sua bocca; ma ciò che segue è amaro come assenzio, pungente come spada a doppio taglio. I suoi piedi scendono verso la morte, i suoi passi conducono agli inferi.' Queste furono le sue parole per me, ma io ero troppo cieco per vedere. Ammetto che fui uno sciocco credulone a essere quasi circuito dalle sue astuzie, ma non devo trattare me stesso con troppa durezza. Fui crudelmente gabbato. Perché le sue paróle erano mielose, e conquistatori erano i suoi sorrisi. Era invero bella, e sottile e ingannatrice proprio come il serpente. Sono sfuggito a un terribile destino e ringrazio Dio con grande fervore per avermi liberato da questo demonio femmina, quest'autentica Lilith. 'Trovo che più amara della morte è la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia' (Ecclesiaste, 7, 26). 2 Dicembre 1660 È giunto il disgelo, rapido e inaspettato, e ha portato via gran parte della neve. È stato seguito da un'aspra gelata, che ha ghiacciato le strade rendendo più facile viaggiare. Obadiah Wilson è ansioso di partire: sente che la sua opera a Beulah è compiuta. 4 Dicembre 1660 Obadiah Wilson è stato convinto a rimanere ancora un tratto di tempo. Vi è preoccupazione per una delle ragazze tormentate. Hannah Vane continua a stare assai poco bene. Si teme che altre tra noi siano ancora coinvolte negli affari del Diavolo e che si accaniscano sulla sventurata fanciulla, con gran calo della sua forza e dissipazione del suo spirito. Io invece temo per Obadiah stesso. Perché questa è la stagione dei reumi e delle costipazioni ed egli spesso è scosso dalla tosse e sputa sangue ogni giorno. 20 Dicembre 1660 Il gelo tiene, trasformando tutto in ferro. Di nuovo trovo verità nei Pro-
verbi, 28, 1. 'L'empio fugge anche se nessuno lo insegue', perché Martha Everdale e Jonah Morse se ne sono andati. Anche se questa non è la stagione adatta, essi sono in viaggio. Obadiah Wilson sorride tra gli accessi di tosse. Non c'è fumo senza fuoco, dice, e le streghe di rado lavorano da sole. 6 Gennaio 1661 Forse Obadiah Wilson aveva ragione, perché la picola Hannah si è in certo modo ripresa. Wilson dice che questo è un segno certo che il Male se n'è andato da noi, e io prego che così sia. Lui stesso si prepara a partire. La sua opera qui è compiuta, ma vi sarà bisogno di lui in altri luoghi se il Diavolo non deve irrompere di nuovo nel nostro bel New England. Benché sia un tempo inopportuno per viaggiare, le strade sono compatte e c'è poca neve. Mi sono offerto di andare con lui a Salem, perché non credo che sopravvivrebbe ai rigori del viaggio se viaggiasse da solo. La sua tosse non è migliorata. È poco più che pelle e ossa e di recente una febbre violenta scuote il suo corpo e gli macchia le guance. Ha bisogno dei servizi di un medico e qui non ne abbiamo, ora non abbiamo nemmeno un farmacista, né qualcuno esperto nelle erbe e nelle cure. Se non chiede aiuto presto, temo che sarà troppo tardi. 9 Febbraio 1661 Obadiah Wilson ci è stato tolto, che Dio accolga la sua anima. È morto l'altro ieri, colto da un accesso di tosse che non si è arrestato. È morto di emorragia, tossendo e gorgogliando, annegando nel suo stesso sangue. 1° Marzo 1661 Finalmente volge l'anno, ora il disgelo è avviato, annunciando la Primavera. Le fanciulle tormentate si sono quasi del tutto riprese. Il reverendo Johnson si è preso cura delle sorelle Vane, Deborah e Hannah, da quando la maledizione del tormento ricadde pesantissima su di loro. Deborah, la più grande delle due, sta particolarmente bene. Tutti i tormenti l'hanno abbandonata da qualche tempo ed ella fiorisce in presenza di lui. Sono anche assai soddisfatto dei progressi che ho fatto con Sarah Garner. Ella è diventata la mia responsabilità particolare, e mi vanto di come prospera sotto le mie cure. Tutti gli accessi e le afflizioni sono cessati parecchio tempo fa, e ora ella prospera assai. Invero riterrei la mia opera conclusa, se non fosse che ella m'implora di vederla ancora nel caso che il
