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ANNE HOLT QUELLO CHE TI MERITI (Det Som Er Mitt, 2001) A mia madre e a mio padre Nota del traduttore In Norvegia, è d'uso darsi sempre del "tu". Quasi nessuno si dà del "lei": vi si ricorre a volte con le persone anziane, o se si vuole sottolineare una certa distanza da qualcuno per cui si prova una forte antipatia. Per non togliere autenticità al racconto, nella traduzione ci si è attenuti alla forma usata nell'originale, estendendo l'uso del "tu" oltre gli ambiti italiani consueti e riservando il "lei" a pochissimi casi particolari. Il soffitto era blu. L'uomo al negozio diceva che con un colore scuro la stanza sarebbe sembrata più piccola. Si sbagliava. Il soffitto invece si era sollevato, quasi era sparito. Era proprio come lo avrei voluto io da bambino: un cielo notturno con le stelle e una piccola f alce di luna proprio sopra la finestra. Ma allora era stata la nonna a scegliere per me. La nonna e la mamma, una stanza da maschietto gialla e bianca. La felicità è qualcosa che ricordo a malapena. Come il tocco leggero di una persona tra sconosciuti, scomparsa prima che tu sia riuscito a girarti. Quando la stanza fu terminata e finalmente mancavano solo due giorni al suo arrivo, ero soddisfatto. La felicità è una cosa infantile e dopo tutto ormai ho trentaquattro anni. Ma certo ero contento. Non vedevo l'ora. La camera era pronta. C'era un ragazzino seduto a cavalcioni della luna. Con i capelli biondi, in mano una canna da pesca in bambù con la lenza e il galleggiante. E, sotto, agganciata all'amo, una stella. Una sottile goccia di vernice gialla era scivolata sul vetro della finestra, quasi il cielo si stesse sciogliendo. Mio figlio sarebbe finalmente arrivato. I. Stava tornando a casa da scuola. Il 17 di maggio era vicino. Sarebbe stata la prima festa nazionale senza la mamma. Il costume tradizionale era troppo corto. La mamma aveva già allungato l'orlo due volte.
Emilie era stata svegliata da un brutto sogno quella notte. Papà dormiva; stringendosi il costume della festa nazionale al corpo, era rimasta ad ascoltarlo russare leggero attraverso la parete. L'orlo rosso si era inerpicato su fino alle ginocchia. Cresceva troppo in fretta. Papà lo diceva spesso: Cresci come i funghi, tesoro mio. Emilie aveva lisciato con la mano il tessuto di lana e cercato di accorciare il collo e ritirare le ginocchia. La nonna diceva sempre: Grete era una spilungona, non c'è da stupirsi se la bambina cresce a vista d'occhio. A Emilie facevano male le spalle e le cosce a forza di stare sempre china. Era colpa della mamma se era così alta. L'orlo rosso non le arrivava più giù delle ginocchia. Forse poteva chiedere un costume nuovo. Lo zaino pesava. Aveva raccolto delle farfare. Il mazzo era così grande che papà avrebbe dovuto cercare un vaso. Gli steli erano lunghi; non come quando, da piccola, staccava solo la testa del fiore, e poi bisognava farla galleggiare in un portauovo. Non le piaceva camminare da sola. Però la mamma di Marte era passata a prendere Marte e Silje. Dove andavano non glielo avevano detto. Le avevano solo fatto ciao con la mano dal lunotto della macchina. Le farfare avevano bisogno d'acqua. Alcune le erano già appassite sulle dita. Emilie cercò di non stringere troppo il mazzetto. Un fiore cadde a terra e lei si chinò a raccoglierlo. «Ti chiami Emilie?» L'uomo sorrideva. Emilie lo guardò. Non c'era nessun altro in vista sul sentiero fra le due strade trafficate, una scorciatoia che abbreviava di dieci minuti il tragitto verso casa. Lei farfugliò qualcosa di incomprensibile e indietreggiò. «Emilie Selbu? Sei tu, vero?» Non parlare mai con gli sconosciuti. Non andare mai con chi non conosci. Sii gentile con gli adulti. «Sì,» sussurrò lei cercando di svicolare. La scarpa, quella da ginnastica nuova con le stringhe rosa, affondò nel fango e le foglie morte. Emilie quasi perse l'equilibrio. L'uomo la afferrò per un braccio. Poi le mise qualcosa sul viso. Un'ora e mezza dopo fu denunciata la scomparsa di Emilie Selbu alla polizia. II.
«Non sono mai riuscita a lasciarmi alle spalle questa storia. Coscienza sporca, forse. D'altro canto mi ero appena laureata in giurisprudenza, in un'epoca in cui si pensava che le mamme coi figli piccoli era meglio stessero a casa ad accudirli. Non c'era molto che potessi dire o fare.» Nel suo sorriso c'era la supplica di essere lasciata in pace. La conversazione durava da quasi due ore. La donna sdraiata a letto si sollevò per respirare meglio. Era evidente che la luce del sole la infastidiva. Strinse il piumone tra le dita. «Ho solo settant'anni,» sospirò. «Ma mi sento vecchia. Mi devi perdonare.» Johanne Vik si alzò e tirò le tende. Esitò, senza voltarsi. «Meglio?» chiese alla fine. L'anziana chiuse gli occhi. «Ho scritto tutto,» disse. «Tre anni fa. Quando sono andata in pensione pensavo che avrei avuto...» Sollevò una mano sottile. «...tanto di quel tempo.» Johanne Vik osservò la cartellina accanto a una pila di libri sul comodino. L'anziana signora annuì debolmente. «Prendila. Non c'è molto che io possa fare ora. Non so nemmeno se quell'uomo è ancora vivo. Se così fosse di anni ne avrebbe... sessantacinque. Qualcosa del genere.» Chiuse gli occhi. La testa le scivolò lentamente da una parte. La sua bocca si aprì appena e quando Johanne Vik si chinò per raccogliere la cartellina rossa, sentì l'odore di un respiro malato. Senza parlare infilò le carte nella borsa e si diresse in punta di piedi verso la porta. «Un'ultima cosa.» Trasalì e si girò verso l'anziana. «La gente mi ha chiesto come faccio a essere così sicura. Per qualcuno è solo l'idea fissa di una vecchia che non serve più a nessuno. In fondo, in tutti questi anni non ho fatto niente... ma quando avrai letto tutto, mi piacerebbe sapere...» Tossì lievemente. Chiuse di nuovo gli occhi. Silenzio. «Sapere cosa?» Johanne Vik sussurrava, non sapeva se la signora si fosse addormentata. «Io so che era innocente. Mi piacerebbe sapere se sei d'accordo.» «Ma non è questo che io...»
L'anziana picchiettò il palmo sull'orlo del letto. «Lo so che cosa fai. Non ti interessa se era colpevole o innocente. Ma a me sì. In questo caso particolare, mi interessa. Spero che interesserà anche a te. Dopo che avrai letto tutto. Me lo prometti? Che tornerai?» Johanne Vik accennò un debole sorriso. In realtà non era altro che una smorfia senza impegno. III. Emilie era già sparita altre volte. Mai a lungo, anche se in un'occasione doveva essere stato subito dopo la morte di Grete - non era riuscito a trovarla per tre ore. Aveva cercato dappertutto. Prima aveva fatto un irritato giro di telefonate agli amici, alla sorella di Grete che viveva a soli dieci minuti da lì ed era la zia preferita di Emilie, ai nonni che non vedevano la bambina da giorni. Aveva digitato i numeri nuovi con la preoccupazione che diventava paura, con le dita che battevano sui tasti sbagliati. Poi aveva fatto una corsa per il quartiere, in circoli sempre più grandi, con la paura che diventava panico, e aveva cominciato a piangere. Era seduta su un albero a scrivere una lettera alla mamma, una lettera con dei disegni che avrebbe spedito in cielo sotto forma di aeroplanino. Lui l'aveva fatta gentilmente scendere dal ramo e aveva lanciato l'aeroplanino ad arco su una scarpata ripida. L'aeroplanino aveva fluttuato da un lato all'altro, quindi aveva oltrepassato due grandi betulle che da allora si erano chiamate La Strada del Paradiso. Dopo, per due settimane, non l'aveva mai persa di vista. Finché, finite le vacanze e la scuola, era stato costretto a lasciarla andare. Questa volta però era diverso. Non aveva mai chiamato la polizia prima; quelle scomparse più o meno brevi non erano da prendere troppo sul serio. Ma questa era diversa. Il panico lo aggredì di colpo, come un'onda. Non sapeva perché, ma quando Emilie non tornò a casa come avrebbe dovuto, era corso alla scuola senza accorgersi di aver perso uno zoccolo di legno per strada. Sul sentiero tra le due strade principali c'erano lo zaino e un gran mazzo di farfare; la scorciatoia che non aveva mai avuto il coraggio di fare da sola. Grete aveva comprato lo zaino a Emilie un mese prima di morire. Emilie non lo avrebbe mai lasciato lì così. Il padre lo raccolse controvoglia. Poteva sbagliarsi, poteva essere lo zaino di qualcun altro, di un bambino più negligente, magari. Lo zaino sembrava quello, ma non poté esserne del tut-
to sicuro finché, trattenendo il respiro, non lo aprì e vide le iniziali all'interno. ES. Grandi lettere maiuscole, nella calligrafia di Emilie. Era lo zaino di Emilie, e lei non lo avrebbe mai lasciato lì per terra così. IV. L'uomo che veniva citato nelle carte di Alvhild Sofienberg si chiamava Aksel Seier ed era nato nel 1935. All'età di quindici anni aveva cominciato l'apprendistato presso un falegname. Le carte dicevano poco dell'infanzia di Aksel, a parte che si era trasferito a Oslo da Trondheim a dieci anni. Suo padre aveva trovato lavoro nell'officina meccanica di Aker dopo la guerra. Prima di diventare adulto, il ragazzo aveva già la fedina penale sporca per aver violato la legge tre volte, anche se per niente di serio. "Non per la mentalità odierna, in ogni caso", mormorò tra sé e sé Johanne Vik, e continuò a leggere. I fogli erano fragili, ingialliti dal tempo. Secondo gli atti giudiziari, aveva rapinato due edicole e rubato una vecchia Ford, abbandonata poi in Mosseveien quando la benzina era finita. A ventun anni, infine, Aksel Seier era stato arrestato per stupro e assassinio. La bambina si chiamava Hedvig, e quando era morta aveva solo otto anni. Un doganiere l'aveva trovata, nuda e mutilata, dentro un sacco di tela presso i magazzini del porto di Oslo. Due settimane di intense indagini avevano condotto all'arresto di Aksel Seier, anche se in verità non c'erano prove tecniche. Niente tracce di sangue, niente impronte digitali. Nessuna orma né segni di altro tipo che potessero collegare il colpevole alla vittima. Ma lui era stato visto sul luogo del delitto da due testimoni affidabili, che avevano motivi plausibili per essere in giro a quell'ora di notte. All'inizio il giovane aveva negato ostinatamente. Alla fine però aveva ammesso di essere stato nella zona del porto, tra Pipervika e Vippetangen, la notte in cui Hedvig era stata uccisa. Per vendere alcolici di contrabbando, niente di più. Ma non aveva voluto fare il nome del proprio cliente. Poche ore dopo l'arresto la polizia era riuscita a tirar fuori una vecchia denuncia per atti osceni in luogo pubblico. Aksel aveva diciotto anni all'epoca dei fatti e, stando alle sue dichiarazioni, si era semplicemente messo a pisciare sulla spiaggia di Ingierstrand una sera d'estate che era ubriaco. Ma in quel momento erano passate tre ragazze. Voleva soltanto prenderle un po' in giro, aveva detto. Le scemenze che uno dice quando è brillo, per ridere un po'. Lui non era così. Nessun atto osceno, aveva solo scherzato con tre ragazze isteriche.
Quella volta la denuncia era stata ritirata, anche se mai annullata. E ora era riemersa dall'oblio come un dito accusatore che lo indicava, uno stigma che lui pensava fosse stato dimenticato. Quando il suo nome era stato pubblicato sui giornali, a caratteri cubitali che avevano spinto al suicidio la madre di Aksel la vigilia di Natale del 1956, alla polizia erano arrivate altre tre denunce. Una era stata silenziosamente accantonata quando il pubblico ministero era venuto a sapere che la signora di mezza età in questione aveva l'abitudine di denunciare due stupri l'anno. E le altre due erano state prese per quel che valevano. Margrete Solli, diciannove anni, era uscita con Aksel per tre mesi. Ma aveva dei principi saldi e la cosa ad Aksel non andava giù, aveva dichiarato arrossendo a occhi bassi. In più di un'occasione lui l'aveva costretta con la forza a fare quel che si dovrebbe fare solo nel matrimonio. Quanto ad Aksel, aveva dato un'altra versione della storia. Lui ricordava notti deliziose al lago di Sognsvann, con lei che lo respingeva ridacchiando e, per scherzo, gli dava dei buffetti sulle mani quando le insinuava sulla sua pelle nuda. Ricordava ardenti baci d'addio e le proprie accorate promesse di matrimonio non appena avesse terminato l'apprendistato. Aveva raccontato alla polizia e al giudice di aver effettivamente dovuto convincere la ragazza, ma non più del normale. È sempre così che fanno le donne finché non hanno l'anello al dito, no? La terza denuncia era stata sporta da una donna che Aksel Seier sosteneva di non aver mai incontrato. Lo stupro sarebbe avvenuto molti anni prima, quando la ragazza aveva solo quattordici anni. Aksel aveva negato tenacemente. Non l'aveva mai vista in vita sua. E, cocciuto, aveva mantenuto la sua posizione per le nove settimane di custodia e un lungo e devastante processo. Non aveva mai visto quella donna. Non ne aveva mai sentito parlare. Ma d'altra parte si sapeva che era un bugiardo. Quando era stato accusato di omicidio, Aksel aveva finalmente fatto il nome del cliente che poteva fornirgli un alibi. L'uomo si chiamava Arne Frigaard e aveva comprato venti bottiglie di whisky per venticinque corone. Quando la polizia aveva controllato, aveva trovato uno stupefatto colonnello Frigaard nella sua casa di Frogner. Davanti a quelle basse accuse, Frigaard aveva alzato gli occhi al cielo e mostrato il mobile bar ai due agenti. Merce legale, tutta. Sua moglie in effetti aveva detto ben poco, ma aveva annuito col capo quando il suo pomposo marito aveva garantito che la sera in questione era rimasto a casa per un'emicrania. Ed era andato a
letto presto. Johanne si grattò il naso e bevve un sorso di tè freddo. Nulla indicava che si fosse investigato oltre sulla storia del colonnello. Allo stesso tempo avvertiva l'ironia, o piuttosto il sarcasmo, nell'asciutto resoconto del giudice sulla testimonianza del poliziotto. Il colonnello in persona non era stato chiamato a testimoniare in tribunale. Soffriva di cefalee, aveva asserito il suo medico, risparmiando così al suo anziano paziente la seccatura di doversi confrontare con l'accusa di aver acquistato alcol di contrabbando. Quando sentì dei rumori che provenivano dalla stanza da letto Johanne trasalì. Anche dopo tanti anni, anche se andava tutto decisamente meglio la bambina adesso stava bene, di solito dormiva sodo dalla sera alla mattina e probabilmente era soltanto un po' raffreddata -, Johanne provava un brivido lungo la schiena al minimo, sonnolento colpo di tosse. Tornò il silenzio. Una testimonianza era particolarmente interessante. Quella di un certo Evander Jacobsen, anche lui in prigione. Quando la piccola Hedvig era stata assassinata, era in libertà provvisoria e aveva dichiarato di aver ricevuto del denaro da Aksel Seier per trasportare un sacco da un indirizzo della città vecchia fino al porto. Dapprincipio aveva sostenuto che quella notte Seier aveva fatto la strada insieme a lui e non voleva portare il sacco "perché avrebbe richiamato l'attenzione". Poi aveva cambiato versione. Non era stato Seier a chiedergli di portare il sacco, bensì un altro uomo "non identificato". In base a quella nuova versione Seier lo avrebbe incontrato al porto, dove avrebbe preso il sacco senza dire granché. Il sacco avrebbe dovuto contenere zampe e teste di maiale. Evander Jacobsen non ne era certo, perché non aveva controllato. Ma puzzare puzzava, senza dubbio, e il peso poteva grosso modo corrispondere a quello di una bambina di otto anni. Quella storia palesemente falsa aveva fatto dubitare il cronista di nera del "Dagbladet", il quale aveva descritto la dichiarazione di Evander Jacobsen come "altamente improbabile". Lo aveva appoggiato anche il "Morgenbladet": sulle sue pagine, il reporter aveva sbeffeggiato le dichiarazioni contraddittorie che quel giovane delinquentello, abituato a entrare e uscire di prigione, aveva rilasciato dal banco dei testimoni. Le riserve e i dubbi dei giornalisti erano però servite a poco. Aksel Seier era stato condannato per aver violentato la piccola Hedvig Gåsøy, di anni otto. Era stato inoltre ritenuto colpevole di averla uccisa allo scopo di nascondere il primo reato.
Ed era stato condannato all'ergastolo. Johanne Vik impilò con cura i fogli uno sull'altro. Il mucchietto consisteva della notifica della sentenza oltre a una gran quantità di ritagli di giornale. Nessun documento della polizia. Nessun interrogatorio. Nessuna perizia, benché a quanto pareva ne fossero state effettuate diverse. I giornali avevano smesso di scrivere del caso quando era stata pronunciata la sentenza. Per Johanne Vik, quello di Aksel Seier non era che uno fra tanti casi simili. Era la conclusione a rendere speciale quella vicenda e a impedirle di dormire bene. Ormai era mezzanotte e mezza, e non aveva il minimo sonno. Rilesse tutto da capo. Tra le carte processuali, pinzate ai ritagli di giornale con una graffetta, c'era l'inquietante racconto dell'anziana signora. Alla fine Johanne Vik si alzò. Fuori cominciava a fare giorno. Di lì a qualche ora si sarebbe dovuta alzare. Quando la spinse sull'altro lato del letto, la bimba mugugnò nel sonno. Poteva anche stare dov'era. Tanto chissà quando le sarebbe venuto sonno. V. «È una storia incredibile.» «Intendi letteralmente? Vuoi dire che non mi credi?» La stanza era appena stata arieggiata. La malata aveva un buon aspetto. Sedeva sul letto e in un angolo c'era un televisore acceso, senza volume. Johanne Vik sorrise e accarezzò appena il copriletto posato sul bracciolo della sedia. «Ma certo che le credo. Perché non dovrei?» Alvhild Sofienberg non rispose. Il suo sguardo passava dalla donna più giovane al televisore. Immagini insignificanti continuavano a vagare inquiete sullo schermo. La vecchia aveva gli occhi azzurri. Nell'ovale del viso, era come se le ondate di forti dolori avessero cancellato le labbra. I capelli si erano ridotti a una fine peluria sul cranio stretto. Forse un tempo era stata bella. Difficile dirlo. Johanne ne scrutava i lineamenti provati, cercando di immaginarla così come doveva apparire nel 1965. Quell'anno Alvhild aveva compiuto trentacinque anni. «Io sono nata nel 1965,» disse all'improvviso Johanne appoggiando la cartellina. «Il 22 novembre. Esattamente due anni dopo l'attentato a Kennedy.»
«I miei figli cominciavano a diventare grandi. Io mi ero appena laureata in legge.» L'anziana sorrise, un sorriso vero; i denti erano un barlume grigio nella fessura fra naso e mento. Le consonanti erano dure, le vocali mute. Allungò una mano per prendere un bicchiere d'acqua. Il primo lavoro di Alvhild Sofienberg era stato come funzionario al Ministero dei servizi correzionali. Il suo compito era preparare le richieste di grazia da sottoporre al re. Johanne lo sapeva già. Era scritto nelle carte; nella storia della vecchia signora fissata su una sentenza del tribunale e su alcuni ritagli di giornale ingialliti riguardanti un uomo che si chiamava Aksel Seier condannato per l'omicidio di una bambina. «Un lavoro noioso, in realtà. Tanto più a ripensarci adesso. Non che fossi infelice. Anzi. Avevo una formazione, un diploma, un... Avevo una laurea, una cosa importante a quell'epoca. Per lo meno nella mia famiglia.» Mostrò nuovamente i denti e cercò di inumidirsi le labbra sottili con la punta della lingua. «Come li ha avuti tutti questi documenti?» chiese Johanne versandole altra acqua da una caraffa. I cubetti di ghiaccio si erano sciolti e l'acqua odorava leggermente di cipolla. «Voglio dire, non è mai stato necessario accompagnare le richieste di grazia con l'intera documentazione processuale, no? Interrogatori della polizia eccetera. Non capisco come abbia potuto...» Alvhild cercò di raddrizzare la schiena. Quando Johanne si chinò su di lei per aiutarla, avvertì di nuovo l'odore di cipolla vecchia. Più intenso: l'esalazione si era trasformata in una puzza di marcio che le riempiva le narici e le faceva venire la nausea. Dissimulò i crampi al diaframma con un colpo di tosse. «Puzzo di cipolla,» disse bruscamente la vecchia. «Nessuno sa perché.» «Forse è...» Johanne indicò la caraffa d'acqua. «Sentivo un po' di...» «Al contrario,» tossì l'anziana. «L'acqua prende l'odore da me. Devi sopportarlo. Avevo fatto richiesta di tutte le carte, ecco tutto.» Indicò la cartellina, che era caduta a terra. «Come ho scritto lì, non so spiegare bene che cosa sia stato a destare il mio interesse. Forse la semplicità della sua istanza. Quell'uomo aveva passato otto anni in prigione senza mai riconoscersi colpevole. Aveva chiesto
la grazia già tre volte, ma gli era sempre stata rifiutata. Eppure non si lamentava. Non diceva di essere ammalato, come fa la maggior parte della gente. Non aveva riempito pagine e pagine sulla sua salute debilitata, sulla famiglia e i bambini che avevano bisogno di lui e cose simili. Formulava la sua istanza in una riga. Due frasi. "Sono innocente. Perciò chiedo la grazia". È questo che mi aveva affascinata. Ecco perché ho richiesto tutta la documentazione. Era quasi...» Alvhild cercò di sollevare le mani. «Un plico di carte alto un metro. Che ho letto e riletto, convincendomi sempre di più.» Le dita le tremavano dalla fatica. Alvhild lasciò cadere le braccia. Johanne si chinò e raccolse la cartella da terra. Aveva la pelle d'oca sulle braccia. Dalla finestra socchiusa entrava aria fredda. La tenda d'un tratto si mosse e lei rabbrividì. Sullo schermo scorrevano dei titoli blu e all'improvviso la irritò che il televisore fosse acceso inutilmente. «Sei d'accordo? Era innocente? È stato condannato ingiustamente. E qualcuno ha cercato di insabbiare il tutto.» La voce di Alvhild Sofienberg si era fatta tagliente, aggressiva. Johanne si mise a sfogliare le carte logore senza dire nulla. «Be', è piuttosto evidente,» disse, appena udibile. «Cos'hai detto?» «Che sono d'accordo con lei.» Fu come se la vecchia fosse rimasta senza forze di colpo. Sprofondò nel cuscino e chiuse gli occhi. Le si rasserenò il viso, come se finalmente i dolori l'avessero lasciata tranquilla. Soltanto le narici tremolavano appena. «Forse la cosa più terribile non è il fatto che non ci fossero prove di colpevolezza,» disse Johanne piano. «La cosa peggiore secondo me è che non ha mai... Quello che è successo dopo, dopo la sua liberazione, che addirittura... Mi stupirei se fosse ancora vivo.» «Un altro,» disse Alvhild stancamente, girandosi verso il televisore; alzò il volume con il telecomando fissato alle barre del letto. «Hanno rapito un altro bambino.» Un bimbo piccolo sorrideva da una fotografia amatoriale. Aveva ricci bruni e si premeva al petto un camion dei pompieri di plastica rossa. Dietro di lui, sfocato, si intravedeva una donna che rideva. «Forse la mamma. Povera donna. Mi chiedo se c'è una relazione. Con la bambina, voglio dire. Quella che...» Kim Sande Oksøy era sparito da casa sua a Bærum la notte prima, spie-
gò una voce metallica. Il televisore era vecchio, l'immagine troppo azzurra e il suono debole. Il sequestratore era penetrato nella villetta a schiera mentre la famiglia dormiva; una telecamera fece una carrellata della zona residenziale chiudendo su una finestra al primo piano. Le tende sbattevano leggere e la telecamera zumò su un vetro rotto e un orsacchiotto verde sul davanzale interno. Il poliziotto, un giovane dallo sguardo indeciso e l'uniforme scomoda, invitò quanti avessero informazioni a chiamare un numero verde o mettersi in contatto con il commissariato più vicino. Il bambino aveva solo cinque anni. Erano passati sei giorni da quando la piccola Emilie Selbu, nove anni, era sparita mentre tornava da scuola. Alvhild Sofienberg si era addormentata. Sul labbro sottile aveva una piccola cicatrice, una crepa all'angolo della bocca. Sembrava che stesse sorridendo. Quando Johanne sgusciò fuori dalla stanza e scese al piano terreno le venne incontro un'infermiera. Non disse nulla, si limitò a fermarsi sulla scala e a scostarsi. Anche l'infermiera puzzava di cipolla, un odore vago di cipolla misto a detersivo. Johanne si sentiva male. Passò svelta oltre la donna senza sapere se sarebbe mai tornata in quella casa dove la moribonda al piano di sopra appiccicava il suo odore di marcio a tutto e a tutti. VI. Emilie si sentiva più grande da quando era arrivato quel bambino nuovo che aveva perfino più paura di lei. Quando l'uomo lo aveva spinto dentro la stanza, poco prima, il piccolo si era fatto la cacca addosso, anche se ormai era quasi grande abbastanza da andare a scuola. Da un lato della stanza c'erano un lavello e un water. Insieme al bambino, l'uomo aveva buttato dentro un asciugamano e un sapone ed Emilie aveva cercato di lavarlo. Ma di vestiti puliti non ce n'erano. Aveva messo le mutandine sporche sotto il lavandino, incastrate fra la parete e il tubo. Il bambino aveva dovuto restare senza mutande e non aveva più smesso di piangere. Fino a quel momento. Finalmente si era addormentato. C'era solo un letto nella camera. Era piuttosto stretto e doveva essere anche vecchio. Il legno era scuro e consunto e qualcuno ci aveva disegnato sopra dei segni che praticamente non si vedevano più. Quando Emilie aveva sollevato il lenzuolo, si era accorta che il materasso era coperto di capelli lunghi, di donna, appiccicati alla gommapiuma, e lei aveva immediatamente rimesso a posto il lenzuolo. Il bambino si era sdraiato sotto il piumone con la testa
sul suo grembo. Era riccio, bruno, ed Emilie si domandava se sapesse parlare. Quando glielo aveva chiesto, lui aveva farfugliato il suo nome. Kim o Tim. Difficile capire. Aveva anche chiamato la mamma, quindi non era del tutto muto. «Dorme?» Emilie sussultò. La porta era semiaperta. Le ombre rendevano difficile vedergli il volto, ma la voce era chiara. Annuì debolmente. «Dorme?» L'uomo non sembrava né arrabbiato né irritato. Non la sgridava come faceva a volte papà quando doveva ripetere la stessa domanda. «Sì.» «Bene. Hai fame?» La porta era di ferro e all'interno non c'era la maniglia. Emilie non sapeva da quanto tempo fosse in quella stanza con il lavandino e il water in un angolo, il letto nell'altro e poi soltanto le pareti nude e la porta lucida. In ogni caso da parecchio. Aveva provato ad aprire quella porta almeno cento volte. Era liscia e gelida. L'uomo temeva che gli si potesse chiudere alle spalle. Le poche volte che era entrato nella stanza, l'aveva bloccata alla parete con un gancio. Di solito, quando le portava da mangiare e da bere le lasciava un vassoio per terra appena oltre la soglia. «No.» «D'accordo. Dovresti dormire, anche tu. È notte.» Notte. Il rumore della porta di pesante ferro che si richiudeva la fece piangere. Anche se l'uomo aveva detto che era notte, non le sembrava. Dal momento che non c'era nemmeno una finestra nella stanza e la luce era sempre accesa, era impossibile capire se fosse giorno o notte. All'inizio aveva pensato che il latte e le fette di pane rappresentassero la colazione, mentre lo stufato e le frittelle che l'uomo le lasciava su un vassoio fossero la cena. Alla fine lo aveva capito, ma poi l'uomo aveva cominciato a fare degli scherzi. Una volta le aveva dato il pane tre volte di seguito. Oggi, dopo che si era ritrovata con Kim o Tim, l'uomo aveva portato la zuppa di pomodoro due volte. Era tiepida e dentro non c'era la pasta. Emilie cercò di smettere di piangere. Non voleva svegliare il bambino. Trattenne il respiro per non tremare, ma non funzionò. «Mamma,» singhiozzò senza volere. «Voglio la mamma.» Papà di sicuro la stava cercando. Doveva averla cercata a lungo. Papà e zia Beate stavano di sicuro girando ancora per il bosco, anche se era notte.
Magari c'era anche il nonno. Alla nonna facevano male i piedi e probabilmente era a casa a leggere libri o a fare cialde per quando gli altri sarebbero rientrati dopo essere stati alla Strada del Paradiso e all'Albero del Cielo senza trovarla. «Mamma,» disse Kim o Tim gemendo. «Sst.» «Mamma! Papà!» Il bambino si alzò di colpo strillando. La sua bocca era un buco gigantesco. Tutta la faccia gli si contorse in un unico, enorme grido e lei si spinse contro la parete stringendo gli occhi. «Non devi gridare,» disse piatta. «Altrimenti l'uomo si arrabbierà.» «Mamma! Voglio il mio papà!» Il bambino faticava a respirare. Boccheggiava e quando Emilie aprì gli occhi vide che il suo viso era diventato rosso scuro. Da una narice gli colava il moccio. Emilie afferrò un angolo del piumone e lo ripulì. Ma lui cercò di colpirla. «Non voglio,» disse riprendendo a singhiozzare. «Non voglio.» «Ti racconto una storia?» disse Emilie. «Non voglio.» Kim o Tim si passò la manica sotto il naso. «La mia mamma è morta,» disse Emilie sorridendo un poco. «È in paradiso e veglia su di me. Sempre. Sicuramente può vegliare anche su di te.» «Non voglio.» Il bambino piangeva ma almeno non così forte come prima. «Mia mamma si chiama Grete. E ha una Bmw.» «Audi,» disse il bambino. «La mamma ha una Bmw in cielo.» «Audi,» ripeté il bambino, con un sorriso timido che lo fece diventare molto più bello. «E un unicorno. Un cavallo bianco che può volare, con un corno in mezzo alla fronte. Mamma può volare dappertutto sul suo unicorno quando non le va di prendere la Bmw. Magari viene qui. Presto, direi.» «Con un bang,» disse il bambino. Emilie sapeva bene che la mamma non aveva la Bmw. Non era in paradiso e non aveva nessun unicorno. E non c'era neppure il paradiso, anche se papà diceva di sì. A lui piaceva così tanto parlare di tutte le cose che la mamma aveva lassù. Tutto quello che aveva sempre desiderato e che non si potevano permettere. In paradiso era tutto gratis. Non esistevano nem-
meno i soldi, diceva papà sorridendo. La mamma poteva avere quello che voleva e secondo papà a Emilie faceva bene parlarne. Lei gli aveva creduto, a lungo, ed era bello pensare che la mamma portasse orecchini con diamanti grandi come prugne quando, vestita di rosso, svolazzava qua e là sull'unicorno. Zia Beate aveva bisticciato con papà. Emilie era uscita a spedire una lettera alla mamma e quando papà alla fine l'aveva trovata, zia Beate aveva urlato così tanto che le pareti avevano tremato. I grandi credevano che lei si fosse addormentata. Era piena notte. «È ora di dire la verità alla piccola, Tønnes. Grete è morta. È cenere dentro un'urna ed Emilie è grande abbastanza per capirlo. Adesso la devi smettere. La rovini con tutte queste storie. Fai finta che Grete sia viva e non sono affatto sicura di sapere chi cerchi di prendere in giro, se Emilie o te stesso. Grete è morta. Morta, lo capisci?» Zia Beate piangeva ed era arrabbiata contemporaneamente. Era la persona più in gamba del mondo. Lo dicevano tutti. Era medico primario e sapeva tutto delle malattie al cuore. Salvava la gente da morte sicura, proprio perché sapeva così tante cose. Se zia Beate diceva che i racconti di papà erano frottole, di sicuro era vero. Qualche giorno più tardi papà aveva portato Emilie in giardino a guardare le stelle. C'erano quattro nuovi buchi in cielo perché la mamma voleva vederla meglio, le aveva detto indicandoglieli. Emilie non aveva risposto. Il papà si era rattristato. Glielo aveva visto negli occhi quando dopo lui aveva preso un libro e si era messo a leggerglielo seduto sul bordo del letto. Lei non aveva voluto ascoltare il resto della storia sul viaggio della mamma nel paradiso giapponese, il racconto che durava da tre sere e che in effetti era molto divertente. Papà faceva il traduttore di libri e forse si lasciava prendere un po' troppo dalle storie. «Io mi chiamo Kim,» disse il bambino mettendosi il pollice in bocca. «Io Emilie,» disse lei. Quando si addormentarono non sospettavano che fuori cominciava a fare giorno. Un piano e mezzo sopra di loro, al piano terreno, in una casa ai margini di un boschetto, un uomo sedeva e guardava fuori della finestra. Si sentiva benissimo, quasi su di giri; come se stesse per intraprendere un compito che sapeva di poter affrontare. Era impossibile dormire. Durante la notte, a tratti aveva avuto la sensazione di scivolare nel sonno, poi però un pensiero nitido lo aveva improvvisamente destato.
La finestra dava a ovest. Vide il buio della notte ritirarsi dietro l'orizzonte. Le colline sull'altro lato della vallata erano inondate da strisce di luce mattutina. L'uomo si alzò e posò il libro sul tavolo. Nessun altro sapeva. In meno di due giorni uno dei due bimbi in cantina sarebbe morto. Quella certezza non gli procurava nessuna gioia, ma con un senso di euforica risolutezza si concesse un pochino di zucchero e una goccia di latte nel caffè amaro della sera prima. VII. «Benvenuta in studio, Johanne Vik. Tu sei un avvocato e una psicologa e hai scritto una tesi di dottorato sul perché la gente commette crimini a sfondo sessuale. Dopo quello che recentemente...» Johanne chiuse gli occhi per un attimo. La luce era forte. Ciononostante faceva freddo in quella stanza enorme, e sentì la pelle d'oca sugli avambracci. Avrebbe dovuto rifiutare l'invito. Avrebbe dovuto dire di no. Invece disse: «Innanzitutto, permettimi di precisare che io non ho scritto una tesi sul perché si commettano crimini sessuali. A quanto ne so, nessuno può dire nulla di certo al riguardo. Ho invece portato a termine un confronto tra una serie di criminali sessuali scelti a caso e un'altra lista altrettanto casuale di persone accusate di frodi, per studiare i punti in comune e le diversità di ambiente, infanzia e prima età adulta. La mia ricerca si intitola Sexually motivated crime, a comp...» «I termini difficili cominciano a essere un po' troppi, Vik. In parole povere, hai scritto una ricerca sui criminali sessuali. In meno di una settimana due bambini sono stati brutalmente sottratti ai genitori. Secondo te, ci possono essere dubbi sul fatto che siano crimini a sfondo sessuale?» «Dubbi?» Non osava stringere le dita intorno alla plastica del bicchiere d'acqua. Per evitare che le mani le tremassero in maniera incontrollabile, le intrecciò. Avrebbe voluto rispondere, ma la voce la tradiva. Deglutì. «Parlare di dubbi non ha senso. Non capisco sulla base di cosa si possano fare simili affermazioni.» Il conduttore del programma sollevò una mano e aggrottò la fronte per l'irritazione, come se lei avesse infranto un qualche accordo. «Naturalmente è possibile,» si corresse Johanne. «Tutto è possibile. Può
succedere che i bambini vengano molestati, ma in questo caso potrebbe anche trattarsi di tutt'altro. Io non sono un detective e quel che so l'ho sentito dai media. Ma mi pare che le indagini non abbiano ancora concluso che i due... sequestri, diciamolo pure... siano collegati tra loro. Ho accettato di venire qui perché avevo capito che...» Dovette deglutire di nuovo. Aveva la gola secca. La mano destra le tremava così tanto che fu costretta a bloccare le dita sotto la coscia. Avrebbe dovuto dire di no. «E tu,» disse il conduttore disinvolto, rivolgendosi a una donna in tailleur nero e lunghi capelli argento. - Solveig Grimsrud, responsabile della nuovissima associazione Proteggiamo i Nostri Bambini, «tu invece sei chiaramente dell'avviso che abbiamo a che fare con un pedofilo?» «Considerato quel che sappiamo riguardo a casi simili avvenuti all'estero, sarebbe terribilmente ingenuo pensare ad altro. È molto difficile immaginare delle ragioni alternative per sequestrare dei bambini, bambini che, se dobbiamo dare retta ai giornali, non hanno niente a che fare l'uno con l'altro. Sappiamo di casi simili negli Stati Uniti, in Svizzera, per non parlare dei macabri avvenimenti che si sono verificati in Belgio qualche anno fa... Tutti conosciamo questi casi e tutti ne conosciamo gli esiti.» Solveig Grimsrud si diede un colpo leggero sul petto. Il microfono che aveva sul risvolto della giacca emise un fastidioso fruscio. Johanne vide un tecnico che si metteva le mani nei capelli fuori inquadratura. «A cosa ti riferisci con "esiti"?» «Intendo dire proprio quello che dico. I bambini vengono sequestrati per tre motivi.» I lunghi capelli le ricadevano sugli occhi. Prima di cominciare a contare con le dita, Solveig Grimsrud se li ravviò dietro l'orecchio. «O si tratta di sequestro a scopo di estorsione, cosa che qui possiamo escludere, visto che entrambe le famiglie appartengono alla classe media e non possono contare su un gran patrimonio. Oppure ci sono bambini, e sono numerosissimi, che vengono sottratti dalla madre o dal padre, spesso da quest'ultimo, dopo la separazione. Ma nemmeno questo è il nostro caso. La madre della bambina è morta e i genitori del bambino sono ancora sposati. Oppure c'è un'ultima possibilità. I bambini che vengono sequestrati da uno o più pedofili.» Il conduttore del programma esitò. Johanne immaginò di svegliarsi sentendo la pancia nuda di un bambino contro la schiena, il solletico delle dita addormentate sul collo.
Un uomo oltre i cinquanta, con un paio di occhiali da sole a goccia e lo sguardo afflitto, cominciò a parlare quando stava ancora prendendo fiato. «Per come la vedo io, la teoria della signora Grimsrud non è che una delle tante. Credo che dovremmo essere...» «Fredrik Skolten,» lo interruppe il conduttore. «Tu sei un investigatore privato con vent'anni di esperienza nella polizia alle spalle. Informiamo comunque i telespettatori che abbiamo chiesto alla polizia criminale norvegese di intervenire al programma di stasera, ma non hanno accettato. Però tu, Skolten, con la tua vasta esperienza nella polizia, su quali teorie credi che stiano lavorando?» «Come stavo dicendo...» L'uomo fissava un punto sulla superficie della scrivania, strofinandosi l'indice destro sul dorso della mano sinistra. «In questo momento probabilmente il caso è del tutto aperto. Ma c'è molto di vero in quello che dice la signora Grimsrud. I sequestri dei minori rientrano generalmente in tre categorie, le stesse che lei... e le prime due appaiono alquanto...» «Improbabili?» Il conduttore si chinò verso l'uomo, come se si trattasse di una conversazione privata. «Be'. Sì. Ma non abbiamo basi per... senza ulteriori...» «Era ora che la gente si svegliasse,» lo interruppe Solveig Grimsrud. «Solo fino a qualche anno fa pensavamo che la violenza sui bambini fosse qualcosa che non ci riguardava. Qualcosa che accadeva soltanto negli Stati Uniti. Lasciavamo che i nostri figli andassero a scuola da soli o in campeggio senza nessun adulto, lasciavamo che restassero fuori casa per ore senza controllarli. Così non si può continuare. È ora che...» «È ora che io me ne vada.» Johanne non si rese conto di essersi alzata. Fissò la telecamera: un ciclope elettronico che le dava i brividi, restituendole lo sguardo con uno spento occhio grigio. Aveva ancora il microfono fissato al risvolto della giacca. «È ridicolo. Da qualche parte là fuori...» Johanne puntò l'indice verso la telecamera e lo tenne fermo. «...c'è un vedovo con una figlia sparita da una settimana. C'è una coppia a cui è stato rapito il figlio, portato via nel cuore della notte. E tu te ne stai qui seduta...» Spostò l'indice in direzione di Solveig Grimsrud; tremava. «...a raccontargli che è successo il peggio. Non hai nessuna, ripeto, nes-
suna base per affermare una cosa del genere. È sconsiderato e... irresponsabile. Come ho già detto, conosco questi casi solo attraverso i media. Ma spero... anzi sono convinta che la polizia, diversamente da te, tiene tutte le opzioni aperte. Potrei pensare qui su due piedi ad almeno sei o sette spiegazioni alternative per queste sparizioni, tutte più o meno buone o cattive, ma comunque sempre più fondate dello scenario che hai cercato di descrivere. Sono passate solo ventiquattro ore da quando è scomparso il piccolo Kim. Ventiquattro ore! Non ho parole...» E lo intendeva davvero. Di colpo si zittì. Poi si strappò il microfono dal risvolto della giaccia e se ne andò. La telecamera seguì i suoi movimenti pesanti e inusuali fino alla porta dello studio. «Bene,» disse il conduttore, con il labbro superiore imperlato di sudore e la bocca aperta per respirare. «Abbiamo visto anche questa.» Da un'altra parte di Oslo, c'erano due uomini seduti davanti alla Tv. Il più vecchio sorrideva appena; il più giovane picchiò il pugno contro la parete. «Cazzo! È così che si parla. La conosci quella? Ne hai mai sentito parlare?» Il più vecchio, il commissario della polizia criminale Yngvar Stubø, annuì pensieroso. «Ho letto la ricerca di cui parlava. Interessante, in effetti. Adesso sta facendo una ricerca su come i media si occupino della criminalità. Da quanto ho capito da un articolo che ho letto, paragona il destino di un certo numero di criminali che hanno avuto molta attenzione da parte dei media con altri che non l'hanno ricevuta. Il punto in comune è che tutti si dichiarano innocenti. È partita molto indietro nel tempo, dagli anni Cinquanta, credo. Non so perché.» Sigmund Berli rise. «Be', senza dubbio è una con le palle. Non credo di aver mai visto nessuno prendere e andarsene così. Buon per lei! Soprattutto perché ha ragione!» Yngvar Stubø si accese un sigaro enorme, segnale evidente che dava per conclusa la giornata di lavoro. «Ha talmente ragione che non sarebbe male parlare con lei,» disse afferrando la giacca. «A domani.» VIII.
I bambini non sanno di dover morire. Non hanno il concetto della morte. Lottano per vivere istintivamente, come le lucertole che se minacciate sono pronte a rinunciare alla coda. Tutte le creature sono geneticamente programmate per cercare di sopravvivere. Anche i bambini. Loro però non hanno il concetto della morte. Ai bambini fanno paura le cose concrete. Il buio. Gli sconosciuti, forse; essere separati dalla famiglia, il dolore, i rumori spaventosi, la perdita di un oggetto. La morte, invece, è incomprensibile per una mente non ancora matura. I bambini non sanno di dover morire. Questo pensava l'uomo, mentre preparava ogni cosa. Versò la Coca-Cola in un bicchiere, sorpreso dalle riflessioni che gli occupavano la mente. Benché il bambino non fosse stato scelto a caso, tra loro non c'era nessun legame sentimentale. Dal punto di vista emotivo, il bambino era un completo estraneo, una pedina di una partita importante. Non si sarebbe accorto di niente. Sotto questo aspetto per lui era meglio morire. La nostalgia dei genitori, una sofferenza più che comprensibile in un bimbo di soli cinque anni, doveva essere ben peggio di una morte rapida e indolore. L'uomo sbriciolò il Valium e ne fece cadere i pezzetti nel bicchiere. Era una piccola dose, voleva solo che il bambino si addormentasse. Era importante che dormisse, al momento della morte. Sarebbe stato più facile. Più pratico. Fare un'iniezione a un bambino è già abbastanza complicato, figuriamoci se urla o scalcia. La Coca gli aveva messo sete. Si bagnò lentamente le labbra con la lingua. Un brivido strisciò lungo i muscoli della schiena; in un certo senso, non vedeva l'ora di farlo. Di realizzare un progetto attentamente programmato. Se tutto andava secondo i piani, ci sarebbero volute sei settimane e quattro giorni. IX. Poco indicava che si avvicinava l'estate. Una nebbia grigia avvolgeva le acque di Sognsvann e gli alberi erano ancora spogli. Qua e là i salici più precoci avevano messo qualche gemma e sui pendii esposti a sud il farfaro era già alto. Per il resto avrebbe potuto essere tanto il 14 ottobre quanto il 14 maggio. Una bimba di sei anni con una tutina rossa e stivali di gomma
gialli si tolse il berretto. «No, Kristiane. In acqua no.» «Ma dài, lascia che si bagni. Ha gli stivali.» «Santo Dio, Isak, l'acqua non è bassa! Kristiane! No!» La bambina non voleva ascoltare e canticchiava una melodia monotona. L'acqua le arrivava già al bordo degli stivali, che si riempivano gorgogliando. Con lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé, la bimba continuava a ripetere quelle quattro note. «Ti sei bagnata tutta,» si lamentò Johanne Vik trascinandola a riva. La bimba sorrise felice guardandosi i piedi e smise di cantare. La madre la prese per un braccio e l'accompagnò a una panchina qualche metro più in là. Poi tirò fuori dallo zainetto una calzamaglia asciutta, un paio di calzettoni e delle scarpe da ginnastica robuste. Kristiane non voleva cambiarsi. Sedeva rigida abbracciandosi le gambe, con lo sguardo di nuovo fisso nel vuoto. In fondo alla gola, il brusio delle solite quattro note: dam-dirum-ram. Dam-di-rum-ram. «Così ti ammali,» disse Johanne, «ti prendi un raffreddore.» «Raffreddore,» sorrise Kristiane, fissando sua madre come se la vedesse soltanto allora. «Sì. Ti ammali.» Johanne tentò di trattenere quello sguardo, di bloccarla con gli occhi. «Dam-di-rum-ram,» canticchiò Kristiane irrigidendosi nuovamente. «Ecco. Lascia fare a me.» Isak sollevò la figlia da sotto le ascelle e la lanciò in aria. «Papà,» gridò Kristiane prendendo fiato. «Ancora!» «Ancora sì,» urlò Isak facendole strusciare gli stivali sul prato prima di gettarla di nuovo nella nebbia. «Kristiane è un aereo!» «Aereo! Aerostato! Sterna!» Johanne non capiva da dove le prendeva. La bambina usava parole che né Isak né lei usavano mai; né nessun altro, se per questo. Ma c'era sempre una certa logica, un senso che poteva essere difficile cogliere sul momento ma che dava comunque l'idea di una comprensione della lingua che contrastava fortemente con le parole brevi e semplici che usava di solito; e solo quando voleva lei. «Dam-di-rum-ram.» Il viaggio in aereo era terminato. Era tornata la canzone. Ma Kristiane stava seduta in braccio al papà e si lasciava cambiare. «Sederino congelato,» disse Isak dandole una leggera sculacciata prima
di infilarle la calzamaglia asciutta dai piedi, con le dita incurvate innaturalmente. «Kristiane è tutta gelata.» «Kristianegelata. Ha fame.» «Ecco fatto. Andiamo?» Isak mise giù la bimba, davanti a sé, poi infilò i vestiti bagnati dentro lo zaino. Dalla tasca laterale tirò fuori una banana, la sbucciò e la diede a Kristiane. «Dov'eravamo?» Si passò una mano tra i capelli. L'aria umida li rendeva appiccicosi. Alzò lo sguardo. Era sempre sembrato così giovane, anche se aveva solo un mese meno di lei. Irresponsabile ed eternamente giovane; i capelli sempre un pizzico troppo lunghi, gli abiti troppo larghi, troppo cascanti per la sua età. Johanne cercò di inghiottire il solito senso di sconfitta, la perenne sensazione di essere la meno brava con Kristiane. «Forza, raccontami il resto della storia!» Lui sorrise incoraggiante e gettò un po' indietro la testa. Kristiane li precedeva già di una decina di metri, con quella sua caratteristica andatura incerta che avrebbe dovuto aver abbandonato ormai da tempo. Isak posò la mano sulla spalla di Johanne per un attimo, poi s'incamminò a sua volta, ma lentamente, come se dubitasse che lei fosse in grado di tenere il passo. «Quando Alvhild Sofienberg decise di indagare più a fondo sul caso,» cominciò Johanne seguendo con gli occhi la figurina che si era di nuovo avvicinata all'acqua, «incontrò una resistenza che non si era aspettata. Aksel Seier non volle parlare con lei.» «Ah no? Perché? Non aveva fatto istanza di grazia? Non era incoraggiante che qualcuno del Ministero volesse seguire il caso?» «Sarebbe logico. Non so. Kristiane!» La bambina si voltò e rise forte. Girò lentamente le spalle all'acqua e saltellò verso il margine del bosco; doveva aver messo gli occhi su qualcos'altro. «In ogni caso lei non si diede per vinta. Alvhild Sofienberg, voglio dire. Alla fine riuscì a mettersi in contatto con il sacerdote della prigione. Una persona che ispirava fiducia e che ne aveva viste di tutti i colori. Anche lui era convinto che Seier fosse... innocente. Ovviamente per Alvhild fu benzina sul fuoco. Così non si arrese e si rivolse al suo capo.» «Aspetta un attimo.» Isak si fermò. Fece un cenno d'assenso a Kristiane, che si trovava accan-
to a un enorme sanbernardo. La bambina gettò le braccia al collo dell'animale con un grido di gioia. Il sanbernardo scodinzolava pigramente. «Dovresti prendere un cane,» le disse piano Isak. «Kristiane è fantastica coi cani. Credo le faccia bene stare con loro.» «Prendilo tu,» rispose Johanne tagliente. «Perché devo sempre essere io a farmi carico di tutto? Sempre!» Isak sospirò profondamente ed espirò dalla fessura tra gli incisivi. Un fischio grave e prolungato che fece drizzare le orecchie al cane. Kristiane rise forte. «Lascia perdere,» disse lui scuotendo la testa. «E poi cos'è successo?» «Ma se non ti interessa.» Isak Aanonsen si passò una mano magra sul viso. «Certo che mi interessa. Come fai a dire una cosa del genere? Ho ascoltato tutta la storia e mi interessa molto sentire il resto. Ma che cos'hai?» Kristiane era riuscita a far accucciare il cane. Adesso gli stava sdraiata di traverso sulla schiena, con le mani sprofondate nel suo pelo. Il padrone era fermo accanto a loro, meravigliato, e fissava palesemente in ansia Isak e Johanne. «Non c'è problema,» disse Isak avvicinandosi rapidamente al cane e alla bambina. «Ha un rapporto speciale con gli animali.» «Puoi dirlo forte,» fece l'uomo. Isak sollevò la figlia e il cane si alzò. Il padrone gli mise il guinzaglio e s'incamminò verso nord a grandi passi, girandosi ogni tanto a dare un'occhiata, come se avesse paura che quella tremenda bambina li potesse inseguire. «Forza, racconta,» chiese Isak. «Dam-di-rum-ram,» cantava Kristiane. «Il capo respinse la sua richiesta,» disse brusca Johanne. «Le disse che era meglio lasciar perdere il caso. Aveva altro di cui occuparsi. Quando Alvhild gli fece presente che si era fatta mandare tutte le carte e le aveva lette a fondo, lui si irritò visibilmente. E quando poi gli disse di essere assolutamente convinta dell'innocenza di Seier, lui andò su tutte le furie. E adesso arriva la cosa veramente... la cosa più spaventosa di tutta la faccenda.» Kristiane le prese la mano all'improvviso. «Mamma,» disse tranquilla. «Io e la mia mamma.» «Un giorno Alvhild Sofienberg entra in ufficio e tutti i documenti sono spariti.»
«Spariti? Scomparsi?» «Sì. Una pila enorme di documenti. Spariti senza lasciare traccia.» «Andiamo a spasso,» disse Kristiane. «Io e la mia mamma.» «E papà,» disse Johanne. «E poi?» Isak aveva le sopracciglia unite. La somiglianza tra lui e sua figlia era ancora più evidente; la forma allungata del viso, le sopracciglia unite. «Alvhild Sofienberg era... terrorizzata. In ogni caso non osò più proporre la questione al suo capo, perché le dissero che i fascicoli erano stati ritirati "dalla polizia".» Disegnò delle virgolette nell'aria. «Poi, in via del tutto confidenziale, venne a sapere che Aksel Seier era stato rilasciato.» «Cosa?» «Molto prima del dovuto. Rilasciato. Proprio così. Zitti zitti, senza tante storie.» Erano arrivati al grande parcheggio di fianco alla scuola superiore di educazione fisica. Peraltro quasi vuoto. Il terreno era costellato di pozzanghere e profondi segni di pneumatici. Sotto tre grandi betulle c'era la vecchia Opel Kadett di Johanne accanto all'Audi Tt di Isak. «Fammi capire,» disse Isak, alzando la mano come fosse sul punto di prestare un giuramento solenne. «Stiamo parlando del 1965, non dell'Ottocento. Non della guerra. Il 1965, l'anno in cui tu e io siamo nati, quando la Norvegia era già stata ampiamente ricostruita e si era rimessa in sesto dopo la guerra, quando la burocrazia era ben organizzata e il giusto processo era un concetto assodato. Allora? Lo rilasciano e basta? Voglio dire, niente di male se viene rilasciato qualcuno senz'altro innocente, è ovvio, ma...» «Infatti. Qui c'è proprio un grande ma.» «Papamobile,» disse Kristiane accarezzando l'auto grigio metallizzato. «Autobiglia. Automobiglia.» Gli adulti risero. «Che tipo che sei,» disse Johanne annodandole il berretto sotto il mento. «Ma da dove diavolo le prende?» «Non parlare male,» lo ammonì Johanne. «Sente tutto. Comunque...» Raddrizzò la schiena. Kristiane si mise a sedere in una pozzanghera canticchiando. «Dalla sua fonte, cioè il cappellano della prigione, Alvhild venne a sapere che una donna anziana di Lillestrøm si era presentata alla polizia di
Romerike. Da tempo portava dentro di sé un terribile segreto. Suo figlio, un uomo leggermente ritardato che viveva insieme a lei, era rientrato a notte fonda la sera in cui la piccola Hedvig era scomparsa. Aveva i vestiti macchiati di sangue ed era parecchio sconvolto. Quando, poco dopo, venne a sapere della storia di Hedvig, la donna aveva subito sospettato di lui. Ma non voleva dire niente. Forse non è così difficile da...» Lanciò un'occhiata alla figlia. «A ogni modo... ormai suo figlio era morto. E il caso venne accuratamente insabbiato dalla polizia e dalle autorità. La donna fu quasi tacciata di isteria. Ma comunque siano andate le cose, il nostro buon Aksel Seier fu messo in libertà poche settimane dopo. In silenzio. Nessun giornale parlò della cosa. Alvhild non ne seppe più nulla.» La nebbia si era diradata; solo un basso strato di nuvole si muoveva lentamente sopra le cime degli alberi, verso est. In compenso aveva cominciato a piovere forte. Un setter inglese bagnato fradicio iniziò a gironzolare attorno a Kristiane, abbaiando e correndo a prendere i sassi che lei tirava con grida festose. «Ma perché Alvhild Sofienberg te lo racconta?» «Mhm?» «Perché te ne parla adesso? Trenta... trentacinque anni dopo?» «Perché l'anno scorso le è successo un fatto strano. Questo caso l'ha tormentata per tutta la vita. E adesso che è in pensione, ha deciso di riesaminarlo come si deve. Si è messa in contatto con l'Archivio di Stato per ottenere i documenti. Ma non ne è rimasta traccia.» «Cosa?» «Sono spariti. All'Archivio di Stato non ci sono più. Né all'Archivio della regione. La polizia di Oslo non li trova, e neanche quella di Romerike. Una pila enorme di documenti è semplicemente svanita nel nulla.» Kristiane si era alzata dalla pozzanghera. Si avvicinò a loro bagnata e sporca dalla testa ai piedi. «Sono contento che tu non debba salire nella mia macchina,» disse Isak, sedendosi sui calcagni di fronte a lei. «Ma ci vediamo il 17, vero?» «Non abbracci papà prima di andare?» chiese Johanne. Kristiane si lasciò abbracciare meccanicamente, lo sguardo lontanissimo. «Pensi di farcela, Isak?» Lui non toglieva gli occhi dalla bambina. «Certo. Sono un mago, sai. Se Aksel Seier è ancora vivo, scoprirò dove vive in meno di una settimana. Garantito.»
«Non ci sono garanzie nella vita,» rispose Johanne tagliando corto. «Ma grazie del tentativo. Se qualcuno può farcela, quello sei tu.» «Sure thing,» disse Isak scivolando dentro il suo Tt. «A mercoledì.» Lei lo guardò finché l'auto scomparve oltre la collina, giù verso Kringsjå. Isak non sarebbe stato mai altro che un bambinone. Solo che lei non l'aveva capito in tempo. Prima, prima di Kristiane, aveva ammirato la sua prontezza, il suo entusiasmo, l'ottimismo; la fiducia infantile che tutto si possa sistemare. Isak si era costruito un intero futuro sulla sconfinata fiducia in se stesso; aveva messo in piedi una società dot-com prima che molti sapessero di cosa si trattava e aveva avuto il senno di venderla in tempo. Adesso si dilettava di informatica per qualche ora al giorno, faceva regate per metà dell'anno e nel tempo libero aiutava l'Esercito della Salvezza a cercare persone scomparse. Johanne si era innamorata del suo modo di andare incontro al mondo ridendo. Di come scrollava le spalle quando le cose si facevano un po' troppo complicate. Atteggiamenti che lo rendevano così diverso e attraente. Poi era arrivata Kristiane. I primi anni erano stati assorbiti da tre operazioni cardiache, veglie notturne e ansia. Quando finalmente si erano svegliati dalla prima notte di sonno ininterrotto, era troppo tardi. Avevano vivacchiato ancora un anno in una finzione di matrimonio. Le due settimane trascorse nel Centro statale di psichiatria infantile alla inutile caccia di una diagnosi per Kristiane li avevano infine portati alla separazione. Se non proprio da amici, comunque con un rispetto reciproco relativamente intatto. Non era mai stata trovata una diagnosi. Kristiane girovagava nel suo piccolo mondo e i medici scuotevano la testa. Autismo, forse, dicevano, corrugando però la fronte davanti all'evidente capacità di affetto della piccola e al suo gran bisogno di contatto fisico. Che importanza ha, chiedeva Isak, la bambina sta bene, è nostra, e non me ne frega niente di sapere che cos'è che non va. Non capiva quanto fosse importante avere una diagnosi. Trovarle un programma adeguato. Fare in modo che Kristiane potesse realizzare il suo potenziale al massimo. Isak era così maledettamente irresponsabile. Il problema era che non aveva mai accettato di essere il padre di una bambina ritardata.
Isak guardò nello specchietto. Johanne sembrava più vecchia adesso. Stanca. Prendeva sempre le cose così sul serio. Avrebbe tanto desiderato proporle che Kristiane vivesse fissa da lui, non una settimana sì e una no come ora. Lo notava, ogni volta: quando riportava la bambina alla fine della settimana, Johanne era di buon umore e riposata. Quando andava a riprenderla, una settimana dopo, Johanne era tetra, tirata e nervosa. Il che non era un bene per Kristiane. Come non lo era l'eterno girotondo da specialisti e professoroni. Chissà poi perché doveva essere così importante scoprire cosa non andava nella bambina. La cosa importante era che aveva il cuore sano, mangiava come si deve e stava bene. Sua figlia era felice. Isak ne era certo. Johanne era adulta da troppo tempo. Prima, prima dell'arrivo di Kristiane, la cosa lo attraeva. Era sexy. Così come la sua palese ambizione. La sua serietà in tutto quel che faceva. Le sue aspirazioni. La sua efficienza. Si era innamorato della sua determinazione, della sua dedizione agli studi, del suo lavoro all'Università. Poi era arrivata Kristiane. Lui amava quella bambina. Era sua figlia. Non c'era niente di sbagliato in Kristiane. Non era come tutti gli altri, ma era se stessa. E questo bastava. L'opinione di tutti gli specialisti del mondo su cosa le mancasse era del tutto irrilevante. Ma non per Johanne. Lei doveva sempre andare a fondo in ogni cosa. Johanne era così maledettamente responsabile. Il problema era che non aveva mai accettato di essere la madre di una bambina ritardata mentale. X. Il commissario Yngvar Stubø sembrava un giocatore di football americano. Era grosso, ovviamente sovrappeso, e di altezza poco al di sopra della media. I chili in più si distribuivano con equità su spalle, collo e cosce. La cassa toracica pareva sul punto di far esplodere la camicia bianco candido. Nella tasca appena sopra il cuore c'erano due cilindri metallici. Prima di capire che in realtà contenevano sigari, Johanne Vik pensò che quell'uomo andasse in giro con le munizioni addosso. Aveva mandato un'auto a prenderla. Era la prima volta che qualcuno mandava un'auto a prendere Johanne Vik. Si sentiva molto a disagio, tanto che aveva detto che non ce n'era bisogno. Poteva prendere la metropolita-
na. Poteva prendere un taxi. Assolutamente no, aveva insistito Stubø, e le aveva mandato una Volvo, anonima e blu scuro, con un giovane uomo al volante. «Si sarebbe detta l'auto dei servizi segreti,» disse con un sorriso tirato mentre stringeva la mano di Stubø. «Una Volvo blu scuro e un autista muto con gli occhiali da sole.» La risata era potente quanto la gola da cui usciva. Il commissario aveva denti bianchi, regolari; sulla destra, il luccichio di una capsula d'oro. «Non preoccuparti per Oscar. Ha ancora molto da imparare.» C'era un vago odore di sigari nell'aria, ma in giro non si vedeva nessun posacenere. La scrivania era insolitamente grande, con delle cartelline ordinate da una parte e un computer spento dall'altra. Sulla parete dietro la sedia di Stubø erano appesi una carta della Norvegia, un poster dell'Fbi e la fotografia di un cavallo baio. Era stata scattata in estate, su un prato cosparso di fiori selvatici. Il cavallo al momento dello scatto aveva scosso la testa; la criniera pareva un'aureola, gli occhi guardavano dritti nell'obiettivo della macchina fotografica. «Bel cavallo,» disse indicando la fotografia. «Tuo?» «Sabra,» rispose lui sorridendo ancora; quell'uomo sorrideva sempre. «Bellissimo animale. Grazie per essere venuta. Ti ho vista in televisione.» Johanne Vik si domandava quanti le avessero detto esattamente la stessa cosa negli ultimi giorni. Naturalmente l'unico a non aver detto neanche una parola su quell'episodio tremendamente imbarazzante era stato Isak. Ma in realtà non guardava mai la Tv. La madre di Johanne, invece, le aveva telefonato cinque volte nella prima mezz'ora che aveva seguito la trasmissione; la segreteria telefonica l'aveva assalita con la sua voce squillante non appena aveva oltrepassato la porta. Johanne non l'aveva richiamata. Cosa che aveva portato ad altri quattro nuovi messaggi, uno più stizzito dell'altro. Al lavoro il giorno dopo le avevano dato delle pacche sulla spalla. Qualcuno aveva riso, altri si erano sentiti molto offesi per lei. La cassiera del supermercato si era chinata confidenzialmente verso di lei per poi bisbigliare a voce così alta da farsi sentire dall'intero negozio: «Ti ho vista in televisione!» Lo share del programma Redaksjon 21 doveva essere stato formidabile. «Sei stata brava,» disse Stubø. «Brava? Ma se non ho detto praticamente nulla.» «Hai detto ciò che contava. Il fatto che te ne sia andata ha detto più di quello che chiunque altro... dal talento più limitato avrebbe potuto espri-
mere. Hai letto la mia mail?» Johanne annuì brevemente. «Ma credo che ti stia sbagliando. Non mi sembra di essere in grado di aiutarvi. Io non sono esattamente...» «Ho letto la tua ricerca,» la interruppe lui. «Molto interessante. Nella mia professione...» La guardò dritto in faccia e tacque. Negli occhi aveva un'espressione di scusa, come se si vergognasse di quello di cui si stava occupando. «Noi non siamo così bravi a tenerci informati. Se non su quanto sembra direttamente connesso con un'indagine. Cose come questa...» Aprì un cassetto e prese un libro. Johanne riconobbe immediatamente la copertina, con il suo nome in caratteri piccoli su un paesaggio invernale incolore. «Credo di essere l'unico ad averlo letto qui. Peccato. È molto attuale.» «Per cosa?» Di nuovo il suo volto assunse quell'espressione scoraggiata, in parte di scusa. «Per l'attività della polizia. Per chiunque si sforzi di capire l'essenza del crimine.» «L'essenza del crimine? Sicuro di non voler dire del criminale?» «Ben detto, professoressa. Ben detto.» «Io non sono professoressa. Sì, insegno all'università, ma...» «È importante?» «Sì.» «Perché?» «Perché...» «Sì. Fa qualche differenza come ti chiamo? Se ti chiamo professoressa, significa solo che so che sei una ricercatrice e insegni all'università. Il che è vero, no? È esattamente quello che fai, giusto?» «Sì, ma non è corretto attribuirsi...» «Farsi più grandi di quel che si è? Fregarsene delle formalità? È questo quello che vuoi dire?» Johanne batté le palpebre e si tolse gli occhiali. Lentamente ripulì la lente sinistra con un angolo della camicetta. Prendeva tempo. Adesso l'uomo dall'altra parte della scrivania era diventato una nebbiolina grigia, un essere indefinito senza caratteristiche che lo distinguessero. «La precisione è la mia materia,» riprese la figura senza contorni. «In grande e in piccolo. Per un poliziotto, fare un buon lavoro significa costru-
ire mattone su mattone. Con precisione millimetrica. Se faccio pasticci... Se uno dei miei uomini non fa caso a un capello, arriva in ritardo di un minuto, oppure sceglie una scorciatoia perché ci sembra di sapere qualcosa che invece non possiamo ancora dare per sicuro, allora...» Clap. Stubø batté le mani e Johanne si rimise gli occhiali. «Quindi siamo messi male,» aggiunse Stubø piano. «E a essere onesti comincio ad averne le tasche piene.» Ma questo non era un problema che la riguardasse. Se un commissario della polizia criminale di mezza età era stanco del suo lavoro, lei non c'entrava. Era evidente che quell'uomo era in piena crisi esistenziale e la cosa non aveva niente a che fare con lei. «Non per il lavoro in sé,» aggiunse lui all'improvviso, offrendole una caramella. «Affatto. Ecco, prendine una. C'è odore di sigaro qua dentro? Vuoi che apra la finestra?» Lei scosse il capo con un debole sorriso. «No. È un buon odore.» Lui le restituì il sorriso. Era un bell'uomo. In modo quasi eccessivo; il naso era troppo diritto, troppo grande. Gli occhi troppo profondi, troppo azzurri. La bocca troppo sottile, troppo lineare. Yngvar Stubø era troppo vecchio per quel sorriso così bianco. «Ti starai domandando perché volevo parlarti,» disse Stubø tranquillamente. «Quando prima mi hai corretto... corretto l'essenza del crimine con l'essenza del criminale, hai colpito nel segno. È di questo che si tratta.» «Non ti seguo del tutto...» «Aspetta un momento solo.» Si voltò verso la fotografia del cavallo. «Sabra,» cominciò incrociando le mani dietro la testa, «è un bel cavallo da sella della vecchia guardia. Ci puoi far salire una bimba di cinque anni e lei trotterella piano piano. Ma se invece la cavalco io... Wow! Ho fatto gare per anni con lei. Per divertimento, soprattutto: non sono mai stato molto bravo. Il punto è che...» Di colpo si chinò verso di lei, e Johanne colse un vago profumo di caramella nel suo alito. Non sapeva se quell'improvvisa intimità le facesse piacere o le desse fastidio. Si tirò indietro. «Ho sentito dire che i cavalli non vedono i colori,» proseguì lui. «Può darsi che abbiano ragione. Sabra comunque odia il blu. E la indispone la pioggia, le piacciono le giumente selvagge, è allergica ai gatti e si lascia
distrarre un po' troppo facilmente dalle automobili di grossa cilindrata.» Esitò un istante, poi scosse impercettibilmente la testa prima di continuare: «Il punto è che io riuscivo sempre a spiegare i suoi risultati. Conoscendola. In quanto... in quanto cavallo. Se buttava giù un ostacolo, non c'era bisogno di chissà quale analisi, come fanno un sacco di persone e di fantini. Io sapevo...» Alzò lo sguardo sulla foto. «Io glielo vedevo negli occhi. Nell'anima, se vuoi. Nel carattere. In base a quello che so di lei.» Johanne voleva dire qualcosa. Avrebbe dovuto fare un qualche commento. «Ma qui non lavoriamo così,» disse il commissario, prima che lei potesse inventarsi qualcosa. «Qui si va nella direzione opposta.» «Continuo a non capire che cosa c'entri con me.» Yngvar Stubø intrecciò di nuovo le mani, come in preghiera, poi le abbassò cautamente sulla scrivania. «Due bambini rapiti e due famiglie devastate. I miei hanno già mandato oltre quaranta campioni in laboratorio perché vengano analizzati. Abbiamo centinaia di fotografie delle scene del crimine. Abbiamo ascoltato così tante testimonianze che ti verrebbe il mal di testa se sapessi quante sono. Quasi sessanta uomini lavorano sul caso, o più precisamente sui casi. Fra qualche giorno saprò quello che è possibile sapere sui crimini commessi. Ma temo che non stiamo andando da nessuna parte. Voglio saperne qualcosa di più sul criminale che li ha commessi. Ecco perché ho bisogno di te.» «Hai bisogno di un profilo,» ribatté Johanne lentamente. «Esatto. Ho bisogno di te.» «No,» precisò Johanne a voce un po' troppo alta. «Non è me che stai cercando.» In una villetta a schiera a Bærum una donna guardò l'orologio da polso. Il tempo era fuori sincrono. I secondi non seguivano i secondi. Da un minuto non si passava a quello successivo. Le ore si accumulavano una sull'altra. Prima duravano un'infinità poi di colpo si accorciavano. Quando finalmente finivano, tornavano indietro, e lei le riconosceva, come vecchi nemici che non volevano lasciarla in pace. Almeno la paura, quella prima mattina, era stata comunque qualcosa di
reale, per entrambi. Qualcosa da poter incanalare in un giro di telefonate; alla polizia, ai genitori. Al lavoro. Ai pompieri, che avevano fatto un intervento a vuoto e non avevano saputo aiutarli a rintracciare il bambino coi ricci bruni sparito durante la notte. Lasse aveva chiamato tutti quelli che gli venivano in mente: l'ospedale, che aveva mandato un'ambulanza senza però trovare nessuno da portare via. Lei aveva chiamato i vicini, che erano rimasti scettici sulla porta quando avevano visto i poliziotti in giardino. La paura poteva servire a qualcosa. Poi era andato tutto molto peggio. Inciampò nella scala della cantina. Le rotelle si erano staccate dal muro. Lasse le aveva appena tolte dalla bicicletta di Kim. Kim era così orgoglioso. Era schizzato via subito con il suo casco blu. Era caduto, ma si era rialzato. Aveva continuato a pedalare. Senza rotelle. Le avevano appese vicino alla scala della cantina, appena dietro la porta; come un trofeo. «Così posso vedere quanto sono bravo,» aveva detto Kim a suo padre, smuovendo un incisivo che stava per cadere. «Tra poco lo perdo. Quanto mi porta il topino?» Mancava la marmellata. C'era bisogno di marmellata per i gemelli. E la marmellata era in cantina. L'aveva fatta l'anno prima. Anche Kim aveva aiutato a raccogliere la frutta. Kim. Kim. Kim. I gemelli avevano solo due anni e volevano la marmellata. Sul pavimento, davanti alla dispensa, c'era qualcosa. Non capiva cosa. Un pacchetto oblungo, un fagotto? Non era grande. Un metro scarso, forse. Qualcosa impacchettato in un pezzo di plastica grigia, con sopra un messaggio. Era attaccato con lo scotch. Pennarello rosso su un grande foglio di carta bianco. Scotch marrone. Plastica grigia. Dall'involto usciva una testa, la parte superiore di una testa; una testa di bambino coi ricci bruni. «Un biglietto,» sussurrò lei. «C'è un biglietto.» Kim sorrideva. Era morto e sorrideva. Nella mascella superiore dove era caduto il dente c'era un buchino rosso. Si sedette sul pavimento. Il tempo trascorreva in circolo, e sapeva che questo era l'inizio di qualcosa che non avrebbe mai avuto fine. Quando Lasse scese a cercarla, lei non sapeva dove si trovava. Non lasciò il suo bambino finché non le fecero un'iniezione e la portarono all'ospedale. Un poliziotto aprì il pugno destro del bimbo. Dentro c'era un dente, un dente bianco, con una piccola radice macchiata di sangue.
Benché l'ufficio fosse relativamente grande, c'era già odore di chiuso. La tesi di Johanne Vik era ancora lì, in un angolo della scrivania. Yngvar Stubø accarezzò con il dito il pallido paesaggio invernale, poi glielo indicò. «Tu sei sia avvocato che psicologa,» insistette. «Non proprio. Non del tutto. Ho un diploma in psicologia. Preso negli Stati Uniti. Non è una laurea. Avvocato invece... è giusto.» Johanne stava sudando e chiese un po' d'acqua. Si rendeva conto di essere stata costretta a recarsi lì, contro la sua volontà, da un poliziotto con cui non voleva avere niente a che fare. Lui parlava di un caso che non la riguardava. E che era ampiamente al di fuori della sua sfera di competenza. «Adesso me ne vorrei andare,» disse con cortesia. «Purtroppo non posso aiutarti. Ovviamente conoscerai qualcuno dell'Fbi. Rivolgiti a loro. Per quanto ne so, loro usano i profili.» Guardò lo stemma sulla parete; era blu, di cattivo gusto e vistoso. «Io sono una ricercatrice, Stubø. Oltre che madre di una bambina piccola. Questa storia mi fa orrore. Mi spaventa. Al contrario di te, io ho il diritto di pensarla così. Adesso vorrei andare.» Lui le versò dell'acqua da una bottiglia senza tappo e le avvicinò il bicchiere di carta. «Avevi sete,» le ricordò. «Bevi. Dici sul serio?» «Sul serio cosa?» Johanne rovesciò un po' d'acqua e si accorse di tremare. L'acqua fredda le gocciolò da un angolo della bocca, le corse lungo il mento e le si infilò nella scollatura. Si asciugò con il collo del maglione. «Che non ti riguarda.» Il telefono squillò. Il suono era acuto e insistente. Yngvar Stubø afferrò la cornetta. Il suo pomo d'Adamo fece tre salti, come per un conato di vomito. Non disse nulla. Passò un minuto. Gli venne alle labbra un sì grave, non molto più di un grugnito indistinto. Passò un altro minuto. Poi riattaccò. Prese lentamente il portasigari dal taschino della camicia. Tamburellò le dita sul metallo opaco. Sempre senza dire nulla. Quindi all'improvviso lo rimise nel taschino e si aggiustò il nodo della cravatta. «Hanno trovato il bambino,» disse roco. «Kim Sande Oksøy. La madre lo ha trovato in cantina. Impacchettato in un sacco di plastica. L'assassino ha lasciato un messaggio. Adesso hai quello che ti meriti.» Johanne si tolse gli occhiali. Non voleva vedere. Nemmeno sentire. Si
alzò invece alla cieca, allungando la mano verso la porta. «È quello che c'era scritto sul foglietto,» disse Yngvar Stubø. «"Adesso hai quello che ti meriti". Sei sempre del parere che non ti riguardi?» «Lasciami andare. Lasciami andare via di qui.» Si diresse verso la porta armeggiando alla ricerca della maniglia, con gli occhiali ancora nella mano sinistra. «Naturalmente,» sentì dire da lontano. «Oscar ti porterà a casa. Grazie di essere venuta.» XI. Emilie non capiva perché l'uomo avesse lasciato andare Kim. Non era giusto. Era stata lei la prima ad arrivare, quindi avrebbe anche dovuto essere la prima ad andarsene. E poi Kim aveva avuto la Coca-Cola, mentre lei doveva bere latte tiepido e acqua che sapeva di metallo. Tutto sapeva di metallo. Il cibo. La sua bocca. Schioccò le labbra e si succhiò la lingua. Sapeva di soldi; di monete rimaste in tasca per molto tempo. Molto, moltissimo tempo. Da prima che lei arrivasse lì. Troppo tempo. Papà aveva smesso di cercarla. Probabilmente aveva rinunciato. E mamma non era in Paradiso, ma era cenere e polvere dentro un'urna che non esisteva neanche più. C'era così tanta luce. Emilie si strofinò gli occhi cercando di ripararsi dal bagliore della lampada che pendeva dal soffitto. Poteva dormire. Dormiva quasi sempre. Era la cosa migliore. Almeno sognava, e in ogni caso aveva quasi smesso di mangiare. Le si era chiuso lo stomaco e non c'era neanche più spazio per la zuppa di pomodoro. L'uomo si arrabbiava quando ritirava le scodelle ancora piene. Non era proprio arrabbiato, ma irritato sì. Kim lo aveva lasciato tornare a casa. Non era giusto ed Emilie non capiva perché. XII. Yngvar Stubø dovette controllarsi per non toccare quel corpo nudo. La mano stava andando verso la gamba del bambino. Voleva accarezzare la pelle liscia. Voleva essere sicuro che nel bimbo non ci fosse più vita. Sdraiato com'era - supino, con gli occhi chiusi e la testa un po' reclinata da un lato, le braccia lungo i fianchi, una mano semichiusa, l'altra aperta col palmo rivolto verso l'alto, come in attesa di ricevere qualcosa, un regalo,
un dolce - avrebbe anche potuto essere vivo. L'incisione dell'autopsia lungo lo sterno, a forma di T verso il piccolo organo sessuale, era stata richiusa con cura. Il pallore del volto poteva essere dovuto alla stagione; l'inverno era appena finito e l'estate si faceva attendere. La bocca del bambino era schiusa. Stubø si rese conto che avrebbe voluto dargli un bacio. Avrebbe voluto infondergli nuova vita. Avrebbe voluto chiedergli scusa. «Merda,» disse, portandosi una mano alla bocca. «Merda. Merda.» Il medico legale lo guardò da sopra il bordo degli occhiali. «Non ci si abitua mai, eh?» Yngvar Stubø non rispose. Aveva le nocche bianche e tirava un po' su col naso. «Ho finito,» disse il medico legale togliendosi i guanti di lattice. «Un bel bambino. Cinque anni. Eccome se puoi dire merda. Ma non serve a niente.» Stubø avrebbe voluto girarsi dall'altra parte, ma non ci riusciva. Cautamente passò la mano destra sul viso del bimbo. Era come se sorridesse. Stubø lo accarezzò con un dito dall'angolo dell'occhio fino alla punta del mento. La pelle era già diventata cerea; ne sentiva il gelo con la punta delle dita. «Cos'è successo?» «Non l'avete trovato in tempo,» rispose il medico seccamente. «A ben vedere è questo che è successo.» Stese un lenzuolo bianco sopra il cadavere. Coperto, il bambino sembrava ancora più piccolo. Il corpo era così minuto, come si fosse ritirato sotto il rigido lenzuolo di carta. Il tavolo di acciaio era troppo lungo. Era pensato per gli adulti, per qualcuno responsabile di se stesso, morto di infarto magari: colpa di un'alimentazione troppo grassa e di troppe sigarette, dello stile di vita moderno e di piaceri malsani. Non era pensato per i bambini. «Vogliamo smetterla di usare questo tono?» disse Stubø a bassa voce. «È una brutta storia per entrambi. Per...» Restò in silenzio mentre il medico si lavava a fondo le mani. Era una cerimonia, come se cercasse di liberarsi della morte con l'acqua e il sapone. «Hai ragione,» mormorò il medico. «Scusami. Usciamo di qui.» Il suo studio era accanto alla sala settoria. «Dimmi,» iniziò Yngvar Stubø sprofondando in un divano malconcio. «Voglio tutti i dettagli.» Il medico legale, un uomo magro che si avvicinava ai sessantacinque anni, rimase in piedi accanto alla sua sedia con un'espressione assente, un
po' sorpresa sul volto. Per un momento sembrò che non si ricordasse cosa doveva fare. Poi si passò una mano sul cranio pelato e si mise a sedere. «Non ce ne sono.» Nello studio non c'erano finestre. Eppure l'aria era fresca, quasi fredda, e sorprendentemente inodore. Il lieve brusio dell'aria condizionata fu coperto dalla sirena di un'ambulanza. Stubø si sentiva rinchiuso. Non c'era niente, lì, per orientarsi. Né la luce del giorno, né ombre o nuvole in fuga che gli dicessero dove fosse. «Il soggetto era un bambino maschio di cinque anni di identità nota,» recitò il medico, come se stesse leggendo un'invisibile relazione. «Sano. Altezza e peso normali. Nessuna malattia è stata denunciata dai famigliari, nessuna malattia risulta dall'autopsia. Gli organi interni sono intatti e sani. Niente danni allo scheletro né ai tessuti connettivi. Niente segni di violenza esterna o ferite. La pelle è integra, eccetto un graffio sul ginocchio destro palesemente di vecchia data. Risale per lo meno a una settimana fa, e di conseguenza è precedente alla sua scomparsa.» Stubø si strofinò il viso. La stanza gli girava attorno. Aveva bisogno di bere qualcosa. «I denti sono intatti e sani. Tutti denti da latte, tranne un incisivo superiore che deve essere caduto poche ore prima del decesso...» Il medico esitò, poi riformulò la frase. «Prima che il piccolo Kim morisse,» concluse piano. «In altre parole... Mors subita.» «Nessuna causa di morte conosciuta,» disse Yngvar Stubø. «Esattamente. Anche se...» Il medico aveva gli occhi rossi. Il suo volto magro ricordava a Stubø una vecchia capra, soprattutto per via di una barbetta a punta che faceva apparire il viso ancora più lungo. «Aveva del diazepam nell'urina. Non molto, ma...» «Come nel... Valium? È stato avvelenato?» Stubø si raddrizzò e mise una mano sullo schienale del divano. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa. «No, assolutamente no.» Il medico si grattò la barba con l'indice. «Non è stato avvelenato. Certo, io sono dell'idea che un bimbo sano di cinque anni non dovrebbe in nessun caso assumere medicinali contenenti diazepam, tuttavia non si può proprio parlare di avvelenamento. Ovviamente è impossibile scoprire quale dose gli sia stata somministrata in ori-
gine, ma al momento della morte non ne restava che qualche traccia. In nessun modo...» Si sfregò il mento e guardò Stubø con gli occhi socchiusi. «... sufficiente a fargli del male. Il corpo ne aveva già eliminata la maggior parte, a meno che non gli sia stata effettivamente somministrata solo quella dose ridicola. Non capisco davvero a cosa dovesse servire.» «Valium,» disse piano Yngvar Stubø, come se la parola celasse un segreto, la spiegazione del perché un bambino di cinque anni muore, senza nessun motivo apparente. «Valium,» ripeté il medico, sempre piano. «O qualcos'altro con gli stessi principi attivi.» «Ma a cosa doveva servire?» «Servire? Vuoi dire: per cosa si usa il diazepam?» Per la prima volta il medico legale mostrò un'espressione irritata e guardò eloquentemente l'orologio. «Lo sai di sicuro. Malattie nervose. In ospedale si usa molto in fase preoperatoria. Seda il paziente. Lo tranquillizza. Lo rende più rilassato. Si usa anche coi pazienti epilettici. Per prevenire le convulsioni. Sia coi bambini che con gli adulti. Kim non soffriva di nulla del genere.» «Allora perché qualcuno dovrebbe voler dare a un bambino di cinque anni...» «Per oggi è tutto, Stubø. Lavoro da undici ore. Domattina ti mando un rapporto preliminare. Quello definitivo non sarà pronto prima di qualche settimana. Devo aspettare tutti gli esiti prima di concluderlo. Ma in linea di massima...» Sorrise. Se non fosse stato per l'espressione di quegli occhietti ravvicinati, Stubø avrebbe potuto sospettare che si stesse divertendo. «Mi sembra che tu abbia un problema enorme. Questo bambino è morto e basta. Senza motivo apparente. Per oggi è tutto.» Guardò di nuovo l'ora, poi si tolse il camice bianco e indossò un parka che aveva visto giorni migliori. Quando furono oltre la porta, la chiuse con due chiavi diverse e diede a Stubø una pacca amichevole sulla spalla. «Buona fortuna,» disse secco. «Ne avrai bisogno.» Mentre passavano davanti alla sala settoria, Stubø distolse lo sguardo. Fortunatamente fuori diluviava. Voleva camminare fino a casa, anche se ci avrebbe impiegato ben più di un'ora. Era il 16 maggio. Le sei passate. Da lontano gli giungevano le voci di un coro scolastico che provava l'inno nazionale: Ja, vi elsker con voci incerte e fuori tempo.
