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JON KRAKAUER NELLE TERRE ESTREME (Into The Wild, 1996) A Linda NOTA DELL'AUTORE Nell'aprile del 1992 un ragazzo di buona famiglia della costa orientale degli Stati Uniti raggiunse l'Alaska in autostop e si addentrò nel territorio selvaggio a nord del monte McKinley. Quattro mesi più tardi un gruppo di cacciatori d'alci rinvenne il suo corpo ormai in decomposizione. Poco dopo la scoperta del cadavere, il direttore della rivista Outside mi chiese di scrivere un pezzo sulle misteriose circostanze della morte del giovane. Scoprii così che si chiamava Christopher Johnson McCandless e che era cresciuto in un ricco sobborgo di Washington D.C, distinguendosi sia per gli ottimi risultati accademici sia per quelli sportivi. Nell'estate del 1990, appena conseguita una laurea con lode all'Emory University, McCandless sparì dalla circolazione. Cambiò nome, diede in beneficenza tutti i risparmi - circa ventiquattromila dollari -, abbandonò l'auto con quasi tutti i beni personali, bruciò i contanti nel portafoglio e s'inventò una nuova esistenza ai margini della società, peregrinando attraverso l'America del Nord in cerca di un'esperienza pura e trascendentale. La famiglia non sapeva dove il ragazzo si trovasse né cosa gli fosse capitato, finché un giorno in Alaska non ne fu trovata la salma. In tempi molto stretti, preparai un articolo di novemila parole che fu pubblicato sul numero di Outside del gennaio 1993. Ma anche quando nelle edicole il mensile venne via via sostituito dalle novità, il mio interesse per il caso McCandless non si spense. Ero come tormentato dai particolari della morte per fame di quel giovane e dai vaghi e inquietanti paralleli tra gli eventi della sua e della mia vita. Riluttante ad abbandonare la vicenda, trascorsi più di un anno a ripercorrere con un fervore che rasentava l'ossessione il tortuoso cammino che lo aveva portato a morire nella taiga d'Alaska, in cerca di ogni minimo dettaglio sulle sue peregrinazioni. Cercando di capire McCandless, mi trovai inevitabilmente a riflettere su temi ben più vasti: il fascino che i territori selvaggi suscitano nell'immaginario americano, l'attrattiva che le attività ad alto rischio esercitano su certi ragazzi, il complicato e delicato legame che unisce padri e figli. Il risultato di questa
intricata ricerca è il libro che vi accingete a leggere. Non sosterrò di essere un biografo imparziale. La strana storia di McCandless aveva risvolti che mi erano familiari al punto da rendere impossibile un approccio distaccato alla tragedia. In buona parte del libro ho cercato - e credo quasi sempre di esserci riuscito - di ridurre al minimo la presenza dell'autore, ma devo avvertire che la storia di McCandless viene frammezzata da episodi della mia giovinezza, che inserisco nella speranza di contribuire a fare luce sul mistero di questa scomparsa. Chris era un ragazzo molto profondo, il cui forte idealismo era difficilmente compatibile con la vita moderna. Affascinato dall'opera di Tolstoj, McCandless ammirava soprattutto il modo in cui il grande romanziere aveva saputo abbandonare una vita di benessere e privilegi per frequentare gli indigenti. All'università il ragazzo cominciò a emulare l'ascetismo e il rigore morale del suo eroe letterario a un punto tale che sulle prime stupì e in seguito preoccupò chi gli stava accanto. Quando si avventurò nelle foreste d'Alaska, McCandless non si illudeva di arrivare nel bengodi: al contrario, pericoli, avversità e rinunce tolstoiane erano proprio quello che cercava. Li trovò, e ne trovò anche troppi. Ma per gran parte delle sedici settimane di ardua prova, il ragazzo se la cavò piuttosto bene e se non fosse stato per una o due negligenze apparentemente insignificanti, nell'agosto del 1992 egli sarebbe uscito dai boschi senza clamore, così come vi era entrato nell'aprile dello stesso anno. Invece, le ingenuità commesse lo condannarono, il suo nome finì sulle prime pagine dei tabloid e i familiari sconcertati dovettero rimettere insieme i cocci di un amore intenso e doloroso. Un numero sorprendente di persone è rimasto colpito dalla vicenda di vita e morte di Chris McCandless. Non a caso, nelle settimane e nei mesi successivi alla pubblicazione dell'articolo su Outside, la redazione fu sommersa da tante lettere quante non se ne erano mai viste nella storia della rivista. Com'è prevedibile, la corrispondenza rifletteva punti di vista diametralmente opposti: alcuni lettori ammiravano molto il ragazzo per il coraggio e i nobili ideali, altri lo definivano un idiota imprudente, un folle, un narcisista morto per arroganza e stupidità, e consideravano immeritata l'attenzione riservatagli dai mass media. Sarà presto chiaro quello che io penso in proposito, ma vorrei che fosse il lettore a formarsi una sua opinione su Chris McCandless. JON KRAKAUER
Seattle, aprile 1995 1 IL TERRITORIO INTERNO DELL'ALASKA 27 aprile 1992 Saluti da Fairbanks! Queste saranno le mie ultime righe, Wayne. Sono arrivato due giorni fa ed è stato molto difficile trovare passaggi nello Yukon, ma alla fine ce l'ho fatta lo stesso. Per favore, rimanda al mittente tutta la mia posta, perché potrebbe passare molto tempo prima che ritorni al Sud. Se quest'avventura si rivelasse fatale e non dovessi più ricevere mie notizie, sappi che sei un uomo veramente in gamba. Ora mi aspetta la foresta. Alex. Cartolina ricevuta da Wayne Westerberg a Carthage, in Sud Dakota
Jim Gallien aveva lasciato Fairbanks da circa sei chilometri, quando sul ciglio della strada scorse un ragazzo col pollice alzato, tutto tremante nella neve di una grigia alba d'Alaska. Sembrava piuttosto giovane: diciotto, diciannove anni al massimo. Dallo zaino gli sporgeva un fucile, ma tutto sommato aveva un'aria amichevole e nel quarantanovesimo Stato non è certo un autostoppista con un Remington semiautomatico a spaventare un conducente. Gallien accostò e invitò il ragazzo a salire. L'autostoppista buttò lo zaino sul pianale del Van e si presentò come Alex. «Alex...?» domandò Gallien cercando di carpirne il cognome. «Solo Alex» rispose il ragazzo respingendo l'esca. Alto poco più di un metro e settanta, di costituzione magra, disse di avere ventiquattro anni e di venire dal Sud Dakota. Spiegò che gli serviva un passaggio fino al confine del Denali National Park, dove intendeva addentrarsi nella foresta e «vivere della natura per qualche mese».
