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MARGARET MILLAR RAGNATELE (Spider Webs, 1986) 1. Il giudice «In piedi!» «Entra la Corte della contea di Santa Felicia, stato della California. La seduta è aperta. Presidente, il giudice George Hazeltine.» Hazeltine, un uomo alto e scarno, sulla sessantina, avanzava con l'andatura incerta dell'artritico, lasciando sulla sua scia la toga nera svolazzante e un forte odore d'aglio. Ogni mattina, dopo la prima colazione, Hazeltine masticava uno spicchio d'aglio, in parte per motivi di salute, in parte per salvaguardare la sua privacy. La gente ci pensava due volte, prima d'importunarlo con le sue chiacchiere, se doveva fare un sacrificio d'olfatto. Gli avvocati si mantenevano a distanza, e i vari subalterni gli parlavano dalla porta, o non gli parlavano affatto. Per ovviare all'inconveniente, la sua segretaria aveva l'abitudine di cospargersi abbondantemente di profumo, la maggior parte del quale, ironia della sorte, le era stato regalato dal giudice stesso in occasione del Natale, del compleanno e della settimana della segretaria. La giovane donna metteva palline di cotone idrofilo imbevute di profumo nelle tasche, nel reggiseno, e se le appuntava sotto il colletto e negli orli della gonna. A volte qualcuna di queste palline scivolava fuori, e allora il giudice la raccattava, l'annusava e diceva tra sé: "Buono, questo! Ho proprio buon gusto, nello scegliere i profumi" Il giudice sedette, si schiarì la voce e diede una scorsa al foglio dattiloscritto che stava sul leggio. «Si metta a verbale che l'imputato è presente, insieme con il suo difensore, l'avvocato Donnelly, e così pure il Pubblico Ministero, avvocato Owen. Sia messo inoltre a verbale che sono presenti i dodici membri della giuria, come pure i sei di riserva. «Assistente, volete gentilmente distribuire i distintivi ai giurati? Questi distintivi dovranno essere portati per tutta la durata del processo, in modo da consentire l'identificazione dei membri della giuria, cosicché tutti evitino di avvicinarli e di conversare con loro su qualsiasi argomento.»
L'assistente provvide a distribuire i distintivi e i giurati se li appuntarono sulla spalla sinistra. Ora avevano l'aria di un gruppo di attivisti, piuttosto che di giurati. Il più giovane, un apprendista carpentiere che aveva compiuto da poco i ventun anni, aveva portato in aula il suo casco da motociclista e l'aveva messo sotto la sedia. Il più vecchio dei giurati era una donna sulla settantina, che si era rifatta la faccia e si ostinava a tingersi i capelli di nero, benché assumessero sgradevoli riflessi arancione. «Signore e signori, avete udito il cancelliere leggere i capi d'accusa. L'imputato, Cully Paul King, deve rispondere dell'accusa di omicidio perpetrato a scopo di lucro. L'imputato si dichiara non colpevole. Ora gli avvocati faranno le loro dichiarazioni preliminari. Devo avvertirvi che qualsiasi cosa si dica durante le dichiarazioni preliminari, non dovrà essere considerato probante. Gli avvocati presenteranno una sintesi di ciò che intendono dimostrare. Prima di trarne conclusioni, dovrete attendere che siano effettivamente riusciti a dimostrare la loro tesi.» Il giudice fece una pausa. Disapprovava le dichiarazioni preliminari, come pure l'avvertimento che era costretto a dare ai giurati di non tenerne conto. Equivaleva a dirgli che stavano per ascoltare un mucchio di stupidaggini, che avevano il dovere d'ignorare. Se la giuria non doveva tener conto di ciò che si diceva nelle dichiarazioni preliminari, perché non saltarle a piè pari? Il sistema non dava credito né agli avvocati né alla legge, poteva confondere le idee ai giurati e indurli a diffidare di tutto ciò che avrebbero udito nel corso del processo. Era un pessimo modo d'iniziare, quello di costringere i giurati ad ascoltare per un giorno intero e forse più un mucchio di chiacchiere, che poi dovevano dimenticare. Una vera assurdità. Non c'era da meravigliarsi se il sistema giudiziario era al collasso. «La parola spetta al Procuratore Distrettuale» riprese. «Siete pronto, avvocato Owen?» «Sì, Vostro Onore.» «Procedete.» Oliver Owen, il Procuratore Distrettuale, si alzò e si pose di fronte al giudice, con il banco della giuria alla sua destra. Provò il microfono, che in segno di protesta emise un rumore gracchiante, lo sistemò all'altezza giusta, consultò i suoi appunti e infine guardò i giurati. Biondo, di bell'aspetto, sulla quarantina, parlava con voce forte e tono
bellicoso, come se fosse già in violento contrasto con qualcuno, mentre in realtà il caso non era ancora aperto. «Signore e signori della corte, signore e signori della giuria, auguro buongiorno a tutti. «Quello che stiamo per discutere è un caso della massima semplicità. Non dubito che si faranno grandi sforzi per complicare le cose e per confondere le idee. Ma la strada che abbiamo davanti è perfettamente diritta, e ci porta a un uomo solo e a lui soltanto, cioè a Cully Paul King. «Noi, rappresentanti dello stato della California, contea di Santa Felicia, intendiamo dimostrare che Madeline Ruth Pherson, una donna sposata, è stata uccisa per mano di Cully Paul King. «La signora Pherson, moglie di Tyler Pherson, viveva a Bakersfield, in California. Aveva quarant'anni e godeva di una discreta salute. Un lutto recente in famiglia l'aveva lasciata piuttosto depressa, così il marito aveva insistito perché trascorresse almeno una settimana sulla costa. «Il mattino del 1° maggio, la signora Pherson arrivò al Playa Airport di San Diego, e dall'aeroporto si fece portare a Casa Manana da un tassì. Aveva con sé due valigie: una grossa, fornita di rotelle, e un'altra dello stesso tipo, ma molto più piccola. Portava inoltre una borsa di cuoio verde ornato, che misurava all'incirca 30x20x8. Prese alloggio in un albergo di Marina del Playa, nella stanza che le aveva prenotato il marito. «Le due valigie le furono portate in camera, mentre la borsa di cuoio verde fu riposta nella cassaforte dell'albergo dal vicedirettore, signor Elfinstone, su richiesta della signora Pherson. Il signor Elfinstone dedusse che la borsa conteneva oggetti di valore. «La signora Pherson telefonò al marito dalla sua stanza, per comunicargli che il viaggio era andato bene, e gli disse che sarebbe scesa nell'atrio dell'albergo a passare il tempo guardando la gente. Sembrava di buon umore. Aggiunse anche che forse avrebbe fatto un salto al bar a bere qualcosa. Le prove dimostreranno che quésto è ciò che fece esattamente. «Una decisione che doveva esserle fatale. «Fu vista al bar parlare con un uomo di colore in giacca blu e berretto da capitano. Le prove dimostreranno che si trattava di Cully Paul King, l'imputato. «Conversarono per un po', quindi entrambi si alzarono e uscirono dal bar. King si trasferì nell'atrio, mentre la signora Pherson andò al banco della reception, dove chiese di ritirare la borsa verde, senza fornire spiegazioni sul motivo che le aveva fatto cambiare idea.
«Salì in camera sua, portando con sé la borsa verde e la borsetta, e ridiscese poco dopo per raggiungere King nell'atrio. I due uscirono insieme dall'albergo. La signora Pherson indossava una giacca a righe bianche e blu. Non disdisse la camera dell'albergo, e in seguito i suoi indumenti furono ritrovati nell'armadio, appesi in ordine perfetto, le scarpe custodite in sacchetti di plastica e le borse avvolte nelle apposite sacche. Era una donna molto precisa. Quando metteva un abito su una gruccia, non trascurava di chiudere la cerniera o i bottoni, onde evitare che il capo si sformasse. «In seguito, la signora Pherson fu vista salire a bordo dello yacht Bewitched, in compagnia del signor King. Il personale di bordo, cioè Harry Arnold e suo figlio Richie, la videro arrivare. Aveva con sé la borsa verde e indossava la giacca a righe descritta dal signor Elfinstone. «La sua andatura era incerta, e il signor Arnold ne dedusse che aveva bevuto. La donna entrò nella cabina del capitano con il signor King. «Nel corso della giornata furono sbrigate le formalità di dogana e furono fatti i rifornimenti di carburante e di provviste. Lo yacht salpò prima dell'alba, diretto a Santa Felicia. Raggiunto il mare aperto, l'imbarcazione proseguì con il pilota automatico, e Harry Arnold se ne andò a dormire. Doveva fare il turno di notte, una precauzione necessaria in acque come quelle, dove il traffico dei natanti è piuttosto elevato, e dove spesso di notte si alza la nebbia. «Mentre Harry dormiva, Cully King e Richie Arnold sbrigavano il lavoro necessario a bordo, compreso quello di cucinare. La signora Pherson non si fece vedere, benché fosse stata assunta come cuoca. «Le prove dimostreranno che Harry Arnold fece il turno di notte come previsto. Durante la notte udì voci concitate nella cabina di Cully King. La cosa non l'impressionò particolarmente, poiché aveva intuito che la signora Pherson non era stata accolta a bordo per la sua abilità culinaria. «Il mattino successivo, di buon'ora, Cully ordinò di ormeggiare l'imbarcazione al suo solito posto, sul molo 5. Quando comparve sul ponte, non era in uniforme, ma vestito per scendere a terra, in giacca blu e pantaloni grigi. Teneva un fazzoletto ripiegato premuto contro la guancia sinistra. Disse a Harry di avere mal di denti, e aggiunse di aver bisogno al più presto di un dentista. «Quando uno yacht come il Bewitched rientra in porto, l'usanza vuole che il capitano dell'imbarcazione si metta in contatto con il capitano del porto per uno scambio d'informazioni. Questo scambio non ci fu. Sceso a terra, Cully s'incamminò di buon passo verso State Street.
«Harry Arnold preparò la colazione per sé, per il figlio e per la signora Pherson. Poiché la donna non compariva, pensò che stesse ancora dormendo, dopo aver trascorso una notte movimentata. «Quando ebbero terminato di riordinare la cambusa, Harry e suo figlio cominciarono le pulizie del resto dello yacht, e si diressero alla cabina occupata da Cully King e dalla signora Pherson. La signora Pherson non stava dormendo, come Harry aveva supposto. Non si trovava affatto nella cabina. Anzi, non c'erano tracce della sua presenza: né macchie di rossetto sulle federe, né asciugamani bagnati, né capelli impigliati tra le setole della spazzola d'argento con inciso il nome dello yacht, né fazzoletti di carta nel cestino. Benché il letto fosse perfettamente in ordine, la cesta della biancheria sporca era vuota. «Harry Arnold cominciò a dubitare della sua salute mentale. Aveva davvero visto una donna salire a bordo del Bewitched, il pomeriggio precedente? Sì, e un particolare gli era rimasto impresso nella mente, a dimostrazione del fatto che non aveva avuto le traveggole: la giacca a righe bianche e blu che indossava la donna, era identica nel disegno a una delle vele del Bewitched. Non poteva sbagliarsi. Questo particolare gli permise di ricordarne altri: la borsa verde che aveva con sé la donna, e gli orecchini con brillanti incastonati che portava alle orecchie. Ora non c'era traccia di nessuna di queste cose. «La signora Pherson era scomparsa, insieme con la sua giacca a righe e la borsa verde. «Nel frattempo, dove si trovava Cully King e cosa stava facendo? Le prove dimostreranno che si trovava in un banco dei pegni di State Street, per tentare d'impegnare un paio d'orecchini con brillanti incastonati. Questi orecchini appartenevano alla signora Pherson, come testimonierà il marito, e lei li aveva alle orecchie quando era salita a bordo del Bewitched. «Dapprincipio, il signor King pretendeva settecento dollari per gli orecchini, poi ne accettò cinquecento. Addusse il pretesto di aver bisogno di contanti per pagare un dentista, non potendo ottenere credito dal momento che non era conosciuto in città. Sembrava sofferente: faceva smorfie di dolore e si teneva un fazzoletto premuto contro la guancia sinistra, come se gli dolesse un dente. Le prove che l'uomo fingeva ci saranno fornite dall'odontoiatra che presta la sua opera nel locale penitenziario. I denti di Cully King sono tutti in eccellenti condizioni. «Ignoriamo dove il signor King abbia trascorso i quattro giorni successivi. In quattro giorni, possono accadere molte cose. Può essere ripescato dal
mare un cadavere di donna, e leggeri graffi sull'epidermide possono cicatrizzarsi, al punto da non apparire quasi più visibili. Ora, sono certo che la Difesa richiamerà la vostra attenzione sull'aggettivo 'leggeri', da me usato per qualificare i graffi.» Donnelly si alzò. Alto, magro, aveva i capelli grigi del colore del granito. Il suo atteggiamento era assolutamente privo del nervosismo che caratterizzava la maggior parte dei presenti. Non si grattava, non aveva tic, non incrociava le braccia, non spostava il peso del corpo da una gamba all'altra. Ogni parte mobile della sua persona appariva perfettamente sotto controllo Il suo tono suonò annoiato. «Ignoravo che tra i doveri di un Procuratore Distrettuale ci fosse anche quello di leggere nel pensiero.» «Sollevate obiezioni, avvocato Donnelly?» «Sì, Vostro Onore.» «Allora ditelo, in modo che si possa mettere a verbale.» «Sollevo obiezione al tentativo dell'avvocato Owen di leggermi nel pensiero, basando la mia protesta sul fatto...» «Oh, non prendetela tanto sul serio, avvocato Donnelly. La giuria è stata avvertita all'inizio che quanto direte nel corso delle vostre dichiarazioni preliminari potrebbe essere soltanto retorica. Prego, continuate pure, avvocato Owen.» «Mi è un po' difficile riprendere dal punto in cui sono stato così sgarbatamente interrotto.» «Parlavate di graffi» disse il giudice. «Di graffi che si sarebbero cicatrizzati presto sul viso dell'imputato, poiché si trattava di graffi leggeri.» «Grazie, Vostro Onore. Dunque, per quale motivo li ho definiti "leggeri"? Perché gli sono stati inflitti da una donna indebolita dallo sforzo di lottare per la vita, da una donna che tentava di costringerlo ad allentare la stretta delle mani che le stringevano il collo. Una stretta che invece sarebbe stata letale. Vostro Onore ritiene forse che questa sia semplice retorica?» Quante chiacchiere inutili! Il giudice rimase in silenzio, il mento appoggiato sulle mani incrociate, gli occhi fissi al soffitto, come se si aspettasse qualcosa di grosso da un momento all'altro, come una tempesta, un terremoto o un maremoto. Il silenzio era una tattica che il giudice adottava per la prima volta, e che mandò in collera il Procuratore Distrettuale. Per darsi un contegno, l'avvocato si avvicinò alla caraffa dell'acqua e si riempì un bicchiere di carta. Ne bevve un sorso, ma non gli giovò. Il vecchio bastardo mi sta prendendo in giro, si disse, e Donnelly ci gode un mondo.
Ora i tre uomini erano così intenti a squadrarsi, che tutti gli altri presenti in aula parevano non esistere, né la giuria, né il cancelliere, né la stenografa, né l'assistente del tribunale, e neppure l'imputato, Cully King. Anche lui sembrava un personaggio marginale, come se fosse lo spettatore di un incontro di boxe, per il quale era necessaria soltanto la presenza dei due pugili e dell'arbitro. Cully Paul King. Nessuno lo conosceva, nessuno si preoccupava per lui. Era semplicemente un negro proveniente dall'altra parte del continente. Il giudice scosse le spalle per sistemarsi la toga nera, che con il passare degli anni aveva assunto una tonalità verdastra. Non vedeva l'ora di andare in pensione e di disfarsi della toga, che lo faceva sentire come una vecchia cornacchia spennata. «A chi tocca?» domandò all'improvviso. «Avevo fatto una domanda» si ostinò Owen «e aspettavo una risposta.» «Chi doveva rispondere?» «Voi.» «In questo caso, non mancherò di farlo.» Eva Foster, il cancelliere, si sporse verso l'assistente del tribunale, seduto allo stesso tavolo. «Ha bevuto di nuovo. Chiudete a chiave l'armadietto dei liquori.» «Sarebbe una perdita di tempo» rispose l'assistente. «Ha chiavi nascoste dappertutto.» «Voi fate parte della polizia, se non sbaglio. Trovate quelle chiavi.» «Non mancherò di farlo» ripeté il giudice. «Dunque, qual era la domanda, avvocato Owen?» «Ha perduto rilevanza, ormai.» «Peccato. Sì, un vero peccato.» Il giudice aveva l'aria grave di chi sia disposto a sopportare con animo sereno le più dure avversità della vita. «Allora, procediamo.» Si tolse gli occhiali, si strofinò gli occhi e guardò l'imputato come se fosse entrato in quel momento in aula. «Avete qualcosa da dire?» «Non credo. Nessuno mi ha ancora domandato niente.» «Sono certo che qualcuno lo farà.» «Bene, signore.» «Anzi, darò inizio io stesso al procedimento.» La stenografa del tribunale, Mildred Noon, alzò le mani dalla macchina per la stenotipia e avvicinò il più possibile la sua sedia al giudice. «Non credo che sia una buona idea, Vostro Onore. Non sarebbe meglio che con-
sentissimo al Procuratore Distrettuale di terminare la sua dichiarazione preliminare?» «Che consentissimo, Mildred? Noi?» «Va bene, voi.» «Così va meglio. Bene.» Diede una sbirciatina al Procuratore Distrettuale. «Potete continuare, avvocato Owen.» L'imputato sedeva tranquillo sulla sua sedia accanto a Donnelly. Solo le sue pupille sembravano muoversi. Occhi scuri e lucidi che parevano fatti di cioccolata sciolta. La sua pelle era chiara e ramata, di un colore molto ammirato nelle isole che considerava le sue. Nel corso dei suoi trentasette anni di vita, Cully aveva bazzicato parecchi tribunali, nella zona dei Caraibi: uno nella sua isola, l'isola di St. John, uno alle Bahamas e uno a Puerto Rico; quest'ultimo era così minuscolo, che l'aula di Santa Felicia avrebbe potuto contenerlo tutto, insieme con la prigione. Le dimensioni ridotte di questo tribunale, il caldo, l'umidità e il baccano, dovuto al fatto che tutti tendevano a parlare contemporaneamente, facevano sì che i processi fossero brevi. Accadeva raramente che un caso durasse più di un giorno o due. Di solito qualcuno finiva in prigione. Che si trattasse del colpevole oppure no, non aveva molta importanza, visto che il carcere si trovava sul retro della casa del guardiano, la cui moglie, oltre a essere un'ottima cuoca, aveva un'indole liberale. Le piaceva giocare a Monopoli, ma non sapeva perdere. Quando, al termine di una settimana di gioco, si trovò ad avere un debito con Cully di trecentoquarantanove dollari, Cully fu improvvisamente rilasciato e rispedito alla sua nave con un dollaro e ventinove, somma con cui la moglie del guardiano se l'era cavata, adducendo il pretesto che probabilmente lui aveva barato. «Potete procedere, avvocato Owen» disse il giudice. «Sì, Vostro Onore. Harry Arnold e suo figlio Richie rimasero a bordo del Bewitched, in parte perché fosse in ordine all'arrivo del proprietario, signor Belasco, che si trovava a Palm Springs ad assistere il padre malato, in parte perché non sapevano che altro fare. Il loro lavoro non consisteva nell'impartire ordini, ma nell'obbedire a quelli ricevuti. In mancanza di qualcuno che gli dicesse cosa dovevano fare, rimasero ai loro posti. «Richie si divertiva con il surf, mentre Harry trascorreva la maggior parte del suo tempo sulla banchina, chiacchierando con i pescatori. L'assenza prolungata di Cully King e della signora Pherson cominciava a preoccuparlo. Poi, la sera del 5 maggio, sentì alla radio che era stato rinvenuto il cadavere di una donna nuda, rimasto impigliato tra le alghe marine. Il cor-
po era stato issato a bordo di un'imbarcazione che serviva al trasporto degli operai addetti alla trivellazione del petrolio sulla piattaforma. Possiamo desumere che anche Cully King abbia sentito la notizia trasmessa dalla radio, poiché ricomparve a bordo del Bewitched quasi contemporaneamente alla polizia. Più tardi, la stessa sera, arrivò anche il signor Belasco da Palm Springs. Fu lui a suggerire che si esaminasse il diario di bordo, per vedere se risultasse che a San Diego era salita a bordo una donna. Dal diario non risultava. «Quando Cully King fu interrogato dalla polizia, le sue risposte furono laconiche e prudenti. A causa delle dichiarazioni rese dai due Arnold, fu costretto ad ammettere che la signora Pherson era salita a bordo; ma sostenne d'ignorare che fine avesse fatto, e si rifiutò di aggiungere altro, finché non avesse avuto un avvocato che lo rappresentasse. «Prima che il signor King avesse modo di chiamare un legale, ne comparve uno come per magia, subito dopo il suo arresto. Non era un avvocato qualsiasi, ma l'avvocato Charles Donnelly, ben noto non soltanto per aver difeso un gran numero di criminali, ma anche per la parcella salata che pagano i suoi clienti. Non si capisce come mai abbia accettato di difendere King, dal momento che non è ricco.» Donnelly si alzò e si rivolse al giudice. «Le mie parcelle, Vostro Onore, non hanno niente a che vedere con il processo in corso, e non riguardano l'avvocato Owen. Quindi, mi oppongo.» Prima di prendere una decisione in merito, il giudice Hazeltine si appoggiò allo schienale e rimase qualche istante a contemplare il soffitto. Si divertiva a fare aspettare entrambi gli avvocati, poiché questo espediente serviva a rammentargli che quel regno, per piccolo che fosse, era suo e suo soltanto, mentre tutti gli altri erano i suoi sudditi. «Obiezione accolta» disse finalmente. «Non vi è alcuna necessità, avvocato Owen, di accennare alle parcelle dell'avvocato Donnelly, dal momento che non stiamo processando lui per l'alto onorario che si fa pagare dai suoi clienti. Siete pregato di attenervi ad argomentazioni meno irrilevanti.» Il Procuratore Distrettuale protestò. «Considero la questione decisamente rilevante, Vostro Onore, poiché la situazione finanziaria dell'imputato non gli consente di pagare il genere di parcella che presenta ai suoi clienti l'avvocato Donnelly.» «Volete essere ammonito per vilipendio alla Corte, avvocato Owen?» «No, Vostro Onore.» «Allora, procedete con maggiore cautela, come vi è stato chiesto.»
Il Procuratore Distrettuale scosse la testa e riprese a parlare. «Il Bewitched ricevette l'ordine del tribunale di restare in porto, e l'equipaggio di rimanere a bordo. Nonostante le numerose ricerche effettuate dalla polizia, a bordo non fu trovata traccia del passaggio della signora Pherson. «Una settimana più tardi, fu ripescato dal mare un indumento della signora Pherson, rimasto impigliato nella rete di un pescatore. Si trattava della giacca a righe bianche e blu che indossava la vittima quando lasciò l'albergo. Questa giacca sarà presentata come prova. Potrete vederla, e notare con i vostri occhi il particolare più strano che la riguarda. Infatti, la giacca è completamente abbottonata. Perché è significativo questo particolare? Perché esso dimostra che la signora Pherson non indossava la giacca, quando è finita in mare. Né le è stata strappata di dosso dall'azione delle onde o dai pesci. Quella giacca, quando è stata recuperata dalla rete del pescatore, era abbottonata. La signora Pherson, una donna molto precisa, aveva l'abitudine di abbottonare o chiudere la cerniera degli indumenti, dopo che li aveva appesi alla gruccia, per evitare che si sformassero. Dunque, quella giacca è stata tolta da una gruccia e buttata in mare. È logico supporre che il resto dei suoi oggetti personali abbia fatto la stessa fine, anche se per ora non è stato rinvenuto altro. Comunque, la supposizione appare fondata. L'uomo seduto al banco degli imputati è stato visto nell'atto di compiere l'azione.» Gesù, Gesù, pensava il giudice, quanto si compiace questo Owen di ascoltare il suono della sua voce! Se non fossero proibiti i registratori in aula, probabilmente registrerebbe tutto, per farlo sentire la sera in famiglia. Il giudice aveva visto Virginia Owen in diverse occasioni: una donnetta dalla lingua tagliente, insignificante quanto suo marito. Anche le donne più dotate di buonsenso commettono qualche stupidaggine, nella vita; e Virginia non solo aveva sposato Owen, ma gli aveva anche dato tre figli. Al giudice non piacevano molto i bambini, e perciò tendeva a evitarli, soprattutto poi quelli imparentati con Owen. Avevano sicuramente qualcosa che non andava nei loro geni. Il discorso di Owen continuò. Aveva piuttosto l'aria della conclusione, che non della dichiarazione preliminare; uno sfoggio d'oratoria e non una presentazione delle prove che sarebbero state addotte in seguito. Charles Donnelly si mise a scarabocchiare sul foglio bianco che aveva davanti a sé. Disegnò una baracca con la porta sbarrata da due spranghe a forma di croce, il tutto senza staccare la matita dal foglio. Poi un'altra ba-
racca, un'altra ancora, e così via, finché vi furono tre file di baracche sul foglio, perfettamente identiche. Erano anni ormai che continuava a scarabocchiare baracche, senza sollevare la matita dal foglio. Qualcuno, non ricordava chi, gli aveva insegnato il trucco quand'era ragazzo. Una mania innocente, di cui non era il caso di preoccuparsi; ciononostante, ne aveva parlato con uno psicologo, il quale gli aveva suggerito, per fargli perdere il vizio, di non portarsi dietro né foglio né matita. Benché Donnelly sembrasse completamente assorto nei suoi scarabocchi, ascoltava con la massima attenzione ciò che diceva Owen. Nel suo discorso, il Procuratore Distrettuale aveva pronunciato più volte la parola "negro" in tono sprezzante. Uomo negro, donna bianca; il male, il bene; il voodoo e la magia nera contrapposta al buonsenso. Il processo era appena iniziato, e già la meschinità di Owen appariva evidente. Il Procuratore Distrettuale era pieno di pregiudizi, e mentre lui parlava, l'aula andava riempiendosi di messicani, ebrei, neri, orientali, omosessuali, tanto da riuscire quasi a schiacciarlo, impedendogli di fare il suo lavoro. In almeno un caso, si diede la zappa sui piedi: il giurato numero 7, un tecnico di computer di nome Hudson, aveva una sorella felicemente sposata da anni a un uomo di colore. «Avidità» stava dicendo Owen. «La signora Pherson ha fatto una tragica fine a causa dell'avidità di un uomo. L'avidità è uno dei sette peccati mortali, ed effettivamente è stata letale alla signora Pherson. Come potrebbe esserlo per Cully King. Poiché ha per movente il lucro, quest'omicidio ha un'aggravante, e il colpevole non può fruire della libertà provvisoria. Nel caso in cui l'imputato sia condannato, dovrà morire nella camera a gas, o restare in carcere per tutto il resto della sua vita, senza possibilità di uscirne. Questo dimostra quanto sia grave per lo stato della California l'omicidio commesso a scopo di lucro. Voi, signore e signori della giuria, non dovete giudicarlo con minore severità. «Fino a questo momento, mancano le prove per poter valutare l'entità del profitto. I cinquecento dollari versati dal banco dei pegni a Cully King sono soltanto una parte di ciò che King ha ricevuto o sperava di ricavare. Ma con molta probabilità, la somma è assai maggiore. Stando alle dichiarazioni di Tyler Pherson, il marito della vittima, la borsa verde conteneva i gioielli che sua moglie aveva avuto in eredità dalla madre. Questa borsa non è stata trovata, né forse lo sarà mai. Cully King potrebbe averla gettata in mare in un momento di panico, dopo la morte della signora Pherson, co-
sì come ha buttato in mare gli altri suoi oggetti personali. «E questa vi sembra forse vuota retorica? No davvero. Queste sono prove, che saranno sottoposte alla vostra attenzione dal banco dei testimoni, per l'esattezza da Harry Arnold, che ha assistito alla scena.» Durante la pausa che seguì, si udì un lungo e profondo sospiro di scetticismo. Impossibile stabilire da che parte venisse, se dal tavolo della Difesa, o da quello del cancelliere, oppure dalla prima fila del pubblico. Il giudice era più propenso a ritenere che fosse venuto dalla Difesa. Rivolse l'attenzione a Charles Donnelly. Ecco un uomo che l'aveva incuriosito fin dalla prima volta che l'aveva visto. Un tipo strambo, si disse il giudice. Diede una rapida occhiata all'orologio appeso alla parete, poi al suo orologio da polso, e riscontrò una differenza di due minuti. Decise di prestare fede all'orologio a muro, che andava avanti. «Avete quasi terminato, avvocato Owen?» domandò. «Ho finito, Vostro Onore.» «Bene. La Corte si ritira per un quarto d'ora. I giurati evitino di discutere il caso con altri e tra di loro.» Si sporse da un lato per dire qualcosa all'orecchio della stenografa. «Mi avete sentito pronunciare la parola "bene", Mildred?» «Non ne sono certa, signore. Pensavo che forse vi siete schiarito la voce.» «Infatti, è ciò che stavo facendo.» Prima di sfilare il foglio dalla macchina della stenotipia, Mildred cancellò la parola "bene". Lei e il giudice lavoravano insieme da moltissimo tempo. Qualche volta, in privato, le veniva fatto di ironizzare sul suo conto, ma lo chiamava "signore" e lo rispettava sinceramente, per la sua abilità e per il buonsenso di cui dava prova. Avrebbe dovuto risposarsi molti anni prima, pensava, mentre ripiegava più volte a forma di otto il lungo nastro della macchina. Eva Foster, il cancelliere, annotò sul suo taccuino la durata della sospensione. Aveva udito lo scambio di parole tra il giudice e la stenografa, e non le era sfuggito il gesto di Mildred, quando aveva cancellato la parola "bene". Dopo che giurati e spettatori furono sciamati fuori, si avvicinò a Mildred, sulla porta. «Non avresti dovuto farlo» commentò. Mildred spalancò gli occhi, mostrando di non avere capito. «Cosa?» domandò.
«Cancellare.» «Ho semplicemente corretto un errore.» «Oh, balle!» esclamò Eva. «Mi disgusta vederti così sottomessa a quell'uomo.» «Tu ti disgusti con troppa facilità, mia cara. Ti fa male alle arterie. Il disgusto, premendo sulle arterie, può provocare un ictus nel cervello e altre complicazioni che al momento mi sfuggono.» «Ti sfuggono, per la semplice ragione che non esistono. Ti stai prendendo gioco di me.» «Per forza» replicò allegramente Mildred. «Sono stanca di aspettare che lo faccia tu stessa.» Eva s'incamminò. Non era arrabbiata, ma delusa del fatto che Mildred sottovalutasse il suo ruolo di donna, e l'importanza delle donne nella società odierna. La cosa più notevole di Eva Foster erano i suo seni, pieni, di bella forma e ostentati con orgoglio, senza la costrizione del reggiseno. Tutto il resto, nella sua persona, era lungo, sottile e diritto: i capelli, le gambe, il collo, il naso, la bocca, e persino i suoi processi mentali. La sua mente era in grado di saltare dall'A alla Z senza un attimo di esitazione, come se in mezzo non ci fosse altro. Nessuno avrebbe mai potuto sospettare quanto selvagge fossero le sue fantasie, né quali strani personaggi popolassero la sua vita immaginaria. Qualcosa si sarebbe potuto intuire, notando certe sue espressioni nei momenti in cui non si credeva osservata, certi suoi sorrisetti sognanti, e soprattutto, considerando il suo modo di vestire, dal momento che spendeva in capi d'abbigliamento quasi tutto lo stipendio. A metà del corridoio, incrociò Donnelly. Lui non le rivolse la parola, né diede segno di averla riconosciuta. Chissà come avrebbe reagito, pensò Eva, se gli avesse raccontato il sogno che aveva fatto la notte precedente. Si trovavano in una stazione ferroviaria, e Donnelly apparve sul treno poco prima che cominciasse a muoversi. Lei si era messa a correre. Lui allora aveva allungato le braccia, l'aveva afferrata, l'aveva abbracciata e se l'era portata via con sé. Eva si era svegliata di ottimo umore, e questo, più del sogno in se stesso, l'aveva fatta andare su tutte le furie. Lei non era tipo che si lasciasse abbracciare e portare via da un uomo. Quanto a Donnelly, viveva su un altro pianeta. Era sposato con una donna ricca e influente, anche se il suo matrimonio era infelice. Nel loro ambiente, di tutti gli uomini sposati si dice-
va che fossero infelici, e sempre pronti ad abbandonare la moglie per scappare con la stenografa o l'impiegatina. «Vattene al diavolo» disse Eva a denti stretti. «Non sei altro che un presuntuoso arrogante. E sta' alla larga dalla mia stazione ferroviaria.» Il giudice si ritirò nella sua stanza e, come gli aveva consigliato il suo medico, si sdraiò sul divano di pelle marrone. Erano invecchiati insieme, lui e il divano. Entrambi avevano addosso le cicatrici del tempo, strani affossamenti e inspiegabili gonfiori. Un cuscino del divano era segnato dai graffi provocati dalle unghie del bassotto, che il giudice aveva portato ogni giorno con sé, dopo la morte della moglie. Quando il bassotto non era più stato capace di salire da solo sul divano, il giudice ve l'aveva adagiato sopra, e la bestiola se ne restava lì tutto il giorno, con una pausa a mezzogiorno, indifferente al luogo in cui si trovava, purché il suo padrone fosse con lui. Un mattino, l'udienza era stata bruscamente interrotta senza che venissero fornite delle spiegazioni. Nessuno ne conosceva il motivo, finché Mildred non aveva visto il giudice portare il cagnolino morto, avvolto in un pullover, dentro la sua auto. Né la moglie né il cane erano stati sostituiti. Il medico del giudice l'aveva messo in guardia contro i rischi che correva, dato il suo precario stato di salute, e gli aveva impartito precise istruzioni. Durante ogni pausa e all'ora di pranzo, il giudice doveva sdraiarsi e non pensare a niente. Doveva immaginare una lavagna, sulla quale fossero scritte delle parole col gesso, e un cancellino che si muovesse su e giù per cancellare tutte le parole. Ma il giudice aveva scoperto che, non appena le parole erano sparite, erano rimpiazzate da figure. Quel mattino, c'era la figura di una giovane donna, che aveva scaraventato i suoi due figli giù da un ponte, ed era poi stata difesa con successo da un avvocato d'ufficio. Un anno circa dopo il processo, aveva dato alla luce un altro figlio indesiderato, che aveva buttato in un gabinetto. Lo scarico otturato aveva portato quasi subito al suo arresto. Ora, la donna stava scontando la sua pena nel carcere di Corona, ed era auspicabile che il programma per la sua riabilitazione prevedesse informazioni sul controllo delle nascite. Il cancellino prese a spostarsi su e giù per la lavagna. La figura della donna svanì, e finalmente il giudice si addormentò. Invece del quarto d'ora previsto, la sospensione durò ventiquattro minuti. Quei ritardi cronici, da parte di un giudice con un calendario di lavoro già
sovraccarico, a parere di Eva Foster erano imperdonabili. Non sarebbe accaduto, se al posto del giudice ci fosse stata una donna. Dopo che l'assistente del tribunale ebbe suonato il campanello per chiamare il giudice, in attesa del suo rientro, Eva si fermò a parlare con Mildred Noon. «Dovremmo essere noi due a mandare avanti il tribunale» le disse. «E Dio solo sa perché non lo facciamo.» «Prima di tutto, perché non siamo avvocati.» «Potremmo esserlo. Basterebbe frequentare una scuola serale, qui in città.» «Non fa per me. La sera è l'unico momento della giornata che posso passare in compagnia di mio marito.» «Non senti mai il desiderio di trovare la tua strada?» «Veramente, credevo di averla già trovata.» «Di fare qualcosa d'importante, intendo dire.» «Temo di dovermi accontentare di quello che faccio.» «Sei contenta di lasciare che siano gli uomini a governare il mondo?» «Be', per la verità io non ne ho il tempo» replicò allegramente Mildred. «E adesso, lasciamo perdere questo discorso, e torna al tuo posto. Sta arrivando il giudice.» «Entra il re» ironizzò Eva. «Torneremo sull'argomento all'ora di pranzo.» Sarebbe meglio di no, si disse Mildred, restando immobile davanti alla sua macchina, con l'aria di essere tranquilla e perfettamente a suo agio. Occorrevano anni di pratica per riuscire a non lasciarsi dominare dal nervosismo, soprattutto all'inizio di un processo per omicidio. Lei aveva preso l'abitudine di prepararsi, leggendo in anticipo i nomi dei testimoni e cercando di familiarizzarsi con i termini medici che probabilmente avrebbero usato psichiatri e patologi. Gli stenografi del tribunale lavoravano sempre a coppie. Negli ultimi sei anni, il collega di Mildred era stato un ometto taciturno di nome Ortig. Ortig poteva avere dai trenta ai cinquant'anni. Non aveva mai rivelato a nessuno la sua età, né altre cose che lo riguardassero. Poiché Mildred tendeva a parlare troppo, era un vantaggio per lei avere un collega che non rivolgeva domande né rispondeva a quelle che gli facevano. Lei e Ortig si davano il cambio ogni dieci, quindici minuti, poiché il lavoro richiedeva grande concentrazione e riflessi pronti. Quando Ortig iniziava il suo turno, si sedeva alla macchina accanto a lei,
e con un cenno quasi impercettibile del capo le faceva capire di essere pronto a continuare con la frase successiva. Loro due erano come acrobati di un circo, abituati a prendere la sbarra al volo, l'uno dalle mani dell'altro. Il giudice entrò, come un grosso uccello dalle ali nere con la solita toga svolazzante, e si appollaiò sulla sua sedia. Era in collera con se stesso per aver dormito troppo, con il personale che non l'aveva svegliato in tempo, e con il suo medico che gli aveva consigliato di sdraiarsi durante le pause. Non aveva bisogno di riposare; al contrario, aveva bisogno di fare del moto. Aveva voglia di saltellare su e giù a tempo di musica, come i ballerini dell'aerobica che vedeva alla televisione. Il giurato numero 12 insegnava aerobica, arti marziali e ginnastica preparatoria al nuoto, e aveva l'aria di essere tremendamente in forma. Ma per essere sincero, il giudice non aveva mai visto nessuno della sua età fare simili cose. «Signore e signori» disse «avete udito la dichiarazione preliminare dell'Accusa, avvocato Owen. Ora è il turno della Difesa, avvocato Donnelly. Siete pronto, avvocato?» «No, Vostro Onore.» «Perché no?» «In considerazione di quanto è stato detto sul valore pressoché nullo delle dichiarazioni preliminari, desidero rinunciare all'opportunità che mi si offre.» «Dunque, non presenterete la vostra dichiarazione preliminare?» «No, Vostro Onore.» «Questa procedura è alquanto irregolare, avvocato Donnelly. Ne avete parlato con il vostro cliente?» «Il mio cliente ha fiducia nella mia abilità.» L'imputato, che in un primo momento era apparso stupito quanto il resto delle persone presenti in aula, sorrise, prima a Donnelly, poi alla giuria e infine al giudice. Era un sorriso spontaneo e fiducioso, che colpì favorevolmente qualcuno e irritò altri. Donnelly non lo notò neppure. «Il mio cliente è stato costretto a restarsene seduto qui, ad ascoltare tutte le accuse mosse contro di lui, accuse per la maggior parte nate negli oscuri recessi della mente del Procuratore Distrettuale. Sarebbe perfettamente inutile che io mi alzassi e mi limitassi a contraddire. Preferisco perciò aspettare che siano le prove stesse a dimostrare l'innocenza del mio cliente; prove che saranno fornite da testimoni sotto giuramento e sottoposti a controinterrogatorio.»
«Non occorre che aggiungiate altro per convincermi» replicò il giudice. «Siete libero di rinunciare alla dichiarazione preliminare, se lo volete. A questo punto, non ci resta che cominciare ad ascoltare i testimoni. Avvocato Owen, potete far chiamare il primo dei vostri?» «No, Vostro Onore. Al testimone era stato detto che sarebbe dovuto comparire non prima di questo pomeriggio.» «Non avete nessun testimone pronto?» «Non subito. La mattinata doveva essere dedicata alle dichiarazioni preliminari.» Guardò freddamente e con aria di rimprovero Donnelly, in fondo al tavolo. «Non ero stato messo al corrente dalla Difesa di questa sua insolita intenzione.» «Dunque, siamo a un punto morto.» «Così pare, Vostro Onore.» «Benissimo. La seduta è aggiornata all'una e mezzo di questo pomeriggio. Il pubblico è pregato di restare al suo posto, finché non sarà uscita la giuria. I giurati devono lasciare i loro taccuini sulle sedie, in modo che l'assistente possa provvedere a ritirarli. Sono invitati a non discutere di questo caso con nessuno, né tra di loro.» I giurati uscirono in perfetto ordine, camminando con aria grave ed evitando lo sguardo sia del pubblico sia dell'imputato. Donnelly era in possesso di una documentazione relativa a ciascun giurato. Gliel'avevano procurata il suo collaboratore Bill Gunther, e i suoi due assistenti, e conteneva una varietà di notizie, che andavano dal numero di tessera della previdenza sociale, ai cibi preferiti, ai giornali a cui erano abbonati, al tipo d'auto che possedevano, alla religione professata, allo stato civile e al numero dei figli. Da essa risultava inoltre se un giurato era iscritto a qualche biblioteca pubblica, e se possedeva un cane, oppure un gatto. Forse nessuno di questi particolari avrebbe cambiato il risultato del processo, ma Donnelly sapeva, così come non l'ignorava il giudice, che uno di questi particolari, apparentemente insignificante e non connesso al caso in questione, avrebbe potuto influenzare il verdetto. Un voto, un voto soltanto, poteva bastare a mettere in crisi la giuria, ed era appunto a questo che lui mirava. Il voto che poteva bloccare gli altri giurati sarebbe potuto essere quello della signorina Lisa Roy, che lavorava come commessa in un negozio di abbigliamento femminile e aveva l'hobby di allevare gatti birmani. Forse sarebbe stata clemente con Cully, perché aveva portato un gatto a bordo del Bewitched, prima d'intraprendere un viaggio di quattromila miglia.
Oppure, il voto favorevole sarebbe potuto venire dal signor Hudson, che, avendo a Chicago un cognato di pelle nera, non doveva vedere di buon occhio i pregiudizi che il Procuratore Distrettuale nutriva nei confronti della gente di colore. Benché le prove a carico di Cully fossero circostanziali, la sua posizione era assai grave, soprattutto per l'assenza di altri indiziati e altri moventi. L'unica speranza di Donnelly era appunto che la giuria non riuscisse a mettersi d'accordo. Un voto bastava, e Donnelly voleva quel voto. Tornato nella sua stanza, il giudice si tolse la toga e s'infilò una giacca di tweed. Si sentiva improvvisamente esausto, come se invece di limitarsi a fantasticare, avesse davvero praticato l'aerobica. Il battito del suo cuore era accelerato e, quando si guardò allo specchio per darsi una lisciata ai capelli, notò che il suo viso era rosso e sudato. Solitamente, quando l'udienza era aggiornata al pomeriggio, aveva l'abitudine di prendere la macchina e di recarsi a una tavola calda nella zona del porto, dove servivano piatti a base di pesce. Lì riusciva a rilassarsi, davanti a una bottiglia di birra e a un piatto di gamberi o d'aragosta. Ma era troppo presto per andare a mangiare, e quel giorno poi sapeva che non sarebbe riuscito a rilassarsi, con la vista, gli odori e i rumori del mare, che gli avrebbero ricordato il caso di cui stava occupandosi. In fondo al molo, avrebbe visto il Bewitched, poiché lo yacht era troppo grande per trovar posto nella parte interna del porto. Invece di andare a prendere l'auto, tornò a sdraiarsi sul divano. Sapeva che quelli erano brutti segni, il battito accelerato del cuore e il rossore del viso, la sensazione di debolezza e il sudore senza motivo. Non aveva paura di morire, ma pensava che sarebbe stato seccante dover piantare in asso il caso prima che si fosse concluso. Sembrava un caso molto semplice: un uomo, una donna, libidine, collera, avidità. Il giudice aveva presieduto a decine di casi come quello: accoltellamenti in piccoli sordidi bar, sparatorie davanti ai locali pubblici, assassinii commessi a colpi di cazzotti, o a martellate, o con la mazza da baseball. Questo caso aveva qualcosa di diverso. L'ambiente, prima di tutto, non era simile agli altri: uno yacht ben noto a chi seguiva il mondo delle gare. Anche la vittima non era del tipo usuale, poiché si trattava di una donna sposata, rispettabile, devota al marito. Ma naturalmente questi elementi potevano trovare una spiegazione logica: anche gli yacht da gara a volte diventano teatro di macabri avvenimenti, e le brave donne possono
essere preda della sfortuna. Ma il terzo elemento, cioè l'imputato, sembrava assolutamente fuori luogo. Nero di pelle, era il capitano di uno yacht famoso, fatto questo già di per sé abbastanza insolito. A trentasette anni, non dimostrava la sua età, e si comportava come se fosse più giovane. Forse al timone del Bewitched si dimostrava molto più maturo di quanto sembrasse, ma qui in tribunale sembrava quasi un ragazzo. Seguiva gli interventi degli avvocati con il più vivo interesse, sorridendo alla minima provocazione, come se non si rendesse conto o comunque non si preoccupasse della gravità della sua situazione. Il giudice aveva letto su un giornale la dichiarazione del signor Belasco, proprietario dello yacht, che diceva testualmente: "Cully King è il miglior capitano che vi sia, uno che si guadagna lo stipendio che percepisce: è abile, sicuro di sé, e non ha paura di niente". Non aveva paura nemmeno ora, pur sapendo che, se la giuria l'avesse giudicato colpevole, la pena sarebbe stata la morte nella camera a gas, o l'ergastolo senza possibilità di tornare libero. Eppure, dentro di sé deve avere un po' di paura, si disse il giudice, così come dev'essercene dentro di me, benché io abbia trent'anni più di lui, ben poco da perdere, e nessuno che pianga per me. Il sudore gli scorreva sulla faccia. Estrasse un fazzoletto dalla tasca per asciugarsi, e uno spicchio d aglio rotolò sul pavimento. Lo raccolse, se lo ficcò in bocca e cominciò a masticarlo. «L'aglio» gli aveva detto il direttore del negozio di erboristeria «rigenera la bile, il sangue e l'intestino.» Di altre decine di prodotti che stavano sugli scaffali si vantavano le stesse prerogative, ma sarebbe stata ardua impresa smascherare la frode dal momento che era piuttosto difficile stabilire se la propria bile stesse rigenerandosi o degenerando. Ma non aveva importanza. L'aglio serviva allo scopo principale, quello di tenere alla larga la gente. Chiuse gli occhi, tentò d'immaginare di nuovo la lavagna con il cancellino che andava su e giù, e anche stavolta comparve una figura. Era il volto di Cully King, che gli sorrideva, cordiale, quasi benevolo, come se non biasimasse nessuno per la situazione in cui si trovava, e sperasse che nessuno biasimasse lui. Dove trovava tanta fiducia quell'uomo? Non gli veniva di certo dalle sue origini, dalle quali al contrario doveva avere imparato a essere guardingo e diffidente. Nato a St. John, aveva preso il mare all'età di dodici anni, e aveva trascorso l'adolescenza nelle taverne del porto e nelle botteghe di rum dei Caraibi, per poi imbarcarsi dove gli capitava, qualsiasi mansione gli
venisse affidata. L'epidermide di un bianco, esposta per tanti anni al sole e al vento, ne avrebbe portato le cicatrici. La pelle di Cully King invece era liscia e priva d'imperfezioni. Non c'erano rughe a ricordo delle burrasche passate, né segni lasciati da coltelli o pistole in seguito a risse nei bordelli. Cully King era riuscito a rimanere intatto, come se avesse cancellato i cattivi ricordi, con la stessa semplicità con cui il cancellino ripuliva la lavagna immaginaria del giudice. Terminò di masticare l'aglio, e la puzza filtrò nell'ufficio della segretaria, passando sotto la porta. Lì, si scontrò con il profumo Youth-Dew di Estée Lauder. Era uno scontro ad armi impari. L'aglio batté il profumo di una lunghezza. L'udienza riprese alle due meno venti del pomeriggio. Eva Foster annotò l'ora sul suo taccuino; fatto questo, si diresse verso il banco dei testimoni, con la Bibbia in mano. «Dite il vostro nome per esteso, perché si possa mettere a verbale, e sillabate il cognome.» «Peter Gray Belasco. B-E-L-A-S-C-O.» «Alzate la mano destra. Giurate solennemente davanti a Dio di dire la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità, nel processo in corso.» «Lo giuro.» «Sedetevi, prego.» Belasco prese il suo posto al banco dei testimoni. Sui cinquant'anni, alto, con un fisico asciutto, aveva le tipiche rughe intorno alle palpebre di chi strizza spesso gli occhi per non essere abbagliato dal sole. Guardò Cully King, lo salutò con un sorriso cordiale, poi rivolse l'attenzione al Procuratore Distrettuale. «Dove vivete, signor Belasco?» «A Santa Felicia. Al numero 68 di Rosalita Lane.» «E qual è la vostra professione?» «Ingegnere minerario, in pensione. O per l'esattezza, semipensionato.» «Avete qualche hobby particolare nel tempo libero?» «Corro con il mio yacht, il Bewitched.» «Volete descrivere il vostro yacht alla giuria?» «È lungo venticinque metri, e ha lo scafo d'alluminio.» «Dove si svolgono le competizioni a cui partecipate?» «In qualsiasi parte del mondo.» «Per esempio?» «New York, Bermude, Sydney, Hobart, le coste dell'Inghilterra, Honolu-
lu. Quest'ultima è quella per cui mi stavo preparando, prima che accadesse questo tragico incidente.» «Avete mai vinto qualcuna di queste competizioni?» «No, né ci sono mai andato vicino. Ma almeno, lo yacht non è mai affondato. Eravamo arrivati primi, un paio d'anni fa, ma per via dell'handicap ci siamo dovuti accontentare del quarto posto.» «Come si calcola l'handicap, in una gara di yacht?» «Sul tempo. Si prendono in considerazione le dimensioni dell'imbarcazione e il numero delle vele. Può capitare che un'imbarcazione più piccola arrivi con un giorno di ritardo rispetto al Bewitched, e sia dichiarata vincitrice.» «Questo vostro yacht, come lo descrivereste?» «Ve l'ho già detto: ha lo scafo d'alluminio, ed è lungo venticinque metri da poppa a prua.» «La primavera scorsa, avete preso parte a una gara la cui partenza era Nassau, e l'arrivo St. Thomas, alle Isole Vergini?» «Sì.» «Cos'avete fatto, dopo la gara?» «Dopo aver commentato il triste risultato con l'equipaggio (in quell'occasione siamo arrivati ultimi), sono tornato a casa in aereo, qui in California. Ho troppi impegni pressanti per trascorrere tutto il mio tempo in mare.» «Quali accordi avete preso per lo yacht?» «Cully King è il mio capitano. Gli ho dato istruzioni perché riportasse qui lo yacht, passando per il canale di Panama.» «King è presente in quest'aula?» «Sì. È seduto là. Un capitano di prim'ordine, che conosce bene la barca, e dimostra grande competenza.» «Non mi pare necessario soffermarsi sull'abilità del signor King nel suo lavoro.» Il Procuratore Distrettuale lo fulminò con un'occhiata, come per ricordargli che lui era un teste dell'Accusa, e non della Difesa. «Avevate un contratto con il signor King, affinché riportasse qui lo yacht?» «Sì.» «Quali erano i termini del contratto, dal punto di vista economico?» «Solitamente i capitani si pagano a miglia, un dollaro, un dollaro e mezzo, due dollari. A Cully avevo offerto il massimo, cioè due dollari e mezzo, perché il Bewitched mi è costato un mucchio di soldi.» «Approssimativamente, quanto è lunga la traversata, da St. Thomas a
Santa Felicia?» «Dipende dalle condizioni meteorologiche. Circa quattromila miglia, direi.» «Dunque, il signor King ha guadagnato all'incirca dodicimila dollari.» «Sì, ma da questa cifra bisogna dedurre il salario dell'equipaggio, che è a suo carico. Con tre soli uomini a bordo, l'equipaggio non è granché, e perciò devono lavorare sodo, e guadagnare in proporzione. Oltre al lavoro in se stesso, non bisogna dimenticare l'elemento rischio. Lungo la costa occidentale dell'America Centrale, a causa dei disordini politici, può capitare che le imbarcazioni di passaggio abbiano qualche noia, che siano costrette a rientrare in porto, che siano trattenute. In considerazione di questo, immagino che Harry Arnold e suo figlio percepiscano una bella fetta di quei dodicimila dollari. Le mie non sono che supposizioni, perché in realtà ignoro come stiano esattamente le cose.» Sorrise di nuovo a Cully King, che ricambiò. Questo scambio di sorrisi contrariò il Procuratore Distrettuale, accentuando il tic che gli contraeva i muscoli della bocca. Fin dall'inizio, Belasco gli era riuscito antipatico. In cuor suo, lo giudicava un ricco eccentrico come Donnelly, un socialista, forse uno spacciatore di droga, e magari anche una spia. Che motivo aveva di scorrazzare in giro per il mondo? Perché non poteva limitarsi a navigare con il suo yacht lungo la costa, come facevano le persone normali? Quando riprese a parlare, il suo tono era seccato. «Quanto dura la traversata da St. Thomas, nelle Isole Vergini, fin qui a Santa Felicia?» «Dipende sempre dal tempo. Se i venti sono favorevoli, da St. Thomas a Colón, un tragitto di circa mille miglia, s'impiega circa una settimana. Spesso si verificano ritardi al Canale, dove le imbarcazioni si ammassano, in attesa del loro turno, come aerei in partenza dai grandi aeroporti. Panama è un po' il passaggio obbligato di tutte le navi che compiono viaggi internazionali. Da Panama a Mazatlàn ci sono zone calme, ma a nord di Mazatlàn capita spesso d'imbroccare venti di prua. Bisogna calcolare le soste per rifornirsi di cibo e di carburante. Nel complesso, direi che la traversata richieda un mese di tempo. La durata di questa particolare traversata è annotata sul diario di bordo del Bewitched, precisa al minuto. Ma il diario non è in mio possesso. L'avete voi.» «Esatto. Infatti, ora lo consulterò.» Si avvicinò al tavolo a cui era seduta Eva Foster. «Volete portarmi il libro blu che vi ho consegnato questa mattina?» Eva andò nella stanza accanto, e tornò con un libro rilegato in vinilpelle
blu, su cui era stampato il nome Bewitched a lettere dorate. Il Procuratore Distrettuale lo prese e lo consegnò a Donnelly perché lo esaminasse. L'avvocato gli diede una breve scorsa. «Intendete esibire questo libro come prova, avvocato Owen?» gli domandò il giudice. «Sì, Vostro Onore.» «Allora, sia contrassegnata con il numero uno per l'Accusa. A questo punto, desidero spiegare alla giuria che ciascuna prova dell'Accusa sarà contrassegnata con un numero, mentre quelle della Difesa verranno contrassegnate con una lettera alfabetica.» Il Procuratore Distrettuale mostrò il libro al teste. «Lo riconoscete, signor Belasco?» «Sì.» «Che cos'è?» «Il diario di bordo del Bewitched.» «Che cosa si annota sul diario?» «Tutto ciò che riguarda l'imbarcazione.» «Fateci qualche esempio, per favore.» «Be', prima di tutto, si prendono appunti sul tempo, sulla velocità e sulla direzione del vento, sulle condizioni del mare, se è calmo oppure grosso, si annota se la barca procede a forza di vela o col motore, quanto carburante si aggiunge, e altri dati del genere.» «Questi dati vengono registrati con frequenza regolare?» «Sì.» «Ogni quanto tempo?» «Ogni ora, od ogni mezz'ora, dipende dalle circostanze. Dato che avete esaminato il diario, queste cose le sapete già.» «Ma la giuria non le sa. È appunto per i giurati che sto tentando di rendere chiara ogni cosa, in modo che possano farsi un'idea dell'ambiente in cui si è verificata la tragedia. E ora continuate, signor Belasco. In quali circostanze le annotazioni sul diario diventano più frequenti?» «Se il tempo è cattivo, se il mare è molto agitato, se uno dell'equipaggio si ammala o se gli capita un incidente, se Jimmy fa i capricci...» «Jimmy?» «Il motore è un GMC diesel, e in gergo lo chiamiamo Jimmy.» «Ora apro il diario» disse Owen «e vi mostro la prima annotazione relativa alla traversata di cui stiamo parlando. Riuscite a leggerla?» Belasco guardò la pagina, strizzò gli occhi un paio di volte, poi prese un
paio d'occhiali dal taschino e li inforcò. «Sì, ora riesco a leggerla» rispose. «Cosa indica?» «L'ora, la data e il luogo della partenza, St. Thomas. Mare calmo, vento forza cinque. Lo yacht procede a motore. Due uomini d'equipaggio a bordo, Harry Arnold, Richie Arnold.» «Fermatevi un istante. È normale annotare i nomi degli uomini dell'equipaggio?» «Sì.» «E quello dei passeggeri?» «Non sono certo di avere capito la domanda.» «Se vi sono passeggeri a bordo, lo si annota sul diario di bordo?» «Dipende dal tipo di barca, e dalle abitudini di chi tiene il diario.» «La barca a cui mi riferisco è il Bewitched. Ora la domanda è più chiara?» «Sì.» «Allora rispondete, prego.» «Di solito si prende nota della presenza di eventuali passeggeri a bordo del Bewitched, ma questa non va considerata una regola ferrea.» «Prima di passare alla domanda successiva, desidero informarvi che mi sono letto tutto il diario. Signor Belasco, ricordate qualche traversata, nel corso della quale si sia omesso di scrivere sul diario i nomi dei passeggeri?» Belasco strinse le labbra, come se fosse alle prese con una vela durante una forte tempesta. «A quanto pare, ne sapete più voi di me sulle mie traversate, avvocato Owen.» «Ricominciamo daccapo. Solitamente, sul diario del Bewitched risulta la presenza di passeggeri?» «Sì.» «Avremmo potuto risparmiare tempo, se aveste risposto subito alla mia domanda.» Owen rivolse la sua attenzione al giudice. «Vostro Onore, a questo punto mi sembra giusto avvertire la giuria che il signor Belasco è un testimone reticente, se non addirittura ostile.» «Obiezione» protestò Donnelly. «Il teste non ha dimostrato né reticenza né ostilità, ma solo il desiderio che il Procuratore Distrettuale sia più preciso nelle sue domande.» «Obiezione accolta. La giuria deve ignorare l'ultima affermazione pronunciata dal Procuratore Distrettuale.» Owen prese il diario dalle mani di Belasco e l'aprì verso il fondo, dove
c'era un segnalibro. «Vi prego di notare, e di dire a voce alta perché sia messa a verbale, la data dell'arrivo al porto di San Diego.» «30 aprile. Dopo aver sbrigato le formalità di dogana ed essersi rifornito di provviste e carburante, lo yacht si preparava a partire, il mattino successivo all'alba.» «È quello che fece?» «Così è scritto nel diario.» «Si fa menzione di un passeggero salito a bordo con il signor King?» «No.» «Non se ne fa menzione?» «No.» «Eppure, un passeggero è salito a bordo, non è vero?» «Così mi è stato detto.» Donnelly stava per alzarsi a sollevare obiezione, ma il giudice parlò prima di lui. «Attenzione, signori avvocati! Vi ho già avvertito della necessità di non perdere tempo inutilmente. Questo caso promette, o dovrei dire piuttosto minaccia, di essere il più lungo nella storia della contea. Dobbiamo cercare di rispettare i tempi che ci sono stati imposti dal Collegio dei Supervisori. Ora possiamo quasi dire di conoscere ogni centimetro quadrato dello yacht, e praticamente anche ogni centimetro quadrato di chi era a bordo.» Tentò di raggelare le due parti con un'occhiata severa, ma il suo fu uno sforzo inutile: Donnelly stava sussurrando qualcosa all'orecchio del suo cliente, mentre Owen stava consultando gli appunti. Ho perso tutto il mio ascendente in questo tribunale, si disse il giudice. Ai vecchi tempi, gli avvocati tremavano, quando li guardavo in questo modo. Adesso neppure se ne accorgono. Sanno bene che l'anno prossimo non sarò più qui. Forse non ci sono nemmeno quest'anno, a giudicare da come mi guardano Mildred e la signorina Foster. Per riacquistare prestigio, può darsi che sia costretto a fare qualcosa di drastico, come per esempio condurre questo processo in un modo tanto insolito da far sì che sia ricordato per decenni, dopo che me ne sarò andato. «Poco fa avete dichiarato, signor Belasco» rispose Owen «che il Bewitched è lungo venticinque metri. È esatto?» «Sì.» «Una bella lunghezza, per uno yacht. Ma possiamo definirlo piccolo, se lo consideriamo come spazio dov'è confinata della gente. In fondo, è pari a un terzo dell'area di un campo di calcio. Se si mettono quattro persone in
un'area grande un terzo di un campo di calcio, sarebbe assai difficile che non si accorgessero l'uno dell'altro, non vi pare?» «Non ho mai provato a mettere quattro persone in un terzo di campo di calcio.» «State eludendo la domanda con una risposta superficiale, signor Belasco.» «Non era mia intenzione. Il fatto è che uno yacht come il Bewitched non è uno spazio aperto, ma una struttura simile a una casa, con un certo numero di stanze, e di piani. Non sarebbe impossibile a una persona restare nascosta agli altri.» Owen cominciava a sentire come un nodo alla gola, segno che ora la sua voce sarebbe diventata stridula, e il suo tono petulante. Era un attento ascoltatore di voci, soprattutto della sua. Ascoltando un nastro registrato, era in grado di dire se aveva precedentemente litigato con sua moglie Virginia, oppure se uno dei ragazzi ne aveva combinata una delle sue, a scuola. Ansie e preoccupazioni che potevano essere mascherate da un sorriso, si manifestavano inesorabilmente nella voce. Owen trasse tre o quattro lunghi sospiri prima di ricominciare a parlare, nel tentativo di riacquistare la padronanza della voce. «In diversi punti del diario, si fa riferimento a comunicazioni con P. B. Chi è questo P. B.?» «Sono le mie iniziali.» «Quando il Bewitched è in mare, e voi non siete a bordo, vi mantenete in contatto con il capitano?» «Quand'è possibile, o necessario, ci parliamo via radio.» «Vi capita anche d'impartire istruzioni al signor King?» «Posso dargli qualche suggerimento, ma di solito Cully si limita a tenermi informato su ciò che avviene.» «Avete parlato con il signor King della prossima gara, quella di Honolulu?» «Naturalmente.» «Gli avete chiesto di cercare di procurarsi una cuoca, in vista di quella gara? Rispondete semplicemente con un sì o un no, per favore.» Belasco esitava. «Be', non esattamente...» «Avete chiesto al signor King di assumere una cuoca? Sì o no?» «No.» «Non ho altre domande, per il momento.» «Potete andare, signor Belasco» disse il giudice. «Prima che l'avvocato Donnelly dia inizio al controinterrogatorio, sarà bene sospendere per una
quindicina di minuti.» I giurati s'infilarono nella loro stanza, e la maggior parte del pubblico uscì nel corridoio. Il giudice rimase al suo posto, e chiamò l'assistente, Zeke Di Santo, con un lieve cenno del capo. L'assistente si avvicinò, camminando con un passo che sembrava quello di un vecchio, come se non si fosse ancora abituato ai chili di troppo che aveva accumulato in quell'ultimo anno, a forza di stare seduto in aula. «Sì, Vostro Onore?» «Cosa c'è che non va nell'aria condizionata?» «Non funziona, signore.» «Questo l'avevo capito. Perché non funziona?» «Non lo so, signore.» «Non potreste scoprirlo, e vedere di rimediare?» «Non credo. Queste cose sono nelle mani di Dio, parrebbe.» «Di certo Dio ci ha dato la capacità di aprire le finestre.» «Sì, Vostro Onore, ma entrerebbero i rumori del traffico, e forse Vostro Onore non riuscirebbe a sentire ciò che si dice.» «Per il momento, sento solo le vostre stupidaggini. A proposito di rumori, di tanto in tanto sento una specie di ronzio. Non ve ne siete accorto?» «Sì, Vostro Onore.» «Che cos'è?» «Sembra un ronzio.» «Questo lo so. Ma da dove proviene?» «Dall'imputato, credo. Canticchia.» «Perché?» «Forse perché è allegro.» «Allegro? Come si fa a essere allegri, in tribunale. Voi siete allegro, Di Santo?» «Né allegro né triste.» «Eppure, avete l'aria allegra. Vedo che ridete alle mie battute.» «Sì, certo, signore. A quelle più forti.» «Come sarebbe a dire, quelle più forti?» «Apprezzo il senso dell'umorismo di Vostro Onore.» E inoltre, ho moglie e figlio da mantenere, aggiunse mentalmente Di Santo. Aprì una finestra, e l'aria fresca e i rumori della strada entrarono immediatamente nell'aula, come se stessero aspettando quell'occasione da un pezzo. Di Santo si meravigliò, sentendo quel freschino. Il mattino, l'aria era sta-
ta tersa e frizzante, e a mezzogiorno sembrava che fosse agosto. Ora, verso la metà del pomeriggio, era di nuovo autunno, con la foschia che si alzava dal mare avvolgendo la parte superiore delle alte palme messicane, così che erano visibili soltanto i tronchi, simili a pali del telefono. Di Santo guardò fuori, e vide che i piccioni si rifugiavano nella torre. Vide anche il pappagallo verde smeraldo, volato via da qualche casa da un bel po' di tempo, che passava sopra la strada e faceva pensare a un semaforo alato. L'uccello era tranquillo, per essere un pappagallo, forse perché non aveva motivo di arrabbiarsi. Aveva imparato dai piccioni a sopravvivere, e se la cavava bene, grazie agli avanzi di un ristorante della zona, ai resti di cibo nei cestini e a ciò che restava nei sacchetti del pranzo degli impiegati, che andavano a mangiare nel parco. Il volatile beveva nella fontana del cortile, e nella stagione giusta integrava la sua alimentazione con fichi, e bacche di biancospino e di pyracantha. Di Santo invidiava quel pappagallo. Nessuno lo rimproverava perché mangiava troppo. Del resto, nessuno è in grado di capire se un pappagallo è grasso oppure magro, a meno che non lo pesi, e quel pappagallo non l'avrebbe mai pesato nessuno. Era riuscito a sfuggire a numerosi tentativi di cattura, e se ne volava beatamente di albero in albero, da un sacchetto di leccornie all'altro. Lui non era altrettanto fortunato. Sua moglie teneva una bilancia in bagno, e aveva incollato sull'anta del frigorifero la foto di un uomo grasso, un attore morto giovane d'infarto. Per il suo compleanno, gli aveva regalato la tessera d'appartenenza a un club che organizzava corsi per chi aveva problemi di peso. Lui ci era andato pochissime volte. Preferiva andare a giocare al bowling e bere birra con i suoi amici. Se non altro, era più divertente che sollevare pesi con i piedi. L'aula era quasi vuota. Donnelly e Cully King parlottavano tra loro, Eva Foster era ancora seduta al tavolo che divideva con Di Santo. Lo seguì con lo sguardo, mentre attraversava l'aula, e aveva la stessa aria critica di sua moglie e della segretaria che lavorava al club. Di Santo sapeva bene quello che l'aspettava, e per evitarlo, o almeno per rimandare il momento, si fermò vicino alla brocca dell'acqua. Eva Foster lo raggiunse. «Cos'hai mangiato a pranzo?» «Sai bene che lo salto.» «Per forza: dopo la prima colazione che ti sei fatto...» «Quale colazione? Ho mangiato solo un'arancia, e un pezzetto di pane
tostato rinsecchito. Mia moglie non mi dà altro.» «E allora, tu te ne sei andato da McDonald e ti sei mangiato un paio d'uova strapazzate. Ti ho visto.» «Le proteine sono indispensabili» replicò Zeke. «Ho letto sul Reader's Digest che, senza le proteine, il cervello si atrofizza.» «Il tuo cervello è già atrofizzato da un pezzo, e perciò è inutile che ti preoccupi. Vuoi la mia sincera opinione?» «No.» «Te la dico lo stesso: quando il giudice andrà in pensione, un altro prenderà il suo posto, e si sceglierà un nuovo assistente, o magari una nuova assistente. Questo ti darà la possibilità di chiedere allo sceriffo di affidarti un lavoro meno sedentario. Tu non bruci abbastanza calorie. L'unico moto che fai, è quando apri e chiudi le porte, e quando allarghi di un buco la cintura dei pantaloni. Non preferiresti essere fuori all'aria aperta, a svolgere indagini e a dare la caccia ai criminali?» «No.» «Perché no?» «Potrebbero essere loro a dare la caccia a me.» Benché le finestre fossero aperte, nell'aula faceva ancora caldo e c'era un'aria stantia. Donnelly si rivolse al suo cliente senza guardarlo. C'era qualcosa nella faccia di Cully King, un'innocenza, quasi un'aria tenera, che risultava disarmante. Quell'espressione l'induceva a credere a tutto ciò che usciva da quella bocca sensuale, e sincero gli appariva anche lo sguardo. Ma era un errore: Donnelly sapeva che non ci si poteva fidare. I clienti mentivano, mentivano tutti, innocenti e colpevoli. Quanto meno, alteravano la verità, ed era suo compito riportarla a galla. «Nel corso della nostra prima conversazione» disse Donnelly «e anche nelle successive, mi avete detto che Belasco vi aveva incaricato di cercare una cuoca in vista della gara.» «È vero. O almeno, questa era stata la mia impressione. È annotato sul diario di bordo.» «Che vi aveva incaricato di cercare una cuoca?» «No. Ho preso nota della telefonata.» «E non di ciò che è stato detto?» «No.» «Ripetete la conversazione telefonica.»
