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TOM MARTIN PYRAMID (Pyramid, 2007) Per J. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare per la loro sagacia e intelligenza Peter Straus, agente letterario, Maria Rejt, redattrice alla Pan Macmillan, e Anna Valdinger, viceredattrice. Ho tratto ispirazione per questo libro da numerose fonti, alcune autorevoli come le seguenti: Charles H. Hapgood, Maps of the Ancient Sea Kings: Evidence of Advanced Civilization in the Ice Age; Giorgio de Santilla e Hertha Von Dechend, Hamlet's Mill: An Essay Investigating the Origins of Human Knowledge and Its Transmission through Myth; Manly Palmer Hall, The Secret Teachings of All Ages; Edward Goldsmith, The Way: An Ecological World-View; le opere di Lee Child e James Twining; e quelle di Joseph Campbell. PROLOGO Su in alto, nella rarefatta aria di montagna delle Ande, il professor Kent gettò un ultimo sguardo all'incantevole bellezza illuminata dalla luna delle antiche rovine di Machu Picchu, che si estendevano lungo il margine della valle, un centinaio di metri più in basso. Solo dieci minuti prima, si trovava, profondamente addormentato, nel suo letto caldo e confortevole all'Hotel Ruinas, non lontano dal famosissimo sito protetto dell'UNESCO, quando all'improvviso, e senza avvertimenti di sorta, era stato bruscamente strappato al sonno da due sconosciuti. Prima che potesse chiamare aiuto, i due lo avevano imbavagliato e tirato giù dal letto. Senza dire una sola parola, lo avevano trascinato, scalzo com'era, per il corridoio, poi attraverso un'uscita d'emergenza e fuori nella notte fredda e buia. "Così, alla fine sono venuti a prendermi, dopo tutti questi anni". Era un pensiero orribile. Negli ultimi mesi aveva persino iniziato a dubitare della propria sanità mentale, ma questo rapimento notturno dimostrava che le scoperte che aveva compiuto erano importanti come aveva pensato...
Per anni aveva sospettato che se avesse continuato quelle ricerche, avrebbe finito per snidare dall'ombra le forze del male. Ognuna delle sue scoperte doveva averli convinti sempre più, fin quando, alla fine, non avevano più potuto tollerare la sua presenza sulla Terra. "Dove mi stanno portando?". L'aria fredda della notte tirava via il calore dal suo corpo tremante. Il professor Kent inciampò e quasi cadde a terra, mentre veniva portato di peso lungo un sentiero stretto e ripido, verso l'entroterra impervio di quei monti. Era di una fragilità patetica, accanto alla sagoma massiccia dell'energumeno che lo stava spingendo nel buio. La barba bianca e i capelli ormai radi erano ricoperti di un sottile strato di sudore e il volto era di un pallore spettrale. Ma persino in quel momento difficile, la vista di ciò che lo circondava lo riempiva di ammirazione e meraviglia. Illuminato dalla luce argentea della luna, il paesaggio irradiava una bellezza di intensa sacralità. Raggiunsero uno stretto altopiano e il più basso dei due rapitori, che era rimasto alla testa del piccolo corteo, si voltò, estrasse una scatoletta dalla tasca del giaccone e l'aprì. Nel buio, il professor Kent non riuscì a vedere cosa contenesse. Il gigante che lo teneva per un braccio lo costrinse improvvisamente a inginocchiarsi. In preda a un panico cieco, il professor Kent cominciò a divincolarsi e a lottare, ma l'omone non fece altro che spingerlo giù ancor più violentemente, fino a inchiodarlo al terreno, con la faccia nella polvere. Un attimo dopo, Kent sentì una mano che gli strappava il bavaglio dalla bocca. Quando vide l'altro rapitore che si chinava su di lui impugnando una siringa, il professore iniziò a gridare. Lentamente - sembrava muoversi al rallentatore - l'uomo sollevò la siringa all'altezza del volto dell'anziano. Nella luce lunare, una goccia di un liquido simile al mercurio scintillò sulla punta dell'ago. Poi l'uomo basso parlò, simile a una creatura malefica, e gli sibilò all'orecchio: «C'è qualcos'altro che vorresti aggiungere alla tua collezione di menzogne, vecchio?». L'accento era straniero, ma di provenienza incomprensibile. Il professor Kent sollevò la testa e torse il collo il più possibile, fin quando, con la coda dell'occhio, riuscì a intravedere la faccia del suo interlocutore. Con un enorme sforzo, riuscì a gracchiare una risposta. «Se sono menzogne allora perché siete venuti a prendermi?». L'essere inquietante scoppiò in una risatina sprezzante, poi si chinò in avanti e fece scorrere la punta della siringa lungo il collo del professore.
Kent sentì appena il graffio, ma si rese conto che sarebbe bastato; i suoi polmoni si rattrappirono all'istante. Mentre sentiva il veleno pervadere il proprio corpo, capì di essere stato sollevato da un peso enorme. Ora non desiderava altro che morire in pace, ma il suo assassino continuava imperterrito a tormentarlo. «Lei è un demone, professor Kent. E i demoni debbono tornare all'Inferno: il posto a cui appartengono». «Nella mia filosofia non c'è posto per i demoni, né tantomeno per l'Inferno». «Basta così!», strillò l'uomo basso. Il suo complice spinse il volto del professore ancor più giù, schiacciandolo a terra. Kent sentiva ormai la vita scivolargli via dal corpo. «Non ho alcuna intenzione di stare a sentire le sue fandonie. Non le è mai passato per la testa che il passato e il futuro siano proprietà private che non appartengono a lei, professor Kent? Appartengono a persone molto più importanti». La voce dell'uomo era piena di rabbia. «Credeva forse di passarla liscia? Davvero ha creduto di riuscire a rivelare a qualcuno le cose che aveva scoperto?». Mentre parlava, qualcosa balenò nella sua mano. Era la lama di un rasoio. "Che cosa sta facendo?". Il professore gli rivolse uno sguardo spento. "Mi ha già condannato a morte con il suo veleno". L'uomo basso continuava a parlare, la voce piena di sarcasmo: «Siamo molto generosi, sa? Pensiamo che come il filosofo greco, Socrate, cui venne offerta l'opportunità di togliersi la vita da solo, anche a lei possa essere concessa una morte onorevole... Non le proponiamo una morte scioccante. Potrebbe scatenare delle indagini approfondite, provocando un indesiderato interesse per le sue cosiddette teorie. Il suicidio è molto meno sensazionale dell'assassinio... Non crede anche lei?». In quel momento il professor Kent sentì che il gigante mollava la presa. Tentò istintivamente di muoversi, ma il suo corpo non rispondeva agli impulsi del cervello: era paralizzato. Il suo carnefice lo fece rotolare sulla schiena con un gesto di calcolata noncuranza. Poi afferrò il polso del professore e lo attraversò con un colpo di rasoio. Il sangue schizzò sul terreno boscoso e nel giro di pochi secondi prese a scorrere regolarmente dalla ferita. L'uomo fece ricadere a terra la mano destra, completamente inanimata. Poi, dopo aver raccolto la mano sinistra, pose il rasoio sul palmo e vi chiuse attorno le dita. Infine riappog-
giò a terra anche quella, stavolta con studiata cautela. «Lasceremo che sia Dio a decidere la punizione per le tue blasfemie. Il tuo tempo su questa Terra è scaduto, vecchio». Il professore concentrò tutta la sua volontà nello sforzo di aprire la mano e far cadere il rasoio, ma non accadde nulla. Era lì, paralizzato e impotente: il carnefice di se stesso. «Non esiste un Dio biblico che possa punirmi. Troveranno le prove...». La voce del professore si affievolì, mentre i muscoli della trachea soccombevano al veleno. L'uomo basso ringhiò verso il suo compagno: «Non c'è dunque limite alla testardaggine di quest'uomo? Da dove prende la sua inquietante sicumera? È come lo scarafaggio: impossibile da sterminare». Si chinò e tamponò il collo del professore con un batuffolo di cotone. «Chi avrebbe detto che un semplice professore universitario ci avrebbe causato tanti guai? Ecco fatto: non debbono esserci dubbi su come è morto. Andiamo in albergo e perquisiamo la sua stanza. Dobbiamo distruggere ogni minima traccia di prova». Rimasero ancora una manciata di secondi a osservare il corpo immobile, poi si allontanarono silenziosi nel buio della notte. Il professor Kent, con il corpo totalmente paralizzato, fissava le stelle che brillavano nel cielo sopra di lui. Per anni aveva studiato i misteri del firmamento alla ricerca della grande verità, e persino ora, in quella situazione disperata, la sua mente riuscì a distinguere le familiari forme delle costellazioni. Mentre le forze lo abbandonavano, pensò ancora una volta alla sua scoperta più importante e decisiva. "Dunque, la mia intuizione era giusta. Ho risolto il mistero finale. Ma questo significa che il mondo è in grave pericolo. Le mappe sono al sicuro? E alla mia morte, ci sarà qualcuno in grado di decifrarle?". Poi tutto si fece buio. PARTE PRIMA 1 Mancavano cinque minuti a mezzogiorno di un martedì mattina insolitamente caldo del mese di marzo. Catherine Donovan, che con i suoi ventinove anni era una delle più brillanti borsiste dell'università di Oxford, at-
traversò lo stretto vano d'entrata ricavato dall'enorme portale di legno massiccio della portineria, raggiungendo la serena tranquillità del grazioso spiazzo posto di fronte all'All Souls College. Il prato era inondato dal sole, che con i suoi raggi scaldava il mattonato in stile Cotswold dell'edificio, mentre le campane dell'università mandavano allegri rintocchi, annunciando l'imminente scoccare del mezzodì. L'All Souls, dove Catherine insegnava, era il più prestigioso e il più esclusivo dei trentacinque college di Oxford. Non accoglieva nessuno studente universitario che non avesse ancora conseguito almeno la laurea di primo grado, laddove nella maggior parte dei college ve ne erano almeno duecento, e nei più grandi, persino quattrocento. All Souls era semplicemente la dimora esclusiva di studiosi a livello mondiale e i suoi pochi ed eletti membri erano destinati a contribuire all'avanzamento delle conoscenze umane dalla fisica nucleare all'arte islamica. L'unico modo per entrare in questo club elitario consisteva nel sottoporsi a un rigorosissimo processo di selezione nella propria specializzazione accademica. Ma per coloro che ce la facevano, il risultato valeva bene i sacrifici compiuti. I borsisti venivano trattati come delle vere e proprie altezze reali. La cantina dei vini del college era una delle più raffinate di tutta l'università e i borsisti residenti potevano persino scegliere di essere svegliati al mattino da un maggiordomo, che portava loro pane tostato, tè e quotidiano, tutto rigorosamente servito su un vassoio d'argento. Ma, cosa più importante, nessuno dei borsisti aveva l'obbligo dell'insegnamento: erano tutti liberi di dedicare il loro prezioso tempo a compiere importanti scoperte nella loro materia di competenza. Per Catherine, una bella e giovane donna americana, All Souls era un ambiente piuttosto insolito. Gli altri borsisti - abituati a ogni genere di eccentricità - la consideravano semplicemente come un'altra eccentrica in un college di persone eccentriche, e l'avevano accolta abbastanza cordialmente, accontentandosi di sapere che era già una punta di diamante a livello mondiale nel campo che aveva scelto: l'astronomia. Catherine Donovan lanciò un'occhiata all'orologio che aveva al polso. "Cinque minuti, poi tocca a me". Si recò velocemente in portineria e, rovistando nella sua cassetta, ne estrasse la posta del mattino: un paio di comunicati di scarso interesse dal dipartimento di astronomia e una grande busta marrone, con francobolli esteri. La esaminò velocemente, riconoscendo subito la calligrafia del pro-
fessor Kent. L'ultima cosa che desiderava al mondo era arrivare in ritardo alla lezione di chiusura del trimestre, così infilò la busta nella borsa e a passo veloce aggirò il piazzale, diretta verso l'auditorium. Come sempre accadeva durante tutte le lezioni della dottoressa Donovan, la bella sala in pietra antica posta nel cuore del college era gremita di studenti provenienti da ogni punto dell'università. Le sue lezioni erano di gran lunga le preferite da tutti. Le impartiva per scelta personale, perché apprezzava molto il contatto diretto con gli studenti, e questi la ripagavano con una costante ed entusiastica partecipazione, che con l'andare del tempo si faceva sempre più fitta. Soltanto il giorno prima, mentre prendeva un caffè con i colleghi nella sala dei professori, uno di questi l'aveva presa bonariamente in giro per quel successo, dicendo di aver sentito due studenti parlare di lei come della borsista più attraente di tutta l'università. Con i capelli castani che le arrivavano alle spalle, gli zigomi alti e la grazia fisica di un'atleta, avrebbe attirato l'attenzione di chiunque, e di questo era perfettamente consapevole. Ma quel mattino Catherine era nervosa. Secondo la tradizione, l'ultima lezione del trimestre era finalizzata a dare dei suggerimenti agli studenti in vista delle lunghe vacanze. Oggi però voleva sorprenderli, parlando loro di uno dei più inspiegabili misteri del cosmo: un mistero che poteva comportare implicazioni davvero spaventose per tutta l'umanità. Gli studenti erano molto svegli e brillanti, ma anche molto giovani; era importante ricordare loro la fragilità della scienza umana, se posta di fronte all'ignoto. Dal podio sul quale era salita, Catherine fece scorrere lo sguardo sul mare di volti che aveva davanti. Poi, dopo essersi schiarita la voce, iniziò: «Buon pomeriggio a tutti. E grazie per essere qui. Oggi vorrei iniziare la lezione mettendovi alla prova: c'è qualcuno fra voi in grado di risolvere uno dei più grandi misteri di tutti i tempi?». La sala fu percorsa da un mormorio di eccitazione e tutti gli occhi si soffermarono su di lei, in trepida attesa. «Come tutti sappiamo, la stella più brillante nel cielo notturno è Sirio. Vi sono una o due stelle leggermente più vicine al nostro sistema solare, ma nessuna di esse è altrettanto splendente. Forse è per questo che Sirio occupa una posizione centrale in quasi tutte le mitologie del mondo antico». Catherine tornò a scorrere quell'oceano di volti. "Bene: sembrano molto presi". Con tono cospiratorio, proseguì: «Ma forse - e dico forse - vi sono anche altre ragioni». Fece un'altra pausa, stavolta bevendo un sorso d'acqua dal bicchiere che
aveva accanto. Spostò lo sguardo sul portatile e cliccò. Sullo schermo gigante appeso alle sue spalle si illuminò immediatamente una diapositiva. Era composta da due immagini affiancate. La prima era la fotografia di un disegno fatto sulla sabbia o sulla terra fine. La seconda immagine era stata chiaramente ottenuta attraverso l'impiego del più avanzato software astronomico. Si trattava di un'illustrazione grafica di un oggetto remoto, che si muoveva maestosamente nel cosmo seguendo la sua antica rotta. C'era anche un secondo oggetto, di dimensioni più ridotte, che sembrava muoversi a spirale intorno al suo vicino, come prigioniero di una forza d'attrazione alla quale cercava però di sottrarsi. Catherine sollevò lo sguardo, per verificare che le immagini apparissero chiare sullo schermo. «Ora, viste le distanze standard delle stelle, Sirio risulta essere praticamente il nostro vicino della porta accanto. Qualcuno di voi sa dirmi quanto dista esattamente dalla Terra?». Tornò a guardare il suo pubblico. Il braccio di un giovane dai capelli scompigliati si alzò dalla terza fila. Catherine gli scoccò un sorriso d'incoraggiamento, ma quando i suoi vellutati occhi verdi si posarono direttamente su di lui, il ragazzo sembrò bloccarsi, come paralizzato. Sorridendo comprensiva, ma con una leggera vena d'impazienza nella voce, Catherine cercò dolcemente di farlo parlare. «Sì?». Arrossendo fino alla radice dei capelli, lo studente iniziò a balbettare la sua risposta. «Si trov... si trova a 2,67 parsec di distanza... ovvero 8,7 anni luce o cinquantadue quintilioni di miglia». Catherine rimase colpita. «Sì! Molto bene. Grazie. Ora, nel 1844 Friedrich Bessel, l'astronomo tedesco, ipotizzò la presenza di un gemello invisibile di Sirio. Bessel aveva dedicato gran parte del suo tempo a fare misurazioni particolarmente accurate dei lenti movimenti di Sirio, notando una sorta di piccolo guizzo nel suo regolare percorso. Bessel pensò che poteva essere provocato soltanto dall'attrazione gravitazionale di un suo invisibile e minuscolo vicino, ma non riuscì a provarlo. A quei tempi non esistevano ancora telescopi in grado di mostrare il sistema solare di Sirio». Catherine si avvicinò alla proiezione sul muro. «Fu soltanto nel 1862 che il costruttore di telescopi americano Alvan Clark, impiegando una delle sue stesse invenzioni, vide, per la prima volta nella storia, il misterioso "compagno" di Sirio, dimostrando così che la teo-
ria di Bessel era esatta. Ma fu davvero la prima volta?», aggiunse poi con fare misterioso. In sala si alzò un mormorio di stupore e Catherine ne approfittò per un'altra delle sue pause studiate. «Oggi siamo ovviamente in grado di vedere chiaramente entrambi i corpi celesti, grazie ai nostri potentissimi telescopi. Chiamiamo la stella più grande, quella originale - la Sirio visibile a occhio nudo, per intenderci Sirio A, e la Sirio più piccola, pesante e invisibile, Sirio B. Ora, la domanda che voglio porvi quest'oggi è molto semplice, ma se riuscirete a rispondere nel modo giusto, scommetto che la NASA sarebbe disposta a mettervi a capo del suo dipartimento di ricerca». Respirando profondamente e parlando poi molto lentamente, Catherine pose infine la sua domanda. «Se Sirio B è del tutto invisibile a occhio nudo, come mai esiste una tribù africana che ne ha fatto un'accurata e completa identificazione astronomica, mantenutasi valida nel corso degli ultimi duemila anni?». La sala affollata rimase di colpo col fiato sospeso. «La tribù a cui mi sto riferendo è quella dei Dogon. Vive in quello che oggi è lo Stato africano del Mali, nella parte occidentale del continente. Nella loro antica tradizione orale, Sirio, la stella più brillante, è accompagnata da un corpo celeste straordinariamente pesante e molto oscuro, di nome Po. A questo punto è opportuno ricordare che Sirio B è quel che si dice una "nana bianca": contiene una quantità di materia equivalente a quella del nostro sole, ma al suo confronto è molto piccola: un cucchiaino da tè della sua materia pesa circa un quarto di tonnellata. Sembrerebbe dunque che i Dogon non solo sapessero dell'esistenza di Sirio B - cosa già abbastanza strana di per sé -, ma che sapessero anche che si trattava di un tipo di stella particolarmente densa... E non finisce qui: gli indigeni erano anche al corrente del fatto che completava un'orbita attorno alla sua gemella più grande ogni cinquant'anni». Catherine sorrise scorgendo le espressioni esterrefatte del suo pubblico. «Le credenze dei Dogon - se è così che possiamo chiamare le loro conoscenze astronomiche - vennero comunicate per la prima volta al mondo esterno negli anni Quaranta, a un antropologo francese, ma sappiamo con certezza che le loro teorie risalgono ad almeno 1800 anni fa e possiamo supporre con altrettanta sicurezza che siano anche molto, molto più antiche. I Dogon usavano dei diagrammi di sabbia per illustrare i movimenti celesti. Nella mia lezione vi spiegherò come questi diagrammi si siano conservati. Ma intanto ne vediamo uno sulla parte sini-
stra di questa diapositiva: mostra le orbite intrecciate di Sirio e della sua oscura controparte. Sulla parte destra vediamo invece la moderna rilevazione astronomica dei movimenti di Sirio A e B». Il pubblico ebbe un altro sussulto di stupore. «Come vedete, combaciano perfettamente. Oggi sappiamo che il ciclo orbitale di Sirio B, o Po, è di 49,1 anni... cinquant'anni non erano dunque una stima tanto assurda, per una tribù del neolitico. E le conoscenze cosmiche dei Dogon non finiscono qui. Essi sapevano ad esempio che Giove ha quattro lune e Saturno degli anelli. Ora, proprio come per Sirio B, gli anelli di Saturno e le lune di Giove non sono visibili a occhio nudo: c'è bisogno di un telescopio, per vederli, e anche potente. Alla luce di questi fatti, qualcuno sa dunque dirmi come facevano i Dogon a sapere tutte queste cose?». Sulla sala cadde un silenzio di tomba. Per quanto la riguardava, Catherine era certa che un giorno si sarebbe sicuramente trovata una spiegazione razionale e scientifica per il mistero dei Dogon e della loro conoscenza di Sirio. Dopotutto, era quasi inconcepibile che nelle profondità di un passato primitivo l'umanità avesse potuto disporre della tecnologia estremamente avanzata necessaria a vedere le stelle più piccole. Tuttavia, quel fatto era e rimaneva uno dei più interessanti misteri cosmici, che non mancava mai di produrre l'effetto desiderato sugli studenti. A bocca spalancata, gli studenti delle prime file stavano voltandosi indietro per vedere se qualcuno avesse qualcosa da dire. Ma il silenzio era totale. In quel momento, come fosse stato scritto in un ipotetico copione, la porta in fondo alla sala si aprì. Tutti si voltarono in quella direzione. Era uno dei portieri. Aveva un'aria preoccupata e tossì imbarazzato, prima di alzare la mano in un gesto confuso. Catherine gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Vi prego di scusarmi un attimo». Sprimacciandosi nervosamente la gonna con la mano, scese dal podio, e, sentendosi leggermente imbarazzata per tutti quegli occhi che la seguivano, raggiunse l'altra estremità della sala e il portiere, che stava venendole incontro. «Mi dispiace interromperla, signora, ma il direttore vuole vederla subito». «Ma come! Non può aspettare un'altra mezz'ora?» «Ha detto di no, signora. Dice di avere delle brutte notizie da darle». Il cuore di Catherine accelerò improvvisamente i battiti. Rivolgendosi alla sala, disse: «Scusatemi tutti. Temo sia accaduto qualcosa di grave e
devo assentarmi. Mi dispiace davvero molto. Spero che questo mistero - e credetemi, si tratta di un autentico mistero - vi faccia riflettere nelle prossime settimane. Sono certa che passerete ogni momento delle vacanze a prepararvi sui testi per il prossimo trimestre, ma se vi rimane del tempo libero, cercate di trovare una soluzione al rompicapo dei Dogon e di Sirio. Buona fortuna! Se qualcuno ci riesce, può considerarsi laureato da subito!». 2 L'alloggio del direttore di All Souls era una enorme suite composta di stanze rivestite in legno di quercia con vista sul curatissimo parco con le aiuole fiorite e le immacolate distese d'erba centenaria. A sessantacinque anni, il direttore era un veterano della vita universitaria. Era un uomo energico, dai capelli grigi, un naso importante e sopracciglia folte. La sua figura e i suoi modi incutevano istintivo rispetto. Oltre ad essere il responsabile dell'amministrazione quotidiana del college, era anche un eminente studioso di filosofia e logica. In quel momento, tuttavia, si trovava nella difficile situazione di latore di cattive notizie. Un ufficiale di polizia di Thames Valley gli aveva appena riferito che il professor Kent, esimio collega e ottimo amico, era stato trovato morto sugli altipiani di Machu Picchu, in Perú. A causare la morte era stato un attacco cardiaco; sembrava tuttavia che l'attacco fosse subentrato a un precedente tentativo di suicidio. Ma il poliziotto aveva aggiunto che per il momento era meglio non entrare nei dettagli, le indagini erano ancora a una fase iniziale. L'incaricato della polizia britannica a Lima stava ancora indagando insieme alla polizia peruviana. Seduto dietro la grande scrivania di quercia, con le spalle curve e la testa reclinata, il direttore appoggiò la fronte alla mano sinistra e si massaggiò lentamente la tempia. Con un profondo sospiro, si ritrovò, per la prima volta da che ne avesse memoria, completamente incapace di prendere le redini della situazione. "Come dirlo a Catherine? Il professore era come un secondo padre, per lei". In quel momento bussarono alla porta. «Avanti». Catherine aveva il suo solito aspetto radioso e, vedendola così giovane e spensierata, il direttore fu nuovamente assalito dal rimorso: perché doveva
capitare proprio a lui, quel compito ingrato? Il viso di Catherine s'era già tramutato in una maschera di ansia e preoccupazione. «La prego, direttore, che cosa è successo?» «Mia cara figliola, mi piange il cuore nel comunicarle che il professor Kent è morto». Catherine si lasciò cadere sulla sedia più vicina, il volto terreo. Lottò per riprendere il controllo di sé. «Come? Quando?» «Sembra sia successo due giorni fa, in Perú... a Machu Picchu, nei pressi delle rovine degli Incas. È venuta la polizia... sono andati via da poco. L'ho voluta avvertire immediatamente, Catherine». Negli occhi di Catherine c'era l'espressione attonita di chi si trova sotto shock. «Non ci credo! Voglio dire, cosa è successo? Dev'esserci un errore. Il professore mi aveva detto che andava in Messico... Sarebbe dovuto tornare ieri sera sul tardi». Il direttore si sforzò di essere il più possibile diplomatico. «Non è ancora stato appurato con certezza, ma la polizia peruviana ha concluso che si è trattato di suicidio». In un istante, il volto di Catherine passò da un'espressione sconvolta a una di profonda incredulità. Si raddrizzò di scatto sulla sedia. «No! È impossibile. Non può essere... Si tratta di un terribile errore». Il direttore si alzò in piedi e aggirò la scrivania. Non sapendo bene cosa fare, riempì un bicchiere d'acqua e glielo portò. «Mia cara, sono davvero dispiaciuto. La polizia ha in mano tutta la situazione... Cerchi di stare tranquilla, ora». Catherine stava scuotendo la testa. La sollevò per guardarlo negli occhi. «Il professor Kent non aveva nessuno. La sua unica sorella è morta tre anni fa. Non c'è nessuno da avvertire, nessuno che possa organizzare il funerale. È veramente tragico... Ma voglio saperne di più. C'è stato sicuramente un errore. Glielo garantisco. Non è possibile che il professore si sia suicidato... Voglio parlare personalmente con la polizia». Il direttore le sorrise con dolcezza. «Catherine, mia cara, la capisco in pieno. Ma aspettiamo di vedere il rapporto completo che ci spediranno dal Perú. Sono certo che l'ufficio di collegamento della polizia britannica a Lima abbia la situazione sotto controllo. Se lo desidera, una volta arrivato il rapporto, la accompagnerò alla stazione di polizia. Non c'è molto che io possa fare, oggi, devo partecipare
a diversi incontri, nel pomeriggio... e non posso cancellarli, anche se ne avrei una gran voglia». Il giovane viso di Catherine fu attraversato da un'espressione di ferma determinazione. «No... capisco. La ringrazio per avermi avvertita subito. Ha fatto bene. Devo assicurarmi che vada tutto bene. Era il mio migliore amico, in questo Paese, come lei sa bene. Devo andare a casa a riordinare un po' le idee». «Ma naturalmente, mia cara. È una brutta giornata. Davvero brutta... Il professor Kent era un brillante studioso e, cosa più importante, un uomo straordinariamente buono e perbene. Mi dispiace davvero tanto». Catherine si alzò dalla sua sedia, afferrò la borsa e si diresse verso la porta. Mentre appoggiava la mano sulla maniglia, il direttore le disse: «Un'ultima cosa...». Lei si voltò a guardarlo. Le sembrava che avesse cambiato tono di voce... ma forse era soltanto una sua impressione, dopotutto era sconvolta. «Il professore le ha detto qualcosa, l'ultima volta che vi siete visti? O magari le ha dato qualcosa?». Da qualche parte, nel profondo del subconscio, Catherine sentì suonare un campanello d'allarme. «Scusi, ma non capisco cosa intenda». L'anziano professore la guardò fisso negli occhi. «Soltanto che forse stava lavorando su un progetto di ricerca e che gliene ha parlato... o magari le ha dato qualcosa? Se è così, potrebbe farlo avere alla polizia...? Forse potrà essere d'aiuto nelle indagini». Mantenendo la compostezza, Catherine restituì lo sguardo fermo e imperturbabile. «No, nulla che io ricordi... L'ultima volta che ho visto il professor Kent è stato circa dieci giorni fa. Ho preso un tè con lui, nel suo cottage nelle Cotswolds. Niente regali o roba del genere. E posso assicurarle che era del suo solito buonumore». Aprendo la porta e uscendo in corridoio, Catherine sentì la voce secca del direttore alle proprie spalle: «Una cosa terribile... davvero terribile». Catherine chiuse la porta con decisione. Il cuore le martellava nel petto. Guardò da una parte e dall'altra del corridoio, poi, sicura che non ci fosse nessuno che potesse vederla, aprì la borsa; la lettera proveniente dal Perú era ancora lì. 3
Catherine si avviò direttamente verso le stanze del professor Kent. Aveva una sua chiave personale, dal momento che usufruiva spesso del suo studio e della sua biblioteca, quando il professore era in viaggio. In realtà, anche quando non lo era, Kent preferiva lavorare da casa: una fattoria isolata nell'Oxfordshire, base perfetta per le sue ricerche. Era una tipica costruzione in stile Cotswold, con un giardino pieno di colori, circondato da un muro a secco e da ampie distese di campi. Catherine vi aveva trascorso tante ore felici, e pensare che ora quel posto era vuoto e che non avrebbe mai più accolto il professore le procurava una profonda malinconia. Uscì nel cortile interno e lo attraversò, raggiungendo il passaggio medievale che conduceva alle scale del professore. Mentre aggirava il praticello quadrato, si sentì travolgere dai ricordi. Quella tragica notizia era veramente troppo dura da accettare... «Posso aiutarla, mia cara?». Era la voce del portiere del college. Catherine ne percepì la stretta sul braccio e quando d'improvviso tornò in sé, si accorse di essere in piedi al centro del prato, con il viso bagnato di lacrime. «Scusami, Fred, sono solo un po' confusa». Cercò di sorridere, passandosi velocemente una mano sulle guance per asciugarle. «Le serve qualcosa?» «No... Mi dispiace, sto bene, ora... Volevo solo stare un po' da sola nell'alloggio del professor Kent». Un minuto dopo era già nello studio dalle pareti rivestite di libri. Non sapendo bene cosa fare, si accomodò nella sua poltrona preferita, quella accanto al caminetto, e cercò di concentrarsi meglio su quanto era accaduto. Era lì, nella pace e nella tranquillità dell'accogliente studio del professore, a Oxford, mentre a migliaia di chilometri di distanza lui era rimasto vittima di una morte orribile, su una montagna solitaria e sperduta. No, non poteva trattarsi di suicidio... Ma che stavano dicendo? Era un'ipotesi troppo orribile, per poter essere contemplata... Non aveva senso. La sua mente galoppava; cercò di ricordare se l'ultima volta che si erano visti lui avesse detto o fatto qualcosa che potesse dare adito a una simile intenzione. Ma non trovò nulla. Era andata a trovarlo alla fattoria soltanto due settimane prima. Il professore era stato gentile e affettuoso, come sempre. Avevano parlato di argomenti riguardanti il college e lui le aveva mostrato un'orchidea rara, speditagli da un amico. L'aveva sistemata davanti alla fi-
nestra della cucina, sperando che potesse fiorire. Le aveva detto che non vedeva l'ora di rivederla dopo il viaggio, che desiderava presentarla a un suo vecchio amico, interessato al suo stesso campo di studi. Poi si erano congedati. Catherine posò la borsa sulle ginocchia e ne estrasse la busta marrone, esaminandola con cura. Sì, si trattava decisamente della calligrafia del professore. Perché diavolo non ne aveva messo al corrente il direttore? Cosa glielo aveva impedito? La aprì, strappando nervosamente la carta con le dita. All'interno c'era un involucro di plastica contenente una serie di mappe, sulle quali era stato fissato un biglietto bianco grande all'incirca come una cartolina postale. C'era scritto qualcosa. Infilò febbrilmente la mano nell'involucro di plastica, ne estrasse il cartoncino e lo voltò per leggerlo. Quando vide cosa c'era scritto, il sangue le si gelò nelle vene. Se non dovessi ritornare... Eureka! 40 10 4 400 30 9 30 70 100 5 200 30 10 40 4 80 5 100 400 40 10 50 10 200 300 100 8 70 9 1 50 300 10 20 800 10 300 40 200 0051172543672 "Cosa sta succedendo? Cosa diavolo significa tutto ciò?". Catherine si alzò in piedi e si diresse a passo veloce verso la scrivania. Spostando di lato tutte le carte del professore, appoggiò le mappe sul ripiano. Erano sette in tutto. Il suo numero fortunato, pensò con triste ironia. Mettendole una accanto all'altra, iniziò a esaminarle con cura. Tre erano state elaborate al computer: il genere di mappe che si vedono negli atlanti. Le altre quattro erano chiaramente delle copie di documenti più antichi. A quanto pareva, gli originali erano carte molto antiche, probabilmente antecedenti il Medioevo, e mostravano punti diversi del mondo. Non riuscì a riconoscere subito i luoghi raffigurati, ma era chiaro che si trattava di mappe autentiche e realistiche, e non di illustrazioni di fantasia: vi si potevano riconoscere diverse linee costiere, sistemi fluviali, catene montuose e isole. La qualità della carta era strana, come la qualità delle copie. Dopo aver riletto l'annotazione sul cartoncino e aver di nuovo esaminato - senza capirle - le misteriose mappe, Catherine fu assalita dal panico.
"Ma cosa rappresentano queste mappe? E cosa significa l'annotazione del professore?". 4 James Rutherford guardò l'ora che compariva nell'angolo destro dello schermo del portatile: le 12.55. Con gesti affannati, riversò i libri che aveva sulla scrivania nella borsa e spense il computer. Doveva uscire immediatamente dalla biblioteca. Aveva un appuntamento col professor Kent, una delle menti più brillanti dell'università, e non voleva assolutamente far tardi. Rutherford aveva conosciuto il professor Kent solo due settimane prima. Erano entrambi ospiti a cena da un collega di Rutherford e per puro caso si erano trovati vicini a tavola. Si erano messi subito a parlare fittamente di antiche mitologie, un argomento a cui il professore era molto interessato; anche troppo, in realtà, dal momento che la materia non aveva nulla a che fare con la sua specializzazione - così almeno era sembrato a Rutherford -, ma quel che lo aveva affascinato maggiormente era stata la vastità delle conoscenze del professor Kent. Per tre ore, non avevano parlato d'altro. James Rutherford era uno dei massimi esperti universitari di mitologia mondiale. Nonostante tutti all'università sapessero delle sue doti di polimatematico, il vecchio professore era altrettanto rinomato per essere un ecologista convinto. Ma l'ecologia sembrava assai lontana dal mondo degli antichi testi di Rutherford e dai suoi studi su strani e favolosi miti e leggende. Per questo era rimasto così stupito. Era stato due giorni dopo la loro conversazione a cena che il professore lo aveva contattato, apparentemente senza ragioni precise, per fissare un incontro. Rutherford era appena rientrato nel suo spazioso appartamento situato nella parte nord di Oxford, il quartiere accademico della città, dopo una lunga corsa nel parco dell'università. Entrando in casa, aveva trovato la donna delle pulizie, Anne, che passava l'aspirapolvere. James ricordava di essere sprofondato sulla più vicina poltrona, esausto. A trentotto anni, era in ottima forma, asciutto e magro, e aveva una folta capigliatura scura. Stava attento a quel che mangiava e beveva e tutti gli dicevano che dimostrava meno anni di quanti ne aveva in realtà, ma una corsa di quattordici chilometri era pur sempre una corsa di quattordici chilometri.
«Qualcuno è venuto a trovarla». Rutherford aveva raddrizzato subito la schiena. «Purtroppo, non si tratta di una bella ragazza». Anne era del parere che James dovesse pensare al matrimonio, sistemarsi e metter su famiglia, invece di perdere tempo a «studiare sui libri vecchi», come diceva lei. «Oh, okay, continuerò a sperare... Dunque chi era il misterioso visitatore, visto che non si trattava della donna dei miei sogni?» «Il professor Kent, da All Souls». Anne aveva preso una busta dal tavolo della cucina e gliel'aveva portata. «Mi ha detto di darle questa». Saltando su dalla poltrona, James aveva afferrato la busta ed era uscito sulla spaziosa terrazza che si affacciava sui campi da gioco del college e sulle colline sullo sfondo. Qui, in perfetta tranquillità, aveva letto quanto era scritto sul foglio che la busta conteneva. Caro dottor Rutherford, Mi ha fatto davvero molto piacere parlare con lei, l'altra sera a cena. A rischio di infastidirla, vorrei portare avanti il nostro discorso sulle antiche mitologie. Credo di esser sul punto di fare una scoperta monumentale. Sono convinto di aver trovato, nascosto fra i vari miti e le varie religioni del nostro pianeta, un terrificante messaggio proveniente dal passato. Tale messaggio, che sono riuscito a decodificare, è una sorta di monito da parte di un popolo da tempo scomparso: un monito finalizzato a farci evitare il cataclisma che ha distrutto la loro civiltà. È di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell'umanità che questo messaggio venga diffuso, o quello stesso cataclisma finirà per colpire sia noi che l'intero pianeta. Gli antichi sapevano che l'umanità sarebbe rinata dalle proprie rovine e che un giorno sarebbe stata in grado di comprendere i contenuti del loro messaggio. Vi sono tuttavia delle entità che vogliono distruggere tale messaggio, e penso di avere anche scoperto perché. Mi farebbe molto piacere se passasse da me al college per un caffè, un giorno di questi. Che ne direbbe di martedì, non della prossima settimana, ma di quella dopo, alle 13? Mi faccia sapere se ha qualcosa in contrario, altrimenti l'aspetto per quel giorno.
Con la più sincera stima, Prof. Kent Rutherford non aveva quasi creduto ai suoi occhi. Le cose che diceva il professor Kent erano pazzesche. Un accademico di punta - uno scienziato, nientemeno - e un uomo prudente, che dichiarava di aver scoperto cose che non solo sfatavano gli attuali preconcetti sulla storia dell'evoluzione umana, ma davano per certo che il genere umano fosse in pericolo mortale. Sembrava tutto assai bizzarro, ma negli anni Rutherford s'era allenato a mantenere la mente sempre aperta a tutte le possibilità. Aveva fatto suo il motto della Royal Society: Nullius in verba, Non dare per scontata la parola di nessuno. 5 Catherine si sentiva come intontita. Cosa fare, adesso? Si guardò intorno nello studio del professore, soffermandosi sugli scaffali a lei familiari, sui mobili... e gli occhi le si riempirono di lacrime. Ogni oggetto le ricordava che non avrebbe mai più rivisto il suo caro amico. Le tornò in mente la prima volta che era stata a trovare il professore nella sua fattoria: ormai erano passati molti anni. A quei tempi era ancora una studentessa universitaria di Yale in concorso per la borsa di studio, ed essendo un caro amico dei suoi genitori, il professor Kent s'era offerto di farle un po' da tutore durante il suo soggiorno in Inghilterra. Persino allora sfoggiava la sua inconfondibile barba bianca. «Oh, la mia vita da scienziato eremita non si adatterebbe a molti», aveva detto, ridendo. Avevano fatto una passeggiata in giardino, un luogo ricco di fiori e di cespugli bassi, con un piccolo stagno al centro; poi s'erano inoltrati nei campi inondati dal sole fino ai margini di uno dei due grandi boschi che delimitavano la proprietà. Il paesaggio era splendido, in uno stile garbato e discreto tipicamente inglese, e Catherine capiva perfettamente perché il professore vi trovasse tanta ispirazione. «Ovviamente, trentacinque acri sono fin troppi, per me. Non sono quel che si dice un proprietario terriero. Ho comprato tutto questo terreno soltanto a causa di quel che è accaduto nell'ultimo villaggio in cui ho vissuto. Nei dieci anni che ci ho trascorso l'ho visto distruggere sistematicamente, come spazzato dal passaggio di Gengis Khan. Gli strapparono il cuore
quando eliminarono l'ufficio postale e il pub, poi fu la volta della scuola, e infine tutta la campagna circostante cadde nelle mani di affaristi senza scrupoli. Quando ci ero andato a vivere, i campi e i prati estivi erano l'orgoglio di tutta la contea, coi papaveri rossi e i fiordalisi che crescevano gli uni accanto agli altri fra il grano dorato. In un giorno d'estate, sotto il cielo blu cobalto, era forse lo spettacolo più incantevole che si potesse ammirare da qui a Giove! Ma quei campi e quei fiori selvatici sono spariti ormai da tanto tempo, sostituiti da ampie distese di pascoli e parchi moderni, privi di poesia». Il professore aveva un modo di esprimersi elegiaco, pensò Catherine. Parlava spesso degli antichi vincoli che legavano i popoli ai loro territori e alle stagioni, e al brutale strappo che tali vincoli stavano subendo. A volte gli altri membri del college lo deridevano, per questo. Quando aveva iniziato ad attrarre sostenitori dal movimento degli ecologisti di Oxford, che venivano a trovarlo in sella alle loro biciclette, il tutor anziano lo aveva definito "il nostro guru", ridendo di lui nel refettorio, ma Catherine aveva sempre pensato che fosse un uomo tranquillo ed estremamente gentile e bonario. Erano scesi verso il fiume per sedersi sulla sponda, ad ascoltare il dolce gorgoglio dell'acqua. Ricordava che il professore s'era sfilato le scarpe. E vedere quel luminare della scienza che agitava le dita dei piedi nell'acqua gelida le era sembrato estremamente comico. «Ovunque si guardi, su questo pianeta, lo spettacolo è sempre lo stesso. Le foreste vengono tagliate, le terre prosciugate. L'inquinamento è un fatto endemico. Ogni giorno si estinguono delle specie animali, il campo magnetico terrestre si sta modificando, con chissà quali conseguenze per noi. Lo strato di ozono che protegge tutte le creature viventi dalle radiazioni ultraviolette del sole si sta rarefacendo e la stessa aria che respiriamo contiene sempre meno ossigeno e sempre più biossido di carbonio: un veleno che ci sta soffocando e che sta surriscaldando il pianeta. Perché stiamo facendo questo? Perché siamo ormai del tutto assoggettati all'ideale del progresso economico e le nostre istituzioni sono incapaci di riconoscere il problema per quel che è, attaccandolo con determinazione. Farlo richiede troppa immaginazione, e soprattutto troppi sacrifici. Perché non provi a immergere i piedi nell'acqua, figliola? È deliziosa». Sorridendo, Catherine s'era tolta le scarpe e aveva immerso i piedi nudi nell'acqua. Il professore aveva ragione, era delizioso sentire l'acqua sulla pelle. Del resto, si disse, lei era l'ospite americana in visita, era importante
che si adattasse alle usanze locali. «Vedrai che è una cosa perfettamente sensata, mia cara. Una giornata calda e soleggiata come questa, in Inghilterra, va sfruttata al massimo!», aveva detto il professore. «Ma per risolvere il problema», continuò in tono più serio, «dobbiamo renderci conto che la nostra società industriale, con le sue istituzioni sempre più potenti, la sua smania di crescita e di progresso tecnologico, sta sempre più perdendo di vista i veri scopi della vita. Dobbiamo svegliarci e capire che è la stessa struttura della nostra società a permettere che si formino questi agglomerati di potere: agglomerati che si animano di vita propria, che finiscono per ammontare a molto più della somma delle loro parti. Il nostro obiettivo, nel ventunesimo secolo, dovrebbe essere quello di garantire che il potere venga disperso, che i grandi e distruttivi vortici di potere non si sviluppino mai più. Perché se questo accadrà, ci risucchieranno tutti, ci distruggeranno completamente. Ma purtroppo non sono ottimista; il potere ha una sua ratio particolare e sa come evocare gli aspetti più negativi della natura umana». Seduta sull'erba con i piedi lambiti dall'acqua e con lo sguardo puntato su una distesa di campi, Catherine comprese cosa voleva dire. «Ma ti starò annoiando», disse il professore, «ed è arrivato il momento di andare a prenderci un buon tè. Terribile, da parte mia, attirare una studentessa a casa propria per riempirla di chiacchiere senza nemmeno offrirle qualcosa!». S'erano avviati a piedi nudi fra l'erba alta che costeggiava il prato ed erano arrivati fino al giardini chiacchierando e ridendo spensierati. «Quando mi hanno detto che sarei andata a studiare a Oxford, non mi aspettavo davvero una cosa del genere. Grazie, professore». Catherine fu riportata improvvisamente al presente, con la sua terribile realtà: qualcuno stava bussando con forza alla porta dello studio. 6 Presa dal panico, Catherine infilò il biglietto nella borsa, radunò le mappe sulla scrivania e le nascose velocemente sotto alcuni documenti. Poi, con un respiro profondo, andò alla porta e l'aprì. Nel corridoio, in paziente attesa, c'era un uomo alto e attraente, con i capelli scuri. Le sorrise e le porse la mano. Aveva una voce calda e rassicurante: «Salve, sono il dottor
James Rutherford. Ci siamo già incontrati alla festa del direttore. Sono uno studioso di cultura classica presso il Brasenose College». Catherine era confusa. Certo che si ricordava di lui - dopotutto, non erano molti i professori attraenti, in quell'università -, ma il fatto era che si sentiva ancora molto scossa e non del tutto pronta a condurre una conversazione formale. Presa così alla sprovvista, non poté fare altro che spalancare la porta. Rutherford entrò nella stanza. Sembrava preoccupato, e prima che Catherine avesse il tempo di dire qualcosa, riprese a parlare: «Il portiere mi ha appena informato, sono profondamente dispiaciuto. Non posso credere che sia potuta accadere una cosa del genere». Catherine abbassò leggermente la guardia. Sospirò, scuotendo la testa e per qualche istante dimenticò il biglietto e le mappe. «Sì, è una cosa terribile. Io...». Rimasero in silenzio per pochi attimi, poi Rutherford le spiegò la ragione della sua visita. «Mi dispiace, non volevo essere invadente. Il portiere mi ha detto che lei era qui e volevo soltanto chiederle se sapeva qualcosa di più sull'accaduto. C'è qualcosa che posso fare per aiutarla?». Catherine tornò verso la scrivania. Si accorse che l'angolo di una delle mappe sporgeva dalla pila di documenti con cui le aveva coperte. Cercò di posizionarsi in modo che l'ospite non lo vedesse. «No, la ringrazio. È stato un colpo terribile, e anche se ero una delle sue più care amiche, non ne so molto più di lei. Il mistero è totale; quel che è accaduto non ha alcun senso». Rutherford era rimasto discretamente accanto alla porta. Cercò di spiegare la sua presenza in quel momento: «Vede, dovevo incontrarlo, ci eravamo messi d'accordo di recente. Lo conoscevo appena... Voglio dire, lo conosco dalla TV, naturalmente, e ho letto i suoi libri, ma l'avevo incontrato una sola volta. Ed ero piuttosto lusingato perché mi aveva spedito una lettera nella quale mi chiedeva di vederci, dicendo di necessitare del mio consiglio professionale a proposito di qualcosa... Senta, mi dispiace molto, me ne vado subito. Solo che è strano, sembrava un uomo così sereno». Si voltò per andarsene, ma intanto Catherine pensava: "Forse questo James Rutherford potrebbe essere in grado di aiutarmi. Forse riconoscerebbe le antiche mappe. Dopotutto, è un eminente esperto di antiche civiltà". Ansiosa di risolvere il mistero, Catherine decise di cogliere al volo quella possibilità. Valeva la pena provarci. Dopotutto, cosa aveva da perdere? «Aspetti... Forse, lei può davvero aiutarmi».
«Farò del mio meglio. Di che si tratta? Se vuole, posso avvertire i suoi amici in facoltà, per metterli a conoscenza della terribile notizia». Catherine esitò un attimo. "Ma posso davvero fidarmi di lui? È una semplice coincidenza che dovesse incontrare il professore proprio stamattina, o c'è sotto qualcosa di losco?". Prima di potergli mostrare le mappe e il biglietto, doveva sapere perché il professore lo aveva convocato quel giorno. «Le dispiacerebbe dirmi di che cosa esattamente voleva discutere con lei il professore?». Nel porre quella domanda, Catherine scrutò attentamente il volto del visitatore, alla ricerca di un qualsiasi indizio rivelatore delle sue intenzioni. Rutherford si strinse nelle spalle. «No, certo... Le mostro la lettera che mi ha lasciato». Dopo aver infilato la mano nella tasca interna della giacca, Rutherford ne estrasse il foglio che il professore aveva lasciato ad Anne. Fece qualche passo avanti e lo consegnò a Catherine. Lei lo scorse rapidamente, accigliandosi sempre più. Alzò la testa e lo guardò. «Sono affermazioni alquanto azzardate, da parte del professore. Sa qualcosa di più, in proposito? Avevate già discusso queste teorie in precedenti conversazioni?». Rutherford cercò di ricordare. «Be', tanto per cominciare abbiamo avuto un'unica conversazione. Ma l'ho sempre ammirato e stimato moltissimo. Credo in quel che afferma, e cioè che ci stiamo autodistruggendo... Ma lui non sapeva nulla di me, ci siamo conosciuti per caso alla cena del Balliol college. Non appena è venuto fuori il mio interesse per la mitologia classica, abbiamo iniziato a parlare per tutta la serata. O meglio, lui mi faceva delle domande e io cercavo di rispondere». «Che tipo di domande?» «Be'... Mi è sembrato che fosse molto interessato alle storie riguardanti gli antichi cataclismi. Sembrava convinto che fossero di una certa rilevanza per il suo lavoro. Come, ad esempio, la storia del diluvio universale e di Noè. Lui lo considerava un vero e proprio disastro ambientale verificatosi nell'antichità». «Vuol forse dire che nel mondo vi sono altri miti antichi relativi al diluvio universale che possono corroborare questa teoria?» «Ma certamente». Rutherford non poté trattenere una risatina ironica.
«Ce ne sono almeno altri settecento». «Così tanti! Dunque la storia di Noè non è poi così unica?» «Direi proprio di no. In realtà si può fare il giro del mondo e trovarla un po' ovunque». «Ovunque?». Grato di quell'opportunità di rendersi utile, Rutherford diede inizio alla sua entusiastica spiegazione. «Ma sì, prendiamo ad esempio la Cina. Hanno un mito sul diluvio quasi identico al nostro. Nel loro caso si racconta come gli uomini si fossero inorgogliti, cominciando a ignorare gli dèi, e come questi ultimi avessero deciso di vendicarsi capovolgendo l'intero universo e scuotendolo come un giocattolo. Stelle, pianeti e la Terra stessa si sarebbero dispersi per il cosmo, e poi la pioggia avrebbe inondato tutte le terre». Catherine sgranò gli occhi dalla sorpresa, e Rutherford proseguì, prima che fosse lei stessa a chiederglielo. «In Europa, tanto per rimanere dalle nostre parti, ci sono i Greci con un importante mito sul diluvio. Hanno persino un loro Noè, che chiamarono Deucalione. Lo stesso accade coi Celti, i Vichinghi... e gli Indiani. Lasci che le racconti la loro versione. Manu, l'eroe di turno, vede un pesciolino che nuota in un piccolo stagno vicino a casa sua. Il pesciolino è in realtà il dio Vishnu, che gli chiede di proteggerlo dai pericoli del mondo, promettendogli una preziosa ricompensa. Manu allora lo prende nella sua mano e lo trasferisce in uno stagno più grande, ma il giorno dopo il pesciolino è cresciuto talmente tanto, che Manu è costretto a trasferirlo di nuovo, stavolta in un lago. Qualche tempo dopo, deve portarlo fino al mare. Per ricompensarlo dei favori ricevuti, Vishnu avverte Manu dell'imminente inondazione che colpirà la Terra e gli consiglia di costruire una grande e solida barca; gli ordina di raccogliere i semi di tutte le piante del mondo e coppie di ogni specie animale, poi di salire a bordo e mettersi in salvo. All'arrivo dell'inondazione, Manu fa quel che gli è stato ordinato e Vishnu porta in salvo la sua barca, depositandola sulla cima di una montagna nel Nord del Paese. Manu, Deucalione, Noè... Direi che si tratta sempre della stessa persona, o dello stesso personaggio mitico. Vuole che le faccia altri esempi?». Catherine gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento. Era rimasta colpita dai suoi racconti. Rutherford riprese a parlare, stavolta in tono pensieroso e assorto: «Penso che oltre a essere convinto che tutti questi miti scaturissero da un unico
evento realmente verificatosi, il professor Kent pensasse che venissero impiegati per comunicare un messaggio segreto - sempre lo stesso per tutti quanti - e che attraverso questi miti i nostri antenati abbiano inteso a loro volta avvertirci del pericolo che corriamo». «Allora è per questo che nella lettera ha scritto di pensare di aver decifrato l'antico messaggio segreto». «Sì, credo di sì. E io non vedevo l'ora di scoprirlo. Le più grandi scoperte vengono spesso fatte da persone che sconfinano in un campo a loro estraneo, e questa aveva tutta l'aria di essere una scoperta epocale. Speravo che il professore potesse essere un novello Heinrich Schliemann». «Chi?» «Schliemann era l'archeologo che nel 1871 scoprì il sito dell'antica città di Troia. Ed era un dilettante. Era stato un uomo d'affari di successo e a cinquant'anni era già ricco sfondato. Non aveva più bisogno di lavorare, così decise di tornare all'università e si laureò in cultura classica alla Sorbona, a Parigi. Lì studiò l'Iliade, la storia di Troia. Pensava che da un certo punto di vista, quella storia non potesse essere soltanto un mito, che fosse vera, e che il poeta Omero non avesse fatto altro che descrivere la vera città e la vera guerra; che Achille ed Elena di Troia fossero veramente esistiti e non fossero soltanto personaggi inventati. Inutile dire che nessuno gli credette e che venne deriso dalla comunità accademica, ma dopo tre anni di ricerche nella zona del mare Egeo, Schliemann trovò le rovine di Troia e dimostrò che gli altri avevano torto. Pensavo che il professor Kent avrebbe potuto essere un moderno Schliemann: sa, un "nuovo arrivato" nel campo scientifico specifico, che fa scoperte eccezionali proprio perché non condizionato da preconcetti stereotipati: qualcuno che segue semplicemente le proprie intuizioni». Catherine era immersa nelle proprie riflessioni. Qualcosa le diceva che la ricerca esoterica del professore era in qualche modo correlata alle strane mappe che aveva appena esaminato; inoltre l'intuito le suggeriva di fidarsi di James Rutherford, anche se qualche dubbio lo aveva ancora. Lo guardò dritto negli occhi e fece un sospiro profondo. Aveva deciso: gli avrebbe mostrato le mappe, ma per il momento il biglietto con la frase e i numeri sarebbe rimasto un segreto. «Voglio mostrarle una cosa importante. Le potrà sembrare strano, ma è strettamente collegata a quel che è accaduto oggi. Lei è un esperto di cultura classica... S'intende di antiche mappe?».
Lo aveva preso alla sprovvista. «Io... ehm... sì, un po'». Catherine andò alla scrivania e recuperò le mappe da sotto le carte e i documenti del professore. Mentre le ridistribuiva sul ripiano, si convinse ancora di più che raffigurassero posti reali. «Vorrei che esaminasse queste e mi dicesse se le riconosce, o se hanno un qualsiasi significato, per lei. Per quanto possa sembrarle strano, è una cosa davvero importante. Il professor Kent me le ha spedite poco prima di morire». Rutherford si accostò alla scrivania e cominciò a esaminarle una dopo l'altra con estrema cura. Dopo un minuto o due, sollevò la testa e la guardò; aveva un'espressione seria e tesa. «Temo di non poterla aiutare». Catherine scrollò il capo, delusa. Poi Rutherford le sorrise. «Ma c'è qualcuno che può farlo. Il dottor Von Dechend, emerito docente di geografia. Ho partecipato a un paio delle sue lezioni: è davvero brillante». Lo sguardo di Catherine si riaccese. «Ma naturalmente! Von Dechend... Perché non ci ho pensato prima? Insegna qui, all'All Souls!». Rutherford sembrò sorpreso. «Lo conosce?» «Ma sì, certo! Solo che non mi era venuto in mente... Non parliamo mai di lavoro, ma nella sala comune scambiamo sempre volentieri due chiacchiere». L'espressione di Rutherford s'era fatta più seria e preoccupata. Non voleva che questo segnasse la fine del suo incontro con l'affascinante e brillante Catherine Donovan. Tutta quella storia era troppo eccitante. E costituiva un bel diversivo dalla sua vita accademica di routine. «Che ne dice se l'accompagno? Magari potrò esserle d'aiuto... Anche se finora non ho fatto molto». Catherine non sapeva cosa rispondere. In che diavolo di storia si stava cacciando? All'improvviso era balzata dalla lezione di chiusura del trimestre a un tentativo di capire come fosse morto il suo caro amico e in che tipo di strane ricerche fosse stato impegnato. E adesso, sembrava addirittura prossima a seguirne le tracce nell'ignoto... Guardò James negli occhi. Gli era grata per la sua presenza tranquilla e rassicurante; considerando l'idea di dover affrontare da sola l'oscuro miste-
ro della morte del professore, si sentì pervadere da un'ondata di paura... E, dal momento che da quando aveva appreso quell'orribile notizia, questa era la prima volta in cui si sentiva più sollevata, prese una decisione. «Sì, gliene sarei molto grata». PARTE SECONDA 7 Il rappresentativo edificio che ospita le Nazioni Unite a New York si erge come una sentinella all'incrocio tra la 46a Strada e la Prima Avenue, proprio sull'argine dell'East River, da dove si gode una vista favolosa su tutta Manhattan. Dai piani superiori dell'imponente costruzione si può ammirare Central Park in direzione ovest, mentre guardando verso est si apre l'ampio panorama dei tentacolari quartieri di Queens e Brooklyn e dell'intricata rete di ponti e passaggi che collegano l'isola di Manhattan con le loro sponde orientali. L'edificio è stato progettato nel secondo dopoguerra e la costruzione dei suoi trentanove piani completata nel 1962. La celeberrima sala dei congressi dell'Assemblea Generale, che ospita i rappresentanti di ogni nazione nel mondo, si trova al terzo piano, nel cuore dell'intera struttura architettonica. Pochi sanno che il palazzo delle Nazioni Unite, oltre a svettare nel cielo, affonda anche profondamente nella terra. Sono in tutto undici, i suoi piani in acciaio e cemento armato costruiti nel sottosuolo dell'isola di Manhattan. Tre sono adibiti a garage e parcheggio dei numerosi veicoli diplomatici in continuo movimento fra le varie ambasciate straniere e quartier generali dell'ONU. Un altro piano ospita gli enormi impianti di idraulica e condizionamento d'aria necessari a servire un palazzo di tali dimensioni. Ma sotto tutti questi strati "di servizio", vi sono altri piani sotterranei, progettati con lungimiranza nel periodo precedente la crisi missilistica cubana e destinati a ospitare l'intera assemblea nel caso di un grave attacco alla città di New York. Accessibili da un sistema di ascensori indipendente situato nell'angolo nordorientale dell'edificio, tutte le più importanti attrezzature e gli impianti base della parte superiore sono riprodotti fedelmente anche nel sottosuolo, come accade per ogni importante struttura federale o militare statunitense: un'enorme sala ristorante, tre livelli di uffici e un intero piano destinato agli alloggi. Ma, cosa più importante di tutte, vi è una copia fedele della sala dei congressi dell'Assemblea Generale, da usare nella malau-
gurata eventualità di un imprevisto disastro globale. Questa sala di riserva, situata al settimo piano sotterraneo, non ha mai ospitato l'Assemblea Generale. Subito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, il segretario generale dell'ONU ne ha brevemente considerata l'eventualità, finendo poi per concludere che un simile atto avrebbe inviato un messaggio sbagliato al mondo intero. Perciò, l'intera struttura d'emergenza viene mantenuta completamente vuota e costantemente sigillata. Era un martedì mattina di marzo, le 7 ora standard dell'Est, e durante gli ultimi sessanta minuti circa i due capienti ascensori che scendevano ai livelli sotterranei non avevano smesso un attimo di funzionare. Era dalle sei di quella mattina che una sequela più o meno ininterrotta di limousine e BMW sfilava e sostava davanti all'entrata principale del palazzo dell'ONU, scaricando i suoi passeggeri nel vasto cortile antistante. Erano tutti uomini non accompagnati e indossavano completi costosi ed elegantissimi. La maggioranza era di razza caucasica, ma sembravano esserci rappresentanti di tutte le parti del globo. Senza guardarsi intorno, percorrevano spediti il cordone recintato di sicurezza allestito subito dopo l'11 settembre, esibendo rapidamente le loro credenziali agli addetti al controllo e sparendo nelle gigantesche porte girevoli in vetro, inghiottiti insieme ai primi pallidi raggi del sole. Dietro le porte girevoli, il percorso attraverso l'atrio rivestito in marmo e il corridoio che conduce all'angolo nordorientale dell'edificio, dove si trovano gli ascensori per il sotterraneo, è relativamente breve. I membri dello staff del palazzo dell'ONU, impiegati e addetti alla sicurezza, non batterono ciglio nel vedere arrivare quella delegazione multietnica di persone autorevoli ed eleganti. Il palazzo dell'ONU accoglie più visitatori all'anno di quanto accada in qualsiasi altra struttura pubblica del mondo, e in ogni caso, ognuno di quegli ospiti mattutini sembrava provvisto delle necessarie credenziali di sicurezza. Era un fatto normale, che degli uomini distinti e di mezza età percorressero disinvoltamente quei corridoi del potere. Tutti i visitatori sapevano esattamente dove stavano andando ed erano stati dotati di carte d'accesso personali per gli ascensori. Alle 7.15, il settimo piano sotterraneo ferveva di attività. La sala di riserva dell'Assemblea Generale stava per essere teatro di un meeting del tutto imprevisto e a dir poco inquietante. Alle 7.30, il salone sotterraneo era ormai popolato da un qualcosa come trecento persone comodamente sedute nelle accoglienti poltroncine blu disposte a ferro di cavallo. Stava per iniziare il congresso del-
la Corporazione. Dietro al tavolo dell'oratore che fronteggiava l'assemblea, il posto generalmente riservato al segretario generale dell'ONU, un uomo sulla sessantina dal colorito olivastro e i capelli scuri attendeva pazientemente, con le mani intrecciate sul ripiano e gli occhi che scandagliavano il salone. Era il segretario Miller e, in qualità di segretario generale della Corporazione, era incaricato - nelle rare occasioni in cui ciò era richiesto - di presiedere le assemblee di consiglio del governo globale. Quella era appunto una di queste rare occasioni. Esattamente alle 7.40, scostò la sua poltroncina dal tavolo e si alzò in piedi. Era alto circa un metro e novanta e come tutti gli altri uomini convenuti in quella sala, aveva l'aria di un ricco banchiere di Wall Street o di un importante magistrato. L'unico tratto caratteristico erano gli occhi scuri dalle palpebre pesanti, che scrutavano i convenuti da dietro un paio di occhiali dalle lenti spesse. Sembrava nervoso. In circostanze normali, avrebbe scambiato saluti e frasi di circostanza con gli ospiti in arrivo, curando le pubbliche relazioni, ma quel giorno il suo normale equilibrio era compromesso. Uscì dalla sala dei congressi e si mise a camminare su e giù davanti agli ascensori, con espressione assorta e accigliata. Era molto strano che il comitato ultrasegreto della Corporazione gli avesse chiesto di presiedere un'assemblea del consiglio di governo globale. Una riunione del genere non c'era più stata dai tempi della caduta dell'Unione Sovietica. Cosa poteva significare? Cos'aveva da dire, il comitato? E chi avrebbe incaricato come proprio rappresentante? Prima che Miller avesse il tempo di rimuginare oltre, il silenzio del corridoio fu rotto dal campanello dell'ascensore. Era arrivato il rappresentante del comitato. Quando le porte dell'ascensore si aprirono, il segretario Miller rimase come pietrificato. Davanti a lui, in piedi nella cabina in penombra, c'era il senatore Kurtz. Miller riuscì a malapena a mascherare lo shock. Il senatore Kurtz era un uomo politico importante e molto noto. Era amico intimo di molti membri della cerchia più ristretta del presidente degli Stati Uniti ed era spesso apparso in TV. Una solida base di supporto all'interno della comunità religiosa del suo collegio elettorale del Sud gli dava ottime possibilità di poter assurgere a cariche politiche ancora più importanti. I suoi interessi privati nell'ambito delle industrie degli armamenti e della sicurezza erano un segreto di Pulcinella, come del resto la sua più che probabile candidatura a
segretario della Difesa. Benché la Corporazione potesse vantare fra i suoi membri due dozzine fra ex senatori e uomini del congresso, oltre a uomini politici appartenenti a ogni tipo di fazione ideologica e provenienti da tutto il mondo, era la prima volta che un membro di questo calibro dell'amministrazione in carica era chiamato ad agire attivamente ai vertici del comitato stesso. Lo stesso segretario Miller era un brillante esempio del tipo d'uomo che andava a formare la spina dorsale della Corporazione. Era un grosso finanziere che, nel suo ambito d'interesse, aveva acquisito un potere che avrebbe fatto invidia a un imperatore romano. Dal padre aveva ereditato il controllo della Grippen S.p.A., una banca svizzera privata, oltre a detenere ampie e molteplici partecipazioni azionarie nel campo delle aziende per le risorse naturali; aveva migliaia di dipendenti in tutto il mondo. Ma era un'eminenza grigia, non amava le luci dei riflettori. Era un fedele servitore della Corporazione e la sua lealtà era stata ripagata in mille modi, ma non era stato introdotto nelle più alte sfere del comitato. Non sapeva nemmeno secondo quali criteri venissero eletti i suoi membri. Anzi, non ne conosceva nemmeno il numero esatto. Ma sapeva che un politico militante come il senatore Kurtz che si metteva così apertamente in gioco era sintomo di una procedura estremamente insolita. In realtà, nella stessa amministrazione del senatore Kurtz c'erano molte persone, presidente degli Stati Uniti compreso, che si sarebbero scandalizzate se fossero state messe al corrente della reale portata del potere della Corporazione. Il segretario Miller fece un passo avanti, deglutendo a fatica. «Benvenuto, senatore. È un piacere averla qui con noi, oggi». Il senatore uscì dall'ascensore. Di poco più basso del suo interlocutore, la sua forma fisica e l'aria vivace non smentivano l'immagine che se ne ricavava dalla TV. All'università era stato un atleta di valore ed evidentemente continuava ad allenarsi con regolarità. I capelli neri si stavano imbiancando sulle tempie, ma era ancora un uomo attraente, virile e dai lineamenti aristocratici. Tese la mano. «Lei dev'essere il segretario Miller». «Esattamente, signore. Benvenuto. Devo dire che è un vero onore...». Gli occhi scuri del senatore scrutarono il corridoio. Le sue guardie del corpo dei Servizi Segreti lo stavano aspettando al pianoterra. Non si potevano fare eccezioni, nemmeno per un membro in carica del senato degli Stati Uniti.
