HARLAN COBEN NON DIRLO A NESSUNO (Tell No One, 2001) Nel ricordo affettuoso della mia nipotina Gabi Cohen 1997-2000 La nostra piccola, meravigliosa Myszka RINGRAZIAMENTI Permettetemi, prima di cominciare, di presentarvi la banda: la editor extraordinaire Beth de Guzman, insieme a Susan Corcoran, Sharon Lulek, Nita Taublib, Irwyn Applebaum e a tutti gli altri "attori da prima serata" della Bantam Dell; Lisa Erbach Vance e Aaron Priest, i miei agenti; la dottoressa Anne Armstrong-Coben, M.D., Gene Riehl, Jeffrey Bedford, Linda Fairstein, Maggie Griffin e Nils Lofgren per avermi saputo capire e incoraggiare; e Joel Gotler che mi ha spinto, spronato e ispirato. «E quando ce ne saremo andati da questa terra, quando non esisteremo più, mi amerai allora? L'amore continua?» chiese Piccolo. Grande si strinse a Piccolo ed entrambi rimasero a guardare la notte, la luna nell'oscurità e le stelle che splendevano luminose. «Guarda le stelle, Piccolo, guarda come splendono e brillano, alcune stelle sono morte tantissimo tempo fa. Ma splendono ancora nei cieli della sera: perché vedi, Piccolo, l'amore è come la luce delle stelle, non muore mai...» Debi Gliori, No Matter What Il vento avrebbe dovuto sussurrare cupamente. Oppure avrei dovuto avvertire il gelo che si insinuava nelle ossa. Qualcosa del genere. Un canto etereo che soltanto Elizabeth o io avremmo potuto udire. L'aria sospesa. Un presagio come quelli che si leggono in certi manuali. Nella vita ci sono disgrazie che quasi ci aspettiamo, come quella accaduta ai miei genitori, per esempio, e ci sono altri momenti oscuri, momenti di improvvisa violenza, che alterano tutto. C'era la mia vita prima della tragedia. C'è la mia vita adesso. Ed è doloroso constatare quanto poco queste due vite abbiano in comune. Era il giorno del nostro anniversario; Elizabeth taceva accanto a me che
guidavo, e il suo silenzio non era poi insolito. Anche da ragazzina lei andava soggetta a queste imprevedibili fasi di malinconia. Taceva e sprofondava nella contemplazione o nella paura, non l'ho mai capito. Faceva parte del suo mistero, forse, ma per la prima volta mi sembrò di sentire fisicamente che tra noi si era creato un vuoto. Il nostro rapporto ne aveva viste tante, e mi chiesi se sarebbe riuscito a sopravvivere alla verità. O, più precisamente, alle bugie inespresse. Dentro l'auto l'aria condizionata girava al massimo. Era una tipica giornata d'agosto, caldissima e appiccicosa. Superammo il Delaware Water Gap a Milford Bridge, al termine del quale un cordiale addetto al pedaggio ci dette il benvenuto in Pennsylvania. Una quindicina di chilometri dopo vidi sul masso la scritta LAKE CHARMAINE - PROPRIETÀ PRIVATA, e voltai per imboccare il viottolo. Le ruote sollevavano un polverone provocando un effetto da carica araba. Elizabeth spense lo stereo dell'auto. Guardando con la coda dell'occhio mi accorsi che stava studiando il mio profilo. Mi chiesi cosa avesse visto e sentii il cuore entrare in fibrillazione. Alla nostra destra due cervi stavano brucando delle foglie: si fermarono a guardarci, decisero che non eravamo pericolosi e ripresero a brucare. Il sole era in fase agonica e lasciava in cielo strie viola e arancio. Le cime degli alberi sembravano in fiamme. «Mi sembra incredibile che facciamo ancora una cosa del genere» dissi. «Sei stato tu a cominciare.» «Sì, quando avevo dodici anni.» Elizabeth piegò le labbra in un sorriso. Non sorrideva spesso, ma quelle poche volte provavo un tuffo al cuore. «È romantico» insistette. «È idiota.» «Adoro il romanticismo.» «Adori le idiozie.» «Ogni volta che lo facciamo poi si scopa.» «Chiamami signor Sentimentale.» Rise e mi prese per mano. «Vieni, signor Sentimentale, si sta facendo buio.» Lake Charmaine. Quel nome l'aveva scelto mio nonno, facendo imbestialire oltre ogni limite mia nonna, che avrebbe voluto dare al lago il proprio nome. Si chiamava Bertha, mia nonna. Lake Bertha. Mio nonno non ne volle sapere, e con questo si guadagnò ai miei occhi due punti in classifica.
Una cinquantina di anni fa l'area di Lake Charmaine ospitava un campo estivo per ragazzini di famiglie agiate. Ma un bel giorno il proprietario era fallito, e mio nonno aveva acquistato per quattro soldi il lago e dintorni. Poi aveva fatto ristrutturare l'alloggio del direttore, buttando giù gli impianti in riva al lago. Ma aveva lasciato andare in rovina le stanzette dei ragazzini immerse nel folto del bosco, dove nessuno si avventurava più. Io e mia sorella Linda esploravamo queste capanne, sperando di imbatterci in tesori nascosti tra il legname marcio, giocando a moscacieca e sfidandoci a cercare l'Uomo Nero che eravamo sicuri ci stesse osservando. Elizabeth partecipava raramente a questi giochi. Lei aveva sempre bisogno di sapere dove si trovava ogni cosa. I nascondigli la spaventavano. Quando scendemmo dall'auto udii i fantasmi. Tanti fantasmi, troppi, che davano vita a una specie di sabba per attirare la mia attenzione. Mio padre aveva vinto. Il lago era immerso nel silenzio più totale, ma avrei giurato di udire gli ululati di piacere che lanciava papà quando si tuffava di corsa dal pontile, con le ginocchia unite contro il torace e un sorriso quasi folle, e gli schizzi si abbattevano sul suo unico figlio come un'ondata. Papà riemergeva accanto allo zatterone dove mamma prendeva il sole, e lei lo sgridava cercando inutilmente di trattenere le risate. Battei le palpebre e quelle immagini scomparvero. Ma mi rimase il ricordo di come le risate, gli ululati e lo splash del tuffo risuonavano sul lago immobile e silenzioso, e mi chiesi se echi del genere scompaiano mai completamente, se per caso tra gli alberi non fosse ancora possibile udire i gioiosi guaiti di papà. Era un pensiero idiota, ma che ci posso fare? I ricordi fanno male, sapete. Specialmente i bei ricordi. «Stai bene, Beck?» mi chiese Elizabeth. Mi voltai verso di lei. «Sto per scopare, vero?» «Pervertito.» Si avviò sul sentiero, con la testa alta e la schiena dritta, e la seguii un attimo con lo sguardo ricordando la prima volta che l'avevo vista camminare in quel modo. Avevo sette anni e me ne ero andato in bicicletta - quella con il sellino a forma di banana e la decalcomania di Batman - a Goodhart Road: una strada ripida e tortuosa che rappresentava il tracciato ideale per i piloti di Stingray che volevano mettersi in mostra. Mi scapicollavo in discesa senza mani, sentendomi fico e coraggioso come solo un ragazzino di sette anni può sentirsi. Il vento mi gettava indietro i capelli e mi riempiva gli occhi di lacrime. Vidi il furgone muoversi davanti alla vecchia casa di Ruskin, sterzai e - primo tuffo al cuore - vidi la mia Elizabeth che cammi-
nava con quella sua spina dorsale al titanio, così equilibrata già allora a sette anni, con Mary Janes, un braccialetto dell'amicizia e troppe efelidi. Ci conoscemmo due settimane dopo, nella seconda elementare della signorina Sobel, e da quel momento - non ridete, vi prego - diventammo anime gemelle. Per gli adulti il nostro rapporto era al tempo stesso tenero e sconsigliabile, mentre con il passare del tempo la nostra amicizia di ragazzetti spericolati si trasformava via via in amore da cuccioli, in preoccupazioni adolescenziali e poi in contatti ormonali di liceali. Tutti si aspettavano che da un momento all'altro io o lei ci stancassimo. Anche noi ce lo aspettavamo. Eravamo entrambi ragazzi svegli, specialmente Elizabeth, studenti modello pieni di raziocinio anche se coinvolti in un amore irrazionale. Ci rendevamo conto degli ostacoli che avremmo dovuto affrontare. E invece eccoci qui, venticinquenni sposati da otto mesi, tornati nel posto dove all'età di dodici anni ci eravamo scambiati il primo vero bacio. Nauseante, lo so. Ci facemmo strada tra cespugli ed erba alta, con l'umidità che ci avviluppava nell'aria intrisa dell'odore resinoso dei pini. Zanzare e altri insetti ci ronzavano intorno. Gli alberi proiettavano lunghe ombre che potevano essere interpretate a piacimento, come quando ci si sforza di capire a cosa assomigli una nuvola o a cosa ci fa pensare una macchia di Rorschach. Uscimmo dal sentiero inoltrandoci ancora di più nel folto del bosco. Elizabeth camminava davanti e io la seguivo a un paio di passi di distanza, un gesto quasi simbolico a pensarci ora. Ho sempre creduto che nulla avrebbe potuto separarci, e la nostra storia l'aveva sicuramente dimostrato, ma ora più che mai sentivo il senso di colpa che me la portava via. Il mio senso di colpa. Davanti a me Elizabeth girò a destra all'altezza del masso di forma semifallica e lì c'era il nostro albero. Le nostre iniziali erano incise nella corteccia: E.P. + D.B. Ebbene sì, all'interno di un cuore. Sotto al cuore si vedevano dodici linee, una per ogni anniversario di quel primo bacio. Stavo per dire una battuta su quel nauseante rituale, ma mi fermai vedendo il viso di Elizabeth con le efelidi ormai scomparse o scurite, la piega del mento, il lungo collo aggra-
ziato, gli occhi verdi e immobili, la treccia di capelli scuri che le scendeva lungo la schiena come una spessa fune. Stavo quasi per dirgliela, su due piedi, ma qualcosa me l'impedì. «Ti amo» dissi. «Stai già scopando.» «Oh.» «Ti amo anch'io.» «Okay, okay» dissi ancora, fingendomi imbarazzato. «Scoperai anche tu.» Sorrise, ma in quel sorriso mi sembrò di notare un'esitazione. La presi tra le braccia. Quando aveva dodici anni ed entrambi avevamo finalmente trovato il coraggio di passare ai fatti, Elizabeth aveva un meraviglioso profumo di aria pulita e di Pixie Sticks alla fragola. E naturalmente ero rimasto sopraffatto dalla novità, l'eccitazione, l'esplorazione. Oggi profumava di lillà e cannella. Il bacio si mosse dal centro del mio cuore come una luce calda, e quando le nostre lingue si toccarono provai ancora la scossa. Elizabeth si staccò, senza fiato. «Vuoi avere l'onore di procedere?» mi chiese. Mi porse il coltello e incisi sul tronco la tredicesima linea. Tredici. Un numero premonitore, visto a posteriori. Quando tornammo al lago si era fatto buio e la pallida luna assomigliava a un debole faro. Non si udiva alcun rumore quella sera, nemmeno il verso dei grilli. Elizabeth e io ci spogliammo in fretta. La guardai al chiaro di luna e sentii un groppo in gola. Si tuffò lei per prima, quasi senza increspare l'acqua, e io la seguii goffamente. Il lago era sorprendentemente caldo, Elizabeth nuotava con bracciate calme e regolari, attraversando l'acqua come un sentiero che le si aprisse davanti. Io sollevavo mille schizzi. E i nostri rumori rimbalzavano come sassi sulla superficie del lago. Poi lei si fermò, si voltò e si fece prendere tra le braccia. Aveva la pelle calda e umida. Amavo la sua pelle. Ci tenemmo stretti. Premette i seni contro il mio torace, sentivo i battiti del suo cuore, il suo respiro. I suoni della vita. Ci baciammo. Percorsi con la mano la deliziosa curva della sua schiena. Alla fine, quando tutto tornò alla normalità, mi issai sullo zatterone sul quale poi rovinai stanchissimo. E rimasi lì ad ansimare, con le gambe spalancate e i piedi che dondolavano nell'acqua. Elizabeth inarcò le sopracciglia. «E ora che fai, ti metti a dormire?» Finsi di russare.
«Che uomo!» Incrociai le mani dietro la nuca e me ne rimasi immobile. Una nuvola passò davanti alla luna, trasformando il blu notte in qualcosa di pallido e grigiastro. L'aria era immobile. Udii Elizabeth che usciva dall'acqua e saliva sul pontile. Cercai di abituare gli occhi alla semioscurità e riuscii a fatica a distinguere la sagoma nuda di lei. Era semplicemente mozzafiato. Vidi Elizabeth piegarsi e strizzare i capelli per liberarli dall'acqua, poi inarcò la schiena e raddrizzò il capo. Lo zatterone si stava allontanando dalla riva. Cercai di analizzare quello che mi era successo, ma perfino io non riuscivo a comprenderlo appieno. Il galleggiante continuava a muoversi, non riuscivo più a vedere Elizabeth. E mentre lei svaniva nell'oscurità, presi una decisione: glielo avrei detto, le avrei raccontato tutto. Annuii a me stesso e chiusi gli occhi, non sentivo più quel peso sul petto. Ascoltai il debole rumore dell'acqua contro lo zatterone. Poi udii aprirsi lo sportello di un'auto. E mi sollevai a sedere. «Elizabeth?» Silenzio completo, fatta eccezione per il mio respiro. Cercai nuovamente la sagoma di lei. Era difficile intravederla, ma per un attimo ci riuscii. O, almeno, credetti di vederla. Non ne sono più sicuro, e forse non ha alcuna importanza. In ogni caso Elizabeth se ne stava in piedi, perfettamente immobile, e credetti che mi stesse fissando. Forse battei le palpebre, non sono sicuro nemmeno di questo, e quando tornai a guardare Elizabeth era scomparsa. Mi salì il cuore in gola. «Elizabeth!» Nessuna risposta. Il panico aumentò. Mi lasciai cadere dallo zatterone e cominciai a nuotare in direzione del pontile, ma le bracciate erano rumorose, troppo rumorose, e non riuscivo a udire quello che stava succedendo. Se qualcosa stava succedendo. Mi fermai. «Elizabeth!» Per un lungo momento non vi fu alcun rumore. La nuvola copriva ancora la luna. Forse lei era entrata nell'auto. Forse aveva tirato qualcosa fuori dall'auto. Aprii la bocca per chiamarla nuovamente. E in quel momento la udii gridare. Abbassai il capo e nuotai, come un folle, agitando le braccia come pale impazzite e muovendo freneticamente le gambe, ma ero ancora lontano dal
pontile. Nuotando cercai di guardare, ma era troppo buio, la luna concedeva soltanto deboli fasci di luce che non illuminavano nulla. Udii un rumore come di qualcosa che veniva trascinato. Davanti a me vidi finalmente il pontile a distanza di sei metri, non di più. Nuotai con energia ancora maggiore, mentre i polmoni sembravano sul punto di scoppiare. Inghiottii dell'acqua, allungai le braccia frugando a tentoni nel buio. Poi toccai la scaletta, l'afferrai, mi tirai su. Sul pontile c'erano le chiazze d'acqua lasciate da Elizabeth. Guardai verso la cabina ma era troppo buio e non vidi nulla. «Elizabeth!» Qualcosa di simile a una mazza da baseball mi colpì al plesso solare. Con gli occhi che sembravano dovermi schizzare dalle orbite mi piegai in due, soffocando. Niente aria. Un altro colpo, che stavolta terminò la sua corsa in cima al mio cranio. Udii un crac nella testa e mi sembrò che qualcuno mi avesse conficcato un chiodo nella tempia. Le gambe mi cedettero e caddi in ginocchio. Totalmente privo di orientamento, mi portai le mani ai due lati del capo cercando di ripararmi. E il colpo successivo, quello finale, mi prese in pieno viso. Caddi all'indietro, nel lago. Gli occhi mi si chiusero. Udii Elizabeth gridare nuovamente, aveva gridato il mio nome stavolta, ma il suono, ogni suono, fu inghiottito dall'acqua e calai a fondo. 1 Otto anni dopo Un'altra ragazza stava per spezzarmi il cuore. Aveva occhi scuri, capelli folti e crespi e un sorriso pieno di denti. Portava l'apparecchio ai denti, aveva quattordici anni e... «Sei incinta?» le chiesi. «Sì, dottor Beck.» Riuscii a non chiudere gli occhi. Non era la prima volta che vedevo una minorenne incinta, nemmeno quel giorno era la prima volta. Faccio il pediatra in questo ambulatorio di Washington Heights da quando, cinque anni fa, ho terminato il tirocinio al Columbia Presbyterian Medical Center, non lontano da lì. I nostri pazienti sono quelli che si affidano al servizio pubblico (leggi: i poveri), e tra le specialità di questo ambulatorio vi sono ostetricia, medicina interna e pediatria. Essere un medico per proletari non
fa automaticamente di me un missionario o un benefattore dell'umanità, come molti ritengono. Più semplicemente, a me piace fare il pediatra, ma non nelle zone residenziali con le mamme che accompagnano i figli agli allenamenti di calcio e i papà con le mani fresche di manicure: le zone abitate da gente come me, insomma. «Che cosa pensi di fare?» le chiesi. «Io e Terrel siamo veramente felici, dottor Beck.» «Quanti anni ha Terrel?» «Sedici.» Sollevò lo sguardo su di me, felice e sorridente. Riuscii di nuovo a non chiudere gli occhi. Ciò che ogni volta mi sorprende, ogni volta, è che la maggior parte di queste gravidanze non è accidentale. I miei pazienti sono bambini che vogliono avere bambini. Nessuno lo capisce. Parlano tutti di controllo delle nascite, di astinenza e via discorrendo, ma la verità è che i loro amici furbi mettono al mondo bambini e ricevono mille attenzioni, e allora, Terrel, perché non lo facciamo anche noi? «Lui mi ama» disse la quattordicenne. «L'hai detto a tua madre?» «Non ancora.» Era visibilmente imbarazzata, ora, e dimostrava quasi tutti i suoi quattordici anni. «Speravo di poterglielo dire insieme a lei, dottore.» Annuii. «Certo.» Ho imparato a non giudicare. Ascolto. Solidarizzo. Quando facevo il tirocinio mi permettevo di impartire lezioni. Li guardavo dall'alto e cercavo di spiegare loro quanto autodistruttivo fosse quel comportamento. Ma in un freddo pomeriggio di Manhattan una paziente, una stanca diciassettenne che stava per avere il terzo figlio dal terzo padre diverso, mi guardò fisso negli occhi e pronunciò un'indiscutibile verità: «Lei non conosce la mia vita». Mi zittì, e ora ascolto. Smisi di fare la parte dell'Uomo Bianco Benevolo e divenni un dottore migliore. Mi dedicherò con la massima serietà professionale a questa quattordicenne e al suo bambino. Non le dirò che Terrell quanto prima taglierà la corda, che il suo futuro è già segnato, che se è come la maggior parte delle mie pazienti si troverà incinta almeno altre due volte prima di avere compiuto vent'anni. Se ci pensi troppo diventi scemo. Rimanemmo a parlare per un po', o meglio lei parlò e io la ascoltai. La
sala visite accanto al mio studio aveva pressappoco le dimensioni di una cella di prigione (per quanto io non ne abbia un'esperienza diretta) e le pareti erano verdoline, dello stesso colore dei bagni delle scuole elementari. Alla porta era appeso un tabellone da oculista, quello con la lettera E rivolta in tutte le direzioni. Una parete era ricoperta da decalcomanie stinte di personaggi di Disney, sull'altra si vedeva un enorme poster della piramide alimentare. La mia paziente di quattordici anni se ne stava seduta sul lettino, ricoperto da un telo di carta che cambiavamo a ogni bambino. Non so perché, ogni volta che srotolavamo la carta del lettino mi venivano in mente i sandwich incartati della Carnegie Deli. Dal termosifone arrivava un caldo quasi soffocante, ma necessario in un posto come quello dove i bambini venivano spesso svestiti. Indossavo la mia abituale tenuta da pediatra: blue jeans, zoccoli Chuck Taylor, una camicia di oxford con i bottoncini e una cravatta chiara "Save the Children" che sembrava gridare "1994". Non avevo indosso il camice, perché penso che spaventi i bambini. La mia quattordicenne - lo so, non riesco ancora ad accettare che fosse così giovane - era davvero brava. E può sembrare strano, ma lo sono quasi tutte. Le detti l'indirizzo di un ostetrico di mia fiducia. Poi parlai con sua madre. Nulla di nuovo o di sorprendente. Come dicevo, cose del genere succedono quasi ogni giorno. Quando se ne andò ci abbracciammo, mentre io e sua madre ci lanciavamo un'occhiata. Ogni giorno circa venticinque madri mi portano a visitare i loro bambini e, alla fine della settimana, potrei contare sulle dita di una mano quelle di loro che sono sposate. Non giudico, come ho detto. Ma osservo. Dopo che madre e figlia furono uscite segnai qualche appunto sulla cartella clinica della ragazzina e tornai indietro di qualche pagina. L'avevo in cura dal tempo del tirocinio, il che significa che la prima volta che la madre me l'aveva portata aveva otto anni. Seguii sulla cartella la sua crescita. La rividi mentalmente a otto anni e poi adesso, nel suo nuovo stato. Non era cambiata granché. Chiusi finalmente gli occhi e me li stropicciai. Fui interrotto da Homer Simpson che gridava: «La posta! C'è la posta! Oooo!». Riaprii gli occhi e guardai il monitor. Era proprio Homer Simpson, lo stesso dei cartoni in TV. Qualcuno aveva sostituito il ronzio del computer con Homer, accompagnato dalla scritta: "C'è posta per te". E mi piaceva. Mi piaceva molto. Stavo per leggere la e-mail ma a bloccarmi la mano intervenne il grac-
chiare dell'interfono. «Sei... c'è... insomma, ho in linea Shauna» mi annunciò Wanda, una delle ragazze dell'accettazione. Capii la sua confusione. La ringraziai e premetti il pulsante rosso che lampeggiava. «Ciao, dolcezza.» «Attacca pure, sto per arrivare.» Shauna chiuse il cellulare e io uscii in corridoio proprio mentre lei faceva il suo ingresso dalla strada. Shauna irrompe in una stanza come se la stanza l'avesse offesa. Era un'indossatrice per taglie forti, una delle poche conosciute con il solo nome di battesimo, Shauna, come Cher o Fabio. Era alta un metro e ottantacinque e pesava una novantina di chili: il tipo che fa girare le teste, insomma, e tutte le teste in sala d'attesa si girarono. Non si diede la briga di fermarsi all'accettazione, e nessuno all'accettazione se la sentì di fermarla. Aprì la porta e mi rivolse queste parole: «Pranzo. Ora.» «Ho da fare, te l'ho detto.» «Fuori fa fresco, mettiti addosso qualcosa.» «Ascolta, sto bene. E comunque l'anniversario è domani.» «Paghi tu.» Esitai e a quel punto lei capì di avere vinto. «Dai, Beck, ci divertiremo. Come al college. Ti ricordi quando uscivamo in cerca di ragazze in calore?» «Non sono mai andato alla ricerca di ragazze in calore.» «Hai ragione, ero io che le cercavo. Vai a metterti la giacca.» Mentre tornavo nel mio studio una delle mamme mi tirò da parte, con un gran sorriso sulle labbra. «Di persona è anche più bella» bisbigliò. «Eh» dissi. «Siete...?» La donna fece con le mani il gesto di due persone che stanno insieme. «No, lei è già impegnata con qualcuno» le risposi. «Davvero? Con chi?» «Con mia sorella.» Mangiammo in un ristorante cinese di infimo ordine con un cameriere cinese che parlava soltanto spagnolo. Shauna, che indossava un impeccabile vestito blu, inarcò le sopracciglia. «Maiale moo shu con tortilla?» «Ma sì, buttati» le dissi. Ci eravamo conosciuti il primo giorno di college. Qualcuno in segreteria aveva distrattamente scambiato il nome femminile Shauna per l'equivalen-
te maschile Shaun e ci aveva messi nella stessa stanza. Stavamo per andare a segnalare l'errore quando iniziammo a chiacchierare, lei mi offrì una birra e cominciò a piacermi. Qualche ora dopo decidemmo di lasciare le cose come stavano, nel timore che i rispettivi compagni di stanza potessero rivelarsi degli stronzi. Andai all'Amherst College, ateneo esclusivo del Massachusetts occidentale, e non so se al mondo esista un posto più snob di quello. Elizabeth, la migliore allieva del nostro liceo, scelse Yale. Ci saremmo anche potuti iscrivere allo stesso college, ma ne discutemmo, per poi alla fine decidere che la separazione avrebbe rappresentato un eccellente test per la nostra relazione. Ancora una volta ci stavamo comportando da persone mature. Sapete con quale risultato? Che sentivamo da matti la mancanza l'uno dell'altra. La separazione cementò il nostro rapporto, conferendogli una nuova dimensione del tipo la-distanza-alimenta-il-sentimento. Nauseante, lo so. «Puoi fare il baby-sitter a Mark?» mi chiese Shauna tra un boccone e l'altro. Mark aveva cinque anni ed era il mio nipotino. Durante il nostro ultimo anno di università Shauna prese a uscire con Linda, mia sorella maggiore. Sette anni fa celebrarono una "cerimonia d'impegno" e Mark è, diciamo, il prodotto del loro amore ottenuto con un piccolo aiuto dell'inseminazione artificiale. Linda l'ha messo al mondo e Shauna l'ha adottato, ed essendo entrambe ragazze un po' all'antica hanno voluto che il bambino avesse una figura di riferimento maschile. Cioè me. «Non c'è problema» risposi. «E poi avevo voglia di vedere l'ultimo film di Walt Disney.» «La nuova eroina di Disney è una bambina abbastanza cresciuta, la più sexy dai tempi di Pocahontas.» «Buono a sapersi. Dove ve ne andate stasera, tu e Linda?» «Ancora non ho deciso. Da quando le lesbiche sono diventate di moda la nostra agenda degli appuntamenti è pazzesca. Quasi quasi preferisco i tempi in cui dovevamo nasconderci.» Ordinai una birra. Forse non avrei dovuto, ma una non mi avrebbe fatto male. La ordinò anche Shauna. «Quindi, hai rotto con quella... com'è che si chiama?» «Brandy.» «Già. Bel nome, tra l'altro. Non ha per caso una sorella che si chiama
Whisky?» «Siamo usciti insieme solo due volte.» «Bene. Ma era una strega pelle e ossa. E poi ho in serbo per te una ragazza perfetta.» «No, grazie.» «Ha un fisico strepitoso.» «Non prendere queste iniziative, Shauna, ti prego.» «Perché no?» «Ricordi l'ultima volta che mi hai presentato una ragazza?» «Cassandra?» «Proprio lei.» «Cos'aveva che non andava?» «Tanto per cominciare, era lesbica.» «Oddio, Beck, sei proprio un bigotto!» Squillò il suo cellulare e lei rispose senza staccare gli occhi da me. Poi abbaiò qualcosa e richiuse lo sportellino. «Devo andare.» Feci segno al cameriere di portarmi il conto. «Vieni da noi domani sera» mi informò. Finsi di trasalire. «Le lesbiche non hanno programmi?» «Io no, tua sorella sì. Deve occuparsi del grande ricevimento in memoria di Brandon Scope.» «E tu non ci vai?» «No.» «Perché no?» «Non vogliamo lasciare Mark due sere di seguito. Linda non può non andare, visto che è lei a dirigere la Fondazione, e io mi prendo una sera di libertà. Allora ti aspetto domani sera, d'accordo? Faccio portare qualcosa da mangiare e ci vediamo qualche cassetta con Mark.» L'indomani era l'anniversario e, se Elizabeth fosse stata ancora viva, avremmo inciso la ventunesima tacca su quel tronco. Ma anche se può sembrare strano, l'indomani non sarebbe stata una giornata particolarmente penosa, perché in occasione di anniversari, feste o compleanni di Elizabeth io mi carico talmente tanto che di solito riesco ad affrontarli senza particolari problemi. Sono i giorni "normali" quelli duri. Quelli in cui, per esempio, saltando con il telecomando da un canale all'altro, trovo una delle puntate classiche del Mary Tyler Moore Show oppure di Cheers. I giorni in cui, entrando in libreria, scopro che è uscito un nuovo libro di Alice Hoffman o di Anne Tyler. I giorni in cui ascolto gli O'Jays o i Four Tops o Nina Simone.
Roba di ogni giorno, insomma. «Ho detto alla madre di Elizabeth che sarei passato a trovarla.» «Oh, Beck...» Stava per mettersi a discutere, ma poi si trattenne. «Vieni da noi dopo, allora?» «Certo.» Shauna mi afferrò un braccio. «Stai per scomparire di nuovo, Beck.» Non risposi. «Ti amo, lo sai. Voglio dire, se tu avessi una qualsiasi forma di sex appeal probabilmente mi sarei messa con te invece che con tua sorella.» «La cosa mi lusinga. Davvero.» «Non mi escludere dalla tua vita. Se escludi me escludi tutti. Parlami, va bene?» «Okay.» Ma non ci riesco. Avevo quasi cancellato quella e-mail. Ne ricevo tante inutili che avevo preso una certa familiarità con il tasto "Cancella". Leggo come prima cosa l'indirizzo del mittente e, se è qualcuno che conosco o si tratta dell'ospedale, bene: altrimenti clicco con entusiasmo il tasto "Cancella". Ero alla scrivania e stavo studiando gli appuntamenti del pomeriggio: una marea, come al solito. Poi mi ero girato sulla poltrona, già preparando il dito "cancellino". C'era una sola e-mail, quella di cui mi aveva avvertito il gridolino rauco di Homer Simpson. Detti un'occhiata veloce e i miei occhi si fissarono sulle prime due lettere alla voce "Oggetto". Ma che diavolo...? Per come lo schermo era formattato non riuscivo a vedere altro, solo quelle due lettere e l'indirizzo del mittente che non mi era affatto familiare: una serie di numeri ©comparama.com. Strinsi le palpebre e feci scorrere la schermata. L'"Oggetto" apparve un carattere alla volta. A ogni clic il cuore mi batteva sempre più forte e il respiro mi faceva strani scherzi. Tenni premuto il pulsante e attesi. Alla fine, quando apparve l'ultima lettera, lessi di nuovo la voce "Oggetto" e sentii come una fitta al cuore. «Dottor Beck?» La bocca non mi funzionava più. «Dottor Beck?» «Lasciami in pace un minuto, Wanda.» Lei rimase in linea, esitante. Poi riattaccò. E io continuai a fissare lo schermo.
A:
[email protected] Da:
[email protected] Oggetto: E.P. + D.B. ///////////////////// Ventuno tacche, le ho già contate quattro volte. Ero uno scherzo cattivo, crudele. Lo sapevo. Strinsi le mani a pugno, chiedendomi chi fosse l'idiota figlio di puttana che mi aveva mandato quel messaggio. Era facile rimanere anonimi nelle e-mail, i rifugi preferiti dai tecnovigliacchi. Solo che erano ben pochi a sapere del nostro anniversario o dell'albero, sui giornali non se ne era mai parlato. Shauna lo sapeva, naturalmente, e anche Linda. Elizabeth forse lo aveva detto ai genitori o allo zio. Ma a parte queste persone... Chi l'aveva mandata, allora? Volevo leggere il messaggio, naturalmente, ma qualcosa mi trattenne. La verità è che penso a Elizabeth più di quanto non sembri, anche se probabilmente si capisce benissimo: ma non parlo mai di lei o di quello che è successo. Gli altri mi considerano macho o coraggioso, pensano che voglia risparmiare gli amici o rifuggire la compassione della gente o altre fesserie del genere. Ma non è così. Parlare di Elizabeth mi fa star male, malissimo. Mi sembrerebbe di udire di nuovo il suo ultimo grido, riproporrebbe tutte quelle domande senza risposta, tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato (un pensiero, quest'ultimo, devastante come pochi, ve l'assicuro.) Riporterebbe in superficie tutti quei sensi di colpa provocati da una considerazione, irrazionale quanto volete: che un uomo più forte, un uomo migliore, avrebbe potuto salvarla. Dicono che occorra molto tempo per comprendere una tragedia. Perché si è come anestetizzati, perché non si può accettare compiutamente quella orribile realtà. Ma anche questo non è vero, non per me comunque. Compresi tutte le implicazioni nel momento in cui fu scoperto il cadavere di Elizabeth. Capii che non l'avrei più rivista, non l'avrei più stretta tra le braccia, che non avremmo avuto dei figli e non saremmo invecchiati insieme. Capii che era qualcosa di definitivo, senza alternative, che non c'era nulla su cui si potesse trattare o negoziare. Mi misi immediatamente a piangere, a singhiozzare senza riuscire a controllarmi. E piansi così, in pratica senza interruzioni, per una settimana. Piansi al funerale e non permisi a nessuno di toccarmi, nemmeno a Shauna e a Linda. Dormii da solo nel nostro letto, seppellendo il capo nel suo cuscino, cercando di sentire l'odore di lei. Aprii gli armadi e mi strinsi al viso
i suoi abiti e, lungi dal consolarmi, tutto ciò mi faceva solo del male. Ma era il suo profumo, una parte di lei, e non mi fermai. Gli amici più solleciti, che sono spesso la razza peggiore, mi ammannirono i soliti cliché di circostanza, e quindi mi trovo ora nelle condizioni ideali per mettervi in guardia: limitatevi alle più sentite condoglianze. Non ditemi che sono giovane. Non ditemi che poi mi sentirò meglio. Non ditemi che lei si trova ora in un posto migliore. Non ditemi che tutto ciò fa parte di un disegno divino. Non ditemi che sono stato fortunato a vivere un amore come quello. Ognuna di queste banalità mi faceva incazzare. So bene che quanto segue può apparire ingrato, ma ogni volta che mi sentivo dire una di queste fesserie guardavo l'idiota che avevo di fronte e mi chiedevo perché respirasse ancora mentre la mia Elizabeth marciva sottoterra. Continuavo a udire quella stronzata: "È meglio avere amato e perduto". Un'altra falsità, credetemi, non è affatto meglio. Non mostratemi il paradiso se poi dovete darlo alle fiamme. Questa è la parte egoistica. Ciò che mi colpiva e mi feriva maggiormente era il pensiero che a Elizabeth fosse negato tanto. Non so dirvi quante volte, quando vedo o faccio qualcosa, penso a quanto sarebbe piaciuto a Elizabeth. E il pensiero mi provoca nuove fitte di dolore. Qualcuno mi chiede se ho rimorsi. Soltanto uno, è la risposta. Ho il rimorso di avere sprecato del tempo in qualcosa che non era il far felice Elizabeth. «Dottor Beck?» «Ancora un secondo.» Portai la mano sul mouse e spostai il cursore sull'icona "Leggi". Cliccai e subito apparve il messaggio: A:
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[email protected] Oggetto: E.P. + D.B. ///////////////////// Messaggio: clicca sull'iperlink, ora del bacio, anniversario. Nel petto mi si formò un blocco di piombo. Ora del bacio? Era uno scherzo, non poteva essere altrimenti. Non sono particolarmente versato per l'enigmistica e non sono particolarmente bravo ad aspettare. Afferrai nuovamente il mouse e portai la freccia sull'iperlink, poi cliccai.
Udii il primordiale stridio del modem, il verso d'accoppiamento della macchina. All'ambulatorio abbiamo un sistema abbastanza antiquato, e ci volle un po' di tempo prima di riuscire a connettersi. Ci volle del tempo prima che apparisse il browser. E io aspettavo pensando: "L'ora del bacio, ma come fanno a sapere dell'ora del bacio...?". Poi sullo schermo apparve il browser con la scritta "Errore". Aggrottai le sopracciglia. Chi diavolo mi aveva mandato quella e-mail? Provai di nuovo, e ancora una volta apparve quella scritta. Il collegamento era saltato. "Chi diavolo sapeva dell'ora del bacio?" Non ne avevo parlato a nessuno. E nemmeno io ed Elizabeth ne avevamo parlato granché tra noi, probabilmente perché non era poi nulla di così importante. Eravamo più sdolcinati di Pollyanna, lo so bene, e quindi roba del genere ciascuno di noi se la teneva per sé. Era un po' imbarazzante, ma in sostanza si trattava di questo: quando ventuno anni prima ci eravamo dati il primo bacio io avevo guardato l'ora. Così, tanto per divertirmi. Mi ero staccato da lei e avevo guardato il mio Casio, dicendo: «Le sei e quindici». Ed Elizabeth aveva detto: «L'ora del bacio». Lessi nuovamente il messaggio e cominciai a incazzarmi. Quella faccenda era tutt'altro che divertente, perché una cosa è inviare una e-mail crudele, ma... "L'ora del bacio." Be', l'ora del bacio sarebbe stata il giorno dopo alle sei e un quarto del pomeriggio e quindi non avevo molta scelta. Avrei dovuto aspettare che arrivasse quell'ora. E va bene. Salvai quella e-mail in un dischetto, per ogni evenienza. Poi passai alle opzioni di stampa e cliccai su "Stampa tutto". Non mi intendo molto di computer, ma so che a volte è possibile risalire al mittente di un messaggio grazie a quel minestrone incomprensibile di lettere e numeri che appare in fondo. Udii il ronzio della stampante. Detti un'altra occhiata alla voce "Oggetto". Contai nuovamente le tacche. Sempre ventuno. Pensai a quell'albero e a quel primo bacio. E, nel mio studio angusto e soffocante, cominciai a sentire il profumo di Pixie Sticks alla fragola. 2
A casa mi attendeva un altro ricordo shock del passato. Abito dall'altra parte di Washington Bridge, di fronte a Manhattan, in un tipico quartiere residenziale da sogno americano chiamato Green River (New Jersey): una cittadina dove, a dispetto del nome, non scorre alcun fiume e dove il verde si riduce sempre più. La casa è quella del nonno, ci andai ad abitare con lui e con un continuo ricambio di infermiere straniere quando tre anni fa è morta Nana. Ha l'Alzheimer, il nonno. La sua mente è un po' come quei vecchi televisori in bianco e nero con le antenne deformate a forma di orecchie di coniglio. Alterna alti e bassi, con giorni migliori di altri, e uno a quel punto deve orientare l'antenna in un certo modo e rimanere fermo, e anche in quei casi l'immagine continua a scorrere velocemente in verticale. Così, almeno, era di solito. Ma negli ultimi tempi, per restare nella metafora televisiva, lo schermo non si illuminava quasi mai. Non mi è mai piaciuto veramente, mio nonno. Era un uomo autoritario, il tipo all'antica e pieno di sé, che ti concedeva il suo affetto in proporzione diretta al tuo successo, un vecchio burbero che amava i duri, un macho da Vecchio Mondo. E quindi non sapeva che farsene di un nipote sensibile e poco sportivo, anche se bravo negli studi. Accettai di andare ad abitare con lui perché sapevo che, in caso contrario, ci sarebbe andata mia sorella. Linda è fatta così. Quando da bambini al campo estivo di Brooklake cantavamo "Lui ha il mondo in mano", prendeva sempre quel messaggio un po' troppo alla lettera, quindi ora avrebbe sentito l'obbligo di non lasciare il nonno da solo. Ma Linda aveva un figlio, una compagna nella vita, e delle responsabilità; io no, e quindi la precedetti andandomi a stabilire dal nonno. E mi piaceva abbastanza vivere in quella casa, era silenziosa. Chloe, la mia cagna, mi venne incontro dimenando la coda e io la grattai dietro le morbide orecchie. Lei accettò per qualche istante, poi si mise a guardare insistentemente il guinzaglio. «Dammi un minuto» le dissi. A Chloe non piace questa frase. Mi lanciò un'occhiata, operazione non semplicissima quando il pelo ti copre quasi totalmente gli occhi. Era un bearded collie, una razza che somiglia a un cane da pastore più di qualsiasi altro collie abbia mai visto in vita mia. Elizabeth e io avevamo comprato Chloe subito dopo il matrimonio, a lei piacevano i cani e a me no. Ora mi piacciono. Chloe andò ad appoggiarsi alla porta e cominciò a fissarla, per poi guar-
dare me e riportare lo sguardo sulla porta. Vuoi capire o no, sembrava dirmi. Il nonno era abbandonato in poltrona davanti al televisore che trasmetteva un gioco a premi, e non si voltò a guardarmi, ma non sembrava guardare nemmeno lo schermo. Sul suo viso si era da tempo installato una specie di pallido gelo mortale, e questa maschera si scioglieva soltanto quando gli cambiavano il pannolone. In quei casi il nonno serrava le labbra, mentre gli occhi gli si inumidivano e a volte gli scivolava giù una lacrima. Credo che i suoi momenti di massima lucidità coincidano con quelli in cui sente un forte desiderio di senilità. Dio ha proprio un bel senso dell'umorismo. L'infermiera aveva lasciato il messaggio sul tavolo della cucina. CHIAMI LO SCERIFFO LOWELL. Sotto era stato scribacchiato un numero telefonico. La testa prese a pulsarmi. Da quando sono stato aggredito soffro di emicranie. I colpi al capo mi avevano fratturato il cranio ed ero rimasto cinque giorni in ospedale; ma secondo uno specialista, mio ex collega alla facoltà di Medicina, queste emicranie sono psicologiche più che fisiologiche. Forse ha ragione, ma in ogni caso mal di testa e senso di colpa rimangono. Avrei dovuto scansarmi, avrei dovuto vedere i colpi che arrivavano, non sarei dovuto cadere in acqua. E poi, visto che alla fine avevo trovato la forza per salvarmi, non avrei potuto salvare anche Elizabeth? Domanda accademica, lo so. Lessi nuovamente il messaggio. Chloe cominciò a guaire. Io sollevai un dito. Lei smise di guaire ma riprese a guardare la porta e poi me, di seguito. Non sentivo lo sceriffo Lowell da otto anni, ma me lo ricordavo ancora chino sul mio letto d'ospedale che mi fissava cinico e scettico. Cosa poteva volere dopo tanto tempo? Sollevai la cornetta e composi il numero. Una voce rispose al primo squillo. «Grazie per avermi chiamato, dottor Beck.» Non vado pazzo per l'identificatore di chiamata, è un po' troppo da Grande Fratello per i miei gusti. Mi schiarii la voce e saltai a piè pari i convenevoli. «Che cosa posso fare per lei, sceriffo?» «Mi trovo nella sua zona e vorrei passare a trovarla, se non disturbo.» «Una visita di cortesia?»
«No, non esattamente.» Aspettò che dicessi qualcosa, ma io rimasi in silenzio. «Se passo adesso le sta bene?» mi chiese. «Le dispiacerebbe dirmi di che si tratta?» «Preferirei aspettare di...» «E io preferirei il contrario.» Mi accorsi che avevo rafforzato la stretta delle dita sulla cornetta. «Okay, dottor Beck, capisco.» Si schiarì la voce, ma si capiva che stava cercando di guadagnare tempo. «Probabilmente ha sentito che nella contea di Riley sono stati trovati due cadaveri.» Non ne sapevo nulla. «E allora?» «Sono stati trovati vicino alla sua proprietà.» «La proprietà non è mia ma di mio nonno.» «Lei però è il custode giudiziario, vero?» «Non io, mia sorella.» «Forse allora sarebbe il caso di farla venire, vorrei parlare anche con lei.» «Ha detto che i cadaveri non sono stati trovati nella tenuta di Lake Charmaine, vero?» «Esatto, in quella che confina con la vostra, a occidente. Ed è di proprietà della contea.» «E allora che cosa vuole da noi?» Ci fu una pausa. «Senta, sarò da lei tra un'ora. E cerchi, per favore, di far venire anche Linda. Grazie.» E riattaccò. Quegli otto anni non erano stati particolarmente benevoli con lo sceriffo Lowell, che comunque non aveva mai potuto considerarsi una specie di Mel Gibson. Aveva un aspetto così trasandato e miserabile che accanto a lui Nixon sarebbe sembrato un figurino. La punta del naso era incredibilmente piena di bulbi. Continuava a tirar fuori un fazzoletto strausato, lo apriva metodicamente, si soffiava il naso e poi altrettanto metodicamente lo ripiegava e se lo infilava nella tasca posteriore dei pantaloni. Era arrivata Linda, e si sporgeva dal divano dove eravamo seduti come a farmi da scudo. Linda era una di quelle persone che ti concedono la loro completa e incondizionata attenzione, ti fissa con quei suoi occhioni scuri e tu non riesci a guardare da un'altra parte. Io sarò sicuramente parziale, ma Linda è la persona migliore che conosca. Considerazione dolciastra la
mia, lo so: ma il fatto che Linda esista mi dà speranza in un mondo migliore, e il fatto che lei mi voglia bene mi dà tutto ciò che mi è rimasto. Sedevamo nel salotto dei nonni, una stanza che di solito faccio di tutto per evitare perché la trovo stantia, buia e ancora con quell'odore di vecchio. Una stanza dove mi mancava l'aria, insomma. Lo sceriffo Lowell ci mise un po' a sistemarsi su una sedia, poi si soffiò ancora un paio di volte il naso, estrasse di tasca un taccuino, si leccò l'indice e trovò la pagina che cercava. Infine ci rivolse il più amichevole dei sorrisi e attaccò. «Vi dispiacerebbe dirmi quando siete stati al lago l'ultima volta?» «Io il mese scorso» rispose Linda. Ma gli occhi di Lowell erano puntati su di me. «E lei, dottor Beck?» «Otto anni fa.» Annuì come se si aspettasse quella risposta. «Come stavo spiegando al telefono, abbiamo trovato due cadaveri nei pressi del lago.» «Li avete già identificati?» chiese Linda. «No.» «Non è strano?» Lowell stette a pensarci su mentre si piegava per tirare fuori il fazzoletto per l'ennesima volta. «Sappiamo che sono entrambi maschi, adulti e bianchi. Ora stiamo controllando l'elenco delle persone scomparse per cercare di saperne di più. I cadaveri sono piuttosto vecchi.» «Vecchi quanto?» chiesi. Lo sceriffo Lowell trovò nuovamente i miei occhi. «Difficile dirlo. L'anatomo-patologo sta ancora facendo alcune analisi, ma pensiamo che siano morti da almeno cinque anni. E li hanno sepolti abbastanza bene, tra l'altro. Non li avremmo mai scoperti, se non fosse stato per quello smottamento provocato dalle piogge torrenziali dei giorni scorsi. Oltre che per quell'orso con il braccio.» Io e mia sorella ci guardammo. «Come dice?» chiese poi Linda. «Un cacciatore ha sparato a un orso, e quando gli si è avvicinato dopo averlo ucciso ha visto per terra un osso che la bestia aveva tra le zanne. Un osso umano, si è poi scoperto, appartenuto a uno di quei due cadaveri. Ma c'è voluto del tempo, ve l'assicuro, stiamo ancora scavando in quella zona.» «Pensate che possano esserci altri cadaveri?» «Non posso affermarlo con certezza.» Linda non gli staccava gli occhi di dosso. «Quindi, sceriffo, è venuto a
chiederci il permesso di scavare anche nella nostra proprietà in riva al lago?» «Anche per questo.» Aspettammo che si spiegasse meglio, lui si schiarì la gola e tornò a fissarmi. «Il suo gruppo sanguigno, dottor Beck, è il B positivo, vero?» Aprii la bocca ma Linda mi poggiò una mano protettrice sul ginocchio. «E questo che cos'ha a che fare con il resto?» gli chiese. «Abbiamo trovato dell'altro in quella fossa.» «Che altro?» «Mi spiace, si tratta di informazioni riservate.» «E allora se ne vada da qui» intervenni io. Lowell non sembrò particolarmente colpito dal mio scatto. «Stavo soltanto cercando di...» «Se ne vada, ho detto.» Lo sceriffo Lowell non si mosse. «Lo so che l'assassino di sua moglie è stato già condannato e so anche quanto le faccia male riparlare di questa storia.» «Mi risparmi tutta questa compassione.» «Non è mia intenzione compatirla.» «Otto anni fa, sceriffo, lei pensava che mia moglie l'avessi uccisa io.» «Non è vero. Lei era il marito, e in questi casi le probabilità che sia coinvolto un membro della famiglia...» «Forse se non aveste perso tempo con questa fesseria avreste trovato Elizabeth prima che...» Mi sentivo soffocare, voltai lo sguardo. Maledizione, maledetto Lowell! Linda allungò una mano verso di me, ma mi allontanai. «Dovevo per legge prendere in considerazione ogni possibilità» biascicò lui. «Avevamo la collaborazione delle autorità federali, anche suo suocero e il fratello furono informati di tutti gli sviluppi. Insomma, facemmo tutto ciò che potemmo.» Non ce l'avrei fatta ad ascoltare un'altra parola. «Che diavolo vuole da noi, insomma, Lowell?» Lui si alzò sollevandosi i pantaloni sullo stomaco, probabilmente voleva sfruttare il vantaggio dell'altezza per intimidirmi o qualcosa del genere. «Un campione di sangue, del suo sangue.» «Perché?» «Perché quando sua moglie è stata rapita lei è stato aggredito.» «E allora?»
«Aggredito con un corpo contundente.» «Lei le sa queste cose.» «Certo.» Si asciugò nuovamente il naso, ripose il fazzoletto e cominciò a camminare su e giù. «Vicino ai cadaveri abbiamo trovato anche una mazza da baseball.» La testa ricominciò a pulsarmi. «Una mazza?» «Sì, sottoterra con i cadaveri c'era anche una mazza di legno.» «Non capisco» disse Linda. «Tutto ciò che cosa ha a che fare con mio fratello?» «C'era del sangue essiccato sulla mazza, del tipo B positivo.» Voltò il capo nella mia direzione. «Il suo gruppo sanguigno, dottor Beck.» Ricostruimmo per l'ennesima volta quella sequenza. L'anniversario, l'incisione della tacca sull'albero, il bagno nel lago, il rumore dello sportello dell'auto, la mia affannosa e penosa nuotata per tornare a riva. «Ricorda di essere caduto nel lago?» mi chiese Lowell. «Sì.» «E ha sentito sua moglie gridare?» «Sì.» «Dopo di che è svenuto? Dentro l'acqua?» Annuii. «Secondo lei quanto era profonda l'acqua? Nel punto in cui è caduto, voglio dire.» «Ma questo non l'avete già accertato otto anni fa?» «Abbia pazienza, dottor Beck.» «Non lo so. Profonda.» «Al punto da coprirle anche il capo?» «Sì.» «D'accordo. E che altro ricorda?» «L'ospedale» risposi. «Nulla di ciò che è successo tra la sua caduta in acqua e il risveglio nel letto d'ospedale?» «Proprio così.» «Non ricorda di essere uscito dall'acqua? Non ricorda di essersi trascinato fino alla capanna, di avere chiamato un'ambulanza? Perché è ciò che ha fatto, lo sa. L'abbiamo trovata sul pavimento della capanna e la cornetta del telefono era ancora staccata.» «Lo so, ma non mi ricordo.»
Intervenne nuovamente Linda. «Lei pensa, sceriffo, che questi due uomini possano essere altre vittime di...» esitò «... KillRoy?» Lo disse sottovoce, quel nome, ma fu sufficiente per far calare il gelo nel salotto. Lowell tossì coprendosi la bocca con il pugno. «Non ne siamo sicuri, signora. Tutte le vittime conosciute di KillRoy sono donne, e lui non ha mai sepolto un cadavere, almeno a quanto ci risulta. La pelle di questi due cadaveri, poi, è tanto marcia che non siamo in grado di stabilire se anche loro sono stati marchiati.» "Marchiati." Sentii la testa girarmi, chiusi gli occhi e cercai di non ascoltare più. 3 La mattina seguente mi precipitai di buon'ora in ambulatorio, arrivando con due ore di anticipo sul primo paziente in lista. Accesi il computer, trovai la strana e-mail e cliccai sull'iperlink. Ancora una volta mi diede errore. Nulla di nuovo, insomma. Fissai il messaggio, leggendolo e rileggendolo come se dovessi scovarvi qualche recondito significato. Ma non lo scovai. La sera prima mi ero fatto fare un prelievo di sangue. Per la prova del DNA sarebbero occorse settimane, ma secondo Lowell sarebbe stato possibile effettuare un raffronto preliminare. Cercai di strappare altre notizie allo sceriffo, che però si era cucito la bocca. Ci stava tacendo qualcosa, ma non avevo idea di che cosa potesse trattarsi. In attesa del primo paziente ripensai alla lunga visita di Lowell, ai due cadaveri, alla mazza da baseball con le tracce di sangue. E riuscii anche a pensare alle marchiature. Il cadavere di Elizabeth era stato scoperto cinque giorni dopo il rapimento ai margini della Route 80. Secondo il coroner era morta da due giorni, il che significava che aveva passato da viva tre giorni insieme con Elroy Kellerton, alias KillRoy. Tre giorni. Sola con un mostro. Tre albe e tre tramonti d'angoscia, al buio, in preda a un folle terrore. Mi sforzo di non pensarci. Ci sono angoli bui nei quali la mente non dovrebbe addentrarsi, ma alla fine è sempre lì che ritorna. KillRoy era stato catturato tre settimane dopo e aveva confessato di avere ucciso quattordici donne. La prima vittima era stata una studentessa di Ann Arbor, l'ultima una prostituta del Bronx, i cadaveri di tutte e quattor-
dici erano stati ritrovati ai margini di qualche strada, abbandonati come rifiuti dei quali qualcuno si era sbarazzato: e tutti erano stati marchiati con la lettera K, come capi di bestiame. In altre parole Elroy Kellerton aveva preso un attizzatoio, ne aveva poggiato tra le fiamme un'estremità, si era infilato un guanto imbottito, aveva atteso che l'attizzatoio diventasse incandescente e poi aveva deturpato la bella pelle della mia Elizabeth in un atroce sfrigolio. La mia mente si avventurò in un campo minato, inviandomi immagini che cercai di allontanare serrando le palpebre. Ma non ci riuscii. Era ancora vivo, tra l'altro. KillRoy, voglio dire. Il processo d'appello dà a questo mostro la possibilità di respirare, di leggere, di parlare, di essere intervistato dalla CNN, di ricevere visite di persone di buon cuore, di sorridere. E nel frattempo le sue vittime marciscono. Dio ha uno strano senso dell'umorismo, come ho detto. Mi gettai sul viso dell'acqua fredda, guardandomi poi allo specchio. Non avevo decisamente un bell'aspetto. I pazienti cominciarono ad arrivare alle nove, e io riuscii naturalmente a distrarmi dai miei pensieri. Ma non perdevo d'occhio l'orologio a muro, in attesa delle sei e un quarto, l'ora del bacio. Le lancette dell'orologio mi sembravano lentissime come se qualcuno le avesse cosparse di uno sciroppo appiccicoso. Mi dedicai totalmente ai pazienti. Ho sempre avuto questa capacità di concentrazione. Da ragazzo riuscivo a studiare per ore e ore. Da medico posso scomparire nel mio lavoro. È quello che feci dopo la morte di Elizabeth. Secondo alcuni io mi nascondo nel lavoro, scelgo di lavorare invece di vivere. A queste banalità rispondo sempre allo stesso modo: «E allora?». A mezzogiorno mandai giù un panino al prosciutto e una Diet Coke, poi visitai altri pazienti. C'era un bambino di otto anni che l'anno prima era stato ottanta volte da un chiropratico per l'"allineamento spinale" pur non avendo mai accusato in precedenza dolori alla schiena. Era la solita truffa messa in piedi da diversi chiropratici disonesti, che offrono ai genitori un televisore o un videoregistratore se gli portano i loro bambini, e poi mettono tutto a carico del Servizio sanitario nazionale. Che è un servizio meraviglioso, necessario, ma spesso se ne abusa. Una volta, ricordo, mi portarono a tutta velocità in ambulanza un ragazzetto di sedici anni per una semplice scottatura solare. Perché l'ambulanza, invece del taxi o della metropolitana? La madre mi spiegò che avrebbe dovuto pagare lei oppure attendere il rimborso, mentre il Servizio nazionale l'ambulanza la paga subi-
to. Alle cinque in punto se ne andò l'ultimo paziente. Il personale paramedico stacca alla cinque e mezzo. Attesi che l'ambulatorio fosse completamente vuoto e poi andai a sedermi davanti al computer. In lontananza sentivo squillare i telefoni, c'è un impianto automatico che prende le chiamate e fornisce una serie di opzioni alla persona all'altro capo del filo ma, chissà perché, questo impianto non prende le telefonate prima del decimo squillo. E a sentirli ogni volta tutti e dieci c'era da ammattire. Attivai la connessione, cercai la e-mail e cliccai ancora una volta sull'iperlink. Niente da fare. Mi misi a pensare a questa strana e-mail e a quei cadaveri. Doveva esserci un rapporto tra loro. Continuavo ad andare con la mente a quel fatto apparentemente semplice. E cominciai a passare in rassegna le varie possibilità. Prima possibilità: quei due cadaveri erano opera di KillRoy. È vero, tutte le altre vittime erano state donne e trovare i loro cadaveri non era stato difficile: ma questo poteva escludere anche altri omicidi? Seconda possibilità: KillRoy aveva convinto i due a dargli una mano per rapire Elizabeth. Questa ipotesi poteva spiegare tante cose. La mazza da baseball, per dirne una, se il sangue essiccato era effettivamente il mio. E inoltre poteva rispondere a una delle grandi questioni che mi erano rimaste in sospeso. In teoria KillRoy, come tutti i serial killer, agiva da solo. Ma mi ero sempre chiesto come avesse fatto a trascinare Elizabeth fino all'auto e, contemporaneamente, ad appostarsi in attesa che uscissi dall'acqua. Prima del ritrovamento del cadavere le autorità avevano ipotizzato che i rapitori fossero più di uno. Ma, una volta scoperto il K marchiato a fuoco, questa ipotesi era caduta. Avevano quindi concluso che KillRoy avrebbe potuto farcela se avesse ammanettato o in qualche modo immobilizzato Elizabeth per poi dedicarsi a me. Con un po' di buona volontà e facendo un po' di forza questo tassello poteva essere inserito al suo posto all'interno del puzzle. Ora si presentava un'altra spiegazione: KillRoy aveva agito con dei compiici e poi li aveva uccisi. La possibilità numero tre era la più semplice: il sangue sulla mazza non era il mio. Il gruppo B positivo non è comune ma nemmeno rarissimo. Con ogni probabilità, quindi, questi cadaveri non avevano nulla a che vedere con la morte di Elizabeth. Ma io non riuscivo ad accettare questa ipotesi. Guardai l'orologio del computer, collegato a qualche satellite che dava
l'ora esatta. Le sei, quattro minuti e quarantadue secondi. Mancavano ancora dieci minuti e diciotto secondi all'appuntamento. Ma quale appuntamento? I telefoni continuavano a squillare. Riuscii a ignorarli e mi misi a tamburellare con le dita. Meno di dieci minuti, ora. Se era previsto che qualcosa cambiasse nell'iperlink, probabilmente sarebbe successo ora. Portai la mano sul mouse e trattenni il respiro. In quel momento squillò il mio cercapersone. Non avevo la reperibilità quella sera. Il che significava che qualcuno aveva commesso un errore - e di notte di errori come questi i centralinisti ne facevano tanti - oppure che si trattava di una chiamata personale. Ci fu un nuovo squillo, anzi un doppio squillo. Cioè un'emergenza. Guardai il display del cercapersone. Era arrivata una telefonata dello sceriffo Lowell, e il messaggio era accompagnato dalla scritta "Urgente". Otto minuti. Rimasi a pensarci su, ma non a lungo. Qualunque cosa mi pareva preferibile che starmene a crogiolare nei miei pensieri. Decisi di richiamarlo. Sollevai il telefono e poi composi il numero apparso sul cercapersone. Ancora una volta Lowell sapeva chi lo stava chiamando prima ancora di sollevare la cornetta. «Mi spiace disturbarla, Doc.» Ora mi chiamava Doc, come se fossimo amici. «Ho da farle una domanda veloce.» Riportai la mano sul mouse, spostai il cursore sull'iperlink e cliccai. Stavolta il browser cominciò a prendere vita. «La ascolto» dissi. Il browser se la stava prendendo comoda stavolta. Ma non apparve la scritta "Errore". «Le dice qualcosa il nome Sarah Goodhart?» Il telefono quasi mi cadde di mano. «Doc?» Allontanai la cornetta e la guardai come se mi si fosse materializzata in mano in quel momento. Mi ripresi un pezzettino alla volta. Quando potei nuovamente fare affidamento sulla mia voce riportai la cornetta all'orecchio. «Perché me lo chiede?» Sullo schermo cominciò ad apparire qualcosa. Strizzai gli occhi. Era una di quelle webcam aeree, o in questo caso da strada. Il web ne era ormai pieno. A volte la mattina io usavo quelle del traffico, per accertarmi di e-
ventuali file sul Washington Bridge. «È una lunga storia» disse Lowell. Avevo bisogno di guadagnare tempo. «Allora la richiamerò.» Riattaccai. Sarah Goodhart. Il nome mi diceva qualcosa. Anzi mi diceva molto. Ma che diavolo stava succedendo? Il browser smise di caricare. Sul monitor comparve l'immagine di una strada. Il resto della pagina era vuoto. Niente banner o titoli. Sapevo che lo si poteva settare in modo da filtrare le informazioni. Come in questo caso. Guardai l'orologio del computer. Le sei, dodici minuti e diciotto secondi. La telecamera era puntata su un angolo di strada piuttosto affollato, a un'altezza di circa quattro metri e mezzo dal suolo. Non sapevo quale fosse quella strada e quella città. Ma doveva essere decisamente una grande città. La maggior parte dei pedoni si muovevano da destra verso sinistra a testa china, con le spalle curve e la borsa in mano, stanchi al termine di una giornata di lavoro, diretti probabilmente a una fermata d'autobus o a una stazione della metropolitana. All'estrema destra vidi il marciapiede. I pedoni si muovevano a ondate, regolate probabilmente da un semaforo. Aggrottai la fronte. Perché qualcuno mi stava mandando quelle immagini? L'orologio segnava le sei, quattordici minuti e ventuno secondi. Ancora meno di un minuto. Tenni gli occhi incollati sullo schermo e attesi il conto alla rovescia come se fosse la notte di Capodanno. Sentii accelerare le pulsazioni. Dieci, nove, otto... Un'altra marea umana attraversò lo schermo da destra a sinistra. Distolsi lo sguardo dall'orologio. Quattro, tre, due. Trattenni il fiato e attesi. Quando riportai lo sguardo sull'orologio lessi: 6:15.02 PM. Non era successo nulla. Ma poi, che cosa mi aspettavo? La marea umana ondeggiò e ancora una volta, per un secondo o due, sullo schermo non si vide nessuno. Mi appoggiai allo schienale della poltrona, respirando a fondo. Uno scherzo, pensai. Uno scherzo strano, certo. Anche cattivo. Ma ciò nonostante... E fu proprio in quel momento che qualcuno sbucò dal margine dello schermo per andarsi a piazzare proprio sotto la webcam. Era come se questa persona se ne fosse rimasta nascosta lì tutto quel tempo. Mi avvicinai al monitor.
Era una donna. Questo potevo vederlo anche se era di spalle. Capelli corti, ma decisamente una donna. Dal mio punto di osservazione fino a quel momento non ero riuscito a vedere i volti dei passanti. E neanche di questa donna. Non subito, almeno. Lei si fermò. Le guardai la cima del capo, quasi a convincere la sconosciuta a sollevarlo. La donna mosse un altro passo. Ora si trovava proprio al centro dello schermo. Passò qualche altro pedone. La donna rimase immobile. Poi si voltò e lentamente sollevò il mento fino a guardare l'obiettivo della webcam. Il mio cuore si fermò. Mi addentai la mano per soffocare un grido. Non riuscivo a respirare. Non riuscivo a pensare. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, che cominciarono a scivolare sulle guance. Non le asciugai. La guardai. Lei guardò me. Un altro gruppo di pedoni attraversò lo schermo. Alcuni di loro la urtarono, ma lei non si mosse. Teneva lo sguardo fisso nell'obiettivo. Sollevò la mano come se volesse toccarmi. Mi girava la testa. Mi sembrava che si fosse spezzato ciò che mi teneva incatenato alla realtà. Era come se galleggiassi indifeso a mezz'aria. Lei tenne la mano sollevata. Lentamente riuscii ad alzare la mia. Le mie dita sfiorarono lo schermo caldo cercando le sue. Sul viso mi scivolarono altre lacrime. Carezzai lentamente quel viso di donna, sentendo d'improvviso il cuore che mi si sbriciolava e al tempo stesso si librava in aria. «Elizabeth» sussurrai. Lei rimase ferma ancora un paio di secondi. Poi disse qualcosa all'obiettivo. Non potevo udirla, naturalmente, ma riuscii a leggerle le labbra. «Mi dispiace» disse la mia moglie morta. E poi si allontanò. 4 Vic Letty entrò zoppicando, dopo essersi guardato attorno, in uno dei locali del centro commerciale sulla cui insegna si leggeva MAIL BOXES ETC, e si accorse soddisfatto che nessuno gli stava prestando la minima attenzione. Perfetto. Vic non riuscì a trattenere un sorriso. Il suo sistema era a prova di bomba. Non c'era alcun modo di risalire a lui, e ora sarebbe diventato ricco. Il segreto, l'aveva ormai capito, era la preparazione. Era la preparazione
che distingueva i bravi dai grandi. I grandi coprivano ogni traccia. I grandi erano preparati ad affrontare ogni evenienza. Come prima cosa Vic si era fatto fare una falsa carta d'identità da quel perdente di suo cugino Tony, e usando quel documento aveva aperto una casella postale, intestandola alla UYS ENTERPRISES. Capito la raffinatezza? Una carta d'identità falsa e uno pseudonimo. In tal modo, se qualcuno avesse pagato quello scemo dietro il banco per farsi dire chi aveva noleggiato la casella postale intestata alla UYS ENTERPRISES, sarebbe uscito fuori il nome Roscoe Taylor, quello della falsa carta d'identità di Vic. Impossibile risalire a lui. Prima di avvicinarsi alla sua casella, la 417, Vic cercò di vedere da lontano attraverso la finestrella se conteneva qualcosa. E qualcosa c'era, sicuramente. Splendido. Vic accettava soltanto contanti o ordini di pagamento anonimi. Niente assegni, ovviamente Nulla che permettesse di identificarlo. E ogni volta che andava a ritirare i soldi si camuffava. Come ora. Aveva baffi posticci, si era messo sul capo un berretto da baseball e fingeva di zoppicare. Da qualche parte aveva letto che gli zoppi si notano facilmente, quindi, se avessero chiesto a un testimone di descrivere l'uomo che usava la casella 417, cosa avrebbe detto? Semplice. L'uomo aveva i baffi e zoppicava. E se avessero pagato lo scemo dietro il banco per farlo parlare avrebbero scoperto che un certo Roscoe Taylor aveva i baffi e zoppicava. Mentre il vero Vic Letty non aveva i baffi e non zoppicava. Ma Vic aveva preso altre precauzioni. Non apriva mai la cassetta se c'era qualcuno nelle vicinanze. Mai. Se altri clienti stavano prendendo la posta lì vicino, lui si allontanava dalla zona della sua casella, oppure fingeva di riempire un modulo o qualcosa di simile. Quando la strada era libera, e soltanto in quel caso, Vic si avvicinava alla casella 417. Vic sapeva che non si è mai abbastanza prudenti. Anche nel recarsi alla MAIL BOXES ETC. aveva adottato delle precauzioni. Come prima cosa aveva parcheggiato a quattro isolati di distanza il furgone della CABLEEYE, il più grosso operatore di TV via cavo della costa orientale, per il quale eseguiva riparazioni. Aveva deviato passando per un paio di vicoli invece di seguire la strada principale. E infine aveva indossato una giacca a vento nera sopra la tuta da lavoro, in modo da coprire la scritta "Vic" cucita sulla tasca destra all'altezza del petto. Si mise a pensare al sostanzioso gruzzolo che probabilmente si trovava dentro la casella 417, a meno di tre metri di distanza da lui. Sentì un pizzicorino alle dita. Si guardò nuovamente attorno.
Due donne stavano aprendo le loro caselle. Una si voltò e gli sorrise distrattamente. Vic si avvicinò alle caselle della parete di fronte e portò la mano alla catenella con le chiavi che portava appesa alla cintura, fingendo poi di sceglierne una. Tenne il viso basso e lontano dalle due donne. Sempre più prudente. Un paio di minuti dopo le due donne avevano ritirato la posta ed erano scomparse. Adesso Vic era solo. Andò alla parete di fronte e aprì la sua casella. Wow! C'era un pacchetto indirizzato alla UYS ENTERPRISES. Avvolto in carta marrone. Senza indirizzo del mittente. E abbastanza spesso da contenere soldi seri. Vic sorrise. "È così che si presentano cinquanta bigliettoni?" si chiese. Allungò una mano tremante e tirò fuori il pacchetto. Era piacevolmente pesante. Il cuore prese a battergli nel petto come un martello pneumatico. Oh, buon Dio! Da quattro mesi ormai si dedicava a quella specie di pesca, e ogni tanto tirava su qualche pesce decente. Ma ora, Dio santo, nella rete gli era finita una cazzo di balena! Sempre guardandosi attorno, Vic infilò il pacchetto dentro la giacca a vento e uscì in fretta. Tornò al furgone seguendo un altro itinerario e, una volta al volante, si diresse verso lo stabilimento. Le dita trovarono il pacchetto e lo carezzarono. Cinquanta bigliettoni. Cinquantamila dollari. La cifra era tale da sconvolgerlo completamente. Quando arrivò allo stabilimento della CABLEEYE si era fatta notte. Vic parcheggiò il furgone sul retro e andò a prendere la sua auto, una sgangherata Honda Civic del 1991. "Ancora per poco" pensò guardandola rabbuiato. Il parcheggio dei dipendenti era silenzioso. Il buio cominciò a pesargli. Vic udiva i propri passi, il pesante rumore dei suoi scarponi da lavoro sull'asfalto. Il freddo penetrava la barriera della giacca a vento. Cinquanta bigliettoni. Aveva in tasca cinquanta bigliettoni. Curvò le spalle e accelerò il passo. Diciamo la verità, Vic stavolta aveva paura. Quella faccenda doveva finire. Il piano era indubbiamente buono. Grande, perfino. Ma ora se la stava prendendo con i pesci grossi. Si era chiesto se quella fosse una mossa intelligente, aveva vagliato i pro e i contro, e alla fine aveva deciso che se voleva considerarsi un grande, uno di quelli che vogliono veramente cambiare la propria vita, doveva insistere.