«Prima abbiamo parlato delle solite cose, di come andava e roba del genere. Poi lui mi ha detto di non essere ancora riuscito a trovare una cuoca per la gara. Il signor Belasco è uno che ci tiene a mangiare bene, non si accontenta di un piatto di fagioli e di un budino. Vuole sempre il meglio.» «State divagando. Limitatevi a riferire ciò che vi siete detti.» «Ve l'ho riferito. Mi ha detto di non avere trovato la cuoca.» «Ha detto che intendeva assumerne una?» «Be', certo che intendeva farlo. La cuoca è molto importante, durante la gara. Ho avuto l'impressione che dovessi occuparmene io, se mi si fosse presentata l'occasione.» «E l'occasione si è presentata con Madeline Pherson?» «Così pensavo. Voglio dire, credevo di fare un favore al signor Belasco, assumendola.» «Piantatela di raccontare frottole, Cully. La verità è che avevate voglia di una donna.» Cully rifletté un istante, si strinse nelle spalle. «Forse» ammise. «Adesso suona irrispettoso, ma sul momento sembrava una cosa naturale. Lei non mi era sembrata come l'ha descritta l'avvocato Owen nel suo discorso, tutta casa e chiesa. E al bar, non ha ordinato un analcolico, ma un Martini doppio. Lo so bene, dal momento che ho pagato io.» «Com'era vestita la signora Pherson, quando è entrata al bar?» «Non lo so. Ve l'ho già detto, non ricordo.» «Ditemelo ancora.» «Non ricordo. L'unica cosa che noto, in fatto d'indumenti femminili, è se li hanno addosso oppure no.» «Ah, magnifico! Perfetto!» Donnelly premette la matita sul foglio con una tale forza, che la mina si spezzò. «Farà un ottimo effetto, quando lo direte di fronte alla giuria.» «Non lo direi di fronte alla giuria, avvocato Donnelly.» «Meno male! Non direte assolutamente niente, di fronte alla giuria, se non dopo che avremo chiarito alcune cosette. Per esempio, voi credete che i giurati siano persone normali, vero?» «Certo che lo credo.» «E invece vi sbagliate. All'inizio, erano effettivamente persone normali, ma dal momento in cui hanno giurato e si sono seduti ai loro posti, sono cambiati, sono diventati strenui difensori della verità. E all'inizio di ogni processo, una cosa è certa: è stato commesso un crimine, ed è stata arrestata una persona, accusata di averlo commesso. Perché è stata arrestata que-
sta persona? Perché la polizia è convinta della sua colpevolezza, la polizia che tutti abbiamo imparato a rispettare, di cui abbiamo fiducia. E così, si parte subito con una situazione piuttosto balorda. Se la giuria dovesse pronunciarsi subito, questo stesso pomeriggio, per voi non ci sarebbero speranze.» «Intendete dire che tutti mi ritengono colpevole?» «Probabilmente sì. Forse dipende anche dal fatto che il penitenziario è a due passi da qui.» Gocce di sudore imperlarono la fronte di Cully. «Ehi, amico, state solo cercando di mettermi paura, vero?» Donnelly non rispose. Un cliente spaventato era molto più facile da difendere che non un cliente sicuro di sé. Un tocco di realismo poteva servire a modificare il comportamento di Cully come un tonico. «Quando i giurati rientreranno, tra pochi minuti, osservateli attentamente. Sono i vostri nemici. Sta a voi farli diventare vostri amici, convincerli che i poliziotti non sono infallibili, ma commettono errori come chiunque altro, e che uno dei loro sbagli madornali è stato quello di arrestarvi.» «In effetti, è stato uno sbaglio. Io non ho fatto niente.» «Non sono d'accordo. Forse non avete fatto tutto ciò di cui siete accusato, ma qualcosa sì. Non mi è mai capitato di avere un cliente che fosse completamente innocente. Siete pregato di non rovinarmi il record.» Cully si asciugò il sudore dalla fronte. Non capiva quell'uomo che pareva privo di qualsiasi sentimento, che non sorrideva mai, non corrugava mai la fronte, un individuo crudele, che dava l'impressione di odiare il suo lavoro e i suoi clienti, ma non smetteva di lavorare. In carcere, correva voce che fosse sposato con una donna ricca. Chissà, forse faceva uno strano effetto agli uomini il fatto di essere sposati con donne ricche. «Ho osservato attentamente questa giuria» riprese Donnelly «e ho notato che non è affatto diversa da qualsiasi altra. Ciò che vuole immancabilmente quella gente è un imputato che sprizzi umiltà da tutti i pori. Credete di poter riuscire a mostrarvi umile?» «Non ho fatto niente di male. Perché dovrei mostrarmi umile?» «Perché avete un bravo difensore, che vi chiede di farlo. Siete abbastanza in gamba da seguire il suo consiglio?» «Credo di sì. Però non è facile affettare umiltà quando non la si sente. Non so da che parte incominciare.» «Oh, santo cielo, lasciate perdere. Cercate almeno di evitare di fare lo sbruffone. Questo vi riesce?»
Cully ci pensò un istante. «Voi siete molto alto. Quanto?» «Uno e novanta.» «Io sono uno e settantacinque. Ma se v'incontrassi in una strada di St. John, e voi mi deste dello sbruffone, vi taglierei a fette, potete giurarci. A fette come un ananas.» «Come un ananas» ripeté Donnelly in tono divertito. «Quasi mi dispiace che non abbiate la possibilità di provarci. Potrebbe essere un'esperienza interessante. Per il momento, comunque, appare assai improbabile che incontriate me in una strada di St. John, o chiunque altro in qualsiasi strada. A meno che non vi decidiate a dare retta al vostro avvocato. Allora, mi ascoltate?» «Vi ascolto.» «Bene. L'intervallo sta per scadere. Avete bisogno di andare in bagno?» «No.» «Io sì. Ci vediamo dopo.» Erano le tre e venti del pomeriggio, quando il giudice ricomparve in aula, e il teste riprese il suo posto. Donnelly si avvicinò al leggio. Nell'aula relativamente piccola, appariva imponente, e nel regolare il microfono per adattarlo alla sua statura, sottolineò senza volerlo il fatto che il Procuratore Distrettuale era molto più piccolo di lui. «Signor Belasco, è obbligatorio per un capitano annotare sul diario di bordo i nomi di eventuali passeggeri?» «No.» «Ogni capitano si regola come vuole?» «Sì.» «Voi personalmente, avete l'abitudine di annotare i nomi?» «Di solito lo faccio. Durante una gara, per esempio, si usa annotare tutti i minimi particolari. Ma quando non gareggio, mi capita di omettere parecchie cose, sia per caso, sia di proposito.» «Stando al diario, il signor King si è messo in contatto con voi via radio da Mazatlàn. È esatto?» «Sì.» «In quell'occasione, gli avete detto di non avere ancora trovato una cuoca per la gara di Honolulu?» «Sì.» «Ricordate ciò che avete detto esattamente?» «Non parola per parola. Comunque, gli ho comunicato di non avere an-
cora una cuoca.» «Avete aggiunto che ve ne serviva una?» «Non era necessario. Lui sa bene quanto è importante una cuoca, per una traversata lunga.» «Gli avete detto di darsi da fare per trovarla?» «Era implicito nel mio discorso.» «Dunque, praticamente gli avevate chiesto di cercarla?» «Direi proprio di sì. Con Cully, non ho bisogno di parlare tanto, perché lui sa sempre, quasi per istinto, quello che voglio.» Il Procuratore Distrettuale si alzò. «Sollevo obiezione. Non mi pare necessario che il teste ci ammannisca tutte queste considerazioni, peraltro irrilevanti, riguardo all'imputato.» «Limitatevi a rispondere alle domande, signor Belasco» ammonì il giudice. Donnelly rimase immobile davanti al leggio, finché l'attenzione generale non si fu di nuovo concentrata sulla sua persona. «Non ho altre domande da rivolgervi, signor Belasco. Grazie.» Il giudice parve piuttosto contrariato, come se qualcuno gli avesse mandato a monte il programma che si era fatto per quel pomeriggio. «Avvocato Owen, desiderate controinterrogare a vostra volta?» Owen prese il posto di Donnelly al leggio. «Vi siete meravigliato, quando avete appreso che il signor King aveva assunto la signora Pherson come cuoca?» «Mi sono meravigliato, quando ho saputo da che ambiente proveniva. Ma naturalmente, questo l'ho scoperto solo leggendo i giornali e guardando la televisione.» «Mentre il Bewitched arrivava da San Diego, il signor King vi ha chiamato per riferirvi di avere assunto una cuoca?» «Può darsi che abbia anche tentato di farlo. Non saprei proprio dirlo. Non era possibile rintracciarmi, dal momento che ero stato chiamato al capezzale di mio padre, a Palm Springs. Aveva avuto un attacco cardiaco.» «Sarà sufficiente che mi rispondiate con un sì o un no.» «Non so se ha tentato di mettersi in contatto. Non ero a casa.» «Non ho altre domande.» Belasco fece l'atto di alzarsi, ma il giudice lo bloccò con un gesto. «Ancora un minuto, signor Belasco. Può darsi che l'avvocato Donnelly voglia controinterrogarvi di nuovo. Avvocato Donnelly?» «Ho un paio di domande veloci, tanto per chiarire le cose. Signor Bela-
sco, dove vi trovavate mentre il Bewitched veniva qui a San Diego?» «A Palm Springs.» «Per quale motivo?» «Perche mio padre stava molto male.» «Il signor King sapeva che eravate a Palm Springs?» «No.» «Non ho altro da aggiungere, per il momento.» «Potete andare, signor Belasco» disse il giudice. «Vi rammento che tutti i testimoni devono restare fuori dall'aula durante il processo, tranne quando sono chiamati a testimoniare. Eravate già stato avvertito di questo?» «Sì, Vostro Onore.» «Siete libero di andarvene, ma tenete presente che potreste essere richiamato in aula. Avete un altro testimone, avvocato Owen?» «Non subito» rispose l'interpellato, lanciando un'occhiata di fuoco in direzione di Donnelly. «Mi aspettavo che il controinterrogatorio del signor Belasco durasse tutto il pomeriggio.» «Posso consigliare a entrambi gli avvocati di tenere a portata di mano più di un testimone, fuori in corridoio oppure nelle immediate vicinanze del tribunale? Stamattina abbiamo perduto un mucchio di tempo, e anche questo pomeriggio, a causa dell'assenza dei testimoni.» Diede un leggero colpo di martello. Legno su legno, il suono fu appena percettibile, tra il rumore del traffico che entrava dalle finestre, e il vocìo della gente che proveniva dal corridoio. Fuori, una guida stava accompagnando un gruppo di turisti, a cui illustrava le meravigliose testimonianze della storia della città, vecchi carri, cannoni, bacheche che contenevano punte di frecce, conchiglie staccate dagli scogli, antiche armi da fuoco e quadri. Per la guida e il suo gruppetto, il tribunale era un luogo in cui rivivere avvenimenti del passato, e non in cui preoccuparsi di ciò che accadeva dietro ogni porta, su cui era appeso il cartello: "Silenzio, udienza in corso". Il giudice alzò la voce. «Aggiorno la seduta a domattina alle dieci. Il pubblico resti al suo posto finché non sarà uscita la giuria. I giurati eviteranno di discutere del caso e di riferire a chicchessia gli sviluppi del processo.» Tornato nella sua stanza, il giudice si soffermò un momento a osservare la foto sulla sua scrivania, che raffigurava una robusta donna bruna con in braccio un bassotto, anch'esso bruno e robusto. Sia la donna sia il cane avevano l'aria soddisfatta di sé e davano l'impressione di godere della reci-
proca compagnia. Due brave persone, che forse lui non aveva meritato di avere al suo fianco. Ma entrambi avevano finto di non accorgersene, l'avevano sopportato e reso felice. Dopo essersi tolto la toga, l'appese nell'armadio, e intanto si chiese a che razza di gioco stesse giocando Donnelly. Il fatto che avesse rinunciato alla dichiarazione preliminare e la brevità del suo controinterrogatorio avevano sortito l'effetto di fare apparire troppo prolisso l'intervento di Owen. La brevità era una delle tattiche di cui Donnelly si serviva più spesso, e le giurie non mancavano d'apprezzarlo, poiché secondo loro la semplicità equivaleva alla verità. La verità, pensavano, non aveva bisogno di fronzoli. Naturalmente, si sbagliavano. La verità alle volte richiedeva una buona dose di elaborazione e di dialettica. Il giudice s'infilò la giacca sportiva e si trasferì nell'ufficio accanto, dove la sua segretaria, Krista, stava parlando al telefono con il fidanzato, chiamandolo "signore" per non farsi capire. «Oh sì, signore. Alle cinque, forse anche un po' prima.» Il giudice non le aveva mai rivelato di essersi accorto dell'inganno fin dalla seconda volta. La giovane donna pareva ricavarne un innocente piacere, che lui non voleva toglierle. Del resto, Krista era una ragazza simpatica, anche se come segretaria non era un modello d'efficienza. Gli sorrise e gli fece un cenno di saluto con la mano, ma non riagganciò. Krista sapeva che lui "sapeva", il giudice se ne accorse per la prima volta. Si rendeva conto che, fingendo d'ignorare la cosa, dava la sua benedizione a lei e al suo compagno. E pensare che non lo conosco neppure, si disse il giudice. Potrebbe essere un criminale che Krista ha conosciuto proprio qui in tribunale. Si erano visti, si erano innamorati a prima vista, e Krista aveva aspettato che lui uscisse di galera per mettersi con lui. Il giudice aprì la porta, fece per uscire, cambiò idea e si voltò verso la segretaria. «Krista, se tu avessi bisogno di un consiglio per risolvere qualche problema personale, sii tanto gentile da non rivolgerti a me.» «Bene.» «Consulta piuttosto un professionista.» «D'accordo.» «O, meglio ancora, cavatela da sola. Fai quello che vuoi, cioè quello che faresti comunque, a prescindere dai consigli che potrebbe darti qualcuno.» La foschia smise di avanzare dal mare, quando arrivò ai piedi delle montagne. Era immobile, ora, e premeva sulla città, scivolava giù dai lampioni
come pioggia sottile, lucidava le foglie degli alberi. Anche quelle del fico che dominava il paesaggio. La pianta di fico si trovava lì fin da prima che ci fossero il posteggio, le auto, e persino il tribunale. Le sue grandi radici si allargavano come i tentacoli di un polpo, increspando il terreno in superficie, sfondando l'asfalto. Di tanto in tanto, accadeva che qualche personaggio, ritenendo di avere voce in capitolo, suggerisse di togliere l'albero, ma l'idea era così contraria alla mentalità dei cittadini, che immediatamente sollevava un'infinità di proteste da parte di associazioni varie, come la Camera di Commercio, il Sierra Club, la Historical Society, il Chumash Indian Council e il Club del Giardinaggio, che aveva sede nel centro cittadino. La pianta restava al suo posto, dopo aver fatto parlare di sé un'ennesima volta. Il giudice s'identificava con quell'albero, per l'età, per la forza, per la capacità di avere la meglio. Vedendo nuove fessure aprirsi nell'asfalto e allargarsi ogni settimana di più, provava un certo piacere, anche se la sua vecchia e reumatica Lincoln ne faceva le spese, sbuffando per la fatica. Mentre stava per imboccare la strada, vide Donnelly fermo vicino a una Mercedes coupé con il paraurti ammaccato. L'avvocato era intento a parlare con il suo collaboratore Bill Gunther. Avevano le teste vicine, come se temessero che qualcuno potesse captare la loro conversazione. Precauzione inutile, dal momento che la nebbia ovattava i suoni, fungendo da isolante acustico. Ma Gunther non era tipo da fidarsi degli isolanti acustici, così come non si fidava di moltissime altre cose. La diffidenza era parte integrante della sua natura e del suo lavoro. Veniva da Las Vegas, dove aveva fatto il poliziotto. Anche a Las Vegas la diffidenza è di casa, soprattutto intorno ai tavoli della roulette e del blackjack. La sua attuale occupazione aveva fatto sì che diventasse famoso, nell'ambiente del tribunale. Era capace di dire alle persone grasse che stavano dimagrendo, e ai magri che stavano ingrassando, alle ragazze carine che erano intelligenti, e a quelle intelligenti che erano carine, perché lo divertiva constatare come gli esseri umani siano sempre pronti ad accettare un complimento, per quanto campato in aria possa essere. Gunther e il suo capo avevano un'unica cosa in comune, il lavoro, che non consentiva a nessuno dei due di coltivare un hobby o le amicizie, perché li teneva costantemente occupati. «Arriva il giudice» disse Donnelly. «Forse sarebbe opportuno che non ci
mostrassimo in atteggiamento tanto intimo.» «Non mi pare che ci sia mai stata intimità tra noi due.» Il giudice Hazeltine, che con il passare degli anni riusciva a vedere sempre meglio in lontananza, aveva già adocchiato le due teste vicine. Quella vista lo disturbò, anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Quei due potevano anche tenersi la testa sotto il braccio come il fantasma di Anna Bolena, se lo desideravano, ma anche in questo caso non sarebbe stato affar suo, e inoltre non avrebbero violato nessuna legge. Svoltò con la vecchia Lincoln in direzione di casa. Dopo tutti quegli anni, a forza di compiere lo stesso percorso, probabilmente l'auto sarebbe stata in grado di trovare la strada da sola. Accesi i fari, il giudice si mise a canticchiare le parole di una vecchia canzone: "La testa sotto il braccio, lei s'incammina verso la torre maledetta". 2. Donnelly Al liceo, Charles Donnelly era stato votato come il ragazzo che aveva le maggiori probabilità di sfondare nella vita. All'università, era lo studente che aveva le maggiori probabilità di sfondare. Quando si era laureato, era il secondo nella graduatoria. E poi, effettivamente, era arrivato il successo, quando aveva sposato un'ereditiera, la figlia di un industriale del rame. Anticipando l'era dei computer, aveva trasformato il rame in oro. Miliardario a trent'anni, aveva scoperto che il denaro non lo interessava. Così era tornato a occuparsi di legge, diventando un famoso penalista. Gli piaceva accettare la sfida, battersi contro il sistema, e i suoi momenti più felici li trascorreva nella biblioteca del tribunale, a rileggersi i verbali di vecchi processi, oppure nel suo studio, a preparare i suoi interventi per i casi di cui si occupava. Lavorava spesso anche la sera, a volte con Bill Gunther, che gli riferiva i risultati delle indagini svolte per suo conto, e discuteva con lui sui processi in corso. Era stato proprio attraverso Gunther che aveva conosciuto Cully King. «Stasera hanno arrestato un negro sospettato di omicidio» gli aveva detto Gunther. «L'avete saputo?» «No. È un caso interessante?»
«Be', diverso dalle solite risse di taverna. La vittima è morta annegata.» «Chi era?» «La moglie di un dirigente di Bakersfield.» Gunther aveva una voce pacata che, aggiunta alla carnagione chiara e agli occhiali cerchiati d'acciaio, gli dava più l'aria dello studioso che non quella del poliziotto venuto da Las Vegas. Si era trasferito a Santa Felicia per lasciarsi alle spalle il gioco d'azzardo, che a Las Vegas era uno stile di vita. Qui a Santa Felicia, si limitava a scommettere sui cavalli, sugli incontri di boxe, sul calcio, sulla pallacanestro e occasionalmente sulle elezioni. Perdeva ancora parecchi quattrini, ma le perdite erano più sopportabili e anche meno frequenti. «L'avete visto, quel tale?» domandò Donnelly. «Sì.» «E che impressione vi ha fatto?» «Più che altro, m'incuriosisce. Non ricordo che sia mai stato arrestato un negro accusato di avere affogato una donna.» «La donna era bianca?» «Sì.» Donnelly rifletté un istante. «Scoprite qualche altro particolare» disse poi «e tornate da me.» «Quando?» «Stasera.» «Sono quasi le undici.» «Avete molte conoscenze. Fatele fruttare.» «Pensavo di andare a mangiare.» «Non avete che da invertire le due cose: prima il lavoro, poi la cena.» La moglie di Donnelly aveva cambiato il nome da Alexandra a Zandra, i capelli da castani a biondi, e il fisico da rotondetto a snello. Ma non aveva fatto il minimo tentativo di cambiare un lato del suo carattere, che irritava moltissimo il marito. Non diversamente da molte persone facoltose, dimostrava una certa spilorceria, che all'inizio Donnelly trovava divertente. Quando comperava qualcosa, aveva l'abitudine di contrattare con i negozianti, e se le capitava di acquistare per settecentocinquanta dollari un vestito che aveva visto altrove a ottocento, se ne vantava con tutti quelli che avevano la pazienza d'ascoltarla. Ritagliava dai giornali i buoni delle offerte speciali e approfittava dei saldi di fine stagione. E per risparmiare, non esitava a mandare la cuoca a fare gli acquisti dall'altro capo della città.
Donnelly quel giorno le fece osservare che in realtà non aveva il senso degli affari. «Risparmi un paio di dollari sulla spesa, e poi spendi tre o quattro volte tanto in benzina.» La risposta fu immediata, trionfante. «Abbiamo le azioni della raffineria, capisci? Così, io investo il mio denaro. La benzina deriva dal petrolio, e quando acquisto benzina, praticamente investo i miei soldi. Te ne rendi conto?» «Ci sarebbe una parvenza di logica nel tuo ragionamento, se non partisse da un presupposto errato.» «E cioè?» «Non possediamo azioni di nessuna raffineria.» «Ma certo che ne abbiamo. Per forza: ne hanno tutti.» Donnelly si strinse nelle spalle e fece per andarsene, ma lei lo trattenne. Indossava uno dei caffettani di seta che portava sempre quando stava in casa. Quando allungò la mano per fermarlo, la manica del caffettano scivolò indietro, mettendole a nudo il braccio. Era così sottile, che lui avrebbe potuto spezzarglielo con due dita. La pelle che lo rivestiva non sembrava pelle, ma un pezzo di carta in cui era avvolto l'osso da portare al cane. Si trovavano nel soggiorno del primo piano, meno spazioso e più intimo di quello del piano di sotto. Nel caminetto bruciavano tre pezzi di ramo d'eucalipto non ancora ben secchi, che sibilavano, sputavano scintille e lasciavano colare i succhi vitali alle estremità. Le scintille andavano a cozzare contro il parafuoco come uccelli impazziti. Donnelly, fermo davanti al camino, voltava le spalle al resto della stanza, a lei, alla loro vita in comune. «Stai prendendo ancora quelle pillole per dimagrire» la rimproverò con rammarico. «È la prima sera, dopo tanto tempo, che sei a casa, e vorresti sciuparla, parlando...» «Quante ne prendi?» «Una ogni tanto. Non regolarmente.» «Fammi vedere il flacone.» «Non mi sogno nemmeno. Se un marito non si fida della propria moglie, al punto da...» «Quante ne prendi, Zan?» «Una al giorno, due al massimo.» «Perché?» «Sai bene che ho la tendenza a ingrassare. Mi basta passare accanto a un
budino al cioccolato, per aumentare di un chilo. Le pillole mi aiutano a evitarlo. Mi fanno sentire in forma.» «Ma il tuo aspetto non ci guadagna.» «Come fai a saperlo, dal momento che non mi guardi mai?» «Ti sto guardando adesso. Sembri malata.» Lei cominciò a tremare e barcollò. Riuscì a ritrovare l'equilibrio, appoggiandosi allo schienale del divano, e camminando all'indietro alla cieca, arrivò in fondo al divano e si lasciò cadere sui cuscini. «Sporco bastardo che non sei altro! Prima non ti piacevo perché ero grassa, e adesso non ti piaccio perché sono magra.» «Non mi va che tu ti riempia d'anfetamine, al punto da diventarne schiava.» «Non ne sono schiava.» «E allora, perché le prendi?» «Te l'ho detto, mi fanno sentire in forma. Dio solo sa quanto ne ho bisogno, mi occorre qualcosa che mi tiri su di morale. Non ho figli, non ho un marito...» «Trovati un hobby.» «Un hobby al posto del marito. Divertente!» Fece una pausa. «Non c'è da meravigliarsi, se sembro malata. Sei tu che mi fai ammalare, non le pillole.» Donnelly spostò il parafuoco e smosse un pezzo di legno con il piede. Le scintille si moltiplicarono. Una finì sul tappeto, e lui rimase a osservarla mentre bruciava il tessuto, chiedendosi con uno strano senso d'eccitazione se avrebbe finito per incendiare tutto il tappeto, il tavolino, il divano, le tende, la stanza, la casa. A un tratto, si ricordò dei sensori antincendio che Zan aveva fatto installare in quasi tutti i locali, e schiacciò il tizzone con il tacco della scarpa. Sul tappeto rimase un segno, che sarebbe stato notato soltanto da una delle anonime cameriere, la prima volta che avesse passato l'aspirapolvere. «Quanti medici ti sei comperata?» domandò alla moglie. «Io non ho comperato proprio nessuno. Ho il mio medico personale, il dottor Stoddard, e lui ritiene che sia un bene non ingrassare.» «Stoddard non si sognerebbe mai di prescriverti anfetamine. Dunque, dove te le procuri?» «Non sono affari tuoi.» «Ma posso scoprirlo, se voglio.» «Oh, certo. Potresti mettermi Gunther alle calcagna.»
«Gunther ha cose molto più importanti da fare.» Mentre pronunciava queste parole, Donnelly si chiese se era vero. Gunther stava aiutandolo a salvare la vita a un uomo, ma la vita di Zan poteva essere in pericolo quanto quella di Cully King. Dei due, Cully era quello che aveva maggiori probabilità di cavarsela, perché lui voleva vivere, mentre Zan pareva avere perduto ogni interesse. «Per favore, Zan, ascoltami.» «No. Vattene. Lasciami in pace. Tornatene nel tuo ufficio, o dove vuoi tu.» Si era sprofondata nei cuscini, con il caffettano addosso, e sembrava che la seta fosse tornata al suo stato originale, che fosse tornata bozzolo. Era visibile solo il viso, il suo pallore e le guance infossate, che facevano sembrare più grandi gli occhi. Occhi grigi, come nuvole foriere di tempesta. Gli unici rumori che si udivano erano i crepitii del fuoco. Poi Zan parlò, con un tono che lui non sentiva da tanto tempo, dolce e triste. «Perché noi due non riusciamo a conversare come due persone normali?» «Forse perché non siamo persone normali.» «Potremmo provarci.» «D'accordo.» «Dimmi cosa succede in tribunale. Stasera alla televisione hanno detto qualcosa del processo, e ho visto la foto dell'assassino. Non ha l'aria di un assassino, vero?» «Sta alla giuria stabilirlo.» «Tu che ne dici?» «Quello che penso io non ha nessun valore.» «Non vuoi dirmelo?» «Sarebbe contrario all'etica professionale.» «Scommetto che a Gunther l'hai detto» gli rinfacciò. «A lui dici sempre tutto.» «È un mio collaboratore.» «In un certo senso, lo sono anch'io.» «Non per quanto riguarda la mia professione.» «Né per qualsiasi altra cosa.» Zan si mosse nel suo bozzolo, come se stesse per schizzarne fuori, allargare le ali e volar via, alla ricerca di un posto più caldo e più accogliente. «Zan, per amor del cielo, non piangere.» «Una volta, le cose erano molto diverse.»
«Ti verso qualcosa da bere. Ti va?» «Sono nervosa. Sono t-terribilmente nervosa.» «Ti prenderò un appuntamento con il dottor Stoddard.» «No, non farlo, Charles. È solo una questione di nervi. Mi sento un po' scossa, tutto qui.» «Sì, lo so. Ho visto decine di tossicodipendenti, nel carcere, in tribunale, per la strada. Hanno tutti lo stesso aspetto, Zan, e cominci, purtroppo, ad averlo anche tu.» Versò un dito di whisky dalla bottiglia e le porse il bicchiere. Zan tremava troppo per riuscire a prenderlo, e così lui gliel'accostò alla bocca perché potesse bere. Un po' di liquore le scolò giù dall'angolo delle labbra, e lui voltò la testa dall'altra parte per evitare di guardarla. «Il dottor Stoddard lo sa, che prendi quelle pillole?» le domandò. «Continui a tirare in ballo le pillole. Quelle non c'entrano. Sono semplicemente nervosa.» Finì di bere il whisky e ne chiese dell'altro. «Tu non mi fai compagnia?» «Stasera no. Ho ancora un po' di lavoro da sbrigare in ufficio.» «Non facciamo più niente insieme, non andiamo né al club della spiaggia né a quello di campagna, non facciamo neppure la prima colazione insieme.» «Non posso permettermi di dormire fino a mezzogiorno. Una volta avevi i tuoi interessi, Zan. Il golf, il tennis, il bridge. Hai rinunciato a tutto?» «Il tennis mi stanca. E non sopporto di starmene seduta tutto il pomeriggio al tavolo del bridge, né di vedere quelle stupide che barano per aumentare il loro punteggio sul campo di golf. Forse potremmo fare un viaggio insieme, Charles. Potremmo andare a Parigi, oppure in qualche Paese esotico, come il Marocco.» «Quando questo caso sarà finito, forse.» «Quando sarà finito questo, ce ne sarà un altro» replicò lei amaramente, ed era la verità. «Non andremo mai né a Parigi, né in Marocco. Non arriviamo nemmeno fino a Los Angeles. Perché non sei sincero con me?» «Va bene, può darsi che non andremo mai né a Parigi né in Marocco, ma sono certo che fino a Los Angeles possiamo arrivarci.» «Oh, però, che grande avvenimento!» «Di più non posso prometterti, per ora.» Le versò dell'altro whisky. Stavolta, lei riuscì a prendere il bicchiere in mano. Tremava ancora, ma se non altro riusciva a bere da sola. Il liquore non ebbe l'effetto che lui sperava, cioè di farle cambiare argomento.
«Un mese fa» riprese Zan «quando sei andato alle Isole Vergini, non mi hai neppure avvertito in anticipo. Avevi paura che mi autoinvitassi?» «Non mi è neppure venuto in mente.» «Ma certo. Le Isole Vergini sono il luogo ideale per la luna di miele. Perché dovevi portarci me, dal momento che c'era Gunther?» «È stato un viaggio di lavoro. Ci siamo trattenuti soltanto due giorni.» «Oh, in due giorni possono accadere un mucchio di cose.» Zan faceva spesso allusione ai suoi rapporti con Gunther. Lui non negava né ammetteva niente. La trattava come una bambina che facesse i capricci e che bastasse ignorare per ricondurre alla ragione. «Rispondi solo a una domanda, Charles, se non ti dispiace.» «Ci proverò.» «Perché mi hai sposata? Perché diavolo mi hai sposata?» Zan si alzò dal divano, e il mucchio d'ossa a un tratto prese forma, divenne uno scheletro. S'incamminò verso la porta, camminando adagio. Donnelly sapeva dove stava andando: in camera sua dove, in un cassetto, erano nascoste le pillole, che non avrebbe di certo riposto in bagno, nell'armadietto dei medicinali. Donnelly sapeva di non poterla fermare, né tentò di farlo. Zan uscì nel corridoio. Il rumore cadenzato dei suoi passi sul parquet faceva pensare a quello di una bomba a orologeria. Quando tornò in ufficio, Donnelly riferì la scenata a Gunther. «Be'» disse Gunther «perché l'avete sposata?» «Era molto carina, e aveva l'aria indifesa. Continuava a telefonarmi, a chiedermi consiglio su questo o quell'investimento, a farsi spiegare la differenza tra un'azione e un'obbligazione e altre cose del genere. Alla fine, m'invitò a una festa a casa sua, e poi facemmo l'amore sul sedile posteriore della Rolls Royce di suo padre.» «Romantico. E anche molto chic.» «In seguito, mi disse di essere incinta. Ero ingenuo, allora, e d'altronde mi sentivo lusingato, addirittura allettato dall'idea di avere un figlio. Naturalmente, quel figlio non arrivò, probabilmente non era mai esistito. Lei non voleva figli. Voi avete mai pensato di farvi una famiglia, Gunther?» «Be', una famiglia l'ho avuta, eccome. Eravamo in dodici figli. Sempre affamati, sempre occupati a litigare. Mia madre morì mentre tentava di mettere al mondo il tredicesimo, e mio padre entrò a far parte di una setta religiosa, una setta di balordi, e non si fece più vedere.» Gunther rise, ma il
suono della sua risata era amaro, perché quel ricordo risvegliava ancora la sua rabbia. Donnelly annuì. Quando aveva preso in affitto lo studio, aveva fatto incorniciare i suoi diplomi e la sua laurea. Poi, dopo qualche mese, aveva tolto tutto. Gli sembrava un'ostentazione inutile, e del resto i suoi clienti non erano del tipo che si lasciassero impressionare da pezzi di carta scritti in latino. Anzi, molti non sapevano neanche leggere. «Non sono abbastanza in gamba da sapere ciò che voglio esattamente» disse «ma so bene che cosa mi dà fastidio, e in questo momento non mi va di avere uno seduto sulla mia scrivania, che la prende a calci. Non potete stare seduto su una sedia, come una persona normale?» «Ah, è questo che fanno le persone normali, stanno sedute sulla sedia! Che altro?» «Si dimostrano rispettose nei confronti del principale.» «Questo dev'essere più difficile, soprattutto se il principale è d'umore nero. Per quanto riguarda il sedermi, credo di potercela fare. Così va bene?» Girò una sedia, vi si sedette a cavalcioni, appoggiò il mento allo schienale. «È così che si siedono le persone normali?» «Piantatela con queste stupidaggini e mettetevi al lavoro.» «D'accordo. Stasera vado a Bakersfield. Sono ancora dell'opinione che la signora Pherson sia troppo perfetta per essere vera. Probabilmente i fatti mi daranno ragione. Comunque, lo scoprirò presto. Ho un appuntamento con la sua cameriera, una certa Lucy. Lucy è una ragazza che si è messa in testa di migliorare. Per questo motivo frequenta una scuola serale, ed è questa la ragione per cui il nostro appuntamento è sul tardi. Ho intenzione di portarla al Kern County Boll Weevil Barbecue.» «Dove?» «Il Boll Weevil Barbecue è stato aperto da un gruppo di coltivatori di cotone. Sono specializzati in bistecche e costolette alla griglia!» «Quale sarebbe il piano? Corrompere Lucy ingozzandola di bistecche?» «Non credo che sarà necessario. È un tipo loquace per natura, e ha un debole per i tipi intellettuali.» «Voi lo sareste?» «Gli occhiali contribuiscono a farmi apparire tale.» Donnelly si appoggiò allo schienale e alzò gli occhi al soffitto, bianco come le pareti. Sul soffitto però c'era una macchiolina rotonda, grande come lo spioncino di una porta. Naturalmente, non era uno spioncino, dal momento che lo studio si trovava all'ultimo piano, e sopra c'era il tetto;
ciononostante, Donnelly non riusciva a dimenticare la sua esistenza, tanto che a volte modificava il proprio comportamento per ottenere l'approvazione di quella macchiolina. «Vi consiglio di mettervi subito in viaggio» disse. «Caspita, siete proprio di pessimo umore. Ho bisogno di grano.» «Usate le vostre carte di credito.» «I coltivatori di cotone non le accettano.» «Davvero? Ho circa cento dollari in tasca. Potrete comperare un bel po' di bistecche e di birra, con cento dollari. E forse anche un po' di Lucy.» «Da escludere. Ve l'ho detto, Lucy intende migliorare.» «Che tipo è?» «Si vede che ha bisogno di qualche miglioramento. Occhi azzurri, capelli castani, un corpo discreto. Ah, già, e suo padre non possiede una Rolls Royce, ma un furgone Ford. Non è altrettanto chic, ma in compenso è più comodo.» «Mi pento di avervi detto della Rolls Royce. Ma ve ne pentirete anche voi, se tirerete ancora in ballo questa storia.» Donnelly spalancò gli occhi, se li strofinò, ma la macchiolina sul soffitto rimase dov'era. Gunther era già arrivato alla porta. Lo richiamò indietro. «Aspettate un momento. Vedete quel circoletto là sopra, appena spostato a sinistra rispetto al centro del soffitto?» «Sì.» «Cosa pensate che sia?» «Uno scarafaggio.» «Non si muove mai.» «Si vede che è uno scarafaggio pigro.» «No, non è uno scarfaggio. È la mia coscienza.» «Avete una coscienza davvero minuscola.» «Sembra piccola, ma in quel minuscolo spazio riesco a vedere le migliaia di occhi che mi hanno guardato con disapprovazione, e le altre migliaia che aspettano il loro turno per fare altrettanto.» «Fatela togliere» suggerì Gunther. «Oppure copritela con un pezzo di nastro adesivo.» «Saprei che è ancora lì.» «Be', cosa volete che ci faccia?» «Niente. Siete l'ultima persona a cui chiederei di farci qualcosa. Ma sappiate che quegli occhi osservano anche voi.» «Caspita, non sopporto questi pensieri filosofici. È meglio che me ne
vada.» «Quando sarete di ritorno?» «Dopodomani. Dovrei arrivare all'incirca all'ora in cui riprende l'udienza.» «Bene. Al banco dei testimoni ci sarà il dottor Woodbridge, il loro patologo. Ci vorrà un'ora, prima che abbia terminato di elencare le sue credenziali e abbia sistemato il proiettore e lo schermo. Forse la giuria sarà favorevolmente impressionata da tutta la messinscena, ma da lui no di certo. Parla molto lentamente, quasi a fatica, come se non fosse sicuro di ciò che asserisce. Ed effettivamente non può esserlo. La patologia non è una scienza esatta, e niente dà maggiore soddisfazione a un patologo che dichiarare di non essere d'accordo con un collega. È per questo che sborsiamo un bel gruzzolo per far venire Thorvald da Minneapolis e Nesbitt da Baltimora.» «Quanto vogliono?» «Cinquecento e quattrocento rispettivamente. Più le spese. Entrambi sono in pensione, e ora sono diventati, se così si può dire, testimoni professionisti. Comunque, hanno ragione di farsi pagare bene: è un lavoro ingrato, il loro.» Gunther aveva una piccola fessura tra gli incisivi, e quando faceva passare l'aria attraverso di essa, emetteva un sibilo molto significativo. «State spendendo un capitale, per questo Cully King.» «E con questo?» «Non so chi ve lo fa fare. Tanto più che secondo me è colpevole.» «Davvero? Allora, credo che fareste meglio a lavorare per il Procuratore Distrettuale.» Gunther emise di nuovo un sibilo. «Di solito, mi chiedete la mia opinione.» «Esatto. Quando la vorrò, ve la chiederò senz'altro. Comunque, se teneste a mente che i nostri clienti sono sempre puri come la neve fresca potrebbe servire a migliorare i nostri rapporti.» «Nella mia città natale, l'unica neve che si vedeva era grigia, oppure color fango. La neve candida la si può vedere soltanto sulle cartoline d'alta montagna, dove la gente va a sciare. Cully King non è una montagna. Direi piuttosto che è fango, non trovate?» Donnelly fece come se non avesse sentito la domanda. Prese il portafoglio e ne trasse cinque banconote da venti dollari. «Ecco i vostri soldi. E se doveste beccarvi una multa, ricordate che è a carico vostro, non mio.» «Perché dovrei prendere una multa?»
«È quello che mi domando anch'io. Non sbattete la porta, quando uscite. Potreste disturbare il mio piccolo scarafaggio.» Gunther uscì, sbattendo regolarmente la porta. Donnelly prese il ricevitore e compose il numero del penitenziario. L'agente di turno addetto alla custodia dei detenuti gli fece osservare che era tardi, erano già le ventuno circa, e Donnelly a sua volta gli fece presente che gli avvocati sono autorizzati a vedere i loro clienti a qualsiasi ora, tranne all'ora dei pasti e quando si effettua il cambio della biancheria, perché in quei momenti gli agenti di custodia hanno troppo da fare. Non vi furono altre obiezioni. Il carcere aveva solo due anni di vita, ed esternamente era molto moderno. Poteva sembrare una scuola, o un ospedale, o un palazzo adibito a uffici. Dentro, era come tutti gli altri penitenziari, con le stesse cose e gli stessi rumori, lo stesso odore di disinfettante e un altro odore meno forte, più difficile da individuare. Chi veniva rinchiuso là dentro anche solo per una settimana, non lo dimenticava più: era l'odore del rimpianto. La saletta dove Donnelly aspettava che l'agente di custodia portasse Cully King era priva di finestre. L'aria che fuoriusciva da una ventola in cima alla parete era fredda e molto secca, tanto che Donnelly sentì subito la gola riarsa ed ebbe sete, ma non c'era acqua a portata di mano. L'arredamento era costituito da un tavolo d'acciaio e tre sedie, il tutto inchiodato al pavimento. Passarono dieci minuti, prima che Cully King fosse portato dentro. Indossava la tuta da lavoro e aveva l'aria assonnata. «Stavo guardando un film, e mi sono addormentato» disse. «Comunque, l'avevo già visto tre volte.» «Vorrei discutere con voi di alcune cosette. Sedetevi.» Cully prese posto all'altro lato del tavolo. «Sono stanco. Credo che ci mettano qualche intruglio nel cibo, per tenerci calmi. Me l'ha detto un tale, stasera a cena.» «Chi?» «Il tizio seduto vicino a me.» «E così, avete smesso di mangiare?» «Sì.» «Che fine ha fatto il cibo che era rimasto nel piatto?» «Se l'è mangiato lui.» «Cosa fa due più due?»
«Quattro. Però ho notato che effettivamente gli veniva sempre più sonno, a mano a mano che mangiava.» «Vi hanno fatto fesso, Cully.» «Non m'importa. Non è che fosse una leccornia. Mi sono comperato tre tavolette di cioccolato allo spaccio. Il cioccolato pare abbia l'effetto di... di non... Insomma, di non far perdere la virilità.» «Harry Arnold mi ha detto che nell'isola siete famoso appunto per la vostra virilità. Ha usato un termine strano per definirvi, una parola che non avevo mai sentito in vita mia: cornificatore. Però credo ugualmente di sapere cosa significa.» «Cornificatore è uno che se la spassa con le mogli degli altri. Non date retta a Harry. È la gelosia che lo fa parlare.» «Perché?» «Forse perché Richie ha la pelle color rame, come la mia.» «C'entrate qualcosa nella faccenda?» «Sull'isola c'è molta gente con la pelle chiara. E quando Harry lavora, sua moglie si dà da fare. È una puttana.» Donnelly batteva le dita sul tavolo, uno alla volta, come se stesse eseguendo al piano una scala di cinque note. «Ho conosciuto la moglie di Harry Arnold. Ha la carnagione molto scura. Quella di Richie assomiglia di più alla vostra.» «Richie non è mio figlio» disse Cully con convinzione. «Non mi dispiacerebbe, se lo fosse. È un bravo ragazzo, e mi tratta come se fossi una specie di eroe.» «Per quale motivo avete scelto gli Arnold, per farvi accompagnare in questo viaggio?» «Sanno fare il loro lavoro, sgobbano sodo e sono forti. Non era un viaggio di piacere, quello che stavamo per intraprendere.» «Però il piacere non l'avete trascurato, a quanto ho sentito.» «Anche questo ve l'ha detto Harry» osservò Cully, senza rancore. «Ogni bicchiere che beve, diventa sempre più loquace.» «Avete portato qualche donna a bordo del Bewitched?» «Nessuna, prima della signora Pherson. Le altre non erano che poco di buono, capaci di rubare la pelliccia a una capra. Per nessuna ragione al mondo le avrei lasciate salire sulla mia barca.» Donnelly continuava a tamburellare la sua scala sul tavolo, con un ritmo sempre più veloce. Era l'unico segno che dava del suo crescente interesse. «Raccontatemi di nuovo come avete conosciuto la signora Pherson» disse.
«Ve l'ho già ripetuto dieci volte.» «Una in più non vi farà male. Dunque, eravate seduto al bar del Casa Mariana Hotel. Per quale motivo avete scelto quel posto?» «Perché mi sembrava chic. Ero stanco delle bettole del porto, della puzza di sudore che vi si respira e del pesce. Volevo andare in qualche posto dove poter indossare la mia nuova giacca blu, i pantaloni bianchi e il dolcevita. Dovevo essere elegante, perché mi hanno servito subito. Bevo un paio di margherite, poi arriva una tizia e si siede vicino a me. Ci sono altre sedie vuote, avrebbe potuto sedersi altrove, e così mi viene spontaneo pensare... Insomma, era logico dedurre che l'avesse fatto di proposito.» «Siete svelto a trarre conclusioni, considerato che si era limitata a sedersi accanto a voi. D'altronde, da qualche parte doveva pur sedersi, dal momento che voleva bere. Non vi pare di correre troppo?» «Ne ho conosciute, di donne. Non c'è bisogno che mi dicano le cose chiaro e tondo.» «Chi ha attaccato bottone?» «Lei. Mi ha detto salve, o ciao. Insomma, mi ha salutato.» «Era truccata?» «Come si fa a rispondere a una domanda del genere? So solo che era piuttosto carina. In seguito ho scoperto che aveva quarant'anni, ma a vederla sembrava più giovane. Forse era proprio merito del trucco, o della luce soffusa, oppure dei cocktail che avevo bevuto. Le donne sembrano sempre più belle, dopo qualche bicchiere. Non era del tutto sobria nemmeno lei, e perciò forse anch'io le sono parso più attraente di quello che sono. Magari non si era neppure accorta che sono nero.» Un agente si fermò davanti alla porta, la cui parte superiore era chiusa da sbarre, e sbirciò dentro. Cully gli fece un cenno di saluto e l'agente rispose allo stesso modo. Quello scambio di saluti parve far riacquistare a Cully la sicurezza di sé. «Non mi occorrono né l'alcool né le luci soffuse» disse. «Le donne si sentono naturalmente attratte da me.» «Ricordatevi ciò che vi ho raccomandato stamattina, Cully. Umiltà, umiltà.» «Perché dovrei fingere di non piacere alle donne? Gli dico delle cose carine, mi comporto come piace a loro. Perché non dovrebbero sentirsi attratte da me? Voi piacete alle donne?» Donnelly ripensò alla sua ultima conversazione con Zan. Lui non diceva cose carine, né si comportava come piaceva a lei. Da anni ormai, non pia-
ceva più a Zan. «No» rispose. «Però siete sposato. Almeno a una donna siete piaciuto, allora.» «Già.» Ripensò alla notte in cui avevano fatto l'amore sul sedile della Rolls Royce. C'era buio, e lui non vedeva Zan, ma la sentiva tutta liscia e morbida, e la sua pelle era fresca, e profumava di fiori. Non erano fiori freschi, appena colti in un giardino, ma fiori morti, spruzzati di qualcosa che li faceva sembrare vivi. «Non siete brutto, considerata la vostra età» disse Cully. «Grazie del complimento.» «Scommetto che ci sono molte donne che...» «Non è di me che dobbiamo parlare» l'interruppe Donnelly, brusco. «È di voi e della signora Pherson. Perciò continuate il vostro racconto. È entrata nel bar, si è seduta accanto a voi e ha cominciato a chiacchierare. Poi cos'è successo?» «Le ho chiesto se voleva bere qualcosa.» «E lei?» «Ha avuto un attimo di esitazione, forse per darmi a intendere che non era il tipo di donna che bevesse. Non mi sono lasciato ingannare, soprattutto quando ha ordinato un Martini doppio.» «Come l'ha bevuto?» «Cosa volete dire?» «In fretta, lentamente, né in fretta, né lentamente?» «In fretta, credo, perché ne ha ordinato un altro subito dopo.» «Chi ha pagato il secondo?» «Lei.» «L'ha fatto mettere sul suo conto?» «No, ha pagato subito. Ho pensato che suo marito (ho capito che era sposata, perché aveva la fede al dito), ho pensato che il marito avesse l'abitudine di controllare i conti degli alberghi, e lei volesse evitare che vedesse quello del bar.» «Com'è andata che il discorso è caduto sulla cucina?» «Non ricordo esattamente, ma mi sembra che mi abbia chiesto se c'erano buoni ristoranti francesi, in zona. Le piaceva la cucina francese, mi ha detto, e a casa sua ogni tanto l'adottava. Mi è venuto subito spontaneo di pensare al signor Belasco, perché anche lui ama la cucina francese. D'istinto, le ho domandato se avesse mai fatto la cuoca, poi le ho parlato del Bewitched, della gara imminente, e della nostra necessità di assumere una
cuoca. "Dove siete diretti?" mi ha domandato . "A Honolulu" le ho risposto. È stato come se avessi pronunciato una parola magica. Honolulu è un posto che attira molto chi non ci è mai stato.» «Come fate a sapere che lei non ci era mai stata?» «Me l'ha detto. Mi ha detto . che lei e sua madre avevano fatto progetti per andarci, ma poi sua madre si era ammalata, e così non ci erano riuscite. "Be', allora perché non vi fate assumere come cuoca?" le ho chiesto. "La paga non è granché, ma il viaggio è stupendo." Lei mi ha risposto di sì, che l'avrebbe fatto.» «Così, senza pensarci?» «Sì.» «Senza chiedere un po' di tempo per decidere?» «Chissà, forse era il tipo dalle decisioni rapide. Oppure...» Cully si sforzò di apparire modesto «oppure aveva altre cose in mente, oltre alla cucina. Le ho spiegato che il Bewitched era pronto per salpare l'indomani all'alba, e che sarebbe stato più semplice per lei se fosse salita a bordo la sera stessa... Sapete cosa intendo, vero?» «Lo so» rispose Donnelly. «Lo sapeva anche lei?» «Lo sapeva. È salita nella sua stanza, si è infilata una giacca ed è ridiscesa. L'aspettavo nell'atrio. L'ho vista avvicinarsi al banco, parlare con un tizio. Qualche minuto più tardi, è venuta verso di me, con la borsetta e una borsa di pelle verde. Mi sembrava sempre più desiderabile. Non avevo più avuto una donna da Panama.» «Mazatlàn.» «Da parecchio tempo, comunque. Siamo usciti, siamo saliti su un tassì e siamo andati al molo dov'era attraccato il Bewitched.» «Vi siete offerto di portarle la borsa verde?» «Per chi mi avete preso? Certo, che mi sono offerto, ma lei non ha voluto. Dal fatto che non si staccava da quella borsa, ho capito che doveva contenere qualcosa di prezioso. Non che ci abbia pensato molto. Ero sempre più eccitato, per via che non avevo più avuto una donna da... da Mazatlàn, appunto.» «A proposito, state attento a come parlate, di fronte alla giuria. Non dovete dire che eravate eccitato, ma che provavate un certo interesse per lei.» «Provavo un certo interesse. Ehi, amico, ma io non parlo in questo modo. Non sembro io.» «Meglio così. Dovete dare l'impressione di essere innocente, di essere un gentiluomo impigliato in una crudele ragnatela di circostanze.»
«Provavo un certo interesse» ripeté Cully. «È così che si esprime un gentiluomo?» «No.» «E allora, perché dovrei farlo io?» «Perché siete processato per omicidio. Ogni parola che direte, ogni gesto che farete, persino il battito delle ciglia, sarà infilato nel computer che ogni giurato ha nella testa.» Cully si strofinò gli occhi, come per cancellare alcune immagini che preferiva non vedere. «Mi spaventa, questa faccenda del computer.» «Quanto credete che potesse pesare la borsa verde che aveva con sé la signora Pherson?» «Ve l'ho detto, non me l'ha lasciata prendere in mano.» «Dunque, non sapreste dirmi quanto pesava, né se faceva qualche rumore, come un tintinnio che poteva essere provocato da gioielli.» «La teneva con molta cautela, direi quasi con delicatezza. Tanto da farmi sospettare che contenesse droga.» «Avete pensato che spacciasse droga?» «Capita quasi tutti i giorni di sentire che gente apparentemente rispettabile è coinvolta nel traffico della droga.» «Anche da Bakersfield?» «Non so nemmeno dove si trova.» «È un posto dove coltivano petrolio, non cocco e oppio. Ah già, anche il cotone. Coltivano il cotone, e questo gli consente di avere ristoranti come il Boll Weevil Barbecue.» Cully aveva l'aria di non capire, ma non fece domande. Provava soggezione e gratitudine per Donnelly, e ancora non riusciva a spiegarsi per quale motivo si fosse offerto di difenderlo gratis. Non era abituato a provare né soggezione né gratitudine, e questo lo rendeva nervoso. «L'Accusa ha testimoni» riprese Donnelly «che dichiareranno che la signora Pherson è uscita portando con sé un astuccio porta-gioielli di colore verde. Ma una borsa di questo tipo non contiene necessariamente gioielli, anche se vi sono grosse probabilità che li contenga.» «Be', comunque, io non sapevo che cosa contenesse. Giuro sulla Bibbia che non lo sapevo.» «Vi credo» lo rassicurò Donnelly, e in quel momento era vero. Con una luce diversa, in un ambiente diverso, avrebbe potuto cambiare idea. Ma ora Cully sembrava sincero, e anche dispiaciuto del fatto che qualcuno potesse mettere in dubbio le sue parole. Se la giuria avesse potuto sentirlo e veder-
lo in quel momento, ci sarebbero state buone probabilità che Cully venisse assolto. Molto dipendeva dal suo comportamento in aula, e Donnelly non aveva modo d'influenzarlo. Poteva dargli consigli, certo, ma non era detto che Cully li seguisse. Anche perché non vi era abituato. In mare, il capo era lui, non prendeva ordini da nessuno. E a terra, non accettava consigli. «Domani» riprese Donnelly «sarete sottoposto alla vostra prima prova. Il Procuratore Distrettuale esibirà le foto del dottor Woodbridge, che ha eseguito l'autopsia della signora Pherson. La sua testimonianza sarà molto importante, perché lui è l'unico patologo del tribunale che abbia visto il cadavere, mentre gli altri che parleranno dopo di lui basano le proprie opinioni su quelle che potremmo definire informazioni di seconda mano, cioè su brandelli di tessuto, esami di laboratorio di campioni di sangue e cose del genere. Il prestigio di questi patologi potrà essere altrettanto grande, e le loro opinioni altrettanto valide, ma non per la giuria. Il Procuratore Distrettuale lo ripeterà fino alla nausea, che il suo patologo è l'unico a cui si deve prestare fede, perché è l'unico che abbia visto il cadavere.» «Che tipo di foto mostreranno alla giuria?» «Di ogni genere. La prima sarà quella del corpo, visto da ogni angolazione possibile. Dopo che il cancelliere avrà numerato ogni foto, esse saranno mostrate al giudice, poi a me, a voi, visto che mi state seduto accanto, e infine alla giuria. Dunque, quando vedrete la prima foto, come reagirete?» «Non lo so, dal momento che non l'ho ancora vista.» «Avete mai visto un morto?» «Sì. Più di uno.» «Che effetto vi hanno fatto?» Cully rifletté un istante. «Ho pensato: sono contento che sia lui, e non io. E mi sono sentito più vivo, sapete, con una strana voglia addosso di cercarmi una donna, di possederla. Come se il sangue mi scorresse più in fretta nelle vene.» «Dovrete guardare la foto della donna che siete accusato di avere assassinato. Questo dovrebbe bastare a rallentarvi parecchio la circolazione del sangue. E mentre il vostro sangue scorrerà a velocità ridotta, avrete tutto il tempo di meditare su questo particolare: dodici giurati, più sei di riserva, e il tredicesimo giurato, che è il giudice, osserveranno le vostre reazioni, mentre guarderete quella foto.» Cully parve a disagio. «Be', allora come devo comportarmi, per dargli l'impressione giusta?»
«Siete un uomo qualunque, a cui viene mostrata la foto di una donna annegata. Vi dispiace per lei?» «Sì, certo.» «Dunque, dovrete mostrarvi dispiaciuto. Distogliete lo sguardo, scuotete la testa, magari chiudete anche gli occhi. Immagino che non sappiate piangere.» «Non lo so. Non ci ho mai provato.» «Quand'è stata l'ultima volta che avete pianto?» «Al cinema, credo.» «Avete visto qualcuno morire in un film, e questo vi ha fatto piangere?» «Non era un uomo, era un cavallo.» «Un cavallo?» «Si era rotto una gamba, e qualcuno gli ha sparato. Non mi sembra giusto sparare a un cavallo solo perché si è rotto una gamba.» «Lasciamo perdere il cavallo.» «Va bene.» «Immaginate che io stia mostrandovi l'ingrandimento di una foto di Madeline Pherson, quando il suo cadavere è stato portato nella stanza delle autopsie. Ricordate, lei non voleva morire, così come non voleva morire quel vostro maledetto cavallo. Allora, come reagite?» «Non capisco per quale motivo vi arrabbiate sempre con me. Io non ho fatto niente.» «Non cambiate argomento. La foto è qui, su questo tavolo. Guardatela, accidenti.» «Sto guardandola.» «Mostratevi impressionato, afflitto, dispiaciuto.» «Tutt'insieme? Sarà un po' dura.» «Una cosa alla volta, allora» concesse Donnelly, parlando a denti stretti. «Voltate la testa dall'altra parte, scuotetela, strizzate gli occhi.» Cully fece ciò che gli era stato chiesto, ma la sua recitazione era esagerata e ridicola. Sembrava che si trovasse su un grande palcoscenico, di fronte a migliaia di persone, e non nella saletta del carcere. «Come sono andato?» «Non potreste essere un po' più convincente?» «Forse ci riuscirei, se la foto ci fosse davvero.» Donnelly aveva voglia di ridere, ma si trattenne. Doveva tenere sotto controllo quell'uomo, evitare che prendesse troppa confidenza. «Domani le vedrete, e vi colpiranno. Anche se credete di essere preparato a vederle, vi faranno impressione, ve l'assicuro. Vi consiglio di mostrare qualche emo-
zione. Non restatevene lì con la faccia da pesce morto. Ho avuto un cliente, qualche mese fa, che con la sua faccia da pesce morto è finito a St. Quentin, dove resterà per i prossimi dieci anni. Nell'aula accanto, stava svolgendosi un altro processo, sempre per omicidio. Un omicidio brutale, commesso da un uomo brutale. Il giudice che presiedeva aveva autorizzato la televisione a filmare le scene. L'omicida ne ha approfittato come meglio non avrebbe potuto: ogni volta che una telecamera lo riprendeva, scoppiava in singhiozzi da spezzare il cuore. Così ogni sera, alla televisione, si poteva vedere questo pagliaccio che piangeva come un vitello. Entrambi gli imputati sono stati giudicati colpevoli, ma quello con la faccia da pesce morto si è beccato dieci anni, mentre l'altro se l'è cavata con tre.» «Volete che mi metta a singhiozzare anch'io?» «Voglio che mostriate qualche emozione. Se le foto v'impressioneranno, fate in modo che la giuria se ne accorga.» Entrambi rimasero in silenzio. L'agente di custodia passò davanti alla porta; l'aria condizionata emetteva un ronzio; in lontananza, qualcuno gridava. «Dite sempre ai vostri clienti come devono comportarsi» domandò Cully «come se non avessero sentimenti, né cervello, né altro?» «No.» «E allora, perché lo fate con me? Pensate che mi renderei ridicolo, se mi lasciaste fare a modo mio?» «Se vi rendete ridicolo, sono fatti vostri. Se invece rendete ridicolo me, sono fatti miei, e non intendo perdere questo caso solo perché un testone come voi si rifiuta di seguire i miei consigli.» «È la seconda volta che mi offendete.» «E non sarà l'ultima.» «Non ho più voglia di parlare con voi.» «Non l'avrei nemmeno io, ma ci sono alcune cose che dobbiamo assolutamente chiarire. A che ora siete arrivati a bordo del Bewitched, voi e la signora Pherson?» «Verso le venti cento.» «Meglio evitare il gergo dei marinai. La giuria diffida di chi usa termini incomprensibili. Prima che mi dimentichi, c'è un'altra cosa che dovete fare, una cosa che potrebbe essere molto importante. Fatemi vedere le mani.» Cully alzò le mani, allargando le dita. «Vedo che vi mordete le unghie» riprese Donnelly. «Da quanto tempo lo fate?»