Gallien, un elettricista membro del sindacato, era diretto ad Anchorage, trecentottanta chilometri dopo il Denali lungo la George Parks Highway, dunque lasciò che fosse Alex a decidere dove scendere. Lo zaino del ragazzo sembrava pesare soltanto una decina di chili, e Gallien, esperto cacciatore e boscaiolo, ne rimase colpito perché era troppo leggero per un soggiorno di parecchi mesi nell'entroterra, soprattutto a primavera appena iniziata. «Non aveva con sé nemmeno lontanamente cibo e attrezzatura necessari per quel tipo di viaggio» racconta Gallien. Il sole sorse e mentre scendevano lungo le creste alberate sopra il fiume Tanana, Alex contemplava la distesa di muskeg che nel vento si estendeva verso sud. Gallien si domandò se non fosse uno di quei tipi strambi che dagli altri quarantotto Stati vanno al Nord per sperimentare le sconsiderate fantasie di Jack London. L'Alaska ha sempre esercitato un certo fascino su sognatori e disadattati, su chi pensa di poter rattoppare i buchi della propria esistenza nell'incontaminata vastità dell'Ultima Frontiera. Soltanto che la foresta non perdona e di sogni e desideri non sa che farsene. «La gente che viene da fuori» racconta Gallien in tono lento e ampolloso «si prende una copia di Alaska, la sfoglia e comincia a pensare: "Ehi, perché no, me ne vado lassù, nella natura e mi concedo una vita sana per qualche tempo". Ma quando arriva qui e finisce nella foresta, be', trova un mondo ben diverso da quello presentato sul giornale. I fiumi sono gonfi e impetuosi, le zanzare ti mangiano vivo e in molti posti non trovi granché da cacciare. Insomma, vivere nella foresta non è certo come fare un picnic.» Ci vollero due ore d'auto per giungere al confine del Denali National Park e più i due parlavano, più Gallien si convinceva di non avere di fronte uno di quei matti, ma una persona istruita e piacevole. Alex lo tempestò di domande intelligenti sulla selvaggina locale, sulle bacche commestibili, insomma su «quel genere di cose». Ma Gallien era preoccupato. Il giovane ammise di avere con sé soltanto cinque chilogrammi di riso e l'attrezzatura sembrava proprio scarsa rispetto alle dure condizioni dell'interno, che in aprile giace ancora sotto una coltre di neve invernale. Gli scarponi in pelle non erano né impermeabili né ben isolati, il fucile calibro .22 aveva un diametro troppo piccolo per uccidere animali di grossa taglia come alci e caribù, che d'altra parte avrebbe dovuto cacciare se sperava di fermarsi a lungo da quelle parti. Non possedeva ascia, insetticida, scarpe da neve e neppure una bussola. L'unico strumento di cui disponeva per orientarsi era una malconcia carta stradale rubata in
una stazione di servizio. A centosessanta chilometri circa da Fairbanks l'autostrada comincia ad arrampicarsi sulle pendici della Catena d'Alaska. Quando l'autocarro attraversò un ponte sul fiume Nenana, Alex, guardando la corrente che fuggiva rapida, confessò di avere paura dell'acqua. «Un anno fa, in Messico» raccontò «ero nell'oceano in canoa, quando è scoppiata una tempesta. Per poco non annegavo.» Più tardi estrasse una rudimentale cartina e mostrò a Gallien una linea rossa tratteggiata che avrebbero incrociato vicino a Healy, la città delle miniere di carbone. Rappresentava un sentiero chiamato Stampede Trail che viene percorso raramente e che gran parte delle carte stradali d'Alaska non riporta neppure. Su quella di Alex invece la linea tratteggiata serpeggiava a ovest della Parks Highway per una sessantina di chilometri prima di scomparire nel mezzo del territorio selvaggio a nord del monte McKinley. Era proprio lì che voleva andare, annunciò il ragazzo. Gallien pensò che i piani dell'autostoppista fossero decisamente arditi e tentò più volte di dissuaderlo: «Lo avvertii che in quella zona era molto difficile cacciare e che potevano passare diversi giorni senza uccidere un animale. Quando mi accorsi che non funzionava, cercai di spaventarlo con le storie sugli orsi. Gli dissi che un calibro .22 con un grizzly non avrebbe fatto un bel niente se non mandarlo su tutte le furie. Ma Alex non sembrava preoccuparsene. "Mi arrampicherò su un albero" rispose. Allora gli spiegai che da quelle parti gli alberi non sono molto grandi e che un orso poteva abbattere un piccolo abete nero senza difficoltà. Ma nulla da fare, quel ragazzo trovava una risposta a tutto». Gallien si offrì di portarlo fino ad Anchorage, di comprargli un'attrezzatura decente e di accompagnarlo ovunque volesse. «No, grazie comunque» rispose Alex. «Me la caverò con quello che ho.» Jim gli domandò se avesse una licenza di caccia. «Caspita, certo che no» rispose il giovane in tono di scherno. «Al governo non deve fregargliene niente di cosa mangerò. Fanculo loro e le loro stupide regole.» Quando Gallien gli domandò se i genitori o qualche amico fosse al corrente dei suoi piani, se insomma qualcuno avrebbe dato l'allarme in caso di problemi o ritardi, Alex rispose pacatamente che nessuno ne sapeva niente e che, in verità, erano ormai due anni che non sentiva la famiglia. «Sono più che certo» rassicurò Gallien «di non fare nulla che non sappia affrontare da solo.»