male faccia ritorno. Piange quando la lascio, e sua madre dice che geme in modo da far pietà in attesa del mio ritorno. Per parte mia, ammetto che mi sono affezionato a lei. È una bambina assai dolce, così diversa da quell'altra, innocente e ingenua come il giorno. Quando avrò la sensazione che si sia ripresa abbastanza da assumere i doveri coniugali, spero che mi renderà il più felice degli uomini. 14 Agosto 1661 Il tempo permane caldissimo e soffocante, assai sgradevole. I miei timori per il reverendo Johnson aumentano. La sua nuova giovane moglie non è riuscita a risollevare il suo umore ed egli è divenuto ancor più melanconico. Siede nella sua stanza e si arrovella. La sua barba e i suoi capelli sono striati di bianco e sono sempre più incolti. Quando non si trattiene in casa ha preso l'abitudine di vagabondare in lungo e in largo. Temo che stia cadendo vittima di uno sconvolgimento del cervello. Certo trascura i suoi doveri in modo assai vergognoso. Devo visitare i malati in sua vece e ho tenuto il servizio della Domenica quattro volte di fila. 8 Settembre 1661 Notizie terribili oggi. Non ho quasi la forza né la volontà di scrivere. Il reverendo Johnson è stato trovato annegato. È stato scoperto questa mattina, a faccia in giù nella palude. 26 Settembre 1661 Il reverendo Johnson è stato sepolto nel Cimitero, vicino alla moglie perduta un anno fa e a quanti dei suoi bambini furono presi da Dio, anche se alcuni mormorano che non è affatto quello il suo posto e che dovrebbe essere sepolto fuori dal muro. Girano voci insistenti che la melanconia di cui soffriva di recente lo abbia del tutto fatto uscir di senno e che sia colpevole di suicidio. Questa è un'accusa terribile, un'accusa che mi sono assunto la responsabilità di respingere con grande vigore. Come avrebbe potuto un uomo della virtù del reverendo Johnson commettere un peccato tanto orrendo? Come avrebbe potuto voltare le spalle a nostro Signore e seguire il cammino del disprezzato Iscariota sull'albero di Giuda? È un doppio crimine, contro Dio e contro il Commonwealth; non è nella sua natura fare una cosa del genere, eppure la diceria permane. Fu ritrovato in una pozza bassa e salmastra, dove l'acqua è alta meno di un piede.
5 Ottobre 1661 La morte del reverendo Johnson, e soprattutto le sue circostanze, si è abbattuta come un enorme spavento su Beulah. Molti sono stati profondamente afflitti da essa. Non ultima la piccola Hannah Vane. Pare che ciò abbia definitivamente sconvolto il suo senno. Si rifiuta di mangiare e bere e perde peso ogni giorno. Non si alza dal letto dalla notizia della sua morte, ma giace rannicchiata, la faccia rivolta al muro. Sarah è convinta che non resterà a lungo in questo mondo. 14 Ottobre 1661 La morte del reverendo Johnson ha insinuato il dubbio in ogni cosa. Molte delle persone che vivono qui vennero con lui dall'Inghilterra, attraversando i mari su suo ordine, seguendolo nelle Selve, come gli Israeliti seguirono Mosè. Altri vennero dopo, come me, con enorme fede e fiducia in lui e nella sua visione di una Città sulla Collina. Ora molti dicono che questa visione è falsa. Ora dicono che il reverendo Johnson non scelse bene quando fondò questo insediamento. Non era un contadino e le sue visioni lo hanno reso cieco alla scarsa qualità della terra: il terreno è duro da lavorare, ogni acro dev'essere strappato alla foresta, e la palude esala un malvagio miasma e porta zanzare d'estate e mosche fastidiose. 20 Ottobre 1661 John Rivers ha ricevuto notizie dei suoi fratelli, che e venuto qui a cercare. Il raccolto è finito e si prepara a partire. Con i Rivers partono Tobias Morse e sua moglie Rebekah, e la loro bambina. Non so dove andranno, ma ho sentito dire che intendono viaggiare verso sud e ovest, e spingersi fino al Connecticut. 24 Ottobre 1661 La vedova del reverendo Johnson, Deborah, non ha perso tempo nel trovarsi un nuovo marito. La mia buona moglie, Sarah, mi dice che sposerà Ned Cardwell, un uomo inferiore per stato, che fu bracciante dello zio di Deborah. Esprimo la mia enorme sorpresa. Dico a Sarah che Cardwell deve sposarla per il denaro. So che il reverendo Johnson ha lasciato sua moglie ben fornita. Sarah dice che dev'essere così, ma di recente ho appreso che Deborah e Cardwell avevano da tempo un'intesa, forse qualcosa di più. Non voglio naturalmente riferirlo a Sarah. Simili discorsi offende-