«Da sempre, a quanto ricordo.» «Dovete perdere il vizio.» «Perché?» «Non ho tempo per stare a spiegarvi anche questo.» «È difficile smettere di fare una cosa che si fa senza pensarci, ma proverò.» «Provarci non è sufficiente. Fatevi crescere le unghie, non mordetevele e non tagliatevele. E ora, torniamo alla signora Pherson. A che ora siete saliti a bordo del Bewitched?» «Tra le otto e le nove di sera.» «Dove avete cenato?» «Abbiamo comperato la pizza durante il tragitto.» «Una bella differenza con la cucina francese!» «È stata un'idea sua, non mia. Mi ha detto di non aver mai assaggiato la pizza, e di avere voglia di fare un sacco di cose che non aveva mai fatto in vita sua. Poi invece non l'ha mangiata, perché non appena siamo arrivati nella mia cabina, si è buttata sul letto e si è addormentata, senza neppure togliersi i vestiti di dosso. Una bella sfortuna, non vi pare?» «Il mio cuore sanguina per voi. Allora, che cos'avete fatto?» «Ho mangiato la pizza, e ho bevuto ancora un paio di Martini, poi ho dormito qualche ora, e mi sono alzato verso le tre e mezzo per controllare il motore. Dopo che siamo usciti dal porto, Harry mi ha sostituito, e io sono sceso di nuovo in cabina a dormire ancora un po'. Quando mi sono svegliato, lei era in piedi davanti a me e mi guardava, come se stesse prendendomi le misure. Strano, perché avevo addosso una coperta, e quindi lei non poteva vedere...» «Continuate il racconto. Vi ha detto qualcosa?» «In principio, no. Le ho domandato che cos'avesse, e lei mi ha risposto che aveva voglia di fare una nuotata, per cui voleva che mi alzassi e che fermassi la barca.» «Com'era vestita?» «Come la sera prima, solo che l'abito era spiegazzato, sciupato. Era sciupata anche lei. Vista alla luce del mattino, non era più così attraente. Quanto a me, soffrivo dei postumi della sbornia.» «Dunque, appariva in cattivo stato.» «Sì, era pallida e aveva quasi l'aria malata. Forse anche lei stava smaltendo i postumi della sbornia, e pensava che un bagno freddo le avrebbe giovato. Le ho spiegato che l'acqua è gelida a metà del canale, in questa
stagione, sui dieci, dodici gradi, e che andavamo alla velocità di dodici nodi, e perciò era pazzesco fermare la barca, solo perché lei potesse fare il bagno. Mi ha risposto che forse non era necessario che la fermassi, perché era un'eccellente nuotatrice, e ce l'avrebbe fatta a starci dietro. Le ho fatto notare che sono eccellenti nuotatori anche gli squali, e con questa osservazione sono riuscito a farle cambiare idea.» «Capita spesso che i passeggeri si tuffino dallo yacht per fare una nuotata?» «Solo quando la barca è all'ancora e ci troviamo in acque tropicali, e nel caso in cui il signor Belasco abbia organizzato una festa.» «E così, la signora Pherson ha desistito dal suo proposito. Poi cos'è successo?» «Siamo scesi nella cambusa, e io ho preparato pane tostato e uova strapazzate, e abbiamo bevuto il caffè che aveva avanzato Harry. Abbiamo parlato pochissimo. Non avevamo niente da dirci. Tutta la faccenda cominciava a sembrarmi una pazzia, quella di averla portata a bordo perché cucinasse e tutto il resto.» «Sottolineo ancora una volta l'importanza che mi diciate la verità» osservò Donnelly. «Se ignoro qual è la verità, non posso impedire al Procuratore Distrettuale di arrivarci. In altre parole, devo avere la possibilità di dirottarlo su un'altra pista.» «Vi ho detto la verità. Io non mento mai. Il guaio è che la gente tende a non credermi, per via del colore della mia pelle.» «Smettetela con queste balle.» «Non sono balle. Avete notato come mi guarda il Procuratore Distrettuale? Come se fossi spazzatura.» «Lui guarda tutti in quel modo, compreso il sottoscritto. Anzi, forse soprattutto il sottoscritto. Dopo il pane tostato e le uova strapazzate, che cos'avete fatto?» «Ho dato il cambio a Harry perché potesse andare a dormire. Ho visto la signora Pherson solo un paio di volte, in tutta la giornata. Una volta chiacchierava con Richie, e più tardi era appoggiata al parapetto, intenta a osservare un branco di delfini. La sera, abbiamo bevuto qualche bicchiere nella mia cabina, ed entrambi abbiamo cominciato a sentirci un po' più in forma. A un certo momento, mi è piombata addosso, graffiandomi con un orecchino. Erano orecchini di brillanti, infilzati nei lobi delle orecchie. Il graffio bruciava. Mi sembrava che ci fosse stata deliberazione da parte sua, come se volesse giocare pesante. Non mi piacciono le donne che ti assal-
gono, e perciò l'ho respinta.» «In che modo?» «Forse l'ho presa per il collo.» «Il forse potete abolirlo. L'avete presa per il collo. Avrete modo di constatarlo domani o dopodomani, quando vedrete le foto.» «Dovevo pur difendermi.» «Sarà dura convincere la giuria che un uomo della vostra corporatura avesse bisogno di difendersi da una donna alta poco più di un metro e mezzo che pesava una cinquantina di chili. Poi cos'è accaduto?» «Si è tolta gli orecchini e mi ha detto di tenerli.» «Ripetetemi le sue parole.» «Proprio così. "Tienili" mi ha detto.» «È importante che siano le sue parole esatte. Vi ha detto semplicemente "tienili"?» «Sì.» «Com'era vestita?» «Perché insistete tanto sul suo abbigliamento?» «Perché insistere è la mia specialità. Cosa indossava?» «Niente.» «Quella donna era completamente nuda, si è tolta gli orecchini, senza parlare, e ve li ha dati dicendo semplicemente "tienili"?» «Non era un tipo loquace. E la situazione era di quelle che non richiedono grandi dialoghi. Forse ha blaterato qualcosa per dirmi che le dispiaceva di avermi graffiato.» «Come vi chiamava? Cully?» «Non mi pare che abbia mai pronunciato il mio nome.» «Nemmeno qualche vezzeggiativo, come caro o tesoro?» «No.» «Dunque, lei era nuda, e si è tolta gli orecchini di diamanti. Quelli della giuria faranno fatica a immaginare una scena simile. Anzitutto, solitamente una donna si toglie i gioielli prima di cominciare a spogliarsi.» «Però le cose sono andate esattamente come vi ho detto, e non posso farci niente, che ci credano oppure no.» «La signora Pherson si è tolta prima un orecchino e ve l'ha dato, poi si è tolta l'altro e vi ha dato anche quello, oppure se li è tolti dalle orecchie e ve li ha consegnati tutt'e due insieme?» «Cosa vi ho risposto l'ultima volta che me l'avete domandato?» «Voglio sentirlo dire da voi.»
Cully scosse la testa. «È accaduto la primavera scorsa, quindi un bel po' di tempo fa. Non potete pretendere che mi ricordi anche i minimi particolari.» «E invece posso, e lo pretendo. E ci sarà parecchia gente che farà altrettanto.» Cully fissava la porta, come se sperasse ardentemente che si aprisse, dandogli la possibilità di andarsene da lì. «Non ricordo» mormorò. «Forse faremmo bene a mettere insieme tutte le risposte che mi avete dato, calcolare la media dei sì e dei no, e arrivare in questo modo alla verità, anche se come sistema non è dei più ortodossi. Non ricordate in che ordine si è tolta gli orecchini, però vi ricordate bene che vi ha detto di tenerveli.» «Già.» «Cosa intendeva dire, secondo voi, con quel "tienili"?» «Tenere significa tenere. Intendeva dire che erano miei, che me li regalava.» «Non vi è venuto il dubbio che stesse semplicemente chiedendovi di custodirglieli in un posto sicuro?» «No. Non era la prima volta che una donna mi faceva un regalo. Di solito riesco simpatico.» «Quante donne vi hanno fatto un regalo del valore di qualche migliaio di dollari?» «Nessuna, prima di lei.» «Ciononostante, siete ancora convinto che intendesse regalarveli, quegli orecchini?» «Sì.» «E vi siete regolato di conseguenza.» «Sì.» «Cioè, cos'avete fatto?» «Prima li ho messi in un cassetto vicino al letto; poi il mattino successivo sono sceso a terra e ho cercato un monte dei pegni.» «E così, le donne vi fanno regali» mormorò Donnelly. «Per quale motivo?» «Ve l'ho detto, mi trovano simpatico, capiscono che sono una brava persona. Potete chiederlo a chiunque, sulle isole, se sono o non sono una brava persona.» «Le isole sono lontane parecchie migliaia di miglia, e le uniche persone la cui opinione conti qualcosa, stanno sedute al banco della giuria e a quello dei testimoni. Dovete convincere loro che siete una brava persona.»
Cully prese un pettine dal taschino della camicia e se lo passò velocemente tra i capelli. «Perché vi pettinate?» gli domandò Donnelly. «Non dovete andare da nessuna parte, mi sembra.» «È un gesto che faccio spesso, quando sono nervoso.» «Be', non fatelo. Non mi piace, e non piacerebbe neanche alla giuria. E una brava persona come voi, comunque, che motivo ha di essere nervosa?» «La mia pelle è del colore sbagliato.» «Non è questo il vostro guaio. Direi piuttosto che siete un po' troppo attivo dal punto di vista sessuale, e questo potrebbe fregarvi.» Cully batté un pugno sul tavolo, poi con quattro passi raggiunse la porta e bussò. Qualche secondo più tardi, apparve l'agente di custodia, che aprì la porta. Aveva l'aria stanca e annoiata. Nessuno disse parola. Mentre tornava a casa, al volante della sua auto, Donnelly valutava i pro e i contro di far salire Cully King sul banco dei testimoni. Poteva essere una mossa necessaria, poiché generalmente la gente è portata a credere che un innocente ci tenga a dire la sua, a difendersi come meglio può. Se fosse andato tutto bene, cioè se Cully fosse riuscito a non perdere la pazienza e a non offendersi per qualche accusa del Procuratore Distrettuale, avrebbe potuto rivelarsi un testimone prezioso. Come aspetto, e per il modo di parlare, era più che presentabile. D'altra parte, le sue reazioni erano imprevedibili. Direttamente interrogato, avrebbe potuto cavarsela bene, a patto che non si contraddicesse da solo. Ma durante il controinterrogatorio avrebbe potuto bloccarsi. A Donnelly era capitato molte volte di vedere negri e altre persone appartenenti a gruppi di minoranza, colpevoli o innocenti che fossero, trincerarsi dietro la barriera del silenzio come bambini che incontrano la disapprovazione di una figura autoritaria. Era difficile immaginare Cully bloccato. Sembrava più probabile che diventasse fin troppo loquace. Se mentiva, avrebbe ammucchiato frottola su frottola come tanti mattoni, finché non gli fosse crollato tutto addosso. Una volta che Cully avesse prestato giuramento per salire sul banco dei testimoni, non c'era niente che Donnelly potesse fare per tornare indietro, anche se le cose si mettevano male. Era questa la preoccupazione maggiore di Donnelly: la consapevolezza di non poter controllare né gli eventi né Cully. Uscì dalla tangenziale nei pressi di una tavola calda frequentata dai ca-
mionisti. Il locale gli fece venire in mente Gunther, perché il suo collaboratore amava quel genere di posti. Sosteneva che si doveva mangiare bene, altrimenti i camionisti non vi si sarebbero fermati. Probabilmente si trovava proprio in un ambiente del genere, in quel momento, intento a mangiare un hamburger che colava unto e ketchup e a bere un caffè che pareva sciacquatura di piatti. Si sarebbe seduto al banco, taciturno, con l'aria di essere assorto in profonde meditazioni, e nessuno avrebbe sospettato che stava ascoltando parecchie conversazioni contemporaneamente, per poi sceglierne una e concentrarsi su quella, ignorando tutte le altre voci, i rumori, e i suoni trasmessi dalla radio. Gunther sapeva origliare come nessun altro. Oltre a essere dotato di un udito eccezionale, nutriva un genuino interesse per il prossimo, un interesse distaccato che non culminava né nell'approvazione né nella disapprovazione. Così come le sue orecchie sapevano concentrarsi su una cosa sola, altrettanto sapeva fare la sua mente. Aveva una vista fatta a tunnel, l'udito a tunnel, e così pure la concentrazione. Avrebbe mangiato il suo hamburger senza sentirne il sapore, e sentito l'odore della cipolla e dell'aglio, e dell'acqua di colonia mista a sudore, senza rendersene conto. Donnelly s'irritò, quando gli venne in mente che lui stava pensando a Gunther, ma Gunther non stava certamente pensando a lui. ("Donnelly? Quale Donnelly?" sarebbe stata probabilmente la sua reazione.) Il fatto che Gunther non pensava di sicuro nemmeno a Lucy, gli risollevò un po' il morale. I Donnelly vivevano nella casa costruita dal nonno di Zan che si trovava in un vecchio quartiere della città, un quartiere esclusivo dove gli arricchiti non avevano possibilità di abitare, perché non c'era più terreno disponibile, e perché le case già esistenti erano vendute con restrizioni illegali e quindi mai ammesse pubblicamente, ma sempre rispettate. Un immobile cambiava raramente di proprietario, e quando accadeva, il nuovo padrone di casa era sostanzialmente uguale al precedente. Ricchi repubblicani bianchi erano sostituiti da ricchi repubblicani bianchi. Era il tipo di quartiere dove al Procuratore Distrettuale sarebbe piaciuto vivere, e che invece Donnelly detestava. Però gli faceva comodo la privacy che offriva quella zona, e tornava utile anche a Zan. Nessuno poneva domande sulle sue origini, sulla sua posizione nella vita, o sulle sue preferenze politiche, anche se qualcuno a volte si stupiva di certi clienti che lui accettava di difendere. Il cancello di ferro si aprì, non appena ebbe premuto un tasto sotto il
cruscotto, e tornò a richiudersi dopo che l'auto fu passata. Girò intorno alla casa per raggiungere il garage, che un tempo era stato la scuderia della famiglia. I cavalli erano spariti da un pezzo, per essere rimpiazzati dalle due Jaguar di Zan, dal carretto delle mazze da golf, da una barca a vela e dalla Volkswagen della governante. La vecchia casa a tre piani era inondata di luce. Donnelly sapeva che non le avevano lasciate accese per lui. Semplicemente, nessuno si preoccupava di spegnerle. Non se ne preoccupava Zan, e tantomeno la governante, il cui contratto prevedeva che non muovesse un dito, dopo le otto di sera. Entrato in casa, Donnelly spense le luci in ogni stanza, poi salì al piano di sopra. La porta della camera di Zan era socchiusa. Nemmeno questo era per dargli il benvenuto. Zan si era soltanto dimenticata di chiuderla. Zan dormiva nel suo grande letto a baldacchino. Era voltata su un fianco, e i capelli le coprivano la faccia. Sembrava irreale, come un profilo di cera su un cuscino di seta rosa, e sotto il lenzuolo della stessa tinta c'era un mucchio di ossa in attesa di essere montate. A Donnelly venne in mente il "fai da te". Non occorre l'uso di attrezzi. Batterie non comprese nel prezzo. O soddisfatti, o rimborsati. Il respiro di Zan era irregolare. Veloce, poi lento, poi si fermava di colpo per due o tre secondi, e riprendeva in fretta, per recuperare. «Zan?» Un gatto giallonero, acciambellato in fondo al letto, fece le fusa al suono della sua voce. Ma nemmeno quel suono voleva dargli il benvenuto, proprio come le luci accese e la porta aperta. Se avesse toccato il gatto, l'animale avrebbe inarcato la schiena e si sarebbe spostato. Se avesse toccato Zan, lei si sarebbe svegliata con un gemito. Sul comodino vicino al letto c'era un bicchiere riempito d'acqua a metà e un flacone di pillole. Donnelly lo prese e lesse l'etichetta. "Nembutal gr. 0,15, dr. Casberg." Lo studio del dottor Casberg si trovava a Westwood, e il medicinale era stato prescritto a Sarah Killeen, la governante dei Donnelly. Impossibile stabilire quante pillole avesse ingerito Zan, ma comunque a sufficienza da neutralizzare l'anfetamina. Zan non era più un essere umano, ma un campo di battaglia nella guerra tra anfetamine e barbiturici, e il campo di battaglia era già disseminato di cadaveri e di cellule moribonde. Donnelly rimase immobile a guardarla, sentendo dentro di sé la terribile responsabilità di fare qualcosa che era incapace di fare, cioè salvarle la vi-
ta. «Non farlo, Zan» disse in un sussurro. «Non ucciderti in questo modo. Non ho mai voluto farti del male. Volevo amarti. Non so che cosa sia accaduto, ma ti prego, non fare questa cosa orribile a te stessa.» Si ficcò in tasca il flacone di Nembutal, poi iniziò una ricerca sistematica nei cassettoni e nella scrivania. Cercava altri flaconi di pillole e capsule. Non aveva idea di quali fossero i loro nomi, né quelli dei medici che le avevano prescritte. I cassetti di Zan erano disordinati quanto il suo modo di vivere. Governante e cameriere probabilmente avevano ricevuto l'ordine di non toccarli. Calze e camicie da notte erano mescolate a sottovesti, pezzi di bigiotteria, boccette di profumo, calze da golf, fazzoletti, chiavi, lettere, reggiseni, compresse per l'emicrania. Donnelly trovò ventinove flaconi di droghe diverse, prescritte da medici diversi. C'erano anche due buste macchiate, contenenti capsule che Zan non si era procurata in farmacia. Donnelly infilò tutto nelle tasche della sua giacca: Dexedrina, Desoxyn, Plegine, Percodan, Valium, Tenuale, Seconal. Non aveva idea di ciò che ne avrebbe fatto. Tanto per cominciare, voleva controllare i nomi dei vari medici. L'unico che riconobbe era quello del medico di Zan, che le aveva prescritto il Percodan. Del controllo avrebbe dovuto occuparsi lui personalmente, oppure Gunther, dal momento che non c'era da fidarsi della riservatezza degli altri collaboratori. Attraversò la stanza, e a ogni passo, i flaconi di plastica tintinnavano, sbattendo l'uno contro l'altro nelle tasche. Si sentiva come un ladro. In effetti, aveva commesso un furto. Si rifiutava di riflettere sulle conseguenze del suo gesto, così come si rifiutava di rimettere tutto quanto al suo posto, lasciando che Zan seguitasse per la sua strada. Doveva assolutamente fare uno sforzo per impedirle di autodistruggersi. Parlarle non serviva a niente. Autocontrollo, disciplina, erano parole che avevano sempre avuto poco significato per lei. Ora non ne avevano affatto. Non restava che intraprendere un'azione drastica, come quella d'impedirle di rifornirsi di droga. Sarebbe stato molto facile contattare i vari medici, i cui nomi erano scritti sulle etichette, e dare loro un avvertimento. Per le droghe che si era procurate con altri mezzi, il discorso cambiava. Come se le era procurate? Zan evitava persino di attraversare in macchina i quartieri malfamati, dove il traffico della droga era all'ordine del giorno. Anzi, usciva raramente di casa, per cui doveva esserci qualcuno che le portava la roba, una cameriera, un giardiniere, un meccanico, un lavorante del salone di bellezza dove andava a
farsi pettinare e a farsi mettere lo smalto sulle unghie, oppure il commesso di qualche negozio, o il fattorino del droghiere. Chiusa la porta della stanza, tornò al piano di sotto, passò davanti alla libreria carica di volumi che parlavano di legge, oltrepassò la sala da pranzo, sul cui tavolo di mogano rettangolare ogni giorno si cambiavano i fiori, benché da anni ormai nessuno mangiasse più lì, attraversò la seconda sala da pranzo, quella che usavano abitualmente, entrò in cucina e da lì uscì nel corridoio da cui si accedeva all'appartamentino della governante, che comprendeva la camera da letto, un salotto e il bagno. Bussò alla porta. Un cane abbaiò. Una voce femminile gli ordinò di tacere. «Chi è?» «Charles Donnelly.» «Le venti sono già passate.» «Lo so.» «Non sono più in servizio. Sul mio contratto è scritto che non sono obbligata a fare niente, dopo le otto di sera.» «Volevo solo farvi una domanda, signora Killeen.» La governante aprì la porta, ma non l'invitò a entrare. Preferì uscire lei in corridoio, e contemporaneamente spinse dentro con un piede un cagnetto nero. Prima che la porta si richiudesse, Donnelly ebbe il tempo d'intravedere la scena di un film porno. «Per essere precisi, sono le undici, signor Donnelly. Ricorderete sicuramente i termini del mio contratto.» «Certo che me li ricordo. L'ho scritto io.» «Ebbene?» «Sono entrato a dare la buona notte a mia moglie, e l'ho trovata che dormiva. Sul suo comodino c'era un flacone di Nembutal con scritto sopra il vostro nome, e il nome di un medico di Westwood.» La governante si mise immediatamente sulla difensiva. Si chiuse la vestaglia sul collo, strinse più forte la cintura. Era una donna giovane, alta, piuttosto robusta, che parlava con un leggero accento francese. «Certo, c'è scritto sopra il mio nome, signor Donnelly. Le pillole sono state prescritte a me. Ho avuto uno stiramento muscolare alla schiena, quando sono andata a Westwood per aiutare mia sorella a traslocare, e di notte non riuscivo a dormire. Per questo il medico di mia sorella mi ha prescritto il Nembutal.» «Per quale motivo il flacone si trovava nella stanza di mia moglie?»
«Mi ha chiesto se avessi qualcosa per farla dormire, e io le ho dato le pillole.» «Non c'è altro?» «Cosa intendete dire?» «Non le avete dato altro?» «No.» «È già accaduto in precedenza che le abbiate fornito medicinali di questo tipo?» «Ora capisco dove volete arrivare» replicò la donna, dando un altro strattone alla cintura. «La risposta è no, non sono io che le procuro la roba. Lo so, così come lo sanno anche gli altri dipendenti, che vostra moglie si droga. Si comporta come se fosse pazza.» «Non mi sembrate molto rispettosa nei confronti della signora.» «Sono fuori servizio.» «Se vi dà fastidio lavorare alle dipendenze di una donna che si comporta come se fosse pazza, perché non vi licenziate? Non mi opporrei di certo.» La governante capì che Donnelly bluffava. Sorrise. «Oh, non mi trovo male, in questa casa. L'imprevedibilità di certi comportamenti è uno degli incerti del mestiere, e ormai ci ho fatto il callo.» «Chi le procura la roba, signora Killeen?» «A giudicare dai rigonfiamenti nelle vostre tasche, c'è da pensare che l'abbiate trovata. Li ho visti anch'io, tutti quei flaconi. E se credete di riuscire a fermarla, vi sbagliate. Portategliene via uno, e lei ne troverà degli altri. Ci sono centinaia di medici, in questa città. Alcuni di loro possiedono aerei personali, elicotteri e yacht, roba che non si riesce a comperare curando tonsilliti e fasciando ginocchia sbucciate.» «Grazie» disse Donnelly. «Buona notte, signora Killeen.» «Buona notte, signor Donnelly.» La governante tornò nella sua stanza. Il bastardino nero si era accomodato sulla poltrona, davanti alla televisione. «Non sono obbligata a essere gentile con lui, se non mi va» disse la donna al cagnetto. «Sono fuori servizio. In ogni modo, questi maledetti pederasti farebbero meglio a non sposarsi.» 3. Il Procuratore Distrettuale Erano le dieci del mattino.
Ai giurati erano già stati distribuiti i taccuini, e nell'aula tutti erano al loro posto, tranne il giudice. Hazeltine si era trattenuto nella sua stanza, a conversare con il suo vecchio amico, Quentin Woodbridge. Woodbridge era un uomo alto e asciutto, sulla sessantina, con la testa pelata circondata da un bordo semicircolare di capelli bianchi che sembravano l'aureola di un santo. I due uomini giocavano a bridge insieme, due volte la settimana, al club dell'università. Giocavano molto seriamente. Al club, era proibito parlare di lavoro. La conversazione si limitava all'essenziale: i saluti all'inizio e alla fine, e un commento della partita al bar, al termine del gioco. Il Procuratore Distrettuale Oliver Owen apparteneva allo stesso club, ma i due uomini lo tenevano alla larga. Owen parlava troppo. Il silenzio era contrario alla sua natura, era come un buco da riempire a tutti i costi. E lui lo riempiva con banalità, scherzi, pettegolezzi, discorsi sulla politica e aneddoti relativi alla sua famiglia. Se gli scherzi fossero stati divertenti, le banalità di un certo interesse, i discorsi intelligenti e gli aneddoti meno noiosi, forse l'avrebbero giustificato, tenendo conto della sua giovane età (aveva quarant'anni) e della sua inesperienza (aveva cominciato da poco a giocare a bridge, e si rifiutava di credere che qualcuno potesse prendere il gioco seriamente). Woodbridge era seduto alla scrivania del giudice, e teneva le mani affondate nelle tasche, un atteggiamento che gli era abituale, come se sentisse freddo. Il giudice sapeva bene che non era questo il motivo. «E allora?» domandò. «È ora di entrare.» «Non ti ho chiesto che ore sono, Woody. Volevo sapere come ti senti.» «Io? Bene.» «Bene quanto?» «Abbastanza bene.» Il giudice tacque per qualche secondo. «Owen lo sa?» domandò poi. «Io non gliel'ho detto.» «Riesce sempre a scoprire un mucchio di cose.» «Se lo sapesse, mi avrebbe detto qualcosa, e l'avrebbe raccontato in giro per tutta la città. Deduco quindi che non sappia niente.» Woodbridge si alzò. «L'assistente del tribunale mi sta aspettando nel corridoio. È meglio che vada.» «Fai pure con calma.»
Eva Foster annotò l'ora, le dieci e nove minuti, e l'assistente del tribunale annunciò ad alta voce: «In piedi! Entra la Corte della contea di Santa Felicia, stato della California. La seduta è aperta. Presidente il giudice George Hazeltine.» Quentin Woodbridge prestò giuramento e prese posto al banco dei testimoni. Aveva con sé parecchi fogli d'appunti, per rinfrescare la memoria. Consultava spesso gli appunti, mentre elencava i suoi titoli con voce esitante. Owen non gli mise fretta. Gli piaceva ascoltare il suono di lauree e titoli di merito, come se facessero onore anche a lui, dal momento che Woodbridge era un suo testimone. «Voi siete il patologo legale, dottor Woodbridge?» «Sì.» «Volete gentilmente spiegare alla giuria cos'è esattamente un patologo legale, e quale differenza c'è con un patologo comune?» «Un patologo legale è laureato sia in legge, sia in medicina.» «Dove avete conseguito queste lauree, dottor Woodbridge?» «La laurea in legge all'University of Southern California di Los Angeles, quella in medicina alla Johns Hopkins University di Baltimora.» «Ma precedentemente, vi eravate già laureato in scienze, non è vero?» «Sì.» «Dove?» «All'University of Michigan.» «University of Michigan» ripeté Owen. Alla macchina per la stenotipia, Mildred prese nota della ripetizione, che nel gergo del tribunale veniva definita "zeco", ed era usata dagli avvocati per avere il tempo di pensare alla domanda successiva. Queste ripetizioni complicavano il lavoro della stenografa, e prima dell'inizio del processo, Mildred aveva inviato una lettera amichevole a Owen e a Donnelly, per pregarli di evitare ripetizioni e altre complicazioni come voci sovrapposte, che le avrebbero impedito di svolgere bene il suo lavoro. Donnelly aveva ignorato la lettera, mentre Owen aveva risposto con un biglietto in cui c'era scritto: "Per vostra informazione, signora Noon, sappiate che non ho l'abitudine di perdere tempo in ripetizioni inutili. Quanto alla sovrapposizione delle voci, se essa sarà provocata dalla controparte, non posso farci niente". «All'università vi siete fatto onore?» «Mi sono laureato a pieni voti.»
«Siete stato scelto perché facevate parte di qualche associazione culturale?» «Ho il Phi Beta Kappa.» «In seguito, alla facoltà di medicina, avete ottenuto un altro riconoscimento analogo?» «Sì.» «Il suo nome?» «Alfa Omega Alfa. È un riconoscimento che viene dato a chi si laurea con la votazione più alta in medicina.» «Siete membro di qualche organizzazione di tipo professionale?» «Sì.» «Come si chiama quest'organizzazione?» «Una è l'American Medical Association, l'altra l'American Bar Association.» «Avete prestato il servizio militare, dottor Woodbridge?» «Sì.» «In quale corpo?» «Nella Marina degli Stati Uniti.» «Con quale qualifica?» «Ero internista al Naval Hospital di Bethesda, nel Maryland.» «È stato in quel periodo che avete deciso di specializzarvi in patologia?» «Sì.» «Come mai?» «C'era un posto vacante nel dipartimento della Omicidi, e mi era stata offerta l'opportunità di occupare quel posto.» «In seguito, avete fatto altre esperienze in questo campo?» «Sì.» «Per risparmiare tempo e andare avanti con il processo» disse Donnelly, senza alzarsi «la Difesa è disposta ad ammettere che il dottor Woodbridge ha alle spalle una buona dose d'esperienza nel suo campo.» «L'accusa ha il diritto di fornire una documentazione completa, a dimostrazione della preparazione, dell'esperienza e della competenza del dottor Woodbridge» disse il giudice. «La Difesa potrà godere dello stesso diritto, quando arriverà il momento. Avvocato Owen, prego, continuate.» «Grazie, Vostro Onore. Dottor Woodbridge, quanto tempo siete rimasto al Naval Hospital di Bethesda?» «Cinque anni.» «In quel periodo, avete pubblicato qualche articolo di medicina legale?»
«Ho collaborato a scrivere quattro articoli.» «Dove sono stati pubblicati, e in quale anno?» Woodbridge sfogliò i suoi appunti, gli stessi che aveva usato nel corso di una dozzina di processi precedenti, ragione per cui non avrebbe dovuto essergli difficile consultarli. Ma gli tremavano le mani, e quelle cose gli apparivano così lontane e irrilevanti. Per quale motivo si trovava in quell'aula male illuminata, alla ricerca di titoli di giornali che nessuno conosceva, su cui erano stati pubblicati articoli ormai superati? Dopo tre o quattro minuti, cominciò a tremargli il labbro inferiore. Sembrava un bambino che stesse per piangere. Il giudice, guardandolo, si accorse di ciò che stava accadendo al suo vecchio amico e propose immediatamente una pausa, benché non fossero ancora le undici. Mentre l'aula si vuotava, si chinò verso Woodbridge e gli chiese di raggiungerlo nella sua stanza. Mentre si recava dal giudice, camminando con passo incerto, Woodbridge aveva la bizzarra sensazione di vedere se stesso con gli occhi di un altro, un vecchio che rovistava con la memoria negli anni trascorsi, nel tentativo di ricordare cose e persone che ormai non importavano più a nessuno. Ma avevano mai avuto qualche importanza, quelle file di cadaveri, e quei rapporti non letti su persone presto dimenticate e mai piante? Arrivato nella stanza del giudice, Woodbridge si sdraiò sul divano senza che l'amico l'invitasse a farlo. «Mi avevi detto di sentirti bene» osservò il giudice. «Abbastanza bene, ti avevo detto.» «Cosa significa abbastanza bene?» «Abbastanza da poter trascorrere un'altra giornata. Senti, George, sono solo stanco. Stufo di aule e di processi, stufo degli avvocati. E soprattutto, stanco di cadaveri.» «C'è una cosa che devo assolutamente dirti, Woody, e perciò ascoltami bene. Credo che faresti bene a smettere di lavorare.» «E poi, cosa potrei fare?» «Niente. Non è necessario che tu faccia qualcosa.» «A parte le ore dedicate al sonno, ne restano altre sedici in una giornata. Come le trascorrerei?» «Potresti cercare di migliorare il tuo bridge.» «Il mio bridge non avrebbe bisogno di essere migliorato, se il mio compagno capisse al volo la mia tattica di gioco.»
«Non credo che un calcio sotto il tavolo possa essere considerato una tattica di gioco.» «Nemmeno io. Il calcio era involontario.» «Oh, scusami.» Il giudice esitava. «Ti capita spesso di avere questi spasmi?» «Tu continua a occuparti di questioni legali, George. Lascia che sia io a occuparmi di cose attinenti alla medicina.» «La mia non era una domanda di carattere medico, ma una domanda di tipo personale, di uno che s'interessa dell'amico.» «Stupidaggini. Volevi indagare.» Woodbridge si mise seduto. «Occasionalmente, capita a molti di avere uno spasmo. Capita anche ai morti. Lo sapevo già, naturalmente, che talvolta i morti si muovono, a causa delle contrazioni muscolari. Ma la prima volta che è accaduto, mi sono spaventato da morire.» I due amici risero, non tanto perché l'idea li divertisse, quanto perché erano contenti che quel momento di tensione fosse passato. «Pazzesco, vero?» riprese Woodbridge. «Due vecchie cornacchie come noi, con un piede nella fossa, chiamati a decidere se un giovane sano come Cully King dovrà vivere o morire.» «Ti sbagli, amico mio. Non saremo noi a decidere della sorte di Cully King. Tu sei solo un testimone, e io soltanto il giudice.» «Oh, George, via, lo sanno tutti, che il giudice è il tredicesimo giurato.» «Solo dodici sono chiamati a votare.» «È vero, ma tu puoi influenzare un caso in un senso o nell'altro.» «A rischio di essere smentito in appello. Un rischio che potrei correre, se fossi sicuro dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato. Nel caso attuale, non ho tale sicurezza, e perciò ne resto fuori, da semplice osservatore.» Si alzò, si guardò i piedi. Sì, poteva darsi che ne avesse già uno nella fossa, ma per il momento calcavano il terreno, lo sorreggevano in questa vita che lui non aveva nessuna fretta di lasciare. «Be', al diavolo tutto quanto» mormorò. «Ti va di bere un goccio, per tirarti su di morale? Puoi bere alcolici?» «Io no. E tu?» «No.» «Allora, beviamoci sopra. Ti va bene del whisky?» «A meraviglia» rispose il dottore. Oliver Owen chiamò sua moglie Virginia, da uno dei due telefoni
dell'ufficio degli avvocati. «Sei tu, Vee?» «Non vedo chi altri potrebbe essere, Oliver.» «Una cameriera, la donna delle pulizie, tua sorella. La prudenza non è mai troppa.» «Non ho cameriere, né donne delle pulizie, e mia sorella vive a Stuttgart, nell'Arkansas. Dunque, devo essere proprio io.» «Non torno a casa a pranzo. Il giudice Portelli mi ha invitato a mangiare con lui. Probabilmente andremo in qualche ristorante dove si mangia da cani.» «Perché dici questo? Ti è sempre piaciuta la cucina italiana. A proposito, mi ha appena telefonato la scuola. Questo pomeriggio ci sarà una riunione imprevista degli insegnanti, per discutere degli atti di vandalismo che ormai sono diventati troppo frequenti. Mandano i ragazzi a casa a mezzogiorno. Così va a monte il mio programma della giornata. Oggi toccava a me andare all'ospedale ad assistere i malati.» «I ragazzi sono grandi abbastanza da poter restare a casa da soli.» «No, se ci tieni a ritrovare una casa, quando tornerai.» «Non dire assurdità. Sono i ragazzi più educati di tutta la città. Ehi, mi è venuta un'idea? Perché non li porti qui, quando vai all'ospedale? Potranno venire in aula, e vedere il loro vecchio in azione. Chissà, potrebbe dargli l'ispirazione.» «Va bene» rispose Vee, e riagganciò, piuttosto depressa al pensiero che i ragazzi trascorressero il pomeriggio in tribunale, ad assistere a un processo per omicidio. Avrebbero potuto annoiarsi, o mettersi in testa strane idee. L'unica cosa da escludere era che gli venisse l'ispirazione. Rimise l'apparecchio telefonico al suo posto, sulla piccola scrivania bianca in un angolo della cucina. Quell'angolino era il suo spazio personale. Seduta sulla sedia girevole, dietro la scrivania che aveva usato ai tempi dell'università, si sentiva una persona vera, ben distinta da Oliver e dai ragazzi, in una piccola porzione di mondo che era soltanto sua. Vee era una donna piccola e graziosa, con gli occhi castani molto vispi, e capelli scuri a riccioli fitti come quelli di un barboncino, che nessuna spazzola riusciva a domare. Lei e Oliver erano sposati da quindici anni, e avevano avuto tre figli. In presenza del padre, i ragazzi si comportavano molto educatamente, fino al punto di chiamare signore e signora il padre e la madre. Lontani da casa, erano monelli irriducibili, ben noti a scuola per la loro turbolenza. A volte Vee aveva l'impressione che non fossero figli
suoi, che lei fosse soltanto il contenitore che li aveva portati al mondo, e che ora questo contenitore non servisse più. Quando le riferivano i loro misfatti, se li teneva per sé, senza dire niente a Oliver, perché sapeva che se gliel'avesse detto, lui avrebbe espresso incredulità, oppure avrebbe trovato il modo d'incolpare lei. La domenica, Vee andava in chiesa con quelli che chiamava i suoi quattro ragazzi. Era una bella famigliola piena di dignità, la loro, e composti e impettiti com'erano, sembravano posare per la copertina di una rivista di chiesa. Durante gli inni, cantavano a squarciagola; tranne Chadwick, che stava cambiando voce e aveva avuto ordine da suo padre di tacere e di limitarsi ad aprire e chiudere la bocca nei momenti giusti. Così, Chadwick si accontentava di aprire e chiudere la bocca. Un osservatore attento si sarebbe accorto che i suoi movimenti erano esagerati, sembravano smorfie di un paziente seduto sulla sedia del dentista. Ma la maggior parte dei fedeli riteneva che Chadwick, con i suoi riccioli di un bel castano chiaro e i suoi angelici occhi azzurri, fosse il prototipo del figlio ideale. Gli sarebbe stato difficile immaginare il ragazzo nell'atto di versare colla epossidica sui capelli della ragazza seduta al banco davanti al suo. Quando a Oliver era venuto all'orecchio l'incidente, si era precipitato dal preside, straripando d'indignazione. «Se, per quanto improbabile possa essere» tuonò «questa storia dovesse risultare vera, dev'esserci una spiegazione logica.» «Mi piacerebbe proprio sapere quale.» «Forse la ragazza ha i capelli lunghi e voluminosi, e mio figlio non riusciva a vedere la lavagna, così ha pensato bene di prendere provvedimenti.» «Molto ingegnoso.» «Sì, è un ragazzo in gamba.» Il preside aveva preferito evitare di discutere. Un avvocato è sempre un avvocato. Chadwick era stato ammonito, e la colla gli era stata sequestrata. Quanto ai genitori della ragazza, avevano rinunciato a chiedere i danni, perché avevano scoperto che i capelli corti donavano alla figlia. Quando il bidello aveva trovato dei graffiti in latino maccheronico incisi su tutte le pareti del bagno dei maschi, i sospetti erano immediatamente caduti su Jonathan. Non occorreva essere dei segugi per intuirlo: Jonathan era uno dei tre che studiavano il latino, e le altre due erano ragazze. "Presidis se facet omnes puellas in suo officio."
L'accusa non si discostava troppo da quelli che erano i desideri reconditi del preside, al punto di farlo andare in bestia. Jonathan per punizione fu costretto a lavare tutte le pareti del bagno con uno spazzolino da denti, e a scrivere "mea culpa" mille volte sulla lavagna. Jonathan ebbe la bella trovate di scriverlo solo novecentonovantanove volte, pensando che nessuno si sarebbe preso la briga di contarle, e in effetti nessuno lo fece. Era una piccola vittoria in una grande guerra, ma di nuovo Jonathan commise l'errore di vantarsene con suo fratello Chadwick, che lo raccontò a suo fratello Thatcher, che a sua volta lo riferì al suo professore, che andò a dirlo al preside. Jonathan dovette tornare alla lavagna e scrivere "mea culpa" altre mille e una volta. Apprese queste prodezze da una lettera inviatale dal preside, Vee affrontò Jonathan nella sua camera. «È stato stupido da parte tua, Jonathan.» «Sì, signora.» «Tanto valeva che ci mettessi sotto la firma.» «Mi era venuto in mente, ma poi...» «Cosa devo fare con te, Jonathan?» «Potresti rincorrermi per la stanza con la mazza da golf.» «Sai bene che è impossibile: sei più alto di me.» «Peccato, dovremo pensare a qualcos'altro. Forse potresti raccontarlo a papà, così diventerà un problema suo.» «Mio Dio, no.» «Oppure si potrebbe far installare in giardino uno di quegli strumenti di tortura che usavano per allungare le ossa alla gente. Così, prenderesti due piccioni con una fava. Io diventerei alto abbastanza da potere giocare a pallacanestro, e tu soddisferesti la tua sete di vendetta.» «Non ho nessuna sete di vendetta.» «Il tuo desiderio di castigarmi, allora.» «Promettimi che non scriverai più sui muri.» «Bene, signora. O dovrei dire sì, signora?» «Di' semplicemente: prometto che non scriverò più sui muri.» «Prometto che non scriverò più sui muri» disse Jonathan, in latino, aggiunse mentalmente. Il figlio minore, Thatcher, era il prediletto di Oliver. Siccome il ragazzo non dimostrava di essere portato né per le lettere, né per l'arte, né per lo sport, né per la musica, fu stabilito che doveva diventare avvocato. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, avrebbe lavorato un paio d'anni in qual-
che studio legale di fama, poi si sarebbe presentato come candidato al Congresso, si sarebbe fatto onore alla Camera o al Senato, e infine, se il clima politico era quello giusto, si sarebbe presentato candidato alla Presidenza. Thatcher aveva già al suo attivo una particolarità che Oliver riteneva un buon inizio: conosceva a memoria e nell'ordine giusto i nomi dei Presidenti, e spesso li ripeteva con voce sonante, da oratore affermato. In occasione di feste organizzate dai genitori, a scuola, nelle riunioni indette dalla chiesa, ai picnic e dovunque ci fosse gente disposta ad ascoltarlo, Thatcher si esibiva in questa sua specialità. Forse non era una gran dote, la sua, ma alcuni Presidenti avevano iniziato con molto meno. Un mattino, dopo che i ragazzi furono usciti per andare a scuola, Vee disse al marito che secondo lei era arrivato il momento di cambiare. «Oliver, non credi che Thatcher dovrebbe imparare qualcosa di nuovo, cambiare sinfonia?» «Cambiare sinfonia, dici? L'elenco dei Presidenti degli Stati Uniti d'America non è una sinfonia.» «Be', comunque tu voglia chiamarlo, la gente comincia ad averne abbastanza di sentirlo.» «Come fa la gente a stancarsi di sentire i nomi dei suoi Presidenti, elencati da un ragazzo il cui nome, in futuro, potrebbe essere aggiunto alla lista?» «Cerca di essere obiettivo, Oliver. Che effetto ti farebbe, se fossi costretto ad ascoltare più volte gli emendamenti della Costituzione, recitati dalla piccola Wendy Morris?» Oliver, che stava portandosi alle labbra la tazzina del caffè, si fermò di colpo con la mano alzata. «Gli emendamenti della Costituzione, già. Sai, Vee, è una magnifica idea, splendida. Chissà come mai non ci ho pensato io stesso. Il prossimo gradino sarà quello degli emendamenti della Costituzione. Vediamo, quanti ce ne sono adesso?» «Troppi» rispose Vee. «Veramente troppi. Voglio dire, Thatcher ha soltanto dieci anni.» «Quando avevo la sua età, conoscevo a memoria intere pagine della Bibbia. Già mi sembra di vederlo, Thatcher, davanti a un ben nutrito pubblico, mentre la sua giovane voce pronuncia le grandi verità della nostra Costituzione. Te l'immagini, Vee?» «Sì, già, me l'immagino.» Vee buttò una fetta di prosciutto su un pezzo di pane, e sperò ardentemente di essere perdonata, non soltanto da
Thatcher, ma anche da Dio, e dai malcapitati che avrebbero dovuto ascoltarlo. «Sarebbe bene che imparasse a memoria anche le date» aggiunse Oliver. «Peccato che Thatcher non vada troppo d'accordo con i numeri! Ma vedrai che ce la faremo. Vee, mia cara, a volte ti sottovaluto. Sei anche intelligente, oltre a essere carina.» Detta da Oliver, una frase simile equivaleva a un'appassionata dichiarazione d'amore, ma Vee non era in vena di contraccambiare. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa, pensava. Povero Thatcher, gli ci vorranno settimane per imparare gli emendamenti, e quanto alle date, non le imparerà mai. Ha una pessima memoria. Chissà se c'è stato qualche Presidente che aveva poca memoria? Oliver continuava, imperterrito, a sognare. «Quando Thatcher si iscriverà alla facoltà di legge» disse «avrà già un grosso vantaggio rispetto agli altri. E gli farà comodo, con tutti i buoni a nulla che oggigiorno le università sono obbligate ad accettare.» «Oliver, non ti sembra che Thatcher cominci a essere un po' troppo grande, per essere esibito in pubblico in questo modo?» «Esibito? Incoraggiare mio figlio a rammentare alla gente la gloriosa storia dell'America, non ha niente a che vedere con l'esibizione. E non dimenticare, tesoro, che sei stata proprio tu a suggerire gli emendamenti. La cosa non ti riempie d'orgoglio?» «Veramente no.» Vee provava piuttosto uno spiacevole senso di colpa. Durante la pausa, anche Donnelly fece una telefonata. Poiché preferiva che nessuno lo sentisse, lasciò perdere il telefono dell'ufficio degli avvocati ed entrò in una cabina telefonica a disposizione del pubblico nel corridoio. «Ellie? Sono Charles Donnelly. Sarò breve. Voglio che il tuo capo venga qui in tribunale, aula 5, o stamattina entro mezzogiorno, oppure questo pomeriggio tra le due e le quattro. Sì, lo so che è impegnato. Ma questa è letteralmente una questione di vita o di morte. Ricordagli che è in debito con me di un favore, un grosso favore. Gli chiedo solo di venire a sedersi in aula e di tenere gli occhi bene aperti. Lo interpellerò in un secondo tempo. Ti ripeto, è una questione di vita o di morte.» Tornato al banco dei testimoni, il dottor Woodbridge riprese il discorso da dove l'aveva lasciato. I giurati, che dopo avere approfittato della pausa
per bere un caffè, al loro rientro in aula si erano fatti più attenti, perdettero quasi subito l'interesse. Non conoscevano il significato di certe frasi, come "godere di grande credito presso la Commissione", e anche quando gli fu spiegato, la cosa non li interessava. Quindi erano inclini a parteggiare per Donnelly, che aveva proposto di tagliare via quella parte per guadagnare tempo. Il giurato numero 3, certo Paloverde che campava facendo il muratore, abituato alla vita all'aria aperta, finì per addormentarsi sulla sua sedia, e si svegliò soltanto quando nel corridoio si levò un gran baccano. Nemmeno le pesanti porte di quercia, dello spessore di sette centimetri, bastavano ad attutire le urla di una donna che si trovava là fuori. «...avevo la mansione di consulente presso il Veterans Administration Hospital di Sawtelle» stava dicendo Woodbridge. «In California?» «Sì.» «Per favore, dottor Woodbridge, alzate un po' la voce» l'invitò Owen. «Un momento» interruppe il giudice. Fece un cenno a Di Santo, e questi uscì nel corridoio. Tornò tre o quattro minuti dopo, sudato e paonazzo. Sotto le ascelle, il sudore gli aveva lasciato due segni semicircolari. Si avvicinò al giudice, asciugandosi il viso con un fazzoletto. «C'è una donna che sembra fuori di sé, nel corridoio» disse al giudice, bisbigliando. «Sbarazzatevene.» «Non vuole andarsene. Vuole entrare in aula.» «Perché?» «Dice che c'è un tale, qui dentro, che l'ha derubata, e che vuole farlo arrestare.» «Le avete detto che c'è un processo in corso?» «Ho tentato di farglielo capire, ma lei... ma lei...» Si avvicinò ancora di più al giudice. «Mi ha sputato in un occhio. Non mi era mai successo in vita mia. È umiliante. Come si fa a difendersi da uno sputo in un occhio?» «Uscite e mandatela via.» Di Santo si voltò per obbedire, ma prima che avesse raggiunto la porta, una donna entrò nell'aula barcollando. Due uomini, un agente di polizia e un tizio in tuta da lavoro, avevano tentato di fermarla, tenendola per le braccia, ma lei era riuscita a sfuggirgli, e ai due era rimasta in mano solamente la sua giacca. La donna oltrepassò, gridando come un'ossessa, le file di sedie occupate dal pubblico, e arrivò all'altezza del banco degli avvocati.
«Eccolo lì!» strillò, agitando il pugno davanti al naso dell'avvocato della Difesa. «Mi ha derubata. Ha rubato le mie pillole. Arrestatelo! Arrestatelo!» Donnelly non si mosse, non batté ciglio. Rimase immobile come una statua, mentre l'agente e Di Santo afferravano sua moglie alle spalle. Zan non aveva perso tempo a vestirsi, si era limitata a infilarsi le pantofole e una giacca sopra il pigiama. La giacca era per terra vicino alla porta, e sembrava la pelle vuota di un serpente. «Voglio che l'arrestiate. Sta tentando di uccidermi. Mi ha portato via le pillole che mi servono per restare in vita.» «Chiamate un agente e fatela accompagnare a casa» ordinò il giudice a Di Santo. Uno del pubblico aprì la porta, e Zan fu mezzo portata e mezzo trascinata fuori. Quando la porta si fu richiusa, ci fu uno strano silenzio, come se Zan fosse svenuta o l'avessero fatta tacere di forza. Per la prima vota, da quando aveva avuto inizio il processo, i giurati si misero a parlare tra loro. La manifestazione di pazzia a cui avevano appena assistito aveva fatto sì che si coalizzassero, che si stringessero in un cerchio come pionieri assaliti dagli indiani. Il giudice batté il martelletto per richiamare l'attenzione generale. «Faremo una pausa di dieci minuti» dichiarò. Dopo che la giuria e la maggior parte del pubblico fu uscita, si rivolse a Donnelly, parlando sottovoce. «Ci vediamo nella mia stanza, avvocato Donnelly... Avvocato Donnelly?» «Sì. Vi raggiungo.» «Passate dalla mia porta privata.» «Grazie.» I due uomini uscirono passando dalla porta posteriore, oltrepassarono l'ufficio in cui erano custodite le prove e da lì entrarono nella stanza del giudice. Donnelly camminava con circospezione, come se il terreno fosse minato. «Vostra moglie sembra sconvolta» disse il giudice. «Sì.» «Non la vedevo da due o tre anni. È stata malata?» «Sì.» «Ha l'aria di una che dovrebbe essere all'ospedale.» «Sì.» «Suppongo che non abbiate voglia di parlarne. Invece è necessario. Inci-
denti di questo genere non devono più verificarsi, nella mia aula.» «Non sono responsabile delle azioni di mia moglie.» «Se ciò che dice è vero, siete responsabile dell'azione di cui vi accusa, non vi pare?» Donnelly non rispose. «È vero che le avete sottratto le pillole?» «Sì.» «Perché?» «Perché non potesse più prenderle.» «Mi pare di capire che si tratti di pillole di diverso genere. Che pillole sono?» «Eccitanti al mattino, tranquillanti la sera, a volte gli uni e gli altri contemporaneamente, a tutte le ore.» «Dovrebbe essere aiutata. Portarle via le pillole non servirà a niente. È meglio che chiamiate il suo medico e gliela facciate vedere.» «È quello che ho fatto. Probabilmente si trova a casa nostra in questo momento, a chiedersi dove si sia cacciata la sua paziente. Vi ringrazio di averla fatta accompagnare a casa. Mi occuperò della sua auto, se riesco a trovarla.» «Cosa intendete fare per aiutarla?» «Tutto il possibile» rispose Donnelly. «Che però non è molto. Non è tipo che si sottomette facilmente. Perché possa entrare in un centro antidroga occorre il suo consenso, e così pure nei convalescenziari. Che altre possibilità mi restano?» «Restituitele le pillole, e assumete delle infermiere ventiquattro ore su ventiquattro, perché la tengano costantemente sott'occhio ed evitino che ne faccia uso. Ora non vi parlo come giudice, ma come semplice conoscente preoccupato.» «Vi ringrazio.» «L'unica cosa che posso fare per voi è aggiornare l'udienza fino a questo pomeriggio, per darvi il tempo di tornare a casa e di cercare di calmare le acque. È troppo presto per rientrare in aula. Avevo detto dieci minuti, vero?» «Sì.» «Ne restano ancora cinque. Sedetevi.» Donnelly prese posto su una sedia di fronte al giudice, che lo guardava al di sopra degli occhiali. «Ditemi una cosa, Donnelly. Voi credete nella programmazione genetica?»
«Fino a un certo punto.» «Sapete una cosa? Io invece comincio a crederci sempre più. Voglio dire, sono assai tentato di credere che voi e io siamo stati geneticamente programmati per trovarci qui insieme in questa stanza, in questo preciso istante, a discutere di quest'argomento. Vi sembra una teoria pazzesca?» «Opinabile, direi.» «Non ha niente a che vedere con la religione o con la morale. È una semplice questione di geni, di DNA, di meccanismi che non siamo ancora riusciti a scoprire e che forse non scopriremo mai.» Si tolse gli occhiali e li mise sulla scrivania. «Supponete che voi e io siamo stati programmati per bere qualcosa, a questo punto!» «È possibile.» «Be', io non sono uno che voglia sottrarsi al fato, e neppure al DNA.» Per la seconda volta nel corso della mattinata, il giudice prese la bottiglia del whisky e due bicchieri. «Mi chiedo se sono stato programmato per diventare un alcolizzato.» «Sembrerebbe improbabile, alla vostra età.» «Non mi resta che aspettare e vedere come va a finire. Alla salute.» «Alla salute.» La Jaguar di Zan non si trovava in nessuno dei due parcheggi di fronte al tribunale, e perciò Donnelly fece il giro del palazzo. Trovò l'auto vicino all'entrata principale, in un posteggio di tassì. Le portiere erano aperte, la chiave era nel cruscotto, e sul sedile anteriore c'era la borsetta di Zan. La vista della sua auto abbandonata lo colpì più della sua apparizione in aula e della scenata che gli aveva fatto la sera precedente. Era stranamente simbolica. La chiave nel cruscotto sembrava in attesa di qualcuno che prendesse la situazione in pugno, la borsetta sul sedile in attesa di qualcuno che assumesse il comando. Zan non era in grado né di assumere il comando, fosse pure di se stessa, né di prendere la situazione in pugno. L'unica cosa che contasse, per lei, erano dei flaconi di plastica e una busta sporca. Senza neppure toccare l'auto, Donnelly tornò in tribunale, compose il numero del suo studio e ordinò alla centralinista di raggiungerlo immediatamente all'ingresso principale, poi tornò fuori ad aspettarla. Si sedette sulla panca della fermata dell'autobus, cosa che non aveva mai fatto in vita sua; al massimo, si era limitato a dare un'occhiata distratta alla gente che aspettava. Ora, c'era un ragazzo messicano intento a leggere un libro d'informatica, e un pensionato con un cappello di paglia in testa, che
si era appisolato. Dalla parte opposta della panca c'era una giovane negra con due bambini. Aveva in grembo una borsa di carta, da cui spuntavano dei fiori. I bambini stavano dividendosi il contenuto di una scatola di crackers. Fissavano Donnelly con la curiosità schietta e amichevole tipica dei giovanissimi. «Ciao» li salutò Donnelly. La madre allungò un braccio, velocissima, e attirò i figli a sé. «Non dovete parlare con gli sconosciuti, capito?» A ogni incidente della giornata, il nervosismo di Donnelly cresceva. Normalmente, avrebbe ignorato la frase della donna, forse non l'avrebbe neppure udita, e comunque non l'avrebbe presa sul serio. Ora invece, gli diede fastidio. Perché aveva fatto quella raccomandazione ai figli? Si sarebbe comportata allo stesso modo, se ci fosse stato qualcun altro al suo posto, o era di lui che diffidava? «Scusatemi» disse. «Non intendevo...» «Quanto a me» l'interruppe la donna «nemmeno io parlo con gli sconosciuti.» I due ragazzini continuarono a mangiare imperterriti i loro crackers. «Scusatemi» ripeté Donnelly, e qualcosa nel suo tono di voce distolse il vecchio dal passato e il giovane messicano dal futuro. Entrambi gli rivolsero uno sguardo di disapprovazione, come se lo ritenessero uno sgradevole intruso del presente. L'orologio del tribunale batté i tre quarti d'ora. Donnelly, seduto sui gradini di pietra dell'ingresso principale, osservava un piccione che beveva l'acqua della fontana. Non gli era mai capitato di vedere un piccione bere. Tuffava il becco nell'acqua, poi rovesciava la testa all'indietro, come un uomo che deglutisce. Si chiese per quanto tempo il suo programma genetico prevedeva che lui restasse seduto su quei gradini a guardare il piccione. Poco prima delle due del pomeriggio, il Procuratore Distrettuale Owen arrivò in tribunale con i suoi tre figli, Chadwick, Jonathan e Thatcher. Erano tre ragazzi alti e forti, che somigliavano in modo sorprendente al padre. L'assistente Di Santo era stato avvertito, e aveva preparato tre sedie in più nella prima fila. Con aria solenne, fornì ai tre ragazzi un taccuino ciascuno e una penna a sfera, dello stesso tipo di quelli assegnati ai giurati. Thatcher, il più piccolo, pensò che la penna e il taccuino fossero un regalo, e ringraziò l'assistente Di Santo con un'energica stretta di mano. I suoi
fratelli adocchiavano il taccuino con diffidenza. «A cosa serve?» domandò Chadwick. «Per prendere appunti» gli rispose l'assistente. «Appunti su che cosa?» «Sul processo. Su ciò che si dice, eccetera.» «Nessuno parla.» «Non è ancora entrata la Corte. Quando arriverà, avrete modo di vedere come funziona il sistema giudiziario in America.» «Caspita!» esclamò Jonathan. «Qui è peggio che essere a scuola. Credevo che ci sarebbe stato da divertirsi.» «Questo non è posto dove ci si possa divertire» osservò l'assistente Di Santo. I ragazzi furono al centro dell'attenzione generale, finché non entrò la giuria. Il dottor Woodbridge tornò a prendere posto al banco dei testimoni, e il giudice sbucò dalla sua porta privata. Il dottor Woodbridge cominciò a mostrare le foto del corpo di Madeline Pherson, prima alla Difesa, poi al giudice e infine alla giuria. Il pubblico riuscì solo a intravederle, cosa che non mancò di deludere i ragazzi. Chadwick prese la sua penna e scrisse: "Questa non è una dimostrazione di come funziona il sistema giudiziario in America, dal momento che io non riesco a vedere le foto. Se ne deduce che il sistema giudiziario non funziona come dovrebbe". Anche i suoi fratelli cominciarono a protestare, parlando a bassa voce tra di loro, finché il padre non si voltò per zittirli. Jonathan seguì l'esempio del fratello maggiore. "Sono d'accordo" scrisse. "Il sistema giudiziario fa schifo." L'idea di comunicare per mezzo di biglietti piacque a tutt'e tre. Iniziò così un lungo scambio di messaggi. "O. O. dovrebbe farsi crescere un po' i capelli, così gli si vedrebbero meno le orecchie." "Il giudice sembra uno che stia per tirare gli ultimi." "Guarda come si muovono le tette di quella segretaria, quando cammina." "O. O. è noioso da morire." "Uno dei giurati della prima fila si è addormentato." "Mi sono addormentato anch'io. Scrivo nel sonno." "Si vede!" "Propongo di svignarcela. C'è un mucchio di gente che entra ed esce. Nessuno farà caso a noi."
"Sei impazzito? O. O. se ne accorgerà di sicuro." "Si accorgerà solo di Thatcher. Noi due possiamo andarcene, e lasciare qui lui." "Voglio venire anch'io, perché mi annoio come voi e perciò dovete portar via anche me." "Chiudi il becco, e scrivi i nomi dei Presidenti all'incontrano. Ah Ah Ah." "Se mi lasciate qui, mi metterò a piangere." "Quello si metterà a piangere davvero, e O. O. prenderà le sue difese." "Va bene, resteremo qui e moriremo da eroi." "Io non voglio morire. Se mi fate morire, mi metterò a piangere." "E chi se ne frega?" Il Procuratore Distrettuale si voltò verso il pubblico e vide i suoi figli intenti a prendere diligentemente appunti sui loro taccuini. Sentì crescergli nel petto un'ondata d'orgoglio. Jonathan notò la sua espressione e l'interpretò nel modo giusto. Scrisse: "Si darà un mucchio di arie, al suo club, per il fatto che i suoi figli hanno seguito il processo. Sarà meglio che cominciamo a stare un po' attenti. Chi è sotto processo?" "Il negro." "Secondo te, è colpevole?" "Come faccio a saperlo? È la prima volta che lo vedo." "O. O. crede che sia colpevole." "O. O. crede sempre che siano tutti colpevoli." "Caspita, e se alla fine chiede di vedere i nostri taccuini?" "Gli diremo che deve procurarsi un mandato di perquisizione." "E se lui se lo procura, che cosa gli facciamo vedere? Tu pensi che il negro sia colpevole, o innocente?" "Un uomo è innocente" scrisse Chadwick "finché le prove non ne dimostrino la colpevolezza. Le prove devono basarsi su fatti accertati. Siccome io non ho accertato niente, dico che il negro forse è colpevole, e forse è innocente." "Questo caso è molto difficile" scrisse Jonathan di rimando "perché io non ne so niente di niente. Non ho mai visto un cadavere, se non nei film alla televisione. Non mi dispiacerebbe diventare un patologo, per poter vedere un cadavere vero. Però, a patto che si guadagni bene." "Mio padre" scrisse Thatcher "è il miglior Procuratore Distrettuale del
mondo, e perciò il negro è colpevole. Ho visto un cane randagio. Voglio un cane. Perché non comperiamo un cane?" Durante il resto del pomeriggio, i ragazzi fecero diverse scoperte interessanti. Il cadavere della donna aveva diverse abrasioni, contusioni e lacerazioni. ("Caspita" disse Jonathan "sono sempre tutto segnato anch'io.") La donna aveva quattro costole rotte, tre a sinistra e una a destra. ("Ehi" commentò Chadwick "ti ricordi quando Thatcher si è rotto due costole cadendo da un albero, e ha pianto per un anno?") I polmoni della donna contenevano solo una piccola quantità d'acqua. I polmoni di chi muore annegato raramente sono pieni d'acqua. ("Io devo averne ingoiati dei litri, mentre imparavo il surf" disse Chadwick. "Tu non hai mai imparato il surf" replicò Jonathan.) La donna era morta per asfissia, provocata da prolungata immersione in acqua. Ciascun ragazzo scrisse il verdetto sul taccuino. Colpevole Colpevole Colpevole
Chadwick Jonathan Thatcher
Owen Owen Owen.
Quando la Corte aggiornò la seduta alle sedici e trenta, un agente in borghese accompagnò i ragazzi a casa con l'auto dello sceriffo. «Sei un poliziotto vero?» domandò Thatcher all'agente. «Prova a darmi un pizzicotto, e lo saprai.» «Potresti arrestarmi.» «Puoi scommetterci. Con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale.» «Speriamo che ti diano l'ergastolo» disse Jonathan. «Non voglio l'ergastolo. Non voglio...» «Oh, vuoi piantarla, piccolo scemo! Se avrai fortuna, ti manderanno nella camera a gas.» «Sono stanco di sentirmi dare del piccolo scemo» protestò Thatcher. «Sta' allegro» intervenne l'agente. «Fra qualche anno crescerai, e così potranno darti del grosso scemo.» Quella fu una giornata nera, per Thatcher. Gli emendamenti gli piombarono addosso quella sera dopo cena, mentre la famiglia era ancora seduta a tavola.
«Thatcher e io» annunciò Oliver «ci trasferiamo in biblioteca.» Vee trasse un gran sospiro, i due ragazzi più grandi si scambiarono un'occhiata, e persino Thatcher, che solitamente non era molto perspicace annusò nell'aria qualcosa che non prometteva niente di buono. «Perché?» domandò. «Perché' noi due dobbiamo parlare di una cosa molto importante.» «Perché?» «Smettila di continuare a ripetere perché come uno stupido pappagallo» lo rimproverò Vee. «Vai con tuo padre e ascolta quello che ha da dirti.» Per fare un favore al fratello, che in seguito avrebbe dovuto restituirglielo con gli interessi, Jonathan tentò una diversione. «Chissà se i pappagalli capiscono quello che dicono, quando parlano, le varie specie della famiglia dei pappagalli, come cacatua, ara, pappagallini ondulati, ararauna, eccetera.» «Taci!» Il tono di Vee era tanto secco, che i quattro maschi della famiglia la guardarono, come se fosse stata un robot che avesse improvvisamente cominciato a parlare; poi i due ragazzi più grandi si misero a sparecchiare senza che gli fosse chiesto, mentre Thatcher seguiva suo padre in biblioteca. Camminando, Oliver iniziò a illustrargli l'argomento di cui voleva parlare. «Cos'è un emendamento?» domandò Thatcher. «Un emendamento è un'aggiunta che si fa all'originale per modificarlo, di solito migliorandolo.» Thatcher ci pensò sopra. «È come quando una donna va da un dottore per avere le tette più grosse?» «No, no. Non credo proprio che un emendamento della Costituzione si possa paragonare alle tecniche usate per gonfiare i seni di una donna.» «Cosa sono i seni?» «Cominci a irritarmi, Thatcher.» «Non posso farne a meno. Devo saperle, queste cose, se devo crescere e diventare Presidente.» «Benissimo. Se vogliamo metterla sul piano della matematica, il seno equivale a due tette.» «Ho sentito la mamma parlare al telefono di una signora che si è fatta...» «Thatcher!» «Sì, signore.» «Taci!» «Sì, signore.»
