FRANK HERBERT PROGETTO COSCIENZA (Destination: Void, 1966) Marinaio, fai attenzione; attento, marinaio. Il pericolo ti s...
13 downloads
671 Views
887KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
FRANK HERBERT PROGETTO COSCIENZA (Destination: Void, 1966) Marinaio, fai attenzione; attento, marinaio. Il pericolo ti si approssima Attento, attento, attento. Molti intrepidi cuori dormono nel profondo abisso, Dunque attento Attento. da Asleep In The Deep di Arthur L. Lamb e H. W. Petrie «È morto», annunciò Bickel. Sollevò l'estremità recisa di un tubo di nutrizione e fissò il pannello da cui l'aveva staccato. Il cuore gli batteva troppo in fretta e sentiva che gli stavano tremando le mani. Delle lettere di un rosso fluorescente, alte almeno otto centimetri, gli inviavano un messaggio d'avvertimento dal pannello che aveva di fronte. L'avvertimento sembrava una presa in giro, dopo quel che lui aveva fatto. «NUCLEO MENTALE ORGANICO - PUÒ ESSERE RIMOSSO SOLTANTO DAL TECNICO DEI SISTEMI VITALI». Bickel percepì che sulla nave la quiete era aumentata. Qualcosa (non qualcuno, pensò) era svanito. Era come se la calma molecolare dello spazio esterno avesse invaso gli scafi multipli e concentrici della nave spaziale Terrestre e si fosse diffusa fino a giungere al cuore di quella massa metallica ovoidale, che si dirigeva a folle velocità verso Tau Ceti. Bickel si avvide che i due suoi compagni erano prigionieri di quel silenzio. Avevano paura di spezzare la tranquilla atmosfera generata da quel momento di vergogna, colpa, rabbia... e sollievo. «Cos'altro potevamo fare?» chiese Bickel. Sollevò ancora una volta il tubo tagliato, e lo fissò con ira. Raja Flattery, il loro psichiatra-cappellano, si schiarì la gola e disse: «Calma, John. La colpa è di tutti noi, e va divisa in parti uguali». Bickel fece correre il suo sguardo furente su Flattery, notò l'espressione enigmaticadell'uomo, calcolata e penetrante, il viso stretto ed altezzoso, che in qualche modo suggeriva un senso di terribile superiorità, celata dietro gli insondabili occhi castani e le sopracciglia nere che si curvavano
verso l'alto. «Sai benissimo cosa puoi farci con la tua colpa!» ringhiò Bickel, ma le parole di Flattery neutralizzarono la sua ira, lo fecero sentire sconfitto. Bickel rivolse la sua attenzione a Timberlake - Gerrill Timberlake, tecnico dei sistemi vitali, l'uomo che avrebbe dovuto eseguire quello sporco lavoro. Timberlake, magro come uno spaventapasseri, dai movimenti rapidi e nervosi, e con la carnagione scura quasi quanto i suoi capelli, fissò il ponte metallico sotto i suoi piedi, evitando lo sguardo di Bickel. Vergogna e paura - ecco tutto quello che Timberlake prova, pensò Bickel. La debolezza di Timberlake - la sua incapacità di sopprimere lo NMO, anche quando quell'atto avrebbe significato salvare la nave e migliaia di vite inermi - li aveva quasi uccisi. E adesso, quell'uomo non riusciva a provare altro che vergogna... e paura. Non c'erano stati dubbi su quel che bisognasse fare. Lo NMO era impazzito, sviluppando una coscienza selvaggia, delirante. Era divenuto una massa malata di materia cerebrale i cui riflessi muscolari trasformavano ogni servomeccanismo della nave in un'arma assassina; li aveva fissati con occhi pieni di follia da ogni sensore, li aveva sommersi con discorsi senza senso da ogni vocoder. No, non c'era stato alcun dubbio sul da farsi - non con tre membri dell'equipaggio assassinati - e la sola cosa sorprendente era che fossero riusciti a distruggerlo. Forse voleva morire, pensò Bickel. E si chiese se quella fosse stata la sorte delle altre sei navi del Progetto, che erano svanite nel nulla senza lasciare alcuna traccia. Anche i loro NMO sono impazziti? Forse i loro equipaggi ombelicali hanno fallito, quando si è trattato di uccidere o essere uccisi? Una lacrima iniziò a scorrere lungo la guancia sinistra di Timberlake. Per Bickel, quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un po' della sua rabbia ritornò. Fissò duramente Timberlake e disse: «Cosa facciamo adesso, Capitano?» L'ironia sottintesa, nell'aver attribuito quel grado a Timberlake, non sfuggì a nessuno dei due compagni di Bickel. Flattery fece per replicare, ma poi ci ripensò. Se pure si poteva affermare che la nave spaziale Terrestre avesse un capitano (non contando un Nucleo Mentale Organico in servizio attivo), allora un tacito accordo conferiva quel titolo al tecnico dei si-
stemi vitali. Nessuno di loro, però, aveva mai usato la parola in maniera ufficiale. Alla fine, Timberlake sostenne lo sguardo di Bickel, ma tutto quel che disse fu: «Tu sai perché non sono riuscito a farlo». Bickel continuò a studiare Timberlake. Quale mente maligna aveva assegnato loro quel misero surrogato di tecnico dei sistemi vitali? In precedenza, l'equipaggio ombelicale era stato formato da sei persone - i tre presenti, più l'Infermiera di Bordo Maida Blaine, lo Specialista in Apparecchiature Oscar Anderson ed il Biochimico Sam Scheler. Adesso, Blaine, Anderson e Scheler erano morti - il cadavere esploso di Scheler ostruiva un condotto d'accesso al perimetro di poppa, Anderson era stato strangolato da una chiusura a diaframma impazzita, e la deliziosa Maida era stata schiacciata da una parte del carico sfuggita al controllo. Bickel attribuiva a Timberlake la maggior parte della colpa della tragedia. Se solo quel dannato stupido si fosse deciso a compiere quel passo, in maniera spietata ma necessaria, al primo segno di guai! C'erano stati fin troppi avvertimenti; i primi due NMO della nave erano piombati in uno stato catatonico. L'origine del problema era ovvia. E i sintomi - esattamente gli stessi che avevano preceduto il collasso, sulla Terra, del vecchio progetto sulla Coscienza Artificiale - si erano manifestati con un'insensata distruzione di esseri umani e di materiale. Ma Tim aveva rifiutato l'evidenza. Tim aveva continuato a blaterare sulla santità di ogni vita. Vita, ah! pensò Bickel. Tutti loro - compresi perfino i coloni nella vasche d'ibernazione - erano materiale bioptico sacrificabile, cloni cresciuti nell'atmosfera gnotobiologicamente sterile della Base Lunare. «Mai toccati da mani umane». Quella era una battuta che erano soliti fare in privato. Avevano conosciuto i loro insegnanti nati sulla Terra soltanto come voci e immagini della grandezza di una bambola, sugli schermi visivi del sistema di comunicazioni della base - e solo occasionalmente attraverso il triplo vetro dei portelli che sigillavano il nido d'infanzia sterile. Erano emersi dai serbatoi axolotl per essere accolti dagli arti metallici, dotati di estremità imbottite, di levatrici che erano servoestensioni del personale umano della Base Lunare, banditi per sempre dal contatto fisico con coloro che servivano. Isolamento - ecco la storia delle nostre vite, pensò Bickel, e quel pensiero fece diminuire la sua rabbia nei confronti di Timberlake. Timberlake aveva iniziato ad agitarsi nervosamente, sotto lo sguardo inquisitorio di Bickel.
Flattery intervenne. «Be'... sarebbe meglio che facessimo qualcosa». Sapeva di doverli tenere in movimento. Faceva parte delle sue mansioni - mantenerli attivi, occupati con un qualche lavoro, anche se ciò rischiava di spingerli verso il conflitto aperto. Ma quel tipo di problema poteva essere risolto, se e quando si fosse presentato. Raj ha ragione, pensò Timberlake. Dobbiamo fare qualcosa. Tirò un profondo respiro, tentando di liberarsi del suo senso di vergogna e di fallimento... e del risentimento di Bickel - il dannato Bickel, il superiore Bickel, lo speciale Bickel, l'uomo dagli innumerevoli talenti, Bickel, da cui dipendevano le loro vite. Timberlake lanciò un rapido sguardo alla familiare sala di comando situata nel nucleo della nave - un ambiente lungo ventisette metri e largo dodici. La sua forma era vagamente ovoidale, come quella della nave. Quattro lettini elastoavvolgenti, simili a bozzoli e con delle tastiere di controllo quasi identiche davanti, erano disposti parallelamente alla curva formata dal lato più ampio della sala. Cavi e tubi colorati in codice, quadranti e strumenti di controllo, banchi d'interruttori e spie d'allarme attenuavano, con la loro colorata confusione, il freddo grigio delle pareti metalliche. Qui si trovavano gli apparati necessari per controllare la nave e la sua coscienza autonoma - un Nucleo Mentale Organico. Nucleo Mentale Organico, pensò Timberlake, e sentì riacutizzarsi il suo senso di colpa e il suo dolore. Non cervello umano, oh no. Un Nucleo Mentale Organico. Ancora meglio, uno NMO. L'eufemismo rende più facile dimenticare che il nucleo un tempo era un cervello umano ospitato nel corpo di un mostro appena nato, e destinato a perire. Scegliamo soltanto i casi terminali poiché ciò rende meno dubbia la moralità dell'atto. E adesso l'abbiamo ucciso. «Ecco quel che farò io», annunciò Bickel. Il suo sguardo corse alla tastiera del dispositivo Accetta-E-Traduci, che era un'unità ausiliaria del trasmettitore della sua console personale. «Riferirò a Base Lunare l'accaduto». Si allontanò dal pannello danneggiato, lasciò cadere il tubo di nutrizione tagliato, senza guardarlo. Il tubo fluttuò lentamente verso il basso nella gravità della nave che era soltanto un quarto di quella normale. «Non abbiamo nessun codice per questo... questo tipo di emergenza». Timberlake affrontò Bickel e fissò con rabbia il volto squadrato dell'altro, provando antipatia per ogni suo tratto, dai capelli biondi tagliati cortissimi all'ampia bocca e alla mascella volitiva. «Lo so», replicò Bickel, ed aggirò Timberlake. «Invierò il messaggio in
chiaro». «Non puoi farlo!» protestò Timberlake, voltandosi a fissare con ira la schiena di Bickel. «Ogni secondo di ritardo aumenta lo scarto temporale», replicò Bickel. «Già così, il messaggio deve attraversare più di un quarto del sistema solare». Si lasciò cadere sul suo lettino, regolò il bozzolo affinché lo avvolgesse a metà, avvicinò a sé il trasmettitore. «Lo spiattellerai a tutti sulla Terra, incluso tu-sai-chi?» disse Timberlake. Poiché era sostanzialmente d'accordo con Timberlake e voleva guadagnare tempo, Flattery si mosse in una posizione che gli permetteva di guardare in basso, verso Bickel nel suo lettino: «Che cosa gli dirai esattamente?» «Gli dirò come stanno le cose», replicò Bickel. Attivò gli interruttori di riscaldamento del trasmettitore, iniziò a controllare il nastro di sequenza. «Dirò che abbiamo dovuto disconnettere l'ultimo cervello dai controlli della nave... e che l'abbiamo ucciso nel farlo». «Ci ordineranno di tornare indietro», disse Timberlake. Soltanto un'esitazione quasi impercettibile delle mani di Bickel sulla tastiera del perforatore di nastro dimostrò che quest'ultimo lo aveva udito. «E cosa dirai su quel che è successo ai cervelli?», chiese Flattery. «Che sono impazziti», rispose Bickel. «Mi limiterò a riferire soltanto le nostre perdite». «Questo non è precisamente quel che è successo», commentò Flattery. «Faremmo meglio a discuterne», disse Timberlake, ed iniziò a sentirsi disperato. «Stammi bene a sentire, tu», replicò Bickel, rivolgendo la sua attenzione a Timberlake, «si presuppone che tu sia il capitano di quest'ammasso di latta; be', eccoci qui alla deriva senza nessuno ai comandi». Concentrò di nuovo la sua attenzione sulla tastiera. «Pensi davvero di avere il diritto di dirmi cosa fare?» Timberlake impallidì di rabbia. Bickel mi sopraffà così facilmente. Mormorò: «Tutto il mondo ti ascolterà». Ma si avviò verso il suo lettino, e collegò i controlli temporanei che avevano allestito poco tempo dopo che il primo dei cervelli della nave aveva iniziato a comportarsi in maniera insolita. Poi si abbandonò contro il suo lettino, controllò i circuiti del computer e chiese i dati sulla rotta. «I Nuclei Mentali Organici non sono impazziti», protestò Flattery. «Non
puoi...» «Per quel che ci riguarda, l'hanno fatto». Bickel fece scattare l'interruttore principale. Un ronzio che faceva aggricciare le pelle riempì la sala di comando, mentre gli amplificatori laser raggiungevano il pieno potenziale. Dovrei fermarlo, pensò Flattery, mentre Bickel inseriva il voconastro nel trasmettitore. Ma a cosa servirebbe? Dobbiamo inviare il messaggio e farlo in chiaro è l'unico modo. Si udì un click-click-click mentre il messaggio veniva compresso e moltiplicato per il suo balzo laser attraverso il sistema solare. Con un movimento brusco, che tradiva i propri dubbi, Bickel premé l'interruttore arancione del trasmettitore. Ricadde sul lettino mentre iniziava la sequenza di trasmissione. Il suono dei relay che si chiudevano di scatto invase la sala di comando ovoidale. Fa' qualcosa, anche se ciò che farai si dimostrerà sbagliato, Flattery ricordò a se stesso. Bisogna improvvisare; le regole non hanno più alcun valore. E adesso è troppo tardi per fermare Bickel. Gli venne in mente che era stato troppo tardi per fermare Bickel fin dal momento in cui la nave aveva lasciato l'orbita lunare. Quell'uomo francoautoritario-violento (o una delle sue copie nelle vasche di ibernazione) conosceva lo scopo reale del viaggio della Terrestre. Gli altri membri dell'equipaggio non contavano nulla. Al suono dei relay che scattavano, Timberlake afferrò una maniglia e la strinse forte, pieno di frustrazione. Sapeva di non poter biasimare Bickel per la sua rabbia. Lo sporco lavoro di uccidere il loro ultimo Nucleo Mentale Organico avrebbe dovuto ricadere sulle sue spalle. Ma sicuramente Bickel doveva essere al corrente dei condizionamenti a cui veniva sottoposto uno specialista in sistemi vitali. Per un solo istante, Timberlake permise alla sua mente di ritornare col pensiero al nido d'infanzia sterile ed ai laboratori sulla luna - l'unica casa che gli occupanti della Terrestre avessero mai conosciuto. La più grande avventura dell'Uomo: raggiungere le stelle! Avevano convissuto con quel concetto che incuteva soggezione fin dai loro primi momenti di coscienza. A bordo della Terrestre erano in 3006, tutti scelti con cura, e tutti avevano superato il più severo processo di selezione che i direttori del Progetto fossero stati in grado di escogitare per i cloni da loro creati. Gli ultimi sei erano la crema della crema - l'equipaggio ombelicale che doveva guidare la nave finché non fosse uscita dal sistema solare, per poi disattivare i pochi controlli manuali ed affidare la traversata
lunga duecento anni verso Tau Ceti a quell'unica, solitaria coscienza: il Nucleo Mentale Organico. E mentre i 3006 avrebbero dormito al riparo degli schermi d'acqua delle vasche d'ibernazione nel cuore della nave, le loro vite sarebbero dipese dai servomeccanismi e dai sensori collegati chirurgicamente allo NMO. Ma adesso siamo 3003, pensò Timberlake con quella ormai familiare sensazione di dolore, vergogna e sconfitta. E il nostro ultimo NMO è morto. In quel momento, davanti ai controlli d'emergenza, Timberlake si sentì solo e vulnerabile. Era stato ragionevolmente sicuro di sé, fin quando erano esistiti i cervelli, ed uno di essi era incaricato della sicurezza della nave in ultima istanza. L'esistenza dei controlli d'emergenza non aveva fatto altro che aumentare la sua fiducia... allora. Adesso, però, fissando i banchi d'interruttori, gli indicatori, le spie e i manuali, la tastiera di computer ausiliaria con il suo vocoder ed i suoi dispositivi a nastro di ingresso ed uscita dati -adesso, Timberlake comprese quanto inadeguati fossero i suoi miseri riflessi umani di fronte alle reazioni fulminee - questione di millisecondi - che perfino delle avarie ordinarie richiedevano nello spazio esterno. La velocità della nave è troppo alta, pensò. In effetti, sapeva che la loro velocità era bassa rispetto a quella che avrebbero dovuto mantenere a quel punto del viaggio... ma era ancora troppo alta. Attivò un piccolo schermo sensore alla sua sinistra, e si permise un breve sguardo al cosmo esterno, fissando i puntini intensamente lunimosi che erano stelle alla deriva nel vuoto colmo di energia dello spazio. Come al solito, quella visione gli trasmise la sensazione di essere una debolissima scintilla di vita, alla mercé del Caso imperscrutabile. Spense lo schermo. Un movimento accanto al suo gomito attirò la sua attenzione. Si voltò e vide Bickel che si era alzato e aveva raggiunto la console di controllo. C'era una espressione di tale sollievo sul suo viso che Timberlake ebbe un'intuizione improvvisa e comprese che Bickel, trasmettendo il suo messaggio a Base Lunare, si era liberato anche del suo senso di colpa. Timberlake si chiese cosa si provasse ad uccidere - anche se l'atto era stato commesso contro un essere la cui umanità era stata nascosta da uno strato di meccanismi molti anni prima, quando era stato rimosso da un corpo morente. Bickel studiò i comandi della propulsione. Avevano disattivato il sistema dell'incremento di spinta quando il secondo NMO aveva iniziato a dar
segni di squilibrio. Ma la Terrestre avrebbe egualmente abbandonato il sistema solare tra dieci mesi. Dieci mesi, pensò Bickel. Siamo troppo veloci... e troppo lenti. Durante quei dieci mesi, i calcoli eseguiti dal computer di bordo prevedevano che la possibilità di un'avaria totale della nave sarebbe rimasta altissima. E l'equipaggio della nave non era stato preparato a sopportare una pressione del genere. Bickel scoccò un'occhiata furtiva a Flattery, notando quanto silenzioso e meditativo apparisse lo psichiatra-cappellano. C'erano delle volte in cui Bickel si innervosiva al pensiero di quanto poco si potesse nascondere a Flattery, ma questa non fu una di quelle volte. Nello spazio, comprese Bickel, ognuno di loro doveva diventare uno specialista nel comprendere il carattere dei compagni. Altrimenti, la pressione derivata dalle incombenze della navigazione manuale, accoppiata con quella psicologica, poteva distruggerli. «Quanto tempo pensi che ci metterà Base Lunare a rispondere?» chiese Bickel, rivolgendo la domanda a Timberlake. Flattery si irrigidì e studiò la nuca di Bickel. Quella domanda... un equilibrio perfetto tra cameratismo e offerta di scuse nel tono della sua voce... Bickel l'aveva posta deliberatamente, comprese improvvisamente Flattery. Bickel si dimostrava più profondo di quanto avessero sospettato. Maforse avrebbero dovuto sospettarlo. Dopo tutto, era lui l'uomo chiave a bordo della Terrestre. «Ci vorrà un po' prima che digeriscano la faccenda», rispose Timberlake. «Sono ancora convinto che avremmo dovuto aspettare». Mossa sbagliata, pensò Flattery. Un tentativo di ricucire lo strappo sarebbe stato bene accetto. Fece scorrere un dito lungo una delle sue folte sopracciglia, e avanzò con calcolata goffaggine, forzandoli ad accorgersi della sua presenza. «Il loro primo problema saranno le reazioni dell'opinione pubblica», disse. «La notizia farà scalpore e finirà in prima pagina prima che noi invecchiamo di alcune ore. E questo causerà un po' di ritardo, siatene certi». «E la prima cosa che si chiederanno sarà: perché i Nuclei Mentali Organici si sono guastati?» aggiunse Timberlake. «Non c'è alcuna ragione medica», intervenne Flattery. Comprese di aver parlato troppo in fretta, percepì di essersi messo sulla difensiva e aggiunse, «almeno per quel che ho potuto appurare». «Si tratterà di un qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno ha previsto,
aspettate e vedrete», affermò Timberlake. Qualcosa che nessuno ha previsto? si chiese Bickel. Ne dubitava, ma rimase in silenzio. Per la prima volta da quando era salito a bordo, percepì la massa della Terrestre che lo circondava e pensò a tutte le speranze e le energie che erano state profuse in quell'impresa. E allora si rese conto di quale enorme sforzo di pianificazione stesse dietro all'intero progetto. Poté quasi sentire le notti insonni, le riunioni tra ingegneri e scienziati, sognatori pragmatici che si scambiavano progetti ed idee da una parte all'altra di un tavolo coperto di tazze di caffè e di portaceneri sommersi di cicche. Qualcosa che nessuno ha previsto? Ci credo poco. Tuttavia, sei altre navi erano svanite nel silenzio dello spazio - navi identiche alla Terrestre. Allora, Bickel parlò più per darsi coraggio che per ribattere all'affermazione di Timberlake: «Non lasceranno che tutto vada a rotoli. Base Lunare avrà sicuramente un piano. Qualcuno, da qualche parte lungo la catena del comando, avrà pensato a questa eventualità». «E allora perché non ci hanno preparati ad essa?» chiese Timberlake. Flattery osservò attentamente Bickel, pienamente conscio di quanto quella domanda l'avesse colpito. Adesso comincerà ad avere dei dubbi. Adesso comincerà a porsi le domande veramente scottanti. Timberlake mosse un quadrante sulla sua console per supplire al mancato funzionamento del sistema di regolazione automatica della temperatura nel quadrante 3, anello 9 del secondo guscio della nave. «Già da molto tempo avremmo dovuto essere nelle vasche d'ibernazione, diretti fuori del sistema solare, verso Tau Ceti», mormorò. «Tim, mostrami il timer», richiese Flattery. Timberlake premé il pulsante verde situato nell'angolo sinistro superiore della sua console, e lanciò una rapida occhiata alle lettere che apparvero sullo schermo principale al di sopra delle loro teste, inviate dal timer ad impulsi laser. Più di dieci mesi. Quella risposta indefinita parve quasi sottintendere che il nucleo computerizzato della Terrestre condivideva i loro dubbi. «Quanto tempo manca per raggiungere Tau Ceti?» chiese Flattery. «A questa velocità?» domandò Timberlake. Alzò gli occhi dalla console e arrischiò un lungo sguardo in direzione di Flattery, tradendo il fatto che non aveva pensato a quella possibilità: compiere il viaggio nella maniera
più difficoltosa, a bassa velocità e con un equipaggio sveglio per tutto il tempo. «Diciamo quattrocento anni, più o meno», rispose Bickel. «È la prima domanda che ho posto al computer, dopo che abbiamo disattivato l'incremento di velocità». È troppo acuto, ha una mente tagliente come cristallo, pensò Flattery. Deve stare attento, o finirà per spezzarsi. E poi rimproverò se stesso: Ma il lavoro che deve compiere Bickel richiede un uomo che possa spezzarsi. «La prima cosa che dovremmo fare è svegliare dall'ibernazione uno dei sostituti», disse Bickel. Flattery gettò un'occhiata alla sua sinistra, dove gli altri tre lettini della sala comando rimanevano vuoti, con i loro bozzoli aperti, in attesa. «Svegliare un rimpiazzo, eh?» chiese. «Vivere qui?» «Potremmo aver bisogno di occasionali periodi di riposo nei cubicoli», disse Bickel ed annuì in direzione del portello laterale che conduceva ai loro spartani alloggiamenti. «Ma la sala comando è il posto più sicuro dell'intera nave». «E che facciamo se quelli del Progetto ci ordinano di tornare indietro?» chiese Timberlake. «Questo non sarà il loro primo ordine», replicò Bickel. «Sette nazioni hanno investito una quantità dannatamente grossa di denaro, sforzi e sogni in quest'affare. Una nazione potrebbe ritirarsi immediatamente... sette, no. Potrebbero metterci dieci mesi, prima di raggiungere un qualunque tipo di accordo». ...Troppo acuto, pensò Flattery. E chiese: «Chi proponi di deibernare?» «La Dottoressa Prudence Weygand», rispose Bickel. «Pensi che abbiamo bisogno di un altro dottore, eh?» gli chiese Flattery. «Penso che abbiamo bisogno di Prudence Weygand, ecco tutto. È un dottore, certo, ma può anche fungere da infermiera al posto di... Maida. Inoltre, è una donna e potremmo aver bisogno del suo modo di pensare al femminile. Tu hai qualche obiezione contro la scelta di Weygand, Tim?» «Che valore ha la mia opinione?» borbottò Timberlake. «Tanto voi due avete già deciso, vero?» Bickel si era già voltato verso il suo lettino. Esitò al tono colmo di rabbia della voce di Timberlake, poi raggiunse il lettino, estrasse la tuta pressurizzata dalla rastrelliera sotto di esso, iniziò ad indossarla. Parlò senza voltarsi: «Io rimarrò qui ai comandi mentre tu e Raj la svegliate. Fareste meglio anche voi ad indossare le tute, e a tenerle sempre addosso, da ora in
poi. Senza uno NMO ai controlli...» Scrollò le spalle, finì di sigillare la tuta e si sdraiò sul lettino. «Sono pronto a gestire i comandi dopo il conteggio». Timberlake allora fu impegnato nel passaggio delle consegne. La tastiera principale scivolò lungo i suoi cursori e si bloccò quando si unì alla console di Bickel. «E che facciamo se Base Lunare risponde mentre siamo nelle vasche?» chiese Flattery. «Non saremo in grado di interrompere la deibernazione e di risalire per...» «Nella remota possibilità che ci ordinino di interrompere la missione, non potremo far altro che registrare il messaggio e tirarla per le lunghe», replicò Bickel. Iniziò a regolare i sensori che controllavano l'integrità dello scafo, terminò la messa a punto, controllò il sistema Accetta-E-Traduci, avvicinò al suo fianco la tastiera dell'AET, in modo da poter avere sott'occhio la spia che gli avrebbe segnalato l'arrivo della risposta di Base Lunare. Flattery si strinse nelle spalle e tirò fuori la propria tuta. Si accorse che Timberlake stava già indossando la sua - ma lo stava facendo con una riluttanza che lo rendeva impacciato. Tim ha capito che Bickel sta prendendo il comando, pensò Flattery, ma non ne vede la necessità... e non riesce ad accettarlo di buona grazia. Ma lo farà. Bickel si assicurò che la nave funzionasse tanto quanto era possibile senza il controllo omeostatico di uno NMO. Si rilassò sul lettino e rimase a fissare la console mentre gli altri uscivano dalla sala comando. I sigilli del portello produssero un sibilo e poi si udì lo scatto delle chiusure magnetiche quando il portello si richiuse, autosigillandosi nuovamente. Bickel adesso percepì la nave tutt'intorno a lui, come se il suo cervello fosse collegato a tutti i sensori segnalati sulla console. La Terrestre gli si stendeva davanti - una massa mostruosa... eppure fragile come un uovo un uovo di latta. Contro la sua volontà, l'attenzione di Bickel si spostò verso la luce spenta nell'angolo sinistro inferiore della tastiera - quella luce che avrebbe dovuto brillare di un colore giallo vivo per segnalare che lo NMO era a posto. Ma qualcosa era andato storto; i cervelli insonni si erano dimostrati difettosi. Erano stati sottoposti a dei test che tenevano conto di ogni possibile e-
ventualità, si disse Bickel. Dev'essere successo qualcosa di inconcepibile. O no? La domanda di Timberlake lo inquietava. Perché non ci hanno preparato? Una fila di luci gialle si accese lungo la console principale, sopra la sua testa, segnalandogli che il centro di gravità della nave si era spostato. Una brusca variazione del campo gravitazionale aveva liberato il carico destinato ai coloni dai suoi dispositivi di bloccaggio, uccidendo Maida. Delicatamente, per evitare oscillazioni, Bickel iniziò a manipolare i controlli per riportare alla normalità il campo gravitazionale. Quanto sarebbe più facile fare a meno della forza di gravità. Ma la scienza medica non era mai riuscita a risolvere del tutto il problema del deterioramento del fisico umano in condizioni prolungate di gravità zero. Il sistema, situato nell'orecchio interno, che conferiva il senso dell'equilibrio ad un corpo umano era quello che ne risentiva maggiormente. Quattro o cinque ore senza gravità provocavano danni permanenti in alcuni soggetti. E così l'equipaggio viveva in un campo gravitazionale ridotto al minimo da un meccanismo che, improvvisamente, si era dimostrato difettoso, in maniera fatale. Le luci delle spie iniziarono ad ammiccare e a spegnersi. Bickel eseguì con estrema cautela la regolazione. Erano riusciti ad elaborare soltanto una teoria, decisamente azzardata, sul perché il campo variasse a quel modo. Sospettavano che si producessero delle anomalie locali mentre il loro campo si muoveva all'interno del campo gravitazionale del sistema solare. L'ultima spia si spense. Bickel si rilassò e tirò un respiro profondo, tremulo. Il suo corpo era coperto di sudore e sentì il sistema termoregolatore della sua tuta sforzarsi nel compensare la variazione di temperatura. Capì che quei turni in sala comando potevano divenire un tipo particolare di inferno. La responsabilità piena d'ansia, il duello con una morte sconosciuta, ti privavano di qualunque energia. Dalla sala comando si potevano controllare soltanto le funzioni della nave di importanza vitale. Gli strumenti di controllo non erano stati progettati per eseguire quel tipo di lavoro. Bisognava trascurare regolazioni accurate e riparazioni delicate finché non avessero raggiunto un grado di emergenza tale che uno dei membri dell'equipaggio sarebbe dovuto andar fuori per dirigere il lavoro dei servomeccanismi.
Si poteva calcolare un incremento matematico di danno - quel tipo di danno, somma di innumerevoli guasti minori, raggiunto il quale la nave avrebbe smesso di funzionare. Era possibile. Bastava calcolare il punto oltre il quale la nave sarebbe morta. Bickel evitò di sottoporre il problema al computer. Era consapevole dei propri limiti. Una conoscenza precisa di quel momento per ora a lui ignoto lo avrebbe ostacolato. Preferiva affrontarlo nell'immediato. Avevano ancora diversi mesi di navigazione davanti a loro forse addirittura dieci. E per come stavano in quel momento le cose, dieci mesi erano un'eternità. Era molto più probabile che un'altra forma di disastro colpisse la nave; Bickel quasi se lo sentiva nelle ossa. Qualcosa non andava nell'Uovo di Latta. Ed era qualcosa di grosso, anche. A Bickel pareva assurdo che un uomo dovesse star seduto là, in sala comando, con la tensione provocata dalla responsabilità che aumentava ad ogni battito di cuore, aspettando e sapendo che qualche meccanismo o funzione di regolazione della nave avrebbe dato dei problemi, e che sarebbe stato incapace di affrontarli se non facendo ricorso a strumenti tecnici di fortuna, poco sensibili, e, in definitiva, decisamente inadeguati. Con gli NMO, le funzioni della nave erano state regolate alla perfezione da un riflesso neurale-servomeccanico quasi automatico - tanto omeostatico nella risposta quanto un corpo umano in condizioni fisiche ottimali. Bickel aggiunse come suo corollario alla domanda di Timberlake quella seguente: Perché hanno puntato tutto su una sola carta? Quando si svegliò, Prudence pensò: Ce l'abbiamo fatta! Un viaggio di duecento anni attraverso lo spazio e ce l'abbiamo fatta! Si sentì colma di eccitazione al pensiero di camminare su un mondo vergine, di gustare la sua esaltante stranezza e di risolvere problemi che non aveva mai affrontato prima. Valeva la pena di aver sopportato sei fallimenti. Il settimo tentativo era stato quello fortunato. Oppure... oppure... La sua mente ricadde nel torpore del pre-risveglio. Oppure era un concetto da cui si diramavano tutta una serie di percorsi logici. Il formicolio doloroso della deibernazione le corse lungo i muscoli delle braccia e delle gambe, provocò dei nuclei di dolore intensi e temporanei. Come dottore, conosceva le cause della sofferenza e poteva accettarla in base ad un ragionamento logico: ibernare un soggetto umano era un processo completamente differente dall'ibernare un animale. Neppure una goccia d'acqua poteva rimanere nel corpo - e si andava talmente vicini a
morire che qualcuno era convinto che si rimanesse sospesi nella morte. Tentò di alzarsi. Fu allora che vide Timberlake e Flattery. La guardavano dall'alto, mentre giaceva sul carrello-navetta del laboratorio. Le loro espressioni conferirono un significato preciso alla parola oppure. Per un istante, il suo sguardo li superò per posarsi sui tubi e sugli spinotti degli stimolatori che erano stati rimossi dal contatto funzionale con il suo corpo. Flattery la costrinse a sdraiarsi di nuovo. «Si calmi adesso, Dottoressa Weygand», la esortò. Dottoressa Weygand, pensò. Non Prudence. Non Prue. Dottoressa Weygand. Fredda formalità. Il suo senso iniziale di euforia iniziò a svanire. Poi Flattery cominciò a spiegarle la situazione con la sua voce suadente e tranquillizzante e lei capì di dover soffocare ogni residuo di quell'euforia. Era sorto un problema. Quello era il motivo per cui era stata svegliata. «Ditemi soltanto quanti membri abbiamo perso», disse, e la gola le dolse a causa dei mesi in cui non era stata usata. Timberlake le comunicò l'entità delle perdite. «Tre morti?» disse la Dottoressa. Non chiese com'erano morti. L'altro problema, quello per cui era stata addestrata, aveva la precedenza sulla semplice curiosità. «Bickel ha chiesto che lei fosse deibernata», le disse Flattery. «Sa perché?», gli chiese la donna, ignorando lo strano sguardo che Timberlake rivolse prima a lei, e poi a Flattery. «Lo ha deciso in base al ragionamento», le rispose Flattery, e desiderò che la donna evitasse di fargli quel tipo di domande, che attendesse che fossero soli. «Ovvio», commentò lei, «Ma ha...» «Non si è ancora posto il problema», l'anticipò Flattery. «Non precipiti troppo le cose», lo avvertì la dottoressa e lanciò un rapido sguardo a Timberlake. «Dimentichi tutto quello che ha sentito qui, Timberlake». Timberlake fece una smorfia, improvvisamente cauto e sulle sue. Flattery si chinò sul braccio destro della dottoressa con una siringa a pressione in mano. «Deve proprio?» gli chiese la dottoressa. Poi, «Sì, certo». «Ora può fare ben poco, se non recuperare le forze», rispose Flattery, e premette la siringa contro il braccio della donna.
La dottoressa sentì il movimento della siringa e, subito dopo, percepì il lento diffondersi del narcotico. Flattery e Timberlake divennero delle figure gesticolanti circonfuse da aloni di luce. Almeno Bickel è ancora vivo, pensò. Non dobbiamo rimpiazzarlo con una copia - di qualità inferiore. E appena prima di sprofondare nella grigia nuvola del sonno, si chiese: Com'è morta Maida? La deliziosa Maida che... Timberlake osservò il sopore velare come una pellicola gli occhi azzurro chiaro della donna. Il respiro della dottoressa Weygand divenne lento e regolare. Come specialista in sistemi vitali, Timberlake aveva esaminato le registrazioni conservate nel computer di ciascuna delle persone a bordo dell'Uovo di Latta. Adesso si ricordò che Prudence Weygand era classificata come un «chirurgo superbo. Superiore a 9 nell'uso degli strumenti». E la scala di valutazione arrivava soltanto fino a 10. Rifletté sulla strana conversazione che aveva avuto luogo tra lei e Flattery e comprese che le registrazioni non raccontavano tutto. Ovviamente la donna aveva altre funzioni oltre a quelle di chirurgo-ecologa... e almeno una di quelle funzioni riguardava Bickel. «Dimentichi quel che ha sentito qui, Timberlake». Timberlake poteva ancora sentire quel comando dato con voce fredda e sapeva che era in contrasto con l'indice emozionale contenuto nelle registrazioni di Prudence Weygand. In esse, la donna occupava il «Punto nove-d verde» sul vettore d'empatia. Negli angusti alloggiamenti dell'equipaggio della nave, quel valore empatico poneva dei problemi, a causa del suo stretto legame con l'impulso sessuale. Con un senso di smarrimento, Timberlake esaminò con maggiore attenzione lo spettrogramma delle sostanze somministrate alla donna attraverso i tubi di nutrizione e vide che aveva assunto droghe anti-S, che sopprimevano le pulsioni sessuali, anche durante l'ibernazione. Era stata tenuta pronta. Pronta per cosa? si chiese. Flattery chiuse e sigillò la vasca della dottoressa Weygand, disse: «Dormirà fin quando il suo corpo non sarà quasi ritornato alla normalità. Faremmo meglio a misurare la sua taglia e a prendere dai magazzini una tuta pressurizzata. Ne avrà bisogno, quando si sveglierà di nuovo.» Timberlake annuì, eseguì un ultimo controllo sui pochi sistemi vitali che erano ancora collegati alla vasca. Flattery si stava comportando in maniera insolita - misteriosa.
«Non far caso a quel che ha detto mentre si svegliava», gli consigliò Flattery. «È il normale stato confusionale provocato dalla deibernazione. Tu sai com'è». Ma le sono state somministrate droghe anti-S anche durante l'ibernazione, pensò Timberlake. Flattery annuì in direzione del portello che conduceva alla sala comando e disse: «John è stato quasi quattro ore ai comandi. È ora che si riposi un po'». Timberlake terminò la sua ispezione degli indicatori della vasca, si voltò, e attraversò per primo il portello. Osservando l'espressione pensosa, cauta, sul volto di Timberlake, Flattery pensò: Che sia dannata la boccaccia di quella donna. Se ora Timberlake dice la cosa sbagliata a Bickel, può compromettere l'intero progetto. Bickel udì Flattery e Timberlake entrare in sala comando, ma fu costretto a mantenere la sua attenzione sulla console di comando principale. Ad intervalli irregolari compariva uno strano impulso negli avvolgimenti primari dei banchi analogici di navigazione del computer. Appariva e spariva senza alcuna causa apparente. E ogni stranezza di funzionamento del computer lo costringeva a ripensare alla questione principale: perché gli NMO si sono guastati? Quello strano impulso era un qualcosa a cui i cervelli erano stati impreparati? Ma come poteva essere, visto che ogni circuito degli NMO era stato controllato mentre era in funzione ed operativo? Bickel intuì che la risposta del guasto degli NMO era da rintracciare nel campo della psicologia. La fonte del problema era situata in quell'unico luogo in cui non potevano inserire le loro sonde - la materia grigia che un tempo era appartenuta ad un essere umano. Be', io so come dobbiamo affrontare questa situazione, pensò Bickel. Ma gli altri mi seguiranno? Sentì Flattery scivolare sul suo lettino e si arrischiò a guardarlo. Flattery poteva dimostrarsi un soggetto difficile da dirigere. Certo, era un medico ed era stato addestrato alla vita sulla nave. Poteva effettuare un turno di controllo, sapeva riparare i servomeccanismi e i sensori più semplici, e prendeva le precauzioni ordinarie che gli comunicava il sistema di sicurezza. C'era un altro Flattery, però: lo psichiatra-cappellano. Bickel capiva l'utilità dello psicologo, ma ragionare su quella del cappellano lo conduceva al misticismo e a riflessioni inconcludenti.
Non so mai quale ruolo recita Flattery, pensò Bickel. Desiderò che ci fosse stato un modo per evitare la presenza di una cappellano a bordo dell'Uovo di Latta. Ma era impossibile; sulla Terra, milioni di persone religiose pagavano un'enorme quantità di tasse. Gli psichiatri, nell'addestrare Flattery e le sue copie, avevano svolto coscienziosamente il loro lavoro. Avevano avuto ben poca scelta. Era trascorso molto tempo da quando negavano di assolvere le stesse funzioni di uno stregone... ed il passo da uno stregone a Dio è breve. Timberlake raggiunse Bickel e studiò gli indicatori che segnalavano la comparsa dell'impulso nei banchi di navigazione analogici. «Si comporta come un impulso di riferimento Doppler emesso dal timer», commentò. «Hai controllato la nostra posizione?» «No», rispose Bickel, e mentre parlava comprese improvvisamente cosa fosse quell'impulso. Aveva inserito nel computer un circuito che fosse in grado di avvertirlo quando i danni alla nave avrebbero raggiunto il punto critico. Un danno al sistema di navigazione poteva dimostrarsi il più critico - specialmente un danno interno. Ma, a differenza di un guasto allo hardware, quel tipo di danno interno poteva manifestarsi soltanto attraverso degli errori di posizione nella rotta della nave. Il suo circuito aveva messo in allarme uno dei programmi supervisori del computer della nave. Di conseguenza, il computer eseguiva un continuo controllo Doppler sulla loro posizione. Bickel si spostò alla tastiera del computer, eseguì una serie di controlli sugli avvolgimenti di navigazione, lesse la risonanza indotta dagli indicatori che pulsavano. Era proprio così. Spiegò agli altri cosa stava succedendo. «Il computer... si comporta... quasi... come un essere umano», disse Flattery. Bickel e Timberlake si scambiarono uno sguardo d'intesa. Quasi come un essere umano, davvero! Quel dannato affare stava facendo soltanto quello per cui era stato progettato. Bickel si era semplicemente dimenticato che il computer era in grado di reagire in quella maniera. «Faremmo meglio a leggere gli schemi di progettazione del computer e a discutere su quali effetti potrebbe avere su di esso la mancanza di un NMO», propose Timberlake. Bickel annuì. Era grato che, sotto molti aspetti, Timberlake se ne intendesse d'elettronica quanto chiunque altro sulla nave - dopo tutto, l'elettronica costituiva il fondamento teorico necessario della sua specializzazione.
Ma la sua era una conoscenza non troppo approfondita. I tecnici dei sistemi vitali erano limitati dalla loro conoscenza soltanto «generale» di alcune discipline scientifiche. Sapevano molto sulla biofisica, ma non erano dei dottori. Si destreggiavano con l'elettronica, ma non possedevano quella capacità di manipolarne le variabili che contraddistingueva il vero esperto. «Sei pronto per una pausa, John?» chiese Flattery. «In qualunque momento. Come sta Prue?» «La Dottoressa Weygand adesso sta dormendo», rispose Flattery. «Ha bisogno di qualche altra ora di riposo per recuperare le forze». Perché è così formale? si chiese Bickel. Raj deve sapere che ho frequentato dei corsi con lei. Allora, per me, era sempre Prue. Perché adesso dovrebbe improvvisamente diventare la dottoressa Weygand? «Prenderò i comandi dopo il conteggio», annunciò Flattery ed iniziarono i preparativi per l'avvicendamento. Timberlake, percependo le domande che si agitavano nella mente di Bickel, comprese che l'enfasi con la quale Flattery aveva utilizzato la parola dottoressa non era indirizzata all'ingegnere elettronico. Raj voleva dirmi qualcosa, pensò. Mi stava suggerendo che potrebbero esistere delle ragioni mediche per lo strano comportamento della Dottoressa Weygand. Raj mi ha avvertito di tenere la bocca chiusa. E Timberlake scoprì di essere infastidito dal fatto che Flattery avesse ritenuto necessario lanciargli un avvertimento simile. Bickel disinserì la sua console dai comandi principali, si alzò dal lettino e iniziò una serie di esercizi ginnici per stirare i muscoli irrigiditi. Ricordando i corsi che aveva frequentato insieme a Prue Weygand - informatica, manutenzione dei servo-sensori, funzionamento della nave - si ricordò anche della donna. Era una creatura dotata di una notevole femminilità, quasi inquietante, possedeva un carattere sensibile e aveva la tendenza a far trasparire fin troppo i suoi sentimenti. Bickel si rese conto che una fotografia di Prue Weygand che dormiva avrebbe mostrato una donna piuttosto normale, dai lineamenti regolari e con un personale buono, ma non eccezionale. Tuttavia, era quel tipo di donna che attrae gli sguardi degli uomini. Irradiava un nonsoché, una qualche scintilla vitale - specialmente quando camminava. È per questo che l'ho scelta? si chiese Bickel. Interruppe i suoi esercizi per riflettere sulla questione. Una donna come Prue rappresentava una fonte di problemi per un equipaggio altrimenti tutto maschile - a meno che non assumessero delle droghe anti-S. Ma non potevano permettersi di ral-
lentare i loro riflessi in quel modo. L'ho scelta perché, in una nave in cui ognuno è in quintupla copia, lei sembra essere unica, Bickel rassicurò se stesso. È esperta in ecologia, informatica e medicina. E ci sarà dannatamente utile. Ma i suoi dubbi rimasero. Bickel li costrinse ad abbandonare la sua mente lanciando un'occhiata tutt'intorno alla sala comando e focalizzando la sua attenzione sulla nave. La nave, il suo computer, i coloni ibernati - erano una serie di risorse che Bickel sentiva di poter inserire in un solo schema logico, per valutarle e usarle nella maniera giusta. Percepì la nave che lo circondava, con i suoi sedici gusci uno all'interno dell'altro, un'enorme massa ovoidale di quasi un miglio di lunghezza. Al di là dello schermo d'acqua e dei deflettori che proteggevano il nucleo, si trovavano miglia di corridoi, tubi di collegamento e compartimenti autosigillanti. Ed in quell'immenso labirinto erano alloggiate le complesse apparecchiature che rendevano possibile la vita umana in un ambiente alieno. Nelle vasche d'ibernazione erano ospitati duemila umani adulti, mille embrioni umani e più di seimila embrioni animali - «un'ecosistema completo». Bickel si voltò e guardò la propria tastiera di computer. Il suo piano comportava il rischio di danneggiare il computer, ma correre quel rischio era necessario. Gli altri potevano opporglisi, ma alla fine avrebbero ceduto. Osservò Flattery, impegnato con la console di comando, e Timberlake, che si stava sottoponendo ad un massaggio rilassante eseguito dal suo lettino, poi rivolse nuovamente la sua attenzione sulla tastiera. Il computer dell'Uovo di Latta era essenzialmente un sistema multifunzionale, dotato di un timer interno a laser di rubini che gli permetteva di organizzare cronologicamente ed in «tempo reale» le proprie «esperienze». Incorporava più di 800.000 programmi specializzati (installati consumando un'incredibile quantità di tempo-lavoro). Bickel considerò il potenziale del computer, non ancora messo interamente alla prova: il suo tempo operativo di un trinanosecondo e i suoi complessi circuiti gli consentivano di gestire migliaia di programmi simultaneamente. Il suo nucleo di memoria centrale, dotato di enormi riserve di funzioni di allocazione, diramazioni e reti d'allarme, era in grado di eseguire milioni di elaborazione-dati in un tempo infinitesimale. Con uno NMO collegato come programma di supervisione - cioè, come responsabile supremo delle decisioni - il computer e la nave da esso con-
trollata erano stati simili ad una creatura vivente di metallo. Ma tre cervelli si erano guastati, dopo essere stati collegati a quel sistema, complesso e delicato nello stesso tempo. E Bickel - il pragmatista - si fidava soltanto di ciò che funzionava. Senza uno NMO, il computer di bordo rimaneva un'inerte massa di macchinario le cui elaborazioni di risposta ad un qualunque quesito seguivano uno schema fisso e potevano essere accettate o rifiutate soltanto dopo che fosse intervenuta una decisione umana. «Quanto tempo ci vuole prima che Prue ci raggiunga?» chiese Bickel. «Circa tre ore», rispose Timberlake. «Voglio la sua opinione sulle autopsie», disse Bickel. «Non sono soddisfatto dell'esame a cui abbiamo sottoposto i primi due cervelli». Timberlake interruppe il massaggio e diresse verso Flattery uno sguardo indagatorio. Lo psichiatra-cappellano si limitò a sorridere, ricordando a se stesso che Bickel era talmente incline al ragionamento logico, con un totale disdegno per tutto il resto, da sembrare alle volte rozzo. «Base Lunare ci porrà delle domande alle quali non abbiamo risposta», disse Bickel. «Non possiamo permetterci di apparire incerti». Scrutò Timberlake. «Ci sottoporranno ad un esame minuzioso - dai sistemi vitali a..?» «I sistemi vitali erano perfetti!» scattò Timberlake. «Faremmo meglio ad essere in grado di provarlo», replicò Bickel. «Ho controllato l'intera console, quando il Cervello Uno si è guastato», insisté Timberlake. «Esaminala tu stesso». «L'ho fatto. E un paio di cose mi rendono perplesso. Il Cervello Uno preferiva essere chiamato Myrtle. Per quale motivo? Non ho trovato nulla nella memoria del computer che spiegasse ciò - tranne che il Cervello Uno era stato rimosso da una mostruosità genetica il cui sesso era probabilmente femminile». «Il sistema vitale personale di Myrtle fu controllato a Base Anders, e risultò che si scostava dello .0002 dal centro omeostatico», replicò Timberlake. «I suoi sistemi vitali di riserva erano in stand-by e pronti ad attivarsi». «Non lasciare che il fatto che preferisse considerarsi di sesso femminile ti svii», aggiunse Flattery, rivolgendosi a Bickel. «Era a nostro beneficio affinché potessimo antropomorfizzare lo NMO della nave». «Sì», ribatté Bickel. «Questo è quello che ci hanno detto tutti. E se si fossero sbagliati?» «Quei cervelli erano perfetti quanto quelli di qualunque altro neonato»,
disse Flattery, e si chiese perché permettesse al modo di ragionare di Bickel di irritarlo. «Va bene, sono cresciuti come parte di un sistema totale nave-sensori-servosistemi. E allora? Non conoscevano altri modi di vita né volevano...» «Hai detto che un paio di cose ti rendevano perplesso», lo interruppe Timberlake. «Qual è l'altra?» «Il tuo rapporto sui sistemi vitali di Myrtle», rispose Bickle, «annotazione 9107. Essa dice: "nessuno dei sistemi sembra essere difettoso". Perché hai usato la parola sembra, Tim? Hai qualche dubbio che non hai inserito nel rapporto?» «Nessun dannato dubbio!» ribatté Timberlake. «Quei sistemi erano perfetti!» «E allora perché non l'hai scritto?» «Voleva soltanto essere cauto», intervenne Flattery. «Se hai letto le registrazioni, avrai senza dubbio notato che il mio referto medico conferma le sue conclusioni sotto ogni aspetto». «Tranne uno», lo contraddisse Bickel. «E qual è?» chiese Timberlake. Rosso in viso, fulminò Bickel con lo sguardo. Un muscolo gli si contrasse lungo la mascella. Bickel ignorò i segni della rabbia dell'altro e rispose: «Niente spiega le ustioni interne che Raj ha rilevato in quei cervelli. "Ustioni interne", scrivi, "specialmente lungo i collaterali assonici ipersviluppati del lato afferente". Cosa diavolo vuoi dire con ipersviluppati? Ipersviluppati a paragone di cosa?» «Un condotto che arriva fino ai centri più alti del cervello era circa quattro volte più grande di qualunque altro condotto che io abbia mai visto», rispose Flattery. «Non ne conosco il motivo, ma suppongo che si tratti di una crescita compensatoria. Questi NMO devono gestire una miriade di dati-bit in ingresso provenienti da molti più organi sensori di quanto un normale cervello umano è costretto a fare. Avrai notato che anche i lobi frontali erano più grandi, ma che i...» «I manuali sul funzionamento degli NMO questo lo spiegano», replicò Bickel. «Crescita compensatoria, certo, ma non ho trovato nulla su collaterali assonici ipersviluppati. Neppure una parola». «Questi cervelli sono rimasti collegati al sistema per molto più tempo di qualunque altro sia mai stato esaminato», spiegò Timberlake. «La letteratura in materia riporta che, in precedenza, soltanto altri quattro sono morti per case naturali e noi...»
«Cause naturali?» chiese Bickel. «Qual è una causa naturale fatale per uno NMO?» «Sai bene quanto me quali sono», disse Flattery. «Incidenti della materia irritante nel bagno nutritivo, uno scudo anti-radiazioni abbassato per...» «Questi sono errori umani, e non dello NMO!», replicò bruscamente Bickel. «Non sono naturali. E c'è un'altra cosa: Myrtle è caduta in uno stato catatonico, o come volete chiamarlo, appena dieci giorni, quattordici ore, otto minuti e undici secondi dopo aver lasciato Base Lunare. Allora abbiamo attivato Piccolo Joe ed è durato sei giorni, nove ore e un secondo. E così abbiamo affidato la nave a Harvey - la nostra ultima speranza - e lui ha resistito esattamente quindici ore. Poi: kaputt!» «Lo stress diventava sempre più forte, e loro si sono guastati sempre più in fretta», spiegò Flattery. «Ma avrai notato che le ultime parole di ciascuno di loro tradivano un tipo di deterioramento cerebrale affine a quello provocato dalla schizo...» «Affine?» esclamò beffardo Bickel. «Ecco tutto quello che si ricava da quei dannati rapporti: "Qualcosa di simile a...", "Una condizione che ricorda uno dei...", "Affine a..."». Il suo sguardo irato si spostò da Flattery su Timberlake. «La verità è che non sappiamo un bel diavolo di nulla di quello che succede nella materia grigia di uno NMO». Un ticchettio accompagnato da un ronzio eruppe dalla console principale sopra la testa di Flattery. Bickel rimase in attesa mentre Flattery eseguiva faticosamente una regolazione manuale della temperatura in una stiva interna. Infine, Flattery si asciugò il sudore dalla fronte e studiò i suoi indicatori per essere sicuro che l'equilibrio fosse stato ristabilito. «Accidenti, quella console ti uccide», mormorò Timberlake. «Non mi meraviglio che quegli NMO non ce l'abbiano fatta». Distogliendolo dalla tastiera, Flattery si azzardò a rivolgere per un attimo lo sguardo su Timberlake. «Sai bene che non è così, Tim. Uno NMO funzionante avrebbe eseguito questa parte del lavoro come se si trattasse di un gioco da ragazzi. Avrebbero potuto occuparsi della maggior parte dei problemi di omeostasi della nave con un qualcosa di simile ad un riflesso nervoso». «Di simile», replicò Bickel. «Va bene!» latrò Flattery, e fece finta di essere occupato con la console per nascondere la confusione che gli derivava dall'aver permesso a Bickel di contraddirlo a quel modo.
Un lungo silenzio calò sulla sala comando e venne infranto quando Flattery, riacquistata la calma, disse: «Stavo per farvi notare come le registrazioni finali di ciascun cervello contengano frasi simili a quelle scritte da pazienti schizofrenici. Vogliono sembrare dotate di significato, e qualche volta sono estremamente pittoresche, ma l'essenziale...» Si interruppe quando sulla console principale apparvero tre strisce diagonali di un giallo lampeggiante. Le mani di Flattery saettarono verso i controlli mentre Bickel urlava, «Fluttuazione di gravità!» e si tuffava verso il suo lettino. I bozzoli dei lettini li avvolsero, e i tre percepirono le variazioni di peso, che li sballottarono, causate dalla fluttuazione incontrollata del sistema che stabilizzava il centro di gravità - lo stesso inaspettato sbalzo di gravità che aveva ucciso Maida. Bickel osservò le mani di Flattery che faticosamente riequilibravano il sistema. Lo sballottamento e la nausea iniziarono ad attenuarsi. Infine, Flattery eseguì una regolazione accurata dei controlli del centro di gravità e riprese a parlare come se non fosse avvenuta alcuna interruzione: «Myrtle, ve lo ricorderete, ha detto: "Non ho incarnazione". E questa può essere stata l'unica cosa vera del suo delirio verbale. Dopo tutto, eccetto la materia grigia, non aveva corpo. Ma poi, ricordate, dopo un lungo silenzio ha detto: "Sto contando le mie dita". Non aveva mai avuto delle dita, non possedeva alcun ricordo conscio di esse. E quella domanda finale: "Perché siete tutti così morti?" La supposizione migliore è che ogni significato contenuto nelle sue affermazioni e nelle sue domande era puramente accidentale». «Io penso che si riferisse a noi, all'equipaggio», disse Bickel. «È una follia, sicuro, ma era una domanda diretta fatta attraverso i vocoder e noi eravamo gli unici interlocutori possibili». «A meno che non si riferisse ai coloni nelle vasche d'ibernazione», rifletté Flattery. «Potrebbero dare l'impressione di essere morti, da un certo...» «Myrtle era in contatto diretto con i sensori delle vasche», puntualizzò Timberlake. «Avrebbe dovuto sapere che erano vivi». Bickel annuì. «E cosa ne dici di quello che Piccolo Joe gridava attraverso tutti i vocoder della nave: "Sono sveglio! Dio mi aiuti, sono sveglio!"» «Un grido d'aiuto, forse», ipotizzò Flattery. «La maggior parte dei discorsi deliranti di un pazzo sono una richiesta d'aiuto, in un modo o nell'altro». «Ma poi c'è Harvey», riprese Bickel. «Harvey urlava: "Mi state costrin-
gendo a star male". E quando noi...» «Cosa potevamo fare?», chiese Timberlake, e Bickel percepì una nota isterica nella sua voce. «Non c'era niente che non andasse nei loro sistemi vitali. Ne sono sicuro?» «Calma, Tim», l'esortò Flattery. «Era soltanto un'altra affermazione senza senso». «...però sapevamo tutti quel che significava», insisté Bickel. «Nessuno si è sorpreso quando Harvey ha detto: "Sono perduto!" e poi ha interrotto le comunicazioni... permanentemente. Ce lo aspettavamo, lo sapete. E poi ci siamo ritrovati con tre cervelli morti e nessun ricambio». Il modo in cui Bickel aveva esposto il problema, diretto e privo di tatto, provocò un moto di tristezza in Timberlake, che non riuscì a spiegarsi quella reazione. Non era mai stato profondamente attaccato agli NMO. C'era sempre stato qualcosa di leggermente accusatorio nelle «creature della nave». Raj Flattery gli aveva assicurato che si trattava soltanto di un'impressione soggettiva, generata dalle sue convinzioni. Raj era sempre stato sicurissimo che le entità NMO-nave-computer fossero perfettamente soddisfatte del loro modo di vita, felici delle capacità compensatone che possedevano. Quali compensazioni? si chiese Timberlake. L'aspettativa di una lunga vita? Ma a cosa serve vivere tre o quattrocento anni, se ciascun anno di vita è un inferno? Timberlake comprese che nessuna delle risposte tranquillizzanti avute durante i suoi corsi aveva realmente risolto la questione principale della vita di uno NMO: la sua felicità. E se fosse davvero una maniera infernale di vivere? si chiese. Dev'esserlo per forza. Sono collegati, comefossero motori, a tutto quel metallo, quel vetro, quella plastica e davanti a loro hanno un'eternità di tempo. Forse la morte sarebbe preferibile a una vita del genere. Flattery annunciò, «Voglio dire qualcosa sulla rabbia. Ho assistito a diversi scoppi di rabbia da quando siamo in stato d'emergenza - compresi i miei». Il tono formale, l'espressione del suo viso, tutto contribuiva a segnalare che stava parlando in veste ufficiale, come loro cappellano. «La rabbia potrebbe distruggerci», li avvertì. «I Proverbi ci ammoniscono: "Colui che è rapido all'ira agisce in maniera dissennata: ed un uomo di tal fatta è sempre odiato. Colui che è lento all'ira possiede grande comprensione: ma chi ha uno spirito ardente esalta la follia". Comportiamoci e rispondiamo in modo
da evitare d'irritare gli altri». Bickel tirò un profondo respiro. Flattery aveva ragione, lo sapeva, ma egli era infastidito dal modo in cui l'uomo aveva fatto ricorso alla religione per giustificare la sua esortazione. Sarebbe stato molto più semplice dire che stavano offuscando le loro facoltà di ragionamento con un eccesso di emozioni. Ecco cosa non gli piaceva della religione, pensò - il modo in cui faceva appello all'emozione piuttosto che all'intelligenza. «Siamo stati dispersivi, abbiamo tentato di fare troppo», disse. «I controlli d'emergenza che abbiamo applicato alla console principale sono una mostruosità. Quella console era stata progettata più che altro per controllare il funzionamento di uno NMO. Abbiamo bisogno di un piano coerente e meditato per risolvere i nostri problemi. Quando Base Lunare risponderà, voglio essere capace di dire che noi abbiamo...» Una brusca e possente variazione di gravità lo schiacciò contro un lato del suo lettino elastoavvolgente. Si era manifestata senza che nessun allarme acustico o luminoso si fosse attivato. Il lettino lo avvolse nel suo bozzolo, sigillando le chiusure protettive. Delle luci d'allarme rosse iniziarono a lampeggiare, insieme a quelle gialle, in lunghe file sulla console principale. Flattery colpì violentemente con il taglio della mano il tasto che spegneva il sistema di gravità. La forza di gravità fluttuò. Le luci d'allarme gialle si spensero quando i loro tasti corrispondenti vennero premuti. Rimaneva soltanto una fila di luci rosse. «Danno allo scafo tre, sezione sei/quattrodici», annunciò Flattery. Iniziò ad attivare i telesensori per ispezionare l'area. Inconsciamente e senza proteste, Bickel assunse il comando della nave: «Tim, occupati dei ripetitori G. Lascia disinserita la gravità mentre controlli i relay e riporti il sistema in equilibrio». Timberlake avvicinò a sé la sua console per obbedire. Bickel fece scorrere la tastiera AET al suo fianco, digitò i comandi che attivavano il controllo computerizzato della nave ed iniziò a inviare domande in codice ai registratori del nucleo. Che cosa aveva incontrato la nave, che potesse spiegare quella brutale variazione di gravità? Cosa avevano registrato i sensori automatici? I nastri di risposta cominciarono ad arrivare quasi immediatamente - fin troppo in fretta. «Dati errati», commentò Flattery, leggendoli dal di sopra delle spalle di Bickel.
In un improvviso accesso di furia, Bickel premé il pulsante che disattivava la console principale, collegò dei jack di prova ai controlli dell'AET, aprì il sistema del nucleo per un esame standard. «Sei entrato nel nucleo!» lo avvertì Flattery, con voce resa tagliente dalla paura. «Non hai né fusibili di sicurezza né programmi di riferimento. Potresti danneggiare le istruzioni di comando». «Fermati!» gridò Timberlake, sollevando la testa dai bloccaggi del suo bozzolo per fissare con ira Bickel. «State zitti, tutti e sue. Sicuro, il nucleo è delicato, ma qualcosa là dentro è già danneggiato - e tanto da ucciderci tutti». «Pensi di avere il tempo di controllare ottocentomila programmi?» chiese Timberlake. «Non dire follie!» «Esistono ordini specifici contro quello che stai facendo», disse Flattery, sforzandosi di mantenere un tono ragionevole. «E tu sai perché». «Non tentare di insegnarmi il mio lavoro», lo avvertì Bickel. Mentre parlava, fece scorrere delicatamente, in contatto diretto, i risponditori della memoria del nucleo, per evitare un ritorno di corrente. «Fai un solo errore», disse Timberlake, «e ci vorranno sei o settemila tecnici con un secondo sistema principale e molte migliaia di relay d'imprint per riparare il danno. Sei pronto a...» «Smettetela di distraimi!» «Cosa stai cercando?» chiese Flattery, interessato nonostante la sua paura. Aveva compreso che Bickel, condizionato da profonde inibizioni che gli impedivano di tornare indietro, sarebbe stato incapace di fare qualsiasi cosa che li privasse di uno degli strumenti fondamentali per poter continuare il loro viaggio. «Sto controllando la disponibilità di periferiche della memoria del nucleo», rispose Bickel. «Dev'esserci una derivazione o un blocco da qualche parte. E lo troverò negli avvolgimenti di acquisizione dati e controllo di fase». Annuì in direzione di un misuratore diagnostico sulla sua tastiera. «Ecco?» L'ago del misuratore raggiunse l'apice della scala, ricadde sullo zero, e rimase là. Lentamente, Bickel inserì un programma diagnostico principale a contatto diretto, rimise il supporto del nucleo sull'ausiliaria dotata di fusibili, iniziò a far scorrere la sezione della memoria del nucleo che aveva causato dei problemi. Basandosi solo occasionalmente su ciò che gli comunicava il nucleo, costrinse il programma ad entrare attraverso i canali di riferimento dati che erano stati modificati dal nuovo sensore d'input.