rebbero la sua modestia e le farebbero salire il sangue alle guance. 26 Ottobre 1661 Hannah Vane non è vissuta abbastanza da assistere alle nozze della sorella. È morta oggi, di consunzione. 27 Ottobre 1661 Deborah e Ned Cardwell sono sposati, ma Sarah mi dice che pensano di partire per Gloucester. Ned ha chiuso con la terra, così dichiara, e vuole far uso della ricchezza appena trovata per aprire una taverna. Gloucester è un porto di mare e dunque offre opportunità per iniziative di quel genere. Anche altri parlano di andarsene. Un nuovo insediamento è sorto su a nord dove il nostro piccolo fiume si unisce a un corso più grande. Il reverendo Johnson s'incupiva all'idea di avere relazioni con i nostri vicini, temendo influenze empie, ma ora se n'è andato e giunge notizia che quest'altra città sta cercando coloni e che la buona terra abbonda di pesce nel fiume e di ricche praterie. 1° Novembre 1661 Io stesso ho deciso di lasciare Beulah. Intendo portare Sarah e il bimbo che aspetta (perché abbiamo questa benedizione!) a Boston e cercare un ministero laggiù. Ho sempre trovato che la gente qui fosse di scarso livello, ignorante e per la maggior parte non istruita. Desidero vivere in una comunità più adatta a me, che offrirà opportuno nutrimento alla mente e allo spirito. Anche così, sarei rimasto per compiere l'opera del Signore qui a Beulah, se la gente avesse ritenuto opportuno scegliermi come guida spirituale. Invece ne stanno cercando un altro. E così sia. Nota 2. Deborah Vane Da un'indagine nei registri della Contea dell'Essex risulta che non ebbe fortuna dopo aver lasciato Beulah. Dopo le nozze con Ned Cardwell, i due si trasferirono a Gloucester e acquistarono una taverna. Non molto tempo dopo cominciarono ad apparire nei registri del tribunale per comportamento violento, spesso l'uno contro l'altro. Ned fu spesso il denunciante.
1. Testimonianza di Ned Cardwell contro Deborah Cardwell per una denuncia di aggressione comune, registri del tribunale dell'Essex, 1665: Mi afferrò alla gola e col suo pugno mi percosse nel petto così che svenni per mancanza di fiato. Poi mi sovrastò con una scure, costringendomi a fuggire... 2. Testimonianza di Deborah Cardwell appellantesi all'autodifesa: Dopo che mi ebbe inferto copiosi colpi, mi minacciò con la frusta e col pugnale, e fece uso di me in guisa assai barbara. Decisione della corte: l'imputata fu ritenuta non colpevole, ma entrambi furono ammoniti perché correggessero i loro modi per 'i loro parecchi comportamenti rissosi' con minaccia di multe e di frustate. Altre denunce per ubriachezza (entrambi) nel 1667, 1668, e per gestire la taverna in modo dissoluto. Nel 1669 furono entrambi accusati: Per aver ricevuto nella vostra casa e offerto ospitalità a compagnie turbolente e aver loro somministrato vino e acque forti fino all'ebbrezza e questo non senza qualche iniquità sia nella misura che nel prezzo di ciò. Licenza revocata. Il nome di Deborah Cardwell compare in una lista di passeggeri del 1670 della nave Fortune diretta in Virginia. Non c'è traccia di Ned Cardwell sulla lista dei passeggeri. Nel 1673 Mistress Cardwell, proveniente dal Massachusetts, comparve davanti ai giudici per aver acconsentito che la sua abitazione diventasse 'un'autentica casa di donnacce e luogo d'incontro per canaglie, prostitute, persone dissolute e ladruncoli'. Questo è l'ultimo riferimento documentato a Deborah. Nota 3. Il destino di Beulah Beulah scomparve dai registri storici a un certo punto degli anni sessanta, nel Seicento. Questa scomparsa non è poi così sorprendente. Molte città sorsero in quel periodo; mentre alcune crebbero, altre decaddero e morirono. Ciò poté accadere per una serie di ragioni: alcune erano troppo isolate
da altre comunità, vulnerabili all'ostilità dei popoli locali, altre erano state fondate in luoghi poco adatti. In altre ancora gli abitanti avevano litigato tra loro. A volte il governo era troppo rigido o troppo permissivo, e questo fece sì che i coloni se ne andassero e non venissero sostituiti. Se la popolazione scendeva sotto una soglia critica, allora l'insediamento non era più vitale. Senza documenti storici, vi possono essere solo prove archeologiche. Beulah? forse fwd fr Toni T: FROM: InHouse Archaeology http://www.InHouseArch.com/editorial/20010408/1047257.asp Ultimi ritrovamenti Un sito tra Lowell e Billerica sta riservando scoperte interessanti. Il responsabile del sito, Ed Jordan, professore associato di Antropologia, ha riferito sugli scavi della scorsa estate. Jordan e i suoi studenti hanno trascorso due settimane la scorsa estate portando alla luce un sito che ha fornito all'università locale l'opportunità di esaminare com'era la vita dei coloni europei a metà del diciassettesimo secolo. Mentre