«Dunque, il nostro scopo è quello d'imparare a memoria gli emendamenti della Costituzione.» «Cos'è la Costituzione?» «La legge di una nazione. I primi dieci emendamenti generalmente si definiscono Diritti del Cittadino.» «I primi dieci?» domandò Thatcher. «Per la miseria, quanti ce ne sono?» «Ce ne sono due decine più sei unità. Cioè, ventisei emendamenti. Ti leggo il primo. Ascoltami attentamente. Stai ascoltandomi attentamente, Thatcher?» «Ventisei! Accidenti!» «Il primo emendamento riguarda i limiti di potere del Congresso. Dice esattamente così: "Il Congresso non può promulgare nessuna legge che riguardi le istituzioni religiose, né proibirne la pratica; non può abolire la libertà di parola né di stampa, né negare al cittadino il diritto di indire dimostrazioni pacifiche, né vietare petizioni al governo affinché il cittadino possa chiedere giustizia per un torto subito. 15 dicembre 1791. Hai capito, Thatcher?» «No.» «Hai capito almeno una parte di quello che ho detto?» «No.» «Perché?» «Perché ci sono troppe parole difficili.» «Adesso potranno sembrarti paroloni, figlio mio, ma quando li avrai imparati a memoria, si ridimensioneranno, diventeranno più piccoli.» «Di quanto?» «Thatcher, comincio ad arrabbiarmi.» «Lo so. Stai diventando rosso in faccia. La mamma dice che quando diventi rosso in faccia, è meglio togliersi dalle scatole.» Oliver ci rimase di stucco. «È impossibile. Tua madre non usa parole volgari.» «Le usa, quando tu non ci sei.» «Forse hai capito male.» «No. Forse all'inizio usava dei paroloni, ma poi si sono rimpiccioliti.» «Rimpiccioliti, con due "c".» «Sì, signore.» «Ora, tornando agli emendamenti, qual era lo scopo del primo emendamento?» «Non lo so.»
«Non era quello di limitare il potere del Congresso?» «Immagino di sì.» «Vedi che qualcosa cominci a capire? Lo sapevo. E adesso ripeti con me: Il Congresso non può promulgare nessuna legge...» «Il Congresso non può promulgare nessuna legge... Mi chiedo se esiste una legge che riguarda i cani. Secondo me, dovrebbero fare una legge per obbligare tutti a comperarsi un cane. Ho visto un cane, sul prato del tribunale, che era proprio bello e simpatico. Perché non comperiamo un cane?» «Non voglio cani.» «E se il Congresso dovesse fare una legge che ti costringa a prenderne uno?» «Allora obbedirei alla legge, naturalmente, ma...» «Oh, che bello! Immagina, tutti noi con i cani. La mamma, tu, Chadwick, Jonathan e io, io con il cane più grosso perché sono il più piccolo. Oh, che meraviglia! Io e il mio grosso cane batteremmo Chadwick, con il suo cane più piccolo. E tutti i ragazzi del quartiere porterebbero a scuola i loro cani, e durante la ricreazione potremmo farli combattere. Caspita, che sogno!» Quella che stava intraprendendo era davvero un'impresa difficile, pensò Oliver, alzando gli occhi al cielo. Ma Dio, come sempre, guardava altrove. Qualche ora più tardi, Vee e Oliver si prepararono per andare a dormire. Vee stava spazzolandosi i capelli, Oliver si lavava i denti. Era meticoloso, nella pulizia dei denti: dieci spazzolate in senso rotatorio sulla parte anteriore e dieci sulla parte posteriore di ciascun dente, con lo spazzolino tenuto a un angolo di quarantacinque gradi per rimuovere la placca dentaria. Oliver uscì dal bagno e si fermò alle spalle della moglie seduta al tavolo da toeletta. «È vero che divento rosso, quando mi arrabbio?» «Cinquantasette, cinquantotto... Sì.» «È vero che hai detto ai ragazzi di togliersi dalle scatole, quando sono arrabbiato?» «Sì, qualcosa del genere gliel'ho detto.» «Perché?» «Perché mi sembrava un buon consiglio.» «Non avresti potuto esprimerti in un modo un po' diverso?» «Per esempio?» «Per esempio, avresti potuto dire: "Ragazzi, quando vostro padre è nervoso, abbiate la cortesia di evitare d'importunarlo".»
«Sì, avrei potuto dirglielo in questo modo, ma non l'ho fatto. I ragazzi reagiscono meglio se gli si parla un linguaggio più semplice. "Toglietevi dalle scatole" è un'espressione più immediata, più colorita che non "abbiate la cortesia di evitare d'importunarlo". Non sei d'accordo?» «Purtroppo no.» Le posò le mani sulle spalle, mentre lei finiva di spazzolarsi. Nella luce attenuata delle due lampade rosa, era molto carina, e pareva quasi giovane come quando l'aveva conosciuta, il giorno della laurea. Vee era venuta alla festa della consegna delle lauree con un altro, lui con un'altra ragazza. Il loro era stato amore a prima vista. Si erano sposati non appena Oliver era riuscito a trovare lavoro in uno studio legale. Vee aveva lavorato solo il primo anno, cioè fino a quando era nato Chadwick. Vee sapeva gustarsi i suoi figli, accettare le varie fasi che attraversavano e i loro difetti, con la stessa naturalezza con cui accettava i cambiamenti del tempo. Si rendeva conto del fatto che Thatcher poteva ritenersi fortunato se fosse riuscito a terminare le medie superiori, ma per lui non ci sarebbero stati né l'università, né il Congresso e tantomeno la Presidenza. Era inoltre convinta che prima o poi Oliver avrebbe cominciato a ragionare più obiettivamente, e allora la loro vita sarebbe tornata tranquilla, normale. Nel frattempo, c'era da superare lo scoglio degli emendamenti. Oliver le parlò dell'idea di Thatcher, di un nuovo emendamento che obbligasse tutti a tenere un cane. «Che tenerezza!» esclamò Vee. «Non direi.» «Ma come, sai bene che Thatcher ha la mania di accarezzare tutti i cani che vede.» «Sì, questo lo so, dal momento che ho dovuto sborsare un bel po' di quattrini, la volta che gli hanno dovuto ricucire la mano con trentasei punti. L'anno scorso, è stato. Ma il fatto è che nostro figlio non propone quell'emendamento allo scopo di accarezzare i cani: ha in mente di organizzare combattimenti tra cani, a scuola, durante la ricreazione.» Vee scoppiò in una risata. Oliver rimase serio. «Comincio a dubitare» disse in tono grave «che Thatcher abbia la stoffa per diventare Presidente.» «In ogni caso, ci vogliono vent'anni prima che possa candidarsi, e perciò tanto vale che adesso tu la smetta di preoccuparti e venga a letto. A chi tocca spegnere la luce?» «A te.»
«Mi sembrava che toccasse a te.» «Va bene, la spengo io.» Vee s'infilò sotto le coperte. Oliver spense la luce e la raggiunse. Rimasero sdraiati al buio, i loro corpi si sfioravano e tuttavia erano separati da Thatcher, dagli emendamenti, dall'idea del cane, dal processo, dalle foto della vittima e dal sorriso del negro che forse era l'assassino, dall'aspirapolvere rotto di Vee e dal piatto di fettuccine che Oliver aveva mangiato a pranzo. «Come si sono comportati i ragazzi in tribunale?» s'informò Vee. «Molto bene, a parte qualche bisbiglio. Però ti confesso che mi hanno deluso i loro appunti sul processo.» «Forse ti aspetti troppo da loro.» «Può darsi. A volte ho l'impressione di aver perso i contatti con i miei figli.» «Talvolta è vero, Oliver. Ma capita a tutti di perdere e riprendere contatto con i figli, nel corso della vita.» Posò la testa sulla spalla del marito, e sorrise, beata. Era un uomo così imponente, così bello, che a volta pensava di essere stata davvero fortunata a incastrarlo. 4. Il cancelliere Il mattino successivo, prima che si riunisse la Corte, il giudice chiamò il cancelliere, Eva Foster, nella sua stanza. Hazeltine portava gli occhialetti bassi che gli dividevano la faccia in due parti completamente diverse. La parte superiore comprendeva la fronte alta, da intellettuale, e gli occhi dall'espressione grave. La parte inferiore era costituita dalle guance paffute e dalle labbra carnose, che gli davano l'aria di un ragazzino un po' cresciuto. Eva aveva indossato un abito nuovo di maglia, una scelta sfortunata, data la circostanza. «Accomodatevi, prego, signorina Foster.» «Grazie, signore.» Il giudice la osservò un istante, guardandola al di sopra degli occhiali, poi abbassò la testa e la esaminò attraverso le lenti, per avere una visuale equilibrata. Finalmente, si decise a parlare. «Ieri pomeriggio, il Procuratore Distret-
tuale Owen ha portato in aula i suoi tre figli. I due maggiori erano molto attenti nel senso che erano occupatissimi a guardarvi.» «A quell'età, i ragazzi guardano tutto ciò che si muove.» «E voi vi muovete molto bene, signorina Foster, se mi è lecito dirlo.» «Svolgo bene il mio lavoro, signore?» «Ah sì, quello sì. Siete ordinata, e precisa nel portare i vari reperti come coltelli, pistole, indumenti, eccetera. Il che mi rammenta il motivo per cui vi ho convocata.» «E cioè?» «Gli indumenti. I vostri.» Eva si guardò l'abito, che le era costato una settimana di stipendio, un modello apparso anche su Vogue. «Non vi piace questo vestito?» «Mi piace molto, e trovo che vi stia bene addosso.» «Allora, di cosa si tratta? Non vedo che...» «Lui invece, l'avvocato Owen, ha visto benissimo. Ha visto i suoi due ragazzi che vi adocchiavano, e ha dovuto fare altrettanto, per capire cos'avevano da guardare. Comprensibile, certo, l'atteggiamento del padre che si sente responsabile dell'atteggiamento dei figli. Comunque, l'avvocato Owen è giunto a una conclusione.» «Davvero?» La parte superiore della faccia del giudice pareva in lotta con quella inferiore. La partita si concluse con punteggio pari. «Dannazione, signorina Foster. Tutta questa faccenda dell'adocchiare non è stata un'idea mia. Io non sono che l'intermediario.» «A quale conclusione è giunto l'avvocato Owen?» «Lui pensa, lui ritiene... Insomma, è del parere che voi non portiate il tipico indumento femminile che serve a contenere, a fasciare, a...» «So bene cosa significa il verbo "fasciare", Vostro Onore. Anticamente, i cinesi avevano la barbara usanza di fasciare i piedi delle loro principesse. Glieli fasciavano per impedire che crescessero normalmente, e così quelle povere disgraziate non potevano neppure più camminare. Incivili com'erano, pensavano che soltanto i poveri avessero la necessità di camminare. Era un'usanza crudele, disumana, orribile.» «Oh, per amor del cielo, signorina Foster! Non vi ho chiesto di fasciarvi i piedi, ma semplicemente di mettervi il reggiseno.» Eva rimase deliberatamente in silenzio, guardandosi intorno. La stanza del giudice era contraddittoria quanto la sua faccia divisa in due. Sopra file di trattati rilegati in pelle rossa con sovraimpressioni in oro, tutti libri di
legge, c'era una grossa civetta impagliata, con un solo occhio di vetro. Il piano della scrivania di mogano era segnato da bruciature di sigarette e dai graffi provocati dalle conchiglie che il giudice raccoglieva durante le sue passeggiate mattutine sulla spiaggia. Le ultime arrivate diffondevano nella stanza un persistente odore di pesce. «L'assistente Di Santo» disse Eva «ha la pancia.» «Me ne sono accorto, signorina Foster.» «Gli avete mai chiesto di mettersi il busto?» «No.» «Perché no?» «La pancia non è cosa piacevole da sbirciare, sì, insomma, voglio dire, non è provocante come possono esserlo altre parti anatomiche. Inoltre, l'assistente porta la cintura.» «Solo per tenersi su i pantaloni.» Il giudice cominciava a pentirsi di avere tirato in ballo l'argomento. «Sarebbe molto imbarazzante per me chiedere all'assistente di mettersi il busto.» «Però non vi siete fatto scrupolo di chiedere a me di mettermi il reggiseno.» «Al contrario, sono stato parecchio in forse. Ho soppesato i pro e i contro, ho riflettuto a lungo.» «Se aveste riflettuto un po' di più, vi sareste reso conto che la vostra è discriminazione bella e buona. La discriminazione del sesso.» «Non è vero. Non si può fare a meno di riconoscere che esistono ovvie differenze tra l'uomo e la donna. Non si può fare un confronto tra la pancia dell'assistente e il vostro seno.» «La discriminazione sessuale è un reato, che può arrivare fino alla Corte Suprema.» «Oh, Signore!» esclamò il giudice, esasperato. E pensare che la giornata era iniziata così bene! C'era il sole, aveva fatto un'ottima colazione, e nessuno era in collera con lui. E adesso, all'improvviso, doveva comparire di fronte alla Corte Suprema, per rispondere dell'accusa di discriminazione. «Non potremmo dimenticare questa conversazione, signorina Foster?» «Per me sta bene, se va bene a voi.» «Allora, mettiamoci una pietra sopra, d'accordo?» «D'accordo. Ma se la cosa dovesse ripetersi, non ci penserei due volte a riferire l'incidente all'Organizzazione Nazionale delle Donne.» «Non potremmo arrivare a un compromesso?»
«Cosa volete dire, che dovrei mettere mezzo reggiseno? Non mi sembra fattibile. Infatti, potrebbe ottenere l'effetto opposto a quello che voi desiderate, attirando l'attenzione di certi uomini che amano le stranezze. Mi capite?» «Sì, perfettamente.» «Inoltre» riprese Eva «non è possibile acquistare solo mezzo reggiseno. Dovrei comperarne uno intero e tagliarlo in due, e a quel punto non riuscirei più ad agganciarmelo.» «Non stavo suggerendovi di mettere solo mezzo reggiseno, signorina Foster. Pensavo che forse potreste indossare una maglietta sotto l'abito.» «Sono anni che non vedo una maglietta.» «Allora, magari potreste scegliere abiti che non siano troppo aderenti, che non seguano troppo i contorni del corpo.» «Questo compromesso, io lo definirei un'altra forma di discriminazione.» «Bene, allora l'argomento è chiuso.» «Grazie, signore. Cercherò di uscire molto lentamente, in modo da non attirare troppo l'attenzione.» «Oh, andate all'inferno, Foster» sbottò il giudice. Alle dieci meno dieci, un agente condusse Cully King in aula dal penitenziario. In carcere, Cully King era vestito come gli altri detenuti, ma i giorni del processo era autorizzato a indossare i suoi abiti migliori, cioè giacca blu scuro, pantaloni grigi, camicia bianca, e una cravatta che aveva comperato a Mazatlàn, a una bancarella del porto. Sulla cravatta era dipinto uno yacht che l'artista, un espatriato americano, aveva copiato da una foto del Bewitched. Nessuno avrebbe riconosciuto il Bewitched da quel disegno, e qualsiasi marinaio avrebbe detto che era un piccolo veliero da pesca, ma l'artista insisteva che era uno dei suoi lavori migliori, e a venticinque dollari era regalato. Non erano ancora arrivati né Donnelly né il Procuratore Distrettuale, e, a parte l'assistente Di Santo e qualche curioso mattiniero, Cully ed Eva erano soli. «Stamattina si comincia tardi» disse Eva a Cully. «Ho fatto arrabbiare il giudice, dimostrandogli che avevo ragione io su una certa cosa. Non sopporta che abbiano ragione gli altri, a quest'ora del mattino, e così, per darsi importanza, tarderà sicuramente.» «Non m'importa, se arriva in ritardo. Tanto, non devo andare da nessuna
parte.» Cully sorrise, e in quell'istante parve più giovane della sua età. «Voi invece andate in qualche posto?» «Per qualche tempo, no. Prenderò qualche giorno di vacanza a Natale, ma non ho ancora deciso dove andare.» «Le mie isole sono stupende, a Natale. Piacerebbe anche a me, poter tornare a casa per le vacanze.» «Con vostra moglie e i vostri figli?» «Non è mia moglie. Non ci siamo mai sposati. E quanto ai bambini, forse non sono neanche figli miei, ma li mantengo come re, perché io mi chiamo King. Scherzavo. Avete capito il gioco di parole?» «Sì.» «Perché non sorridete mai?» «Parlatemi della vostra casa.» «Non c'è molto da dire. La casa è piccola, sovraffollata, e anche abbastanza sporca, in confronto allo yacht. Mio cognato vive con noi. È un buono a nulla, ma gli piace ballare, e Louise ha la stessa passione. Io invece non ballo, se non quando sono ubriaco. Non è che balli bene, comunque ci provo. Faccio qualunque cosa, quando sono sbronzo.» Tacque un istante. «Se mai ucciderò qualcuno, sarà mio cognato. Ci ho pensato più di una volta.» «Non dovete parlare in questo modo» lo redarguì Eva. «Qualcuno potrebbe sentirvi, e mettersi in testa idee sbagliate.» «E perché? Mio cognato non ha niente a che vedere con la donna che avevo portato a bordo come cuoca.» «Continuate a insistere con questa storia?» «È la verità.» «A me non sembra.» «Non posso cambiare l'accaduto.» «Signor King, voi dovete imparare a comportarvi da innocente. Una persona innocente non si sognerebbe mai di parlare del suo progetto d'assassinare il cognato.» «Va bene, non ne parlo più. Però continuerò a pensarci.» «Sentite, ciò che intendo dire è questo: è controproducente andare in giro a raccontare la verità. Quello che esce dalla vostra bocca, deve sembrare più vero della verità.» «State prendendovi gioco di me?» «No.» «A me fa quest'impressione.»
«No. Sto cercando di aiutarvi.» «Perché?» «Non lo so.» Cully tacque, perplesso. Seduto con le mani sul tavolo, faceva rotolare un matita tra pollice e indice della mano destra sul palmo della mano sinistra. I calli spiccavano come sassi sulla sabbia. A Eva piacevano quelle mani, così diverse da quelle di Donnelly, sempre perfettamente in ordine, da quelle del giudice, deformate dall'artrite, da quelle di Di Santo, che aveva le dita grassocce, con l'anulare strozzato dalla fede. Le mani di Cully erano magre e forti, abituate al lavoro, capaci di provvedere a se stesse e all'occorrenza anche a difendersi e a difendere gli altri. Eva si guardò le sue. Erano piccole e sottili. Ebbe lo strano impulso di metterne una tra quelle di Cully e lasciarla lì. Per quasi un minuto, le parve che le mancasse il respiro. Si domandò cosa le stava succedendo, e se fosse il caso di parlarne con qualcuno che avesse buonsenso, come Mildred. Dopo anni di lavoro in tribunale, Mildred aveva una specie di sesto senso, che le permetteva di capire se l'imputato era colpevole o innocente. Lei avrebbe sicuramente saputo direte se quest'uomo era un assassino. «Mi piace il vostro vestito» disse Cully. «Perché?» «È bello. E vi sta molto bene.» «Io invece lo odio» replicò Eva. «Lo odio. E non l'indosserò mai più.» Bill Gunther arrivò, facendo dondolare la sua vecchia ventiquattrore. Aveva l'aria di uno che avesse trascorso la notte in una macchina per asciugare la biancheria, e l'aria calda gli avesse stropicciato il vestito, strappato un bottone della camicia e scompigliato i capelli. In realtà, era partito da Bakersfield a mezzanotte, aveva trovato nebbia per la strada ed era stato costretto a viaggiare quasi a passo d'uomo. Gli occhiali erano appannati, come se la nebbia vi si fosse appiccicata indelebilmente, e i suoi tentativi di ripulire le lenti si erano rivelati inutili. Trasse una cravatta dalla tasca della giacca e se la infilò, poi si passò una mano tra i capelli, usando le dita a mo' di pettine. Fin dall'inizio del processo, aveva bisogno di andare dal barbiere per farsi accorciare i capelli, ma gliene era mancato il tempo. L'impressione che si aveva, guardandolo, era che fosse un uomo troppo impegnato in attività importanti, per perdere
tempo in cose superficiali come l'abbigliamento e la cura della persona. «Di solito» disse Eva «ci si veste a casa.» «Io a casa non ci sono stato.» «Ci avrei giurato.» «Per la precisione, è passato tanto tempo dall'ultima volta che ci sono andato, che ho quasi dimenticato il mio indirizzo. Ve lo siete segnato da qualche parte, per caso?» «No. Provate a telefonare a vostra madre.» «Non ce l'ho.» Posò la ventiquattrore sulla scrivania. Dalla valigetta usciva uno sgradevole odore di biancheria sporca, e perciò Bill Gunther la prese e la posò a terra. Poi si rivolse a Cully. «Come sono andate le cose, ieri?» «Non molto bene, credo. Anzi, forse dovrei dire male.» «Vale a dire?» «Da come ha parlato quel dottore, sembrerebbe che io l'abbia strangolata e le abbia rotto due costole. Non è così che sono andate le cose.» «Se le cose non sono andate così, non hanno modo di dimostrare il contrario.» «Forse possono riuscirci, se il dottor Woodbridge continua a usare parole che nessuno capisce.» «Aspettate che Donnelly arrivi da lui. Tutto quello che riuscirà a dire Woodbridge, allora, sarà una parola di cinque lettere, la parola "A-I-U-TO".» «Vi piace tanto, questo Donnelly? v» «È il principale. Mi paga l'affitto, mi compera la birra, e quindi mi piace.» «Ma non siete suo amico?» «Non so nemmeno dove abita.» «Com'è debole la vostra memoria stamattina, signor Gunther» s'intromise Eva. «Non ricordate il vostro indirizzo, né quello del vostro amico. Avete passato una brutta notte?» «La peggiore della mia vita.» «Avete dovuto andare a pagare il vostro allibratore?» «Oh, piantatela, Foster. Sto parlando del processo con il nostro cliente.» «Allora, cercate di abbassare la voce. Qui c'è gente che ha un udito incredibile.» Il Procuratore Distrettuale arrivò con il suo braccio destro, l'agente
Bernstein, seguito un istante dopo da Donnelly. L'avvocato della Difesa era perfettamente in ordine, come sempre. L'abito grigio di lana e seta era della stessa tonalità dei capelli, la camicia era bianca, la cravatta aveva i colori di Harvard. Completava l'insieme il distintivo del Phi Beta Kappa, un distintivo che era suo di diritto, benché non si fosse laureato a Harvard. La sua famiglia, originaria del New England, aveva insistito perché andasse all'ovest, e lui era venuto in California e si era iscritto all'università di Berkeley. In quell'atmosfera meno restrittiva ma altrettanto dotta, si era fatto onore. «Buongiorno a tutti» salutò Donnelly. «Avete dormito vestito, signor Gunther?» «Non ho dormito affatto.» «Davvero. Più tardi, mi racconterete tutto.» Gunther si strinse nelle spalle, prese la ventiquattrore e si trasferì nel suo solito angolo, lontano dal tavolo degli avvocati. Donnelly aprì il pacco di carte che si era portato, fogli fitti di parole, numeri e scarabocchi che volevano essere lettere, e una copia del quotidiano locale, con il resoconto dell'udienza del giorno precedente. Era un resoconto abbastanza preciso, e Donnelly diede il giornale a Cully King perché potesse leggerlo. Mentre leggeva, Cully sembrava imperturbabile, ma gli tremavano leggermente le mani. «Leggendo qui, sembra che io sia colpevole» commentò. «Domani andrà meglio» lo rassicurò Donnelly. «Credo che la giuria cominci ad averne abbastanza di termini medici.» «Cosa ve lo fa credere?» «Il fatto che non prendono più tanti appunti quanti ne prendevano prima. Adesso vogliono un linguaggio più comprensibile, e lo voglio anch'io.» «In piedi! Entra la Corte della contea di Santa Felicia, stato della California. La seduta è aperta. Presidente il giudice George Hazeltine.» Erano le dieci e un quarto. Eva Foster annotò l'ora, Mildred si tenne pronta a cominciare, e il dottor Woodbridge fu accompagnato da Di Santo al banco dei testimoni. Nell'aula faceva piuttosto caldo, e si sentiva l'odore tipico dei posti affollati da persone sotto tensione. Il giudice seguì l'assistente con lo sguardo, mentre tornava al suo posto, e notò che la pancia di Di Santo pareva aumentata e che la camicia faticava
a contenerla. Sembrava che lo stomaco gli fosse caduto, e fosse stato fermato appena in tempo, prima che precipitasse in terra, dalla cintura di pelle dei pantaloni. Quella del busto non era una cattiva idea, si disse il giudice. Prese un lungo respiro, trattenne per qualche istante l'aria nei polmoni, poi la ricacciò fuori e iniziò a parlare. «Poiché l'avvocato Owen ha terminato d'interrogare il dottor Woodbridge, siamo pronti ad ascoltare il controinterrogatorio dell'avvocato Donnelly. Siete pronto per il controinterrogatorio, avvocato Donnelly?» «Sì, Vostro Onore.» Donnelly si avvicinò alla sbarra e si fermò davanti al teste. I suoi modi e la sua espressione erano gravi. «Dottor Woodbridge, il mio nome è Charles Donnelly. Se, nel corso del controinterrogatorio, qualcuna delle mie domande vi parrà troppo personale, o addirittura ostile, vi chiedo di scusarmi fin da ora. I dubbi che esprimerò non mireranno a mettere in discussione la vostra integrità, ma alcune delle conclusioni da voi raggiunte. Anche se, in questo caso, siamo schierati in campi opposti, entrambi abbiamo interesse che si arrivi a stabilire la verità. E nella ricerca della verità, gli scontri verbali sono inevitabili. Me ne duole, ma devo lottare per quello in cui credo. Accettate le mie scuse anticipate, dottore?» «Oh, certamente.» Woodbridge sentì un tic formarglisi all'angolo sinistro della bocca. Se fosse stato solo, quel tic si sarebbe trasformato in un sorrisetto. Conosceva Donnelly da anni, e sapeva che questo era uno dei suoi trucchi preferiti: presentarsi alla giuria come un boy scout costretto a ricorrere ai mezzi più meschini, nell'interesse della giustizia. «Dottor Woodbridge, ieri avete dichiarato che la signora Pherson è morta per asfissia.» «Esatto.» «Potete fornirci una spiegazione semplice e breve dell'asfissia?» «Breve, sì, ma semplice no, poiché si tratta di un processo abbastanza complicato.» «Basterà che sia breve.» «L'asfissia è provocata dalla mancanza di ossigeno, dovuta all'ostruzione dei condotti respiratori.» «Quest'ostruzione dei condotti respiratori può avere cause diverse?» «Sì.» «Potete elencarcene alcune?» «La causa accidentale è la più frequente. Per esempio, può capitare che
uno tenti d'ingoiare un boccone, soprattutto carne, e il boccone sia troppo grosso e gli si conficchi nella gola. Un'altra causa è la malattia, come nei casi di tumore o di violenta reazione allergica a un certo tipo di cibo, come per esempio i molluschi. Altra causa accidentale dell'asfissia è il soffocamento. Succede ai bambini molto piccoli di restare impigliati nelle coperte. Ma il soffocamento può essere deliberato, e provocato da cuscini premuti contro la faccia. C'è poi l'impiccagione, una corda o una cintura passata intorno al collo. È una forma di suicidio relativamente frequente. Un'altra causa dell'asfissia è la pressione delle mani sulla trachea e sulla laringe, in altre parole, lo strangolamento.» Fuori, il fischio della sirena di un'ambulanza indusse Woodbridge a tacere, poiché non si sentiva più la sua voce. «Non avete forse omesso la causa principale dell'asfissia, dottor Woodbridge?» domandò Donnelly, quando la sirena tacque. «Non intenzionalmente. Stavo appunto per aggiungere l'annegamento, quando sono stato interrotto.» «Ieri pomeriggio, il Procuratore Distrettuale ha sottolineato il fatto che c'era poca acqua nei polmoni della signora Pherson. Nella maggior parte dei casi d'annegamento, i polmoni sono pieni d'acqua?» «Al contrario, molto raramente.» «Potete illustrarci, il più brevemente possibile, il meccanismo dell'annegamento, che si verifica, per esempio, quando una persona cade accidentalmente in acqua?» «Chi cade in acqua, comincia subito a darsi da fare per salvarsi, spesso gridando aiuto e dibattendosi. Durante questa lotta per la sopravvivenza, l'acqua entra nella gola e nella trachea, inducendo le mucose a produrre una maggior quantità di muco come mezzo di autodifesa. Questo muco, unendosi all'acqua, forma una sostanza vischiosa simile come aspetto alla schiuma di sapone, ma più appiccicosa e tenace. A questo può aggiungersi il vomito, e la vittima resta soffocata dai suoi stessi liquidi. .» «Possiamo concludere dicendo che la causa della morte non è l'acqua nei polmoni, come comunemente si crede?» «Sì, è così.» «E se la caduta in acqua non fosse accidentale, ma deliberata?» «L'acqua sarebbe ingerita ugualmente, e la reazione delle mucose sarebbe la stessa.» «Comunemente si ritiene che un corpo venga a galla tre volte, prima di affogare. È vero?»
«No. Il corpo può non venire a galla affatto, né essere più ritrovato. Questo si verifica soprattutto in acque dolci.» «Per quale motivo?» «Perché il corpo umano è più pesante dell'acqua dolce.» «E l'acqua salata?» «Il sale aumenta la capacità di galleggiamento del corpo. Se c'è una grossa quantità di sale, come per esempio nel Grande Lago Salato dell'Utah, il corpo riceve una tale spinta di galleggiamento, che affondare diventa difficile.» «La temperatura dell'acqua incide sul tempo di sopravvivenza? No, cancellate la domanda. Dottor Woodbridge, ieri avete dichiarato che, a vostro parere, la signora Pherson è morta per asfissia provocata da strangolamento.» «Esatto.» «In seguito, avete aggiunto che lo strangolamento è stato attuato con l'uso delle mani.» «Sì.» «Avete basato la vostra deduzione sul fatto che sono stati riscontrati due solchi, grossi approssimativamente come pollici, sul collo della signora Pherson.» «Questo era il motivo principale, sì.» «Inoltre, avete aggiunto che quei due segni sono stati prodotti "premortem", vale a dire prima della morte. È così?» «Sì.» «Sapete dirmi a che ora è morta la signora Pherson?» «No.» «Neanche con l'approssimazione di un'ora?» «No.» «E di due ore?» «Non con sicurezza.» «Perché no?» «Il fatto che il corpo sia rimasto immerso in acqua a una temperatura di tredici gradi, rende difficile determinare l'ora del decesso.» «Eppure, voi sostenete che i due solchi osservati sul collo della signora Pherson siano stati prodotti prima della sua morte? Ne siete perfettamente sicuro?» «Al cento per cento. O quasi.» «Quasi.» Donnelly pronunciò la parola lentamente, lasciandola sospesa
in aria qualche istante, per sottolineare la sfumatura del dubbio. «Nel campo della medicina, così come in altre scienze, si può dire che ogni giorno si facciano nuove scoperte, non è vero?» «Sì.» «Voi, dottor Woodbridge, vi sforzate di tenervi al corrente delle nuove scoperte, e delle nuove teorie avanzate dalle varie pubblicazioni specializzate?» «Cerco di farlo. Ma attualmente, il numero delle pubblicazioni mediche è talmente aumentato, che mi troverei nella condizione di dover scegliere tra leggere queste pubblicazioni, oppure svolgere il mio lavoro.» «Nel campo dei salvataggi effettuati in acqua fredda, sono venuti alla luce elementi nuovi?» «Credo di sì.» «Avete letto qualcosa sull'argomento?» «Non molto.» «Non molto. Si deve forse intendere "poco"?» Il Procuratore Distrettuale scattò in piedi. «Mi oppongo, Vostro Onore. La competenza del dottor Woodbridge è stata ampiamente dimostrata prima che iniziasse la sua testimonianza. Tutto questo insistere su ciò che ha letto o non ha letto, tende a sminuirne l'attendibilità.» «Io non sono di quest'avviso» dichiarò il giudice. «Obiezione respinta. Ripetete la domanda, avvocato Donnelly.» «La porrò in altri termini. È vero che recenti studi sull'annegamento in acqua fredda contraddicono certe convinzioni superate?» «Questo accade ogni giorno, praticamente in ogni campo della scienza. Potete essere più preciso, portando magari qualche esempio?» «L'anno scorso, nei pressi di Seattle, si è verificato un caso di cui si è parlato molto sui giornali. Due ragazzi stavano giocando sulla superficie ghiacciata di un lago, quando la lastra di ghiaccio si è rotta. Uno dei due ragazzi, caduto in acqua, è rimasto sommerso. Il suo amico ha tentato di salvarlo, ma è caduto in acqua a sua volta. L'abbaiare insistente del loro cane ha attirato l'attenzione dei presenti. È trascorsa più di un'ora prima che si riuscisse a recuperare il corpo del primo ragazzo. Non c'erano segni evidenti di vita, ma il personale paramedico ha fatto il possibile per salvarlo, com'è suo preciso dovere anche quando non sembrano esserci speranze. In questo caso, il ragazzo è stato rianimato e ha ricominciato a respirare. È morto poco dopo. Comunque, nel lungo periodo di tempo in cui è rimasto sommerso, ha continuato a vivere. Il suo metabolismo era molto rallentato,
ma funzionava. Ricordate questo caso, dottore?» «Sì.» «Qual è stata la vostra reazione, la prima volta che ne avete letto o sentito parlare?» «Mi sono compiaciuto delle risorse che il corpo umano dimostra di possedere.» La risposta inaspettata ruppe la tensione, e un mormorio d'approvazione corse nell'aula. Donnelly s'irritò, infastidito dal fatto di avere perduto l'attenzione del pubblico; poi capì che l'incidente giocava a suo favore, e insistette sull'argomento. «Dottore, ricordate per quanto tempo è rimasto sommerso il ragazzo, prima di essere ripescato dall'acqua?» «Almeno un'ora, mi pare.» «Qual è il meccanismo che l'ha salvato, almeno temporaneamente?» «L'avete detto voi stesso: in parole povere, l'abbassamento della temperatura corporea e il rallentamento del metabolismo diminuiscono il fabbisogno di ossigeno del cervello.» «Ci sono stati altri casi, di cui si sia a conoscenza, di persone sopravvissute sott'acqua per un periodo di tempo eccezionale?» «Sì.» «Casi ben documentati?» «Sì.» «Qual era il comun denominatore?» «La bassa temperatura dell'acqua.» Il tic che si era formato all'angolo delle labbra di Woodbridge si accentuò. Sapeva bene dove stavano arrivando. Lo intuiva dallo sguardo di Donnelly e dal fatto che il Procuratore Distrettuale si era chinato in avanti sulla sedia, pronto a entrare in azione, come un corridore attento al via dello starter. «Dottor Woodbridge, è possibile che alla signora Pherson sia accaduta la stessa cosa?» Il Procuratore Distrettuale balzò in piedi. «Obiezione, Vostro Onore. Ciò che si chiede al teste è di fare congetture. Anzi, mi oppongo decisamente al genere d'interrogatorio cui è sottoposto. Più che un controinterrogatorio, questa sembra una lezione di medicina, con il profano seduto alla cattedra al posto del professore.» «Il teste non è tenuto a rispondere alla domanda» sentenziò il giudice. «Allora, vedrò di porvi una domanda ipotetica» riprese Donnelly. «Sup-
ponendo che alla signora Pherson sia accaduta una cosa del genere, allora è lecito ritenere che i solchi sul collo e le contusioni e lacerazioni sul corpo siano posteriori all'annegamento?» Donnelly non attese neppure la risposta. Non era necessaria. Voltò una pagina del suo taccuino d'appunti, come se fosse stata l'ultima pagina di un libro. Dopo una sbirciata all'orologio da parete, vide che erano le undici e sedici minuti, un po' tardi per la pausa del mattino, ma ancora troppo presto per aggiornare la seduta al pomeriggio. Decise di chiedere la sospensione, in modo che la giuria avesse quasi tre ore di tempo per meditare sulla domanda: "È possibile che a Madeline Pherson sia accaduta una cosa del genere?" Avendo a disposizione tre quarti d'ora più del solito per mangiare, Eva Foster decise di andare a casa. Abitava in una casa a tre piani in stile vittoriano, con il padre, Frank, la matrigna, Dora, e il figlio adolescente di Dora, Pete. Suo padre aveva cambiato molte volte lavoro, era alla sua quarta moglie, ma era rimasto ostinatamente affezionato a quella vecchia casa, benché intorno fossero sorti grossi palazzi adibiti in parte a uffici, in parte ad abitazioni. Eva salì al primo piano, diretta alla sua stanza, evitando i due gradini che scricchiolavano e il punto liso della passatoia che spesso faceva inciampare la gente. Nessuno faceva niente per quella passatoia. Faceva parte della fisionomia della casa, così come il montacarichi che saliva e scendeva cigolando dalla cucina al secondo piano e viceversa. Arrivata in camera sua, Eva si guardò allo specchio appeso all'anta dell'armadio, poi si sfilò l'abito di maglia, lo buttò sul copriletto patchwork e indossò un camicione di cotone, un abito semplice e grazioso, che avrebbe fatto bene a indossare fin dalla mattina. In ogni ufficio della città c'era un camicione come quello, che se ne andava in giro con un anonimo corpo femminile dentro. Mentre tornava dabbasso, si accorse che la passatoia aveva altri due punti lisi, uno alla sinistra e uno alla destra di quello iniziale, causati dal passaggio di chi tentava di evitare quello in mezzo. Alla fine, ci sarebbero stati punti lisi dappertutto, che crescevano sulla passatoia come funghi. Trovò la matrigna in cucina, intenta a preparare l'insalata e contemporaneamente a guardare la televisione. Lo spettacolo sembrava consistere in una serie interminabile di risate, interrotte a tratti da brandelli di conversa-
zione. La voce acuta e stridula di Dora si sovrappose al suono delle risate. «Cosa ci fai a casa?» «Abito qui.» «Cos'hai detto?» «Che abito qui.» Dora spense il televisore, corrugando la fronte per la contrarietà, nel vedere sparire tutta quella bella gente dalla sua vita, di colpo così com'era entrata. Aveva il tipo di bellezza bionda di cui la gente spesso parla al passato. «Sai bene cosa intendo dire» mormorò. «Non è che ti hanno licenziata, per caso? Sembra che sia una malattia contagiosa, da queste parti.» «Non mi hanno licenziata» disse Eva. «La Corte si è ritirata prima del solito.» Aprì il frigorifero e ne trasse una bottiglietta di succo di pomodoro e una mela. Dora la guardava con aria diffidente, come se non fosse del tutto convinta che Eva le avesse detto la verità. «Perché?» domandò. «Perché cosa?» «Perché si è ritirata prima del solito?» «Per una questione tecnica.» «Mi piacerebbe che mi raccontassi quello che succede, ogni tanto. Questo pomeriggio arrivano le mie amiche per il bridge, e loro muoiono dalla voglia di sentire qualche indiscrezione sul caso.» «Indiscrezione che io non posso fare.» «Perché no? Ti sarai sicuramente fatta un'idea, sull'innocenza o sulla colpevolezza di quell'uomo. Caspita, sei proprio lì in tribunale.» «Sì, però io non c'ero, quando è morta quella donna.» Eva si avvicinò al lavello, bevendo il succo di pomodoro e guardando attraverso la finestra il liquidambar che cresceva tra la loro casa e il palazzo vicino. Sotto il sole del mezzogiorno, le sue foglie enormi avevano riflessi giallo-arancione e parevano vibranti, pronte a iniziare una nuova vita. Ogni anno, però, suo padre le rammentava che quella non era vita, ma morte. E presto le foglie avrebbero cominciato a cadere, e si sarebbero arricciate e rinsecchite, e suo padre si sarebbe alzato il mattino presto per raccoglierle e metterle nel bidone dell'immondizia. Suo padre era un uomo molto ordinato. «Scommetto che le altre lo fanno.» «Fanno cosa? E quali altre?»
«Le altre che lavorano in tribunale. Scommetto che vanno a casa e raccontano tutto alle famiglie.» «Tutto quello che vuoi sapere, puoi leggerlo sul giornale.» «Le mie amiche del bridge, quello che scrivono i giornali lo sanno già, e io non ho niente di più da dirgli.» «Se le tue amiche vogliono sapere che cosa succede in aula, dovrebbero venire ad assistere al processo. L'entrata è gratuita.» Eva sbucciò la mela e la tagliò in quattro spicchi. «Ho spento il televisore in modo che potessimo chiacchierare» le rinfacciò Dora. «E tu non hai niente da dirmi.» «Non a proposito del caso. Potremmo parlare del tempo.» «Sull'argomento ne saprò abbastanza quando tornerà a casa tuo padre. Lui mi dirà la temperatura di Parigi, Bangkok, Hong Kong e di un mucchio d'altre città. E pensare che non andiamo quasi mai oltre Los Angeles, quando ci spostiamo. Non riesco a capire per quale motivo un uomo di cinquantasei anni si ostini a leggere ogni sera sul giornale, come un patito del surf, le condizioni del mare e la portata delle onde, oltre alla temperatura di Hong Kong e di altre città del mondo. Non lo trovi strano?» «Non ci ho pensato. Che temperatura c'è a Hong Kong, a proposito.» «Perché?» domandò freddamente Dora. «Devi andarci?» «È possibile.» «Potresti permettertelo, se non spendessi tutti i tuoi soldi per vestirti.» «Può darsi che vinca un viaggio gratis. Già, è un'idea. Potresti partecipare a uno di quei giochi a premi che guardi sempre alla televisione, e vincere un viaggio a Hong Kong. E siccome non ti piacciono i cinesi, rinunceresti al viaggio e daresti il biglietto a me. E prima di partire, saprei già la temperatura locale. Che te ne pare?» Dora assunse un'aria imbronciata. «Non mi sognerei neanche di dare il biglietto a te. O lo venderei, oppure farei io il viaggio, cinesi o non cinesi. E a proposito di spendere tutti i tuoi soldi per vestirti, che fine ha fatto il tuo abito?» «Quale abito?» «Stamattina a colazione indossavi un abito nuovo, fatto a maglia.» «Mi sono cambiata.» «Questo lo vedo. Ma perché?» «Perché ne avevo voglia.» «Devi avere avuto una ragione, per farlo.» «Ho deciso che non era un abito adatto da indossare in tribunale.»
«Non ti diranno loro cosa devi indossare, immagino.» «No.» «Allora, perché non cerchi di apparire più attraente che puoi? Con quel vestito, sembravi quasi sexy.» Eva sapeva dove sarebbe andata a parare: una donna aveva il dovere di rendersi il più sexy possibile, perché non si poteva mai sapere in quale momento avrebbe fatto la sua comparsa l'Uomo Giusto. O l'Uomo Semigiusto, perché quando una donna aveva l'età di Eva, non poteva più permettersi il lusso di fare la difficile. Era l'argomento preferito di Dora, una sua specialità. «Ti ricordi quel simpatico signor Weatherbe, quel collega di papà che è venuto a cena da noi, sabato scorso? Ha chiesto di te a tuo padre, e l'ha incaricato di salutarti. È segno che gli interessi, benché te ne sia rimasta seduta tutta la sera senza quasi aprire bocca, come una vongola morta.» «Come si fa a riconoscere una vongola morta da una viva?» «Viva o morta, non è questo il punto. Il signor Weatherbe è un uomo più che presentabile. Si veste bene, e questo particolare dovrebbe piacerti, ha una bella dentatura e non un'ombra di forfora.» «Come potrebbe averne, dal momento che è calvo?» «Ha i capelli un po' radi sul davanti. Non puoi definirlo calvo.» «Sì che posso: l'ho appena fatto.» «Quando ti deciderai a farti entrare in testa che non sei più una ragazzina? Non devi fare tanto la difficile. Santo cielo, che cos'aspetti?» Ferma davanti alla finestra, Eva guardava ancora il liquidambar che moriva lentamente, sotto il sole. «Anche se non sono affari tuoi, ti dirò che aspetto d'innamorarmi di qualcuno.» «Innamorarti? Che stupidaggine!» «E perché?» «Non si può pretendere d'innamorarsi, senza muovere un dito perché succeda. Bisogna uscire, conoscere gente, e non starsene seduta a tavola come... come...» «Una vongola morta.» «Sì, come una vongola morta. È esattamente quello che ho detto, e non ho nessuna intenzione di chiederti scusa. Può darsi che il signor Weatherbe abbia i capelli un po' radi sul davanti, ma in compenso guadagna molto bene. E il fatto che abbia chiesto di te, significa che prova un certo interesse.» Dora mescolava furiosamente l'insalata che aveva appena terminato di condire. «E così, stai aspettando d'innamorarti. Stento a credere che tu ab-
bia detto veramente una cosa simile.» «Devi crederci.» «Sei sicura di non avere una di quelle fissazioni di cui si parla tanto oggigiorno, una specie di cotta per tuo padre?» «Ne dubito.» «Speriamo che tu abbia ragione. L'altro giorno, una mia amica stava dicendomi com'è strano che Frank abbia avuto quattro mogli, e nonostante tutti i cambiamenti, tu abbia continuato a occupare la camera che avevi da bambina, invece di cercarti una casa ed essere indipendente, cosa che potresti permetterti benissimo, se non spendessi tutti i tuoi soldi in vestiti. Non che mi dia fastidio la tua presenza in questa casa, ma con tutti i tuoi discorsi sull'indipendenza delle donne, si direbbe che preferiresti cercarti una casa e vivere da sola. Come mai non lo fai?» «Per pigrizia» rispose Eva. «Tutte noi vongole morte soffriamo di pigrizia. E ti sarei molto grata se non tirassi più in ballo il discorso del signor Weatherbe. Può darsi che guadagni un buon stipendio, ma non è altro che un ignorante pieno di sé, che per giunta ha una forma patologica di logorrea.» «Cos'è?» «Guardalo sul vocabolario.» «Ecco che ci risiamo. Ogni volta che si discute, quando stai per avere la peggio, ti salvi sventolandomi sotto il naso la tua cultura superiore.» «Ci sarebbe un altro sistema» disse Eva. «Ma sarebbe contro la legge.» Eva trascorse il resto del tempo che aveva a disposizione guardando le vetrine, entrando in un negozio a comperare un ombrello da regalare a Mildred Noon in occasione del suo compleanno e, per finire, gironzolando in un negozio di libri, dove chiese se avessero una cartina e una guida delle isole dei Caraibi. Era una cliente abituale del negozio, e la commessa di mezza età che stava dietro il banco conosceva il suo nome. «Avete in programma una crociera, signorina Foster?» «Può darsi che mi decida, un giorno o l'altro.» «Io ai Caraibi non ci sono mai stata. Ho un'amica, però, che ha partecipato a una di quelle crociere, dove promettono di farti divertire come negli episodi di Love Boat. Nave dell'Amore un accidente! In primo luogo, i passeggeri sono quasi tutte donne, e gli unici uomini a bordo sono i membri dell'equipaggio.»
«E in secondo luogo?» «Non c'è nessun secondo luogo. Per quale motivo pensate che la mia amica abbia preso parte a quella crociera? È stato un errore che le è costato fior di quattrini. Tanto valeva che s'iscrivesse a una palestra.» «Grazie del consiglio.» «Lì, almeno, si è circondate da uomini, e ci si può guardare intorno. È sorprendente, quanto poco buonsenso abbiano le donne, quando si tratta di scegliersi un compagno. Sarebbero capaci di mettersi con un assassino.» Eva abbassò gli occhi sulla cartina che aveva in mano, e si accorse che tremava, come se qualcuno avesse aperto la porta e ci fosse corrente d'aria. Solo che la porta era chiusa. Quella frase l'aveva detta di proposito, la commessa? Aveva l'impressione che la guardasse in uno strano modo. Forse sapeva tutto del processo, aveva fatto parte del pubblico in aula, l'aveva vista parlare con Cully, sorridergli, e l'aveva sentito mentre le faceva i complimenti per il vestito. Fece l'atto di piegare la cartina, ma non voleva chiudersi, e la commessa gliela prese dalle mani. «Date qui, faccio io.» «Grazie» mormorò Eva. «Personalmente, sono del parere che il modo migliore per conoscere uomini, o donne, a seconda dei casi, sia quello di comperarsi un cane. La gente che porta a spasso il cane fa un sacco di conoscenze. L'avete mai notato?» «Sì.» «Per la verità, sono convinta che i cani siano più furbi delle persone. Quando i cani vogliono fare amicizia, si avvicinano agli altri cani, li annusano, e subito diventano amici o nemici. Non sarebbe bello se gli esseri umani potessero fare la stessa cosa?» «Penso di sì.» «Non vi sentite bene, signorina Foster?» «Sto bene, grazie.» «Forse lavorate troppo. Sapete, è strano, ma con tutti gli anni che vi conosco, ancora non so che lavoro facciate.» «Lavoro per il governo.» «Una bella fortuna! Ho sentito dire che avete ottime pensioni. Se avessi anch'io una pensione di quel genere, mi darei da fare per campare cent'anni.» «Prendo la cartina e la guida delle Isole Vergini» annunciò Eva. «Volete che ve li metta in una borsa?»
«No, grazie, ho abbastanza spazio in borsetta.» «Com'è bella!» esclamò la commessa. «Di che materiale è?» «Di coccodrillo.» «Pensavo che il coccodrillo fosse un animale minacciato d'estinzione, e che fosse proibito usarne la pelle.» «Una volta era così, ma ora i coccodrilli vengono allevati, e l'uso delle loro pelli è legale.» Eva pagò la cartina e la guida e uscì in strada. Arrivò in tribunale con dieci minuti di anticipo, ma Cully era già al suo posto. Di Santo era in fondo all'aula, intento a parlare con un pensionato che divideva il suo tempo tra il tribunale e la biblioteca, un isolato più avanti. «Il mio programma è molto semplice» stava spiegando il vecchio a Di Santo, con una voce che forava i muri. «Un giorno qui, il giorno dopo in biblioteca. Qui in tribunale c'è più vita, ma in biblioteca le sedie sono più comode. Queste panche di legno farebbero venire il sedere quadrato anche a un elefante.» Eva prese posto al tavolo che divideva con Di Santo. Cully le sorrise, ma aspettò che fosse lei a rivolgergli la parola. «Siete in anticipo» osservò Eva. «Sì.» «Dove vi hanno portato a mangiare?» «Di nuovo dentro. A mezzogiorno facciamo il pasto più importante. Non si mangia male. Corre voce che mettano qualcosa nei piatti per tenerci calmi, ma se si ha fame, non si dà molta importanza alla cosa.» «Sarebbe contro la legge, fare una cosa simile.» «Pensate che questo gli impedirebbe di continuare a farlo?» «Certo. Voi no?» Cully si strinse nelle spalle e voltò la faccia dall'altra parte. «Devo credere nel nostro sistema giudiziario» riprese Eva «dal momento che ne faccio parte anch'io.» «La stessa cosa dicasi di me, attualmente.» «Continuo a dimenticarmene. Vi sembrerà strano, ma è vero. Ogni volta che stiamo qui seduti a chiacchierare, mi dimentico del fatto che non siamo due persone qualunque, che si sono conosciute in circostanze normali. Mi sembra che i nostri rapporti siano tra i più comuni.» «Non potrà mai esserci nessun tipo di rapporto fra voi e me, comunque si concluda il processo. Anche se la giuria dovesse dichiararmi innocente,
voi non potreste mai esserne sicura.» «Vi sbagliate. Ve l'ho detto, io credo nel sistema.» Cully emise uno strano suono, una specie di fischio che poteva essere interpretato in vari modi, come uno scongiuro o una manifestazione di scetticismo, o l'inizio di una bestemmia. Eva prese la guida che aveva in borsetta e si mise a leggere: Il Mar dei Caraibi è punteggiato da un gran numero di isole. Un centinaio di esse, di dimensioni diverse, si chiamano Isole Vergini, e si trovano a est di Puerto Rico. Di origine vulcanica, come dimostra il terreno calcareo, queste isole godono di un clima tropicale. L'unica fonte d'acqua è la pioggia, che viene raccolta in cisterne. Un tempo, le isole appartenevano alla Danimarca, e furono vendute dai danesi agli Stati Uniti nel 1917, una mossa strategica che doveva servire a proteggere il Canale di Panama. La popolazione residente è scarsa, ma le isole, soprattutto le tre più grandi, e cioè St. Thomas, St. John e St. Croix, sono un paradiso per i turisti, specialmente nei mesi invernali. Il porto principale, a St. Thomas, è meta favorita degli yacht che compiono traversate transoceaniche. Fu Cristoforo Colombo a scoprire le isole, nel 1493. Le dedicò a Sant'Orsola, le cui undicimila vergini morirono per difendere la loro castità. Un centinaio d'anni più tardi, Sir Francis Drake cambiò nome alle isole, in onore di Elisabetta I. «Avrei potuto raccontarvi io tutto quello che volevate sapere sulle mie isole» disse Cully. «Non c'era bisogno di comperare quel libro.» «Mi è capitato di vederlo sul banco del negozio e l'ho preso in mano, anche perché non ho ancora deciso dove andare in vacanza.» «Le pubblicazioni come quella non sempre dicono la verità. Parlano del mare blu, ma non menzionano la scarsità d'acqua. Descrivono spiagge bellissime, immense, ma non fanno nessun accenno ai grandi insetti che vi si trovano.» «Quanto grandi?» «La misura non ha molta importanza, visto che sono i più piccoli quelli che pungono di più. Per una donna come voi, sarebbe meglio andare in una città come New York, a vedere gli spettacoli, i musei e altra roba del gene-
re.» «Come fate a sapere cosa piacerebbe a una donna come me?» «Prima di tutto, avete la pelle chiara, e questo significa che non fate molta vita all'aria aperta.» «Per forza, con il mio lavoro... Però ci sono molte cose che mi piacciono, oltre alle pinacoteche e ai musei. Le barche, per esempio. Adoro andare in barca, e non soffro il mal di mare. Mi piacerebbe andarci, qualche volta.» Si pentì subito, non appena ebbe pronunciato la frase, perché fu come se fra di loro fosse calato un muro. Quando Cully riprese a parlare, la sua voce era appena percettibile. «Perché avete detto questo?» «Detto cosa?» «Che vi piacerebbe andare in barca. Vi riferivate a una barca qualsiasi, oppure a uno yacht come il Bewitched?» «Non mi riferivo a nessuna barca in particolare. Ho semplicemente osservato che mi piacerebbe andare per mare, dal momento che non ho mai fatto un viaggio lungo, né su uno yacht, né su una nave.» «L'ultima donna che ho preso a bordo non è arrivata a destinazione. Se così fosse stato, oggi non ci troveremmo qui. Se posso darvi un consiglio, viaggiate in treno.» Fece una smorfia che voleva essere un sorriso. «Sarete più sicura, su un treno, soprattutto se eviterete di fare la conoscenza di qualche uomo, al bar.» La Corte rientrò alle quattordici e undici minuti. Il dottor Woodbridge, al banco dei testimoni, pareva rinfrancato dopo la lunga pausa. Fece persino un mezzo sorriso a Donnelly, mentre l'avvocato della Difesa si avvicinava alla sbarra, con un fascio di fogli in mano. L'assistente Di Santo, che aveva già annunciato l'apertura della sessione pomeridiana ed era tornato a sedersi, si alzò di nuovo e si avvicinò al giudice. «Manca uno dei giurati» gli sussurrò. «Avreste anche potuto interrompermi, quando ho detto: "Si cominci a mettere a verbale".» «Non me n'ero accorto. È una donna che solitamente sta seduta all'ultima fila, la numero 8, e siccome è piccola di statura, quasi non la si vede.» «Il suo nome?» «Signora Latham.» «Be', non ci resta che aspettare.» Il giudice alzò la voce per farsi sentire
da tutti. «A quanto pare, uno dei giurati ha perso la strada, e ancora non si è visto. Invece di sospendere l'udienza, vi chiedo semplicemente di aspettare qualche minuto, in attesa che arrivi. Nel frattempo, siete liberi di parlare tra voi.» Trascorsero nove minuti, prima che facesse la sua comparsa una donna anziana dai capelli grigi. Entrò quasi di corsa. Era spettinata, e il suo aspetto appariva molto diverso da com'era in precedenza. Indossava un giubbotto di nylon macchiato d'unto, con la scritta "Olimpiadi '84" sulla schiena, e un paio di calzoni macchiati, con la gamba destra alzata fino a metà polpaccio. Il giudice la guardò al di sopra degli occhiali, aggrottando leggermente la fronte. «Siete in ritardo, signora Latham.» «Sì, signore. La bicicletta di mio nipote aveva una gomma a terra.» «E voi cosa c'entravate, signora Latham?» «Ci ero sopra.» Il giudice disse qualcosa all'assistente, poi si rivolse di nuovo alla donna. «Abitate al 14 di Gaviota Avenue?» «Sì, signore.» «E arrivate fin qui in bicicletta?» «Per forza: avevo l'auto qui nel posteggio e stamattina me l'hanno rubata. Quando sono uscita dall'aula per andare a casa a mangiare, al posto della mia auto c'era uno spazio vuoto. Ha dell'incredibile, che ti freghino l'auto proprio qui, a due passi dal tribunale, con il commissariato di polizia a un isolato di distanza. Con tutti i poliziotti, gli assistenti di tribunale e i giudici che bazzicano questo posto, arriva uno, s'infila nella mia auto e se la porta via. Inaudito!» L'obiezione del Procuratore Distrettuale non si fece attendere. «Vostro Onore, ritengo oltremodo scorretto lo sfogo di questo giurato davanti a tutti, e chiedo una consultazione alla sbarra.» I due avvocati e la stenografa si avvicinarono al giudice, che voltò la sedia girevole verso di loro. Il Procuratore Distrettuale spiegò il motivo della sua obiezione. «Le sue osservazioni possono essere interpretate come una manifestazione di biasimo nei confronti dei funzionari della legge, e in considerazione di questo potremmo esigere che venga allontanata.» «Schiocchezze!» replicò il giudice. «È semplicemente arrabbiata. Lo sareste anche voi, se foste stato costretto a venire in bicicletta da Gaviota Avenue fino a qui.»
«A mio avviso, Vostro Onore, il minimo che possiate fare è interrogarla nella vostra stanza, per stabilire se è in grado di pronunciare un verdetto giusto e imparziale.» «Se questo è il minimo che posso fare, lo farò. Cerco sempre di fare il minimo indispensabile. Avete altre richieste da avanzare, avvocato Owen?» «No, signore.» «Bene, allora potete tornare al vostro posto.» Diede un leggero colpo di martello. «La Corte si ritira per cinque minuti. I giurati possono trasferirsi nella loro stanza, tranne la signora Latham. Signora Latham, raggiungetemi nel mio ufficio.» La signora Latham cominciava a prenderci gusto, vedendosi improvvisamente davanti alle luci della ribalta. Era una donna molto piccola, abituata a essere ignorata nei negozi, spinta in fondo alla coda quando le capitava di trovarsi in fila, e costretta ad accontentarsi di vedere soltanto la schiena di quelli davanti, in occasione di parate e cortei. Seguì il giudice fuori dall'aula, cercando di sistemarsi un po’ meglio i capelli, mentre camminava. «Prego, accomodatevi, signora Latham.» «Bene, signore.» «Nutrite qualche pregiudizio nei confronti degli uomini della polizia?» «Non ho mai avuto niente contro di loro, fino a stamattina, quando sono uscita e non ho più trovato la mia auto.» «Prima, non siete mai stata prevenuta?» «No, signore, Mai. Sono e mi sento molto americana, dalla cima della testa fino alla punta dei piedi.» «Vi infastidisce il fatto che vi sia stato richiesto di far parte di questa giuria?» «Oh, no. Non ho niente da fare.» «Avete presentato denuncia del furto alla polizia?» «Sì, signore.» «Vi ritenete soddisfatta delle risposte che vi hanno dato?» «Sono stati gentili, ma non mi hanno dato molte speranze.» «Non è compito della polizia offrire speranze. Per questo, bisogna andare in chiesa.» Alla signora Latham fu concesso di tornare in aula come giurato numero 8. Il notevole ritardo con cui era iniziata l'udienza del pomeriggio indusse
il giudice Hazeltine a scusarsene, cosa che provocò ulteriore ritardo. Il giudice ne ricavò una certa soddisfazione. Visto che non doveva andare in nessun posto, per lui non faceva nessuna differenza, se erano in ritardo oppure no. Ed era piacevole vedere il Procuratore Distrettuale incrociare nervosamente le braccia sul petto, mentre l'avvocato Donnelly tamburellava sul piano del tavolo. «Shakespeare ha scritto in modo molto eloquente sugli eventi e sulle situazioni che rendono la vita difficile da sopportare. Tra questi, ha elencato:» L'ingiustizia dell'oppressore, la contumelia dell'uomo orgoglioso, gli spasimi dell'amore disprezzato, l'indugio delle leggi. «Ciò che era vero diverse centinaia di anni fa, è vero anche oggi. Il cammino della legge è lungo e lento. E come altri giudici in altri tribunali hanno fatto prima di me, vi presento le mie scuse. Avvocato Donnelly, potete riprendere il controinterrogatorio del dottor Woodbridge.» «Grazie, Vostro Onore» disse Donnelly «di avere portato alla nostra attenzione il monologo di Amleto.» «Oh, era l'Amleto? Pensavo che fosse Re Lear. Sapete, molti anni fa ho avuto occasione d'imparare a memoria tutti i monologhi di Shakespeare. Non aveva grande importanza quale dei personaggi l'aveva pronunciato. Imparare a memoria qualcosa, era una forma di punizione, ai tempi in cui le scuole erano scuole, e non fabbriche di diplomi. Se uno studente era sorpreso a ruminare gomma da masticare, o se parlava quando non era il momento, veniva trattenuto in classe al termine delle lezioni, e costretto a imparare un monologo a memoria. Sì, ora che ci penso, mi pare proprio che si trattasse dell'Amleto. È il brano dei sassi e i dardi, se non vado errato.» Mildred Noon si chinò verso il giudice per domandargli sottovoce: «Volete che metta tutto questo a verbale?» «Perché no, dal momento che sto dicendole, queste cose?» «Sì, però forse non vi piacerebbe ritrovarvele scritte.» «Al contrario, ai processi non stona affatto, un tocco di classe. Perché bisogna sempre accontentarsi di vuote formule?» «Non saprei. Ma...» «Sassi e dardi, Mildred. Sassi e dardi. E ora, rimettiamoci al lavoro.» Il processo riprese, dopo che fu messo tutto a verbale. Mildred aveva
poca speranza che, dallo scritto, non trasparisse il fatto che il giudice aveva trascorso la maggior parte del tempo concesso per il pranzo, bevendo piuttosto che mangiando. «Posso procedere ora, Vostro Onore?» s'informò Donnelly. «Senz'altro. Ve l'ho già detto.» Il giudice si mise più comodo, il Procuratore Distrettuale abbassò le braccia e Donnelly prese un foglio dal fascio che aveva davanti. «Dottor Woodbridge, avete dichiarato che, a vostro parere, la signora Pherson è morta strangolata. È esatto?» «Sì.» «L'espressione "a mio parere", significa forse che, nelle stesse circostanze, un'altra persona potrebbe trarre conclusioni diverse dalla vostra? È possibile?» «È possibile che patologi diversi possano raggiungere conclusioni in qualche modo differenti, ma io ritengo che tutti si troverebbero d'accordo con me, nel dire che lo strangolamento c'entra con la morte della signora Pherson.» «C'entra con la sua morte? È questo che avete detto?» «Sì.» «Questo vostro modo di esprimervi si direbbe una ritrattazione di ciò che avete dichiarato precedentemente, e cioè che la signora Pherson è morta strangolata.» «Ho modificato la mia dichiarazione originale, precisando che questa è la mia opinione.» «State forse insinuando che la patologia non è una scienza esatta, ma una scienza soggetta a interpretazioni diverse, in cui contano le opinioni invece che i fatti?» «La patologia è una scienza esatta, ma può essere anche suscettibile d'interpretazioni diverse.» «Se vogliamo paragonare la patologia alla matematica, per esempio, possiamo dire che quando in matematica si trova l'operazione due più due, si è tutti concordi nel rispondere che il risultato è quattro. Non è così?» «Certo.» «Qui, non può esistere nessuna differenza d'opinione, non vi pare?» «Naturalmente.» «Dunque, definireste la matematica una scienza esatta?» «A questo livello di semplicità, direi che anche la patologia è una scienza esatta. Se mettete un cadavere davanti a un gruppo di patologi, tutti sa-
ranno concordi nell'affermare che è un cadavere.» Dal pubblico si levò un mormorio divertito. Quel mormorio ricordò a Donnelly il gatto che dormiva in fondo al letto di Zan, facendo le fusa mentre sognava, immemore di tutto e di tutti. L'irritazione rese più acuta la voce di Donnelly. «Siete il primo patologo al banco dei testimoni, dottor Woodbridge. Pensate che ce ne saranno altri, dopo di voi?» «Sono sicuro che ci saranno.» «Pensate che saranno d'accordo con voi, sulla causa della morte della signora Pherson?» «Obiezione» intervenne il Procuratore Distrettuale. «Il testimone è sollecitato a giungere a una conclusione senza che abbia gli elementi per farlo.» «Obiezione accolta.» «Ritiro la domanda» disse Donnelly, soddisfatto. In fondo, aveva già ottenuto risposta. «Su che cosa si basa la vostra conclusione, secondo la quale la signora Pherson è morta strangolata?» «Per prima cosa, sui solchi lasciati sul suo collo dalla pressione esercitata dalle dita di una mano.» «Esercitata dalle dita di una mano, secondo la vostra opinione» puntualizzò Donnelly. «Seconda cosa?, dalle ossa rotte della laringe. Questa non è una questione d'opinione, o d'interpretazione. Un osso rotto è un osso rotto.» «Come descrivereste queste ossa che delimitano la laringe?» «Non sono sicuro di avere capito la domanda.» «Sono grandi o piccole?» «Piccole.» «Sono forti, robuste?» «No.» «Sono fragili?» «Molto fragili, sì.» «Queste ossa sono invariabilmente danneggiate, nelle vittime di strangolamenti?» «Sono decisamente vulnerabili, sia per la loro posizione, sia per la loro consistenza.» «Vulnerabili alla pressione?» «Sì.» «Pressione esercitata in vario modo?» «Sì. Ma in questo caso, come in altri da me osservati...»