«Era impossibile fargli cambiare idea» ricorda Gallien. «Era determinato, tutto preso dal suo progetto. La parola che mi viene in mente è "eccitato", non vedeva l'ora di andarsene là fuori e cominciare.» A tre ore da Fairbanks, Gallien abbandonò l'autostrada e condusse lo sgangherato quattro per quattro su una stradina laterale coperta di neve. I primi chilometri dello Stampede Trail erano ben livellati e costellati da capanni che sorgevano sulle zone erbose tra abeti e tremoli pioppi. Dopo l'ultima baracca di tronchi, la strada peggiorò rapidamente. Erosa dall'acqua e oppressa dagli ontani, si rivelò ben presto un sentiero impervio e trascurato. In estate la strada era sconnessa ma percorribile. In quel periodo dell'anno invece mezzo metro di neve molliccia la rendeva intransitabile. Circa sedici chilometri dopo aver lasciato l'autostrada, temendo di rimanere impantanato, Gallien si fermò in cima a una piccola salita. Le vette ghiacciate della maggiore catena montuosa del Nord America risplendevano nell'orizzonte sudoccidentale. A tutti i costi Alex volle lasciare a Jim orologio, pettine e tutto il denaro che possedeva: ottantacinque centesimi in spiccioli. «Non voglio i tuoi soldi» protestò Gallien «e poi io l'orologio ce l'ho già.» «Guarda che tanto se non lo prendi, lo butto via» ribatté allegramente Alex. «Non voglio sapere che ore sono, che giorno è e neppure dove mi trovo. Non me ne importa niente.» Prima che il ragazzo lasciasse il pick-up, Jim si allungò sul sedile posteriore, tirò fuori un vecchio paio di stivali di gomma e lo convinse ad accettarli. «Erano troppo grandi per lui» ricorda Gallien. «Ma gli dissi: "Mettiti due paia di calze e i piedi dovrebbero rimanere abbastanza caldi e asciutti".» «Quanto ti devo?» «Non preoccuparti» gli rispose Jim. Poi gli diede un pezzo di carta con il suo numero di telefono, che Alex infilò con cura in un portafoglio di nylon. «Se ce la fai a uscirne vivo, chiamami e ti dirò come restituirmeli.» Convinse il giovane autostoppista ad accettare anche il pranzo preparato dalla moglie: due panini con tonno e formaggio grigliati e un sacchetto di patatine di granoturco. Alex estrasse dallo zaino una macchina fotografica e gli chiese di scattargli una fotografia col fucile in spalla, all'inizio del sentiero. Poi, con un largo sorriso, s'incamminò sulla strada coperta di neve e scomparve. Era martedì 28 aprile 1992.
Gallien invertì la marcia, si diresse verso la Parks Highway e proseguì per Anchorage. Dopo pochi chilometri raggiunse la piccola comunità di Healy, dove c'era una stazione degli Alaska State Troopers e per un attimo pensò di fermarsi per informare le autorità del giovane nella foresta, ma poi cambiò idea. «Credevo che se la sarebbe cavata», spiega Gallien «credevo che presto avrebbe sentito la fame e che sarebbe tornato verso l'autostrada. È quello che ogni persona normale avrebbe fatto.» 2 LO STAMPEDE TRAIL Jack London è Re Alexander Supertramp Maggio 1992 Graffito inciso su un pezzo di legno scoperto sul luogo di morte di Chris McCandless Lungo le due rive del fiume gelato si stendeva la cupa e tetra foresta di abeti, dai quali il vento aveva appena spazzato il manto di brina. Nella luce crepuscolare quegli alberi neri e sinistri sembravano inclinarsi l'uno verso l'altro. Un silenzio minaccioso incombeva sul paesaggio, privo di qualsiasi segno di vita o di movimento, e desolato e freddo al punto da non poter ispirare che un solo sentimento: quello della più triste malinconia. E nello stesso tempo pareva che da quel paesaggio trapelasse una specie di riso, un riso ben più spaventoso di qualsiasi malinconia o tristezza, un riso tragico, come quello di una sfinge, un riso agghiacciante più della brina e che rammentava l'incombere minaccioso dell'ineluttabile. Era la saggezza potente e impenetrabile dell'eternità che irrideva alla vita, alla sua futilità e agli sforzi degli uomini. Era il Wild, il selvaggio Wild delle spietatamente gelide terre del Nord. JACK LONDON, Zanna bianca
Sul lato settentrionale della Catena d'Alaska, prima che gli imponenti bastioni del monte McKinley e dei satelliti si arrendano alla bassa pianura di Kantishna, una serie di dorsali minori, conosciute col nome di Outer Range, si adagia sulla distesa come una coperta sgualcita su un letto sfatto. Da est a ovest, per circa otto chilometri, tra le creste silicee delle due scarpate più estreme dell'Outer Range s'insinua una depressione ricoperta da un amalgama paludoso di muskeg, da macchie di ontani e da venature di abeti striminziti. Lo Stampede Trail, la strada che Chris McCandless seguì per addentrarsi nella foresta, si snoda su questo territorio ondulato e tortuoso. Fu un leggendario minatore dell'Alaska, Earl Pilgrim, ad aprire il sentiero negli anni Trenta. Questo conduceva infatti ad alcune concessioni di antimonite di cui aveva segnato i confini sullo Stampede Creek, sopra il bivio di Clearwater del fiume Toklat. Nel 1961, per fare in modo che i camion potessero raggiungere le cave e trasportare il minerale senza difficoltà, il nuovo Stato d'Alaska, sovrano da appena due anni, concesse l'appalto per il miglioramento e la trasformazione in strada dell'intero percorso a una società di Fairbanks, la Yutan Construction. Per ospitare gli operai durante i lavori, la Yutan acquistò tre vecchi autobus, li fornì di cuccette e stufe rudimentali, e li fece trascinare nelle terre selvagge da un caterpillar