Il tono del segretario Miller tradiva il suo nervosismo: «È tutto pronto. Ho convocato il consiglio governativo della Corporazione, come richiesto dal comitato». Dispensato dai preliminari e dalle formalità di rito, il senatore Kurtz parlò di nuovo, con una voce dal suono metallico: «È certo che la segretezza, qui, sia garantita?». Si guardò intorno e continuò, sempre in tono burbero: «Per quanto possa sembrare ironico impiegare il quartier generale delle Nazioni Unite come piattaforma di lancio per la nostra definitiva ascesa al potere, sarebbe estremamente sconveniente attirare inutilmente l'attenzione su di noi, in questo stadio avanzato dell'operazione». Con aria leggermente piccata, il segretario indicò con un ampio gesto del braccio la strada da seguire per accedere nel salone, come un paggio che fa strada al suo sovrano. «La scelta del luogo del convegno non è certo frutto di un esecrabile senso dell'ironia. Il palazzo delle Nazioni Unite ci consente la massima copertura per i nostri andirivieni. L'appezzamento di territorio è di proprietà dell'Autorità Portuale della città di New York, a sua volta sotto il nostro controllo. Ma come sempre, questo sarà il nostro primo e ultimo meeting in questo luogo». Il senatore sembrò rilassarsi e rivolse al segretario un caloroso sorriso. «Bene. Ottimo lavoro. Molto presto non ci sarà più alcun bisogno di tutto questo...», fece un ampio gesto con la mano sinistra. «Il nostro supergoverno dovrà continuare ad agire in condizioni illegali solo per pochi giorni ancora, ecco tutto. Lunedì mattina, all'alba dell'equinozio di primavera, potremo fare a meno di questa messinscena». Fece una piccola pausa, poi, rivolgendosi bruscamente al segretario, come se si aspettasse che mentisse, gli domandò: «E il professore?». Gli occhi di Miller si strinsero impercettibilmente. Non si sentiva affatto a suo agio, sotto lo sguardo indagatore del senatore. Ogni fibra del suo corpo gli lanciava segnali d'allarme. Ma per quale ragione, visto che erano ormai sull'orlo del successo, il senatore era tanto preoccupato del professore e ossessionato dalla cancellazione definitiva di ogni prova del lavoro che l'anziano luminare aveva svolto? Quale minaccia poteva costituire, a quel punto, una semplice collezione di antiche mappe? Il senatore Miller poteva soltanto supporre che il comitato avesse le sue misteriose ragioni: per lui, tutta quella storia era ancora avvolta nel mistero. Guardò il senatore dritto negli occhi e, deglutendo a fatica, annuì. «Ordine eseguito».
Il senatore Kurtz emise un grugnito d'approvazione. Corrugò le sopracciglia. «È un brutto affare, segretario, un bruttissimo affare. Ma come diceva Shakespeare... "Le necessità debbono..."». Poi, all'improvviso, si voltò e diede una pacca sulla schiena del segretario. «Non si senta in colpa, segretario. Siamo in guerra, e il professore costituiva una minaccia diretta per gli interessi della Corporazione. Le guerre sono complicate... caotiche... Le perdite sono inevitabili». Agli angoli della bocca del senatore baluginò un accenno di sorriso, che sparì in un batter d'occhio, rimpiazzato da un'aria di cupo sospetto. Gli occhi glaciali del senatore tornarono a fissarsi sul segretario. Da giocoso e amichevole, il tono di voce era tornato freddo e diffidente. «Mi permetta di ricordarle una cosa, segretario: una cosa di estrema importanza. Su questa Terra non c'è nulla di più pericoloso per la nostra causa dell'iniziativa personale. Nulla. Il professore ne è l'esempio più lampante. Una delle qualità della nostra costituzione è quella di concedere alla gente una certa dose di flessibilità, una certa dose di libertà. Alcuni la riterrebbero persino eccessiva». Il segretario era come inchiodato al suolo. «E questo ovviamente è un bene», proseguì Kurtz. «Ma il problema è che la gente si fa delle idee proprie. E questo accade perché non riesce ad avere un quadro generale della situazione: soltanto noi siamo in grado di averlo. E, mi dispiace affermarlo, non possiamo assolutamente correre rischi di alcun tipo. Se questo significa ridurre al silenzio le persone, allora direi che è il prezzo che dobbiamo pagare. Mi mostri una guerra in cui non ci siano state perdite di vite umane e io le mostrerò una sconfitta lampo... Bisogna sempre tenere a mente il quadro generale, più ampio. La Corporazione deve essere messa in condizione di completare il proprio lavoro per il bene dell'umanità. Quel che è bene per la Corporazione, è bene per tutta l'America. Dio ci ha messo a disposizione le risorse naturali del mondo, e noi dobbiamo sfruttarle prima che lo faccia qualcun altro». I due cominciarono ad allontanarsi dall'ascensore, dirigendosi verso la sala dei congressi. Il senatore Kurtz appoggiò la mano sulla spalla del segretario, un po' come un allenatore che manda in campo uno dei suoi giocatori. «Se la gente avesse la minima idea di quello che l'aspetta nel prossimo futuro, il nostro governo cadrebbe da un giorno all'altro. Il disastro di New
Orleans sembrerebbe un picnic, a confronto, e tutti i nostri sforzi verrebbero vanificati in un secondo. Non sto esagerando. Ci sarebbero rivolte per le strade, la nostra civiltà crollerebbe in men che non si dica. E si verificherebbero eventi catastrofici come lo stupro di massa, il saccheggio e la completa anarchia. L'assassinio sarebbe all'ordine del giorno. Dobbiamo essere noi a scegliere il momento giusto per innescare un caos di questa portata». Il segretario mormorò qualcosa, annuendo. Stavano avvicinandosi all'entrata della sala dei congressi. Il senatore si fermò di botto, come colpito da un pensiero inaspettato. «Ma dobbiamo andare avanti», disse. «Il comitato esige che lei tenga sotto stretta osservazione gli ex collaboratori del professore. Trovare e distruggere il resto delle mappe è la nostra priorità assoluta, al momento. Bisognerà raggiungere chiunque si sia anche solo trovato nella stessa stanza in cui sono custodite. Gli agenti incaricati ne sono stati informati e mandati al college? Immagino lei abbia già bruciato la mappa di cui ci siamo impossessati in Perú». «Sì, senatore, naturalmente... Come da lei richiesto». Il senatore Kurtz si raddrizzò la cravatta e fece un sospiro profondo, prima di rivolgersi un'ultima volta al segretario in forma privata: «Bene. Tutto in ordine, allora. La Corporazione agisce nell'interesse del pubblico, ma il tutto deve accadere a porte chiuse... Così va il mondo. E ora mi presenti ai convenuti. È ora che dia loro la buona notizia. Non mancano che sei giorni all'alba dell'equinozio di primavera; poi giungerà finalmente il nostro momento...». 8 Catherine e James percorsero l'ultima rampa di scale, sbucando sul pianerottolo del dodicesimo piano. Col fiato corto per lo sforzo, Catherine sospirò soddisfatta: «Fiuuu! È libero...». L'unica porta in legno del piano era spalancata. «Non sta "sfoggiando la quercia"». Rutherford corrugò la fronte. «Non sta... cosa?» «Oh, è un vecchio modo di dire. Tutte le stanze, qui, hanno una doppia porta. Quella esterna di legno di quercia e un'altra interna. Se chiudi quella esterna, significa che non vuoi ricevere gente: stai "sfoggiando la quercia". Andiamo, ora».
Rutherford si fermò in cima alle scale, sorreggendosi al passamano e fissando Catherine. «Pensa che dovremmo informarlo della morte del professor Kent, nel caso non lo sia già venuto a sapere?». Catherine era molto risoluta, adesso. Lo stato di confusione iniziale era stato rimpiazzato da una ferrea determinazione. «No... non credo... Se ancora non lo sa, non saremo noi a dirglielo. Siamo qui soltanto per chiedergli di aiutarci con le mappe». Bussò decisa alla porta. Dopo quello che parve un tempo lunghissimo, la pesante porta di legno si aprì scricchiolando, rivelando una piccola anticamera buia e la silhouette di un uomo basso e tarchiato. Il dottor Von Dechend era sulla sessantina, con i capelli brizzolati e un paio di baffi rossicci sbiaditi e non curati. Indossava un antiquato spigato in tweed con tanto di gilet. Si sporse in avanti e li scrutò da dietro le lenti spesse dei suoi occhiali. L'aria era impregnata dell'odore del fumo di pipa. Bastò un secondo perché la sua espressione si rasserenasse. «Catherine! Che magnifica sorpresa! Accomodati, ci prendiamo un buon tè! E chi è il tuo amico? Una tua nuova fiamma?». Catherine arrossì. «No... è un mio collega di Brasenose: James Rutherford. James è un classicista ed esperto di antiche civiltà». Il dottor Von Dechend li fece accomodare nel suo accogliente studio, rendendosi conto che non si trattava di una visita di cortesia. Catherine sembrava insolitamente tesa. Non appena sbrigate le formalità di rito e preparato il necessario per il tè, quando furono tutti comodamente seduti sulle poltroncine di pelle davanti al caminetto spento, andò subito al punto. «Allora, cos'è che ti preoccupa?». Catherine lanciò un'occhiata nervosa a Rutherford, poi iniziò a parlare. «Ci chiedevamo se poteva dare un'occhiata ad alcune mappe in nostro possesso, riuscendo magari a riconoscerle e identificarle». Appoggiò delicatamente la busta sul tavolo. Von Dechend si accese la pipa, sostituì gli occhiali dalle spesse lenti con un paio da lettura e cominciò a estrarre i documenti dalla busta, disponendoli con cura sulla propria scrivania. Percepiva nei suoi due ospiti una tensione che andava ben al di là della semplice curiosità accademica. "Spero di saper identificare queste carte", pensò, "o qualcuno rimarrà profondamente deluso, qui".
Orientando la lampada da scrivania direttamente sulla prima delle mappe, il dottor Von Dechend iniziò a esaminare il documento che aveva davanti. «Mmm. Molto, molto interessante. Davvero molto interessante». Guardò Catherine da sopra le lenti degli occhiali. «Da chi hai avuto queste mappe, se posso permettermi di chiedertelo?». La giovane donna esitò per una frazione di secondo. Scoccò un'occhiata a Rutherford, che sollevò un sopracciglio, come a dire che stava a lei decidere. «Dal professor Kent». «Aaah! Kent, eh? E per quale misteriosa ragione uno come lui sarebbe stato interessato a questo tipo di mappe?» «Be', magari se ci dicesse qualcosa in proposito, potremmo essere in grado di scoprirlo». «Molto bene, ma preparatevi. Non si tratta di mappe di tipo ordinario. Anzi, si potrebbero definire come le mappe più inquietanti della storia». 9 Il segretario Miller si alzò in piedi e batté col dito sul microfono che aveva davanti a sé sul tavolo. A poco a poco, il brusio che animava l'enorme salone dei congressi si quietò. Schiarendosi la voce, disse: «Signori. Cedo subito la parola al senatore Kurtz». Sistemò premurosamente il microfono davanti al senatore e tornò a sedersi. Ci fu un basso mormorio di approvazione, quando il senatore Kurtz si alzò dalla sua poltroncina. Prese il microfono e iniziò a parlare: «Grazie a lei, segretario Miller, e grazie a voi, signori, per essere qui oggi. Sono ancora convinto che anche nell'era delle videoconferenze, niente possa rimpiazzare degnamente gli incontri faccia a faccia... e magari anche una bella birretta bevuta in compagnia. Spero che più tardi il segretario ci concederà questo piccolo sfizio...». Una risatina generale risuonò nella sala. Il senatore Kurtz lanciò un'occhiata benevola al segretario, prima di proseguire. «So che alcuni di voi sono venuti da molto lontano per partecipare a questo convegno, quindi vorrei iniziare il discorso garantendovi che qualsiasi sforzo abbiate fatto per essere qui non andrà sprecato. In questa giornata supereremo il punto di non ritorno». I convenuti ascoltavano in religioso silenzio.
«Lunedì mattina, alle 8.05, si verificheranno degli eventi che determineranno la completa distruzione dello status quo globale e la nostra ascesa al potere mondiale. Sto parlando del "colpo di grazia" definitivo». Dalla sala si sollevò un brusio di eccitata aspettativa. Il segretario Miller scrutò la folla: si era già trasformata in creta nelle mani del senatore. Era un oratore abilissimo, su questo non c'era alcun dubbio. Non era difficile immaginarlo in televisione, impegnato ora a terrorizzare, ora a rassicurare la nazione in ascolto. Il segretario controllò il proprio orologio e, scivolando silenziosamente dalla poltroncina, si diresse furtivamente alla porta. Nessuno ci fece caso. Erano tutti affascinati dal discorso del senatore, ansiosi di ascoltare i vari sviluppi del suo piano. Quando si avvicinò all'uscita, una robusta guardia della sicurezza gli aprì il battente della porta e Miller uscì silenziosamente nel corridoio. Nonostante le riserve personali che nutriva rispetto alle persecuzioni effettuate ai danni del professore e dei suoi soci e colleghi, aveva un compito da eseguire. Le mappe del professore non erano ancora state decifrate: in quello stesso istante, potevano trovarsi sotto l'occhio attento di qualcuno. Era arrivato il momento di attivare gli agenti in Inghilterra. 10 Il dottor Von Dechend indicò una delle mappe che erano sul tavolo. Catherine e Rutherford la fissarono senza espressione. Era talmente consumata che si distinguevano appena i contorni della terraferma e di qualche fiume o isoletta. «La scienza empirica occidentale è paragonabile a un'enorme diga costruita da innumerevoli mattoni di conoscenze individuali», prese a spiegare l'anziano luminare. «Ogni tanto gli scienziati si imbattono in frammenti di conoscenza che semplicemente non combaciano con lo spazio loro destinato nella diga. La mappa di Piri Reis, questa che abbiamo davanti a noi, è un esempio lampante di quel che sto dicendo. Nessuno, e ripeto nessuno sa come spiegare il mattone dalla forma strana che questa mappa rappresenta». Il dottor Von Dechend si assestò gli occhiali sul naso e proseguì. «Fu realizzata a Costantinopoli nel 1513 da Piri Reis, ammiraglio della flotta turca, e disegnata su una pergamena di pelle di gazzella. Raffigura la costa orientale dell'America del Sud, la costa occidentale dell'Africa e la
costa settentrionale dell'Antartide... quando questa era un paradiso tropicale, prima che si ricoprisse di ghiaccio. Ovviamente Piri Reis non fece personalmente il sopralluogo. Affermò di aver impiegato molte mappe diverse, tratte dagli archivi imperiali ottomani. Ora, possiamo affermare con una certa sicurezza che la costa dell'Antartide rimase priva di ghiaccio soltanto dal 14.000 al 4000 a.C. Prima di ciò, si verificò un'era glaciale e l'Antartide rimase sepolta sotto miliardi di tonnellate di ghiaccio, come del resto è oggi. Vedete dunque i problemi suscitati da una simile mappa. È impossibile che la costa sia stata disegnata prima del 4000 a.C. - dal momento che era ricoperta di ghiaccio e lo è rimasta fino a oggi -, eppure il periodo antecedente il 4000 a.C. è quello che noi conosciamo come l'età della pietra. In poche parole, questa mappa sembra minare le stesse fondamenta della storia della Terra, così come la conosciamo oggi». «Ma è incredibile», disse Catherine. Lanciò un'occhiata a Rutherford, che aveva un'aria analogamente sconcertata. «Esattamente. Ed è per questo che la considero la mappa più inquietante di tutti i tempi. Nei corridoi di questa università, e di fatto in tutte le università del mondo occidentale», il dottor Von Dechend fece un ampio gesto con la mano, indicando quel che c'era al di là delle pareti del suo studio e oltre, «la civiltà ha inizio nella terra di Sumer, nel 4000 a.C. L'ultima era glaciale finì all'incirca nell'8000 a.C. e col ritiro dei ghiacci l'umidità da essi rilasciata si disperse nell'atmosfera, riportando la vita sulla Terra. I popoli cacciatori del periodo neolitico, sopravvissuti a stento al lungo inverno dell'era glaciale, si ritrovarono improvvisamente a condurre una vita più agevole e questo, in Mesopotamia e nelle terre della "mezzaluna fertile", l'odierno Iraq, condusse allo sviluppo delle prime comunità rurali stanziali. Antecedentemente, secondo la storia ufficiale, l'umanità, fino al 4000 a.C, era ancora "arretrata", e dunque incapace di disegnare delle mappe territoriali. Da allora, la "civiltà", e impiego questo termine con tutte le riserve possibili, s'è evoluta fino a oggi, con pietre miliari come le bombe nucleari, le astronavi e le guerre mondiali». "Non è certo un fanatico del progresso", pensò Rutherford. "Ma questo fatto è davvero sorprendente. Come ha fatto il professore a venire in possesso di queste mappe? E come si proponeva di usarle?" «Come vedete», concluse Von Dechend, «non c'è alcuna possibilità di far rientrare nella nostra storia questa mappa di Piri Reis; quindi, si è semplicemente provveduto a escluderla da essa».
«Ma come fa la versione convenzionale della storia a continuare a prevalere?», chiese Rutherford. «Perché questa mappa non viene sottoposta all'attenzione pubblica?». Il dottor Von Dechend lo guardò laconico. «Amico mio, il fisico di fama mondiale Max Planck una volta disse quanto segue», il dottore si schiarì la voce con fare teatrale: «"Una nuova verità scientifica non consegue il proprio trionfo convincendo i propri oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto attendendo che essi muoiano e che una nuova generazione abituatasi ad essa si faccia adulta"». "Se fosse così", pensò Catherine, "il passato dovrebbe essere pieno di verità dimenticate e da tempo cancellate. E, analogamente, basterebbe semplicemente eliminare determinate persone, perché la versione dei loro assassini possa prevalere". L'idea le provocò un attimo di sgomento e la sua mente tornò a concentrarsi sul professore. "La gente non viene uccisa per le proprie idee, no?". Fortemente scossa, si sforzò di focalizzare l'attenzione su Von Dechend, che s'era alzato in piedi. «Visto che siamo su questo argomento curioso, lasciate che vi mostri una lettera interessante... Dev'essere da qualche parte, qui intorno... Vediamo... Si tratta di una lettera scritta dal tenente colonnello Ohlmeyer dell'Aeronautica Militare degli Stati Uniti a un certo professor Charles Hapgood del Keene College nel New Hampshire, un mio collega studioso di cartografia antica. Questo professor Hapgood gli aveva precedentemente chiesto di confrontare la mappa di Piri Reis con i suoi risultati di ricognizione in Antartico: una missione senza precedenti. La risposta di Ohlmayer parla da sé». Von Dechend si recò con passo incerto alla libreria, allungò il braccio e afferrò una cartella contenente un fascio di lettere. Prese quella in questione e la mise sul tavolo, perché i suoi due ospiti potessero leggerla. 6 luglio 1960 USAF Base Aeronautica Militare di Westover Caro professor Hapgood, La sua richiesta di valutazione di alcune inusuali caratteristiche della mappa di Piri Reis del 1513 da parte di questa organizzazione è stata riesaminata. La supposizione secondo la quale la parte
inferiore della mappa rappresenti la Princess Martha Coast del Queen Maud Land nell'Antartico, e la penisola Palmer, appare ragionevole. Riteniamo che questa sia la più logica e più corretta interpretazione della mappa stessa. Il dettaglio geografico che appare nella parte inferiore della mappa coincide in maniera sorprendente con i risultati del profilo sismico compiuto attraverso la superficie della calotta glaciale dalla Spedizione Antartica svedesebritannica del 1949. Questo sta a indicare che la linea costiera è stata rappresentata sulla mappa prima che fosse ricoperta dalla calotta glaciale, che in questa regione è attualmente spessa circa un chilometro e mezzo. Non abbiamo idea di come i dati riportati sulla mappa possano conciliarsi con il presunto stato delle conoscenze geografiche nel 1513. Harold Z. Ohlmeyer, Tenente colonnello USAF Rutherford non riuscì più a trattenersi. «Ma è un fatto straordinario! Come mai non avevamo mai sentito parlare di questa mappa? Perché non ha generato un maggiore interesse?». Si alzò in piedi, eccitato, e cominciò a camminare per la stanza. Catherine non poté fare a meno di notare le sue spalle larghe e robuste e il modo in cui i capelli gli cadevano disordinatamente sul colletto della camicia. Von Dechend annuì come un vecchio saggio e proseguì: «Be', stranamente, quando Hapgood fece questa scoperta, per gentile concessione dell'Aeronautica Militare statunitense, contattò Albert Einstein. Deve aver pensato che se c'era bisogno di un qualche appoggio, era meglio riceverlo dal padre delle fisica moderna in persona». «Einstein! Wow! Hapgood faceva sul serio, dunque», osservò Rutherford. «Esatto. E scelse anche l'uomo giusto. Come tutti i veri grandi pensatori, Einstein era sempre lieto di accogliere nuove idee, anche se esulavano completamente dall'ambito delle conoscenze scientifiche dell'epoca. Guardate qui: questo è un estratto della prefazione scritta da Einstein per uno dei libri di Hapgood». Von Dechend estrasse un altro volume dai suoi scaffali, lo aprì alla pagina in questione e lo spinse verso di loro. Ricevo spesso delle comunicazioni da persone che desiderano consultarmi a proposito delle loro idee non ancora pubblicate. I-
nutile dire che tali idee raramente posseggono una validità scientifica. Ma la prima comunicazione che ricevetti dal signor Hapgood ebbe il potere di elettrizzarmi. La sua è un'idea originale, di estrema semplicità e - se dovesse continuare a dimostrarsi valida di enorme importanza per qualsiasi argomentazione riferita alla storia della superficie terrestre... A. Einstein Catherine e James si scambiarono un'occhiata. Von Dechend era decisamente a suo agio. S'era appoggiato allo schienale della sedia e teneva gli occhi chiusi. «Il nostro professor Hapgood», proseguì, «era interessato alla mappa di Piri Reis perché era convinto che appoggiasse la sua teoria sulla deriva, o spostamento, della crosta terrestre. Sosteneva che, in certi periodi ricorrenti, l'intera crosta terrestre si spostasse. Probabilmente conoscete la teoria dello slittamento delle placche tettoniche?». Annuirono entrambi. «Nei loro punti di congiunzione si verificano generalmente delle forti attività vulcaniche», disse Catherine. «Esatto. La faglia di Sant'Andrea che attraversa la California è un esempio della congiunzione di due placche tettoniche. Per questo la California è una zona regolarmente vessata dai terremoti. Comunque, Hapgood credeva che non fossero soltanto le singole placche a urtarsi e frizionare fra loro, ma che talvolta tutte le placche del globo si muovessero insieme. Immaginate la crosta terrestre, la litosfera, come il guscio di un uovo gigantesco. In alcuni punti la litosfera è spessa soltanto una cinquantina di chilometri. Sotto di essa troviamo roccia fusa, metalli e ogni genere di gas e liquidi in scorrimento continuo. Ora, in teoria non c'è ragione per cui Hapgood dovesse avere torto. Sosteneva che il motivo per cui l'Antartico era originariamente privo di ghiacci risiedesse nel fatto che si trovava in un luogo del tutto diverso: circa una trentina di gradi più a nord. Interessante, non trovate? E non è tutto: anche Einstein era d'accordo... Anche lui credeva che la mappa di Piri Reis fosse veritiera. Tuttavia, né Einstein né Hapgood provarono mai a spiegare chi, prima del 4000 a.C, potesse essere stato in grado di stilare una mappa del genere. Questo rimane un mistero». Catherine e Rutherford rimasero a guardare incantati il dottor Von Dechend che esaminava le altre mappe. Borbottando fra i denti con aria divertita ed entusiasta, il dottore annuì gravemente, poi si raddrizzò e fece un
passo indietro. «Le ha trovate tutte!», annunciò il geografo, stupefatto. «Cosa intende dire?», chiese Catherine, ansiosa. «Kent è riuscito a raccogliere le copie di tutte le mappe più strane del mondo. Guardate!». Ora Von Dechend si muoveva spasmodicamente da un capo all'altro del grande tavolo, soffermandosi ora su questa, ora su quella mappa. «Questa è una mappa disegnata dal Mercatore, il più grande cartografo di tutti i tempi. Anche qui è rappresentato l'Antartico prima che fosse ricoperto dal ghiaccio. Le caratteristiche geografiche sono esatte. Qui invece abbiamo la grande mappa di Buache. Questa è particolarmente interessante! Buache la pubblicò nel 1737, dichiarando di aver fatto uso di diverse mappe antiche scomparse da moltissimo tempo. Rappresenta l'Antartico senza ghiaccio, ma formato da due continenti divisi da un canale acquatico. Anche in questo caso, il fenomeno è stato ufficialmente scoperto soltanto nel ventesimo secolo, dopo accurati rilevamenti». Catherine e Rutherford si scambiarono un'occhiata attonita. Erano entrambi affascinati: le implicazioni contenute in quelle mappe erano importantissime. Come il mistero dei Dogon, che Catherine aveva descritto ai suoi studenti soltanto poche ore prima, quelle mappe sembravano porre interrogativi senza risposta, solo che in questo caso non si trattava di un semplice giochetto accademico. Quella straordinaria raccolta di antiche carte geografiche era l'unico indizio che avevano per poter formulare un'ipotesi sulla morte del professore. 11 Bussarono alla porta e il dottor Von Dechend si voltò di scatto. Entrò una minuscola cameriera filippina con un vassoio sul quale campeggiavano una grande teiera, una lattiera e tre tazze con piattino. «Aah! Molly. Il tè. Magnifico!». Von Dechend si alzò e spinse le mappe su un lato del tavolo. La cameriera appoggiò il vassoio e uscì. «Lapsang souchong. Va bene?». Sia Catherine che James annuirono e lo ringraziarono mentre versava il liquido ambrato nelle loro tazze. Nel sorseggiare la bevanda sentendosi immediatamente rinfrancato, Rutherford ritenne di dover almeno tentare di spezzare una lancia a favore della versione convenzionale della storia.
«Non potrebbe darsi che le mappe di queste terre siano state tracciate da popoli migratori della preistoria? Magari mentre viaggiavano per il globo, intorno al 5000 o 6000 a.C, raffiguravano quel che vedevano...». Von Dechend gli lanciò un'occhiata ironica. «Oh certo! Riesco proprio a immaginarmeli sulle loro canoe di pelli d'animali, travolti dalle onde alte dieci metri dell'Atlantico meridionale. Me li vedo cercare penne e compassi e carta pergamena. O, mi scusi, dimenticavo: tutte queste cose non erano state ancora inventate, a quei tempi. Be' probabilmente allora incidevano le loro mappe sul sughero, o sulle conchiglie, o meglio ancora su tavole di pietra. Ma anche in tal caso, resta ancora una cosa da chiarire: come facevano a sapere dove si trovavano? Voglio dire, secondo la versione attuale della storia, stiamo parlando di popoli primitivi, dell'età della pietra, senza alcuna nozione scientifica o tecnologica. Come diavolo facevano a sapere dove si trovavano, in mezzo a tutta quell'acqua?» «Mi spiace... Non capisco». «Cosa sa a proposito di latitudine e longitudine?», gli domandò Von Dechend. «Non molto», ammise Rutherford. Catherine, che con la sua erudizione astronomica era un'esperta in questo campo, non riusciva a capire perché si fosse arrivati a discutere di questo. «Io so bene di cosa si tratta, ma non riesco a capire il nesso», disse. «Be', magari potrebbe spiegare al nostro amico, qui, cosa sono longitudine e latitudine. Le assicuro che è molto importante che lo capisca». Catherine guardò negli occhi sia l'uno che l'altro, espirò profondamente e iniziò: «Okay, longitudine e latitudine vanno a comporre la rete immaginaria che contiene il globo terrestre. Le linee orizzontali che si dipanano da est a ovest sono quelle latitudinali, e quelle verticali, che scorrono da nord a sud, sono le longitudinali. Fin qui tutto chiaro?» «Sì. Le ho sempre viste sulle carte geografiche», rispose Rutherford, imbaldanzito. «Ora immagini che io le voglia comunicare la mia posizione nel mondo: potrei darle le mie coordinate all'interno di questa rete e lei sarebbe in grado di rintracciarmi con esattezza». «Logico». «Per prima cosa ci serve una meridiana di partenza. Un "punto zero" da dove prendere tutte le nostre misure. Potrebbe essere una qualunque linea
longitudinale, che va da nord a sud... a patto, naturalmente che scegliamo entrambi la stessa. Accade dunque che grazie all'Inghilterra, un tempo regina assoluta della navigazione di lungo corso, la linea longitudinale attualmente considerata il grado zero sia quella che passa attraverso il Royal Observatory di Greenwich. Dunque, se lei si trova a New York, è ufficialmente a settantaquattro gradi a ovest di Greenwich, mentre se si trova a Hong Kong è a cento gradi a est di Greenwich, e così via. Mi segue?» «Sì. Finora è tutto chiarissimo». Rutherford le sorrise. «È a questo punto, infatti, che la questione si fa più complicata. Non starò a spiegarle perché, è una cosa troppo complessa e non ne abbiamo il tempo, ma per stabilire la sua longitudine, lei avrà bisogno di prendere nota dell'ora nel punto di partenza e poi di mantenere una rilevazione cronologica per tutto il viaggio senza mai perdere la nozione del tempo... e in maniera piuttosto esatta, aggiungerei. Potrebbe sembrare una cosa semplice, ma non lo è affatto. Fino in tempi relativamente recenti come il diciottesimo secolo, anche i migliori cronometri riuscivano a "perdere" qualcosa come un minuto l'ora. Era una cosa gravissima, perché un errore di pochi minuti poteva indurre il capitano a cambiamenti di rotta di decine e decine di miglia marittime: arrivando talvolta a non riuscire a raggiungere la meta desiderata. Immagini quanto potessero spingersi lontano dalla loro meta questi marinai, dopo giorni di navigazione falsata, per non parlare di mesi. Dal momento che la maggior parte dei cronometri disponeva di un meccanismo a pendolo, ovviamente non potevano funzionare bene quando erano in balia delle onde, per non parlare della variazione di velocità del meccanismo stesso, a seconda della temperatura o dell'umidità presente nell'aria. Per tutta la storia della navigazione umana, i marinai hanno sognato un meccanismo di misurazione del tempo capace di ovviare a questi inconvenienti. Così, finalmente, dopo un epico naufragio costato la vita a duemila marinai, un'apposita Commissione governativa britannica, il Board of Longitude, offrì una ricompensa di 20.000 sterline a chiunque riuscisse a inventare un cronometro marittimo in grado di mantenere un margine di precisione di trenta miglia nautiche nell'ambito di un viaggio di sei settimane per le Indie Orientali. Si offrì di farlo un uomo chiamato John Harrison; gli ci vollero più di quarant'anni per approdare alla versione finale del suo portentoso cronometro, ma ormai era sull'orlo del fallimento!». «Incredibile. E in che anno accadde?» «Più o meno nel 1760».
Catherine guardò il dottor Von Dechend, che annuì per incoraggiarla a proseguire. «Comunque... penso che quel che il dottor Von Dechend intende dire è che prima di questa invenzione, nessuno, né i Romani, né gli antichi Cinesi, né i Sumeri o altre grandi civiltà...». «Della cui esistenza siamo a conoscenza», precisò il dottor Von Dechend. Catherine sollevò un sopracciglio e proseguì. «Della cui esistenza siamo a conoscenza... sono mai state in grado di determinare la longitudine con accettabile precisione». Von Dechend sorseggiò il suo tè e scoccò loro un'occhiata maliziosa. «Come spieghiamo dunque il fatto che le terre così accuratamente descritte sulle mappe di Kent si collochino nelle esatte coordinate longitudinali e latitudinali calcolate in epoca moderna?». Catherine tornò a provare quella vaga sensazione di disagio. "Oh no! Basta con questo smantellamento di teorie storiche acquisite". Ma il dottor Von Dechend stava divertendosi troppo. «Già. Ottima domanda. Su tutte queste mappe le terre descritte sono collocate al loro posto esatto. Persino la mappa di Zeno, redatta intorno al 1380, che raffigura la Groenlandia e i mari dell'Islanda, arriva a indicare minuscoli isolotti sparsi nella vastità dei mari artici, collocandoli nell'esatta longitudine e latitudine. Com'è possibile una cosa del genere?». Ora il dottore aveva preso a passeggiare per la stanza, ispirato dalla contemplazione delle antiche mappe e dei loro creatori. «Probabilmente avrete visto molte e diverse mappe della Terra. Alcune in cui le varie terre appaiono sottili ed elevate, altre in cui invece sono più allargate e piatte. Tutte le mappe rappresentano una sfera - o una parte di una sfera - su di un fondale piatto. È molto difficile disegnarle. In realtà, è impossibile, senza complicate e avanzatissime nozioni matematiche, nonché senza uno dei sofisticati cronometri di cui ci ha parlato Catherine. All'epoca della creazione di queste mappe - avvenuta dopo il 14.000 a.C. e prima del 4000 a.C. -, secondo la storia convenzionale non dovrebbero essere esistite civiltà abbastanza avanzate da raggiungere il livello e la precisione necessaria per realizzare una cosa del genere. Volendo vederci più chiaro, Hapgood ha contattato il professor Strachan del'Istituto di Tecnologia del Massachusetts». Il dottor Von Dechend si voltò a guardarli entrambi dritto negli occhi. «Strachan dichiarò che l'esattezza e la validità delle mappe significava
che potevano essere state realizzate soltanto da una civiltà molto avanzata, con nozioni di trigonometria sferica, nonché in possesso di strumenti capaci di misurare con esattezza millimetrica sia la longitudine che la latitudine. Come potremmo spiegare altrimenti queste mappe perfette ed esatte pervenuteci dall'oscura preistoria? Le prove sono inconfutabili. In tempi remoti, prima dell'ascesa di antiche civiltà e culture a noi note, dev'esserci stata una civiltà tecnicamente e scientificamente molto avanzata, che nonostante ciò è scomparsa del tutto». Catherine era stupefatta. «Ma è impossibile! Tanto per cominciare, perché non abbiamo nessun resto, nessuna rovina o testimonianza di questa civiltà?». Von Dechend si strinse nelle spalle. «Non lo so. Vi sto semplicemente illustrando la verità che si nasconde dietro queste mappe. Sono solo un umile geografo». Cadde un silenzio di tomba. Poi, Von Dechend tornò a parlare: «Immaginate che questa società fosse talmente avanzata da non aver bisogno di miniere per trovare i metalli o di pozzi per il petrolio... Immaginate che usasse energia eolica e l'energia rinnovabile del legno. Immaginate che abbia coscientemente deciso di non danneggiare il pianeta come facciamo invece noi... Cosa ne rimarrebbe? Molto poco, oserei dire». Catherine era senza parole. "Io volevo soltanto scoprire perché il professore fosse in possesso di queste mappe; e invece mi sono imbattuta in qualcosa di assolutamente bizzarro e terrificante". Aveva bisogno di almeno una risposta pratica. «Ma come mai il professor Kent era in possesso di questi documenti?» «Questo è un bel mistero, su cui temo di non poter assolutamente far luce». 12 Con la busta delle mappe stretta in mano, Catherine affiorò dal vano delle scale del dottor Von Dechend per immergersi nella luce del sole del cortile interno principale. Era più spaventata che mai. Le sembrava che tutto il suo universo stesse crollandole intorno. Rutherford la seguì all'aperto, con la testa che girava per tutte le nozioni appena acquisite. La spiegazione delle mappe fornita dal dottor Von Dechend lo aveva particolarmente preoccupato: non poteva fare a meno di pensare al biglietto che il professore
gli aveva scritto. L'unica conclusione logica era che le mappe fossero direttamente connesse all'affermazione del professor Kent. Se veramente c'era un messaggio speditoci dalla notte dei tempi, era logico concludere che, sempre in quel passato assai remoto, doveva essere esistita una grande e avanzata civiltà. E le mappe sembravano costituire una prova certa dell'avvenuta esistenza di questa civiltà perduta, scomparsa nelle nebbie del passato. "Forse, nei suoi itinerari attraverso la storia, il professore aveva veramente scoperto una sorta di avvertimento, un monito proveniente da questo popolo ultra-civilizzato e rivolto ai figli del futuro, in cui s'intendeva avvisarli che gli sarebbe stato riservato lo stesso, orribile destino abbattutosi sui loro antichissimi predecessori", pensò Rutherford. Ma sembrava talmente assurdo. Catherine sospirò, incerta sul da farsi. Non aveva ancora il coraggio di dire a Rutherford che il professore era stato ben consapevole di trovarsi in serio pericolo. Non che non si fidasse di James; il fatto era che non riusciva a sopportare l'idea di dover affrontare le conseguenze di quell'aperta dichiarazione; se gli avesse mostrato i messaggi e gli avesse parlato dei suoi sospetti, se ne avesse parlato a chiunque, in realtà, non ci sarebbe stato più modo di tornare indietro. In tono alquanto disperato, esordì: «James, ho un'altra domanda un po' strana da porle. Lei è un classicista: può dirmi cosa sa della parola "eureka"?». Rutherford fu colto di sorpresa. "C'è qualcosa che Catherine non mi ha ancora detto sulla faccenda". Desiderava aiutarla, così le sorrise. «Eureka, eh? Be', immagino sia inutile chiederle perché le interessa questa parola». Catherine sembrò volersi scusare. «No... Ma mi creda: è importante». Rutherford rise scuotendo il capo, mentre Catherine continuava: «So soltanto che fu Archimede a pronunciarla per primo. Era seduto nella vasca da bagno e all'improvviso si rese conto di come la massa corporea spostasse il suo equivalente in liquidi. Poi strillò "eureka", che significa "ho capito", saltò fuori dalla vasca e si mise a correre tutto nudo per la strada, facendo salti di gioia». Rutherford la osservò, meditabondo. «Temo che mi abbia appena esposto la versione plagiata». «In che senso?» «Be', non è stato Archimede a esclamare per primo "eureka", ma Pitago-
ra, quando scoprì la relazione esistente fra il quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo retto con la somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati del triangolo stesso. La versione con Archimede nudo nella vasca è un'invenzione postuma, molto amata dagli insegnanti». «Ma come fa a sapere che è stato Pitagora e non Archimede?» «Questo grido ha più senso in bocca a Pitagora, che aveva uno spiccato senso dello humour!». Catherine era confusa. "Cosa c'entra il senso dello humour, adesso?". «Che significa?» «Pitagora s'interessava di gematria: la decifrazione dei messaggi segreti». "Gematria?", pensò Catherine, riflettendo su quella parola. No, non l'aveva mai sentita nominare prima di allora. «Come fa un messaggio segreto a celarsi in un'unica parola? Dev'essere piuttosto breve...». «Sì... In questo caso lo è: in realtà è una sorta di gioco di parole. Lasci che le spieghi. Ma mi servono carta e penna». «Okay, ma se non le dispiace, preferirei uscire dal college, sto iniziando a soffrire di claustrofobia, qui dentro», rispose Catherine. «Che ne dice di andare da lei?». Rutherford non rispose subito, ma bastò uno sguardo agli occhi profondi e serissimi di Catherine a convincerlo che, per una ragione o per l'altra, la sua spiegazione era di massima importanza per lei. Annuì con decisione. 13 Nella saletta dell'All Souls, seminascosto dalla penombra, c'era un uomo alto, slanciato, sulla quarantina, con un cappello di feltro nero e un soprabito di cashmere blu scuro sopra un elegante completo grigio. Il suo nome era Ivan Bezumov. Sostava lì da circa mezz'ora, immobile e quasi senza respirare, in paziente attesa, come un uccello predatore, con gli occhi scuri che scandagliavano qualsiasi persona attraversasse il cortile antistante l'edificio. Mentre Catherine e Rutherford avanzavano nella sua direzione, Bezumov drizzò le orecchie, cercando di udire cosa stessero dicendo. "Finalmente! È lei. Non posso permettermi di fallire. Lei è l'unico tramite che ho con la ricerca del professore". Quando i due furono a circa cinque metri di distanza, Bezumov respirò a
fondo e avanzò verso il cortile. Cercando di apparire più rilassato e amichevole possibile, fece un ampio sorriso e si tolse il cappello. «Salve! Sono Ivan Bezumov. E lei dev'essere Catherine Donovan». Ignorando del tutto Rutherford, Bezumov afferrò la mano di Catherine e la strinse con calore, proseguendo: «Ho tanto sentito parlare di lei, sa, dal professore». L'accento russo di Bezumov era inconfondibile. Catherine aveva un'aria confusa. Rutherford si fece avanti a forza e tese la mano. «James Rutherford». «Ah, bene... Capisco». Bezumov tornò a rivolgersi a Catherine. «Ero un collega del povero professore. È una vera tragedia, e mi dispiace talmente tanto...», aggiunse. «La stavo aspettando nella saletta... Immaginavo che prima o poi sarebbe passata di qui. Comprendo che forse non è il momento migliore, ma devo parlarle di una cosa importante. Posso offrirle una tazza di tè?». "Chi è questo tipo strano?", pensò Catherine. "Di certo non può trattarsi di una cosa tanto importante da non poter essere rimandata a dopo i funerali del professore! Sembra piuttosto invadente... Piombare qui e pretendere di parlare con me con tanta urgenza". «Temo che abbia ragione, signor Bezumov, questo non è proprio il momento migliore. Ma forse tra una settimana o giù di lì... Pensa di trattenersi a Oxford per qualche tempo?». Bezumov cominciava ad avere un'aria ansiosa. Infilò velocemente la mano nella tasca interna del suo soprabito di cashmere. Catherine e Rutherford fecero istintivamente un passo indietro. «Ecco... Questa è una lettera di presentazione del professore». Spinse sotto il naso di Catherine un foglio di carta con una breve nota scritta in inchiostro verde. La calligrafia era quella del professore. Catherine la lesse con aria diffidente, senza nemmeno prenderla dalle mani di Bezumov. Cara Catherine, Il mio collega Ivan Bezumov sta per arrivare a Oxford da San Pietroburgo. Recentemente abbiamo collaborato a un progetto; ti prego di fornirgli tutto l'aiuto possibile, durante la sua permanenza a Oxford, e di fargli avere tutto ciò di cui ha bisogno. Grazie. Kent
"Che strano", pensò. "È così inconsueta e formale, questa nota; non sembra affatto nello stile del professore". Prima che potesse reagire, il russo aveva ripreso a parlare: «Dottoressa Donovan, mi chiedevo se era già salita nell'alloggio del professor Kent? Vede. Lui e io stavamo lavorando su un progetto importantissimo, prima che lui ci lasciasse così tragicamente». Bezumov abbassò lo sguardo sulla busta di mappe che Catherine teneva nella mano destra. «Vorrei recuperare gli appunti più importanti». Istintivamente, Catherine strinse più forte la busta, avvicinandola a sé. Bezumov non si lasciò sfuggire quella reazione. Ora il suo sguardo non abbandonava più la busta. «Ripeto: mi dispiace moltissimo disturbarla in un momento come questo, ma può dirmi se il professore ha lasciato qualcosa? Documenti, appunti? O magari una cartella?». Le labbra di Bezumov si schiusero di nuovo in un sorrisetto tirato, quasi implorante. Gli occhi erano sempre fissi sulla busta che Catherine stringeva in mano. La giovane donna stava iniziando a trovare quell'uomo estremamente inquietante. Ripensò al messaggio di Kent mostratole da Bezumov. "Il professore non si firmava mai 'Kent', quando mi scriveva. Che sia stato" - la gola le si strinse - "costretto a scrivere quel biglietto? O magari non l'ha nemmeno scritto lui?". Dopo gli strani accadimenti di quella mattina, non si sarebbe stupita se fosse stato falsificato da Bezumov. Le girava la testa. All'improvviso si sentì molto stanca e fu assalita dalla nausea. «Ascolti: perché non si rivolge al direttore del college? Sono certa che sarebbe felicissimo di aiutarla. Io sarò a sua disposizione fra qualche giorno». Quando Catherine si guardò intorno nel cortile, alla ricerca di una scappatoia, rimase stupita nel vedere il direttore che li osservava dalla finestra della sua biblioteca. Ma prima che potesse rendersi pienamente conto di ciò che aveva visto, la testa dell'uomo scomparve dalla sua vista. Bezumov sembrava sull'orlo della disperazione. «Dottoressa Donovan, la scongiuro... Vorrei essere franco, con lei. Devo impossessarmi di quei documenti. È più importante di quanto lei possa immaginare. Pretendo il suo aiuto».
Rutherford si fece di nuovo avanti, piazzando la sua figura atletica e muscolosa fra Bezumov e Catherine. «Signor Bezumov, la dottoressa Donovan non sa nulla dei documenti di cui lei sta parlando. Le suggerisco di fare come le ha detto lei e di rivolgersi al direttore... Fra l'altro, sarebbe gentile, da parte sua, mostrare un po' più di comprensione per chi sta ancora soffrendo per la recentissima perdita di una persona cara». Con ciò, prese a spingere Catherine oltre il russo, ormai agitatissimo. Come ultimo, disperato tentativo, Bezumov frugò nella tasca della giacca e ne estrasse un biglietto da visita. «Aspetti! Mi dispiace». Prese una penna stilografica e dopo averne svitato il cappuccio, scrisse qualcosa sul biglietto. «Questo è il numero del mio cellulare. Mi chiami. Potrò esserle d'aiuto. E, dottoressa Donovan, la prego, se è in possesso di quei documenti, li tenga al sicuro. Altre persone verranno a cercarli. Potrebbero non essere gentili quanto me, ma è certo che verranno presto». Catherine afferrò il biglietto mentre gli passava accanto. Se lo infilò in tasca e, senza voltarsi indietro a guardare Bezumov, lei e Rutherford si chinarono per passare sotto la porticina della saletta, sbucando su High Street. Bezumov li guardò andar via con un'espressione di pura angoscia dipinta sul volto, le mani strette sulla tesa del cappello. Avrebbe dovuto tentare di avvicinarla in un altro modo. 14 Mentre usciva dall'ascensore per poi attraversare il foyer in marmo per raggiungere l'ingresso principale del palazzo dell'ONU, il senatore Kurtz si voltò a guardare il segretario Miller dietro di lui. «Che ne pensa del mio discorso, segretario?». Miller era scuro in volto. «Sì, senatore, perfettamente adeguato all'occasione. Ma... se posso permettermi: pensa sia stato saggio annunciare i dettagli del piano prima che venga messo in atto? È solo martedì mattina. Possiamo fidarci di tutti questi delegati stranieri? A lunedì mattina mancano pur sempre sei giorni». Il senatore fece una risatina sarcastica. «Non ha nessuna importanza. Non c'è niente e nessuno che ci possa fermare... Persino se dicessimo loro la verità». Il segretario rimase perplesso. Il senatore gli dispensò un sorriso miste-
rioso fermandosi davanti alle grandi porte a vetri dell'entrata principale e voltandosi a guardarlo, come per sottolineare le proprie parole. Si trovavano esattamente al centro del regolare flusso di visitatori in entrata e in uscita. «Da oggi il suo lavoro consiste nell'informare i delegati dei loro doveri individuali e coordinare le loro azioni». Il senatore fece una pausa e, socchiudendo gli occhi, aggiunse: «Mi raccomando: attenzione e precisione. Sta per arrivare il nostro momento». Guardò al di là delle vetrate, soffermandosi sul traffico e il brulicare di attività nella strada. «Sabato pomeriggio ci incontreremo di nuovo, al Cairo, ma prima avremo ancora modo di parlare. Nel frattempo, si assicuri che le scoperte del professore non provochino ulteriori ripercussioni». Con questo si voltò e, accompagnato dalle sue guardie di sicurezza, uscì, immergendosi nel clamore e nel brusio di quella giornata. Il segretario arrancò al suo fianco, seguendolo al di là della porta, incerto su cosa dire. Quando la limousine accostò al marciapiede, il senatore sorrise rivolto al cielo. «La fine è vicina, segretario. Le consiglio di prepararsi spiritualmente». Il segretario rimase a guardare in silenzio il senatore che saliva sul retro della limousine in attesa. Poi la macchina partì e scomparve nel traffico della UN Plaza; nel seguirla con lo sguardo, il segretario ebbe un attacco di nausea. Era torturato dal pensiero del defunto professore. Che razza di minaccia aveva potuto rappresentare, un vecchio con delle antiche mappe? E per quale motivo il senatore gli aveva consigliato di prepararsi spiritualmente alla fine? Erano parole molto strane, dette dal capo della fratellanza secolare più potente del mondo. Strane e totalmente inappropriate. Ma chi era veramente il senatore? Niente sembrava più quadrare, nulla aveva più un senso. L'unica cosa ancora certa era che in quei sei giorni - entro lunedì pomeriggio - il mondo sarebbe cambiato per sempre, e che lui voleva almeno trovarsi dalla parte dei vincitori. 15 La porta del suo appartamento si spalancò e Rutherford fece cenno a Catherine di entrare. «Prego... si accomodi». «Grazie. È molto bello, qui», disse Catherine, sentendosi confusa e di-
stratta e cercando di sopperire con i classici convenevoli. «Però! Ha persino più libri di me!». «Sì... be', sono del parere che più libri sei in grado di sfoggiare, più riesci a intimidire i tuoi studenti! Posso offrirle qualcosa?» «Ehm... un bicchiere d'acqua andrebbe benissimo, grazie». Rutherford sfrecciò in cucina. Catherine si accomodò sul divano più grande e cominciò a scrutare tutti quei metri quadri di libri, metà dei quali sembravano essere scritti in greco o in latino e in altre lingue antiche. Estrasse da uno scaffale una raccolta di versi di Catullo tradotti in inglese e cominciò a sfogliare il volume, senza soffermarsi più di tanto sulle parole, quando Rutherford tornò in salone. Si sedette accanto a Catherine e appoggiò sul tavolo che avevano davanti sia il bicchiere d'acqua che carta e penna. «Dov'ero rimasto? Gematria. Mmm...». Rutherford si grattò la fronte, fermandosi un attimo a riflettere, poi iniziò con cipiglio serio: «Per molti versi, la gematria è simile a un gioco. Un gioco estremamente intelligente e acuto. Ma è anche molto più di questo: è mortalmente serio. Si tratta di un codice segreto in uso presso i veggenti dei popoli antichi, e si credeva avesse delle doti magiche. Ma prima di inoltrarci nel lato mistico della faccenda, mi permetta di illustrarne la base letteraria», disse. «I filosofi del mondo antico non suddividevano la scienza in discipline, come facciamo noi oggi; ritenevano infatti che al di là di ogni cosa, tutte le materie fossero collegate fra loro da formule segrete su cui si basa l'intero universo. Si sarebbero stupiti non poco del modo in cui noi insegniamo le diverse materie separatamente, perché erano convinti che uno dei principali intenti della didattica educativa fosse quello di dimostrare l'unità della conoscenza. Osservando la natura, si accorsero che determinati numeri si ripetono in continuazione: dalle note della scala musicale ai movimenti dei pianeti, era sempre la stessa manciata di numeri e formule a determinare ogni cosa. Elaborando questi numeri e scoprendo quali di essi e quali formule a essi legate fossero i più determinanti, si potevano dedurre le leggi del cosmo, per poi comunicarle in maniera semplice e chiara. Ora, accadeva spesso che questi numeri e queste proporzioni, che esprimono l'operato nascosto dell'universo, si celassero nelle lingue antiche. Ogni lettera dell'antico alfabeto greco, nonché di quello ebraico e di quello arabo, possiede un suo valore numerico. Racconti, poesie e testi religiosi venivano composti impiegando lettere e parole corrispondenti a valori precisi. Così, quello che superficialmente sembra una semplice storiella è in
realtà anche una specie di ricettacolo della profonda conoscenza delle formule che spiegano la natura dell'universo». Catherine ascoltava rapita. «Intende dire che vi sono antichi testi contenenti dei messaggi segreti nascosti all'interno delle singole parole delle storie che raccontano?», domandò. «Esattamente. È proprio quello che intendevo dire». «Potrei conoscere qualcuno di questi libri? Può farmi un esempio?». Rutherford non poté fare a meno di sorridere. «Ha mai sentito parlare della Bibbia?» «La Bibbia! Davvero?» «Assolutamente sì. La Bibbia è stata originariamente redatta in greco. La maggior parte della gente non se ne rende conto, ma contiene interi passaggi costruiti con la gematria, che permettono a chi li comprende di recepire il vero messaggio celato dietro la storia apparente. Ad esempio, gli scrittori dei Vangeli hanno scelto i nomi dei personaggi e le frasi-chiave dei racconti in maniera da assegnare un significato specifico al loro valore numerico gematrico. Hanno tramandato la conoscenza attraverso un codice». «Così... lei mi sta dicendo in pratica che la storia della vita, della morte e della resurrezione di Gesù, non parla soltanto della sua vita, morte e resurrezione?» «Be', forse questo è semplificare un pochino troppo, ma... sì, direi di sì». Catherine non riusciva a crederci. «Ma se le cose stanno veramente così, la Bibbia sarebbe piena di parole che hanno un significato ben più profondo». «Infatti lo è. Lasci che le faccia qualche esempio. Aspetti... prima però torniamo al nostro esempio originario: l'esclamazione di Pitagora, "eureka" o "ευρηκα", in greco. Si riferisce in realtà ai lati del triangolo rettangolo cinque, tre e quattro che impiegò per dimostrare il suo teorema». Rutherford scrisse velocemente l'alfabeto greco su un foglio di carta, ponendo un numero sotto ogni lettera. α β 1 2 ξ 60
γ 3 ο 70
δ ε ζ η θ ι κ λ μ ν 4 5 7 8 9 10 20 30 40 50 π ρ σς τ υ φ χ ψ ω 80 100 200 300 400 500 600 700 800
«Impiegando i valori numerici delle lettere che ho appena scritto e sommandoli fra loro in un totale, si scopre che "eureka", o meglio "ευρηκα" in greco, ammonta a 534. Una pura coincidenza? Non mi sembra troppo plausibile». Rutherford sorrise a Catherine, notando la sua espressione interdetta. «Vede, Pitagora voleva dimostrare le sue conoscenze in modo semplice da ricordare, oltre a creare un divertente gioco di numeri e lettere! E questo è un tipico esempio di come lavoravano certe grandi menti dell'epoca. L'intera storia dell'umanità sarebbe del tutto diversa se la gente avesse smesso di prendere alla lettera i miti e le religioni, cercandone invece i significati reconditi». Rutherford scribacchiava alacremente, mentre parlava. «Ecco un esempio: Gesù "Ιησους" 888 più Maria "Μαριαμ" 192, = lo Spirito Santo "το Πνευμα Αγιον" 1080. E 1080 è anche l'esatto raggio della luna, in miglia. Ovviamente non si tratta di una coincidenza. La luna risorge ogni ventisette giorni e rappresenta perciò il simbolo perfetto della Resurrezione. Analogamente, il simbolo mariano è quello della luna e della rinascita. Oppure prendiamo il numero 1746; la sigla del Nuovo Testamento. Nessuno ne conosce il motivo, ma i Vangeli pullulano di frasi-chiave che ammontano a questa cifra. Per esempio, un granello di senape "κοκκος σιναπεως", o il tesoro di Gesù "θησαυρος Ιησου". E potrei continuare a lungo». Catherine era elettrizzata. «Lei crede dunque che la storia della Bibbia sia stata scritta basandosi su formule numeriche?» «Certo che no!», rispose Rutherford. «Io stesso sono un credente osservante. I Vangeli sono pieni di saggezza divina, se permettiamo loro di esprimere gli insegnamenti di amore e di pace che contengono. Intendo soltanto affermare che chi scrisse i Vangeli può aver scelto i nomi dei loro personaggi principali, nonché alcune frasi, in linea con uno schema gematrico. In tal modo, riuscivano a trasmettere anche altri messaggi sulla natura dell'universo e sui sistemi numerici che lo governano». «Ma perché nasconderli, questi messaggi?» «Be'... presumendo che questi nostri antenati fossero dotati di un'intelligenza superiore, e devono esserlo stati, potremmo pensare che abbiano anticipato il fatto che, con l'andare degli anni, determinati sostenitori troppo zelanti delle idee di Gesù avrebbero corso il rischio di perdere di vista la verità. Per precauzione inserirono questa loro previsione nel testo stesso, in
modo che il vero messaggio potesse sopravvivere... di nascosto». A Catherine girava la testa. Guardava quella strana lista di lettere e numeri e parole, scritta nella calligrafia precisa e chiara di James. Ma ora come ora, non era il momento di pensare alle implicazioni delle affermazioni di Rutherford: qualcosa le diceva che non aveva tempo da perdere. Di una cosa era certa: la gematria era la chiave che le serviva per decifrare lo strano e criptico messaggio del professor Kent. 16 Catherine inspirò con forza e si voltò a guardare Rutherford direttamente negli occhi. «James, voglio mostrarle una cosa importante. La vera ragione per la quale le ho chiesto di aiutarmi». Catherine estrasse il biglietto del professor Kent dalla propria borsa e lo appoggiò sul tavolo. «Sta accadendo qualcosa di terribile. Conoscevo il professor Kent da quando ero ragazzina. I miei genitori insegnavano a Yale e il professore era un loro caro amico. Lo consideravo un membro della mia famiglia, gli ero estremamente affezionata. James... Il direttore ha detto che pensano sia un suicidio. Ma il professore non era tipo da suicidarsi. Per lui un simile atto era una cosa esecrabile. Poi, quando ho aperto la busta contenente le mappe, ci ho trovato anche questo biglietto. Ecco... guardi». Consegnò il biglietto a Rutherford. Se non dovessi ritornare... Eureka! 40 10 4 400 30 9 30 70 100 5 200 30 10 40 4 80 5 100 400 40 10 50 10 200 300 100 8 70 9 1 50 300 10 20 800 10 300 40 200 0051172543672 «Le sto dicendo tutto questo perché è ormai evidente che Kent si fidava di lei... E anch'io mi fido». La prima cosa che Rutherford pensò leggendo quella nota fu che almeno aveva capito perché Catherine s'era dimostrata tanto interessata alla gematria. Ma non riusciva a staccare gli occhi dalla prima frase. Se non dovessi
ritornare... Rutherford deglutì a fatica. Non era sicuro di voler essere trascinato in quella storia. Quella che soltanto un attimo prima gli era apparsa come una stimolante avventura intellettuale aveva preso improvvisamente una piega preoccupante e sinistra. "Le scoperte, l'invito da parte del professore, le strane mappe e ora questo messaggio criptico che fa supporre piuttosto chiaramente che Kent sapesse di essere in pericolo. Catherine ha bisogno d'aiuto - si è rivolta a me - e forse il professore aveva scoperto qualcosa d'importante, di estrema importanza per l'umanità. Ma la cosa non mi piace, non mi piace affatto". Mentre teneva lo sguardo fisso sul biglietto, ritornando con la mente ai fatti accaduti quella mattina, Rutherford si rese improvvisamente conto di quello che anche Catherine stava pensando. Senza dirle nulla, posò il codice gematrico sul tavolo, accanto al biglietto, e cominciò a "tradurre" i numeri del professor Kent in un messaggio, con una procedura inversa a quella impiegata finora. Non appena cominciò a scrivere le prime lettere, si accorsero entrambi che il loro istinto non li aveva traditi affatto. Il codice produsse un nome: Miguel Flores. Catherine afferrò febbrilmente una matita, finendo di trasformare i numeri in lettere. Miguel Flores Lima Perú Ministero delle antichità 0051172543672. Rutherford la osservava con crescente inquietudine. "Mio Dio... Funziona tutto alla perfezione. Il professore sta comunicando dalla tomba". Catherine raddrizzò la schiena ed esalò un profondo respiro, guardando avanti a sé, come perduta nei suoi pensieri. «Ma cosa significa? E perché la fine del codice non è traducibile... Risultano delle parole inintelligibili...». Rutherford parlò, il volto distorto in un'espressione di terrore mortale. «È un numero di telefono. Un numero di telefono peruviano... Credo che voglia che lo chiamiamo». 17 Fissarono entrambi il telefono sulla scrivania. Rutherford lo mise in vivavoce e compose il numero. Trattennero il fiato mentre ascoltavano il rumore degli squilli. Poi ci fu uno scatto: lo scatto della comunicazione at-
tivata attraverso migliaia di chilometri. «Hola. Buenos días». Catherine, che conosceva un po' di spagnolo, si sporse in avanti. «¡Hola! ¿Habla inglés?» «Sì, parlo inglese... Chi è al telefono?» «Buongiorno, señor Flores. Sono la dottoressa Catherine Donovan, la chiamo da Oxford, Inghilterra. Sono qui con il mio collega James Rutherford. Siamo spiacenti di telefonare così all'improvviso... Volevo parlarle del professor Kent». Ci fu una lunga pausa, poi la voce tornò, ma il tono era di profonda diffidenza. «Chi le ha fatto il mio nome?» «Ehm... l'abbiamo trovato; siamo amici del professor Kent». «Che cosa è successo? Chi siete voi? Dov'è il professor Kent?». Rutherford e Catherine si scambiarono un'occhiata sconvolta. Non sapendo cos'altro fare, Catherine continuò: «Señor Flores... il professor Kent è morto». Seguì un terribile silenzio. «Señor Flores, per favore ci aiuti, abbiamo bisogno di parlare con lei del professor Kent. Stava lavorando a qualche progetto con lui?». Nessuna risposta. «Señor Flores, è ancora lì?» «Ha detto di chiamarsi Catherine?», disse Flores. «Sì, sì, esattamente». «Mio Dio, il professore mi ha detto che un giorno lei avrebbe chiamato». Ci fu un'altra lunga pausa, poi il peruviano parlò... La paura nella sua voce era evidente: «Non dobbiamo parlarne al telefono. Si tratta di argomenti troppo pericolosi. Il nostro lavoro non è pronto». «Possiamo incontrarla?» «Venite a Lima. Chiamatemi quando sarete arrivati. Per favore, non fate il mio nome e non parlatene a nessuno». Ci fu uno scatto e la linea s'interruppe. Rutherford guardò Catherine. «Molto, molto strano». «E sembrava così spaventato! La cosa sta diventando sempre più inquietante». Catherine scosse il capo; le tremava la voce, ma sembrava determinata. «Be', c'è una sola cosa che possiamo fare: se Flores non vuole parlare al telefono, dovremo incontrarlo personalmente in Perú. Viene con me?», gli
chiese. Con le sopracciglia aggrottate, Rutherford le restituì lo sguardo. Dopo solo una mezza giornata, gli sembrava di conoscere Catherine da sempre. Scrutando il suo incantevole viso preoccupato, fu pervaso da un'ondata di tenerezza. Catherine lo fissò con calma determinazione. «Io parto», continuò, «e andrò via anche da sola, se necessario. Se non vuole essere coinvolto in questa storia, la capisco. Probabilmente aveva altri progetti, per le sue vacanze». James stava pensando che nel mondo reale era un insegnante molto impegnato, con un sacco di lavoro arretrato da recuperare. "Ma Catherine ha bisogno d'aiuto. Non posso lasciarla andar via da sola. E se lei è tanto coraggiosa, non posso nemmeno fare la figura di quello che scappa". Strinse i denti. «Prendiamo il primo aereo?», domandò, non riuscendo a credere a quello che stava dicendo. «Era un po' che progettavo di passare una vacanza in Sudamerica: ultimamente ho lavorato tantissimo; sono due anni che non vado all'estero». Il volto di Catherine s'illuminò in un radioso sorriso. «Mi connetto col computer e ti faccio sapere subito con che volo si parte», rispose passando automaticamente al "tu". «Fa' i bagagli, soldato!». 18 Giù nelle viscere del palazzo dell'ONU, il segretario Miller si avviò velocemente verso il salone delle assemblee generali. Mentre si avvicinava alla porta, un uomo vestito elegantemente lo chiamò dall'altra estremità del corridoio. «Signore, c'è una chiamata urgente per lei». Il segretario fece dietro front e seguì il giovane in un ufficio ampio e spazioso con dozzine di scrivanie vuote e terminali di computer. Una parete era coperta da quattro giganteschi schermi al plasma, evidentemente finalizzati alle conferenze telematiche, mentre la parete opposta era occupata da un'enorme mappa della Terra, sovrastata da una scritta decorativa: QUARTIER GENERALE DI RISERVA DELLA COMMISSIONE GLOBALE DELL'ONU
Nell'angolo opposto c'era un vano spazioso, delimitato da grandi vetrate, contenente un grande tavolo per conferenze. Il segretario Miller vi si avvicinò a grandi passi e, chiudendosi la porta alle spalle, sollevò il ricevitore. L'assistente si affrettò a passargli la telefonata. Con tono impaziente, Miller rispose: «Sì?». Era il direttore del college All Souls. «Mi dispiace molto disturbarla, segretario, e lo faccio soltanto perché è stato lei stesso a dirmi di riferirle immediatamente qualunque particolare sospetto». Il viso del segretario fu attraversato da un lampo di irritazione. «Mi dica. Avanti». «Il professore aveva un'amica. Una cara amica. Anche lei fa parte del corpo insegnante del college». «E allora?» «Temo che abbia dei sospetti». «La gente ha sempre dei sospetti. È forse in possesso di qualche prova?» «Questo ancora non lo so. Ma uno dei suoi agenti mi ha appena detto che la donna ha appena prenotato un volo per il Perú, sia per sé che per un suo amico. Probabilmente vorrà soltanto andare a vedere la salma, o a parlare con la polizia: è piuttosto sconvolta. Ho pensato fosse meglio avvertirla, tutto qui». Ci fu una lunga pausa. Il segretario fissò lo sguardo sulla grande mappa del mondo che campeggiava sulla parete. Aveva così tanto da fare, tanti preparativi... La storia banale e fastidiosa di questi accademici stava iniziando a mettere a dura prova la sua pazienza. Ma poi ricordò le parole del senatore Kurtz: «Non c'è nulla di più pericoloso, per la nostra causa, dell'iniziativa personale». Assunse un'espressione amareggiata. Con la mano libera si sfregò un sopracciglio, sempre fissando la parte della mappa che raffigurava il Sudamerica. Come poteva una singola persona, per quanto spinta da forti interessi personali, rovinare i piani del comitato per l'ordinamento del nuovo mondo? Nonostante si fidasse ormai sempre meno di lui, decise di ricorrere ai metodi e alle tattiche del senatore Kurtz: "Dovremo occuparci di questi 'fili pendenti' in Perú. Non possiamo permetterci errori di sorta". Sospirando impaziente, riportò la sua attenzione sulla telefonata. «Si accerti che venga strettamente sorvegliata finché sale a bordo dell'aereo. E prenda nota di tutti quelli con cui parla. Se si accorge di qualcos'a-
ltro, si metta subito in contatto con me». «Lo farò, segretario», rispose il direttore. Ma Miller aveva già attaccato. Il destino di quegli accademici non era l'unica cosa a preoccupare il segretario. Più ripensava a quello che aveva detto il senatore quando avevano lasciato il palazzo, più la sua mente si faceva sospettosa e diffidente. Cosa sarebbe realmente accaduto lunedì? Il passaggio di potere sarebbe stato indubbiamente violento e sanguinoso: questo, purtroppo era inevitabile. Ma non era detto che portasse con sé la fine del mondo. Anzi: avrebbe dovuto significare l'inizio di una nuova era. Le vecchie forme di governo, corrotte e demagogiche, sarebbero state cancellate a favore della presa di potere totale e diretta della Corporazione. O almeno, il piano era sempre stato questo. C'era qualcosa che non andava e il segretario doveva prendere una decisione. Che il senatore Kurtz stesse agendo da solo? Era opportuno che contattasse il comitato scavalcandone l'autorità? No. Sarebbe stata una follia assoluta: non avrebbe vissuto abbastanza da vedere la fine di quella giornata, per non parlare di lunedì. C'era tuttavia un'altra strada che rimaneva ancora aperta. Nella sua conversazione con il senatore, non era stato del tutto sincero... Molto lentamente, il segretario Miller sollevò lo sguardo dal tavolo e si voltò verso l'angolo della stanza, dove si trovava un elegante armadietto di teak; dietro quegli sportelli chiusi a chiave si celava la cassaforte personale del segretario. No, si disse. Non ancora. Era troppo rischioso. Avrebbe dovuto essere la sua ultima risorsa. Prima doveva cercare di scoprire qualcosa di più sul senatore... Cercare di capire quali fossero le sue vere motivazioni. 19 Quando l'aereo sbucò dalle nuvole sopra il Perú, Catherine si stava svegliando. Il rombo dei motori la confuse per qualche secondo. Girò la testa da una parte e poi dall'altra, semiaddormentata, chiedendosi dove diavolo si trovasse. Ma poi captò il vocio degli eccitatissimi turisti inglesi seduti nella fila di dietro e una botta di adrenalina la riportò alla piena coscienza. L'interfono gracchiò leggermente, poi si udì la voce del capitano: l'aereo aveva subito una lieve deviazione di rotta al fine di evitare delle turbolenze
sulla parte settentrionale del Perú, ma in quel momento stavano di nuovo dirigendosi a nord e sorvolavano l'entroterra, a una cinquantina di chilometri dalla costa. Sarebbero atterrati entro un'ora. Catherine richiuse gli occhi, respirando lentamente. Aveva sognato il professor Kent. Cercò di escludere dalla mente il rumore dell'aereo e dei suoi passeggeri per riafferrare il ricordo, prima che svanisse del tutto. Nel sogno si trovava nella casa di campagna del professore. Erano seduti tutti e due in cucina, a parlare e a ridere come facevano sempre. Lui indossava ancora i pantaloni schizzati di fango e un paio di grossi stivaloni verdi di gomma. Era la sua uniforme, quando si trovava nella sua casa di campagna. Era andata a trovarlo per il solito appuntamento del pranzo settimanale. Dal forno proveniva l'odore del pollo arrosto e il professore aveva appena stappato una bottiglia di vino rosso, che aveva appoggiato sul solido tavolo di quercia, in attesa che tutto fosse pronto. Quella mattina Kent sembrava particolarmente ispirato e come sempre Catherine si stava godendo la sua compagnia. Una delle gioie più grandi che quella loro amicizia le procurava era la sensazione di imparare qualcosa di nuovo a ogni incontro. Kent non aveva mai l'aria di un insegnante, o di chi pontificasse, ma soltanto di una persona sempre vivace e attenta, pronta a interessarsi del mondo che lo circondava. Nel sogno, aveva ricordato una conversazione che avevano avuto una volta a proposito degli strumenti che fanno risparmiare lavoro e fatica. Con la sua consueta abilità narrativa, il professore le aveva spiegato il vero significato di queste cosiddette "conquiste tecnologiche". «Platone», aveva detto il professor Kent, «il padre della tradizione occidentale, diceva che la mano è un organon, ovvero uno strumento. Definire la mano un organon equivale a dire che è uno strumento di chi la possiede. Platone diceva che la mano è un organon, che il martello è un organon e che la mano che martella è un organon. Tuttavia, lo spremiagrumi elettrico che oggi troviamo in quasi tutte le cucine è qualcosa di molto più inquietante. È camuffato da organon, ma in realtà è qualcosa di molto diverso. Si tratta infatti di una delle numerose manifestazioni del gigantesco sistema che sta fagocitando il nostro mondo». Catherine assunse un'aria fintamente incredula; a volte le piaceva fare l'avvocato del diavolo. «Avanti! Non si tratta che di un innocuo dispositivo per velocizzare un
compito noioso: per guadagnare tempo durante la giornata. E il risultato finale è una bevanda molto salutare. Mi sta dicendo che non dovremmo più comperare spremiagrumi?». Il professore le sorrise. Amava quelle piccole discussioni con Catherine. Il suo modo di esprimersi era sempre garbato, ma non gli dispiaceva essere spinto a dimostrare il suo punto di vista. Amava convincere la gente, o almeno cercare di farlo, con i suoi argomenti ragionati, sempre incentrati sulla visione olistica del mondo dalla quale non si scostava mai. «Bene, Catherine», disse, «che ti piaccia o no, l'era degli strumenti è passata; ormai siamo nell'era dei sistemi. Mettiamola così: spremi le tue arance e ti fai una buonissima e sanissima bibita. Magnifico! Ma se andiamo a osservare più da vicino il tuo spremiagrumi, ne rileveremo gli aspetti più inquietanti. L'elettricità che lo alimenta arriva attraverso una rete di cavi e di linee elettriche sospese, a loro volta alimentate da centrali elettriche che dipendono dalla pressione idrica, dai condotti petroliferi o da spedizioni di autocisterne, che a loro volta richiedono dighe, piattaforme di trivellamento offshore e pozzi petroliferi in Paesi lontani. E tutta questa catena garantisce una consegna pronta e adeguata solo se in ognuna delle sue sezioni lavorano squadre di ingegneri, progettisti, esperti finanziari, che a loro volta possono ricorrere ad amministrazioni, università, di fatto intere industrie... e talvolta persino l'esercito, come abbiamo constatato più volte. Chiunque pensi di stare semplicemente usando uno spremiagrumi si sbaglia. Lo spremiagrumi è un travestimento; non è affatto un arnese utile, ma l'elemento finale di uno dei milioni di milioni di tentacoli del grande sistema che sta avviluppando questo mondo, stringendo la sua morsa ogni giorno di più». «Accipicchia», esclamò Catherine, dimentica del suo ruolo di avvocato del diavolo, «sembra piuttosto preoccupante». Il professore scosse la testa. Il suo volto fu attraversato da un sorriso malinconico. «Già. E così via, fra travestimenti insidiosi come il frullatore, la lavatrice, l'automobile eccetera, questi tentacoli si insinuano nella nostra vita quotidiana, costringendoci a servirci del sistema che di fatto un bel giorno - neanche tanto lontano, credimi - ci distruggerà. La possibilità di optare per una scelta diversa ci è sfuggita ormai da tempo. È nella natura stessa dei sistemi, crescere e acquistare una vita autonoma, finendo per creare degli obiettivi propri, molto diversi da quelli per il raggiungimento dei quali erano stati creati. Guarda per esempio le religioni organizzate. Oggi-
giorno si tratta di sistemi globali vastissimi, con ambizioni lontane anni luce dalle belle parole dei loro profeti. L'obiettivo dell'attuale sistema globale è quello di costringere sempre più persone a dipendere dall'energia che esso produce. Usufruendo del sistema, gli stiamo firmando un assegno in bianco». Si avvicinò al tavolo e versò due bicchieri di vino. «E ricorda che la banca dalla quale tutti gli assegni vengono riscossi e la natura. Ma lascia che ti serva il pranzo, ragazza mia. Un mio amico mi ha portato un pollo dal suo allevamento biologico. Sono sempre buonissimi... Spero che ti piaccia!». Con gli occhi gonfi di sonno e profondamente rattristata dall'idea che non ci sarebbero mai più state simili conversazioni, Catherine sollevò la tendina dell'oblò lasciando filtrare la luce del giorno. Sotto di loro, l'altopiano peruviano si estendeva fin dove l'occhio riusciva a seguirlo. Uno spettacolo impressionante. Poi, con suo sommo sconcerto, la vista cominciò a farle brutti scherzi. Guardando giù, le parve di vedere una strana forma appiattita sul terreno, diverse migliaia di metri più in basso. Sembrava la silhouette di un gigantesco colibrì. Catherine si sfregò gli occhi assonnati e diede un'altra occhiata, aspettandosi che l'allucinazione fosse sparita. E invece era ancora lì, con accanto una specie di enorme fiore. Poco più avanti c'erano altri giganteschi disegni: un pesce, un condor dall'aria maestosa, quelle che le parvero delle forme geometriche di vario tipo e quindi due linee parallele. Erano drittissime e sembravano estendersi all'infinito. "Ho le allucinazioni? Queste cose sono incredibili!". Si voltò verso Rutherford, scuotendolo per il braccio. «James... Devi vedere una cosa. Che cosa diavolo sono quei disegni tracciati sul terreno?». Rutherford si sporse a guardare dall'oblò. «Oh mio Dio! Non ne ho la più pallida idea». Alla sinistra di Rutherford, nel sedile accanto al corridoio, c'era un elegante signore peruviano sulla sessantina. Aveva la pelle color nocciola e il naso tipico degli Inca. Non aveva potuto fare a meno di ascoltare la loro conversazione e in un inglese dal forte accento straniero, spiegò: «Quelle sono le famose linee di Nazca. Benvenuti in Perú!». Rutherford era sbalordito. «Le linee di Nazca? Non ne ho mai sentito parlare!». Catherine volle saperne di più.