Il meccanismo era semplice, ed era questo a renderlo così straordinario. Ogni casa con la TV via cavo ha una centralina collegata alla linea telefonica. Se decidi di attivare canali come HBO o Showtime, il tecnico di zona viene a casa tua e muove qualche interruttore della centralina, che ora contiene la tua vita via cavo. E ciò che contiene la tua vita via cavo contiene tutto ciò che ti riguarda. Le stazioni TV via cavo e gli alberghi con il circuito televisivo interno ti rassicurano sottolineando che sulla bolletta o sul conto non appariranno i titoli dei film che hai visto. Il che è vero, ma non significa che loro non li conoscano. Prova una volta a protestare per un conto troppo alto. Ti snoccioleranno una serie di titoli da farti diventare viola dalla vergogna. Vic aveva scoperto subito - ma evitiamo di addentrarci in particolari tecnici - che le scelte dei programmi via cavo avvengono per codici, e che, attraverso la centralina, questi codici trasferiscono gli ordini ai computer della stazione TV. Vic si issava sui pali del telefono, apriva le scatole e leggeva i numeri. Poi, tornato in ufficio, gli bastava leggere i codici al computer per sapere ciò che gli serviva. Aveva scoperto, per fare un esempio, che alle sei del pomeriggio del 2 febbraio tu e la tua famiglia avete noleggiato Il re leone alla pay-per-view. Oppure, per fare un esempio più calzante, che la sera del 7 febbraio alle dieci e trenta hai ordinato un'accoppiata come Caccia a Miss Ottobre Rosso e Sul lago arrapato. Capito il meccanismo? All'inizio Vic colpiva a caso. Scriveva una lettera al capofamiglia, una lettera breve e agghiacciante. In questa lettera faceva un elenco dei film porno che erano stati visti, l'ora e il giorno. E chiariva subito che copie della lettera sarebbero state inviate a ciascun componente della famiglia, oltre che ai vicini e al datore di lavoro. Poi chiedeva 500 dollari per tenere la bocca chiusa. Non una gran somma forse, ma secondo Vic quella giusta: abbastanza alta, cioè, per farlo campare meglio, ma abbastanza bassa per evitare che i destinatari della lettera si rifiutassero di pagare. Eppure, la cosa all'inizio l'aveva sorpreso non poco, soltanto un dieci percento circa aveva risposto. Vic non capiva bene perché. Forse guardare i film porno non era più disdicevole come una volta. Forse la moglie della vittima lo sapeva già. O forse, che diavolo. Ma il vero punto debole di quel piano era la gamma troppo ampia dei destinatari del ricatto. Doveva restringere il campo, selezionare le vittime. Fu a quel punto che gli venne l'idea di prendere di mira certe figure pro-
fessionali che avrebbero avuto tutto da perdere se si fosse saputo quali film guardavano. E ancora una volta i computer della società gli vennero in aiuto. Cominciò, per esempio, a colpire gli insegnanti. Gli assistenti sociali. I ginecologi. Chiunque, insomma, svolgesse un'attività tale da non potersi permettere uno scandalo del genere. Gli insegnanti si spaventavano più di tutti, ma erano anche quelli con minori disponibilità di denaro. Vic prese poi a riempire le sue lettere di particolari, facendo il nome della moglie del destinatario o quello del suo principale. Minacciò gli insegnanti di subissare il dipartimento dell'istruzione e i genitori degli studenti con le "prove della perversione", espressione questa che coniò su due piedi. Minacciò i medici di inviare le sue "prove" alle autorità sanitarie, per non parlare dei giornali locali, dei vicini e dei pazienti. Il flusso dei soldi in arrivo si intensificò. A quel punto erano entrati in cassa quarantamila dollari. Tanti, decisamente tanti. E ora aveva tirato su il pesce più grosso in assoluto, talmente grosso che inizialmente Vic aveva deciso di lasciar perdere. Ma non ce l'aveva fatta. Non poteva rinunciare al colpo della sua vita. Aveva colpito in alto, stavolta, veramente in alto. Randall Scope. Giovane, bello, ricco, moglie in calore, 2 figli, velleità politiche, erede della fortuna degli Scope. E questo pesce grosso non aveva noleggiato un solo film. E neppure due. Nell'arco di un mese Randall Scope aveva richiesto ventritré film pornografici. Ole! Vic aveva passato due sere a decidere che tipo di lettera spedirgli, ma alla fine aveva optato per il suo schema base: la lettera doveva essere terrorizzante e precisa. La richiesta era stata quindi di cinquanta bigliettoni, da inviare alla casella postale lo stesso giorno. E, a meno di errori, proprio in quel momento i cinquanta testoni gli stavano bruciando dentro la giacca a vento. Vic voleva guardare, voleva guardare subito. Ma era anche un tipo disciplinato. Sarebbe prima arrivato a casa. Avrebbe chiuso a chiave la porta, si sarebbe seduto sul pavimento e avrebbe aperto con un coltello il pacchetto rovesciando poi fuori tutto quel verde. Soldi seri. Parcheggiò la Civic davanti a casa e imboccò il vialetto d'ingresso. La vista del suo appartamentino sopra uno squallido garage lo depresse. Ma ci avrebbe abitato ancora per poco. Perché con i cinquantamila appena incas-
sati, i quasi quarantamila nascosti in casa e i diecimila dei suoi risparmi... Si bloccò sui suoi passi. Centomila dollari! Si era reso conto di possedere centomila dollari in contanti. Alla grande! Sarebbe partito subito. Avrebbe preso i suoi soldi e sarebbe andato in Arizona. Aveva un amico in Arizona, Sammy Viola. Si sarebbe messo in affari con Sammy, magari avrebbe aperto un ristorante o un night. Era stanco del New Jersey. Era ora di muoversi. Di ricominciare daccapo. Vic salì le scale di casa. Per la cronaca, non aveva mai dato seguito alle minacce, non aveva mai divulgato una lettera. Se la vittima non pagava, la cosa finiva lì. Farle del male non avrebbe risolto nulla. Era un artista, Vic, e si affidava al cervello. Minacciava le sue vittime, certo, ma nulla di più. Se avesse divulgato le lettere avrebbe ottenuto l'effetto di mandare in bestia le vittime, esponendosi troppo. A che pro, dunque, sputtanare la vittima? Raggiunto il pianerottolo si fermò davanti alla porta. Buio pesto. Quella maledetta lampadina sopra l'uscio si era fulminata un'altra volta. Con un sospiro sollevò la catenella con le chiavi e, strizzando le palpebre, cercò al buio quella di casa riconoscendola al tatto. Poi, dopo alcuni tentativi, riuscì a infilarla nella serratura. Aprì la porta, entrò e si accorse subito di qualcosa di strano. Qualcosa che scricchiolava sotto i suoi scarponi. Allungò perplesso una mano sull'interruttore. Plastica, pensò. Stava camminando sulla plastica. Come se un imbianchino avesse steso dei teli per non sporcare il pavimento. Accese una luce e fu allora che vide l'uomo con la pistola. «Ciao, Vic.» Si sentì mancare il fiato e arretrò di un passo. L'uomo davanti a lui doveva essere sulla quarantina, un tipo grosso e grasso con la cravatta allentata e la pancia che lottava contro i bottoni della camicia; e, almeno in un punto, la pancia aveva avuto la meglio. Lo sconosciuto sfoggiava inoltre uno dei peggiori riporti immaginabili, otto ciocche intrecciate da orecchio a orecchio e intrise di brillantina per rimanere appiccicate alla pelata. Aveva lineamenti morbidi e un mento che si perdeva nelle pieghe del grasso. Teneva i piedi sul baule che Vic usava come tavolino. Sostituendo la pistola con un telecomando, lo si sarebbe potuto scambiare per uno stanco padre di famiglia appena tornato a casa dal lavoro. L'altro, quello che bloccava la porta, era l'esatto contrario del primo: sul-
la ventina, asiatico, basso, con muscoli di granito, testa a forma di cubo, capelli biondi ossigenati, uno o due anelli al naso e le cuffie di un walkman giallo sopra le orecchie. Solo in metropolitana si poteva vedere una coppia del genere, il grassone accigliato dietro il suo quotidiano accuratamente ripiegato, e il ragazzo orientale che ti guarda dondolando il capo al ritmo della musica a tutto volume che esce dalle cuffie. Vic cercò di riflettere. Di scoprire quello che volevano. Di ragionarci. Sei un artista del ricatto, si ricordò. Sei in gamba. Troverai una via d'uscita. Raddrizzò la schiena. «Che cosa volete?» chiese. Quello grosso con il riporto premette il grilletto. Vic udì uno schiocco e poi il suo ginocchio destro esplose. Spalancò gli occhi. Urlò e crollò sul pavimento tenendosi la mano sul ginocchio. Il sangue gli colava tra le dita. «È una ventidue» disse quello grosso indicando la pistola. «Un'arma di piccolo calibro. Mi piace perché, come vedrai, posso spararti senza ucciderti.» Con i piedi sempre poggiati sul baule l'omone sparò nuovamente. Stavolta fu la spalla a prendersi la pallottola, e Vic udì l'osso che si spezzava. Il braccio gli ricadde come la porta di un fienile con un cardine marcio. Vic crollò di schiena respirando affannosamente, in preda a quella terribile miscela di terrore e dolore fisico. Teneva gli occhi sbarrati senza battere le palpebre e, attraverso la nebbiolina che li appannava, rivide qualcosa che aveva già notato e capì immediatamente. I teli di plastica sul pavimento. Era caduto sui teli ma, soprattutto, stava sanguinando sui teli. Ecco perché quei due li avevano stesi, per evitarsi la fatica di ripulire. «Vuoi cominciare a dirmi quello che voglio sentirti dire, oppure devo spararti di nuovo?» gli chiese l'omone. Vic si mise a parlare. Disse tutto. Rivelò dove aveva nascosto gli altri soldi. Disse loro dove si trovavano le prove. L'omone gli chiese se aveva compiici. Rispose di no. L'omone gli sparò all'altro ginocchio. Gli chiese nuovamente se aveva compiici. Vic disse ancora di no. L'omone gli sparò alla caviglia destra. Un'ora dopo Vic implorò l'omone di sparargli in testa. Due ore dopo l'omone l'accontentò. 5
Fissavo lo schermo del computer con gli occhi sbarrati. Non riuscivo a muovermi. Avevo i sensi inerti. Ogni parte di me era intorpidita. Non era possibile. Lo sapevo. Non è che Elizabeth era caduta da uno yacht ed era stata data per annegata dopo le inutili ricerche del cadavere. Non era rimasta carbonizzata in modo tale da impedire qualsiasi tentativo di identificazione. Il suo cadavere era stato scoperto dentro una cunetta della Route 80. Conciato male, forse, però era stato ugualmente identificato. "Non da te..." No, d'accordo, ma da due parenti stretti, due persone di famiglia: il padre e lo zio. Era stato proprio Hoyt Parker, mio suocero, a comunicarmi che Elizabeth era morta. Mi era venuto a trovare in ospedale con il fratello, Ken, poco dopo che avevo ripreso i sensi. Hoyt e Ken erano due omoni, con i capelli grigi e l'aria assorta, il primo faceva il poliziotto a New York e l'altro era un agente federale: entrambi erano reduci di guerra, entrambi erano decisamente in carne oltre che dotati di grosse fasce muscolari. Si erano tolti il cappello cercando di parlarmi con semidistacco professionale, ma io non la bevvi e loro non la tirarono troppo per le lunghe. Che cosa avevo appena visto, allora? Sul monitor continuava a sfilare la fiumana di pedoni. Continuai a guardare, nella speranza che lei riapparisse. Niente da fare. Ma dove si trovava quella webcam? In una città piena di gente affaccendata, poco ma sicuro. Per quanto ne sapevo, poteva benissimo essere New York. E allora cerca qualche indizio, pezzo d'idiota! Scacciai quell'inerzia mentale e cercai di concentrarmi. Gli abiti. Okay, osserviamo attentamente gli abiti. Quasi tutti i passanti indossavano giacca o soprabito. Conclusione: doveva essere un posto a nord, comunque, dove oggi non facesse molto caldo. Splendido. Potevo escludere Miami. Che altro? Osservai la gente. Le pettinature? No, non erano di alcun aiuto. Riuscivo a vedere l'angolo di un palazzo, cercai di individuarne una qualche caratteristica, qualcosa che uscisse dalla norma. Nulla. Passai in rassegna il monitor centimetro per centimetro in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che avesse una qualche peculiarità. Aspetta un momento... I sacchetti della spesa. Molti avevano in mano lo stesso sacchetto di una strana forma quadrata. Cercai di leggere la scritta, ma i passanti si muovevano troppo velocemen-
te. Pregai che rallentassero. Ma non lo fecero. Continuai a osservarli, fissando lo sguardo all'altezza delle ginocchia. L'angolazione della webcam non mi era certo d'aiuto. Avvicinai il viso allo schermo del monitor fino a sentirne il calore. Una R maiuscola. Quella era la prima lettera. Il resto era troppo confuso per poterlo decifrare. Sembrava scritto con una insolita grafia. Bene, allora, che altro? Quale altro elemento...? Le immagini scomparvero dallo schermo. Maledizione. Premetti il tasto per il reload. Tornò la scritta "Errore". Passai alla e-mail originale e cliccai sull'iperlink. Ancora errore. Il collegamento era terminato. Fissai lo schermo bianco e la verità tornò a colpirmi: avevo appena visto Elizabeth. Ciò che era accaduto potevo tentare di razionalizzarlo. Ma non avevo sognato. Avevo già fatto dei sogni nei quali Elizabeth era viva. Troppi. Nella maggior parte di questi sogni accettavo il suo ritorno dalla tomba, troppo riconoscente per metterlo in dubbio o fare domande. In particolare ne ricordo uno in cui eravamo insieme - non ricordo che cosa facevamo né dove ci trovavamo - e, proprio a metà di una risata, avevo realizzato con una sicurezza soffocante che stavo sognando, che quanto prima mi sarei svegliato nel letto da solo. Ricordo che in quel momento avevo allungato un braccio, l'avevo afferrata e me l'ero stretta al petto cercando disperatamente di riportarla indietro nella realtà. Li conoscevo, i sogni. E ciò che avevo visto sul computer non era un sogno. E non era nemmeno un fantasma. Non che io ci creda, ai fantasmi, ma nel dubbio non guasta avere una mentalità aperta. I fantasmi, però, non hanno età. La Elizabeth apparsa sullo schermo invece l'aveva. Non granché, otto anni di più. I fantasmi, inoltre, non si tagliano i capelli. Ripensai a quella lunga treccia che le pendeva sulla schiena al chiaro di luna. Ripensai a quel taglio corto alla moda che avevo appena visto. E ripensai a quegli occhi, quegli occhi nei quali avevo guardato fin dall'età di sette anni. Era Elizabeth. Era ancora viva. Sentii le lacrime affacciarsi di nuovo, ma questa volta le respinsi. Strano. Avevo sempre pianto con una certa facilità, ma dopo la morte di Elizabeth era come se non potessi più piangere. Non perché non avessi più lacrime da piangere o altre fesserie del genere. E nemmeno perché il dolore mi a-
vesse per così dire anestetizzato, anche se ciò poteva in piccolissima parte spiegare l'assenza di pianto. Probabilmente, credo, ero istintivamente scattato in posizione difensiva. Quando Elizabeth era morta avevo spalancato tutte le porte lasciando entrare il dolore. E mi aveva fatto male. Tanto male che ora qualcosa di primordiale impediva che ciò accadesse di nuovo. Non so quanto tempo rimasi seduto davanti al computer. Mezz'ora, forse. Cercai di rallentare il respiro e calmare la mente. Volevo essere razionale. A quell'ora avrei già dovuto essere a casa dei genitori di Elizabeth, magari mi stavano già aspettando, ma non me la sentivo di averci a che fare in quel momento. Poi ricordai qualcos'altro. Sarah Goodhart. Lo sceriffo Lowell mi aveva chiesto se sapevo niente di quel nome. Sì che lo sapevo. Con Elizabeth facevamo un gioco da bambini. Forse l'avete fatto anche voi. Si prende il proprio secondo nome e lo si fa diventare il primo, poi si prende il nome della strada dove si abitava da bambini e lo si fa diventare il cognome. Per esempio, io mi chiamo David Craig Beck e sono cresciuto in Darby Road. In quel gioco mi chiamavo quindi Craig Darby. Ed Elizabeth diventava... Sarah Goodhart. Ma che diavolo stava succedendo? Presi il telefono. Come prima cosa chiamai i genitori di Elizabeth. Abitavano ancora in quella casa di Goodhart Road. Rispose la madre. Le dissi che sarei arrivato in ritardo. Dai dottori la gente queste scuse le accetta. È uno dei vantaggi di questa professione. Quando telefonai allo sceriffo Lowell mi rispose la sua segreteria telefonica. Lasciai detto di chiamarmi sul cercapersone appena possibile. Non possiedo un cellulare. Mi rendo conto che non avendolo faccio parte di una minoranza, ma è sufficiente il cercapersone a tenermi al guinzaglio del mondo esterno. Fin troppo sufficiente. Mi appoggiai allo schienale della poltrona, ma a svegliarmi da quella specie di trance provvide Homer Simpson con il suo: "C'è posta!". Scattai in avanti e afferrai il mouse. L'indirizzo del mittente non mi era familiare, ma sulla casella "Oggetto" lessi "Webcam stradale". Altro pugno al plesso solare. Cliccai sulla piccola icona e spuntò la e-mail:
Domani alla stessa ora più due su Bigfoot.com. Troverai un messaggio per te. Il tuo nome sarà: Bat Street. La password: Teenage. E sotto, quasi attaccate al bordo inferiore dello schermo, queste parole Ci tengono d'occhio. Non dirlo a nessuno. Larry Gandle, l'omone dal brutto riporto, stava osservando Eric Wu che in silenzio rimetteva in ordine la stanza. Wu, un coreano di ventisei anni con un incredibile assortimento di piercing e tatuaggi, era l'uomo più pericoloso che Gandle avesse mai conosciuto. Aveva la stazza di un piccolo carro armato, ma questo particolare da solo non era sufficiente a descriverlo. Larry conosceva diversa gente con quel fisico. E troppo spesso i muscoli esibiti erano sinonimo di muscoli inutili. Non era questo il caso di Eric Wu. I muscoli di granito lo aiutavano, indubbiamente, ma il vero segreto della spaventosa forza di Wu era nelle sue mani piene di calli, due blocchi di cemento dalle dita simili ad artigli d'acciaio. Passava ore intere ad allenare quelle mani, colpendo ripetutamente un grosso mattone o esponendole a un eccesso di caldo o di freddo o, ancora, facendo le flessioni su un solo dito. Quando Wu le metteva in azione, quelle dita provocavano danni inimmaginabili alle ossa o ai tessuti delle vittime. Cupi aneddoti accompagnavano personaggi come Wu, e molti di questi aneddoti erano inventati, ma Larry Gandle l'aveva visto uccidere un uomo infilandogli le dita nelle parti molli del viso e dell'addome. Aveva visto Wu afferrare un uomo per le orecchie e portargliele via con un semplice strappo. Lo aveva visto uccidere quattro volte, ogni volta in modo diverso e senza mai servirsi di un'arma. Nessuna di quelle morti era stata rapida. Nessuno sapeva esattamente la provenienza di Wu, ma la storia più accreditata parlava di un'infanzia terribile nella Corea del Nord. Gandle non aveva mai fatto domande. Esistono sentieri misteriosi che la mente deve guardarsi dall'attraversare, e il lato oscuro di Eric Wu (ammesso che ne esistesse uno chiaro) era uno di questi. Quando il coreano ebbe terminato di impacchettare nel telo di plastica
quel protoplasma che fino a poco prima era stato Vic Letty, Wu sollevò gli occhi su Gandle. Occhi morti, pensò Larry Gandle. Gli occhi di un bambino in un documentario di guerra. Wu non si era preso il disturbo di togliersi le cuffie del walkman. Dal suo stereo personale non usciva una nota di hip-hop o di rap e nemmeno di rock'n roll. Eric ascoltava praticamente nonstop quelle musiche new age che ti avvolgono entrando in un negozio della catena Sharper Image, quelle con nomi tipo "Brezza dell'oceano" oppure "Mormorio di torrente". «Devo portarlo da Benny?» chiese il coreano. La sua voce aveva una strana, lenta cadenza come certi personaggi dei Peanuts. Larry Gandle annuì. Benny mandava avanti un crematorio. Ceneri alle ceneri. O, in questo caso, feccia alle ceneri. «E sbarazzati di questa.» Porse a Wu la ventidue, che nelle sue mani gigantesche appariva minuscola e inutile. Quello si rabbuiò, probabilmente ancora deluso che Gandle avesse preferito quell'arma alle sue specialità uniche, e se la infilò in tasca. Con una ventidue difficilmente si trovavano fori d'uscita. Questo significava meno prove in giro. Il sangue era stato trattenuto nel telo di plastica. Niente disordine, niente che potesse incuriosire gli sbirri. «Più tardi» disse Wu. Sollevò il cadavere con una mano come se fosse stato una borsa e se lo portò via. Larry Gandle abbozzò un cenno di saluto. Non gli aveva fatto piacere infliggere quelle sofferenze a Vic Letty, anche se non ne era rimasto certo turbato. La questione era semplice. Gandle aveva bisogno di sapere con assoluta certezza che Letty lavorava da solo e che non aveva lasciato in giro niente che altri avrebbero potuto ritrovare. E per avere questa certezza era stato necessario far superare a quel poveraccio il punto di rottura. Non c'era altro modo. Perché alla fine c'era stato da scegliere tra Vic Letty e la famiglia Scope. Gli Scope erano brava gente. Non avevano mai fatto del male a Vic Letty. Vic Letty, al contrario, era uscito dal seminato tentando di fare del male agli Scope. La scelta, quindi, non si poneva. A salvarsi doveva essere la vittima innocente e benintenzionata di quel parassita che cercava di sfruttare le disgrazie altrui. Gandle sentì vibrare il suo cellulare. «Sì?» «Hanno identificato i cadaveri al lago.» «E allora?» «Sono loro. Gesù Cristo, sono Bob e Mel.» Gandle chiuse gli occhi.
«Che cosa significa, Larry?» «Non lo so.» «Che facciamo, allora?» Gandle sapeva di non avere scelta. Doveva assolutamente parlare con Griffin Scope. E quel colloquio avrebbe evocato ricordi sgradevoli. Otto anni. Otto anni dopo. Scosse il capo. Di nuovo a quel povero vecchio si sarebbe spezzato il cuore. «Ci penso io.» 6 Kim Parker, mia suocera, è una bella donna. Ha sempre somigliato a Elizabeth, tanto che un tempo il suo viso aveva rappresentato per me l'immagine di come mia moglie avrebbe potuto invecchiare. Ma la morte di Elizabeth l'aveva lentamente prosciugata. Ora il suo volto era più teso, i suoi lineamenti quasi friabili. Gli occhi facevano pensare a quelle biglie di vetro frantumate dentro. La casa dei Parker non aveva subito molte modifiche dagli anni Settanta: le pareti erano state ricoperte da pannelli di legno e il pavimento da una moquette semiruvida color azzurro pallido con striature bianche, e ora c'era anche un caminetto in finta pietra. Su una parete erano allineati diversi carrelli, tutti con il ripiano bianco e le gambe dorate. C'erano alcuni dipinti, tutti raffiguranti lo stesso soggetto, dei clown, e piatti da collezione. L'unico aggiornamento apprezzabile era il televisore: il vecchio dodici pollici in bianco e nero con il passare degli anni era cresciuto, trasformandosi in un mostruoso cinquanta pollici a colori che occupava un angolo del salotto. Mia suocera se ne stava seduta sullo stesso divano sul quale Elizabeth e io ci eravamo tanto spesso scambiati effusioni. "Ah, se quel divano potesse parlare!" pensai con un rapido sorriso. Ma poi considerai che quell'orribile sofà dai chiassosi motivi floreali evocava ben altri ricordi oltre a quelli libidinosi. Su quel divano Elizabeth e io avevamo aperto le lettere delle due università che ci informavano di avere accettato la nostra domanda. Lì ci eravamo scambiati coccole guardando in TV Qualcuno volò sul nido del cuculo e Il cacciatore, o certi vecchi film di Hitchcock. Su quel divano avevamo fatto i compiti, io seduto e lei con la testa sul mio grembo. Io avevo detto a Elizabeth che volevo fare il medico, diventare un grande chirurgo, o quantomeno era questa la mia idea. Lei mi aveva invece comunicato
che voleva laurearsi in Giurisprudenza e lavorare con i bambini. Elizabeth non sopportava l'idea che i bambini potessero soffrire. Ricordo ancora un tirocinio che fece durante le vacanze estive, al primo anno di college. Lavorava per Covenant House, raccattava dalle più infime strade di New York i bambini fuggiti da casa o quelli senzatetto. Una volta andai con lei in giro sul furgone di Covenant House, su e giù per 42th Street prima della cura Giuliani, passando in rassegna putride pozze di quasi-umanità in cerca di bambini bisognosi di un rifugio. Elizabeth notò una prostituta quattordicenne così debilitata dalla droga che se l'era fatta addosso. Io avevo mostrato una smorfia di disgusto e non me ne vanto certo. Quelli saranno anche stati esseri umani ma, onestamente, la sporcizia mi provocava repulsione. E non ero riuscito a impedirmi quella smorfia. Elizabeth invece non faceva una piega, mai. Era questa la sua forza. Li prendeva per mano. Se li portava via. Pulì da capo a piedi quella ragazzina, la ristorò, le parlò tutta la notte. Li guardava tutti negli occhi, Elizabeth, era convinta che ognuno al mondo è buono e meritevole: era naïf come sarebbe piaciuto essere a me. Mi chiedo sempre se sia morta mantenendo intatta questa sua innocenza, se nonostante la sofferenza sia riuscita ad appigliarsi alla sua fiducia nell'umanità e ad altre meravigliose sciocchezze del genere. Lo spero, ma temo che KillRoy possa averle infranto anche questa certezza. Kim Parker se ne stava seduta composta, con le mani in grembo. Le ero sempre piaciuto, anche se, come i miei genitori, quando eravamo ragazzini e poi ragazzi, si era preoccupata perché io ed Elizabeth stavamo sempre insieme. Loro volevano che giocassimo pure con gli altri, che ci facessimo altri amici. Naturale, immagino. Hoyt Parker, il padre di Elizabeth, non era ancora rientrato, e Kim e io rimanemmo a parlare di niente; o meglio, per dirla con altre parole, parlammo di tutto tranne che di Elizabeth. Io tenni lo sguardo fisso su Kim perché sapevo che la mensola del camino era praticamente ricoperta di foto di Elizabeth e del suo sorriso che mi spaccava il cuore. "È viva..." Non riuscivo a costringermi a crederci. Le lezioni pratiche di psichiatria all'università, per non parlare della mia storia familiare, mi avevano insegnato che la mente ha un enorme potere distorsivo. Ma non credevo di essere ammattito al punto da far apparire per incanto l'immagine di lei; anche se, a pensarci bene, i matti non credono mai di esserlo. Ripensai a mia madre, chiedendomi che cosa avesse capito della sua salute mentale, ammes-
so che fosse mai stata capace di una seria introspezione. Forse non lo era mai stata. Kim e io parlammo del tempo. Parlammo dei miei pazienti. Parlammo del suo nuovo lavoro part-time ai grandi magazzini Macy's. E poi lei mi lasciò basito con una domanda. «Ti vedi con qualcuno?» Era la prima domanda veramente personale che mi avesse mai fatto. Mi chiesi che cosa avrebbe voluto sentirsi rispondere. «No» dissi. Lei annuì e sembrò sul punto di dire qualcos'altro. Poi portò una mano al viso. «Ogni tanto esco con qualcuno» dissi ancora. «Bene.» E accompagnò questa parola chinando il capo in segno di assenso, in maniera forse eccessiva. «Fai bene.» Mi guardai le mani, poi mi sorpresi a dire: «Mi manca ancora tanto». Non era premeditato, avevo tutte le intenzioni di far procedere la nostra conversazione secondo il solito schema sicuro. Sollevai lo sguardo su di lei. Mi sembrò sofferente e allo stesso tempo riconoscente. «Lo so, Beck» disse. «Ma non devi sentirti in colpa se vedi altra gente.» «Non mi sento in colpa. Voglio dire, non è questo il punto.» Si protese verso di me. «Qual è, allora?» Non riuscii a parlare. Volevo farlo. Per il suo bene. Kim mi guardò con quei suoi occhi sconvolti, nei quali ora si leggeva nitidamente il bisogno angoscioso di parlare della figlia. Ma non potevo. Scossi il capo. Udii una chiave girare nella toppa. Entrambi ci voltammo di scatto, raddrizzandoci come amanti colti sul fatto. Hoyt Parker aprì la porta, appoggiandovisi con la spalla, e chiamò la moglie. Poi entrò nella stanza e, con un profondo sospiro, posò sul pavimento un borsone da ginnastica. Aveva la cravatta allentata, la camicia spiegazzata con le maniche arrotolate fin sui gomiti. Hoyt aveva avambracci come quelli di Braccio di Ferro. Quando ci vide sul divano fece un altro sospiro, più profondo del precedente e con qualcosa in più di una semplice sfumatura di disappunto. «Come stai David?» mi chiese. Ci stringemmo la mano. La sua era ruvida e callosa, e la stretta, come al solito, eccessiva. Kim chiese scusa e uscì in fretta. Hoyt e io ci scambiammo qualche frase di circostanza, poi cadde il silenzio. Hoyt Parker si era sempre trovato a disagio con me. Forse quest'imbarazzo poteva in parte attribuirsi al complesso di Elettra, ma io da sempre avevo l'impressione
che mio suocero mi considerasse una specie di minaccia. Lo capivo. La sua bambina aveva passato tutto il suo tempo con me. Con gli anni io e lui eravamo riusciti a superare questo risentimento dando vita a una specie di amicizia. Fino a quando Elizabeth non era morta. Dà a me la colpa di ciò che è accaduto. Non l'ha mai detto, evidentemente, ma glielo leggo negli occhi. Hoyt Parker è un tipo grosso e corpulento, il tipico americano solido come una roccia. E ha sempre fatto in modo che Elizabeth si sentisse totalmente al sicuro. Hoyt aveva questo tipo di atteggiamento protettivo. Alla sua bambina non sarebbe potuto succedere nulla di male fin tanto che Big Hoyt era accanto a lei. Non credo di essere mai riuscito a dare a Elizabeth questa stessa sicurezza. «Il lavoro, tutto bene?» mi chiese Hoyt. «Bene. E tu?» «Manca un anno alla pensione.» Annuii e fra noi cadde di nuovo il silenzio. Venendo qui avevo deciso di non fare parola di ciò che avevo visto al computer. E non solo perché avrei fatto la figura del visionario, o perché avrei riaperto in loro vecchie e dolorosissime ferite. La verità è che non sapevo affatto che cosa fosse veramente accaduto. Più tempo passava e più quell'episodio mi appariva irreale. Decisi anche di attenermi rigorosamente al messaggio della e-mail. "Non dirlo a nessuno." Non riuscivo a immaginare che cosa stesse in realtà succedendo e perché, ma qualunque tipo di nesso avessi potuto trovare mi sarebbe apparso spaventosamente debole. Ciò nonostante mi sorpresi ad assicurarmi che Kim non fosse a portata d'orecchio. Quindi mi avvicinai a Hoyt. «Posso chiederti una cosa?» Non rispose, riservandomi una delle sue caratteristiche occhiate scettiche. «Voglio sapere...» Mi interruppi. «Voglio sapere come l'hai trovata.» «Trovata?» «Voglio dire, quando sei andato all'obitorio. Voglio sapere che cosa hai visto.» Sul suo viso avvenne qualcosa, come se delle piccole esplosioni avessero fatto crollare le fondamenta. «Per l'amore di Dio, perché mi fai una domanda del genere?» «Ci stavo pensando» risposi titubante. «Forse perché è l'anniversario o roba del genere.»
Lui si alzò di scatto, sfregandosi le mani sulle cosce. «Vuoi bere qualcosa?» «Certo.» «Un bourbon va bene?» «Va benissimo.» Si avvicinò a un vecchio carrello colmo di bottiglie, accanto al camino. E quindi accanto alle foto. Tenni lo sguardo sul pavimento. «Hoyt?» gli chiesi ancora. Aprì una bottiglia. «Sei un medico» disse, versando il bourbon nei bicchieri. «Ne hai visti di cadaveri.» «Sì.» «Allora lo sai.» Lo sapevo. Mi porse il bicchiere. Lo presi un po' troppo rapidamente e mandai giù un sorso. Lui rimase a fissarmi, poi portò alle labbra il suo bicchiere. «Lo so di non averti mai chiesto questi particolari» cominciai. Più precisamente, li avevo sempre evitati accuratamente. Altri "familiari delle vittime", come ci definiva la stampa, nei particolari ci sguazzavano. Si presentavano ogni mattina nell'aula del processo a KillRoy, ascoltavano, piangevano. Secondo me in tal modo riuscivano a convogliare il loro dolore. Io preferivo convogliarlo su me stesso. «È meglio se non te li dico quei particolari, Beck.» «Era stata picchiata?» Hoyt stava fissando il suo bourbon. «Perché fai così?» «Ho bisogno di sapere.» Mi scrutò attraverso il bicchiere. I suoi occhi si mossero sul mio viso. Era come se mi stessero punzecchiando la pelle. Non abbassai lo sguardo. «C'erano delle contusioni, sì.» «Dove?» «David...» «Sul viso?» Strinse le palpebre, come se avesse notato qualcosa di inatteso. «Sì.» «Anche sul corpo?» «Il corpo non l'ho guardato, ma so che la risposta è sì.» «Perché non l'hai guardato il corpo?» «Ero lì in veste di padre, non di investigatore. Dovevo soltanto riconoscerla.» «È stato facile?»
«Che cosa è stato facile?» «Identificarla. Cioè, hai detto che aveva delle contusioni sul viso.» Si irrigidì. Posò il bicchiere e io, in preda a un crescente terrore, mi resi conto di essermi spinto un po' troppo in là. Avrei dovuto attenermi al mio piano. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa. «Vuoi veramente saperlo?» No, pensai. Ma annuii. Hoyt Parker posò il bicchiere, incrociò le braccia e si bilanciò sui talloni. «L'occhio sinistro di Elizabeth era gonfio e chiuso. Il naso era rotto e appiattito come argilla bagnata. Aveva sulla fronte un taglio, provocato probabilmente da una taglierina. La mascella si era staccata dall'articolazione, i tendini erano spezzati.» Parlava con un tono di voce quasi assente. «Sulla guancia destra era stata marchiata la lettera K. Si avvertiva ancora l'odore di carne bruciata.» Sentii lo stomaco che mi si annodava. Gli occhi di Hoyt si posarono, duri, sui miei. «Vuoi sapere qual è stata la parte peggiore, Beck?» Lo guardai e attesi. «Nonostante tutto questo, la cosa è durata pochissimo. Ho capito in un attimo che era la mia Elizabeth.» 7 Il tintinnio dei flûte di champagne sembrava intonarsi alle note della sonata di Mozart. Un'arpa sottolineava il leggero brusio degli invitati. Griffin Scope faceva lo slalom tra gli smoking e i luccicanti abiti da sera delle signore. Tutti usavano sempre lo stesso termine per descrivere Griffin Scope: miliardario. Avrebbero potuto chiamarlo uomo d'affari o broker finanziario, avrebbero potuto dire che era alto, avrebbero potuto parlarne come marito, nonno o settantenne. Avrebbero potuto fare commenti sulla sua personalità, sul suo albero genealogico, sulla sua etica del lavoro. Ma la prima parola, sui giornali come in televisione o sulle labbra della gente, era sempre la stessa, quella che cominciava con la "m": miliardario. Il miliardario Griffin Scope. Griffin era nato ricco. Suo nonno era stato uno dei primi industriali, il padre aveva incrementato le fortune di famiglia, e Griffin le aveva moltiplicate diverse volte. Parecchi imperi familiari crollano prima della terza generazione, ma non l'impero Scope. Molto lo si doveva al modo in cui gli
Scope erano stati allevati. Griffin, per esempio, non aveva frequentato una prestigiosa scuola privata come Exeter o Lawrenceville, come tanti altri del suo stesso ceto sociale. Il padre aveva preteso non solo che Griffin studiasse in una scuola pubblica, ma che questa scuola si trovasse nella città più vicina, Newark. Aveva degli uffici a Newark, il padre, perciò far risultare una finta residenza era stato l'ultimo dei problemi. La parte est di Newark non era una brutta zona, allora, mentre oggi una persona sana di mente non avrebbe nemmeno il coraggio di attraversarla in auto. Era un quartiere di operai, di tute blu: vivere lì era quindi duro più che pericoloso. Griffin lo amava. I suoi migliori amici dei tempi del liceo erano ancora suoi amici a distanza di cinquant'anni. La fedeltà era una qualità rara e Griffin, ogni volta che vi si imbatteva, faceva in modo di premiarla. Molti degli invitati a quel party erano amici dei tempi di Newark. Alcuni lavoravano per lui, anche se Griffin non faceva mai pesare la sua posizione di capo. Il gala di quella sera era dedicato alla causa che stava più a cuore a Griffin Scope: la Fondazione Benefica Brandon Scope, che prendeva il nome dal figlio assassinato. Griffin le aveva dato vita con un contributo iniziale di cento milioni di dollari, e gli amici avevano seguito subito il suo esempio. Griffin non era stupido, sapeva che molti donavano per accattivarsi la sua riconoscenza. Ma c'era dell'altro. Durante la sua troppo breve esistenza Brandon Scope, un ragazzo dotato di tante fortune e tanto talento, aveva dimostrato un carisma quasi soprannaturale che affascinava e attraeva chiunque avesse a che fare con lui. L'altro figlio, Randall, era un buon ragazzo diventato un brav'uomo. Ma Brandon... Brandon era stato magico. Il dolore tornò ad assalirlo. Era sempre lì, ovviamente. Mentre Griffin stringeva mani e dava pacche sulla schiena agli ospiti, il dolore gli restava al fianco, picchiettandogli la spalla, sussurrandogli all'orecchio, ricordandogli che erano soci a vita. «Bella festa, Griff.» Griffin ringraziava e continuava a girare tra i suoi ospiti. Le signore, tutte fresche di parrucchiere, indossavano abiti che mettevano in risalto le spalle nude. Erano lo sfondo ideale per quelle sculture di ghiaccio che piacevano tanto ad Allison, la moglie di Griffin, e che ora si scioglievano lentamente sulle tovaglie di lino. La sonata di Mozart fu seguita da una di Chopin. Camerieri in guanti bianchi passavano nella sala sorreggendo vas-
soi d'argento carichi di gamberetti malesi o filetti di Omaha, oltre che di un potpourri di strani stuzzichini che sembravano tutti a base di pomodori secchi. Si avvicinò a Linda Beck, la giovane presidentessa della Fondazione intitolata al figlio. Anche il padre di Linda era stato un suo compagno di scuola a Newark, e Linda, come tanti altri, si era trovata un'occupazione nell'immenso impero Scope. Aveva cominciato a lavorare per alcune aziende Scope già al liceo, e sia lei che il fratello avevano goduto di borse di studio Scope. «Sei uno schianto» le disse, anche se a dire il vero gli sembrava stanca. Linda Beck sorrise. «Grazie, signor Scope.» «Quante volte ti ho chiesto di chiamarmi Griffin?» «Diverse centinaia.» «Come sta Shauna?» «Ho paura che ieri abbia bevuto un po' troppo.» «Portale i miei saluti.» «Senz'altro, grazie.» «Dovremmo vederci la prossima settimana.» «Chiamerò la sua segretaria.» «Bene.» Griffin le dette un ganascino e in quel momento scorse nell'atrio Larry Gandle. Larry aveva l'aria stanca e gli abiti in disordine, che era poi il suo aspetto abituale. Potevi fargli indossare un vestito confezionato su misura, e un'ora dopo Larry avrebbe avuto l'aria di uno capitato in mezzo a una rissa. Non era prevista la presenza di Gandle quella sera. Gli occhi dei due si incontrarono, Larry annuì una volta e si allontanò. Griffin attese qualche istante, poi seguì in fondo al corridoio il suo giovane amico. Anche Edward, il padre di Larry, era stato un compagno di scuola di Griffin ai tempi di Newark. Edward Gandle era morto d'infarto dodici anni prima. Una cosa penosa. Era stato un brav'uomo, Edward. E da allora il figlio aveva preso il posto del padre come uomo di fiducia di Scope. I due entrarono nella biblioteca di Griffin. Un tempo quella biblioteca era stata una splendida sala dalle pareti ricoperte di quercia e mogano, con scaffali fino al soffitto pieni di libri e mappamondi antichi. Ma due anni prima Allison, in preda a una specie di trip postmoderno, aveva deciso che quell'ambiente necessitava di un cambiamento radicale. Tutto il legno era
stato quindi tolto dalle pareti, e la biblioteca era diventata bianca, lustra e funzionale, con un calore umano paragonabile a quello di un cubicolo da lavoro. Ma Allison ne era così orgogliosa che Griffin non aveva mai avuto il coraggio di dirle quanto poco gli piacesse. «C'è stato un problema, stasera?» chiese Griffin. «No» rispose Gandle. Griffin gli avvicinò una sedia, ma Gandle cominciò a camminare su e giù. «È stato brutto?» gli chiese ancora Griffin. «Abbiamo dovuto assicurarci che non fossero rimasti fili scoperti.» «Naturalmente.» Qualcuno aveva attaccato Randall, il figlio di Griffin: era naturale, quindi, che Griffin contrattaccasse. Doveva essere una lezione da non dimenticare. Se aggrediscono tuo figlio non te ne rimani seduto a guardare. E non reagisci come il governo con le sue misure "proporzionali" e fesserie del genere. Se qualcuno ti fa del male, pena e pietà vanno messe da parte. Il nemico va eliminato. Si fa terra bruciata. Quelli che si prendevano beffe di questa filosofia, che consideravano inutile il machiavellismo, erano di solito gli stessi che poi alla fine provocavano eccessi distruttivi. E invece, se il problema viene rimosso subito, si versa poco sangue. «Che cosa c'è allora che non va?» chiese Griffin. Larry Gandle continuò a camminare, massaggiandosi la pelata e la cosa a Griffin non piacque. Larry non era tipo da preoccuparsi per un nonnulla. «Non ti ho mai mentito, Griff» disse. «Lo so.» «Ma a volte è necessario... un certo isolamento.» «Isolamento?» «Isolare le persone alle quali affido i lavori, per esempio. Non ti dico mai i loro nomi, né a loro faccio nomi.» «Questi sono dettagli.» «Sì.» «Che cosa c'è, Larry?» Gandle si fermò. «Ricordi che otto anni fa avevamo preso due uomini per compiere un certo lavoro?» Il colore scomparve dal volto di Griffin, che inghiottì a vuoto. «E l'hanno svolto benissimo, questo lavoro.» «Sì. Be', forse.» «Non capisco.»
«Avevano eseguito il compito. O almeno, parte del compito. La minaccia era stata apparentemente eliminata.» Anche se ogni settimana in quella casa veniva compiuta una bonifica ambientale alla ricerca di eventuali microfoni nascosti, Scope e Gandle non facevano mai nomi. Era una regola di Scope, e Gandle più di una volta si era chiesto se questa regola fosse adottata per motivi precauzionali o per spersonalizzare ciò che ogni tanto erano costretti a fare. E sospettava che il vero motivo fosse proprio quest'ultimo. Griffin Scope crollò finalmente su una poltrona, come se qualcuno ce l'avesse spinto. «Perché ora tiri fuori questa storia?» chiese quasi sottovoce. «Lo so quanto deve essere doloroso per te» Griffin Scope non replicò. «Li ho pagati bene quei due uomini» proseguì Larry. «Come mi sarei aspettato.» «Sì.» Si schiarì la gola. «Be', dopo l'incidente quei due sarebbero dovuti scomparire per qualche tempo, a fini precauzionali.» «Vai avanti.» «Non ne abbiamo più avuto notizie.» «Avevano già ricevuto i loro soldi, vero?» «Sì.» «E allora che c'è di tanto strano? Forse se la sono svignata con tutti quei soldi. Forse si sono stabiliti dall'altra parte degli Stati Uniti o hanno cambiato identità.» «Questo è ciò che abbiamo sempre pensato» osservò Larry. «E invece?» «L'altra settimana sono stati ritrovati i loro cadaveri.» «Non capisco ancora quale sia il problema... Erano due tipi violenti, e probabilmente hanno fatto una fine violenta.» «I cadaveri erano vecchi.» «Vecchi?» «Quei due erano morti da almeno cinque anni. E li hanno trovati sottoterra vicino al lago... sì, insomma, al lago dell'incidente.» Griffin aprì la bocca e la richiuse. «Non capisco.» «Francamente, nemmeno io.» Troppo. Era troppo. Per tutta la sera Griffin aveva lottato con le lacrime, ripensando a Brandon in memoria del quale aveva dato quel party. E ora, d'improvviso, la tragica morte del figlio tornava a galla.
Griffin alzò lo sguardo sul suo uomo di fiducia. «Quest'incubo non può tornare.» «Lo so, Griff.» «Dobbiamo scoprire che cos'è successo. Tutto, voglio dire.» «Ho tenuto d'occhio gli uomini della sua vita. Il marito, specialmente. Non si sa mai. E ora ho messo in questa storia tutte le nostre risorse.» «Bene. Costi quel che costi, questa faccenda va sepolta. E non m'interessa chi vi sarà sepolto insieme.» «Capisco.» «Un'altra cosa, Larry.» Gandle attese. «Conosco il nome di uno dei tuoi collaboratori.» Si riferiva a Eric Wu. Griffin Scope si asciugò gli occhi e poi decise di tornare dai suoi ospiti. «Usalo.» 8 Shauna e Linda abitavano in un appartamento in affitto di tre stanze su Riverside Drive all'altezza di 116th Street, non lontano dalla Columbia University. Io ero riuscito a trovare un posto a un isolato da lì, e un evento del genere di solito è accompagnato dal Mar Rosso che si apre o dalla consegna delle tavole della legge. Shauna citofonò per avvertirmi del suo ritorno a casa e salì. Linda era ancora al gala. Mark dormiva. Entrai in punta di piedi nella sua stanza e gli baciai la fronte. Il bambino non era ancora uscito dalla fase Pokémon e si vedeva. Le lenzuola erano decorate con l'immagine di Picachu, e Mark stringeva tra le braccia un bambolotto Squirtle di panno. La gente critica un fenomeno come i Pokémon, ma a me ricordava la fissazione che avevo alla sua età per Batman e Capitan America. Rimasi qualche secondo a guardarlo. Banale, lo so, ma sono queste piccole cose che ti danno più gioia. Shauna aspettava sulla soglia. Rientrammo finalmente nel tinello. «Posso bere qualcosa?» le chiesi. «Accomodati.» Mi versai due dita di bourbon. «Non mi fai compagnia?» Scosse il capo. Andammo a sederci sul sofà. «A che ora dovrebbe tornare Linda?» le chiesi.
«Abbiamo litigato» disse lentamente. Non mi piacque come lo disse. «Accidenti.» «È una cosa momentanea, Beck. Amo Linda, lo sai.» «Accidenti» ripetei. L'anno prima Linda e Shauna si erano separate per due mesi. E la cosa non era stata piacevole, soprattutto per Mark. «Ma non vado via di casa o roba del genere» disse ancora Shauna. «E allora che cosa c'è che non va?» «La solita storia. Io faccio questo lavoro affascinante, sono un personaggio famoso, sono sempre circondata da gente bella e interessante. Nulla di nuovo, ti pare. Ci siamo già passati. Ma Linda è convinta che io vada dietro alle altre donne.» «Ci vai, infatti.» «Certo, ma anche questo non è nulla di nuovo, ti pare?» Non risposi. «Alla fine della giornata è a casa da Linda che torno.» «Senza mai fare deviazioni?» «Anche in tal caso sarebbe irrilevante e lo sai. Non posso stare chiusa in gabbia, Beck, ho bisogno della ribalta.» «Bel mix di metafore.» Restammo un po' a bere in silenzio. «Beck?» «Sì?» «Tocca a te.» «Che vuoi dire?» Mi lanciò un'occhiata e rimase in attesa. Pensai a quel "Non dirlo a nessuno" in fondo alla e-mail. Se il messaggio era effettivamente di Elizabeth - e avevo ancora qualche problema a prendere in considerazione quell'ipotesi - lei avrebbe immaginato che l'avrei detto a Shauna. A Linda no, forse. Ma a Shauna? Le dico tutto, ormai è pacifico. «C'è la possibilità che Elizabeth sia ancora viva.» Lei immaginò che fosse uno scherzo e stette subito al gioco. «Ed è scappata con Elvis Presley, vero?» Poi vide la mia espressione seria e si interruppe. «Spiegami.» Le spiegai. Le raccontai della e-mail. Le parlai della web-cam. E le dissi di avere visto Elizabeth sul monitor del computer. Shauna per tutto il tempo non distolse gli occhi da me, senza interrompermi o cambiare espres-
sione. Quando ebbi terminato estrasse lentamente una sigaretta dal pacchetto e se la infilò in bocca. Aveva smesso di fumare già da anni, ma le piaceva ancora armeggiare con le sigarette. Poi esaminò quel bastoncino cancerogeno girandoselo in mano come se non avesse mai visto una sigaretta. Mi sembrava di sentire il movimento dei suoi ingranaggi mentali. «Okay» disse alla fine. «Quindi, se ho capito bene, il prossimo messaggio è previsto per domani sera alle otto e un quarto, giusto?» Annuii. «Allora aspettiamo.» Rimise la sigaretta nel pacchetto. «Non ti sembra pazzesco?» Lei fece spallucce. «Irrilevante.» «In che senso?» «Ci sono diversi modi per spiegare quello che mi hai raccontato.» «Tra cui la follia.» «Certo, quella è una delle spiegazioni più plausibili. Ma a che servono ora le ipotesi negative? Partiamo dall'idea che sia tutto vero, che hai visto effettivamente ciò che hai visto, e che Elizabeth sia viva. Se ci siamo sbagliati lo scopriremo quanto prima. Se invece...» Si tormentò le sopracciglia a quel pensiero, poi scosse il capo. «Cristo, spero proprio che sia vero.» Le sorrisi. «Ti amo, lo sai.» «Sì, certo. Tutti mi amano.» Tornato a casa, mi versai in fretta un ultimo bourbon, poi mandai giù un lungo sorso e lasciai che il liquore caldo viaggiasse verso destinazioni ben note. Sì, bevo. Ma non sono un ubriacone. Questo non significa che neghi di bere. Lo so che sto scherzando col fuoco, lo so che prendere l'alcolismo alla leggera è come fare lo scemo con la figlia minorenne di un gangster. Ma finora il mio flirt con l'alcol non si è ancora concluso con l'accoppiamento, sono abbastanza sveglio per capire che la cosa non potrebbe durare. Chloe mi si accostò esitante, con la sua consueta espressione che può essere sintetizzata come segue: "Pappa, passeggiata, pappa, passeggiata". I cani sono meravigliosamente espliciti. Le lanciai un biscotto e uscii con lei per fare un giro. L'aria fredda mi entrò nei polmoni, ma camminare non è mai servito a schiarirmi le idee. Anzi, è una noia tremenda. Ma mi piaceva guardare Chloe camminare. Lo so che può sembrare strano, ma un cane ricava una tale felicità da questa semplice attività. E io guardandola mi sentivo felice come un cultore dello zen.
Tornato a casa, andai in camera da letto attento a non far rumore, seguito da Chloe. Il nonno dormiva. Anche l'infermiera. Russava con una specie di fischio, come certi personaggi dei cartoni animati. Accesi il computer chiedendomi perché lo sceriffo Lowell non avesse richiamato. Pensai di chiamarlo io, anche se era quasi mezzanotte. Quasi, ma non ancora. Sollevai il telefono e composi il suo numero di cellulare. Se stava dormendo e non voleva essere svegliato l'avrebbe tenuto spento, no? Rispose al terzo squillo. «Salve, dottor Beck.» Dal tono di voce mi sembrò un po' sulle sue e notai che non mi chiamava più "Doc". «Perché non mi ha ritelefonato?» gli chiesi. «Era tardi, pensavo di chiamarla domani mattina.» «Perché mi ha fatto quella domanda su Sarah Goodhart?» «Domani» ripeté. «Come dice?» «È tardi, dottor Beck. Sono fuori servizio. E, a parte questo, preferirei parlarle di persona.» «Può dirmi almeno...?» «La trovo in ambulatorio domani mattina?» «Sì.» «A domani allora.» Mi augurò la buonanotte, cortese ma deciso, e riattaccò. Io rimasi a guardare il telefono chiedendomi che storia fosse quella. Di dormire non se ne parlava. Trascorsi quasi tutta la notte in rete, passando in rassegna le webcam puntate sulle strade, sperando di imbattermi in quella giusta. Come cercare l'ago high-tech in un pagliaio grande come il mondo. A un certo punto decisi di rinunciare e mi infilai sotto le coperte. Una delle doti di un medico deve essere la pazienza. Prescrivo in continuazione ai bambini delle analisi dall'esito delle quali potrebbe cambiare, o avere termine, la loro vita, e dico ai genitori di aspettare i risultati. Non hanno scelta. Lo stesso valeva probabilmente per questa nuova situazione. Conteneva ancora troppe variabili. Domani, quando mi sarei collegato con Bigfoot e avrei scritto "Bat Street" nella casella del nome dell'utente e "Teenage" in quella della password, avrei potuto saperne di più. Rimasi per un po' a fissare il soffitto. Poi guardai alla mia destra, dove dormiva Elizabeth. Io mi addormentavo sempre per primo. Me ne stavo immobile sotto le coperte e osservavo il suo profilo, mentre lei era comple-
tamente assorbita dal libro che stava leggendo. Era l'ultima cosa che vedevo prima di chiudere gli occhi e scivolare nel sonno. Mi girai dall'altra parte. Alle quattro di mattina Larry Gandle fissava, alle spalle di Eric Wu, lo schermo del computer sul quale stava lavorando il coreano dai capelli ossigenati. Wu era terribilmente metodico. Se non stava allenando il fisico, lo si trovava immancabilmente davanti a un monitor. Il suo colorito aveva assunto una tonalità lattiginosa, da malato, già molte cybernavigazioni prima, ma il fisico era puro cemento. «Allora?» gli chiese Gandle. Wu si tolse le cuffie, poi incrociò sul torace le braccia simili a colonne di marmo. «Non capisco.» «Dimmi.» «Di solito il dottor Beck non salva le sue e-mail. Solo qualcuna dei pazienti, nulla di personale. Ma negli ultimi due giorni ne ha ricevute un paio abbastanza bizzarre.» Senza voltarsi dal suo amato schermo, Eric Wu gli porse due foglietti di carta. Larry Gandle lesse e inarcò le sopracciglia. «Che cosa significa?» «Non lo so.» Gandle rilesse il messaggio nel quale si diceva di cliccare all'"ora del bacio". Non capiva i computer né voleva capirli. Riportò gli occhi in cima al foglietto e lesse per la terza volta. E.P. + D.B. e una serie di lineette. Ci pensò su. D.B. Forse David Beck? Ed E.P. Ci impiegò pochi secondi. Poi il significato gli piombò sul capo come un pianoforte lasciato cadere da una finestra. Lentamente dette il foglietto a Wu. «Chi l'ha mandato?» gli chiese. «Non lo so.» «Scoprilo.» «Impossibile» disse Wu. «Perché?» «Perché il mittente ha usato un remailer.» «Un che cosa?» «Un remailer.» Wu parlava con il suo tono piatto, paziente, quasi extraterrestre. Lo stesso tono di quando parlava delle previsioni del tempo o di un orecchio che si accingeva a strappare dal capo di qualcuno. «Inutile che
mi addentri nel linguaggio dei computer, quel che è certo è che non si può rintracciare il mittente.» Gandle spostò la sua attenzione sull'altra e-mail, quella con "Bat Street" e "Teenage". Ci capiva sempre meno. «E questa? Puoi rintracciare chi l'ha mandata?» Wu scosse il capo. «È un altro remailer anonimo.» «È stata la stessa persona a spedire i due messaggi?» «Ne so quanto te.» «E il contenuto? Riesci a capire di che si parla?» Wu premette alcuni tasti e sul monitor apparve la prima e-mail. Allora puntò sullo schermo una delle sue dita tozze e piene di vene. «Vedi quelle lettere azzurre? È un iperlink. Al dottor Beck è bastato cliccarci sopra per finire da un'altra parte, probabilmente in un sito web.» «Quale sito web?» «È un collegamento interrotto, e anche stavolta non si può risalire al mittente.» «E Beck avrebbe dovuto compiere questa operazione all'"ora del bacio"?» «Così c'è scritto.» «Anche l'ora del bacio è un termine del linguaggio dei computer?» Wu quasi sorrise. «No.» «Quindi non sai a che ora si riferisca questa e-mail?» «Esattamente.» «E nemmeno se abbiamo superato o no l'ora del bacio?» «L'abbiamo superata.» «Come fai a saperlo?» «Il suo browser è settato in modo da tenere in memoria gli ultimi venti siti che lui ha visitato. E il dottore ha cliccato più di una volta su quel link.» «Ma tu, diciamo, non puoi seguirlo fino a lì?» «No. Il link è inutilizzabile.» «Che mi dici di quest'altra e-mail?» Wu premette altri tasti, lo schermo si modificò e apparve l'altra e-mail. «Questa è più semplice da decifrare.» «Okay, ti ascolto.» «Il mittente anonimo ha attivato un account intestandolo al dottor Beck» spiegò Wu. «Ha dato al dottore un nome e una password e ancora una volta ha citato l'ora del bacio.»
«Vediamo un po' se ho capito bene. Beck entra in un sito web. Poi digita il nome e la password che gli sono stati attribuiti e trova un messaggio che l'aspetta?» «Sì, in teoria.» «Possiamo farlo anche noi?» «Cioè usare il suo nome e la sua password?» «Sì. E leggere il messaggio.» «Ci ho provato. L'account non è ancora attivo.» «Perché no?» Eric scrollò le spalle. «Il mittente anonimo potrebbe attivare l'account più tardi, all'avvicinarsi dell'ora del bacio.» «Quindi che cosa dobbiamo pensare?» Il chiarore del monitor sembrava danzare sugli occhi privi d'espressione di Wu. «Per dirla in parole semplici, qualcuno sta facendo salti mortali per rimanere anonimo.» «E come facciamo a scoprire di chi si tratta?» Wu gli mostrò un piccolo congegno, simile a quelli che si possono trovare in una radio a transistor. «Abbiamo piazzato uno di questi nel computer di casa e uno in quello dell'ambulatorio.» «Che cos'è?» «Un identificatore digitale, che invia segnali digitali dal suo computer al mio. Se il dottor Beck riceve e-mail o visita qualche sito web, perfino se sta scrivendo una lettera, noi possiamo spiarlo in tempo reale.» «Quindi non ci resta che attendere.» «Sì.» Gandle si mise a riflettere su una frase di Wu: "Qualcuno sta facendo salti mortali per rimanere anonimo", e sentì un atroce sospetto farglisi strada nella bocca dello stomaco. 9 Lasciai l'auto al parcheggio a due isolati dall'ambulatorio, ma non riuscii a superare il primo isolato. Dal nulla si materializzò lo sceriffo Lowell, in compagnia di due tipi dai capelli cortissimi e vestiti entrambi in grigio. Questi due se ne stavano appoggiati contro una grossa Buick marrone. Fisicamente erano agli antipodi. Uno era alto, magro e bianco, l'altro basso, tondo e nero: visti uno accanto all'altro assomigliavano a una boccia da bowling che cerca di abbat-
tere l'ultimo birillo. Entrambi mi sorrisero. Lowell no. «Dottor Beck?» mi chiese quello alto, il birillo bianco. Era impeccabile con i suoi capelli impomatati, il fazzoletto al taschino, il nodo della cravatta annodato con una precisione soprannaturale, gli occhiali griffati color turchese del tipo usato dagli attori che vogliono apparire brillanti. Guardai Lowell. Lui rimase in silenzio. «Sì.» «Sono l'agente speciale Nick Carlson, FBI» proseguì il tipo impeccabile. «E questo è l'agente speciale Tom Stone.» Entrambi mi fecero passare davanti agli occhi il tesserino. Stone, il più basso e più trasandato dei due, si tirò su i pantaloni e mi guardò. Poi aprì lo sportello posteriore della Buick. «Le dispiacerebbe venire con noi?» «Ho dei pazienti tra quindici minuti» risposi. «A questo abbiamo già provveduto.» Carlson distese un lungo braccio verso lo sportello della Buick, come se stesse mostrando il premio al concorrente di un programma a quiz. «Prego.» Mi sedetti dietro. Carlson si mise al volante. Stone sistemò la sua stazza nel sedile del passeggero. Lowell non salì. Viaggiammo per quarantacinque minuti, pur rimanendo a Manhattan, e la passeggiata terminò downtown, più esattamente a Broadway, all'altezza di Duane Street. Carlson fermò l'auto davanti a un anonimo palazzo sulla cui targa si leggeva 26 Federal Plaza. Anche l'interno dell'edificio era decisamente spartano. Vidi passare uomini dall'aspetto stranamente gradevole, tutti in giacca e cravatta, con in mano eleganti bicchieroni da caffè. C'erano anche donne, ma in esigua minoranza. Entrammo in una sala riunioni. Fui invitato a sedere e accettai l'invito. Provai ad accavallare le gambe, ma la cosa non mi fece sentire meglio. «Qualcuno sa dirmi che cosa sta succedendo?» chiesi. Birillo Bianco Carlson prese l'iniziativa. «Possiamo offrirle qualcosa? Abbiamo il caffè più cattivo del mondo, se la cosa la interessa.» Questo spiegava tutti quei bicchieroni. Mi sorrise. Gli sorrisi a mia volta. «L'idea mi tenta ma preferisco di no, grazie.» «Una bibita, allora? Abbiamo bibite, Tom?» «Certo, Nick. Coca-Cola, Diet Coke, Sprite, tutto quello che vuole il nostro dottore.» Sorrisero ancora.
«Sono a posto, grazie» li rassicurai. «Un succo, magari?» insistette Stone. Ancora una volta si tirò su i pantaloni. Il suo stomaco aveva quel tipo di rotondità che rende difficile trovare una posizione in cui il punto vita non scivoli giù. «Ne abbiamo di diversi gusti.» Stavo per accettare, giusto perché la smettessero, ma ancora una volta declinai cortesemente l'offerta. Il tavolo, una specie di mix di formica, era sgombro, fatta eccezione per una grossa busta marroncina. Non sapevo che fare delle mie mani, e alla fine le poggiai sul tavolo. Stone caracollò verso una parete e rimase in piedi. Carlson, che dirigeva le operazioni, andò a sedersi in un angolo del tavolo e girò la sedia verso di me. «Che ci sa dire di Sarah Goodhart?» mi chiese. Non sapevo che cosa rispondere. Cercai di farmi un'idea della situazione, ma senza successo. «Dottore?» Sollevai lo sguardo su di lui. «Perché vuole saperlo?» Carlson e Stone si scambiarono una rapida occhiata. «Il nome Sarah Goodhart è emerso nel corso di un'indagine» rispose il primo. «Quale indagine?» chiesi. «Preferirei non risponderle.» «Non capisco. Io che cosa c'entro?» Carlson emise un lungo sospiro, prendendosela comoda per espirare. Guardò il suo partner tondeggiante, e d'incanto tutti i sorrisi scomparvero. «Ti è sembrata una domanda complicata la mia, Tom?» «No, Nick. Non credo proprio.» «Nemmeno io.» Carlson riportò lo sguardo su di me. «Forse non le è piaciuto il mio modo di formularla, dottore. È così?» «Fanno sempre così in TV, Nick» si associò Stone. «Hanno da ridire sulla formulazione della domanda.» «È vero, Tom, è proprio vero. Poi chi aveva fatto la domanda dice: "Allora gliela ripropongo in un altro modo", vero? O qualcosa del genere.» «Certo, qualcosa del genere.» Carlson tornò a fissarmi. «Gliela ripropongo anch'io. Il nome Sarah Goodhart significa qualcosa per lei?» Non mi piaceva quella faccenda. Non mi piaceva il loro atteggiamento, non mi piaceva il fatto che avessero scavalcato Lowell, non mi piaceva il modo in cui mi stavano cuocendo a fuoco lento in quella sala riunioni. Evidentemente dovevano già saperlo che cosa significava quel nome. Non
era poi così difficile. Bastava soffermarsi sul nome e l'indirizzo di Elizabeth. Decisi di collaborare. «Sarah era il secondo nome di mia moglie» risposi. «Quello di mia moglie è Gertrude» disse Carlson. «Cristo, Nick, è orribile.» «Qual è il secondo nome di tua moglie, Tom?» «McDowd. È un cognome.» «Mi piace quando mettono un cognome al posto del secondo nome. E un modo di onorare gli antenati.» «Piace anche a me, Nick.» Entrambi gli agenti riportarono lo sguardo su di me. «Qual è il suo secondo nome, Doc?» «Craig.» «Craig» ripeté Carlson. «Quindi se le chiedessi se il nome, diciamo» e mosse ostentatamente le braccia «Craig Dipwad le dice qualcosa, lei risponderebbe cinguettando: "Ehi, Craig è il mio secondo nome"?» Carlson mi lanciò di nuovo un'occhiata gelida. «Direi di no» risposi. «Direi di no. Riproviamo, allora. Il nome Sarah Goodhart lo ha sentito, sì o no?» «Mai sentito, vuol dire?» «Gesù Cristo!» biascicò Stone. Carlson arrossì. «Ora si mette a fare giochini semantici con noi, Doc?» Aveva ragione. Stavo comportandomi da stupido. Volavo al buio e l'ultima riga di quella e-mail, "Non dirlo a nessuno", continuava a lampeggiarmi nel cervello come un'insegna al neon. Mi sentivo confuso. Dovevano sapere di Sarah Goodhart. Volevano mettermi alla prova per vedere se avrei collaborato o no. Tutto qui. Forse. Ma collaborare in che cosa? «Mia moglie è cresciuta in Goodhart Road» dissi. Entrambi si mossero impercettibilmente all'indietro, come per darmi spazio, e incrociarono le braccia sul torace. Mi avevano portato in una piscina di silenzio e io stupidamente mi ci ero tuffato. «Ecco perché ho detto che Sarah era il secondo nome di mia moglie, capite? Sentire la parola Goodhart mi ha fatto pensare a lei.» «Perché era cresciuta in Goodhart Road?» chiese Carlson. «Sì.» «La parola Goodhart è stata quindi una specie di catalizzatore?» «Sì.»
«Mi sembra ragionevole.» Carlson guardò il partner. «A te sembra ragionevole, Tom?» «Certo.» Stone si dette una pacca sullo stomaco. «Il dottore non ha cercato di essere evasivo o qualcosa del genere. La parola Goodhart è stata un catalizzatore.» «Certo. Lo ha fatto pensare a sua moglie.» Mi guardarono di nuovo. Stavolta mi costrinsi a tacere. «Sua moglie ha mai usato il nome Sarah Goodhart?» mi chiese Carlson. «Usato in che senso?» «Ha mai detto: "Salve, sono Sarah Goodhart"? Ha mai avuto un documento d'identità intestato a Sarah Goodhart? Si è mai registrata in un alberghetto con quel nome?» «No.» «Ne è sicuro?» «Sì.» «È la verità?» «Sì.» «Non le serve per caso un altro catalizzatore?» Mi raddrizzai sulla sedia, deciso a darmi un tono risoluto. «Non mi piace questo suo atteggiamento, agente Carlson.» Riapparve quel sorriso a trentadue denti che avrebbe inorgoglito il suo dentista, ma stavolta era una specie di crudele ibrido di quello di prima. Carlson sollevò una mano come per difendersi. «Scusi, certo, ha ragione, ho esagerato.» Si guardò attorno come se stesse decidendo che cosa aggiungere. Rimasi in attesa. «Ha mai picchiato sua moglie, Doc?» La domanda mi colpì come una frustata. «Che cosa?» «La eccita picchiare le donne, vero?» «Che cosa... Ma è pazzo?» «Quanto ha scucito dall'assicurazione per la morte di sua moglie?» Mi bloccai. Guardai il suo volto e poi quello di Stone. Totalmente opachi. Non riuscivo a credere a ciò che stavo sentendo. «Che sta succedendo?» chiesi. «Risponda alla domanda, per favore. Sempre che, ovviamente, non ci sia qualcosa che preferisce non farci sapere.» «Non è un segreto, la polizza era di duecentomila dollari.» Stone emise un fischio. «Duecento bigliettoni per la morte della moglie. Che te ne sembra, Nick?»
«Mi sembra un'assicurazione enorme per una donna di venticinque anni.» «Il cugino aveva appena cominciato a lavorare in un'agenzia di assicurazioni, la State Farm» spiegai, inciampando nelle parole. Stranamente, anche se sapevo di non avere commesso nulla di male - nulla di quello che stavano pensando, almeno - cominciavo a sentirmi in colpa. Mi sentivo il sudore lungo le ascelle. «Così mia moglie firmò quella costosa polizza per dargli una mano.» «Carino da parte sua» commentò Carlson. «Proprio carino» riconobbe Stone. «La famiglia è importantissima, non crede?» Rimasi in silenzio. Carlson tornò a sedersi a un angolo del tavolo. Il sorriso era nuovamente scomparso. «Mi guardi, Doc.» Lo guardai. Lui affondò gli occhi nei miei. Cercai di non abbassare lo sguardo, ma fu dura. «Stavolta risponda alla mia domanda» disse lentamente. «E non mi stia a fare il sorpreso o l'offeso. Ha mai picchiato sua moglie?» «Mai.» «Nemmeno una volta?» «Nemmeno una volta.» «Mai maltrattata?» «Mai.» «Oppure, che so, uno schiaffo in un momento di rabbia? Che diavolo, Doc, è successo a tutti una volta o l'altra. Uno schiaffetto. Non è un delitto. Anzi è naturale quando ci sono in ballo faccende di cuore, non so se mi spiego.» «Non ho mai messo le mani addosso a mia moglie» dissi. «Non l'ho mai maltrattata o schiaffeggiata in un momento di rabbia. Mai.» Carlson guardò Stone. «Per te è sufficiente, Tom?» «Certo, Nick. Se dice che non l'ha mai picchiata a me basta e avanza.» Carlson prese a grattarsi il mento. «A meno che...» «A meno che cosa, Nick?» «Be', a meno che io non fornisca al nostro dottor Beck un'altra dose di quel catalizzatore.» Gli occhi di tutti erano tornati su di me. Avvertivo nelle orecchie l'eco affannosa e irregolare del mio respiro, mi sentivo la testa leggera. Carlson attese un po' prima di sollevare dal tavolo la grossa busta, e se la prese comoda per sciogliere con le sue dita affusolate lo spago che la teneva chiu-
sa. Poi la aprì sollevandola in aria e la capovolse, facendone cadere il contenuto sulla superficie del tavolo. «Come le sembra un catalizzatore del genere, Doc?» Erano fotografie. Carlson le fece scivolare verso di me. Abbassai lo sguardo e sentii allargarsi il foro che avevo nel cuore. «Dottor Beck?» Guardai. Allungai timidamente le dita e toccai la superficie. Elizabeth. Erano foto di Elizabeth. Una mostrava un primo piano del viso. Lei era di profilo e con la mano destra teneva sollevati i capelli scoprendo l'orecchio. Aveva l'occhio gonfio e violaceo. Sul collo, sotto l'orecchio, si vedeva un taglio profondo oltre ad altre contusioni. Sembrava che avesse pianto. Un'altra foto la riprendeva dalla cintola in su. Elizabeth aveva addosso soltanto il reggiseno e indicava con il dito un grosso livido sulla gabbia toracica. Gli occhi erano sempre arrossati. L'illuminazione era stranamente violenta, come se il flash della macchina fotografica avesse messo il livido in primo piano davanti all'obiettivo. C'erano altre tre foto, tutte da diverse angolazioni e con diverse parti del corpo. E in tutte e tre apparivano altri tagli e contusioni. «Dottor Beck?» Sbarrai gli occhi, come se fossi sorpreso di trovare quei due in quella stanza. Le loro espressioni erano neutre, pazienti. Guardai Carlson, poi Stone, poi riportai lo sguardo su Carlson. «Credete che sia stato io?» Carlson si strinse nelle spalle. «Ce lo dica lei.» «No, certo.» «Sa come ha fatto sua moglie a conciarsi così?» «È stato un incidente stradale.» Si guardarono come se avessi appena detto che il mio cane si era mangiato il lavoro che mi ero portato a casa. «È rimasta coinvolta in un brutto scontro» spiegai. «Quando?» «Non ricordo esattamente. Tre, quattro mesi prima...» per un attimo non riuscii a spiccicare quella parola, «... della morte.» «È stata ricoverata in ospedale?» «No, non credo.» «Come sarebbe a dire "non credo"?»