«Avete già risposto in modo esauriente alla mia domanda, dottor Woodbridge.» «Non mi è consentito di precisare meglio la risposta?» «Dal momento che l'avete fatto fin dall'inizio, non vedo per quale motivo non dobbiate farlo anche stavolta.» «Chiedo che l'osservazione sia cancellata dal verbale» disse il Procuratore Distrettuale. «Ancora una volta, la Difesa cerca di mettere in imbarazzo il teste.» «Sia tolta dal verbale» concesse il giudice. «Siete pregato di evitare altri passi falsi come questo, avvocato Donnelly.» «Farò del mio meglio, Vostro Onore.» «Nella mia aula, i tentativi andati a vuoto non ottengono nessun punto di merito. Qui contano solo i risultati.» «Bene, Vostro Onore. Dottor Woodbrige, quante vittime di strangolamento avete esaminato?» «Non lo so.» «Non potreste darci un'indicazione approssimativa?» «Potrei dirvi un numero abbastanza preciso, se voi aveste specificato il periodo di tempo che intendete prendere in esame. Intendete forse da quando opero nella contea di Santa Felicia?» «Sì, possiamo limitarci a prendere in esame questo periodo.» «In questo caso, la mia risposta è una dozzina.» «E le vittime avevano sempre il collo segnato come la signora Pherson?» «Pressappoco.» «Dunque, avete esaminato una dozzina "circa" di vittime di strangolamento, che avevano sul collo segni "pressappoco" uguali a quelli della signora Pherson, la quale "a vostro parere" è morta strangolata. È così?» «Be', io...» «O quasi così? O pressappoco così?» Il Procuratore Distrettuale scattò di nuovo in piedi. «Ancora una volta, la Difesa cerca di mettere in difficoltà il teste.» «Vi ho già ammonito in questo senso, avvocato Donnelly» disse il giudice. «Continuando a ignorare i miei avvertimenti, potreste rendervi colpevole di vilipendio alla Corte, cosa che non dovreste ignorare.» «Sì, Vostro Onore. Ma non ritengo che la mia domanda possa mettere in imbarazzo il teste.» «In quest'aula, avvocato Donnelly, è la mia opinione quella che conta.»
«Sì, Vostro Onore.» Il giudice aggrottò le sopracciglia. Aveva un prurito alla schiena e non poteva grattarsi, un vero tormento. Un altro tormento l'aveva nel cervello, causato dall'atteggiamento insolito di Donnelly. Nei processi precedenti, Donnelly se l'era cavata, anche nei casi di omicidio, conservando modi gentili e smussando gli angoli delle domande più pungenti, che faceva precedere da formule quali: "Se non vi dispiace", "Se mi è lecito", "Con il vostro permesso". Era come un esperto pattinatore che scivolasse tanto veloce sul ghiaccio, da non dargli il tempo di spezzarsi. Ora aveva cambiato stile, non completamente, ma abbastanza perché chi l'aveva già visto in azione in precedenza notasse la differenza. Era ancora un pattinatore, ma stavolta c'erano varie incrinature sul ghiaccio. Donnelly continuò l'interrogatorio. «Dottor Woodbridge, a questo punto vorrei prendere in esame un'altra delle vostre opinioni. Mi riferisco alle contusioni rilevate sul corpo della signora Pherson, che sarebbero precedenti alla sua morte, stando alla vostra dichiarazione. Non è così?» «Sì.» «Risalgono a prima della morte?» «Sì.» «È possibile che le contusioni si verifichino dopo la morte?» «Quando il cuore smette di pompare sangue attraverso il sistema vascolare, il sangue obbedisce alla legge di gravità e defluisce nelle parti inferiori del corpo. Perciò la zona circostante può apparire contusa.» «Dunque, la vostra risposta è sì?» «Decisamente.» «È possibile quindi che le contusioni sul collo della signora Pherson siano successive alla sua morte?» «Non vedo come potrebbero esserlo...» «Non vi ho domandato se sapevate in che modo possa essere accaduto. Vi ho semplicemente chiesto se è possibile.» «È possibile, ma improbabile.» Il tic del dottor Woodbridge era diventato più evidente, regolare quasi quanto il ticchettio di un orologio. «Supponiamo di accettare la tesi secondo la quale le contusioni sarebbero anteriori alla morte» riprese Donnelly. «Anteriori di quanto?» «Non lo so.» «È possibile che quei segni sul collo, la signora Pherson li avesse ancor prima di salire a bordo del Bewitched?»
«È possibile.» «Non c'è niente che possa escluderlo?» «Be', veramente la signora Pherson è stata vista da un certo numero di persone, in albergo, nella sua stanza, al bar, al banco della ricezione, oltre che dall'equipaggio del Bewitched. E nessuno di loro, che io sappia, ha detto di avere notato quei segni.» «Ora, senza disturbare il cancelliere facendoci portare i reperti che c'interessano, potete indicare sul vostro collo il punto approssimativo in cui si trovavano i segni?» «Come volete che lo faccia?» «Servendovi del pollice e dell'indice.» «Approssimativamente qui.» «Sia messo a verbale» disse Donnelly «che il dottor Woodbridge ha indicato due punti, appena sotto il colletto della sua camicia.» Il dottor Woodbridge abbassò la mano e se la lasciò ricadere in grembo, come un uccello ferito. «Voi avete dei segni sul collo, dottor Woodbridge?» «No.» «Se li aveste, sarei in grado di vederli?» «No.» «Per quale motivo?» «Perché sarebbero coperti dal colletto.» «Sapete com'era vestita la signora Pherson, quando è uscita dall'albergo?» «No.» «Com'era vestita, quando l'avete vista per la prima volta?» «Era nuda.» Una semplice parola, che definiva un fatto già noto al pubblico, ma che produsse uno strano effetto, come se la donna fosse stata spogliata dei suoi indumenti lì, davanti agli occhi di tutti. «Ordinariamente, in quali circostanze si esegue l'autopsia?» «Quando una persona che non soffriva di alcuna malattia viene ritrovata morta, o quando ci siano segni evidenti di violenza, autoinflitta o commessa da altri.» «Quando qualcuno perito di morte violenta viene portato nel vostro laboratorio, quale procedura si segue?» «Per prima cosa, si prendono certe misure atte ad aiutare la polizia a procedere all'identificazione della vittima.»
«Cioè?» «Il cadavere viene misurato e pesato, si rilevano le impronte digitali, e naturalmente, si fanno delle fotografie.» «Tutte queste cose sono state fatte anche nel caso della signora Pherson?» «Sì.» «E quali erano le misure del suo corpo?» «Ho bisogno di consultare i miei appunti.» «Fate pure.» L'ordinata pila di carte che Woodbridge aveva portato in aula il giorno prima, cominciava ad apparire sgualcita, stropicciata quanto lo stesso Woodbridge. «Volete che legga i miei appunti originali, oppure la versione ampliata e battuta poi a macchina dalla mia segretaria?» «Quella più breve.» «Il corpo appartiene a una donna di razza europeide, ben curata, sui quarant'anni, occhi azzurri, capelli castani, statura uno e cinquantasette, peso quarantanove chili.» «Dunque, era piuttosto piccola?» «Più piccola della media, sì.» «Prima di iniziare a sezionare il cadavere, ci sono altre cose da fare?» «Si prelevano alcuni campioni di sangue.» «A che scopo?» «Per determinare se la persona soffriva di qualche malattia acuta o cronica.» «Nient'altro?» Woodbridge lanciò un'occhiata al Procuratore Distrettuale, e Donnelly, che l'aveva intercettata, pensò bene di approfittarne. «Dottor Woodbridge, uno degli esami effettuati aveva forse lo scopo di accertare se c'erano tracce di alcool nel sangue della signora Pherson?» «Sì.» «Qual è stato il risultato?» «Uno virgola quattro per mille.» «E questo significa?» «Significa che aveva bevuto qualche bicchiere.» «Questo l'avevamo già appurato. L'importante, per i giurati, è stabilire quanto.» «Posso darvi solo i dati rilevati dagli esami.» «Molto bene. Ho qui, dottor Woodbridge, uno schema che serve a inter-
pretare gli esiti del test dell'alcolemia, cioè dell'esame che si effettua per verificare la concentrazione di alcool nel sangue. Volete esaminare questo schema, dottore? Consiste in un'unica pagina.» Donnelly gli portò il foglio e rimase in piedi vicino a lui, mentre Woodbridge leggeva. Passarono circa quattro minuti, durante i quali ci fu silenzio in aula; ma era un silenzio strano, che sembrava pieno di vibrazioni. Era il tipo di silenzio che si ascolta appunto nelle aule dei tribunali, un silenzio colmo di aspettativa. «È la prima volta che vedete questo schema, dottor Woodbridge?» «Questo in particolare sì, ma ne ho visti altri simili.» «Potete spiegarne l'utilità alla giuria?» «Lo schema indica quante bevande alcoliche può consumare una persona in un determinato periodo di tempo, perché il suo sangue raggiunga una data percentuale in contenuto alcolico.» «La corporatura di una persona è un fattore che incide sull'esito dell'esame?» «Sì.» «Volete osservare lo schema, e vedere se riporta la percentuale dell'uno virgola quattro per mille?» «Sì, c'è.» «Cosa indica questo numero, relativamente alla corporatura di un individuo, al numero delle bevande consumate e al tempo impiegato per berle?» «Indica la percentuale d'alcool rilevabile nel sangue di una persona che pesi cinquantaquattro chili e abbia bevuto sei bicchieri di liquore in un periodo di due ore, ogni bicchiere dei quali abbia contenuto trenta grammi di superalcolico, cioè la dose che viene servita normalmente nei bar e nei ristoranti, oppure la percentuale di una persona che abbia bevuto una bottiglia di birra da trecentoquaranta grammi.» «Qual è il tasso di alcool contenuto nel sangue, raggiunto il quale una persona è considerata ubriaca, secondo la legge dello stato della California?» «L'uno per mille.» «Per quelli di noi che hanno poca memoria, volete ripetere quanto pesava la signora Pherson?» «Quarantanove chili.» «E il suo tasso d'alcool nel sangue?» «Uno virgola quattro per mille.» «Lo schema che avete in mano, indica le varie situazioni comportamen-
tali, secondo i vari tassi di alcool nel sangue. Potete dirci in che modo lo schema descrive il comportamento degli individui, che abbiano un tasso dell'uno per mille?» «Le loro inibizioni e la capacità di giudizio sono seriamente compromesse.» «E cosa corrisponde all'uno virgola cinque per mille?» «Questo dato non è riportato.» «Allora, qual è il tasso successivo preso in esame?» «Quello del due per mille.» «Come si comporta un individuo, raggiunto questo livello?» «A questo livello, viene considerato pericoloso, e si ritiene che non possa guidare l'auto per almeno dieci ore, dopo l'ultimo bicchiere bevuto.» «E la signora Pherson si trovava probabilmente a un livello intermedio tra questi due, tenendo conto del suo peso, quarantanove chili, quindi inferiore a quello esemplificato nello schema. È esatto?» «Presumibilmente sì.» «Direste che la signora Pherson era ubriaca?» «Questo schema è calcolato in base alla media dei casi esaminati e resta da vedere in quale misura...» «E direste inoltre che le sue inibizioni e la sua capacità di giudizio erano seriamente compromesse?» «Certamente si può affermare che non era in condizioni normali.» «Una persona non abituata a bere, potrebbe avere reazioni esasperate, rispetto a chi beve regolarmente?» «Questo non è il mio ramo.» «Ho trascorso la maggior parte della giornata cercando di capire qual è esattamente il vostro ramo, e tutto ciò che ho ottenuto sono state risposte equivoche, come "forse", "è probabile", "a mio parere"...» «Obiezione» strillò il Procuratore Distrettuale. «Sono imperdonabili, queste osservazioni tendenziose pronunciate con tanta acrimonia.» «Cancellate l'ultima frase della Difesa» ordinò il giudice. «Vi rammento ancora una volta, avvocato Donnelly, che voi siete il difensore, non il giudice. Vi do alcuni dati su cui meditare: nella contea di Santa Felicia, ci sono cinque giudici e settecentosettantacinque avvocati.» «Non lo sapevo, Vostro Onore.» «Ogni tanto, mi capita un colpo di fortuna, e riesco a tirare fuori qualcosa che voi ignorate, avvocato Donnelly. Avete altre domande da rivolgere al teste?»
«Vorrei poter continuare dopo una breve pausa.» «La Corte si ritira per quindici minuti.» Il giudice, la giuria e la maggior parte del pubblico lasciarono l'aula. Eva avrebbe voluto trattenersi a chiacchierare con Cully, ma stava parlando con Donnelly, e perciò lei uscì nel corridoio. Seduto su una panca, proprio sotto il cartello "Silenzio! Udienza in corso", c'era un tale di mezza età, vestito di nero, con l'espressione tetra. Aveva un paio di occhiali scuri, di quelli che riflettono le immagini e non consentono di vedere gli occhi di chi li porta. Non era la prima volta che Eva lo notava, seduto sempre allo stesso posto, talora intento a parlare con qualcuno, oppure a testa bassa, come se stesse pregando o contando le piastrelle del pavimento o semplicemente ascoltando gli altri. Non entrava mai in aula. Mentre Eva stava per passargli davanti, lo sconosciuto si alzò e le mosse incontro, tenendo le braccia abbandonate lungo i fianchi. «La signorina Foster?» «Sì.» «Vi ho vista in aula, e perciò conosco il vostro nome.» «Io però non vi ho mai visto, dentro.» «Oh, no, a me non è permesso di entrare. Ma quando si apre la porta, sbircio dentro per vedere cosa succede.» «Perché non vi è permesso di entrare?» «Sono stato chiamato a testimoniare. A quanto mi è stato detto, è normale che i testimoni non siano autorizzati a entrare in aula, se non quando è il loro turno. Però, lo ritengo ingiusto. Vorrei essere là dentro, a sentire quello che dicono di lei. Vorrei poter dire a tutti che brava donna era, buona e timorata di Dio.» «Siete... Siete il marito?» «Sì.» «Avrete modo di dire la vostra, quando verrà il vostro turno, signor Pherson.» «C'è troppo da aspettare. Qui in corridoio, sento i commenti della gente, e quindi so cosa accade in aula. Le insinuazioni, le menzogne! Mia moglie non beveva, non ha mai toccato un goccio di liquore in tutta la sua vita. E non sarebbe mai entrata da sola in un bar, né si sarebbe messa a parlare con uno sconosciuto, un negro poi! Frottole, frottole, soltanto frottole inventate da quello sporco assassino.»
«Abbassate la voce, per favore, signor Pherson. Altrimenti l'assistente vi manderà via.» Lui la guardò per qualche istante, come se si fosse dimenticato della sua presenza, e avesse creduto di avere davanti soltanto un muro, su cui far rimbalzare le parole. «Già, voi siete sua amica.» «L'assistente e io ci conosciamo da molto tempo, ma questo non significa...» «No, alludevo a quell'altro, al negro. Vi ho visto chiacchierare insieme, prima dell'inizio delle udienze, e sorridevate, avevate l'aria cordiale, addirittura intima. Che cosa gli sussurravate all'orecchio?» «Io non sussurro mai all'orecchio di nessuno.» «Eppure, vi ho vista farlo con quel negro. Dalle mie parti, cresce un fungo che noi chiamiamo "fungo degli alberi". È nero e lucido, e ha la forma di un orecchio.» «Starvene qui fuori in corridoio non vi fa bene, signor Pherson.» «Be', vi dirò qualcosa che poi potrete sussurrargli all'orecchio. Ditegli... Ditegli che se dovessero dichiararlo innocente, non potrà mai più stare tranquillo, mai più. Lo beccherò. Per quanto forte possa correre, per quanto lontano, non mi sfuggirà.» «Credo che fareste meglio ad andarvene a casa e a riposare un po', signor Pherson.» «La mia casa è lontana da qui.» «Dove alloggiate, qui in città?» «Al Biltmore. Mi hanno dato una stanza sul mare. Di notte, resto sveglio e sento il fragore delle onde, il rumore del mare dove lui l'ha buttata, dopo averla violentata e strangolata.» «Non è ancora stato dimostrato.» «A me non occorrono altre prove. L'ha imbottita di alcool, l'ha portata sullo yacht, l'ha violentata, poi le ha rubato i gioielli e l'ha buttata in mare. Ma la pagherà. La pagherà, dovessi impiegarci tutto il resto della mia vita. Diteglielo. Diteglielo da parte mia.» La simpatia che aveva provato per lui all'inizio, stava dissolvendosi. «Riferire minacce di morte all'imputato non rientra nei miei doveri, né nei doveri di nessun altro che lavori in tribunale.» «Volevo dirglielo io stesso, ma l'agente di polizia non me l'ha lasciato avvicinare. Gli ho mandato una lettera in carcere, ma non credo che l'abbia ricevuta.» «La posta è censurata. Una minaccia come la vostra, non gli verrebbe
mai recapitata.» «Allora, non restate che voi.» Allungò una mano, le toccò un braccio. Il freddo di quella mano penetrò attraverso il tessuto leggero della manica, e istintivamente Eva fece un passo indietro, come per sfuggire al tocco della morte. «Fareste bene a tornare a Bakersfield, signor Pherson, e aspettare che il Procuratore Distrettuale vi mandi a chiamare.» «Ormai è venuto il mio momento. Sarò il prossimo testimone.» «Allora, è meglio che cerchiate di calmarvi. Avete qualche tranquillante da prendere?» «Mia moglie e io siamo sempre stati contrari ai medicinali, soprattutto di questo genere.» «Prima che il processo sia finito, molte delle vostre convinzioni saranno crollate. Se fossi nei vostri panni, cercherei di venirne fuori il meglio possibile, con tutti i mezzi disponibili.» Il signor Pherson si tolse gli occhiali, ed Eva vide per la prima volta i suoi occhi. Erano cupi, cerchiati di rosso, e con le occhiaie. «Mi parlate come se fossi un vecchio idiota. Non sono un vecchio idiota, signorina Foster. E sappiate che faccio sul serio. Gliela farò pagare, a quel bastardo d'un negro, dovessi impiegarci il resto dei miei giorni.» Tornò a sedersi sulla panca, e a riprendere la posizione di prima, la testa bassa, i pugni stretti. Ma ora Eva sapeva che non stava pregando, né contando le piastrelle. Stava preparando un piano d'azione. E non era un vecchio idiota, ma un uomo pericoloso. Tornò in aula. L'assistente Di Santo, in piedi vicino alla finestra, stava parlando con una giovane donna, che aveva ricevuto l'incarico da una stazione televisiva locale di abbozzare i ritratti dell'imputato, del giudice e della giuria, poiché le telecamere non erano ammesse in aula. Cully era seduto al tavolo della Difesa, da solo. Sembrava di buon umore. «Come vanno le cose, fuori nel mondo?» «Sempre allo stesso modo.» «Vanno così male?» Eva non replicò. «Ehi, stavo scherzando» riprese Cully. «Non c'è nessuna legge che proibisca di sorridere, una volta ogni tanto.» «Chi me lo fa fare?» «Io, visto che ve l'ho chiesto.» «Non sorrido mai, se non mi sento di farlo. Un tempo le donne avevano l'obbligo di sorridere per compiacere gli uomini, ma ora non più.»
«Perché?» «Le donne si sono rese conto di essere più importanti degli uomini, anche a prescindere dalla procreazione. Siamo intelligenti e dotate quanto voi, e la carenza di forza fisica, la compensiamo con la capacità di sopportazione.» Quel fiume di parole lasciò Cully sbigottito per qualche istante. «Ehi, aspettate un attimo» disse poi. «Non vi ho chiesto di sorridermi in quel modo. Ci sono tante donne, disposte a sorridermi così. Volevo semplicemente dire che non vi farebbe male sorridere dei miei scherzi.» «Va bene. Ah, ah!» La porta dell'aula si aprì, e un tale sbirciò dentro. Era un turista, riconoscibile dai bermuda che indossava, dal cappello di paglia che aveva in testa, e dalla macchina fotografica di marca giapponese che portava a tracolla. Tenne la porta aperta abbastanza a lungo, perché Eva potesse intravedere il signor Pherson, che le puntava un dito contro in segno d'avvertimento. Cully voltava le spalle alla porta, e perciò non lo vide. Ma anche se l'avesse visto, non avrebbe potuto riconoscerlo. «C'è fuori suo marito» l'informò Eva. Cully parve sinceramente meravigliato. «Il marito di chi?» «Della signora Pherson. Testimonierà contro di voi.» «Come fa, se non mi conosce nemmeno?» «Conosceva sua moglie. Dice che non beveva, e che non si sarebbe mai sognata di entrare in un bar e di mettersi a parlare con uno sconosciuto.» «Però è quello che ha fatto.» «Non ci crederà mai. O almeno, non l'ammetterà mai. Un atteggiamento tipico di voialtri uomini. Se ammettesse che sua moglie avrebbe potuto fare una cosa del genere, si sentirebbe umiliato come se la colpa fosse sua, perché la gente penserebbe che lui non era capace di darle ciò che lei voleva.» «Magari è vero che non era capace di darle quello che lei voleva.» «Voi invece sì?» «Ho offerto alla signora Pherson d'imbarcarsi come cuoca e di venire a Honolulu, perché sosteneva di conoscere la cucina francese, di cui va matto il signor Belasco.» «Chissà, forse non aveva mai cucinato in vita sua. I Pherson avevano una governante e una cameriera, stando a quanto ho letto dell'inchiesta. Potete leggerlo anche voi, se volete. O l'avete già fatto?» «Ho tentato. Ma c'erano troppe frottole, troppe cose cattive sul mio con-
to. Io non sono come l'uomo che appare in quelle descrizioni. Io sono io, e mi ritengo una brava persona. Non farei mai quelle cose orribili.» «Raccontateglielo al signor Pherson.» «Vi ha detto qualcosa sul mio conto?» «Qualcosa.» «Cosa vi ha detto?» «Vuole che siate punito.» «In che modo?» «In qualsiasi modo, a patto che possa vedervi morto.» «Capisco.» Il tono di Cully non esprimeva né meraviglia né paura, ma solo una sorta di amarezza. «È quello che vogliono tutti. Guardatevi intorno.» Il pubblico aveva cominciato a rifluire nell'aula. L'assistente aveva spalancato la porta e vi si era fermato accanto. Ciascuno tornò al suo posto, l'artista con il suo blocco da disegno, il giornalista di cronaca nera che lavorava per il quotidiano locale, i turisti capitati lì per caso, una classe intera di studenti insieme con il professore, i pensionati e le casalinghe, insomma tutti quelli che volevano ammazzare il tempo, oppure vedere ammazzare un uomo. Cully si era girato sulla sedia per guardarli. Tornò a voltarsi verso il tavolo. «Tutti mi vogliono morto» ripeté. «Non tutti. In ogni processo, ci sono invariabilmente colpevolisti e innocentisti. Qualcuno è schierato dalla vostra parte.» «Come fate a saperlo?» «Nelle aule dei tribunali, è in uso un inglese non parlato, fatto di cenni del capo, sorrisi, smorfie, fronti corrugate.» «Quella signora seduta davanti, mi sta facendo il ritratto?» «Sta facendo il ritratto a tutti quelli che c'entrano in qualche modo con questo processo.» «Ho notato che mi osservava, durante la pausa.» Sembrava essersi dimenticato della signora Pherson, e di tutte le persone che lo volevano morto. Aveva l'aria compiaciuta e leggermente imbarazzata. «Chissà se me lo farà vedere, quando avrà finito.» «Può darsi che a voi non l'abbia fatto.» «Scommetto di sì. È per questo che si è trattenuta in aula, durante la pausa, per guardarmi meglio, perché durante l'udienza riesce a vedermi soltanto la nuca. Ho un bell'aspetto?»
«Direi di sì.» «Non sarebbe opportuno che mi voltassi, in modo che lei possa vedermi meglio?» «No, no. Credo che vi abbia già visto bene.» E ti ho visto bene anch'io, aggiunse mentalmente Eva. Aveva visto un uomo-ragazzo, ingenuo, egocentrico, rozzo, capace di dimenticare di essere sotto processo per omicidio, alla prospettiva di vedere il suo ritratto. Eva sentì il sangue salirle dal collo alla testa di colpo; emozioni contrastanti, contraendo le vene, le facevano pulsare le tempie. «Signorina Foster, potreste mettervi d'accordo con l'artista, in modo che io possa vedere il ritratto? Solo se è bello, però. Non voglio vedermi brutto. Se quella donna mi ritiene colpevole, potrebbe disegnarmi brutto. Ma io non lo sono, vero?» «No.» «Però, non è da escludere che mi disegni bello. Secondo voi, come mi disegnerà?» «Non lo so.» «Mi piacerebbe proprio, vedere quel ritratto. Non potreste aiutarmi?» «No.» «Perché?» «Perché non mi va.» Cully batté le palpebre, come se qualcuno l'avesse abbagliato improvvisamente, puntandogli una luce forte contro gli occhi. «Siete strana. A volte, mi date l'impressione di avercela con me.» «L'unica persona per cui provo un certo rancore, sono io stessa.» «Allora, perché non volete farmi questo semplice favore, di chiedere all'artista se mi lascia vedere il ritratto? Magari non mi dispiacerebbe farne fare qualche copia, da mandare a mia moglie e ai miei figli.» «Avevate detto che non siete sposato.» «Io la chiamo moglie, lei mi chiama marito, e i bambini mi chiamano papà. Così è tutto più semplice, e non si fa del male a nessuno.» «Ah, è così che la pensate?» Eva aveva l'impressione che tutto il suo sangue fosse affluito al cervello, lasciandole gli arti privi di forze e le mani fredde e sudate. Si chinò verso di lui. «Andate al diavolo, voi e il vostro ritratto» gli bisbigliò. Cully parve sbigottito. Eva ebbe la sensazione di avere offeso una creatura indifesa, che non capiva che male avesse fatto. «Sentite» riprese «il fatto è che non posso fare ciò che mi chiedete. Non
è consentito.» «No, non è questo il motivo» replicò Cully. «La verità è che mi odiate. Perché?» «Non vi odio.» «Però sembrerebbe.» «Noi due non dovremmo neppure parlarci, figuriamoci poi se possiamo tirare in ballo argomenti come l'amore o l'odio.» «Io veramente, di amore non ho parlato.» «Alludevo alle emozioni, ai sentimenti in generale. Intendevo...» «So cosa intendevate.» Erano appena entrati Donnelly e Gunther. Quest'ultimo si avvicinò al tavolo di Eva e posò la sua borsa sulla lucida superficie. «Foster, avete l'aria di una che è stata presa in castagna. Cosa state complottando? Di rovesciare il governo? Sì o no?» «Non sono affari vostri.» «Però, ci terrei a esserne informato, e a collaborare. Sto morendo di noia. Muoio dalla voglia di fare qualcosa di eccitante.» «Mi dispiace, ma non posso farci niente.» «Signor Gunther» intervenne Donnelly «vi rammento che la signorina Foster potrebbe interpretare il vostro discorso come una forma di molestia sessuale.» «Vi ho forse molestato sessualmente, Foster?» domandò Gunther. «No.» «C'è qualcun altro che l'ha fatto?» «No.» «Però non vi dispiacerebbe che lo facessero, vero Foster?» Eva guardò i due uomini, e vide che sorridevano. Sorrideva anche Cully. Prima che la campanella suonasse per avvertire che la pausa era finita, il Procuratore Distrettuale Owen parlò con il suo testimone, ai piedi della scala che portava alla torre dell'orologio. Owen era restio a criticare quell'uomo anziano, ma per il bene della causa, si sentiva costretto a farlo. «Non vi siete dimostrato molto sicuro di voi stesso, mentre testimoniavate» lo rimproverò. «Al contrario, avete permesso a Donnelly di prendervi per il naso.» «Ho fatto del mio meglio.»
«Di tutta quella storia degli annegamenti in acqua fredda, a me non avevate fatto parola.» «È un campo di studi relativamente nuovo.» «Comunque, avreste dovuto parlarmene ugualmente, così avrei potuto documentarmi. In un caso come questo, l'elemento sorpresa può provocare un disastro.» «Mi sembrava improbabile che Donnelly fosse a conoscenza di quei dati, e intendesse tirare in ballo la questione.» «Quante probabilità ci sono che la signora Pherson sia morta come sostiene lui, cioè dopo la caduta in acqua?» «Una su un milione, secondo me.» «Allora, non è così che sono andate le cose?» «No.» «Come mai siete così sicuro adesso, mentre al banco dei testimoni apparivate tanto incerto?» «Adesso, non sono sotto giuramento. E non ho di fronte Donnelly.» Una ventata d'aria fredda scese giù dalla scala facendo rabbrividire Woodbridge. «È quella sua aria d'integrità che mi mette in crisi. Arriva in groppa al suo cavallo bianco, deciso a salvare un essere inferiore, come un messicano, un negro o una prostituta, e non gliene importa un accidente se la polvere sollevata dagli zoccoli del suo destriero acceca tutti quelli che si trovano sulla sua strada.» Il quarto d'ora di pausa, che in realtà era diventato mezz'ora, doveva aver giovato a Donnelly, che prese il suo posto alla sbarra, stavolta senza appunti. Aveva in mano soltanto un foglio di carta gialla. Guardò quasi con benevolenza Woodbridge, che prendeva posto al banco dei testimoni. «Dottor Woodbridge, vorrei richiamare la vostra attenzione sui reperti numero 17 e 19. Signorina Foster, sono disponibili?» «Sono qui, avvocato.» Il numero 17 era la foto del profilo destro di Madeline Pherson in primo piano. Il numero 19 mostrava il suo profilo sinistro. «Avete avuto occasione di esaminare le orecchie della signora Pherson, dottor Woodbridge?» «Sì.» «Avete notato niente di particolare?» «No, niente. I lobi erano forati dagli orecchini.» «C'erano lacerazioni della pelle, a indicare che qualcuno possa aver tentato di strapparle gli orecchini prima oppure mentre commetteva il crimine
di furto o di omicidio? In altre parole, esistono prove che gli orecchini le sono stati tolti con la forza?» «No.» «Che cosa se ne può dedurre?» «Che la vittima si è tolta gli orecchini da sola.» Il Procuratore Distrettuale sollevò obiezione, ma il teste fu invitato a rispondere alla domanda. «Passando al altro argomento, dottor Woodbridge, cosa potete dirci a proposito del vostro stato di salute?» «Della mia salute?» «Sì. La vostra salute è buona, oppure discreta, o cattiva?» «Discreta.» «Soffrite di qualche malattia cronica che possa impedirvi di svolgere bene il vostro lavoro?» «Io credo di svolgerlo in modo soddisfacente.» «Vi ripeterò la domanda, con la preghiera di rispondere in modo meno evasivo. Soffrite di qualche malattia psichica cronica, che possa precludervi lo svolgimento ottimale del vostro lavoro?» «Non direi.» «Ne siete sicuro?» «L'unica risposta che posso darvi, senza entrare nei particolari, è che sono perfettamente in grado di svolgere il mio lavoro.» Donnelly si avvicinò al banco dei testimoni. «Volete prendere questo foglio, alzarlo e tenerlo a una distanza di sessanta settanta centimetri?» «Mi oppongo, Vostro Onore» intervenne Owen. «Non vedo lo scopo di questa domanda, che ritengo decisamente irrilevante.» «Lo scopo apparirà chiaro tra pochi istanti, Vostro Onore» replicò Donnelly. «Se volete invitare il teste a fare ciò che gli è stato richiesto...» Prima che Donnelly potesse terminare la frase, e il giudice potessero far conoscere la sua decisione in proposito, Woodbridge allungò una mano, prese il foglio e lo tenne alzato, con il braccio teso. Poi voltò la testa dall'altra parte, come se preferisse non vedere quello che succedeva al foglio. Il pezzo di carta cominciò a tremare, dapprima in modo appena percettibile, poi più forte, tanto che la carta produsse un fruscio. «Siete un po' nervoso, dottor Woodbridge?» domandò Donnelly. «No.» «Vi trema la mano. C'è una ragione particolare?» «Sì.»
«E cioè?» Owen incrociò le braccia sul petto, in un gesto d'autodifesa. Temeva che stesse per accadere qualcosa di grave, ma ignorava cosa potesse essere. Il giudice invece lo sapeva. «Avvocato Donnelly, è proprio necessario continuare con questo tipo d'interrogatorio?» «Ritengo che la risposta del dottor Woodbridge possa influire su tutta la sua testimonianza precedente. Non è necessario ricordare a Vostro Onore che la frase "oltre ogni ragionevole dubbio" ha un'enorme importanza, in un processo per omicidio.» «È vero, avvocato Donnelly, non è necessario che me lo ricordiate.» «Allora, posso ripetere la domanda al dottor Woodbridge?» «Fate pure.» «Dottor Woodbridge, un minuto fa avete dichiarato di non essere nervoso. Siete intervenuto in diversi processi, e vi siete guadagnato la fama di conservare la calma e il sangue freddo. Allora, perché vi tremano le mani, in questo momento?» La risposta del medico fu appena percettibile. «Perché sono affetto dal morbo di Parkinson» rispose. «Volete parlare un po' più forte, così saremo sicuri che i giurati vi sentono?» «Sono affetto dal morbo di Parkinson.» «Volete spiegare di cosa si tratta?» «È una malattia degenerativa, che compromette le funzioni motorie, cioè i movimenti del corpo.» «Il vostro tremito è involontario?» «Sì.» «Tra i vostri sintomi, compaiono la cinesia o la bradicinesia?» «A volte.» «È presente una certa rigidità muscolare?» «Sì.» «Avete difficoltà di parola?» «Talvolta.» «Cosa provoca tutto questo?» «Ancora non si è scoperta la causa del Parkinsonismo.» «Ciò che voglio sapere è cosa provoca questi sintomi?» «Una lesione nella parte del cervello che comanda i movimenti del corpo.» «E questa lesione del cervello può creare uno stato confusionale?»
«Può causare conseguenze facilmente confondibili con lo stato confusionale, poiché compromettono la parola.» «Questa lesione del cervello, può compromettere anche il pensiero e la capacità di giudizio?» «No.» «Siete in cura per la vostra malattia?» «Sì.» «I farmaci che assumete possono alterare le vostre facoltà mentali, provocando confusione, incertezza?» «No. Assolutamente no. La mia mente è perfettamente lucida. So...» Appallottolò il foglio e lo buttò a terra. «So rag... ragio... Sono in grado di ragionare come una persona sana. La mia luci... La mia lucidità...» L'obiezione del Procuratore Distrettuale e il martelletto del giudice si fecero udire contemporaneamente. «La Corte rinvia l'udienza alle dieci di domattina» disse il giudice. «I giurati dovranno evitare di discutere del caso tra loro o con altri, e di leggere notizie relative al processo in corso, così come di ascoltare le stesse notizie alla radio o alla televisione.» Woodbridge si allontanò dal banco dei testimoni, asciugandosi la faccia con un fazzoletto. Raggiunse Donnelly alla sbarra. «Siete un bastardo.» «Mi dispiace. Ma non sono stato io a causare la vostra malattia. Io mi sono limitato a portarla all'attenzione dei giurati, nell'interesse del mio cliente.» «Fino a che punto siete disposto ad arrivare, per difendere i vostri clienti?» «Fino a dove è consentito dalla legge.» «Be', prima di arrivare troppo lontano, in sella al vostro cavallo bianco» disse Woodbridge «assicuratevi almeno che sia un purosangue.» Si allontanò. Donnelly lo seguì con lo sguardo, senza capire cos'avesse voluto dire esattamente Woodbridge con quella storia del cavallo bianco. Ma non l'interessava. L'importante era che lui si era aggiudicato un punto a suo favore. Nella mente di qualche giurato, forse addirittura di tutti, si sarebbe fatto strada un ragionevole dubbio. "Oltre ogni ragionevole dubbio" era la formula più importante, in mezzo alle molte istruzioni che il giudice avrebbe dato ai giurati, prima che si ritirassero per deliberare. La seconda, in ordine d'importanza, era la "certezza morale", e questa era più difficile da ottene-
re. In sostanza, significava che bisognava sentirselo nel sangue, se l'imputato era innocente o colpevole. La certezza morale era molto difficile da ottenere, ma anche da alterare, una volta che fosse stata raggiunta. Questa certezza era composta da frammenti di passato e pezzi di presente, cose viste, suoni uditi e odori percepiti e mescolati insieme, in una massa informe che poteva essere benigna o maligna. Donnelly vide Woodbridge uscire dall'aula, camminando lentamente come se la sua malattia, uscita allo scoperto, si fosse aggravata. Gli dispiaceva un po' di aver dovuto sacrificare una parte di Woodbridge nell'interesse della causa. Lo scopo finale non era la vita o la morte di Cully. Lo stesso Donnelly era morto centinaia di volte, nel corso dell'anno, e chissà quante altre volte sarebbe morto ancora. La vita e la morte non avevano importanza. Era il sistema giudiziario in se stesso che contava, il sistema che funzionava allo stesso modo per tutti. Se era quello il cavallo bianco su cui lui galoppava, era certamente un purosangue. Come sempre al termine di una giornata, l'aula si vuotò in fretta. Cinque minuti dopo, c'erano soltanto Cully, l'assistente Di Santo, Eva e la giovane artista che, dopo essersi trasferita nella parte anteriore, stava dando gli ultimi tocchi a un disegno. Alzò la testa, sentendo avvicinarsi Eva. «Mi sono trattenuta troppo?» «No. Volevo soltanto chiedervi se il signor King può vedere il ritratto che gli avete fatto. Vi dispiacerebbe?» «Niente affatto. Eccolo qui.» «Mostrateglielo voi.» «Non volete neanche guardarlo?» «No» rispose Eva. «Non voglio guardarlo.» 5. I testimoni Durante la notte, una foschia che veniva dal mare avviluppò l'intera città, avvolgendo la torre dell'orologio del tribunale e attutendo i rintocchi delle campane. Le ore, non viste e non udite, smisero di esistere, finché il sole non fu uscito a forare la nebbia. Il pappagallo, principale occupante della torre, si svegliò e cominciò a ripulirsi le penne. Mentre si preparava
per un'altra giornata, seguiva con lo sguardo il furgone dello sceriffo, che stava scaricando i detenuti per i processi della mattinata. L'uccello planò vicino a loro, e il suo volo in libertà pareva un atto provocatorio nei riguardi di chi era ammanettato. Le ore tornarono a scorrere. Le otto, le nove, le dieci. Nell'aula numero 5, l'uomo che salì sul banco dei testimoni disse di chiamarsi Tyler Winslow Pherson. Abitava al 300 di Garden Grave Avenue, a Bakersfield, ed era vice-presidente della Valley Oil Corporation. In risposta alla domanda del Procuratore Distrettuale, dichiarò che la vittima, Madeline Pherson, era sua moglie. «Siamo stati sposati per diciott'anni. Madeline era una donna meravigliosa, sempre disponibile ad aiutare gli altri, i bambini, gli anziani, gli handicappati. Spesso raccoglieva fondi per le varie istituzioni benefiche. Ha impiegato mesi a imparare il braille, in modo da poter tradurre libri per i ciechi, e nel corso del suo lavoro all'ospedale, assisteva le famiglie dei malati irrecuperabili. Era una donna che amava Dio, e ne era riamata. Non capisco come abbia potuto permettere, il Signore, che le accadesse una cosa simile.» «Siamo tutti solidali con voi, e comprendiamo il vostro dolore, signor Pherson, ma per poter andare avanti con il processo, sono costretto a chiedervi di limitarvi a rispondere alle mie domande.» «Come ha potuto lasciare che accadesse a una donna come Madeline?» insistette Pherson. «Come ha potuto?» Guardò Cully. «Perché l'avete uccisa?» Donnelly balzò in piedi per protestare, e il giudice si mise a battere il martelletto, ma Pherson parve non vedere né udire. «Quante altre ne avete uccise? Quante altre ne ucciderete, se vi lasceranno libero?» «Sarete accusato di vilipendio alla Corte, signor Pherson» disse il giudice «se continuerete di questo passo.» «Ho il diritto di sapere. Ne ho il diritto.» «Anche l'imputato ha il diritto di subire un processo giusto, condotto secondo le regole del...» «Regole. Le regole sono tutte a favore di quell'assassino. Non c'è nessuna regola che difenda la memoria di mia moglie?» «Se non riuscite a dominarvi, signor Pherson, dovrò chiedervi di lasciare il vostro posto e di tornare in un altro momento.» Owen si guardò bene dal lasciarlo trasparire, ma quello sfogo di Pherson
gli andava a meraviglia. Le sue osservazioni sarebbero state cancellate dal verbale, ma la giuria non le avrebbe dimenticate, né avrebbe dimenticato la faccia dell'uomo che le aveva pronunciate. «Vi sentite in grado di continuare la vostra testimonianza, signor Pherson?» domandò. «Sì. Sì, sto bene.» «Vorrei chiarire alcuni particolari relativi alla vostra famiglia. Per esempio, avete figli?» «No, purtroppo non sono arrivati.» «I vostri legami famigliari erano molto stretti?» «Madeline era affezionatissima a sua madre.» «La madre abita a Bakersfield?» «No. È morta nel mese di marzo. Lei e Madeline stavano progettando un viaggio alle Hawaii, quando sua madre si è ammalata. Madeline ne ha risentito moltissimo. Per questo ho voluto che si prendesse una vacanza. Pensavo che un cambiamento d'ambiente le avrebbe giovato, l'avrebbe tirata un po' su di morale. L'ironia di questa situazione non mi dà pace né giorno né notte, il pensiero che sono io responsabile della sua morte, benché stessi cercando di aiutarla. Lei non voleva andare da nessuna parte. È stata una mia decisione. Io sono abituato a prendere decisioni, con la convinzione di avere sempre ragione.» Scosse la testa. «Stavolta no, purtroppo. Stavolta ho avuto torto marcio.» «Volete limitarvi a rispondere alle mie domande, signor Pherson?» «Sì. Sì, va bene.» «La signora Pherson ha ereditato qualcosa da sua madre?» «Un piccolo terreno, una polizza d'assicurazione, alcuni buoni del tesoro e una serie di gioielli antichi, passati per generazioni dalle madri alle figlie maggiori. L'assicurazione dei gioielli era inadeguata, e Madeline intendeva farli valutare per stipularne un'altra. Non so che valore potessero avere.» «Ritenete che rappresentassero una grossa somma?» «Sì.» «In che modo la signora Pherson è entrata in possesso dei gioielli?» «Il legale di sua madre l'ha convocata nel suo studio e glieli ha consegnati.» «In un contenitore?» «Sì.» «Voi eravate presente?» «Sì.»
«Potete descriverci questo contenitore?» «Era una borsa grande all'incirca quanto un beauty-case, di pelle verde con disegni in rilievo, e una grossa serratura, di quelle che si usavano molti anni fa. L'ho portata io fino alla nostra auto, e Madeline è rimasta seduta con la borsa in grembo per tutto il tragitto fino a casa. Non ha pianto, non ha fatto scenate, ma è stato ugualmente un brutto momento. Durante la malattia di sua madre, non si era lasciata andare, si era dimostrata coraggiosa. E adesso, era tutto finito. Forse, mentre se ne stava con la borsa in grembo, pensava che lei sarebbe stata l'ultima proprietaria di quei gioielli, dal momento che non aveva nessuna figlia a cui lasciarli. Lei era l'ultima discendente della famiglia.» «E così, l'avete convinta a prendersi una vacanza, a cambiare ambiente?» «Sì. Ha scelto lei la zona di San Diego, poi la mia segretaria si è occupata dei biglietti e delle prenotazioni, e io l'ho accompagnata in macchina all'aeroporto. Mi ha telefonato al suo arrivo. Sembrava abbastanza su di morale. È stata l'ultima volta che ho sentito la sua voce.» «Basta così, per ora, signor Pherson» disse Owen. «Vi ringrazio.» Donnelly si alzò per il controinterrogatorio. «Signor Pherson, avete detto che vostra moglie sembrava abbastanza su di morale, quando vi ha chiamato. Vi ha stupito?» «Mi ha fatto piacere.» «Sì, ma vi siete meravigliato?» «Avevo pensato che ci avrebbe impiegato più tempo a uscire dal suo stato depressivo e a tornare a godersi la vita. Dunque, la mia risposta è che sono rimasto piacevolmente sorpreso.» «Vi aveva mai parlato di suicidio?» «No, mai.» «Avete detto, se non erro, che la signora Pherson assisteva i malati irrecuperabili e le loro famiglie. È così?» «Sì.» «Nel corso di tali conversazioni, è probabile che saltasse fuori l'argomento del suicidio?» «Quando dico che non mi ha mai parlato di suicidio, intendo che non ne parlava riferendosi a se stessa. Non le sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa del genere.» «Benché si trovasse, come voi avete dichiarato, in uno stato depressivo dovuto alla recente scomparsa della madre?»
Pherson rimase zitto e immobile. Soltanto i suoi occhi si muovevano, spostandosi lentamente da un giurato all'altro, finché non li ebbe guardati tutti. «Mia moglie non si è uccisa» disse finalmente. «È stata assassinata.» Le parole stavolta non gli uscirono in tono d'accusa, ma con voce pacata e convinta. L'obiezione di Donnelly era inevitabile. L'affermazione di Pherson sarebbe stata cancellata dal verbale, ma sarebbe rimasta impressa nella mente dei giurati, per quanto il giudice in seguito avrebbe insistito perché lasciassero da parte le emozioni e si lasciassero guidare solamente dai fatti. La raccomandazione non sarebbe servita a niente. Mai, o quasi mai, le giurie si basano sui fatti. Inspiegabilmente, i fatti perdono di consistenza, oppure sbiadiscono nel nulla. Il fatto era che Madeline Pherson non si trovava in quel bar per raccogliere fondi in favore di qualche istituzione benefica, né per tradurre libri in braille, e neppure per assistere malati inguaribili. Era entrata in quel bar per bere martini doppi e adescare uno sconosciuto. «Avete altre domande da rivolgere al teste, avvocato Donnelly?» domandò il giudice. «Per il momento no, Vostro Onore.» «Per ora potete andare, signor Pherson. Sarete avvertito, se ci sarà ancora bisogno di voi. Nel frattempo, vale per voi la stessa regola cui devono attenersi i testimoni di questo processo. A nessuno di voi è permesso di entrare in quest'aula fino alla conclusione del processo. Non dovrete far parola della testimonianza resa, a nessuno degli altri testimoni.» «Scusate, Vostro Onore» disse il Procuratore Distrettuale. «Il mio prossimo teste non è ancora arrivato da San Diego. Poiché in auto è un viaggio di quattro o cinque ore, non l'aspetto prima delle tredici. Devo confessare che è colpa mia. Avevo pensato che la testimonianza del signor Pherson sarebbe durata più a lungo.» «Allora, invece della solita pausa del mattino, interrompiamo la seduta per andare a mangiare, e riprenderemo alle quattordici.» Cully, seduto sul limite della sedia, teneva le mani incrociate sul tavolo. Donnelly si sedette vicino a lui e cominciò a mettere la sua roba nella valigetta. «Be'? Qualcosa che non va?» «È vero che faceva tutte quelle belle cose? Che si prodigava per il prossimo?»
«Sì. Gunther ha controllato.» «Eppure, la donna che mi ha rivolto la parola al bar, sembrava un tipo di tutt'altro genere. Non era quella di salvarmi l'anima, la sua intenzione. Posso assicurarvelo. Mi faceva il filo.» «Così dite.» «Mi faceva il filo di brutto. Potrei giurarvelo. Forse la polizia ha preso un granchio. Forse il corpo che hanno trovato non era il suo, ma di qualcun'altra.» «Il corpo è stato identificato dal marito e dalla governante.» «Ho visto un film, una volta, che parlava di una donna che aveva una doppia personalità e...» «Lasciate perdere. La signora Pherson era una donna sana, senza grilli per la testa, e una brava persona.» «Ma allora, perché mi ha fatto il filo in quel modo?» «Forse perché siete un tipo irresistibile.» L'aula era vuota, con l'eccezione dell'assistente Di Santo e dei due uomini fermi vicino alla porta, in attesa degli agenti che dovevano prendere in custodia Cully. «A proposito di quei graffi che avevate sulla guancia» riprese Donnelly. «Che cosa mi potete dire? Ve li ha fatti graffiandovi con le unghie, in preda alla passione.» «No, non è così che sono andate le cose. Il fatto è che mi è saltata addosso, e mi ha graffiato con un orecchino.» «Quale?» «Non lo so. Voglio dire, era un momento critico, ed eravamo tutt'e due sbronzi. Come si fa a ricordare un particolare insignificante come questo?» «Alla giuria interessano molto i particolari insignificanti. Possono ingoiare un boccone enorme, come la balena che ha inghiottito Giona, ma sono capaci di diventare terribilmente schizzinosi, quando ci sono in ballo piccoli particolari che non quadrano, o che non si riesce a ricordare.» «Va bene, allora diciamo che era l'orecchino sinistro.» «Non diciamo niente, finché non avremo ricostruito la scena.» «In che modo?» «Venite verso di me, e afferratemi come la signora Pherson ha afferrato voi.» «Farebbe una strana impressione. La gente potrebbe pensare...» «La giuria è uscita dall'aula, e quella è l'unica gente il cui parere possa contare qualcosa, per voi. Su, avanti, fatelo. Muovetevi.»
«No.» «Forza, decidetevi. Fingete di trovarmi irresistibile, e perciò spinto dalla passione...» «No, farei uno strano effetto. Un brutto effetto.» «Perché? Fate come se doveste interpretare la scena di un film.» «Non sono un attore.» «Su, saltami addosso, bastardo.» L'assistente Di Santo si voltò, al suono concitato della sua voce. «Qualcosa che non va?» s'informò. «No» rispose Donnelly. «Stavamo semplicemente parlando del fascino che Cully esercita sulle donne.» Dopo che l'assistente si fu girato di nuovo, Donnelly aggiunse: «Non soltanto sulla signora Pherson, ma anche sulla nostra piccola Eva. Ha gli occhi talmente infuocati, quando vi guarda, che a quella temperatura si potrebbe arrostire un tacchino. Non ve lo sentite addosso tutto quel calore, tacchino?» «No.» «Quest'improvviso attacco di modestia non è nel vostro stile.» Donnelly aveva terminato di riporre tutto nella valigetta. Chiuse la serratura, ma non fece l'atto di alzarsi. «A proposito, ho qui una lettera per voi. L'ho ricevuta io, ma è indirizzata a voi» «Chi me la manda?» «Vostra moglie.» Posò la lettera sul tavolo, ma Cully non la prese, e nemmeno la guardò. «Non volete leggerla?» «No.» «Secondo me, sarebbe opportuno che lo faceste. Spesso aiuta sapere come la pensano gli altri su una data cosa.» «Louise non è una che pensi molto.» La lettera, dattiloscritta, era ordinata e aveva la punteggiatura al punto giusto. C'erano solo due errori d'ortografia. «Non è stata Louise a scriverla a macchina» disse Cully. «Lei non ne è capace. Deve avergliela scritta suo fratello. Probabilmente è stato lui a insistere perché me la mandasse. Quel figlio di puttana mi odia.» «Ah, già, vostro cognato, quello che vorreste uccidere.» Cully apparve sorpreso. «Chi è stato a dirvelo?» «La signorina Foster. Secondo lei, era opportuno che vi avvertissi affinché non faceste altre affermazioni del genere, altrimenti la gente potrebbe riceverne un'impressione sbagliata. O forse dovrei dire l'impressione giusta.»
«Non gliel'avrei confidato, se avessi saputo che sarebbe andata a raccontarlo in giro.» «Non l'ha raccontato in giro. L'ha riferito a me, con l'intenzione di proteggervi. Già, è proprio una tigre, la nostra piccola Eva. E voi siete il suo tigrotto.» «Non lo sono, né voglio esserlo. Mi rifiuto.» «I tigrotti non hanno scelta» sentenziò Donnelly. «Su, leggete la vostra lettera.» C'erano due fogli all'interno della busta. Nel primo, l'avvocato Donnelly era pregato di consegnare l'allegato a Cully King. Caro Cully, spero che a te vadano bene le cose, perché a me non vanno bene affatto. Ho bisogno di soldi. Non puoi pretendere che campi senza gnente, mentre tu te ne vai in giro ad ammazzare il prossimo. Sta per arrivare il Giorno del Ringraziamento, e che motivo ho io di ringraziare, con il marito al fresco e gnente da mettermi addosso? Che tu sia colpevole o innocente, il minimo che puoi fare è mandarmi i quattrini che ti ha dato il signor Belasco. A te non servono, visto che hai vitto e alloggio gratis, e magari anche la televisione a colori. A questo punto, Cully interruppe la lettura. «Il signor Belasco non mi ha ancora pagato» disse. «Lo so. Sono stato io a chiedergli di non farlo, e lui ha accettato.» «Perché avete fatto una cosa così stupida?» «Il denaro vi sarà consegnato al momento opportuno. Nel frattempo, potrete dichiarare di essere al verde, e direte la verità. Se non avete soldi, vi assegneranno un difensore d'ufficio, nel caso in cui qualcosa m'impedisse di continuare a difendervi. Se e quando uscirete, avrete abbastanza denaro per poter campare qualche tempo, mentre tentate di rimettere insieme i pezzi della vostra vita.» «Non voglio mettere insieme nessun pezzo. E comunque, nessuno vuole vedermi libero.» «Al contrario, molte persone lo vogliono.» «Ma non per il mio bene. Louise mi vuole fuori, solo perché continui a mantenere lei e quel pidocchioso di suo fratello. Pherson mi vuole fuori, solo per avere l'opportunità di uccidermi con le sue stesse mani. Eva Foster dev'essersi messa in testa qualche idea stramba, come quella di sposarmi.
Oh, certo, c'è parecchia gente che mi vorrebbe libero.» «Tra questi, ci sono anch'io.» «Voi lo volete perché non vi va di perdere la causa.» «No. È perché non voglio perdere voi.» Ci volle un minuto buono, perché Cully capisse. Quando comprese, tutto il suo corpo s'irrigidì, come per prepararsi a colpire. «Pensateci sopra» mormorò Donnelly. «Voi siete pazzo.» «No. Già da parecchio tempo sto pensando di smettere di lavorare e di ritirarmi nel mio ranch nell'Idaho. Sono stanco della legge, stanco di vittime e di colpevoli. Mi piacerebbe essere circondato da creature simpatiche e normali, come cavalli, cani, mucche. Dubito che esista Dio, ma se esiste, quelle devono essere le Sue creature, non noi. Gli animali accettano il mondo e i loro consimili. Non fanno come noi esseri umani, che facciamo programmi, studiamo stratagemmi, lottiamo per arrivare in cima, dove non c'è posto per muoversi, se non di nuovo verso il basso. Attraverso il ranch scorre un torrente, rumoroso e turbolento in primavera, quando comincia a sciogliersi il ghiaccio sulle montagne. In autunno, il torrente è calmo. Ma in tutte le stagioni, ogni singola goccia d'acqua è diversa. Non è come il mare, dove tutte le onde sono uguali, monotone come la morte. Un torrente è sempre vivo, fresco, vitale. Credo di averla sempre pensata così, anche quand'ero ragazzo, ma non me ne ricordo.» «Non sono obbligato a restarmene qui ad ascoltare tutte queste cavolate.» «E invece sì. Non avete scelta. Siete accusato d'omicidio, la qual cosa limita notevolmente le vostre possibilità.» «Ciascuno ha i propri diritti.» «I diritti di un uomo accusato d'omicidio esistono solo sulla carta e nelle menti degli idealisti. Siete qui seduto ad ascoltare ciò che ha da dirvi il vostro avvocato. Se cercate di protestare, se fate baccano, arriva l'assistente, poi un agente e un altro agente, e per prima cosa vi mettono le manette, poi vi riportano dentro. Le persone accusate d'omicidio non sono libere di fare quello che vogliono. Rimangono ad ascoltare i loro avvocati, sia che questi gli leggano il bollettino meteorologico, sia che avanzino proposte ragionevoli come la mia.» «Per me, non è ragionevole.» «Avete detto che non avete nessuna intenzione di rimettere insieme i pezzi della vostra vita. Be',' nemmeno io. Voglio voltare le spalle al passa-
to, voglio andarmene via. Venite con me, Cully.» L'assistente Di Santo sbadigliò, spostò il peso del corpo da un piede all'altro, controllò il suo orologio con quello da parete e pensò con avidità a un panino generosamente imbottito, una birra fredda e una crostata di mele. «Pensateci sopra» tornò a ripetere Donnelly. «Non c'è niente da pensare. Avete capito? Niente.» «Non avrete preoccupazioni per tutto il resto della vita.» «Chissà che bella vita, fermo in un ranch lontano dal resto del mondo, in compagnia di un finocchio, di qualche mucca e di un fiume al posto del mare. Non fa per me. Io voglio essere un uomo libero, oppure preferisco morire.» «Non pensate che mi sia meritato qualcosa, in cambio dell'investimento che ho fatto. Esaminate i fatti, Cully. Se si potesse scommettere su di voi, vi darebbero dieci a uno. Se riuscirò a capovolgere la situazione, mi dovrete la vita. E ricordate che non sono stato io a ficcarvi in questo guaio. Vi ci siete messo da solo.» «Non è vero. È stata tutta colpa di quella donna. Doveva aver già preso la sua decisione fin dall'inizio. Voleva buttarsi a mare, e l'ha fatto. E come avete detto voi durante il controinterrogatorio del dottor Woodbridge, può darsi che abbia perduto i sensi, e che qualcosa in mare le abbia provocato quei segni sul collo.» «Balle!» esclamò Donnelly. «Quei segni glieli avete lasciati voi. L'avete strangolata.» «Per quale motivo?» «Per derubarla dei suoi gioielli.» «Ho beccato soltanto cinquecento dollari per gli orecchini.» «Alludevo agli altri gioielli, a quelli contenuti nella borsa verde.» «Non so niente di quella borsa, lo giuro.» «Siccome mentite con la stessa naturalezza con cui respirate, non starò a chiedervi dove avete cacciato la borsa, né come intendevate disporre dei gioielli, di cui ogni gioielliere e ogni banco dei pegni della città possiede certamente la descrizione.» Cully si fece paonazzo. «Non posso disporre di ciò che non ho.» «Ciò che non avete» replicò Donnelly «è gente disposta a credervi.» «È compito vostro fare in modo che mi credano.» «La maggior parte degli avvocati pretenderebbero un mucchio di soldi, per un lavoro come questo. Io invece non voglio altro che un po' di grati-
tudine.» «La gratitudine è una merce che ho finito da un pezzo.» «Pensate a quello che promette di essere il vostro futuro. Anche se vi giudicassero non colpevole, non riuscireste più a togliervi di dosso la puzza di questo processo. Non sarete considerato un innocente, ma un assassino che l'ha fatta franca. Naturalmente, nessuno vi darà più lavoro, almeno nel vostro campo. Quale proprietario di yacht affiderebbe la sua imbarcazione a un uomo con la vostra reputazione? Quando avete strangolato la signora Pherson, avete ucciso due persone, lei e voi stesso. Siete finito, Cully. Quella che vi sembra una curva della strada, ne è invece la fine.» Mentre guidava per tornare a casa, Donnelly sentiva la testa stranamente vuota, si sentiva debole come uno appena guarito da una malattia. La sua vita era stata tutta una serie di fotocopie, accuratamente redatte e diligentemente copiate. Ora, in un breve intervallo, una porta si era aperta, e le fotocopie si erano sparse per tutta la stanza. Non era possibile prenderle e rimetterle in ordine come prima. Portò l'auto nel garage. Tutt'e due le macchine di Zan si trovavano al loro posto, ma c'era odore di benzina bruciata e il cofano della Jaguar di Zan era ancora caldo. Entrò in casa dall'ingresso di servizio. La signora Killeen, la governante, era al telefono in cucina. Riagganciò non appena lo vide, scattò in piedi e si sistemò il colletto bianco della divisa. «Pranzate a casa, avvocato Donnelly?» «Se non crea problemi.» «Preferirei essere avvertita in anticipo. Comunque, nei casi d'emergenza come questo, posso sempre mettere insieme qualcosa.» «Il fatto di tornare a casa, nella propria casa, non mi pare che si possa considerare un caso d'emergenza.» «Io ho la buona abitudine di fare un programma e di attenermici.» «Anch'io» replicò Donnelly. Era vero, fino a un'ora prima. Adesso era saltato tutto in aria, la qual cosa lo spaventava e lo rallegrava nello stesso tempo. «Vostra moglie è di sopra, nel suo salotto» l'informò la signora Killeen. «È di buon umore, tra l'altro, e perciò cercate di non guastarglielo.» «È un ordine, signora Killeen?» «Solo un buon consiglio. D'altra parte, voi avvocati siete abituati a darli, i consigli, invece che a riceverli, e quindi forse avrei fatto meglio a tenere
la bocca chiusa.» «Non sarebbe stata una cattiva idea.» La porta del salotto di Zan era aperta, ma lui bussò ugualmente, per non spaventarla. Zan, seduta al suo scrittoio, stava scrivendo una lettera. Doveva essere pronta per uscire: indossava un abito di tweed beige, quasi del colore dei suoi capelli. L'abito era largo e la faceva sembrare meno magra. Il trucco nascondeva il suo pallore. «Oh, Charles, che bella sorpresa!» «Anche per me. Hai un ottimo aspetto.» Zan aveva le mani ferme e la voce pacata. Donnelly si chiese che tipo di pillole avesse preso quel mattino, e chi fosse il medico che si era lasciato corrompere per prescrivergliele. «Sto scrivendo a mio fratello Michael, per dargli la buona notizia. Sarà senz'altro felice.» «Non lo sapevo, che avessimo buone notizie da dargli.» Zan rise. Era un suono gradevole, diverso dalla sua solita risata stridula. «Sei pronto a ricevere una grossa sorpresa, Charles? Veramente, dovrei chiederti d'indovinare, ma sarebbe una crudeltà da parte mia tenerti sulle spine.» «Credo che non ne morirei.» «Comunque, non riusciresti mai a indovinare. È una cosa meravigliosa.» «Bene, allora dimmela.» «Avremo un figlio.» Lo sbigottimento che l'assalì si dissolse quasi immediatamente, lasciando al suo posto la certezza che Zan non poteva essere incinta. Dopo tutto, aveva passato i quaranta, non godeva di buona salute e per giunta si drogava. Dunque, stava pensando di adottare un bambino. Ma anche questa ipotesi gli sembrava incredibile. Non le avrebbero mai affidato un bambino, così come non l'avrebbero affidato a lui. Ma Zan pareva così felice, e poiché sono pochi i momenti felici nella vita di chiunque, non voleva toglierle quella felicità. Preferiva aspettare finché non vi fosse stato costretto. «È proprio quello che ci occorre, Charles. Qualcosa che ci tenga uniti, che ci dia un interesse comune. Non abbiamo fatto altro che allontanarci, e un bambino ci darebbe uno scopo, e il pretesto per fare qualcosa insieme. Bisognerà pensare alla sua camera, agli abitini, al battesimo e...» «Dove andrai a prendere questo bambino, Zan?» «Ho sentito parlare di un'ostetrica, qui in città, che si occupa di queste cose.»
«Si fa pagare?» «Certo, in cambio del suo lavoro. Affida i bambini non desiderati a famiglie che gli vogliano bene. È il suo motto.» «È lì che sei andata stamattina, a parlare con questa ostetrica?» «Sì.» «Le hai dato dei soldi?» «No. Prima, vuole vedere anche te, per assicurarsi che desideri il bambino. Tu lo desideri, vero, Charles?» «Penso che dovremmo discuterne insieme, prima di prendere una decisione. Sarà bene aspettare fino al termine di questo processo. Poi ci metteremo tranquilli e ne parleremo.» «Quando terminerà il processo?» «Non lo so.» «Tra qualche settimana? O tra qualche mese?» «Può darsi.» «Ma l'ostetrica aspetta una nostra telefonata domani.» «Temo che non la riceverà, Zan. Hai aspettato vent'anni prima di prendere in considerazione l'idea di adottare un bambino, puoi aspettare ancora un po'. Nel frattempo, ti darai da fare per riacquistare la salute e l'energia che ti occorrono per affrontare la responsabilità di allevare un bambino. È un passo molto importante, e bisogna essere sicuri di non sbagliare. Occorre pensarci bene.» «Occorre pensarci bene» ripeté Zan, prendendo in mano il foglio che aveva davanti e piegandolo in più punti a forma di ventaglio. «Significa no, vero?» «Significa che dobbiamo pensarci sopra.» «Non hai il coraggio di rispondere no chiaro e tondo?» «Se è questo che vuoi sentirmi dire, allora ti accontento subito: no. Non puoi assumerti la responsabilità di un bambino, nelle tue attuali condizioni di salute.» Zan si mise a sventolare il rudimentale ventaglio che aveva ricavato dalla lettera. I suoi movimenti erano lenti, contrariamente al solito. Poiché Donnelly ignorava che tipo di pillole avesse preso, non aveva modo di sapere se quello strano comportamento di Zan significava che l'effetto stava diminuendo, oppure aumentando. Ma forse, per quanto improbabile potesse apparire, Zan non aveva preso nessuna pillola. Stavolta la sua droga poteva essere stato un bel sogno. «Io desidero un figlio» disse lei.