alcuni dei siti che sono stati esaminati hanno migliaia di anni, lo scavo del programma dell'estate 2000 ha preso in esame il 'Sito Dowell' nell'area di Billerica. Si riteneva che il sito fosse stato una comunità inglese esistita tra il 1650 e il 1670, afferma Jordan. Le scoperte del sito sono ora in mostra nella biblioteca locale. Jordan ha deciso di prendere in esame il sito dopo che alcuni archeologi dilettanti negli anni Settanta scoprirono quelli che ritennero i resti di una casa delle assemblee. Le fondamenta di questo edificio da allora sono state soggette a scavi. Gran parte dei ritrovamenti sono di origine europea e datano al periodo coloniale. Essi comprendono: pezzi di fornello e cannello di pipa di argilla, chiavi e cardini arrugginiti, la fibbia di una cintura, vasellame, vetri e palle di piombo da moschetto. Ma in un interessante sviluppo dell'indagine, materiali di pietra incorporati nell'edificio sono stati presuntivamente identificati come risalenti a origini native americane. Altri ritrovamenti datati al periodo Tardo Boschivo comprendono resti di conchiglie e letame, perline e punte di freccia. Fondi sono stati stanziati per l'estate prossima, con gran sollievo di Ed Jordan e della sua squadra. Ed ha commentato: «Questa è un'eccitante opportunità di esaminare la continuità d'uso di un sito particolare. C'è ancora
molto lavoro da fare. L'indagine completa del sito potrebbe richiedere anni». Nota 4. Jonah e Martha Morse Sposati nel 1662. Stabilitisi a Boston. Jonah aprì un'attività di farmacista in quello che oggi è il North End, scegliendo una posizione vantaggiosa su un'importante via di passaggio tra la Baia di Old Mill e il Town Dock. Fonti di possidenti terrieri documentano che acquistò una proprietà composta di casa e negozio, con un giardino sul retro dove probabilmente seminò e coltivò un orto di erbe medicinali. Documenti: Droghe e Medicine Mr Jonah Morse di recente ha ricevuto un assortimento generale di Droghe e Medicine della miglior qualità che vende all'ingrosso e al dettaglio nel suo negozio sulla strada da Baia a Baia In più Varie Tinture Chimiche Appena Giunte dall'Inghilterra Manifesto pubblicitario di proprietà della Boston Historical Society. La Società possiede anche un piccolo pamphlet, Alcune Ricette: Per la Tosse Prendere un'oncia di cavolo di prato, un'oncia di lobelia, mezza oncia di rapa indiana, una quarta oncia di sanguinaria, una manciata di marrubio o lo stesso di farfara. Aggiungere altrettanto peso di miele purificato, polverizzare gli ingredienti, mescolare e lasciare che il paziente prenda quanto lo stomaco regge. Continuare fino a ristabilita salute. Per l'Itterizia Prendere parti uguali di radice di colubrina bianca, lappola, romice, tarassaco e teste di primula, mettere in infusione insieme e bere fino a rista-
bilita salute. Questa cura è certa. Notare la combinazione di piante di origine inglese - farfara, tarassaco, primula - e di quelle native dell'America: radice di colubrina, bianca e nera, simplocarpo, rapa indiana. Il testamento di Jonah Morse, datato 1672, comprendeva: Barattoli assortiti 1 alambicco di rame 1 alambicco di vetro 1 alambicco di ceramica 2 pestelli & mortai (uno grande di pietra, uno piccolo di ottone) 1 bilancia 1 stipetto e contenuti a mia moglie, Martha (o il profitto della vendita di essi) Martha continuò a vivere e a lavorare un po' in negozio fino alla morte nel 1674. Il testamento di Martha Morse comprendeva: «2 sgabelli di frassino, 5 sedie di quercia (una assai ben intagliata), un tavolo grande di quercia, un grande cassettone di legno di quercia, una panca da focolare, un letto, una ciotola d'argento, cucchiai e candelabro» a Tobias Morse. «La mia Miglior Gonna di Lana Rossa, il mio Giubbetto Grigio Pallido di lana, il mio Grembiale bianco d'Olanda con un pizzetto in fondo» a Mistress Humpries, vicina. A Rebekah Morse: «Il mio colletto di seta nera e 2 iarde di pizzo e 6 iarde di Tessuto Rosso, una scatola di legno con coperchio intagliato e trapunta in essa contenuta». Jonah e Martha Morse sono sepolti insieme nel Cimitero di Copp's Hill. Nota 5. Rivers-Morse Dai documenti privati della famiglia Rivers/Morse. Corrispondenza tra Sarah Rivers e Rebekah Morse. Luglio 1675 Mia cara figlia, T'invito di tutto cuore a unirti a noi. È scoppiata la guerra tra coloni e indiani. I disordini sono a sud, ma viviamo comunque nel grandissimo ti-