D-9. Il progetto venne bloccato nel 1963: circa ottanta chilometri erano stati realizzati, ma sopra i numerosi fiumi non fu mai costruito nessun ponte e ben presto la strada tornò a essere impraticabile a causa del permafrost in disgelo e delle inondazioni stagionali. La Yutan riportò due autobus sull'autostrada, ma il terzo rimase a metà sentiero per offrire rifugio ai cacciatori. Nei tre decenni successivi gran parte del manto stradale fu eroso dall'acqua, soffocato dalla vegetazione e dagli stagni di castori, ma l'autobus resistette. Un classico International Harvester degli anni Quaranta, fu abbandonato a una quarantina di chilometri in linea d'aria a ovest di Healy e arrugginisce tutt'ora fra gli epilobi di una radura accanto allo Stampede Trail, appena passato il confine del Denali National Park. Il motore è guasto, parecchi finestrini sono rotti o mancano del tutto e il pavimento è disseminato di bottiglie di whisky. La vernice verde e bianca è completamente ossidata e le iscrizioni ormai rovinate indicano che un tempo il vecchio autobus apparteneva al trasporto cittadino di Fairbanks, era il numero 142. Di regola possono passare anche sei o sette mesi senza che il veicolo veda traccia di visitatori, ma all'inizio del settembre 1992, nello stesso pomeriggio, ben sei persone divise in tre gruppi distinti piombarono in zona. Nel 1980 il Denali National Park inglobò le Kantishna Hills e la cordigliera all'estremo settentrione dell'Outer Range, escludendo però un lungo braccio di terra noto come Wolf Townships che racchiude la prima metà dello Stampede Trail. Poiché questo tratto di undici chilometri per trentadue è circondato su tre lati dalla zona protetta del parco, ospita più lupi, orsi, caribù, alci e selvaggina del consueto, un segreto locale gelosamente custodito dai cacciatori a conoscenza dell'anomalia. In autunno, non appena si apre la stagione della caccia all'alce, diversi cacciatori fanno visita al vecchio autobus che si trova proprio accanto al fiume Sushana, nella parte più occidentale del tratto escluso dal parco, a tre chilometri circa dal confine. Fra questi Ken Thompson, proprietario di una carrozzeria di Anchorage, Gordon Samel, suo dipendente, e l'amico Ferdie Swanson, operaio edile, che il 6 settembre 1992 partirono per una battuta di caccia in appostamento. L'autobus però non è facile da raggiungere. A circa quindici chilometri dalla fine del tratto di strada costruito, lo Stampede Trail viene tagliato dal Teklanika, un fiume rapido e gelato, le cui acque sono rese opache da residui argillosi. Il sentiero scende verso la sponda proprio a monte di una
stretta gola dove il Teklanika si riversa in un turbinio d'acqua bianca. La prospettiva di guadare questo torrente latteo spinge gran parte delle persone a fare dietrofront. Ma Thompson, Samel e Swanson sono figli indomiti di queste terre e coltivano una singolare passione: guidare veicoli a motore nei posti più improbabili. Non appena giunsero al Teklanika, ne esplorarono gli argini fino a trovare un'ampia zona intervallata da canali relativamente poco profondi e senza tanti indugi si lanciarono nella corrente. «Io andai per primo» racconta Thompson. «Il fiume era largo circa venticinque metri e la corrente era rapidissima. Il mio pick-up è un Dodge rialzato quattro per quattro del 1982 con pneumatici di un metro circa, ma l'acqua mi arrivava comunque al cofano. C'è stato un momento in cui ho pensato che non ce l'avrei fatta e siccome il camioncino di Gordon sull'anteriore ha un paranco per carichi di tre tonnellate e mezzo, feci in modo che mi seguisse, così da tirarmi fuori se avessi avuto problemi.» Thompson raggiunse tranquillamente la riva opposta, seguito da Samel e Swanson con i relativi autocarri. Sui pianali dei pick-up avevano portato due veicoli più leggeri e adatti a ogni terreno, il primo a tre e il secondo a quattro ruote. Parcheggiarono gli ingombranti automezzi su una striscia di ghiaia, scaricarono le macchine più maneggevoli e, una volta a bordo, continuarono in direzione dell'autobus. A poche centinaia di metri dal fiume, il sentiero era cancellato da una serie di laghetti di castoro profondi fino al torace. Senza perdersi d'animo, i tre sgombrarono la via facendo saltare le dighe con dinamite in modo da permettere il deflusso dell'acqua, dopodiché proseguirono lungo il letto di un ruscello roccioso attraverso una fitta vegetazione di ontani. Era ormai pomeriggio inoltrato quando giunsero a destinazione. Una volta arrivati, stando a Thompson, trovarono «due ragazzi di Anchorage, a una quindicina di metri dall'autobus, tutti spaventati». Nessuno dei due era entrato, ma era bastato avvicinarsi per sentire «una forte puzza che veniva da dentro». Sulla punta di un ramo d'ontano, vicino all'uscita posteriore del veicolo, era legata una specie di bandiera di segnalazione, uno scaldamuscoli di lana rossa del tipo usato dai ballerini. Sulla porta socchiusa era affisso un biglietto allarmante. Scritto a mano, in stampatello nitido, su una pagina strappata da un romanzo di Nikolaj Gogol, diceva: S.O.S. Ho bisogno del vostro aiuto. Sono malato, prossimo alla