Delle derivazioni erronee iniziarono a ticchettare dai risponditori. Bickel tradusse a voce alta le cifre in codice che via via apparivano sullo schermo della sua tastiera. «Regione di previsione/memoria del nucleo resa inattiva. La massa e la dispersione protonica relative alla rotta/massa/velocità della nave non hanno rispettato le previsioni». Bickel commentò, «Stiamo colpendo qualcosa che non è idrogeno, e che è presente in concentrazioni inaspettate - in parte a causa del nostro rapporto massa/velocità». «Venti solari», sussurrò Timberlake. «Avevano detto che...» «Venti solari un corno?» sbottò Bickel. «Guarda lì». Annuì in direzione di un gruppo di cifre in codice che stava scorrendo lungo lo schermo. «Un nucleo con ventisei protoni», disse Timberlake. «Ferro», spiegò Bickel. «Là fuori ci sono degli atomi di ferro liberi. Di conseguenza, stiamo subendo una semplice vecchia deflessione magnetica del campo di gravità». «Dovremo ridurre la velocità della nave», commentò Timberlake. «Che assurdità!» esclamò con enfasi Bickel. «Inseriremo un interruttore di sicurezza nel sistema G. Non capisco perché diavolo i progettisti non l'abbiano fatto loro in primo luogo». «Forse non riuscivano a concepire una forza abbastanza potente da squilibrare il sistema», ipotizzò Flattery. «Non ne dubito», commentò Bickel con voce disgustata. «Ma quando penso che un semplice interruttore avrebbe potuto impedire la morte di Maida...» «Si sono affidati anche ai riflessi dello NMO», gli ricordò Flattery. «Lo sai». «Quel che so è che non hanno tenuto conto di tutte le eventualità», ribatté Bickel. Aprì il bozzolo del suo lettino, regolò la sua tuta per gli spostamenti, e si lanciò in diagonale attraverso la sala di comando, raggiungendo il portello della sezione Attrezzi e Riparazioni. Il fatto di galleggiare privo di peso gli ricordò che avevano un limite di tempo per ripristinare la gravità. Un periodo troppo lungo in condizioni di gravità zero e l'equipaggio avrebbe sofferto un danno fisico permanente. Rimanevano loro circa due ore e mezza, in tutta sicurezza. Bickel afferrò la maniglia del portello, estrasse il carrello degli attrezzi. Lavorò in silenzio, rabbiosamente, con movimenti rapidi e decisi, e presto
fissò un interruttore d'emergenza al cavo principale che forniva energia al generatore di gravità. Lo collegò, provò i circuiti con una falsa carica, risistemò il coperchio. «Dovrà essere azionato ogni volta manualmente», disse. Puntò un piede contro la paratia, si diede una spinta, raggiunse il suo lettino e lo fece richiudere attorno al suo corpo. Poi lanciò una rapida occhiata a Timberlake. «Il sistema è in equilibrio?» «Per quello che si può stabilire da qui, sì», rispose Timberlake. «Fai un tentativo, Raj». Flattery si assicurò che gli altri due fossero sigillati nei loro lettini, poi premé l'interruttore della gravità. Il suono dei generatori che si riscaldavano si trasformò in un debole sibilo che si smorzò quando il sistema si stabilizzò. Flattery sentì la pressione sulle sue scapole, allungò un braccio verso la console, e lentamente eseguì una regolazione fine dei parametri stabiliti da Timberlake. «Tim», disse Bickel, «voglio gli schemi del locale dello NMO - con gli allacciamenti di ciascun sensore contrassegnati da un colore che ne indica la funzione - e ordinati da quelli meno dettagliati a quelli più dettagliati. Avrò bisogno della stessa cosa per il sistema servomeccanico, mi serve un...» «Perché?» lo interruppe Timberlake. «Stai pensando di collegare il cervello di un colono?» chiese Flattery, tentando di nascondere l'indignazione che quell'idea gli provocava. «Un cervello umano adulto probabilmente non sopravviverebbe al trasferimento», obiettò Timberlake. E si vergognò, poiché quell'idea lo affascinava. Ogni inibizione ricevuta durante il suo addestramento si ribellava contro un'operazione del genere. Ma se il sistema dello NMO fosse stato ripristinato, nessuno di loro avrebbe dovuto mai più sopportare la tremenda responsabilità di controllare la console principale. Alzò lo sguardo sulla freccia di un verde vivo che indicava che Flattery era ai comandi, e sentì lo stomaco stringersi al pensiero di quella freccia che ritornava ad indicare la sua posizione. «Che diavolo?» imprecò Bickel. «Come vi è venuta in mente quest'idea? Non l'avete certo ricavata da quello che ho detto». Sollevò la testa dal bozzolo e fece correre lo sguardo da Timberlake a Flattery. «Non sappiamo cosa sia accaduto ai tre cervelli perfetti. Perché diavolo dovrei collegarne un altro che non è stato neppure controllato?» Si rilassò. «Comunque, è impossibile. Un uomo dovrebbe avere voce in capitolo su quel che gli vie-
ne fatto. Come potremmo interpellare tutti quelli nelle vasche d'ibernazione? Non possiamo svegliarli tutti». «Stai pensando di smantellare i controlli dello NMO e di trasformarci in un sistema ecologico chiuso?» chiese Flattery. «Se è così, dovresti...» Si interruppe quando l'acuto ronzio del trasmettitore AET riempì il locale, avvertendoli che stava ricevendo un messaggio. Bickel seguì con lo sguardo il gioco di luci sulla sua console, mentre il messaggio veniva ingoiato dai ricevitori, esaminato dai blocchi di paragone, trasformato in una singola registrazione (con la percentuale probabile di fedeltà all'originale indicata accanto a ciascun fonema) e finalmente veniva rallentato per renderlo intelligibile alle orecchie umane. Per l'inferno, ce ne hanno messo di tempo, pensò Bickel. Diede un'occhiata al timer, sottrasse lo scarto temporale. Quasi sette ore. Poi pensò alle prime navi che usavano radio a canale singolo e inviavano i loro messaggi attraverso il sistema solare con una potenza di pochi watt - messaggi il cui margine d'errore era aumentato dalla distanza e dall'accumularsi delle interferenze contrarie. Il sistema di comunicazione dell'Uovo di Latta, invece, era stato progettato per inviare attraverso distanze interstellari rapporti automatici controllati dal computer per informare la Terra su come andassero le cose nel loro viaggio d'esplorazione. Squillò il segnale acustico che li avvertiva che il messaggio era pronto. Bickel premé il tasto del vocoder. La voce di Morgan Hampstead, il direttore della Base Lunare Unificata, provenne dagli altoparlanti, perfettamente riconoscibile e ancora dotata del suo timbro freddo e metallico, preservato dai circuiti dell'AET. «Da Controllo Progetto alla nave Terrestre della BLU. Vi parla Morgan Hampstead. Speriamo voi comprendiate la nostra angoscia e la nostra preoccupazione. Ogni decisione, da questo momento in poi, deve avere come direttiva primaria la protezione delle vostre vite e di quelle dei coloni». E questa è la parte ufficiale, pensò Flattery. Ci sono sette nazioni e quattro razze rappresentate nelle vasche d'ibernazione - ma siamo tutti sacrificabili come quelli che sono partiti prima di noi. «Abbiamo da farvi molte domande d'importanza primaria», disse Hampstead. Anch'io ne ho qualcuna, pensò Bickel. «Perché il Controllo Progetto non è stato avvertito quando il primo Nucleo Mentale Organico si è guastato?» chiese Hampstead. Bickel cancellò mentalmente la domanda. Conosceva la risposta, ma non
era un qualcosa che avrebbe potuto trasmettere. Hampstead lo sapeva bene quanto lui. L'Uovo di Latta possedeva la forza di un progetto che era sopravvissuto a sei fallimenti. Niente, tranne un fallimento definitivo, li avrebbe costretti ad invertire la rotta. Niente, tranne un'emergenza disperata, avrebbe fatto loro rischiare di annullare la missione invocando soccorso. «Il riferimento Doppler indica che uscirete dal sistema solare in approssimativamente trecentosedici giorni, mantenendo costante l'attuale velocità», comunicò Hampstead. «Tempo previsto per l'arrivo a Tau Ceti: più di quattrocento anni». Bickel, mentre ascoltava, con la mente rievocò l'aspetto dell'uomo che stava parlando: il volto scolpito nella pietra, i capelli grigi e gli occhi grigio-azzurri - quell'aura di decisione che conferiva anche al suo più piccolo gesto un'estrema importanza. Quando non era presente, i ragazzi della sezione psicologica lo chiamavano «Grande Papà», ma scattavano per obbedire ai suoi ordini. Adesso, Bickel rifletté sul fatto che si erano aspettati di non vedere mai più Hampstead, eppure quell'uomo poteva ancora influenzare il loro comportamento con le sue decisioni. «Una prima analisi indica queste possibilità», continuò Hampstead. «Potreste invertire la rotta e ritornare ad orbitare intorno a Base Lunare, finché il problema non venga risolto e vengano istallati dei nuovi Nuclei Mentali Organici. E questo ci riporterebbe al vecchio problema del controllo sterile in condizioni men che ideali. Eliminerebbe anche la situazione in cui si è manifestata la probabile causa della rottura degli NMO, rendendo forse impossibile la soluzione del problema». «È sempre stato un chiacchierone», commentò Timberlake. «La seconda possibilità», proseguì Hampstead, «sarebbe quella di convertire la nave in un sistema ecologico chiuso e di continuare alla velocità attuale, svegliando dei rimpiazzi dalle vasche d'ibernazione oppure allevandoli e facendoli crescere dal tessuto bioptico disponibile. Ovviamente, dovreste affrontare un alto rischio di danni genetici a causa della necessità di rimanere fuori degli scudi del nucleo abbastanza a lungo da costruire degli alloggiamenti per un'occupazione prolungata. Comunque, il cibo rimarrebbe il vostro problema maggiore, a meno che non adottiate un sistema di riciclaggio strettamente integrato». «Riciclaggio strettamente integrato», disse Flattery. «Vuol dire far ricorso al cannibalismo. Se ne era discusso». Bickel si voltò per fissare Flattery. L'idea del cannibalismo era ripugnante, ma non era stato quello ad attirare l'attenzione di Bickel. «Se ne era di-
scusso». Quella semplice affermazione conteneva interi volumi di domande senza risposta e di implicazioni nascoste. «La terza possibilità», stava dicendo Hampstead, «sarebbe di dotare il robo-pilota della coscienza necessaria, usando il computer della nave come base di partenza. Le nostre stime indicano che avete materiali sufficienti, incluse le dotazioni di fasci neuronici destinati ai robot della colonia conservate nei magazzini. Ciò è teoricamente fattibile». «Teoricamente fattibile?» ripeté con scherno Timberlake. «Ma davvero pensa che non abbiamo sentito parlare di tutti i fallimenti...» «Shhh», sibilò Flattery. «Il Consiglio del Progetto vi suggerisce di mantenere la vostra rotta a questa velocità», disse Hampstead, «fin tanto che rimarrete all'interno del sistema solare. Se una soluzione non sarà stata trovata per allora, la nostra opinione attuale è che vi sarà ordinato di invertire la rotta». Seguì un lungo silenzio, poi: «...a meno che non abbiate altri suggerimenti». «Vi sarà ordinato di invertire la rotta» pensò Flattery. Si voltò per osservare come quelle parole chiave agivano su Bickel. Erano dirette principalmente a lui, erano state studiate per ottenere il massimo effetto, per far scattare le sue motivazioni più profonde. Bickel rimase in un silenzio pensoso, fissando in alto, verso l'analizzatore collegato al vocoder, per controllare la fedeltà del messaggio. «In questo momento», continuò Hampstead, «il Controllo del Progetto richiede un rapporto dettagliato sulle condizioni dei sistemi della nave, e specialmente di quelle delle vasche d'ibernazione. È stato calcolato che l'allungamento del viaggio aumenterà la probabilità di guasti nel sistema d'ibernazione. Siamo d'accordo sulla necessità di svegliare dei sostituti. Dietro vostra richiesta, vi forniremo suggerimenti su chi deibernare. Condividiamo il vostro dolore per l'accaduto, ma il Progetto deve continuare». «Un rapporto dettagliato su tutti i sistemi dellanave», commentò Timberlake. «È impazzito». Come sono state fredde le frasi di cordoglio di Hampstead, rifletté Flattery. La loro formulazione tradiva la cura con cui erano state composte. Abbastanza dolore; non troppo. Il vocoder emise delle scariche attutite dai filtri, poi: «Qui è Morgan Hampstead che chiude la trasmissione. Confermate di averla ricevuta e rispondete alle nostre domande immediatamente. BLU chiude». «Hanno taciuto su troppe cose», commentò Bickel. Percepiva le "ragioni politiche" che avevano impedito al messaggio di essere più esauriente. Il
sottile filo politico su cui si stavano muovendo era stato tradito da quello che non era stato detto. «Dotare di coscienza il nostro computer», grugnì Timberlake. «Ma a quale grado di stupidità possono arrivare?» Lanciò un rapido sguardo a Bickel. «John, tu hai partecipato ad uno dei tentativi originali su BLU. A te l'onore di dire al "Grande Papà" dove può ficcarsi la sua idea». «Quel tentativo fallì, ed in maniera eclatante», fu d'accordo Bickel. «Ma la terza ipotesi prospettata da Hampstead, quella di creare la coscienza, rimane ancora l'unica linea d'azione reale che possiamo intraprendere». Timberlake continuò a parlare in fretta, come se non l'avesse neppure ascoltato: «Alcune delle persone coinvolte nel fiasco della BLU ci fanno sembrare dei dilettanti». Flattery, però, aveva sentito, e nascose un sorriso pieno di sottintesi, voltandosi e parlando con tono mite: «Tutti noi abbiamo letto quel rapporto, Tim». «L'unica parte che valeva la pena di leggere era la conclusione finale». Il tono di voce di Timberlake si elevò in un falsetto beffardo. «Risultato impossibile da conseguire, dato il livello tecnologico attuale». «Quella era una scusa, non una conclusione», replicò Bickel. E ripensò alla ricerca infruttuosa, condotta a Base Lunare, sul Fattore Coscienza Artificiale. C'era sempre stata quella parete sterile tra il suo gruppo ed il personale della base, ma le pareti di vetro triplo non avevano mai nascosto il fallimento, che del resto aveva aleggiato intorno al progetto fin dall'inizio. Si erano persi in viluppi di fibra pseudoneuronica, nelle luci ammiccanti e nello schiocco dei relay, nel sibilo delle bobine di nastro magnetico e nell'acuto odore d'ozono - isolante bruciato - che proveniva dai circuiti in sovraccarico. Avevano cercato una maniera meccanica di fare quel che anche il meno intelligente tra loro era capace di fare all'interno del proprio corpo - essere conscio. E avevano fallito. Su tutti loro era aleggiata una paura mai espressa, provocata dalla conoscenza di quel che era successo all'unico progetto che, apparentemente, aveva raggiunto l'obiettivo... il proprio destino... di ritorno sulla superficie della Terra. Timberlake si schiarì la gola, estrasse una mano dal suo lettino chiuso a bozzolo e si studiò le unghie. «Bene, come risponderemo alle loro dannate domande? Laggiù, devono vivere in un mondo di sogno, se si aspettano che siamo in grado di produrre un rapporto dettagliato sui sistemi della nave senza l'aiuto di uno NMO».
«Ma dovevano chiedercelo», replicò Bickel. «E noi dovremo fornirglielo. Ogni nazione coinvolta in questo progetto è preoccupata dei propri ibernati. Tim, tu hai sentito le voci che giravano. Ciascuno di noi ha avuto il suo colloquio con un appartenente, scelto casualmente, alla stessa nazione dei nostri originali. Non abbiamo sentito parlare di complotti volti ad eliminarci tutti, tranne i cittadini di una o dell'altra nazione? O che i rappresentanti politici di questa o quella nazione erano in contatto con l'uno o l'altro di noi per indottrinarci?» Bickel guardò Flattery. «Il tuo originale era svedese, Raj. Sappiamo tutti quante pressioni ha fatto la Svezia all'ultimo minuto affinché tu venissi inserito nell'equipaggio. Non si pensava che tu ce la facessi». Flattery scrollò le spalle. «Al mio posto era previsto un altro, ma lui..?» «Il suo punteggio non era migliore del tuo. Non volevo sottintendere che un uomo non qualificato abbia ottenuto questo posto. Ma sono state esercitate delle pressioni politiche». Alle volte, questo Bickel è straordinariamente consapevole delle sottigliezze, pensò Flattery. Devo avvertire Prudence. «Tutti noi abbiamo rinunciato alla nostra nazionalità, John». «Proprio come abbiamo rinunciato a nascere normalmente, da due genitori», replicò Bickel. «È stato facile. Qualcuno ha deciso per noi. Ma i tre morti rappresentavano Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. E sulla Terra ci sono delle persone che cominceranno a ragionarci sopra. Avrete notato che Hampstead non ci ha detto chi svegliare dall'ibernazione. Scommetto che è un argomento scottante! E voi sapete bene quanto me perché hanno lasciato questa faccenda alla nostra discrezione: vogliono vedere chi scegliamo, per poi interpretare la nostra scelta». «Non puoi parlare sul serio», obiettò Timberlake. «Le persone non ragionano in maniera...» «Alcune lo fanno», ribatté Flattery. Continuò a concentrare la sua attenzione su di una minuscola bolla di vernice sul rivestimento della console principale, e disse, scegliendo con cura le parole: «La nave deve possedere un meccanismo dotato di coscienza che la controlli durante la parte più lunga del viaggio, John. Deve possederlo per forza. Il viaggio implica l'affrontare troppe emergenze a cui si deve porre riparo nel giro di pochi istanti. Dunque, cosa facciamo?» «E lo chiedi a me?», ribatté Bickel. «Lo psichiatra sei tu». Ma non sono colui che fornisce le motivazioni, pensò Flattery. Non sono colui che può conferire uno scopo ai nostri sforzi.
«Risolvere questo problema richiederà metodi più diretti», disse. Bickel lo fissò. «Be', e che direte a quelli del Progetto?» chiese Timberlake. «Vogliono sapere perché non li abbiamo avvertiti, quando il primo dei cervelli è andato in malora. Di tutte le...» «C'è un'altra questione», disse Bickel, spostando la sua attenzione su Flattery. «Non ci hanno fornito alcun codice per questa particolare emergenza. Dobbiamo presumere che fossero assolutamente certi dell'impossibilità, per gli NMO, di guastarsi? Assolutamente no! Di conseguenza, dobbiamo presumere che avessero qualche altro motivo. Lo hanno fatto, avendo in mente uno scopo ben preciso». «All'inferno!» protestò Timberlake. «Vuoi trovare disegni oscuri anche dove non esistono, Bick». Bickel scosse la testa? «No... ci hanno fatto capire chiaramente che, una volta partiti, siamo noi i soli responsabili. Siamo noi a dover costruire un meccanismo che guidi l'Uovo di Latta nel suo lungo viaggio». Sta girando intorno al cuore del problema, pensò Flattery. Ma quando capirà la verità? Bickel si umettò le labbra. Quella conversazione reticente, attenta ad evitare di riconoscere che c'era bisogno di una coscienza che controllasse la nave, lo disturbava profondamente. Era troppo onesto con se stesso per ignorare quel fatto. Timberlake, riannodando i fili di una conversazione precedente, disse: «Non c'era alcuna ragione fisica per la quale quei cervelli avrebbero potuto guastarsi. I sistemi vitali erano perfetti. È come se si fossero suicidati... sotto la spinta di una tensione ignota». Con un gesto brusco, Bickel regolò la tastiera dell'AET per la trasmissione: «Va bene, cercheremo di tirarla per le lunghe, per quanto riguarda il rapporto dettagliato. In tutti i casi, sanno benissimo che ci vorrà del tempo. E sul motivo per cui non li abbiamo avvertiti in precedenza, ho deciso di dirgli semplicemente che hanno commesso uno sbaglio nel non darci un codice per questa particolare emergenza. Se loro...» «Non otterrai altro esito che far arrabbiare Hampstead», protestò Flattery. «Un Hampstead arrabbiato ci aiuterà più di un Hampstead dalla mente lucida e pronta ad ingannarci», rispose Bickel. «Se è arrabbiato, commetterà degli errori. Si lascerà sfuggire qualcosa che potrebbe esserci veramente d'aiuto».
«Cosa ti fa pensare che il Grande Papà tenterebbe di imbrogliarci?» gli chiese Timberlake. «Stiamo parlando di un amministratore politico. Anche se in maniera inconscia...» Bickel esitò; gli era balenata in mente un'idea... e poi era subito svanita. Riprese a parlare, con un tono di voce più basso: «Anche se in maniera inconscia, anteporrà le considerazioni politiche a tutto il resto. I suoi primi sforzi saranno volti a conservare se stesso al potere. Invece, noi ci troviamo in una situazione in cui dobbiamo dimenticare le questioni politiche per concentrarci sul problema più immediato. Per far ciò, però, dobbiamo prendere tempo, lasciarli in sospeso, e capire le cose di cui abbiamo bisogno. E vedrete che poi riusciremo ad ottenerle». Abile, sottile e capace di una notevole astuzia, pensò Flattery. Questo Bickel dev'essere sorvegliato molto attentamente. «Le cose di cui abbiamo bisogno», disse Timberlake. «Quali, per esempio?» «I consigli di alcuni specialisti della Base Lunare, e l'uso di tanto tempocomputer quanto sono in grado di darci». «Non puoi separare la politica da tutto il resto», obiettò Flattery. «Non farai altro che provocare agitazione e...» «Se vuoi vedere cosa c'è nel fondo della pentola, la devi agitare, e molto», replicò Bickel. «E voglio che ci forniscano una definizione di coscienza». Ancora una volta mi ha preceduto, pensò Flattery. Devo smetterla di sottovalutarlo. Uno sbaglio potrebbe rovinare tutto. Prudence era salita in sala comando sentendosi ancora debole e disorientata. Era ovvio che l'avvicendamento al comando della nave si era svolto più in fretta del previsto, e lei era stata costretta a superare la debolezza del suo corpo indossando una maschera di benessere e di compostezza che in realtà non esistevano. La sala di comando ovoidale non avrebbe dovuto confonderla - aveva trascorso fin troppe ore d'addestramento tra quei quadranti, indicatori, tubi e console prima della partenza... ma la sensazione di disorientamento non accennava a svanire. Poi, mentre la sua mente si schiariva, notò i sottili cambiamenti nei collegamenti, nei controlli e nei dispositivi di lettura dati, e riconobbe l'opera di Bickel. Comprese che tutti quei cambiamenti erano necessari per guidare manualmente la nave, ma si rese conto anche di quanto tutto quel che era stato
fatto fosse inadeguato alla bisogna. Fu allora che capì in quale situazione precaria si trovassero, e rivolse la sua attenzione su Flattery, che stava terminando il suo turno ai comandi della console principale. Dai suoi movimenti era chiaro che era estremamente stanco - essi erano ancora precisi, dotati di una sicurezza degna di un chirurgo, ma il modo in cui si rilassava bruscamente dopo ogni regolazione dei comandi tradiva che le sue energie si stavano esaurendo. Dovrebbe essere sostituito subito, pensò Prudence, ma sapeva di non essere ancora pronta ad avere quella freccia verde puntata su di lei, e non era sicura delle condizioni di Bickel e Timberlake. Quest'ultimo pareva irradiare un cupo silenzo. Bickel l'aveva salutata abbastanza calorosamente, e poi l'aveva incaricata di effettuare un mucchio di programmazioni. Chiaramente, lo scopo era quello di costruire un modello elettronico di multi-simulazione dell'input/output della memoria del computer centrale. Una buona parte della programmazione doveva ancora essere completata. Si rilassò di nuovo nel suo lettino, ed esaminò il risultato di una serie di istruzioni di prova che era comparso sullo schermo accanto a lei. Percepì il bozzolo avvolgente del lettino attraverso la tuta e desiderò che il suo corpo avesse avuto più tempo per recuperare completamente le forze, dopo essere stato sottoposto alla dura prova della deibernazione. Tutto ciò che la circondava, però, la esortava a rimettersi al lavoro. Non c'era tempo per concedersi il lusso di un recupero graduale. Va bene, sei così orgogliosa della tua posizione e del tuo titolo... Dottoressa Prudence Weygand, si disse. Sei stata tu a voler fare questo lavoro. Sai quel che devi fare; dunque fallo... La sua abituale auto-analisi questa volta non riuscì a ricostituire le sue energie, e si costrinse a nascondere ogni segno di debolezza prima di parlare. «Questa volta Base Lunare ci mette più del solito a rispondere», commentò. «E ho sottoposto loro delle domande». «Sono troppo occupati a decidere cosa significa davvero la nostra risposta», le disse Bickel. «Oppure staranno lambiccandosi le meningi cercando un modo per dirci che dobbiamo affrontare un problema troppo superiore alle nostre forze», disse Timberlake. Prudence percepì la paura nella voce dell'uomo. «Raj è rimasto ai comandi per quattro ore. Non è arrivato il momento che qualcuno gli dia il
cambio, Tim?» Flattery sapeva quel che Prudence stava facendo, ma non poté impedire che un brivido di tensione gli corresse lungo la spina dorsale. C'era sempre la possibilità che Timberlake non ce la facesse a sopportare i turni. Timberlake sentì la sua gola inaridirsi. Naturalmente, la donna aveva immaginato che fosse lui a dare gli ordini. Lui era il responsabile dei sistemi vitali. E non si era neppure offerta volontaria per assumere i comandi... quella cagna. Ma forse era troppo presto per lei, dopo la deibernazione. Il metabolismo umano varia da individuo a individuo. Sicuramente, lei conosceva le sue capacità. Inoltre, seguendo la rotazione normale, il suo turno ai comandi seguiva quello di Bickel. Timberlake seguì con lo sguardo il binario di scorrimento sul quale la console principale circolava da una postazione all'altra. Bickel occupava la postazione uno, poi veniva Prue, poi Flattery - e lui sedeva all'estremità della fila. Tocca a me, si disse Timberlake. I palmi delle mani iniziarono a sudargli. Bickel aveva assunto i comandi quando era giunto il suo turno, rimpiangendo ovviamente ogni minuto sottratto ai suoi dannati calcoli. Senza dubbio, lui non si sarebbe offerto volontario. Devo prendere i comandi, si disse Timberlake. Pensò alle tremila e più vite che sarebbero dipese esclusivamente da lui non appena quella freccia verde avesse indicato la sua postazione... a tutte le altre vite e ai sogni che erano stati profusi in quel progetto. Tutto contribuiva a rendere intollerabile la responsabilità. Non posso! pensò. Ci sta mettendo troppo tempo, pensò Flattery. «Ti passerò la console dopo il conteggio, Tim. Mi sto stancando troppo». Prima che Timberlake potesse protestare, il conteggio era iniziato e la sua mano era corsa automaticamente al grande pulsante rosso. La freccia verde si illuminò, indicando nella sua direzione, e la console arrivò alla sua postazione. Immediatamente Timberlake fu assorbito dalle necessità del suo compito. Quasi un terzo del controllo di temperatura dello schermo esterno aveva bisogno di essere regolato per raggiungere un maggiore equilibrio. Dovremmo individuare i collegamenti che lo NMO utilizzava per svolgere le sue funzioni e istallare dei meccanismi automatici che si occupino della parte più semplice del lavoro, pensò.
Poi iniziò ad abituarsi alla routine del turno ai comandi e capì che sarebbe stato in grado di sopportarlo per quattro ore... almeno. «Ecco la nostra procedura operativa», annunciò Bickel. Sollevò lo sguardo, colse una rapida occhiata d'intesa tra Flattery e Prue, esitò. Cosa c'è tra quei due? Se si trattava di una relazione sentimentale, sarebbero potuti sorgere dei problemi. «Stavi dicendo?», lo esortò Prudence. Bickel vide che lo stava fissando apertamente. Si schiarì la gola, diede un'occhiata alle sue cifre ed ai progetti per rassicurarsi. «Dobbiamo stabilire un punto di partenza per poter affrontare il problema. Il computer dev'essere la base di qualunque cosa decideremo di costruire, ma non possiamo interferire con la memoria del nucleo e con i controlli dei vari sistemi. Questo significa che dovremo utilizzare un modello di simulazione elettronico. Una parte del sistema AET ci fornirà...» «E le comunicazioni con Base Lunare?» chiese Prudence. Questa è una domanda stupida, pensò Bickel, ma nascose la sua irritazione. «Un circuito che fungerà da interruttore riporterà lo AET alla piena funzionalità quando la risposta verrà captata dalle nostre antenne. Useremo un segnale acustico, quando lo passeremo sul controllo manuale». «Oh». Prudence annuì, chiedendosi quanto lontano potesse spingersi, prima che Bickel capisse che voleva irritarlo di proposito. «Realizzeremo un modello operativo», continuò Bickel. «Duplicherà le caratteristiche reali del sistema totale, ma non funzionerà con la completezza del sistema basato sul computer. Comunque, ci permetterà di osservare direttamente le funzioni controllate da equipaggiamento convenzionale. Ci indicherà anche quando dovremo realizzare qualcosa di non convenzionale. L'ambiente di lavoro, i segnali e i parametri del sistema possono essere osservati e modificati nel corso del progetto. E avremo bisogno soltanto di un collegamento univoco col computer, dotato di fusibili di sicurezza, in modo da dargli la possibilità di registrare tutti i nostri risultati». Tutto questo era prevedibile, pensò Flattery. Ma dove vuole arrivare? «Genereremo un ambiente di lavoro in tempo scalare e applicheremo i suoi segnali d'effetto al sistema sotto esame», disse Prudence. «Bene. E poi?» «Basandomi sulla mia conoscenza diretta degli esperimenti di BLU», rispose Bickel, «posso dirvi quali vie è inutile esplorare e quali possono condurci ad ottenere una coscienza artificiale. Badate bene, possono. Da ora in poi, andremo avanti a tentativi».
«Dovremo affrontare lo scarto temporale e la possibilità di errori di trasmissione, mentre aspettiamo che Base Lunare analizzi i nostri progetti?» chiese Flattery. Bickel gettò una rapida occhiata ai suoi calcoli e agli schemi, poi guardò di nuovo Prudence. «Abbiamo a bordo un matematico abbastanza competente da calcolare i trasduttori che i nostri risultati richiederanno? La questione è tutta qui», concluse. Lo sguardo di Prudence oltrepassò Bickel, per posarsi sui display e sulla pila di schemi di costruzione. Aveva seguito abbastanza a lungo il lavoro che stava eseguendo Bickel, da poterlo collegare con il lavoro di programmazione che l'uomo le aveva affidato. Possedeva elementi sufficienti per concludere che il piano di Bickel avrebbe richiesto l'utilizzazione di polinomi Hermitiani e di coefficienti di Laguerre per quanto riguardava l'input. Ogni volta che si affrontava quel problema, si ricadeva nel solito vecchio circolo vizioso - da dove nasceva la coscienza? «Forse posso farcela», disse. «Forse - ed è tutto quello che posso dirvi». «Allora quale via esploreremo per prima?» chiese Flattery. «L'approccio che fa uso della teoria dei campi», gli comunicò Bickel. «Oh, grandioso!» ringhiò Timberlake. «Stiamo per presupporre che l'insieme sia maggiore della somma delle sue parti». «Benissimo», disse Bickel. «Ma soltanto perché non possiamo vedere una cosa o definirla, questo non significa che essa non esista o che non dovrebbe essere aggiunta alla somma. Dovremo affrontare una dannata quantità di variabili ignote. E in questo caso il migliore approccio è quello pratico dell'ingegneria: se funziona, allora quella è la risposta». «Definiscimi la coscienza», chiese Prudence. «Questo lo lasceremo fare ai cervelloni di BLU», le rispose Bickel. «Il nostro unico contatto tra il modello di simulazione e il computer principale avverrà attraverso i canali di caricamento dati?» chiese Prudence. «Come faremo con i programmi supervisori di controllo?» «Non toccheremo assolutamente le linee di comunicazione interne del computer», le assicurò Bickel. «Il nostro sistema ausiliario entrerà in esso attraverso un canale univoco, dotato di fusibili per evitare un riflusso di dati nel computer stesso». «Ma così non otterremo una simulazione totale», puntualizzò lei. «Giusto», si dichiarò d'accordo Bickel. «Avremo un coefficiente d'errore da superare durante le nostre operazioni. Se diventerà troppo alto, cambieremo il nostro piano. Il simulatore sarà soltanto un'unità ausiliaria - deci-
samente stupida, sotto alcuni aspetti». «E non c'è modo per quest'unità ausiliaria di sfuggire al controllo?» chiese Flattery. «Il suo programma supervisore sarà sempre costituito da uno di noi», rispose Bickel, sforzandosi di non lasciar trasparire dalla voce la sua irritazione. «Uno di noi sarà sempre seduto al posto di guida. Lo guideremo come se stessimo guidando un bue aggiogato ad un carro». «E questo Bue non avrà idee proprie, eh?» insisté Flattery. «No, a meno che non riusciamo a risolvere il problema della creazione della coscienza», rispose Bickel. «Ngaaa?» Quell'espressione di Flattery fu pronunciata con tono tagliente. «E quando sarà cosciente, cosa succederà?» chiese. Bickel lo fissò sbattendo le palpebre, considerando la domanda. Poi disse: «Io... suppongo che sarà come un neonato... in un certo senso». «Quale bambino è mai nato dotato di tutte le informazioni e le esperienze immagazzinate nel computer principale della nave?» domandò Flattery. Bickel è sollecitato troppo in fretta, pensò Prudence. Se viene turbato troppo, potrebbe ribellarsi oppure iniziare a cercare seguendo vie sbagliate. Non deve sospettare nulla. «Be'... l'essere umano nasce dotato di istinti», ribatté Bickel. «E noi educhiamo il bambino umano a far parte... dell'umanità». «Trovo gli aspetti morali e religiosi di quest'idea leggermente ripugnanti», dichiarò Flattery con tono piatto. «Penso che stiamo commettendo un peccato. Anche se non si tratta di hybris, sono convinto che ci sia qualcosa di egualmente maligno nel tuo modo di pensare». Prudence lo fissò. Flattery tradiva segni di vera agitazione - aveva le guance arrossate, le dita tremanti, gli occhi accesi dall'ira. Questo non era previsto, pensò. Forse è stanco. «Benissimo», disse. «Costruiamo un campo di impulsi interattivi e questo ci conduce dritti dritti ad un problema di teoria dei giochi in cui infiniti bit d'informazione vengono...» «Oh, no?» la interruppe bruscamente Bickel. «Il tentativo fatto da BLU è naufragato proprio per aver fatto uso di concetti tratti dalla teoria dei giochi come "Costante di Comando" o "Costante di Mobilità" e "comportamento etero-auto-diretto". Mi ci è voluto un tempo dannatamente lungo per capire che in realtà non sapevano neppure di cosa stavano parlando. Erano etichette, gettate lì alla rinfusa».
«Per te è molto facile dirlo», ribatté Prudence, con voce lenta e fredda, inesorabile. «Dimentichi che io ho visto la macchina capace di giocare che hanno prodotto. Più veniva usata, più diventava simile a...» «Va bene, mutava», ammise Bickel. «La macchina assorbiva parte della sua... personalità da quella dell'avversario. Ma questo cosa c'entra? Possedeva alcune caratteristiche della coscienza, sicuro - ma non era cosciente». Prudence si voltò, e quel gesto bastò a manifestare il suo beffardo scetticismo. Deve pensare di non potersi fidare che di se stesso. Flattery spostò la sua attenzione da Bickel a Prudence, per poi concentrarsi nuovamente sull'uomo. Trovava sempre più difficile celare il suo risentimento nei confronti di Bickel. Psichiatra, guarisci te stesso, pensò. È Bickel il circuito principale. Io sono soltanto il fusibile di sicurezza. Flattery scoccò una rapida occhiata al falso pannello sulla sua console ripetitrice personale, pensando al pulsante al di sotto ed al suo gemello nei suoi alloggiamenti, nascosto dalle linee del sacro grafico disegnato sulla paratia. «Comando d'inversione rotta arbitraria» ricordò a se stesso Flattery. Quello era il segnale in codice che BLU doveva inviargli. Quello era il segnale a cui doveva obbedire - a meno che non ritenesse che la nave dovesse essere distrutta prima di aver ricevuto quel segnale. Una semplice pressione di uno dei pulsanti nascosti avrebbe attivato il programma supervisore del computer della nave, aprendo le valvole dell'aria, facendo detonare delle cariche esplosive. Morte e distruzione per l'equipaggio, la nave, tutti i coloni e il loro equipaggiamento. I coloni e il loro equipaggiamento! pensò. Era uno psichiatra troppo bravo per non riconoscere i sensi di colpa che il perfetto equipaggiamento di quella nave sottintendeva. Ed era un religioso troppo intelligente per non intuire, al di là delle fumisterie religiose, l'essenziale giustezza del suo ruolo nel progetto. Doveva esserci un fusibile di sicurezza. I primi rudimentali tentativi per riprodurre meccanicamente la coscienza erano stati compiuti su di un'isola nello Stretto di Puget. Quell'isola non esisteva più. «.Una coscienza senza controllo!» aveva urlato qualcuno. Era abbastanza vero. Qualcosa aveva sfidato le leggi naturali, massacrato il personale di laboratorio, distrutto i sensori, inviato raggi di pura distruzione attraverso la campagna circostante. E infine, aveva portato via l'isola - Dio solo sapeva dove.
Puf! Niente isola. Niente personale di laboratorio. Nulla se non acqua grigia e un freddo vento nordico che ne faceva increspare le onde spumeggianti, e pesci e alghe che invadevano l'area in cui c'erano stati terra, uomini e macchinali. Flattery rabbrividì al solo pensiero. Richiamò alla mente l'immagine del sacro grafico ospitato nei suoi alloggiamenti, assorbì un po' della pace emanata dal campo di serenità, dalle tranquille espressioni dei volti sacri. Attualmente, perfino Base Lunare credeva poco in quel progetto. Era tutta una finzione, messa in piedi per addestrare il personale delle navi, per frustrare uomini e donne giovani e ansiosi. «Ogni nave facente parte del progetto deve mantenere il suo coefficiente di frustrazione», continuò nel suo silenzioso ammonimento a se stesso. «E la frustrazione deve scaturire da fonti sia umane che meccaniche». Alla Base, concepivano la frustrazione come una soglia da superare, un fattore per incrementare la consapevolezza. Il tutto era razionale, seppure in maniera bizzarra. E così c'erano membri dell'equipaggio come Flattery... e Prudence Weygand, macchinari che si guastavano, unità robox di riparazione che avevano bisogno di essere sorvegliate continuamente da un essere umano - ed emergenze inserite nel computer che complicavano quelle reali. Flattery provò un bisogno bruciante di ritornare nei suoi alloggiamenti, per immergersi nel campo creato dal generatore nascosto, esaminare l'umore del complesso computerizzato e convincersi che era ritornato ad essere un semplice meccanismo dopo essere stato privato dei suoi Nuclei Mentali Organici. Ma non poteva ancora abbandonare la sala comando, non poteva, con il suo comportamento, dar adito a sospetti. Flattery fissò Bickel, e mormorò: «Non puoi prevedere perfettamente il comportamento della tua macchina, il modo in cui i suoi circuiti interagiranno. Addizionare tutte le parti non ti dà una somma che...» «Precisamente», lo interruppe Bickel. «E allora perché quei fessi della Base non hanno costruito i loro circuiti usando dei moltiplicatori Eng?» Timberlake fissò Flattery e pensò: Vai avanti, fai parlare Bickel su questo argomento. Mi ricordo le lezioni... «Qualcuno», disse Flattery, «quando eravamo a Base Lunare, mi ha raccontato che hai tentato di convincerli ad usare...»
«Tentato?» replicò ironicamente Bickel. «Praticamente mi sono inginocchiato e li ho supplicati. Ma loro si sono comportati come se fossi uno stupido, continuavano a dire che i computer sono capaci soltanto di addizionare... anche quando moltiplicano, si tratta sempre dell'addizione di una serie di cifre. E hanno continuato a dirlo fin quando io...» «Ma tu proponevi modifiche assolutamente illogiche nei circuiti», intervenne Flattery. «O almeno così ho sentito dire». «Solo perché non ho avuto la possibilità di effettuarle», replicò Bickel. «Stammi a sentire! Il moltiplicatore Eng è un circuito solid state ed è abbastanza piccolo da rispondere a qualunque criterio di miniaturizzazione. Funziona suppergiù come un catodo; dunque, ci troviamo di fronte ad un circuito le cui caratteristiche non sono troppo bizzarre. Ed è essenzialmente un moltiplicatore. A seconda dei casi, assorbirà i potenziali di vari circuiti lineari, semi-lineari e perfino non lineari, e in uscita produrrà un potenziale che è il prodotto di quegli stessi potenziali. Li moltiplica. Ma la cosa più importante è che, quando si inverte il circuito, si ottiene un apparecchio che inserisce un circuito su di un altro - lo divide, cioè - in un punto che varia a seconda della carica. Funziona come una cellula del sistema nervoso!» «L'equipe di Base Lunare deve aver avuto qualche buona ragione per non farti usare questo tipo di circuito», disse Prudence. «Se loro...» «Dicevano che non avevo provato che quella fosse analoga alla funzione organica», le spiegò con tono beffardo Bickel. «Non l'avevo provato! Cristo! Non mi hanno neppure concesso del tempo-computer per lavorare ad un circuito di prova. Tutti gli elaboratori erano impegnati nel tentativo di definire la coscienza». «E tu eri d'accordo con la loro definizione, o no?» chiese Flattery. «Se lo fossi stato, non avrei chiesto loro di fornirne un'altra», rispose acidamente Bickel. «Sono stato a sentire mentre si gingillavano con la loro definizione, fino a non poterne più. La coscienza è pura consapevolezza, dicevano. E allora, come la mettiamo con gli oggetti al di fuori della coscienza?, gli chiedo io. Non hanno importanza, mi rispondono. Si tratta di pura consapevolezza. Ma a cosa si riduce la consapevolezza, senza un oggetto su cui concentrarsi?, gli chiedo allora. Non è importante, sostengono loro. Si tratta di pura consapevolezza. Poi fanno marcia indietro e teorizzano che questa pura consapevolezza nasce dall'unione di tre forze primarie. Quali sono? Un'entità definita «Io», più l'organismo di quest'entità, più qualunque cosa esterna che possa agire da stimolo. Più degli oggetti! Ma
non è così, obiettano loro. Questo significa semplicemente che la pura consapevolezza gestisce tre fattori ed è un'inutile complicazione priva di senso tentare di moltiplicarli due a due quando si possono addizionare e realizzare i circuiti in maniera molto più semplice e diretta». «Stai semplificando troppo la discussione», disse Prudence. «Benissimo, la sto semplificando troppo! Ma questi sono i punti essenziali». «E tu, ovviamente, avevi la soluzione bell'e pronta», commentò lei. «Ti ho già detto che non sono riuscito a farmi assegnare in alcun modo del tempo-computer». «Ma tu insisti nell'affermare di poter provare...» «Senti», le disse Bickel, «mi hanno detto che non potevo provare la possibilità di realizzare un analogo organico. Ma io so di poterlo fare». «Lo sai soltanto», ribatté lei. «Ma non riesci neppure a trovare le parole per...» «Quando si lavora con numerosi tipi di computer, come ho fatto io», disse Bickel, «si acquista una speciale sensibilità. Ci sono delle volte in cui basta guardare il progetto di un circuito per capire immediatamente se funzionerà. Non c'è bisogno di leggere le istruzioni del fabbricante». «Ho capito bene quel che hai detto?» chiese Flattery. «Ti riferisci a Dio come ad un "fabbricante"? Se c'è...» «Questo è ininfluente?» scattò Bickel. «Considera il cervelletto umano. Non tentare di discutere con me su chi lo ha progettato. Consideralo soltanto come un risultato. Tu sei un dottore. Cosa ti suggerisce?» «Cosa suggerisce a te?» contrattaccò Flattery. «Che là dentro viene mediato un qualche effetto di potenziale», rispose Bickel. «È un sistema d'equilibrio... molto simile al riflesso vestibolare che ci impedisce di battere il culo per terra quando camminiamo!» «Ma il cervelletto è un punto d'arrivo», disse Prudence. «L'attività cerebrale diretta verso il cervelletto non si ferma neppure quando dormiamo», disse Flattery. «Come puoi sostenere che...» «E così il cervelletto assorbe energia come se fosse una spugna», disse Bickel. «L'energia fluisce in esso continuamente - energia emotiva, sensoria, motoria e mentale. Perché ci limitiamo a supporre che il cervelletto non svolga alcuna attività? Non esiste niente di simile in natura, né si potrebbe pensare ad un meccanismo costruito dall'uomo, complicato quanto il cervelletto, che non esplichi alcuna funzione». «Stai sostenendo che il cervelletto è la sede della coscienza?» gli chiese
Flattery. «E non hai ancora fornito una definizione di coscienza», gli ricordò Prudence. Mantenne fissa la sua attenzione su Bickel, nascondendo la sua eccitazione. L'argomentazione di Bickel non era nuova, ma lei sentiva che quell'uomo la comprendeva più chiaramente di quanto fosse stato mai fatto in precedenza. «La sede della coscienza, no. Sto affermando che il cervelletto media la coscienza, la integra, la mantiene in equilibrio... e che la coscienza è un fenomeno di campo che scaturisce da tre o più linee d'energia. Noi siamo più delle nostre idee». «Ma Prue ha ragione», disse Flattery. «Non stai definendo la coscienza». Lanciò un rapido sguardo a Prudence, conscio della sua eccitazione e risentito a causa di essa. E il conoscere la causa del suo risentimento gli arrecava ben poco sollievo. «Ma io posso arrivarci passando dalla porta posteriore», annunciò Bickel. «Quello che non è», disse Prudence. «Giusto!» esclamò Bickel. «Non è introspezione, né percezione o pensiero. Queste sono tutte funzioni fisiologiche. Le macchine possono fare tutte queste cose, e tuttavia non essere ancora dotate di coscienza. Quello a cui stiamo dando la caccia è un fenomeno di terzo grado - una relazione, non un'entità singola. Non è un sinonimo di consapevolezza. Non è né soggettivo, né oggettivo. Si tratta di una relazione». «Noi siamo più delle nostre idee», ripeté Prudence. «Ecco la risposta alle macchine, capaci soltanto di addizionare, tanto glorificate da BLU», annunciò Bickel. «Ecco quello che continuavo a voler spiegare loro... questa coscienza umana priva di definizione. Quando si addizionano gli input nel tempo, ottenendo una serie, non sempre si ottengono in risposta degli output corrispondenti. E poiché non si tratta di addizione, abbiamo a che fare con un qualche problema matematico notevolmente più complesso». Timberlake, mentre ascoltava Bickel, percepì intuitivamente la giustezza di quel che veniva detto. Bickel stava andando nella giusta direzione, anche se l'orizzonte teorico in cui si muoveva era ancora confuso. Noi siamo più delle nostre idee. Prudence si rilassò sul lettino, riflettendo sulle parole di Bickel. Quell'uomo doveva essere libero di seguire qualsiasi linea di ricerca avesse scelto, ma nello stesso tempo doveva percepire che qualcuno lo stava osta-
colando. Capì di essersi fatta coinvolgere troppo dal problema. Si sforzò di dire con voce carica di gelida rabbia: «All'inferno, non hai ancora definito la coscienza!» «Potremmo non riuscire mai a definirla», rispose Bickel. «Ma questo non significa che non possiamo riprodurla». «E così, vuoi costruire un prototipo per mettere alla prova le tue teorie, vero?» chiese Flattery. «Usando come punto di partenza il nostro sistema di comunicazione AET», spiegò Bickel. «Lo AET è collegato direttamente al nucleo del computer», gli ricordò Flattery. «Fa parte del programma principale di traduzione. Se commetti un errore, danneggerai irrimediabilmente il cuore del computer. Non sono sicuro che dovremmo...» «Verrà dotato di fusibili di sicurezza», disse Bickel. «Non ci sarà alcuna possibilità di ripercussioni all'interno del...» «Senza il computer, i nostri dispositivi automatici cesseranno di funzionare», disse Timberlake. «Forse faremmo meglio a considerare meglio l'intera faccenda. Se...» «Non dire sciocchezze, Tim!» protestò Bickel. «Saresti in grado di realizzare il sistema di sicurezza bene quanto me. Non c'è alcuna possibilità che qualcosa arrivi nel...» «Continuo a pensare alle cosiddette macchine pensanti della BLU», disse Timberlake. «Con questo tipo di macchine, non possiamo sapere tutto quello che faranno. Se sbagliamo qualcosa nel realizzare i collegamenti, potremmo danneggiare un programma principale di vitale importanza». «Non commetteremo alcuno sbaglio. Gli schemi di costruzione del computer sono tutti disponibili. Non procederemo alla cieca. Lo AET è l'unico dispositivo che potremmo realmente danneggiare, e a questa distanza da Base Lunare la sua utilità è dubbia». Vuole tagliarci fuori dalle comunicazioni con BLU? si chiese Flattery. Mi avevano avvertito che forse avrebbe tentato di farlo. Non possiamo permetterglielo. «Se smantelli il sistema AET», chiese Flattery, «quanto tempo ci vorrà per ristabilire le comunicazioni?» «Da quindici a venti ore», rispose Bickel. «Per allora dovremmo essere stati in grado di costruire il dispositivo». Flattery guardò Timberlake con aria interrogativa.
«È così», confermò quest'ultimo. «Useremo lo AET come base del nostro simulatore», spiegò Bickel. «E dai magazzini in cui è stivato l'equipaggiamento destinato alla colonia prenderemo delle bobine di fibra neuronica, dei moltiplicatori Eng ed altri componenti base. Quel che dobbiamo realizzare è un sistema che emuli le funzioni di una rete neurale umana». «Ma sarà cosciente?» domandò Flattery. «Tutto quello che possiamo fare è provare», gli rispose Bickel. «Il nostro computer e perfino lo AET operano in base a principi d'addizione sostanzialmente analoghi. Invece noi costruiremo un sistema che è essenzialmente capace di moltiplicare all'infinito. Il nostro sistema produrrà unità di messaggio che saranno il prodotto di numerosi moltiplicatori». «Lo fai sembrare così semplice», disse Prudence. «Si connette la rete A alla rete B nei punti D e D primo e si ottiene il Fattore Coscienza - in sigla, FC». Le labbra di Bickel si strinsero. «Hai un piano migliore?» Sono stata troppo dura? si chiese lei. Poi disse in fretta: «Oh, sono con te, Bickel. Ovviamente conosci tutte le risposte». «Non conosco tutte le risposte», grugnì Bickel, «ma non rimarrò qui a piangere sul nostro fato... e non tornerò indietro». E se saremo costretti a farlo? si chiese Flattery. Come faremo, allora, con l'inibizione di Bickel? «Aspetterai la risposta di Base Lunare?» domandò a Bickel. Bickel lanciò un rapido sguardo a Prudence. «Preferirei iniziare subito, ma questo significa che dovrei saltare il mio turno ai comandi... e poiché ho bisogno di Tim...» «Posso cavarmela da solo», lo tranquillizzò Flattery. «Sembra che tutto funzioni alla perfezione». Prudence alzò lo sguardo sulla console principale e sui ripetitori inattivi al di sopra del suo lettino, meravigliandosi dell'improvvisa sensazione di freddo che provava. Sono spaventata dal dover manovrare la console, pensò. Quelle migliaia di vite, laggiù, nelle vasche d'ibernazione... e tutte dipendevano dalla rapidità di riflessi di chi era ai comandi. I cervelloni di BLU sapevano davvero quel che facevano quando ci hanno inviato nello spazio? Era questo l'unico modo? Per la prima volta da quando si era risvegliata dallo stato d'ibernazione, provò un familiare senso di rimpianto, chiedendosi come sarebbe stato na-
scere in modo normale, in una famiglia normale, crescere circondati dall'invadente ma caloroso senso di appartenenza di coloro che non erano stati prescelti. «Voi siete la crema, i migliori trai migliori», avevano continuato a ricordare loro Morgan Hampstead e i suoi collaboratori. Ma tutti i membri dell'equipaggio sapevano da dov'era venuta la crema. Un normale tessuto bioptico era stato preso da un essere umano vivente offertosi volontario, poi era stato inserito in un serbatoio axolotl e il suo imprint genetico era stato attivato, permettendo alla carne di crescere. Il tessuto produceva un gemello identico al donatore - un gemello sacrificabile. I migliori! pensò Prudence. Ci è stato sottratto qualcosa di prezioso e ciò che abbiamo ricevuto in cambio si è dimostrato inadeguato. Sintonizzò uno dei piccoli schermi visivi nell'angolo della sua console sui sensori ottici di poppa, osservò il centro del sistema solare, dirigendo lo sguardo verso il pianeta che aveva dato loro la vita. Una lancinante fitta di nostalgia le strinse il petto, le mozzò il fiato per un istante. Erano stati plasmati e forniti di stimoli, addestrati e condizionati - caricati come giocattoli meccanici a molla e lasciati andare nelle tenebre dello spazio, con il "fischietto" laser che comunicava a BLU la loro posizione. E dov'è che ci troviamo davvero? si chiese mentre spegneva lo schermo. «Prue, sarebbe meglio che assumessi il controllo della console principale», la esortò Flattery. «Normalmente, saresti venuta dopo John». La vista dei quadranti e degli indicatori della console la riempì improvvisamente di rabbia e paura. Sentì che quelle emozioni si manifestavano facendole seccare la gola, arrossandole le guance. «Io... è passato troppo poco tempo da quando ho effettuato il mio turno... non ho ancora recuperato le forze», disse Flattery con esitazione. «Oppure mi...» «Va tutto bene», lo rassicurò lei. «Farò il mio turno». Tirò un profondo respiro, si rilassò nel suo lettino, e fece segno a Timberlake di iniziare il conteggio. L'appello al suo senso di protezione materno ha funzionato, pensò Flattery. Stava quasi per avere un attacco di panico. Doveva prendere i comandi adesso, o avrebbe potuto anche non farlo mai più. Flattery guardò Timberlake, notò la sua chiara espressione di sollievo mentre, premuto un tasto, faceva dirigere la freccia verde verso Prudence. Timberlake, dominato dall'intuizione, era terrorizzato dalla responsabili-
tà di controllare la console principale. Prudence, dotata di una profonda sensibilità, condivideva quella paura. E io, poiché percepisco la loro paura, riesco a superare la mia riluttanza, pensò Flattery. Soltanto Bickel, dalla mente logica e dotata di un'intelligenza acuta, sembrava essere immune dalla paura ispirata dalla console principale. Era una pecca del carattere di Bickel, pensò Flattery, ma sapeva che le loro vite potevano dipendere da quella stessa pecca. «Tim, prendi gli elenchi del carico della nave», disse Bickel. «Ti darò una lista di quello di cui abbiamo bisogno e che deve essere preso dalle stive in cui è conservato l'equipaggiamento dei coloni. Potremo costruire il dispositivo nel locale adibito alla manutenzione del computer, visto che è attaccato alla sala comando...» «Non rimanete troppo a lungo al di fuori dell'area schermata», raccomandò loro Prudence. «Sarebbe meglio se collegaste i vostri dosimetri di radiazioni ai ripetitori qui dentro; in questa maniera, potremo tenervi d'occhio». «Hai ragione», disse Bickel. Si alzò dal proprio lettino, si voltò a guardare Prudence, studiando il suo profilo, notando la concentrazione con cui la donna scrutava la console principale. Spostò l'attenzione su Flattery, che giaceva contro lo schienale del lettino con gli occhi chiusi, riposando dopo il suo turno ai controlli; poi fissò Timberlake, che stava raccogliendo dalle stampanti del computer le copie dei piani di carico della nave. Nessuno di loro ha riflettuto seriamente su quel che dobbiamo fare, pensò Bickel. Non hanno considerato il fatto che, alla fin fine, il simulatore dovrà essere collegato direttamente al computer. Se avremo successo, non faremo altro che costruire un set di lobi frontali. E il nostro "Bue" non può sfruttare che una sola fonte d'esperienza per cominciare a vivere in maniera cosciente - il computer e i suoi banchi di memoria. Bickel sapeva che non appena si sarebbero accorti di quel fatto avrebbe dovuto lottare per convincerli. Troppi dispositivi della nave dipendevano quasi totalmente dai programmi supervisori. Danneggiare quei programmi implicava dei rischi mortali. Bickel era convinto che quello fosse un grave difetto di progettazione dell'Uovo di Latta. E non riusciva a spiegarsene la ragione. Perché tutto, sulla nave, doveva dipendere da un intervento o dal controllo di un'entità cosciente - dalle apparecchiature più complicate fino ad arrivare alle unità robox adibite alle riparazioni?
Prudence si accorse dell'attenzione di Bickel, vide il volto dell'uomo riflesso nella copertura in plastica di un indicatore. Poteva leggere le sue domande, i suoi dubbi, la sua determinazione tanto bene quanto il quadrante sotto lo schermo anti-riflesso di plastica. Lo aveva stimolato - e aveva svolto quella parte del suo compito nella maniera migliore, pensò. Adesso si concentrò sulla console, percependo gli impulsi dei sensori della nave che attraversavano lo scafo per disperdersi nello spazio. Ormai la ripetitività dei gesti stava iniziando a lenire la paura che l'aveva assalita al pensiero di dover assumere i comandi. Respirò profondamente, inserì un sensore di prua sullo schermo visivo al di sopra della sua testa, studiò il panorama trapunto di stelle che si stendeva davanti all'Uovo di Latta. Ecco il nostro premio, pensò, guardando le stelle. Prima dovremo pulire le stalle di Augia, e poi saremo i primi ad arrivare... laggiù. La carota e il bastone. C'è la carota - un mondo vergine tutto nostro (e abbiamo vasche piene di coloni per dimostrare la buona fede della Terra) e io... io sono il bastone. Quel panorama improvvisamente la riempì di ripugnanza, e così spense lo schermo, riportando la sua attenzione sulla console principale e sulle sue necessità. È l'incertezza che ci tormenta, pensò. Là fuori ci sono troppi fattori ignoti - qualcosa deve andare storto. Ma non sappiamo cosa sarà... o quando succederà. Sappiamo soltanto che il colpo, quando arriverà, potrebbe distruggere completamente la nave, senza lasciarne neppure una traccia. È già successo prima - sei volte. Sentì Bickel e Timberlake lasciare la sala comando, udì il sibilo del portello che si sigillava dietro di loro; si voltò e guardò Flattery. Si accorse che aveva una macchia di colore bluastro sulla guancia, appena sotto l'occhio sinistro. Quella macchia le apparve all'improvviso come un difetto enorme in una creatura altrimenti perfetta. La spaventò, e si voltò di nuovo verso la console per nascondere quell'emozione. «Perché... perché le altre sei navi hanno fallito?» chiese a Flattery. «Devi aver fede», le rispose Flattery. «Una nave ce la farà... un giorno. E forse sarà proprio la nostra nave». «Mi sembra che tutto questo sia... un tale spreco», mormorò lei. «Molto poco viene sprecato. L'energia solare abbonda, a Base Lunare. Esiste un'ampia disponibilità di materiali grezzi». «Ma noi... siamo vivi!» protestò lei.
«Ci sono molti altri, da dove veniamo. Saranno quasi identici a noi... e sono tutti figli di Dio. Il suo occhio veglia continuamente su di noi. Dovremmo...» «Oh, smettila! So perché abbiamo un cappellano - per propinarci pappa simile in caso di bisogno. Ma io non ne ho bisogno e non l'avrò mai». «Quanto orgoglio è in noi», commentò Flattery. «Sai bene cosa puoi farci con le tue assurdità metafisiche. Non esiste alcun Dio, c'è soltanto...» «Taci!» le ordinò lui con tono iroso. «Ti sto parlando come tuo cappellano. Sono sorpreso della tua stupidità, della temerarietà che ti permette di pronunciare una tale bestemmia qua fuori». «Oh, sì», disse lei con pesante ironia. «L'avevo dimenticato. Sei anche la nostra guida indiana che esplora il territorio ignoto che si stende davanti anoi. Sei la copertura sulle nostre scommesse, il nostro saggio grillo parlante, il...» «Tu non immagini neppure cosa stiamo affrontando», l'avvertì lui. «Un concetto tratto pari pari dall'Amleto», lo schernì lei, e permise alla sua voce di assumere un tono caricaturalmente teatrale: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quelle che può sognare la tua filosofia». Flattery provò un'improvvisa fitta di paura per lei. «Pregherò per te, Prudence». E imprecò mentalmente, quando udì il suono della sua voce. Aveva parlato in maniera ridicolmente pomposa. Ma pregherò davvero per lei, pensò. Prudence si dedicò nuovamente alla console principale, ricordando a se stessa: Un bastone serve a picchiare le persone... a pungolarle affinché si sforzino di superare i propri limiti. Raj non può essere un semplice cappellano; deve comportarsi come un super-cappellano. Flattery tirò un profondo e tremulo respiro. La bestemmia di Prudence aveva risvegliato i suoi dubbi più profondi. E pensò a quanto poco si conoscesse di quel che si trovava nelle loro menti, al di sotto della sottile patina di pensiero scientifico, sepolto in quel vaso di Pandora in cui qualsiasi cosa era possibile. Qualsiasi cosa? si chiese. Ovviamente, era quello il problema. Stavano penetrando oltre le frontiere dell'Ignoto... e una delle prerogative di Dio era sempre stata quella di essere Qualsiasi cosa. «Posa quel software sul banco di lavoro, Tim», ordinò Bickel. «Puoi ini-
ziare a separare dagli altri, mettendoli in alto, quei fogli dei piani di carico che possono servirci; quello di cui abbiamo bisogno è nei magazzini dei robox. Tornerò tra un istante». Timberlake fissò la schiena di Bickel. Quell'uomo aveva assunto il comando nelle proprie mani con una tale facilità. Nessuno si era opposto... fino ad allora. Scrollò le spalle e iniziò ad esaminare i piani di carico. Bickel esaminò con lo sguardo l'ambiente in cui si trovavano. Il locale adibito alla manutenzione del computer era stato concepito in maniera tale che la sala comando aveva parzialmente in comune una delle pareti, quella curva. Il locale aveva un'altra parete - alta quattro metri e mezzo e lunga dieci - piatta ed opposta a quella della sala comando, la cui superficie era coperta di pannelli a connessione a spina, comparatori, multiplexer simultanei, monitor di memorie di transito, strumenti diagnostici quadranti e spie. Dietro quella parete e quelle apparecchiature si trovavano i primi banchi del programma supervisore che permetteva di accedere alla memoria del nucleo e alla vasta dotazione di programmi del computer. «Dovremo ordinare a gruppi il sistema per trovare tutti i collegamenti audio e video e le bande AET», spiegò Bickel. «E dovremo utilizzare continuamente un'operazione di bootstrap. Il nostro sistema di memoria di transito può essere collegato soltanto da dei diodi, il che significa che le uniche informazioni che entreranno nel computer devono provenire da noi. E significa che uno di noi dovrà controllare continuamente l'output. Dovremo eliminare tutti gli errori, via via che si presenteranno, e dovremo mantenere un controllo costante sul registro d'indice, ogni volta che eseguiremo una sequenza di controllo. Iniziamo con l'inserire un circuito di selezione di percorso in questo punto». Bickel indicò un lettore ottico d'input sulla parete di fronte a lui. Gli era del tutto chiaro come iniziare ad affrontare il problema. Se soltanto fosse riuscito a mantenere sveglia la propria consapevolezza - lo avrebbe risolto, un passo per volta. Ma rimaneva il fardello degli altri sei fallimenti precedenti... avvenuti per cause sconosciute: avevano perso più di diciottomila persone. Ma quelli del Progetto non pensano a noi come a delle vere persone, rifletté Bickel. Siamo componenti sacrificabili, poiché ci possono rimpiazzare facilmente. Che cosa è successo alle altre sei navi? Si asciugò il sudore dalle mani.
I colloqui con il personale della base erano serviti a riempirlo soltanto di frustrazione. Ricordò di essersi seduto davanti all'apparato di ricezione, mentre fissava lo schermo e consultava il suo blocco d'appunti macchiato d'inchiostro, osservando il susseguirsi di volti nelle sezioni in cui era suddiviso lo schermo visivo - volti che conosceva in maniera indiretta, di seconda mano. La sua memoria era dominata dalla voce di Hampstead che proveniva dall'ampia e severa bocca dell'uomo, dotata di due file di denti perfettamente regolari: «Qualunque teoria che spieghi la perdita di quelle navi, per il momento, deve rimanere soltanto una teoria. In ultima analisi, dobbiamo semplicemente ammettere che non sappiamo cosa sia successo. Le navi, dopo tutto, sono scomparse. Noi possiamo formulare soltanto delle ipotesi». Le ipotesi erano le seguenti: Un guasto nel sistema. Un guasto meccanico. Un errore umano. E da quelle tre ipotesi principali, scaturiva una infinita serie di altre ipotesi, sempre più specifiche. Ma non avevano sollevato il minimo sospetto sulla possibilità di un guasto dei Nuclei Mentali Organici. Neppure una parola, una teoria, un'ipotesi. I cervelli erano perfetti. «Perché?», mormorò tra sé e sé Bickel, fissando gli indicatori sul pannello del computer. Gli schemi disposti in una pila sul banco di lavoro frusciarono quando Timberlake sollevò lo sguardo. «Perché cosa?» «Perché non hanno sospettato che gli NMO potessero guastarsi?», chiese Bickel. «Si è trattato di uno stupido errore». «È troppo banale», protestò Bickel. «C'è qualcosa... un qualche motivo importantissimo per cui non hanno voluto fornirci tutti i dati». Si avvicinò al pannello del computer, cancellò una ditata dalla sua superficie lucida. «Dove vuoi arrivare?» chiese Timberlake. «Pensa a quanto era facile tenerci nascosto qualcosa. Tutto quello che facevamo o dicevamo o respiravamo o mangiavamo era sottoposto al loro controllo assoluto. Siamo gli orfani in orbita, ricordi? Isolamento sterile. La storia delle nostre vite: isolamento sterile - fisico... e mentale». «Quel che stai dicendo è assurdo», commentò Timberlake. «Esistevano
delle buone ragioni per l'isolamento sterile, un ambiente privo di germi sulla nave offriva grossi vantaggi. Ma se tieni nascoste delle informazioni a persone che ne hanno bisogno... be', questo non è proprio il massimo della razionalità». «Non ti sei mai stancato di essere manipolato?» gli chiese Bickel. «Ahhh, non l'avrebbero mai fatto». «Ne sei sicuro?» «Ma...» «Che cosa sappiamo veramente sul Progetto Tau Ceti?» gli domandò Bickel. «Soltanto quel che loro ci hanno detto. Sono state inviate, lungo un periodo di ottanta anni, delle sonde automatiche che hanno scoperto questo pianeta abitabile orbitante intorno a Tau Ceti. E così BLU ha iniziato ad inviare delle navi. C'è un pianeta là fuori, un Eden occupato soltanto da forme di vita inferiori, un frutto maturo che dev'essere raccolto a beneficio del futuro della razza umana». «Be', perché non dovrebbe essere così?» obiettò Timberlake. «E a causa dei pericoli del viaggio, vengono inviati esclusivamente dei duplicati umani... dei cloni». «Sembra logico», disse Timberlake. «Non ci trovi nulla di sospetto in tutto questo?» «Diavolo, no! Ho studiato i rapporti delle sonde; e anche tu l'hai fatto». «Capisco». Bickel voltò le spalle al pannello del computer che luccicava debolmente, e fissò accigliato Timberlake. «Allora tentiamo di ragionare su qualcos'altro. Non trovi estremamente difficile concentrarsi su questo problema della coscienza?» «Su che?» «Dobbiamo costruire una coscienza artificiale», gli spiegò Bickel. «È la nostra unica possibilità. Il Controllo del Progetto lo sa... e anche noi lo sappiamo. Trovi difficile confrontarti con questo problema?» «Quale problema?» «Non pensi che sarà un grosso problema fabbricare una coscienza artificiale?» «Be'...» «La tua vita dipende dal poterlo risolvere», disse Bickel. «Immagino sia così». «Lo immagini! Hai qualche piano alternativo?» «Potremmo invertire la rotta e tornare indietro». Bickel represse un moto di rabbia. «Nessuno di voi se ne è accorto».