«Oggi. Ma domani?» La parola "domani" ottenne un effetto diverso da quello che Donnelly si era aspettato. «Domani andrò da quell'ostetrica per dirle che attualmente sei impegnato in un processo importante e che perciò non hai potuto andare da lei, ma che mi hai incaricato di assicurarle che anche tu desideri un bambino. Domani» tornò a ripetere. «Pensa, domani potrebbe esserci un bambino che aspetta di entrare nella nostra vita.» «Nella tua vita» la corresse. «Non nella mia.» «Il tuo contributo non è necessario, Charles. Non saresti comunque un buon genitore. Non hai più sentimenti di una rapa. Io avrò un mare di difetti, ma almeno una volta sono stata capace di amare, e lo farò ancora. Ci sono anni e anni d'amore arretrato compressi dentro di me.» «Come si chiama quell'ostetrica, Zan?» «Non te lo dico.» «Va bene. Può darsi che riesca a trovare il suo nome nelle pagine gialle, sotto la voce "Bambini in vendita".» «Hai intenzione di rovinarmi tutto, vero?» «Questa cosa particolare, sì.» «Perché? Mi odi tanto?» «No.» «Ogni volta che mi viene un'idea, tu me la distruggi.» «Questa non è un'idea, ma pura fantasticheria. Non so quando e come sia nata, ma so quando e come finirà. Adesso, in questo momento.» «Non è una fantasticheria. Voglio un bambino.» «In questo preciso istante, probabilmente è vero. Ma domani forse vorrai uno scimpanzé. Potrai comperartene uno, magari allo stesso prezzo.» Il primo teste della sessione pomeridiana disse di chiamarsi Alfred Elfinstone, e di essere vicedirettore dell'albergo Casa Mariana di San Diego. In principio, la sua testimonianza promise di essere insignificante quanto il suo aspetto. Era un ometto basso di statura, pulito, vestito in modo sobrio, e parlava con uno spiccato accento inglese. Aveva acquisito questo accento, lavorando a Londra in uno dei tanti alberghi della catena, e aveva fatto il possibile per conservarlo nel corso degli anni, come simbolo di civiltà in un mondo senza regole, senza buone maniere e senza sintassi. Si trovava provvisoriamente di servizio al banco della ricezione, quel pomeriggio quando la signora Pherson era arrivata. Era una donna piacen-
te, dall'aspetto dignitoso, e portava un paio di scarpe sportive, del tipo che usano le donne inglesi quando fanno una passeggiata in campagna. Un genere di scarpe che Elfinstone non aveva mai visto, ma che riusciva a immaginare molto bene, avendo letto i romanzi di Jane Austen e delle sorelle Brontë. La signora Pherson, dichiarò, gli aveva consegnato una borsa di pelle verde, con la preghiera che la mettesse in cassaforte. «Era un tipo di borsa che poteva contenere gioielli, un modello vecchio al quale era stata sostituita la serratura, o almeno così mi è parso. Più tardi, è tornata al banco e ha chiesto che le restituissi la borsa, senza spiegarmi il motivo. O almeno, se qualcosa mi ha detto, non ho capito bene.» «Che cosa non avete capito?» «Quello che ha detto.» «E cioè?» «Che intendeva fare qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua, e che certamente non avrebbe fatto mai più. Poi si è messa a ridere. Aveva una risata gradevole a sentirsi, argentina ma contenuta. Effervescente con moderazione, come uno champagne di buona marca.» «Non mi avete riferito questo particolare nel corso della nostra precedente conversazione, signor Elfinstone. Come mai?» «Mi è venuto in mente un attimo fa.» «La sua osservazione vi ha lasciato perplesso?» «Non molto. Non ho l'abitudine di prestare grande attenzione a quello che mi dice la gente. Ciò che conta, è quello che fa.» «E la signora Pherson che cosa ha fatto?» «Ha preso l'ascensore ed è salita in camera sua. Qualche minuto più tardi, è ricomparsa, ha attraversato l'atrio e ha raggiunto un tale.» «Quest'uomo è presente in aula?» «Non ne sono sicuro. Non l'ho guardato bene. Mi ha colpito invece il fatto che la borsa verde stridesse tanto con la giacca a righe bianche e blu che indossava la signora Pherson. Le donne eleganti evitano certi accostamenti di colore.» Owen, che involontariamente aveva corrugato la fronte, si sforzò di assumere un'espressione più distesa. Non gli piacevano le sorprese. In particolare, non amava questo genere di sorprese, quando un teste ricordava improvvisamente qualche particolare, mentre si trovava al banco dei testimoni, e lo spifferava senza prima consultarsi con lui. Elfinstone si stava grattando la tempia, come se stesse per tirare in ballo
qualche altra novità Cosa che fece. «Adesso che ci penso, ricordo di averle domandato che cosa intendesse fare. Mi ha risposto che non poteva dirmelo, che era un segreto, e che se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe potuto tentare di fermarla. Io no di certo, ho replicato. È mia convinzione che bisognerebbe vivere più intensamente, e afferrare le occasioni al volo. "Carpe diem", come dicevano i latini. Comunque, mentre la signora Pherson attraversava l'atrio, ho pensato che forse si sarebbe divertita anche senza i miei consigli.» «Dunque, per quanto vi risulta, la signora Pherson non aveva l'aria demoralizzata.» «Decisamente no. Anzi, pareva molto soddisfatta, felice come un'allodola. Non sono un ornitologo, ma credo che le allodole siano considerate creature felici, perché cantano in continuazione. La signora Pherson non cantava, naturalmente, trovandosi nell'atrio di un albergo, ma sembrava che cantasse dentro di sé.» «Capisco. Grazie, signor Elfinstone. Non ho altre domande.» «Siete pronto a controinterrogare il testimone, avvocato Donnelly?» «Sì, Vostro Onore.» «Allora, iniziate pure.» Donnelly prese il posto di Owen alla sbarra. «Signor Elfinstone, da quanto tempo lavorate negli alberghi?» «Da oltre vent'anni.» «In tutto questo tempo, vi sono capitati clienti che si siano suicidati?» «Purtroppo sì. Anche se evitiamo che queste cose si sappiano in giro. La gente tende a rifiutare le stanze in cui si sia verificata una tragedia.» «In tutti questi anni d'esperienza, avete notato se i potenziali suicidi si comportano tutti in modo simile?» «No.» «Alcuni apparivano visibilmente depressi, immagino?» «Sì.» «E altri sembravano di buon umore?» «Sì.» «Altri ancora davano l'impressione di essere perfettamente calmi, padroni di sé?» «Oh, sì. La calma prima della tempesta, come si suol dire.» «In altre parole, state dicendo che non è possibile individuare un poten-
ziale suicida, basandosi sul suo aspetto e sul suo comportamento?» «Se questo fosse possibile, lo dirotteremmo a un albergo della concorrenza.» Il signor Elfinstone stava riscuotendo successo, e sia lui sia il pubblico avrebbero continuato volentieri, ma Donnelly non aveva altre domande, e il giudice lo congedò. Il signor Elfinstone si allontanò, soddisfatto al pensiero di aver fatto il suo dovere senza nuocere a nessuno. Non credeva nella pena di morte. Le testimonianze di Isaac Stoltze e di Angelina Gomez occuparono tutto il pomeriggio. Stoltze era il barista in servizio quando la signora Pherson era entrata nel bar e si era seduta accanto a Cully King. Stoltze si dimostrò un testimone riluttante, se non addirittura ostile. Il denaro che gli avrebbe passato lo stato al termine del processo, non era sufficiente a rifonderlo della perdita dello stipendio di un giorno e delle spese sostenute per arrivare a Santa Felicia da San Diego. Oltre all'aspetto economico, il fatto di dover testimoniare contrastava con i suoi principi e con la sua abitudine a non immischiarsi negli affari altrui. Lui si faceva i fatti suoi e badava a fare bene il suo lavoro, e se gli altri si fossero comportati allo stesso modo, lui non si sarebbe trovato lì al banco dei testimoni, in mezzo a tanta gente che lo scrutava, come se avesse fatto qualcosa di male. Lo stato avrebbe potuto risparmiare quei soldi. Stoltze non fu in grado d'identificare né la signora Pherson attraverso le foto che gli furono mostrate, né Cully King. Non ricordava se o quanto avevano bevuto, né se fossero usciti dal bar insieme. Angelina Gomez era una giovane donna graziosa, anche se grassottella, con il faccino tondo e gli occhi nero carbone. Era la prima volta che si presentava in un tribunale per testimoniare e la prima volta che arrivava a nord di Los Angeles. Era venuta da San Diego in compagnia del signor Elfinstone, il quale l'aveva assicurata che non c'era niente da temere, e che doveva semplicemente dire la verità. Le assicurazioni di Elfinstone avevano ottenuto lo scopo di aumentare il suo nervosismo. La verità continuava a entrarle e uscirle dalla mente come un bambino smarrito, e non si fermava mai abbastanza a lungo perché lei potesse ricordarsela. La tensione nervosa l'aveva fatta crollare. Angelina aveva pianto e singhiozzato, si era asciugata le lacrime col fazzoletto del signor Elfinstone, aveva bevuto il caffè dal thermos che lui aveva portato con sé, e si era rifatta il trucco, servendosi dello specchio retrovisivo. Quando arrivò in tri-
bunale, si era ricomposta, e la verità si era stabilita definitivamente in un angolo del suo cervello. Disse al Procuratore Distrettuale che lei era la cameriera assegnata all'ala sud del quarto piano del Casa Mariana. Una volta arrivati, spiegò, i clienti si preoccupavano anzitutto di disfare completamente o in parte le valigie; poi lasciavano la stanza e scendevano a fare una passeggiata sulla spiaggia, oppure a vedere le "tienditas" del pianterreno. In questo lasso di tempo, lei doveva assicurarsi che fosse tutto in ordine, lavare i portacenere e sostituire gli asciugamani sporchi. Angelina stava appunto sbrigando i suoi compiti, quando inaspettatamente la signora Pherson era rientrata nella stanza. «Fermiamoci qui un istante» la interruppe Owen. «Voi eravate entrata durante la sua assenza?» «Sì.» «Aveva disfatto le valigie?» «Sì. Tutto era ben sistemato nei cassetti, o appeso nell'armadio. Era una donna ordinata. Non ho dovuto far altro che sostituire un paio di asciugamani usati.» «I vestiti riposti nell'armadio erano in ordine?» «Oh, sì, sembrava che fossero esposti in un negozio, bene abbottonati sulle grucce appendiabiti perché non si sgualcissero.» «Dove vi trovavate esattamente, quando è rientrata la signora Pherson?» «In bagno. Le ho domandato se dovevo andarmene e tornare più tardi, ma lei mi ha risposto di no. Mi ha detto che non aveva importanza, dal momento che stava per uscire di nuovo. Così ho finito di mettere in ordine il bagno, ho sostituito i due asciugamani, e intanto sentivo che lei parlava da sola, in camera. Almeno, credo che parlasse da sola, dal momento che non c'era nessuno lì. È come quando si è pronti per uscire, e prima di andarsene, ci si dà un'ultima occhiata allo specchio, e ci si saluta da soli. "Ehi, niente male, hai un bell'aspetto", ci si dice.» «La signora Pherson aveva l'aria di essere contenta, signora Gomez?» «Oh, sì, molto contenta. Come se avesse bevuto un paio di bicchierini.» «Avete sentito ciò che diceva?» «Per forza, non era possibile fare altrimenti. Non si può aprire e chiudere gli orecchi a piacimento, come si fa con gli occhi.» «Cosa le avete sentito dire?» «Qualcosa come: "Hai sempre desiderato di andare alle Hawaii, e adesso stai per farlo". Qualcosa di simile. Non ci ho fatto molto caso. C'è un mucchio di gente che vorrebbe andare alle Hawaii, compresa la sottoscritta.
Non ero mai stata nemmeno a Santa Felicia, prima d'oggi.» «Dunque, aveva l'aria di essere felice del viaggio che l'aspettava, non è vero?» «Sì, certo.» Owen non aveva altre domande, e Donnelly rinunciò al controinterrogatorio. La Corte si aggiornò per il fine settimana. Il venerdì sera, i due figli maggiori di Owen, Chadwick e Jonathan, ottennero il permesso di andare a vedere una partita di calcio organizzata dalla scuola. Thatcher, il minore, aveva già capito cosa c'era in serbo per lui, avendo visto il manuale degli emendamenti costituzionali sporgere dalla tasca della giacca di suo padre. Perciò si trattenne in cucina il più a lungo possibile, arrivando al punto di aiutare sua madre infilando i piatti sporchi nella lavastoviglie. «Mi sento poco bene» disse a Vee. «Ho paura che sia qualcosa di grave.» «Davvero? Cosa pensi che sia?» «Varicella.» «Non ho visto nessuna macchia.» «Ne ho una sul braccio.» «Quella non è una macchia da varicella.» «Allora, può darsi che mi sia beccato quella malattia che c'è sulle Montagne Rocciose.» «Quella malattia è provocata da un acaro, che non esiste dalle nostre parti.» «Non mi sarò preso l'endometriosi?» «Ti dispiace ripetere?» Mettere in trappola Thatcher era un gioco da ragazzi. Aveva sentito pronunciare quella parola, mentre ascoltava una conversazione tra due insegnanti anziani, e se l'era scritta sul taccuino, pensando che avrebbe potuto tornargli utile in futuro. Quel momento era arrivato. Trasse di tasca un pezzetto di carta e lesse' a voce alta la parola che vi aveva annotato. «Endo-metrio-si.» «Dev'essere una cosa seria» disse Vee. «Sì. Penso che farei meglio ad andare a letto e guardare la televisione.» «Io invece penso che pensi male. Tuo padre ti aspetta nello studio.»
«Ma mi sento debole, e stordito. E mi ballano delle cose davanti agli occhi.» «Non hai la febbre, hai un bel colorito, e a tavola ti sei servito due volte.» «Ma se avessi davvero quella malattia? Potrebbe essermi fatale.» «Non fatale quanto quello che ti accadrà, se non vai subito da tuo padre. E per tua informazione, sappi che l'endometriosi è una malattia dell'utero, e i ragazzi non hanno l'utero.» «Potrei essere un'eccezione. Non ho mai fatto radiografie.» Vee chiuse lo sportello della lavastoviglie. «Cammina, Thatcher.» «Va bene. Ma te ne pentirai, se dovessi morire.» «Tutti dobbiamo morire, Thatcher. Comunque, in questo preciso momento la tua vita è davvero in pericolo, se non ti sbrighi, e l'endometriosi non c'entra. Il fatto è che tuo padre non sopporta che lo facciano aspettare.» Vee mise in funzione la lavastoviglie, fece l'atto di asciugarsi le mani nel grembiule, scoprì che non l'aveva addosso e prese una salvietta. «Thatcher, voglio che tu mi faccia un favore.» «Cosa ci guadagno?» «Cosa ci guadagni? La soddisfazione di aver fatto contenta una persona, e l'orgoglio di aver mostrato pietà nei confronti di un altro essere umano.» «Quanto fa, in dollari?» «Uno.» «Cosa dovrei fare?» «Sii paziente con tuo padre. Sai com'è orgoglioso di te, e quanto bene ti vuole.» «Se mi vuole tanto bene, com'è che non sono andato anch'io alla partita? Se sono troppo piccolo per andare alla partita, sono troppo piccolo anche per imparare gli emendamenti.» «Insomma, Thatcher, cerca di essere ragionevole.» «Io sono ragionevole. Gli altri non lo sono.» «Un dollaro è sempre un dollaro. Prendere o lasciare.» «Va bene, affare fatto. Cosa devo fare?» «Sii gentile con tuo padre. Il caso di cui sta occupandosi è molto importante per lui, e in questo periodo lavora talmente tanto, che ha bisogno di distogliere un po' la mente dalle cose legali.» «Gli emendamenti» osservò Thatcher in tono ragionevole «non sono altro che leggi.»
«Oh, sai bene cosa intendo dire. Fai uno sforzo per impararne a memoria almeno qualcuno. Fallo per me, per favore.» «No. Lo faccio per un dollaro.» Vee gli diede un abbraccio frettoloso e un bacio sulla testa. Amava quel figlio, che somigliava tanto a suo padre, così come amava il padre che somigliava tanto a quel figlio. Nello studiolo tappezzato di libri, Oliver Owen era seduto nella poltrona di pelle rossa, davanti al camino. La pelle in realtà era vinilpelle, e il caminetto funzionava a gas, ma in compenso i libri erano veri, ed erano stati letti. Thatcher era seduto a terra, le braccia intorno alle gambe il mento appoggiato alle ginocchia. «Non saresti più comodo su una sedia, Thatcher?» «No.» Poi, pensando al dollaro: «Papà» aggiunse. «Bene, cominciamo subito. Come si chiamano i primi dieci emendamenti?» «Diritti del Cittadino.» «Bene. Vedo che te lo ricordi.» «Non ricordo bene cosa dicono, però, eccetto quello che parla delle armi, e del fatto che bisognerebbe andare tutti in giro armati.» «Non è esattamente quello che dice l'emendamento, Thatcher. Comunque, lo rivedremo dopo. Adesso diamo un'occhiata al Tredicesimo Emendamento. Come gli altri, è indicato da un numero romano, in questo caso una X seguita da tre uno. Nei numeri romani, la X è un dieci; più tre uno, quanto fa?» «Se avessi un computer come tutti i miei compagni...» «Non occorre un computer per calcolare dieci più tre, soprattutto in considerazione del fatto che ti ho già dato io la risposta, che è tredici.» «Stavo appunto per dire tredici.» «Il Tredicesimo Emendamento dice così: "Parte prima. Negli Stati Uniti, e in tutti gli altri territori che si trovano sotto la loro giurisdizione, non potrà esistere nessuna forma di schiavismo o asservimento forzato, a meno che essi non siano conseguenza e punizione di un crimine, il cui responsabile sia stato precedentemente sottoposto a giudizio e condannato. Parte seconda. Il Congresso avrà il potere di far rispettare il predetto articolo di legge, per mezzo di legislazione appropriata. 18 dicembre 1865".» Thatcher si mordicchiava il pollice. «Significa che non possiamo avere
schiavi?» «Sì.» «Perché no?» «Perché la schiavitù è ingiusta.» «Perché?» «Non fare domande stupide, Thatcher. Cerca di arrivarci da solo. Ti piacerebbe essere lo schiavo di qualcuno, dover obbedire ai suoi ordini, e lavorare senza prendere lo stipendio?» «No, ma non mi dispiacerebbe avere uno schiavo. Pensa come sarebbe bello avere uno schiavo che fa quello che dovrei fare io, che mi riordina la camera, che mi fa i compiti e che fa a cazzotti con quelli che mi sono antipatici. Caspita, non sarebbe meraviglioso?» «No, non sarebbe meraviglioso, Thatcher. Sarebbe immorale e illegale, e inoltre tu saresti incapace di fare qualsiasi cosa.» «Se è per questo, sono già incapace, dice Chadwick. Ah, quando penso a come potrebbe sistemare per le feste quell'odioso...» «Non divaghiamo. A quell'epoca, nel 1865, c'era ancora chi era favorevole allo schiavismo. E certamente alcune conseguenze del Tredicesimo Emendamento non sono state adeguatamente previste da chi l'ha redatto. Mi riferisco all'eccessiva proliferazione della razza nera negli ultimi cento anni.» «Se avessi uno schiavo, magari potrebbe andare lui a scuola al mio posto, e fare gli esami. E il venerdì sera, lui resterebbe a casa e io andrei a vedere la partita. Caspita, oh caspita, quando diventerò Presidente, rimetterò in vigore lo schiavismo.» «Taci, Thatcher.» «Perché?» «Perché tu... Perché io.. Perché te lo dico io.» «Questa non è una spiegazione.» «D'accordo, ma ti consiglio di obbedire, e subito. .» «Va bene, va bene. In ogni modo, non sono stato io a cominciare...» «Vattene via!» Thatcher sfrecciò fuori dallo studio con l'entusiasmo e la velocità di uno schiavo liberato. Con un sospiro, Oliver si rimise in tasca il manuale degli emendamenti, poi si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Quando entrò, una mezz'ora dopo, Vee lo trovò addormentato. Si chinò a baciargli la testa, così come aveva fatto con Thatcher, con lo stesso miscu-
glio di sentimenti che comprendevano orgoglio, gioia, rassegnazione. «Oliver, tesoro.» Si svegliò di soprassalto. Oliver si svegliava sempre in quel modo. Aprì gli occhi, pronto a confrontarsi con il nemico. «Cosa c'è?» «Hanno chiamato dal tuo ufficio. C'è un certo Harry Arnold che ha bisogno di parlarti. Devi telefonare al cinque-cinque-cinque-uno-otto-unootto.» «Va bene, grazie.» «È proprio necessario che ti disturbino anche il fine settimana?» «Harry Arnold è il mio testimone più importante in questo processo. Chissà cosa deve dirmi.» Ciò che doveva dire Harry era molto semplice: voleva due biglietti d'aereo per poter far ritorno alle Isole Vergini con suo figlio Richie. Era stanco di aspettare il suo turno per salire sul banco dei testimoni, era stanco di Santa Felicia, stanco del clima, della gente, del cibo. «Voglio andarmene a casa» disse Harry. «Impossibile.» «E se me ne andassi via ugualmente?» «Se ve ne andate via adesso, dopo che avete ricevuto il mandato di comparizione, la Corte vi ordinerebbe di tornare immediatamente, e per giunta vi farebbe pagare una grossa multa, o magari vi metterebbe in carcere. Il mio consiglio...» «Chi ve l'ha chiesto?» «... è di starvene qui buono buono, e di considerarla una specie di vacanza. Il rimborso spese che vi ha concesso il giudice è piuttosto generoso.» «Bella vacanza, sempre chiuso in quel lurido albergo, mentre mio figlio Richie non fa altro che ciondolare nella zona del porto. Non è il posto adatto per un ragazzo di quindici anni, è pieno di perdigiorno, di ubriachi, di spacciatori di droga. Certo, anche a casa mio figlio è sempre al porto, ma almeno lì lo conoscono tutti, e non è l'unico negro come qui.» «Vi farò testimoniare lunedì mattina. Abbiamo già discusso di tutte le domande che vi farò. Dopo che avrò finito d'interrogarvi, ci sarà il controinterrogatorio della Difesa. Poi potrei decidere d'interrogarvi di nuovo, e così pure la Difesa. Vi ho già spiegato tutto.» «E cosa succede, dopo il secondo interrogatorio?» «Può darsi che vi sia richiesto di restare a disposizione per un altro eventuale interrogatorio, più avanti.»
«Per la miseria, può darsi che debba restare qui fino a Natale.» «In un processo per omicidio, non si tiene conto di quello che hanno voglia o non hanno voglia di fare i testimoni. Potete ritenervi sfortunato per il fatto di esservi trovato in quel particolare posto in quel particolare momento, ma alla fine la riterrete una fortuna, perché avrete avuto la possibilità di aiutare la giustizia a prevalere.» «Non voglio testimoniare. Io non ho visto nessuno uccidere nessuno.» «Mi avete detto di avere udito delle grida, durante la notte. Questo significherebbe che siete stato l'ultimo a sentire la voce della signora Pherson.» «Forse non era la sua voce. Forse era la radio.» «Richie testimonierà di avere sentito la signora Pherson che gridava.» «È proprio necessario trascinare in questa faccenda un ragazzo della sua età?» «Non sono io che lo trascino, come non ho trascinato voi. Il fatto è che siete rimasti coinvolti, che lo vogliate o no.» «Comunque, può darsi che fosse la radio.» «Mi avete detto inoltre che Cully King è un forte bevitore, e che diventa violento quando beve.» «È la stessa cosa che succede a molti dei miei amici.» «Un'ora dopo aver udito quelle grida, siete salito sul ponte a controllare un cavo che si era smollato, e aveva visto Cully King gettare qualcosa fuori bordo.» «Poteva essere spazzatura.» «Cosa c'è, Harry? Finora eravate sicuro di aver sentito una voce di donna, e di avere visto Cully King buttar fuori alcuni indumenti.» «Voglio andarmene a casa. Non mi piace, qui. Non mi piace come si comporta mio figlio, non mi va che vada a zonzo con quei poco di buono, giù al porto. Ha soltanto quindici anni.» Owen pensò a suo figlio Chadwick, che aveva solo un anno meno di Richie, ma in confronto a lui era ancora un bambino. «Potete ritenervi fortunato, Harry» disse «di avere un figlio responsabile e lavoratore come Richie.» «La fortuna non c'entra. Sono stato io a tirarlo su in quel modo.» «Trovatevi nel mio studio lunedì mattina alle nove» disse Owen. «E non portate con voi Richie. Non gli è consentito di entrare in aula, se non quando toccherà a lui testimoniare. Alle nove, allora, e siate puntuale.» «Chi può obbligarmi?» «Lo stato della California.»
Seguì una lunga pausa. «Ci sarò» disse finalmente Harry, parlando a denti stretti. Dopo avere riagganciato, Harry rimise l'apparecchio sul comodino. Puntellato su due cuscini, sembrava avere un torace enorme e niente collo. Al di sotto della vita, era magro e ossuto. La sua pelle era nera, perfettamente nera. Harry sapeva arrampicarsi sull'albero dello yacht con l'agilità di una scimmia, e scenderne con la stessa facilità. Come Cully King, aveva cominciato da ragazzo ad andare per mare, ma lui non aveva l'intelligenza e la costanza di Cully, e inoltre era quasi analfabeta. Non sarebbe mai stato in grado di far funzionare i computer, che risvegliavano in lui superstizioni da lungo tempo assopite, e parlavano lingue barbare e ostili. Harry accese il televisore e si mise a guardare un vecchio film, in attesa che tornasse Richie. Il ragazzo comparve alle dieci passate. «Dove sei stato?» gli domandò Harry. «Fuori.» «Fuori dove?» «Fuori è il contrario di dentro.» «Credi di essere divertente?» «Forse no.» «Infatti. Dunque, ricominciamo daccapo. Dove sei stato?» «A zonzo.» «A zonzo dove, con chi, per quale motivo?» Richie si lasciò cadere sull'unica poltrona che c'era nella stanza. Più alto di suo padre, aveva la pelle più chiara, ma era altrettanto forte e muscoloso. Pareva che non la smettesse mai di crescere. Si tirò i pochi peli che aveva sul labbro superiore, come se stesse sistemandosi i baffi, mentre suo padre l'osservava con aria di disapprovazione. «Dovresti lavarti meglio la faccia» disse Harry. «E così, sei andato a zonzo, eh?» «Sì.» «E cos'hai fatto?» «Un po' di questo, un po' di quello.» «Cos'è questo, e cos'è quello?» «Ho giocato un po' con i videogiochi.» «E i quattrini, chi te li ha dati?» «Questo pomeriggio ho aiutato un tale a mettere in mare il suo catamarano. Poi sono andato fino in fondo al molo, per dare un'occhiata al Be-
witched. Ci sono ancora alcuni agenti a bordo. È strano, vedere lo yacht lì fermo come morto, dopo tutto il daffare che ci siamo dati a portarlo qui per la grande gara.» «Il lavoro non ha mai ucciso nessuno.» «Non mi dispiacerebbe vivere qui, se ci lasciassero a bordo.» «Torneremo presto a casa» disse Harry. «Io devo testimoniare lunedì, e quando avrò finito io, toccherà a te.» «Non ho niente da dire contro Cully. È un buon diavolo, e per me è come un padre.» «Come mai hai bisogno di due padri?» Era una gelosia di vecchia data, che ogni tanto schizzava fuori. Era come un'erba infestante. Si poteva calpestarla, tagliarla o anche strapparla, ma quella rispuntava sempre, rinvigorita da un fatto incontrovertibile: Harry e sua moglie erano molto scuri di pelle, mentre la carnagione di Richie era color rame, come quella di Cully. Harry non aveva mai esternato i suoi sospetti, ma tutti i suoi amici erano al corrente della cosa. Così pure Richie, che si compiaceva dell'idea e aspettava segretamente di ricevere conferma da Cully che era tutto vero. «Non ho bisogno di due padri» disse. «Me ne basta uno.» «E magari è anche troppo, eh?» «Non ho detto questo.» «Tu non l'hai detto, ma io l'ho sentito.» Harry scoppiò in una risata. Lo divertivano le sue battute e non gli importava se piacessero o no anche agli altri. «Vuoi vedere un po' la televisione?» domandò. Richie scosse la testa. «Perché pensano che Cully abbia ucciso quella signora?» «Per i soldi.» «Cully non ha bisogno di soldi. È felice così com'è, sullo yacht, con le donne che gli cascano ai piedi.» «Io non ne ho vista cascare nemmeno una. Qualche vecchia prostituta, magari. Ma quelle non lasciano in pace nessuno. Lo sai cos'è una prostituta?» «Certo.» «Allora, sta' alla larga da loro.» Richie emise una specie di grugnito. Ogni dialogo con suo padre finiva sempre allo stesso modo: fai questo, non fare quest'altro. Meglio riportare il discorso su Cully, che se ne infischiava, se qualcuno gli diceva di fare o
di non fare una determinata cosa. Io e Cully siamo molto simili, pensò Richie. Quando lo lasceranno libero, e torneremo alle isole, gli dirò chiaro e tondo di dirmi la verità, e cioè che è lui il mio vero padre. Chissà, forse io e lui andremo a vivere insieme, saremo una famiglia. «Se ha ucciso quella donna per i soldi» disse «come mai non ne ha?» «Un po' ne ha racimolati. Il resto, non ha ancora avuto modo di arraffarlo.» «Quale resto?» «I gioielli che c'erano nella borsa verde.» «Non pensavo che ci fossero gioielli in quella borsa. A muoverla, non mandava un rumore metallico.» «E tu come fai a saperlo?» «Ha lasciato che gliela portassi io.» «Quando?» «Una volta.» «Forse i gioielli erano avvolti nel cotone idrofilo. Ecco perché non facevano rumore.» Harry si grattò la testa. «Una volta gliela hai portata tu?» «Sì.» «Quando esattamente?» «Non mi ricordo. Una volta.» Harry sapeva che Richie mentiva, ma qualcosa gli impedì di costringerlo a sputare la verità. La verità è una cosa che a volte è meglio lasciar perdere. «Guardiamo la televisione» propose per la seconda volta. «Hai voglia? Oppure no?» «Non m'interessa.» «Va bene, scegli tu il programma.» «No, sceglilo tu.» Nessuno dei due si mosse. «Senti, ragazzo» disse finalmente Harry «l'unica cosa che ti chiedo è di non fare sciocchezze.» «Per esempio?» «Sei giovane. Puoi fare qualche piccolo errore, finché sei giovane. Aspetta a farne di grossi, finché non sarai più vecchio.» Richie si chinò in avanti, le mani sui braccioli della poltrona, come se stesse preparandosi a balzare in piedi e a scappare via. «Se hai qualcosa sulla coscienza, lasciala dov'è» riprese Harry. «Parlarne in giro sarebbe come spargere letame. Voglio dire, non raccontare niente neanche a me. Nemmeno se te lo chiedo.»
Il lunedì mattina, l'avvocato Donnelly chiese una sospensione di due giorni per motivi personali. Così Harry dovette aspettare fino al mercoledì, per poter indossare l'abito che aveva comperato in un negozio di indumenti usati per cinque dollari, insieme con la camicia da cinquanta centesimi e la cravatta con il fazzoletto abbinato, da venticinque centesimi. La giacca era stretta, e perciò la lasciò sbottonata, e i pantaloni erano troppo larghi, e così li tirò più su che poté, e li fissò con la cintura di cuoio che aveva comperato per un dollaro. «State bene, con quel vestito» gli disse Owen. «I pantaloni potete farli stringere in un secondo tempo.» «E perché? Non credo che li metterò ancora.» «Fate come volete. Quanto vi deve lo stato, per il vestito e il resto?» «Sei e settantacinque.» Owen gli consegnò la cifra esatta. «Di solito non rimborsiamo questo genere di spese, ma la vostra è una situazione particolare. Voglio che abbiate l'aria rispettabile di uno che lavora sodo.» «Io sono rispettabile, e lavoro sodo.» «Certo, naturalmente. Ma voglio che la giuria se ne renda conto alla prima occhiata. È importantissimo, data la vostra razza, che abbiate il vostro aspetto migliore.» «Se la mia faccia è scura, non posso certo schiarirla con la candeggina» replicò Harry. «Bisogna essere realistici, Harry. Diritti civili o no, i pregiudizi esistono ancora.» «Lo so bene.» «Voglio che voi, come tutti i miei testimoni, vi presentiate bene.» Harry non sapeva come si dovesse interpretare quel "presentarsi bene", ma capiva che c'era qualcosa che non andava in quella conversazione. Questo acuì il suo risentimento per i ritardi subiti, e la sua preoccupazione per Richie. Il ragazzo era troppo tranquillo. Passava ore e ore al porto, da solo, e andava a nuotare in fondo al molo. L'acqua era troppo fredda per fare il bagno, molto al di sotto dei quindici gradi, e quando Richie tornava in albergo, aveva le labbra blu, tremava tutto ed era taciturno. «Come mai c'è stato un altro ritardo?» domandò Harry a Owen. «L'avvocato della Difesa ha dovuto ricoverare sua moglie in un ospedale di Long Beach.» «Qui non ci sono ospedali?»
«Non del genere che occorreva.» «E se ci fosse un altro ritardo, e poi un altro ancora?» «Vi adeguerete, come tutti noi.» «Tutti voi non siete chiusi dentro in una lurida stanza d'albergo.» «La colpa è del vostro amico Cully» replicò Owen. «Avrebbe potuto evitarci un sacco di fastidi, a noi tutti.» Seguì un breve silenzio. Harry appariva preoccupato. «Quando sarò in aula, dove sarò seduto?» «C'è un tavolo lungo, di fronte al giudice. Cully sarà seduto in fondo al tavolo con il suo difensore, Donnelly.» Mentre aspettava che avesse inizio l'udienza, Donnelly appariva teso e preoccupato. Gunther era seduto al suo solito posto. Aveva aiutato Donnelly a portare Zan all'ospedale di Long Beach. Aveva guidato lui mentre Donnelly, seduto dietro, teneva Zan tra le braccia. Il medico le aveva fatto un'iniezione, e lei si era addormentata, con la testa sulla spalla del marito. In principio, gli era sembrata leggera come un uccellino; la sua fragilità e lo stato in cui si trovava gli avevano fatto venire le lacrime agli occhi. Ma poi, dopo chilometri e chilometri, Zan aveva cominciato a diventare sempre più pesante, come se le stessero versando del piombo fuso nelle vene, al posto del sangue. A Donnelly dolevano le braccia, e le sue lacrime si erano asciugate, col calore secco del riscaldamento. A un tratto, si era sentito di nuovo pungere gli occhi, ma stavolta piangeva per se stesso, per la sua incapacità di portare oltre quel peso. La strada finiva quasi com'era incominciata, sul sedile posteriore di un'auto. Era lo smog, disse a Gunther, era lo smog che gli faceva bruciare gli occhi. E Gunther fece un cenno affermativo con la testa, l'aria grave. Cully fu introdotto nell'aula alle dieci meno dieci. Il mattino, solitamente sembrava di buon umore, quasi allegro. Stavolta però era scuro in viso, mentre si sedeva con espressione incerta, come se non fosse sicuro che quello fosse il suo posto. Eva Foster gli sorrise, l'assistente Di Santo lo salutò con un cenno del capo, ma Cully non se ne accorse. «Ho ricevuto un biglietto dal ragazzo» disse a Donnelly. «Me l'ha consegnato stamattina un agente che va spesso a pescare giù al porto.» «Mi fa piacere.» «A me no. Quel ragazzo è pazzo.» «Fatemelo vedere.»
Il biglietto era un foglio piegato e ripiegato in modo da ottenere un piccolo rettangolo. Il messaggio doveva essere stato scritto mentre il ragazzo era in preda a una forte emozione; infatti la penna aveva forato la carta in più punti. Caro Cully, immagino che sia meglio continuare a chiamarti Cully, almeno finché non mi avrai rivelato quello che già so. Ci ho pensato tanto, non solo nelle ultime due settimane, e so che sei tu mio padre. Tu e io potremo essere una vera famiglia, quando ce ne andremo da qui. Ho qualche soldo da parte, ci farà comodo. La signora mi ha dato un biglietto da cento dollari, così non ti sarò di peso. Perciò non preoccuparti. Arrivederci. Richie. Ad Harry non dispiacerà. Non gli vado molto a genio, e neanche tu. Donnelly piegò il foglietto, mentre Cully lo guardava con ansia. «Be', cosa mi consigliate? Come devo comportarmi, adesso?» «Non dovete fare niente.» «Ma lui crede che io sia suo padre.» «È vero?» «Ve l'ho già detto quella sera in carcere, non sono suo padre. La moglie di Harry è una puttana, una che va a letto con tutti.» «Quindi, potrebbe esserci venuta anche con voi.» «Se è vero, dovevo essere troppo ubriaco per ricordarmene. In ogni modo, non ha importanza. Non voglio essere suo padre. Figuriamoci se voglio vivere con lui come se fossimo una famiglia. Né con lui, né con nessun altro. Per la miseria, solo perché sono sotto processo per omicidio, tutti si credono in diritto di avere una parte di me. Porco mondo! Anche quella tizia, quella Foster, vorrebbe che noi due mettessimo su famiglia. Poi ci siete voi con il vostro maledetto ranch, e mia moglie con quel buono a nulla di suo fratello. Come se non bastasse, quel pazzo di Pherson vuole uccidermi. E adesso ci si mette anche il ragazzo. Siete tutti lì con il coltello in mano, pronti a tagliarmi a fette come una torta.» «Abbassate la voce» l'ammonì Donnelly. «Non voglio essere il marito di nessuno» riprese Cully «né il padre, né l'amante, né il capro espiatorio. Siete tutti malati, con la vostra mania di
saltarmi addosso come cannibali. Ecco cosa siete, cannibali! Preferisco entrare nella camera a gas, piuttosto che essere mangiato vivo da un branco di cannibali.» «Può darsi che non abbiate scelta» osservò Donnelly. «Dipenderà molto da Harry.» Harry si dimostrò un teste migliore di quello che Owen aveva pensato. Aveva l'aria grave e rispettosa. L'aula, con il suo soffitto a volta e con i suoi lampadari di cristallo, l'intimidiva. Per lui, era un po' come essere in chiesa, e Dio stesso, vestito di nero, sedeva maestoso sul suo trono. Harry dichiarò di avere conosciuto la signora Pherson, quand'era salita a bordo del Bewitched in compagnia di Cully. La giuria, che aveva già sentito tutta la storia, in un modo o nell'altro, parve annoiata, finché Harry non arrivò al punto in cui aveva sentito gridare una donna, nel cuor della notte. Owen gli domandò se quella donna fosse la signora Pherson. «Doveva essere lei» rispose Harry. «Era l'unica donna a bordo.» «Di che natura erano quelle grida?» «Di che natura?» «Voglio dire, gridava parole comprensibili?» «No. Erano grida e basta.» «Quanto sono durate? Uno, due minuti?» «Non così tanto. Dieci secondi, forse anche meno.» «Non vi è venuto in mente di andare a vedere cosa stesse succedendo?» «Ci ho pensato.» «Ma non siete andato?» «No.» «Perché?» «Ho pensato che, se lei e Cully stavano spassandosela, Cully sarebbe andato in bestia, vedendomi arrivare. Cully ha un pessimo carattere, quando alza un po' troppo il gomito.» Donnelly sollevò obiezione, il giudice gli diede ragione, e l'ultima frase di Harry fu cancellata dal verbale. «Avete udito ancora la voce della signora Pherson?» continuò Owen. «No.» «Perciò, pensavate che andasse tutto bene?» «Sì, signore, fino a quando sono andato a controllare un cavo che si era smollato.» «Cos'è accaduto a quel punto?»
«Ho visto Cully buttare qualcosa fuori bordo.» «Di cosa si trattava?» «Sembravano indumenti.» «Maschili o femminili?» «Non lo so. Me la sono svignata, prima che Cully potesse vedermi.» «Quell'uomo, Cully King, vi faceva paura?» «Non ho mai avuto paura di nessuno» rispose Harry. «Ma in barca, il capitano è il padrone. Non si può fargli domande, né accusarlo di qualcosa, almeno se non dopo essere arrivati a terra. A terra, sei solo tu e lui. Nessuno è il capo, nessuno comanda.» «Che ora pensate che fosse, quando l'avete visto gettare quegli indumenti a mare?» «Circa le quattro del mattino. Cully era a poppa.» «Come mai avete potuto vederlo?» «Era una notte calma e serena, con un quarto di luna, e avevamo tutte le luci accese, perché stavamo percorrendo una rotta molta battuta, e non volevamo andare a sbattere contro una petroliera. Ecco perché l'ho visto mentre buttava a mare quella roba.» «L'ha gettata in mare così com'era, o dentro in un contenitore?» «Non ricordo di aver visto nessun contenitore. Però, è successo tutto così in fretta. Procedevamo alla velocità di dieci nodi. C'è scritto nel diario di bordo. L'abbiamo esaminato insieme, voi e io. Alla velocità di dieci nodi, se si getta qualcosa a mare, resta subito indietro, e questo capita anche con le persone, quando si buttano. Nel mio mestiere, finora non mi è mai capitato di perdere nessuno.» Owen consultò i suoi appunti. «Ditemi una cosa, signor Arnold. È compito del capitano sbarazzarsi dei rifiuti di bordo?» «No, signore. Sul Bewitched, era un incarico che aveva Richie, mio figlio.» «Dunque, è strano che il signor Cully abbia potuto farlo, soprattutto nel cuore della notte. Non è così?» «Certo, signore.» «Com'era vestito Cully, quando ha buttato quella roba a mare?» «Non aveva niente addosso.» «Era nudo?» «Sì, signore.» «Quanti gradi c'erano, alle quattro del mattino?» «È scritto nel diario. L'ho annotato io personalmente. C'erano sette gra-
di.» «Con una temperatura così bassa, un uomo nudo non sentirebbe freddo?» «Obiezione» protestò Donnelly, senza alzarsi e senza neanche sollevare lo sguardo dai suoi appunti. «Alla domanda si può rispondere solo esprimendo un'opinione personale e pertanto...» «Obiezione accolta» concesse il giudice. «Ma francamente, avvocato Donnelly, la risposta era talmente ovvia, che non valeva la pena di sollevare obiezione. Ci state facendo solo perdere tempo inutilmente.» Harry non aveva capito se dovesse rispondere oppure no. «Forse non sentirebbe il freddo, se fosse un eschimese» replicò. Tra il pubblico, qualcuno scoppiò in una risata, e il giudice batté il martello. «Il teste si astenga dal fare osservazioni e si limiti a rispondere alle domande. Procedete, avvocato Owen.» «Siete sicuro che fosse nudo, signor Arnold?» «Sì, signore. E lo strano è che se fosse nero come me» lanciò a Cully un'occhiata piena di rimprovero «se fosse nero come me» ripeté «forse non l'avrei visto. Ma alla luce dello yacht e a quella della luna, luccicava come rame.» Stavolta il pubblicò reagì con qualche risatina soffocata, immaginando la scena evocata da Harry, dell'uomo nudo sul ponte dello yacht, con la pelle color rame illuminata dalla luna. Ma il giudice rimase perfettamente serio. «Siete già stato invitato, signor Arnold, a non fare osservazioni di questo genere.» «Sto solo dicendo la verità.» «Questa Corte non è attrezzata, né per ragioni di tempo né per ragioni di spazio, ad ascoltare tutte le verità del mondo. Continuate, prego, avvocato Owen.» «Vi porrò una domanda ipotetica, signor Arnold» riprese il Procuratore Distrettuale. «Se foste sorpreso nudo in un incendio, vi fermereste a vestirvi, prima di scappare?» «No.» «Non perdereste tempo, vero?» «No, signore. Preferirei soffrire il freddo che lasciarci le penne.» «Dunque, non vi preoccupereste d'altro che di sopravvivere?» «Certo.» «Non pensate che Cully King potesse avere lo stesso genere di preoccupazione? No, cancellate la domanda. Ditemi, avete lavorato a bordo di di-
versi yacht, signor Arnold?» «Sì, signore.» «Avete fatto traversate lunghe o corte?» «Di tutti i tipi.» «Vi è capitato spesso di vedere persone aggirarsi nude per il ponte, di notte, con una temperatura di sette gradi?» «No.» «Non avete mai visto nessuno?» «No, signore. Nessuno, mai. Vero è che ne ho viste di tutti i colori, in certe notti calde dei Caraibi...» Stavolta il martelletto del giudice si fece sentire prima che il pubblico avesse il tempo di reagire. Fu fissata una pausa di quindici minuti. Nell'aula rimase pochissima gente, a parte Eva Foster, Cully e l'assistente Di Santo. Di Santo si sentiva in forma. Era riuscito a convincere sua moglie che aveva perso tre chili, e come premio gli era stata promessa una bistecca. Era riuscito a perdere tre chili, usando un trucco che gli aveva insegnato un collega: era bastato trasferire la bilancia dal pavimento piastrellato del bagno alla morbida moquette della camera da letto. L'imbroglio aveva avuto un risultato inaspettato: mentre dimostrava a sua moglie di essere dimagrito, aveva finito per autoconvincersene. Si sentiva un po' più leggero, e la pancia gli pareva meno gonfia. Così era convinto di essersi davvero guadagnato la bistecca in premio. Eva lo raggiunse vicino alla brocca dell'acqua. «Dovrei bere otto bicchieri di questa roba al giorno» le disse. «Aiuta a far calare l'appetito. Non noti niente di diverso in me?» «Sei dimagrito.» «Ah, te ne sei accorta?» «No. Ma era questo che volevi sentirmi dire, e così te l'ho detto. Zeke, me lo fai un favore? Vorrei parlare con Cully, da sola.» «Perché?» «Ha bisogno di essere tirato un po' su di morale.» «È un altro dei doveri del cancelliere, quello di tirare su di morale gli imputati?» «No, questo esula dai miei compiti.» «Se non ti conoscessi come ti conosco, penserei che stai cominciando a considerare gli uomini nella giusta prospettiva. Certo che quel Cully è pro-
prio un bell'uomo.» «Davvero? Non l'avevo notato.» «Va bene, sono fuori in corridoio, in caso avessi bisogno.» «Perché dovrei averne?» «Senti, questo non è un ragazzo, e non è stato arrestato per una cosetta da niente. Questo è un assassino.» «Solo perché è stato arrestato, tutti pensano che sia colpevole.» «Abbiamo motivo di pensare che sia colpevole, più di quanto ne abbia tu di ritenerlo innocente.» «Sono sicura della sua innocenza.» «Allora, vallo a dire al giudice.» Cully non aveva sentito niente di tutto questo. Se ne stava seduto a testa bassa, con le spalle curve. Eva si sedette accanto a lui, al posto di Donnelly, e Cully non voltò nemmeno la testa dalla sua parte. «Signor King? Cully?» «Credevo che Harry fosse mio amico. E adesso vuole spedirmi nella camera a gas. Certo, sapevo che era un po' geloso, perché pensava che ci fosse stato qualcosa tra me e sua moglie. Ma non è vero niente. Potrei giurarlo.» «Vedrete che l'avvocato Donnelly sistemerà tutto, durante il controinterrogatorio.» «Io non l'ho sentita gridare. Era con me nella cabina, io dormivo. Ma mi sarei svegliato, se lei avesse strillato.» «Che cosa avete buttato a mare?» «Delle vecchie coperte di cui avevo intenzione di sbarazzarmi da un pezzo. Il signor Belasco ci tiene a vedere tutto perfettamente in ordine.» «Perché eravate nudo?» «Ve l'ho detto, ero a letto.» «E lei dov'era?» «Non lo so. Tutto quello che so è che, quando mi sono svegliato, lei non c'era.» «Ma era lì, prima che vi addormentaste?» «Sì.» «Allora, quello di assumerla come cuoca era soltanto un pretesto?» «No. Solo che la cosa non è andata in porto.» «Per forza! Avevate altri progetti in mente.» «Sentite, è impossibile spiegare a una donna come voi che a volte capita di prendere decisioni che al momento sembrano giuste, ma che poi si rive-
lano insensate.» «Davvero?» Eva aveva al polso un braccialetto d'oro di linea semplicissima come una fede matrimoniale, e continuava ad aprirne e chiuderne il fermaglio, producendo un rumore che sembrava quello di un interruttore della luce. «Dipende tutto dal punto di vista del momento» le spiegò Cully. «Ma il punto di vista può cambiare.» «A me non succede mai.» Il tono in cui pronunciò la frase indusse Cully a guardarla. «Volete sentire il mio punto di vista, Cully?» «Non credo.» «Ve lo dirò ugualmente, perché non sarebbe giusto né nei vostri confronti né nei miei, se non lo facessi. Siamo in un posto terribile, e in un momento terribile, ma forse non mi capiterà un'altra occasione. E penso che potrebbe rendervi più sopportabile il processo sapere che qualcuno vi ama e crede in voi.» Cully non si aspettava una simile dichiarazione, in quel momento. «Smettetela di giocherellare con il braccialetto» disse. «Cosa?» «Smettetela di aprire e chiudere il fermaglio del braccialetto.» «Il braccialetto» ripeté Eva, soprappensiero. «Voi parlate del braccialetto, mentre vi sto dicendo che vi amo. È una crudeltà.» «Non m'interessa il vostro amore, né quello di nessun altro. Sono un marinaio, e non voglio corde intorno al collo.» «Un marinaio» ripeté di nuovo Eva. «Non è possibile che parliate sul serio.» «Però è vero.» «Secondo me, parlate e vi comportate in questo modo per scoraggiarmi, per evitare che debba soffrire, in caso dovessero condannarvi. Be', sappiate che non attacca, Cully. Niente può fermare il mio amore. La mente può cambiare, ma il cuore no. Scommetto...» Eva s'interruppe un istante, prese fiato. «Scommetto che provate per me lo stesso sentimento che io provo per voi.» «Merda» disse Cully. Harry Arnold tornò al banco dei testimoni alle undici e venti. Stavolta sembrava a suo agio, come se non si sentisse più intimidito dalla grandiosità dell'aula, dalla presenza di Dio in toga nera e dai dodici apostoli che
componevano la giuria. Ora, era diventata un'aula normale, con dentro gente assolutamente normale. Owen gli domandò quando il Bewitched fosse arrivato al porto di Santa Felicia. «Il mattino successivo.» «Dove avete attraccato, voi e Cully?» «In fondo, al molo cinque. Solo che abbiamo dovuto arrangiarci Richie e io ad attraccare.» «Avete visto il signor King, quel mattino?» «Sì.» «Gli avete parlato?» «Sì.» «Che cosa vi ha detto?» «Che andava subito a terra perché aveva mal di denti e voleva farsi vedere da un dentista. Gli ho domandato se voleva far colazione, e lui mi ha risposto di no, che il dente gli faceva troppo male.» «Nel corso di questa conversazione, il signor King ha fatto niente di strano?» «Sì.» «Cioè?» «Si premeva un fazzoletto piegato sulla guancia sinistra, tenendolo con la mano sinistra.» «Avete creduto alla storia del mal di denti?» «Al momento sì. Cully è un tipo strambo. Magari, se avesse un braccio rotto, non si lamenterebbe. Ma una piccola cosa come un raffreddore o un mal di denti, lo butta a terra.» «Obiezione» disse Donnelly. «Il teste sta facendo un'analisi del carattere che non gli è stata richiesta, e che comunque è irrilevante.» «Obiezione accolta» concesse il giudice. «Per favore, signor Arnold, limitatevi a rispondere alle domande.» «Sì, signore. Bene, signore.» Owen si sforzò inutilmente di nascondere il nervosismo. Inutili interruzioni come questa facevano parte della strategia di Donnelly, una tattica che mirava a irritarlo. La stessa che a volte usavano i suoi figli, allo stesso scopo e con il medesimo risultato. Infatti, era contrariato. «Dopo che il signor King è sbarcato a terra, voi cos'avete fatto, signor Arnold?» «Ho preparato la colazione per me e per Richie.»
«Avete visto la signora Pherson?» «No. Ho pensato che avrebbe dormito fino a tardi, e che poi si sarebbe fatta vedere.» «Cos'avete fatto, dopo colazione?» «Ho riordinato la cambusa e poi, con l'aiuto di Richie, ho cominciato a pulire dappertutto, accertandomi che ogni cosa fosse al suo posto, come vuole il signor Belasco.» «Quando pulite lo yacht, pulite anche la cabina del capitano?» «Sì.» «In quali condizioni era la cabina?» «Perfettamente in ordine.» «La signora Pherson c'era?» «No.» «C'erano tracce della sua presenza a bordo?» «No, nessuna.» «Niente rossetto sul cuscino, niente pettine, niente spazzola?» «No.» «Asciugamani bagnati, o oggetti da toeletta?» «No.» «Avete controllato nel cestino dei rifiuti?» «Fa parte del mio lavoro svuotare i cestini dei rifiuti» rispose Harry. «Solo che lì non c'era niente da vuotare.» «Neanche un fazzoletto di carta?» «No, neanche quello.» «Avete controllato la cesta della biancheria?» «Sì, signore, ma non c'era niente nemmeno lì. Mi ha un po' meravigliato il fatto di non trovare né asciugamani usati né altro, e le lenzuola pulite. Pareva quasi che non fosse successo niente, che quella donna non fosse mai venuta a bordo. Ma ero sicuro che c'era venuta. Ricordo bene la giacca a righe bianche e blu, perché una delle nostre vele ha le strisce dello stesso colore. Per questo mi è rimasta in mente.» «L'avete più vista?» «No, signore. È come scomparsa nell'aria. Se non fosse stato per quella giacca, avrei pensato di averla solo sognata.» «A vostro parere, signor Arnold, la cabina era stata riordinata di proposito, per farvi credere che non avesse ospitato nessuno?» «Obiezione» intervenne Donnelly. «L'accusa chiede al teste di formulare un'opinione personale.»
«Obiezione accolta.» «Rifarò la domanda ponendola in altri termini» disse Owen. «La cabina dava l'impressione che non vi avesse dormito nessuno?» «Proprio così, signore. Esattamente.» «Dunque, qualcuno l'aveva riordinata?» «Sì.» «Chi poteva essere stato?» «Soltanto Cully King. C'era solo lui a bordo, oltre a Richie e a me.» Per il controinterrogatorio di Donnelly occorse tutto il resto della settimana. Pressato dalle sue domande, Harry fu costretto ad ammettere che forse le grida provenivano da una radio. Altre ombre velarono la sua precedente testimonianza a proposito degli indumenti che King aveva buttato a mare. «Che genere d'indumenti?» domandò Donnelly. «Non lo so.» «Camicia? Giacca? Pantaloni?» «Non saprei dire di che cosa si trattava esattamente.» «Non avete individuato nessun particolare capo d'abbigliamento?» «No.» «Allora, come fate a dire che si trattava d'indumenti?» «Ho visto quello che ho visto.» «Se siete tanto sicuro che fossero indumenti, come mai non riuscite a nominarne neanche uno?» Harry guardò un istante i suoi stessi indumenti. «Una camicia» disse. «Ho visto una camicia.» «Che tipo di camicia?» «Non l'ho vista abbastanza bene da potervela descrivere.» «Di che colore era?» «La Difesa sta mettendo deliberatamente il teste in difficoltà» protestò Owen. «La scena è durata solo pochi secondi. È normale che il signor Arnold non sia in grado di descrivercela fin nei minimi particolari.» «Il signor Arnold sostiene di aver visto una camicia» puntualizzò Donnelly. «Sto cercando di stabilire come ha fatto a trarre una simile conclusione.» Harry spostava in continuazione lo sguardo da un avvocato all'altro; poi finalmente si soffermò a guardare il giudice. «Ho visto alcuni indumenti. Forse non era una camicia, ma erano indumenti. E quanto a quelle grida, non provenivano da una radio. Quando Cully porta una donna a bordo, non
è per farle ascoltare la radio.» Tutti risero. Donnelly avrebbe potuto sollevare obiezione, e il giudice avrebbe fatto togliere dagli atti l'ultima affermazione di Harry. Ma Donnelly sapeva che la giuria non avrebbe dimenticato, e decise perciò di volgere la situazione a suo favore. «State insinuando, signor Arnold, che le grida da voi udite potessero avere un'origine, per così dire, erotica?» «Non mi stupirebbe.» «Dunque, la risposta è sì?» «Diciamo, piuttosto, forse.» Donnelly attese che il pubblico la smettesse di ridacchiare, prima di affrontare un altro argomento. «Avete dichiarato, signor Arnold, di avere parlato con Cully King dopo che il Bewitched è giunto in porto?» «Sì.» «E lui vi ha detto che scendeva a terra per farsi curare un dente che gli doleva?» «Sì.» «E si premeva un fazzoletto sulla guancia sinistra, tenendolo con la mano sinistra?» «Sì.» «Avete notato cos'aveva nella mano destra?» «Non l'ho notato.» «La borsa dei gioielli in questione è piuttosto ingombrante, non è vero?» «Sì.» «Voi l'avete vista, vero?» «Sì, quando lei è salita a bordo.» «È possibile che Cully King avesse in mano un oggetto di quelle dimensioni, senza che voi l'abbiate notato?» «È improbabile.» «Non sarebbe il caso di dire impossibile, signor Arnold?» Non vi fu risposta. «A questo punto, Vostro Onore, vorrei addurre come reperto un registratore.» Il nastro lo produsse Eva, e il registratore fu portato dentro dall'assistente Di Santo, che lo depose sul tavolo degli avvocati. «Voglio che ascoltiate attentamente, signor Arnold, e che poi mi diciate se riconoscete questi suoni.»
Il registratore fu messo in funzione. Il suono era quello prodotto da un motore diesel 671 GMC, che dava la potenza necessaria a raggiungere la velocità di dieci nodi. Il nastro era stato inciso da Gunther a bordo di uno yacht, alla presenza di due agenti di polizia. Nell'aula si diffuse un rumore forte, punteggiato di vibrazioni sonore. «Riconoscete questo suono, signor Arnold?» «È un diesel. Sei cilindri, forse otto.» «È un rumore simile a quello prodotto dal motore del Bewitched?» «Sì.» «Che tipo di motore ha il Bewitched?» «671 GMC. Sei cilindri.» Donnelly spense per un attimo il registratore. «Non abbiamo ancora precisato in che zona dello yacht vi trovavate quando avete udito quelle grida.» «Ero nel vano motore con mio figlio Richie. A lui piace armeggiare con i motori, come a molti giovani.» «Vi dispiace venire qui un momento a sistemare il volume, in modo che la giuria possa farsi un'idea dell'intensità del rumore che sentivate?» Harry alzò il volume, e il rumore si fece più forte, tanto che una donna che faceva parte della giuria si tappò le orecchie. Donnelly spense il registratore e riprese il controinterrogatorio. «Ditemi, signor Arnold, il vano motore del Bewitched ha qualche caratteristica speciale?» «Tutto è speciale, sul Bewitched.» «Mi riferisco in particolare ai lavori eseguiti per attutire il rumore del motore.» «Il vano motore è insonorizzato.» «Per evitare che chi sta sul ponte sia infastidito dal rombo del motore?» «Sì, signore.» «Questo non potrebbe significare che, anche chi si trova nel vano motore, non sente bene i rumori provenienti dal ponte?» Harry non rispose. «Mi avete sentito, signor Arnold? L'insonorizzazione funziona tanto per chi si trova all'interno, quanto per chi si trova fuori. Non è così?» «Ho visto quello che ho visto» si ostinò Harry. «E ho sentito quello che ho sentito. Con me c'era mio figlio Richie. Domandatelo a lui.» «Lo farò, non appena ne avrò l'opportunità.»
L'opportunità non si presentò che il mercoledì successivo. I primi due giorni della settimana, l'udienza fu sospesa per consentire al giudice di presiedere a un altro processo breve, che aveva luogo nella parte settentrionale della contea. Il mercoledì mattina, Richie fece la sua prima apparizione in tribunale. Dietro insistenza del padre, si era fatto tagliare i capelli molto corti, e indossava un pullover con le maniche lunghe che gli aveva comperato il padre, invece della maglietta che portava abitualmente. Appariva contrariato, a disagio, e parlava a voce tanto bassa, che la stenografa dovette chiedergli più di una volta di ripetere. Disse di avere quindici anni, e di avere lasciato la scuola per imbarcarsi sul Bewitched perché l'idea l'attirava e anche perché, secondo suo padre, sarebbe stata un'esperienza utile, quella di portare un'imbarcazione attraverso il Canale e lungo la costa occidentale. Parlando, Richie teneva quasi sempre gli occhi bassi. Fu solo quando gli domandarono della sera in cui era comparsa la signora Pherson, che il ragazzo guardò Cully apertamente, come a chiedergli il permesso di rispondere. Cully voltò la testa dall'altra parte. «Capisci bene il significato del giuramento che hai prestato qualche minuto fa, Richie?» gli domandò Owen. «Significa che devo dire la verità.» «E se non dici la verità?» «Significa che sto mentendo.» Il pubblico era facile alle risate, come i devoti lo sono in chiesa. Sentir ridere in tribunale irritava Owen, che si sentiva preso in giro. «Certo che significa mentire» disse. «In termine legale, si definisce giurare il falso, ed è un reato perseguibile. Ora, tu non vuoi commettere un reato, vero?» Owen capì dall'espressione del ragazzo di aver sbagliato tattica. Un inizio del genere poteva funzionare con i suoi figli, non con Richie. Richie non era un ragazzo, ma un uomo che faceva un lavoro da uomo, e aveva le stesse responsabilità. Il suo ambiente di lavoro era il vano motore di uno yacht da un milione di dollari. «Volevo solo farti capire» riprese «che il compito di un testimone che depone nel pubblico interesse, è un compito molto serio.» «Io non depongo nel pubblico interesse» tenne a precisare Richie. «Sullo yacht c'eravamo solo io e Harry.» «Ti riferisci alle prime ore di quel mattino, diciamo tra la mezzanotte e
l'alba?» «Sì.» «Ti trovavi nel vano motore con tuo padre?» «Sì.» «Raccontaci esattamente cos'è accaduto.» «Mi sembrava che il motore facesse un rumore strano, di tanto in tanto, e perciò ho chiamato Harry, e ci siamo messi in ascolto. "Ehi, hai sentito?" mi ha domandato Harry a un tratto, e io gli ho risposto che il motore non aveva fatto nessun rumore strano, in quel momento. Lui mi ha detto che aveva sentito una donna gridare. Gli ho confermato che non avevo sentito niente. "Voi giovani diventate tutti sordi" ha detto lui "a forza di ascoltare la musica a tutto volume." Poi le ho sentite anch'io.» «Grida di donna?» «Sì, credo di sì. Mi pare che fossero grida.» «Tuo padre voleva andare a vedere che cosa stesse succedendo?» «Sì, voleva andarci, ma aveva paura che Cully si sarebbe arrabbiato, se lui e la signora stavano facendo i loro comodi.» «In seguito cos'è accaduto?» «Harry ha detto che secondo lui il motore era a posto, e mi ha rispedito a letto.» «Ti sei addormentato subito?» «Sì.» «Non ho altre domande.» Il controinterrogatorio di Donnelly fu breve. L'avvocato della Difesa, a differenza di Owen, non commise l'errore di sottovalutare il ragazzo. «Hai dichiarato poco fa di aver udito delle grida. È esatto?» «Sì.» «Le hai udite prima che tuo padre richiamasse la tua attenzione su di esse?» «No.» «Sei un po' sordo, Richie?» «No.» «Ascolti la musica tenendo alto il volume?» «Sì, come tutti gli altri. Però non sono sordo.» «È possibile, Richie, che tu abbia ammesso di sentire quelle grida solo per dimostrare a tuo padre che non sei sordo, benché ascolti la musica a tutto volume?»