XIII. Era successo qualcosa. La camera sembrava più luminosa. L'opprimente sensazione da stanza d'ospedale era sparita. Il letto di metallo era stato spinto contro la parete e sopra vi erano stati messi una coperta variopinta e dei cuscini colorati. Qualcuno aveva portato dentro una poltrona, sulla quale era seduta Alvhild Sofienberg con i piedi su uno sgabello. Le ciabatte spuntavano appena da sotto una coperta. Qualcuno doveva essere riuscito a infondere qualcosa di simile alla vita in quei grigi capelli sottili; e un ricciolo morbido le scendeva sulla fronte. «Sembra molto più giovane,» esordì Johanne. «Alvhild! Ha un ottimo aspetto lì seduta!» La finestra era spalancata. Era finalmente arrivata la primavera. Da due giorni, persisteva l'atmosfera pre-estiva che la festa nazionale si era lasciata dietro. L'odore di cipolla vecchia era impercettibile. Invece, Johanne sentiva il profumo di terra umida che proveniva dal giardino. Quando aveva attraversato il cortile, un vecchio aveva portato la mano al cappello. Un bravo vicino di casa, le aveva spiegato Alvhild Sofienberg. Il giardinaggio era il suo hobby. Non sopportava di vedere che il giardino fosse trascurato mentre lei non stava bene. Alvhild aveva un sorriso più delicato, adesso. «A dirti la verità, non pensavo di rivederti,» disse asciutta. «Non sembravi a tuo agio l'ultima volta che sei passata. Lo capisco. Non stavo affatto bene. Anzi, se posso dirlo, stavo davvero male.» Scosse la testa, un gesto che immediatamente corresse. «Sto ancora molto male. Non lasciarti ingannare dalle apparenze. È strano, ma è come se dopo aver sentito per settimane la morte che mi aspettava lì, vicino all'armadio, adesso se ne fosse andata a fare un giro. Forse ha altra gente di cui occuparsi. Ma sono sicura che tornerà presto. Un caffè?» «Sì, grazie. Nero. Ci penso io, non...» Johanne fece per alzarsi. Lo sguardo di Alvhild la spinse a tornare a sedersi. «Non sono ancora morta,» disse rigida. «Tieni.» Versò il caffè dal thermos che teneva sul tavolino accanto alla poltrona e porse la tazza a Johanne. La porcellana era fine, quasi trasparente. E anche il caffè era leggero. «Mi spiace per il caffè,» disse Alvhild. «È per via dello stomaco. Non tollero quasi nulla. A cosa devo l'onore?»
Era incredibile. Quando Johanne aveva deciso di tornare dall'anziana signora, non era certa di trovarla ancora in vita. «Ho rintracciato Aksel Seier,» rispose. «Ah, davvero?» Alvhild Sofienberg si portò la tazza alla bocca, come se volesse nascondere la propria curiosità. Quel movimento irritò Johanne, anche se non sapeva spiegarsi del tutto il perché. «Sì, non l'ho trovato fisicamente, ma so dov'è. Dove abita. Tra l'altro non sono stata proprio io a trovarlo, ma il mio... va be', Aksel Seier vive negli Stati Uniti.» «Negli Stati Uniti?» Alvhild posò la tazza, senza averne sfiorato il contenuto. «Cosa... e che ci fa lì?» «Non ne ho assolutamente idea!» Alvhild si coprì la bocca, come per timore di mostrare i denti. Johanne sorseggiò il liquido beige nella porcellana azzurra. «Lì per lì, quando l'ho saputo mi sono stupita che un condannato potesse aver ottenuto un visto d'ingresso negli Stati Uniti,» continuò. «Sono incredibilmente severi in queste cose. Poi ho pensato che forse alla fine degli anni Sessanta, quando lui si è trasferito, c'erano altre regole. E invece no. Di fatto Aksel Seier è un cittadino americano.» «La cosa non era emersa da nessuna parte allora...» «No di certo. Il che non è poi così strano. Seier è nato in America, quando i suoi vi erano rimasti per un breve periodo: avevano tentato di stabilirvisi, ma senza successo. Seier ha mantenuto la cittadinanza americana, anche se, ovviamente, allo stesso tempo era norvegese. Senz'altro, al processo nessuno vi fece caso. E nemmeno in quello di appello. Probabilmente gli chiesero soltanto se era norvegese. E lo era. O meglio lo è, se è per questo.» Alvhild Sofienberg era senza parole. Nella stanza piombò il silenzio e Johanne trasalì quando la porta si aprì e l'uomo col cappello fece capolino. «Per oggi basta,» brontolò. «Là fuori è un disastro. Non credo proprio che riuscirò a dare una ripulita alle rose. E quel rododendro ha visto giorni migliori, signora Sofienberg. Be', buona sera.» E si ritirò senza attendere risposta. Si era fatto più fresco nella stanza. La finestra aperta cominciò a sbattere. Alvhild Sofienberg sembrava sul punto di addormentarsi. Johanne si alzò per chiudere la finestra. «Pensavo di andare a trovarlo,» disse piano. «Pensi che gli farebbe piacere? Credi che accetterebbe una visita? Da
un'estranea che arriva dal suo vecchio paese?» «Chi può dirlo. Ma il caso è interessantissimo. Quanto al mio progetto, questo è il più chiaro, il più... Riuscire a far parlare Aksel Seier significherebbe così tanto per la mia ricerca.» «Certo,» disse la vecchia. «Io non ho del tutto... del tutto capito che cosa stai facendo. Nella tua ricerca.» Quando Johanne era stata contattata per la prima volta da Alvhild Sofienberg «attraverso un collega che conosceva la figlia di Alvhild» aveva avuto l'impressione che quella donna non sapesse molto di ciò che faceva lei. Alvhild non le aveva mai fatto domande. Non aveva mai mostrato alcun interesse per il suo progetto. Aveva i giorni contati e aveva usato le forze che le restavano per coinvolgere Johanne nella propria causa, la storia di Aksel Seier. Tutto il resto era superfluo. Presto avrebbe compiuto settant'anni e non voleva buttar via il tempo mostrando un falso interesse per il lavoro altrui. Aveva un bel colorito e non sembrava affatto malata, e comunque non stanca. Johanne avvicinò la sedia. «Parto da dieci casi di omicidio nel periodo 1950-1960,» disse, girando senza motivo il caffè leggero. «Tutti i condannati si dichiararono innocenti. Nessuno di loro ha modificato la propria deposizione mentre era in carcere. A quanto sostenevano, erano innocenti. Quello che voglio fare non è scoprire se dicevano la verità o meno. Voglio mettere a confronto il destino che hanno avuto quei dieci condannati: scontando la pena oppure dopo la grazia, la liberazione e le eventuali ricadute. In pratica, il mio scopo è stabilire fino a che punto l'interesse esterno influisca sul modo in cui il sistema legale tratta casi del genere. Fredrik Fasting Torgersen, per esempio, fu come lei ben sa...» Johanne sorrise impacciata. Alvhild Sofienberg era adulta ai tempi del processo Torgersen. Johanne non era neanche nata. «...condannato all'ergastolo per l'uccisione di una giovane donna. Per oltre quarant'anni si è cocciutamente dichiarato innocente. E ci sono persone, che almeno all'inizio erano dei perfetti estranei per lui, che hanno portato avanti fino a oggi una lotta instancabile in suo favore. Jens Bjørneboe, per esempio, e...» Di nuovo, arrossì lievemente e si fermò. «Ma tutte queste cose lei le sa già,» disse a bassa voce. Alvhild annuì con un sorriso. Non parlò. «Vorrei soffermarmi in particolare su due cose,» proseguì Johanne. «In
primo luogo: c'è qualcosa di speciale nei casi che riscuotono tanta attenzione? Sono forse particolarmente deboli dal punto di vista delle prove? Oppure è la personalità di chi viene citato in giudizio, e successivamente condannato, a rendere il caso interessante? La copertura mediatica delle indagini e delle vicende processuali che ruolo ha? In altre parole: fino a che punto è casuale il fatto che un processo muoia nell'istante in cui si emette la sentenza oppure continui a interessare, anno dopo anno?» Si accorse di aver alzato il tono di voce. «E poi,» riprese, a voce più bassa, «poi cercherò di analizzare le conseguenze del fatto che un caso continui a interessare l'opinione pubblica. Torgersen, ad esempio, non è che abbia ottenuto granché da tutto il sostegno che ha avuto. Naturalmente, capisco...» Johanne notò il grande interesse sul volto di Alvhild. Era come se l'anziana donna avesse fatto appello a tutta l'energia che le era rimasta; teneva la schiena eretta come quella di una dama di corte, e quasi non batteva ciglio. Johanne proseguì: «Naturalmente, capisco che, dal punto di vista personale e umano, debba avere un enorme significato che fuori ci sia gente che crede in te...» «Quantomeno quando sei innocente,» la interruppe Alvhild. «Cosa che nel caso Torgersen non sappiamo con certezza.» «Si tratta ovviamente di un punto essenziale. In generale, voglio dire. Ma non riguardo alla mia ricerca. Io devo analizzare le conseguenze concrete del sostegno esterno.» «Fantastico,» osservò Alvhild guardando nel vuoto, ma Johanne non era sicura di aver capito a che cosa si riferisse. «Non le sembra strano?» disse pensierosa per riempire la pausa. «Voglio dire, non le sembra curioso che il caso di Aksel Seier si sia dissolto al momento della sentenza, quando vari giornali erano molto critici nei confronti del processo? Perché non hanno più seguito il caso? Per qualcosa che riguardava strettamente lui? C'era qualcosa di spiacevole nella sua personalità? Si era rifiutato di collaborare coi giornalisti che lo volevano aiutare? Oppure, dopotutto, Aksel Seier è solo un bastardo del quale, diciamo, non fregava niente a nessuno? Mi sarebbe di grande utilità poter parlare con quest'uomo.» La porta si aprì, silenziosamente. «Come va?» chiese l'infermiera, e senza attendere risposta aggiunse: «È stata troppo tempo in poltrona, signora Sofienberg. Adesso la mettiamo a letto. Mi dispiace ma devo pregare la sua amica di...»
«Posso farlo da sola, grazie.» Alvhild arricciò le labbra mentre sollevava la mano in segno di rifiuto verso la donna vestita di bianco. «Non sarebbe una buona idea scrivergli prima?» Johanne Vik si alzò e rimise in borsa il bloc-notes inutilizzato. «In alcune situazioni preferisco non scrivere,» disse lentamente, mettendosi la borsa in spalla. «E cioè?» L'infermiera aveva sollevato le coperte e spingeva verso Alvhild il mostruoso letto di metallo. «Quando temo di non ricevere risposta,» disse Johanne. «Non rispondere è una forma di risposta. Non rispondere significa "no". E io non voglio correre questo rischio. Non con Aksel Seier. Parto lunedì. Io...» L'infermiera incrociò il suo sguardo. «Va bene,» mormorò Johanne. «Adesso vado. Magari la chiamo, Alvhild. Dall'America. Se ho qualcosa da dirle, ecco. Spero che vada tutto bene... il meglio possibile.» Senza rifletterci, si chinò sulla vecchia e le diede un bacio leggero sulla guancia. La pelle era secca e fredda. Quando arrivò in strada, si inumidì le labbra con la lingua. Non avevano alcun sapore; erano secche e basta. XIV. Emilie aveva ricevuto un regalo. Una Barbie con i capelli che si arrotolavano dentro la testa e si potevano tirare fuori e poi riavvolgere grazie a una chiavetta sul collo. La bambola aveva dei bei vestiti, uno rosa con le paillette compreso nella scatola della Barbie e un set di abiti da cowboy che erano un regalo a parte. Emilie giocava con il cappello da cowboy. La Barbie era sul letto accanto a lei, a gambe aperte. A casa non ne aveva una. Alla mamma non piacevano giocattoli come quelli. Nemmeno al papà, e in ogni caso ormai Emilie era troppo grande per quelle cose. Così almeno diceva zia Beate. Zia Beate doveva essere arrabbiatissima con papà adesso. Probabilmente pensava che fosse colpa sua se Emilie era sparita. Anche se stava solo tornando a casa da scuola, come aveva fatto ogni giorno senza che nessuno venisse a rapirla. Papà mica poteva tenerla d'occhio di continuo. Lo aveva detto perfino zia Beate. «Papà...»
«Potrei essere io il tuo papà.» L'uomo stava sulla porta. Doveva essere pazzo. Emilie la sapeva lunga sui pazzi. Torill, al numero 14 della sua via, era così matta che la portavano sempre all'ospedale. I suoi figli dovevano stare dai nonni perché lei certe volte pensava di essere un cannibale. E accendeva un falò in giardino per fare Guttorm e Gustav allo spiedo. Una volta Torill aveva suonato il loro campanello in piena notte, Emilie si era svegliata ed era corsa giù con papà a vedere chi era. La mamma di Guttorm e Gustav, completamente nuda, con delle strisce rosse su tutto il corpo, era venuta a chiedere in prestito il congelatore. Emilie era stata spedita a letto e non aveva più saputo cosa fosse accaduto dopo, ma per moltissimo tempo nessuno aveva più visto Torill. «Tu non sei il mio papà,» sussurrò Emilie. «Il mio papà si chiama Tønnes. Non gli somigli per niente.» L'uomo la guardò. Aveva degli occhi che facevano paura, anche se era piuttosto bello di viso. Doveva essere pazzo. Pettersen, quello che abitava in un appartamento del Grønnblokka, era matto in modo diverso da Torill. La mamma diceva che Torill non avrebbe fatto male a una mosca, invece con Pettersen del Grønnblokka era peggio. Secondo Emilie non era vero che Torill non avrebbe fatto male a una mosca, se voleva sul serio arrostire i figli su un falò. Comunque Pettersen era peggio in ogni caso. Era stato in prigione per aver palpato dei bambini. Emilie lo sapeva cosa voleva dire palpare. Zia Beate glielo aveva spiegato. «Vedrai che diventeremo amici,» disse l'uomo prendendo la Barbie. «Ti è piaciuta?» Emilie non rispose. Era diventato difficile respirare lì dentro. Forse aveva consumato tutta l'aria; sentiva un'oppressione al petto e le girava sempre la testa. Le persone hanno bisogno di ossigeno. Quando si respira, si consuma tutto l'ossigeno e l'aria diventa vuota e inutilizzabile, in un certo senso. Glielo aveva spiegato zia Beate. Per quello era così orrendo nascondersi sotto il piumone. Dopo un attimo bisognava per forza aprire uno spiraglio, per avere ossigeno. Anche se la stanza era grande, era lì dentro da un sacco di tempo. Anni, sembrava quasi. Sollevò il viso cercando ossigeno. Il pazzo sorrise. Era evidente che lui non aveva nessun problema a respirare. Magari era solo lei, magari stava per morire. Magari l'uomo l'aveva avvelenata per poterla palpare dopo. Emilie cercò disperata di respirare. «Hai l'asma?» le chiese l'uomo. «No,» rispose Emilie boccheggiando.
«Prova a sdraiarti.» «No!» Se solo si fosse calmata e avesse potuto pensare a qualcosa di diverso dall'uomo con gli occhi che facevano paura, forse sarebbe riuscita a respirare. Ma non c'era nient'altro a cui pensare. Chiuse gli occhi e si sdraiò, con le spalle contro la parete. Non c'erano più pensieri. Nulla. Papà doveva proprio aver smesso di cercarla. «Dormi.» L'uomo se ne andò. Emilie strinse le dita attorno alla rigida Barbie. Avrebbe preferito un orsetto. Anche se era troppo grande pure per quello. Adesso che era di nuovo da sola almeno riusciva a respirare. L'uomo non l'aveva palpata. Emilie si coprì con il piumone e alla fine si addormentò. Tønnes Selbu era rimasto finalmente solo. Era come se non avesse più una vita sua. Come se niente fosse più suo, nemmeno il tempo. La casa era sempre piena di gente; vicini, amici, Beate, i suoi genitori. La polizia. Evidentemente pensavano che fosse più facile parlargli lì, a casa, quando invece andare al commissariato sarebbe stata una liberazione; una fuga. Non poteva andare neanche al supermercato. Beate e le vecchie amiche di Grete si occupavano di ogni cosa. Il giorno prima sua suocera gli aveva addirittura preparato un bagno. Lui era scivolato dentro l'acqua bollente quasi aspettandosi che una di quelle donne saltasse fuori dal nulla a lavargli la schiena. A strofinarlo. Era rimasto a mollo finché l'acqua non era diventata tiepida. Poi Beate lo aveva chiamato. Alla fine aveva bussato alla porta, preoccupata. Aveva perso il controllo del proprio tempo. Adesso era solo. Non volevano lasciarlo in pace, gli altri. Alla fine si era infuriato. In preda a una rabbia enorme aveva messo tutti alla porta. Gli aveva fatto bene, perché gli aveva ricordato che esisteva ancora. Appoggiò la mano sulla maniglia. La stanza di Emilie. Non ci era più stato dal quel primo pomeriggio, quando la bambina era sparita e lui aveva ribaltato tutta la sua camera alla ricerca di un indizio, una chiave, un segno che potesse suggerirgli che Emilie stava solo scherzando. Aveva esagerato, certo, ma non era altro che un tentativo di prenderlo in giro, di spaventarlo un po' per poter essere ancora più felici la sera
al pensiero che ovviamente non sarebbe sparita mai. Aveva svuotato i cassetti. I libri erano finiti per terra, i vestiti ammucchiati fuori in corridoio. Aveva perfino strappato via le lenzuola e il poster di Disneyworld dalla parete. Non c'era nessun mistero, nessun rebus, nessuna risposta e nessun indizio. Niente che si potesse risolvere. Emilie era sparita e lui aveva chiamato la polizia. Il metallo freddo gli bruciava il palmo della mano. Sentiva i battiti del cuore echeggiare nei timpani, come se non sapesse cosa c'era dietro quella porta con il nome di Emilie scritto in letterine di legno; la emme era caduta sei mesi prima e lui leggeva E-ilie, E-ilie. Il giorno dopo avrebbe comprato una emme nuova. Beate aveva riordinato. Quando Tønnes Selbu alla fine entrò, vide che ogni cosa era tornata al suo posto. I libri ben allineati sugli scaffali, in base al colore, come piaceva a Emilie. Il letto rifatto. Gli abiti piegati nell'armadio. Perfino lo zaino che la polizia aveva trattenuto era tornato al suo posto, sul pavimento accanto alla scrivania. Si sedette sul bordo del letto. Gli pulsava ancora il sangue nelle orecchie e cercò di concentrarsi per calmarsi. La polizia pensava che fosse colpa sua. Non che lo accusassero di niente. All'inizio, i primi giorni, si sentiva un po' come un paziente psicolabile con cui tutti andavano cauti, e un po' come un criminale di cui tutti sospettavano. Era come se fossero sempre terrorizzati che si potesse togliere la vita, motivo per cui quasi lo soffocavano di attenzioni. Al tempo stesso c'era qualcosa nel modo in cui lo guardavano; le domande che gli facevano avevano sempre un che di tagliente. Poi era sparito anche il bambino. Allora avevano cambiato tono, i poliziotti, come se alla fine si fossero resi conto che la sua disperazione era reale. Poi avevano trovato il bambino. Quando due poliziotti erano venuti a riferirgli che il bimbo era morto, si era sentito come sotto esame. Quasi che, se non avesse risposto esattamente come si aspettavano e il suo viso non avesse mostrato l'espressione giusta, sarebbe stata colpa sua se Kim Sande Oksøy era stato ucciso. L'espressione giusta? Lo avevano pregato di compilare una lista. Di tutti quelli che aveva mai conosciuto o incontrato. Doveva cominciare dalla famiglia e gli amici intimi. Poi le persone un po' più distanti, gli amici buoni e meno buoni, le ex fidanzate e le donne con cui aveva avuto una storia di una notte, i colleghi
e le mogli dei colleghi. Era impossibile. «Ma è impossibile,» aveva detto allargando le braccia; era risalito all'epoca del liceo senza riuscire a ricordare i nomi di più di quattro compagni di classe. «È veramente necessario?» La poliziotta era stata paziente. «Abbiamo chiesto ai genitori di Kim di fare la stessa cosa,» gli aveva risposto calma. «Poi confronteremo le liste. Per vedere se avete delle conoscenze in comune. Se le avete mai avute. Non è solo necessario. È fondamentale. Riteniamo che questi casi siano collegati, per questo è importante trovare eventuali punti in comune tra le famiglie.» Tønnes Selbu passò la mano sul letto di Emilie, sulle lettere che aveva scritto con un pennarello sul legno chiaro quando stava imparando l'alfabeto. Avrebbe voluto affondare il viso nel pigiama di sua figlia. Ma era impossibile. Non avrebbe sopportato il suo profumo. Avrebbe voluto sdraiarsi sul letto di Emilie. Ma non ce la fece. Non riuscì neanche ad alzarsi. Sentiva male dappertutto. Forse era il caso di chiamare Beate. Forse sarebbe dovuto venire qualcuno, qualcuno che potesse riempire lo spazio vuoto attorno a lui. Tønnes Selbu rimase seduto sul bordo del letto di sua figlia. Pregò, a lungo e intensamente. Non Dio, una figura estranea ricorrente solo nelle favole che raccontava a Emilie. Pregò invece la moglie morta. Non si era preso abbastanza cura di Emilie, come aveva promesso a Grete poco prima che lei morisse. XV. Un uomo si avvicinò alla villetta a schiera. Il nastro bianco e rosso messo dalla polizia non era stato ancora tolto, ma qua e là si era allentato. Il vento notturno faceva sibilare la plastica avvizzita contro l'uomo, che lentamente scavalcò la staccionata e poi andò a nascondersi nei cespugli. Sembrava sapere esattamente cosa doveva fare, ma non se avrebbe osato farlo. Se qualcuno lo avesse visto, presumibilmente avrebbe notato anzitutto il suo abbigliamento. Portava un maglione di lana pesante a collo alto sotto un piumino. In testa aveva un gran berretto coi paraorecchie e una visiera che gli arrivava sugli occhi. Gli stivali sarebbero stati più adatti a un soldato impegnato in combattimenti invernali; erano enormi, neri, allacciati fin sotto il ginocchio. Dal bordo, spuntavano calzettoni di lana. Era la notte del 19 maggio e una tenue perturbazione da sudovest aveva
portato con sé il tepore dei quattordici gradi sopra lo zero. Era mezzanotte meno venti. L'uomo rimase al riparo di una macchia di ribes e due betulle di media grandezza. Poi si tolse uno dei guanti. Lentamente si infilò la mano nei calzoni della mimetica. Cercò di mantenere lo sguardo fisso sulla finestra del primo piano, dove le tende erano tirate. Non l'aveva previsto. Voleva vedere l'orsacchiotto verde. L'uomo non ebbe il tempo di irritarsi; con un gemito si piegò in avanti. Estrasse la mano dai pantaloni. Rimase dov'era, in assoluto silenzio, per due minuti. Gli ronzavano le orecchie e dovette chiudere gli occhi, anche se aveva paura. Poi si rimise il guanto, scavalcò la staccionata e attraversò il breve tratto di strada senza voltarsi indietro. XVI. Quando Johanne Vik si alzò sabato 20 maggio, era già tardi. Almeno per Kristiane. La piccola si svegliava all'alba, sia nei giorni feriali che in quelli festivi. Anche se era evidente che, a sei anni, la bambina amava stare da sola nelle prime ore del mattino, non riusciva a evitare di svegliare sua madre. La sveglia di Johanne era il regolare dam-di-rum-ram che proveniva dal salotto. Ma Kristiane non voleva avere nulla a che fare con lei. Dalle sei del mattino alle otto non c'era alcuna possibilità di comunicare. Quando Johanne aveva ripreso a lavorare, dopo che Kristiane non era più stata in pericolo di vita, ogni mattina era stato un inferno prepararla per l'asilo. Alla fine si era rassegnata. Bisognava lasciare Kristiane da sola per quelle due ore. L'università le permetteva un orario flessibile e avevano perfino accettato la sua richiesta di fare lezione per un solo semestre finché Kristiane non avesse avuto dieci anni. Le amiche la invidiavano: goditela finché puoi, era il loro consiglio. Leggiti il giornale in santa pace e prenditi il tempo per svegliarti con calma prima di cominciare la giornata. Il problema era che Kristiane doveva essere tenuta d'occhio. Nessuno aveva idea di cosa avrebbe potuto inventarsi. Johanne sapeva che Isak era più indulgente. Due volte lo aveva scoperto a dormire della grossa mentre Kristiane gironzolava per conto suo. Adesso lei aveva fatto esattamente lo stesso. Confusa, diede un'occhiata all'orologio. Le nove meno un quarto. Si liberò del piumone. «Mamma,» disse Kristiane serena. «La mamma si è alzata per la sua Kristiane.»
La bambina era sulla porta del salotto, vestita di tutto punto. A dire la verità aveva scelto un orribile maglione rosa che le aveva regalato la nonna, poi si era messa dei pantaloni di velluto verde con sopra una gonna scozzese. I capelli li aveva raccolti in cinque treccine. Ma in ogni caso si era vestita, e Johanne cercò di sorridere. «Che brava, ti sei vestita da sola,» mormorò. «La mamma deve aver dormito troppo.» «Dormitroppo. Dam-di-rum-ram.» Kristiane si avvicinò e si rannicchiò in grembo alla mamma. Le appoggiò la guancia al petto e si mise il dito in bocca. Johanne accarezzò lentamente la schiena di sua figlia con la mano destra, su e giù, su e giù. Quando stavano sedute così, in quei momenti di intimità impossibili da provocare o prevedere, Johanne quasi non riusciva a respirare. Avvertiva il calore della bambina attraverso il maglione rosa, il profumo dolce dei suoi capelli, il suo respiro, la sua pelle. Doveva controllarsi per non stringerla troppo. «La mia piccola Kristiane,» bisbigliò sulle treccine. Squillò il telefono. Kristiane si raddrizzò, scivolò giù dal grembo della madre e trotterellò fuori della stanza. «Pronto?» «Ti ho svegliata?» «È ovvio che non mi hai svegliata, mamma. Questa settimana ho Kristiane.» Johanne cercò di afferrare la vestaglia. Il filo del telefono non era lungo abbastanza. Così si avvolse il piumone sulle spalle. Uno spiffero di aria fredda entrava dalla finestra. «Tuo padre è preoccupato.» Johanne aveva voglia di ringhiare: Tu sei preoccupata. Trattenne un sospiro rassegnato e cercò di sembrare allegra: «Ah sì? È preoccupato per me? Non ce n'è motivo.» «Il tuo comportamento l'altro giorno, in televisione, e poi... sì, resta sveglio la notte a pensare se... Va tutto bene, tesoro?» «Passami papà.» «Tuo padre? È... mhm, adesso è occupato. Però ascoltami un attimo. Abbiamo pensato che magari una piccola vacanza potrebbe farti bene. Sono successe così tante cose ultimamente, con Kristiane e il tuo lavoro e... non ti va di venire al cottage con noi oggi? Magari puoi prenderti lunedì libero, forse anche martedì. Tu e tuo padre potreste andare a pesca e noi potremmo fare delle belle passeggiate... ho parlato con Isak e non ha niente
in contrario a prendere Kristiane già oggi...» «Hai parlato con Isak?» Era un bene che Johanne e Isak avessero un buon rapporto rispetto a Kristiane. E lei si rendeva conto che tutti - non ultima sua figlia - beneficiavano del fatto che Isak andasse d'accordo anche con gli ex suoceri. Ma c'era un limite. Sospettava che passasse a salutarli una volta alla settimana, con o senza Kristiane. «Sì, accidenti! Sta pensando di comprare una barca a vela più grande, lo sapevi? Non solo una barca da regata stavolta, dice che comincia a essere un po' stufo di... Be', ovviamente ha anche molto a che vedere con Kristiane. Lei adora stare in mare e le barche veloci non sono molto adatte ai bambini. È stato qui ieri, abbiamo parlato un po' di te, di quanto è preoccupa...» «Mamma!» «Sì, cara?» «Non c'è bisogno di preoccuparsi. Io sto benissimo. Tra l'altro parto per...» Se le avesse raccontato che andava negli Stati Uniti, sua madre l'avrebbe assillata, l'avrebbe sommersa di consigli sugli itinerari e le precauzioni necessarie. Avrebbe finito persino per farle la valigia. «Senti mamma, in questo momento sono un po' presa. Purtroppo non ho tempo di venire con voi al cottage, ma grazie davvero. Saluta papà.» «Ma Johanne, non potresti almeno fare un salto da noi stasera? Potrei preparare qualcosa di buono e magari tu e tuo padre potreste giocare a...» «Pensavo andaste al cottage.» «Ma solo se venivi anche tu, cara.» «Ciao, mamma.» Fece attenzione a riattaccare con delicatezza. Sua madre la accusava spesso di sbatterle il telefono in faccia. E aveva ragione, ma era comunque meglio se non lo posava sbattendolo. Una doccia fu di grande aiuto. Kristiane era seduta sul coperchio del water e parlava con Sulamit, un camion dei pompieri con tanto di faccia e occhi che si accendevano. Sulamit aveva quasi la stessa età di Kristiane e aveva perso la scala e tre ruote. Nessuno a parte lei sapeva da dove arrivava quel nome. «Sulamit oggi ha salvato un cavallo e un elefante. Bravo Sulamit.» Johanne si pettinò i capelli e cercò di asciugare il vapore sullo specchio.
«Cos'era successo al cavallo e all'elefante?» domandò. «Sulamit e dinamit. Elefantepellefante.» Johanne tornò in camera da letto e si infilò un paio di jeans e un pile rosso. Per fortuna aveva fatto la spesa per il fine settimana il giorno precedente, prima di andare a prendere Kristiane all'asilo. Potevano fare una lunga passeggiata. Kristiane aveva bisogno di stare fuori qualche ora per poi essere tranquilla la sera. Il tempo prometteva bene; aprì le tende della stanza da letto e socchiuse gli occhi per guardare il giorno fuori. Suonò il campanello. «Maledizione, è la mamma!» «Maledizione,» ripeté Kristiane seria. Johanne andò nel vestibolo e aprì la porta con forza. «Buongiorno,» disse Yngvar Stubø. «Salve...» «Ciao,» disse Kristiane con un gran sorriso, facendo capolino da dietro i fianchi della madre. «Come sei bella, oggi!» Yngvar Stubø tese la mano alla bambina. Stranamente, Kristiane la strinse. «Mi chiamo Yngvar,» disse lui serio. «E tu come ti chiami?» «Kristiane Vik Aanonsen. Buongiorno. Buonanotte. Ho un gattino.» «Ah sì? Me lo fai vedere?» Kristiane gli mostrò Sulamit. Quando Stubø fece per prendere il camion dei pompieri, lei si ritrasse. «Mi sembra davvero il più bel gatto che abbia mai visto,» disse lui. La bambina scomparve. «Passavo da queste parti, così ho pensato...» Scrollò le spalle. Quella evidente bugia gli fece socchiudere gli occhi in un sorriso quasi seduttore. Johanne provò un'improvvisa, sconcertante fitta che le tolse il fiato; abbassò la testa e balbettò che forse era meglio se entrava. «C'è un po' di disordine,» disse automaticamente, notando che gettava rapide occhiate al salotto. Yngvar Stubø si sedette sul divano. Era troppo morbido e profondo per un uomo pesante come lui. Le ginocchia restavano in alto, e sembrava quasi che fosse seduto sul pavimento. «Forse staresti più comodo su una sedia,» suggerì Johanne togliendo l'album fotografico che c'era appoggiato sopra.
«Grazie, sto comodissimo qui,» rispose lui. Solo allora Johanne notò la grande busta che Stubø aveva posato davanti a sé sul tavolino. «Vado solo...» Fece un gesto vago verso la stanza di Kristiane. Ogni volta lo stesso problema. Poiché Kristiane sembrava - e a volte si comportava come tale una sana e normalissima bambina di quattro anni, Johanne non sapeva mai cosa dire. Non sapeva se doveva spiegare che la bimba era piccola per la sua età, che in realtà aveva sei anni e dei problemi cerebrali, anche se nessuno era stato in grado di spiegare quali. Né sapeva se fosse meglio precisare che tutte le cose strane che le uscivano di bocca non erano segno né di stupidità né di arroganza, ma piuttosto un errore di connessione cui nessun medico sapeva porre rimedio. Di solito aspettava troppo. Era come se ogni volta si aspettasse il miracolo. Che sua figlia si comportasse in modo razionale. Logico. Coerente. O che all'improvviso le comparisse un difetto esteriore: la protrusione della lingua o gli occhi storti in un viso piatto che avrebbe subito provocato un caldo sorriso di comprensione in chiunque. Invece era tutto così imbarazzante. Kristiane si era messa a guardare La carica dei 101 nello studio della mamma. «Di solito io non...» Di nuovo fece quel vago gesto come di scuse, in direzione della stanza dove si trovava la bambina. «Nessun problema,» disse il poliziotto sul divano. «Devo ammettere che anch'io a volte uso lo stesso metodo. Con mio nipote, voglio dire. Può essere molto faticoso. Un film è un buon babysitter. Di tanto in tanto.» Johanne si sentì arrossire e andò in cucina. Yngvar Stubø era nonno. «Come mai sei passato?» chiese tornando con una tazza di caffè che gli mise davanti su un tovagliolo. «Quell'"ero da queste parti" non è del tutto vero, non è così?» «Già, si tratta del nostro caso.» «I casi.» Stubø sorrise. «Esatto. I casi. Hai ragione. Comunque... Sento che tu mi puoi aiutare. È così. Semplice. Non chiedermi perché. Sigmund Berli, un mio caro amico e collega, non capisce perché ti sto così alle costole.» Ancora una volta socchiuse gli occhi in un modo che doveva essere un tentativo di flirt. Johanne si concentrò profondamente per non arrossire di nuovo. Una torta. Non aveva neanche una torta. Né biscotti. Kristiane li
aveva finiti il giorno prima. «Del latte?» Stava per alzarsi quando Stubø fece segno di no con la mano destra. «Senti,» riprese, sfilando una pila di foto dalla busta sul tavolino. «Questa è Emilie Selbu.» Era la foto di una bimbetta carina con una corona di farfare nei capelli. Era molto seria, gli occhi blu scuro sembravano quasi addolorati. Una fossetta le si disegnava sul mento sottile. La bocca era piccola, le labbra carnose. «È una foto recentissima, scattata tre settimane fa. Bella bimba, vero?» «È quella che non è ancora stata trovata?» Tossicchiò, le mancava la voce. «Sì. E questo è Kim.» Johanne alzò la fotografia e la fissò. Era la stessa che avevano mostrato in televisione. Un bambino con in mano un camion dei pompieri rosso. Camion dei pompieri rosso. Sulamit. La foto le cadde di mano e la dovette raccogliere da terra prima di spingerla verso Yngvar Stubø. «Siccome Emilie è ancora data per scomparsa, mentre Kim è... Cosa ti fa pensare che i crimini siano opera della stessa persona?» «Me lo domando anch'io.» C'erano altre foto nel mucchio. Per un attimo sembrò che Stubø volesse fargliele vedere tutte. Poi evidentemente cambiò idea, e rimise il resto dentro la busta. Le foto di Kim e di Emilie rimasero esposte sul tavolo, una accanto all'altra, entrambe rivolte verso Johanne. «Emilie è stata rapita un giovedì,» disse lui lentamente. «In pieno giorno. Kim è sparito martedì sera. Emilie ha nove anni ed è una bambina. Kim era un bambino di cinque anni. Emilie vive ad Asker. Kim viveva a Bærum. Il padre di Kim è idraulico, la madre infermiera. La madre di Emilie è morta, il padre è un filologo che vive di traduzioni letterarie. Nessuno di loro si conosce. Abbiamo cercato col lanternino ogni possibile punto di contatto tra le due famiglie. Senza trovare altro se non che il padre di Emilie e la madre di Kim sono vissuti per un certo periodo a Bergen all'inizio degli anni Novanta. Non si sono conosciuti nemmeno lì. Insomma...» «Strano,» disse Johanne. «Sì. Oppure tragico. Dipende da come la vedi.» Johanne cercava di non guardare le fotografie dei due bambini. Era come se entrambi la accusassero di non volersi occupare di loro. «In Norvegia c'è sempre un qualche punto di contatto tra le persone,»
disse. «Per lo meno quando si vive così vicini, come a Bærum e Asker. L'avrai sperimentato anche tu. Quando ci si mette a parlare con qualcuno, cioè. Quasi sempre salta fuori un conoscente di entrambi, un vecchio amico, un posto di lavoro connesso in qualche modo con tutti e due, un'esperienza comune. Non è vero?» «Sì...» Stubø fece una pausa. Non sembrava interessato. Poi d'un tratto respirò profondamente, come se stesse per protestare, ma si controllò. «Ho bisogno di una persona che elabori profili psicologici criminali,» disse invece. «Di un profiler.» Aveva pronunciato la parola con uno spiccato accento americano, come quello delle serie televisive. «Non direi,» replicò Johanne seccamente. Il discorso stava andando verso un argomento che non voleva affrontare. «Se vuoi ricavare qualcosa da un profiler, ti servono più casi. Sempre ammesso che si tratti dello stesso criminale.» «Dio non voglia,» disse Yngvar Stubø. «Che si presentino altri casi, intendo dire.» «Ovviamente. Ma in base a questi due soli casi, è praticamente impossibile trarre delle conclusioni.» «Come fai a dirlo?» Aveva smesso di flirtare. «Logica elementare,» rispose asciutta. «È ovvio... Il profilo di un criminale sconosciuto si costruisce sulle caratteristiche dei suoi crimini. Diventa un po' come quel gioco di unire i puntini. La matita segue i puntini numerati finché non appare un disegno. Ma due puntini soltanto non servono a niente. Ne servono di più. Però speriamo che non succeda. Che non compaiano altri punti, ecco.» «Come lo sai?» «Perché insisti nel dire che si tratta di un caso e non due?» «Io non credo che sia stata una coincidenza se hai scelto di studiare legge e psicologia. È insolito. Dovevi avere qualcosa in mente. Uno scopo.» «In realtà è stato del tutto casuale. Semplicemente il risultato della volubilità giovanile. E poi volevo andare negli Stati Uniti. Quindi sai...» Si accorse che si stava mordendo i capelli. Il più discretamente possibile, spinse il ciuffo bagnato dietro l'orecchio e si raddrizzò gli occhiali. «Credo che ti sbagli. Emilie Selbu e il piccolo Kim non sono stati rapiti dallo stesso uomo.»
«O donna.» «O donna,» ripeté lei, esasperata. «Però adesso, per quanto scortese ti possa sembrare, devo chiederti di... ho parecchie cose che devo assolutamente sistemare oggi, perché... mi spiace.» Di nuovo provò quella pressione ai polmoni; era impossibile guardare l'uomo sul divano. Yngvar Stubø si alzò da quella scomoda posizione con una facilità sorprendente. «Se succede ancora,» fece lui radunando le foto. «Se sparisce un altro bambino. Mi aiuterai?» Crudelia De Mon urlava forte dallo studio. Kristiane urlava di gioia. «Non lo so,» disse Johanne Vik. «Vedremo.» Dal momento che era sabato e tutto andava secondo i piani, si concesse un bicchiere di vino. A pensarci bene, era la prima volta da mesi che beveva dell'alcol. Normalmente ne temeva l'effetto. Con un bicchiere o due si faceva docile. Ma gliene bastava mezzo in più per iniziare ad arrabbiarsi. E la furia lo aspettava al varco del quarto bicchiere. Solo un bicchiere. Fuori c'era ancora luce, e sollevò il vino per guardarlo in trasparenza. Emilie era difficile. Ingrata. Anche se voleva lasciarla vivere, almeno ancora per un po', c'erano dei limiti. Bevve un sorso. Sapeva di muffa; il vino sapeva di cantina. Dovette sorridere del proprio sentimentalismo. Cedeva troppo alle emozioni. Era troppo gentile. Perché mai Emilie doveva vivere? A quale scopo? Cos'aveva fatto quella bambina per meritarselo? Le dava da mangiare, del cibo buono, e di frequente. L'acqua del rubinetto era potabile. Le aveva perfino comprato una Barbie, e ancora lei non sembrava felice. Per fortuna aveva smesso di lamentarsi. All'inizio, soprattutto dopo la scomparsa di Kim, si metteva a piangere non appena lui apriva la porta là sotto. Sembrava che non riuscisse a respirare, che sciocchezza. Aveva installato un perfetto sistema di ventilazione da tempo; non voleva certo farla soffocare. Ma adesso era più tranquilla. Almeno non piangeva. La decisione di lasciar vivere Emilie era venuta da sé. Non l'aveva programmato, non dall'inizio in ogni caso. Aveva qualcosa di speciale, anche se ovviamente lei non se ne rendeva conto. Bisognava vedere quanto durava. Le conveniva stare attenta. Era un sentimentale, ma anche per lui c'erano dei limiti. Presto Emilie avrebbe avuto compagnia.
Posò il bicchiere pensando a Sarah Baardsen, otto anni. Aveva memorizzato il suo viso, immagazzinato i suoi tratti somatici, si era esercitato a ricomporne il volto così da poterla rivedere in qualunque momento e in qualunque luogo. Di foto non ne aveva. Avrebbero potuto finire nelle mani sbagliate. L'aveva invece studiata al parco giochi, sulla strada verso casa della nonna, sull'autobus. Una volta le si era persino seduto accanto al cinema, e per tutto il film. Sapeva anche che profumo avevano i suoi capelli. Dolce e caldo. Rimise il tappo alla bottiglia e la posò su una delle mensole mezze vuote della cucina. Quando gettò uno sguardo dalla finestra, s'irrigidì. Proprio lì fuori, a qualche metro, c'era un capriolo selvatico. La bestia sollevò il muso e per un momento lo fissò, per poi trotterellare pigramente verso il bosco a ovest. Gli vennero le lacrime agli occhi. Sarah ed Emilie sarebbero sicuramente andate d'accordo, finché fossero rimaste insieme. XVII. Il Logan International Airport di Boston era un gigantesco cantiere. Sotto il soffitto basso c'erano odore di muffa e cumuli di polvere dappertutto. Ovunque guardasse, c'erano segnali che le gridavano contro raccomandazioni a caratteri neri su fondo rosso. Bisognava fare attenzione ai cavi sul pavimento, alle travi che penzolavano dalle pareti e ai teloni che coprivano betoniere e materiali vari. In neanche mezz'ora erano atterrati quattro voli dall'Europa. La coda davanti al controllo passaporti era lunga, e nell'attesa Johanne cercò di leggere un giornale che aveva già letto da capo a fondo. Di tanto in tanto spingeva in avanti la valigia con il piede. Ogni volta che aspettava tre secondi di troppo prima di muoversi, un francese con un cappotto cammello le dava un colpetto sulla schiena. Line era passata la sera prima con tre bottiglie di vino e due cd nuovi. Kristiane era tranquilla a casa di Isak e la sua migliore amica aveva ragione, Johanne non doveva preoccuparsi per il giorno dopo, non doveva andare all'aeroporto di Gardermoen prima di mezzogiorno. E non aveva alcun senso passare dal lavoro prima. Il vino di Line si era dissolto, insieme a un quarto di cognac e due irish coffee. Quando, la mattina del 22 maggio, il trenino era arrivato al binario del nuovo aeroporto internazionale, Johanne era dovuta correre alla toilette per liberarsi di quel che restava della deliziosa nottata. Il viaggio si annunciava pesante.
Fortunatamente, si era addormentata mentre sorvolavano la Groenlandia. Finalmente venne il suo turno al controllo passaporti. Cercò di nascondere la bocca. Il sapore stucchevole di sonno e postumi della sbornia la rendeva insicura. L'addetto impiegò molto più tempo del necessario; la osservò, fissò lo sguardo a terra, esitò. E alla fine timbrò il passaporto con un colpo quasi rassegnato. Benvenuta negli Stati Uniti. Di solito era diverso. Arrivare in America era come togliersi uno zaino. Una palpabile sensazione di libertà, si sentiva più leggera, più giovane, più felice. Adesso invece rabbrividiva nel vento umido, senza ricordare di preciso dove fosse la fermata del bus. Invece di noleggiare una macchina al Logan, aveva deciso di prendere l'autobus per Hyannis. Lì l'aspettava una Ford Taurus, il che significava non dover pensare al traffico di Boston. Se solo fosse riuscita a trovare quella dannata fermata dell'autobus. C'era caos anche fuori, con deviazioni temporanee e cartelli provvisori ovunque. Si fece prendere dallo scoraggiamento; in più, sentiva ancora un po' di nausea. L'odore della colonia del francese impaziente le era rimasto sui vestiti. C'erano due uomini appoggiati a un'auto scura. Entrambi portavano un cappellino con la visiera e i caratteristici giubbotti neri impermeabili. Non ebbero bisogno di voltarsi perché Johanne capisse che portavano scritto Fbi a lettere cubitali e fosforescenti sulle spalle larghe. Anche Johanne Vik aveva una giacca così. Era appesa nel cottage dei genitori e veniva usata solo in caso di piogge torrenziali. La F era mezzo cancellata, la B quasi scomparsa. Gli uomini dell'Fbi ridevano. Uno si cacciò in bocca un chewing-gum prima di raddrizzarsi il cappellino e aprire la portiera a una donna coi tacchi alti che attraversò rapida la strada. Johanne si voltò e si avviò. Doveva sbrigarsi se voleva prendere l'autobus. Si sentiva ancora uno schifo e piuttosto nauseata. Sperava di dormire durante il tragitto. Altrimenti, avrebbe dovuto cercarsi un posto per passare la notte a Hyannis; non era in grado di guidare al buio. Johanne si mise quasi a correre. La valigia saltava sulle rotelle. Ansimando consegnò il bagaglio al conducente e salì a bordo. La sorprese non aver pensato nemmeno per un istante ad Aksel Seier da quando aveva lasciato Gardermoen. Chissà, forse l'indomani lo avrebbe conosciuto. Per qualche ragione, se ne era fatta un'idea. Piuttosto bello, ma non troppo alto. Forse aveva la barba. Dio solo sapeva se avrebbe accettato di vederla. Partire per gli Stati Uniti, praticamente di punto in bianco, senza un appuntamento, senza informazioni se non l'indirizzo di Harwich Port
e una vecchia storia su un uomo condannato per qualcosa che probabilmente non aveva commesso. Era stato un gesto così impulsivo e atipico per lei che dovette sorridere alla vista della propria immagine riflessa sul finestrino. Era negli Stati Uniti. In un certo senso era di nuovo a casa. Si addormentò prima di oltrepassare il Ted Williams Tunnel. L'ultimo dei suoi pensieri fu Yngvar Stubø. XVIII. Al suo risveglio il martedì mattina Johanne Vik non sapeva più che giorno fosse. La sera prima era andata a ritirare la macchina al Barnstable Municipal Airport, in tutto un paio di piste accanto a un terminal basso e lungo. La donna al bancone dell'Avis le aveva consegnato le chiavi e uno sbadiglio imbarazzato. Mancavano ancora due ore a mezzanotte. Sebbene ci volesse una mezz'ora scarsa per raggiungere la stanza che aveva prenotato a Harwich Port, aveva preferito non correre il rischio. Si era registrata in un motel a Hyannis Port, a cinque minuti dall'aeroporto. Dopo una doccia, era uscita a fare due passi nella notte. Lungo il molo si capiva che l'estate era ormai imminente. Ragazzini in piena pubertà, che si erano annoiati per tutto un inverno privo di avvenimenti, ora ridevano e schiamazzavano nella notte aspettando che la città esplodesse. Bambini di dieci anni fuggivano dalle madri e dall'ora della nanna zigzagando sugli skates tra i cavi da ormeggio e vecchi barili. Mancava solo qualche giorno al Memorial Day. La popolazione di Cape Cod sarebbe decuplicata nel giro di un fine settimana e tale sarebbe rimasta fino al Labor Day, a settembre, e all'inizio di una nuova fiacca stagione invernale. Johanne cercò ansiosa l'orologio. Le era caduto a terra. Erano le sei di mattina passate. Aveva dormito cinque ore soltanto, eppure si sentiva in forma. Si alzò e indossò una t-shirt troppo grande che usava come camicia da notte. Il condizionatore sospirò affaticato e di colpo si zittì. In camera ci dovevano essere venticinque gradi. Quando aprì le tende la luce del mattino invase la stanza. Johanne socchiuse gli occhi guardando verso sud-ovest. Il battello per Martha's Vineyard, ridipinto di fresco, era ancorato al molo; in mare tirava vento e gli ormeggi tra l'imbarcadero e le navi erano tesi al massimo. Oltre il traghetto, al riparo di un gruppetto di alberi, c'era il grande monumento grigio in memoria di Ken-
nedy. C'era stata la sera prima e si era seduta su una panchina, lo sguardo fisso verso il mare. L'aria della notte sapeva già di inizio estate, era salata e dolce. Si era seduta con le spalle al monumento, un muro di pietra massiccio con un insignificante rilievo in rame nel mezzo. Il profilo inespressivo di un presidente defunto, come su una moneta: un re su una moneta gigante. "Il Re d'America", si disse Johanne connettendo il portatile a internet. C'era solo una e-mail che valesse la pena di scaricare: un disegno di Kristiane. Tre figure verdi in cerchio. Kristiane, mamma e papà. Le mani con cui si stringevano erano enormi, le dita si intrecciavano come le radici di una mangrovia. In mezzo al cerchio c'era un essere pieno di denti che all'inizio Johanne non riuscì a riconoscere. Poi lesse il messaggio di Isak. "Le ha regalato un cane", gemette, sconnettendosi immediatamente. Quando si mise al volante poco dopo le nove, si sentiva rassegnata. Era via da casa da ventiquattr'ore e Isak aveva già comprato un cane. Kristiane avrebbe insistito per tenerlo con sé nelle settimane in cui stava da lei. Johanne non aveva nessuna voglia di avere un cane. Isak avrebbe potuto almeno chiederglielo. L'irritazione non le era affatto passata. Imboccò la Route 28 lungo la costa. La strada s'insinuava di paesino in paesino, offrendo improvvise vedute sullo stretto di Nantucket oltre i porticcioli e la bruma sui fiumi. Il sole le feriva gli occhi. Si fermò presso una sgargiante botteguccia per turisti a comprare un paio di occhiali da sole da pochi soldi. I suoi, quelli graduati, li aveva dimenticati a casa in Norvegia, e così le toccava scegliere tra vedere malissimo senza lenti o farsi accecare dalla luce tagliente. Il commesso voleva convincerla a comprare un cappello da cowboy - come se ci fosse mai stato un cowboy nel raggio di qualche miglio da Yarmouth, Massachussets. Alla fine cedette. Trenta dollari dritti nella pattumiera; letteralmente. Sperò che non la vedesse mentre infilava il cappello in un cestino dell'immondizia verde. All'uomo mancava la gamba destra, probabilmente nel 1972 aveva diciannove anni ed era un soldato semplice. L'autostrada sarebbe stata un'idea sicuramente migliore, era a quattro corsie e tagliava l'isola in due per lungo. Sospettò di aver scelto la strada costiera per ritardare il momento dell'arrivo. Il giorno prima aveva riso della propria impulsività. Ma adesso non era più così divertente. Sembrava ci fosse qualcosa che non andava nel cambio dell'auto. Cosa doveva dire? Isak poteva essersi sbagliato. Si era messo una mano sul cuore sbarrando
gli occhi quando lei gli aveva chiesto delle conferme. Dovevano esserci più Aksel Seier. Anche se non tantissimi, comunque qualcuno. Isak poteva essersi sbagliato. L'Aksel Seier di Harwich Port forse non era mai vissuto a Oslo. Forse non era nemmeno mai stato in prigione. O forse in prigione ci era stato, ma non aveva voglia che glielo ricordassero. Poteva avere una famiglia. Moglie, figli, nipoti; tutti ignari del passato dietro le sbarre del pater familias. Non era giusto mettersi a riaprire vecchie ferite. Non era giusto nei confronti di Aksel Seier. Il giorno prima aveva riso della propria impulsività. Oggi capiva che il viaggio negli Stati Uniti - così come la ricerca della verità - era un modo per sottrarsi a qualcosa. Niente di serio, si affrettò a rassicurarsi. Non era mica una fuga. L'America era il luogo in cui si sentiva più se stessa, e questo era il motivo per cui era venuta. Solo, le era poco chiaro da che cosa sentisse il bisogno di prendere le distanze. Quando raggiunse Dennis Port, un miglio scarso dall'indirizzo infilato nel portafoglio dietro la foto di Kristiane, aveva ormai deciso di fare marcia indietro. La missione era da considerarsi fallita. Alvhild Sofienberg avrebbe capito. Johanne non poteva fare di più. La sua ricerca poteva procedere senza Aksel Seier. Il suo caso non le era necessario. Ne aveva molti altri cui attingere, casi in cui gli imputati vivevano a una fermata di metropolitana dall'ufficio o a un breve volo per Tromsø. Il cambio grattò in malo modo. Johanne continuò a guidare. Magari poteva anche solo dare un'occhiata alla casa. Non c'era bisogno di prendere contatto. Visto che era arrivata fin lì, non sarebbe stato male farsi un'idea di che fine aveva fatto Aksel Seier. Una casa con giardino e magari un'auto parcheggiata le avrebbero raccontato una storia che valeva la pena di ascoltare, dopo quel lungo viaggio. Aksel Seier viveva al numero 1 di Ocean Avenue. La casa era facile da trovare. Era piccola. Come le altre case del circondario, e come tipico della zona, era rivestita di assi di legno ingrigite dal tempo e segnate dal vento. Gli infissi delle finestre erano blu. Sul tetto una banderuola a forma di gallo si dibatteva contro il vento. Un uomo di corporatura robusta armeggiava con una scala sulla parete a est. Non era ancora ora di pranzo, ma Johanne aveva fame lo stesso. Ad Aksel Seier serviva una scala nuova. Doveva salire sul tetto. A quella vecchia mancavano tre gradini e scricchiolava in modo preoccupante. Lui lassù comunque ci doveva andare. La banderuola continuava a bloc-
carsi. Certe volte gli capitava di svegliarsi durante la notte per il vento che si accaniva su quell'uccello testardo; addirittura strideva quando il vento tirava da sud-est. «Hi, Aksel! Pretty thing you've got there!1 » Un uomo più giovane con una camicia di flanella a scacchi si appoggiò allo steccato ridendo. Aksel annuì rapido al vicino, tenendo sollevato davanti a sé il maiale. Poi scosse la testa e si strinse nelle spalle. «Kind of original, I guess. I like it 2 .» Il maiale era in rame ossidato, un maiale snello ritto sulle quattro frecce che indicavano i punti cardinali. Aksel Seier aveva preso quella banderuola in cambio di alcune boe colorate. I galleggianti di vetro erano pieni d'acqua e non potevano più essere usati, ma come souvenir avevano ancora valore. «Help me with this ladder, will you!3 » Matt Delaware era seriamente sovrappeso. Aksel sperò che si offrisse di sostituire il gallo con il maiale. Alla fine riuscirono a sistemare la scala. «I would have helped you, you know. But...4 » Matt guardò la scala. Diede un colpetto a uno dei gradini e girò il cappellino da baseball all'indietro. Aksel grugnì. Appoggiò con cautela il piede sul primo gradino. Teneva. Lentamente si arrampicò fino in cima. Il gallo era così arrugginito che quando Aksel tentò di svitarlo si ruppe. I sostegni sul tetto erano ancora buoni. Il maiale si lasciava addomesticare facilmente dal vento e in un attimo le frecce furono sistemate lungo i punti cardinali. «Awesome,» ridacchiò Matt fissando il maiale. «Just awesome, you know!5 » Aksel mormorò un grazie. Matt rimise a posto la scala. Aksel continuò a sentirlo ridacchiare anche dopo che sparì dalla sua vista, dietro l'angolo degli O'Connors, che non avevano ancora aperto la casa per l'estate. Qualcuno aveva parcheggiato in Ocean Avenue. Aksel diede un'occhiata oziosa alla Ford. Dentro l'auto era seduta una donna. Sostare lì era vietato. Avrebbe dovuto usare il parcheggio di Atlantic Avenue come tutti gli altri visitatori. Non era di quelle parti. Era ovvio, anche se Aksel non sapeva 1
Ciao, Aksel! Carino quel coso che hai lì! Piuttosto originale, immagino. A me piace. 3 Dammi una mano con la scala, okay? 4 Ti avrei aiutato, lo sai. Però... 5 Fantastico. Davvero fantastico, sai! 2
bene perché. La stagione estiva era un inferno. C'era gente di città dovunque. Che buttava via i soldi. Secondo loro tutto era in vendita. «Se il prezzo è giusto,» gli aveva detto l'agente immobiliare in primavera. «Name your price, Aksel 6 .» Aksel non voleva vendere. Un qualche pezzo grosso di Boston era disposto a sborsare un milione di dollari per la sua casetta sulla spiaggia. Un milione di dollari! Aksel grugnì al pensiero. La casa era piccola e lui aveva appena soldi a sufficienza per le spese di manutenzione strettamente necessarie. Il grosso lo faceva da sé, ma il materiale costava caro, così come gli idraulici e gli elettricisti. Durante l'inverno aveva dovuto sostituire le condutture dell'acqua perché quelle vecchie erano saltate. La pressione dell'acqua era talmente bassa che dal rubinetto di cucina non usciva quasi niente e quelli dell'acquedotto avevano minacciato di portarlo in tribunale se non interveniva immediatamente. Dopo aver fatto tutti i lavori e pagato la fattura, sul conto di Aksel Seier erano rimasti solo cinquantasei dollari. Un milione di dollari! Il riccastro avrebbe preso e buttato giù tutto. Era la posizione che lo attirava. Frontemare. Spiaggia privata con il diritto di erigere un gran cartello con su scritto No trespassing e Police take notice. Aksel Seier aveva messo alla porta il mediatore immobiliare dicendogli di risparmiarsi ulteriori visite. In effetti gli avrebbe fatto comodo qualche centone di tanto in tanto, ma doveva guadagnarseli. Aksel non aveva idea di che cose se ne sarebbe fatto di un milione di dollari. Mise via gli attrezzi. La donna della Ford era ancora lì e la cosa lo irritava. Di solito in quel periodo dell'anno era piuttosto tollerante; altrimenti difficilmente sarebbe sopravvissuto all'estate. Ma il caso di quella donna era diverso. Sembrava che lo stesse fissando. Non aveva parcheggiato lì per godersi la vista sul mare. Era troppo in alto sulla strada. E troppo vicino alla grande quercia che torreggiava sulla casa dei Piccola; quell'estate avrebbero dovuto fare qualcosa, abbatterla o per lo meno segare qualcuno dei rami. Pendevano sopra il tetto e strusciavano sulle tegole fino a staccarle. Presto sarebbero cominciate le perdite. Alla donna nell'auto non interessava il mare. Lo stava osservando. Un'antica paura gli attraversò il corpo. Aksel Seier grugnì e si girò bruscamente. Poi entrò in casa e chiuse a chiave, anche se non erano nemmeno le undici di mattina. 6
Di' il tuo prezzo, Aksel.
Aksel Seier era proprio come Johanne se l'era immaginato. Di corporatura robusta e pesante. Da quella distanza era difficile dire se si era rasato, ma sicuramente la barba non ce l'aveva. Era come se lo avesse già visto. Da quella prima sera in cui aveva letto le carte di Alvhild Sofienberg aveva cercato di crearsi un'immagine del vecchio Aksel Seier, trentacinque anni dopo la scarcerazione. Portava una giacca blu sdrucita e degli stivali pesanti, anche se dovevano esserci oltre venti gradi fuori. I capelli erano grigi e un po' troppo lunghi, come se gli importasse poco del suo aspetto. Perfino a cento metri di distanza si notava facilmente che aveva mani molto grandi. Un paio di volte aveva gettato lo sguardo verso di lei. E lei aveva cercato di rannicchiarsi sul sedile dell'auto. Anche se non stava facendo nulla di illegale, aveva avvertito un lieve rossore quando lui per la seconda volta aveva raddrizzato la schiena e strizzato gli occhi per guardarla. Nel caso in cui avesse registrato il suo aspetto, sarebbe stato imbarazzante parlare con lui più tardi. Ma non gli avrebbe parlato. Vedeva che stava bene. Era ben sistemato. La casa poteva essere piccola e un po' malconcia, ma il terreno doveva valere molto. In giardino c'era un piccolo pick-up, non molto vecchio. Un uomo più giovane si era fermato a chiacchierare con lui. L'uomo aveva riso e salutato con la mano, quando se n'era andato. Aksel Seier si sentiva a casa sua. Johanne aveva fame. C'era un caldo insopportabile in macchina, anche se era all'ombra di una grande quercia. Lentamente tirò giù il finestrino. «You can't park here, sweetie!7 » Con quel gran maglione rosa di angora la vecchia signora sembrava una nuvola di zucchero filato. Da dentro tutto quel rosa le rivolgeva un largo sorriso, e Johanne annuì in segno di scusa. Quindi mise in moto, sperando che il cambio reggesse ancora per un giorno. Vide che erano esattamente le undici del mattino di martedì 23 maggio. Per qualche ragione, registrò che erano le cinque del pomeriggio. Qualcuno aveva appeso alla parete della stalla l'orologio di una vecchia stazione. La lancetta delle ore era rotta e solo il mozzicone che ne rimaneva indicava quello che presumibilmente era il numero cinque. Yngvar Stubø controllò l'ora sul suo orologio con un senso di inquietudine. «Vieni, Amund. Vieni dal nonno.» 7
Non può parcheggiare qui, cara!
Il ragazzino era tra le zampe anteriori di un cavallo baio. La bestia abbassò il muso accennando un nitrito. Yngvar Stubø sollevò il nipotino e lo mise in groppa al cavallo senza sella. «Adesso devi salutare Sabra. Dobbiamo andare a casa per cena. Io e te.» «Anche Sabra.» «No, Sabra no. Sabra abita qui nella stalla. Non c'è spazio per lei nel salotto del nonno.» «Ciao, Sabra!» Amund si chinò in avanti per strofinare il viso nella criniera del cavallo. «Ciao!» Il senso di inquietudine non diminuiva. Era quasi doloroso, un dito freddo che gli risaliva lungo la schiena, gli afferrava il collo e lo faceva irrigidire. Strinse a sé il bambino e s'incamminò verso l'auto. Mentre allacciava Amund nel suo seggiolino, avvertì una sorta di disagio. Ai vecchi tempi, prima dell'incidente, pensava di essere un sensitivo, anche se a cose come quelle non aveva mai creduto. E comunque gli piaceva quando la gente notava che c'era qualcosa in lui, una sensibilità che lo rendeva speciale. Di tanto in tanto gli capitava di sentirsi attraversare il corpo da ondate gelide che lo spingevano a guardare l'ora, a prendere nota del momento esatto. Prima lo aveva creduto utile. Adesso se ne vergognava. «Forza,» mormorò tra sé ingranando la marcia. XIX. Più tardi fu chiaro che nessuno sul bus aveva davvero fatto caso a Sarah Baardsen. In piena ora di punta le persone erano schiacciate come sardine. Tutti i posti a sedere erano occupati. Tra i viaggiatori c'erano molti bambini, la maggioranza accompagnati da adulti. L'unica cosa che risultò chiara dopo aver interrogato oltre quaranta testimoni, fu che Sarah era stata fatta salire sul mezzo alle cinque meno cinque, così come succedeva ogni martedì. La versione della madre fu confermata dai due colleghi che l'avevano aspettata mentre lei salutava la bambina alla partenza dell'autobus. Sarah aveva otto anni ed era già da più di un anno che andava da sola in autobus dalla nonna, a Tøyen. Non era un tragitto lungo, neanche un quarto d'ora. Sarah fu descritta come una bambina sicura e indipendente e, anche se adesso la madre era a pezzi per non averla accompagnata, a nessuno sarebbe venuto in mente di incolpare una madre single per aver lasciato che una bimba di otto anni prendesse l'autobus da sola.
Quindi fu chiaro che Sarah era stata messa sull'autobus, e fu altrettanto chiaro che non era mai giunta a destinazione. La nonna l'aveva attesa alla solita fermata. Sarah sapeva perfettamente dov'era, e di solito saltava tra le braccia della nonna non appena le porte si aprivano. Ma quella volta non era arrivata. La nonna aveva avuto la presenza di spirito di fermare il bus. E per due volte aveva percorso il mezzo, lentamente, ignorando l'irritazione del conducente. Di Sarah non c'era traccia. Un paio di persone pensavano di averla vista scendere alla fermata di Carl Berner. Aveva un cappello blu, ne erano certi. Erano in piedi, accanto alla porta posteriore, e si erano stupiti nel vedere una bambina così piccola da sola su un autobus stracolmo. Ma Sarah non portava nessun cappello. Una signora di una certa età disse che ricordava di aver proprio notato una bambina sui sei anni insieme a un adulto. La bambina aveva i capelli biondi e aveva con sé una bambola di pezza. Piangeva disperata, disse la signora. Sembrava che l'uomo fosse arrabbiato con lei. Secondo un gruppetto di adolescenti il bus era pieno di bambini che ululavano e frignavano. Un guru piuttosto famoso, che evidentemente riteneva di essere un testimone particolarmente valido, sostenne di aver visto una bambina sola con una bottiglia di Coca-Cola in mano in testa all'autobus. Si era alzata di colpo ed era scesa senza nessun adulto accanto, come se avesse visto qualcosa di inatteso alla fermata del Museo Munch. Sarah aveva i capelli castani e non aveva in mano nessuna bottiglia di Coca. Non aveva mai posseduto una bambola di pezza, e in ogni caso di anni ne aveva otto e ne dimostrava anche di più. Ma se i molti passeggeri del bus numero 20 quel martedì di fine maggio avessero prestato più attenzione, avrebbero notato un uomo avvicinarsi a una bambina in fondo al veicolo. Avrebbero visto la bambina cedere il posto a una signora anziana, come le aveva insegnato la mamma. L'avrebbero vista sorridere. Magari avrebbero visto anche l'uomo accovacciarsi sui calcagni davanti a lei nel caos, restituirle il sorriso e prenderla per mano. Se non fossero state esattamente le cinque del pomeriggio e non fossero stati tutti così affamati e intontiti da una ipoglicemia che li faceva pensare ancor più alla cena, magari sarebbero stati in grado di raccontare alla polizia che la bambina pareva confusa, ma che aveva seguito l'uomo volontariamente quando era sceso alla fermata successiva. La polizia raccolse oltre quaranta dichiarazioni di testimoni dell'autobus numero 20. Nessuna sembrava contenere qualche elemento capace di spie-
gare cosa fosse successo alla piccola Sarah Baardsen. XX. Questa volta arrivò a piedi. Anche se un sacco di gente aveva anticipato la stagione e Harwich Port era già zeppa di turisti e villeggianti vecchi e nuovi, lui la riconobbe subito. Gironzolava lungo Atlantic Avenue, come se stesse verosimilmente facendo una passeggiata. Si fermò al parcheggio, dove la vista della spiaggia non era sbarrata da case e giardini chiusi, poi si voltò verso sud, in direzione del mare. Tuttavia non si mosse verso la staccionata. Portava gli occhiali da sole, ma lui avrebbe giurato che in realtà stesse guardando la sua casa. E lui. Aksel Seier chiuse la porta del giardino. La paura stava per trasformarsi in rabbia. Se davvero voleva qualcosa da lui, poteva almeno avere il fegato di presentarsi direttamente. Si tolse il maglione; faceva caldo ormai, era quasi mezzogiorno. Dalla spiaggia udiva le grida di un gruppetto di ragazzi che facevano il bagno nello stretto di Nantucket. L'acqua era ancora gelata. Due giorni prima il mercurio aveva segnato sessanta gradi Fahrenheit in acqua, poco più di quindici gradi centigradi: lo aveva controllato prima di uscire a pescare. La donna con la giacca a vento lo superò lentamente, dall'altra parte della strada. «What do you want, dammit! 8 » Aksel stringeva così forte il martello che non osò fare altro che lasciarlo cadere a terra. Le lastre di ardesia del selciato rimbombarono. Il sangue gli pulsava nei timpani. La paura gli era così estranea adesso, ormai apparteneva al passato. Erano anni che aveva finalmente superato il terrore senza nome conosciuto per la prima volta nel gennaio del 1957, mentre era in custodia cautelare. Era stato alcune settimane dopo il suo arresto. Sua madre si era suicidata e gli era stato concesso di andare al funerale. Il vecchio poliziotto faceva tintinnare il mazzo di chiavi fissandolo dritto negli occhi. Lo sapevano tutti che Seier era colpevole, ringhiava. Le chiavi continuavano a sbattere contro la parete della cella. Aksel non aveva nessuna possibilità di assoluzione. Tanto valeva confessare, per lo meno avrebbe attenuato il dolore dei genitori di Hedvig. Non avevano forse sofferto abbastanza? Lo sguardo del poliziotto traboccava di disprezzo. Quando si era bruscamente passato la manica sugli occhi, Aksel aveva compreso che tutto era perduto. La paura 8
Che cosa vuoi, maledizione!
lo aveva tenuto sveglio per quattro giorni consecutivi. Poi aveva cominciato ad avere le allucinazioni, così gli avevano somministrato dei medicinali per farlo dormire. Aksel era diventato un animale notturno che riposava qualche ora al pomeriggio e quando gli altri dormivano contava le stelle attraverso le sbarre. La paura lo aveva accompagnato all'ostello della gioventù, negli otto spogli metri quadri in cui era vissuto dopo l'improvviso rilascio. Lo aveva poi perseguitato anche oltreoceano e tormentato regolarmente. Fino a un mattino del marzo del 1993. Aksel Seier si era svegliato a giorno fatto, stupito di aver dormito tutta la notte di fila. Per la prima volta in trentasei anni il poliziotto con il mazzo di chiavi e gli occhi infuriati lo aveva lasciato in pace. «What the hell do you want? 9 » La donna si fermò. Parve esitare. Anche se aveva il cuore in gola che gli rendeva difficile respirare normalmente, Aksel Seier rimase colpito dalla sua bellezza. Una bellezza noiosa, in un certo senso; come se la donna non avesse nessuna voglia di occuparsene. Poteva avere una trentina d'anni e vestiva in modo neutro. Un paio di jeans e un maglione rosso scollato a V. Scarpe da ginnastica. Aksel si accorse che la stava esaminando, che stava immagazzinando un'immagine di lei per il futuro. Aveva gli occhi castani, lo vide quando gli si avvicinò titubante, mentre si toglieva gli occhiali da sole e metteva quelli da vista. Aveva i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, con delle onde che forse per l'umidità diventavano ricci. Le mani erano sottili, le dita lunghe, e se le passava indecisa tra i capelli. Aksel si morse la lingua. «Aksel Seier?» La paura minacciò di soffocarlo. La donna pronunciò il suo nome in un modo che non sentiva più dal 1966. Lui non si chiamava più Aksel Seier. Si chiamava Æksel Sayer, allungato e rotondo. Non duro e preciso: Aksel Seier. «Who's asking?» si affrettò a chiedere 10 . Lei gli tese la mano. Lui non la strinse. «Mi chiamo Johanne Vik. Lavoro all'università di Oslo e sono venuta perché vorrei parlarti della tua ingiusta condanna per stupro e omicidio di una bambina molto tempo fa. Sempre che tu voglia, naturalmente. Se te la senti di parlarne ora, dopo così tanti anni.» 9
Che diavolo vuoi? Chi vuole saperlo?