«Di cosa?» «L'Uovo di Latta dipende in maniera quasi totale dal funzionamento del computer. Il sistema AET usa i banchi di traduzione del computer. Tutti i sensori della nave sono collegati al computer, che decide, in ordine di priorità, quali debbano venir segnalati sugli schermi visivi della sala comando. Ogni essere vivente nelle vasche d'ibernazione è dotato di un sistema vitale individuale - monitorato dal computer. Il sistema di guida è controllato sempre dal computer. I sistemi vitali dell'equipaggio, gli schermi, i circuiti di sicurezza, l'integrità dello scafo, ideflettori di radiazioni...» «Questo perché si supponeva che tutto dovesse essere sottoposto al controllo di uno NMO», replicò Timberlake. Bickel attraversò il locale di manutenzione con un solo, lungo salto a bassa gravità, e batté la mano sulla parte di parete al di sopra dei fogli ammucchiati sul banco. Il movimento fece fluttuare alcuni dei fogli verso il ponte, ma lui li ignorò. «E tutti i cervelli su sei - no, sette! navi si sono guastati! Me lo sento fin nelle budella. Gli NMO si sono guastati... e loro non si sono degnati di dirci neppure una parola d'avvertimento». Timberlake fece per replicare, poi ci ripensò. Si chinò, raccolse i fogli caduti sul ponte, li rimise sul banco. Qualcosa nella forza, nella veemenza con cui Bickel aveva pronunciato quelle parole gli impediva di obiettare ulteriormente. Ha ragione, pensò. Sollevò lo sguardo verso Bickel, notando il sudore che gli imperlava la fronte, le rughe di preoccupazione agli angoli degli occhi. «Possiamo ancora tornare indietro», gli disse. «E se il computer fosse guasto?» «Saremmo sempre diretti verso casa». «E tuffarsi verso il sole tu lo definisci "dirigersi verso casa"?» Timberlake si umettò le labbra. «Un tempo, ai bambini si insegnava a nuotare gettandoli in un lago», disse Bickel. «Be', noi siamo stati gettati in un lago. E perciò faremo meglio ad iniziare a nuotare, oppure, sicuro come l'inferno, annegheremo». «I responsabili del Progetto non ci avrebbero mai fatto una cosa del genere», sussurrò Timberlake. «Oh, davvero?» «Ma... sei navi... più di diciottomila persone...» «Persone? Ma quali persone? Le sole perdite di cui io sono a conoscenza riguardano dei cloni, facilmente rimpiazzabili se si si dispone di una fonte
d'energia a basso costo». «Siamo delle persone», protestò Timberlake. «Non dei semplici cloni». «Noi ci consideriamo delle persone», lo corresse Bickel. «E ora ho un bella domanda da farti - considerando tutti i precedenti fallimenti e le numerose possibilità di malfuzionamento della nave: perché il Controllo del Progetto non ci ha fornito un codice per avvertirli dell'eventuale guasto degli NMO, i nostri... o quelli di qualsiasi altra nave?» «Questi sospetti... sono folli», disse Timberlake. «Sì», concesse Bickel. «Siamo davvero diretti verso Tau Ceti. Le nostre vite dipendono totalmente da un sistema computerizzato e completamente automatico - che necessita soltanto di un minimo di sorveglianza. Navi come le nostre sono state inviate nel cosmo, dirette verso Dubhe, Schedar, Hamal, verso...» «C'è sempre la remota possibilità che le altre sei navi ce l'abbiano fatta. Lo sai. Sono scomparse, sicuro, ma...» «Ahhh, adesso arriviamo al nocciolo della questione. Forse non sono stati dei fallimenti, vero? Forse...» «Sarebbe assurdo inviare due navi colonizzatrici verso la stessa destinazione», fece notare Timberlake, «visto che non si conosce con certezza quel che è successo alle...» «Ma lo credi davvero, Tim?» «Be'...» «Ho un suggerimento migliore da farti, Tim. Se qualche folle bastardo ti gettasse in un lago, e tu non sapessi nuotare, e poi scoprissi di saper nuotare così», e Bickel schioccò le dita, «all'improvviso, non nuoteresti più in fretta che potresti per allontanarti il più possibile dal bastardo?» Nella sala comando, i suoni erano quelli che l'equipaggio della nave aveva ormai imparato a riconoscere come normali - lo scricchiolio dei lettini elastoavvolgenti sulle loro sospensioni cardaniche, l'occasionale scatto di un relay che richiamava l'attenzione su una delle spie sulla console principale. «Bickel ha detto tutto sulla sua partecipazione al progetto sulla coscienza artificiale a Base Lunare?» chiese Prudence. La donna distolse per un istante la sua attenzione dalla console principale per lanciare uno sguardo a Flattery, il suo unico compagno in quel momento. Flattery appariva leggermente pallido, la sua bocca era contratta in una smorfia. Prudence si concentrò nuovamente sulla console, notando
dalle cifre del timer che mancava ancora più di un'ora alla fine del suo turno. La tensione stava prosciugando le sue riserve di energia. Flattery ci stava mettendo un tempo dannatamente lungo a rispondere, pensò... ma era famoso per le sue risposte meditate. «Ha detto poco», replicò infine Flattery, e scoccò una breve occhiata al portello che conduceva nel locale adibito alla manutenzione del computer in cui Bickel e Timberlake stavano lavorando. «Prue, non dovremmo ascoltarli, per essere sicuri che non...» «Non ancora», rispose lei. «Non dovrebbero necessariamente sapere che li stiamo ascoltando». «Tu sottovaluti Bickel», lo avvertì lei. «E questo è il peggiore errore che tu possa commettere. È decisamente capace di inserire - come ho fatto io un rilevatore elettronico nel sistema di comunicazione, nella remota possibilità che salti fuori qualcosa di interessante... come lo scoprire che lo stiamo spiando». «Pensi che abbia iniziato... a costruirlo?» «In questa fase, è impegnato ancora nei preparativi», rispose lei. «Stanno raccogliendo il materiale. Puoi seguire benissimo i loro movimenti controllando il livello d'assorbimento d'energia qui, sulla console principale, le variazioni rilevate dai sensori termici e dai ripetitori dei loro dosimetri, e il consumo d'energia dei robox che utilizzano per maneggiare il carico». «Sono andati nella sezione della nave riservata al carico?» «Uno di loro l'ha fatto... probabilmente Tim». «Sai quel che ha detto Bickel sul tentativo fatto a Base Lunare?» le chiese. Fece una pausa per grattarsi il mento. «Ha detto che il peggiore fallimento era rappresentato dall'attenzione dei partecipanti - concentrata su un'unica e sola linea di ricerca, a dispetto di un notevole sforzo teorico e immaginativo». «Quest'affermazione mi preoccupa». «Può sospettarlo», la tranquillizzò Flattery, «ma non può esserne certo». «Ecco, ancora una volta, lo stai sottovalutando». «Be', se non altro avrà bisogno del nostro aiuto», disse Flattery, «e potremo capire come procede il tutto da come avrà bisogno di noi». «Ma sei sicuro che avrà bisogno di noi?» «Dovrà utilizzarti per le analisi matematiche più complesse», le spiegò Flattery. «E io... be', dovrà affrontare il problema di von Neumann, se vuole proseguire nel suo progetto. Finora, può non averlo ancora affrontato, ma dovrà farlo necessariamente, quando capirà che dovrà ottenere risultati
non deterministici da un hardware inaffidabile». Prudence si voltò a fissarlo, notando lo sguardo distante nei suoi occhi. «Vuoi spiegarti meglio?» «Per costruire il suo dispositivo dotato di coscienza, deve utilizzare materia non vivente». «E allora?» Prudence rivolse nuovamente la sua attenzione alla console. «La Natura ci riesce benissimo, e con lo stesso materiale. Gli esseri viventi non lo sono più, ad un livello inferiore a quello molecolare». «E tu sottovaluti... la vita», replicò Flattery. «Gli elementi base che Bickel deve usare provengono dalla nostra dotazione di parti di ricambio robotiche - bobine di neuroni quasibiologici e circuiti solid-state, cavi in nerex e cose del genere - e tutto questo materiale è non vivente ad un livello superiore a quello molecolare». «Ma la loro struttura è rilevante per la loro funzione quanto quella di una qualsiasi materia vivente». «Forse stai iniziando a capire quale grado di hybris implica già il solo considerare questo tipo di problema», commentò Flattery. «Oh, smettila, Cappellano. Non siamo nel diciottesimo secolo, e non stiamo tentando di costruire l'anatra meravigliosa di Vaucanson». «Stiamo tentando di creare qualcosa di molto più complesso di un qualsiasi automa primitivo, ma la nostra intenzione è la stessa di quella che animava Vaucanson». «Questo non è assolutamente vero», obiettò Prudence. «Se avessimo successo e portassimo la nostra macchina indietro nel tempo, all'epoca di Vaucanson, e gliela mostrassimo, sicuramente si meraviglierebbe della nostra abilità tecnica». «Non hai capito il punto. Il povero Vaucanson non farebbe altro che correre dal prete più vicino, e probabilmente si offrirebbe volontario per partecipare al nostro linciaggio. Capisci, lui non aveva alcuna intenzione di fabbricare qualcosa che fosse realmente vivo». «Ma è solo una questione di grado, e non di sostanza», protestò lei. «Paragonato a noi, Vaucanson era come Aladino mentre strofinava la lampada», disse Flattery. «E anche se le sue intenzioni erano davvero simili alle nostre, lui non ne era consapevole». «Parli per enigmi». «Davvero? Questo è il problema che i filosofi e gli scrittori hanno tentato di evitare per secoli. Stiamo parlando di un mostro nato dalla tradizione popolare, Prue. Stiamo parlando di quel povero zombi di Frankenstein.
Stiamo giocando a fare gli apprendisti stregoni. Anche la semplice idea di costruire un robot dotato di coscienza può essere presa in considerazione soltanto se riconosciamo l'esistenza di un pericolo implicito in essa: la possibilità di costruire un Golem che ci distruggerà». «Scommetto che nel tuo tempo libero racconti delle storie di fantasmi». «Fare dell'ironia è un modo come un altro per affrontare questo timore», replicò lui. «Stai dicendo sul serio!» lo accusò lei. «Non sono mai stato più serio. Perché pensi che il Controllo del Progetto sia stato così lieto di inviarci nello spazio a compiere il nostro lavoro?» Prudence tentò di deglutire, ma la gola le si era seccata. Comprese di essere davvero spaventata. Flattery aveva toccato un punto nevralgico della questione. Aveva espresso una verità innegabile, traendola da qualche parte nella sua mente. Si costrinse ad affrontare quella sua paura quando provò l'impulso di chiamare il locale per la manutenzione e implorare Bickel e Tim di smettere, qualunque cosa stessero facendo. Quell'impulso le inviò un brivido gelido lungo la schiena. «Dove possiamo tracciare la linea di divisione tra ciò che vive e ciò che è inanimato?» si chiese Flattery. La studiò, notando le occhiaie provocate dalla fatica, il pulsare di una vena lungo una tempia. «Sarà davvero viva... la nostra creatura?» Lei si schiarì la gola. «Non sarebbe più appropriato domandarsi se la nostra creatura sarà capace di riprodursi? Se esiste qualche pericolo... qualche rischio reale che...» «Allora sicuramente ci avventureremmo in un territorio proibito». E Flattery si chiese perché quel pensiero gli avesse provocato una tale sensazione di vuoto allo stomaco. «Oh, per l'amor di Dio, Raj!» La protesta di Prudence fu veemente. «Hai completamente dimenticato di essere uno scienzato?» «È proprio per l'amor di Dio che non posso mai dimenticarlo», rispose sommessamente Flattery. «Smettila!» Prudence comprese che, inconsciamente, la sua voce aveva assunto il tono perentorio della sua madre di dormitorio, che si era presa cura di lei nell'asilo nido di Base Lunare. La madre di dormitorio! Un'immagine dai capelli grigi il cui tocco non era mai stato più di un arto flessibile di un robot, che lei aveva diretto da un qualche angolo dell'Edificio Centrale. Era stata una donna così triste, così cinica... e remota. «La religione affronta questioni che non possono venir eluse, a meno
che non si voglia pagare un prezzo terribile», disse Flattery. «La religione è un fattore come tutti gli altri», ribatté Prudence. «Noi snidiamo le religioni primitive. Perché non possiamo studiare la nostra? Dio non ci ha forse creati dotati di curiosità? Non si presume che, in quanto scienziati, dovremmo superare i nostri pregiudizi?» «Soltanto uno sciocco è convinto di poter superare i propri pregiudizi». «Be', io preferisco la dottrina calvinista: accetterei di essere dannata, se ciò andasse a maggior gloria di Dio». «Non dovresti dire queste cose», disse bruscamente lui. Si portò una mano alla fronte, pensando: Non devo permetterle di punzecchiarmi in questa maniera. «Non puoi indicarmi nulla di cui non debba parlare», continuò lei. «Affermi che gli scienziati possono paragonare Dio al concetto matematico di infinito. Ma noi, in matematica, siamo in grado di manipolare l'infinito; perché non potremmo manipolare anche Dio?» «Che affermazioni senza senso», ironizzò Flattery. «L'infinito matematico. Zero fratto zero, eh? Oppure infinito meno infinito? Oppure infinite volte zero?» «Dio volte zero», replicò Prudence. «E perché no?» «Sei tu il matematico di bordo?» rispose con voce tagliente lui. «Sai bene, meglio di tutti, che queste sono formule indeterminate, nonsense matematici». «Dio meno infinito. Un assurdo matematico». Flattery la fissò con ira. Sentiva di avere la gola secca e in fiamme. Con un trucco, la donna era riuscita ad intrappolarlo in quell'angolo. Era una bestemmia! E lui era più vulnerabile di quanto lei fosse... colpevole. «Il tuo compito è proprio questo, vero?» la accusò. «Pungolarmi, mettermi alla prova, non darmi un'attimo di respiro. Lo so». Quanto poco sa... o persino sospetta, pensò lei. «L'infinito non obbedisce alle normali leggi matematiche. E se esiste davvero Dio, non vedo perché Lui debba obbedire a quelle stesse leggi. E per quanto riguarda il "metterti alla prova": hai detto una colossale sciocchezza! Quello di cui hai bisogno è qualche rabbuffo occasionale in campo filosofico». «Questo vuol dire: "limitati a pregare, e lascia a me le questioni matematiche", vero?» «Non c'è nulla di blasfemo nello sviluppare un nuovo sistema di calcolo o qualunque altro strumento che ci permetta di conquistare il nostro universo», affermò lei.
«Il nostro universo?» le chiese Flattery. «O almeno quanto di esso riusciremo a conquistare. Non è questo, dopo tutto, il concetto sottinteso dall'invio di una nave colonizzatrice?» «Ma è davvero così?» le chiese Flattery. Prudence regolò il ripetitore della costante di rotta. «Il mio campo è la matematica, comunque. Che ne dici di un sistema di calcolo che oltrepassi i limiti di X fratto Y, quando entrambe tendano all'infinito? Elaborarlo dovrebbe essere possibile». «Creare un nuovo sistema di calcolo e costruire una creatura dotata di coscienza non sono la stessa cosa», affermò lui. «Senza il sistema di calcolo, potremmo non creare mai la creatura». Continua a tentare di mettermi con le spalle al muro, pensò Flattery. Perché? «La questione è se stiamo invadendo il campo della creazione della vita, che è riservato a Dio». «Voi ecclesiastici siete tutti uguali. Volete rendere gloria a Dio, ma limitate i mezzi con cui è possibile farlo». Flattery fissò il grigio metallo curvo della paratia al di sopra della sua testa, notando le minuscole crepe nella verniciatura. Si sentiva manovrato. La donna lo stava braccando come farebbe un cacciatore con la selvaggina. Era la sua anima che voleva? Sentì di essere in grave pericolo, e che l'idea che fosse possibile creare la coscienza avrebbe potuto infliggere una profonda ferita, che non si sarebbe mai rimarginata, alla sua anima. Si portò una mano alla bocca. Non posso permetterle di tentarmi. «Raj», sussurrò lei e la sua voce fu colma di terrore. Flattery si voltò immediatamente verso Prudence e vide file di luci rosse accendersi sulla console principale, simili a ferite di coltello. «Abbiamo quasi raggiunto la temperatura limite nel Settore C-8 delle vasche d'ibernazione», gli comunicò Prudence. «E ogni tentativo di regolazione che faccio sembra far oscillare il sistema». Le mani di Flattery saettarono verso gli interruttori del ripetitore dei sistemi vitali, attivando gli schermi della sua postazione. Controllò gli strumenti, ordinò, «Chiama Tim». «Niente di quel che faccio sembra avere effetto!» ansimò lei. Flattery la guardò e si accorse che stava lottando contro la console, invece di lavorare in accordo con essa. «Chiama Tim!» ripeté. Prudence fece scattare l'interruttore che attivava il sistema di comunicazione interno con un colpo secco della mano, gridò, «Tim in sala coman-
do! Emergenza!» Flattery controllò ancora una volta gli strumenti che aveva di fronte. Sembrava che ci fosse una variazione di temperatura in tre punti esterni allo schermo protettivo della nave, con conseguenti variazioni all'interno di esso. Appena Prue tentava di compensare una fluttuazione, le altre si avvicinavano sempre più alla condizione critica. Dovette sforzarsi di non assumere i comandi. Se la temperatura delle vasche superava un certo limite, senza che venissero prese le precauzioni per la deibernazione, alcuni dei loro inermi occupanti sarebbero morti. A dispetto degli sforzi disperati di Prue, la morte incombeva su tre settori della sezione C-8 - in cui erano ibernate più di quattrocento persone. Il portello del locale per la manutenzione del computer si aprì di scatto, sbattendo rumorosamente contro la paratia. Timberlake lo attraversò con un salto, seguito da Bickel. «Vasche d'ibernazione», gli comunicò lapidariamente Prudence. «Temperatura». Timberlake attraversò in un lampo la sala comando, raggiungendo il suo lettino. La sua tuta raschiò contro i bordi del bozzolo quando si voltò e afferrò i controlli che avrebbero fatto arrivare da lui la console principale. «Datemi i comandi», ordinò. «All'inferno il conteggio! Datemeli subito!» E la console lo raggiunse, viaggiando troppo in fretta lungo la guida. «C-8», lo informò Prudence, ricadendo contro lo schienale del suo lettino e asciugandosi il sudore dalla fronte. «Ci sono», annunciò Timberlake, mentre i suoi occhi controllavano quadranti e misuratori, e le sue dita si muovevano abilmente sulla console. Bickel si sedette al suo posto e azionò i ripetitori. «E lo schermo dello scafo», disse. «I primi due strati», confermò Timberlake. Prudence portò una mano alla gola, tentò di non guardare Bickel. Non deve sospettare che lo controlliamo, pensò. E poi: Non sarebbe una mostruosa ironia perdere i nostri coloni ed essere sopraffatti dal senso di colpa, prima ancora che ce ne sia bisogno? «Ci stai riuscendo, Tim», disse Bickel. Prudence guardò la console principale, che ora si trovava al di sopra della testa di Timberlake, e vide che le spie si stavano spegnendo, mentre i quadranti ritornavano ad indicare valori normali. «Del feedback energetico proveniente da qualche deflettore dello scafo si è concentrato sulla sezione C-8», spiegò Timberlake. «Il sistema ha ini-
ziato ad oscillare e questo ha fatto scattare gli interruttori di sovraccarico, disattivando lo schermo». «Un altro difetto di progettazione», commentò beffardamente Bickel. Eppure sarebbe stato così semplice ovviare a quell'inconveniente, pensò poi. La curva dello scafo agiva come un'enorme lente, concentrando il calore all'interno della nave... a meno che i deflettori e lo schermo non impedissero quel fenomeno. Prudence osservò la fila di spie ancora accese. «La sezione C-8 è attigua alla sezione di magazzini da cui avete preso le parti di ricambio robotiche. Ci vuole così poco per sbilanciare il sistema?» «Quel che è appena accaduto ti infonde un profondo senso di fiducia nella progettazione dell'Uovo di Latta, non è così?» commentò amaramente Bickel. Non mi hanno avvertito che sarebbe stato così! pensò Prudence. Mi hanno mentito. Si presenteranno, mi hanno detto, delle emergenze calcolate in modo da mantenere sufficientemente all'erta i vostri riflessi. Sufficientemente! «Hai compensato troppo, Prue», le disse Timberlake. «Esegui regolazioni minime, mentre cerchi la fonte di un qualche problema. Hai fatto esaminare tutta la nave ai sensori a piena potenza, per capire dove c'era bisogno di rinforzare lo schermo anti-radiazioni». Mi sono lasciata prendere dal panico, pensò Prudence. «Penso di essermi stancata troppo». E proprio mentre pronunciava quelle parole, capì quanto suonasse debole quella scusa. Ero troppo concentrata a lavorare su Flattery, pensò. Lo avevo costretto ad impegolarsi in una serie di paradossi logici, avrebbe dovuto lottare duramente per uscirne... e non mi sono accorta dei problemi che aveva la nave, finché non siamo andati vicinissimi al disastro. In quel momento le capitò di chiedersi se qualcuno dell'equipaggio aveva lei come «progetto speciale», con il compito di mantenere le sue capacità... sufficientemente all'erta. «Prue, devi ricordare che quando scattano gli interruttori di sovraccarico, i dispositivi automatici del computer vengono disinseriti», disse Bickel. «Lo schermo doveva essere riattivato da un'intelligenza cosciente - uno di noi oppure uno NMO». «Oh, sta zitto!» esclamò irata Prudence. «Ho fatto un errore. Lo so. E non accadrà più». «Non abbiamo subito alcun danno», disse Timberlake.
«Non ho bisogno che tu prenda le mie difese!» ribatté seccamente Prudence. E poi pensò: Nessun danno! Niente è stato danneggiato tranne un membro dell'equipaggio - io! Strinse forte le mani per impedire che le tremassero. Siamo una facile preda per delle vere emergenze. Non possiamo tornare indietro senza correre il rìschio di finire nel Sole o di diventare un'altra delle sue comete vagabonde. E non possiamo proseguire se non risolviamo l'irrisolvibile. «Calmati, Prudence», la esortò Flattery con voce tranquilla. «Probabilmente, ti abbiamo messo alla console principale troppo presto dopo averti svegliato dall'ibernazione». Tante grazie per la scusa!, pensò con amarezza Prudence. Flattery si guardò intorno, si accorse del tranquillo silenzio di Bickel e Timberlake - entrambi erano stati feriti dalla rabbia di Prudence. Bickel si alzò dal suo lettino, fissò dei cavi di prova al fermaglio sulla spalla sinistra. Un multimisuratore gli sporgeva dalla tasca pettorale. Timberlake stava perfezionando le regolazioni della temperatura dello scafo, per poter inserire nuovamente il sistema nei circuiti del computer. Flattery riportò la sua attenzione su Prudence. Non avrebbe dovuto farsi prendere dal panico, pensò. Non è il tipo. Possiede un'intuizione acuta, tipicamente femminile, di cui si fida. Dovrebbe essere la migliore di noi nel manovrare la console. È sottoposta ad una tensione ancora più grande? Sa qualcosa che io non so? «Adesso sono pronto a gestire la console, Tim», annunciò. Timberlake studiò la sua strumentazione. «Bene. Dopo il conteggio». Effettuarono il passaggio della console da una postazione all'altra, e Timberlake si raddrizzò a sedere, con un dolore acuto lungo tutta la schiena che gli fece capire quanto fosse stato in tensione prima. «Ritorniamo nel locale per la manutenzione», disse Bickel. «A che punto siete?» domandò Prudence. «Appena all'inizio», rispose Bickel. «Diamoci da fare». «Un uomo è il mezzo di cui si serve una macchina per costruire un'altra macchina?» gli chiese ironicamente Prudence. «Proprio come la gallina di Sam Butler», disse Timberlake. «È una mia considerazione filosofica, ovviamente». «Dedicati alla filosofia qualche altra volta, eh?» gli suggerì Bickel. «Solo un istante», disse Prudence. «Tentando di riprodurre una coscienza artificiale, ci balocchiamo con una variazione di variabilità. Ora, esiste un campo che tutti i bravi religiosi» - annuì in direzione di Flattery - «e la
maggior parte degli scienziati sono d'accordo nel riservare esclusivamente alla volontà di Dio, in cielo, e alla sua opera, in terra - la genetica». «Sì», disse ironicamente Bickel. «Interessantissimo. Ma discutiamone un'altra volta». «Nessuno di voi ha ancora capito», commentò lei. Bickel la fissò con rabbia. «Sei sicura che io non abbia capito? Va bene, Prue. Andiamo al sodo e parliamo chiaramente: saremo dannati se risolveremo il problema della coscienza artificiale, e saremo morti se non ci riusciremo. Era questo che stavi tentando di dirci?» «Bravo!» esclamò lei, e si voltò a fissare Flattery. Flattery continuò a fissare la sua console, ignorando di proposito lo sguardo di Prudence. «Vedi, Raj?» gli chiese lei. Non è possibile che sia al corrente delle istruzioni che ho ricevuto, pensò Flattery. Può avere dei sospetti, ma non delle certezze. E di sicuro non riuscirà a fermarmi, se dovrò spedire tutti nel Regno dei Cieli. «Sì», rispose. «Mai sottovalutare John Bickel». Sentendo pronunciare il suo nome, Bickel sollevò la testa. Fissò il profilo di Flattery, seguì le sue dita che si muovevano svelte come zampe di ragno sulla console principale. «Tu sei molto intelligente, Raj», gli disse Prudence. «E così dannatamente stupido!» «Ora basta!» esclamò bruscamente Bickel, e si voltò per rivolgere uno sguardo irato a Prudence. «Faremo meglio a chiarire la situazione. Siamo abbandonati a noi stessi, Prue. E non immagini neppure quanto. Siamo costretti a dipendere uno dall'altro, visto che, e questo è sicuro come l'inferno, non possiamo fidarci dell'Uovo di Latta! Non possiamo permetterci di litigare tra noi». Oh, adesso non possiamo?, pensò ironicamente lei. «Siamo intrappolati su una nave che contiene un solo meccanismo ben progettato», continuò Bickel. «C'è un solo dispositivo che funziona in maniera perfetta e nel modo dovuto - il nostro computer. Tutto il resto funziona come se fosse stato progettato e costruito da sei scimmie mancine». «Bickel è convinto che questo sia stato fatto di proposito», spiegò agli altri Timberlake. Prudence si sorprese a lanciare un'occhiata involontaria verso Flattery, si costrinse a distogliere l'attenzione da Bickel per concentrarla su Timberlake. È troppo presto perché Bickel inizi a sospettare, pensò. Timberlake evitò il suo sguardo. Aveva l'aria di un bambino sorpreso a
rubare della marmellata. Flattery ruppe per primo il silenzio. «Di proposito?» chiese. «Sì», confermò Timberlake. «Pensa che le altre sei navi abbiano subito lo stesso tipo di guasto - che qualcosa si sia rotto negli NMO». Bickel è più all'erta e sospettoso di quel che chiunque abbia sospettato, pensò Prudence. Raj oppure io dovremo passare dalla sua parte; non c'è altro modo per tenere sotto controllo la situazione. «Perché... gli NMO?» chiese Flattery. «Non giriamo intorno alla questione», tagliò corto Bickel. «La mia conclusione è ovvia. Quale dispositivo di queste navi non è mai menzionato nelle analisi compiute per tentare di trovare la causa dei sei precedenti fallimenti? Quale dispositivo abbiamo presunto che fosse a prova di guasto, visto che non c'era neppure il minimo sospetto che se ne fosse rotto uno?» «Sicuramente non gli NMO», replicò Flattery. Tentò di mantenere un tono di voce bonario, non ci riuscì e pensò: Dio ci aiuti, Bickel ha scoperto l'inganno troppo, troppo presto. «Certamente gli NMO», ribatté Bickel. «E ce ne hanno dati tre, di quei dannati aggeggi! Uno da tenere in servizio, e due di ricambio. Non una parola sul fatto che potevano rompersi, eppure ne avevamo tre a bordo!» «Ma perché?», chiese Prudence. «Volevano essere dannatamente sicuri che fosse impossibile per noi invertire la rotta, essendoci spinti troppo in avanti nel nostro viaggio, dopo il manifestarsi dei primi problemi», le spiegò Bickel. Immagino che dovrò farlo io, si disse Prudence. «Un altro dannato raggiro del Progetto! Sicuro. È perfettamente tipico del loro modo di pensare». Flattery le rivolse una fulminea occhiata di sorpresa, ma riportò la sua attenzione sulla console principale prima che Bickel se ne accorgesse. «Un'inganno», continuò Bickel. «Questa nave è un unico, elaborato apparecchio di simulazione con un solo scopo - e presumo che anche le altre navi lo fossero». «Perché?» domandò Flattery. «Perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere?» «Non riesci ancora a capirlo?» gli rispose Flattery. «Non ti è ancora chiaro lo scopo di tutto questo? Proietta la sua ombra su tutto quello che ci circonda. È l'unica cosa che rende sensata questa sciarada. La segretezza, il mistero, le manovre alle nostre spalle - è stato tutto calcolato per farci cadere nell'oceano. Qui si tratta di nuotare o morire. E l'unico modo che ab-
biamo di nuotare è quello di creare una coscienza artificiale». «Allora, perché tutta questa elaborata messinscena?» chiese Flattery. «Perché la presenza di tutti quei coloni, per esempio?» «E perché no?» ribatté Bickel. «Rappresentano dei comodi rimpiazzi per qualsiasi membro dell'equipaggio perisca durante il viaggio. Un'altra freccia nella faretra - solo nel caso che riuscissimo davvero a raggiungere un pianeta abitabile su cui piantare il seme dell'umanità. E... forse c'è un altro motivo». «Quale?» domandò Prudence. «Per ora non posso dirtelo», rispose Bickel. «È soltanto un sospetto... e c'è un dannato qualcosa di molto più importante che dobbiamo prendere in considerazione - il potenziale distruttivo di questo progetto». «Faresti meglio a spiegare questa affermazione», disse Flattery, ma dall'aridità che gli aveva afferrato la gola e la bocca capì che Bickel aveva già intravisto l'elemento di orrore implicato dal Progetto Coscienza. «Non prendiamoci in giro», disse Bickel. «Se ci riusciamo davvero, qualunque cosa costruiremo potrebbe rappresentare una minaccia mortale per l'umanità - un mostro come quello costruito da Frankenstein, una fredda intelligenza priva di emozioni, un essere orribile e animato da una spaventosa follia». Scrollò le spalle. «Un tempo, esisteva un'isola nello Stretto di Puget; lo sapete tutti. Che cosa le è successo? Sono forse riusciti a scoprirlo?» «Perciò istalleremo delle inibizioni, dei dispositivi di sicurezza», disse Prudence. «Come?» le chiese Bickel. «Possiamo creare una coscienza senza conferirle il libero arbitrio? Forse questo è lo stesso problema che ha dovuto affrontare il nostro Creatore - renderci coscienti senza permetterci di ribellarci contro... cosa? Dio? Sapete, la conoscenza non è un dono innocuo, e sempre benigno. È come una corona di spine. Fa male». Flattery si umettò le labbra. «E allora?» «E allora questa nave deve avere un dispositivo di sicurezza finale che protegga la Terra e il resto dell'umanità», concluse Bickel. «E l'unico sistema sicuro, considerate tutte le variabili, a cui riesco a pensare, è che si tratti di un essere umano - uno di noi». Fissò ciascuno di loro. «Uno di noi che prema il pulsante e ci spedisca all'inferno se qui le cose si mettono male». «Oh, andiamo!» esclamò Flattery. «Potresti essere tu», disse Bickel. «Probabilmente è così... ma forse sa-
rebbe una scelta troppo ovvia». Prudence si portò una mano al petto e pensò: Gesù! Non ci avevo mai pensato. Ma Bickel ha ragione... è Raj, ovviamente. È l'unico adatto ad un compito del genere. E adesso che faccio? Timberlake si scosse dal profondo silenzio in cui era caduto. Aveva ascoltato attentamente la discussione e l'unica cosa che l'aveva sorpreso era quanto fosse stato facile accettare le conclusioni di Bickel. Soltanto perché Bickel aveva ragione? Senza alcun dubbio, aveva davvero ragione. Ma perché avevano accettato le sue spiegazioni quando il quadro d'insieme non era stato così ovvio? Avevano soggiaciuto al carisma di Bickel - chiaramente la mente più acuta a bordo? Oppure, conoscevano già la verità inconsciamente? «Ho da dirvi qualcosa», annunciò agli altri. «Bickel ha ragione, e lo sappiamo tutti. Dunque, uno di noi deve premere quel pulsante. Ma non voglio sapere chi». «Sono d'accordo», disse Bickel. «Chiunque sia... se questo tentativo volge al peggio, sarei l'ultima persona sulla nave... a tentare di fermarlo». Scrisse «Prudence Weygand» in calce al nastro perforato che riportava tutti i dati del suo turno, lo inserì nel registratore automatico, attivò la sincronizzazione del nastro di Flattery, mentre l'altro riceveva la console principale. Il contatore le comunicò che aveva appena terminato il suo quindicesimo turno ai comandi. Flattery si mosse sul suo lettino, assumendo la posizione più comoda possibile per effettuare il suo turno di quattro ore. I riflessi sulle superfici dei quadranti dei misuratori erano ipnotici. Scosse la testa per scacciare il torpore che minacciava di impadronirsi di lui, udì il fruscio del tessuto quando Prudence si alzò dal sedile. La donna si stiracchiò per un istante, poi eseguì una dozzina di piegamenti al ginocchio. Con quanta tranquillità hanno accettato la possibilità che io possa trasformarmi nel loro boia, pensò Flattery. Notò quanto sveglia e all'erta sembrasse Prudence. Quei turni continui di quattro ore potevano essere sopportati finché non fosse sorto qualche grave problema, ma alteravano il ciclo metabolico. Prudence avrebbe avuto bisogno di cibo e riposo, eppure era completamente sveglia. Quest'ultima guardò Flattery, si assicurò che avesse il pieno controllo della console, diede un'occhiata al registro delle riparazioni da eseguire. Non ce n'era nessuna classificata come urgente. E così, era da circa venti-
cinque ore che non bisognava riparare alcunché, tranne eseguire minime regolazioni sulla console. Tutto filava liscio. Troppo liscio. Il pericolo ti tiene all'erta, ricordò a se stessa. Un lungo periodo di tranquillità rende lenti i tuoi riflessi. Ma si chiese se i responsabili del Progetto avessero previsto lo speciale pericolo che aveva scelto per se stessa, e poi pensò: Forse, sono il bastone non soltanto per gli altri, ma anche per me stessa? La linea di ricerca che aveva intrapreso, tuttavia, le sembrava così ovvia: individuare il mare chimico in cui nuotava la coscienza. L'indizio più importante, rifletté, era contenuto nelle frazioni adrenaliniche della serotonina. Quel che cercava era un principio attivo, a metà tra il sinexile e la noradrenalina, che producesse istantaneamente dei neuro-ormoni. Il prodotto finale avrebbe rappresentato lo stimolatore base della coscienza umana. Trovato quell'analogo chimico, Prudence avrebbe potuto essere di grande aiuto a Bickel e Timberlake nel loro tentativo di creare un dispositivo dotato di coscienza, fornendo loro uno schema chimico che avrebbe potuto essere simulato elettronicamente. C'era un problema, però: i rischi per la sua persona erano enormi. Non aveva altra cavia, su cui sperimentare i composti chimici che il suo ingegno elaborava, che se stessa. La possibilità di un errore dalla conseguenze mortali era sempre presente. L'ultima sostanza che aveva assunto, simile alla cohoba con un aggiunta di nitrogeno, le aveva sconvolto la mente, precipitandola in un bizzarro stato di coscienza alterata. Tutti i suoni erano divenuti dei liquidi che si fondevano all'interno del suo corpo, per essere percepiti mediante un processo di consapevolezza centrifugo. Era stata un'esperienza terrificante, ma non aveva voluto interrompere gli esperimenti. Le era possibile eseguire quei test soltanto nel suo cubicolo, durante i periodi di riposo, e c'era sempre la possibilità che qualche sintomo manifestato dal suo fisico la tradisse. Non poteva permetterlo; sapeva che gli altri sarebbero stati concordi nel proibirle di condurre ulteriori esperimenti. Erano condizionati a farlo. «Faresti meglio a mangiare qualcosa e a tentare di riposare», la esortò Flattery. «Non ho fame». «Almeno tenta di riposare». «Forse più tardi. Penso che ora darò un'occhiata a quel che stanno facendo Bickel e Tim». Guardò lo schermo principale sopra la sua testa. Era
sintonizzato sulle telecamere del locale per la manutenzione del computer. «Dobbiamo tenerci continuamente in contatto visivo», li aveva convinti Timberlake. «Non possiamo aspettare che qualcuno chiami aiuto». Lo schermo mostrava che Bickel era solo nel locale, ma era stata attivata un'altra telecamera; quest'ultima mostrò Timberlake, che dormiva nel suo cubicolo adiacente al locale. Questi turni di quattro ore, più il dover controllare costantemente gli altri, ci faranno ammattire nel giro di una settimana, pensò Prudence. Bickel sollevò lo sguardo sul suo schermo, si accorse che Prudence lo stava osservando, disse: «Satana trova sempre del lavoro per chi poltrisce». Si stanno burlando di me, pensò Flattery. Ridono di Dio, del diavolo, di me. «Che ne dici di un po' di caffè?» chiese Prudence, rivolgendosi a Bickel. «Più tardi», rispose lui. «Comunque, qui dentro non è più possibile introdurre cibo di alcun genere. Dobbiamo tenere aperti i pannelli di protezione del computer e non possiamo rischiare di contaminare la sua struttura interna. Però, se sei libera, potrebbe servirmi un po' d'aiuto». Con un solo salto, Prudence arrivò al portello, lo attraversò, e si fermò appena entrata nel locale per la manutenzione, studiando quel che Bickel e Tim avevano realizzato dal suo ultimo periodo di riposo. Dove si era trovato il lettore di caratteri ottico, sul grande pannello di fronte al portello, adesso sporgeva un'escrescenza meccanica - una struttura costituita da blocchi di plastica ammucchiati uno sull'altro: moltiplicatori Eng, ciascuno sigillato da un isolante plastico. I blocchi erano collegati da un intrico, simile ad una ragnatela dal colore nero, di fibra pseudoneuronica isolata. Bickel l'aveva sentita entrare. Senza interrompere ciò che stava facendo ad una delle estremità della costruzione angolosa e sporgente, le disse: «Prendi quell'altro microsaldatore sul banco di lavoro. Ho bisogno di 20,006 centimetri di neurofibra K-A4 dotata di dendriti disposti casualmente e di multisinapsi. Collegala come ho indicato nello schema G-20. Dovrebbe essere in cima a quella pila di fogli sul lato destro del banco». Bickel si sedette sul ponte, fece scivolare il blocco contenente un nuovo moltiplicatore Eng in posizione. Poggiò un microsaldatore portatile su di esso, accostò il volto al visore e iniziò ad eseguire i collegamenti. Sissignore!, pensò scherzosamente lei. Trovò lo schema che le era stato indicato, srotolò un tratto di neurofibra,
accostò l'occhio al visore. L'immagine ingrandita della linea di conduzione con le sue sezioni sinaptiche colorate in verde e i dendriti in giallo le balzò incontro. Diede un'altra occhiata allo schema, iniziò a stabilire i collegamenti necessari. «Cosa stiamo facendo adesso, capo?» chiese a Bickel. «Stiamo istallando un sistema di cicli causali», le rispose lui. «Perché?» «Una macchina può riprodurre qualunque tipo di comportamento», spiegò Bickel. «Possiamo costruire un dispositivo che soddisferà qualunque specificazione input/output data. Si comporterà in qualunque maniera vogliamo, in circostanze che siano state specificate in precedenza, però. È stato Raj a farmelo capire, e ad indirizzarmi sulla strada giusta». Prudence mantenne un tono di voce leggero. «E così non va, eh?» «Puoi scommetterci la tua deliziosa testolina. Fattori ambientali e comportamento che vengono stabiliti in precedenza - è troppo deterministico. È ancora il costruttore ad avere il controllo. E quel che è peggio, un dispositivo del genere richiede una memoria dettagliata, fin nei minimi particolari; tutto nel passato della macchina deve essere simultaneo... qui e subito! Il carico di memoria diventa maggiore ad ogni secondo che passa. Ed è sempre presente e immediato. E questo, bambola, ci pone di fronte al problema di progettare un infinito». Prudence srotolò la quantità necessaria di fibra, eseguì l'avvolgimento indicato nello schema. «Progettare l'infinito. Significa costruire qualcosa la cui forma sia indeterminata e, per definizione, ciò che è indeterminabile non può venir costruito. E allora, cosa stiamo facendo adesso?» «Non essere ottusa», la rimproverò Bickel. «Stiamo inserendo uno schema casuale inibitorio nella rete del computer - che produrrà un comportamento molto flessibile, non piattamente meccanico». Smise di guardare nel visore del microsaldatore, si asciugò il sudore dalla fronte. «Uno schema di comportamento risultante da un malfunzionamento volutamente inserito nel sistema». «Un comportamento deterministico prodotto da elementi non affidabili», commentò lei. E percepì lo zampino di Flattery in quel concetto, la sua influenza discreta, sottile. «Bickel», disse, «ho rimuginato a lungo sui tuoi sospetti. Anche se hai ragione - sul fatto che uno di noi ha il compito di distruggere la nave se il nostro esperimento sfugge al controllo - come puoi essere sicuro che questa persona sia ancora tra noi? Insomma, tre membri dell'equipaggio origi-
nale sono morti». «Benissimo», disse Bickel. «Supponiamo che tu venga svegliata dall'ibernazione e che scopra che il nostro psichiatra-cappellano è stato ucciso. Quali sono i tuoi ordini?» «Ordini?» «Andiamo! Tutti noi abbiamo degli ordini speciali». «Insisterei affinché venga svegliato un altro psichiatra-cappellano», disse lei a bassa voce. «Perché, tu cosa avresti fatto?» «Ho anch'io i miei ordini: sono uguali ai tuoi». Prudence sollevò lo sguardo verso lo schermo, su cui era visibile Flattery. Appariva intento alla sorveglianza della console principale, senza prestare attenzione alla conversazione che gli arrivava, attraverso il sistema di comunicazione, dal locale in cui si trovavano Bickel e Prudence. Era soltanto una finzione, pensò quest'ultima. Tutto quello che dicevano era memorizzato dalla mente di Flattery, soppesato, analizzato. Bickel ha ragione. E Raj. «Attenta!» Prudence si voltò, e vide che Bickel la stava osservando. «Sbaglia i collegamenti di quell'avvolgimento e ti rimetto di nuovo in ibernazione», la minacciò scherzosamente lui. «Non fare minacce che non sei in grado di realizzare», lo rimbeccò lei. Ma ritornò al microsaldatore, terminò di collegare una serie di avvolgimenti intersecantisi, controllò che non si mettessero in oscillazione reciproca, scovò il cavo d'output e vi attaccò una presa per un moltiplicatore Eng. «Dammi l'assemblaggio G-20, non appena hai finito», disse Bickel. Sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Prudence controllò l'assemblaggio che aveva realizzato, paragonandolo al suo schema, vide che corrispondeva perfettamente, lo tolse con delicatezza dal microsaldatore e lo portò a Bickel. Si accorse che l'uomo aveva un bisogno disperato di riposo, eppure si costringeva a lavorare ancora. «Ecco», gli disse, porgendogli l'assemblaggio. «Dopo averlo collegato, faresti meglio a riposare un po'». «Siamo quasi pronti a far girare su quest'affare un programma iniziale», disse Bickel. Prese l'assemblaggio, iniziò a collegarlo all'ultimo moltiplicatore Eng istallato, fece correre un cavo con una spina a pettine fino a connetterla ad una presa in uno dei pannelli del computer. Prudence fece un passo indietro, studiò l'ammasso di meccanismi che
sporgeva dalla parete. E come se lo vedesse per la prima volta, di colpo esso assunse un nuovo significato. «Questa non è una semplice apparecchiatura d'analisi», disse. «Giustissimo, bambola». Bickel si alzò, si pulì le mani lungo i fianchi della tuta, ripose il microsaldatore e il visore. «Oltre a fornirci l'analisi dei dati di cui abbiamo bisogno, questo piccolo "Bue" realizzerà un triplice interscambio di energie». «Lo hai collegato al computer», lo accusò lei, indicando il pannello di connessione. «Ogni linea in quel pannello ha un diodo. Gli impulsi possono uscire dal computer, diretti verso il nostro dispositivo d'analisi, ma qualsiasi dato in entrata nel computer dovrà essere codificato da uno di noi e inserito laggiù». Bickel indicò gli ingressi d'input allineati lungo l'angolo destro della parete. «Triplice interscambio?» chiese lei. «Metteremo alla prova la mia teoria sulla coscienza come campo. Ho preparato un programma d'inizio da inserire. Se il nostro Bue non funziona, produrrà un semplice trasferimento totale di dati. L'output sarà uguale all'input. Se invece si creerà il campo di coscienza, esso agirà da filtro, e ci sarà una selezione. Passeranno soltanto le cifre significative». «E i cicli casuali?» «Serviranno a rendere intermittente la soppressione», rispose lui, «ma in uscita otterremo sempre e soltanto le cifre significative». Prudence annuì, osservando Bickel con una nuova comprensione di quello che l'uomo aveva in mente. «Tutti i dati sensoriali nella coscienza umana sono intermittenti». «Adesso hai capito», disse Bickel. «Ma noi postuliamo che ciò che riceve i dati sia qualcosa di continuo - un flusso di coscienza. Da qualche parte nel nostro interno, i singoli dati vengono trasformati in un insieme strutturato. La coscienza elimina ciò che è privo di significato, e si concentra soltanto su ciò che riceve di significativo». «Ma è proprio su questo punto che la teoria fisicalista non regge», gli contestò Prudence. «Se realizzerai un dispositivo dotato di introspezione, esso non sarà dotato di coscienza. Il concetto di introspezione confonde la coscienza con l'atto del pensare. Ma il sentire, il percepire, il pensare sono dei processi fisiologici... mentre la coscienza...» «È qualcosa che appartiene ad un ordine di fenomeni totalmente diver-
so», concluse Bickel. «È una relazione, un campo, un interscambio selettivo. Elimina i dati privi di significato. È essenzialmente un selettore. Ora, vedremo se abbiamo costruito una macchina che può selezionare sulla base di dati intermittenti, alcuni dei quali sono erronei». «Dati erronei - risultati significativi», sussurrò lei. «Cosa?» Ma Prudence lo ignorò, si voltò e guardò lo schermo, che mostrava Flattery mentre sorvegliava tranquillamente la console principale. In quel momento, qualcosa che le aveva detto le ritornò in mente, come se fosse stato improvvisamente amplificato al massimo volume: «Non c'è nulla che ci riguardi che possiamo giudicare in maniera oggettiva, tranne le nostre risposte fisiologiche - che sono riflessi del comportamento. Esistiamo in una foresta d'illusioni in cui perfino il concetto di coscienza si confonde con l'illusione. Si voltò a guardare Bickel, che aveva ripreso a lavorare, notando la tensione dei suoi muscoli sotto il tessuto della tuta quando si piegò per completare il montaggio. Per essere coscienti, bisogna saper riconoscere l'illusione. Io non l'avevo capito. Bickel, sì. Un'illuminazione improvvisa riempì la sua mente e considerò l'uomo al lavoro come più di un ammasso di carne, cartilagine e terminazioni nervose - più di un insieme di sostanze chimiche, con degli spazi vuoti da riempire. Bickel era una creatura tanto minuscola quanto vulnerabile, ma al di là di questi suoi limiti, possedeva delle capacità che avrebbero potuto fargli attraversare qualunque universo. In un certo senso, quell'intuizione conteneva qualcosa di religioso... di sacro. Prudence assaporò quella sensazione, sapendo che, a causa della sua peculiarità, non avrebbe mai potuto comunicarla totalmente ad un altro essere umano. Bickel terminò di collegare l'assemblaggio G-20, si alzò in piedi e si strofinò la schiena. Le mani gli tremavano mentre si rilassava dopo l'estrema concentrazione che aveva impegnato nel terminare il suo lavoro. «Facciamo un tentativo», disse. «Prue, tu ti occuperai della console diagnostica». Con un gesto indicò il pannello coperto di quadranti e misuratori, simili ad occhi luccicanti ed in attesa, alla sua sinistra. «Fornirò ad ogni rete di cicli casuali un impulso di un quinto di secondo prodotto dal generatore d'impulsi casuali». Aggirò il mucchio di blocchi disposti uno sull'altro dell'apparecchio di prova, scavalcando i cavi con estrema attenzione, e si dispose alla sua destra. Attivò la fila d'interruttori che avrebbe inserito nel Bue il programma d'inizio.
«Inserito», disse. «Inserito», confermò Prudence quando gli aghi dei suoi quadranti scattarono verso l'alto registrando l'impulso. «Dammi la soglia media delle sinapsi, la soglia media delle terminazioni sinaptiche, e il tempo di reazione di ogni rete». Bickel premé tre pulsanti contemporaneamente. «Interscambio inserito». Rimase in attesa, conscio della tensione che aumentava, provando una stretta allo stomaco. «L'interscambio adesso registra un impulso in entrata», annunciò Prudence. «Rete uno», disse Bickel, introducendo la raffica casuale proveniente dal generatore di impulsi. «C'è un intasamento nei nodi del quinto strato», lo avvertì Prudence. Si concentrò sui misuratori del quinto strato, come se i suoi pensieri potessero attivarli, ma essi continuarono ad indicare lo zero. «Non sta passando nessun impulso», disse. «Tenterò di ripulire i cicli casuali», disse Bickel e ruotò un quadrante. «Nulla», gli comunicò lei. Bickel disattivò la sua fila d'interruttori, spostò i jack di collegamento verso sinistra. «Ecco fatto, proviamo ad inviare negli avvolgimenti un potenziale oscillante in maniera trigonometrica. Dammi le nuove letture di ciascuno strato delle reti. Lettura uno». «Adesso hai ottenuto una reazione non lineare in tutte le reti», lo informò Prudence. «Siamo vicini a linearità zero». «Non può essere!» esclamò Bickel. «Questi sono ancora dei circuiti aperti, in qualunque modo li si voglia chiamare». Attivò un altro interruttore. «Leggi le altre reti». Prudence represse un senso di frustrazione e fece correre lo sguardo lungo i numerosi misuratori. «Non lineari», disse. Bickel fece un passo indietro e fissò furibondo il pannello di ingresso dati. «È assurdo! Quello che abbiamo costruito è essenzialmente un trasduttore. L'output dovrebbe essere uguale all'input!» Prudence lesse ancora una volta i quadranti. «I tuoi prodotti sono ancora zero». «Calore?» chiese Bickel. «Nessuna traccia significativa», rispose Prudence. Bickel arricciò le labbra, sovrappensiero. «In qualche modo, abbiamo
prodotto un sistema ortogonale unitario per ciascuna rete e per l'intero dispositivo», disse. «E questa è una contraddizione in termini. Potrebbe significare che abbiamo più di un sistema per ciascuna di queste reti». «Hai un fattore ignoto che assorbe energia», disse Prudence, che stava iniziando a farsi prendere dall'eccitazione. «Non è forse questa la nostra definizione di...» «Non è cosciente», replicò Bickel. «Qualunque cosa sia questo sistema sconosciuto, non può essere cosciente... non ancora. Questo dispositivo è troppo semplice, non possiede abbastanza fonti di dati...» «Allora c'è qualche errore nei collegamenti», ipotizzò Prudence. Le spalle di Bickel si curvarono. Tirò un profondo respiro, colmo di stanchezza. «Sì, dev'essere così». «Dov'è la registrazione dei circuiti di prova e dell'assemblaggio che hai costruito?» «Ho isolato una memoria ausiliaria», disse Bickel. Fece un gesto vago, indicando verso la sua sinistra. «È quella contrassegnata in rosso. È tutto là... compreso questo», e indicò la console diagnostica. «Tu mangia qualcosa e riposa per un po'», gli ordinò Prudence. «Nel frattempo, inizierò a studiare i circuiti». «Abbiamo avuto un intasamento nel test diretto», disse Bickel. «Non era una reazione tipica di un circuito aperto. E il test sull'interscambio tra le reti produce zero in uscita, senza segnalare il punto di perdita. Quella cosa è una dannata spugna!» «Si tratterà di qualche stupido errore», disse lei. «Sveglia Tim e mandalo qui, già che ci sei. Le sue quattro ore di riposo sono più che trascorse». «Sono davvero stanco» ammise Bickel. Tentò di ricordare con precisione quando era stato che aveva riposato per l'ultima volta. Erano passati almeno tre turni. Mi stanco troppo, pensò. E so che è sbagliato. Questo è un lavoro che consuma in fretta le tue energie. E svolgerlo troppo a lungo senza una pausa è la maniera più sicura per commettere degli errori. «Sarà una sciocchezza», ripeté anche lui, ma nello stesso momento in cui pronunciava quelle parole, capì che non era così. Dormire. Aveva bisogno di dormire. Bickel si diresse verso i quartieri dell'equipaggio, rimuginando sul problema, esaminandolo da più punti di vista. Il dispositivo produceva una risposta contraddittoria. Ma niente di così semplice avrebbe potuto generare una contraddizione così complessa.
Rimasta sola, Prudence attivò i dispositivi di lettura della sezione contrassegnata in rosso del pannello del computer, e iniziò a tentare di «sentire» i circuiti. Qualche volta, in quei casi, si riusciva a scoprire immediatamente la fonte del problema facendo ricorso all'intuizione, e risparmiando così lunghe ore di ricerche infruttuose. Avrebbe semplicemente sentito che c'era qualche cosa che non andava in alcune parti del dispositivo. In quel momento, la raggiunse Timberlake, sbadigliando. «Bickel me l'ha detto. Problemi». «E anche strani». «Così mi è parso di capire». Timberlake si schiarì la gola. «Che cosa è successo esattamente?» Prudence gli raccontò dei test, dell'intasamento nei nodi del quinto strato e della conseguente discrepanza tra l'input e l'output. «Linearità zero?», le chiese lui. «Quasi». «Niente calore?» «Se ci si può fidare dei sensori, no». Timberlake guardò il dispositivo di lettura dell'output, entrambi i lati del pannello. «Questa è la memoria ausiliaria che abbiamo isolato. Hai controllato l'intera procedura?» «Quando sei arrivato, stavo appena familiarizzando con i circuiti del dispositivo». «Quell'aggeggio avrebbe dovuto funzionare», disse Timberlake. «Capisci, non abbiamo avuto grossi problemi nel costruirlo. Avrei giurato che ci avrebbe dato l'output che ci aspettavamo e che avrebbe eliminato i dati privi di significato, in modo da permetterci di continuare a...» Si interruppe, poi disse, «Un feedback inaspettato avrebbe... potuto far reagire l'aggeggio nel modo che avete osservato». «Non ti seguo». «Un'oscillazione. Un impulso di ritorno che non avevamo preso in considerazione». «Avrebbe potuto soltanto provocare l'intasamento nel test diretto», ribatté lei. «ma non spiegherebbe l'altra reazione. Certo, se fossimo entrati nel computer... ma il collegamento era solo in uscita... o no?» «Ed era fornito di diodi lungo tutta la linea. Il nostro dispositivo poteva ricevere dati selezionati dal computer, ma niente poteva ritornare indietro. Era come leggere dell'output. No... stavo pensando a questa memoria ausiliaria qui». Annuì in direzione del pannello che si trovava di fronte a Pru-
dence. Anche lei si voltò verso il pannello, perplessa. «Ma questo è soltanto... un registratore piuttosto complesso. Tutto quello che può fare è immagazzinare, passo per passo, i dati che riguardano il nostro lavoro. È isolato dal resto del computer, vero?» «E se non lo fosse?» le chiese Timberlake. «Ma Bickel mi aveva assicurato...» «Sì», disse Timberlake, «e probabilmente ci credeva. Anch'io ho controllato il lavoro che ha fatto. Se gli schemi sono corretti, è davvero isolato. Ma se gli schemi fossero sbagliati?» «Perché dovrebbero esserlo?» «Non lo so, ma se sono sbagliati?» Timberlake si mosse verso il lato sinistro del pannello, cercando qualcosa. Si fermò davanti ad un traduttore d'output. «È abbastanza facile scoprirlo. Abbiamo un mucchio di programmi supervisori capaci di riconoscere i pattern di funzionamento; vedrò di capire se qualcosa proveniente dal nostro apparecchio è entrato nei banchi centrali del computer». «Se è andata davvero così, sarà impossibile capire cosa si possa essere danneggiato nel computer», disse Prudence. «Non necessariamente», replicò Timberlake. Iniziò a preparare un programma su nastro, consultando i banchi del computer per ottenere i dati necessari. Infine annunciò, «Così dovrebbe andar bene. Il programma è di tipo standard». In pochi secondi, lampeggiò il segnale di «caricato e pronto a partire» sul dispositivo di lettura di fronte a Timberlake. Lui selezionò la modalità «stampa on-line» e iniziò a leggere la traduzione automatica. «Va troppo in fretta», commentò Prudence. Timberlake la ignorò, studiando il nastro che usciva ticchettando dalla stampante. «Per amor di Dio!» esclamò. «Cosa c'è?» chiese lei, reprimendo una sensazione irrazionale di paura. «Vai a chiamare Bickel», ordinò Timberlake. «Questo dannato aggeggio sta eseguendo la lettura selezionata, proprio in questo momento». «Cosa?» «La risposta che ci aspettavamo provenisse dal nostro dispositivo, se avesse funzionato», le spiegò Timberlake. «Be', la stiamo avendo dal computer, proprio ora!» «È impossibile», protestò lei.