Owen si alzò per sollevare obiezione, ma prima che il giudice si pronunciasse, Donnelly ritirò la domanda. «Mentre ascoltavate il rumore del motore, tuo padre ha attirato la tua attenzione su un altro rumore, chiedendoti se lo sentivi?» «Sì.» «Che cosa gli hai risposto?» «In principio gli ho risposto di no, e lui mi ha detto che noi ragazzi siamo matti, a perdere l'udito per colpa della musica rock che ascoltiamo in continuazione.» «Questa sua osservazione ti ha dato fastidio?» «Sì, perché non era vero niente.» «E ci tenevi a dimostrarglielo?» «Mi sta sempre addosso, con questa storia.» «È per questo motivo che gli hai dato ragione, perché la piantasse con quella storia della sordità?» Per un minuto buono, Richie rimase muto, gli occhi fissi su Cully, con un'espressione che era un misto di stupore e di preghiera. Donnelly ebbe l'impressione che la risposta del ragazzo sarebbe dipesa dalla reazione di Cully. Ma Cully rimase impassibile, come se non avesse capito, come se volesse evitare d'influenzare il teste. «Hai sentito la domanda, Richie?» «Sì.» «E qual è la tua risposta?» «Ho sentito grida di donna» rispose Richie. «Prima, non ne sembravi tanto sicuro. Come mai adesso lo sei?» «Non lo so. Sono sicuro e basta. La donna gridava.» «Se uno dice una cosa un momento, e l'opposto un minuto dopo, non è forse lecito desumere che non sia sicuro di quello che dice? Hai detto "credo", hai detto "non lo so", hai detto "forse". E adesso, tutt'a un tratto, ne sei sicuro. Significa che ne sei sicuro adesso, e che tra un attimo potresti non esserlo più?» Owen scattò in piedi. «La Difesa sta mettendo in difficoltà il teste.» «È il teste che sta mettendo in difficoltà la Difesa» replicò Donnelly, asciutto. «Non ho altre domande.» All'ora di pranzo, il giudice Hazeltine andò giù al porto. Lasciò la sua vecchia auto accostata al marciapiede, sul viale, per risparmiare i cinquanta centesimi all'ora del posteggio vicino al molo. La sua non era avarizia,
ma una questione di principio: era una forma di discriminazione che non riusciva ad accettare. Inoltre, dal punto di vista economico, non dava i frutti sperati. L'incasso del posteggio, che doveva essere utilizzato per apportare migliorie nella zona del porto, sembrava sciogliersi come neve al sole. Di migliorie non se n'erano viste, e l'acqua era piena di rifiuti. Il giudice si tolse la giacca e cravatta e si rimboccò le maniche, poi s'infilò un paio di scarpe macchiate di catrame e si mise un berretto in testa, e infine fissò le lenti da sole agli occhiali normali. Fatto questo, prese dal cassetto il suo pranzo, che consisteva in un panino con la mortadella e un uovo sodo, e lo mise in una tasca dei pantaloni. Il panino, ma soprattutto l'uovo, producevano uno strano rigonfiamento nel tessuto. Così travestito, il giudice s'incamminò verso la banchina. Passò davanti allo Yacht Club, e riconobbe due avvocati seduti a un tavolino, sulla terrazza. Oltrepassò la fila di panchine di cemento, occupate da gente che consumava lì il pranzo a base di panini, hamburger e pesce con patatine fritte. Era iniziata la bassa marea, e l'asfalto era bagnato e sdrucciolevole. Arrivato in fondo, il giudice si sedette su uno dei grossi massi che formavano la base del faro. La sirena del faro taceva, e la luce rotante era accesa, ma appena visibile sotto il sole. Era una tipica giornata autunnale, chiara e frizzante, fresca all'ombra, calda al sole. Un vecchio intento a pescare, su un masso vicino, adocchiò il berretto da baseball del giudice, con la scritta "Giants", il nome di una squadra locale, e scosse la testa con aria di disapprovazione. «Sapete cose farei io, se fossi il manager dei Giants?» domandò. «Li metterei a vendere gli hamburger.» «Mi pare un'idea piuttosto bizzarra.» «Avrebbero dovuto pensarci prima. Dieci a uno che non sarebbero capaci di fare neppure quello: farebbero cadere il pane, oppure la carne.» Il vecchio parlava con il tono amaro dell'amante deluso. Il giudice, ammonendosi che non c'era molto da dire per consolare un amante deluso, cominciò a sgusciare il suo uovo sodo, e se lo mangiò insieme con la mortadella che prese dal panino. Il pane lo buttò ai gabbiani, dopo averlo sbriciolato. Gli uccelli afferravano ogni briciola al volo, con grazia e rapidità. Questo non fece altro che accrescere l'amarezza del vecchio. «I Giants dovrebbero venire qui a prendere lezione» disse. «Molto dipende dal lancio, non vi pare?» replicò il giudice. «Modestia a parte, io lancio piuttosto bene.» «No, i gabbiani riescono a prendere tutto.»
«In compenso, non sanno tirare.» «Ce la farebbero, se avessero la possibilità di tenere la mazza.» Il giudice appoggiò la schiena al masso e ci pensò sopra. Era una bella idea, quella dei gabbiani con piccole mazze sotto le ali, e nel cielo una partita interminabile di baseball. Rinfrancato dal cibo e da quelle fantasticherie, si preparò a tornare alla sua auto. Stava aprendo il portabagagli, quando la sua attenzione fu attratta da una donna che veniva verso di lui dal parcheggio. Non la riconobbe, se non quando fu a pochi passi di distanza. In aula, assorbiva forse un po' dell'austerità dell'ambiente, e i suoi modi intimidivano gli agenti, gli avvocati e a volte persino lo stesso giudice. Qui, sullo sfondo dei pescherecci di Monterey e delle baleniere di Boston, in mezzo a gente che faceva jogging, che si divertiva con lo skate-board e che andava in bicicletta, sembrava fuori posto, quasi irreale. «Vi ho seguito» disse Eva. «Oh, povero me!» Il giudice appariva perplesso. «Per quale motivo?» «Volevo parlarvi.» «Siete libera di venire nel mio ufficio quando volete, a discutere della procedura.» «Non è della procedura che volevo parlarvi, ma di me.» «Ho notato che ultimamente vi siete comportato in modo strano. Pensavo che potesse dipendere dal plenilunio.» «Non crederete alla storia della luna piena, spero?» «La luna piena c'è una volta al mese. Non posso fare a meno di crederci.» «Mi riferivo a tutte quelle storie sugli animali che diventano inquieti, e sugli uomini che si comportano in modo irrazionale.» Il giudice pensò alla risposta da darle, mentre terminava di cambiarsi. «Una volta, avevo un cane da caccia, da caccia ai procioni. Ululava, quando c'era la luna piena. Non che la cosa avesse un significato particolare, dal momento che ululava anche al quarto di luna, al suono delle sirene, ai camion della spazzatura, ai treni di passaggio e ai clacson delle automobili. Ululava anche a mia moglie, finché un giorno lei gli ha risposto ululandogli contro. Un confronto interessante, e l'ha vinto lei. Ci sapeva fare, con gli animali.» Il giudice chiuse il portabagagli con un colpo secco. Ricordava bene la sua ultima conversazione privata con la signorina Foster. Avevano parlato di reggiseni, e della mancanza di tale indumento. Decise perciò di restare il
più a lungo possibile sull'argomento relativamente sicuro dei cani da caccia. «Avete mai posseduto un cane per la caccia ai procioni, signorina Foster?» «Non mi pare.» «Se ne aveste avuto uno, lo sapreste per certo, se non altro per i reclami dei vicini. È una razza particolare. Credo che il mio non abbia mai visto un procione in vita sua. Forse è per questo che faceva tanto baccano, perché si sentiva frustrato. Voi cosa fate quando vi sentite frustrata, signorina Foster?» «Io non ululo» rispose Eva, secca. «Peccato! Non mi dispiacerebbe sentire ancora quel suono primordiale. Ho fatto uno studio personale sui suoni primordiali. Tra gli uccelli, per esempio, il richiamo del tuffolo è quello più selvaggio. Non in questa zona, però, dove si fermano a svernare e non hanno nulla da dirsi, ma più a nord, dove fanno i nidi. Il loro richiamo esprime abbandono, felicità, estasi, pazzia. Gli esseri umani hanno tradotto in parole questi suoni, ma le parole ne sono un'imitazione mal riuscita.» Più il giudice si scaldava, infervorandosi sull'argomento, più la sua interlocutrice si raffreddava. Con un sospiro, il giudice aprì la portiera dell'auto, ed Eva s'infilò dentro. Lui si mise al volante, staccò le lenti da sole dagli occhiali e se le ficcò in tasca. Gli venne l'idea di passare a un argomento più concreto, e pensò che avrebbe potuto complimentarsi con lei per il suo aspetto. Infatti, Eva era molto elegante, con l'abito di seta stampata bianco e nero, la giacca nera e un foulard rosso vivo intorno al collo. Ma prima che fosse riuscito a trovare le parole giuste, vide che Eva si era messa a piangere. «Preferirei che non lo faceste, signorina Foster» le disse. Lei continuò a piangere. Il giudice se ne stava fermo ad aspettare, chiedendosi che motivazione potessero avere quelle lacrime. Come le parole, anche le lacrime erano un'invenzione dell'uomo, e una povera imitazione dei lamenti degli animali. Per lui era un vantaggio che fosse così, date le circostanze. L'idea della signorina Foster che gemeva e ululava, magari attirando qualche cane di passaggio, non era affatto allettante. Anche perché i gemiti e gli ululati della signorina Foster sarebbero stati perfetti, come tutto ciò che faceva. Finalmente smise di piangere, si asciugò gli occhi, si soffiò il naso, scese dall'auto per buttare in un cestino dei rifiuti il fazzoletto di carta che aveva usato, e risalì in macchina. Il giudice assistette con interesse a quella se-
quenza di azioni. Addolorata o no, la signorina Foster non dimenticava l'educazione. «Mi sono innamorata» confessò finalmente. «È una cosa che non ha senso. C'erano centinaia di motivi per cui non avrei dovuto farlo. Mi sono accorta che mi stava succedendo, ma non ho fatto niente per evitarlo. Sono rimasta lì ferma, ad aspettare che accadesse. E adesso vorrei essere morta.» A questo punto, se avesse potuto scegliere, forse il giudice avrebbe optato per i lamenti e gli ululati, ma purtroppo non aveva scelta. Trasse un sospiro, e gli venne da pensare che ultimamente sospirava un po' troppo. Forse perché ne aveva sempre più motivo, via via che passavano gli anni. Sospirare equivaleva, a suo avviso, a inspirare una maggior quantità di ossigeno per aiutare il cervello ad affrontare una situazione diversa o difficile. «La mia vita è sempre stata così ordinata» riprese Eva. «E guardate che pasticcio è diventata adesso. Mi sono innamorata di un uomo processato per omicidio, un negro con figli e una moglie per diritto consuetudinario. Ma c'è di peggio: lui non mi ama. Forse potrei riuscire a farlo innamorare di me, se ne avessi la possibilità. Ne avrò la possibilità?» «State chiedendomi di prevedere quale sarà il verdetto della giuria? Questo non può saperlo nessuno. Nemmeno uno che legge nel pensiero, nemmeno un computer programmato con tutti i particolari della vita di ciascun giurato da quando è nato fino a oggi, potrebbe indovinare quale sarà il verdetto.» «Potreste almeno dirmi se, a vostro giudizio, ha qualche probabilità di cavarsela?» «Sarebbe irregolare.» «Lo so.» «E me lo chiedete ugualmente?» «Sì.» Il giudice si tolse gli occhiali, li pulì con il fazzoletto e se li rimise sul naso. Le immagini che vedeva attraverso le lenti, però, non gli apparivano più nitide: né la parte posteriore dell'auto ferma davanti alla sua; né le sue stesse mani sul volante, deformate dall'artrite; né il volto della signorina Foster, pallido e sfigurato dal pianto. In lontananza, si vedevano gli alberi delle varie imbarcazioni da diporto. Sembrava una foresta senza fogliame. «Le prove contro di lui sono circostanziali, naturalmente» disse, come parlando a se stesso. «Ha portato una donna a bordo del Bewitched, e più tardi questa donna è stata ritrovata morta nell'acqua, impigliata in un intrico d'alghe. L'autopsia ha rivelato la presenza di segni sul collo, che secon-
do il Procuratore Distrettuale sarebbero stati provocati dalla pressione dei pollici dell'uomo che l'ha strangolata. Quando il Bewitched è arrivato in porto, l'imputato è sceso a terra e ha impegnato gli orecchini di diamanti che la donna aveva agli orecchi. Ha mentito all'uomo del banco dei pegni, così come aveva mentito a Harry Arnold, dicendo di avere mal di denti e di avere bisogno di denaro per pagarsi il dentista. I suoi denti, stando alla deposizione fatta dall'odontoiatra del carcere, sono in condizioni quasi perfette. L'Accusa sostiene che in realtà i soldi gli servivano per pagarsi una camera d'albergo, dove si sarebbe rintanato il tempo necessario perché si cicatrizzassero i graffi che aveva sulla guancia. La domanda che viene spontanea è questa: per quale motivo era tanto ansioso di nascondere i graffi? La risposta ovvia, l'unica che mi viene alla mente, è che quei graffi l'avrebbero implicato in un crimine.» «Non necessariamente l'omicidio» osservò con calma Eva. «È vero. Non abbiamo prove incontrovertibili che la donna sia stata strangolata, poiché i patologi non sono tutti d'accordo nell'interpretare i segni sul collo, né sanno precisare se sono antecedenti o successivi alla morte. La tendenza dell'imputato a bere troppo e a perdere facilmente il controllo quando ha bevuto, non è stata dimostrata, ma se n'è semplicemente accennato. Tra i reperti presentati dall'Accusa ne manca uno, il principale, cioè la borsa di pelle verde contenente i gioielli di famiglia della signora Pherson. L'aveva con sé quando è salita a bordo, ma non se n'è trovata traccia, né della borsa né del contenuto. Qualche tempo dopo il ritrovamento del cadavere, un pescatore ha trovato la sua giacca. Questa è risultata essere una scoperta importante, perché la giacca era completamente abbottonata. La signora Pherson, come è risultato dalle testimonianze, aveva l'abitudine di appendere con cura gli abiti alle grucce, abbottonando i cap] per evitare che si sformassero. È impossibile che indossasse la giacca, quando è finita in acqua. L'azione delle onde può sfilare una giacca, ma è impossibile che possa anche abbottonarla. Il buonsenso ci dice dunque che qualcuno ha gettato in mare l'indumento, e siccome Harry Arnold sostiene di aver visto l'imputato lanciare alcuni indumenti in acqua, è possibile, per non dire probabile, che Cully King si stesse sbarazzando della giacca della signora Pherson. Comunque, nemmeno questo basterebbe a dimostrare che l'ha uccisa. «È stata presa in esame anche la possibilità che la donna si sia suicidata, ma non sembra un teoria convincente. Certo, la signora Pherson aveva sofferto molto per la morte della madre, con cui stava programmando una va-
canza alle Hawaii. Che questa fosse la destinazione del Bewitched può essere stato un elemento determinante nella decisione della signora Pherson di accettare la proposta di Cully King. Non lo sapremo mai. Non si può leggere nella mente dei morti. Il modo di comportarsi della signora Pherson induce a ritenere che non volesse suicidarsi, ma intendesse invece spassarsela, lasciandosi alle spalle il tipo di vita ordinata che conduceva con il marito. Pensate alle deposizioni della cameriera, che l'ha sentita parlare con se stessa davanti allo specchio, e alla testimonianza del signor Elfinstone, con cui ha conversato prima di lasciare l'albergo. Appariva allegra, ha detto il signor Elfinstone, eccitata all'idea di fare qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua e che non avrebbe fatto più. «C'è un altro interrogativo rimasto senza risposta. Cully King ha messo in ordine la cabina, perché non restassero tracce del fatto che era stata occupata. Per quale motivo l'ha fatto? Andare a letto con una donna non è un reato, né una cosa da tenere segreta. A maggior ragione per uno come Cully che, al contrario, è tipo da vantarsi di una cosa simile. Dopo tutto, la signora Pherson non era una delle solite donnacce, ma una donna di classe, che aveva possibilità. Eppure, Cully non si è vantato della sua conquista. Anzi, ha cancellato ogni traccia della sua presenza a bordo, quasi volesse cancellarne addirittura l'esistenza. Perché?» «Lo scopriremo quando salirà al banco dei testimoni.» «Donnelly non lo lascerà deporre. Non può permettersi di correre questo rischio. Cully King finirebbe per cacciarsi maggiormente nei guai, nel tentativo di rispondere alle domande, giustificandosi nel contempo delle sue azioni. La mia speranza è una sola: di esserne fuori prima di Natale. E mi riferisco a questo Natale, non al prossimo.» Il giudice tacque e rimase a fissare le sue mani sul volante. Erano gonfie, come se avesse preso a cazzotti qualcuno. «Sento che il tempo passa come un treno» riprese «e in aula, tutti noi passeggeri siamo rimasti a terra, come se la vita di ciascuno si fosse fermata a una stazione. Alla fine, arriverà un altro treno, saliremo su quello, e le nostre vite riprenderanno a scorrere normalmente.» «Forse non ci sarà un altro treno» osservò Eva. «Ce n'è sempre un altro.» «Non per me. Ho aspettato tanti anni che arrivasse questo.» «Questo treno non faceva per voi, Foster. Saltate giù, finché siete ancora in tempo, prima che vi facciate del male.» «È già accaduto.»
«Allora, non peggiorate la situazione. Vi aiuterò come posso, cioè concedendovi un permesso, oppure facendovi trasferire in un altro tribunale.» «No, grazie. Devo restare qui.» «Perché?» «In caso avesse bisogno di me.» Stavolta il sospiro del giudice fu più sonoro di tutti gli altri. «Non c'è nessuno con cui possiate discuterne; qualcuno della famiglia, o un prete, qualcuno che sia più vecchio di voi, che abbia più esperienza?» «Non voglio discuterne con nessuno.» «Be', con me volevate parlarne, altrimenti non mi avreste seguito fin qui. Accidenti, non posso permettermi di perdere un cancelliere in gamba come voi, per una faccenda di questo genere. Dovete discutere con qualcuno della situazione in cui vi trovate.» «Ho già parlato con la persona che conta. Volete sapere che cosa mi ha risposto?» Eva si allentò il foulard intorno al collo. «"Merda", mi ha risposto.» Il giudice fece una smorfia, tra il divertito e il contrariato. «Siete sicura di aver capito bene?» «Ne sono sicura.» «Be', se non altro sapete come stanno le cose, senza possibilità d'equivoco.» «Sono rimasta senza possibilità di sorta. Ma non rattristatevi per me: intendo lottare. Se lo dichiareranno innocente, mi batterò per conquistarlo, e se lo condanneranno, lotterò al suo fianco alla Corte Suprema.» "Merda!" pensò il giudice, imitando Cully. Prima che fosse chiamato il primo teste della sessione pomeridiana, il Procuratore Owen si rivolse al giudice. «Vostro Onore, vorrei che fosse messa agli atti la seguente precisazione. Il tenente Sommerville, che salirà tra poco al banco dei testimoni, doveva essere il mio primo teste. Si è reso necessario un rinvio, perché il tenente Sommerville è al comando del cutter Priscilla, di proprietà della Guardia Costiera, e l'imbarcazione doveva salpare per un corso d'addestramento di quindici giorni. Poiché si sono verificati alcuni ritardi nella nomina dei giurati, il tenente Sommerville non ha potuto presentarsi, trovandosi in mare. Ecco perché viene a fare la sua deposizione ora, invece che all'inizio del processo.» Il tenente Sommerville, un uomo sulla trentina, dalla faccia rubiconda e
dall'espressione grave, si presentò in divisa. Dichiarò di abitare a Los Alamitos. Faceva parte della Guardia Costiera da dodici anni, cioè da quando si era laureato in biologia alla University of California di San Diego. Era al comando del cutter Priscilla, quando un membro dell'equipaggio aveva scorto un corpo femminile impigliato in una formazione di alghe. Erano stati mandati due uomini su un canotto di gomma, perché recuperassero il corpo e lo portassero a bordo del Priscilla. Si era subito stabilito che la donna era morta da alcune ore. Siccome il corpo era stato rinvenuto entro il limite di tre miglia dalla costa, e quella fascia di mare era sotto la giurisdizione dello sceriffo, si era provveduto ad avvertire l'ufficio competente, che aveva inviato una motovedetta per trasportare il corpo all'obitorio. Sommerville riconobbe dalle foto che gli furono mostrate la donna morta presa a bordo del Priscilla. «Quanto tempo è trascorso, prima che il corpo della donna fosse trasferito dal Priscilla alla motovedetta della polizia?» «Un'ora e mezzo circa.» «In quel lasso di tempo, vi siete fatto un'idea sulla causa della morte?» «Non è compito di mia pertinenza. L'ho coperta con un lenzuolo, quando ho visto che era morta, poi ho chiamato l'ufficio dello sceriffo per informarlo che avevamo un galleggiante.» «Nel gergo della polizia, significa un corpo trovato in acqua?» «Sì.» «Cos'avete fatto, dopo che il cadavere è stato trasferito sulla motovedetta?» «Ho raccomandato all'agente di polizia di farmi riavere il lenzuolo.» Il pubblico rise. «Può sembrarvi una cosa ridicola» si affrettò ad aggiungere il tenente Sommerville «ma il fatto è che sono responsabile di ogni singolo oggetto che si trovi sulla mia imbarcazione, ed è mio dovere accertarmi che le cose date in prestito vengano poi restituite.» «E il lenzuolo vi è stato restituito?» «Non ancora.» «Non ho altre domande. Vi ringrazio, tenente.» Il giudice guardò Donnelly. «Siete pronto per controinterrogare, avvocato?» «Sì, Vostro Onore.» Donnelly andò a mettersi al posto di Owen. «Tenente Sommerville, poco fa avete dichiarato di esser laureato in biologia.»
«Sì, specializzato in oceanografia.» «Volete spiegarci cosa si debba intendere per "formazione di alghe"?» «Noi biologi la definiamo "colonia di alghe". Sulla superficie dell'acqua ne è visibile solo la parte superiore. I gambi, o steli, arrivano fino in fondo al mare, e terminano a forma di uncino, per mezzo del quale rimangono ancorati.» «Ci sono molti tipi di alghe, in questa zona?» «Sì.» «A quale specie apparteneva la colonia d'alghe in cui era impigliato il corpo della signora Pherson?» «È una delle varietà più grandi, il Macrocystis. I marinai la odiano, perché rovina le eliche, le ancore, le chiglie. Tuttavia, è un componente importante dell'equilibrio biologico.» Donnelly si avvicinò a Di Santo, che uscì dall'aula e tornò poco dopo, accompagnato da Bill Gunther, che portava una grossa borsa di plastica e un tavolino pieghevole. Indossava una tuta da ginnastica grigia, sporca e bagnata sul sedere, alle caviglie e ai polsi. Era a piedi nudi e aveva l'aria infreddolita. Aveva protestato vivacemente, prima di svolgere l'incarico assegnatogli. «Non vedo proprio per quale motivo devo andare in barca a prendere le alghe, quando potrei raccogliere la stessa specie dalla spiaggia.» «Io invece il motivo lo conosco» aveva replicato Donnelly. «Dovete andare perché sono io che ve lo ordino.» «Odio l'acqua. E se annegassi?» «Vi manderò dei fiori.» Gunther piazzò il tavolino tra il banco dei testimoni e quello della giuria. Vuotò sul tavolo il contenuto della borsa di plastica, e nell'aria si diffuse l'odore inconfondibile del mare. Aveva raccolto un unico filo di alga. Era marrone chiaro e sembrava viscida. «Volete venire qui un momento, tenente, e vedere se riconoscete la specie d'alga che ha appena raccolto il mio collaboratore?» «Vedo già da qui che si tratta del Macrocystis.» «È facilmente reperibile da queste parti?» «Sì. A un certa profondità, si trovano vaste colonie disseminate lungo tutta la spiaggia.» «Avete dichiarato che il corpo della signora Pherson era impigliato nelle alghe. Volete spiegarcelo più chiaramente?» «L'azione delle onde ha fatto rotolare il corpo, che era praticamente av-
volto dalle alghe.» «Completamente?» «Sì. Per districarla, abbiamo dovuto tagliare le alghe.» «Come avete proceduto?» «Con un coltello a serramanico.» «Dunque, quando il corpo è arrivato a bordo del Priscilla, non era nelle stesse condizioni in cui si trovava quando è stato visto per la prima volta, dal momento che si è rivelato necessario tagliare le alghe che l'avvolgevano, per poterlo recuperare. È esatto?» «Sì. Quel tipo d'alga è resistente ed elastica. I ragazzi sulla spiaggia si divertono a usarla come se fosse una liana.» «Avete già spiegato come sono fatti gli steli, e che terminano a uncino nella parte inferiore. Ora volete dirci cosa sono queste specie di foglioline?» «Si chiamano lamelle.» «E queste protuberanze bulbacee, grosse all'incirca quanto i pollici di una mano, che cosa sono?» «Sono sacche cave piene di una sostanza gassosa, e si chiamano galleggianti. Il nome si spiega da sé.» «Volete spiegarcene ugualmente la funzione?» «Le alghe, allo stesso modo delle piante che crescono sulla terra, hanno bisogno di luce per il processo della fotosintesi, e questi galleggianti servono a mantenere l'alga in superficie, dove c'è luce.» Donnelly si rivolse al giudice. «A questo punto, Vostro Onore, vorrei che la signorina Foster portasse qui i tre pezzi di creta che le ho consegnato prima, e che dovranno essere aggiunti ai miei reperti.» Il giudice concesse l'autorizzazione, e il primo pezzo d'argilla fu messo sul tavolino, accanto all'alga. «Questa è normale creta per modellare» spiegò Donnelly alla giuria. «Chiederò al tenente Sommerville di pressare due protuberanze di quest'alga sulla creta, in modo che ne possiamo osservare le impronte. Volete fare ciò che vi ho chiesto, tenente?» «Devo premere molto o poco?» «La pressione dovrebbe essere simile a quella che esercitava l'alga sul collo della signora Pherson.» «Naturalmente non posso saperlo con sicurezza, ma posso provarci.» I calchi furono eseguiti, e il pezzo di creta venne mostrato prima al giudice, poi a ciascun membro della giuria. Fatto questo, Donnelly invitò il
tenente a premere i pollici sul secondo pezzo di creta, esercitando approssimativamente la stessa pressione. Sotto i due calchi, su richiesta di Donnelly, Sommerville appose le sue iniziali, servendosi di un pennarello. Anche questo secondo pezzo di creta fu fatto girare in modo che tutti potessero esaminarlo, quindi il tenente tornò al banco dei testimoni. «Tenente Sommerville, direste che le impronte lasciate dai due galleggianti dell'alga e quelle dei vostri pollici siano all'incirca della stessa misura?» «Sì.» «Notate differenze evidenti?» «Sì.» «In che cosa consistono?» «Le unghie dei miei pollici hanno prodotto un'incisione semicircolare chiaramente visibile.» «In altre parole, tutt'intorno al pollice è rimasto il segno dell'unghia?» «Sì, è esatto.» «A questo punto» disse Donnelly «chiedo alla Corte di consentire al mio cliente, il signor King, di effettuare la stessa prova che ha fatto il tenente, sul terzo pezzo di creta. Vostro Onore mi autorizza a procedere?» «È una procedura piuttosto insolita» replicò il giudice «ma al momento non vedo nessuna ragione per cui non dovrebbe essere consentita.» Cully non era stato messo al corrente di quest'intenzione di Donnelly, e perciò appariva sinceramente sorpreso. Reazione in cui Donnelly aveva appunto sperato. Dopo che gli fu consegnato il pezzo di creta, Cully vi premette sopra prima un pollice e poi l'altro, e sotto appose le sue iniziali con la stessa penna usata dal tenente. Di nuovo il pezzo di creta fu fatto passare in giro. «Tenente Sommerville, queste due impronte sono simili a quelle lasciate dai vostri pollici?» «Sì.» «Anche qui, sono visibili le incisioni prodotte dalle unghie, non è vero?» «Sì.» «A questo punto, ritengo necessario riesaminare i reperti della controparte fino al 16-P. Richiedo pertanto il 13-M, il 14-N e il 15-O, e desidero che il numero 16 sia messo bene in vista sul pannello.» Il 13-M era la foto della testa e del collo della signora Pherson, così come l'aveva vista la prima volta il patologo, dottor Woodbridge. Il 14-N e il 15-O erano ingrandimenti del collo, e il 16-P l'ingrandimento dei solchi sul
collo. «Tenente, vorrei che esaminaste con la massima attenzione queste foto. Le vedete bene?» «Sì.» «Sempre con molta attenzione, volete dirci a quale pezzo di creta somigliano le immagini che vedete?» «Mi oppongo recisamente» disse il Procuratore Distrettuale. «La carne umana non è creta. Paragonare le due cose è un'assurdità.» Donnelly non insistette. «Bene, ritiro la domanda e chiedo invece che i seguenti dieci oggetti siano contrassegnati per la Difesa e aggiunti ai precedenti reperti. Non ricordo a quale lettera siamo arrivati, ma sono certo che la signora Foster lo sa.» I dieci oggetti erano libri che trattavano di indagini svolte dalla Omicidi e di patologia legale. All'interno c'erano parecchi segnalibri. Vista quella mole di volumi, il giudice ritenne opportuno sospendere la seduta per venti minuti Durante la pausa, Oliver Owen chiamò la moglie dal telefono del corridoio. Lo faceva spesso, quand'era irritato o qualcosa gli andava storto. Non l'avrebbe mai ammesso con anima viva, e men che meno con Vee, ma il suono della sua voce riusciva a calmarlo. Se anche non si dichiarava d'accordo con lui a parole, Vee gli faceva quest'effetto perché Oliver si rendeva conto che comunque era schierata dalla sua parte. Vee era seduta alla sua scrivania, in cucina. Stava scegliendo i conti più urgenti da pagare e mettendo da parte gli altri. Non c'erano mai abbastanza soldi per pagarli tutti in una volta sola. «Sei tu, Vee?» «Penso proprio di sì. Non c'è nessun altro qui.» «Volevo avvisarti che probabilmente farò tardi per la cena.» «Va bene. Stasera si mangia lo stufato di manzo con il pane francese. Posso riscaldarti l'uno e l'altro in un attimo.» «Come stanno i ragazzi?» «Stavano bene, all'ora di colazione. Immagino che stiano bene tuttora, dal momento che non si è fatto vivo nessuno per avvertirmi del contrario. Cosa c'è che non va, Oliver?» «Quel mascalzone di Donnelly sta per farmi un brutto tiro. Quale persona con un briciolo d'intelligenza potrebbe mai credere alla storiella che quella donna sia caduta in mare, sia finita in mezzo alle alghe e sia rimasta
strangolata da uno stelo? Ma certo che qui non abbiamo a che fare con persone intelligenti. Abbiamo a che fare con i giurati.» «Spero che nessuno possa sentirti, nel posto in cui ti trovi.» «Naturalmente. Mi prendi per stupido?» «Lo dicevo perché può capitare in qualsiasi momento di agire in modo imprudente. Comunque, per non correre rischi, faresti meglio ad abbassare la voce.» Owen abbassò la voce. «Hai mai sentito casi di persone strangolate da un'alga?» «Come ha fatto a finirci in mezzo?» «Donnelly vorrebbe darci a intendere che è caduta in acqua, e mentre era priva di sensi ma ancora viva, è rimasta impigliata tra le alghe.» «Che cosa assurda! Le imbarcazioni girano alla larga dalle colonie di alghe, soprattutto quelle grandi come il Bewitched.» «Che cos'hai detto?» Vee gli ripeté ciò che aveva detto, parola per parola. «Caspita, Vee!» esclamò Oliver, stupefatto. «Sai che è giusto il tuo ragionamento? Hai ragione, perfettamente ragione.» «Ogni tanto capita anche a noi deficienti di avere la fortuna di dire qualcosa d'intelligente.» «Non è il caso che tu ti sottovaluti, Vee.» «Non ci penso nemmeno. C'è sempre qualcun altro che lo fa per me.» «No, davvero, non sto scherzando. A volte hai qualche trovata geniale.» «Evviva me!» «Certo, non è possibile che lo yacht si sia avvicinato alle alghe. Per arrivarci, la donna avrebbe dovuto nuotare parecchio, perché se fosse stata trasportata dalla corrente, ci avrebbe impiegato ore e ore ad arrivare fin quasi a riva. In un'acqua così fredda, una persona può sopravvivere un po' di tempo, ma non certo per ore. Anzi, è già abbastanza improbabile che rimanga viva. Vee può darsi che, grazie al tuo aiuto, io riesca a vincere questa causa.» «Perché vincere è così importante per te, Oliver?» «Lo sai. Vincendo, ho la possibilità di essere riconfermato Procuratore.» «Sì, ma perché t'interessa tanto? Non certo per il guadagno, questo è sicuro. Guadagneresti molto di più se avessi un tuo studio privato.» «Voglio essere qualcuno, in modo che i miei figli siano fieri di me e cerchino di emularmi. Ecco perché non ci tengo a essere un avvocato qualsiasi. Sai bene cosa pensa la gente degli avvocati. Ma un Procuratore Distret-
tuale è diverso, dà l'idea dell'autorità, suscita rispetto. È un ottimo esempio quello che do ai ragazzi.» «Dimentichi che l'attuale è una generazione iconoclasta, Oliver.» «Cosa significa iconoclasta?» «Ciò che intendo dire è che oggigiorno è più facile trovare giovani che disprezzino un Procuratore Distrettuale, piuttosto che giovani che ne abbiano stima.» «Questo non posso dirlo, dei miei ragazzi.» Vee ripensò all'episodio della colla e a quello delle incisioni latine sui muri del bagno, ma preferì non contraddire il marito. «Io penso che i nostri figli ti rispetterebbero anche se tu esercitassi la professione di avvocato» disse invece. «Lo credi davvero?» «Ne sono certa.» C'era un tocco d'ironia nella voce di Vee. Però, disse a se stessa, il momento degli scherzi a base di colla e delle scritte sui muri sarebbe passato presto, Thatcher avrebbe imparato a memoria quei benedetti emendamenti, e alla fine tutti sarebbero vissuti felici e contenti. Fine della favola. «Oliver, prima che ci salutiamo, volevo dirti che i ragazzi e io ti vorremo sempre bene, comunque vadano le cose.» Seguì un silenzio. «Scusami, avevo la mente altrove» disse Owen. «Che cosa mi stavi dicendo?» «Niente. Corri a cercare la tua mente.» «Adesso devo salutarti. Grazie di avermi chiamato.» «Non sono stata io a telefonarti, ma tu a chiamare me.» Ma ormai Owen aveva riappeso il ricevitore. Lentamente, con un po' di tristezza, Vee rimise l'apparecchio telefonico sulla scrivania. Non poteva fare a meno di amare Oliver, ma nessuno poteva negarle il diritto di pensare che a volte si comportava come uno stupido. Fu un lungo pomeriggio. L'udienza proseguì fin quasi alle sei. La maggior parte del tempo se ne andò per mostrare ai giurati le foto segnate nei dieci libri portati da Donnelly. Erano tutte foto di donne morte per strangolamento. Le fotografie erano state scattate prima dell'autopsia e provenivano da ogni parte degli Stati Uniti: una prostituta di Omaha, Nebraska; due sorelle di Brownsville, Texas; una casalinga di Visalia, California; un'altra casalinga di Bend, Oregon; un'infermiera di Chicago; una cameriera di Atlanta;
un'altra di Los Angeles; una spacciatrice di droga di Miami; una dentista di Albuquerque; una turista inglese in visita a Filadelfia, e la proprietaria di un'agenzia immobiliare di New Orleans. Le foto di tutte queste vittime furono proiettate su un grande schermo portato da Di Santo. Sul pannello accanto era rimasta, bene in vista, la foto del particolare del collo della signora Pherson. Ogni foto delle varie vittime fu lasciata qualche istante in visione sullo schermo, per consentire il confronto delle immagini. In effetti, esisteva una differenza tra quelle e la foto della signora Pherson. Sul collo di tutte le altre vittime erano visibili le incisioni provocate dalle unghie dell'assassino, mentre sul collo della signora Pherson non c'erano. A mano a mano che passavano le foto, Donnelly indicava i particolari con una bacchetta. Poi furono fatti girare di nuovo tra la giuria i pezzi di creta, e il messaggio di Donnelly apparve chiaro come il sole: il tenente Sommerville, o Cully King, potevano avere strangolato tutte quelle donne, ma non la signora Pherson, poiché sul suo collo non c'erano i segni lasciati dalle unghie. Owen tentò d'obiettare, ma fu poco convincente e nessuno gli diede retta. A questo punto, era decisamente preoccupato: nessuno, se non il giudice, sapeva bene quanto lui che Donnelly non aveva bisogno di dimostrare che la signora Pherson era morta soffocata dalle alghe. Gli bastava suscitare un ragionevole dubbio sulla colpevolezza di Cully King. Che questo dubbio fosse sorto nella mente dei giurati, non lo si capiva soltanto dalle loro facce, ma anche dall'espressione di Sommerville. Quando finalmente la Corte si aggiornò, Sommerville aspettò Owen nel corridoio per potergli parlare. «Se non sbaglio, avevate detto che l'imputato era sicuramente colpevole, avvocato.» «Infatti è vero.» «Per il momento, non è questa l'impressione che se ne ha. Non potrei sopportare l'idea di aver contribuito a far condannare un innocente.» «Non avete di che preoccuparvi» replicò Owen. «Ascoltando la vostra deposizione, si era portati a credere che foste un testimone della controparte, non mio.» «Ho fatto del mio meglio.» «Grazie. Comunque, non dimenticate che è stato Donnelly a scegliere quei particolari libri e quelle particolari foto. Devono essercene centinaia d'altri, e io li troverò.» «Spero che non mi farete salire di nuovo sul banco dei testimoni.»
Sommerville si tolse il berretto e si asciugò la fronte con la mano. «Detesto vedere quel genere di foto.» «Non fa piacere a nessuno» ribatté Owen. «Ma è nostro dovere nei confronti di Madeline Pherson, un essere umano come noi.» In aula erano rimaste solo poche persone, Cully King, Donnelly e l'assistente Di Santo che, in piedi vicino alla porta, stava parlando con l'agente venuto a prelevare Cully. «Avete fatto un ottimo lavoro» disse Cully a Donnelly. «Siete stato veramente convincente. Adesso mi spiego perché mi avevate raccomandato di smetterla di mangiarmi le unghie.» «Cosa vi avevo raccomandato?» «Di smettere di mangiarmi le unghie. Ricordate quella sera, quando siete venuto in carcere...» «Non ricordo.» «Impossibile che non ve ne ricordiate. Siete venuto una sera tardi. Io me lo ricordo perfettamente.» «Se ve lo ricordate perfettamente, adesso badate di dimenticarvene perfettamente.» «Va bene. D'accordo. Me ne sono già dimenticato.» «I dialoghi tra un avvocato e il suo cliente sono strettamente confidenziali, ma a volte qualcosa trapela. Talvolta per colpa dell'avvocato, più spesso per colpa del cliente, soprattutto dopo che ha bevuto qualche bicchiere e se trova la persona giusta. Non c'è niente di male in ciò che vi ho detto, né in quello che voi avete detto a me, ma potrebbe essere frainteso e considerato un tentativo di ostacolare la giustizia. Non è difficile, per un chiacchierone come voi, aprirsi con il compagno di cella, che magari si dimostra un ottimo ascoltatore. Ma questo compagno di cella potrebbe essere un informatore della polizia. Allora, cosa vi ho raccomandato la sera che sono venuto al carcere?» «Niente.» «Bene. Adesso siamo a posto.» «Non del tutto» replicò Cully. «Come mai vi siete messo in testa che sono un chiacchierone?» «Voi e la signorina Foster riuscite a trovare molti argomenti di conversazione, a quanto vedo.» «Non ho niente da dirle.» «Eppure, vi ho visto muovere le labbra. E quando vedo una persona muovere le labbra, generalmente ne deduco che sta parlando. È forse una
deduzione errata?» «Non sopporto il sarcasmo di certi bastardi come voi.» Cully spinse indietro la sedia, si alzò e s'incamminò di buon passo verso la porta. Donnelly sentì che salutava l'agente e lo rimproverava scherzosamente di essere arrivato in ritardo, facendogli perdere l'autobus della galera. «Meglio così, Cully» rispose l'agente. «Stavolta viaggerete comodo: lo sceriffo vi ha messo a disposizione una limousine, tutta per voi.» «Guido io?» «Sì, se avete la chiave dell'auto.» Cully rise, e i due s'incamminarono insieme. Donnelly rimase seduto a lungo al suo posto, tenendosi la testa tra le mani. La voce di Di Santo rimbombò nell'aula vuota. «Non volete andare a casa, avvocato Donnelly?» «Non ho nessuna fretta.» «Be', adesso devo chiudere. Gli ingressi principali sono già chiusi. Quando uscite, passate per la porta dello sceriffo.» «D'accordo. Grazie.» Per evitare il traffico sulla tangenziale, sempre caotico a quell'ora della sera, Donnelly attraversò la città. Amava quelle strade e le conosceva bene. Quando si era trasferito lì, i primi anni, all'ora di pranzo aveva l'abitudine di fare lunghe passeggiate, come un turista che volesse visitare la città. La strada principale arrivava fino al mare. In tutte le altre direzioni c'erano montagne che cambiavano colore ogni ora, ogni stagione, dal verde e grigio al rosa e violetto e talvolta, d'inverno, erano bianche di neve. Quando il tempo era coperto, le montagne sparivano completamente, e la città sembrava uno scenario senza sfondo, in cui dominava il palazzo del tribunale. La sua torre bianca era un simbolo di verità e di giustizia, il suo orologio batteva le ore e insieme lanciava il suo messaggio: "Figliolo, osserva lo scorrere del tempo e fuggi il male". Quando arrivò a casa, alle sette e mezzo, trovò soltanto la signora Killeen. La incontrò mentre sbucava dalla porta del garage. Lei lo salutò nel suo caratteristico modo. «Immagino che vorrete mangiare.» «Infatti, l'idea mi era passata per la mente.» «Io termino il servizio tra mezz'ora. Perché non vi fate portare una piz-
za?» «Non mi piace la pizza.» «Strano, piace a tutti.» «A me, no.» La signora Killeen consultò l'orologio. «Mi restano solo ventitré minuti, come stabilisce il mio contratto. Forse posso mettere insieme qualcosa con il forno a microonde. Vi vanno bene le patate arrosto e le costolette d'agnello?» «Va bene. Mangerò nel mio studio.» «E ricordatevi di non dare le ossa al mio cane. Lo fanno star male.» «Credo di potermene ricordare» la tranquillizzò Donnelly. «Hanno chiamato dall'ospedale, per dare notizie di mia moglie?» «No. Niente di nuovo sul fronte occidentale.» La signora Killeen si voltò per andarsene, ma cambiò idea. «Probabilmente non avete mai assaggiato la pizza.» «L'ho assaggiata, e non mi piace.» «Be', non date la colpa a me se qualcosa va storto. È la serata di libertà della cuoca, e la tizia che la sostituisce ha chiamato per dire che deve andare a un funerale. E io le ho risposto che, se dovesse farmi ancora uno scherzo simile, il prossimo funerale a cui dovrà andare sarà il suo.» «Avete veramente il dono della gentilezza, signora Killeen.» Donnelly salì di sopra, si fece la doccia, s'infilò il pigiama e una giacca da camera, poi scese di nuovo dabbasso ed entrò nel suo studio, adiacente alla sala da pranzo. Erano le venti e tre minuti e, fedele alla parola data e al suo contratto, la signora Killeen era smontata di servizio, ma gli aveva lasciato la cena su un vassoio vicino alla poltrona, di fronte al televisore. Accanto al piatto c'era un biglietto. "Avevamo finito le patate da cucinare al forno e anche le costolette d'agnello. Ho dovuto arrangiarmi con quello che avevo. Comunque, la pizza sarebbe andata meglio. S.K." Il che dimostrava che, anche se assente, la signora Killeen voleva avere lei l'ultima parola. Il vassoio conteneva purè di patate, asparagi e costolette di maiale. Il purè sapeva vagamente di cartone, gli asparagi erano usciti da una scatoletta e ne avevano conservato un po' del sapore metallico, e le costolette di maiale erano stoppose. Ma il caffè era buono e caldo, e così pure il pane francese. Terminata la cena, Donnelly chiamò l'ospedale di Long Beach, e dopo aver parlato con varie persone, finalmente ottenne che gli passassero Zan.
«Zan, sono Charles.» «Lo so. Me l'hanno detto.» Sembrava stanca e irritabile, ma sotto controllo. «Come stai, Zan?» «Cosa te ne importa?» «Non sei obbligata a parlare con me, se non ne hai voglia.» «E invece sì. Mi hanno detto: "Fai la brava, parla con tuo marito". Se gli avessi risposto: "Quale marito?" mi accuserebbero di soffrire d'amnesia o di non ragionare, e un dottorino giovane sarebbe venuto a chiedermi: "Vi ricordate di essere sposata, signora Donnelly?" E sai cosa gli avrei risposto: "Ricordo di essere andata a un matrimonio vestita come una sposa, ma non ricordo di essermi sposata."» «I tuoi polsi stanno guarendo?» «Cosa te ne importa?» «Non volevo che tu morissi. Morire non risolverebbe niente.» «Ma nemmeno vivere risolve qualcosa» replicò lei. «Senti, perché non mi lasci in pace, d'ora in avanti, e in compenso io lascerò in pace te. Dimenticherò questa storia, prima o poi, dimenticherò quello che mi tormenta. Ma per te è diverso, Charles. Tu dovrai portartene addosso il peso per tutto il resto dei tuoi giorni. Mi senti, Charles? Mi senti? Tu te lo porterai addosso per tutto il resto della vita, il tuo problema.» Non le rispose. Non c'era niente da dire. Rimise il telefono sul tavolo, come se scottasse e non riuscisse più a tenerlo in mano. Anche a un metro di distanza, la sua voce gli giungeva forte e chiara: «Quando guarirò, tornerò a casa. È la mia casa, apparteneva ai miei genitori, e non voglio più trovarti lì, quando torno. Dovrai andartene. Mi senti, Charles? Vattene via dalla mia casa.» Donnelly si guardò intorno. Non c'era niente lì dentro, né in nessun'altra parte della casa, che avrebbe rimpianto. Era come se non fosse mai stata la sua casa. Ripensò a una poesia scritta da un suo giovane cliente, che gliel'aveva data in parziale pagamento della sua assistenza legale, un poeta che aveva commesso l'atto assai poco poetico di rubare al suo principale. Donnelly non era riuscito a comprendere con precisione il senso della poesia, ma lo capiva ora. Chi ha rubato le stelle? Che è accaduto alla luna?
Perché tutti i fiori sono appassiti Così presto? Amerò mai ancora? Cresceranno più alberi e fiori, Stelle e luna riappariranno? Sono stanco. Ditemi di no. 6. L'imputato Harry aveva ascoltato il telegiornale delle diciotto, nel salottino dell'albergo. Un'ora più tardi, spense il televisore e si rivolse al giovanotto negro che stava dietro il banco. «Non succede mai niente di bello in questo mondo?» Il negro alzò lo sguardo dalla schedina del totip che stava esaminando. «Se non vi va quello che succede nel mondo, perché non saltate giù dal bordo?» «Da dove?» «Dal bordo.» «Il mondo non ha bordi.» «E allora, a quanto pare non potete far altro che restarci, come tutti quanti.» Questi profondi pensieri filosofici gli fecero venire fame. Harry uscì dall'albergo, percorse un paio d'isolati e andò a comperarsi del pollo fritto. Poi, entrò in un panificio e si fece dare del pane e dei krapfen. Tornato nella sua stanza d'albergo, trovò Richie ancora addormentato. Il pullover che aveva indossato il mattino in tribunale, era sullo schienale della sedia, e Richie indossava la solita maglietta, che era diventata quasi la sua divisa, da quando erano arrivati in California. Appariva molto giovane e innocente mentre dormiva, e Harry pensò che questa era una delle poche cose buone che gli offriva la vita, cioè suo figlio Richie. Harry lo scosse delicatamente per la spalla. «Richie, svegliati. Vieni a mangiare.» Richie aprì gli occhi, ma non si mosse. «Ehi, figliolo, vieni a mangiare.» «Non ho fame.» «È la prima volta che ti sento dire che non hai fame. Guarda, ho comperato pollo fritto, pane e krapfen. Tutta roba buona.»
«Non voglio niente» rispose Richie. «Ho bevuto un paio di birre, questo pomeriggio.» «Aspetta un momento. Tu sei ancora troppo giovane per bere birra.» «Però dimostro più dei miei anni.» «Non è vero. Si vede benissimo che ne hai quindici, e in questo stato, è proibito bere prima dei ventun anni. Quindi te ne mancano ancora sei. Mostrami il tizio che ti ha dato la birra, e lo farò arrestare.» Richie non rispose. Alzò gli occhi al soffitto con un'espressione che faceva parte della divisa dei giovani, come la maglietta che indossava e i jeans aderenti. Harry sapeva che sarebbe stato inutile insistere, e perciò si sedette e mangiò tre pezzi di pollo con un po' di pane, poi altri tre pezzi con dell'altro pane e quattro krapfen. «Hai intenzione di mangiarti tutto?» gli domandò Richie. «Perché no? Non c'è nessun altro qui che voglia mangiare.» «Non mi dispiacerebbe assaggiare il pollo.» «Fai pure.» Richie mangiò stando in piedi vicino alla finestra, guardando il traffico giù nel viale e le luci del molo, attenuate dalla foschia. Si sentiva poco bene, non per la birra (in realtà ne aveva comperato solo una lattina e non l'aveva neanche finita), ma per l'incertezza, per la paura. Ogni tanto gli veniva un crampo allo stomaco, come se una mano di ferro glielo strizzasse. «Come mai non mi parli più?» gli domandò Harry «Parlo. Non sto parlando anche adesso?» «Non come ai vecchi tempi, quando aspettavi sul pontile che tornassi dal lavoro. Ti mettevi a chiacchierare, mi dicevi tutto quello che ti passava per la testa.» «Allora ero un ragazzino.» «Sei ancora un ragazzino, altrimenti avresti un po' più di buonsenso e non t'infileresti quei jeans stretti che ti segano le balle. Finiranno per raggrinzirsi come noci secche. E pensare che hai sempre avuto due belle balle. Hai preso da me.» «Tutti quanti hanno i jeans stretti.» «Tutti quanti, da queste parti» replicò Harry in tono di disprezzo. «Non avrei dovuto portarti qui.» «Non sei stato tu a portarmici, ma Cully.» «Però, l'idea è stata mia. Pensavo che ti saresti fatto un'esperienza, e non immaginavo che tipo d'esperienza avresti fatto. Ma avrei dovuto sospettar-
lo. Un mio amico mi ha raccontato che tutte le teste matte vanno a ovest, e quando non possono andare oltre, devono fermarsi, e lì c'è la California.» «Va bene, va bene.» «Che hai detto?» «Stavo dandoti ragione.» «Non è vero, stavi solo cercando di tapparmi la bocca. Nessun figlio dovrebbe tappare la bocca a suo padre.» La mano di ferro strinse ancora lo stomaco di Richie. «Lasciami in pace.» «Cosa sta succedendoti, in questi giorni? Ti comporti come se stessi per perdere il tuo migliore amico.» Richie andò in bagno e chiuse la porta. Harry mangiò il resto del pollo, il pane e i krapfen tranne due, che mise da parte per la prima colazione. Sentì a lungo lo sciacquone del gabinetto e l'acqua del lavandino che scorreva. Quando Richie tornò in camera, aveva gli occhi rossi come se ci fosse entrato il sapone. «Esco a far due passi» gli disse. «Aspetta un momento, così vengo anch'io.» «No.» «Senti, mi è venuta un'idea. Perché non ti fermi qui a guardare la televisione? Danno un film molto divertente. Io l'ho già visto. Fa morire dal ridere.» «Non ho voglia di ridere.» Harry fece un ultimo tentativo. «Sei scalzo. Come mai non ti sei messo le scarpe?» «Non mi servono.» «E se calpesti un pezzo di vetro, e ti viene un'infezione?» «Vuol dire che ci lascerò le penne. E con questo?» «Vedi che non hai buonsenso?» «Lasciami in pace, ti ho detto.» «Va bene, vattene dove vuoi, ma torna prima delle dieci.» «Perché?» «Perché te lo dico io.» «Tu non sei la legge.» «No, ma è così che si usa fare in tutte le famiglie: il padre comanda, e i figli obbediscono.» «Perché insisti sempre su questa faccenda della famiglia?» «Perché a certi figli» rispose Harry, cupo «bisogna ricordarglielo.»
«Va bene, mi ricordo.» «Alle dieci, mi raccomando.» «Va bene, va bene.» Richie andò alla porta, camminando adagio e con passo incerto, come se volesse essere fermato. Ma Harry non aggiunse altro, e il ragazzo uscì. Non sapeva se sarebbe tornato entro le dieci, entro la mezzanotte o mai più. Donnelly si svegliò a un suono di campanelli. Gli capitava spesso di ricevere telefonate nelle ore più strane, anche di notte, e perciò aveva fatto sostituire la suoneria del telefono, in modo da avere un suono meno stridulo. Questo però non mutava la sua reazione: si svegliava ancora con un aumento improvviso dell'adrenalina e con il cuore che perdeva un colpo. Era Gunther. «Charles, volete sapere dove mi trovo?» «No.» «Ve lo dico lo stesso. Sono al carcere.» «Immagino che mi direte anche per quale motivo.» «Se insistete. Ero fuori con una ragazza, e non è che stavamo divertendoci granché. Così, tanto per creare un diversivo, ho acceso la radio per ascoltare le chiamate della polizia, e ho sentito che parlavano di un furto giù al porto, sullo yacht Bewitched. Così, ho spedito a casa la ragazza con un tassì (troverete l'importo sulla mia nota spese) e mi sono precipitato al Bewitched. E sapete cos'ho scoperto?» «Gli indovinelli alle due e mezzo del mattino non sono il mio forte, Gunther.» «Va bene, allora ve lo dico io. Il furto segnalato alla polizia era stato commesso dal ragazzo, Richie Arnold. Ha eluso la sorveglianza dell'uomo che stava di guardia, raggiungendo il Bewitched a nuoto e salendo a babordo. Strano, mi ero detto che era stupido tenere un agente di guardia per tutto questo tempo a bordo dello yacht, ma evidentemente avevano ragione. L'agente ha sentito un rumore, è andato a vedere e ha sorpreso il ragazzo.» «Che stava facendo?» «Quando sono arrivato io, era sul sedile posteriore di un'auto della polizia, avvolto in una coperta. I piedipiatti non hanno voluto dirmi niente, e così li ho seguiti fin qui.» «L'hanno messo dentro?»
«No. Sono ostacolati dal fatto che è minorenne, e che è un testimone al processo. Comunque, il ragazzo ha chiesto un avvocato. Oggigiorno i ragazzi, a forza di guardare la televisione, sono talmente smaliziati che persino uno delle medie, accusato d'imbrogliare a muretto, è capace di pretendere l'avvocato.» «Gliene hanno dato uno?» «È quello che sto facendo io» rispose Gunther. «Vuole voi.» «Perché?» «Perché siete il difensore di Cully King.» «Nessuno gli ha spiegato che non posso lavorare su due fronti?» «Qui, nessuno spiega niente a nessuno. Ma posso assicurarvi che c'è molta eccitazione nell'aria. Che sia buono o cattivo segno, non saprei dirvelo, e forse non lo sa ancora nessuno.» «Che ci faceva il ragazzo sul Bewitched?» «Rubava.» «Cosa?» «Anche questo, sembra che non lo sappia nessuno. A quanto ho potuto vedere, doveva trattarsi di un oggetto avvolto in un pezzo di tela sudicia, forse il sacco di una vela. Qualunque cosa ci sia dentro, dev'essere terribilmente importante perché hanno chiamato il Procuratore Distrettuale e anche il giudice. Secondo me, fareste meglio a venire anche voi.» «D'accordo.» «Volete che vi aspetti, o posso andarmene a casa?» «Restate lì.» «Ho bisogno di dormire un po'.» «Alcuni scienziati ritengono che l'essere umano può abituarsi a fare a meno del sonno. Approfittate dell'occasione per cominciare a far pratica.» Quando Donnelly arrivò al penitenziario, non sprecò tempo a fare domande cui nessuno avrebbe risposto. Chiese di vedere il suo cliente, senza scusarsi per l'ora insolita e senza fornire spiegazioni. Anche alle tre del mattino, nel carcere c'era trambusto. Quando Cully King fu scortato in parlatorio, appariva perfettamente sveglio e aveva l'aria diffidente. «Che succede?» s'informò. «Credevo che me lo spiegaste voi.» «Ho sentito dire che hanno arrestato un ragazzo, sorpreso giù al porto mentre tentava di rubare su una barca. Non hanno fatto nomi, ma io ho
pensato che potesse trattarsi del Bewitched e che il ragazzo potesse essere Richie Arnold. Che cos'ha rubato?» «A voi cosa risulta?» «Che ha preso un vecchio sacco di tela.» «Che conteneva?» «Pare che non sia ancora stato aperto. Stanno aspettando l'arrivo del giudice e del Procuratore Distrettuale.» «Voi sapete che cosa c'è in quel sacco, Cully?» «Sembra che sia il sacco di una vela, e perciò probabilmente contiene una vela.» «Vi sembra logico che un ragazzo sveglio come Richie possa aver raggiunto il Bewitched a nuoto, correndo il rischio di essere arrestato, solo per rubare il sacco di una vela?» «No, affatto.» «Allora, qual è la vostra opinione?» Cully si strinse eloquentemente nelle spalle. «Conoscete Richie da molto tempo» riprese Donnelly «mentre io lo conosco da poco, ma sappiamo entrambi che doveva avere un'ottima ragione per fare una cosa del genere. Avete idea di cos'avesse in mente?» «C-come potrei?» Quel lieve balbettio confermò il sospetto di Donnelly che Cully avesse paura, e che quindi fosse imprevedibile. Si rendeva necessario evitare che il Procuratore Distrettuale l'interrogasse in privato, su qualsiasi argomento. Donnelly aveva scoperto molto tempo addietro che anche il delinquente più agguerrito poteva tradirsi, non prendendo nella giusta considerazione un fatto basilare, e cioè che da ogni parola nasce un'altra parola. «Che altro avete da dirmi?» domandò Cully. «Questo: l'avvocato Owen o qualcuno dei suoi compari vi torchieranno per farvi parlare, che sappiate oppure no. Se risponderete ad alcune domande e non ad altre, il tutto finirà nel computer. Se invece non risponderete a nessuna domanda, non avranno materiale da mettere nel computer. Perciò, se vi chiederanno "Come state?", oppure "Siete stato voi a uccidere Madeline Pherson?", gli risponderete sempre allo stesso modo, cioè: "Con tutto il rispetto, mi rifiuto di rispondere, su consiglio del mio avvocato". Intesi?» «Sì.» «Allora, come state? Vi piace Santa Felicia?» «Con tutto il rispetto, mi rifiuto di rispondere, su consiglio del mio av-
vocato.» «Avete reclami da presentare, per il trattamento in carcere?» «Con tutto il rispetto, mi rifiuto di rispondere, su consiglio del mio avvocato.» «Sapete che Richie Arnold ha detto tutto alla polizia? Perché non vuotate anche voi il sacco, semplificando così le cose?» «Con tutto il rispetto, mi rifiuto di rispondere, su consiglio del mio avvocato.» L'agente di servizio si affacciò alla porta, accompagnato da un giovane collega dall'aria nervosa. Quando parlò, gli tremava persino la voce. «Avvocato O'Donnell?» «Donnelly.» «Scusate. Avvocato O'Donnelly, il giudice Hazeltine è stato avvertito della vostra presenza in questo istituto penale e ha espresso il desiderio di vedervi il più presto possibile nella sala delle udienze.» Il suo collega sghignazzò. «È il gergo dell'accademia di polizia, e in parole povere significa "Sbrigatevi!" Carino, vero?» La sala delle udienze generalmente veniva usata per udienze particolari, di carattere psichiatrico o relative a minorenni, inadatte perciò a essere svolte in pubblico. Per motivi di economia, di notte si spegneva l'aria condizionata e nel locale c'era odore di chiuso. C'era anche un altro odore più facilmente identificabile: era quello di muffa emanato da un sacco di tela che si trovava sul tavolo, al centro della sala. Accanto al sacco c'era una borsa di pelle verde, sporca di salsedine e di muffa e unta di grasso. Solo la serratura appariva lucida e intatta. Nella sala delle udienze erano seduti il Procuratore Distrettuale Owen e il suo più valido collaboratore, Leo Bernstein, il giudice Hazeltine e Gunther. All'arrivo di Donnelly, il giudice si alzò dalla sedia che occupava e prese posto alla scrivania. Nonostante l'ora, il giudice era vispo e arzillo, come se la nuova svolta degli avvenimenti avesse suscitato il suo più vivo interesse. La sua voce era forte e chiara. «Questa riunione così fuori del comune è stata decisa per un senso di giustizia nei confronti sia dell'Accusa sia della Difesa. Della borsa di pelle verde che si trova davanti a me è stato parlato molto nel corso del processo. Perciò mi è sembrato opportuno lasciarla così com'è stata trovata, invece di forzarne la serratura. A quest'ora della notte non è possibile chiamare nessun fabbro che sappia far bene il suo lavoro, e quindi consiglierei di rimandare l'apertura della borsa a domattina, quando si riprenderà l'udienza. I due avvocati sono d'accordo?»
Donnelly scosse la testa. «Se nel corso di un processo salta fuori un nuovo indizio, la legge mi dà il diritto di esaminare le prove a carico del mio cliente, prima che esse siano portate in tribunale.» «Questa legge non è applicabile, in quanto la borsa non è stata presentata come prova d'accusa dal Procuratore Distrettuale. In effetti, in questo momento nessuno sa se il contenuto della borsa sarà a favore dell'Accusa o della Difesa. Altre domande?» «Sì» rispose Donnelly. «Dov'è stata trovata?» «In possesso di Richie Arnold.» «E lui dove l'ha presa?» «Evidentemente sullo yacht.» «Impossibile» commentò Owen. «I miei uomini l'hanno perquisito da cima a fondo.» «Evidentemente non hanno cercato nel punto esatto in cui si trovava» replicò il giudice. «Ora, ciò che è accaduto stanotte, o per meglio dire stamattina, ci pone un grosso problema. Sono stato informato immediatamente della cosa per le sue implicazioni legali. Abbiamo un minore sorpreso nell'atto di commettere un furto. Siccome i minorenni non possono uscire su cauzione, o finiscono nel carcere minorile, oppure sono restituiti alle famiglie, secondo la gravità del reato. In circostanze normali, a quest'ora Richie sarebbe già con suo padre. Ma queste non sono circostanze normali. Prima cosa, è un testimone in un processo per omicidio, e seconda cosa, il movente dell'omicidio potrebbe trovare spiegazione nel contenuto della borsa che mi sta davanti. Dunque, non abbiamo per le mani un ragazzo sorpreso nell'atto di rubare una ruota d'automobile, ma un teste dell'Accusa che ha tentato di sottrarre delle prove, ostacolando così la giustizia.» «Molto dipende» intervenne Donnelly «dal fatto che lui sapesse o no che cosa stava rubando.» «Doveva saperlo, altrimenti non l'avrebbe rubato.» «Com'è possibile? Non era presente in aula durante le altre testimonianze. Suo padre, che l'ha preceduto al banco dei testimoni, era stato ammonito come gli altri a non discutere con chicchessia né del caso né della sua testimonianza.» «Però ne hanno scritto i giornali, e ne hanno parlato radio e televisione.» «Ha confessato di sapere cosa contiene la borsa?» «No» rispose il giudice. «In realtà, non ha detto assolutamente niente, limitandosi a chiedere un avvocato e un hamburger. Per l'hamburger non era difficile accontentarlo, ma per quanto riguarda l'avvocato, la cosa non è
altrettanto semplice. Vuole voi, avvocato Donnelly. Proprio non capisco il motivo di questa sua richiesta. Qual è la vostra impressione?» «Non saprei. Forse dipende dal fatto che non conosce nessun altro avvocato.» Era una teoria deboluccia, e il giudice non la bevve. Però nemmeno lui ne aveva una migliore. Conosceva troppo poco Richie per poter stabilire fino a che punto fosse smaliziato. Chissà quante volte, mentre si aggirava nella zona del tribunale, aveva cercato di rubacchiare quello che gli capitava a tiro? Il giudice si rivolse al Procuratore Distrettuale. «Richie Arnold è mai stato arrestato per furto?» «Non mi risulta che ci sia niente a suo carico.» «Significa che non c'è niente, oppure che non ne siete informato?» «Non mi era parso necessario. Il ragazzo non è un testimone importante.» «Io invece lo ritengo necessario» obiettò il giudice. «Il ragazzo è stato mai sorpreso a rubare? E in caso affermativo, cosa? Coprimozzi o gioielli, videoregistratori o Cadillac?» «Sarà meglio chiederlo a lui» propose Owen. «Dove si trova?» «In una cella d'attesa individuale, probabilmente intento a mangiarsi l'hamburger.» «Si potrebbe farlo venire qui e interrogarlo subito. Può darsi che sia più propenso a parlare in quest'ambiente meno ufficiale. Ho tre figli anch'io, e so per esperienza quanto siano importanti l'atmosfera e il tono giusto.» Nessuno diede peso alle sue parole. I figli di Owen cominciavano a essere conosciuti, in tribunale. «Richie Arnold ha già fatto capire che non intende parlare» osservò il giudice. «Interrogarlo qui, a prescindere dall'atmosfera e dal tono dell'interrogatorio, equivarrebbe a calpestare i suoi diritti. Il mio consiglio è di andarcene tutti a casa a concludere la nottata in modo più convenzionale. Ci rivediamo domattina in aula. Siete tutti d'accordo, signori? Avvocato Owen? Avvocato Donnelly? Signor Gunther, avete detto qualcosa?» Gunther si sedette più eretto sulla sedia, e una traversa dello schienale cigolò, con uno strano rumore che sembrava un lamento umano. «Signor Gunther, avete qualcosa da obiettare, circa la mia proposta?» «Oh, no, affatto. Al contrario, mi sembra molto, molto, molto valida.» «Ci sono troppi "molto". Tre, per essere precisi. Si può essere d'accordo o non esserlo, ed eventuali variazioni non possono essere espresse con l'u-
so dell'avverbio "molto".» «Scusate, signor giudice.» «Ci vediamo domani, signori.» Donnelly aspettò il giudice Hazeltine al parcheggio. Il giudice si avvicinava alla sua auto, fischiettando. Faceva uno strano effetto, a quell'ora della notte, in quel posto. Sembrava il canto di un uccello notturno. «Posso scambiare una parola con voi, Vostro Onore?» «Vi ascolto.» «Se si nominasse un difensore d'ufficio per Richie, la cosa potrebbe causare un notevole ritardo, in attesa che si renda disponibile qualcuno. Al dipartimento di polizia lavorano a ritmo molto serrato. Mi offro di pagare di tasca mia un avvocato per Richie, senza che nessuno lo sappia, ovviamente, solo per accelerare i tempi e vedere di chiudere presto il caso.» «Cos'è, un'altra delle vostre buone azioni, avvocato Donnelly?» «La buona azione la faccio per me, e per nessun altro. Voglio lasciare la città il più presto possibile.» Il giudice lo guardò con aria interrogativa, ma non gli fece domande. «La mia è una decisione improvvisa» gli spiegò Donnelly. «Intendo trasferirmi nel mio ranch, nel Wyoming.» Poiché il giudice appariva perplesso, aggiunse: «È come se andassi in pensione. Non intendo tornare. Se dovesse essere necessario ricorrere in appello, del caso potrà occuparsi lo studio legale Esterhaus e Lowry.» «Vostra moglie viene con voi?» «No.» «Mi dispiace.» «Non dispiace a mia moglie, né a me, e non c'è nessun altro la cui opinione conti qualcosa.» Il giudice si appoggiò al cofano della sua auto, le braccia incrociate sul petto. «Sapete, Donnelly, da anni sento pettegolezzi sul vostro conto, ma non li ho mai presi sul serio.» «Forse avreste dovuto farlo» replicò Donnelly. «Buona notte. Perché non li avete presi sul serio, a proposito?» «Perché mi sembravate il tipo di persona che avesse il fegato di uscire allo scoperto già parecchi anni fa.» «Vi sbagliavate» disse Donnelly. Benché la notte precedente avesse dormito pochissimo, il giudice Hazel-
tine sembrava di ottimo umore. Aprì la seduta in perfetto orario, alle dieci in punto. Si rivolse alla giuria. «Signore e signori, si è verificata una situazione anomala che richiede un intervento altrettanto anomalo. È stata rinvenuta la borsa verde appartenente alla signora Pherson. La borsa non è stata ancora aperta. Poiché né l'Accusa né la Difesa intendono accettarla come reperto, non essendo ancora noto il contenuto, ritengo opportuno che la borsa venga aperta alla presenza di tutti, qui in aula.» «Il signor Lorenzen, il fabbro che ho chiamato, non ha niente a che vedere con questo processo e non è un testimone, quindi non ha motivo di prestare giuramento. Non essendo un testimone, come ho già detto, il signor Lorenzen non è obbligato a rispondere a nessuna domanda. Il suo compito consiste nell'aprire la serratura della borsa il più rapidamente possibile, dopodiché potrà tornare al suo lavoro. Assistente, volete far entrare il signor Lorenzen, per favore?» L'assistente tornò poco dopo in compagnia di un ometto sulla quarantina, dall'espressione sveglia, che portava una logora borsa nera. Salutò il giudice con un lieve cenno del capo; lo conosceva abbastanza bene, poiché al giudice era capitato più di una volta di restare chiuso fuori dalla sua auto e di avere bisogno dell'intervento del fabbro. «Il vostro lavoro» disse Hazeltine «consiste nel forzare la serratura della borsa verde che vedete su quel tavolino. Esaminate pure la borsa esternamente, e diteci le vostre impressioni se volete, ma non fate domande.» «Sembra una borsa per gioielli, o un beauty-case, rivestito di pelle di buona qualità. Dev'essere stato a contatto con acqua sporca, contenente fra l'altro dell'olio. In confronto al rivestimento di pelle, la serratura appare più recente. È di acciaio inossidabile, molto più robusta di quelle che generalmente si trovano montate su borse di questo tipo. Comunque, anche uno scassinatore principiante potrebbe aprirla in un paio di minuti.» «E un fabbro esperto?» «Io dovrei farcela in sette secondi. Questo genere di serratura ha la particolarità di sembrare sicura al proprietario, mentre in realtà si apre molto facilmente.» Trasse dalla borsa un attrezzo lungo e sottile, che inserì nella serratura. «Cinque secondi» annunciò Lorenzen. «Devo alzare il coperchio?» «No, preferisco farlo personalmente. Siete libero di andare. Grazie di essere venuto, signor Lorenzen.»