more che si estenderanno alle tribù che vivano in questi luoghi, nonostante la loro apparente amicizia. Tua madre che ti vuol bene, Sarah Rivers Agosto 1675 Mia cara figlia, Le notizie che ascoltiamo servono a nutrire i miei timori per te. Quahog [l'attuale Brookfield] è stata devastata e tutti si preparano a ulteriori attacchi. John, Joseph e Joshua sono stati chiamati a unirsi all'adunata. Solo Noah è con me ora. Qualunque cosa possa pensare, e troppo giovane per combattere. Susannah e Rachel sono qui con me, dal momento che i loro mariti sono lontani, e vorrei che anche tu venissi da me. Hadley non è affatto al sicuro dagli attacchi, ma lo è più di dove sei ora. Sono molto in pensiero per te e i piccoli. Joseph deve accompagnare un drappello che viene inviato a Pocumtuck per rafforzare la guarnigione. Se tutto rimane tranquillo, il suo piano è di scortare te e i tuoi bambini di nuovo a Hadley. Ti supplico di consentirgli di farlo. Tua madre che ti ama tanto, Sarah Rivers Agosto 1675 Mia cara madre, Confido che questa lettera ti trovi ancora sana e salva. Ti sono grata per la tua preoccupatone per me, e conosco bene il pericolo che corriamo qui. Altri stanno partendo per Hadley e Hatfield, e io affido i miei bambini alle tue cure. Joseph dice che li accompagnerà al sicuro da te prima di riunirsi alla sua compagnia. Ammetto che il cuore mi si è stretto nel rivederlo, e soffrirà di nuovo nel vederlo partire, e i miei piccoli con lui, ma onoro i miei voti a Tobias. Il mio posto è con lui. Non abbandonerà tutto ciò che ha costruito qui, e inoltre c'è molto lavoro da fare, con le bestie da accudire e il raccolto in arrivo. Non può fare tutto da solo, e se io non rimango ad aiutarlo, non avremo nulla per l'anno che viene. Non lascerà casa nostra vuota, perché allora gli indiani la saccheggeranno e la bruceranno di certo. Con Joseph e i bambini, mando anche la mia scatola con il suo prezioso contenuto. Prego Dio con tutta me stessa perché ogni cosa arrivi intatta.
Rimango sempre la tua obbediente e affettuosa figlia, Rebekah Morse Settembre 1675 Carissima madre, Ho ricevuto la tua lettera e ringrazio Dio che Joseph ti abbia portato i bambini sani e salvi. Scrivo in tutta fretta. Qui siamo in condizioni disperate. Molti si sono rifugiati nella nostra casa, che è la più robusta della zona. Siamo stati attaccati. L'assalto fu respinto, ma ne temiamo un altro. Eravamo pronti a partire per raggiungere Pocumtuck, assai più sicura, ma ciò non è più possibile. Temiamo che il nemico sia nelle vicinanze e per me sarebbe altrettanto pericoloso partire che restare. Così faccio ciò che posso. Caricherò i moschetti e sparerò, se necessario. Nel frattempo mi occupo del cibo e strappo strisce di lenzuola per fame bende che siano pronte per l'attacco che tutti attendono di ora in ora. L'attacco è giunto all'alba. Un piccolo gruppo, parte di una compagnia più grande, ci ha assalito, sperando senza dubbio di sorprenderci nel sonno, ma noi vegliamo di contìnuo. Gli indiani erano pochi e furono respinti facilmente, anche se abbiamo perso due uomini: uno per un colpo di moschetto alla testa; l'altro trafitto alla gola da una freccia mentre cercava di tornare in casa. Parecchi altri furono feriti, anche se solo lievemente. Anch'essi hanno perduto degli uomini. Quattro corpi giacevano distesi dopo l'attacco. Sono uscita a vedere che cosa potevo fare per loro, ma erano tutti morti. Tra di essi un uomo che ho ritenuto essere il loro guerriero più abile. Così lo definisco dalla statura della sua persona e dalle tinte che portava in viso e da una bella collana che portava attorno al collo, fatta di perline wampum bianche e viola inframmezzate da dischi d'argento e di rame battuto. Uno dei nostri uomini si è chinato per strappargliela e ha levato la spada come per staccargli la testa, dicendo: 'Questo dev'essere Philip in persona!' Ho trattenuto il braccio dell'uomo e l'ho pregato di desistere. Era pronto a discutere con me, ha detto che avrebbe avuto 'la sua testa, perché è questo che gli indiani fanno ai notri morti', ma gli ho ordinato di fermare la mano e ho dato disposizioni che i corpi fossero spostati al limitare della foresta. Ci aspettavamo un altro attacco ma non è arrivato. Gli indiani sono comparsi solo per portar via i loro morti. Poi sono spariti nella foresta e