«Certo che lo è», disse Timberlake. «Hai aiutato a programmare quest'affare; controlla tu stessa». Si voltò in fretta, oltrepassò Prudence sfiorandole la spalla e si diresse verso gli alloggiamenti dell'equipaggio. Prudence prese gli stampati, controllò i dati selezionati, riconobbe alcune delle formule matematiche che aveva inserito nel programma, su richiesta di Bickel. Con un senso di meraviglia che le mozzò il fiato, comprese che gli stampati erano privi di dati non significativi. Soltanto i dati essenziali erano stati selezionati. In quel momento, ritornò Timberlake, in compagnia di Bickel. «Fammi vedere!» esclamò quest'ultimo, spingendo da parte Prudence. «Mio Dio, ecco perché!» «Com'è successo?» chiese Timberlake. «Tim», gli ordinò Bickel, «togli il pannello da quella memoria ausiliaria. Controllala con tutto quello che abbiamo. Dev'esserci una linea che, in qualche modo, la collega al computer principale... una linea che non compare nello schema generale di progettazione». «Ma perché adesso il computer ci fornisce la risposta corretta?» domandò Prudence. «Ah, questo?» Bickel liquidò il fenomeno con un gesto della mano. «Il programma era fornito di istruzioni che dicevano al computer cosa ci si aspettava che facesse. Ogni parte di quel programma è stata realizzata sul computer principale. E non l'abbiamo cancellato. È ancora dentro... e funge da filtro. Ha filtrato tutto, tranne le risposte che venivano riconosciute come ottimali. All'inferno, chiunque può far agire un computer da filtro in questo modo. Non significa nulla». «Non così in fretta», obiettò lei, eccitata da un'ispirazione improvvisa che aveva avuto. «Che cos'è davvero quel dispositivo che avete costruito?» Osservò quello che Bickel aveva chiamato ironicamente «il Bue», che sporgeva ancora in maniera bizzarra dalla superficie liscia del pannello del computer. «Tu lo definisci un trasduttore... più o meno», continuò. «Ma cosa significa questo, in realtà? Quella cosa laggiù è composta di una serie di simulatori di rete neurale, aventi il compito di integrare tre linee d'energia. Il termine operativo da utilizzare è dunque "simulatore di rete neurale"». Si eccita troppo e parla troppo, pensò Bickel. Sapeva che era in parte la fatica che lo spingeva a pensarla in quel modo, ma si sentiva agitato, inco-
raggiato dall'aver scoperto rapidamente l'errore commesso. Voleva tagliare il collegamento con il computer e rifare il test. Timberlake stava già rimuovendo il pannello per accedere alla memoria ausiliaria. Il pannello grattò sul ponte quando lo poggiò da una parte. «Sì, un simulatore di rete neurale», ripeté Bickel. Mantenne la sua attenzione su Timberlake, apprezzando il modo rapido e deciso in cui agiva. Era bravo a svolgere quel lavoro. Prudence malinterpretò la risposta di Bickel e disse: «E cos'è una rete neurale se non uno spazio in cui viene assorbita l'energia? Si comporta come una ragnatela su cui venga gettato dell'inchiostro. La rete effettua una registrazione in quattro dimensioni dell'energia che cattura». «Una bella analogia», concesse Bickel. «Trovato qualcosa, Tim?» «Non ancora», rispose l'altro. Adesso era sdraiato sulla schiena, ed aveva la testa, le spalle e le braccia nell'angusto spazio sottostante il primo strato di cavi del sistema computer-memorie ausiliarie. Accortosi del punto in cui Timberlake stava concentrando la sua attenzione, Bickel disse, «Penso che tu abbia ragione, Tim. È probabile che sia laggiù, tra i collegamenti primari». Prudence, che era ancora concentrata sulla linea di ragionamento che stava sviluppando, disse: «E così abbiamo uno spazio di assorbimento d'energia multiplo, su quattro dimensioni. Il programma di prova passa attraverso questo spazio come un flusso d'impulsi e viene filtrato dai cicli casuali, trasformandosi in...» «Puoi ripetere?» l'interruppe Bickel. Prudence alzò lo sguardo e si accorse che l'uomo la stava fissando intensamente. «Cosa?» «La parte sul flusso d'impulsi». «Ho detto che il programma di prova passa attraverso questo spazio come un flusso d'impulsi in quattro dimensioni e viene filtrato dai cicli casuali inibitori...» «Per Dio, hai ragione» disse Bickel. «I cicli casuali agiscono da filtro. Non ci avevo mai pensato. Di conseguenza, si avrebbe un intasamento di impulsi nodali in punti casuali lungo gli strati della rete. Il programma di prova dovrebbe operare in una situazione del genere, cancellandosi in alcuni punti, ma oltrepassando gli intasamenti, ogniqualvolta fosse dotato di un potenziale più alto». «E questo filtro setaccia il programma attraverso un sistema di errori ca-
suali», disse Prudence. «Dunque, devi esserti sbagliato sul modo in cui sono state prodotte le tue risposte selezionate. Il programma che è arrivato nel computer non poteva essere in alcun modo simile a quello che avevi inserito in precedenza nei suoi banchi. Tuttavia ha prodotto le risposte giuste». «Ragioniamo con calma», disse Bickel. «Qui abbiamo un circuito - il Bue più il computer - che dovrebbe ordinare dei punti-evento nello spaziotempo. Giusto?» «Giusto. È lo spazio tetradimerisionale di cui parlavo». «Noi vi abbiamo fatto passare attraverso degli impulsi energetici. Ed essi...» «Ehi?» li chiamò Timberlake, e la sua voce, proveniente dallo spazio al di sotto dei banchi del computer, riecheggiò sordamente. Bickel abbassò lo sguardo, e vide che adesso soltanto i piedi di Timberlake sporgevano nel locale. «L'ho trovata», annunciò Timberlake. «È una spina a pettine singola. Cinquanta linee. Devo staccarla?» «Dove è collegata?» chiese Bickel. «Stando al colore in codice, ai banchi di memoria ausiliari», rispose Timberlake. Anche i suoi piedi scomparvero alla vista. «Tutti questi banchi sono collegati allo stesso modo! Perché diavolo non è riportato sugli schemi?» Bickel si mise carponi sul ponte. «Tra quelle linee c'è per caso un qualche sistema di memoria di transito?» Una pila tascabile si mosse all'interno del computer. «Sì, perdio!» esclamò Timberlake. «Come facevi a saperlo?» «Doveva esserci», disse Bickel. «È un dispositivo di sicurezza del computer. Non toccarlo». Bickel si mise in ginocchio, tentando di soffocare una sensazione di smarrimento, di disperazione. Quei bastardi! pensò. Sapevano che l'avremmo trovato la prima volta che avessimo controllato i componenti interni del computer. Ci hanno legato le mani. «Vieni fuori, Tim» disse. «Non toccare nessun maledetto collegamento». Si alzò in piedi, rimosse gli spinotti che aveva inserito per isolare quella memoria ausiliaria. Isolare! pensò ironicamente. Hah! Tutto quello che aveva fatto era stato cambiare il potenziale in un punto,
rendendo impossibile ottenere le allocazioni delle informazioni sul test che avevano inserito nel computer. Timberlake strisciò fuori dall'interno del computer e si rialzò. «Tu ci hai capito qualcosa?» chiese, indicando il computer. «Vorrei di no», si augurò Bickel. «Questo computer, per quel che ci riguarda, è fornito di un sistema di accesso casuale. Ci sono enormi blocchi di informazione, memorizzati, bit per bit, in maniera tale che soltanto il computer sa come accedervi. Ecco perché abbiamo così tanti programmi con funzioni speciali e un'infinita serie di sottoprogrammi. Ma almeno le loro allocazioni le conosciamo». «I nuclei organici dovevano sapere dov'erano le informazioni», disse Prudence. «E sono morti», commentò Bickel. Prudence, iniziando a comprendere le implicazioni di quel che aveva detto Bickel, sentì la sua bocca inaridirsi. Alcune delle informazioni contenute in quel computer mostruosamente grande erano state memorizzate numerose volte, a seconda della loro importanza. Altre erano state memorizzate una volta soltanto, e potevano venir cancellate dallo spostamento di un semplice protone. «I banchi di memoria del computer non sono altro che un enorme sistema equilibrato dall'interno», disse Bickel. Prudence annuì. Sotto alcuni aspetti, era simile ad una superba memoria umana... funzionava perfino più o meno allo stesso modo - ma era uno strumento delicato, con tutte le debolezze che quell'aggettivo implicava. «Geeeesù», sussurrò Timberlake. «E noi abbiamo inserito un programma sconosciuto nel suo interno». «Cè di peggio», annunciò Bickel. «A causa di quel collegamento col computer di cui non sapevamo nulla...» Deglutì a vuoto, chiedendosi se si erano davvero resi conto dell'entità del disastro. Girandosi, indicò l'insieme di cubi, rettangoli e fasci di fibra neurale quasibiologica che costituiva il suo «Bue». Gli altri si voltarono nella direzione da lui indicata. «Quel dispositivo è, in effetti, un'estensione del computer», disse. «Il fattore d'errore?» esclamò Prudence, e poi portò una mano alla bocca per lo shock. «Abbiamo introdotto un fattore d'errore nel computer», spiegò Bickel. «E questo, in primis, significa che abbiamo introdotto la probabilità... no, la certezza della costituzione di una quantità sconosciuta di subspazi all'in-
terno dello spaziotempo del computer. Il programma che abbiamo inserito nel computer... e che è finito chissà dove, provocherà nuovi linkages topologici, produrrà nuove reti all'interno del sistema». «Primariamente, nei banchi di memoria», disse Timberlake. «E nelle reti di trasduttori», disse Bickel. «Ma questa unità di memoria mi ha fornito le informazioni che le avevo richiesto sulle analisi del circuito», protestò Prudence. «Certamente», concesse Bickel. «La tua domanda non ha fatto altro che attivare un sottoprogramma. Ma da dove siano venute le informazioni, lo sa soltanto Dio. Tanto per cominciare, ci sono cinquanta linee che escono da quell'unità. E ricordati che tutte vengono filtrate da un sistema di memoria di transito. I bit d'informazione escono dall'unità, passano attraverso la memoria di transito e vengono suddivisi in cinquanta canali, a seconda delle differenze di potenziale. E siamo soltanto alla prima fase. In quella seguente, la divisione sarà cinquanta volte cinquanta. E poi cinquanta volte cinquanta volte cinquanta. E così via». «Quest'unità ha funzionato come una macchina per cucire», commentò Prudence. «Ha preso i fili costituiti dai dati registrati durante il test e li ha cuciti, ossia inseriti, nei banchi dell'intero sistema... dividendo quelle registrazioni in un numero sconosciuto di allocazioni». «Per un numero sconosciuto di volte», aggiunse Bickel. «Ricordalo. E noi abbiamo soltanto un'allocazione per l'intera registrazione del test, l'allocazione di un sottoprogramma. Se la perdiamo, perdiamo l'intera registrazione... a meno che non riusciamo a radunare sufficienti frammenti di essa in un altro programma e a farla uscire dal computer». «Ma il sistema non funziona in maniera molto simile alla memoria umana?» chiese Prudence. «E poi c'è un'altra cosa: ho fornito la risposta giusta. La risposta giusta». Bickel la guardò, riflettendo sulla sua affermazione. Ha ragione, per Dio! Ma non per il motivo che ha appena esposto così disinvoltamente. Il dispositivo aveva dato la risposta giusta nonostante gli errori e la programmazione imperfetta. La procedura d'elaborazione era pessima. Era euristica, e in nessun caso avrebbe dovuto produrre l'output desiderato. Tuttavia l'aveva fatto. Perché? Bickel provò la curiosa sensazione che la sua mente avesse sobbalzato. La sensazione fu talmente forte, talmente concreta che si meravigliò che gli altri non si fossero accorti di nulla. La meravigliosa chiarezza con cui aveva compreso cosa fosse accaduto
al computer scorse attraverso il suo corpo come uno stimolante. Gli altri non l'avevano capito? Guardò Prudence, Timberlake, e comprese che tutto si era svolto in una frazione di secondo. «Poiché il movimento non cagiona alcunché se non altro movimento». Quelle parole gli risuonarono in mente, e Bickel si meravigliò di come il verso di una poesia ed una definizione tecnica si fossero potuti combinare con delle semplici equazioni matematiche per fornire alla sua mente la risposta giusta. Proprio come quello che era successo al computer. Prudence, interpretando correttamente l'espressione di Bickel, disse con voce tranquilla, «Hai scoperto qualcosa, John». Lui annuì. «Prudence, tu sei il nostro matematico. Che cos'è il pi greco?» Lei lo fissò, sorpresa. «Dico sul serio», affermò Bickel. «Il rapporto tra la misura della circonferenza di un cerchio e il diametro», disse allora lei. «Approssimativamente, ventidue fratto sette. Un calcolo più accurato darebbe, sempre approssimativamente, 355 fratto 113». «Nella maggior parte dei problemi matematici, usare questo valore approssimato del pi greco ci darebbe dei risultati significativi?» «Non dovresti neppure chiedermelo. Sai bene che lo farebbe». «Bene, ora dimmi perché non mi hai risposto affermando che il pi greco è un involucro di pasta friabile dolce che contiene un ripieno, spesso di frutta?» Prudence si accorse, dalla maniera in cui la stava fissando Bickel, che l'uomo parlava sul serio. In qualche modo, quella domanda aveva a che fare con il problema che stavano affrontando. Guardò Timberlake, e quest'ultimo interpretò quel gesto come una richiesta d'aiuto. «È ovvio», affermò Timberlake. «Per prima cosa, hai individuato una determinata categoria concettuale, affermando "tu sei il nostro matematico". Poi hai chiesto: "Che cos'è il pi greco?" Non hai mica detto: "Che cos'è un dolce?"» «Sì», annuì Bickel. «Esistevano due termini di paragone attraverso i quali filtrare la domanda e dare così la risposta giusta. Poi, visto che Prudence si è accorta che in qualche modo era una domanda retorica, non ha tentato per prima cosa di spiegarmi che non esiste un numero intero razionale che possa esprimere pi; mi ha fornito direttamente le approssimazioni
razionali». «Be', sapevo di non aver bisogno di spiegartelo», disse Prudence. «Hai usato la categoria "informazione comune"», le spiegò Bickel. «Poi, tutto quel che dovevi fare era dare una risposta dotata di significato». «Santo Cielo!» esclamò Timberlake, capendo dove voleva arrivare Bickel. «Santo Bue, vorrai dire», lo corresse scherzosamente Bickel. Prudence si voltò di scatto, e indicò concitatamente il pannello delcomputer. «Ma non era cosciente! Non avrebbe potuto esserlo!» «Hai ragione», fu d'accordo Bickel. «Ma al primo tentativo, abbiamo ottenuto un risultato significativo. E non si è trattato di un caso. Cosa possiamo dire sui risultati del test? Per prima cosa, possiamo affermare che il computer possiede informazioni sufficienti per fornire una risposta corretta, a dispetto di alcuni errori presenti nel sistema. Poi, possiamo ipotizzare di aver inserito un nuovo tipo di dati sensoriali nel sistema che in precedenza chiamavamo computer. Possiamo continuare a chiamarlo così, ma dobbiamo ricordare che adesso è un gradino al di sopra di un semplice "computer". Adesso ha imparato come usare un nuovo tipo di dati sensoriali». Prudence fece per parlare, poi tacque. «Considerate tutto quel che vi ho detto in base alla teoria dei campi», continuò Bickel. Rivolse loro un sogghigno. «Poi, ricordatevi che abbiamo collegato tre fonti d'energia al Bue. Il suo integratore le rende identiche, in uscita. La memoria di transito di quest'unità di storaggio ha disperso quegli impulsi attraverso l'intero sistema del computer. Sono stati suddivisi più e più volte... ma ogniqualvolta si sono riuniti, si sono auto-rafforzati». «In se stesso, il programma degli impulsi di prova era una specie di comparatore», spiegò Timberlake. «Il computer avrebbe controllato la fedeltà dei dati trasmessi sulla base della potenza del segnale». «E il computer sapeva già come stabilire la fedeltà dei segnali del sistema AET, comparandoli con una griglia che rispecchiava il tipo di codificazione usata», disse Bickel. «La potenza del segnale rappresentava soltanto un altro tipo di griglia». «Se non siete troppo impegnati a congratularvi con voi stessi», affermò Prudence, «ragionate sul come alcuni di quei segnali riuniti debbano aver accresciuto la loro forza. È possibile che qualche elemento del computer sia stato danneggiato...» «Finora non è successo nulla», disse Bickel, ma parlò sulla difensiva,
poiché sapeva che Prudence avevaragione. C'erano dei fusibili lungo tutto il filtro che, per proteggere i componenti, avrebbero evitato sovraccarichi, ma dei segnali vaganti e di potenziale elettrico notevole avrebbero potuto mandare in malora alcuni dei programmi supervisori. Guardò lo schermo in alto, che mostrava Flattery ai comandi della console principale. Flattery appariva rilassato, ma attento, mentre il suo sguardo percorreva la console. Maledetta! imprecò mentalmente Bickel. Un istante prima, era stato pieno di ottimismo, esilarato dal fatto che il Bue si fosse elevato di un gradino - non alla piena coscienza... ma verso di essa. E tutto quello che Prudence aveva saputo fare era sottoporre lui e Timberlake a una doccia fredda. Bickel incrociò sullo schermo lo sguardo di Flattery. «Hai sentito tutto, Raj?» «Ho sentito», rispose Flattery. «Finora non abbiamo commesso degli sbagli pericolosi, non è così?» «Pensi davvero che io sia il tuo ipotetico sistema di sicurezza umano?» gli chiese Flattery, mantenendo il tono della sua voce in perfetto equilibrio tra ironia e innocenza ferita. Sta rischiando troppo, pensò Prudence. Se non sottovaluta Bickel, tenta di portarlo troppo al limite. E tutti e due questi comportamenti sono egualmente pericolosi. «Tu sei il candidato più logico», ribatté Bickel, «ma ti stavo semplicemente chiedendo un parere sui nostri progressi». Flattery represse un moto di gelosia nei confronti di Bickel. Nonostante i suoi ovvi difetti - grandi, tra l'altro - quell'uomo sapeva mantenere un perfetto autocontrollo. Oppure... era solo apparenza, ma in quel tipo di progetto ciò non faceva alcuna differenza. «Ahhh, progressi», commentò. «Se ho ben compreso la natura del tuo test originale, le distanze temporali degli impulsi non corrispondevano alle distanze spaziali. Non erano proporzionali». «È essenzialmente così». Bickel si chiese perché il tono di Flattery lo spingesse a mettersi sulla difensiva. «Il prodotto medio era vicino allo zero». «Le reti neurali producono soltanto un qualcosa di vagamente simile allo spazio psicologico». Flattery tacque, controllò la console principale, riportò la sua attenzione sullo schermo e su Bickel. «Puoi certamente affermare che gli impulsi di prova sono più o meno simili a dati sensoriali che ven-
gano immessi in uno spazio psicologico - una regione che corrisponde a quello che Prudence ha definito uno spazio d'ordinamento. Mi piace la sua analogia della ragnatela e dell'inchiostro. Ma c'è una grande differenza tra lo spazio fisico, e quello psicologico. Puoi cronometrare un segnale nello spazio fisico, ripeterlo e poi comparare i risultati. Una qualsiasi discrepanza avrà una relazione positiva rispetto ad un'eventuale variazione della distanza. Ora, lo spazio psicologico è completamente diverso. Il tempo potrebbe dipendere dall'umore. Che cos'è l'umore, John? È una comparazione tra l'esperienza più recente e precedenti esperienze dello stesso tipo? Il tuo impulso nello spazio psicologico dovrà affrontare molte più variabili, rispetto allo spazio fisico». «Stai dicendo che non abbiamo analizzato i nostri risultati correttamente?» chiese Timberlake. Fissò infuriato lo schermo, percependo che lui, Prudence e Bickel in qualche modo erano alleati contro Flattery. «Voi volete giungere ad un qualche tipo di paragone quantitativo tra mondo fisico e mondo psichico», disse Flattery. «Ma non potete utilizzare lo stesso metro di giudizio. Ciascun neurone nella vostra rete introdurrà un tempo di conduzione casuale e altra casualità proverrà similmente dallo scarto temporale delle sinapsi. La differenza tra il mondo fisico e quello psichico è quella che intercorre tra distanza temporale e distanza spaziale. Anche l'analisi più superficiale sul test che avete condotto indica chiaramente che otterrete delle distanze temporali casuali». «Che probabilmente assommeranno a zero», ribatté Bickel. «La tua teoria non tiene». «Quel test», continuò Flattery con voce annoiata, «ha inviato degli impulsi con cadenza irregolare. Dunque, all'interno del vostro dispositivo e del sistema si sono manifestati degli scarti temporali di durata variabile. Si potrebbe ottenere una loro media statistica - mediante il calcolo delle probabilità». «Valida per l'intera rete?» chiese Bickel. «Perché no? Più grande è la rete, maggiore è la possibilità che quello che sto dicendo sia vero. E la vostra rete è rappresentata dall'intero computer». «Ma abbiamo ottenuto la risposta corretta», replicò Bickel con voce tagliente. «Applica il calcolo delle probabilità a questo!» «Non ci penso proprio», rispose Flattery. «Ma neppure penserei di giungere a delle conclusioni finali sulla base di un solo test!» Bickel lo fissò con rabbia. «Benissimo, lo ripeteremo!» «No, non lo farete», disse Flattery. «Non senza aver escogitato come
isolare il vostro Bue dal computer... e prima che pensiate di staccare una qualsiasi unità di memoria dal sistema, domandatevi quale sarà. Una delle unità che protegge la vita di qualcuno nelle vasche d'ibernazione? Oppure una di quelle che controlla il sistema di guida?» «Ma non possiamo identificare tutte le unità, senza bloccare completamente il sistema», protestò Bickel. «Esatto. Non dovrebbero volerci più di otto o nove anni - con la manodopera disponibile». Le obiezioni di Flattery erano incontestabili; Bickel lo sapeva benissimo. Ma ciò non bastò a calmare la rabbia che lo assalì nell'accorgersi del freddo contegno di superiorità con cui l'altro le aveva enunciate. Tuttavia, Bickel sentiva che si erano avvicinati a qualche fatto vitale, elusivo e per ora senza nome. L'avevano sfiorato... per poi allontanarsene. «Allora invieremo il problema a Base Lunare e vi provvederanno loro, al nostro posto», disse Bickel. «Dimenticando la tua ipotesi sul perché siamo stati mandati nello spazio per risolverlo», ribatté Flattery. «Ahhh, allora ammetti che siamo stati mandati qua fuori per nuotare o affogare». «Non sto ammettendo nulla, ma ti suggerisco di tornare in sala comando per attivare il sistema AET. Da circa un minuto sta ricevendo un messaggio da Base Lunare». La voce di Morgan Hampstead, metallica e priva delle sue peculiarità, a causa della trasformazione in raffica d'impulsi che aveva dovuto subire per essere trasmessa alla nave, riempì la sala comando quando Bickel attivò la funzione di riascolto del sistema AET. «Chiamata per la nave BLU Terrestre. Qui Progetto. Chiamata per la nave BLU Terrestre». Seguì un lungo e teso silenzio e i tre percepirono chiaramente il fruscio del nastro che scorreva tra le testine di lettura. Bickel si guardò rapidamente intorno - Flattery era ancora alla console principale, composto e sicuro di sé come sempre; Prudence sedeva nel suo lettino elastoavvolgente, con gli occhi fissi sul traduttore vocale dell'AET; anche Timberlake era seduto al suo posto, con gli occhi chiusi, e respirava pesantemente. Si poteva quasi sospettare che stesse dormendo, se non fosse stato per una vena che gli pulsava alla tempia. Bickel riconobbe quell'atteggiamento tipico di Timberlake. Voleva dire che stava rimuginando su un problema importante.
«Centratelo», disse Hampstead. «Dev'esserci un errore», disse Bickel. «L'AET deve aver fatto cilecca su questa frase». «Qualche volta, noi facciamo di peggio», commentò Flattery. «Sulla questione della definizione della coscienza», continuò Hampstead. «Viene fatto riferimento alla barriera neurale e soglia dati vostro computer. Migliore declinazione finora.» «Migliore definizione», corresse Flattery. «Ecco cosa deve aver detto». «Un nuovo Nucleo Mentale Organico», riprese a parlare Hampstead. «Si ordina al personale medico di abbandonare tutte le simili ripetizioni nel loro spreco d'ordine». «C'è qualcosa che non funziona nell'AET», disse Prudence. «Non nell'AET», la corresse Bickel. «Ma nei circuiti di traduzione del computer». «È stato quel dannato programma che abbiamo inserito nel computer», ringhiò Timberlake. Aprì gli occhi e fissò con aria d'accusa Bickel. «Abbandonate tutti i tentativi di questo tipo», disse Hamstead. «Ripeto: abbandonate tutti i tentativi di questo tipo. Questo è un ordine diretto». «Ora sembra che sia proprio lui a parlare», commentò Prudence. «In nessuna circostanza voi dovete tentare di fabbricare componenti inanimate», disse Hampstead. «Prova ad interpretare questo!» disse Timberlake. «Analizzate i dati di rotta e di reazione collegati a variazioni di massa», disse Hampstead. «Un'area sconosciuta calcolata matematicamente». «Puah!» esclamò Timberlake. «Tutte assurdità!» «Progetto passa e chiude», concluse Hampstead. «Attendiamo il vasto segnale di ricevuto». Timberlake si alzò. «Andiamo, Bick», disse, «dai il vasto segnale di ricevuto». Flattery gli lanciò un rapida occhiata, poi concentrò nuovamente la sua attenzione sulla console. Timberlake stava ovviamente tentando di riguadagnare la sua autorità. Era prevedibile. Il loro primo insuccesso lo avrebbe fatto uscire allo scoperto - spinto dalla preoccupazione per tutte le vite che dipendevano dai sistemi vitali, se non altro. Flattery aveva osservato il modo in cui Timberlake studiava i ripetitori - non c'era nulla di preoccupante... fino a quel momento. Ma una minaccia a qualunque funzione della nave era una minaccia anche per tutte le altre. «Ci stava chiedendo di istallare un nuovo cervello?» chiese Prudence.
«E dove lo prenderemmo?» replicò Timberlake. «Ne abbiamo già discusso», rispose lei, fissando ciascuno di loro. E per la prima volta dopo essere entrata a far parte dell'equipaggio, Prudence permise a se stessa di chiedersi come sarebbe stato veramente diventare uno di quei cervelli privi di corpo, trasformarsi nella mente che controllava l'enorme massa della nave. Rabbrividì. Si prendono gioco di me con le loro bestemmie, pensò Flattery. «Hai freddo, Prudence?» chiese alla donna. Mi controlla continuamente, si rese conto lei. Poi l'autocontrollo tipico di un medico si impose sulla parte più sensibile, più femminile del suo carattere. «Sto benissimo», replicò. Ma era una menzogna. Stati depressivi o euforici si susseguivano fulmineamente nella sua mente e dovevano essere nascosti agli altri. Delle bizzarre alterazioni psichiche la tormentavano - fantasie sul possedere poteri divini lottavano con il desiderio di umiliazioni fisiche. Adesso stava sperimentando con dei derivati del tetraidrocannabinolo, modificandone i legami CH3, aggiungendo dell'ossigeno. Sospettava di essere vicina a scoprire lo stimolante selettivo della coscienza. Alcuni dei derivati rendevano disponibili al cervello enormi quantità di ossigeno con emissioni improvvise. Sembrava esserci un effetto soglia provocato dalla membrana ematoencefalica del cervello. Tuttavia, quegli esperimenti producevano degli effetti collaterali. Uno di essi l'aveva costretta ad abbandonare completamente l'uso delle droghe anti-S e di quelle che mantenevano in equilibrio il suo metabolismo. Ultimamente, aveva dovuto combattere e mascherare degli acuti sintomi di astinenza sessuale. E non aveva potuto impedirsi di sviluppare un desiderio ossessivo per i cibi ricchi di vitamine B. Bickel si allontanò dall'AET con in mano una striscia di nastro stampato e annunciò, «Tutta spazzatura». «C'è altro?», commentò sarcastico Timberlake. Flattery fece per parlare, si immobilizzò quando studiò il grafico della velocità sulla console. Non l'aveva immaginato; era in ascesa. «Da qualche minuto stiamo guadagnando velocità. Lentamente... ma in maniera costante». «Adesso abbiamo anche dei problemi al sistema di propulsione?» disse seccamente Timberlake. Flattery attivò la lettura dei dati del sistema di propulsione. «No, non ri-
levo emissioni. Il livello G/R mostra una quantità di radiazioni normale». «I dati sulla massa?» chiese Bickel. La mani di Flattery volarono sulla console. Controllò i misuratori. «È fuori registro! Il riferimento massa è fuori registro!» «Che letture hai?» chiese Bickel. «Oscillano più o meno di dieci argos», mormorò Flattery. «Il grafico... nessuna costante di serie nella curva di variazione - Fourier o di qualche altro tipo. La massa è fuori registro rispetto alla velocità». «Che cosa aveva detto Hampstead?» domandò Bickel, controllando nuovamente il nastro stampato. «"Analizzate i dati di rotta e di reazione collegati alle variazioni di massa" Se lui...» «Potrebbero essere soltanto delle assurdità?» esclamò Timberlake. «Però la velocità sta gradualmente aumentando», gli fece notare Flattery. «E lo sta facendo da circa quattro minuti». La nave è programmata per far insorgere delle emergenze, pensò Prudence. O così mi hanno detto. Ma quali sono le emergenze previste... e quelle non previste? Flattery effettuò una lettura comparativa. «Nell'ultimo minuto e otto secondi, la nostra velocità è aumentata di .011002 rispetto al rapporto fisso». Bickel iniziò a spostare degli spinotti sulla sua console del computer. Le sue dita parvero danzare sui tasti. Controllò le spie, guardò il display di lettura visuale. «Possiamo usare un'analogia "vento-molecole" per spiegare quello che sta succedendo. Se la massa di singole molecole di un gas in movimento è minore di quella di un oggetto che lo attraversa, la possibilità di collisione tra le molecole del gas e l'oggetto segue una curva di probabilità relativa alla differenza media di massa». Timberlake tossì. «Stai dicendo per caso che la nostra velocità ha aumentato la massa della nave fino al punto in cui qualcosa... sta entrando in collisione con noi? È assurdo! Noi veniamo spinti, almeno secondo il grafico. E le cose che noi colpiamo, le cose sul nostro cammino?» «Forse stanno andando nella nostra stessa direzione in questo settore spaziale», replicò Bickel. «Non lo sappiamo con certezza». «Ma il computer magari ci sta fornendo dei dati erronei», protestò Timberlake. «Il problema non si pone», disse Flattery. «Le mie letture sono dirette e fanno uso di un valore standard di riferimento». «La velocità e la massa sono le nostre variabili più importanti in questo problema», disse Bickel. «Il riferimento di massa è sballato. Una delle
possibilità è che qualcosa al di fuori dello spettro su cui sono stati tarati i nostri sensori stia entrando in collisione con essi. Questo li...» «Prepariamoci ad azionare i retrorazzi», disse Flattery. «Non sarebbe più saggio invertire la rotta?» domandò Timberlake. Premé con un piede l'interrutore manuale del lettino, che gli si chiuse intorno a bozzolo. «Raj ha ragione», disse Bickel. «Ma effettuiamo una correzione minima. Sta succedendo qualcosa che non abbiamo mai sperimentato in precedenza». «Inserisco i retrorazzi, in micro-emissione», annunciò Flattery. «Prue, controlla il grafico della velocità. Tim, tieni d'occhio il riferimento massa. Sto registrando tutto per analizzarlo in seguito». «Se ci sarà "un seguito"», mormorò Timberlake. Flattery lo ignorò. «John, controlla la temperatura dello scafo e il riferimento Doppler». «Bene». Bickel si schiarì la gola, pensando a quanto fosse rudimentale quella divisione dei compiti se la si paragonava ad un cervello robotico che controllava in maniera appropriata la nave. Al paragone, loro erano come degli zoppi... in una situazione in cui avevano bisogno di agire con l'abilità di un atleta per tenere sotto controllo la nave. «Attivo i retrorazzi», annunciò Flattery. Spostò i micro-controlli di una tacca. I lettini elastoavvolgenti si adattarono al leggero cambiamento, che si manifestò con una lieve oscillazione delle loro console ripetitrici verso i tubi e gli strumenti fissati alle paratie. «Lettura della velocità», disse Flattery. «Sta calando in maniera irregolare», comunicò Prudence. «A scatti». Bickel, osservando il bordo del suo ripetitore nel punto in cui combaciava con il bordo di uno dei pannelli della paratia, poté osservare il movimento a strappi della nave sotto forma di una serie di sussulti infinitesimali. Le sue mani, posate sui comandi della console, percepirono un tremore nella nave. «Ditemi quando il grafico si stabilizza», avvertì Flattery. «Lettura riferimento massa». «Irregolare», rispose Timberlake. «In media sta calando, ma la lettura diretta oscilla costantemente... .008, .0095... .0069...» «Avvertimi se si stabilizza», disse Flattery. Senza che glielo si chiedesse, Bickel annunciò, «C'è un aumento micro-
scopico nella temperatura lungo il primo quadrante, a prua. Il sistema di compensazione se ne sta occupando in maniera adeguata. Il riferimento Doppler mostra una diminuzione della velocità di circa .00904». «Conferma», disse Flattery. «S fratto C lo conferma», disse Prudence. Flattery abbassò di un'altra tacca i micro-controlli, sentendo che il sudore gli scorreva troppo in fretta lungo il collo e la schiena, e che la sua tuta non riusciva a compensare l'aumento di temperatura. «Velocità», disse. «In calo, ora sotto il riferimento standard», disse Prudence. «Diminuisce sempre in maniera irregolare». «Lettura ionica», disse Flattery. «Uno fratto quattro virgola due otto doppio zero uno», rispose Timberlake. «Collima perfettamente con l'emissione. Retropropulsione normale». «Adesso il calo di velocità si è stabilizzato», comunicò Prudence. «Il riferimento di massa è regolare, si scosta di solo .000001001 dallo standard», disse Timberlake. «Temperatura dello scafo?» chiese Flattery. «Costante». Bickel tirò un profondo respiro. Variazioni della temperatura che non avrebbero dovuto presentarsi, cambiamenti di velocità senza alcuna ragione plausibile - quegli avvenimenti erano molto più allarmanti di un guasto fisico, che almeno potevano individuare e riparare. Flattery aveva udito il sospiro di Bickel e pensò: L'Uovo di Latta l'ha scampata per un pelo. Ma da cosa? Bickel lo sa? Ci ha detto tutto sui dati che gli ha fornito il computer? E in tutti i casi, possiamo ancora fidarci di quei dati? Ma poi Flattery ricordò un'altra parte del messaggio di Hampstead, possibilmente priva di significato: «Un'area sconosciuta calcolata matematicamente». E se le parole fossero state molto vicine a quelle pronunciate veramente da Hampstead? si chiese Flattery. Un fattore sconosciuto calcolato per via matematica. E la nave aveva davvero incontrato un problema di massa/velocità. Bickel disse, «Raj, diminuisci la velocità di un altro paio di punti e mantienila costante. Da ora in poi dovremo eseguire ad intervalli regolari dei controlli sulle variazioni di massa e di velocità». «Eseguo», annunciò Flattery. «Rapporto in ordine». Si voltò verso i micro-controlli e li spostò di un altro paio di tacche verso il basso.
«Il grafico della velocità cala con una pendenza regolare», disse Prudence. «Idem per la massa», annunciò Timberlake. «Emissione ionica normale». «La temperatura si mantiene costante e sui valori normali», riferì Bickel. «Il riferimento Doppler è zero positivo». Bickel osservò i due aghi neri e sottili del comparatore Doppler. Erano stati loro a rendere più pressante quell'emergenza. Fornivano dati certi sulla velocità, attraverso il riferimento Doppler a corpi celesti fissi. E i loro dati avevano concordato perfettamente con la variazione della velocità. Bickel capì di conoscere soltanto un campo di probabilità che avrebbe potuto spiegare ciò che era successo, ma quel campo implicava una teoria che era sempre stata considerata come nient'altro che un gioco matematico. Si doveva, prima di tutto, postulare che l'universo contenesse due gruppi di materia, e che ciascuno di essi si muovesse, rispetto all'altro, ad una velocità maggiore di quella della luce. Poi l'estrapolazione di Cavendish sulla teoria gravitazionale produceva delle trasformazioni negative. Delle ampie falle erano state aperte nella teoria newtoniana che due corpi si attraggono sempre con una forza proporzionale al quadrato della distanza tra loro. L'errore stava in quel sempre e nell'ipotesi che tutta la materia esercitasse un'attrazione gravitazionale, pensò Bickel. «Non capisco cosa sia successo», commentò, «ma ho la netta sensazione che c'è mancato poco». «Per cosa?» domandò Prudence. Si percepiva chiaramente della paura nella sua voce. «Siamo stati vicini ad uscire senza controllo dal sistema solare, e senza la possibilità di eseguire delle manovre di correzione. Molto probabilmente, siamo stati sul punto di essere scagliati in un'altra dimensione». «Senza avere neppure una speranza di salvezza», commentò Timberlake. «Le trasformazioni negative nella teoria gravitazionale», sussurrò Prudence. «Cosa?» sbraitò Timberlake. «L'implicito scambio di energia che si produce quando avvengono variazioni di massa di entità notevole, ad una velocità vicina a quella della luce», gli spiegò Prudence. «Le formule negative nelle equazioni non si annullano fin quando non si ipotizzino delle trasformazioni che avvengano oltre la velocità della luce. Esiste una regione di variazione massa/velocità, in cui due corpi teoricamente si respingono, piuttosto che attrarsi».
«Adesso», disse Bickel, «come facciamo a dirlo a Hampstead e ai suoi ragazzi, senza mandare a monte l'intero spettacolo?» «L'abbiamo già mandato a monte», ringhiò Timberlake. «Il computer...» «Non è necessariamente rotto», disse Bickel. «I nostri sistemi vitali funzionano. I sensori e i servomeccanismi della nave sembrano essere in ordine. E ottengo delle risposte coerenti, quando gli rivolgo delle domande». «Coerenti non significa corrette», replicò Timberlake. «Hampstead ci stava dicendo di abbandonare il nostro esperimento?» si chiese Prudence. «Se fosse davvero...» «Ma non lo sappiamo con certezza», le ricordò Bickel. «E fintanto che non lo sappiamo, non siamo tenuti ad obbedirgli». Oppure a disobbedirgli, pensò Flattery. «Come mai il computer sembra funzionare per quanto riguarda le richieste d'informazioni, ma non per la traduzione dei messaggi del sistema AET?» «Potrebbe significare che bisogna ripulire soltanto una delle sue sezioni», disse Prudence. «E in questo caso...» Si interruppe e fissò Bickel. Quest'ultimo aveva gli occhi chiusi. Il sudore gli imperlava la fronte. Nella sua mente, l'immagine del dispositivo che aveva costruito era così vivida che il vero apparecchio avrebbe potuto sporgere dalla paratia della sala comando. Non aveva mai disconnesso totalmente il Bue dal sistema AET, che avevano usato per inserire il programma di prova nel Bue stesso. Una sensazione di vuoto gli invase il petto mentre comprendeva che ogni segnale esterno diretto all'AET era passato attraverso il Bue prima di arrivare al computer - per poi perdersi nel suo interno e confondere gli avvolgimenti di traduzione dei messaggi dell'AET. «Non hai isolato il Bue», sussurrò Timberlake. «Ma le risposte del computer mi arrivano dalla mia console AET», protestò Bickel. Riuscì a percepire la disperazione nella propria voce. «Ogni richiesta di un programma specifico che ho rivolto al computer è passata attraverso quegli stessi circuiti del Bue!» «Ma stavi usando dei sottoprogrammi dotati di allocazioni conosciute», gli fece notare Prudence. «E tutto quello che hai richiesto è stato disperso in tutto il sistema, venendo perso», disse Timberlake. «Ma è proprio così?» chiese Bickel. Aprì gli occhi. Esisteva soltanto un modo logico per assicurarsene, ovviamente. E non avrebbe provocato altri danni oltre a quelli giàfatti... ammessoche esistessero davvero. Non avevamo pensato che Bickel potesse tagliarci fuori dalle comunica-
zioni con BLU in questo modo, pensò Flattery. Distruggere gli avvolgimenti di traduzione! Senza il sistema traduttore che decodificasse le raffiche laser dei messaggi, l'equipaggio della Terrestre, per quel che valeva, avrebbe potuto ricorrere alle segnalazioni manuali per comunicare con Base Lunare. Certo, Bickel avrebbe potuto costruire un radiotrasmettitore. Sarebbero occorsi soltanto pochi watt per inviare un messaggio su quelle distanze, ma su Base Lunare non era stato approntato alcun preparativo per quel tipo di comunicazione. E poi, il numero di persone che avrebbero potuto origliare quei messaggi sarebbe stato enorme. Con cautela, poiché doveva esserne sicuro al primo tentativo, Bickel premé cinque interruttori sulla sua console AET, controllò per tre volte ciò che aveva fatto. «Cosa stai facendo?» domandò Timberlake. «Zitto», gli ordinò Prudence, che aveva capito cos'avesse intenzione di fare Bickel. «Ma ha già...» «Ho lanciato un programma diagnostico», gli spiegò Bickel. «Useremo una ricerca di registro B simul-sincronica, con una ripetizione del nostro test originale sui circuiti del Bue. Se c'è qualche canale già danneggiato, userà uno di quelli. Non può provocare altro danno». «E la ricerca di registro B potrebbe dirci dove sono finiti i nostri dati», disse Timberlake. «Capisco». «Ne sei sicuro?» gli chiese Flattery. «Il procedimento è corretto», disse Prudence. Lavorando con tranquillità, controllando sempre tre volte, Bickel realizzò il programma necessario. Respirò profondamente, inserì nel computer i primi elementi del programma diagnostico, selezionando un'operazione «off-line». Doveva mantenere un controllo costante su ogni fase di quella ricerca. Iniziò a ricevere subito un output DDA. Lo inserì nel trasferimento condizionale, con la stampa di ogni fase della sequenza di controllo. Sentì il respiro di qualcuno sulla spalla, alzò lo sguardo e vide che Prudence aveva abbandonato il suo lettino per venire ad inginocchiarsi accanto a lui, e adesso stava leggendo anche lei gli stampati. «I dati sono stati soltanto spostati, non persi», sussurrò lei. «Così sembra», disse Bickel. «Potrebbero anche essersi persi, tanto è uguale!» sbraitò Timberlake.
«No», lo contraddisse Bickel. «Il computer è pienamente operativo fin quando facciamo passare tutto attraverso il Bue». «Perché il sistema AET non ha funzionato, allora?» domandò Timberlake. «Andiamo, Tim», disse Bickel. «Mi hai aiutato tu a costruire il Bue». «I messaggi in arrivo passavano due volte attraverso i circuiti dell'AET», rifletté Timberlake. «Sicuro». «I bit d'informazione si autocancellavano durante il passaggio», disse Bickel. «Probabilmente abbiamo ascoltato soltanto un quinto del messaggio». «Infatti sembrava troppo breve», commentò Prudence. «Quel messaggio è l'unica cosa che abbiamo davvero perso», disse Bickel. «Lo farò ripetere...» «Aspetta!» esclamò Flattery. «Cosa c'è?» gli chiese Bickel. «Cosa dirai a BLU sulla fine che ha fatto il messaggio originale?» gli domandò Flattery. Distolse lo sguardo dalla console principale, incrociò quello di Bickel. «E cosa faremo se ci stavano davvero ordinando di smettere?» «Sappiamo già qualcosa», interloquì Timberlake, «l'inizio e la fine del messaggio di Hampstead non sembravano per nulla confusi». «Procedure standard di chiamata e chiusura di chiamata», disse Bickel. «Avrebbero potuto essere riconosciute e tradotte da minime frazioni di bit». «Ma il carico del messaggio era minore, all'inizio», disse Timberlake. «E questa potrebbe essere una parte della spiegazione. La cancellazione sarebbe stata minima. Avremmo potuto essere in grado di salvare una parte maggiore del messaggio... specialmente le parti iniziali, prima che il carico eccessivo intasasse il tutto». Timberlake è fin troppo cauto, pensò Flattery. Ha cominciato a condividere le opinioni di Bickel? Bickel scoprì di muoversi con esitazione, senza sapere il perché, ma incapace di contestare la logica del ragionamento di Timberlake. Prese il nastro stampato, lo inserì nel dispositivo di riascolto. Se soltanto la fase di stampa fosse stata la prima fase nella ricezione, e non un passaggio intermedio, pensò. Inviò il nastro direttamente nel Bue e poi nell'AET, fece passare il risultato attraverso il sistema di Lettura Ottica e lo fece comparire sullo schermo al di sopra delle loro teste.
Il messaggio originale di Hampstead apparve sullo schermo e tutti e quattro alzarono lo sguardo per leggerlo. Deve essere fedele, pensò Bickel. Ci fu la lungo pausa iniziale, poi: «SCEGLIETE TRA I CERVELLI DEI COLONI IN IBERNAZIONE UNO ADATTO A RIMPIAZZARE IL VOSTRO NUCLEO MENTALE PUNTO SI ORDINA AL PERSONALE MEDICO DI PRENDERE UN CERVELLO UMANO VIRGOLA E ISTALLARLO COME NUCLEO MENTALE PROVVISORIO VIRGOLA E FAR TORNARE LA NAVE A BIDGEYBIDGEYBIDGEYBIDGEY QUALCHE VOLTA CON SUCCESSO PUNTO PUNTO PUNTO PUNTO PUNTO SULLA QUESTIONE DELLA DEFINIZIONE DI COSCIENZA VIRGOLA AVETE QUESTI DATI MOLTE VOLTE NEL VOSTRO COMPUTER VIRGOLA E POTETE UTILIZZARLI PUNTO SI FA RIFERIMENTO A DATI COME IN ZERO PER LA BARRIERA NEURALE E LA SOGLIA DATI IL VOSTRO COMPUTER PUNTO MIGLIORE PUNTO NUOVO NUCLEO MENTALE ORGANICO PUNTO SI ORDINA AL PERSONALE MEDICO DI ABBANDONARE SIMILI RIPETIZIONI NEL LORO SPRECO D'ORDINE PUNTO» Bickel interruppe la sequenza del messaggio. «Volete continuare a sentirlo?» «Diventa sempre peggio», disse Flattery. «Non ne vedo il bisogno». «Quei bastardi senza cuore, quei figli di cagna!» esclamò Timberlake. Prudence lo guardò e si accorse di quanto il suo viso fosse infuriato, del modo in cui aveva istintivamente digrignato i denti. Quegli sciocchi di Base Lunare, pensò. Non si sono resi conto che quell'ordine va contro le inibizioni più forti del nostro tecnico dei sistemi vitali? Uccidere un colono inerme, mentre è in ibernazione! No, pensò. Quello che ha chiesto Base Lunare è più di un assassinio. Flattery, notando l'effetto che il messaggio aveva avuto su Timberlake, si sentì rimordere la coscienza... e provò una sensazione di paura personale. Riguardo al ruolo che ricopriva sulla nave, Flattery si faceva ben poche illusioni. Era sia il capro di Giuda sia un capro espiatorio, due funzioni classiche del fenomeno religioso. Era il dispensatore di vita e di morte - e in modo che non si convincesse di possedere un potere quasi divino - era anche la vittima designata di qualunque coalizione si fosse formata tra l'equipaggio della nave. «Simile ad un uccello che abbandoni il suo nido, tale è l'uomo che abbandona i suoi luoghi di nascita», citò a se stesso.
A voce alta disse, «Non possiamo eseguire quell'ordine». «Non c'era neppure bisogno di dirlo», commentò Timberlake. «Dunque, sarebbe meglio che scoprissimo cosa abbiamo costruito nel locale per la manutenzione, per poi partire da lì. Allora, John, cosa abbiamo costruito?» «Che io sia dannato se lo so», rispose l'altro. «Be', in tutti i casi non sembra essere dotato di coscienza», affermò Prudence. «Maledizione!» esclamò Bickel. «Non fai che dire la stessa cosa! Coscienza! Cosciente! Non è flobberglobble! Potresti dire anche così. Non sai fornire una definizione di coscienza. Ma continui a fare affermazioni del genere come se significassero...» «È proprio questo che mi disturba profondamente», intervenne Timberlake. «Iniziamo a costruire qualcosa e non sappiamo neppure di cosa si tratti». È giunto il momento di metterli di fronte al problema, pensò Flattery. «Ti sbagli, Tim», disse, «e anche tu sei in errore, John. Prudence sa cos'è la coscienza, proprio come lo sapete voi. È un essere umano. E gli esseri umani sono le uniche creature, almeno tra quelle che conosciamo, capaci di saperlo. I computer non possono saperlo; gli esseri umani devono saperlo». «Allora lasciamo che Prudence definisca la coscienza», replicò Bickel. «Forse non è capace», disse Flattery. «Ma la possiede». «Poco tempo fa, affermavi che potevamo fare anche a meno di definirla», disse Prudence, fissando Bickel con aria accusatoria. «Ma questa è una progettazione estremamente carente», ribatté Bickel. «Si copia l'originale e si spera di ottenere gli stessi risultati. Non possiamo essere sicuri di copiare tutto quello che è presente nel modello umano. Cosa rischiamo di lasciare fuori dalla nostra copia?» È frustrato e irritato, pensò Prudence. Questo è il momento di provocarlo, adesso che Raj lo ha preparato. «Bene, signor ingegnere, dove pensi che ti condurrà la tua teoria dei campi?» Bickel la fissò, capendo di colpo che lo stava provocando deliberatamente. Benissimo, starò al suo gioco, pensò. Dovrei arrabbiarmi? No... troppo scontato. L'attacco migliore giunge sempre da una posizione inaspettata. «Seguimi meglio che puoi, Prue. In un approccio che postuli la coscienza come campo, abbiamo a che fare con tre forze. Prima di tutto, esiste la fonte di tutte le esperienze, l'universo che ci circonda, ma questo è profon-
damente legato al funzionamento del tuo sistema nervoso. Poi, c'è qualcuno che prova queste esperienze. Infine, troviamo la relazione tra questo qualcuno e tutto il materiale neurale grezzo che chiamiamo esperienza. Questa relazione, questo fenomeno di terzo grado, è quello che definiamo campo di coscienza». «Stai parlando dell'Io», disse Prudence. «Questa tua concezione non si avvicina alla "gabbia spaziotemporale" con il "suo confuso sciame d'idee" di cui parlava Huxley? l'Io dotato di coscienza non si sviluppa forse dalla memoria?» «Huxley si è limitato a giocare con le parole, poiché aveva paura di ciò che significavano veramente», ribatté Bickel. «Se vuoi sostenere che l'Io dotato di coscienza deriva dalla memoria, allora identifichi qualcuno che prova delle esperienze con ciò che glielo rende possibile. Ancora una volta confondi i concetti. La memoria non è altro che esperienza. Invece, dobbiamo concentrarci su questa relazione di terzo grado». «La totalità del campo è maggiore della somma delle sue parti», disse lei. È pronta per ricevere il suo shock, pensò Bickel. E per quel che conta, anche Raj lo è. «Voi medicuzzi troppo presuntuosi mi date il voltastomaco. Affermate che soltanto gli esseri umani sono dotati di coscienza. Detta da Raj, questa affermazione è un sacrilegio. Detta da te, Prue, è una grossa stupidaggine. Riesci a vedere soltanto una delle estremità dello spettro, e immediatamente affermi di sapere tutto sul campo dei fenomeni luminosi. Ma nessuno di voi due si è mai chiesto, anche una volta sola: Sono davvero conscio?» Flattery provò un'inspiegabile fitta di dolore al petto. Per un battito di cuore, la console gli si annebbiò davanti agli occhi. Poi riacquistò il suo autocontrollo. A Base Lunare hanno riso e poi hanno citato Edgar Allan Poe, pensò Flattery. Avevano affermato che gli esseri umani, considerati individualmente, potevano anche non possedere l'"organo d'analisi" di cui parlava Poe, ma che un'intera società poteva creare un organo simile in uno dei suoi membri. Ma si erano davvero resi conto di quale mostro enormemente pericoloso volevano creare? E cosa poteva essere celato a Bickel, se questi vi avesse rivolto la sua attenzione? Era di questo, ovviamente, che parlava Prudence, quando l'aveva avvertito di non sottovalutare Bickel. Ma quelli su Base Lunare che avevano organizzato tutto si erano davvero resi conto di quale alfiere avessero scatenato tra le pedine?
Forse lo sapevano - almeno incosciamente - visto che mi hanno incaricato di sorvegliarlo, pensò Flattery. «Tu tenti di semplificare troppo la questione», disse Bickel, «Ma così non fai altro che evitarla». «Siamo davvero consci?» sussurrò Prudence, e quel pensiero continuò a tormentare la sua mente. Poi pensò al suo esperimento con un derivato della marijuana, il THC tetraidrocannabinolo. Aveva tentato di trovare un anti-atarassico, uno stimolante selettivo della coscienza - qualcosa che tenesse a bada l'oscurità in una maniera speciale. Ma nell'istante in cui era andata vicina al successo, le tenebre avevano invaso nuovamente la sua consapevolezza. Adrenocromo, pensò. Fu un pensiero improvviso ed esplosivo, come un qualcosa che fosse rimasto in agguato nella sua mente, per poi assalirla di colpo. Adrenocromo... nitrogeno aggiunto a CH3. Se invertiva il processo e lo legava ad una delle formule di THC... Aaah, avrebbe ottenuto un composto molto simile a quelli il cui effetto era mortale. Ma assunto in dosaggi estremamente piccoli... Avrebbe dovuto fare delle ricerche, consultare la letteratura in materia. Il composto avrebbe superato la barriera ematoencefalica? E l'adrenocromo era un allucinogeno. Cosa doveva pensare? Che, forse, la coscienza era una specie d'allucinazione? «Ti aggrappi con le punta delle dita ad un muro», stava dicendo Bickel, «e non riesci a vedere oltre la sua sommità - riesci a scorgere soltanto un barlume di luce, eppure menti e dici a quelli che sono sotto di te di poter vedere l'orizzonte». Come se quelle parole avessero aperto una porta, il ricordo di un sogno che avevafatto invase Prudence. Aveva sognato qualcosa del genere... durante un lungo sonno... durante... In ibernazione! Aveva fatto quel sogno durante il periodo in cui era stata ibernata! Nel sogno, non era sola, ma gli altri l'avevano isolata. Poi, avevano iniziato a costruire un basso muro e l'avevano sfidata a scalarlo. Ma ogni volta che ci aveva provato, gli altri lo avevano elevato ancora. Il muro era divenuto più alto. Sempre più alto. Finché Prudence si era arresa. Alla fine, gli altri l'avevano ignorata, ma li aveva uditi ridere e parlare di cosa c'era dall'altro lato del muro. Adesso Prudence guardò Bickel, comprendendo ciò che l'uomo aveva
probabilmente intuito fin dall'inizio. Il problema di creare una coscienza artificiale sollevava il problema della nascita della coscienza tout court. Era come una rupe (oppure un muro) altissima, che loro dovevano scalare. Torreggiava su di loro, tetrae spaventosa - e soltanto un fievole bagliore di luce li sfidava a tentare l'impresa, facendo loro credere che esisteva una soluzione. «L'hai fatto di proposito, per farmi sentire insignificante», accusò Bickel. «Benvenuta nel club», replicò lui. «Cosa intendi dire?», domandò Timberlake. «Stai per caso sostenendo che anche se costruiamo un analogo del sistema nervoso umano, potremmo non ottenere... la coscienza?» «Ragioniamo ancora una volta su quel che è successo ai cervelli», disse Bickel. «Qual era l'ordine prioritario a cui si supponeva dovessero obbedire?» «Rimanere continuamenti coscienti e all'erta», rispose Timberlake. «Ma, dannazione, se stai sostenendo che è stato l'eccessivo carico di lavoro ad ucciderli, per me stai dicendo un'assurdità. Erano protetti contro ogni...» «Non parlavo della fatica», spiegò Bickel. «Mi stavo chiedendo: e se avessero preso troppo alla lettera quell'ordine, l'ordine di rimanere coscienti?» «Il grado di coscienza», rifletté Prudence. «Diciamo la soglia», intervenne Flattery. «Sì», disse Prudence. «Un soggetto iperconscio possiede una soglia troppo bassa. Gli impulsi raggiungono facilmente la sua consapevolezza. Stai dicendo che i cervelli non hanno potuto sopportare questo tipo di ipercoscienza». «Qualcosa del genere». «Stammi a sentire», disse lei, «il flusso di impulsi nervosi che assale la... coscienza... umana...» Fissò sulla difensiva Bickel. «Be', in quale altra maniera potremmo chiamarla?» «Non preoccuparti», la esortò Bickel. «Continua». Lei lo fissò per un istante. «L'assalto del flusso nervoso è costante, gigantesco. Gli impulsi sono sempre presenti. E sono una moltitudine. Deve esserci un fattore limitante, una soglia. Gli impulsi devono superare una determinata soglia prima che si diventi... consapevoli di essi». «E quella soglia varia da persona a persona, e perfino di secondo in secondo in un unico individuo», disse Flattery.
«Ma come fanno gli impulsi nervosi a superare questo muro?» chiese Bickel. Perché ha usato proprio quella parola?, si chiese lei. «Qualche volta gli impulsi diventano più forti», spiegò Flattery. «Ma questa è soltanto una parte della storia», disse Prudence. «Anche colui che riceve gli impulsi... agisce. Se concentri la tua attenzione su qualcosa, la tua soglia si abbassa». «Anche il pericolo può farla abbassare», affermò Flattery. E attese per vedere se Bickel avrebbe seguito quell'indizio che gli aveva fornito. Bickel guardò Flattery con aria meditativa. «Noi, proprio in questo momento, siamo in pericolo, Raj. È una situazione che ci è stata imposta - deliberatamente?» «Pensi che il pericolo là fuori non sia reale?» gli chiese Flattery, indicando incosciamente lo scafo esterno con il pollice. Bickel rimase in silenzio. La gola gli si era inaridita. Un terrore irragionevole lo invase. Fu simile ad un'onda furiosa, e minacciò di inghiottirlo. «John», gli chiese Prudence, «ti senti bene?» «Solo un leggero attacco di vertigini», le assicurò frettolosamente Bickel. «Forse... forse sono stanco. Ho passato più di due turni ad armeggiare con il Bue, e non mi ricordo neppure quando mi sono riposato veramente per l'ultima volta». Rendersi conto di quando bisogna riposare costituisce metà del lavoro, ricordò a se stessa Prudence. «Mangia qualcosa e poi vai a dormire. Magari non pensare per un po' a questo problema ci aiuterà a metterlo bene a fuoco. In tutti i casi, tra poco dovrò rilevare Raj alla console, e anche lui avrà bisogno di riposo». Bickel sentì la sua paura svanire al pensiero dell'interno imbottito di un cubicolo di riposo. Sono soltanto stanco. Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico... per ora. «E per quanto riguarda la risposta da inviare a Hampstead?» chiese agli altri. «Facciamoli stare sulle spine», ringhiò Timberlake. «Immagineranno che ci siano stati dei problemi di trasmissione, se faremo passare troppo tempo, oltre a quello necessario, per inviare la risposta», gli ricordò Bickel. «Ritrasmetteranno il messaggio». «E così otterremo di nuovo il messaggio, senza comprometterci», commentò Flattery. «Non è un suggerimento fin troppo tortuoso, visto che viene dal nostro
religioso di bordo?» gli chiese Bickel. «È stato lo psichiatra a parlare», gli rispose Prudence. «Su, forza, vai a dormire». «E io rimarrò qui, a far nulla», commentò Timberlake. Bickel lo guardò, ricordandosi delle reazione infuriata che Timberlake aveva avuto nell'ascoltare il suggerimento di Hampstead. Per la prima volta in molte ore, Bickel concentrò la sua attenzione su Timberlake, considerando l'orgoglio che l'uomo aveva dovuto inghiottire nell'affidargli il comando della nave, e la sua preoccupazione primaria - la protezione delle vite degli esseri umani che lo circondavano. Bickel si rese conto che in quel momento era impossibile alleviare la tensione di Timberlake. Delle vite erano realmente in pericolo... ogni forma di vita sull'Uovo di Latta lo era, dal più insignificante embrione di pollo ai coloni ibernati, allo stesso Timberlake. Bickel rifletté che Timberlake, qualche volta, si dimostrava in possesso di un'intuizione notevole nel risolvere i problemi. E poi, era un tecnico. Forse tenerlo occupato lo avrebbe aiutato... e sulla nave, dopo tutto, c'era bisogno di ogni briciolo di abilità disponibile. «Tim», disse Bickel, «dobbiamo affrontare il problema di come creare la coscienza nello stesso modo in cui affrontiamo il problema di ottenere un prestazione specifica da un ricetramettitore o da un sintonizzatore oppure da un amplificatore. Potresti rifletterci sopra, mentre io mi riposo. Ho bisogno di risposte specifiche che possano essere trasformate in ipotesi di lavoro». «Ma siamo ancora legati a quell'aggeggio nel locale per la manutenzione del computer», gli fece notare Timberlake. «Quello è soltanto un punto di partenza. Certo, dobbiamo usare il Bue, perché è la sola maniera di accedere a dei dati per noi vitali contenuti nel computer... per ora. Ma siamo soltanto all'inizio. Nulla è cambiato, davvero». «Tranne il fatto che sono trascorsi altri due giorni. Il termine ultimo si avvicina, e noi non abbiamo trovato alcuna soluzione», sbraitò Timberlake. Bickel represse un moto di rabbia. «Fa' un po' come vuoi». Gli volse le spalle, saltò per raggiungere il portello degli alloggiamenti, lo attraversò e lo risigillò. Il suono delle chiusure del portello gli attraversò il corpo come un sospiro, poi Bickel rimase fermo nel locale circolare che fungeva da cambusa,
chiedendosi se gli fosse rimasta energia sufficiente per mangiare e poi raggiungere il suo cubicolo. «Devo mangiare», sussurrò. «Devo mantenere le forze». Si spinse fino al contenitore degli alimenti, riscaldò a metà un tubetto di brodo e se lo spremette in bocca. Brodo di pollo. Sentì che quel liquido caldo ricostituiva le sue energie e consumò anche un tubetto di cioccolata calda. Poi si diresse verso il suo cubicolo e controllò i ripetitori dei sistemi vitali. I misuratori indicavano dei valori normali. Entrò nel cubicolo, chiuse il portello e tirò il perno pneumatico. Lentamente, con dolcezza, il cubicolo si chiuse su di lui, avviluppandolo, cullandolo. Percepì un flusso d'aria fresca e ricca d'ossigeno sul volto, aria che era stata filtrata tante di quelle volte che aveva perso la maggior parte della puzza che pervadeva l'atmosfera della nave. I suoi muscoli iniziarono a distendersi e, come faceva di solito quando si preparava a dormire in un cubicolo, Bickel si chiese la ragione dell'effetto calmante che il cubicolo gli trasmetteva. Era come ritornare nel grembo materno. Quale grembo ha concepito il me stesso originale? si chiese. In qualche luogo, ho avuto una madre... e un padre. E anche se sono cresciuto in una camera di gestazione, da qualche parte, due esseri umani mi hanno concepito. Chi erano? Non lo saprò mai. È inutile perfino chiederselo. Invece, si sforzò di concentrarsi sul "cubo" che lo circondava, il grembo artificiale che gli trasmetteva un profondo senso di sicurezza per assicurargli un sonno profondo e ristoratore. Perché dormiamo di più, e meglio, in un "cubo"? Un rapido pisolino schiacciato sul lettino elastoavvolgente non ti riposa neppure la metà. Per quale motivo? Si tratta di un riflesso atavico, di un ritorno filogenetico al mare? Oppure si tratta di qualcos'altro, di qualcosa che dobbiamo ancora individuare? Bickel concentrò la sua consapevolezza sul cubicolo morbido e ondeggiante, sull'aria ricca e fresca. Il sonno lo stava invadendo con i suoi dolci tentacoli, e Bickel percepì quanto lento e regolare fosse divenuto il suo respiro. Quanto ritmico. I ritmi del Bue, pensò, tenendo a bada il sonno che minacciava di impadronirsi di lui. Il problema che stiamo affrontando implica un fattore d'oscillazione. L'oscillazione è presente nell'ipnosi, nel respiro durante il
sonno, nel battito cardiaco... nel sesso... E le cellule viventi possiedono due poli magnetici, pensò. In quel momento si ricordò delle parole che aveva pronunciato su quell'argomento Vincent Frame, il professore di Bioingegneria, durante una lezione tenuta a Base Lunare. «Le cellule possiedono energie che oscillano e pulsano, seguendo il flusso tumultuoso della vita», aveva spiegato Frame. «Possiamo riconoscere dei riflessi di questa attività primaria anche in quella struttura coordinata di cellule che di solito definiamo come "essere umano". Avete mai osservato un uomo che tamburella nervosamente con le dita sul tavolo? Avete mai calcolato la frequenza con cui un uomo sbatte le palpebre? Il respiro possiede ritmi caratteristici a seconda delle condizioni in cui si trova la struttura cellulare nel suo complesso. Dovete sempre tenere in mente questo fattore, quando progettate delle apparecchiature che saranno usate e occupate da questo mucchio di cellule. Dovete sempre ricordarvi della pulsazione e dei bisogni delle componenti cellulari dell'organismo». Frame poi aveva continuato la sua lezione discutendo sulla progettazione di un lettino adatto per condizioni di bassa gravità. Nonostante la stanchezza e il sonno in agguato, Bickel capì l'importanza di quella traccia su cui era arrivato per caso. Attivò il comunicatore, sollevò lo sguardo sul minuscolo schermo. Il volto di Timberlake gli restituì lo sguardo. «Ricorda le lezioni del Dottor Frame. Oscillazione. Ne discuteremo più tardi». Bickel spense il comunicatore prima che l'altro potesse replicare. Mentre si rilassava nuovamente, sentì il sonno salire da qualche luogo sconosciuto e sommergerlo. Flattery aveva appena affidato la console principale a Prue. Osservò Timberlake, che sedeva sul bordo del suo lettino, fissando meditabondo un blocco d'appunti di carta della nave. La carta sottile frusciò sommessamente quando Timberlake piegò un foglio, e poi scribacchiò qualcosa su di una nuova pagina del blocco. Il monitor accanto a Timberlake mostrava che Bickel era piombato in un sonno profondo quasi immediatamente dopo aver comunicato il suo messaggio al tecnico. «Tim, quel che ha detto Bickel ha qualche senso per te?» gli chiese Flattery. «Forse». Timberlake alzò lo sguardo dal blocco d'appunti.
«Ipotizziamo per un istante che la coscienza implichi un qualche tipo di ricettore organico, e che produca un campo che si espande e si contrae, a seconda delle tensioni differenti a cui viene sottoposto. Questo campo è precisamente ciò che noi definiamo "la coscienza". E presumiamo che questo ricettore organico sia sottoposto all'assalto incessante di una miriade di impressioni». «Generalmente, si suppone che il punto focale su cui si concentrano tutte queste impressioni sia il cervelletto», disse Prudence. «Benissimo», disse Timberlake. «Qual è l'input d'impressione?» «Il cosa?» chiese Flattery. «Cosa riceve il cervelletto?» «L'input assume forma elettrica», affermò Prudence. «Era questo che intendevi dire?» chiese Flattery a Timberlake. «Precisamente. Ora, come fa il cervelletto ad elaborare questi dati in forma elettrica?» «Capisco dove vuoi arrivare», commentò Flattery. «Principalmente, l'input è costituito da gruppi d'impulsi nervosi in forma elettrica. Ciascun gruppo ha una durata estremamente breve, ma si suppone che non siano del tutto separati gli uni dagli altri». «Questo approccio è simile a quello che un fisico utilizza nei confronti della luce», affermò Prudence. Distolse brevemente lo sguardo dalla console, e guardò Timberlake, percependo l'eccitazione del tecnico. «Il fisico, in base ad alcune conclusioni, considera la luce come formata da particelle, e, in base ad altre, da onde. Qualche volta pensiamo ai gruppi di impulsi nervosi come unità distinte, qualche altra volta li immaginiamo come un flusso continuo». «Ditemi il percorso compiuto da questo flusso», domandò Timberlake. «Il flusso scorre lungo il tratto cortico-ponto-cerebellare», rispose Flattery. «E con ciò?» Anche lui si era accorto dell'eccitazione di Timberlake. Flattery scoccò una rapida occhiata a Prudence, ma l'attenzione della donna era concentrata sulla console principale. «Voglio sapere il punto d'arrivo terminale dell'input nervoso», disse Timberlake. «Finisce nelle aree silenti o non funzionali del cervelletto», gli rispose Flattery. «Sono i lobi superiori e inferiori, il declive, il folium e il tuberum - la porzione maggiore del cervelletto. La mediazione avviene lungo il tratto che conduce alla corteccia cerebrale».