Il giudice attese che il fabbro uscisse dall'aula, prima di alzare il coperchio della borsa, poi fece un passo indietro per dare anche a Owen e a Donnelly la possibilità di guardare. Owen guardò e impallidì. «Accidenti, è polvere» disse. «Soltanto polvere.» «Non è polvere» lo corresse Donnelly «ma cenere.» «Come sarebbe a dire, cenere? La cenere di un camino? Mio Dio, non intenderete forse le ceneri di una persona?» «Credo di sì. Potrei dirlo con certezza, se il signor giudice e l'Accusa mi autorizzassero a toccarla.» Nessuno obiettò, e quindi Donnelly infilò la mano nella borsa, usando le dita a mo' di setaccio. Trovò un piccolo frammento d'osso e un dente, un molare scolorito ma comunque riconoscibile. Consegnò l'uno e l'altro al giudice, che a sua volta li passò a Owen. «Questo è, o meglio era, un essere umano» disse Donnelly. Il giudice tornò al suo posto, batté il martelletto e annunciò una pausa di dieci minuti, durante i quali i due avvocati avrebbero conferito con lui, nella sua stanza. Dopo che i tre vi si furono trasferiti, il giudice prese posto sulla sedia girevole, dietro la scrivania. Diede un'occhiata alla civetta senza un occhio che stava sulla libreria, poi spostò lo sguardo su Owen. «Il vostro caso è saltato in aria, avvocato Owen.» «Non sono di questo parere.» «Pensate che si possa uccidere una donna per rubarle le ceneri di sua madre?» «L'imputato ignorava che la borsa conteneva soltanto cenere. Credeva che ci fossero i gioielli.» «Cosa l'avrebbe indotto a crederlo?» «Gliel'aveva detto lei.» «Non mi sembra che la signora Pherson fosse tipo da comportarsi in un modo così strano.» «La signora Pherson stava comportandosi in modo decisamente stravagante, a quanto sembra.» Il giudice decise di richiamare al banco dei testimoni il dottor Woodbridge, onde accertare che quelle ceneri fossero umane. Woodbridge non era disponibile fino al pomeriggio. Altro ritardo. L'udienza fu sospesa. Donnelly si avvicinò al giudice. «Intendo chiedere a Vostro Onore che sia ritirata ogni accusa contro il mio cliente.»
«Non sprecate il fiato» replicò Hazeltine. «Non ve lo concederò.» Il dottor Woodbridge fu il primo teste del pomeriggio. Come Donnelly, anche lui esaminò le ceneri usando le dita a mo' di setaccio. Dichiarò che quelle ceneri erano di persona piccola e magra. Oltre al molare e al frammento d'osso trovati da Donnelly, Woodbridge scoprì un secondo frammento d'osso, e inoltre un orologio da polso e una fede matrimoniale d'oro. All'interno della fede erano incise le iniziali R.M., B.K. evidentemente né l'orologio né l'anello avevano subito il processo della cremazione, ma erano stati messi nella borsa a cremazione avvenuta. Tylor Pherson fu chiamato di nuovo a testimoniare. Quando gli fu chiesto se riconosceva l'orologio e la fede, rispose che entrambi erano appartenuti alla madre di sua moglie, Ruth Maddox, deceduta all'inizio della primavera. «Dov'erano state riposte le ceneri della signora Maddox?» «In un grande vaso cinese, in salotto. Io desideravo che le facesse interrare in un cimitero, come sarebbe stato più logico, ma mia moglie non voleva saperne. Solo ora mi rendo conto di quanto fosse sconvolta per la morte della madre. Di fronte alla gente, fingeva di essere tranquilla. Non le andava di mostrare a tutti il suo dolore.» «Di solito, dove teneva l'astuccio dei gioielli vostra moglie?» «In una cassaforte, nell'armadio.» «Dal giorno della sua morte, avete avuto occasione di aprire la cassaforte?» «No.» «Dunque, ritenete probabile che i gioielli siano ancora là dentro?» «Sì, lo ritengo probabile.» «Conoscete la combinazione della cassaforte?» «No. Madeline e io rispettavamo la privacy l'uno dell'altra.» «Chi conosce la combinazione?» «Il suo avvocato.» «Dove pratica la professione?» «A Bakersfield.» «Pensate che si trovi nel suo studio, in questo momento?» «Credo di sì. Non è un penalista, e perciò lavora più che altro nel suo studio.» «Se gli telefonate durante la pausa, pensate che accetterà di andare a casa vostra e di aprire la cassaforte della signora Pherson, per verificare se i
gioielli ci sono oppure no?» «Penso di sì.» «Allora telefonategli, signor Pherson.» «D'accordo.» Richie Arnold fu l'ultimo dei testimoni richiamati a deporre nel pomeriggio. Era arrivato con suo padre durante la pausa. Padre e figlio presero posto nella prima fila. Invece del pullover e dei pantaloni che gli aveva comperato Harry in occasione della sua prima apparizione in aula, Richie indossava la sua tenuta da spiaggia, jeans stretti e maglietta leggera. Il mattino, dopo che aveva chiamato il Procuratore Distrettuale, c'era stato un litigio tra i due, appunto a causa dell'abbigliamento di Richie. «Sembri un fannullone» l'aveva accusato Harry. «Non sono un fannullone.» «Però ne hai l'aria. Come fa la gente a sapere se sei un fannullone o se ne hai soltanto l'aria?» «Per la miseria!» «E non voglio sentire certe risposte.» Un segnalatore acustico avvertì che la pausa era terminata. La gente cominciò a riversarsi nell'aula, prima il pubblico, poi i giurati e infine il giudice. Hazeltine diede uno sguardo circolare all'aula, guardando al di sopra degli occhiali, e si soffermò sui due Arnold, nella prima fila. «Signor Arnold, devo pregarvi di aspettare fuori in corridoio.» «Perché? Questo è mio figlio, ed è minorenne. Ho il diritto...» «L'unico che ha il diritto di pronunciarsi, in questa sede, sono io. E vi dico di uscire.» «Non mi sembra molto democratico.» «Infatti, non lo è, né intende esserlo. Tutti i testimoni devono stare fuori dell'aula prima e dopo la loro deposizione.» «Ma Richie è stato affidato alla mia custodia. Devo stare con lui giorno e notte, per assicurarmi che non faccia stupidaggini.» «Assistente, volete accompagnare fuori il signor Arnold?... Richie, ora siamo pronti ad ascoltarti.» Richie si alzò e s'incamminò verso il banco. Dalla tasca posteriore dei jeans sporgeva un pettine. Se lo passò tra i capelli, prima di sedersi al suo posto. Sembrava più a suo agio, ora che il padre era uscito. «Sia il Procuratore Distrettuale sia l'avvocato della Difesa» disse il giu-
dice «si sono dichiarati d'accordo che tu faccia la tua deposizione, raccontandoci tutta la storia con le tue parole. Quando avrai terminato, l'avvocato Owen ti farà alcune domande, e dopo di lui l'avvocato Donnelly. È una procedura irregolare, ma sono convinto che servirà a farci guadagnare tempo e soprattutto a stabilire la verità.» «Da dove volete che cominci?» «Da quando hai visto Madeline Pherson per la prima volta.» «Stava percorrendo la passerella con Cully. E Harry ha esclamato: "Dio Onnipotente, si è portato una donnaccia!" Ho visto subito che non era una donnaccia, ma ho preferito non discutere con lui. Per Harry, tutte le donne sono poco serie, forse perché ha avuto sempre sfortuna con loro. Non come Cully, che gli basta far schioccare le dita...» «Non divaghiamo, giovanotto.» «Va bene, signore. Cully ci ha presentato la signora, a me e a Harry, e ci ha detto che era la nuova cuoca. Forse scherzava, e infatti non l'ho mai vista scendere giù in cambusa. Poi Cully e lei sono andati nella cabina di Cully. Non l'ho più vista fino al giorno dopo. Cully e Harry erano nel vano motore, e io stavo togliendo la copertura alla vela maestra, quando a un tratto mi sono trovato la signora alle spalle. Mi ha chiesto se accettavo di farle un favore, dicendomi che in cambio mi avrebbe dato cento dollari. Be', non avevo mai avuto cento dollari in vita mia. Harry prende sempre la mia paga e la mette in una banca di St. Thomas. Così ho accettato e le ho chiesto che favore dovevo farle. «Non era niente d'illegale o roba del genere: dovevo semplicemente nascondere una cosa che lei mi avrebbe consegnato, in un punto dello yacht dove nessuno potesse trovarla. Mi ha dato la borsa di pelle verde, quella che è lì sul tavolino, e cinque biglietti da venti dollari. Le ho chiesto se bisognava evitare che si bagnasse o prendesse umidità, e lei mi ha risposto che non aveva importanza. Ho pensato subito di nascondere la borsa nella sentina perché non ci va mai nessuno. Così ho avvolto la borsa nel vecchio sacco di una vela, e l'ho nascosta sotto i pioli di ferro, nella sentina. «Vuoi spiegare a tutti che cosa sono questi pioli?» «Sono pezzi di ferro che servono da zavorra. Il signor Belasco ne tiene una grossa pila, giù nella sentina. Così, ho nascosto il sacco contenente la borsa sotto i pioli. Pensavo che al termine del viaggio la signora Pherson mi avrebbe chiesto di restituirgliela, ma non l'ho più rivista.» Non aveva raccontato questa storia a Harry. Né l'aveva detta alla polizia, quando aveva perquisito lo yacht. Non sapeva cosa contenesse la borsa
verde, e all'inizio aveva cercato di non pensarci. Ma via via che ne parlavano i giornali, la televisione e anche Harry, aveva capito che quella borsa era un'importante prova d'accusa contro Cully. Se fossero riusciti a trovarla, il contenuto poteva offrire lo spunto per accollargli un movente ben preciso. Così, Richie aveva deciso di andare a recuperare la borsa, e ce l'aveva quasi fatta. Guardò Cully con l'aria di essere fiero di sé, ma anche di volergli chiedere scusa. Cully si strinse nelle spalle e girò la testa dall'altra parte. Il tutto era facilmente interpretabile in questo modo: "L'ho fatto per te, Cully". E: "Non voglio favori da te, ragazzo". «Hai finito, Richie?» domandò il giudice. «Credo di sì.» «Avvocato Owen, avete domande da fare al ragazzo?» «Sì, Vostro Onore... Richie, tu sapevi, vero, che la polizia stava cercando la borsa verde?» «L'ho sentito dire.» «Perché non l'hai messa al corrente del fatto che la signora Pherson l'aveva consegnata a te?» «Non me l'hanno mai chiesto.» «E non hai pensato che fosse tuo dovere dirlo ugualmente?» «No.» «Ti consideri un buon amico dell'imputato, Richie?» «Lui è il capo.» «È anche tuo amico?» «Io sono suo amico. Non sono sicuro che lui sia amico mio.» «È stato per via di quest'amicizia, contraccambiata o no, che hai raggiunto il Bewitched a nuoto e hai rubato la borsa?» «Secondo me, quello non è rubare.» «Sei stato arrestato, no?» «Sì.» «Dunque, evidentemente altri ritengono che tu abbia rubato, non ti pare?» «Può darsi.» «Ti rendi conto adesso di quanto sia stupido rischiare per una persona che forse non è neppure tua amica?» Richie rimase ostinatamente muto, le braccia incrociate sul petto. Avrebbe preferito essere punito da uomo, piuttosto che rimproverato come un bambino.
Era il turno di Donnelly. L'avvocato della Difesa non aveva nessuna fretta. Ci teneva che la scena rimanesse bene impressa nella mente dei giurati, poiché l'imputato era apparso come un uomo capace d'ispirare lealtà e amicizia. Sistemò alcune carte, prese un paio d'appunti, e finalmente si alzò per controinterrogare Richie. «Richie, quando la signora Pherson ti ha consegnato la borsa verde, ha usato davvero il verbo "nascondere"?» «Non ricordo esattamente, comunque mi ha detto di metterla da qualche parte dove nessuno potesse trovarla.» «Ti sei chiesto cosa contenesse?» «Mi sono chiesto per quale motivo mi ha dato una cifra del genere, cento dollari, perché gliela nascondessi.» «Quando hai saputo cosa conteneva, ti sei meravigliato?» «Si sono meravigliati tutti. Però, questo spiega che tipo era, gentile e affabile, ma non del tutto normale.» Richie si volse verso il giudice. «Credo che sia finito. Mi sono comportato bene?» «Ti sei comportato bene. Sei libero di andartene, adesso, Richie.» «Intendete dire di andarmene a casa, alle isole? Non voglio andarci. Voglio aspettare Cully. Io e lui possiamo andare via insieme.» «La faccenda non è di competenza di questa Corte. Scendi pure, Richie. Grazie. Date le circostanze, credo che siamo stati abbastanza indulgenti con te. Sai che cosa significa?» «Sì. Significa che devo stare con Harry come se fosse mio padre.» «Basta così, Richie. Scendi, per favore. Grazie.» «A questo punto» disse Donnelly «chiedo una pausa di dieci minuti, onde sia possibile ricercare il numero della pagina e delle righe del verbale, relative ad alcune parti delle deposizioni del signor Pherson, del signor Elfinstane e della signorina Gomez di San Diego. Se questi passaggi, che ritengo di grande rilevanza, saranno letti a voce alta, non si renderà necessario richiamare i tre testimoni da me citati.» «Vi concedo i dieci minuti» disse il giudice, e batté il martelletto. Se lo sentiva bene in mano, del peso giusto, giustamente bilanciato. Aveva sentito dire che, in occasione della cena che sarebbe stata organizzata prima che lui andasse in pensione, gli avrebbero regalato un martelletto placcato in argento, in sostituzione di quello vero di legno. Ma lui non era tipo da sostituire niente. Non si era più risposato dopo che gli era morta la moglie, non si era comperato un altro cane, e riteneva che niente potesse sostituire
il suono del martello di legno che batteva contro il legno del banco. Il rumore del metallo non era altrettanto gradevole, e soprattutto altrettanto significativo. Quando la Corte riprese i lavori, copie del verbale furono distribuite al giudice e al Procuratore Distrettuale. In piedi alla sbarra, Donnelly leggeva la copia che aveva in mano. «La deposizione del signor Pherson inizia a pagine seicentosettantatré, ma la parte che m'interessa comincia a pagina seicentonovantuno, ottava riga. A quel punto, conduceva l'interrogatorio il Procuratore Distrettuale Owen.» D: I vostri legami familiari erano molto stretti? R: Madeline era affezionatissima a sua madre. D: La madre abita a Bakersfield? R: No. È morta nel mese di marzo. Lei e Madeline stavano progettando un viaggio alle Hawaii, quando sua madre si è ammalata. Madeline ne ha risentito moltissimo. Per questo ho voluto che si prendesse una vacanza. Pensavo che un cambiamento d'ambiente le avrebbe giovato, l'avrebbe tirata un po' su di morale. L'ironia di questa situazione non mi dà pace né giorno né notte, il pensiero che sono io responsabile della sua morte, benché stessi cercando di aiutarla. «Saltiamo ora alla pagina settecentouno, ottava riga. È ancora il Procuratore Distrettuale che conduce l'interrogatorio.» D: E così, l'avete convinta a prendersi una vacanza, a cambiare ambiente? R: Sì. Ha scelto lei la zona di San Diego, poi la mia segretaria si è occupata dei biglietti e delle prenotazioni, e io l'ho accompagnata in macchina all'aeroporto. Mi ha telefonato al suo arrivo. Sembrava abbastanza su di morale. È stata l'ultima volta che ho sentito la sua voce. «Passiamo alla pagina successiva, ventesima riga. È il mio controinterrogatorio.» D: Signor Pherson, avete detto che vostra moglie sembrava abba-
stanza su di morale, quando vi ha chiamato. Vi ha stupito? R: Mi ha fatto piacere. D: Sì, ma vi siete meravigliato? R: Avevo pensato che ci avrebbe impiegato più tempo a uscire dal suo stato depressivo e a tornare a godersi la vita. Dunque, la mia risposta è che sono rimasto piacevolmente sorpreso. D: Vi aveva mai parlato di suicidio? R: No, mai. D: Avete detto, se non erro, che la signora Pherson assisteva i malati irrecuperabili e le loro famiglie. È così? R: Sì. D: Nel corso di tali conversazioni, è probabile che saltasse fuori l'argomento del suicidio? R: Quando dico che non mi ha mai parlato di suicidio, intendo che non ne parlava riferendosi a se stessa. Non le sarebbe mai venuta in mente l'idea di fare una cosa del genere. D: Benché si trovasse, come voi avete dichiarato, in uno stato depressivo dovuto alla recente scomparsa della madre? Donnelly bevve un sorso d'acqua, prima di riprendere la lettura del verbale. Stavolta al banco dei testimoni c'era Angelina Gomez, la cameriera dell'albergo. Owen stava interrogandola. D: Voi eravate entrata durante l'assenza della signora Pherson? R: Sì. D: Aveva disfatto le valigie? R: Sì. Tutto era ben sistemato nei cassetti, o appeso nell'armadio. Era una donna ordinata. Non ho dovuto far altro che sostituire un paio di asciugamani usati. D: I vestiti riposti nell'armadio erano in ordine? R: Oh, sì, sembrava che fossero esposti in un negozio, bene abbottonati sulle grucce appendiabiti perché non si sgualcissero. D: Dove vi trovavate esattamente, quando è rientrata la signora Pherson? R: In bagno. Le ho domandato se dovevo andarmene e tornare più tardi, ma lei mi ha risposto di no. Mi ha detto che non aveva importanza, dal momento che stava per uscire di nuovo. Così ho finito di mettere in ordine il bagno, ho sostituito i due asciugamani,
e intanto sentivo che lei parlava da sola, in camera. Almeno, credo che parlasse da sola, dal momento che non c'era nessuno lì. È come quando si è pronti per uscire, e prima di andarsene, ci si dà un'ultima occhiata allo specchio, e ci si saluta da soli. "Ehi, niente male, hai un bell'aspetto", ci si dice. D: La signora Pherson aveva l'aria di essere contenta, signorina Gomez? R: Oh, sì, molto contenta. Come se avesse bevuto un paio di bicchierini. D: Avete sentito ciò che diceva? R: Per forza, non era possibile fare altrimenti. Non si può aprire e chiudere gli orecchi a piacimento, come si fa con gli occhi. D: Cosa le avete sentito dire? R: Qualcosa come: "Hai sempre desiderato di andare alle Hawaii, e adesso stai per farlo". Qualcosa di simile. Non ci ho fatto molto caso. C'è un mucchio di gente che vorrebbe andare alle Hawaii, compresa la sottoscritta... D: Dunque, aveva l'aria di essere felice del viaggio che l'aspettava, non è vero? R: Sì, certo. La deposizione del signor Elfinstone iniziava a pagina settecentonove, tredicesima riga. Un paio di pagine più avanti c'era la parte che interessava. L'avvocato Owen aveva domandato al signor Elfinstone che cosa gli aveva detto la signora Pherson, quando era tornata al banco per chiedergli la restituzione della borsa, che gli aveva affidato soltanto un'ora prima perché la mettesse in cassaforte. R: Che intendeva fare qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua, e che certamente non avrebbe fatto mai più. Poi si è messa a ridere... D: La sua osservazione vi ha lasciato perplesso? R: Non molto. Non ho l'abitudine di prestare grande attenzione a quello che mi dice la gente. Ciò che conta, è semplicemente quello che fa. D: E la signora Pherson che cosa ha fatto? R: Ha preso l'ascensore ed è salita in camera sua. Qualche minuto più tardi, è ricomparsa, ha attraversato l'atrio e ha raggiunto un ta-
le... ... Adesso che ci penso, ricordo di averle domandato che cosa intendesse fare. Mi ha risposto che non poteva dirmelo, che era un segreto, e che se qualcuno ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe potuto tentare di fermarla. Io no di certo, ho replicato. È mia convinzione che bisognerebbe vivere più intensamente, e afferrare le occasioni al volo. "Carpe diem", come dicevano i latini. Comunque, mentre la signora Pherson attraversava l'atrio, ho pensato che forse si sarebbe divertita anche senza i miei consigli. D: Dunque, per quanto vi risulta, la signora Pherson non aveva l'aria demoralizzata? R: Decisamente no. Anzi, pareva molto soddisfatta, felice come un'allodola... «Passiamo ora alla pagina seguente, sesta riga» disse Donnelly. «lì inizia il mio controinterrogatorio del signor Elfinstone.» D: Signor Elfinstone, da quanto tempo lavorate negli alberghi? R: Da oltre vent'anni. D: In tutto questo tempo, vi sono capitati dei clienti che si siano suicidati? R: Purtroppo sì. Anche se evitiamo che queste cose si sappiano in giro. La gente tende a rifiutare le stanze in cui si sia verificata una tragedia. D: In tutti questi anni d'esperienza, avete notato se i potenziali suicidi si comportano tutti in modo simile? R: No. D: Alcuni apparivano visibilmente depressi, immagino? R: Sì. D: E altri sembravano di buon umore? R: Sì. D: Altri ancora davano l'impressione di essere perfettamente calmi, padroni di sé? R: Oh, sì. La calma prima della tempesta, come si suol dire. D: In altre parole, state dicendo che non è possibile individuare un potenziale suicida, basandosi sul suo aspetto e sul suo comportamento? R: Se questo fosse possibile, lo dirotteremmo a un albergo della
concorrenza. Donnelly chiuse il fascicolo e si preparò a tornare al suo posto. «Si sta facendo tardi» disse il giudice. «Se pensavate di chiamare i vostri primi testimoni, signor Donnelly, direi di rimandare alla prossima sessione.» «Non chiamo nessun testimone, Vostro Onore.» «Nessuno?» «Nessuno.» «Spero che abbiate riflettuto bene.» «Sì. I testi presentati dall'Accusa non hanno nuociuto affatto al mio cliente, e perciò ritengo opportuno lasciare le cose come stanno.» «Molto bene. Desidero parlare un momento con i due avvocati alla sbarra.» Dopo un breve scambio di parole alla sbarra, fu deciso che la Corte sarebbe tornata a riunirsi il martedì successivo, in modo da dar tempo ai due avvocati di preparare le dichiarazioni conclusive. Owen lavorò tutto il fine settimana. Il lunedì, trascrisse a macchina, la sua dichiarazione conclusiva apportando modifiche, togliendo e aggiungendo, cambiando il tono di voce per dare maggiore enfasi al discorso. Rilesse tutta la parte finale con piacere e orgoglio, e il lunedì sera, dopo cena, lo lesse di nuovo a voce alta a Vee e ai ragazzi. L'accoglienza non fu delle più entusiasmanti: Thatcher si addormentò sul pavimento, Jonathan ricevette la telefonata di un'amica, e quanto a Chadwick, un attacco di singhiozzo lo costrinse a ritirarsi in camera sua. Vee pensò bene di preparare la lista del droghiere. Il suo pubblico del martedì mattina si dimostrò più attento. Donnelly e il giudice presero appunti mentre lui parlava, e la stessa cosa fecero i giurati, tranne il numero 2. Elsie Ball era un'infermiera che lavorava privatamente tutte le notti dalle ventitré alle sette del mattino. Non era mai completamente sveglia, e la voce di Owen le faceva da sonnifero. Comunque, non aveva importanza, dal momento che fin dal primo giorno del processo aveva deciso come avrebbe votato, e non aveva nessuna intenzione di cambiare idea. «Signore e signori della giuria, forse ricorderete che nel corso della mia dichiarazione preliminare avevo detto che questo caso era molto semplice. Ora torno a ripeterlo: questo è un caso molto semplice.
«Sulla sedia dell'imputato vediamo Cully Paul King. L'accusa a suo carico è quella di omicidio con aggravanti. Non esiste reato più grave, secondo la legge. «Il signor King non è uno dei soliti neri perseguitati dalla sfortuna. Lui ha avuto molti vantaggi rispetto alla maggior parte della gente della sua razza. Guadagnava abbastanza da vivere bene, facendo un lavoro insolito, cioè il capitano di uno yacht. Perciò, se ci fosse qualche cuore sanguinante in mezzo alla giuria, si faccia in modo che il buonsenso prevalga sulle emozioni: Cully King faceva una bella vita. «Un caso molto semplice, ripeto, riassumibile in poche parole: lo yacht Bewitched, salpato da San Diego con quattro persone a bordo, è arrivato a Santa Felicia con tre persone soltanto. «Il passeggero scomparso, il cui cadavere è stato rinvenuto in seguito invischiato in una colonia d'alghe, era Madeline Pherson, una donna sposata di quarant'anni che veniva da Bakersfield. Una donna che faceva opere di bene, che lavorava come volontaria negli ospedali, che assisteva i malati inguaribili e le loro famiglie. Per quale motivo una donna di questo genere avrebbe dovuto entrare in un bar e adescare un uomo sconosciuto, più giovane di lei, che per giunta non era nemmeno della sua razza? Quale tragico scherzo del destino ha fatto sì che le loro due vite s'incrociassero, le vite di due persone che venivano da ambienti diversi, avevano una cultura diversa, e appartenevano a due razze differenti? «Passiamo ora alla scena del delitto, il Bewitched. Quando è salita a bordo, la signora Pherson indossava una giacca a righe bianche e blu. La giacca è stata ritrovata in seguito nell'oceano. Era completamente abbottonata, da cima a fondo, e noi sappiamo dalla testimonianza della signorina Gomez che la signora Pherson appendeva a quel modo i suoi indumenti, essendo una donna molto ordinata. Ne possiamo dedurre che la giacca è stata tolta da una gruccia appendiabiti così come stava, ed è stata buttata in mare. Ripensate alla deposizione di Harry Arnold, che ha dichiarato di aver visto l'imputato gettare alcuni indumenti in acqua. Era troppo buio perché Harry Arnold potesse riconoscere gli indumenti, ma certamente non si è sbagliato sull'identità dell'uomo che stava compiendo l'azione: Cully Paul King, che stava sbarazzandosi in quel modo delle prove che la signora Pherson era salita a bordo. Evidentemente, non si aspettava che si ritrovasse il cadavere. Il mare non restituisce facilmente i morti, e Cully King contava su questo. Il mare non gli sarebbe stato soltanto amico, ma anche complice. Ma era una complicità che aveva i suoi limiti, e così non ha fun-
zionato. In caso contrario, nessuno di noi si troverebbe qui in quest'aula, in questo momento. «L'elemento che Cully King non aveva preso in considerazione, era la presenza di vaste formazioni di alghe, che non si trovano nel suo paese d'origine. «E ora, impieghiamo qualche minuto per esaminare la teoria dell'avvocato Donnelly, il quale vorrebbe farvi credere che la signora Pherson si sia gettata in acqua con l'intenzione di suicidarsi. L'acqua fredda avrebbe rallentato il suo metabolismo, facendola sopravvivere il tempo necessario all'azione delle onde di sospingerla verso le colonie di alghe, per cui i solchi visibili sul suo collo non sarebbero stati prodotti dai pollici del signor King, ma dalla pressione dei galleggianti che crescono lungo lo stelo di questa specie d'alga. «Tenete presente che l'avvocato Donnelly non ha bisogno di dimostrare che le cose siano andate in questo modo. Gli è sufficiente convincervi che 'potrebbero' essere andate così. Ci è riuscito? Spero di no. Mi rincrescerebbe di vedere un gruppo di uomini e donne intelligenti lasciarsi incantare dai trucchi da prestigiatore dell'avvocato Donnelly. «Ma dimentichiamo per un attimo i suoi trucchi, dimentichiamo la colonia di alghe, dimentichiamo la creta, il metabolismo e tutto il resto. Teniamo presente solo un fatto della massima importanza: il Bewitched ha lasciato San Diego con quattro persone a bordo, ed è arrivato a Santa Felicia con tre passeggeri. Che ne è stato del quarto? «L'avvocato Donnelly vorrebbe farvi credere che la signora Pherson avesse già deciso di suicidarsi prima ancora di partire da casa sua. Sarebbe molto comodo, per l'avvocato Donnelly e per il suo cliente, se voi gli credeste. Ma non può essere, il buonsenso ve lo impedisce. La signora Pherson era il tipo di donna che, per quanto depressa, non sarebbe mai arrivata al suicidio. Non se ne stava rintanata in casa, senza preoccuparsi degli altri, senza ricordarsi della loro esistenza. E non dimentichiamo che aveva acconsentito a prendersi una vacanza. Quando ha telefonato al marito per informarlo del suo arrivo a destinazione, aveva un tono di voce allegro; inoltre, ha conversato con il signor Elfinstone e ha parlato anche con la cameriera, signorina Gomez. Sembrava a suo agio in compagnia di Cully King. Vi sembra il ritratto di una donna che avesse deciso di suicidarsi? Decisamente no. «Forse potrà sembrare strano che portasse con sé le ceneri di sua madre. Ma ricordate che si volevano molto bene, le due donne, e che avevano in
programma un viaggio alle Hawaii, quando la madre si è ammalata. «Una donna strana, può darsi. Ma depressa, no.» Owen continuò a parlare, finché il giudice, alle undici, fissò dieci minuti di pausa. Owen ne approfittò per spruzzarsi in bocca lo spray che rinfrescava l'alito e per succhiare una caramella contro la tosse, mentre rileggeva gli appunti che gli servivano per il resto della giornata. Si rendeva conto del fatto che i giurati cominciavano a dare segni d'irrequietezza: la carta frusciava, le sedie girevoli cigolavano, e l'infermiera che faceva il turno di notte era arrivata al punto di russare. Decise di tagliare il resto del discorso, riducendolo all'essenziale. Durante la pausa, Eva Foster era rimasta inchiodata al suo posto. Cully King si era alzato per stiracchiarsi, ed Eva aveva pensato che aveva un bel corpo e che si muoveva con grazia. Quando Eva parlò, Cully dovette chinarsi per capire ciò che gli diceva. «Scommetto che siete stufo di sentire tutte queste chiacchiere, non è vero?» «Si possono fare cose anche più spiacevoli, e in posti peggiori di questo.» «Non siete più cordiale con me. Come mai?» «Perché cominciate a farvi delle idee.» «E voi disapprovate le donne che si fanno delle idee?» «Certe donne, e certe idee.» Seguì qualche istante di silenzio. Cully tornò a sedersi, cercò di mettersi comodo. «Vi piace il mio vestito?» gli domandò Eva. «Veramente non l'ho guardato.» «Be', guardatelo adesso.» Lui si voltò a guardare. «Sì, è grazioso.» «Lo indossavo anche l'altro giorno, e mi avevate detto che era bello.» «Grazioso, bello, che differenza fa?» «Ci tengo a sapere se quello che indosso vi piace oppure no.» «Smettetela di parlare in questo modo. Qualcuno potrebbe sentirvi, e credere che voi e io... che noi due...» «Che ce l'intendiamo? Be', lasciate pure che lo credano. Del resto, è vero. Ieri sera ho parlato di voi con mio padre, gli ho detto cosa sento per voi, e l'ho messo al corrente dei nostri progetti.» «Io non c'entro affatto con i vostri progetti, signorina Foster.» «Non c'entrate? Ma se siete voi, il mio progetto.»
«Avete detto questo a vostro padre?» «Sì.» «E lui che cosa vi ha risposto?» «Che spera che vi condannino a morte.» «Ditegli una cosa da parte mia.» «Cioè?» «Che lo spero anch'io.» Owen tornò al suo posto di combattimento alle undici e venti. «A questo punto, signore e signori, vorrei rivedere brevemente alcune dichiarazioni dei miei testimoni. Il mio primo teste è stato il signor Belasco, il quale ci ha descritto il suo yacht, il Bewitched, in modo particolareggiato, permettendoci di familiarizzarci con la scena del delitto. «È stato veramente commesso un delitto a bordo? L'avvocato Donnelly pretenderebbe che metteste da parte il buonsenso e decideste che non è stato commesso. Forse ricorderete la famosa scena di un film, in cui chiedono qualcosa a Jimmy Durante riguardo all'elefante che ha con sé. 'L'elefante!' esclamava Durante. 'Quale elefante?' 'Omicidio!' potrebbe dire l'avvocato Donnelly. 'Quale omicidio?' Al che potrei rispondergli: 'L'omicidio evidente quanto un elefante.' «Il patologo legale, dottor Woodbridge, vi ha spiegato che la signora Pherson è morta d'asfissia provocata da strangolamento. Vi ha mostrato l'ingrandimento dei solchi lasciati sul suo collo dai pollici di Cully King. «Il tenente Sommerville, della Guardia Costiera, vi ha illustrato in che modo il corpo della signora Pherson è stato districato dalle alghe che l'avviluppavano. «Tyler Pherson, marito della vittima, vi ha descritto il carattere della moglie e vi ha parlato del grande affetto che la legava a sua madre. «La testimonianza di Angelina Gomez, la cameriera, è interessante sotto due aspetti. Prima di tutto, possiamo dedurre che la signora Pherson intendeva tornare in albergo, visto che vi aveva lasciato i suoi indumenti. Secondo, la signorina Gomez ci ha dimostrato che la signora Pherson intendeva fare un viaggio alle Hawaii. «Il signor Elfinstone, vicedirettore dell'albergo, ci ha riferito quanto gli ha detto la signora Pherson, quando è andata a riprendersi la borsa verde. La sua impressione era che avesse in mente di spassarsela. «Ho lasciato per ultime le deposizioni di Harry Arnold e di suo figlio Richie. Harry Arnold ha sentito grida di donna nel cuore della notte, e in seguito ha visto Cully King gettare in mare alcuni indumenti.
«Richie Arnold non ha assistito alla scena descritta dal padre, ma ha sentito una donna gridare. Se vi è sembrato incerto su questo particolare, è solo perché era nervoso all'idea di nuocere all'uomo che era suo amico e anche il suo superiore. Richie ci ha anche parlato dell'incarico che gli aveva affidato la signora Pherson di nascondere la borsa verde. Non sappiamo quale motivo l'abbia spinta a farlo, e probabilmente non lo sapremo mai. Ma potrebbe avere agito in questo modo, perché non era in sé, dopo i bicchieri che aveva bevuto al bar. A una persona non abituata a bere come la signora Pherson, i Martini doppi fanno certamente un brutto effetto. Se il suo cervello non fosse stato annebbiato dall'alcool, non avrebbe mai accettato di salire a bordo del Bewitched con un uomo come Cully King. «E adesso consideriamo l'imputato. Prima di tutto, si può dire di lui che è un assassino, un feroce assassino. Senza un briciolo di pietà, senza un briciolo di rimorso, senza un briciolo di umanità. «Ha ucciso la signora Pherson per impossessarsi degli orecchini di diamante che aveva agli orecchi e che l'uomo del banco dei pegni ha ritirato in cambio di cinquecento dollari? No. Gli orecchini non erano che una piccola parte del movente. Il resto si trovava nella borsa dei gioielli, o meglio in quella che Cully King aveva scambiato per la borsa dei gioielli. «Voglio ripeterlo ancora una volta: questo è un caso molto semplice. «La maggior parte degli assassini sono distratti. Si lasciano alle spalle orme, impronte digitali, incarti di gomme da masticare, scatole di fiammiferi, mozziconi di sigaretta. Cully King, che per natura e per abitudine è un uomo meticoloso, ha cancellato con molta facilità la signora Pherson dal Bewitched. A incastrarlo non è stata una sua distrazione, ma un ciuffo d'alghe di cui ignorava l'esistenza. Se il corpo di Madeline Pherson non vi fosse rimasto impigliato, questo processo non avrebbe avuto luogo. «Sono stati condotti processi d'omicidio in cui il cadavere della vittima non era stato ritrovato, ma sono casi rari e l'esito non è mai soddisfacente. I californiani dovrebbero essere grati a quel ciuffo d'alghe, che impedirà a un assassino di camminare libero per le nostre strade. «È un peccato che Cully King non sia salito al banco dei testimoni. L'avreste visto impigliarsi nelle sue stesse menzogne, così come la signora Pherson si è impigliata in quelle alghe. «Signore e signori della giuria, non potete farvi un'idea esatta della personalità di Cully King semplicemente vedendolo seduto in aula giorno dopo giorno, tranquillo, sicuro di sé, con l'aria del brav'uomo. Sì, può sembrare un brav'uomo, ma io so com'è in realtà. È un cancro, e come il cancro
è letale. Sta a voi, signore e signori, sbarazzarvi di quel cancro prima che si diffonda.» L'autobus grigio del penitenziario con i finestrini sbarrati arrivò per prelevare i detenuti e portarli a mangiare. Il gruppetto che stava aspettandolo era fermo sotto l'arcata che dava accesso all'ufficio dello sceriffo. Tutti erano ammanettati, e uno di loro aveva i ferri al piede. Anche Richie Arnold aveva aspettato l'arrivo dell'autobus, seduto sull'erba all'ombra di una pianta di limoni. Quando l'autobus si accostò al marciapiede, Richie si alzò e si avvicinò all'autista. L'agente aprì il finestrino. «Fatti indietro, ragazzo. Non è posto per te.» «Voglio solo parlare un attimo con mio padre.» «È contro il regolamento.» «Lo so, ma non potrei parlargli soltanto un minuto?» «E così, tuo padre fa parte di quest'allegra brigata? Come ti chiami, ragazzo?» «Richie Arnold.» «Non ho nessun Arnold in consegna, in questo momento.» «Arnold è il nome del mio padre adottivo. Il mio vero padre è Cully King. Andrò a vivere con lui, quando torneremo alle isole. Voglio cominciare a programmare il viaggio, ma prima ho bisogno di parlargli.» «Se fosse per me, ti lascerei parlare da adesso fino a Natale, ma i miei superiori non l'approverebbero. Vuoi farmi buttare fuori dalla polizia?» «No.» «Allora vattene, ragazzo.» Richie indietreggiò, e nel farlo raggiunse il gruppetto che attendeva sotto l'arcata. Si erano allineati a due a due, e a prima vista potevano sembrare scout in procinto di mettersi in viaggio. Cully era ammanettato con un giovane che aveva i ferri al piede. Il giovane era paonazzo e sudato. «Ho un mal di testa terribile» disse a Richie. «Potresti aiutarmi?» «Lascialo stare» intervenne Cully. «Non vedi che è un ragazzo?» «Anch'io non ero che un ragazzo, quando mi sono rifiutato di far entrare Gesù Cristo nel mio corpo, e al suo posto è entrato il diavolo, che mi ha dato questo terribile mal di testa. Aiutami, ragazzo, aiutami.» «Non so che potrei fare» rispose Richie. «Pillole. Fammi avere le pillole.» «Non ho soldi.» «Sono piccole pillole azzurre.»
Cully gli ordinò di tacere, poi si rivolse al ragazzo. «Vattene via di qui, e stai alla larga.» «Voglio solo parlarti un minuto.» «Di che?» «Dei nostri progetti.» «Non abbiamo nessun progetto. Non abbiamo niente in comune, io e te, così come non ho niente in comune con questo divoratore di pillole.» «Piccole pillole azzurre» ripeté il giovane. «Se ne prendono due o tre, e il dolore se ne va, e si comincia a volare su una nuvola. È come andare in paradiso. Solo che poi si deve ritornare giù, ed è quello che mi sta accadendo adesso.» Nessuno gli dava retta. Gli altri detenuti avevano già sentito decine e decine di volte le sue parole, e Richie non aveva occhi che per Cully King. «Pensavo che noi due avremmo fatto meglio a programmare il nostro ritorno alle isole. Per fare una famiglia, bastano due persone. Possiamo farci assumere sulla stessa barca, lavorare insieme.» «Smettila di dire cavolate.» «Piccole pillole azzurre.» Due agenti uscirono dall'ufficio dello sceriffo, e immediatamente la colonna si mosse verso l'autobus grigio. Mentre si staccava dal marciapiede, qualcuno all'interno agitò un braccio in segno di saluto. Richie non riuscì a vedere chi fosse. Decise di rispondere, in caso si trattasse di Cully King, ma non riuscì a sollevare il braccio, che era diventato pesante come il piombo. Donnelly trascorse l'ora del pranzo limando il suo discorso. Privato del cibo, il suo stomaco cominciò a protestare e quando Donnelly fosse stato alla sbarra, i rumori del suo stomaco sarebbero stati uditi da tutti i presenti in aula. Sarebbe stata la sua ultima arringa, quella che stava per pronunciare, e gli sarebbe dispiaciuto se fosse stata guastata dalle proteste del suo stomaco; così comperò due tavolette di cioccolato a un distributore automatico nel corridoio e se le mangiò mentre camminava. La Corte rientrò in aula alle quattordici e due minuti, e Donnelly prese immediatamente posto alla sbarra. «Signore e signori della giuria, questo non è affatto un caso semplice, come sembra ritenere l'avvocato Owen e come ama ripetere. Al contrario, si è rivelato un caso molto complesso. E ora siamo arrivati alla conclusione. Voglio ringraziarvi della vostra attenzione e della vostra pazienza. Do-
po che il giudice vi avrà impartito le istruzioni, vi ritirerete a deliberare e deciderete il destino di un uomo che può considerarsi vittima quanto la vittima riconosciuta. È stato trattato come una vittima? Giudicate voi stessi. Gli è stata negata la libertà su cauzione, e perciò è rimasto in carcere molte settimane. È stato preso a bersaglio dal Procuratore Distrettuale e dai suoi collaboratori, è stato accusato dai mass media e condannato dall'alto dei pulpiti. «Perché? Che cos'ha fatto? «È entrato in un bar e ha ordinato da bere. Una donna gli si è seduta accanto e gli ha rivolto la parola. È stata lei ad adescarlo, e non viceversa. «Consentitemi ora di rispondere ad alcuni interrogativi e ad alcune delle accuse mosse al mio cliente, Cully Paul King, dal Procuratore Distrettuale. Anzitutto, ci dice il Procuratore Distrettuale, Cully King è un assassino. «Inoltre, è un ladro. Usate il buonsenso per decidere se è vero. Per quale motivo un uomo come Cully King, che ha un lavoro interessante e un'ottima paga, dovrebbe assassinare una donna e ricavarne un paio di orecchini di diamanti, che al banco dei pegni gli hanno fruttato soltanto cinquecento dollari? «Un'altra domanda formulata dall'Accusa è la seguente: com'è possibile che Cully King abbia potuto permettersi un avvocato costoso come il sottoscritto? Questa è la risposta più facile di tutte: non è stato Cully King ad affidarmi l'incarico, ma io a offrirmi di difenderlo. Non mi va di vedere gente sbattuta in galera solo per il colore della pelle, per il paese d'origine, per la religione che professa o per le preferenze sessuali. «Uno degli aspetti più interessanti di questo caso è l'abbondanza di "forse", "può darsi", "è probabile", "immagino" di cui i testimoni dell'avvocato Owen hanno punteggiato le loro deposizioni. Ciascuna di queste parole ha lasciato un buco nell'attendibilità della tesi avanzata dal Procuratore Distrettuale, tanto da ridurla a un colabrodo. A un processo d'omicidio, non c'è posto per le supposizioni, le deduzioni, le congetture e i forse. Quando è in gioco la vita di un uomo, dobbiamo basarci soltanto sulle verità assolute e incontrovertibili, sui fatti e non sulla fantasia. «Quando vi ritirerete per deliberare, e comincerete a rileggere i vostri appunti, voglio che ricordiate soprattutto una cosa: che il mio cliente e io non vi chiediamo pietà, ma giustizia. «Per concludere, signore e signori della giuria, voglio ringraziarvi dell'attenzione che mi avete prestato e invitarvi, prima di esprimere il verdetto, ad accantonare le emozioni per fidarvi solo della vostra capacità di
giudizio e del buonsenso. Grazie.» Donnelly tornò a sedersi al suo posto. Il giudice Hazeltine fissò una breve pausa, prima d'iniziare a impartire istruzioni alla giuria. Prima di lasciare l'aula, fece segno a Donnelly di raggiungerlo nella sua stanza. «Accomodatevi» l'invitò, non appena Donnelly fu entrato. Donnelly sedette. «Qualcosa che non va?» «Ho l'impressione che stiate per togliere dai guai quel figlio di buona donna. È un errore.» «Perché?» «Perché è colpevole.» «Non è colpevole, finché la giuria non l'ha dichiarato tale.» «Lasciamo perdere i garbugli della legge. È stato lui a strangolarla. È noto il suo pessimo carattere, quando è ubriaco. Non l'ha assassinata per derubarla. La donna deve aver detto o fatto qualcosa che l'ha mandato in collera, e lui l'ha aggredita, l'ha presa per il collo...» «No.» «No cosa?» «Non l'ha aggredita.» «Allora, è stata lei ad aggredire lui?» «È possibile.» «E lui l'ha uccisa per difendersi?» «Può darsi.» «Accecato dalla collera?» «Più o meno.» «Cosa significa più o meno?» Donnelly rispose con un'alzata di spalle. Il giudice alzò la testa, guardò la civetta che lo fissava con il suo unico occhio, dall'alto della libreria. Sembrava che gli strizzasse l'occhio, quasi sapesse tutto sul conto degli uomini e delle donne che si aggredivano a vicenda, accecati dalla collera oppure dalla passione. Donnelly tornò subito in aula, benché mancassero ancora sei minuti alla ripresa dell'udienza. Cully stava aspettandolo, apparentemente tranquillo. Solo dalla sua voce traspariva l'emozione, la paura. «Che voleva?» «Parlarmi.» «Di me?» «Anche.»
«Che ha detto?» «Non capireste tutti quei termini legali.» «Non serve capire i termini legali, per accorgersi che mi odia. Non è così?» «Non lo so, non gliel'ho chiesto.» «Osservate come mi guarda. Mi odia. Glielo si legge negli occhi.» «Capita raramente che il verdetto sia influenzato dai sentimenti di un giudice.» «Raramente» ripeté Cully. «Questo significa che a volte succede.» «Talvolta.» «E se questi "talvolta" fossero molti?» «Capita, ma non ho mai contato le volte.» Donnelly sapeva d'istruzioni impartite dal giudice in modo tanto scorretto, che era come se la giuria avesse ricevuto l'ordine di votare in un modo piuttosto che nell'altro. «Non pensateci» consigliò a Cully. «Questo è l'ultimo processo del giudice. Certo non ci tiene a essere battuto in appello. Impartirà istruzioni imparziali, statene certo. E voi sarete un uomo libero.» «Davvero?» «Non ho il minimo dubbio.» «Un uomo libero» ripeté Cully. «Significa che potrò andare dove vorrò, e fare tutto ciò che mi piacerà?» «Nessuno può ritenersi libero fino a questo punto, Cully.» «Perché no?» «Perché ci sono debiti che bisogna pagare.» «Io sono in grado di racimolare i quattrini necessari a pagare i miei debiti.» «E se fosse un debito molto grosso, come centomila dollari per avervi salvato la vita?» «Posso farcela a pagare i miei debiti» insistette Cully. «In un modo o nell'altro.» «Questa mi sembra una minaccia.» «Io non ho sentito nessuna minaccia.» «Si vede che non eravate molto attento. Io invece sì. Comunque, la cosa non mi stupisce. Fin dai primi giorni, in aula corre voce che diventate violento quando vi ubriacate. Così, prenderò le mie brave precauzioni. Non ci saranno alcolici, al ranch.» La prima parte delle istruzioni del giudice Hazeltine fu ordinaria ammi-
nistrazione: parlò dell'accusa a carico dell'imputato, dell'omicidio con circostanze aggravanti e delle prove circostanziali che caratterizzavano il caso. Poi il giudice spiegò quali erano i doveri dei giurati. Li ammonì di non tener conto dell'opinione pubblica, né delle loro impressioni personali, né delle loro convinzioni riguardo alla pena di morte. Sottolineò con particolare enfasi le espressioni "oltre ogni ragionevole dubbio" e la "certezza morale". Se determinate prove sembravano illogiche, e certe deposizioni confuse o imprecise, bisognava ignorarle, soprattutto se erano in contrasto con le dichiarazioni di testimoni che apparivano più attendibili. Un altro errore in cui bisognava assolutamente evitare d'incorrere, era quello di giungere a una conclusione prima di aver riesaminato attentamente tutte le prove. La seconda parte delle istruzioni del giudice fu più personale, più soggettiva. Una delle regole più importanti era quella di valutare in modo esatto i testimoni. Si poteva essere certi di non sbagliare, dando più credito al dottor Woodbridge, un patologo di provata esperienza, che non a qualche dottorino sconosciuto, noto solo per qualche articoletto apparso sulle pubblicazioni mediche. «Mi riferisco in particolare ai casi di cui si è parlato di persone cadute in acqua e ritenute morte, che in seguito si sono rivelate ancora vive, poiché il loro fabbisogno d'ossigeno era notevolmente diminuito a causa del metabolismo rallentato dalla bassa temperatura dell'acqua. Questi casi sono accaduti, ma sono rari, e minime le probabilità che sia accaduto alla signora Pherson. Comunque, non è da escludere, e anche di questo dovrete tenere conto. «Molte sono le zone d'ombra che vi metteranno in difficoltà, molti i dubbi. I solchi sul collo della signora Pherson, da chi o da cosa sono stati provocati? Forse dalle alghe? Improbabile? Sì. Impossibile? No. Non sono state rilevate le incisioni impresse dalle unghie, e questo è strano, ma ricordate che non tutti hanno unghie della stessa lunghezza, e che certe unghie potrebbero essere troppo corte per lasciare il segno. «Due testimoni hanno reso deposizioni poco convincenti. Sono Harry Arnold e suo figlio Richie. Il ragazzo appariva indeciso, e quanto al padre, non si sa se credergli o no, quando sostiene di aver visto Cully King gettare a mare alcuni indumenti. Anzitutto, sembra nutrire risentimento nei confronti dell'imputato, e in secondo luogo, non ha saputo riconoscere nessun indumento in particolare. «Una delle domande che dovete porvi è la seguente: che motivo aveva
Cully King di uccidere Madeline Pherson? Un uomo sano di mente, e non abbiamo ragione di sospettare che l'imputato non lo sia, non uccide senza un movente. In questo caso, non è stato dimostrato alcun movente. Però, non è detto che non esista, solo perché lo ignoriamo. Rifletteteci molto attentamente. «La prima cosa che farete, sarà aprire i vostri taccuini. Siete autorizzati a scambiarveli. Se desidererete avere dettagli più precisi, potrete chiedere all'assistente di riportarvi qui in aula, in modo che vi si possa leggere ad alta voce la parte del verbale che v'interessa. Le copie degli atti non possono circolare fuori dell'aula. «Nei vostri taccuini forse troverete annotata un'impressione, un'osservazione, un'opinione che servirà a rinfrescarvi la memoria, ricordandovi per esempio se un teste vi è parso attendibile oppure no. «Prima di discutere dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato, non trascurate di porvi gli interrogativi essenziali. Si è trattato di omicidio? Alcuni indizi possono far prendere in considerazione l'ipotesi del suicidio. La signora Pherson non si è comportata in modo normale, e questo dimostrerebbe che era turbata. Lo era tanto da decidere di suicidarsi? «È possibile che la sua morte sia avvenuta per una disgrazia? Dal diario di bordo, risulta che il mare quella notte era calmo, e perciò è da escludere che sia caduta fuori bordo accidentalmente. Né sembra verosimile che se ne andasse in giro nuda per il ponte, con il freddo che faceva. «L'ultimo interrogativo che dovete porvi, in base al quale prenderete una decisione che vi accompagnerà per tutta la vita, è quello del ragionevole dubbio. Esiste un ragionevole dubbio che la signora Pherson sia stata assassinata da Cully King? Nei casi basati su prove circostanziali, come questo, il ragionevole dubbio si rivela un fattore decisivo nel giudizio. «La legge stabilisce che, prima di esprimere il verdetto in un processo penale, la giuria deve essere persuasa oltre ogni ragionevole dubbio, e deve avere la certezza morale. 'Oltre ogni ragionevole dubbio' si spiega da sé, ma la seconda formula non è altrettanto chiara ed è oggetto d'interpretazioni contrastanti. Ho ricevuto la richiesta scritta, da parte di un giurato, di definire chiaramente l'espressione 'certezza morale'. Nel corso del processo, se non sbaglio qualcuno l'ha definita 'una sensazione che si ha nel profondo', o qualcosa di simile. Credo di non saperla spiegare meglio di così, ma vi avverto che un giudizio basato solo sulla certezza morale non può rivelarsi utile ai fini della giustizia. «Da questo momento fino al termine delle vostre deliberazioni, sarete
sotto la custodia dell'assistente del tribunale. Vi auguro buona fortuna.» Non appena il giudice fu uscito dall'aula per ritirarsi nella sua stanza, Eva Foster si precipitò fuori dalla porta principale per raggiungerlo. Il giudice stava appendendo la toga all'attaccapanni, quando lei entrò. «Siete stato... Voglio dire, avete dato istruzioni molto obiettive.» «Come sempre, mi pare. Solo che voi siete particolarmente interessata a questo caso. A proposito, il Natale scorso mi sono imbattuto in vostro padre, quando sono andato ad ascoltare i canti natalizi. Mi chiedevo se possiamo fare a meno dei biglietti d'auguri, quest'anno.» «Non sarà una decisione mia. Non sarò più qui.» «Siete ancora aggrappata a quel tizio con le unghie e con i denti, a quanto pare.» «Se volete metterla in questo modo.» «Qual è il programma? Il prete, la chiesa, il padre che conduce la sposa all'altare e tutto il resto?» «Non ci sarà prete, né chiesa, né tantomeno il padre a braccetto della sposa. E forse non ci sarà neanche la sposa, per quello che ne so.» Si avvicinò alla finestra e rimase a guardare il traffico. «Non m'importa, se mi sposa o no. A me basta stare con lui.» «Ne siete sicura?» «Sì. Ho riflettuto a lungo.» «No, voi non avete riflettuto, Foster. Avete sognato.» «Ho già un mio programma. Compreremo una casetta. Ho denaro a sufficienza per acquistarla, versando un buon anticipo. Non avremo figli, ma prenderò un cane che mi tenga compagnia quando Cully sarà in mare.» «Volete conoscere la differenza tra una persona che sogna e una che fa progetti, Foster? Una persona che fa progetti prenderebbe in considerazione la possibilità che Cully possa non essere d'accordo con il progetto stesso.» «Sarà rimesso in libertà, ne sono sicura. Col vostro discorso, avete fatto capire alla giuria che devono giudicarlo non colpevole.» «Le giurie non fanno quello che ci si aspetta da loro, ma quello che vogliono.» «Cully sarebbe dovuto salire al banco dei testimoni, in modo che i giurati potessero osservare le sue reazioni, e sentirlo parlare. Avrebbero capito che è una brava persona.» «È un bugiardo» la contraddisse il giudice. «Si sarebbe tradito a ogni pa-
rola. Donnelly ha fatto bene a non farlo parlare.» «Ma come, sembra quasi...» Voltò le spalle alla finestra. «Sembra quasi che lo riteniate colpevole.» «A mio avviso, il Procuratore Distrettuale non si è dimostrato all'altezza della situazione, e questo fatto si rifletterà sul verdetto.» «Ma voi cosa ne pensate? Qual è la vostra opinione?» «Io penso che siete una donna cocciuta, e che continuerete a credere ciò che vi fa piacere sul conto di quell'uomo. Più gli altri lo accusano, più voi lo difendete.» «Sono una donna ragionevole. Se voi aveste prove sicure a suo carico, mi convincerei che è colpevole.» «Se avessi prove sicure, avrei trovato il modo di rivelarle alla giuria, in un modo o nell'altro.» Il tono di voce del giudice era pacato. «Voglio darvi un consiglio, e credo che vi rimanga un briciolo di buonsenso per accettarlo. Non precipitatevi a inviare le dimissioni. Se non altro, aspettate che questo tizio si dimostri disposto a venire con voi, nella vostra casetta nuova allietata dalla presenza del cane.» «Non immaginavo che poteste essere tanto ostile e crudele.» «Finché continuerete a dibattervi in quella palude emotiva, continuerete anche a giudicare ostili e crudeli chi vi parla male di lui, mentre invece sta solo cercando di essere gentile.» «Ah, è questa la vostra idea della gentilezza?» «Sì. Vorrei evitare che veniste trovata annegata, o in un vicolo con la gola tagliata, o buttata fuori da un'auto con una pallottola nel cervello.» «Non crederete davvero che Cully sia capace di azioni simili?» «Certo che ci credo.» «Siete davvero ostile e crudele.» «E dotato di buonsenso» aggiunse il giudice. «Di molto buonsenso.» Il primo voto fu dato il terzo giorno dall'inizio delle deliberazioni, l'ultimo il pomeriggio del quinto giorno. Fu concessa un'ora di tempo perché tutti gli interessati si presentassero in tribunale ad ascoltare il verdetto. Parecchi di coloro che erano venuti ogni giorno, nell'attesa che la giuria prendesse una decisione, si erano assiepati davanti alle porte chiuse dell'aula, prima ancora di sapere che la giuria stava arrivando. Per evitare la folla, il personale entrò da un ingresso laterale, e altrettanto fecero i due avvocati, i loro collaboratori e lo stesso Cully, stavolta accompagnato da quattro agenti mai visti prima, giovanotti dall'aria cordiale, la cui sola pre-
senza però rammentava la gravità del momento. Poi arrivò il giudice, e la giuria, e finalmente la porta principale fu aperta al pubblico. Tutti si precipitarono dentro per prendere i posti migliori. Non mancavano i giornalisti, né la giovane pittrice che aveva fatto il ritratto a Cully, né i vari avvocati e le segretarie interessate al processo. C'erano anche Harry Arnold e Richie. L'assistente Di Santo ricacciò nel corridoio tutti quelli che non avevano trovato posto in aula. Cully sedeva perfettamente immobile. Soltanto gli occhi si muovevano. Guardava i giurati, e loro guardavano lui. Un buon segno, gli aveva spiegato Donnelly. Quando i giurati condannano l'imputato, raramente lo guardano al momento di pronunciare il verdetto. E così, hanno deciso di lasciarmi andare, si disse. Ma fuori di qui, troverò molte persone ad aspettarmi, gente che vuole chiudermi nella sua vita, e io non sarò mai più un uomo libero. In aula c'era baccano. Il giudice Hazeltine batté il martelletto. «Silenzio in aula! I giurati hanno terminato il loro lavoro, e il loro rappresentante ci leggerà il verdetto.» «Noi giurati riteniamo l'imputato, Cully Paul King, non colpevole dell'accusa a suo carico, di omicidio con circostanze aggravanti.» Nell'aula esplose il finimondo, ma Cully rimase in silenzio. Sentì Donnelly toccargli il braccio, vide Eva sorridergli e così pure Richie, mentre Harry lo salutava agitando il braccio; ma lui non fece niente, non disse niente finché il giudice non si fu alzato per andarsene e la giuria non ebbe iniziato a sfilare verso la porta. A questo punto, Cully scattò in piedi e si mise a gridare. «Aspettate! Ascoltatemi. Vi siete sbagliati, vi siete sbagliati tutti. Sono stato io a ucciderla. Cambiate il verdetto. Non permettetegli di mettermi le loro grinfie addosso. Voglio liberarmi di loro. Tornate indietro. Aspettate, ascoltatemi. Tornate indietro!» Nessuno tornò sui suoi passi. «Il processo si è concluso» disse Donnelly. «E non c'è niente che voi possiate dire, che lo farà ricominciare.» «Voglio essere libero! Non lasciate che mi prendano. Tornate indietro!» Il giudice chiuse la porta alle sue spalle, e l'ultimo dei giurati se ne andò. Cully si liberò con uno strattone della presa di Donnelly sul suo braccio. «Lasciatemi in pace!» «Sedetevi e chiudete il becco, stupido figlio di puttana» l'insultò Donnelly.
«Non toccatemi.» «Va bene, d'accordo, restatevene qui seduto finché non sarete tornato padrone dei vostri nervi. Vi aspetto in fondo al corridoio, vicino alle scale.» L'aula si svuotò quasi con la stessa rapidità con cui si era riempita, e Cully restò solo, con l'assistente sulla porta, pronto a chiuderla in attesa del prossimo omicidio, della prossima rapina, della prossima aggressione. Ci sarebbe sempre stato un processo nuovo, e l'aula sarebbe tornata a riempirsi. «Non andate fuori a festeggiare?» domandò Di Santo. «No.» «Conosco una giovane donna che sarebbe felice di festeggiare in vostra compagnia. Vi aspetta. Sono sicuro che vi sta aspettando.» «No.» «D'accordo, vi lascio solo qualche minuto, per darvi il tempo di riordinare le idee. Avete avuto una lunga giornata, una lunga settimana. Anzi, farei meglio a dire sei lunghi mesi» «Già.» L'assistente Di Santo uscì in corridoio. Tyler Pherson era seduto sulla panca dov'era rimasto per tutta la durata del processo, con addosso lo stesso abito nero, gli stessi occhiali, la stessa espressione. «Non serve restare qui» disse Di Santo. «Il processo è finito.» «Non ancora.» «Certo che lo è. Tutti se ne sono già andati a casa.» «L'imputato non è ancora uscito.» «Arriverà tra un minuto. È tardi. Fra poco il tribunale chiuderà. Scommetto che mia moglie sta già mettendo la pentola sul fuoco.» «Non vi tratterrò dalla vostra cena più di un paio di minuti» disse Tyler. «Desidero solo entrare a congratularmi con il signor King.» «È molto generoso da parte vostra, date le circostanze.» «Ho riflettuto a lungo.» Tyler entrò in aula per l'ultima volta. Nella tasca, la pistola era liscia come seta, e tiepida al contatto della pelle. FINE