«Nemmeno io... Com'è possibile che siano visibili da quassù? Devono essere sconfinate! Solo quelle linee rette saranno lunghe quasi un chilometro! E sono così diritte!». Il peruviano sorrise, con gli occhi che brillavano nel sole del mattino. «Señorita, sono anche più lunghe. Raggiungono un'estensione di sette chilometri e mezzo e sono perfettamente diritte. Superano colline, attraversano gole e canali, senza mai deviare di un millimetro». Catherine era stupefatta. «Ma a cosa servono e quando sono state tracciate?» «Evidentemente è la prima volta che viene in Perú, señorita». L'anziano sorrise divertito. «Dovrà abituarsi a sentirne parlare durante il suo soggiorno, ma temo che nessuno sappia rispondere alle sue domande!». 20 Qualche minuto più tardi, Catherine si rivolse a Rutherford, dopo un rapido consulto alla sua guida. Con espressione seria e accigliata, disse: «Le linee di Nazca sono i "cerchi nel grano" dell'America Latina. Vi sono centinaia di giganteschi disegni e nessuno sa come siano stati realizzati. Oltre a raffigurazioni di animali e pesci identificabili, si ravvisano diverse forme geometriche perfette. La cosa strana è che possono essere veramente apprezzate, o addirittura riconosciute, soltanto guardandole dall'alto... come stiamo facendo noi ora. A livello del terreno, a causa delle loro enormi dimensioni, è praticamente impossibile averne una visione generale e dato che nel territorio intorno a Nazca non c'è nessun tipo di rilievo - è uniformemente piatto - sembra impossibile capire come e perché siano state realizzate». Fece una breve pausa. Rutherford sembrava profondamente assorto. Era inutile chiederglielo, ma lo fece lo stesso: «Stai pensando quel che sto pensando io?». Rutherford annuì. Il suo bel viso energico s'era rabbuiato. «Se vuoi dire che il fenomeno ricorda la teoria del professore», disse, «sugli antichi che lasciano messaggi per le generazioni future, allora sì, sto decisamente pensando quel che stai pensando tu. Ed è una cosa straordinaria». Catherine tornò a guardare dall'oblò quegli strani disegni che si snodavano maestosi sotto di loro. Vide passare un enorme uccello e poi un gigantesco parallelogramma. Si lasciò cadere il libro in grembo. Aveva un
groppo alla gola... Tutto questo era veramente troppo. "Com'è possibile passare attraverso una lunga serie di studi: il liceo, l'università, il dottorato e infine una carriera accademica e poi scoprire nell'arco di ventiquattr'ore che tutto ciò che è alla base della tua tranquilla e comoda visione del mondo può essere completamente rivoluzionato? Perché nessuno mi ha mai parlato prima di queste cose: le mappe, le linee di Nazca, il fatto che la Bibbia è in realtà un codice segreto per la trasmissione di antiche conoscenze?". Sentì il tocco consolante della mano di Rutherford sul braccio. «Catherine? Catherine... tutto bene?». Il calore del contatto umano e il suono della voce di lui la riportò al presente. Girò la testa per guardarlo e cercò di sorridere, ma la pressione a cui quell'avventura la stava sottoponendo sembrava stesse avendo la meglio su di lei. James era molto serio. «Catherine... Bisogna mantenere la calma. Non dobbiamo lasciarci intimorire. Ricorda il professore: ha percorso questo sentiero e noi dobbiamo seguirlo. Sarà bene confidare nella verità e ignorare tutto quello che pensavamo di sapere finora». Stavolta il sorriso le venne spontaneo. Era molto felice che lui fosse lì con lei. «James, ti ringrazio. Mi dispiace... Solo che, be', sono accadute tante cose in pochissimo tempo, ultimamente. E tante cose sono cambiate... almeno per me». «Lo so, e ti capisco. Non ho idea di come finirà e se penso alle implicazioni, ad essere sincero, la cosa mi spaventa. Dobbiamo cercare di non fantasticare troppo; andiamo avanti per gradi e vediamo cosa scopriremo». Catherine tornò a guardare il paesaggio surreale dell'altopiano sotto di loro. Era ancora lì, a stuzzicare la sua fantasia con quei misteriosi geroglifici. Con rinnovata energia, riaprì la guida e lesse ad alta voce: «In molti hanno cercato di datare le linee di Nazca, ma sembra essere un'impresa irrealizzabile. Per i disegni non è stato impiegato materiale organico, quindi la datazione al radiocarbonio è esclusa. Le uniche cose su cui potersi basare sono dei cocci di vasellame trovati in alcuni solchi e scavi di origine umana. Le stesse figure sollevano inquietanti quesiti. Ad esempio, perché vediamo raffigurate tante creature che non vivono sulle Ande? C'è un condor, ma a parte quello individuiamo una serie di animali del tutto estranei a quelle terre, come una balena, una scimmia, strane specie aviarie e, cosa
più strana di tutte, una perfetta rappresentazione di un rarissimo e minuscolo ragno della giungla che vive esclusivamente nel fitto della foresta pluviale amazzonica. Il ragno suscita particolare interesse, perché gli astronomi hanno calcolato che la sua posizione e quella delle linee rette adiacenti riproducono la costellazione di Orione e delle stelle che lo circondano». Catherine richiuse il libro. In quanto astronomo, era questo l'argomento più convincente, per lei. «James, chiunque abbia realizzato questi disegni, una cosa è certa: apparteneva sicuramente a una civiltà avanzata. Interpretare i cieli e saper definire in tal modo la costellazione di Orione richiede un specializzazione ad altissimo livello e strumenti sofisticati». Rutherford scosse il capo, senza capire. «Già... E che dire del fatto che metà degli animali non appartiene alla fauna andina?». Improvvisamente Catherine ebbe un'idea. Si sporse in avanti per rivolgersi di nuovo al signore peruviano, immerso nella lettura del suo giornale. «Mi scusi, señor, potrei farle una domanda?». L'anziano signore abbassò il giornale e sorrise in modo incoraggiante. «Cosa ne pensano i peruviani, di queste linee?». Gli occhi scuri dell'uomo scrutarono attentamente il suo volto. Catherine ebbe l'impressione che la risposta dipendesse da quel che il peruviano avrebbe dedotto del suo carattere. Lo guardò a sua volta, con aria supplichevole. «Señorita... noi sappiamo già chi ha tracciato quelle linee. Sono stati i Viracochas, i semidèi che per primi dominarono in Perú. Sono venuti dal mare diverse migliaia di anni fa. Hanno istituito le leggi e insegnato molte cose all'antico popolo peruviano. Sentendoci parlare dei Viracochas, gli archeologi americani, e gli spagnoli prima di loro, pensarono che si trattasse di un mito, ma non è così. Non vi sono testimonianze scritte di questo popolo, ma sappiamo che è venuto da noi». Annuì con decisione, poi tornò al suo giornale. Gli occhi sgranati dallo stupore, Rutherford si avvicinò a Catherine e sussurrò: «Credo tu abbia appena appurato su cosa dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Chi erano questi Viracochas... È possibile che siano esistiti veramente?». Catherine annuì e rispose in tono altrettanto sommesso: «Sì... hai ragione, potrebbero essere loro la chiave di lettura di questa parte del mistero.
Forse quello dei Viracochas è il popolo che ha lasciato il messaggio di avvertimento nei miti di questo mondo. Forse le linee fanno parte di quel messaggio». Fissando lo sguardo oltre Catherine e nell'azzurro infinito del cielo, Rutherford mormorò quasi fra sé e sé: «Ma sì! Dev'essere così. È straordinario...». Si voltò a guardarla. «Ho la sensazione che il nostro amico Miguel Flores abbia un sacco di cose da dirci in proposito». 21 All'aeroporto di Lima c'era aria di festa. Quando varcarono le doppie porte a vento che delimitavano la zona riservata alla dogana peruviana, i loro sensi vennero letteralmente aggrediti. La cosa che più li colpì fu la gente. Dopo l'aeroporto di Heathrow, col suo viavai di eleganti uomini e donne d'affari, turisti con belle valigie e trolley al seguito e la sensazione generale di essere sbattuti qua e là come una biglia nel gioco del flipper, il caos dell'aeroporto di Lima era una ventata di pura novità. C'era un chiasso terribile, un caldo soffocante e le migliaia di indios peruviani, di cui un gran numero indossava il tradizionale poncho con cappello di feltro, contribuivano a dare la sensazione di essere capitati nel bel mezzo di una piazza di mercato di un Paese tropicale. Facendosi strada a fatica attraverso le assillanti torme di cacciatori di clienti per alberghi, Catherine e James riuscirono a raggiungere la fila dei taxi e, dopo una breve attesa, s'infilarono nella quiete di un'auto pubblica. Era una vettura gialla spaziosa e confortevole, in stile americano, guidata da un tizio dall'aria cordiale che sembrava avere poco più di vent'anni. Senza più fiato per lo sforzo, Catherine gli disse di portarli in centro. Il conducente sorrise e accese il motore. Il taxi si mosse - fra strani rumori - e si immise sulla sporca e trafficata strada principale che conduceva al centro di Lima. Man mano che si allontanavano dalla zona dell'aeroporto, gli edifici che costeggiavano la strada divenivano sempre più malandati e fatiscenti: ovunque, intorno a loro, si estendeva la baraccopoli della capitale peruviana. Rutherford contemplò esterrefatto quel desolante panorama che sembrava la parodia di una città americana o europea. C'era ogni genere di manufatto, ma invece di venire usato per il suo scopo originario, ogni oggetto era stato adattato per un fine molto più semplice e fondamentale. Un cofano d'automobile era il tetto di una baracca, un vecchio bidone dell'olio ser-
viva da vasca da bagno. Gruppi di bambini sudici giocavano con l'immondizia riversata nelle strade. "Così, queste sarebbero le famose baraccopoli del Sudamerica", pensò. Catherine era paralizzata dallo sgomento. Dopo la quieta bellezza di un posto come Oxford, quella sembrava una visione apocalittica. "Come possono vivere in simili condizioni"?, si chiese. Poi, rivolgendosi a Rutherford: «Non credo che i Viracochas sarebbero contenti, se vedessero com'è ridotto il Paese adesso». «No, penso proprio di no. È deprimente». James continuò a osservare esterrefatto quelle file e file di spelonche fatte a mano. «Direi di andare direttamente al Ministero delle antichità a parlare con Flores. Dell'albergo ci occuperemo dopo... Che ne dici?» «Buona idea. Però prima vorrei prendere una buona tazza di caffè forte. Non ho dormito molto, durante il volo». Rutherford armeggiò nel suo zaino e ne trasse la sua agenda, dove aveva annotato l'indirizzo del ministero. Con un sorriso, lo porse a Catherine, facendo un cenno del capo in direzione del conducente. «Sarà meglio che ci parli tu, altrimenti non so dove potremmo finire!». Catherine scoppiò a ridere e disse qualcosa all'autista. Poi appoggiò la nuca al poggiatesta e chiuse gli occhi. "Presto saremo al corrente del segreto condiviso dal professor Kent e da Miguel Flores. E avremo fatto un passo avanti nello scoprire il perché della morte del professore...". Il Ministero delle antichità era un imponente edificio neoclassico situato sul lato settentrionale della vasta e caotica Plaza Mayor al centro di Lima, all'incrocio di quattro delle più trafficate strade della capitale. Di conseguenza, la plaza era affollata dall'alba al tramonto da un mare di veicoli assortiti, ansiosi di giungere alle loro rispettive destinazioni: camion e furgoni dalla campagna, autobus locali e automobili private, tutti intenti a farsi strada in maniera caotica e insinuante... apparentemente indifferenti alle norme del traffico e ai vigili del luogo. Dopo essersi introdotto a fatica nel continuo flusso del traffico intorno alla piazza, il taxi si fermò finalmente ai piedi della maestosa scalinata che conduceva al ministero. Catherine pagò la corsa, mentre Rutherford si affannava a estrarre i loro zaini dal portabagagli. Ansiosi di entrare nell'edificio per sfuggire allo smog e al rumore, i due percorsero velocemente i gradini, in cima ai quali trovarono una coppia di porte in metallo, entrambe spalancate. Dietro di esse s'intravedeva una serie di porte di vetro, atte a
schermare l'interno del ministero dal costante brusio del traffico e dalle mefitiche esalazioni dei gas di scarico. Sopra le porte in metallo campeggiava un emblema in bronzo che raffigurava un condor gigante appollaiato sulla scritta Ministerio de Antigüedades. L'atrio era male illuminato, ampio e cavernoso, e vi regnava una calma sepolcrale. Il pavimento era di marmo, come le pareti, e il soffitto era altissimo, simile a quello di una cattedrale. Praticamente non era arredato, eccezion fatta per il bancone della reception e un divano. Dietro il bancone c'era un'impiegata, ma a parte questa presenza, il Ministero delle antichità sembrava completamente deserto. Si avvicinarono al bancone e Catherine si schiarì la gola, prima di rivolgersi alla minuta ragazza dai capelli neri. «Buenos días... Vorremmo parlare con Miguel Flores, per favore. Mi chiamo Catherine Donovan e questo è James Rutherford; veniamo dall'università di Oxford». La segretaria parve molto agitata e iniziò a parlare velocemente in spagnolo. «Riesci a capire?», Rutherford domandò a Catherine. «No», rispose lei. «Parla troppo veloce: aspetta... sta chiamando qualcuno». La segretaria disse qualcosa al telefono, poi passò il ricevitore a Catherine. «Hola. ¿Habla inglés?», chiese Catherine. Grazie al cielo, il suo interlocutore rispose in inglese, in tono tranquillo e rassicurante. «Pronto, parla il vice ministro delle Antichità. Presumo siate qui per parlare col señor Flores?». Catherine rivolse un sorriso cospiratorio a Rutherford, che continuò a guardarla, mentre l'uomo all'altro capo continuava a parlare. All'improvviso, dal suo volto svanì ogni traccia di colore e la mano che stringeva ancora il ricevitore le ricadde lungo il fianco. Si voltò verso di lui. Non sorrideva più, adesso, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. La sua espressione era di terrore puro. «Stamattina Flores è stato investito da una macchina mentre veniva al lavoro. È morto». 22
Il ticchettio delle scarpe sul marmo annunciò loro l'arrivo del vice ministro. Quello che si stava avvicinando dall'altra parte della sala era un uomo piuttosto basso, con capelli e baffi scuri, in completo nero e cravatta. Sembrava sulla quarantina. Mentre si avvicinava, l'istinto ebbe la meglio su Catherine, che sussurrò a Rutherford: «Non dirgli perché siamo qui». L'uomo andò dritto da Catherine e le strinse la mano, poi si voltò verso Rutherford e fece altrettanto, senza mai smettere di sfoggiare un sorriso ipocrita e mellifluo. Portava vistosi anelli d'oro alle dita e aveva un dente dello stesso metallo. Parlava inglese con un forte accento spagnolo e il fascino che cercava di esercitare era palesemente studiato. «Benvenuti, benvenuti. Sono terribilmente dispiaciuto di dovervi accogliere con la notizia di una simile tragedia. Il mio nome è Raphael Mantores, lavoro nel dipartimento del señor Flores. Abbiamo appena parlato al telefono. Ma prego... accomodatevi». Rutherford e Catherine furono quasi contenti di sentirsi dire cosa fare. Ancora sotto shock, si diressero verso il divano e si sedettero. «Señor Mantores, potrebbe per favore spiegarci cos'è successo al señor Flores?», esordì Catherine. L'uomo sospirò pesantemente. A Catherine parve un gesto teatrale, ma forse era soltanto spaventata e perciò sospettosa. «Oh, una cosa terribile. Ogni giorno scende dall'autobus alla fermata all'altra estremità della plaza e poi, invece di fare il giro, attraversa in mezzo al traffico. Oggi è stato investito da un'auto». Rutherford non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Il conducente dell'auto che lo ha investito si è fermato?» «Fermato? Ah! Siamo a Lima, mia cara. No, non si è fermato, ha proseguito per la sua strada». «Qualche testimone oculare del fatto?» «A Lima la gente non si ferma, nemmeno a guardare. È stato un incidente: cosa avrebbero potuto fare gli eventuali passanti? La polizia è arrivata dopo un po'... circa mezz'ora, credo. Questa è una zona molto trafficata... La nostra polizia non è certo paragonabile al famoso New York Police Department. Lo hanno portato all'ospedale, ma ormai era troppo tardi». Catherine, che ancora stentava ad assimilare quelle informazioni, disse: «Ma è orribile: nessuno si è dato la pena di dire cosa fosse accaduto o di prendere la targa del veicolo che l'ha investito?»
«A cosa sarebbe potuto servire, señorita? Probabilmente si trattava di un veicolo abusivo, come la maggior parte, qui a Lima. La polizia non sarebbe comunque stata in grado di rintracciarlo. Ma voi siete venuti fin qui per parlare col señor Flores? Mi dispiace davvero molto che la vostra visita sia andata in fumo. Posso aiutarvi in qualche modo? Non riceviamo spesso gente di Oxford, da queste parti. È un vero onore». Sul suo volto era ricomparso il sorriso affettato. Catherine lanciò un'occhiata a Rutherford: sentiva aumentare la paranoia. Rispose lei per entrambi: «No, grazie. Non si preoccupi; volevamo parlare col señor Flores degli Inca, ma non è niente di importante. Ci faremo consigliare una guida dall'albergo». Mantores insistette per aiutarli in qualche modo. «Ma señorita, forse posso convincerla a visitare qualcuna delle nostre attrazioni più moderne? In Perú ci sono molte altre cose, oltre agli Inca, mi creda». Guardandosi intorno nell'atrio cavernoso, quasi aspettandosi che da dietro una porta potesse sbucare qualche nemico sconosciuto, Catherine balbettò: «No, no, la ringrazio molto. Ce la caveremo benissimo da soli». «Bene, ma se c'è qualcosa che posso fare per voi durante il vostro soggiorno qui, non esitate a chiamarmi, vi prego. Ecco il mio biglietto da visita. Mi dispiace che il vostro viaggio sia iniziato così». Il suo sguardo si posò sui loro zaini su cui spiccavano le etichette della compagnia aerea e sul suo volto comparve un sorriso radioso. «Spero davvero che possa migliorare». «Grazie, señor Mantores, sono sicura di sì. Sicurissima». Ma Catherine non ne era affatto convinta. 23 Rutherford e Catherine sostarono in cima alla scalinata davanti alle grandi porte doppie, a scrutare il mare di automobili che riempiva la piazza sotto di loro. C'era un costante rumore di clacson; il baccano era quasi insopportabile, il tanfo degli scappamenti asfissiante. Rutherford appoggiò a terra lo zaino e fece spaziare lo sguardo nel caos di Plaza Mayor. In piena vista com'era, si sentì improvvisamente vulnerabile, mentre l'istinto gli gridava di nascondersi, di tornare all'interno del fabbricato, di sparire. Catherine scuoteva la testa; mille pensieri le affollavano la mente. "Flo-
res dev'essere stato assassinato: che sia stato investito a sole ventiquattr'ore di distanza dalla nostra conversazione telefonica non può essere una semplice coincidenza. Ma come hanno fatto a sapere che lo avevamo contattato? Un'intercettazione telefonica? E se è così: chi è stato a intercettare la telefonata, e perché? Chiunque sia stato, dev'essere molto organizzato probabilmente a livello internazionale - e più che mai intenzionato a fermare il professore, Flores e il loro progetto comune. Al telefono Flores ha detto che non erano pronti. Ma pronti a fare cosa?" Poi la fredda logica s'impossessò della sua mente e si sentì agghiacciare di paura. "Ma se hanno ucciso Flores solo perché aveva parlato con noi, allora...". Si guardò intorno, in preda al panico; stava per scoppiare a piangere, voleva nascondersi... Poi ripensò al professore, alla sua umanità, al suo animo compassionevole... e al fatto che era stato ammazzato a sangue freddo per ragioni che ancora non le erano chiare. La rabbia prese il posto della paura e si sentì di nuovo pronta a combattere. "Non si sbarazzeranno di noi tanto facilmente. Non riusciranno a intimidirci, a sottometterci". Cercò disperatamente di pensare alla prossima cosa da fare. «Potrebbe esserci d'aiuto parlare con la polizia... o con l'ambasciata britannica?» «No», fu la ferma risposta di Rutherford, che si voltò a guardarla negli occhi. «Che prove abbiamo?». Catherine si sedette sul suo borsone da viaggio. Non sapeva cosa fare, a chi rivolgersi. Sentiva crescere una sorta di abisso fra loro. Conosceva appena James Rutherford, e James Rutherford aveva conosciuto pochissimo il professore. "Povero James. Probabilmente starà chiedendosi cosa sta facendo, qui con me. Ma da qualche parte dev'esserci una soluzione... o almeno un suggerimento su come proseguire questa nostra indagine". Rutherford percorreva inquieto il lastricato in cima alla grande scalinata. «Catherine. Penso che dovremmo tornare all'aeroporto. Voglio dire, ci abbiamo provato... Dovrà occuparsene qualcun altro. La CIA. I servizi segreti britannici. Non lo so. Gente che s'intende di queste cose». Si fermò e si girò a guardarla negli occhi. Catherine era immersa nei suoi pensieri, lontana mille miglia. All'improvviso saltò in piedi. «Potresti aspettarmi qui un secondo e stare attento alla mia borsa? Ci so-
no dentro le mappe del professore». Rutherford si voltò di scatto. «Cosa? Che vuoi fare? Ehi... perché rientri dentro? Aspetta...». Ma era troppo tardi, ormai. Catherine era scomparsa al di là delle due grandi porte di metallo, inghiottita dalle tenebre dell'atrio. Da solo in cima alla scalinata, Rutherford ebbe la sensazione di avere un cappio intorno al collo; un cappio che andava sempre più stringendosi. 24 Il señor Mantores si avviò a passo spedito lungo il corridoio che conduceva al suo spazioso ufficio del terzo piano. L'atteggiamento cerimonioso di pochi minuti prima era del tutto scomparso. Affondò la mano nella tasca della giacca, ne estrasse un fazzoletto e si asciugò la fronte. Lo rimise in tasca fradicio di sudore. Con un'espressione di terrore stampata in faccia, raggiunse la propria porta; prima di girare la maniglia attese per qualche secondo. Poi sospirò ed entrò. Seduto nella comoda ed elegante poltroncina di pelle dietro la sua scrivania c'era l'uomo che aveva ucciso il professor Kent. L'assassino indossava un completo nero con camicia bianca. Le braccia tozze e muscolose erano incrociate sul petto in atteggiamento aggressivo. Accanto alla finestra un altro sinistro figuro, vestito di nero, sbirciava dalle veneziane, osservando la plaza sottostante. Si trattava del complice che l'uomo basso aveva avuto quella notte sulle rovine di Machu Picchu. L'aspetto dei due uomini aveva qualcosa di militaresco: il taglio cortissimo dei capelli, i visi segnati dalle intemperie. L'uomo basso scrutò da cima a fondo Mantores, visibilmente atterrito, prima di fargli una domanda. «Allora... è fatta? Posso riferire al segretario Miller che abbiamo finito?». Il vice ministro delle antichità era ormai ridotto a un relitto d'uomo. Tutta la sicurezza ostentata in presenza di Catherine e Rutherford s'era volatilizzata. La voce gli tremava. «Sì, señor, ho parlato con loro. Non gli ho detto nulla, a parte che Flores era rimasto ucciso in un incidente stradale. La notizia li ha sconvolti. Non credo che rimarranno ancora molto in Perú». «Lei non crede che rimarranno ancora molto o ne è sicuro?». Il volto di Mantores fu attraversato da un'espressione di puro panico. La voce assunse un tono stridulo e implorante. «Señor... la pista si è esaurita.
Non riusciranno a trovare nulla. Andranno a casa, ne sono certo». All'improvviso, il complice, che fino a quel momento non s'era occupato di altro che di quel che si vedeva dalla finestra, si voltò. «La ragazza sta tornando. Da sola». Poi tornò a voltarsi verso la finestra, separando le stecche della veneziana con le dita. Il compare seduto emise una sorta di ringhio. «Mantores, mi spiega perché diavolo è tornata indietro?». Mantores era sull'orlo di una crisi isterica. «Señor, non ne ho idea. La prego, mi lasci tornare giù a parlarle...». L'uomo seduto lo guardò con disprezzo. «No. Si tratta di una cosa troppo importante». Detto questo, scostò la poltroncina dalla scrivania e si alzò in piedi. «Gli ordini che abbiamo ricevuto sono chiari. Dobbiamo assicurarci che la cosa non ci sfugga ulteriormente di mano. Venga con noi». Due minuti dopo, Catherine riattraversò le grandi porte del ministero, brandendo un foglio di carta con su scritto qualcosa. Sorrideva. «E quello cos'è?», le chiese Rutherford, confuso. «L'indirizzo della famiglia di Flores. Ho detto all'impiegata che desideravo spedire dei fiori». Rutherford non riusciva a credere alle proprie orecchie. Catherine aveva intenzione di proseguire quel viaggio. In ogni caso, non poté fare a meno di rimanere colpito dalla sua forza d'animo e dal suo coraggio. «Ed è stato così semplice?» «Be'... è la verità». Catherine sorrise maliziosamente. «In realtà, vorrei recapitarli di persona. Avanti, andiamo». Catherine si avvicinò al suo zaino e se lo issò sulle spalle. Rutherford la osservò scendere la scalinata per cercare un taxi. Arrivata in fondo, si voltò a guardarlo. Si accorse che l'uomo esitava, e non poteva biasimarlo. "Ma ho bisogno che tu venga con me... Ti prego, James". Sospirò e lo chiamò: «Ascolta, James: ti prego, andiamo a trovare la famiglia di Flores. Dopodiché andremo all'aeroporto, te lo prometto. Non posso tornare a casa trascurando questa traccia... Non riuscirei più a guardarmi allo specchio, se lo facessi». Rutherford lanciò un'occhiata a quel volto implorante e abbandonò ogni resistenza. «Okay: adesso andiamo a casa dei Flores, ma poi proseguiamo dritti verso l'aeroporto... capito? E facciamo in fretta».
25 Era ormai quasi mezzogiorno di mercoledì e le strade di Lima pullulavano di veicoli. Il sole era nascosto, come del resto accadeva per dieci mesi all'anno, dietro la famigerata nebbia costiera proveniente dal Pacifico, che avvolge tutta la città in una caligine biancastra. La gente del luogo la chiama garoupa, che significa "ventre del somaro" e il suo effetto soffocante va ad aggiungersi allo smog e all'afa. Il taxi di Catherine e Rutherford attraversò l'antico centro coloniale della città, che rendeva l'immagine dei fasti del passato. Passarono davanti a delle stupende ville in legno e grandi palazzi in mattonato, la maggior parte dei quali era stata adibita a uso governativo, come edifici ministeriali e musei. La Lima vecchia è molto piccola e in pochi minuti si ritrovarono sulle strade sporche e affollate della città moderna, con gli squallidi palazzi in cemento armato e la pavimentazione consumata e piena di buche. I segni dell'indigenza erano ovunque e, mentre il tassista si destreggiava nel traffico, i venditori ambulanti, che offrivano qualsiasi cosa, dalle stampelle appendiabiti agli accendini, si affollavano insistenti attorno all'auto che procedeva lenta. Venti minuti più tardi, dopo essersi fermato presso un fioraio, dove Catherine aveva potuto acquistare dei gigli, il taxi svoltò un angolo e infilò una strada stretta e deserta che conduceva nel cuore di uno dei quartieri popolari. Il conducente girava la testa di qua e di là, costeggiando il marciapiede della strada sudicia. «Eccoci! È qui», annunciò finalmente. «La porta è quella là... quella verde». Catherine e Rutherford fissarono lo sguardo stanco su un palazzotto di cemento a due piani, che faceva parte di una schiera di costruzioni identiche. Catherine pagò la corsa e scese dalla macchina. La strada deserta la rendeva nervosa. Si guardò intorno, poi tornò a rivolgersi al tassista. «Può aspettarci qui finché non abbiamo finito?» «Certamente, señorita, fate pure con comodo». Il conducente indio spense il motore, accese la radio e si appoggiò comodamente al sedile, abbassando la visiera del suo berretto da baseball sugli occhi con un sorriso soddisfatto. Catherine e Rutherford si diressero
verso la porta verde. Mentre Catherine suonava il campanello, Rutherford fece qualche passo indietro, guardandosi intorno da un capo all'altro della strada. Trovava inquietante quel silenzio quasi assoluto. Dopo una trentina di secondi, si sentì una chiave girare nella toppa e la porta s'aprì di uno spiraglio. S'intravide il volto di una donna. Aveva gli occhi arrossati: probabilmente aveva pianto, pensò Catherine. La donna era bella e aveva marcati lineamenti inca: sopracciglia folte, naso importante, zigomi alti; la pelle era molto scura. Catherine le diede circa trentacinque anni. «Hola, señora. ¿Habla inglés?». La donna restò imperturbata. Catherine insistette: «Nosotros somos amigos de Miguel Flores». Nell'udire quel nome, il volto della donna fu attraversato da un sussulto. Apparve subito più disponibile, e allo stesso tempo più vulnerabile. «¿Ustedes conocian a Miguel?». Conoscevate Miguel? Catherine si sentì un verme, per quell'intrusione nel lutto personale della donna. «Sí, señora. Ci dispiace molto per la sua perdita...». Rutherford osservò in silenzio quello che era il lento svolgimento di una scena ovviamente molto delicata. Infine, dopo una pausa durata circa un minuto, si sentì il rumore del chiavistello e la donna, guardandosi ansiosamente intorno sulla strada, li fece entrare. Richiudendo bene la porta dietro di loro, chiamò qualcuno all'interno della casa in quechua, la lingua inca che gli indiani delle varie province andine del Perú parlano ancora nelle sue diverse forme dialettali. Da una porta in fondo al corridoio emerse un indio, attraente e piuttosto tarchiato, anche lui sulla trentina, e con un asciugamano fra le mani. Aveva un'espressione estremamente ansiosa. Il tono di voce era concitato e intenso, ma per fortuna parlava un inglese fluente e corretto. «Mia sorella dice che conoscevate mio fratello. Chi siete e che cosa volete?». Catherine era incerta su cosa dire. «Ehm... Ci dispiace molto disturbare a quest'ora. Siamo venuti sin qui solo perché parlarvi è estremamente importante, per noi». L'indio sembrava molto diffidente, ma dopo aver scrutato Catherine da capo a piedi e aver sbirciato anche Rutherford alle sue spalle, disse: «Okay... ma non potete restare molto a lungo».
Lo seguirono in una stanza piuttosto grande con due divani e una enorme libreria colma di volumi sulla storia, la cultura e l'arte degli Inca. Alle pareti erano appese delle stupende vedute panoramiche del Perú, foto evidentemente scattate in ogni parte del Paese: nelle foreste, sulla costa e, le più spettacolari, sulle Ande. Catherine porse all'uomo i gigli che aveva comperato; questo mantenne un'espressione imperscrutabile. «Sono per voi. Devo essere sincera, non conoscevamo vostro fratello. Ci siamo soltanto sentiti al telefono una volta. Mi chiamo Catherine Donovan e questo è James Rutherford. Veniamo dall'università di Oxford. Siamo arrivati in Perú questa mattina. Oggi speravamo di incontrare suo fratello; non avevamo nemmeno un appuntamento». Gli occhi scuri del peruviano si posavano alternativamente sui due occidentali. La diffidenza che esprimevano era palpabile. «Grazie dei fiori. Prego, accomodatevi». Consegnò i fiori alla sorella e si avvicinò una sedia. Non si riusciva a capire cosa stesse pensando, ma sembrava assai turbato. «Se non conoscevate mio fratello, perché siete venuti a trovarlo?». Catherine deglutì nervosamente. "Dobbiamo ricavare qualche informazione da quest'uomo. Per quanto sia sgradevole essere qui, per quanto possa sembrare intrusiva questa nostra visita a una famiglia in lutto... dobbiamo assolutamente ricavarne qualcosa". «Un nostro amico in Inghilterra - il professor Kent - stava lavorando con suo fratello su qualcosa, poco prima di morire». Catherine si fermò per valutare la reazione del peruviano, ma quello si limitava a fissarla con i suoi occhi scuri e pensosi. Proseguì: «Senta, so che la cosa le sembrerà assurda, ma il nome di suo fratello è stato trovato all'interno di un codice contenuto nelle carte del professore e arrivato a me dopo la sua morte. Ho chiamato suo fratello, ma lui non ha voluto parlarne per telefono; e ci ha detto di venire qui». L'indio si alzò improvvisamente in piedi e Catherine s'interruppe. L'uomo si avvicinò lentamente al caminetto, poi si voltò a guardarli. «Señorita, l'ultima volta che ho visto il professor Kent era seduto proprio dove si trova lei ora... Ma questa è un'altra storia. Non posso aiutarla. E penso che questa conversazione debba finire qui. Non desidero sapere altro di voi. Per favore... io e mia sorella vi preghiamo di uscire». Ma Catherine non riusciva neanche a reggersi sulle gambe.
«Dunque lei conosceva il professor Kent?» «No, l'ho solo incontrato un paio di volte, sempre qui a casa di Miguel. Mio fratello lo faceva venire qui per discutere delle loro cose in privato. Ora devo veramente chiedervi di...». Rutherford lo interruppe. «Señor Flores... sono davvero spiacente per la morte di suo fratello. Ma qui sta succedendo qualcosa di molto grave e lei non può ignorarlo. Abbiamo bisogno del suo aiuto: pensiamo che il professor Kent sia stato ucciso e dobbiamo capire di cosa si stava occupando insieme a suo fratello. Facciamo in modo che le loro morti siano servite a qualcosa». Era evidente che l'indio stava lottando con se stesso. Rutherford capiva che avrebbe voluto parlare, ma che era trattenuto dalla paura. Insistette: «La offenderemmo, se le chiedessimo qualcosa a proposito della sua collaborazione col professore? Suo fratello gliene ha mai parlato?». L'indio lo guardò con un sorriso mesto. «No, non rischiate in alcun modo di offendermi. Anche per me il lavoro di Miguel era di enorme importanza. Non è questo il punto...». La voce dell'indio si spense; non sapeva cosa fare, ma poi, come decidendo di non poter vigliaccamente nascondere la testa nella sabbia, si voltò a guardare entrambi i suoi ospiti, scuotendo la testa. «Mi dispiace», disse, facendo un ampio gesto col braccio, «ieri Miguel mi ha detto che se gli fosse accaduto qualcosa non avrei dovuto parlare con nessuno. Siamo molto spaventati, è stata una giornataccia, credetemi». Catherine capiva perfettamente lo stato d'animo del pover'uomo. «Señor Flores... Deve scusare la nostra invadenza, ma stiamo solo cercando di capire cosa sta succedendo. Il professore era come un padre, per me; anch'io ho perso una persona cara». L'indio sospirò. «È complicato. Il loro era un progetto segreto. Da dove iniziare?». Per qualche istante si perse nei suoi pensieri, poi riprese: «Malgrado il nostro nome, la nostra è una famiglia di Quechua purosangue originaria di Cuzco, l'antica capitale inca nelle Ande. Fu nostro nonno ad assumere un cognome spagnolo. Come appartenenti a una popolazione di Indios, generalmente improntata sulle origini rurali, mio fratello e io siamo un po' fuori dalla norma, in quanto abbiamo avuto entrambi un'educazione superiore; Miguel ha frequentato l'università di Cuzco, diventando archeologo e storico, mentre io ho lavorato fino a poco tempo fa per un'organizzazione assistenziale statale a Cuzco. Abbiamo dedicato tutto il nostro lavoro, o meglio la nostra vita, al nostro popolo, i Quechua, i discendenti
degli Incas». Catherine sospirò di sollievo. "Grazie al cielo sta parlando...". In tono grave e profondo, Flores proseguì. Parlava lentamente e con cautela, selezionando ogni parola. Per tutto il tempo il suo sguardo oscillò fra Catherine e Rutherford. «Conosciamo bene la storia del nostro popolo. Conosciamo i racconti tramandatici dal passato e abbiamo vagato fra le antiche rovine di Cuzco, Ollantaytambo e Tiahuanaco - la città dei Viracochas, nei pressi del lago Titicaca - fin da quando eravamo bambini. Conosciamo la storia del nostro Paese in un modo impensabile per qualsiasi studioso spagnolo o americano seduto nel suo studio e circondato dai suoi libri. E comunque anche noi abbiamo i nostri libri, come potete vedere. Siamo al corrente di quanto è stato scoperto dagli studiosi dell'era moderna. Solo che non siamo d'accordo con loro». Ora il volto dell'indio esprimeva forza ed entusiasmo. Con rinnovato vigore, proseguì: «Per intere generazioni successive alla conquista, gli spagnoli, e in particolar modo la Chiesa cattolica, hanno fatto tutto quanto era in loro potere per cancellare qualsiasi prova dell'esistenza della nostra civiltà. Monumenti e siti religiosi sono stati distrutti, testi sacri bruciati, sacerdoti massacrati e gente del popolo convertita a suon di spada. Nel giro di un paio di generazioni non è rimasto praticamente più nulla e persino oggi ai nostri bambini viene insegnata la versione ortodossa della nostra storia: la versione cattolica. Il professor Kent aveva compreso questa ingiustizia. Non abbiamo avuto bisogno di spiegargli che prima degli Incas vi era stata un'altra civiltà, persino più grande di questa. Non so come, ma lo sapeva già, e voleva dimostrarlo attraverso prove concrete. E noi siamo in possesso di tali prove. Il professor Kent era un uomo molto saggio ed erudito; ci ha detto che la verità che gli avevamo rivelato sarebbe servita a rivelarne una ancora più grande che avrebbe potuto salvare l'intera umanità». Ascoltando le parole di Flores, Catherine aveva già deciso quale fosse la prossima mossa da fare. «Señor Flores, potremmo conoscere anche noi la vera storia? Ci piacerebbe portare avanti il lavoro del professore». «Señorita, la prego di chiamarmi Hernan. Sono spiacente per la mia freddezza iniziale, ma non siamo al sicuro, in questo posto. Se vogliamo continuare questa conversazione, o anche solo rifletterci su, dobbiamo lasciare immediatamente Lima e trasferirci a Cuzco».
In quel momento la sorella di Hernan apparve sulla porta. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. Iniziò a balbettare freneticamente in quechua, puntando il dito con aria accusatoria sui due occidentali. Hernan sembrava imbarazzato e al contempo preoccupato per la sorella. Parlandole con dolcezza per cercare di calmarla, la prese per le mani, le accarezzò le spalle e l'accompagnò in un'altra stanza. Rutherford quasi non ci fece caso. Era assorbito da tutt'altri pensieri. "Ora i morti sono due. Flores cosa pensa sia accaduto?". Hernan riapparve, scuotendo la testa desolato. Prima che potesse riprendere a parlare, Rutherford, con la massima delicatezza, gli disse: «Señor Flores, c'è una cosa che vorrei domandarle. Ha idea di chi potrebbe aver voluto la morte del professor Kent e di suo fratello?». Hernan scosse il capo con mestizia e lanciò un'occhiata all'orologio che portava al polso. «No, temo proprio di no. Ma non ha importanza sapere con esattezza chi siano. L'importante è che esistono. Sono molto potenti e pronti a tutto. Non è paranoia, la mia. Siamo tutti in pericolo, ormai... Credetemi». Poi sul suo volto riapparve quell'espressione neutra e imperturbabile. Catherine studiò attentamente gli zigomi alti e gli occhi scuri dell'uomo. In qualche modo, nonostante la terribile tragedia rappresentata dalla morte del fratello, Hernan riusciva a mantenere tutta la sua dignità. «Hernan... grazie davvero per il suo aiuto. Le dispiace se James ed io parliamo un momento a quattr'occhi?» «No, prego, fate pure. Ora devo andare all'ospedale, ma se siete intenzionati a venire a Cuzco, ricordatevi che il volo è alle cinque e trenta del pomeriggio. Se vi serve qualcosa, non esitate a chiedere». Hernan uscì dalla stanza. Catherine si sentiva piena di rinnovato entusiasmo: avevano di nuovo una traccia, e anche molto valida, a quanto pareva. Si voltò a guardare Rutherford con un sorriso radioso, che però svanì all'istante. Dall'espressione preoccupata e accigliata dell'uomo, capì immediatamente che questi era di tutt'altro avviso. 26 Catherine gli rivolse uno sguardo implorante. Era disposta a tutto, pur di continuare quella ricerca. «James... credo davvero che dovremmo andare con Hernan...». In tono insolitamente duro, Rutherford la interruppe prima che potesse
proseguire oltre: «Ti dirò come stanno le cose: questi pazzi - chiunque essi siano - hanno già ucciso sia Miguel Flores che il professor Kent. E uccideranno anche noi, senza pensarci un secondo; per loro noi non siamo niente. Fanno tutto quel che vogliono, in qualsiasi parte del mondo, lo sai. Dannazione, non sappiamo nemmeno cosa stiamo cercando!». Rutherford balzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro di fronte al camino. Catherine non sapeva cosa dire. Con una certa riluttanza, ribatté: «Questo non è vero. Noi lo sappiamo, cosa stiamo cercando: un antico segreto, nascosto nei miti della Terra. Se continueremo a seguire le tracce lasciateci dal professor Kent, sono sicura che scopriremo molte altre cose». Era preoccupata. Quella era la prima volta che discutevano. Una volta di più, capì quanto aveva bisogno del suo aiuto. Ma era ansiosa di proseguire quell'avventura e fortemente contrariata dal fatto che lui non fosse d'accordo. In piedi davanti al caminetto, con le braccia incrociate sul petto, Rutherford sembrava però più che mai deciso a sfidarla. «Catherine, definire pericolosa questa impresa vuol dire sottovalutarla in maniera clamorosa. Il professore sapeva benissimo quanto fossero potenti e spietate queste persone, chiunque esse siano... Per quale altro motivo avrebbe scritto quel biglietto? Non pensi che saremmo dei pazzi a continuare a seguire questa pista?». Catherine non sopportava quelle argomentazioni. «Capisco e rispetto la tua opinione, ma io non posso tornare indietro. Intendo proseguire finché non avrò scoperto di che cosa si tratta, a prescindere dai potenziali pericoli che la cosa comporta». Gli occhi di Rutherford sembravano sprigionare fiamme. «E la nostra incolumità personale? Non ti preoccupa il fatto che potremmo finire come loro?» «Sono disposta a rischiare». Con la fronte corrugata, Rutherford emise un lento sospiro. Si voltò dall'altra parte e guardò dalla finestra, che si affacciava sul cortile posteriore della casa. All'improvviso si rese conto di non sopportare l'idea di non rivedere più Catherine. Era entrata nella sua vita meno di quarantott'ore prima, sconvolgendola completamente; no, non avrebbe permesso che ne uscisse di nuovo, come se niente fosse. Tornò a guardarla con aria determinata. «Be'... Io non sono disposto...». A Catherine bastarono quelle parole. Sentì un gran vuoto all'altezza del
cuore e con la voce rotta dall'emozione, rispose: «Capisco. Sei stato gentile ad accompagnarmi fin qui; e te ne sarò per sempre grata». Ma dietro quelle frasi di circostanza si nascondeva un dolore enorme. Anche se si conoscevano appena, non voleva perderlo... e non soltanto perché in quel caso avrebbe dovuto affrontare i pericoli da sola. Rutherford le stava sorridendo: un sorriso rassegnato. «Lasciami finire, dottoressa Donovan. Non sono disposto a lasciarti affrontare il rischio da sola. Perciò, sembra proprio che dovrò venire con te». 27 Catherine e Rutherford trascorsero il pomeriggio chiusi in casa, a usufruire della biblioteca dei Flores. Alle quattro del pomeriggio ripresero il taxi rimasto ad attenderli e si diressero all'aeroporto per prendere il volo pomeridiano per Cuzco. Quando la macchina si allontanò dalla casa dei Flores imboccando la strada polverosa, un'altra automobile emerse dall'ombra di un vicolo secondario. Era una Mercedes grigio metallizzato. Alla guida c'era un indio basso e tarchiato con un paio di occhiali scuri. Sul sedile accanto, sedeva il minaccioso occidentale vestito di nero. Sul sedile posteriore, invece, c'erano il suo tozzo compare e il señor Mantores. La fronte di Mantores era cosparsa di piccole gocce di sudore. In silenzio, i quattro osservarono l'altra macchina che si allontanava. L'occidentale seduto davanti si voltò per guardare meglio in faccia Mantores e, con una sorta di ringhio rabbioso, disse: «E adesso dove diavolo staranno andando? Basta, dobbiamo assolutamente sbarazzarci di loro». Voltandosi a guardare dal finestrino il taxi che scompariva in lontananza, mormorò poi, quasi fra sé e sé: «Lo sapevo che avremmo dovuto occuparci dell'intera famiglia Flores a tempo debito». Mantores aveva gli occhi sbarrati dal terrore. Cercò di parlare, ma non riuscì a proferire parola. L'assassino estrasse un cellulare dalla tasca interna della giacca e compose un numero del Nordamerica. Dopo tre squilli, ottenne una risposta. «Signore... ci siamo occupati di Flores come da lei richiesto, ma sfortunatamente gli accademici si sono messi in contatto col fratello...». Ci fu una pausa, mentre la voce all'altro capo della linea rispondeva. L'uomo ascoltò attentamente. «Affermativo. Ho capito. Stavolta ce ne assicureremo. Sì... sì, signore, il
problema sarà risolto qui in Perú». 28 Il volo per Cuzco è un'esperienza incredibile. Quando l'aereo decolla dall'aeroporto di Lima e si allontana dalla costa, le pendici delle Ande cominciano subito a delinearsi su entrambi i lati. L'aereo sale sempre più, tuttavia le montagne continuano a circondarlo, finché alla fine il velivolo squarcia la coltre di nubi e si libra nell'aria rarefatta. In lontananza, i picchi più alti fanno a loro volta capolino dalle nuvole, punteggiando l'orizzonte come isole in un bianco mare di spuma. Catherine non era nello stato d'animo adatto per apprezzare quello spettacolo. Mentre la gravità e le implicazioni delle due morti cominciavano a farsi strada nella sua mente, il senso di panico già provato precedentemente riprendeva gradualmente possesso di lei. Potevano mai ritenersi al sicuro, anche lì in mezzo a quelle nuvole? Scrutò gli altri passeggeri. Come Hernan, seduto nella fila davanti alla loro, erano tutti indios. Chissà se qualcuno di loro era al soldo dell'oscuro nemico? Era così felice che James fosse lì con lei! Il modo pacato e pratico in cui aveva affrontato finora quella loro straordinaria avventura le aveva fatto capire quanto fosse speciale. Una persona qualsiasi, nell'apprendere della morte di Flores, sarebbe subito salita sul primo aereo per l'Europa. A dire il vero, una persona qualsiasi non sarebbe nemmeno partita con lei. Nonostante le sue riserve, quell'uomo sembrava essersi perfettamente adattato alle sfide che stavano via via affrontando. La vita trascorsa fra biblioteche e antichi testi sembrava di fatto andargli stretta, limitarlo nelle sue potenzialità. Benché non volesse confessarlo nemmeno a se stessa, più il tempo passava, più Catherine lo trovava attraente. A Catherine e Rutherford, le antiche strade acciottolate di Cuzco ricordarono Oxford. L'aria era magnificamente limpida e pulita, dopo Lima, e per un attimo quel senso di oscuro presentimento che li aveva perseguitati sembrò dissolversi. Mentre li conduceva nell'antico centro cittadino a bordo di un'auto noleggiata, Hernan parlò loro ininterrottamente delle antiche civiltà andine. Con una mano posata sul volante, guidava la jeep attraverso le stradine anguste, mentre con l'altra gesticolava come un matto, per sottolineare le
proprie opinioni, facendo sbandare pericolosamente l'automobile. «Gli Inca non furono degli iniziatori: è questa la prima cosa che dovete comprendere. Benché le loro stupende opere d'arte siano sparse in tutti i maggiori musei del pianeta, in realtà erano soltanto i custodi di una cultura molto, ma molto più antica. Gli stessi Inca lo ammettevano. Una manciata di viaggiatori spagnoli - gente illuminata - che assistette alla distruzione totale della civiltà degli Inca, fu spronata a riportarne le tradizioni, benché queste stessero velocemente svanendo nelle nebbie del tempo». La jeep oscillò paurosamente, spingendosi al di là della carreggiata e rientrando appena in tempo per evitare un autobus affollatissimo e pittoresco che arrivava dalla direzione opposta. Rutherford si aggrappò allo schienale del sedile di Hernan. "Come se questo viaggio non fosse già abbastanza pericoloso!". Catherine chiuse gli occhi nella frazione di secondo in cui l'autobus sfrecciò loro accanto, evitandoli per un pelo. Lanciò un'occhiata disperata a Rutherford, inarcando le sopracciglia. Hernan la intercettò dallo specchietto retrovisore. «Oh... scusate. Starò più attento. Non siete ancora abituati allo stile di guida andino». Rallentò un pochino, proseguendo con la presentazione del proprio popolo. «Non credo che gli spagnoli credessero veramente alle storie e alle tradizioni ascoltate e riportate dagli antichi sacerdoti. Probabilmente pensavano che fossero troppo assurde, per essere vere: ma vi assicuro che sono tutte reali. Una delle tradizioni più diffuse fra i popoli delle Ande quella che tanto interessava al professor Kent - narra di una grande civiltà vissuta migliaia e migliaia di anni prima di quella degli Inca. Ma non temete: lo constaterete con i vostri occhi...». Mentre ascoltavano le parole di Hernan, Catherine e Rutherford si sentirono come trasportati in un altro mondo, un mondo di principi inca e di conquistatori spagnoli, ai tempi della tragica scomparsa di quella grande civiltà. Attraverso i finestrini, osservavano la gente del luogo, coi suoi vestiti colorati, i discendenti di quel grande popolo, ammirando e godendo della limpidezza dell'aria, del fascino remoto e della bellezza ultraterrena del paesaggio andino. Finalmente, dopo aver attraversato i sobborghi di Cuzco e aver imboccato le belle strade di ciottoli della città vecchia, Hernan si fermò all'entrata di una stradina particolarmente stretta. Saltò fuori dall'auto e aprì lo spor-
tello del passeggero per far scendere Catherine. «Okay, eccoci arrivati. Porterò i vostri bagagli a casa di mio cugino; nel frattempo potrete dare un'occhiata in giro. Gli dirò che siete miei amici. Qualunque cosa accada, non dovrete mai nominare il professor Kent, e nemmeno Miguel. Non voglio mettere in pericolo altre persone. Andremo a casa stasera e sarete ospitati per la notte, ma dovremo ripartire all'alba... Non posso rischiare che qualcuno vi veda lì». Catherine scese dalla jeep. «E se venissimo con lei e ce li presentasse? Non le pare più normale?». Hernan sembrava di nuovo preoccupato. «No... Credo davvero che sia meglio farvi avere meno contatti possibile. Fatevi un giro come dei semplici turisti; ma mi raccomando: cercate di non farvi notare... Se seguite quella strada lì», indicò l'imboccatura di un'altra stradina stretta, «e andate sempre dritti, arriverete alla piazza principale: Plaza de Los Almabos. Ci vedremo lì, all'entrata della cattedrale, fra mezz'ora». Rutherford si stiracchiò. «Fiuu! Sono ventiquattr'ore che viaggiamo ininterrottamente. Sgranchirci un po' le gambe non può farci che bene». Hernan gli sorrise. «Perfetto; fatevi una passeggiata, allora. Se vi perdete, non dovete far altro che chiedere della cattedrale; vi indicheranno la strada». Detto questo, Hernan tornò al posto di guida della jeep e avviò il motore. L'automezzo partì e scomparve dietro l'angolo. Non appena si fu allontanato, Catherine e Rutherford non poterono fare a meno di notare quanta tranquillità regnasse sulle strade di ciottoli di Cuzco. Il loro primo impulso fu quello di inspirare a pieni polmoni grandi boccate d'aria fresca. Il cielo era cristallino e per la prima volta da quando aveva appreso della morte di Flores, Catherine cominciò a sentirsi più ottimista, e soprattutto meno claustrofobica. Si voltò verso Rutherford, intento a esaminare la muratura di un vallo antico che costeggiava il lato sinistro della strada. «Pensi che quassù sulle Ande saremo al sicuro?» «Per quanto possibile, sì, ma concordo con Hernan: non credo che dovremmo trattenerci troppo a lungo. Vieni a vedere queste mura: sono straordinarie». Invece che di mattoni, le mura erano composte di giganteschi e poliedrici blocchi di granito, alcuni dei quali arrivavano anche a un'ampiezza di tre metri quadrati. Catherine li osservò ammirata.
«Come avranno fatto a costruirle? È un'opera in muratura degli Inca?». Si avvicinò alle mura e ne sfiorò con le dita un blocco particolarmente grande. «Guarda questo qui, ha almeno dieci lati ed è grande quanto una tavola da pranzo. Incredibile: si incastra perfettamente con tutti suoi vicini!». Rutherford fece un passo indietro, per ammirare appieno quel capolavoro di antica edilizia. «Davvero non saprei. Dev'essere inca; in ogni caso non è né spagnolo né europeo. Immagina soltanto cosa significhi spostare anche soltanto una di queste pietre ciclopiche: quelle più grosse peseranno almeno dieci tonnellate. Avanti, andiamo a cercare la cattedrale, adesso». Passando la mano sulle mura, Catherine seguì Rutherford lungo il dolce pendio della strada, in direzione della piazza principale. "E pensare che è passato soltanto un giorno dalla mia ultima lezione del semestre, impartita pensando alle vacanze in arrivo. È solo mercoledì sera, ma Oxford mi sembra lontana anni luce. Sono caduta in una voragine scavata nella mia solita, confortevole vecchia vita, ritrovandomi in un altro mondo: un mondo pieno di pericoli". Il suo sguardo si posò su Rutherford che la precedeva di qualche passo guardando di qua e di là, senza mai scordare di esaminare le bellissime mura che delimitavano la strada. La sua presenza la rassicurava molto. Come aveva detto Hernan, la stradina sfociava nella piazza principale, che, dopo aver visto Plaza Mayor a Lima, appariva come il centro di una città fantasma. La piazza era grande quanto un comune parco pubblico inglese. Era circondata su tutti i lati da edifici in pietra e vi confluivano sei strade con la pavimentazione di acciottolato. Catherine raggiunse Rutherford e i due passeggiarono affiancati lungo il bordo della piazza, godendosi il senso di spazio e di pace e ben contenti di essere lontani dal caos di Lima. Quando ebbero raggiunto il lato opposto, scorsero subito Hernan che si avvicinava dalla via adiacente. «Salve!», li salutò da lontano. «Bel posto, vero?». Catherine gli sorrise. Rutherford fece altrettanto e rispose: «Difficile sbagliare urbanistica, con un fondale del genere! Bisognerebbe costruire palazzi davvero mostruosi, per riuscire a rovinare questo paesaggio!». Hernan rise mentre si avvicinava. «Sì, è vero... Penso proprio che abbia ragione». Rimasero tutti e tre a guardare la piazza, alle cui spalle si estendevano i
tetti della città vecchia, in lieve pendio. Con sguardo divertito, Hernan tornò a rivolgersi ai suoi ospiti, e sorridendo domandò: «Qui a Cuzco gli Inca hanno costruito un tempio per i Viracocha; si chiama Coricancha. Riuscite a vederlo?». Rutherford e Catherine scrutarono i tetti, cercando di individuare un edificio che avesse un aspetto molto antico e molto inca. Ma non trovarono nulla di abbastanza maestoso da suggerire l'idea del tempio. Hernan indicò la chiesa. «È quello. Nel 1533 gli spagnoli hanno costruito la chiesa direttamente sopra il tempio, nell'intento di sopprimere la nostra religione. Dicono che uno degli ultimi principi inca sia stato murato vivo all'interno di quelle mura; un giorno lo tireremo fuori. Sapete chi è Viracocha?». Catherine pensò all'uomo anziano incontrato in aereo. «Ho sentito questo nome quando hanno tentato di spiegarci chi ha disegnato le linee di Nazca», disse. Hernan le lanciò un'occhiata compiaciuta e sorpresa. «Giusto. È il nome di un popolo. Ma Viracocha era anche un uomo, il capo di quel popolo, se vogliamo definirlo così. Viracocha significa "spuma del mare". La gente che arrivò con lui fu chiamata anch'essa Viracocha. Sono felice di constatare che non avete subito un lavaggio del cervello da parte delle varie guide turistiche. Questa era la sua capitale e qui veniva venerato come divinità principale». Catherine azzardò quella che riteneva essere un'ipotesi garbata. «Era un antico sovrano degli Inca?». Hernan scosse decisamente il capo. «No... ed è proprio questo il punto: il suo arrivo in queste terre risale a molto prima dell'esistenza stessa degli Inca. Non sappiamo a quando, con precisione; non vi sono testimonianze scritte della sua esistenza; non esistono tracce di quell'antico popolo, così gli studiosi occidentali hanno scelto di ignorarne le leggende, considerandole dei semplici miti. Ma ignorare Viracocha è un grave errore. Questo popolo ha lasciato tracce di sé su tutto il territorio andino. Ha vagato un po' ovunque e tutta la gente che popola questa regione ne conosce la storia e le gesta. Le opere in muratura e le prodigiose realizzazioni nell'ambito dell'ingegneria civile si devono a lui. Qui sulle Ande vedrete rovine di edifici che vi lasceranno esterrefatti». Rutherford sembrava confuso. «Ma non sono stati gli Inca a costruire...?». Hernan lo interruppe. Aveva un'espressione grave e solenne, come se
stesse parlando di una cosa di estrema importanza. «No. Certo, gli Inca hanno costruito alcuni di quegli edifici, ma hanno appreso ogni cosa da Viracocha e dai suoi seguaci». «Ma da dove veniva? E quando è arrivato qui?». L'indio lasciò vagare lentamente lo sguardo su tutta la piazza, prima di rispondere. «È questo il mistero. Le tradizioni orali relative alla sua venuta sono numerose, note persino agli spagnoli, che ne parlarono personalmente nel XVI secolo. E tutte riportano che Viracocha venne dal mare insieme ai suoi fedeli, e che, attraverso un sentiero montuoso, si diresse a nord operando miracoli, insegnando tecniche agricole ed erigendo templi, oltre alla grande città di pietra, Tiahuanaca. Una volta compiuta la sua opera, proseguiva per altri luoghi. Era anche un guaritore, come il Gesù del mondo cristiano; ovunque andasse restituiva la vista ai ciechi, curava gli storpi e scacciava gli spiriti maligni. A uno dei conquistadores spagnoli fu descritto come un uomo "alto, barbuto e con gli occhi celesti". In altri luoghi venne descritto come un anziano dalla lunga barba bianca, pallido e vestito di bianco, dispensatore di messaggi di pace e di amore». Catherine cominciava a subire il fascino di quel mito. Le sembrava quasi di vedere il grande Viracocha. «Un uomo particolare, generoso e benevolo», mormorò, quasi a se stessa. Hernan la guardò intensamente. «Sì, è stato un grande uomo, il civilizzatore del mio popolo. Gli Inca sostenevano che fino al suo arrivo la gente viveva in condizioni pressoché primitive. Non avevano animali domestici, non coltivavano il frumento... In poche parole erano un popolo di cacciatori-raccoglitori. Ma lui venne a insegnar loro le tecniche di agricoltura e muratura, la medicina, la musica e l'astronomia. Portò la prosperità, e lo fece in maniera pacifica. Non impiegò mai la violenza per raggiungere i suoi scopi, come invece fecero in seguito gli spagnoli». Rutherford volle saperne di più. «Ma perché i Viracocha vennero qui? A sentire il suo racconto, sembrano colonizzatori, solo che poi non s'insediavano nelle terre colonizzate». «Ottima domanda; anche il professore se l'era posta. Tutte le antiche tradizioni legate a questo mito affermano che l'avvento dei Viracocha era legato al diluvio universale». Sentendo questo, Catherine intervenne.