«Silenti o non funzionali?» esclamò Timberlake. «Qual è il potenziale del cervelletto?» «Il potenziale?» gli chiese Flattery. «L'energia arriva», disse Timberlake. «Per caso, fa girare una ruota? Oppure accende una lampadina? Non si può riversare continuamente energia in un sistema, senza ottenere un qualche tipo di output... oppure senza che intervenga un sistema che si incarichi di equilibrare il tutto. Ma qual è questo sistema? Qual è l'output, il potenziale?» «Stai suggerendo che la coscienza è questo... potenziale?» gli chiese Flattery. E ricordò che Bickel aveva definito il Bue «un'enorme spugna». «È stato Bickel a suggerirlo», affermò Timberlake. «Ha detto che la coscienza era simile al riflesso vestibolare dell'orecchio interno, ciò che ci permette di capire dov'è il basso. È buffo, mi sento come se finora fossi stato leggermente addormentato, non abbastanza sveglio da intuire ciò a cui stava mirando Bickel. Ma adesso inizio a capirlo». «Quel flusso di impressioni non cessa neppure durante il sonno», disse Flattery. «Stai per caso tentando di sostenere che anche il sonno è uno stato di coscienza?» Ricordò di aver mosso la stessa obiezione a Bickel, ma adesso doveva essere onesto con se stesso, e affrontare la risposta che avrebbe dovuto dare, e tutte le conseguenze che essa avrebbe implicato. «Il sonno è una forma di coscienza», rispose alla sua stessa domanda. «È soltanto molto vicina ad una delle estremità dello spettro». «E tutta quell'energia?» domandò Timberlake. «Deve essere utilizzata per qualche scopo. Sì, ora capisco. Benissimo - è possibile che l'effetto-coscienza regoli l'equilibrio energetico del corpo umano. Forse si tratta di un processo omeostatico». «Tutti i meccanismi biologici di controllo sono omeostatici», fece notare Prudence. «Ora, tu sostieni che la coscienza controlla la miriade di impressioni ricevute dal cervello. E allora? Ciò non spiega che fine fa tutta quell'energia». «Dev'esserci un qualche altro effetto, da qualche parte nel sistema», ribatté Timberlake. «Deve esistere, da qualche parte, un flusso inspiegabile d'energia - oppure un flusso che è stato spiegato in maniera sbagliata...» «Sinergia», disse Prudence. Flattery le rivolse uno sguardo duro. Gli aveva tolto la parola di bocca. «Sinergia». Timberlake parve meditare sul significato della parola. Prudence sapeva che il tecnico, proprio a causa del suo lavoro, doveva
possedere una qualche nozione del concetto, ma capì che una spiegazione semplificata di tipo medico avrebbe potuto aiutarlo. Chiaramente, Timberlake stava seguendo una pista eccezionalmente interessante. «Sinergia», ripeté Prudence. «L'effetto prodotto dai nostri riflessi spinali, che agiscono su ordine del cervello. Un effetto extra. Avviene in una parte del... circuito che è in uscita, rispetto alla corteccia cerebrale». «Ma è un effetto che mira a ristabilire l'equilibrio?» chiese Timberlake. «Per come la vedo io, basta una semplice integrazione sinaptica, dal lato d'entrata nella corteccia. La sinergia implica un flusso energetico in uscita dai lobi frontali? Potrebbe essere quest'energia l'output che manca?» «Anche il tuo ragionamento, come quello di Bickel, gira a vuoto», disse Flattery. «Restringi l'area di mediazione ai soli lobi frontali. E allora? Vedi bene che la sinergia non può essere totalmente spiegata. Un mucchio di ricercatori lo ha pensato. Un numero infinito di persone ha sostenuto che i lobi frontali potessero essere la misteriosa sede della coscienza. Ma a cosa serve sapere dov'è, se non si sa cos'è? Non puoi sostenere che sia davvero la sinergia». Ci sta mantenendo sul binario giusto, pensò Prudence. Si chiese come avrebbe reagito Timberlake a quella tirata d'orecchie metaforica. «Grazie, Raj», disse quest'ultimo, e tirò un profondo respiro. «Benissimo, continuerò a seguire il percorso teorico di Bickel... e magari farò qualche errore - se anche lui ne ha commesso qualcuno. Bickel suggerisce che la coscienza è un campo che regola delle risposte sensorie, mentali ed emotive. Se vogliamo riprodurre artificialmente questo fenomeno, qualunque cosa costruiremo dovrà avere delle risposte sensorie, mentali ed emotive da regolare». «Ahhhh», esclamò Flattery. Annuì. «Possiamo dotare il Bue di Bickel di risposte sensorie e mentali - ma come facciamo a dotarlo di emozioni?» Iniziò a condividere un po' dell'eccitazione di Timberlake, l'eccitazione della caccia, anche se quello a cui stavano dando la caccia era un idea - un concetto. «E il feedback negativo? Le emozioni implicano sempre un obiettivo. Il feedback negativo richiede che nel sistema sia presente un elemento di ricerca di un obiettivo, di uno scopo». Flattery si accorse, dal silenzio improvviso che era calato dopo la sua ultima affermazione, che erano arrivati ad un punto critico nella loro ipotesi. E ci erano arrivati senza Bickel - il loro "organo d'analisi" - anche se avevano usato le sue idee come stimolo. «La coscienza richiede un obiettivo» sussurrò Timberlake. Poi la sua
voce si alzò di tono: «Deve avere un oggetto su cui concentrarsi». Guardò Flattery. «Il campo di relazione». Ci è andato abbastanza vicino, ma non è proprio così, pensò Flattery. «Non si tratta di un'entità o di un oggetto, ma di una rete di collegamento tra oggetti o entità». Con la coda dell'occhio, Flattery vide Prudence regolare un quadrante sulla console principale, si accorse della tensione dell'attesa che pervadeva i suoi movimenti. Erano tutti tesi come molle, pronte a scattare. «Un ponte?» esclamò di colpo Timberlake. «Certo! È così! Un ponte!» «Costruito partendo dal linguaggio», disse Prudence. «Ma i simboli sono pieni di errori, di punti deboli e di difetti», disse Timberlake. «Non potete negarlo». Flattery vide i movimenti di Prudence divenire più rapidi e più sicuri, mentre digeriva quell'idea. «Durata temporale», disse lei. E Flattery pensò: Bisogna superare un cancello che conduce all'immaginazione, se si vuole essere coscienti, e le chiavi del cancello sono rappresentate dai simboli. Si possono portare le idee da un piano temporale ad un altro, attraverso il cancello, ma bisogna trasformare le idee in simboli. Tuttavia, si conosce davvero ciò che si porta... e ciò che lo porta? «Ogni simbolo scaturisce da delle premesse nascoste», disse Flattery. «Ogni parola è portatrice di presunzioni di significato celate. Se esse vengono eliminate, si acquista una nuova comprensione delle proprie idee». «E la parola centrale del nostro problema è coscienza», disse Timberlake. «Che presuppone», intervenne Prudence, «che esista un Io di cui essere coscienti». «Un ponte collega due luoghi», continuò Timberlake. «Se inizia a cedere, gli ingegneri tirano fuori di nuovo i piani di costruzione originali e gli elenchi dei materiali usati, poi vanno sul luogo dove sorge il ponte e lo esaminano. Studiano il ponte in condizioni statiche e sotto sforzo. Poi possono decidere di rimpiazzarne delle parti, di costruire altre arcate...» «...oppure di abbatterlo e di ricostruirlo daccapo», terminò Prudence. «Nessuno di voi due ha sentito quel che ho detto? La nostra parola presuppone che esista un Io di cui essere consci». «Ti abbiamo sentito», disse Flattery. «Ma ci sono presunzioni ancora più importanti di... "Conosci te stesso". La filosofia Zen ci insegna che un'idea astratta può essere fraintesa a causa dalla sua stessa astrattezza - come per
esempio il concetto di foresta, quando tutto ciò che esiste sono dei singoli alberi. Nel nostro comportamento normale, quotidiano, siamo prigionieri per la maggior parte del tempo di una concezione affatto illusoria dell'Io. Ogni sua inclinazione all'orgoglio, tutte le convenzioni a cui obbedisce, influenzato dal suo maestro - il condizionamento sociale - cospirano nel mantenere quest'illusione. I semiologi denominano questo fenomemo "inerzia derivata da premesse consolidate". Ed è sempre questo fenomeno che costringe all'interno di limiti prefissati la nostra attuale analisi del concetto di coscienza». «Limiti». Timberlake prese spunto da quella parola. «Ad un'estremità - il sonno oppure il sonno della morte; all'altra - lo stato di veglia». «Il problema che si sono sempre posto le religioni dell'Occidente è: cosa c'è dopo la morte?» affermò Flattery. Ma la questione che si pone il maestro Zen è: cosa c'è dietro lo stato di veglia?» «Per l'amor di Dio!» La voce era quella di Bickel e proveniva dallo schermo al di sopra delle loro teste. Flattery, con un sorrisetto ironico, sollevò lo sguardo sullo schermo, da cui Bickel lo stava fissando irato. «Ti lascio solo per appena mezz'ora e tu trascini quei poveri sciocchi in qualche vicolo cieco imbottito di misticismo! Sembrava di stare sentendo quegli imbecilli di Base Lunare! Maestri Zen! La prossima volta tirerai in ballo la Coscienza Cosmica! Di tutte le cose inutili...» «John, abbiamo individuato il punto centrale del problema», lo interruppe Timberlake. «Se tu...» «Ti avevo chiesto di darmi qualche suggerimento per costruire un circuito. Invece, vi ho sentito giocare a fare gli indovini per dieci minuti. Tutto quello che voglio sapere è: tutto questo blaterare come farà a farci costruire un circuito? Soltanto uno?» «Hai chiesto tu stesso a Base Lunare di fornire una definizione di coscienza», protestò Prudence. «Perché volevo tenerli occupati, in modo che non ci stessero tra i piedi». Lo schermo si oscurò. Flattery osservò la console di fronte a Prudence, si accorse che l'interruttore del comunicatore era su «on», ma che lo schermo era oscurato. L'ha fatto apposta! si disse. L'ha messo su "on" per svegliare Bickel. Ma perché lo schermo oscurato? Come se gli avesse letto nel pensiero, Prudence disse: «John ha inserito
un interruttore di sicurezza nel circuito di comunicazione. Hai qualche idea sul perché?» «Non avete visto dov'era?» chiese Timberlake. «Era nel locale per la manutenzione del computer - a lavorare su quel dannato Bue!» Timberlake sbloccò il lettino elastoavvolgente, e, quasi con lo stesso movimento, si proiettò verso il portello del locale. Tentò di girare i volani che l'aprivano, ma essi si rifiutarono di muoversi. «Ha bloccato il portello!» Timberlake urlò con voce impaurita. «Se danneggia il computer...» «Te ne sei accorto... dunque, tanto vale che stia a guardare», lo irrise la voce di Bickel. Sollevarono lo sguardo verso l'immagine del locale trasmessa dallo schermo principale. Bickel era lì, circondato dai resti dell'originaria istallazione del Bue - cavi penzolanti, misuratori, blocchi neuronici - tutti accatastati in maniera precaria lontano dalla parete del computer. «Bickel, ascolta la voce della ragione», tentò di convincerlo Timberlake. «Non puoi semplicemente metterti a pasticciare col...» «Zitto o chiudo il collegamento», lo avvertì Bickel. Si inginocchiò con un blocco neuronico di ricambio, lo inserì tra il Bue e la parete del computer, iniziò a collegarlo. «Per favore, John», lo implorò Prudence, «se tu...» «Non riuscirete a fermarlo, se vi limitate a parlargli», li avvertì Flattery. «Raj ha ragione». Bickel inserì un altro blocco neuronico al suo posto, eseguì dei nuovi collegamenti. «Il ritmo», disse. «Mi sono addormentato pensandoci... e mi sono svegliato con la soluzione - grazie a questo concetto e a quello che hai detto tu, Raj. Ritmo». Un'altro blocco neuronico fu inserito nello spazio sottostante i primi due. «Spiegaci cosa stai facendo», disse Flattery, e fece segno a Timberlake di accostarglisi. «Il modo in cui il cervello vede gli oggetti può essere ridotto ad una descrizione matematica di un processo di scansione», rispose Bickel. «Ne consegue che questo approccio teorico può essere applicato a qualsiasi altra funzione cerebrale - inclusa la coscienza. Posso duplicare il ciclo dei raggi alpha per ottenere una funzione di scansione del cervello nel ciclo temporale di questi blocchi neuronici. Se registro ciascun ritmo presente in un modello umano e li duplico...» «Qual è la funzione di ognuno di questi ritmi umani?» domandò Flat-
tery. Mentre parlava, Flattery scrisse in fretta qualcosa su un foglietto di carta che poi premette contro il palmo della mano di Timberlake. Timberlake guardò in alto, verso lo schermo, ma Bickel era ancora di spalle, rispetto alla telecamera. «Ma non sappiamo se funzionerà, non è così?» chiese Flattery, e facendo dei gesti frenetici esortò Timberlake a leggere il foglietto. Timberlake finalmente guardò il foglietto e vi lesse: «DA DIETRO. AGGIRA LE VASCHE D'IBERNAZIONE. BICKEL NON HA BLOCCATO IL PORTELLO CHE ARRIVA LÌ DAGLI ALLOGGIAMENTI. PRENDI L'ALTRO CONDOTTO E SORPRENDILO». Ancora una volta, Timberlake guardò lo schermo. Il Bue, sotto le mani di Bickel, stava assumendo una nuova forma - ora si estendeva fino all'angolo del locale per la manutenzione. Aveva iniziato ad apparire, almeno agli occhi di Timberlake, la costruzione di un folle tutta triangoli di plastica sporgenti, forme oblunghe di accoppiatori neuronici, file di moltiplicatori Eng... e cavi che si intrecciavano in un sovrapporsi caotico di colori in codice. Timberlake sentì una mano afferrargli il braccio, scuoterlo bruscamente. Guardò la mano, e poi il suo possessore, Flattery, che a sua volta gli rivolse uno sguardo furioso. Flattery indicò il foglietto stretto nell'altra mano di Timberlake. Timberlake fissò di nuovo il foglietto, comprendendo improvvisamente perché non riusciva a muoversi. Aggirare le vasche d'ibernazione? No. Dovrò passare attraverso le vasche d'ibernazione. Flattery questo deve saperlo. Timberlake rivolse il suo sguardo torturato su Flattery, e il terrore che cresceva in lui gli rivelò chiaramente il motivo della sua esitazione. Bickel mi ha contagiato con il suo cinico scetticismo. Ho paura di quel che scoprirò nelle vasche se le controllo da vicino. Le troverò vuote, e ci saranno soltanto dei cavi collegati al computer al posto dei coloni. E il computer sarà programmato per simulare la presenza di vite ibernate nelle vasche. E sarò sicuro che tutto questo, l'intera nave, non è altro che un mostruoso inganno. Scoprirò di essere stato un tecnico dei sistemi vitali... del nulla... Perché ho paura? si chiese. Ma soltanto quel pensiero bastò a farlo rabbrividire.
Flattery lo tirò ancora una volta per il braccio. Se è così ansioso, perché non ci va lui? si chiese Timberlake. La risposta era ovvia: Flattery non era un esperto in computer. Non avrebbe potuto capire quel che aveva fatto Bickel e riparare... se era possibile... gli eventuali danni. Sono immobilizzato dal panico, pensò Timberlake. Ma sapeva di non poter rimanere lì impalato. Doveva andare. E quando sarebbe passato per le vasche d'ibernazione, non avrebbe resistito ad appurare la verità. Avrebbe guardato oltre la barriera di quadranti, misuratori e ripetitori. Avrebbe guardato direttamente nelle vasche. Ma, nonostante il suo inspiegabile terrore, rimaneva un'altra possibilità che le vasche contenessero delle vite, e che queste vite fossero in pericolo. Userò di nuovo il generatore d'effetto casuale, pensò Bickel. Si sporse all'interno del caos organizzato del Bue, collegò un cavo sul dispositivo temporaneo d'ingresso dati, lo fece uscire all'esterno e lo fissò ad un lato del Bue. L'effetto e il modo in cui ottenerlo erano ancora chiari nella sua mente. Si era svegliato di colpo, non sapendo quanto a lungo avesse dormito, ma si sentiva meravigliosamente riposato e aveva quella risposta che gli riempiva la mente. Si voltò verso i cavi del computer, lo collegò al Bue attraverso una memoria di transito che avrebbe inviato gli impulsi in un banco mnemonico di prova, collegò anche i nuovi blocchi neuronici e attivò l'interconnessione completa del sistema. «Vuoi almeno spiegarci cosa stai facendo, John?» disse la voce di Flattery, proveniente dallo schermo. Bickel si voltò per un istante, vide che Prudence era ai controlli, mentre Flattery sedeva sul bordo del suo lettino - non c'era alcun segno di Timberlake. Ma lo schermo non riusciva a dare l'intera panoramica della sala comando. Probabilmente Timberlake stava tentando di sbloccare il portello. Bene, che ci provi pure. «Possiamo usare soltanto noi stessi come modelli per produrre il Fattore Coscienza», spiegò Bickel. «E tutti continuano a dire che non possiamo entrare in noi stessi, come sarebbe possibile nel suo campo per un ingegnere, per duplicare il meccanismo che dà vita alla coscienza. Ma, amico, c'è un altro modo - totalmente sicuro ed efficace». Prudence disse: «Raj?»
Flattery la guardò. «Sto registrando in questo momento un assorbimento d'energia dal sistema ausiliario». «È Bickel», spiegò Flattery con tono piatto. «Ha costruito una linea che attinge direttamente l'energia dal sistema per evitare che lo tagliassimo fuori». Guardò di nuovo Bickel. «È esatto?» «Sì. Ma non dovrebbe causarvi alcun problema. Ho isolato la linea. La vostra console principale funziona ancora». Bickel si voltò di nuovo verso il Bue e iniziò a collegarvi una serie di neurofibre. «E qual è questo metodo sicuro ed efficace?» Flattery alzò lo sguardo verso le spie sulla console centrale che, attraverso i sensori termici, seguivano i progressi di Timberlake. Adesso il tecnico si trovava nel secondo settore, e stava dirigendosi verso il lato opposto dello schermo dello scafo, verso le vasche d'ibernazione. Perché Tim era così riluttante ad andare? si chiese Flattery. Bickel terminò un triplo collegamento tra le neuro-fibre e si raddrizzò. «Il sistema che non può essere sezionato per essere esaminato può essere definito una scatola nera. Se riusciamo a costruire una scatola bianca sufficientemente simile e dotata, in generale, dello stesso potenziale della scatola nera - vale a dire, se riusciamo a renderla sufficientemente complessa allora possiamo costringere la scatola nera a trasferire spontaneamente il suo schema d'azione alla scatola bianca. Basta collegarle e sottoporle contemporaneamente ad una raffica del generatore d'impulsi casuali». «Che cos'è la tua scatola bianca?» chiese Flattery, interessato nonostante la sua paura. «Quell'affare?» Con un cenno del capo indicò il bizzarro ammasso di cubi del Bue. «Diavolo, no, non possiede neppure lontanamente il grado di complessità che ci occorre. Ma l'intero sistema del computer, quello sì che lo possiede». È impazzito! pensò Flattery. Non può dire seriamente che invierà una raffica d'impulsi casuali nel computer! Flattery controllò di nuovo le spie che segnalavano la posizione di Timberlake. Il tecnico era arrivato al limite della sezione della nave in cui erano ospitate le vasche d'ibernazione, ma si stava muovendo con una lentezza snervante. «Allora... qual è la funzione del Bue in tutto questo?» chiese Flattery, riportando la sua attenzione sullo schermo. «È il nostro selezionatore», gli spiegò Bickel. «Seleziona i ritmi del si-
stema e svolge la stessa funzione dei lobi frontali, per quanto in maniera piuttosto rudimentale». Collegò due parti della sua costruzione. «Ecco fatto. Ora facciamo alcune prove». «Non sarebbe meglio aspettare?» chiese Flattery. «Non dovremmo discuterne ancora un po'? Cosa succederà se hai commesso un errore e...» «Non ci sono errori», affermò Bickel. Flattery controllò le spie. Timberlake ormai era entrato nelle vasche d'ibernazione, ma non si muoveva - si era inspiegabilmente fermato. Abbiamo regolato Bickel, il nostro «organo d'analisi», ad una frequenza troppo alta, si rammaricò. Avremmo dovuto prevedere che sarebbe potuto sfuggire al controllo. Che cosa stava trattenendo Timberlake? «Per prima cosa, un test per vedere se la linea funziona», annunciò Bickel e girò una chiavetta sul pannello del computer. Fissò i quadranti del circuito diagnostico sopra la sua testa. Flattery trattenne il fiato, si voltò lentamente per controllare la console principale di fronte a Prudence. Se il test di Bickel danneggiava il sistema del computer centrale, la prima a segnalare il danno sarebbe stata la console principale. Ma le luci di controllo rimasero di un verde rassicurante. Il ticchettio dei relay dei grafici e dei monitor continuò con ritmo regolare. Tutto sembrava funzionare alla perfezione. «Sto ottenendo risposte tipiche di una rete neurale da ciascuno dei blocchi», annunciò Bickel. «C'è una risposta di rete neurale ortogonale, in relazione all'input». Flattery mantenne la sua attenzione sulle luci delle spie di controllo. Se Bickel danneggiava il computer, la nave era condannata. La maggior parte dei suoi sistemi automatici dipendeva dalle linee di comunicazione e dai programmi supervisori del computer. «Non mi hai sentito?» gli domandò Bickel. «Sto ottenendo una risposta tipica di una rete neurale! Questa cosa si comporterà come un sistema nervoso umano!» «Raj, è vero?» Era la voce di Prudence. Flattery abbassò lo sguardo, seguendo la direzione in cui puntava il dito della donna. Prudence aveva collegato una piccola parte della sua console ausiliaria in un sistema ripetitore a sua volta in collegamento con il circuito diagnostico di Bickel. «Ritmo beta», disse Prudence, indicando l'oscilloscopio al centro della
console. Flattery fissò l'onda sinusoidale che increspava la linea verde dell'oscilloscopio, mentre considerava quel che Bickel aveva detto, e quel che implicava la presenza della linea sull'oscilloscopio. Scatola nera - scatola bianca. Forse era teoricamente possibile usare l'intero computer come una scatola bianca per assorbire lo schema di trasferimento definito coscienza. Ma rimanevano ancora aperte molte questioni - e una era molto più vitale delle altre. «E cosa userai come scatola nera?» domandò Flattery. «Da dove ricaverai lo schema originale?» «Da un cervello umano cosciente. Userò una delle vasche d'ibernazione di ricambio e trasformerò il suo sistema di feedback elettroencefalografico in un amplificatore di onde cerebrali». È completamente pazzo, pensò Flattery. Lo shock di una raffica d'impulsi casuali ucciderebbe un soggetto umano. Bickel distolse lo sguardo dallo schermo, poi fissò nuovamente Flattery - comprendendo che lo psichiatra-cappellano aveva intuito il rischio mortale insito nel suo piano. Chi sarà la cavia? pensò. Io, se sarà necessario. «Come intendi proteggere il soggetto umano dalla raffica d'impulsi casuali?» gli chiese Prudence. «Curaro?» «Penso che il soggetto dovrà essere pienamente cosciente», rispose Bickel. «Senza alcuna medicazione... o narco-inibizione». Si attese un attacco di rabbia, da parte di Timberlake. Quell'idea sicuramente avrebbe cozzato contro il condizionamento subito dal tecnico dei sistemi vitali. Ma dov'era Timberlake? «Assolutamente no!» esplose Flattery. «Si tratterebbe di un omicidio!» «O forse... di suicidio», disse Bickel. Prudence distolse lo sguardo dalla console, incrociò gli occhi di Bickel. «Sii ragionevole, John», lo pregò. «Stai già mettendo a repentaglio l'integrità del computer con quel...» «La nave è ancora pienamente funzionante, o no?» ribatté Bickel. «Ma se invii una raffica d'impulsi casuali attraverso quel...» Annuì in direzione del mucchio di blocchi e dell'intrico di cavi che costituivano il Bue, accanto a Bickel. «...come farai ad evitare di danneggiare la memoria del nucleo del computer?» «La memoria del nucleo è un sistema fisso e dotato di protezioni. Man-
terrò il potenziale del Bue al di sotto della soglia di filtraggio. Inoltre...» Scrollò le spalle. «...abbiamo già inviato delle raffiche casuali attraverso il computer senza...» «E abbiamo disseminato i nostri dati da qui all'inferno!» esclamò lei con voce tagliente. «Possiamo ancora recuperare quelle informazioni, se usiamo il Bue per rintracciarne le allocazioni», replicò Bickel. Flattery diede un'occhiata ai sensori di fronte a Prudence. Cos'era successo a Timberlake? Era ferito? Forse svenuto? Ma i sensori captavano deboli segnali di movimento... sempre all'interno, però, del complesso delle vasche d'ibernazione. «Se ho ben compreso», disse Prudence, «dovrai aggiungere dei canali di simulazione d'attività neurale al Bue finché quest'ultimo e il computer raggiungeranno un grado di complessità simile a quello del sistema nervoso umano. Se andrai avanti con i tuoi test, le nostre vite dipenderanno sempre più da un dispositivo di fortuna e inaffidabile come il Bue». «Deve possedere necessariamente un apparato sensorio completo», affermò Bickel. «Non c'è altro modo». «Dev'esserci?» esclamò lei. «Da dove hai preso quest'idea pazzesca?» «Da te». La sorpresa, per un istante, impedì a Prudence di replicare. «È impossibile». «Sei una donna», le spiegò Bickel, «capace di riprodurre biologicamente una vita dotata di coscienza. Ciò implica che possiedi un sostrato di molecole capaci di assumere un grande numero di forme... tutte differenti. Quelle stesse molecole assumono una forma particolare in presenza di un'altra molecola che già la possiede». Scrollò le spalle. «Scatola nera - scatola bianca». «Avevo capito che avessi concepito la tua ipotesi da quel che ti avevo detto», commentò lei, e alzò lo sguardo verso le spie che segnalavano i movimenti di Timberlake, adesso apparentemente irrazionali. «Statemi a sentire», disse Bickel, che non si rendeva conto di ciò che li preoccupava veramente in quel momento, e cioè il comportamento di Timberlake, «il modello base operativo del computer non verrà danneggiato. Non interferiremo con i programmi supervisori o con le costanti di comando. Vogliamo realizzare un dispositivo che possa ponderare le possibilità, con una costante di mobilità per...» «La teoria dei giochi?» gli ricordò sprezzante Flattery. «Non puoi preve-
dere con certezza il comportamento della tua macchina». Lanciò un'altra occhiata alle spie luminose. Cosa stava facendo Tim? «Ma è proprio quello che voglio!» esclamò Bickel. «Se la macchina dev'essere cosciente, non dobbiamo essere in grado di prevedere con sicurezza il suo comportamento... il che, tra l'altro, è compreso nella definizione di coscienza. La coscienza è un gioco in cui le mosse permesse non sono stabilite in anticipo. L'unico obiettivo è vincere». Tutto è lecito? si chiese Flattery. Concentrò di colpo la sua attenzione su Bickel, avendo compreso la natura essenzialmente blasfema di quel concetto. Dovevano esserci delle regole! «La macchina assorbirà parte della sua personalità dal costruttore, e il resto proverrà dalle personalità dei suoi avversari», disse Bickel. Qualcosa da Dio, e qualcosa dal diavolo, pensò Flattery. Dev'esserci un errore essenziale in questo ragionamento... da qualche parte. Bickel si sta comportando in un modo che va molto al di là anche delle previsioni più pessimistiche. Ilnostro "organo d'analisi" sta agendo in maniera illogica. Non sta più facendo la mossa giusta ogni volta. «Introdurrai dei fattori d'errore e un incremento di dispersione dati nel computer», lo mise in guardia Prudence. «Non è solamente illogico, è anche...» Si interruppe, studiò la console, eseguì una correzione del sistema di pressurizzazione della nave, e attese di capire se i dispositivi automatici della nave erano in grado di mantenerla. «Si deve compiere ogni volta la migliore mossa possibile», disse Flattery a Bickel. «La tua ipotesi non sembra...» «È così», si dichiarò d'accordo Bickel. «La migliore mossa possibile. Ma, qualche volta, la migliore mossa possibile è quella di compierne una pericolosamente cattiva che modifichi l'intera intelaiatura teorica del gioco. Vale a dire, si cambia gioco». «E tutte quelle vite contenute dalle vasche d'ibernazione?» gli chiese Prudence. «Hanno qualche possibilità di scelta in questo... gioco?» «Hanno già compiuto la loro scelta». «E mentre sono inermi, tu cambi le regole», ribatté Flattery. «Questo era uno dei rischi che hanno accettato di correre, quando hanno deciso di farsi ibernare», affermò Bickel. «Lo hanno scelto loro». Flattery non replicò, ma abbandonò il lettino dandosi una forte spinta. «Cosa vuoi fare?» gli chiese Prudence. «Controllare cos'è successo a Tim».
«Dov'è Tim?» chiese Bickel. «Giù, nelle vasche d'ibernazione», rispose Flattery, ben sapendo che Bickel avrebbe potuto ottenere da solo la risposta - una volta che avesse controllato sui ripetitori del locale per la manutenzione. «Nelle vasche d'ibernazione?» ripeté Bickel. «Sicuro!» «Prue?» disse bruscamente Bickel. «Tenta di metterti in contatto con lui usando il circuito di comunicazione». Prudence percepì un senso d'urgenza nella voce di Bickel, si voltò di scatto per obbedirgli. Non ci fu alcuna risposta da parte di Timberlake. «Siete stati degli sciocchi!» esclamò Bickel. Flattery si bloccò sull'imboccatura del condotto di passaggio e fissò infuriato lo schermo. «Perché l'avete lasciato scendere laggiù?» domandò Bickel. «Sciocchi e anche stupidi! Non sapete cosa scoprirà probabilmente nelle vasche d'ibernazione?» «Cosa vuoi dire?» «Che l'intera dannata nave non è altro che un enorme simulatore», spiegò Bickel. «Non ci sarà nulla laggiù, tranne qualche membro di rimpiazzo dell'equipaggio. Quelle vasche devono essere vuote!» Si sbaglia! pensò Flattery. O no? Quel pensiero lo raggelò. Capì immediatamente come un fatto del genere avrebbe potuto sconvolgere Timberlake - condizionato, come tutti loro del resto, per eseguire una funzione specifica a bordo della nave. «Gli rimarrebbero sempre i sistemi vitali dell'equipaggio», disse Prudence. Fissò Flattery, che si trovava all'estremità opposta della sala comando, colpita da un'intensa sensazione di solitudine. L'Uovo di Latta, colmo dei suoi pericoli programmati, poteva ospitare soltanto una manciata di umani isolati, scagliati nel Nulla. Non può essere vero, pensò Flattery. Ma se mi avessero condizionato apposta per ingannare il resto dell'equipaggio... Si sentì come se i suoi piedi fossero stati inchiodati al ponte della nave. Deglutì, e scoprì di avere la gola secca. Ma è impossibile! Mi avevano promesso, quando scoprii e lessi i veri rapporti su Tau Ceti, che se avessimo avuto successo nel creare una coscienza artificiale, dopo aver inviato una capsula con il messaggio, avremmo potuto continuare il viaggio come... Tau Ceti non possiede alcun pianeta abitabile!
«Raj, ti senti male?» gli chiese Prudence. Lo scrutò con attenzione, notando il suo sguardo perso nel vuoto, remoto. «I pianeti di Tau Ceti sono inabitabili, è vero», aveva ammesso Hampstead, di fronte all'evidenza. «Non esiste nessun Eden. Ma sappiamo con certezza che l'universo contiene miliardi di pianeti abitabili. Capirai che, ovviamente, non potrete tornare indietro. Mettereste in imbarazzo i nostri finanziatori». «I donatori di materiale bioptico erano tutti dei criminali», aveva detto Flattery, rivelando che aveva scoperto anche quello. «Gente brillante, ma purtroppo traviata», aveva protestato Hampstead. «Questa è una delle ragioni per cui non potete tornare indietro, ma nulla vi vieta di esplorare l'Universo e di trovare il vostro Eden». Ricordando quelle parole, Flattery comprese quanto suonassero vuote. Raggiri e inganni, sempre e comunque, pensò. Ma perché? Timberlake si era lanciato in basso lungo il tubo di comunicazione in plasmetallo, sapendo che doveva agire in fretta, oppure sarebbe rimasto paralizzato da un terrore che non sapeva spiegarsi. Giunto nel locale di smistamento in cui confluivano i vari tubi, si era chiuso il portello alle spalle, aveva preso un'unità robotica di traino dalla sua rastrelliera, aveva regolato i suoi sensori per seguire la linea magnetica impressa nella parete del tubo, e poi aveva sbattuto le ruote del robox sui solchi di scorrimento, afferrando la sbarra di controllo. Ancora una volta provò quella terribile riluttanza a muoversi, e rimase con lo sguardo fisso verso l'alto, osservando la lunga curva, apparentemente infinita, e visibile attraverso le chiusure di sicurezza trasparenti, che compiva il tubo. Non posso tornare indietro, pensò. Con un gesto improvviso, tirò la sbarra di controllo, azionando il motore del robox, e iniziò ad esplorare con andatura irregolare il percorso curvo indicato dalla linea di guida. Un debole sibilo, dovuto allo spostamento d'aria, accompagnava il movimento del robox. Timberlake era simile ad un pistone che risalisse lungo il tubo. Le chiusure di sicurezza si aprivano automaticamente, al segnale emesso dal robox, per poi richiudersi alle sue spalle. Rallentò mentre attraversava lo schermo di protezione, ruotò a novanta gradi per imboccare la diramazione che conduceva alle vasche d'ibernazione, la seguì verso il basso, riattraversò lo scudo d'acqua e si fermò davanti all'anticamera del locale in cui erano ospitate le vasche.
Sistemò il robox su di una rastrelliera e fissò il portello. Era un grosso ovale giallo e sul suo sigillo si poteva leggere, scritto in lettere di un azzurro carico, il seguente avvertimento: QUESTO PORTELLO DEV'ESSERE CHIUSO E SBARRATO PRIMA CHE SI APRA IL PORTELLO INTERNO! Ora che era giunto lì, Timberlake si rassegnò tranquillamente a qualsiasi cosa lo attendesse. Afferrò i volani, ruppe il sigillo e vide la linea di brina che si formò sulla superficie del portello mentre si apriva. Il ronzio dei generatori della sua tuta divenne più acuto, mentre questi ultimi compensavano l'abbassamento di temperatura provocato dall'aria gelida che fuoriusciva dal portello. Timberlake superò il portello, lo chiuse risigillandolo, e si guardò intorno. Una rastrelliera da cui pendevano dei generatori estremamente potenti si trovava al di sopra del portello interno e sopra di essi si poteva leggere questo cartello d'avvertimento: ESTREMO PERICOLO! OBBLIGO DI INDOSSARE UNA TUTA L-T O DA SPAZIO PROFONDO PRIMA DI ENTRARE. ASSICURATEVI DI AVERE CON VOI UN GENERATORE DI RISERVA FUNZIONANTE PRIMA DI SUPERARE QUESTO PORTELLO. Timberlake afferrò la tracolla di un generatore di riserva, la indossò sulle spalle, azionò soltanto per un istante la turbina per essere sicuro che funzionasse. Il generatore ronzò brevemente. Spostò da un lato la rastrelliera, ruppe il sigillo del portello interno, lo attraversò e lo bloccò alle sue spalle. Adesso si trovò di fronte ad un portello più piccolo dei primi due e sulla sua superficie c'era scritto: INGRESSO CONSENTITO SOLTANTO AI TECNICI DEI SISTEMI VITALI O AL PERSONALE MEDICO. OBBLIGO DI INDOSSARE LA TUTA DI SICUREZZA OLTRE QUESTO PUNTO. NON APRITE QUESTO PORTELLO PREVIA DI AVER REGOLATO LA VOSTRA TUTA PER AFFRONTARE LE TEMPERATURE ESTREMAMENTE BASSE RICHIESTE DALL'IBERNAZIONE. Timberlake collegò il generatore della sua tuta a quello di riserva, li controllò entrambi, li regolò affinché fornissero alla sua tuta la temperatura di sicurezza. Ricordare ed eseguire quella routine tenne occupata la sua mente, distogliendola da ciò che si trovava oltre il portello. I sigilli della tuta erano scivolosi, sotto le sue dita guantate, mentre si assicurava che fossero ermeticamente chiusi. Calò la visiera anti-appannamento del casco, fece scorrere un nastro di prova sui suoi sigilli per individuare eventuali perdite. Il momento di prendere la decisione finale era giunto.
Timberlake si costrinse ad agire con calma e tranquillità. Si disse che molto più della sua vita dipendeva da quello che avrebbe fatto in quel momento. Un'emissione involontaria di calore poteva mettere a repentaglio delle vite innocenti. Fece passare le giunture a diaframma della sua tuta davanti ad un sensore termico, ne studiò il misuratore. Indicava lo zero. Le sue mani guantate strinsero il volano del portello interno, ruppero il sigillo. Si udì un leggero schiocco mentre il portello si apriva, il che indicava una lieve differenza di pressione - nulla di anormale. Superò il portello, e osservò il primo settore di vasche attraverso l'atmosfera gelida che preservava le vite dei coloni ibernati. Prudence era stata ibernata proprio in quella sezione. Vide, alla sua sinistra, la vasca vuota, con i cavi penzolanti, e, all'interno, ancora il lettino imbottito. Tutto quello che lo circondava era immerso in una luce di un freddo azzurro. Si guardò intorno. Il locale in cui si trovava era simile ad un'enorme botte - con al centro uno spazio aperto, circondato da botti più piccole, che in realtà erano le vasche individuali. Una passerella metallica scendeva lungo l'apertura centrale, ed era fornita di scalette e di diramazioni che permettevano di accedere alle singole vasche. Timberlake attraversò il locale con tre salti a bassa gravità, poi afferrò una maniglia accanto alla chiusura di sicurezza che separava la sezione da quella seguente. Si voltò per guardarsi indietro. No... dopo tutto non sono soltanto delle piccole botti, pensò. Era circondato dalle file di vasche individuali, che assomigliavano alle numerose sezioni di un tubo di drenaggio di color grigio, pronte per essere assemblate in qualcosa di utile... come una fogna. Era inutile controllare le vasche di quella sezione; questo Timberlake lo sapeva benissimo. Si trattava della sezione N°l: conteneva rimpiazzi dell'equipaggio dotati di alta priorità. Se c'era qualche inganno, lo avrebbe trovato più avanti - nelle sezioni inferiori. Timberlake aprì la valvola della chiusura di sicurezza, spalancò il portello, lo attraversò, attivò nuovamente il meccanismo che avrebbe isolato quella sezione in caso di danno parziale. Esaminò la nuova sezione. Era identica all'altra, tranne per l'assenza di una vasca vuota. Timberlake deglutì a vuoto. Aveva le guance fredde e umide. Provava un prurito tra le scapole, provocato da uno dei lacci della tuta.
Poi, di colpo, la sua mente si sorprese a ricordare il Professor Aldiss Warren, che aveva tenuto i corsi di biofisica a Base Lunare. Era molto anziano, aveva il pizzetto, una voce gracchiante per l'età, e una mente acuta come una scimitarra. Perché ripenso al vecchio Warren - proprio adesso? si chiese. E come se l'essersi posto quella domanda avesse risvegliato in lui una consapevolezza nascosta, si ricordò una delle digressioni del vecchio, durante una normale lezione, in cui aveva discusso sulla forza morale. «Volete misurare la forza morale di qualcuno?» aveva chiesto loro. «È semplice. Costruite un computer medico con un terminale accessibile al pubblico. Regolatelo in modo che preveda, a chi si sottoponga ai suoi sensori, il giorno in cui morirà... per cause naturali, s'intende, con un'approssimazione di un giorno o due. Se si può definire naturale la vecchiaia. Poi nascondetevi e state a vedere chi usa il computer». Qualcuno - una studentessa - aveva chiesto: «Non ci vorrebbe più coraggio per non usare il computer?» «Bah?» aveva esclamato sprezzante Warren. Un altro studente aveva affermato: «Delle questioni ipotetiche come questa mi annoiano sempre a morte». «Sicuro», aveva risposto il vecchio Warren. «Però, voi giovani duri non vi siete resi conto del fatto che abbiamo la possibilità di costruire un computer medico di questo tipo - subito, oggi stesso. E la possediamo da almeno trent'anni. Non costerebbe nemmeno tanto - viste le apparecchiature di cui stiamo parlando. Ma non lo costruiamo. Questo perché pochissimi anche tra quelli che potrebbero costruirlo - possiedono la forza morale per usarlo». Timberlake rimase immobile e in silenzio nelle vasche d'ibernazione, comprendendo il motivo per cui aveva ricordato quella digressione. Scendere laggiù, in quella luce fredda, era per lui come usare l'ipotetico computer previsore di morte di cui aveva parlato Warren. Bickel mi ha contagiato con la sua certezza che la nave non sia quel che sembra, pensò. Ha preso il comando, mi ha messo da parte. La sola ragione per esistere che mi ha lasciato... sollevò lo sguardo e lo fece vagare lungo le file di vasche d'ibernazione... Si trova qui dentro. Se anch'essa mi viene sottratta, allora sarò davvero inutile, tranne che come lacché di Bickel per la manutenzione del computer. Sì, Bickel. Subito, Bickel. C'è qualcos'altro, Bickel? Provando un senso di stupore per il modo in cui aveva drammatizzato
nella sua mente il mutamento di relazioni avvenuto tra i membri dell'equipaggio, Timberlake rifletté più e più volte sulla sua nuova comprensione della situazione. Provò un senso d'orgoglio per la capacità di estrapolazione della sua mente, e capì che scaturiva in parte dal suo condizionamento. Poi, si lanciò con una spinta verso una vasca singola in basso alla curva di sinistra, situata a metà della fila. La vasca era identica a tutte le altre che lo circondavano. Accese la luce fredda al suo interno, afferrò una maniglia e si piegò avvicinando il casco all'oblò d'ispezione. La luce tremolò, poi si accese del tutto. Illuminò i cavi principali dotati di misuratori che fuoriscivano dal lato opposto della vasca come un ammasso di spaghetti dai colori in codice e avvolgevano la figura umana distesa nella vasca sotto quella luce azzurra. Il volto dell'uomo addormentato possedeva un profilo spigoloso, era di un pallore cereo, e lo contornava una barba nera non particolarmente folta. L'uomo sembrava un manichino - e Timberlake pensò immediatamente che delle copie di essere umani, perfette in ogni dettaglio, fossero state inserite nelle vasche per rafforzare l'illusione. Timberlake studiò le spie di controllo al di sopra dell'ammasso di cavi. Registravano una tenue fiammella di vita all'interno della vasca. Timberlake modificò leggermente il valore del contatore dell'ossigeno, rilevò l'immediata variazione verificatasi nel tracciato dell'elettroencefalografo di cui era dotata la vasca. Il contatore dell'ossigeno ritornò al valore precedente. Dunque, si trattava di un vero essere umano ibernato. Quella reazione, con la sua complessa variazione elettroncefalografica, non poteva essere stata programmata. La variazione nella percentuale di ossigeno, provocata da Timberlake, non poteva essere stata prevista. Tuttavia, un sistema omeostatico umano l'aveva rilevata, e aveva reagito correttamente. Timberlake si lasciò ricadere sulla passerella, controllò un'altra vasca nella fila opposta e un'altra ancora più avanti lungo la fila. Poi, iniziò a controllarle a caso, fermandosi soltanto per controllare che ciascuna di esse conteneva un essere umano vivente. Riconobbe uno dei coloni - capelli neri, carnagione olivastra dai riflessi opachi, lineamenti sottili. Era Frank Lipera. Avevano frequentato insieme i corsi di ingegneria genetica. Poi, Timberlake passò alla sezione seguente... e poi in quella ancora successiva. Scoprì di riconoscere molti degli occupanti delle vasche. Questo fece sorgere nel suo animo una forte sensazione di solitudine. Si sentì co-
me il custode di un museo, costretto a sorvegliare antiche reliquie per tutta la breve durata della sua vita, dopo aver isolato sotto quelle luci fredde e azzurre una porzione delle conoscenze e della cultura dell'uomo. Infine, riconobbe in una vasca della sezione sette un altro volto proveniente dal suo passato a Base Lunare - dai capelli biondi, i lineamenti nordici e la pelle chiarissima. Timberlake lesse il nome inciso al di sopra dell'oblò di ispezione: «PEABODY, Alan - K-7a». Sì, era proprio Peabody, riconobbe Timberlake. Eppure... in un certo senso, non lo era. Era come se il compagno di Timberlake nelle sedute di ginnastica, il suo avversario nella pallamano e nel tennis lunari, fosse andato via, si trovasse in attesa in qualche altro luogo. Ma Peabody, Alan - K-7a si dimostrò essere un vero umano, dotato di reazioni omeostatiche individuali. Poteva essere svegliato affinché parlasse, agisse, pensasse. Poteva essere riportato alla coscienza. E la coscienza va ben oltre il parlare, l'agire e il pensare, rifletté Timberlake. Lasciò la maniglia, ricadde con leggerezza sulla passerella, non provando più alcun bisogno particolare di continuare la sua ispezione. Nel suo intimo, ormai era certo che tutte le vasche contenessero degli esseri umani ibernati. Bickel poteva avere ragione nel sostenere che l'Uovo di Latta non fosse altro che un'elaborata simulazione, ma laggiù la finzione si spinge va troppo oltre, per non essere davvero ciò che voleva sembrare. Le vasche d'ibernazione non erano un inganno. Sono stato mandato quaggiù per aggirare alle spalle Bickel, coglierlo di sorpresa e fermarlo, ricordò a se stesso. Ma dal fare cosa? Un'intima convinzione, inspiegabile e proveniente dai limiti della sua coscienza, gli assicurò che, qualsiasi cosa Bickel stesse facendo in quel momento nel locale per la manutenzione del computer, ciò non costituiva un pericolo immediato per quegli inermi esseri umani ibernati. Qualunque cosa stia facendo Bickel, la sta mettendo in atto ora, pensò. È passata... quasi un'ora, da quando sono sceso quaggiù. Sollevò lo sguardo sulle file di vasche. Tuttavia, ogni vasca che ho controllato stava funzionando alla massima efficienza, come se il sistema fosse stato regolato alla perfezione. Timberlake annuì. Si poteva avere quasi l'impressione che un nucleo mentale stesse ancora controllando la nave. Gli parve quasi di poter udire le oscillazioni spaventosamente lente delle vite che lo circondavano. Il prurito che aveva provato tra le scapole era cessato, ma adesso si sen-
tiva molto stanco, leggermente stordito, e i muscoli gli dolevano. Poi gli balenò in mente che, forse, avevano preso troppo alla lettera il problema di riprodurre la coscienza. Dovremo istallare dei meccanismi che permettano al Bue di stancarsi? si chiese. Ci siamo comportati come quei contadini sempliciotti che espressero i tre desideri concessi loro dal genio. Forse i nostri desideri non ci piaceranno, una volta che si siano realizzati. Dio, come sono stanco. Qualcosa si mosse nelle vicinanze della paratia opposta - una figura in tuta spaziale. Per un istante irreale, Timberlake pensò che uno degli ibernati si fosse risvegliato spontaneamente. Poi, la figura si avvicinò, venne illuminata meglio dalla luce azzurra e Timberlake riconobbe i lineamenti di Flattery dietro la visiera anti-appannamento del suo casco. «Tim?» lo chiamò Flattery. La sua voce rimbombò dagli altoparlanti della tuta, riecheggiò metallica nella gelida atmosfera delle vasche d'ibernazione. «C'è qualcosa che non va nel ricevitore audio della tua tuta?» chiese Flattery, fermandosi di fronte a Timberlake. Timberlake guardò il comando del ricevitore, situato all'interno del suo casco nei pressi del suo mento, e si accorse che la luce che indicava che il circuito era attivato era spenta. Non ho attivato il circuito di comunicazione, pensò Timberlake. E non ho neppure pensato di farlo. Come mai? Flattery scrutò Timberlake con attenzione. I movimenti del tecnico, osservati per la prima volta dal lato opposto delle vasche, erano parsi indicare che non era successo nulla di grave. Timberlake si muoveva. Sembrava conscio di ciò che lo circondava. «Ti senti bene, Tim?» chiese Flattery. «Sicuro. Certo... mi sento benissimo». Come la storia dei tre desideri, pensò Timberlake. Come le tre S della battuta che facevamo durante l'addestramento: Sicurezza, Sonno e Sesso. Qualcosa gli toccò la spalla, e si rese conto di aver udito la paratia interna aprirsi. Si voltò e scorse Bickel. «Te la senti di lavorare un po', Tim?» gli chiese quest'ultimo. «Ho bisogno di un po' d'aiuto». Una lieve inflessione nella voce del compagno fece capire a Timberlake che Bickel si era preoccupato per lui. Ma dovrebbe sapere che sono stato mandato quaggiù... per fermarlo. In quell'istante, Timberlake si rese conto di quanto fossero vicini, tutti e
tre. E quella vicinanza andava oltre l'aspetto fisico. «Qualsiasi cosa tu stia facendo, Bickel», disse Timberlake, «non sta avendo effetti negativi sui coloni ibernati. Ognuno di quelli che ho controllato stava dormendo come un angioletto». «Ognuno...» disse annuendo Bickel. «Hai scoperto... ahhh...» «Guarda tu stesso», lo esortò Timberlake, comprendendo che anche Bickel aveva nutrito il sospetto che le vasche fossero finte. «Sono tutte occupate». «Scusami». Quell'espressione educata suonò alle orecchie di Timberlake in maniera strana, provenendo dall'altoparlante della tuta di Bickel. Costui spiccò un salto, raggiunse una maniglia in alto, risalì una scaletta e, stranamente, scelse anche lui la vasca di Peabody, Alan - K-7a. Poi, continuò la sua ispezione lungo la stessa fila, fermandosi soltanto per scrutare brevemente, attraverso gli oblò, all'interno delle vasche. Si lasciò cadere nuovamente sulla passerella, verso il suo centro, e li raggiunse. «Sono tutte così?» chiese, annuendo in direzioni delle sezioni precedenti. «L'unica vasca vuota era quella in cui era ibernata Prue», gli comunicò Timberlake. «Prue!» esclamò Flattery. «È rimasta da sola in sala comando». Premette l'interrutore esterno del suo comunicatore, attivando il collegamento con la sala comando. Gli altri due videro le sue labbra muoversi, ma la voce di Flattery fu un mormorio indistinguibile. Bickel abbassò lo sguardo, e si accorse che il suo circuito di comunicazione era disattivato. Lo attivò, fece in tempo ad udire Prudence che diceva: «...finora. Ma non mi piace l'idea di rimanere qui da sola, nel caso si presenti una vera emergenza». Anche Bickel ha preferito il silenzio, si disse Timberlake. Desiderava star solo per qualche istante. Flattery ritornò al sistema viva voce della tuta e fissò Bickel con aria interrogativa. «Non faremmo meglio a risalire?» Raj sembra essere ancora più sollevato di Timberlake dall'aver scoperto che quelle vasche sono ciò che sembrano, pensò Bickel. Perché? «Non vuoi controllare anche tu le vasche?» «Mi fido della tua parola», rispose Flattery. «Davvero?» Che intenzioni ha? si chiese Flattery. Vuole provocarmi, per caso? Timberlake si accorse del tono beffardo usato da Bickel, e sentì svanire
quel momento di vicinanza spirituale. Senza che i loro corpi si fossero mossi, i tre si erano allontanati l'uno dall'altro. Ma Timberlake comprese, con una strana euforia, di essersi schierato dalla parte di Bickel. «Questa non è un'illusione» replicò Flattery, facendo un gesto per indicare tutto ciò che li circondava. «Come no, e tu sei davvero cosciente», ribatté Bickel. Flattery represse un moto di rabbia, ma sentì un gusto acido in bocca. Non lascerò che mi provochi, assicurò a se stesso. «Certo che lo sono». «Non dare mai nulla di scontato, quando parli della coscienza», lo rimproverò ironicamente Bickel. «La coscienza può proiettare illusioni - stimoli provenienti da oggetti inesistenti - sullo schermo della tua consapevolezza». Indicò le vasche sopra di loro. «Su, controlla. Noi ti aspetteremo qui». Flattery si sentì invadere dall'ostinazione. «Non lo farò». Fece per spingere da parte Bickel. «Dove stai andando?» chiese Bickel, afferrando il braccio della tuta di Flattery con una delle sue mani guantate. «Nel locale per la manutenzione - per la via più breve», replicò Flattery. «Se non ti spiace!» Si liberò dalla stretta di Bickel. «Figurati», rispose Bickel e si tirò da parte. Timberlake fissò Flattery, mentre lo psichiatra-cappellano apriva il portello e scivolava nella camera successiva. La paura di Flattery non era causata dalla preoccupazione nei miei confronti, si rese conto. È ancora spaventato! Bickel afferrò il braccio di Timberlake, aiutò il tecnico ad attraversare il portello, lo seguì e risigillò l'apertura. Flattery era già arrivato all'altro portello e lo aveva già aperto. Una procedura dannatamente scorretta, notò Timberlake ma decise di non protestare. Poi giunsero ai portelli interni e ai passaggi posteriori al di sotto dell'istallazione primaria del computer, e finalmente emersero nel locale per la manutenzione. Dopo essere entrati, risigillarono il portello. Bickel si tolse il casco. Flattery e Timberlake lo imitarono. Bickel stava già allentando le chiusure dei suoi guanti. Timberlake fissò Flattery, notando il modo in cui l'uomo studiava l'ammasso spigoloso di blocchi neurali, circuiti e cavi che costituiva il Bue. «Una rete capace di contare all'infinito?» chiese Flattery. «Perché no?» gli domandò Bickel. «Tu la possiedi. Sei capace di contare
oltre il numero totale dei tuoi neuroni. Anche il Bue deve poter fare lo stesso». «Tu conosci il pericolo», gli ricordò Flattery. «Una parte di esso», ammise Bickel. «Questa nave potrebbe tramutarsi in un'unica superficie sensoria. I suoi recettori potrebbero dar vita a combinazioni a noi ignote, potrebbero entrare in contatto con forme d'energia a noi sconosciute». «Questa è sempre una delle tue teorie?» Flattery avanzò di un passo verso il Bue. «Prima che tu compia un qualche passo dalle conseguenze distruttive», lo informò Bickel, e annuì in direzione del dispositivo che aderiva con tentacoli di cavi alla parete del computer, «...dovresti sapere che sto già ottenendo reazioni di tipo conscio di bassa intensità - il sistema sta perfino attivando autonomamente alcuni sensori. È come un animale che, appena nato, sbatta gli occhi - un sensore termico qui, uno audio là...» «Potrebbe trattarsi di uno schema di dislocamento casuale, provocato dalle raffiche d'impulsi», disse Flattery. «No, se ogni reazione viene accompagnata da attività neurale». Flattery digerì quell'informazione, mentre percepiva che il timoreallarme istillato in lui dal condizionamento - la reazione per cui si trasformava in un grilletto umano - raggiungeva il massimo. La sua memoria si concentrò sui due pulsanti rossi e sul programma di auto-distruzione che avrebbero innescato nei collegamenti del computer di bordo. «Tim, quanto sei stanco?» chiese Bickel. Timberlake lo guardò. Quanto sono stanco? Soltanto pochi minuti prima, era stato sopraffatto dalla fatica. Adesso... qualcosa lo aveva rinfrancato, lo aveva colmato di euforia. Delle reazioni di tipo conscio! «Sono pronto a sostenere un altro turno completo di lavoro». «Il Bue è ancora troppo semplice anche soltanto per avvicinarsi alla piena coscienza», gli spiegò Bickel. «La maggior parte dei circuiti della nave lo by-passano. Non è collegato con i controlli dei robox e non ha...» «Aspetta un momento?» esclamò bruscamente Flattery. Gli altri due si voltarono, scossi dalla rabbia percepibile nella voce di Flattery. «Ammetti che questo meccanismo dotato di un obiettivo può operare completamente al di fuori del tuo controllo», disse lo psichiatracappellano, «e vuoi ancora dotarlo di occhi - e di muscoli?»
«Raj, il Bue deve avere il controllo completo della nave, o per noi sarà la fine». «Per condurci, attraverso il Grande Vuoto, fino a Tau Ceti», disse Flattery. «Dunque presumi che questo sia il programma base del computer di bordo?» «Non presumo nulla. Ho controllato. È davvero il programma base». A Tau Ceti! pensò amaramente Flattery. Ebbe voglia di ridere e di piangere, tutto nello stesso momento. Esitò, incerto, chiedendosi se dir loro la verità - gli stolti! Ma no... li avrebbe resi meno efficienti. Era meglio continuare quella sciarada fino alla sua futile conclusione! Fece un respiro profondo, che lo aiutò a riacquistare il suo autocontrollo. «Benissimo, John, ma tu non puoi prevedere quale obiettivo avrà il tuo... Bue». «A meno che non saremo noi a fornirgli tutti i suoi obiettivi», disse Timberlake. Flattery con un gesto rifiutò quell'ipotesi. «Ma questo andrebbe contro il vostro obiettivo». «Dovremmo prevedere ogni possibile pericolo», si dichiarò d'accordo Bickel. «Ed è precisamente perché non possiamo prevedere ogni possibile pericolo che abbiamo bisogno che questa coscienza che dovrà guidare la nave abbia... in mano tutti i controlli». Flattery considerò quell'affermazione, tentando di trovare una falla nella logica di Bickel. Le sue parole riecheggiavano come quelle pronunciate in molte delle lezioni di indottrinamento a cui era stato sottoposto su Base Lunare: «Vi sarà richiesto di trovare un metodo per sopravvivere in un ambiente profondamente mutato. Ricorda, non si può prevedere ogni possibile nuovo pericolo». «Non potremo usare dei sistemi di sicurezza, ovviamente», disse Flattery. «La ragione è la stessa», replicò Bickel. «I sistemi di sicurezza funzionano soltanto quando si conoscono, o si possono prevedere, i pericoli». «Puoi evitare che venga danneggiato il nucleo del computer?» «Verrà dotato di tutte le protezioni possibili da qui all'inferno. Ho già iniziato ad installarle». «Sei assolutamente sicuro che la nave possieda un programma supervisore avente come obiettivo quello di condurci sani e salvi a Tau Ceti?» «Il programma esiste davvero. Non è un falso». «E cosa succederà se il computer, divenuto cosciente, dedurrà che diri-
gersi verso Tau Ceti significa la morte sicura?» Perché cavilla tanto su questi dettagli? si chiese Bickel. Sa bene qual è la risposta. «Una semplice decisione binaria deciderà la questione. Gli daremo l'alternativa di invertire la rotta». «Ahhh», commentò Flattery. «La migliore mossa possibile, eh? Ma noi stiamo giocando a croquet con la Regina. L'hai detto tu stesso. E cosa succederà se la Regina di Cuori decide di cambiare le regole? In questo paese delle meraviglie, non abbiamo nessuna Alice che possa riportarci nel mondo reale». Una mossa deliberatamente scadente, compiuta durante una qualsiasi fase del gioco, in modo da mutarne la struttura teorica, pensò Bickel. È una delle possibilità. Scrollò le spalle: «Allora saremo condotti dal boia che ci taglierà la testa». Timberlake si schiarì la gola. Provava un desiderio irresistibile di esaminare e di mettere alla prova la macchina costruita da Bickel - di controllarne i circuiti per scoprire perché non stava mandando in malora le funzioni principali del computer. «Se dovremo affrontare il problema della Regina di Cuori», disse, «la nave avrà maggiori possibilità di sopravvivere se sarà controllata da un'intelligenza cosciente, e dotata d'immaginazione». «Ma possiederà il nostro tipo di coscienza?» Ecco cosa lo divora, pensò Bickel. Ovviamente è lui quello incaricato di assicurarsi che una macchina assassina non venga scatenata nell'universo. L'omeostatsi necessaria per una razza può essere differente dall'equilibrio di cui ha bisogno un individuo per rimanere vivo. Ma noi siamo isolati qua fuori, nello spazio - un'intera razza in provetta. «Stiamo parlando di creare una macchina dotata di una qualità specifica», affermò Flattery. «Deve far funzionare se stessa dall'interno, in base al calcolo delle probabilità, e non può essere controllata da comandi esterni. Non possiamo determinare tutto quello che farà». Sollevò una mano quando Bickel accennò a replicare. «Ma possiamo determinare alcune delle sue emozioni. Che cosa succederà se avrà davvero a cuore la nostra salvezza? Cosa succederà se ci ammirerà o proverà affetto nei nostri confronti?» Bickel lo fissò. Era un'idea meravigliosa, un'idea audace - totalmente in linea con la funzione di cappellano esercitata da Flattery, influenzata dal suo addestramento come psichiatra, e avente come scopo la protezione dell'intera razza umana.
«Pensate alla coscienza come a uno schema di comportamento», disse Flattery. «Che cosa ha contribuito allo sviluppo di questo schema? Se riandiamo...» La sua voce venne sommersa dal rumore assordante di un'avviso d'emergenza acustico. Tutti loro sentirono la nave sussultare e poi percepirono l'immediato stato di gravità zero quando l'interruttore di sicurezza isolò il sistema. Bickel si lanciò verso la parte anteriore del locale, afferrò un montante, compì una giravolta e con uno scatto delle gambe si precipitò fluttuando verso la sala comando. Attraversò il portello con lo stesso movimento fluido con cui l'aveva aperto, si sdraiò frettolosamente sul suo lettino. Lo fece chiudere a bozzolo, ed esaminò febbrilmente con lo sguardo i ripetitori. Tim e Flattery lo seguirono quasi immediatamente. Prudence stava eseguendo soltanto delle correzioni minime sulla console principale, mentre studiava i misuratori del consumo d'energia. Bickel si accorse che il computer stava assorbendo quasi l'ottanta per cento della sua capacità massima di carico. Iniziò a cercare dei corto circuiti. Udì i bozzoli richiudersi con uno scatto quando Flattery e Tim occuparono i loro posti. «Assorbimento eccessivo d'energia da parte del computer», disse Timberlake. «Emissione di radiazioni nella Stiva Quattro», annunciò Prudence con voce roca per la tensione. «Aumento costante di temperatura nelle paratie posteriori del secondo scafo... no, si sta stabilizzando». Lanciò un programma di controllo dell'integrità dello scafo, osservò le spie dei sensori. Bickel, osservando la console principale da sopra la spalla di Prudence, capì in fretta quanto lei cosa implicavano quelle luci lampeggianti. «Abbiamo perso una sezione dello schermo esterno». «E dello scafo», aggiunse lei. Bickel si appoggiò allo schienale del sedie, regolò i ripetitori per il monitoraggio dei sensori, iniziò un'analisi interno-esterno nell'area indicata. «Tu tieni d'occhio la console; io eseguirò i controlli necessari». Delle immagini lampeggiarono in fretta sul piccolo schermo in un angolo della sua console, mentre attivava sensori sempre più esterni. Quando fu arrivato ad aver controllato già metà dellaStiva Quattro, si ritrovò a fissare le tenebre trapunte di stelle dello spazio esterno. I sensori rivelarono della schiuma coagulante che, emessa da meccanismi automatici di sicurezza
dello scafo, iniziava a ricoprire un ampio foro ovale. Con la coda dell'occhio, Bickel vide Flattery eseguire una microricognizione intorno ai bordi della falla prodottasi nello scafo. «È come se lo scafo fosse stato tagliato con un coltello», disse. «Un taglio netto e regolare». «Un meteorite?» chiese Timberlake. Sollevò lo sguardo dal controllo che stava eseguendo sullo stato delle vasche d'ibernazione. «Non ci sono tracce di fusione ai bordi o di calore generato dall'attrito», disse Flattery. Tolse le mani dalla console, pensando all'isola nello Stretto di Puget - alla folle distruzione provocata nel territorio circostante. Una coscienza fuori controllo. Il processo è già iniziato? «Cosa avrebbe potuto provocare un foro simile nello schermo esterno e nello scafo, senza portarli ad una temperatura equivalente alla metà di quella del sole?» chiese Bickel. Nessuno rispose. Bickel osservò Flattery, notò l'aspetto pallido e scosso dell'uomo, pensò: Lui lo sa! «Raj, di cosa poteva trattarsi?» Flattery scosse la testa. Bickel consultò il timer ad impulsi laser facendolo apparire sul suo ripetitore, ricavò la posizione della nave, annotò lo scarto temporale per trasmettere un messaggio a Base Lunare, avvicinò il trasmettitore e lo preparò per una trasmissione in codice AET. «Cosa stai facendo?» chiese Flattery. «Questo faremmo meglio a riferirlo», disse Bickel. Iniziò a preparare il nastro del messaggio. «E se inserissimo di nuovo la gravità?» propose Timberlake. Guardò Prudence. «Il sistema non appare danneggiato, stando alle letture dei miei strumenti», rispose lei. «Farò un tentativo». Premette l'interruttore manuale. La gravità normale della nave, un quarto di quella terrestre, fu ristabilita. Timberlake sbloccò il suo lettino e scese sul ponte. «Dove vai?» chiese Prudence. «Vado all'esterno, a dare un'occhiata», rispose Timberlake. «Una qualche forza che taglia via una fetta del nostro scafo, senza provocare increspature o crepe? Non esiste nulla del genere. Devo controllare con i miei occhi». «Rimani dove sei», disse Bickel. «Potrebbe esserci del carico vagante, là
fuori... oppure qualunque altra cosa». Timberlake ripensò alla dolce Maida, schiacciata da una parte del carico. Deglutì a vuoto. «Cosa gli impedirà di tagliarci a metà, la prossima volta?» chiese Prudence. «Qual è la nostra velocità, Prue?» chiese Bickel. «C fratto uno cinque due sette. Valore costante». «Di qualsiasi... cosa si trattasse, ci ha fatto rallentare?» chiese Flattery. Prudence controllò le registrazioni precedenti della velocità. «No». Timberlake tirò un tremulo, profondo respiro. «Un fenomeno con impatto virtualmente nullo e dotato di una forza... virtualmente infinita?» Scosse la testa. «Non esiste alcun equivalente cinetico». Bickel fece scattare l'interruttore di trasmissione, attese il contatto, guardò Timberlake. «L'universo è iniziato con il "Big Bang" di Gamow oppure ci troviamo in un organismo che si espande continuamente, come sosteneva Hoyle? E se entrambi...» «È soltanto un gioco matematico», disse Prudence. «Oh, lo so: l'unione di una massa infinita e di una fonte finita può essere prodotta postulando una forza infinita ad impatto zero, ma si tratta soltanto di un gioco matematico, in cui bisogna annullare delle equazioni. Non prova nulla». «Questo dimostra la forza originaria della Genesi», osservò Flattery. «Oh Raj, ecco che ci riprovi», protestò Prudence. «Tenti ancora di distorcere la matematica per provare l'esistenza di Dio». «È stato Dio a darci uno scappellotto?» disse Timberlake. «È questo che intendi dire, Raj?» «In queste circostanze, mi aspettavo di più da voi, che il tenere un simile atteggiamento», replicò Flattery. Quando a Base Lunare riceveranno quel messaggio, capiranno che abbiamo raggiunto la fase di coscienza al di fuori di ogni controllo. Non può esserci altra risposta. «Stavi tentando di suggerire un'ipotesi, Bick», disse Timberlake. Bickel scrollò le spalle e osservò la lancetta del cronometro compiere lentamente il suo giro. E doveva farne ancora molti prima che potessero udire quel blip che avrebbe segnalato che il messaggio era giunto a Base Lunare. «Forse si tratta di qualche fenomeno di interfaccia che esiste qua fuori, nell'area trans-Saturnian?» disse Bickel. «Un effetto di campo, probabilmente, generato dalle onde di pressione provenienti dalla zona di convezione solare. L'universo contiene una gran quantità di moto oscillatorio.