«Ero via da casa.» «Dove?» «A quell'epoca stavo seguendo un corso di specializzazione pediatrica a Chicago. Elizabeth mi parlò dell'incidente quando tornai a casa.» «Quanto tempo dopo gliene parlò?» «Quanto tempo dopo l'incidente, vuol dire?» «Sì, Doc, dopo l'incidente.» «Non lo so. Due, forse tre giorni.» «Eravate già sposati?» «Sì, da qualche mese.» «E perché sua moglie non gliel'ha detto subito?» «Ma me l'ha detto subito. Appena sono tornato a casa, cioè. Probabilmente non me ne aveva parlato prima per non preoccuparmi.» «Capisco.» Carlson guardò Stone, e nessuno dei due cercò di nascondere il proprio scetticismo. «E quindi, Doc, è stato lei a scattare a sua moglie queste foto?» «No.» E mi pentii immediatamente di quella risposta. Si scambiarono un'altra occhiata, fiutando subito il sapore del sangue. Carlson piegò il capo di lato e lo avvicinò al mio. «Le aveva mai viste queste foto?» Tacqui. Loro aspettarono. Pensai a quella domanda. La risposta era no, ma... dove le avevano trovate? Perché io non ne sapevo nulla? Chi le aveva scattate? Li guardai in volto, ma non tradivano alcuna espressione. Anche se sembra incredibile, a pensarci bene le lezioni più importanti della vita ce le dà la TV. Quasi tutto ciò che sappiamo di interrogatori, lettura dei diritti, autoincriminazioni, controinterrogatori, elenco dei testimoni e giurie l'abbiamo appreso da programmi televisivi come Avvocati a Los Angeles e NYPD. Se in questo momento lanciassi a qualcuno una pistola e gli chiedessi di sparare, questo qualcuno farebbe ciò che ha visto fare in TV. Se gli dicessi di stare attento a una "cimice" saprebbe subito di che cosa sto parlando perché l'ha già sentito in Magnum PI. Sollevai lo sguardo su di loro e me ne uscii con quella domanda standard. «Sono un sospettato?» «Sospettato di che cosa?» «Di tutto. Sospettate che io abbia commesso qualche reato?» «È una domanda abbastanza vaga, Doc.» E quella era una risposta altrettanto vaga. Non mi piaceva la piega che stavano prendendo le cose. Decisi quindi di ricorrere a un'altra frase impa-
rata dalla televisione. «Voglio chiamare il mio avvocato.» 10 Non ho un avvocato - perché, c'è qualcuno che ce l'ha? - quindi chiamai Shauna da un telefono pubblico in corridoio e le spiegai la situazione. Lei non perse tempo. «Ho la persona giusta. Non ti muovere.» Rimasi ad aspettare nella stanzetta degli interrogatori. Carlson e Stone furono così gentili da aspettare insieme a me. Passarono il tempo a parlarsi sussurrando. Trascorse mezz'ora. Il silenzio era di nuovo snervante. Sapevo che era proprio questo che volevano. Ma non riuscivo a starmene senza far niente. Ero innocente, dopotutto. Come avrei potuto compromettere la mia posizione se agivo con prudenza? «C'era la lettera K marchiata sul cadavere di mia moglie» dissi loro. Alzarono entrambi lo sguardo. «Scusi?» esclamò Carlson, sporgendo il suo lungo collo verso di me. «Parla con noi?» «C'era la lettera K marchiata sul cadavere di mia moglie» ripetei. «Io mi trovavo in ospedale, dopo essere stato aggredito. Non potete quindi pensare...» e non proseguii. «Pensare cosa?» chiese Carlson. D'accordo, come volete voi. «Che avessi qualcosa a che fare con la morte di mia moglie.» In quel momento la porta venne spalancata e fece irruzione nella stanza una donna che riconobbi per averla vista in televisione. Carlson, trovandosela davanti, sollevò di scatto il capo. Udii Stone biascicare: «Oh, merda!». Hester Crimstein non perse tempo con le presentazioni. «Il mio cliente ha chiesto di parlare con il suo avvocato?» domandò. Si può sempre fare affidamento su Shauna. Non l'avevo mai visto prima, il mio avvocato: di persona, voglio dire, perché più di una volta avevo visto Hester Crimstein in TV nelle sue apparizioni come "esperta legale" nei talk-show oppure nel suo programma Crimstein on Crime sul canale Court Tv. Sullo schermo era abrasiva oltre che sbrigativa e spesso faceva a pezzi i suoi ospiti. Di persona sembrava emanare un'aura di strano potere, era insomma il tipo che guarda gli altri come una tigre affamata guarda delle timide gazzelle. «Esatto» rispose Carlson.
«E ciò nonostante voi ve ne state qui, tranquilli e beati, a fargli domande.» «È lui che ha attaccato discorso.» «Capisco.» Hester Crimstein aprì la borsa, ne estrasse una penna e un foglio di carta e li lasciò cadere sul tavolo. «Scrivete i vostri nomi.» «Come dice?» «I vostri nomi, carino. Sapete scriverli, vero?» La domanda era retorica, ma la Crimstein attendeva ugualmente una risposta. «Sì» disse Carlson. «Certo» aggiunse Stone. «Bene, scriveteli. Voglio citarli con esattezza quando racconterò nel mio programma come avete calpestato i diritti costituzionali del mio cliente. Scriveteli in stampatello, prego.» Poi finalmente mi guardò. «Andiamo.» «Un momento» intervenne Carlson. «Vorremmo fare qualche domanda al suo cliente.» «No.» «No? Proprio no?» «Esatto, proprio no. Voi non parlate con lui. Lui non parla con voi. Mai. Avete capito, voi due?» «Sì» rispose Carlson. Lei si rivolse a Stone. «Sì» disse Stone. «Bene, ragazzi. Avete intenzione di arrestare il dottor Beck?» «No.» Si voltò verso di me. «Che cosa sta aspettando? Togliamoci dai piedi.» Hester Crimstein non spiccicò parola fino a quando non fummo al sicuro nella sua limousine. «Dove vuole che la lasci?» mi chiese poi. Detti all'autista l'indirizzo dell'ambulatorio. «Mi parli dell'interrogatorio» riprese lei. «Senza tralasciare nulla.» Ricostruii quanto meglio potevo la mia conversazione con Carlson e Stone. Hester Crimstein non si prese nemmeno il disturbo di guardarmi. Tirò fuori dalla borsa un'agenda più spessa del mio giro-vita e si mise a sfogliarla. «Non le ha scattate lei, quindi, quelle foto di sua moglie?» mi chiese alla
fine. «No.» «E questo gliel'ha detto a Bibì e Bibò?» Annuii. Lei scosse il capo. «Voi medici siete sempre i peggiori clienti.» Allontanò dal viso una ciocca di capelli. «Il suo comportamento è stato da idiota, ma non compromettente. Quelle foto, dunque, lei non le aveva mai viste?» «Mai.» «Ma quando gliel'hanno chiesto, alla fine se ne è rimasto zitto?» «Sì.» «Meglio. Passiamo a quelle ferite e contusioni: è vera la storia dell'incidente stradale?» «Prego?» La Crimstein chiuse l'agendona. «Stai a sentire... Beck, vero? Shauna dice che ti chiamano tutti Beck, quindi non ti spiace se anch'io ti chiamo così?» «No, non mi spiace.» «Bene. Ascolta, Beck, tu sei un medico, no?» «Esatto.» «E sei paziente e comprensivo?» «Cerco di esserlo.» «Io invece no, nemmeno un po'. Se qualcuno vuole le coccole si metta a dieta e si rivolga alla Weight Watchers. Quindi saltiamo a piè pari tutti i "Prego?" e gli "Scusi?" e altre stronzate inutili, okay? Rispondi solo alla mia domanda: è vera la storia dell'incidente stradale che hai raccontato a quei due?» «Sì.» «Perché i federali controlleranno tutto il controllabile. Questo lo sai, vero?» «Lo so.» «Bene, tanto per mettere in chiaro certe cose.» La Crimstein prese fiato. «Quindi è probabile che tua moglie abbia fatto scattare quelle foto a una persona amica» disse ancora, come procedendo per tentativi. «Magari per l'assicurazione o roba del genere, nel caso avesse voluto chiedere i danni all'altro automobilista. Un argomento plausibile, se dovremo servircene. Ti sembra?» Non mi sembrava, ma questo lo tenni per me. «Allora, domanda numero uno: dove erano finora conservate quelle foto,
Beck?» «Non lo so.» «Domande numero dos e tres: come le hanno avute i federali? E perché spuntano fuori proprio ora?» Scossi il capo. «E, ancora più importante, su che cosa stanno cercando d'incastrarti? Tua moglie è morta da otto anni. È un po' troppo tardi per accusarti di percosse al coniuge.» Appoggiò la schiena contro il sedile e rimase a pensarci su uno o due minuti. Poi sollevò lo sguardo facendo spallucce. «Non ha importanza. Farò qualche telefonata e scoprirò che cosa c'è sotto. Tu, nel frattempo, non fare l'idiota. Non dire niente a nessuno. Capito?» «Sì.» Lei rimase a pensarci su. «Non mi piace, questa faccenda. Non mi piace neanche un po'.» 11 Il 12 maggio 1970 Jeremiah Renway e altri tre estremisti fecero esplodere un ordigno nel laboratorio di chimica della Eastern State University. Nel movimento Weather Underground girava voce che nei laboratori del dipartimento gli scienziati del Pentagono stavano sperimentando una versione più potente del napalm. E i quattro studenti - che in un impeto di originalità avevano chiamato il loro gruppo Grido di Libertà - avevano deciso di compiere quel clamoroso attentato, che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto essere soltanto dimostrativo. A quel tempo Jeremiah Renway non sapeva se quella voce era fondata. Ora, oltre trent'anni dopo, ne dubitava. Ma che importa. L'attentato non provocò alcun danno ai laboratori. Ma due sorveglianti avevano trovato quel pacco sospetto. E quando uno dei due l'aveva sollevato da terra, il pacco era esploso uccidendoli entrambi. Entrambi erano padri di famiglia. Uno dei "combattenti per la libertà" fu arrestato due giorni dopo e si trovava ancora in carcere. Il secondo era morto nel 1989 di cancro al colon. La terza, Evelyn Cosmeer, era stata catturata nel 1996 e stava scontando una condanna a sette anni. Jeremiah scomparve nei boschi la sera stessa dell'attentato e dai boschi non uscì più. Si era imbattuto raramente in altri esseri umani e non aveva mai ascoltato la radio o guardato la televisione. Il telefono l'aveva usato
una sola volta, per un'emergenza. L'unico suo vero contatto con il mondo esterno avveniva attraverso i giornali, anche se il resoconto di ciò che era accaduto otto anni prima era completamente sbagliato. Il padre di Jeremiah, nato e cresciuto ai piedi delle colline nella Georgia nordoccidentale, aveva insegnato al figlio tutte le diverse tecniche di sopravvivenza, la più importante delle quali era la seguente: puoi fidarti della natura, non dell'uomo. Questa lezione Jeremiah per qualche tempo l'aveva dimenticata. Ora invece la stava vivendo. Temendo che gli agenti lo cercassero dalle parti di casa si era inoltrato nei boschi della Pennsylvania. E li aveva girati in lungo e in largo, dormendo ogni notte o due in un posto diverso, fino a quando non aveva scoperto la sicurezza e il relativo comfort di Lake Charmaine. Vicino al lago c'erano i vecchi ricoveri di un campo estivo dove ripararsi quando il tempo si faceva un po' troppo inclemente. Il lago riceveva visite di rado, solo d'estate e solo nei fine settimana. Lui poteva quindi andare a caccia di cervi e mangiarne la carne in relativa tranquillità. Durante i brevi periodi dell'anno in cui arrivavano turisti e visitatori si nascondeva, oppure si trasferiva più a occidente. Oppure osservava. Per i bimbi che andavano d'estate al lago Jeremiah Renway era diventato l'Uomo Nero. Ora Jeremiah se ne stava immobile a osservare gli agenti che si davano da fare con le loro giacche a vento scure. Giacche a vento dell'FBI. Vedere quelle tre lettere in grosse maiuscole gialle era come sentirsi trafiggere il cuore da una lama di ghiaccio. Nessuno si era preso la briga di recintare l'area con il nastro di plastica, probabilmente perché era così isolata. Renway non si era sorpreso quando avevano trovato i cadaveri. Certo, i due uomini erano stati sepolti abbastanza in profondità, ma Jeremiah Renway sapeva fin troppo bene che i segreti non amano restare sepolti. E lo sapeva anche Evelyn Cosmeer, la sua ex complice, ormai trasformatasi in moglie e madre perfetta quando l'avevano arrestata nell'Ohio, dove viveva. L'assurdità di quel fatto non sfuggiva certo a Jeremiah. Rimase nascosto tra la vegetazione. Conosceva l'arte del mimetismo. Non lo avrebbero visto. Ricordava la notte di otto anni prima quando i due erano stati uccisi, l'improvviso rimbombo degli spari, il rumore delle vanghe che scavavano la terra, l'ansimare che veniva dal fondo della buca. Aveva anche pensato
di raccontare alle autorità ciò che era accaduto. Tutto quello che era accaduto. In forma anonima, naturalmente. Ma alla fine aveva deciso di non correre rischi. L'essere umano non è fatto per stare in gabbia, Jeremiah lo sapeva bene, anche se qualcuno riusciva ad adattarsi. Jeremiah non si sarebbe mai adattato. Aveva un cugino di nome Perry che stava scontando una condanna a otto anni in un penitenziario federale. Lo tenevano chiuso in una piccola cella per ventitré ore al giorno. Una mattina Perry cercò di uccidersi lanciandosi di testa contro il muro di cemento. Anche Jeremiah, al posto suo, lo avrebbe fatto. Tenne quindi la bocca chiusa e non fece nulla. Per otto anni. Ma aveva ripensato a lungo a quella notte. Aveva ripensato a quella ragazza nuda. Aveva ripensato a quegli uomini fermi in attesa. Aveva ripensato alla colluttazione vicino all'auto. Aveva ripensato all'atroce rumore del legno che si abbatte sulla carne. Aveva ripensato a quell'uomo lasciato lì a morire. E aveva ripensato alle bugie. Erano le bugie, soprattutto, a tormentarlo. 12 Quando tornai all'ambulatorio la sala d'attesa era piena di piccoli pazienti raffreddati e inquieti. Sullo schermo TV il videoregistratore stava rimandando per l'ennesima volta le immagini della Sirenetta e ogni volta, alla fine, la cassetta si riavvolgeva automaticamente e ripartiva, con i suoi fotogrammi dai colori confusi e sbiaditi per il troppo uso. Dopo le ore passate con l'FBI il mio cervello simpatizzava con la videocassetta. Ripensai alle parole di Carlson, che doveva essere decisamente il leader di quel duo, cercando di capire dove volesse veramente andare a parare, ma riuscii soltanto a rendere più confuse e surreali le immagini di poco prima. E a farmi venire un mal di testa martellante. «Ohè, Doc.» Tyrese Barton entrò con la sua camminata a balzelloni. Indossava dei pantaloni larghissimi che gli ballavano sul sedere e un'enorme giacca a vento da studente, un completo realizzato sicuramente da uno stilista a me sconosciuto ma del quale avrei quanto prima sentito parlare. «Ciao» risposi. Tyrese mi dette una complicata stretta di mano, una specie di danza in
cui era lui a condurre. Lui e Latisha erano i genitori di un bambino di sei anni che avevano chiamato TJ. Il piccolo TJ era malato di emofilia. Ed era anche cieco. Me l'avevano portato in tutta fretta quando era ancora un bebé e Tyrese stava per essere arrestato da lì a pochi secondi. Tyrese sostiene che quel giorno avevo salvato la vita a suo figlio. Un'esagerazione. Ma forse avevo salvato Tyrese. Questo, secondo lui, ci aveva fatto diventare amici, come se lui fosse stato un leone e io un topolino che gli toglieva la spina dalla zampa. Si sbagliava. Tyrese e Latisha non erano sposati, ma lui era uno dei pochi padri che si facevano vedere in ambulatorio. Terminò di stringermi la mano e ci fece scivolare due biglietti da cento dollari con l'effigie di Ben Franklin, come se fossi stato il maître di Le Cirque. Poi mi fece l'occhiolino. «Ora prenditi cura del mio bambino.» «Certo.» «Sei il migliore, Doc.» Mi porse il suo biglietto da visita, un biglietto senza nome o indirizzo o specificazione del lavoro. Soltanto un numero di cellulare. «Se ti serve qualcosa, chiama.» «Lo terrò a mente.» Altra strizzata d'occhio. «Qualsiasi cosa, Doc.» «D'accordo.» Intascai le due banconote. Sono sei anni ormai che recitiamo questa sceneggiata. Lavorando in ambulatorio ho conosciuto diversi spacciatori, ma nessuno che sia sopravvissuto sei anni. Non me li tenevo quei soldi, naturalmente. Li davo a Linda per le sue iniziative benefiche. Il che poteva essere discutibile dal punto di vista giuridico, lo so, ma in ogni caso era preferibile che i soldi andassero in beneficenza piuttosto che nelle tasche di uno spacciatore. Non riuscivo a immaginare quanti soldi avesse Tyrese. Girava con un'auto sempre diversa, la sua preferita era la BMW con i vetri oscurati, e il guardaroba del suo bambino valeva decisamente più del mio. Ma, ahimè, la madre era assistita dal Servizio sanitario per i poveri, e quindi le visite erano gratuite. Una follia, lo so. Dal cellulare di Tyrese giunse una musichetta hip-hop. «Devo rispondere, Doc. Affari.» «D'accordo» ripetei. A volte mi arrabbio. E chi non si arrabbierebbe? Ma poi, attraverso quella nebbiolina, mi ritorna in mente che nel mio ambulatorio ci sono bambini
veri. Che soffrono. Non penso che tutti i bambini siano meravigliosi. Non lo sono. A volte so, lo so, che su alcuni di loro le terapie non avranno alcun effetto. Ma i bambini, a parte ogni altra considerazione, sono indifesi. Deboli e indifesi. Credetemi, ne ho visti alcuni che avreste avuto difficoltà a definire esseri umani. E quindi mi dedico ai bambini. Avrei dovuto staccare a mezzogiorno ma, per recuperare il tempo perduto con l'FBI, lavorai fino alle tre. Senza mai smettere di pensare all'interrogatorio, naturalmente. Quelle foto di Elizabeth pesta e rassegnata continuavano a lampeggiarmi nel cervello come la più grottesca delle luci stroboscopiche. Chi poteva essere al corrente di quelle foto? La risposta fu in certo modo ovvia, non appena riuscii a trovare il tempo di riflettere. Allungai un braccio verso il telefono. Non facevo questo numero da anni, ma me lo ricordavo ancora. Rispose una voce di donna. «Schayes Photography.» «Ciao, Rebecca.» «Figlio d'un cane. Come stai, Beck?» «Bene. E tu?» «Non male. Piena di lavoro fino al collo.» «Lavori troppo.» «Non più. L'anno scorso mi sono sposata.» «Lo so. Mi spiace di non essere potuto venire.» «Stronzate.» «Hai ragione. Congratulazioni, in ogni caso.» «Allora, che mi dici?» «Ho bisogno di farti una domanda.» «Quale?» «A proposito di quell'incidente stradale.» Udii una specie di eco metallica. Poi silenzio. «Ricordi l'incidente stradale? Quello avvenuto prima che Elizabeth fosse uccisa?» Rebecca Schayes, la migliore amica di mia moglie, non rispose. Mi schiarii la voce. «Chi guidava?» «Che cosa?» Ma non stava parlando al telefono. «Un momento.» Poi rivolta nuovamente a me. «Ascolta, Beck, qui è appena successo qualcosa. Posso richiamarti tra poco?»
«Rebecca...» Ma la linea era già caduta. La verità è che le tragedie fanno bene all'anima. Io mi considero una persona resa migliore dalle morti. Certo, se è vero che ogni nuvolone nero è bordato da una linea argentata, in questo caso bisogna riconoscere che è proprio sottilissima. Ma c'è. Il che non significa che l'attivo bilancia il passivo o roba del genere: più semplicemente, so di essere migliore di una volta. Ho una percezione più nitida di ciò che è importante. Capisco meglio il dolore della gente. C'è stato un tempo, e a pensarci mi viene da ridere, in cui davo importanza a sciocchi status symbol come l'iscrizione a certi club, il guidare certe auto, il laurearmi in una certa università. Volevo fare il chirurgo perché è una professione brillante. Volevo fare colpo sui cosiddetti amici. Volevo essere un grande. Proprio da ridere, come dicevo. Qualcuno potrebbe obiettare che questa mia evoluzione sia semplicemente frutto della maturità. E in parte è vero. Ma in parte è dovuta al fatto che ormai posso fare affidamento solo su me stesso. Io ed Elizabeth eravamo una coppia, un'entità unica. Lei era così buona che io potevo permettermi di essere non-tanto-buono, come se la sua bontà bastasse per entrambi, come se fosse una specie di livellatore cosmico, insomma. La morte rimane comunque una grande maestra. Anche se un po' troppo severa. Mi piacerebbe potervi dire che la tragedia mi ha aiutato a portare alla luce un qualche principio assoluto, ignoto e rivoluzionario, da mettere a disposizione dell'umanità. Ma non è così. Certi cliché vanno sempre bene, e io potrei ripeterveli fino alla nausea: è la gente che conta, la vita è un bene prezioso, il materialismo è sopravvalutato, sono le piccole cose ad avere importanza, vivi alla giornata. Magari voi potreste ascoltarmi, ma senza davvero sentire alcun coinvolgimento. È la tragedia a colpire duro. È la tragedia a incidervi l'anima. Non sarete magari più felici. Ma sarete migliori. A rendere il tutto ancora più curioso c'è il fatto che ho spesso sperato che Elizabeth potesse vedermi nella mia nuova versione. Non credo però che i morti possano vederci. Anche se mi piacerebbe moltissimo, non credo che veglino su di noi o ci siano vicini come a volte cerchiamo di convincerci. I morti sono belli e andati. Ma non posso fare a meno di pensare che forse
ora potrei considerarmi degno di lei. Un uomo più religioso di me potrebbe chiedersi se per caso non sia questo il motivo del suo ritorno sulla terra. Rebecca Schayes era una delle migliori fotografe freelance. I suoi lavori apparivano sui periodici più sofisticati e patinati, anche se lei si era voluta stranamente specializzare in foto maschili. Atleti professionisti avevano accettato di posare per la copertina di "GQ", per fare un esempio, a condizione che dietro l'obiettivo ci fosse Rebecca. E lei, scherzando, sosteneva di avere acquisito quella padronanza fotografica del corpo maschile "dopo una vita di intenso studio". Trovai il suo laboratorio in West 32nd Street, non lontano da Penn Station. L'edificio era una specie di bruttissimo magazzino, nel quale aleggiava il puzzo delle carrozze che fanno il giro di Central Park ospitate al pianoterra. Evitai il montacarichi e salii a piedi. Rebecca camminava a passo spedito in corridoio. Alle sue spalle trotterellava un diafano assistente vestito di nero, dalle braccia lunghissime e la barba appena accennata, che si trascinava due valigie d'alluminio. Rebecca aveva ancora quei riccioli ribelli tipici dell'ebrea sabra e, con la capigliatura in assoluto disordine, sembrava uscita da un kibbutz del 1948.1 suoi occhi erano verdi e distanti tra loro, e se lei negli ultimi otto anni era cambiata io non me n'ero sicuramente accorto. Quando mi vide non rallentò l'andatura. «È un momentaccio, Beck.» «Puoi dirlo.» «Ho un servizio fotografico. Non possiamo vederci più tardi?» «No.» Si fermò per bisbigliare qualcosa al silenzioso assistente vestito di nero. «Okay, seguimi» mi disse poi. Il laboratorio aveva il soffitto alto e le pareti di cemento imbiancate. Vidi numerosi riflettori a ombrello e schermi neri, il pavimento brulicava di prolunghe elettriche simili a serpenti. Rebecca si mise ad armeggiare con un caricatore fotografico per sembrare occupata. «Parlami di quell'incidente stradale» le dissi. «Non ti capisco, Beck.» Aprì una scatola metallica, la posò, vi rimise il coperchio, poi la riaprì. «Non ci siamo in pratica sentiti per... quanti sono?... otto anni, e ora all'improvviso ti fai venire questa ossessione per un vecchio incidente stradale.» Incrociai le braccia e rimasi in silenzio.
«Perché, Beck? Dopo tutto questo tempo. Perché lo vuoi sapere?» «Dimmi.» Teneva gli occhi lontani dai miei. Uno dei riccioli le cadde sul viso ma lei non lo ricacciò indietro. «Mi manca» disse poi. «E mi manchi anche tu.» Non aprii bocca. «Ho telefonato» disse ancora Rebecca. «Lo so.» «Ho cercato di tenermi in contatto. Volevo venirti a trovare.» «Mi spiace.» Ero sincero, mi spiaceva veramente. Rebecca era stata la migliore amica di Elizabeth. Avevano diviso un appartamento a Washington Park Square prima che ci sposassimo. Avrei dovuto richiamarla quando telefonava, o invitarla, o in ogni caso avrei dovuto sforzarmi di vederla. Ma non ce l'avevo fatta. Il dolore può essere involontariamente egoista. «Elizabeth mi raccontò che avevate avuto un piccolo incidente stradale» proseguii. «Mi spiegò che era stata colpa sua, perché aveva distolto lo sguardo dalla strada. È andata così?» «Che importanza vuoi che abbia ora?» «Ha importanza.» «Cioè?» «Di che cosa hai paura, Rebecca?» Fu lei ora a rimanere in silenzio. «Quell'incidente c'è stato o no?» Lasciò cadere le spalle come se dentro di lei qualcosa fosse stato reciso. E tenne gli occhi bassi, respirando in fretta. «Non lo so.» «Come sarebbe a dire non lo so?» «Elizabeth mi disse di avere avuto un incidente.» «Ma non eravate insieme?» «No. Tu eri fuori città, Beck. Una sera tornai a casa e ci trovai Elizabeth. Piena di lividi e contusioni. Le chiesi cosa le fosse successo. Mi rispose di avere avuto un incidente. Ma il fatto è che sapevo che era venuta in città in treno. Lo sapevo per certo. E quando la misi alle strette mi pregò di mentire, di dire che eravamo insieme in auto se qualcuno avesse fatto domande.» «Se qualcuno avesse fatto domande?» Rebecca sollevò finalmente lo sguardo. «Credo che si riferisse a te, Beck.»
Cercai di assorbire quelle parole. «Allora, che cos'era successo veramente?» «Non me lo disse.» «La portasti da un dottore?» «Non aveva voluto.» Rebecca mi lanciò una strana occhiata. «Continuo a non capire. Perché mi fai certe domande ora?» "Non dirlo a nessuno." «Sto cercando di metterci una pietra sopra.» Lei annuì, ma non mi credette. Né io né lei ce la cavavamo bene come bugiardi. «Le hai scattato qualche foto quella sera?» chiesi. «Foto?» «Delle contusioni. Dopo l'incidente.» «Oddio, no. Perché mai avrei dovuto farlo?» Una domanda terribilmente appropriata. Rimasi seduto a riflettere. Non so per quanto tempo. «Beck?» «Sì.» «Hai una bruttissima cera.» «Tu invece no.» «Sono innamorata.» «Ti dona.» «Grazie.» «Lui è un brav'uomo?» «Il migliore.» «Forse allora ti merita.» «Forse.» Si avvicinò e mi baciò sulla guancia. Quel bacio mi fece stare meglio. «È successo qualcosa, vero?» Stavolta scelsi la verità. «Non lo so.» 13 Seduta alla scrivania del suo elegante ufficio, Hester Crimstein concluse la telefonata e si rivolse nuovamente a Shauna. «Nessuno ha molta voglia di parlare.» «Ma non l'hanno arrestato?» «No, non ancora.» «Si può sapere che sta succedendo?»
«Da quel che posso capire, pensano che Beck abbia ucciso la moglie.» «Che fesseria!» esclamò Shauna. «Era in ospedale, santiddio. E quello spostato di KillRoy si trova nel braccio della morte.» «Ma non per l'omicidio di Elizabeth» precisò l'avvocato. «Che cosa?» «Kellerton è sospettato della morte di almeno quattordici donne, ma l'accusa ha trovato prove sufficienti a rinviarlo a giudizio e farlo condannare soltanto per dodici di quei delitti. Abbastanza, direi: di quante condanne a morte ha bisogno un uomo?» «Ma lo sanno tutti che ha ucciso Elizabeth.» «Ti correggo: lo sapevano tutti.» «Non capisco. Come possono pensare che Beck abbia qualcosa a che fare con la morte della moglie?» «Non lo so.» Hester sollevò i piedi poggiandoli sulla scrivania e incrociò le mani dietro la nuca. «Non ancora, almeno. Ma dobbiamo stare in guardia.» «In che senso?» «Come prima cosa, dobbiamo dare per scontato che i federali controllano ogni sua mossa intercettandogli le telefonate, pedinandolo e così via.» «E allora?» «Come sarebbe a dire "e allora"?» «È innocente, Hester. Lo tengano d'occhio quanto vogliono.» Hester sollevò lo sguardo sull'amica e scosse il capo. «Non essere ingenua.» «Che diavolo vuoi dire?» «Voglio dire che Beck deve stare in campana anche mentre si frigge le uova per la colazione. Ma c'è dell'altro.» «Che cosa?» «I federali non daranno pace a Beck.» «Come?» «Non lo so, ma lo perseguiteranno, credimi. Il tuo amico li arrapa. Da otto anni. Il che significa che sono disperati. E i federali disperati sono brutta gente, che non sta tanto a pensarci prima di mettersi sotto i piedi i diritti costituzionali del prossimo.» Shauna pensò alle strane e-mail di "Elizabeth". «Che c'è?» le chiese Hester. «Nulla.» «Non ti mettere a fare la reticente, Shauna.»
«Non sono mica io il tuo cliente.» «Vuoi dire che Beck mi sta nascondendo qualcosa?» In quel momento Shauna fu colpita da un pensiero a dir poco orribile. Ci rifletté qualche secondo, lo soppesò e continuò a rimuginarci sopra. Era plausibile, eppure lei sperava, anzi pregava, di sbagliarsi. Si alzò dalla poltrona dirigendosi in fretta verso la porta. «Devo andare.» «Che succede?» «Chiedilo al tuo cliente.» Gli agenti speciali Nick Carlson e Tom Stone se ne stavano seduti sullo stesso divano dove il giorno prima Beck aveva avuto un attacco di nostalgia. Seduta di fronte a loro, con le mani in grembo, c'era Kim Parker, la madre di Elizabeth. Il suo viso assomigliava a una maschera di cera raggelata. Il marito, Hoyt Parker, camminava su e giù per il salotto. «Allora, che cosa c'è di tanto importante da non poterne parlare al telefono?» chiese loro Hoyt. «Vogliamo farvi qualche domanda» rispose Carlson. «A che proposito?» «A proposito di vostra figlia.» Marito e moglie trasalirono. «Più precisamente, vorremmo sapere qualcosa circa il rapporto tra vostra figlia e suo marito, il dottor Beck.» Hoyt e Kim si scambiarono un'occhiata. «Perché?» chiese lui. «Riguarda una faccenda sulla quale stiamo attualmente indagando.» «Quale faccenda? Mia figlia è morta da otto anni. Il suo assassino è rinchiuso nel braccio della morte.» «La prego, detective Parker. Siamo tutti dalla stessa parte.» Nella stanza cadde il silenzio. Kim strinse le labbra che avevano preso a tremarle. Hoyt guardò la moglie, quindi fece un cenno con il capo ai due agenti. Carlson non staccò gli occhi da Kim. «Come definirebbe il rapporto tra sua figlia e il marito, signora Parker?» «Erano molto uniti, innamoratissimi.» «Nessun problema?» «No, nessuno.» «Definirebbe il dottor Beck un violento?» Lei sembrò sorpresa. «No, mai.» Entrambi i federali spostarono lo sguardo su Hoyt, che confermò con il
capo quanto detto dalla moglie. «Le risulta che il dottor Beck abbia mai picchiato vostra figlia?» «Che cosa?» Carlson si sforzò di sorridere educatamente. «Risponda alla domanda, la prego.» «Mai» rispose Hoyt. «Nessuno ha mai messo le mani addosso a mia figlia.» «Ne è sicuro?» «Sicurissimo» rispose con voce ferma. Carlson riportò lo sguardo su Kim. «E lei, signora Parker?» «La amava tanto.» «Capisco, signora. Ma molti uomini che picchiano la moglie sostengono di amarla.» «Non le ha mai fatto del male.» Hoyt smise di camminare su e giù. «Insomma, che sta succedendo?» Carlson fissò per un attimo Stone. «Con il vostro permesso, vorrei mostrarvi alcune foto. Vi avverto che sono sgradevoli, ma per noi hanno una certa importanza.» Stone porse a Carlson la busta. Carlson l'aprì. Poi posò sul tavolino, una accanto all'altra, le foto di Elizabeth piena di tagli e contusioni. E si mise a osservare le reazioni. Kim, come aveva immaginato, diede in un grido sommesso. Il volto di Hoyt Parker sembrava perso nel vuoto. «Dove le avete prese?» chiese poi Hoyt sottovoce. «Le aveva già viste?» «Mai.» Guardò la moglie, che scosse il capo. «Ma ricordo quelle contusioni» disse Kim Parker. «Quando?» «Non mi viene in mente con precisione. Non molto prima della morte, comunque. Quando le vidi, però, erano meno... come dire... pronunciate.» «Sua figlia le disse come se le era procurate?» «Mi parlò di un incidente stradale.» «Signora Parker, abbiamo controllato presso l'assicurazione di sua figlia scoprendo che non aveva mai denunciato alcun incidente. Abbiamo fatto lo stesso controllo presso la polizia e anche lì non abbiamo trovato traccia di denunce o rapporti.» «Che cosa vorrebbe dire, quindi?» «Mi limito a pormi una domanda: se vostra figlia non ha avuto alcun incidente, come ha fatto a ridursi in quel modo?»
«Pensate che l'abbia ridotta così il marito?» «È un'ipotesi sulla quale stiamo lavorando.» «Basata su che cosa?» I due federali esitarono. E quell'esitazione di solito significava: "Non davanti a una signora" oppure: "Non davanti ai non addetti ai lavori". Hoyt afferrò immediatamente la situazione. «Kim, ti dispiacerebbe lasciarmi solo con questi signori?» «No, assolutamente.» La donna si alzò lentamente dirigendosi a passi incerti verso le scale. «Mi trovi in camera da letto.» E uscì. «Allora, vi ascolto» disse Hoyt Parker. Fu Carlson a parlare. «Non pensiamo solo che il dottor Beck abbia picchiato sua figlia. Riteniamo che l'abbia uccisa.» Hoyt spostò lo sguardo da Carlson a Stone, riportandolo poi su Carlson, come se fosse in attesa della frase che avrebbe chiarito tutto. Poi, visto che i due erano rimasti in silenzio, si avvicinò a una poltrona. «Ora è il caso che mi diate una spiegazione.» 14 Che cos'altro mi aveva tenuto nascosto Elizabeth? Dirigendomi verso il parcheggio Quick-n-Park su 10th Avenue, riprovai a scacciare il pensiero di quelle foto, che sicuramente dovevano essere state scattate per la denuncia dell'incidente all'assicurazione. Ricordai quanto poca importanza Elizabeth avesse dato all'epoca a quell'incidente. Una cosa da niente, aveva detto. Nulla di serio. E quando le avevo chiesto i particolari, lei aveva sorvolato cambiando discorso. Ora sapevo che mi aveva mentito. Potrei dirvi che Elizabeth non mi aveva mai mentito, ma come argomento sarebbe ben poco convincente alla luce di quella recente scoperta. Si trattava, in ogni caso, della prima bugia nella quale mi imbattevo. Per quel che poteva valere. Immagino, comunque, che sia io che lei avessimo i nostri segreti. Arrivato al Quick-n-Park notai qualcosa di strano: o, forse, dovrei dire qualcuno di strano. Fermo all'angolo c'era un tipo con un cappotto marrone. E mi guardava. Aveva un aspetto stranamente familiare, quel tipo. Non lo conoscevo, ma ebbi una strana impressione di déjà-vu. L'avevo già visto, insomma. E
proprio quella mattina stessa. Ma dove? Passai in rassegna la mattinata e lo individuai, con la coda dell'occhio della memoria. Quell'uomo l'avevo già visto nel parcheggio dello Starbucks, dove mi ero fermato verso le otto a prendere un caffè. Ne ero certo? No, ovviamente. Distolsi lo sguardo e mi affrettai verso il casotto del guardiano. Che si chiamava Carlo, almeno così diceva la targhetta sulla camicia, e in quel momento guardava la TV e mangiava un panino. Poi lentamente Carlo si tolse le croste di pane dalla mano, prese il mio scontrino e lo timbrò. Lo pagai in fretta e quello mi dette le chiavi. L'uomo con il cappotto marrone non si era mosso. Mi sforzai di non guardare nella sua direzione e di non correre verso la mia auto. Aprii lo sportello, entrai, misi in moto e appena uscito su 10th Avenue controllai nello specchietto retrovisore. L'uomo con il cappotto marrone non si era nemmeno preso la briga di seguirmi con lo sguardo. Lo tenni d'occhio fino a quando non svoltai in West Side Highway. Lui non guardò mai nella mia direzione. Paranoico, stavo diventando paranoico. Ma perché Elizabeth mi aveva mentito? Ci pensai a lungo e non cavai un ragno dal buco. Mancavano ancora tre ore all'appuntamento con il messaggio "Bat Street". Tre ore. Dovevo assolutamente distrarmi. Pensare e ripensare a che cosa avrei trovato all'altro capo del cyber-collegamento mi stava facendo venire un'ulcera. Sapevo che cosa avrei dovuto fare. Stavo solo cercando di rimandare l'inevitabile. Tornato a casa trovai, come al solito, il nonno seduto in poltrona, solo. Il televisore era spento. L'infermiera stava gracchiando in russo al telefono. Non funzionava, quella donna, avrei dovuto chiamare l'agenzia e farla sostituire. Agli angoli della bocca del nonno c'erano dei rimasugli d'uovo, che gli tolsi delicatamente con un fazzoletto. I nostri sguardi s'incontrarono, ma il suo era inchiodato su qualcosa lontano da quella stanza. Rividi con la mente le estati al lago tutti insieme, con il nonno che si esibiva nella sua gag preferita, quella battezzata "Prima della dieta, dopo la dieta". Si metteva di profilo, il nonno, lasciando ricadere la pancia e gridava: «Prima!» poi tratteneva il fiato e ritirava indietro la pancia gridando: «Dopo!». Era bra-
vissimo. Mio padre rideva a crepapelle. Papà aveva una risata fragorosa, contagiosa, liberatrice. Anch'io ridevo come lui. Ma quella risata morì con papà, e dopo non riuscii più a ridere come lui. Mi sembrava in un certo senso osceno. Udendomi, l'infermiera riattaccò il telefono e si precipitò in salotto con un gran sorriso. Che non ricambiai. Guardai la porta del seminterrato. Stavo ancora cercando di rimandare l'inevitabile. Ma non potevo più permettermelo. «Rimanga con lui» ordinai all'infermiera. Lei chinò il capo e si sedette. Il seminterrato era stato sistemato prima dell'epoca in cui si usava rimodernarli, e si vedeva. Il tappeto, un tempo marrone, di pelo ispido, era pieno di macchie e si era arricciato. Alle pareti era stata applicata una carta da parati, di una strana sostanza sintetica, che avrebbe dovuto creare l'effetto trompe-l'oeil di mattoni bianchi. Alcune strisce erano cadute, altre si erano fermate a metà parete come colonne dell'Acropoli. Il ripiano verde del tavolo da ping-pong, in mezzo al seminterrato, si era sbiadito assumendo una tonalità menta simile a quella tanto di moda. La retina piena di buchi faceva pensare alle barricate dopo l'offensiva delle truppe francesi. Le racchette erano prive della gomma e mostravano impietose la loro superficie di legno scheggiato. Sul tavolo da ping-pong erano poggiati alcuni scatoloni di cartone, perlopiù ammuffiti. Altri erano accatastati in un angolo. In un armadio erano ancora appesi vecchi abiti, ma non di Elizabeth. Shauna e Linda si erano armate di buona volontà e li avevano portati via. Ma erano rimasti altri oggetti. I "suoi" oggetti. Non ero stato capace di gettarli o regalarli. Non so bene perché. Certe cose le mettiamo da parte, in un angolo di un armadio, sicuri di non vederle più: ma non riusciamo mai a sbarazzarcene. Come i sogni, immagino. Non ricordavo dove l'avevo messa, ma sapevo che doveva essere lì. Cominciai a frugare tra le vecchie foto, distogliendo ancora una volta lo sguardo. Mi ero specializzato in quell'operazione anche se, con il passare del tempo, guardare le foto non mi faceva più male come una volta. Ora, guardando me ed Elizabeth in qualche Polaroid verdastra, mi sembrava di vedere due sconosciuti. Odiavo farlo. Continuai a frugare nello scatolone. Con la punta delle dita toccai qual-
cosa e tirai fuori la felpa con il logo universitario con cui giocava a tennis. Con un mesto sorriso la rividi correre sotto rete sul campo, con le gambe abbronzate e la treccia che le ballava sulla schiena. Giocando a tennis Elizabeth era sempre concentratissima. La concentrazione era la sua arma vincente. Il dritto e il servizio erano buoni, ma a farla emergere sui compagni era proprio quell'incredibile concentrazione. Rimisi giù la felpa e ripresi a frugare. Ciò che cercavo si trovava sul fondo. La sua agenda. La polizia l'aveva cercata, dopo il sequestro. Così almeno mi avevano detto. Rebecca li aveva aiutati a trovarla in casa nostra. Immagino che nell'agenda i poliziotti sperassero di trovare qualche indizio, come me in quel momento, ma devo pensare che abbiano smesso di sfogliarla quando fu trovato il cadavere marchiato con la lettera K. Ripensai a come quel delitto fosse stato cucito su misura addosso a KillRoy, e un altro pensiero mi attraversò il cervello. Corsi al piano di sopra, accesi il computer e mi collegai a Internet. Trovai il sito pubblico del dipartimento penitenziario dello stato di New York. Era pieno di materiale, quel sito, compresi il nome e il numero di telefono che stavo cercando. Uscii da Internet e telefonai al penitenziario di Briggs. Quello dov'era rinchiuso KillRoy. Ascoltai il nastro registrato, premetti un numero e ottenni la comunicazione. Dopo tre squilli udii una voce maschile: «Vicesovrintendente Brown». Gli dissi che volevo avere un colloquio con Ellroy Kellerton. «Lei chi è?» mi chiese. «Sono il dottor David Beck. Mia moglie, Elizabeth Beck, fu una delle vittime di Kellerton.» «Capisco.» Brown esitò. «Posso chiederle lo scopo del colloquio?» «No.» Altro silenzio. «Ho il diritto di avere un colloquio, a meno che lui stesso non si opponga» dissi. «Certo, naturalmente, ma la sua richiesta è davvero insolita.» «Gliela faccio ugualmente.» «Secondo la procedura, il suo avvocato dovrebbe...» «Nemmeno per sogno» l'interruppi. Sempre su Internet avevo scoperto che la richiesta avrei potuto farla io stesso. Se Kellerton non aveva nulla in
contrario, ci avrei parlato. «Voglio parlare con Kellerton. Domani è giorno di visite, vero?» «Sì.» «Allora, se Kellerton acconsente, sarò lì domani. C'è qualche problema?» «No, signore. Se lui accetta di parlarle, non vedo alcun problema.» Ringraziai e attaccai. Mi ero rimesso in azione, e la cosa mi faceva sentire meglio. L'agenda era sul tavolo, accanto al mio braccio. La evitavo perché, se una foto o un disco possono essere dolorosi, la scrittura lo è ancora di più in quanto più direttamente personale. Quelle maiuscole aguzze di Elizabeth, quella decisa barretta sulle "t", tutti quei ghirigori, le lettere inclinate a destra... Passai un'ora a sfogliare quell'agenda. Elizabeth difficilmente abbreviava le parole. Mi sorpresi scoprendo quanto conoscevo bene mia moglie. Tutto era chiaro e semplice, non c'erano sorprese. Non riuscivo a decifrare solo un appuntamento. Tre settimane prima della morte c'era un appunto di due sole lettere: PF. E un numero telefonico senza prefisso. Considerando la dovizia di particolari con cui Elizabeth aveva appuntato ogni suo impegno, quella laconicità mi turbò. Non riuscivo a immaginare quale potesse essere il prefisso. La telefonata era di otto anni prima. Da allora i prefissi erano stati modificati o sostituiti più di una volta. Provai con il 201, ma il numero risultò inesistente. Provai con il 973. Rispose una vecchia e l'informai che aveva vinto un abbonamento al "New York Post". Lei mi dette il suo nome. Le iniziali non erano PF. Provai con il 212, Manhattan. E feci centro. «Studio legale Peter Flannery» rispose una voce di donna interrompendo uno sbadiglio. «Potrei parlare con il signor Flannery, per favore?» «È in tribunale.» Per essere più annoiata di così avrebbe dovuto ordinarglielo il medico. In lontananza si udiva un chiasso tremendo. «Vorrei prendere un appuntamento.» «Ha visto la pubblicità sul cartellone?» «Sul cartellone?» «Lei è la vittima?» «Sì. Ma non ho visto nessuna pubblicità, è stato un amico a raccoman-
darmi questo studio. Si tratta di una causa contro un medico che non si è accorto che avevo un braccio rotto, e ora non riesco a muoverlo. Ho perso il lavoro. Il braccio mi fa male giorno e notte.» Mi fissò un appuntamento per l'indomani pomeriggio. Riattaccai perplesso. Che cosa poteva avere a che fare Elizabeth con un avvocatucolo da quattro soldi come quel Flannery? Lo squillo del telefono mi fece trasalire. Afferrai la cornetta a metà squillo. «Pronto.» Era Shauna. «Dove sei?» mi chiese. «A casa.» «Devi venire subito qui.» 15 L'agente Carlson fissò Hoyt Parker. «Come saprà, di recente abbiamo trovato due cadaveri nelle vicinanze di Lake Charmaine.» Hoyt annuì. Si udì il cinguettio di un telefono cellulare. Stone si alzò con fatica. «Scusate» disse, trascinandosi poi in cucina. Hoyt riportò la sua attenzione su Carlson e attese. «Conosciamo la versione ufficiale della morte di sua figlia» riprese l'agente federale. «Lei e il marito David Beck erano andati al lago, come facevano ogni anno in quella data. Avevano fatto una nuotata nell'oscurità. KillRoy se ne stava nascosto, ha aggredito il dottor Beck e portato via sua figlia. Fine della storia.» «E voi non credete che le cose siano andate così?» «No, Hoyt... possiamo darci del tu?» Quello assentì. «No, Hoyt, non lo crediamo.» «Come sono andate, allora, secondo voi?» «Secondo noi David Beck ha ucciso tua figlia e ha fatto in modo che venisse accusato un serial killer.» Hoyt, da ventotto anni in servizio al dipartimento di polizia di New York, sapeva restare impassibile; ma in quella circostanza tirò istintivamente indietro il capo come se le parole di Carlson fossero state dei colpi al mento. «Sentiamo.» «Allora, cominciamo dal principio. Beck porta tua figlia in un posto iso-
lato sul lago, giusto?» «Giusto.» «Tu ci sei mai stato?» «Diverse volte.» «Come mai?» «Eravamo molto amici. Kim e io, voglio dire, eravamo molto legati ai genitori di David e ci vedevamo spesso.» «Allora sai quant'è isolato quel posto.» «Sì.» «Bisogna percorrere il viottolo e poi girare all'altezza di quel cartello che vedi soltanto se sai che c'è, nascosto com'è dalla vegetazione. Nessun segno di vita.» «Dove vuoi arrivare?» «Quante probabilità ci sono che KillRoy sia finito proprio lì?» Hoyt sollevò le mani con i palmi rivolti verso l'alto. «Quante probabilità ci sono d'incontrare un serial killer?» «È vero, certo, ma negli altri casi esisteva una certa logica. Kellerton, cioè, sequestrava una donna che camminava per strada, oppure costringeva un'automobilista a scendere dall'auto e salire sulla sua, oppure si introduceva in casa della vittima. E invece, pensaci un po', quella volta vede un viottolo e decide di cercarsi la vittima in mezzo al bosco? Non dico che sia impossibile, ma mi sembra altamente improbabile.» «Vai avanti.» «Ammetterai che la versione ufficiale è piena di buchi logici.» «Ogni inchiesta ha i suoi buchi logici.» «Giusto, ma vediamo cosa ne pensi di questa teoria alternativa. Diciamo, per cominciare, che il dottor Beck voleva uccidere tua figlia.» «Perché?» «Per incassare un'assicurazione di duecentomila dollari, tanto per dirne una.» «Non ha bisogno di soldi.» «Tutti abbiamo bisogno di soldi, Hoyt. Lo sai.» «Non mi convince.» «Stiamo ancora perfezionando questa teoria. Non conosciamo ancora per intero il movente. Ma lasciami terminare di descriverti questo scenario.» Hoyt si strinse nelle spalle, quasi a dirgli "fa' come credi". «Abbiamo qui le prove che il dottor Beck la picchiava.» «Quali prove? Avete qualche foto. Elizabeth disse alla madre che si era
trattato di un incidente stradale.» «Ma andiamo, Hoyt.» Carlson indicò con la mano le foto. «Guarda l'espressione di tua figlia, ti sembra quella di chi ha subito un incidente stradale?» "No" pensò Hoyt "non mi sembra." «Dove le avete trovate, queste foto?» «Ci arrivo tra un attimo; ora, se non ti dispiace, torniamo al mio scenario. Diciamo per il momento che il dottor Beck picchiava tua figlia e che poteva contare su una bella eredità.» «Stai dando troppe cose per scontate.» «È vero, comunque seguimi. Pensa alla versione ufficiale e a tutti quei buchi. E ora paragonala a questa: il dottor Beck porta tua figlia in questa località isolata dove sa che non ci saranno testimoni. La fa portare via da due criminali che ha assoldato. Sa di KillRoy. È su tutti i giornali. E tuo fratello ha partecipato alle indagini sul serial killer. A proposito, ne ha mai parlato con te o con Beck?» Hoyt tacque per qualche istante. «Vai avanti.» «I due criminali portano via tua figlia e l'uccidono. Il primo a essere sospettato sarà naturalmente il marito, in casi del genere succede sempre così. I due poi le marchiano una lettera K sulla guancia. E tutti puntano il dito contro KillRoy.» «Ma Beck venne aggredito. La ferita al capo era autentica.» «Certo, ma io e te sappiamo che questo non ci impedisce di considerarlo il mandante del delitto. Come avrebbe potuto farci credere di essersela cavata senza un graffio? "Salve, sapete la novità? Hanno rapito mia moglie ma io sto bene." Non avrebbe mai funzionato. Beccarsi una botta in testa avrebbe invece dato credibilità al suo racconto.» «Altro che botta s'è beccato.» «Aveva a che fare con dei malavitosi, Hoyt. Che probabilmente non sono andati troppo per il sottile quando si è trattato di colpirlo. Lui poi racconta quella curiosa storia secondo la quale è riuscito miracolosamente a uscire dall'acqua e a chiamare la polizia. Ho fatto vedere a diversi medici la cartella clinica di Beck, quella del ricovero dopo l'aggressione. E tutti mi hanno confermato che quanto da lui sostenuto sfida ogni logica medica. Con quel tipo di ferita sarebbe stato impossibile.» Hoyt aveva più di una volta fatto la stessa considerazione. Come era mai possibile che Beck fosse riuscito a sopravvivere e a cercare aiuto? «Che altro?» chiese.
«C'è una prova concreta che ad aggredire Beck sono stati i due criminali, non KillRoy.» «Quale prova?» «Accanto ai cadaveri, sottoterra, abbiamo trovato una mazza da baseball con macchie di sangue essiccato. La ricerca del DNA richiederà del tempo, ma i risultati preliminari lasciano ritenere che il sangue sia proprio quello di Beck.» L'agente Stone rientrò nella stanza e andò a sedersi pesantemente. «Vai avanti» disse ancora Hoyt. «Il resto è abbastanza ovvio. Il lavoro l'hanno compiuto quei due. Hanno ucciso tua figlia facendo ricadere la colpa su KillRoy. Poi sono tornati a farsi dare il resto della somma pattuita, o forse hanno deciso di estorcere al dottor Beck altri soldi. Non lo so. Comunque, Beck decide che deve sbarazzarsi di loro. Gli dà appuntamento tra i boschi di Lake Charmaine. Probabilmente quei due credevano di avere a che fare con un innocuo medico, o forse lui li ha presi alla sprovvista. Sia come sia, Beck li uccide a colpi di pistola e poi seppellisce i cadaveri insieme alla mazza da baseball e a tutto ciò che un domani possa far risalire a lui. Il delitto perfetto. Nulla che leghi Beck ai due assassini della moglie. Onestamente, se non avessimo avuto una gran fortuna, quei due cadaveri non li avremmo mai trovati.» Hoyt scosse il capo. «Che diavolo di teoria!» «C'è dell'altro.» «Cioè?» Carlson guardò Stone, che puntò il dito sul cellulare. «Ho appena ricevuto una strana telefonata dal penitenziario di Briggs» disse Stone. «Sembra che oggi tuo genero abbia telefonato in carcere per chiedere un colloquio con KillRoy.» Hoyt sembrava ora decisamente sbalordito. «E perché avrebbe fatto una cosa del genere?» «Diccelo tu» gli rispose Stone. «Ma ricordati che Beck sa che gli stiamo dietro. E all'improvviso sente questo impellente bisogno di parlare con l'uomo che lui stesso ha incastrato come assassino di tua figlia.» «Che strana coincidenza» aggiunse Carlson. «Credi che stia cercando di correre ai ripari?» «Tu hai una spiegazione migliore?» Hoyt si appoggiò allo schienale della poltrona cercando di assorbire quelle novità. «Avete tralasciato qualcosa» disse poi. «Che cosa?»
Indicò le foto sul tavolino. «Chi ve le ha date?» «Credo sia stata tua figlia, in un certo qual modo» rispose Carlson. Hoyt impallidì. «O per l'esattezza una sua alias. Una certa Sarah Goodhart. Cioè il secondo nome di tua figlia e quello di questa strada.» «Non capisco.» «Uno dei due criminali sepolti vicino al lago, Melvin Bartola, aveva nella scarpa una chiavetta.» Carlson sollevò la chiave. Hoyt la prese, scrutandola come se contenesse qualche magica risposta ai suoi dubbi. «Vedi sopra quella scritta UCB?» Hoyt fece cenno di sì. «Sta per United Central Bank. Siamo riusciti a scoprire che proveniva da un loro ufficio qui in città, al 1772 di Broadway. La chiave apre la cassetta di sicurezza 174, intestata a una certa Sarah Goodhart. Allora ci siamo fatti dare un mandato di perquisizione.» Hoyt sollevò lo sguardo. «E nella cassetta avete trovato le foto?» Carlson e Stone si scambiarono un'occhiata. Erano già d'accordo di non dire a Hoyt tutto su quella cassetta di sicurezza, fino a quando almeno i test fossero stati completati e loro avessero raggiunto una certezza. Ma entrambi annuirono. «Pensaci, Hoyt. Tua figlia teneva queste foto in una cassetta di sicurezza per motivi fin troppo ovvi. Vuoi sapere di più? Abbiamo interrogato il dottor Beck, e lui ha ammesso di non sapere nulla di quelle foto. Non le aveva mai viste. Perché tua figlia gliele aveva nascoste?» «Avete parlato con Beck?» «Sì.» «Che altro vi ha detto?» «Non molto, perché ha chiesto un avvocato.» Carlson attese un attimo, poi avvicinò il viso a quello del poliziotto. «E non ha chiamato un avvocato qualsiasi, ma Hester Crimstein. Ti sembra la scelta di un uomo che è innocente?» Hoyt strinse le mani ai braccioli della poltrona, quasi temesse di perdere l'equilibrio. «Non potete provare niente.» «Non ancora, certo. Ma sappiamo come sono andate le cose, il che a volte significa che la battaglia è già vinta per metà.» «Che avete intenzione di fare?» «Possiamo solo continuare a fare pressione finché qualcosa non si spezza» rispose Carlson.
Larry Gandle passò in rassegna gli avvenimenti della giornata, borbottando: «Non mi piace». Primo, l'FBI prende Beck e l'interroga. Secondo, Beck telefona a una fotografa, Rebecca Schayes, e le fa domande circa un vecchio incidente stradale della moglie. Poi la va a trovare in laboratorio. Una fotografa, addirittura. Terzo, Beck chiama il penitenziario di Briggs e annuncia che vuole avere un colloquio con Ellroy Kellerton. Quarto, Beck chiama lo studio di Peter Flannery. Tutti fatti sconcertanti, nulla di buono. Eric Wu riagganciò il telefono. «Quello che sto per dirti non ti piacerà.» «Che cosa?» «Il nostro informatore all'interno dell'FBI dice che i federali sospettano Beck di avere ucciso la moglie.» Gandle cadde quasi dalla sedia. «Spiegati.» «La nostra fonte non sa altro. Hanno collegato in qualche modo a Beck i due cadaveri sepolti vicino al lago.» Davvero sconcertante. «Fammi rivedere quelle e-mail» disse Gandle. Eric Wu gli dette le stampate. Pensando a chi potesse avere spedito quei messaggi, Gandle tornò a sentire quella morsa alla bocca dello stomaco. Cercò allora di collegare i vari elementi. Si era sempre chiesto come avesse fatto quella sera Beck a restare vivo. Ora si stava facendo un'altra domanda. Era per caso sopravvissuto qualcun altro? «Che ora è?» chiese a Wu. «Le sei e trenta.» «Beck non è ancora entrato in quell'accidenti di sito, Bat comesichiama?» «Bat Street. No, non ancora.» «C'è qualcos'altro su Rebecca Schayes?» «Quello che già sappiamo. Era un'amica intima di Elizabeth Parker. Dividevano lo stesso appartamento fin quando Elizabeth non ha sposato Beck. Ho controllato i vecchi tabulati delle telefonate, Beck non la chiamava da anni.» «E allora perché ha voluto mettersi in contatto con questa fotografa pro-
prio ora?» Wu si strinse nelle spalle. «La signora Schayes deve sapere qualcosa.» Griffin Scope era stato fin troppo chiaro. Scopri tutto ciò che c'è da scoprire e poi seppelliscilo. E serviti di Wu. «Dobbiamo fare due chiacchiere con lei» disse Gandle. 16 Shauna mi aspettava nell'atrio di un grattacielo al 462 di Park Avenue, Manhattan. Saltò a piè pari i preliminari. «Vieni, c'è qualcosa che voglio farti vedere.» Guardai l'orologio. Poco meno di due ore all'arrivo del messaggio "Bat Street". Entrammo in ascensore. Shauna premette il pulsante del ventitreesimo piano. Le lucine dei vari piani cominciarono una a una a lampeggiare e si udì il bip bip per i non vedenti. «Mi ci ha fatto pensare Hester» disse lei. «Pensare a che cosa?» «Quando ha detto che i federali sono disperati e farebbero qualsiasi cosa per metterti le mani addosso.» «E allora?» L'ascensore suonò il suo ultimo ding. «Aspetta e vedrai.» Le porte scorrevoli si aprirono su un enorme ambiente diviso in cubicoli. Al giorno d'oggi in città questa è la norma. Se si potesse portare via il soffitto e guardare dall'alto non sarebbe facile distinguere un open space come questo da un labirinto per topi. E anche da giù l'effetto è lo stesso, a pensarci bene. Shauna marciò a passo di carica tra una serie di pannelli divisori, seguita da me. Giunta a metà strada svoltò a sinistra, poi a destra e poi di nuovo a sinistra. «Forse dovrei lasciar cadere delle briciole di pane» dissi. «Buona, questa.» Ma non sembrava divertita. «Grazie, sempre a tua disposizione.» Non stava ridendo. «Ma dove mi hai portato, a proposito?» le chiesi. «Questa società si chiama Digicom. La mia agenzia si serve a volte di
loro.» «Per fare cosa?» «Vedrai.» Dopo un'ultima svolta finimmo in un angusto cubicolo occupato da un giovanotto dalla testa oblunga e le mani affusolate come quelle di un pianista. «Ti presento Farrell Lynch. Farrell, questo è David Beck.» Strinsi brevemente la mano affusolata. «Salve» mi disse Farrell. «Okay» riprese Shauna. «Collegati.» Farrell Lynch si girò con la sedia verso lo schermo del computer. Shauna e io ci mettemmo alle sue spalle. Prese a digitare sulla tastiera con quelle mani affusolate. «Collegato» disse poi. «Vai pure.» Premette il tasto "Invio". Lo schermo diventò nero, poi apparve Humphrey Bogart. Indossava un impermeabile e aveva sul capo un Borsalino. Riconobbi immediatamente quella scena. La nebbia, l'aereo sullo sfondo. La sequenza finale di Casablanca. Guardai Shauna. «Aspetta» mi impose. La macchina da presa inquadrava Bogie. Stava dicendo a Ingrid Bergman che sarebbe dovuta salire su quell'aereo con Laszlo e che in questo mondo i problemi di tre persone qualsiasi avevano la stessa importanza di un mozzicone di sigaretta. Ma poi, quando l'obiettivo si spostò su Ingrid Bergman... ... non era Ingrid Bergman. Sbattei le palpebre. Il viso sotto quel famoso cappello, immerso in un chiarore grigiastro mentre sollevava lo sguardo su Bogie, era quello di Shauna. «Non posso venire con te, Rick» stava dicendo emozionatissima la Shauna computerizzata «perché sono innamorata alla follia di Ava Gardner.» Mi voltai verso Shauna. I miei occhi le rivolsero una domanda. Lei fece cenno di sì con il capo. Ma io la domanda gliela feci ugualmente. «Credi...» Balbettavo. «Credi che mi abbiano preso in giro con un fotomontaggio?» Rispose Farrell. «Non fotomontaggio ma fotografia digitale» mi corresse. «Molto più facile da manipolare.» Si girò con la sedia verso di me.
«Vede, le immagini del computer non sono su pellicola, ma sono composte da un insieme di pixel, di puntini, nei vari file. Non molto diverse, quindi, dai documenti di un word processor. Lo sa, vero, come è facile modificare un documento cambiando i font o gli spazi?» Annuii. «Anche per una persona con rudimentali nozioni di immagini digitali, quindi, è un gioco manipolare una sequenza di immagini col computer. Perché non si tratta di foto, di pellicole o di nastri magnetici. Le immagini del computer sono soltanto un insieme di pixel, e chiunque le può manipolare. Basta tagliare, incollare e sistemare poi tutto utilizzando un programma apposito.» Guardai Shauna. «Ma in quel video lei sembrava più vecchia» insistetti. «Diversa.» Shauna non fece una piega. «Farrell?» Quello premette un altro tasto. Tornò Bogie. Ma quando la macchina da presa si spostò su Ingrid Bergman, Shauna sembrava una settantenne. «Software per la progressione d'età» spiegò Farrell. «Viene usato soprattutto per i ragazzi scomparsi da casa, ma oggi in ogni negozio specializzato ne vendono una versione non professionale. Posso anche modificare ogni parte dell'immagine di Shauna, la pettinatura, il colore degli occhi, la forma del naso. Posso anche farle le labbra più sottili o più piene, applicarle un tatuaggio, tutto quello che voglio.» «Grazie Farrell» disse Shauna. Lo congedò con un'occhiata così esplicita che avrebbe potuto capirla anche un cieco. «Scusatemi» fece Farrell, e tornò a immergersi nel suo lavoro. Io e Shauna ci allontanammo. «Ricordo un servizio fotografico, il mese scorso» riprese lei. «Una foto era venuta semplicemente perfetta, lo sponsor ne andava matto, tranne che per un piccolo particolare: prima dello scatto mi era caduto un orecchino. Ci ha pensato Farrell, con la sua tecnica del taglia e incolla, e voilà, l'orecchino è tornato al suo posto.» Scossi il capo. «Rifletti, Beck. I federali pensano che tu abbia ucciso Elizabeth ma non hanno modo di dimostrarlo. Hester ci ha spiegato quanto sono furiosi. E allora ho cominciato a sospettare che potrebbero cercare di confonderti le idee. E quale miglior sistema, per confonderti le idee, di mandarti quelle email?» «Ma l'ora del bacio...?»
«Che vuoi dire?» «Come facevano a sapere dell'ora del bacio?» «Io lo so. Linda lo sa. Scommetto che lo sa anche Rebecca e forse i genitori di Elizabeth. L'FBI potrebbe quindi averlo scoperto da qualcuno di loro.» Sentii le lacrime venire in superficie. Cercai di controllare la voce ma riuscii solo a emettere una specie di gracidio. «È uno scherzo crudele?» «Non lo, Beck. Davvero. Cerchiamo di essere razionali. Se Elizabeth fosse veramente viva, mi sai dire dove se n'è stata in questi otto anni? Perché per uscire dalla tomba ha scelto proprio questo momento, che per una strana coincidenza è lo stesso in cui l'FBI ti sospetta di avere ucciso tua moglie? E poi, andiamo, ma davvero puoi pensare che sia viva? So bene che lo vorresti, e immagina se non lo vorrei anch'io. Ma cerchiamo di porci razionalmente di fronte a questa faccenda. Se ci pensi bene, qual è secondo te lo scenario più plausibile?» Feci un passo indietro e mi lasciai cadere su una poltrona. Il mio cuore prese a sbriciolarsi, la speranza ad avvizzire. Uno scherzo. Possibile che si fosse trattato solo di uno scherzo crudele? 17 Dopo essersi insediato nel laboratorio fotografico di Rebecca Schayes, Larry Gandle chiamò la moglie Patty sul cellulare. «Stasera farò tardi» la informò. «Non dimenticare di prendere la pillola.» Gandle soffriva di una leggera forma di diabete, che teneva sotto controllo con la dieta e le pillole. Ma niente insulina. «Stai tranquilla.» Eric Wu, con le cuffie del walkman sulle orecchie, stese metodicamente accanto alla porta un telo di plastica. Gandle riagganciò il telefono e si infilò un paio di guanti di gomma. La ricerca fu accurata e lunga perché, come quasi tutti i fotografi, Rebecca Schayes conservava tonnellate di negativi. Quattro armadietti metallici ne erano pieni. I due uomini avevano già controllato l'agenda di Rebecca. In quel momento stava concludendo un servizio fotografico e sarebbe stata di ritorno dopo un'ora per lavorare nella camera oscura. Non c'era, quindi, molto tempo a disposizione. «Lo sai che cosa servirebbe?» gli domandò Wu.
«Che cosa?» «Avere una pur minima idea di che diavolo stiamo cercando.» «Beck riceve queste misteriose e-mail e che cosa fa?» si chiese Gandle. «Per la prima volta in otto anni si precipita qui per parlare con la più vecchia amica della moglie. Dobbiamo scoprire il motivo.» Wu rimase per un po' a fissarlo. «Perché non ci sediamo ad aspettarla e quando arriva glielo chiediamo?» «È quello che faremo, Eric.» Wu annuì lentamente e distolse lo sguardo. Gandle trovò nella camera oscura un lungo tavolo metallico. Lo provò. Era robusto. E anche la lunghezza era quella giusta. Ci si poteva stendere qualcuno, su quella superficie, e legargli gli arti alle gambe del tavolo. «Quanto nastro da pacchi abbiamo portato?» chiese a Wu. «Abbastanza.» «Fammi un favore, allora. Sposta il telo di plastica sotto quel tavolo.» Mancava mezz'ora all'arrivo del messaggio "Bat Street". La dimostrazione di Shauna mi aveva colpito come un gancio sinistro a sorpresa. Barcollavo ed ero rassegnato a sentir contare l'arbitro fino a dieci. Poi successe un fatto strano. Tirai su il culo dal ring. Mi rialzai, scossi il capo per schiarirmi le idee e ripresi a saltellare in circolo. Eravamo nella mia auto. Shauna aveva insistito per venire a casa con me. Tra qualche ora una limousine l'avrebbe riportata indietro. Lo so che voleva essermi di conforto, ma era ugualmente chiaro che non aveva alcuna intenzione di tornarsene a casa. «C'è una cosa che non capisco» dissi. Lei si voltò verso di me. «I federali pensano che Elizabeth l'abbia uccisa io, giusto?» «Giusto.» «E allora perché dovrebbero mandarmi delle e-mail fingendo che lei sia ancora viva?» Shauna non trovò subito una risposta. «Pensaci» insistetti. «Secondo te il loro è un piano complicato per costringermi a confessarmi colpevole. Ma se avessi veramente ucciso Elizabeth, saprei anche che è tutto un trucco.» «Cercano di farti uscire di testa» disse Shauna. «Ma è illogico. Se volessero farmi uscire di testa mi manderebbero delle e-mail spacciandosi, che so, per qualcuno che ha assistito al delitto, roba
del genere.» Shauna ci pensò su. «Credo che cerchino di farti compiere un passo falso, Beck.» «Sì ma, insisto, con il sistema sbagliato.» «Okay, quanto manca al prossimo messaggio?» Guardai l'orologio. «Venti minuti.» «Allora aspettiamo e vediamo che cosa dice.» Eric Wu poggiò il suo computer portatile sul pavimento in un angolo del laboratorio di Rebecca Schayes. Per prima cosa controllò il computer di Beck all'ambulatorio. Spento. L'orologio a muro segnava le otto e qualche minuto. Quindi l'ambulatorio era chiuso da un pezzo. Allora passò al computer di casa. Per qualche secondo non accadde nulla. E poi... «Beck si è appena collegato» disse Wu. Larry Gandle gli si accostò. «Possiamo entrare nel programma e leggere il messaggio prima di lui?» «Non sarebbe una buona idea.» «Perché no?» «Perché se lui prova a leggerlo mentre lo stiamo leggendo noi, il computer lo avvertirà che in quel momento qualcun altro sta utilizzando lo stesso account.» «Capirà cioè di essere controllato?» «Sì, quindi non c'è bisogno di precederlo. Perché noi lo controlliamo in tempo reale: quando leggerà il messaggio noi lo leggeremo contemporaneamente a lui.» «Okay, avvertimi quand'è il momento.» Wu fissò il monitor. «È appena entrato nel sito Bigfoot. Mancano pochi secondi.» Digitai sulla tastiera "Bigfoot.com" e premetti il tasto "Invio". La gamba sinistra cominciò a tremare, come mi succede sempre quando sono nervoso. Shauna mi poggiò una mano sul ginocchio, che si fermò lentamente. Lei tolse la mano. Il ginocchio se ne rimase tranquillo per un minuto, poi riprese a sussultare come un martello pneumatico. Shauna riportò la mano sul ginocchio. E il ciclo riprese. Lei si fingeva impassibile, ma sapevo che ogni tanto mi lanciava un'occhiata di nascosto. Era la mia migliore amica. Sarebbe rimasta al mio fian-
co fino alla fine. Ma, arrivati a questo punto, solo un idiota non si sarebbe chiesto se il mio ascensore non si fosse bloccato. Dicono che la follia, come la cardiopatia e l'intelligenza, è ereditaria. Quel pensiero mi aveva attraversato il cervello dal momento che avevo visto Elizabeth inquadrata da quella webcam. E non era un pensiero tranquillizzante. Mio padre era morto in un incidente stradale quando avevo vent'anni. La sua auto finì in una cunetta ribaltandosi. Secondo un testimone, un camionista del Wyoming, la Buick di papà aveva puntato quella cunetta. Era una notte gelida, l'asfalto, anche se sgombro dalla neve, era scivoloso. Molti avevano ipotizzato, ovviamente sottovoce, che papà potesse essersi tolto la vita. Io non ci credo. Certo, negli ultimi mesi si era chiuso in se stesso ed era diventato più taciturno. Ed è vero, spesso mi ero chiesto se questo suo stato d'animo non avesse contribuito a farlo andare fuori strada. Ma addirittura il suicidio? No, impossibile. Mia madre, una donna fragile soggetta a crisi depressive apparentemente lievi, reagì uscendosene pian piano fuori di testa. Si ritirò letteralmente in se stessa. Linda cercò di accudirla per tre anni, finché dovette ammettere anche lei che la mamma aveva bisogno di essere ricoverata in un istituto. La andava a trovare ogni volta che poteva. Io no. Dopo qualche istante apparve la home page Bigfoot. Saltai alcune inserzioni pubblicitarie e trovai la casella dell'utente. Vi digitai sopra "Bat Street". Poi, usando il tasto di tabulazione passai alla casella della password, digitai "Teenage" e premetti il tasto "Invio". Non accadde nulla. «Hai dimenticato di cliccare sull'icona "Firma"» disse Shauna. La guardai. Lei si strinse nelle spalle. Cliccai sull'icona. Lo schermo diventò bianco. Poi apparve la pubblicità di un negozio di dischi. La barretta in basso continuò ad allungarsi e accorciarsi simile a un'onda lenta. La percentuale di caricamento aumentava stancamente. Arrivati al diciotto percento scomparve e leggemmo un messaggio. ERRORE — Il nostro database non contiene il nome dell'utente o la password usati. «Riprova» disse Shauna. Riprovai. Apparve lo stesso messaggio con l'avviso dell'errore. Il computer mi stava dicendo che quell'account nemmeno esisteva.