morte, e troppo debole per andarmene a piedi. Sono solo, non è uno scherzo. In nome di Dio, vi prego, rimanete per salvarmi. Sono nei dintorni a raccogliere bacche e tornerò stasera. Grazie. Chris McCandless. Agosto? Le implicazioni del biglietto e l'opprimente odore di marcio avevano lasciato sconvolta la giovane coppia di Anchorage che non se l'era sentita di esaminare l'interno del veicolo, ma Samel decise di farsi forza e dare un'occhiata. Con uno sguardo attraverso il finestrino vide un fucile Remington, una scatola di cartucce, otto o nove libri tascabili, jeans malconci, utensili da cucina e un costoso zaino. Nella parte posteriore, su un giaciglio improvvisato, notò un sacco a pelo blu che sembrava contenere qualcosa o qualcuno, sebbene, racconta Samel, «fosse difficile affermarlo con sicurezza». «Salii sopra un tronco» continua «e, attraverso il finestrino posteriore, diedi uno scossone al sacco. A quel punto fui sicuro che dentro c'era qualcosa, ma non pesava granché. Fu solo quando andai dalla parte opposta e vidi una testa spuntare che capii con certezza di cosa si trattasse.» Chris McCandless era morto ormai da due settimane e mezzo. Samel, uomo risoluto, decise che il corpo andava rimosso immediatamente. Soltanto che né sulla sua piccola macchina né su quella di Thompson, né tantomeno su quella della coppia di Anchorage, c'era posto per trasportare il cadavere. Poco dopo entrò in scena una sesta persona: Butch Killian, un cacciatore di Healy. Poiché questi possedeva un Argo - una macchina anfibia come la loro ma più grande e con otto ruote -, Samel suggerì che fosse Killian a trasportare la salma, ma questi si rifiutò insistendo che sarebbe stato meglio lasciare l'incombenza agli Alaska State Troopers, la polizia di Stato. Sul fuoristrada di Killian, minatore che come seconda occupazione si dedica al servizio medico d'emergenza per il corpo volontario dei vigili del fuoco di Healy, c'era un ricetrasmettitore. Non riuscendo a contattare nessuno dalla radura, cominciò a guidare in direzione dell'autostrada e dopo circa otto chilometri, poco prima dell'imbrunire, raggiunse l'operatore della centrale di Healy. «Messaggio urgente» comunicò Killian «sono Butch. Chiamate la polizia. C'è un uomo dentro l'autobus al Sushana. Sembra morto da qualche tempo.» Alle otto e trenta del mattino successivo un elicottero della polizia atterrò rumorosamente accanto al veicolo, sollevando una bufera di polvere e
un turbinio di foglie. I Troopers esaminarono rapidamente l'autobus e le vicinanze, in cerca di eventuali tracce di violenza. Dopodiché se ne andarono, portando con sé i resti di McCandless, una macchina fotografica con cinque rullini, la richiesta d'aiuto e centotredici annotazioni concise ed enigmatiche racchiuse nelle pagine finali di un manuale di piante commestibili, che raccontavano le ultime settimane di vita del giovane. La salma fu trasportata ad Anchorage, dove venne sottoposta ad autopsia nello Scientific Crime Detection Laboratory. Lo stato di decomposizione era talmente avanzato che fu impossibile stabilire con esattezza la data del decesso. Il coroner non trovò né ossa rotte né gravi ferite interne, il grasso sottocutaneo era praticamente inesistente e la muscolatura sembrava essersi molto ridotta nei giorni o nelle settimane antecedenti il decesso. Al momento dell'autopsia i resti di McCandless pesavano soltanto una trentina di chilogrammi. La morte per fame sembrò dunque la causa più probabile. In fondo alla richiesta d'aiuto era apposta la firma di McCandless e delle fotografie, una volta sviluppate, molte erano autoritratti, ma poiché il ragazzo non aveva con sé alcun documento di riconoscimento, le autorità non sapevano chi fosse, da dove venisse e neppure il motivo che l'avesse spinto in quei luoghi. 3 CARTHAGE Volevo il movimento, non un'esistenza quieta. Volevo l'emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore. Avvertivo dentro di me una sovrabbondanza di energia che non trovava sfogo in una vita tranquilla. LEV TOLSTOJ, La felicità familiare (passaggio evidenziato in uno dei libri rinvenuti con la salma di Chris McCandless) Non dovremmo negare [...] che l'essere nomadi ci ha sempre riempiti di gioia. Nella nostra mente viene associato alla fuga da storia, oppressione, legge e noiose coercizioni, alla libertà assoluta, e la strada ha sempre portato a Ovest. WALLACE STEGNER, The American West as living space