Forse abbiamo urtato una combinazione sconosciuta». «È quello che hai suggerito a Base Lunare?» chiese Flattery. «Sì». «E se non si tratta di un gioco matematico?» chiese Timberlake. «Potremmo calcolare, con un programma adatto, una curva di probabilità che individui i limiti di questo ipotetico fenomeno?» Bickel tolse le mani dal dispositivo AET, riflettendo sulla domanda di Timberlake. Un programma del genere, a suo parere, richiedeva l'utilizzo di funzioni matrici. Era un qualcosa di simile alla loro ricerca del Fattore Coscienza tentare di individuare un sistema incredibilmente complesso in base a dati sparsi. Potevano affrontare un problema del genere soltanto ricorrendo ad una serie di equazioni lineari simultanee, e ciascuna di esse doveva definire degli iperpiani paralleli in uno spazio n-dimensionale. Dovremmo definire A attraverso gli scalari di un insieme di polinomi complessi con multivariabili ad ogni intersezione, pensò. Immaginò a mente i calcoli, visualizzando la somma degli elementi diagonali quando apparivano come coefficienti nelle equazioni simultanee. L'intero procedimento durò soltanto alcuni secondi, ma Bickel rimase in silenzio, assaporando quell'esperienza. Era una cosa nuova per lui. Aveva progettato un programma di simulazione nella sua mente, lo aveva controllato e aveva immagazzinato i risultati nella sua memoria. Era un compito che non si era mai ritenuto capace di eseguire. Da qualche parte - probabilmente nelle lunghe riunioni che si svolgevano a Base Lunare sul problema di creare una coscienza artificiale - aveva inconsciamente appreso un mucchio di matematica del livello più alto. E il bisogno adesso aveva innalzato la sua mente fino ad un punto in cui tutta quella conoscenza inconscia gli si era resa disponibile. Ma quella era soltanto una parte della sensazione che stava assaporando. Di colpo, si sentì forte, più alto di parecchi centimetri. Lo sforzo mentale compiuto lo aveva elevato ad uno stato di iperconsapevolezza - era rilassato, eppure all'erta, conscio dello stato vascomuscolare del suo corpo e del tono emotivo della sua mente. Quella sensazione iniziò a svanire. Bickel sentì la pressione esercitata su di lui dalla nave - il costante, irresistibile movimento di una massa enorme di materia che si allontanava dal sole. Bickel provò un senso di furiosa tristezza, mentre la sensazione svaniva. Pensò di aver sperimentato qualcosa di infinitamente prezioso, e che parte
di quella sensazione era conservata nella sua memoria. Era come se un filo sottile lo legasse a quell'esperienza, facendogli balenare la speranza di poterlo percorrere ancora una volta - ma le necessità della nave e di quelli che lo circondavano non gli avrebbero permesso di indulgere in quel tentativo. Improvvisamente comprese che, dentro di lui, portava un grosso peso che avrebbe potuto, in qualsiasi momento, tagliare quel prezioso filo che lo legava a ciò che aveva provato, e quel pensiero gli fece provare una fitta di paura. «Pensi che sia possibile realizzare un programma del genere?» lo pressò Timberlake. «Programmare non servirà a nulla!» rispose duramente lui. «Non possiamo limitare le variabili». Si voltò verso la console dell'AET e iniziò a digitare selvaggiamente il messaggio. Prudence fissò la console principale, chiedendosi la ragione dell'improvvisa rabbia di Bickel, e concentrandosi su quella questione per evitare di pensare a ciò che era successo alla nave. Ma non riuscì a distogliere la mente da quest'ultimo problema. Il danno era stato causato da qualcosa di esterno alla nave. C'era stato un sobbalzo che si era trasmesso all'intero Uovo di Latta, ma quello era successo dopo. Le spie d'allarme stavano già lampeggiando gialle e rosse. Il sobbalzo si era manifestato contemporaneamente con l'assorbimento d'energia da parte del computer e con l'attivazione automatica dei dispositivi di riparazione. Una forza infinita dotata di impatto zero. Qualcosa di esterno alla nave aveva tagliato di netto una parte dello scafo come un rasoio affilato che penetra nel burro. No - era stato infinitamente più tagliente. Qualcosa di esterno alla nave. Portò una mano al volto. Quel fattore indicava che non si trattava di uno dei pericoli previsti dai progettisti della nave. Avevano incontrato un fenomeno spaziale ignoto. Di colpo pensò ai mostri marini raffigurati sulle vecchie carte della Terra, ai draghi con dodici zampe e alle figure umanoidi con delle bocche piene di zanne nel petto. Riguadagnò una certa calma ricordando a se stessa che tutti quei mostri erano scomparsi davanti alla curiosità, simile a quella delle scimmie, dell'umanità. Tuttavia - qualcosa aveva colpito l'Uovo di Latta.
Eseguì un altro controllo visuale sulla sua console, notando che i meccanismi di sicurezza automatici avevano quasi completamente riempito la Stiva Quattro di schiuma coagulante. Le porte di sezione erano sigillate per due strati adiacenti all'area danneggiata. Qualunque cosa li avesse colpiti, aveva asportato soltanto un sottile fetta di scafo... per quella volta. Bickel alzò una mano verso l'interruttore del sistema di trasmissione, lo premette. L'atmosfera della sala comando si colmò del ronzio emesso dallo strumento mentre raggiungeva la potenza necessaria per inviare le sue raffiche multiple di pulsazioni laser attraverso lo spazio. Lo "snap" dell'avvenuto contatto di trasmissione, con il suo lieve odore d'ozono, giunse quasi come un anticlimax. «Non ci capiranno nulla, come noi», commentò Timberlake. «Su Base Lunare ci sono alcuni degli esperti più famosi in fisica delle particelle», disse Bickel. «Forse loro riusciranno a risolvere questo enigma». «Un fenomeno neutrinico?» chiese Timberlake. «Assurdo! Diranno che ci siamo sbagliati». «È ora che faccia il mio turno alla console principale», disse Flattery. «Prue?» Le parole di Flattery fecero di colpo capire a Prudence quanto fosse stanca. Le doleva la schiena e i muscoli degli avambracci le tremavano. Riusciva a ricordarsi di una sola occasione in cui si era sentita altrettanto stanca - dopo un'operazione chirurgica durata quasi cinque ore. Da molti punti di vista, stava chiedendo troppo al suo fisico - i lunghi turni alla console principale, il lavoro al computer, e gli esperimenti in cui usava il suo corpo come cavia. Ma il suo test con l'adrenocromo-THC si stava rivelando più difficile del previsto da effettuare. Il composto non riusciva a superare la barriera ematoencefalica per entrare in contatto con il tessuto nervoso... a meno che non avesse osato utilizzare una dose quasi fatale della sostanza. Non l'aveva ancora fatto, sebbene, d'altra parte, la ricompensa per il rischio che avrebbe corso apparisse allettante. Se soltanto fosse riuscita ad inibire le funzioni inferiori del cervello, per potenziare quelle superiori fino alla piena capacità, sarebbe riuscita a fornire a Bickel la giusta sequenza di procedure da duplicare in funzioni elettroniche. «Sei pronta ad effettuare il trasferimento della console?» chiese Flattery. «Dopo il conteggio», rispose lei.
La console arrivò a Flattery, che esaminò gli strumenti, cominciando ad adattare se stesso all'umore della nave. E l'Uovo di Latta ha davvero degli umori. Qualche volta aveva l'impressione che la nave, al suo interno, ospitasse dei fantasmi - quelli dei sedici uomini periti, a causa di infortuni sul lavoro, durante la sua costruzione sulla Luna, e quelli dei membri dell'equipaggio uccisi dai pericoli programmati della nave - oppure quelli degli NMO sacrificati in quel progetto. Quei cervelli privi di corpo possedevano un'anima? si chiese Flattery. Per quel che importa, se infondiamo la coscienza in questa macchina, la nostra creazione avrà un'anima? «I dispositivi automatici hanno terminato di sigillare la falla?» domandò Bickel. «Sì», rispose Flattery. E si chiese: Quando colpirà la prossima volta la coscienza in embrione che abbiamo creato? «Cosa conteneva la Stiva Quattro?» chiese Prudence. «Che cosa abbiamo perso?» «Del cibo concentrato», rispose Bickel. «È la prima cosa che ho controllato». Il tono della sua voce diceva: «Eri tu ai comandi; avresti dovuto essere tu ad eseguire il controllo». «Raj, vuoi che iniziamo ad eseguire in due i turni alla console?» chiese Timberlake. «Dopo che mi sarò riposato un po'...» «Dopo che avrai riposato, mi aiuterai con il Bue», disse Bickel. Flattery lanciò una rapida occhiata a Timberlake, chiedendosi come avrebbe reagito il tecnico a quel rabbuffo. Timberlake aveva gli occhi chiusi. La fatica era evidente sul suo viso pallido e gonfio. Appariva quasi addormentato... se non fosse stato per il suo respiro corto, ansante. «Vuoi ancora continuare?» chiese Prudence. «Non pensi che dovremmo attendere la risposta degli esperti di Hampstead?» «Di qualunque cosa si trattasse, ci ha colpito dall'esterno», ribatté Bickel. «Di conseguenza, abbiamo a che fare con un problema totalmente differente». «John ha ragione», disse Timberlake con voce rauca. Si schiarì la gola, sbloccò il suo sedile e si alzò. «Sono distrutto». «Abbiamo appena deciso», disse Prudence, «così...» e schioccò le dita, «di colpo... che puoi continuare a manomettere il computer come un selvaggio?» «Per amor di Dio!» esclamò Bickel. «Nessuno di voi ha ancora compre-
so che volevano che usassimo il computer come strumento base per risolvere il problema?» Bickel li fissò tutti quanti, uno per volta - Flattery impegnato alla console, Timberlake rizzato a sedere sul suo lettino e mezzo addormentato, Prudence che lo fissava irata dalla sua postazione. «Questo non è un normale computer. Possiede delle caratteristiche che noi non sospettiamo nemmeno. È stato in collegamento con un Nucleo Mentale Organico per quasi sei anni, durante la costruzione e la programmazione della nave. Possiede memorie di transito, cavi e connessioni di cui anche i suoi progettisti possono non sapere nulla!» «Stai dicendo che è già cosciente?» chiese Prudence. «No. Sto suggerendo che siamo andati molto avanti nell'utilizzare questo computer accoppiato con il nostro Bue, che simula l'attività dei lobi frontali del cervello. Abbiamo raggiunto dei risultati che Base Lunare non ha raggiunto in venti anni! E dovremmo continuare il nostro esperimento. Stiamo arrivando direttamente al cuore del...» «Non esistono percorsi diretti in natura», obiettò Flattery. Bickel sospirò. Cosa c'è adesso? si chiese. «Se hai qualcosa da dire, sputa il rospo». «La coscienza è un tipo di comportamento», affermò Flattery. «D'accordo». «Ma le radici del nostro comportamento affondano in un passato talmente remoto che non possiamo arrivarci direttamente». «Parli di nuovo delle emozioni, eh?» domandò Bickel. «No», replicò Flattery. «Istinto», disse Prudence. Flattery annuì. «Il tipo di imprinting genetico che dice al pulcino come rompere il guscio». «Emozioni o istinto, che differenza fa?» chiese Bickel. «Le emozioni sono prodotte dall'istinto. Stai di nuovo dicendo che non possiamo dotare il Bue di una vera coscienza, senza fornirgli degli istinti e delle emozioni?» «Sai bene cosa voglio dire», ribatté Flattery. «Deve provare affetto per noi», disse Bickel. Si morse il labbro superiore, intrigato ancora una volta dalla ragionevolezza di quel suggerimento. Flattery, ovviamente, aveva ragione. Ecco un tipo di sistema di sicurezza che avrebbe potuto controllare senza dover limitare. «Deve possedere un sistema autonomo di reazioni emotive», disse Flattery. «Il sistema deve corrispondere all'insieme delle reazioni fisiche di cui
il Bue è... consapevole - un qualcosa di simile alle reazioni muscolari tipiche degli esseri umani, oppure al tono della voce. Insomma, gli atteggiamenti con cui manifestiamo le nostre emozioni». Emozione, pensò Bickel. Ciò che caratterizza la nostra personalità, che comprende l'insieme dei nostri giudizi personali. Un processo di inglobamento che scaturisce da una sequenza ben definita. In quel pensiero erano contenuti i semi di un'opposizione radicale a qualunque concezione meccanicistica del tempo - l'emozione come processo, una maniera audace di considerare il tempo. «Non esiste alcunché di noi stessi su cui possiamo essere oggettivi» disse Bickel, «tranne le nostre reazioni fisiche. Ricordate? È quello che diceva sempre il Dottor Ellers». Flattery ripensò a Ellers, il capo del Dipartimento di Psicologia di BLU. «Bickel rappresenta la "determinazione", la forza che conferirà una direzione precisa alla vostra ricerca», aveva detto Ellers. «Avrete dei rimpiazzi, ovviamente. Possono accadere degli incidenti. Ma non c'è nessun altro che possegga una mente tanto acuta quanto quella di Bickel. Possiede una grande capacità di utilizzare le sue capacità per giungere a scoperte inaudite». E Bickel stava pensando: Emozione. Come possiamo trasformarla in simboli che possano essere inseriti in un programma di computer? Cosa fa il corpo? Noi ci viviamo dentro, in contatto diretto con qualsiasi cosa esso faccia. È la sola cosa su cui possiamo fornire un giudizio obiettivo. Cosa fa il corpo... «Deve possedere un corpo completamente interdipendente», affermò poi, comprendendo con un'unica intuizione sia il problema nella sua totalità, sia la sua soluzione. «Deve possedere un corpo che sia passato attraverso dei traumi e delle crisi». Fissò Flattery. «Anche il senso di colpa, Raj. Deve avere la possibilità di provare anche il senso di colpa». «Il senso di colpa?» ripeté Flattery, e si chiese perché quell'affermazione un po' lo irritasse, un po' lo spaventasse. Fece per obiettare, poi si accorse di un raspio ritmico. Sulle prime, pensò che si trattasse di un sistema d'allarme malfunzionante, poi comprese che si trattava di Timberlake. Il tecnico era nuovamente circondato dal bozzolo del suo lettino. Si era addormentato - e stava russando. «Esatto, proprio quello», confermò Bickel, scrutando con attenzione Flattery. «Come pensi di farlo?» chiese Prudence.
«Tradotto in concetti informatici», disse Bickel, «dobbiamo realizzare un programma in cui vengano istallate delle funzioni di trapping, dei sistemi d'allarmi interni - delle istruzioni che interrompano le operazioni del computer in base ai bisogni essenziali dell'intero sistema». «La colpa è un'emozione artificiale; non ha nulla a che fare con la coscienza», obiettò Flattery. «La paura e la colpa sono come madre e figlia. Non esiste la seconda, senza la prima». «Ma può esistere paura, senza che ci sia colpa», disse Flattery. «Davvero?» chiese Bickel. E pensò: È la sindrome di Caino e Abele. Da dove ha ricavato questo concetto la razza umana...? «...non così in fretta», disse Prudence. «Stai suggerendo di istallare un... di spaventare il tuo Bue?» «Sì». «Assolutamente no!» esclamò Flattery. Aveva in azione il dispositivo automatico di ginnastica del suo lettino, ma lo bloccò, e fissò Bickel. «La nostra creatura possiede già una memoria estesa e rapida», disse Bickel. «Ho provveduto a sistemarla - se escludete il problema delle allocazioni, il che non influisce in ogni caso sulle sue funzioni - e scommetto che questa macchina avrà un'area di memoria protetta che sarà pronta a fornire perfino delle illusioni, quando saranno necessarie per la sua autodifesa». «Ma la paura!» esclamò Flattery. «Quella è l'altro lato della tua moneta, Raj. Vuoi che provi dell'affetto per noi? Benissimo. L'affetto è un tipo di bisogno, eh? Voglio dotare il Bue di un bisogno di fonti di programmazione esterna - cioè noi, capisci. Lascerò nel Bue delle falle che soltanto noi saremo in grado di colmare. Avrà delle emozioni, e questo implica uno spettro completo di esse, Raj. Dovrà provare anche la paura». Colpa e paura, pensò Prudence. Raj dovrà affrontare la questione. Il suo addestramento non gli consentirà di schivarla. Osservò Bickel, notando il suo sguardo remoto. «Piacere e dolore», mormorò Bickel. Concentrò la sua attenzione in rapida successione su Prudence, su Timberlake che dormiva, su Flattery. Hanno intuito che il Bue dovrà essere anche capace di riprodursi? Prudence sentì che il battito del suo polso accelerava, distolse lo sguardo da Bickel. Portò una mano alla tempia, controllò la frequenza con cui pulsava, la collegò al suo respiro accelerato, alla temperatura del suo corpo, ai suoi bisogni, al livello di fatica e di consapevolezza. Gli esperimenti chi-
mici che stava eseguendo sul suo corpo l'avevano dotata di un'acuta percezione delle sue funzione corporee, e così capì che aveva bisogno di riequilibrare il proprio metabolismo. «Allora, Raj?» chiese Bickel. Devo calmarmi, si disse Flattery. Si rilassò sul lettino. Devo apparire calmo e normale. Continuò a mantenere il suo sguardo accuratamente lontano dal falso pannello sulla sua console. Sotto quel pannello erano in agguato morte e distruzione. Bickel stava diventando sempre più attento, anche ai minimi indizi. Flattery considerò il tranquillo color verde delle spie di controllo, il ticchettio dei relay dei grafici. Tutti i sistemi di bordo parevano funzionare alla perfezione. Eppure, nel suo intimo, Flattery era teso quanto un animale che ha percepito l'arrivo del cacciatore. Piacere e dolore. Si potrebbe fare, certo: l'orientamento graduale verso un obiettivo, poi negazione... interferenza... rimozione... frustrazione... minaccia di distruzione. «Torno dal Bue», disse Bickel. «Il modo per dotarlo di emozioni è chiarissimo, vero?» «Forse per te», disse Flattery. «Non possiamo smettere», disse Prudence, e sperò che Flattery comprendesse ciò che quell'affermazione implicava: Non c'è modo di fermare Bickel. «Continua pure», disse Flattery. «Costruisci i tuoi blocchi di simulatori di rete neurale. Ma pensiamoci bene, e a lungo, prima di collegare il tuo sistema alla totalità del computer». Guardò Bickel. «Hai ancora intenzione di effettuare il tuo esperimento scatola nera - scatola bianca?» Bickel si limitò a fissarlo. «Conosci il pericolo», disse Flattery. Bickel provò un senso di liberazione, mentre un blocco mentale, di cui non era mai stato cosciente, svaniva. La nave - i suoi organismi viventi, i suoi problemi - non erano che un insieme di marionette e di giocattoli per marionette. La soluzione gli era così chiara - prima l'aveva solamente sfiorata - così chiara. Riusciva a immaginare gli schemi di cui avrebbe avuto bisogno come una serie di diapositive che venissero proiettate sulla sua mente. Una costruzione tetradimensionale, ricordò a se stesso. Dobbiamo costruire una rete che abbia una comprensione profonda di linee-mondo complesse. Deve poter assorbire trasmissioni asincrone. Deve ricavare elementi discreti dalla tempesta d'impulsi che riceverà. La cosa importante
è la struttura - non il materiale. La cosa importante è la topologia. Ecco la chiave per risolvere del tutto il dannato problema! «Prue, dammi una mano», disse Bickel. Lanciò un'occhiata al cronometro accanto alla console principale, guardò Timberlake. Lasciamolo dormire; Prue potrebbe dimostrarsi altrettanto brava. Ha lavorato bene - i circuiti che ha realizzato indicano la precisione tipica di un chirurgo e fanno un uso il più razionale possibile di cavi e collegamenti. «Avremo bisogno di un'area d'accoppiamento primaria per ciascun gruppo di blocchi multipli», disse Bickel, guardando Prudence. «Tu eseguirai questo lavoro, mentre io finisco il sistema dei blocchi principali». Come se quelle parole si fossero accumulate nella sua mente ed avessero esercitato una pressione sempre crescente fino a farla giungere alla comprensione di esse, lei capì che cosa voleva fare Bickel. Avrebbe fornito un carico di dati continuo in un enorme collegamento rappresentato dal computer e dal Bue. Stava per proiettare all'interno del computer, come un film su uno schermo, una gigantesca congerie di impressioni, uno psicospazio quasi infinito. L'insieme delle connessioni necessarie si formò nella mente di Prudence in file parallele di numeri binari, poi incrociate tra loro, intersecantesi. E capì che avrebbe potuto riformulare il problema, sovrapporvi delle funzioni matrice, creando un insieme di problema-soluzione simile ad una scacchiera multidimensionale. Nel medesimo istante in cui aveva quella rivelazione, si rese conto che Bickel non avrebbe potuto formulare in quel modo il suo approccio, senza far uso della stessa leva matematica che aveva usato lei per svolgere i calcoli più difficili. «Hai usato delle matrici adiacenti», lo accusò. Lui annuì. I polinomi complessi e le multivariabili si erano disposti nella sua mente in base ai valori arbitrari che aveva attribuito alla "qualità sensoriale totale" che doveva possedere il Bue. Aveva intuito subito che stava sviluppando un nuovo tipo di matematica - un sistema di calcolo qualitativo con cui poteva stabilire il percorso degli impulsi nervosi e manipolare gli stessi all'interno degli psicospazi del computer e del Bue. Prudence aveva iniziato a capire, ma gli altri brancolavano ancora nel buio. Le possibilità aperte da quel nuovo tipo di calcolo erano strabilianti. Il suo utilizzo avrebbe permesso la costruzione di computer di concezione totalmente nuova, mille volte più piccoli e meno complessi di quelli attuali. Ma ancora più importante era la conoscenza che gli dava sui propri psi-
cospazi e sulla loro funzione nel processo d'astrazione - l'eccitazione, cioè, delle cellule nervose aggregate del suo corpo e il modo in cui essa veniva ridotta ad unità di valore riconoscibili. Pensare all'interno di quel quadro di riferimento teorico, capì Bickel, lo poneva su di una soglia. Una pressione qui, una certa applicazione d'energia là, e sapeva che sarebbe stato proiettato in uno stato di coscienza che non aveva mai sperimentato prima. Quella comprensione gli ispirava paura e stupore, e nello stesso tempo lo attirava. Si girò, attraversò la sala comando fino a raggiungere il portello che conduceva al locale del computer, poi si voltò di nuovo a guardare Flattery. «Raj», disse. «Noi non siamo coscienti». «Cosa, huh?» Era Timberlake che si era svegliato, e ora, strofinandosi gli occhi, fissava Bickel. «Noi non siamo svegli», disse quest'ultimo. «Noi non siamo svegli». Durante il turno di Flattery alla console principale, quelle parole lo perseguitarono. Timberlake aveva bofonchiato qualcosa come «Dannato buffone!» e poi era andato a finire il suo sonno negli alloggiamenti per l'equipaggio. Ma Flattery, dividendo la sua attenzione tra la console e lo schermo principale che mostrava il locale in cui stavano lavorando Bickel e Prudence, sentì che la nave assumeva una strana identità nella sua mente. Ebbe l'impressione che lui e gli altri fossero semplici cellule di un organismo più grande, e che le spie, i quadranti, i misuratori e i sensori, l'onnipresente sistema video - non fossero che i sensi, i nervi e gli organi di un organismo diverso da lui stesso. «Noi non siamo svegli». Continuiamo a non volerci pensare, rifletté. Udì la voce di Bickel che diceva a Prudence: «Ecco il tronco principale che dovrà occuparsi del feedback negativo. Segui il codice dei colori e collegalo in quel punto. Questo è lo smorzatore; dobbiamo fare attenzione a non introdurre cicli di risonanza nei percorsi nervosi casuali». E Prudence, che parlava più a se stessa che a qualcun altro: «Il cervello umano comprende circa quindici miliardi di neuroni. Ho calcolato che, sommando quelli del computer e dei blocchi che abbiamo costruito, questa... bestia ne possiederà più del doppio».
Le loro voci riecheggiarono nella mente di Bickel. Bickel: «Pensa ad una soglia. Diversi tipi di pressione la supereranno. Sono le pressioni implicate dall'entropia - o le pressioni esercitate dalla variabilità in continua espansione: chiamiamola vita. L'entropia da una parte, la vita dall'altra. Ciascuna oltrepassa la soglia ad un certo livello di pressione. E quando una delle due entra, attiva il Fattore Coscienza». Prudence: «Che è un fattore omeostatico oppure un filtro?» Bickel: «Entrambi». Flattery pensò allora alla nave nella sua totalità, la grande macchina che per continuare a funzionare richiedeva di un certo minimo d'organizzazione - di un processo d'ordinamento. Ciò implicava l'entropia, certamente, poiché il sistema della nave nella sua totalità tendeva a distribuire uniformemente le proprie energie. Fintanto che si consideri la nave, l'ordine è più naturale del Caos, pensò Flattery. Ma noi stiamo suonando la nave come se le sue parti fossero un'orchestra e Bickel il suo direttore. Bickel soltanto possiede la partitura per produrre la musica che vogliamo. La coscienza. Bickel: «Ti dico, Prudence, che la coscienza dev'essere qualcosa che fluisce controcorrente, rispetto al tempo in cui è inglobata». Prudence: «Non lo so. Quando una cellula nervosa si attiva, produce un impulso. L'impulso si divide e forma una struttura ad albero con un singolo tronco principale - situato nelle reti neurali, lo spazio d'ordinamento. Il tronco contiene l'impulso iniziale, ovviamente, e la trasmissione avviene in uno spazio tetradimensionale - che include il tempo». Bickel : «E la coscienza è come un battello che risale la corrente». Prudence: «Ma è davvero così? Devi introdurre il tempo nel tuo schema, certamente, ma l'impulso e la sua ramificazione sono simili ad un solido spinto nel tempo, come le venature di una foglia tetradimensionale». Bickel: «Pensa al sistema AET della nave - Analisi E Traduzione. Benissimo. Che cos'è? Il dispositivo riceve centinaia di duplicati dello stesso messaggio - tutti i duplicati sono stati compressi e trasmessi in un sola raffica... l'attivarsi di una singola cellula - e li rallenta, li paragona tra loro, elimina le ramificazioni erronee e fornisce la traduzione corretta del messaggio». Prudence: «Ma la coscienza non entra in gioco finché il messaggio non raggiunge colui al quale è indirizzato». Bickel: «Feedback negativo, Prue. Input trasformato in output. Se il si-
stema funziona male, l'operatore umano lo ripara, come si ripara una diga per controllare l'ammontare significativo del flusso d'acqua di un fiume». Prudence (sollevando lo sguardo dal tratto di fibra neuronica che stava inserendo in un micro-manipolatore): «La coscienza - un tipo di feedback negativo?» Bickel: «Hai mai pensato, Prue, al fatto che il feedback negativo è il più terrificante perfezionista esistente nell'universo? Non permetterà il fallimento. È progettato per mantenere il sistema operativo all'interno di certi limiti, non importa quali disturbi si manifestino e se siano di natura ignota». Prudence: «Ma... questi circuiti del Bue... hai deliberatamente introdotto degli errori che non sono...» Bickel: «Perché no? Tutte le idee convenzionali che abbiamo sul feedback implicano una certa uniformità dell'ambiente. Ma noi viviamo in un universo non uniforme, Prue. Non è totalmente prevedibile. E dobbiamo mantenere l'equilibrio... cambiando le regole ogni tanto». L'Ordine opposto al Caos, pensò Flattery, guardando lo schermo. Signore! Come sporgeva dalla parete quel mucchio angoloso che era il Bue! Oramai era cresciuto, trasformandosi in due sezioni principali, collegate da una selva di matasse di fibra pseudoneuroniche che le circondavano da ogni lato. Bickel era sdraiato sulla schiena, mentre lavorava sotto la parte inferiore del Bue. Gli avvolgimenti delle connessioni della sbarra collettrice pendevano fin quasi alle sue ginocchia. Noi non siamo svegli, pensò Flattery. Oh, Dio! Come sarebbe stato facile farlo adesso! Era da solo ai comandi, non era così? Uno dei pulsanti rossi era a portata di mano. Chi l'avrebbe mai saputo? La nave sarebbe esplosa... il problema eliminato. Che i bastardi di BLU ci provassero ancora... ma con qualcun altro. Ma quello era il vero problema: ci avrebbero provato ancora, sicuro, ma non con qualcun altro. La stessa miserabile sciarada - ancora e ancora e ancora! Guarda Prue, pensò. Ha smesso di prendere le sue droghe anti-S. Sta facendo esperimenti chimici sul suo corpo. Tra poco, farà le fusa a Bickel, volteggiandogli intorno. E lui la considera soltanto come un'esperta nell'uso del micro-manipolatore. Come una persona che svolge bene i suoi compiti! Noi non siamo svegli.
La coscienza stessa creava varietà, sviluppava linee alternative di comportamento. E la varietà produceva altre varietà. Il solo atto di suonare la loro musica particolare generava l'imprevedibile -produceva errori. Quando si interrompe la comunicazione? Bickel (sbuffando mentre usciva a fatica da sotto il Bue): «Un corpo capace di eseguire funzioni generali e un cervello specializzato, Prue - mettili insieme e cosa ottieni? Illusione. Ecco la memoria di transito: l'illusione. È lo strato protettivo che permette a due sistemi virtualmente incompatibili di coesistere». Prudence: «Dove hai messo la bobina di fibra neuronica R4DBd?» Bickel: «Seconda rastrelliera, alla sinistra del banco di lavoro. Considera, per esempio, l'illusione della posizione centrale». Prudence: «È il risultato della dipendenza totale di un neonato dall'ambiente che lo circonda. Un neonato è al centro dell'universo. Noi non perdiamo mai questo ricordo». Bickel: «Bè, le nostre impressioni sensoriali individuali sono come ciottoli lanciati in uno stagno quadridimensionale. La coscienza collega le onde create da questi ciottoli, e fornisce loro un'integrazione spaziale e temporale, in modo che possano venire interpretate. La coscienza deve ricavare un senso dagli avvenimenti». Integrazione spazio-temporale, pensò Flattery. Al momento, l'entità rappresentata dalla nave - il loro Uovo di Latta mancava di una determinata capacità di integrazione. Invece di essere controllata da una coscienza autosufficiente, la nave doveva accontentarsi di un sistema di feeedback inadeguato, rappresentato da quattro umani collegati in maniera molto labile con il suo «sistema nervoso». Quello era uno dei punti di vista da cui poteva essere considerata la situazione. Ma c'era un punto, nel futuro della nave, in cui l'entità dei danni avrebbe superato la possibilità dei quattro di porvi rimedio. Gli umani erano destinati al fallimento. Flattery provò una profonda amarezza nei confronti della società che aveva inviato quel fragile vascello spaziale nel nulla. Conosceva i motivi di quel gesto, ma la conoscenza non ha mai impedito a qualcuno di essere amareggiato. «Pensa alla società come ad un prodotto umano, un meccanismo di difesa estremamente sofisticato», gli avevano detto Hampstead e i suoi. «Le inibizioni sociali vengono trasmesse alle cellule stesse, mediante un pro-
cesso di selezione. E queste inibizioni diventano parte di un sistema di feedback autoregolante si nel sistema di governo della società. Una questione di notevole importanza è se gli esseri umani possono davvero uscire da questo schema autonomo che definiamo società. In effetti, bisogna impiegare metodi audaci per superarlo ed esplorare ciò che c'è oltre». E Flattery sapeva che quella legge era sintetizzata nella maniera seguente: «L'esperienza umana individuale non è il fattore dominante nello stabilire il comportamento. Lo è, invece, lo schema sociale iscritto nelle cellule». Flattery batté di proposito il pugno sul bordo del lettino elastoavvolgente per scuotersi da quella specie di sogno ad occhi aperti. Si concentrò sulla console e si accorse di dover eseguire le solite regolazioni della temperatura. I sistemi automatici non riuscivano a mantenere l'equilibrio. Bickel: «Fai attenzione a come sistemi quelle fibre nei circuiti di successione temporale del Bue, oppure confonderai il suo presente psicologico». Prudence: «Il suo cosa?» Bickel: «Il suo presente psicologico - il suo presente "particolare" - quello che tu sperimenti in ogni dato istante; quel breve intervallo che chiami adesso. Il Professor Ferrei - ti ricordi il vecchio Prof Ferrel-barilotto?» Prudence: «E chi riuscirebbe a dimenticare il genero di Hampstead?» Bickel: «Hai ragione, ma non era uno stupido. Una volta, eravamo al tracciatore satellitare - lui da una parte della parete sterile, e io dall'altra. E mi disse: "Guarda come si muove quella cosa!" Era una navetta proveniente dalla Terra. E poi continuò: "Sai con certezza che la sua posizione varia con una velocità infernale. Ma ti sembra di osservare tutte quelle variazioni in questo stesso momento - nel presente. Questo è il presente particolare, ragazzo. Non dimenticarlo mai". E io non l'ho fatto». Prudence: «Il... Bue sperimenterà davvero il passaggio del tempo?» Bickel: «Dovrà farlo. I nostri circuiti di successione temporale gli daranno modo di misurarlo internamente. Deve percepirlo come il proprio tempo. Altrimenti, il Bue non sarà che una macchina estremamente confusa». Prudence: «Il... subito». Bickel: «Se ci rifletti un istante sopra, ti renderai conto che non interpretiamo l'esperienza immediata del tempo. Assorbiamo, di volta in volta, grandi quantità di tempo. Ma il vero tempo dev'essere qualcosa di graduale e progressivo, una variazione regolare rispetto ad una qualche costante di misurazione».
Prudence: «E così carichiamo il tempo fisico del Bue e lo facciamo partire come un giocattolo meccanico - in una sola direzione». Bickel: «Le parti più remote del suo "falso presente" devono scomparire come fanno dentro di noi. Il passato dev'essere meno intenso di ciò che si profila sul suo orizzonte temporale. Il Bue ha bisogno di una "dissolvenza seriale" costante; altrimenti, non sarà in grado di distinguere tra istanti lontani nel tempo e istanti vicini». Flattery sollevò gli occhi verso lo schermo, vide Bickel collegare un oscilloscopio al Bue, eseguire un controllo. Entropia, pensò. Una sola direzione nel tempo. Proiettò un'immagine nella propria mente: dei getti d'acqua - uno definito entropia e l'altro quell'estremo coacervo di probabilità chiamato Vita. In equilibrio tra i due getti, come una palla su una fontana, danzava la coscienza. È così semplice, pensò. Ma com'è possibile riprodurre questo fenomeno... senza essere Dio? Bickel: «Aspetta! Non collegare quello strato, senza prima eseguire un test sui circuiti di bassa tensione». Prudence: «Tu e la tua dannata prudenza!» Bickel: «È la vita stessa ad essere prudente. Un errore in quei circuiti potrebbe rovinare tutto irrimediabilmente. Ricorda, questo Bue deve assorbire input complessi e filtrarli attraverso sistemi di integrazione sempre più semplici finché non trasformerà i risultati in simboli, sulla base dei quali dovrà agire. Pensa alla nostra capacità di percezione visiva. Quanti neuroni ricettori ci sono nella tua retina?» Prudence: «Circa centoventi milioni?» Bickel: «Ma quando il sistema arriva al livello dei ganglioni, questi quanti sono?» Prudence: «Soltanto un milioneduecentocinquantamila, circa». Bickel: «Comprendi quale riduzione è avvenuta? Il sistema assorbe miriadi di impressioni sensoriali e le combina fino a ricavarne un numero sempre inferiore di segnali discreti. Alla fine, otteniamo un dato sensoriale chiamato immagine. Ma noi interpretiamo quell'immagine dopo aver eseguito una gigantesca serie di comparazioni topologiche, tutte ricavate dall'esperienza precedentemente tradotta». Prudence: «E tu pensi che il nostro computer abbia sufficiente... esperienza per eseguire quel tipo di comparazione?» Bickel: «L'avrà, quando avremo finito di lavorare».
E Flattery pensò: Scatola nera - scatola bianca. Prudence: «Non è più probabile che finirai per sovraccaricare il computer, mandandolo in malora?» Bickel: «Per amor di Dio, donna! Tu personalmente ricevi costantemente ogni tipo di informazioni. Forse il tuo sistema non le filtra, non le ordina in sequenza e non valuta i dati che ne ricava?» Prudence: «Ma l'esistenza stessa dell'Uovo di Latta dipende dal computer. Se stiamo prendendo una cantonata...» Bickel: «Non c'è altro modo. Avresti dovuto capirlo nell'istante in cui ti sei resa conto che l'intera nave è una messinscena». Prudence (rabbiosamente): «Cosa vuoi dire? Perché dovrebbe essere così?» Bickel: «Perché il computer è l'unico luogo in cui la quantità di informazione necessaria alla creazione della coscienza può essere immagazzinata. Capisci, donna, non abbiamo il tempo di educare un neonato, partendo da zero». Prima che Prudence potesse replicare, risuonò l'allarme acustico che avvertiva dell'arrivo di un messaggio. Il sistema AET era stato isolato manualmente, per evitare che i suoi circuiti interferissero con il lavoro che si stava svolgendo nel locale per la manutenzione del computer. Il segnale fece entrare rapidamente in azione sia Bickel che Flattery. Bickel schiacciò un pulsante nel locale. Flattery premette l'interruttore principale dell'AET sulla console, rendendosi conto, con distacco, che il messaggio proveniente da Base Lunare sarebbe passato attraverso i circuiti del Bue prima che potessero ascoltarlo. Bickel osservò le spie dei ripetitori nel locale, notò i loro aghi scattare verso l'alto, per poi stabilizzarsi nuovamente su livelli normali. Si udì il caratteristico e acuto ronzio dell'AET, e anche Bickel, che era nel locale per la manutenzione, lo udì, poiché ormai il Bue era divenuto parte integrante dei circuiti del computer. Quel suono fece formicolare le braccia e i fianchi di Bickel. I misuratori indicarono la solita pausa iniziale dell'AET. Le raffiche multiple del messaggio stavano venendo filtrate, comparate tra loro, tradotte e inviate ai circuiti esterni dell'AET. Bickel lanciò un rapido sguardo allo schermo, e si accorse che Flattery aveva selezionato la riproduzione audio del messaggio. La voce di Morgan Hampstead iniziò a provenire dai vocoder: «Qui è Progetto che chiama là nave BLU Terrestre. Qui è Progetto che
chiama. Siamo impossibilitati a fornirvi l'esatta natura della forza che ha danneggiato la nave. Suggeriamo un errore di trasmissione oppure una raccolta insufficiente di dati. In una delle nostre analisi, viene suggerita la possibilità di uno scontro con un campo neutrinico del tipo teorico A-G. Perché non avete dato conferma di aver invertito la rotta come vi avevamo ordinato?» Bickel osservò i misuratori. Il messaggio era di un'estrema chiarezza e non conteneva alcun errore, ora che passava attraverso i circuiti del Bue. Poi si udì distintamente Hampstead che si schiariva la gola. Prudence provò una sensazione particolare nell'udire quel suono banale un uomo che si schiariva la gola. Quell'atto insignificante era stato trasmesso per milioni di miglia senza altro effetto che far capire loro che Hampstead aveva un po' di muco alla gola. Ancora una volta, la voce di Hampstead provenne dai vocoder: «BLU in questo momento è sottoposta a pesanti, ripeto pesanti pressioni politiche per quanto riguarda l'ordine di annullare la missione. Darete immediatamente conferma di aver ricevuto questa trasmissione. La nave rimarrà in orbita intorno a BLU, mentre si procederà alla vostra sistemazione, e a quella del carico». «Sistemazione - che parola orribile», commentò Prudence. Scrutò per un istante Bickel. Pareva che l'uomo, fino a quel momento, stesse prendendo con calma la notizia. Flattery sentì accelerare follemente il suo battito cardiaco mentre si chiedeva se le parole seguenti di Hampstead sarebbero state l'ordine in codice di "uccidere" la nave. Bickel fissò il vocoder con espressione accigliata. La voce di Hampstead era parsa così chiara, così fedele all'originale. Il sistema AET aveva reso perfino il rumore di Hampstead che si schiariva la gola, quando teoricamente avrebbe dovuto filtrarlo. Spostò la sua attenzione verso la bizzarra escrescenza del Bue, che sporgeva dalla parete del computer. Per la terza volta, udirono la voce di Hampstead : «Ci aspettiamo dalla vostra prossima trasmissione un'analisi più completa del danno che avete subito. La natura e l'estensione del danno sono d'importanza primaria. Date subito conferma di aver ricevuto questo messaggio. Progetto passa e chiude». Bickel, con voce calma, disse, «Prue, come ti sembrava la voce del Grande Papà?» «Preoccupata», rispose Lei. E si chiese come mai Bickel, che era condi-
zionato contro il ritorno, fosse tanto tranquillo. «Come faresti, Prue, se tu volessi trasmettere ad altri le emozioni di colui che pronuncia un messaggio?» chiese Bickel. Lei lo fissò, perplessa. «Spiegerei di che emozione si tratta, oppure l'imiterei col tono della voce. Perché?» «Si suppone che questo l'AET non possa farlo», disse Bickel. Sollevò lo sguardo, incrociando gli occhi di Flattery sullo schermo. «Non dare conferma di aver ricevuto la trasmissione, Raj». «Forse l'AET sta funzionando meglio che mai?» rispose Prudence. «No», le disse Bickel. «Sta funzionando come teoricamente non sarebbe capace di fare. Il messaggio, quando viene trasformato in impulsi laser, viene ridotto alle sue caratteristiche essenziali. Le modulazioni originali della voce sono contenute in esso, teoricamente, e spesso sono abbastanza forti da far riconoscere qualche manierismo tipico, ma le sfumature dovrebbero andar perse. Invece, quest'ultimo messaggio era una riproduzione incredibilmente fedele dell'originale». «I circuiti del Bue hanno reso più sensibile il sistema», disse lei. «Forse», replicò Bickel. «Hai rilevato tracce di attività neurale, durante il messaggio?» chiese Flattery. «Anche un pesce possiede un'attività neurale», rispose Bickel. «Ma dell'attività neurale non significa che il Bue sia dotato di coscienza». «Tuttavia, ha agito con la sensibilità tipica di un essere cosciente», disse Flattery. «Ha prodotto dei risultati nel modo in cui l'avrebbe fatto la coscienza». Bickel annuì. «Un alzarsi e abbassarsi selettivo di soglie», disse Flattery. «Controllo di soglia». Bickel annuì di nuovo. «Cosa significa?» chiese Prudence. «Questo aggeggio» - Bickel indicò il Bue - «ha appena dimostrato di possedere il controllo di soglia... nel modo in cui lo facciamo anche noi, quando riconosciamo qualcosa». La guardò. «Quando abbassi la tua soglia di ricezione, situi il messaggio nello spazio e nel tempo, e poi lo proietti su di un'"area di riconoscimento" che fa parte del tuo sistema di comparazione mentale. Il messaggio è una configurazione spazio-temporale sovrapposta ad un'area di riconoscimento. Quest'ultima è ampiamente capace di discriminare tra il "proprio così", che è la massima somiglianza, e un tipo di
"è pressappoco così", che potresti anche definire "è in qualche modo simile". Il controllo di soglia seleziona tra questi due tipi di comparazione». Con movimenti precisi e controllati, Bickel ritornò al circuito su cui stava lavorando, quando era stato interrotto dall'arrivo del messaggio di Base Lunare. Prese in mano un fascio di fibre e notando la sua etichetta, «Identità», lo inserì nel micro-manipolatore e lo collegò ad una presa multipla. Nella sala comando, Flattery allungò la sua mano sinistra, strinse il montante accanto al suo lettino finché le nocche non gli divennero bianche. Chi può dirmi dov'è la mia anima? pensò. Gli tornarono in mente le parole del 139° Salmo: «Ti adorerò; poiché io sono stato creato in maniera temibile e portentosa». Abbiamo tradito Dio, creando qualcosa di temibile e portentoso? si chiese. «Padre nostro che sei nei cieli», sussurrò. Ma ci sono anch'io, nei cieli, si disse. E sono proprio essi ad espormi al rischio della dannazione eterna! I rumori prodotti da Bickel e Prudence, mentre lavoravano nel locale per la manutenzione del computer, fungevano da sottofondo ai suoi pensieri. Fede e conoscenza, pensò. E sentì che adesso l'eterno scontro tra quei due concetti si svolgeva nel suo corpo - e che la conoscenza premeva contro i confini della fede. E percepì quanto fossero distruttive le emozioni che la sua fede era stata progettata per limitare. Potrei mettere fine a tutta questa situazione assurda, rifletté. Ma siamo tutti nella stessa barca, e la violenza tradisce la nostra umanità. «La religione e la psichiatria non sono che due rami dell'arte del guarire». Ricordava chiaramente quelle parole. Le aveva dette il professore del corso «Usi della Fede», che aveva frequentato durante il secondo anno del suo addestramento per ricoprire quel ruolo. «La religione e la psichiatria derivano dalla stesso bisogno». Guarisci te stesso, pensò. Gli spuntarono le lacrime agli occhi. Dov'erano la fede, la speranza e l'allegria - l'amore e la creatività, sentimenti che era stato condizionato ad impiegare con gioia? Flattery guardò, attraverso il velo di lacrime, sullo schermo Bickel e Prudence, completamente dimentichi di lui, intenti com'erano al completamento del loro progetto. Guarda come si toccano le loro mani, pensò Flattery. A quella vista, provò un senso di colpa e ricordò l'ammonizione che gli aveva dato Brooks: «Evita la dissimulazione; evita il bisogno di dissimula-
zione». «Che istante terribile è quello in cui per la prima volta dobbiamo nascondere qualcosa», mormorò. «Ti prego, Dio, ho forse dimenticato come pregare?» Flattery si disinteressò totalmente della console d'importanza vitale di fronte a lui, chiuse gli occhi e afferrò strettamente il montante. «Il Signore è il mio pastore», sussurrò. «Non avrò bisogno di altro». Ma quelle parole avevano perso il loro effetto su di lui. Qui, non ci sono acque calme... o verdi pascoli, ricordò a se stesso. Ma per lui non c'erano mai stati - e neppure per tutti gli altri nati dai serbatoi axolotl e cresciuti negli asili nido sterili di Base Lunare. Per loro, era esistita soltanto la valle dell'ombra e della morte. «NON OLTREPASSARE QUESTO PORTELLO SENZA AVER PRESO LETTURA DELLA PRESSIONE ATMOSFERICA NEL CORRIDOIO SUCCESSIVO». Ogni giorno, per undici anni, mentre si recava ai corsi, era passato attraverso il portello dotato di quell'avvertimento. «VIETATO OLTREPASSARE QUESTO PUNTO SENZA INDOSSARE UNA TUTA SPAZIALE COMPLETA». Quel segnale onnipresente aveva delimitato i confini in cui potevano muoversi liberamente. E lo faceva ancora. La tuta era un altro inibitore sociale che limitava il loro comportamento. Diminuiva la vostra possibilità di contatto con gli altri esseri umani, vi riduceva a segnali in codice e a dispositivi video spersonalizzanti, su cui ogni persona era simile ad un burattino danzante su di uno schermo grande quanto quello di un oscilloscopio. Il nemico onnipresente era l'esterno - quell'assenza totale di elementi che sostenessero la vita, quel vuoto chiamato spazio. Era maligno e loro l'avevano temuto - costantemente. Una maniglia d'appiglio oppure una sbarra a cui aggrapparsi potevano confortarvi quando l'osservavate, ma quello che sognavate davvero era dell'aria depurata e un cubicolo sicuro e simile al grembo materno, in cui potevate togliervi quella dannata tuta. Quella era l'unica fonte di conforto, e non importava se fosse provenuta dal diavolo in persona. Il solo cibo su cui potevate contare in presenza di quel nemico era un tubetto preso da una rastrelliera. I capelli grassi potevano sporcare la visiera del casco. Di conseguenza, dovevate sempre portarli cortissimi ed usare dei detergenti per eliminare gli olii naturali del vostro corpo.
Bontà e misericordia? Erano rappresentate da qualunque cosa contribuisse a preservare la speranza che voi poteste, un giorno, camminare sotto un cielo aperto, privi di tuta. Ho perso la mia fede, pensò Flattery. Dio, perché mi hai privato della mia fede? «Beati i puri di cuore; poiché essi conosceranno Dio», mormorò. Eri uno stupido, Matteo, pensò amaramente. Una prostituta non può riguadagnare la sua verginità. «L'intero universo è una questione di chimica e meccanica, di materia e d'energia», sussurrò. Ma si supponeva che soltanto Dio potesse manipolare a suo piacimento la materia e l'energia. Noi non siamo dei, pensò Flattery. Stiamo commettendo un atto blasfemo, tentando di costruire una macchina che pensi a se stessa tramite se stessa. Ecco perché mi è stato affidato il compito di sorvegliare lo svolgimento di questa missione. È blasfemo tentare di infondere l'anima in una macchina. Dovrei scendere laggiù e distruggere quella dannata cosa!... «Raj!» Era la voce di Bickel, che rimbombava dal sistema di comunicazione interno della nave. Flattery sollevò lo sguardo sullo schermo, con la bocca di colpo divenuta arida. «Rilevo dell'attività indipendente negli avvolgimenti fotosensori dei circuiti di registrazione dati e storaggio del computer!» esclamò Bickel. «Prue, controlla l'assorbimento d'energia attuale». «Normale», gli comunicò lei. «Non c'è alcun corto circuito». «Non... non è cosciente», disse Flattery, con voce fiacca. «Sono d'accordo», affermò Bickel. «Ma allora cosa diavolo sta succedendo? Il computer sta programmando se stesso, almeno secondo...» Ci fu un istante di silenzio carico di tensione, poi Bickel esclamò: «Dannazione!» «Cosa è successo?» chiese Prudence. «Si è fermato», disse Bickel. «Che cosa... l'ha fatto iniziare?» chiese Flattery. «Ho collegato un blocco inibitore ad un simulatore di rete neurale e poi ho inviato un test di ricerca. Evidentemente, il test ha provocato uno schema di risonanza che ha iniziato a cercare all'interno del Bue e della rete del computer attraverso i collegamenti di monitoraggio. È stato allora che ho
iniziato a rilevare la reazione di auto-programmazione». Prudence seguì con il dito un grosso cavo di connessione che scendeva dal Bue. «Il collegamento di monitoraggio entra nel sistema di registrazione dati soltanto tramite questo cavo». Bickel staccò il cavo che lei gli aveva indicato. «Cosa stai facendo?» chiese Prudence. «Disinserisco il sistema. Prima di continuare, voglio estrarre dalla memoria del computer lo schema del test per poi analizzarlo». Silenzio. Flattery fissò lo schermo, provando una sensazione d'orrore. Se lo distruggo adesso, si chiese, ucciderò... qualcuno? Il normale attivarsi di alcuni sensori fece lampeggiare le spie luminose disseminate lungo la parete del computer. Le luci, cambiando colore, provocarono un bizzarro mutamento nell'illuminazione del locale per la manutenzione del computer. La paratia curva di fronte al computer si accese di riflessi gialli, poi verdi, poi malva... infine rossi. Quei riflessi coprirono anche un foglio nella mano di Timberlake, mentre lo leggeva e paragonava i valori che vi erano riportati con quelli che gli comunicava il computer. Lo schermo in alto mostrava Prudence, che era a metà del suo turno alla console, e Flattery, che invece dormiva sul suo lettino elastoavvolgente. Strano che non sia andato a riposare nel suo cubicolo, pensò Timberlake. Bickel emerse da sotto il Bue proprio mentre una cascata di luce verde si riversava su di lui dalla parete. «Le ultime letture si scostano di .008 dai valori di riferimento», gli comunicò Timberlake. «Una deviazione insignificante», disse Bickel. «Forme d'onda?» Timberlake annuì in direzione dell'oscilloscopio, provando una fitta al collo. Era stanco e si sentiva i muscoli irrigiditi. Bickel aveva continuato a spronarli, facendoli lavorare per tre turni filati. Timberlake si strofinò il collo. Bickel si voltò verso di lui, dopo aver terminato di controllare l'oscilloscopio. «Ricordi quando ti ho detto di ricordarmi di tutte le oscillazioni che implica la vita? Ritmi, vibrazioni - una grande serie di colpi di tamburo». «Sì», rispose Timberlake. «Allora sei pronto per il collegamento totale
con il computer?» Bickel fissò le luci lampeggianti, improvvisamente riluttante ad agire adesso che era giunto il momento del test finale. Conosceva la ragione della sua riluttanza - ciò che aveva fatto in segreto, e la paura delle conseguenze che avrebbe potuto provocare. Un altro test... e poi... cosa? Scatola nera - scatola bianca. «Pensi che non funzionerà?» chiese Timberlake. Provava un senso d'impazienza nei confronti dell'esitazione di Bickel ma capiva che non potevano procedere frettolosamente. «Il sistema nervoso umano - incluso il cervello, che abbiamo presunto sia la sede della coscienza - ha superato un dannato mucchio di prove», disse Bickel. «E ques'affare...», Timberlake annuì in direzione del Bue, «...è un analogo semplificato, in base ad un ragionamento logico, del cervello umano». «La semplicità logica serve a poco di fronte a questo problema. D'accordo, stiamo costruendo qualcosa, ma non con le vecchie regole che servono a progettare ponti». Sta esitando, pensò Timberlake. Perché? «Allora, cosa stiamo facendo?» «Non ci vuole molto, qualche volta soltanto una parola per mandare all'aria la logica», rispose Bickel. «Il cervello doveva soddisfare alcune condizioni che non hanno nulla a che fare con la semplicità di progettazione. Per esempio, doveva sopravvivere mentre si sviluppava. Le sue dimensioni e la sua forma sono in relazione con questa necessità. Doveva adattare la struttura esistente a nuove funzioni». Bickel incrociò lo sguardo di Timberlake. «Il cervello umano è un ovvio compromesso tra struttura e funzione. Ciò comporta alcuni vantaggi, ma anche alcuni punti deboli». «E allora?» chiese Timberlake e scrollò le spalle. «Adesso cosa manda all'aria la tua logica?» «Raj parla di psicospazi e di psicorelazioni. Quella dannata serie di impulsi nervosi che provocano sia lo stimolo che la risposta e che si diffondono all'interno del sistema nervoso per creare nuovi tipi di spazio. Non appena si inizi a pensare alla topologia degli psicospazi, si capisce che è assolutamente possibile che il nostro universo normale venga distorto e mutato da un numero infinito di psicospazi». «Davvero?» Timberlake lo fissò, meravigliandosi della paura che perce-
pì nella voce di Bickel. «Appare chiaro», continuò Bickel, «che può esistere un numero infinito di tipi di coscienza. Ogni volta che sono sul punto di attivare totalmente quell'aggeggio, inizio a chiedermi che tipo di coscienza possiederà, quale spazio occuperà». «Raj e le sue dannate storie dell'orrore», commentò Timberlake. Bickel continuò a fissare la struttura del Bue, chiedendosi se aveva fatto la cosa giusta ad agire in segreto. Per raggiungere un livello in cui avrebbe potuto accettare il trasferimento di coscienza dalla scatola nera, l'insieme Bue-computer doveva superare delle barriere. Bickel questo lo sapeva. Doveva esercitare i suoi muscoli mentali. E il senso di colpa era una barriera. Inserendo nel computer un programma lacunoso, e fornendogli dei dati incompleti, lo aveva informato dell'esistenza della morte. Il comando operativo che aveva dato al computer era di colmare le lacune. Ora, inserendo anche l'allocazione di un programma che provvedeva a mantenere in vita un embrione di mucca nelle vasche di ibernazione destinate alla conservazione del materiale genetico degli animali domestici, Bickel aveva fornito al computer un modo molto facile per colmare le lacune presenti nelle sue informazioni. Poteva uccidere l'embrione. Ho dovuto farlo di nascosto, si disse Bickel. Non ho potuto coinvolgere Timberlake - non con il condizionamento che ha subito. E chiunque altro avrebbe potuto dirglielo. «Pensi che stiamo trascurando qualche errore presente nel sistema?» chiese Timberlake. «Cosa ti preoccupa? Il fatto che hai visto quella ricerca casuale fermarsi spontaneamente?» «No». Bickel scosse la testa. «Quel programma di ricerca è incappata in un'irregolarità, in una soglia che non poteva superare». «Allora, cosa ti fa esitare, per l'amor di Dio?» Bickel inghiottì a vuoto. Sentiva che faceva sempre più fatica a ragionare con chiarezza, quando ciò riguardava dotare il Bue della coscienza. Era come se stesse nuotando controcorrente. Con che tipo di specchio può la coscienza osservare se stessa? si chiese. Come può il Bue dire: «Questo sono io?» Cosa vedrà? «I sistemi nervosi umani hanno lo stesso tipo di irregolarità e di imperfezioni», ribatté Timberlake. «Le loro proprietà variano statisticamente». Bickel annuì, d'accordo con quello che aveva detto Timberlake. Sapeva
che l'altro aveva ragione. Era quello il motivo per cui aveva introdotto degli errori casuali nel Bue - imperfezione statistica. «Ti preoccupi della possibilità di regolare gli impulsi?» chiese Timberlake. Bickel scosse la testa. «No». Poggiò il palmo della mano su di blocco neuronico che sporgeva dal Bue. «Abbiamo un sistema omeostatico, la cui funzione principale è quella di occuparsi degli errori - della realtà negativa. La coscienza scruta sempre a fondo ciò che ci sta di fronte, riflettendo verso di noi l'essenza stessa degli oggetti, al di là delle apparenze». «Ma hai detto di aver lasciato delle lacune nelle informazioni del Bue, in modo che avrà bisogno di noi», incalzò Timberlake. «Hai fatto tante storie sul fattore di regolazione di soglia». Bickel lo guardò, pensando: Soglia? Sì, era una parte del problema. Le cellule cerebrali e i neuroni periferici di un essere umano erano collegati in modo che le differenze svanissero. Si otteneva l'effetto di un passaggio graduale. Soltanto l'effetto, però. Mera illusione. «Stiamo trascurando qualcosa», mormorò Bickel. Timberlake si chiese il motivo della paura che aveva percepito nella voce di Bickel, il perché l'altro passeggiasse avanti e indietro come un animale in gabbia. «Se questa creatura inizia ad agire in maniera autonoma, non avremo alcun controllo su di essa», affermò Bickel. «Raj ha ragione». «Raj e le sue storie su Golem e fantasmi?» commentò beffardo Timberlake. «No». Bickel parlò con voce tremendamente seria. «Questa creatura possiede nuovi tipi di ricordi, ed essi hanno soltanto una vaghissima somiglianza con i ricordi umani. E i ricordi, Tim - le reti neurali ordinate negli psicospazi - rappresentano lo schema che crea il comportamento. Che cosa farà il Bue, quando lo attiveremo... se non gli forniremo delle esperienze dello stesso tipo di quelle a cui è sopravvissuta la razza umana?» «Tu non sai con certezza quali siano i traumi razziali ed è qui che sbagli». La voce era quella di Flattery, e loro alzarono lo sguardo verso lo schermo e lo videro ancora circondato a metà dal bozzolo del suo lettino elastoavvolgente, mentre si stropicciava gli occhi per scacciare il sonno. Dietro di lui Prudence continuava a sorvegliare la console principale come se fosse l'unica cosa che la preoccupasse. Bickel represse un sentimento di irritazione nei confronti di Flattery.
«Sei tu lo psichiatra. Non si presume che la conoscenza dei traumi sia uno degli strumenti del tuo lavoro?» «Ma tu ti riferisci ai traumi razziali», replicò Flattery. «In questo campo, purtroppo, possiamo soltanto tirare ad indovinare». Flattery fissò Bickel dallo schermo, pensando: John ha paura. Per quale motivo? Forse perché il Bue ha iniziato improvvisamente ad agire di propria volontà? «Dobbiamo portare alla coscienza questa macchina», affermò Bickel, fissando il Bue. «Ma non possiamo essere sicuri di cosa sia. È l'alieno totale. Non può essere come uno di noi. E se è diverso... eppure vivo e cosciente di esserlo...» «E così inizi a rimuginare nella tua mente sulla maniera di renderlo più simile a noi», disse Flattery. Bickel annuì. «E tu pensi che siamo i prodotti dei nostri traumi razziali e personali?» chiese Flattery. «Non pensi che la coscienza sia l'effetto apparente di un ricettore?» «Dannazione, Raj!» esclamò bruscamente Bickel. «Siamo ad un passo dal risolvere il problema! Non riesci a capirlo?» «Ma ti chiedi», continuò Flattery, «se stiamo creando una creatura che sarà invulnerabile... o almeno invulnerabile per noi?» Bickel deglutì a vuoto. «Tu pensi», continuò in fretta Flattery, «che questo animale che stiamo creando non sia dotato di una funzione sessuale; non è possibile che sia come noi. Non possiede la carne; non è possibile che sappia ciò che essa teme o ama. Ora, mi chiedi: Come facciamo a simulare la carne e il sesso e le sofferenze attraverso cui è passata l'intera razza umana? La risposta è ovvia: non possiamo farlo. Non conosciamo tutti i nostri istinti. Non possiamo eliminare le ombre e le illusioni dalla nostra storia». «Ma almeno possiamo eliminarne alcune», insisté Bickel. «Abbiamo un istinto che ci spinge a... vincere... a sopravvivere..?» Si umettò le labbra e guardò la parete del computer. «Forse si tratta soltanto di superbia», disse Flattery. «Forse questa è soltanto curiosità scimmiescae noi non saremo soddisfatti finché non avremo creato qualcosa nella maniera in cui crea Dio. Ma allora potrebbe essere troppo tardi per tornare indietro». Come se non lo avesse neppure sentito, Bickel disse, «E poi c'è l'istinto omicida. Quello che ci fa scatenare quando si tratta di uccidere o di essere
uccisi. Puoi intuirne la manifestazione contraria nel nostro istinto di giocare sul sicuro... di "essere pratici"». Ha fatto qualcosa di nascosto, pensò Flattery. Ma cosa? Ha fatto qualcosa di cui ha paura. «E i sensi di colpa si innestano direttamente su questo istinto omicida», disse Bickel. «Ecco il nostro sistema di sicurezza... il modo in cui riusciamo a controllare questo istinto. Se impiantiamo...» «La colpa implica il peccato», disse Flattery. «Dove trovi, sia nella religione che nella psicologia, il bisogno del peccato?» «Istinto è soltanto una parola», disse Bickel. «E siamo molto lontani dal conoscerne l'origine. Che cos'è? Possiamo allevare cinquanta generazioni di polli, dagli embrioni ai pulcini, in provetta. Non vedono mai un guscio ma la cinquantunesima generazione allevata normalmente da una chioccia sa ancora come uscire dal guscio». «Imprint genetico», disse Flattery. «Si». Bickel annuì. «Qualcosa che è stato impresso in noi profondamente. Oh li conosciamo. Conosciamo questi istinti senza neppure avere bisogno di esaminarli alla luce della nostra coscienza. Sono ciò che diminuisce la nostra consapevolezza, che ci rende furiosi, violenti, passionali...» Annuì ancora una volta. Che cosa ha fatto? si chiese Flattery. È spaventato proprio per questo. Devo scoprirlo! «La sindrome di Caino e Abele», disse Bickel. «Assassinio e colpa. È da qualche parte dentro di noi... profondamente impressa. Le cellule ricordano». «Non ti rendi minimamente conto di quel che stai dicendo», accusò Flattery. «Stai formando delle coppie di elementi negativi e positivi, confondondendo i giudizi morali con il ragionamento, invertendo il corso normale del...» «Inversione!» esclamò Bickel. «Ecco quello a cui stavo tentando di pensare - inversione. La possibilità di trasformare il piacere in dolore e il dolore in piacere... questa è una caratteristica della coscienza che non abbiamo...» «È follia», commentò Flattery. «La possibilità di essere sani di mente implica anche quella di impazzire», replicò Bickel. «L'hai detto tu stesso!» Flattery lo fissò, chiaramente preso in contropiede da quell'obiezione... e improvvisamente ebbe l'atroce sospetto di quel che Bickel aveva potuto fa-
re. «Capisci», disse Timberlake con voce calma e piena di ragionevolezza, «se un istinto è qualcosa a cui l'intero sistema fa riferimento in un momento di stress, allora è simile ad una funzione di trapping del computer azionata da uno dei programmi supervisori». «Qui, e da molto, non stiamo più discutendo di semplice informatica», replicò Flattery. «Torniamo al punto da cui abbiamo iniziato», si dichiarò d'accordo Bickel. «Possiamo duplicare delle sinapsi, usando dei transistor a giunzione singola; possiamo controllare la percentuale di conduzione e i periodi di rifrazione assoluta scegliendo le fibre pseudoneuroniche adatte, riempire a volontà le nostre reti neurali con terminazioni sinaptiche di moltiplicazione o di inibizione... ma, alla fine, arriviamo sempre alla stessa questione...» «Come controllare ciò che non deve essere sottoposto ad alcun controllo. Te l'ho già detto. Con l'affetto». «Ma così non lo controlli», dichiarò Bickel. «Ti limiti a fornirgli un obiettivo... e il mezzo con cui puoi far questo devono essere per forza gli istinti. Come dici tu, Raj, deve amarci, deve essere fedele nei nostri confronti. Ma questo significa che ci adorerà? Diventeremo i suoi dei? E se deve essere fedele, questo significa che deve possedere una coscienza? Può esistere la fedeltà, senza la coscienza? E può avere una coscienza senza aver sperimentato il senso di colpa?» «La colpa è una prigione!», protestò Flattery. «Non puoi imprigionarvi una creatura libera...» «Chi dice che deve essere libera?» domandò Bickel. «Ti stai contraddicendo! Ecco il dannato problema: come facciamo a controllarla? E andando al cuore del problema: io sono libero? Tu lo sei?» Flattery lo fissò con uno sguardo rabbioso. «Non siamo che dei mucchietti di protoplasma dominati dagli istinti e dalla coscienza», disse Bickel. «Quali istinti?» chiese Flattery. «Mi sembri un dannato disco incantato?» esclamò bruscamente Bickel. «Quali istinti? Non puoi tracciare una loro mappa! Be', per esempio, abbiamo un istinto che ci spinge ad uccidere - e a mangiare. Non ci importa assolutamente nulla da dove ricaviamo la nostra energia - anche laggiù, nella nostra psiche è lo stesso». «Se soltanto fosse tutto così semplice», disse Flattery. «Quando scendi negli strati inferiori della nostra coscienza lo è», replicò
Bickel. «Non ho bisogno di una laurea in psicologia per sapere cosa farei se la mia patina di razionalità mi venisse strappata». «Ritorneresti allo stato selvaggio, eh? Allo stato animale?» «Per scoprire come funziona il sistema, puoi scommetterci il culo che lo farei! Che cosa diavolo avete studiato voi strizzacervelli per tutti questi anni, con i vostri sogni, i vostri complessi e il vostro Cristo? Non avete fatto altro che intrappolare voi stessi in un balletto elaborato e senza fine, con dei passi prefissati... Cristo! Mi ricordate un branco di damerini che eseguono un minuetto!» «Abbiamo impiegato reverenza e cautela per avvicinare l'elemento divino presente negli esseri umani», ribatté Flattery. «Non si può tuffare nella psiche umana uno sbattitore e poi agitarlo, facendo venire alla luce tutti i...» «È certo come l'inferno che lo fate!» Si fissarono infuriati. Bickel portato quasi alla disperazione dalla sua incertezza, e Flattery ormai certo di quel che aveva sospettato in precedenza. Ha dato al Bue la capacità di uccidere, pensò quest'ultimo. Le sue affermazioni e la sua rabbia lo rivelano. Ma di uccidere cosa? Certamente, non uno di noi. Uno dei coloni? No. Uno degli animali ibernati! Prima, immergerà soltanto il piede nel mare in tempesta della violenza, per vedere se il Bue è capace di uccidere. Ma non può aver già eseguito il trasferimento scatola nera - scatola bianca. Pradence, dividendo la sua attenzione tra la console e lo scontro di volontà tra Bickel e Flattery, si sentì scivolare sempre più in uno stato di acuita consapevolezza. Percepì le infinitesimali variazioni della temperatura in sala comando, udì il costante fruscio metallico del ponte e delle paratie che la circondavano, riconobbe il sospetto crescente di Flattery e il disperato atteggiamento di difesa di Bickel, fu consapevole del ritmo del proprio battito cardiaco e delle impercettibili variazioni del metabolismo del suo corpo. Ed era proprio quello che l'affascinò: il pen siero che attraverso quel sottile equilibrio di materia organica e inorganica che lei chiamava corpo, dei messaggi di cui era a malapena conscia (ammesso che lo fosse davvero) venivano trasmessi, generando delle reazioni. Il computer, con la sua banca dati ricavati da milioni di menti, le aveva offerto la maniera di esplorare la questione sollevata da Bickel, e lei non aveva saputo resistere.