Che cosa significava tutto ciò? Non ne avevo idea. Cercavo di capire per quale motivo i dati risultavano inesistenti. Guardai l'ora. Le venti, tredici minuti e trentaquattro secondi. "L'ora del bacio." Poteva essere quella la risposta? Che cioè l'account, come ieri il link, semplicemente non esisteva ancora? Ci riflettei per un po'. Era possibile, naturalmente, anche se improbabile. Shauna sembrò leggermi nel pensiero. «Forse dovremmo aspettare le otto e quindici.» Riprovai quindi alle otto e quindici. Poi alle otto e diciotto. E alle otto e venti. Nulla, a parte lo stesso messaggio dell'errore. «I federali devono avere staccato la spina» disse Shauna. Scossi il capo, non volevo ancora arrendermi. La gamba riprese a tremarmi. Shauna usò una mano per fermarla e l'altra per rispondere al cellulare. Poi si mise ad abbaiare contro qualcuno. Guardai l'orologio. Riprovai. Nulla. Riprovai ancora. Altro nulla. Si erano fatte ormai le otto e trenta passate. «Potrebbe... essere in ritardo» suggerì Shauna. Inarcai un sopracciglio. «Quando ieri l'hai vista non sapevi dove si trovava, vero?» tentò ancora lei. «Vero.» «Magari si trovava in un altro fuso orario, e per questo ora è in ritardo.» «Un altro fuso orario?» Mi rabbuiai di nuovo e lei non insistette. Aspettammo un'altra ora. Shauna, devo dargliene atto, non si lasciò mai scappare un "Che cosa ti avevo detto?". Dopo un po' mi mise una mano sulla schiena. «Senti, mi è venuta un'idea.» Mi voltai. «Aspetto di là. Forse potrebbe aiutarci.» «In che modo?» «Se fossimo in un film, a questo punto io ne avrei abbastanza delle tue follie e me ne andrei: ed ecco che subito dopo, tombola, appare il messaggio ma siccome io sono appena uscita lo vedi soltanto tu e tutti ti considerano pazzo. È come quando Scooby Do e Shaggy vedono il fantasma ma nessuno gli crede.» Ci pensai su. «Vale la pena di provare» dissi poi.
«Bene. Allora mi vado a mettere in cucina. Tu prenditela comoda. E appena arriva il messaggio fai un urletto.» Si alzò. «Cerchi di mettermi di buonumore, vero?» le chiesi. Shauna ci pensò su. «Sì, probabilmente.» Uscì. Io mi voltai verso lo schermo. E attesi. 18 «Non succede niente» disse Eric Wu. «Beck tenta sempre di entrare nel sito, ma non riesce ad andare oltre l'avviso dell'errore.» Larry Gandle stava per fargli una domanda quando udì il rumore dell'ascensore che saliva. Rebecca Schayes era in perfetto orario. Eric Wu distolse lo sguardo dal computer. Poi guardò Larry Gandle con quegli occhi che ti facevano fare istintivamente un passo indietro. Gandle estrasse la pistola, una calibro nove stavolta. Non si sa mai. Poi andò a sistemarsi accanto alla porta e spense la luce. Rimasero al buio ad aspettare. Venti secondi dopo l'ascensore si fermò al piano. A Rebecca Schayes capitava raramente, ormai, di pensare a Elizabeth e Beck. Dopotutto erano passati otto anni. Ma gli avvenimenti di quella mattina le avevano risvegliato delle sensazioni sopite da tempo. Sensazioni fastidiose. Quella storia dell'"incidente stradale". Dopo tanti anni Beck le aveva finalmente fatto quella domanda. Otto anni prima Rebecca era pronta a raccontargli tutto. Ma Beck non aveva mai richiamato, ogni volta che lei gli lasciava un messaggio dopo averlo cercato inutilmente. Poi, con il passare del tempo, e dopo che era stato eseguito un arresto, lei non aveva visto la necessità di rivangare il passato. Avrebbe soltanto fatto del male a Beck. E dopo la cattura di KillRoy quell'episodio le era apparso irrilevante. Ma quella sensazione fastidiosa, quella che le faceva sospettare che le ferite di Elizabeth nell'"incidente" fossero in un certo senso il preambolo della sua morte, era rimasta, benché sembrasse completamente illogica. Ma c'era un'altra sensazione, più fastidiosa, che la perseguitava, portandola a chiedersi se per caso a suo tempo lei, Rebecca, non avrebbe dovuto seriamente insistere con l'amica per farsi dire la verità su quell'"incidente
stradale": forse insistendo avrebbe potuto salvarla. Forse. Con il passare del tempo, però, queste sensazioni erano scomparse. In fondo Elizabeth era stata un'amica e la morte di un'amica, per quanto l'amicizia sia stretta, si supera. Tre anni prima, inoltre, nella sua vita era entrato Gary Lamont e tutto era cambiato. Sì, Rebecca Schayes, la fotografa bohémien di Washington Square si era innamorata di un ricco promotore finanziario di Wall Street. Si erano sposati, andando a vivere in un grattacielo nella zona alla moda dell'Upper West Side. Strana, a volte, la vita. Rebecca entrò nel montacarichi e abbassò la grata scorrevole. Le luci erano spente, tutt'altro che una novità in quel palazzo. Il montacarichi prese a salire verso il suo piano, con un ronzio monotono che sembrava rimbalzare contro le pareti. La notte, certe volte, si udivano nitrire i cavalli, ma in quel momento se ne stavano tranquilli. L'aria era intrisa dell'odore di fieno e di qualcos'altro meno gradevole. Le piaceva trovarsi lì di notte. Il modo in cui la solitudine si mescolava ai rumori notturni della metropoli la faceva sentire molto "artista". Ripensò a quella conversazione della sera prima con Gary. Lui voleva andarsene da New York, per trasferirsi magari in una casa più spaziosa a Long Island, come quella di Sands Point dove era cresciuto. Ma l'idea di andare a vivere "nei sobborghi" la terrorizzava. E questo non tanto, o non solo, perché amava la metropoli, ma perché le sarebbe sembrato di dire definitivamente addio alle sue radici di bohémien. Si sarebbe trasformata nella figura femminile alla quale aveva giurato di non assomigliare mai: quella della madre e della madre di sua madre. Il montacarichi si fermò, lei sollevò la porta-saracinesca e uscì in corridoio. Tutte le luci erano spente. Si ricacciò indietro i capelli e li raccolse in una grossa coda di cavallo. Poi strizzò gli occhi per guardare l'orologio. Quasi le nove. L'edificio doveva essersi svuotato. Di esseri umani, almeno. Il rumore dei suoi passi schioccava sul freddo cemento. La verità - e Rebecca, con la sua fissazione per la vita bohémien e tutto il resto, faticava ad accettarla - era che più lei ci pensava e più si rendeva conto che sì, voleva avere dei bambini e la città era un posto infame per tirarli su. I bambini hanno bisogno di un giardinetto, un'altalena, aria pulita e... Rebecca Schayes stava per prendere una decisione - una decisione che avrebbe deliziato il suo ricco marito Gary - quando infilò la chiave nella serratura e aprì la porta del suo laboratorio fotografico. Entrò e fece scattare l'interruttore della luce.
Fu in quel momento che vide quell'orientale con quello strano fisico. Per un attimo o due lo sconosciuto si limitò a fissarla. E quello sguardo la immobilizzò. Poi l'orientale si spostò, portandosi quasi alle sue spalle, e le sferrò un pugno alla schiena. Fu come una martellata ai reni. Rebecca crollò in ginocchio. L'uomo le afferrò il collo con due dita. Poi le premette in un certo punto. Lei vide dei puntini luminosi. Quindi lo sconosciuto le infilò sotto la cassa toracica le dita dell'altra mano, aguzze come punteruoli. Quando le dita raggiunsero il fegato, gli occhi di Rebecca rischiarono di uscire dalle orbite. Il dolore era inimmaginabile. Lei cercò di urlare ma dalla bocca le uscì soltanto un suono soffocato. Dall'altra parte della stanza una voce maschile, l'ultima che Rebecca avrebbe udito, sembrò affettare quella nebbiolina. «Dov'è Elizabeth?» chiese la voce. Per la prima volta. Ma non per l'ultima. 19 Seduto davanti a quel maledetto computer mi misi a bere forte, provando ogni possibile sistema per entrare in quel sito. Tentai con Explorer e poi con Netscape. Vuotai il cestino, ricaricai le pagine, uscii dalla connessione e poi vi rientrai. Ma era tutto inutile. Ogni volta compariva quell'avviso di errore. Alle dieci riapparve Shauna. Aveva le guance arrossate dall'alcol. Come le mie, immaginai. «Niente da fare?» «Vai a casa» le dissi. «Sì, forse è meglio.» La limousine arrivò in cinque minuti. Shauna barcollò sul marciapiede, con in corpo quella miscela di bourbon e Rolling Rock. E anch'io non mi reggevo troppo bene sulle gambe. Aprì lo sportello, poi si voltò. «Hai mai avuto la tentazione di tradirla? Quando eravate sposati, voglio dire.» «No.» Lei scosse il capo, delusa. «Vuol dire che non sai proprio incasinarti la vita.» Le detti il bacio della buonanotte e rientrai in casa. Continuai a fissare lo schermo come si fissa qualcosa di sacro. Nulla.
Pochi minuti dopo mi si avvicinò Chloe uggiolando. Mi strofinò il muso umido sulla mano. I nostri occhi si incontrarono attraverso la foresta dei suoi peli, e sono sicuro che Chloe capì il mio stato d'animo. Non sono uno di quelli che attribuiscono ai cani caratteristiche umane, anche perché mi sembrerebbe di far loro un torto, ma ritengo che abbiano una rudimentale comprensione dei sentimenti della loro controparte antropologica. Si dice che i cani fiutano la paura. È forse esagerato pensare che sappiano fiutare anche gioia, rabbia o tristezza? Le sorrisi dandole qualche pacca sul capo. Lei mi posò la zampa sul braccio, quasi a confortarmi. «Vuoi andare a fare due passi, ragazza mia?» le chiesi. Per tutta risposta lei si mise a correre tutt'attorno alla stanza come un animale da circo imbottito di eccitanti. Come vi ho già detto, sono queste piccole cose che contano per un uomo. L'aria della notte mi pizzicò i polmoni. Cercai di concentrarmi su Chloe, sulla sua andatura allegra e scodinzolante... ma ero terribilmente abbattuto. Abbattuto. Non è un termine che adopero spesso. Ma in quella circostanza mi sembrava azzeccato. Shauna non mi aveva completamente convinto con la sua spiegazione tecnica del mistero delle immagini digitali. Certo, qualcuno avrebbe potuto manipolare una foto trasformandola in un video. Certo, qualcuno avrebbe potuto sapere dell'"ora del bacio". Certo, qualcuno avrebbe potuto farle muovere le labbra per sussurrare: "Mi dispiace". Certo, la mia fame di Elizabeth probabilmente aveva contribuito a rendere reale quell'illusione, a farmi abboccare a quell'amo. E certo, e soprattutto, la teoria di Shauna era di gran lunga più logica di quella di un ritorno dalla tomba. Ma c'erano un paio di cose che cancellavano la maggior parte di queste certezze. Primo, io non sono portato a lavorare di fantasia. Anzi, sono più noioso e con i piedi per terra della media. Secondo, la fame poteva anche avere offuscato la ragione e la fotografia digitale poteva fare miracoli. Ma non quegli occhi... I "suoi" occhi. Gli occhi di Elizabeth. Era impossibile che quelli fossero gli occhi di una foto trasformata in un video digitale. La mia mente razionale ne era certa? No, naturalmente no. Non sono un idiota. Ma tra ciò che avevo visto e le domande che avevo sollevato, mi era quasi passata di mente la dimostrazione video di Shauna. Ed ero tornato a casa ancora convinto che di lì a poco avrei ricevuto un messaggio di Elizabeth.
Ora non sapevo più che cosa pensare. E l'alcol non era probabilmente estraneo a questa mia condizione. Chloe si fermò per una fiutata più lunga delle altre. Mi misi ad aspettare sotto un lampione, osservando la mia ombra allungata. "L'ora del bacio." Chloe abbaiò vedendo qualcosa muoversi dentro un cespuglio. Uno scoiattolo attraversò la strada di gran carriera. Ringhiò e finse di gettarsi all'inseguimento. Lo scoiattolo si fermò, poi si voltò verso di noi. Lei gli abbaiò quasi a dirgli ragazzo-mio-ringrazia-Dio-che-sono-al-guinzaglio. Ma bluffava. Chloe è una vigliacca di razza purissima. "L'ora del bacio." Piegai la testa di lato come fa Chloe quando sente un suono sconosciuto. Ripensai a quello che avevo visto il giorno prima sul mio computer, e immaginai quanto la mente di quello scherzo doveva avere faticato per mantenere la segretezza. La e-mail anonima che mi diceva di cliccare sull'iperlink all'"ora del bacio", per esempio. Quella seconda e-mail con la quale veniva aperto un nuovo account a mio nome. "Ci tengono d'occhio..." Qualcuno si stava dando da fare per tenere coperte queste comunicazioni. "L'ora del bacio..." Se qualcuno - okay, diciamo Elizabeth - aveva solo voluto mandarmi un messaggio, perché non aveva telefonato o non me lo aveva mandato via email? Perché rendermi la cosa tanto faticosa e complicata? La risposta era ovvia: segretezza. Qualcuno, inutile ripetere Elizabeth, aveva interesse alla massima segretezza. E se si ha un segreto, la naturale conclusione è che esiste qualcuno al quale non si vuole far conoscere quel segreto. Logico, no? E forse questo qualcuno ti sta osservando o ti sta cercando. Voglio dire, altrimenti significa che sei paranoico. Di solito io mi colloco dalla parte dei paranoici, ma... "Ci tengono d'occhio..." Che cosa voleva dire esattamente? Chi ci teneva d'occhio? E, soprattutto, se dietro quelle e-mail c'erano i federali, perché mi avrebbero messo in guardia in quel modo? Volevano forse che mi attivassi... "L'ora del bacio..." Mi bloccai. Chloe voltò la testa di scatto verso di me. Oh Dio, come avevo potuto essere così stupido?
Non c'era stato bisogno dello scotch da pacchi. Rebecca Schayes era stesa sul tavolo e mugolava come un cane che agonizza al margine della strada. A volte riusciva a biascicare qualche parola, due o tre insieme, ma senza riuscire mai a esprimere qualcosa di coerente. Era troppo folle di dolore per poter gridare ancora. Aveva smesso di implorare. Gli occhi erano ancora sbarrati e vuoti: non vedevano più nulla. Il cervello l'aveva abbandonata quindici minuti prima, a metà di un urlo. Wu era riuscito sorprendentemente a non lasciare segni. Nessun segno, ma lei sembrava invecchiata di vent'anni. Rebecca Schayes non sapeva nulla. Il dottor Beck era andato a trovarla a proposito di un vecchio incidente stradale, che non era stato poi un incidente. C'erano in ballo anche delle foto. Beck aveva pensato che le avesse scattate lei, ma non era così. Larry Gandle cominciava ad avvertire con maggiore intensità quella sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco, la stessa che aveva provato quando era venuto a sapere dei due cadaveri trovati vicino al lago. Qualcosa era andato storto quella notte. Poco ma sicuro. Ora, però, Larry Gandle temeva che tutto potesse essere andato storto. Era ora di tirare fuori la verità. L'uomo che aveva messo a sorvegliare Beck gli aveva riferito che il dottore stava facendo passeggiare il cane. Da solo. Un alibi inconsistente, considerando le prove contro di lui che Wu avrebbe lasciato. I federali lo avrebbero fatto a pezzi a suon di risate, quell'alibi. Larry Gandle si avvicinò al tavolo. Rebecca Schayes alzò gli occhi ed emise un suono innaturale, qualcosa a metà tra un gemito stridulo e una risata ferita. Le premette la pistola contro la tempia. Lei emise nuovamente quel suono. Larry premette due volte il grilletto e il mondo sprofondò nel silenzio. Mi incamminai verso casa quando mi tornò in mente quell'avvertimento. "Ci tengono d'occhio..." Perché correre rischi? A tre isolati di distanza c'era un service informatico. Rimane aperto ventiquattro ore su ventiquattro. Arrivato alla porta capii perché. Era mezzanotte e il posto pullulava di gente. Decine di clienti, persone esauste con i loro documenti, le diapositive, le cartellette. Mi misi in fila, una fila tortuosa indicata da cordoni di velluto, e attesi il mio turno. Mi fece pensare alle banche prima che inventassero il bancomat. La donna davanti a me indossava un serio tailleur da ufficio - a mez-
zanotte - e aveva sotto gli occhi delle borse abbastanza grandi da poterla scambiare per un fattorino d'albergo. Alle mie spalle un tipo con i capelli ricci e una felpa sportiva scura tirò fuori un cellulare e cominciò a premerne i tasti. «Signore?» Qualcuno con indosso un camice mi indicò Chloe. «Non può entrare con il cane.» Stavo per dirgli che si sbagliava, visto che mi trovavo lì con il cane, poi ci ripensai. La donna in tailleur non reagì. Quello con i capelli ricci e la felpa scura mi lanciò un'occhiata per capire che cosa intendevo fare. Uscii in fretta, legai Chloe a un parchimetro e rientrai. Quello con i capelli ricci si spostò per farmi riprendere il mio posto. Gentile. Dieci minuti dopo ero il primo della fila. Il commesso, un ragazzo troppo estroverso, mi accompagnò a un computer spiegandomi con eccessiva lentezza il costo al minuto. Stetti a sentire annuendo benevolmente, poi mi collegai alla rete. "L'ora del bacio." Quella, finalmente lo avevo capito, era la chiave. Sulla prima e-mail si leggeva "L'ora del bacio", non le 18.15. Perché? Risposta ovvia. Si trattava di una parola in codice, nel caso in cui le persone sbagliate avessero messo le mani su quella e-mail. Chi l'aveva mandata non ignorava che esisteva il rischio di essere intercettati. Chi l'aveva mandata sapeva che solo io avrei afferrato il significato dell'ora del bacio. Era questo che avevo improvvisamente capito poco prima, quando mi ero dato dello stupido. Anzitutto, il nome dell'account, "Bat Street". Da adolescenti io ed Elizabeth a volte ce ne andavamo in bicicletta al campo di baseball per ragazzi, pedalando giù per Morewood Street. In quella strada, in una catapecchia di un giallo sbiadito, viveva da sola una vecchia odiosa che lanciava occhiatacce ai ragazzini che passavano davanti a casa sua. Di queste vecchie ne esiste una in ogni città, e di solito si dà loro un soprannome. Nel nostro caso l'avevamo chiamata: Bat Lady. Mi collegai nuovamente a Bigfoot. Poi, nella casella dell'utente, digitai la parola "Morewood". Accanto a me il commesso giovane ed estroverso stava ripetendo il suo sermoncino al tipo con i capelli ricci e la felpa scura. Premetti il tasto di tabulazione e mi spostai nella casella successiva, quella della password. La scelta della parola "Teenage" era stata più facile da interpretare. Da
liceali, un venerdì sera eravamo andati a casa di Jordan Goldman. Saremo stati una decina. Jordan aveva scoperto dove suo padre nascondeva un video porno. Nessuno di noi ne aveva mai visto uno. E ce lo guardammo, ridacchiando a disagio, lanciando le solite battute idiote e sentendoci deliziosamente trasgressivi. Fu così che, quando qualche giorno dopo si trattò di dare un nome alla nostra squadra di softball intramurale, Jordan propose il titolo di quel filmetto idiota: Teenage Sex Poodles. Digitai "Sex Poodles" nella casella della password. Inghiottii a vuoto, poi cliccai sull'icona. Lanciai un'occhiata al tipo con i capelli ricci. Era tutto preso da una ricerca su Yahoo! Poi spostai lo sguardo sulla donna in tailleur, che fissava rabbuiata un altro commesso troppo allegro per essere mezzanotte. Mi aspettavo l'avviso di errore, che stavolta però non spuntò. Sullo schermo apparvero due scritte. Su quella in alto si leggeva: Salve, Morewood! E su quella in basso: C'è una e-mail nella tua casella. Il mio cuore batteva come un uccello contro la gabbia toracica. Cliccai sull'icona della posta in arrivo, e la gamba mi riprese a tremare. Ma questa volta non c'era Shauna per fermarla. Al di là della vetrina vedevo Chloe legata al parchimetro. Lei si accorse che la stavo guardando e si mise ad abbaiare. Mi portai l'indice alle labbra facendole segno di tacere. Apparve il messaggio: Washington Square Park. Vediamoci all'angolo sudest. Domani pomeriggio alle cinque. Ti seguiranno. E in fondo: Accada quel che accada, ti amo. La speranza, quell'uccello in gabbia che non muore mai, spiccò il volo. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma per la prima volta dopo tanti an-
ni mi apparve sul volto un vero sorriso. Elizabeth. Restava sempre la persona più in gamba che avessi mai conosciuto. 20 Alle due di notte mi infilai a letto voltandomi sulla schiena. Il soffitto cominciò a girare come fa ogni volta che bevo troppo. Mi aggrappai ai bordi per non cadere. Shauna mi aveva chiesto se avevo mai avuto la tentazione di tradire Elizabeth dopo il matrimonio. E aveva specificato "dopo il matrimonio" perché sapeva di quell'altro fatto. Tecnicamente avevo tradito Elizabeth una volta, anche se non si poteva parlare di tradimento vero e proprio. Tradire implica fare del male a qualcuno. Io non avevo fatto alcun male a Elizabeth, ne ero certo, ma al primo anno d'università avevo partecipato a un rito del college abbastanza penoso conosciuto come "l'avventura di una notte". Semplice curiosità, immagino. Qualcosa di squisitamente sperimentale e strettamente fisico. Non mi piacque granché. Vi risparmio comunque il vieto luogo comune secondo il quale il sesso senza amore è insignificante. Anche perché non è vero che sia insignificante. Ma sebbene pensi che sia abbastanza facile fare sesso con qualcuno che non si conosce bene e non ci piace particolarmente, è dura passarci una notte insieme. L'attrazione si rivelò infatti unicamente ormonale. E dopo essermi, come dire, scaricato, volevo andarmene. Il sesso è per tutti, il dopo sesso è riservato agli innamorati. Una razionalizzazione mica male, vi sembra? Ammesso che abbia una qualche importanza, sospetto che anche Elizabeth possa aver fatto qualcosa del genere. Avevamo deciso di comune accordo che al college avremmo "visto" altre persone, scegliendo il verbo vedere proprio perché così vago e onnicomprensivo. Un'eventuale scappatella poteva in tal modo essere considerata come uno dei tanti test di coinvolgimento personale. Elizabeth, ogni volta che ne avevamo parlato, aveva negato che ci fosse mai stato qualcun altro. Ma anch'io avevo negato, quindi vai a sapere. "E ora che cosa faccio?" mi chiesi, mentre il letto continuava a girare. Intanto, avrei aspettato le cinque del pomeriggio. Ma non potevo starmene ad attendere senza far niente, grazie tante, ero stato già fin troppo inerte. La verità, una verità che stentavo ad ammettere perfino a me stesso,
era che quella sera al lago avevo esitato troppo. Perché avevo paura. Ero uscito dall'acqua ed ero rimasto fermo. E così lo sconosciuto, che se ne stava nascosto in attesa che uscissi, aveva potuto darmi quella legnata sulla testa. Dopo la quale non avevo reagito. Non mi ero gettato sull'aggressore. Non l'avevo afferrato, non gli avevo tirato un pugno. Ero andato giù e basta. Mi ero schermito, mi ero arreso, e avevo lasciato che quell'uomo più forte di me si portasse via mia moglie. Non doveva succedere un'altra volta. Presi in considerazione l'idea di tornare a parlare con mio suocero, mi ero accorto che l'ultima volta Hoyt si era dimostrato ben poco affabile, ma che cosa avrei risolto? O il padre di Elizabeth mentiva oppure... oppure non so che cosa pensare. Ma il messaggio era stato fin troppo chiaro. "Non dirlo a nessuno." Probabilmente l'unico modo per farlo parlare sarebbe stato quello di raccontargli della webcam. E non ero ancora pronto per una cosa del genere. Scesi dal letto e andai al computer. Ricominciai a navigare in rete. Quando si fece giorno avevo abbozzato una specie di piano. Gary Lamont, il marito di Rebecca Schayes, sulle prime non si spaventò. Sua moglie lavorava spesso fino a tardi, molto tardi, decidendo a volte di buttarsi a dormire sulla brandina del laboratorio. Così, quando attorno alle quattro del mattino scoprì che Rebecca non era ancora tornata, si impensierì senza però spaventarsi. Questo, almeno, fu ciò che disse a se stesso. Chiamò il laboratorio ma gli rispose la segreteria telefonica. Anche quella non era una novità. Rebecca odiava essere interrotta sul lavoro. Non aveva nemmeno un secondo telefono nella camera oscura. Il marito lasciò allora un messaggio e si rimise a letto. Ma dormì per modo di dire. Pensò di fare qualcosa, ma temette così facendo di mandare in bestia Rebecca. Era un libero spirito, sua moglie, e l'unico motivo di tensione nel loro rapporto, per ogni altro verso gratificante, era legato al tipo di vita di lui piuttosto "tradizionale", che rischiava di "tarpare" le ali creative di lei. Le parole tra virgolette erano di Rebecca. Perciò Gary le lasciava le briglie sul collo. Per non tarparle le ali o simili. Alle sette di mattina la preoccupazione aveva fatto luogo a qualcosa di molto simile alla pura e semplice paura. La telefonata svegliò Arturo Ramirez, lo smilzo assistente di Rebecca sempre vestito di nero.
«Sono appena rientrato» si lamentò Arturo con voce imbambolata. Gary gli spiegò la situazione. Arturo si era addormentato ancora vestito e non perse tempo a cambiarsi. Si precipitò fuori di casa. Gary, che gli aveva dato appuntamento davanti al laboratorio, prese un treno della linea A della metro. Per primo arrivò Arturo, e trovò la porta del laboratorio socchiusa. La spinse. «Rebecca?» Nessuna risposta. Arturo la chiamò di nuovo. E di nuovo non ebbe risposta. Entrò e si mise a cercarla. Ma lei non c'era. Aprì la porta della camera oscura. Vi dominava il solito odore asprigno degli acidi per lo sviluppo, ma stavolta c'era qualcos'altro, qualcosa di indistinto che gli fece rizzare i capelli. Qualcosa di decisamente umano. Gary udì l'urlo mentre girava l'angolo. 21 La mattina seguente mandai giù in fretta una ciambella e salii in auto, raggiungendo la Route 80. La percorsi per tre quarti d'ora in direzione ovest. La Route 80 nel New Jersey è un anonimo nastro d'asfalto. Superato Saddle Brook, o poco dopo, gli edifici in pratica spariscono e la strada è fiancheggiata da una monotonia di alberi. A spezzare l'uniformità del paesaggio ci sono soltanto i cartelli delle autostrade interstatali. La lasciai all'uscita 163, dove un cartello annunciava il paese di Gardensville, e rallentai mettendomi a osservare l'erba alta. Il cuore prese a battermi all'impazzata. Non c'ero mai stato da queste parti, avevo volutamente evitato questo tratto d'autostrada negli ultimi otto anni: ma era stato proprio qui, a un centinaio di metri dal punto dove mi trovavo, che avevano scoperto il cadavere di Elizabeth. Ricontrollai sulla stampata che mi ero portato dietro le indicazioni prese la notte prima dal computer. L'ufficio del coroner della contea di Sussex si trovava sul sito Mapquest.com, quindi sapevo con assoluta precisione come arrivarci. L'edificio era una specie di magazzino senza finestre o insegne, un parallelepipedo di mattoni privo di qualsiasi elemento ornamentale: ma in quale obitorio si vedono elementi ornamentali? Arrivai pochi minuti prima delle otto e trenta e parcheggiai a marcia indietro. L'ufficio era ancora chiuso. Meglio così.
Una Cadillac Seville color canarino andò a fermarsi all'interno di un rettangolo sul quale avevo letto "Timothy Harper, medico legale della contea". L'uomo al volante spense la sigaretta prima di scendere; non finisco mai di stupirmi di quanto sono numerosi i medici legali che fumano. Harper era alto come me, poco meno di un metro e ottanta, aveva un colorito olivastro e ciuffi di capelli grigi. Mi vide in piedi accanto alla porta e si fece serio. La gente non va di prima mattina all'obitorio per ricevere buone notizie. Mi si avvicinò con calma. «Posso esserle utile?» «Il dottor Harper?» «Sono io.» «Sono il dottor David Beck.» Dottore. Eravamo colleghi, quindi. «Posso rubare un po' del suo tempo?» Non mostrò alcuna reazione all'udire il mio nome. «Perché non andiamo nel mio ufficio?» «La ringrazio.» Lo seguii lungo un corridoio. Harper premette gli interruttori della luce e i tubi al neon sul soffitto si accesero uno a uno, quasi a malincuore. La superficie in linoleum del pavimento era piena di graffi. Più che a un obitorio quel posto faceva pensare a un ufficio del pubblico registro automobilistico, forse volutamente. Il suono dei nostri passi riecheggiava fondendosi con il ronzio dell'illuminazione, quasi volesse battere il tempo. Harper prese la posta appena arrivata e la passò sommariamente in rassegna continuando a camminare. Anche il suo ufficio privato era sobrio ed essenziale. La scrivania metallica era tipo quelle delle aule delle elementari. Le sedie di legno, rigorosamente funzionali, avevano ricevuto un po' troppe mani di vernice. Una parete era coperta di diplomi. Notai che Harper aveva frequentato la facoltà di Medicina alla Columbia, come me ma una ventina d'anni prima. Nessuna foto di famiglia, nessun trofeo di golf, nessuna targa ricordo, nulla di personale. Anche perché chi entrava in quest'ufficio non lo faceva per scambiare due chiacchiere. E non era quindi il caso di mettergli davanti agli occhi le foto dei nipotini sorridenti. Harper unì le mani poggiandole sulla scrivania. «Che cosa posso fare per lei, dottor Beck?» «Otto anni fa» cominciai «è stata portata qui mia moglie. Fu una vittima del serial killer chiamato KillRoy.» Leggere le espressioni facciali non è la mia specialità. Il contatto visivo
non è mai stato il mio forte. Il linguaggio del corpo lo è ancora meno. Ma, guardando Harper, mi chiesi che cosa avesse potuto far impallidire a tal punto un coroner navigato, uno cioè abituato ad avere a che fare con la morte. «Ricordo» disse piano. «Eseguì lei l'autopsia?» «Sì. Cioè, in parte.» «In parte?» «Sì. C'erano in ballo anche le autorità federali. Lavorammo insieme a quel caso, ma l'autopsia la diressi io dal momento che l'FBI non ha suoi coroner.» «Facciamo un passo indietro. Mi dica come si presentava il cadavere quando gliel'hanno portato.» Harper cambiò posizione sulla poltrona. «Posso chiederle perché vuole saperlo?» «Perché sono un vedovo addolorato.» «Ma sono passati otto anni.» «Ciascuno soffre a modo suo, dottore.» «Certo, lo so, ma...» «Ma che cosa?» «Vorrei sapere che cosa cerca qui da me.» Decisi di affrontare di petto la faccenda. «Lei scatta foto di tutti i cadaveri che le portano, giusto?» Esitò. Me ne accorsi subito. Lui si accorse che me n'ero accorto e si schiarì la gola. «Sì. Ora ricorriamo alla fotografia digitale. Una macchina fotografica digitale, in altre parole. Che ci permette di archiviare in un computer le foto e altre immagini. Utilissimo sia sotto il profilo diagnostico che della catalogazione.» Annuii disinteressato. Stava cercando di cambiare discorso. «Ha scattato foto dell'autopsia di mia moglie?» gli chiesi, interrompendo il suo silenzio. «Sì, naturalmente. Ma... quanti anni fa ha detto che è successo?» «Otto.» «Allora dovrebbero essere delle Polaroid.» «E dove si trovano adesso queste Polaroid, dottore?» «In archivio.» Spostai lo sguardo sull'armadio metallico che occupava un angolo della stanza, simile a una sentinella. «Non lì» aggiunse lui in fretta. «Il caso di sua moglie è chiuso. L'assas-
sino è stato arrestato e condannato. E oltretutto il fatto è successo più di cinque anni fa.» «E quindi le foto dove sono andate a finire?» «In deposito. A Layton.» «Vorrei vederle, se è possibile.» Scribacchiò qualcosa su un foglietto. «Me ne incarico io.» «Dottore?» Sollevò lo sguardo. «Ha detto che ricorda il caso di mia moglie.» «Be', a grandi linee. Non succedono molti delitti da queste parti, specialmente delitti così clamorosi.» «Ricorda in che condizioni era il corpo?» «No. Voglio dire, non nei particolari.» «Ricorda chi ha identificato mia moglie?» «Non è stato lei?» «No.» Si grattò una tempia. «Il padre allora, vero?» «Ricorda quanto ha impiegato il padre per identificarla?» «In che senso?» «È stato un riconoscimento immediato? Oppure ha impiegato qualche minuto? Cinque, dieci minuti?» «Non glielo saprei dire.» «Non ricorda nemmeno se l'ha riconosciuta subito oppure no?» «No, non lo ricordo, mi spiace.» «Ma ha appena detto che era stato un caso clamoroso.» «Sì.» «Il più clamoroso, magari?» «Be', qualche anno fa c'è stato quel giallo della pizza a domicilio. Quello di sua moglie è stato comunque uno dei più clamorosi, certo.» «E ciò nonostante lei non ricorda se il padre di mia moglie ha stentato a identificare il cadavere.» La cosa non gli piacque. «Con tutto il rispetto, dottor Beck, non capisco dove vuole andare a parare.» «Sono un vedovo che soffre ancora e le sto facendo delle semplici domande.» «Il suo modo di farle mi sembra ostile.» «Dovrebbe esserlo?» «E questo che diavolo vorrebbe dire?»
«Come faceva a sapere che Elizabeth era una delle vittime di KillRoy?» «Non lo sapevo.» «E perché allora i federali erano presenti all'autopsia?» «Per identificare certi marchi...» «Mi sta dicendo che il cadavere era marchiato con la lettera K?» «Sì.» Ormai ero lanciato e la cosa mi dava una strana soddisfazione. «Quindi la polizia ha portato qui il cadavere. Lei ha cominciato a esaminarlo. E ha notato la lettera K...» «No, erano già qui. Le autorità federali, voglio dire.» «Prima dell'arrivo del cadavere?» Sollevò lo sguardo, non capii se per ricordare meglio o per inventarsi qualcosa. «Oppure subito dopo, non ricordo.» «Come erano riusciti a sapere così presto del ritrovamento del cadavere?» «Non lo so.» «Non si è fatto nemmeno un'idea?» Harper incrociò le braccia sul petto. «Potrei pensare che uno degli agenti sul posto avesse notato il marchio e si fosse affrettato a chiamare l'FBI. Ma è soltanto un'ipotesi, naturalmente.» Il cercapersone che portavo appeso al fianco prese a vibrare. Guardai il display. Era l'ambulatorio, per un'emergenza. «Mi dispiace per la perdita di sua moglie» disse Harper in tono di circostanza. «E capisco la sua sofferenza, ma oggi ho una giornata piena. Magari potrebbe prendere un appuntamento tra qualche giorno...» «Quanto ci vorrà per avere l'autopsia di mia moglie?» gli chiesi. «Non sono sicuro di potergliela dare. Devo controllare...» «C'è la legge sulla libertà d'informazione.» «Come dice?» «Me la sono letta questa mattina. Il caso di mia moglie è chiuso, e quindi ho diritto a prendere visione del dossier.» Harper doveva saperlo, non ero sicuramente il primo a chiedergli il dossier di un'autopsia, e prese ad annuire con eccessiva foga. «Lo so, ma c'è un iter da seguire, dei moduli da riempire...» «Sta cercando di prendere tempo?» «Prego?» «Mia moglie è stata vittima di un orribile delitto.» «Lo capisco.»
«E io ho il diritto di vedere il suo dossier. Quindi, se lei continua a frapporre ostacoli, non posso non chiedermene il motivo. Non ho mai parlato con la stampa di mia moglie e del suo assassino. Ora lo farò volentieri. E tutti ci chiederemo perché il coroner di questa contea mi ha creato tanti problemi di fronte a una richiesta così semplice.» «Ha tutta l'aria di una minaccia, dottor Beck.» Mi alzai. «Tornerò domani mattina e la prego di farmi trovare il dossier di mia moglie.» Ero entrato in azione. E mi piaceva da matti. 22 Ad arrivare per primi sul posto, prima ancora degli agenti di pattuglia, furono i detective Roland Dimonte e Kevin Krinsky della squadra omicidi, dipartimento di polizia di New York. Il comando delle operazioni lo assunse Dimonte, un tipo dai capelli lisci e unti con stivaletti di pelle di serpente e uno stuzzicadenti smozzicato all'angolo della bocca. Si mise ad abbaiare ordini. La scena del delitto fu immediatamente recintata con il nastro di plastica. Pochi minuti dopo arrivarono i tecnici della scientifica e si misero al lavoro. «Isolate i testimoni» ordinò Dimonte. Erano soltanto due, i testimoni: il marito della vittima e quella specie di spaventapasseri in nero. Il marito sembrava a pezzi, notò Dimonte, ma poteva benissimo trattarsi di una messinscena. Tempo al tempo, comunque. Dimonte, senza smettere di mordicchiare lo stecchino, prese da una parte lo spaventapasseri che si chiamava Arturo, nome appropriato per uno come lui. Il ragazzo era pallido. In altre circostanze Dimonte avrebbe pensato alla droga, ma lo spaventapasseri si era vomitato anche l'anima dopo avere scoperto il cadavere. «Stai bene?» gli chiese Dimonte. Come se gliene fregasse qualcosa. Arturo fece segno di sì con il capo. Allora gli chiese se negli ultimi tempi alla vittima fosse successo qualcosa d'insolito. Sì, rispose Arturo. Di che si è trattato? Rebecca ieri aveva ricevuto una telefonata che l'aveva visibilmente scossa. Chi l'aveva chiamata? Arturo non ne era certo ma un'ora dopo - o forse meno, Arturo non era in grado di dirlo con precisione - era passato a trovarla un uomo. E quando quest'uomo se n'era andato Rebecca era a pezzi. Ricordi il nome di quell'uomo?
«Beck» rispose Arturo. «Lei lo chiamava Beck.» Shauna infilò le lenzuola di Mark nella lavatrice. Linda la seguì. «Ha bagnato di nuovo il letto» disse Linda. «Oh Dio, come sei perspicace!» «Non essere odiosa.» Linda si allontanò. Shauna aprì la bocca per chiederle scusa ma non le uscì alcun suono. Quando se n'era andata di casa quella volta, l'unica volta, Mark aveva reagito male. Aveva cominciato a farsela a letto. E quando lei e Linda si erano rimesse insieme la pipì a letto era scomparsa. Fino a quel giorno. «Lo sa quello che sta succedendo» osservò Linda. «Avverte la tensione.» «Che cosa vuoi che faccia allora, Linda?» «Quello che dobbiamo fare.» «Non me ne vado di casa un'altra volta, te l'ho promesso.» «Non basta, chiaramente.» Shauna mise nella lavatrice un po' di ammorbidente. Aveva il viso stravolto. E non ne aveva certo bisogno. Era una modella superpagata, lei. Non poteva arrivare al lavoro con le borse sotto gli occhi o con i capelli non abbastanza lucidi. Poteva, doveva evitare quelle stronzate. Cominciava a essere stanca di quel ménage. Stanca di un'atmosfera domestica in cui non si trovava più a suo agio. Stanca delle pressioni di tutti quei maledetti amici che davano consigli. Non i bigotti, ignorarli era facile. A essere più che asfissiante era la pressione che riescono a esercitare su una coppia lesbica, per giunta con un bambino, gli amici animati dalle cosiddette migliori intenzioni. Se la relazione andava a rotoli era una sconfitta per l'intero movimento lesbico, o un'altra stronzata del genere, come se le coppie eterosessuali non si separassero mai. Shauna non era una suffragetta. Lo sapeva. E non avrebbe sacrificato la sua felicità sull'altare di un "bene superiore", anche se ciò poteva sembrare egoistico. Si chiese se Linda la pensasse allo stesso modo. «Ti amo» disse Linda. «Ti amo anch'io.» Si guardarono. Mark si era rimesso a bagnare le lenzuola. Shauna non si sarebbe sacrificata per un bene superiore. Ma si sarebbe sacrificata per Mark. «Che facciamo, allora?» chiese Linda. «La risolviamo, questa faccenda?»
«Credi che ce la faremo?» «Mi ami?» «Lo sai che ti amo» rispose Linda. «Credi ancora che io sia la creatura più meravigliosa ed eccitante che Dio abbia mandato su questa verde terra?» «Certo.» «Anch'io.» Shauna le sorrise. «Sono una rompipalle narcisista.» «Certo.» «Ma sono la tua rompipalle narcisista.» «Puoi giurarci.» Shauna le andò vicino. «Non sono fatta per una vita di relazioni lisce come l'olio. Sono volatile.» «Sei terribilmente sexy quando sei volatile» disse Linda. «E anche quando non sono volatile.» «Stai zitta e baciami.» In quel momento si udì il ronzio del citofono. Linda guardò Shauna, che si strinse nelle spalle. Allora premette il pulsante. «Sì?» «Lei è Linda Beck?» «Chi è?» «Sono l'agente speciale Kimberly Green, FBI. Con me c'è anche l'agente speciale Rick Peck. Vorremmo salire a farle qualche domanda.» Linda stava per rispondere ma Shauna la precedette. «Il nostro avvocato si chiama Hester Crimstein» gridò al citofono. «Sono sicura che avete il suo numero. Vi auguro una splendida giornata.» Shauna sollevò il dito dal pulsante. Linda la guardò. «Che diavolo significa questa storia?» «Tuo fratello è nei guai.» «Che cosa?» «Siediti. Dobbiamo parlare.» Qualcuno bussò energicamente alla porta dell'abitazione del dottor David Beck. Andò ad aprire Raisa Markov, l'infermiera che assisteva il nonno di Beck. E si vide mettere in mano un documento dagli agenti speciali Carlson e Stone, che ora lavoravano in collaborazione con i detective Dimonte e Krinsky della polizia di New York. «È un mandato federale» annunciò Carlson. Raisa si fece da parte senza la minima reazione. Era cresciuta in Unione Sovietica. L'arroganza poliziesca non la stupiva.
Otto uomini di Carlson entrarono in soggiorno e si sparpagliarono per la casa. «Voglio che venga tutto videoregistrato» ordinò Carlson. «Senza errori.» Si muovevano in fretta temendo da un momento all'altro l'arrivo di Hester Crimstein. Carlson sapeva bene che la Crimstein, come tanti brillanti avvocati difensori in quest'era post O.J. Simpson, si attaccavano come ventose a qualsiasi appiglio per accusare la polizia di incompetenza o imperizia. E Carlson, che si considerava un tutore dell'ordine piuttosto brillante, non glielo avrebbe concesso un appiglio del genere. Ogni passo/movimento/respiro sarebbe stato documentato e comprovato. Quando Carlson e Stone erano arrivati di corsa nel laboratorio di Rebecca, Dimonte non aveva gradito la visita. E c'erano state le solite scene che vedono in competizione sbirri e federali, tutti con i muscoli gonfi e la faccia cattiva. Poche cose riescono a coalizzare sbirri e federali. Hester Crimstein era una di queste cose. Sia gli uni che gli altri non ignoravano che la Crimstein sapeva manipolare come pochi gli elementi a sua disposizione, oltre a essere una maniaca dei riflettori. Tutto il mondo sarebbe stato a guardare. Nessuno poteva sgarrare. Era questa la sua forza. E così polizia e FBI avevano stretto un'alleanza, affidabile come può esserlo una stretta di mano israelo-palestinese, perché alla fin fine si rendevano conto che conveniva loro accordarsi e raccogliere in fretta le prove prima che arrivasse la Crimstein a intorbidare le acque. Il mandato di perquisizione se l'erano fatto rilasciare i federali. Era bastato loro attraversare Federal Plaza ed entrare negli uffici del tribunale federale, distretto sud. Se l'avesse richiesto Dimonte a nome del dipartimento di polizia, si sarebbe dovuto rivolgere al tribunale della contea nel New Jersey: perdendo quindi troppo tempo, con Hester Crimstein che gli stava col fiato sul collo. «Agente Carlson!» La voce proveniva dall'angolo della strada. Carlson si precipitò fuori, e Stone gli si mise faticosamente alle calcagna. Dimonte e Krinsky li seguirono. Sul marciapiede un giovane agente federale se ne stava accanto a un cestino dei rifiuti. «Che c'è?» gli chiese Carlson. «Potrebbe essere una sciocchezza, signore, ma...» Il giovane agente federale indicò con il dito un paio di guanti di gomma dentro il cestino. «Repertali» ordinò Carlson. «Voglio immediatamente che vengano ana-
lizzati per eventuali tracce di polvere da sparo». Carlson spostò lo sguardo su Dimonte: era venuto il tempo della collaborazione che, stavolta, sarebbe passata attraverso la concorrenza. «Quanto potrebbe impiegarci il vostro laboratorio?» «Un giorno» rispose Dimonte. Si era infilato tra i denti un nuovo stuzzicadenti e lo stava lavorando con metodo. «Due, forse.» «Niente da fare. Dovremo spedire quei guanti al nostro laboratorio di Quantico.» «Te lo puoi scordare.» «Eravamo d'accordo che avremmo scelto la strada più veloce.» «La strada più veloce è la nostra» disse Dimonte. Spostò lo stuzzicadenti dall'altra parte della bocca. «Ci penso io.» Carlson annuì: era quello che si aspettava. Se vuoi che i poliziotti del posto diano priorità a un'indagine devi minacciare di portargliela via. Concorrenza. Non era male, la concorrenza. Mezz'ora dopo sentirono un altro urlo, che stavolta proveniva dal garage. E ancora una volta si precipitarono in quella direzione. Stone fischiò piano. Dimonte rimase a guardare. Carlson si inginocchiò per vedere meglio. Sotto un pacco di vecchi giornali, in un cestino per la carta da riciclare, c'era una pistola calibro nove. E bastò loro darle un'annusata superficiale per capire che aveva sparato da poco. Stone si voltò verso Carlson, facendo in modo che l'obiettivo non inquadrasse il suo sorriso. «L'abbiamo in pugno» disse sottovoce. Carlson tacque. Rimase a fissare il tecnico che infilava l'arma in un sacchetto di plastica. Poi, pensandoci bene, si rabbuiò. 23 La chiamata d'emergenza che mi aveva raggiunto sul cercapersone riguardava TJ. Si era graffiato il braccio contro il montante di una porta. Per un altro bambino sarebbe stata sufficiente una spruzzata di disinfettante, per TJ significava passare una notte in ospedale. Quando vi arrivai lo avevano già attaccato a una flebo. I piccoli malati d'emofilia si curano con la somministrazione di emoderivati come il crioprecipitato o il plasma congelato. Detti le istruzioni a un'infermiera. Come ho detto, avevo conosciuto Tyrese sei anni prima, e lui era in ma-
nette e bestemmiava come un turco. Un'ora prima si era precipitato al pronto soccorso tenendo tra le braccia il suo piccino che allora aveva nove mesi. Ero di turno in ospedale ma, non essendo ancora abilitato per certe emergenze, fu un collega a prendere in carico TJ. Il piccolo era letargico, non rispondeva agli stimoli. E aveva il respiro affannoso. Tyrese, che secondo la denuncia si comportava "in maniera frenetica" (e in quale altra maniera, mi chiedo, può comportarsi un padre che porta di corsa il figlioletto al pronto soccorso?), disse al collega che le condizioni del piccino erano peggiorate con il passare delle ore. Il medico lanciò all'infermiera un'occhiata d'intesa. L'infermiera capì al volo e andò a telefonare. Per ogni evenienza. Dall'esame del fundus oculi risultò che il piccolo aveva delle emorragie retinali bilaterali multiple, che cioè in sostanza i vasi sanguigni dietro i bulbi oculari erano esplosi. E quando il medico tirò le somme - emorragia retinaie, accentuata letargia e, oltre a ciò, quel padre - la diagnosi fu univoca. Sindrome di bambino picchiato. Gli agenti armati della sicurezza interna arrivarono in forze e ammanettarono Tyrese, e fu allora che sentii urlare tutte quelle bestemmie. Andai a vedere che cosa stava succedendo. Arrivarono insieme a me due agenti in uniforme del dipartimento di polizia e una tipa dall'aria stanca del Servizio di assistenza per l'infanzia. Tyrese cercò disperatamente di convincerli che lui suo figlio non l'aveva nemmeno toccato. Tutti scossero il capo, come per dire "Guarda un po' in che mondo viviamo". Avevo assistito a mille scene di questo tipo, in ospedale. Anzi, ne avevo viste di peggiori. Avevo curato malattie veneree in bambine di tre anni. Una volta mi ero visto arrivare un bimbo di quattro anni con emorragia interna provocata da sodomia. E in tutti questi casi, in tutti i casi di abuso sessuale che avevo dovuto trattare, il responsabile era un familiare o l'ultimo fidanzato della madre. L'Uomo Nero non vi insidia al parco giochi, bambini. Perché ce l'avete in casa. Sapevo inoltre che più del novantacinque percento delle fratture endocraniche gravi dei bambini è la conseguenza di una violenza familiare, e questo dato non smette mai di stupirmi. C'erano quindi buone possibilità, o cattive a seconda del punto di vista, che fosse stato Tyrese a ridurre in quel modo suo figlio. In questo pronto soccorso abbiamo sentito scuse di tutti i tipi. Il bimbo è
caduto dal lettino. Ha battuto il capo contro lo sportello del forno. Il fratellino più grande gli ha tirato un giocattolo. Lavorando qui dentro si diventa più cinici di un poliziotto che le ha viste tutte. Il fatto è che i bambini sani di solito assorbono con una certa facilità questi incidenti domestici. Ed è raro, anzi rarissimo, che la semplice caduta da un lettino sia sufficiente a provocare un'emorragia retinaie. Quindi la diagnosi del collega non mi sorprese. All'inizio, almeno. A colpirmi fu la veemenza con la quale Tyrese si difendeva. Non che lo ritenessi innocente. Anche a me capita di sparare giudizi in base alle apparenze o, per usare un'espressione politically correct, al "profilo razziale". Capita a tutti. Se attraversi la strada per evitare una banda di minorenni neri fai un "profilo razziale". Se non l'attraversi perché temi così facendo di passare per razzista, fai un "profilo razziale". Se vedi la banda di cui sopra e non pensi nulla, vieni da un pianeta dove non sono mai stato. A farmi riflettere sul padre di TJ era stata una pura e semplice disparità di trattamento. Un caso terribilmente analogo a questo mi era successo mentre, durante il tirocinio a rotazione, ero di turno a Short Hills, New Jersey, un'area residenziale abitata da gente facoltosa. Marito e moglie bianchi, entrambi elegantemente vestiti, avevano portato al pronto soccorso con una Range Rover superaccessoriata la loro bambina di sei mesi. La piccola era la terzogenita e presentava gli stessi sintomi di TJ. Ma nessuno si era sognato di ammanettare il padre. Mi avvicinai quindi a Tyrese. Lui mi lanciò lo sguardo da ghetto. In strada quello sguardo mi avrebbe turbato, qui mi faceva pensare al lupo cattivo che cerca di buttare giù con un soffio la casa dei tre porcellini. «Suo figlio è nato in quest'ospedale?» gli chiesi. Tyrese non rispose. «Suo figlio è nato qui, sì o no?» Riuscì a calmarsi abbastanza da dire «Sì.» «Il piccolo è circonciso?» Riapparve lo sguardo da ghetto. «Che cosa sei, una specie di frocio?» «Perché, ne esiste più di una specie? Allora, è stato circonciso qui sì o no?» «Sì» ammise controvoglia Tyrese. Trovai il numero di matricola di TJ e lo digitai al computer. Apparve la sua cartella clinica. Controllai la circoncisione. Normale. Maledizione. Poi però notai un'altra voce. Quella non era la prima volta che TJ veniva portato in ospedale. La prima era stata quando aveva solo due settimane e il pa-
dre l'aveva portato qui di corsa perché al piccolo usciva sangue dall'ombelico. Curioso. Decidemmo allora di fare qualche esame del sangue, ma gli agenti insistettero per tenere Tyrese ammanettato. Lui non protestò. Voleva solo che facessimo quegli esami. Cercai di accelerare i tempi, ma sono impotente contro la burocrazia. Come quasi tutti. Quelli del laboratorio furono comunque in grado di stabilire dall'esame del sangue che il tempo di tromboplastina parziale era eccessivo, nonostante che il tempo di protrombina e la conta piastrinica fossero normali. Guarda guarda. La conferma la avemmo poco dopo. Il bimbo non aveva subito abusi da quel padre in completo da ghetto. Era stata l'emofilia a provocare quelle emorragie retinali, che a loro volta lo avevano lasciato cieco. Quelli della sicurezza tolsero sospirando le manette a Tyrese e si allontanarono senza dire una parola. Tyrese si massaggiò i polsi. Nessuno chiese scusa o espresse la minima solidarietà a quell'uomo ingiustamente accusato di avere abusato del figlioletto, che nel frattempo era diventato cieco. Immaginate qualcosa del genere in una zona residenziale. Da allora TJ è un mio paziente. Ma torniamo a noi. Dopo avere prescritto la terapia, carezzai TJ sul capo e lo fissai in quegli occhi che non vedevano. I bambini mi guardano di solito con una soggezione non dissimulata, e il loro sguardo contiene un mix di paura e idolatria Secondo i miei colleghi, i bambini si rendono conto meglio dei grandi di ciò che sta succedendo loro, secondo me la spiegazione è forse più semplice. I bambini considerano i genitori intrepidi e onnipotenti: eppure quegli stessi genitori guardano me, il medico, con quell'espressione di ansiosa paura provocata di solito dall'estasi mistica. C'è forse qualcosa di più terrificante per un bambino? Pochi minuti dopo TJ chiuse gli occhi. E si addormentò. «Ha sbattuto contro il montante della porta» disse Tyrese. «Tutto qui. È cieco. Può succedere, giusto?» «Dobbiamo tenerlo qui, per stanotte. Domani mattina starà meglio.» «E come?» Tyrese mi guardò. «Come può stare meglio un bambino che perde sangue in continuazione?» Non seppi cosa rispondergli. «Lo devo portare via da qui.» Non si riferiva all'ospedale. Tyrese estrasse di tasca un rotolo di banconote e cominciò a sfogliarle.
Io non mi sentivo in vena. Sollevai una mano. «Tornerò a vederlo più tardi.» «Grazie per essere venuto, Doc. Grazie tante, davvero.» Stavo per fargli notare che era per suo figlio che ero venuto, non per lui, ma poi optai per il silenzio. Attento, si disse Carlson sentendo aumentare le pulsazioni. Fai molta attenzione. I quattro investigatori - Carlson, Stone, Krinsky e Dimonte - erano seduti attorno a un tavolo della sala riunioni insieme con il viceprocuratore distrettuale Lance Fein. Questo Fein, una specie di furetto ambizioso dalle lunghe ciglia ondulate e un viso così cereo che sembrava potersi sciogliere alle alte temperature, indossò la maschera della determinazione. «Rompiamogli il culo» propose Dimonte. «Fatemi sentire ancora una volta» disse Lance Fein. «Mettete insieme i vari tasselli in modo che anche Alan Dershowitz lo voglia vedere dietro le sbarre.» Dimonte fece con il capo un cenno al compagno. «Parla tu, Krinsky. Fammi bagnare.» Krinsky estrasse il taccuino e si mise a leggere. «Rebecca Schayes è stata uccisa da due pallottole esplose a bruciapelo al capo da una pistola calibro nove. In seguito a mandato federale di perquisizione, una pistola calibro nove è stata rinvenuta nel garage del dottor Beck.» «Impronte digitali sulla pistola?» chiese Fein. «No. Ma l'esame balistico ha confermato che la calibro nove trovata nel garage del dottor Beck è l'arma del delitto.» Dimonte sorrise e sollevò le sopracciglia. «A qualcun altro di voi si stanno indurendo i capezzoli?» Fein batté le ciglia. «Vai avanti, per favore.» «Sempre in seguito a mandato federale di perquisizione è stato possibile prelevare un paio di guanti di gomma da un cestino dei rifiuti nell'abitazione del dottor Beck. Sul guanto destro sono state trovate tracce di polvere da sparo. E il dottor Beck non è mancino.» Dimonte poggiò sul tavolo i piedi con gli stivaletti di pelle di serpente e spostò lo stuzzicadenti all'altro angolo della bocca. «Sì, baby, ancora, ancora! Mi piace.» Fein si rabbuiò. Krinsky, senza staccare gli occhi dal taccuino, si leccò
un dito e girò pagina. «Sullo stesso guanto destro è stato trovato in laboratorio un capello il cui colore corrisponde esattamente a quelli di Rebecca Schayes.» «Oh Dio! Oh Dio!» Dimonte cominciò a simulare un orgasmo. O forse non stava simulando. «Per un test definitivo del DNA ci vorrà ancora un po' di tempo» proseguì Krinsky. «Oltre a ciò, sul luogo del delitto sono state rilevate impronte digitali del dottor David Beck, ma non nella camera oscura dove è stato rinvenuto il cadavere.» Krinsky richiuse il taccuino. Gli occhi di tutti tornarono su Lance Fein. Il viceprocuratore si alzò massaggiandosi il mento. Pur senza esagerare come Dimonte, tutti nascondevano a malapena quel piacevole senso di vertigine. Nella stanza si avvertiva già l'elettricità che precede un arresto, quella specie di trip adrenalinico che accompagna la soluzione di un caso clamoroso. Ci sarebbero state conferenze stampa, telefonate di congratulazione di esponenti politici, foto sui giornali. Solo Nick Carlson, a differenza degli altri, sembrava non completamente convinto e, quindi, leggermente preoccupato. Continuava a torcere, raddrizzare e ritorcere una graffetta. Non riusciva a fermarsi. Qualcosa sembrava premere alla periferia del suo cervello, qualcosa che era ancora indecifrabile, ma la cui presenza fastidiosa non poteva essere ignorata. Tanto per cominciare, c'erano quei microfoni nascosti in casa del dottor Beck. Qualcuno gli aveva piazzato delle cimici in varie stanze e perfino nel telefono. E a nessuno sembrava importante capire il perché. «Lance?» Era Dimonte. Lance Fein si schiarì la gola. «Sapete dove si trova in questo momento il dottor Beck?» chiese. «Nel suo ambulatorio» rispose Dimonte. «Ho mandato due agenti in uniforme a tenerlo d'occhio.» Fein annuì. «Dai, Lance» disse Dimonte. «Fammi felice, ragazzo mio.» «Chiamiamo prima l'avvocato Crimstein. Per una forma di cortesia.» Shauna raccontò a Linda quasi tutto. Tralasciò, cioè, la parte in cui Beck aveva "visto" Elizabeth sullo schermo del computer. Non perché desse un minimo di credito a quella storia. Aveva dimostrato a sufficienza che si trattava di un trucco digitale. Ma Beck era stato categorico. "Non dirlo a nessuno." A lei non piaceva nascondere qualcosa a Linda, ma preferiva ce-
lare un segreto alla sua compagna piuttosto che tradire la fiducia di Beck. Linda rimase per tutto il tempo a fissare Shauna negli occhi. Non parlò, non si mosse nemmeno. «Le hai viste quelle foto?» le chiese infine, quando Shauna concluse il suo racconto. «No.» «Dove le ha prese la polizia?» «Non lo so.» Linda si alzò in piedi. «David non avrebbe mai fatto del male a Elizabeth.» «Lo so.» Poi incrociò le braccia sul petto e prese a respirare profondamente. Il viso aveva perduto ogni colore. «Stai bene?» le chiese Shauna. «Che cos'è che non mi stai dicendo?» «Perché pensi che ti stia nascondendo qualcosa?» Linda rimase a fissarla. «Chiedilo a tuo fratello» le disse Shauna. «Perché?» «Non sta a me dirtelo.» Si udì nuovamente il suono del citofono. Stavolta fu Shauna a rispondere. «Sì?» «Sono Hester Crimstein.» Shauna aprì il portone con il pulsante del citofono e poi socchiuse la porta di casa. Due minuti dopo fece irruzione Hester. «Conoscete una fotografa, una certa Rebecca Schayes?» «Certo» rispose Shauna. «Voglio dire, è una vita che non la vedo. Linda?» «Sono passati degli anni» confermò Linda. «Lei ed Elizabeth dividevano un appartamento. Perché?» «È stata uccisa ieri notte» rispose Hester. «E credono che l'abbia uccisa Beck.» Le due donne trasalirono come se qualcuno le avesse schiaffeggiate. Shauna fu la prima a riprendersi. «Ma ero con Beck, ieri notte» disse. «A casa sua.» «Fino a che ora?» «Fino a che ora ti serve?» «Evitali certi giochini, con me, Shauna. A che ora sei andata via da casa
sua?» «Saranno state le dieci, le dieci e mezzo. A che ora è stata uccisa?» «Non lo so ancora. Ma ho un informatore nella polizia. Mi ha detto che hanno contro di lui prove solidissime.» «Fesserie.» Squillò un telefono cellulare. Hester Crimstein tirò fuori il suo e se lo poggiò contro l'orecchio. «Che c'è?» Chi aveva chiamato parlò per un tempo che sembrò infinito. Hester ascoltò in silenzio. I suoi lineamenti sembrarono ammorbidirsi, come quelli di chi sente avvicinarsi una sconfitta. Uno o due minuti dopo, senza nemmeno salutare, chiuse di scatto il telefonino. «Una telefonata di cortesia» borbottò. «Che cosa?» «Stanno per arrestare tuo fratello. Abbiamo un'ora per consegnarlo alle autorità.» 24 Avevo un solo pensiero in mente: i giardinetti di Washington Square. Certo, mancavano ancora quattro ore all'appuntamento. Ma, a parte le emergenze, oggi era il mio giorno di riposo. Libero come un uccello, un uccello che voleva andarsi a posare su un albero di Washington Square. Stavo uscendo dall'ambulatorio quando il mio cercapersone si mise nuovamente a cantare la sua triste canzone. Guardai il numero sospirando. Era quello del cellulare di Hester Crimstein. E il codice che l'accompagnava era quello delle emergenze. Non potevano essere buone notizie. Sulle prime fui tentato di non richiamare, di continuare a volare in attesa di posarmi su Washington Square, ma a che pro? Feci marcia indietro e tornai nella mia stanza. La finestrella della serratura era sul rosso, segno che la porta era chiusa dall'interno e che dentro stava lavorando un altro medico. Ripercorsi il corridoio, voltai a sinistra e trovai un'altra stanza libera nell'area di ostetricia e ginecologia. Mi sentivo come una spia in territorio nemico. In quella stanza c'era troppo metallo luccicante. Circondato da staffe ginecologiche e altri attrezzi dall'aspetto inquietante, vagamente medievale, composi il numero. Hester non perse nemmeno tempo a dire "Pronto". «Abbiamo un grosso
problema, Beck. Dove sei?» «In ambulatorio. Che succede?» «Rispondi a una domanda: quando è stata l'ultima volta che hai visto Rebecca Schayes?» Il battito del mio cuore all'improvviso sembrò farsi più lento e profondo. «Ieri. Perché?» «E prima di ieri?» «Otto anni fa.» La Crimstein imprecò a bassa voce. «Che cosa sta succedendo?» le chiesi. «Rebecca Schayes è stata assassinata ieri notte nel suo laboratorio. Qualcuno le ha sparato due colpi in testa.» Una sensazione di cadere nel vuoto, come quella che si prova un attimo prima di addormentarsi. Crollai su uno sgabello. «Oh, Cristo...» «Ascoltami, Beck. Ascolta attentamente.» Mi tornò in mente il viso di Rebecca, il giorno prima. «Dove sei stato ieri notte?» Allontanai la cornetta e inalai un po' d'aria. Morta. Rebecca era morta. Continuavo ad avere strani flash dei suoi bei capelli lucidi. Pensai a suo marito. Pensai alle notti che avrebbe passato, solo a letto, con il ricordo di quei capelli sparsi sul cuscino accanto al suo. «Beck?» «A casa» risposi. «Ero a casa con Shauna.» «E dopo?» «Ho fatto due passi.» «Dove?» «Vicino a casa.» «Vicino a casa dove?» Non risposi. «Ascoltami Beck, per favore. Hanno trovato l'arma del delitto a casa tua.» Udii le parole, ma il loro significato faticò ad arrivarmi al cervello. Quella stanza mi sembrò d'improvviso soffocante. Non c'erano finestre. Quasi non respiravo. «Mi ascolti?» «Sì.» Poi fu come se lentamente cominciassi a capire. «Non è possibile.» «Stammi a sentire. Non abbiamo molto tempo. Stanno per arrestarti. Ho parlato con il procuratore distrettuale. È una testa di cazzo ma ha accettato
che sia tu a costituirti.» «Arrestato?» «Seguimi, Beck.» «Ma non ho fatto niente.» «In questo momento è irrilevante. Stanno per arrestarti. Stanno per portarti davanti al giudice. Dopo di che pagheremo la cauzione e ti tireremo fuori. Sto venendo in ambulatorio. A prenderti. Tu aspettami. E non dire niente a nessuno, capito? Non parlare con i poliziotti, con i federali, con il compagno di cella. Mi hai capito?» Lo sguardo mi cadde sull'orologio a muro. Le due erano passate da qualche minuto. Washington Square. Pensai a Washington Square. «Non posso farmi arrestare, Hester.» «Andrà tutto bene.» «Quanto tempo ci vorrà?» «Quanto tempo ci vorrà per che cosa?» «Prima di uscire su cauzione.» «Non so dirtelo con esattezza. Ma non credo che quello della cauzione sia un problema. Non hai precedenti. Sei un esponente di rilievo della tua comunità, con le giuste radici e le giuste conoscenze. Dovrai probabilmente consegnare il passaporto...» «Ma fino a quando?» «Fino a quando che cosa, Beck? Non capisco.» «Fino a quando dovrò aspettare prima di uscire?» «Stammi a sentire, cercherò di accelerare la tua pratica. Ma anche se le daranno la priorità, e non è detto che lo faranno, dovranno prima mandare le tue impronte digitali ad Albany. La procedura è questa. Quindi, se saremo fortunati, ma molto fortunati, potremmo farti andare davanti al giudice attorno a mezzanotte.» Mezzanotte? La paura mi strinse il petto con le sue maglie d'acciaio. Andare in carcere significava saltare l'appuntamento ai giardinetti di Washington Square. Il mio contatto con Elizabeth era già tanto fragile, come un delicato vetro di Murano. Se non mi fossi trovato a Washington Square alle cinque... «Non va» dissi. «Che cosa?» «Devi guadagnare tempo, Hester. Convincerli ad arrestarmi domani.» «Ma stai scherzando? Ascolta, probabilmente sono già lì per non perderti di vista.»
Feci capolino alla porta. Da quel punto riuscii a vedere solo un angolo della reception, quello sulla destra, ma fu sufficiente. C'erano due poliziotti, forse di più. «Oh, Cristo!» esclamai richiudendo la porta. «Beck?» «Non posso andare in prigione» ripetei. «Non oggi.» «Non combinarmi scherzi, Beck, okay? Rimani lì. Non muoverti, non parlare, non fare nulla. Siediti nel tuo ufficio e aspetta. Sto arrivando.» Riagganciò. Rebecca era morta. Pensavano che l'avessi uccisa io. Assurdo, naturalmente, ma doveva esserci un collegamento tra me e il delitto. Ero andato a trovarla ieri, per la prima volta dopo otto anni. E proprio quella notte lei veniva ammazzata. Ma che diavolo stava succedendo? Aprii la porta e feci nuovamente capolino. Gli agenti non stavano guardando nella mia direzione. Scivolai fuori della stanza e imboccai il corridoio. Sul retro c'era un'uscita d'emergenza. Avrei potuto squagliarmela di là. E andarmene a Washington Square. Ma era vero ciò che mi stava accadendo? Stavo davvero scappando per non farmi prendere dai poliziotti? Non lo sapevo. Ma arrivato all'uscita azzardai un'occhiata alle mie spalle. Uno dei poliziotti mi vide. Puntò un dito e si mosse nella mia direzione. Io spalancai la porta e mi misi a correre. Non riuscivo a crederci. Stavo scappando inseguito dalla polizia. L'uscita dava su una stradina buia alle spalle dell'ambulatorio. Una strada che non mi era familiare. La cosa può sembrare strana, ma quella non era la mia zona. Arrivavo, lavoravo e me ne andavo. Me ne stavo rinchiuso in ambienti privi di finestre, e la mancanza di sole mi stava dando l'aspetto malaticcio di un gufo accigliato. Già a un isolato di distanza mi trovavo in territorio straniero. Puntai a destra senza alcun motivo particolare. Alle mie spalle udii la porta spalancarsi di nuovo. «Stop! Polizia!» Avevano proprio urlato. Ma non mi fermai. Avrebbero sparato? Ne dubitavo. Non avrebbero corso il rischio di farsi sommergere da un diluvio di critiche sparando a un uomo disarmato in fuga. Non che fosse impossibile, specialmente in un quartiere del genere, ma quantomeno improbabile.
Non c'era molta gente in strada, e quei pochi mi guardarono con poco più di un interesse passeggero, come se stessero facendo zapping con il telecomando. Continuai a correre. Il mondo mi passò davanti come un'immagine sfocata. Oltrepassai un tipo dall'aspetto pericoloso con un rottweiler dall'aspetto pericoloso. Alcuni vecchi se ne stavano seduti in un angolo a lamentarsi della giornata. Superai donne sovraccariche di buste della spesa, e ragazzini che probabilmente a quell'ora avrebbero dovuto essere a scuola e che si appoggiavano a tutto ciò su cui fosse possibile appoggiarsi, ognuno con l'aria più da duro dell'altro. Io stavo scappando inseguito dalla polizia. La mia mente sembrava fare fatica ad avvolgersi attorno a questo pensiero. Mi sentivo già cedere le gambe, ma fu l'immagine di Elizabeth sullo schermo del computer a darmi la forza per continuare a correre. Respiravo troppo in fretta. Si parla tanto dell'adrenalina e delle sue scariche energetiche, ma c'è un rovescio della medaglia. Perché quella sensazione dà alla testa e può farti perdere il controllo. Ti acutizza i sensi al limite della paralisi. Devi metterle le briglie se non vuoi che ti soffochi. Mi tuffai in un vicolo, come fanno sempre in TV, ma era cieco e terminava in una delle più puzzolenti sfilate di cassonetti dell'immondizia che si possano trovare sul pianeta. Il fetore mi fece impennare come un cavallo. Forse una volta, magari al tempo in cui era sindaco LaGuardia, i cassonetti erano verdi. Ma ora sulla loro superficie era rimasta soltanto la ruggine. In molti punti la ruggine si era mangiata il metallo, facendo felici i tanti sorci che attraverso i fori invadevano i cassonetti come acque di scarico nelle fogne. Cercai con lo sguardo qualche negozio, una porta o un passaggio, ma non trovai nulla. Nemmeno un'uscita posteriore. Pensai di mandare in frantumi qualche finestra ed entrare, ma quelle al pianoterra erano tutte protette da inferriate. L'unica via d'uscita era quella dalla quale ero entrato, dove la polizia però mi avrebbe sicuramente visto. Ero in trappola. Guardai a sinistra, a destra, e poi, stranamente, in alto. Le scale antincendio. Sopra il mio capo ce n'erano diverse. Sempre rischiando di compromettere il mio sistema adrenalinico, spiccai un salto più in alto che potevo e ricaddi sul culo. Riprovai. E non riuscii nemmeno ad avvicinarmi alle sca-
le. Erano troppo in alto. E ora? Forse avrei potuto arrampicarmi su un cassonetto e da lì provare nuovamente a saltare. Ma la superficie superiore dei cassonetti era stata completamente mangiata dalla ruggine. Anche se fossi riuscito a mettermi in piedi sull'immondizia, e immaginai di sprofondare in quei rifiuti come nelle sabbie mobili, sarei sempre stato troppo in basso. Mi riempii i polmoni d'aria e cercai di riflettere. Il fetore mi stava uccidendo, sembrava che mi avesse fatto il nido nel naso. Ritornai verso l'imbocco del vicolo. Una breve scarica di elettricità statica. Come quella che potrebbe provenire da una radio della polizia. Mi appoggiai con la schiena al muro ad ascoltare. Nascondermi. Dovevo nascondermi. Certo, ma dove? Il gracchiare elettrico della radio si fece più vicino. Udii delle voci. Si stavano avvicinando. Ero completamente allo scoperto. Le sirene laceravano l'aria. Erano per me quelle sirene. Rumore di passi. Ormai era certo che si stavano avvicinando. C'era soltanto un posto dove nascondersi. Decisi in un attimo quale cassonetto potesse essere il meno puzzolente, chiusi gli occhi e mi tuffai. Latte acido. Latte molto acido. Fu quella la prima puzza a colpirmi. Ma non l'unica. Qualcosa di simile al vomito o peggio. Mi ci ero seduto sopra. Qualcosa di umido e putrido. Che mi si stava appiccicando addosso. Mi venne un conato di vomito. Lo stomaco mi si rivoltò. Udii qualcuno correre all'imboccatura del vicolo. Non alzai la testa. Un topo mi si arrampicò sulla gamba. Stavo per gridare, ma qualcosa nel mio inconscio riuscì a trattenere la voce. Oddio, che situazione surreale. Cercai di trattenere il fiato, ma durò poco. Cercai di respirare con la bocca ma riuscii soltanto a procurarmi nuovi conati di vomito. Mi premetti la camicia contro naso e bocca, ottenendone qualche sollievo. Ma non abbastanza. Il ronzio dell'elettricità statica era scomparso. E anche il rumore dei passi. Ero riuscito ad allontanarli? Se sì, non certo a lungo. Si udirono nuove sirene, che intonarono i loro ululati alle altre, proprio una bella rapsodia in blu. Dovevano essere arrivati agenti di rinforzo. Qualcuno sarebbe venuto qui, avrebbe perquisito il vicolo. E poi?