10
La mano di lei era ancora tesa. C'era una sorta di testardaggine in quel gesto, un'insistenza che gli fece aprire la bocca e comprimere l'aria nei polmoni prima di stringergliela. «Æksel Sayer,» disse, roco. «È così che mi chiamo adesso.» La signora di zucchero filato stava trotterellando verso di loro dalla spiaggia. Fece il giro del cancello e respirò forte a bocca aperta prima di prorompere: «Female visitor, Aksel! I'll say!11 » «Entra,» disse Aksel voltando le spalle al maglione rosa. Johanne non sapeva che cosa aspettarsi. Sebbene si fosse fatta un'idea chiara dell'aspetto di Aksel Seier non aveva mai riflettuto sul suo ambiente, su come fosse la sua vita negli Stati Uniti. Rimase sulla porta. La sala si apriva sulla cucina ed era piena zeppa di roba. Di mobili non c'era altro che un tavolino accanto a un divano liso e un grezzo tavolo da cucina con una sola sedia di legno. Era comunque difficile capire dove poter mettere i piedi. In un angolo c'era un cane gigantesco. Johanne trasalì. Solo alla seconda occhiata notò che la pelliccia era stata scolpita pelo dopo pelo nel legno e che gli occhi gialli erano di vetro. Nell'angolo opposto, una polena era appesa al soffitto basso. Rappresentava una bella donna dal seno prosperoso, con lo sguardo lontano e le labbra di un rosso cupo, quasi viola. I capelli giallo oro le ricoprivano il corpo inarcato. La scultura era troppo grande per quella stanza. Sembrava che potesse cadere dal muro da un momento all'altro. Nel qual caso la donna avrebbe distrutto un esercito di quelli che parevano soldatini di piombo, schierati per una feroce battaglia in un'area di due metri quadrati sul pavimento. Johanne si mosse verso l'armata e si accovacciò. I soldatini erano di vetro. Minuscole giacche blu, nordisti modellati uno a uno con baionette e cannoni, cappelli e mostrine, pronti a combattere contro i confederati in uniforme grigia. «Che... che belli, sono incredibili!» Prese un generale per osservarlo da vicino; era ben in sella al suo cavallo, a una certa distanza dall'infuriare della battaglia. Perfino gli occhi erano nitidi, azzurro chiaro con al centro un accenno del nero delle pupille. Il cavallo aveva della schiuma attorno alla bocca e a lei parve quasi di percepire il calore della bestia sudata. «Dove... li hai fatti tu? Non ho mai visto niente di simile in vita mia!» Aksel Seier non rispose. Johanne sentiva rumore di pentole. Era nasco11
È venuta a trovarti una donna, Aksel! Eh?
sto dietro il bancone della cucina. «Caffè?» chiese con voce tesa. «No, grazie. Be', veramente sì... se lo stai facendo. Ma non stare a farlo solo per me.» «Una birra.» Non suonò come una domanda. «Sì, grazie,» disse lei titubante. «Una birra la bevo volentieri.» Aksel Seier si alzò e richiuse la porta dell'armadietto con un piede. Sembrava sollevato. Il frigorifero borbogliò controvoglia quando lo aprì per prendere due lattine di birra. Il brusio fastidioso si smorzò in un sospiro. I raggi del sole si facevano strada attraverso i vetri sporchi delle finestre e la polvere danzava nel fascio di luce disegnato sul pavimento. Un gatto sbucò fuori dal nulla in cucina. Si strusciò contro le gambe di Johanne facendo le fusa. Poi sparì attraverso una gattaiola. Accanto alla polena, dietro i soldatini, c'era un barile di pesce con i cerchi arrugginiti. Sul coperchio si ergeva una bambola di plastica in costume lappone. I colori, che un tempo dovevano essere stati forti e decisi, rosso e blu, giallo e verde, erano diventati delle miti tinte pastello. La bambola aveva lo sguardo vuoto e fisso sulla parete opposta, che era coperta da un imponente ricamo, quasi un arazzo. La raffigurazione partiva da un angolo, con un cavaliere medievale pronto per un torneo, in armatura e con la lancia in resta; poi, in alto verso destra, passava a motivi non figurativi in un'orgia di colori. «Devo... le hai fatte tu tutte queste cose fantastiche?» Aksel Seier la guardava fisso. Portò lentamente la lattina di birra alla bocca. Bevve e si asciugò con la manica. «Cos'hai detto?» «Sei stato tu a...» «Quando sei arrivata. Hai detto qualcosa sul fatto che io...» «Ho motivo di credere che tu sia stato condannato ingiustamente.» Lo fissò sforzandosi di dire qualcosa di più. Aksel fece un passo indietro, come se la luce del sole proveniente dalla finestra di cucina gli desse fastidio. Annuì debolmente con il capo e la massa di capelli, grigi e folti, gli fece ombra sugli occhi. Johanne lo guardò e si pentì di aver parlato. Non aveva nient'altro da offrirgli. Né risarcimenti. Né l'onore perduto. Né un compenso per gli anni buttati via, sia dentro sia fuori di prigione. Johanne aveva attraversato l'oceano, impulsivamente, senza null'altro in valigia se non l'assoluta convinzione di una vecchia signora e un sacco di domande senza risposta. Se era vero che Aksel Seier aveva subito una
condanna ingiusta per il più infame dei crimini, il più sporco dei soprusi, adesso cosa provava? Cosa doveva provare, dopo tutti quegli anni, sentendosi dire da qualcuno: io credo che tu sia innocente! Johanne non ne aveva il diritto. Non sarebbe dovuta venire. «Voglio dire... Ci sono persone che hanno studiato il tuo caso molto attentamente... Una persona... Una donna che è... Possiamo metterci seduti?» Lui rimase in piedi, impietrito. Un braccio gli pendeva inerte lungo il fianco, oscillando quasi impercettibilmente con il battito cardiaco, avanti e indietro, avanti e indietro. La mano sinistra stringeva la lattina. Continuava a nascondersi sotto i capelli grigi, gli occhi erano piccole fessure di qualcosa che Johanne non riusciva a riconoscere. «Penso sarebbe meglio sedersi, signor Seier.» Gli uscì una specie di sbuffo dalla gola. Un suono involontario, come se in realtà volesse deglutire, ma qualcosa gli avesse bloccato la gola. Dapprima le diede l'impressione che stesse per piangere. Poi aspirò di nuovo rumorosamente, quasi un singhiozzo, con il corpo intero che tremava, e posò la lattina di birra. «Signor Seier,» ripeté con voce roca. «Da anni nessuno mi chiama più così. Chi sei tu?» «Sai cosa?» Johanne si ritrasse con cautela dalla scena di guerra sul pavimento. «Avrei piacere di invitarti a pranzo. Mangiamo qualcosa e intanto ti spiego perché sono qui. Penso di avere molte cose da raccontarti.» "Bugie," pensò. "Io non ho praticamente nulla da raccontarti. Sono venuta con mille domande di cui per me sarebbe importante conoscere la risposta. Lo sarebbe per me e per una vecchia signora che si tiene in vita in attesa di queste risposte. Ti sto prendendo in giro. Ti sto gettando polvere negli occhi. Ti sto sfruttando". «Dove possiamo trovare un decent meal da queste parti?» disse invece in tono lieve. «Vieni,» fece Aksel incamminandosi verso la porta. Seguendolo, calpestò il generale. Il rumore del soldatino che si spezzava si smorzò sul pavimento grezzo. Confusa, Johanne sollevò il piede. La statuina si era polverizzata, frammenti blu e gialli le si erano incollati alla suola della scarpa. Aksel Seier abbassò gli occhi sul pavimento. Poi alzò lo sguardo su di lei. «Ci credi davvero? Credi davvero nella mia... innocence?»
Poi si voltò dall'altra parte, di colpo, senza attendere risposta. XXI. La bambina nuova si chiamava Sarah. Anche se aveva un anno di meno, era alta come Emilie e per questo era un po' difficile consolarla. Proprio come con papà. Quando era morta la mamma, Emilie avrebbe tanto voluto consolarlo. Dopo il funerale, quando la casa non era più piena di gente che desiderava aiutarli, lui non aveva voluto che lei lo vedesse piangere. Ma Emilie sapeva come stava. Lo aveva sentito, di notte, quando credeva che lei stesse dormendo, tenersi il cuscino sulla testa per non farsi udire. Avrebbe voluto consolarlo, ma era impossibile perché era un adulto. Era più grande di lei. E non c'era niente che lei potesse dire o fare. E quando ci provava lo stesso, papà faceva un grande sorriso coraggioso, si alzava dal letto e scendeva a preparare le frittelle, parlando delle vacanze che avrebbero fatto in estate. Con Sarah era più o meno lo stesso. Non faceva che piangere, ma era troppo grande per riuscire a consolarla. Emilie in realtà era contentissima che fosse venuta. Era molto meglio essere in due. Specie due bambine, tanto più che avevano praticamente la stessa età. Questo era tutto quel che sapeva di lei. Il suo nome e quanti anni aveva. Ogni volta che provavano a parlare, Sarah si metteva a piangere. Farfugliava qualcosa di un autobus e sua nonna. Forse sua nonna guidava l'autobus e Sarah credeva che sarebbe venuta a salvarle. Proprio come lei stessa, a volte, pensava ancora che la mamma, con il vestito rosso e diamanti grossi come prugne alle orecchie, vegliasse su di lei. Sarah non aveva capito che conveniva essere gentile con l'uomo. In fondo era lui che portava da bere e da mangiare, e a un certo punto era anche arrivato con un cavallo per la Barbie. Se Emilie lo ringraziava ed era carina e gentile, l'uomo le rispondeva con un sorriso. Sembrava quasi contento, più soddisfatto quando la guardava. Sarah lo aveva morso. Non appena erano entrati nella stanza, gli aveva affondato i denti nel braccio. Lui aveva urlato e le aveva dato una sberla in faccia. Così le era uscito del sangue sopra l'occhio. Aveva ancora un bel taglio e il sangue ancora non si era seccato. «Devi essere gentile con lui,» disse Emilie sedendosi sul letto accanto a Sarah. «Ci porta da mangiare e dei regali. È meglio essere cortesi. Secondo me è abbastanza gentile.»
«Lui... lui... mi ha picchiata,» singhiozzò Sarah, toccandosi l'occhio. «Mi ha detto che era il...» Era impossibile decifrare il resto. A Emilie girava la testa. Aveva di nuovo l'orribile, disgustosa sensazione che nello scantinato non ci fosse più ossigeno. La cosa migliore era sdraiarsi e chiudere gli occhi. «Mi ha detto che era il nuovo fidanzato della mamma,» sussurrò Sarah soffocata dalle lacrime. Emilie non capiva se avesse dormito. Si leccò le labbra. La lingua sapeva di sonno e le pesavano gli occhi. «La mamma ha trovato un nuovo fidanzato e io dovevo conoscerlo do... doma...» Emilie si mise lentamente a sedere. Adesso era più facile respirare. «Cerca di respirare piano,» disse. Era quello che le diceva la mamma quando piangeva così tanto che non riusciva a parlare. «Respira a fondo. Aria dentro aria fuori. C'è un sacco di ossigeno qua. Lo vedi lo sportellino sul soffitto?» Glielo indicò e Sarah annuì. «È da lì che ci manda l'ossigeno. Quell'uomo, cioè. Ci manda un sacco di ossigeno nello scantinato, così possiamo respirare anche se non ci sono finestre. Non devi avere paura. Puoi prendere la mia Barbie. Tua nonna fa l'autista degli autobus?» Sarah era esausta. Aveva il viso bianco, chiazzato di rosso, e gli occhi talmente gonfi che restavano quasi chiusi. «La nonna fa l'elettricista,» rispose, parlando per la prima volta senza piangere. «Mia mamma è morta,» disse Emilie. «Mia mamma ha un fidanzato nuovo,» disse Sarah asciugandosi il naso. «È bravo?» «Non lo so, lo dovevo conoscere...» «Non piangere più adesso.» Emilie era irritata. L'uomo poteva sentirle. Anche se non era lì, poteva aver messo dei microfoni da qualche parte. Emilie ci aveva pensato tante volte. Aveva visto cose del genere nei film. Quasi non trovava il coraggio di cercarli. All'inizio, i primi tempi che era lì, era andata in giro per la stanza alla ricerca di qualcosa, senza sapere bene cosa. Non aveva trovato nulla. Però c'erano dei microfoni così piccoli che stavano dentro un molare. Erano talmente piccoli che non si vedevano. Ci voleva il microscopio. Magari l'uomo era seduto da qualche parte ad ascoltarle, e per di più le
guardava. Perché esistevano anche delle telecamere minuscole. Minuscole come la testa di un chiodo, e sul muro ce n'erano un sacco di chiodi. Una volta Emilie aveva visto un film che si intitolava Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi. Parlava di un papà un po' matto ma carino che faceva esperimenti in soffitta. Un giorno i bambini toccavano qualcosa che non dovevano e diventavano piccoli piccoli, come insetti. Nessuno li vedeva più. L'uomo invece la vedeva. Era sicura che restava davanti allo schermo di un televisore con le cuffie in testa per controllare che cosa stavano facendo. «Sorridi,» bisbigliò. Sarah ricominciò a frignare. Emilie le tappò la bocca con la mano. «Devi sorridere,» le consigliò, stirando le labbra in un sorrisetto. «Lui ci vede.» Sarah si divincolò. «Mi ha detto che era il fi... il fi... il fidanzato di...» Emilie strinse di nuovo gli occhi e si coricò sul letto. Quasi non c'era posto per tutte e due. Spinse un po' in là Sarah e si girò con la faccia contro il muro. Quando strinse gli occhi più che poté, fu come se le si accendesse una luce in testa. Riusciva a vedere delle cose. Riusciva a vedere papà che la stava cercando. Portava la camicia di flanella. La cercava tra i fiori di campo sul prato dietro casa, aveva una lente di ingrandimento e pensava che qualcuno l'avesse rimpicciolita. Emilie avrebbe voluto che Sarah non fosse mai venuta. XXII. Nel luogo in cui fu trovato lo zaino di Emilie Selbu, sul sentiero tranquillo fra due strade trafficate, adesso c'era un mare di fiori. Alcuni mezzi appassiti, altri già morti. Tra essi spiccavano alcune rose fresche in piccoli contenitori di plastica. I disegni dei bambini sventolavano in silenzio alla brezza della sera. Un gruppo di adolescenti arrivò in bicicletta. Urlavano e ridevano, ma passando accanto ai fiori e alle lettere abbassarono la voce. Una ragazzina di circa quattordici anni appoggiò il piede per terra, rimase immobile per qualche secondo poi imprecò scuotendo la testa, e si rimise a pedalare velocissima per raggiungere gli altri. L'uomo abbassò la falda del cappello sugli occhi e fece scivolare l'altra mano nei pantaloni. Forse poteva osare avvicinarsi ancora un po'. Il pensiero di trovarsi esattamente sul luogo dove Emilie era stata sequestrata lo
faceva bruciare tra le gambe. Perse l'equilibrio e dovette appoggiare un fianco all'albero per non cadere. Emise un gemito e si morse le labbra. «Ma che cazzo stai facendo?» Due persone apparvero alle sue spalle. Erano sbucate dal nulla, da una fitta sterpaglia. Sorpreso, si girò verso di loro, con il sesso che gli si avvizziva in mano, e tentò di sorridere. «Nie... niente,» tartagliò, impietrito. «Questo si sta... si sta masturbando, perdio!» In due minuti lo resero inoffensivo. Ma non si accontentarono. Quando l'uomo in tuta mimetica entrò barcollante in questura, spintonato da una ronda di quartiere appena costituita, il suo occhio destro aveva già fatto in tempo a gonfiarsi e diventare blu. Gli usciva il sangue dal naso e sembrava avere un braccio rotto. Non disse nulla, nemmeno quando gli chiesero se avesse bisogno di un dottore. XXIII. «Sicuro di non voler parlare in inglese?» Aksel scosse la testa. In un paio di occasioni le era sembrato che non capisse quello che gli stava dicendo. Aveva ripetuto la frase con altre parole, più semplici. Difficile capire se fosse servito. Aksel non cambiava espressione. E parlava poco. Aksel Seier aveva ordinato un filet mignon e una birra. Johanne Vik si era accontentata di una Ceasar Salad e di un bicchiere di acqua ghiacciata. Erano gli unici avventori del The 400 Club, un misto tra ristorante e diner, a soli sette minuti a piedi da Ocean Avenue. Aksel Seier si era diretto verso il suo pick-up, ma poi, davanti all'insistenza di Johanne, aveva scrollato le spalle e avevano proseguito a piedi. Era troppo tardi per pranzare, troppo presto per cenare. La cucina funzionava a metà. Prima che li servissero, Johanne gli aveva raccontato di Alvhild Sofienberg, la vecchia signora che un tempo aveva nutrito così tanto interesse per il suo caso, ma poi era stata costretta a lasciarlo perdere. Ora però Alvhild, anche dopo così tanto tempo, voleva scoprire perché fosse stato condannato e all'improvviso, nove anni dopo, rilasciato. Johanne descrisse l'inutile caccia ai documenti processuali. Alla fine, quasi a mo' di casuale poscritto, gli spiegò perché anche lei fosse interessata al caso. Arrivò il cibo. Aksel Seier prese coltello e forchetta. Mangiava piano,
masticando a lungo. Lasciò di nuovo cadere il ciuffo sugli occhi. Doveva essere un vecchio trucco; i capelli grigi e stopposi divennero un muro tra loro. "Indifferente," pensò lei. "Sembri del tutto indifferente. Chissà perché sei venuto qui con me? Perché non mi hai sbattuta fuori? Lo avrei accettato. Oppure potevi ascoltare quello che avevo da dire, e rispondermi arrivederci e grazie. E adesso potresti andartene. Potresti finire di mangiare, accettando il pasto offerto da un passato che hai gettato nel dimenticatoio, e andartene. È un tuo diritto. Ci hai messo così tanti anni a dimenticare. E io sto distruggendo tutta la tua opera. Te la sto rovinando. La sto facendo a pezzi. Vattene". «Cosa ti aspetti che ti dica?» Metà della carne era ancora nel piatto. Aksel infilò la lama del coltello tra i denti della forchetta e bevve il resto della birra. Poi si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. "Mi aspettavo un po' di entusiasmo," pensò Johanne. "Che assurdità. Sono qui a credermi una specie di angelo, un messaggero di meravigliose novità. Vorrei... cos'è che vorrei? Fin dal momento in cui ho letto la tua storia - dal momento in cui ho capito che Alvhild aveva ragione - mi sono vista nel ruolo della fata buona che avrebbe fatto giustizia. Sarei venuta qui a raccontarti quello che già sai: che sei innocente. Sei innocente. Te lo confermo, sono venuta fin qua dalla Norvegia e tu dovresti essere... riconoscente. Un po' di riconoscenza, dannazione!" «Io non voglio assolutamente nulla,» disse piano. «Se vuoi, me ne posso andare.» Aksel sorrise. Aveva denti regolari e grigi che non si addicevano al suo viso. Era come se qualcuno avesse tagliato via una vecchia bocca e l'avesse cucita in un posto dove non c'entrava. Ma sorrise e appoggiò le mani sul tavolo di fronte a sé. «Ho immaginato come sarebbe stato ottenere...» Cercava la parola giusta. Johanne non sapeva se aiutarlo. La pausa durò a lungo. «Una riparazione,» disse lei. «Esatto. Una riparazione.» Lui abbassò lo sguardo sul bicchiere vuoto. Johanne fece cenno al cameriere di portarne un altro. Aveva mille domande, eppure non gliene veniva in mente nemmeno una. «Perché...» cominciò, senza avere idea di dove andare a parare. «Sei al corrente del fatto che la stampa fu alquanto critica rispetto alla sentenza?
Sapevi che diversi giornalisti sbeffeggiarono la procura e i testimoni presentati dall'accusa?» «No.» Il sorriso era scomparso e il ciuffo era sul punto di ricadere. Tuttavia Aksel Seier non sembrava né aggressivo né curioso. La sua voce era completamente piatta. Forse perché non era più abituato a quella lingua. Forse doveva raccogliere tutte le sue forze anche solo per capire quello che Johanne gli stava dicendo. «Non mi arrivavano i giornali.» «E dopo? L'avrai pur saputo, dopo, dagli altri, dai compagni di carcere, da...» «Non ne avevo di amici, in carcere. Non era esattamente un... friendly place 12 .» «Non ci fu nessun giornalista che cercò di parlare con te? Ho portato con me i ritagli dei quotidiani, se vuoi te li faccio vedere. Sicuramente un paio di loro devono aver cercato di mettersi in contatto con te dopo la sentenza. Io ho tentato di rintracciare i due più critici, ma purtroppo sono morti entrambi. Ti ricordi se cercarono di intervistarti?» Il boccale di birra era di nuovo mezzo vuoto. Lui fece scorrere l'indice sul bordo. «Può essere. È passato così tanto tempo. Io credevo che tutti... credevo che tutti...» "Credevi che ti stessero tutti alle costole," pensò Johanne. "Non volevi parlare con nessuno. Ti sei rinchiuso, fisicamente e mentalmente, e non ti fidavi di nessuno. Non devi fidarti nemmeno di me. Non credo di poter fare niente per te. Il tuo caso è troppo vecchio. Non verrà riaperto. Io sono soltanto curiosa. Voglio farti delle domande. Mi piacerebbe prendere appunti. Nella borsa ho un bloc-notes e un registratore. Se li tiro fuori, c'è il rischio che te ne vada. Che tu dica di no. Che tu capisca che sto badando solo ai miei interessi". «Come ti ho già detto...» Johanne indicò il bicchiere, ne voleva un'altra? Aksel scosse la testa. «Io mi occupo di ricerca. E il progetto su cui sto lavorando tenta di mettere a confronto...» «Me lo hai già spiegato.» «Appunto. Mi chiedevo se... ti spiace se prendo qualche appunto?» Una donna voluminosa sbatté il conto sul tavolo davanti ad Aksel. 12
Posto amichevole.
Johanne lo afferrò un po' troppo in fretta. La donna scosse la testa e tornò verso la cucina, senza guardarsi indietro. Aksel s'incupì. «Pago io,» disse. «Passami il conto.» «No, no... permettimi. Me lo rimborsano... voglio dire, sono stata io a invitarti.» «Give me that!13 » Johanne lasciò andare il conto, che cadde per terra. Aksel lo raccolse. Poi tirò fuori un portafoglio logoro e cominciò a contare le banconote. «Magari parliamo più tardi,» disse, senza alzare lo sguardo dai soldi. «Devo rifletterci. Quanto ti fermi?» «Qualche giorno. Per lo meno.» «Qualche giorno. Thirty-one, thirty-two14 .» Era un mazzetto di biglietti consumati. «Dove alloggi?» «All'Augustus Snow.» «Mi faccio vivo io.» Aksel Seier spinse indietro la sedia e si alzò pesantemente. Assomigliava poco all'uomo che qualche ora prima si era arrampicato su una scala insicura per sostituire una banderuola a forma di gallo con una a forma di maiale. «Posso farti una domanda?» disse Johanne rapidamente. «Solo una domanda prima che te ne vada?» Lui non rispose, ma nemmeno accennò ad andarsene. «Ti dissero qualcosa quando ti liberarono? Intendo dire, ti diedero qualche spiegazione su quanto era successo? Ti spiegarono che ti era stata concessa la grazia o...» «Nulla. Non dissero nulla. Mi diedero una valigia in cui mettere le mie cose. Una busta con cento corone. L'indirizzo di un ostello. Ma non dissero nulla. Except, ci fu un uomo, un... non portava né uniforme né niente. Disse che mi conveniva tenere il becco chiuso e ringraziare. "Tieni il becco chiuso e ringrazia". Me la ricordo bene questa frase. Ma spiegazioni... Nope15 .» Di nuovo mostrò i denti in una specie di sorriso. Era orribile, e lei abbassò lo sguardo. Aksel Seier si diresse verso la porta e sparì, senza aspettarla, senza prendere ulteriori accordi. Johanne iniziò a rigirare il bicchiere d'ac13
Dammelo! Trentuno, trentadue. 15 Eccetto... No. 14
qua con una mano. Stava cercando di formulare un pensiero, ma non ci riusciva. C'era qualcosa nella casa di Aksel Seier che non c'entrava. Aveva visto qualcosa. Qualcosa che l'aveva fatta reagire, dopo, quando era già troppo tardi; qualcosa che s'inseriva tranquillamente in quel bizzarro interno ma al contempo risaltava. Chiuse gli occhi cercando di ricostruire mentalmente la sala di Aksel Seier. La polena. Il campo di battaglia. La triste lappone col costume scolorito. Il cavaliere sulla parete. Un orologio a muro con dei ferri di cavallo. La libreria con quattro libri di cui non ricordava neppure un titolo. E accanto alla porta, un vecchio barattolo da caffè pieno di monetine. Il televisore con l'antenna. Una lampada a forma di pescecane, con i denti in basso e una lampadina sulla coda. Un labrador in legno smaltato nero che sembrava vivo. Oggetti assurdi e curiosi che inspiegabilmente formavano un tutto coerente. Più qualcos'altro. Qualcosa che l'aveva fatta reagire senza che se ne rendesse conto prima che fosse troppo tardi. Aksel Seier camminava svelto. I suoi pensieri tornavano a quel giorno di primavera del 1966, quando aveva visto Oslo per l'ultima volta. Il fiordo era sotto una coltre di nebbia. Lui stava accanto al parapetto della Sandefjord, diretto negli Stati Uniti insieme a un carico di fertilizzante artificiale. Il capitano aveva assentito debolmente quando Aksel gli aveva spiegato come stavano le cose, fuori dai denti e senza perifrasi. Aveva scontato una lunga condanna e non sembrava avere alcun futuro lì in Norvegia. Il capitano poteva stare tranquillo, Aksel Seier era un cittadino americano. Il passaporto che gli aveva sbattuto sul tavolo era autentico. L'unica cosa che voleva era rendersi utile durante il viaggio oltre l'Atlantico. Se possibile, beninteso. Poteva dare una mano in cucina. Prima ancora di raggiungere il faro di Dyna, aveva pelato quattro chili di patate. Poi era uscito un momento sul ponte. Era consapevole di andarsene per sempre. E aveva pianto, senza sapere perché. Da allora non aveva più versato una lacrima, fino a quel momento. Corse a casa. La serratura del cancello non cedeva e gli diede qualche problema. Il postino fermò la macchina, sporse la testa dal finestrino, indicò il maiale e rise. Aksel Seier saltò oltre la staccionata bassa ed entrò in casa. Poi chiuse con attenzione la porta a chiave e si infilò a letto. Il gatto miagolava forte fuori della finestra, ma non gli diede retta.
XXIV. «E perdete tempo con queste cose?» Yngvar Stubø si strofinò la faccia. Il palmo della mano raspò su un inizio di barba. Erano le due di notte di mercoledì 24 maggio. Davanti alla centrale di polizia di Asker e Bærum a Sandvika c'erano venticinque giornalisti e quasi altrettanti fotografi. A tenerli fuori dall'edificio di mattoni c'erano un paio di agenti della polizia che nell'ultimo quarto d'ora avevano dovuto metter mano ai manganelli. Gli agenti camminavano lentamente avanti e indietro di fronte all'entrata, battendosi nervosi il manganello sul palmo delle mani, come caricature di poliziotti nei film di Charlie Chaplin. I fotografi arretrarono un po'. Alcuni giornalisti cominciarono a guardare l'orologio. Un tizio del "Dagbladet" che Yngvar Stubø riconobbe sbadigliò forte, senza ritegno. Poi ringhiò a un fotografo e si trascinò fino a una Saab parcheggiata male. Si sedette dentro, ma la macchina rimase ferma. Yngvar Stubø lasciò andare la tenda e si girò verso la stanza. «Santo Dio, Hermansen, quel poveretto non ha mai fatto male a una mosca!» «E chi l'ha detto che il nostro rapitore deve avere dei precedenti?» Hermansen starnutì in una mano e imprecò forte. «Non è questo che voglio dire.» «E allora che vuoi dire? Quattro ore dopo l'ultimo rapimento, troviamo un tizio sulla prima scena del crimine, vestito come se dovesse fare carriera nella Cia, che si masturba ansimando il nome della bambina! E adesso sta di là, incapace di dire dove si trovava giovedì 4 maggio, quando Emilie Selbu è scomparsa, o mercoledì 10, quando è stato rapito Kim. E neanche si ricorda cosa ha fatto oggi alle cinque!» «È semplicemente perché non ha niente da dire,» fece Yngvar Stubø, asciutto. «Quell'uomo è deficiente. Letteralmente. Quanto meno non ci sta con la testa. È terrorizzato, Hermansen.» Hermansen si portò alla bocca una tazza di caffè sporca. Un odore aspro di sudore e stress impregnava tutta la stanza. Yngvar non era sicuro di sapere da chi venisse. «Fa l'autista,» borbottò Hermansen. «Non può essere del tutto idiota. Guida il furgoncino di un corriere. E non ha la fedina pulita. Nientemeno che...» Afferrò un fascicolo e ne estrasse un documento.
«Cinque multe e due condanne per atti osceni.» Yngvar Stubø non stava più ad ascoltare. Ancora una volta gettò uno sguardo fuori, verso i giornalisti. Non erano più così tanti. Si grattò il naso cercando di calcolare che ore fossero sulla costa Est degli Stati Uniti. «Atti osceni in luogo pubblico,» sospirò pesantemente, senza guardare Hermansen. «Quel tizio è stato arrestato per essersi spogliato. Niente di più. Non è lui l'uomo che stiamo cercando. Purtroppo.» «Atti osceni.» Yngvar tentava di rimanere neutrale. Era impossibile. Quelle parole si portavano dietro il disprezzo per quel che significavano. Si potevano soltanto sputare fuori, con spregio. L'uomo in tuta mimetica si era ridotto a un mucchietto di vestiti. Grondava sudore. Aveva la spalle così strette che le maniche della giacca gli coprivano le mani. Appesa al collo portava una fascia per il braccio, ma non la usava. Il cavallo dei pantaloni gli arrivava quasi alle ginocchia. «Cinquantasei anni,» disse Yngvar Stubø lentamente. «Giusto?» L'uomo non rispose. Yngvar trascinò una sedia vicino a lui e si mise a sedere. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e cercò di non storcere il naso per l'odore di urina e sudore stantio. Stavolta sapeva da dove veniva quella puzza. «Stammi a sentire,» disse a voce bassa. «Posso chiamarti Laffen? Ti chiamano Laffen, vero?» Un debole cenno del capo indicò che il tizio per lo meno ci sentiva. «Laffen,» sorrise Stubø. «Io mi chiamo Yngvar. Dev'essere stata una serataccia per te.» Ancora un lieve cenno del capo. «Presto sistemeremo tutto. Ho solo bisogno che tu risponda a un paio di domande. Ok?» Altro cenno, quasi impercettibile questa volta. «Ti ricordi dove ti hanno preso? Dove quei due... dove ti hanno trovato?» L'uomo non reagì. Gli occhi, molto più chiari così da vicino, in quel viso stretto erano come due bilie nere. Yngvar gli appoggiò con cautela una mano sul ginocchio, ma ancora senza suscitare reazioni. «Tu guidi una macchina, vero?» «Una Ford Escort del 1991. Blu metallizzato. Motore da 1,6 litri, ma è truccato. Lo stereo mi è costato undicimilaquattrocentonovanta corone.
Sedili sportivi e spoiler. Fatto tutto io.» Aveva una voce gracchiante. Yngvar ebbe la sensazione di aver messo delle monete in un vecchio juke-box, specie quando il tizio riprese a parlare: «Fatto tutto io. Fatto tutto io. Sedili sportivi e spoiler.» «Bene.» «Io non ho fatto niente.» «Allora cosa ci facevi lì?» «Niente. Io solo... io ero lì e basta. Guardavo. Non è mica proibito guardare.» Il tizio si rimboccò la manica sinistra. Apparve il bianco di un'ingessatura recente. «Mi hanno rotto il braccio. Io non ho fatto niente.» Erano le tre e mezza di notte. Yngvar Stubø era sveglio da ventun ore. Dio solo sapeva da quanto non chiudeva occhio il tipo in stato di fermo. Yngvar gli diede un colpetto sulle ginocchia e si alzò. «Cerca di riposare un po' su quella panca,» gli disse in tono amichevole. «Non appena fa giorno sistemiamo tutto. E poi te ne vai a casa.» Quando si chiuse la porta alle spalle si rese conto che l'uomo con la tuta mimetica poteva diventare un problema. Non era in grado di fare niente, figurarsi organizzare tre complicati sequestri e la restituzione del cadavere di un bambino. In effetti aveva la patente, perciò doveva essere capace di leggere e scrivere. Ma il mestiere di autista che gli aveva attribuito Hermansen era comunque un'esagerazione. Laffen Sørnes aveva una pensione di invalidità e due pomeriggi alla settimana consegnava pasti caldi agli anziani di Stabekk. Senza essere pagato. Il problema non era che avesse commesso atti osceni. Il problema era che la polizia non aveva arrestato nessun altro. Erano spariti tre bambini. Uno era già morto. Tutto quel che aveva in mano la polizia dopo tre settimane di indagini era un esibizionista di mezza età in una Ford Escort. L'esibizionista poteva diventare un problema enorme. «Lascialo andare,» disse Yngvar Stubø. Hermansen scrollò le spalle. «Già. Così non abbiamo niente in mano. Vaglielo a raccontare tu a quegli avvoltoi là fuori.» Fece un cenno verso la finestra. «Lascialo andare appena fa giorno,» sbadigliò Stubø. «E, per grazia di Dio, trovagli un altro avvocato. Uno che almeno sia capace di impedire
che tengano sveglio il suo cliente tutta la notte. È il mio consiglio. Lui non è il nostro uomo. E tu...» Pescò un sigaro dal taschino della camicia e sollevò l'indice. «Non sta a me decidere che cosa dobbiate fare qui a Bærum e Asker. Ma se fossi in te... multerei quegli animali che gli hanno rotto il braccio. Altrimenti, in un baleno qui fuori avrai il far west. Dammi retta. Ti ritroveresti come in Texas.» XXV. In campagna, in una vallata a nord-est di Oslo, un uomo era seduto con il telecomando in mano in una casa sul fianco della collina. Controllava le notizie sul televideo. Gli piaceva il televideo. Poteva guardare le notizie quando gli pareva e nella forma che piaceva a lui: brevi e affidabili. Era primo mattino. La luce bianca del giorno ancora inutilizzato si riversava dentro casa attraverso la finestra della cucina e ogni mattina lo faceva sentire come rinato. Anche se era da solo, l'uomo rise forte. Uomo (56 anni) arrestato per il caso Emilie. Giocò con i tasti del telecomando. Le lettere s'ingrandirono, si rimpicciolirono, si allargarono. Si strinsero. Uomo arrestato. Pensavano che fosse un dilettante? E che adesso si sarebbe arrabbiato? Che avrebbe perso la testa solo perché avevano messo dentro la persona sbagliata? Perché attribuivano a qualcun altro le sue azioni? La polizia credeva forse che avrebbe fatto le cose di corsa, che avrebbe commesso degli errori, che sarebbe stato meno attento? Rise di nuovo forte, quasi felice. La sua risata riecheggiò tra le pareti nude. Sapeva esattamente quello che la polizia pensava. Credevano che fosse uno psicopatico. Che si sarebbe vantato dei propri delitti. La polizia voleva ferirlo nell'orgoglio. Volevano spingerlo a commettere degli errori. A ostentare quel che stava facendo. L'uomo con il telecomando lo sapeva, aveva fatto i compiti, aveva studiato; sapeva come si sarebbe comportata la polizia quando avrebbe scoperto che era là fuori. Qualcuno che rapiva i bambini e li uccideva senza che sapessero il perché. Volevano provocarlo. Se li immaginava. Tutte le informazioni sui bambini su un grande tavolo. Foto, dati. Computer. Età, sesso, storia. Il passato dei genitori. Notizie; cercavano legami. Uno schema. Era sicuro che avrebbero considerato fondamentale che Emilie fosse stata sequestrata di giovedì, Kim di mercoledì, Sarah di martedì. Ritenevano di aver capito e adesso si aspettavano che ac-
cadesse qualcosa di lunedì. Ma al momento giusto, quando il bambino successivo fosse sparito di domenica, sarebbero stati presi dal panico. Nessuno schema, si sarebbero detti. Nessun sistema! La disperazione li avrebbe paralizzati e sarebbe diventata del tutto intollerabile quando fosse scomparso un altro bambino. L'uomo si accostò alla finestra. Di lì a poco doveva andare al lavoro. Ma prima doveva portare da mangiare alle bambine. E da bere. Cornflakes e acqua, visto che il latte lo aveva finito. Emilie si era ripresa. Era dolce. Serena e amichevole. Proprio come se l'aspettava. Benché all'inizio avesse dei dubbi se valesse la pena di prenderla, adesso era contento. Ovviamente c'era qualcosa di speciale in Emilie. Quando aveva saputo che la madre era morta, aveva deciso di lasciarla perdere. Ma per fortuna aveva cambiato parere. Era una ragazzina riconoscente. Ringraziava sempre per il cibo e le era piaciuto il cavallo, anche se non aveva detto quasi niente quando le aveva regalato la Barbie. Era ancora incerto sul da farsi con Emilie, alla fine, quando tutto fosse finito. Ma in fondo non aveva nessuna importanza. C'era un sacco di tempo. Sarah invece era una piccola strega. Lo avrebbe potuto immaginare già da prima. Il morso sul braccio era ancora rosso e gonfio; si accarezzò cauto la pelle pentendosi di non aver fatto maggiore attenzione. Mentre guardava fuori dalla finestra, oltre la collina, con gli occhi semichiusi per la luce del sole, si chiese perché mai non avesse cominciato a darsi da fare prima. Aveva sopportato troppe cose, per troppo tempo. Aveva ceduto troppe volte. Tollerato troppo. Ricevuto troppo poco. Si era arreso troppo spesso. Tutto era cominciato quando aveva quattro anni. Forse ancora più presto, ma quella era la prima cosa che ricordava. Qualcuno gli aveva mandato un regalo. Non sapeva chi. La mamma era andata a prenderlo all'ufficio postale. All'uomo con il telecomando piaceva ricordare. Era importante per lui guardarsi indietro. Spense il televisore e si versò una tazza di caffè. In realtà doveva preparare i cornflakes e l'acqua. Ma i ricordi erano il suo carburante, e bisognava prendersene cura quando lo richiedevano. Chiuse gli occhi. Era seduto al tavolo di cucina, in ginocchio su una sedia di legno dipinta di rosso. Stava disegnando. Davanti a lui c'era un bicchiere di latte; avvertiva ancora quel sapore dolce che si appiccicava al palato, e il calore della stufa nell'angolo; era cominciato l'inverno. Sua madre era entrata nella
stanza. La nonna era appena andata a lavorare. Il pacchetto, nella sua carta marrone, si era sgualcito nel trasporto. Lo spago era stato messo di traverso e annodato in vari punti e la mamma aveva dovuto usare le forbici, anche se di solito mettevano da parte lo spago e la carta. Il regalo erano dei vestiti per l'inverno. Una giacca azzurra con la cerniera e un anellino per tirarla su e giù. Sul davanti era disegnato un camion con le ruote grandi. I pantaloni avevano degli elastici che passavano sotto i piedi e le bretelle incrociate sulla schiena. Sua madre lo aveva aiutato a provarli. Aveva avuto il permesso di salire in piedi sul tavolo di cucina. Si era leccato la lingua per sentire il gusto dolce del latte e la lampada, che dondolava lenta avanti e indietro, lo aveva colpito in testa. La mamma sorrideva. Il completo azzurro era leggero. Non pesava niente. Quando lei gli aveva chiuso le cerniera, lui aveva alzato le braccia. Piegando le ginocchia aveva pensato di poter volare. La giacca era calda, comoda e liscia e lui voleva uscire nella neve con quel camion disegnato sul petto. Aveva riso guardando la mamma. L'uomo posò il telecomando. Erano quasi le otto, aveva poco tempo. Ovviamente le bambine giù in cantina non sarebbero morte di fame se saltavano un pasto, ma era meglio evitarlo. Aprì l'armadietto di cucina e si vide nello specchietto appeso all'interno dello sportello. La nonna era tornata indietro. Si era dimenticata qualcosa e a vederlo si era irrigidita. Il suo completino imbottito era finito a qualcun altro. Un altro bambino. Qualcuno che se lo meritava di più, aveva detto la nonna. Se la ricordava bene quella frase. Sua madre non aveva protestato. Qualcuno gli aveva mandato un regalo. Era suo, ma non aveva potuto tenerlo. Aveva quattro anni. Il suo volto sembrava sudicio nello specchio. Ma non era così che si sentiva. Si sentiva forte e deciso. La scatola di cornflakes era vuota. Le bambine avrebbero dovuto tenersi la fame fino al suo ritorno. Se la sarebbero cavata. XXVI. Johanne Vik aveva lavorato, concentrata a metà, tutta la sera. Il portiere di notte dell'Augustus Snow Inn era un ragazzo che doveva aver mentito sull'età per ottenere il lavoro. I baffi, chiaramente scuriti con il mascara, nel corso della serata si erano sbiaditi. Aveva poi delle macchie scure su
tutto il naso, dove non era riuscito a evitare di schiacciarsi i brufoli. Le aveva dato il codice di accesso dell'hotel per collegarsi a internet, così Johanne poteva connettersi dalla sua stanza. In caso avesse qualche problema, bastava chiamare il servizio in camera. Il ragazzo le aveva fatto un gran sorriso e si era passato il pollice e l'indice sui baffi, dai quali il mascara era praticamente sparito. Avrebbe dovuto essere stanca. Sbadigliava solo a pensarci. In effetti era stanca, ma non come al solito. Normalmente il jet lag le pesava molto di più. Erano già le due di notte e calcolò che ore fossero a casa. Le otto. Kristiane era in piedi già da parecchio. Gironzolava per casa di Isak, con il cagnolino nuovo, mentre di sicuro lui stava ancora dormendo. Il cane doveva aver fatto pipì dappertutto e Isak l'aveva lasciata asciugare senza preoccuparsi di pulire. Irritata, Johanne si massaggiò il collo e lasciò che gli occhi facessero il giro della stanza. Per terra, vicinissimo alla porta, c'era un biglietto. Doveva già esserci quando era tornata. La scala che portava al secondo piano era vecchia e scricchiolava. Ma lei non aveva sentito nessuno. Non c'era nessun altro cliente lassù, la camera di fronte alla sua era vuota e buia. Lei era uscita a prendersi del caffè tre volte, ma non aveva mai fatto caso al biglietto. Era arrivato alle 18. Please call Ingar Stubborn. Important. Any time. Don't mind the time difference 16 . Stubborn. Stubø. Yngvar Stubø. Sul biglietto c'erano tre numeri di telefono. Casa, lavoro e cellulare, dedusse. Non avrebbe chiamato nessuno dei tre. Con il pollice accarezzò piano quel nome. Poi accartocciò il foglietto. Invece di buttarlo, lo mise rapidamente nella tasca dei pantaloni e si collegò al sito del quotidiano "Dagbladet". Era sparita una bambina. Un'altra. Sarah Baardsen, otto anni, rapita su un autobus all'ora di punta, mentre andava dalla nonna. La polizia per il momento non aveva nessuna pista. L'opinione pubblica era infuriata. Intorno alla capitale, da Drammen a Aurskog, da Eidsvoll a Drøbak, tutte le attività extrascolastiche dei bambini erano state sospese fino a data da definirsi. Per portare e andare a prendere i bambini a scuola si erano trovati degli accompagnatori. Alcuni genitori pretendevano di essere rimborsati perché costretti a restare a casa; le associazioni per il tempo libero non ga16
Per favore chiami Ingar Stubborn. Importante. In qualsiasi momento. Non si Preoccupi del fuso orario.
rantivano che i bambini fossero tenuti debitamente d'occhio il cento per cento del tempo. Non c'era abbastanza personale per rinforzare i controlli. La centrale dei taxi di Oslo aveva organizzato un servizio apposta per bambini con tassiste donne che davano la precedenza alle mamme sole con figli. Il primo ministro aveva richiamato alla calma e al buon senso, mentre l'ombudsman, il responsabile della tutela dei diritti dell'infanzia, aveva pianto in diretta Tv. Una veggente aveva visto Emilie in un porcile, ipotesi poi sostenuta da una collega svedese. Su questa terra succede molto più di quello che ci immaginiamo, avevano dichiarato le cooperative norvegesi di contadini e piccoli agricoltori promettendo di setacciare palmo a palmo tutti gli allevamenti suini del paese entro il fine settimana. Un politico del partito progressista della regione di Sørlandet aveva seriamente avanzato in Parlamento la proposta di reintrodurre la pena di morte. Johanne si sentì la pelle d'oca sulle braccia e si tirò giù le maniche. Ovviamente non avrebbe aiutato Yngvar Stubø. I piccoli rapiti sarebbero come diventati suoi, allo stesso modo in cui, ogni volta che guardava le foto dei bambini affamati in Africa o delle prostitute adolescenti in Thailandia, vedeva sempre Kristiane, sua figlia. Spegni la tele, chiudi il giornale. Non voglio vedere. Era la stessa cosa. Johanne non voleva averci niente a che fare. Non voleva sentire. E tuttavia non era completamente vero. Quel caso esercitava su di lei un certo fascino. Suscitava il suo interesse in un modo così grottesco che si sentiva boccheggiare. D'un tratto, come per una sgradita rivelazione, comprese che in realtà aveva voglia di mollare tutto il resto. Johanne avrebbe voluto dimenticare Aksel Seier, mandare a monte il nuovo progetto di ricerca, voltare le spalle ad Alvhild Sofienberg. Avrebbe voluto prendere il primo aereo per la Norvegia e lasciare che Isak si occupasse di Kristiane. Così lei si sarebbe concentrata su un'unica cosa: trovare quella persona, quella bestia che andava in giro a rapire i bambini alla gente. Il lavoro era già cominciato. Riusciva a concentrarsi appieno su altre cose solo per brevi periodi. Sin da quando Yngvar Stubø l'aveva contattata per la prima volta, inconsciamente lei aveva tentato di farsi un'idea preliminare dell'uomo, ma non aveva basi sufficienti, materiale sufficiente. Prima di partire, aveva frugato in alcune vecchie casse con la scusa di mettere ordine. Gli appunti del periodo di studi negli Stati Uniti si trovavano adesso sugli scaffali laccati del suo ufficio. Bisognava portarli da un'altra parte. Pulizie di primavera. Era solo quello, si era detta a mezza voce impi-
lando libri sulla scrivania. Soprattutto, Johanne voleva aiutare Yngvar Stubø. Quel caso era una sfida. Un osso duro. Una prova intellettuale. Una competizione tra lei e il criminale sconosciuto. Johanne sapeva che si sarebbe lasciata coinvolgere con troppa facilità e avrebbe lavorato notte e giorno, come in una gara estenuante, per vedere chi era il più forte, lei o il rapitore; chi era il più veloce, il più brillante, il più tosto. Per vedere chi vinceva. Chi era il migliore. Tastando con le dita, cercò il biglietto in tasca. Lo appoggiò sul ginocchio, appianò la carta con il bordo della mano e lo rilesse. Dopodiché ne fece di colpo trentadue pezzettini e li gettò nel water. XXVII. Aksel Seier si alzò all'alba, anche se era stato sveglio tutta la notte. Si sentiva la testa stranamente leggera. Si strofinò le tempie e quando si alzò dal letto a momenti inciampò. Il gatto strusciò contro le sue gambe nude miagolando docilmente. Lo prese in braccio. Rimase seduto a lungo ad accarezzare l'animale sulla schiena, fissando ciecamente la finestra. C'era una persona che gli aveva creduto. Molto prima che Johanne Vik si presentasse con quelle sue belle parole e le sue frasi incomprensibili, qualcuno aveva capito che lui non aveva commesso quello per cui era stato arrestato. Un'altra donna, in un'altra epoca. L'aveva incontrata dopo che era stato rilasciato, nel corso della sua prima, esitante visita in un bar. Quasi nove anni di astinenza avevano fatto il loro effetto. L'alcol gli era salito direttamente al cervello. Una birra media, e gli girava già la testa. Andando in bagno, era caduto contro il bordo di un tavolo. La donna che vi era seduta portava un vestito estivo a fiori e profumava di lillà. Visto che non riuscivano a fermare il sangue, lo aveva invitato a casa sua. Era solo dietro l'angolo, gli aveva detto eccitata. Era ancora presto. Doveva solo seguirla. Sembrava un uomo così gentile, gli aveva detto ridendo un po'. Le sue dita erano leggere sulla ferita. Cotone e tintura di iodio che aveva un odore pungente e gli era colata in un rivolo marrone lungo il collo. Una benda. Gli occhi preoccupati della donna; forse era il caso di andare al pronto soccorso; forse era meglio farsi dare un paio di punti. Lui sentiva il profumo di lillà e non voleva andare via. Mentre la donna gli teneva la mano lui le aveva raccontato la sua storia, la verità; era fuori da solo una settimana e mezzo. Era ancora giovane e aveva
ancora la speranza di poter dare una sistemata alla propria vita. Aveva fatto domanda per quattro posti di lavoro ma gli avevano detto di no. Però c'erano ancora delle possibilità. Con un po' di pazienza le cose si sarebbero messe a posto. Era giovane e forte, ed era un gran lavoratore. Inoltre aveva imparato varie cose in carcere. La donna si chiamava Eva e aveva ventitré anni. Alle undici meno cinque, quando era dovuto andare via per rispetto della padrona di casa, Eva lo aveva accompagnato. Avevano camminato per ore l'uno accanto all'altra. Sfiorandola, Aksel aveva sentito la sua pelle attraverso il tessuto del vestito; il calore del suo corpo oltrepassava la giacca di lana spessa che lui si era tolto e le aveva messo sulle spalle. Eva lo aveva ascoltato con attenzione. Gli credeva e, prima di correre nella casa dove viveva, lo aveva abbracciato forte. A metà strada si era fermata a ridere forte: si era dimenticata di restituirgli la giacca. Avevano cominciato a uscire regolarmente insieme. Aksel non trovava lavoro. Quattro mesi dopo aveva infine capito che dicendo la verità non sarebbe andato da nessuna parte, così si era inventato un passato in Svezia. Le disse mentendo che aveva fatto il carpentiere a Tärnaby per dieci anni e infine aveva trovato un posto come aiuto autista. Ma era durato solo tre mesi. Qualcuno nel magazzino conosceva qualcun altro che lo aveva riconosciuto. Era stato licenziato in tronco, ma Eva non lo aveva abbandonato. Il gatto gli saltò giù dal grembo e lui decise di lasciare Harwich Port. Non sarebbe andato lontano. Un viaggetto al nord, nel Maine. Solo qualche giorno. La ricercatrice dell'università norvegese avrebbe sicuramente desistito, dopo qualche giorno. Non aveva niente da fare lì. Benché sembrasse conoscere la zona, era norvegese. Aveva un posto dove tornare. Una volta scoperto che se n'era andato, avrebbe senz'altro lasciato perdere. Lui non era così importante. Sarebbe andato a Old Orchard Beach, dove Patrick gestiva una giostra e guadagnava dei bei soldi d'estate. Patrick e Aksel erano amici da Boston, da quando Aksel era appena arrivato in America e lavorava come lavapiatti in un locale italiano nel North End. Patrick aveva trovato per il suo amico un posto su un peschereccio di Gloucester. Dopo un paio di buone stagioni si erano sentiti ricchi. Patrick aveva chiesto un prestito e comprato la giostra che aveva sempre sognato. Aksel possedeva giusto il denaro necessario per acquistare la casa a Harwich Port, un attimo prima che i nuovi ricchi facessero salire i prezzi alle stelle rendendo impossibile alla gente normale comprarsi un posticino sull'oceano a Cape Cod. I due vecchi amici si vedevano di rado e non si dicevano
molto quando si incontravano. Ma Aksel sarebbe stato il benvenuto da Patrick. Non c'era dubbio. Il gatto miagolava fastidiosamente. La gattaiola era chiusa. Aksel lasciò socchiusa la porta del giardino e andò a prendere la valigia nell'armadio in camera. Nel cassetto c'erano quattro paia di mutande pulite. Le piegò per bene e le posò sul fondo. Quattro paia di calze. Due camicie. Il maglione blu. Un paio di canottiere. Non aveva bisogno di altro. I vestiti giacevano tristi e piatti in valigia; non era nemmeno mezza piena. Tirò le cinghie sopra il maglione in cima agli abiti. Poi, prima di poterci ripensare, chiuse la valigia. Voleva portarsi dietro le lettere. Non le aveva mai portate con sé prima, nei suoi brevi e rari viaggi a Boston o nel Maine. Stavano lì dove erano sempre state, sulla scacchiera che non utilizzava mai perché non riceveva mai visite, raccolte in un fascio con lo spago intorno. Questa volta era meglio portarsele dietro. Richiuse nuovamente la valigia. Con tre scatole di cibo per gatti in un sacchetto in una mano e la valigia nell'altra, uscì e chiuse la porta a chiave. La signora Davis era sempre sveglia a quell'ora. Non appena lo vide avvicinarsi al pick-up, spuntò dalla porta della cucina strillando felice che era una bella giornata. Aksel alzò lo sguardo. Poteva sì diventare una bella giornata, la signora Davis aveva ragione. I gabbiani lasciavano cadere le conchiglie dal cielo e planavano sulla spiaggia alla ricerca di cibo. Due imbarcazioni scivolavano fuori da Allen Harbor. Il sole era già alto sull'orizzonte. La signora Davis, con il suo sempiterno maglioncino rosa, trotterellò sull'erbetta per andare a prendere il sacchetto con il cibo per gatti. Non era sufficiente, le spiegò lui, perché sarebbe stato via un po'. Poteva tenere il conto? L'avrebbe rimborsata al suo ritorno. Quando? A dire il vero non lo sapeva. Andava a trovare qualcuno. Al sud. New Jersey, mormorò, e sputò per terra. Ci sarebbe voluto un po', probabilmente. Le era grato se poteva occuparsi del gatto nel frattempo. «Grazie,» le disse, senza accorgersi di averlo detto in norvegese. «Sorry, sweetie, he's gone 17 .» La signora Davis scosse il capo, con un'espressione crucciata come per un funerale. «Left this morning, I'm afraid. Vor New Jersey, I think. Don't know when 17
Mi spiace, cara, se n'è andato.
he'll be back. Might take weeks, you know18 .» Johanne fissava il gatto, placidamente accucciato sulle braccia della signora a farsi coccolare. Aveva gli occhi gialli e inquietanti, quasi luminosi. Il suo sguardo era arrogante, come si stesse prendendo gioco di lei, un'intrusa che si era messa in testa di trovare Aksel sui gradini, in trepida attesa di scoprire quello che lei aveva da dirgli, pronto per le sue domande, rasato di fresco e con il caffè appena fatto. Il gatto sbadigliò. I due canini brillarono bianchi mentre gli occhi sparivano, ridotti a due fessure, nella pelliccia rossa. Johanne fece dietrofront e tornò all'auto. L'unica cosa che poteva fare era lasciargli un biglietto da visita. Per un istante valutò se darlo a quella piccola signora. Poi però pensò al gattaccio e decise invece di andare fino a casa di Aksel. Scarabocchiò velocemente un messaggio sul retro del biglietto e lo fece cadere nella cassetta della posta. Per sicurezza ne infilò uno anche sotto la porta. «He seemed kind of upset, you know! 19 » La signora aveva voglia di parlare. Le si avvicinò, con il gatto ancora in braccio. «He's not used to visitors. Not very friendly, actually. But his heart...20 » Il gatto saltò pigramente sul prato. La donna si abbracciò il petto con aria drammatica. «His heart is pure gold. I tell you: Pure gold. How do you know him, miss?21 » Johanne le sorrise assente, come se non avesse capito bene. Certo avrebbe dovuto parlare con la signora. Era evidente che nulla in quella stradina le sfuggiva. Eppure tornò indietro e risalì in macchina. Era scocciata e sollevata al tempo stesso. Scocciata per aver permesso ad Aksel di lasciare il ristorante senza un appuntamento. Arrabbiata per essersi fatta prendere in giro e perché lui se n'era andato. Al contempo la sua fuga era una dichiarazione chiara. Johanne non era ben accetta nella vita di Aksel Seier, indipendentemente da quanto avesse da dirgli. Aksel Seier voleva continuare per la sua strada. Lei era libera. 18
È partito stamattina, mi dispiace. Credo per il New Jersey. Non so quando torna. Ci potrebbero volere settimane, sa. 19 Sembrava un po' turbato, capisce! 20 Non è abituato a ricevere visite. In effetti non è che sia molto socievole. Ma ha un cuore... 21 Ha un cuore d'oro zecchino. Glielo dico io: oro zecchino, Lei come lo ha conosciuto, signorina?
Ora, giovedì 25 maggio, poteva tornarsene a casa. In realtà avrebbe dovuto chiamare Alvhild. Ma quando si mise al volante, diretta verso la Route 28, decise di lasciar perdere. Non aveva niente da dirle. Non ricordava nemmeno cosa avesse visto nella casetta di Aksel Seier di così sorprendente da tenerla sveglia mezza nottata. XXVIII. Il furgoncino di un corriere si avvicinava al condominio. Piovigginava. Il traffico sulla circonvallazione era bloccato nei pressi di Ullevaal a causa di un incidente che aveva coinvolto un camion. Il caos si era esteso come un tumore irruente; il furgoncino aveva impiegato più di un'ora a percorrere un tratto che in genere si superava in venti minuti. Finalmente stava arrivando all'indirizzo della consegna. Il conducente suonò irritato a un taxi messo di traverso che bloccava il transito. Un ragazzo con il gesso e le stampelle scese a fatica dal sedile del passeggero, gli mostrò il dito medio e indicò stizzito l'auto della polizia quindici metri più in là. «Merda,» urlò, «non lo vedi che la strada è chiusa?» Ci mancava solo questa. Non si sarebbe caricato il pacco in spalla per portarlo fino al condominio, neanche per idea. Era in giro dalle sette di mattina e aveva pure il raffreddore. Non vedeva l'ora che fosse il fine settimana. Il venerdì pomeriggio era sempre un inferno. Voleva solo consegnare quel maledetto pacco e andarsene a casa. Infilarsi a letto. Farsi una birra davanti a un film. Se almeno quella dannata macchina della polizia si fosse spostata. Benché bloccasse tutta la strada, non sembrava stesse succedendo niente di drammatico. Due uomini in uniforme chiacchieravano davanti all'auto. Uno fumava guardando l'ora, come se anche lui volesse andarsene a casa. Alla fine il taxi riuscì a fare manovra, non senza spezzare un paio di arbusti vicino al marciapiede. Il conducente del furgoncino mandò su di giri il motore e lasciò scivolare lentamente il mezzo in avanti, tirando giù il finestrino. «Buongiorno,» disse il poliziotto in tono ufficiale. «Di qui non puoi passare.» «Devo solo consegnare un pacchetto.» «Niente da fare.» «Perché no?» «Non ti riguarda.» «Ma cristo...»
Il conducente si diede un colpo sulla fronte. «Invece mi riguarda! Ho qui un pacco, un pacco maledettamente pesante che va consegnato laggiù, da...» Gesticolò in direzione del condominio e cercò qualcosa nel caos del sedile accanto. Una Fanta mezza vuota si rovesciò da un portalattine sul cruscotto. Il liquido giallo scivolò tutto per terra. Il conducente stava perdendo la pazienza. «È là! Lena Baardsen. 10 b, scala 2. Allora, mi fai il piacere di dirmi come...» «Come hai detto?» L'altro poliziotto gli si chinò davanti. «Ho chiesto un suggerimento su come cavolo posso fare il mio lavoro se...» «Per chi hai detto che è il pacco?» «Lena Baardsen, 10 b. È...» «Scendi dal furgone.» «Scendere? Ma io...» «Scendi dal furgone. Subito.» Il conducente era spaventato. Il poliziotto più giovane aveva buttato per terra la cicca ed era arretrato di un paio di metri. Adesso si era messo a parlare alla radio. Sebbene le parole non arrivassero chiare al conducente del furgoncino, il tono della voce indicava che la situazione era seria. L'altro poliziotto, un tizio sui quarant'anni con dei baffi enormi, lo afferrò deciso per il braccio appena lui fece per aprire la portiera. Alzò le mani, come se l'avessero già arrestato. «Ehi, calma! Devo solo consegnare un pacco! Un pacco!» «Dov'è?» «Dove? Sul furgone, ovviamente. È qua dietro, se...» «Le chiavi.» «Merda, lo sportello è aperto, ma io mica posso lasciare che chiunque...» Il poliziotto indicò un punto sull'asfalto, a tre metri dall'auto. Il conducente vi si diresse strascicando i piedi e abbassando le braccia. «Voglio il vostro numero di tesserino, il nome e tutto quanto,» urlò. «Non avete nessun diritto di...» Il poliziotto non lo ascoltava. Il conducente si strinse nelle spalle. Non era colpa sua se il pacco non arrivava a destinazione come richiesto. Se ne sarebbero occupati in ufficio. Pescò una sigaretta ma non riuscì ad accenderla. La pioggia e il vento erano aumentati. Si chinò sulla fiamma proteg-
gendola con le mani. Poi all'improvviso raddrizzò la schiena e rabbrividì. «Merda,» sibilò tra sé e sé; la sigaretta cadde per terra. Lo avrebbero licenziato. Avrebbe dovuto fare inversione appena vista la macchina della polizia. Se fosse stato un po' più sveglio, meno stanco e raffreddato, avrebbe subito fatto inversione. Per sicurezza. Ma non potevano cacciarlo via. Non era successo niente. Poi era la prima volta, avrebbe potuto rispondere. Per lo meno, non era mai stato fermato prima. Insomma, ci vorrà ben altro per perdere il lavoro! I poliziotti avevano infilato la testa dentro lo sportello posteriore, ma non toccavano l'unico pacco che c'era là dietro, l'ultimissima consegna della giornata. Un pacco grande, un metro e trenta centimetri di lunghezza, e piuttosto stretto. «È pesante?» Il poliziotto con i baffi si girò verso di lui. «Sì. Parecchio. Prova a tirarlo su.» Cercava di essere gentile adesso. Magari dovevano soltanto controllare quel maledetto pacco. Ascoltarlo con qualche aggeggio tecnologico, o cos'è che facevano per verificare che non fosse una bomba. Se rispondeva per bene e li lasciava fare, di sicuro gli avrebbero permesso di andarsene. A quel punto, del pacco non gliene fregava più niente; avrebbe potuto anche abbandonarlo all'angolo di una strada, per quel che gli importava. Gli bastava andarsene. Ma il pacco non lo toccarono. Non avevano nessuno strumento. Invece si sentì un rumore sempre più forte di sirene. Quando poté contare quattro auto della polizia e una camionetta, il conducente capì di essere finito in qualcosa di grosso. Una parte di lui voleva solo scappare; via via, maledizione, è il pacco che gli interessa, non tu, via! Poi sospirò rassegnato e si soffiò il naso in una mano. La cosa peggiore che gli poteva capitare era perdere il lavoro. Potevano nascere dei casini con il fisco. Nel peggiore dei casi. Ma non potevano provare nulla. «Non possono dimostrare niente,» mormorò tra sé mentre una gentile agente lo accompagnava alla camionetta. «Niente di più, in ogni caso.» Quando il pacco fu aperto, tre ore dopo, era posato su un tavolo attorno al quale c'erano un medico legale con la barbetta, il commissario Yngvar Stubø, l'ispettore della polizia criminale Sigmund Berli e due tecnici della scientifica. Il pacco non conteneva nessuna bomba. Era ovvio. Misurava 134x30x45 centimetri e pesava trentun chili. Al momento sembrava che
sopra ci fossero le impronte digitali di una sola persona. Presumibilmente quelle del conducente. Lo aveva preso senza guanti. Ci sarebbero voluti un paio di giorni per accertarsene, ma c'era motivo di credere che il pacco fosse stato perfettamente ripulito prima di venir lasciato nelle mani del conducente. Uno dei medici legali tagliò la carta, praticando un'apertura lunga e dritta da un capo all'altro lungo un fianco, come per un'autopsia. La faccia del medico legale era completamente priva di espressione. Con cautela uno dei medici sollevò un lembo della carta. Due palline di polistirolo caddero sul pavimento. Poi il medico aprì il pacco del tutto. Dal polistirolo saltò fuori la mano di un bambino. Era semichiusa, come se le fosse appena scappato qualcosa. Sulle unghie si intravedevano dei rimasugli di smalto mangiucchiato. Un anellino d'oro finto brillava al dito medio. La pietra era azzurra, azzurro chiaro. Nessuno proferì parola. Tutto ciò che Yngvar Stubø fu capace di pensare, era che toccava a lui parlare con Lena Baardsen. Gli facevano male gli occhi. Trattenne il respiro. Con attenzione spostò altre palline bianche; come scavando nella neve asciutta. Apparve un braccio. Sarah Baardsen era stesa sulla pancia, con le gambe lievemente divaricate. Quando in due, con delicatezza, la voltarono, videro il messaggio. Era appiccicato con del nastro adesivo alla pancia della bambina; un foglio grande con una scritta rossa. Adesso hai quello che ti meriti. «In nero, okay? Volevo solo fare qualche soldo in più!» Il conducente tirò su col naso e gli scesero le lacrime. «Potreste darmi un fazzoletto? Ho un raffreddore della madonna, nel caso non ve ne foste accorti!» «Ti consiglierei di calmarti un po'.» «Calmarmi? Sono qui da cinque ore, cristo santo! Cinque ore! Senza fazzoletti e senza avvocato.» «Non ti serve un avvocato. Non sei stato arrestato. Sei qui di tua spontanea volontà. Per aiutarci.» Yngvar Stubø tirò fuori il suo fazzoletto e glielo porse. «Aiutarvi a fare che?» L'uomo sembrava davvero sconvolto. Aveva gli occhi rossi. Era evidente che aveva la febbre e faticava a respirare. «Sta' a sentire,» disse implorante. «Io vi aiuterei volentieri, ma ho già detto tutto quello che sapevo! Ho ricevuto una chiamata. Sul mio cellulare privato.»
Si soffiò forte il naso scuotendo la testa disperato. «Mi hanno detto di andare a ritirare un pacco. Lo avrei trovato davanti a un portone in Urtegata. L'edificio è in demolizione e il portone era aperto. Sul pacco c'era un biglietto con l'indirizzo e una busta con duemila corone. Un gioco da ragazzi!» «A-ha. E tu hai pensato che fosse tutto a posto.» «Be'... Le nostre consegne devono passare per la centrale e so che...» «Non mi riferivo esattamente a questo. Pensavo al fatto che eri disposto a consegnare un pacco per qualcuno che non si è neanche presentato, solo perché ti ha offerto duemila corone. È a questo che pensavo. Lo trovo... piuttosto preoccupante, a essere sincero.» Yngvar Stubø sorrise. Il conducente gli restituì il sorriso, confuso. C'era qualcosa in quel poliziotto che non gli tornava. «E se ci fosse stata una bomba nel pacco, per esempio? O droga?» Yngvar Stubø stava ancora sorridendo, un sorriso più disteso adesso. «Sono cose che non succedono mai.» «Già. Mai. Quindi questi lavoretti li fai abbastanza spesso?» «No, no, no... Non volevo dire questo!» «E cosa volevi dire allora?» «Ascoltami,» cominciò il conducente. «Ti ascolto. Sono tutto orecchi.» «Va be', d'accordo, qualche volta faccio dei lavoretti extra. Niente di così strano. Tutti...» «No. Non tutti. La maggior parte dei corrieri lavorano con conducenti freelance. Ma non la BigBil. Tu sei un loro dipendente. Se fai dei lavori extra, truffi la BigBil. E me, se vogliamo. La comunità, in qualche modo.» Yngvar Stubø rise brevemente. «Ma lasciamo da parte questa faccenda per ora. Il numero sul cellulare non si vedeva?» «Non mi ricordo. Sul serio. Ho risposto e basta.» «E non ti è sembrato strano che quell'uomo... Perché era un uomo, vero?» «Sì.» «Giovane o vecchio?» «Non lo so.» «Voce chiara? Profonda? Qualche accento?» «Ma ti ho già risposto! Non me lo ricordo com'era la voce. E non mi è sembrato strano che non si presentasse. Avevo bisogno dei soldi! È sem-
plice. Duemila corone. Semplice.» «Non potevi prendere i soldi e lasciare lì il pacco?» Yngvar Stubø alzò le sopracciglia e si stropicciò il mento. «Io...» Il conducente starnutì. Il fazzoletto era già fradicio. Yngvar Stubø distolse lo sguardo. «Tu cosa?» «Se faccio così, 'sta gente poi non mi richiama. Per altre consegne, voglio dire.» Era più docile adesso, la voce bassa. «Esatto. Quindi capisci che una consegna come questa dev'essere un po' losca? Capisci che nessuno pagherebbe duemila corone per trasportare un pacco a tre chilometri quando può farlo per cento o duecento corone in modo legale? Quindi non hai problemi con le tue facoltà cognitive?» Il poliziotto non rideva più. Il conducente nascose il viso nel fazzoletto. «Ma che cosa c'era in quel maledetto pacco?» disse col naso. «Cosa diavolo c'era?» «Non credo che ti piacerebbe saperlo,» rispose Yngvar Stubø. «Puoi andare. Ci faremo sentire più avanti. Curati. Puoi tenerti il fazzoletto. Arrivederci.» XXIX. Sarah era sparita nel nulla. Svegliandosi Emilie si ritrovò da sola. Le faceva molto male la testa, e per una volta nella stanza c'era il buio completo. Doveva essere diventata cieca. Rimase a lungo sdraiata in silenzio, a fissare il soffitto. Aprì gli occhi e li richiuse, una, due, tre volte. Non cambiava nulla. Magari era un po' più chiaro con gli occhi chiusi, se faceva bene attenzione. Ma poi c'erano dei puntini che le ballavano davanti. Quando chiudeva forte gli occhi, i puntini diventavano grandi bolle, rosse, blu e verdi. Emilie rise, era diventata cieca. Voleva dormire ancora. Le faceva male la testa, ma sorrideva. Voleva dormire. Poi pensò a Sarah. «Sarah,» disse a voce alta. «Dove sei?» Nessuno rispose. Non c'era nessuno accanto a lei. Bene. In effetti il letto non era grande abbastanza per tutte e due. In ogni caso non è che Sarah fosse molto simpatica. Urlava da morire. Frignava e urlava di continuo. Non sapeva comportarsi quando arrivava l'uomo. Urlava e si schiacciava contro il muro. Non la voleva capire. Non voleva capire che era l'uomo a
preoccuparsi che loro avessero abbastanza aria. Quando Emilie aveva versato la zuppa di pomodoro nel water per non fare arrabbiare l'uomo se avesse scoperto che non le piaceva quello che le preparava, Sarah l'aveva minacciata di fare la spia. «Sarah? Sarahsarahsarahsarah!» No. Non c'era. La luce arrivò come in una grande esplosione. Le cadde addosso dal soffitto. Emilie gemette e si protesse la testa con le braccia. La luce era come frecce che la colpivano sul viso, gli occhi stavano per rientrarle nel cranio e sparire. «Emilie?» L'uomo gridava. Avrebbe voluto rispondergli, ma non riusciva ad aprire la bocca. La luce era troppo forte. La stanza era completamente bianca; bianca, argento e oro. Scintille che le trafiggevano la pelle. «Emilie, stai dormendo?» «Nssnooo...» «Pensavo che ti avrebbe fatto bene stare al buio per una volta. Hai dormito molto profondamente.» La sua voce non veniva da vicino al letto. Era sulla soglia, accanto alla porta fredda. Aveva paura che gli si chiudesse dietro le spalle. Era quasi sempre così. Entrava di rado. Emilie lasciò lentamente cadere le braccia sul materasso. Respirò. Dentro e fuori. Apri gli occhi. Lo scintillio la colpì. Ci riprovò. Non era più cieca. Quando si voltò verso la voce, vide che l'uomo si era vestito bene. «Stai bene,» disse a bassa voce. «Che bella giacca.» L'uomo sorrise. «Dici? Devo andare via. Resterai sola per qualche giorno.» «Belli anche i pantaloni.» «Starai bene da sola. Ti lascio un bel po' di acqua, pane, marmellata e cornflakes.» Posò a terra due sacchetti. «Del latte dovrai farne a meno. Andrebbe a male.» «Mhm.» «Se fai la brava e non combini nessun guaio mentre sono via, una sera sali su con me a guardare la Tv. Mangi qualche caramella davanti alla tele. Sabato, magari. Ma vediamo. Dipende da come ti comporti. Vuoi la luce accesa o spenta?» «Accesa,» rispose lei in un lampo. «Per favore.»
L'uomo aveva una risata strana. Sembrava un ragazzino che non sapesse esattamente perché rideva. Era come se si sforzasse di ridere anche se nulla gli pareva divertente. Una risata forte e dura. «L'avevo immaginato,» tagliò corto e se ne andò. Emilie cercò di mettersi seduta. L'uomo non doveva spegnere l'impianto per l'aria, anche se andava via. Si sentiva così debole. Si girò di nuovo sul fianco. «Non spegnere l'aria,» urlò. «Per favore. Non spegnere l'impianto per l'aria!» Se solo avesse saputo quale dei chiodi era la telecamera, avrebbe potuto mettersi a implorarlo a mani giunte. Invece appiccicò la bocca a una piccola macchia sulla parete, appena sopra il letto. «Per favore,» pianse guardando la macchia che forse era un microfono. «Per favore, dammi l'aria. Sarò la bambina più brava del mondo, ma non spegnere l'aria!» XXX. I giornali avevano fatto due edizioni straordinarie dopo l'uscita dei primi tabloid verso le due di notte di sabato 27 maggio. Le prime pagine avevano urlato i loro titoli addosso a Johanne Vik mentre gettava uno sguardo alla stazione di servizio prima di infilarsi nel parcheggio del supermercato Ica, vicino allo stadio di Ullevaal. Era difficile trovare posteggio. Il supermercato era sempre strapieno, soprattutto il sabato mattina, ma quello era un vero e proprio caos. Era come se nessuno volesse stare a casa. Dovevano uscire. Cercavano la compagnia di altre persone ugualmente angosciate, ugualmente infuriate. Le madri tenevano i bambini stretti per mano, i più piccoli erano legati nelle carrozzine e nei passeggini. I padri si mettevano i più grandi in spalla, tanto per essere più sicuri. La gente si raggruppava a parlare, sia con amici sia con sconosciuti. Tutti avevano il giornale. Alcuni portavano l'auricolare all'orecchio per ascoltare le notizie, era mezzogiorno in punto. Fissavano concentrati nel vuoto ripetendo lentamente a quelli che li circondavano: «La polizia non ha ancora una pista.» Al che sospiravano tutti. Un gemito collettivo di rassegnazione si estese sul parcheggio. Johanne s'infilò tra la gente. Era venuta a fare la spesa. Dopo il viaggio il frigorifero era vuoto. Aveva dormito male, e i passeggini e le carrozzine
che bloccavano le grandi porte automatiche la infastidivano. Le cadde per terra la lista della spesa. Si appiccicò alla suola della scarpa di un passante e sparì. «Permesso,» disse lei cercando di farsi strada verso un carrello libero. Come minimo aveva bisogno di banane. Cereali per la colazione e banane. Latte, pane e qualcosa da metterci sopra. La cena per quel giorno, che non sarebbe stata un problema visto che era da sola, e anche per l'indomani quando sarebbe arrivato Isak con Kristiane. Polpette. Ma prima le banane. «Ciao.» Arrossiva di rado. Ma in quel momento si sentì bruciare le guance. Yngvar Stubø era davanti a lei, con in mano una confezione di banane. Sorride sempre, pensò Johanne, ma adesso non dovrebbe sorridere. Non doveva avere molto di che rallegrarsi. «Non mi hai chiamato,» le disse. «Come hai fatto a sapere dov'ero? Il nome dell'hotel?» «Sono un poliziotto. Mi ci è voluta un'ora per scoprirlo. Tu hai una figlia. Non puoi andare da nessuna parte senza lasciarti un sacco di tracce alle spalle.» Le mise le banane nel carrello. «Ne volevi, no?» «Mhm.» «Ho bisogno di parlarti.» «Come facevi a sapere che ero qui?» «Dovevi pur fare la spesa. Sei stata via. E questo è il supermercato più vicino a casa tua, a quanto ne so.» "Sai dove faccio la spesa," pensò lei. "Hai scoperto dove faccio la spesa e devi essere qui da un pezzo. O quantomeno hai avuto una gran fortuna. Ci sono migliaia di persone qui. Avremmo potuto non incontrarci. Ma tu sai dove faccio la spesa e sei venuto a cercarmi". Prese tre arance da una montagna di frutta e le infilò in un sacchetto. Era difficile fare il nodo. «Aspetta. Ti dò una mano.» Yngvar Stubø prese il sacchetto. Aveva le dita tozze, ma rapide. Veloci. «Ecco. Devo parlarti, sul serio.» «Qui?» Johanne indicò il supermercato cercando di assumere un'aria sarcastica. Ma era difficile, dal momento che la sua faccia aveva il colore dei pomodori della cassetta accanto a lei.
«No. Possiamo... ti va di passare da me in ufficio? È dall'altra parte della città, se credi che sia più facile...» Stubø si strinse nelle spalle. "Vuole venire a casa mia. Santo Dio, quest'uomo vuole venire a casa mia! Kristiane è... Saremo da soli. No. Questo no". «Potremmo andare da me,» disse casualmente. «Sto qui dietro l'angolo. Ma lo sai già.» «Passami la lista. Così facciamo in un momento.» Allungò la mano. «Non ho nessuna lista,» rispose rapida Johanne. «Perché pensavi che ce l'avessi?» «Perché sei il tipo,» disse lui, lasciando cadere la mano. «Sei, come dire, il tipo da lista della spesa. Sono sicuro.» «Invece ti sbagli,» disse lei girandosi dall'altra parte. «È proprio carino qui.» Era in mezzo alla sala. Per fortuna aveva messo in ordine. Johanne gli indicò vagamente il sofà mentre lei si sedeva in poltrona. Dopo qualche minuto si rese conto che aveva la schiena rigida e sedeva sul bordo. Lentamente, per evitare che la mossa fosse troppo evidente, si appoggiò allo schienale. «Nessuna causa di morte dimostrabile,» disse poi a bassa voce. «Sarah è morta e basta.» «Sì. Un taglietto sopra l'occhio. Ma nessuna ferita interna. Una ferita insignificante, almeno quanto alla causa di morte. Una bimba di otto anni sana e forte. Anche stavolta lui... voglio dire l'assassino, in fondo non sappiamo se è un uomo o...» «Penso che tu possa tranquillamente usare il maschile.» «E perché?» Johanne scrollò le spalle. «In primo luogo perché è più facile che non dover dire ogni volta "lui o lei". Poi perché sono piuttosto sicura che sia un uomo. Non chiedermi perché. Non sono in grado di argomentarlo. Magari sono solo pregiudizi. È che non riesco a immaginarmi una donna che tratti dei bambini in questo modo.» «E secondo te chi è che può trattare dei bambini in questo modo?» «Cosa stavi per dire?» «Ti domandavo...»
«No, ti ho interrotto. Stavi per dire qualcosa sul fatto che anche stavolta...» «Ah, sì. Anche questa bambina ha del diazepam nelle urine. Una minuscola quantità.» «Che senso ha somministrare a dei bambini un tranquillante?» «Per calmarli, direi. Magari li tiene... magari li tiene in un posto dove devono stare zitti. Deve farli dormire.» «Ma se lo scopo è farli dormire, avrebbe potuto dargli un sonnifero.» «Sì. Ma è possibile che non possa procurarselo. Può darsi che abbia solo... del Valium.» «Chi può comprare il Valium?» «Oh, mio Dio...» Stubø soffocò uno sbadiglio e scosse forte il capo. «Un sacco di gente,» le rispose con un sospiro. «Tutti quelli che hanno una prescrizione medica. Parliamo di migliaia, se non decine di migliaia di persone. Poi ci sono i farmacisti, i medici, gli infermieri. Anche se dovrebbero esserci regole sia negli ospedali sia nelle farmacie, parliamo di dosi talmente minime che praticamente non c'è modo di... Potrebbe essere chiunque. Lo sapevi che oltre il sessanta per cento della gente apre l'armadietto del bagno, a casa di qualcun altro? Rubare due o tre pillole è la cosa più semplice del mondo. Se prima o poi beccheremo questo tipo, non sarà certo perché è in possesso di Valium o diazepam.» «Se prima o poi,» ripeté Johanne. «Un po' pessimista.» Yngvar Stubø giocherellava con una macchinina. Se la faceva scorrere sul dorso della mano. Quando le ruote giravano, i fari anteriori s'illuminavano debolmente. «Le piacciono solo le macchine rosse,» disse Johanne. «A Kristiane, intendo. Né bambole, né treni. Solo le macchine. Macchine rosse. Camion dei pompieri, autobus londinesi. Non sappiamo perché.» «Che cos'ha che non va?» Yngvar Stubø appoggiò piano la macchinina sul tavolino. La gomma di una delle due ruote era stata strappata via e il piccolo asse di trasmissione sfregò sulla superficie di vetro. «Non lo sappiamo.» «È dolce. Molto dolce.» Sembrava che lo pensasse davvero. Ma l'aveva vista soltanto una volta. A malapena. «E non avete fatto passi avanti con la consegna del... insomma, dovrà
pure esserci stato nello stabile di Urtegata, o aver mandato qualcun altro a... Ne sapete qualcosa?» «Un corriere. Un corriere!» Yngvar Stubø appoggiò l'indice sul tetto della macchinina e la spinse lentamente lungo il tavolo. Sul vetro, dove mancava la ruota, si disegnò man mano un piccolo graffio. Johanne aprì la bocca ma non disse nulla. «È così... così spudorato,» disse Yngvar con rabbia soffocata, senza accorgersi di quel che stava facendo. «Ovviamente quel tizio sapeva che non gli avremmo permesso di consegnare il cadavere direttamente alla madre. Avevamo messo dei controlli ovunque. Ma è chiaro che è stato un errore. Con l'assassinio di Sarah entra in gioco anche il distretto di polizia di Oslo, e le relazioni tra la polizia criminale e... Oh, lasciamo stare. Avremmo dovuto essere più discreti. Spingerlo in trappola. Per lo meno provarci. Invece lui ha capito l'antifona e ha usato... un corriere! Un corriere! E nella via nessuno ha notato niente di speciale, nessuno ha sentito niente, nessuno ha fiutato niente. È probabile che la scatola con dentro Sarah sia stata portata lì in pieno giorno. Un vecchio trucco, se vogliamo...» «È il posto in cui ci si nasconde meglio, in mezzo a tanta gente,» proseguì Johanne. «Furbo. Però è strano, il pacco doveva pur essere...» Esitò, poi aggiunse piano: «... piuttosto grande.» «Sì. Era grande abbastanza da contenere una bambina di otto anni.» Johanne si conosceva. Era una persona prevedibile. Isak, per esempio, con il tempo aveva cominciato a trovarla alquanto noiosa. Dopo che Kristiane aveva iniziato a migliorare e la vita si era incanalata in un ritmo pesante, lui aveva iniziato a lamentarsi. Johanne era così poco impulsiva. Rilassati un po', dài, le diceva sempre più spesso. Non è poi male, sospirava rassegnato quando lei guardava scettica la pizza precotta che lui cacciava in bocca alla bambina ogni volta che non aveva voglia di preparare da mangiare. Isak la considerava noiosa. Line e le altre amiche in parte erano d'accordo. Non che le avessero mai detto nulla in faccia, nemmeno loro. Al contrario. La elogiavano. Era così affidabile, decantavano. Così in gamba e responsabile. Ci si poteva fidare di Johanne, sempre. Noiosa, in altre parole. Lei doveva essere prevedibile. Aveva la responsabilità di una bambina che non sarebbe mai diventata completamente adulta. Johanne si conosceva. Quella situazione era assurda.