da allora non li abbiamo più visti. Non sappiamo se si aggirano ancora laggiù, ma dobbiamo cogliere l'occasione. Tobias non crede che sopravvivremmo se tornassero e ci attaccassero in qualsivoglia numero. Partiamo oggi per Pocumtuck. Sperando di essere più al sicuro laggiù. Da dove questa lettera ripartirà per essere recapitata. Non mi aspetto che accada il peggio, ma ho riflettuto su ciò che desidero sia se così sarà. Le mie intenzioni sono queste: Spero e confido che ti prenderai cura dei miei bambini. Se alcuni oggetti di mia proprietà sopravvivranno, dovranno essere conservati per loro. In particolare, la scatola portata da Joseph è per Mary Sarah, da conservarsi per lei e da consegnarle in occasione del suo matrimonio. Essa e i suoi contenuti devono essere conservati da lei, per essere passati a sua figlia, e a sua figlia dopo di lei, e, se non ne ha, alla moglie del suo primogenito. Dille ciò che vuoi della storia della trapunta, ma dille, e con la massima decisione, che non dovrebbe essere usata nella vita quotidiana. Dovrebbe servire, com'è servita a me, come coperta e conforto per una madre e il suo bambino appena nato. Se è la volontà di Dio, ci incontreremo ancora. Fino ad allora, credo nella Sua gran bontà e rimango sempre la tua affettuosa figlia, Rebekah Estratto dalle note di Alison Ellman su Rebekah Morse Rebekah sopravvisse, ma non la colonia da cui partì. Pocumtuck rimase isolata, l'ultimo avamposto della frontiera. Le altre città attorno a essa rimasero deserte, furono bruciate e devastate. Donne e bambini furono mandati via, Rebekah con loro, e solo gli uomini rimasero a combattere. Dopo una violenta scaramuccia in un luogo da allora noto come il Ruscello Sanguinoso, Pocumtuck fu abbandonata, le case bruciate, i raccolti portati via. Divenne una città 'abitata dai gufi'. Tobias sopravvisse e si riunì a moglie e figli nella relativa sicurezza di Hadley. La perdita di casa, fattoria e lavoro dev'essere stata un duro colpo per questo giovane ambizioso, ma almeno era vivo e deciso a ricostruire. Rebekah e Tobias alla fine tornarono con altri a ricostruire la loro città devastata, che fu ribattezzata Deerfleld. La città non sarebbe stata priva di problemi nel futuro, ma la famiglia Morse rimase e prosperò. Alcuni di es-
si vivono ancora là. Nota 6. Trapunta Dall'origine Rivers/Morse della trapunta. Estratto da: Cucire la fortuna, 1916. Eveline Travers Harris si aggiunge alla nostra serie di 'Vecchie trapunte del New England' con un affascinante racconto di famiglia su una trapunta decisamente insolita della sua bellissima collezione. La trapunta Morse Può non apparire granché alla vista, essendo di una sola tinta, e per di più scialba, ma non è il colore o il motivo, l'abilità nella lavorazione o l'intrico dei punti che fa della trapunta Morse (come la chiamiamo noi) qualcosa di speciale. È la sua età a fare questo, e ciò che essa significa per noi. È nella nostra famiglia da sempre, e intendo dire proprio sempre. Non fu cucita qui negli Stati Uniti, o nelle Colonie, come si chiamavano allora. La trapunta fu cominciata in Inghilterra, così ci dice la tradizione familiare, a un certo punto del diciassettesimo secolo, e dunque è davvero assai antica. Venne qui con una delle prime famiglie. Alcuni dicono che un Morse la portò con sé, alcuni dicono che fu un Rivers, e alcuni dicono che in origine apparteneva a qualcun altro, ma una cosa sappiamo per certo. È in famiglia da allora, ed è sempre stata tramandata in linea femminile. Ha visto ogni minaccia e pericolo immaginabile, guerre indiane e ribellioni, per non parlare della Guerra d'Indipendenza e della Guerra Civile, ed è sopravvissuta a tutto, proprio come la nostra famiglia. Quindi significa molto per noi, soprattutto nelle tradizioni familiari che risalgono a quei 'primi tempi'. Si dice che Rebekah Rivers Morse (16431714) di Deerfield fu la prima proprietaria. Quando la diede a sua figlia Mary Sarah in occasione del suo matrimonio, fu con l'indicazione che la trapunta dovesse essere lasciata a sua figlia, e così via. Se non ci fosse stata una figlia, allora la trapunta sarebbe dovuta andare alla moglie del figlio maggiore. Curiosamente, quasi tutte le madri ebbero delle figlie, fino all'attuale generazione. La trapunta non venne mai usata per il suo banale scopo originale; fin