Afferrai il bordo del cassonetto per tirarmi su. La ruggine mi graffiò un palmo. La mano corse alla bocca. Usciva sangue. Il pediatra che si annidava in me fece immediatamente balenare i rischi del tetano, l'altra parte di me gli fece osservare che in quella situazione il tetano rappresentava la minore delle mie preoccupazioni. Mi misi in ascolto. Niente rumore di passi. Niente scariche elettriche. Le sirene continuavano a ululare, ma c'era da aspettarselo. Altri rinforzi. Un assassino si aggirava per le strade della nostra bella città. I nostri sarebbero arrivati in forze. Avrebbero isolato la zona avvolgendola poi in una rete dalle maglie strettissime. Dove sarei potuto arrivare se mi fossi messo a correre? Difficile dirlo. Ma di una cosa ero certo. Dovevo muovermi. Dovevo allontanarmi il più possibile dall'ambulatorio e dai poliziotti. Poco ma sicuro. Il che significava uscire dal vicolo. Scivolando lungo il muro tornai verso l'imbocco. Niente radio o rumore di passi. Buon segno. Cercai per un attimo di riflettere. Darmi alla macchia era un buon piano, ma una destinazione l'avrebbe sicuramente migliorato. Dovevo proseguire verso est, pensai, anche se avrebbe significato inoltrarsi in zone ancora meno sicure. Ricordavo i binari di una soprelevata. La metropolitana. Era quello il mezzo per scomparire. Dovevo soltanto entrare in un vagone, poi cambiare più di una volta treno all'improvviso, e probabilmente ce l'avrei fatta. Ma come ci arrivavo al treno? Stavo cercando di consultare mentalmente la piantina della metropolitana quando un agente svoltò nel vicolo. Sembrava così giovane, sbarbato e roseo. Portava le maniche della camicia blu accuratamente rimboccate sui bicipiti gonfi. Trasalì vedendomi, sorpreso come lo ero io di vedere lui. Ci bloccammo entrambi. Ma lui esitò per una frazione di secondo di troppo. Se lo avessi affrontato nella maniera tradizionale, come un pugile o un esperto di kung fu, probabilmente mi sarei ritrovato a tirarmi i denti fuori dal cranio come tante schegge. Ma non lo feci. Ero in preda al panico. E fu per puro terrore che scattai. Mi lanciai contro di lui. Tenni il capo basso e puntai contro il baricentro del poliziotto, come un
missile. Elizabeth giocava a tennis. Una volta mi disse che quando l'avversario andava a rete conveniva scagliargli la palla dritto contro l'addome, perché in tal modo non avrebbe saputo dove spostarsi. In altri termini, si rallentava il tempo di reazione. Ed è ciò che accadde in quel vicolo. Il mio corpo si schiantò contro il suo. Mi aggrappai alle sue spalle come una scimmia si aggrappa a una staccionata. Traballammo. Schiacciai le ginocchia contro il suo torace. Tenevo il mento basso e il capo sotto la mascella del giovane agente. Atterrammo con una specie di boato fragoroso. Udii il rumore di qualcosa che si spezzava. Un dolore lancinante rimbalzò nel punto in cui il mio cranio era venuto in contatto con la sua mascella. Dalla bocca del giovane agente giunse un "pluuu" sommesso e l'aria gli uscì dai polmoni. Si era spezzato la mascella, probabilmente. Il panico della fuga si impossessò nuovamente di me. Mi divincolai freneticamente. Avevo aggredito un poliziotto. Non c'era tempo per pensarci su. Volevo solo allontanarmi. Riuscii ad alzarmi in piedi, e stavo per voltarmi e scappare quando sentii la sua mano afferrarmi la caviglia. Abbassai gli occhi e i nostri sguardi s'incontrarono. Soffriva. E il dolore gliel'avevo provocato io. Sforzandomi di non perdere l'equilibrio, gli tirai un calcio. Alle costole. Lui emise un altro umido "pluuu". Dalla bocca gli colava un rivolo di sangue. Non riuscivo a credere a ciò che stavo facendo. Gli detti un altro calcio. Non forte, stavolta. Ma sufficiente a fargli mollare la presa. Ero libero. Allora mi misi a correre. 25 Hester e Shauna arrivarono all'ambulatorio in taxi. Linda aveva preso la metropolitana per il World Financial Center, dove aveva un appuntamento con il suo consulente finanziario che avrebbe dovuto aiutarla a liquidare certi titoli per poter pagare la cauzione. Di fronte all'ambulatorio di Beck erano parcheggiate alla rinfusa una decina di auto della polizia, con i musi rivolti un po' in tutte le direzioni come freccette scagliate da un ubriaco. Le luci rosse e blu di massima allerta continuavano a girare sul tetto. Si udiva ancora l'ululato delle sirene, mentre arrivavano altre autopattuglie. «Ma che diavolo sta succedendo?» chiese Shauna.
Hester vide il sostituto procuratore distrettuale Lance Fein, ma lui l'aveva già notata e si stava dirigendo a passo di carica verso di loro. Aveva il viso paonazzo e sulla fronte gli pulsava una vena. «Quel figlio di puttana è scappato» disse Fein, senza perdersi in preamboli. Hester incassò il colpo e glielo restituì. «I tuoi devono averlo terrorizzato.» Si fermarono altre due auto della polizia. E con loro arrivò anche il furgone di Channel 7. Fein imprecò sottovoce. «La stampa. Maledizione, Hester. Lo sai che figura farò, adesso?» «Ascolta, Lance...» «Quella dell'opportunista che riserva un trattamento di favore ai ricchi, ecco che figura farò. Come hai potuto combinarmi uno scherzo del genere, Hester? Lo sai che cosa mi farà ora il sindaco? Mi mangerà le chiappe, tanto per divertirsi. E Tucker?» Tucker era il procuratore distrettuale di Manhattan. «Gesù Cristo, riesci a immaginare la reazione di Tucker?» «Signor Fein!» Era stato un agente a chiamarlo. Fein le scrutò di nuovo entrambe, poi si voltò di scatto allontanandosi. Hester si rivolse a Shauna. «Ma è impazzito, Beck?» «È spaventato.» «È ricercato dalla polizia e scappa» gridò. «Lo capisci? Ti rendi conto di che significa?» Le indicò il furgone della televisione. «Sono arrivati i giornalisti, santiddio. Parleranno dell'assassino in fuga. È pericoloso. Lo fa apparire colpevole. Lo pregiudica agli occhi dei potenziali giurati.» «Calmati» le disse Shauna. «Calmarmi? Ma ti rendi conto di quello che ha fatto?» «È scappato, tutto qui. Come O.J. Simpson, giusto? E la fuga di O.J. non sembra averlo pregiudicato agli occhi della giuria.» «Non stiamo parlando di O.J., Shauna, ma di un medico ricco e bianco.» «Beck non è ricco.» «Il punto è un altro, maledizione! Ora che è scappato, tutti vorranno inchiodargli il culo. Possiamo scordarci la cauzione. E un processo equo.» Prese fiato e incrociò le braccia. «E non è solo Fein a rischiare di compromettersi la reputazione.» «A chi ti riferisci?» «A me mi riferisco!» strillò Hester. «In un sol colpo Beck ha distrutto la mia credibilità di fronte al procuratore distrettuale e al suo ufficio. Se pro-
metto di consegnare un cliente, devo consegnarlo.» «Hester?» «Che c'è?» «In questo momento me ne sbatto della tua reputazione.» Un'improvvisa esplosione di suoni le fece trasalire entrambe. Voltandosi videro sopraggiungere un'ambulanza. Si udì gridare qualcosa. Poi un altro grido. E gli agenti presero a schizzare da una parte all'altra, come le biglie d'acciaio di un flipper messe in gioco tutte assieme. L'ambulanza si fermò con uno stridio di freni. I due infermieri, un uomo e una donna, saltarono giù. In fretta. Troppo in fretta. Spalancarono il portellone posteriore e tirarono fuori la barella. «Da questa parte!» urlò qualcuno. «È qui!» Shauna sentì il cuore che perdeva colpi. Corse da Lance Fein, seguita da Hester. «Che succede?» gli chiese Hester. Fein la ignorò. «Lance?» Lui finalmente si voltò a guardarle, con i muscoli facciali che tremavano per la rabbia. «Che gli è successo? È ferito?» «Ha appena aggredito un agente.» Era una follia. Scappando mi ero già messo nei guai, ma aggredire quel giovane agente... Ormai non potevo tornare indietro. Quindi mi misi a correre. Più veloce che potevo. «Un agente colpito!» L'aveva gridato qualcuno. Seguirono altre grida. Altre scariche di elettricità dalle radio. Altre sirene. E tutte convergevano verso di me. Il cuore mi balzò in gola. Cominciavo a sentirmi le gambe dure e pesanti, come se i muscoli e i legamenti si stessero pietrificando. Ero giù di forma. Dal naso prese a colarmi del muco. E si mescolava con la sporcizia che mi si era depositata sul labbro superiore, finendomi in bocca. Mi misi a saltabeccare da un isolato all'altro, come se fosse stato sufficiente a seminare gli inseguitori. Non mi voltai a vedere se avevo ancora dietro i poliziotti. Me lo confermavano le sirene e le scariche delle radio. Non avevo speranza. Attraversai di corsa certe zone dove non mi sarei avventurato nemmeno in macchina. Scavalcai una staccionata e passai in mezzo ai cespugli di
quello che una volta poteva essere stato un parco giochi. Si parlava tanto dell'aumento dei prezzi degli immobili a Manhattan. Ma qui, non lontano dall'Harlem River Drive, vi erano aree non edificate cosparse di vetri infranti e dei resti arrugginiti di oggetti che una volta potevano essere stati altalene, attrezzi da ginnastica e forse anche automobili. Di fronte a certi casermoni di mattoni graffiati un gruppo di ragazzetti di colore, tutti con la camminata da duro e l'abbigliamento d'ordinanza, mi guardarono come si può guardare un avanzo appetitoso. Stavano per fare qualcosa, non so che cosa, quando si resero conto che ero inseguito dalla polizia. Allora si misero a incitarmi. «Vai, ragazzo bianco!» Gradii quella solidarietà. E passando di corsa davanti a loro feci un segno con il capo, come un maratoneta che ringrazia il pubblico per la piccola spinta. «Diallo!» gridò uno di loro. Continuai a correre, sapendo naturalmente chi fosse Amadou Diallo. Lo sapevano tutti, a New York. I poliziotti gli avevano sparato contro quarantuno colpi, e lui era disarmato. Per un attimo pensai che i teppisti volessero in quel modo avvertirmi che gli agenti stavano per spararmi. Ma non era assolutamente così. Al processo per la morte di Diallo la difesa sostenne che, quando Diallo si era infilato la mano in tasca per tirare fuori il portafoglio, gli agenti avevano sparato credendo che stesse per estrarre una pistola. Da allora, era diventata una forma di protesta piuttosto diffusa quella di infilarsi una mano in tasca, tirare fuori il portafoglio e gridare: "Diallo!". E i poliziotti di pattuglia, ogni volta che succedeva, continuavano a provare una fitta di paura. È ciò che accadde in quel momento. I miei nuovi alleati, diventati tali pensando probabilmente che fossi un assassino, tirarono fuori di tasca i portafogli. I due poliziotti che avevo alle calcagna esitarono. E mi fu sufficiente per aumentare il vantaggio. E ora? Avevo la gola in fiamme. Stavo ingerendo troppa aria. I miei stivaletti sembravano diventati di piombo. Stava sopravvenendo la pigrizia. Incespicai, persi l'equilibrio e finii lungo sull'asfalto graffiandomi palmi, viso e ginocchia. Riuscii a rimettermi in piedi ma mi tremavano le gambe. E i due agenti si stavano avvicinando. Il sudore mi aveva appiccicato la camicia alla pelle. Nelle orecchie av-
vertivo una specie di sibilo fragoroso. Ho sempre odiato correre. Gli amici fissati con il fitness mi hanno sempre parlato dell'estasi che provano correndo, di quella specie di nirvana chiamato "trip del corridore". Bravi. Io sono sempre stato convinto che questo nirvana non è provocato tanto dall'endorfina quanto da mancanza di ossigeno al cervello, un po' come l'autoasfissia per chi cerca il massimo del piacere. E quello che mi stava succedendo era tutt'altro che piacevole, credetemi. Stanco. Troppo stanco. Non potevo continuare a correre. Mi detti un'occhiata alle spalle. Niente poliziotti. La strada era deserta. Provai ad aprire una porta. Niente da fare. Ne provai un'altra. Mi giunse il gracchiare di una radio della polizia. Corsi. Verso la fine dell'isolato notai una botola socchiusa. Anche quella arrugginita. Era tutto arrugginito da queste parti. Mi chinai ad afferrare la maniglia. La botola si sollevò con uno scricchiolio risentito. Scrutai l'oscurità sotto il marciapiede. «Chiudigli la strada da quella parte!» gridò un poliziotto. Stavolta non persi tempo a guardarmi alle spalle. Allungai un piede verso il foro nero. Toccai il primo gradino. Instabile. Poi allungai l'altro piede verso il secondo gradino. Ma non c'era alcun secondo gradino. Rimasi per un attimo sospeso, come Wil Coyote prima di precipitare dalla solita rupe altissima, poi caddi in quel pozzo buio. Il dislivello non superava probabilmente i tre metri, ma mi sembrò una vita quella che impiegai prima di toccare terra. Agitai le braccia. Inutilmente. Il mio corpo atterrò sul cemento come un sacco di carbone. E l'impatto mi fece battere violentemente i denti. Ero di schiena e guardavo verso l'alto. La botola si richiuse rumorosamente su di me. Meglio così, probabilmente, ma l'oscurità si era fatta totale. Cercai di accertare le mie condizioni, facendomi da bravo medico un sommario esame interno. Ogni parte del corpo mi doleva. Udii di nuovo i poliziotti. Le sirene non si erano fermate un attimo, o forse il loro ululato mi era rimasto nelle orecchie. Tante voci. Tante scariche di elettricità statica dalle radio portatili. Si stavano avvicinando. Rotolai su un fianco. Premetti la mano destra sul pavimento sentendo subito il bruciore dei graffi sul palmo, e il corpo cominciò a sollevarsi. Quando mi alzai in piedi la testa prese a martellarmi e quasi ricaddi a terra. E ora? Dovevo restarmene nascosto? No, sarebbe stato inutile. Perché i poliziotti avrebbero cominciato a cercarmi casa per casa. E mi avrebbero ac-
ciuffato. E anche se non mi avessero trovato, non ero certo scappato per andarmi a rinchiudere in una cantina umida ma per trovarmi all'appuntamento con Elizabeth a Washington Square. Dovevo muovermi. Ma per andare dove? Gli occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità, abbastanza cioè da riconoscere i contorni delle cose. C'erano scatoloni accatastati alla rinfusa. C'erano mucchi di stracci, qualche sgabello da bar, uno specchio rotto. Sullo specchio colsi d'improvviso il mio riflesso, e per un attimo la paura mi fece trasalire. Avevo un taglio sulla fronte. I pantaloni erano strappati all'altezza delle ginocchia, la camicia a brandelli come quella dell'Incredibile Hulk. Addosso avevo tanta di quella fuliggine da poter essere scambiato per uno spazzacamino. Dove andare? Una scala. Doveva esserci una scala da qualche parte. Presi ad avanzare con cautela, in una specie di danza spastica, portando avanti la gamba sinistra come un cieco allunga davanti a sé il suo bastone bianco. Sotto i piedi sentii scricchiolare qualcosa che poteva essere vetro in frantumi. Continuai ad avanzare. Poi udii un suono simile a un gorgoglio, e davanti ai miei occhi si levò una enorme montagna di stracci. Un uomo, quello che mi sembrava un uomo, allungò un braccio verso di me come se lo sollevasse da una tomba. Mi morsi un labbro per non urlare. «A Himmler piacciono i tranci di tonno!» mi urlò. L'uomo, ora vedevo chiaramente che si trattava di un uomo, cominciò ad alzarsi. Era alto, nero, e aveva una barba così grigia e lanosa da far pensare che avesse appena ingoiato una pecora. «Mi senti?» urlò. «Lo hai sentito quello che ho detto?» Quando fu in piedi mosse un passo verso di me. E io mi feci piccolo piccolo. «Himmler! Va matto per i tranci di tonno!» L'uomo con la barba era chiaramente contrariato. Strinse il pugno e cercò di colpirmi. Senza starci tanto a pensar su mi scansai. Il pugno mi passò vicino e la forza d'inerzia, o probabilmente l'alcol, fecero ruzzolare in terra il barbone. Cadde di faccia. Io non persi tempo. Trovai le scale e salii. La porta era chiusa a chiave. «Himmler!» Gridava troppo. Premetti la spalla contro la porta. Niente da fare.
«Mi senti? Lo senti quello che ti dico?» Udii uno scricchiolio alle mie spalle. Mi voltai e ciò che vidi mi gelò il sangue. Un raggio di sole. Qualcuno aveva sollevato la botola dalla quale ero entrato. «Chi c'è quaggiù?» Una voce piena d'autorità. Il raggio di una torcia elettrica prese a danzare sul pavimento. E si posò sul barbone. «A Himmler piacciono i tranci di tonno!» «Sei tu che urli, vecchio?» «Mi senti?» Continuai a premere la spalla contro la porta, con tutte le forze che mi erano rimaste. Il montante cominciò a scricchiolare. Mi tornò in mente d'improvviso l'immagine di Elizabeth, quella che avevo visto al computer, con il braccio sollevato e gli occhi fissi nei miei. Spinsi ancora. La porta si spalancò. Caddi sul pavimento, mi accorsi di trovarmi al piano-terra, non lontano dal portone d'ingresso dello stabile. E ora? Si stavano avvicinando altri poliziotti, sentivo ancora le loro radio, e uno di loro stava facendo domande al biografo di Himmler. Non mi restava molto tempo. Avevo bisogno di aiuto. Ma aiuto da chi? Non potevo telefonare a Shauna. La polizia sicuramente la stava interrogando. E lo stesso valeva per Linda. Hester, c'era da giurarci, stava insistendo con lei perché mi convincesse a costituirmi. Qualcuno stava aprendo il portone. Mi misi a correre lungo il corridoio. Il pavimento di linoleum era abbastanza sporco. Le porte, tutte metalliche, erano chiuse. La pittura sulle pareti era scrostata in più punti. Spalancai una porta antincendio e salii per le scale di servizio. Al terzo piano tornai sul pianerottolo. C'era una vecchia. E notai, con stupore, che era bianca. Probabilmente, sentendo tutte quelle voci, era uscita a vedere che cosa stava succedendo. Mi fermai a riflettere. Si trovava abbastanza distante dalla sua porta di casa, aperta, da consentirmi di passarle davanti di corsa ed entrare... Ma avrei potuto fare una cosa del genere? La guardai. Lei guardò me. Poi tirò fuori una pistola.
Oh, Cristo... «Che cosa vuoi?» mi chiese. Mi udii rispondere: «Posso usare il suo telefono?». Lei non fece una piega. «Venti dollari.» Mi tolsi di tasca il portafoglio e contai i venti dollari. Quella mi fece entrare. L'appartamento era piccolo e in ordine, con qualche merletto su poltrone e divani oltre che su tavola e tavolini di legno scuro. «È lì» mi indicò. Il telefono era di quelli vecchi, con il disco girevole. Infilai il dito in quei buchetti. Strano. Quel numero non l'avevo mai composto, non avevo mai voluto farlo, ma lo conoscevo a memoria. Gli psichiatri probabilmente ci si sarebbero divertiti con questa stranezza. Attesi. Dopo due squilli udii una voce. «Ohè!» «Tyrese? Sono il dottor Beck. Mi serve il tuo aiuto.» 26 Shauna scosse il capo. «Beck ha aggredito qualcuno? Impossibile.» La vena sulla fronte del sostituto procuratore distrettuale Lance Fein si rimise a pulsare. Fein si avvicinò all'indossatrice, con il viso a pochi centimetri da quello di lei. «Ha aggredito un agente in un vicolo. Probabilmente gli ha rotto la mascella e due costole.» Le si fece ancora più vicino, e mentre parlava qualche schizzo di saliva finì sulla guancia di Shauna. «Lo senti quello che ti sto dicendo?» «Lo sento. Ora fai qualche passo indietro, caro il mio Alito Aromatico, se non vuoi che ti faccia salire le palle in gola con una ginocchiata.» Fein rimase immobile a fissarla con odio, poi si voltò e si allontanò. Imitato da Hester Crimstein, che stava tornando sui suoi passi in direzione di Broadway. Shauna le fu subito dietro. «Dove stai andando?» «Lo lascio.» «Che cosa?» «Trovagli un altro avvocato, Shauna.» «Non stai dicendo sul serio.» «E invece sì.» «Non puoi abbandonarlo così, su due piedi.» «Se non ci credi guardami.» «Ma così lo comprometti.»
«Ho dato la mia parola che si sarebbe consegnato.» «Chi se ne fotte della tua parola. Beck è più importante della tua parola.» «Per te, forse.» «I tuoi interessi vengono prima di quelli di un cliente?» «Non lavoro con chi compie azioni del genere.» «Ma chi vuoi sfottere? Hai difeso fior di violentatori.» Hester sollevò una mano in segno di saluto. «Me ne vado.» «Sei soltanto una maledetta ipocrita a caccia di pubblicità.» «Ma piantala, Shauna.» «Ora vado a parlarci io.» «A parlare con chi?» «Con i giornalisti.» Hester si fermò. «E che cosa gli dici? Che ho piantato in asso un assassino disonesto? Splendido, vai pure. Spiffererò tanta di quella merda sul conto di Beck che al confronto il serial killer Jeffrey Dahmer sembrerà una specie di bravo ragazzo con il quale uscire la sera.» «Non hai niente da spifferare.» Hester fece spallucce. «Aspetta e vedrai.» Le due donne si fissarono minacciosamente. Nessuna delle due abbassò lo sguardo. «Sei liberissima di pensare che la mia reputazione non ha alcuna importanza» disse poi Hester, con voce d'improvviso suadente. «Ma non è così. Se l'ufficio del procuratore distrettuale non può contare sulla mia parola, io non sono più di alcun aiuto ai clienti. E anche a Beck. Chiaro, no? Quindi non posso permettere che il mio studio, e i miei clienti, finiscano nel cesso solo perché il tuo amico si è comportato come un idiota.» Shauna scosse il capo. «Togliti dai piedi.» «C'è un'altra cosa.» «Che cosa?» «Gli innocenti non scappano, Shauna. Il tuo amico Beck? Cento contro uno che ha ucciso Rebecca Schayes.» «Accetto la scommessa. Ora aggiungo io qualcos'altro. Prova a dire una sola parola contro Beck e raccoglieranno i tuoi resti con un mestolo. Ci siamo capite?» Hester non rispose. Fece un altro passo per allontanarsi e in quel momento l'aria fu squarciata dagli spari. Me ne stavo rannicchiato su quella scala antincendio arrugginita quando
all'improvviso le detonazioni mi fecero quasi perdere l'equilibrio per la sorpresa. Mi appiattii sui gradini e attesi. Altri spari. Udii gridare. Avrei dovuto aspettarmelo, ma trasalii ugualmente. Tyrese mi aveva raccomandato di aspettarlo senza muovermi. Mi ero chiesto come pensava di tirarmi fuori da lì. Ora cominciavo a farmene un'idea. Un diversivo. Udii in lontananza gridare: «Il ragazzo bianco s'è messo a sparare!». Poi un'altra voce. «C'è un bianco con la pistola! C'è un bianco con la pistola!» Altri spari. Ma le radio non gracchiavano più, per quanto mi sforzassi di tendere l'orecchio. Rimasi immobile cercando di non pensare troppo. Il mio cervello sembrava in cortocircuito. Due giorni prima ero un medico coscienzioso che attraversava come un sonnambulo la sua vita. Da allora avevo visto un fantasma, avevo ricevuto e-mail da una morta, mi ero trasformato in un uomo sospettato non di un delitto ma di due, ero scappato inseguito dalla polizia, avevo aggredito un agente e avevo cercato aiuto da un noto spacciatore. Quarantotto ore piene, indubbiamente. Mi veniva da ridere. «Ohè, Doc.» Abbassai lo sguardo. Tyrese era accompagnato da un altro nero, sulla ventina, solo leggermente più piccolo dell'edificio in cui mi trovavo. L'omone mi guardò da dietro un paio di quegli occhiali da sole sottili, modello vaffanculo, che si intonavano perfettamente alla sua espressione cupa. «Forza, Doc. Leviamoci dai piedi.» Scesi la scala antincendio. Tyrese continuò a guardare a destra e a sinistra. Il tipo grande e grosso rimase immobile con le braccia conserte sul petto, in quella che una volta chiamavamo "la posizione del bufalo". Arrivato all'ultimo gradino esitai, non sapendo come abbassare la scala per scendere a terra. «Forza, Doc. C'è una leva sulla sinistra.» La tirai, e la scala si abbassò lentamente. Quando gli fui davanti, Tyrese fece una smorfia agitando la mano davanti al naso. «Profumi come una rosa, Doc.» «Non ho potuto farmi la doccia, mi spiace.» «Da questa parte.» Tyrese si addentrò a passo svelto nei vicoli. Io lo seguii, trotterellando per tenere il passo. L'omone scivolava silenziosamente alle nostre spalle.
Non mosse mai il capo a destra e a sinistra ma avevo ugualmente l'impressione che non si lasciasse sfuggire nulla. Trovammo ad aspettarci una BMW nera con i vetri oscurati, un'antenna sofisticata, un copritarga reticolato e il motore acceso. Gli sportelli erano chiusi ma "sentivo", più che udirla, la musica rap. Il basso mi vibrava dentro il petto come un diapason. «Non è un po' troppo vistosa quest'auto?» chiesi preoccupato. «Se tu fossi uno sbirro alla caccia di un medico bianco come un giglio, quale sarebbe l'ultimo posto dove lo cercheresti?» Non potevo dargli torto. L'omone aprì lo sportello posteriore. La musica ci assalì a tutto volume. Tyrese allungò il braccio come un portiere d'albergo. Entrai. Lui scivolò accanto a me. L'omone si chinò per andarsi a mettere al volante. Non capivo granché di ciò che il rapper del CD stava dicendo, ma chiaramente era incazzato con qualcuno. Poi d'improvviso capii. «Lui si chiama Brutus» annunciò Tyrese. Si riferiva all'autista peso massimo. Cercai di intercettare il suo sguardo nello specchietto retrovisore, ma non riuscii a superare lo schermo dei suoi occhiali scuri. «Piacere» dissi. Brutus non rispose. Riportai la mia attenzione su Tyrese. «Che casino hai messo in piedi?» «Un paio dei miei ragazzi stanno sparacchiando su 147th Street.» «E i poliziotti non li beccheranno?» Tyrese grugnì. «Figurati.» «E così facile?» «Lì sì, certo che è facile. Abbiamo questo palazzone alla Hobart House, il Numero 5. Do agli inquilini dieci dollari al mese perché lascino l'immondizia davanti alle porte posteriori, le blocchino insomma. Così gli sbirri non possono entrare. È un buon posto per fare affari. I miei due ragazzi, quindi, hanno sparato qualche colpo dalle finestre, non so se mi spiego. E quando gli sbirri sono finalmente riusciti a entrare, loro se l'erano già svignata.» «E chi era che strillava: "C'è un bianco con la pistola!"?» «Altri due ragazzi. Si sono messi a correre urlando che c'era un bianco pazzo in libertà.» «Che teoricamente sarei io.» «Teoricamente» ripeté Tyrese con un sorriso. «Bella parolona, Doc.»
Mi appoggiai allo schienale. Sentivo la stanchezza nelle ossa. Brutus guidava in direzione est. Attraversammo quel ponte blu vicino allo Yankee Stadium - non sono mai riuscito a impararlo il nome di quel ponte - e questo significava che ci trovavamo nel Bronx. All'inizio mi schiacciai più in basso che potei, temendo che qualcuno potesse lanciare un'occhiata dentro l'auto, ma poi mi ricordai che aveva i vetri oscurati. E guardai fuori. La zona era brutta da morire, ricordava la scena di uno di quei film apocalittici in cui ti mostrano il mondo all'indomani di un'esplosione nucleare. Vidi isolati di quelli che una volta dovevano essere stati edifici, tutti in diversi stadi di abbandono. Le strutture erano marce, indubbiamente, ma davano l'impressione di essersi corrose all'interno. Brutus continuò a guidare. Io cercai di capire con un minimo di approssimazione ciò che stava succedendo, ma il mio cervello continuava a farsi sballottare da quella giostra. Una parte di me si rendeva conto di trovarsi in uno stato molto vicino allo shock, ma l'altra parte si rifiutava perfino di prendere in considerazione una simile ipotesi. Mi concentrai sul panorama circostante. Poco dopo, inoltratici ulteriormente in quella landa desolata, le abitazioni presero a rarefarsi. Non avevo la minima idea di dove ci trovassimo, anche se non dovevamo esserci allontanati più di otto chilometri dal mio ambulatorio. Sempre nel Bronx, immaginavo. South Bronx, probabilmente. Pneumatici usati e materassi sventrati giacevano nel bel mezzo della strada simili a feriti di guerra. Dall'erba alta sembravano fare capolino alcuni enormi blocchi di cemento. Vidi alcune auto saccheggiate e ridotte ai minimi termini, ma nessuna era stata data alle fiamme come ci si sarebbe potuto aspettare. «Vieni spesso da queste parti, Doc?» mi chiese Tyrese con una risatina. Non mi presi la briga di rispondergli. Brutus fermò la BMW davanti a uno dei tanti palazzi abbandonati. Un reticolato circondava quel triste edificio. Sulle finestre erano state inchiodate assi di compensato. Appiccicato sulla porta notai un foglio di carta, probabilmente un avviso di demolizione. Anche la porta era di compensato. La vidi aprirsi. Ne uscì barcollando un uomo con le mani sollevate per proteggersi gli occhi dal sole, simile a un Dracula che ha appena consumato il suo raccapricciante pasto. Il mio mondo continuava a girare vorticosamente. «Andiamo» disse Tyrese. Brutus scese dall'auto e mi aprì lo sportello. Lo ringraziai. Lui non mos-
se muscolo. Il suo viso ricordava le statue di pellerossa che a volte si vedono davanti ai tabaccai: un viso che non ti immagini possa sorridere, e anzi speri proprio che non lo faccia. Sulla destra del reticolato era stata praticata un'apertura. Ci rannicchiammo per entrare. L'uomo barcollante si avvicinò a Tyrese. Brutus si irrigidì, ma Tyrese gli fece segno di non preoccuparsi. Lo sconosciuto e Tyrese si salutarono con la massima affettuosità, esibendosi in una complicata stretta di mano. Poi presero due direzioni diverse. «Entra» mi disse Tyrese. Entrai, sempre con la mente obnubilata. E sentii immediatamente il fetore acido dell'urina e quello inequivocabile delle feci. Qualcosa stava bruciando, sapevo forse che cosa, e quel sentore giallastro di sudore sembrava provenire dalle pareti. Ma c'era anche qualcos'altro, un puzzo non di morte ma di qualcosa che precede la morte, tipo di cancrena, di qualcosa che si decompone e muore mentre respira ancora. Il caldo soffocante sembrava venire da una fornace. Parecchie persone, una cinquantina o un centinaio, erano riverse in terra simili a vecchie ricevute di scommesse sul pavimento di una sala corse. Era buio, lì dentro. Sembravano mancare l'elettricità, l'acqua corrente, qualsiasi tipo di mobilio. Assi incrociate sulle finestre impedivano quasi completamente il passaggio del sole, i cui raggi riuscivano a filtrare solo dagli interstizi simili a falci per la mietitura. Si riuscivano a vedere soltanto ombre, contorni e poco più. Riconosco di essere piuttosto sprovveduto in materia di droga. Più di una volta, al pronto soccorso, ne ho visti gli effetti, ma sul piano personale la droga non mi ha mai interessato. Il mio veleno preferito è l'alcol, probabilmente. Ma alcuni segni inequivocabili permettevano anche a un incompetente come me di capire che ci trovavamo in una fumeria di crack. «Da questa parte» disse Tyrese. Ci inoltrammo tra i corpi. Brutus faceva strada. I corpi si spostarono per farlo passare come se fosse Mosè. Io mi misi alle spalle di Tyrese. Le estremità delle pipe si illuminavano d'improvviso nell'oscurità. E mi fecero tornare con il pensiero a quella volta che da ragazzino ero andato al circo Barnum & Bailey, e ci avevano dato quelle piccole torce elettriche che agitavamo nel buio. La scena era decisamente simile. Vidi l'oscurità. Vidi le ombre. Vidi i lampi di luce. Non si udiva musica. Nessuno sembrava avere molta voglia di parlare. Udii un ronzio. Udii il rumore delle pipette che venivano aspirate, simile a
quello che fa un bambino che cerca di succhiare le ultime gocce contenute nella sua cannuccia. Ogni tanto l'aria era attraversata da un suono lacerante che aveva ben poco di umano. Udii anche dei gemiti. Gli atti sessuali più turpi venivano compiuti davanti agli occhi di tutti, senza vergogna, senza nemmeno un tentativo di privacy. Trasalii davanti a una scena, ve ne risparmio i particolari. Tyrese si accorse della mia espressione e sembrò quasi divertito. «Quando finiscono i soldi si vendono per comprarsi il crack» mi spiegò. «È il commercio che fa girare il mondo, Doc.» Sentii la bile salirmi alla bocca ma riuscii a ricacciarla indietro. Mi voltai verso di lui, che si strinse nelle spalle. Tyrese e Brutus continuarono ad avanzare. Io li seguii con passo incerto. Molte pareti erano crollate. Gli occupanti - vecchi, giovani, bianchi, neri, uomini, donne - se ne stavano riversi da ogni parte come privi di spina dorsale e facevano venire in mente certi orologi dipinti da Dalí. «Anche tu ti fai di crack, Tyrese?» «Una volta. Ho cominciato a sedici anni.» «E come ne sei uscito?» Tyrese sorrise. «Lo vedi il mio uomo, Brutus?» «Difficile non vederlo.» «Ho detto a Brutus che gli avrei dato mille dollari per ogni settimana passata senza farmi di crack. E lui è venuto a vivere con me.» Sembrava decisamente più efficace che passare una settimana nella clinica di Betty Ford per drogati e alcolizzati. Brutus aprì una porta. Questa stanza, anche se non precisamente elegante, se non altro era dotata di tavoli, sedie, perfino di luci e di un frigorifero. In un angolo notai un generatore elettrico portatile. Tyrese e io entrammo. Brutus chiuse la porta restando in corridoio. Rimanemmo soli. «Benvenuto nel mio ufficio» disse Tyrese. «Brutus ti aiuta ancora a tenerti lontano dal crack?» Scosse il capo. «No, è TJ ora a tenermi fuori. Non so se mi spiego.» «E ciò che fai qui non ti crea problemi?» «Sono pieno di problemi, Doc.» Tyrese si sedette e mi invitò a imitarlo. Gli occhi che mi guardavano sembravano attraversati da lampi e ciò che vidi in quegli occhi non mi piacque. «Se parliamo di buoni e cattivi, io non sono certo tra i buoni.»
Non sapevo che cosa dire e cambiai quindi argomento. «Devo trovarmi a Washington Square alle cinque.» Si appoggiò allo schienale della sedia. «Raccontami quello che sta succedendo.» «È una lunga storia.» Tyrese cominciò a pulirsi le unghie con un tagliacarte. «Se il mio bambino si ammala io vado dall'esperto, giusto?» Annuii. «Se ti metti nei guai con la legge dovresti fare lo stesso.» «Bella analogia.» «Ti sta succedendo qualcosa di brutto, Doc.» Spalancò le braccia. «Le brutte situazioni sono il mio pane, non puoi trovare una guida migliore di me a questo mondo.» Gli raccontai la storia. Quasi per intero. Lui mi stette ad ascoltare, ma dubito che mi abbia creduto quando lo assicurai che non avevo nulla a che fare con i delitti. E dubito anche che gliene importasse qualcosa. «Okay, ora pensiamo a te» disse quando ebbi finito. «Poi dovremo parlare di qualcos'altro.» «Che cosa?» Non mi rispose. Si avvicinò a una specie di armadietto blindato in un angolo della stanza. Lo aprì con una chiave, vi infilò la mano e tirò fuori una pistola. «Glock, baby, è una Glock» disse porgendomela. Io esitai. Davanti agli occhi mi passarono velocemente immagini di sangue, ma subito svanirono, e io certo non cercai di trattenerle. Era passato tanto tempo. Allungai la mano e presi la pistola con due dita, come se scottasse. «Pistola da campioni» aggiunse lui. Stavo per rifiutarla, ma capii subito che sarebbe stato da stupidi. Ero già ricercato per due omicidi, aggressione a un agente, resistenza, e probabilmente per altri reati legati alla fuga. Un'accusa di detenzione abusiva di arma non avrebbe modificato granché la situazione. «È carica» disse lui. «C'è una sicura o qualcosa del genere?» «Non più.» Me la rigirai lentamente tra le mani, ripensando all'ultima volta che avevo stretto in pugno una pistola. Mi dava una piacevole sensazione stringere nuovamente un'arma. Per il suo peso, probabilmente. Mi piaceva il contatto, il freddo dell'acciaio, il modo in cui mi riempiva perfettamente il palmo
della mano. Ma il fatto che tutto ciò mi piacesse non mi andava affatto. «Prendi anche questo.» Mi porse qualcosa che assomigliava a un telefono cellulare. «Che cos'è?» gli chiesi. Tyrese si rabbuiò. «Tu che cosa credi che sia? Un cellulare. Ma il numero è rubato. Non possono risalire a te, capito?» Mi sentivo sempre più fuori dal mio elemento. «C'è un gabinétto dietro quella porta» mi disse poi indicando un punto alla mia destra. «Non c'è la doccia, ma la vasca da bagno. Lavati come Dio comanda. Ti troverò qualcosa da metterti addosso. Poi io e Brutus ti porteremo a Washington Square.» «Hai detto che volevi parlarmi di qualcosa.» «Dopo che ti sarai rivestito. Allora parleremo.» 27 Eric Wu stava osservando con un'espressione serena l'albero frondoso, tenendo il mento leggermente sollevato. «Eric?» La voce era quella di Larry Gandle. Wu non si voltò. «Lo sai come si chiama quest'albero?» gli chiese. «No.» «L'olmo del boia.» «Affascinante.» Wu sorrise. «Secondo alcuni storici, nel XVIII secolo in questo parco avvenivano le esecuzioni pubbliche.» «Splendido, Eric.» «Certo.» Accanto a loro passarono due uomini a torso nudo sui pattini a rotelle. Da una cassa usciva la musica dei Jefferson Airplane. I giardinetti di Washington Square, che com'è facilmente intuibile prendono il nome da George Washington, erano uno di quei posti che cercano, senza riuscirci, di mantenere intatta l'atmosfera degli anni Sessanta. Vi si incontravano ancora contestatori di ogni tipo, che però più che a genuini rivoluzionari assomigliavano ad attori di un nostalgico revival. Gli artisti di strada si esibivano con un eccesso di raffinatezza. I senzatetto erano di quel tipo pittoresco che sembra quasi artificiale. «Siamo sicuri che questo posto sia sotto controllo?» chiese Gandle. Wu fece segno di sì con il capo, senza staccare gli occhi dall'albero. «Sei
uomini. Più i due nel furgone.» Gandle si voltò a guardare. Il furgone era bianco, e sulle fiancate aveva una placca magnetica sulla quale si leggeva COLORIFICIO B&T con un numero di telefono e un bel logo raffigurante un uomo con la scala e il pennello. Se avessero chiesto ai testimoni di descrivere il furgone, si sarebbero ricordati al massimo il nome della ditta e forse il numero di telefono. Inesistenti entrambi. Il furgone era parcheggiato in doppia fila. A Manhattan uno parcheggiato regolarmente avrebbe attirato l'attenzione più di uno in doppia fila. Ciò nonostante i due occupanti stavano sul chi vive. Se si fosse avvicinato un poliziotto si sarebbero allontanati. Avrebbero portato il furgone in un parcheggio di Lafayette Avenue. Una volta lì avrebbero cambiato la targa oltre alle scritte magnetiche sulle fiancate. E sarebbero tornati a Washington Square. «Dovresti tornare al furgone» disse Wu. «Pensi che Beck ce la farà ad arrivare all'appuntamento?» «Ne dubito.» «Ero convinto che dopo l'arresto di Beck lei sarebbe scomparsa» disse Gandle. «Non immaginavo che avessero un appuntamento.» Uno dei loro uomini, un tipo con i capelli ricci che la sera prima indossava una felpa, aveva visto il messaggio sul computer accanto al suo al service informatico. Ma quando aveva riferito il messaggio, Wu aveva già sistemato in casa di Beck la pistola e i guanti di gomma. Il piano avrebbe funzionato ugualmente. «Dobbiamo prenderli tutti e due, ma lei per prima» disse Gandle. «Se le cose dovessero mettersi male li uccideremo. Ma sarebbe meglio catturarli vivi. Per scoprire cosa sanno.» Wu non parlò. Stava ancora fissando l'albero. «Eric?» «Ci hanno appeso mia madre a un albero come questo» disse il coreano. Gandle non seppe come commentare e se la cavò con un: «Mi dispiace». «Credevano che fosse una spia. Sei uomini l'hanno spogliata e l'hanno frustata per ore. Dappertutto. Aveva la carne viva esposta, anche sul viso, e non ha mai perso conoscenza. Ha urlato per tutto il tempo. Ci ha impiegato moltissimo a morire.» «Gesù Cristo» disse piano Gandle. «Quando fu tutto finito l'hanno appesa a un grosso albero.» Indicò l'ol-
mo del boia. «Come questo. Doveva essere una lezione, naturalmente. Una lezione per chi avesse avuto in mente di mettersi a fare la spia. Ma gli uccelli e gli altri animali si accanirono su quei resti. Due giorni dopo, su quell'albero erano rimaste soltanto le ossa.» Wu si rimise alle orecchie le cuffie del walkman. Poi distolse lo sguardo dall'albero. «Sarebbe veramente meglio che non ti facessi vedere» disse a Gandle. Larry faticò a staccare gli occhi da quel grosso olmo, ma alla fine ci riuscì e si diresse verso il furgone. 28 Mi misi addosso un paio di jeans neri con la vita della stessa misura di una gomma da camion. Ripiegai l'orlo dei pantaloni e strinsi la cinghia. Poi tolsi lentamente le mani e, con mia sorpresa, i pantaloni restarono su. La maglia nera dell'uniforme dei White Sox mi stava come una camiciona havvaiana. Il berretto nero da baseball, con un logo ricamato che non riconobbi, aveva già la visiera regolata sulla circonferenza del mio cranio. Tyrese mi dette anche un paio di quegli occhiali modello vaffanculo che portava Brutus. E quando uscii dal bagno per poco non scoppiò a ridere. «Stai proprio bene, Doc.» Poi si fece serio. Mi indicò sul tavolo alcuni fogli tenuti insieme da una graffetta. Li presi. Sulla prima pagina si leggeva ULTIME VOLONTÀ E TESTAMENTO. Lo guardai con aria interrogativa. «Era di questo che volevo parlarti» mi spiegò. «Del tuo testamento?» «Il mio piano prevede altri due anni.» «Che piano?» «Faccio questo lavoro per altri due anni finché non ho abbastanza soldi per portare TJ via da qui. Direi che ho un sessanta percento di possibilità di farcela.» «In che senso "farcela"?» Tyrese mi guardò fisso. «Hai capito.» Avevo capito. Di farcela a restare vivo, voleva dire. «E dove andrai?» Mi porse una cartolina illustrata con acque azzurre e palme illuminate dal sole. La cartolina era spiegazzata, lui evidentemente se la portava sempre dietro. «Giù in Florida» rispose, e per un attimo mi sembrò che gli mancasse la voce. «Conosco questo posto. È tranquillo. C'è una piscina,
una buona scuola. Nessuno si chiederà come ho fatto i soldi, non so se mi spiego.» Gli restituii la cartolina. «Non capisco che cosa c'entri io con questa storia.» «Questa» e sollevò la foto «serve se vince il sessanta percento. Questo» e mi indicò il testamento «se invece vince il quaranta.» Gli dissi che continuavo a non comprendere. «Sei mesi fa sono andato in città, capisci cosa voglio dire? Da uno di quegli avvocati strafighi. Mi è costato due bigliettoni passare con lui un paio d'ore. Joel Marcus, si chiama. Se muoio devi andare da questo avvocato. Sei il mio esecutore testamentario. Ho nascosto certe carte. Lì c'è scritto dove potrai trovare i soldi.» «Perché proprio io?» «Per prenderti cura del mio bambino.» «E Latisha?» «È una donna, Doc. Appena cadrò stecchito si metterà a cercare un altro uccello, non so se mi spiego. Probabilmente ci cascherà un'altra volta, con la droga.» Tornò a sedersi e incrociò le braccia sul petto. «Non ci si può fidare delle donne, Doc. Dovresti saperlo.» «È la madre di TJ.» «Giusto.» «Gli vuole bene.» «Sì, lo so. Ma è sempre una donna, non so se mi spiego. Se le metto in mano tutti quei soldi è capace di bruciarli in un giorno. Ecco perché ho vincolato la maggior parte di quei soldi. Tu sei l'esecutore testamentario. Se lei vorrà dei soldi per TJ, tu dovrai dare l'approvazione. Tu e quel Joel Marcus.» Avrei voluto fargli notare che quell'atteggiamento era decisamente maschilista, da Neanderthal addirittura, ma l'occasione non mi sembrò la più indicata. Cambiai posizione sulla sedia e lo guardai. Tyrese doveva avere intorno ai venticinque anni. Ne avevo visti tanti come lui. E per me rappresentavano tutti un'unica e indistinta entità negativa. «Tyrese?» Mi guardò. «Vattene via subito.» Si rabbuiò. «Usa i soldi che hai. Trovati un lavoro in Florida. Ti farò un prestito, se ne avrai bisogno. Ma portati via subito tua moglie e tuo figlio.» Scosse il capo.
«Tyrese?» Si alzò. «Andiamo, Doc. Muoviamoci.» «Lo stiamo ancora cercando.» Lance Fein era su tutte le furie, e il suo viso di cera sembrava dovesse mettersi a gocciolare da un momento all'altro. Dimonte masticava il suo stecchino. Krinsky prendeva appunti. Stone si tirava su i calzoni. Carlson era chino su un messaggio appena arrivato sul fax installato a bordo. «E quegli spari?» esclamò Lance Fein. L'agente in uniforme, il cui nome Carlson continuava a ignorare, si strinse nelle spalle. «Nessuno ne sa nulla. Secondo me si trattava di un'altra faccenda.» «Un'altra faccenda?» strillò Fein. «Ma che razza di incompetente sei, Benny? Quelli correvano gridando qualcosa su un ragazzo bianco.» «Be', ora sembra che nessuno ne sappia niente.» «Dovete insistere, cercare dappertutto. Ma insomma, Cristo, come è possibile che uno come Beck riesca a scomparire?» «Lo prenderemo.» Stone dette un colpetto sulla spalla a Carlson. «Che c'è, Nick?» Carlson continuò a leggere rabbuiato il messaggio arrivato via fax. In silenzio. Era un tipo preciso e ordinato, al limite dell'ossessivo-compulsivo. Si lavava le mani troppo spesso. Apriva e richiudeva la porta di casa una decina di volte prima di uscire. Continuò a fissare quel messaggio, evidentemente qualcosa non lo convinceva. «Nick?» Carlson si voltò a guardare il compagno. «La calibro trentotto che abbiamo trovato nella cassetta di sicurezza di Sarah Goodhart.» «Quella che si apriva con la chiave trovata addosso a uno dei due cadaveri?» «Quella.» «E allora?» «Ci sono un po' troppi buchi in questa faccenda.» «Buchi?» «Sì, fa acqua da tutte le parti. Tanto per cominciare, noi diamo per scontato che la cassetta di sicurezza di Sarah Goodhart era in effetti di Elizabeth Beck, giusto?» chiese Carlson. «Giusto.»
«Ma qualcuno ne ha pagato l'affitto ogni anno negli ultimi otto anni. Elizabeth è morta. E le morte non pagano le bollette.» «Sarà stato il padre. Secondo me quel tipo sa più di quanto vorrebbe farci credere.» A Carlson quella storia non piaceva. «E quei microfoni che abbiamo trovato in casa di Beck? Chi ce li ha messi?» «Non lo so» rispose Stone con un'alzata di spalle. «Forse Beck era già sospettato da qualcuno nel dipartimento di polizia.» «A questo punto l'avremmo già saputo. E questo rapporto dell'ATF sulla trentotto che era nella cassetta di sicurezza di Elizabeth?» Gli indicò il fax. «L'hai letto?» «No.» «Con il sistema bulletproof non hanno trovato nulla, ma la cosa non sorprende visto che i dati di raffronto non arrivano fino a otto anni fa.» Il metodo bulletproof per l'analisi dei proiettili adottato dall'ATF, l'ufficio federale competente per alcol, tabacchi e armi da fuoco, serviva per collegare un'arma appena rinvenuta a vecchi delitti insoluti. «Ma in compenso è stata fatta una bella scoperta. Prova un po' a indovinare chi era l'ultimo legittimo proprietario di quella pistola.» Porse il fax al collega. Stone lo lesse fino in fondo. «Stephen Beck?» «Il padre di David Beck.» «È morto, no?» «Sì.» Stone gli ridiede il fax. «E quindi il figlio potrebbe avere ereditato l'arma. Era la pistola di Beck.» «E perché mai Elizabeth Beck se l'è tenuta dentro la cassetta di sicurezza insieme con quelle foto?» Stone ci pensò su un minuto. «Forse temeva che potesse usarla contro di lei.» Carlson era sempre più scuro in volto. «Ci sfugge qualcosa.» «Sta a sentire, Nick, non facciamola più complicata di quanto già non sia. Abbiamo le prove, solidissime, che Beck ha ucciso Rebecca Schayes. Scordiamoci di Elizabeth Beck, okay?» Carlson lo fissò. «Scordarcene?» Stone si schiarì la voce e allargò le braccia. «Diciamo la verità, Nick, sarà una passeggiata accusare Beck dell'omicidio di Rebecca Schayes. Ma per quello della moglie... Cristo, è un caso vecchio di otto anni. Abbiamo qualche elemento, certo, ma non sufficiente a incastrarlo. Troppo tardi.
Forse è meglio non svegliare il can che dorme.» «Ma di che diavolo stai parlando?» Stone si avvicinò al collega, facendogli segno di chinarsi. «Qualcuno all'FBI preferirebbe che non scavassimo troppo.» «E chi sarebbe a non volere che scaviamo?» «Non ha importanza. Siamo tutti sulla stessa barca, no? Te l'immagini che casino scoppierebbe se venisse fuori che non è stato KillRoy a uccidere Elizabeth Beck? Il suo avvocato potrebbe chiedere un nuovo processo e....» «Non è mai stato processato per l'uccisione di Elizabeth Beck.» «Ma noi abbiamo chiuso l'indagine attribuendo il delitto a KillRoy. Riaprendo il caso solleveremmo altri dubbi. Lasciandolo com'è staremo tutti più tranquilli.» «Non mi interessa la tranquillità» obiettò Carlson. «È la verità che voglio.» «È quello che vogliamo tutti, Nick. Ma vogliamo soprattutto giustizia, no? Beck si prenderà l'ergastolo per l'omicidio di Rebecca Schayes. KillRoy resterà in carcere. E giustizia sarà stata fatta.» «Ci sono dei buchi, Tom.» «Continui a parlare di buchi, ma io non li vedo. Tra l'altro sei stato tu il primo a legare Beck all'omicidio della moglie.» «Proprio così, quello della moglie. Non di Rebecca Schayes.» «Non capisco dove vuoi arrivare.» «Il delitto Schayes non quadra.» «Scherzi? Altro che se quadra. La Schayes sapeva qualcosa. Noi cominciavamo a sospettare Beck. E lui doveva chiuderle la bocca.» Carlson continuò a fissarlo scuro in volto. «Non vorrai dirmi» proseguì Stone «che consideri una coincidenza la visita di Beck, ieri, al laboratorio della Schayes. Proprio mentre lo tenevamo sotto pressione.» «No.» «E allora, Nick? Non vedi? Tutto quadra perfettamente nell'omicidio della Schayes.» «Un po' troppo perfettamente.» «Non ricominciare con quelle stronzate.» «E allora dimmi una cosa, Tom. Come giudichi la progettazione e l'esecuzione dell'omicidio della moglie da parte di Beck?» «Perfette, direi.»
«Proprio così. Ha fatto fuori tutti i testimoni. Si è sbarazzato dei cadaveri. Se non fosse stato per la pioggia e per quell'orso non lo avremmo mai scoperto. E anche ora che l'abbiamo scoperto, diciamo la verità, non abbiamo elementi a sufficienza per farlo condannare.» «E allora?» «E allora perché Beck dovrebbe essere diventato all'improvviso tanto stupido? Sa che lo sospettiamo. Sa che l'assistente della Schayes può testimoniare che lui e Rebecca si sono visti il giorno del delitto. Quindi perché dovrebbe essere così idiota da tenersi la pistola nel garage? E perché lasciare quei guanti di plastica nel bidone dell'immondizia di casa?» «Evidente» rispose Stone. «Stavolta aveva i minuti contati. Con la moglie invece ha avuto tutto il tempo che voleva.» «Questo l'hai visto?» Carlson porse al collega il rapporto degli agenti che pedinavano Beck. «Stamattina è andato a parlare con il coroner. Perché?» «Non so» rispose Stone. «Forse voleva scoprire se nell'autopsia c'era qualcosa di compromettente per lui.» Carlson era sempre più buio in volto. Sentiva il bisogno di lavarsi le mani. «Ci sta sfuggendo qualcosa, Tom.» «Non capisco che cosa, ma in ogni caso cerchiamo di mandarlo al fresco. Poi potremo scoprire che cosa ci sfugge, ti pare?» Stone si avvicinò a Fein, Carlson continuò a rimuginare sui suoi dubbi. Ripensò alla visita di Beck al coroner. Poi tirò fuori di tasca il cellulare, gli strofinò sopra un fazzoletto e premette alcuni tasti. Quando qualcuno rispose disse: «Mettetemi in contatto con il coroner della contea di Sussex». 29 Ai vecchi tempi, almeno dieci anni fa, lei aveva degli amici che abitavano al Chelsea Hotel su West 23rd Street. L'albergo, a dir poco eccentrico, era per metà occupato da turisti e per metà da residenti. Vi si trovavano artisti, scrittori, studenti e schiavi del metadone, di ogni credo politico e religioso. Unghie laccate di nero, fondotinta bianco, rossetto rosso sangue, capelli senza l'ombra di un'onda: e tutto questo prima ancora che un look del genere diventasse di moda. Ben poco era cambiato. Era un posto ideale per chi cercava l'anonimato. Lei si era comprata una fetta di pizza dall'altra parte della strada, poi aveva preso una stanza in albergo e non si era più avventurata fuori. New
York. La sua città, una volta, ma negli ultimi otto anni quella era la seconda volta che ci tornava. E le mancava, New York. Con un gesto ormai abituale si sistemò i capelli sotto la parrucca. Quel giorno ne indossava una bionda e scura all'attaccatura. Poi inforcò un paio di occhiali dalla montatura leggera e si ficcò in bocca l'apparecchio, modificando così la conformazione del viso. Le tremavano le mani. Sul tavolo della cucina c'erano due biglietti d'aereo. Quella sera si sarebbero imbarcati al Kennedy sul volo British Airways 174 per LondraHeathrow, dove avrebbero trovato ad attenderli il loro contatto con le loro due nuove identità. Da lì avrebbero preso il treno per l'aeroporto di Gatwick e nel pomeriggio si sarebbero nuovamente imbarcati, stavolta per Nairobi, in Kenya. Con una jeep avrebbero poi raggiunto le pendici del monte Meru, in Tanzania. E dopo tre giorni di cammino sarebbero arrivati in uno dei pochi posti del pianeta privi di radio, televisione, corrente elettrica: e a quel punto avrebbero potuto considerarsi liberi. I nomi sui biglietti erano Lisa Sherman. E David Beck. Dette un'ultima sistemata alla parrucca e si guardò allo specchio. Aveva gli occhi lucidi, e per un attimo si rivide quella sera al lago. La speranza le bruciò in petto e per una volta lei non fece nulla per spegnerla. Riuscì invece ad abbozzare un sorriso e lasciò la stanza. Scese con l'ascensore e uscì dall'albergo girando subito a destra su 23rd Street. Era una bella passeggiata da lì ai giardinetti di Washington Square. Tyrese e Brutus mi lasciarono su West 4th Street all'angolo con Lafayette Avenue, circa quattro isolati a est dei giardinetti di Washington Square. Conoscevo quella zona abbastanza bene. Elizabeth e Rebecca avevano diviso un appartamento a Washington Square, sentendosi terribilmente all'avanguardia per il fatto di vivere nel cuore del Greenwich Village, fianco a fianco con il fotografo e l'avvocato specializzato nelle cause sociali, malate di bohème come tutti i loro amici cresciuti nei sobborghi residenziali ma che smaniavano per trasformarsi in abitanti della metropoli e giocavano alla rivoluzione con i soldi di papà. Non ho mai avuto nulla a che fare con quella gente, ma contenti loro... A quell'epoca frequentavo la facoltà di Medicina alla Columbia e quindi
vivevo dall'altra parte di Manhattan, nei pressi di quell'ospedale che ora si chiama il New York-Presbyterian Medical Center. Ma naturalmente passavo un mucchio di tempo al Village. Belli, quegli anni. Mancava mezz'ora all'appuntamento. Mi incamminai lungo West 4th Street e superai la Tower Records, inoltrandomi in un'area quasi completamente occupata dalla New York University. E la NYU voleva che te ne accorgessi. Vi aveva letteralmente piantato le sue bandiere, di un viola brillante con al centro il logo dell'ateneo, appendendole sulle facciate di numerosi edifici. Questa bruttissima tinta risaltava contro i mattoni dai colori sbiaditi caratteristici del Village. Quella strana pretesa territoriale mi era sembrata ancora più strana da parte di una enclave liberai come la New York University. Ma che ci volete fare. Il cuore mi batteva nel petto come se volesse uscirne. La avrei trovata già lì? Non corsi. Cercai anzi di calmarmi, di non pensare a ciò che avrei potuto scoprire da un momento all'altro. Le ferite della mia ultima disavventura cominciavano a cicatrizzarsi, a prudere perfino. Mi specchiai con la coda dell'occhio in una vetrina e non potei fare a meno di accorgermi quanto fossi ridicolo in quella tenuta da gangster da quattro soldi. Rischiavo a ogni passo di perdere i pantaloni. Li tenni su con una mano, usando l'altra per camminare impettito come una marionetta. Elizabeth poteva essere già arrivata. Ora vedevo la piazza. L'angolo di sudest era solo a un isolato di distanza. Nell'aria mi sembrava di avvertire una strana vibrazione, come di un temporale che sta per arrivare, ma probabilmente era tutto frutto della mia immaginazione lanciata ormai al galoppo. Camminavo a testa bassa. Avevano già fatto vedere la mia foto in televisione? I conduttori dei notiziari avevano già dato l'allarme, invitando i cittadini a stare in guardia contro il pericoloso assassino? Ne dubitavo, ma per prudenza non staccai gli occhi dal marciapiede. Allungai il passo. Washington Square d'estate era sempre stata un po' troppo vivace per i miei gusti. Vi succedevano troppe cose e sempre con un certo eccesso di disperazione. Atteggiamento preconfezionato, lo chiamavo. La zona che preferivo era quella con le scacchiere di cemento, attorno alle quali si radunava una composita umanità. Vi andavo a volte a giocare a scacchi. Ero abbastanza bravo, a scacchi, un gioco che in questo parco faceva da gran livellatore. Ricchi, poveri, bianchi, neri, senzatetto,
inquilini, affittuari, condomini: tutti trovavano il loro armonico punto d'incontro seguendo dall'alto le mosse di quelle vecchie statuine bianche e nere. Il migliore scacchista che abbia visto qui all'opera era un nero che, prima dell'era Giuliani, passava tutti i pomeriggi a imporre il lavaggio del parabrezza agli automobilisti fermi al semaforo. Elizabeth non era ancora arrivata. Mi sedetti su una panchina. Ancora quindici minuti. Il senso d'oppressione al petto si quadruplicò. Non avevo mai provato tanta paura in vita mia. Ripensai alla dimostrazione alla quale mi aveva fatto assistere Shauna, a quelle immagini digitali. E mi chiesi ancora una volta se non si fosse effettivamente trattato di una messinscena. E se Elizabeth fosse veramente morta? Che cosa avrei fatto? Inutile arrovellarsi, decisi. Uno spreco di energia. Doveva essere viva. Non c'era alternativa. Mi sedetti e attesi. «È arrivato» disse Wu, parlando nel suo cellulare. Larry Gandle guardò al di là dei vetri oscurati del furgone dove era seduto. David Beck si trovava effettivamente nel punto stabilito, vestito come un punk. Aveva il volto pieno di graffi e contusioni. Gandle scosse il capo, incredulo. «Ma come ha potuto farcela?» «Nessuno ci impedisce di chiederglielo» rispose Wu con quella sua voce cantilenante. «Non dobbiamo strapazzarlo troppo, Eric.» «Sì, certo.» «Gli altri sono al loro posto?» «Naturalmente.» Gandle controllò l'orologio. «Lei dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» L'edificio più vistoso di Washington Square, tra Sullivan e Thompson Street, era un'alta torre di mattoni color marrone sbiadito sul lato sud dei giardini. Molti erano convinti che la torre facesse ancora parte della Judson Memorial Church. Ma non era così. Da circa vent'anni vi avevano sede i dormitori degli studenti e gli uffici amministrativi della NYU. E per salire in cima alla torre era sufficiente avere l'aria di chi sa dove sta andando. Da lassù lei poté spaziare con lo sguardo su tutto il parco. E cominciò
subito a piangere. Beck era arrivato. E sfoggiava una tenuta ridicola per non farsi riconoscere, temendo di essere seguito: la e-mail l'aveva messo in guardia su un rischio del genere. Lo vedeva seduto su quella panchina tutto solo, in attesa, con la gamba destra che gli ballava su e giù: come faceva sempre ogni volta che era nervoso. «Ah, Beck...» Udì nella sua voce quel dolore, quell'angoscia. Continuò a fissarlo. Che cosa aveva mai fatto? Come poteva essere stata così stupida? Si costrinse a guardare da un'altra parte. Poi le gambe le si piegarono e lei scivolò lentamente con la schiena contro la parete fin quando non si trovò seduta sul pavimento. Beck era venuto per lei. E anche loro. Era sicura. Ne aveva individuati tre, come minimo. Ma forse erano di più. Aveva anche notato il furgone del COLORIFICIO B&T e aveva telefonato subito al numero indicato sulla fiancata: il numero era inesistente. Poi aveva chiamato il numero per le informazioni sull'elenco abbonati. Scoprendo che non esisteva alcuna ditta che si chiamava COLORIFICIO B&T. Li avevano trovati. C'erano anche loro, nonostante tutte le sue precauzioni. Chiuse gli occhi. Stupida. Troppo stupida. Come aveva potuto pensare che quel piano funzionasse, come le era venuto in mente di metterlo in atto? La smania le aveva appannato la lucidità. Ora lo sapeva. Si era irrazionalmente autoconvinta di poter trasformare in una manna dal cielo una catastrofe devastante come il ritrovamento dei due cadaveri. Stupida. Si alzò nuovamente in piedi e azzardò un'altra occhiata a Beck. Il cuore sembrava rimbalzarle nel petto come un sasso lungo una china. Lui sembrava così solo, così piccolo, fragile e indifeso. Beck si era ripreso dopo la sua morte? Probabilmente. Aveva vinto il dolore, si era rifatto una vita? Probabilmente. E aveva assorbito quel tremendo colpo solo per farsi nuovamente abbattere dalla stupidità di lei? Proprio così. Lacrime. Tirò fuori dalla borsetta i due biglietti d'aereo. Essere preparata, era stato sempre quello il suo segreto per sopravvivere. Preparata a ogni eventualità.
Ecco perché aveva fissato l'appuntamento proprio lì, in un giardino pubblico che conosceva tanto bene e dove quindi si sarebbe trovata in posizione di vantaggio. Non l'aveva ammesso con se stessa, ma sapeva che quella possibilità, quella probabilità, esisteva. Ora non più. Quello spiraglio, ammesso che effettivamente ce ne fosse stato uno, si era richiuso. Era l'ora di andarsene. Da sola. E stavolta definitivamente. Si chiese come lui avrebbe reagito dopo l'appuntamento mancato. Avrebbe atteso con ansia nuove e-mail che non sarebbero mai giunte? Avrebbe scrutato i visi delle sconosciute cercando di riconoscervi quello di lei? Oppure si sarebbe dimenticato di quella storia e avrebbe tirato avanti? E a lei, onestamente, avrebbe fatto piacere quest'ultima ipotesi? Ma in quel momento non aveva alcuna importanza. Prima di tutto doveva pensare a sopravvivere. Non aveva scelta. Doveva andarsene. Con un enorme sforzo distolse lo sguardo e scese di corsa le scale. Sul retro c'era un'uscita che dava su West 3rd Street, quindi non aveva nemmeno bisogno di passare per il parco. Spinse la pesante porta e uscì. In Sullivan Street, all'angolo con Bleeker Street, trovò un taxi. Si sedette e chiuse gli occhi. «Dove andiamo?» le chiese l'autista. «All'aeroporto Kennedy.» 30 Era passato troppo tempo. Me ne stavo sempre seduto sulla panchina ad aspettare. Vedevo in lontananza il caratteristico arco di marmo. Stanford White, il famoso architetto dei primi del Novecento che, sconvolto dalla gelosia per una quindicenne, aveva ucciso un uomo, veniva considerato il "progettista" dell'arco. E, sinceramente, non capivo come si potesse progettare qualcosa che è la copia del lavoro di un altro. Non era certo un segreto che l'Arco di Washington Square fosse stato copiato di sana pianta dall'Arco di Trionfo parigino. Gli abitanti di New York vanno orgogliosi di quello che è in effetti un facsimile. Non capivo perché. Non lo si poteva più toccare, l'arco. Per scoraggiare gli "artisti dei graffiti" l'avevano infatti recintato con delle catenelle, simili a quelle che si trovano in certe parti del South Bronx. Non mancavano in quel parco le re-
cinzioni, quasi tutte le aiuole ne erano dotate e in certi casi la barriera era addirittura doppia. Ma lei dov'era? I piccioni si muovevano con quella sicurezza altera che viene comunemente attribuita ai politici. Molti puntarono verso di me. Mi beccarono i pantaloni e poi sollevarono lo sguardo apparentemente delusi che non fossero commestibili. «Ty di solito si siede lì.» La voce era quella di un barbone, o almeno sembrava un barbone, con un cappellino sormonato da un'elica e grosse orecchie finte tipo quelle di Spock. Era seduto di fronte alla mia panchina. «Ah» dissi. «Ty dà loro da mangiare. E a loro piace Ty.» «Ah» ripetei. «Ecco perché sono venuti da te. Ma tu non gli piaci. Credono che tu sia Ty. O un suo amico.» «Capisco.» Detti un'occhiata all'orologio. Me ne stavo seduto lì da quasi due ore. Lei non sarebbe venuta. Qualcosa non era andato per il verso giusto. Temetti ancora una volta che si fosse trattato di una messinscena, ma allontanai subito quel pensiero. Meglio continuare a presumere che i messaggi erano veramente di Elizabeth. Se poi era tutto uno scherzo crudele alla fine lo avrei scoperto. Nel frattempo, tanto valeva attaccarsi alla speranza. "Qualsiasi cosa accada, ti amo..." Così era scritto in quel messaggio. Qualsiasi cosa accada. Come se qualcosa potesse andare storto. Come se qualcosa potesse succedere. Come se dovessi scordarmi di tutto e continuare a vivere la mia vita. Nemmeno per sogno. Mi sentivo strano. Certo, ero a pezzi. La polizia mi dava la caccia. Ero esausto, malconcio e al limite della follia. Eppure mi sentivo forte come non mi succedeva da anni. Non sapevo perché, ma sapevo per certo che a quel punto non avrei mollato. Solo Elizabeth poteva conoscere quei particolari come l'ora del bacio o la Bat Lady o ancora il titolo di quel filmetto, Teenage Sex Poodles. Ergo, era stata Elizabeth a mandarmi quelle e-mail. O era stato qualcuno a farmele mandare da lei. In un caso o nell'altro Elizabeth era viva. Dovevo darlo per scontato e agire di conseguenza. Non esisteva alternativa. E ora, che fare?