«Vuole dire che anche qui sulle Ande vi sono miti legati alla grande inondazione della Terra?» «Sì. E presto potrò dimostrarvelo. Le storie andine sul diluvio universale sono moltissime, e somigliano tutte a quella raccontata nella vostra Bibbia. Quando le acque iniziarono a ritirarsi, Viracocha apparve presso il lago Titicaca, che gli Inca considerano sacro. Eresse una cittadella a Tiahuanaca. Le rovine si possono vedere ancora oggi. Dopo avervi stabilito la sua base, egli scese di nuovo a Cuzco e sotto il suo occhio vigile i pochi superstiti della razza umana scamparono alla barbarie e cominciarono a moltiplicarsi». «Dunque il cuore originario della storia dei Viracocha è il lago Titicaca?». Rutherford era affascinato da quel racconto. «Sì. Ci sono molte altre cose da dire, ma ora dobbiamo andare a mangiare qualcosa. Venite... vi porto a casa di mio cugino. Ma vi prego di ricordare che non dobbiamo parlare di questi argomenti davanti ai miei famigliari. Per quanto li riguarda, siete miei amici venuti qui in vacanza». Hernan era soddisfatto. I suoi due ospiti stavano cominciando a comprendere la verità nascosta della storia del Perú. 29 A casa del cugino di Hernan stavano preparando la cena. Era una tipica costruzione antica di Cuzco, tutta in pietra grezza, con una grande sala comune che comprendeva un enorme focolare con cucina adiacente, posti su una delle estremità. Al piano di sopra c'erano le altre stanze. Il cugino di Hernan, Arun, non parlava molto lo spagnolo e non conosceva una parola d'inglese. Era un tipico rappresentante della popolazione degli indios, alto circa un metro e sessantacinque e dotato di una muscolatura tozza e robusta. Sorrideva molto e sembrava meno cupo di Hernan. Catherine immaginò che non si fosse mai allontanato troppo da Cuzco e che probabilmente conoscesse poco anche Lima, figurarsi poi il resto del mondo. Hernan fece le presentazioni di rito e con gran profusione di sorrisi e strette di mano, i due occidentali riuscirono a esprimere la loro gratitudine per la gentile ospitalità. Poi Hernan parlò a lungo in quechua col cugino, prima di sparire in cucina con lui e tornare con un vassoio di bibite, che appoggiò sul tavolo al centro della sala. Catherine prese posto accanto al camino. Mentre se ne stava lì a fissare il fuoco, ripensò a tutto quello che avevano appreso da quando erano arri-
vati a Cuzco. Cominciando a risentire del jet lag, Rutherford si accasciò su un'altra poltrona, e prima di avere anche soltanto il tempo di sbottonarsi la giacca, si addormentò profondamente. Catherine osservò quel volto serio illuminato dalla luce guizzante delle fiamme; poi sospirò e tornò a dedicarsi al confortante calore del fuoco. Sul finire della serata, dopo una cena deliziosa, Hernan aiutò Arun a sparecchiare e a lavare i piatti, poi si preparò a tornare a casa propria. Stava facendo del suo meglio per sollevare gli spiriti e cercare di non parlare delle brutte cose che avevano alle spalle. «Bene, spero che vi sentiate e vostro agio e che la nostra conversazione sia stata gradevole. Prima che mi dimentichi, penso che questo possa esservi utile». Estrasse dalla borsa un libro, Mitologia andina di Cudden. «È un'ottima guida di base su tutti i miti delle Ande. Per quanto mi riguarda, preferisco chiamarle storie e non miti, una definizione che fa pensare a invenzioni fantastiche e non reali, e noi sappiamo che non è così. Buona lettura. Passerò a prendervi alle cinque di domani mattina». Detto questo, Hernan scomparve nella notte. Arun rientrò nella sala e, con il suo luminoso sorriso, fece cenno a Catherine e Rutherford di seguirlo sul retro della casa. Rutherford, che era già in piedi, lo seguì lungo un corridoio, fino a un'ampia stanza al centro della quale campeggiava un grande letto matrimoniale, che ne costituiva l'unico elemento d'arredo. Nel caminetto occhieggiavano le braci morenti ma ancora calde di un fuoco. Arun vi gettò sopra un paio di pezzi di legna secca e si voltò verso Rutherford, il quale non ebbe bisogno di altre spiegazioni per capire che quella era l'unica stanza degli ospiti della casa e che lui e Catherine avrebbero dovuto dividerla. Sorrise all'indio e cercò di fargli capire a gesti che avrebbe dormito sul pavimento della sala principale, ma Arun si limitò a ridere e a scuotere il capo. Evidentemente quell'offerta di ospitalità non era negoziabile. In quel momento Catherine entrò nella stanza. Arun sorrise a entrambi e sgattaiolò via. Arrossendo per l'imbarazzo, Rutherford si avviò verso la porta. «Non preoccuparti, mi sistemerò sul pavimento, nell'altra stanza». E scomparve in fondo al corridoio. Catherine chiuse la porta alle sue spalle. Poi appoggiò il palmo della mano sul pannello di legno e chinò la testa, esausta.
30 Come promesso, Hernan li venne a prendere alle cinque del mattino. Con gli occhi gonfi di sonno, furono condotti alla stazione e accompagnati al treno per Machu Picchu, dove Hernan promise loro che li avrebbe raggiunti il giorno seguente, dopo i funerali di Miguel. Il vecchio treno, con soltanto quattro carrozze, si allontanò pigramente dalla stazione di Cuzco e iniziò la sua arrampicata lungo una delle più spettacolari linee ferroviarie del nostro pianeta. Nel corso del tragitto di tre ore, la locomotiva dal muso schiacciato trascina i suoi quattro vagoni lungo un centinaio di chilometri di binari a serpentina, attraversando fattorie e villaggi, in bilico sull'orlo di forre e burroni, infilandosi nelle gole di montagna, risalendo ripide pendici rocciose e, infine, offrendo un panorama che si estende per chilometri su ogni lato e in tutte le direzioni, emerge da una coltre di nubi per raggiungere la stazione conclusiva di Machu Picchu, chiamata appunto Machu Picchu Terminares. I tetti e le terrazze di Cuzco si estendevano sotto di loro e persino il tempio di Viracocha, la cattedrale, sembrava insignificante, rispetto alla maestosa grandezza dei picchi e delle valli andini. Catherine non era tranquilla. Da quando s'era svegliata, quella mattina, aveva avuto la sgradevole sensazione di essere seguita, osservata: che una grande e malefica macchina si stesse muovendo contro di loro. Gli ingranaggi s'erano messi in moto, alimentando un intero, enorme apparato destinato a distruggerli. Scrutò i volti dei passeggeri nel loro scompartimento: gente del luogo e turisti. "Niente di cui preoccuparsi... non ancora, almeno". Poi il suo sguardo si posò su Rutherford e sospirò di sollievo. Aveva estratto dallo zaino la copia dei Miti andini di Cudden e stava ripassando le descrizioni di Viracocha che aveva sottolineato la sera precedente. I suoi occhi scorrevano la pagina, mentre la sua mente spaziava. C'era qualcosa di familiare, in tutto ciò... Solo che non riusciva ancora ad afferrarlo. "Viracocha arrivò da un luogo lontano, dall'altra parte del mare. Era un uomo bianco. Alto e robusto, con gli occhi celesti e una lunga barba bianca. Recò tutti i benefici della civiltà e lo fece pacificamente. Ma un giorno degli uomini malvagi tramarono contro di lui. Quando tornò da uno dei suoi viaggi, lo costrinsero ad an-
darsene a bordo della sua barca a vela, che dopo aver percorso il fiume, avrebbe raggiunto il mare aperto". All'improvviso, ebbe come un'illuminazione. «Catherine! Credo di aver scoperto qualcosa. Credo di aver capito su cosa stava lavorando il professore». In quel momento Catherine stava ammirando il magico panorama dal finestrino. Si voltò a guardarlo, sorpresa. «Che cosa? Che intendi dire?» «Ascolta: la storia del diluvio universale la possiamo trovare ovunque; il professore credeva davvero che un cataclisma su scala mondiale avesse potuto distruggere un'antica civiltà, molto più avanzata di quelle successive. Ma quanti altri miti simili a questo circolano al mondo? Poi, all'improvviso, mentre stavo leggendo del mito di Viracocha ho capito...». «Che cosa?» «Che la storia che narra è - sia pure in senso lato - praticamente identica a quella di Osiride, la più importante divinità dell'antico Egitto. Si tratta di un modello predefinito, un tema ricorrente. E ha una sua logica. Tutte le culture hanno un gran numero di storie minori da raccontare, ma i miti centrali sono quelli che resistono maggiormente al tempo, i più forti e suggestivi. Durano secoli, se non millenni. Nascondi la vera storia in questi miti e puoi essere certo che non andrà perduta. Sono certo di aver individuato un parallelismo diretto fra Viracocha e Osiride, la divinità egizia... E debbono esserci altri grandi miti centrali come questo, che ricorrono in tutto il pianeta». «Ma è impossibile», rispose Catherine. «Fra le due culture non si è stabilito nessun contatto; si trovano ai due estremi opposti dell'Atlantico». «Okay, allora... Ascolta questo». Rutherford lesse il paragrafo che parlava dei cospiratori che si allearono contro Viracocha e poi della sua successiva partenza per mare; subito dopo riprese a raccontarle il mito di Osiride. «Osiride era il dio della resurrezione. Arrivò in Egitto con i suoi seguaci tantissimo tempo fa, recando tutti i benefici della civilizzazione. Come Viracocha - e Gesù Cristo - era un uomo pacifico che non tentò mai di forzare nessuno ad agire secondo i suoi insegnamenti, ma convinceva la gente e la istruiva servendosi degli esempi. Dopo qualche tempo, Osiride decise di partire per recare la civiltà ad altri popoli selvaggi. Disse agli Egiziani che sarebbe tornato presto e lasciò che al suo posto governasse suo fratello Seth. Ma Seth era geloso di Osiri-
de e ben presto capì di avere a portata di mano l'occasione per complottare ai suoi danni. Convinse altra gente a unirsi a lui e in poco tempo riunì un gruppo di settantadue cospiratori. Quando Osiride tornò dal suo viaggio, il gruppo era ormai pronto ad agire. Si tenne una grande festa in suo onore, il culmine della quale consisteva in un gioco: tutti i partecipanti alla festa dovevano cercare a turno di entrare in una cassa di legno appositamente costruita per la gara. Il vincitore sarebbe stato colui che si fosse adattato perfettamente allo spazio disponibile. Ma Seth s'era precedentemente assicurato che la cassa fosse fatta a misura di Osiride e di nessun altro, e quando, dopo i vani tentativi compiuti da tutti gli altri ospiti venne il suo turno, Osiride vi entrò perfettamente, sdraiandovisi supino. A quel punto i cospiratori chiusero in fretta il coperchio e lo sigillarono per sempre. Poi gettarono la cassa nel Nilo, da dove finì in mare, fino a raggiungere un luogo chiamato Byblos. I nessi sono chiari, mi sembra», proseguì Rutherford. «Persino la storia di Gesù Cristo ne riporta l'eco: l'uomo barbuto che viene in pace, cammina sull'acqua, e che, vittima di un complotto, finisce murato in una tomba. E in tutte e tre le storie si dice che un giorno, in futuro, questi personaggi torneranno fra noi». «Hai ragione, è straordinario». «Straordinario? Molto più di questo... e molto più di una coincidenza, a guardar bene. Viracocha e Osiride sono la stessa persona, su questo non ho dubbi. È nei miti come questo che dev'essere nascosto il codice. Il fatto che la stessa storia di fondo sia sopravvissuta all'interno di due culture del tutto estranee fra loro per chissà quante migliaia di anni, dimostra che si tratta di veicoli perfetti per la trasmissione di un antico messaggio». «Ma sei riuscito a capire cosa vogliano dire?» «No, non ancora. Ma almeno sappiamo da dove incominciare». Rutherford si abbandonò contro lo schienale del suo posto, perso nella sua riflessione sulle mitologie del pianeta. Mentre il treno s'inerpicava lentamente per quel tragitto lungo e tortuoso, davanti ai loro occhi il paesaggio mostrava tutta la sua formidabile gamma di strapiombi, forre e burroni. Le ripide pendici delle vallate erano invase dalla vegetazione boscosa e la sola idea di trasportare qualcosa, per non parlare di giganteschi massi di pietra, lungo queste salite quasi verticali per costruire un tempio nel cuore delle montagne, sembrava pazzesca. Finalmente il treno prese ad arrancare faticosamente, fischiando e sbuffando, lungo il tratto finale di salita che conduce a Machu Picchu Puentas
Ruinas, ingresso del sito dove sorgono le celeberrime rovine. Catherine abbassò lo sguardo sul sacro fiume degli Inca, l'Urubamba, che sotto di loro si snodava intorno alla base delle montagne come un verde serpente scintillante. 31 Oramai la stazione era quasi in vista; sulla piattaforma c'erano diversi indios affaccendati, mentre all'interno del treno tutti stavano preparandosi a scendere raccogliendo i bagagli, perlopiù buste, pacchi e fagotti. All'improvviso, Catherine credette di avere un'allucinazione. Mentre guardava la piattaforma affollata di gente, il cuore le si fermò per un terribile istante. Chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e tornò a guardare. In piedi tra la folla in attesa del treno c'era Ivan Bezumov, in completo di lino bianco. Catherine s'irrigidì appiattendosi contro lo schienale, mentre il treno proseguiva cigolando lungo i binari, superando il russo. Catherine si voltò verso Rutherford, con gli occhi sgranati. «Forse non ci crederai, ma sono convinta di avere appena visto quello strano tipo russo, Bezumov. Si trova qui, sulla piattaforma... e sta venendo verso di noi. Cosa diavolo ci fa, qui? Mio Dio, James, che cosa facciamo? Dove possiamo nasconderci?». Rutherford ebbe un sobbalzo. «Quell'uomo è qui? Non può essere!». Ma proprio mentre pronunciava quelle parole, vide il russo che si avviava a passo spedito verso il loro vagone, accompagnato da due indios bassi e tarchiati. In quel momento il treno si fermò del tutto, in un cacofonico stridore d'acciaio e tra sbuffi di vapore. Con l'adrenalina che gli pompava nelle vene, Rutherford cercò disperatamente di escogitare una soluzione. C'era un'unica via d'uscita: il cancello situato all'altra estremità della piattaforma. Ma Bezumov e i suoi scagnozzi ne bloccavano l'accesso. Sfrecciando attraverso il vagone, Rutherford aprì lo sportello dall'altra parte del treno e trasalì inorridito. La porta s'era spalancata di colpo, come risucchiata, oscillando nell'aria, al disopra dello strapiombo vertiginoso che si apriva per centinaia di metri sotto la carrozza e fino al fiume giù in basso. Un solo passo in più e sarebbe precipitato nel burrone, andando incontro a morte certa. Riacquistando l'equilibrio, Rutherford si voltò. Catherine era come inchiodata al pavimento. Era troppo tardi, ormai: l'uomo vestito di bianco era proprio accanto alla loro carrozza.
Il tempo sembrò fermarsi sotto il loro sguardo inorridito. Ivan Bezumov aprì lo sportello e salì sul treno. Li salutò col suo pesante accento russo: «Dottoressa Donovan e dottor Rutherford. Benvenuti a Machu Picchu». Rutherford era senza parole. Nella sua mente si rincorrevano pensieri sconnessi. "Ci sparerà? Che cosa c'entra lui in tutta questa storia? Sarà stato lui a uccidere il professore?". A quell'idea sentì tutto il corpo fremere di sbigottito orrore. "Ma se non intende ucciderci, che cosa diavolo sta succedendo?". Bezumov parlò per primo, rivolgendo loro un ampio sorriso: «Non sembrate affatto contenti di vedermi. Mi dispiace molto per com'è andato il nostro primo incontro, sono stato davvero brutale, ho dimenticato le buone maniere. Consentitemi di riabilitarmi ai vostri occhi». La paura di Rutherford fu sostituita dalla rabbia: «Bezumov, cosa diavolo ci fa lei qui? Come faceva a sapere che saremmo venuti a Machu Picchu? E come ha fatto ad arrivarci?» «Mi dispiace, non avevo intenzione di essere invadente, né di perseguitarvi come una specie di psicopatico... Il fatto è che avevo bisogno di parlarvi. Sono andato dal direttore del college e lui mi ha detto dove eravate diretti». Catherine sentì un brivido freddo percorrerle la schiena. "Come diavolo faceva il direttore a sapere che sarei andata in Perú?". Bezumov proseguì: «Conoscendo bene il lavoro del professore, ho immaginato che prima o poi sareste arrivati qui. Ho preso l'aereo subito dopo il vostro, vengo direttamente da Lima. Vi ho aspettati, sperando che sareste arrivati presto. Quando vi ho visti, mi sono sentito enormemente sollevato... Ma perdonatemi, davvero: non volevo spaventarvi in nessun modo». Comportandosi come un gentiluomo inca d'altri tempi, Bezumov ordinò ai due indios di prendere i bagagli di Rutherford e Catherine. Rutherford li bloccò subito in mezzo al corridoio del treno. Catherine si unì a lui, il volto incupito da un'espressione adirata e allo stesso tempo sconcertata. Bezumov le tese la mano e sorridendo le disse: «La prego: lasci che l'accompagni al mio albergo». Catherine non si lasciò impressionare da quell'ostentazione di cavalleria. Quell'uomo non le era piaciuto fin dal primo incontro, e ora che era qui le piaceva ancora meno, con quel viso affilato e ansioso e l'evidente nervosismo che traspariva da tutto il suo comportamento. «No, grazie, preferirei di no. Ne troveremo uno per nostro conto».
Bezumov scosse la testa, desolato. «Temo che l'autobus si riempirà ben presto di turisti, e il mio albergo è l'unico che abbia ancora delle camere libere. C'è una macchina che mi aspetta qui fuori. Lasciate che vi offra un passaggio. Potremmo lasciare i vostri bagagli in albergo e fare una passeggiata fra le rovine. Vi aspetto». Bezumov si voltò, scese dal treno e percorse velocemente la piattaforma. Catherine e Rutherford saltarono giù dal vagone e lo osservarono allontanarsi. Rutherford era esterrefatto. «Ma chi è? Non sapevamo nemmeno che saremmo venuti qui, prima di incontrare Hernan... Pensi che sia dalla parte dei nemici del professore, chiunque essi siano? E perché insiste tanto a volerti parlare? È assurdo... Ha fatto mezzo giro del mondo per trovarti». Catherine era immersa nei suoi pensieri. «Non lo so. Sono allibita. Ma quell'uomo mi spaventa». Si voltò verso Rutherford e lo guardò negli occhi. «Allora: che facciamo adesso? Proviamo a darcela a gambe? Ci troverà, non credi? Se è pericoloso, non farà nulla finché non avrà saputo quel che vuole sapere. Forse dovremmo accettare di parlarci, cercare di capire quali fossero i suoi legami col professore senza svelargli nulla. Ma dobbiamo uscire di qui al più presto. Che ne pensi?». Catherine allungò la mano, lo afferrò per l'avambraccio e lo strinse delicatamente. Rutherford si fermò un attimo, posò la mano su quella di lei e annuì. 32 L'autista di Bezumov tenne aperta la portiera dell'auto mentre Catherine saliva, seguita a ruota da Rutherford. Bezumov era seduto davanti e Catherine lo vide osservarla attentamente dallo specchietto retrovisore. Nonostante il timore che quello strano russo le incuteva, era ancora infuriata. Sul viso pallido e affilato di Bezumov balenò un sorriso. «Dottoressa Donovan, sono spiacente per tutta quest'aria di mistero. Durante il nostro primo incontro ho pensato che lei fosse un'accademica qualsiasi, e non ho voluto dirle molto del lavoro svolto da me e dal professore. Il fatto che sia venuta fin qui mi dimostra che in proposito sa più di quanto pensassi, dunque possiamo parlare più apertamente». Catherine e Rutherford lo fissavano diffidenti. L'autista accese il motore e avviò la macchina lungo la strada ripida e sterrata che conduceva a Ma-
chu Picchu. Bezumov continuò: «Vengo dall'Accademia delle scienze di San Pietroburgo, in Russia. Sono uno studioso di geologia, ma come è accaduto anche al professore, il mio lavoro mi ha portato lontano dai miei studi d'origine. Mi sono specializzato in geologia antartica e nel 1989 ho guidato una spedizione in quella che voi occidentali chiamate costa del Principe Harald - una provincia costiera dell'Antartide - dove ho fatto un'importante scoperta: ho rilevato prove concrete dell'esistenza in quella zona di un tipo di flora tropicale risalente al tardo periodo paleocene o all'eocene. Questo ovviamente significa che un tempo il clima era stato tropicale... Per farla breve, l'Unione Sovietica smantellò la spedizione, il mio dipartimento perse i fondi e nessuno s'interessò più alla mia ricerca, a parte il professor Kent. Mi contattò per la prima volta nel 1998, e da quel momento in poi abbiamo lavorato insieme su questioni concernenti la geologia recente e il clima terrestre». Bezumov si slacciò la cintura di sicurezza che lo impacciava nei movimenti e si voltò a guardare i suoi due passeggeri. «Quando dico "recente", intendo dall'inizio dell'ultima glaciazione: ovvero gli ultimi 100.000 anni». Catherine aveva un'aria scettica. «Ma allora perché non l'ha detto subito, e perché ci ha inseguito per mezzo mondo?». Bezumov fece un sorrisetto tirato e la guardò in maniera strana e indecifrabile. «Mia cara ragazza, c'erano in ballo più di quindici anni di lavoro... Stavamo portandolo alla conclusione, quando all'improvviso scopro che il professore è morto; come può immaginare, ero molto preoccupato per i frutti delle nostre fatiche». Rutherford non sembrava ancora convinto. «Se stavate lavorando insieme, perché non ha anche lei delle copie della vostra ricerca?». Bezumov continuava a sorridere, ma ora la sua espressione aveva assunto un che di sprezzante. «John - oh, mi scusi, James, vero? - due giorni prima di morire, il professore mi ha telefonato per dirmi che aveva trovato delle prove fondamentali del fatto che prima del 4000 a.C. il clima in Antartide fosse temperato, ovvero adatto alla vita e non un deserto di ghiaccio. Dai tempi del mio primo viaggio, non ero più tornato in Antartide e nessuno si era più mostrato interessato ad appoggiare le mie teorie. Il lavoro di un'intera vita, la mia
scoperta, rischia di andare perduta, a discapito della scienza e dell'umanità intera. Devo assolutamente sapere ciò che ha scoperto il professore». Catherine stava pensando a un'unica cosa: "Le mappe. Le prove cui il professore si riferiva debbono essere quelle. Deve aver pensato di aver trovato l'ultimo pezzo del puzzle, oppure che era arrivato il momento di mettere Bezumov a parte delle sue scoperte". «Ma perché cercare me? Perché ha voluto assolutamente contattarmi?», domandò. Bezumov sorrise nervosamente. «Perché lei, Catherine, era di fatto la persona più vicina al professore. Chi altri se non lei si sarebbe occupato dei suoi affari in Inghilterra? Lei avrebbe avuto accesso a tutte le sue cose». Catherine era attonita. "Forse, dopotutto, Bezumov conosceva davvero abbastanza bene il professore. Altrimenti come farebbe a sapere che ero la persona più vicina a lui? Come mai, però, l'istinto mi dice ancora di non fidarmi troppo?". 33 Le favolose antiche rovine di Machu Picchu sorgono sullo sperone di una montagna che domina un'enorme, profonda e verdissima vallata. Vi si accede da un sentiero che si spinge verso nord, attraverso le rocce ricoperte di licheni delle pendici montane fino allo scenografico sperone. Seguendo il sentiero fra il verde e i massi tondeggianti, talvolta è possibile perdere di vista le pendici delle montagne circostanti, avvolte da banchi di nuvole che sfilano, si gonfiano e si ricompongono sotto gli occhi del visitatore. Chiunque abbia ammirato questo panorama surreale ne conserva il ricordo per tutta la vita. Mentre Catherine, Rutherford e Bezumov percorrevano il sentiero scosceso, Machu Picchu apparve sotto di loro. Catherine rimase ad ammirare estasiata lo spettacolo naturale più bello che avesse mai visto. Chiunque avesse eretto quelle costruzioni in pietra, le aveva perfettamente incastonate nel circostante paesaggio di monti, vallate e pascoli a terrazza, conferendo loro la stessa importanza di megaliti scolpiti. Tutto era in perfetto equilibrio; tutto era in armonia. Rutherford, rimasto indietro di qualche passo, si fermò con un'espressione di pura ammirazione. Col suo pesante accento russo, Bezumov continuava a illustrare entusia-
sticamente le gesta e le realizzazioni degli Inca. «Gli Inca pensavano di star vivendo nella quinta era... che prima del loro vi fossero stati altri quattro mondi, distrutti da terribili cataclismi ambientali provocati da un dio adirato. Come potete vedere...», il russo si fermò a riprendere fiato, poi fece un ampio gesto che comprendeva lo straordinario panorama, «il loro non era quello che potremmo definire un popolo primitivo. Tuttavia, sembra che nonostante quello che Viracocha ha insegnato ai popoli andini a proposito del vivere in pace, essi abbiano compiuto spesso dei sacrifici umani. Si dice che le vittime sacrificali - non poche, peraltro venissero immolate su altari allineati secondo una versione inca dei ley. Sa cosa sono i ley?». Felice che in tutto ciò vi fosse anche qualcosa che conosceva bene, Rutherford ruppe il suo silenzio. «Sì... li ho studiati». «Allora forse potrebbe spiegarne il significato alla dottoressa Donovan?». Rutherford lanciò un'occhiata a Catherine. Non aveva nessuna voglia di aiutare il russo, ma Catherine sembrava ansiosa di ricevere una spiegazione. Sia pur riluttante, iniziò: «I ley sono il sistema di vettori di energia naturale che si crede congiunga e colleghi fra loro tutti i grandi siti archeologici dell'Inghilterra. Negli anni Venti un uomo di nome Alfred Watkins rilevò nelle campagne una sorta di gigantesco reticolato di sentieri e tracciati che collegavano fra loro tutti gli antichi siti sacri della storia britannica. Sbalordito da ciò che credeva di aver individuato, si munì di una comunissima cartina sulla quale trovò confermate le sue impressioni visive. Linee perfettamente diritte potevano essere tracciate attraverso la mappa dell'Inghilterra, unendo fra loro tutti i siti sacri. In alcuni casi le linee si estendevano per tutto il Paese, attraversando il cuore di un sito dopo l'altro». Catherine era affascinata. «Che siti intendi? Tipo Stonehenge?». Rutherford annuì, incapace di trattenere il proprio naturale entusiasmo. «Esattamente. Ottimo esempio. Stonehenge, St Michael's Mount a Land's End, la cattedrale di Salisbury si trovano tutti esattamente allineati fra loro. Un tipo di allineamento particolarmente difficile da realizzare persino con le moderne tecniche di rilevamento geologico, figuriamoci migliaia di anni fa». «Ma che scopo ha questo allineamento?». Rutherford sorrise.
«Ah... be', nessuno lo sa con precisione. Non si tratta di una mera coincidenza o del risultato di probabilità statistiche. Lo stesso Watkins, un uomo dallo spiccato senso pratico, ipotizzava che originariamente si trattasse di sentieri commerciali». Bezumov intervenne con quella che sembrava una certa impazienza. «Sì, ma vi sono anche altre teorie. I ley si allineano spesso alle posizioni di determinate stelle, in certi giorni dell'anno», proseguì, «e gli Inca avevano qualcosa di assolutamente paragonabile ad esse, quelle che chiamavano ceques. Erano riflessi sul terreno delle maggiori costellazioni e delle principali stelle. Partivano tutte dal tempio di Coricancha, a Cuzco, e da lì si estendevano come i raggi di una ruota. Una delle linee più lunghe ha origine a Cuzco e prosegue per quasi novecento chilometri, dritta come un fuso, attraverso Machu Picchu, Ollantaytambo e Sacsayhuaman, prima di tagliare il lago Titicaca e arrivare a Tiahuanaca: la città nelle nuvole». Rutherford non aveva mai sentito parlare di un altro sistema di linee. «C'è qualche altro luogo in cui si verifica questo fenomeno?», domandò, lasciando che la curiosità avesse la meglio sull'antipatia che provava per Bezumov. Bezumov sembrava piuttosto emozionato: evidentemente quello doveva essere il suo argomento preferito. «Oh, ma certo. I cinesi hanno le linee del drago, che costituiscono la base della loro arte del feng shui: il corretto posizionamento degli oggetti nel paesaggio. Le lung mei, le "strade del drago", erano considerate una versione globale delle linee dell'agopuntura che attraversano il corpo umano gli edifici e i siti sacri rappresentavano i punti su cui s'interviene con l'ago - e viste come possibilità di accesso al flusso di energia. Gli aborigeni australiani hanno le "vie dei canti", gli irlandesi la "via delle fate" e potrei farvi moltissimi altri esempi. Queste vie, o linee, avviluppano tutto il pianeta. Ho delle mie teorie sul loro scopo...». Bezumov s'interruppe bruscamente. «Ma questa è un'altra storia. Dove eravamo arrivati? Ah, sì: Machu Picchu. Quello che voglio dirvi è molto semplice. Gli altari sacrificali, così come altri tipi di edifici, e persino l'attuale collocamento dello stesso sito nella sua interezza, sono posizionati in modo da trovarsi allineati con diversi astri e costellazioni nei vari momenti cruciali dell'anno. Ad esempio, il solstizio di primavera o quello d'estate». Bezumov si schermò gli occhi col palmo della mano, scrutando il sito in silenzio, prima di proseguire. «Allora, dottoressa Donovan, spero che almeno sia pratica di software
astronomico per computer, come Skyglobe...». Catherine annuì. «Sì, l'ho usato molto negli ultimi anni». «Bene. Come saprà, Skyglobe permette di verificare con esattezza l'aspetto del cielo in qualsiasi momento del passato». Rutherford sembrava impressionato. «E come fa?» «Be', le stelle, i pianeti e altri corpi celesti si muovono tutti in un modo e a una velocità prevedibili e costanti. Skyglobe può mostrarle che aspetto ha avuto il cielo in un qualsiasi momento del passato e da qualsiasi postazione sulla superficie terrestre». «Davvero? Ma è come tornare indietro nel tempo». «Sì, è un metodo potente ed efficace. Ora, nel caso di Machu Picchu, ci è di grandissimo aiuto. Se dovessimo tornare qui questa sera e cercare di allineare l'altare con una qualsiasi stella o costellazione, sembrerebbe che il sito non sia relazionato in nessun modo al cosmo». «Come fa a saperlo?», domandò Rutherford. «Il professor Kent ed io ci abbiamo già provato... in diverse occasioni». Catherine aveva un'idea ben precisa di quello che il professore e Bezumov avevano tentato di fare. «Presumo dunque che abbiate impiegato il programma del computer per scoprire in quale data precisa si sia verificato l'allineamento fra il sito e le stelle?», disse. Bezumov le lanciò uno sguardo penetrante. «Esattamente». «Risultato?». Il russo fece una pausa... guardando entrambi con espressione impenetrabile. «Abbiamo scoperto che il progetto originale di Machu Picchu non risale a cinquecento anni fa, come sostenuto dall'attuale scienza archeologica, ma a un periodo situato fra il 4000 e il 3000 a.C». Rimasero tutti in attonito silenzio per qualche secondo, poi Rutherford mormorò: «Il che significa che questo originariamente non era affatto un sito inca». Catherine aggiunse: «Tutto porta alla stessa conclusione. È effettivamente esistita una civiltà precedente...». Bezumov sembrava assai compiaciuto. «Sì. Dunque ora sapete su cosa stavamo lavorando il professore ed io. Venite a dare un'occhiata più da vicino».
Dopo più di due ore, Catherine e Rutherford discesero finalmente i gradini che conducevano fuori dal sito e verso l'albergo. Bezumov era rientrato un'ora prima, lasciandoli a esplorare le rovine da soli; mentre tornavano verso l'albergo, Catherine decise quale sarebbe stato il prossimo passo da fare. «Le cose iniziano finalmente ad avere un po' più di senso. Penso che dovremmo mostrare le mappe a Bezumov: ha rispettato la sua parte dell'accordo, e, in ogni caso, potrebbe aiutarci a vedere le cose sotto una nuova luce». «Parlare con lui è una cosa, ma se gli mostrerai le mappe, perderemo la nostra merce di scambio. Chi può sapere cosa deciderà di fare, una volta assicuratosi di non avere più bisogno di noi?». Catherine gli andò vicino, gli prese la mano destra fra le sue e la strinse dolcemente. «James, credimi: se tu hai ragione e il russo non è del tutto sincero con noi, la sua reazione nel vedere le mappe potrà rivelarci le sue vere intenzioni. Sappiamo che c'è stata un'antica civiltà, ma io sono convinta che ci sia molto di più, da sapere, e Bezumov potrebbe essere la persona che ci può aiutare... seppur inconsapevolmente». Rutherford la guardò e, fingendosi indifferente al contatto fisico, scrollò le spalle. «Continuo a pensare che non sia una buona idea. Siamo completamente soli, quassù. Se qualcosa dovesse andare storto...». Catherine lasciò andare la mano di Rutherford e riprese a camminare. «Dobbiamo provarci», disse, in tono determinato. James la guardò camminare davanti a lui, poi, voltandosi un'ultima volta ad ammirare il panorama mozzafiato, sospirò profondamente, scuotendo la testa. "La cosa non mi piace per niente...". Quando entrarono nella sala da pranzo dell'albergo, videro Bezumov già seduto a tavola. Un cameriere gli stava versando dell'acqua. Non appena li scorse, il russo saltò su dalla sedia e con un ampio gesto del braccio li invitò a sedersi con lui. Fece un gran sorriso, che irradiava una calorosità quasi eccessiva. Poi si accorse che Catherine aveva con sé la busta contenente le mappe. Lo sguardo gli si illuminò all'istante. «Aah! Vedo che avete qualcosa per me, o sbaglio?».
Catherine si avvicinò al suo tavolo con Rutherford alle calcagna, e appoggiò il dossier sul ripiano. «Infatti. Il professor Kent mi ha spedito queste mappe dal Perú poco prima di morire». Gli occhi di Bezumov si spalancarono ancora di più e la bocca si socchiuse in un ghigno avido. Afferrando il tovagliolo, cominciò a pulirsi freneticamente le mani. All'improvviso il suo accento russo si fece più pesante, segno evidente che stava perdendo il controllo sull'abituale atteggiamento freddo e misurato. «Delle mappe, dice! Ma è fantastico...». Catherine iniziò ad aprire la busta. La mano di Bezumov si agitava impaziente nell'aria. Le mappe scivolarono fuori, cadendo sul tavolo, e Catherine fece un passo indietro, per permettere al russo di avere campo libero nell'esaminare quei documenti che per lui erano un vero e proprio tesoro. Bezumov aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite. Con estrema riverenza, come se avessero potuto correre il rischio di sgretolarsi al tatto, avvicinò delicatamente le mappe a sé. Le esaminò attentamente una per una, mettendole da parte e passando alla prossima, senza mai smettere di mormorare qualcosa in russo. Allontanatosi leggermente dal tavolo, Rutherford non aveva potuto fare a meno di notare quella metamorfosi. "Dunque, questo è il vero individuo che si celava sotto quell'aria cortese e soave. Avido, per certi versi famelico, direi. E sta chiaramente cercando qualcosa in particolare... Ma che cosa?". Poi, inaspettatamente, Bezumov si fermò di colpo. «Lo sapevo! La piramide di Giza, ma certo!». Rutherford e Catherine si chinarono in avanti per vedere cosa avesse provocato quell'eccitazione nell'uomo. Sembrava una normalissima mappa della Terra, ma nell'angolo in alto a destra si leggeva "Presunto meridiano principale della mappa di Piri Reis - Proprietà dell'Aeronautica Militare degli Stati Uniti". La linea longitudinale corrispondente allo zero, invece di attraversare l'osservatorio di Greenwich di Londra, correva attraverso il deserto, nelle vicinanze del Cairo. Bezumov stava praticamente sbavando di gioia e passava incessantemente le mani sul bordo della mappa, come per accarezzarla. «Giza! Perché non ho seguito il mio istinto?». Catherine e Rutherford di scambiarono un'occhiata interrogativa.
Catherine fu la prima a parlare: «Che cosa significa?». Con un sorriso che ricordava il ghigno di un lupo, il russo si voltò a guardarla. «Significa, mia cara ragazza, che un'anima buona nell'esercito americano si è presa il disturbo di calcolare in che punto della Terra il creatore originario della mappa di Piri Reis avesse collocato il grado zero, il loro equivalente dell'osservatorio di Greenwich, e quel luogo è Giza...». Rutherford era ancora attonito. «Ma cosa c'è di tanto strano nello scoprire che l'antico meridiano principale era Giza?». Bezumov gli indirizzò un'occhiata cupa. La forza e la peculiarità di quello sguardo fu tale da far quasi indietreggiare Rutherford di un passo. «Significa che l'Egitto, o per essere precisi la Grande Piramide di Giza, anticamente erano al centro del mondo. Una scoperta di eccezionale importanza». Gli occhi di Bezumov erano accesi d'entusiasmo: ora fissava un punto lontano, concentrato, parlando fra sé e sé. «Questi monumentali capolavori artistici e di architettura - le linee di Nazca, Angkor Wat in Cambogia, Katmandu, l'antica città sui monti himalayani, e le misteriose isole sacre dell'oceano Pacifico: Nan Medol, Yap e Raiatea - sono tutti collegati fra loro, parte di un enorme macchinario, e il centro, il cervello di questo macchinario dev'essersi trovato a Giza, presso le piramidi. L'apice delle antiche civiltà. E fra quattro giorni, all'alba di lunedì, avremo l'equinozio di primavera. Dev'essere lì! Colui che controlla Giza controlla il mondo intero...». Bezumov sembrava aver dimenticato dove si trovavano. Appoggiò le mani sul bordo del tavolo e spinse indietro la sedia. Per un attimo fissò il soffitto, come in silenziosa preghiera o nell'atto di prendere un'improvvisa decisione, poi tornò a guardare Catherine e Rutherford. «Ah! Tutta questa eccitazione ha esaurito le mie forze. Vi prego di scusarmi. Temo che il jet lag stia facendo il suo effetto. Devo andare a fare un sonnellino». Con ciò, fece un rigido inchino e, girando sui tacchi, si allontanò velocemente dalla sala, inghiottito dall'oscurità che regnava nel corridoio adiacente. Catherine e Rutherford si scambiarono un'occhiata smarrita. «Cosa pensi sia successo? E che diavolo stava dicendo a proposito di "un grande macchinario"...? Sembra del tutto folle», disse Catherine.
Rutherford fissava la porta attraverso la quale il russo era appena uscito. «Non saprei dirtelo. Ma di una cosa sono dannatamente certo: Bezumov sa esattamente cosa vuole e ti assicuro che non si tratta di semplice amore per la conoscenza da parte di un accademico. E per quanto riguarda la sua sanità mentale, considerato lo spettacolo al quale abbiamo appena assistito, non so più cosa pensare». «Che posti erano, quelli di cui parlava? Che cosa c'entrano con tutto questo?». Aggrottando le sopracciglia, Rutherford spiegò: «Sono altri antichi siti archeologici. Ad Angkor Wat si possono ammirare le rovine più spettacolari del pianeta. Si trova nel cuore della giungla cambogiana». «Rovine di che cosa? Piramidi?» «No, non sono piramidi; è un enorme complesso di edifici in pietra, settantadue per l'esattezza, fra osservatori astronomici e templi. Il palazzo più grande, il più importante del sito, si raggiunge attraverso cinque sentieri sacri, su entrambi i lati di ognuno dei quali, cinquantaquattro dèi trasportano il gigantesco e affusolato corpo di un serpente, per un totale di centootto dèi per sentiero. Sembra quasi un tiro alla fune, ma in realtà il serpente è avvolto intorno a una zangola per il latte, e tutti insieme stanno sbattendo il lattiginoso mare della Via Lattea». «E gli altri siti?» «Be', Katmandu è nascosta in alto, fra le nubi dei monti himalayani. Nessuno sa quando fu scoperta con esattezza. Per quanto riguarda gli altri posti, si tratta di isolotti sparsi nelle acque del Pacifico. Vi sorgono delle straordinarie rovine di civiltà scomparse da lungo tempo; sono tutti siti considerati sacri». Catherine annuì e abbassò lo sguardo sulle mappe sparse sulla tavola. «E Bezumov pensa che tutti questi siti siano collegati fra loro da ley». Negli occhi di Rutherford balenò un lampo di comprensione. «Ovviamente quello che gli abbiamo appena mostrato era l'ultimo tassello del suo puzzle. E l'equinozio di primavera, cui ormai mancano soltanto quattro giorni, in qualche modo è un momento determinante...». 34 Catherine sussultò di terrore. Qualcuno stava lentamente cercando di forzare la serratura della loro stanza d'albergo. Sdraiata a letto nel buio più totale, aveva affinato il senso dell'udito, e ormai era assolutamente certa
che qualcuno stesse cercando di entrare. Il suo corpo fu attraversato da un'ondata di adrenalina. "Oh mio Dio: è Bezumov. Sta venendo a uccidermi!" Sentì girare la maniglia e percepì la presenza di qualcuno nella stanza. Cosa poteva usare come arma? Dove poteva fuggire? Mentre cercava di focalizzare qualcosa attraverso il terrore e il buio fitto, intravide la sagoma di un uomo basso e muscoloso che le veniva incontro. D'istinto, fece per rotolare fuori dal letto, per gettarsi a terra e fuggire, ma al primo rumore delle lenzuola, sentì una voce che sussurrava nel buio: «Catherine, non aver paura, sono io, Hernan». Il tono era agitato, sembrava quasi in preda al panico. Catherine riprese fiato, sollevata, e scoppiò in una risata isterica. «Hernan! Ma cosa ti è venuto in mente? Vuoi farmi morire di spavento?». La sveglia sul comodino segnava le 2.37. Prima che Catherine potesse avere il tempo di chiedergli cosa stava succedendo, Hernan, col fiato reso corto dall'ansia, disse: «Sshh! Devi uscire immediatamente di qui». Catherine non riusciva a capire. «Cosa... Perché?» «A Cuzco ci sono due uomini che fanno domande su di voi. Non so se qualcuno dell'albergo ha detto loro che alloggiate qui, ma dobbiamo andarcene subito». «Due uomini? Chi sono?». Hernan si avvicinò alla finestra per assicurarsi che le tende fossero del tutto tirate, poi accese la luce sullo scrittoio. «È proprio questo che mi spaventa. Nessuno sa chi siano. Sono stati in tutti gli alberghi e gli ostelli di Cuzco per scoprire chi sia arrivato o partito negli ultimi due giorni. Non si tratta di agenti segreti - questo lo so per certo - anche se hanno un aspetto militaresco. Cercano di non farsi notare, ma io conosco tutti, qui a Cuzco. Stanno cercando te e James. Non abbiamo un minuto da perdere. Prima o poi andranno alla stazione e scopriranno che avete preso il treno ieri mattina, così avranno la certezza che siete qui. Potrebbero anche saperlo già, magari stanno venendo qui adesso...». Ancora una volta, Catherine sentì l'ormai familiare brivido freddo percorrerle la schiena. «O mio Dio! Che facciamo?» «Vi porteremo al di là della frontiera boliviana, e poi fino a La Paz. Da lì dovrete proseguire da soli. La cosa più importante è farvi uscire dal Perú, e
subito. Dammi i vostri biglietti aerei, farò cambiare la data di partenza in un'agenzia di viaggi; la cosa li confonderà e magari vi farà guadagnare tempo. Okay?». Catherine stava iniziando a rendersi conto della gravità della situazione... Poi si ricordò del russo. Rizzandosi a sedere nel letto, disse: «Hernan, abbiamo un problema». «Cosa?» «Abbiamo incontrato un conoscente di Oxford». Hernan la guardò incredulo. «Cosa? Ma che stai dicendo?». Catherine provò una punta d'imbarazzo. «Ascolta: lo so che sembra ridicolo, ma un tipo di Oxford, che conosceva il professore, è venuto a cercarci qui a Machu Picchu». «Stai scherzando. Sembra che mezzo mondo si sia dato appuntamento qui a Machu Picchu. Di chi si tratta?» «Di uno studioso russo. Il suo nome è Ivan Bezumov». Nell'udire quel nome, Hernan reagì come un animale spaventato, irrigidendosi tutto. «Bezumov è qui... in questo albergo?». Ora toccava a Catherine sentirsi terrorizzata. «Ehm... sì. Lo conosci?». Prima che la giovane donna potesse indagare oltre, Hernan afferrò una sedia e la incastrò sotto la maniglia della porta. Poi si voltò a guardarla da sopra la spalla e, con un freddo baluginio negli occhi, appoggiò l'indice sulle labbra, intimandole di restare in silenzio. Dallo zaino che aveva con sé, Hernan estrasse quindi una pistola. Catherine era senza parole. Hernan strisciò fino alla porta e vi appoggiò contro l'orecchio, rimanendo in ascolto per quella che le parve un'eternità. Alla fine si voltò e, sempre strisciando ventre a terra come un gatto, si accovacciò accanto a Catherine. «Fai subito i bagagli», sibilò. «Qual è la stanza di James?». Nello stesso tono basso e concitato, Catherine rispose: «La numero ventitré. Hernan... Ma che succede?» «Te lo spiego dopo. Credimi: Ivan Bezumov non è soltanto uno studioso. Dobbiamo agire in fretta; è un uomo molto, ma molto pericoloso. Sai qual è la sua stanza?» «Credo sia la numero tre». «Bene. Aspettami qui, torno fra un minuto». Sempre stringendo la pistola nella mano destra, con la canna rivolta ver-
so il soffitto, Hernan spostò la sedia con la sinistra e aprì la porta con esasperante lentezza. Catherine lo osservò inorridita scivolare all'esterno e scomparire nel buio pesto del corridoio. 35 Hernan si mosse come un esperto sicario lungo il corridoio, in direzione della stanza numero tre. Tirò il cane del suo revolver e appoggiò l'orecchio contro il pannello della porta. Con uno scatto improvviso e violentissimo, in cui mise tutta la forza della sua compatta muscolatura da indio, diede una spallata all'altezza della serratura, che non resistette all'urto. E nel giro di una frazione di secondo si ritrovò all'interno della stanza, con le gambe divaricate e le braccia tese nell'atto di puntare la pistola contro il letto. Che però era vuoto. Il russo se n'era già andato. Hernan imprecò ad alta voce e rimise a posto il cane dell'arma da fuoco. Catherine apparve in corridoio alle sue spalle, con gli occhi sgranati dalla paura. Dopo quella scarica di adrenalina, Hernan si sentiva del tutto svuotato ed esausto. «Catherine... Mi dispiace...». Catherine fissava incredula la sagoma dell'indio che impugnava la pistola. Hernan premette l'interruttore della luce e, dopo aver fatto cenno a Catherine di entrare nella stanza di Bezumov, richiuse la porta alle loro spalle. La donna stava morendo dalla voglia di fargli delle domande, ma capì subito che era meglio aspettare che parlasse da sé. Hernan riacquistò la padronanza di se stesso e, riprendendo anche a respirare normalmente, abbassò lo sguardo sulla pistola, imbarazzato e con un'espressione di scusa. «Ivan Bezumov non è un semplice studioso. Miguel e il professore lo hanno scoperto soltanto dopo la sua ultima visita: è un ex colonnello dei servizi segreti della Marina militare russa. Ci ha presi in giro tutti quanti. È un uomo estremamente pericoloso. Ed estremamente intelligente. Ci abbiamo messo così tanto a scoprire la sua vera identità perché è un'autentica autorità nello studio degli antichi siti archeologici, di geologia antartica, di preistoria e di tante altre materie». Infilò la pistola nella cintura dei jeans. «Bezumov ha lasciato l'ormai tramontata Unione Sovietica con un sogno; un sogno coltivato da un'intera generazione di scienziati sovietici: imbrigliare le energie naturali del nostro pianeta, le immani correnti elettromagnetiche che scorrono tra il sole e la Terra. L'energia idrica e quella eolica
sono niente in confronto alle potenzialità immaginate da questi scienziati russi. L'idea era quella di sfruttare il moto orbitante della Terra stessa, per creare ingenti quantità di elettricità gratuita, da impiegare come volevano. Bezumov è convinto che in passato l'umanità abbia già avuto modo di sfruttare queste enormi risorse. Il suo scopo è riscoprire come e diventare l'unico gestore di queste prodigiose quantità di energia». «Incredibile!», esclamò Catherine. «Già, sembra una follia. Ma il professor Kent pensava che egli avesse davvero scoperto qualcosa. Solo che, come sai, il professore era anche convinto che ogni genere di tecnologia conducesse al degrado della natura. Pensava che l'idea di Bezumov di imbrigliare queste nuove forme d'energia avrebbe provocato danni assai più gravi di quelli causati dai nostri attuali tentativi di sfruttare i carburanti fossili e l'energia nucleare. Se l'umanità cominciasse a interferire con l'effettiva rotazione del pianeta o con l'immane flusso energetico che scambia con il sole, i risultati potrebbero rivelarsi davvero catastrofici». «Catastrofici in che senso?», chiese Catherine. «E chi lo sa? Miguel mi disse che il professor Kent era dell'idea che se si fosse interferito con il moto orbitale della Terra, l'improvviso cambiamento della forza centrifuga avrebbe potuto far sgretolare il pianeta, o semplicemente determinarne la combustione spontanea». Catherine rimase a bocca aperta. Nella sua mente vedeva già il bellissimo pianeta blu, la Terra, andare maestosamente alla deriva nell'infinita notte del cosmo. Una tenera sfera di vita, forse l'unica e sola nell'infinita oscurità, che esplodeva in milioni di frammenti, frantumandosi come uno specchio, perduta per sempre. «Dobbiamo fermarlo». «Hai assolutamente ragione. Quell'uomo è un megalomane e non si fermerà di fronte a niente, pur di raggiungere il suo scopo. Ma ora come ora, quel che mi preoccupa maggiormente è la vostra incolumità: dobbiamo portarvi fuori di qui. Bezumov non è l'unico, qui in Perú a inseguirvi». PARTE TERZA 36 Erano le 7.30 del mattino di venerdì, in un anonimo palazzo del centro finanziario di New York. Il segretario Miller era seduto alla tavola delle
conferenze con altri dieci uomini elegantemente vestiti e appartenenti a etnie diverse. «Signori», esordì, «vorrei ringraziarvi per l'assiduità e la lealtà dimostrate negli ultimi anni. Questo sarà il nostro ultimo incontro mattutino; in realtà, sarà l'ultima possibilità che avremo di riunirci. Mancano ormai soltanto settantadue ore all'alba dell'equinozio di primavera. Facciamo dunque un breve riepilogo». Estrasse dalla tasca un paio di occhiali da vista e, infilandoli, posò lo sguardo sul blocco di fogli che aveva davanti. Gli undici uomini seduti attorno alla tavola attesero in silenzio. Potevano sembrare degli importanti uomini d'affari di mezza età; come Miller, avevano un'aria autorevole e intelligente. Occhieggiando da sopra il bordo degli occhiali, il segretario iniziò a parlare. «Okay. Del Medio Oriente si occuperanno direttamente il senatore Kurtz e il comitato. Quindi inizieremo col Giappone». Si rivolse ai tre orientali seduti all'altro capo della tavola. Il delegato giapponese prese la parola dopo un brevissimo inchino: «Come lei ben sa, segretario, la Banca Centrale del Giappone è nelle mani della Corporazione fin dalla seconda guerra mondiale. Quando, lunedì mattina, inizierà il crollo finanziario universale, contrariamente alla sua politica ufficiale, la banca liquiderà tutti i titoli in valuta straniera e venderà tutti i beni esteri e non. Il mercato non avrà alcuna possibilità di recupero. Inoltre, il comitato ha disposto il prosciugamento di tutti i fondi liquidi, nel caso ve ne fossero». Ringraziò i presenti con un cenno del capo e si sedette. Il segretario si rivolse allora a un cinese seduto alla sua sinistra, il quale annuì e disse: «Segretario, questa manovra del Giappone, insieme alla liquidazione globale gestita dal comitato, in Cina provocherà una crisi bancaria che sfocerà nel tracollo del mercato finanziario. Nelle maggiori città industriali, più di duecento milioni di persone rimarranno senza lavoro da un giorno all'altro. Si verificheranno pesanti sommosse sociali e nel giro di dieci giorni, la nostra valuta non avrà più alcun valore. I nostri agenti nell'esercito cinese hanno approntato i piani per un'invasione simultanea della penisola coreana e di Taiwan. Siamo certi che il governo, nel tentativo di distrarre le orde di disoccupati, favorirà l'esecuzione di tali piani. Sappiamo già dai rostri fratelli in America che anche la Marina statunitense attaccherà la terraferma con la sua flotta di sottomarini nucleari, prima di effettuare una contro-invasione sia di Taiwan che della Corea. Con la
Cina paralizzata, la Corporazione avrà via libera dopo il cataclisma». Il segretario annuì. Il delegato indonesiano gli lanciò un'occhiata dall'altra parte del tavolo. «Al primo accenno di aggressione statunitense, la Marina indonesiana poserà delle mine attraverso lo Stretto di Malacca, la più trafficata via commerciale del mondo, affondando qualsiasi imbarcazione che tenti di attraversarlo, bloccando di fatto il commercio internazionale e ponendo fine all'importazione di derrate alimentari. Possiamo prevedere l'insorgere di sommosse sociali nel giro di una settimana, seguite a ruota dall'invasione su vasta scala di Malesia e Australia». Il segretario spostò lo sguardo sui rimanenti sette delegati, uno dei quali africano, due asiatici e quattro di razza caucasica. «Chi parlerà oggi per l'Eurasia e l'Africa?». Un inglese pallido e smunto, con l'aria da imprenditore, annuì in direzione del segretario Miller, che gli fece cenno di parlare. «Il crollo economico universale inizierà con i nostri agenti a capo della liquidazione globale. Né la Banca Centrale Europea, né la Banca d'Inghilterra appoggeranno il mercato, garantendo così la rapida espansione del panico. Inoltre, in tutte le capitali d'Europa, verranno fatte scoppiare delle bombe. L'infrastruttura petrolifera europea, in particolare russa, verrà distrutta, ma in modo tale da essere prontamente riparata quando la Corporazione salirà al potere». Il portavoce fece una breve pausa, quindi riprese: «Poco prima della mezzanotte di lunedì, davanti alla residenza del primo ministro indiano verrà fatto saltare un ordigno dalla potenza più che sufficiente a uccidere sia lui che la sua famiglia. Sarà un gruppo islamico del Kashmir mandato da noi a rivendicare l'attentato, determinando l'inizio di una lunga guerra fra Pakistan e India. Nel frattempo, riusciremo anche a mettere in atto una guerra civile in Nigeria. Già da qualche tempo ci preoccupiamo di armare e rifornire di fondi tre milizie ribelli. La regione non potrà più esportare petrolio, né importare aiuti e prodotti alimentari. Tutto il continente sarà soggetto a carestie e guerre micidiali». «Bene», disse il segretario, «penserò io al coordinamento negli Stati Uniti, insieme agli stessi membri del comitato. Tutti voi riceverete ordini definitivi dal senatore Kurtz, attuale rappresentante del comitato stesso, ma confido nel fatto che tutti i codici vi siano già chiari e che non si verificheranno errori di sorta. È tanto tempo che aspettiamo questo momento...». Tutti i presenti annuirono solennemente; poi il segretario moderò il tono, facendosi improvvisamente più cauto.
«Non credo di dover sottolineare, signori, che da questo momento in poi i nostri piani non dovranno subire più alcuna modifica, né essere soggetti a divergenze di alcun tipo. La regolare sequenza degli eventi è di fondamentale importanza per il conseguimento del successo finale. Niente, e ripeto niente, deve accadere prima che il senatore impartisca il suo ordine. Non agite in alcun modo prima di aver ricevuto le istruzioni definitive. È chiaro per tutti?». Ci fu un mormorio generale di assenso. Il segretario raccolse le sue carte e si alzò in piedi. «Grazie, signori miei, e buona fortuna. I vostri figli e i vostri nipoti troveranno il vostro nome nei loro libri di storia. Un nuovo ordine mondiale nascerà dalle ceneri di quello vecchio. Lunga vita alla Corporazione». Sciolta l'assemblea e usciti che furono i delegati dalla sala, il segretario Miller tornò a sedersi al suo posto. Nella sala era rimasto soltanto il suo assistente di massima fiducia, l'agente Dixon. Il segretario Miller attese che questi chiudesse la porta, poi gli fece cenno di accomodarsi. Il giovane agente obbedì e posò sul tavolo un fascio di fogli. «Signore, ho effettuato le indagini richieste sul senatore». «Proceda pure, Dixon, siamo soli». L'agente sembrava piuttosto turbato. Non era la prima volta che indagava sui segreti delle persone per ordine del segretario, ma non s'era mai occupato di un membro del comitato, prima di allora. «Ebbene, signore, sembra che il senatore Kurtz sia membro effettivo di una chiesa evangelica fondamentalista chiamata la Chiesa della Verità Rivelata. Ha sede nel suo distretto elettorale e lui ne fa parte dalla nascita. Entrambi i genitori provengono da famiglie che hanno fornito alla Chiesa diverse generazioni di ministri della fede». L'agente Dixon fece una pausa per verificare che quel che stava dicendo stesse arrivando al segretario Miller. Il segretario gli fece cenno di continuare. «Il senatore non pubblicizza la sua appartenenza alla Chiesa della Verità Rivelata, pur non rinnegandola quando glielo chiedono. Preferisce definirsi semplicemente "un cristiano impegnato". I dogmi di questa Chiesa sono tuttavia considerati troppo estremi dalla maggioranza dei cristiani evangelici». Gli occhi del segretario si accesero. «Per esempio?», volle sapere. L'agente Dixon inspirò con forza. «Be', signore, sembra che la Chiesa
della Verità Rivelata creda profondamente nell'Armagedon. Stanno aspettando la fine del mondo: in realtà sono attivamente impegnati a provocarla. Interpretano in maniera letterale le parole dell'Apocalisse. Quando arriverà il giorno del Giudizio Universale, i membri della Chiesa saliranno in cielo, lasciandosi alle spalle tutti gli altri, costretti a prendere parte alla carneficina provocata dalla battaglia finale fra il Bene e il Male». Il segretario raddrizzò la schiena, irrigidendosi sulla sedia. Per qualche attimo gli parve di non riuscire a respirare. Il comitato non doveva essere al corrente delle vere intenzioni di Kurtz. Per quanto stesse organizzando il caos e la distruzione globali, la Corporazione non aveva intenzione di provocare un danno irreversibile; soltanto un cambiamento di equilibrio di potere a proprio favore. Si accorse che l'agente Dixon stava aspettando una risposta da lui; lo vide lanciargli un'occhiata nervosa. Cercò di riprendersi. Era tempo di agire. «Grazie, agente Dixon. Come sempre, ha svolto un lavoro esemplare. Non ho bisogno di raccomandarle di tenere per sé questa informazione. Per favore, mi faccia preparare la macchina, sarò di sopra fra pochi minuti». Non appena Dixon fu uscito dalla sala, il segretario Miller si alzò e si avvicinò all'armadietto di teak situato nell'angolo. Dopo aver estratto di tasca una chiave, ne aprì gli sportelli e cominciò a comporre la combinazione della cassaforte celata al suo interno. Le serrature scattarono e lo spesso sportello d'acciaio si spalancò. Miller infilò una mano nel cubicolo e ne estrasse una busta marrone dall'aria innocua. La piegò a metà e la infilò nella tasca interna della giacca, prima di richiudere la cassaforte. Il cuore gli batteva forte. Si ravviò nervosamente i capelli. Sulle tempie aveva gocce di sudore. Sistemandosi la giacca, scosse il capo: non riusciva ancora a credere a quel che stava facendo, tanti erano i rischi a cui si esponeva. Se qualcuno lo avesse scoperto, o anche minimamente sospettato, non avrebbe vissuto abbastanza da vedere il tramonto del sole. Per quanto gli dispiacesse molto, era costretto a eliminare l'agente Dixon. Grazie all'accuratezza del suo lavoro, il giovane si era ormai trasformato in una pericolosa mina vagante. Il segretario Miller raggiunse la porta del suo ufficio e appoggiò la mano sulla maniglia. Che brutta situazione! L'unica cosa consolante era sapere che almeno a quest'ora i due accademici erano morti. 37
Hernan guidava ormai da quattro ore. Non vedeva l'ora che i suoi passeggeri raggiungessero sani e salvi la frontiera con la Bolivia, prima che fosse troppo tardi. Aggirarono la punta sud del maestoso lago Titicaca, ammirandone le gigantesche dimensioni. Ovunque si scorgevano i picchi delle Ande, alcuni avvolti nelle nubi, altri in tutta la loro spigolosa nitidezza contro l'azzurro mozzafiato del cielo. Sulle sponde del lago la vegetazione era rada. Avevano ormai da tempo superato il limite della vegetazione arborea; il suolo arido e il freddo quasi costante non costituivano certo l'ambiente più adatto per qualcosa di meno resistente delle più coriacee piante montane. Hernan indicò loro le conchiglie sulla battigia e il segno verde della marea che marcava gli scogli attorno agli argini, a riprova di un'antica alluvione che aveva fatto arrivare l'oceano fino all'altopiano delle Ande: tre chilometri e mezzo al disopra dell'attuale livello del mare. Viaggiarono a tutta velocità, fin quando raggiunsero le rovine della cittadella di Tiahuanaca: la città perduta fra le nuvole. Hernan accostò e si fermò sul ciglio della moderna strada che costeggia l'antico sito, poi spense il motore. Davanti a loro, a soltanto un'ora di macchina, li attendeva la salvezza della Bolivia. Sulla piana limitrofa, sparse in lontananza, sorgevano le rovine di quella che un tempo doveva essere stata una grande città. Il paesaggio era costellato da enormi rovine di edifici di pietra, mentre alte cataste di terra disposte a piramide testimoniavano l'esecuzione di antichi riti sacerdotali scomparsi ormai da tempo immemore. «Volevo farvi vedere questo posto, anche se soltanto per un minuto. È il nostro sito più sacro. Al centro di questa città in rovina vi è un tempio sotterraneo, che contiene un pilastro di roccia rossa sul quale è scolpita l'immagine di un uomo con la barba. Di chiunque si sia trattato, una cosa è certa: non era un Inca». Rutherford si voltò a guardare Hernan con aria interrogativa. «Quanti indios con la barba lunga avete visto in Perú, finora?», gli chiese quest'ultimo. Catherine annuì lentamente. «Si tratta di Viracocha, vero?» «Sì! Per tutta la città in rovina si possono trovare raffigurazioni di Viracocha e dei suoi seguaci. In alcune immagini è ritratto insieme a degli elefanti e dei cavalli. In Sudamerica non esistono elefanti da più di diecimila anni. La statua più grande rappresenta Viracocha come una sorta di tritone. La metà superiore del corpo è umana, ma dalla vita in giù è coperto di
squame: indossa una sorta di cappa di squame di pesce». Rutherford era presissimo da quelle notizie; la sua mente non smetteva più di macinare dati e congetture. «Aspetta un attimo! Io ho già visto quell'immagine!». Hernan s'interruppe sbigottito. Rutherford si voltò verso di lui e Catherine, come colto da un'illuminazione improvvisa. In tono eccitato, disse: «Conoscete un po' di mitologia della Mesopotamia? I Caldei... la più antica civiltà di cui abbiamo prove certe?». Hernan scosse il capo e Catherine fece altrettanto. «C'è un semidio chiamato Oannes. Somiglia a un uomo, ma indossa pelli di pesce ed è parzialmente anfibio. Insegna ai popoli selvaggi a leggere e scrivere, coltivare la terra e stabilire un governo civile e razionale. Poi se ne va e sparisce in mare». Catherine era sbalordita. «Ma è pazzesco! Di nuovo la storia di Osiride!». «E non è tutto. Ricordate i Maya e gli Aztechi, e le altre antiche civiltà dell'America centrale?». Catherine ricordava vagamente gli Aztechi, con le loro piramidi e il culto del sole. Si strinse nelle spalle e fece cenno a Rutherford di continuare. «I Maya credevano in un'entità divina chiamata Kukulkan, "il serpente alato". Gli Aztechi invece in Quetzalcoatl, il serpente piumato: lo stesso personaggio, con un nome solo leggermente diverso. Si trattava di una divinità barbuta, con la pelle bianca che sembra sia arrivata in Messico attraversando il mare, in un momento imprecisato del passato. Insegnò alla gente le arti della civilizzazione. Deve trattarsi della stessa persona. Anche lui sparì in mare, a bordo di una zattera. La ragione per cui Cortes, il condottiero del piccolo esercito invasore spagnolo, non fu immediatamente ucciso dopo essere sbarcato, è che Montezuma, il re degli Aztechi, vedendo che era un bianco con la barba, lo scambiò per Quetzalcoatl di ritorno in quelle terre». Catherine sussultò. «Ma è straordinario! Ormai siamo a quattro apparizioni del misterioso uomo barbuto, e tutte in diverse parti del mondo». Hernan scuoteva il capo, impressionato. «E qui troviamo prove ancor più schiaccianti», disse, «del fatto che Viracocha sia vissuto già nell'epoca precedente il diluvio. Sapete qualcosa sugli allineamenti siderali degli antichi monumenti e di come, con il moderno software, si riescano a calcolare le date originali della loro costruzione?».