Aveva invitato un uomo a casa, uno che conosceva a malapena. Gli aveva lasciato raccontare i particolari di un'indagine di polizia con cui non aveva niente a che fare. Lui aveva infranto il segreto professionale. Doveva metterlo in guardia. Ringraziarlo cortesemente e chiudere la faccenda. Aveva già preso una decisione nell'hotel di Harwich Port, quando aveva fatto a pezzi il biglietto e lo aveva gettato nel water. «Da un punto di vista strettamente professionale non mi dovresti raccontare queste cose.» Yngvar Stubø trasse un profondo respiro, poi espirò a denti stretti. Si fece più piccolo. Forse era solo sprofondato nel divano. «Da un punto di vista strettamente professionale non dovrei farlo, no. Per lo meno non prima di sancire in modo formale la nostra collaborazione. Ma ho come l'impressione che non sia esattamente ciò che desideri.» Fece un sorriso tirato, come se volesse essere ironico. Poi lasciò perdere e continuò: «Da un punto di vista strettamente professionale questo caso è un inferno. Da un punto vista strettamente...» Di nuovo inspirò a fondo. «Mia moglie e la mia unica figlia sono morte poco più di due anni fa,» disse in fretta. «Questo di certo non lo sapevi.» «No. Mi dispiace.» Non avrebbe voluto ascoltarlo. «Un incidente assurdo. Mia figlia... Trine, si chiamava, aveva ventitre anni e Amund era solo un neonato. Mio nipote. Lei voleva... Ti sto turbando? Sì, ti sto turbando.» All'improvviso si raddrizzò. Scrollò le spalle, come per ridare forma alla giacca grigia di tweed. Poi ricambiò il sorriso. «Hai cose più utili da fare.» Ma non si alzava. Non dava alcun segno di volersene andare. Una cinciallegra si era posata sulla casetta per gli uccelli in terrazzo. «No,» disse Johanne. Quando la guardò, lei non aveva idea di cosa volesse. Più che altro sembrava grato. Sollevato forse, visto che risprofondò nel divano. «Mia moglie era irritata perché c'era una grondaia otturata,» disse rivolto al vuoto. «Le avevo promesso che me ne sarei occupato. Da tempo. Ma non trovavo mai il momento. Una mattina passò mia figlia, e disse che sarebbe salita lei sul tetto a disintasare la grondaia. Probabilmente mia moglie teneva ferma la scala. Trine deve aver perso l'equilibrio. Cadde por-
tandosi dietro un pezzo di tubo. Deve esserle passato sotto in qualche modo, perché la... trafisse. A mia moglie cadde addosso la scala, con sopra tutto il peso di Trine. Uno dei gradini la colpì in faccia. L'osso nasale le rientrò nel cervello. Quando tornai a casa, un paio d'ore dopo, erano lì per terra tutte e due. Morte. Amund dormiva ancora.» Johanne sentiva il proprio respiro, rapido e profondo. Cercò di spezzare il ritmo, di calmarsi rallentandolo. «In quel periodo ero a capo del dipartimento,» continuò lui tranquillamente. «A dire la verità era un pezzo che mi vedevo a capo della criminale. Ma dopo tutto questo... Feci richiesta di tornare a essere commissario. Non sarò mai nient'altro. Sempre che resista. Casi come questo mi fanno dubitare. Già.» Gli vacillava lo sguardo. Il suo era un sorriso timido, quasi imbarazzato, come se avesse fatto qualcosa di male e non sapesse bene come scusarsi. Aprì la bocca un paio di volte, evidentemente per dire qualcosa. Ma invece si guardò le mani. «Già,» ripeté alla fine, rigirando i pollici. «Mi sa che è ora di battere in ritirata.» E restava lì, fermo. Ancora seduto senza dar segni di volersene andare. "Io non ho posto per questo," pensò Johanne. "Non ho spazio per un caso come questo nella mia vita. Non voglio. Non ho posto..." «... per te,» disse a mezza voce. «Come?» Yngvar sedeva di spalle alla grande finestra della sala. La luce forte le impediva di vedergli chiaramente i tratti del viso. Soltanto gli occhi erano chiari. La guardavano dritto in faccia. «Sarà il caso che vada a preparare il pranzo,» disse Johanne con un sorriso leggero. «Devi aver fame. Io per lo meno ce l'ho.» Occupava parecchio spazio. Isak, l'unico uomo che fosse stato nella sua cucina per più di trenta secondi, era piccolo, quasi mingherlino. Yngvar riempiva tutta la stanza. Restava a malapena spazio per Johanne. Stubø si tolse la giacca e la appese allo schienale di una sedia. Poi si mise a preparare una omelette, senza chiedere nulla. Johanne quasi non poteva muoversi senza toccarlo. Profumava di doccia appena fatta e leggermente di sigaro; l'odore di una persona più vecchia di lei. Quando si rimboccò le maniche per affettare la cipolla, lei notò che i peli del suo avambraccio erano biondi, quasi dorati. Le venne in mente l'estate e distolse lo sguardo.
«Cosa credi che significhi il biglietto?» disse Yngvar, indicando un punto nell'aria con il coltello. «Adesso hai quello che ti meriti. Chi ha quello che si merita? La bambina? La madre? La società? La polizia?» «Bah, in entrambi i casi il messaggio sembrerebbe indirizzato alla madre, in un certo senso,» rispose Johanne. «Anche se in effetti l'assassino non poteva sapere che sarebbe stata proprio la madre a trovare Kim. Avrebbe potuto benissimo essere il padre a fare un salto in cantina. E per quanto riguarda Sarah, c'è da credere che l'assassino fosse consapevole che il pacco magari non sarebbe mai arrivato a destinazione. Non è scemo. Non so. Credo sia più importante guardare il contenuto del messaggio piuttosto che fare speculazioni sulla persona a cui era diretto.» «Cosa intendi per contenuto?» Yngvar accese la piastra e tirò fuori una padella dal mobiletto in basso senza neanche chiedere dove cercarla. Johanne si era seduta su una sedia, con gli occhi concentrati, fissi sul proprio bicchiere d'acqua e ghiaccio. «Tra l'altro, penso che bisognerebbe cominciare da tutt'altro punto di vista,» disse lentamente. «Benissimo. Quale?» Stubø si asciugò gli occhi. «Bisognerebbe sempre cominciare dal basso,» disse lei quasi assente, come se stesse cercando qualcosa nella memoria. «Vedere cosa si ha. Dati. Informazioni obiettive. Mettere insieme i pezzi dal fondo. Mai speculare prima di aver stabilito le fondamenta. Pericoloso.» «Ah, è così che bisogna fare.» «Sì.» Johanne raddrizzò la schiena e posò il bicchiere. Dai fornelli arrivava un buon profumino. Johanne prese piatti e bicchieri, coltelli e forchette. Lui sembrava concentratissimo sul pomodoro che stava tagliando in una bella forma decorativa. «Guarda qui,» disse soddisfatto, appoggiando la padella sul tavolo. «Omelette di cipolla. Io questo lo chiamo un gran bel pranzo.» «Tre bambini,» fece lei masticando lenta. «Supponendo che Emilie sia stata presa dallo stesso criminale di Sarah e Kim. In realtà non ne abbiamo le basi, ma insomma... diciamo così, per ora. Tre bambini sono spariti. Due sono stati restituiti. Morti. Bambini morti.» «Bambini morti,» ripeté Yngvar. Posò la forchetta. «E non sappiamo nemmeno di cosa sono morti.» «Aspetta!»
Lei alzò la mano e proseguì: «Chi uccide i bambini?» «Maniaci sessuali e automobilisti,» mormorò lui torvo. «Esatto.» «Mhm?» «Questi bambini non sono stati uccisi da un automobilista. E niente indica che siano stati uccisi da un maniaco sessuale. Non è così?» Stubø annuì debolmente. «A meno che non siano atti sessuali che non lasciano traccia,» disse. «Dobbiamo considerare anche questo.» «E allora che cosa ci rimane, se non si tratta di sesso o incidenti stradali?» «Nulla,» rispose lui, servendosi un secondo piatto. «Mangi troppo in fretta,» gli disse Johanne. «E ti sbagli. Ci restano molte possibilità. Vi restano, voglio dire. Vi restano molte possibilità.» L'omelette le piaceva. Un po' troppa cipolla forse, ma quel goccino di Tabasco cambiava le cose. «Il fatto è che si tende a non uccidere i bambini. Tu e io sappiamo entrambi che la maggior parte degli omicidi in questo paese sono preterintenzionali. La percentuale di recidività tra gli assassini è minima. L'omicidio di solito è il risultato di un conflitto familiare di vecchia data, di una gelosia tremenda o... pura sfortuna. Un litigio sotto gli effetti dell'alcol. Una parola tira l'altra. Poi c'è lì un'arma, un coltello o una pistola. Bang. Qualcuno è diventato un assassino. È così. Lo sappiamo tutti e due. I bambini sono coinvolti molto di rado, in ogni caso non come vittime. Certo, se non in senso puramente metaforico.» «Se prescindiamo dagli adolescenti. Si uccidono tra di loro con sempre maggiore frequenza. E sono sempre più giovani. Fosse per me, io un quattordicenne lo chiamerei bambino. Era l'età di quel ragazzino che è stato arrestato a gennaio. Nella scuola di Møllergata, mi pare.» Johanne alzò gli occhi al cielo. «Sì. Ma anche nelle storie di bande ci sono questioni di rivalità. Un concetto travisato di onore. Si ammazzano tra di loro, ma è raro che ammazzino altri. Esterni al gruppo. E per quanto riguarda i criminali sessuali, generalmente uccidono per nascondere il crimine. L'abuso. È molto raro che l'omicidio faccia parte dell'atto sessuale. I maniaci sessuali uccidono perché vi sono costretti, in pratica. Ho parlato con molti di loro, e alcuni a malapena riescono a sopravvivere con la coscienza di ciò che hanno fatto.
Provano pentimento. Vergogna. Dolore. Non tanto per l'atto sessuale. Quello hanno una notevole capacità di razionalizzarlo. Ma per l'omicidio. Per il fatto che il bambino doveva morire.» «Dove vuoi arrivare?» Stubø svuotò il bicchiere e si diede un colpetto leggero sullo stomaco. «Una persona in grado di uccidere dei bambini totalmente innocenti... Rapirli, ucciderli e rimandarli ai genitori con un grottesco messaggio di accompagnamento... Atti di questo genere presuppongono una psiche che dia a una persona la capacità di legittimare le proprie azioni.» «Dal suo punto di vista sono del tutto ragionevoli. È un pazzo, insomma.» Yngvar trafficava con un sigaro nel taschino della camicia. «No. Non è pazzo. Non nel senso più tradizionale del termine, almeno. Non è uno psicopatico. Altrimenti non sarebbe mai stato capace di portare a termine tutto questo. Non dimentichiamoci quanto sono... sofisticati i suoi crimini. Quanto deve averci riflettuto. Ma... Bisogna vedere cosa intendi per pazzo. Un'anima... distrutta? Sì. Un malato mentale? Non direi proprio.» «Però non ci trova niente di male nell'uccidere dei bambini. È questo che dici? Che gli sembra normale uccidere dei bambini, pur non essendo un malato mentale?» «Sì. O meglio, no, in realtà. Può essere che gli dispiaccia che il bambino debba morire. Però ha uno scopo superiore. Una missione, potremmo forse dire. Una specie di... compito?» «Per conto di chi?» La scatola gli scivolava avanti e indietro tra le dita. Il suono quasi impercettibile di un metallo satinato che sfregava contro la pelle secca. «Non lo so,» disse Johanne brusca. "Mi stai prendendo in giro," pensò di colpo. "Io me ne sto qui a sentenziare conclusioni ovvie alle quali tu sei già arrivato da un pezzo per conto tuo. Di quanti casi di omicidio ti sei occupato? Quanti assassini incapaci di intendere e di volere hai conosciuto? Avrai letto interi tomi sull'argomento. Stai cercando di farmi abboccare. Pensi di avermi presa all'amo. Per un qualche assurdo motivo ritieni importante che io sia della squadra. Ma non mi fai fessa". «Un caffè?» gli chiese, cominciando a riempire d'acqua la macchina. «Tu conosci il metodo di lavoro di un profiler,» disse Yngvar. Johanne si lasciò scorrere l'acqua sul polso. La macchina era piena da un
pezzo. «Per cominciare, leggeresti tutta la documentazione,» proseguì lui. «Tutte le perizie tecniche e i dati obiettivi. Poi tracceresti il profilo di ciascuna delle vittime. Che in questo caso sarebbe piuttosto semplice, visto che sono bambini. Ma anche tremendamente complicato, perché saresti costretta a tracciare i profili dei genitori per completare il quadro. Poi piano piano, a partire dal fondo, cominceresti a profilare il nostro uomo. Se è vero quello che dici, naturalmente. Cioè che si tratta di un uomo. Questo faresti. Se solo avessi intenzione di aiutarmi.» L'intensità di quell'ultima frase la spaventò. Chiuse il rubinetto e per poco non rovesciò per terra la macchina da caffè. «Perché? Perché?» Si voltò di colpo e batté la mano libera sul bancone della cucina. «Mi puoi dare una buona ragione per la quale un commissario di lunga esperienza della criminale usa tante energie e, per dirla con diplomazia, metodi quantomeno stravaganti per convincere una falsa investigatrice a sostenerlo in un caso così grottesco che non si è mai visto nulla del genere in questo paese? Puoi? Me lo spieghi per quale motivo sembri del tutto incapace di accettare un no per risposta?» Ci fu il silenzio. Stubø si osservava le mani. Johanne gli girò le spalle. La macchina del caffè borbottava. Fuori dalla finestra della cucina, sulla stradina chiusa al traffico, stava passando lentamente una Golf rossa, da una cassetta della posta all'altra. «Corro il rischio...» disse Yngvar piano, cercando le parole «... che tu mi prenda per pazzo, per uno che... al quale secondo te ha dato di volta il cervello.» Lei continuò a dargli le spalle. L'uomo della Golf rossa si era fermato davanti al numero sedici. «Quando ero più giovane in qualche misura mi inorgogliva,» proseguì lui sempre a voce bassa. «Me ne vantavo, diciamo. Del mio intuito. I ragazzi mi chiamavano Stubø il veggente. Io... non sono sul serio un veggente. Non credo a queste cose. Non sono in grado di vedere dove sono le persone scomparse. Però... ho smesso di parlarne. I colleghi avevano cominciato a guardarmi storto. Parlottavano in crocchio e dietro le mie spalle. Ma io ho questa capacità... no, non capacità. Tendenza, piuttosto. Ho la tendenza a sentire le cose su cui lavoro. È difficile spiegarlo, in effetti. Ne deriva una sorta di ipersensibilità. Io sogno i miei casi. Vedo cose.» Il conducente della Golf rossa gettò un mozzicone di sigaretta fuori dal
finestrino e girò la macchina. Johanne non riusciva a vedere cosa avesse consegnato, ma la cassetta della posta al numero sedici non era chiusa bene. «Non è poi così male» disse lei gentilmente. «Tutti i buoni investigatori dovrebbero avere intuito. Non c'è nulla di paranormale né di soprannaturale in questo. L'intuito non è altro che l'elaborazione di una serie di fattori noti da parte del subconscio. Ti dà risposte alle quali tu non sei in grado di arrivare mediante un calcolo cosciente.» Finalmente si voltò. «Alcuni la chiamano intelligenza,» sorrise debolmente. «Forse è per questo che di solito la si considera una caratteristica femminile. Ma tutto questo cosa ha a che vedere con me?» «Ti ho vista in televisione,» disse lui. «E mi hai colpito. Ho subito pensato di parlare con te. Il giorno dopo mi ero già scordato tutta la faccenda. Poi, quello stesso giorno, mi ha chiamato un amico dagli Stati Uniti. Warren Scifford.» «Warren Sci...» «Esatto. Fbi.» Johanne si sentì accapponare la pelle, di colpo e fastidiosamente. «Seguendo la prassi, avevamo informato l'Interpol dei sequestri dei bambini. Warren ne era venuto al corrente per via di un altro caso. Mi ha chiamato. Era da più di sei mesi che non ci parlavamo. Alla fine della conversazione mi ha chiesto se per caso conoscevo una donna di nome Johanne Vik. Quando gli ho spiegato di te e di cosa ti stavi occupando, mi ha consigliato di consultarti. Di fatto, si è trattato del suggerimento più deciso che abbia mai sentito. La giornata è passata, avevo un sacco di cose da sbrigare. La notte ho fatto un sogno. O meglio, ho avuto un incubo, per essere precisi. Non ti annoierò con i dettagli. Altrimenti penseresti definitivamente che sono pazzo.» Yngvar rise, una risata corta e forzata. «Ma tu avevi una parte in quel sogno, una parte per cui adesso mi è indispensabile parlarti. Mi devi aiutare. Solo che non vuoi. Me ne vado.» «No.» Johanne si riaccomodò sulla sedia, di fronte a Yngvar. «Spero che Warren non ti abbia creato false aspettative,» disse a bassa voce. «Io non sono un profiler. Ho semplicemente frequentato quel corso e...» «Ed eri la miglio...»
«Aspetta,» lo interruppe, e lo guardò dritto negli occhi. «Tu mi hai presa in giro. Mi hai manipolata, visto che non mi hai detto di essere sempre stato al corrente del mio curriculum. Non mi sembra una base particolarmente buona per una futura collaborazione.» Avrebbe giurato che Stubø fosse arrossito; un leggero imporporimento sotto gli occhi. «Ma in ogni caso voglio spendere cinque minuti per sentire cosa pensi,» continuò gettando un'occhiata all'orologio di cucina. «Cinque minuti.» «Questa indagine è un caos,» rispose Stubø sinceramente. «Esiste un ordine nel caos, da qualche parte, ma lo perdo di vista a intervalli sempre più ravvicinati. Dopo la prima bambina, Emilie, tutto sembrava ancora governabile. Ero io ad avere la massima responsabilità, in un gruppo ristretto di investigatori. Dopo, tutto è esploso. Con l'estrema attenzione che stiamo ricevendo ora da parte dei mass media, tutto si è spostato su un piano più elevato. Ogni dichiarazione deve passare per il capo della polizia criminale in persona. Dal momento che non fa granché, a parte parlare con i media, non è mai davvero aggiornato sulla situazione. A volte fa delle anticipazioni forti e siamo noi che stiamo sotto a pagarne le conseguenze. Non è mia intenzione criticare. Davvero no. Non invidio nessuno obbligato a rispondere alla società civile su casi in cui i bambini muoiono come mosche e...» Johanne guardò la macchina da caffè. Poi si alzò e ne versò il contenuto in un termos blu. «... non abbiamo nemmeno una pista,» concluse con vigore. Johanne non lo aveva mai sentito imprecare. In un certo qual modo gli si addiceva. «O meglio, abbiamo un milione di piste. Solo che non ci portano da nessuna parte.» Yngvar versò il caffè nelle tazze. «E l'entrata in campo del distretto di polizia di Oslo non fa che complicare le cose. Di regola non li aiutiamo nelle indagini tattiche. Hanno molta gente in gamba, non si tratta di questo. Ma adesso c'è più casino che in una scuola materna il giorno della festa di Santa Lucia.» «Ma con tutta questa gente, cosa vuoi da me?» Lui appoggiò lentamente la tazza. Il manico era troppo piccolo per le sue dita robuste. «Io ti vedo nel ruolo di una specie di consulente. Una con cui confrontarmi. Sarebbe più facile se fossi io a portare avanti le tue idee all'interno
del sistema. Ci sarebbe parecchio scetticismo nei confronti di una come te, quindi servirebbe un intermediario. Io.» Yngvar fece un sorriso obliquo, come se trovasse necessario scusare i suoi colleghi. «Ho bisogno di qualcuno in gamba con cui scambiare le idee,» disse con sincerità. «Qualcuno esterno al sistema. Esterno al caos, se vuoi.» «E secondo te,» cominciò lei asciutta, «come farei a esaminare il contenuto di tutti i documenti sul caso senza nessun tipo di rapporto formale di lavoro con la polizia criminale?» «Quella è una mia responsabilità.» «Ed è una mia responsabilità evitare di visionare materiale soggetto a segreto professionale.» Lui scosse rassegnato il capo. «Ma non puoi rispondermi e basta? È l'ultima volta che te lo chiedo. Non sembra, ma anche per me esiste un limite.» Johanne si mise una zolletta di zucchero sulla lingua. Le si sciolse sul palato, il gusto dolce le colò sui denti. Adesso se ne sarebbe andato. Glielo leggeva in faccia. Non l'avrebbe mai più rivisto. «Sì,» disse delicatamente, come se quell'uomo non glielo avesse mai chiesto prima. «Ti aiuterò, se posso.» Johanne pensò che le avrebbe battuto le mani. Per fortuna non lo fece. Invece cominciò a riordinare, come fosse stato a casa sua. Yngvar Stubø non lasciò l'appartamento di Johanne Vik prima delle sette di sera. Lei aveva già aperto la porta d'ingresso. Non sapeva dove mettere le mani. Infilò i pollici nella cintura dei pantaloni. «Tu me la ricordi così tanto,» disse Yngvar tranquillamente, mentre si abbottonava la giacca. «Tua figlia? Ti ricordo... Trine?» «No.» Yngvar si diede un colpetto leggero sul petto. «Mi ricordi mia moglie.» Line arrivò di corsa su per le scale. «Ehi, ciao!» L'amica guardò curiosa lo sconosciuto. «Yngvar Stubø,» mormorò Johanne. «Line Skytter.» «Piacere!» «Ciao.»
Yngvar Stubø le porse la mano. Prima che Johanne facesse in tempo a stringerla, la rinfilò nella tasca della giacca. Poi fece un breve cenno con la testa e se ne andò. «Wow,» disse Line chiudendosi la porta alle spalle. «Che tipo! Ma non fa per te. Affatto.» «Su questo hai ragione,» fece Johanne irritata. «Come mai da queste parti?» «È troppo forte per te,» continuò a cicalare Line, entrando in sala. «Dopo quella storia con Warren niente più omoni forti per Johanne Vik.» Si tuffò sul divano e raccolse i piedi sotto il sedere. «A te vanno bene i tipi come Isak. Dolci, piccolini e meno intelligenti di te.» «Finiscila.» Line si mise ad annusare in giro e storse il naso. «Lo hai... Gli hai dato il permesso di fumare qui dentro? E quando arriva Kristiane domani?» «Ma la vuoi finire, Line? Che cosa vuoi?» «Ma sapere tutto del viaggio in America, no? E ricordarti il circolo di lettura mercoledì. La volta scorsa è stato il terzo incontro a cui non ti sei fatta vedere, te ne sei accorta? Le altre ragazze cominciano a domandarsi se ti sei stufata. Dopo quindici anni! Ah!» Line si allungò sul divano. Johanne ci rinunciò e andò a prendere una bottiglia di vino dal portabottiglie nella fresca camera da letto. Prima ne prese una di Barolo. Poi la ricollocò con cura al suo posto. Accanto c'era un vino in cartone. "Tanto quella non si accorge della differenza", pensò. Mentre tornava da Line, si chiese se Yngvar Stubø fosse astemio. Forse, considerato il suo aspetto. La pelle era regolare e compatta, senza pori dilatati. Il bianco degli occhi era talmente bianco. Probabilmente Yngvar Stubø non beveva affatto. «Ecco qua il tuo vino,» disse a Line. «Mi sa che io mi faccio una tazza di tè.» XXXI. Era piacevole guidare. Anche se l'auto non era un granché, una Opel Vectra di sei anni, stava comodo. Non era da molto che aveva cambiato gli ammortizzatori. La macchina era in buone condizioni. Lo stereo era buono.
La musica era buona. "Bene. Bene. Bene". Sbadigliò e si sfregò la fronte. Non doveva addormentarsi. Aveva guidato tutto d'un tiro e stava arrivando ora alla Lavangsdalen. Erano passate venticinque ore da quando aveva tirato fuori la macchina dal garage di casa. Be', garage. Il vecchio fienile fungeva perfettamente da posto auto coperto e da magazzino per ogni genere di ciarpame che non aveva il cuore di buttare via. Non si poteva mai sapere quando una cosa sarebbe tornata utile. Adesso, per esempio, era grato a se stesso per non essersi mai liberato di quelle vecchie taniche di benzina lasciate dal proprietario precedente. A una prima occhiata sembravano arrugginite, ma dopo una bella sfregata con la spazzola d'acciaio erano tornate come nuove. Aveva accumulato benzina per settimane. Faceva il pieno come sempre giù da Bobben alla cooperativa. Non troppo spesso, non troppo abbondante; né più né meno la benzina che aveva fatto regolarmente da quando si era trasferito in campagna. Poi ne travasava qualche litro dentro le taniche al suo arrivo a casa. A poco a poco aveva raccolto duecento litri extra. Non aveva bisogno di comprare nulla durante il tragitto verso nord. Nessuna fermata dove lo avrebbero potuto vedere. Nessuna moneta con le sue impronte digitali. Nessuna videocamera. Guidava una Opel Vectra blu scuro piuttosto sporca, come uno qualunque. Il signor X in viaggio. Le targhe erano sozze e si leggevano a malapena. Per nulla appariscente; era primavera nel nord della Norvegia. Nella Lavangsdalen, attorno alle radici degli alberi c'era ancora la neve, grigia per lo sporco. Erano le sette di mattina. Da vari minuti non incrociava neanche una macchina. Su una curva dolce rallentò. La sterrata su cui si era immesso era bagnata e piena di buchi provocati dallo scioglimento del ghiaccio. Ma andò bene. Dopo una collinetta si fermò. Spense il motore. Attese. In ascolto. Nessuno poteva vederlo. Si tolse l'orologio. Un grosso orologio nero da sub. Con sveglia. Avrebbe dormito due ore. Due ore erano tutto ciò di cui aveva bisogno. XXXII. «C'era da aspettarselo.» Alvhild Sofienberg aveva preso sorprendentemente bene il resoconto della sparizione di Aksel Seier. Sollevò appena le sopracciglia. Poi si pas-
sò distratta un dito sul grinzoso labbro superiore e fece schioccare quasi impercettibilmente la bocca, come se la dentiera non fosse fissata bene. «Dio solo sa come l'avrei presa io una notizia come questa. È davvero difficile immedesimarsi in una situazione del genere. Impossibile. Ma ti è sembrato che stesse bene?» «Senza dubbio. Oddio... in realtà è complicato dire qualcosa su come gli va la vita solo sulla base di un incontro così breve. Ma vive in un posto fantastico. Sul mare. Una spiaggia deliziosa. Ha una bella casa. Sembrava che... gli stesse a pennello. Quell'ambiente, cioè. I vicini lo conoscono e si preoccupano per lui. Be', questo è tutto quello che posso dire.» «Favoloso,» mormorò Alvhild. «Effettivamente, date le circostanze,» disse Johanne. «Mi riferivo a queste nuove cose informatiche.» Alvhild gesticolò con le dita. «Pensare che ci è voluta meno di una settimana per scoprire dove viveva Seier, con tutti i posti che ci sono nel mondo. Favoloso. Davvero fantastico.» «Internet.» Johanne sorrise. «Non ha mai pensato di provare a collegarsi? Si divertirebbe, dato che è qui...» «Sdraiata ad aspettare di morire,» disse Alvhild secca. «Non è una cattiva idea. Io ho una macchina per scrivere Ibm del 1982. Purtroppo pesa un po' troppo per tenerla sulle gambe, ma se devo, lo faccio.» Gettò un'occhiata alla scrivania presso la finestra: una macchina color ribes era pronta con un foglio bianco sotto il rullo. «Non scrivo quasi più a nessuno. Quindi non ha grande importanza. Ho già fatto testamento. I miei figli mi vengono a trovare ogni giorno. Sono ben curati e, per quanto sono in grado di vedere io, piuttosto felici. I miei nipoti mi sembra che si comportino bene. Capita perfino che si facciano vedere senza necessariamente essere obbligati dai genitori. Non ho neanche bisogno del telefono. Ma se fossi stata più giovane...» «Ha degli occhi così belli,» disse Johanne e deglutì. «Sono così... azzurri. Sono così incredibilmente azzurri.» Il sorriso di Alvhild era nuovo, un sorriso che Johanne non meritava. Chinò la testa e chiuse gli occhi. Le dita di Alvhild le accarezzarono il mento, asciutte, dure, come i ramoscelli di un albero morto. «Mi hai fatta felice, Johanne. Mio marito mi diceva proprio queste paro-
le. Sempre.» Bussarono alla porta. Johanne si raddrizzò svelta e si allontanò dal letto, come se l'avessero colta a fare qualcosa di illegale. «Adesso direi proprio che è ora di riposare,» disse l'infermiera. «Ti trattano sempre come un bambino,» si lamentò Alvhild alzando gli occhi al cielo. Johanne non riusciva a tirare indietro il braccio. La mano di Alvhild le teneva il polso come un artiglio. «Pensi di sparire così e basta?» Spazientita, l'infermiera si era piazzata accanto al letto, le mani sui fianchi e lo sguardo al soffitto. «Un attimo solo,» fece Alvhild dura. «Non ho ancora finito con questa giovane signora. Se potessi aspettare in corridoio un momento, vedrai che in un batter d'occhi sono pronta per il pisolino del pomeriggio.» La donna vestita di bianco si ritirò esitante, come sospettando che Johanne avesse cattive intenzioni. Sentirono che non si era allontanata di molto, e la porta era rimasta socchiusa. «Non posso fare molto di più,» farfugliò Johanne. «Ho letto le carte. Sono d'accordo con lei. Tutto indica che Aksel Seier abbia subito una grave ingiustizia. L'ho trovato, ho attraversato l'oceano per parlare con lui. Se è vero che mi sono presa un impegno, posso dire di averlo portato a termine.» Alvhild rise, una risata grave e roca che si trasformò in tosse secca. «Non ci arrendiamo così facilmente, Johanne.» «Ma cosa...» «Dev'esserci un necrologio.» «Cosa?» «La vecchia che andò alla polizia nel 1965. Quella convinta che suo figlio fosse il colpevole. Il fatto che causò la liberazione di Aksel Seier! Il motivo che la spinse a presentarsi alla polizia era che il figlio era morto. Tutto ciò che so di quella donna è che viveva a Lillestrøm. Tu, con quel tuo internet... sei in grado di recuperare un annuncio mortuario su un quotidiano locale del giugno 1965? Deve trattarsi di un necrologio in cui compare un famigliare solo.» Johanne gettò un'occhiata alla porta. Qualcosa di bianco si muoveva impaziente avanti e indietro. «Un famigliare. Come fa a saperlo?» «Io non lo so,» rispose Alvhild. «Lo suppongo. Si trattava di un figlio
adulto che viveva con la madre. In base alla mia unica fonte, il cappellano della prigione, il ragazzo doveva essere ritardato. Mi sembra tanto una di quelle tristi...» Fece un gesto come per cancellare la frase. «Basta. Prova. Cerca.» La pazienza dell'infermiera era finita. «Adesso devo puntare i piedi. La signora Sofienberg ha bisogno di molto riposo.» Johanne sorrise arrendevole ad Alvhild. «Se trovo il tempo...» «Tu il tempo ce l'hai, ragazza mia. Alla tua età hai tutto il tempo del mondo.» Johanne non poté nemmeno salutare come si deve. Soltanto quando fu in strada si rese conto che nella stanza di Alvhild non c'era più puzza di cipolla. Inoltre si ricordò di un particolare a cui non aveva più pensato dal suo rientro dagli Stati Uniti. Aveva visto qualcosa da Aksel Seier, qualcosa che aveva catturato la sua attenzione, ma troppo tardi. Per un motivo che ignorava, qualcosa glielo aveva ricordato in camera di Alvhild, durante la conversazione con la vecchia signora. Qualcosa che era stato detto, o qualcosa che aveva visto. Mentre tornava a casa le venne mal di testa. «Si chiama Re d'America.» «Come?» Era la bestia più brutta che Johanne avesse mai visto. Il colore assomigliava al contenuto dei pannolini di Kristiane quando era ammalatissima; marrone giallognolo a macchie scure, indefinite. Un orecchio stava dritto, l'altro pendeva. La testa era troppo grande in proporzione al corpo. La coda si muoveva come un frullino. Sembrava che ridesse. La lingua quasi scopava per terra. «Come hai detto che si chiama?» «Re d'America. Il mio cane. Un canepane.» Kristiane lo voleva prendere in braccio, ma quel cucciolo sembrava enorme per avere solo tre mesi e non si lasciava sollevare. Alla fine Kristiane lo accompagnò in sala, a quattro zampe, con la lingua penzoloni fuori della bocca. «Da dove l'ha preso il nome?» Isak si strinse nelle spalle.
«Stiamo leggendo Il cappello del Gran Bau, sai quando il troll Mumin viene trasformato nel re di California. Magari viene da lì. Non ne ho idea.» «Jack,» urlò Kristiane dal salotto. «Si chiama anche Jack.» Johanne rabbrividì appena. «Cosa c'è?» Isak le accarezzò il braccio. «Qualcosa non va?» «No. Sì. Io non la capisco questa bambina.» «È solo un nome. Santo Dio, Johanne, non c'è mica niente da...» Gli girò le spalle. Il Re d'America stava facendo pipì sul tappeto in sala. Kristiane era sul punto di tirare giù una scatola di cornflakes da un pensile della cucina, era in piedi sul tavolo e poteva cadere da un momento all'altro. «Ups!» Johanne la prese al volo e cercò di abbracciarla. «A Jack piacciono i cornflakes,» disse Kristiane divincolandosi. La scatola si aprì e le cadde per terra. Il Re d'America arrivò di corsa; un attimo dopo, bambina e cane si rotolavano nei cornflakes. Il pavimento crepitava e Kristiane rideva convulsamente. «Almeno lei ne è contenta,» sorrise Johanne rassegnata. «Ma perché hai scelto una cosa così... così brutta?» «Ssst!» Isak le mise un dito sulla bocca, lei si ritrasse. «Jack è bellissimo. Ma è successo qualcosa? Sembri così... Tu hai qualcosa.» «Dammi una mano,» tagliò corto lei, e andò a prendere l'aspirapolvere. Non ci riusciva davvero, a capire come Kristiane fosse arrivata a chiamare il cane Jack, Re d'America. XXXIII. Si sentiva stranamente nervoso. Forse era soltanto stanco. Le due ore di sonno sulla stradina secondaria nella Lavangsdalen, a soli tre quarti d'ora di viaggio da Tromsø, erano sicuramente servite. Tuttavia non si sentiva molto in forma. Gli facevano male i muscoli della zona lombare. Aveva gli occhi secchi, li batteva e per costringere le lacrime a uscirne sbadigliava forzosamente. Il nervosismo era come un prurito ai polpastrelli, come un senso di vuoto e inquietudine nello stomaco. Bevve acqua da una bottiglia,
a sorsi lunghi e profondi. La macchina era parcheggiata dietro una casa per studenti a Prestvannet. Studenti che vanno e vengono. Noleggiano automobili. Ricevono visite. Era il posteggio ideale. Ma non poteva restare ancora a lungo seduto in macchina. Queste cose si notano. Soprattutto, forse, in un posto dove vivono molte donne single. Chiuse la bottiglia e respirò profondamente. Gli ci vollero meno di cinque minuti per arrivare a piedi in cima alla salita della Langnesbakken. Ovviamente lo sapeva, ci era già stato. Conosceva le sue abitudini. Sapeva che lei stava sempre a casa l'ultima domenica del mese. Sarebbe arrivata sua madre, alle cinque esatte. Come faceva sempre. Per verificare. Per controllare la sua proprietà. Mascherata da piacevole pranzo in famiglia. Carne di montone con cavolo, un buon bicchiere di vino rosso e uno sguardo indagatore. Pulito abbastanza? Ordinato abbastanza? Hai cambiato la guarnizione in bagno? Sapeva cosa sarebbe successo. Era stato lì tre volte in primavera. Si era guardato intorno. Aveva preso appunti. Erano le tre meno cinque. Girò l'angolo e si guardò alle spalle. Nessuno. Pioveva, ma non molto. Il cielo spazzava i monti sull'isola di Kvaløya; a ovest si stava facendo scuro e il tempo sarebbe peggiorato verso sera. Svelto e leggero attraversò un giardino e si nascose dietro un cespuglio, più spoglio di quanto avrebbe voluto. Benché fosse vestito di grigio e blu scuro, lo avrebbero scoperto facilmente se avessero guardato bene. Senza voltarsi indietro, si avvicinò mezzo correndo alla casa. A nord-ovest non c'erano vicini. Soltanto delle betulle nane rammollite dalla primavera e dei resti di neve sporca. Respirava pesantemente. Non era così che avrebbe dovuto sentirsi. Il nervosismo lo opprimeva all'altezza della laringe. Fu obbligato a deglutire, più volte. Prima non era così. Teneva stretta la piccola bisaccia che portava appesa alla cintura. Eccitazione. Questo avrebbe dovuto sentire. Una sicurezza che lo facesse esultare dentro. Era il suo momento. Era il suo momento. Quasi poteva sentirla. Senza guardare l'ora sapeva che erano le tre. Trattenne il respiro. Tutto taceva. Quando sbirciò dietro l'angolo della casa, dovette ammettere che aveva più fortuna di quanto potesse sperare. Lei aveva lasciato la carrozzina all'inizio della salita. C'era una vecchia amaca sulla terrazza, non c'era posto per la carrozzina del bambino. Il solo rumore al mondo erano i suoi respiri veloci e un aereo in fase d'atterraggio all'aeroporto di Langnes. Aprì la borsa. Si preparò. Si avvicinò alla carrozzina. Era sotto il cornicione del tetto, al riparo dal gocciolare della pioggerella
primaverile. Eppure il bambino era vestito come se intorno alla casa infuriasse una spaventosa tempesta invernale. La capote era sollevata e c'era un parapioggia fissato attorno alla carrozzina. In più la madre vi aveva teso sopra una specie di rete, forse per tenere lontano i gatti randagi. Faticò per togliere la rete. Sganciò e tolse il parapioggia. Il bambino era sdraiato in un sacco a pelo blu e portava un berretto. Era fine maggio e il bambino aveva il berretto! Ben calcato in testa. Un nastro sotto il mento, che spariva in una piega del collo paffuto. Il bambino stava stretto in quella carrozzina. Dormiva profondamente, a bocca aperta. Non doveva svegliarlo. Non ce l'avrebbe mai fatta a levargli abbastanza strati. "Cazzo!" Il panico lo investì come una violenta ondata marina, lo sommerse a partire dai piedi per poi trapassargli il corpo e bloccargli il respiro. Aveva perso la siringa. Gli serviva. Il bambino gorgogliava a bocca aperta. Il bambino era un grande buco che respirava. La siringa. Si chinò a raccoglierla, la infilò in borsa e tirò fuori un foglio di carta. Gli tremavano le mani. Fece cadere la protezione di plastica, si chinò a raccoglierla e la infilò in borsa. Il sacco a pelo era imbottito. Lo tirò sopra il buco che respirava. Strinse la stoffa blu scuro tra le dita, tra le dita dei guanti. Il bambino si girò, cercò di divincolarsi, era incredibilmente facile impedirglielo, tenne duro, premette senza perdere la presa e infine non ci fu più nulla che si dibatteva sotto quel tessuto imbottito e blu. Ma non mollò. Non ancora. Continuò a tenere e a premere. L'aereo era atterrato e c'era silenzio ovunque. Per fortuna si era ricordato il biglietto. "Mi sono ricordato il biglietto," si disse una volta seduto in macchina. "Mi sono ricordato il biglietto". Anche se si addormentò due volte al volante - si svegliò mentre stava scivolando verso il ciglio dissestato della strada, giusto in tempo per rimettersi in carreggiata - riuscì ad arrivare a Majavatn senza fare altre soste se non quelle necessarie per orinare e riempire il serbatoio con la benzina delle taniche su strade secondarie deserte. Doveva dormire. Trovò un nascondiglio per l'auto in un vicolo, presso un camping in disuso. Non era così che doveva andare. Avrebbe dovuto mantenere il controllo. Le cose avrebbero dovuto svolgersi così come le aveva pianificate. All'improvviso gli era impossibile dormire, anche se la mancanza di sonno gli dava perfino la nausea. Si mise a piangere. Non sarebbe dovuta andare così. Era il suo momento. Final-
mente. Il suo piano, la sua volontà. Piangeva così forte da vergognarsene; imprecò e si colpì in viso. «Per fortuna mi sono ricordato il biglietto,» mormorò, e si asciugò il moccio con le dita. XXXIV. Il campanello la strappò da un sogno. Dei suoni brevi, come se qualcuno cercasse di svegliarla senza al contempo disturbare Kristiane. Il Re d'America guaiva nella stanza della bambina, e Johanne lo fece uscire prima di andare ad aprire. Fortunatamente sua figlia sembrava continuare a dormire indisturbata, in un greve odore di sonno e pipì di cane. L'animale non la smetteva di saltarle addosso, le zampe le graffiavano dolorosamente le gambe nude. Cercò di spingerlo via, ma inciampò e diede un colpo con il mignolino contro lo stipite mentre tornava in corridoio. Temendo di sapere chi era a suonare a quell'ora, zoppicò imprecando verso la porta d'ingresso e l'apri. Era difficile vedergli gli occhi. L'intera figura sembrava rimpicciolita, le spalle incurvate in avanti. Johanne avvertì un leggero odore di sudore quando lui alzò la mano per tenerla a distanza. Sottobraccio portava una valigetta. Il manico era rotto e la teneva come una cassetta, sformata, aperta. «Imperdonabile,» mormorò. «Ma non ho potuto liberarmi prima.» «Che ore sono?» «L'una. Di notte.» «Questo lo sapevo,» disse lei seccamente. «Entra. Vado a cambiarmi.» Stubø si sedette in cucina. Il Re d'America gli mordicchiava una mano. Gagnolava e mugolava, probabilmente per la fame. «Caspita. Un nuovo acquisto?» Johanne bofonchiò una specie di conferma armeggiando con la macchina da caffè. Avrebbe dovuto immaginarselo che era Yngvar. Al suo risveglio, non aveva pensato ad altro che a far smettere di suonare il campanello. Se Kristiane si svegliava nel bel mezzo della notte, la giornata poteva considerarsi iniziata. Si infilò il maglione scolorito del college. Aveva golf migliori di quello nell'armadio. «Se dovessi farmi un'altra apparizione a sorpresa di notte, sarebbe carino se non suonassi il campanello. Usa il telefono. Di notte spengo quello del salotto. L'altro...»
Fece un cenno alla camera da letto e riempì il filtro di caffè. «L'altro in camera mia ha il volume basso. Sveglia me ma lascia dormire Kristiane. È importante per lei. E per me.» Tentò di sorridere, ma le uscì uno sbadiglio. Confusa, si stropicciò di nuovo gli occhi e scosse la testa. «Lo terrò a mente,» disse Yngvar. «Scusami. L'ha fatto di nuovo.» Johanne si portò lentamente una mano sui capelli, ma la lasciò subito ricadere e strinse forte invece la maniglia di un cassetto. «Cosa?» disse atona. «Cosa vuoi dire con "L'ha fatto di nuovo"?» Yngvar si prese la testa tra le mani. La voce gli uscì in sordina. «Un bimbo di undici mesi di Tromsø. Glenn Hugo. Undici mesi. Non l'hai sentito?» «Io... Non ho visto la tele né sentito la radio stasera. Noi... io e Kristiane abbiamo giocato con il cane e siamo state a spasso e... Undici mesi. Undici mesi!» Lo sfogo rimase sospeso tra loro, a lungo, come se l'età della giovane vittima di quell'infanticidio senza senso nascondesse una spiegazione occulta, un codice o un rebus. Johanne avvertì le lacrime sulla cornea e chiuse gli occhi. «Ma...» Lasciò il cassetto e si sedette al tavolo. Yngvar teneva le mani giunte davanti a sé e lei provò il bisogno di appoggiarvi sopra le proprie. «L'hanno già trovato?» «Non è stato rapito. È stato soffocato nella carrozzina mentre faceva il pisolino pomeridiano.» Il cane si era accucciato accanto al forno. Sdraiato su un fianco. Johanne cercò di fissare lo sguardo sulla sua stretta cassa toracica che si alzava e si abbassava, si alzava e si abbassava. Si vedevano le costole sotto il pelo morbido e corto. Gli occhi erano socchiusi e la lingua brillava, bagnata e rosa scuro, in mezzo a tutto quel brutto marrone. «Ma allora non è lui,» disse rapida, inespressiva, quasi boccheggiante. «Lui non li soffoca. Lui... lui rapisce e uccide con una modalità che noi non... non comprendiamo. Non soffoca neonati mentre dormono. Non è lo stesso uomo. A Tromsø hai detto? Hai detto Tromsø?» Batté appena i pugni sul tavolo, come se la distanza geografica fosse la prova di cui aveva bisogno: erano davanti a un caso di morte tragico, tuttavia naturale. La morte improvvisa di un neonato, tremenda ovviamente, ma sopportabile. Almeno per lei. Per tutti tranne che per la famiglia. La
madre. Il padre. «Tromsø! Non ha senso!» Si chinò in avanti sul tavolo e cercò di guardare Yngvar negli occhi. Lui si girò verso la macchina da caffè. Fiacco e lento si alzò. Aprì un pensile e prese due tazze. Per un istante rimase in piedi a osservarle. Una aveva il profilo di una Ferrari, sbiadita a furia di lavaggi in un rosa pallido. L'altra era a forma di drago accovacciato, con un'ala rotta e la coda come manico. Le riempì entrambe e diede a Johanne quella con la macchina. Il vapore del caffè le si appiccicava alla faccia. Stringeva forte la tazza con le due mani, e desiderava che Yngvar fosse d'accordo con lei. Tromsø era troppo lontano. Il modus operandi non coincideva. Il colpevole che cercavano non aveva colpito la sua quarta vittima. Non poteva essere così. Il cane piagnucolava nel sonno. «Il biglietto,» disse lui con voce stanca, e sorseggiò il liquido bollente. «Ha lasciato il solito biglietto. Adesso hai quello che ti meriti.» «Ma...» «Non abbiamo ancora comunicato questo particolare. Non è uscita una sola parola al riguardo sui giornali. Di fatto siamo riusciti a tenercelo per noi, per adesso. Deve essere lui.» Johanne guardò l'orologio. «L'una e venticinque,» disse. «Abbiamo quattro ore e trentacinque minuti prima che la mia sveglia umana là dentro si alzi. Mettiamoci in moto. Immagino che quella tua valigetta contenga qualcosa di interessante. Valla a prendere. Abbiamo solo quattro ore e mezzo.» «Dunque l'unico punto in comune è il biglietto?» Johanne si abbandonò rassegnata contro lo schienale e incrociò le mani sulla nuca. C'erano post-it gialli dappertutto. Avevano attaccato un grande foglio di carta sul frigorifero; siccome prima era arrotolato, avevano dovuto fissarlo con dello scotch da pacco perché non cadesse. I nomi dei bambini erano scritti in alto, all'inizio di ogni colonna; seguivano informazioni di ogni tipo, dai loro cibi preferiti alla storia clinica, fino in fondo al foglio. La colonna di Glenn Hugo era scarna. Gli unici dati che possedevano sul bimbo morto da meno di un giorno consistevano in una causa di morte altamente approssimativa: soffocamento. Età e peso. Un bambino di undici mesi normale e sano. Un foglio A4 sopra il piano di cottura evidenziava poi che i genitori si chiamavano May Berit e Frode Benonisen, avevano rispettivamente venti-
cinque e ventotto anni e vivevano in casa della benestante madre di lei. Erano entrambi impiegati comunali, lui lavorava come netturbino e lei come segretaria nell'Anticamera del sindaco. Frode aveva alle spalle nove anni di scuole dell'obbligo e una fortunata carriera di calciatore nella squadra di Tromsø. May Berit aveva studiato storia delle religioni e spagnolo all'università di Oslo. Erano sposati da due anni, quasi esatti. «Il biglietto. E sono tutti bambini. E sono tutti morti.» «No, Emilie non necessariamente. Non ne sappiamo nulla.» «Giusto.» Yngvar si sfregò le nocche sul cuoio capelluto. «La carta su cui è scritto il messaggio proviene da due diversi blocnotes. O risme, per essere più precisi. Normale carta per copia, del tipo che hanno tutti a casa per la stampante del computer. Nessuna impronta digitale. Be'...» Si grattò di nuovo la testa, e una nuvola quasi invisibile di forfora si stagliò contro la luce forte della lampada che Johanne aveva portato dalla sala. «È troppo presto per dire qualcosa di certo sull'ultimo biglietto, ovviamente. Lo stanno ancora analizzando. Ma direi che non ci conviene farci troppe illusioni. Questo tipo è prudente. Molto prudente. La grafia sembra diversa da un foglio all'altro, per lo meno a una prima occhiata, può averlo fatto apposta. Verranno messe a confronto da un esperto.» «Però quel testimone... quel...» Johanne si alzò e fece scorrere l'indice su una serie di post-it attaccati all'antina dell'armadietto più vicino alla finestra. «Ecco. Un uomo in Soltunveien 1. Che cosa ha visto davvero?» «Un professore in pensione. Testimone molto credibile, sembrerebbe. Il problema è che...» Yngvar si versò la sesta tazza di caffè. Cercò di inghiottire un rigurgito acido, con il pugno davanti alla bocca. «Non ci vede tanto bene. Porta degli occhiali piuttosto forti. Ma comunque... Stava facendo delle riparazioni al terrazzo. Da lì gode di una buona vista sulla via.» Yngvar usava un cucchiaio di legno per indicare sulla pianta tratteggiata alla bell'e meglio su un pezzo di carta che avevano attaccato con del nastro adesivo alla finestra. «Dice di aver notato tre persone nell'intervallo di tempo in questione. Una donna di mezza età con un cappotto rosso che pensa di conoscere. Un
ragazzo in bicicletta, che possiamo decisamente scartare. Entrambi salivano lungo la strada, cioè si muovevano in direzione della scena del crimine. Ma ha visto anche un altro uomo, uno che secondo i suoi calcoli aveva tra i venticinque e i trentacinque anni. Andava a piedi dalla parte opposta...» Il manico del cucchiaio scorreva ancora sul foglio. «... verso la Langnesbakken. Erano le tre e qualcosa. Il testimone lo può affermare con certezza, dato che sua moglie subito dopo è uscita a chiedergli quando voleva cenare. Lui guarda l'ora e le dice che finirà il nuovo corrimano per le cinque.» «E poi c'era qualcosa nell'andatura...» Johanne socchiuse gli occhi e fissò la cartina. «Sì. Il professore l'ha descritto come...» Yngvar rovistò nella pila di carte. «...uno che ha fretta ma non vuole farlo notare.» Johanne gettò un'occhiata scettica all'appunto. «E come fa uno a vederlo?» «Secondo lui questo tizio camminava più lentamente di quanto in realtà sentisse il bisogno di fare, come se volesse correre, ma non osasse. Osservazione acuta, in effetti. Se è vero. Io ho provato a fare qualcosa del genere mentre venivo qui e può darsi che abbia ragione. Uno assume una specie di ritmo staccato, con un che di forzato e innaturale.» «È in grado di fornire una descrizione più accurata?» «Purtroppo no.» Nel corso della notte la tazza con il drago aveva perso anche la seconda ala. Adesso il suo aspetto era più misero che mai, come un gallo addomesticato e con le ali tagliate. Yngvar aggiunse un goccio di latte nel caffè. «Soltanto l'età, più o meno. E dice che era vestito di grigio o di blu. O di entrambi i colori. Molto neutro.» «Intelligente da parte sua. Se veramente era il nostro uomo...» «E poi dice che aveva i capelli. Capelli folti con un taglio maschile. Più in là il professore non si è spinto. Ovviamente inviteremo chiunque fosse in zona a presentarsi alla polizia. Poi si vedrà.» Johanne si grattò la schiena e chiuse gli occhi. Sembrava totalmente immersa nei suoi pensieri. La luce del mattino aveva appena cominciato a diffondersi nel cielo. All'improvviso si mise a raccogliere tutti i foglietti, staccò i cartelloni, smontò cartina e colonne. Con cura riunì tutto insieme in un sistema evidentemente ragionato. I post-it in alcune buste. I fogli grandi ben piegati e impilati l'uno sull'altro. Alla fine infilò tutto dentro la
vecchia valigetta e pescò una lattina di Coca fresca dal frigorifero. Rivolse uno sguardo interrogativo a Yngvar, che scosse il capo. «Me ne vado,» assicurò. «Naturalmente.» «No,» ribatté lei. «Adesso cominciamo sul serio. Chi uccide bambini?» «Questo esercizio l'abbiamo già fatto,» disse Yngvar esitante. «Eravamo d'accordo su automobilisti e maniaci sessuali. A ripensarci, nominare gli automobilisti in questo contesto è stato assurdo.» «Ciononostante sono loro che uccidono bambini in questo paese,» fece lei, brusca. «Ma lasciamo perdere. Questa storia ha a che vedere con l'odio. Con una qualche forma di senso della giustizia deviato.» «Come fai a saperlo?» «Non lo so. Penso, Yngvar!» Il bianco degli occhi di lui non era più bianco. Yngvar Stubø aveva l'aspetto di uno che si ubriacava da tre giorni; l'odore che emanava rafforzava la sensazione di sfinimento. «Bisogna odiare intensamente per giustificare ciò che fa quest'uomo,» disse Johanne. «Non dimenticarti che deve convivere con tutto questo. Deve poter dormire la notte. Deve mangiare. Presumibilmente, deve muoversi in una società dove tutti i pregiudizi gli urlano contro da ogni quotidiano, da ogni telegiornale, nei negozi, sul posto di lavoro, forse...» «Ma certo non può... non può odiare dei bambini!» «Sst.» Johanne sollevò il palmo. «Stiamo parlando di uno che vuole ripagare con la stessa moneta un torto subito.» «Che torto?» «Non lo so. Ma Kim e Emilie, Sarah e Glenn Hugo sono stati scelti del tutto a caso?» «Certo che no.» «Adesso stai arrivando a conclusioni per le quali ci mancano le basi. Ovviamente possono essere stati scelti in modo del tutto casuale. Ma è probabile che non sia così. Che a quest'uomo, all'improvviso e senza nessuna ragione, sia saltato in mente che stavolta era il turno di Tromsø... non direi. Ci deve essere una relazione di qualche tipo tra questi bambini.» «O tra i loro genitori.» «Esatto,» disse Johanne. «Ancora caffè?» «Sto per vomitare.» «Tè?»
«Meglio del latte caldo.» «Ti farà dormire e basta.» «Mica una cattiva idea.» Erano le cinque e mezzo. Il Re d'America aveva gli incubi e agitava le zampette per aria, in fuga da un nemico onirico. Una puzza pesante impregnava la cucina. Johanne aprì la finestra. «Il problema è che non troviamo nessuna relazione tra quei maled... tra i genitori.» Yngvar alzò le mani, rassegnato. «Questo naturalmente non significa che non ci sia,» controbatté Johanne, sedendosi sul bancone con i piedi su un cassetto mezzo aperto. «Se giochiamo un momento con l'idea» proseguì «di avere a che fare con uno psicopatico. Solo perché le sue azioni sono così crudeli che sembra ragionevole pensarlo. Cos'è che dobbiamo cercare in realtà?» «Uno psicopatico,» mormorò Yngvar. Johanne lo ignorò. «Gli psicopatici non sono rari come pensiamo. C'è chi pensa che rappresentino circa l'uno per cento della popolazione. La maggior parte di noi usa questa espressione per indicare qualcuno che non ci va a genio, quindi il concetto non è inconsueto quanto vorremmo credere. Anche se...» «Pensavo che oggigiorno venissero definiti disturbi antisociali di personalità,» disse Yngvar. «In effetti si tratta di un'altra cosa. I criteri diagnostici si sovrappongono, però... Niente, lascia stare. Seguimi, Yngvar! Io qui sto cercando di pensare!» «Certo. Il problema è che non sono assolutamente più in grado di pensare.» «Allora lascia che lo faccia io. Ascolta, però! La violenza... la violenza si può suddividere a grandi linee in due tipi, quella strumentale e quella reattiva.» «Lo so,» borbottò Yngvar. «I nostri casi sono evidentemente il risultato di una violenza strumentale, cioè di un esercizio della violenza pianificato e con uno scopo preciso.» «Al contrario della violenza reattiva,» disse Yngvar lentamente. «Che è piuttosto il risultato di una minaccia esterna o di una situazione di frustrazione.» «La violenza strumentale è di gran lunga più tipica negli psicopatici che nel resto delle persone. In un certo senso, richiede una sorta di... cattiveria,
si può forse dire. O, più scientificamente: una capacità carente di empatia.» «Sì, non sembrerebbe un'anima che si lascia tormentare da cose di questo tipo, il nostro uomo...» «I genitori,» disse Johanne piano. Saltò giù dal bancone e aprì la valigetta scassata. Quindi si mise a scartabellare fino a trovare la busta con l'etichetta "Genitori", per poi piazzarne il contenuto un foglio accanto all'altro sul pavimento. Jack sollevò la testa, ma subito dopo tornò tranquillamente a dormire. «Qui deve esserci qualcosa,» si disse Johanne. «Esiste un qualche tipo di rapporto tra queste persone. È semplicemente impossibile sviluppare un odio così intenso nei confronti di quattro bambini di nove, otto, cinque e un anno scarso.» «Quindi non riguarda affatto i bambini,» intervenne Yngvar in tono seminterrogativo, chinandosi sugli appunti. «Magari no. Magari sia una cosa che l'altra. Bambini e genitori. I padri. Le madri. Cosa ne so.» «La madre di Emilie è morta.» «Ed Emilie è l'unica che manca all'appello.» Non si sentiva volare una mosca. Il silenzio amplificava il rumore dell'orologio sulla parete, che ticchettava inesorabile verso le sei. «Tutti i genitori sono bianchi,» disse Johanne all'improvviso. «Tutti sono norvegesi, anche di origine. Nessuno si conosce. Nessun amico in comune. Nessuno lavora nello stesso posto. È a dir poco...» «Sorprendente. Vuoi dire che sono stati scelti proprio in base al fatto che non hanno niente in comune?» «In comune, in comune, in comune...» Rimuginò su quella parola senza sosta, come fosse un mantra. «L'età. L'età varia dai venticinque anni della madre di Glenn Hugo ai trentanove del padre di Emilie. L'età delle madri va dai...» «Venticinque ai trentuno,» completò Yngvar. «Un lasso di sei anni. Non molto.» «D'altra parte sono tutte madri di bambini piccoli, la differenza non può essere enorme comunque.» «Credi che ci sia una relazione tra il fatto che la madre di Emilie sia morta e che la bambina non sia ancora stata trovata?» Yngvar sospirò pesantemente e si alzò in piedi. Abbassò lo sguardo sui fogli e poi cominciò a sparecchiare, portando via tazze e caffettiera. «Non ne ho idea. Forse Emilie non c'entra nulla in questo caso. Dico sul
serio, Johanne. Non sono più in grado di pensare.» «Io credo che lui in questo preciso momento stia male,» disse, nel vuoto. «Io penso che abbia fatto un errore, a Tromsø. Quel bimbo andava eliminato come gli altri. Impiegabile. In qualche maniera per noi inconcepibile, quell'uomo ha sviluppato una tecnica di omicidio che...» «Che non lascia traccia,» continuò Yngvar amaramente. «Davanti alla quale tutto il nostro esercito di cosiddetti medici esperti non fa che stringersi nelle spalle. Ci spiace, dicono. Nessuna causa di morte nota.» Johanne rimaneva in ginocchio, in assoluto silenzio e con gli occhi chiusi. «Non doveva soffocare Glenn Hugo,» disse piano. «Non doveva andare così. Gli piace il controllo che riesce ad avere su tutto e tutti adesso. Sta facendo un gioco. In qualche modo sente che... sta facendo giustizia. A Tromsø si è spaventato. Ha perso il controllo. Cosa che lo turba. Magari gli farà commettere un passo falso.» «Bestia,» disse Yngvar aspro. «Maledetta bestia.» «Non dal suo punto di vista,» fece Johanne, ancora in ginocchio con il peso scaricato sui calcagni. «È un tipo relativamente ben inserito, per lo meno all'apparenza. Presumibilmente ha la fedina penale pulita. Ossessionato dall'idea del controllo. È sempre in ordine. A posto. Pulito. Quello che fa, lo fa perché è giusto. Ha perso qualcosa. Gli è stato sottratto qualcosa che considera suo. Stiamo cercando una persona che si sente in pieno diritto di fare quello che fa. Il mondo intero congiura contro di lui. Tutto ciò che gli è andato storto nella vita è colpa degli altri. Non ha ottenuto i lavori che si meritava. Se non ha passato un esame, è perché le domande erano formulate male. Se guadagna poco è perché il capo è un idiota incapace di apprezzare il suo contributo sul lavoro. Ma lui tira avanti. Convive con tutto questo, le donne che non lo vogliono, la promozione che non arriva. Finché un giorno...» «Johanne...» «Finché un giorno succede qualcosa che...» «Johanne! Basta!» «Finché esplode. Finché non è più in condizione di sopportare l'ingiustizia. Finché arriva il suo turno di ripagare i torti subiti.» «Dico sul serio! Finiscila. Non sono altro che pure supposizioni!» Le si erano addormentate le gambe. Quando si aggrappò al bordo del tavolo per rimettersi in piedi fece una smorfia. «Può essere. Ma sei stato tu a venire da me in cerca di aiuto.»
«C'è puzza qui dentro.» Kristiane si tappava il naso. Sotto il braccio portava Sulamit. Il Re d'America le leccò felice la faccia. «Ciao, tesoro. Buongiorno. Adesso cambiamo l'aria.» «Questo signore puzza.» «Lo so!» Yngvar si sforzò di sorridere. «Adesso vado a casa a farmi una doccia. Grazie, Johanne.» Kristiane tornò in punta di piedi nella sua stanza, con il cane che le trotterellava dietro. Vergognoso, mentre indossava la giacca Yngvar Stubø cercò di nascondere le chiazze di sudore che aveva sotto le ascelle. Quando raggiunse la porta, fece come per abbracciare Johanne. Ma poi le porse la mano. Una mano sorprendentemente asciutta e calda. Dopo quel contatto, il palmo continuò a bruciarle anche molto dopo che lui era sparito oltre la curva all'altezza della casa rossa in fondo alla via. Johanne notò che bisognava lavare i vetri, c'erano segni di scotch dappertutto. E poi doveva mettersi un cerotto sul mignolo. Benché quasi non ci avesse fatto caso quando lo aveva sbattuto contro lo stipite andando ad aprire cinque ore prima, ora vedeva che si era gonfiato e che l'unghia si era quasi staccata. In effetti faceva piuttosto male. «Jack ha fatto la cacca,» gridò Kristiane in tono di trionfo dalla sala. XXXV. Anche se Aksel Seier non si era mai sentito realmente felice, in certi momenti si sentiva soddisfatto della propria vita. In giorni simili provava un senso di appartenenza; si sentiva ancorato alla relazione che nonostante tutto esisteva tra lui e Harwich Port, tra Aksel Seier e la sua casetta grigia rivestita di legno di cedro sulla spiaggia. La pioggia scuriva l'asfalto sconnesso di Ocean Avenue. Il pick-up procedeva a sobbalzi verso casa, lentamente, come se non fosse ancora del tutto sicuro di volerci tornare. Il mare s'univa al grigio del cielo mentre il verde intenso delle chiome delle querce, grevemente piegate le une verso le altre formando a tratti una galleria botanica sulla strada, andava attenuandosi. Ad Aksel piaceva quel tempo. Faceva caldo, Aksel sentiva l'aria nuova accarezzargli il viso attraverso il finestrino aperto. Il pick-up entrò sobbalzando nel vialetto di casa. Rimase seduto un momento, appoggiato allo schienale. Poi tolse le chiavi e scese. La bandiera sulla cassetta della posta era issata. Alla signora Davis quel-
la cassetta non piaceva. La sua era stata smaltata di rosa da Bjorn, un sedicente svedese che vendeva falsi Dalahäst, i tradizionali cavallini di legno dell'artigianato svedese, a stupidi turisti in Main Street. Bjorn non parlava svedese, oltre ad avere i capelli neri e gli occhi marroni. Ma quando dipingeva, usava solo il giallo e il blu. Questo bisognava riconoscerglielo. La cassetta della signora Davis era decorata con farfare i cui steli azzurri sembravano danzare. Quella di Aksel era nero tinta unita. La bandiera era rossa una volta, ma era passato del tempo. «You're back! 22 » A volte Aksel si chiedeva se la signora Davis avesse un radar in cucina. A dire il vero era vedova e disoccupata da molti anni - viveva di una modesta polizza vita lasciatale dal marito scomparso in mare nel 1975 - e poteva perciò dedicare il proprio tempo a tenere sotto controllo tutto e tutti nella cittadina. La sua efficienza era comunque impressionante. Aksel non ricordava una sola volta in cui qualcuno fosse tornato a casa senza ricevere un caloroso benvenuto dalla signora in rosa. Le porse una bottiglia dentro un sacchetto di carta marrone. «Oh dear! Liquor? For me, honey? 23 » «Maple syrup» rispose lui brevemente. «From Maine. Thanks for taking care of the cat. How much do I owe you?24 » La signora Davis non voleva soldi, non se ne parlava proprio. Ma se era stato via così poco. Non erano passati solo quattro giorni da quando era partito? Cinque? Ci mancava altro. Le aveva fatto piacere, un gatto così bello e beneducato, poi. Sciroppo del Maine. Mille grazie! Un così bello stato, il Maine. Ancora sano e intatto. Presto avrebbe dovuto farci un giro anche lei; dovevano essere passati vent'anni, ormai, da quando era andata a trovare la cognata, che viveva a Bangor. Era preside in una scuola, una donna tremendamente in gamba, benché forse un po' accondiscendente con la propria tendenza ad alzare il gomito. Ma insomma, fatti suoi, non era certo un problema della signora Davis, però non era nel New Jersey che doveva andare lui? Aksel si strinse nelle spalle in un modo che poteva significare qualunque cosa. Dal portabagagli prese la valigia e si diresse verso la porta d'ingresso. «But you've got mail, Aksel! Don't forget to check your mailbox! And the 22
Sei tornato! O caro! Del liquore? Per me, tesoro? 24 Sciroppo d'acero. Del Maine. La ringrazio per essersi occupata del gatto. Quanto le devo? 23
young lady who visited you last week, she came back. Her card is in the box, I think. What a sweet girl! Cute as a button25 .» Poi diede un'occhiata storta al cielo e trotterellò verso casa. Le gocce di pioggia le si erano adagiate come perle sul maglione d'angora e stavano per appiattirle i capelli. Aksel appoggiò la valigia sul gradino. Non gli piaceva ricevere posta. Erano sempre bollette. C'era una sola persona che scriveva ad Aksel Seier; gli spediva una lettera due volte all'anno, a Natale e a luglio, sempre con assoluta e devota regolarità. Lanciò un'occhiata alla casa della signora Davis. Si era fermata sotto la grondaia e gli indicava con zelo la cassetta della posta. Si rassegnò. A passi lunghi raggiunse la cassetta nera e aprì lo sportello. La busta era bianca. Non era una bolletta. Si infilò la lettera sotto il maglione, come se contenesse qualcosa di illegale. Un biglietto da visita cadde sul prato. Lo raccolse, diede un'occhiata alla parte davanti e se lo mise in tasca. C'era puzza di chiuso in casa, un odore dolciastro misto a polvere che lo fece starnutire. Il frigorifero era sospettosamente in silenzio. Ne aprì piano piano la porta, senza che si accendesse la luce sulla confezione da sei lattine di birra che occupava solitaria il ripiano più alto. Sotto c'era un piatto di verdure stufate, ricoperto da una ributtante pellicola verde. Non dovevano essere passati più di due mesi da quando Frank Malloy gli aveva riparato il frigo in cambio di un cuscino ricamato per il divano da portare a sua moglie. Tra poco non sarebbe rimasto più molto da riparare, aveva detto Frank; cribbio, era ora che Aksel se ne regalasse uno nuovo. Aksel prese una birra. Era tiepida. La lettera era di Eva. Non avrebbe dovuto arrivare adesso, una lettera di Eva. Non prima di luglio. A metà luglio e qualche giorno prima della vigilia di Natale. Così avrebbe dovuto essere. Così era sempre stato. Aksel si accomodò sulla sedia sotto la lampada a forma di pescecane. Prese un tagliacarte di peltro con un rilievo che rappresentava un motivo vichingo e aprì la busta. Ne estrasse dei fogli con una grafia familiare; poco chiara e difficile da leggere. Le linee scendevano oblique verso destra. Spiegò la lettera, se la lisciò su una coscia e poi se la avvicinò agli occhi. Il tempo di svuotare la lattina di birra, e già aveva letto tutto. Per essere 25
Ma c'è posta per te, Aksel! Non scordarti di controllare la cassetta! E quella signorina che era venuta a trovarti la settimana scorsa, è tornata. Ti ha lasciato un biglietto da visita nella cassetta, credo. Che ragazza dolce! Bella come il sole.
completamente sicuro, la rilesse. Poi rimase seduto a fissare ciecamente un punto nell'aria. XXXVI. Da una parte Johanne Vik era contenta che tutti avessero contato sul fatto che si sarebbe occupata lei di comprare la torta. Era la tipica persona che pensava a comprare la torta, sia agli occhi altrui che ai propri. Lei era quella che si preoccupava che ci fosse sempre il caffè nella sala riunioni. Se Johanne si assentava dal lavoro per più di tre giorni, in frigorifero non c'erano più né bibite né acqua minerale e il cesto della frutta non conteneva che un paio di mele secche e una banana marrone. Era impensabile che se ne facesse carico uno dell'ufficio. Nei corridoi aleggiavano ancora i resti di un'etica del lavoro anni Settanta, cosa che a lei in fondo andava bene. Di solito. Ora però era alquanto irritata. Sapevano del cinquantesimo compleanno di Fredrik da un'eternità. Tra l'altro, lui aveva fatto in modo di ricordar loro il grande giorno con regolarità e considerevole pompa. Erano passate più di tre settimane da quando Johanne aveva raccolto i soldi, duecento corone a testa, ed era andata tutta sola da Ferner Jacobsen a comprare un costoso maglione di cashmire per il professore più snob dell'istituto. Ma della torta si era dimenticata. Nessuno glielo aveva ricordato. Eppure tutti la guardarono stupiti al suo rientro dalla biblioteca. Il pranzo era finito e sul tavolo non era apparsa nessuna torta di noci ricoperta di marzapane. Niente canzoni, niente discorso. Fredrik era imbufalito. Gli altri sembravano irritati, come se lei avesse tradito l'intero collegio docenti in un momento decisivo. «Una volta ogni tanto ci potrebbe anche pensare qualcun altro,» disse Johanne chiudendo la porta del proprio ufficio. Non era da lei dimenticarsi di una cosa del genere. Gli altri avevano motivo di contare su di lei. Lo avevano sempre fatto e lei non si era mai tirata indietro. Se si fosse ricordata di quel maledetto compleanno, avrebbe semplicemente potuto chiedere a Tine o a Trond di comprare la torta. In fondo, Fredrik compiva cinquant'anni. E nemmeno poteva dare la colpa a Yngvar. Anche se le aveva rubato una notte di sonno, ci era più che abituata. Lo aveva capito bene dopo i primi anni con Kristiane. Pescò la fotocopia nella borsa. La biblioteca dell'università aveva su microfilm tutte le annate dei giornali locali. Le ci era voluta meno di un'ora a
trovare il necrologio. Doveva essere quello. Come per ironia della sorte, o forse grazie alla finezza d'animo di un tipografo locale, era stato collocato a fondo pagina, in un angolo; discreto e praticamente isolato. Il mio caro figlio ANDERS MOHAUG nato il 27.3.1938 mi ha lasciata il 12 giugno. I funerali hanno avuto luogo in forma privata. Agnes Dorothea Mohaug Dunque il ragazzo aveva ventisette anni quando era morto. Nel 1956, quando la piccola Hedvig era stata rapita, violentata e uccisa, ne aveva diciotto. «Diciott'anni...» Non c'erano altri necrologi. Johanne li aveva cercati, ma dopo aver scorso tutti i quotidiani delle quattro settimane successive alle esequie, aveva rinunciato. Nessuno aveva avuto nulla da dire su Anders Mohaug. La madre non aveva nemmeno dovuto rifiutarsi di ricevere i fiori a casa. Quanti anni poteva avere lei? Johanne contò sulle dita. Se aveva venticinque anni quando era nato il bambino, oggi doveva essere intorno ai novanta. Ottantotto. Sempre che fosse ancora viva. Poteva averne di più. Magari il bambino era arrivato tardi. «È morta,» mormorò Johanne infilando la copia dell'annuncio mortuario in una cartellina di plastica. Decise comunque di provarci. Trovare l'indirizzo fu facile, su un elenco telefonico del 1965. Il servizio informazioni le comunicò che adesso un'altra donna viveva al vecchio domicilio di Agnes Mohaug. Agnes Mohaug non era più registrata nell'elenco telefonico, la informò una voce metallica. Però qualcuno poteva ancora ricordarsi di lei. O di suo figlio. Sarebbe stato meglio trovare qualcuno che si ricordasse di Anders. Valeva la pena di fare un tentativo e il vecchio indirizzo di Lillestrøm era comunque un punto di partenza. Così Alvhild sarebbe stata contenta. Per qualche motivo era diventato importante per Johanne. Fare felice Alvhild. XXXVII.
Emilie sembrava più piccola. Si era in qualche modo ritirata, e la cosa lo irritava. Aveva le mascelle serrate, e sentiva stridere i molari. Cercò di rilassarsi. Emilie non poteva lamentarsi delle cure che riceveva. Le dava da mangiare. «Perché non mangi?» chiese duramente. La bambina non rispose, ma tentò di sorridere lo stesso. Era già qualcosa. «Devi mangiare.» Il vassoio era scivoloso. La scodella di minestra slittò da un lato all'altro quando si chinò per appoggiarlo sul pavimento. «Mi prometti che la mangerai?» Emilie annuì. Si coprì con il piumone, fino al mento; così lui non poteva più vedere quanto era magra. Bene. La bambina puzzava. Già sulla porta si sentiva odore di orina. Vecchia. Per un momento valutò l'idea di andare al lavandino a verificare se fosse rimasta a corto di sapone. Ma poi decise di lasciar perdere. In effetti, ormai erano parecchie settimane che Emilie indossava gli stessi abiti, ma non era certo una neonata. Se voleva poteva lavarsi le mutande. Sempre che ci fosse ancora sapone. «Ti lavi?» Lei annuì circospetta. Sorrise. Strano sorriso, quella bambina. Sottomesso, in qualche modo. Femminile. Aveva solo nove anni ma aveva già imparato quel sorriso remissivo. Che non significava niente. Solo tradimento. Un sorriso di donna. Sentì ancora il dolore in fondo alla mascella. Doveva riprendersi. Rilassarsi. Doveva riprendere il controllo. A Tromsø lo aveva perso. Quasi perso. Le cose non erano andate secondo i piani. Non per colpa sua. Era stato il tempo. Non era previsto che piovesse. Che facesse così freddo. A maggio! Maggio, e il bimbo era impacchettato come fosse stato pieno inverno. Non poteva andare bene, ma era lo stesso, ormai. Il bambino era morto. Lui era tornato a casa. Quella era la cosa più importante. Lui aveva ancora il controllo. Respirò a fondo, obbligando i pensieri a tornare al loro posto. Dove dovevano stare. Ma perché teneva ancora lì quella bambina? «Ti devi prendere cura di te,» le disse a bassa voce. Odiava l'odore della bambina. Lui faceva la doccia più volte al giorno. Era sempre perfettamente sbarbato. I suoi vestiti erano freschi di stiratura, sempre. Sua madre aveva l'odore di Emilie, a volte, quando l'infermiera a domicilio arrivava tardi. Lui non lo sopportava. La putrefazione umana. Mortificanti odori corporali causati dalla mancanza di controllo. Deglutì
con forza. Aveva la bocca piena di saliva e la gola spessa e dolorante. «Vuoi che spenga la luce?» le chiese facendo un passo indietro. «No!» Quindi reagiva. «No! Quello no!» «Allora mangia.» In un certo senso era eccitante stare lì così. Aveva bloccato la porta di ferro al muro con un gancio. Comunque poteva richiudersi. Se non faceva attenzione. Se per esempio cadeva, se per un istante perdeva l'equilibrio e finiva contro la porta, la porta si sarebbe sganciata e chiusa dietro di lui. Sarebbero stati persi. Entrambi. Lui e la bambina. Respirò rapidamente. Poteva entrare nella stanza fidandosi del fermo. Era un congegno solido, lo aveva fatto lui stesso. Una vite a occhiello fissata alla parete, in profondità, con un tassello per renderla sicura. Un gancio. Grande. Era solido e non sarebbe mai saltato da solo. Entrò nella stanza. Controllo. Le condizioni atmosferiche lo avevano tradito. Aveva dovuto soffocare il bambino. Non era così che doveva andare. In verità non aveva in progetto di sequestrarlo come aveva fatto con gli altri. Era furbo fare le cose in maniera diversa ogni volta. Disorientante. Non per lui, ovviamente, ma per gli altri. Sapeva bene che il bambino dormiva all'aperto per almeno un paio d'ore ogni pomeriggio. Dopo un'ora era troppo tardi. Non per lui, ma per gli altri. Sarebbe stato meglio se Emilie fosse stata un maschio. «Io ho un figlio,» disse. «Mhm.» «Più piccolo di te.» La bambina sembrava raggelata dal panico. Si avvicinò di un altro passo al letto. Emilie si incollò alla parete. Il suo viso era tutt'occhi. «Fai una puzza orribile,» le disse lentamente. «Non hai ancora imparato a lavarti? Non puoi venire di sopra a guardare la tele se puzzi così.» Lei continuava a fissarlo e basta. Adesso aveva la faccia bianca, non il classico colore della pelle, non rosa. Bianca. «Sei una signorina, ormai.» Emilie respirava rapidissimamente. Lui sorrise, rilassato. «Mangia,» le disse. «È meglio che mangi.» Poi si voltò verso la porta. Il gancio era freddo, a contatto con la pelle. Lo sfilò con cautela dall'occhiello. Poi lasciò che la porta si richiudesse
lentamente tra lui e la bambina. Mise la mano sull'interruttore e provò un'intensa soddisfazione al pensiero di quanto fosse stato previdente a piazzarlo all'esterno. Lo spense, quel clic dava una sensazione tattile speciale, opponeva una piacevole resistenza che gli fece ripetere il gesto più volte. Spento, acceso. Spento, acceso, spento. Alla fine lasciò la luce accesa e andò di sopra a guardare la televisione. XXXVIII. «Abbiamo le liste di tutti quelli che sono atterrati o decollati da Tromsø prima e dopo l'omicidio di Glenn Hugo. La polizia di Tromsø sta facendo un lavoro fantastico, sta raccogliendo le videoregistrazioni di tutte le stazioni di benzina nel giro di cinquanta chilometri. Le società dei pullman stanno cercando di mettere insieme anche loro delle liste passeggeri, ma è molto più complicato. I battelli postali lavorano su liste simili e la stessa cosa la stanno facendo le società di trasporto marittimo.» Sigmund Berli si grattò il collo e si aggiustò il colletto. «E molti altri modi di entrare e uscire dalla Parigi del nord non ce ne sono. Per il momento non abbiamo chiesto la collaborazione degli alberghi. Sembra, diciamo, piuttosto improbabile che questo tizio abbia dormito in un hotel... Dopo aver ucciso un bambino, voglio dire.» «Deve trattarsi di... varie centinaia di nomi.» «Varie migliaia, temo. I ragazzi lavorano a tutta forza per inserirli a computer. Vengono confrontati con...» Berli gettò un'occhiata al tabellone di Yngvar Stubø, su cui erano appese le foto di Emilie, Kim, Sarah e Glenn Hugo con grandi puntine da disegno blu. Solo Kim faceva un sorriso timido, gli altri bambini fissavano seri l'obiettivo. «... con i resoconti dei genitori su tutti quelli che hanno conosciuto o con cui sono stati in contatto. Merda... Queste liste sono sempre più assurde, Yngvar.» Gli si spezzò la voce e tossì. «So che è necessario. Solo che è così...» «Frustrante. Una quantità enorme di nomi senza legami reciproci.» Yngvar fece un lungo sbadiglio e si allentò il nodo della cravatta. «E l'uomo che è stato visto in...» Strinse gli occhi cercando di concentrarsi. «Soltunveien,» riuscì a ricordare. «L'uomo vestito di grigio o blu.»