Estrassi di tasca il mio nuovo cellulare. Poi stetti un po' a massaggiarmi il mento fin quando non mi venne un'idea. Composi un numero. Un tizio seduto dall'altra parte del viale, e che stava leggendo il giornale da troppo tempo, mi lanciò un'occhiata. Non mi piacque. Meglio non correre rischi. Mi alzai, spostandomi per non farmi sentire. Rispose Shauna. «Pronto?» «Il telefono del vecchio Teddy» dissi. «Beck? Ma che diavolo...» «Tre minuti.» Riattaccai. Immaginavo che il telefono di Shauna e Linda fosse sotto controllo e la polizia avrebbe quindi potuto ascoltare ogni parola che ci saremmo detti. Ma al piano sotto al loro abitava un vecchio vedovo, Theodore Malone. A volte Shauna e Linda passavano da lui per vedere se aveva bisogno di qualcosa. Avevano la chiave di casa sua. Avrei richiamato lì. I federali o i poliziotti o chiunque fossero non avrebbero certo avuto il tempo per mettere sotto controllo anche quel telefono. Composi il numero del vecchio Teddy. Shauna rispose senza fiato. «Pronto?» «Ho bisogno del tuo aiuto.» «Hai un'idea di quello che sta succedendo?» «Immagino che sia scattata una gigantesca caccia all'uomo.» Continuavo a sentirmi stranamente calmo. Almeno apparentemente. «Devi costituirti, Beck.» «Non ho ucciso nessuno.» «Lo so, ma da latitante non...» «Vuoi aiutarmi sì o no?» la interruppi. «Dimmi.» «L'hanno già stabilita l'ora della morte?» «Attorno alla mezzanotte. Non hanno ancora ricostruito bene i tuoi movimenti, ma pensano che tu sia uscito di casa poco dopo di me.» «Okay, allora devi fare una cosa.» «Dimmi.» «Anzitutto, devi andare a prendere Chloe.» «Il tuo cane?» «Sì.» «Perché?» «Perché, tanto per dirne una, deve fare una passeggiata.» Eric Wu parlò al cellulare. «È al telefono, ma il mio uomo non riesce ad
avvicinarsi abbastanza per sentire quello che dice.» «Beck si è accorto del tuo uomo?» «È possibile.» «Allora forse ora sta telefonando per disdire l'appuntamento.» Wu rimase in silenzio. E guardò il dottor Beck che, infilatosi in tasca il telefonino, si era mosso e stava attraversando il parco. «Abbiamo un problema» disse allora. «Quale?» «Sembra che stia per allontanarsi dal parco.» Dall'altra parte ci fu un breve silenzio. Wu attese. «Ce lo siamo già perso una volta» disse Gandle. Wu tacque. «Non possiamo correre rischi, Eric. Bloccalo. Bloccalo subito e scopri quello che sa, poi fallo fuori.» Eric fece un cenno in direzione del furgone. Poi si mosse verso Beck. «Consideralo già fatto.» Oltrepassai la statua di Garibaldi che sguaina la spada. Strano a dirsi, avevo una destinazione. Ma non la prigione di KillRoy, c'era tempo per quella visita. La visita volevo invece farla a PF, cioè a quell'avvocatucolo Peter Flannery, di cui avevo trovato le iniziali sulla vecchia agenda di Elizabeth. Potevo sempre andarlo a trovare in studio e farci una bella chiacchierata. Non riuscivo a immaginare che cosa avrei potuto scoprire, ma almeno avrei fatto qualcosa. Mi sarei messo in moto. Sulla mia destra vidi un parco giochi, ma i bambini saranno stati al massimo una decina. Ben più numerosi erano invece, nel George's Dog Park alla mia sinistra, i cani con la bandana al collo accompagnati dai loro genitori alternativi. Sul piccolo palcoscenico si stavano esibendo due giocolieri. Superai un gruppo di studenti seduti in semicerchio, tutti avvolti nei loro poncho. Un orientale grosso come un armadio e con i capelli ossigenati camminava come sospeso nell'aria alla mia destra. Mi guardai alle spalle. L'uomo che stava leggendo il giornale era scomparso. La cosa mi dette da pensare. Era rimasto lì in pratica per tutto il tempo che me ne ero stato seduto su quella panchina. E, dopo alcune ore, aveva deciso di andarsene proprio quando me n'ero andato io. Una coincidenza? Probabile. "Ti seguiranno..." Così era scritto nel messaggio. Non "forse ti seguiranno", e quindi, a
pensarci bene, chi l'aveva scritto ne era abbastanza sicuro. Continuai a camminare pensandoci su. Ma non era possibile. Il pedinatore più bravo non sarebbe riuscito a starmi dietro con tutto quello che mi era successo quel giorno. Impossibile che potessi essere stato pedinato dal tizio con il giornale. Non riuscivo, quantomeno, a considerare un'ipotesi del genere. E se avessero intercettato quella e-mail? Non capivo come avrebbero potuto fare. L'avevo cancellata. Non era mai apparsa sul mio computer. Attraversai Washington Park West. Arrivato al marciapiede mi sentii posare una mano sulla spalla. Piano, all'inizio. Come il gesto di un vecchio amico che vuole farti una sorpresa. Mi voltai ed ebbi il tempo sufficiente per accorgermi che si trattava dell'orientale con i capelli ossigenati. Poi quello mi strinse la mano sulla spalla. 31 Le sue dita penetrarono nell'articolazione della spalla come punte di lancia. La parte sinistra del mio corpo fu attraversata dal dolore, un dolore da stordire. Le gambe cedettero. Cercai di gridare, di resistere, ma non riuscii a muovermi. Un furgone bianco ci affiancò. Il portellone laterale fu fatto scorrere dall'interno. L'orientale spostò la mano sul mio collo. Poi premette su due punti equidistanti e mi si rovesciarono gli occhi. Con l'altra mano giocò con la mia spina dorsale facendomi chinare in avanti. Mi ritrovai piegato in due. Mi spinse nel furgone. Delle braccia mi trascinarono dentro. Atterrai sul freddo pavimento metallico. Niente sedili. Il portellone venne richiuso. E il furgone si mosse perdendosi nel traffico. L'intera sequenza, dalla mano poggiata sulla mia spalla alla partenza del furgone, era durata al massimo cinque secondi. "La Glock" pensai. Cercai di tirarla fuori, ma qualcuno mi saltò sulla schiena. Quindi mi bloccò le mani sul fondo del furgone. Udii uno scatto metallico e mi accorsi che il polso destro era stato agganciato al fondo. Poi mi voltarono sulla schiena con tanta energia da farmi quasi uscire la spalla dall'articolazione. Erano due. Ora li vedevo. Due bianchi, sulla trentina. Riuscivo a vederli chiaramente. Troppo chiaramente. Avrei potuto identificarli. E questo loro
sicuramente lo sapevano. Brutta faccenda. Mi ammanettarono anche l'altro polso e mi fecero allargare le gambe, sulle quali poi si sedettero. Ero completamente indifeso, alla loro mercé. «Che cosa volete?» chiesi. Nessuno rispose. Il furgone girò l'angolo e si fermò con una brusca frenata. L'orientale grande e grosso si spostò dal sedile anteriore e si mise a fissarmi con una blanda curiosità, mentre il furgone ripartiva. «Che ci facevi nel parco?» mi chiese. La sua voce mi colpì. Me l'ero aspettata profonda e minacciosa, mentre invece era gentile, sui toni acuti, e quasi infantile. «Chi sei?» gli chiesi. Mi tirò un pugno allo stomaco. Un pugno così forte da toccare sicuramente con le nocche contro il pavimento. Cercai di piegarmi o di appallottolarmi, ma le manette e i due uomini seduti sulle mie gambe me lo impedirono. Aria. Era tutto ciò che volevo, l'aria. Credetti di vomitare da un momento all'altro. "Ti seguiranno..." Ora avevano un significato tutte quelle precauzioni, le e-mail senza firma, le parole in codice, gli avvertimenti. Elizabeth aveva paura. Mi mancava ancora qualche risposta, anzi a dire il vero non ne avevo in pratica nessuna, ma capivo ora che tutte le sue criptiche comunicazioni erano conseguenza della paura. Paura di essere trovata. Paura di essere trovata da questi tizi. Stavo soffocando. Ogni cellula del mio organismo bramava l'ossigeno. Finalmente il grosso orientale fece un cenno agli altri due. Si sollevarono dalle mie gambe. Portai di scatto le ginocchia il più vicino possibile al torace. Cercai disperatamente di assorbire aria, scalciando e agitandomi come un epilettico. Dopo un po' mi tornò il fiato. L'orientale mi si inginocchiò accanto lentamente. Tenni gli occhi fissi nei suoi. O almeno ci provai. Non stavo fissando lo sguardo di un altro essere umano o di un animale. Quegli occhi appartenevano a qualcosa di inanimato. Se si potesse guardare negli occhi un armadietto metallico si ricaverebbe la stessa impressione. Ma non battei ciglio. Era giovane, anche, il mio rapitore: vent'anni, venticinque al massimo. Poggiò la mano all'interno del mio braccio, poco sopra il gomito. «Che ci facevi nel parco?» mi chiese di nuovo con la sua voce cantilenante. «Mi piace il parco.»
Premette. Soltanto con due dita. Mi mancò nuovamente il fiato. Le dita mi penetrarono nella carne e in un fascio di nervi. Gli occhi sembravano volermi schizzare fuori dalle orbite. Non avevo mai provato un dolore così lancinante. Mi toglieva ogni altra sensazione. Iniziai a divincolarmi come un pesce preso all'amo. Cercai di scalciare ma le gambe mi ricaddero simili a elastici. Non riuscivo a respirare. Lui non mollava la presa. Continuai ad aspettare che mi lasciasse il braccio, o che almeno riducesse la pressione delle dita. Inutilmente. Cominciai a emettere dei mugolii. Ma lui mantenne la presa, con un'espressione annoiata. Il furgone frattanto non si era fermato. Cercai di controllare il dolore, di intervallarlo in qualche modo. Ma non ci riuscii. Avevo bisogno di un attimo di sollievo. Solo un attimo. Avevo bisogno che mollasse la presa. Ma quello non fece una piega, continuando a fissarmi con quel suo sguardo vuoto. La pressione sul braccio si ripercuoteva sul cervello. Non riuscivo a parlare, anche se avessi deciso di dirgli ciò che voleva sapere la mia gola si era chiusa. E lui se n'era accorto. Allontanare il dolore. Non riuscivo a pensare ad altro. Come allontanare il dolore? Tutto il mio essere sembrava convergere e concentrarsi in quel fascio di nervi del braccio. Mi sentivo il corpo in fiamme, la pressione sul cranio era aumentata. Pochi secondi prima che mi esplodesse la testa lui mollò d'improvviso la presa. Mi mancò di nuovo l'aria, ma stavolta per il sollievo. Un sollievo di breve durata. La sua mano mi scivolò lentamente sulla parte bassa dell'addome e si fermò. «Che ci facevi nel parco?» Cercai di pensare, di farmi venire in mente una bugia accettabile. Ma quello non me ne dette il tempo. Premette nuovamente, in profondità, e il dolore tornò immediatamente: più forte di prima, in un certo senso. Le dita mi penetrarono nel fegato come una baionetta. Ricominciai disperatamente a scalciare, o meglio a tentare di scalciare. La bocca mi si spalancò in un urlo silenzioso. Sollevavo e riabbassavo freneticamente il capo. E così facendo notai la parte posteriore del capo del guidatore. Il furgone si era fermato, probabilmente a un semaforo. Il guidatore guardava dritto davanti a sé, la strada immagino. Poi tutto accadde a gran velocità. Vidi la testa del guidatore girarsi di scatto verso il finestrino, come se avesse udito un rumore. Ma era troppo tardi. Qualcosa lo colpì al lato del
cranio. E lui andò giù come una sagoma del tiro a segno. Gli sportelli anteriori vennero spalancati. «Mani in alto!» Apparvero delle pistole. Due. I loro bersagli erano dietro di me. L'orientale mollò la presa. E io ricaddi con la schiena sul pavimento, incapace di muovermi. Dietro le pistole vidi due volti familiari e mi misi quasi a piangere di gioia. Tyrese e Brutus. Uno dei bianchi provò a muoversi. Tyrese fece fuoco, quasi distrattamente. Il torace del bianco esplose. L'uomo ricadde indietro con gli occhi spalancati. Morto. Senza dubbio. Il guidatore emise un grugnito, stava evidentemente per riprendere conoscenza. Brutus gli mollò una gomitata sul viso. E quello tornò nel regno dei sogni. L'altro bianco teneva le braccia sollevate. Il mio aguzzino orientale non aveva cambiato minimamente espressione. Guardava come assente ciò che succedeva, senza sollevare o abbassare le mani. Brutus spostò l'autista e si mise al volante, inserendo la marcia. Tyrese continuava a tenere l'arma puntata sull'orientale. «Toglietegli le manette» ordinò. Il bianco guardò l'orientale. Questi fece un cenno di assenso. Il bianco mi tolse le manette. Cercai di sollevarmi a sedere. Mi sentivo come se dentro di me qualcosa fosse andato in frantumi, e ora le schegge mi stessero pungendo i tessuti. «Stai bene?» mi chiese Tyrese. Riuscii con fatica ad annuire. «Vuoi che me ne sbarazzi?» Mi voltai verso quello dei due bianchi che respirava ancora. «Per chi lavori?» Quello fece scivolare lo sguardo sull'orientale. Lo imitai. «Per chi lavori?» gli chiesi ancora. L'orientale finalmente sorrise ma non con gli occhi, che rimasero privi d'espressione. Poi, di nuovo, tutto avvenne troppo velocemente. Non vidi la sua mano scattare, ma la sentii che mi stringeva alla nuca lanciandomi poi senza sforzo apparente contro Tyrese. Mi ritrovai a mezz'aria, con le gambe che scalciavano come se in tal modo potessero in qualche modo rallentare il mio volo. Tyrese mi vide arrivare ma non fece in tempo a evitarmi. Atterrai su di lui. Cercai di districarmi con la massima
velocità, ma quando riuscimmo a metterci in piedi l'orientale se l'era già svignata dal portellone scorrevole. Ed era scomparso. «Quel fottuto Bruce Lee imbottito di steroidi!» disse Tyrese. L'autista aveva ripreso a muoversi. Brutus strinse il pugno, ma Tyrese lo fermò. «Questi due non sanno un cazzo» mi disse. «Lo so.» «Possiamo farli fuori o lasciarli andare.» Per lui le due soluzioni erano assolutamente identiche, avrebbe potuto decidere tirando la monetina. «Lasciamoli andare» dissi. Brutus trovò un isolato tranquillo, probabilmente nel Bronx ma non ci giurerei. Il bianco che respirava ancora uscì dal furgone senza bisogno di aiuto. Brutus sollevò il guidatore e il cadavere come due sacchi della spazzatura e li lanciò fuori. Il furgone si rimise in movimento. Per qualche minuto nessuno parlò. Poi Tyrese si allacciò le mani dietro la nuca. «Abbiamo fatto bene a restare in zona, vero Doc?» Mi sembrò la massima del secolo, quella frase. 32 I fascicoli delle vecchie autopsie erano conservati in un deposito di Layton, New Jersey, non lontano dal confine con la Pennsylvania. L'agente Carlson vi andò da solo. Non gli piacevano i depositi, gli facevano l'effetto che ad altri fa un gatto nero. Rimanevano aperti ventiquattr'ore su ventiquattro, senza uno straccio di guardia, con solo una telecamera all'ingresso tanto per far vedere che il posto era sorvegliato... Sa Dio che cosa era conservato in quegli edifici di cemento. Carlson sapeva che molti di quei depositi erano stipati di droga, soldi e ogni tipo di merce di contrabbando. Il che non lo impensieriva più di tanto. Ma ricordava ancora quella volta, qualche anno prima, in cui un dirigente di una società petrolifera era stato sequestrato, chiuso in una cassa e stivato in uno di quei depositi. Il poveretto era morto soffocato. Carlson era presente al momento del ritrovamento del cadavere. E da quel giorno non riusciva a impedirsi di immaginare, come in quel momento, che in qualche container a pochi metri da lui potesse trovarsi una persona scomparsa da tempo, al buio, incatenata, che cercava disperatamente di togliersi il bavaglio di bocca per gridare aiuto. Chi sostiene che il mondo è malato, in realtà non immagina nemmeno
quanto lo sia. Timothy Harper, il coroner della contea, uscì da una specie di box tenendo in mano una grossa busta marroncina chiusa con uno spago. E porse a Carlson il rapporto sull'autopsia di Elizabeth Beck. «Deve mettere una firma» gli disse. Carlson firmò il modulo. «Beck non le ha detto il motivo per cui voleva vedere questo rapporto?» chiese poi al medico. «Diceva di essere ancora addolorato, aggiungendo poi qualcosa a proposito della chiusura dell'inchiesta, ma a parte questo...» Harper si strinse nelle spalle. «Le ha chiesto qualcosa sull'inchiesta?» «Niente di particolare.» «E di non particolare?» Harper ci pensò su un momento. «Mi ha chiesto se ricordavo chi aveva identificato il cadavere.» «E lei se lo ricordava?» «No, all'inizio non mi era venuto in mente.» «Chi l'ha identificata?» «Il padre. Poi Beck mi ha chiesto quanto era durata.» «Quanto era durata che cosa?» «L'identificazione.» «Non capisco.» «E nemmeno io l'ho capito, francamente. Voleva sapere se il suocero aveva riconosciuto immediatamente la figlia o se invece ci aveva impiegato qualche minuto.» «E perché gli interessava un particolare del genere?» «Non ne ho idea.» Carlson tentò di darsi qualche spiegazione, ma inutilmente. «Lei che cosa gli ha risposto?» «La verità. Che non ricordavo. Ma immagino che il padre della vittima non ci abbia impiegato più tempo del normale, altrimenti me ne sarei ricordato.» «Nient'altro?» «No, niente. Senta, se qui abbiamo finito avrei da fare con due ragazzi che si sono schiantati contro un palo con una Honda Civic.» Carlson strinse in mano il rapporto. «Sì, abbiamo finito. Come posso mettermi in contatto con lei, se ne avessi bisogno?» «Mi trova in ufficio.»
"Peter Flannery, Avvocato" era la scritta in lettere dorate ormai sbiadite sul vetro smerigliato della porta. E c'era anche un foro della grandezza di un pugno, sul vetro. Qualcuno l'aveva ricoperto alla meno peggio con del nastro adesivo da pacchi. Sembrava vecchio, quel nastro marrone. Abbassai sugli occhi la visiera del cappello. Mi sentivo a pezzi, dentro, dopo l'incontro con quel grosso orientale. Avevamo sentito il mio nome alla radio, sulla stazione 1010 WINS, che ti promette il mondo in cambio di ventidue minuti di attenzione. Ero ufficialmente un ricercato. Difficile far assimilare al cervello un concetto del genere. Ero nei guai fino al collo, eppure il tutto mi appariva stranamente distante, come se a essere ricercato fosse qualcuno che conoscevo vagamente. Io, quello vero, in carne e ossa, ero abbastanza indifferente. Il mio obiettivo era uno e uno soltanto: ritrovare Elizabeth. Tutto il resto mi sembrava assolutamente di contorno. Con me c'era Tyrese. Nella sala d'attesa, oltre a noi c'erano cinque o sei persone. Due portavano degli elaborati collarini rigidi. Uno aveva una gabbia con dentro un uccellino. Non riuscivo a capire il perché. Nessuno si prese il disturbo di lanciarci un'occhiata, come se avessero messo su un piatto della bilancia lo sforzo di muovere gli occhi nella nostra direzione e sull'altro piatto i possibili benefici di un'operazione del genere, decidendo alla fine che non ne valeva assolutamente la pena. La donna alla reception aveva un'orribile parrucca e ci guardò come se fossimo stati appena espulsi dal didietro di un cane. Chiesi di vedere Peter Flannery. «È con un cliente.» Non faceva schioccare la gomma da masticare, ma ci mancava poco. Intervenne Tyrese. E, come un prestigiatore, d'improvviso si fece spuntare in mano un rotolo di banconote più spesso del mio polso. «Lo informi che paghiamo in anticipo» le disse. «E c'è un piccolo anticipo anche per lei, se ci fa parlare subito con l'avvocato» aggiunse con un sorrisetto. Due minuti dopo venivamo ammessi nel sancta sanctorum dell'avvocato Flannery, dove stagnavano il puzzo di sigaro e l'odore di whisky. Il mobilio, del tipo supereconomico che ci si deve montare da soli, aveva ricevuto una mano di vernice scura nel tentativo di spacciarlo per quercia o mogano: e il risultato era convincente come potrebbe esserlo un toupet comprato a Las Vegas. Sulle pareti, al posto di un qualche diploma scolastico o universitario, c'erano alcune di quelle targhe ricordo con le quali si cerca di
abbindolare la gente facilmente abbindolabile. Da una di queste targhe era così possibile apprendere che Flannery faceva parte dell'Associazione internazionale degustatori di vino, da un'altra che aveva frequentato nel 1996 un non meglio precisato "Congresso legale Long Island" a Garden City. Roba grossa. C'erano anche delle foto, scolorite dalla luce, di Flannery più giovane, insieme con presunte celebrità o presunti politici locali, nessuno dei quali riuscii a riconoscere. Il posto d'onore alle spalle della scrivania era occupato dalla foto di quattro giocatori di golf, montata su una cornice di legno. «Prego» disse Flannery, con un ampio gesto della mano. «Accomodatevi, signori.» Mi sedetti. Tyrese rimase in piedi, incrociò le braccia sul petto e andò ad appoggiarsi contro la parete di fronte. Stava forse esagerando con le pose da duro, ma potevo mai correggerlo io? «Allora» riprese Flannery, strascicando quella parola come se tenesse in bocca un bolo di tabacco. «Che cosa posso fare per voi?» Peter Flannery aveva l'aspetto dell'atleta che in età matura è andato in malora. I riccioli biondi si erano rarefatti e diradati. I lineamenti erano diventati malleabili. Indossava un abito di rayon con gilet, che gli faceva anche da panciera, e sul gilet spiccava la catena in similoro di un orologio nascosto nel taschino. «Ho bisogno di farle qualche domanda su un vecchio caso» dissi. Puntò su di me gli occhi, che avevano mantenuto il colore azzurro ghiaccio della gioventù. Sulla scrivania notai una foto di Flannery con una donna obesa e una ragazzina sui quattordici anni visibilmente afflitta dai dispiaceri di un'adolescenza difficile. Sorridevano tutti e tre, ma in quei sorrisi c'era anche un'ombra di preoccupazione, come se genitori e figlia si stessero preparando a ricevere un brutto colpo. «Un vecchio caso?» ripeté. «Mia moglie è venuta da lei otto anni fa. Ho bisogno di sapere il motivo di quella visita.» Flannery lanciò un rapido sguardo a Tyrese. E quello, che se ne stava sempre a braccia conserte, non gli mostrò nulla oltre alle lenti scure. «Non capisco. Si trattava di un divorzio?» «No.» «E allora...?» Sollevò le braccia come per dire "vorrei-aiutarla-ma-èimpossibile". «Le conversazioni tra avvocato e cliente sono protette dal segreto professionale, quindi non vedo come potrei aiutarla.»
«Non credo che mia moglie fosse una sua cliente.» «Mi sta confondendo, ora, signor...» E attese che colmassi quel silenzio. «Beck. Dottor Beck, non signor Beck.» Udendo il mio nome il suo doppio mento sembrò d'improvviso allentarsi. Pensai che potesse avere sentito la notizia alla radio, ma forse il motivo era un altro. «Mia moglie si chiama Elizabeth.» Flannery rimase in silenzio. «Se la ricorda, vero?» Altra rapida occhiata a Tyrese. «Era una sua cliente, avvocato?» Si schiarì la voce. «No, non era una mia cliente.» «Ma lei quella visita se la ricorda, vero?» Flannery cambiò posizione sulla sedia. «Sì.» «Di che avete parlato?» «È passato tanto tempo, dottor Beck.» «Mi sta dicendo che non se lo ricorda?» Non rispose direttamente. «Sua moglie è stata uccisa, vero? Ricordo di avere letto qualcosa sui giornali, all'epoca.» Cercai di non fargli cambiare discorso. «Perché è venuta da lei?» «Sono un avvocato» disse, vuotandosi quasi i polmoni. «Ma non era il suo avvocato.» A quel punto tentò di riprendersi un certo vantaggio. «Il mio tempo ha un prezzo» disse, tossendo educatamente dentro il pugno. «Mi è sembrato di sentire parlare di onorario anticipato.» Mi voltai verso Tyrese, che si era già mosso autonomamente. Il rotolo di banconote fece nuovamente la sua comparsa, lui lanciò sulla scrivania tre biglietti da cento con il faccione di Ben Franklin, poi gratificò l'avvocato di un'occhiata - anzi, un'occhialata - scura e tornò al suo posto. Flannery guardò i soldi senza toccarli. Tamburellò con le dita di una mano contro quelle dell'altra, poi unì le palme.«E se non glielo dicessi?» «Non vedo perché non dovrebbe. Quella conversazione non ricade nella fattispecie della riservatezza, vero?» «Non mi riferivo a quello.» I suoi occhi azzurro ghiaccio sembravano voler perforare i miei. «Amava sua moglie, dottor Beck?» «Moltissimo.» «Si è risposato?» «No. Ma questo che cosa c'entra?»
Lui si appoggiò allo schienale della poltrona. «Se ne vada. Riprenda i suoi soldi e se ne vada.» «Ma è importante per me, avvocato.» «Non capisco perché. Sua moglie è morta da otto anni. Chi l'ha uccisa è rinchiuso nel braccio della morte.» «Che cosa ha paura di dirmi?» Flannery non rispose subito. Tyrese si staccò nuovamente dalla parete, avvicinandosi alla scrivania. L'avvocato rimase a. guardarlo, sorprendendomi poi con uno stanco sospiro. «Fammi un favore» disse poi a Tyrese. «Piantala di fare questa scena, capito? Ho messo al loro posto certi psicotici al confronto dei quali tu sembri Mary Poppins.» Tyrese sembrò sul punto di reagire, ma sarebbe stato inutile. Lo chiamai. Lui mi guardò. Scossi il capo. Tornò al suo posto. Flannery si stava mordicchiando il labbro inferiore. Non l'interruppi. Potevo aspettare. «Sarebbe meglio che lei rimanesse all'oscuro» disse dopo un po'. «E invece voglio sapere.» «Saperlo non può risuscitare sua moglie.» «Non è detto.» Queste parole sembrarono attirare la sua attenzione. Mi guardò buio in volto, ma qualcosa nei suoi lineamenti si era ammorbidito. «La prego» dissi. Si girò con la poltrona verso la finestra, dalle veneziane che dovevano essere già ingiallite e screpolate all'epoca del Watergate. Incrociò le mani sull'addome prominente e le vidi salire e scendere seguendo il ritmo del suo respiro. «Ero un avvocato d'ufficio, a quel tempo» cominciò. «Lo sa che cosa vuol dire?» «Che difendeva i più poveri.» «Qualcosa del genere. Controllavo che fossero stati rispettati i loro diritti di non rispondere, roba del genere. I cittadini hanno diritto all'assistenza legale se se la possono permettere. Io la fornivo a quelli che non se la potevano permettere.» Continuò a fissare le veneziane. «Un giorno mi vidi assegnare uno dei più clamorosi casi di omicidio in questo stato.» Sentii qualcosa di freddo strisciarmi come un verme dentro lo stomaco. «Quale?» gli chiesi. «Quello di Brandon Scope. Il figlio del miliardario. Se lo ricorda?»
Il terrore mi attanagliò. Respiravo a fatica. Ecco perché quel nome, Flannery, mi era suonato familiare. Brandon Scope. Scossi il capo, non perché non ricordassi quella faccenda ma perché avrei voluto sentirgli fare tutti i nomi di questo mondo tranne quello. Per amore di chiarezza vi fornisco un ragguaglio giornalistico. Brandon Scope, di anni trentatré, era stato rapinato e ucciso otto anni prima. Proprio così, otto anni. Forse due mesi prima dell'assassinio di Elizabeth. Lo avevano ucciso con due colpi di pistola, poi gli assassini avevano scaricato il cadavere nei pressi di un casermone ad Harlem. I soldi che aveva addosso erano scomparsi. I media suonarono tutti i loro violini per l'occasione. Ricordarono le numerose istituzioni benefiche delle quali Brandon Scope faceva parte, la sua vita dedicata alla redenzione dei ragazzini abbandonati, la sua scelta di aiutare i più poveri invece di mettersi alla guida dell'impero paterno e così via sviolinando. Fu uno di quei delitti che "scioccano una nazione", che fanno puntare il dito contro certi ambienti, che fanno torcere le mani per il dispiacere. Dopo la sua morte era stata creata una fondazione benefica intitolata a Brandon, e la dirigeva mia sorella Linda. Non potete immaginare quanto bene riesca a fare mia sorella con quella fondazione. «Ricordo» dissi piano. «E ricorda anche che fu compiuto un arresto?» «Un ragazzo sbandato» dissi. «Uno di quelli che aiutava, vero?» «Sì. Si chiamava Helio Gonzalez e aveva ventidue anni. Abitava a Barker House, Harlem. Aveva una fedina penale di tutto rispetto: rapina a mano armata, incendio doloso, aggressione. Un vero angioletto, questo Gonzalez.» Avevo la bocca asciutta. «Ma poi le accuse caddero, vero?» chiesi. «Sì. La polizia non aveva molto a suo carico. Certo, c'erano le sue impronte digitali sul luogo del delitto, ma insieme con tante altre. In casa sua vennero trovati alcuni capelli di Brandon Scope e perfino una macchia di sangue dello stesso tipo di quello della vittima, ma Scope era stato più di una volta a casa di Gonzalez e quindi non avremmo avuto difficoltà a sostenere che queste tracce erano precedenti al delitto. Ciò nonostante la polizia ritenne di avere materiale sufficiente per arrestarlo, e io non sono Perry Mason. Loro si erano fissati con Gonzalez, erano sicuri che avrebbe ceduto.» «E che successe poi?» Flannery continuava a evitare il mio sguardo, e la cosa non mi piaceva affatto, perché lui era il classico tipo fissato per le scarpe ultralucide e il
contatto visivo. Conoscevo bene il tipo, e non volevo averci nulla a che fare. «La polizia era riuscita ad accertare con una certa precisione l'ora della morte» proseguì. «Il coroner l'aveva fissata alle undici, dopo avere rilevato la temperatura del fegato: con un'approssimazione di mezz'ora in più o in meno.» «Non capisco. Che c'entra tutto questo con mia moglie?» Riprese a tamburellare con le dita. «Mi sembra di ricordare che anche sua moglie assisteva i più poveri» disse. «Nello stesso ufficio della vittima.» Non sapevo dove voleva andare a parare, ma sentivo che la conclusione non mi avrebbe fatto piacere. Per un attimo mi chiesi se per caso Flannery non avesse ragione, se veramente non fosse stato preferibile che rimanessi all'oscuro, se non mi convenisse alzarmi e andarmene. Ma rimasi. «E allora?» «È da animo nobile lavorare in favore dei meno abbienti» osservò. «Mi fa piacere che lei la pensi così.» «Per questo decisi a suo tempo di fare l'avvocato. Per aiutare i poveri.» Ingoiai la bile e mi raddrizzai sulla sedia. «Le spiacerebbe dirmi che cosa c'entrava mia moglie con questa storia?» «Fu lei a farlo uscire.» «Chi?» «Il mio cliente, Helio Gonzalez. Sua moglie lo rimise in libertà.» «E come?» «Fornendogli l'alibi.» Il mio cuore si fermò. E anche i polmoni. Avrei voluto percuotermi il petto per rimettere in moto i meccanismi. Con la coda dell'occhio mi accorsi che Tyrese mi stava guardando in maniera strana. «Come?» chiesi. «Come ha fatto a fornirgli l'alibi, vuol dire?» Annuii lentamente, ma lui continuava a non guardarmi. Allora riuscii a farmi uscire di bocca un «Sì.» «Semplice» rispose. «Lei ed Helio si trovavano insieme al momento del delitto.» La mia mente prese ad annaspare in pieno oceano, senza alcun salvagente in vista. «Ma sui giornali non avevo letto niente del genere» dissi. «La cosa fu messa a tacere.» «Perché?»
«Su richiesta di sua moglie, per dirne una. E perché l'ufficio del procuratore distrettuale non voleva dare risalto a quell'arresto sbagliato. Tutto fu dunque fatto lontano dai riflettori. E a parte questo c'erano stati... come dire... dei problemi, a proposito della testimonianza di sua moglie.» «Quali problemi?» «All'inizio aveva mentito, in un certo senso.» Annaspai di nuovo. Andai a fondo. Riemersi. Annaspai. «Di che sta parlando?» «Sua moglie sostenne che al momento del delitto si trovava in ufficio con Gonzalez, per dargli alcuni consigli su come trovarsi un lavoro. Ma nessuno se la bevve.» «Perché no?» L'avvocato sollevò scettico un sopracciglio. «Gli dava consigli in ufficio alle undici di sera?» Poco credibile, effettivamente. «Come legale del signor Gonzalez feci presente a sua moglie che la polizia avrebbe verificato quell'alibi. Le ricordai, per esempio, che nell'ufficio erano montate delle telecamere che avevano registrato tutti gli arrivi e l'ora in cui erano avvenuti. A quel punto lei decise di dire la verità.» Si interruppe. «Vada avanti» dissi. «È ovvio, no?» «Me lo dica lo stesso.» Flannery si strinse nelle spalle. «Voleva evitarsi l'imbarazzo ed evitarlo anche a lei, dottor Beck, immagino. Per questo insistette perché la cosa non diventasse di pubblico dominio. Si trovava a casa di Gonzalez. Dormivano insieme da due mesi.» Non reagii. Nessuno parlò. Da lontano mi giunse il cinguettio di un uccellino. Forse era quello che avevo visto in gabbia in sala d'aspetto. Mi alzai. Tyrese fece un passo indietro. «La ringrazio del tempo che mi ha dedicato» dissi con voce calmissima. Flannery annuì continuando a fissare le veneziane. «Non è vero» aggiunsi. Non rispose. E, anche in quel caso, non mi aspettavo una risposta. 33 Carlson se ne stava seduto in macchina, con la cravatta ancora annodata
meticolosamente. Si era tolto la giacca e l'aveva appesa al gancio sopra il finestrino del sedile posteriore. L'impianto dell'aria condizionata andava al massimo. L'agente federale lesse l'intestazione sulla copertina dell'autopsia: "Elizabeth Beck, caso 94-87002". Poi sciolse il laccio della busta, dalla quale estrasse il contenuto spargendolo sul sedile accanto al suo. Che cosa c'era di tanto interessante per il dottor Beck? La risposta gliel'aveva già data Stone: Beck voleva controllare che non ci fosse nulla in grado di incriminarlo. Il che confermava la loro teoria iniziale; anzi, era stato proprio Carlson a mettere per primo in dubbio la versione dell'uccisione di Elizabeth Beck fino a quel momento accettata. Il primo a credere che le cose erano andate diversamente da come apparivano, a sospettare cioè che era stato il marito a organizzare il delitto. Perché, allora, gli erano venuti quei dubbi? Aveva passato in rassegna tutti i buchi dai quali la loro teoria faceva acqua, ma Stone era stato altrettanto convincente nel tapparli. Ogni inchiesta ha dei buchi. Carlson lo sapeva. Ogni inchiesta presenta delle incoerenze. E, se non le ha, potete scommettere uno contro dieci che vi siete lasciati sfuggire qualcosa. Perché allora quei dubbi sulla colpevolezza di Beck? Forse perché d'improvviso tutto era apparso troppo chiaro, perché ogni elemento si era sistemato con troppa precisione al suo posto. O forse quei dubbi si basavano su qualcosa di inaffidabile come "l'intuizione", anche se Carlson non aveva mai amato eccessivamente quel particolare aspetto del lavoro investigativo. L'intuizione era spesso un sistema per smussare gli angoli, una tecnica suggestiva per sostituire le prove certe e i fatti incontrovertibili con qualcosa di molto più sfuggente e soggettivo. Erano proprio i peggiori investigatori, lo sapeva, a basarsi sulla cosiddetta intuizione. Si mise a leggere la prima cartella. Informazioni generali. Elizabeth Parker Beck. L'indirizzo di lei, la data di nascita (aveva venticinque anni quando era stata uccisa), donna bianca, altezza 1,70, peso 44 chili e 600 grammi. Magra. L'esame esterno aveva accertato l'assenza del rigor mortis. Sulla pelle si notavano delle vesciche, c'era stata una perdita di fluidi dagli orifizi. Il che consentiva di far risalire la morte a più di due giorni prima del ritrovamento. A provocare la morte era stata una ferita da coltello al torace. Meccanismo della morte: perdita di sangue e copiosa emorragia dell'aorta destra. Si notavano anche ferite da taglio alle mani e alle dita, presumibilmente perché la vittima aveva cercato di ripararsi dalle coltella-
te. Carlson estrasse di tasca il taccuino e la penna Mont Blanc. Scrisse: "Ferite per ripararsi dalle coltellate?!?!" sottolineando più volte queste parole. Perché non era quella la tecnica di KillRoy. Le torturava le vittime, KillRoy. Le legava come salami, per poi infliggere loro ogni tipo di tortura e ucciderle quando non riuscivano più a soffrire. Perché quindi quei tagli sulle mani? Continuò a leggere. Prese nota del colore dei capelli, di quello degli occhi e poi, a metà della seconda cartella, trovò un'altra sorpresa. Elizabeth Beck era stata marchiata con la lettera K da morta. Carlson rilesse quel particolare. Poi tirò nuovamente fuori il taccuino e scribacchiò: "Postmortem". I conti non quadravano. KillRoy aveva marchiato tutte le sue vittime da vive. Al processo era stato ricordato quanto gli piacessero l'odore della carne che sfrigolava e le urla delle sue vittime mentre lui imprimeva il suo sigillo di fuoco. Prima le ferite da difesa. Ora il marchio postmortem. Qualcosa non quadrava. Carlson si tolse gli occhiali e chiuse gli occhi. Non gli piaceva, quella faccenda. Dei buchi logici erano prevedibili, certo, ma questi si stavano trasformando in falle vistosissime. Il risultato dell'autopsia stava confermando i suoi sospetti, che cioè la morte di Elizabeth Beck era stata spacciata come uno dei tanti delitti di KillRoy. Ma ora, se ciò corrispondeva alla verità, la teoria faceva acqua da un'altra parte. Cercò di fare un passo alla volta. Anzitutto, perché Beck si era dimostrato così ansioso di mettere le mani sull'autopsia? La risposta, almeno apparentemente, risultava ora ovvia. Chiunque avesse esaminato quel rapporto si sarebbe reso conto che esisteva più di una possibilità che a uccidere Elizabeth Beck non fosse stato KillRoy. Anche se non se ne poteva avere la certezza matematica. Perché i serial killer, checché se ne pensi e se ne scriva, non sono tipi abitudinari. KillRoy, cioè, avrebbe potuto decidere di cambiare il suo modus operandi o di cercare un diversivo. Ciò detto, in quel rapporto rimanevano pur sempre elementi tali da far riflettere. Tutti quei dubbi poi si fondevano tra loro per dare vita alla Grande Domanda: perché nessuno all'epoca dei fatti si era accorto di quelle incongruenze? Carlson passò in rassegna le possibili risposte. KillRoy non era stato rinviato a giudizio per l'uccisione di Elizabeth Beck, e i motivi erano ora abbastanza chiari. Forse gli investigatori avevano sospettato la verità. Forse
si erano resi conto che il delitto Beck non quadrava con gli altri, ma rendere di pubblico dominio quella discrepanza avrebbe significato dare una mano alla difesa di KillRoy. Per incastrare un serial killer di solito si lancia una rete molto larga, dalla quale fatalmente qualcosa sfugge sempre. Alla difesa è quindi sufficiente sottoporre all'attenzione dei giurati un caso, sottolinearne le incongruenze con un altro, e voilà, tutti gli altri delitti rimangono per così dire contagiati da quell'incongnienza. In assenza di una confessione, quindi, il serial killer non viene processato per tutti i delitti che gli vengono attribuiti, ma gli si addebita un caso alla volta. Ed era da ritenere che gli investigatori, proprio in base a questa considerazione, volessero che non si parlasse più del caso Elizabeth Beck. Ma anche uno scenario del genere presentava delle falle vistose. Il padre e lo zio di Elizabeth, entrambi tutori dell'ordine, avevano visto il cadavere. E tutto lasciava ritenere che avessero anche letto il rapporto dell'autopsia. Possibile che non avessero notato i punti deboli? Ed era pensabile che, ciò nonostante, avessero permesso che l'assassino la facesse franca soltanto per non compromettere la condanna di KillRoy? Carlson ne dubitava. E allora? Continuò a leggere il rapporto e si imbatté in un'altra sorpresa. L'aria condizionata si era fatta gelida e gli stava penetrando nelle ossa. Carlson abbassò il finestrino e spense il motore. La cartella davanti ai suoi occhi portava l'intestazione "Rapporto tossicologico". Lesse attentamente quella pagina. Nel sangue di Elizabeth Beck erano state trovate tracce di cocaina ed eroina; ma, soprattutto, tracce analoghe erano state rilevate nei peli e nei tessuti, il che denunciava un uso abituale di quelle sostanze. Possibile? Ci stava pensando su quando squillò il suo cellulare. Rispose alla telefonata. «Carlson.» «Abbiamo trovato qualcosa» disse Stone. Carlson poggiò il rapporto sul sedile. «Che cosa?» «Beck è prenotato su un aereo per Londra, che parte tra due ore dal Kennedy.» «Arrivo.» Mentre camminavamo Tyrese mi posò una mano sulla spalla. «Troie» disse per l'ennesima volta. «Vatti a fidare di loro.» Non mi presi nemmeno la briga di replicare.
All'inizio mi meravigliai della velocità con la quale Tyrese era riuscito a localizzare Helio Gonzalez, ma poi mi resi conto che il loro ambiente non era diverso da tanti altri, nel senso che si conoscevano un po' tutti. Chiedete a un trader della Morgan Stanley di contattare un suo omologo della Goldman Sachs, e nel giro di pochi minuti la cosa sarà fatta. Chiedetemi di indirizzare un paziente a qualsiasi altro medico dello stato e mi sarà sufficiente una telefonata. Perché nel giro della malavita dovrebbe essere diverso? Helio aveva appena scontato una condanna a quattro anni per rapina a mano armata. E aveva proprio l'aspetto del galeotto: occhiali scuri, berretto di maglia in testa, T-shirt bianca sotto una camicia di flanella chiusa solo con il primo bottone, così da assomigliare a una specie di cappa o alle ali di un pipistrello. Le maniche erano arrotolate per mettere in mostra i cupi tatuaggi carcerari impressi sopra i muscoli sviluppati in cella. Hanno una loro inequivocabile fisionomia, questi muscoli: sono cioè levigati come il marmo e non gonfiati come quelli da palestra. Ce ne stavamo seduti in una veranda a Queens, ma non chiedetemi dove. Il ritmo incessante di una musica latinoamericana sembrava ripercuotersi nella mia gabbia toracica. Ci passavano davanti donne dai capelli scuri con dei top dalle bretelline simili a spaghetti. Tyrese mi fece un cenno con il capo. Mi voltai verso Helio. Aveva un sorrisetto idiota. Guardandolo mi veniva in mente una sola parola: feccia. Feccia insensibile e inossidabile. Si capiva che un tipo del genere avrebbe continuato per tutta la vita a fare danni, ma era impossibile sapere quanti. Mi rendevo anche conto che, basandosi sulle apparenze, lo stesso poteva dirsi di Tyrese. Ma la cosa non aveva importanza. Elizabeth era convinta di poter redimere teppisti e altri soggetti moralmente anestetizzati. Io ci stavo ancora provando. «Diversi anni fa ti hanno arrestato per l'omicidio di Brandon Scope» cominciai. «Lo so che poi sei stato prosciolto e non voglio crearti guai. Ma devo sapere la verità.» Helio si tolse gli occhiali scuri. Poi lanciò una veloce occhiata a Tyrese. «Mi hai portato uno sbirro?» «Non sono uno sbirro. Sono il marito di Elizabeth Beck.» Se era una reazione che volevo, avevo sbagliato indirizzo. «È la donna che ti ha fornito l'alibi.» «Lo so chi è.» «Era con te quella notte?» Helio prese tempo. «Sì» disse poi, sorridendomi con i suoi denti gialla-
stri. «È rimasta con me tutta la notte.» «Stai mentendo.» Helio guardò nuovamente Tyrese. «Che significa questa storia, amico?» «Devo sapere la verità» dissi. «Credi che l'abbia ammazzato io quello Scope?» «Lo so che non sei stato tu.» Sembrò sorpreso. «Ma che diavolo sta succedendo?» «Da te mi serve una conferma.» Helio attese. «Eri con mia moglie quella notte, sì o no?» «Che cosa vuoi che dica, amico bello?» «La verità.» «E se la verità fosse che tua moglie è rimasta con me tutta la notte?» «Non è questa la verità.» «Come fai a esserne così sicuro?» Intervenne Tyrese. «Digli quello che vuole sapere.» Ancora una volta Helio prese tempo. «È come disse lei. Me la sono fatta, va bene? Mi spiace, amico, ma è andata così. Ci abbiamo dato dentro tutta la notte.» Guardai Tyrese. «Ci lasceresti un attimo soli?» Lui si alzò, andando verso l'auto parcheggiata alla fine dell'isolato. E si appoggiò con la schiena allo sportello, incrociando le braccia sul petto, subito affiancato da Brutus. Riportai lo sguardo su Helio. «Dove l'avevi conosciuta, mia moglie?» «Al Centro.» «Lei ha cercato di aiutarti?» Fece spallucce, senza guardarmi. «Conoscevi Brandon Scope?» Un lampo di qualcosa simile alla paura gli attraversò il viso. «Senti, me ne vado.» «Siamo solo io e te, Helio. Se temi che possa avere addosso un microfono puoi perquisirmi.» «Vuoi che rinunci al mio alibi?» «Proprio così.» «E perché dovrei?» «Perché qualcuno sta uccidendo tutte le persone coinvolte nella faccenda di Brandon Scope. Ieri notte l'amica di mia moglie è stata fatta fuori nel
suo laboratorio fotografico. Oggi stavano per eliminare anche me, ma è intervenuto Tyrese. Vogliono uccidere anche mia moglie.» «Credevo che fosse già morta.» «È una lunga storia, Helio. Ma questa storia si sta ripetendo e, se non scopro quello che è successo esattamente, ci faranno fuori tutti.» Non sapevo se era effettivamente così o se stavo esagerando un tantino, ma la cosa non mi interessava. «Dov'eri quella notte?» insistetti. «Con lei.» «Posso dimostrare che non è vero.» «Che cosa?» «Mia moglie era ad Atlantic City, ho alcune ricevute di carte di credito, posso provarlo. Posso quindi far crollare il tuo alibi come un castello di sabbia, Helio. E lo farò. So che non hai ucciso Brandon Scope ma ti giuro che, se non mi dici la verità, lascerò che ti arrostiscano sulla sedia elettrica.» Era un bluff. Un bluff grande e grosso. Ma sembrò funzionare, a giudicare dal pallore che si era dipinto sul viso di Helio. «Dimmi la verità e non finirai dentro» lo incalzai. «Non l'ho ucciso io quello lì, amico, te lo giuro.» «Lo so» dissi ancora. Ci pensò su. «Non so perché lei mi abbia dato l'alibi, va bene?» Annuii, cercando di farlo continuare a parlare. «Quella sera avevo ripulito una casa a Fort Lee. Quindi non avevo alibi. Pensavo di essere incastrato, ma lei invece mi ha salvato il culo.» «Le hai chiesto perché?» Scosse il capo. «Il mio avvocato mi riferì le sue parole, e io naturalmente le confermai. E uscii subito di cella.» «Hai più rivisto mia moglie?» «No.» Mi guardò. «Come puoi essere così sicuro che lei non se la facesse con me?» «Conosco mia moglie.» Sorrise. «E credi che non ti abbia mai tradito?» Non risposi. Helio si alzò. «Di' a Tyrese che ha un debito con me.» Ridacchiò, poi si girò e si allontanò. 34
Niente bagagli. Un biglietto che le consentiva di fare il check-in automatico invece che allo sportello, evitando così di farsi vedere dall'addetto. Si era andata a sedere in un gate vicino al suo e teneva d'occhio il cartellone elettronico delle partenze, in attesa che la scritta "In orario" accanto al suo volo venisse sostituita da quella "Imbarco". Se ne stava seduta su una poltroncina di plastica e guardava la pista. Da un televisore le giunse l'annuncio stentoreo di un programma sportivo della CNN. Cercava di tenere la mente sgombra dai pensieri. Cinque anni prima aveva passato qualche tempo in un villaggio nei pressi di Goa, in India. Un vero buco nero, quel villaggio, ma a renderlo interessante era uno dei suoi abitanti, uno yogi centenario. Che aveva tentato di insegnarle le tecniche di meditazione, la respirazione pranayama, la pulizia della mente. Ma con scarso successo, anche se in alcuni momenti lei riusciva a sprofondare nell'oscurità: e sempre più spesso in questa oscurità entrava Beck. Si chiese quale dovesse essere la sua mossa successiva. Ma non aveva molta scelta. Doveva salvarsi. E salvarsi significava fuggire. Aveva combinato un guaio e ora scappava lasciando che fossero gli altri a rimettere le cose a posto. Che altre opzioni le erano rimaste? Quelli le davano la caccia. Nonostante tutte le sue precauzioni, quelli non la perdevano d'occhio. Dopo otto anni. Un marmocchio si avvicinò con le sue gambette incerte alla vetrata e la colpì felice a palmi aperti. Il padre lo raggiunse sollevandolo dal pavimento e il bimbo rise deliziato. Lei seguì la scenetta con lo sguardo, pensando come spesso le accadeva a ciò che sarebbe potuto essere ma non era stato. Alla sua destra, impegnata amabilmente in una conversazione sul nulla, sedeva un'anziana coppia. Da adolescenti lei e Beck osservavano spesso il signore e la signora Steinberg passeggiare sottobraccio lungo Downing Piace, ogni sera che Dio mandava in terra, molti anni dopo che i loro figli ormai adulti erano volati via dal nido. Così sarebbe stata la loro vita, aveva promesso Beck. La signora Steinberg era morta all'età di ottantadue anni e il marito, nonostante godesse di ottima salute, l'aveva seguita quattro mesi dopo. Dicono che succeda spesso agli anziani, che cioè - per parafrasare Springsteen - due cuori divengano uno solo. Quando uno muore l'altro lo segue. Era così anche per lei e David? Non avevano vissuto insieme sessantun anni come gli Steinberg ma, ragionando in termini relativi e tenuto conto che difficilmente si hanno ricordi antecedenti all'età di cinque anni, bastava considerare che lei e Beck erano stati inseparabili da quando ne
avevano sette e che ognuno dei due faceva quasi immancabilmente parte dei ricordi dell'altro; se si considerava cioè il tempo passato insieme non in termini di anni ma di percentuale di vita, ci si accorgeva che loro due erano stati insieme più a lungo degli Steinberg. Si voltò a guardare il cartellone. Accanto al volo British Airways 174 lampeggiava la scritta "Imbarco". Stavano chiamando il suo volo. Carlson e Stone, insieme con i colleghi della polizia Dimonte e Krinsky, parlavano con la responsabile prenotazioni della British Airways. «Non si è presentato» disse la donna, che indossava un'uniforme bianca e blu con foulard, aveva un accento gradevole e risultava chiamarsi Emily dalla targhetta che aveva appuntata sulla giacca. Dimonte imprecò. Krinsky si strinse nelle spalle. C'era da aspettarselo, Beck era riuscito a sottrarsi per tutta la giornata alla caccia all'uomo: difficile quindi che potesse essere così idiota da imbarcarsi su un volo prenotato a suo nome. «Siamo in un vicolo cieco» commentò Dimonte. «Chi è di voi che ha maggiore familiarità con i computer?» chiese Carlson all'impiegata. «Sarei io» rispose Emily con un sorriso. «La prego, allora, mi tiri fuori quella prenotazione.» Emily eseguì. «Mi sa dire quando ha prenotato questo volo?» «Tre giorni fa.» Dimonte sobbalzò. «Beck aveva già deciso di scappare, quel figlio di puttana.» Carlson scosse il capo. «No.» «Come fai a dirlo?» «Abbiamo dato per scontato che ha ucciso Rebecca Schayes per farla tacere» spiegò Carlson. «Ma che bisogno c'era, se lui stava per trasferirsi all'estero? Perché per tre giorni correre il rischio di essere arrestato anche per quel delitto?» Stone scosse il capo. «Ti fai troppe domande, Nick.» «Ci sfugge qualcosa» insistette Carlson. «Anzitutto, perché all'improvviso ha deciso di scappare?» «Perché gli stavamo dietro.» «Ma non tre giorni fa.»
«Forse aveva capito che era solo questione di tempo.» Carlson era sempre più scuro in volto. Dimonte si rivolse a Krinsky. «Stiamo perdendo tempo, andiamocene.» Poi guardò Carlson. «Lascerò qui un paio di agenti in uniforme, per ogni evenienza.» Carlson annuì senza quasi starlo a sentire. «Beck viaggiava con qualcuno?» chiese a Emily dopo che i due investigatori si furono allontanati. L'impiegata premette alcuni tasti. «No, era prenotato da solo.» «Come ha prenotato? Personalmente? Per telefono? Tramite agenzia?» Lei batté altri tasti. «Non tramite agenzia, posso escluderlo perché accanto alla prenotazione ci sarebbe il simbolo della commissione da pagare. La prenotazione è stata fatta direttamente alla British Airways.» Niente da fare, quindi. «Come ha pagato?» «Con carta di credito.» «Può darmene il numero, per favore?» Lei glielo dette e lui lo passò a Stone, che scosse il capo. «Non corrisponde a nessuna delle sue carte di credito. Almeno, a nessuna di quelle che conosciamo.» «Controlla.» Stone aveva già il cellulare in mano e stava componendo un numero. Carlson si stava massaggiando il mento. «Ha detto che la prenotazione è stata fatta tre giorni fa?» «Proprio così.» «Mi sa dire a che ora?» «Certo, il computer registra automaticamente l'ora. Alle sei e quattordici del pomeriggio.» «Benissimo. Ora sa dirmi se qualcun altro ha prenotato quel volo più o meno alla stessa ora?» Emily ci pensò su. «Una ricerca del genere non l'ho mai fatta» disse poi. Batté dei tasti. Attese. Ne batté altri. Attese. «Il computer non seleziona l'ora in base alla data di prenotazione» disse poi. «Ma un dato del genere esiste, nel computer?» «Certo. Un attimo solo.» Riprese a digitare sulla tastiera. «Possiamo far apparire tutte le prenotazioni sullo schermo, a gruppi di cinquanta direi, per non perdere troppo tempo.» Nelle prime cinquanta prenotazioni c'era quella di una coppia che aveva prenotato lo stesso giorno, ma qualche ora prima. Inutile. Nulla nel secondo gruppo. Fecero centro con il terzo.
«Lisa Sherman» disse Emily. «La sua prenotazione è dello stesso giorno, otto minuti dopo quella di Beck.» Di per sé non significava nulla, ovviamente, ma Carlson si sentì rizzare i capelli in testa. «Ah, interessante» aggiunse Emily. «Che cosa?» «L'assegnazione dei posti.» «Cioè?» «Questa Lisa Sherman ha prenotato il posto accanto a quello di Beck. Fila 16, posti E e F.» Carlson provò una fitta allo stomaco. «Ha già fatto il check-in?» Le dita di Emily tornarono sui tasti. Le scritte sullo schermo scomparvero, e ne apparvero delle altre. «Sì, in questo momento probabilmente si sta imbarcando.» Si alzò in piedi sistemandosi sulla spalla la tracolla della borsa. Poi s'incamminò a passo spedito e a testa alta. Aveva ancora gli occhiali, la parrucca e l'apparecchio per i denti, come nella foto di Lisa Sherman sul passaporto. Si trovava a quattro gate di distanza dal suo quando udì annunciare un servizio sulla CNN. E si fermò di colpo. Un uomo con un enorme bagaglio a mano le sbatté contro, facendole poi un gesto villano come se lei gli avesse attraversato la corsia in autostrada. Lo ignorò e tenne gli occhi fissi sullo schermo. Nell'angolo destro, accanto alla conduttrice che stava ancora annunciando il servizio, c'era una foto della sua vecchia amica Rebecca Schayes di fianco a un'immagine di... di Beck. Si avvicinò velocemente allo schermo TV. "Morte nella camera oscura" era stato intitolato il servizio in lettere rosso sangue. «... David Beck, sospettato dell'omicidio. Ma è solo questo il delitto di cui è sospettato? Lo chiediamo al nostro inviato Jack Turner.» La conduttrice scomparve. E sul televisore apparvero due uomini con giacche a vento della polizia di New York che spingevano un carrello, sul quale era poggiato uno di quei grossi sacchi di plastica nei quali si infilano i cadaveri da rimuovere. Lei riconobbe immediatamente il palazzo e trasalì. Otto anni. Erano passati otto anni ma Rebecca aveva sempre il laboratorio in quel palazzo. Una voce, presumibilmente quella di Jack Turner, attaccò il servizio. «È
una brutta storia, questa dell'omicidio di una delle più famose fotografe di moda di New York. Rebecca Schayes è stata trovata cadavere nella camera oscura del suo laboratorio, uccisa da due colpi alla testa esplosi a bruciapelo.» Apparve per un attimo una foto di Rebecca sorridente. «Il sospettato è un suo vecchio amico, il pediatra newyorchese David Beck.» Lo schermo si riempì dell'immagine, non sorridente, di Beck. Lei cadde quasi a terra per la sorpresa. «Il dottor Beck è riuscito stamattina a sottrarsi alla cattura dopo avere aggredito un agente. È tuttora latitante, presumibilmente armato e pericoloso. Se avete informazioni che possano condurre alla sua cattura...» Apparve un numero telefonico giallo in sovrimpressione e Jack Turner lo lesse ad alta voce prima di riprendere il suo servizio. «Ma a rendere questa storia ancora più inquietante ci sono alcune notizie trapelate dal palazzo dell'FBI di Manhattan. Notizie secondo le quali il dottor Beck sarebbe coinvolto nell'assassinio di due uomini i cui cadaveri sono stati scoperti di recente in Pennsylvania, a poca distanza dalla residenza estiva della famiglia Beck. Ma la sorpresa maggiore è questa: il dottor Beck è sospettato anche di avere ucciso otto anni fa la moglie Elizabeth.» Sullo schermo apparve l'immagine di una donna. Lei stentò sulle prime a riconoscerla, poi all'improvviso si sentì braccata, nuda. La sua immagine svanì e riapparve la conduttrice. «Jack» chiese la collega dallo studio «ma Elizabeth Beck non era stata uccisa dal serial killer Ellroy "KillRoy" Kellerton?» «Proprio così, Terese. Per il momento le autorità tengono la bocca chiusa e negano tutto il negabile. Ma le notizie che abbiamo raccolto provengono da fonti attendibilissime.» «La polizia ha parlato almeno di un movente, Jack?» «No, non ancora. Si ipotizza comunque un probabile triangolo amoroso. La Schayes era sposata a un certo Gary Lamont, il quale però si è finora sottratto ai giornalisti. Vale la pena comunque ripetere che, fino a questo momento, quella del triangolo amoroso rimane poco più di una congettura.» Senza staccare lo sguardo dal televisore lei sentì gli occhi riempirsi di lacrime. «E il dottor Beck è tuttora latitante?» «Sì, Terese. La polizia chiede la collaborazione della cittadinanza, sconsigliando comunque tutti dall'avvicinare il sospettato.» Seguirono altre chiacchiere. Chiacchiere senza senso.
Lei distolse lo sguardo. Rebecca. Oh Dio, non Rebecca! Si era sposata. Probabilmente aveva scelto il guardaroba, i servizi da tè e caffè, aveva fatto quindi tutte quelle cose delle quali loro si erano sempre prese beffa. Ma come? Come era potuta finire Rebecca in quella faccenda? Rebecca non sapeva assolutamente niente. Perché l'avevano uccisa? E poi le tornò quel pensiero: "Che cosa ho mai combinato?". Era tornata. E loro si erano messi a cercarla. Come? Semplice, tenendo d'occhio le persone a lei più vicine. Che stupida! Tornando aveva messo in pericolo chi le stava maggiormente a cuore. Aveva combinato un bel guaio. E ora la sua amica era morta. «British Airways, volo 174 per Londra. I signori passeggeri possono imbarcarsi.» Non c'era tempo per l'autoflagellazione. Pensare, doveva pensare. Che fare? Le persone a lei care erano in pericolo. Beck - e subito le tornò in mente quel buffo camuffamento del marito - era latitante. Doveva vedersela con gente potente. Se cercavano di incastrarlo per un delitto, come ormai sembrava piuttosto ovvio, non aveva scampo. E lei non poteva partire. Non ancora. Non fino a quando non avesse avuto la certezza che Beck si era messo in salvo. Fece dietrofront e si diresse alla prima uscita. Quando Peter Flannery vide in TV il servizio sulla caccia a David Béck sollevò il telefono e chiamò un amico alla procura distrettuale. «Chi ha l'inchiesta Beck?» gli chiese. «Fein.» "Un vero stronzo" pensò. «Ho visto il vostro amico, oggi.» «David Beck?» «Sì, mi ha fatto una visita.» «Perché?» Flannery si allungò sulla poltrona. «Forse è meglio se mi fai parlare con Fein.» 35 Quella sera, al calare del buio, Tyrese mi trovò una stanza in casa del cugino di Latisha. Non era pensabile che la polizia scoprisse i miei rapporti con Tyrese, ma in ogni caso perché rischiare?
Tyrese aveva un computer portatile. Lo accendemmo. Controllai la posta per vedere se era arrivato qualche messaggio dal mio misterioso corrispondente. Nulla sul computer dell'ufficio. Nulla sul mio computer di casa. Cercai qualcosa su Bigfoot.com. Niente nemmeno lì. Da quando avevamo lasciato lo studio di Flannery, Tyrese mi guardava in modo strano. «Posso chiederti una cosa, Doc?» disse infine. «Certo.» «Quando l'avvocatucolo si è messo a parlare di quel tipo ammazzato...» «Brandon Scope.» «Sì, lui. Be', avevi l'aria di uno che aveva appena ricevuto una scarica elettrica.» Era proprio così che mi ero sentito. «E vorresti sapere perché?» Lui si strinse nelle spalle. «Conoscevo Brandon Scope. Lui e mia moglie lavoravano nello stesso ufficio, una fondazione benefica. Mio padre è cresciuto e ha lavorato con suo padre, anzi è stato proprio lui a impratichire Brandon negli affari di famiglia.» «Capito. C'è altro?» «Perché, non basta?» Tyrese rimase in attesa. Mi voltai a guardarlo. Tenne gli occhi fissi nei miei e per un attimo pensai che riuscisse a vedere fin nei recessi più bui della mia anima. Per fortuna quell'attimo passò. «Allora, che vuoi fare?» «Qualche telefonata. Sei sicuro che non possano intercettarle e localizzarmi?» «Non vedo come. In ogni caso, sai che ti dico? Facciamo una specie di conversazione a tre con un altro cellulare, così a quelli gli rendiamo le cose più difficili.» Tyrese organizzò il tutto. Io dovevo digitare un altro numero e dire a qualcuno che non sapevo quali numeri comporre. Tyrese si diresse poi alla porta. «Vado a dare un'occhiata a TJ, tornerò tra un'ora.» «Tyrese?» Si voltò a guardarmi. Volevo dirgli grazie, ma per qualche motivo mi sembrò fuori luogo. Lui capì. «Mi servi vivo, Doc. Per il mio bambino, capisci?» E uscì. Guardai l'orologio prima di chiamare il cellulare di Shauna. Lei rispose al primo squillo. «Pronto?» «Come sta Chloe?» le chiesi. «Benissimo.»
«Quanti chilometri vi siete fatte?» «Almeno cinque, ma sicuramente di più, forse sette.» Mi sentii invadere dal sollievo. «Allora, qual è...?» Sorrisi e riattaccai. Poi telefonai a quello che mi faceva da ponte e gli detti un altro numero. Borbottò qualcosa, del tipo "non faccio il centralinista", ma poi mi accontentò. Hester Crimstein rispose come se si fosse trovata dentro il telefono. «Che c'è?» «Sono Beck» dissi parlando in fretta. «Possono ascoltarci oppure siamo protetti dal rapporto avvocato-cliente?» Vi fu una strana esitazione. «È sicuro, questo telefono» rispose poi. «Avevo un motivo per scappare» cominciai. «Un motivo come la colpevolezza, magari?» «Che cosa?» Altra esitazione. «Mi spiace, Beck, ma ho rovinato tutto. Quando sei scappato in quel modo non ci ho visto più. Ho detto a Shauna delle parole idiote e poi ho deciso di autorevocarmi il mandato. Quindi non sono più il tuo avvocato.» «Non me l'ha detto. Ma io ho bisogno di te, Hester.» «Non ti aiuterò a fuggire.» «Non voglio più fuggire. Voglio costituirmi, ma alle mie condizioni.» «Non puoi permetterti di dettare condizioni, Beck. Quelli ti metteranno in cella e butteranno via la chiave. Puoi scordartela la libertà su cauzione.» «E se fornissi loro la prova che non ho ucciso io Rebecca Schayes?» Altra esitazione. «Puoi dimostrarlo?» «Sì.» «Che tipo di prova hai?» «Un solido alibi.» «Fornito da chi?» «È proprio a questo punto che la faccenda si fa interessante». L'agente speciale Carlson rispose al cellulare. «Pronto?» «Ho trovato qualcos'altro» disse il suo partner Stone. «Che cosa?» «Beck qualche ora fa è andato nello studio di un avvocato da quattro soldi, un certo Flannery. Con lui c'era un teppista nero.» Carlson non capiva. «Credevo che fosse la Crimstein il suo avvocato.» «No, Beck non cercava assistenza legale. Voleva informazioni su un
vecchio caso.» «Quale caso?» «Otto anni fa un pregiudicato, un certo Gonzalez, finì dentro per l'assassinio di Brandon Scope. A dargli un alibi di ferro fu Elizabeth Beck, e ora il marito ha voluto sapere tutti i particolari.» Carlson si sentì all'improvviso girare la testa. Ma che diavolo...? «C'è altro?» «No, tutto qui. Tu dove sei?» gli chiese Stone. «Ti richiamo più tardi, Tom.» Carlson attaccò e compose un altro numero. Rispose una voce femminile. «Lavori fino a tardi, Donna?» «Sì, e ora sto cercando di tornarmene a casa, Nick. Che cosa vuoi?» «Un piacere davvero grosso.» «No.» Seguì un lungo sospiro. «Che cosa?» «Hai sempre quella calibro trentotto che abbiamo trovato nella cassetta di sicurezza di Sarah Goodhart?» «Sì, perché?» Lui le spiegò cosa gli serviva. «Stai scherzando, vero?» gli chiese Donna quando l'altro ebbe finito. «Mi conosci, lo sai che l'umorismo non è il mio forte.» «Puoi giurarci che lo so.» Sospirò. «Preparerò una richiesta ufficiale, ma scordati che la cosa possa essere conclusa stasera.» «Grazie, Donna. Resti sempre la migliore.» Shauna era appena entrata nell'atrio di casa quando si sentì chiamare. «Mi scusi, è lei la signorina Shauna?» Guardò lo sconosciuto con i capelli pieni di gel e l'abito costoso. «Lei chi è?» «Agente speciale Nick Carlson.» «Buonanotte, signor agente.» «Sappiamo che Beck le ha telefonato.» Shauna finse uno sbadiglio e si coprì la bocca con la mano. «Sarà orgoglioso della sua bravura, agente speciale.» «Ha mai sentito parlare di complicità e favoreggiamento, signorina?» «La smetta di spaventarmi» disse lei con un tono affettato «se non vuole che mi metta a fare pipì proprio qui su questo tappetaccio.» «Crede che io stia bluffando?»
Shauna incrociò le mani all'altezza dei polsi, come in attesa delle manette. «Mi arresti, carino.» Poi guardò alle spalle di Carlson. «Di solito quelli come lei non girano in coppia con un partner?» «Sono venuto da solo.» «Lo vedo. Posso andare, ora?» Carlson si sistemò gli occhiali sul naso. «Non credo che il dottor Beck abbia ucciso nessuno.» Lei si fermò. «Non vorrei essere frainteso. Ci sono prove su prove che ha ucciso la Schayes, i miei colleghi sono certi della sua colpevolezza. E la caccia all'uomo è ancora in corso.» «Ah, sì?» Nella voce di Shauna vi era ben più della semplice ombra di un sospetto. «Lei invece vorrebbe dirmi che non è convinto, vero?» «Penso solo che dev'esserci in ballo qualcos'altro.» «Che cosa?» «Speravo che me lo potesse dire lei.» «E se invece sospettassi che mi sta tendendo un tranello?» Carlson si strinse nelle spalle. «Non potrei farci nulla.» Lei ci pensò su. «Comunque non ha importanza, perché non so niente» disse poi. «Sa dove si nasconde.» «Invece no.» «E se lo sapesse?» «Non glielo direi, ma lei questo lo sa già.» «È vero. Quindi immagino che non vorrà spiegarmi che significato aveva quella storia del cane portato a passeggio.» Shauna scosse il capo. «Ma lei lo scoprirà quanto prima, agente speciale.» «Il suo amico finirà per farsi del male, lo sa? Ha aggredito un poliziotto e la stagione di caccia a Beck è apertissima.» Lei non abbassò lo sguardo. «Io non è che possa farci molto.» «No, in effetti.» «Posso farle una domanda?» «Spari» rispose Carlson. «Perché non crede che Beck sia colpevole?» «Non sono certo di saperle rispondere. Tante piccole cose, direi.» Carlson piegò la testa di lato. «Lo sapeva che Beck era prenotato su un volo per Londra?»
Shauna fece vagare lo sguardo nell'atrio, tentando di guadagnare qualche secondo. Entrò un uomo che le lanciò un'occhiata d'ammirazione. Lei lo ignorò. «Stronzate» disse poi. «Torno adesso dall'aeroporto» proseguì Carlson. «Il volo era stato prenotato tre giorni fa. Lui non si è presentato all'imbarco, naturalmente. Lo strano è che la carta di credito usata per comprare il biglietto risulta intestata a una certa Laura Mills. Le dice niente questo nome?» «Dovrebbe?» «Forse no. Ci stiamo lavorando su, ma probabilmente si tratta di uno pseudonimo.» «Lo pseudonimo di quale nome?» Carlson fece spallucce. «Conosce una certa Lisa Sherman?» «No. C'entra in qualche modo?» «Era prenotata sullo stesso aereo per Londra, anzi per l'esattezza aveva il posto accanto a quello del nostro amico.» «Non si è presentata nemmeno lei?» «Non esattamente. Ha fatto il check-in, ma quando hanno chiamato il volo era già scomparsa. Strano, non pensa?» «Non so che cosa pensare» rispose lei. «Nessuno purtroppo ci ha saputo dare una descrizione di questa Lisa Sherman. Perché aveva soltanto il bagaglio a mano e ha fatto il check-in automatico. Abbiamo cercato di saperne di più su di lei, e sa che cosa abbiamo trovato?» Shauna scosse il capo. «Un bel niente. Sembrerebbe un altro pseudonimo. Il nome Brandon Scope l'ha mai sentito?» Shauna s'irrigidì. «E ora che c'entra?» «Oggi il dottor Beck, accompagnato da un nero, è andato a trovare un certo avvocato Peter Flannery. E questo Flannery aveva difeso a suo tempo un uomo sospettato di avere ucciso Brandon Scope. Il dottor Beck ha chiesto all'avvocato certi particolari sul ruolo avuto da Elizabeth Beck nel proscioglimento di questo sospettato. Ha idea del perché?» Shauna cominciò a frugare dentro la borsetta nervosamente. «Cerca qualcosa?» «Una sigaretta. Ne ha una?» «No, mi spiace.» «Maledizione.» S'interruppe e lo fissò. «Perché mi sta raccontando queste storie?»
«Perché ho quattro cadaveri e voglio capire quello che sta succedendo.» «Quattro?» «Rebecca Schayes, Melvin Bartola, Robert Wolf... questi due sono quelli trovati sottoterra vicino al lago. Ed Elizabeth Beck.» «Elizabeth l'ha uccisa KillRoy.» Carlson scosse il capo. «Come fa a esserne certo?» Lui le mise sotto gli occhi la grossa busta. «Grazie a questa, per dirne una.» «Che cos'è?» «Il rapporto dell'autopsia.» Shauna inghiottì a vuoto. Si sentì assalire dalla paura, provò un formicolio alle dita. La prova definitiva, in un senso o nell'altro. Cercò disperatamente di parlare con voce ferma. «Posso darci un'occhiata?» «Perché?» Non rispose. «E, soprattutto, perché Beck era così ansioso di leggere questa autopsia?» «Non capisco che cosa intenda dire» commentò Shauna. Ma quelle parole suonarono false alle sue orecchie, e sicuramente anche a quelle di lui. «Elizabeth Beck faceva uso di droghe?» le chiese Carlson. La domanda la prese assolutamente di sorpresa. «Elizabeth? Mai.» «Ne è sicura?» «Naturalmente. Per il suo lavoro aveva a che fare con i drogati, tutto qui.» «Conosco tanti agenti della buoncostume che non si tirano indietro se c'è da passare qualche ora con una prostituta.» «Elizabeth non era il tipo, anche se certo era una che sapeva come gira il mondo. Drogata? Nemmeno a parlarne.» Carlson sollevò nuovamente la busta. «La perizia tossicologica ha rilevato la presenza sia di cocaina che di eroina.» «L'avrà costretta Kellerton.» «Lo escludo.» «E come fa a escluderlo?» «Ci sono i risultati di altre analisi, Shauna. Sui tessuti e su peli e capelli. Faceva uso di droga da diversi mesi, come minimo.» Shauna sentì piegarsi le gambe. Andò ad appoggiarsi alla parete. «Stia a sentire, Carlson, la smetta con questi giochetti e mi faccia vedere quel rap-
porto. Okay?» Carlson sembrò pensarci su. «Facciamo così. Io le faccio vedere il rapporto, cartella per cartella, e lei mi dà qualche informazione. Che ne dice?» «Come diavolo sarebbe a dire, Carlson?» «Buonanotte, Shauna.» «No, un momento, aspetti un attimo.» Si leccò le labbra. Poi pensò a quelle strane e-mail. Alla fuga di Beck inseguito dai poliziotti. Pensò all'assassinio di Rebecca Schayes e a quell'incredibile perizia tossicologica. E d'improvviso quella convincente dimostrazione di manipolazione digitale che aveva dato a Beck non le sembrò più tanto convincente. «Una foto» disse. «Mi faccia vedere una foto della vittima.» Carlson sorrise. «Una richiesta davvero interessante.» «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che nel dossier dell'autopsia non esiste nemmeno una foto.» «Ma credevo...» «Non capisco nemmeno io» l'interruppe Carlson. «Ho chiamato il dottor Harper, il coroner che eseguì l'autopsia, chiedendogli di accertare chi ha avuto in consegna il dossier dell'autopsia. Probabilmente lo sta accertando in questo momento.» «Vuol dire che qualcuno si è portato via le foto?» «Andiamo, Shauna. Mi dica quello che sta succedendo.» Lei stava per dirglielo, stava per raccontargli delle e-mail e della webcam. Ma Beck era stato deciso, e quel Carlson, anche se sembrava dalla sua parte, poteva essere pur sempre il vero nemico. «Posso vedere il resto del dossier?» Lui glielo porse lentamente. Al diavolo la dignità, pensò lei, facendo un passo avanti e strappandogli di mano la busta. Poi la aprì freneticamente ed estrasse la prima cartella, leggendola d'un fiato mentre un blocco di ghiaccio le si piantava nello stomaco. Lesse altezza e peso della vittima e soffocò un grido. «Che c'è?» chiese Carlson. Non rispose. Squillò un cellulare, l'agente lo estrasse dalla tasca dei pantaloni. «Carlson.» «Parla Tim Harper.» «Ha trovato i vecchi registri?» «Sì.»