Catherine e Rutherford annuirono entrambi con espressione grave. «Bene, le statue e le pietre di Tiahuanaca si allineano perfettamente su una data del passato. Molti astronomi e archeo-astronomi se ne sono accertati e ormai è un dato incontrovertibile...». Catherine lo interruppe, ansiosa di sapere. «Qual è la data?», domandò. «Il 15.000 a.C». Sul gruppetto cadde il silenzio; tutti stavano cercando di immaginare quel popolo preistorico dalla tecnologia avanzatissima che con enorme intelligenza e prodigiose energie metteva in piedi la stupenda città le cui rovine giacevano ora davanti a loro. Catherine si voltò a guardare i due uomini. «Questo però non ci aiuta a capire perché il professore pensava che ci stessero dando un avvertimento. E, cosa più importante di tutte, non ci aiuta a capire perché là fuori ci siano entità di potere talmente decise a mantenere nascoste queste scoperte sul nostro passato, da arrivare a uccidere persone innocenti». Anche Rutherford ed Hernan non sapevano cosa pensare. Poi, scrutando ansiosamente all'intorno, Hernan infilò la chiave nell'accensione e il motore si avviò con un sommesso ronzio. «Non c'è più tempo da perdere», disse. «Vi consegnerò agli indios Aymara, sul confine. Quella che vedete - su entrambi i lati della frontiera - è tutta terra loro. Vi forniranno dei visti boliviani falsi e vi porteranno a La Paz. Con il loro aiuto uscirete vivi da qui». 38 Il senatore Kurtz scese dall'elicottero nell'accecante sole pomeridiano. Chinandosi sotto il vorticare dei rotori, attraversò il piccolo spiazzo dell'eliporto e il grande prato che circondava la Chiesa della Verità Rivelata. Mentre l'elicottero riprendeva quota, il senatore non poté trattenere un sorriso. Il cielo era quasi privo di nuvole, l'aria era fresca e limpida e quello era il suo posto preferito. Che sollievo essersi allontanati dal trambusto di Washington DC e dalle pressioni esercitate dal suo lavoro alla Corporazione! Ma ne era valsa la pena: molto presto ormai le profezie dell'Apocalisse si sarebbero avverate e lui sarebbe stato fra le poche anime assunte al cielo e scampate ai tormenti inflitti al resto dell'umanità... Un centinaio di metri più avanti, gli edifici nuovi di zecca facenti parte della Chiesa della Verità Rivelata si ergevano in tutto il loro splendore,
con le vetrate scintillanti sotto il sole. Mentre attraversava il prato, il senatore cercò di soffocare l'orgoglio che sentiva dentro di sé. Era gran parte merito suo se le entrate della Chiesa, in quegli ultimi anni, erano salite alle attuali centinaia di milioni di dollari l'anno. Lo studio televisivo al centro del complesso architettonico costituiva il cuore pulsante della Chiesa. Aveva la forma di un anfiteatro greco con un ordine di posti a ferro di cavallo e un podio centrale destinato al predicatore, che in tal modo vedeva accentuata l'intensità e l'atmosfera dei suoi interventi. Le cerimonie, ferventi e appassionate, venivano trasmesse su rete nazionale: si richiedevano aiuti e donazioni e si raccontavano storie miracolose di come la Chiesa avesse cambiato la vita di molta gente, mentre un pubblico estatico applaudiva a ogni frase. Il senatore Kurtz oltrepassò velocemente la receptionist sorridente e si inoltrò nelle giungla di corridoi, fino a raggiungere una sontuosa sala d'attesa. La spessa moquette, i divani e le poltrone in pelle le conferivano l'aspetto di una hall d'albergo a cinque stelle. L'aria condizionata ronzava sommessamente. L'unica immagine religiosa, di fatto l'unica decorazione su quelle pareti spartane, era una semplice croce di legno appesa accanto a una porta chiusa dall'altro lato della sala. Sulla targhetta che vi era affissa si leggeva "Reverendo Jim White". Senza esitare, il senatore attraversò la stanza e bussò deciso alla porta. Un secondo dopo, da dentro qualcuno intimò: «Entra!». L'accento era texano, la voce energica. Il senatore Kurtz spalancò la porta e fece il suo ingresso. La battagliera figura del reverendo lo salutò con un verso di approvazione. Il reverendo Jim White era un uomo robusto e tarchiato sui cinquantacinque anni, col naso da pugile e le sopracciglia sporgenti e folte. «Senatore! Che deliziosa sorpresa. Non l'aspettavo prima di domani». Il reverendo si alzò in piedi e aggirò la scrivania, facendosi incontro al suo visitatore. La possente voce texana riempì la stanza. I due si strinsero calorosamente la mano, poi si abbracciarono, dandosi amichevoli pacche sulla schiena. Il reverendo chiamava Kurtz "senatore" più per gioco che per altro: i due si conoscevano da quando erano bambini. Insieme avevano trasformato la loro Chiesa, che da oscura setta di provincia era diventata uno dei centri di fede evangelica più importanti e influenti. Avevano fatto molta strada insieme, arrancando e faticando, e, con l'aiuto della fede e del loro carisma, avevano convinto migliaia di comuni
cittadini americani a unirsi a loro. Il senatore Kurtz fece un passo indietro per scrutare il suo amico dalla testa ai piedi. «È bello rivederti, Jim. Hai un aspetto magnifico. Sei andato in piscina, come ti avevo consigliato?». Il reverendo scoppiò in una gran risata. «Sì, quando ne ho il tempo... quando ne ho il tempo. Abbiamo avuto talmente tanto da fare: registrare programmi, trasmissioni varie, acquisire nuovi importanti membri e introdurli nell'ambiente... Non ho avuto nemmeno il tempo per pensare, credimi. Ma accomodati prego. Voglio sapere ogni cosa». I due uomini si diressero verso due confortevoli poltrone, sistemate davanti a un tavolino da tè. L'aria gioviale del reverendo si tramutò improvvisamente in un'espressione grave e concentrata. Si prese il mento fra le dita della mano grassoccia. «Allora, che mi dici? Ci siamo quasi?». Il senatore Kurtz annuì solennemente; poi, con studiata lentezza, diede la notizia all'amico. «Jim: penso che ce l'abbiamo fatta». Il volto del reverendo si riaccese. Quasi non riusciva a contenere l'entusiasmo. «Davvero? Mi stai dicendo che siamo finalmente entrati nella fase finale?» «Sì, Jim, ci siamo. Non vedo cosa potrebbe più fermarci. Le cose vanno meglio di quanto avessi mai sperato. Le pericolose eresie del professore inglese sono state cancellate dalla storia. E la presa di potere pianificata dalla Corporazione sta per avere luogo. Sono stato di persona all'assemblea del comitato. All'Armagedon mancano pochissimi giorni, ormai». Il reverendo Jim White non credeva alle sue orecchie. Finalmente, dopo tanti sforzi, tante battaglie, sembrava fossero quasi arrivati a realizzare il loro sogno. Il senatore proseguì: «Mi recherò direttamente al Cairo, dove stabilirò la mia base. Mi sono coordinato con i nostri agenti in Israele e anche loro sono pronti. Abbiamo introdotto un piccolo ordigno nucleare nel sacrario musulmano della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, che verrà fatto esplodere in contemporanea con la crisi economica globale provocata dalla Corporazione. Come sai, i nostri agenti hanno già provveduto a minare il Muro del pianto, servendosi dell'antico condotto fognario romano in disuso. Non appena il muro sarà ridotto in polvere, gli israeliani ordine-
ranno il bombardamento della Mecca. Il Medio Oriente sarà preda delle fiamme. Sono certo che Israele ricorrerà alle armi nucleari e prevedo minimo cento milioni di morti nei primi giorni del conflitto. Tutto questo accadrà a un mio comando lunedì mattina: all'alba dell'equinozio di primavera». Il predicatore si alzò in piedi e tese la mano destra aperta verso l'alto, verso il soffitto della lussuosa sala. Aveva gli occhi lucidi. Con la sua voce stentorea, gridò, sopraffatto dalla gioia: «Il Signore sia lodato!». 39 Erano le 7.35 del mattino al Ruinas Hotel di Machu Picchu, quando un 4 x 4 giapponese nuovo di zecca si fermò con un forte stridore di gomme davanti all'entrata. Del tutto fuori contesto rispetto all'umile ma colorata gente del luogo e al maestoso paesaggio montano sullo sfondo, l'assassino del professor Kent e il suo giovane complice scesero dall'automezzo e attraversarono il polveroso cortiletto antistante l'albergo. Senza perdere tempo, i due uomini irruppero nella saletta della reception. Dietro il bancone sedeva un uomo anziano, mentre in un angolo una donna indio stava pulendo il pavimento. Sia il vecchio che la donna sollevarono la testa, sorpresi. Non era cosa da tutti i giorni vedere gente ben vestita e con una macchina nuova come quella, a Machu Picchu, e in ogni caso, tutti, in Perú, dal bambino più piccolo al vecchio più decrepito, sapevano che in genere si trattava di persone da cui tenersi il più possibile alla larga. La donna appoggiò lo scopettone alla parete e sgattaiolò via per il corridoio. L'assassino si rivolse al suo complice e gli disse qualcosa, in tono gutturale, pieno di disgusto e frustrazione. «Ti dico che li abbiamo persi...». L'amico sembrava preoccupato. Si diresse con passo deciso alla reception e ordinò al vecchio: «Voglio vedere il registro con tutti quelli che sono arrivati ieri sera. Subito!». Terrorizzato, il vecchio armeggiò col grosso quaderno rilegato in pelle, le dita artritiche che cercavano di aprirlo alla pagina giusta. «Dai qua, vecchio rimbambito!». Il giovane glielo strappò dalle mani e iniziò a sfogliarlo. Pochi secondi dopo stava facendo scorrere l'indice destro sui nomi di due degli ospiti registrati: Donovan e Rutherford. Imprecando, alzò gli occhi dalla lista di nomi.
«Okay, viejo: dove sono andati? ¿Dónde están los gringos?». Il vecchio receptionist spalancò gli occhi terrorizzato, senza capire. Indietreggiò, allontanandosi dal bancone e infilandosi in una porta. Il ragazzo scavalcò il bancone con un balzo felino e lo seguì nella stanza sul retro. Il vecchio si appiattì contro la parete del piccolo vano e iniziò a balbettare qualcosa d'inintelligibile, in un dialetto indio. Ormai il ragazzo aveva perso la pazienza. Iniziò a gridare: «Dove sono Donovan e Rutherford? ¿Dónde están Donovan y Rutherford?». Il receptionist era crollato in ginocchio, inclinandosi all'indietro, come aspettandosi un pugno o uno schiaffo. Nel suo inglese stentato, riuscì a dire: «Señor... la coppia di stranieri è andata via stanotte». «Dove? Dove sono andati?» «Hanno preso la strada verso la Bolivia». Il giovane si avvicinò e afferrò il vecchio per la collottola. «Erano soli? Chi c'era con loro?» «Sì, señor... sì, señor. Erano con un amico, uno che è già stato qui altre volte. Il señor Flores». L'assassino li aveva raggiunti. Storse la bocca, disgustato. «Sanno di essere inseguiti. Dobbiamo sbrigarci». In un gesto di estremo disprezzo, il giovane sbatté il receptionist a terra e i due uomini si precipitarono fuori dall'albergo. 40 Dopo che Catherine e Rutherford furono scesi dalla macchina alla frontiera boliviana e si furono dati una spolverata, Hernan indicò loro un punto oltre la casupola del controllo di frontiera, in direzione di un veicolo 4x4 parcheggiato a breve distanza dal confine. «Il vostro passaggio. Vi porterà a La Paz in men che non si dica. Si chiama Quitte... non parla l'inglese. Vi porterà a casa della sua famiglia, a La Paz. Da lì potrete escogitare un piano su come ripartire sani e salvi». Hernan mise le mani a coppa attorno alla bocca e gridò in direzione del veicolo fermo: «Hola, Quitte, estoy aquí con mis amigos. ¡Vámonos!». La portiera del conducente si aprì e dall'auto scese un indio basso e sorridente. Salutò con la mano, e Hernan rispose al saluto. Poi si voltò a parlare con Catherine e Rutherford per l'ultima volta. Aveva gli occhi scintillanti e sembrava incitarli con ogni fibra del suo corpo ad andare avanti, stringere i denti e riuscire nel loro intento.
«Amici miei... Buona fortuna». Fissò Catherine col suo sguardo penetrante. «E fate attenzione». Catherine sentì formarsi un groppo in gola. Aveva un brutto presentimento. «Non puoi venire con noi a La Paz?, stare anche tu nascosto per qualche giorno?». Hernan sorrise e scosse il capo. «No, Catherine, devo tornare dalla mia famiglia, siamo ancora in lutto, devo stare con loro». Detto questo, si abbracciarono, poi Catherine si allontanò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Rutherford strinse calorosamente la mano di Hernan. «Grazie di tutto. Ti prometto che faremo del nostro meglio per scoprire la verità... per Miguel e per il professore. Fermeremo Ivan Bezumov». Hernan avanzò e abbracciò l'inglese. «James, abbi cura di te... e di questa bellissima donna». James restituì l'abbraccio al robusto indio, poi i tre si separarono. 41 All'interno del palazzo di Sotheby's in York Avenue, negli uffici di Manhattan della casa d'aste di fama mondiale, una bellissima ragazza dai vestiti attillati ed elegantissimi stava accompagnando il segretario Miller in una stanza buia e priva di finestre. Passò la mano curatissima lungo lo stipite della porta e trovò l'interruttore, illuminando la grande stanza. «Questa è la sala delle mappe. Come vede, non ci sono finestre, onde evitare ogni sorta di danneggiamento del pezzo in suo possesso da parte della luce solare. Prego, si accomodi. Sulle pareti può ammirare alcuni pezzi della nostra collezione che forse potranno interessarle. Il signor Silver sarà qui fra un minuto». Il segretario esaminò l'ampio e lussuoso salone. Al centro campeggiava un tavolo da riunioni, circondato da comode poltroncine in pelle. Sopra di esso, attaccata al soffitto, c'era una lampada che poteva essere sollevata e abbassata in ogni direzione. Alle pareti erano appese delle mappe incorniciate. La giovane donna proseguì: «Quella è la mappa originale realizzata da Cristoforo Colombo in occasione del suo primo viaggio in America. Il suo valore è praticamente inestimabile, perciò è protetta da un vetro antiproiet-
tile e sigillata all'interno di una cornice di acciaio inossidabile incorporata alla struttura dell'edificio». Gli indirizzò un sorriso smagliante. «Desidera qualcosa da bere? Un tè o un caffè?». Il segretario Miller rispose quasi in un grugnito: «No, grazie. Come ho detto, non sono un esperto e credo che il pezzo in mio possesso sia una copia, non l'originale. Mi serve solo farlo identificare». In quel momento la ragazza, che si trovava ancora sulla soglia della stanza, si voltò di scatto. «Ah! Eccolo qui». Byron Silver, ritenuto un'autorità a livello mondiale nel campo della cartografia, fece il suo ingresso nella sala. Era sul finire della cinquantina, ma sembrava più vecchio. Indossava un gessato a tre pezzi ed era quasi completamente calvo. Il suo viso sottile e pallido rivelava gli anni passati nella penombra delle antiche e polverose biblioteche a studiare mappe e manoscritti. Stese la mano. «Salve. Lei dev'essere il signor Miller». «Esatto. Grazie per avermi ricevuto con così poco preavviso, signor Silver». L'antiquario gli indirizzò un sorriso adulatorio, e con un tono morbido e studiato rispose: «Non c'è nessun problema. Per una persona che riconosce il valore della mia stima ed è pronta a pagare bene come lei, sono dispostissimo a lavorare anche senza appuntamento». La ragazza li lasciò soli, chiudendosi discretamente la porta alle spalle. Silver indicò il tavolo. «Che ne dice se ci accomodiamo? Non c'è bisogno di rimanere in piedi». Il segretario Miller si avvicinò al tavolo, infilò la mano nella tasca della giacca e ne estrasse la busta marrone. Con mano malferma, la strappò, ne estrasse un foglio che si rivelò essere una mappa e l'appoggiò sul ripiano. Silver si accigliò, come preso da improvviso turbamento. Frugò nella tasca esterna della giacca, ripescando un paio di vecchi occhiali ripiegabili, che appoggiò sulla punta del naso. Poi allungò una mano, accese la lampada e la orientò in modo che illuminasse in pieno la mappa. Il segretario Miller seguiva ogni suo movimento con occhi di falco, ansioso di individuare un qualche segno di riconoscimento. Dopo un minuto, Silver si raddrizzò e si tolse gli occhiali. «Allora? Sa dirmi di che cosa si tratta?». Silver annuì sapientemente.
«Sì. È una copia della mappa di Piri Reis. E lei sa di cosa si tratta?». Il segretario Miller scosse il capo, irritato. Silver proseguì: «Si tratta di una mappa medievale redatta da un ammiraglio turco di nome Piri Reis. Si basa su mappe antecedenti - molto antecedenti - o almeno così sosteneva l'ammiraglio, e serviva per la navigazione della flotta turca, nel caso si fosse avventurata negli oceani meridionali». Il segretario Miller era confuso. Che diavolo poteva avere a che fare con tutto quello che stava accadendo? Perché il senatore aveva fatto uccidere il professore e perché aveva dato ordini precisi affinché quella mappa fosse distrutta? Ma Byron Silver si stava appassionando all'argomento. «Riproduce la massa territoriale dell'Antartico, mostrandocelo privo di ghiaccio. Perciò la mappa è considerata una curiosità, un pezzo da collezionisti». «Vuol dire che riproduce l'Antartico in maniera esatta? Com'è possibile? Mi corregga se sbaglio, ma quelle terre non sono forse completamente coperte dai ghiacci?». Byron Silver sorrise. «Be'... nessuno lo sa. Ma è proprio per questo che la mappa ha un suo valore... che travalica quello storico, intendo. Ai collezionisti piacciono i pezzi circondati da un'aura di mistero. Ogniqualvolta abbiamo la fortuna di trattare elementi come la mappa di Piri Reis, veniamo letteralmente subissati di richieste». Byron Silver spense la luce e aggiunse, quasi soprappensiero: «Ovviamente, riceviamo anche un sacco di indignate lamentele dai nostri clienti più... come dire... d'inclinazione religiosa più ortodossa, ecco». Il segretario Miller trasalì. «Cosa? Perché?». Byron Silver si voltò di scatto a guardarlo negli occhi. Percepiva la tensione nella voce del suo interlocutore. «Volevo soltanto dire che ci sono persone, al mondo, che non approvano gli oggetti - artistici o meno - che mettono in dubbio la versione biblica del nostro passato». A Miller si ghiacciò il sangue nelle vene. Guardò la mappa, orripilato. Dunque il professore non era mai stato una minaccia per la Corporazione. Il senatore s'era evidentemente servito della rete di agenti della Corporazione stessa per il raggiungimento dei propri scopi personali. Era un fatto
senza precedenti. Doveva dunque pensare di non essere altro che una pedina impiegata da Kurtz nell'ordire i suoi piani? Tutta la Corporazione stava quindi per essere strumentalizzata ai fini religiosi del senatore stesso? Il segretario Miller non poteva più escluderlo. Ma doveva procedere con cautela. Il via all'operazione di lunedì era già stato dato e lui stesso avrebbe dovuto portare a termine la sua parte, secondo lo schema dei piani prestabiliti. Decise di confrontarsi in un faccia a faccia col senatore Kurtz prima che arrivasse il giorno decisivo. Ma avrebbe dovuto scegliere il momento adatto, o avrebbe rischiato di fare la stessa fine del professor Kent. 42 Mentre l'automobile percorreva la tortuosa e vertiginosa strada che dall'Alto Plano scendeva fino alla capitale boliviana, Catherine a Rutherford sembravano perduti nei loro rispettivi pensieri. Quitte, sorridente e pieno di energie, guidava da vero esperto del luogo. Catherine vagava con lo sguardo sugli ampi paesaggi di vallate e cime montuose pensando al professore e chiedendosi che cosa avrebbe ratto lui al suo posto. Le mancava terribilmente: le mancavano la sua autorevolezza e la sua disponibilità. Rutherford, che era rimasto in silenzio a meditare per qualche tempo, stava a sua volta ammirando lo scenario andino. Corrugando la fronte nella sua intensa concentrazione, fissava quel meraviglioso spettacolo fuori dal finestrino, lasciando vagare lo sguardo indagatore, come per trovare una risposta alle sue domande angosciose. Poi, all'improvviso, si voltò verso Catherine. «Conosci la storia di Gilgamesh?». Si guardarono negli occhi. Rutherford sollevò le sopracciglia speranzoso. Catherine scosse il capo. Rutherford allora si sistemò meglio sul sedile per poterlesi rivolgere più direttamente. «È praticamente alla base della storia biblica di Noè. Le prime testimonianze in proposito risalgono a iscrizioni cuneiformi databili intorno al 2000 a.C, ma la sua origine dev'essere ancora più antica. Gilgamesh era il re di Uruk in Sumeria; la storia è la cronaca del suo incontro con un altro sovrano, di nome Utnapishtim, vissuto prima dell'inondazione. Utnapishtim era stato avvertito da una divinità dell'arrivo del diluvio e aveva costruito una barca, dove aveva caricato ogni genere di animali e di semenze. Le piogge torrenziali arrivarono, inondando ogni cosa all'intorno, tanto che
non c'era che acqua a perdita d'occhio. Utnapishtim liberò una colomba...». Catherine intervenne: «Ma è assurdo! Voglio dire, gli autori dell'Antico Testamento hanno preso tutta la storia per filo e per segno, e...». «E perché non avrebbero dovuto? È una storia interessante. Possiamo supporre che Utnapishtim fosse un simbolo, un singolo personaggio in rappresentanza di tutti coloro che sopravvissero all'inondazione. Altrimenti la razza umana non avrebbe mai potuto riprodursi e raggiungere l'attuale numero di individui. Questi miti sono resoconti grafici di prima mano di un cataclisma che ha quasi sterminato tutti i nostri antenati. L'umanità fu quasi spazzata via». «Wow! Solo a pensarci viene la pelle d'oca». «Già, puoi dirlo forte, ma è l'unico motivo per il quale una storia tanto terrificante sia stata posta al centro di tante e diverse culture. Costituisce la nostra prima forma di memoria collettiva... e ci sono tantissime altre descrizioni di distruzioni concernenti terremoti, incendi e periodi di freddo intenso che sembrano coincidere con le storie relative all'inondazione. Le scritture zoroastriche, ad esempio». Catherine increspò la fronte. «Già, i zoroastriani. Chi sono?» «Sono i seguaci del profeta Zoroastro, conosciuto anche come Zaratustra. Ve ne sono ancora oggi - anche se in tutto sono poche centinaia di migliaia -, per la maggior parte a Bombay, in India. Si dice che Zoroastro abbia avuto una rivelazione da Dio...». Catherine individuò un parallelo. «Quindi è come Maometto per i musulmani, o Mosè per gli ebrei?» «Sì. Soltanto che Zaratustra è più antico, è vissuto in un periodo antecedente il 2000 a.C. I zoroastriani, che si dicono originari della Russia settentrionale, sostengono che un giorno il diavolo abbia deciso di distruggere Airyana Vaejo, l'Eden zoroastriano, situato in un punto imprecisato della Siberia. Invece di sommergerlo con le acque, pensò bene di ricoprirlo di ghiaccio. Le scritture narrano come quel territorio un tempo accogliente e ridente si sia ammantato di neve e ghiaccio, sprofondando in un eterno inverno». Catherine ascoltava interessata. «Un destino assai particolare: non il genere di cose che s'inventano lì per lì». «Già. E anche i Vichinghi la pensavano in maniera simile». Rutherford era lanciato, ormai. «Credevano ci fosse stato un tempo in cui la Terra sembrava destinata all'eterno caos. Il frumento non maturava o marciva,
scoppiavano continue guerre e tutt'intorno continuava a cadere la neve. Dopo il grande freddo, la Terra fu data alle fiamme e si trasformò in un enorme rogo, dove anche l'ultima molecola di vita fu ridotta in cenere. Quindi, come se non bastasse, si verificarono improvvise alte maree, che seppellirono tutto sotto una coltre d'acqua». Rutherford batté fra loro i palmi delle mani. Catherine si figurò la terribile visione dell'apocalisse vichinga. «Il problema è che in nessuno dei miti che abbiamo ricordato viene mai menzionata la causa del disastro globale. Se non conosciamo la causa, come faremo a evitare lo stesso destino?». Rutherford iniziò a pensare ad alta voce. «Eppure il professore era convinto che il messaggio segreto dicesse proprio questo». «Forse dovremmo considerare il problema da una prospettiva diversa». «Che vuoi dire?» «Be', invece di affidarci esclusivamente alla nostra capacità di interpretazione dei miti, per scoprire quel che ha causato la distruzione del mondo che fu, perché non ci concentriamo sulla ricerca di altre prove di un cataclisma ambientale di proporzioni globali? Impiegando autentiche fonti geologiche, o reperti fossili comprovanti, potremmo riuscire a collocare questo terribile periodo in qualche punto della storia della Terra. Potremmo far coincidere i dati tecnici con quelli individuati nei miti... Potremmo persino arrivare a scoprire il momento esatto in cui il mondo perduto smise di esistere», disse Catherine. Rutherford annuì incoraggiante. «Ma pensi che questo ci aiuterebbe a capire perché quel mondo finì? Ci aiuterebbe a comprendere il monito?» «Certamente. Pensaci bene. Se comprendiamo la natura del cataclisma, sarà più facile risalire alle cause scatenanti». Gli occhi di Catherine si accesero, mentre col palmo della mano colpiva lo schienale del sedile davanti a lei. «Von Dechend!». Rutherford annuì con convinzione. «Ma naturalmente! Perfetto! Fra l'altro, ormai sappiamo di poterci fidare di lui. Dobbiamo tornare a Oxford... e subito!». Hernan guidava lungo le strade deserte dell'Alto Plano, di ritorno a Cuzco. Dalla morte del fratello era caduto in uno stato di shock apatico; tutto gli era sembrato irreale. Per quanto avessero saputo di essere in pericolo, il
peggio li aveva trovati impreparati. Ma con l'arrivo di quegli stranieri, all'improvviso aveva intravisto uno spiraglio di speranza. "Almeno la morte di Miguel e del professor Kent non sarà stata inutile". Pensò a Catherine e Rutherford che stavano fuggendo, incoraggiandoli mentalmente: "Devono uscire dal Paese". In quel preciso istante si accorse di una macchina, poco più avanti, parcheggiata di traverso sulla strada. Su entrambi i lati il ciglio era costeggiato da massi e burroni: impossibile aggirare l'ostacolo. Si fermò a una decina di metri dal veicolo in sosta. Un uomo robusto di razza bianca, in completo nero e occhiali da sole, scese dal sedile posteriore. Hernan lo fissò inorridito mentre sollevava una pistola, puntandola direttamente alla sua testa dietro il parabrezza. In una frazione di secondo, l'indio capì cosa stava accadendo. Schiacciò il piede sull'acceleratore e si lanciò in avanti sulla 4x4 ferma, colpendola in pieno e facendo in modo che l'uomo con la pistola fosse costretto a mettersi in salvo con un salto, perdendo la mira. Hernan fece una frenetica marcia indietro e tornò a schiacciare a tavoletta il pedale del gas, ma proprio mentre iniziava a indietreggiare notò un altro uomo che gli puntava addosso la pistola dal sedile del conducente dell'altro veicolo, a meno di un metro di distanza. All'improvviso ci fu il rumore assordante di uno sparo e Hernan sentì un dolore acutissimo al petto, mentre si accasciava di traverso sul sedile del passeggero, annaspando alla ricerca d'aria. Gli sembrava di non riuscire a inalare ossigeno nei polmoni. Intorno a lui tutto era bagnato e appiccicaticcio. Afferrando il volante con la mano destra, cercò di issarsi di nuovo a sedere, ma ricadde di lato. Sentì la portiera del passeggero che si apriva; poi una mano gli tastò la camicia fradicia di sangue. Una voce disse: «Sì, è lui... ma gli altri non ci sono». Poi un'altra voce aggiunse: «Okay, muoviamoci. Li raggiungeremo Prendigli i documenti e il cellulare. E finiscilo». Gemendo di dolore e di paura, Hernan cercò inutilmente di raddrizzarsi sul sedile. Pensò a suo fratello. Pensò a Rutherford e Catherine e li vide in piedi su una strada, da soli, di notte. Cercò di chiamarli, ma ormai era troppo tardi... 43
All'eliporto della Chiesa della Verità Rivelata, sostava, come una locusta gigante, la versione civile dell'elicottero da guerra "Apache" dell'aeronautica militare statunitense; aveva i rotori in funzione e faceva un rumore infernale. Il senatore Kurtz e il reverendo Jim White erano in piedi davanti all'entrata della cattedrale. Scambiarono ancora qualche parola di saluto, poi si abbracciarono per l'ultima volta. Il loro viaggio era quasi terminato. Quanta strada avevano fatto, stavano pensando entrambi: avevano fondato la loro Chiesa praticamente partendo dal nulla: un vero miracolo. Il senatore si avviò a passo deciso verso l'elicottero; quando fu abbastanza vicino, si chinò istintivamente sotto i rotori e, trotterellando, superò l'ultimo tratto della pista, imboccando poi la scaletta retrattile che lo condusse all'interno del velivolo. Il portellone fu rapidamente chiuso alle sue spalle e, con un gesto impaziente, Kurtz si ravviò i capelli scompigliati. Sul porticato della chiesa, il reverendo Jim White seguì con lo sguardo l'elicottero che si sollevava da terra e poi si allontanava nel cielo. Tutte le sue speranze di salvezza per il popolo eletto erano affidate al senatore. Voltò le spalle al prato e alla pista e scomparve nell'ombra della chiesa, dove tornò a dedicarsi alla preghiera. L'interno dell'elicottero era ben lungi dal somigliare all'ambiente austero dei modelli militari. I colori ufficiali, nero e verde, erano stati rimpiazzati da eleganti tinte pastello e le pareti erano rivestite di pannelli in legno e schermi al plasma. Al posto delle casse di munizioni e dei sedili in acciaio militari, spiccavano in eleganza le panche rivestite di pelle e a un'estremità della carlinga, lunga una ventina di metri, era stata sistemata una scrivania di quercia con confortevole poltroncina rivestita in cuoio. Non appena il portellone a isolamento acustico si chiuse, all'interno si ricreò un silenzio che aveva del miracoloso. Il senatore si accomodò alla scrivania ed estrasse dalla tasca interna della giacca un cellulare nero ultrapiatto. Premette un pulsante automatico speciale e si mise all'ascolto. Mentre aspettava che la linea si connettesse, guardò dal finestrino la Chiesa della Verità Rivelata che rimpiccioliva sotto di sé, finché non si ridusse a una macchiolina bianca nel complicato intreccio del paesaggio. Ma la sua mente era altrove. Ormai era venerdì pomeriggio. Ancora due giorni e la vittoria sarebbe stata certa. Il telefono si collegò. Una rapida voce femminile rispose in tono gaio e cortese. «Sì, signore, qui operazioni globali».
Il senatore si appoggiò allo schienale della poltroncina, il volto contorto in una smorfia di concentrazione. Sibilò: «Mi passi il segretario Miller. Sono il senatore Kurtz». La voce della centralinista assunse un tono ansioso e zelante: «Sì, signore. Subito, signore». Ci fu qualche minuto d'attesa, poi la voce femminile tornò a parlare... Stavolta il tono era piuttosto impaurito. «Mi dispiace, signore. Al momento il segretario Miller è irreperibile». Il volto del senatore Kurtz s'incupì. «Mi ascolti bene, signorina. Voglio che alzi le chiappe dalla sua sedia e che riferisca immediatamente al segretario che se non mi richiamerà entro dieci minuti, riterrò lei direttamente responsabile della cosa». I nervi del segretario Miller stavano iniziando a dar segni di cedimento. Seduto nel suo ufficio, scuoteva stancamente la testa, fissando il telefono. La centralinista lo stava subissando di chiamate. Imprecò fra i denti, compose un numero e pigiò il cellulare contro l'orecchio. La risposta fu immediata. Miller si assestò meglio sulla sedia, irrigidendosi all'istante. Fin quando non avesse affrontato di persona il senatore, non era sua intenzione disobbedire apertamente agli ordini. Sarebbe servito soltanto a suscitare sospetti. Altre due morti innocenti, sempre che quei due fossero davvero innocenti, non erano previste nel loro piano. In ogni caso, poteva anche darsi che quei due accademici fossero riusciti a sapere troppo sulla Corporazione. La sua personale incolumità e quella della Corporazione stessa venivano prima di ogni altra cosa. «Mi ascolti bene», disse il senatore Kurtz. «C'è stato un inconveniente in Perú. Stiamo cercando due individui. Uno è James Rutherford, cittadino britannico, sulla trentina abbondante. L'altra, Catherine Donovan, cittadina americana, quasi trentenne. Tutto chiaro? Si metta immediatamente in contatto con il Regno Unito. Rintracci i numeri di cellulare di queste due persone, li passi ai sovrintendenti alle operazioni di Lima e La Paz e si assicuri che li rintraccino immediatamente. Che gli si spari a vista. Questa è ormai una massima priorità globale. Mi chiami non appena la missione sarà stata portata a termine». 44 La casa di famiglia di Quitte era un appartamento in un tipico palazzone
di La Paz, alto circa dieci piani. Parcheggiarono fuori, sulla stretta viuzza piena di buche. C'era qualche altra macchina su entrambi i lati della via: tutte sembravano aver visto giorni migliori. Quitte li condusse verso il portone del palazzo. All'interno furono assaliti da un forte odore di cipolle e peperoni fritti. Sulla sinistra, nel piccolo ingresso, c'era un ascensore, mentre sulla destra una rampa di scale sbrecciate e rovinate conduceva ai piani di sopra. Quitte non smetteva un attimo di parlare e gesticolava freneticamente, indicando con le dita verso l'alto. Rutherford allungò il collo, seguendo la balaustra delle scale che s'innalzava a zigzag fino a un opaco lucernario, dieci piani più su. Voltandosi a guardare Catherine, sorrise. «Penso voglia dire che l'ascensore non funziona». Issarono gli zaini in spalla e seguirono l'indio su per le rampe di scale. L'interno dell'appartamento fu una piacevole sorpresa, dopo la sporcizia della strada e l'atmosfera deprimente dell'atrio. Dal pianerottolo, la porta di casa si apriva su un breve corridoio che conduceva a un soggiorno abbastanza spazioso. C'era un piccolo balcone, appena sufficiente a ospitare un paio di sedie, ma la stanza era luminosa e ariosa, perché tutta la parete che dava sul balcone era di vetro. Il panorama era quello della strada antistante il palazzo. Dal soggiorno, un altro piccolo corridoio conduceva a tre stanze da letto e a un bagno. Il divano e le poltrone erano tappezzati in una vivace stoffa a motivi indio, mentre gran parte della mobilia era in legno massiccio e intarsiato. In giro erano sparsi dei giocattoli, alcuni dei quali giacevano anche sulla grande tavola in legno, che a quanto sembrava serviva anche per mangiare, perché era ancora apparecchiata con le tazze e i bicchieri della colazione mattutina. Evidentemente non si trattava di una famiglia ricca, ma di certo i suoi componenti avevano cercato di fare del loro meglio perché quell'appartamento fosse comodo e accogliente. Catherine sorrise, rivolta a Quitte. Lui le restituì il sorriso, poi li guidò nel corridoio, fino a una delle stanze da letto, dove appoggiarono i loro bagagli. Mostrò loro il cucinotto, dove c'era del caffè ancora tiepido, e poi, gesticolando a più non posso, fece loro intendere che sarebbe stato via per circa un'ora; quindi sfrecciò via e uscì. Mentre chiudeva la porta alle spalle di Quitte, Catherine sospirò di sollievo. «James, per la prima volta da non so quanto tempo, mi sento quasi al sicuro!». Prese il cellulare e compose il numero di Hernan.
«Chiamo Hernan e gli dico che va tutto bene», informò Rutherford, che dopo aver bevuto un sorso di caffè, si era seduto al minuscolo tavolo della cucina. Era stanco. Anzi, esausto. Il telefono squillò una volta, poi due e poi tre. Catherine non poté fare a meno di sentire una specie di nausea alla bocca dello stomaco. All'improvviso, gli squilli s'interruppero. Qualcuno aveva risposto. Sollevata, Catherine salutò il loro amico. «¡Hola! Hernan, sono io». Dall'altra parte, solo silenzio. «Hernan? Ci sei? Pronto?». Ci fu il rumore di qualcuno che armeggiava col telefono, poi la linea cadde, come se avessero improvvisamente riattaccato. Catherine e Rutherford si scambiarono un'occhiata; stavano pensando entrambi la stessa cosa, ma nessuno di loro aveva voglia di ammetterlo. In un ufficio nuovo di zecca, al sessantacinquesimo piano del più moderno grattacielo di La Paz, un uomo basso e grasso sedeva alla scrivania, con una cuffietta incollata alle orecchie. L'ufficio era molto luminoso; incredibilmente luminoso, grazie alla vetrata che prendeva tutta una parete. Tutt'intorno all'uomo erano state ammassate diverse apparecchiature elettroniche, monitor televisivi e hardware per computer. La vista che si godeva dalla grande vetrata era panoramica. Più in basso, La Paz appariva coperta da uno strato di smog brunastro. Le strade, sporche e rovinate, pullulavano di attività. Sulle tangenziali si snodavano file di piccole macchine, mentre le persone, simili a formichine industriose, sfrecciavano per strade e marciapiedi. L'uomo grasso e basso indossava una camicia bianca e un'untuosa cravatta blu. Sotto le ascelle s'erano allargate grandi chiazze di sudore. Non era il caldo a provocarle: c'era l'aria condizionata. Alle sue spalle, come a sorvegliare la sua attività, c'era l'assassino del professore, tutto vestito di nero e con un'espressione di profondo disprezzo sul volto. L'uomo grasso si strappò freneticamente la cuffia dalla testa, lasciandola appesa al collo, e prese a scrivere febbrilmente qualcosa sul blocco che aveva appoggiato accanto alla tastiera del computer. Saltò in piedi, tirò via una pagina dal blocco e, sventolandola agitato, prese a urlare: «Capo! Capo, li ho trovati!». L'occidentale gli strappò il foglietto di mano e lesse l'indirizzo che vi era stato annotato. Con la mano sinistra estrasse di tasca un cellulare e lo aprì.
Sempre fissando il foglietto, portò il telefono all'orecchio. Un secondo più tardi, parlò. Il tono era sicuro, quasi un ringhio feroce. «Ce li abbiamo. Muoviamoci». 45 Nel tentativo di distrarsi un po', Catherine gironzolò per il soggiorno. Prese un atlante geografico da uno scaffale della libreria, mentre Rutherford era sprofondato nel divano. Lei invece si sedette al tavolo e cominciò a sfogliare pigramente le pagine patinate. Lo sguardo le cadde su una mappa della Terra che occupava due pagine. Nell'esaminarla, si sorprese a mormorare fra sé la longitudine di alcuni antichi siti. La giovane astronoma si agitò nervosamente sulla sedia. Aggrottò la fronte chinandosi sulla mappa e scrutandola con tutta l'attenzione possibile. Il cuore riprese a batterle forte, mentre una sensazione ormai familiare tornava a sgomentarla: la sensazione di stare a guardare nell'immenso buco nero del passato e che da quelle profondità venissero trasmessi segnali strani e incomprensibili: segnali risalenti alla notte dei tempi. «James, James, svegliati!». Catherine scosse violentemente la spalla di Rutherford, che emise un lamento nel dormiveglia. «Cosa? Che succede? Sono esausto». «Non riesco quasi a crederci. Le implicazioni sono veramente pazzesche ma... guarda... guarda qui». Catherine prese una penna e cominciò sistematicamente a fare dei segni sulla mappa. Rutherford si avvicinò, si sedette al tavolo e la osservò affascinato. «Che cosa hai scoperto?» «Aspetta e vedrai. Intanto guarda. Ora immagina che il meridiano di partenza non passi attraverso Londra, ma attraverso Giza, in Egitto - dove sorge la Grande Piramide - proprio come ha detto Bezumov». Catherine procedette segnando tutte le posizioni longitudinali dei siti, partendo da Giza. «Guarda. Katmandu si trova esattamente cinquantaquattro gradi a est di Giza. Cinquantaquattro gradi a est di Katmandu troviamo l'isola sacra di Yap. Angkor Wat sorge esattamente settantadue gradi a est di Giza e Nan Madol cinquantaquattro gradi a est di Angkor. È una cosa incredibile. Yap
e Nan Mandol sono minuscole macchioline nell'oceano. Guarda! Persino Raiatea si trova precisamente centottanta gradi a est di Giza». Catherine lo guardò negli occhi per verificare che avesse afferrato. «Ma non capisci? Sono tutti numeri interi, cosa strana già di per sé, ma la cosa ancora più pazzesca è che sono tutti divisibili per sei o dodici. Non può trattarsi di una coincidenza». Rutherford esaminò la mappa e iniziò a considerare le implicazioni di questa nuova allarmante scoperta. «Vorresti dire che tutti questi antichi siti sono stati intenzionalmente posizionati secondo un piano generale di tipo globale?». Gli occhi di Catherine scintillarono. «Esatto! E gli spazi fra un sito e l'altro sono particolarmente interessanti: cinquantaquattro, settantadue: sono numeri precessionali». «Precessionali?», fece Rutherford. «Sai qualcosa di astronomia e del movimento del nostro pianeta?» «Ben poco. So che la Terra ruota sul suo asse completando un giro ogni ventiquattr'ore. So che completa un'intera orbita attorno al sole all'incirca ogni 365 giorni e so anche che è spostata dal piano eclittico e che lo spostamento è variabile: oscilla fra i ventuno e i ventiquattro gradi. Un'oscillazione completa si compie nella bellezza di 41.000 anni». «Bravo: ebbene, c'è un altro movimento compiuto dal nostro pianeta. L'asse cambia il suo orientamento, girando verticalmente nella direzione opposta al giro rotazionale del pianeta». «Cioè?» «Immagina la Terra come una sfera rotante che orbita intorno al sole. Ruota sul suo asse, gira intorno al sole, modifica dolcemente la propria inclinazione e alla fine anche il suo asse comincia a ruotare nella direzione opposta al giro rotazionale del pianeta. Questo cambiamento di orientamento si chiama precessione. La cosa straordinaria è che tutti questi movimenti sono perfettamente regolari. È una delle cose che mi fanno amare l'astronomia. Una rotazione completa dell'asse impiega 25.776 anni». Rutherford annuì. «Tutto chiaro e ben descritto. Ma gli antichi che ne sapevano della precessione? Se si verifica con tanta lentezza, ci sarebbero volute intere generazioni per notare movimenti percepibili». «Non avrei mai nemmeno lontanamente ipotizzato che gli antichi potessero conoscere la precessione, prima che iniziassimo questa nostra avventura, ma ora sto cominciando a chiedermi se invece sia stato possibile. Se-
condo la versione ufficiale, Ipparco, un astronomo greco, raccolse i dati da Alessandria e Babilonia. Quando li confrontò, notò che vi era una differenza nella posizione delle stelle e così arrivò al concetto della precessione. Ma forse non fu lui il primo ad arrivarci; forse il concetto s'era soltanto smarrito nel dimenticatoio della storia». Rutherford aggrottò la fronte. «Okay, ma questo non spiega ancora perché. Perché gli antichi avrebbero dovuto fare riferimento alla precessione? Qual è il significato di tutto questo?». Catherine rifletté in silenzio per qualche attimo. «Ascolta: quando mi sono accorta che i numeri precessionali avevano tutta l'aria di ricoprire un ruolo molto importante nella posizione di quei monumenti, mi sono anche ricordata che uno di quei numeri continua a ricorrere regolarmente nei miti di cui abbiamo parlato». «Davvero? E quale?» «Be', mi hai detto che Osiride è stato assassinato da settantadue cospiratori e che ad Angkor Wat ci sono settantadue templi: ebbene, il settantadue è presumibilmente il numero precessionale più importante. La Terra ci mette settantadue anni per precedere di un grado sul proprio asse. E forse il numero ricorre in altre occasioni ancora». Rutherford sgranò gli occhi, eccitato. «Dio santo, hai perfettamente ragione! Settantadue. Dev'essere questo il numero chiave. Siamo a un passo dalla decifrazione del codice». 46 Rutherford non era mai stato più sveglio di così. La sua mente stava ripercorrendo tutti gli antichi miti che conosceva. «Ci sono altri numeri precessionali? O il settantadue e gli altri a base dodici sono gli unici?». Catherine rifletté un attimo, poi disse: «No, niente affatto... certo che ce ne sono altri: 1080, 2160, 4320...». «Aspetta! Ripetimi l'ultimo!». «Il numero degli anni che occorrono per attraversare due case dello zodiaco: 4320». Rutherford aveva l'aria di uno che avesse appena avuto una visione. «È incredibile... Davvero incredibile...». Catherine lo afferrò per un braccio.
«Che cosa?». James aveva gli occhi lucidi per l'eccitazione. «Il più antico testo mistico indù, il Rigveda, è composto di 10.800 stanze e l'intera opera conta esattamente 432.000 sillabe. In gematria la chiave è sempre l'ordine dei numeri... Non importa se seguiti da qualche zero o meno. Sappiamo che il codice dev'essere globale, no? Ebbene, ecco qui il testo centrale della religione indù che racchiude nella sua stessa struttura ben due numeri precessionali!». Rutherford si voltò a guardare Catherine negli occhi. Lei gli sorrise incoraggiante. «Ci siamo: abbiamo trovato l'oro. Siamo sulle tracce del codice. In quale altra occasione si ripetono questi numeri?» «Praticamente ovunque. È come se tutti questi miti siano stati concepiti allo scopo di ricordarci in continuazione gli stessi numeri, per quanto le storie possano essere diverse fra loro e svolgersi in luoghi del mondo diametralmente opposti. L'antico libro mistico degli Ebrei si chiama Kabbalah. Per raggiungere l'ain soph, o Dio, si debbono percorrere i settantadue sentieri. E Berosso, lo storico babilonese che descrisse Oannes, afferma che prima del diluvio, Babilonia è stata governata da una stirpe di sovrani, il cui regno durò complessivamente 432.000 anni. E, cosa ancor più interessante, Berosso sostiene anche che dalla Creazione all'epoca dell'inondazione siano passati 2.160.000 anni: 2160 è il lasso di tempo che ci vuole per attraversare una casa dello zodiaco, o sbaglio?» «No, non sbagli, è esattamente così». «E poi in gematria! Ricordi che abbiamo calcolato il valore dei nomi greci di Gesù e Maria, 888 e 192. Se li sommi otterrai 1080: un numero precessionale». «Un numero che è anche il raggio della luna in miglia!», aggiunse Catherine, non riuscendo quasi a credere alle sue stesse orecchie. «Accidenti... la cosa è sempre più inquietante». Rutherford guardò Catherine: sul suo giovane viso gravava il peso delle cose cha andavano man mano scoprendo. «Sì. Inizia ad avere un senso», aggiunse la giovane accademica. «Dev'esserci un legame fra precessione e distruzione del mondo antico». Rutherford annuì. «Infatti. È come se questi creatori di miti originali, questi portatori di luce, ci volessero dire che ogni volta che la Terra completa un'oscillazione in 26.000 anni, su di essa si scatena un cataclisma di proporzioni planetarie».
Catherine chiuse gli occhi e cercò di riordinare le idee. «James... c'è dell'altro, in tutto questo. C'è Bezumov. Ricordi cosa ha detto Hernan? Le correnti elettromagnetiche che egli intende sfruttare sono tutte collegate al moto orbitale della Terra. Sono pronta a scommettere che gli antichi riuscivano a influenzare il flusso di tali energie. Non so perché lo facessero: forse per generare energia, o per alterare il moto planetario. Penso che Bezumov sia convinto di poter riavviare il loro meccanismo. Purtroppo, però, le conseguenze legate a un uso sbagliato dell'antica tecnologia potrebbero rivelarsi fatali». Rutherford l'ascoltava sgomento. Si lasciò sfuggire una sommessa imprecazione. «Quel pazzo di un russo! Ma da dove potrebbe cominciare? Un conto è scoprire le vestigia di un'antica tecnologia, un altro trovare il modo di sfruttarla». «Ascolta, dobbiamo indurre Von Dechend a individuare la data esatta del cataclisma, nonché a fornirci una descrizione più accurata possibile di quello che potrebbe essere realmente accaduto; poi forse potremo capire perché il professore era così sicuro che gli antichi ci volessero mettere in guardia. Perché i conti ancora non tornano del tutto: qual è l'esatta natura del legame che unisce la precessione al cataclisma, e perché veniamo messi in allarme? Quel che accadde agli antichi sta forse per riaccadere anche a noi? Il professor Kent sembrava essere di questo avviso, ma per quale motivo?». Rutherford sospirò e guardò Catherine negli occhi. Lei gli sorrise, appoggiandogli una mano sul ginocchio. «James... possiamo farcela. Dobbiamo soltanto continuare a provarci. Dobbiamo portare a termine quel che abbiamo iniziato ed è necessario che ci muoviamo in fretta». Rutherford afferrò la mano di Catherine e la strinse forte. Lei avrebbe voluto abbracciarlo, ma sentiva l'incalzare del tempo. Era stupita dalla propria capacità di autocontrollo. Quel contatto fisico le faceva venir voglia di dimenticare ogni cosa: la loro impresa disperata e tutti i pericoli che stavano correndo. Ma proprio mentre stava aprendo la bocca per dire qualcosa, la tranquilla sicurezza dell'appartamento di Quitte fu infranta dall'inconfondibile suono di uno sparo proveniente dalla strada. 47
Catherine chiuse la porta con il catenaccio e, voltandosi di nuovo verso il soggiorno, si appiattì contro il pannello di legno. Il suo volto era oscurato da un'espressione di agghiacciante terrore. La voce era rotta, disperata: «Sono qui... Stanno salendo a piedi». Aveva sbirciato giù per la tromba delle scale, individuando tre o forse quattro uomini che salivano di corsa, prendendo a calci e sfondando le porte di ogni singolo appartamento. I pianerottoli erano gremiti di gente urlante e terrorizzata. Rutherford era sul balcone che dava sulla facciata anteriore del palazzo. Guardò giù ed ebbe appena il tempo di assistere alla scena che si svolgeva dabbasso. Si irrigidì per l'orrore quando vide il corpo di Quitte stramazzare sull'asfalto davanti al portone d'entrata. Intorno a lui c'erano tre individui vestiti di nero e, al centro della stretta viuzza, due grandi 4x4 bloccavano qualsiasi via di uscita o di entrata al palazzo. Mentre stava ancora cercando di assimilare quel che aveva appena visto, uno degli uomini in nero lo indicò dalla strada e gridò in inglese: «Eccolo là! Settimo piano! Andiamo!». Rutherford ripiombò nella stanza. Presa dal panico, Catherine stava tentando freneticamente di chiudere la porta con un secondo chiavistello. Lottando contro il proprio terrore, Rutherford si rese improvvisamente conto di quel che dovevano fare. «Prendi passaporto e soldi! Svelta... Fai presto! Poi seguimi... e non dimenticare le mappe». James estrasse il proprio portadocumenti dallo zaino e se lo infilò in una tasca dei pantaloni; nel frattempo tolse il chiavistello dalla porta e abbassò la maniglia. Catherine era alle sue spalle, col passaporto in una mano e la preziosa busta contenente le mappe nell'altra. «Non possiamo uscire da questa parte!». Rutherford spalancò la porta e si voltò a guardarla, gli occhi scintillanti per l'adrenalina che aveva in circolo. «Non abbiamo altra scelta». Catherine lo afferrò per un braccio e lo seguì sul pianerottolo. La porta si chiuse sbattendo dietro di loro. Rutherford sbirciò nella tromba delle scale, sporgendosi appena dalla ringhiera. Brandendo le loro pistole, gli uomini si stavano facendo strada attraverso una nuvola di cordite e la folla urlante di inquilini in preda al panico assiepatasi sui vari pianerottoli. Si voltò verso Catherine e con la mano le fece cenno di salire su. Lei si proiettò su per le scale senza nemmeno guardarsi indietro. Rutherford la seguì, lanciandosi invece un'occhiata precauzionale alle spalle.
Tre piani dopo, raggiunsero il pianerottolo del decimo piano. Dallo spiraglio della porta, una donna indio li stava osservando. All'estremità del pianerottolo c'era un'altra porta, che senza dubbio conduceva sul tetto del palazzo. La raggiunsero. Rutherford afferrò la maniglia con vigore, ma non era chiusa a chiave. L'attraversarono, percorsero un'altra manciata di scalini e sbucarono sulla terrazza condominiale. La porta si richiuse con un tonfo. La terrazza era un rettangolo di un centinaio di metri quadrati. Il perimetro era delimitato da un muricciolo alto una quarantina di centimetri. C'erano antenne televisive dappertutto. Catherine si voltò verso Rutherford, disperata. «E adesso che facciamo?». Rutherford corse verso il lato posteriore della terrazza. Guardando oltre il basso parapetto, valutò che il tetto dell'edificio adiacente distasse soltanto un metro o al massimo due, e che si trovasse circa un metro e mezzo più in basso rispetto a loro. "Non è molto... Possiamo farcela...". «Forza, Catherine, dobbiamo saltare». Catherine si portò sul bordo e valutò il salto da fare. Poi, sorreggendosi al braccio di Rutherford, si chinò in avanti a guardare la stradina angusta, quasi una fessura vista da lì, che separava i due edifici. Sul suo viso apparve un'espressione di nausea e disperazione al tempo stesso. «Detesto l'altitudine». Rutherford salì sul muretto e le porse la mano. «Vieni qui sopra con me. E adesso guarda davanti a te, verso l'orizzonte». Inspirando profondamente, Catherine fece come le diceva James. Erano uno accanto all'altra, sul muretto; la mano destra di Catherine era stretta in quella sinistra di Rutherford. «Okay: quando dico "salta", voglio che tu faccia un salto in avanti, il più ampio che puoi, e quando toccherai terra dovrai rotolarti». Catherine si voltò a guardare la porta che dava sulle scale. Era lì lì per gridare dal terrore. Rutherford le sorrise. Tutto intorno a loro c'era quel bellissimo e infinito cielo azzurro. Catherine si morse le labbra e annuì, chiudendo gli occhi. Rutherford piegò le ginocchia, l'afferrò più saldamente per il polso e, recitando una silenziosa preghiera, si concentrò sulla coordinazione di corpo e mente.
«Uno... due... tre... SALTA!». Con un tonfo sordo atterrarono sul tetto asfaltato del palazzo accanto. Nel tentativo di attutire la caduta di Catherine, Rutherford cadde malamente sulla spalla. Poi tutti e due si alzarono, Rutherford gemendo di dolore. Al centro della terrazza c'era un capanno di mattoni con una porta, superata la quale avrebbero raggiunto le scale del palazzo, sottraendosi alla vista dei loro inseguitori. La porta era aperta e mentre s'infilavano all'interno Catherine lanciò un'ultima occhiata alla terrazza del palazzo di Quitte. Gli uomini in nero non erano ancora arrivati. Rutherford stava scendendo gli scalini a rotta di collo, tenendosi stretta la spalla sinistra dolorante. Scesero a spirale, passando davanti a innumerevoli appartamenti e raggiungendo finalmente l'atrio al pianoterra. Catherine socchiuse il portone e sbirciò nella via. Era deserta. Si voltò verso Rutherford, appoggiandogli delicatamente la mano sulla spalla. «Okay... via libera. Dovremo correre, però. Fai attenzione perché potremmo perderci nei vicoli. Ti senti bene, James?». Lui fece una smorfia e annuì. «E ora usciamo di qui...». Cinque minuti dopo, scioccati e spaventati, Catherine e Rutherford emersero da uno dei tanti vicoli di La Paz per sbucare nella grande e trafficata strada del mercato di San Salvador. Avevano i vestiti stropicciati e in disordine, erano senza bagagli né borse di sorta: tutto quello che possedevano, ora, erano i passaporti e i soldi. L'antica strada del mercato si snodava per quasi un chilometro su per la Calle San Salvador; su entrambi i lati erano allineati banchetti di frutta e verdura, spezie, biancheria, utensili da cucina e articoli per la casa. La strada era gremita di turisti e gente del luogo che faceva la spesa. Catherine stava cercando di riprendere fiato, chinata in avanti con le mani sulle ginocchia. Fece un lungo respiro e si raddrizzò. «Come hanno fatto a sapere che eravamo qui?». Lanciò un'occhiata a Rutherford, nella speranza che sapesse risponderle. «E chi diavolo sono?». Rutherford scosse il capo, scrutando la folla industriosa del mercato. «Non ne ho la più pallida idea. Ma posso dirti una cosa: non ho nessuna intenzione di perdere tempo a scoprirlo. Dobbiamo andare all'aeroporto... È la nostra unica speranza».
Nel palazzo di Quitte era scoppiato il pandemonio. Ogni stanza di ogni appartamento era stata perquisita e messa a soqquadro, mentre orde di persone urlanti e terrorizzate occupavano i pianerottoli e le scale, assistendo impotenti allo scempio delle loro cose compiuto da quegli sconosciuti armati, che, senza curarsi minimamente di loro, afferravano e distruggevano ogni cosa che gli capitava a tiro. C'erano letti rovesciati, armadi sfondati, non c'era angolo che non fosse stato perquisito e controllato. Chiunque si trovasse a intralciare quella violenza cieca veniva preso a botte e a calci. L'appartamento di Quitte, poi, fu sottoposto a un trattamento speciale. Era come se vi si fosse scatenato un pazzo preso dalla furia distruttiva. Non si salvò nulla, non un solo mobile venne risparmiato. Tutto fu ridotto in pezzi. Alla fine, tre occidentali con la testa rasata, camicie nere, pantaloni militari neri e stivali di cuoio, armati di tutto punto, irruppero sul tetto. Li seguiva a ruota l'assassino dal volto scarno, che percorse di volata l'ultima rampa di scale e si scaraventò oltre la porta, ormai del tutto scardinata dai suoi scagnozzi. La luce del sole e l'aria fresca sembrarono irritarlo. La sua affannosa ricerca s'era volatilizzata nell'azzurro nulla del cielo. Scrutò tutta la superficie della terrazza, tempestata di antenne televisive. I suoi uomini s'erano appostati lungo i margini, e puntavano inquieti le loro pistole da una parte e dall'altra. Le mani dell'uomo si strinsero a pugno. Sentiva ribollire il sangue per la frustrazione. Uno dei suoi gorilla, che sostava accanto al muretto dal quale Catherine e Rutherford avevano spiccato il salto, gli fece cenno di avvicinarsi. Respirando affannosamente, più per la rabbia trattenuta che per la fatica di aver fatto le scale, l'uomo lo raggiunse. La testa rasata indicò il tetto dell'edificio adiacente. L'assassino vi gettò una singola occhiata, poi, girando sui tacchi, estrasse il cellulare. «Gli obiettivi sono a piedi nel barrio. Mobilitate tutti gli agenti. Mettete qualcuno alla stazione dei pullman, a quella ferroviaria e all'aeroporto. E mandatemi subito l'elicottero». Poi, rientrò nel palazzo e scese di corsa le scale. 48 Il taxi rallentò a passo d'uomo, fiancheggiando le aree di partenza dell'edificio aeroportuale. Altri taxi e auto private stavano cercando uno spazio
di sosta lungo il marciapiede, per caricare e scaricare passeggeri e bagagli. Rutherford si sporse in avanti per parlare al conducente. «Ci lasci pure qui... Va benissimo». Si rivolse poi a Catherine: «Non sai quanto sia felice di lasciare il Sudamerica, eppure non posso fare a meno di chiedermi cosa sia accaduto a quel pazzo di Bezumov. Pensi che abbia incontrato gli uomini in nero? Chissà se agisce per loro conto o individualmente?». Catherine non stava ascoltando. La sua attenzione era completamente focalizzata sulla folla che gremiva l'aeroporto. Scrutò i volti della gente, per la maggior parte indios e turisti. C'era qualcosa che non andava. «Aspetta un secondo, James». Rutherford stava già prendendo i soldi dal portafoglio. L'autista era intento a infilare la macchina in uno spazio ridottissimo, dietro un minibus. La visuale di Catherine fu momentaneamente oscurata da un taxi che partiva. Che stesse lavorando troppo di fantasia? Rutherford estrasse qualche banconota in dollari. «Che succede laggiù?». All'improvviso Catherine impallidì. Là, a una decina di metri di distanza dal loro taxi, c'erano due occidentali in completo nero. Parlottavano fra loro concitati, con le teste molto vicine. Il loro comportamento era strano: sembravano tesissimi e in allerta; il linguaggio dei loro corpi era diverso da quello di chiunque altro, lì in aeroporto. Catherine allungò una mano e afferrò il conducente per la spalla. «¡Vamos! Andiamo via! Subito! James, abbassati». Rutherford non perse tempo a chiedere cosa stesse accadendo. Fece semplicemente come Catherine gli aveva detto. Appiattito sul sedile del taxi, sussurrò con voce arrochita: «Sono qui?». Lei annuì freneticamente, poi si rivolse di nuovo all'autista, disorientato: «Presto, ci porti agli arrivi!». Non sapendo che altro fare, si schiacciarono entrambi contro i sedili, sperando che nessuno dei due sinistri individui guardasse all'interno. Il taxi si allontanò dal marciapiede, reinserendosi nel flusso del traffico. Un centinaio di metri più avanti, riaccostò e si fermò. Catherine si azzardò a sollevare la testa. L'atrio era pieno di gente appena atterrata. Dalle porte a vetri sciamavano i passeggeri, stanchi e provati dal volo. Scrutò l'atrio in lungo e in largo, alla ricerca di facce sospette. Sembrava tutto a posto. «Okay... Scendiamo, allora». Catherine aprì la portiera dal suo lato e sgattaiolò fuori, seguita da Ru-
therford che, scendendo, aveva lasciato una mazzetta di banconote da un dollaro nelle mani dell'attonito autista. Mano nella mano, i due si fecero strada tra la folla, procedendo controcorrente in direzione della sala d'aspetto degli arrivi. Rutherford diede uno strattone a Catherine e disse con voce affannata: «Per di là. Vedi? Da lì si torna alla sala delle partenze... Ecco il bancone dell'American Airlines, laggiù. Sono loro a gestire la maggior parte dei voli per l'Europa». Indicò un punto in fondo alla sala degli arrivi; poco più avanti, attraverso una gigantesca porta aperta, si accedeva a quella delle partenze. Catherine valutò la situazione. Il bancone dell'American Airlines era troppo isolato. Non c'era la coda, ma era estremamente esposto alla vista. Se si fossero messi lì davanti, chiunque avrebbe potuto vederli. «Pensi che abbiano appostato qualcuno anche dentro?». Rutherford si voltò a guardarsi le spalle. «Non lo so. Ma dobbiamo tenerne conto». Catherine cominciava a sentire di nuovo quel senso di nausea alla bocca dello stomaco. Tornò a guardare il bancone. Proprio di fronte c'era il controllo dei passaporti e l'accesso all'area sicura della sala d'aspetto delle partenze. Non dovevano fare altro che acquistare i biglietti. All'improvviso, le venne un'idea. Lasciò la mano di Rutherford e si diresse verso una rivendita di articoli per turisti. Rutherford la seguì chiedendosi cosa avesse in mente. Il negozietto esponeva ogni genere di souvenir: magliette, ninnoli e capi di vestiario tipici del luogo. Catherine afferrò una sorta di bombetta nera e un coloratissimo poncho di lana di lama, due elementi essenziali dell'abbigliamento degli Aymara, e rapidamente pagò il sorridente commesso indio. Poi s'infilò il poncho e rincalzò i capelli sotto la bombetta. "Certo, sono troppo alta, e la mia pelle è troppo chiara, ma a prima vista, potrei riuscire a mimetizzarmi tra la folla dell'aeroporto: gli occidentali non indossano quasi mai i costumi tipici del luogo". Tirandosi il cappello il più possibile sugli occhi, lanciò un'occhiata al bancone della biglietteria. «Dammi il tuo passaporto», disse a Rutherford in tono pacato. Lui aprì subito il portadocumenti e glielo consegnò. «Sicura?». Catherine annuì.
«Andrò al bancone e acquisterò i biglietti; non appena mi vedrai tornare verso di te, dirigiti subito al check-in; ci vediamo lì». Detto fatto, Catherine si allontanò. Rutherford aspettò defilato, accanto all'entrata della sala delle partenze, seguendo le mosse della sua compagna, ma facendo del suo meglio per nascondersi tra la folla dell'aeroporto. Catherine attraversò la sala partenze con tutta la calma possibile e raggiunse il bancone dell'American Airlines. Fuori sul marciapiede poteva scorgere i due occidentali in nero che camminavano su e giù, controllando i taxi che scaricavano passeggeri. La paura tornò a farsi sentire. "Sì... sono proprio loro". La ragazza al bancone dell'American Airlines sorrise nel vederla vestita in quel modo ed esaminò i possibili voli sul suo monitor. «Dunque, signora... Il prossimo volo per Londra parte fra un'ora. Ma non è un volo diretto, dovrete cambiare a Miami e c'è un'attesa di tre ore in piena notte. Fino a domattina, non c'è altra possibilità». «Mi sembra fantastico... Muchas gracias». pochi minuti dopo, Catherine nascose biglietti e passaporti fra le pieghe del suo poncho e tornò indietro. Rutherford stava attraversando la sala a grandi passi. Catherine si precipitò al banco del check-in e consegnò a Rutherford il suo passaporto con biglietto. S'insinuarono al controllo passaporti, aggirando la zona cordonata per fare la coda, e si trovarono di fronte due ufficiali della dogana. Uno di essi, il più anziano, prese passaporti e biglietti. Aveva uno sguardo freddo e privo d'espressione. Controllò i loro documenti di viaggio con occhi da rettile che passavano rapidamente dalle foto alle loro facce. Poi, dopo quella che parve un'eternità, restituì loro i documenti. Cercando di trattenere il crescente senso di sollievo, Catherine gli sorrise. Lui la fissò impassibile. «Gracias», disse Catherine, mentre si voltava per allontanarsi. L'uomo non le rispose. Rutherford era già scomparso oltre il bancone, mescolandosi alla folla della sala di attesa delle partenze. Catherine aveva fatto circa tre passi, quando udì quel che aveva temuto di udire: una voce potente che la richiamava: «Signorina!». Si bloccò, come inchiodata al terreno. Cosa voleva adesso quell'uomo? Era stato forse pagato per fermarli? Forse avrebbe dovuto correre via, cercare di nascondersi tra la gente... Vide Rutherford molto più avanti, che si voltava a cercarla con fare an-
sioso. Sentendosi ormai perduta, si voltò ad affrontare l'ufficiale della dogana con espressione rassegnata e stanca. Poi, all'improvviso, notò che stava sorridendo. «Signorina... Complimenti per l'abbigliamento!». Sia lui che il collega sorridevano divertiti e ammirati, mentre con la mano indicavano il costume tradizionale. Catherine stava quasi per svenire dal sollievo. Restituì il sorriso; poi, voltandosi di scatto, sparì tra la folla. 49 Per il segretario era giunto il momento di lasciare New York. In un turbinio rombante, il suo elicottero atterrò all'eliporto annesso all'aeroporto JFK. Come in un congegno a orologeria, un'elegante Mercedes nuova di zecca attraversò la pista, avvicinandosi al velivolo, simile a una grossa libellula. Dalla macchina scese un uomo tarchiato, che si guardò intorno con aria indagatrice. Il portellone dell'elicottero si aprì automaticamente, estraendo la scaletta, e il segretario scese a terra, per scomparire immediatamente nell'abitacolo rivestito in pelle della macchina. Sempre scrutando in ogni direzione nello spazio delimitato dell'eliporto, la guardia del corpo lo seguì a ruota, infilandosi nell'auto, che dopo pochi secondi già sfrecciava silenziosa sul nastro nero, diretta verso la pista dei jet privati, dall'altra parte dell'aeroporto. Il segretario Miller cercò di rilassarsi, anche se solo per i pochi minuti concessigli. Il meeting al Cairo rappresentava l'ultima occasione di confronto col senatore. Accigliato e impensierito, si sporse in avanti, rivolgendosi all'uomo seduto accanto all'autista: «Dica al pilota che siamo diretti al Cairo, ma che faremo una sosta alla base svizzera». «Sì, signore». Chiuse gli occhi e rovesciò la testa all'indietro, mentre l'automobile scivolava senza scosse sul lungo tratto asfaltato. Era arrivato il momento di andare in Egitto: il suo compito in Nordamerica s'era esaurito, almeno per il momento. I suoi pensieri tornarono alla giovane donna e al suo amico. "Ora che è tornata in Inghilterra, dovremo essere più discreti". Prese il cellulare e compose un numero di Oxford. Dopo qualche squillo, ottenne risposta: era la voce inconfondibile del direttore dell'All Souls. «La chiamo per via della dottoressa Donovan. Sono certo che stia tornando a Oxford». Il direttore sembrava ansioso, ed estremamente teso.