Carthage, Sud Dakota, duecentosettantaquattro anime: non è che un sonnolento insieme di case rivestite di assicelle, cortili ordinati e facciate di negozi segnate dalle intemperie, che si innalza umilmente nell'immensità delle pianure settentrionali dimenticate dal tempo. File maestose di pioppi neri americani adombrano un reticolato di strade raramente disturbate dal passaggio di veicoli. In città esistono una drogheria, una banca, una stazione di rifornimento, un bar - il Cabaret -, dove Wayne Westerberg sorseggia un cocktail e mastica un sigaro dolce ripensando a quello strano ragazzo di nome Alex. Sulle pareti del locale, rivestite di pannelli di compensato, sono appesi corna di cervo, materiale pubblicitario della birra Old Milwaukee e stucchevoli dipinti di uccelli che spiccano il volo. Volute di fumo di sigaretta si levano dai gruppi di contadini con grembiuli e berretti polverosi: hanno il viso stanco e imbrattato come quello dei minatori. Con frasi spicce e pratiche discorrono a tutto volume delle bizze del tempo, dei campi di girasole troppo bagnati per il taglio mentre sopra le loro teste lo schermo tremolante di un televisore muto trasmette il volto beffardo di Ross Perot. Otto giorni più tardi il Paese eleggerà presidente Bill Clinton. Dalla scoperta del cadavere di Chris McCandless sono ormai trascorsi due mesi. «Ecco cosa piaceva bere ad Alex» dice Westerberg con una smorfia, mescolando il ghiaccio del suo White Russian. «Si sedeva proprio là, alla fine del bancone e ci raccontava le storie meravigliose sui suoi viaggi, poteva andare avanti per ore. Ce n'è un bel po' di gente in città che si è affezionata ad Alex. Che strana faccenda quella che gli è capitata.» Westerberg, un ipercinetico dalle spalle robuste e dal pizzetto nero, è proprietario di due silos per cereali, uno a Carthage e l'altro a pochi chilometri di distanza, ma passa l'estate insieme alla sua squadra a mietere raccolti su ordinazione dal Texas al confine col Canada. Nell'autunno del 1990 si trovava ancora nel Montana centrosettentrionale a tagliare orzo per la Coors e l'Anheuser-Busch quando nel pomeriggio del 10 settembre, lasciando Cut Bank dopo aver comprato alcuni pezzi di ricambio per una mietitrebbiatrice, diede un passaggio a un autostoppista, un giovane simpatico che disse di chiamarsi Alex McCandless. Il ragazzo era piccolo ma col fisico sodo e muscoloso del lavoratore itinerante. Aveva qualcosa di singolare negli occhi scuri ed emotivi, una traccia di sangue esotico nel patrimonio genetico, greco o forse chippewa. Trasmettevano una vulnerabilità tale che Westerberg sentì l'impulso di prenderlo sotto la propria ala protettiva e pensò che esercitasse proprio
quel genere di fascino sensuale che fa impazzire le donne. Il viso aveva una strana plasticità: da svogliato e inespressivo si apriva improvvisamente in un sorriso cavernoso e abnorme che stravolgeva i lineamenti e mostrava una bocca con denti da cavallo. Era miope e portava occhiali con montatura in metallo. Sembrava affamato. Dieci minuti dopo averlo fatto salire, Westerberg si fermò nella città di Ethridge per consegnare un pacco a un amico. «Ci offrì una birra» racconta Wayne «e domandò ad Alex da quanto non mangiasse. Il ragazzo ammise di non aver toccato cibo negli ultimi due giorni, disse di essere rimasto senza soldi.» La moglie dell'amico di Westerberg, che per caso aveva sentito, insistette per preparargli una cena sostanziosa che il ragazzo divorò per addormentarsi subito dopo a tavola. McCandless aveva detto di essere diretto a Saco Hot Springs, circa quattrocento chilometri a est sulla U.S. Highway 2, un posto che aveva sentito nominare da alcuni «vagabondi gommati», che possiedono cioè un veicolo e si distinguono dai «vagabondi in pelle», privi di mezzi di trasporto propri e quindi costretti a fare l'autostop oppure a camminare. Westerberg gli aveva risposto di poterlo accompagnare ancora per una quindicina di chilometri, dopodiché doveva svoltare a nord verso Sunburst, per andare alla roulotte che teneva vicino ai campi dove lavorava. Quando Wayne accostò per far scendere il ragazzo, erano ormai le dieci e mezzo di sera e diluviava. «Santo cielo» gli disse «non mi va proprio di lasciarti qui con questa cavolo di pioggia. Senti, visto che hai un sacco a pelo, perché non vieni con me a Sunburst e passi la notte nella roulotte?» McCandless rimase con lui per tre giorni, uscendo con la squadra ogni mattina mentre i lavoratori guidavano gli ingombranti macchinari nell'immensa distesa di maturo grano biondo. Prima di separarsi, Westerberg disse al ragazzo che se mai avesse avuto bisogno di un lavoro, poteva rivolgersi a lui, a Carthage. «Neanche due settimane dopo, Alex arrivò in città» ricorda l'uomo, che gli procurò un posto al silo e una sistemazione economica in una delle due case di sua proprietà. «In tutti questi anni ho dato lavoro a un sacco di autostoppisti» racconta Westerberg. «Molti non erano bravi, non avevano voglia di lavorare, ma Alex era diverso. Lavorava sodo, come mai avevo visto in vita mia. Non importava di cosa si trattasse, lui lo faceva e basta: lavoro fisico pesante, togliere il grano marcio o i topi morti dal fondo di un buco, lavori in cui ti sporchi così tanto che alla fine della giornata non sai nemmeno più a cosa