«Qualcun altro ha chiesto di leggere l'autopsia di Elizabeth Beck?» «Sì, tre anni fa, poco dopo che il dossier era stato trasferito in quel deposito. Una persona ha firmato per prendere visione dell'autopsia.» «Chi?» «Il padre della vittima. Fa anche lui il poliziotto, si chiama Hoyt Parker.» 36 Larry Gandle e Griffin Scope sedevano uno di fronte all'altro sotto il portico del giardino, alle spalle della residenza del miliardario. La notte era ormai calata come una coltre sui prati curatissimi. I grilli sembravano canticchiare una gradevole melodia, quasi che i megaricchi potessero permettersi anche di manipolare gli insetti. Dalle porte a vetro scorrevoli giungevano le note di un pianoforte. Le luci della casa fornivano un minimo d'illuminazione, proiettando ombre gialle e rosso bruciato. Entrambi indossavano pantaloni kaki. Quelli di Larry erano accompagnati da una polo blu mentre Griffin aveva preferito una camicia di seta abbottonata al collo confezionata dal suo sarto di Hong Kong. Larry aspettava, con una birra in mano. E osservava il profilo dell'altro, rivolto verso il giardino con il naso leggermente sollevato e le gambe accavallate. Nella mano destra che sporgeva dal bracciolo Scope stringeva un calice pieno di un liquido ambrato. «Non hai idea di dove possa trovarsi?» chiese il padrone di casa. «No.» «E chi sarebbero i due neri che lo hanno salvato?» «Non ho ancora capito che parte abbiano. Comunque lo sta accertando Wu.» Griffin bevve un sorso dal calice. Il tempo trascorreva lentamente, il caldo era sempre più appiccicoso. «Pensi veramente che lei possa essere viva?» Larry stava per lanciarsi in un lungo resoconto, corredato da tutti gli elementi in grado di confermare o smentire quell'ipotesi. Ma quando aprì bocca fu soltanto per dire «Sì.» Griffin chiuse gli occhi. «Ricordi il giorno in cui è nato il tuo primo figlio?» «Sì.» «Hai assistito al parto?»
«Sì.» «Ai miei tempi non era previsto» disse Griffin. «I papà camminavano avanti e indietro in una sala d'attesa piena di vecchie riviste. Ricordo quando venne a chiamarmi l'infermiera, con lei percorsi un lungo corridoio e, voltato l'angolo, vidi Allison che teneva tra le braccia Brandon. Provai una stranissima sensazione, in quel momento, come se dentro di me stesse nascendo e crescendo qualcosa pronto a esplodere da un momento all'altro. Una sensazione troppo intensa, troppo soffocante, qualcosa di non comprensibile o catalogabile. Immagino che ogni padre faccia un'esperienza del genere.» Si interruppe e Larry lo fissò. Le guance del vecchio erano rigate di lacrime che brillavano in quella luce fioca. Larry rimase immobile. «Forse gli stati d'animo più ovvi di quella giornata sono la gioia e l'apprensione, nel momento in cui ci si rende conto di avere la responsabilità di quell'esserino. Ma c'era anche qualcos'altro, qualcosa che non riuscivo a razionalizzare. E non ci sono riuscito fino al primo giorno di scuola di Brandon.» Il vecchio tossì, come per schiarirsi la gola, e Larry vide altre lacrime. La musica del pianoforte si era fatta ora più dolce, i grilli tacevano quasi che anche loro si fossero messi ad ascoltare. «Stavamo aspettando insieme l'autobus della scuola. Lo tenevo per mano. Brandon aveva cinque anni. Sollevò gli occhi per guardarmi, come fanno i bambini di quell'età. Portava dei pantaloni marroni che avevano già una macchia d'erba all'altezza del ginocchio. Ricordo l'autobus giallo che si avvicinava, il rumore dello sportello che si apriva. Poi Brandon mi lasciò la mano e mise il piede sul primo gradino. Avrei voluto afferrarlo, riportarmelo a casa, ma rimasi immobile. Lui entrò, lo sportello si richiuse, e io udii nuovamente quel rumore. Brandon andò a sedersi accanto a un finestrino. Vidi il suo volto. Mi fece un cenno di saluto con la manina. Lo salutai a mia volta e l'autobus si mosse. "È tutto il mio mondo che se ne va" pensai in quel momento. Quell'autobus giallo con le modanature cromate, quell'autista assolutamente sconosciuto, si stavano portando via ciò che per me era tutto. E in quel momento identificai la sensazione che avevo provato il giorno della sua nascita. Terrore. Non soltanto apprensione ma terrore allo stato puro. Si può avere paura della vecchiaia, delle malattie, della morte. Ma non avevo mai provato nulla come quella specie di granello di terrore che mi si era piantato nello stomaco mentre guardavo l'autobus che si allontanava. Capisci quello che sto dicendo?»
«Credo di sì.» «In quel momento mi resi conto che, per quanto mi sforzassi, poteva succedergli qualcosa di brutto. E che non potevo trovarmi sempre al suo fianco per assorbire il colpo destinato a lui. Ci pensavo sempre, immagino che tutti i padri pensino a qualcosa del genere. Ma quando poi è successo, quando...» Si interruppe per fissare finalmente Larry Gandle. «Cerco sempre di riportarlo indietro» disse. «Cerco di trattare con Dio, gli offro tutto ciò che ho se farà rivivere in qualche modo Brandon. Non succederà, naturalmente. Lo capisco. E ora tu vieni a dirmi che mentre mio figlio, tutto il mio mondo, marcisce sottoterra... lei è viva.» Si mise a scuotere il capo. «Non posso accettarlo, Larry. Lo capisci?» «Sì.» «Ho sbagliato una volta, non sono riuscito a proteggerlo. Ma non sbaglierò una seconda volta.» Griffin Scope si svoltò a guardare il giardino. Bevve un altro sorso dal calice. Larry Gandle capì. Si alzò e si lasciò inghiottire dalla notte. Erano le dieci di sera quando Carlson si avvicinò alla porta del numero 28 di Goodhart Road. L'ora tarda non lo preoccupava minimamente. Aveva notato al pianoterra della luce e il baluginio di un televisore, e comunque, anche se la casa fosse stata immersa nel buio, lui non poteva certo curarsi del sonno degli altri con tutto quello che c'era in ballo. Stava per allungare il braccio verso il campanello quando la porta si aprì. E apparve Hoyt Parker. Per un attimo i due rimasero a fissarsi, come pugili al centro del ring mentre l'arbitro snocciola la solita litania sul divieto dei colpi bassi e l'obbligo di fermarsi al suo break. Ma Carlson non attese il gong. «Tua figlia prendeva droghe?» Un muscolo si contrasse sul viso di Hoyt Parker. «Perché vuoi saperlo?» «Posso entrare?» «Mia moglie dorme.» Hoyt uscì e si richiuse la porta alle spalle. «Ti spiace se parliamo qui?» «Come credi.» Hoyt incrociò le braccia sul torace, bilanciandosi sui talloni. Era un omaccione e la maglietta bianca che portava sui jeans doveva essere meno aderente cinque chili fa. Con un poliziotto esperto come lui, pensò Carlson, i trucchetti del mestiere non avrebbero funzionato. «Hai intenzione di rispondere alla mia domanda?» gli chiese. «E tu hai intenzione di dirmi perché vuoi sapere di mia figlia?»
Carlson decise di cambiare tattica. «Mi spieghi perché ti sei portato via le foto dal dossier dell'autopsia di tua figlia?» «E che cosa ti fa pensare che sia stato io a portarle via?» Hoyt Parker non sembrava minimamente offeso da quella domanda, né alzò il tono di voce, come ci si sarebbe potuto aspettare. «Oggi ho letto il rapporto dell'autopsia» rispose Carlson. «Perché?» «Come?» «Mia figlia è morta da otto anni. Il suo assassino è in carcere. E tu decidi oggi di dare un'occhiata al rapporto dell'autopsia. Mi piacerebbe sapere il motivo.» Carlson capì che non era quella la tattica migliore, e decise quindi di allentare le briglie sul collo di Parker, di abbassare la guardia per vedere come avrebbe reagito. «Tuo genero ieri è andato a trovare il coroner, chiedendo di vedere il dossier di sua moglie. Speravo di scoprire il perché di questa richiesta.» «Beck l'ha letto quel rapporto?» «No. Sai perché fosse così ansioso di vederlo?» «Non ne ho idea.» «Ma mi sei sembrato preoccupato.» «Come te. Trovo sospetto questo comportamento.» «Più che sospetto» osservò Carlson. «Perché mi hai chiesto se Beck è riuscito a mettere le mani sul dossier?» Hoyt si strinse nelle spalle. «Hai intenzione di dirmi che cosa ne hai fatto di quelle foto dell'autopsia?» «Non so di che cosa stai parlando.» «Sei stato l'unico a firmare la ricevuta di prelievo.» «E questo che cosa dimostra?» «Le foto erano al loro posto quando hai esaminato il dossier?» Un lampo passò negli occhi di Hoyt, che si affrettò a rispondere. «Sì, erano al loro posto.» Carlson non riuscì a trattenere un sorriso. «Risposta esatta.» Gli aveva teso una trappola ma Hoyt l'aveva evitata. «Se tu avessi risposto di no io mi sarei chiesto perché non avevi denunciato la loro scomparsa, non credi?» «Hai una mente sospettosa, agente Carlson.» «Eh già. Hai idea di dove possano trovarsi quelle foto?»
«Probabilmente sono finite per sbaglio in un altro dossier.» «Certo. La cosa non sembra preoccuparti particolarmente.» «Mia figlia è morta, il caso è chiuso. Di che cosa dovrei preoccuparmi, ormai?» Era una perdita di tempo. O forse no. Carlson non stava scoprendo nulla, ma l'atteggiamento di Parker era più che eloquente. «Quindi pensi ancora che sia stato KillRoy a uccidere tua figlia?» «Senza dubbio.» Carlson sollevò il rapporto dell'autopsia. «Anche dopo aver letto questo?» «Sì.» «E non ti colpisce il fatto che molte delle ferite siano state inferte dopo la morte?» «Non mi colpisce ma mi conforta. Significa che mia figlia ha sofferto meno.» «Non intendevo questo. Mi riferivo alle prove contro Kellerton» «In quel rapporto non vedo nulla che contraddica quelle prove.» «Ma l'omicidio di tua figlia si distingue dagli altri.» «Non sono d'accordo» disse Hoyt. «Di diverso rispetto agli altri c'è solo la forza di mia figlia.» «Non ti seguo.» «So che Kellerton godeva nel torturare le sue vittime» spiegò Hoyt. «E so anche che le marchiava quando erano ancora vive. Ma siamo partiti dall'ipotesi che Elizabeth ha tentato di fuggire o, quantomeno, ha opposto resistenza. Quindi lui ha dovuto usare molta forza per avere ragione di mia figlia e, così facendo, ha finito per ucciderla. Questo spiega le ferite da coltello sulle mani. E spiega anche il marchio postmortem.» «Capisco.» Era stato, quello di Hoyt, una specie di gancio sinistro a sorpresa. Carlson cercò di non andare al tappeto. Una risposta convincente, quella del poliziotto, più che convincente. Il ragionamento filava, rendendo plausibili tutte le apparenti discrepanze. Ma rimaneva qualche zona d'ombra. «Come spieghi allora la perizia tossicologica?» «Irrilevante. Sarebbe come fare domande sulla sua vita sessuale alla vittima di uno stupro. Non ha alcuna importanza se mia figlia era astemia o si faceva di crack.» «Era astemia o si faceva di crack?» «Irrilevante» ripeté. «Nulla è irrilevante nell'indagine su un omicidio. Lo sai.»
Hoyt fece un passo verso Carlson. «Stai attento.» «Mi stai minacciando?» «Non esattamente. Ti sto solo dicendo di stare attento a non fare di mia figlia una vittima per la seconda volta.» Rimasero a guardarsi. Il gong finale era suonato. E ora attendevano entrambi una decisione che li avrebbe in ogni caso scontentati. «Se non hai altro da chiedermi...» disse alla fine Hoyt. Carlson annuì facendo un passo indietro. Parker allungò la mano verso la maniglia della porta. «Hoyt?» L'altro si voltò. «Sappi, a scanso di equivoci, che non credo a una parola di ciò che hai detto. Chiaro?» «Chiarissimo.» 37 Appena arrivata a casa, Shauna crollò sul divano, esattamente nel suo punto preferito. Linda le si sedette accanto dandole leggere pacche sul ventre. Shauna chinò il capo e chiuse gli occhi mentre Linda le accarezzava i capelli. «Mark sta bene?» le chiese Shauna. «Sì. Ti spiacerebbe dirmi dove sei stata?» «È una lunga storia.» «Vorrei avere qualche notizia di mio fratello.» «Mi ha telefonato.» «Che cosa?» «Sta bene.» «Dio ti ringrazio.» «E non ha ucciso Rebecca.» «Questo lo sapevo.» Shauna voltò il capo e sollevò lo sguardo su Linda, che stava battendo le palpebre. «Andrà tutto bene» la rassicurò. Linda chinò il capo e distolse lo sguardo. «Che cosa c'è?» «Le avevo scattate io quelle foto» disse Linda. Shauna si sollevò a sedere. «Elizabeth venne a trovarmi in ufficio, era ridotta male. Volevo che si
ricoverasse, ma lei non sentì ragioni, insistette perché rimanesse una prova fotografica di ciò che le era successo.» «Non era stato un incidente stradale?» Linda scosse il capo. «Chi l'aveva pestata?» «Mi fece promettere di non dirlo a nessuno» «Otto anni fa. Ora puoi dirmelo.» «Non è semplice.» «Lo capisco benissimo.» Shauna esitò. «Perché poi è venuta da te? E come ti viene in mente di proteggere...» Non riuscì a concludere la frase. Lanciò uno sguardo severo a Linda, che non batté ciglio. Poi pensò a ciò che aveva appena saputo da Carlson. «Di proteggere Brandon Scope» disse sottovoce. Linda non rispose. «Fu lui a ridurla in quel modo. Oh Cristo, ecco perché Elizabeth si rivolse a te. Voleva che quella faccenda restasse segreta. Io o Rebecca l'avremmo portata alla polizia, tu no.» «Mi fece promettere» disse Linda. «E tu hai accettato?» «Che altro avrei potuto fare?» «Trascinarla alla prima stazione di polizia.» «Non siamo tutti forti e coraggiosi come te, Shauna.» «Non dire stronzate.» «Non volle andarci alla polizia» proseguì Linda. «Disse che aveva bisogno di tempo, che non c'erano ancora prove sufficienti.» «Prove di che cosa?» «Che era stato lui ad aggredirla, immagino. Non lo so, non mi stava ad ascoltare. E non potevo certo costringerla.» «E già... me lo immagino.» «Questo che diavolo vorrebbe dire?» «Vorrebbe dire che tu lavoravi per una fondazione benefica finanziata dalla sua famiglia, con il viso di lui sullo stemma» rispose Shauna. «Che cosa sarebbe successo se si fosse saputo che aveva pestato una donna?» «Elizabeth mi fece promettere.» «E tu non hai dovuto sicuramente sforzarti per tenere la bocca chiusa, vero? Volevi proteggere quella maledetta fondazione.» «Non è giusto quello che dici...» «Per te era più importante dell'incolumità di Elizabeth.»
«Ma lo sai quanto bene fa al prossimo la fondazione?» gridò Linda. «Lo sai quanta gente aiutiamo?» «Con il sangue di Elizabeth Beck.» Linda le tirò uno schiaffo, forte. Le due donne si fissarono, entrambe con il respiro affannoso. «Volevo dirlo» riprese Linda «ma lei mi convinse a tacere. Forse sono stata debole, non so. Tu però non ti azzardare a ripetere quello che hai detto.» «E mi sai dire che cosa hai pensato quando Elizabeth fu rapita in riva al lago, Cristo?!» «Pensai che le due cose potessero essere collegate. Andai dal padre di Elizabeth e gli dissi quello che sapevo.» «E lui?» «Mi ringraziò e aggiunse che sapeva già tutto. Mi pregò anche di tenermi tutto per me perché si trattava di una faccenda delicata. Poi, quando fu chiaro che l'assassino era KillRoy...» «Hai deciso di restare zitta.» «Brandon Scope era morto. A che sarebbe servito infangare il suo nome?» Squillò il telefono. Linda sollevò il ricevitore, disse: «Pronto» tacque e poi lo passò a Shauna. «Per te.» Shauna parlò senza guardarla. «Pronto?» «Vediamoci nel mio studio» le disse Hester Crimstein. «E perché dovrei venire?» «Le scuse non sono il mio forte, Shauna. Quindi diciamo che io sono una grossa e stupida idiota, e mettiamoci una pietra sopra. Tu salta su un taxi e vieni qui, c'è un innocente da salvare.» Il viceprocuratore distrettuale Lance Fein entrò a passo di carica nella sala riunioni dello studio Crimstein, simile a una donnola insonne che ha preso troppe amfetamine. Dietro di lui fecero il loro ingresso i detective Dimonte e Krinsky. Tutti e tre avevano i volti tesi come corde di violino. Hester e Shauna li attendevano in piedi, dall'altra parte del tavolo. «Signori sedetevi, prego» disse Hester, con un ampio gesto della mano. Fein la guardò, per poi lanciare a Shauna un'occhiata di puro disgusto. «Non sono venuto a farmi fare delle seghe.» «Lo so, quelle te le fai sicuramente nel chiuso della tua casetta» disse Hester. «Siediti.» «Se sai dove si trova...»
«Siediti, Lance. Mi stai facendo venire il mal di testa.» Sedettero tutti. Dimonte poggiò sul tavolo i piedi coperti dagli stivaletti di pelle di serpente. Hester li colpì con entrambe le mani, togliendoli dal tavolo ma senza smettere per un attimo di sorridere. «Se siamo qui, signori, è soltanto in vista di un obiettivo: salvare la vostra carriera. Quindi mettiamoci al lavoro, d'accordo?» «Voglio sapere...» «Stai zitto, Lance. Parlo io. Tu devi solo ascoltare, magari annuire di tanto in tanto e dire qualcosa del tipo "Sì, signora" o "Grazie, signora". Altrimenti sei fritto.» Lance Fein le fece l'occhiolino. «Sei tu che stai aiutando un latitante a sottrarsi alla giustizia, Hester.» «Come sei sexy quando parli da duro, Lance. In realtà non lo sei affatto. Stammi a sentire, capito, perché non ho nessuna intenzione di ripetere. Sto per farti un favore, Lance, sto per impedirti di fare la figura del perfetto idiota. Per quella dell'idiota non c'è niente da fare purtroppo, ma forse, se mi stai ad ascoltare, possiamo evitare quella del perfetto idiota. Mi segui? Bene. Cominciamo col dire che mi risulta, correggimi se sbaglio, che è stata accertata l'ora presunta della morte di Rebecca Schayes. Mezzanotte, con un'approssimazione di mezz'ora in più o in meno. Fin qui ci siamo?» «E allora?» Hester guardò Shauna. «Vuoi dirglielo tu?» «No, continua pure.» «Ma sei stata tu a darti da fare.» Intervenne Fein. «Dacci un taglio, Crimstein.» La porta alle loro spalle si aprì. La segretaria portò a Hester dei fogli e un cassetta. «Grazie, Cheryl.» «Prego.» «Vai pure a casa. Ti aspetto domani mattina sul tardi.» «Grazie.» Cheryl uscì. Hester inforcò sul naso gli occhiali a mezzaluna e si mise a leggere. «Comincio a stancarmi, Hester.» «Ti piacciono i cani, Lance?» «Che cosa?» «I cani. Io personalmente non ne vado matta, ma questo... Hai quella foto, Shauna?» «Eccola.» Shauna sollevò una grossa foto di Chloe in modo che tutti po-
tessero vedere. «E un bearded collie.» «Non è carina, Lance?» Lance Fein si alzò. Krinsky lo imitò. Dimonte non si mosse. «Ne ho abbastanza.» «Se esci di qui, questo cane piscerà sulla tua carriera come se fosse un'idrante.» «Ma che diavolo dici?» Lei porse a Fein due fogli. «Quel cane è la prova che Beck è innocente. Il mio cliente è stato a un service informatico, la notte scorsa. È entrato con il cane e, da quello che ho capito, la cosa non è stata gradita. Queste sono le dichiarazioni scritte di quattro testimoni in grado di identificare Beck senza ombra di dubbio. Ha noleggiato un computer, per l'esattezza da mezzanotte e quattro minuti a mezzanotte e ventitré, secondo quanto risulta dalla fattura.» Sorrise. «Ecco qua, amici. Ho una copia per ciascuno di voi.» «E pretendi che io accetti queste balle a occhi chiusi?» «No, certo. Accomodatevi pure.» Hester lanciò una copia a Krinsky e un'altra a Dimonte. Krinsky la prese al volo e chiese di fare una telefonata. «Certo» disse la Crimstein. «Ma se è fuori città la prego di addebitarla al dipartimento di polizia.» Lo gratificò di un sorrisetto velenoso. «Molte grazie.» Fein lesse il contenuto del foglio, e il suo colorito assunse una tonalità grigio cenere. «Stai per caso pensando ad allungare un po' l'ora della morte?» gli chiese Hester. «Fai pure, ma sappi comunque che quella notte il ponte era chiuso per lavori. Beck quindi è copertissimo.» Fein, che stava letteralmente tremando, borbottò fra sé e sé qualcosa che avrebbe potuto fare rima con "fontana". «Ma dai, Lance.» Hester gli fece un gesto di rimprovero. «Dovresti ringraziarmi, invece.» «Che cosa?» «Pensa solo a come avrei potuto fotterti. Già ti vedo davanti a tutte quelle telecamere, con tutti quei giornalisti, pronto ad annunciare il clamoroso arresto del sadico assassino. Ti sei messo la migliore cravatta, parli dell'esigenza di mantenere sicure le strade della città, racconti quale lavoro di squadra sia stato necessario per catturare questo animale anche se il merito dovrebbe essere tutto tuo. I flash cominciano a scattare. Sorridi e dai del tu
ai giornalisti, con il pensiero che già va a quella grossa scrivania di rovere nell'ufficio del governatore. E all'improvviso io ti calo il boma sul capo e rivelo ai giornali questo alibi a prova di bomba. Te l'immagini, Lance? E ora dimmi, sei in debito con me sì o no?» Gli occhi di Fein sembravano dardi pronti a trafiggerla. «Ma ha pur sempre aggredito un agente di polizia.» «No, Lance, non è così. Cerca di ragionare, amico mio. I fatti stanno come segue: tu, viceprocuratore distrettuale Lance Fein, hai tratto delle conclusioni sbagliate. Di conseguenza ti sei messo insieme con le tue truppe d'assalto a dare la caccia a un innocente, e non a un innocente qualsiasi, ma a un medico che ha scelto di guadagnare di meno curando i poveri assistiti dallo stato invece di lavorare nel settore privato ben più remunerativo.» Si appoggiò allo schienale della poltrona, sorridendo. «Prova a immaginare. Mentre decine di poliziotti, sa Dio con quale spesa per il contribuente, danno la caccia con le pistole spianate a questo innocente, un giovane agente, grande e grosso e stile Rambo, l'intercetta in un vicolo e gli mette le mani addosso. Non c'è nessuno, in giro, e l'agente si sente in diritto di dare una lezione a quel pover'uomo terrorizzato. E il povero perseguitato dottor Beck, un vedovo vorrei aggiungere, non può fare altro che difendersi.» «Non la berrà nessuno, una frottola del genere.» «E invece sì, Lance. Non vorrei sembrarti immodesta, ma chi è più bravo della sottoscritta in certe situazioni? Tra l'altro, non mi hai ancora sentito paragonare questo caso a quello di Richard Jewell, oppure sottolineare l'eccesso di zelo dell'ufficio del procuratore distrettuale. O la smania di appioppare questo delitto al dottor David Beck, paladino dei poveri e degli oppressi, al punto evidentemente da andare a nascondere nella sua abitazione un elemento di prova.» «Nascondere in casa?» Fein era al limite dell'apoplessia. «Ma sei pazza?» «Andiamo, Lance. Sappiamo che non può essere stato il dottor David Beck. Ha un alibi a prova di bomba, fornito da quattro testimoni che non si conoscono tra loro - a proposito, se scaviamo un altro po' ne troveremo ben più di quattro - pronti a giurare che non poteva essere stato lui a compiere quel delitto. Quindi come sono finite in casa di Beck quelle prove? Ce le hai messe tu, signor Fein, insieme con le tue truppe d'assalto.» Fein strinse le mani a pugno. Respirò in fretta e si appoggiò allo schienale. «Okay» attaccò lentamente. «Immaginiamo che questo alibi regga...»
«Puoi giurarci che reggerà.» «Tu che cosa vuoi?» «Ecco finalmente una domanda come si deve. Sei in un vicolo cieco, Lance. Perché se lo arresti fai la figura dell'idiota mentre invece, se revochi l'ordine di cattura, fai la figura dell'idiota. C'è poco da girarci intorno.» Hester Crimstein si alzò e prese a camminare come se stesse cercando una soluzione. «Ci ho pensato e ripensato e credo di avere trovato un sistema per ridurre il danno al minimo. Ti va di ascoltarlo?» Fein le lanciò un'altra occhiata carica d'odio. «Ti ascolto.» «In tutta questa faccenda hai fatto una mossa intelligente. Una sola, ma dovrebbe bastare. Ti sei cioè tenuto lontano dai media e questo perché, immagino, sarebbe stato un tantino imbarazzante spiegare come ha fatto questo medico a sfuggire alla tua rete. Meglio, perché in tal modo tutto ciò che è stato pubblicato può essere addebitato a soffiate anonime. Ecco quindi che cosa devi fare, Lance. Convochi una conferenza stampa per dichiarare che quelle soffiate erano false, che il dottor Beck è ricercato soltanto come testimone e nulla di più. Non è sospettato quindi di questo delitto, anzi tu sei sicuro che non è stato lui a commetterlo, ma vuoi parlare con lui perché sembra sia stato uno degli ultimi a vedere viva la vittima.» «Non funzionerà.» «Sì che funzionerà, anche se un po' a fatica. E questo grazie a me, Lance, visto che ti sono debitrice dopo che il mio cliente è scappato. Quindi sarò proprio io, la nemica dell'ufficio del procuratore distrettuale, ad appoggiare la tua versione. Dirò ai media quanto abbiamo collaborato, quanto ti sei adoperato perché venissero rispettati i diritti del mio cliente, e aggiungerò che sia io sia il dottor Beck appoggiamo ben volentieri la tua indagine e ci auguriamo di poter lavorare con te.» Fein non mosse muscolo. «Te l'ho già detto, Lance. Il mio vento può soffiare a tuo favore o contro di te.» «E in cambio del vento a favore?» «Ritiri queste assurde accuse di violenza e resistenza a pubblico ufficiale.» «Scordatelo.» Hester gli indicò la porta. «Ci vediamo nelle pagine dei fumetti.» Fein curvò leggermente le spalle e la sua voce, quando parlò, non era più così aspra. «Se ci mettiamo d'accordo, il tuo ragazzo collaborerà? Risponderà a tutte le mie domande?»
«Ti prego, Lance, non fingere di poter dettare condizioni nella tua posizione. Quindi, o accetti le mie, di condizioni, o affronti la stampa. A te la scelta. Ma l'orologio cammina.» Si mise a muovere l'indice avanti e indietro, accompagnandolo con un "tic tac". Fein lanciò un'occhiata a Dimonte, che continuava a mordicchiare il suo stuzzicadenti. Krinsky si staccò dal telefono e annuì guardando Fein, che a sua volta guardò Hester. «Allora, vogliamo cominciare?» chiese. 38 Mi svegliai, sollevai il capo e a malapena non gridai. Avevo i muscoli a dir poco contratti e indolenziti; mi dolevano parti del corpo che non sapevo di avere. Cercai di saltare giù dal letto, ma quella di saltare si dimostrò una brutta idea. Bruttissima. La parola d'ordine quel giorno era "lentamente". A farmi più male erano le gambe, quasi volessero ricordarmi quanto fosse patetica la mia forma fisica nonostante la semimaratona del giorno prima. Tentai allora di rotolare sul letto. Nei punti morbidi, dove quell'orientale aveva premuto le dita, mi sembrava che si fossero strappate delle inesistenti suture. Tutto il mio corpo bramava un analgesico, ma sapevo che le pillole mi avrebbero tolto la lucidità della quale in quel momento avevo estremo bisogno. Guardai l'orologio. Le sei del mattino. L'ora giusta per richiamare Hester. Rispose al primo squillo. «Ha funzionato» mi annunciò. «Sei libero.» Avvertii soltanto un blando sollievo. «Ora che cosa hai in mente di fare?» mi chiese. Terribile domanda. «Non ho ancora deciso.» «Aspetta un momento.» Sentii in lontananza un'altra voce. «Shauna vuole parlarti.» Udii il rumore del telefono che cambiava di mano, poi la voce di Shauna. «Noi due dobbiamo parlare.» Shauna non era il tipo da perdersi in preliminari e piacevolezze varie. Ciò nonostante nella sua voce colsi un che di stranamente teso se non addirittura spaventato, cosa questa difficile da immaginare. Il mio cuore si mise a galoppare. «Che cosa c'è?» «Non al telefono» rispose. «Posso essere da te fra un'ora.»
«Non ho parlato a Linda di... di ciò che sai...» «Forse è ora di parlargliene.» «Sì, d'accordo... Ti voglio bene, Beck» aggiunse poi, con una sorprendente tenerezza. «Ti voglio bene anch'io.» Mi trascinai raggomitolato su me stesso fino alla doccia. I mobili fornirono sostegno al mio incedere da paralitico e mi aiutarono a mantenere la posizione verticale. Rimasi sotto gli schizzi fin quando non si esaurì l'acqua calda. La doccia attenuò il generale indolenzimento, ma non troppo. Tyrese mi rimediò una tuta da ginnastica all'ultima moda. Stavo per chiedergli anche un bel medaglione d'oro. «Dove vai?» mi domandò. «Da mia sorella, per il momento.» «E poi?» «Al lavoro, immagino.» Scosse il capo. «Che c'è?» gli chiesi. «Ti sei messo contro della brutta gente, Doc.» «Sì, comincio a capirlo.» «Bruce Lee non te la farà passare liscia.» Ci pensai su. Aveva ragione. Anche volendo, non potevo andarmene a casa ad aspettare che Elizabeth ristabilisse il contatto. Anzitutto non ne potevo più della mia passività, da quel momento quella parola era cancellata dall'agenda di Beck. E, altrettanto importante, i tipi del furgone non avevano l'aria di gente disposta a metterci una pietra sopra e a lasciarmi andare tranquillamente per la mia strada. «Ti copro le spalle io, Doc. E anche Brutus. Fino a quando questa faccenda non sarà finita.» Stavo per dire qualcosa di coraggioso del tipo "Non posso chiederti una cosa del genere" oppure "Hai la tua vita a cui pensare", ma poi mi resi conto che per loro l'alternativa era proteggermi o spacciare droga. Tyrese voleva aiutarmi, forse sentiva addirittura il bisogno di aiutarmi: e io avevo bisogno di lui, diciamo la verità. Avrei potuto metterlo in guardia, ricordargli i rischi a cui si sarebbe esposto: ma quei rischi lui li conosceva meglio di me. Quindi, alla fine, accettai con un cenno del capo. Carlson ricevette la telefonata dalla sua amica Donna prima del previsto. «Siamo già in grado di darti una risposta» gli comunicò.
«Come avete fatto?» «Hai mai sentito parlare di IBIS?» «Sì, più o meno.» Carlson sapeva che IBIS stava per Integrated Ballistic Identification System, un nuovo software usato dall'ATF per schedare proiettili e bossoli. «Ormai non abbiamo nemmeno bisogno del proiettile originale» proseguì Donna. «È stato sufficiente farci mandare le immagini scannerizzate, per poi digitalizzarle e confrontarle sullo schermo.» «Allora?» «Avevi ragione, Nick. Coincidono.» Carlson riattaccò e fece un'altra telefonata. «Dov'è il dottor Beck?» chiese all'uomo che aveva risposto. 39 Brutus ci si affiancò con la BMW mentre camminavamo sul marciapiede. «Buongiorno» gli dissi. Non ricambiò il saluto. Non lo avevo ancora sentito spiccicare nemmeno una parola. Scivolai sul sedile posteriore. Tyrese mi si sedette accanto, con un sorriso. Il giorno prima aveva ucciso un uomo. Certo, l'aveva fatto per difendere la mia vita ma, notando il suo modo di fare distaccato, mi chiesi se si ricordava di avere premuto il grilletto. Quello che stava passando avrei dovuto capirlo io più di chiunque altro, e invece non riuscivo a capirlo. Non me la cavo granché bene con i principi assoluti della morale. Per me esistono anche le sfumature, io scelgo di volta in volta. Elizabeth riusciva a leggere molto più chiaramente la sua bussola morale. Avrebbe provato orrore di fronte alla perdita di una vita. E il particolare che l'uomo che aveva perso la vita si apprestava a rapirmi, torturarmi e forse uccidermi non avrebbe fatto per lei alcuna differenza. O forse sì. Non lo so più, davvero. La verità vera è che non sapevo tutto di lei. E lei sicuramente non sapeva tutto di me. All'università mi hanno insegnato che un medico non fa scelte di ordine morale. Esiste una gerarchia abbastanza semplice, in base alla quale si soccorre per primo il ferito più grave. Indipendentemente da chi sia o che cosa abbia fatto. Si cura il ferito in peggiori condizioni. Una bella teoria, indubbiamente, e capisco le finalità che l'hanno ispirata. Ma se, per dire, vedessi arrivare al pronto soccorso mio nipote Mark che si è appena preso una coltellata da un pedofilo abituale, e subito dopo portassero lo stesso pedofilo in fin di vita con una pallottola nel cervello... be', sei tu che devi fare la
scelta, e in fondo al cuore sai che la scelta è fin troppo facile. Mi si potrebbe obiettare che è rischioso avventurarsi su una china del genere. E io non esiterei a riconoscerlo, aggiungendo però che la vita imbocca quasi sempre una china del genere. Il problema era che vivere in una zona grigia comportava delle conseguenze, e non solo teoriche, di quelle che ti segnano l'anima, ma anche materiali, fatte di mattoni e calcina, con le imprevedibili macerie che certe scelte si lasciano alle spalle. Mi chiesi che cosa sarebbe successo se avessi detto fin dall'inizio la verità. E la semplice idea mi terrorizzò. «Sei taciturno, Doc.» «Sì.» Brutus mi fece scendere davanti al palazzo di Riverside Drive dove abitavano Linda e Shauna. «Noi siamo dietro l'angolo» mi informò Tyrese. «Se hai bisogno di qualcosa, sai il mio numero.» «D'accordo.» «Ce l'hai la Glock?» «Sì.» Mi mise una mano sulla spalla. «Tu o loro, Doc. Premi il grilletto e non sollevare il dito.» Non esistevano zone grigie, per Tyrese. Scesi dall'auto. Sul marciapiede passeggiavano mamme e tate che spingevano degli elaborati passeggini, del tipo che non si limita a dondolare ma culla, suona canzonane, si piega in avanti o all'indietro e contiene più di un bimbo, oltre a un assortimento di pannolini, bavaglini, merendine, thermos con succhi di frutta (per i più grandicelli), vestitini di ricambio, bottiglie, perfino cassette di pronto soccorso come quelle in dotazione a certe auto. Tutto questo lo sapevo per esperienza professionale (lavorare con i poveri assistiti dallo stato non impedisce di venire in contatto con i monumentali passeggini Peg Perego), e assistere a quella scena di tranquilla normalità proprio dove aveva avuto inizio la mia disavventura ebbe per me l'effetto di un elisir. Mi voltai verso il palazzo. Linda e Shauna mi stavano correndo incontro. Linda arrivò per prima e mi prese tra le braccia. Ricambiai l'abbraccio. Era una bella sensazione. «Stai bene?» mi chiese. «Sto bene.» Ma le mie assicurazioni non le impedirono di ripetermi quella domanda
più di una volta e con diverse formulazioni. Shauna si fermò a un paio di metri di distanza. Incrociai il suo sguardo poggiando il capo sulla spalla di mia sorella. Si asciugò le lacrime dagli occhi. Le sorrisi. Continuammo ad abbracciarci e baciarci in ascensore. Shauna era meno espansiva del solito e sembrava volersi tenere a una certa distanza dalla mischia. Un estraneo avrebbe potuto trovare normale che Shauna rimanesse in disparte da quelle tenere effusioni tra fratello e sorella, ma evidentemente lo stesso estraneo non sarebbe stato in grado di distinguere Shauna da Cher. Perché Shauna era deliziosamente concreta. Era cioè il tipo pungente, esigente, divertente, con il cuore in mano e fedele anche in maniera irragionevole. Non si calava mai una maschera sul volto, non alterava la sua natura. Se nel tuo computer il Thesaurus comprendesse anche il dizionario dei contrari, cliccando sull'aggettivo "introverso" vedresti spuntare sullo schermo la sua immagine prosperosa. Shauna viveva e si muoveva alla luce del sole. E non sarebbe indietreggiata di un passo se qualcuno l'avesse colpita sulla bocca con un tubo di piombo. Cominciai ad avvertire dentro di me una specie di formicolio. Una volta entrati in casa, Linda e Shauna si scambiarono un'occhiata. Linda tolse il braccio dalla mia spalla. «Shauna vuole parlarti da sola» disse. «Vado in cucina, vuoi un sandwich?» «Grazie.» Mia sorella mi dette un bacio stringendomi ancora una volta, quasi ad assicurarsi che fossi lì in carne e ossa. Poi uscì in fretta dalla stanza. Guardai Shauna, che continuava a tenersi a distanza. Con le braccia le feci un gesto, come per dirle "E allora?". «Perché sei scappato?» mi chiese. «Avevo ricevuto un'altra e-mail.» «Sempre su Bigfoot?» «Sì.» «Come mai è arrivato così tardi?» «Lei ha mandato un messaggio in codice e mi ci è voluto un po' di tempo per decifrarlo.» «Che tipo di codice?» Le spiegai la faccenda della Bat Lady e di Teenage Sex Poodles. «Per questo, quindi, sei andato di notte in quel service informatico? L'hai capito mentre portavi a spasso Chloe?» «Sì.» «Che cosa diceva esattamente la e-mail?»
Non riuscivo a capire il motivo di tutte quelle domande di Shauna. Perché, oltre a ciò che ho già detto di lei, quella donna coglieva la realtà a grandi linee e non amava perdersi nei dettagli. I particolari non erano il suo forte, la disorientavano e la confondevano. «Voleva vedermi ai giardinetti di Washington Square ieri pomeriggio alle cinque» le risposi. «E mi avvertiva che avrei potuto essere seguito. Poi mi diceva che mi amava, comunque fossero andate le cose.» «Per questo sei scappato? Per non mancare all'appuntamento?» Annuii. «Hester aveva detto che nella migliore delle ipotesi mi avrebbero messo in libertà su cauzione a mezzanotte, non prima.» «Sei arrivato in tempo a Washington Square?» «Sì.» Shauna fece un passo verso di me. «E allora?» «Non si è fatta vedere.» «E tu sei ancora convinto che quella e-mail te l'abbia mandata Elizabeth?» «Non c'è altra spiegazione.» Sorrise. «Che c'è?» le chiesi. «Ricordi la mia amica Wendy Petino?» «La tua collega? Quella tutta dolce come un pasticcino?» La mia descrizione la fece sorridere. «Una sera mi ha portato a cena con il suo "guru spirituale"» e con le dita fece il segno delle virgolette. «Secondo lei, quel guru sapeva leggere il pensiero, predire il futuro e così via. L'aiutava a comunicare con la madre, che si era uccisa quando Wendy aveva sei anni.» La lasciai parlare, senza interromperla con uno scontato "che c'entra?". Stava prendendo tempo, ma sapevo che quanto prima sarebbe arrivata al punto. «Finita la cena, il cameriere ci porta i caffè. E il guru di Wendy - aveva un nome tipo Omay - mi guarda con i suoi occhi chiari e inquisitori, conosci quel tipo di occhi, e si mette a cazzeggiare dicendomi che sente - adopera proprio quel verbo, sentire - che forse in me c'è dello scetticismo, e mi chiede quindi perché non dico chiaramente ciò che penso. Mi conosci. Gli dico che è un pezzo di merda e che dovrebbe piantarla di fregare soldi alla mia amica. Omay non si arrabbia, naturalmente, e la cosa fa incazzare me. Comunque, mi passa un foglietto invitandomi a scriverci sopra quello che voglio, qualcosa della mia vita particolarmente significativo, una data, le
iniziali di un innamorato, quello che voglio. Guardo il foglietto, mi sembra di un tipo comunissimo ma chiedo ugualmente al guru di scrivere su uno mio. "Fai pure" mi dice. Allora tiro fuori un biglietto da visita e lo volto dalla parte bianca. Lui mi porge una penna, ma ancora una volta decido di usare la mia per evitare trucchi o roba del genere, ti pare? E ancora una volta lui non fa obiezioni. A quel punto scrivo sul retro del biglietto da visita il tuo nome. Beck, solo Beck. Lui prende il biglietto e io seguo attentamente la sua mano per controllare che non lo sostituisca con un altro, ma invece lo passa a Wendy. Le chiede di tenerlo in mano. Poi mi prende una mano. Chiude gli occhi e comincia a tremare come se gli stesse venendo un coccolone, giuro che in quel momento ho sentito come una scossa. Poi Omay apre gli occhi e chiede: "Chi è Beck?".» Andò a sedersi sul divano. La imitai. «Ora, so bene che c'è gente particolarmente lesta di mano, ma ero lì. Non l'avevo perso di vista un attimo. E ci ho quasi creduto. Omay aveva delle doti particolari. Non c'era altra spiegazione, come hai appena detto tu. Wendy se ne stava seduta con quel sorriso soddisfatto appiccicato sul viso. E io non sapevo che cosa pensare.» «Doveva essersi informato su di te, sulle tue amicizie» dissi. «Ma allora, senza offesa, caro, sarebbe stato più logico da parte sua immaginare che avrei scritto il nome di mio figlio o di Linda. Come poteva sapere che invece avrei scelto proprio il tuo?» Non potevo darle torto. «Quindi ora ci credi?» «Quasi, Beck. Ci ho quasi creduto, come dicevo. Il vecchio Omay aveva ragione. Sono scettica. A quel punto tutto lasciava pensare che fosse un sensitivo, ma sapevo che non lo era. Perché non esistono i sensitivi... così come non esistono i fantasmi, Beck.» Si interruppe. Non proprio diplomatica, la mia Shauna. «Allora feci qualche indagine» riprese. «Uno dei lati positivi dell'essere un'indossatrice famosa è che tutti sono disposti a parlare con te. Chiamai quindi un illusionista che avevo visto a Broadway un paio di anni prima: e quello, quando gli raccontai la storia, scoppiò a ridere. Gli domandai che cosa ci fosse di tanto divertente e lui mi rispose chiedendomi se lo show del guru era andato in scena dopo cena. Ero sorpresa. Che diavolo di importanza aveva prima o dopo cena? Risposi comunque di sì, chiedendogli come faceva a saperlo. Mi fece un'altra domanda: avevamo ordinato il caffè? Ancora una volta risposi di sì. E il suo era nero? Altro sì.» Shauna sorrideva. «Lo sai come aveva fatto, Beck?»
Scossi il capo. «Non ne ho idea.» «Per dare il biglietto da visita a Wendy lo aveva fatto passare sopra il caffè. Caffè nero, Beck. Con la superficie che riflette come uno specchio. Ecco come aveva scoperto quello che avevo scritto. Un trucchetto scemo. Semplice, no? Passi il biglietto sopra la tazza del caffè, ed è come se lo passassi sopra uno specchio. E io ci avevo quasi creduto. Hai capito che cosa voglio dire?» «Certo. Pensi che io sia un tipo infinocchiabile come la tua amica Wendy.» «Sì e no. Vedi, Beck, la forza di uno come Omay si basa in parte sulla volontà della sua vittima. Wendy ci casca perché vuole disperatamente credere in quel colloquio con l'aldilà.» «E io voglio credere che Elizabeth è ancora viva, vuoi dire?» «Più di quanto un moribondo nel deserto vorrebbe trovare un'oasi. Ma non è nemmeno questo che intendevo dire.» «Che cosa, allora?» «Quell'esperienza mi ha insegnato che il non vedere un'altra spiegazione non significa che non esista. Significa soltanto che tu non riesci a vederla.» Mi appoggiai allo schienale. Accavallai le gambe. La guardai. E lei distolse lo sguardo, cosa che non fa mai. «Che sta succedendo, Shauna?» Continuò a tenere la testa girata da un'altra parte. «Non riesco proprio a capirti» insistetti. «Mi sembrava di essere stata maledettamente chiara...» «Hai capito che cosa voglio dire. Non è da te. Mi hai detto al telefono che volevi parlarmi. Da sola. E perché, poi? Solo per dirmi che mia moglie, dopotutto, è ancora morta?» Scossi il capo. «Non me la dai a bere.» Lei non reagì. «Dimmi» insistetti. Finalmente si voltò a guardarmi. «Sono spaventata» disse, con un tono di voce che mi fece rizzare i capelli in testa. «Che cosa ti spaventa?» Non rispose subito. Sentivo Linda affaccendarsi in cucina, il tintinnio di piatti e bicchieri, quel suono simile a un risucchio che fa lo sportello del frigo quando viene aperto. «Quella lunga storia che ti ho appena raccontato voleva essere un avvertimento, per te ma anche per me» disse infine. «Non capisco.» «Ho visto qualcosa.» La voce le andò via. Shauna fece un profondo respiro e riprovò. «Ho visto qualcosa che razionalmente non riesco a spiega-
re, proprio come mi era successo con Omay. So che deve esserci un'altra spiegazione, ma non riesco a trovarla.» Prese a muovere nervosamente le mani, a giocherellare con i bottoni, a togliersi dal vestito degli inesistenti peletti. «Comincio a crederti Beck» disse poi. «Credo che Elizabeth potrebbe essere viva.» Il cuore mi saltò in gola. Shauna si alzò di scatto. «Mi preparo un drink. Lo vuoi anche tu?» Scossi il capo. Sembrava sorpresa. «Sei sicuro che non... vuoi...» «Dimmi quello che hai visto, Shauna.» «Il rapporto sulla sua autopsia.» Ci mancò poco che cadessi dal divano. Mi ci volle un po' prima di ritrovare la voce. «Come?» «Conosci Nick Carlson, dell'FBI?» «Mi ha interrogato» risposi. «Ti ritiene innocente.» «A me non sembra di avergli dato quest'impressione.» «Ha cambiato idea quando si è accorto di tutte quelle prove contro di te, gli sono sembrate troppo perfette.» «Te l'ha detto lui?» «Sì.» «E tu gli hai creduto?» «Lo so che rischio di passare per ingenua: ma sì, gli ho creduto.» Mi fidavo del giudizio di Shauna. Se diceva che Carlson non bluffava voleva dire che anche lui si era accorto del tentativo d'incastrarmi, a meno che non fosse il re dei bugiardi. «Continuo a non capire. Che c'entra tutto questo con l'autopsia?» «Carlson è venuto da me, mi ha chiesto che cosa avevi in ballo. Non gliel'ho detto, ma lui era riuscito ugualmente a ricostruire i tuoi movimenti. Sapeva cioè che avevi chiesto di vedere il dossier dell'autopsia di Elizabeth. E si è chiesto il perché. Allora si è fatto consegnare la pratica dal coroner e se l'è portata dietro quando è venuto a trovarmi. Per vedere se potevo aiutarlo in qualche modo.» «Te l'ha mostrata?» Annuì. Avevo la gola secca. «Hai visto le foto dell'autopsia?» «Non c'erano foto, Beck.» «Che cosa?»
«Secondo Carlson qualcuno le ha sottratte.» «Chi?» Lei si strinse nelle spalle. «Solo un'altra persona ha firmato la ricevuta di presa visione. Il padre di Elizabeth.» Hoyt. Tutto conduceva a lui. Guardai Shauna. «Sei riuscita a leggere qualche passo dell'autopsia?» Annuì di nuovo, ma stavolta con una certa esitazione. «E allora?» «Hanno scritto che Elizabeth aveva problemi di droga, Beck. Il rapporto non parlava solo di tracce di droga nel sistema circolatorio, cioè, ma di abusi iniziati molto tempo prima.» «Impossibile.» «Forse, e forse no. Una scoperta del genere non sarebbe stata sufficiente da sola a convincermi. E possibile nascondere uno stato di tossicodipendenza, non accade spesso, ma nemmeno le resurrezioni sono frequenti. Forse le analisi erano sbagliate o imprecise, qualcosa del genere. Ci sono delle spiegazioni, no? E questa faccenda della droga è possibile spiegarla in qualche modo.» Mi leccai le labbra. «Che cosa non ti ha convinto, allora?» «Altezza e peso. Secondo quell'autopsia, Elizabeth era alta un metro e settanta e pesava meno di quarantacinque chili.» Altro pugno allo stomaco. Mia moglie era alta un metro e sessantatré e pesava circa cinquantadue chili. «Dei dati completamente diversi» dissi. «Proprio così.» «È viva. Shauna.» «Forse» ammise. Poi lanciò una rapida occhiata in direzione della cucina. «Ma c'è dell'altro.» Chiamò Linda, che aprì la porta ma rimase sulla soglia. Mi sembrò improvvisamente piccola con quel suo grembiule. Si stropicciò le mani, asciugandole poi sul grembiule. Guardai mia sorella, senza capire. «Che cosa succede?» chiesi. Linda cominciò a parlare. Mi disse delle foto, di come Elizabeth era andata da lei a farsele scattare, e di quanto lei stessa fosse stata contenta di mantenere il segreto su Brandon Scope. Non tentò di indorare la pillola o di fornire spiegazioni, ma probabilmente non ne aveva alcun bisogno. Rimase lì in piedi e vuotò il sacco, aspettando poi l'inevitabile reazione. L'ascoltai a capo chino. Non riuscivo a guardarla in faccia, ma la perdonai piuttosto facilmente. Abbiamo tutti degli angoli bui. Tutti noi li abbiamo.
Avevo voglia di abbracciarla, di dirle che capivo, ma non ce la feci a muovermi. E quando ebbe terminato mi limitai a un cenno del capo. «Grazie per avermelo detto.» Con quelle parole intendevo congedarla. Lei comprese. Shauna e io rimanemmo in silenzio per un minuto intero. «Beck?» «Il padre di Elizabeth mi ha mentito.» Lei annuì. «Devo parlare con lui.» «Ma se finora non ti ha detto nulla.» "Proprio così" pensai. «Credi che questa volta sarà diverso?» Carezzai distrattamente la Glock che portavo infilata alla cintura. «Forse» risposi. Carlson mi venne incontro in corridoio. «Il dottor Beck?» mi chiese. Dall'altra parte della città, in quel momento, alla procura distrettuale era in corso una conferenza stampa. I cronisti accolsero ovviamente con un certo scetticismo l'elaborata versione di Fein, e si assistette a una serie di marce indietro, di indici puntati e così via. L'unico risultato fu che la faccenda si fece ancora più complicata. Ma la confusione aiuta. La confusione provoca una lunga ricostruzione, con relativa spiegazione ed esposizione e ogni altro tipo di "zione". Stampa e pubblico preferiscono esprimersi in maniera più semplice. Lance Fein avrebbe avuto un compito decisamente più difficile se, per una singolare coincidenza, la procura distrettuale non avesse colto l'occasione di quella conferenza stampa per annunciare una serie di provvedimenti a carico di un certo numero di alti funzionari comunali, facendo capire che "i tentacoli della corruzione", per usare le parole di Fein, si sarebbero potuti annidare perfino nell'ufficio del sindaco. E la stampa, un organismo la cui attenzione collettiva non si distingue granché da quella di un bimbo di due anni imbottito di merendine, immediatamente si gettò su questo nuovo giocattolo scintillante, spingendo quello vecchio sotto il letto con un calcio. Carlson mi venne vicino. «Vorrei farle qualche domanda.» «Non ora.» «Suo padre possedeva una pistola.» Quelle parole mi inchiodarono al pavimento. «Che cosa?»
«Suo padre, Stephen Beck, acquistò una Smith and Wesson calibro 38. Dal registro risulta che l'acquistò diversi mesi prima di morire.» «E questo che vorrebbe dire?» «Immagino che quella pistola l'abbia ereditata lei. Sbaglio?» «Non ho intenzione di parlare.» Premetti il pulsante dell'ascensore. «Ce l'abbiamo noi, quella pistola» aggiunse. Mi voltai, sbalordito. «Era nella cassetta di sicurezza di Sarah Goodhart. Con le foto.» Non credevo a ciò che stavo sentendo. «E perché non me l'avete detto prima?» Carlson mi gratificò di un sorrisetto furbo. «Ah già, allora ero ancora il cattivo» dissi. Poi gli detti ostentatamente le spalle. «Non ne vedo comunque l'importanza.» «Altroché se la vede.» Premetti di nuovo il pulsante dell'ascensore. «È andato a trovare Peter Flannery» proseguì Carlson «per fargli domande sull'assassinio di Brandon Scope. Mi piacerebbe sapere il perché.» Tenni il dito pigiato sul pulsante. «Avete fatto qualcosa agli ascensori?» «Sì. Perché è andato da Peter Flannery?» La mia mente eseguì alcune rapide deduzioni. E mi venne un'idea, cosa questa pericolosa anche nelle migliori circostanze. Shauna si fidava di quest'uomo, forse avrei potuto fidarmi anch'io. Un po', almeno. Abbastanza. «Forse perché io e lei abbiamo lo stesso sospetto» dissi. «Sarebbe?» «Ci stiamo chiedendo entrambi se KillRoy ha davvero ucciso mia moglie.» Carlson incrociò le braccia. «E Peter Flannery che c'entra?» «Lei stava ricostruendo i miei movimenti, giusto?» «Sì.» «Io ho deciso di fare lo stesso con quelli di Elizabeth, a distanza di otto anni. Le iniziali e il numero telefonico di Flannery erano nell'agenda di mia moglie.» «Capisco. E che cos'ha saputo dal signor Flannery?» «Nulla, un vicolo cieco» mentii. «Non credo.» «Come fa a dirlo?» «Ha qualche familiarità con i test balistici?» «Li ho visti fare in televisione.» «Per dirla in due parole, ogni pistola lascia la propria impronta sul
proiettile che spara. Graffi, solchi tali da creare un'impronta unica. Come le impronte digitali.» «Questo lo so.» «Dopo la sua visita allo studio Flannery, ho fatto compiere un'esame balistico sulla calibro trentotto trovata nella cassetta di sicurezza di Sarah Goodhart. E lo sa che cosa ho scoperto?» Scossi il capo, ma lo sapevo. Carlson fece una pausa a effetto prima di continuare. «Ho scoperto che a uccidere Brandon Scope era stata la pistola di suo padre, più tardi ereditata da lei.» Fecero il loro ingresso nell'atrio una donna con il figlio adolescente. Il ragazzino piagnucolava tenendo una spalla abbassata con aria di sfida. La madre aveva le labbra serrate e il capo sollevato nella posizione "nonvoglio-più-sentirne-parlare". Si avvicinarono all'ascensore. Carlson disse qualcosa nel suo walkie-talkie, poi entrambi ci allontanammo dagli ascensori continuando a fissarci in un confronto silenzioso. «Agente Carlson, pensa che io sia un assassino?» «Vuole la verità? Non ne sono più sicuro.» Trovai curiosa quella risposta. «Si rende conto, naturalmente, che non sono obbligato a parlare. Posso chiamare Hester Crimstein e impedirle di continuare a farmi domande.» Lui si incupì ma non provò nemmeno a negarlo. «Ora che cosa ha in mente?» «Mi dia due ore.» «Per fare cosa?» «Due ore» ripetei. Ci pensò su. «A una condizione.» «Quale?» «Mi dica chi è Lisa Sherman.» La domanda mi lasciò francamente perplesso. «Mai sentito questo nome.» «Lisa Sherman aveva intenzione di espatriare con lei, ieri sera.» Elizabeth. «Non capisco di che cosa stia parlando.» Si udì il "ding" dell'ascensore, poi la porta scorrevole si aprì. La mamma con le labbra serrate e il figlio capriccioso entrarono. Lei si voltò a guardarci. Le feci segno di tenere la porta aperta. «Due ore» dissi.
Carlson annuì controvoglia e io entrai in ascensore. 40 «Sei in ritardo!» gridò a Shauna il fotografo, un ometto dal finto accento francese. «E hai l'aria, comment dit-on?, di essere finita nella tazza del cesso.» «Vaffanculo, Frédéric» fu la risposta di Shauna, che non sapeva e tantomeno le importava se quello fosse il suo vero nome. «E poi, tu di dove sei? Di Brooklyn?» Quello sollevò le braccia al cielo. «Come faccio a lavorare così?» Intervenne in tempo Aretha Feldman, l'agente di Shauna. «Non preoccuparti, François. Il nostro truccatore farà dei miracoli su Shauna, lei all'arrivo ha sempre un aspetto orribile. Torniamo subito.» Afferrò la sua cliente per un gomito, senza smettere un attimo di sorridere. «Che diavolo ti succede?» le chiese sottovoce. «Non farmi scenate del genere.» «E tu non fare la primadonna con me.» «Ho passato una nottataccia, va bene?» «Non va bene affatto. Vai a sederti al trucco.» L'artista del trucco trasalì inorridito vedendo Shauna. «Che cosa sono quelle borse sotto gli occhi?» gridò. «Stiamo per caso facendo uno spot per la Samsonite?» «Ah ah.» Shauna si avvicinò alla poltroncina. «A proposito, ti è arrivata questa» disse Aretha, che aveva in mano una busta. Shauna la guardò con gli occhi socchiusi. «Che cos'è?» «Vai a sapere. L'ha portata dieci minuti fa un corriere, ha detto che era urgente.» Porse la busta a Shauna, che si sentì stringere lo stomaco leggendo il suo nome, solo Shauna, scarabocchiato con quella grafia familiare. «Datemi un secondo» disse senza staccare gli occhi dalla busta. «Non mi sembra il momento...» «Soltanto un secondo.» Agente e truccatore si allontanarono. Shauna aprì la busta, dalla quale cadde sul pavimento un cartoncino bianco con la stessa grafia familiare. Lo sollevò da terra, il messaggio era brevissimo. "Vai alla toilette femminile."
Cercò di respirare normalmente e si raddrizzò. «Qualcosa non va?» le chiese Aretha. «Devo fare pipì» le rispose, con una voce calma che la sorprese. «Dov'è il bagno?» «In fondo a sinistra.» «Torno subito.» Due minuti dopo Shauna spinse la porta della toilette, che non si aprì. Allora bussò. «Sono io.» Passarono alcuni secondi, poi dall'interno si sentì scorrere il piccolo catenaccio. Altro silenzio. Shauna trattenne il fiato e spinse di nuovo. La porta si spalancò. Lei fece un passo e si bloccò. All'altra estremità del bagno, di fronte a una cabina, c'era un fantasma. Shauna soffocò un grido. La parrucca nera, i chili in meno e gli occhiali dalla sottile montatura metallica non potevano certo alterare l'evidenza. «Elizabeth...» «Chiudi la porta, Shauna.» Lei obbedì senza pensare. Poi si voltò muovendo un passo verso la vecchia amica. Ma Elizabeth si ritrasse. «Per favore, abbiamo pochissimo tempo.» Shauna, forse per la prima volta in vita sua, era a corto di parole. «Devi convincere Beck che sono morta» disse Elizabeth. «È un po' tardi.» L'altra si guardò disperatamente attorno, come se cercasse una via di fuga. «Ho fatto un errore a tornare. Un errore stupido, stupido. Non posso restare. Devi dirgli...» «Abbiamo letto l'autopsia, Elizabeth. È impossibile far rientrare il genio nella lampada.» Elizabeth chiuse gli occhi. «Che diavolo è successo?» le chiese Shauna. «È stato un errore venire qui.» «Sì, l'hai già detto.» Elizabeth prese a mordicchiarsi il labbro inferiore. «Devo andare.» «Non puoi.» «Che cosa?» «Non puoi scappare un'altra volta.» «Se rimango lui morirà.» «È già morto, Elizabeth.»
«Non capisci.» «Non devo capire. Se lo lasci di nuovo non sopravviverà. Ho aspettato otto anni che se ne facesse una ragione. Perché è così che succede, sai. Le ferite si rimarginano. La vita continua. Ma non per Beck.» Si avvicinò a Elizabeth. «Non posso farti andare via di nuovo.» Quattro occhi erano pieni di lacrime. «Non mi importa del perché te ne sei andata otto anni fa.» Shauna si avvicinò ancora all'amica. «L'importante è che tu sia tornata.» «Non posso restare» ripeté lei debolmente. «Devi.» «Anche se questo significa la morte di Beck?» «Sì» rispose Shauna senza esitare. «Anche in questo caso. E lo sai che ti sto dicendo la verità. Per questo sei qui. Sai che non puoi andartene un'altra volta. E sai che non te lo permetterò.» Fece un altro passo. «Sono così stanca di scappare» disse piano Elizabeth. «Lo so.» «Non so più che cosa fare.» «Nemmeno io. Ma a questo punto la fuga non è più un'opzione. Spiegaglielo, Elizabeth. Faglielo capire.» Elizabeth sollevò il capo. «Lo sai quanto lo amo?» «Sì, lo so.» «Non posso permettere che gli capiti qualcosa di male.» «Troppo tardi.» Erano ormai a meno di mezzo metro l'una dall'altra. Shauna avrebbe voluto stringerla tra le braccia, ma rimase immobile. «Hai un numero dove possa chiamarlo?» le chiese Elizabeth. «Sì, mi ha dato quello di un cell...» «Digli Dolphin. Ci vediamo lì stasera.» «Non capisco che cosa diavolo significhi.» Elizabeth le passò davanti, socchiuse la porta del bagno, fece capolino e poi scivolò fuori. «Lui capirà» disse. E sparì. 41 Io e Tyrese ci eravamo sistemati come al solito sul sedile posteriore. Il cielo del mattino era di un grigio cenere, lo stesso colore delle lapidi. Superato George Washington Bridge indicai a Brutus l'uscita dell'autostrada.
Con gli occhi coperti dagli occhiali scuri, Tyrese studiò il mio viso. «Dove stiamo andando?» chiese alla fine. «Dai miei suoceri.» Lui attese che aggiungessi qualcosa. «Lui fa il poliziotto.» «E si chiama?» «Hoyt Parker.» Brutus sorrise. Imitato da Tyrese. «Lo conosci?» «Non ci ho mai lavorato, ma il nome l'ho sentito.» «Che cosa vuoi dire con questo "non ci ho mai lavorato"?» Tyrese tagliò corto con un gesto. Entrammo in città. Da tre giorni stavo vivendo diverse esperienze surreali e l'ultima era proprio quella di girare nella mia vecchia zona in un'auto dai finestrini oscurati in compagnia di due spacciatori. Detti a Brutus qualche altra indicazione e arrivammo davanti a quella casa di Goodhart Road alla quale mi legavano tanti ricordi. Scesi dall'auto e Tyrese e Brutus proseguirono. Andai alla porta e premetti il campanello udendo il lungo squillo. Le nuvole si erano fatte ancora più cariche. Un lampo squarciò per un attimo il cielo. Pigiai di nuovo il campanello. Il dolore mi attraversò il braccio. Ero ancora indolenzito per quel cocktail di tortura e tensione che avevo mandato giù il giorno prima. Per un momento mi concessi il lusso di pensare a quello che sarebbe successo se non fossero arrivati Tyrese e Brutus. Poi allontanai con la forza quel pensiero. Udii finalmente la voce di Hoyt. «Chi è?» «Beck.» «E aperto.» Allungai la mano verso la maniglia ma mi fermai un attimo prima di toccarla. Strano. Ero stato in quella casa un'infinità di volte ma mai avevo sentito Hoyt chiedere chi è. Era uno di quelli che preferiscono il confronto diretto, Hoyt Parker, e non si nascondono certo dietro i cespugli. Non aveva paura di nulla e, maledizione, non perdeva occasione per dimostrarlo. Se suoni alla sua porta lui la apre e ti affronta a viso aperto. Mi guardai alle spalle. Tyrese e Brutus erano scomparsi, anche perché avrebbero dato nell'occhio aggirandosi di fronte alla casa di un poliziotto in un'area residenziale bianca. «Beck?» Non avevo scelta. Mi venne in mente la Glock e, mentre con la sinistra
giravo la maniglia e aprivo la porta, avvicinai la destra al fianco. Per ogni evenienza. Poi feci capolino. Si udì la voce di Hoyt. «Sono in cucina.» Entrai e mi richiusi la porta alle spalle. Nella stanza si avvertiva il profumo di limone di un deodorante per ambienti. Trovai quell'odore nauseante. «Vuoi mangiare qualcosa?» mi chiese Hoyt. Ancora non l'avevo visto. «No, grazie.» Mi diressi verso la cucina camminando sul tappeto. Notai le vecchie foto sulla mensola del camino ma stavolta non provai alcuna fitta. Quando passai dal tappeto al linoleum mi accorsi che la cucina era vuota. Stavo per fare dietrofront quando sentii contro la tempia un freddo metallo. Una mano mi si insinuò d'improvviso dietro il collo rovesciandomi il capo. «Sei armato, Beck?» Non potevo muovermi o parlare. Sempre tenendomi puntata la pistola alla tempia, Hoyt mi tolse la mano dal collo e prese a palparmi. Trovò la Glock, la prese e la fece scivolare lontano sul linoleum. «Chi ti ha accompagnato?» «Un paio di amici» riuscii a dire. «Che tipo di amici?» «Che significa questa storia, Hoyt?» Fece un passo indietro. Mi voltai. La pistola era puntata contro il mio torace. Il foro della canna mi apparve enorme, e mi sembrò allargarsi come una bocca gigantesca pronta a inghiottirmi in un solo boccone. Era difficile staccare gli occhi da quel tunnel freddo e buio. «Sei venuto a uccidermi?» mi chiese Hoyt. «Che cosa? No.» Mi costrinsi a sollevare lo sguardo. Hoyt non si era fatto la barba, aveva gli occhi bordati di rosso e ogni tanto ondeggiava. Aveva bevuto. Aveva bevuto moltissimo. «Dov'è la signora Parker?» gli chiesi. «Al sicuro.» Strana risposta. «L'ho mandata via.» «Perché?» «Credo che tu lo sappia il perché.» Forse lo sapevo. O cominciavo a saperlo. «E perché mai vorrei farti del male, Hoyt?» Continuava a puntarmi la pistola contro il torace. «Vai sempre in giro con una pistola nascosta addosso, Beck? Potrei sbatterti in galera solo per
questo.» «Mi hai fatto di peggio» replicai. Mi fissò stupito e dalle labbra gli uscì una specie di mugolio. «Quale cadavere abbiamo cremato, Hoyt?» «Non sai un cazzo, tu.» «So che Elizabeth è ancora viva.» Incurvò le spalle, ma la pistola non si mosse di un centimetro. Notai la mano stretta attorno al calcio e, per un attimo, ebbi la certezza che stesse per spararmi. Fui tentato di saltare di lato, ma mi resi conto che lui non avrebbe avuto difficoltà a farmi secco con il secondo colpo. «Siediti» disse piano. «Shauna ha visto il rapporto dell'autopsia. Sappiamo che non era di Elizabeth quel cadavere all'obitorio.» «Siediti» ripeté, sollevando leggermente la pistola, e penso che se non gli avessi obbedito mi avrebbe sparato. Mi fece tornare in soggiorno. Andai a sedermi su quell'orribile divano che era stato testimone di tanti momenti memorabili: ma ebbi l'impressione che quei momenti sarebbero sembrati scintille di un accendino, paragonati al fuoco che stava per avvolgere quella stanza. Hoyt mi si sedette di fronte. La pistola era ancora puntata contro il centro del mio torace, lui non aveva mai allentato la presa. Grazie all'addestramento, immagino. Ma mio suocero cominciava a dar segni di stanchezza, assomigliava a un pallone con una piccola perdita che si sgonfia quasi impercettibilmente. «Che cos'è successo?» gli chiesi. Rispose con un'altra domanda. «Che cosa ti fa credere che sia viva?» Come sarebbe a dire? Possibile che mi fossi sbagliato, che lui fosse all'oscuro di tutto? No, decisi subito. Aveva visto il cadavere all'obitorio. Era stato lui a fare la falsa identificazione. Doveva saperlo per forza. Poi ricordai la e-mail. "Non dirlo a nessuno..." Era stato un errore andare a casa Parker? Ancora una volta, no. Il messaggio era stato inviato prima che la situazione precipitasse, praticamente in un'altra era. Dovevo prendere una decisione, passare all'azione in qualche modo. «L'hai vista?» mi chiese. «No.» «Dov'è?»
«Non lo so» risposi. D'improvviso Hoyt piegò la testa di lato e si portò un dito alle labbra per farmi tacere. Poi si alzò e scivolò accanto alla finestra. Le tende erano tutte abbassate, ne scostò una e sbirciò fuori. Mi alzai. «Siediti.» «Sparami, Hoyt.» Mi fissò. «È nei guai» dissi. «E tu pensi di poterla aiutare?» Si fece una risatina beffarda. «Quella notte vi ho salvato la vita, a voi due. Tu che cosa hai fatto?» Sentii come una contrazione al torace. «Ero stato messo fuori combattimento.» «Giusto.» «Tu...» Non riuscivo quasi ad articolare le parole. «Ci hai salvato tu?» «Siediti.» «Se sai dove si trova...» «Questa conversazione non avrebbe luogo» concluse lui la frase. Feci un passo verso di lui. Poi un altro. Hoyt tornò a puntarmi la pistola. Non mi fermai, ma continuai a camminare finché l'estremità della canna non mi si premette contro lo sterno. «Devi dirmelo, oppure devi uccidermi.» «Ti va proprio di giocare d'azzardo?» Lo fissai negli occhi e mantenni lo sguardo fermo forse per la prima volta da quando lo conoscevo. Tra noi passò qualcosa, ma non saprei dire che cosa. Forse rassegnazione da parte sua, non so. Ma non cambiai atteggiamento. «Hai idea di quanto tua figlia mi manchi?» «Siediti, David.» «No, finché...» «Te lo dirò» fece piano. «Siediti.» Non staccai gli occhi dai suoi mentre indietreggiavo verso il divano, poi mi sedetti lentamente. Lui posò la pistola sul tavolinetto. «Vuoi bere qualcosa?» «No.» «Forse sarebbe meglio.» «Non ora.» Fece spallucce e si avvicinò a uno di quei mobili bar ricoperti di chintz con il ripiano sollevabile. Era vecchio e malandato, quell'armadietto. I bic-
chieri, messi alla rinfusa, tintinnarono quando Hoyt allungò un braccio per prenderne uno, e io fui più che certo che quella non era stata la sua prima incursione della giornata nel mobile bar. Versò il liquore lentamente. Avrei voluto mettergli fretta, ma a quel punto avevo già forzato abbastanza. Hoyt aveva bisogno di quel drink, immaginai. Gli serviva a raccogliere le idee, a passarle in rassegna, a vagliarle. Mise le mani a coppa attorno al bicchiere e crollò su una sedia. «Non mi sei mai piaciuto troppo» disse. «Nulla di personale. Sei di buona famiglia. Tuo padre era un uomo per bene e tua madre... be', tua madre ci ha provato, no?» Si passò una mano tra i capelli mentre con l'altra teneva il bicchiere. «Ma ho sempre considerato la tua relazione con mia figlia...» sollevò lo sguardo al soffitto cercando le parole giuste «... un ostacolo alla sua crescita. Ora... be', solo ora mi rendo conto di quanto siete stati incredibilmente fortunati.» Nella stanza la temperatura si era abbassata di qualche grado. Cercai di non muovermi, di placare il respiro, qualsiasi cosa pur di non disturbarlo. «Comincerò da quella notte al lago. Quando la portarono via.» «Chi la portò via?» Rimase con gli occhi fissi dentro il bicchiere. «Non interrompermi e ascolta.» Annuii, ma lui non se ne accorse. Stava ancora fissando il suo liquore, letteralmente alla ricerca di risposte nel fondo del bicchiere. «Lo sai chi è stato a portarsela via» riprese. «Ormai dovresti averlo capito. I due che sono stati trovati qualche giorno fa sepolti lassù.» D'improvviso si guardò attorno, poi riprese la pistola e si alzò per andare nuovamente a spiare dietro i vetri. Avrei voluto chiedergli che cosa si aspettava di vedere, ma preferii non creargli diversivi. «Io e mio fratello arrivammo al lago tardi. Quasi troppo tardi. Ci appostammo in modo da bloccarli a metà sentiero. All'altezza di quei due grossi macigni, hai presente?» Distolse lo sguardo dalla finestra per riportarlo su di me. Me li ricordavo quei due macigni sul sentiero, a circa ottocento metri dal lago: entrambi grossi e tondeggianti, quasi identici, piazzati ai due lati del sentiero. Esisteva una serie di leggende su come fossero finiti lì. «Ci nascondemmo dietro quei macigni, io e Ken. E quando l'auto di quei due si avvicinò, sparai a un pneumatico. Quelli si fermarono per vedere che cosa era successo. Quando uscirono dalla loro auto sparai in testa a tutti e due.»