«Cosa vuole da me, adesso? Ho fatto tutto quello che potevo. Vi ho detto tutto quello che sapevo. Non ho intenzione di fare altro». Il segretario Miller lo interruppe in tono autoritario. «Non sia ridicolo. Non mi affido certo a dei vecchi incompetenti come lei, nel mio lavoro. Voglio soltanto che segua da vicino i suoi movimenti e che si accerti che non faccia qualche altro "viaggio di piacere" all'estero, nei prossimi giorni. La donna non deve causare ulteriori problemi». «Ma mi garantisce che non le accadrà nulla?» «Questo non la riguarda. Tutto quello che le chiedo è di fare in modo che rimanga a Oxford fino a martedì». «Ha soltanto ventinove anni, capisce. Non vorrei che...». «Direttore, lei sta iniziando a spazientirmi. Devo proprio ricordarle gli obblighi che ha nei nostri confronti? Questo è il suo ultimo mandato prima della pensione. Non vorrà che la sua carriera venga stroncata da rivelazioni dell'ultim'ora, no?». Ci fu un lungo silenzio. «Sono stato chiaro?» «Sì, segretario. Chiarissimo». Il segretario Miller riattaccò. 50 Era ormai sabato mattina. Dopo un volo orribile, con inclusa una sosta a Miami, Catherine e Rutherford atterrarono finalmente all'aeroporto di Heathrow. Se non altro, comunque, quel lungo volo aveva dato loro l'opportunità di cedere alla stanchezza: per sedici preziosissime ore erano rimasti sospesi in aria, lontano dalle grinfie del nemico che li aveva inseguiti attraverso le Ande, salvi per un breve lasso di tempo, anche se impossibilitati a fare altro. Dall'aeroporto londinese, optarono per la soluzione più costosa e presero un taxi che li portò direttamente a Oxford. I loro stipendi di accademici non consentivano spesso simili lussi, ma non era quello il momento di fare economia. Finalmente arrivarono all'All Souls; Rutherford saltò giù e pagò il conducente. Dopo aver aperto lo sportello a Catherine ed essersi caricato sulle spalle entrambi gli zaini, si voltò a guardare l'elegante facciata dell'edificio. «Eccoci qui. Nulla è cambiato, a quanto pare».
Catherine lanciò un'occhiata diffidente al cancello del college. «Non ne sarei troppo sicura. Comunque, speriamo di trovare Von Dechend. Non abbiamo neanche un minuto da perdere». Mentre oltrepassavano la bassa porticina della portineria, Catherine si guardò intorno a disagio. "Cos'è che mi mette questa tensione addosso? Tutto è così familiare, eppure c'è qualcosa che non quadra...". Per pura abitudine, controllò la propria cassettina della posta. Nel farlo, pensò alla busta originale contenente le mappe: le mappe all'origine di quella loro pericolosa avventura. Con suo sommo sollievo, all'interno della cassetta trovò soltanto un paio di messaggi. Si avvicinò al bancone del portiere. «Fred... ci sei?». Un attimo dopo, il portiere sbucò dalla porta. «Salve, dottoressa Donovan. Che bello rivederla. Bella giornata, non crede?». "Non direi proprio", pensò tristemente Catherine. Ma mantenendo un contegno ottimistico, rispose al saluto. «Salve, Fred... Volevo fare un salto dal dottor Von Dechend. C'è?» «Sì che c'è. Ma lasci che pensi io ai suoi bagagli. Oh... prima che mi dimentichi: il direttore vuole assolutamente vederla. Mi chiama in continuazione ed è anche sceso di persona a chiedere se fosse tornata». Catherine scambiò un'occhiata con Rutherford. Ma prima che potesse dire qualcosa, la voce secca e acuta del direttore l'assalì dall'atrio. Era in piedi alle loro spalle, sulla soglia. La sua figura alta ed emaciata si stagliava in controluce nella cornice del portone. «Già. Ed eccomi di nuovo qui, infatti». Squadrò Catherine e Rutherford con espressione grave. «Dunque, siete appena rientrati. Com'è andato il viaggio?» «Quale viaggio, direttore?». L'uomo avvampò. «Oh, be', pensavo foste stati via... Ho cercato di raggiungervi anche a casa. Volevo assicurarmi che sapeste dell'assemblea che ho indetto per martedì mattina. È assolutamente indispensabile che vi prendano parte tutti i membri del college. Ho ritenuto opportuno comunicarvelo di persona, in modo che non potessero crearsi malintesi». Catherine lo fissò con sguardo fermo. «Fantastico. Molte grazie. Ci vediamo lì, allora».
Il direttore indugiò ancora un attimo sul portone, poi, ancora titubante, si voltò e uscì. «James, andiamo dal dottor Von Dechend». La giovane donna si avviò verso la corte interna e Rutherford la seguì. «Ma di cosa stava parlando?». Catherine sembrava piuttosto confusa. «Non lo so. È molto strano. Ma devo confessare che il comportamento del direttore mi è sembrato strano fin da quando mi ha chiamata per comunicarmi la morte del professore». 51 Il dottor Von Dechend sembrò felicissimo di vederli. «Catherine! Che bello averti di nuovo qui! E anche James Rutherford... Davvero troppa grazia. La jeunesse d'orée di Oxford. La gioventù dorata, di nuovo qui, nel mio studio! Quale onore!». Catherine scambiò un'occhiata divertita con Rutherford, mentre l'anziano docente li accompagnava nel suo confortevole rifugio dalle pareti tappezzate di libri. «Anche per noi è bello rivederla, dottor Von Dechend. Tutto bene, spero?» «Oh sì, mia cara, grazie», rispose, facendo loro cenno di accomodarsi. Catherine si schiarì la gola. «Temo proprio che dovremo chiedere ancora una volta il suo prezioso aiuto». «Dica pure, signorina, dica pure. Sono al suo servizio», proseguì l'anziano nello stesso tono giocoso. Catherine attese che Von Dechend prendesse posto nella sua poltrona, poi, con un respiro profondo, iniziò a parlare. «Dunque, la domanda che vogliamo farle potrà sembrarle strana, ma non ho tempo per scendere in particolari, adesso. Il fatto è che abbiamo davvero bisogno del suo aiuto...». S'interruppe per capire se Von Dechend avrebbe accettato lo strano preambolo. Lo vide annuire lentamente, spronandola a continuare. «Stiamo cercando di collocare cronologicamente un evento catastrofico che potrebbe essersi verificato nel passato più remoto e che potrebbe anche aver spazzato via gran parte dell'umanità. Vorremmo trovare qualche prova geologica o paleontologica, magari dei fossili con relativa datazione, o
qualunque cosa possa indicare che vi sia stato un cataclisma di proporzioni tali da spiegare i miti sulla fine del mondo che ogni cultura del globo ha sviluppato nei millenni». Ci fu una lunga pausa. Von Dechend guardò verso il soffitto, come per prepararsi a parlare. Catherine lanciò un'occhiata a Rutherford. Attesero entrambi in silenzio, non osando nemmeno respirare, per non disturbare la profonda concentrazione dell'anziano professore. Dopo un minuto circa di silenzio, Von Dechend parlò. Il tono di voce era grave, la bonomia e la facezia di poco prima completamente scomparse, sostituite da una sorta di austera cautela professionale. Sembrava che discutere di questi argomenti non lo facesse sentire del tutto a proprio agio. «Prima che iniziamo a parlarne, lasciate che metta in chiaro una cosa. Non ho intenzione di caldeggiare alcun tipo di teoria che suggerisca che gli antichi miti e leggende sui cataclismi possano travalicare i confini della loro stessa definizione, entrando a far parte della categoria delle ipotesi verosimili. I matti e i fanatici religiosi disposti a farlo sono già fin troppi. Io non appartengo né agli uni né agli altri, e non nutro il minimo interesse per tali vanagloriose fantasticherie». Rutherford guardò Catherine negli occhi. Lei esitò un secondo, così decise di intervenire per la prima volta: «Siamo perfettamente d'accordo con lei, dottor Von Dechend. Non è questo che vogliamo, in ogni caso. Desideravamo semplicemente avere una discussione privata di tipo intellettuale, non ufficiale, per così dire; rimarrà fra noi. Il nostro è un semplice capriccio, una curiosità: c'interessava soltanto ipotizzare quale potesse essere l'era più probabile in cui un simile cataclisma avrebbe potuto verificarsi. Si tratta ovviamente di una mera congettura di tipo intellettuale». Rutherford e Catherine attesero, col fiato sospeso. Dopo un'ulteriore, interminabile pausa, Von Dechend tornò a parlare: «Mmm, capisco. Bene, ora che abbiamo chiarito la mia posizione, penso di potervi dire come la penso in proposito». Istintivamente, Catherine e Rutherford raddrizzarono la schiena e tesero le orecchie. Von Dechend si accese la pipa e iniziò la sua esposizione dei fatti, dapprima lentamente, poi via via con foga crescente. «Il mio istinto mi ha sempre dato modo di credere che in passato sia accaduto qualcosa di terribile, e che questo qualcosa abbia avuto luogo alla fine dell'ultima era glaciale». Catherine e Rutherford erano sui carboni ardenti. Von Dechend fece un'altra pausa teatrale, prima di riprendere a parlare molto lentamente: «La
vita dell'uomo, prima degli albori della nostra storia, non è stata che una serie di fortunate coincidenze che hanno portato a scongiurarne l'annientamento totale. In realtà, non è esagerato affermare che i diretti antenati di ognuno di noi, in determinati momenti, ce l'hanno fatta solo per il rotto della cuffia. Per quanto deboli e pigri ci sembrino oggi alcuni dei nostri simili, possiamo affermare con certezza che discendono anche loro da uomini e donne incredibilmente determinati, coraggiosi e ricchi di risorse, che in qualche modo sono riusciti a superare tutte le difficoltà e gli ostacoli presentati da madre natura. La nostra esperienza come specie, nelle ultime migliaia di anni, ci ha indotto a riposare compiaciuti sugli allori. Pensiamo che la stabilità e l'ospitalità di gran parte del nostro pianeta sia una cosa scontata, ma le cose non stanno affatto così. Sarebbe molto più corretto affermare che nelle ultime migliaia di anni siamo vissuti nell'occhio del ciclone, sperimentando la calma del suo nucleo e ignorando la violenza e la distruzione che invece impazzano nella sua parte esterna». Catherine e Rutherford ascoltavano affascinati. Da commediante studiato, Von Dechend stava preparandosi al suo "colpo di scena". «Ma torniamo all'era glaciale. Come tutto ciò che è accaduto più di cinquecento anni fa, non abbiamo una comprensione totale di quel periodo. Sappiamo tuttavia che fu enormemente, terribilmente distruttiva, ed è lecito pensare che l'umanità sia stata molto, molto fortunata a sopravvivervi. Siamo piuttosto sicuri che l'ultima era glaciale abbia avuto inizio intorno al 110.000 a.C, con una costante formazione di ghiaccio in avanzamento su tutta la superficie del pianeta. Fra il 55.000 e il 12.000 a.C, tale processo raggiunse lo zenit, comprendendo ormai tutto il globo. Dallo spazio, la Terra deve aver avuto l'aspetto di un'enorme palla di neve. Gli strati di ghiaccio crescevano, poi improvvisamente si scioglievano un poco e riprendevano a crescere, avanzando in maniera progressiva. Il tutto provocava una fortissima instabilità ambientale: inondazioni, terremoti, tempeste e così via. Ma è sullo scioglimento finale che vorrei attirare la vostra attenzione. All'apice dell'ultima era glaciale - nel 12.000 a.C. - gli strati di ghiaccio si estendevano su quasi tutta la superficie del globo. Nei successivi cinquemila anni, però, il ghiaccio che aveva impiegato centomila anni a formarsi, iniziò improvvisamente a sciogliersi a un ritmo imprevedibile e micidiale. Ci sono scienziati convinti che tale scioglimento possa essersi verificato in tempi ancor più stretti: poche centinaia di anni, o, in casi estremi, addirittu-
ra una sola decina di anni. I reperti fossili dimostrano inequivocabilmente che eventi naturali di immane portata debbono essersi scatenati sugli abitanti del pianeta durante e dopo la scomparsa dei grandi strati di ghiaccio. Si potrebbe pensare che per la maggioranza degli animali le condizioni di vita fossero migliorate, e alla lunga fu così, ma quello scioglimento improvviso provocò disastri che a breve termine si rivelarono catastrofici per moltissime specie. I reperti fossili di tutto il pianeta ci raccontano la stessa storia di estinzione su vasta scala: in Sudamerica c'erano i cavalli e altra megafauna, ma di cavalli non se ne videro più finché non li reintrodussero gli spagnoli, mentre la megafauna non si è mai più ricreata. In Nordamerica, invece, trentatré delle quarantacinque specie di grandi mammiferi si estinsero in poco tempo. Un vero olocausto». Von Dechend fissò intensamente i suoi ospiti. «Potete immaginare come possa essere stato, vivere in quel periodo? Una cosa da non augurare al peggior nemico. Se voi e la vostra tribù o famiglia aveste scelto la parte sbagliata del mondo dove stabilirvi, il vostro destino sarebbe stato segnato, e oggi non sareste qui. Il ghiaccio disciolto provocò problemi geologici di portata immane: terremoti; eruzioni vulcaniche; tsunami. È davvero un miracolo che il genere umano sia riuscito a sopravvivere. Ma la cosa più strana è che a quanto pare le zone più colpite dalle catastrofi sembrano essere state le regioni polari. Quante sono le carcasse di animali ritrovate sepolte nel ghiaccio? Ancora oggi, com'è noto, si rinvengono mammut perfettamente conservati dal gelo. Le loro zanne vengono usate per le incisioni in avorio». Catherine era confusa. «Ma se si sono conservati con tutta la carne ancora addosso, significa che il congelamento è stato velocissimo, e che è avvenuto subito dopo la morte... Altrimenti si sarebbero decomposti, non crede?» «Già, ottima osservazione. È strano. Mentre le specie estinte di Sudamerica e Australia sono state ritrovate sepolte nella terra con le carni da lungo tempo decomposte, gli animali intorno al Circolo polare artico - in Alaska e in Siberia - sembrano aver subito un congelamento istantaneo simile a quello oggi impiegato su scala industriale. Alcuni di quegli animali avevano del cibo non ancora digerito nello stomaco, il che sta a indicare che si sono congelati nel giro di tre ore dall'ultimo pasto consumato. E la cosa ancor più strana è che non si tratta soltanto di mammut, tigri dai denti a sciabola e altri animali tipicamente artici, ma anche di leopardi, elefanti,
cavalli, bovini, leoni e molte altre specie tipiche delle zone a clima temperato. Rutherford era sbalordito. «Leopardi ed elefanti... nell'Artico?» «Così sembra. Persino all'estremo nord, come nell'isola artica di Svalbard, gli scienziati continuano regolarmente a reperire fossili di animali di quel genere, e resti di flora e fauna tipicamente tropicali». Rutherford non riusciva a capacitarsene. «Ma è incredibile!». «Sì. È uno dei grandi misteri che avvolgono la fine dell'ultima era glaciale. Come hanno fatto tutte queste specie tipiche del clima temperato a finire sepolte nel ghiaccio, in quello che oggi è il Circolo polare artico? Evidentemente, mentre in tutto il resto del mondo l'era glaciale stava rapidamente finendo, queste terre stavano andando nella direzione opposta, divenendo improvvisamente fredde e poco ospitali. Intere mandrie di animali si sono congelate all'istante». «Ma non ha senso», disse James. «La fine dell'era glaciale avrebbe dovuto portare il caldo, e, comunque, che ci facevano le specie tipiche del clima temperato in quelle latitudini ghiacciate?» «Già. Lo ammetto. Rimane un mistero. Ma quel che oggi sappiamo per certo è che nel 7500 a.C. circa lo scioglimento dei ghiacci ebbe fine. I ghiacci si erano ritirati. E i precedenti sei o settemila anni debbono essere stati i più terribili che gli abitanti della Terra abbiano mai vissuto: eruzioni vulcaniche, terremoti, tempeste violentissime, tsunami e così via... E poi, ovviamente, l'inondazione. Milioni di tonnellate di ghiaccio sciolto a far pressione sulla crosta terrestre provocandone il sollevamento e, di conseguenza, ulteriori terremoti. Il livello degli oceani s'innalzò e grandi aree di terraferma furono letteralmente inghiottite dall'acqua. Diluvi e maremoti furono di una portata tale da rendere possibile persino la temporanea inondazione dei monti dell'Himalaya». «Cosa? No, questo non può essere!», esclamò Rutherford. «E invece sì. Sulle montagne del Nordamerica sono stati ritrovati scheletri di balene, e persino nel cuore del deserto del Sahara, a Wadi Hitan. In tutta Europa vi sono vette montane che debbono essere servite da ultimo rifugio a migliaia di animali in fuga. Sono numerosi i cimiteri di ossa rinvenuti sulle vette delle montagne di tutto il mondo, a testimonianza delle migrazioni di massa compiute da animali e uomini che cercavano di sfuggire all'innalzamento delle acque. Tutta l'Europa occidentale rimase som-
mersa in diverse occasioni: non sappiamo esattamente per quanto tempo, ma è certo che fu inondata per almeno due o tre volte: grosso modo, nel periodo compreso fra il 15.000 e il 7000 a.C; soprattutto quello fra l'11.000 e l'8000 a.C. fu caratterizzato da terribili e ripetute inondazioni, gelate improvvise e devastazione biologica pressoché totale». Scuotendo la testa attonita, Catherine era stata ad ascoltare affascinata. «Dev'essere stata una cosa terrificante». «Sì. Fra l'altro quei popoli primitivi non avevano la più pallida idea del perché tutto ciò stesse accadendo. Più che naturale che pensassero a degli dèi infuriati che stavano impartendo loro una punizione». Sospirò. «Era questo che volevate sapere?». Rutherford e Catherine si scambiarono un'occhiata. «Sì. Grazie per averci dedicato il suo tempo. Non avevo idea che l'umanità fosse passata attraverso simili cataclismi, soprattutto in un passato relativamente recente», disse Rutherford. Catherine intervenne: «Sì, molte grazie davvero, dottor Von Dechend. Non sono molte le persone con una cultura vasta come la sua, e quel che ci ha detto di quel periodo è stato illuminante. Ma ora dobbiamo andare. Abbiamo approfittato anche troppo del suo tempo». «Nessun disturbo, Catherine, è sempre un piacere. Sono contento di esservi stato d'aiuto. È importante ricordare alla gente che stiamo vivendo in un periodo insolitamente tranquillo. Non durerà per sempre!». Catherine e Rutherford si alzarono in piedi, accingendosi ad andarsene. L'anziano professore scoccò un'occhiata maliziosa a Catherine. «Magari un giorno mi spiegherai il perché delle tue domande». Catherine sorrise nervosamente. «Lo farò, dottor Von Dechend. Prometto che un giorno lo farò». 52 Anche stavolta Catherine e Rutherford si congedarono da Von Dechend carichi di rinnovata speranza. Scendendo le scale, iniziarono a parlare fitto fitto. «James! È più di quanto avessimo sperato! Spiega tutto, compreso il fatto che l'alluvione c'è veramente stata. E la precessione dev'essere in qualche modo collegata alla fine dell'era glaciale... allo scioglimento dei ghiacci! Il ragionamento quadra. Col cambiamento dell'orbita terrestre nel ciclo di 26.000 anni, l'esposizione solare del polo nord e del polo sud cambia. A
un certo punto del ciclo, quando sono più vicini al sole, i poli iniziano a sciogliersi... La fine dell'era glaciale è la risposta!». La mente di Catherine era attraversata da lampi di pensiero velocissimi. Tutto sembrava finalmente trovare una sua collocazione logica. Rutherford non era meno eccitato. «Lo so. Tutto inizia a quadrare: i miti sul diluvio universale e il realistico bilancio del disastro che ha minacciato di estinguere la nostra specie». Sovrapponendosi alle sue parole, Catherine disse: «Sì... E la fine dell'era glaciale provocò anche l'improvvisa, paradossale gelata in alcune zone di cui ci parlano i Vichinghi e i Zoroastriani...». All'improvviso si colpì la fronte col palmo della mano destra. «James... ci sono! Come ho fatto a non pensarci prima: la risposta l'abbiamo sempre avuta sotto gli occhi...». Catherine spalancò la porta dello studio del professor Kent e si avvicinò alla sua scrivania, sulla quale campeggiava un grosso mappamondo; spingendo un interruttore, lo illuminò dall'interno. Poi, rivolta a James, iniziò: «La teoria di Hapgood sulla dislocazione della crosta terrestre!». Per un attimo Rutherford sembrò non reagire. «Ti ricordi? Il dottor Von Dechend ce ne ha parlato quando gli abbiamo sottoposto le mappe. Disse che Hapgood aveva usato le mappe di Piri Reis come supporto alla sua teoria della dislocazione della crosta terrestre. Secondo lui, l'Antartico si trovava più a nord, ma la crosta terrestre si è spostata e l'Antartico è scivolato sul fondo del pianeta». Cominciò lentamente a far ruotare il mappamondo, per illustrare quanto stava asserendo. «Tutta la crosta si è spostata, ricordi?, non soltanto una o due placche tettoniche, ma tutta la litosfera. Le terre un tempo temperate devono essere improvvisamente scivolate oltre il Circolo polare artico. Questo spiega perché tutti quei leoni e cammelli e animali tipici di climi caldi sono stati ritrovati congelati nel ghiaccio siberiano». All'improvviso, Rutherford parve comprendere. Il suo volto s'illuminò. «E significa anche che prima di questo spostamento della crosta terrestre, su quella che è la massa continentale dell'Antartico avrebbero potuto vivere degli esseri umani. E improvvisamente, dopo lo scivolamento, queste stesse persone si sono trovate in balìa del gelo... per non dire delle altre catastrofi, come gli tsunami». «Esatto! Perciò l'Antartico avrebbe potuto trovarsi nel luogo d'origine dei portatori di luce. Questo spiega la mappa di Piri Reis... Spiega tutto!
Gli Zoroastriani fuggiti dal loro luogo d'origine, le pianure russe, improvvisamente spostatesi a nord e congelate, e i portatori di luce che hanno visto distrutta la loro civiltà, quando lo spostamento è avvenuto verso sud». Rutherford aveva la fronte aggrottata per la concentrazione. «E spiega persino uno dei principali problemi che ho avuto con tutto quello che abbiamo scoperto finora. Spiega perché non vi sono testimonianze della civiltà originale dei portatori di luce». «Già: tutte le testimonianze sono state sepolte da uno strato spesso tre chilometri di ghiaccio antartico, ecco perché nessuno ha mai trovato nulla. I sopravvissuti si sono poi dispersi ai quattro venti. Arrivati alle coste del Sudamerica e in Medio Oriente, hanno tentato di ricostruire parte del loro patrimonio culturale: Viracocha, Osiride e Oannes erano tutti profughi di un'antica civiltà antartica sterminata dallo spostamento della crosta terrestre». «Credo che sia andata proprio così». «Così si spiega anche la velocità dello scioglimento dei ghiacci. Più il ghiaccio si scioglieva, più si ridistribuiva il peso della superficie terrestre. E questo provocò lo slittamento della crosta; all'improvviso i poli si ritrovarono a latitudini più calde, provocando uno scioglimento ancora più rapido e consistente. Non c'è da meravigliarsi che il livello dei mari sia salito tanto rapidamente». Rutherford era di nuovo immerso nelle sue riflessioni. «Già... ma al nostro puzzle manca ancora un tassello. Perché il professor Kent era convinto che stessimo per subire lo stesso destino? Non siamo in alcun modo vicini a quella fase del ciclo precessionale... e nemmeno prossimi alla fine di un'era glaciale, perlomeno non quanto lo sono stati gli antichi; perché allora pensava che corressimo il rischio di subire un altro cataclisma del genere?» «Credo che dovremmo andare a Giza. Ora noi sappiamo che Giza era il centro del mondo antico. Bezumov ci andrà, ne sono certa. E quando ci arriverà, cercherà di gestire tutta la faccenda per conto proprio. Possiamo precederlo; sventare i suoi folli piani e quindi cercare di capire perché il professore pensava che fossimo in pericolo». Rutherford sorrise e scosse la testa. «Okay, Catherine, è la nostra ultima carta da giocare. Immagino che se non funzionerà, faremo tutti una brutta fine. Perciò, perché non tentare il tutto per tutto, prima della completa distruzione della nostra civiltà?».
PARTE QUARTA 53 La receptionist dell'hotel a cinque stelle Nile Hilton del Cairo fissò disorientata l'occidentale alto ed elegante che sostava davanti al bancone con una portadocumenti in mano. Indossava un completo di lino bianco immacolato, scarpe marroni modello Oxford, una camicia bianca con una raffinata cravatta a motivi blu e sembrava non avere con sé altri bagagli. Era entrato nella hall con aria disinvolta e ora pretendeva la stanza migliore che avessero. «Mi scusi, signore, ma come si scrive?» «C-E-C-H-O-V, Andrei Cechov». Ivan Bezumov fece scivolare sul ripiano di marmo del bancone un passaporto russo nuovo di zecca, che la receptionist si affrettò a controllare. «E ora cerchi di sbrigarsi... Avrei una certa premura». Il sole entrava dalle grandi vetrate affacciate sul maestoso fiume che scorreva più in basso. In forte contrasto con i rumori e l'affanno dell'esterno, camerieri zelanti si muovevano silenziosi nell'atrio di marmo, ampio e arioso, portando bevande ai ricchi turisti adagiati nei comodi divani sparsi un po' ovunque nell'enorme salone. La receptionist si schiarì nervosamente la voce. «Sì, signore, mi scusi. Per quante notti intende rimanere, signor Cechov?» «Oh... Diciamo tre, per il momento. Dovrebbero bastare». «Desidera una camera con vista sul Nilo?» «Sì. Possiamo fare in fretta, per favore?» «Ma certo, signore; ecco la sua chiave». «Ah, e vorrei una macchina con autista - una 4 x 4 - e l'autista deve parlare correntemente il russo, oltre ad essere disponibile 24 ore su 24. Prima che me lo chieda: il denaro non è un problema. Ecco la mia carta di credito. Rimarrò nella mia stanza per qualche ora. Quando scenderò, vorrei trovare l'autista che mi aspetta nell'atrio». Bezumov si voltò e attraversò il pavimento di marmo, diretto all'ascensore. Ad alta quota sul Mediterraneo, Catherine e Rutherford stavano di nuovo sfrecciando veloci verso l'ignoto. In preda a una leggera sensazione di claustrofobia, nuovamente intrappolata in un aereo affollato, così poco
tempo dopo il loro ultimo volo, Catherine chiuse gli occhi. Nel tentativo di evitare la disidratazione provocata dalla prolungata permanenza in un ambiente pressurizzato, iniziò a bere da una bottiglia d'acqua minerale. Dopo una mezza dozzina di sorsi, si voltò a guardare Rutherford. Sembrava profondamente concentrato: stava divorando un libro sui geroglifici. Catherine appoggiò la testa allo schienale e, con un lungo sospiro, si strofinò gli occhi stanchi. «Uff... sono distrutta. Ma dobbiamo andare avanti. Sono più decisa che mai ad arrivare in fondo a questa faccenda». Gli occhi arrossati e l'aria stanca, Rutherford le rispose: «Anch'io. Sono esausto. Ma ho la sensazione che, se non altro, l'Egitto rappresenti anche la destinazione finale della nostra ricerca». Catherine non poteva essere più d'accordo. "Avrei solo voluto saperne un po' di più, dell'antico Egitto... In realtà vorrei saperne di più su un sacco di cose. Quest'avventura è stata un ottovolante intellettuale", pensò. Tante cose sembravano dipendere da quanto e come la combinazione delle loro conoscenze e delle loro intelligenze potesse aiutarli a capire perché il professore fosse stato convinto che il mondo era minacciato da un altro cataclisma. "E quand'anche capissimo perché corriamo il pericolo di subire lo stesso destino degli antichi, dovremmo ancora trovare un modo per evitare il disastro, e cercare di fermare Bezumov... Come vorrei che il professore fosse ancora con noi; se solo potessi parlarci un po'...". Catherine riaprì gli occhi e stiracchiò pigramente il collo da entrambi i lati. «James?». Profondamente immerso nella sua lettura, Rutherford rispose senza sollevare lo sguardo: «Mmm?» «Spero tu sia molto più ferrato di me, sul luogo che stiamo andando a visitare». Lentamente, Rutherford chiuse il libro e lo infilò nella tasca del sedile davanti. Si voltò a guardarla e le rivolse un sorriso teso e stanco. «Be', non posso dire di essere un'autorità mondiale, in questo campo, ma ho visitato questi luoghi diverse volte. Ne so decisamente di più che sul Sudamerica: perlomeno conosco le teorie correnti relative all'antico Egitto. Il fatto è che dopo quel che abbiamo saputo, comincio a chiedermi se queste possano valere almeno il costo della carta su cui sono scritte».
Catherine sospirò. «Concordo in pieno. E sono pronta a scommettere che anche qui troveremo inquietanti anomalie. Scommetto anche che dietro a tutto questo ritroveremo i numeri precessionali. Ma sono una semplice principiante, in merito. Tutto quel che so è quello che mi hai raccontato su Osiride e quel poco che ricordo dai tempi della scuola. Ho passato troppi anni a studiare le stelle». «Non puoi certo sapere tutto. E senza le tue conoscenze astronomiche, non saremmo qui, ora. In ogni caso, potresti aver trascorso degli anni a imparare cose che presto potrebbero rivelarsi tutte sbagliate». «Be', da qualche parte bisogna pur cominciare. Magari, se te la senti, potresti fornirmi qualche cognizione di base?». Rutherford si raddrizzò sul sedile e scrollò le spalle per scuotersi e risvegliarsi un po'. «Prima di attaccare con la storia», iniziò, «ci sono un paio di interessanti osservazioni geografiche da fare. Prima di tutto, c'è da dire che Giza, dove sono state erette le piramidi e dove il grande Nilo si divide scendendo verso il Mediterraneo, è situata a trenta gradi di latitudine. Ciò significa che le piramidi sono collocate esattamente a un terzo della distanza fra l'Equatore e il Polo Nord. Non avevo mai considerato l'importanza di una simile osservazione, prima d'ora, ma a causa della teoria di Bezumov e, ancor più, per via di quello che tu hai scoperto sul legame precessionale nella collocazione di tutti questi monumenti della Terra, all'improvviso la cosa assume una maggiore importanza». «Altroché se è importante! Voglio dire, è difficile che si tratti di un caso. E qual è l'altra osservazione?» «Ah... Be', anche qui... Non ci avevo mai pensato prima, ma il sito delle piramidi si trova a sua volta al centro della terraferma del nostro pianeta». Catherine aggrottò le sopracciglia. «Che vuoi dire? Il centro mondiale della terraferma non dovrebbe trovarsi da qualche parte in Russia o in Nordamerica?». Rutherford scosse il capo. «No, non nel senso che intendo io. Ascolta: se collegassi tra loro i due poli seguendo la linea longitudinale che passa direttamente attraverso la base della Grande Piramide, questa linea attraverserebbe più terraferma di qualsiasi altra linea longitudinale che percorre il pianeta da nord a sud. E ti dirò di più: se tracciassi una linea che va da est a ovest lungo la latitudinale che passa direttamente attraverso le piramidi, questa attraverserebbe più terraferma di qualsiasi altra latitudinale. Guarda qui».
Trovò una mappa della Terra su una delle riviste della compagnia aerea, prese una penna e tracciò una linea longitudinale attraverso il sito di Giza. Poi tracciò una seconda linea, orizzontale, che incrociava la prima nello stesso punto. Catherine fissò la cartina. All'improvviso, la sua espressione mutò: gli occhi le si accesero di consapevolezza. «Non ti fa pensare all'inondazione?». Rutherford girò il capo, come colto di sorpresa. «Ora che me lo fai notare, sì. A questo punto, per raggiungere le piramidi, gli oceani avrebbero dovuto invadere più terraferma che in qualunque altra parte del mondo». «Già. E sempre secondo lo stesso criterio, questa sarebbe stata una delle prime parti del mondo a restare a secco, quando le acque iniziarono a ritirarsi!». Rutherford scoppiò a ridere. «Ma certo... Sì! Non ci avevo pensato». Fece una pausa di riflessione. Poi proseguì: «Si dice che l'antico Egitto, così come noi lo conosciamo, ebbe origine con un faraone chiamato Menes, nel 3000 a.C. Si suppone inoltre che le piramidi e gran parte delle altre importanti opere dell'antichità siano state costruite durante i primi cinquecento anni: quindi entro il 2500 a.C. Ed è sempre in questo periodo che si crede siano stati incisi e dipinti sui vari edifici i testi religiosi fino a oggi pervenutici». Catherine rifletté su quanto Rutherford le stava dicendo. «E che mi dici del periodo precedente, quello prima del regno di Menes?» «Be', si suppone che l'Egitto fosse frazionato in tanti piccoli regni e principati. Questi minuscoli Stati non assursero mai a ruoli importanti; per la maggior parte si trattava di comunità di tipo assai primitivo: contadini del Neolitico stabilitisi lungo le rive del fiume Nilo. Tutto quello che oggigiorno consideriamo come le grandi conquiste dell'antica civiltà egizia risale ai tempi dei faraoni, ovvero a partire da Menes in poi». «Questa mi sembra di averla già sentita. Ricorda troppo il modo in cui i Viracocha sono stati cancellati dalla storia». Rutherford estrasse un altro libro dalla borsa. «Sono d'accordo. Tieni. Leggi questo. Io cercherò di fare un sonnellino». Calò la mascherina sugli occhi e appoggiò la testa allo schienale. Catherine era preoccupata, ma anche confortata dalla certezza che il loro viaggio stesse ormai per giungere al termine, e che la risposta alle loro domande si trovasse molto probabilmente fra le antiche sabbie del deserto.
Le tornò in mente l'espressione degli uomini che li avevano seguiti, la loro aria minacciosa, il pericolo e la violenza che avevano percepito nell'aria: ricordi che ancora la spaventavano, che le facevano desiderare di scappar via, di trovare un posto sicuro, se mai ce ne fosse ancora stato uno. Ma in cuor suo sapeva che doveva portare a termine quella ricerca, per arrivare a capire la verità. Guardò Rutherford e pensò a quanto fosse felice che l'avesse accompagnata, evitandole di dover fare tutto da sola. 54 Due ore dopo l'atterraggio, s'erano finalmente districati dalla burocrazia doganale e stavano procedendo a passo di lumaca a bordo di un'auto a noleggio, attraverso il traffico caotico del Cairo. All'improvviso, Rutherford scorse ciò che stava cercando. Là, stagliate sul profilo dei quartieri periferici della capitale egiziana, spiccavano le imponenti sagome delle tre più importanti piramidi di Giza: la Grande Piramide, chiamata anche dagli egittologi moderni "piramide di Cheope"; la seconda, la piramide di Chefren, e infine la terza, molto più piccola: la piramide di Micerino. Pur sorgendo nel deserto, molto fuori città, sono talmente grandi che, se osservate dai margini opposti del Cairo, sembrano sorgere dalla città stessa, incombendo su qualunque altro edificio. Rutherford accostò, mentre il mare di traffico continuava a scorrere incessante al loro fianco. «Guarda!». Catherine si sporse in avanti, scrutando nella calura. Quel che vide le mozzò il fiato. Rutherford puntava estatico il dito sulla più grande delle tre piramidi. «La Grande Piramide. La più grande struttura mai edificata dall'uomo». «Non è possibile! E i grattacieli del Ventesimo secolo, dove li mettiamo?». Rutherford scoppiò a ridere. «Un gioco da ragazzi, al confronto! La Grande Piramide è in una categoria a parte. Vedrai quando saremo più vicini, e ne percepirai l'enormità quando vi entreremo dentro». «Nessuno mi aveva mai avvertito di quanto possano apparire maestose e imponenti». Rutherford riprese: «Infatti. Ed è tanto più sorprendente se tieni presente che la Grande Piramide fu anche uno dei primi edifici mai costruiti. Apparve come dal nulla agli albori della nostra storia... Gli archeologi ipotiz-
zano che sia stata costruita intorno al 2600 a.C. con una precisione tecnica assolutamente sbalorditiva. Presumendo che i costruttori delle piramidi non avessero a disposizione gru e scavatrici e tutti gli altri aggeggi impiegati dalle moderne imprese edili, la sua semplice esistenza è qualcosa che rasenta il miracolo». Catherine gli lanciò un'occhiata di traverso. James non riusciva a staccare gli occhi dalla gigantesca struttura. "Sembra come ammaliato... la malìa delle piramidi". «Non ti sembra un po' strano?». Rutherford stava ancora fissando le piramidi. Le rispose senza guardarla: «Cosa?» «Be', è un po' come decidere di progettare la prima automobile in assoluto e costruire una Ferrari, e da quel momento in poi accontentarsi di produrre go-kart per migliaia di anni, prima di riuscire di nuovo ad avvicinarsi all'idea di poter riprodurre qualcosa di simile al prototipo». Ora Rutherford l'ascoltava attentamente. Catherine continuò: «Voglio dire, non lo si può certo definire un tipo normale di sviluppo. Non conosco bene la storia dell'architettura, ma prima di costruire il castello di Warwick in Inghilterra o i grandi castelli dei crociati, i progettisti realizzarono una lunga serie di castelli molto più semplici e primitivi. C'è stata una curva di apprendimento, una progressione graduale: non è che all'improvviso, nel bel mezzo della storia, hanno deciso di costruire il castello più grande e più perfetto che si fosse mai visto. La piramide sfugge a questa logica, è lì fin dall'inizio, a osservare imperscrutabile tutto ciò che è stato costruito dopo di essa». Rutherford aveva assunto un'espressione molto seria e intensa. «Hai ragione. Immagino che stiamo cominciando ad accorgerci quanto sia fragile l'impalcatura della storia ufficiale». Aggrottò le sopracciglia, poi si voltò verso Catherine. «Andiamo. Voglio mostrarti una cosa». Ingranò la marcia e si reinserirono nel traffico. Proseguirono sulla strada principale per qualche chilometro, prima di abbandonarla e imboccare una serie di stradine secondarie che li condussero fino al limitare del deserto. Si erano ormai da tempo lasciati alle spalle i grandi e brutti palazzi di cemento del centro cittadino; anche gli squallidi agglomerati del quartiere industriale lungo la principale arteria cittadina erano scomparsi. Ora gli edifici avevano assunto un carattere quasi rurale; era come se i quartieri periferici si fossero lentamente ridotti, fino a divenire dei villaggi, o si fossero semplicemente diradati fino al confine con il deserto. Le strade non era-
no asfaltate e la polvere sollevata dai copertoni indugiava nell'aria. Rutherford fermò l'automobile nel parcheggio del sito. Le piramidi sembravano incombere su di loro, anche se erano ancora lontane, fra le dune sabbiose. «Eccoci qua. Da questo punto in poi si va a piedi». Il sole era cocente, era appena l'una del pomeriggio. Uscendo nella luce accecante, non poterono fare a meno di trasalire. Il calore sembrava riflettersi su di loro dalla sabbia infuocata. Nell'aria c'era il tanfo di sterco di cavallo, e nugoli di mosche ronzavano intorno alle loro teste. La pianura di Giza era pressoché deserta. Una delle due guardie in apparente assetto d'assedio camminava lungo la base della Grande Piramide, ma i turisti erano nei loro alberghi, al riparo da quella calura insopportabile. Dopo uno stremante percorso sulla sabbia, finalmente raggiunsero la fiancata della Grande Piramide. Rutherford si avvicinò al primo livello della costruzione. Sembrava meno sicuro di sé, adesso. Posò la mano su uno dei mastodontici blocchi che ne costituivano il primo gradino. Gli arrivava al torace e pesava almeno dieci tonnellate. Sollevò la testa verso l'alto, sulla cima dell'immane montagna di pietre. Catherine si portò una mano alla fronte e si guardò intorno, abbracciando con lo sguardo l'immensa pianura di Giza. «Pensi che qui siamo al sicuro? Pensi stiano ancora seguendoci?». Rutherford scrutò ansiosamente l'orizzonte. Il panorama della pianura era immerso nella calura soffocante. «Non lo so. Dobbiamo supporre che non abbiano mollato. Ormai avranno scoperto che volo abbiamo preso. Dobbiamo agire in fretta». Catherine aveva la bocca asciutta. Guardò l'antica piramide, valutandone l'inespugnabile altezza. «E dobbiamo trovare Bezumov. Dev'essere da qualche parte, qui al Cairo». Rutherford scosse il capo, rivolto verso di lei. «Be', sarà qui domattina al sorgere del sole, per l'equinozio di primavera, di questo possiamo essere certi. Non so invece cosa possiamo fare per fermarlo». I suoi occhi tornarono a posarsi sulla Grande Piramide. «Per ora concentriamoci sulla soluzione del mistero». Si voltò e appoggiò la mano destra sulla fiancata dell'ordine di pietre più basso. «Non è una struttura miracolosa? È composta da più di due milioni e mezzo di blocchi di pietra, ognuno pesante dalle due alle quindici tonnellate, per un totale da capogiro. Se ogni blocco non fosse collocato esatta-
mente al posto giusto, si creerebbe velocemente una pressione tale da far crollare tutto come un castello di carte». Accarezzò le antiche pietre. «Originariamente, l'intera piramide era rivestita esternamente di pietre di calcare levigate, simili al marmo bianco. Così l'intera struttura, insieme alle due piramidi vicine, riluceva come uno specchio al sole. L'effetto sarà stato incredibile». Catherine si avvicinò alla base. Passò le dita sulla pietra. «Come facciamo a sapere che era rivestita in quel modo? E cosa è successo al rivestimento?». Rutherford rispose prontamente: «Per prima cosa abbiamo delle descrizioni risalenti ai tempi dell'antica Grecia, ma sulla superficie ci sono anche dei punti in cui il rivestimento è ancora visibile. Ogni elemento di copertura pesava più di dieci tonnellate, ma le giunture delle lastre combaciano in maniera talmente perfetta che non vi si potrebbe infilare un foglio di carta. Un po' come le strutture murarie che abbiamo visto in Perú», aggiunse. Catherine s'inclinò all'indietro, cercando di arrivare a guardare il monumento fino in cima. Come accade con le montagne, era impossibile scorgerne la vetta dalla base; c'era soltanto quell'interminabile scalinata di pietra. Rutherford fece qualche passo indietro per avere una prospettiva migliore dell'intera struttura. «Ma non è tutto. Come vedi, la base della piramide forma un quadrato». Catherine indietreggiò e gli si mise di fianco. Rutherford proseguì: «I quattro lati dei quadrato sono allineati con la massima precisione ai quattro punti cardinali della bussola. Con questo intendo dire che il lato nord, che ora stiamo guardando, è perfettamente allineato al vero Nord. E il lato est all'autentico Est e così via». Catherine guardò a destra e a sinistra lungo la facciata nord. «Non è possibile che siano perfettamente allineati!». Rutherford rispose: «Be', ci si avvicinano molto; in realtà è quanto di più perfetto l'uomo abbia mai potuto fare, in tal senso, trattandosi di una costruzione di questa mole! Sono stati misurati dai più grandi esperti, che a loro volta si sono serviti degli strumenti più sofisticati e all'avanguardia che abbiamo. I calcoli hanno rivelato che il margine di errore è inferiore allo 0,1 per cento». «Stupefacente!». Rutherford valutò soddisfatto la reazione di Catherine. «Puoi dirlo forte. Una cosa priva di senso, fra l'altro». «Davvero: direi persino pazzesca».
«No... Voglio dire che è del tutto superflua. Per quanto riguarda l'occhio umano, non riusciremmo mai a notare un errore dello 0,1 per cento nell'allineamento dei lati. Un moderno architetto, ad esempio, passerebbe sopra anche a un margine dell'1,5 per cento, se è per questo. Quello che rende il tutto ancor più incomprensibile è che ridurre il margine d'errore da 1 a 0,1 per cento è molto, ma molto difficile». Di nuovo, Catherine non poté che rimanere sbigottita. «Ma allora perché si sono presi la pena di farlo? A che scopo?». Rutherford si grattò il mento con le dita della mano destra. «È proprio qui che voglio arrivare. Nessuno ha mai saputo spiegarlo. Comunque, la mania di precisione non finisce qui. Anche le lunghezze dei lati coincidono in maniera quasi esatta. E tutti gli angoli sono angoli di novanta gradi; sempre, ovviamente, nei limiti della precisione consentita a un essere umano. È inspiegabile». Catherine era affascinata dall'abilità che quell'antica costruzione doveva aver richiesto. «Ma come hanno fatto ad acquisire una tecnica così raffinata?». Rutherford staccò la mano dal mento e tese l'indice, come a sottolineare quel che stava per dire. «Ah, e c'è un altro problema. Questo livello tecnico non è stato più raggiunto prima del ventesimo secolo. Nessuno riesce a capire come sia stato possibile raggiungere tali gradi di perfezione senza l'ausilio di moderni dispositivi di ricognizione. Anche con quelli, poi, ci si riesce a stento. Abbiamo un altro mistero da scoprire». Al Nile Hilton, il portiere nubiano, con indosso un turbante rosso, un'elegante uniforme dello stesso colore e immacolati guanti bianchi, spalancò una delle grandi porte a vetri dell'ingresso, che Ivan Bezumov attraversò con passo deciso e piglio autorevole. Quando uscì nell'accecante calura del pomeriggio cairota, un autista dall'aria agitata, che lo aveva atteso all'ombra di una delle palme che decoravano il vialetto d'entrata, scattò sull'attenti, spense la sigaretta che stava fumando e saltò sull'automobile parcheggiata lì accanto. Era un Toyota Land Cruiser bianco a quattro ruote motrici, proprio come aveva chiesto Bezumov. Il motore rombò quando l'autista fece girare la chiave dell'accensione. Bezumov attese impaziente che il veicolo accostasse davanti all'ingresso dell'albergo e prima che l'autista avesse il tempo di scendere e andargli ad
aprire la portiera del passeggero, come era stato addestrato a fare con i clienti, Bezumov saltò dentro l'abitacolo. «Alle piramidi... In fretta!». 55 Catherine seguì Rutherford fino all'angolo della Grande Piramide. Arrivata lì, si posizionò in modo da ottenere una visione chiara e completa di entrambi i lati, quello settentrionale e quello orientale, per quanto in prospettiva obliqua. I suoi occhi erano irresistibilmente attratti dalla cima della piramide. Notò che gli ultimi due strati di muratura sembravano mancanti. «Cosa è successo alla punta?». Rutherford indietreggiò e ammirò il panorama occidentale, costellato di morbide dune di sabbia. «Non si sa con esattezza. Chissà quando, negli ultimi millenni, è stata asportata. Già 2500 anni fa i viaggiatori tornati dall'Egitto riportavano il particolare degli ultimi due strati mancanti al di sotto dell'apice». «E cosa ci sarebbe stato, sulla punta?» «Si crede che potesse essersi trattato della pietra Benben». «La... che?» «Benben è il nome attribuito al piramidion, la pietra di testa delle piramidi. Secondo il mito, agli albori del tempo, Atum, il dio egizio della Creazione, dal nulla assoluto provocò la nascita di tutti gli altri dèi. Le acque ritiratesi dopo il caos scoprirono dei cumuli di terra asciutta; ed è su questi cumuli di terra che cadde la pietra Benben». «Wow! Un altro mito sul diluvio universale». «Esattamente». «Ma se si tratta di un mito, non è più probabile che la pietra Benben sia un simbolo, o una metafora, piuttosto che un oggetto realmente esistente?» «Non ne sarei tanto sicuro. Forse era un pezzo di meteorite... Ci sono altri casi riguardanti antichi popoli che adoravano oggetti provenienti dallo spazio. O magari era semplicemente una pietra sacra o un oggetto fatto dall'uomo... Ma non c'è ragione di credere che non esistesse. Sembra che la pietra Benben si trovasse in cima al lucido rivestimento marmoreo, e che riverberasse una luce divina visibile a diversi chilometri di distanza. Persino di notte, rifletteva la luce delle stelle». «Di che materiale era fatta?»
«Diamante, granito levigato, oro... Chi lo sa? Alcuni dicono che contenesse l'occhio di Horus: sai, quell'occhio un po' inquietante che si trova sulla piramide riprodotta sulla banconota del dollaro. Secondo la tradizione, la pietra Benben fu asportata dalla cima della Grande Piramide dai sommi sacerdoti, ormai rassegnati all'idea che i giorni dell'antica religione fossero giunti al termine. Il cristianesimo si stava facendo strada... Sapevano di dover togliere la pietra Benben dalla sua sede, o prima o poi qualcuno l'avrebbe trafugata. Così la staccarono e la nascosero. Un altro dei tanti misteri delle piramidi». Catherine si voltò a guardare il deserto. "Sabbia, sabbia e ancora sabbia, fino alla costa dell'Atlantico. Non ci sono molte cave rocciose, qua intorno...". «A pensarci bene, James... Come hanno fatto a costruire le piramidi? Voglio dire, dove hanno preso tutti questi giganteschi blocchi di pietra, se qui intorno non c'è altro che sabbia del deserto? E come li hanno posati l'uno sopra l'altro in un ordine così perfetto?». Rutherford si aspettava quella domanda e si sorprese a sorridere. «La risposta non ti piacerà, ma anche questa volta devo dirti che nessuno lo sa». Catherine lo guardò, sorpresa. «Due milioni e mezzo di blocchi di pietra, nessuno dei quali pesa meno di un'automobile. Tu come penseresti di spostarli, senza neanche una gru?». Catherine lo fissò, accigliata. «Non sono un'egittologa, né un ingegnere: non ne ho la più pallida idea. Quali teorie ci sono, in proposito?» «La più diffusa - la più insegnata nelle scuole - è quella secondo la quale i blocchi sarebbero stati sospinti, trascinati e sollevati con la forza bruta. Ci sarebbero voluti centomila uomini e vent'anni di lavoro, per erigere questa piramide». Catherine rifletté un attimo. «Un sacco di gente. Un sacco di bocche da sfamare. Si trattava di prigionieri di guerra?» «No, si suppone che fossero braccianti agricoli. Lavoravano alla piramide soltanto nei tre mesi in cui il Nilo straripava dagli argini, allagando le terre circostanti: un periodo in cui avrebbero comunque dovuto sospendere il lavoro nei campi, costretti a vacanze forzate». Catherine iniziò a pensare ad alta voce: «Belle vacanze! Okay, dunque: tre mesi l'anno per vent'anni, per un totale di sessanta mesi. Immaginiamo
pure che lavorassero per dodici ore al giorno. Trenta giorni al mese a dodici ore al giorno fa più o meno ventimila ore di lavoro. Dunque, se c'erano due milioni e mezzo di blocchi di pietra, tutti pesanti almeno un paio di tonnellate, secondo i miei calcoli avrebbero dovuto spostare circa centoventi blocchi l'ora. O due blocchi al minuto». Rutherford fece una smorfia d'incredulità. «Devo ammettere che due blocchi al minuto sembra un'impresa davvero impossibile». «Ma la cosa ancor più incredibile è che non si limitavano semplicemente a spostare i blocchi scaricandoli in un punto qualsiasi; dovevano sollevarli di un centinaio di metri nell'aria e sistemarli uno sull'altro con la precisione di un neurochirurgo». Rutherford scoppiò a ridere, scrollando le spalle. Catherine aveva un'altra domanda: «Non mi hai ancora detto a cosa servivano principalmente le piramidi!». All'improvviso, Rutherford assunse un'aria afflitta, quasi depressa. «Non so davvero più cosa pensare. Sto iniziando a credere che Bezumov si sia avvicinato alla verità molto più di quanto non abbia fatto la scienza convenzionale». Catherine aveva la fronte aggrottata per lo sforzo di capirci qualcosa. «Che cosa intendi dire?» «Gli egittologi sostengono che le piramidi siano tombe. L'estrema dimora dei faraoni... E io concordavo con essi. Ma adesso non più, perlomeno non completamente». Guardò in alto, scrutando la massa incombente della Grande Piramide. «Sembra una tesi troppo semplicistica. Perché tanti sforzi per una tomba? Deve trattarsi di qualcosa di più che di camere funerarie di sovrani defunti. Scusami, forse ti sto solo confondendo le idee. Ma è una sensazione istintiva...». «Di quali prove sarebbero in possesso gli archeologi, per sostenere che si tratta di tombe?». Rutherford fece una piccola pausa per riordinare le idee, poi proseguì: «Fu Erodoto, lo storico greco del V secolo a.C. a formulare per primo la tesi che la Grande Piramide fosse stata costruita da Cheope, che suo fratello Chefren avesse costruito la seconda e che suo figlio fosse colui che fece edificare la terza. Da allora, gli egittologi non hanno fatto altro che tentare di adattare i dati in loro possesso a questa sua ipotesi; ogni qualvolta trovano prove circostanziali che vi aderiscano, tendono a considerarle definitive e probanti. Ad esempio, all'interno del sito di Giza sono state ritrovate
delle iscrizioni di vario tipo, secondo le quali la Grande Piramide andrebbe attribuita a Cheope. Ma la cosa in sé non prova nulla: sarebbe più che logico che un faraone successivo si fosse appropriato dei siti dei suoi progenitori. Quando le piramidi vennero aperte, le si trovò completamente vuote: non vi era nessun tesoro, e soltanto nella terza, la più piccola, furono trovate alcune ossa. Ma persino quelle sono state fatte risalire al tempo di Gesù Cristo, un periodo molto più recente, rispetto a quello della costruzione delle piramidi. Dicono che la Grande Piramide sia stata svuotata dai predatori di tombe, ma in realtà non possiamo sapere cosa sia realmente accaduto». Catherine rifletté su quel che James stava dicendo. «Okay. Tutto questo significa che non sappiamo niente di certo?». Rutherford sorrise, imbarazzato. «Già». Lo studioso tornò a rimirare l'enorme fiancata della piramide. «Non è che uno dei tanti misteri di questa terra misteriosa. Non sappiamo a cosa servivano, non capiamo come possano essere state costruite, e, in tutta sincerità, non sappiamo nemmeno quando siano state erette. Si trovano qui dall'inizio della storia dell'umanità e probabilmente anche da molto tempo prima». Fece un passo indietro e le sorrise. «Su, avanti, andiamo a dare un'occhiata all'interno». 56 Dall'altra parte del Cairo, il dottor Ahmed Aziz stava tornando in ufficio dopo una lunga pausa pranzo. Oltre ad essere direttore ai beni culturali presso il Ministero delle antichità, era anche il custode della Grande Piramide e vicedirettore del museo egizio. Era un uomo giovanile: dimostrava poco più di quarant'anni, sfoggiava folti baffi neri e quel giorno indossava un elegante completo blu scuro. Era leggermente fuori forma, forse a causa dei molti pranzi e delle molte cene cui era costretto a partecipare, sia prima che dopo aver accompagnato le numerose delegazioni straniere in visita ad ammirare le meraviglie archeologiche della sua terra; ma per il resto era il ritratto della salute. Il modo in cui era assurto tanto in fretta all'importante incarico che ricopriva presso uno dei Ministeri delle antichità più importanti del mondo rimaneva un mistero, persino per gran parte dei membri dello stesso governo egiziano. Non che non fosse all'altezza del suo compito: era un esperto in-
discusso di vasellame egizio e aveva fatto un tirocinio post-universitario negli Stati Uniti, ma arrivare tanto in alto a quell'età era stato senza dubbio un record senza precedenti. Era un uomo fortunato. Guardò l'orologio appeso alla parete del suo elegante ufficio. Segnava le 3.30 del pomeriggio. Il pranzo era durato più del previsto, ma succedeva spesso, quando c'era da intrattenere importanti dignitari stranieri. Si sedette nella sua poltroncina, e d'improvviso la linea telefonica diretta prese a squillare. Sollevando il ricevitore con la tozza mano sulle cui dita spiccavano due grossi anelli d'oro, rispose: «Salaam aleikum». «Aziz... Sono io». La voce inconfondibile del senatore Kurtz echeggiò nella cornetta. L'espressione di Aziz mutò all'istante. Più nessuna traccia dell'aria leggermente seccata e frustrata di poco prima. Adesso era visibilmente allarmato. Lanciò un'occhiata alla porta dell'ufficio. Era aperta. Nella stanza attigua poteva scorgere il suo segretario, seduto accanto al suo assistente, il signor Poimandres, un egiziano sessantenne minuto e fragile, di religione copta ortodossa. Sembravano entrambi molto impegnati: il segretario stava digitando su una tastiera e il signor Poimandres era al telefono. Ma non aveva intenzione di correre rischi: soprattutto con Poimandres. Aziz non s'era mai sentito del tutto a proprio agio, con il suo assistente. Forse perché Poimandres era membro di una delle Chiese cristiane più antiche del mondo, mentre Aziz era musulmano devoto. Per duemila anni, i copti erano stati molto potenti, all'interno della società egiziana. Non fosse stato per la sua assoluta affidabilità e per l'indiscussa competenza nel suo lavoro, Aziz si sarebbe sbarazzato di Poimandres già da molti anni, sia pure con gentilezza e discrezione. Aziz poteva sentire il respiro impaziente del senatore. «La prego di attendere un attimo, signore». Appoggiò il ricevitore sul pannello di cuoio verde al centro dello scrittoio, andò alla porta e dopo aver sbirciato nell'altra stanza per assicurarsi che non vi fosse nessun altro, si chiuse dentro a chiave. «Signore... eccomi qui». «Mi ascolti molto attentamente, Aziz. Se oggi dovesse presentarsi qualcuno a far domande o elucubrazioni varie sulle piramidi, voglio che risponda come segue... Mi sta ascoltando?» «Sì... Sì, signore». Ci fu una pausa.
«Dica loro che le teorie che avanzano sono sbagliate, che le loro idee non sono affatto nuove, che sono state tutte già discusse pubblicamente e che, per quanto possano sembrare interessanti, non hanno alcun fondamento di verità. Cercheranno di presentare i loro argomenti in maniera razionale. Non deve assolutamente farsi coinvolgere in una discussione. Mi ha capito? Non si faccia coinvolgere. Non discuta. Si limiti a dir loro che quel che dicono è sbagliato». «Sì, signore. Desidera forse che mi assenti... o che rifiuti di riceverli?» «No, non lo faccia; desterebbe dei sospetti. Non sono dei pazzi fanatici, stiamo parlando di accademici molto stimati provenienti dall'università di Oxford. Li incontri pure, ma non si metta a discutere con loro e confuti ogni loro teoria. È chiaro?» «Sì, signore. Chiarissimo». «E... Aziz: non commetta errori, se tiene ancora al suo prestigioso incarico. Fra poco sarò in Egitto e mi occuperò personalmente di queste persone». Aziz deglutì nervosamente, asciugandosi il sudore della fronte con un fazzoletto immacolato. «Signore... lei sta venendo in Egitto?». La linea s'interruppe. I battiti cardiaci di Aziz erano accelerati, come se avesse appena corso i cento metri piani. 57 Catherine e Rutherford s'incamminarono lungo il lato occidentale della piramide, fino al punto in cui una moderna impalcatura sorreggeva una scala che conduceva all'entrata. Mentre si avvicinavano, Catherine guardò la sabbia, i turisti e gli escursionisti, chiedendosi se fra di essi si nascondessero i loro inseguitori. Vide un uomo appartato, che si manteneva a una certa distanza da un gruppo; vestiva all'araba, ma non sembrava stesse osservandoli. Una famigliola stava attraversando lentamente il tratto sabbioso. Tutto sembrava tranquillo, pensò, ma le cose potevano cambiare in un attimo, e l'idea di essere in qualche modo intrappolata all'interno della piramide non la divertiva affatto. Prima o poi Bezumov sarebbe ricomparso e non era certa che quel rinnovato incontro sarebbe stato piacevole. Rutherford la guardò. «Su, avanti, decidiamoci. In fondo è per questo che siamo venuti fin qui».
Anche lui era preoccupato; dopo aver percorso le scale velocemente e con la testa china, superarono la soglia, simile all'imbocco di una caverna. Catherine si guardò un attimo indietro, lanciando uno sguardo oltre lo spiazzo sabbioso e fino al parcheggio delle automobili. Le macchine andavano e venivano. Non aveva ancora messo piede nel tunnel scavato nella roccia, che un attacco di claustrofobia le attanagliò i polmoni. Davanti a lei, Rutherford procedeva sfiorando le ruvide e irregolari pareti interne dell'entrata. «Non far caso a questo tunnel: è un'aberrazione. È stato scavato dagli operai arabi, non dai costruttori originari della piramide, ecco perché è fatto così male. Si chiama "la caverna di Mamun", secondo il nome del califfo egiziano che lo commissionò». In silenzio, si fecero strada nel corridoio scarsamente illuminato, finché non raggiunsero la galleria principale. Il corridoio scosceso si tuffava nel buio sottostante. Nonostante vi fossero delle lampadine che costellavano il soffitto a intervalli regolari, era impossibile vederne il fondo. Il corridoio stesso somigliava all'interno di un gigantesco macchinario d'acciaio. Le pareti di pietra erano lisce come il vetro. Era uno scenario mozzafiato. "È semplicemente straordinario. Non può trattarsi di una tomba. Dev'essere una macchina di qualche tipo. Trasmette un intento funzionale". Rutherford le sorrise. «Sapevo che saresti rimasta colpita. Il tunnel scende giù dritto per circa 106 metri, a un'inclinazione di 26 gradi, la metà dei 52 gradi di pendenza dei lati della piramide. Ma la cosa più incredibile è che per tutto il suo percorso non devia di più di un centimetro. Persino ai giorni nostri una simile precisione sarebbe difficilissima da raggiungere». Rutherford le faceva strada lungo il corridoio. Mentre avanzavano, Catherine si guardò intorno, sbirciando nella semioscurità. Le loro sagome proiettavano ombre inquietanti sulle pareti. Riusciva a sentire ogni singolo passo, amplificato dal silenzio circostante. Poi le sembrò di sentire l'eco di altri passi, di qualcuno che li stava seguendo. Non c'era altro da fare che proseguire, pensò. Si accorse di avere il fiato corto per l'ansia e cercò di calmarsi. Superò dei gradini di fattura moderna e sbucò su di un corridoio in salita che era l'immagine speculare del tunnel appena percorso in discesa: la stessa perfezione meccanica e un angolo impossibile da scalare, ma stavolta verso l'alto. Il suo senso di claustrofobia aumentò. Il soffitto era alto poco più di un metro e venti e l'aria era sof-
focante e stantia. Piegati in due, proseguirono nella loro ascesa. Dopo un faticoso percorso di alcuni minuti, lo stretto corridoio sfociò improvvisamente in una camera molto più ampia, lunga quattro metri e mezzo e alta circa il doppio, con un soffitto inclinato e a volta. Rutherford si raddrizzò e si stiracchiò, sollevato. «Fiuuu... Stavo iniziando a soffocare, lì dentro». Catherine si asciugò la fronte, senza dire nulla. Non le andava di confessare quanto fosse agitata. Aveva sempre più l'impressione che qualcuno li avesse seguiti all'interno della piramide per esercitare una qualche terribile vendetta. Cercando di scrollarsi di dosso quella sensazione, guardò il pavimento che continuava a salire davanti a loro. «Cos'è questo?». Indicò una sorta di fossato che attraversava la stanza in tutta la sua lunghezza. «Sembra una scanalatura per un macchinario, o simili. Per favore, non dirmi che non si sa bene cosa sia». Rutherford fece una smorfia desolata. Catherine scosse il capo, mentre iniziavano a risalire la galleria più grande. Dopo aver percorso ancora un corridoio, entrarono in un'altra grande camera. Rutherford si raddrizzò, si massaggiò la parte bassa della schiena e risistemò lo zaino che portava in spalla. «Eccoci dunque nella camera del re». Catherine gli si affiancò, rimanendo profondamente colpita dall'oppressione che quell'ambiente trasmetteva. Era consapevole delle tonnellate di granito che li sovrastavano con tutto il loro peso. Sembrava quasi che le scure lastre di pietra che formavano le pareti stessero pian piano avvicinandosi. "Se ora qualcuno venisse qui per ucciderci, nessuno sentirebbe nulla. Nessuno saprebbe mai...". Vide che Rutherford aveva il volto imperlato di sudore. «Quello cos'è?». Catherine indicò il parallelepipedo di pietra a grandezza umana appoggiato a terra sul lato opposto della camera. «Un sarcofago di granito. È vuoto... Vieni, diamogli un'occhiata». Si avvicinarono al sarcofago e sbirciarono all'interno. Consultando la guida, Rutherford mormorò a mezza voce i dati delle sue dimensioni. Poi, all'improvviso, esclamò: «Mio Dio! Le misure imperiali che ancora oggi impieghiamo in Inghilterra e in America, i pollici e i piedi, sono rapportate al sistema di misurazione impiegato per la costruzione della piramide e del sarcofago». «Cosa? Vuoi dire che in qualche modo, questi oggetti sono stati impie-
gati come base del nostro sistema di misurazione?» «A quanto pare, sì. Non avevo mai considerato la piramide in questi termini, prima d'ora, ma adesso ho la sensazione che sia la fonte di ogni cosa. Il sarcofago dev'essere stato qui da sempre, perché è troppo grande per passare nel tunnel che abbiamo appena percorso. Un'altra cosa interessante è che gli angoli interni sono assolutamente e perfettamente retti. Come siano riusciti a realizzarli senza l'ausilio della moderna tecnologia è una cosa inspiegabile! Per scavare il granito in questo modo servono tonnellate di pressione e punte di trapano in diamante». In quel momento, Catherine ebbe una sorta di intuizione. Con la voce rotta dalla paura, disse: «Aspetta un attimo, di quali misure stavi parlando?». Sconcertato dalla domanda, Rutherford la scrutò in volto, prima di tornare a leggere dalla sua guida. «L'interno è lungo sei piedi e sei punto sei pollici...». «Esatto», lo interruppe Catherine. «Avevo sentito bene, allora. Non può essere un caso, visto tutto ciò che sappiamo sulla mania di precisione degli architetti. La lunghezza interna di questo antico sarcofago situato nel cuore della costruzione più antica e stupefacente del mondo è sei sei sei: il numero del diavolo». Proprio in quel momento le luci tremolarono, e per un secondo la camera rimase immersa nel buio più assoluto. Catherine si sentì mancare. James percepì un'ondata di panico assoluto riversarsi dallo stomaco a tutto il torace. Poi le luci si riaccesero, sia pure con riluttanza, e la camera riemerse dalle tenebre. Rutherford sembrava invecchiato di dieci anni. «Bene, non rimarremo qui dentro un minuto più del necessario». Catherine riprese fiato. «Non potrei essere più d'accordo». La luce rimase accesa. Rutherford si asciugò la fronte con la manica e riprese a parlare; sembrava molto nervoso. «Sei sei sei non è veramente il numero della Bestia». Guardandosi intorno nell'opprimente camera funeraria, Catherine sembrò non capire. «Che intendi dire?» «Be', è molto più antico del cristianesimo. È il numero pagano del sole, o del potere terreno. Gli alchimisti lo associavano allo zolfo. In gematria, la frase biblica theos eini epi gaia - "io sono dio in terra" - ha il valore sei
sei sei. I cristiani più tardi, che ormai avevano perso ogni contatto con l'antica saggezza, cominciarono a temere il numero e il suo potere simbolico». Rutherford tornò ad asciugarsi la fronte con l'avambraccio e si guardò ansiosamente intorno. «Ma c'è una cosa ancora più importante. Presto, vieni qui». Si avvicinò alla parete meridionale della camera del re. Catherine lo seguì, preoccupata che la luce potesse andare via ancora una volta e rimpiangendo di non aver portato con sé una torcia elettrica. Rutherford le indicò un piccolo foro nella parete. «Ecco: questo condotto sbocca direttamente all'esterno, attraversando tutti i blocchi di pietra della piramide. Come tutto, qui dentro, è perfettamente lineare. Si fa direttamente strada attraverso la pietra massiccia, a un angolo di quarantacinque gradi esatti. Migliaia e migliaia di blocchi avrebbero dovuto essere scavati uno per uno, per consentire al condotto di attraversarli. Ma questa non è che la metà della storia. Se estendi il condotto fin nello spazio siderale, scoprirai che in alcuni periodi attraversa esattamente il passaggio al meridiano della cintura di Orione, una zona celeste sacra, nella religione egiziana. Analogamente, nella camera della regina, il condotto meridionale è perfettamente allineato al passaggio di Sirio, altra stella molto significativa. Il geroglifico di Sirio rappresenta una stella, una piramide e una pietra Benben». Sentendo nominare Sirio, Catherine provò una fitta di nostalgia; quella stella l'aveva infatti trasportata all'istante nell'ariosa e luminosa aula dell'All Souls, dove aveva tenuto la sua ultima lezione sul mistero della tribù dei Dogon. "Com'è possibile che queste materie, da semplici rompicapo accademici, si siano trasformate in questioni di vita o di morte?". Rutherford proseguì: «E ogni camera è dotata di un ulteriore condotto, allineato a una particolare stella. Generalmente, quando uno di essi è allineato, gli altri puntano in zone insignificanti del cosmo. Ma sembra che tutti e quattro si allineino perfettamente, se torniamo all'assetto astronomico del 2450 a.C». «Mi chiedo che significato avesse tutto questo per i costruttori. Forse quello è l'anno in cui sono finalmente riusciti a riprendersi, dopo il caos dell'inondazione? Tuttavia, c'è qualcosa che ha a che fare con Sirio che...». Catherine non poté fare a meno di pensare di nuovo ai Dogon. «Forse gli stessi portatori di luce sono stati visitati...». Rutherford non capì quello che voleva dire. «Cosa?».