«Nessuno si è fatto vivo,» disse Sigmund Berli, la voce un po' più viva adesso. «Il che rende ancora più interessante quanto ha visto il testimone, e dimostra che aveva ragione: la donna con il cappotto rosso era una vicina di casa, lei stessa dice che deve essere passata dalla Langnesbakken verso le tre meno dieci. Anche il ragazzo in bicicletta è stato identificato, si è presentato insieme al padre stamane ed è del tutto evidente che non ha niente da nascondere. Nessuno dei due ha visto o sentito nulla di sospetto. L'uomo che andava di fretta senza volerlo... far vedere? Quello non si è fatto vivo. Quindi può essere...» «Il nostro uomo.» Yngvar Stubø si alzò. «Tra i venticinque e i trentacinque anni. Con i capelli. Altro?» Si era fermato di fronte alle immagini dei bambini. Gli occhi scorrevano sulla serie di fotografie, avanti e indietro. «Niente di speciale, temo. Questo testimone, non mi ricordo come si chiama adesso, sembrerebbe proprio insolitamente attento, per non dire troppo. Descrive l'andatura e la figura, ma si rifiuta di collaborare a un identikit.» «Ragionevole, a ben vedere. Se ritiene di non averlo visto. Ma perché pensa che fosse intorno ai trenta?» «In base alla figura. I capelli. Il modo di camminare. Agile, ma non del tutto giovanile. I vestiti. Tutto l'insieme. Però tra i venticinque e i trentacinque non è che sia granché precisa come indicazione.» Yngvar Stubø si dondolava leggermente sui talloni. «Ma se...» Si voltò di colpo verso il collega. «Se non si presenta più nessuno che corrisponda alla descrizione e avesse qualcosa da fare di più o meno legittimo quella domenica pomeriggio, possiamo considerare di aver fatto un bel passo avanti.» «Un passo,» ripeté Berli annuendo. «Ma non molto di più. In fondo abbiamo sempre pensato che fosse un uomo. Di fatto poteva avere tra i venti e i quarantacinque anni. Ci sono parecchi uomini in questa fascia d'età in Norvegia. E con i capelli. Tra l'altro poteva anche essere una parrucca, per quello che ne sappiamo.» Squillò il telefono. Per un momento sembrò che Yngvar Stubø non volesse rispondere. Restò a fissare a lungo l'apparecchio, prima di afferrare bruscamente la cornetta. «Stubø,» disse secco.
Sigmund Berli si appoggiò allo schienale della sedia. Yngvar parlava poco e ascoltava molto. Il suo viso era piuttosto inespressivo; solo un leggero sollevarsi del sopracciglio sinistro poteva indicare una certa sorpresa per quello che gli stavano dicendo. Sigmund Berli passò le dita su un portasigari posato sulla scrivania davanti a lui. Il legno era perfettamente liscio, gradevole al tatto dei polpastrelli. Sentì all'improvviso una sensazione vuota e spiacevole di fame; aveva male allo stomaco senza in realtà avere voglia di cibo. Yngvar terminò la conversazione. «Novità?» Yngvar non rispose. Fece invece fare alla sedia mezzo giro su se stessa, per poter continuare a esaminare i volti dei bambini sulla parete. «Kim ha un papà e una mamma che vivono insieme. Sposati. Lo stesso vale per Glenn Hugo. La madre di Sarah vive da sola, ma la bambina passava dal padre un fine settimana sì e uno no. La madre di Emilie è morta. Lei abitava con suo padre.» «Abita,» lo corresse Berli. «Emilie può essere ancora viva. In altre parole, questi bambini rappresentano una buona media della popolazione infantile norvegese. La metà ha genitori che convivono, l'altra metà vive con uno di loro.» «Anche se il papà di Emilie non è davvero il papà di Emilie.» «Cosa?» Il condizionatore si fermò di colpo. «Era Hermansen di Asker e Bærum,» disse Yngvar indicando il telefono. «Lo ha contattato un medico. Non sapeva che importanza avesse... o se quello che aveva da dire avesse importanza per le indagini. Dopo quello che è successo nel fine settimana, e dopo aver consultato i suoi superiori, ha deciso di rompere il segreto professionale e svelare che il padre di Emilie non è il padre biologico.» «Tønnes Selbu ci ha mai detto una cosa del genere?» «Lui non lo sa.» «Non sa che... non sa di non essere il padre di sua figlia?» Scrutarono entrambi la foto di Emilie. Era più grande delle altre, fatta da un professionista. La bambina aveva il mento stretto, con un accenno di fossetta. Gli occhi erano grandi e seri. Aveva la bocca piccola, le labbra carnose, e sui capelli biondi portava una corona di farfare intrecciate. Uno dei fiori era appassito e le pendeva sulla fronte. «Tønnes Selbu e Grete Harborg erano sposati quando Grete rimase incinta. Tønnes fu registrato automaticamente come padre della neonata.
Nessuno ha mai messo in dubbio che lo fosse davvero. A parte la madre, lei deve pur... In ogni caso. Due anni fa Grete e Tønnes decisero di diventare donatori di midollo osseo. C'era la storia di un cugino che si era ammalato e tutta la famiglia... Be', con grande sorpresa del medico, i test dimostrarono che Tønnes non era il padre della piccola. Una scoperta puramente casuale. Il medico aveva già fatto un esame a Emilie e...» «Ma non glielo dissero, a quell'uomo?» «A che pro?» Yngvar rimaneva davanti alla foto di Emilie ora, la studiava con attenzione e intanto passava un dito sulla corona di gialli fiori primaverili. «Tønnes Selbu è un buon padre. Migliore della maggior parte dei padri, secondo quanto riferiscono i rapporti. Capisco bene i medici. Perché dovrebbero a tutti i costi dargli una spiegazione che non ha chiesto? Che non gli serve?» Sigmund Berli fissò incredulo la foto della bambina di nove anni. «Io avrei voluto saperlo! Cribbio, se Sture e Snorre non fossero miei, be', allora...» «Allora cosa? Non li vorresti?» Berli richiuse la bocca con uno schiocco, letteralmente. Quel rumore secco provocò la risata asciutta di Yngvar. «Lascia perdere questa storia adesso, Sigmund. Quello che conta ora è scoprire se è un'informazione significativa per noi. Per l'indagine.» «Capirai, cosa credi, che mi preoccupi?» disse l'altro, distratto. Snorre era moro come Sigmund Berli. Spigoloso. Tutto suo padre, come si dice. Sebbene non fosse molto bravo in quelle cose, anche lui notava delle chiare somiglianze tra le proprie foto di quando aveva cinque anni e suo figlio adesso. «Cosa vuoi che ne sappia, io. Finiscila!» Yngvar gli schioccò le dita in faccia. «La prima cosa che dovremmo scoprire è se vale anche per altri.» «Se gli altri bambini sono realmente figli dei loro padri? Cosa vuoi che facciamo, lo verifichiamo prima del funerale, chiamiamo e diciamo, scusi, caro signore, ma sospettiamo che lei non sia il padre del bambino che ha appena perso, non può passare a farsi un'analisi del sangue? Eh? Eh? Vuoi dire questo?» «Ma che cos'hai?» La voce di Yngvar era profonda e tranquilla. Sigmund Berli lo aveva sempre ammirato proprio per questo, per la sua capacità di autocontrollo,
di pensare sempre con lucidità, di parlare con precisione. Adesso però Berli era furioso. «Dannazione, Yngvar! Hai in mente di dare il colpo di grazia a questi uomini o cosa?» «No. È un lavoro che va fatto con discrezione. Molta discrezione. Non ho nessun desiderio di far sapere a Tønnes Selbu nulla di ciò che abbiamo detto. Per quanto riguarda gli altri padri, è compito tuo inventarti qualcosa per giustificare con naturalezza un'analisi del sangue. Chiuso.» Sigmund Berli fece un respiro profondo. Poi unì le punte delle dita e fece girare i pollici. «Suggerimenti?» domandò seccamente. «No. Fai tu.» «Va bene.» «Sono certo...» cominciò Yngvar, con una nota di riconciliazione nella voce, come un padre che tende la mano a un figlio poco ragionevole. «O per dirla in un altro modo: ci sono due cose che dobbiamo chiarire al più presto. La prima è se i bambini sono figli dei loro padri. La seconda è...» Sigmund Berli si alzò. «Non ho finito,» fece Yngvar. «E allora finisci. Ho molto da fare.» «Dobbiamo scoprire di cosa sono morti Kim e Sarah.» «I medici dicono che non lo sanno.» «Che indaghino più a fondo, allora. Facciano altre analisi. Che ne so. Dobbiamo sapere di cosa sono morti i bambini, e dobbiamo sapere se c'è un padre ignoto da qualche parte.» «Padre ignoto?» Sigmund Berli adesso era più tranquillo. Aveva aperto i pugni e respirava con più libertà. «Vuoi dire che questi bambini potrebbero essere... fratellastri?» «Non voglio dire nulla,» rispose Yngvar Stubø. «Tu inventati qualcosa per poter fare i test. Buona fortuna.» Sigmund Berli borbottò qualcosa. Yngvar Stubø ebbe il buon senso di non chiedere cosa. Sigmund a volte era capace di dire cose che non pensava. Per lo meno, non una volta che le aveva dette. Tra l'altro Yngvar sapeva bene quali fossero i pensieri del suo collega. Il figlio maggiore di Sigmund Berli era un ragazzo biondo e longilineo. Sputato sua madre, diceva sempre, con orgoglio malcelato. Quando la porta si chiuse alle spalle di Sigmund, Yngvar Stubø chiamò
Johanne al lavoro. Non rispondeva. Lasciò squillare a lungo il telefono. Inutilmente. Quindi provò a casa. Non era nemmeno lì, e Yngvar scoprì che lo irritava non sapere dove si trovasse. XXXIX. Era evidente che la casa era stata costruita subito dopo la guerra. Magari negli anni Cinquanta. Una casa quadrata di quattro appartamenti, a quanto pareva di tre stanze più bagno e cucina. Si trattava di un'area relativamente grande; non era la mancanza di spazio a caratterizzare i paesini norvegesi dopo la Seconda guerra mondiale. L'edificio era appena stato ristrutturato. La tinta sulle pareti era spessa e gialla e le tegole del tetto sembravano nuove. Johanne parcheggiò in strada, proprio davanti al portone. Anche il cancello era stato riverniciato da poco, la pittura verde era talmente lucida che per un attimo le venne da chiedersi se non fosse ancora umida. C'era odore di paese piccolo. Il rumore di un'automobile qua e là, il baccano di un asilo dietro una cancellata alta, il martellare dei lavori in corso dall'altra parte della strada, le urla un po' volgari degli operai, la risata improvvisa di una donna da una finestra aperta. I rumori di una cittadina. Il profumo del pane che qualcuno stava facendo in casa. La sensazione di essere osservata mentre si avvicinava alla piccola tettoia sopra il portone, senza sapere chi la stesse guardando, cosa pensasse o se pensasse ad altro se non "Ecco che arriva una forestiera, una che non è di qui". Johanne Vik era nata e cresciuta a Oslo. Ne sapeva ben poco di cittadine piccole, non aveva problemi ad ammetterlo. Eppure c'era qualcosa in posti come quello che la attirava. L'idea di avere tutto sott'occhio. La trasparenza. La sensazione di essere parte di qualcosa non così grande e imprevedibile. Era un pensiero che la colpiva sempre più spesso: con la tecnologia moderna, di fatto non aveva nessun bisogno di vivere a Oslo. Poteva fuggire, trasferirsi in campagna, trasferirsi in una cittadina con cinque negozi e un'officina meccanica, una caffetteria semplice e una stazione dei pullman, appartamenti economici e una scuola per Kristiane con solo quindici allievi per classe. Ovviamente non poteva, non con Isak e i suoi in città, non con Kristiane che aveva sempre e costantemente bisogno di qualcuno che le stesse accanto. Eppure il pensiero c'era. Avvertiva gli sguardi provenienti dal secondo piano della casa gialla, dalla finestra panoramica della villa dall'altra parte della strada, occhi che la seguivano da dietro le persiane e le
tende; era stata vista e notata, e la cosa le dava una strana sicurezza. "Lillestrøm! Santo cielo. Sono immersa in fantasie romantiche su Lillestrøm!" La cassa comune del condominio per le opere di ristrutturazione doveva aver toccato improvvisamente il fondo arrivati ai campanelli. Pendevano dalle porte, macchiati di vernice gialla. Johanne cercò di premerne uno. Doveva tenerlo fermo con una mano e pigiare con l'altra. In lontananza udì un brutto scampanellio. Nessuna reazione. Provò con il successivo. La signora del secondo piano, che la stava guardando dalla finestra della cucina senza rendersi conto di essere perfettamente visibile dal viale d'accesso, si affacciò alla finestra. «Sì?» «Salve! Mi chiamo Johanne Vik, vorrei...» «Un momento, per favore!» La donna scese di corsa le scale. Fece un sorriso ansioso a Johanne mentre apriva il portone a metà. «Di cosa si tratta?» «Come dicevo, mi chiamo Johanne Vik. Sono una ricercatrice dell'università di Oslo, e in realtà sto cercando qualcuno che possa sapere cosa ne è stato di una signora che viveva qui anni fa. Molti anni fa, per essere sinceri.» «Mhm?» La donna doveva aver superato ampiamente i sessanta. Si era coperta i capelli con un foulard di chiffon. Sotto quella stoffa semitrasparente verde bluastra, Johanne intravedeva dei grossi bigodini, anch'essi blu e verdi. «Io sono venuta qui nel 1967,» disse la donna, senza dar segno di voler far passare Johanne. «Magari ti posso aiutare. Di chi si tratta?» «Agnes Mohaug,» disse Johanne. «È morta,» la informò la donna con un gran sorriso, come se le facesse piacere essere in grado di dare una notizia del genere. «Morì l'anno in cui arrivai io. Subito dopo, in effetti. Abitava lì.» La donna sollevò pigramente un braccio. Johanne suppose che indicasse il primo piano a sinistra. «La conoscevi?» La donna rise, scoprendo in un luccichio i colletti dei denti, grigi su gengive di un rosa malaticcio. «Direi proprio che non c'era nessuno che conoscesse Agnes Mohaug. Viveva qui da quando avevano costruito la casa. Nel 1951, credo sia stato.
Ma non c'era nessuno che realmente... Aveva un figlio. Lo sapevi?» «Sì, sto cercando...» «Un... uno scemo, mi capisci. Non che lo conoscessi, morì anche lui...» Rise di nuovo, roca e di cuore, come se trovasse la scomparsa della famiglia Mohaug un dato tremendamente spassoso. «Non era una brava persona, si dice. Per niente. Mentre Agnes Mohaug... su di lei non c'era assolutamente nessuno che avesse da ridire. Si faceva i fatti suoi. Sempre. Una storia dolorosa, quella di quel ragazzo che...» La donna si interruppe. «Quel ragazzo che?» disse Johanne con prudenza. «No...» La donna esitò. Poi si passò rapidamente la mano sui bigodini. «È passato così tanto tempo. Tra l'altro, io la signora Mohaug non la conoscevo granché bene. Di fatto morì appena qualche mese dopo che mi ero trasferita qui. E il figlio allora era già morto da anni. Da parecchio tempo, comunque.» «Ah...» «Però...» La donna s'illuminò. Sorrise di nuovo, tanto che il suo visino stretto sembrò dividersi in due. «Suona a Hansvold, al numero 44! Laggiù!» Agitò una mano in direzione dell'edificio gemello verde, cento metri più in là, separato dal numero 46 da un grande prato e una cancellata di metallo alta circa un metro. «Hansvold è quello che vive qui da più tempo. Deve avere più di ottant'anni, ma è lucido come il cristallo. Se puoi aspettare un momento, ti accompagno volentieri e te lo presento...» Si chinò verso Johanne con fare confidenziale, senza però aprire di più il portone. «... dato che ti conosco, voglio dire. Solo un momento.» «Non è necessario,» disse svelta Johanne. «Me la sbrigo da sola. Ma grazie lo stesso! Grazie mille.» Per evitare che la signora con il foulard di chiffon facesse in tempo a cambiarsi, Johanne si diresse a passo rapido verso l'altro portone. Un bambino dell'asilo gridava forte. Da sopra l'impalcatura, un carpentiere imprecava volgarmente minacciando di denunciare un uomo in giacca e cravatta che, a braccia alzate, indicava rassegnato una betoniera ribaltata. Un'auto
passò su un dosso artificiale quando Johanne raggiunse la strada; sussultò e mise il piede in una pozzanghera. La cittadina cominciava già a perdere parte del suo charme. «Però continuo a non capire bene perché lo vuole sapere.» Harald Hansvold batté la pipa contro un grande posacenere di cristallo. Una sottile pioggia di tabacco bruciato si sparse sulla superficie lucida. Quell'uomo anziano e ben vestito aveva evidenti problemi di vista. Una patina grigia e opaca rendeva confusi i contorni di una pupilla, e aveva smesso di usare gli occhiali. Johanne sospettava che vedesse soltanto ombre intorno a sé. Aveva permesso che lei, una completa sconosciuta, andasse a prendere una bibita e dei biscotti in cucina. Per il resto sembrava sano; le sue mani erano ferme, mentre ricaricava la pipa di tabacco. Aveva una voce tranquilla e si ricordava senza alcun problema di Agnes Mohaug, la vicina con un figlio non molto dotato, come scelse di definirlo. «Si lasciava trascinare facilmente. Penso fosse questo in primo luogo il problema. Naturalmente per lui non era tanto semplice farsi degli amici, dei veri amici, intendo. Deve tener presente che erano altri tempi, tempi in cui... la tolleranza nei confronti dei diversi...» Fece un sorriso teso. «... non era affatto paragonabile a quella di oggi.» Johanne non sapeva se quell'uomo stesse cercando di fare dell'ironia. Sentì una fitta sotto lo sterno e bevve un gran sorso dalla sua bibita. Era troppo dolce e, imbarazzata, se la fece uscire quasi tutta di bocca perché tornasse nel bicchiere. «Anders non era per nulla un cattivo ragazzo,» proseguì il signor Hansvold indisturbato. «Mia moglie lo invitava a casa di tanto in tanto. A volte questo mi preoccupava, io ero spesso in viaggio. Sono un macchinista in pensione, sa.» Che il signor Hansvold osservasse coerentemente le forme non era forse così strano, considerata l'età. C'era tuttavia qualcosa di inaspettatamente raffinato in quell'anziano e nel suo appartamento, pieno di libri dal pavimento fino al soffitto e con tre moderne litografie alle pareti. In qualche modo, quell'immagine non combaciava del tutto con una lunga carriera nelle ferrovie. Temendo che i suoi pregiudizi fossero troppo evidenti, Johanne annuì con aria di grande interesse, come se quella del macchinista fosse una professione della quale aveva sempre voluto sapere di più. «Quando era piccolo, naturalmente non era così pericoloso. Ma quando
entrò nella pubertà... diventò molto grosso. Un ragazzone robusto. Ma, sa...» Fece un gesto eloquente con l'indice contro la tempia. «E poi c'era quell'Asbjørn Revheim.» «Asbjørn Revheim?» «Sì. Lo conosce, no?» Johanne annuì confusa. «Naturalmente,» mormorò. «Viveva giusto qua sotto. Non lo sapeva? La biografia che è uscita l'autunno scorso, dovrebbe leggerla. Un uomo speciale. Libro molto interessante. Sa, Asbjørn era un ribelle già da ragazzino. Portava vestiti appariscenti. Si comportava sempre in modo da essere notato. Non era affatto come gli altri.» «No,» disse Johanne incerta. «Non lo è mai stato.» Harald Hansvold rise e scosse la testa. «Una domenica, doveva essere il 1957 o il '58... no, era il 1957! Subito dopo la morte di re Haakon, solo qualche giorno più tardi. C'era il lutto nazionale e...» Diede un colpetto alla pipa che non voleva accendersi per bene. «Il ragazzo organizzò un'esecuzione davanti all'asilo. Be', non c'era l'asilo lì allora. C'era la sede dei boy-scout prima. A quel tempo.» «Una... esecuzione? Una condanna a morte?» «Sì. Aveva catturato un gatto randagio e l'aveva vestito con abiti regali. Ermellino e corona. La cappa era una vecchia pelliccia di coniglio con dei pois dipinti sopra. Anche la corona doveva averla fatta lui. Quel povero gattino mugugnò e miagolò, e dovette pagare con la vita su un patibolo fatto in casa.» «Ma era... era... maltrattamento di animali!» «Certo!» Tuttavia, Harald Hansvold non riuscì a reprimere un sorriso. «Ci fu un gran trambusto, eccome! Arrivò la polizia e le signore della via si misero a gridare a più non posso. Asbjørn gonfiò la faccenda sostenendo che si trattava di una dimostrazione politica contro la casa reale. Voleva bruciare il cadavere del gatto e aveva già preparato un bel falò quando le forze dell'ordine intervennero e bloccarono tutto. Può capire, quando un regnante amato dal popolo come re Haakon se n'è appena andato...» All'improvviso gli sparì il sorriso. L'occhio grigio divenne più opaco, come se Hansvold stesse guardando dentro se stesso, indietro nel tempo.
«Ma il peggio era altro,» fece piano, la voce completamente cambiata. «Il peggio era che aveva fatto vestire Anders da boia. A torso nudo con un cappuccio nero in testa. Agnes Mohaug era mortificata per l'accaduto. Ma è così che andarono le cose.» C'era un gran silenzio in casa. Nessun orologio, neanche una radio lontana e inascoltata. L'appartamento di Harald Hansvold non si sarebbe detta la casa di un vecchio signore. I mobili erano neutri, le tende bianche, e non c'era neanche un vaso di fiori sul davanzale della finestra. «Ha letto Revheim?» le chiese amichevole. «Sì. Quasi tutto, credo. È proprio la tipica rivelazione del liceo. Quantomeno, lo fu per me. Era così... diretto. Rivoluzionario, l'ha detto lei. Così forte... per resistere da solo. Completamente solo in quello in cui credeva. Cose del genere colpiscono al cuore, a quell'età.» «Be', c'erano anche altri aspetti,» fece lui. «Nei suoi scritti, voglio dire. Aspetti che entusiasmano i ragazzi di quell'età. Al liceo.» «Sì. Anders Mohaug, lui era...» «Come le ho già detto,» disse Hansvold con un sospiro pesante, «Anders si lasciava trascinare facilmente. Mentre gli altri ragazzi qua in giro lo evitavano come la peste, Asbjørn Revheim gli era amico. O meglio...» Di nuovo assunse quello sguardo lontano, come se stesse riandando nella propria memoria senza sapere esattamente dove fermarsi. «Non gli era amico. Lui sfruttava Anders. Su questo non c'è il minimo dubbio. Tra l'altro sapeva essere piuttosto cattivo, e lo dimostrò in svariate occasioni. Anche in ciò che scriveva. Anders Mohaug, un tipo grosso e tardo. In tutti i sensi. Non era amicizia.» «Non dica così,» fece Johanne. «Come no, certo che lo dico.» Per la prima volta c'era durezza nella sua voce. «Ha mai sentito parlare» fece Johanne svelta «di un caso di cui si occupò la polizia nel 1965?» «Un che? Un'indagine della polizia?» «Sì. Anders Mohaug ha mai avuto guai con la polizia?» «Bah... veniva interrogato ogni volta che Asbjørn se ne inventava una delle sue e se lo tirava dietro. Ma non si è mai trattato di niente di serio.» «Ne è sicuro?» «Mi dica...» Adesso Johanne avrebbe potuto giurare che quell'uomo sembrava un'aquila. La patina grigia e opaca faceva apparire l'occhio sinistro più grande
del destro, era impossibile guardare altrove. «Potrebbe farmi la gentilezza di essere un po' più precisa?» «Ho motivo di credere che la madre di Anders nel 1965, dopo la morte del figlio, contattò la polizia. Secondo lei Anders aveva commesso un delitto diversi anni prima. Una cosa seria. Una cosa per cui era stato arrestato un altro uomo.» «Agnes Mohaug? La signora Mohaug avrebbe denunciato suo figlio alla polizia? Lo escludo.» Scosse energicamente il capo. «Ma il figlio era già morto.» «Non fa niente. Quella donna viveva per Anders. Era l'unica cosa che aveva. E le fa un grande onore che se ne sia presa cura fino all'ultimo. Denunciarlo per qualunque cosa fosse... anche dopo...» Lasciò perdere la pipa e la appoggiò sul bordo del posacenere. «Non mi quadra affatto,» disse. «E non ha mai sentito correre nessuna voce?» Hansvold ridacchiò e incrociò le mani sulla pancia. «Ho sentito molte più voci di quelle che ritengo degne di considerazione. Questa è una cittadina. Ma se si riferisce a voci su Anders... No. Non nel senso a cui allude lei.» «Cioè?» «Che il ragazzo avrebbe fatto qualcosa di molto più grave di lasciarsi stupidamente persuadere a uccidere un gatto.» «Allora, tolgo il disturbo.» «Nessun disturbo. È stato un piacere ricevere visite.» Quando la accompagnò alla porta, Johanne notò una grande fotografia di una donna sui cinquant'anni sulla parete all'entrata. Gli occhiali suggerivano che fosse stata scattata negli anni Settanta. «Mia moglie,» disse Hansvold con un cenno leggero verso il ritratto. «Randi. Una donna meravigliosa. Lei ci sapeva fare con Anders. La signora Mohaug si fidava di Randi. Quando Anders era qui, passavano ore e ore a fare puzzle o a giocare a canasta. Randi lo lasciava sempre vincere. Come se fosse stato un bambino piccolo.» «In fondo lo era,» aggiunse Johanne. «In un certo senso.» «Sì. In un certo senso era un bambino piccolo.» Hansvold si voltò verso di lei e si strofinò il naso. «Ma era anche un uomo. Un uomo adulto e robusto, non se lo scordi.» «Non lo farò,» disse Johanne. «Mille grazie per il suo aiuto.»
Mentre tornava a Oslo controllò la segreteria telefonica sul cellulare. Due messaggi erano di Yngvar, che la ringraziava per la sera prima e si domandava dove fosse. Johanne rallentò e si accodò a un camion, frapponendo una buona distanza di sicurezza. Ascoltò e riascoltò i due messaggi. Nel secondo si percepiva qualcosa di simile all'irritazione, o forse all'ansia. Johanne cercò di capire se le facesse piacere o in realtà le desse fastidio. Sua madre aveva chiamato tre volte. Non si sarebbe arresa, perciò Johanne fece immediatamente il numero, restando sulla corsia lenta dell'autostrada. «Ciao, mamma.» «Ciao! Che bello sentirti. Tuo padre stava giusto chiedendo di te...» «Se è solo per questo basta che mi chiami, diglielo pure e salutamelo.» «Chiamarti? Ma se non ci sei mai, ragazza mia! Eravamo molto preoccupati, sai. Non abbiamo saputo niente di te per giorni e giorni dopo che sei tornata dal tuo viaggio, eccetera. Ce l'hai fatta a vedere Marion? Come sta, con il nuovo...» «Non ho visto nessuno mamma. Stavo lavorando.» «D'accordo, ma dato che eri già da quelle parti, potevi anche...» «Sinceramente ho parecchio da fare in questo periodo. Non appena ho fatto quello che dovevo sono ripartita.» «Bene. Splendido, tesoro.» «Mi hai lasciato un messaggio in segreteria. Parecchi messaggi. Avevi bisogno di qualcosa in particolare?» «Solo sentire come stavi. E poi invitare te e Kristiane a cena venerdì. Sarebbe un bene per te non doverti occupare di...» «Venerdì... ci devo pensare...» Il camion aveva difficoltà sulla salita che portava a Karihaugen. Johanne si mise sulla sinistra e accelerò. Le cadde l'auricolare. «Aspetta,» gridò a vuoto. «Non riagganciare, mamma!» Mentre cercava di afferrare il cavo, perse la presa sul volante. L'auto sterzò verso la corsia accanto e una Volvo dovette fare una frenata brusca per evitare lo scontro. Con entrambe le mani Johanne strinse forte il volante e fissò lo sguardo dritto davanti a sé. «Non riagganciare,» ripeté dura. Senza togliere gli occhi dalla strada riuscì a ripescare l'auricolare. «Cos'è successo?» gridò sua madre dall'altro capo. «Stai di nuovo guidando mentre parli al telefono?» «No, parlo al telefono mentre guido. Non è successo niente.»
«Un bel giorno t'ammazzi in questo modo. Non ci sarà mica sempre bisogno di fare tutto insieme!» «Veniamo venerdì, mamma. E senti...» Il cuore le batteva ancora forte e dolorosamente sotto lo sterno. Le venne in mente che non aveva mangiato nulla dopo la colazione. «Pensi che Kristiane possa stare da voi fino a sabato pomeriggio?» «Ma certo! Perché non vi fermate a dormire tutte e due?» «Ho delle cose da fare, mamma, ma sarebbe...» «Esci? Di venerdì sera?» «Kristiane può fermarsi a dormire sì o no?» «Naturalmente sì, cara. È sempre la benvenuta da noi. Anche tu. E lo sai bene.» «Sì. Allora ci vediamo verso le sei.» Chiuse la comunicazione prima che sua madre riuscisse a dire altro. Non aveva organizzato niente per venerdì sera. Non aveva idea del perché glielo avesse chiesto. Lei e Isak avevano un accordo: se avessero avuto bisogno di una baby-sitter, avrebbero chiesto innanzitutto l'uno all'altro. Per prima cosa. Rifece il numero della segreteria. I messaggi di Yngvar erano stati cancellati. Doveva aver schiacciato qualche tasto alla rinfusa. Line aveva chiamato, mentre lei parlava con sua madre. "Ciao, sono Line. Volevo solo ricordarti l'incontro del circolo di lettura mercoledì. Tocca a te, sai. E guai a te se non puoi. Prepara qualcosa di semplice. Noi portiamo il vino. Arriviamo verso le otto. Ciao, bellezza! Non vedo l'ora!" «Merda!» Johanne era brava a fare diverse cose simultaneamente. La sua giornata funzionava perché sapeva fare tante cose insieme. Poteva organizzare la festa di compleanno di Kristiane mentre seguiva la lavatrice e parlava al telefono contemporaneamente. Ascoltava la radio mentre leggeva il giornale e li seguiva entrambi. Andando all'asilo pensava a cosa preparare per cena e a cosa avrebbe indossato Kristiane il giorno dopo. Si lavava i denti e mescolava il porridge e leggeva ad alta voce per Kristiane: tutto allo stesso tempo. Le rare volte in cui usciva a divertirsi, portava Kristiane da Isak o dai suoi e si truccava guardandosi nello specchietto retrovisore. Le donne erano così. Soprattutto lei. Ma non sul lavoro. Johanne aveva scelto di fare la ricercatrice perché era una che andava a
fondo nelle cose. Ma c'era dell'altro. Non avrebbe mai potuto fare l'avvocato o la burocrata. Essere una ricercatrice significava avere il diritto di andare fino in fondo. Di fare una cosa alla volta. Di vedere in lungo e in largo, di soffermarsi sui collegamenti tra le cose. La ricerca le dava l'opportunità di dubitare. Laddove la routine quotidiana consisteva di decisioni rapidissime e soluzioni a metà, compromessi e scorciatoie furbe, il lavoro le dava la possibilità di fare e rifare le cose se non era soddisfatta. Adesso era tutto un caos. Quando con molte esitazioni aveva accettato di investigare sul possibile errore giudiziario ai danni di Aksel Seier, era stato perché era rilevante per il suo progetto di ricerca. A un certo punto - non avrebbe saputo dire con esattezza quando - la questione aveva però cominciato a vivere di vita propria e indipendente. Non aveva più nulla a che vedere con l'istituto, con la ricerca. Aksel Seier era un mistero che lei condivideva con una vecchia signora e che le faceva vivere sensazioni oscillanti tra l'attrazione e il desiderio di metterci sopra una grande croce nera. Poi si era lasciata coinvolgere nel lavoro di Yngvar Stubø. "Io sono in grado di far roteare più palline in aria contemporaneamente," pensò svoltando all'altezza di Tåsenlokket. "Ma non delle palline grandi. Non sul lavoro. Non due progetti gravosi insieme". E non cinque signore a casa mercoledì sera. Semplicemente non ce la faceva. XL. Erano soltanto le undici di sera di lunedì 29 maggio, ma Johanne era già a letto da un'ora. Avrebbe dovuto essere stanca morta, eppure un senso di inquietudine la teneva sveglia, senza che nemmeno lei sapesse da dove veniva. Chiuse gli occhi pensando che era il Memorial Day. Cape Cod stava vivendo il suo primo fine settimana estivo. Niente imposte alle finestre. Le stanze prendevano aria. La bandiera a stelle e strisce sventolava sulle aste verniciate di fresco e il vento agitava quell'orgoglio nazionale rosso, bianco e blu mentre le barche veleggiavano tra Martha's Vineyard e la terraferma. Probabilmente Warren era stato a Orleans a sistemare moglie e figli per l'estate nella casa che si affacciava sulla Nauset Beach. Ormai i ragazzi dovevano essere grandi. Adolescenti, in ogni caso. Senza volerlo si mise a calcolare. Poi costrinse la propria attenzione su Aksel Seier. Davanti aveva
la lista dei dipendenti del Ministero della giustizia tra il 1964 e il 1966. Una lista lunga, che non le diceva niente. Identità. Persone. Gente che non conosceva, i cui nomi non significavano nulla per lei. A Cape Cod non aveva fatto altro che guardarsi alle spalle. Ovviamente non si sarebbero incontrati. Innanzitutto c'era un quarto d'ora di macchina tra Harwich Port e Orleans. In secondo luogo, quasi nessuno aveva motivo di spostarsi da Orleans a Harwich Port; il traffico andava nell'altro senso. Orleans era grande. Più grande, per lo meno. Molti negozi. Ristoranti. L'imponente Nauset Beach sull'oceano Atlantico, al confronto, faceva sembrare lo stretto di Nuntucket una piscina. Sapeva che non lo avrebbe visto. Tuttavia si era girata spesso a guardare. Passò ancora una volta il dito sulle pagine. Continuavano a non dirle nulla. Il responsabile di dipartimento, capo di Alvhild nel 1965, era morto da quasi trent'anni. Croce. Purtroppo. I colleghi più vicini ad Alvhild non avevano niente da dire. Alvhild aveva già indagato per conto proprio se ricordassero, se immaginassero qualcosa sulla sorprendente liberazione di Aksel Seier. Croce. A Johanne cadde la penna. Le cadde in una piega del piumone. Una macchia nera si allargò velocissima in mezzo a tutto quel bianco. Squillò il telefono. Numero sconosciuto, diceva il display. Johanne non conosceva nessuno con un numero privato. Probabile che fosse Yngvar. Yngvar e Warren dovevano avere più o meno la stessa età, pensò. Il telefono stava ancora squillando quando lei si sdraiò e si tirò il piumone sulla testa. La mattina dopo aveva un vago ricordo del telefono che squillava un paio di volte. Non era facile a dirsi; aveva dormito un sonno pesante e senza sogni, per tutta la notte. XLI. Anche se il personale era stato rinforzato con un paio di tirocinanti, la direttrice era in ansia, vista l'eccezionalità delle circostanze. Malgrado tutto, la responsabilità era sua. La visita al Museo della tecnica era secondo lei tanto rischiosa quanto inutile. L'avevano convinta gli altri. Era abbastanza vicino per andarci a piedi, e in fondo c'erano quattro adulti per dieci bambini. I bambini aspettavano quella uscita da tempo, e dovevano pur es-
serci dei limiti alle imposizioni a cui quel sequestratore pazzo li costringeva. Era pieno giorno, non era ancora neanche mezzogiorno. I bambini avevano fra i tre e i cinque anni. Si tenevano per mano, due a due. La direttrice camminava davanti, a braccia aperte, come se in quel modo potesse proteggerli meglio. A chiudere la fila c'era una delle ragazze nuove, mentre l'unico impiegato maschio della scuola materna camminava sul lato esterno cantando canzoni militari che facevano andare a ritmo i piccoli. Sul lato interno del marciapiede c'era Bertha, che in realtà era la cuoca. «Dest', sinist', un-due-tre, nessuno fuori tempo vogliam veder,» gridava l'uomo. «Un piede, due piedi, mettili giù, raddrizza il culetto, seguimi orsù!» «Sst,» disse la direttrice. «Culo,» gridarono i bambini. «Ha detto culo!» Bertha inciampò in una buca dell'asfalto e rimase indietro. Una delle ragazze si staccò dall'amica per aiutarla. «Culo,» ripeterono due bambini. «Culo, culo!» Superarono l'ingresso del supermercato Rema 1000. Un furgone stava cercando di immettersi su Kjelsåsveien. La direttrice indirizzò il pugno chiuso al conducente, che rispose con il dito medio alzato. Il furgone si mosse lentamente in avanti. Bertha urlò, la piccola Eline era rimasta impietrita davanti al paraurti. Un cane senza guinzaglio che gironzolava per la strada veniva loro incontro. Si mise a scodinzolare e correre intorno a tre bambini, che cercarono subito di prenderlo per il collare verde. Il proprietario lo chiamò dal viottolo che portava al fiume Aker. Il cane drizzò le orecchie e balzò via. I freni di una Volvo stridettero. Il parafango destro urtò il cane, che ululò e zoppicò via su tre zampe. Eline piangeva. Il conducente del furgone tirò giù il finestrino e imprecò volgarmente. Le due tirocinanti tenevano ciascuna un bambino per il colletto della camicia e, a gambe divaricate sull'orlo del marciapiede, cercavano di impedire agli altri di disperdersi per la strada. Bertha prese in braccio Eline. Il furgone passò il marciapiede con due ruote e accelerò per immettersi in Frysjaveien. Il cane guaiva in lontananza. Il proprietario, accovacciato sui calcagni, cercava di tranquillizzarlo. La conducente della Volvo verde si era fermata in mezzo alla strada, aveva aperto la portiera ed era evidente che non sapeva se scendere o no. C'erano già tre macchine dietro di lei; due suonavano il clackson a più non posso. «Jacob,» disse la direttrice. «Dov'è Jacob?»
Poi, quando Marius Larsen, l'unico dipendente maschio della scuola materna Frysjakroken, dovette raccontare alla polizia cosa fosse realmente accaduto davanti al Rema 1000 in Kjelsåsveien mercoledì 31 maggio appena prima di mezzogiorno, non riuscì a ricostruire bene la cronologia degli eventi. Ricordava tutti gli elementi della storia. C'erano un cane e una Volvo. Il conducente del furgone era uno straniero. Il proprietario del cane indossava un maglione rosso. Eline piangeva disperata e Bertha era inciampata in qualcosa. Dato che era considerevolmente sovrappeso, le ci era voluto un po' di tempo per rimettersi in piedi. La Volvo era verde. Stavano cantando canzoni militari. Andavano al Museo della tecnica. Il cane era un cane da ferma, grigio e marrone. Marius Larsen aveva tutti i pezzi del puzzle, ma non riusciva a farli combaciare. Alla fine chiese di poter buttar giù degli appunti. Un poliziotto paziente gli diede dei post-it gialli. Un foglietto per ogni avvenimento. Lui li appoggiò uno accanto all'altro, li cambiò di posto, ponderò e rimuginò, ne scrisse altri con le dita rigide e bendate, ci riprovò ancora. L'unica cosa di cui era assolutamente sicuro era la conclusione della storia. «Jacob,» disse la direttrice. «Dov'è Jacob?» Marius Larsen lasciò andare due bambini. Si voltò e vide che Jacob si era già allontanato di centocinquanta metri, sottobraccio a un uomo che stava per aprire la portiera di una macchina parcheggiata fuori da un garage più avanti sulla stessa strada, verso est. Marius corse. Così veloce che perse una scarpa. Quando ormai era vicino all'auto, non potevano mancare più di diecidodici metri, si accese il motore. Con uno scossone la macchina sterzò sul marciapiede, poi si immise in strada. Marius non si fermò. Jacob non si vedeva. Doveva essere sdraiato sul sedile posteriore. Marius si lanciò sulla maniglia della portiera. Una bottiglia di birra rotta gli si conficcò nel piede scalzo. La portiera si spalancò con un rumore sordo, Marius perse l'equilibrio. Il conducente frenò. La portiera sbatté sulle cerniere. Jacob piangeva. Marius non lasciò la presa sullo sportello, lo teneva stretto adesso, con le dita serrate attorno al finestrino, e non intendeva mollare. L'auto ripartì, a sbalzi e strattoni prima di accelerare all'improvviso, e Marius mollò la presa, aveva perso la sensibilità alle mani e perdeva molto sangue dal piede
ferito. Giaceva sull'asfalto, in piena Kjelsåsveien. Jacob era accanto a lui, piagnucolante. Come si sarebbe visto in seguito, il bambino cadendo si era rotto una gamba. Per il resto stava benone. Tutto considerato. Quasi esattamente cinque ore più tardi, alle cinque meno dieci di mercoledì pomeriggio, Yngvar Stubø, Sigmund Berli e quattro agenti della polizia di Asker e Bærum erano davanti al portone di un condominio a Rykkinn. L'ingresso odorava di cemento fresco e pasti da poco. Nessun vicino di casa curioso aveva tirato fuori la testa per sbirciare. Nessun bambino si era avvicinato loro quando avevano parcheggiato le tre auto scure davanti all'edificio; tre automobili uguali con delle luci blu malcelate nel radiatore. C'era silenzio. Ci vollero tre minuti a far saltare la serratura. «Suppongo che siano state sbrigate tutte le formalità,» disse Yngvar Stubø entrando nell'appartamento. «Ti dirò una cosa, in questo momento me ne sbatto proprio.» Gli agenti di Asker e Bærum lo seguirono all'interno. Yngvar si girò e gli sbarrò la strada. «Invece è proprio questo il momento di fare attenzione a certe cose,» disse. «Ma sì, ma sì. È tutto in regola. Spostati.» Yngvar non sapeva che cosa si fosse aspettato. Niente, immaginò. Meglio così. Niente doveva mai sorprenderlo. Aveva un suo rituale per quelle occasioni. Un breve momento contemplativo a occhi chiusi prima di entrare, per svuotare il cervello e liberarsi di idee preconcette e supposizioni più o meno fondate. Adesso avrebbe voluto essere più preparato. La Norvegia era entrata ufficiosamente in stato di emergenza. La notizia fu diffusa solo qualche minuto dopo l'accaduto: tentativo di sequestro di un altro bambino. Questa volta la polizia aveva sia un numero di targa sia una buona descrizione da seguire. La Nrk e Tv2 riorganizzarono i propri palinsesti per dar spazio alla notizia. I programmi speciali, originariamente brevi, si trasformarono man mano in un'unica lunga trasmissione su entrambe le reti. Nel giro di un tempo impressionantemente breve le redazioni riuscirono a mettere insieme vari esperti in quasi tutti i campi che potessero avere una qualche relazione con il caso. Soltanto un paio di loro, un noto psicologo infantile e un ex capo della polizia criminale ormai
in pensione, facevano la spola tra Karl Johans gate 14 e Marienlyst. Per il resto, le redazioni mostrarono grande inventiva, a tratti anche troppa. Tv2 intervistò per un intero quarto d'ora un impresario delle pompe funebri. Magro, vestito di nero e con tutto il pathos che riuscì a mettere insieme, descrisse il dolore con cui reagiscono i genitori alla perdita di un figlio in circostanze drammatiche, e per illustrarlo portò svariati esempi non proprio anonimi. Le reazioni dei telespettatori furono così violente che il caporedattore dovette presentare personalmente delle scuse entro la fine della serata. Un testimone che si trovava in Kjelsåsveien aveva visto che il sequestratore aveva un braccio ingessato. Lievemente inasprito dal tiepido interesse mostrato dalla polizia - avevano preso nota di nome e indirizzo dicendo che lo avrebbero contattato nel giro di un paio di giorni - il testimone chiamò il centralino di Tv2. La descrizione che fornì era così precisa e dettagliata che a uno dei cronisti di nera tornò in mente un arresto di poco tempo prima, a Asker e Bærum. Un ritardato, proclamò con tutta certezza scartabellando tra i propri appunti. Quelli di una ronda di quartiere gli avevano rotto un braccio, ma il caso era morto quasi subito, dato che non aveva voluto parlare con i giornalisti. La polizia poi era convintissima che non avesse nulla a che vedere con i sequestri dei bambini. L'infanticida che incombeva sulla Norvegia come un incubo e che fino ad allora era costato la vita a tre, forse quattro, bambini, era già stato arrestato! Ed era stato liberato, senza condizioni, a poche ore dal fermo. Peggio ancora, poi, era che quel tizio fosse riuscito a svignarsela anche stavolta. La polizia era stata immediatamente avvisata da un automobilista sveglio dotato di cellulare, ma il colpevole era comunque svanito nel nulla. Uno scandalo, e di grandi dimensioni. Il questore di Oslo si negò a qualunque domanda. In uno scarno comunicato stampa, il ministro della giustizia passò la patata bollente al questore. Il quale si rintanò nel suo ufficio e non rilasciò alcuna dichiarazione. Tv2 accumulò un vantaggio che la Nrk non ebbe modo di recuperare. Il testimone comparve in Tv. Se anche non godette dei suoi quindici minuti di celebrità, l'intervista ne durò comunque almeno due. Inoltre, poteva contare su un versamento di diecimila corone sul suo conto in banca. Al più presto, gli assicurò il giornalista; non appena si spensero le telecamere. Di fatto, il peggio non erano le volgari riviste pornografiche impilate
ovunque. Non c'era molto che Yngvar Stubø non avesse già visto. Le riviste erano stampate a quattro colori su carta economica. Yngvar sapeva che venivano prodotte quasi tutte nei paesi del terzo mondo, dove i bambini si potevano comprare per pochi soldi e la polizia guardava dall'altra parte per un pugno di dollari. E il peggio non era nemmeno che alcuni dei bambini che lo fissavano con sguardo vuoto da quelle foto schifose raggiungessero a malapena i due anni di età. Yngvar aveva visto con i propri occhi una vittima di violenza carnale di sei mesi, e non si faceva più illusioni. Più sorprendente era che il proprietario dell'appartamento avesse un Pc. «Mi sono sbagliato su quest'uomo,» mormorò infilandosi i guanti di plastica. Di fatto, il peggio erano le pareti. Tutto ciò che si era scritto sui sequestri era stato diligentemente ritagliato e appeso, dal primo moderato articolo sulla sparizione di Emilie fino alle due pagine pubblicate da Jan Kjærstad sull'ultima edizione mattutina dell'"Aftenposten". «Tutto,» disse Hermansen. «Cribbio, ha raccolto tutto.» «E anche di più,» aggiunse l'agente più giovane; con un cenno, indicò le foto dei bambini. Erano le stesse immagini appese nell'ufficio di Yngvar. Si avvicinò alla parete e strinse gli occhi per guardare le copie. Erano infilate dentro delle cartelline di plastica. Ciononostante, notò subito che non erano state ritagliate da un giornale. «Stampate dalla rete,» disse l'agente più giovane, di propria iniziativa. «Allora non è del tutto cretino,» fece Hermansen senza guardare Yngvar. «L'ho già ammesso,» rispose Yngvar aspramente. Il soggiorno era davvero una sorta di ufficio. Un centro operativo, per un esercito costituito da un uomo solo. Yngvar camminò lentamente per la stanza. C'era una specie di sistematicità in quella follia. Perfino le riviste porno erano ordinate secondo una perversa cronologia. Vide che quelle più vicine alla finestra contenevano scene con ragazzini sui tredici-quattordici anni. Più ci si addentrava nella stanza, più giovani erano le vittime. Prese una rivista a casaccio da un tavolino accanto alla porta della cucina. Guardò la fotografia e si sentì soffocare prima di obbligarsi a rimetterlo a posto senza strapparlo in mille pezzi. Uno degli agenti di Asker e Bærum stava parlando a bassa voce al telefono. Quando finì, scosse il capo.
«Non hanno neppure rintracciato l'automobile. E men che meno l'uomo. E visto quel che c'è qui...» Allargò le braccia. «... non ho proprio nessuna voglia di entrare in camera da letto.» Sei poliziotti stavano in silenzio e si guardavano intorno. Nessuno diceva nulla. Stava succedendo qualcosa davanti al condominio. Udirono delle auto fermarsi. Grida. Rumore di tacchi sull'asfalto. Ancora nessuno diceva niente. Il poliziotto che non voleva perquisire la stanza da letto si mise il pollice e l'indice sugli occhi e premette forte. Fece una smorfia che spinse il collega che gli stava più vicino a dargli un colpetto goffo sulla spalla. C'era odore di sperma vecchio e non lavato. C'era puzza di masturbazioni e vestiti sudici. C'era fetore di peccato e vergogna e segreti. Yngvar guardò Emilie sulla parete. Era ancora e sempre seria; le farfare le facevano il solletico sulla fronte e sembrava che sapesse tutto. «Non è lui,» disse Yngvar. «Eh?» Gli altri si voltarono a guardarlo. Il più giovane rimase inebetito, a bocca aperta; aveva gli occhi umidi. «Mi sono sbagliato sulle capacità mentali di questo tipo,» ammise Yngvar cercando di schiarirsi la gola. «È evidente che è in grado di usare un computer. Ed è in grado di mettersi in contatto con chi distribuisce questa spazzatura...» Si interruppe, alla ricerca di una parola più adatta; di un'espressione peggiore, più incisiva, per indicare le pubblicazioni accatastate e impilate ovunque. «... questa spazzatura,» ripeté rassegnato. «È in grado di tenersi al passo coi tempi. E siamo certi praticamente al cento per cento che è stato lui a provarci in Kjelsåsveien oggi. La sua auto. Il braccio rotto. La descrizione corrisponde alla perfezione. Ma non è... non è quest'uomo che ha rapito e ucciso gli altri bambini.» «E a questa conclusione ci sei arrivato tutto solo.» L'espressione del viso di Sigmund Berli sembrava indicare che non faceva più affidamento su Yngvar Stubø come partner. Stava passando dall'altra parte. Quella della polizia di Bærum, dove sapevano di aver risolto il caso. Se solo avessero trovato l'uomo che abitava in quell'appartamento tra ritagli di giornale, pornografia e abiti sporchi. Sapevano chi era, e lo avrebbero preso. «Quest'uomo si è fatto prendere già una volta. Da due dilettanti! Oggi a
momenti si lascia riprendere. Il nostro uomo, l'uomo che stiamo cercando, l'uomo che ha ucciso Kim, Glenn Hugo e Sarah...» Yngvar non perdeva d'occhio la foto di Emilie. «... e che forse tiene Emilie prigioniera da qualche parte... lui non si lascia prendere. Non così. Non tenta di sequestrare un bambino in gita con un mucchio di adulti che lo controllano, in piena luce del giorno e con la propria auto. E un gran gesso sul braccio. Non se ne parla proprio. E lo sapete anche voi. Solo che siamo così ansiosi di mettere le mani su quel maiale che...» «E allora spiegami un po' cos'è questo,» lo interruppe Hermansen. Non stava facendo il gradasso. La sua voce era piatta, quasi rassegnata. Aveva tirato fuori una cartellina da un cassetto. La cartellina conteneva un fascicolo sottile di fogli A4. Yngvar Stubø non voleva guardare. Presentiva che il contenuto della cartellina avrebbe dato una svolta a tutta l'indagine. Oltre cento investigatori che fino a quel momento avevano lavorato sulla teoria che niente era dato per scontato e tutte le possibilità restavano aperte - poliziotti in gamba che avevano comunque cercato di guardare in ogni direzione e sapevano che un buon lavoro investigativo era il risultato di sistematicità e pazienza - adesso sarebbero stati guidati in un'unica direzione. "Emilie," pensò. "Si tratta di Emilie. È da qualche parte. È viva". «Oh, Gesù,» disse il più giovane. Sigmund Berli fischiò, una nota lunga. Da fuori saliva il rumore di altre auto. Grida e gente che parlava. Yngvar andò alla finestra e scostò prudentemente la tenda. Erano arrivati i giornalisti. Ovviamente. Formavano un crocchio davanti al portone. Due di loro alzarono lo sguardo e Yngvar lasciò cadere la tenda grigia. Si girò verso l'interno della stanza. Gli altri quattro si erano raccolti attorno a Hermansen, che teneva ancora in mano la cartellina di plastica rossa. Nell'altra mano aveva una sottile pila di fogli. Quando ne sollevò uno verso Yngvar, la scritta era facile da leggere perfino dalla finestra. Adesso hai quello che ti meriti. «È scritto a macchina,» disse Yngvar. «Finiscila,» disse Sigmund. «Adesso basta, Yngvar. Come faceva questo tizio a sapere...» «I foglietti dei bambini erano scritti a mano. Scritti a mano, gente!» «Chi ci parla con quelli là fuori, tu o io?» chiese Hermansen rimettendo con cautela i fogli nella cartellina. «Non è che ci sia granché da dire, ma in
effetti è più naturale che sia io... Dal momento che siamo a Bærum...» Yngvar Stubø si strinse nelle spalle. Non disse una parola facendosi strada tra la folla che si era riunita davanti al basso condominio di Rykkinn. Alla fine raggiunse la sua auto e ci salì. Quando ormai stava per rinunciare ad aspettare Sigmund Berli, il collega gli si sedette ansimante accanto. Non scambiarono quasi una parola mentre tornavano a Oslo. XLII. «Proprio non capisco come fai a fare tutto,» disse Bente entusiasta. «Era così buono!» Kristiane dormiva. Di solito si agitava quando Johanne aspettava gente. Fin dal primo pomeriggio entrava in una lunga fase taciturna. Gironzolava di stanza in stanza e non voleva mangiare. Non voleva dormire. Invece stasera si era tuffata sul letto a pancia piena, con Sulamit sotto un braccio e Jack che sbavava soddisfatto sotto l'altro. Il Re d'America aveva cambiato qualcosa in Kristiane, Johanne doveva ammetterlo. Quella mattina sua figlia aveva dormito fino alle sette e mezza. «La ricetta,» disse Kristin, e inghiottì. «Voglio la ricetta.» «Non c'è,» disse Johanne. «Ho improvvisato e basta.» Il vino le piaceva. Erano le nove e mezza di mercoledì sera. Si sentiva la testa leggera. Le spalle non le facevano male. Le ragazze attorno al tavolo parlavano tutte insieme. Solo Tone aveva disdetto; non se la sentiva di lasciar soli i bambini, visto come andavano le cose ultimamente. Soprattutto dopo quanto era successo quel giorno. «È sempre stata così maledettamente ansiosa,» disse Bente, rovesciando un po' di vino sulla tovaglia. «Quei bambini hanno pure un padre, o no? Uuups! Il sale! L'acqua! Tone è così... si spaventa da morire per ogni minima cosa. Voglio dire, non possiamo mica murarci in casa anche se c'è in giro quel mostro!» «Ormai lo prendono,» disse Line. «Sanno chi è. Ci sarà pure un limite al tempo che riesce a stare nascosto. Non andrà lontano. Avete visto che la polizia ha diffuso un identikit con la foto eccetera? Ma non versare tutto il sale sulla tovaglia però!» Yngvar non aveva telefonato. Non dopo che Johanne non gli aveva risposto due notti prima. Non sapeva se era pentita. Non capiva perché non avesse voluto parlare con lui. In quel momento. Adesso, invece. Adesso sì che avrebbe potuto chiamarla. Sarebbe potuto venire, di lì a poche ore, una
volta che le ragazze avessero smesso di sghignazzare e fossero uscite barcollando da casa sua. Allora Yngvar sarebbe potuto venire. Avrebbero potuto sedersi al tavolo della cucina a mangiare gli avanzi e bere latte. Lui avrebbe potuto farsi una doccia e prendere in prestito una vecchia maglietta da football americana. Johanne avrebbe potuto guardargli le braccia quando lui si chinava in avanti, appoggiandosi al tavolo; la maglietta era a maniche corte e Yngvar aveva i peli biondi sulle braccia, come se fosse già estate. «... non è vero?» Johanne sorrise di colpo. «Cosa?» «Che lo prenderanno, adesso?» «Cosa ne so io?» «Ma quel tipo,» insistette Line. «Quello che ho incrociato qui sabato. Non è della polizia? L'hai detto tu, no? Sì, dài, della... criminale!» «Ma noi non dovevamo parlare di un libro?» disse Johanne andando a prendere dell'altro vino in cucina; le signore come al solito ne avevano portato troppo. «Che tu ovviamente non hai letto,» fece Line. «Nemmeno io,» si unì Bente. «Non ho avuto davvero tempo. Mi spiace.» «Io neanche,» ammise Kristin. «Se vuoi che il sale faccia effetto devi sfregarlo sulla stoffa. Così!» Si chinò sul tavolo e mise un dito nella pastella di sale e acqua minerale. «Ma perché lo chiamiamo circolo di lettura...» Line sollevò il libro davanti al volto con aria di accusa. «...se sono solo io quella che legge? Ditemi, succede qualcosa quando si hanno dei figli? Si perde la capacità di leggere?» «Non si ha più tempo,» biascicò Bente. «Il tempo, Line. È quello che sparisce.» «Sai una cosa, questa è una provocazione bella e buona,» cominciò Line. «Parlate sempre come se l'unica cosa nella vita a rendere felici... come se solo il fatto di avere un marito e dei figli desse il diritto...» «Perché non ci racconti qualcosa del libro, piuttosto?» intervenne Johanne svelta. «Mi interessa. Sul serio. Leggevo tutto di Asbjørn Revheim quando ero più giovane. In effetti avevo pensato di comprarmi una copia di... Come si chiama?» Prese il libro. Line glielo strappò di mano.
«Revheim. Cronaca di un suicidio annunciato,» lesse Halldis. «Tra l'altro non me lo hai chiesto. Io l'ho letto, a dire il vero.» «Grottesco,» disse Bente. «Tu non hai figli, Halldis.» «Titolo significativo,» fece Line, ancora con una sfumatura seccata nella voce. «In tutto ciò che ha scritto e fatto si può leggere una... nostalgia della morte. Sì. Un'attrazione per la morte.» «Sembrerebbe un giallo,» disse Kristin. «Togliamo la tovaglia, eh?» Bente l'aveva macchiata di nuovo. Invece di versare altro sale, stese il tovagliolo sulla chiazza rossa. Il bicchiere era ancora rovesciato. Il rosso si allargava sempre di più sotto il tovagliolo di carta. «Fregatene,» disse Johanne rialzando il bicchiere. «Non fa niente. Quand'è che è morto?» «Nel 1983. Me lo ricordo bene.» «Mhm. Anch'io. Aveva scelto un modo ben appariscente di uccidersi.» «A dir poco.» «Sentiamo,» disse Bente ammansita. «Magari dovresti aggiungere un po' di acqua minerale.» Kristin andò a prendere dell'altra acqua in cucina. Bente si mise a sfregare la macchia che aveva fatto. Line si versò del vino. Halldis curiosava nella biografia di Asbjørn Revheim. Johanne si sentiva bene. Non aveva avuto il tempo di far altro che dare una rapida passata di aspirapolvere in casa, cacciare le cose di Kristiane nel grosso contenitore in camera sua e pulire il bagno. A preparare la cena ci aveva messo mezz'ora. Non ne aveva voglia, però era rimasta fedele all'impegno preso. Le ragazze si stavano divertendo. Perfino Bente sorrideva felice sotto le palpebre stanche. L'indomani, Johanne poteva presentarsi più tardi al lavoro. Poteva andare a zonzo con Kristiane un paio d'ore e prendersela con calma. Era contenta di vedere le ragazze e non protestò quando Kristin le riempì di nuovo il bicchiere. «Ho sentito che tutti quelli che si tolgono la vita in realtà soffrono di psicosi acuta,» disse Line. «Che scemenza,» fece Halldis. «Ma no, è vero!» «Che l'hai sentito sì. Ma non è vero.» «E tu cosa ne sai?» «Potrebbe benissimo essere vero nel caso di Asbjørn Revheim,» disse Johanne. «D'altra parte, ci aveva già provato diverse volte. Credete che sia
stata una forma di psicosi ogni volta?» «Quello era pazzo,» borbottò Bente. «Matto da legare.» «Non è lo stesso che psicotico,» obiettò Kristin. «Io conosco un paio di persone che definirei pazze da legare. Ma di psicotici non ne conosco uno.» «Il mio capo è uno psicopatico,» fece Bente ad alta voce. «Cazzo che cattivo che è! Cattivo!» «Ecco qui ancora un po' d'acqua minerale,» disse Line, allungandole una bottiglia da mezzo litro. «Psicopatico e psicotico non sono esattamente la stessa cosa, Bente. Qualcuna di voi ha mai letto La città affonda, la marea sale?» Annuirono tutte. Tranne Bente. «Uscì solo un paio di anni dopo la sentenza,» disse Johanne. «No? E anche quello effettivamente...» «Non è lì che descrive il suicidio?» la interruppe Kristin. «Anche se lo scrisse molti, molti anni prima di togliersi realmente la vita... Agghiacciante, a pensarci. Davvero.» Ebbe un brivido esagerato. «E allora?» disse Bente. «Non potete dirmi una buona volta che cosa successe?» Nessuna disse nulla. Johanne cominciò a sparecchiare la tavola. Avevano tutte finito. «Credo che ci siano cose più piacevoli di cui possiamo parlare,» disse Halldis piano. «Cosa farete quest'estate?» Quando infine le sue amiche uscirono barcollando dalla porta, era l'una passata. Bente aveva dormito per due ore e l'idea di andare a casa sembrava confonderla. Halldis promise di far passare il proprio taxi per Blindern e di assicurarsi che Bente arrivasse sana e salva nel suo letto. Johanne cambiò l'aria. Nell'ultima ora il divieto di fumare era stato sospeso, e lei non ricordava esattamente chi lo avesse deciso. Tirò fuori quattro ciotole piene di aceto. Poi uscì in terrazza. Era la seconda ora del primo giorno di giugno. A ovest si intravedeva una luce di un blu acceso che prediceva l'estate, per un paio di mesi la notte non sarebbe stata completamente buia. L'aria era pungente, ma si poteva stare senza giacca. Johanne si chinò sui vasi di fiori appesi alla ringhiera. Una gracile viola del pensiero era appassita. Nel giro di tre giorni aveva parlato due volte di Asbjørn Revheim.
Asbjørn Revheim era stato realmente una figura centrale della letteratura norvegese; nella storia norvegese recente, per lo meno. Nel 1971 o '72, non ricordava con precisione, era stato condannato per aver scritto un romanzo blasfemo e indecente; erano passati diversi anni da quando il ridicolo processo contro Jens Bjørneboe avrebbe dovuto scoraggiare un pubblico ministero dall'interferire nelle questioni letterarie. Revheim non si era lasciato schiacciare e due anni dopo era tornato alla carica con La città affonda, la marea sale. Un libro ancora più blasfemo e offensivo, più di qualunque cosa fosse mai stata scritta in Norvegia. Qualcuno aveva parlato di premio Nobel. La maggioranza credeva che l'autore meritasse di farsi un altro giro in tribunale. La pubblica accusa nel frattempo aveva imparato la lezione; molti anni dopo, il procuratore generale avrebbe affermato di non avere in realtà mai letto il libro. Revheim era uno scrittore importante. Ma era morto, e da parecchio. A Johanne non veniva in mente quando fosse stata l'ultima volta che aveva pensato a quell'uomo; e ancor meno quando ne avesse parlato. In autunno, quando era uscita la biografia attirandosi molta attenzione, non l'aveva nemmeno comprata. Revheim scriveva libri che avevano avuto un senso per lei quando era più giovane. Oggi non aveva niente da dirle. Né a lei né alla sua vita presente. Due volte in tre giorni. La madre di Anders Mohaug riteneva che Anders fosse stato coinvolto nell'uccisione della piccola Hedvig nel 1956. Anders Mohaug era mentalmente ritardato. Si lasciava trascinare con facilità e frequentava Asbjørn Revheim. "Troppo facile," pensò Johanne. "Sarebbe davvero troppo facile". Stava gelando ma non voleva rientrare. Il vento le si impigliava nelle maniche della camicia. Doveva comprarsi dei vestiti nuovi. Le altre ragazze sembravano più giovani di lei. Perfino Bente, che presto avrebbe dovuto curare una dipendenza dall'alcol che non era più uno scherzo e fumava trenta sigarette al giorno, aveva un aspetto migliore del suo. Più moderno, se non altro. Line aveva rinunciato già da molto tempo a trascinarla con sé a fare shopping. Era troppo facile. E poi, chi aveva interesse a proteggere Asbjørn Revheim da persecuzione e punizione? "Nel 1956 aveva solo sedici anni", pensò riempiendo i polmoni di aria notturna; voleva schiarirsi la mente prima di andare a letto.
Ma nel 1965? Quando Anders Mohaug era morto e sua madre si era presentata alla polizia? Quando Aksel Seier era stato liberato senza altra spiegazione se non che poteva essere contento? Allora Asbjørn Revheim aveva venticinque anni ed era già uno scrittore affermato. Due libri, se ricordava bene. Già affermato con soli due libri. Entrambi avevano scatenato un violento dibattito. Asbjørn Revheim era una minaccia, a quel tempo. Non era degno di venire protetto. Johanne aveva ancora in mano la biografia. La guardò, passò una mano sulla copertina. Line aveva insistito perché la tenesse. Era una bella foto. Revheim aveva un viso sottile, però mascolino. Sorrideva apertamente. Quasi in modo arrogante. Aveva gli occhi piccoli, ma con delle ciglia impressionantemente lunghe. Rientrò, lasciando però socchiusa la porta della terrazza. Un debole odore di aceto le pizzicò il naso. Si accorse di sentirsi delusa perché Yngvar non aveva chiamato. Quando si mise a letto, decise di cominciare il libro. Ancor prima di appoggiare la testa sul cuscino, stava già dormendo. XLIII. Aksel Seier non era mai stato un uomo capace di decisioni rapide. Di norma preferiva dormirci sopra. Anche una o due settimane. Perfino per delle scelte minime o insignificanti, come investire dei soldi in un frigorifero nuovo quando quello vecchio era andato, si prendeva il suo tempo. C'erano vantaggi e svantaggi in tutto. Lui aveva bisogno di pensarci due volte. Di essere sicuro. La decisione di lasciare la Norvegia nel 1966 avrebbe dovuto prenderla un anno prima. Avrebbe dovuto capire che non aveva futuro in un paese che lo aveva mandato in prigione e ce lo aveva tenuto per nove anni senza motivo, e che era così piccolo che non sarebbe mai stato possibile né per lui né per gli altri dimenticare. Semplicemente, affrettarsi non era nel suo stile. Forse era l'effetto di tanti anni di carcere, dove il tempo scorreva così piano che era difficile usarlo tutto. Si era seduto sul muretto sotto casa, tra il giardinetto e la spiaggia. Il marmo era rosso e caldo per il sole, Aksel ne avvertiva il calore attraverso i pantaloni. C'era la bassa marea. Granchi reali mezzi morti giacevano sparsi lungo il bagnasciuga. Alcuni con il carapace in su, come Panzer con la coda. Altri erano stati scagliati sulla schiena dalle onde e morivano lentamente sotto il sole, con le zampe all'aria. I granchi gli ricordavano dei mostri preistorici in miniatura, un anello dimenticato della catena evolutiva
che avrebbe dovuto eliminarli da tempo. Anche lui si sentiva così. Per tutta la vita aveva atteso di riabilitare il proprio nome. Patrick, l'unico negli Stati Uniti a conoscere il suo passato, lo aveva pregato di contattare un avvocato. O magari un investigatore privato, aveva detto strofinando una cavezza dorata. La giostra di Patrick era la più bella di tutto il New England. C'erano detective a iosa in America. Molti di loro erano davvero in gamba, aveva detto Patrick. Se quella donna s'era presa la briga di andare fin lì dall'Europa per dirgli che era innocente, così tanti anni dopo, affrontando il lungo viaggio dalla lontana Norvegia, allora sì, valeva la pena di indagare più a fondo. Gli avvocati erano cari, secondo Patrick, ma era facile trovarne uno che si sarebbe fatto pagare solo nel caso in cui avesse vinto la causa. Il problema era che Aksel non aveva nessuna causa. Comunque non negli Stati Uniti. Non aveva nessuna causa, ma in realtà era in attesa da sempre. In rassegnato silenzio, non aveva mai abbandonato la speranza che qualcuno scoprisse l'ingiustizia che era stata perpetrata ai suoi danni. Le forze gli bastavano appena per pregare in silenzio, prima di dormire, che l'indomani portasse buone nuove. Che qualcuno gli credesse. Oltre a Eva e a Patrick. La visita di Johanne Vik significava qualcosa. Per la prima volta dopo tanti anni, prese in considerazione l'idea di tornare a casa. Continuava a pensare alla Norvegia come a casa. La sua vita era tutta a Harwich Port. La sua casa, i vicini, le poche persone che poteva chiamare amici. Tutto ciò che possedeva era lì, in una cittadina di Cape Cod. Eppure la Norvegia era ancora e sempre casa sua. Se Eva gli avesse chiesto di rimanere quando se n'era andato, magari non sarebbe mai salito a bordo della Sandefjord. Se più tardi, nei primi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, lei gli avesse chiesto di tornare, avrebbe accettato qualunque mansione sulla prima nave che fosse salpata. Avrebbe cercato qualche lavoretto in Norvegia e avrebbe risparmiato. Si sarebbe trasferito in un'altra città, dove fosse possibile mantenere il lavoro per un anno o due, finché la sua storia non lo avesse scovato per spingerlo altrove. Se Eva l'avesse seguito, sarebbe andato ovunque. Ma lui aveva soltanto se stesso da offrire ed Eva non era abbastanza forte. La vergogna di Aksel era troppo grande. Non per sé, ma per lei. Lei sapeva che era innocente. Non sembrava mai dubitarne. Ma non sopportava lo sguardo degli
altri. Amici e vicini di casa si accigliavano e mormoravano, e la madre di lei peggiorava le cose. Eva aveva piegato la testa e si era lasciata plagiare. Aksel voleva riuscire a farcela da solo con Eva, ma Eva era troppo debole per tollerare un'esistenza insieme a lui. Più avanti, quando lei era stata libera, era troppo tardi per tutti e due. Forse ora era giunto il momento. Il destino aveva fatto un salto in una direzione inattesa, e c'era qualcuno che aveva bisogno di lui a casa. Eva non gli aveva davvero chiesto di tornare nella lettera che gli aveva spedito, fuori da ogni routine o abitudine. Ma era profondamente sconvolta. Aksel aveva il biglietto da visita di Johanne Vik. Se fosse andato, avrebbe potuto contattarla. Patrick aveva ragione: quella donna era venuta dalla Norvegia per parlare con lui, doveva credere sul serio nella sua causa. Il sogno di essere un giorno riabilitato poteva avverarsi. Il pensiero lo terrorizzava; si alzò rigido e si grattò la schiena. L'agente immobiliare aveva detto un milione. Già parecchio tempo prima. Adesso Cape Cod era nel suo momento di maggior splendore. Visto che difficilmente un potenziale compratore sarebbe stato interessato alla casa in sé, pulizia e manutenzione non contavano molto. Aksel Seier girò un granchio reale con la punta dello stivale. Quello rimase fermo, come un elmetto tedesco della Prima guerra mondiale tirato a riva. Aksel sollevò il granchio per la coda e lo gettò in acqua. Anche se non si decideva mai senza prima rimuginarci a fondo, capì che stava per prendere una decisione importante. Valutò se fosse il caso di portarsi dietro il gatto. XLIV. «Comunque la tua teoria dei fratellastri era sbagliata,» disse Sigmund Berli. «Bene,» fece Yngvar Stubø. «È stato difficile avere le analisi del sangue senza troppi fastidi?» «Lascia stare. Ho detto più bugie negli ultimi giorni che in tutta la mia vita. Taci. Per ora abbiamo solo gli esiti dei buoni vecchi test di paternità. Il Dna ci mette più tempo. Ma tutto fa credere che gli altri padri coinvolti nel caso siano realmente i genitori dei loro bambini.» «Bene,» ripeté Yngvar. «Mi fa piacere sentirlo.» Sigmund Berli fu colto alla sprovvista. «Cavolo,» disse, e posò i fogli davanti al suo capo. «Non sembri partico-
larmente sorpreso. Perché ti ostinavi così tanto a voler fare questo controllo, se non ci credevi davvero?» «È passato molto tempo da quando mi lasciavo sorprendere. E tu sai bene quanto me che è necessario indagare a trecentosessanta gradi. Sulle cose in cui crediamo e su quelle in cui non crediamo. In questo momento pare che ci sia stato un corto circuito collettivo, in cui tutto gira attorno a...» «Yngvar! Basta!» La caccia a Olaf "Laffen" Sørnes di Rykkinn era diventata un affare di stato. Non si parlava d'altro; nei media, a tavola a cena, sul posto di lavoro. Yngvar poteva capire che la gente avesse in gran parte deciso che Laffen era l'infanticida. Ma che anche i suoi colleghi sembrassero intrappolati nella stessa fretta di trarre conclusioni, o quantomeno si muovessero in quella direzione, lo spaventava. Laffen era un miserabile copycat. La sua fedina penale rivelava una sessualità disturbata che solo ora lo aveva condotto a un reale tentativo di rapire un bambino. Sia in letteratura che in numerose, tristi storie tratte dalla realtà esistevano casi simili. Quando un delitto ottiene sufficiente attenzione, ci saranno altri nel mondo con la bava alla bocca. «Ma guarda,» disse Yngvar scuotendo la testa. «Non c'è niente che torni! Prendi per esempio la consegna tramite corriere di Sarah. Credi che Laffen sarebbe riuscito a organizzare una cosa del genere? Un uomo con un quoziente intellettivo pari a ottantuno pensi che potrebbe escogitare una cosa così? Per non parlare poi di metterla in pratica!» Batté il pugno sul fascicolo mandato dai servizi sociali e dall'ospedale di Bærum, dove Laffen era stato ricoverato per accertamenti su una possibile epilessia. «Conosco il tipo, Sigmund. È un povero cristo che pensa soltanto a masturbarsi da quando ha raggiunto la pubertà. Macchine e sesso. Questa è la vita di Laffen Sørnes. Triste, ma vero.» Sigmund Berli si passò la lingua sui denti. «Ma non è che ci siamo chiusi ogni possibilità, dài. Adesso smettila. Si continua a investigare su tutti i fronti. Prima di tutto però devi essere d'accordo sul fatto che è importante bloccare quel tizio, in fondo ha tentato di...» Yngvar alzò le mani e annuì con forza. «Assolutamente,» lo interruppe. «Certo che quell'uomo va fermato.» «E poi,» aggiunse Sigmund. «Come ti spieghi che sapesse della lettera? Del messaggio con scritto Adesso hai quello che ti meriti? Abbiamo ana-
lizzato la carta e avevi ragione. Non è lo stesso tipo di carta degli altri. Ma a conti fatti non significa granché. Anche gli altri messaggi sono scritti su tipi di carta diversi, come sai. E sì...» Alzò la voce per impedire a Yngvar di interromperlo. «... il messaggio di Laffen era scritto a computer. Gli altri erano scritti a mano. Ma lui come faceva a saperlo? Come cavolo può aver scoperto quel dettaglio grottesco se non ha nulla a che vedere con il caso?» Era ormai giovedì pomeriggio, 1° giugno. Il custode probabilmente aveva spento il riscaldamento centralizzato dando per conclusa la stagione. Fuori pioveva a dirotto. La stanza era fresca, quasi fredda. Yngvar ci mise un po' a prendere un sigaro dall'astuccio di acciaio. Poi, lentamente, estrasse dal taschino un tagliasigari. «Non ne ho idea,» disse. «Però tieni presente che ormai ci sono un bel po' di persone che lo sanno. Molti della polizia. Qualche medico. I genitori. Anche se li abbiamo pregati di tenere la bocca chiusa, non sarebbe strano se avessero raccontato del messaggio almeno a chi gli è più vicino. A conti fatti, cominciano a essere un centinaio le persone al corrente dei biglietti.» Tra di loro Johanne, pensò. Accese il sigaro. «Non ne ho idea,» ripeté soffiando una nuvoletta di fumo verso il soffitto. «Credi che...» Sigmund si passò di nuovo la lingua sui denti. Yngvar gli offrì una scatola di stuzzicadenti. «Credi che possano essere due i colpevoli?» chiese Sigmund Berli. «Che Laffen sia una specie di... assistente di un altro, uno più intelligente di lui? No grazie.» Con un gesto, rifiutò gli stuzzicadenti. «Non è impensabile, ovviamente,» ammise Yngvar. «Ma io credo di no. Ho la sensazione che il vero colpevole, il vero omicida che stiamo cercando sia un uomo che agisce da solo. Solo contro il mondo, per così dire. Ma la combinazione non sarebbe nuova. Uomo sveglio con aiutante stupido, intendo. Concetto noto.» «È davvero inconcepibile che Laffen sia ancora libero. L'auto è stata trovata nel parcheggio di Skar, in fondo alla valle di Maridalen. Non è stato denunciato nessun furto d'auto in quella zona, quindi, a meno che non si fosse preparato una fuga in automobile, be'...» «È scappato nella foresta.»