dall'inizio venne custodita gelosamente. Fu conservata nella sua scatola originale ed estratta solo in occasione della nascita di un bambino, quando veniva distesa sopra madre e neonato nella convinzione che avrebbe protetto entrambi in quelle prime settimane pericolose, poiché il parto è stato un momento rischioso sia per la madre che per il bimbo, fino a tempi relativamente recenti. Ora, con gli antisettici e gli anestetici, si potrebbe dire che non abbiamo più bisogno della protezione della trapunta e molti potrebbero sentirsi inclini a liquidare la tradizione come mera superstizione. A costoro vorrei rispondere che nessuno dei neonati che furono coperti dalla trapunta morì, che tutti crebbero sani, e nessuna madre perse la vita per le febbri che ne portavano via così tante dopo la nascita di un bambino. Sono ben decisa a continuare la tradizione familiare. Attendo con ansia il giorno in cui potrò regalare questa meravigliosa trapunta a mia figlia Etta May in occasione delle sue nozze. Eveline Travers Harris, 17 settembre 1916 Eveline Travers Harris morì nel 1981. Trapunta acquistata da J.W. Holden nel 1985. Alla sua morte (1996) entra a far parte della Collezione Holden al Museo della Fondazione Holden. Nota 7. Jack Gill Trascrizione dell'intervista a Richard Gill di Nantucket, 6/4/99. AE: Sto facendo delle ricerche su un uomo chiamato Jack Gill. È suo parente? RG: Sicuro. Su quest'isola ci sono stati dei Gill praticamente dal tempo del primo insediamento. Io mi chiamo Richard Gill. Jack dovrebbe essere il mio bis-bis-bisnonno, bis più, bis meno. [Pausa] Oh, be'. Il vecchio Jack Gill. Jack Gill non era dell'isola. Non era delle prime famiglie, come diciamo noi. Ma è arrivato subito quando è cominciata la colonia. Da Long Island, così dicono, ma era andato su e giù lungo la costa est dalla Nova Scoria alla Virginia, fino alle Indie Occidentali e ritorno. Aveva messo insieme una bella sommetta, ma non riusciva a star fermo, non riusciva a fermarsi, era come se cercasse qualcosa, qualcuno. Poi la sua nave finì qui, fu presa in una tempesta, e lui cercò riparo. Venne a riva e incontrò una ragazza dell'isola. Una carina, come dicono, occhi grigi co-
me il mare d'inverno e capelli d'oro come la sabbia. Forse è pronto a smettere di vagabondare, forse ha smesso di cercare, ma comunque s'innamora di lei e lei s'innamora di lui. Ora, lei sì che era delle prime famiglie, e quacchera, per di più, così quando lo ha sposato si è sposata fuori, noi diciamo così. Lui non è diventato quacchero, ma non ha più lasciato l'isola. AE: E allora che cos'ha fatto? RG: Non voleva più viaggiare per commercio, così si è dato alla caccia delle balene. La si faceva, anche allora, ma poco, rispetto a quello che è successo dopo. Le navi lavoravano dalla spiaggia. Si mandavano delle vedette lungo la costa e quando veniva avvistata una balena una ciurma andava a inseguirla. AE: Che genere di balene cacciavano? RG: 'Balene giuste', soprattutto. Si chiamavano così perché erano quelle giuste da uccidere. Passavano ogni autunno emigrando verso i banchi dove si accoppiavano al sud. Lo fanno ancora, veramente, quelle che sono rimaste, cioè. Be', il vecchio Jack va avanti a fare il baleniere per un po', ma ha idee più grandiose. Porta la sua barca sempre più in là nell'oceano, lontanissimo dalla spiaggia, dove non si vede più la terraferma. Qui cattura un capodoglio, probabilmente la prima volta per sbaglio. Ora, l'olio di capodoglio è di qualità migliore dell'olio di balena giusta. Soprattutto l'olio che ha nella testa, lo chiamano bianco di balena, è chiaro e puro e vale molto di più. È quello che John sta cercando. Sogna di avere una flotta di sloop - sarebbero stati giudicati piccoli secondo i canoni di più in là, trenta, quaranta tonnellate, ma potevano andare nelle acque profonde. Ha dei gran progetti, ma sta diventando vecchio. Non può più farlo lui. Non riesce a reggere il timone o a maneggiare la fiocina. È troppo vecchio per andare per mare. [Pausa] AE: Troppo vecchio per andare per mare? RG: L'ho detto, aveva sessant'anni ormai. [Pausa] AE: Ok. Allora com'è morto? RG: Il vecchio Jack? È morto nel suo letto. AE: Come? RG: Che cosa c'è di sbagliato? AE: Niente. Vada avanti. Continui. RG: Lui affida la sua impresa al figlio Ichabod. Sarà lui a portare gli sloop nelle acque profonde dove Jack sognava di andare. Là darà la caccia ai grandi capodogli.