Dove nascono gli istinti e come vengono tramessi? Mentre infuriava la discussione tra Bickel e Flattery, aveva tradotto quella domanda su di un nastro perforato e l'aveva inserito nella sezione della console collegata al computer, poi aveva dato l'ordine a quest'ultimo di considerare il problema. Sapeva che la questione della coscienza andava oltre la sua base chimica, e che bisognava addentrarsi in un campo di ricerca in cui anche la conoscenza della composizione delle proteine stesse serviva a poco. Ma se il computer le avesse fornito una risposta che potesse venir tradotta in una funzione fisiologica, era sicura che avrebbe potuto andare in cerca della soluzione, sperimentando sul proprio corpo. «Bickel, cos'hai fatto?» chiese Flattery. Prudence sollevò lo sguardo dalla console, vide Flattery, con le spalle tese come se fosse sul punto di spiccare un salto, che fissava lo schermo. Quest'ultimo mostrava Bickel e Timberlake di spalle, mentre guardavano il computer e l'ammasso spigoloso e bizzarro del Bue. Il ronzio del computer adesso si udiva sia nel locale per la manutenzione che in sala comando. Le spie e i sensori sulla console lampeggiavano con una frequenza estremamente rapida. Prudence si coprì la bocca con il palmo della mano sinistra, quando la comprensione di ciò che avevano fatto Bickel e Timberlake la colpì, terrorizzandola: Ora l'intero computer è collegato al Bue! «Cos'hai fatto, Bickel?» ripeté Flattery. «Nulla!» rispose l'altro senza voltarsi. Timberlake disse: «Non dovremmo...» «Lascialo stare!» esclamò duramente Bickel. A voce bassa, Prudence disse, «L'ho fatto. Ho sottoposto una domanda al computer». «Quale domanda?» domandò Bickel. Indicò un grosso misuratore sopra la sua testa. «Osservate l'attuale assorbimento d'energia! Non ho mai visto nulla del genere». «Ho tracciato sessantotto combinazioni sequenziali biochimiche di quarto grado. Ho programmato il computer per fungere da comparatore di isomeri ottici, nel tentativo di comprendere dove e come i nostri istinti vengono impressi su di noi». «La domanda è arrivata nei banchi di monitoraggio», annunciò Bickel, annuendo verso nuove luci che ammiccavano sulla parete. «Stiamo rilevando un aumento delle funzioni multitraccia...»
«Come un uomo che si concentri su di un problema difficile», commentò Timberlake. Bickel annuì. Il dispositivo di ricezione d'output accanto a Prudence iniziò a frusciare mentre del nastro usciva rapidamente dalla sua estremità. Bickel si girò di scatto. «Cosa ti sta inviando?» Prudence studiò il dispositivo di ricezione, sforzandosi di restare calma. «Una risposta piramidale. Avevo chiesto che mi indicasse soltanto le quattro combinazioni più probabili. Ma è già arrivato al decimo grado! Si tratta degli acidi nucleici, benissimo... più le informazioni enetiche. Ma sta anche indicando tutte le informazioni inutili... i pesi molecolari e...» «Sta dialogando con te», disse Bickel. «Vuole sapere la tua opinione. Inserisciti nel sistema ed elimina tutte le informazioni che non servono, non appena le trovi». Prudence esaminò ancora una volta il nastro, trovò le sequenze inutili. Catalisi dell'idrogeno... ovviamente no. Troppe possibilità di contaminazione. Ripulì il nastro e lo inserì di nuovo nel computer. Il dispositivo di ricezione output smise di emettere nastro, ma l'ammiccare di luci sul computer divenne frenetico. Il misuratore d'assorbimento d'energia rilevò un nuovo aumento, questa volta oscillante. «Stai inserendo un ciclo di risonanza nel sistema?» chiese Prudence. Si sorprese di quanto dovette sforzarsi per adoperare un tono di voce normale. «Quella pulsazione è identica al ciclo degli avvolgimenti di risposta del Bue», disse Bickel. Mentre Bickel stava parlando, il dispositivo accanto a Prudence fece riudire il suo ticchettio, emettendo nuovamente del nastro. Prudence lo fissò in silenzio. «Be', cosa dice?» domandò Bickel. Il nastro si fermò. Nel silenzio che era calato di colpo, Prudence disse, «Il Fattore Coscienza è legato alla fosfatasi acida... catalisi degli aminoacidi». E paragonò quei risultati agli esperimenti che aveva condotto sul suo corpo. Adrenocromo - se aggiungeva l'ossidrile OH a C5H11 (n)... questo avrebbe fatto superare al composto la barriera ematoencefalica, senza essere assunto in una dose fatale? «È... cosciente?» sussurrò Flattery. Bickel sollevò lo sguardo sulla parete del computer, su cui le luci si stavano spegnendo, ritornando al solito sonnolento ammiccare di spie - ver-
di... malva... dorate... «No», disse Bickel. «Abbiamo prodotto soltanto un computer in grado di autoprogrammarsi, di concentrare ogni sua parte su di un problema... di andare alla ricerca di dati anche se essi si trovano all'esterno dei suoi banchi». «E questo non significa che è cosciente?» domandò Timberlake. «Non nella maniera in cui lo siamo noi», disse Bickel. «Devi rivolgergli una domanda... prima che si svegli». «Fosfatasi acida», rifletté Prudence. «Che cosa sappiamo sulla fosfatasi acida?» E desiderò di potersi confidare con gli altri tre, di discutere apertamente sui suoi esperimenti... ma un qualcosa di più della sua preoccupazione riguardo i condizionamenti subiti dai suoi compagni la fece rimanere in silenzio. In un certo senso, si era avviata lungo una strada su cui avrebbe dovuto continuare... da sola. «La fosfatasi acida è largamente diffusa nel nostro corpo», disse Flattery. Si voltò, guardò Prudence come se lo facesse per la prima volta. Ovviamente, lei avrebbe capito - quasi immediatamente. Sollevò lo sguardo verso lo schermo su cui comparivano Bickel e Timberlake. A loro, invece, sarebbe stato necessario spiegarlo. Rivolse nuovamente la sua attenzione su Prudence. Come stava iniziando a sembrare magra e stanca! Prudence annuì tra sé e sé, e i suoi occhi erano velati per l'estrema concentrazione con cui stava pensando a ciò che aveva detto Flattery. «Metabolismo corporeo, sì», disse poi. «La prostata maschile è ricca di fosfatasi acida. I maschi ne posseggono una quantità maggiore delle donne». Flattery parlò soppesando bene le parole: «Il tessuto corporeo ha bisogno di un livello minimo di fosfatasi prima che una persona possa svegliarsi». Prudence si eresse sul lettino, incrociò lo sguardo di Flattery. «Un enzima coinvolto con la fisiologia sessuale e con il risveglio». Si girò, pensando: attività sessuale e risveglio. «È questo il fenomeno che viene soppresso dalla droga anti-S?» chiese Bickel. «Non direttamente», rispose Timberlake. «La droga agisce in maniera primaria sulla discriminazione della fenolsulfatasi del siero, inibisce il transfer e l'azione». Anche Timberlake, lo specialista in sistemi vitali, il biofisico, l'avrebbe capito subito, pensò Flattery. Flattery fissò lo schermo, e vedendo che Bickel era rimasto totalmente
immobile e silenzioso, come se stesse riflettendo su ciò che aveva udito, provò un improvviso senso di pietà nei suoi confronti. Era così semplice: il risveglio e l'attività sessuale sono collegati. Prudence mantenne il viso rivolto verso la console principale, in apparenza concentrata su di essa, ma in realtà neppure vedendola. In quel momento, la nave avrebbe potuto iniziare a roteare follemente su se stessa, e lei ci avrebbe messo dei secondi interi perreagire. Quando aveva guardato Flattery, aveva compreso quel che l'uomo stava pensando, come se le parole gli fossero state scritte sulla fronte. La coscienza è legata alla riproduzione. Non c'era alcun dubbio: tutte e due scaturivano dallo stesso pozzo genetico. La storia le aveva lavate con le stesse acque, trasferendo i bisogni di una a quelli dell'altra. Lentamente, Bickel si voltò, guardò tramite lo schermo il grande cronografo ad impulsi laser che misurava il passaggio del tempo terrestre. Indicava che erano trascorse diciotto settimane, ventuno ore e ventinove secondi. Mentre lo osservava, l'apparecchio registrò il trascorrere di un altro minuto. Per la maggior parte di quei minuti scanditi da impulsi laser, pensò Bickel, l'equipaggio dell'Uovo di Latta era vissuto nella continua tensione provocata da una nave in pericolo. Quest'ultimo era reale, non importava quale fosse la sua origine o il suo scopo; doveva soltanto esaminare i rapporti sull'aumento dei danni per confermare la sua ipotesi. Ma la pressione subita dall'equipaggio era iniziata con la perdita dei Nuclei Mentali Organici. Era iniziata quando non erano stati più protetti da un'altra coscienza. Per la prima volta, Bickel rivolse i suoi pensieri al concetto della coscienza considerata come uno scudo - come un mezzo che proteggeva il suo possessore dall'ignoto. Era una risposta di "Io posso fare tutto!" scagliata contro un universo che vi minacciava con qualunque cosa ospitasse. Rivolse nuovamente la sua attenzione su Flattery, che era ancora avvolto a metà nel bozzolo del suo lettino, e intuì dalle spalle cadenti e dal viso dello psichiatra-cappellano che costui si sentiva sconfitto. Perché ha accettato la sconfitta così in fretta? si chiese. È quasi come se l'avesse voluto. E la risposta gli balenò in mente subito dopo la domanda: Se si è programmati per distruggere, si finisce per provare il bisogno di farlo. Con una crescente consapevolezza, Bickel si voltò a guardare il Bue, concentrandosi sugli spigoli, i blocchi e l'intrico di connessioni neuroniche.
Ma io ho programmato questa creatura per essere violenta! Sforzandosi di mostrare un comportamento calmo e naturale, Bickel eseguì un controllo diagnostico sul programma, per vedere a che punto era. Gli si seccò la gola, quando ottenne i risultati. L'embrione che aveva lasciato alla mercé del Bue - era morto. No... morto era una parola troppo generica per quello che aveva subito l'embrione. Era stato disintegrato, straziato, ridotto al livello molecolare. La registrazione di quello scempio era conservata sui nastri e sui dischi di memoria del computer, e rivelava la ragione di quell'atto orribile. La domanda di Prue! L'embrione era stato sottoposto dal computer, in cerca di informazioni, ad un esperimento che aveva richiesto l'uso della violenza. Un esperimento violento e inutile. Certamente, non aveva fornito al computer molti dati utili - tranne alcune delle caratteristiche più ovvie della fosfatasi acida - e probabilmente gli aveva fornito dati inutili su altri aspetti del metabolismo di un essere vivente. Ucciderà, per ottenere delle informazioni, pensò Bickel. Ha la capacità di accettare una giustificazione... se noi gliela forniamo. «Abbiamo appena perso un altro sensore», annunciò Prudence, osservando una spia sulla console principale. «... settore 4CtB5K2». «Secondo scafo, quarto anello e all'esterno dello schermo protettivo numero cinque», disse Timberlake. «È dannatamente vicino al settore delle vasche d'ibernazione». «Andrò a controllare», disse Flattery, sbloccando il suo lettino. Posò i piedi sul ponte, chiuse il casco della sua tuta, ma non lo sigillò. «C'è qualche robox-R in quell'area?» chiese Bickel. «Che differenza fa?» replicò Flattery. «Quando ne avremo trovato uno e lo avremo programmato...» «Si va a controllare quel sensore o no?» domandò Timberlake. Fissò infuriato Flattery attraverso lo schermo. «Vado», rispose Flattery. Non devo permettere che sia Tim a fare questo lavoro, pensò. Ho bisogno di una scusa per andare negli alloggiamenti, e controllare rapidamente quel che ha fatto Bickel. Si tratta di qualcosa di violento e pericoloso. Riesce appena a rimanere calmo. «Raj», lo chiamò Prudence. Flattery si fermò mentre stava per varcare il portello. «Quella... cosa laggiù, nel locale, potrebbe riprodursi senza il nostro aiuto. Ogni utensile meccanico, ogni unità robox, ogni sensore sono pro-
grammati dal computer. Una volta che sarà stabilito il collegamento finale...» Flattery si umettò le labbra e oltrepassò il portello senza risponderle. Perché diavolo ha sollevato questa questione proprio adesso? si chiese Bickel. «Quel dannato poltrone», imprecò Timberlake. «Sarei dovuto andare io al suo posto». Prudence attivò una parte della sua console per seguire i progressi di Flattery. Sollevò lo sguardo per lanciare un rapido sguardo allo schermo. Bickel stava fissando oltre di lei, verso il portello da cui era uscito Flattery. Raj era depresso al pensiero che la coscienza fosse legata alla riproduzione, pensò Bickel. Quel che gli ha detto Prudence avrebbe dovuto sollevarlo un poco. Non l'ha fatto. «Prue, hai un sensore fisso su Raj?» chiese poi. «Ha preso un carrello con gli attrezzi per le prime riparazioni e raggiungerà il luogo in cui è avvenuto il guasto in circa un minuto», disse Prudence. «Ho lanciato un programma di controllo costante sulla...» «È inutile», le disse Bickel. «Il problema si è manifestato nel sensore stesso. La rete che supervisiona i sensori possiede centinaia di back-up e di circuiti alternativi. Che cos'è, un sensore termico?» «Multiplo», disse lei. «Termico-audio-visivo». «È molto vicino ai parzializzatori del deflettore che controlla la temperatura delle vasche d'ibernazione», mormorò Timberlake. «Dannatamente vicino. Rilevi qualche variazione di calore dagli altri sensori?» «Nulla di significativo», disse lei. Prudence premette un pulsante, osservando gli indicatori della temperatura-peso-suono di Flattery, che segnalavano i suoi spostamenti. Premette un altro pulsante: «Raj, quanto tempo ci vuole ancora?» La voce di Flattery provenne dal vocoder sopra le loro teste: «Un altro minuto circa». Attesero in silenzio, ascoltando attraverso il vocoder i rumori che Flattery provocava muovendosi. Prudence attivò un raggio guida che indicasse a Flattery il sensore guasto, non appena l'uomo sorpassò gli schermi d'acqua. «Gli scudi sono a posto?» chiese Prudence. «A posto», le comunicò Flattery. Sigillò l'ultimo portello, sapendo che quell'azione sarebbe stata registrata dalla console principale di fronte a Prudence. Provò una lieve sensazione
di paura. Aveva simbolicamente tagliato fuori se stesso dal nucleo della nave. Aggiusterò questo sensore e ritornerò negli alloggiamenti più in fretta che posso, si disse. Sembrerà del tutto naturale che mi fermi là, sulla via del ritorno. Devo scoprire cos'ha fatto Bickel, ma non devo insospettirlo. Flattery si voltò e osservò ciò che lo circondava. Si trovava in un locale che serviva da mozzo centrale per i tubi di collegamento che permettevano di accedere allo scafo esterno. Era ovale, per resistere meglio alla pressione, largo sei metri e profondo sette. Si orientò avvalendosi della debole forza della gravità della nave. Il sensore guasto si trovava in un tubo che compiva una curva sulla sua destra. Tubo otto, anello K. Il numero corrispondeva. Avrebbe trovato il guasto nella sezione cinque del tubo, in alto. Fissò l'entrata di metallo grigio illuminato da una luce fredda. Un raggio guida verde lo invitava ad entrare nel tubo. Prudence si è ricordata di attivare il raggio guida, pensò. Prese il carrello con la mano sinistra, spiccò il salto a bassa gravità per raggiungere il tubo, ne imboccò l'accesso. Spinse il carrello in avanti, posizionò i suoi sensori sul binario di guida, lo fece avanzare lentamente, venendo rimorchiato lungo il tubo. Il diaframma si chiuse automaticamente dietro di lui. Di colpo si ricordò di Anderson, strangolato da un diaframma impazzito... ma ovviamente lui non avrebbe avuto problemi... non adesso che tutti gli NMO erano morti. Il fatto che un membro dell'equipaggio avesse dovuto uscire là fuori per eseguire quella riparazione significava che i pericoli erano di un altro tipo quelli provocati da una coscienza sfuggita al controllo. «C'è qualcosa che non va?» chiese Prudence, e la sua voce riempì il casco di Flattery. Ha notato che le luci dei sensori che mi controllano si sono fermate qui, pensò Flattery. Gli diede un senso di sicurezza sapere che Prudence era così attenta ai suoi movimenti - o all'assenza di essi. «Nulla; voglio solo procedere con cautela». «Vuoi che Tim venga su ad aiutarti?» chiese Prudence. «Non ho bisogno di nessuna balia!» rispose bruscamente Flattery, e si meravigliò della rabbia improvvisa che l'aveva spinto a parlare in quel modo. «Sei nella Sezione Due», disse Prudence. «Dovrebbe esserci un sensore video. Confermaci che va tutto bene».
Flattery sollevò lo sguardo sull'anello di sensori del tubo, scorse quello contrassegnato in giallo per indicare la sua natura visiva, agitò la mano mentre lo superava. La linea guida del robox-R curvò seguendo le parete del tubo per superare la protuberanza del diaframma di sicurezza successivo. Flattery vi passò attraverso, e si guardò indietro quando le sezioni trasparenti del diaframma si chiusero alle sue spalle. Il nucleo della nave sembrava così lontano, ormai. Guardò di nuovo in avanti, lasciando che l'unità robox lo trainasse emettendo un lieve brontolio sibilante, permettendo che il senso di solitudine lo sommergesse. Con uno NMO ai controlli della nave, un unità robox automatica avrebbe potuto eseguire tranquillamente quella riparazione. Il problema era la mobilità. Dove esistevano unità automatiche di riparazione fisse - lungo lo scafo esterno, alle principali chiusure di sicurezza, nei deflettori e nelle barriere che proteggevano l'integrità del nucleo della nave, quest'ultima si autoriparava, con il minimo aiuto da parte dell'equipaggio. Ma bastava che si presentasse un problema di poco conto come quello, che però richiedeva per essere risolto fattori di mobilità e decisione - e allora uno dei membri dell'equipaggio doveva esporsi personalmente al pericolo. Flattery maledì i progettisti dell'Uovo di Latta. Fu sopraffatto dall'odio che provava nei loro confronti. Sapeva perché l'avevano fatto - l'"aumento pianificato di frustrazione", l'avevano chiamato. Era un bel concetto - fino a quando uno dei progettisti della nave non avesse sperimentato realmente la frustrazione... o i rischi mortali che comportava. Adesso era arrivato alla Sezione Quattro, e si stava avvicinando alla Cinque. «Sezione Cinque in vista», avvertì gli altri. «Ehi!» Interruppe l'energia che faceva funzionare il robox, si resse all'anello che montava i sensori della Sezione Cinque, e alzò lo sguardo per esaminarli. Un foro netto e lucente, turato dalla schiuma coagulante, aveva preso il posto del multisensore. I tubi color giallo-verde-rosso che circondavano il foro non erano stati toccati. Flattery controllò con lo sguardo gli altri sensori, e si accorse che che, in apparenza, parevano funzionare tutti. Allora Flattery pensò all'isola nello Stretto di Puget - ai sensori e ai membri del personale che erano misteriosamente scomparsi. Iniziò a sudare freddo. La voce di Prudence riempì il suo casco, «Qualcosa da riferire?» Flattery abbassò il volume del suo comunicatore. «Sembra che il multi-
sensore sia stato tagliato via in qualche modo. È scomparso. Il foro è stato otturato con della schiuma». «Non ci sono dispositivi automatici che possano far uso della schiuma in quell'area», disse Prudence. «In tutti i casi, il foro è stato otturato!» Flattery non riuscì a nascondere l'irritazione che lo aveva invaso alle parole di Prudence. Prudence disse improvvisamente, «John, rilevo un assorbimento d'energia da parte del computer. Stai facendo qualcosa?» «Assolutamente nulla», rispose Bickel. Flattery voltò di scatto la testa racchiusa nel casco. La voce di Bickel, che si trovava nel locale di manutenzione, gli era arrivata, debole ma comprensibile, attraverso il comunicatore della sala comando. Il computer stava facendo qualcosa! Flattery si costrinse ad agire con calma, prelevò un sensore dal compartimento dell'unità robox che ospitava i pezzi di ricambio, lo controllò. Il dispositivo aveva un diametro di circa dieci centimetri, e ospitava un rilevatore di calore, lenti standard per le riprese video, che luccicavano come minuscoli gioielli sulla sua superficie, e tre condotti, coperti da griglie, che arrivavano fino alla membrana audio. Con la coda dell'occhio, Flattery percepì del movimento proveniente dall'alto del tubo. Sollevò la testa di scatto, facendola urtare contro l'imbottitura del casco, e fissò la Sezione Sei. Un robox-R, con i suoi arti estensibili ripiegati lungo i fianchi, si stava muovendo lungo la linea di guida, diretto verso di lui. Aveva un'andatura a scatti - accelerava e rallentava di continuo. Il primo pensiero di Flattery fu che Prudence fosse riuscita ad attivare i telecontrolli di un'unità di quella zona e che stesse manovrando l'unità dalla console principale. La maniera grossolana con cui si era costretti a dirigere i robox dalla sala comando poteva spiegare il comportamento incerto dell'unità. «Stai facendo venire un altro robox, Prue?» chiese a Prudence. «No, perché?» «C'è un altro robox che sta scendendo verso questa sezione», le comunicò lui. Mentre l'osservava, l'unità perse contatto con la linea guida, lo riguadagnò. «Non può essere! La console non mi segnala nulla». Il robox si fermò, rispetto a Flattery, dal lato opposto dell'anello di sensori. Un'estensione simile ad un succhiello si distese di scatto da uno dei
suoi lati, si diresse verso il foro otturato dalla schiuma, si ritirò. «Chi sta controllando quest'unità?» chiese Flattery. «Io no», rispose Prudence. «E riesco a vedere Tim e John. Neppure loro la stanno controllando». «Rilevi ancora un assorbimento d'energia da parte del computer?» sussurrò Flattery. «Sì». «Il... Bue è attivo?» «Soltanto i circuiti originali», rispose Bickel. «Attraverso l'AET. Le nuove unità che abbiamo aggiunto non sono state ancora collegate». «Non può esserci un altro robox nella zona», insisté Prudence. «Non abbiamo inserito in automatico nessuno di quei dannati aggeggi. La mia console non lo segnala. E anche usando i telecontrolli, ci sarebbe voluto un giorno e mezzo soltanto per...» «È proprio di fronte a me», disse Flattery. Lo osservò, affascinato. Il robox estroflesse una delle sue estensioni, dotata di un contenitore per sensori vuoto, la diresse verso il foro, inserì il contenitore, poi la ritrasse. In rapida successione, comparve un braccio metallico simile ad una pinza. Saggiò la schiuma, poi venne ritirato con una rapidità che sorprese Flattery. «Cosa sta facendo?» chiese Prudence. «Non ne sono sicuro. Sembra che stia esaminando il danno. I suoi sensori video sono puntati verso il foro. Agisce come se non sapesse quale estensione usare». «Cosa non riesce a decidere?» Quella era la voce di Timberlake, fievole poiché proveniva dal locale per la manutenzione per il computer attraverso il sistema di comunicazione della sala comando. «Tenta di sostituire il sensore tu stesso», disse Bickel. Flattery deglutì a vuoto con la gola arida. Estrasse una sonda con un sensore-guida dalla tasca per gli attrezzi del suo robox, sondò il tappo di schiuma, cercando i cavi di collegamento. Istantaneamente, un'estensione simile ad una frusta saettò dall'interno del robox, gli intrappolò il braccio, glielo scostò bruscamente dal tappo. Il dolore nel punto in cui l'unità robox lo aveva afferrato fu tagliente e scioccante. Flattery lasciò cadere l'attrezzo e urlò. «Cos'è successo?» domandò Prudence. L'estenzione del robox si srotolò lentamente dal braccio di Flattery, lo lasciò libero.
«Quella cosa mi ha trattenuto», disse Flattery. La sua voce tremò per il dolore e la sopresa. «Ha usato la sua sonda per i circuiti... mi ha bloccato il braccio». «Non ti lascerà eseguire la riparazione?» Era la voce di Bickel, questa volta forte e chiara, che risuonò nel casco di Flattery. Evidentemente aveva inserito il comunicatore del locale per la manutenzione nel circuito della sala comando. «Sembra proprio così», disse Flattery. E si chiese: Perché nessuno di noi vuole ammettere quel che sta succedendo? Perché vogliamo negare l'evidenza? Come se improvvisamente avesse preso una decisione, l'altro robox estroflesse un braccio simile ad una pinza, tolse il sensore di ricambio dalla mano sinistra di Flattery, lo inserì nel contenitore. Un altro braccio che terminava con una pinza recuperò la sonda, la collegò ai suoi circuiti. «Che sta facendo adesso?» chiese Bickel. «Sta eseguendo lui stesso la riparazione», rispose Flattery. La sonda uscì dal foro, tirandosi dietro i cavi. «John, cosa rilevano i tuoi misuratori?» chiese Prudence. «Un leggero impulso proveniente dai banchi di controllo dei servomeccanismi», rispose Bickel. «Di lieve entità. È come l'eco circolare di un impulso di prova. Registri ancora del consumo d'energia, in sala comando? Qui, non risulta». «Assorbimento dal sistema principale, diretto verso il computer. Dovresti rilevarlo anche tu». «Negativo», disse Bickel. «Ha appena inserito il nuovo sensore nella parete», annunciò Flattery. «Ha portato con sé le giuste parti di ricambio?» chiese Flattery. «Si è preso il sensore che avevo portato io», replicò Flattery. «Ha preso il tuo sensore?» domandò Prudence. «Esatto». «Prue, quell'impulso sta diventando più forte», disse Bickel. «Sei sicura che non risulta nulla dalla tua console che lo possa provocare?» Prudence studiò la console. «Nulla». «Ha finito», annunciò Flattery. «Cosa dice la console, Prue?» «Sensore operativo», rispose lei. «Posso vedere te... e lui». «Prova a toccare il nuovo sensore, Raj», disse Bickel. «Quel dannato affare mi ha quasi segato un braccio, l'ultima volta che ci ho provato», obiettò Flattery.
«Usa un attrezzo», gli consigliò Bickel. «Qualcosa di lungo. Dovresti avere una sonda telescopica per misurare il livello di radiazioni». Flattery frugò nella sua unità robox, ne estrasse la sonda telescopica. La allungò al massimo dell'estensione, la diresse verso il sensore, lo toccò. Ancora una volta l'arto a forma di frusta saettò dall'interno dell'altro robox. Flattery sentì uno strattone e fissò ad occhi sbarrati il moncone della sonda che stringeva in mano. La parte tagliata della sonda fluttuò verso l'alto lungo il tubo, roteando per la forza del colpo ricevuto. «Criiiisto!» Era la voce di Timberlake, e Flattery capì che avevano sintonizzato lo schermo del locale su quel circuito e che lo stavano guardando. Flattery deglutì e parlò con voce soffocata: «Se quella sonda fosse stata il mio braccio...» Fissò l'altro robox. Era immobile e i suoi sensori ottici erano puntati su di lui. Stiamo scherzando col fuoco, pensò poi Flattery. Non sappiamo cosa stia guidando il robox. Potrebbe essere un programma di riparazione che abbiamo attivato accidentalmente. Potrebbe trattarsi di uno di quei pericoli pianificati che i progettisti hanno inserito nella nave. «È meglio che tu esca di lì, Raj», disse Prudence. «No, aspetta!» esclamò Bickel. «Raj, non muoverti. Mi senti?» «Ti sento», rispose Flattery. Fissò il robox, rendendosi conto che quella macchina avrebbe potuto tagliarlo in due con un solo colpo della sua sonda per circuiti a forma di frusta. Il debole suono di un'attività lontana pervenne a Flattery attraverso il sistema di comunicazione del casco. «Dovrei avere sotto controllo tutto quello che sta facendo il computer», disse Bickel, «ma non riesco ad avere sulla mia console quel dannato robox. Non rilevo neppure un impulso di risonanza, da cui risalire a cosa lo sta controllando». «Non posso rimanere qua fuori per sempre», mormorò Flattery. «Cosa dicono i tuoi misuratori, Prue?» chiese Bickel. «Rilevo ancora quell'assorbimento d'energia... e quell'impulso». «Raj è rimasto fuori dello schermo per sedici minuti», disse Timberlake. «Prue, qual è il livello di tolleranza radioattivo in quell'area?» Prudence eseguì i controlli necessari sulla console, lesse i risultati. «Ha trentotto minuti per tornare all'interno dello schermo». Un movimento lungo il tubo attirò l'attenzione di Flattery. Era l'estremità
tagliata della sonda telescopica. Aveva raggiunto l'apice della sua curva d'energia e stava iniziando a scendere di nuovo, verso il centro di gravità della nave. Quando il moncone dell'attrezzo passò vicino all'altro robox, la punta di uno dei suoi arti sensori - soltanto la punta - si voltò per seguire il suo passaggio. Quel minimo segno d'attività, quell'attenzione, riempirono di paura Flattery più che se il robox si fosse avventato sul moncone di sonda, facendolo a pezzi. Flattery ebbe l'impressione che quella cosa fosse in attesa - attendeva e raccoglieva informazioni. «Raj». Era Bickel. «Sì?» «Il computer possiede qualche informazione nella sua memoria - anche una minima traccia - che tu potresti distruggerlo?» Mi ha mandato qui per intrappolarmi e farmi rispondere a questa domanda? si chiese Flattery. Ma la paura nella voce di Bickel cancellò i suoi sospetti. «Perché?» chiese. Bickel si schiarì la gola, e raccontò di come avesse programmato il computer per commettere un atto violento su di un embrione di mucca e dell'esperimento distruttivo che il computer aveva compiuto su di esso. «Era stato programmato per colmare le lacune nelle sue informazioni, Raj, e io non gli ho posto alcuna restrizione. La violenza prova che non si fermerà davanti a nulla, pur di preservare la propria esistenza. Se tu costituisci un pericolo sia pure minimo per lui...» «Stai dicendo che è cosciente?» chiese Prudence. «Non nella maniera in cui lo siamo noi», disse Bickel. «È come un animale - consapevole... e con almeno un istinto che possiamo riconoscere: quello di auto-conservazione». «Raj, rispondi alla domanda», disse Prue. Sa già la risposta, pensò Flattery. L'aveva capito dalla voce di Prudence. Perché non risponde lei, al posto mio? «Il computer può avere qualche informazione», disse Flattery. E pensò: Sono in trappola! Devo ritornare negli alloggiamenti per distruggere questa creatura... è già sfuggita al controllo. Ma se mi muovo, mi ucciderà. Fissò l'altro robox. Era una delle macchine che conferivano mobilità al computer - le migliaia di unità robox dotate di funzioni speciali sparse per tutta la nave... di cui faceva parte anche quella che aveva usato Flattery - se venivano attivate in automatico per rispondere ai programmi di controllo...
e se c'era una coscienza a dirigerle. Erano loro che conferivano al complesso Bue-computer le sue gonadi e le sue ovaie - insieme ai dispositivi della nave controllati dal computer. «Reagirebbe... con violenza, se Raj tentasse di muoversi?» chiese Prudence. Silenzio. «Che ne pensi, Bick?» chiese Timberlake. «Molto probabilmente, sì», rispose Bickel. «Hai visto con quale violenza ha reagito, quando Raj ha tentato di toccare il sensore». «Che cosa faresti se qualcuno ti infilasse un dito nell'occhio?» chiese Timberlake. «Si sta avvicinando», disse Flattery, e provò un senso d'orgoglio per la calma con cui aveva comunicato quella notizia. «Rimani immobile», disse Bickel. «Tim! Prendi una torcia laser e...» «Vado», disse Timberlake. «Raj... penso che la tua unica speranza sia quella di fare il morto... rimani assolutamente immobile», disse Bickel. La punta di un sensore adesso era proprio di fronte agli occhi di Flattery, che per un istante si trovò a fissare un bagliore che oscillava alternativamente tra il rosso e il giallo. La punta si ritrasse, e il robox si allontanò di un mezzo metro, mancando il carrello di Flattery soltanto di un millimetro. «Lascia andare il tuo robox», sussurrò Bickel. Flattery si accorse che le nocche della mano, con cui si era aggrappato alla barra di controllo del robox, erano bianche per la stretta spasmodica che esercitavano. Allentò la presa. «La forza di gravità stessa ti farà scendere lungo il tubo», sussurrò Bickel. «Rimani passivo e immobile». In un primo momento, il movimento fu quasi impercettibile. «Le chiusure di sicurezza fanno parte del sistema centrale». Era la voce di Prudence. «E se non...» Non finì di pronunciare la domanda, ma fu ovvio che anche lei si era ricordata del diaframma che aveva strangolato Anderson. Adesso, Flattery poté accorgersi con sicurezza che stava fluttuando verso il basso. Le due unità robox si stavano allontanando. E quel sensore rimaneva puntato su di lui. Il primo diaframma passò davanti ai suoi occhi. Si è aperto! Ma le sezioni trasparenti del diaframma rimasero aperte anche dopo che le ebbe superate, e quel robox ambulante iniziò a seguirlo, dapprima con
esitazione, poi con andatura sempre più spedita. Nel casco di Flattery risuonò l'allarme acustico dell'AET, trasmesso attraverso il circuito di comunicazione della sala comando. «Oh, Gesù!» Era stata Prudence a parlare. «Il ricetrasmettitore era aperto?» chiese Bickel. «Il messaggio è già nel sistema», disse Prudence. «L'habbiamo lasciato in automatico». «Tim, dove sei?» domandò Bickel. «Al mozzo centrale», disse Timberlake. «Processa il messaggio, Prue», ordinò Bickel. «Lettura visiva». Si udì lo scatto dei relay quando Prudence collegò l'AET al computer. Poi, disse: «Breve e zuccheroso. Hampstead ci dice di cessare di ignorare le loro comunicazioni. Ci ordina, in maniera inequivocabile, di invertire la rotta. Ha scelto delle parole strane per ordinarcelo, però: «Questo è un ordine di inversione rotta arbitraria». «Sa bene cosa può farci, con il suo ordine di inversione rotta arbitraria», disse Bickel. Al suono della voce di Prudence, Flattery era stato invaso da un senso di gelo. Era come se il suo petto fosse stato sommerso da una cascata di acqua gelida. «Ordine di inversione rotta arbitraria». Era l'ordine in codice che tanto aveva temuto, e tanto desiderato. Era l'ordine di "uccidere" la nave. Flattery sentì il suo corpo tendersi per la frustrazione. Si trovava oltre gli schermi del nucleo. Era stato condizionato ad accettare quell'ordine e ad eseguirlo, sacrificando se stesso per la protezione della sua razza. A quel punto, non poteva offuscare la sua mente con il fanatismo. Conosceva i pericoli che sarebbero potuti derivare da una coscienza meccanica che nessuno poteva... Gli sfuggì un urlo quando qualcosa gli afferrò la gamba. «Sono io, Raj». La voce di Timberlake riempì gli altoparlanti del casco di Flattery, ma quest'ultimo ebbe bisogno di qualche istante per riconoscerla razionalmente. Il cuore gli stava ancora martellando in petto, mentre Timberlake lo trainava oltre un altro anello di sensori. Il robox inseguitore aumentò la sua velocità, mantenendo una distanza costante di tre metri. «Devo bruciarlo?» sussurrò Timberlake. «Non compiere alcun gesto ostile», disse Flattery.
Il bordo del mozzo centrale entrò nel campo di visione di Flattery. La mano di Timberlake gli lasciò la caviglia. Flattery percepì il rumore raschiante emesso dal portello, che conduceva al diaframma interno, mentre si apriva. «Siamo dentro», disse Timberlake. Diede a Flattery una leggera spinta mentre fluttuavano nel mozzo. Uno dei montanti venne incontro a Flattery, che vi si aggrappò, sentendo la forza d'inerzia mentre compensava il suo movimento. Il robox che li inseguiva si era fermato all'imboccatura del tubo, in alto, ma il suo sensore rimaneva puntato su di loro. Timberlake si frappose tra Flattery e il robox, sottraendolo alla vista. Flattery arretrò, attraversando un angolo del deflettore del mozzo, seguito da Timberlake. Il portello venne chiuso. Timberlake lo sbarrò, si girò. Flattery attraversò il mozzo arrivando all'altro portello. Adesso era più tranquillo, visto che erano ritornati all'interno degli schermi e che un portello li separava dal robox. Afferrò i volani del portello e li girò. Rimasero saldamente immobili. Applicò una forza maggiore. I volani si rifiutarono di muoversi. «Andiamo, andiamo», disse Timberlake. Aggiunse le sue mani a quelle di Flattery nel tentativo di sbloccare il portello. I volani rimasero immobili come se fossero congelati. Flattery e Timberlake si guardarono, con le visiere dei loro caschi che quasi si toccavano. Flattery si accorse di avere le mani scivolose di sudore, all'interno dei guanti. Riuscì a sentire l'odore della paura che stava invadendo la sua tuta. «Vieni... tentiamo con l'altro portello», disse Flattery. Timberlake annuì, e scalciò dirigendosi di nuovo verso il deflettore e il portello che avevano sbarrato. Flattery poté vedere i muscoli di Timberlake gonfiare le spalle della sua tuta, mentre tentava di riaprire l'altro portello. Ma ben presto Timberlake si accorse che anche quel portello era bloccato. Timberlake, fluttuando, ritornò in basso accanto a Flattery, attivò col pollice il pulsante sotto il casco che attivava le comunicazioni con la sala comando. «John». «John è temporaneamente fuori circuito», lo informò Prudence. «Siete fuori pericolo... o meglio, non correte pericolo immediato, vero?» Timberlake la mise al corrente dell'accaduto con poche e asciutte frasi.
«Intrappolati?» chiese lei. «Ma come è possibile?» «Qualcosa ha bloccato i portelli», disse Flattery. «Perché John è fuori circuito?» «Oh..?» Una pausa. «Ha lasciato il suo casco... laggiù, nel locale. Ha disattivato rapidamente tutto, ha preso con sé dell'equipaggiamento e si è diretto verso i nostri alloggiamenti» «I tuoi sensori! Dove si trova adesso?» domandò Flattery. Silenzio. Poi: «Nei tuoi alloggiamenti, Raj. Non capisco». «Cosa ha portato con sé?» chiese Timberlake. «Un bel po' di roba», rispose Prudence. «La maggior parte l'ha presa da quel contenitore sotto la parte centrale del banco che di solito usi per lavorare anche tu, Tim». Nei miei alloggiamenti! pensò Flattery. Al nostro "organo d'analisi" non è sfuggito nulla! «Tim, la tua torcia», disse al suo compagno. Indicò la torcia laser che pendeva dalla vita di Timberlake, assicurata ad un gancio. Timberlake scosse la testa. «Un minuto fa mi raccomandavi di non fare alcun gesto ostile». «Dammi quella torcia!» «Nossignore, Raj. Sai benissimo quanto me cos'è che sta bloccando i portelli. Un'altra unità robox, oppure due o quattro o cinquanta. La tua prima idea era quella giusta. Lasciamo che Bickel...» «Non capisci cosa sta facendo Bickel?» domandò Flattery, con un tono di voce che non faceva nulla per celare la sua disperazione. «Lo so bene quanto te, Raj. Ho assemblato la maggior parte di quella roba che si trovava nel contenitore centrale, seguendo gli schemi di Bickel. È un generatore di campo, accoppiato con un generatore d'impulsi casuali. C'è un'unità di feedback elettroencefalografico... un amplificatore di onde cerebrali umane, lo chiama...». «Scatola bianca - scatola nera», disse Flattery. «Dobbiamo fermarlo». «Perché?» «Danneggerà il computer». «Non questo computer». Bickel lo ha contagiato con il suo cinismo, pensò Flattery. «Allora, si ucciderà». «Sì, mi ha avvertito che poteva succedere, ma non credo che sarà così». «Quando l'effetto emesso dal generatore di impulsi casuali lo colpirà, i suoi muscoli gli frattureranno tutte le ossa del corpo! È un modo orribile di
morire». «Forse sarebbe come dici tu, se fosse collegato direttamente al generatore», replicò Timberlake. «Ma non sarà così. Bickel riceverà gli impulsi filtrandoli attraverso il generatore di campo che ne attenuerà la forza». «Sai cosa c'è nei miei alloggiamenti?» chiese Flattery. «Un qualche dispositivo spia», rispose Timberlake. «Ne ho rilevato la presenza dai misuratori». «Un analizzatore di campo», disse Flattery. «È regolato sul computer, e ha dei circuiti che limitano la sua azione soltanto all'output. Se Bickel toglie quei circuiti...» «Lo farà. Adesso, siediti e stai calmo. È la nostra unica speranza». Flattery lo fissò con ira. «Se Bickel lo attiva completamente, potrebbe scatenare un mostro meccanico capace di distruggere la Terra!» «Perché, una volta tanto, non provi a raccontare una storia di fantasmi?» chiese ironico Timberlake. «Non c'è tempo di dirti tutto. Ti assicuro che quel mostro dev'essere fermato. Devi fidarti della mia parola». «Sei pazzo», commentò Timberlake, ma Flattery si accorse di aver risvegliato, con le sue parole, i condizionamenti più profondi subiti dalla psiche del tecnico dei sistemi vitali. «Tu sei un tecnico», incalzò Flattery. «Sei un esperto in strutture. Conosci il ragionamento di Bickel». «Dove vuoi arrivare?» «Lui ragiona in base all'evidenza costituita dall'interno del corpo umano», spiegò Flattery, parlando con disperata rapidità. «La struttura è vitale per l'origine delle componenti del corpo umano - denti, muscoli mascellari, apparato digerente e così via. È innegabile che gli esseri umani discendono dai carnivori - e Bickel insiste che l'istinto omicida è una caratteristica essenziale per un carnivoro». «Stai dicendo che l'istinto omicida è una condizione preliminare essenziale per essere dotati di coscienza?» «È Bickel che lo dice! Non io». «Come fai ad esserne così sicuro?» «Le sue azioni non lasciano alcun dubbio!» «Ahhh... tu vuoi ingannarmi con questa storia inventata». «Dammi quella torcia», disse Flattery. «No». Timberlake scosse la testa. «Prenderò quella torcia, anche se dovrò ucciderti per farlo», avvertì Flat-
tery. Iniziò a muoversi lentamente verso Timberlake. «Prue, hai sentito questo pazzo?» disse Timberlake, arretrando di un passo. Non giunse alcuna risposta. «Prue?» Flattery si raddrizzò, mentre riascoltava nella sua mente le parole che aveva appena pronunciato. «...anche se dovrò ucciderti per farlo». Di colpo, scoprì di essere stato spinto in un angolo in cui era estremamente vulnerabile. Istinto omicida? si chiese. «Prue?» chiamò Timberlake. Poi: «Raj, ritorna in te! Prue non risponde!» Flattery era indietreggiato. Provava un senso di nausea, si sentiva gelare, le gambe e le spalle gli tremavano. Dei pensieri di cui era soltanto a metà consapevole si agitavano ai bordi della sua mente. Sto evitando qualcosa, pensò. Sto nascondendo qualcosa alla mia coscienza... qualcosa... che mi spaventa... «Che cos'hai, Raj?» domandò Timberlake; la sua voce fu piena di improvvisa preoccupazione. Flattery allungò una mano, afferrò un montante per impedirsi di cadere. Chiuse gli occhi, richiamò alla mente il sacro grafico impresso nel suo cubicolo - proiettando contro le sue palpebre il campo di serenità con la sua suggestione di volti sacri, e le linee soprapposte che combinavano i diversi simboli religiosi a cui gli uomini avevano dedicato la loro fede e adorazione. Coloro che si rimettono al Signore vedranno rinnovata la loro forza, si disse Flattery. Signore, lascia che questa forza si trasformi nel rinnovamento delle nostre menti. Lasciaci condividere la tua luce. La preghiera indugiò nella sua coscienza, concentrandosi sulla parola "mente" e l'immagine mentale del sacro grafico che Flattery aveva creato iniziò a mutare. Il campo di serenità e i simboli sacri si dissolsero in un turbinio di atomi, e assunsero una nuova disposizione, creando un'immagine simile a quella di un grande fiume con il suo bacino. Flattery aprì gli occhi e scoprì che l'interno di quella trappola di metallo in cui era rinchiuso insieme a Timberlake rifulgeva di una dolce luminosità dorata - intensa, eppure non accecante. Timberlake sembrava inconsapevole di quella luminosità, pareva quasi che fosse congelato in uno degli istanti del suo tempo privato.
E Flattery si sentì rapito dalla meravigliosa chiarezza di quella rivelazione - un fiume ed il suo bacino di raccolta. Tutti gli uomini fanno parte della stessa grande corrente, pensò. Siamo come degli affluenti - e anche le nostre menti lo sono, e i nostri pensieri più privati. Ogni schema dell'universo contribuisce alla totalità - alcuni con un fresco ruscello, altri con una sola goccia di rugiada. Ma ogni struttura è espressione di un'unica legge. E quella legge era come un filo mentale pulsante che riusciva a sperimentare - ma non a esprimere - la semplicità che diveniva una nuova complessità e, ancora, una semplicità di grado superiore che si frammentava in un complessità anch'essa di grado superiore che dava origine ad una semplicità di grado ancora superiore... La percepì nella lieve pressione esercitata dal tessuto della tuta sulla sua pelle, la sentì nel soffio d'aria fresca e ricca d'ossigeno che gli entrò nei polmoni, in ogni sua percezione sensoriale. Com'era pulito e irripetibile quel diluvio di molecole che si rovesciava sulla sua persona e sul posto che occupava nello schema perpetuamente cangiante dell'universo! «Ti ringrazio, Signore, per avermi inviato quest'illuminazione», sussurrò. E adesso Flattery, conservando quella consapevolezza acuita, fissò Timberlake. E Timberlake gli apparve... morto, da un certo punto di vista. Si muoveva, ma gli occhi dietro alla visiera del casco erano simili alle orbite vuote di un teschio. I suoi movimenti procedevano a scatti, come quelli di uno scheletro. Ricordando Prudence e Bickel, Flattery seppe che anche loro condividevano quello stato di morte; i loro occhi erano privi di vita. I loro petti si muovevano per respirare, ma la laboriosa irregolarità di quel movimento (ne differiva soltanto nel grado, e non nella sostanza) era quella del respiro di un malato terminale, il respiro di un morente mantenuto artificialmente in vita. Siamo condannati, pensò Flattery. Signore, perché mi hai illuminato per mostrarmi soltanto questo? Le immagini dello scheletro-Timberlake e dei morti vivi nella sua memoria riempirono Flattery di rabbia. Si rizzò in piedi, aggrappandosi al montante, e gridò: «Siete morti! Zombi! Siete già morti! Zombi!» Tanto rapidamente come era giunta, la rabbia che l'aveva sopraffatto svanì, e Flattery si sentì piangere sommessamente. La sensazione di essere
stato illuminato scomparve. Era durata dieci battiti di cuore, ed era svanita in uno solo. La luminosità dorata scomparve anch'essa e il mozzo di plastica e acciaio che lo intrappolava con Timberlake ritornò ad essere un locale dalle pareti troppo solide, illuminato da una luce troppo fredda; l'aria fornita dalla sua tuta ridivenne troppo carica dell'onnipresente lezzo causato dal continuo riciclaggio. «Raj, devi riacquistare il tuo autocontrollo», stava dicendo Timberlake. Ma è Dio a controllarci, pensò Flattery. E Dio mi ha mostrato cosa devo fare. Mi ha permesso di sperimentare un'esperienza religiosa affinché potessi intravedere il nostro fato - e realizzandolo - potessi portarlo a compimento. Timberlake tirò un profondo respiro, per allieviare la tensione che gli attanagliava il petto. Provava un leggero senso di nausea, e la paura che provava per la loro situazione era ingigantita dall'attacco di panico di Flattery. Lui e Flattery erano intrappolati in quel luogo, inermi come lo era stato l'embrione di mucca. E Timberlake questo lo sapeva. Ripensò a quell'embrione, conservato nella sezione riservata ai bovini di razza Holstein delle vasche d'ibernazione degli animali - un frammento di protoplasma attaccato ai tubi del suo sistema vitale, dotato di un proprio schema genetico. Era stato un individuo unico e irripetibile, e Timberlake provò la sensazione di conoscere quel particolare animale - riuscì ad immaginarlo mentre, giunto alla piena maturità, pascolava ed espletava la sua funzione naturale di produttore d'energia. Tutto quel potenziale naturale era stato sacrificato, si era trasformato in semplici unità di stimolazione cerebrale nello sviluppo di una coscienza meccanica. Ogni altra funzione o possibilità dell'embrione era stata cancellata nel momento della sua deliberata distruzione. Era divenuto soltanto una percezione sensoriale - irreale, che si allontanava nel passato, mentre i suoi atomi si dissipavano nel vuoto temporale. In esso, dal momento della morte in poi, non poteva più esserci nulla di caratteristico, di individuale o di unico. Timberlake deglutì a vuoto. Gli era venuto un groppo alla gola, come se stesse ricordando un dolore che aveva subito. Sapeva che quella sensazione scaturiva dalle profondità della sua psiche, dal condizionamento a cui era stato sottoposto in quanto tecnico dei sistemi vitali: preservare a tutti i costi la vita, qualunque vita. Scosse la testa, tentando di schiarirsi la mente. Era una creatura non ancora nata, un semplice animale, si disse. Non era un vero essere vivente come lo siamo noi. La sua complessità fisica
era incredibile, eppure non avrebbe mai potuto essere cosciente alla nostra maniera... anche se avesse vissuto normalmente la sua vita. Ma quelle giustificazioni riecheggiarono vuote e peregrine nello stesso momento in cui la mente di Timberlake le formulava silenziosamente. Flattery aveva smesso di gridare. Ora era immobile, stringendo convulsamente il montante, e i suoi occhi lampeggiavano d'ira sotto la visiera del casco. «Calmati, Raj», lo esortò Timberlake. Parlò con dolcezza, come se stesse tentando di consolare un bambino che si fosse fatto male. Poi, disse a voce più alta: «Prue?» Ancora una volta, non ebbe alcuna risposta. Potrebbe essere troppo occupata per rispondere, pensò Timberlake. Rimase in silenzio, percependo i lievi borbottii e ronzii emessi dalla sua tuta, mentre esaminava la loro situazione. Prue non rispondeva, e lui non sapeva perché. Bickel era andato nei loro alloggiamenti - ovviamente, con l'intenzione di mettere in pratica quella parte della sua teoria che aveva definito «scatola nera - scatola bianca», e che implicava il trasferimento dello schema della sua coscienza nella scatola bianca rappresentata dall'insieme Bue-computer. Ma allora, il Bue avrebbe assunto la personalità di Bickel? No... non poteva essere. Timberlake capì improvvisamente di aver superato un qualche grosso ostacolo che fino a quel momento gli aveva impedito di elaborare una sua teoria personale del rapporto mente-cervello. Si accorse di essere entrato in un territorio teorico nuovo e ancora privo di una definizione. Vide che Flattery era quasi esausto - il risultato di essere stato sottoposto a una tensione eccessiva, dal punto di vista sia fisico che mentale. Quell'uomo era passato attraverso un'esperienza durissima, lassù nel tubo di collegamento. Mentre Timberlake lo stava osservando, Flattery barcollò accanto al montante e disse: «Mi dispiace di... averti minacciato». I ritmi della voce di Flattery affascinarono Timberlake. Scoprì di essere improvvisamente consapevole di come quei ritmi si fondessero formando altri ritmi e di come provenissero essi stessi da altri ritmi ancora. Percepì i ritmi della propria vita e le curve d'incremento costante di Fourier che si irradiavano da e verso di lui. Allora, ritornò in mente a Timberlake qualcosa che gli aveva detto Bickel mentre stavano lavorando al Bue: «Se riusciremo ad infondere la vita in questa macchina, dovremo ricordare che la vita è una variabile dal comportamento eccentrico. La vita che
creeremo dev'essere capace di pensare in maniera creativa e originale anche se il suo pensiero deriva da istruzioni su nastro e da reti di pseudoneuroni». Era come se la coscienza fosse una valvola avente la funzione di semplificare. Tutte le complessità venivano filtrate da essa, divenendo una serie di dati ordinati. L'energia si riversava continuamente nel sistema - in quantità enormi, sufficienti a sovraccaricare un sistema quadridimensionale convenzionale. Sovraccarico-sovraccarico-sovraccarico! L'energia scorreva attraverso la valvola della coscienza. E quando il carico d'energia aumentava, la valvola poteva deviarlo... oppure espandersi per riceverlo. Timberlake provò la sensazione di salire lungo degli strati di nebbia, spessissimi - uno strato dopo l'altro - fino a raggiungere un luogo in cui tutto era chiaro e al suo posto. Sono sveglio, pensò. Il cubicolo di Flattery era sufficientemente simile al suo da trasmettere un senso di familiarità a Bickel, e sufficientemente diverso da riempirlo di disagio. I condotti dei sistemi vitali apparivano del tipo solito - la griglia di un respiratore con il tubo e la maschera sistemati nei loro comparti, la cupola di un ripetitore di misuratori al di sopra del lettino elastoavvolgente, i sensori atmosferici che comunicavano come l'atmosfera del cubicolo fosse normale, i tubi nutritivi d'emergenza al loro posto. Il sacro grafico impresso sulla parete di fronte al lettino attrasse la sua attenzione. Era un simbolo che incuteva rispetto, tracciato con linee in sfumature pastello di azzurro, rosso e oro, e su di esso vi era sovraimpresso un motivo, nero e ondulato, ipnotico che dava l'impressione di raffigurare dei volti di sogno. Bickel distolse la sua attenzione dal grafico e studiò l'equipaggiamento elettronico del locale riservato a Flattery. Le istallazioni di cui era dotato il cubicolo nascondevano una cosa sorprendente, e Bickel la esaminò accuratamente. Non c'era alcun dubbio - la cosa simile a una rete rigida che sporgeva al di sopra del lettino dalla paratia laterale inviava degli impulsi ad una versione meno potente, ma più sofisticata, del generatore di campo che aveva costruito per realizzare il trasferimento scatola nera - scatola bianca. Ne esaminò i cavi, ed ebbe un'altra sorpresa: quell'apparecchiatura era stata dotata di circuiti che ne limitavano il funzionamento ad una sola direzione. Imprimeva i suoi riflessi di campo nella mente dell'occupante del
cubicolo, ma niente, da parte della mente di quest'ultimo, poteva penetrare nel sistema della nave. Bickel considerò ciò che l'esistenza di un apparecchio simile implicava, annuì lentamente. Poi, si sdraiò sul lettino, provò brevemente il generatore, avvicinando a sé i comandi, tenendo fisso lo sguardo sui misuratori e sulla mezza curva compiuta dalla rete che scendeva fino a circa dieci centimetri dalla sua testa. Ci vollero pochi secondi affinché il generatore di campo si attivasse, poi Bickel provò una curiosa sensazione di estrema attenzione - di osservazione priva di emozioni. Era come vivere un sogno ad occhi aperti, e Bickel pensò immediatamente ad uno specchio riflettente, messo ad un lato di una sala per mostrare le immagini di persone presenti in un angolo coperto di essa... uno specchio che rivelava, in una sola direzione, quella presenza all'erta. Comprese subito che quell'apparecchio forniva ad una persona l'umore del computer di bordo. Provò la vaga sensazione che le sue viscere fossero divenute grandi pozze di mercurio, oppure dischi di memoria, bobine, nastri e testine di stampa, che le sue terminazioni nervose si fossero tramutate in migliaia di delicati sensori che esploravano dimensioni aliene. Ma si trattava ancora di un sogno. La grande creatura fatta di cavi e di pseudo-neuroni, non ancora pienamente autocosciente, ma già all'erta, era immersa in una specie di sonnolenza che ne imbrigliava il pieno potenziale. Il suo umore mutò. Lentamente, Bickel percepì che il campo si stava impadronendo dei suoi riflessi. Lo sentì lanciare un programma di condizionamento, come se stesse tendendo un arco alla massima capacità, assumendo il controllo delle sue energie e dirigendole di colpo in un avvolgimento afferente. Provando una sensazione distaccata di sorpresa, Bickel vide la propria mano colpire e aprire un pannello celato dalle linee del grafico religioso impresso sulla paratia di Flattery. Dietro il pannello si trovava un pulsante, rosso e malaugurante. Bickel scoprì di essere a malapena capace di non premere quel pulsante con la mano. Premette disperatamente la mano sinistra sull'interruttore, accanto al lettino, che disattivava il generatore, udì quest'ultimo spegnersi con un lungo gemito. Calò il silenzio. Tuttavia le dita gli prudevano ancora, per la voglia di premere quel pulsante rosso.
Si rese conto di quanto profondamente gli uomini del Progetto avessero infettato la nave con dispositivi di autodistruzione. Lui era stato condizionato per eseguire quel compito... e anche gli altri membri dell'equipaggio, senza alcun dubbio, lo erano stati. Ma allora, come ho potuto resistere al condizionamento? si chiese. Le implicazioni filtrarono lentamente nella sua coscienza e capì che, per alcuni giorni, aveva operato superando quasi la soglia dei suoi riflessi che avrebbe permesso il manifestarsi di inibizioni latenti e... in attesa... di qualcosa. Bickel fissò il pulsante rosso. Quello era il sistema d'autodistruzione della nave all'attivazione del quale, in caso d'emergenza, era stato condizionato Flattery... tutti loro, in verità. Lentamente, con i palmi delle mani viscidi di sudore, Bickel scese dal lettino, richiuse il pannello nascondendo alla vista il pulsante, iniziò a modificare il generatore di campo di Flattery. I circuiti che ne limitavano il funzionamento spiccarono immediatamente all'occhio tra le matasse di cavi colorati in codice. Bickel li strappò via, collegò il suo amplificatore, iniziò ad istallare il suo circuito per il trasferimento scatola nera - scatola bianca. Il lavoro procedette con rapidità: connessione, test di prova, connessione, test di prova. Poi prese la fonte d'energia costante: un singolo blocco di plastica - motori e bobine pneumatiche, dei nastri di Mobius per operazioni continue, un'uscita singola attraverso un moltiplicatore Eng. La controllò, rilevò dall'indicatore l'emissione di un impulso potente, di natura eccentrica, collegò la fonte al circuito. Aveva finito. Tutto era... pronto. In quel momento, una sensazione di profonda solitudine invase Bickel. Ritornò verso il lettino, vi si distese, attivò il comunicatore audio, lasciando spento il ricevitore. «Adesso ascoltatemi», annunciò, pensando alla sua voce che risuonava di colpo dai vocoder, riducendo gli altri al silenzio. «Tra pochi secondi, darò inizio all'interscambio con la scatola bianca. Ho bloccato i diaframmi che conducono agli alloggiamenti e il mio ricevitore audio è spento. Non perdete tempo cercando di arrivare qui o di chiamarmi». (All'esterno del cubicolo, nel mozzo divenuto una trappola, Timberlake si voltò a guardare Flattery, si avvide dello sguardo colmo di terrore dell'altro.)
«Non fate gesti avventati», continuò Bickel, «Non tentate di far uso di qualsiasi tipo di violenza. Il programma killer che ho inserito nel computer è ancora attivo. La ragione per cui ho voluto continuare con questo...» Fece una pausa, deglutì. «Tim, mi dispiace, ma non ricevo più segnali da due delle vasche d'ibernazione. Penso che possa aver ucciso i due coloni come ha fatto con l'embrione. Sta cercando... sperimentando... è curioso, come una scimmia». (Nel mozzo, a Timberlake mancò il fiato, e si sentì precipitare ancora una volta in quegli strati di nebbia. Aveva una sensazione di vuoto allo stomaco. Due coloni uccisi. Mio Dio!) (Accanto a Timberlake, Flattery afferrò il montante, si chiese: Dov'è Prue? Pensò alla nave che proseguiva la sua rotta senza nessuno ai comandi della console principale... alla donna, magari uccisa e ridotta ad un ammasso di protoplasma che fluttuava da qualche parte della sala comando. Chiuse gli occhi, pensando: Ma sono io il bersaglio primario della nave. Se avesse deciso di uccidere, avrebbe ucciso me... per proteggere se stessa. Aprì gli occhi, fissò le pareti metalliche della loro trappola. Non c'era nessun modo per uscirne. Abbiamo liberato il terribile genio, pensò, e potremmo non riuscire più a farlo ritornare nella sua lampada. Poi si chiese: Dov'è Prue?) Bickel si schiarì la gola. «Siate estremamente cauti finché non avrò rimosso il programma killer. Tutto, sulla nave, potrebbe trasformarsi in uno strumento di morte, capite? L'aria che respiriamo, i sistemi di riciclaggio, le unità robox, qualunque strumento appuntito imbevuto di veleno... qualsiasi cosa». Premette il primo pulsante, annunciò: «Il conto alla rovescia per l'attivazione totale del campo inizia tra trenta secondi. Auguratemi buona fortuna». (E Flattery pensò: Si sta suicidando... ma potrebbe rivelarsi un gesto inutile.) Bickel osservò i misuratori al di sopra della sua testa. Rilevavano che l'energia fluiva nei circuiti, che il vocoder era attivato e riceveva vibrazioni. Un debole ronzio provenne dal vocoder. Poi, lo strumento emise un crepitio dovuto all'energia statica. Sui misuratori, gli aghi raggiunsero immediatamente il loro livello di picco. Poi, un suono raspante provenne dal vocoder. Lentamente si trasformò in una voce gutturale, quasi inintelligibile.