assomigli. E mai ha lasciato un lavoro a metà: se iniziava qualcosa, doveva finirlo a tutti i costi, sembrava quasi una questione morale. Alex era la classica persona che definiremmo "moralmente responsabile". Era abbastanza severo con se stesso. «Lo capivi subito che era intelligente» riflette Westerberg, scolandosi il terzo drink. «Leggeva molto, usava un sacco di paroloni. Forse quello che l'ha fregato è che pensava troppo. A volte si sforzava in modo esagerato di capire il mondo, la cattiveria della gente, e in un paio di occasioni gli dissi che sbagliava a preoccuparsi di quella roba, ma Alex a volte sembrava bloccarsi, sembrava dovesse trovare la risposta giusta al cento per cento prima di agire.» A un certo punto Westerberg aveva scoperto grazie a un modulo delle tasse che il vero nome di McCandless era Chris e non Alex. «Non mi spiegò mai perché avesse cambiato nome» racconta Wayne. «Ma in qualche modo capii che aveva problemi con la famiglia, solo che non mi piace ficcare il naso negli affari degli altri e non gli domandai mai niente.» Se McCandless si sentiva un estraneo per genitori e fratelli, trovò una nuova famiglia in Westerberg e nei suoi dipendenti, che in gran parte abitavano nella casa di Wayne, a pochi isolati dal centro di Carthage, un semplice edificio vittoriano a due piani costruito in stile regina Anna, con un grande pioppo nero che torreggiava nel giardino anteriore. Le regole di convivenza erano elastiche e amichevoli. I quattro o cinque inquilini cucinavano a turno, andavano insieme al bar e anche a donne, ma senza grandi successi. Ben presto McCandless si innamorò di Carthage. Gli piacevano la stasi della comunità, le sue virtù plebee e abitudini alla buona. Era un posto molto tranquillo, una pozza d'acqua stagnante lontana dalla corrente e si adattava perfettamente alla sua indole. Quell'autunno sviluppò un legame duraturo sia con la città sia con Wayne Westerberg. Questi, un uomo di circa trentacinque anni, fu portato a Carthage ancora bambino dai genitori adottivi. Poliedrico figlio delle pianure, sa fare l'agricoltore, l'uomo d'affari, il saldatore, il genio della meccanica, lo speculatore, il pilota d'aereo, il programmatore di computer, il tecnico elettronico e l'esperto di videogame. Ma poco prima di incontrare McCandless, uno dei suoi innumerevoli talenti gli aveva procurato qualche guaio con la legge. Si era infatti lasciato coinvolgere in un progetto per la costruzione e vendita di «scatole nere» che decodificavano illegalmente le trasmissioni televisive via satellite e permettevano alla gente di vedere gratuitamente
programmi criptati via cavo. Ma l'Fbi ne aveva avuto sentore e, organizzata una trappola, l'aveva incastrato. Pentito, Westerberg si dichiarò colpevole di un solo crimine minore e il 10 ottobre 1990, due settimane dopo l'arrivo di Chris a Carthage, cominciò a scontare una pena di quattro mesi a Sioux Falls. Col capo al fresco, al silo non c'era lavoro per McCandless, e il 23 ottobre, prima di quanto non avrebbe fatto in circostanze diverse, il ragazzo lasciò la città e riprese le sue peregrinazioni. Il legame che univa Chris a Carthage rimase comunque forte. Prima di partire, il giovane regalò a Wayne una preziosa edizione del 1942 di Guerra e pace di Tolstoj. Sul frontespizio scrisse: «A Wayne Westerberg da Alexander. Ottobre 1990. Ascolta Pierre» (con riferimento al protagonista e alter ego di Tolstoj, Pierre Bezuchov, uomo altruista, d'animo inquieto e figlio illegittimo). Nel corso dei suoi viaggi nell'Ovest del Paese, McCandless rimase in contatto con Westerberg, scrivendogli o telefonandogli quasi ogni mese. Si faceva recapitare tutta la posta all'indirizzo dell'amico e da lì in poi disse a tutte le persone incontrate che il Sud Dakota era casa sua. In realtà, McCandless era cresciuto nei quartieri medio alti della periferia di Annandale, in Virginia. Suo padre, Walt, è un eminente ingegnere aerospaziale che negli anni Sessanta e Settanta aveva creato avanzati sistemi radar per navicelle spaziali e altri progetti d'alto profilo per Nasa e Hughes Aircraft. Nel 1978 Walt si era messo in proprio, aprendo un piccola ma ben presto prospera società di consulenza, la User Systems Incorporated. Socia di quest'avventura era la madre di Chris, Billie. Nella famiglia allargata c'erano otto bambini: una sorellina, Carine, a cui Chris era particolarmente legato, più i sei figli del primo matrimonio di Walt. Nel maggio del 1990 Chris si laureò all'Emory University di Atlanta, dov'era stato cronista e redattore del giornale studentesco The Emory Wheel e dove si era distinto nella specializzazione in storia e antropologia con una media di 3,72. Gli fu offerto di diventare membro della Phi Beta Kappa, ma rifiutò sostenendo che titoli e onorificenze non erano importanti. Negli ultimi due anni di college le tasse erano state pagate grazie a un lascito di un amico di famiglia, ma alla laurea, dei quarantamila dollari iniziali ne erano rimasti ancora ventiquattromila, che i genitori pensavano sarebbero serviti per la scuola di legge. «L'avevamo frainteso» ammette il padre. Quello che Walt, Billie e Carine non sapevano il giorno in cui volarono ad Atlanta per il conferimento della laurea, quello che d'altra parte nessuno sapeva, era che Chris avrebbe presto donato il resto del suo fondo