Ora, queste bestie sono ben diverse dalle balene giuste che erano abituati a cacciare. Queste sono più grosse, più grandi; valgono di più, sì, ma sono anche molto più veloci e difficili da prendere. E cattive. Ha letto Moby Dick? Si sa di capodogli che hanno sfondato navi. [Pausa] RG: Be'. Che cosa stavo dicendo? AE: Di Ichabod. RG: Oh, sì. Ichabod era un quacchero, come sua madre prima di 'sposarsi fuori'. Andava all'Incontro, cosa che Jack non fece mai, e si sposò con una ragazza di una delle famiglie quacchere dell'isola. Era ambizioso come suo padre, ma gli mancava lo spirito d'avventura di Jack, la sua vena originale. Ichabod non lasciava niente al caso. Era rigidissimo e il caso è una cosa con cui i quaccheri non vogliono avere a che fare. Nemmeno con la superstizione, così prima del viaggio, quando il vecchio gli mise in mano quel portafortuna, Ichabod glielo restituì subito, dicendo che non ne aveva bisogno. AE: Un portafortuna? Che cos'era? RG: Mezza moneta d'argento, data a Jack dal capitano di una nave su cui aveva lavorato. Jack se la terme cara per tutta la vita, non andò mai in mare senza. AE: Che cosa successe all'altra metà? RG: Non ha mai voluto dirlo. Secondo me l'aveva data a una fidanzata: è quello che facevano i marinai a quei tempi. Comunque, Ichabod parte senza il portafortuna e non torna indietro. La sua baleniera fu affondata, tutta la ciurma perduta. Quando arrivò la triste notizia della morte del suo unico figlio, il vecchio non si riprese più. Si mise a letto e la sua anima se ne andò con la prima marea. Lo trovarono freddo, una mattina, col pugno stretto attorno a quel mezzo scellino d'argento. AE: Allora fu Ichabod a essere ucciso dalla balena, e non Jack? RG: Sì. È quello che le ho detto. Nota 8. Ephraim Carlton Targa di ottone incorniciata nella pietra sulla riva del fiume Missouri: Questa targa è dedicata alla memoria dei voyageurs Ephraim Carlton, Jan Dupré e Tonsa, nativo e loro guida, che passarono di qui nel Febbraio 1695 e furono tra i primi esploratori ad aprire la strada
per l'esplorazione e la conseguente colonizzazione del vasto continente americano. Altre informazioni sulla madre di Mary, E.G. Identificata in via provvisoria come Elinor Garfield, moglie del colonnello Garfield, comandante dell'esercito di Cromwell e firmatario della condanna a morte di Charles I. Fonti contemporanee descrivono Elinor come una donna d'intelligenza, coraggio e spirito d'iniziativa eccezionali, 'al di sopra del grado ordinario delle donne'. Servì la causa del Commonwealth con enorme lealtà e rimase al fianco del marito nelle più grandi avversità, salvandolo dall'esecuzione quando la monarchia fu restaurata. Nonostante si sappia molto della sua vita adulta, poco è noto della sua fanciullezza e della prima età adulta, a parte il fatto che visse in una grande dimora fuori della città di Warwick, nel cuore di quella che al tempo era la Foresta di Arden. Sua madre morì dandola alla luce, quindi è probabile che fosse stata affidata a una balia (che poteva anche essere Eliza Nuttall). Suo padre e suo fratello furono tra i primi a schierarsi a fianco del Parlamento allo scoppio della Guerra Civile. Furono entrambi soldati nell'Esercito Nuovo Modello di Cromwell. Prima del matrimonio col colonnello Garfield, amico del padre, Elinor probabilmente rimase sola nella sua dimora mentre gli uomini di famiglia erano alla guerra. Possiamo solo supporre che fu durante questo periodo di isolamento che Elinor concepì e Mary nacque. E il padre? Non abbiamo informazioni su di lui. Io personalmente credo che fosse il Re degli Elfi. Alison Ellman, 31 agosto 2001 FINE