«Ma la Nordmarka pullula di gente in questo periodo dell'anno!» «Può darsi che stia tranquillo di giorno e si muova di notte. In ogni caso ha più chance se resta nascosto nei campi che in un quartiere densamente popolato. Ed è vestito in modo adeguato, per così dire. Se non si è cambiato dall'ultima volta che l'ho visto...» Scrollò prudentemente la cenere nella mano. «... è pronto a scatenare una guerriglia lassù. Quante segnalazioni abbiamo ricevuto, a proposito?» Sigmund sogghignò. «Più di trecento. Da Trondheim a Bergen, Sykkylven e Voss. Oltre cinquanta soltanto qui a Oslo. Stamattina la polizia di Grønland aveva già arrestato quattro persone con un braccio ingessato. Più un tipo con la gamba sinistra ingessata. Tutti consegnati da zelanti cittadini.» Yngvar diede una rapida occhiata all'orologio al polso. «Ci credo. Ho un appuntamento. C'è altro?» Sigmund tirò fuori dalla tasca posteriore una stampata del computer. Il foglio aveva preso la forma della sua natica; Berli fece un sorriso di scusa mentre lo dispiegava. «Be', questa è soltanto una copia. Con i miei scarabocchi sopra. Ne ho chiesta una bella pulita per te. Alla fine abbiamo trovato alcuni punti di contatto tra le famiglie. Abbiamo inserito tutto quello che abbiamo, assolutamente tutto. Questo è il risultato.» NOME E PROFESSIONE Fridtjof Salvesen medico
COLLEGAMENTI
COME
Lena Baardsen Ginecologo Turid S. Oksøy Ginecologo
Helge Melvær foto- Tønnes Selbu Ritratti di grafo famiglia Lena Baardsen Amico Karsten Åsli
QUANDO E ULTIMO DOVE CONTATTO Oslo 1993-94 1994 Bærum 1995
22 marzo c.a
Sandefjord 1997 Sandefjord 1995
1997 estate 1995
ind. scon. as- May Berit Be- Amico sistente al do- nonisen Lena poscuola Baardsen Fidanzato Cato Sylling Lillestrøm idraulico
Sonja Værøy Johnsen Elverum infermiera
Lasse Oksøy Tønnes Selbu
Ex collega
Collab. prof: trad. romanzo Grete Harborg Buona amica (secondo il vedovo, Tønnes Selbu)
Oslo 1994-95 primavera Oslo 1991 1995 23 luglio 1991 Oslo 1993-95 incerto Contatti tel. e corrispondenza Vari luoghi 1975-99
novembre 1999 1999 (3 gg prima della morte di G. Harborg)
Turid S. Oksøy Infermiera al 1998 incerto parto dei gemelli Frode ex fidanzata Tromsø 1992 incerto Benoninsen o amica «Era ben ora,» disse Yngvar. «Un qualche collegamento doveva esserci tra questa gente. Ma...» Riesaminò la stampata per diversi minuti. «Questa Sonja Værøy Johnsen la possiamo anche scartare,» disse alla fine. «Nemmeno l'idraulico sembra molto interessante. Perché c'è scritto indirizzo sconosciuto sotto Karsten Åsli? Non l'avete trovato all'anagrafe?» «No, ma in effetti è la svista più comune di cui ci rendiamo colpevoli noi norvegesi. Cioè dimentichiamo di denunciare i cambiamenti di residenza. In realtà dovrebbe essere fatto entro otto giorni. Non è un grosso problema. È solo che non ci siamo ancora messi a cercare a fondo.» Yngvar ripiegò il foglio e se lo infilò nella tasca della giacca. «Fatelo. Mi tengo questa stampata finché non arriva quella per me, ok?» Sigmund scrollò le spalle. «Voglio l'indirizzo di Åsli,» disse Yngvar. «E voglio saperne di più su quel fotografo. E sul ginecologo. E poi voglio avere...» Diede un paio di boccate al sigaro e si alzò. Quando chiuse a chiave la porta della stanza dietro di loro, diede una pacca leggera al collega sulla
spalla. «Voglio sapere il più possibile su questi tre,» continuò. «L'assistente al doposcuola, il fotografo e il ginecologo. Età, background familiare, casellario giudiziale... tutto. E tu...» Sigmund Berli si fermò con la mano sulla maniglia della porta del proprio ufficio. «Grazie,» disse Yngvar. «Ti ringrazio. Ottimo lavoro.» XLV. «Ci sai fare con lei,» disse Johanne a bassa voce. «Le piaci. Normalmente non gliene frega niente delle altre persone. Insomma, eccetto quelle che conosce già.» «È davvero una bambina strana,» disse Yngvar sistemando meglio il piumone su Kristiane, Sulamit e il Re d'America. Johanne s'irrigidì. «Una bimba strana e meravigliosa,» si corresse Yngvar. «È incredibilmente intelligente!» «Non è la prima cosa che la gente di solito dice di lei. Ma hai ragione. A modo suo è intelligente e sveglia. Solo che non è sempre così facile da vedere.» Yngvar indossava una maglietta di Johanne. New England Patriots, blu, con un grande 82 davanti e dietro, in alto sulla schiena, Vik a caratteri bianchi. Era venuto direttamente dal lavoro. Le aveva chiesto se poteva farsi una doccia, senza guardarla. Invece di rispondere, lei gli aveva portato un asciugamano. E la maglietta della squadra di football, che era troppo grande per lei. Yngvar l'aveva sollevata ed era scoppiato a ridere. «Secondo Warren sarei potuta diventare un buon giocatore,» aveva detto. «Warren dice tante cose,» aveva commentato Johanne, mettendo i piatti in tavola. «Tra un quarto d'ora si mangia. Meglio che ti sbrighi.» La stampata si era sporcata un po' ed era ricoperta di scarabocchi che lei non capiva. Comunque non era difficile riuscire a leggere il contenuto della tabella. Yngvar le si era seduto accanto sul divano, chino sul foglio che Johanne teneva appoggiato su un ginocchio; il ginocchio più vicino al suo, quello che gli sfiorava la coscia con tocchi leggeri. Ciascuno teneva in mano la propria tazza di caffè fumante. «Ci trovi qualcosa di interessante?» le chiese Yngvar.
«Non molto. Ma sono d'accordo con te nell'escludere l'infermiera.» «Perché è una donna?» «Forse. Sì. Anche l'idraulico. Per quanto...» Un brivido gelido la spinse a toccarsi la nuca. L'idraulico viveva a Lillestrøm. "Riprenditi," pensò. "È una pura casualità, chiaro. Ci abita un sacco di gente a Lillestrøm. È subito fuori Oslo. Questo idraulico non ha niente a che fare con Aksel Seier. Forza!" «Cosa c'è?» le chiese. «Niente,» mormorò Johanne. «È solo che sto indagando su un altro caso, un vecchio processo penale del... Lascia stare. Non c'entra assolutamente niente con questo. Suppongo che si possa escludere l'idraulico.» «Lo credo anch'io,» annuì Yngvar. «Siamo d'accordo. Ma perché?» «Non saprei.» Johanne fece ancora scorrere il dito sul foglio. Si fermò sulla colonna dei "Collegamenti". «Forse perché ha avuto a che fare con i padri. È l'unico tra tutte queste persone ad aver avuto contatti coi padri. Tønnes Selbu, il padre di Emilie. Lasse Oksøy, il padre di Kim. Per un motivo che non conosco tendo a pensare che questi casi in realtà abbiano a che vedere con le madri. Oppure... non lo so... Guarda qui. Ha aiutato Tønnes Selbu nella traduzione di un romanzo e non si sono mai incontrati. Legame piuttosto labile.» «Bizzarro parlare con un idraulico di un romanzo,» disse Yngvar nella tazza. «Magari il protagonista era uno che installava impianti di riscaldamento,» disse asciutta. «Chi lo sa. Ma guarda qui! 23 luglio 1991!» «Cosa? dove?» «Lena Baardsen ha ammesso di essere stata fidanzata con Karsten Åsli nel 1991. Dev'essere stata una relazione che le ha lasciato dei segni profondi, se si ricorda la data in cui lo ha visto per l'ultima volta, e dire che sono passati quasi dieci anni! 23 luglio 1991! Tu ti ricordi cose del genere?» Le era seduto troppo vicino. Johanne avvertiva il suo respiro sul viso, un alito di caffè e latte caldo. Raddrizzò la schiena. «A dire la verità non sono mai stato con altre donne, tolta mia moglie,» disse lui. «Eravamo già insieme al liceo. Perciò...» Sorrise, e Johanne non ce la fece più a star lì seduta. «... non ne so molto di queste cose,» continuò Yngvar seguendola con lo
sguardo in cucina. «Ma di sicuro è più tipico delle donne ricordarsi dettagli del genere. Oserei dire.» Quando tornò senza avere in realtà preso nulla, Johanne si sedette sulla sedia dall'altra parte del tavolo di cristallo. L'espressione di Yngvar era indecifrabile. Non lo capiva. Da una parte mostrava un interesse quasi sfacciato, che non poteva dipendere solo da questioni professionali. Non con quella testardaggine: prima l'aveva praticamente trascinata nel suo ufficio, poi l'aveva rintracciata negli Stati Uniti e infine era andato a cercarla nel supermercato Ica, con tutti i posti che c'erano. Nutriva un interesse nei suoi confronti. Ma visto che non si spingeva mai oltre, che non faceva mai altro se non presentarsi da lei, andare a trovarla, parlare, lei cominciava a sentirsi... "... stupida," pensò. "Io non ti capisco. Ti invito a cena. Gironzoli per casa mia con la mia maglietta addosso, con il mio nome sopra, rimbocchi le coperte a mia figlia. Passi del tempo con mia figlia, Yngvar. Perché non succede nulla?" «Mi sembra strano,» mormorò. «Ricordarsi una data del genere.» C'era il foglio tra di loro. «Ho sempre nutrito un profondo scetticismo verso i fotografi,» sorrise Yngvar. «Manipolano la realtà e la chiamano autentica.» «E io verso i ginecologi,» disse lei senza guardarlo. «Spesso sembra che manchino della più elementare forma di compassione umana. Gli uomini sono peggio.» «Suona troppo pieno di pregiudizi per uscire dalla tua bocca. Cosa ne pensi degli assistenti al doposcuola?» Entrambi si misero a ridere. Era stata una buona idea, spostarsi. Lui non aveva fatto storie al riguardo. Si era limitato ad accomodarsi meglio, come se in realtà gli piacesse avere tutto il divano per sé. «Avete scoperto qualcosa di nuovo sulla causa di morte di Kim e Sarah?» «No.» Yngvar bevve ciò che restava nella tazza. «Se partiamo dal presupposto che realmente esista una causa,» disse Johanne, «be', allora...» «Ma è ovvio che esiste una causa di morte! Stiamo parlando di due bambini sani e robusti!» Quando aggrottava la fronte, sembrava più vecchio. Molto più vecchio. Più vecchio di lei.
«È possibile che siano... morti di paura o qualcosa del genere?» «No. Non per quanto ne so io. Pensi sul serio che possa essere così? Spaventare a morte due creature con il cuore sano?» «Non ne ho idea. Ma se il nostro uomo ha scovato un modo per uccidere la gente senza lasciare traccia...» Un brivido gelido le attraversò nuovamente la nuca. Si sollevò i capelli e si passò una mano nella frangia. «... significa che ha il controllo assoluto. Da questo punto di vista, corrisponde al suo profilo.» «Che profilo?» «Aspetta.» Johanne fissava il foglio. Era girato verso Yngvar; i caratteri erano così piccoli che lei non riusciva a leggerlo al contrario. Alzò un dito, come se le occorresse un silenzio assoluto per completare il pensiero. «Quest'uomo è un... vendicatore,» disse tesa. «Soffre di un disturbo della personalità seriamente antisociale, oppure è uno psicopatico. Se fa quello che fa, è perché è convinto che sia corretto. O meglio, giusto. Pensa di avere dei diritti da rivendicare. Su qualcosa. Qualcosa che non ha mai avuto. O qualcosa che gli è stato sottratto. Qualcosa di suo. Se lo sta riprendendo... ciò che è suo!» Il dito di lei sembrava un punto interrogativo sospeso tra di loro. Il viso di Yngvar era immobile. «Può essere... forse in realtà l'assassino è il padre di questi bambini?» Le tremava la voce; se ne accorse da sola e tossicchiò. Yngvar era pallido. «No,» disse infine. «Non lo è.» Il dito di Johanne si abbassò lentamente. «Avete già verificato» disse con voce atona «di chi sono figli i bambini?» «Sì.» «Non sarebbe stata una cattiva idea farmelo sapere,» gli disse. «Visto che vuoi che ti aiuti.» «È solo che non ci ero ancora arrivato. Sappiamo che il padre biologico di Emilie non è Tønnes Selbu. Pensiamo che lui lo ignori. Gli altri bambini...» Si appoggiò lentamente allo schienale del divano e vi allargò sopra le braccia. «Tutto indica che le paternità sono regolari.»
Johanne non perdeva di vista il foglio. Il Re d'America guaiva dall'altro lato della porta chiusa di Kristiane. Johanne non si alzò. I lamenti del cane aumentarono d'intensità. «Vuoi che...» cominciò Yngvar. «C'è stata una specie di festa per sole donne qui ieri sera,» lo interruppe lei. «Ci siamo prese una piccola sbornia, tutte quante.» Jack aveva cominciato a ululare. «Lo faccio uscire,» disse Yngvar. «Dovrà fare la pipì.» «Non sa ancora gestire i bisogni,» disse lei piatta. «Ha solo voglia di compagnia. Adesso Kristiane si sveglierà. Ormai è fatta.» Tuttavia restò seduta. Yngvar fece uscire il cane dalla stanza della bambina. Aveva fatto la pipì sul pavimento. Yngvar andò a prendere secchio e spazzolone. Quando tornò con il cane tra le braccia, c'era odore di Ajax in tutta la casa. «Una festa,» disse falsamente allegro. «Di mercoledì.» «In realtà è una specie di circolo di lettura. Salvo che raramente abbiamo tempo di leggere. Per lo meno non gli stessi libri. Ma lo facciamo fin dal liceo. Una volta al mese. E, come ti dicevo, ci siamo un po'...» Arrossì. Non era perché aveva bevuto troppo la sera prima. Non doveva certo rendere conto a lui di quello che faceva. Era perché Yngvar si sentiva tanto a suo agio in casa sua, seduto con il suo cane in braccio, sul suo divano. Aveva le mani ancora bagnate della sua acqua e del suo detersivo. «A serata inoltrata una di noi ha voluto sapere a tutti i costi con quanti eravamo...» Yngvar non era mai stato con altre donne che sua moglie. Johanne pensava di non aver mai conosciuto un uomo che potesse dire lo stesso. "Dici la verità?" pensò. "O anche questo è un modo per far colpo? Per renderti interessante?" «... state a letto,» concluse. «Adesso sinceramente non...» «... non mi stai dietro?» Si pentì subito di averlo detto. «Il punto è questo,» aggiunse in fretta. «Abbiamo riso e scherzato parecchio, naturalmente. È uno di quei giochi di società che delle vecchie amiche a volte fanno. Più o meno come quando i ragazzi fanno la lista dei cinque migliori album rock di tutti i tempi. I dieci migliori attaccanti. Una cosa così.» Yngvar aveva un grembo accogliente. Le sue cosce erano ampie e in
mezzo c'era posto per tutt'intero il Re d'America. Il cane se la godeva, sdraiato con gli occhi socchiusi. «Probabilmente abbiamo mentito un po' tutte. Ma il punto è...» «Ecco, veniamo al sodo, adesso sì che sono curioso!» Erano parole sarcastiche. La voce però era amichevole. Johanne non sapeva cosa pensare. «Qualcuno lo escludiamo,» fece lei. «Chiunque ha qualcuno che preferisce lasciar fuori.» Lui distolse lo sguardo dal cane e lo puntò dritto su Johanne. «Be', forse non chiunque,» disse, e indicò il tavolo come se volesse spiegare chi intendeva includere. «Ma noi sì. Noi che eravamo qui ieri. Abbiamo sorvolato su qualcuno. Nel corso degli anni abbiamo avuto a che fare con delle persone che abbiamo capito presto che non ci piacevano, o che adesso è addirittura sgradevole pensare che ci siamo davvero... state insieme. Ma passa il tempo, e ce ne dimentichiamo. Consciamente o inconsciamente. Anche se qualche nome di solito continua a ronzarci in testa, non lo diciamo. Nemmeno in presenza di buone amiche.» Yngvar posò cautamente il cucciolo a terra. Jack si mise a piagnucolare, voleva essere ripreso in braccio. Yngvar lo spinse via deciso e tirò il foglio verso di sé. Il cane si spostò in un angolino e si accucciò con un tonfo. «Qui c'è solo un "fidanzato",» disse. «Karsten Åsli. Viene poi indicato come amico, anzi ex amico, per essere precisi, di un'altra. Credi che questo Åsli sia stato davvero con più di una delle madri?» «Non necessariamente. Potrebbe trattarsi di un altro. Uno che non è stato nominato da nessuna. Vuoi perché lo hanno completamente rimosso, vuoi perché non vogliono ammettere che...» «Ma queste madri capiscono bene la serietà della situazione,» la interruppe. «Sanno quanto è importante che dicano la verità, che le liste che gli abbiamo chiesto siano corrette.» «Sì,» annuì Johanne. «Non mentono. Rimuovono. Ti va un drink? Un whisky? Un gin tonic?» Quando lui guardò l'ora, sembrò un gesto automatico, come se non potesse rispondere all'offerta di un drink senza prima controllare che ora fosse. Magari Johanne aveva ragione; era possibile che Yngvar non bevesse affatto. «Devo guidare,» rispose esitante. «No, grazie. Anche se non sarebbe una cattiva idea.» «Puoi lasciarla qui la macchina,» disse lei fioca, e subito aggiunse: «Non
c'è fretta. Non è che io sappia se queste donne hanno avuto un fidanzato in comune. Sollevo semplicemente la questione. C'è rabbia nei crimini di quest'uomo. Amarezza. Cattiveria! È più facile pensare che una reazione simile sia la conseguenza del rifiuto di una donna, di più donne, forse di tutte le donne, più che sia arrabbiato con... il fisco, per esempio.» «Non dirlo,» fece Yngvar, «negli Stati Uniti...» «Negli Stati Uniti ci sono casi di gente che uccide perché gli è stato servito un BigMac tiepido,» continuò Johanne. «Credo che faremmo meglio a limitarci alle storie di casa nostra.» «Cosa c'è stato fra te e Warren?» Johanne si stupì della debolezza della propria reazione. Era da quando aveva scoperto che Yngvar conosceva Warren che si aspettava quella domanda. Visto che tardava ad arrivare, ne aveva desunto che non gliene importasse. Si sentiva allo stesso tempo compiaciuta e delusa. Non voleva parlare di Warren. Ma il fatto che Yngvar non le avesse fatto prima quella domanda poteva comunque suggerire un'indifferenza che non le andava del tutto a genio. «Non voglio parlare di Warren,» disse calma. «Bene. Se ti ho ferita in qualche modo, ti chiedo scusa. Non era affatto mia intenzione.» «Non mi hai ferita,» rispose con un sorriso forzato. «Mi sa che dopotutto accetterò il tuo drink.» «E a casa come ci vai?» «In taxi. Un gin tonic, se ce l'hai.» «Te l'ho offerto io.» I cubetti di ghiaccio tintinnavano rumorosamente mentre tornava dalla cucina coi due gin tonic. «Purtroppo non ho limone,» disse. «Warren fu una delusione atroce. Professionalmente e sentimentalmente. Siccome ero molto giovane, diedi maggior importanza al secondo aspetto. Oggi mi dà molta più rabbia il primo.» C'era troppo gin nel cocktail. Johanne fece una smorfia e continuò: «Nella misura in cui ci penso ancora. È passata un'eternità. E come ho già detto: non mi va di parlarne.» «Cin! Un'altra volta magari.» Yngvar alzò il bicchiere e bevve. «No,» rispose lei. «Non ne voglio parlare. Né ora né un'altra volta. Ho chiuso con Warren.»
Il silenzio che seguì non era imbarazzante, chissà per quale motivo. In giardino c'erano alcuni ragazzini che facevano baccano mentre tentavano di recuperare una palla lanciata male. Era un rumore che preannunciava l'estate e che li fece sorridere entrambi, anche se non l'uno all'altro. Erano già le nove e mezza. Johanne sentiva che il gin le dava alla testa. Una leggera e gradevole vertigine già dopo il primo sorso. Allontanò il bicchiere. Si rilassò. Poi disse: «Se giochiamo con l'idea che abbiamo a che fare con un ex fidanzato, o piuttosto con uno che vorrebbe tanto essere stato il fidanzato di una di queste madri, allora il messaggio avrebbe perfettamente senso. Adesso hai quello che ti meriti. È impossibile colpire una donna più forte che portandole via suo figlio.» «Non puoi colpire più forte nemmeno un uomo.» Johanne lo guardò assente. Poi comprese. «Oh... mi dispiace. Scusa, Yngvar, non pensavo...» «Non c'è problema. Sembra che la gente abbia la tendenza a dimenticare. Probabilmente perché fu un incidente così... grottesco. Ho un collega che ha perso un figlio in un incidente stradale circa un anno fa. Ne parla con tutti. Un incidente stradale in qualche modo è una cosa con cui ci si può confrontare. Cadere da una scala uccidendo se stessi e la propria madre è più...» Fece un sorriso teso e bevve un sorso del suo drink. «Alla John Irving. Quindi nessuno dice niente. In realtà va bene lo stesso. Ma tu eri a metà di un ragionamento.» Non voleva continuare. Tuttavia qualcosa nel suo sguardo la fece proseguire: «Diciamo pure che stiamo parlando di una persona apparentemente normale. Di bell'aspetto, magari. Un bel tipo. Sa benissimo di essere affascinante e di donne ne trova senza problemi. Dal momento che è un carattere fortemente manipolatore, per un certo tempo riesce a tenersele strette. Ma niente di più. C'è qualcosa di cattivo in lui, qualcosa di immaturo e fortemente egocentrico che, insieme a una paranoia che si scatena facilmente, fa sì che le donne lo respingano. Una sconfitta dopo l'altra. Secondo lui non è colpa sua. Lui non fa niente di sbagliato. Sono le donne a tradirlo. Sono astute e calcolatrici. Non c'è da fidarsi di loro. Ed ecco che succede qualcosa.» «Tipo cosa?» Yngvar aveva quasi finito il gin tonic. Johanne non sapeva se offrirglie-
ne un altro. Invece riprese: «Non lo so. Un ennesimo rifiuto? Forse. Probabilmente qualcosa di più serio. Qualcosa che ha acceso la miccia. Quell'uomo che è stato visto a Tromsø, ne avete più saputo nulla?» «No. Non si è presentato nessuno. Può significare che era il nostro uomo. Ma può anche voler dire che era tutt'altra persona. Uno che non c'entra nulla con questa storia ma che aveva qualcosa da fare di cui non andava esattamente fiero e a cui la polizia avrebbe potuto attaccarsi. Può essere anche una cosa innocua, per esempio una visita all'amante. Quindi di fatto non siamo andati avanti di un passo.» «Emilie rende tutto più confuso,» fece lei. «Ne vuoi ancora?» Yngvar prese in mano il bicchiere e lo osservò, a lungo. I cubetti di ghiaccio si erano sciolti. Di colpo lo bevve tutto e disse: «No, grazie. Sì, Emilie è un mistero. Dov'è? Considerato che la madre è morta da quasi un anno, è difficile dire che il rapimento è un attacco contro di lei. La tua teoria crolla.» «Sì...» Johanne ci rimuginò sopra. «Non è stata riconsegnata, come gli altri bambini. Per lo meno non al padre. Ma avete...» I loro sguardi si incontrarono e rimasero agganciati. «Il cimitero,» fece lui a bassa voce, quasi in un sussurro. «Può averla consegnata a sua madre.» «Sì. No!» Johanne si tirò le maniche fino a coprirsi le mani. Stava rabbrividendo e quasi urlò: «Fra poco saranno quattro settimane che è scomparsa! Qualcuno l'avrebbe vista! Dev'esserne passata di gente per il cimitero di Asker in questo lasso di tempo.» «Non so nemmeno se è lì che riposa Grete Harborg,» fece lui con il fiato corto. «Merda. Perché non ci abbiamo pensato prima?» Si alzò di scatto. Fece un cenno interrogativo verso lo studio di Johanne. «Telefona pure,» disse lei. «Ma ormai non è un po' tardi per verificarlo?» «Troppo tardi,» disse lui chiudendosi la porta alle spalle. Si erano spostati in terrazzo. Era stato lui a volerlo. Era mezzanotte passata. Finalmente i vicini avevano richiamato dentro i ragazzi. Si percepiva
un leggero odore di braci spente, proveniente da est. La direzione del vento li favoriva, il rumore delle auto sullo Store Ringvei, la tangenziale esterna, era lontano e attutito. Johanne gli aveva offerto un sacco a pelo quando era andata a prendere un piumone per sé verso le undici. Lui aveva rifiutato, ma alla fine aveva accettato un plaid sulle spalle. Johanne vedeva che stava gelando. Muoveva a ritmo regolare le cosce una contro l'altra e ogni tanto si scaldava le mani con il respiro. «Una storia affascinante,» disse Yngvar, controllando per la quarta volta che il suo cellulare fosse acceso. «Gli ho chiesto di chiamarmi sul cellulare. Quindi non...» Fece un cenno del capo verso l'appartamento dietro di loro. Kristiane dormiva profondamente. Johanne gli aveva raccontato di Aksel Seier. In realtà era stupita di non averlo fatto prima. In meno di una settimana lei e Yngvar avevano trascorso insieme una giornata intera, una lunga serata e una notte di veglia. Varie volte aveva pensato di condividere con lui quella storia. Ma qualcosa fino a quel momento l'aveva trattenuta, forse la sua eterna reticenza a confondere le carte sul lavoro. Non sapeva più come definire Yngvar. Indossava ancora la sua maglietta. L'aveva ascoltata con interesse. Le sue brevi e rare domande erano pertinenti. Intelligenti. Avrebbe dovuto dirglielo prima. Per una ragione o per l'altra aveva evitato di toccare l'argomento Asbjørn Revheim e Anders Mohaug. Non aveva fatto il minimo cenno al proprio viaggetto a Lillestrøm. Come se prima desiderasse schiarirsi le idee. «Credi...» fece pensosa «... che in Norvegia un pubblico ministero possa essere, in certi casi...» Era come se non osasse pronunciare quella parola. «Corrotto,» le andò incontro lui. «No. Se per corrotto intendi che qualcuno all'interno della magistratura possa ricevere denaro per ottenere con la propria influenza un determinato risultato in un processo, lo escluderei in modo quasi assoluto.» «Molto rassicurante,» fece lei asciutta. C'era un termos pieno di tè e miele sul tavolino di tek che li separava. Dal tappo usciva un fischio molesto e Johanne cercò di chiuderlo meglio. «Però ci sono molte forme di debolezza umana,» aggiunse lui mentre si abbracciava alla tazza per riceverne calore. «La corruzione è praticamente impensabile in questo paese. Per molte ragioni. Innanzitutto non abbiamo nessuna tradizione di questo tipo. Può sembrare strano, ma la corruzione implica una sorta di tradizione nazionale. In molti paesi africani, ad esem-
pio...» «Ehi, attento!» Ridacchiarono entrambi. «Be', abbiamo assistito a esempi di corruzione ad altissimo livello in Europa negli ultimi anni,» disse Johanne. «Belgio, Francia! Non sono poi così lontani. Non c'è bisogno di andare fino in Africa.» «È vero,» ammise Yngvar. «Ma noi siamo un paese molto piccolo. Molto trasparente. Non è la corruzione il nostro problema.» «Qual è il problema allora?» «L'incompetenza e il prestigio.» «Wow.» Johanne lasciò perdere il termos, che continuava a lamentarsi con un suono acuto e lagnoso. Yngvar aprì il tappo del tutto e si versò il resto del tè nella tazza. Poi appoggiò piano il tappo accanto al termos e chiese: «Dove vuoi arrivare?» «Io... Credi sia possibile ipotizzare che Aksel Seier, a quell'epoca, sia stato condannato benché all'interno del sistema ci fosse qualcuno che sapeva che era innocente?» «Fu condannato da una giuria,» disse Yngvar. «Una giuria è composta da dieci elementi. Mi risulta molto difficile pensare che dieci persone possano essere d'accordo nel fare qualcosa di così sbagliato senza che salti fuori. Nel corso di tanti anni, intendo.» «Sì. Però le prove furono prodotte dal pubblico ministero.» «Esatto. Vuoi dire che un...» «Per ora non voglio dire nulla. Ti chiedo solo se ritieni possibile che la polizia e il Pm nel 1956 abbiano fatto condannare Aksel Seier per qualcosa che sapevano che non aveva commesso.» «Sai chi ricopriva la carica al processo?» «Astor Kongsbakken.» Yngvar scostò la tazza dalla bocca e rise. «In base alle cronache giornalistiche era a dir poco profondamente coinvolto in quella causa,» proseguì Johanne. «Immagino! Ma sono troppo giovane...» Adesso Yngvar la guardava dritto negli occhi, con un grande sorriso. Johanne esaminò una macchia di tè sul piumone e se lo strinse meglio addosso. «... per conoscere le vicissitudini del processo,» continuò lui. «Ma era un tipo leggendario. La risposta della procura norvegese a Perry Mason, si
può ben dire. Impegnato e molto capace. Al contrario di buona parte degli avvocati difensori, Kongsbakken ebbe il senno di ritirarsi in tempo. Non so esattamente cosa ne sia stato di lui.» «Dev'essere morto da un pezzo,» fece lei piano. «Sì, o morto o vecchio come il cucco. E credo di poterti assicurare una cosa: il Pm Kongsbakken non avrebbe mai contribuito a far condannare un innocente.» «Ma nel 1965... quando Aksel Seier fu liberato senza spiegazioni...» Il cellulare accennò una versione digitale di Per Elisa. Yngvar lo portò all'orecchio. Il dialogo durò meno di un minuto in cui lui disse a malapena sì, no, grazie. «Niente,» disse a voce alta chiudendo il cellulare. «Grete Harborg è stata sepolta nel cimitero ovest di Oslo, accanto ai suoi nonni. Tre pattuglie della polizia di Oslo hanno perlustrato l'area intorno alla tomba. Nulla. Nessun pacco sospetto, nessun messaggio. Domani quando farà giorno continueranno le ricerche, ma sono piuttosto convinti che lì non ci sia niente.» «Grazie a Dio,» sussurrò Johanne; provava un sollievo fisico. «Per fortuna. Però...» Yngvar la guardò. Alla luce della notte i suoi occhi sembravano più scuri, quasi neri. Avrebbe dovuto farsi la barba. Il plaid gli era scivolato giù dalle spalle. Quando si girò per raccoglierlo, Johanne lesse il proprio nome sulla sua schiena ampia. Deglutì e scartò l'idea di guardare l'ora. «... questo significa anche che non possiamo ancora essere del tutto certi che Emilie sia stata presa dalla stessa persona che ha rapito gli altri bambini,» disse. «Può trattarsi di qualcun altro.» «Sì,» annuì lui. «Ma io non ci credo. Tu non ci credi. Io prego Dio che non sia così.» L'intensità di quell'esclamazione la sorprese. «Perché... Cosa intendi...» «Emilie è viva. Può essere viva. Se è il nostro uomo ad averla, ha un motivo per mantenerla in vita. Per questo spero sia lui. Dobbiamo solo...» «... trovarlo.» «Devo andare,» disse Yngvar. «Sì, direi di sì,» confermò Johanne. «Ti chiamo un taxi.» Yngvar era di costituzione robusta, ed erano passate tre ore da quando aveva bevuto un gin tonic. Probabilmente era in grado di guidare e lo sapevano entrambi. «Torno domani a prendere la macchina,» fece lui. «Così ti riporto anche
la maglietta. Se ti va bene che non la lavo.» Sull'uscio diede a Jack un'ultima pacca. Poi si portò la mano alla fronte, sorrise e si diresse verso il taxi che lo stava aspettando. XLVI. Un uomo era accovacciato contro il muro di una baita. Era vestito pesante per la stagione. Eppure stava gelando. Gli battevano i denti e cercò di stringersi di più nella giacca. Non sapeva dov'era. Gli alberi circondavano fitti lo spazio aperto davanti a quell'edificio fatiscente. Avrebbe potuto entrarvi con facilità. Non era nemmeno sicuro che fosse chiuso. Verso est, una strisciolina di luce rosa si allargava in cielo. Doveva trovare un posto per nascondersi. Una baita nel bosco non era un'idea molto brillante. Poteva arrivare qualcuno. Sembrava disabitata. C'era puzza di catrame vecchio e di gabinetto esterno. L'uomo cercò di alzarsi. Era come se le gambe non lo reggessero. Vacillò e si rese conto che doveva trovare in fretta qualcosa da mangiare. «Mangiare,» mormorò. «Mangiare.» La porta era uno scherzo. Solo qualche tavola malmessa insieme che sbatteva avanti e indietro su un cardine. Si infilò dentro. Era buio. Ancora più buio che fuori. Qualcuno aveva inchiodato le antine delle finestre. L'uomo brancolò lungo la parete. Con una mano toccò una credenza. Per fortuna aveva un accendino. Era a corto di sigarette da un pezzo. Ne sentiva il bisogno come un dolore acuto sotto lo sterno. Fumo e cibo. Aveva bisogno di fumo e di cibo, ma non aveva idea di come procurarseli. Grazie alla luce dell'accendino riuscì ad aprire la credenza. Era vuota. Anche quella dopo era vuota. Solo ragnatele e una radio portatile rotta. La baita consisteva di un'unica grande stanza. Su un tavolo c'era una specie di vaso. Un gran posacenere. Dentro c'erano quattro mozziconi. Ne prese uno con le dita che gli tremavano. Il tabacco era talmente secco che cadde fuori dalla cartina. Con calma rimise dentro le fibre. Ci volle un po'. Doveva tenere l'apertura in alto. Quando si accese la sigaretta, gettò indietro la testa. Dopo quattro mozziconi non aveva più tanta fame. Provava piuttosto una leggera nausea. Era meglio. Si rannicchiò sotto il tavolo grezzo e si addormentò.
XLVII. Apparentemente, la ragazzina aveva deciso di morire. Chissà perché. Riceveva cibo a sufficienza. Acqua a sufficienza. Aria a sufficienza. Lui le procurava tutto ciò di cui aveva bisogno per mantenersi in vita. Eppure lei stava lì sdraiata e basta. Aveva smesso di rispondergli quando le parlava. Era una cosa irritante. Impudente. Siccome non poteva più soffrire la sua puzza, aveva tirato fuori un paio di sue vecchie mutande e cucito la patta. Non poteva certo comprare delle mutandine per bambina senza essere notato. Lo conoscevano in paese. Certo, sarebbe potuto andare in città, ma era meglio giocare sul sicuro. Aveva sempre giocato sicuro. Non l'avrebbero mai trovato e non voleva rovinare tutto solo perché a qualcuno poteva sembrare strano che un uomo senza figli comprasse delle mutandine da bambina. Ormai la gente era isterica. Non parlavano d'altro. Alla Cooperativa, da Bobben il benzinaio. Al lavoro poteva mettersi le cuffie chiudendo fuori tutti gli altri, ma durante la pausa pranzo era costretto a sentire le loro lagne. Un paio di volte era rimasto a mangiare in segheria. Ma poi era arrivato il capo a chiedergli cosa ci fosse che non andava. Il pranzo era sacro per tutti e andava consumato nella baracca. Era così e basta, e lui aveva sorriso e gli era trotterellato dietro. Quando, un paio di giorni prima, le aveva ordinato di alzarsi dal letto per lavarsi, Emilie sembrava rigida come un robot. Ma lo aveva fatto. Si era avvicinata barcollando al lavabo. Si era tolta i vestiti fino a restare nuda. Si era lavata con gli stracci che le aveva portato. Aveva indossato le mutande pulite, un paio verde slavato con uno sfrontato elefante sul davanti. Lui s'era fatto una risata. Le mutande non le stavano su; quando si era voltata verso di lui, Emilie aveva un aspetto assolutamente ridicolo: magra e pallida, con la mano destra stretta intorno a un pugnetto di tessuto dalle parti della proboscide. Poi lui le aveva lavato i vestiti. In lavatrice, con l'ammorbidente nel risciacquo. Non si era preso la briga di stirarglieli, ma poteva comunque essergli grata. Invece era rimasta in mutande, sdraiata. I vestiti erano ancora ben piegati accanto al letto. «Ciao,» le disse brusco dalla porta. «Sei ancora viva?» Silenzio. Quella stronzetta non voleva rispondergli. Gli ricordava una compagna delle elementari. Stavano allestendo un'opera teatrale. Sarebbe venuta sua madre. Gli aveva fatto lei il costume. Lui
interpretava un'oca selvatica e aveva solo due battute. Il costume non era particolarmente bello. Le ali erano di cartone e una aveva un brutto squarcio. Gli altri ridevano. La bambina bella era un cigno. Le piume la avvolgevano come spuma, candide piume di carta velina. Era inciampata in qualcosa e caduta giù dal palco. Sua madre non si era fatta viva. Non aveva mai saputo perché. Al suo ritorno a casa, stava leggendo in cucina. Non aveva nemmeno alzato lo sguardo quando lui le aveva detto buonanotte. La nonna gli aveva dato un panino e un bicchier d'acqua. Il giorno dopo lo aveva trascinato all'ospedale a trovare il cigno e chiedere scusa. «Ciao,» ripeté. «Mi rispondi o no?» Ci fu un debole movimento sotto le coperte, ma neanche un suono. «Stai attenta,» le disse a denti stretti, e sbatté di nuovo la porta di ferro. Era buio pesto. Emilie sapeva di non essere cieca. L'uomo aveva spento la luce. Il papà doveva proprio aver smesso di cercarla ormai. Magari le avevano anche fatto il funerale. Probabilmente era morta e sepolta. «Mamma,» disse muta. XLVIII. Il venerdì mattina Kristiane si svegliò con la febbre. O meglio, non si svegliò. Quando Johanne si alzò alle otto e dieci per colpa di Jack, la bambina era ancora a letto che dormiva. A bocca aperta e con l'alito cattivo; le guance erano rosse e la fronte calda. «Male,» mormorò quando Johanne la svegliò. «Sete al pancino.» In realtà a Johanne andava bene restare a casa. Indossò una vecchia tuta da jogging e chiamò in ufficio per lasciare un messaggio. Poi fece il numero di sua madre. «Kristiane è malata, mamma. Non possiamo venire stasera.» «Che peccato. Che gran peccato! Avevo comprato il miglior salmone marinato di tutti i tempi, sai, tuo padre conosce... Vuoi che venga a occuparmi io di lei?» «No, non è il caso. Be', sì...» Johanne aveva bisogno di passare un giorno a casa. Poteva fare le pulizie prima del fine settimana. Poteva riparare la sedia in cucina; quella che si
era un po' sgangherata sotto il peso di Yngvar. Kristiane era una bambina rara. Guariva dormendo, letteralmente. L'ultima volta che si era presa l'influenza aveva dormito quasi ininterrottamente per quattro giorni, finché una notte alle due si era alzata dichiarando: «Sana. Sana come un pesce.» Johanne poteva finalmente farsi quella maschera per capelli che le aveva passato Line. Poteva starsene in pace nella vasca da bagno. Ma c'erano un paio di cose che era meglio sbrigare prima del fine settimana. «Puoi venire più tardi? Non so... verso le due?» «Certo che posso, cara. Kristiane poi è così brava quando è ammalata. Mi porto dietro il ricamo e un film che mi ha prestato tua sorella, un vecchio film che secondo lei mi piacerà tanto. Fiori d'acciaio con Shirley McLaine e...» «Mamma, qua c'è una pila intera di film.» «Sì, ma tu hai... dei gusti così strani!» Johanne chiuse gli occhi. «Io non ho dei gusti strani! Qui ci sono film di...» «E va bene, cara. Hai sul serio dei gusti un po' particolari. Ammettilo. Non ti sei ancora tagliata i capelli? Tua sorella sta così bene, è andata da quel parrucchiere nuovo che va tanto di moda in Prinsens gate, si chiama...» Sua madre ridacchiò. «Sì, è un po'... lo sono spesso, questi parrucchieri. Ma Dio, che bella che è diventata Marie.» «Non ho dubbi. Allora vieni alle due?» «Alle due in punto. Vuoi che faccia la spesa per la cena per tutte e tre?» «No, grazie. Ho un minestrone in freezer. È l'unica cosa che Kristiane mangia quando sta male. Ce n'è abbastanza anche per noi.» «Bene. Ci vediamo dopo allora!» «A dopo.» L'acqua della vasca era giusto un paio di gradi troppo calda. Johanne appoggiò la testa al cuscino di plastica e respirò il vapore a pieni polmoni. Limone e camomilla da una costosa bottiglia di vetro che Isak le aveva portato dalla Francia. Le portava ancora dei regali quando andava all'estero. Johanne non capiva bene perché, ma era piacevole. Isak aveva buon gusto. E molti soldi. «Anch'io ho buon gusto,» mormorò.
Al portasciugamani erano appesi tre lisi teli ricamati. Uno aveva un grande disegno di Tigro, gli altri due erano stati lavati così tanto da raggiungere una sfumatura rosa pastello. «Degli asciugamani nuovi,» si disse. «Oggi.» Le sue amiche le invidiavano sua madre. Line la adorava. È così gentile, le dicevano le altre. Ti aiuta per qualunque cosa. Ti sta dietro così tanto! Legge, va al cinema, a teatro, e come si veste! Sua madre era gentile. Troppo gentile. Sua madre era a capo di un esercito al servizio del bene, amichevole con i prigionieri, membro onorario dell'Associazione norvegese femminile per la sanità. Forse era perché non aveva mai lavorato fuori casa. La sua vita erano stati il marito e le figlie e il volontariato; una serie infinita di mansioni e incarichi non retribuiti che esigevano una buona e ben sviluppata disposizione nei confronti di tutto e di tutti. Sua madre era una diplomatica nata. Era quasi incapace di formulare una frase che esprimesse realmente quello che voleva dire. Tuo padre è in ansia per te significava Sono preoccupata a morte. Marie è splendida in questo periodo era la maniera con cui sua madre le diceva che lei sembrava un sacco della spazzatura. Se sua madre le portava una pila di riviste femminili, Johanne sapeva in anticipo che parlavano di nuove tendenze della moda e dei venti metodi per accaparrarsi un uomo. «Il tuo è un lavoro impegnativo,» le diceva sua madre dandole una pacca leggera sul braccio. Era allora che Johanne sapeva che sua madre non trovava molto seducenti i jeans, i maglioni del college e gli occhiali vecchi di quattro anni. La maschera per capelli di Line era davvero gradevole. Le pizzicava il cuoio capelluto e Johanne poteva quasi avvertire come le punte consumate risucchiassero nutrimento sotto la cuffietta di plastica. L'acqua le aveva arrossato la pelle. Jack dormiva e dalla stanza da letto di Kristiane non arrivavano rumori. Aveva lasciato le porte aperte, per sicurezza. Il libro su Asbjørn Revheim stava per cadere nell'acqua. Lo salvò in extremis e spostò la tazza di caffè dal bordo della vasca a terra. Il primo capitolo parlava della morte di Revheim. A Johanne sembrava uno strano modo di iniziare una biografia. Non era sicura di voler leggere la fine di Revheim, e saltò qualche pagina. Il secondo capitolo parlava della sua infanzia. A Lillestrøm. Il libro cadde in acqua. Lo riacciuffò in un lampo. Alcune pagine si erano incollate tra di loro. Le ci volle un po' a ritrovare il punto a cui era arrivata quando le era scivolato.
Eccolo. Asbjørn Revheim si era riproposto di cambiare nome fin da quando aveva tredici anni. Il biografo dedicava una pagina e mezza a spiegare quanto fosse eccezionale che dei genitori nel 1953 permettessero a un adolescente di rifiutare il proprio cognome. Ma d'altra parte i genitori di Asbjørn non erano persone qualunque. Il vero cognome di Asbjørn Revheim era Kongsbakken. La madre e il padre erano Unni e Astor Kongsbakken, lei un'apprezzata designer di tappeti, lui un famoso, per non dire famosissimo, pubblico ministero. L'acqua era ormai tiepida. Quasi dimenticò di sciacquare la maschera. Quando sua madre arrivò alle due, Johanne ebbe a malapena il tempo di dirle che Kristiane doveva prendere mezza aspirina sciolta in una CocaCola tiepida un'ora dopo e che la bambina poteva bere quello che voleva. «Torno per le cinque,» disse. «Puoi mettere Jack al guinzaglio in giardino. E grazie mille, mamma!» Si dimenticò completamente di spiegarle perché in sala ci fosse una biografia stesa ad asciugare su una cordicella tra due sedie. Alvhild era peggiorata. C'era di nuovo puzza di cipolla. L'anziana signora era a letto e l'infermiera diede precise istruzioni a Johanne di non fermarsi a lungo. «Torno tra un quarto d'ora,» la minacciò. «Buongiorno,» disse lei. «Sono io, Johanne.» Alvhild faticò ad aprire gli occhi. Johanne accostò una sedia e posò prudentemente una mano su quella della vecchia. Era fredda e asciutta. «Johanne,» ripeté Alvhild. «Ti stavo aspettando. Raccontami.» Diede un secco colpo di tosse e cercò di girarsi dall'altra parte. Il cuscino era troppo imbottito. Alvhild sembrava avere la testa bloccata e fissava il soffitto. Johanne prese un fazzoletto di carta da una scatola sul comodino e le asciugò le labbra. «Vuole un po' d'acqua?» «No. Voglio sentire cos'hai trovato a Lillestrøm.» «È sicura che... Posso tranquillamente tornare domani... È troppo stanca adesso, Alvhild.» «Questo sarò ben io a deciderlo!» Di nuovo un brutto colpo di tosse. «Racconta,» le ordinò Alvhild. Johanne raccontò. Per un momento dubitò che Alvhild fosse ancora sve-
glia. Poi vide comparire un sorriso forzato sulle labbra della vecchia signora; Johanne non poté far altro che continuare. «E poi oggi,» disse alla fine. «Oggi ho scoperto che Astor Kongsbakken è il padre di Asbjørn Revheim.» «Io lo sapevo,» sussurrò Alvhild. «Lo sapeva?» «Sì. Kongsbakken era una figura di spicco. Fece moltissimo in ambito giuridico negli anni Cinquanta e all'inizio degli anni Sessanta. Ci furono molte dicerie su quanto dovesse essere imbarazzante per lui avere un figlio che scriveva libri di quel genere. Lui... Ma non immaginavo che Revheim avesse qualcosa a che fare con il caso Seier.» «Non è affatto certo che ce l'abbia.» Alvhild trafficava con il cuscino. Voleva mettersi seduta. La sua mano annaspava alla ricerca della pulsantiera che regolava il letto. «È certa che le faccia bene?» chiese Johanne premendo con cautela un tasto verde. Alvhild annuì debolmente e annuì ancora quando fu soddisfatta. Il sudore le riluceva nelle rughe della fronte. «Quando uscì Gelo febbrile nel...» «1961,» completò Johanne, che intanto aveva scorso quasi tutta la biografia. «Può darsi. Provocò un gran putiferio. Non solo a causa del suo contenuto altamente pornografico, ma forse più ancora a causa delle violente accuse contro la Chiesa. Dev'essere stato in quello stesso anno che Astor Kongsbakken lasciò la carica di pubblico ministero e divenne consulente ministeriale. Lui...» Alvhild boccheggiò in cerca d'aria. «... acqua nei polmoni,» sorrise pallida. «Aspetta solo un momento.» L'infermiera era tornata. «Adesso faccio sul serio,» disse. Il suo seno pesante saltava a ritmo con le parole. «Ad Alvhild non fa bene.» «Astor Kongsbakken,» ansimò Alvhild affaticata. «Era amico del mio capo. Quello che mi chiese di...» «Fuori,» fece l'infermiera indicando la porta; preparò una siringa con gesti esperti. «Me ne vado,» disse Johanne. «Adesso me ne vado.» «Avevano studiato insieme,» sussurrò Alvhild. «Torna, Johanne.» «Sì,» disse Johanne. «Tornerò quando starà meglio.»
Nello sguardo dell'infermiera poté leggere che allora poteva anche aspettare fino alle calende greche. Quando Johanne arrivò a casa, c'era odore di pulito. Kristiane dormiva ancora. La sala era stata arieggiata e le tende staccate. Anche la libreria era in ordine; i volumi che nella fretta erano stati ammassati malamente gli uni sugli altri ora erano tutti ben collocati al loro posto. Il voluminoso mucchio di vecchi giornali che si trovava vicino alla porta non c'era più. E neppure Jack. «A tuo padre faceva bene una passeggiata,» disse sua madre. «Non è da molto che sono usciti. Le tende avevano bisogno di una lavata, senza dubbio. E qui...» Le passò la biografia di Asbjørn Revheim. Sembrava straletta e consunta, ma stava insieme ed era completamente asciutta. «Ho usato il phon,» disse sorridendo. «In realtà è stato piuttosto divertente vedere se si poteva recuperare. E inoltre...» Scosse quasi impercettibilmente la testa, sollevando un sopracciglio. «È venuto qui un uomo. Un certo Yngvar Stubø. Ha riconsegnato una Tshirt. Evidentemente è tua, visto che c'è scritto Vik sulla schiena. Gliel'avevi prestata tu? Chi è? Poteva almeno lavarla, comunque.» XLIX. Il medico legale era da solo nel suo ufficio. Era domenica 4 giugno ed era terribilmente indietro. Si avvicinava ai sessantacinque e si sentiva indietro in molte cose e in molti sensi. Per molti anni aveva lavorato in cattive condizioni, con troppe cose da fare e uno stipendio che secondo lui non era proporzionato allo stress che comportava il suo lavoro, ma ora cominciava a irritarsi. La sua soddisfazione professionale era sempre stata alta. Adesso che si avvicinava all'età della pensione, però, avrebbe voluto e dovuto guardarsi indietro e vedere una ricompensa più consistente. Guadagnava poco meno di seicentomila corone all'anno, incluse tutte le ore di insegnamento e gli straordinari. Ma quelli aveva smesso di contarli. Secondo sua moglie doveva trattarsi di un migliaio d'ore all'anno. Che la maggioranza della gente considerasse eccezionale il suo stipendio, non gli importava. Suo fratello gemello, medico anche lui, si era specializzato in chirurgia. Aveva una clinica sua, una casa in Provenza e un patrimonio imponibile di oltre sette milioni, stando all'ultima dichiarazione dei redditi.
La domenica era giorno di studio. La sua posizione, in realtà, avrebbe dovuto dargli modo di tenersi professionalmente aggiornato nel regolare orario di lavoro. Negli ultimi dieci anni, tuttavia aveva letto a malapena un articolo tra le nove e le quattro. Di conseguenza, la domenica mattina si svegliava prestissimo, si metteva lo zaino in spalla con qualcosa da mangiare e un termos, e camminava una mezz'ora scarsa per arrivare al lavoro. Si sentiva ormai depresso quando finì di separare le riviste, i giornali e le tesi di dottorato in due mucchi; uno per i "Da leggere" e l'altro per i "Possono aspettare". Il secondo mucchio era piccolissimo. Il primo troneggiava sul pavimento, quasi fino all'altezza delle ginocchia. Perplesso, afferrò a caso la pubblicazione in cima al mucchio e si versò una tazza di caffè forte. Excitation-contraction coupling in normal and failing cardiomyocytes. Rapporti eccitazione-contrazione nei nuociti cardiaci normali e disfunzionali. La tesi di dottorato era del gennaio 1999 ed era lì da parecchio. Non conosceva l'autore. Molto difficile dire se fosse un lavoro interessante senza leggerlo con maggiore attenzione. Era tentato di proseguire con il resto della pila. Poi si riprese e cominciò a leggere. Al medico legale tremavano le mani. Posò il testo. Era così spaventoso e al tempo stesso così illuminante che si sentiva letteralmente intimorito. Quella tesi in sé non conteneva la risposta. Semplicemente lo aveva costretto a pensare. Aveva l'adrenalina più alta, il polso più frequente e il respiro più rapido. Doveva parlare con un farmacista. La guida del telefono gli cadde per terra mentre cercava il numero della migliore amica di sua moglie; la proprietaria della farmacia di Tåsen. Era a casa. La conversazione durò dieci minuti. Il medico si dimenticò di ringraziarla per l'aiuto. Yngvar Stubø gli aveva lasciato il suo biglietto da visita. Lo cercò in mezzo a fogli sparsi e post-it, portapenne e referti; era sparito nel nulla. Alla fine gli venne in mente che l'aveva attaccato sulla bacheca di sughero. Dovette fare il numero due volte. Aveva le dita sudate. «Stubø,» si udì brevemente all'altro capo. Il medico impiegò un minuto a spiegare il motivo della chiamata. Ci fu il silenzio. «Pronto?» «Sono ancora qui,» disse Stubø. «Di che sostanza si tratta?» «Potassio.»
«Cos'è il potassio?» «È un elemento chimico che abbiamo nelle nostre cellule.» «Non capisco un accidenti. Come...» Il medico si accorse di tremare ancora. Stringeva convulsamente il telefono e cambiò mano per cercare di calmarsi. «Per dirla in parole povere, così povere da essere quasi sbagliate,» cominciò tossicchiando. «Nelle cellule umane c'è una certa quantità di potassio. È di vitale importanza per noi. Quando moriamo, praticamente possiamo dire che le cellule cominciano a... perdere. Nel giro di un'ora o due il livello di potassio nel liquido che circonda la cellula aumenta in modo considerevole. È infatti un segno evidente che uno è... morto, semplicemente.» Il dottore sudava; aveva la camicia appiccicata al corpo. Cercò di respirare più lentamente. «Quindi, il fatto che il livello di potassio fuori dalle singole cellule aumenti a morte avvenuta non è per niente allarmante. È normale.» «E allora?» «Il problema è che questo livello aumenterebbe anche nel caso in cui qualcuno introducesse potassio nel corpo. Mentre si è vivi, cioè. E poi... si muore. Un livello eccessivo di potassio causa un arresto cardiaco.» «Ma allora dev'essere facile rilevare questa sostanza!» Il dottore alzò la voce: «Ma lo senti o no quello che ti sto dicendo? Se a una persona viene fatta un'iniezione di potassio e muore per questo, la causa di morte non potrà essere dimostrata a meno che non si faccia subito l'autopsia! Basta un ritardo di un'ora circa. Perché allora il livello elevato di potassio verrà attribuito alla stessa morte! L'autopsia non dimostrerà nulla, se non che la persona in questione effettivamente non è più in vita e che non esiste nessuna dimostrabile causa di morte.» «Santo Dio...» Stubø deglutì così forte che il dottore lo sentì. «Ma uno dove può procurarsi questo veleno?» «Non è affatto un veleno, cristo!» Il medico quasi gridava. Quando riaprì la bocca, la sua voce era tremula e bassa: «Innanzitutto io e te ingeriamo potassio ogni giorno. Attraverso la normale alimentazione. Non in grandi quantità, a dire il vero, ma comunque... Il potassio si può comprare in farmacia in confezioni da un chilo! Cioè, è
cloruro di potassio quello che si compra. Se viene iniettato nel sistema circolatorio si scinde in potassio e ioni cloro, per continuare a dirla in parole povere. Il cloruro di potassio va disciolto in una soluzione che non sia troppo forte, perché altrimenti può distruggere i tessuti o le vene.» «Si compra in farmacia... Ma chi...» «Senza ricetta.» «Senza ricetta?» «Sì. Ma per quanto ne so, sono pochissime le farmacie che lo tengono. Si può ordinare. Esiste anche un preparato per infusione di cloruro di potassio che si compra su ricetta medica. Si usa coi pazienti affetti da perdita di potassio. Immagino che quasi tutti i reparti di terapia intensiva ne abbiano un po'.» «Dimmi se ho capito bene,» fece Stubø lentamente. «Se mi fanno un'iniezione con una quantità sufficiente di potassio, muoio. E se tu mi fai l'autopsia più di un'ora dopo, non potrai far altro che constatare che sono morto, e non come sono morto. È questo che mi stai dicendo?» «Sì. Però dovrei notare il segno dell'iniezione.» «Il segno dell'inie... E non ce n'era nessuno sul corpo di Kim o di Sarah?» «No, io non l'ho visto.» «Non l'hai visto? Ma tu hai controllato se avevano il segno di una siringa?» «Naturalmente.» Il medico si sentiva sfinito. Il battito era ancora troppo veloce e il respiro pesante. «Ma devo ammettere che non li ho rasati.» «Rasati? Ma stiamo parlando di due bambini piccoli!» «In testa. Cerchiamo di essere il meno invasivi possibile quando facciamo un'autopsia. Si deve cercare di non sconvolgere o ferire i parenti. Si può fare un'iniezione sulla tempia. Non è facile, ma è possibile. Devo ammettere che...» Poteva sentire il respiro di Stubø all'altro capo. «... non ho cercato segni di iniezioni sulla tempia. Non mi è neanche venuto in mente.» Stavano entrambi pensando alla stessa cosa. Nessuno dei due riusciva a dirla. Il corpo di Sarah era ancora a disposizione del medico legale. Kim era già stato sepolto. «Grazie a Dio ci siamo opposti alla cremazione,» disse Yngvar infine.
«Mi dispiace,» disse il medico. «Mi dispiace davvero. Dal profondo del cuore.» «Dispiace a me,» rispose Yngvar. «Per quanto ho capito, mi hai appena descritto il delitto perfetto.» L. «Mio genero è a Copenhagen,» disse Yngvar appoggiando un bimbo a terra. Il bambino poteva avere tra i due e i tre anni. Aveva gli occhi marroni e i capelli neri e sorrideva timido a Johanne mentre si teneva ben stretto alla gamba del nonno. «Torna domattina. Di solito io tengo Amund il martedì e ogni due fine settimana, ma visto come sono andate le cose ultimamente... non sono riuscito a mantenere il ritmo. Adesso c'era un'emergenza e non ho potuto dire di no.» Si accovacciò sui calcagni. Il bimbo non voleva togliersi la giacca. Yngvar gli abbassò la cerniera e gli permise di tenerla addosso. Poi gli diede una pacca leggera sul sedere e disse: «Johanne ha dei giochi divertentissimi. Ne sono sicuro.» "Perché non mi hai chiesto di venire da te," pensò lei. "Non sono mai stata da te e sono le otto passate. Sapevi che Kristiane è da Isak e che questo bambino dovrebbe essere a nanna. Sarei potuta venire io da te". «Guarda qui,» disse lei, prendendo il piccolo per mano. «Vediamo un po' cosa riusciamo a trovare.» Quando lo portò alla cassa piena di macchinine, Amund era raggiante. Afferrò un trattore e lo tenne sollevato per aria. «Trattore rosso,» disse. «Camion rosso. Autobus rosso.» «È in piena epoca dei colori,» spiegò Yngvar. «Allora qua si annoierà parecchio,» disse Johanne, e diede una mano ad Amund con un bulldozer che aveva perso le ruote anteriori. «È passato un mese esatto da quando Emilie è sparita. Ci hai pensato?» «No,» rispose lui. «Però hai ragione. 4 maggio. Dov'è Jack?» «Credo...» cominciò Johanne. Il bambino lasciò il bulldozer e adocchiò un'autoambulanza che Isak aveva dipinto con una vernice rosso fuoco. «Autoambulanza rossa,» disse il bimbo scettico. Johanne si sedette al tavolo. «Credo che l'idea sia che il cane sta sempre con Kristiane. E per essere
del tutto sincera: grazie al cielo. Ci ho messo un'ora a liberarmi dell'odore di cucciolo e piscio di cane. Senza riuscirci del tutto, temo.» Annusò l'aria e, storcendo un po' il naso, aggiunse: «Sembri preoccupato per qualcosa.» Yngvar Stubø pareva più grosso. Non poteva essere solo la sua immaginazione, aveva messo su peso nelle ultime settimane. Aveva le guance più rotonde e la camicia gli tirava sul collo. Continuava a infilarsi un dito nel colletto. La cravatta si era allentata. Johanne aveva notato che mangiava sempre troppo, e troppo in fretta. «Posso chiederti qualcosa da mangiare?» disse lui con voce stanca. «Ho una fame!» Amund dormiva nel letto di Johanne. Ci era voluta un'ora per farlo addormentare. Finalmente Yngvar uscì dalla stanza da letto. Si era messo la cravatta in tasca e slacciato i primi due bottoni della camicia. Si arrotolò le maniche e sprofondò nel divano, che cigolò sotto il suo peso. Afferrò una sfogliatina alla crema da un vassoio di vetro e la mangiò in tre rapidi bocconi. «Quella teoria del potassio è veramente spaventosa,» disse, togliendosi le briciole dagli angoli della bocca. «Insomma, già è abbastanza paurosa nel nostro caso, ma se poi la gente lo viene a sapere...» «Il problema è il segno dell'iniezione,» disse Johanne meditabonda. «Ma se la vittima è già stata... se la persona in questione è ammalata, o è un tossicodipendente, o per altri motivi magari ha dei segni di siringa al di sopra di ogni sospetto, è davvero...» «Inquietante.» «Ma tu dicevi che quel liquido da iniettare contiene potassio e qualcos'altro, no?» «Cloruro di potassio. Che nel sistema circolatorio si divide in potassio e ioni cloro.» Johanne storse il naso. «Ma questi ioni cloruro non lasciano traccia?» Yngvar aveva l'aria di voler prendere un'altra sfogliatina. Poi si sfregò le mani e le intrecciò dietro il collo. «Non so se ho capito tutto, ma in poche parole il punto è che il livello degli ioni cloro nel corpo è molto più alto del livello del potassio.» Yngvar chiuse gli occhi per riflettere. Poi li aprì, si piegò in avanti e cominciò a disegnare qualcosa sulla superficie di vetro con il dito.
«Può darsi che non abbia compreso bene i numeri, ma in ogni caso spiegano il tutto. Diciamo che il tuo livello di potassio equivale a tre in una determinata unità di misura.» «D'accordo. Tre unità di potassio.» «Di conseguenza dovresti avere cento unità di ioni cloro. Un aumento fino a centocinque non è né strano né preoccupante nell'uomo. Mentre un innalzamento da tre a otto di potassio è mortale. Questo è davvero un piano da delitto perfetto.» «E spiega perché doveva sequestrare i bambini,» continuò Johanne. «Doveva portarli in un posto dove potesse calmarli con del Valium e successivamente iniettargli il liquido nella tempia.» «Se è quello che ha fatto.» «Mhm. Se è quello che ha fatto. Quando sapremo qualcosa di più?» «Il medico legale esaminerà Sarah, domattina presto. Cercheremo di fare il possibile per evitare di aprire la tomba di Kim.» Guardarono entrambi verso la stanza da letto. La porta era socchiusa. «Se questa ipotesi è corretta, almeno sappiamo qualcosa di più sull'assassino,» fece Johanne. «Cioè?» «Sappiamo che ha accesso al potassio.» «Quello ce l'abbiamo praticamente tutti.» «Ma hai detto che sono pochissime le farmacie che lo tengono.» «Naturalmente controlleremo tutte le farmacie del paese. Secondo il medico un ordine di potassio darebbe talmente nell'occhio che qualcuno potrebbe averci fatto caso. Ma è possibile che l'assassino l'abbia comprato all'estero. Dio sa quanto è prudente. E poi ovviamente abbiamo il problema degli ospedali. I reparti di terapia intensiva ne tengono. E ce ne sono parecchi di reparti di terapia intensiva, in Norvegia.» «Però sappiamo altro,» disse Johanne lentamente. «Sappiamo che il nostro assassino non è soltanto un uomo intelligente. È anche a conoscenza di un metodo per uccidere che, tu mi dici, sono pochissimi i medici che...» Yngvar la interruppe: «Il medico legale era davvero sconvolto. Deve avere circa sessantacinque anni e dice che non gli era mai venuto in mente quel modo di togliere la vita alle persone. Mai. Ed è un medico legale!» Si sollevò appena dal divano e armeggiò nella tasca posteriore alla ricerca dello schema con gli scarabocchi di Sigmund Berli. Era stropicciatissimo e non voleva stare steso sul tavolo.
«Questo rende ancora più interessante il nostro ginecologo,» disse pensoso, indicando il nome del medico. «E se è per questo anche l'infermiera. Fatto salvo che è una donna, certo. Il che effettivamente fa vacillare una serie di...» «Non stiamo cercando una donna,» disse Johanne. «E direi nemmeno un medico.» Yngvar alzò lo sguardo e chiese: «Cos'è che ti fa sentire tanto sicura?» «Queste ultime rivelazioni non ci devono far dimenticare tutto quello che abbiamo pensato finora,» disse decisa. «Stiamo ancora parlando di una persona malata. Di uno psicopatico, o di qualcuno con chiari segni di psicopatia. Io credo che stiamo cercando un uomo con una lunga serie di relazioni interrotte alle spalle. Anche per quanto concerne gli studi. Può darsi benissimo che abbia studiato, ma non è in grado di portare a termine una formazione completa, con gli obblighi e gli sforzi che essa comporta. Può essere intelligente, magari molto intelligente, quindi in condizione di associare tra di loro le conoscenze che ha acquisito qua e là. Negli ultimi anni, grazie a internet si è aperto un universo di informazioni. Ci trovi le istruzioni per confezionare una bomba e i club di suicidi; non mi stupirebbe affatto se esistesse una pagina web con le indicazioni per compiere un assassinio intelligente. Per quanto ne sappiamo, il nostro uomo può essere abbastanza sveglio da arrivarci da solo, semplicemente basandosi sulle informazioni che trova in innumerevoli siti di medicina. Senza dubbio è intelligente. Ma non è stato capace di conseguire una laurea. Quanto dura adesso la scuola per infermieri? Quattro anni? Secondo me è assolutamente impossibile che quest'uomo porti a compimento una cosa del genere.» «Ma perché questa finezza?» «Con il potassio, vuoi dire?» «Sì. Perché un metodo così... avanzato per uccidere? Avrebbe potuto soffocarli, sparargli, affogarli se solo si trattava di uccidere!» «Controllo,» replicò Johanne. «Prepotenza. Desidera mostrarsi superiore. Ricordati che questo è un uomo che si considera offeso. Profondamente offeso. Non da una sola persona, non a causa di un solo avvenimento. Ha accumulato un arsenale di sconfitte che gridano vendetta. Togliere la vita ai bambini senza che noi riusciamo assolutamente a capire come ha fatto è...» «Nonno,» disse una voce sottile. Johanne si spaventò perché non aveva sentito il bambino. Era già in
mezzo alla sala, con un orsacchiotto sottobraccio. Sulla sua maglietta c'era una vistosa macchia di ketchup, Yngvar non aveva accettato quando Johanne gli aveva proposto di prendere in prestito uno dei vecchi pigiami di Kristiane. L'elastico del pannolino da notte del piccolo era scivolato molto al di sotto dell'ombelico e un odore inconfondibile fece alzare Johanne per accompagnarlo in bagno. Per qualche ragione sperò che Yngvar non li seguisse. Amund era straordinariamente fiducioso. Quando si sedette sul water e gli tolse il pannolino bagnato, lui le fece un gran sorriso. «Jojonne,» disse, e le fece una carezza con la manina paffuta. Yngvar aveva lasciato in bagno una borsa con sapone neutro, tre pannolini extra e un ciuccio. "Tu contavi sul fatto che il bambino avrebbe dormito qui," pensò. "Portare anche il pigiama sarebbe stato troppo evidente. Ma tre pannolini?" «Il nonno è una vecchia volpe,» disse, facendo sedere il bambino sul lavandino. «Non mi lavare il pisellino adesso,» disse Amund deciso, sgambettando. «Quello no.» «Come no,» fece Johanne. «Ti sei fatto la cacca addosso. Via tutta questa cacca!» Gli tamponò con la spugna quel mozzicone a forma di uovo. Amund rise. «Quello no,» disse, e trattenne il fiato quando lei gli fece scorrere l'acqua tiepida sulla pelle. «Adesso sei bello pulito e puoi dormire sereno.» «L'autoambulanza è bianca,» disse Amund. «Non rossa.» «Hai ragione, Amund. Le ambulanze sono bianche.» «Bulanze,» disse. «Ambulanze. Che bravo che sei!» Amund si crogiolava nell'asciugamano. «Non dormo più,» disse, e rise. «Non credo proprio,» disse Yngvar dalla porta. «Vieni qui, che il nonno ti rimette a letto. Grazie, Johanne.» Non funzionò. Dopo una mezz'ora Yngvar uscì dalla stanza con il bambino in braccio. «Lo facciamo addormentare qui,» disse, con un mezzo tono di scusa e guardando severo il piccolo. Amund sorrise, poi si mise il ciuccio in boc-
ca. «Lo tengo in braccio.» Il bambino praticamente spariva tra le braccia del nonno. A malapena si vedeva la punta del naso spuntare da un plaid verde. Le palpebre gli crollarono dopo solo qualche minuto e la sua suzione ritmica s'indebolì. Yngvar gli tolse la coperta dal volto. I capelli scuri del bimbo sembravano quasi neri sul fondo bianco della camicia del nonno. Le sue ciglia erano umide, così lunghe che s'intrecciavano tra loro. «Bambini,» disse Johanne a bassa voce, senza riuscire a staccare gli occhi da Amund. «Non so togliermi dalla testa che la chiave del caso stia nei bambini. Prima... prima credevo che avesse a che fare innanzitutto con l'infanzia dell'assassino. Con la perdita. La privazione. Una privazione legata alla sua infanzia. E forse...» Inspirò ed espirò profondamente. «Forse ho ragione. Ma c'è dell'altro. C'è dell'altro e riguarda questi bambini. Anche se non sono figli suoi. Sembra che...» Le si bloccarono le parole. Yngvar non diceva nulla. Amund dormiva profondamente. Johanne scosse di colpo la testa, come se riemergesse da un pensiero in fuga, e disse: «Può darsi che abbia un bambino che non può vedere?» «Adesso mi sembra che ti stai spingendo un po' troppo in là,» sussurrò Yngvar, raddrizzando la testa del nipote. «Cosa ti fa dire una cosa del genere?» «Non saprei, ma ci sta. Con tutto. Diciamo che questo è un uomo che esercita un certo charme sulle donne ma non riesce mai a tenersele strette. Una di queste donne resta incinta. Decide di tenere il bambino. L'idea di lasciarlo con lui deve risultarle piuttosto spaventosa. Può...» «Ma perché proprio questi bambini? Se hai ragione quando sostieni che Glenn Hugo, Kim, Sarah ed Emilie non sono stati scelti a caso, che cos'hanno loro di speciale? Se questo tizio fosse andato in giro per anni a mettere incinte delle donne a caso e tutte le vittime fossero figli suoi, allora... Ma non è così. Non sembrerebbe. E quindi qual è il suo criterio di scelta?» «Non lo so,» rispose lei stanca. «Non so altro se non che c'è un motivo. Quest'uomo ha un piano. C'è una certa logica assurda in quello che fa. Anche se per molti aspetti è diverso dal classico assassino seriale. Per esempio perché non c'è nessun ciclo evidente nei sequestri. Nessun ritmo, nessun sistema ordinato. Non sappiamo nemmeno se ha finito.»
Rimasero di nuovo zitti entrambi. Yngvar rimboccò il plaid intorno ad Amund e appoggiò le labbra sulla sua testa scura. Il respiro del bambino era leggero e regolare. «È questa la cosa che più mi fa paura,» mormorò Yngvar. «Che non abbia ancora finito.» Nella casa bianca sul limitare del bosco a un'ora e mezza di macchina da Oslo l'assassino era appena rientrato da un giro di jogging. Gli sanguinava un ginocchio. Fuori era buio ed era inciampato nella radice di un albero. Il taglio non era profondo, eppure usciva molto sangue. I cerotti di solito li teneva nel terzo cassetto accanto al lavandino. La scatola era vuota. Irritato, estrasse una garza sterile dall'armadietto dei medicinali in bagno. Dovette stringere una benda intorno al ginocchio, visto che aveva finito anche il nastro adesivo. Ovviamente non sarebbe dovuto uscire a correre così tardi. Ma era talmente agitato. Zoppicò fino in sala e accese il televisore. Oggi non era ancora stato in cantina. Emilie lo rifiutava, adesso più che mai. Se ne voleva liberare. Il problema era che non aveva nessuno a cui consegnare quella maledetta bambina. «Il 19 di giugno,» disse a mezza voce, facendo rapidamente zapping da un canale all'altro. Allora sarebbe finito tutto. Sei settimane e quattro giorni dopo la sparizione di Emilie. Doveva entrare, prendere il quinto bambino e riconsegnarlo il giorno stesso. La data non era stata scelta a caso. Non c'era nulla di casuale al mondo. C'era un piano dietro ogni cosa. Il capo lo aveva chiamato nel suo ufficio venerdì. Gli aveva dato un richiamo scritto. L'unica cosa che aveva fatto era stata portarsi a casa qualche attrezzo. Non aveva nessuna intenzione di rubarli. Innanzitutto erano vecchi. E comunque li avrebbe restituiti. Il capo non gli aveva creduto. Doveva averglielo spifferato qualcuno. Sapeva chi ce l'aveva con lui. Faceva tutto parte di un piano. Anche lui sapeva fare piani. «Il 19 di giugno,» ripeté mettendo su televideo. Per allora doveva essersi liberato di Emilie. Magari era già morta. In ogni caso non pensava di darle più da mangiare. Il ginocchio gli faceva un male tremendo. «Le lettere,» disse lei a voce alta, interrompendosi a metà frase.
Yngvar aveva ancora Amund in braccio, quasi che il discorso gli rendesse impossibile staccarsi da lui. «Le lettere,» ripeté Johanne dandosi un colpetto sulla fronte. «Sulla scacchiera di Aksel!» «Adesso non ti seguo...» Johanne alla fine aveva raccontato a Yngvar della gita a Lillestrøm. Del legame tra Anders Mohaug, il ragazzo con un ritardo mentale, e Asbjørn Revheim, figlio minore di Astor Kongsbakken, pubblico ministero al processo contro Aksel Seier. La reazione di Yngvar era stata difficile da decifrare, ma Johanne aveva creduto di vedergli una ruga sulla fronte; il che suggeriva che anche a lui tante casualità sembravano un po' eccessive per essere considerate tali. «Le lettere,» fece Yngvar con un tono di sorpresa. «Sì! Quando sono stata a casa di Aksel Seier, dopo ho continuato a pensare di aver visto qualcosa che in qualche modo non doveva esserci. Adesso so di cosa si trattava. Un fascio di lettere sulla scacchiera.» «Ma lettere... A tutti capita di ricevere delle lettere di quando in quando.» «I francobolli,» disse Johanne. «Erano norvegesi. Erano legate insieme con uno spago.» «In altre parole, hai visto solo quella più in alto,» precisò Yngvar. «È vero.» Johanne annuì e continuò: «Ma sono convinta che si trattasse di lettere di una sola persona. E venivano dalla Norvegia, Yngvar. Aksel Seier riceve corrispondenza dalla Norvegia. È in contatto con qualcuno qui.» «E allora?» «Non me ne ha fatto cenno. Dava l'impressione di non avere assolutamente avuto nulla a che fare con la madrepatria dopo la sua partenza.» «Sinceramente...» Yngvar spostò il bambino sull'altro braccio. Amund mugugnò, ma continuò a dormire profondamente. «Però hai avuto solo un breve scambio di parole con quel tipo! Non c'è niente di strano se si è mantenuto in contatto con qualcuno; un amico, uno della famiglia...» «Non ha nessun famigliare in Norvegia. Non che io sappia.» «Stai facendo tante storie per una cosa che probabilmente ha una spiegazione del tutto plausibile.»
«Potrebbe... potrebbe ricevere dei soldi da qualcuno? Lo pagano per non fare casino? È per questo che non ha mai cercato giustizia? Può essere questa la spiegazione del fatto che è scappato via quando gli ho offerto il mio aiuto?» Yngvar sorrise. A Johanne non piacque l'espressione nei suoi occhi. «Lascia stare,» disse lui. «È la classica teoria del complotto. Io ho qualcosa di molto più interessante da raccontarti. Astor Kongsbakken è vivo.» «Come?» «Sì. Ha novantadue anni e vive con sua moglie in Corsica. Hanno una tenuta lì, una specie di vigneto, se ho capito bene. Mi sembrava infatti che non fosse morto, altrimenti me lo sarei ricordato. Perciò ho fatto qualche indagine. Si è completamente ritirato dalla vita pubblica più di vent'anni fa, e vive laggiù da allora.» «Ma io devo parlare con lui!» «Puoi sempre provare a chiamarlo.» «Hai trovato anche il suo numero?» Yngvar ridacchiò. «Adesso non esagerare. No. Chiama il servizio informazioni. In base alle mie fonti è ancora lucido, ma fisicamente è ridotto malissimo.» Yngvar si alzò lentamente, senza svegliare il bambino. Lo impacchettò bene nel plaid e poi rivolse uno sguardo interrogativo a Johanne. Lei annuì indifferente e andò a prendere le cose di Amund in camera da letto. «Ti riporto il plaid domani,» disse lui, sforzandosi di prendere tutto in una volta. «Sì, fai così,» fece Johanne piatta. Stava dritto davanti a lei e la guardava fisso. Amund, con la testa sulla sua spalla, parlottava nel sonno. Gli era caduto il ciuccio, e Johanne si chinò a raccoglierlo. Quando lo tese a Yngvar, lui le afferrò la mano senza dar segno di volerla lasciare. «Non c'è niente di allarmante nel fatto che Astor Kongsbakken e il capo di Alvhild fossero buoni amici,» le disse con insistenza. «Molti avvocati si conoscono. Lo sai com'è oggi! La Norvegia è un paese piccolo. Ancora più piccolo negli anni Cinquanta-Sessanta. Si dovevano conoscere tutti, gli avvocati!» «Ma non tutti erano coinvolti in un drammatico caso di fallimento della giustizia,» rispose lei. «No,» fece Yngvar rassegnato. «E nemmeno siamo certi che lo fossero loro.»