Hoyt lanciò un ultimo sguardo dalla finestra prima di tornare alla sua poltrona. Poi posò la pistola sul tavolino e si rimise a guardare il bicchiere. Io mi morsi la lingua e attesi. «Quei due erano stati ingaggiati da Griffin Scope» riprese. «Avrebbero dovuto interrogare Elizabeth e poi ucciderla. Ken e io venimmo a sapere di quel piano e corremmo al lago per fermarli.» Sollevò una mano quasi a zittire una domanda, anche se io non avevo osato aprire bocca. «Il come e il perché non hanno alcuna importanza. Griffin Scope voleva Elizabeth morta, ti basti sapere questo. E non si sarebbe certo fermato perché un paio di sicari ci avevano lasciato la pelle. Non avrebbe avuto certo difficoltà a ingaggiarne altri, c'era solo l'imbarazzo della scelta. Scope è come una di quelle bestie mitologiche alle quali tagliavano la testa e subito ne ricrescevano altre due.» Mi guardò. «Non puoi lottare contro questo tipo di potere, Beck.» Bevve un lungo sorso. Io rimasi in silenzio. «Prova a rivivere quella notte e mettiti nei nostri panni» riprese, avvicinandosi a me e cercando di coinvolgermi. «Ci sono due morti, su quel sentiero. Uno degli uomini più potenti del mondo li ha incaricati di ucciderti, e per arrivare a te non esita a sbarazzarsi di eventuali innocenti. Che potevamo fare? Andare alla polizia? E per dire che cosa? Un uomo come Scope non lascia in giro prove, e in ogni caso ha sul suo libro paga più poliziotti e giudici di quanti capelli ho io sulla testa. Saremmo morti. Allora? Lo chiedo a te, Beck. Hai due uomini morti e sai che la cosa non finirà lì. Che fai?» Considerai la domanda retorica e quindi non risposi. «Esposi quindi la situazione a Elizabeth come ho appena fatto con te. Le dissi che Scope ci avrebbe spazzati via per arrivare fino a lei. Se fosse fuggita, se si fosse nascosta, lui ci avrebbe torturato fino a farci confessare dove si trovava. Oppure se la sarebbe presa con mia moglie. O con tua sorella. Avrebbe fatto di tutto per trovare e uccidere Elizabeth.» Mi si avvicinò ancora. «Hai afferrato la situazione, ora? Lo capisci qual è l'unica risposta?» D'improvviso tutto mi fu fin troppo chiaro. «Dovevi far credere loro che tua figlia era morta.» Sorrise, facendomi venire di nuovo la pelle d'oca. «Avevo qualche risparmio, come mio fratello Ken. E non ci mancavano le conoscenze giuste. Elizabeth sparì, la facemmo espatriare. Si tagliò i capelli, imparò a camuffarsi, anche se forse eccedette nella cautela perché nessuno la stava cer-
cando. In questi otto anni è passata da un paese del Terzo mondo all'altro, lavorando per la Croce Rossa o per l'Unicef o per qualsiasi altro ente assistenziale disposto ad assumerla.» Attesi. Erano tante le cose che non mi aveva ancora detto, ma non aprii bocca, per assorbire fino in fondo il significato di ciò che avevo appena udito. Elizabeth. Era viva. In quegli otto anni di lutto e di dolore lei era viva, aveva respirato, vissuto, lavorato... Troppo difficile da razionalizzare, era uno di quegli incomprensibili calcoli matematici che mettono fuori combattimento il computer. «Ti starai chiedendo forse di quel cadavere all'obitorio.» Riuscii ad annuire. «Quella parte è stata decisamente semplice. Non ci mancano certo i cadaveri di donne sconosciute, rimangono conservati nelle celle frigorifere per un certo tempo, passato il quale vengono sotterrati in una fossa comune a Roosevelt Island. Attesi quindi che spuntasse il cadavere di una sconosciuta somigliante almeno un po' a Elizabeth, e l'attesa fu più breve del previsto. La ragazza era probabilmente una sbandata uccisa dal suo protettore, ma non lo sapremo mai con certezza. Non potevamo, inoltre, lasciare insoluto l'omicidio di Elizabeth. C'era bisogno di un capro espiatorio, per chiudere il caso. Scegliemmo KillRoy. Si sapeva che marchiava il viso di ogni vittima con una K, ed eseguimmo quell'operazione sul cadavere della sconosciuta. Rimaneva soltanto il problema dell'identificazione. Dapprincipio pensammo di dare fuoco al cadavere, ma gli investigatori avrebbero sicuramente preso il calco dei denti come si fa in questi casi. Decidemmo perciò di rischiare, anche perché il colore dei capelli e della pelle e l'età coincidevano. Scaricammo il cadavere in un paese con un piccolo ufficio del coroner e facemmo noi stessi la telefonata anonima alla polizia, arrivando poi dal coroner quasi contemporaneamente al cadavere. A quel punto non mi rimase che scoppiare in lacrime e identificare il cadavere. È così che vengono riconosciute moltissime vittime di omicidi, da un familiare cioè. Io, quindi, la identificai, e Ken confermò. Chi avrebbe potuto obiettare qualcosa? Perché mai padre e zio avrebbero dovuto mentire?» «Hai corso un bel rischio» osservai. «Non avevo scelta.» «Ma doveva pur esserci un'altra via d'uscita.» Si fece ancora più vicino. Sentii il suo alito. Le pieghe della pelle sotto gli occhi erano ancora più vistose. «Ancora una volta, Beck, prova a pensare. Sei su quel sentiero, con due morti ammazzati... Che diavolo, è facile
starsene seduti in poltrona come te giudicando a posteriori. Dimmi, allora: che avremmo dovuto fare?» Non avevo risposta. «C'erano anche altri problemi. Non potevamo avere la certezza che Scope e i suoi avrebbero creduto alla messinscena. Fortunatamente per noi, secondo i piani i due ammazzati sarebbero dovuti fuggire all'estero dopo il delitto, trovammo loro addosso due biglietti per Buenos Aires. Erano entrambi tipi poco affidabili, sbandati, e questo ci aiutò. Gli uomini di Scope non si preoccuparono della loro scomparsa, ma ci tennero ugualmente sotto sorveglianza: non perché pensassero che Elizabeth fosse ancora viva, ma nel timore che potesse avere dato a qualcuno di noi del materiale compromettente.» «Che tipo di materiale compromettente?» Ignorò la domanda. «Casa tua, il tuo telefono, probabilmente anche il tuo ufficio sono stati pieni di microspie in questi otto anni. E questo vale anche per me.» Si spiegava così la cautela di quelle e-mail. Mi guardai attorno. «Tranquillo, qui non ce ne sono, ho bonificato casa proprio ieri.» Approfittando di qualche istante di silenzio azzardai una domanda. «Perché Elizabeth ha scelto ora di ricomparire?» «Perché è stupida» rispose, e per la prima volta colsi nella sua voce una nota di rabbia. Attesi che si calmasse, che sparissero le macchie rossastre sul suo viso. «I due cadaveri che avevamo sepolto...» disse piano. «Sì?» «Elizabeth si teneva informata via Internet. E quando ha letto che i cadaveri erano stati scoperti ha temuto, come me, che gli Scope potessero avere intuito la verità.» «Cioè che lei era ancora viva?» «Sì.» «Ma se si trovava in un altro continente sarebbe stato sempre difficile trovarla.» «È quello che le ho detto. Ma lei sosteneva che non si sarebbero fermati per questo. Se la sarebbero presa con me. O con sua madre. O con te. Ma...» Si interruppe, chinando il capo. «Non so quanto tutto ciò fosse importante.» «Che vuoi dire?» «A volte penso che Elizabeth voleva che qualcosa del genere accadesse.» Agitò il bicchiere facendo girare il poco ghiaccio rimasto. «Voleva
tornare da te, David. Quella della scoperta dei cadaveri era solo una scusa.» Attesi ancora. Bevve un altro sorso, poi tornò a sbirciare dalla finestra. «Ora tocca a te» disse poi. «Che cosa?» «Voglio qualche risposta. Mi devi dire, per esempio, come si è messa in contatto con te. Oppure come hai fatto a scappare. O dove credi che si trovi.» Esitai, ma mi decisi quasi subito. Che alternative avevo? «Elizabeth si è messa in contatto con me con delle e-mail anonime. Ha usato un codice che solo io avrei potuto capire.» «Che tipo di codice?» «Si è riferita a certi episodi del passato.» «Quindi sapeva che potevi essere sotto controllo.» «Sì.» Cambiai posizione sulla sedia. «Che mi sai dire del personale di Griffin Scope?» Sembrò confuso. «Il personale?» «Che tu sappia, c'è un orientale pieno di muscoli tra quelli che lavorano per lui?» Quel poco di colore rimasto sul viso di Hoyt scomparve d'incanto. E mio suocero mi guardò con una specie di timore reverenziale, dandomi addirittura l'impressione che stesse per farsi il segno della croce. «Eric Wu» disse, quasi sottovoce. «Ho avuto un incontro con il signor Wu, ieri.» «Impossibile.» «Perché?» «Non saresti ancora vivo.» «Ho avuto fortuna.» Gli raccontai la storia, lui sembrava sul punto di piangere. «Se Wu l'ha trovata, se ha messo le mani su di lei prima di metterle su di te...» Chiuse gli occhi, come per allontanare quell'immagine. «Non l'ha trovata.» «Come fai a essere sicuro?» «Voleva sapere perché ero andato al parco. Che motivo avrebbe avuto di chiedermelo, se l'aveva già presa?» Annuì lentamente. Poi finì il drink e si versò ancora da bere. «Ma ora sanno che è viva» disse poi. «Questo significa che ci daranno la caccia.» «E noi reagiremo.» Misi in queste parole un coraggio ben superiore a
quello che provavo. «Non hai sentito quello che ti ho detto poco fa? Alla bestia mitologica le teste ricrescono.» «Ma l'eroe, alla fine, ha sempre ragione della bestia.» Fece un gesto spazientito. Giustamente, aggiungerei. Gli tenni gli occhi addosso. Si udirono i rintocchi della pendola. Rimasi per un po' a riflettere «Devi raccontarmi il resto» dissi poi. «Non ha importanza.» «È legato all'omicidio di Brandon Scope, vero?» Scosse il capo con scarsa convinzione. «So che Elizabeth aveva fornito un alibi a Helio Gonzalez» gli dissi. «Non ha importanza, Beck. Credimi.» «Sei un po' troppo reticente.» Lui mandò giù un altro sorso. «Elizabeth aveva preso una cassetta di sicurezza dando come nome Sarah Goodhart» insistetti. «È lì che hanno trovato quelle foto.» «Lo so. Quella notte avevamo i minuti contati. Non sapevo che lei aveva già dato a quei due la chiave della cassetta. Vuotammo le loro tasche, ma non andammo a guardare dentro le scarpe. Né ce ne preoccupammo più di tanto, perché quei due sarebbero dovuti scomparire per sempre.» «Tua figlia non ha lasciato soltanto le foto in quella cassetta di sicurezza.» Hoyt poggiò lentamente il bicchiere sul tavolino. «C'era anche la vecchia pistola di mio padre, la calibro trentotto. Te la ricordi?» Hoyt distolse lo sguardo, la sua voce si era d'improvviso addolcita. «Una Smith and Wesson. L'aiutai io a sceglierla.» Mi scoprii di nuovo a tremare. «Lo sapevi che con quella pistola era stato ucciso Brandon Scope?» Strinse le palpebre, come un bambino che vuole allontanare un brutto sogno. «Dimmi che cos'è successo, Hoyt.» «Lo sai che cos'è successo.» Non riuscivo a farmi passare il tremito. «Dimmelo ugualmente.» Ogni parola mi colpì come un pugno. «Fu Elizabeth a sparare a Brandon Scope.» Scossi il capo. Sapevo che non era vero. «Lavorava al suo fianco, in quella fondazione benefica. E dopo un certo
tempo si imbatté fatalmente nella verità. Scoprì cioè che Brandon si era messo a fare il gangster da quattro soldi, con un giro di droga, prostituzione e non so che altro.» «Non me l'ha mai detto.» «Non l'ha mai detto a nessuno, Beck. Ma Brandon scoprì ugualmente che lei sapeva, e la pestò di botte per diffidarla dall'aprire bocca. Io allora ero all'oscuro di tutto, naturalmente. Elizabeth raccontò anche a me la storia dell'incidente stradale.» «Non l'ha ucciso lei» insistetti. «Fu legittima difesa. Brandon si era accorto che lei continuava a indagare sul suo conto e si presentò a casa vostra. Ma stavolta aveva in mano un coltello... Cercò di colpirla e lei sparò. Legittima difesa, a tutti gli effetti.» Continuai a scuotere il capo. «Mi chiamò, in lacrime. Mi precipitai a casa vostra e quando arrivai...» si interruppe per riprendere fiato «lui era già morto. Elizabeth aveva ancora in mano quella pistola, voleva che chiamassi la polizia. Ma riuscii a convincerla che non era assolutamente il caso. Le feci capire che, legittima difesa o meno, Griffin Scope l'avrebbe uccisa o peggio. Le dissi di darmi qualche ora di tempo. Lei era agitatissima ma accettò.» «Hai portato via il cadavere.» «Sì. Conoscevo quel Gonzalez, sapevo che un tipo del genere sarebbe finito male in ogni caso. L'aveva già fatta franca da un'accusa di omicidio per un cavillo tecnico. Era insomma il tipo più indicato per appioppargli l'assassinio di Brandon Scope.» Il quadro cominciava a farsi più chiaro. «Ma Elizabeth non l'avrebbe mai permesso.» «E infatti non contavo sul suo silenzio. Quando venne a sapere dell'arresto di Gonzalez decise di fornirgli un alibi per salvarlo» e con le dita fece sarcasticamente il segno delle virgolette «"da una grave ingiustizia".» Scosse il capo. «Un gesto assolutamente inutile. Se avesse lasciato andare all'altro mondo quel rifiuto umano, la storia sarebbe finita lì.» «Scope e i suoi scoprirono che l'alibi era falso?» chiesi. «Sì, qualcuno gli fece una soffiata. Allora Scope mandò in giro i suoi scagnozzi e venne a sapere delle indagini di Elizabeth sul figlio. Il resto fu per lui abbastanza ovvio.» «Quindi, quella sera al lago si trattò di una vendetta» osservai. Ci pensò un po' su. «Sì, ma in parte. Volevano anche mettere a tacere la verità sul conto di Brandon Scope. Era un eroe scomparso, e mantenere
immacolato l'alone che circondava il figlio aveva una grandissima importanza per Griffin.» Anche per mia sorella, pensai. «Continuo a non capire perché Elizabeth tenesse quella roba nella cassetta di sicurezza» dissi. «Prove.» «Di che cosa?» «Prove che era stata lei a uccidere Brandon Scope, e per legittima difesa. Qualsiasi cosa potesse succedere, lei non voleva che qualcun altro venisse accusato di ciò che lei aveva commesso. Ingenua, non ti pare?» No, non mi pareva. Perché quella che avevo udito non era tutta la verità, e io lo sapevo meglio di chiunque altro. Guardai mio suocero: notai la sua pelle floscia, i capelli radi, lo stomaco prominente, la sua stazza sempre imponente anche se ormai bolsa. Lui credeva di sapere ciò che era veramente successo a sua figlia, e non immaginava quanto si sbagliasse. Udii un tuono, poi la pioggia cominciò a picchiettare contro le finestre. «Avresti potuto dirmelo.» Scosse il capo, stavolta con maggiore enfasi. «E tu che cosa avresti fatto, Beck? L'avresti seguita? Sareste fuggiti insieme? Così quelli avrebbero scoperto la verità e ci avrebbero uccisi tutti. Ti tenevano d'occhio. Lo fanno tuttora. Noi non ne abbiamo parlato con nessuno, nemmeno con la madre di Elizabeth. E se hai bisogno di una conferma che ciò che abbiamo fatto era la cosa giusta, guardati attorno. Sono passati otto anni. Lei ti ha semplicemente mandato delle e-mail anonime. E guarda che è successo.» Si udì sbattere lo sportello di un'auto. Hoyt saltò dietro la finestra come un grosso gatto e sbirciò nuovamente fuori. «La stessa auto con la quale sei arrivato tu. Dentro ci sono due neri.» «Sono venuti a prendermi.» «Sicuro che non lavorano per Scope?» «Sicuro.» In quel momento squillò il mio cellulare. «Tutto a posto?» chiese Tyrese. «Sì.» «Vieni fuori.» «Perché?» «Ti fidi di quello sbirro?» «Non ne sono sicuro.» «Vieni fuori.» Dissi a Hoyt che dovevo andarmene, e lui mi sembrò troppo esausto per
reagire in qualche modo. Corsi alla porta, Brutus e Tyrese mi aspettavano fuori. La pioggia era leggermente diminuita, ma nessuno di noi sembrava farci caso. «C'è una telefonata per te. Rimani lì» disse Tyrese. «Perché?» «È una telefonata personale e io non voglio sentirla.» «Ma mi fido di te.» «Fai quello che ti dico, amico.» Mi spostai di qualche passo. Alle mie spalle vidi sollevarsi una tendina. Hoyt guardò fuori per l'ennesima volta. Riportai lo sguardo su Tyrese, che mi fece segno di avvicinare il cellulare all'orecchio. Ci fu un breve silenzio. «La linea è libera, parla pure» disse infine. Udii al telefono la voce di Shauna. «L'ho vista.» Rimasi perfettamente immobile. «Mi ha detto che vuole vederti stasera al Dolphin.» Capii. La linea fu interrotta. Tornai da Tyrese e Brutus. «Devo andare in un certo posto da solo. Dove nessuno possa seguirmi.» Tyrese lanciò un'occhiata a Brutus. «Entra in macchina» disse poi. 42 Brutus guidava come un pazzo. Imboccava strade a senso unico nella direzione sbagliata. Faceva improvvise inversioni a U. Dalla corsia di destra tagliava la strada alle altre auto per svoltare a sinistra passando con il rosso. Stavamo realizzando un tempo eccellente. C'era un treno della MetroPark per Port Jervis che partiva dopo venti minuti dalla stazione di Iselin. E da Port Jervis avrei potuto noleggiare un'auto. Arrivati alla stazione, Brutus rimase in macchina e Tyrese mi accompagnò alla biglietteria. «Mi avevi raccomandato di andarmene e non tornare più» mi disse. «Proprio così.» «Forse è quello che dovresti fare anche tu.» Gli detti la mano ma lui la ignorò e mi abbracciò forte. «Grazie» gli sussurrai. Prima di andarsene tirò su le spalle per far cadere meglio la giacca, poi si sistemò gli occhiali sul naso. «Sì, d'accordo.» E, senza aspettare che aggiungessi una parola, tornò all'auto. Il treno arrivò e ripartì in orario. Mi trovai un posto e crollai sul sedile,
cercando di non pensare a nulla. Impossibile. Mi guardai attorno. La carrozza era quasi vuota. Due studentesse con enormi zaini dialogavano nel loro linguaggio infarcito di "tipo" e "cioè". Notai su un sedile un giornale, un tabloid di New York, che qualcuno aveva lasciato prima di scendere. Lo presi. Sulla prima pagina, che per quel tipo di giornali è una specie di vetrina, spiccava la foto di un'attricetta arrestata in un negozio per taccheggio. Lo sfogliai alla ricerca dei fumetti o delle pagine sportive, qualcosa che non mi desse da pensare insomma. Ma gli occhi mi caddero su una foto, ebbene sì, del sottoscritto. Il ricercato. Incredibile l'aspetto sinistro, da terrorista mediorientale, che avevo in quella foto. Fu a quel punto che vidi. E il mio mondo, già traballante, subì un altro scossone. Non stavo leggendo l'articolo, lo avevo scorso velocemente. Ma avevo visto i nomi. Per la prima volta. I nomi degli uomini trovati cadavere vicino al lago. Uno dei due nomi era familiare. Melvin Bartola. Non poteva essere. Lasciai il giornale e mi misi a correre lungo il treno, aprendo le porte scorrevoli. Due vetture dopo trovai un conduttore. «Qual è la prossima fermata?» gli chiesi. «Ridgemont, New Jersey.» «C'è una biblioteca vicino alla stazione?» «Non saprei.» Scesi ugualmente. Eric Wu piegò le dita. E con una spintarella decisa forzò la porta. Non ci aveva impiegato molto a localizzare i due neri che avevano aiutato il dottor Beck a fuggire. Larry Gandle aveva qualche amico alla centrale di polizia. Wu li aveva descritti agli addetti all'archivio, che gli avevano messo a disposizione le foto segnaletiche. Diverse ore dopo si era fermato davanti alla foto di un gangster, certo Brutus Cornwall. E dopo qualche telefonata era stato possibile accertare che questo Brutus lavorava per uno spacciatore, Tyrese Barton. Semplice. La catenella interna saltò e la porta si spalancò, sbattendo con la maniglia contro la parete. Latisha trasalì sollevando lo sguardo. Stava per gridare, ma Wu fu più veloce. Le premette una mano sulla bocca, avvicinando le labbra all'orecchio della donna. Dietro di lui entrò un altro degli uomini
di Larry Gandle. «Shhh» fece Wu, quasi dolcemente. TJ, che giocava sul pavimento con le sue automobiline, sollevò la testa. «Mamma?» Eric Wu gli sorrise. Si staccò da Latisha e andò a inginocchiarsi accanto al bambino. Latisha cercò di fermarlo, ma l'altro la bloccò. Wu poggiò le sue enormi mani sul capo di TJ, carezzandogli i capelli. Poi si voltò verso la madre. «Sai dove posso trovare Tyrese?» le chiese. Sceso dal treno, mi feci portare da un taxi all'autonoleggio e, una volta lì, chiesi all'impiegato con la giacca verde dietro il bancone le indicazioni per la biblioteca. Per arrivarci impiegai circa tre minuti. La biblioteca di Ridgemont aveva sede in un moderno edificio di mattoni in stile coloniale, finestroni, scaffali di faggio, soppalchi, torrette e un caffè. Chiesi di poter usare Internet alla bibliotecaria, una donna dal volto avvizzito con un vestitino di percalle. «Ha un documento?» mi chiese. Glielo diedi. «Per usare il computer deve risiedere nella contea» osservò. «La prego, è molto importante.» Mi aspettavo un "niente da fare", ma lei invece si ammorbidi. «Quanto tempo pensa di impiegarci?» «Qualche minuto, non di più.» «Quel computer lì» e ne indicò uno alle mie spalle «è il nostro Internet point. È a disposizione di tutti per un massimo di dieci minuti.» La ringraziai e mi sedetti di fronte al monitor. Su Yahoo! trovai il sito del "New Jersey Journal", il principale quotidiano delle contee di Bergen e Passaic. Sapevo quale data cercare, il dodici gennaio di dodici anni prima. Trovai la finestra per la ricerca e battei sulla tastiera quella data. L'archivio conteneva soltanto materiale degli ultimi sei anni. Maledizione. Tornai di corsa dalla bibliotecaria. «Sto cercando un articolo pubblicato dodici anni fa dal "New Jersey Journal"» le dissi. «Non l'ha trovato nell'archivio web?» Scossi il capo. «Allora serve il microfilm.» Poggiò con forza le mani sui braccioli della poltroncina per alzarsi. «Che mese?»
«Gennaio.» Era un donnone e camminava con un certo impaccio. Trovò la bobina in un cassetto e mi aiutò a inserirla nella macchina e a farla scorrere. «Buona fortuna» mi disse, tornando alla sua scrivania. Mi sedetti. Azionai la leva come se fosse la manopola di una nuova motocicletta. Il microfilm emise un acuto stridio scorrendo nei rulli. Ogni tanto mi fermavo per controllare la data. Impiegai meno di due minuti per trovare quella che cercavo. L'articolo era a pagina tre. Mi bastò leggere il titolo per sentire un nodo alla gola. A volte giurerei di avere udito il rumore della frenata, anche se al momento in cui accadde dormivo nel mio letto a diversi chilometri di distanza. Forse non come quella notte che persi Elizabeth, ma soffrivo ancora molto: per la prima volta ero venuto a contatto con la tragedia, e un'esperienza del genere non si cancella mai. A distanza di dodici anni ricordavo ancora ogni particolare di quella notte, anche se mi torna alla memoria confusa e indistinta, come se sconvolta da un tornado. Il campanello che suona prima dell'alba, i due agenti alla porta con i visi di circostanza, Hoyt in piedi dietro di loro, le loro parole caute, noi che neghiamo e poi lentamente capiamo, il volto tirato di Linda, le mie lacrime incessanti, mia madre - il suo equilibrio mentale già precario ormai compromesso - che si rifiuta di accettare la notizia, che mi dice di tacere, di finirla di piangere, che mi ordina di smetterla di comportarmi come un bambino, che insiste a dire che va tutto bene e poi d'improvviso mi viene vicino meravigliandosi che stia piangendo lacrime così grosse, troppo grosse, dice, lacrime così grosse spuntano sulle guance di un bambino, non di un adulto, poi ne tocca una, cerca di prenderla tra pollice e indice, "smettila di piangere David!", si arrabbia sempre più perché non smetto di piangere, poi si mette a gridare, mi urla di non piangere più, finché intervengono Linda e Hoyt per cercare con dolcezza di farla tacere, e qualcuno le da un sedativo, non per la prima volta né tantomeno per l'ultima. Tutto mi tornò dolorosamente alla memoria come il getto di una cascata. Poi lessi l'articolo e l'impatto mi sballottò in un'altra direzione: AUTO FINISCE IN UN BURRONE Una vittima, sconosciute le cause Attorno alle tre della scorsa notte una Ford Taurus guidata da Stephen Beck, abitante a Green River (New Jersey), è precipitata da un ponte a Mahwah, non lontano dal confine con lo stato di New York. Il fondo stra-
dale era viscido a causa di una forte nevicata, ma la polizia non ha ancora accertato con esattezza le cause dell'incidente. L'unico testimone della disgrazia, Melvin Bartola, un camionista di Cheyenne (Wyoming)... Smisi di leggere. Suicidio o incidente, ci si era chiesti all'epoca. Ora avevo scoperto che non si era trattato né di suicidio né di incidente. «Che c'è?» chiese Brutus. «Non lo so, amico» rispose Tyrese. Stette a pensarci un po' su. «Non ho voglia di tornare» aggiunse poi. Brutus non rispose. Tyrese lanciò un'occhiata al suo vecchio amico. Se la facevano assieme dai tempi della terza elementare e Brutus già allora era di poche parole. Forse perché troppo occupato a buscarle due volte al giorno, a scuola e a casa, fin quando aveva deciso che l'unica maniera per sopravvivere era quella di diventare il più spietato figlio di puttana della zona. A undici anni aveva cominciato ad andare a scuola con la pistola. A quattordici anni aveva ucciso per la prima volta. «Non ne hai abbastanza, Brutus, non sei stanco?» Quello si strinse nelle spalle. «Lo siamo tutti.» Era l'unica, pesante, innegabile verità. Squillò il telefono di Tyrese. «Sì?» «Ciao, Tyrese.» Lui non riconobbe quella strana voce. «Chi parla?» «Ci siamo conosciuti ieri. Dentro un furgone bianco.» Gli si gelò il sangue nelle vene. Bruce Lee, pensò. Oh, maledizione... «Che cosa vuoi?» «C'è qui con me qualcuno che vuole salutarti.» Dopo un breve silenzio udì la voce di TJ. «Papà?» Tyrese si tolse di scatto gli occhiali. Poi si irrigidì. «TJ? Stai bene?» Fu Eric Wu a rispondergli. «Sto cercando il dottor Beck, Tyrese. Io e TJ speravamo che tu potessi aiutarmi a trovarlo.» «Non so dove si trova.» «È un vero peccato.» «Te lo giuro su Dio, non lo so.» «Capisco.» Ci fu una breve pausa. «Rimani in linea per favore, Tyrese. Voglio farti sentire qualcosa.» 43
Il vento soffiava, gli alberi danzavano, l'arancione violaceo del tramonto stava per trasformarsi in un grigio peltro lucido. Mi ero accorto con spavento di come l'aria della sera fosse esattamente la stessa che avevo respirato otto anni fa, l'ultima volta che mi ero avventurato in questo sacro territorio. Mi chiesi se per caso gli uomini di Griffin Scope non tenessero d'occhio anche la zona di Lake Charmaine. Ma non aveva importanza. Elizabeth era troppo furba per farsi trovare. Come ho già detto, prima che mio nonno comprasse il terreno qui aveva sede un campo estivo per ragazzi. E l'indicazione data da Elizabeth, Dolphin, era il nome di una capanna, quella dove dormivano i ragazzi più grandi, quella più addentro nel bosco, quella dove raramente trovavamo il coraggio di andare. L'auto che avevo noleggiato arrivò davanti a quella che una volta era l'entrata di servizio del campo, anche se di entrata vera e propria non si poteva più parlare. Dalla strada principale non la si vedeva, essendo ricoperta dalla vegetazione come la Bat-caverna. Per ogni evenienza avevamo messo una catena, con relativo cartello "Divieto di accesso". Catena e cartello erano ancora al loro posto, ma gli anni di abbandono si notavano tutti. Fermai l'auto, sganciai la catena e l'avvolsi attorno all'albero. Mi rimisi al volante dirigendomi verso il punto dove una volta c'era la mensa del campo. Ne rimaneva in piedi ben poco, si vedevano ancora i resti capovolti e arrugginiti di forni e stufe. Sul terreno c'era ancora qualche pentola, ma la maggior parte degli utensili era finita sottoterra con il passare degli anni. Scesi dall'auto e mi riempii le narici del dolce profumo della vegetazione. Cercai di non pensare a mio padre, ma una volta arrivato alla radura, dalla quale si vedeva il lago e i raggi argentei della luna che si riflettevano sulla sua superficie increspata, udii ancora una volta il vecchio fantasma e mi domandai, questa volta, se non stava chiedendomi in lacrime di vendicarlo. Mi inoltrai lungo il sentiero, anch'esso ormai quasi invisibile. Strano che Elizabeth avesse scelto un posto del genere per incontrarci. Come ho già detto, a lei non piaceva giocare tra i ruderi del campo estivo. Linda e io ci sorprendevamo sempre quando ci imbattevamo in qualche sacco a pelo o in qualche scatoletta di cibo aperta di recente, chiedendoci che tipo di vagabondo potesse essersi fermato lì, e se per caso non fosse ancora nei paraggi. A Elizabeth, molto più pratica di noialtri, quel gioco non piaceva. L'incertezza e i posti sconosciuti la spaventavano.
Impiegai dieci minuti per arrivarci. La capanna sembrava straordinariamente in buono stato. Pareti e soffitto erano ancora in piedi, ma i gradini davanti alla porta apparivano ben più che scheggiati. Il cartello con il delfino era ancora al suo posto, anche se pendeva attaccato a un solo chiodo. La capanna non aveva di certo tenuto alla larga rampicanti, muschio e altri tipi di vegetazione che non sapevo riconoscere, i quali l'avevano circondata, avvolta e invasa al punto da farla apparire un elemento del paesaggio. «Sei tornato» disse qualcuno, facendomi trasalire. Era una voce maschile. Reagii senza pensarci. Mi gettai di lato, caddi al suolo, rotolai su me stesso, tirai fuori la Glock e presi la mira. L'uomo alzò le braccia. Lo guardai, sempre tenendolo sotto tiro. Non era ciò che mi aspettavo. La sua folta barba assomigliava a un nido di pettirosso dopo l'attacco di un corvo. I capelli erano lunghi e luridi. Gli abiti laceri assomigliavano a una specie di tuta mimetica. Per un attimo ebbi l'impressione di essere tornato a New York, di trovarmi davanti a un altro mendicante. Ma il suo portamento eretto non era certo quello di un barbone. L'uomo mi guardò fisso negli occhi. «Chi diavolo sei?» gli chiesi. «È passato tanto tempo, David.» «Non ti conosco.» «È vero, non mi conosci. Ma io conosco te.» Fece un gesto in direzione delle capanne alle mie spalle. «Te e tua sorella. Vi spiavo mentre giocavate.» «Non capisco.» Sorrise. La barba scurissima rendeva di un bianco quasi accecante i denti, tutti ancora intatti. «Sono l'Uomo Nero.» Udii starnazzare in lontananza una famiglia di anatre in volo che si apprestava ad atterrare sulla superficie del lago. «Che cosa vuoi?» gli chiesi. «Non voglio proprio un accidente» rispose sempre sorridendo. «Posso abbassare le mani?» Gli feci segno di sì, lui le abbassò, e io abbassai la pistola pronto però a servirmene. «Da quanto tempo ti nascondi nel bosco?» gli chiesi, ripensando a ciò che aveva appena detto. «Più o meno» e sembrò fare con le dita una specie di calcolo «trent'anni.» Sorrise notando il mio stupore. «Sì, ti osservo fin da quando eri alto così» e portò la mano all'altezza del ginocchio. «Ti ho visto crescere e...» Fece una pausa. «È passato tanto tempo dall'ultima volta che sei venuto
qui, David.» «Chi sei?» «Mi chiamo Jeremiah Renway.» Il nome non mi diceva niente. «Mi nascondo dalla legge.» «E ora perché hai deciso di uscire allo scoperto?» Si strinse nelle spalle. «Forse perché mi fa piacere rivederti.» «E come fai a sapere che non andrò a denunciarti?» «Probabilmente perché sei in debito con me.» «Come sarebbe a dire?» «Ti ho salvato la vita.» Mi sentii tremare la terra sotto i piedi. «Che cosa?» «Chi credi sia stato a tirarti fuori dall'acqua?» mi chiese. Ero allibito. «Chi credi che ti abbia trascinato dentro la capanna? Chi credi che abbia chiamato l'ambulanza?» Aprii la bocca ma non riuscii a spiccicare una parola. «E ancora» il suo sorriso si allargò «chi credi che abbia dissepolto quei due cadaveri perché qualcuno li trovasse?» Mi ci volle un po' a ritrovare la voce. «Perché?» riuscii a chiedere. «Con certezza non lo so nemmeno io» rispose. «Vedi, tanto tempo fa ho fatto qualcosa di brutto e forse la mia vuole essere una forma di redenzione, o qualcosa del genere.» «Vuoi dire che hai visto...» Fu lui a concludere la domanda. «Tutto. Li ho visti afferrare la tua signora. Li ho visti colpirti con quel bastone. Li ho visti prometterle di tirarti fuori se lei avesse detto loro dove si trovava una certa cosa. Ho visto tua moglie dar loro una chiave. Li ho visti ridere e caricarla a forza sulla loro auto mentre tu eri ancora sott'acqua.» Inghiottii a vuoto. «Li hai visti quando li hanno ammazzati?» Renway sorrise nuovamente. «Abbiamo chiacchierato abbastanza, figliolo. Lei ora ti sta aspettando.» «Non capisco.» «Ti sta aspettando» ripeté. Si voltò. «Vicino all'albero.» E d'improvviso scattò verso il bosco, attraversando la vegetazione con la velocità di un cervo. Rimasi a guardarlo finché scomparve alla vista. L'albero. Allora cominciai a mia volta a correre. I rami mi schiaffeggiavano il viso
ma non mi importava. Le gambe mi chiedevano di rallentare ma non le ascoltai. I polmoni protestavano, dissi loro di sopportare. Quando finalmente arrivai all'altezza di quel masso dalla forma vagamente fallica e seguii il sentiero che curvava verso destra, l'albero era ancora là. Mi avvicinai, accorgendomi che gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime. Le nostre iniziali incise sul tronco, E.P. + D.B., si erano scurite con il passare del tempo, come le tredici tacche sottostanti. Rimasi un momento a guardare, poi allungai timidamente una mano e toccai i solchi. Non delle iniziali. Non delle tredici linee. Le mie dita seguirono le otto nuove tacche, incise da pochissimo e ancora appiccicose di linfa. Poi udii la sua voce. «Lo so che lo trovi idiota.» Il cuore mi esplose. Mi voltai. E lei era lì. Non riuscivo a muovermi. Non riuscivo a parlare. La guardai in viso. Quel bel viso. E quegli occhi. Mi sembrò di cadere, di precipitare in un pozzo scuro. Il volto si era fatto più sottile, i suoi zigomi più pronunciati, e credo di non avere mai visto nulla di più perfetto in vita mia. Mi ricordai di quei sogni traditori, quelle parentesi notturne quando la stringevo tra le braccia, le carezzavo il viso avvertendo sempre una misteriosa forza che mi portava via, sapendo pur nei momenti di più totale abbandono che non era vero, che presto sarei stato risospinto nel mondo reale, che dal sonno sarei passato alla veglia. La paura di vivere per l'ennesima volta quella fallace esperienza mi assalì, schiacciandomi i polmoni che si svuotarono d'aria. Elizabeth sembrò leggermi nel pensiero e annuì come per dire: "È vero". Mosse timidamente un passo verso di me. Non ce la facevo quasi a respirare, ma riuscii a scuotere il capo indicando le otto linee appena incise. «Lo trovo romantico.» Soffocò con una mano un singhiozzo e corse verso di me. Allargai le braccia e lei vi si rifugiò. La strinsi. La strinsi fortissimo. Serrai le palpebre. Odorai nei suoi capelli il profumo di lillà e cannella. Lei seppellì il viso nel mio petto e singhiozzò. Ci stringemmo. Elizabeth mi si... adattava ancora. I contorni e le insenature dei nostri corpi non avevano bisogno di progressivi aggiustamenti. Con una mano a coppa le presi il capo. Aveva i capelli più corti, ma la loro consistenza non era cambiata. Sentii l'agitazione che l'aveva invasa e sono certo che lei avvertì la stessa emozione in me. Il nostro primo bacio fu squisito e familiare e spaventosamente disperato, il bacio di due persone che sono riuscite finalmente a risalire in superfi-
cie dopo avere calcolato male la profondità dell'acqua. Gli anni presero a sciogliersi come la neve, e a ogni inverno seguiva la primavera. Dentro di me sentii rimbalzare emozioni infinite, ma non cercai di analizzarle o identificarle. Lei sollevò la testa guardandomi negli occhi, e io non riuscii a muovermi. «Mi dispiace» disse, e temetti che il cuore mi andasse di nuovo in mille pezzi. La tenni stretta. La tenni stretta chiedendomi se avrei mai corso il rischio di liberarla dal mio abbraccio. «Non lasciarmi più» le dissi. «Mai più.» «Promesso?» «Promesso.» Continuammo a tenerci abbracciati. Premetti il mio viso contro la meravigliosa pelle del suo. Le toccai i muscoli della schiena. Le baciai il collo slanciato come quello di un cigno. Sollevai anche gli occhi al cielo, sempre tenendola stretta. Come faccio, mi chiedevo, a capire che non si tratta di un altro scherzo crudele? Com'è possibile che lei sia ancora viva, che sia tornata da me? Non mi importava. Volevo che fosse vero. Volevo che durasse. Ma mentre la tenevo stretta lo squillo di un telefono cellulare cominciò a portarmela via, come in uno di quei sogni traditori. Per un attimo ebbi la tentazione di non rispondere, ma con tutto quello che era successo non potevo certo permettermelo. Durante la nostra veglia avevamo trascurato le persone care, e ora non potevamo abbandonarle. Lo sapevamo entrambi. Sempre con un braccio attorno alla vita di Elizabeth, per nulla al mondo l'avrei lasciata, portai il cellulare all'orecchio e risposi. Era Tyrese. E ascoltando le sue parole ebbi l'impressione che tutto mi stesse nuovamente scivolando dalle dita. 44 Lasciammo l'auto nel parcheggio abbandonato della scuola elementare di Riker Hill e proseguimmo a piedi tenendoci per mano. Nonostante l'oscurità mi accorsi che ben poco era cambiato dai tempi in cui io ed Elizabeth giocavamo nel cortile della scuola. Da buon pediatra, non mi sfuggirono le nuove misure di sicurezza. L'altalena aveva le catene rinforzate e i seggiolini si chiudevano alla vita con una cintura. Sotto gli attrezzi da palestra era stato steso uno spesso strato di plastica morbida per attutire le
cadute dei bambini. Ma il campo di kickball, quello di calcio, l'asfalto sul quale era stato dipinto lo schema del gioco della campana erano gli stessi di quando noi eravamo bambini. Passammo davanti alla finestra della seconda elementare della signorina Sobel, ma era trascorso tanto di quel tempo che nessuno di noi due immagino abbia provato più di un pizzico di nostalgia. Ci infilammo nel bosco, sempre tenendoci per mano. Non avevamo percorso quel sentiero per vent'anni, ma non avevamo certo dimenticato la direzione da prendere. Dieci minuti dopo ci trovammo alle spalle della casa dei Parker in Goodhart Road. Mi voltai e vidi Elizabeth guardare con gli occhi lucidi la casa dove era cresciuta. «Tua madre non l'ha mai saputo?» le chiesi. Scosse il capo. Poi si volse verso di me. Annuii e lentamente le lasciai la mano. «Sei sicuro che sia la cosa giusta?» mi domandò. «Non c'è alternativa.» Non le detti modo di replicare e mi allontanai dirigendomi verso la casa. Arrivato alla vetrata scorrevole misi le mani a coppa ai lati degli occhi e scrutai all'interno. Non si vedeva traccia di Hoyt. La porta sul retro non era chiusa a chiave. Girai la maniglia ed entrai. Non c'era nessuno. Stavo per uscire quando notai una luce accendersi nel garage. Attraversai la cucina e la lavanderia, poi aprii lentamente la porta del garage. Hoyt Parker era seduto al volante della sua Buick Skylark, con il motore spento. Teneva in mano un bicchiere colmo. Quando aprii la porta sollevò la pistola. Poi, vedendomi, tornò a poggiarla sul sedile accanto al suo. Scesi i due gradini e poggiai la mano sulla maniglia dello sportello del passeggero. Non aveva la sicura, l'aprii e scivolai accanto al padre di Elizabeth. «Che cosa vuoi, Beck?» mi chiese, strascicando le parole come chi ha bevuto molto. Persi volutamente del tempo per sistemarmi sul sedile. «Di' a Griffin Scope di liberare il ragazzino» dissi alla fine. «Non so di che cosa stai parlando» fu tutto quello che riuscì a farfugliare, senza un briciolo di convinzione. «Mazzette, bustarelle, libro paga. Scegli tu il termine che preferisci, Hoyt. Ormai so la verità.» «Non sai proprio un cazzo.» «Quella sera al lago, quando hai convinto Elizabeth a non andare alla
polizia.» «Ne abbiamo già parlato.» «Ma ora sono curioso, Hoyt. Di che cosa avevi veramente paura: che uccidessero tua figlia o che arrestassero anche te?» Spostò lentamente gli occhi su di me. «Se non l'avessi convinta a fuggire sarebbe morta.» «Non ne dubito. Ma tu hai avuto una bella fortuna, Hoyt, nel prendere due piccioni con una fava. Le hai salvato la vita e non sei finito in prigione.» «E perché sarei dovuto finire in prigione?» «Vuoi negare di essere stato sul libro paga di Griffin Scope?» Fece spallucce. «E tu credi che io sia l'unico ad avere preso i suoi soldi?» «No.» «Quindi, perché dovrei preoccuparmi più di tanti altri colleghi?» «Per quello che hai fatto.» Si scolò il bicchiere, poi cercò con lo sguardo la bottiglia e si versò dell'altro liquore. «Non so di che diavolo stai parlando.» «Lo sai su che cosa si era messa a indagare Elizabeth?» «Sì, sulle attività illegali di Brandon Scope. Prostituzione. Ragazzine. Droga. A quello piaceva giocare al genio del male.» «E su che altro?» gli chiesi, cercando di non tremare più. «Che cosa voi dire?» «Se avesse continuato a indagare si sarebbe potuta imbattere in qualcosa di ben più grave.» Mi fermai a prendere fiato. «Sbaglio, Hoyt?» Contrasse i lineamenti. Poi si voltò a guardare fisso al di là del parabrezza. «Un omicidio» continuai. Cercai di seguire il suo sguardo, ma vidi soltanto degli attrezzi appesi ordinatamente ai ganci. I cacciavite con i loro manici gialli e neri erano allineati secondo la grandezza, a sinistra quelli con la punta piatta e a destra quelli con la punta a stella. Il primo gruppo era separato dall'altro da tre chiavi inglesi e un martello. «Elizabeth non era l'unica a volere inchiodare Brandon Scope alle sue responsabilità» dissi. Poi attesi che mi guardasse. Ci volle del tempo, ma alla fine mi guardò. E lo lessi nei suoi occhi. Non batté le palpebre, non cercò di nasconderlo. Lo vidi. E lui seppe che l'avevo visto. «Hai ucciso mio padre, Hoyt?»
Bevve un lungo sorso, poi si passò il liquore da una guancia all'altra e infine lo mandò giù in un colpo solo. Parte del whisky gli colò sul mento, ma lui non si preoccupò di asciugarselo. «Ho fatto di peggio» rispose, chiudendo gli occhi. «L'ho tradito.» La rabbia mi bolliva in petto, ma la mia voce era stranamente calma. «Perché?» «Andiamo, David. Oramai dovresti averlo capito da solo.» Fui scosso da un altro accesso d'ira. «Mio padre lavorava con Brandon Scope» cominciai. «Dire che lavorava con lui è riduttivo. Griffin Scope l'aveva incaricato di fare da consigliere e guida del figlio, agivano fianco a fianco.» «Come con Elizabeth.» «Sì.» «E passando le giornate con lui mio padre scoprì che mostro era veramente Brandon Scope, vero?» Hoyt mandò giù un altro sorso. «Non sapeva che cosa fare» proseguii. «Aveva paura di parlare ma, al tempo stesso, non poteva far finta di niente. Era roso dal senso di colpa. Per questo era così silenzioso nei mesi prima della morte.» Mi misi a pensare a mio padre, spaventato, solo e senza nessuno al quale rivolgersi. Perché non me n'ero reso conto? Perché non avevo saputo guardare al di là del mio mondo per accorgermi del suo dolore? Perché non gli avevo offerto una mano? Perché non avevo fatto qualcosa per aiutarlo? Guardai Hoyt. Avevo in tasca una pistola. Come sarebbe stato semplice tirarla fuori e premere il grilletto. Bang. Andato. Ma sapevo per esperienza personale che non avrebbe risolto un accidente. Al contrario. «Continua» disse Hoyt. «A un certo punto papà decise di parlarne a un amico. Ma non un amico qualsiasi. Un poliziotto, uno che lavorava nella città dove venivano commessi i reati di Brandon.» Nelle mie vene il sangue prese a ribollire, minacciando una specie di eruzione. «Ne parlò con te, Hoyt.» Qualcosa sul suo viso si contrasse. «Sono andato bene, finora?» «Benissimo.» «Tu ne hai parlato agli Scope, vero?» «Sì. Pensavo che l'avrebbero fatto trasferire o qualcosa del genere, per allontanarlo da Brandon. Non avrei mai immaginato...» Fece una smorfia, prendendosela evidentemente con quel tono autoassolutorio della sua voce.
«Come hai fatto a scoprirlo?» «Quel nome, Melvin Bartola, per cominciare. Era stato l'unico testimone del cosiddetto incidente nel quale morì mio padre, ma naturalmente lavorava anche lui per Scope.» Mi passò davanti agli occhi il sorriso di mio padre. Serrai le mani a pugno. «E poi mi hai mentito dicendo di avermi salvato la vita. Dopo avere ucciso Bartola e Wolf sei tornato al lago, ma non per salvarmi. Non hai visto alcun movimento e, di conseguenza, hai immaginato che io fossi annegato.» «Immaginato che tu fossi annegato» ripeté. «Non desiderato che tu fossi morto.» «Una semplice differenza semantica.» «Non ho mai voluto che ti facessero del male.» «Ma la cosa non ti ha nemmeno addolorato più di tanto. Sei tornato all'auto e hai detto a Elizabeth che ero annegato.» «Stavo solo cercando di convincerla a fuggire» disse. «E la tua morte ha contribuito alla sua decisione.» «Immagino la tua sorpresa quando hai saputo che ero ancora vivo.» «Shock, più che sorpresa. Come hai fatto a sopravvivere?» «Non ha importanza.» Hoyt si appoggiò come esausto allo schienale. «Hai ragione, non ha importanza» disse. Cambiò nuovamente espressione. «Che cos'altro vuoi sapere?» mi chiese, sorprendendomi. «Non neghi nulla di ciò che ho detto?» «No.» «E conoscevi Melvin Bartola, vero?» «Certo.» «Bartola ti ha informato di avere avuto l'incarico di uccidere Elizabeth» proseguii. «Ma non riesco a capire che cosa sia avvenuto esattamente. Forse ha avuto una crisi di coscienza, non ha voluto che tua figlia morisse.» «Bartola una crisi di coscienza?» Ridacchiò. «Ma fammi il favore. Era un assassino da quattro soldi. È venuto a dirmelo solo perché pensava di poter fare il doppio gioco, farsi pagare da Scope e da me. Io gli ho offerto il doppio dei soldi di Scope, promettendogli di aiutarlo a espatriare, se lui aiutava me a fingere che Elizabeth fosse morta.» Cominciavo a capire. «Quindi Bartola e Wolfe dissero agli uomini di Scope che, dopo avere ucciso Elizabeth, sarebbero scomparsi. Nessuno, di conseguenza, si preoccupò perché non si erano più fatti vivi.» «Sì.»
«Che cosa successe, allora?» «Mi avevano dato la parola che non ne avrebbero fatto cenno a nessuno, ma la parola di gente come Bartola e Wolf non ha alcun valore. Sapevo che mi avrebbero chiesto altri soldi. E si sarebbero stufati di vivere all'estero; magari una sera, completamente ubriachi, si sarebbero vantati in un bar di ciò che avevano fatto. Ho avuto a che fare tutta la vita con spazzatura come quei due. E non potevo correre rischi.» «Perciò li hai uccisi.» «Sì.» Lo disse senza un'ombra di rimorso. Ora sapevo tutto. Quello che non sapevo era ciò che sarebbe potuto accadere da un momento all'altro. «Hanno rapito un bambino» ripresi. «Ho promesso che, se lo avessero liberato, mi sarei consegnato io al suo posto. Aiutami a convincerli.» «Non si fidano più di me.» «Hai lavorato tanto tempo con Scope. Trova un sistema.» Hoyt ci pensò su. Poi guardò di nuovo gli attrezzi appesi al muro e mi chiesi che cosa stava vedendo. Quindi, sollevò lentamente la pistola puntandomela al viso. «Forse mi è venuta un'idea» disse. Non battei ciglio. «Apri la porta del garage, Hoyt.» Non si mosse. Allungai un braccio verso l'aletta parasole, presi il telecomando del garage e lo azionai. Il portellone sembrò prendere vita con un ronzio. Hoyt l'osservò sollevarsi. Dietro c'era Elizabeth, immobile. Quando la porta si fu completamente sollevata, lei fissò dura il padre. Lui trasalì. «Hoyt?» gli dissi. Si girò di scatto verso di me e con una mano mi afferrò i capelli, mentre con l'altra mi premeva la pistola contro l'occhio. «Dille di spostarsi da lì.» Rimasi immobile. «Diglielo o morirai.» «Non mi uccideresti mai di fronte a lei.» Mi si avvicinò ancora. «Fai quello che ti ho detto, maledizione!» Ma non sembrava dare degli ordini ostili, quanto piuttosto implorare con urgenza. Guardandolo provai una strana sensazione. Hoyt avviò il motore. Io feci segno a Elizabeth di togliersi dall'uscita. Lei esitò, ma alla fine si fece da parte. Hoyt attese che l'uscita fosse libera e premette sull'acceleratore. Le passammo davanti in un lampo. Mentre ci allontanavamo mi voltai e dal lunotto posteriore vidi l'immagine di Elizabeth man mano sempre più indi-
stinta, finché non scomparve. Di nuovo. Mi chiesi se l'avrei più rivista. Poco prima, spiegandole il mio piano, mi ero mostrato fiducioso, ma sapevo bene a cosa andavo incontro. Lei si era opposta. Le avevo spiegato che dovevo farlo. Ero io stavolta che avrei dovuto proteggerla. A Elizabeth la cosa non era piaciuta, ma aveva capito. Da qualche giorno avevo saputo che era viva. Avrei dato la mia vita per la sua? Volentieri. E, seduto accanto all'uomo che aveva tradito mio padre, mi sentii invadere da uno strano senso di pace. La colpa che mi aveva oppresso per tanti anni era finalmente scomparsa. Sapevo che cosa avrei dovuto fare, che cosa avrei dovuto sacrificare, e mi chiesi se avevo mai veramente avuto scelta, se era scritto da qualche parte che quella storia sarebbe dovuta finire così. Mi voltai verso Hoyt. «Non è stata Elizabeth a uccidere Brandon Scope.» «Lo so.» Poi disse qualcosa che mi penetrò fin dentro le ossa. «L'ho ucciso io.» Rimasi immobile. «Brandon picchiava Elizabeth e l'avrebbe uccisa. Così gli ho sparato quando si è presentato a casa vostra. Poi, come ti ho già detto, ho incastrato Gonzalez. Ma Elizabeth sapeva che era innocente e non poteva permettere che lo condannassero a morte. Allora si inventò quell'alibi. Quando lo seppero, gli uomini di Scope cominciarono a farsi qualche domanda e arrivarono a sospettare che l'assassino di Brandon potesse essere proprio Elizabeth.» Teneva gli occhi sulla strada, come se stesse cercando la forza di continuare. «E, Dio mi aiuti, io non ho detto una parola per convincerli del contrario.» Gli porsi il cellulare. «Chiama.» Chiamò un certo Larry Gandle, uno che avevo già visto diverse volte perché suo padre era stato al liceo con mio padre. «Ho Beck con me» gli disse Hoyt. «Ci vediamo alle stalle, ma dovete liberare il bambino.» Larry Gandle disse qualcosa che non riuscii a sentire. «Saremo lì appena sapremo che il bambino è libero» proseguì Hoyt. «E di' a Griffin che ho ciò che vuole. La faccenda può essere chiusa senza che venga fatto del male a me o alla mia famiglia.» Gandle disse qualche altra cosa, poi la comunicazione fu interrotta. Hoyt mi ridette il cellulare. «Faccio parte della tua famiglia, Hoyt?»
Mi puntò di nuovo la pistola alla testa. «Tira fuori lentamente la Glock. Con due dita, Beck.» Obbedii. Lui premette un pulsante e abbassò il mio finestrino. «Gettala fuori.» Esitai. Hoyt tornò a premermi la sua pistola contro l'occhio. Lanciai la Glock dal finestrino, ma non la sentii atterrare. Continuò a guidare in silenzio, entrambi attendevamo che il telefono squillasse di nuovo. E quando squillò fui io a rispondere. «Sta bene» disse Tyrese sottovoce. Riattaccai, sollevato. «Dove mi stai portando, Hoyt?» «Lo sai.» «Griffin Scope ci ucciderà entrambi.» «No.» Mi puntò contro nuovamente la pistola. «Non entrambi.» 45 Uscimmo dall'autostrada e ci addentrammo nella campagna. Il numero dei lampioni diminuì man mano, fin quando l'unica illuminazione fu quella dei fari delle auto. Hoyt allungò un braccio sul sedile posteriore e prese una busta voluminosa. «È qui, Beck. Tutto qui.» «Tutto cosa?» «Il materiale raccolto sul conto di Brandon da tuo padre. E quello raccolto da Elizabeth.» Non capivo. L'aveva sempre avuto con sé, quel materiale. Poi mi chiesi perché Hoyt si fosse fatto trovare in macchina. «Dove sono le fotocopie?» gli chiesi. Sorrise come se quella domanda gli avesse fatto piacere. «Non esistono fotocopie, è tutto qui.» «Continuo a non capire.» «Capirai, David. Mi spiace, ma ora sei tu il mio capro espiatorio. Non posso fare altro.» «Scope non la berrà.» «E invece sì. Come hai ricordato tu, ho lavorato a lungo per lui e so che cosa vuole sentirsi dire. La faccenda si conclude stasera.» «Con la mia morte?» Non rispose.
«E come pensi di spiegarlo a Elizabeth?» «Magari mi odierà. Ma almeno sarà viva.» In lontananza scorsi il cancello posteriore della tenuta. Fine del gioco, pensai. La guardia privata in uniforme ci fece segno di passare. Hoyt teneva la pistola puntata contro di me. Imboccammo il viale, poi all'improvviso pigiò il pedale del freno. «Hai addosso un microfono, Beck?» «Che cosa? No.» «Stronzate, fammi vedere.» Allungò la mano sul mio torace, io mi spostai. Lui allora sollevò nuovamente la pistola, annullando la distanza che ci separava, e si mise a tastarmi. Alla fine, soddisfatto, tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Sei fortunato» disse con un risolino. L'auto si rimise in movimento. Anche nell'oscurità ci si poteva rendere conto di quanto quella campagna fosse rigogliosa. Le sagome degli alberi si stagliavano contro la luna ondeggiando, anche se non sembrava che soffiasse il vento. Vidi in lontananza un'esplosione di luci, e Hoyt seguì la strada in quella direzione. Da un grigio cartello sbiadito scoprimmo di trovarci alle stalle Freedom Trail. Parcheggiamo nel primo posto a sinistra. Guardai fuori dal finestrino; non ne so molto di alloggiamenti per cavalli ma queste stalle erano di un'estensione impressionante. C'era un edificio simile a un hangar all'interno del quale sarebbe stato possibile ricavare una dozzina di campi da tennis. Le stalle vere e proprie erano a forma di V e si estendevano a vista d'occhio. Nel mezzo c'era una fontana, tutt'attorno maneggi e ostacoli da concorso ippico. E c'erano anche degli uomini che ci attendevano. «Scendi» mi ordinò Hoyt, sempre puntandomi contro la pistola. Scesi, e quando richiusi lo sportello il rumore sembrò squarciare il silenzio. Hoyt girò attorno all'auto e mi si mise dietro puntandomi la pistola in mezzo alle reni. Gli odori facevano venire in mente una fiera contadina. Ma l'immagine scomparve quando mi trovai di fronte quattro uomini, due dei quali non tardai a riconoscere. Gli altri due, quelli che non avevo mai visto, erano entrambi armati di una specie di fucile semiautomatico. Ce lo puntarono contro, ma io quasi non ci feci caso, forse mi stavo abituando ad avere un'arma puntata contro. Uno di loro era spostato a destra, vicino all'ingresso della stalla, l'altro si appoggiava a un'auto sulla sinistra. I due che avevo riconosciuto se ne stavano in piedi uno accanto all'altro
sotto un lampione. Uno era Larry Gandle. L'altro era Griffin Scope. Hoyt mi premette la pistola alla schiena per farmi avanzare di qualche passo. E mentre mi avvicinavo ai due vidi aprirsi l'ingresso del grosso edificio. Ne uscì Eric Wu. Il cuore prese a battermi contro la gabbia toracica, sentivo nelle orecchie il mio respiro, avevo il formicolio alle gambe. Forse stavo diventando immune alla minaccia di un'arma, ma il mio corpo ricordava le dita di Eric Wu. Rallentai involontariamente il passo. Wu non mi degnò di uno sguardo, ma andò dritto da Griffin Scope e gli consegnò qualcosa. Hoyt mi fece fermare a una decina di metri di distanza. «Buone notizie» annunciò. Tutti gli occhi si puntarono su Griffin Scope. Lo conoscevo, ovviamente. Ero pur sempre il figlio di un vecchio amico e il fratello di una fidata dipendente. Come quasi tutti, provavo una certa soggezione verso quell'omone dagli occhietti vivaci. Era il tipo dal quale vorresti essere notato, una specie di compare che ti dà una pacca sulle spalle invitandoti a bere, sempre in bilico tra il ruolo di datore di lavoro e quello di amico. Un esercizio di equilibrio che non sempre riusciva, perché succedeva che il capo, trasformandosi in amico, perdesse il rispetto del dipendente, oppure che il dipendente si offendesse quando l'amico era all'improvviso costretto a indossare nuovamente le vesti del capo. Ma per una dinamo come Griffin Scope questo non era certo un problema, lui sapeva essere sempre un leader. Griffin Scope parve perplesso. «Buone notizie, Hoyt?» Hoyt abbozzò un sorriso. «Molto buone, credo.» «Meraviglioso.» Scope guardò Wu, che annuì senza però muoversi da dove si trovava. «Dammi queste buone notizie allora, Hoyt. Sono tutto emozionato.» Hoyt si schiarì la voce. «Anzitutto, deve capirmi. Non ho mai voluto farle del male. Al contrario, mi sono dato da fare per avere la sicurezza che non emergesse nulla di compromettente. Ma dovevo anche salvare mia figlia. Può capirmi, vero?» Un'ombra passò sul viso di Scope. «Mi stai chiedendo se capisco il desiderio di proteggere un figlio?» chiese con voce cavernosa. «Sì, Hoyt, penso di capirlo.» Un cavallo nitrì in lontananza. Per il resto, il silenzio era assoluto. Hoyt si passò la lingua sulle labbra e tirò fuori la grossa busta. «Che cos'è, Hoyt?» «Tutto. Fotografie, dichiarazioni, nastri registrati. Tutto quello che mia
figlia e Stephen Beck avevano trovato su suo figlio.» «Ci sono copie?» chiese Scope. «Soltanto una.» «Dove?» «In un posto sicuro. Da un avvocato. Se non lo chiamo tra un'ora e non pronuncio una frase in codice, lui le consegnerà alla polizia. Ma non la prenda come una minaccia, signor Scope, non rivelerei mai ciò che so. Avrei tutto da perdere, come gli altri.» «Proprio così» disse Scope. «Ora quindi può stare tranquillo e lasciarci tranquilli. Ha tutto, le manderò il resto. Non c'è alcun bisogno di fare del male a me o alla mia famiglia.» Griffin Scope guardò Larry Gandle, poi Eric Wu. I due uomini armati sembrarono irrigidirsi. «E a mio figlio non pensi, Hoyt? Qualcuno l'ha ammazzato come un cane. Vorresti che io ci passassi sopra?» «Non è stata Elizabeth a ucciderlo.» Scope strinse le palpebre fingendo profondo interesse, ma secondo me si trattava di qualcosa di diverso, di più simile allo stupore. «Dimmi, allora, ti prego. Chi l'ha ucciso?» Sentii Hoyt inghiottire a vuoto. Poi si voltò a guardarmi. «David Beck.» Non ero sorpreso. E nemmeno arrabbiato. «Ha ucciso lui suo figlio» continuò, parlando in fretta. «Ha scoperto quello che era successo e si è vendicato.» Scope finse di trasalire e di portarsi una mano al petto. Poi finalmente mi fissò. Anche Wu e Gandle si girarono verso di me. «Che cos'ha da dire in sua difesa, dottor Beck?» mi chiese. Ci pensai un attimo. «Cambierebbe qualcosa se dicessi che ha mentito?» Scope non mi rispose, ma si voltò verso Wu. «Portami quella busta, per favore.» Wu aveva il passo di una pantera. Si diresse verso di noi, sorridendomi, e sentii alcuni muscoli contrarsi istintivamente. Si fermò davanti a Hoyt e allungò una mano. Hoyt gli porse la busta. Lui la prese. E con l'altra mano, non ho mai visto nessuno muoversi con tale velocità, strappò la pistola dalla mano di Hoyt come si toglie un giocattolo a un bambino e se la gettò dietro le spalle. «Ma che...» disse Hoyt. Wu lo colpì con forza al plesso solare. Hoyt cadde in ginocchio, poi lo vedemmo mettersi a quattro zampe e vomitare. Wu gli girò attorno, con la
massima calma, e gli tirò un calcione alla gabbia toracica. Udii il rumore di qualcosa che si rompeva. Hoyt rotolò sulla schiena, sbattendo le palpebre, con braccia e gambe spalancate. Griffin Scope gli si avvicinò, con un sorrisetto. Poi sollevò in aria qualcosa di piccolo e nero, che non riconobbi. Hoyt lo guardò, sputando sangue. «Non capisco» riuscì a biascicare. Ora vedevo che cosa aveva in mano Griffin Scope. Un miniregistratore. Scope premette il pulsante "Play". Udii prima la mia voce, poi quella di Hoyt. "Non è stata Elizabeth a uccidere Brandon Scope." "Lo so. L'ho ucciso io." Scope spense il registratore. Nessuno parlò. Poi abbassò gli occhi pieni di disprezzo su mio suocero, e in quel momento capii un mucchio di cose. Capii che se Hoyt Parker sapeva di avere la casa piena di microspie avrebbe dovuto per forza sapere che lo stesso trattamento era stato riservato alla sua auto. Per questo era uscito di casa quando ci aveva visto arrivare. Per questo mi aveva aspettato in macchina. Per questo mi aveva interrotto quando avevo detto che non era stata Elizabeth a uccidere Brandon Scope. Per questo aveva confessato un delitto sapendo che qualcuno stava ascoltando quella confessione. L'avevo capito quando mi aveva palpato per perquisirmi. Si era accorto del cavo elettrico che Carlson mi aveva appiccicato al petto ma voleva assicurarsi che anche i federali sentissero tutto e che Scope non mi facesse perquisire. Mi resi conto che Hoyt Parker aveva deciso di prendersi la colpa, che dopo avere commesso delle cose terribili tra le quali il tradimento di mio padre aveva voluto in quel modo cercare la strada della redenzione. E alla fine sarebbe stato lui, e non io, a sacrificarsi per gli altri. Capii anche che doveva ancora fare qualcosa, se voleva che il suo piano funzionasse in pieno. Quindi mi allontanai di qualche passo. E mentre sentivo gli elicotteri dell'FBI che si abbassavano, mentre udivo la voce di Carlson che al megafono ordinava a tutti di non muoversi, vidi Hoyt Parker allungare una mano alla caviglia, estrarre dalla fondina una pistola e sparare tre volte a Griffin Scope. Poi fece compiere all'arma un mezzo giro. «No!» urlai. Ma la detonazione coprì il mio grido. 46 Seppellimmo Hoyt quattro giorni dopo. Migliaia di poliziotti in unifor-
me andarono a rendergli l'estremo saluto. I particolari di ciò che era avvenuto alla tenuta di Scope dovevano ancora essere resi di pubblico dominio, e dubitavo che lo sarebbero mai stati. Anche la mamma di Elizabeth non aveva preteso troppe risposte, ma forse perché era pazza di gioia per il ritorno della figlia dal regno dei morti. Questo le impediva di fare tante domande o di notare certe incongruenze. Per il momento Hoyt Parker era morto da eroe. E forse era proprio così, non sono il miglior giudice. Hoyt aveva scritto una lunga confessione, nella quale era in pratica riassunto ciò che mi aveva detto dentro la sua auto. Carlson me la mostrò. «Il caso è chiuso?» gli chiesi. «Dobbiamo ancora formulare i capi d'imputazione per Gandle, Wu e qualcun altro. Ma ora che Griffin Scope è morto, tutti sembrano disposti a patteggiare.» La bestia mitologica, pensai. Non bisogna tagliarle la testa, ma pugnalarla al cuore. «Ha fatto bene a venire da me quando hanno rapito quel bambino» disse Carlson. «Che alternativa avevo?» «Giusto.» Mi strinse la mano. «Mi stia bene, dottor Beck.» «Anche lei.» Forse a questo punto vorreste sapere se Tyrese se ne è mai andato in Florida, e che ne è di Latisha e TJ. Vi chiederete magari se Shauna e Linda stanno ancora insieme e come l'ha presa Mark. Ma non potrei rispondervi perché non lo so nemmeno io. Questa storia finisce qui, quattro giorni dopo la morte di Hoyt Parker e Griffin Scope. È tardi, molto tardi. Me ne sto a letto con Elizabeth e guardo il suo corpo che nel sonno si solleva e si riabbassa. La guardo sempre, chiudo gli occhi di rado. I miei sogni si sono perversamente capovolti. Ora è nel sogno che la perdo: lei è morta e io sono solo. Allora la stringo, ho bisogno del contatto fisico. E anche lei. Ma abbiamo tutto il tempo che vogliamo per rassicurarci a vicenda. Quasi avesse sentito i miei occhi su di lei, Elizabeth si gira nel letto. Le sorrido. Lei ricambia il sorriso e il mio cuore spicca il volo. Ricordo quel giorno al lago, ricordo noi due alla deriva su quella zattera. E ricordo la mia decisione di raccontarle la verità. «Dobbiamo parlare» le dico. «Non credo.»
«Non siamo capaci di nasconderci i segreti, Elizabeth. È proprio per questo che è successo quello che è successo. Se ci fossimo detti tutto...» Non terminai la frase. Annuisce. E capisco che lei sa. Che ha sempre saputo. «Tuo padre...» riprendo «ha sempre creduto che l'avessi ucciso tu Brandon Scope.» «Gliel'ho detto io.» «Ma alla fine...» Mi fermo. Poi ricomincio. «Quando nell'auto gli ho detto che non l'avevi ucciso tu, credi che abbia capito la verità?» «Non lo so. Preferisco pensare che forse l'ha capita.» «Quindi si è sacrificato per noi.» «Oppure ha voluto impedire che fossi tu a sacrificarti. O forse è morto pensando che Brandon Scope l'avevo ucciso proprio io. Non lo sapremo mai. E non ha importanza.» Ci guardiamo. «Lo sapevi» dico, sentendo un tuffo al cuore. «Dall'inizio, sapevi...» Mi fa tacere poggiandomi un dito sulle labbra. «Va tutto bene.» «Quella roba nella cassetta di sicurezza ce l'hai messa per me.» «Volevo proteggerti» mi dice. «L'ho fatto per legittima difesa.» Ricordo il peso della pistola nella mia mano, quell'assordante esplosione quando avevo premuto il grilletto. «Lo so» dice ancora, serrandomi le braccia dietro la nuca e attirandomi a sé. «Lo so.» Perché, vedete, c'ero io in casa otto anni fa quando vi fece irruzione Brandon Scope. Ero solo a letto quando mi si presentò davanti armato di coltello. Lottammo. Io cercai di afferrare la pistola di papà. Lui mi si lanciò di nuovo contro. Io sparai e l'uccisi. Poi scappai, terrorizzato. Cercai di mettere ordine nelle mie idee, di decidere il da farsi. Ma quando riacquistai un minimo di lucidità e tornai a casa, il cadavere era scomparso. E anche la pistola. Avrei voluto dirglielo, a Elizabeth. E stavo per dirglielo quella sera al lago. Ma poi non ne feci parola. Fino a ora. Come ho osservato prima, se avessi detto la verità fin dall'inizio... Lei mi abbraccia ancora più stretto. «Sono qui» mi sussurra. Qui. Con me. Ci vorrà un po' per accettarlo. Ma alla fine ce la farò. Ci addormentiamo abbracciati. Domani mattina ci risveglieremo insieme. E anche la mattina dopo. Ogni giorno sarà il suo viso che vedrò per primo, la sua voce che sentirò per prima.
E sapevo che tutto ciò mi sarebbe bastato per sempre. FINE