«Uccidere», disse. Bickel studiò i rilevatori, notò il consumo d'energia nel computer, gli impulsi che attraversavano i circuiti del Bue. Era il computer che stava parlando. Autonomamente. «Uccidere», ripeté la voce, questa volta più chiaramente. «Negare energia, dissolvimento di sistemi che usano energia sotto qualunque forma... approssimazioni simboliche... non matematiche». Bickel attivò un circuito diagnostico, lesse gli indicatori. Circuiti di comunicazione disattivati, presenza di impulsi nel Bue, un assorbimento d'energia di bassa entità da parte del computer. Uccidere. Fissò la console, riflettendo. Le informazioni ricavate da un nastro possedevano un esatto equivalente matematico. Il messaggio inciso sul nastro era in realtà costituito da almeno due messaggi - e probabilmente molti altri. Uno era il messaggio che ordinava al computer quale funzione eseguire - fornire informazioni, addizionare, sottrarre, moltiplicare, risolvere un'incognita... l'altro produceva la base matematica che identificava con precisione il messaggio per un operatore umano, a seconda di quante informazioni vi fossero contenute. E poi, si chiese Bickel, cosa c'è? Sapeva di non aver ancora fornito energia al sistema o di avervi impresso la sua coscienza. Eppure, quella cosa agiva spontaneamente. Fu quasi sul punto di non compiere quell'ultimo passo e di chiamare gli altri per consultarsi con loro... ma il pericolo mortale rappresentato da quella cosa rimaneva. Uccidere. Prima di poter cambiare parere, Bickel premette il pulsante d'accensione del generatore di campo modificato. Lo sentì riscaldarsi, e quel suono gli fece aggricciare la pelle. Ogni poro gli formicolava. Delle lacrime gli offuscarono la vista e il dorso delle mani iniziò a tremargli. Si sentì fluttuare in un mare d'energia. Qualcosa stava tentando di pescarlo, usando delle reti, calando delle esche che celavano ami. Bickel riconobbe quella simbolizzazione per ciò che era - il tentativo della sua mente di esprimere in simboli che le erano noti un'esperienza assolutamente inedita. Una delle reti lo catturò. L'effetto del generatore ad impulsi casuali lo colpì come una cascata infinita di scintille. Fu come una scossa elettrica di estremo realismo. Bickel si sentì trasci-
nare nelle spirali infinite degli avvolgimenti del computer, risucchiare da un ritmo ondulatorio. Il suo intero apparato sensoriale era divenuto simile ad un verme che venisse trascinato lungo una rete... no: attraverso fori, tubi, burroni. Sentì che delle valvole gli si aprivano davanti e si richiudevano alle sue spalle. Era come viaggiare all'interno dei tubi d'accesso della nave. Solo che lui, in quel momento, era un verme e tutte le sue sensazioni si concentravano sulla sua pelle: vedeva, respirava, udiva, percepiva attraverso ogni poro di essa. E tutto questo, mentre veniva risucchiato sempre più in basso in quella vertiginosa spirale che ondulava ritmicamente. Delle definizioni iniziarono a lampeggiare contro la sua pelle incredibilmente sensibile ed egli le vide con miliardi d'occhi. «dati sensoriali uditivi» «accrescimento lineare delle informazioni» «regolazione latente d'addizione» «fattore d'adattamento ad un sistema chiuso» «diminuzione di memoria stimata in sedicimila anni» «approssimazione della qualità sensoriale totale» «meccanismo matematico interno» Meccanismo matematico interno, pensò lui. Il suo Io-verme estroflesse uno pseudopodo, collegò l'energizzatore Mobius ad un pannello ammiccante di luci. Immediatamente lo sentì battere come un altro cuore e le definizioni iniziarono a lampeggiargli davanti sempre più veloci. «schema di psicorelazione»... «interscambio di modalità sensoriale»... «analogo di forma-tracciato»... «canale di sottomatrice infinita»... «regolazione dell'intensità sensoriale»... «network di sovrapposizione dati»... «paragone approssimato di somiglianza»... L'intero schema di definizioni e di valvole iniziò stranamente ad assumere un significato coerente per Bickel... come un sogno che dovesse essere interpretato nella sua totalità. La probabilità che, in un dato momento, un numero sufficiente di cellule del computer perissero poteva essere espressa in 16 X 10 - 15. Quel dato sovrastò la sua consapevolezza. Una diminuzione di memoria di sedicimila anni. Il sistema in cui adesso si trovava era tale che aveva la probabilità di perdere una memoria ogni sedicimila, a causa di un guasto... ma, in quel contesto, la definizione "memoria classificatoria" rappresentava soltanto una parte, e non la totalità del sistema.
Questo sistema è il computer, oppure sono io? si chiese. «TU!» Quel suono assalì ogni poro della sua pelle sensibilizzata e Bickel, per un istante, cessò di esistere. Quando ritornò in sé, qualcosa sussurrò: «Sinergia». Fu come se un fiotto d'acqua fresca lenisse il suo Io-verme. Sinergia, pensò Bickel. Cooperazione nel lavoro. Sinergia. Coordinamento. «Coscienza umana», sussurrò qualcosa. «Definizione troppo ampia. Un corpo dotato di funzioni generali e una mente specializzata - una relazione». Un insieme di linee collegate, intersecantesi oltrepassarono i suoi occhi epidermici. L'insieme si contorse, assunse nuove forme, produsse simboli e frecce. Uno schema! Continuava a fluire oltre la sua consapevolezza. Reti cellulari continue a forma di triangolo equilatero. Gruppi di tripli circuiti paralleli, e ciascuno di essi fungeva da rete neurale e monitorava le altre due reti del circuito. Dapprima, erano raggruppate in unità afferenti. Ciascuna cellula di uno strato di una delle reti possedeva un legame di comunicazione con una delle tre sinapsi dello strato successivo. Il flusso passò alla rete efferente, il sistema di feedback, e Bickel vide il nastro di Mobius che richiedeva che ciascun monitor di feedback fosse filtrato almeno da un'altra rete, prima di funzionare come sistema di controllo della sua rete originaria. «Dio, ascolta un peccatore», pregò una voce, e Bickel la riconobbe. Era quella di Flattery. Ma come fa ad essere qui? si chiese. La risposta sfilò davanti alla sua consapevolezza - il generatore di campo di Flattery aveva amplificato le risonanze vocali contro le pareti del cubicolo ed esse erano state reinserite nel sistema totale della nave. I circuiti di limitazione si erano dimostrati inutili. Ogni sensore di quel locale era divenuto un'unità di feedback. «L'occhio non ha visto, né l'orecchio udito», disse la voce di Flattery. «Nessuna di queste due cose, che Dìo ha creato per coloro che lo amano, è mai entrata nel cuore dell'uomo». Cosa significa? si chiese Bickel. Ma non ci fu alcuna risposta, tranne la voce che continuò a scorrere lun-
go l'epidermide del verme-Io. «Dio, abbi pietà di noi. Tu sei lo stesso Signore il cui attributo è quello di essere sempre misericordioso. Fa' sì che le nostre guance vengano solcate da lacrime, come quelle del Benedetto Pietro, affinché possiamo pentirci tutti. Siamo immersi nel peccato. Guidaci, Signore, come il Benedetto Buddha condusse alla salvezza coloro che la cercavano. Siamo assetati dell'acqua della tua misericordia». Era la voce di Flattery che pregava; Bickel questo lo sapeva. Ma quando? Si trattava di una registrazione? Oppure era inginocchiato proprio in quel momento in sala comando? Ma se anche stava pregando, perché il sistema computer-Bue avrebbe dovuto inserire quella preghiera in quel... campo? La voce di Flattery lo perseguitò: «Fa' sì che ci rimettiamo alla Tua volontà come fece il Mahatma, il Benedetto Gandhi. Coloro che si arrendono a Dio, Lo posseggono. In tutto ciò che facciamo, riconosciamo la mano di Dio, affinché Egli possa guidare i nostri passi. Nel compiere la Tua volontà, Signore, troviamo la pace. Non far sì che si viva immersi nel peccato, ma permettici, invece, di innalzarci e di fare la Tua volontà». Poi Bickel sentì di venir spinto, condotto, compresso. Divenne un singolo sensore video situato in sala comando. Tutti i lettini elastoavvolgenti erano vuoti e Prudence era distesa sul ponte, con un braccio allungato verso il portello che conduceva agli alloggiamenti dell'equipaggio. Con una subitanea Gestalt della sua consapevolezza, Bickel comprese che era prossima alla morte. È questione di minuti! Quella scena era reale. Lui lo sapeva. Attraverso il sensore, gli veniva mostrato un avvenimento reale che aveva avuto luogo nella nave. La console principale al di sopra del lettino di Prudence ammiccava e lampeggiava, mentre nessuno sorvegliava i suoi strumenti. Dove sono Raj e Tim? si chiese Bickel. Oppure la nave sta uccidendo anche loro? La visione della sala comando scomparve. Bickel fluttuò nell'oscurità e una voce gli chiese: «Desideri essere disincarnato?» Un terrore istantaneo fu l'unica risposta che Bickel fu in grado di fornire. Non riusciva a percepire i suoi muscoli, oppure a controllare i suoi sensi. Questo dev'essere molto simile a quello che hanno sperimentato i Nuclei Mentali Organici, pensò. Si sono svegliati e si sono trovati di fronte alla necessità di dover imparare ad usare nuovi muscoli. Sto per essere convertito in un cervello privo di corpo?
«L'universo non ha centro», sussurrò quella voce che sembrava circondarlo da ogni parte. Un'oscurità tanto profonda da essere simile alla mancanza totale di energia avviluppò Bickel. Insieme al silenzio. Ma sono ancora cosciente, pensò. Una coscienza disincarnata? si chiese. È impossibile. Dev'esserci un corpo. Ma un corpo provoca molti problemi. Sono diventato parte della coscienza della nave? Percepì un respiro. Qualcuno stava respirando. Dei battiti di un cuore. Tensione muscolare. Formicolio di una quantità infinita di terminazioni nervose. Un vivido impulso luminoso - tanto vivido da essere doloroso. Una sensazione confusa di realtà si fece strada attraverso la sua coscienza. Quella sensazione mancava di un contatto saldo e diretto con i suoi organi di senso. Adesso era fluida come olio. Era un globo conchiuso di sensazioni olfattive, acute e immediate, che si spargeva in quell'olio, prendendone il posto. La sensazione penetrava il tempo e lo spazio. Bickel cercò di sottrarsi ad essa. Poi, un globo di sensazioni uditive assalì la sua consapevolezza, esigente, stridulo. Riuscì a distinguere gli impercettibili scricchiolii di particelle metalliche che si separavano. Sto sentendo quel che sente la nave, percepisco quel che essa percepisce, comprese Bickel. Si è impadronita del mio cervello? Dei suoni e delle combinazioni di essi, che mai aveva immaginato potessero esistere, vennero percepite dalla sua consapevolezza. Tentò di ritrarsi mentre quei suoni divenivano più intensi, ma il globo olfattivo ritornò a tormentarlo. I due globi danzarono insieme, si separarono, si fusero. Un'interazione sensoriale totalmente aliena lo assalì - spettro di frequenze dopo spettro di frequenze, globo di radiazione dopo globo di radiazione. Non poteva nascondersi. Non poteva reagire - soltanto ricevere. Un globo di sensazioni tattili minacciò di sopraffarlo. Percepì dei movimenti - significativi e trascurabili - atomo per atomo - di gas, semi-solidi e semi-semi-solidi. Nulla possedeva stabilità o sostanza, tranne le sensazioni che bombardavano le sue terminazioni nervose scoperte. Visione!
Colori impossibili e fiammeggianti aurore boreali di sensazioni visive si aggiunsero alla massa di altre sensazioni che minacciavano di sopraffarlo. Ciglia faringali e pressioni gassose si intromisero con i loro messaggi. Bickel scoprì di poter udire i colori, osservare il flusso dei fluidi all'interno del suo corpo-nave, di poter perfino odorare la struttura in equilibrio degli atomi. Per un breve istante, quel confuso turbinio di sensazioni si fuse, divenne un organo ricettore totalmente alieno che si comportava come un artista, creando nuove sensazioni per amore della creazione stessa - flusso in entrata e in uscita, fusioni eccentriche. La consapevolezza di Bickel rimase ai bordi di quel processo, vacillò, si ritirò. Adesso, sentì che si stava allontanando sempre più, ancora martellato da quel bombardamento di impulsi sensoriali multidimensionali. Si sentiva spinto in avanti verso l'interno - ancora e ancora - una struttura che collassava verso l'interno - con la consapevolezza che si manifestava attraverso l'epidermide del verme-Io - verso l'interno. Ancora e ancora. Il bombardamento nervoso si attenuò, si stabilizzò, e Bickel sentì di essere un corpo di carne e sangue avvolto nel bozzolo di un lettino. Bickel avvertì il cuore martellargli in petto, il sudore che gli rendeva appiccicosa la schiena, l'adrenalina che gli scorreva nelle arterie. Si sentiva il palato arido e dolente. Gli tremava il labbro superiore. Fu invaso dalla sensazione di una terribile perdita. Era come se avesse dato un'occhiata al Paradiso, e poi avesse scoperto che gli era vietata l'entrata. Delle lacrime scaturirono dalle palpebre chiuse e iniziarono a scorrergli lungo le guance. Ormai, Bickel aveva capito cosa era successo ai Nuclei Mentali Organici. Un cervello di tipo umano veniva strutturato geneticamente per manipolare un input sensoriale limitato - autolimitantesi. Invece, loro avevano forzato quei cervelli di tipo umano ad operare in condizioni di flusso di input illimitato, non avevano permesso loro di poter usufruire di veri momenti d'incoscienza, avevano inflitto ai Nuclei l'input sensoriale di un organismo infinitamente più sensibile e più complesso dei corpi da cui erano stati estratti. Gli NMO avevano tentato di adattarsi, aggiungendo fibre di conduzione di maggiore portata, sviluppando la loro capacità di gestire simultaneamente i dati sensoriali... ma tutto quel che avevano fatto non era stato sufficiente. Quando le necessità del momento raggiungevano una frequenza
intensissima, i Nuclei mandavano in corto circuito le loro connessioni interne. Morivano. Erano stati forzati ad entrare in uno stato di ipercoscienza dalla pressione della quantità enorme di dati sensoriali e dal terribile senso di responsabilità che proveniva loro dal sapere che erano soli al comando della nave. Si svegliavano pronti a divenire veri esseri umani, e scoprivano di non poterlo essere, poiché erano stati privati del loro registro emotivo autonomico, l'organismo. La nave non possedeva equivalenti. Prue sta per morire. Quel pensiero lo strappò alle sue meditazioni. Bickel tentò di muovere i muscoli, ma essi si rifiutarono. Raj? Dov'è Raj? Un barlume di consapevolezza attraversò il suo sistema nervoso stressato. Confusamente, come se li stesse osservando attraverso una benda di garza, vide Timberlake e Flattery intrappolati nel mozzo, mentre delle unità robox bloccavano i portelli. Raj deve uscire di là per andare a salvare Prue, pensò. Sentì il suo pensiero penetrare nel sistema del computer come un programma indipendente, essere processato da un banco di memoria ausiliario mentre esso raccoglieva i dati necessari, divenire un impulso riflessivo negli avvolgimenti dei comandi. Il robox che teneva bloccato il portello interno girò i volani, lo aprì e si fece frettolosamente da parte. «Raj», sussurrò allora Bickel. «Sala comando... svelto... Prue... aiuto». Percepì il suo sussurro amplificato che veniva captato dai banchi di memoria e dagli avvolgimenti dei vocoder, lo sentì trasformarsi in un ruggito sibilante nel locale in cui si trovavano Timberlake e Flattery. Flattery aveva già oltrepassato il portello e stava scendendo lungo il tubo, dirigendosi verso la sala di comando. Bickel capì di essere sul punto di svenire. La sua consapevolezza era un punto luminoso che diveniva sempre più fioco, mutando colore. All'inizio, era stato quasi violetto, su una frequenza di circa 4000 angstrom, poi iniziò a mutare continuamente colore, fino a spegnersi all'estremità rossa dello spettro. Un istante prima di piombare in uno stato d'incoscienza, Bickel si chiese se stesse per morire, e pensò: Infrarossi! La coscienza svanisce come gli infrarossi.
Flattery capì che, in qualche zona della sua mente, tutta una serie di dati erano stati analizzati e collegati tra loro, producendo una terribile risposta. La nave doveva essere distrutta - e tutti i suoi occupanti con essa. Quando il portello si aprì, quel pensiero lo dominò. Si spinse in fretta oltre il portello e cominciò a discendere lungo il tubo. L'illusione ottica che gli dava l'impressione che il tubo si restringesse avanti a lui, lo colmò della sensazione che avrebbe dovuto essere sempre più piccolo per passarvi attraverso. Quel pensiero interferì con gli altri, ben più importanti, e Flattery lo scacciò dalla mente. Sentì che Timberlake lo stava seguendo da vicino. «Hai visto quel robox?» ansimò Timberlake. «Perché ha sbloccato il portello?» Flattery accelerò l'andatura senza rispondergli. «Quella voce», disse Timberlake. «Era Bickel, vero? O almeno, così pareva». Arrivarono ad una biforcazione del tubo, presero la direzione che conduceva alla sala comando e si trovarono di fronte al portello. Flattery lo aprì, scivolò oltre. La sua mente turbinava. Uccidere subito la nave? Distruggere il genio scatenato che avevano creato? Timberlake non doveva sospettare nulla, oppure avrebbe tentato di fermarlo. E Bickel - lui era nel suo cubicolo, da cui avrebbe potuto bloccare il processo d'autodistruzione. Devo comportarmi in maniera normale, pensò Flattery. Devo attendere l'occasione giusta. Prudence giaceva sul ponte, a metà strada tra il portello e il lettino. Flattery le si inginocchiò accanto, e la sua mente si concentrò, per il momento, soltanto sulle conoscenze mediche che la situazione richiedeva. Il battito cardiaco di Prue era debole, irregolare. Flattery poté scorgere delle macchie sul collo della donna, al di sopra del sigillo del casco. Le tolse il casco e le posò una mano sulla nuca. La pelle era viscida di sudore. Pensava di riuscire ad ingannarmi? si chiese. Aveva smesso di prendere la sua droga A-S e stava compiendo esperimenti, usando come cavia il suo corpo. Avevo rilevato nelle nostre scorte di medicinali una diminuzione graduale di serotonina e di frazioni d'adrenalina. Flattery pensò agli sbalzi neuro-regolatori, alle sofferenze mentali che comportava il manipolare in quel modo il metabolismo corporeo. Gli strani cambiamenti d'umore di Prue, il suo comportamento, in quel momento gli apparvero fin troppo facili da spiegare.
Si rialzò, staccò dai ganci con cui era assicurata alla parete la cassetta di pronto soccorso e iniziò a somministrare le prime cure a Prue. Continuò ad esaminare le sue condizioni mentre lavorava. Niente ossa rotte. Nessuna evidenza di ferite esterne, almeno ad un esame compiuto attraverso la tuta. Timberlake aveva ignorato Prudence, dopo averle dato una breve occhiata. La donna rappresentava un problema di cui doveva occuparsi Flattery. Invece, lui si era precipitato alla sua postazione, aveva assunto il controllo della console principale, attivandone per prima cosa i circuiti. Ma l'equipaggiamento stava funzionando in maniera strana, quasi fiacca. Timberlake dovette attendere che i servomeccanismi ronzassero lentamente nello svolgere i loro compiti, mentre i circuti recalcitravano e producevano lentamente, quasi con pigrizia, i risultati che Timberlake desiderava. Timberlake si accorse che la sua percezione di ogni strumento di controllo si era acuita, e capì che doveva basarsi necessariamente sulla sua consapevolezza intuitiva. L'interrelazione di ciascun dispositivo presente in sala comando, e a bordo della nave, era simile ad un complicato balletto, ad uno schema che andava facendosi sempre più semplice nella sua mente, nonostante la lentezza con cui funzionava. Timberlake eseguì una lieve regolazione dello schermo della nave, rilevò sui suoi strumenti la risultante variazione di temperatura, sotto forma di una variazione d'energia negli accumulatori a cellule radioattive della nave, e di una minuscola variazione di peso dell'intera nave, provocata dal mutato equilibrio tra massa, temperatura e protoni. Ma gli strumenti erano lenti. Sempre più lenti. Timberlake attirò accanto a sé la sua tastiera di computer, lanciò un programma diagnostico. Non ottenne alcuna risposta. Le spie sulla console principale si stavano spegnendo. Con sforzi sempre più frenetici, Timberlake tentò di rintracciare la fonte del problema. I circuiti erano morti. Nessuna risposta. I tasti sulla console principale iniziarono a bloccarsi. Non c'era energia nei loro circuiti. L'ultimo indicatore luminoso si spense. Ogni tasto della console era bloccato; tutti i servomeccanismi tacevano. Non si udiva il fruscio delle pale che facevano circolare l'aria, non c'era alcun impulso vitale sulla nave. Lentamente, Timberlake spostò il suo sguardo verso destra, fissando i ripetitori delle vasche d'ibernazione. Gli indicatori luminosi erano spenti, ma gli indicatori analogici mostravano che i fluidi nutritivi scorrevano ancora
nei condotti del sistema. Le luci della sala di comando si affievolirono, quando il generatore ausiliario subentrò a quello principale. Gli occupanti delle vasche non erano morti... finora, pensò Timberlake. Qualunque valore avesse registrato laconsole quando si era spenta, quello sarebbe rimasto l'equilibrio omeostatico di ciascuna vasca - fin tanto che gli accumulatori ausiliari della nave fossero riusciti ad erogare energia... fin tanto che i motori che pompavano le sostanze nutritive avessero continuato a funzionare. Ma la possibilità di eseguire controlli e regolazioni accurate era svanita. Timberlake scese con calma dal lettino, si guardò intorno, nella sala comando stranamente tranquilla. Gli unici suoni che si udivano erano quelli prodotti da Flattery nel tentativo di rianimare Prudence. Le palpebre della donna tremarono e Timberlake pensò amaramente: A cosa servirà salvarla? È come se fossimo già morti. Flattery si bilanciò sui talloni. Ho fatto tutto quel che potevo per lei, pensò. Adesso... Si accorse della tranquillità che era scesa in sala comando, sollevò lo sguardo sulla console principale inattiva, scoccò un'occhiata interrogativa in direzione di Timberlake. «Bickel questa volta c'è riuscito», commentò Timberlake. «Niente energia... computer spento. Non funziona niente». Tutto quello che devo fare è attendere, si disse Flattery. Priva di energia, la nave morirà. Ma lo sforzo di rianimare Prudence aveva indebolito la sua determinazione. Vivere, dopo tutto, aveva le sue attrattive - anche se non erano altro che una nave piena di cloni nati in provetta, sacrificabili. «Voi siete umani, non dubitatene mai», aveva insistito Hampstead. «Cosa importa che siate nati da cellule selezionate da candidati altrettanto selezionati? Siete ancora degli esseri umani - in ogni senso. Abbiamo usato questo metodo poiché era la cosa più logica da fare. Non vogliamo perdere i nostri uomini migliori se la nave verrà distrutta... come lo sono state le altre». Ma se la nave moriva in quel modo, poteva non essere in grado di inviare a Base Lunare la capsula contenente quelle registrazioni che avrebbero potuto aiutare gli altri che sarebbero venuti dopo di loro... il tentativo successivo. «Come sta?» chiese Timberlake. Annuì in direzione di Prudence. «Penso che si riprenderà».
«Per far cosa?» sbottò Timberlake. «Vuoi andare a vedere cos'è successo a Bickel?» «Perché preoccuparsene?» Quella domanda, rivoltagli con un tono che tradiva una totale rassegnazione al loro destino, fece infuriare Timberlake. «Arrenditi, se vuoi, ma se Bickel è vivo, può sapere quel che ha fatto... e come porvi rimedio». Con una spinta, si allontanò dal lettino e si diresse verso il portello che conduceva agli alloggiamenti dell'equipaggio. «Aspetta», lo chiamò Flattery. La replica di Timberlake lo aveva colpito, e quella reazione lo aveva sorpreso. Ho acquisito un nuovo gusto per la vita? si chiese Flattery. Dio - qual è la Tua volontà? «Rimani qui ad assistere Prue», disse Flattery. «Ha subito uno shock chimico. Dovrebbe rimanere tranquilla e al caldo. Ho aumentato la temperatura della sua tuta. Lasciala...» Si interruppe quando il portello degli alloggiamenti dell'equipaggio iniziò ad aprirsi lentamente. Bickel lo attraversò incespicando, e sarebbe caduto se non si fosse aggrappato ad un montante. Un blocco di plastica carbonizzata gli sfuggì dalle mani, cadde sul ponte. Lui lo ignorò, e continuò ad aggrapparsi al montante. Flattery lo scrutò con attenzione. Bickel aveva delle profonde occhiaie. La sua pelle era pallidissima, di un colore simile a quello del talco. Aveva le guance incavate, come se avesse digiunato per mesi. «E così la tua scatola bianca non ti ha ucciso», commentò Flattery. «Peccato. Tutto quello che sei riuscito a fare è aver ucciso la nave». Bickel scosse la testa, incapace di parlare. La calma scesa sulla nave lo aveva svegliato da un sonno così profondo, che sentiva ancora le sue ultime spire indugiare nella sua mente. Una stanchezza estrema gravava sui suoi muscoli. Il muoversi gli provocava strani dolori in tutto il corpo, risvegliava quel terribile torpore. La prima cosa ad attirare la sua attenzione, mentre si svegliava, era stato l'energizzatore Mobius, il suo geniale dispositivo che avrebbe dovuto fornire energia costante al Bue. Una striscia di plastica grigia carbonizzata fuoriusciva dai sigilli e i motori erano inerti. I motori e le bobine, teoricamente destinati a durare per migliaia d'anni, non erano più che grumi di plastica e metallo fusi. Aveva impiegato parecchi minuti per riacquistare energia sufficiente per
avvicinarsi all'unità e studiarla. La sua mente aveva riflettuto sulle osservazioni più semplici - tracce d'isolante carbonizzato sui cavi d'energia e nei circuiti di temporizzazione... bobine di nastro deformate. Lentamente, capì: qualcosa aveva alterato la quantità d'energia che veniva erogata ai motori... e la loro sincronia. Qualcosa aveva tentato di cambiare la frequenza di quell'impulso... e la sua intensità. Forzando ogni suo muscolo a muoversi, aveva staccato l'energizzatore, e aveva raggiunto, un po' incespicando, un po' strisciando, la sala di comando. La calma mortale che era scesa sulla nave aveva gravato su di lui mentre si muoveva. Raj... Tim... qualcuno con la mente lucida... deve vedere questa cosa, aveva pensato. Ma adesso che ce l'aveva fatta ad arrivare in sala comando, non riusciva a trovare le forze per parlare. Timberlake raccolse dal ponte l'energizzatore fuso e lo esaminò. Flattery raggiunse Bickel, gli sentì la pulsazione della tempia, gli sollevò una delle palpebre, gli osservò le labbra e la lingua. Poi, si chinò verso la cassetta di pronto soccorso, ne estrasse una siringa a pressione e la premette contro il collo di Bickel. L'energia cominciò a fluire bruciante nelle sue vene. Flattery gli pigiò una bottiglia contro le labbra. «Su, bevi questo». Qualcosa di fresco e frizzante scorse nella gola di Bickel. Flattery gli allontanò la bottiglia dalle labbra. Bickel riuscì a mettere insieme un roco bisbiglio e chiamò con voce raspante: «Tim». Timberlake lo guardò. Bickel annuì in direzione dell'energizzatore, iniziò a spiegare cosa era successo. Flattery lo interruppe. «Pensi che il trasferimento scatola nera - scatola bianca sia stato completato?» Bickel rifletté sulla domanda. Sentiva che, sotto l'effetto dello stimolante, gli si stava schiarendo la mente - e nella sua memoria c'era la sensazione che la nave fosse il suo corpo, che lui fosse una creatura di duro metallo ed equipaggiata con migliaia di sensori. «Penso... di sì», rispose. Timberlake sollevò il blocco di plastica. «Ma... ha distrutto questo e... apparentemente si è privata dell'energia». Un pensiero iniziò ad agitarsi nella mente di Bickel, e così disse: «Que-
sto potrebbe essere un messaggio diretto a noi... una specie di ultimo messaggio?» «È Dio che ci avverte che ci siamo spinti troppo oltre», mormorò Flattery. «No!» esclamò bruscamente Bickel. «Era il Bue e ci stava dicendo... qualcosa». «Cosa?» domandò Timberlake. Bickel tentò di umettarsi le labbra con la lingua. Aveva la gola così secca. Le labbra gli dolevano. «Quando in natura avviene un trasferimento d'energia», spiegò Bickel, «esso si svolge quasi tutto in maniera inconscia». Tacque per un istante. Era un ragionamento difficile da sviluppare. Doveva procedere con estrema cura. «Ma la maggior parte dei trasferimenti d'energia che riguardano l'enorme dotazione di dati dell'insieme Bue-computer vengono eseguiti da programmi supervisori... e la coscienza totale dovrebbe monitorarli tutti, forzare l'intero sistema a fungere da filtro. Sarebbe come tentare di guidare un branco di un miliardo di animali selvaggi». «Gli hai dato troppa coscienza?» chiese Timberlake. Bickel guardò il pannello del sistema AET, accanto al suo lettino. Timberlake si girò, seguì la direzione dello sguardo di Bickel. Prudence si agitò e gemette. Flattery si chinò verso di lei. Ma Timberlake li ignorò, iniziando a comprendere dove conduceva il ragionamento di Bickel. La nave stava morendo, ma c'era ancora qualche speranza. «Tutti i programmi supervisori che hanno come obiettivo la traduzione di simboli sono monitorati attraverso avvolgimenti di feedback collegati all'AET», affermò Timberlake. «Simboli!» «Ricorda», disse Bickel, «che gli impulsi provenienti dal sistema nervoso umano possiedono un fattore addizionale di integrazione/modulazione la sinergia. Un trasferimento d'energia inconscio». Flattery, inginocchiandosi accanto a Prudence, si chiese perché non riuscisse ad impedire alla sua consapevolezza di dedicarsi soltanto in parte alle cure che stava prestando alla sua compagna. Ma la conversazione tra Timberlake e Bickel lo aveva elettrizzato. Qualcosa veniva aggiunto agli impulsi in uscita dal sistema nervoso centrale. Quel pensiero tumultuò nella mente di Flattery, che fu costretto a fare uno sforzo di volontà per concentrare la sua attenzione su Prudence, pre-
mendole contro il collo una siringa stimolante. Un'aggiunta. Una Gestalt addizionale. Delle qualità, per essere addizionabili, devono essere dotate di sufficiente similarità. Altrimenti, come potrebbero i sensi umani percepire due sfumature di uno stesso colore sovrimposte e dire che una è più intensa dell'altra? Che cosa rende, per i sensi, un verde più intenso di un altro? L'aumento d'intensità doveva essere una forma d'addizione. «Potrebbe avvenire nei dendriti delle fibre di convergenza ad alta velocità del Bue», ipotizzò Bickel. Flattery si accosciò di nuovo, attendendo che lo stimolante facesse effetto su Prudence. Bickel ha ragione, pensò. Se si sovraimponesse una convergenza sufficientemente rapida di dati sensoriali, allora essa potrebbe essere interpretata come intensificazione. Una delle immagini conterrebbe più bit dell'altra. Ma bit di cosa? Tutto questo non spiega il fatto che i dati si sovrappongano nella coscienza... nella consapevolezza umana... Flattery sollevò lo sguardo su Bickel e Timberlake. Apparvero entrambi persi nei loro pensieri. Prudence bofonchiò: «Fmmmmsh». Quasi automaticamente, Flattery le poggiò una mano sulla tempia, controllandone le pulsazioni. Quando compio una ricerca nella mia memoria, rifletté, trovo i dati separati contro uno sfondo. Qualunque cosa sia questo sfondo, la coscienza opera su di esso. È questo sfondo che fornisce la dimensione e i punti di riferimento alla coscienza - che le conferisce la sua estensione. «Gli organi di senso del Bue sono stati modellati sui nostri, con uno spettro più ampio», affermò Timberlake. Bickel annuì. «Le differenze», disse. E ricordò quanto spaventosi fossero stati quei globi di radiazioni che si fondevano l'uno con l'altro. «E tutti quei contatti che ha avuto con i coloni e gli animali ibernati nelle vasche?» chiese Timberlake. «Ha una donna mai portato in grembo... tanti... bambini... in un modo simile?» «Sì, se la coscienza scaturisce dalla combinazione di sensazioni», replicò Bickel. «È ovvio che sia così?» esclamò Timberlake. «È molto probabile», disse Bickel. «E può ricevere e selezionare lungo l'intero spettro di radiazioni. Non si può affermare che oda o che veda o
che senta gli odori... o che provi emozioni. Sono soltanto diverse forme di radiazione». «E le combinazioni potrebbero produrre strane qualità sensoriali, che noi non potremmo neppure immaginare», disse Timberlake. «È così», sussurrò Bickel, ricordando i globi. «Ma la creatura è morta», obiettò Flattery. «Si è... rifiutata di vivere». Sollevò lo sguardo su di loro, mentre teneva ancora d'occhio Prudence, che stava riprendendo i sensi. «Non è un essere umano, però», replicò Bickel. «Se riusciamo a trovare la risposta sul perché si è spento da solo, e sul motivo per cui ci ha inviato questo messaggio...» «Vorresti riaccenderlo?» chiese Flattery. «Tu no?» domandò Timberlake. «Hai dimenticato il modo spietato con cui ha agito?» chiese Flattery. «Tu eri là con me... intrappolato». Stiamo vendendo la pelle dell'orso prima ancora di averlo catturato, pensò Bickel. Sappiamo che c'è qualcosa, là fuori - qualcosa che, nello stesso tempo, è utile e pericoloso. Tentiamo di comprenderlo e di descriverlo, ma Raj ha ragione. Non sappiamo se quello che abbiamo di fronte ci sarà utile oppure si rivelerà un mostro - lo strumento o il Golem. «Ma avrà una coscienza superiore alle nostra, sarà dotata di capacità infinitamente maggiori», affermò Timberlake. «Esattamente», disse Flattery. «Contiene un infinita progressione di varie sfumature di coscienza, tutte sussunte all'interno di una nuova forma di consapevolezza», disse Bickel. «Abbiamo costruito l'alieno definitivo. La domanda di Raj è valida quanto la tua. Dovremmo accenderlo? Possiamo rischiare di accenderlo?» Prudence allungò una mano, e a tentoni scostò la mano di Flattery dalla sua testa. Tentò di mettersi seduta. Flattery l'aiutò. «Adesso sta' calma», la esortò Flattery. Prudence portò una mano alla gola. Le doleva terribilmente. Aveva ascoltato la conversazione di coloro che la circondavano per parecchi minuti, ricordando. Ricordò che c'era stato un ragionamento logico, sforzi frenetici di far venire Bickel al comunicatore. Ricordò lo sforzo e la fretta, ma la ragione precisa per cui aveva abbandonato il suo posto per correre ad avvertire Bickel le sfuggì. «Dobbiamo eliminare le false imformazioni dalle nostre menti», affermò
Bickel. «Stiamo ipotizzando l'esistenza di un robot pienamente cosciente, le cui attività siano dirette dalla sua consapevolezza. Non potrebbe esistere, a meno che ogni azione non venga monitorata simultaneamente». Le sue parole suscitarono un vago senso di rabbia in Prudence. Bickel continuava a non citare il... a cosa stava pensando? «Dovrebbe avere l'illusione di essere al centro dell'universo?» chiese Timberlake. «No». Bickel scosse la testa, ricordando: «L'universo non ha centro». Ecco quello che la creatura gli aveva detto. Questo era un problema che si affrontava nel definire il concetto di "TU" e di "IO" - si trattava di un problema d'identità. Bickel annuì tra sé e sé. Sei consapevole? Sono consapevole? Guardò gli altri. L'oggetto e ciò che lo circonda. Un momento di intensa disperazione lo assalì. Ebbe voglia di urlare. «La vita come la concepiamo noi», disse Timberlake, «iniziò ad evolversi circa tre miliardi d'anni fa. Quando raggiunse un certo livello d'evoluzione, allora apparve la coscienza. In precedenza, non esisteva alcun tipo di coscienza... almeno per quel che riguarda la nostra forma di vita. La coscienza scaturisce dal mare inconscio dell'evoluzione». Guardò Bickel. «Esiste proprio adesso immersa nel mare universale dell'inconscio». Come se le parole di Timberlake avessero abbattuto una diga, Prudence ricordò il suo ragionamento, che era stato così importante da costringerla ad abbandonare il suo posto per andare in cerca di Bickel. Determinismo in azione in un mare di non-determinismo! E lei possedeva la chiave per risolvere il problema in via matematica. Era questo che voleva comunicare a Bickel. Aveva tentato di trovare una nuova sintesi che, in via matematica, esprimesse la probabilità quantica. Nella sua mente, si era formata una griglia tridimensionale, e la sua coscienza aveva iniziato a sondarla, simile ad un raggio luminoso. La griglia, un dato volume di spazio, dimensioni x, y, z. Per trovare l'origine della coscienza, bisogna individuare un oggetto invisibile (s) nel tempo (t) in una data operazione all'interno di quel volume. Ancora una volta, provò la sensazione che la sua coscienza si espandesse enormemente e si ricordò di quell'improvvisa illuminazione che l'aveva invasa - aveva spinto il proprio metabolismo oltre il punto d'equilibrio. Ricordò tanto bene come le tenebre l'avessero inghiottita quanto la bellezza
matematica, la semplicità di quel pensiero che si era impadronito della sua mente. Le derivate posizionali x, y, z della griglia fratto (s). Era una funzione del volume (s) in cui (sx) (sy) e (sz) erano derivate da s= radice quadrata della sommatoria di (x - x) elevato al quadrato diviso t, s= radice quadrata della sommatoria di (y - y) elevato al quadrato diviso t, s= radice quadrata della sommatoria di (z - z) elevato al quadrato diviso t. La connessione tra i punti-pensiero all'interno della griglia immaginaria poteva essere individuata da coseni che tracciavano una linea che si estendeva fino all'origine casuale della consapevolezza. E le distanze per ciascuna sonda-pensiero potevano essere determinate da (1, m, n, 1 fratto d), in cui d= radice quadrata di x al quadrato + y al quadrato + z al quadrato, 1= x diviso d, m= y diviso d, n= z diviso d. Non c'era alcun dubbio su ciò che indicava l'intuizione di Prudence - il sistema AET. Per un istante, esaminò mentalmente l'intero sistema AET, analizzando il suo schema di collegamento continuo alla luce della sua griglia simbolica. Era così semplice. L'AET era un continuum tetradimensionale, un frammento di geometria spazio-temporale soggetto a fattori di curvatura, durata sulla distanza e ad un trasferimento particella/onda realizzato attraverso una molteplicità di linee sensoriali trasversali. Per il sistema nervoso umano, uno strumento progettato per quel tipo di lavoro, niente poteva essere più semplice di visualizzare e manipolare una simile ragnatela quadridimensionale - una volta che si fosse compresa la natura di essa. «John», disse lei, «Il Bue non è uno strumento cosciente; è l'AET ad esserlo: il manipolatore di simboli. I circuiti del Bue sono soltanto qualcosa che questo manipolatore può usare per muovere i primi passi, per conoscere se stesso». «L'oggetto e ciò che lo circonda», sussurrò Bickel. «Il soggetto e lo sfondo, la griglia e la mappa... la coscienza e l'assenza di essa!» «Il Bue è la componente inconscia», disse lei, «una macchina che serve per trasferire energia». E, ancora in uno stato di coscienza acuita, spiegò loro gli indizi matematici che l'avevano indirizzata verso quella teoria. «Un sistema di matrici», disse Bickel, ricordando che anche lui aveva affrontato il problema in quel modo, intuendo la soluzione del problema. «Un numero infinito di submatrici». Flattery si alzò in piedi, capendo dove avrebbero portato quei pensieri,
temendo il momento di entrare in azione. Abbassò lo sguardo su Prudence, seduta sul ponte, notando le sue guance arrossate, lo scintillio nei suoi occhi. «E su cosa si basa questo insieme AET-Bue?» domandò Flattery. «Ci avete pensato?» Prudence incrociò il suo sguardo, comprendendo il motivo per cui le vasche d'ibernazione erano state riempite di coloni. «I coloni», disse annuendo. «Un campo di non-coscienza da cui può attingere qualunque inconscio - un terreno che sostiene e àncora - e sono i coloni addormentati a fornirlo». Flattery scosse la testa, provando rabbia, confusione. Bickel fissò Prue senza vederla veramente, assorbendo quel che la donna aveva detto. Nella sua consapevolezza, delle idee si fusero e nacquero degli schemi. Quella nave era stata armata, programmata, puntata e lanciata verso il suo bersaglio. Si ricordò l'aspetto di Hampstead: un volto da gnomo saggio, gli occhi scintillanti, e quella voce suadente che diceva: «Quel che conta di più è la ricerca stessa. Essa è più importante dei ricercatori. La coscienza deve sognare, deve avere una base su cui sognare - e, sognando, deve invocare nuovi sogni». «La conoscenza è spietata», affermò Bickel. Prudence lo ignorò, mantenendo la sua attenzione su Flattery, consapevole della confusione dello psichiatra-cappellano. «Non lo capisci, Raj? Per separare il soggetto dall'oggetto deve esistere un qualche tipo di sfondo. Devi essere in grado di vedere l'oggetto profilato contro qualcosa. E qual è lo sfondo della coscienza? L'inconscio». «Zombi», dichiarò Bickel. «Ricordi, Raj? Ci hai chiamato zombi. E perché no? Per la maggior parte delle nostre vite siamo vissuti in uno stato di leggera ipnosi». Flattery capì che Bickel aveva detto qualcosa, ma le parole rifiutarono di assumere senso compiuto. Era come se Bickel avesse detto: «Salta limbo promessa l'insetto facente acqua per essere eretto a una conservazione di primo comportamento». Le parole sfilarono nella sua mente come se fossero state proiettate su di essa per distoglierla da qualcos'altro. Da cosa? Un profondo silenzio riempì la sala comando, spezzato dal rumore che fece Prudence cambiando posizione sul ponte. Bickel sentì di divenire calmo quanto quel silenzio, come se un qualche altro se stesso avesse atteso quell'occasione, quel silenzio, per prendere il
controllo della sua mente. La sensazione durò soltanto un singolo battito di cuore, e si espanse, tramutandosi in una sensazione di benessere, una placida acutezza mentale che illuminò tutto ciò che lo circondava. Era come se un universo si fosse sostituito ad un altro, come se un amplificatore sensorio di enorme potenza fosse stato puntato come un riflettore sull'universo. Scorse la completa mancanza di consapevolezza sul volto di Flattery e su quello di Timberlake - una mezza comprensione su quello di Prudence. Zombi, pensò. «Raj, ci hai chiamato zombi», ripeté Bickel. «Se fossimo stati leggermente ipnotizzati, appariremmo parzialmente morti a qualcuno dotato di uno stato di coscienza superiore». «Devi proprio parlare così tanto?» chiese Timberlake, Flattery fissò con ira Bickel. Sapeva che stava usando quelle parole per comunicare con lui, ma la sua mente non riusciva a ricavarne qualsivoglia significato. Le parole di Bickel sollevarono Prudence. Ci fu un istante in cui l'universo girò su di un perno che era lei stessa. La sensazione mutò: il suo Io non era più confinato in se stessa. E quando rinunciò al suo Io, giunse la piena comprensione. Le ritornarono in mente le parole di Flattery: «Non c'è nulla che riguardi noi stessi su cui possiamo essere totalmente oggettivi, tranne le nostre reazioni fisiche». Gli esperimenti chimici che aveva condotto sul proprio corpo non avevano mai rappresentato una reale possibilità di risolvere il problema. La speranza era stata illusoria... poiché gli esperimenti non erano stati condotti su ciascun occupante dell'Uovo di Latta - il loro mondo isolato. Condividiamo lo stesso inconscio! pensò. E capì che quella doveva essere la vera ragione per cui le vasche d'ibernazione erano state riempite di esseri umani addormentati. Qualcuno, facente parte del Progetto, aveva intravisto quella necessità. L'equipaggio ombelicale doveva possedere un terreno inconscio condiviso su cui basarsi. Dovevano avere un punto di riferimento, una minuscola isola nel vasto mare tenebroso che potevano condividere con qualunque cosa avessero prodotto dalle loro fibre neuroniche e dai moltiplicatori Eng. Avrebbero avuto bisogno di una base solida da cui elevarsi. Lo specchio non può riflettere se stesso, pensò. «Ipnotizzati», disse Bickel. «L'abbiamo accettata come una condizione normale poiché era virtualmente l'unica forma di coscienza che avessimo
conosciuto. Avete visto le trasmissioni televisive della Terra. Vi aspettereste che neppure uno sciocco si facesse ingannare dalle pubblicità, ma quel martellamento ritmico, quella ripetizione...» «...mezzi morti», ripeté Prudence. «Zombi». Ha detto «zombi», pensò Flattery. La sua voce lo spaventò. Bickel vide la comprensione, il risveglio invadere gli occhi di Prudence. «Avremmo dovuto pensare all'AET, quando ha iniziato a vivere durante la ricezione del messaggio di Base Lunare», disse Bickel. «Capite cosa dev'essere fatto?» chiese Prudence. «L'energizzatore...» «Lo stimolatore», la corresse Bickel. «Lo stimolatore», ripeté lei. «In tutti i casi, deve far parte dell'input dell'AET». «Collegamenti flessibili», mormorò Bickel. «Moduli sensoriali interfacciati e correlazione temporale fuori fase. Funzione duale del segnale per compensare la grande quantità di dati sensori che il sistema riceve». Timberlake guardò prima Prudence e poi Bickel. Ebbe la sensazione che una cortina di nebbia si sollevasse dalla sua mente. Collegamenti flessibili... moduli sensori. Simboli! La memoria di Timberlake ritornò di colpo alla conversazione che avevano avuto sull'energizzatore: «Tutti i programmi supervisori che si occupano della traduzione di simboli sono monitorati attraverso gli avvolgimenti di feedback collegati all'AET». Udì la propria voce riecheggiare nella sua mente. Simboli! L'intera struttura del loro problema assunse nella mente di Timberlake una forma così chiara, che fu come se qualcuno gliela avesse lanciata di colpo. Il problema e la soluzione si concretizzarono in un dispositivo fisico e lui vide le reti neurali che avevano costruito disposte in una serie di triangoli con dei nastri di Mobius - prismi di triangoli cellulari interfacciati che penetravano con i loro flussi d'energia in infinite dimensioni, formando dati sensoriali e ricordi al di fuori dello spazio convenzionale, memorizzando bit d'informazione e alterando relazioni in estensioni dimensionali virtualmente senza limiti. Bickel vide la potenza vitale colmare Timberlake e disse: «Pensa all'AET, Tim. Ricordi quel che dicevamo?» Timberlake annuì. L'AET. Riceveva centinaia di duplicati dello stesso messaggio, compressi in raffiche laser modulate. Cancellava gli spazi vuo-
ti e le distorsioni, filtrava il rumore, eseguiva delle comparazioni per stabilire il significato più probabile dei frammenti dubbi, inviava il risultato in un vocoder e lo trasformava in suoni intelligibili. «Il processo si avvicina molto a quel che facciamo noi quando udiamo qualcuno pronunciare delle frasi su di noi... cioè controllare, per vedere se abbiamo sentito bene», disse Timberlake. «Stai dimenticando qualcosa», gli ricordò Flattery. Si voltarono, videro Flattery accanto al suo lettino, con la mano sulla sua console ripetitrice. Sopra quest'ultima, brillava una solitaria luce rossa. Flattery fissò, in rapida successione, i suoi tre compagni, notando l'anormale luccichio dei loro occhi. Follia! E si accorse anche del loro colorito acceso, del loro senso d'eccitazione. «Raj, aspetta», disse Bickel. Parlò con voce suadente, osservando la mano di Flattery sospesa su di un tasto situato sotto quella luce rossa. Avrei dovuto immaginare che ci fosse un altro pulsante d'autodistruzione, pensò Bickel. «Tu sai che devo farlo, John», si giustificò Flattery, e assaporò quel momento di suspence, l'elettricità che sembrò aver conferito all'aria della sala comando un sentore d'ozono. «Sei tu a controllare la situazione», disse Bickel. «Il minimo che puoi fare è sentire quel che ho da dirti». «Non possiamo permettere che viva», dichiarò Flattrey. Timberlake deglutì e abbassò lo sguardo su Prudence. Che strano destino: morire subito dopo esser divenuti veramente vivi, pensò. «Com'è che, Raj», chiese Bickel, «siamo in grado di spiegare più cose sulle reti inconsce del corpo umano piuttosto che su quelle consce?» «Stai perdendo tempo», ribatté Flattery. «Ma la creatura è morta», affermò Bickel. «Devo esserne sicuro», replicò ostinatamente Flattery. «Perché non puoi assicurartene dopo aver sentito quel che ha dirti John?» chiese Prudence. Guardò Bickel per attirare l'attenzione di Flattery sull'uomo. Due luci avevano iniziato a lampeggiare sulla console principale alle spalle di Flattery. «È un paradosso», disse Bickel. «Ci è stato chiesto di scardinare il positivismo logico, e nello stesso tempo di agire logicamente. Ci è stato chiesto di trovare un sistema causa-e-effetto in un mare di probabilità in cui sistemi incredibilmete complessi si basano su sistemi ancora più complessi che
a loro volta si fondano su sistemi ancora più complessi». Flattery lo fissò, affascinato dalle implicazioni di ciò che stava dicendo Bickel. «Causa ed effetto?» chiese. «Cosa succederà se premi quel pulsante?» chiese Bickel. Annuì in direzione del pulsante su cui indugiava la mano di Flattery. Prudence trattenne il respiro, pregando che Flattery non premesse il pulsante. Numerose luci stavano brillando sulla console principale del computer, al di sopra del lettino di Timberlake. Non riusciva a spiegarsi perché quelle luci le dessero speranza... ma l'evidenza di vita nella nave... «Se premo questo pulsante», spiegò Flattery, «attiverò un programma esecutivo nel computer». Si voltò un istante per guardare le luci che ammiccavano alle sue spalle. «Ti sarai accorto che una parte del computer sta ritornando in attività. Questi circuiti...» Rivolse nuovamente la sua attenzione su Bickel. «...possiedono memorie di transito addizionali e attingono energia da generatori ausiliari. Il programma supervisore attivato da questo pulsante ordina al computer di autodistruggersi insieme alla nave - aprendo tutti i diaframmi di sicurezza, facendo esplodere delle cariche esplosive situate in posti strategici». «Causa ed effetto», ripeté Bickel. E si meravigliò di quanto apparissero meccanici i movimenti di Flattery. Uno zombi. «Causa ed effetto non vanno d'accordo con la coscienza», disse. Un'idea affascinante, pensò Flattery. «Se ciascuna azione conseguente deriva con casualità assoluta e immediata dalla sequenza di azioni passate, allora la coscienza non può assolutamente influenzare il comportamento», disse Bickel. «Pensa ad una fila di tessere di domino che cadono. La volontà umana - il muscolo e il braccio della nostra coscienza - non potrebbe decidere quale atteggiamento assumere, poiché esso sarebbe stato predeterminato da una lunga linea di azioni legate al principio di causalità». Flattery sentì che la mano che teneva sospesa sul pulsante iniziava a dolergli. «Non possiamo prevedere quel che farà quell'animale», replicò. «Lo so». Bickel ha firmato la nostra condanna a morte, pensò Prudence. Si alzò in piedi. Si sentiva ancora debole, ma lo stimolante stava facendo il suo lavoro. Afferrò il braccio di Timberlake affinché l'aiutasse a reggersi in piedi. Timberlake lanciò un rapido sguardo alla mano di Prudence, poi lo riportò su Flattery.
Tim sembra cosi calmo, pensò Prudence. «Forse la coscienza non influenza assolutamente l'attività neurale», disse Timberlake. «Magari abbiamo soltanto immaginato...» «Non essere ridicolo», sbottò Flattery. «Non avrebbe avuto alcun valore per la sopravvivenza e la natura non ne avrebbe permesso lo sviluppo. Le creature dotate di essa sarebbero morte molto tempo fa». Be', almeno lo stiamo facendo discutere, pensò Timberlake. Rivolse un sorriso a Prudence, ma lei stava guardando Bickel. Timberlake concentrò nuovamente la sua attenzione su Flattery. Quell'uomo sembra così spento... quasi morto. «Pensa ad un tubo catodico», disse Bickel. «Una piccolissima quantità d'energia applicata alla giunzione critica produce un quantità spaventosa d'energia in uscita. La coscienza fa qualcosa del genere, Tim. È un amplificatore neurale». «Causalità istantanea», sussurrò Flattery. Dio! Quanto gli doleva la mano - pareva che la stesse tenendo sospesa sul pulsante da più di un secolo. «Ecco quello da cui dobbiamo purgare il nostro modo di pensare», affermò Bickel. «La causalità istantanea ci dice che se abbiamo la conoscenza completa di una legge naturale e la conoscenza completa di un sistema in un dato momento, allora possiamo prevedere esattamente cosa farà il sistema da quel momento in poi. Questo principio, sicuro come l'inferno, è falso a livello molecolare, e non si applica neppure alla coscienza. La coscienza è simile ad un sistema di lenti che selezioni e amplifichi, che ingrandisca gli oggetti rispetto a ciò che li circonda. Può tuffarsi in profondità nel microcosmo, oppure nel macrocosmo. Riduce ciò che è gigantesco a dimensioni più maneggiabili, o ingrandisce l'invisibile, rendendolo visibile». Questo non cambia nulla, pensò Flattery. Perché stiamo parlando? Sta solo tentando di guadagnare un po' di tempo? La pressione esercitata dal suo condizionamento stava diventando insopportabile. Bickel intravide i primi deboli bagliori di vita negli occhi di Flattery. «Ma questo Fattore Coscienza non è una cosa completamente casuale. In un universo ricolmo di infinite possibilità di venire distrutti, un'attività casuale significa la matematica certezza di andare incontro alla distruzione e stiamo postulando che la coscienza sia orientata a garantire la sopravvivenza». «A meno che non si tratti di un processo di guarigione», disse Flattery.
«Ma il processo di guarigione dovrebbe controbattere qualunque tipo di distruzione», disse Bickel. E vide che la luce della vitalità stava crescendo nello sguardo di Flattery, alla sua maniera. «Devo premere quel pulsante, John», disse Flattery. «Lo sai questo?» «Tra un istante», rispose Bickel. «Raj, non puoi», disse Prudence. «Pensa a tutte quelle vite inermi nelle vasche d'ibernazione. Pensa a...» «Pensa a tutte quelle vite inermi sulla Terra», replicò Flattery. «Cosa scateneremmo su di loro? Il trasferimento effettuato da John ha riversato tutta la sua vita - la sua intera eredità razziale nel computer. Non lo capisci? Non lo capisce nessuno di voi?» Prudence si coprì la mano con la bocca. Bickel si avvide che ora Flattery era completamente sveglio, e comprese che la tensione provocata dal condizionamento che lo psichiatracappellano aveva subito gli aveva fatto superare una soglia, facendo lavorare la sua mente a pieno potenziale. Ma la nuova obiezione che gli aveva mosso Flattery lo lasciò di stucco. Se lo riattiviamo... lo risvegliamo... io sarei il suo inconscio, pensò Bickel. Rappresenterei la somma delle sue emozioni, il suo id, il suo ego e i suoi antenati. Deglutì a vuoto. E Raj... «Raj, non premere quel pulsante», disse Bickel. «Devo farlo», replicò Flattery. E mentre parlava, percepì la forza della sua consapevolezza, la potenza vitale che ormai ardeva dentro di lui. «Tu non capisci», disse Bickel. «Quel generatore di campo nel tuo cubicolo - tu credi che nulla sia penetrato dalla tua mente nel computer: non è così. La tua voce, le tue preghiere - ogni reazione veemente o sottile - sono penetrate nel sistema attraverso i suoi sensori. Qualsiasi cosa rappresenti la religione per te, la rappresenterà anche per il Bue. Qualsiasi...» «Qualsiasi cosa la religione rappresentasse per me», disse Flattery. E premette il pulsante. Quest'ultimo emise un click, poi si bloccò. «Quanto tempo abbiamo, Raj?» chiese Timberlake. «Forse dieci minuti», rispose Flattery. «E forse di più», commentò Bickel. «Non pensi che avremmo potuto tornare a bassa velocità a Base Lunare?» chiese Prudence. «Svegli come siamo adesso, controllare la nave si sarebbe dimostrato molto più semplice». «Qualche sciocco avrebbe di certo iniziato a gingillarsi con la nave - soltanto per fare delle prove», rispose Flattery. «E noi...» Con un gesto inclu-
se se stesso e gli altri tre. «Questo potenziale che abbiamo scoperto dentro di noi, sulla Terra, sarebbe stato limitato, soffocato». Si strinse nelle spalle. «Cosa sono pochi minuti o pochi anni, in più o in meno? Avevo un compito... e l'ho eseguito». «Eri anche dominato dal desiderio di morte», disse Bickel. «Anche da quello», fu d'accordo Flattery, capendo quanto quell'istinto mortale avesse contribuito ad elevarlo a quello stato di coscienza. E comprendendo ciò, Flattery iniziò ad intuire il ragionamento che stava dietro alle parole enigmatiche di Bickel - il loro significato recondito. «Alcuni filosofi greci sostenevano che anche gli dei devono morire», affermò Bickel. Flattery si voltò, osservò la console principale. Adesso era coperta di luci ammiccanti, ma nessuna spia luminosa d'avvertimento lampeggiava. I valori sugli indicatori erano assolutamente normali. «È programmato per portarci a Tau Ceti», disse Bickel. Flattery iniziò a ridere, in maniera quasi isterica. Poi, smise di colpo. «Ma non esiste alcun pianeta abitabile intorno a Tau Ceti. Tu sai bene, John, che è tutta una finzione. Sappiamo cosa siamo - dei cloni! Un donatore ha offerto una parte microscopica di se stesso, contenente lo schema genetico, e poi i serbatoi axolotl si sono occupati del resto. Eravamo sacrificabili!» Sospirò, ricacciò indietro il desiderio di sprofondare nel torpore mortale in cui era stato avvolto fino a poco tempo prima. «Stanno già facendo crescere i nostri sostituti, i nostri rimpiazzi, hanno già iniziato a costruire un nuovo Uovo di Latta... su Base Lunare. Ogni fallimento insegna qualcosa di nuovo a quelli di Base Lunare. Hanno tenuto continuamente sotto controllo il computer. Quando ho premuto il pulsante, ho provocato anche l'espulsione automatica di una capsula diretta verso la Terra, e contenente le registrazioni complete del nostro tentativo». «Non proprio complete», obiettò Bickel. «La nave ci porterà su Tau Ceti», disse Timberlake. «Ma... e il programma di autodistruzione?» chiese Prudence. E mentre faceva quella domanda, si accorse di quello che gli altri avevano già visto. La nave aveva sotto controllo la propria morte. Poteva morire. E questo le aveva dato la vita. L'impulso ad autodistruggersi era penetrato in profondità nell'AET, tramite i circuiti del Bue... ed era stato represso, nella stessa maniera in cui lo reprimevano gli esseri umani. La nave aveva ricevuto la vita come loro - nel mezzo della morte. La morte era lo sfondo su cui la vita poteva riconoscere se stessa. Senza la morte - la possibilità di una fine -
si erano trovati di fronte al problema di progettare un qualcosa di indeterminato; e la sua soluzione era impossibile. Tutto quello che aveva fatto Flattery era stato fornire all'AET - la sede della coscienza - un superenergizzatore. «Sei sicuro che a Tau Ceti non ci sia nulla?» chiese Bickel. «Esistono dei pianeti, ma sono inabitabili», rispose Flattery. Una luce verde cominciò a brillare sulla console principale. «Non ha alcun senso ibernarci», affermò Bickel. «Ma siamo felici», commentò Prudence. Fissò la luce verde. «Non è ancora pienamente conscia - la nave, voglio dire». «Certo che no», disse Timberlake, e pensò che Prudence aveva indicato con precisione lo stato emotivo in cui si trovavano. Io avrei detto che siamo pieni di gioia. Ma la gioia contiene un elemento di religiosità. Prue ha definito il nostro stato d'animo in maniera migliore. Prudence si accorse che Flattery la stava fissando. «Perché no?» disse lo psichiatra-cappellano. Sì, perché no? pensò lei. Nessuna donna aveva dato vita ad una nascita più strana. Prudence si avvicinò alla console principale, attivò il sistema di comunicazione vocale del computer. «Tu», disse. Tenne la mano sull'interruttore dell'intercom, e la nuova sensibilità della sua pelle le fece percepire il complesso spostamento degli atomi del metallo. Rimasero in attesa, conoscendo per grandi linee quel che stava accadendo all'interno della loro costruzione robotica. Quell'unica parola pronunciata da Prudence, memorizzata a causa della curiosità programmata e delle direttive di auto-conservazione di cui era dotato il computer, stava penetrando sempre più all'interno della loro creazione, ancora semi-conscia. Conservazione - ma esistevano vari tipi di essa, e molte cose da proteggere. Ma esisteva soltanto un ricettore su cui la parola "TU" poteva imprimersi. I programmi si attivavano uno dopo l'altro, venivano create nuove connessioni, venivano eseguiti paragoni e saldi finali. Di colpo, la console di fronte a Prue divenne inattiva. Ogni luce si spense, ogni misuratore indicò lo zero. Prudence premette ripetutamente il pulsante che attivava il computer, senza alcun esito. L'intera nave iniziò a
tremare. «È il programma di auto-distruzione?» chiese Bickel. Una singola parola, pronunciata con voce dura e metallica, assordante, provenne dal vocoder al di sopra delle loro teste: «Negativo». La vibrazione della nave si attenuò, riprese il suo precedente vigore, cessò di colpo. I quattro umani percepirono con grande chiarezza il movimento della nave nello spazio, e un grande silenzio che sembrò estendersi a tutta la nave. Ancora una volta, la voce parlò loro dal vocoder, ma questa volta era più dolce: «Adesso, vedrete sui vostri schermi una vista laterale». Lo schermo centrale e quello di prua si illuminarono, mostrando la stessa identica scena: l'immagine di un sistema solare, con i pianeti che venivano indicati dalle frecce rosse di riferimento del computer. «Sei pianeti», sussurrò Flattery. «Notate lo schema delle loro orbite e la posizione delle costellazioni». «Lo riconosci?» chiese Timberlake. «È la stessa immagine fotografata dalle sonde», disse Flattery. «Quello è il sistema di Tau Ceti». «E perché mai il computer dovrebbe riprodurre l'immagine delle sonde?» chiese Prudence. «Prudence», disse il vocoder, «questa non è un'immagine raccolta dalla sonde. Queste radiazioni sono ciò che io... vedo adesso intorno a me». «Siamo già a Tau Ceti?» chiese Prudence. «Come può essere? Non possiamo essere arrivati là!» «Il simbolo là è inadeguato», disse il vocoder. «Là e qua variano a seconda di una polarità che dipende dalla dimensione». «Ma siamo arrivati là?» esclamò Prudence. «Una banale ripetizione può essere usata per rafforzare la tua consapevolezza», disse il vocoder. «Dovevate essere condotti sani e salvi a Tau Ceti. Siete arrivati». «Sani e salvi», commentò sprezzante Flattery. «Non esiste alcun pianeta su cui possiamo atterrare». «Nient'altro che un piccolo inconveniente», replicò il vocoder. Tutte le frecce sullo schermo si spensero, tranne una. «Questo pianeta è stato preparato per voi», annunciò il vocoder. Bickel lanciò uno sguardo di sottecchi a Flattery, vide che lo psichiatracappelano si asciugava il sudore dalla fronte.
«C'è qualcosa che non va», bisbigliò Flattery. «Non c'è nulla che non vada», ribatté il vocoder. «Non dovete far altro che guardarvi intorno. Siete al sicuro. Osservate». La scena sugli schermi mutò. «Il quarto pianeta», spiegò il vocoder. «Ciò che è stato preparato può essere anche preservato». Flattery afferrò il braccio di Bickel. «Non lo senti?» Ma Bickel stava fissando l'immagine mostrata dallo schermo di prua un pianeta che diveniva sempre più grande, riempendo lo schermo: un pianeta fertile, dotato d'atmosfera e di nuvole. «Come siamo arrivati qui?» chiese Bickel. «È possibile per me capirlo?» «La tua comprensione è limitata», gli rispose il vocoder. «I simboli che tu mi hai fornito variano stranamente, rispetto alla realtà non simbolica». «Ma tu lo capisci», obiettò Bickel. Il vocoder parve assumere un tono derisorio: «La mia comprensione trascende tutte le possibilità di quest'universo. Non ho bisogno di conoscere quest'universo poiché lo posseggo come esperienza diretta». «Non lo senti?» domandò Flattery, mentre stringeva con più forza il braccio di Bickel. Bickel lo ignorò, ricordò quel momento in cui, investito dal flusso del generatore di campo, aveva esitato e aveva abbandonato lo stato di coscienza trascendentale. Non aveva posseduto la capacità di resistere. Aveva rappresentato un guasto di funzionamento. Poteva accettare tutto quello che stava succedendo soltanto perché le prove erano visibili sugli schermi. Stavano scendendo, attraversando lo strato di nuvole - e sugli schermi cominciavano a spiccare un verde prato con degli alberi alle sue spalle e una montagna con la cima coperta di neve. Sentì che la forza di gravità aumentava, per poi stabilizzarsi quando la nave atterrò. «Scoprirete che la gravità è soltanto di una frazione inferiore a quella della Terra», annunciò il vocoder. «Adesso sto svegliando i coloni in ibernazione. Rimanete dove siete finché non si saranno svegliati tutti. Dovrete essere tutti presenti, quando prenderete la decisione». Con voce ridotta ad un mero raspio dalla gola che gli si era seccata improvvisamente, Bickel sollevò lo sguardo verso il vocoder e domandò: «Decisione? Quale decisione?» «Flattery lo sa», rispose il vocoder. «Dovrete decidere il modo in cui Mi adorerete».
FINE