Johanne lo accompagnò all'auto per dargli una mano con la portiera. Non scambiarono una parola finché Amund non fu ben legato sul seggiolino, con la borsa accanto a lui. «Ci sentiamo,» disse Yngvar allegro. «Mhm,» disse Johanne, e rientrò nell'appartamento vuoto. Le sarebbe piaciuto che almeno il Re d'America fosse a casa. LI. Yngvar Stubø si sentiva male. La cintura dei pantaloni gli premeva la pancia e la cintura di sicurezza era troppo stretta. Faceva fatica a respirare. Erano passati dieci minuti da quando era uscito da Europaveien. Era una strada stretta e tortuosa, e gli procurava un vago senso di nausea. Non appena arrivò a uno spiazzo per gli autobus, vi entrò e si fermò. Si sciolse la cravatta e si abbandonò contro il poggiatesta. Yngvar Stubø aveva quarantacinque anni e si sentiva vecchio. Quando ne aveva sedici, aveva conosciuto Elisabeth. Si erano sposati appena raggiunta l'età adulta e avevano subito avuto Trine. Molti anni dopo, era rientrato e aveva trovato un bebè che dormiva in una casa per il resto del tutto vuota. Era piena estate. Nel quartiere residenziale di Nordstrand c'era un intenso profumo di gelsomino. La macchina di Trine, una vecchia Fiesta che le avevano lasciato i genitori, era parcheggiata con le ruote anteriori sul prato; la cosa lo aveva irritato. Era piuttosto seccato quando era entrato in casa. Aveva fame. Aveva promesso che sarebbe arrivato a casa per le cinque, invece erano già le sei meno un quarto. Il silenzio era tangibile, e lui si era fermato nell'ingresso ad ascoltare. La casa era vuota; vuota di suoni, vuota di persone. Nessun profumino di cibo, nessun tintinnio di piatti e bicchieri. Era avanzato circospetto, come se già sapesse che cosa lo aspettava. Si era macchiato i pantaloni d'inchiostro nel corso della giornata. Vicino alla tasca; aveva armeggiato con una penna che si era rotta. Elisabeth gli aveva comprato dei vestiti un paio di giorni prima. Aveva scosso la testa quando lui se li era provati, sottolineando che era ridicolo acquistare dei pantaloni kaki a un uomo come Yngvar. Lo aveva baciato e si era messa a ridere. Si era fermato in sala. Non sentiva nemmeno il cinguettio degli uccelli in giardino; guardando fuori dalla finestra li aveva visti volteggiare, ma non udiva nulla, anche se le imposte erano aperte.
Al secondo piano c'era Amund. Aveva due mesi, e stava dormendo. Quando Yngvar aveva trovato Elisabeth e Trine, era rimasto immobile. Non aveva tastato il polso a nessuna delle due. Trine lo fissava. I suoi occhi castani erano ricoperti da una pellicola opaca. Elisabeth aveva la bocca aperta verso il cielo del pomeriggio; le erano saltati gli incisivi e il naso le era quasi scomparso. Yngvar si scosse. Un autobus gli stava suonando il clacson. Rimise lentamente in moto e uscì dalla piazzola. Doveva trovare un altro posto in cui fermarsi. Aveva bisogno di vomitare. A un bivio aprì la portiera e svuotò lo stomaco prima ancora che la macchina si fosse fermata del tutto. Per fortuna aveva una bottiglia d'acqua. Quella notte l'aveva passata interamente nel bagno di servizio. La macchia di inchiostro era recidiva. Aveva provato di tutto. L'acquaragia, uno smacchiatore, il detersivo per i pavimenti. Alla fine, al sorgere del giorno, aveva preso le forbici e tagliato via la macchia. Vari colleghi si erano offerti di passare la notte a casa sua. Lui si era limitato a fare un gesto per mandarli via. Suo genero era in Giappone ed era rientrato con oltre quaranta ore di ritardo. Yngvar teneva stretto Amund e si era finalmente messo a piangere. Non voleva lasciare il bambino. Suo genero si era trasferito da lui e ci era rimasto per oltre un anno. La bottiglia d'acqua era vuota. Yngvar cercò di respirare in modo regolare e profondo. Non sapeva cosa fare con Johanne. Non ne aveva idea. Non la capiva. Se si era portato dietro Amund, era con la speranza che succedesse qualcosa, che lei vedesse chi era e magari gli chiedesse di restare. Una sua collega una volta gli aveva detto che era dolce a occuparsi in quel modo del bambino. Sexy, gli aveva sorriso, e lo aveva quasi fatto arrossire. Non doveva mangiare così tanto. Si passò una mano sullo stomaco, gli faceva male il diaframma ora che aveva vomitato. Stava diventando grasso. Aveva l'impressione che Johanne gli desse sessant'anni. Yngvar bevve l'ultimo sorso d'acqua e riaccese il motore. Non sopportava l'idea di allacciarsi la cintura. L'esame di Sarah Baardsen aveva corroborato la raccapricciante teoria sull'uccisione tramite potassio. Sulla tempia, appena sotto i capelli, il medico legale aveva trovato un segno quasi invisibile. Quello di una puntura. Discreto, lo aveva definito con tono rassegnato prima di riattaccare. Non era ancora stata presa nessuna decisione sul da farsi con Kim, che era già
stato sepolto. Il ginecologo, che presumibilmente sapeva fare le iniezioni, si era rivelato tutt'altro che interessante. Si era dimostrato molto disponibile. Capiva perché Yngvar fosse andato da lui. Aveva risposto a tutte le domande. Guardandolo dritto negli occhi. Scuotendo la testa dispiaciuto. Aveva una voce profonda e musicale, con le tracce di un dialetto semidimenticato che a Yngvar aveva fatto venire in mente sua moglie. Era sposato, aveva tre figli e due nipoti. Si divideva tra il lavoro in ospedale e il suo ambulatorio privato. Cato Sylling, l'idraulico di Lillestrøm, stava lavorando a Fetsund. Era stato più che disponibile al telefono. Poteva andare a Oslo il giorno dopo. Nessun problema. Era un caso tremendo; si sentiva molto triste per Lasse e Turid e si metteva volentieri a disposizione se c'era qualcosa che poteva fare. "Ho figli anch'io, sa. Cribbio. Lo strangolerei con le mie mani quel tipo, se lo trovassi. Ci vediamo domani all'una". Era stato un gioco da ragazzi rintracciare l'indirizzo di Karsten Åsli. Aveva il telefono ed era abbonato alla Telenor. Trovarlo però fu più difficile. Yngvar dovette fermarsi a chiedere informazioni tre volte. Alla fine, in una stazione di servizio uno strano grassone con un riporto di capelli rosso vivo seppe indicargli la strada. «Da qui devi girare tre volte,» gli indicò. «Una a destra poi due a sinistra. Ancora sei-settecento metri, e vedrai la casa. Ma va' piano, se no ti fumi il telaio!» «Grazie,» disse Yngvar, e rimise in moto. Karsten Åsli aveva appena deciso di portare a Emilie un ultimo pasto. Non che significasse qualcosa. Tanto quella non mangiava più niente. Non sapeva se bevesse oppure no. Non toccava nulla di ciò che le dava, ma in fondo c'era anche l'acqua del rubinetto. Un'auto risaliva la collina. Karsten Åsli diede un'occhiata alla stradina dissestata dalla finestra della cucina. L'auto era blu. Blu scuro. Per quel che riusciva a vedere, era una Volvo. Lì non veniva mai nessuno. Solo il postino, e guidava una Toyota bianca. LII.
Si era preparata in anticipo ed era sicura di quello che avrebbe detto e come avrebbe formulato le domande. Eppure la voce di Astor Konsgbakken al telefono la colse alla sprovvista. Di colpo eccolo lì, all'altro capo del filo, e Johanne non sapeva da dove cominciare. Parlava a voce alta. Poteva significare che ci sentiva poco. Ma poteva anche dipendere dal fatto che era furibondo. Quando, un po' troppo in fretta, gli nominò Aksel Seier, Johanne ebbe la certezza che le avrebbe attaccato il telefono in faccia. Non lo fece. Il discorso prese invece una piega che non si sarebbe aspettata: lui faceva le domande, lei rispondeva. Il messaggio di Astor Kongsbakken in ogni caso era cristallino. Si ricordava pochissimo del processo e non aveva la benché minima intenzione di rivangare vecchi ricordi per fare un piacere a Johanne Vik. Le fece presente per ben tre volte la sua veneranda età e chiuse minacciandola di chiamare un avvocato. Cosa dovesse farle l'avvocato, era meno chiaro. Johanne sfogliò Asbjørn Revheim. Cronaca di un suicidio annunciato. Ci potevano essere così tanti motivi per la furia di Astor Kongsbakken. Aveva novantadue anni e per quanto ne sapeva lei poteva anche essere un esimio rompiscatole. Già negli anni Cinquanta circolavano leggende sul suo pessimo carattere. Le due foto che lo ritraevano nella biografia mostravano un uomo tarchiato con le spalle larghe e la mascella sporgente, ben diverso dalla figura snella e più longilinea del figlio. In una delle foto il famoso procuratore indossava una toga nera e, sollevato nella mano destra, teneva un trattato giuridico, come se stesse valutando se scagliarlo sul banco del giudice. Aveva gli occhi neri sotto le sopracciglia prominenti, e sembrava che stesse urlando. Astor Kongsbakken era stato un uomo focoso. Non tutti si calmavano con l'età. Esisteva un fratello; il figlio maggiore di Astor e Unni. Johanne si inumidì il dito con la lingua e sfogliò il libro fino a trovare la pagina giusta. Geir Kongsbakken era avvocato e aveva un piccolo studio in Øvre Slottsgate. Gli erano riservate a malapena cinque righe. Johanne decise di chiamarlo. Se non altro, magari il figlio avrebbe potuto facilitarle un secondo colloquio con il padre. Comunque valeva la pena tentare. Parlò con la segretaria e ottenne un appuntamento per martedì 6 giugno alle dieci. Quando la donna le chiese di che cosa si trattasse, Johanne esitò un attimo prima di rispondere: «Si tratta di una causa penale. Probabilmente non ci vorrà molto.» «A domani, allora,» le confermò la gentile voce femminile. «Le riservo
una mezz'ora. Buona giornata!» LIII. Karsten Åsli trattenne il respiro. Attraverso il doppio vetro udì la Volvo scalare dalla seconda alla prima; il conducente tentava di forzarla su per l'ultima salita prima del cancello. Karsten Åsli viveva a Snaubu da meno di un anno. La sua piccola tenuta gli costava una cifra irrisoria, ma era vincolato all'obbligo di residenza benché fosse impossibile vivere di quel piccolo appezzamento di terra e dei pochi metri di bosco di sua pertinenza. Ma era il posto ideale per lui. I primi mesi li aveva passati ad ampliare la cantina, in realtà niente più di una vigorosa risistemazione del vecchio deposito per le patate. Dato che si trovava accanto alla casa, lungo un pendio scosceso, non era stato difficile creare uno spazio che fosse grande abbastanza e al tempo stesso rimanesse sotto la cantina vera e propria. Era orgoglioso del risultato che aveva ottenuto. Mai nessuno gli aveva chiesto cosa ci dovesse fare con tutto quello che comprava; cemento e calcestruzzo, tubi e cavi. La casa cadeva a pezzi. Aveva cambiato il rivestimento su un paio di pareti esterne e iniziato a costruire un muro per fare un garage, nel caso dovesse arrivare qualcuno. Snaubu era isolata, a quindici minuti dal paese. Isolata e nascosta alla vista, come voleva lui. Nessuno veniva a Snaubu. Prima di quella Volvo blu, che adesso si era fermata nel cortile. Karsten Åsli rimase in cucina. Non si tirò indietro, non cercò di nascondersi. Rimase semplicemente immobile a guardare la portiera dell'auto che si apriva. Ne uscì un uomo. Sembrava rigido. A disagio. Prima di tutto si grattò energicamente la faccia. Poi cercò di raddrizzare la schiena. Il viso si torse in una smorfia, come se avesse guidato tutto il giorno. Eppure la targa era di Oslo, a meno di due ore di distanza. L'uomo si guardava intorno. Karsten Åsli continuò a star fermo. Quando il forestiero lo vide alla finestra - sollevò la mano in un saluto titubante - Karsten Åsli andò nel vestibolo. Prese un maglione rosso dall'attaccapanni e lo indossò. Poi aprì la porta d'ingresso. «Salve,» disse. «Salve!» Il forestiero si avvicinò, con la mano tesa. Era robusto. Grasso, pensò Karsten Åsli. Stanco e grasso. «Yngvar Stubø,» disse l'uomo.
«Karsten,» fece Karsten Åsli, pensando al calcestruzzo che gli era rimasto dai lavori nell'interrato. Gli attrezzi. Nessuno veniva mai a trovarlo. Eccetto quell'uomo. «Che bel posto,» disse il forestiero guardandosi intorno. «Splendida vista. È molto che vivi qui?» «Un po'.» «Devi denunciare il cambio di residenza. È stato difficile trovarti. Posso entrare?» Dentro non c'era niente. Karsten Åsli ripercorse mentalmente le stanze. Niente. Nessun vestito da bambini. Nessun giocattolo. Nessuna foto né ritagli di giornale. Tutto a posto. In ordine. Pulito. «Prego.» Karsten Åsli entrò per primo. Sentiva i passi del forestiero dietro di sé, passi pesanti, stanchi. Quell'uomo era stanco. Karsten era giovane e in forma. «Caspita,» esclamò Stubø. «Tu sì che sai tenere in ordine una casa!» A Karsten Åsli non piacevano gli occhi di quell'uomo. Correvano da tutte le parti. Era come se quel tizio avesse una macchina fotografica nella testa e non trascurasse nulla. Non il divano, non il televisore, non il poster delle vacanze in Grecia con Ellen, prima che andasse tutto storto. «Cosa vuoi esattamente?» «Sono della polizia.» Karsten Åsli scrollò le spalle e si accomodò su una sedia. Il poliziotto continuava a girare per la stanza, esaminando tutto con gli occhi. Non avrebbe trovato niente. Non c'era niente da trovare. «E in cosa posso aiutarti? Vuoi un caffè o qualcos'altro?» L'uomo gli voltava la schiena. Forse stava studiando il panorama. Forse stava riflettendo. «No, grazie. Ti starai senz'altro domandando perché sono qui.» Karsten Åsli non se lo domandava. Lo sapeva. «Sì,» rispose. «Perché sei qua?» «Si tratta di questi sequestri di bambini.» Ah. «Un caso terribile,» disse il poliziotto, e si voltò. I suoi occhi-macchina fotografica scattarono l'istantanea di Karsten. «Sono d'accordo,» fece lui, annuendo lentamente. «Davvero tremendo.» Mantenne il contatto visivo. Respirava tranquillo. Karsten sapeva che sarebbe potuto succedere. Lo aveva messo in conto. Non c'era pericolo. Assolutamente. E poi il poliziotto era più vecchio di lui. Vecchio. Fuori
forma. «Le indagini sono molto complesse e dobbiamo investigare a trecentosessanta gradi. E qui entri in scena tu.» Quel poliziotto sorrideva troppo. Ghignava senza interruzione. «Due dei famigliari dei bambini dicono di averti conosciuto.» Due. Due! Karsten Åsli scosse debolmente il capo. «Per essere del tutto sincero non è che abbia seguito bene la faccenda,» disse. «Certo, è impossibile non saperne niente almeno a grandi linee, però... chi è che dice di conoscermi?» «Turid Sande Oksøy.» Turid non lo avrebbe mai detto. Mai. Nemmeno adesso. Karsten lo leggeva sulla faccia di Stubø; il poliziotto avrebbe voluto battere la palpebra sinistra, ma si frenava. Quel movimento forzato rivelava la bugia. Karsten scosse nuovamente il capo. «Sono sicurissimo di non conoscere nessuna Turid,» rispose, e si sfregò le tempie senza perdere di vista Stubø. «Tra l'altro...» Schioccò appena le dita della mano destra. «Sì che ho sentito parlare di lei, in televisione. Come ti ho detto, non ho proprio seguito con attenzione tutta la storia, mi sembra che sia un po' troppo, ma... sì. È la madre di... di quel bambino. Del bambino più grande, mi sbaglio?» «No.» «Però non la conosco. Perché dovrebbe aver detto una cosa del genere?» «Lena Baardsen.» Il poliziotto continuava a fissarlo. L'occhio sinistro era tranquillo adesso; immobile. «Lena Baardsen,» ripeté lentamente Karsten Åsli. ~ Lena. Una volta avevo una ragazza che si chiamava Lena. Faceva Baardsen di cognome? A dire la verità non mi ricordo. Sorrise al poliziotto. Stubø non sorrideva più. «Devono essere passati... dieci anni. Per lo meno! E ho conosciuto altre due o tre Lene. Con la E. Una mia collega alla Saga si chiama Line. Ma non credo sia importante.» «No.» Il poliziotto finalmente si sedette sul divano. Rimpicciolì di colpo. «Di cosa ti occupi?» gli chiese con nonchalance, quasi disinteressato, come se si fossero appena incontrati in un pub e stessero sorseggiando cia-
scuno la sua birra. «Lavoro alla Saga. Una segheria. Quaggiù in paese.» «Pensavo facessi l'assistente al doposcuola.» «È vero. Ho fatto un po' di tutto. Molte cose diverse.» «Cos'hai studiato?» «Un sacco di cose.» «Cioè?» «Un po' di tutto anche lì. Sicuro di non volere un caffè?» Stubø annuì e alzò una mano. «Ti spiace se vado a prendermene una tazza?» «Per carità.» A Karsten non andava di lasciarlo da solo in soggiorno. Anche se non c'era niente, a parte i normali oggetti di qualsiasi salotto, mobili, qualche libro e poco altro, era come se quell'uomo gli imbrattasse tutta la casa. Era un estraneo, e non era stato invitato. Il poliziotto se ne doveva andare. Karsten strinse forte il bordo del bancone; aveva sete. La lingua gli si appiccicava al palato e alla parte interna dei denti. L'acqua sgorgava dal rubinetto. Si chinò e bevve con foga. In cantina aveva del calcestruzzo e gli attrezzi, e presto si sarebbe dovuto liberare di Emilie. Aveva una sete inestinguibile. Gli incisivi ghiacciati. Gemette debolmente e bevve ancora. Di più. «Ti senti male?» Il poliziotto aveva recuperato il sorriso; uno squarcio ripugnante in faccia. Karsten non lo aveva sentito arrivare. Si raddrizzò lentamente, molto lentamente. Si sentiva mancare e si aggrappò al bancone. «No, no. Ho solo sete. Ho appena fatto un po' di jogging.» «Ti tieni in forma.» «Sì. Posso fare altro... Hai altre domande?» «Mi sembri un po' teso, a dire il vero.» Il poliziotto aveva incrociato le braccia. Gli occhi si erano trasformati di nuovo in una macchina fotografica e scattavano foto in giro per la stanza. Inquadravano i pensili. La macchina da caffè. Il coltello. Lui. «Ma no,» disse Karsten Åsli. «Sono solo un po' stanco. Ho corso un'ora e mezza.» «Impressionante. Io vado a cavallo. Ho un cavallo mio. Se vivessi in un posto così...» Stubø alzò la mano in direzione della finestra. «Ne terrei altri. Conosci May Berit?»
Si girò mentre parlava. Il profilo del poliziotto era scuro contro la luce del salotto. L'occhio sinistro, l'occhio rivelatore di menzogne, era nascosto. Karsten deglutì. «May Berit chi?» chiese asciugandosi la bocca. «Benonisen. Prima si chiamava Sæther.» «Non mi ricordo proprio.» La sete non diminuiva. Si sentiva la gola come ricoperta di funghi; le mucose erano appiccicose e gonfie e bloccavano le parole che avrebbe voluto dire. «Hai la memoria corta,» disse l'altro, sempre senza girarsi del tutto verso di lui. «Devi averne avute parecchie di donne.» «Non poche.» Una parola alla volta. Non. Poche. Funzionava. «Hai figli, Åsli?» Gli si sciolse la lingua. Gli calò il battito. Se ne accorse; lo sentiva, sentiva il proprio cuore battere contro lo sterno a un ritmo sempre più lento. Respirava meglio, ora che gli era passato quel blocco alla gola, e fece un gran sorriso mentre si sentiva dire: «Sì.» Quell'uomo non era peggio degli altri. Era ugualmente incapace. Era uno di loro. Il poliziotto Stubø era lì a darsi delle arie mentre la bambina che cercava era a quindici metri da lui; forse dieci? Non aveva il minimo sospetto. Probabilmente non faceva che andare da un posto all'altro, da una casa all'altra, a porre le stesse stupide domande e a pavoneggiarsi senza capirci niente. La chiamavano routine. In realtà era solo un modo di far passare il tempo. Dovevano esserci parecchi nomi sulla lista che presumeva avesse nella tasca interna; si toccava continuamente il cuore sotto la giacca, quasi stesse valutando l'idea di mostrargli qualcosa. Era come tutti gli altri. Nei lineamenti del suo viso Karsten vedeva uomini e donne, vecchi e giovani. Il naso, dritto e piuttosto grande, gli ricordava un vecchio professore che si divertiva a rinchiuderlo in un ripostiglio pieno di sacchi di piselli finché non poteva più respirare per tutta la polvere che c'era e piangeva per uscire. Stubø portava i capelli pettinati all'indietro, di traverso sul cranio, proprio come il suo vecchio capo scout; quello che aveva tolto a Karsten tutti i distintivi perché secondo lui aveva imbrogliato. Sulla bocca di Stubø vedeva donne, molte donne. Labbra carnose. Pallide e piene. Ragazze. Donne. Fighe. I suoi occhi erano azzurri, come quelli della nonna
materna. «Ho un figlio,» disse Karsten versandosi un caffè. Adesso aveva le mani ferme; pugni solidi e pelle compatta. Karsten si sentiva forte. Passò un dito sul manico di un coltello; la lama era infilata in un portacoltelli di legno per proteggere il filo. «Adesso è all'estero con sua madre. In vacanza.» «Ah. Siete sposati?» Karsten Åsli scrollò le spalle e si portò la tazza alla bocca. Quel gusto amaro gli fece bene. I funghi erano spariti. Si sentiva la lingua sottile. Tagliente. «No. Non stiamo nemmeno più insieme. Sai...» Fece una mezza risata. Il cellulare di Stubø squillò. La conversazione non durò molto. Il poliziotto chiuse la comunicazione con uno scatto. «Devo andare,» disse brusco. Karsten lo accompagnò fuori. Sul prato era caduta una pioggia leggera; verso sera avrebbe rinfrescato ancora. Magari sarebbero scesi sotto zero, quel venticello pungente poteva indicare che sarebbe gelato, almeno in montagna. L'odore di quel freddo preludio d'estate gli pungeva il naso. Karsten inspirò profondamente. «Non posso certo dire che è stato un piacere conoscerti,» sorrise. «Ma ti auguro un buon rientro a casa.» Stubø aprì la portiera e si voltò verso di lui. «Mi piacerebbe che venissi in città per un colloquio,» disse. «In città? A Oslo, cioè?» «Sì, il prima possibile.» Karsten Åsli rifletté. Aveva ancora in mano la tazza. Vi sbirciò dentro, come stupito che non ci fosse più caffè. Quindi alzò lo sguardo e fissò Stubø mentre diceva: «Questa settimana non posso. Ma magari all'inizio della prossima. Non ti prometto niente. Non è che puoi lasciarmi un biglietto da visita o qualcosa del genere? Così ti chiamo?» Stubø non gli staccava gli occhi di dosso. Karsten non batté ciglio. Una mosca disorientata ronzava tra loro. Molto in alto tra le nuvole si sentiva il rumore di un aereo. La mosca si alzò verso il cielo. «Mi faccio vivo io,» disse Stubø alla fine. «Stanne certo.» La Volvo blu scuro uscì sobbalzando dal cancello aperto e ridiscese len-
tamente la collina. Karsten Åsli la seguì con gli occhi fino al boschetto in cui sapeva che la strada si biforcava. Non si ricordava l'ultima volta che la valle gli era sembrata così bella, così pulita. Era sua. Era il suo posto quello. In uno squarcio tra le nuvole vide la scia dell'aereo, una striscia di condensa verso nord. Rientrò. Yngvar Stubø si fermò non appena pensò di trovarsi fuori vista. Strinse forte il volante tra le mani. La sensazione che la bimba fosse vicina era stata così forte, così soverchiante che soltanto i suoi venticinque anni di esperienza l'avevano trattenuto dal fare a pezzi tutta la casa. E non c'era documento legale che avrebbe potuto giustificare un comportamento del genere. Non aveva niente. Nient'altro che una sensazione. Non c'era un solo magistrato in Norvegia che gli avrebbe dato il mandato di perquisizione in base al suo istinto. «Pensa,» sibilò tra sé e sé. «Pensa, merda.» Gli ci vollero meno di ottanta minuti per tornare a Oslo. Parcheggiò davanti al palazzo dove viveva Lena Baardsen. Era la sera di lunedì 5 giugno, ed erano già le otto e mezza passate. Temeva che il tempo gli stesse sfuggendo tra le mani. LIV. Aksel Seier era in sala, davanti a un vecchio specchio rovinato. Si passò una mano sui capelli. Sapevano d'arancia. Non li aveva più lunghi e, se si passava le dita sul collo, lentamente e contropelo, si sentiva pungere. Secondo la signora Davis era ora che, per una volta, si vedesse che veniva da una società civile. In fondo stava per intraprendere un lungo viaggio, verso un paese dove, per quanto ne sapeva lei, consideravano gli americani dei volgari barbari. Era spesso così, con gli europei. Lo aveva letto sul "National Enquirer". Doveva fargli vedere che era un uomo distinto. Quel lungo ciuffo grigio poteva anche andar bene lì a Harwich Port, ma adesso lo aspettava un altro mondo. La signora Davis gli aveva fatto un brutto graffio sull'orecchio, ma per il resto i capelli sembravano tagliati in modo piuttosto regolare. Tutti corti. Era stato uno dei sei generi della signora a dimenticare il balsamo all'arancia. Pareva che facesse bene al cuoio capelluto. Ad Aksel non piaceva l'odore di agrumi. Sarebbe partito solo il giorno dopo e decise di lavarselo via prima di prendere l'autobus per il Logan Inter-
national Airport di Boston. Matt Delaware si era offerto di portarlo fino alla fermata di Barnstable. E ci mancava altro, visto che si era comprato il suo pick-up e la barca a un prezzo ridicolo. Per contro, aveva venduto la sua proprietà in Ocean Avenue per un milione e duecentomila dollari. Proprio così. Ci avrebbe messo non più di un'ora a scegliere cosa portarsi. I soldatini di vetro, che aveva impiegato quattro inverni a realizzare, li avrebbe lasciati alla signora Davis. Il rischio di romperli durante il viaggio transoceanico era enorme. Lei si commosse fino alle lacrime e gli promise che nessuno dei suoi nipotini avrebbe avuto il permesso di giocarci. Quanto al gatto, l'avrebbe adorato come se fosse suo. Matt si era inchinato fino a toccare terra quando Aksel gli aveva offerto la scacchiera e il grande drappo sul divano, a condizione che gli spedisse la polena non appena avesse avuto un domicilio in Norvegia. La polena assomigliava a Eva, e non c'era molto altro di cui preoccuparsi. Ad Aksel non piaceva il nuovo look dei propri capelli. Lo faceva sembrare più vecchio. Si vedeva meglio il viso. Le rughe, i pori e i brutti denti che da tempo avrebbe dovuto farsi sistemare, erano come più esposti adesso che non aveva più il ciuffo e il volto era nudo e indifeso. Cercò di nascondersi dietro un vecchio paio di occhiali con la montatura marrone. La gradazione non gli andava più bene e gli faceva venire mal di testa. Era stato in banca. La cifra ottenuta dalla vendita corrispondeva circa a dieci milioni di corone norvegesi. Cheryl, che era cresciuta a Harwich Port e aveva cominciato a lavorare in banca solo da due mesi, gli aveva fatto un ampio sorriso e gli aveva sussurrato You lucky son of a gun26 , prima di spiegargli che il compratore gli avrebbe pagato a rate il resto dei soldi nel giro di sei settimane. Aksel doveva mettersi in contatto con una banca in Norvegia, aprire un conto lì e sarebbe andato tutto liscio, senza che le autorità facessero troppe storie. Sarebbe andato tutto bene, lo rassicurò, e rise ancora. Dieci milioni di corone. Ad Aksel quella cifra sembrava astronomica. Cercò di aggrapparsi all'idea che era passata un'eternità da quando sapeva quanto valesse una corona, e che la Norvegia dopotutto restava un paese molto caro. O almeno, questo era quanto aveva appreso dagli sporadici articoli sulla madrepatria 26
Che bastardo fortunato.
che gli erano capitati tra le mani. Però un bel milione di dollari era sempre un bel milione di dollari, comunque e ovunque nel mondo. Per quel prezzo avrebbe trovato una stanzetta perfino a Beacon Hill, a Boston. Oslo non poteva mica essere più cara di Beacon Hill. La signora Davis lo aveva accompagnato a Hyannis a fare spese. Impossibile evitarlo. Aksel non si fidava tanto di lei, soprattutto i pantaloni scozzesi di Kmart erano orrendi. Ma secondo la signora Davis gli scacchi e i colori pastello gli davano un'aria da ricco, e lui ormai effettivamente era ricco, e con ciò si era chiusa la questione. Quando le aveva borbottato qualcosa sul centro commerciale di Cape Cod, lei aveva alzato gli occhi al cielo dichiarando che quei negozi lì ti pelavano prima ancora che ci mettessi piede. Quello che non si trovava da Kmart, non valeva la pena comprarlo. Adesso aveva una bella valigia piena di vestiti nuovi che non gli piacevano. La signora Davis gli aveva confiscato tutte le sue vecchie camicie di flanella e i vecchi jeans; li avrebbe lavati per poi darli all'Esercito della Salvezza. Doveva ricordarsi di chiamare Patrick. Aksel si allontanò di un passo dallo specchio. Con la luce che scendeva obliqua dalla finestra, faceva fatica a riconoscersi in quello specchio macchiato. Non erano solo i capelli a sembrargli estranei. Cercò di raddrizzare la schiena. Qualcosa nel collo e nelle spalle glielo impediva. Per troppi anni aveva tenuto gli occhi a terra. Aksel era diventato così dopo aver passato migliaia di giorni chino su un duro lavoro, voltando le spalle a tutti gli altri, e lunghe serate con il collo curvo su lavoretti di fino, immerso nei propri pensieri. Rialzò la testa. Aveva male tra le scapole. Sembrava più magro ora. Si costrinse a mantenere quella posizione. Poi sfiorò la giacca marrone con una mano, chiedendosi se dovesse mettere la cravatta il giorno della partenza. Una cravatta incuteva molto rispetto. In questo almeno la signora Davis aveva ragione. Se tutto funzionava, con il pagamento della casa avrebbe regalato il viaggio a Patrick. Anche se il suo amico guadagnava bene nella stagione estiva, le sue entrate finivano quasi tutte nella manutenzione della giostra e gli servivano a sopravvivere senza grandi incassi nei lunghi mesi invernali. Patrick non era mai tornato in Irlanda. Poteva venire a Oslo, restare una o due settimane e passare per Dublino al ritorno, se voleva. Aksel si accorse all'improvviso di avere paura. C'era ancora molto da fare prima di partire. Doveva darsi una mossa.
Non aveva mai preso l'aereo, ma non era questo a spaventarlo. Magari Eva non voleva che tornasse. In effetti, non glielo aveva chiesto. Aksel Seier si levò la giacca nuova e cominciò a impacchettare i soldatini di vetro con la carta velina che la signora Davis gli aveva procurato. Si tagliò un dito con una piccola scheggia blu. Erano i resti del generale che Johanne Vik aveva rotto. Aksel si mise il dito in bocca. Forse quella giovane donna aveva perso interesse per lui non appena aveva visto che se n'era andato senza dire nulla. Non aveva più avuto così tanta paura dal 1993, quando gli incubi con il poliziotto con le lacrime agli occhi e le chiavi in mano avevano finalmente smesso di tormentarlo. LV. «Era completamente pazzo,» disse. «Semplicemente e completamente pazzo.» Lena Baardsen sembrava preoccupata quando Yngvar suonò il campanello, anche se non era particolarmente tardi. I suoi occhi erano distrutti dalle lacrime, segnati da borse quasi lilla nel volto pallido. L'appartamento sapeva di umido e di chiuso, per quanto lei cercasse chiaramente di tenerlo più o meno in ordine. Non gli offrì nulla, e si sedette invece con un grande bicchiere da cucina colmo di qualcosa che Yngvar pensò fosse vino rosso. Quasi avesse capito a cosa stava pensando, alzò il bicchiere dicendo: «Consiglio del medico. Due bicchieri prima di andare a dormire. Meglio dei sonniferi, sostiene lui. A essere sincera, non mi aiuta nessuno dei due. Ma almeno questo ha un buon sapore.» Bevve il resto in un sorso. «Karsten è affascinante. O lo era, per lo meno. Bravo a fare la corte. Io allora ero giovanissima. Non ero abituata a tante attenzioni. Semplicemente mi...» Abbassò le palpebre. «... innamorai,» disse piano. Nelle intenzioni, il suo doveva essere un sorriso ironico. Risultò soltanto triste, soprattutto quando riaprì gli occhi. «Ma quando ci mettemmo più o meno insieme, diventò un altro. Era gelosissimo. Patologicamente possessivo. Non mi ha mai picchiata, ma io alla fine ero terrorizzata. Lui...» Raccolse le gambe sul divano e fremette, come se avesse freddo. Dove-
vano esserci circa trenta gradi in casa. «Capii ben presto che non era del tutto a posto. Era capace di alzarsi di notte se solo andavo in bagno. Di venire in bagno a guardarmi mentre facevo la pipì. Come se avesse paura che... scappassi via. Ma non vivevamo insieme. Non proprio. Io avevo un monolocale, troppo piccolo per due persone. Lui invece divideva l'appartamento con dei coinquilini, ma credo che non lo sopportassero. Quindi si trasferì più o meno da me. Senza chiedermelo. Non che si fosse portato dietro chissà cosa, non c'era neanche posto. Ma s'installò, diciamo. Lavava, puliva e comandava lui. È maniaco della pulizia. Era, voglio dire. Adesso non lo so. Era egocentrico in modo pazzesco. Era solo io, io, io. Sempre. Oggi non mi ci sarei mai infilata in una situazione del genere. Però era bello. E molto premuroso, all'inizio. E io ero una bambina.» Fece un debole sorriso di scusa. «Sai...» cominciò a chiedere Yngvar, poi riformulò la frase «Sapevi qualcosa della sua famiglia?» «La sua famiglia,» ripeté Lena Baardsen. «Sua madre, per lo meno. La vidi due volte. Dolce. In un certo senso. Incredibilmente docile. Karsten la comandava a bacchetta. Per quanto sembrasse... sembrasse volerle bene davvero. A volte, almeno. L'unica persona che sembrava temere era la nonna. Non la vidi mai, ma santo cielo, mi aveva raccontato certe cose che...» Di colpo sembrò sorpresa. «Sai, in realtà non mi viene in mente niente di quello che mi aveva raccontato. Nessun esempio. Strano. Ricordo benissimo che la odiava. O così mi era parso, ecco. Vero odio.» «E il padre?» «Il padre? Bah... Non mi ha mai parlato del padre, mi pare. Non gli andava di parlare del suo passato. Dell'infanzia eccetera. Avevo l'impressione che fosse cresciuto con la mamma e la nonna. Perciò doveva essere la nonna materna. Ma non ne sono sicura al cento per cento. È passato così tanto tempo. Karsten era pazzo. Ho fatto del mio meglio per dimenticarlo del tutto.» Atteggiò di nuovo le labbra in quello che poteva assomigliare a un sorriso. Yngvar guardò una grande fotografia sul tavolo della sala, una fotografia di Sarah in una cornice d'argento. Accanto c'erano una grande candela rosa e una rosellina in un vaso sottile. «Non riesco a dormire,» mormorò Lena. «Ho così tanta paura che la
candela si spenga. Voglio che resti sempre accesa. Per sempre. Finché quella candela resta accesa, è come se tutto questo non fosse vero.» Yngvar annuì quasi impercettibilmente. «Lo so,» disse tranquillo. «So come ti senti.» «No,» disse lei con forza. «Tu non sai come mi sento!» Dietro quel viso devastato, in quei lineamenti improvvisamente infuriati, vide che Lena Baardsen se la sarebbe cavata. Solo che adesso non lo sapeva ancora. La morte della figlia era incomprensibile, e lo sarebbe rimasta a lungo. Lena Baardsen si afferrava a un dolore che era dappertutto, costantemente. La sua esistenza era al di fuori di ogni realtà, visto che la realtà in quel preciso momento non era tollerabile. Sarebbe stato peggio. Alla fine, quando fosse venuto il momento, le sarebbe stato possibile ricominciare a vivere. Allora sarebbe arrivato il vero dolore. Quello che non si spegneva mai e che non si poteva condividere con nessuno. Quello che l'avrebbe lasciata ridere e vivere, magari perfino avere altri figli. Ma che non l'avrebbe mai abbandonata. «Sì,» disse Yngvar. «Lo so come stai.» Faceva troppo caldo. Si alzò e aprì la porta che dava sul balconcino. «È stato lui?» Yngvar si girò a metà. La voce di Lena Baardsen era ridotta a un filo, come se di lì a poco non dovesse restarne nulla. Era meglio che se ne andasse. Lena Baardsen ce l'avrebbe fatta. Lui aveva già avuto le risposte che gli servivano. «Ti ricordi la data in cui l'hai visto per l'ultima volta,» le disse. «Scappai,» fece Lena. «Andai in Danimarca. Rescissi il contratto dell'appartamento mentre lui era al lavoro, portai da mia madre tutte le mie cose e me ne andai a tempo indeterminato. Lui rese la vita di mia madre un inferno per qualche settimana. Poi lasciò perdere. Suppongo. È stato lui a... uccidere Sarah?» Yngvar strinse i pugni così forte che le unghie gli si conficcarono nei palmi delle mani. «Non lo so,» rispose secco. Lasciò aperta la porta del balcone e si incamminò verso l'entrata. A metà strada si voltò per esaminare ancora la fotografia di Sarah. La rosa stava per appassire, la testa pendeva e aveva bisogno d'acqua. Quando arrivò alla macchina, si girò e contò sette piani lungo la facciata. Lena Baardsen era sul terrazzo con una coperta sulle spalle. Non lo stava salutando. Yngvar chinò il capo e salì in auto. La radio si accese non appe-
na girò la chiave nel motorino d'avviamento. Aveva già ampiamente oltrepassato Høvik quando si rese conto che il programma parlava delle devastazioni della peste nera. Avrebbe voluto darle una sberla. Turid Sande Oksøy non era brava a mentire. Probabilmente era per questo che faceva di tutto per nascondere il volto al marito mentre diceva: «Non ho mai sentito parlare di Karsten Åsli. Mai.» La villetta a schiera di Bærum era impregnata da un altro tipo di dolore rispetto all'appartamentino di Torshov. C'erano dei bambini vivi. C'erano giocattoli dappertutto sul pavimento e si sentiva l'odore degli avanzi della cena. I volti di Turid e Lasse Oksøy erano segnati dal poco sonno e dal molto pianto, ma in quella casa il tempo in qualche modo era andato avanti, necessariamente: i gemelli avevano solo due anni. Turid Oksøy aveva cercato di truccarsi; Yngvar li aveva chiamati dal cellulare chiedendo se poteva fare un salto da loro anche se cominciava a essere tardi. Il mascara le si era già sciolto e rappreso agli angoli degli occhi. Il rossetto le faceva la bocca troppo grande nel viso bianco. Con l'indice si toccava assente un taglietto alla radice del naso. Quando cominciò a sanguinarle, si mise a piangere. «Giuro,» disse. «Mi devi credere. Non ho mai conosciuto nessuno che si chiami Karsten.» Yngvar avrebbe dovuto parlarle in privato. Era stato un errore enorme andare a casa a trovarla. Lasse, il marito, ragionevolmente non aveva voluto lasciarla sola; continuò a tenerle il braccio attorno alle spalle anche quando lei si girò dall'altra parte. Yngvar avrebbe dovuto aspettare fino all'indomani e farla venire in ufficio. Da sola, senza il marito. Aveva bisogno di altri ganci a cui appendere Karsten Åsli. Qualcosa di più della certezza istintiva che quell'uomo era pericoloso; qualcosa che motivasse altre indagini. Con l'esperienza e la fama che aveva, forse Yngvar avrebbe ottenuto il mandato di perquisizione, se solo avesse potuto dimostrare che Karsten Åsli era l'unica persona a conoscere tutte le madri coinvolte. Soprattutto visto che lui lo aveva negato. Questo avrebbe potuto spiegare a Turid Oksøy, e poi obbligarla a una confessione. Era tremendamente spaventata. Yngvar non capiva perché. Suo figlio era morto; ucciso da un pazzo che quella donna stava proteggendo. Yngvar avrebbe voluto picchiarla. Quello che più desiderava era sporgersi sul tavolo, afferrarla per quel ridicolo maglioncino rosa e darle un ceffone. Avrebbe tirato fuori la verità da quel corpo magro a forza di botte. Era brutta. I
capelli erano spenti, le colava il trucco. Il naso era troppo grande e gli occhi troppo vicini. Turid Sande Oksøy assomigliava a un avvoltoio e Yngvar aveva voglia di strapparle via quel trucco schifoso ed estrarre la verità da quel cervello di gallina. «Allora ne sei del tutto sicura,» disse tranquillo, ravviandosi i capelli con una mano. «Sì,» confermò lei e alzò la testa passandosi il pollice sotto gli occhi. «Allora mi scuso per il disturbo,» disse Yngvar. «Trovo la strada da solo.» «Merda. Merda!» Yngvar batté il pugno così forte contro il tronco dell'albero che le nocche cominciarono a sanguinargli. Aveva i muscoli del collo tutti contratti. Tremava; era difficile trovare i tasti giusti sul cellulare. Cercò di respirare più profondamente, ma i polmoni scioperavano. In quel preciso momento non sapeva chi fosse più terrorizzato, lui o Turid Sande Oksøy. Si appoggiò al tronco del pino per rilassarsi meglio. Nella casa che aveva appena lasciato le luci si spensero, una stanza dopo l'altra. Alla fine rimase solo una striscia di fioca luce gialla sotto una tapparella al secondo piano. «Pronto?» «Ciao.» «Ti ho svegliata?» «Sì.» Non si scusò. La voce di lei gli liberava il respiro. Impiegò dieci minuti a spiegarle come era andata la giornata. A tratti si ripeté, ma si riprese e cercò di mantenere la calma. Di raccontare in ordine cronologico. Di attenersi ai fatti. Essere preciso. Alla fine tacque. Johanne non parlava. «Pronto?» «Sì, sono qui,» udì da lontanissimo. Avvicinò di più il cellulare all'orecchio. «Perché,» chiese. «Perché mente?» «Ma è chiaro,» rispose Johanne. «Deve aver avuto una relazione con Karsten Åsli quando era già sposata con Lasse. Non può esserci altro motivo. Sempre che non stia dicendo la verità, naturalmente. Che davvero non abbia mai conosciuto quell'uomo.» «Mente! Ha mentito! Lo so che mente!» Ancora una volta colpì la corteccia ruvida con il pugno. Il sangue gli
scorreva lungo il dorso della mano. «Cosa devo fare? Cosa cazzo devo fare adesso?» «Niente. Non stasera. Vai a casa, Yngvar. Devi dormire. E lo sai. Domani puoi cercare di parlare con Turid da solo. Puoi smuovere cielo e terra per scoprire tutto quello che c'è da sapere su Karsten Åsli. Magari trovi qualcosa. Qualcosa che con un pizzico di creatività ti può servire per ottenere il mandato. Ma domani. Vai a casa.» «Hai ragione,» disse secco. «Ti chiamo domani in giornata.» «D'accordo,» fece lei. «Ci sentiamo.» Dopo aver riattaccato, Yngvar rimase a fissare il telefono per qualche secondo. Gli faceva male la mano destra. Johanne non gli aveva chiesto di andare da lei. Yngvar si trascinò fino alla macchina e tornò ubbidiente a Nordstrand. LVI. Finalmente aveva trovato del cibo. Laffen si era già intrufolato in altri tre posti, senza fortuna. In questa baita invece c'era scatolame in varie credenze. Non doveva essere passato molto tempo dall'ultima volta che c'era stato qualcuno, nel portapane era rimasto un panino dimenticato. Prima cercò di grattare via lo strato bianco-bluastro. Non rimase gran cosa. Poi esaminò la pagnotta piccola e dura prima di infilarsela in bocca. Sapeva di buio. La legna era ben impilata accanto al camino. Era facile accendere il fuoco. Dalla finestra del soggiorno aveva una buona vista sulla strada, e sarebbe potuto saltare fuori da quella sul retro se fosse arrivato qualcuno. Il calore del fuoco gli dava un po' di sonnolenza. Prima voleva mangiare, un po' di zuppa magari; era la cosa più semplice. Poi voleva dormire. Erano le quattro di mattina passate, presto sarebbe stato giorno. Doveva solo mangiare un po'. E fumare; sulla mensola del camino c'era mezzo pacchetto di Marlboro. Tolse il filtro da una sigaretta, la accese e inalò profondamente. Non poteva addormentarsi prima che si fosse spento il fuoco. Zuppa di pomodoro con maccheroni. Ottima. Dal rubinetto veniva l'acqua. Era una bella casetta. Aveva sempre desiderato una casetta nel bosco. Un posto dove stare in pace. Non come nel condominio a Rykkinn, dove i vicini di casa si arrabbiavano se solo si dimenticava di lavare le scale un sabato. Anche se non faceva mai venire nessuno nel suo appartamento, si sentiva costantemente controllato. Un
posto così sarebbe stato un'altra cosa. Se proseguiva, addentrandosi ancora nel bosco, molto di più, forse avrebbe trovato un luogo dove poter stare da solo tutta l'estate. D'estate la gente che possedeva una casetta così di solito andava al mare. E poi poteva scappare in Svezia. In autunno. Suo padre era scappato in Svezia durante la guerra. Suo padre aveva ricevuto medaglie per tutto quello che aveva fatto. In ogni caso, non avrebbe permesso alla polizia di riprenderlo. Quella sigaretta era maledettamente buona. La migliore che avesse mai provato. Fresca e buona. Se ne accese un'altra dopo mangiato. Poi prese il pacchetto e contò quante ne restavano. Undici. Doveva tenerle da conto. La polizia lo riteneva un idiota. Quando lo avevano portato dentro, quelli parlavano tra loro come se fosse sordo. La gente lo faceva spesso. Pensavano che non ci sentisse. Il tizio che aveva preso i bambini sì che era intelligente. I messaggi erano intelligenti. Adesso hai quello che ti meriti. Erano stati i due poliziotti accanto a lui a parlarne. Come se lui fosse un cretino senza orecchie. Laffen aveva imparato a memoria il testo immediatamente. Adesso hai quello che ti meriti. Grande. Fantastico. Era colpa di qualcun altro. Non sapeva bene chi meritasse cosa. Ma era qualcun altro, qualcuno che non era lui. Il tizio che aveva preso i bambini doveva essere un genio. Laffen era già stato arrestato. Lo trattavano come una merda, sempre. Quando i bambini correvano nudi in spiaggia, cos'altro si aspettavano. Se la cercavano. Soprattutto le femmine. Si giravano e rigiravano, mettendo in mostra tutto quello che c'era da vedere. Però la colpa se la prendeva lui; sempre. Sotto questo aspetto internet era meglio. I servizi sociali gli avevano comprato il computer. Gli avevano pagato il corso e tutto quanto. Gli elicotteri erano pericolosi. Era ancora vicino a Oslo e sentiva elicotteri tutto il giorno. Dal momento che c'era luce dal primissimo mattino fino a tardi, aveva solo poche ore durante la notte per muoversi. Gli stavano alle calcagna. Doveva allontanarsi di più, fin lì ci arrivava. Avrebbe rubato una macchina. Sapeva come farle partire senza chiave, era stata una delle prime cose che aveva imparato. La polizia lo credeva un idiota, ma gli bastavano tre minuti per aprire una macchina. Non quelle nuove, naturalmente, quelle con l'antifurto le avrebbe lasciate perdere. Ma poteva trovare un modello vecchio. Avrebbe guidato a lungo. Verso nord. Era facile distinguere il nord. Di giorno bastava guardare il sole. Di notte sapeva come riconoscere la stella polare.
Mangiare gli aveva messo sonno. Il calore del camino era come un muro. Non si doveva addormentare prima che il fuoco si fosse spento del tutto. Se ne fregava del pericolo d'incendio, ma siccome sarebbe potuto arrivare qualcuno alla vista del fumo, doveva restare sveglio. Pronto. «Stare pronto,» mormorò Laffen mentre si addormentava. LVII. Karsten Åsli cercava di convincersi al meglio di non avere nulla da temere. «Routine,» disse rabbioso, e per poco non inciampò. «Routine. Rou-tine. Rou-ti-ne.» Le scarpe da ginnastica erano bagnate e il sudore gli scorreva sugli occhi. Tentò di asciugarsi la fronte con la manica del maglione, ma era umido per la rugiada degli alberi che aveva superato correndo. Yngvar Stubø non aveva visto niente. Non aveva sentito niente. Non poteva aver scoperto assolutamente nulla di sospetto. Cribbio, l'aveva detto lui stesso: era passato perché la routine prevedeva che controllasse tutti quelli che avevano avuto a che fare con qualcuno dei famigliari dei bambini. Certo che era routine. La polizia pensava di sapere già chi stava cercando. I giornali non parlavano praticamente d'altro; la Grande Caccia all'Uomo. Karsten Åsli accelerò il passo. Era stato sul punto di perdere il controllo. Yngvar Stubø era furbo. Anche se non era così bravo a mentire come Karsten immaginava dovessero essere quelli della polizia, era furbo. Turid era spaventata a morte, all'epoca. Aveva il terrore che Lasse scoprisse qualcosa. Temeva sua madre. Temeva sua suocera. Temeva tutto. Quando Yngvar Stubø aveva detto che Turid sosteneva di conoscerlo, mentiva. Eppure Karsten aveva quasi perso il controllo. Yngvar Stubø non avrebbe mai dovuto chiedergli se aveva figli. Fino a quel momento Karsten si era sentito sul punto di affogare. Quando Stubø gli aveva chiesto del bambino, era stato come essere investito da una ventata di vita. Il mare si era calmato. Terra in vista. Il bambino. Il piccolo. Il figlio di Karsten. Avrebbe compiuto tre anni il 19 giugno. Quel giorno avrebbe portato a termine tutta l'operazione. Non c'era nulla di casuale al mondo. Il ruscello era grosso ora, come in primavera; quasi un fiumiciattolo. Si fermò a riprendere fiato. Si tolse lo zaino e ne estrasse la scatola di
potassio. Aveva riempito in anticipo un sacchettino di plastica con alcuni grammi, più che sufficienti per l'ultima missione. Ovviamente l'aveva preparato all'aperto, Karsten Åsli sapeva bene che anche un solo milligrammo di sostanza avrebbe potuto incastrarlo. Non che si aspettasse un controllo da parte della polizia, ma Karsten viaggiava con ampi margini di sicurezza. Per tutto il percorso. Non aveva mai aperto la scatola in casa. La polvere si dissolse nell'acqua. Acqua lattiginosa. A mano a mano che scorreva verso valle, la soluzione si faceva più blanda, acquosa, trasparente. Alla fine, un metro e mezzo più in basso rispetto a dove stava lui, non ne rimaneva nulla. Con attenzione ruppe la scatola contro un sasso. Poi accese un fuocherello. Si era portato nello zaino dei legnetti secchi. Le scatole di cartone non bruciavano bene, ma quando strappò un giornale intero e lo aggiunse a strisce nel fuoco, finalmente la fiamma prese bene. Infine calpestò il tutto. Aveva comprato il potassio in Germania, più di sette mesi prima. Per sicurezza, non si era fatto la barba per tre settimane prima di entrare in una farmacia della periferia di Amburgo. La barba se l'era rasata la sera stessa, in un motel da quattro soldi, poi era andato a Kiel a prendere il traghetto per tornare a casa. Adesso di potassio non ce n'era più, tranne quello che gli sarebbe servito il 19 giugno. Karsten Åsli si sentiva sollevato. Ci mise solo un quarto d'ora di jogging a tornare a casa. Mentre faceva stretching sull'uscio gli venne in mente che era da diversi giorni che non vedeva Emilie. Il giorno precedente, prima che comparisse Stubø, aveva deciso di darle un ultimo pasto. Doveva sparire. Ma non aveva ancora stabilito come. Dopo la visita di Stubø doveva essere ancora più cauto del previsto. Emilie doveva aspettare. Qualche giorno, almeno. Là sotto ne aveva di acqua, e comunque non mangiava niente. Non c'era motivo di andare in cantina. Nessun motivo. Sorrise e si preparò per andare al lavoro. L'uomo era sparito. Non c'era più. Lei aveva sempre sete. Dal rubinetto veniva acqua. Cercò di alzarsi. Le sue gambe erano diventate così sottili. Cercò di camminare. Non ce la faceva, anche se si appoggiava alla parete. L'uomo era sparito. Magari papà l'aveva ucciso. Di sicuro papà l'aveva trovato e l'aveva tagliato a pezzetti. Ma papà non sapeva che lei era lì. Non
l'avrebbe mai trovata. Aveva una sete tremenda. Emilie si trascinò carponi fino al lavabo. Poi si alzò appoggiandosi al muro e aprì il rubinetto. Le mutande le scivolarono fino alle caviglie. Erano delle mutande da maschio, anche se era stata cucita la patta. Bevve. I suoi vestiti erano ancora ben piegati accanto al letto. Tornò indietro barcollando, riuscendo a malapena a camminare. Le mutande erano rimaste vicino al lavabo. Lo stomaco le si era trasformato in un grande buco, senza fame dentro. Più tardi si sarebbe messa i suoi vestiti. Erano proprio i suoi vestiti, quelli, e li voleva addosso. Ma prima doveva dormire. Era meglio dormire. Papà aveva tagliuzzato l'uomo e gettato i pezzi in mare. Aveva ancora una sete tremenda. Magari anche papà era morto. Non arrivava mai. LVIII. La prima cosa che colpì Johanne, fu l'apparente inconsistenza di quell'uomo. Se ne era convinta subito dopo i primi convenevoli. Geir Kongsbakken non aveva nessun fascino, nessuno charme. Benché non avesse mai conosciuto né il fratello né il padre, Johanne si era fatta l'idea che entrambi fossero persone alla cui presenza era impossibile non restare ammaliati, nel bene o nel male. Asbjørn Revheim era stato un provocatore arrogante, un grande artista; un uomo determinato ed eccessivo, anche nel proprio suicidio. Astor Kongsbakken viveva tuttora in un'aura di aneddoti sul suo passato ricchi di inventiva. Geir, il figlio maggiore, aveva un piccolo studio legale in Øvre Slottsgate, una ditta individuale di cui Johanne non aveva mai sentito parlare. Le pareti erano perlinate in plastica. La libreria era pesante e marrone. L'uomo seduto alla massiccia scrivania era robusto anche lui, senza essere grasso. Sembrava senza contorni e irrilevante. Pochi capelli. Camicia bianca. Occhiali noiosi. Voce monotona. Era come se quell'uomo fosse venuto fuori mettendo insieme tutti i pezzi rifiutati dal resto della famiglia. «In cosa posso aiutarti?» le domandò con un sorriso. «Io...» Johanne tossì e ricominciò. «Ti ricordi del caso Hedvig, avvocato Kongsbakken?»
Geir Kongsbakken socchiuse gli occhi. «No...» Esitò. «Dovrei?» «Il processo Hedvig,» ripeté lei. «Nel 1956.» Sembrava ancora confuso. Strano. Quando ne aveva parlato a sua madre, del tutto en passant, senza aggiungere nulla di più su che cosa c'entrasse con lei, Johanne era rimasta sorpresa da quanto la donna ricordasse nel dettaglio l'uccisione della piccola Hedvig. «Ah sì!» Sollevò il mento di un millimetro. «Un caso orribile. Si trattava di quella bambina che fu violentata e uccisa e poi ritrovata in... un sacco? Giusto?» «Esattamente.» «Già. Adesso ricordo. Ero molto giovane all'epoca... 1956, hai detto? Avevo solo diciotto anni. A quell'età non si leggono tanto i giornali.» Sorrise, come per scusare il proprio scarso interesse. «Forse no,» disse Johanne. «Dipende. Considerato che tuo padre era il pubblico ministero contro il presunto colpevole, direi che dovresti ricordarti piuttosto bene del processo.» «Stammi a sentire,» fece Geir Kongsbakken grattandosi la testa. «Io nel 1956, come ti ho detto, avevo diciotto anni. Frequentavo l'ultimo anno di liceo. Mi preoccupavano cose ben diverse dal lavoro di mio padre. Tra l'altro il nostro rapporto non era nemmeno dei più cordiali, per essere sincero. Anche se continuo a non capire come questo dovrebbe riguardarti. Dove vuoi arrivare esattamente?» Gettò un'occhiata all'orologio. «Vengo al punto,» disse Johanne in fretta. «Ho motivo di credere che tuo fratello...» Andare dritto al punto non era facile come aveva immaginato. Accavallò le gambe e ricominciò da capo. «Io ritengo che Asbjørn Revheim avesse qualcosa a che vedere con la morte di Hedvig.» Tre rughe profonde si disegnarono sulla fronte di Geir Kongsbakken. Johanne osservava il suo viso. Perfino con un'espressione stupita quel volto era impressionantemente neutro, dubitava che l'avrebbe riconosciuto se l'avesse incontrato per strada. «Asbjørn,» disse lui raddrizzandosi la cravatta. «Ma come diavolo ti è
venuta in mente una cosa del genere? Nel 1956? Santo Dio, aveva... sedici anni allora! Sedici! E poi Asbjørn non avrebbe mai potuto...» «Ti ricordi di Anders Mohaug?» lo interruppe lei. «Certo che mi ricordo di Anders,» rispose Geir Kongsbakken, palesemente irritato. «Lo scemo. Non sarà politicamente corretto utilizzare questo tipo di espressioni al giorno d'oggi, ma era così che lo chiamavamo. All'epoca. Certo che mi ricordo di Anders. Passava molto tempo con mio fratello in quel periodo. Perché me lo chiedi?» «La madre di Anders, Agnes Mohaug, si presentò alla polizia nel 1965. Subito dopo la morte di Anders. Non so nulla di più in proposito, se non che secondo lei era stato il ragazzo a uccidere Hedvig nel 1956. Aveva coperto suo figlio per tutti quegli anni, ma voleva scaricarsi la coscienza adesso che non era più possibile punirlo.» Geir Kongsbakken aveva un'aria sinceramente sorpresa. Si slacciò il primo bottone della camicia e si protese sulla scrivania. «Molto bene,» disse lentamente. «Ma cosa c'entra questa bella delucidazione con mio fratello? La signora Mohaug disse qualcosa sul possibile coinvolgimento di Asbjørn?» «No. In verità no. Non che io sappia. In ogni caso so ben poco di quanto dichiarò realmente e...» Geir Kongsbakken starnutì e scosse con forza il capo mentre la interrompeva: «Ti rendi conto di quello che stai facendo? Le tue accuse sono meschine, ingiuriose e...» «Io non sto accusando nessuno di niente,» rispose Johanne tranquilla. «Sono venuta qui per farti delle domande e per chiedere il tuo aiuto. Dal momento che ho fissato un appuntamento secondo la normale procedura, ovviamente sono disposta a pagarti il tuo tempo.» «Pagare? Mi vuoi pagare per essere venuta qui a lanciare accuse contro una persona della mia famiglia che per giunta è morta e quindi non è in grado di difendersi? Pagare!» «Non credi che sarebbe meglio se stessi semplicemente ad ascoltare quello che ho da dirti?» ragionò Johanne. «Ho già sentito abbastanza, grazie!» Gli si erano disegnati dei cerchi bianchi attorno alle narici. Sbuffava ancora, agitato. Tuttavia Johanne aveva svegliato una qualche forma di curiosità in quell'uomo, glielo leggeva negli occhi: erano attenti adesso, più vivi di quando era entrata e lui, senza realmente guardarla, le aveva detto
di accomodarsi. «Anders Mohaug era a malapena capace di agire da solo,» disse decisa. «In base a quello che mi è stato riferito sul ragazzo, avrebbe avuto difficoltà ad arrivare a Oslo per conto proprio. Tu sai perfettamente che venne coinvolto in una serie di... situazioni spiacevoli. Da tuo fratello.» «Situazioni spiacevoli? Hai presente di cosa stai parlando?» Una pioggerellina di sputo cadde sulla scrivania. «Asbjørn era gentile con Anders. Gentile! Tutti gli altri detestavano quel gorilla! Asbjørn era l'unico che se lo portava dietro dappertutto!» «Per esempio a decapitare un gatto per protesta contro la casa reale?» Geir Kongsbakken alzò con un movimento esagerato gli occhi al cielo. «Un gatto. Un gatto! Ovviamente non fu un bel gesto maltrattare quella povera bestia, ma Asbjørn fu anche arrestato e multato per questo. Ebbe la sua punizione. Dopo quell'episodio non combinò più guai. Nemmeno coi gatti. Asbjørn era...» Era come se da quell'avvocato grigio fosse uscita tutta l'aria. Si accasciò sulla sedia, e Johanne notò che aveva gli occhi umidi. «È senz'altro difficile da capire,» disse, e si alzò con un moto di orgoglio. «Ma io volevo sinceramente bene a mio fratello.» Era vicino alla libreria. Le sue dita scorrevano sul dorso di sei libri rilegati in pelle. «Non ho mai letto i suoi libri,» disse Geir Kongsbakken piano. «Faceva troppo male, tutto. Il modo in cui ne parlava la gente. Ma ho fatto comunque rilegare queste prime edizioni. Sono belle da vedere, no? Belle fuori e, per quanto ho capito, brutte dentro.» «Non direi,» fece Johanne. «Hanno significato molto per me quando li ho letti. Soprattutto Gelo febbrile. Anche se supera ogni limite e...» «Asbjørn era fedele alle proprie convinzioni,» la fermò Geir Kongsbakken. Era come se parlasse da solo. Aveva in mano uno dei libri. Uno grande e pesante, La città affonda, la marea sale, suppose Johanne. Le rifiniture dorate luccicavano alla luce della lampada che pendeva dal soffitto. La pelle era scura, quasi come legno levigato. «Il problema è che poi non gli restò più nulla in cui credere,» disse Geir Kongsbakken. «Non c'era più niente a cui restare fedele. Fu allora che non ce la fece più. Ma fino a quel momento...» Emise un leggero singhiozzo e raddrizzò la schiena. «Asbjørn non avrebbe mai potuto fare del male a un altro essere umano.
Non fisicamente. Mai. Né a sedici anni né dopo. Te lo posso garantire.» Si era voltato verso di lei, col mento proteso in avanti. La fissava dritto negli occhi, con il palmo della mano destra sul libro, come fosse stata un bibbia su cui giurare. "Fino a che punto conosciamo i nostri cari," pensò Johanne. "Tu dici la verità. Sai che Asbjørn non avrebbe fatto del male a nessuno. Perché gli volevi bene. Perché era il tuo unico fratello. Pensi di sapere. Sai di sapere. Ma io non so. Io non lo conoscevo. Ho solo letto quello che ha scritto. Tutti siamo tante persone. Asbjørn può essere stato un assassino, anche se tu non lo riconoscerai mai". «Mi sarebbe piaciuto molto parlare con tuo padre,» disse. Geir Kongsbakken rimise il libro al suo posto sullo scaffale. «Fa' pure,» disse indifferente. «Ma in questo caso dovrai andare in Corsica. Dubito che tornerà mai più a casa. Al momento non sta molto bene.» «Gli ho telefonato ieri.» «Gli hai telefonato? E gli hai detto queste scemenze? Ma ti rendi conto di quanti anni ha?» Incominciarono di nuovo a profilarglisi i cerchi bianchi intorno alle narici. «Non ho detto nulla di Asbjørn,» aggiunse Johanne rapida. «In realtà ho fatto a malapena in tempo a dire qualcosa. Si è arrabbiato. Infuriato, per essere precisi.» «Comprensibile,» mormorò Geir Kongsbakken guardando di nuovo l'ora. Johanne notò che non portava la fede. E non c'era nemmeno una foto in quell'ufficio marrone. La stanza era spoglia di qualunque riferimento personale eccetto il ricordo di un fratello morto, uno scrittore i cui libri erano ben preservati in una rilegatura costosa senza mai essere stati letti. «Pensavo che potessi parlargli tu,» continuò Johanne. «Spiegargli che non ho intenzione di danneggiare nessuno. Voglio soltanto sapere cosa successe realmente.» «Cosa vuoi dire con successe realmente? Per quanto ricordo io un uomo fu condannato per l'uccisione di Hedvig. Condannato da una giuria! Dovrebbe essere ragionevolmente chiaro cosa successe! Quell'uomo era colpevole.» «Io non credo,» disse Johanne. «E se potessi impiegare i dieci minuti che mi restano della mia mezz'ora con te a raccontarti il perché...» «Non hai dieci minuti a disposizione,» disse lui risoluto. «Per quanto mi
riguarda, considero conclusa questa conversazione. Puoi andare.» Prese un fascicolo e si mise a leggere, come se Johanne fosse già sparita. «È probabile che un uomo sia stato condannato ingiustamente,» disse lei. «Si chiama Aksel Seier e ha perso tutto. Se non altro, la cosa dovrebbe preoccuparti in qualità di avvocato. Come giurista.» Senza alzare gli occhi dalle sue carte, lui disse: «Puoi fare danni irrimediabili con le tue speculazioni. Vattene, per cortesia.» «Danni a chi? Asbjørn è morto! Da diciassette anni!» «Fuori.» Johanne non poté che eseguire. Senza aggiungere altro, si alzò e andò alla porta. «Che non ti venga in mente di pagare,» disse Geir Kongsbakken, duro. «E non tornare mai più.» Un vento caldo accarezzava Oslo. Johanne rimase ferma per un attimo davanti all'ufficio di Geir Kongsbakken, titubante, prima di decidersi ad andare a piedi al lavoro. Si tolse la giacca del tailleur e notò che aveva sudato sotto le ascelle. Avrebbero dovuto fare chiarezza su quel caso molto tempo prima. Era troppo tardi ormai. Fu presa dallo sconforto. Qualcuno avrebbe dovuto riabilitare Aksel Seier quando era ancora possibile. Quando le persone coinvolte erano ancora vive. Quando la gente ricordava. Adesso sbatteva soltanto la testa contro un muro; ovunque si girasse. Era stanca di tutta quella faccenda. In fondo Aksel Seier le aveva voltato le spalle. Al pensiero di Alvhild Sofienberg ebbe una fitta al petto, ma scacciò rapidamente quel morso di coscienza. Johanne non aveva nessun obbligo vero e proprio, né verso Aksel né verso Alvhild. Aveva davvero fatto più che a sufficienza; più di quanto chiunque potesse pretendere. LIX. «E questo è quello che abbiamo,» disse Yngvar Stubø depresso. «Già.» Sigmund Berli starnutì e si asciugò il naso in una manica. «Non è molto, temo. Fedina penale pulita. Se mai è stato denunciato per qualcosa, deve essere stato molto tempo fa. Non ha sostenuto nessun esame universitario né qui né in altre città della Norvegia, quindi quegli studi
di cui si vanta deve averli fatti all'estero oppure...» «Non ha seguito un corso di studi. Aveva ragione lei.» «Chi?» «Lascia stare.» Sigmund starnutì di nuovo e si mise a frugare nella tasca stretta dei jeans alla ricerca di un fazzoletto di carta. «Raffreddore,» mormorò. «Un raffreddore coi fiocchi. Karsten Åsli ha fatto parecchi traslochi, questo lo possiamo dire. Niente da stupirsi se ormai se ne frega di denunciare il trasferimento. Un po' un vagabondo, il nostro uomo. Ha una licenza di tassista. A Oslo. Se la possiamo considerare una forma di studio.» «Difficile. Cos'è questo?» Yngvar indicò un post-it. «Che cosa?» Sigmund si chinò sul tavolo. «Ah, quello. Ha fatto un corso per conducente di autoambulanza qualche anno fa. Mi hai detto di segnare tutto.» «E il bambino?» Yngvar stava armeggiando con il cellophane che avvolgeva una scatola di sigari nuova. «Ci sto lavorando. Ma perché dovremmo mettere in dubbio la sua sincerità proprio su questo? C'è qualche motivo logico per cui dovrebbe inventarsi un figlio?» Yngvar si infilò l'astuccio d'argento nel taschino della camicia dopo avervi infilato un sigaro. «Io non credo che menta,» disse. «Voglio solo sapere quanto vede in effetti il bambino. La sua casa non aveva esattamente l'aria di un posto frequentato regolarmente da un bambino. E Tromsø? Ci è stato?» Sigmund Berli guardò la scatola di legno di balsa. «Prego,» annuì Yngvar. «La cosa migliore sarebbe stata chiederlo direttamente a Karsten Åsli! Ho controllato tutte le liste, e senz'altro non è salito su nessuno degli aerei per Tromsø nel periodo che ci interessa. Non col suo nome, per lo meno. Ho una copia della sua foto sul passaporto. È stata spedita a Tromsø. Stiamo a vedere cosa dice quel professore. Probabilmente niente. Sostiene di non aver visto bene la faccia. Questa indagine...» Disegnò delle virgolette irritate nell'aria prima di servirsi. «... non è così facile, col fatto che Karsten Åsli non si deve accorgere di
nulla. Ma non potremmo fermarlo per un normale interrogatorio e basta? Santo Dio, lo facciamo con un qualsiasi povero cristo senza che...» «Karsten Åsli non è un povero cristo qualsiasi,» lo interruppe Yngvar. «Se ho ragione, da qualche parte tiene prigioniera una bambina. Non voglio che abbia la benché minima ragione di sospettare che gli stiamo dando la caccia.» Sigmund Berli teneva il sigaro sotto il naso. «Senti, Yngvar,» disse, senza guardare il commissario negli occhi. «Sì.» «C'era altro lì, qualcos'altro a parte quella... quella... C'era qualcosa di concreto, insomma, qualcosa di più di...» «No. Soltanto una sensazione. Una fortissima sensazione.» Silenzio assoluto nella stanza. Dal corridoio arrivava il rumore di passi veloci, e un telefono squillava lontano. Qualcuno rispose. Fuori della porta, una donna rise forte. Yngvar fissò il sigaro di Sigmund, ancora sospeso tra il naso e il labbro superiore. «L'intuizione non è altro che la rielaborazione da parte del subconscio di fatti noti,» disse prima ancora di ricordarsi dove l'avesse sentito dire. All'improvviso si piegò sulla scrivania. «Quell'uomo era spaventato a morte,» disse risoluto. «Quando sono arrivato era letteralmente sotto shock. Ero così...» Sollevò pollice e indice a un centimetro di distanza l'uno dall'altro. «... così vicino a farlo crollare completamente. Poi è successo qualcosa, non so cosa, però lui...» Lentamente si appoggiò contro lo schienale della sedia. «Insomma, ha ripreso il controllo di sé. Non so né come né perché. So soltanto che si è comportato in un modo che... O merda, Sigmund! Tu.... Tra tutta la gente che c'è qui almeno tu dovresti fidarti del mio istinto! Quella bambina è lassù! Karsten Åsli tiene prigioniera Emilie mentre noi perdiamo tempo con gli elicotteri e Dio sa quanta gente e quante auto sono alla ricerca di un ritardato in gita nel bosco!» Sigmund sorrise, quasi timidamente. «Ma non puoi esserne certo,» disse. «Questo lo devi ammettere. Non puoi esserne del tutto sicuro. Non è possibile.» «No,» disse Yngvar alla fine. «Del tutto sicuro ovviamente non lo posso essere. Ma scova qualcosa su quel figlio. Per favore.» Sigmund annuì debolmente e se ne andò. Il suo sigaro rimase lì. Yngvar lo raccolse e lo osservò a lungo. Poi lo gettò nel cestino e pensò che dove-
va chiamare l'idraulico di Lillestrøm. Era inutile scomodare Cato Sylling facendolo venire a Oslo. Turid Sande Oksøy non si era ancora fatta sentire. Nonostante le avesse telefonato tre volte e lasciato un messaggio sulla segreteria. LX. Seduto al Theatercafé, Aksel Seier osservava il magnifico sandwich che il cameriere gli aveva posato davanti. Si era proprio dimenticato che lo smørbrød era un sandwich aperto, senza una fetta di pane che lo chiudesse, e non sapeva bene come mangiarlo. Gettò intorno uno sguardo furtivo. Al tavolo accanto, una signora di una certa età lo stava mangiando con coltello e forchetta, anche se quello smørbrød non era alto come il suo. Titubante prese in mano le posate. Il pomodoro scivolò sul piatto. Con calma tolse la foglia d'insalata da sotto il paté di fegato. Ad Aksel Seier non piaceva l'insalata. Però lo smørbrød era buono. Anche la birra; la bevve avidamente e ne ordinò un'altra. «Con piacere,» disse il cameriere. Aksel Seier cercò di rilassarsi. Si toccò il taschino della camicia. Aveva già usato la carta di credito due volte. Era andata bene. Non aveva mai posseduto una carta di credito in vita sua. Cheryl in banca aveva insistito. Una Visa e un'American Express. Per stare tranquillo, aveva spiegato. Doveva sapere quello che diceva. La Visa era color argento. Platino, aveva sussurrato Cheryl. You're rich, you know!27 Di norma ci voleva più di una settimana a sistemare tutto, ma lei ce l'aveva fatta in meno di due giorni. Era successo tutto così in fretta. Si sentiva stordito. Ma in fondo era un giorno e mezzo che non dormiva. Il viaggio in aereo era andato bene, ma era impossibile dormire con il rumore dei motori. A Keflavik per un attimo aveva creduto di essere arrivato. Vedendo che cominciava a cercare il suo bagaglio, una hostess di terra lo aveva accompagnato al gate del secondo volo. Guardò l'orologio da polso che la signora Davis aveva scelto per lui a Hyannis. Lentamente calcolò sei ore in meno. Erano le nove di mattina a Cape Cod. Il sole era già alto sullo stretto di Nantucket, e c'era la bassa marea. Se il tempo era bello, si poteva intravedere Monomoy Island stagliarsi all'orizzonte verso sudovest. Un buon giorno per pescare. Forse Matt Delaware era già fuori in barca. 27
É ricco, capisce!