Catherine si interruppe. «Oh, niente. È strano. In ogni modo, che questi condotti si allineino con le stelle non può essere un caso». Rutherford scrutò ansiosamente le luci, come aspettandosi che si spegnessero di nuovo. «Parliamone fuori, non credo di riuscire a sopportare oltre questa tensione oppressiva. Lo spazio chiuso mi sta veramente mettendo in crisi». Catherine si avviò verso l'uscita. «Non potrei essere più d'accordo. Usciamo di qui». 58 Il portellone dell'aeroplano del segretario si spalancò e la calura nordafricana lo colpì come una muraglia rovente. L'aeroporto internazionale del Cairo sembrava soffocare sotto il cielo infuocato. I motori del velivolo erano ancora accesi e il loro rombo impediva la comunicazione. L'aria era intrisa dell'odore del carburante. Con un'espressione di disgusto, il segretario scese dalla scaletta e mise piede sulla pista, seguito da due delle sue più fidate guardie del corpo. Nel frattempo un camion da quattro tonnellate con il cassone ricoperto da un telo si fermò a pochi metri dall'aereo. Dall'abitacolo saltò fuori un uomo atletico di razza bianca, paludato in una tuta mimetica, che si diresse verso il velivolo a passo deciso. I motori stavano lentamente fermandosi, con un suono lamentoso che andava via via affievolendosi; l'uomo dovette comunque urlare per farsi sentire. «Signore... ho qui sei uomini. Tutti armati e pronti all'azione, e abbiamo agenti in stato di allerta per tutto il Cairo. Posso riferire che i nostri obiettivi sono passati alla dogana tre ore fa e che attualmente si trovano a Giza». «E l'uomo vestito di bianco? L'avete trovato?» «No, signore, non siamo riusciti a rintracciarlo di nuovo. Gli operatori ci hanno informati che si tratta di un ex ufficiale russo, uno scienziato traditore e una spia... il che spiega probabilmente perché l'abbiamo perso. Ha lavorato col professor Kent un paio d'anni fa; ha interessanti trascorsi sulle calotte glaciali». Il segretario sollevò la testa per guardare negli occhi il suo informatore e, in tono deciso, gli espose il suo piano. «Dobbiamo sorprendere gli obiettivi in una situazione isolata, solo allora
li cattureremo. Non voglio che si ripeta quel che è accaduto a La Paz. La cosa va portata a termine con la massima discrezione... Ma voglio degli uomini armati di guardia a Giza. Per quanto riguarda il russo, è arrivato il momento di chiudere la bocca anche a lui. In questa fase avanzata del progetto, non possiamo permetterci di correre a alcun rischio. Distribuisca la sua foto a tutti gli agenti; che gli sparino a vista.» Il segretario lanciò un'occhiata oltre la pista, verso gli edifici dell'aeroporto, dove nell'afa soffocante si vedeva il viavai della gente. All'equinozio di primavera mancavano ormai poche ore. Miller aveva l'aria stanca, appariva persino invecchiato. Per la prima volta i suoi occhi tradirono una certa vulnerabilità: sembrava quasi tremare. Scrutò le sue due guardie del corpo, cui aveva impartito istruzioni sull'aereo. Erano entrambe molto esperte e sapeva di poter contare sulla loro fedeltà, quando avesse avuto a che fare col senatore, il quale sarebbe stato concentrato sui progetti per il giorno successivo. L'ultima cosa che Kurtz potesse aspettarsi era essere sottoposto a un interrogatorio da uno dei suoi uomini. 59 Emergendo dalle viscere della Grande Piramide, Catherine e Rutherford rimasero quasi accecati dalla sfolgorante luce del sole. Il cielo azzurro e senza nuvole si allargava in tutte le direzioni e persino il panorama desolato del deserto sembrò confortante, dopo l'angoscia e la claustrofobia che si erano generate nei corridoi sotterranei della Grande Piramide. Catherine si protesse gli occhi con la mano sinistra, mentre con la destra si toglieva la polvere e la sabbia dai vestiti. «Ah! Aria! Aria fresca e sole. Grazie al cielo siamo fuori. Non mi sarebbe piaciuto passarci la notte, lì dentro». Rutherford estrasse gli occhiali da sole dallo zaino e respirò profondamente. «Neanche a me!». Catherine si voltò a guardare l'enorme mole della piramide alle proprie spalle. «Be', una cosa è certa: questa struttura non è stata costruita da un popolo primitivo. E di certo non era una semplice camera funeraria. Se solo il professor Kent fosse qui! Avremmo saputo cosa fare, almeno». Rutherford scosse il capo e in tono di ferma determinazione, rispose: «Dobbiamo andare avanti. Alla fine lo scopriremo».
Catherine gli si avvicinò, poi gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò senza dire nulla. Rimasero così per una trentina di secondi, ma alla fine lei si staccò e si issò lo zaino sulle spalle. Aggirarono l'angolo nordorientale della Grande Piramide e si trovarono davanti la necropoli di Giza. «Eccola là». Rutherford puntò il dito verso sudest, oltre l'altopiano roccioso dolcemente digradante, fin dove sorgeva la Sfinge, annidata nella sua trincea creata dall'uomo. Con il corpo di leone e la testa umana, se ne stava sdraiata con le zampe anteriori distese e la parte posteriore, a partire dal tronco, accorpata nelle rocce retrostanti. Per millenni e millenni era rimasta lì in paziente attesa: in diverse occasioni era stata completamente ricoperta dalla sabbia trasportata dal vento, ma alla fine un imperatore, un re o un governante moderno avevano sempre finito per liberarla. «Guarda a est, mi pare», disse Catherine. «Sì, verso est, dritto sul sole nascente. Stavolta gli architetti hanno voluto celebrare l'era astrologica del Leone, che inizia nel 10.970 e termina nell'8810». «È incredibile, combacia perfettamente con le date forniteci da Von Dechend per la fine dell'ultima era glaciale. Pensi che volessero evidenziare l'era in cui la loro civiltà andò distrutta?». Rutherford non le rispose. Stavano avvicinandosi ai fianchi dell'enorme Sfinge. Era alta circa venti metri e lunga quattro volte tanto: la più grande scultura mai realizzata. Girò la testa verso l'alto per guardarla. «Vedi come è stata rovinata dall'erosione?». Catherine studiò i grossi buchi e le crepe nell'antica pietra di cui la bestia era fatta. In alcune parti sembrava una gigantesca statua di cera che stesse pian piano sciogliendosi. Grosse scanalature la percorrevano da cima a fondo. «Ci vogliono migliaia e migliaia di anni, perché si verifichi una simile erosione». «E qual è la causa dell'erosione?» «Pioggia, pioggia e ancora pioggia. Il Sahara è un deserto giovane. Non è stato sempre così, da queste parti. Un tempo questa era una vallata fertile e accogliente, piena di verde. Dove evidentemente è piovuto molto, e per lungo tempo». «Quando si pensa sia stata scolpita?»
«Ah, be', ci sono diverse ipotesi, in merito». Arrivarono davanti alla Sfinge e sollevarono il viso per osservarne il volto antico. «Alcuni esperti di erosione della pietra calcarea hanno calcolato che debba essere stata scolpita non meno di novemila anni fa... ed è un'ipotesi moderata. È enormemente, incommensurabilmente antica. E ovviamente, come ben sappiamo, la storia ufficiale sostiene che a quei tempi giravamo tutti in perizoma e usavamo utensili in pietra». Osservando l'imperscrutabile volto della Sfinge, Catherine pensò al grande popolo che doveva averla creata, tanti millenni prima. «Okay», disse, «dunque: abbiamo una piramide costruita a scopi e secondo criteri che persino la NASA avrebbe difficoltà a seguire. La piramide stessa sembra presupporre un'incredibile conoscenza astronomica e matematica soltanto a guardarla, e i suoi vettori stellari si allineano al 2450 a.C. Abbiamo inoltre una Sfinge che risale ad almeno 9000 anni fa - forse molti di più - e che presenta una chiara affinità con l'era astrologica del Leone. Queste prove incontrovertibili, infine, vengono totalmente respinte e negate dall'intera comunità di storici e affini». Catherine passeggiava lentamente intorno alle zampe anteriori del gigantesco bestione. «Per di più, coloro che avevano realizzato le mappe e che ci hanno indotti a iniziare l'indagine consideravano questo posto come il centro del mondo. Inoltre, abbiamo miti di ogni genere e provenienza che descrivono l'avvento di un gruppo di civilizzatori dopo la grande alluvione; personaggi che hanno aiutato i popoli a rimettere in piedi le loro civiltà devastate. Come suggerito dal professor Kent, tali miti contengono anche una quantità di informazioni tecniche probabilmente relative a un cataclisma provocato dallo spostamento della crosta terrestre. E per finire, grazie a Von Dechend, siamo in grado di far risalire il cataclisma stesso a un periodo coincidente con la fine dell'era glaciale, attorno all'11.000 a.C. Questo avrebbe dato agli scampati il tempo di trasferirsi dall'Antartico in Egitto, iniziare a rimettere in piedi la loro civiltà e scolpire la Sfinge». Rutherford lanciò un'occhiata di approvazione a Catherine. Il volto gli s'illuminò in un sorriso. «E c'è un'altra cosa». Catherine aggrottò le sopracciglia, incuriosita. «Quale?». Rutherford si guardò i piedi. «Ho dimenticato di dirti delle barche».
60 La testa di Catherine stava iniziando a girare. «Quali barche?», chiese in tono quasi rassegnato. Rutherford sollevò il capo: era quasi imbarazzante, trovarsi a dover rivelare un ennesimo mistero. «Gli archeologi hanno disseppellito diverse imbarcazioni dalle sabbie circostanti le piramidi. Grandi vascelli in grado di solcare gli oceani che secondo gli archeologi marini non possono essere che il risultato di una lunga tradizione sperimentale nella progettistica navale». Catherine gettò indietro la testa e scoppiò a ridere. C'era un'ultima pista che avrebbe voluto seguire. «Sappiamo cosa dicevano gli antichi Egizi delle loro origini?» «Sì. E in un certo senso la versione che essi propongono del loro passato coincide molto meglio di quella ufficiale con le prove in nostro possesso. Questo se siamo disposti a interpretare i miti con indulgenza e spirito di immedesimazione». «Che vuoi dire?» «Be', ad esempio, Osiride è uno degli dèi egizi. I neteru, come venivano chiamati gli dèi, provenivano da una loro misteriosa patria, proprio come Quetzalcoatl e i suoi seguaci, o i Viracocha. Ma se i neteru appartenevano a una civiltà più avanzata, con enormi conoscenze tecniche e una religione sviluppata, non c'è da sorprendersi se gli abitanti originari dell'Egitto finirono per considerarli delle divinità». Catherine era l'immagine stessa della concentrazione. «Dunque i neteru - che gli egittologi liquidano come divinità mitologiche - debbono essere stati i portatori di luce. Tutto induce a ritenerlo. All'interno della piramide di Unas, a Saqqara, sono state trovate iscrizioni risalenti all'incirca al 2400 a.C. Sono interessanti perché, come le piramidi qui a Giza, sembrano essere apparse improvvisamente dal nulla». «In che senso?» «Be', prima della loro improvvisa comparsa non esistevano scritture primitive. Niente geroglifici, sia pure rudimentali, per il conteggio delle merci e delle attrezzature, o per quello del passare dei giorni, come nel caso delle prime scritture cuneiformi babilonesi; si passa direttamente ai geroglifici più sofisticati e complicati che l'Egitto abbia mai avuto. E per di
più, gli argomenti in essi discussi sono concetti teologici e metafisici astratti di altissimo livello, completi di un vastissimo pantheon di divinità simboliche, sia maschili che femminili. Wallis Budge, il più importante egittologo britannico, riteneva semplicemente inspiegabile che una civiltà così sofisticata fosse apparsa sulla Terra di punto in bianco. Sarebbe come se i selvaggi del Kalahari dessero origine all'intera cultura e religione ebraica nello spazio di un secolo... costruendo, inoltre, l'edificio più grande del mondo nel deserto africano». Catherine stava pensando alla prossima mossa da fare. «Chi è il responsabile di tutti questi antichi siti? Voglio dire, chi è che autorizza lo studio di questi edifici e la sperimentazione di nuove teorie? Chi ha il potere di rovesciare l'erronea opinione ortodossa in merito a tutto questo?». Rutherford la scrutò in volto. «Il dottor Ahmed Aziz, a capo del Ministero delle antichità egizie. Può stroncare la carriera di qualunque egittologo con un semplice colpo di penna, rifiutandogli l'autorizzazione a visitare i siti o persino l'ingresso in Egitto. Il suo è un potere assoluto». Catherine annuì decisa. «Bene, almeno sappiamo chi è a decidere. Se fosse disposto ad appoggiare l'idea di una ri-datazione generale, questa potrebbe effettivamente verificarsi. Se pensasse che l'attuale versione della storia egiziana fosse fallimentare, potrebbe cercare di cambiare le cose». Rutherford tornò ad ammirare lo straordinario spettacolo delle piramidi. «Dobbiamo domandarci perché non lo abbia già fatto. C'è da credere che sia perlomeno consapevole dell'esistenza di prove in tal senso. Forse non fa nulla perché condizionato da motivi religiosi da parte del governo». Catherine non riusciva a seguire la logica del ragionamento. «La religione potrebbe essere un fattore rilevante? Perché?». Rutherford si sfilò gli occhiali e si passò una mano fra i capelli. «Be', i fondamentalisti musulmani - che esercitano un'influenza non trascurabile sul governo egiziano - non sono molto diversi dai fondamentalisti cristiani in America, o dagli ebrei, se è per questo. Anch'essi hanno un loro concetto personale della storia, una sorta di versione musulmana della visione creazionista cristiana. Dubito che vogliano ritrovarsi a dover improvvisamente spiegare l'esistenza di un intero mondo precedente a questo... Ma non lo so con certezza: sto soltanto facendo delle ipotesi». Catherine ci percepiva qualcosa di fondato.
«Penso che dovremmo indagare. Magari riusciamo persino a metterci in contatto con questo Aziz. Cosa sai di lui?» «Molto poco. L'ho visto una sola volta, qualche anno fa, anche se non ne sono certo... Ha tenuto una conferenza a Oxford. Questo, molto prima di assurgere alla sua importante carica ministeriale. Il suo predecessore morì in un incidente automobilistico, mi sembra. Ricordo che la nomina di Aziz creò un certo subbuglio: è abbastanza giovane e ha studiato negli Stati Uniti». Rutherford fece una piccola pausa. «Credo che valga la pena di tentare. Finora Bezumov non s'è visto, ma all'equinozio mancano ancora dodici ore. Non so bene cosa stia tramando... Cosa puoi fare con milioni di tonnellate di pietra?». Rutherford si strinse nelle spalle. «Torniamo alla macchina». Catherine rivolse lo sguardo al volto immortale dell'antica scultura e mormorò, quasi fra sé e sé: «Risolveremo il tuo enigma, o grande Sfinge». Poi si voltò e risalì dietro a Rutherford il dolce pendio dell'altopiano di Giza, per raggiungere la macchina. «Ferma!». Obbedendo al secco ordine di Bezumov, l'autista pigiò di colpo sul freno della Land Cruiser, che inchiodò al margine del parcheggio del sito di Giza. Dietro al veicolo si alzò un nuvolone di polvere e sabbia. Bezumov non credeva ai propri occhi. Li strizzò per vedere meglio i due occidentali che arrancavano sulla sabbia, in direzione del parcheggio, allontanandosi dalla Sfinge. Il suo volto era una maschera contorta di rabbia e stupore. Mentre le due sagome si avvicinavano sempre più, si rese conto di aver visto giusto. Ne seguì l'avanzamento fino alla loro macchina. Donovan fu la prima a salire, seguita a ruota da quell'irritante inglese. Bezumov colpì violentemente il cruscotto con il palmo della mano. Istintivamente si tastò il torace, alla ricerca della sua fondina a spalla. La pistola era al suo posto. "Ma questo non è il luogo adatto...". La macchina si allontanò dal parcheggio. «Autista, segua quell'automobile. Non la perda di vista... nemmeno per un secondo». 61 Non è facile guidare al Cairo. Le strade sono molto simili fra loro, la se-
gnaletica è scarsa e rada, il traffico è terribile e nel migliore dei casi i cairoti considerano le norme stradali come una sorta di vaga indicazione comportamentale; nel peggiore, le ignorano completamente. Dopo aver ripetutamente sbagliato strada, provocando un vero e proprio concerto sinfonico di clacson, Rutherford e Catherine raggiunsero finalmente il parcheggio situato sul retro del Ministero delle antichità. Rutherford sembrava molto provato da quel tragitto. «È stato un vero incubo. Pensavo che non saremmo mai riusciti ad arrivare fin qui e inoltre avevo la sensazione che qualcuno ci stesse seguendo... finché mi sono reso conto che nemmeno il più determinato killer del mondo si sarebbe mai potuto districare in un simile traffico». Saltò giù dall'auto e guardò l'edificio che aveva di fronte e che ospitava il Ministero delle antichità: in qualche modo gli parve minaccioso. «Pensi davvero che valga la pena cercare d'incontrare Aziz? Voglio dire, cosa pensi che dirà, anche se accettasse di vederci?». Catherine chiuse la porta del passeggero. «James... finora il nostro metodo ha funzionato. Se non se ne farà nulla, cercheremo un albergo ed escogiteremo un altro piano. Voglio soltanto vedere come reagisce». Un guardiano paludato in un'uniforme marrone raffazzonata, con tanto di berretto a punta, uscì dalla sua guardiola e fece loro cenno di avvicinarsi all'entrata posteriore dell'edificio. Catherine e Rutherford lo raggiunsero. «Salaam aleikum. I passaporti, prego». Gli mostrarono i passaporti e dopo un controllo appena accennato, il guardiano li invitò ad entrare. All'interno, uno squallido corridoio in linoleum conduceva - almeno da quanto era scritto sul cartello all'entrata - al bancone della reception. Su entrambi i lati del corridoio c'erano delle porte chiuse e in alcuni punti altri corridoi s'intersecavano con quello principale, conducendo chissà dove. Scrutando in avanti nella penombra, Catherine chiese a Rutherford: «Cosa suggerisci di fare?». Dopo una breve esitazione, James rispose: «Non lo so, immagino che dovremmo andare alla reception». Qualche passo più avanti, Rutherford notò un cartello in inglese e in arabo che indicava un corridoio sulla destra. C'era scritto UFFICIO DEL DIRETTORE E SALA CONFERENZE. «Ripensandoci, che ne diresti di saltare a piè pari la reception, snellendo un pochino il protocollo burocratico? L'impiegata ci farebbe aspettare
chissà quanto. Se il nostro amico direttore vuole riceverci, ci riceverà subito; se invece non vuole, dovrà dircelo in faccia... A meno che non sia a pranzo, certo». «O fuori città», aggiunse Catherine. A metà del corridoio c'era la porta dell'ufficio del direttore. Rutherford sollevò la mano per bussare, ma si bloccò a mezz'aria. Guardò Catherine. «Okay... È andata!». Bussò energicamente. Attesero trattenendo il fiato. Dopo una trentina di secondi, la porta fu aperta da una giovane donna che portava il tradizionale burka musulmano. Sembrò sorpresa di vedere quei due occidentali in piedi nel corridoio. «Salve, posso esservi d'aiuto?». Parlava un buon inglese con un marcato accento egiziano. Rutherford lanciò un'occhiata a Catherine e rispose: «Ehm, sì. Siamo qui per incontrare il dottor Aziz. È possibile?». La segretaria li guardò entrambi con diffidenza. «Avete un appuntamento?». Rutherford non sapeva bene cosa rispondere, ma prima che potesse inventarsi qualcosa, Catherine prese l'iniziativa. Si rivolse alla donna in tono indignato. «Come si permette?...». Fece un passo avanti, superando Rutherford. «Certo che abbiamo un appuntamento. Può dire per favore al dottor Aziz che Catherine Donovan e James Rutherford dell'università di Oxford sono venuti a parlare con lui? E può lasciarci entrare? Non amo aspettare in piedi nei corridoi, soprattutto dopo un lungo viaggio in aereo». Funzionò. La segretaria spalancò immediatamente la porta, che dava sulla spaziosa anticamera dell'ufficio di Ahmed Aziz e fece loro cenno di entrare. L'ufficio era dotato di porte finestre che davano su un curatissimo giardino all'egiziana, e di una seconda porta che Catherine immaginò fosse quella dell'ufficio privato di Aziz. C'erano due grandi divani verdi in pelle, con relativo narghilè ornamentale accanto, e, mentre si guardava intorno, Catherine scoprì che c'era un'altra persona nella stanza: un anziano egiziano basso e minuto che occupava la seconda scrivania. Le sorrise, con gli occhi scuri che scintillavano bonari. La segretaria, che sembrava molto
nervosa, li condusse verso uno dei due divani. «Accomodatevi, prego. Il signor Rutherford e la signorina Donovan... esatto?». Catherine rispose altezzosa: «Il dottor Rutherford e la dottoressa Donovan, se non le spiace. Grazie». Rivolgendo loro un'altra occhiata ansiosa, la segretaria tornò alla sua scrivania e si sedette. Sollevò il ricevitore e compose un numero. Rutherford seguiva ogni suo movimento. Dopo qualche scambio di frasi in un arabo molto gutturale, la donna riappese. «Il dottor Aziz vi riceverà fra poco». Catherine sorrise a Rutherford con aria cospiratoria e tutti e due si sedettero sul grande e comodo divano. Un minuto dopo, fu Aziz in persona ad aprire la porta del proprio ufficio e a fare il suo ingresso in anticamera. «Salve. Benvenuti al Cairo. Prego... entrate pure». Catherine e Rutherford rimasero entrambi leggermente stupiti dalla cortesia e dalla cordialità dell'uomo, mentre lo seguivano all'interno del suo ufficio. Non si aspettavano fosse così facile; in genere era dannatamente complicato riuscire a farsi ricevere da personaggi tanto importanti senza alcun preavviso; ed era una regola che vigeva in tutte le parti del mondo. "Molto strano", pensò Rutherford. Era preparato a una discussione vivace, nel migliore dei casi a essere invitato a tornare il giorno seguente, o magari quello dopo ancora, e invece il direttore li stava invitando ad accomodarsi subito nel suo ufficio, e senza fare ulteriori domande. L'ufficio di Aziz era riccamente arredato con tappeti turchi e poltrone rivestite in pelle. Alle pareti erano appesi dei poster del Ministero egiziano del turismo, che raffiguravano i grandi siti del Paese; sulla scrivania c'era un fermacarte: la miniatura in bronzo, alta una quindicina di centimetri, della pietra Benben. Aziz li invitò a sedersi con un cenno della mano, si sistemò comodamente dietro la sua scrivania e iniziò a parlare. L'accento egiziano era spiccato, ma l'inglese era scorrevole e corretto. Aveva un tono che a Catherine sembrò un po' troppo indulgente, quasi mellifluo. «Allora, signori... vi porgo le mie scuse. La mia segretaria deve aver dimenticato di annotare il vostro appuntamento». Si appoggiò allo schienale, appoggiando la mano sul bracciolo e sorridendo. Non sembrava avere alcuna fretta.
«Caffè? Tè alla menta?». Rutherford non riusciva a capire il perché di quella esagerata cordialità. Catherine si sporse in avanti. «Siamo qui per porle alcune domande: domande sulla datazione delle piramidi e della Sfinge». Aziz appoggiò i gomiti e gli avambracci sul ripiano della scrivania, congiungendo le mani e intrecciando le dita. «Ma certo! Credo di essere piuttosto ferrato sull'argomento!». Aziz si mise a ridere per la sua stessa battuta. Rutherford decise di andare dritto al punto. «Volevamo sapere cosa ne pensasse lei delle prove in possesso dei geologi - prove decisive, a mio parere - secondo le quali la Sfinge sarebbe stata costruita molte migliaia di anni prima di quanto si voglia far credere oggi». L'espressione di Aziz cambiò in un batter d'occhio, trasformandosi da faceta in severa. Tutta la gaudente bonomia che aveva dimostrato fino a quel momento scomparve dal suo viso e la sua voce assunse un tono aggressivo. «Ho già sentito parlare di questa folle teoria. I nostri geologi, tuttavia, hanno esaminato la Sfinge, escludendo un'ipotesi di questo tipo. Stento a credere che due accademici del vostro calibro, appartenenti a un'istituzione prestigiosa come l'università di Oxford, abbiano potuto anche solo prendere in considerazione un'idea tanto balzana. Ci sono voluti secoli di studi per riuscire a stabilire l'esatta cronologia della nostra civiltà. Centinaia di anni. Numerosi esperti di fama, provenienti da tutto il mondo, hanno contribuito a portare a termine questo compito immane, comprese diverse personalità scientifiche dei vostri Paesi». Li fissò con sguardo infuocato. «Le vostre insinuazioni sono ridicole e offensive, non solo nei miei confronti, ma in quelli di tutta l'egittologia ortodossa. Sono costernato». Catherine non riusciva a comprendere il motivo di tanta aggressività. Aziz si appoggiò allo schienale e rivolse loro un'occhiata gelida. «Vi consiglio di andare in qualche biblioteca - magari a Oxford - e di fare una ricerca precisa ed esauriente, prima di tornare a disturbare una personalità del mio livello. E inoltre», abbassò la voce, «per il bene della vostra stessa reputazione professionale, vi suggerirei di non strombazzare troppo in giro queste sciocchezze. Ci vogliono molti anni per costruirsi una reputazione accademica, ma per distruggerla basta un attimo». Catherine guardò Rutherford, che sollevò le sopracciglia in un'espres-
sione sbigottita e scosse la testa: quella visita non era servita a nulla. La giovane donna si alzò in piedi. «Molte grazie, dottor Aziz, è stato un piacere parlare con lei. Siamo soltanto dei dilettanti, in questa materia... La prego di perdonarci, se l'abbiamo offesa». Aziz si alzò a sua volta, raggiunse la porta e la spalancò. Rimase lì in severo silenzio, rendendo molto difficile ogni ulteriore possibile domanda o argomento di conversazione. Catherine e Rutherford uscirono dall'ufficio privato, tornando nell'anticamera. Alle loro spalle, sentirono Aziz che diceva: «Poimandres... Per favore accompagni i signori all'uscita». Rivolgendosi per l'ultima volta ai due occidentali, Aziz li salutò in maniera fredda e formale. «Buona giornata dottoressa Donovan e dottor Rutherford: è stato un piacere conoscervi». Il copto dalla carnagione scura si alzò dalla scrivania e gratificò entrambi di un luminoso sorriso. 62 Catherine fissò incredula la porta dell'ufficio di Aziz. Il suo volto impassibile era riuscito a esprimere tutta la determinazione di quel saluto definitivo. «Buon pomeriggio, mi chiamo Poimandres. Sono l'assistente del dottor Aziz». Il piccolo copto stese la mano verso Catherine perché gliela stringesse. Colta di sorpresa, lei lo fece macchinalmente. «È un piacere conoscerla, signor Poimandres. Io sono Catherine Donovan e questo è James Rutherford». Rutherford allungò la mano e strinse quella di Poimandres. «Salve, molto piacere. Dunque sarà lei ad assicurarsi che usciamo di qui?». Poimandres gli sorrise. Il suo volto scarno era quello sincero e innocente di un asceta. «Sì, se vuole possiamo metterla così. Vi dispiace seguirmi?». Rutherford sorrise. Quell'uomo minuto e dalla carnagione scura aveva in sé qualcosa di ultraterreno, quasi di etereo. Dopo l'ostilità e l'altezzosa condiscendenza di Aziz, Poimandres sembrava trasmettere gentilezza e calore. Oltrepassò la scrivania della segretaria e uscì dalla saletta. Quando furono nel corridoio, buio e silenzioso, Poimandres si chiuse la porta alle
spalle. Poi si guardò velocemente intorno, come per assicurarsi che non ci fosse nessuno. «Siete venuti a interpellare il dottor Aziz sulle origini della civiltà egizia?». Catherine scambiò una rapida occhiata con Rutherford: sembrava sconcertato quanto lei. «Abbiamo diverse teorie da sottoporgli. Ma a quanto pare, non ha abbastanza tempo da dedicarci». Poimandres continuò a indagare. «Il dottor Aziz si trova in una posizione assai difficile. Non gli è consentito indulgere in ipotesi e supposizioni». Rutherford era incuriosito. Perché mai quello strano ometto stava dicendo loro quelle cose? Decise di cogliere al volo l'opportunità e chiese: «Signor Poimandres, pensa che le nostre domande siano plausibili?». Con estrema lentezza, gli occhi scuri del copto si spostarono a fissare quelli di Rutherford. «Dottor Rutherford, dipende molto dal perché le state ponendo». Catherine disse: «Cosa intende dire? Cosa c'entra il perché delle nostre domande?» «Voglio dire, che motivazioni avete? State inseguendo la gloria accademica, o...». Fece una brevissima pausa. I suoi scintillanti occhi neri si posarono sul volto di Catherine, come a scandagliarne la mente, alla ricerca di una reazione diversa. «O lo scopo è un altro?». Dallo sguardo penetrante dell'uomo, Catherine intuì che quello era un momento cruciale della loro indagine. Non capiva cosa stesse accadendo, ma l'istinto le diceva che dalla sua risposta a quella domanda poteva dipendere il successo o meno della loro ricerca. "Lui capisce. Lui è dalla nostra parte". Percepiva l'attesa ansiosa di Poimandres. Come in un lampo improvviso, rivide mentalmente una delle immagini tanto spesso riprodotte nei testi geroglifici delle piramidi. Era la sala del giudizio di Osiride. Seduta sul suo trono sfolgorante, la divinità è rappresentata insieme alle anime dei trapassati. Tiene in mano una bilancia, con la quale pesa il cuore umano, controbilanciandolo con una piuma: l'essenza della leggerezza e della verità. Il cuore è puro? Guardando Poimandres negli occhi, Catherine prese la sua decisione. «Siamo convinti che il mondo sia in pericolo. Che vi sia stato un tentativo intenzionale di distorcere la storia per nascondere la verità sul passato.
Qualcuno ci sta deliberatamente tenendo nascosta l'esistenza di una civiltà molto antica, ed è soltanto attraverso la conoscenza di quest'ultima e delle sue conquiste e scoperte che potremo salvarci. Se non scopriremo quel che sapevano gli antichi, moriremo come loro per effetto di un terribile cataclisma ambientale. Le piramidi non sono state erette dai faraoni nel 2500 a.C; sono monumenti molto più antichi, dei grandi popoli sopravvissuti al diluvio universale». Poimandres abbassò lo sguardo. In un sussurro, rispose: «Vi prego... dovete venire a Giza con me. Ma prima...». Li condusse attraverso una porta che si apriva sul corridoio e che era quella di un piccolo magazzino degli operai. Fra gli attrezzi, i barattoli di vernice e altro materiale, c'erano degli abiti da lavoro egiziani. «Ecco qui: indossate questi jellaba». Poimandres porse a ognuno di loro una tunica egiziana che arrivava fino alle caviglie. Catherine e Rutherford si scambiarono un'occhiata, poi infilarono gli indumenti simili ad ampie mantelle. Con il cappuccio alzato erano del tutto irriconoscibili. Poimandres riaprì la porta che dava sul corridoio e diede loro il via libera. «Seguitemi». 63 Dalla parte opposta della strada rispetto al Ministero delle antichità, una Toyota Land Cruiser bianca stava aspettando. Sul Cairo era calata la sera, ma Bezumov non era stanco, anzi: rimaneva più vigile che mai, notando ogni minimo segno di attività. All'improvviso, dopo quelle che gli erano parse delle ore, notò un movimento. «E adesso che sta succedendo?». L'attesa era stata logorante, per Bezumov, che ormai stava esaurendo la pazienza: fondamentalmente, era un uomo d'azione. Il suo sguardo indagatore si posò su un omino basso ed emaciato con indosso un jellaba bianco che stava uscendo dall'edificio con aria circospetta. Doveva essere un personaggio autorevole, a giudicare dal modo in cui il guardiano si era messo sull'attenti. L'anziano funzionario procedeva, seguito da altre due persone, coperte entrambe da vecchie tuniche malandate col cappuccio sollevato. Bezumov lanciò un'occhiata al suo autista: era mezzo addormentato. Gli diede una manata sul braccio. Poi, nella luce incerta dell'atrio del ministero, Bezumov notò le belle scarpe da occidentale indossate da Catherine, che sbucavano dalla mantella
mentre camminava. " Sono loro!". 64 Nel buio, la jeep di Poimandres accostò alla base della Grande Piramide. All'entrata, l'anziano funzionario aveva parlato con i guardiani notturni, che l'avevano lasciato passare senza problemi. Superando il parcheggio, avevano potuto raggiungere il sito in macchina. Rutherford e Catherine si scambiarono un'occhiata in silenzio, poi scesero dall'auto. Sotto il limpido cielo nordafricano, lo spettacolo offerto dalle stelle era semplicemente fantastico. Catherine chiuse la portiera, guardò la massa incombente della Grande Piramide, poi spostò lo sguardo sull'anziano copto, che stava aspettandoli pazientemente sul limitare della strada rialzata. Mormorò rivolta a James: «Okay, vediamo cos'ha da dirci. Tieni gli occhi aperti, potrebbe arrivare il russo». Poimandres li guardò con aria solenne. L'autista stava aspettando fuori portata d'orecchio, accanto alla Land Rover. Poimandres chinò il capo e iniziò: «La costruzione della Grande Piramide è stato l'ultimo tentativo da parte di una civiltà morente di preservare le proprie antiche conoscenze». Scrutò attentamente i loro visi. «Ma se non erro, questo lo sapete già. È la ragione per cui siete venuti qui... e anche a cercare Aziz». Catherine e Rutherford annuirono circospetti. Il vecchio continuò: «E avete anche ragione a pensare che il mondo sia in pericolo. Non so come siate venuti a sapere queste cose e non ho bisogno di saperlo. Siete stati condotti fino a me perché siete puri di cuore. Nell'universo nulla accade per caso. È mio dovere aiutare chiunque sia alla ricerca della verità. Vi rivelerò i segreti della Grande Piramide per aiutarvi nella vostra ricerca. Vi aspettavamo... da tanto, tanto tempo». Poimandres si voltò a fronteggiare la piramide. Splendeva di una luce giallognola, grazie a un faretto posizionato da qualche parte, vicino alla garitta del guardiano. I turisti stavano rapidamente sfollando e il sito era immerso in un silenzio irreale. Le dune sabbiose si snodavano incessantemente, per migliaia e migliaia di chilometri, fino alla costa atlantica. Era un paesaggio apocalittico, bellissimo e stranamente deprimente al tempo stesso: un paesaggio privo di vita e di amore. Il viso di Poimandres era scarno, con le guance scavate; persino le orbite sembravano innaturalmen-
te profonde. Parlava in tono pacato e dolce, non privo tuttavia di una certa enfasi ansiosa. «La Grande Piramide fu costruita per custodire l'antica conoscenza, affinché le generazioni future potessero conoscere la verità... anche se la civiltà che l'aveva eretta avesse dovuto soccombere. I criteri a cui rispondono le sue misure e dimensioni comprendono tutte le formule matematiche che governano l'universo. Si tratta di un "glifo" scientifico che, all'attenzione meditativa di un iniziato, rivela gli stessi segreti della vita. La configurazione astrale è indicata dal posizionamento dei suoi blocchi di pietra: un messaggio progettato perché fosse decifrato da noi, nel futuro, e che allo stesso tempo costituisce un efficientissimo accumulatore di energia, capace di attirare e imbrigliare energie prodigiose. Ma prima di rivelare questi segreti, voglio accertarmi che sappiate che prima del nostro, sono esistiti altri mondi e altre civiltà. Ne siete consapevoli?». Catherine annuì. «Sì, abbiamo visto troppe testimonianze, per pensare altrimenti». Rutherford confermò: «Non abbiamo dubbi in proposito». Poimandres rimase in silenzio per qualche istante, poi riprese a parlare, sia pure con una certa cautela. «La mappa della Terra è stata redatta nel mondo precedente, da una grande civiltà scomparsa. Le dimensioni sono state calcolate con grande precisione...». Catherine tornò ad annuire. «Sì, ho visto le loro mappe collegare fra loro gli antichi siti e monumenti in tutto il mondo». Il copto lanciò loro un'occhiata penetrante, per capire se lo stavano seguendo. «La rete globale del sistema di linee energetiche, che voi in Inghilterra avete chiamato "ley", è una manifestazione del lavoro che hanno svolto. Il cataclisma che ha distrutto l'antica civiltà fu di una violenza tale da causare un totale sconvolgimento dell'allineamento dei continenti, attraverso lo slittamento della crosta terrestre; un evento che cambiò per sempre i sistemi energetici solari e terrestri, alterando inoltre la posizione dei ley. La manciata di uomini e donne sopravvissuti al disastro si ritrovò senza rifugio né fonti di energie. Tutta la loro civiltà era basata sulla conoscenza e la comprensione di tali energie. Nel disperato tentativo di salvare il loro mondo, questi sopravvissuti trovarono la collocazione del nuovo centro energetico, qui sull'altopiano di Giza, e cominciarono a ricostruire la loro
civiltà, iniziando dalla loro sacra tecnologia: la Grande Piramide». Poimandres si voltò a guardare la piramide: la punta smussata riluceva nella luce artificiale. «Immaginate una sfera ricoperta di pelliccia, oppure i capelli su di una testa umana. Da qualche parte, sulla superficie della sfera o sulla testa, una singola fibra si erge diritta, e tutte le altre fibre sulla sfera si allineano ad essa. Lo stesso accade con il campo magnetico del pianeta». Rutherford pensò a Ivan Bezumov. "Il russo aveva ragione: proprio come sospettava il professor Kent". Poimandres si allontanò un attimo e scambiò qualche frase in arabo con l'autista, poi tornò da loro. «Ma qua fuori non siamo al sicuro. Dobbiamo scendere nel bir, che in arabo vuol dire pozzo. Soltanto laggiù potrò rivelarvi i segreti della piramide e spiegarvi perché il mondo è in pericolo. Seguitemi, prego». Nel buio, Poimandres li guidò sulla strada rialzata che si snodava verso est rispetto alla seconda piramide, quella di Chefren, per digradare poi lungo il pendio e raggiungere la Sfinge. C'erano ancora dei turisti in uscita e i guardiani stavano per iniziare la loro ronda notturna, per assicurarsi che nessuno stesse cercando di arrampicarsi ancora sulle piramidi. Seguirono il sentiero elevato che conduceva verso la fiancata della Sfinge. A metà strada circa, Poimandres si fermò. Disse qualcosa all'autista e poi, dopo essere saltato giù nella sabbia, invitò Catherine e Rutherford a seguirlo. L'autista rimase dov'era. "Probabilmente fa da sentinella", pensò Rutherford. Seguirono Poimandres sulla sabbia e con sommo stupore videro l'imboccatura di un tunnel che si apriva sotto le grandi lastre di pietra calcarea situate alla base del sentiero rialzato. A circa due metri di distanza, nel tunnel s'intravedeva una pesante inferriata. Poimandres rovistò nelle tasche del suo jellaba e ne estrasse un mazzo di grosse chiavi. Li invitò a infilarsi nel tunnel per portarsi fuori dalla vista dei turisti e dei guardiani di passaggio. Aprì il cancello e li fece entrare in quella che in realtà sembrava una piccola caverna. S'inchinò e accese una lampadina elettrica che mandava un fievole chiarore. In un angolo della caverna c'era un pozzo, nel quale si poteva scendere per mezzo di una scaletta di ferro lungo la parete interna. Poimandres richiuse il cancello alle loro spalle. «Vado avanti io... Voi seguitemi. E fate attenzione: è molto scivoloso».
Catherine e Rutherford si scambiarono un'occhiata perplessa. Quell'uomo voleva che lo seguissero nelle viscere della terra. Mentre Poimandres scompariva nel buio, Rutherford tirò un grosso sospiro. «Mancano soltanto cinque ore all'alba: ormai non possiamo più tornare indietro. Vuoi scendere tu per prima?». Catherine si fece coraggio e afferrò il primo piolo della scaletta. «Okay. Ci vediamo sul fondo». "Se c'è, un fondo", pensò Rutherford, mentre Catherine scompariva nel pozzo. 65 Il segretario Miller e le sue due guardie del corpo scesero dal camion nell'hangar dell'eliporto. Il segretario si spolverò il vestito. Tre uomini bianchi muscolosi con occhiali da sole avvolgenti, magliette nere e fucili d'assalto, ne sorvegliavano l'ingresso. Miller si sentiva fuori posto e vulnerabile, nel suo completo sgualcito e ancora impolverato. All'improvviso, si sentì pervadere da un senso di ferma determinazione. "Adesso o mai più", si disse. Il suo braccio destro si sollevò a sfiorare l'impugnatura della pistola che teneva nella fondina a spalla e poi, con un rapido cenno della testa alle guardie del corpo, oltrepassò la stretta apertura fra le due enormi ante d'alluminio ondulato dell'hangar dell'eliporto. Ma non appena i suoi occhi s'abituarono alla penombra dell'interno, capì di essere caduto in una trappola. Prima che potesse fare due passi avanti, sentì l'acciaio freddo della canna di una pistola premere contro la tempia. Un secondo più tardi, le luci nell'hangar si accesero, rivelando la spaventosa portata del suo fatale errore. Davanti a lui era schierata una dozzina di uomini armati di tutto punto e pronti a sparare. Il segretario Miller e le sue guardie non ebbero nemmeno il tempo di pensare. Una voce autoritaria intimò: «Okay, voi due là dietro, faccia a terra, subito!». Le due guardie del corpo del segretario si scambiarono un'occhiata terrorizzata e fecero com'era stato loro ordinato, mettendosi in posizione prona e allargando braccia e gambe sul pavimento in cemento. L'uomo che stava puntando la propria arma alla tempia del segretario gli infilò silenziosamente la mano sotto la giacca e gli tolse la pistola. Poi, pungolandolo alle costole con la canna di quest'ultima, lo spinse ad attraversare l'hangar per raggiungere una porta che si apriva solitaria nella pa-
rete di fondo. In preda a una terribile angoscia e al terrore più cupo, il segretario Miller cominciò a percorrere il lungo tratto. Nello spazio ampio e cavernoso erano custoditi una dozzina circa di elicotteri che proiettavano le loro ombre bizzarre sulle pareti, come dinosauri in un museo. Miller avanzava esitante, accompagnato dal ticchettio delle proprie suole, che echeggiava nel vasto ambiente. Non c'erano altri suoni, niente e nessuno sembrava muoversi oltre lui. A ogni passo sentiva accelerare il battito del proprio cuore: i suoi sensi erano acuiti al massimo. Che avrebbe fatto, ora? Che cosa avrebbe detto? Nell'oscurità che avvolgeva l'estremità del capannone, si aprì una fessura di luce sulla parete di fondo, che pian piano si tramutò nel perfetto rettangolo bianco di una porta aperta su uno spazio illuminato. Il segretario Miller accelerò il passo, ma quando fu più vicino alla porta, rallentò di nuovo. La luce proveniente da fuori era talmente vivida da accecarlo: era come affacciarsi su un universo parallelo. Sapeva di dover passare attraverso quella porta. Si guardò indietro, abbracciando con lo sguardo l'ambiente ampio e arioso e si sentì pervadere da una strana ondata di malinconia. Poi entrò nella luce che aveva davanti. Vide il tarmac della pista, le pallide dune sullo sfondo e lì, proprio davanti a lui, una sorta di strano velivolo. Era nero, grande all'incirca come un caccia bombardiere stealth, ma più arrotondato e più piatto, come un enorme pesce degli abissi evolutosi principalmente per resistere ai milioni di tonnellate di pressione delle fosse oceaniche. Il colore nero opaco, simile al velluto, sembrava assorbire tutta la luce sulla superficie: era bellissimo, davvero bellissimo. E tuttavia irradiava una potenza spaventosa. Dalla pancia del velivolo, una scala retrattile scendeva fino a terra e in fondo ad essa sostavano il senatore Kurtz e altri due uomini. Il segretario sentì il sangue gelarglisi nelle vene. Il senatore Kurtz, il volto duro e impassibile come la roccia, sollevò la mano destra armata di pistola e la puntò alla fronte del segretario. Colto dal panico, Miller balbettò: «No! Per favore, non c'è nessun motivo per farlo!». Senza battere ciglio, il senatore Kurtz premette il grilletto. La testa del segretario saltò letteralmente in aria, mentre il corpo si afflosciava a terra come quello di una bambola di pezza. Imperturbato, il senatore si avvicinò per constatare l'efficacia dell'esecuzione. Scrutò il volto sfigurato del segretario e scosse il capo.
«Riposa in pace, peccatore. Che Dio abbia pietà di te, nell'imminente Giorno del Giudizio». Poi fece dietrofront, reinserì la pistola nella fondina che portava appesa alla spalla e tornò lentamente verso lo strano aereo. 66 A dieci metri di profondità, la scala terminava su una sorta di piattaforma. Poimandres estrasse dalle tasche tre piccole torce elettriche. «Ecco... prendete queste. Più avanti sarà buio pesto». Catherine e Rutherford le infilarono in tasca. Dall'altra parte della piattaforma, un'altra scala scendeva ancor più in basso. C'era ancora abbastanza luce per capire che quei pozzi erano opera dell'uomo, e non delle fessure naturali createsi nella roccia. Rutherford sfiorò la parete con un dito. Era bagnata. "Quanto è antico questo pozzo?", si chiese. Poimandres era sparito sotto il bordo della piattaforma, inghiottito dall'oscurità. Catherine strinse forte con le mani il primo gradino della scala. Dentro di sé recitò una preghiera accorata. "Per favore, fa' che non rimaniamo prigionieri qui dentro!". Altri dieci metri più in basso, la scala finiva nell'angolo di una caverna umida, anche questa chiaramente scavata dall'uomo. Poimandres si affrettò ad accendere la sua torcia. La flebile luce che questa emanava bastava appena a rivelare le dimensioni dell'ambiente. Era grande circa dodici metri per sei, e il soffitto era alto tre metri o giù di lì. Quando gli occhi di Catherine si adattarono al buio, si accorse improvvisamente che c'erano due sarcofaghi di granito: uno su ogni lato della grotta buia. «E questi cosa ci fanno, qui?». Rutherford le si fece accanto. «Mio Dio! Dei sarcofaghi». Poimandres indicò l'angolo della claustrofobia camera. C'era una buca ancor più buia: un altro bir che scendeva a ulteriori profondità. «Non ci siamo ancora. Seguitemi». In silenzio, si avvicinarono alla tenebrosa imboccatura del pozzo. Poimandres spense la sua torcia, la infilò nella tasca del suo abito e poi, aggrappandosi alla scaletta, si calò all'interno di quel buco nero come l'inchiostro. Scuotendo il capo, Catherine lo seguì. Senza riuscire a capire be-
ne cosa stavano facendo, Rutherford diede un'ultima occhiata alla caverna, poi li seguì verso l'ignoto. Dodici metri più in basso, Rutherford atterrò in un ambiente spazioso. Catherine stava già guardandosi intorno affascinata, puntando la torcia in ogni direzione. La camera, anche se era difficile orientarsi bene in quel buio, contava all'incirca una ventina di metri quadrati. Il soffitto era basso e sulle pareti scorreva dell'acqua. Rutherford puntò il debole raggio della sua torcia al centro, dove vide quella che sembrava una piccola isola circondata da un fossato colmo d'acqua, ampio poco più di tre metri. Sull'isolotto scorse dei pezzi di roccia sparsi qua e là, come i resti di qualche antica struttura da tempo crollata o distrutta. Poimandres attese che i suoi due accompagnatori si orientassero un pochino, poi disse: «Questo è il fondo. O, per meglio dire, uno dei fondi. L'altopiano di Giza è crivellato di tunnel e camere come questa». Catherine non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Vuole dire che ci sono altre caverne così?» «Catherine... questo è niente. Ci sono caverne molto ampie, qui sotto. Camere gigantesche, contenenti intere biblioteche ridondanti di antiche conoscenze. La camera principale, la più importante, è la stanza della memoria: depositaria di tutta la scienza antecedente la grande alluvione». Rutherford era esterrefatto. Aveva trascorso tutta la vita a studiare miti e religioni antiche cercando di ricostruire il passato, e adesso era lì, diversi metri sottoterra, a sentirsi dire che i segreti della storia erano custoditi lì vicino. «Ma, Poimandres: perché questa stanza della memoria non è stata resa agibile al pubblico? Lei l'ha vista? Aziz l'ha vista?». Poimandres scosse solennemente il capo. «No. Potrei contare sulle dita della mano le persone che sono state autorizzate a visitare quella camera». Catherine non riusciva a capire. «Ma perché la cosa non viene resa pubblica? Perché Aziz non lo annuncia ufficialmente a tutto il mondo?». Poimandres assunse un'espressione severa. «Aziz sa soltanto di questa stanza in cui ci troviamo. Non è al corrente dell'esistenza di una stanza della memoria, il che va benissimo, altrimenti penso che cercherebbe di entrarvi per sigillarla o distruggerla... Aziz non vuole trovare altro. O per meglio dire, i suoi capi non vogliono che nessuno scopra altro. Hanno paura della piramide e dei segreti che racchiude.
Anzi, ne hanno un sacro terrore. Non vogliono far sapere a nessuno cosa c'è qui sotto, non vogliono che vengano fatte domande, e men che mai che vengano condotte delle ricerche in tal senso». Rutherford era sbigottito. «Ma... perché? E chi sono i capi di Aziz?» «C'è un'organizzazione chiamata Corporazione. Coloro che credono di controllarla sono a loro volta schiavi del potere. Pensano che assumendo il controllo sulle altre persone e sul mondo che li circonda, avranno la possibilità di fare del bene. Al fine di raggiungere tale scopo, sottometteranno tutta la Terra al loro dominio. A loro conviene che tutti noi continuiamo a credere alla versione ufficiale della storia». Poimandres s'interruppe e li scrutò con aria solenne. «Se si scoprisse la verità, l'intera visione del mondo della moderna umanità dovrebbe cambiare. Cosa ancor più importante, le convinzioni e i princìpi che sorreggono il mondo moderno, ossessionato dall'idea della crescita, apparirebbero per quel che sono in realtà: un pericoloso saccheggio a breve termine delle risorse della Terra, che non potrà che condurci a un altro cataclisma di dimensioni globali. Se la verità venisse fuori, l'opinione pubblica non sarebbe più in grado di tollerare la mentalità della "crescita ad ogni costo" e lo smisurato egoismo e l'enorme avidità che l'alimentano, conducendoci inesorabilmente alla rovina». Catherine era esterrefatta. Si voltò a guardare Rutherford. «Dev'essere stata questa Corporazione a far uccidere il professor Kent e Miguel Flores». Scosse il capo. Era una cosa troppo grande, per loro. Rutherford le mise una mano sulla spalla e tornò a rivolgersi a Poimandres: «Rimane incredibile che l'esistenza di queste caverne sotterranee e della camera della memoria non sia mai stata resa pubblica». Lo sguardo fermo del copto era in netto contrasto con le espressioni stupefatte dei due accademici. «Tutto quel che so è che Aziz e i biechi personaggi per cui lavora fanno di tutto perché nessuno scopra la verità sugli antichi». Rutherford era del tutto sconcertato. «Perché non volete che la gente sappia?» «Il sapere affidato all'uomo poco saggio è letale, come possiamo constatare da quello che accade nel mondo. La gente oggi non è preparata a tutto questo; non è abbastanza saggia, finirebbe soltanto per fare del male. Dobbiamo attendere che arrivi un tempo in cui non si finisca sempre per abusare del potere arrecato dalla conoscenza. Gli uomini della Corporazione, per quanto folli, sono comuni, nell'era attuale. Immaginate cosa tenterebbero
di fare, se s'impossessassero della scienza degli antichi. Dunque, come vedete, è nell'interesse di tutti, sia di Aziz che nostro, mantenere tutto sotto silenzio». Rutherford non riusciva a credere alle proprie orecchie. Un incommensurabile tesoro di saggezza e di scienza, il lascito culturale dei portatori di luce, era lì, alla portata di chiunque, eppure le sole persone che ne erano a conoscenza erano ben decise a fare in modo che non venisse mai trovato. «Ma... E se vi fosse realmente un altro cataclisma? Se il mondo andasse distrutto prima che i suoi abitanti siano pronti?» «Si tratta di un rischio che dobbiamo correre. Dopo di noi, nascerà un'altra civiltà, un nuovo mondo, proprio come il nostro è rinato dopo il cataclisma del diluvio universale. Possiamo soltanto sperare che il prossimo mondo si sviluppi in maniera più armoniosa e che i popoli futuri si rivelino eredi più degni dell'antica saggezza». Poimandres s'incamminò verso il bordo del fossato. «Venite. Andiamo sull'isola». Nel buio, non era possibile valutare la profondità dell'acqua nera e stagnante, ma Poimandres non ebbe esitazioni. Appoggiò il piede sulla superficie dell'acqua e invece di affondare, sembrò attraversarla camminandoci sopra. Cinque passi, e raggiunse l'isoletta. «Mettete i piedi dove li ho messi io. Un centimetro e mezzo sotto la superficie c'è un camminamento elevato, proprio dove sono appena passato». Catherine guardò Rutherford, poi si avvicinò all'acqua nel punto in cui l'aveva attraversata Poimandres. Trattenendo il fiato, allungò il piede destro. Non appena il suo scarponcino ruppe la superficie levigata dell'acqua, percepì la confortante presenza della pietra solida: proprio come aveva detto Poimandres. Ancora titubante, raggiunse l'isoletta. Rutherford strinse i denti e la seguì. Sull'isola, Poimandres aveva iniziato ad accendere candele. Fra i grandi blocchi di pietra sparsi lì intorno c'era anche una sorta di piccolo palco, sempre in pietra. Vi piazzò sopra sei candele, poi proseguì con le altre pietre, posandovi sopra candele dove possibile, finché i megaliti dell'isola non furono tutti punteggiati da fiammelle di luce giallastra. La luce tremolante gli illuminava il viso scarno con gli zigomi alti e sporgenti. Anche la fronte era dura e ossuta. Il suo volto sembrava stanco. In quella penombra appariva quasi disidratato, essiccato, simile a una mummia. «Faccio parte della Chiesa cristiana più antica del mondo: la Chiesa copta egiziana. L'evangelista San Marco arrivò ad Alessandria, sulla costa egi-
ziana, nel 45 d.C. e iniziò a predicare la parola di Cristo. Facciamo risalire il nostro cristianesimo direttamente a lui. Ma oltre a essere un cristiano copto, sono anche uno gnostico, un ricercatore della gnosi. Gnosis è la parola greca antica per "conoscenza"». Poimandres fece una breve pausa. «Noi gnostici siamo gli eredi delle ultime vestigia di una tradizione spirituale che affonda le sue radici in un'epoca precedente la grande alluvione. I progenitori degli architetti delle piramidi, arrivati a Giza moltissimo tempo fa, sapevano che le anime sono immortali e che noi non siamo altro che frammenti della coscienza universale. Siamo una sola cosa: gli esseri umani, le piante, la materia stessa in tutte le sue forme: tutto è compreso nel continuum spazio-temporale. Abbiamo ereditato questa conoscenza dagli antichi vissuti prima del diluvio e l'abbiamo nascosta all'interno dei Vangeli di Cristo. Il vero cristianesimo non è che una semplice continuazione dell'antica sapienza. San Marco era ovviamente uno gnostico, come del resto tutti i protocristiani. Tuttavia al giorno d'oggi la gente non se ne rende conto. Prende alla lettera i racconti dei Vangeli e legge altri libri che si professano cristiani, come le scritture di san Paolo. Ma san Paolo e gli altri scrittori successivi ai Vangeli non erano gnostici e nei loro libri non è contenuta l'antica saggezza. Il cristianesimo fu "sequestrato" dalla Chiesa. Nacque il clero, la verità venne oscurata e la conoscenza del messaggio originale andò perduta. Invece di essere portatrice di verità, la Chiesa divenne un veicolo di potere e repressione. E alla fine, nell'era moderna, la società occidentale tagliò i ponti con la Chiesa stessa. Tutto quel che rimane è la sete di potere e di controllo sugli esseri umani: il desiderio di schiavizzare i propri simili e la natura». Poimardres scosse il capo e proseguì: «Negli ultimi anni il mondo ha visto incombere un'ulteriore minaccia: la nascita di una Chiesa radicale, che predica la verità letterale della Bibbia. Questa Chiesa cerca di distruggere qualsiasi testimonianza che possa contraddire il racconto biblico della Creazione, comprese le prove dell'esistenza di un mondo precedente a questo. Ma quel che è peggio, sta cercando di trasformare in realtà le terrificanti visioni dell'Apocalisse. In questo stesso momento i suoi adepti stanno lavorando per portare a compimento l'Armagedon. Temiamo che riescano a infiltrarsi nella Corporazione, e in quel caso per noi sarà la fine, perché avranno accesso alle illimitate risorse finanziarie di quest'ultima, nonché al suo potere temporale. Questa nuova Chiesa è l'incarnazione definitiva del
rifiuto dell'antica saggezza: invece di abbracciare tutto il cosmo, considerando tutta la natura come un'unica cosa, essa ambisce alla distruzione dell'universo materiale, al fine di riunire i suoi seguaci con Dio. Non capisce che tutti noi siamo Dio». Il vecchio sospirò. «Noi gnostici siamo pacifici. Non imbracciamo le armi contro i nostri nemici: farlo andrebbe contro l'antica saggezza e contro gli insegnamenti di Cristo. La violenza non porta che ad altra violenza e il potere corrompe chiunque tenti di allearsi con esso o intenda servirsene per i propri scopi. Dunque noi non riveleremo mai a questa gente i segreti dell'antica saggezza, né diremo loro cosa si cela sotto le piramidi». Rutherford non riusciva a credere alle proprie orecchie. Conosceva gli gnostici e la loro antica tradizione, ma era convinto che questo movimento religioso fosse scomparso ormai da tempo. Poimandres continuò ad avvalorare la propria tesi: «Dopo l'ultima alluvione, i sopravvissuti si sparpagliarono per tutto il pianeta in bande isolate. L'umanità era stata decimata, ma non completamente sterminata. Gli antichi si stabilirono a Giza e in un numero limitato di altri luoghi del globo per ricostruire il loro mondo insieme ai superstiti delle varie popolazioni. Quando arrivarono qui, la terra era verde e fertile e la popolazione pacifica e ricettiva. Gli antichi portarono con sé conoscenze tecnologiche e agricole e, cosa più importante, l'antica saggezza della natura universale di Dio. Tale saggezza sopravvisse per diversi millenni, finché Pitagora, il padre della scienza occidentale, non visitò l'Egitto. Quando tornò in Grecia, vi trasferì tale saggezza, che divenne la base della scienza e della filosofia elleniche. Subito dopo, i nostri progenitori, i primi cristiani gnostici, desiderarono trasmettere la conoscenza della verità agli Ebrei, e così vennero redatti i Vangeli. Il figlio di un falegname di Nazareth, frutto di una gravidanza immacolata, fu presentato agli Ebrei come il simbolo di Osiride e Dioniso». Rutherford non riuscì a trattenersi oltre. «Cosa? Lei intende dire che Gesù Cristo non è che il simbolo di Dioniso e Osiride? Cioè... che non è mai esistito veramente?» «Sì e no. Era una persona vera, ma era anche una rappresentazione. Sono tutti rappresentazioni della stessa idea. Osiride morì e risorse, lo stesso fecero Dioniso e Gesù. Tutti e tre nacquero da madri vergini. Ebbero tutti dodici seguaci. Tutti nacquero sotto una stella. Tutti furono semidèi che si lasciarono perseguitare... Tutti morirono per i nostri peccati e risorsero, in modo che anche noi un giorno potessimo fare altrettanto... Tutti predicano
lo stesso credo: se qualcuno ti fa un torto, porgigli l'altra guancia, c'è un unico e solo Dio. Gli gnostici volevano trasmettere l'antica verità agli Ebrei, che languivano nella menzogna, adorando una divinità tribale. Ci hanno provato con la storia di Cristo. Volevano diffondere l'antica saggezza prima di essere distrutti». All'improvviso, Poimandres s'interruppe. «Ma basta così. Non abbiamo molto tempo. Devo mostrarvi i segreti della piramide. Soltanto attraverso la comprensione dell'armonia dei numeri si può capire l'armonia dell'universo. Laddove la moderna scienza occidentale vede nei numeri nient'altro che degli strumenti per esprimere la quantità, la civiltà precedente alla nostra li considerava invece componenti interdipendenti di un puzzle cosmologico». Unì le mani come in preghiera. «Una comprensione adeguata dei numeri e delle proporzioni può schiudere le porte delle leggi essenziali dell'universo. I numeri divini sono quelli che riemergono continuamente in diversi ambiti dell'esistenza: nella scala musicale, nello spettro elettromagnetico, nei moti delle stelle. Ogni sforzo compiuto dalla precedente civiltà si basava su e si riferiva a questi numeri e formule predominanti, e ovviamente erano proprio questi numeri e queste formule che si celavano nei testi sacri di tutto il mondo, attraverso l'uso dei codici gematrici». Mentre ascoltava rapita le spiegazioni fornite da Poimandres, Catherine sentì un ormai familiare fremito di eccitazione. «Analogamente, ogni edificio sacro dell'antichità veniva costruito in modo che le sue dimensioni avessero un significato in gematria. Persino nel progetto, un simile edificio poteva comunicare le divine proporzioni. L'arte della geometria non è stata inventata dai Greci: gli Egiziani la conoscevano già, l'avevano custodita dopo il crollo dell'antico ordine universale». Poimandres guardò verso l'alto: il copto sembrava irradiare tolleranza e saggezza. «Vi sono molti varchi nel passato. Sono nascosti, fuori dalla nostra portata, a meno che non si sappia cosa si sta cercando. La Grande Piramide è uno di questi varchi, di questi portali: è uno dei monumenti concreti che ci collega direttamente con la civiltà esistita prima del diluvio universale. Per comprenderne i segreti dobbiamo iniziare con l'oggetto fisico di per sé. Conoscete le dimensioni della Grande Piramide di Giza?». Catherine rispose subito: «Sì... penso di sì». Si rivolse a Rutherford:
«James?» «Sì, la lunghezza di ciascun lato è di 755 piedi, 230,124 metri, il che significa che il perimetro dell'intera piramide corrisponde a 3020 piedi, 920,496 metri. E l'altezza è di 480,5 piedi, 146,4564 metri, o 275 cubiti egiziani». «Esatto. E sapete anche qualcosa di gematria?». Di nuovo, Catherine si rivolse a Rutherford. «Sì, un poco». Poimandres rimase un attimo assorto, come per decidere da dove cominciare. «Ebbene, 755 - la lunghezza dei lati alla base - è il valore numerico di o petros: la pietra». Aggirò il piccolo palco e si avvicinò ai suoi due interlocutori, procedendo con cautela, come se temesse che la sua spiegazione, se troppo veloce, potesse confonderli ulteriormente. «Ora, Gesù diceva che il suo discepolo Pietro era la pietra su cui si sarebbe fondata la sua Chiesa: Petros, oltre che significare appunto pietra, è anche il nome greco di Pietro. Tenete presente che, come ho detto prima, noi gnostici non prendiamo il Nuovo Testamento alla lettera, come fa la maggior parte dei cristiani. Perché noi non abbiamo dimenticato che è stato scritto in codice gematrico: è un mezzo per tramandare l'antica conoscenza attraverso un racconto. Il racconto è quello della vita, della morte e della resurrezione di Gesù Cristo. Pietro, la pietra, è l'antica sapienza degli antichi, così com'è rappresentata dalla Grande Piramide di Giza. Gesù stava costruendo la sua Chiesa sull'antica saggezza, ed essa è proprio qui, per tutti coloro che sanno come vederla». Rutherford ascoltava affascinato. Era un'autorità mondiale in materia di miti e religioni, ma sentiva che Poimandres lo stava conducendo in acque del tutto inesplorate e che non si trattava certo di un giochetto accademico. Poimandres stava per rivelare segreti che erano stati gelosamente custoditi per millenni. 67 Poimandres riordinò le idee. «Come avrete certamente notato, alla Grande Piramide manca la punta. Gli ultimi cinque cubiti egiziani della struttura sono stati asportati tanto tempo fa, prima del declino definitivo del potere dell'antica saggezza. Sen-
za la sua punta, la piramide si ridusse all'attuale altezza di 275 cubiti egiziani. Si potrebbe anche dire cinque grandi cubiti, perché un grande cubito equivale a cinquantacinque cubiti egiziani. Ovviamente non è un caso: il cinque è il numero della creazione e della rigenerazione. La simmetria pentagonale è la chiave della vita. È la quintessenza: le cinque parti che compongono il tutto: terra, aria, fuoco, acqua più il quinto elemento, la scintilla divina che fa scaturire la vita dagli altri quattro. Il cinquantacinque è a sua volta un numero della piramide: l'entrata della Grande Piramide si trova naturalmente al cinquantacinquesimo livello di muratura». Catherine e James aspettavano, ammaliati da quanto Poimandres stava dicendo. «La punta che fu rimossa è di per sé un'altra piccola piramide. Come ho già detto, è alta cinque cubiti egiziani. Il dogma centrale degli antichi, o dei "portatori di luce", come li chiamate voi, era "Come il sopra, così il sotto". Le stesse regole che governano la crescita di una singola cellula umana governano anche i moti delle galassie». Iniziò a indietreggiare verso il palco di granito. «Questa seconda, piccola piramide rimossa dalla Grande Piramide aveva a sua volta una punta. E questa punta era la pietra Benben. Il suo volume corrisponde esattamente a cinque pollici cubi, 12,7 centimetri cubi: si può tenerla comodamente sul palmo della mano... Per migliaia e migliaia di anni, la gente si è chiesta cosa ne fosse stato della pietra Benben, avanzando innumerevoli ipotesi diverse su chi l'avesse trafugata, dove fosse nascosta, cosa fosse esattamente, e così via». Poimandres adesso volgeva loro la schiena e s'era appoggiato al palchetto. «Ed ecco qui la pietra Benben». Si voltò. Sul palmo della mano destra tesa era appoggiata una piccola, scintillante piramide dorata, alta pochi centimetri. Sulla punta c'era un cristallo che brillava alla luce delle candele, riflettendo su pareti e soffitto della stanza una miriade di piccole luci vibranti. Catherine e Rutherford trattennero il fiato dallo stupore e dalla meraviglia. Catherine non riusciva a capire di cosa fosse fatta. «Cosa c'è sulla punta?» «Un diamante. È il "granello di senape": kikkos sinapeos in greco. Che in gematria corrisponde al valore di 1746. Un cerchio con la circonferenza 1745 ha un diametro di 555. Ed eccoci di nuovo al numero cinque». Rutherford era rimasto a bocca aperta dallo stupore. Era senza parole.