«Qualcos'altro?» Aksel scosse la testa. Cercò convulsamente la carta di credito, ma quando la trovò il cameriere non c'era più. Comunque sarebbe tornato. Doveva cercare di calmarsi. Nessuno lo riconosceva. Era questa la cosa che più temeva. Che qualcuno capisse chi era. All'atterraggio a Gardermoen, si era pentito. Avrebbe voluto prendere il primo aereo e tornare indietro più di ogni altra cosa. Disdire la vendita. Ritrasferirsi a casa, riprendersi la barca, il gatto e i soldatini di vetro. Tutto poteva tornare a essere come prima. In realtà lì era stato bene. Al sicuro, per lo meno, soprattutto dopo che gli incubi erano scomparsi una notte del marzo 1993. La Norvegia era cambiata. La gente poi parlava in modo diverso. Alcuni ragazzi che gli erano seduti davanti in autobus usavano una lingua che lui capiva a malapena. Le cose erano migliorate non appena arrivato al Continental. Aksel Seier si ricordava il nome di due soli hotel di lusso a Oslo, il Grand e il Continental. Il secondo lo ispirava più del primo. Era sicuramente caro come il fuoco, ma lui aveva denaro e una carta di platino. Non appena aveva posato il passaporto americano sul bancone, la receptionist gli si era rivolta in inglese. Alla sua risposta in norvegese, lei aveva sorriso. Era amichevole. Tutti erano amichevoli e lì al Theatercafé il cameriere parlava in un modo che Aksel poteva ricordare e comprendere. «Sei di passaggio?» chiese il magro cameriere mettendogli il conto sul tavolo. «Sì. No. Di passaggio.» «Allora forse alloggi qui all'hotel,» fece l'altro prendendo la carta di credito. «Ti auguro un piacevole soggiorno. Ormai sta davvero arrivando l'estate. Fantastico.» Aksel Seier voleva salire nella sua stanza per dormire un paio d'ore. Doveva abituarsi al fatto di essere lì. Poi avrebbe passeggiato per la città. Al calare della sera. Voleva scoprire fino a che punto ricordava. Voleva sentire la Norvegia. Scoprire se la Norvegia lo riconosceva. Aksel pensava di no. Era passato tanto tempo. Così tanto. L'indomani sarebbe andato a trovare Eva. Ma non prima. Voleva essere riposato quando si sarebbero rivisti. Sapeva che era ammalata ed era pronto a tutto. Prima di andare a dormire, voleva chiamare Johanne Vik. In fondo erano solo le tre del pomeriggio. Di sicuro era al lavoro. Magari era ancora arrabbiata con lui perché era scappato. Dopotutto, era andata fin negli Stati
Uniti per incontrarlo. Gli aveva lasciato il suo biglietto da visita, uno nella cassetta delle lettere e uno attaccato alla porta. Due chiacchiere dovevano interessarle ancora, sicuramente. LXI. Johanne aveva la strana sensazione che fosse già venerdì. Quando lasciò l'ufficio alle due, con la mezza scusa che andava in libreria, dovette ripetersi più volte che la settimana non aveva ancora superato il giorno di mercoledì 7 giugno. Da Norli aveva scovato un'edizione tascabile di La caduta dall'Eden, 14 novembre, l'ultimo dei sei romanzi di Asbjørn Revheim. Johanne pensava di averlo già letto. Dopo trenta pagine, però, capì che doveva ricordarsi male. Il libro era una specie di storia ambientata nel futuro e non era sicura che le piacesse davvero. Mancava poco al telegiornale. Accese il televisore. Laffen Sørnes era stato visto su una statale a nord-est di Oslo. A piedi. Le descrizioni di tre testimoni che non avevano niente a che fare l'uno con l'altro corrispondevano in ogni dettaglio, dagli abiti paramilitari al braccio ingessato. Prima che qualcuno riuscisse a fermarlo, il fuggitivo era sparito un'altra volta nella foresta. La polizia contava sull'aiuto di due cacciatori di orsi finlandesi. Tv2 aveva inviato elicotteri nella zona, mentre la Nrk per il momento si atteneva alle indicazioni della polizia, che esortava insistentemente a restare a terra. Però aveva mandato sul luogo cinque diverse troupe, che stavano lì senza in realtà avere molto da raccontare. Johanne rabbrividì mentre cambiava da un canale all'altro. Il telefono squillò. Fece in tempo ad abbassare il volume prima di sollevare la cornetta. La voce dall'altra parte del filo le era nuova. «Parlo con Johanne Vik?» «Sì...» «Mi spiace disturbarti di sera. Mi chiamo Unni Kongsbakken.» «Ah.» Johanne deglutì, spostando la cornetta dalla mano destra alla sinistra. «Hai parlato con mio marito lunedì, mi sbaglio?» «Sì, io...» «Astor è morto stamattina,» disse la voce. Johanne cercò di spegnere il televisore, e invece toccò il tasto del volume. Un giornalista gridò che Redaksjon 21 sarebbe stato interamente dedicato alla "Grande Caccia all'Uomo". Alla fine Johanne trovò il pulsante
giusto e tornò il silenzio. «Mi spiace,» balbettò. «Le mie con... condoglianze.» «Grazie,» rispose la voce. «Ti chiamo perché mi farebbe molto piacere incontrarti.» La voce di Unni Kongsbakken era sorprendentemente calma, considerato che era vedova soltanto da poche ore. «Incontrarmi... certo. Cosa... ovviamente.» «Mio marito era molto scosso per via delle tue domande. Ieri ha chiamato mio figlio dicendo che eri stata a trovarlo nel suo ufficio. Astor... be'. È morto stamattina presto.» «Mi spiace tantissimo se... cioè, non avevo nessuna intenzione di...» «Non è stata una morte drammatica. Non preoccuparti. Astor aveva novantadue anni e la sua salute era molto fragile.» «Sì. Però io...» Johanne non sapeva davvero cosa dire. «Anch'io sto invecchiando,» disse Unni Kongsbakken. «E domani torno a casa con mio marito. Lui voleva essere sepolto in Norvegia. Sarebbe gentile se tu trovassi un po' di tempo per una chiacchierata già domani. L'aereo atterra verso mezzogiorno. È possibile vedersi alle tre?» «Ma... posso aspettare! Fino a dopo il funerale, almeno.» «No. Questa storia ha aspettato già abbastanza. Per cortesia, signora Vik.» «Johanne,» mormorò Johanne. «Alle tre, allora. Al Grand, va bene? Lì di solito si sta in pace.» «Perfetto. Alle tre. Al Grand Café.» «A domani. Buona giornata.» L'anziana signora riattaccò prima che Johanne riuscisse a rispondere. Rimase seduta con la cornetta in mano, a lungo. Non era facile dire che cosa le rendesse il respiro veloce e leggero; il senso di colpa o la curiosità. "Cosa diavolo vuoi da me," pensò, affannandosi a rimettere giù la cornetta. "Cos'è che ha aspettato troppo a lungo?" Poi avvertì il rossore salirle alle guance. "Ho ucciso Astor Kongsbakken!" Yngvar Stubø era seduto da solo nel suo ufficio, intento a rileggere un'email per la seconda volta. La polizia di Tromsø non aveva cavato altro da May Berit Benonisen se non che un tempo aveva conosciuto Karsten Åsli, piuttosto superficialmente, come aveva già detto. La mail era breve e a-
sciutta. Il poliziotto evidentemente non aveva afferrato la serietà della richiesta di Yngvar. Aveva raccolto la dichiarazione della Benonisen per telefono. Tønnes Selbu non aveva mai sentito parlare di nessun Karsten Åsli. Grete Harborg era morta. Turid Sande Oksøy era introvabile. Quando Yngvar era finalmente riuscito a raggiungere la famiglia nel tardo pomeriggio, Turid era andata alla loro baita nel bosco. Senza telefono. Nel Telemark, aveva detto Lasse brusco e vago, pregando di essere lasciato in pace finché la polizia non avesse avuto qualcosa di concreto in mano. Sigmund Berli non aveva ancora scoperto niente sul figlio di Karsten Åsli. Yngvar aveva il sospetto che non stesse mettendo in quel lavoro tutto lo zelo necessario. Benché Sigmund fosse il più fidato dei suoi collaboratori, era come se anche lui gli stesse scivolando via. Dopo l'incidente tutto era cambiato. La perdita di Elisabeth e Trine era come un marchio; uno stigma che intimidiva la gente. In mensa, a pranzo, quando si sedeva gli si faceva il silenzio attorno. Erano dovuti passare molti mesi prima che qualcuno si permettesse di ridere in sua presenza. In un certo senso godeva ancora di rispetto, ma il suo intuito, prima ammirato e circondato da un'aura mitica, adesso era ridotto alla bizzarra velleità di un uomo provato e infelice. Yngvar non era infelice. Si accese un sigaro e si soffermò a riflettere su quello che provava. «Non sono infelice,» disse a mezza voce, espirando una nuvola di fumo nella stanza. Il sigaro era troppo secco, e lo spense irritato. Se l'indomani non avesse raccolto dati sufficienti su Karsten Åsli per ottenere un mandato di perquisizione entro l'orario d'ufficio, avrebbe valutato se andare da lui anche senza alcuna giustificazione legale. Emilie era lì. Ne era certo. Forse l'avrebbero licenziato. Ma poteva salvare la bambina. "Ancora un giorno scarso," pensò mentre lasciava l'ufficio. "È tutto quello che oso concedermi". LXII. Si riconobbero immediatamente. Era passata una vita da quando lo aveva salutato dal molo. Quando si era stretta nello scialle e aveva cominciato a spingere la bicicletta verso il fon-
do della banchina, mentre la Sandefjord mollava gli ormeggi, lui aveva cercato di seguirla con gli occhi. Il vento le agitava l'orlo della gonna. Era snella e aveva gli occhi azzurri. Adesso Eva era costretta a letto, da undici anni. Le sue braccia senza vita erano distese lungo il corpo. Quando Aksel entrò nella stanza, lei sollevò lentamente la mano destra e gliela tese. In una lettera gli aveva detto che era stato Dio nella sua bontà a permetterle di mantenere l'uso della mano destra. Così poteva continuare a scrivere lettere. Le gambe erano paralizzate. Il braccio sinistro inutilizzabile. «Aksel,» disse piano, con semplicità, come se lo stesse aspettando. «Il mio Aksel.» Lui avvicinò una sedia al letto. Poi le accarezzò con mano timida la testa rasata e cercò di sorridere. Le dita di lei erano fredde quando gli si posarono sulla guancia. Una volta erano calde; asciutte, giocose e calde. Eppure era la stessa mano; lui la riconobbe e si mise a piangere. «Aksel,» disse ancora Eva. «Sei venuto da me.» LXIII. Karsten Åsli dormiva male da lunedì. Di giorno riusciva ad autoconvincersi che non c'era motivo di preoccuparsi. D'altro canto Yngvar Stubø non era tornato. Tutto sembrava normale in paese. Lì nessuno aveva fatto domande. Era peggio quando si faceva notte. Anche se correva a lungo e con impegno ogni sera per stancare il corpo, restava sveglio a rimuginare fino all'alba. Quella mattina non si era presentato al lavoro per motivi di salute. Se ne era pentito. Gironzolare per casa era peggio. Non aveva niente da fare. Il piano per il 19 giugno era pronto. Non rimaneva che metterlo in pratica. Poteva ritinteggiare la parete ovest. Scendere in paese a prendere la vernice non era il caso, qualcuno della Saga avrebbe potuto vederlo. La cosa migliore era andare fino a Elverum. Se si fosse inaspettatamente imbattuto in qualcuno lì, poteva dire che era stato dal medico. Era davvero una buona idea. Quando si sedette in auto, si sentiva già più tranquillo. Laffen Sørnes trovò finalmente una macchina da rubare. Una Mazda
323, modello del 1987. Qualcuno l'aveva lasciata lungo un sentiero nel bosco, mezza dentro un fossato. Le portiere erano perfino aperte. Laffen sorrise. C'era benzina nel serbatoio. Il motore tossì un poco, ma alla fine si decise a mettersi in moto. Per fortuna fu facile tornare sulla strada. Qualche centinaio di metri più avanti nel bosco c'era un piccolo bivio, e non dovette far altro che girare. Era meglio andare in Svezia subito. C'erano elicotteri dappertutto. Laffen si era mosso a piedi, lentamente, riparato dagli alberi. In realtà avrebbe preferito spostarsi soltanto di notte, nelle ore più buie, ma non si era spinto abbastanza lontano e doveva spostarsi anche di giorno. L'avevano visto due volte, quando era stato così cretino da seguire la strada per un po'. Era così stanco, ed era più facile camminare sull'asfalto regolare. Allora si era immerso di nuovo nel bosco ed erano tornati gli elicotteri. Doveva evitare gli spazi aperti. A volte perdeva completamente l'orientamento e doveva riposarsi a lungo. Sarebbe stato più sicuro in macchina, ma era comunque importante allontanarsi il più possibile. La Svezia era a est. Finché brillava il sole, era facile sapere dove andare. C'era una cassetta degli Sputnik nell'autoradio. Laffen si mise a cantare. Di lì a poco si immise in una strada più grande. Si sentiva più calmo ora. Gli faceva bene stare al volante. L'ultima volta gli avevano rotto un braccio. Stavolta l'avrebbero sicuramente ammazzato. Sempre che non arrivasse prima in Svezia. E ci sarebbe arrivato. Non poteva essere tanto lontana. Un paio d'ore soltanto. Al massimo. L'ultima volta che era stato in Svezia, aveva mangiato la "Tentazione di Jansson", un gratin di patate e aringa, in un autogrill. Era una delle cose più buone che avesse mai assaggiato. Tra l'altro, lì le sigarette costavano poco. Meno che in Norvegia, almeno. Accelerò. Karsten Åsli stava attento a non andare troppo forte. Era importante non richiamare l'attenzione. Cinque o sei chilometri sopra il limite di velocità era la cosa migliore. La più normale. Rimpiangeva con tutto se stesso l'idea di quella gita. Bobben indubitabilmente l'aveva visto passare davanti alla stazione di servizio. Lo aveva salutato con calore, anche se Karsten aveva fatto finta di non averlo notato. Era molto improbabile che Bobben ne parlasse proprio a qualcuno della Saga, eppure Karsten non si sentiva a posto. Dopo il richiamo scritto per furto, non ci voleva molto altro perché lo licenziassero. Darsi malato per andare a Elverum a fare shopping non era esattamente
un'idea geniale. Certo, poteva usare la scusa della visita medica, ma era probabile che il capo facesse qualche indagine. Il suo capo era un grande stronzo e avrebbe fatto qualunque cosa pur di liberarsi di lui. Stava andando ai centodieci e Karsten Åsli imprecò piano mentre toglieva il piede dall'acceleratore e frenava. Forse la cosa migliore era fare inversione. «Il sospettato guida una Mazda scura 323,» disse forte e chiaro il pilota dell'elicottero, con una voce ricca di sfumature drammatiche. «Targa ancora sconosciuta. Lo seguiamo? Ripeto: lo seguiamo?» «A distanza,» crepitò una voce nelle cuffie. «Seguitelo a distanza. Sono partite tre auto.» «Ricevuto,» disse il pilota, passando sopra le cime degli alberi prima di alzarsi a settecento metri di altezza. Teneva lo sguardo incollato alla macchina. LXIV. Johanne sedeva al Grand Café già da un quarto d'ora. Era tesa, e cercava di non mangiarsi le unghie. Un dito aveva già cominciato a sanguinare. Alle tre precise l'anziana signora entrò nel locale. Sollevò la mano in segno di rifiuto al capocameriere e si guardò intorno. Johanne si alzò a metà e le fece un cenno di saluto. Unni Kongsbakken le andò incontro, robusta e abbondante. Indossava una giacca di maglia variopinta e la gonna le arrivava fino alle caviglie. Johanne non intravide che un paio di scarpe scure e solide mentre si avvicinava al tavolo. «Allora sei tu Johanne Vik. Buongiorno.» La sua mano era massiccia e asciutta. Si mise a sedere. Al primo colpo d'occhio sembrava impossibile che quella donna avesse più di ottant'anni. I suoi gesti erano decisi e le mani salde quando le appoggiò sul tavolo davanti a sé. Solo a uno sguardo più ravvicinato Johanne poté notare che i suoi occhi avevano preso la pallida opacità di chi è così vecchio da non sorprendersi più di nulla. «Grazie per aver accettato di vedermi,» disse Unni Kongsbakken tranquilla. «Ci mancherebbe altro,» rispose Johanne svuotando il suo bicchier d'acqua. «Vogliamo ordinare qualcosa da mangiare?»
«Solo un caffè per me, grazie. Sono un po' stanca, dopo il viaggio.» «Due caffè,» disse Johanne al cameriere sperando che non insistesse perché ordinassero qualcosa da mangiare. «Chi sei tu?» chiese Unni Kongsbakken. «Prima di darti la mia versione della storia, mi piacerebbe molto sapere chi sei e cosa fai. Astor e Geir sono stati un po'...» Fece un debole sorriso. «... imprecisi, direi.» «Dunque, mi chiamo Johanne Vik,» cominciò Johanne. «E faccio la ricercatrice.» Nell'ufficio di Yngvar Stubø il televisore era acceso. Sigmund Berli e una delle segretarie erano in piedi vicino alla porta e guardavano. Yngvar sedeva con le gambe allungate sulla scrivania e masticava un sigaro spento. Mancava molto alla fine della giornata lavorativa. Aveva bisogno di qualcosa da mettere sotto i denti. Qualcosa di ipocalorico. Sputacchiò qualche pezzetto di tabacco secco e si accorse di morire di fame. «Che americanata,» disse Sigmund scuotendo la testa. «Caccia all'uomo in diretta televisiva. Grottesco. Non possiamo fare niente per fermare tutto questo?» «Non più di quello che è già stato fatto,» rispose Yngvar. Aveva bisogno di mangiare qualcosa. Anche se era passata soltanto un'ora da quando aveva buttato giù due grossi panini al pomodoro e salame, sentiva i morsi della fame alla bocca dello stomaco. «Può finire in tragedia,» disse la segretaria indicando lo schermo televisivo. «Quel folle che guida all'impazzata, e con tutti quei giornalisti alle calcagna... Non può andare a finire bene!» Le immagini dall'elicottero su Tv2 mostravano che la Mazda aveva accelerato. Su una curva la parte posteriore aveva derapato in modo preoccupante e il giornalista parlava ormai in falsetto. «Laffen Sørnes ci ha scoperti,» gridò l'uomo, entusiasta. «Insieme a cinque auto della polizia e a due cacciatori di orsi,» mormorò Sigmund Berli. «Quel tipo dev'essere spaventato a morte.» La Mazda slittò di nuovo in curva. Il ciglio della strada era sdrucciolevole; pietre e fango schizzavano il lato sinistro della macchina. Per un istante sembrò che l'auto stesse uscendo di strada. Il conducente ci mise un secondo o due a riprenderne il controllo, poi accelerò ancora. «Se non altro sa guidare,» disse Yngvar secco. «Trovato qualcosa sul fi-
glio di Karsten Åsli?» Sigmund Berli non rispose. Fissava intensamente lo schermo. Aprì la bocca, ma non disse nulla. Era come se cercasse di articolare un ammonimento, ma al tempo stesso sapesse che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata inutile. «Santo cielo,» disse la segretaria. «Ma cosa...» Si sarebbe poi visto che Tv2 aveva raggiunto oltre settecentomila spettatori durante la diretta della caccia all'auto. Oltre settecentomila persone, quasi tutte al lavoro dato che erano le quindici e dodici, videro una Mazda 323 blu scuro, modello del 1987, sbandare in curva e finire addosso a una Opel Vectra che viaggiava in direzione opposta; anche quella blu scuro. La Mazda si spezzò quasi in due prima di ribaltarsi. Capottò sul tetto della Opel, che continuò a slittare in avanti. La Mazda era bloccata sulla Opel in un assurdo abbraccio metallico. Il guardrail lanciava scintille contro le portiere. Infine, l'auto fu sbattuta sull'altro lato della strada, sempre con la Mazda sul tetto. Un gran paracarro aprì il cofano della Opel in due. Settecentoquarantaduemila spettatori trattennero il fiato. Tutti aspettavano un'esplosione che non venne. L'unico rumore che fuoriusciva dalle casse del televisore era quello delle pale dell'elicottero, che sorvolava il luogo dell'incidente ad appena cinquanta metri d'altezza. Il fotografo zumò sull'uomo che fino a pochi secondi prima stava fuggendo dalla polizia su un'auto rubata. Laffen Sørnes giaceva mezzo fuori dal finestrino sfondato. Il suo viso era rivolto verso il cielo, la schiena sembrava spezzata. Il suo braccio, il braccio sinistro ingessato, si era staccato dalla spalla e giaceva, solitario, a diversi metri dai rottami sparsi dell'auto. «Maledizione,» urlò il giornalista. Poi l'audio sparì del tutto. «Accadde la sera prima dell'arringa finale,» disse Unni Kongsbakken versando ancora un goccio di latte nella tazza di caffè mezza vuota. «E devi tener presente che...» I capelli folti e grigi erano raccolti in un morbido chignon, tenuto insieme da bastoncini giapponesi laccati di nero. Le era caduto un ricciolo di lato. Con dita abili si rimise a posto i lunghi capelli. «Astor era seriamente convinto della colpevolezza di Aksel Seier,» proseguì. «Assolutamente convinto. Malgrado tutto, c'erano parecchi elementi
a suo sfavore. Inoltre era stato molto contraddittorio e poco propenso a collaborare fin dall'arresto. È facile dimenticarsene...» Si fermò a prendere fiato. Johanne notò che adesso Unni Kongsbakken era stanca, anche se avevano chiacchierato soltanto per un quarto d'ora. Le si era arrossato l'occhio destro, e Johanne ebbe per la prima volta l'impressione che esitasse. «... così tanti anni dopo,» sospirò l'anziana signora. «Astor era... convinto. Il modo in cui andarono le cose, in cui io... No, adesso sto facendo confusione.» Il suo sorriso era timido, quasi turbato. «Senti,» disse Johanne, chinandosi verso Unni Kongsbakken. «Io credo seriamente che questa conversazione dovrebbe aspettare. Possiamo vederci più avanti. La settimana prossima.» «No,» disse Unni Kongsbakken con inaspettata veemenza. «Sono vecchia. Non indifesa. Fammi continuare. Astor era nel suo studio. Dedicava sempre molto tempo alla preparazione delle arringhe. Non le scriveva mai per esteso. Solo le parole chiave, diciamo che impostava il discorso su delle schede. Molti credevano che improvvisasse...» Rise asciutta. «Astor non improvvisava mai nulla. E non era affatto piacevole disturbarlo mentre lavorava. Ma io ero stata in cantina, in lavanderia. In fondo, in un angolo, dietro le condutture, trovai alcuni vestiti di Asbjørn. Un maglione che gli avevo fatto io ai ferri, prima di... Non avevo ancora una carriera come designer di tappeti. Il maglione era insanguinato. Intriso di sangue. Io mi arrabbiai. Mi arrabbiai! Pensai ovviamente che ne avesse combinata un'altra delle sue, che avesse ucciso un animale. Bene. Salii a passo di marcia fino in camera sua. E non so cosa fu a farmi...» Era come se stesse cercando le parole; come se si fosse esercitata a lungo, senza tuttavia trovarne alcuna che potesse esprimere ciò che voleva dire. «Era una sensazione, niente di più. Mentre salivo le scale, mi venne in mente la sera in cui la piccola Hedvig era sparita. Cioè, pensai al giorno successivo alla sparizione. Più o meno verso l'alba, sì... Ovviamente non sapevamo di Hedvig, in quel momento. Si venne a sapere solo uno o due giorni dopo che la bambina era scomparsa.» Si portò le mani alle tempie, come se avesse mal di testa. «Mi ero svegliata alle cinque di mattina. Lo faccio spesso. Sono sempre stata così, tutta la vita. Ma quel mattino in particolare, che appunto poi si
sarebbe visto che era il giorno successivo all'uccisione di Hedvig, mi era sembrato di aver sentito qualcosa. Naturalmente mi ero spaventata, Asbjørn stava attraversando il suo periodo più maniacale e s'inventava cose di cui non avrei mai creduto capace un adolescente. Avevo sentito dei passi. La mia prima reazione era stata alzarmi per scoprire cosa fosse successo. Ma poi non ce l'avevo fatta. Mi sentivo esausta. Qualcosa mi aveva trattenuto. Non so cosa. Più tardi, a colazione, Asbjørn era calmo e silenzioso. Di solito non era così. Parlava ininterrottamente. Perfino quando scriveva, parlava. Chiacchierava e gesticolava. Di continuo. Pensava così tanto. Pensava troppo, lui...» Un sorriso timido le attraversò di nuovo il volto. «Basta,» si interruppe. «In ogni caso, quel mattino stava zitto. Mentre Geir, al contrario, era tutto contento. Io...» Socchiuse gli occhi e trattenne il respiro. Sembrava che stesse cercando di ricreare la scena, di vederseli davanti quella mattina, riuniti attorno a un tavolo a fare colazione, in una cittadina fuori Oslo, molto tempo prima; nel 1956. «Capii che doveva essere successo qualcosa,» disse Unni Kongsbakken lentamente. «Geir era quello tranquillo. Non diceva mai nulla la mattina, di norma. Stava lì seduto e basta, silenzioso... Rimaneva sempre nell'ombra di Asbjørn. Sempre. E del padre. Anche se Asbjørn era un ragazzo insolitamente impegnativo che nemmeno voleva portare il cognome del padre, era come se Astor... lo ammirasse, direi, davvero. Vedeva qualcosa di sé in lui, credo. La sua stessa forza. La testardaggine. Il desiderio di affermarsi. Era sempre stato così. Geir restava in qualche maniera... a parte; sempre. Quella mattina però era sereno e comunicativo e io compresi che qualcosa non andava. Ovviamente non pensai a Hedvig. Come ti dicevo non sapemmo nulla del destino della bambina se non più avanti. Ma qualcosa nel comportamento di mio figlio mi spaventò a tal punto che non osai fare domande. E quando più tardi, molte settimane dopo, la sera prima che Astor pronunciasse la sua arringa contro Aksel Seier per l'omicidio di Hedvig Gåsøy... mentre salivo le scale con il maglione insanguinato di Asbjørn tra le mani, arrabbiatissima, all'improvviso...» Ancora una volta intrecciò le dita. Alcune ciocche di capelli le ricadevano, pesanti e grigie, su una spalla. Le lacrimava l'occhio arrossato. Johanne non capiva se l'anziana signora stesse piangendo o se l'occhio fosse infiammato. «Mi colpì, come in una sorta di visione,» disse Unni Kongsbakken a fa-
tica. «Entrai nella stanza di Asbjørn. Era seduto a scrivere, come al solito. Quando gli sbattei addosso il maglione, si strinse nelle spalle e continuò a scrivere. Senza dire una parola. Hedvig, dissi io. È il sangue di Hedvig? Si strinse di nuovo nelle spalle e continuò a scrivere, a una velocità pazzesca. Pensai che sarei morta, lì e in quel preciso istante. Mi sentii svenire, e dovetti appoggiarmi alla parete per non cadere. Quel ragazzo mi era costato una serie infinita di notti insonni. Mi faceva sempre preoccupare. Ma non avevo mai, mai...» Batté la mano sulla tovaglia bianca, e Johanne trasalì. Le stoviglie tintinnarono e accorse il cameriere. «... mai pensato che sarebbe stato capace di fare una cosa simile,» concluse Unni Kongsbakken. «No, grazie,» disse Johanne al cameriere, che si ritirò perplesso. «Che cosa... lui che cosa ti disse?» «Niente.» «Niente?» «No.» «Ma... ammise...» «Non aveva nulla da ammettere, come sarebbe saltato fuori poco dopo.» «Adesso temo di non...» «Io me ne stavo lì, appoggiata alla parete, e Asbjørn non faceva che scrivere. Adesso come adesso non saprei dirti per quanto tempo restammo così, da soli. Forse per una mezz'ora. Fu come... come perdere tutto. Può darsi che gli abbia ripetuto la domanda. In ogni caso non rispose. Scriveva e scriveva, come se io fossi stata d'aria. Come se...» Ora stava piangendo davvero. Le scendevano lacrime da entrambi gli occhi e si mise a cercare un fazzoletto nella manica. «Poi entrò Geir. Non lo avevo sentito arrivare. All'improvviso era lì, accanto a me, a fissare il maglione che era caduto a terra. Cominciò a piangere. "Non volevo. Non era mia intenzione". Furono proprio queste le parole che usò. Aveva diciotto anni e piangeva come un bambino. Asbjørn saltò in piedi e si scagliò sul fratello. "Sta' zitto!" gli gridò, una volta, due, tre...» «Geir? Geir disse che non voleva, che lui...» «Sì,» rispose Unni Kongsbakken raddrizzando la schiena; si passò il fazzoletto sugli occhi prima di rimetterlo nella manica. «Ma non fece in tempo a dire molto di più. Asbjørn lo picchiò a sangue, letteralmente.» «Ma questo significa che... Non capisco fino in fondo cosa...» «Asbjørn era la persona più gentile che si possa immaginare,» disse Un-
ni Kongsbakken; era più tranquilla adesso, respirava bene e non piangeva più. «Asbjørn era un caro ragazzo. Tutto ciò che scrisse dopo, tutte quelle cose tremende, offensive... le blasfemie. Gli attacchi. Erano solo parole. Asbjørn scriveva e basta. In realtà era un uomo molto gentile. E voleva molto bene a suo fratello.» Un nodo alla gola, appena sotto la laringe, costrinse Johanne a cercare di deglutire. Era difficile. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualunque cosa; non aveva idea di che cosa. «Fu Geir a uccidere Hedvig,» disse Unni Kongsbakken. «Ne sono quasi certa.» Alla squadra di soccorso ci vollero oltre tre quarti d'ora per estrarre l'uomo dai rottami della Opel blu. Una gamba era amputata all'altezza della coscia. Del bulbo oculare sinistro non era rimasto nulla; dalla cavità oculare era uscito un grumo di sangue, che pendeva insensato sulla guancia. Il volante dell'auto era schizzato cento metri più in là, ai piedi di un abete; il piantone del volante si era conficcato in profondità nello stomaco dell'uomo. «È vivo,» ansimò un soccorritore. «Perdio! Quest'uomo è vivo!» Un'ora scarsa più tardi il conducente della Opel blu era sul tavolo operatorio. Le prospettive non erano molto rosee, ma c'era ancora vita in lui. Laffen Sørnes, invece, fissava ancora ciecamente il cielo, il corpo mezzo fuori dal finestrino di una Mazda 323 rubata. Un poliziotto inesperto, chino su un ruscelletto, piangeva apertamente. Sul luogo dell'incidente ronzavano ancora tre elicotteri, solo uno era della polizia. Tv2 stava per stabilire il record di telespettatori di un programma pomeridiano. Fuori dai finestroni del Grand Café la gente andava e veniva. Alcuni avevano fretta. Altri bighellonavano, forse senza meta; avevano tutto il tempo del mondo e Johanne li seguiva con lo sguardo. Stava cercando di raccogliere le idee. Unni Kongsbakken si era alzata chiedendo scusa e aveva lasciato il tavolo, senza dire dove andava. La borsa, una grossa borsa di pelle marrone con le rifiniture in metallo, era rimasta lì. Probabilmente era solo andata in bagno. Johanne si sentiva esausta. Cercò di ricordarsi com'era Geir Kongsbakken. Il volto le sfuggiva; anche se era passato meno di un giorno da quando lo aveva visto, non riusci-
va a ricordare altro se non che aveva un aspetto noioso. Robusto e pesante, come entrambi i genitori. Ricordava l'odore di cera per mobili e il legno scuro. Aveva davanti agli occhi il suo completo neutro. Per contro, il volto dell'avvocato era solo un profilo vago nella memoria. Unni Kongsbakken tornò. Senza una parola si rimise a sedere. «Cosa intendi con "Ne sono quasi certa"?» chiese Johanne. «Come?» «Hai detto... hai detto di essere quasi certa che... che Geir abbia ucciso Hedvig. Perché solo quasi certa?» «Non posso saperlo,» rispose Unni Kongsbakken asciutta. «Non in senso giuridico, almeno. Lui non ha mai ammesso nulla.» «Ma...» «Lasciami continuare.» Sollevò la tazza. Era vuota. Johanne fece un cenno perché le venisse riempita. Il cameriere cominciava a irritarsi; non portò il latte, non prima che Unni Kongsbakken glielo avesse chiesto una seconda volta. «Allora, Geir aveva perso i sensi,» disse alla fine. «E Asbjørn era muto come un pesce. Bastarono pochi minuti a Geir per tornare in sé. E mantenne lo stesso silenzio di suo fratello. Andai a chiamare Astor. Come ti ho detto, stava lavorando in studio, era piuttosto tardi.» Di nuovo assunse quello sguardo assente, come se stesse cercando di tornare indietro nel tempo. «Astor andò su tutte le furie. Innanzitutto per il disturbo, ovviamente. Poi per quello che avevo da dirgli. Erano tutte assurdità, gridò. Scemenze. Baggianate, mi urlò contro. Ordinò ai ragazzi di sedersi sul divano e li bombardò di domande. Nessuno dei due disse una parola. Loro... semplicemente non risposero. A nessuna domanda. Per me quella era già una risposta valida. Anche se Asbjørn era un ribelle, aveva sempre mostrato un certo rispetto per suo padre. Non lo avevo mai visto così. Guardava il padre dritto negli occhi, con impudenza, e non rispondeva. Geir teneva gli occhi bassi. Muto anche lui, perfino quando Astor gli diede una sberla che riecheggiò. Alla fine Astor si arrese. Li mandò a letto. Era mezzanotte passata. Quando mi si sdraiò accanto nel buio tremava. Gli dissi quello che pensavo. Che Geir aveva ucciso Hedvig e che aveva chiamato Asbjørn in aiuto per liberarsi del... cadavere. Avevamo soltanto un telefono ed era subito fuori dalla stanza di Asbjørn. Geir poteva averlo chiamato, di notte, senza che noi lo sentissimo. Questo dissi io. Astor non rispose, piangeva in silenzio e basta. Non avevo mai visto piangere mio marito. Alla fine disse
che mi sbagliavo. Che non era possibile. Aksel Seier aveva ucciso Hedvig, era così e basta. Mi girò la schiena e non disse più nulla. Io non mi diedi per vinta. Ripassai tutto dall'inizio. Il maglione insanguinato. Il comportamento anomalo dei ragazzi. La sera in cui Hedvig era sparita, Geir era a Oslo a una riunione dei giovani del Partito laburista. Asbjørn era a casa. Verso mattina avevo sentito... ma questo te l'ho già raccontato. Scusami. Mi ripeto. In ogni caso, Astor non ne voleva sapere. Quando finalmente si fece giorno, si alzò. Si fece la doccia, si vestì, andò al lavoro. In base a quanto lessi sui giornali fece un'arringa infervorata. Quando arrivò a casa, cenammo in silenzio. Tutti e quattro.» Unni Kongsbakken diede un colpetto sul tavolo con il palmo della mano, come volesse mettere un punto. «Non so proprio cosa dire dopo tutto questo,» disse Johanne. «A ben vedere, non c'è bisogno che tu dica niente.» «Ma Anders Mohaug, fu lui che...» «Anche Anders era cambiato. Non ci feci caso all'inizio, era sempre stato strano. Ma poi, dopo quella sera, mi accorsi che era diventato più silenzioso. Camminava a testa bassa. Era più ansioso, in qualche modo. Non era difficile pensare che probabilmente Asbjørn se l'era portato dietro. Era un ragazzone grande e grosso, sai. Forte. In un'occasione tentai di parlare con la signora Mohaug. Era come un animale spaventato. Non voleva parlare.» Unni Kongsbakken aveva di nuovo gli occhi umidi. Le lacrime seguivano una linea lungo la radice del naso. Si leccò appena il labbro superiore. «Sicuramente credeva che Anders avesse commesso da solo il delitto,» fece piano. «Avrei dovuto insistere di più. Avrei dovuto... La signora Mohaug non fu più la stessa dopo quell'inverno.» «Quando Anders morì,» cominciò Johanne. Venne nuovamente interrotta: «Io e Astor non parlammo mai più di Hedvig dopo quella notte fatale. Fu come se tutta quella tremenda giornata fosse stata archiviata in un cassetto della vita, chiusa a chiave, dimenticata per sempre; io... col passare del tempo, fu come se fosse tutto scomparso. Geir divenne avvocato, come suo padre. Cercava di assomigliare ad Astor in tutto ciò che faceva, senza mai riuscirci. Asbjørn aveva cominciato a scrivere quei suoi libri. Come dire, c'erano tante altre cose di cui preoccuparsi.» Sospirò profondamente. Le tremava la voce ma si riprese: «Un giorno, doveva essere estate, nel 1965, Astor rientrò dall'ufficio...
Sì, era diventato consulente ministeriale a quell'epoca.» «Ne sono al corrente.» «Un suo buon amico, il responsabile di dipartimento Einar Danielsberg, era andato a trovarlo. Gli aveva fatto delle domande sul caso Hedvig e su Aksel Seier. Erano venuti fuori dei nuovi elementi che sembravano indicare che...» Si prese il viso tra le mani. All'anulare destro la fede, sottile e consumata, era bloccata. Quasi sparita in una piega della pelle. «Astor si limitò a dire che era tutto sotto controllo,» riprese a bassa voce. «Che non avevo niente da temere.» «Non avevi niente da temere?» «Disse solo questo. Non so cosa fosse successo.» All'improvviso mostrò di nuovo il volto. «Astor era una persona onesta. L'uomo più sincero che abbia mai conosciuto. Eppure permise che un uomo innocente andasse in prigione. Questo mi disse molto, mi insegnò che...» Fece un respiro profondo, quasi uno sbadiglio. «Facciamo di tutto per ciò che è nostro. Siamo fatti così, noi esseri umani. Salvaguardiamo ciò che è nostro.» Poi si alzò, una signora molto anziana, lenta e pesante. I capelli le erano scappati completamente dai bastoncini giapponesi. Aveva gli occhi gonfi. «Come puoi capire, non ho mai potuto dimostrare nulla.» Era come se la sua borsa si fosse appesantita nel corso del pomeriggio. Cercò di appendersela alla spalla, ma continuava a scivolarle. Alla fine l'afferrò con entrambe le mani e cercò di raddrizzare la schiena. «Questa per molto tempo è stata una consolazione. In fondo non potevo sapere nulla di sicuro. I ragazzi non volevano parlare. Il maglione era stato bruciato, se n'era occupato Astor. Quando Asbjørn morì, lessi i suoi libri per la prima volta. In La caduta dall'Eden, 14 novembre, trovai finalmente la certezza.» "Capisco che tu abbia voluto proteggere tuo marito," pensò Johanne, cercando delle parole che non fossero offensive. "Ma adesso stai tradendo tuo figlio. Lo stai consegnando. Dopo tutti questi anni, tuo figlio. Perché?" «Geir ha avuto oltre quarant'anni di libertà,» disse Unni Kongsbakken con voce piatta. «Ha avuto quarant'anni che non gli appartenevano. Credo che abbia... suppongo che non abbia commesso altri crimini.» Il suo sorriso era pieno di vergogna, come se non fosse completamente convinta di ciò che aveva affermato.
«Non potevo dirlo prima. Astor non... Astor non sarebbe sopravvissuto a una cosa simile. Bastava Asbjørn. Con tutti quei libri tremendi, tutto quel chiasso, il suicidio.» Sospirò debolmente. «Grazie per aver dedicato del tempo ad ascoltarmi. Giudicherai tu cosa fare di ciò che hai saputo. Io ho fatto la mia parte. Troppo tardi, d'accordo, ma comunque... Cosa accadrà a Geir, lo decidi tu. È probabile che tu non possa fare granché. Lui naturalmente negherà tutto. E dato che non si può dimostrare nulla... Ma forse questo può aiutare quel... Aksel Seier. Sapere cosa è successo, voglio dire. Addio.» Quando Johanne vide quella schiena curva uscire dalle imponenti porte del Grand Café, si accorse stupita che anche i colori della giacca sembravano essersi sbiaditi. La vecchia signora riusciva a stento a sollevare i piedi. Attraverso i vetri, vide che qualcuno la stava aiutando a salire in taxi. Mentre si chiudeva la portiera, dalla borsa le cadde una spazzola; Johanne rimase seduta con lo sguardo fisso fino a molto dopo che l'auto che trasportava Unni Kongsbakken fu sparita dalla sua vista. La spazzola era piena di capelli morti. Johanne rimase sorpresa da quanto erano chiari, anche a quella distanza. Erano grigi e le ricordavano Aksel Seier. LXV. Yngvar Stubø era seduto nel suo ufficio, da solo, e si sforzava di scacciare una indelicata sensazione di sollievo. Laffen Sørnes era morto com'era vissuto, in fuga da una società che lo disprezzava. Era tragico. Eppure Yngvar non riusciva a evitare un senso di soddisfazione. Una volta fuori gioco Laffen Sørnes, forse era possibile che molte più persone si concentrassero sul vero peccatore, sulla vera caccia. Il solo pensiero gli rendeva più leggero il respiro. Si sentiva più forte, più energico che negli ultimi giorni. Aveva spento il televisore già da un po'. Era davvero offensivo vedere come i giornalisti ronzassero a destra e a manca quasi assetati di sangue senza pensare alla serietà della tragedia che si era appena consumata in diretta Tv. Rabbrividì e si mise a riordinare alcuni documenti. Sigmund Berli irruppe nella stanza. Yngvar alzò gli occhi e aggrottò le sopracciglia. «Che entrata tremenda,» disse schietto, battendo l'indice sul tavolo e ac-
cennando alla porta. «Ma ce le siamo completamente scordate le buone maniere?» «Collisione,» ansimò Sigmund Berli. «Laffen Sørnes è morto, come devi aver sentito. Ma l'altro...» Aveva il respiro affannoso, e teneva i palmi delle mani sulle ginocchia. «L'altro... l'uomo sull'altra macchina...» «Siediti, Sigmund.» Yngvar gli indicò la sedia per gli ospiti. «Merda, l'altro era... era... Karsten Åsli!» Per Yngvar fu come se il cervello gli fosse andato in corto circuito. Silenzio intorno. Cercò di mettere a fuoco, ma gli occhi gli si erano bloccati sul petto di Sigmund. Aveva la cravatta infilata tra due bottoni della camicia. Era troppo rossa, con degli uccelli disegnati sopra. Dall'apertura sul petto fuoriusciva la coda di un'oca gialla. Yngvar non sapeva nemmeno se stava ancora respirando. «Hai sentito quello che ho detto?» gridò Sigmund. «Era Karsten Åsli quello che ha fatto il frontale con Laffen! Se hai ragione, significa che Emilie...» «Emilie,» ripeté Yngvar, con voce rotta; cercò di tossire. «Karsten Åsli sta per schiattare, anche lui! Come facciamo a trovare Emilie se hai ragione tu, Yngvar? Se Karsten Åsli l'ha nascosta e decide che è arrivato il momento di uscire di scena?» Yngvar si alzò lentamente dalla sedia. Doveva tenersi al bordo del tavolo per reggersi in piedi. Doveva pensare. Doveva mettere a fuoco. «Sigmund,» disse, a voce più alta adesso. «Vai all'ospedale, fai tutto ciò che puoi per far parlare quell'uomo. Se è possibile.» «Ma se è incosciente, stupido!» Yngvar si raddrizzò. «Questo lo so,» disse piano. «Ecco perché devi essere lì. Nel caso si svegliasse.» «E tu? Cosa fai tu intanto?» «Io vado a Snaubu.» «Ma non hai niente contro di lui più di quello che avevi ieri, Yngvar! Anche se Karsten Åsli è gravemente ferito, non puoi mica irrompere in una proprietà privata senza un mandato!» Yngvar si mise la giacca e guardò l'ora. «Me ne sbatto,» fece tranquillo. «In questo momento non me ne frega assolutamente niente.»
LXVI. Aksel Seier era stupito da quanto si sentisse a casa nella cameretta in cui viveva Eva. Le pareti erano di un giallo caldo e, anche se il letto era di metallo e sulle lenzuola c'era scritto "Comune di Oslo", era comunque la stanza di Eva. Aveva riconosciuto un paio di cose dell'appartamento in Brugata, dove gli aveva pulito la ferita alla nuca con la tintura di iodio, una sera nel 1965. L'angelo di porcellana ad ali spiegate, azzurro con dei rimasugli di vernice dorata, gliel'avevano regalato per la cresima. Se n'era ricordato non appena aveva passato le dita su quella figurina fredda. Il quadro dell'isola Hovedøya al tramonto glielo aveva dato lui. Adesso era appeso sopra il letto, i colori sbiaditi rispetto a quando aveva sbattuto quindici corone sul tavolo di un rigattiere per portarselo a casa, avvolto in un pezzo di carta da pacchi e legato con lo spago. Anche Eva era sbiadita. Ma era ancora la sua Eva. La sua mano era vecchia e rovinata dalla malattia. Il viso sembrava consumato, l'espressione si era fissata in una costante smorfia di dolore che non l'abbandonava mai. Il corpo era soltanto un involucro immobile intorno alla donna che Aksel Seier amava ancora. Lui non disse molto. Eva impiegò parecchio tempo a raccontare tutta la storia. Di quando in quando aveva bisogno di riposarsi. Aksel taceva e ascoltava. Si sentiva a casa in quella stanza. «È cambiato così tanto,» disse Eva piano. «È andato tutto storto. Non aveva i soldi per proseguire con la causa. Se avesse usato quel che restava dell'eredità della mamma, non avrebbe avuto un posto dove stare. E comunque non avrebbe avuto nessuna possibilità. Ne è uscito distrutto, Aksel. Negli ultimi mesi non mi è nemmeno mai venuto a trovare.» Tutto sarebbe andato a posto, pensava Aksel. Aveva tirato fuori le carte di credito. Platino, le spiegò tenendole quel lucido pezzetto di plastica davanti agli occhi. Erano carte che davano solo ai ricchi. Lui era ricco. Ci avrebbe pensato lui. Si sarebbe sistemato tutto di sicuro, ora che Aksel era finalmente tornato. «Sarei potuto tornare prima.» Lei non glielo aveva chiesto. Lui, Aksel, lo sapeva; impossibile tornare in Norvegia prima che fosse Eva a volerlo. Anche se effettivamente non lo
aveva invitato, c'era una richiesta di aiuto in ciò che gli aveva scritto. La lettera era arrivata a maggio, non a luglio come al solito. Era una lettera disperata e lui le aveva risposto lasciando tutto per tornare a casa. Aksel bevve un sorso di succo di frutta da un grosso bicchiere posato sul comodino. Sapeva di fresco. Sapeva di Norvegia; acqua e sciroppo di ribes nero. Naturale. Norvegese. Si asciugò la bocca e sorrise. Aksel udì qualcosa e si voltò appena. Lo spavento gli percorse il corpo. Lasciò la mano di Eva e strinse i pugni senza rendersene conto. Il poliziotto con le chiavi e gli occhi umidi, quello che voleva far confessare ad Aksel qualcosa che non aveva fatto e che da allora lo aveva perseguitato in sogno, aveva cambiato uniforme. Più vecchia maniera, forse. Quest'uomo portava una giacca ampia e aveva una fascia orizzontale a scacchi sulle gambe dei pantaloni. Però era un poliziotto. Aksel lo comprese immediatamente e guardò fuori della finestra. La stanza di Eva era al primo piano. «Eva Åsli?» chiese l'uomo avvicinandosi. Eva sussurrò una conferma. L'uomo tossì e si fece ancora più vicino al letto. Aksel colse l'odore di cuoio e olio per auto che emanavano i suoi abiti. «Mi spiace doverla informare che suo figlio è stato coinvolto in un grave incidente. Karsten Åsli. È suo figlio, giusto?» Aksel si alzò e raddrizzò la schiena. «Karsten Åsli è nostro figlio,» disse lentamente. «Di Eva e mio.» LXVII. Johanne si trascinava lungo la via senza sapere dove andare. Un vento rabbioso spazzava le strade intorno all'alto palazzo dell'Ibsenkvartalet. Registrò debolmente che si stava dirigendo al lavoro. Non ci voleva andare. Anche se era mezza congelata, voleva star fuori. Accelerò il passo e decise a metà strada di andare a trovare Isak e Kristiane. Potevano fare un giro a Bygdøy, tutti e tre. Johanne ne aveva bisogno adesso. Dopo quasi quattro anni di affidamento congiunto, aveva finito per adattarsi a quell'accordo. Quando sua figlia le mancava troppo, poteva tranquillamente andare a trovarla da Isak. A lui faceva piacere ed era sempre gentile. Johanne si era abituata alla situazione. Ma esserci abituata non significava che le piacesse. Sentiva sempre l'esigenza fisica di abbracciare la bambina, di stringerla a sé, di farla ridere. A volte quella sensazione era insopportabilmente forte, come in quel momento. Altre volte, la aiutava pensare che Kristiane stava
bene con suo padre. Che lui era importante tanto quanto lei per la figlia. Che doveva essere così e basta. Che Kristiane non era di sua proprietà. Le lacrimava un occhio. Doveva essere il vento. Potevano trovare qualcosa di carino da fare, tutti e tre insieme. Unni Kongsbakken le era sembrata così forte quando era entrata al Grand Café, e così stanca e spossata quando ne era uscita. Il figlio minore era morto da molto tempo. Il giorno prima aveva perso il marito. Oggi in un certo senso aveva ceduto l'ultima cosa che le restava: una storia non detta e il figlio maggiore. Johanne si mise le mani in tasca e decise di andare da Isak. Il cellulare squillò. Doveva essere qualcuno dall'ufficio. Era dal giorno prima che non si faceva vedere. A dire il vero aveva chiamato in mattinata per dire che avrebbe lavorato a casa, ma non aveva nemmeno controllato la posta per vedere se c'erano delle mail. Non voleva parlare con nessuno. In quel preciso momento voleva soltanto stare da sola con la verità sull'uccisione della piccola Hedvig nel 1956. Aveva bisogno di digerire la certezza definitiva che Aksel Seier aveva scontato la pena per un altro. Non sapeva che cosa avrebbe dovuto fare, con chi avrebbe dovuto parlare. Adesso non sapeva nemmeno se aveva voglia di andare da Alvhild a raccontarle quanto aveva appreso. Il telefono rimase nella borsa. Smise di suonare. Poi riprese. Irritata, Johanne si mise a frugare nella borsa. Sul display lesse NUMERO SCONOSCIUTO. Premette il tasto verde e avvicinò il ricevitore all'orecchio. «Finalmente,» disse Yngvar sollevato. «Dove sei?» Johanne si guardò attorno. «In Rosenkrantzgate,» rispose. «O meglio in C. J. Hambros Plass. Giusto davanti al Palazzo di giustizia.» «Resta lì. Non ti muovere. Sono a tre minuti da te.» «Ma...» Aveva già riattaccato. Il poliziotto sembrava a disagio. Fissava il foglio che aveva in mano, sebbene fosse evidente che nulla di quel che c'era scritto poteva migliorare la situazione. La donna nel letto piangeva in silenzio e non aveva domande da fare.
Aksel Seier sarebbe rimasto in Norvegia. Più tardi si sarebbe sposato con Eva. Una cerimonia tranquilla, senza invitati né regali tranne un bouquet di fiori da parte di Johanne Vik. Ma non lo sapeva ancora, mentre era lì, nella stanza giallo caldo della sua futura sposa, coi pugni stretti lungo i fianchi, i capelli corti e addosso un paio di pantaloni da golf a scacchi rosa e turchesi. Anche se non sarebbe mai stato formalmente scagionato dalle accuse che lo avevano mandato in prigione, con il tempo avrebbe raddrizzato la schiena, forte della certezza di sapere cos'era successo davvero. Un giornalista dell'"Aftenposten" avrebbe scritto un articolo sul filo della diffamazione; anche se il nome di Geir Kongsbakken non veniva fatto esplicitamente, di lì a poco l'avvocato sessantaduenne avrebbe deciso che conveniva chiudere il suo piccolo studio di consulenza in Øvre Slottsgate. In conseguenza dell'articolo e di una richiesta firmata da Johanne Vik, Aksel Seier avrebbe ricevuto un risarcimento in denaro da parte del Parlamento e lo avrebbe considerato pari a un'assoluzione. Avrebbe incorniciato la lettera di accompagnamento, che sarebbe rimasta appesa sopra il letto di Eva fino alla sua morte, quattordici mesi dopo il matrimonio. Aksel Seier non avrebbe mai incontrato l'uomo per cui aveva scontato la pena, né avrebbe mai sentito il bisogno di farlo. Ma Aksel Seier non sapeva nulla di tutto ciò mentre cercava le parole per rispondere alle domande dell'uomo con le fasce a scacchi intorno alle gambe. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era un giorno di luglio del 1969. Si era trasferito da Boston a Cape Cod, faceva bel tempo. Tornava a casa dopo il mare. La bandiera sulla cassetta delle lettere era alzata. La lettera di Eva, la lettera di luglio, era arrivata. Così come era arrivata anche l'estate prima, e l'estate prima ancora. Ogni Natale, ogni estate. Dal 1966, quando Aksel era partito dalla Norvegia senza sapere che cinque mesi dopo Eva avrebbe partorito suo figlio; il bambino di Aksel Seier. Solo nel 1969 lei gli aveva detto di Karsten. Aksel Seier era seduto su una pietra rossa in spiaggia e avevano cominciato a tremargli le mani, quando aveva saputo di avere un figlio di quasi tre anni. Non gli era stato permesso di tornare a casa. Eva viveva con sua madre in una cittadina fuori Oslo, e niente doveva cambiare. Sua madre l'avrebbe uccisa, gli aveva scritto. Sua madre le avrebbe tolto il bambino se Aksel fosse tornato. Non poteva tornare, disse Eva, e Aksel vedeva che aveva pianto. Le sue lacrime avevano macchiato il foglio; chiazze asciutte di inchiostro sbavato che rendevano quasi illeggibili le parole.
Aksel Seier non aveva mai capito perché Eva avesse aspettato così tanto. Non riusciva nemmeno a chiederglielo. Neanche adesso; armeggiava con la riga dei pantaloni senza sapere cosa dire. «Ah,» fece il poliziotto scettico, esaminando ancora una volta il foglio. «Qua non dice nulla del padre...» Poi scrollò le spalle. «Ma se...» Lo sguardo che indirizzò alla donna nel letto era pieno di dubbi, come se pensasse che Aksel Seier stesse mentendo. Eva Åsli praticamente non poteva protestare contro quella dichiarazione di paternità. Piangeva soltanto, in un silenzio sgradevole, e il poliziotto si domandava se fosse il caso di chiamare un medico. «Portami da Karsten,» disse Aksel Seier sfregandosi la testa. Il poliziotto scrollò nuovamente le spalle. «D'accordo,» mormorò, e guardò di nuovo Eva. «Se per te va bene, allora...» Gli sembrò di notare un vago cenno di risposta. Forse aveva annuito. «Vieni,» disse ad Aksel. «Ti porto in macchina. Ci conviene sbrigarci.» «Dobbiamo sbrigarci,» disse Yngvar scocciato. «Dannazione se dobbiamo sbrigarci! Lo capisci o no?» Johanne gli aveva chiesto tre volte di rallentare. Yngvar aveva risposto ogni volta accelerando ancora di più. L'ultima aveva sbattuto la luce azzurra sul tetto, facendola passare dal finestrino mentre prendeva una curva a tutta velocità. Johanne chiuse gli occhi sperando in bene. Avevano scambiato a malapena due parole da quando lui le aveva spiegato brevemente dove andavano, e perché. Per più di un'ora aveva guidato come un pazzo, in silenzio. Ormai dovevano esserci quasi. Johanne notò una stazione di servizio dove un uomo grassoccio con i capelli rosso fuoco stava tirando un'incerata sopra una catasta di legna. Alzò la mano in un automatico segno di saluto mentre loro derapavano in curva. «Ma dove cavolo era quel bivio?» Yngvar stava praticamente urlando e frenò di colpo quando riconobbe una strada non segnalata che risaliva la collina. «Prima a destra e poi due volte a sinistra,» ricordò a memoria e ripeté: «Una a destra, due a sinistra. Una a destra. Due a sinistra.» Snaubu si stendeva su un colle in tutta la sua bellezza: vista sulla valle,
sole e tranquillità. La casa da lontano sembrava abbandonata. Avvicinandosi, Johanne notò che una parete era stata palmellata e ridipinta di recente. Delle fondamenta lasciate a metà forse sarebbero diventate un garage. O un ripostiglio. Quando l'auto si fermò, sentì le pulsazioni rimbombarle nei timpani. Il vento era ancora tagliente lassù, e quando scese dalla macchina Johanne rimase senza fiato. «Credi davvero che sia qui?» disse, e rabbrividì. «Non lo credo,» rispose Yngvar correndo verso la casa. «Lo so.» Aksel Seier sedeva sul bordo di una sedia d'acciaio con le mani in grembo. Karsten Åsli era incosciente. Erano riusciti a fermare le emorragie interne. Un medico aveva spiegato ad Aksel che erano necessarie diverse altre operazioni, ma bisognava aspettare che il paziente fosse più stabile. Negli occhi del medico Aksel lesse che c'erano poche possibilità. Karsten sarebbe morto. Il respiratore ansimava pesante e meccanico. Aksel si concentrò per evitare di respirare allo stesso ritmo del mantice; gli dava la nausea. Karsten assomigliava a Eva. Perfino con i tubi nel naso, in bocca, dappertutto e con la testa fasciata; Aksel lo vedeva bene. Gli stessi tratti, la bocca e gli occhi grandi, senz'altro azzurri sotto le palpebre distrutte e gonfie. Aksel accarezzò la mano di suo figlio con un dito. Era gelida. «Sono io,» sussurrò. «Your Dad is here28 .» Il corpo di Karsten fu percorso da un brivido. Poi tornò a giacere immobile, in una stanza dove gli unici suoni provenivano da un respiratore che sibilava e dai bip rossi di un monitor cardiaco sopra la testa di Karsten. «Non è qui. Dobbiamo ammetterlo e basta.» Johanne cercò di appoggiargli la mano sul braccio. Yngvar si divincolò e si precipitò verso la scala della cantina. Ci erano già stati tre volte. Anche in soffitta. Avevano rovistato in ogni angolo e in ogni armadio della casa. Yngvar aveva addirittura smontato un letto matrimoniale per controllarne tutti gli interstizi. Aveva anche perquisito i mobili della cucina; svariate volte, aveva inutilmente aperto perfino la lavatrice. «Ancora una volta,» pregò disperato, avventandosi giù per la scala della cantina senza attendere risposta. Johanne rimase in sala. Yngvar si era introdotto in quella casa senza 28
Papà è qui.
permesso. Si erano introdotti in quella casa, nella proprietà di un'altra persona, senza un mandato legale. Diritto di necessità, aveva mormorato lui, riuscendo finalmente ad aprire la porta d'ingresso. Scemenze, aveva risposto lei seguendolo all'interno. Ma Emilie non c'era. Adesso che poteva fermarsi a pensare, Johanne si rese conto di colpo che tutta quella storia era una pazzia. Yngvar sentiva qualcosa. Sentiva che Emilie era stata fatta prigioniera e tenuta nascosta in quella specie di fattoria, da un uomo che non aveva mai commesso un'infrazione e senza che niente portasse a lui, se non un più o meno casuale rapporto di conoscenza con alcuni famigliari delle vittime. Yngvar lo sentiva, e su quella base ora lei era persona non invitata in un salotto estraneo e nudo in un rustico su per le colline, lontano dalla civiltà. «Johanne!» Non voleva scendere un'altra volta. La cantina era umida e tutta impolverata. Già faceva fatica a respirare, e tossì. «Sì» gli urlò di rimando, senza avvicinarsi ulteriormente alla scala. «Cosa c'è?» «Vieni qui! Lo senti questo rumore?» «Che rumore?» mormorò lei irritata. «Vieni qui!» Controvoglia, scese la ripida scala. Aveva ragione. Entrambi fermi e zitti sul cemento grezzo, udirono un lieve sospiro. Un suono meccanico, piatto e regolare. «Tipo il mio computer,» sussurrò Johanne. «Oppure... un condizionatore d'aria. Può essere un...» Yngvar cominciò a battere le mani contro la parete. In vari punti cadde l'intonaco. Un grande armadio senza porte era appoggiato alla parete corta, rivolta verso quello che Johanne credeva fosse l'est. Yngvar cercò di guardarvi dietro. Si accovacciò ed esaminò il pavimento. «Aiutami,» disse, cercando di smuovere l'enorme guardaroba. «Ci sono dei segni sul pavimento. Questo armadio è stato spostato diverse volte.» Non ebbe bisogno del suo aiuto. L'armadio scivolò via facilmente dalla parete. Nascondeva un pannello mobile che arrivava oltre i fianchi, evidentemente nuovo, con dei cardini lucidi e senza lucchetto. Yngvar lo aprì. Dietro c'era un angusto passaggio in discesa, sufficiente a stento per un uomo adulto. Yngvar si mise a strisciare carponi, Johanne lo seguì piegata a novanta gradi. Due o tre metri sotto terra si apriva una piccola stanza, alta abbastanza per poterci stare in piedi tutti e due, con le pareti di cemento.
Il neon sul soffitto irradiava una luce violenta. Nessuno dei due disse nulla. Il rumore del condizionatore si distingueva meglio, adesso. Fissarono entrambi la porta nella parete; una pesante, lucida porta d'acciaio. Yngvar prese un fazzoletto nella tasca della giacca e ci avvolse cauto la maniglia. Poi l'apri, lentamente. I cardini erano ben oliati, non facevano rumore. Un odore acre di essere umano sporco fece rivoltare lo stomaco a Johanne. La luce era intensa anche al di là della porta. La stanza era forse di dieci metri quadrati, con un lavabo, un water e uno stretto letto di pino. C'era un bambino nel letto. Il bambino era nudo. Non si muoveva. Sul pavimento c'era una pila di vestiti ben piegati e in fondo al letto una trapunta sudicia senza copripiumino. Johanne entrò nella stanza. «Attenta,» la avvertì Yngvar. Aveva notato che la porta non aveva maniglia all'interno. C'era un gancio per fissarla alla parete, ma per sicurezza rimase a tenerla aperta. «Emilie,» disse Johanne a bassa voce, accoccolandosi davanti al letto. Era una bambina, e aprì gli occhi. Erano verdi. Batté le palpebre un paio di volte, senza riuscire a mettere a fuoco lo sguardo. Sul petto scavato c'era una Barbie, a gambe aperte e con un cappello da cowboy calcato storto sulla fronte. Johanne appoggiò cautamente una mano sulla bambina e disse: «Mi chiamo Johanne. Sono qui per portarti dal tuo papà.» Lasciò correre lo sguardo sul corpo nudo della bambina; scheletrica, con delle grandi croste sulle ginocchia. Le creste iliache erano due coltelli affilati, sembrava che in qualunque momento potessero squarciare la sottile pellicola di pelle pallida e trasparente. Johanne piangeva. Si tolse la giacca, si tolse il maglione, la canottiera; rimase in reggiseno per coprire con i suoi abiti quella figurina muta. «Ci sono dei vestiti per terra,» disse Yngvar piano. «Non so se sono suoi,» rispose Johanne, e singhiozzando sollevò Emilie dal letto. La bambina non pesava niente. Johanne la strinse con riguardo contro la propria pelle nuda. «Possono essere cose sue. Vestiti suoi. Vestiti di quel maledetto...» «Papà,» disse Emilie. «Il mio papà.» «Adesso andiamo dal papà,» disse Johanne, e baciò la bambina sulla fronte. «Adesso andrà tutto bene, tesoro.» "Come se qualcosa potesse mai andare di nuovo bene, dopo questo,"
pensò, incamminandosi verso la porta d'acciaio dove Yngvar le coprì le spalle con la sua giacca. "Come se potessi mai superare quello che hai vissuto in questa tomba". Mentre usciva dalla stanza, lentamente e cautamente per non spaventare la bambina, lo sguardo le cadde su un paio di slip da uomo per terra vicino alla porta. Erano sbiaditi e verdi, con stampato sulla patta un elefante sfacciato che sollevava una spessa proboscide. «Santo Dio,» boccheggiò Johanne nei capelli annodati di Emilie. LXVIII. Erano le due di notte di venerdì 9 giugno 2000. Una pioggia leggera scivolava giù dalle nuvole basse su Oslo. I meteorologi avevano assicurato tempo stabile e notti miti, ma non dovevano esserci neanche cinque gradi. Johanne chiuse la porta della terrazza. Si sentiva come se non avesse dormito per una settimana. Se cercava di seguire le gocce che scivolavano irregolari lungo la finestra della sala, le veniva mal di testa. Sentiva una fitta ai reni quando tentava di stirarsi. E comunque era impossibile riposare. Sul vetro della finestra, più o meno all'altezza dei fianchi, ben definite in contrasto con i disegni vaghi dell'acqua sul lato esterno, poteva vedere le impronte di Kristiane. Delle dita cicciottelle si aprivano come petali in un circolo irregolare. Johanne le accarezzò. «Credi che Emilie riuscirà mai a superarlo?» domandò a bassa voce. «Direi di no. Ma adesso è a casa. La volevano tenere all'ospedale però c'è stata una zia che si è opposta. Anche lei è medico e ritiene che la bambina debba stare a casa. Emilie è in buone mani, Johanne.» «Ma lo supererà mai?» Se la toccava appena, con estrema prudenza, aveva l'impressione di sentire il calore della mano di Kristiane sul vetro liscio. «No. Non vuoi sederti?» Johanne cercò di sorridere. «Ho mal di schiena.» Yngvar si stropicciò il viso e fece un enorme sbadiglio. «Devono aver litigato come pazzi per il diritto di visita,» cominciò mentre ancora sbadigliava. «Karsten Åsli ha cercato di vedere suo figlio fin dalla nascita, e la madre è scappata dall'ospedale il giorno prima che la dimettessero. Secondo lei, Karsten Åsli non era una persona capace di occuparsi di qualcuno, e ci sono state tre istanze e cinque udienze dal giudice.
Un uomo pericoloso, affermava lei testarda. Sigmund ha recuperato le copie di tutti i documenti oggi pomeriggio. Karsten Åsli ha sempre vinto, ma la madre ha fatto ricorso e impugnato le sentenze, prendendo tempo e... Alla fine è fuggita. All'estero, presumibilmente. Tutto sembra indicare che Karsten Åsli non sapesse dove. Si era messo in contatto con una agenzia investigativa...» Yngvar sorrise senza gioia. «... dopo che alla polizia si erano limitati a stringersi nelle spalle e a dire che non potevano fare niente. L'investigatore privato gli ha presentato una fattura di sessantacinquemila corone per un viaggio in Australia, che non ha dato altro risultato se non un rapporto di tre pagine in cui s'informava che Ellen Kverneland e il piccolo probabilmente non erano nemmeno lì. L'agenzia voleva seguire una pista in America latina, ma Karsten Åsli non aveva più soldi. Questo all'incirca è quanto sappiamo, al momento. Tra qualche giorno forse avremo un quadro più completo. Brutta storia.» «Tutte le separazioni sono brutte storie,» disse Johanne piatta. «Secondo te perché ho accettato l'affidamento congiunto?» «Io pensavo che magari...» Lo interruppe: «Questa Ellen Kverneland aveva ragione, in altre parole. Non c'è da stupirsi se è scappata. Karsten Åsli non è esattamente il padre modello. Cose del genere sono praticamente impossibili da dimostrare in un'aula di tribunale. Aveva la fedina penale pulita ed evidentemente sapeva come comportarsi per fare buona impressione.» «Ma il fatto in sé, la disputa per l'affidamento, poteva ben...» «Dimostrare che era uno psicopatico? No. Certo che no.» «Questa mi sembra la cosa peggiore,» disse Yngvar. «Che non sapremo mai perché... chi era realmente Karsten Åsli. Cosa era. Perché ha fatto quello che...» Johanne scosse lievemente la testa. Il vetro della finestra adesso era gelido contro i polpastrelli, e si infilò le mani in tasca. «La cosa peggiore è che tre bambini sono morti,» disse. «E che probabilmente Emilie non potrà mai...» Non aveva più lacrime da piangere. Eppure le si inumidirono gli occhi e provò un crampo al diaframma che la obbligò a piegarsi in avanti; appoggiò la fronte alla finestra, cercando di respirare tranquillamente. «Non puoi sapere come se la caverà Emilie,» disse Yngvar alzandosi in piedi. «Il tempo cura molte ferite. O almeno ci permette di conviverci.»
«Ma non l'hai vista?» disse Johanne con vigore, scostandosi dalla mano che lui le aveva appoggiato sulla spalla sinistra. «Non hai visto in che stato era? Non tornerà mai a essere se stessa. Mai!» Si strinse nelle braccia e prese a dondolarsi da una parte all'altra, a testa china, come se cullasse un bambino. Damaged goods, aveva detto una volta Warren di un bambino ritrovato dopo un sequestro di cinque giorni. Those kids are damaged goods, you know29 . Il bambino era diventato muto, ma secondo i medici c'erano buone speranze che prima o poi recuperasse la capacità di parlare. Ci sarebbe voluto del tempo, ecco tutto. Anche le lesioni al retto sarebbero guarite. Ci sarebbe solo voluto del tempo. Warren aveva scosso indifferente la testa, si era stretto nelle spalle e aveva ripetuto: Damaged goods. Lei era troppo giovane allora, giovane e innamorata, e ambiva a fare carriera nell'Fbi. Perciò non aveva detto nulla. «Posso fermarmi a dormire?» chiese Yngvar. Johanne alzò il viso. «Si è fatto tardi,» disse Yngvar. Cercò di inspirare. Le si era bloccato qualcosa in gola, e stava gelando. «Posso?» domandò Yngvar. «Sul divano,» rispose Johanne deglutendo. «Puoi dormire sul divano se vuoi.» La svegliò un raggio di sole che penetrava attraverso la fessura tra la tenda e la cornice della finestra per entrare. Rimase a lungo stesa in ascolto. C'era silenzio nel quartiere, solo un uccello qua e là aveva iniziato la giornata. La sveglia segnava le sei meno dieci. Aveva dormito tre ore scarse, ma si alzò lo stesso. Solo quando fu in bagno le venne in mente che c'era Yngvar. Entrò in sala in silenzio. Dormiva supino, a bocca aperta. Tuttavia il suo respiro era silenzioso; la coperta gli era scivolata a metà, scoprendo una coscia forte. Indossava dei boxer azzurri e la maglietta da football di lei. Aveva un braccio steso sullo schienale del divano e le dita strette intorno alla stoffa ruvida, come se si tenesse forte per non cadere a terra. Assomigliava così tanto a Warren, esteriormente. Ed era così diverso in tutto il resto. 29
Merce avariata. Questi bambini sono merce avariata, lo sai.
"Un giorno ti racconterò di Warren," pensò lei. "Un giorno ti racconterò cos'è successo. Ma non ancora. Abbiamo molto tempo, credo". Yngvar emise un flebile grugnito; un leggero russare gli smosse il pomo d'Adamo. Nel sonno, agitò le braccia per trovare una nuova posizione, e la coperta scivolò a terra. Johanne gliela risistemò con cautela; trattenendo il respiro, lo avvolse nel plaid rosso. Poi andò nel suo studio. Il sole scrosciava nella stanza dalla finestra rivolta a est, tanto da rendere difficile vedere. Abbassò le veneziane e accese il computer. La segretaria dell'ufficio le aveva mandato una mail con cinque messaggi in tutto. Solo uno era importante. Aksel Seier era in Norvegia. Voleva incontrarla e aveva lasciato due numeri di telefono. Uno era dell'hotel Continental. Johanne non pensava ad Aksel Seier da quando avevano trovato Emilie. La storia di Unni Kongsbakken era rimasta nella tomba del rustico di Snaubu. Mentre girovagava senza meta per la città, prima che Yngvar passasse a prenderla per portarla in un bunker artigianale in cima a una collina qualche chilometro a nord-est di Oslo, era stata in dubbio su che cosa fare del racconto dell'anziana signora. Sempre che ci fosse qualcosa che poteva fare. Non aveva più dubbi. La storia dell'uccisione di Hedvig Gåsøy era la storia di Aksel Seier. Ne era lui il proprietario. Johanne lo avrebbe incontrato, gli avrebbe dato ciò che era suo, quindi lo avrebbe portato da Alvhild. Solo allora avrebbe chiuso con Aksel Seier. Johanne si voltò. Yngvar era sulla porta, a piedi nudi. Si grattò la pancia e sorrise di traverso. «È presto. Maledettamente presto. Faccio il caffè?» Senza attendere risposta le si avvicinò e le prese il viso tra le mani. Non la baciò, ma sorrideva ancora, un sorriso più largo adesso, e Johanne avvertì una fresca brezza mattutina entrare dalla finestra socchiusa, accarezzarle le gambe attraverso i pantaloni del pigiama. Finalmente il tempo dava ragione ai meteorologi. «Sarà una bella giornata,» disse Yngvar senza lasciarla andare. «Penso proprio che sia arrivata l'estate, Johanne.» LXIX. Quando Johanne incontrò Aksel Seier nella hall dell'hotel Continental la
mattina di venerdì 9 giugno, lo riconobbe a stento. Ad Harwich Port aveva l'aspetto di un pescatore e factotum di una cittadina del New England, vestito in jeans e camicia di flanella scozzese. Adesso le ricordava piuttosto un turista della Florida in crociera. Si era anche tagliato i capelli, non aveva più nulla dietro cui nascondere gli occhi. Era serio in volto. Non le fece nemmeno un sorriso al rivederla, né le disse di accomodarsi. Era come se non avesse tempo da perdere. Quando le spiegò che suo figlio era in ospedale a causa di un grave incidente automobilistico, parlò in inglese. Gli restavano poche ore, disse con voce piatta. Doveva andare. «Vuoi,» cominciò Johanne esitante, del tutto sconvolta dalla scoperta che Aksel Seier aveva un figlio, un figlio che viveva in Norvegia, un figlio che adesso era in ospedale e forse sarebbe morto. «Vuoi che ti faccia compagnia? Do you want me to come? Keep you company?30 » Lui fece cenno di sì. «Yeah. I think so. Thanks 31 .» Soltanto in taxi Johanne arrivò a capire. Poi, nei giorni seguenti, ogni volta che tentava di comprendere che cosa fosse successo in quel taxi diretto all'ospedale dove Karsten Åsli stava per morire, ripensava al suo vecchio professore di matematica del liceo. Non sapeva bene perché, ma aveva scelto un corso di studi scientifico. Forse perché era una brava studentessa; le scienze erano per quelli bravi. Johanne non aveva mai capito la matematica. I grandi numeri e i simboli matematici per lei erano privi di senso come geroglifici; segni muti che restavano impenetrabili al suo energico sforzo di comprensione. A uno scritto del secondo anno aveva avuto quella a cui poi avrebbe sempre ripensato come a una sorta di illuminazione. All'improvviso, i numeri le dicevano qualcosa. Le venivano le equazioni. Era stato come uno sguardo fuggevole su un mondo sconosciuto, un'esistenza strettamente logica. In fondo a belle file di segni e numeri c'erano le risposte. Da dietro, l'insegnante si era chinato su di lei; odorava di vecchio e di caramelle balsamiche. Le sussurrò: «Ma guarda, Johanne. Guarda un po', la signorina ha visto la luce!» Ed era stato esattamente così. Aksel le aveva parlato di Karsten. Lei non aveva reagito. Le aveva raccontato di Eva. Lei lo ascoltava. Poi aveva menzionato il cognome di entrambi, en passant, in una frase secondaria mentre il taxi arrivava davanti all'ospedale. 30 31
Vuoi che venga con te? A tenerti compagnia? Sì. Credo di sì. Grazie.
Non c'era più nulla che potesse sconvolgerla. Le venne la pelle d'oca sulle braccia. Fu tutto. L'equazione era risolta. Karsten Åsli era figlio di Aksel. «Guarda, Johanne,» aveva sussurrato il professore di matematica facendo schioccare la caramella che aveva in bocca contro il palato. «La signorina ha visto la luce!» C'erano due poliziotti in borghese in corridoio, ma Aksel Seier non vedeva niente e nessuno. Johanne capì che ancora non era al corrente di quello che suo figlio aveva fatto. Pregò in silenzio che la notizia potesse aspettare finché non fosse tutto finito. Appoggiò una mano sulla spalla di Aksel Seier. Lui si fermò e la guardò negli occhi. «Ho una storia per te,» gli disse a bassa voce. «Ieri... ho saputo la verità definitiva sull'uccisione di Hedvig. Tu sei innocente.» «I know that, 32 » disse lui piatto, senza batter ciglio. «Ti racconterò ogni cosa,» proseguì Johanne. «Quando questo...» Gettò un'occhiata rapida alla stanza di Karsten Åsli. «Quando tutto questo sarà finito. Allora ti racconterò come andarono le cose.» Aksel mise la mano sulla maniglia. «E... un'altra cosa,» gli disse lei, trattenendolo. «C'è una vecchia signora. Molto malata. È merito suo se finalmente la verità è venuta a galla. Alvhild Sofienberg, si chiama. Vorrei che venissi con me a trovarla. Più avanti, quando tutto questo sarà finito. Me lo prometti?» Lui annuì debolmente ed entrò. Johanne lo seguì. Il volto di Karsten Åsli era bluastro e gonfio, e si distingueva a malapena tra il lenzuolo candido, le bende e quegli apparecchi borbottanti che l'avrebbero mantenuto in vita ancora per qualche ora. Aksel si sedette sull'unica sedia che c'era nella stanza. Johanne andò vicino alla finestra. Non le interessava il paziente. Era Aksel Seier che vedeva quando si girava, ed era soltanto a lui che pensava. "Hai pagato per tuo figlio, Aksel. Hai espiato i peccati di tuo figlio. Spero che tu riesca a vederla in questo modo". Aksel Seier sedeva a capo chino, i pugni chiusi intorno alla mano destra di Karsten. 32
Lo so.
Il soffitto era blu. L'uomo al negozio diceva che con un colore scuro la stanza sarebbe sembrata più piccola. Si sbagliava. Il soffitto invece si era sollevato, quasi era sparito. Era proprio come lo avrei voluto io da bambino: un cielo notturno con le stelle e una piccola falce di luna proprio sopra la finestra. Ma allora era stata la nonna a scegliere per me. La nonna e la mamma, una stanza da maschietto gialla e bianca. Sembra che ci sia qualcuno qui. Qualcuno mi tiene per mano. Non è la mamma. Lei lo faceva, a volte, quando veniva in camera mia di notte, dopo che la nonna era andata a dormire. La mamma parlava così poco. Gli altri bambini si addormentavano coccolati da un racconto. Io mi addormentavo al suono della mia stessa voce; sempre. La mamma parlava così poco. La felicità è qualcosa che ricordo a malapena. Come il tocco leggero di una persona tra sconosciuti, scomparsa prima che tu sia riuscito a girarti. Quando la stanza fu terminata e finalmente mancavano solo due giorni al suo arrivo, ero soddisfatto. La felicità è una cosa infantile e dopotutto ormai ho trentaquattro anni. Ma certo ero contento. Non vedevo l'ora. La camera era pronta. C'era un ragazzino seduto a cavalcioni della luna. Con i capelli biondi, in mano una canna da pesca di bambù con la lenza e il galleggiante. E, sotto, agganciata all'amo, una stella. Una sottile goccia di vernice gialla era scivolata sul vetro della finestra, quasi il cielo si stesse sciogliendo. Mio figlio sarebbe finalmente arrivato. Sto male. Ho male dappertutto, un grande dolore senza inizio né fine. Credo di essere in punto di morte. Non posso morire. Il 19 giugno devo portare a termine il mio progetto. Per il compleanno di Preben. Ho perso Preben, ma me lo sono ripreso dando agli altri quello che meritavano. Mi hanno tradito. Tutti mi hanno tradito, sempre. Eravamo d'accordo che si sarebbe chiamato Joakim. Avrebbe portato il mio cognome. Si sarebbe chiamato Joakim Åsli e gli avevo comprato un trenino. Ellen si era arrabbiata quando gliel'avevo portato all'ospedale. Si aspettava un gioiello, credo, come se si fosse meritata una medaglia. Io gli avevo fatto ciuf ciuf con la locomotiva Märklin sulla faccia, e infatti lui aveva aperto gli occhi e aveva sorriso. Ellen si era girata dall'altra parte e aveva detto che stava solo facendo una smorfia. Sarei diventato un padre meraviglioso. Ce l'ho dentro.
Sono piccolo e sono in piedi sul tavolo di cucina, con addosso dei vestiti invernali che mi ha mandato qualcuno. Poi chiesi a mia madre: era il papà che voleva farmi un regalo? Lei non rispose mai. Anche se avevo solo quattro anni, mi ricordo i francobolli, grandi e insoliti; la carta da pacco era piena di timbri e affrancature strane. I vestiti erano blu e leggeri come piume, e io volevo uscire nella neve. La nonna me li strappò di dosso. Li avrebbe avuti qualcun altro. Qualcuno ha avuto ciò che era mio. Sempre. Ellen e il bambino scomparvero. Non mi aveva nemmeno registrato come padre del neonato. Mi ci vollero quattro mesi per scoprire che si chiamava Preben. Devo finire. Devo vivere. Qualcuno mi tiene la mano. Non è la mamma. È un uomo. Non ho mai avuto un padre. La nonna stringeva gli occhi se solo chiedevo qualcosa. La mamma distoglieva lo sguardo. In un paesino, a quelli senza padre ne vengono attribuiti mille. Si sussurrava sempre un nome nuovo negli angoli, a scuola, nei posti in cui ci si ritrovava, in quelli dove si giocava. Era insopportabile. Io volevo solo sapere. Non avevo bisogno di nessun padre, ma volevo sapere. Un nome era tutto ciò di cui avevo bisogno. Emilie. Morirà in cantina. È mia, come Preben. Grete piangeva e negava e voleva tornare a casa dai suoi. Io ero così giovane allora, e la lasciai andare. Non mi importava del bambino. Non mi importava di lei. Era Preben che volevo. Emilie può benissimo morire. Anche gli altri bambini avrebbero potuto essere miei. Io possedevo le loro madri. Ma loro non lo capirono. Qualcuno mi tiene la mano e c'è un angelo nella luce della finestra. Postfazione dell'autrice Nella primavera del 2000 ebbi modo di ascoltare una storia vera. Riguardava Ingvald Hansen, un uomo che nel 1938 era stato condannato all'ergastolo. Il capo d'accusa principale contro Hansen erano lo stupro e l'assassinio di una bambina di sette anni, Mary. La storia, così come mi fu raccontata al tavolo di un ristorante, era tremendamente affascinante. Molto portava a pensare che quell'uomo non avesse avuto un processo equo. Il mio primo impulso fu di indagare più a fondo sul caso. Invece, mi i-
spirò la creazione di un'altra figura, in un periodo un po' più recente: il personaggio di questo libro che va sotto il nome di Aksel Seier. Hansen e Seier hanno dunque due destini che in alcuni punti cruciali si assomigliano, ma naturalmente non sono la stessa persona. Tutto quello che so di Ingvald Hansen viene da un articolo del professor Anders Bratholm, docente di giurisprudenza, apparso nel 2000 sulla rivista legale norvegese "Tidsskrift for lov og rett", p. 443 e sgg., e da un reportage pubblicato sull'"Aftenposten" di sabato 4 novembre 2000: dal quale emergeva tra l'altro che Hansen morì un paio di anni dopo una sorprendente e apparentemente inspiegabile liberazione. Chi fra i lettori vorrà prendersi la briga di leggere questi articoli, noterà che mi sono lasciata ispirare dalla realtà su un altro punto: quando Ingvald Hansen chiese la grazia nel 1950, la sua causa fu sostenuta da una giovane giurista. A quella donna, ex presidente del tribunale di Oslo, Anna Louise Beer, si deve gran parte del merito di aver ridato attualità alla storia di Ingvald Hansen. Non si era mai dimenticata del processo, sebbene all'epoca le circostanze le avessero impedito di coltivare l'idea che quell'uomo avesse subito un'ingiustizia. Negli anni Novanta cercò, a seguito di quegli articoli, di avere accesso agli atti processuali. Erano spariti senza lasciare traccia. Io non conosco la giudice Beer e, per quanto ne so, non l'ho mai incontrata. Quindi il personaggio di Alvhild Sofienberg è - così come tutti gli altri nel romanzo - interamente fittizio. Le vicende di Alvhild legate al processo di Aksel, invece, in alcuni punti sono molto simili alle esperienze che la giudice Beer fece in relazione al caso Hansen. Se io in questo libro "svelo" il mistero Aksel Seier, si tratta di una mia costruzione basata puramente sulla fantasia. Non ho nessuna base per dire cosa successe quando Ingvald Hansen fu prima condannato e poi messo in libertà in strane circostanze. Mentre lavoravo a questo libro sono stata aiutata da innumerevoli persone. Devo menzionare in primo luogo mio fratello Even, che mentre faceva ricerche per la sua tesi di dottorato in medicina mi diede una paurosa ricetta per uccidere. Berit Reiss-Andersen è una cara amica e una critica acuta. Grazie anche alla mia editor Eva Grøner, la mia guida più importante, e alla mia editrice svedese Ann-Marie Skarp per il suo appoggio entusiasta e prezioso lungo tutto il percorso. Poi vorrei ringraziare Øystein Mæland per il suo valido contributo. Sono particolarmente riconoscente a Line Lunde, fedele sostegno fin da La dea cieca. Mi ha regalato l'intrigante storia che
sta alla base di Quello che ti meriti. E ovviamente: mille grazie a te, Tine. Cape Cod, 18 aprile 2001. ANNE HOLT FINE