L'intera struttura stava iniziando ad avere un senso perfetto, addirittura divino; i numeri sembravano scorrere verso l'alto e verso il basso in cascate di cosmica perfezione. Poimandres seguitò: «È anche la somma del sole, 666, e della luna, 1080. Come probabilmente saprete, gli alchimisti credevano che la vita fosse stata creata dalla fusione di zolfo e mercurio: lo zolfo rappresenta il sole e il mercurio la luna. Tutto, sulla nostra Terra, viene nutrito dal sole: ogni forma di vita, persino il moto rotatorio del pianeta, avviene attraverso l'attrazione del campo gravitazionale del sole. Mercurio, la scintilla divina, si combina con lo zolfo per generare la vita». Poimandres lanciò loro un'occhiata grave. «Il potere delle piramidi può essere impiegato come una forza benefica, ma se finisce nelle mani sbagliate può avere un enorme potenziale distruttivo. Nessuno che non sia stato adeguatamente addestrato e istruito e la cui anima non sia assolutamente pura dovrebbe avere la possibilità di usarlo. Ecco perché la punta della piramide fu asportata, durante il declino dell'antica saggezza. Gli antichi avevano avuto il sentore dell'imminenza di un'era oscura e si decise di rimuovere la pietra Benben e i cinque cubiti della punta, perché nessuno potesse riattivare la macchina». Rutherford pensò subito a Bezumov. «Allora è una macchina!». Il copto alzò la testa e fissò Rutherford: il suo volto era una maschera solenne. «Oh sì... La piramide è la più grande macchina che sia mai stata costruita. La sua forma è stata progettata proprio per accumulare l'energia dell'universo. La posizione della piramide era tale da permettere che l'energia terrestre venisse incanalata e immagazzinata, per poi essere smistata negli altri numerosi siti della Terra. Non appena la pietra Benben tornerà sulla punta della piramide, la macchina si riavvierà. L'energia che l'alimenta oggi è chiamata campo magnetico, e viene ancora molto sottovalutata, perché poco conosciuta». Poimandres si voltò e, con la massima delicatezza, appoggiò la pietra Benben sul palco di pietra. Sembrava generare una sua particolare luce interna... anche se ovviamente era impossibile. La sua immensa semplicità e l'immane potere attraevano Catherine in maniera irresistibile. «Al centro della Terra - nel suo nucleo - c'è una sfera di ferro delle dimensioni della luna. È sospesa in un fluido incandescente di metallo fuso, a sua volta circondato da uno strato di lava spesso migliaia di chilometri e
racchiuso nella litosfera. Questa enorme sfera di ferro al centro del nostro pianeta ruota leggermente più veloce della parte esterna del globo. Forse è questo che contribuisce a creare le energie magnetiche... Nessuno lo sa per certo; ormai questa nozione si è persa nel tempo. Gli antichi sapevano come immagazzinare e manipolare tali energie. Come avete visto, sapevano creare strutture enormi, sapevano scavare e scolpire materiali più duri del ferro, e sapevano controllare e correggere il moto orbitale del pianeta». Catherine stava pensando al messaggio segreto. «Poimandres... devo farle una domanda». «Dica pure». «Noi stavamo cercando di scoprire cosa avesse provocato l'ultimo cataclisma e anche un modo per scongiurarne un altro. Ora sappiamo che il cataclisma fu causato dallo slittamento totale della litosfera, e sappiamo che questo fenomeno era legato alla precessione e al moto orbitale della Terra. Ma non riusciamo a capire perché questo dovrebbe riaccadere». Poimandres annuì lentamente. Il suo volto saggio irradiava comprensione; le sorrise. «Avete fatto un lungo percorso. Posso aiutarvi a compiere gli ultimi passi. Avete ragione: il mondo moderno ha ricevuto un monito. Stiamo andando verso un'altra apocalisse. Ogni anno che passa, l'antica saggezza diminuisce, coloro che la comprendono sono sempre meno, mentre i suoi nemici si rafforzano. I capi della Corporazione sono sempre più potenti. La loro ossessione per il mondo materiale, per il soggiogamento della natura e la riduzione in schiavitù dei loro simili ci sta catapultando verso l'abisso. I loro macchinari e i loro sistemi stanno divorando la Terra; ogni giorno al grande rogo va ad aggiungersi un ulteriore pezzetto di natura. Stanno letteralmente mettendo a ferro e fuoco tutto il pianeta». Il suo volto era indicibilmente triste, quasi privo di speranza. «Quando gli uomini malvagi accesero i loro falò, le calotte glaciali iniziarono a sciogliersi. Più alimentano le infuocate fornaci della loro avidità, più s'innalza la temperatura del pianeta, accelerando la liquefazione dei grandi strati di ghiaccio che ne ricoprono i poli». Catherine annuì, come a incoraggiare il vecchio. Percepiva che avrebbe appreso il destino dell'umanità dalle labbra di quel piccolo copto. «La posizione della litosfera del nostro meraviglioso pianeta è determinata dalla distribuzione del peso sulla sua superficie. Benché la Terra sia una sfera, il peso non è equamente distribuito sulla superficie della sua crosta. Alcune zone sono di terraferma montuosa, e lì la litosfera è spessa e
pesante. In cima all'Antartico c'è una calotta di ghiaccio spessa un chilometro e mezzo e pesante miliardi di tonnellate. Questa genera un peso immane sulla cima del pianeta e aiuta a mantenere stabile la litosfera. Le forze centrifughe sono bilanciate da questo peso a anche da quello dei milioni di tonnellate di ghiaccio del Polo Nord. Per formarsi, questo ghiaccio ci ha messo diversi millenni e, se permettessimo alla natura di fare il suo corso, esso rimarrebbe al suo posto fin quando la precessione del globo non sposterà l'Antartico, avvicinandolo al sole; poi, dopo innumerevoli altri millenni, inizierebbe a sciogliersi. Preciso come un congegno a orologeria. È questo il messaggio segreto. Questo è quello che quegli antichi geni stanno cercando di dirci ed è una delle ragioni per cui hanno costruito la griglia globale: per influenzare la precessione e salvarci da un orrendo destino. Ma erano troppo pochi. Coloro che sopravvissero al fatale cataclisma della loro epoca non erano abbastanza. Nel giro di poche generazioni si estinsero, lasciandoci soltanto le rovine della loro tecnologia e il monito segreto all'interno dei loro miti». Catherine era sconcertata. «Ma ancora non capisco perché dovremmo essere in pericolo, oggi. La precessione ci metterà dei millenni per provocare un'altra inondazione. Potrà anche essere regolare, ma è pur sempre un processo lentissimo». Il vecchio copto le lanciò un'occhiata solenne. «Attualmente la Terra è equilibrata, la crosta è in una posizione adeguata alla corretta distribuzione del peso e il movimento è minimo. Tuttavia, se il ghiaccio si scioglierà e defluirà, come alla fine dell'ultima era glaciale, tutto quel peso colossale si ridistribuirà negli oceani. Alla fine, come al termine dell'ultima era glaciale appunto, la litosfera sarà costretta a riassestarsi perché la Terra possa continuare a ruotare su se stessa. A quel punto, tornerà a spostarsi, mettendo fine alla vita come la conosciamo ora. Quello a cui stiamo assistendo attualmente è l'innesco da parte dell'uomo di questo inevitabile processo. Non abbiamo bisogno di attendere il lentissimo effetto della precessione; siamo noi che stiamo sciogliendo il ghiaccio per nostro conto. Gli antichi non hanno potuto prevederlo. Non avrebbero mai potuto ipotizzare che saremmo stati noi stessi a provocare la nostra distruzione, e in maniera consapevole!». Catherine strabuzzò gli occhi, terrorizzata. Ma certo, ora tutto quadrava! «Poimandres, è troppo tardi? Possiamo ancora fermare questo processo?».
Ma prima che il vecchio potesse rispondere, ci fu un rumore improvviso, proveniente dal pozzo. Rumore di qualcuno che, cercando di non farsi sentire, si stava calando lungo la scaletta. 68 Dall'oscurità del pozzo emerse Ivan Bezumov, che disse sarcastico: «Scusatemi tanto... Vi ho forse disturbato?». Il completo bianco che indossava lo rendeva simile a uno spettro, nell'oscurità di quella stanza sotterranea. Bezumov infilò la mano nella tasca interna della giacca e, quando la estrasse di nuovo, Catherine vide che impugnava qualcosa. Il cuore le fece un balzo nel petto. «Bezumov... Cos'è quella?» «Questa, Catherine, è una pistola. Una Heckler & Koch, per l'esattezza». Il russo tolse la sicura con una certa disinvoltura. Catherine, Rutherford e il copto rimasero come paralizzati. «Ma cosa fa? È impazzito? Metta via quell'aggeggio». «No, Catherine. Non sono impazzito. E temo proprio che la pistola rimarrà dov'è. Voglio che vi allontaniate tutti dalla pietra Benben, indietreggiando verso il fondo dell'isola. Per favore, non fate gesti inconsulti, come dicono nei film. Non sareste i primi a cui sparo, e dubito che sarete anche gli ultimi». Allarmatissimo, Rutherford intervenne. «Perché sta facendo questo, Bezumov?». Stringendo il revolver nella mano destra con apparente noncuranza, Bezumov gettò indietro la testa e scoppiò in una risata di scherno. «Finalmente una domanda intelligente, dottor Rutherford. Mi stavo stancando della sua imbarazzante ignoranza in materia astronomica, sa? E ora lasci che le spieghi perché le sto puntando addosso questa pistola. È arrivato il momento di impartire una lezione ai grandi accademici di Oxford». Brandendo la pistola, li indusse a indietreggiare sulla parte posteriore dell'isolotto. «Lo sto facendo perché c'è un favoloso strumento scientifico che non aspetta che di essere riavviato». Sempre tenendoli sotto tiro, Bezumov si chinò e raccolse dei ciottoli. Tenendoli in mano, si avvicinò all'acqua e li sparse sulla superficie. Quelli che finirono sul passaggio rimasero parzialmente visibili. Bezumov iniziò la traversata del fossato.
«Questa macchina è il prodotto tecnologico più importante che l'umanità abbia creato. Il suo progetto è talmente ingegnoso e sofisticato da riuscire a governare il moto terrestre intorno al sole, finalizzando le energie così imbrigliate alla protezione del pianeta stesso. Le nostre più moderne concezioni di ricavo energetico, al confronto, sono incredibilmente rozze e primitive. Lei ha ragione, Catherine, questa macchina è un monumento alla precessione, ma è stata progettata anche per controllare la mola del mulino. Le energie della rotazione terrestre possono essere dominate e sfruttate». Ormai era a pochi passi da loro. Catherine riusciva a vederne gli occhi. Sembravano quasi privi d'espressione, come se Bezumov avesse innescato il pilota automatico. Era consumato dai propri pensieri, profondamente immerso in essi. Eppure stava mostrando loro il suo ghigno di scherno e trionfo. «Finalmente ho la pietra Benben; la rimetterò sulla cima della Grande Piramide e le correnti invisibili che aleggiano incessantemente intorno al globo terracqueo saranno di nuovo imbrigliate dall'uomo». Pistola o non pistola, Catherine non riuscì più a trattenersi. «No! Bezumov, lei sta commettendo un terribile errore. Gli antichi hanno rimosso la pietra Benben per una ragione ben precisa. Lei non sa cosa sta facendo!». Bezumov l'ignorò e fece un passo in direzione del copto. «Signor Poimandres, mille grazie per la bella lezione; l'ho trovata molto interessante, ma non ha fatto che confermare tutte le mie teorie e il mio lavoro. E ora, se non le spiace, la prego di consegnarmi la pietra». Con un sorriso folle, il russo fece un altro passo avanti. «Stavo iniziando a preoccuparmi di non riuscire a trovarla in tempo». Poimandres si strinse la pietra al petto. «Mai! Dovrà passare sul mio corpo...». Sollevando la mano destra e mirando con estrema calma al petto del copto, il russo rispose: «Immaginavo che lo avrebbe detto. Se proprio insiste...». Quando partì lo sparo nello spazio ristretto della camera sotterranea, il rimbombo fu tale che Catherine credette che le si fossero sfondati i timpani. Istintivamente, si accovacciò coprendosi le orecchie. Quando riprese i sensi e aprì gli occhi, un secondo più tardi, vide che Rutherford aveva adottato il suo stesso sistema: era mezzo accovacciato e mezzo pronto a balzare via. Nell'angolo, era riverso il corpo di Poimandres; non riuscì a
capire se respirava ancora. Bezumov gli aveva sparato da molto vicino e c'era da temere che fosse morto. Sentì il proprio corpo fremere di rabbia. Com'era accaduto col professore, tutto il suo sapere era stato annientato da un singolo atto di folle violenza. Il puzzo di cordite le irritava le narici. Le lacrime presero a scorrerle lungo le guance e digrignò i denti per costringersi a non saltare addosso a quel maledetto russo. Quando Bezumov tornò a parlare, la sua voce era ferma. «Voi due rimanete dove siete. Non vorrei essere costretto a farvi del male». Catherine sentiva uno strano scampanio nelle orecchie; guardò il cumulo informe che era il corpo di Poimandres. Sul pavimento di pietra c'era del sangue. Per Poimandres, per il professore e tutti i detentori della saggezza degli antichi, ultimi baluardi contro la follia rappresentata da Bezumov e dall'ancor più inquietante Corporazione, doveva fare qualcosa. «Bezumov... quel che sta facendo è pura follia», disse, con la voce che le tremava per l'emozione e la paura. «Sciocchezze! Io sono l'unica persona adatta a impugnare il timone del pianeta e pilotarlo verso la salvezza. Soltanto io comprendo la grande macchina. Se non riuscirò nel mio intento, la Terra verrà distrutta». Bezumov soppesò la pietra con la mano. Gli brillavano gli occhi e il suo volto emanava un'energia folle. Il tono di voce era grave e profondo; parlava quasi in un sussurro: «Per cinquemila anni abbiamo vissuto in un'era planetaria tranquilla, dal punto di vista ambientale. Ma si tratta di un'aberrazione. Molto presto la Terra tornerà ad essere il luogo violento che è sempre stata e noi verremo cancellati dalla sua superficie. Potete immaginare cosa accadrà all'eruzione di un super-vulcano, come ormai è probabile che avvenga da un momento all'altro? Un evento consueto, nella vita del nostro pianeta... Quel che è certo è che accadrà di nuovo. E quando succederà, le luci si spegneranno. Cenere e detriti riempiranno il cielo - è già successo in passato - e il sole verrà oscurato. Non ci saranno più raccolti, la civiltà industriale crollerà in pochissimo tempo e su tutto regnerà il caos assoluto. Avete dei dubbi su questo scenario futuro? Vorreste davvero darmi torto? La storia del passato è anche la storia del futuro. Persino il signor Poimandres mi avrebbe dato ragione, a questo proposito. Esistono sia gli eventi del passato che quelli del futuro. Né gli uni né gli altri possono essere evitati, a meno che io non riaccenda quella macchina, guidando l'umanità verso la salvezza». Catherine lo guardò inorridita: quelle orrende premonizioni potevano
anche essere vere, ma le sue erano le parole di un pazzo. Bisognava fermarlo a tutti i costi. «Non è così. Distruggerà ogni cosa!». Bezumov sorrise e i suoi denti scintillarono nella penombra; sembrava sicuro di sé. «Non ho intenzione di starmene qui a discutere come un pedante accademico. Ho troppe cose da fare». Detto questo, si voltò e riattraversò il fossato. Come un fantasma, scivolò nel buio fino alla scala del pozzo, dove si fermò a dir loro un'ultima cosa: «Non cercate di seguirmi. Se vi vedrò salire la scala dietro di me, non esiterò a spararvi. Chiuderò la botola in cima. Non temete, non soffocherete, e forse in seguito verrete anche liberati, prima di morire di fame e di sete! Arrivederci». E con un ultimo lampo della sua torcia, sparì nel pozzo. 69 Catherine si precipitò accanto a Poimandres. Giaceva supino, accanto al piccolo palco di pietra. Con la mano destra stringeva un lembo del suo jellaba bianco intriso di sangue, mentre il braccio sinistro era abbandonato lungo il fianco. Catherine si accovacciò al suo fianco e gli sfiorò una guancia; poi gli tastò il polso. «James... è ancora vivo!». Rutherford era in piedi accanto a loro. «Dobbiamo portarlo immediatamente da un medico. Vedo se riesco a uscire di qui». Catherine si voltò a guardarlo. «Non puoi. Hai sentito cos'ha detto Bezumov». Rutherford sembrava disperato. «Che altro possiamo fare? Non possiamo restarcene qui a far niente mentre Poimandres muore e Bezumov riattiva la macchina». Catherine guardò l'orologio che aveva al polso. «Manca soltanto un'ora all'alba». Catherine si alzò in piedi, abbandonando le braccia lungo i fianchi, indecisa sul da farsi. Scuotendo la testa da una parte all'altra, disse in fretta: «Okay, okay; provaci pure... Ma James, ti prego, fai attenzione. Non posso credere che siamo arrivati a questo punto; solo l'aver consegnato la pietra Benben a Bezumov è...». Rutherford si voltò, attraversò il fossato spruzzando acqua dappertutto e
si arrampicò velocemente lungo la scaletta. Intanto Catherine s'era chinata su Poimandres, aveva sollevato la testa del ferito e se l'era appoggiata sulle ginocchia. Parlo con delicatezza al copto privo di sensi: «Per favore, non perda la speranza, Poimandres... Deve farcela... Resista...». Ivan Bezumov sbucò dalla cima della scala, emergendo nella grotta sotto la strada rialzata. Dopo il buio pesto delle caverne sotterranee, la luce stellare che filtrava in quell'ambiente era un vero sollievo. Anche senza accendere la torcia, il russo riusciva a distinguere la sagoma del corpo dell'autista, prona sul terreno. Bezumov si spolverò l'abito bianco e chiuse bene la botola d'acciaio che copriva il pozzo. Infilò il pesante lucchetto nel chiavistello e lo fece scattare. Scavalcò l'autista, scivolò fuori dal cancello e se lo richiuse alle spalle. S'era alzato il vento... si stava preparando un temporale. Fitte nuvole di sabbia iniziavano a inseguirsi l'un l'altra sull'altopiano di Giza, mentre in lontananza il cielo plumbeo sembrava ribollire e le antiche piane desertiche rimbombavano di tuoni. Nel giro di pochi secondi, Bezumov si ritrovò a camminare di buon passo lungo la strada rialzata, in direzione della Grande Piramide: suo unico compagno, l'ululato da iena del freddo vento del deserto. 70 Rutherford riapparve alla base della scaletta e riattraversò il fossato con il sudore che gli colava sulla fronte. Senza fiato, ansimò: «È chiuso... Non so proprio cosa possiamo fare». Catherine stava inumidendo la fronte di Poimandres con un fazzoletto bagnato in quella fresca fonte sotterranea. Sembrò che il vecchio socchiudesse un pochino gli occhi. Subito, Catherine cercò di parlargli: «Poimandres! Forza! La tireremo fuori di qui». Lanciò un'occhiata disperata a Rutherford, che stava osservando inorridito il copto in agonia. Continuando a detergergli la fronte, Catherine si rivolse al suo paziente in tono calmo e controllato, cercando in tutti i modi di nascondere la paura e l'agitazione che minacciavano di farle perdere la testa. «Poimandres... Esiste un'altra via d'uscita da questo posto? Un'uscita segreta?». Lui aprì e richiuse la bocca, poi, con uno sforzo sovrumano, disse: «Nell'acqua...». Rutherford s'inginocchiò accanto al vecchio. «Dove?».
Poimandres emise un gemito sommesso, poi parlò di nuovo, in un mormorio quasi impercettibile. Catherine si chinò su di lui per udire meglio. «C'è un tunnel nascosto, nell'acqua, dietro il palco. Percorretelo... a nuoto... Emergerete nelle camere sacre. Prendete il cunicolo di destra, conduce all'esterno per un'altra via. Evitate in ogni modo di proseguire fino alla stanza della memoria. E se oggi sopravvivrete a tutto questo, non dite mai a nessuno ciò che avete visto. Per favore... dovete promettermelo... Voi dovete...». Poi chiuse gli occhi. Rutherford era di nuovo in piedi. Osservò la sua torcia, la luce stava affievolendosi in fretta. Aggirò il piccolo palco e si fermò sul bordo del fossato nero. Era largo circa tre metri e mezzo e dall'altro lato c'era la solida roccia della parete, che si ergeva irregolare fino al soffitto. L'acqua sembrava petrolio: impossibile capire quanto fosse profonda o cosa ci fosse sotto la superficie. Catherine appoggiò la testa del ferito su un jellaba arrotolato e si alzò in piedi. Mentre spostava il vecchio, gli sussurrò solennemente: «Sì, Poimandres, glielo prometto. Ma lei cerchi di resistere...». Rutherford camminava su e giù impugnando la torcia, nel disperato tentativo di illuminare qualcosa sotto la superficie dell'acqua e capire dove fosse il tunnel. Catherine gli si affiancò. «Vedi niente?» «Assolutamente nulla. È inutile». Catherine guardò prima Poimandres, poi l'acqua. «Non abbiamo scelta: dobbiamo trovare il passaggio segreto o rimarremo prigionieri qui sotto. E Bezumov riuscirà nel suo folle intento, mentre Poimandres morirà». Sorreggendosi al braccio di James, si tolse le scarpe ed entrò in acqua. Il fondo era fortemente digradante. Si sedette sul bordo del fossato e si calò in esso con tutto il corpo. L'acqua era gelida e di un nero assoluto. Mentre quella coltre ghiacciata l'avvolgeva, ebbe la sensazione che ogni fibra del suo corpo fosse attraversata da una scarica elettrica. Annaspando, cominciò a muovere i piedi per mantenersi a galla. Si aggrappò al bordo, alzò gli occhi a guardare James e trattenne il respiro. «Vieni?». Senza risponderle, lui si sfilò le scarpe e scese nell'acqua gelata: spalancò gli occhi, scioccato. «Okay... E adesso vediamo cosa c'è qua sotto...». Rutherford riempì d'aria i polmoni e scomparve sotto la superficie. Non
c'erano che tenebre totali, silenzio e freddo. Si diede una spinta verso il fondo e un attimo dopo toccò la parete di roccia sull'altro lato. Tastò all'intorno con le mani. La parete era scabrosa e piena di irregolarità. Stava per iniziare a mancargli l'ossigeno e rimanere sul fondo diventava sempre più difficile. Annaspò alla cieca, ormai quasi rassegnato, quand'ecco che lo trovò. Sotto di lui, sulla destra, c'era una rientranza che proseguiva in un tunnel. Ne tastò i contorni: era ampio, circa un metro di larghezza. Abbastanza per passarci agevolmente. Esalando il fiato in risalita, emerse violentemente in superficie. «L'ho trovato! Poimandres aveva ragione, il tunnel esiste». Si avvicinò a Catherine, che tremava tutta. «Andrò io per primo. Tu seguimi. Se senti che non ce la fai col fiato, torna indietro». Fecero entrambi un respiro profondo, poi s'immersero a testa in giù nell'acqua gelida, in un mondo buio e silenzioso. Rutherford ritrovò subito il tunnel. Accertandosi di nuovo della sua posizione, esitò soltanto un attimo, poi s'introdusse in quel cunicolo verso l'ignoto. Tre vigorose bracciate dopo, stava ancora nuotando, ma i polmoni iniziavano a bruciargli. Catherine, nuotatrice provetta, era alle sue calcagna. Percepiva i vortici provocati dai piedi del suo compagno d'avventure. Cercò di mantenere la calma. Un'altra bracciata, poi un'altra ancora. Stava già lasciandosi prendere dal panico, quando all'improvviso, Rutherford riuscì a vedere le proprie mani davanti al viso: c'era luce! Si spinse verso la superficie, sollevato, seguito a ruota da Catherine. Respirando a pieni polmoni, emersero entrambi agitando le braccia, annaspando, incapaci di comprendere dove si trovassero. «Che posto è questo?», ansimò Rutherford. Erano emersi in una stretta vasca piena d'acqua, di un paio di metri quadri di ampiezza. I lati erano di granito liscio e arrotondato. Intorno a loro si apriva una stanzetta grande circa due volte la vasca stessa e col soffitto alto un metro e mezzo. Due gradini perfettamente scolpiti conducevano fuori dalla vasca, verso una porticina che dava su di un tunnel piuttosto buio. Le pareti della stanzetta erano lisce - perfettamente levigate - come quelle della camera del re. Erano decorate con geroglifici dorati, che rilucevano flebilmente nella penombra. Anche il soffitto riluceva: era costellato di migliaia di puntini luminosi. Catherine rimase interdetta di fronte a tanta bellezza.
«Incredibile! Sono stelle! Guarda, sul soffitto è riprodotta la costellazione di Orione». Rutherford si issò sui gradini, poi aiutò Catherine a uscire dall'acqua. Rimasero per un minuto intero come incantati, a rimirare quegli effetti di luce. Affascinato, Rutherford parlò per primo: «Questi geroglifici, non li avevo mai visti... neanche uno... Sono tutti simboli sconosciuti. Pensa cosa direbbe il resto del mondo... Immagina cosa significa tutto questo...». Catherine stava guardando il corridoio scuro che c'era oltre la porta. «Dove pensi che conduca?». Superarono entrambi la soglia e scrutarono nel buio. «Non ne ho la più pallida idea: è una cosa davvero incredibile...». Rutherford non riusciva a staccare gli occhi dalle splendide decorazioni sulle pareti. Catherine uscì nel corridoio. Non era buio come sembrava: anche qui l'illuminazione, sia pure molto debole, proveniva da miriadi di stelle sul soffitto. Col cuore che le batteva forte, iniziò a esplorare il cunicolo. Dopo un'ultima occhiata a quella splendida raccolta di simboli sconosciuti, Rutherford si decise a seguirla. Quando Bezumov raggiunse lo strato più basso di muratura, sul lato sud della Grande Piramide, sull'altopiano di Giza si udì rimbombare il primo sparo. Sentiva delle grida portate dal vento: non in arabo, ma in inglese. Qualcuno doveva averlo visto. Strinse al petto la pietra Benben, e con la mano libera si issò sul primo gradino. Si sentiva come un lillipuziano nella terra dei giganti. Gli enormi blocchi di granito da dieci tonnellate gli arrivavano praticamente alle spalle. Si voltò verso la piana desertica, con la schiena premuta contro la mole delle grossa pietra del secondo strato. Non c'era nessuno in giro: a chi avevano sparato? E dov'erano adesso? All'improvviso, su in alto nel cielo notturno, proprio accanto alla cima della piramide, ci fu un lampo, che esplose come un fuoco d'artificio in una luce bianca fosforescente. "Dunque non mi hanno ancora visto...". Con la massima cautela, si girò sull'angusta sporgenza, allungò di nuovo il braccio e salì al livello successivo. Il bagliore che dal cielo aveva momentaneamente illuminato tutto il lato sud, fu colto dal vento e trascinato a velocità incredibile verso il deserto. Bezumov era di nuovo immerso nelle
tenebre. Si arrampicò freneticamente, compiendo un enorme sforzo per ogni livello che superava. I minuti trascorrevano veloci; ci fu un altro lampo. Si appiattì contro la roccia, tentando come poteva di rimanere invisibile. Era a metà della salita. Il panorama, da lì, mozzava il fiato. Riuscì a scorgere alcune sagome che correvano verso la base della piramide. Anche il secondo lampo fu allontanato dal vento, che sollevava anche nugoli di sabbia dalle dune, trasformandoli in mulinelli simili a nuvole in tempesta. Sapevano che era lì? Lo avevano visto? Tornò a girarsi verso la fredda roccia e proseguì nella sua scalata. Non era possibile nascondersi: doveva resistere e andare avanti. I blocchi di granito erano più piccoli, lassù in alto, il che era un vero sollievo. Accelerò il ritmo della salita. D'improvviso, con suo sommo spavento, vide passare sul braccio destro il raggio di luce di una torcia. La luce proseguì, illuminando la facciata della piramide e spostandosi qua e là, come uno spettro giallastro e titubante, un piccolo cerchio danzante di luce. Non mancava molto, ormai, alla cima della piramide. Guardando di sotto, Bezumov distingueva quattro uomini in piedi accanto alla base della facciata sud, uno dei quali teneva in mano la torcia. Il russo guardò a destra e a sinistra, disperato. Era quasi arrivato alla sommità e l'angolo tra la facciata meridionale e quella occidentale, alla sua sinistra, distava solo una decina di metri. Appiattendosi ancor più contro la pietra, iniziò a muoversi cautamente lungo lo stretto gradino del livello a cui si trovava. La luce della torcia aleggiava intorno a lui, cercando, scandagliando. Mancavano solo un paio di metri, ormai. Poi il raggio giallastro si bloccò proprio su di lui... facendolo risaltare nel buio, illuminandogli il torace e la testa, come un angelo nella notte. Sentì subito sparare, poi le pallottole iniziarono a conficcarsi nella pietra attorno al suo corpo, colpendo il granito con un rumore fra lo stridore e lo scoppio. Strisciò disperatamente verso l'angolo, perdendo quasi la presa sulla roccia; poi, con uno slancio disperato, aggirò lo spigolo, ritrovandosi sul lato occidentale. I suoi nemici si affrettarono a loro volta a svoltare l'angolo alla base della piramide. Aveva pochi secondi per agire. Guardò in alto: non c'era modo di andare oltre. Con cautela, appoggiò la pietra Benben sul gradino di sopra, poi estrasse la sua pistola e, sfruttando tutta l'abilità acquisita in anni e anni di addestramento militare, cominciò metodicamente a sparare.
71 Mano nella mano, Catherine e Rutherford avanzavano cautamente lungo il cunicolo, immerso nell'oscurità fitta di mistero. Era impossibile sapere o anche solo immaginare per quanto tempo quel passaggio era rimasto lì, senza che nessuno lo scoprisse. Né vi erano indicazioni di sorta su quando fosse stato costruito, a parte il fatto che la sua superlativa fattura poteva considerarsi tecnicamente paragonabile a quella della camera interna della Grande Piramide. Con occhi pieni di stupore - riusciva a malapena a trattenere la propria meraviglia - Rutherford sussurrò: «Catherine... è questo! Questo è il segreto delle nostre origini: il genere umano ha davvero avuto un passato glorioso che non conosciamo. È effettivamente esistito un mondo precedente a questo. E questo è il suo ultimo monumento». Catherine, con la bocca aperta dallo stupore, si sforzava di penetrare il buio con lo sguardo. «Guarda! C'è un altro tunnel!». E di fatto, una quindicina di metri più avanti, il passaggio si diramava in una T. Il secondo tunnel era stato realizzato con le stesse lastre di granito perfettamente combacianti. Fra un blocco e l'altro, le fessure non erano più larghe di un capello e le superfici delle pareti - nonché i soffitti stellati erano stati lucidati a specchio. Verso destra, il tunnel scendeva, sembrava restringersi e poi scompariva nel buio. A sinistra invece saliva impercettibilmente e trenta-quaranta metri più avanti veniva inondato di luce calda e dorata, che esercitava una forte attrazione per il suo effetto confortante. Rutherford lasciò andare la mano di Catherine, ammaliato dalla bellezza della strana luce, che sembrava chiamarlo. «Mio Dio... Non ho mai visto nulla del genere...». Catherine gli si avvicinò; il suo volto era acceso da quel riverbero dorato. «Ma che cos'è? Cosa ci sarà laggiù?». Si scambiarono un'occhiata, poi Catherine afferrò la mano di Rutherford e la strinse forte. «Ricorda quel che ha detto Poimandres: ci ha raccomandato di prendere la via di destra». Rutherford la fissò con occhi vuoti, che sembravano non capire quel che stava dicendo. «Dobbiamo andarci... Dobbiamo vedere cosa c'è. Non possiamo perdere
quest'occasione». Catherine era combattuta: anche lei si sentiva attratta dalla luce dorata, ma la sua coscienza le ricordava le parole di Poimandres e la promessa che gli aveva fatto. Iniziarono ad avanzare lungo il corridoio: era impossibile distogliere lo sguardo dalla luce e, a quanto pareva, era impossibile anche voltarsi e tornare indietro. Mentre si avvicinavano alla fonte di luce, il corridoio sfociò improvvisamente in un panorama inimmaginabile: davanti, sotto e sopra di loro si apriva un ambiente enorme, delle dimensioni di una cattedrale, lungo centinaia di metri. Mai, nemmeno nelle più ardite fantasie, si sarebbero aspettati una cosa simile, a quelle profondità. Il corridoio li aveva condotti a una cengia di roccia granitica situata più o meno a metà dei circa ottanta metri d'altezza delle pareti della sala; si affacciarono sul precipizio, attoniti. Sotto di loro, più di trenta piramidi si ergevano dal suolo; le punte arrivavano a metà altezza dal soffitto, e ognuna era rivestita di lucida pietra bianca, mentre la punta era di metallo, anch'esso bianco. Una luce diafana, di un blu elettrico, balenava ritmicamente da una punta all'altra, muovendosi come una lingua di fuoco ultraterreno. L'intera struttura emetteva un sommesso ronzio, e mentre la lingua di luce blu alta una ventina di metri scorreva lentamente attraverso l'ambiente, saltando da una punta all'altra delle piramidi, emetteva un rumore scoppiettante, come legna secca che brucia nel caminetto. Catherine osservò tutto quanto, inorridita e affascinata al tempo stesso. «Che diavolo è mai questo posto?». Parimenti attratto e spaventato dalla visione ultraterrena che aveva davanti, Rutherford rispose: «Non ne ho la più pallida idea. Ma penso che ci troviamo davanti a una forma di tecnologia naturale, che va molto al di là della nostra comprensione». Era proprio così. E mentre Catherine contemplava sbalordita lo straordinario panorama che le si presentava sotto gli occhi, non poté fare a meno di pensare che quello dovesse essere il cuore, il nucleo centrale della macchina. La cengia sulla quale erano sbucati si estendeva lungo tutto il perimetro della sala. A intervalli regolari, delle rampe di scalini conducevano in basso, a livello del pavimento, e ogni quindici metri circa, sulla cengia, altri corridoi simili a quello attraverso il quale erano sbucati scomparivano all'interno della roccia. Rutherford aveva gli occhi fuori dalle orbite. Si voltò di scatto verso Catherine. «Dobbiamo andare avanti... Guarda!».
Col braccio teso indicò l'altra estremità della grande sala, rispetto a dove si trovavano loro. C'era un grosso portone inondato di luce. La luce s'irradiava dall'apertura e sopra la grande porta, in grossi caratteri geroglifici scintillanti, campeggiava un antico quanto incomprensibile messaggio. «La stanza della memoria!». Rutherford faticava a trattenere l'entusiasmo. «Dev'essere quella! Lo sento. Passiamo di qui... Possiamo percorrere la cengia: su, avanti!». Catherine lo fissò inorridita. «No, James, dobbiamo tornare indietro. L'ho promesso a Poimandres, che potrebbe anche essere morto, in questo momento! E poi dobbiamo fermare Bezumov: è questo ciò di cui stava parlando; questa è la macchina che vuole rimettere in funzione. Probabilmente non si rende conto di quello che sta per fare, delle terribili implicazioni che ha questa faccenda. Dobbiamo fermarlo, e subito!». Rutherford la guardò disperato. Indicò con la mano aperta l'ampio spazio sotto di loro. «Ma... Non possiamo andarcene così...». Catherine gli afferrò entrambe le mani e lo guardò dritto negli occhi, come per sottrarlo alla malìa che la macchina esercitava su di lui. In tono pacato, gli disse: «Potremo tornare. La macchina sarà ancora qui. Ora abbiamo un compito da svolgere nel mondo attuale; del mondo che fu ci occuperemo a tempo debito. Vieni, dobbiamo andarcene, prima che sia troppo tardi!». Rutherford rivolse un ultimo sguardo alla grande sala, poi i suoi occhi tornarono a posarsi sul portone con la scritta scintillante. Scosse la testa e rivolse lo sguardo a terra. «Tutto questo sta accadendo davvero, Catherine? Non è un sogno, vero?». Catherine lo guardò, poi tornò ad ammirare lo stupendo spettacolo che era davanti ai loro occhi, nelle profondità dell'altopiano di Giza. «No, non stiamo sognando. Ora sappiamo che è esistita un'altra civiltà dalla straordinaria tecnologia... e che è stata distrutta, proprio come accadrà alla nostra». Rialzò lo sguardo su di lui. «James... non c'è tempo da perdere. Non abbiamo alcun bisogno di vedere la stanza della memoria. Sappiamo già tutto quello che c'è da sapere... Non capisci? Non ci sono più segreti. Dobbiamo fermare Bezumov e la Corporazione e dobbiamo cambiare lo stile di vita della gente. È quello che sosteneva sempre il professor Kent. Ma non voglio che Poimandres muoia solo e abbandonato, com'è
successo al professore. Voglio salvarlo, costi quel che costi. Al mondo sono rimaste troppo poche persone come lui, e noi abbiamo un disperato bisogno di loro». Rutherford l'ascoltò in silenzio, poi, voltandosi a guardarla, annuì lentamente. «Hai ragione, Catherine». Lei si sollevò sulle punte dei piedi e lo baciò sulla guancia, poi si voltò e, prendendolo per mano, lo trascinò dietro di sé nel tunnel dal quale erano arrivati. Rifecero di corsa il tratto fino al bivio, superando il tunnel che portava alla stanzetta con la vasca e imboccando quello che andava verso destra, come aveva detto loro Poimandres. A ogni passo, il cunicolo si faceva più buio. Poi iniziò a svoltare verso destra e ben presto la curva fu talmente marcata da impedir loro di vedere ancora lo sbocco che portava alla grande sala con le piramidi. Finalmente, dopo un'altra sessantina di metri, la muratura delle pareti cambiò. Il granito lucido dalla lavorazione perfetta fu sostituito da roccia ruvida e grezza e il soffitto si abbassò di circa un metro, costringendoli a chinarsi. Dopo un altro centinaio di metri, il corridoio s'interruppe bruscamente davanti a un mucchio di ghiaia e sabbia penetrato da una grossa crepa orizzontale nella roccia, dell'ampiezza di una sessantina di centimetri. Rutherford la osservò scoraggiato. «C'è stato un crollo. E adesso come facciamo a uscire?». Catherine s'arrampicò sul cumulo di detriti e raggiunse la crepa. «Strisciando». Si issò verso l'alto e s'introdusse nella fessura nella roccia. Era come infilare la testa nelle fauci di un leone, perché il muro poteva crollare in qualsiasi momento. Cercando di non pensare a quell'ipotesi catastrofica, Catherine iniziò a strisciare sulla pancia, dandosi la spinta con le mani. Poteva sentire Rutherford fare altrettanto dietro di lei. Dopo una decina di metri di questa faticosa avanzata, col sudore che le colava dalla fronte, si ritrovò bloccata dalla sabbia. Cominciò a scavare freneticamente, in preda a una furia cieca per quell'ennesimo ostacolo alla loro libertà. "Non può finire così; non qui, non adesso, per favore...". Lottò e scavò come un'ossessa, senza mai perdersi d'animo, e all'improvviso, la sentì: l'aria fresca della notte che spazzava l'altopiano. Uno sbuffo di sabbia finissima le colpì la faccia, ma la sensazione dell'aria contro il viso sovrastava ogni altra cosa. Continuò a scavare febbrilmente, come una talpa, usando le mani come palette. E alla fine sbucò all'aria aperta; l'ululato del vento che impazzava all'intorno fu musica per le sue o-
recchie. «Ce l'abbiamo fatta!». Dibattendosi disperatamente, come una creatura che sguscia da un uovo, si issò dal mucchio di detriti, sabbia e ghiaia, riemergendo in superficie. Esausta, crollò su un fianco. Un attimo dopo, la mano di Rutherford sbucò dalla sabbia, poi anche lui si issò sul terreno sabbioso e con un balzo le piombò accanto, sotto il cielo gonfio di nuvole e punteggiato a tratti dalle stelle. Era quasi l'alba e il cielo andava schiarendosi. Rimasero lì sdraiati per alcuni secondi a riprendere fiato, poi Rutherford si alzò e si guardò intorno. Laggiù, a circa duecento metri di distanza, c'era la facciata occidentale della Grande Piramide, e accanto alla base, proprio attaccate alla facciata, Rutherford scorse le sagome di alcune persone che si stavano muovendo in maniera concitata. Prima che potesse rendersi conto di cosa stava guardando, o comunque di tutto quello che era successo nelle ultime ore, ebbe inizio la sparatoria. Istintivamente, si appiattirono entrambi sul terreno. «Chi sono? Stanno sparando a noi?». Si udì una raffica di spari, chiaramente provenienti da armi automatiche. «No, il rumore viene da laggiù, dalla Grande Piramide». Poi, all'improvviso, ci fu un lampo nel cielo e una luce fosforescente illuminò la sabbia. Rutherford si trascinò oltre il crinale della duna sulla quale si erano sdraiati. Non riusciva a credere ai suoi occhi. «Mio Dio... guarda! È Bezumov, ed è arrivato quasi in cima». Catherine lo raggiunse strisciando sul ventre e si ravviò i capelli che le erano caduti sulla faccia. Lassù, abbarbicato alla facciata, a pochi metri dalla punta della piramide, c'era Bezumov Prima il lampo, poi il raggio di una torcia ne evidenziarono la figura premuta contro l'enorme edificio di pietra. Sembrava un uomo sul punto di suicidarsi, che barcolla alla sommità di un palazzo... Solo che lui stava inesorabilmente arrampicandosi come un granchio verso la punta. Una quantità di pallottole colpiva il granito intorno a lui, ma Bezumov sembrava ignorarle, arrampicandosi metodicamente, come un esperto alpinista, un blocco dopo l'altro, facendosi sempre più vicino alla vetta. Quasi senza riflettere, Catherine e Rutherford si alzarono in piedi. Sotto i loro occhi stupefatti, Bezumov stava portandosi al riparo dagli spari. L'alba stava ormai per spuntare. A quel punto sembrava impossibile fermarlo. Avevano dunque faticato tanto per nulla?
72 Con un ultimo sforzo titanico, Bezurnov si trascinò sulla punta della Grande Piramide. Era uno spiazzo di circa sette metri per sette. Il vento sembrava strappargli gli abiti di dosso e minacciava di farlo cadere di sotto. Gettandosi a terra per sottrarsi alla vista dei suoi nemici, protetto dai milioni di tonnellate di pietra sotto di lui, scoppiò in una risata folle. «Ce l'ho fatta! Sono qui! E ora staremo a vedere... Ora il mondo dovrà darmi ragione». Si alzò in piedi tenendo la pietra Benben fra le mani protese, come fosse un gioiello prezioso. I suoi occhi folli scandagliarono l'orizzonte alla ricerca del disco infuocato del sole nascente, ma il cielo in tempesta era talmente nuvoloso da impedirne la vista. Mentre guardava, udì un rumore terribile, che superò persino l'ululato del vento. Era come se un migliaio di motori a reazione si fossero accesi all'unisono. Disorientato, si guardò intorno, stringendosi la pietra al petto. Il suo volto era una maschera di panico. Si girò di scatto; il vento gelido e il buio impenetrabile non facevano che acuire la sua confusione. E poi lo vide: a non più di dieci metri di distanza, un mostruoso velivolo nero si stava avvicinando a lui. La fusoliera enorme, arrotondata e schiacciata doveva avere un diametro di almeno venti metri. Sul muso, due antenne simili a lance puntavano aggressive nella sua direzione. Fra le due antenne c'era un parabrezza nero, ora alla sua esatta altezza. Bezurnov gli lanciò un'occhiata, poi si voltò verso oriente. Laggiù, nella bruma mattutina, rifulgeva l'inconfondibile chiarore del sole nascente. Girando su se stesso, Bezurnov gridò nella notte ormai giunta alla fine: «Mai! Non mi fermerete mai! Siete arrivati troppo tardi!». Si piantò con decisione al centro della piattaforma. Sotto i suoi piedi c'era l'enorme, fenomenale massa di pietre che componeva la piramide. Alzò le mani sopra la testa, sollevando la pietra Benben verso il cielo e le stelle morenti. In quel momento esatto, il temporale sembrò scaricare tutta l'elettricità accumulata. Le nuvole furono attraversate da lampi bluastri che formarono un reticolo proveniente da tutte le direzioni, come se il cielo avesse preso fuoco. Nonostante si trovassero a centinaia di metri di distanza nel deserto, Catherine e Rutherford non poterono fare a meno di ritrarsi spaventati, mentre tutti i lampi del cielo sembravano saettare attraverso l'aria, prima di scaricarsi, in un enorme bagliore accecante, sulla punta della Grande Piramide.
Ci fu un assordante rombo di tuono, poi una gigantesca esplosione, centinaia di volte più luminosa dei lampi fosforescenti che fino a poco prima avevano illuminato il cielo. Catherine e Rutherford cercarono di fuggire, ma furono scagliati a terra dallo spostamento d'aria provocato dall'esplosione. Poi ce ne fu una seconda, anche più forte della prima. Era lo strano velivolo: sembrava fosse stato colpito da una scarica di lampi, incendiandosi all'istante. Una pioggia di frammenti metallici ricadde in ogni direzione. Catherine si arrotolò su se stessa e Rutherford le si buttò sopra per proteggerla, sperando che nessuna di quelle schegge incandescenti arrivasse a colpirli. Gli ultimi pezzi dell'aereo precipitarono a terra e poi ci fu un silenzio di tomba. Persino il vento sembrava essersi calmato, come scacciato dalla grande esplosione. Catherine sbirciò da dietro le dita della propria mano. La piramide era ancora lì, e dietro la sua massiccia silhouette, la notte si diradava; il sole stava nascendo. Era il mattino dell'equinozio di primavera e lo scenario rimaneva lo stesso degli ultimi diecimila anni: la maestosità delle piramidi che assistevano mute alle folli vicende degli uomini. Si arrampicò in cima alla duna. Sparsi sulla sabbia c'erano alcuni pezzi ancora incandescenti della fusoliera dell'aereo nero. Accanto alla piramide scorse, nell'incerta luce dell'aurora, i corpi di alcune persone riversi sul terreno. Rutherford strisciò sui gomiti e la raggiunse. Rimasero a guardare lo scenario di tregenda, ora immerso in un inquietante silenzio, in uno stato di shock assoluto, senza parole. Poi videro arrivare alcune macchine della polizia egiziana, con i poliziotti che scendevano lentamente dalle auto, guardandosi intorno esterrefatti ed esaminando i rottami che circondavano la base della piramide. All'improvviso, Rutherford scorse qualcosa che brillava nella sabbia, a circa venti metri da loro. «Ehi, guarda... Cos'è quello?». Catherine trasalì: «Mio Dio... Non può essere...». Iniziò a strisciare, poi si sollevò e corse verso l'oggetto, ancora instabile sulle gambe. Si voltò e gridò: «È lei! È la pietra Benben!». Rutherford la raggiunse e a quattro zampe vi si avvicinarono con cautela. Ed eccola lì... Sembrava intatta: la perfetta superficie dorata che mandava un caldo baluginio nella mezza luce del mattino, il diamante che brillava come una stella. Catherine si sporse in avanti per raccoglierla. «È incredibile. Ma come ha fatto a resistere? Ahi!». La lasciò subito ca-
dere. «È rovente». Rutherford strappò una manica dalla sua camicia ancora umida e la gettò sopra l'oggetto scintillante. Poi, con estrema attenzione, raccolse il tutto e arrotolò la stoffa attorno al metallo, coprendolo completamente. «Ecco fatto». Si voltò a guardare l'altopiano, la strada elevata e l'entrata del bir. I poliziotti avevano cominciato a correre e a gridare. «Guarda laggiù», disse. «Devono aver trovato il corpo dell'autista. Bene. Stanno scendendo nel pozzo, fra poco troveranno Poimandres». Scrutò l'altopiano, alla ricerca di una via di fuga. Le sirene della polizia riempivano l'aria con il loro urlo penetrante e una serie di faretti mobili, generalmente impiegati per le rappresentazioni a uso e consumo dei turisti, si unirono al sole nascente nell'illuminare tutti e quattro i lati della piramide, inondando la sabbia di luce riflessa. Rutherford afferrò la mano di Catherine. «Bene... questo è decisamente il momento migliore per defilarci». Si voltarono e, cercando di riprendere velocemente il controllo di sé, si diressero correndo verso le dune e la pace del deserto. 73 Più tardi, quello stesso giorno, Rutherford si svegliò tra fruscianti lenzuola di cotone in una stanza d'albergo pulita e spartanamente ammobiliata. Attraverso le finestre entrava la luce del sole e una brezza calda e gentile agitava le tende bianche. Il cielo, fuori, era limpido e azzurro. Le avventure notturne gli affiorarono alla mente quasi all'istante. Girò la testa ancora confusa e vide Catherine che dormiva profondamente accanto a lui. Dunque, non era stata la sua immaginazione. I suoi occhi vagarono per la stanza, soffermandosi sulla manica di camicia strappata, appoggiata sulla sedia di fronte al letto. Lanciando una rapida occhiata a Catherine e cercando di fare più piano possibile, scese dal letto e afferrò il pezzo di stoffa e quel che conteneva. Quasi tremando dall'emozione, appoggiò il fagotto sul letto e pian piano lo srotolò. E proprio lì, sotto i suoi occhi, in tutta la sua misteriosa gloria, si rivelò la pietra Benben. In quel momento Catherine si girò su un fianco e aprì gli occhi. «James! Dove siamo?». Lui le rivolse un caloroso sorriso, si chinò su di lei e la baciò dolcemente sulle labbra. «Siamo nell'albergo che abbiamo trovato stamattina all'alba, in un quar-
tiere di periferia del Cairo. E non chiedermi che ore sono, perché non lo so». Catherine fissò la pietra Benben. «Dunque l'abbiamo recuperata davvero; non era un sogno. E Bezumov...». Rutherford finì la frase per lei: «Bezumov non c'è più. Lo stesso vale per i capi della Corporazione, suppongo. Lo strano aereo saltato in aria e andato in mille pezzi dev'essere stato il loro. È finita: per il momento siamo salvi. Guarda!». Si voltò verso la finestra, con un sorriso smagliante. «È una magnifica giornata». Catherine si sollevò su di un gomito e guardò il tranquillo cielo azzurro. «E Poimandres? Dobbiamo sapere se si è salvato...». Rutherford si alzò in piedi. «Vado subito alla reception. Chiederò al portiere di telefonare all'ospedale di Giza per sapere se è ricoverato lì. Penso proprio che dovremmo andarlo a trovare». Catherine esaminò i bellissimi disegni sulla pietra. La accarezzò delicatamente. «Sì... e dobbiamo trovare un modo per restituire questo magnifico oggetto». Rutherford infilò la camicia nei pantaloni, mise gli scarponcini e cominciò ad allacciarli. «Tu fa' tranquillamente la doccia e preparati: sarò di ritorno fra una decina di minuti, poi usciremo». Catherine gli sorrise. La brezza entrava dalla finestra, spostando le tende e permettendo alla luce del sole di illuminarle il bel viso. «James!». Rutherford si voltò, con la mano già appoggiata alla maniglia. «Sì?». Il volto di Catherine era raggiante. «Grazie di tutto». Poimandres giaceva immobile nel letto d'ospedale. Il lenzuolo inamidato lo copriva fin sotto il mento. La luce calda e dispensatrice di vita del sole filtrava attraverso le veneziane. Il suo volto aveva più che mai le fattezze di una maschera funeraria di un faraone morto da millenni. L'infermiera girò intorno al letto e gli sfiorò delicatamente una spalla. Poi si chinò e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Poimandres aprì gli occhi di scatto. Per un
attimo, sembrò disorientato e le sue pupille vagarono per la stanza, come alla ricerca di qualcosa o qualcuno; ma non appena scorse i suoi due visitatori, sorrise. In qualche modo, quel sorriso sembrò recare un po' di colore e di vita sul viso cereo e scavato. Catherine girò intorno al letto e si sedette sulla sedia accanto al comodino. L'infermiera annuì prendendo congedo e li lasciò soli. Catherine si chinò sul vecchio. Non sapeva bene da dove cominciare. Lei per prima faticava a comprendere quanto era accaduto. «Signor Poimandres, va tutto bene. Abbiamo noi la pietra Benben: l'abbiamo recuperata dopo l'esplosione della scorsa notte». Catherine prese la sua borsa e se la appoggiò in grembo. «Come dobbiamo fare per restituirla?». Si guardò intorno nel grande padiglione. Il letto di Poimandres era separato dagli altri da una tenda tirata. Non le sembrava il luogo adatto per maneggiare un oggetto tanto prezioso. Poimandres aprì la bocca, poi la richiuse. Le sue labbra si allargarono in un sorriso pallido ma determinato. Poi, raccogliendo le energie residue, parlò. «Non fa nulla. La pietra Benben non è importante». Notò le espressioni scioccate e sorprese dei loro volti. Dopo un flebile colpo di tosse, riprese a parlare. Era importante che comprendessero. «Non è nulla. È soltanto un simbolo». Catherine non credeva alle proprie orecchie. «Vuol dire che non funziona? Ma noi la scorsa notte abbiamo visto che...». Poimandres tossì di nuovo. «Oh no, funziona. Ma non è necessario che si tratti di quella pietra in particolare. La Benben è una componente della macchina. Chi sa farlo, può semplicemente costruirne un'altra. Fortunatamente, non sono in molti a saperlo fare». Rutherford ridacchiò fra sé e sé. "Bene, allora è proprio valsa la pena di rischiare la vita per salvarla", pensò. Poimandres lo guardò. «Vi prego di tenerla presso di voi. È sicuramente il modo più sicuro di conservarla». Rutherford annuì in segno di assenso. Poimandres si leccò le labbra secche e riprese a parlare: «Sono accaduti dei miracoli. Abbiamo seriamente rischiato di morire. L'uomo in bianco è stato fermato. Alla Corporazione è stato impedito di conoscere i segreti delle piramidi. Alcuni dei suoi mem-
bri sono morti, e per il momento i loro malefici piani dovranno essere rimandati». Catherine si accigliò. «Ma stanno ancora distruggendo la Terra. Li abbiamo fermati soltanto per un giorno. Ora sappiamo che lo scioglimento dei ghiacci provocherà lo spostamento della litosfera... Cosa possiamo fare?». Rutherford si affacciò per controllare che l'infermiera non stesse arrivando. Poi suggerì: «Forse potremmo imparare come far funzionare la macchina? Potremmo imbrigliarne e sfruttarne l'energia e salvare l'umanità, che ormai è sull'orlo del precipizio. Forse l'idea di Bezumov non era sbagliata; soltanto il metodo». Con un secco colpo di tosse, Poimandres lo interruppe. «No, James. Nessuno è ancora pronto ad amministrare il suo potere. Bisogna resistere alla tentazione di usare la macchina o di entrare nella stanza delle memorie. Sapete già abbastanza. Se cercherete di combattere la Corporazione con la forza, finirete per essere distrutti da essa, oppure sarà lo stesso potere da voi acquisito a corrompervi, proprio come ha corrotto coloro che si considerano i capi della Corporazione. C'è un unico modo per combattere la Corporazione». «Quale?», chiese Catherine. «È semplice. Non dovete fare altro che dire la verità alla gente. Non potrete certo costringerla a cambiare idea... Vi trasformereste a vostra volta in un'altra Corporazione. Ma ricordate: la verità è più potente di qualsiasi altra forza fisica nell'universo». Poimandres sorrise. «Stiamo entrando in una nuova era. La Corporazione sembra sempre più potente, ma non è così: siamo anche più prossimi che mai a sconfiggerla. Se riusciremo a far sì che la gente sappia e riconosca la verità, presto tutti capiranno che le moderne cure chiamate "sviluppo" e "crescita economica" sono in realtà nocive; che conducono soltanto alla schiavitù. Dobbiamo fare in modo che la prossima generazione creda nella verità e che la insegni ai propri figli. Solo allora saremo finalmente liberi dalle grinfie della Corporazione e pronti a scongiurare l'imminente cataclisma. Sono certo che possiamo farcela. Dobbiamo farcela. E se non sarà così, allora vuol dire che la nostra specie non valeva comunque la pena di essere salvata. Come vedete, alla fine è tutto molto semplice». Poimandres s'interruppe per riprendere fiato. «Capite ora perché la stanza delle memorie non è importante, e perché non lo è nemmeno la scienza segreta? Dobbiamo volontariamente rinun-
ciare a ogni brama di potere e ricchezza, perché è soltanto per via di queste brame che la Corporazione riesce a controllare le nostre esistenze. Se riusciremo a voltare le spalle a questo genere di materialismo, la Corporazione - e i suoi membri corrotti - apparirà per quello che veramente è: una scorciatoia verso il disastro. Ma bisognerà fare dei grandi sforzi. Andate, ora. Tornate nei vostri Paesi e cominciate a spargere la voce. Questo presente è ancora nelle loro mani, ma il futuro... il futuro è nostro». Dopo quelle parole conclusive, Poimandres ebbe una crisi di tosse secca. L'infermiera venne subito a controllare. Lanciò a Rutherford e Catherine un'occhiata eloquente, ma il copto fece ancora un ultimo tentativo di parlare: «Siete al sicuro, adesso». Rutherford però era ancora preoccupato. «Pensavo all'esplosione... Non attrarrà l'attenzione della polizia egiziana e dei media? Che fine hanno fatto i resti di quello strano aereo?». Facendo appello alle sue ultime energie, Poimandres rispose: «Il governo egiziano insabbierà il caso. A Giza accadono tante cose strane. Non avete nulla da temere. Concentratevi sul futuro». L'infermiera si avvicinò al comodino di Poimandres e si rivolse ai due visitatori: «Dovreste andare, ora. Il signor Poimandres non è ancora pronto per le lunghe conversazioni». Catherine si alzò in piedi. «Sì, certo... Scusateci». Si chinò in avanti, per farsi sentire bene da Poimandres. «Faremo come ha detto lei. Informeremo la gente e la convinceremo a cambiare abitudini. Divulgheremo la verità. Lo promettiamo». 74 Mentre uscivano dall'ospedale sotto il sole accecante, Catherine si accorse che era la prima volta da tantissimo tempo che passeggiava in un luogo pubblico senza sentire il bisogno di guardarsi le spalle. Era la prima volta che si sentiva serena e rilassata dal giorno in cui aveva appreso della morte del professore. Fece un lungo sospiro liberatorio. «Allora, direi che a questo punto abbiamo un compito ben preciso da svolgere. Ma prima, ci meritiamo un po' di riposo. Che ne dici di andare all'aeroporto e di prenotare due posti su un volo per Londra?». Rutherford le sorrise. «Sì, direi che ne abbiamo viste abbastanza, in un solo viaggio. È arrivato
il momento di tornare a casa». Catherine chiuse gli occhi, godendosi il calore del sole sulla pelle. Quando li riaprì, James non c'era più. Si guardò intorno preoccupata e poi lo vide: era davanti all'ingresso di una vecchia bottega di ricordi per turisti, poco più avanti sul marciapiede. «Un minuto solo... C'è una cosa che mi ero ripromesso di fare, prima di lasciare l'Egitto». Stava sorridendo in modo strano. Catherine lo guardò con aria interrogativa. «James! Ma che vuoi fare?» «Un attimo di pazienza... Non ci vorrà molto». Rutherford sfrecciò tra i passanti sul marciapiede e sparì nel decrepito negozietto di souvenir, il cui interno era una vera e propria grotta di Aladino ricolma di ninnoli e gadget per turisti: borsette di pelle, cammelli di peluche, tappeti persiani, narghilè e bigiotteria di ogni genere: anelli, collanine, orecchini, tutti di materiali diversi, alcuni con dei simboli egiziani incisi o disegnati sopra. Rutherford cercò proprio fra questi ultimi. Su di un tavolino c'era un riquadro di spugna con infilate alcune dozzine di anelli. Si trattava di semplici montature d'argento con incastonate pietre molto belle, ma non certo preziose. Rutherford scelse un anello in particolare. Un vecchio, evidentemente il padrone del negozio, gli venne incontro dal retro con passo strascicato; sembrava quasi sorpreso di vedere un cliente. Rutherford lo guardò sorridendo. «Vorrei acquistare questo anello». Il negoziante grugnì. «Cento lire egiziane». A Rutherford non interessava contrattare. «Affare fatto. Ma voglio che rimuova la pietra». Il vecchio lo guardò senza capire. Rutherford ripeté la frase, accompagnandola a gesti molto eloquenti. L'uomo sembrava confuso. «Rimuovere la pietra? Sempre cento lire. Non paga meno, senza pietra». Rutherford annuì. «Sì, capisco. Pagherò la stessa cifra, non si preoccupi. Ecco... ecco qui il denaro». Il vecchio scosse il capo e sorrise. "Che matti, i turisti!". Si diresse verso il retro del negozio e armeggiò in alcuni cassettini. Rutherford lanciò un'occhiata fuori dalla vetrina. Catherine era in piedi sul marciapiede, in pieno sole, e osservava i passanti. Mentre la guardava, sentì che il cuore gli batteva forte. Il vecchio gli sfiorò un gomito.
«Dia qua». Rutherford gli consegnò l'anello. Il negoziante aveva in mano delle pinze. Con consumata abilità, liberò la pietra dalla montatura metallica, poi rovesciò l'anello, lasciandosi cadere la pietra sul palmo della mano. La offrì a Rutherford, che sorrise e scosse il capo. «La tenga lei! Ora le dico cosa deve fare...». Rutherford estrasse dalla tasca la pietra Benben. Nel vedere il diamante attaccato alla punta della piccola piramide, gli occhi del vecchio si dilatarono per lo stupore e la meraviglia. Rutherford gli fece comprendere a gesti che voleva che il diamante venisse rimosso dalla piramide e applicato alla montatura dell'anello. «Ahh!». Ora il vecchio capiva. Rivolse a Rutherford un ampio sorriso e, prendendo in consegna la Benben, tornò sul retro del negozio, riprendendo ad armeggiare fra i suoi utensili. Dopo qualche borbottio e diversi tentativi di staccare il diamante con una serie di attrezzi, emise finalmente un mugolio di soddisfazione. Il vecchio sollevò la pietra preziosa perché Rutherford la vedesse, poi iniziò a incastonarla sulla montatura dell'anello. Un minuto più tardi, dopo aver rifinito bene il lavoro, presentò il gioiello a Rutherford. «Regalo!», esclamò fiero il vecchio egiziano. «Esatto!», gli rispose Rutherford sorridendo con aria complice. Prima di uscire pagò, poi uscì in strada. Affascinato, il vecchio negoziante si mise sulla porta per seguire con lo sguardo quello strano cliente. Rutherford fece un respiro profondo, poi si diresse a passo deciso verso Catherine, che non stava più nella pelle dalla curiosità. «Cosa ne hai fatto, della pietra Benben?». Con un'occhiata maliziosa, Rutherford rispose: «Veramente, avrei pensato di farne un anello di fidanzamento». Il bel volto di Catherine arrossì; le guance le divennero di un bellissimo colore rosato. Sorrise come non aveva mai sorriso prima e accettando l'anello senza esitazione, se lo infilò al dito. Poi James la baciò appassionatamente e lei poté finalmente abbandonarsi fra le braccia forti e accoglienti del suo innamorato. FINE