alla Oxfam America, un'associazione di beneficenza che combatte la fame. La cerimonia di laurea ebbe luogo sabato 12 maggio. La famiglia di McCandless dovette sorbirsi il tedioso discorso di prassi, dopodiché Billie fotografò un sorridente Chris che attraversava il palco per ritirare il diploma. Il giorno seguente era la festa della mamma e Chris regalò alla sua dolcetti, fiori e un affettuoso bigliettino. Billie ne rimase sorpresa e si commosse: era il primo regalo che riceveva dal figlio da più di due anni, da quando cioè Chris aveva annunciato ai genitori che per una questione di principio non avrebbe più voluto né ricevere né fare regali. Non a caso, poco tempo prima, aveva rimproverato Walt e Billie per aver espresso l'intenzione di regalargli un'automobile nuova per la laurea e per essersi offerti di finanziargli la scuola di legge in caso il fondo non fosse bastato. La sua auto era in ottimo stato, aveva ribattuto: una Datsun B210 del 1982 a cui teneva molto, con centoventottomila chilometri e qualche ammaccatura ma meccanicamente perfetta. «Non posso credere che abbiano cercato di comperarmi una macchina nuova» protestò in una lettera a Carine: o che abbiano pensato che gli avrei permesso di pagarmi la scuola di legge, se mai ci fossi andato. [...] Ho ripetuto milioni di volte che la mia macchina è la migliore del mondo, che ha attraversato il continente da Miami all'Alaska, che in tutte quelle migliaia di chilometri non mi ha mai dato problemi, che non la venderò mai, che gli sono molto affezionato, ma loro no, loro ignorano quello che dico e pensano che ne accetterei una nuova! In futuro starò attento a non accettare più loro regali, perché potrebbero pensare di comperare anche il mio rispetto. La Datsun gialla di seconda mano era un acquisto dell'ultimo anno di liceo. Da allora Chris aveva preso l'abitudine di usarla nei lunghi viaggi solitari delle vacanze scolastiche e in quel fine settimana dopo la laurea annunciò con noncuranza ai genitori che anche quell'estate intendeva andarsene in giro. Le parole esatte furono: «Penso che per qualche tempo sparirò dalla circolazione». All'epoca i genitori non diedero grande peso alla notizia, malgrado Walt avesse lanciato un gentile monito al figlio: «Ehi, vedi di venire a trovarci prima di partire». Chris rispose con un sorriso e un cenno d'assenso, rea-
zione che Walt e Billie considerarono come una promessa. Pensarono che sarebbe passato da Annandale prima della fine dell'estate, quindi si salutarono. Verso la fine di giugno, ancora ad Atlanta, Chris spedì ai genitori una copia della votazione finale: A in «Apartheid e Società sudafricana» e «Storia del pensiero antropologico»; A meno in «Politica africana contemporanea» e «Crisi alimentare in Africa». Allegava uno stringato messaggio: Ecco una copia del mio libretto scolastico. Ho avuto voti piuttosto buoni e la media finale è stata alta. Grazie per le fotografie, il rasoio e la cartolina da Parigi. Si direbbe che il vostro viaggio sia stato molto bello e che vi siate divertiti parecchio. Ho consegnato a Lloyd [il miglior amico di Chris a Emory] la fotografia e ne è stato molto contento, visto che nessuno lo aveva immortalato al ritiro del diploma. Non ho nient'altro d'importante da raccontarvi, se non il fatto che comincia a fare molto caldo ed è piuttosto umido. Saluti a tutti da parte mia. Queste furono le ultime notizie che la famiglia ricevette dal ragazzo. Durante l'ultimo anno ad Atlanta Chris non aveva abitato al campus ma in una camera spartana, in cui l'arredamento non era altro che un sottile materasso buttato sul pavimento, qualche cassetta di latte e un tavolo. La teneva ordinata e pulita come se vivesse in una caserma militare e siccome non aveva telefono, Walt e Billie non potevano contattarlo. Si era già all'inizio dell'agosto 1990 e i genitori non avevano più notizie dai voti ricevuti per posta, pertanto decisero di fargli visita ad Atlanta. Giunti nell'appartamento, lo trovarono vuoto col cartello «Affittasi» appeso a una finestra. L'amministratore spiegò che Chris era partito alla fine di giugno e Walt e Billie tornarono a casa, dove li aspettava un fascio delle lettere spedite al figlio nel corso dell'estate e restituite al mittente. «Nostro figlio aveva dato istruzioni all'ufficio postale affinché le trattenesse fino al primo di agosto, forse per non farci sospettare nulla» racconta Billie. «Questo ci fece preoccupare moltissimo.» Ma Chris ormai era lontano. Cinque settimane prima aveva caricato tutti gli averi sulla sua Datsun e si era diretto a ovest, senza seguire un itinera-
rio preciso. Sarebbe stata una vera e propria odissea, un viaggio epico che avrebbe cambiato ogni cosa. Per come la vedeva lui, negli ultimi quattro anni si era dedicato a un compito oneroso e assurdo: laurearsi. Adesso, finalmente si sentiva libero, si era lasciato alle spalle i condizionamenti del mondo soffocante dei genitori e simili, quel mondo di superficialità, di sicurezza ed eccessi materialistici che lo escludeva dolorosamente dall'autentico pulsare dell'esistenza. Lasciandosi Atlanta alle spalle, Chris intendeva inventarsi una vita nuova, una vita in cui fosse possibile immergersi nelle esperienze senza filtri di alcun genere. Simbolo della completa rottura col passato fu l'adozione di un nuovo nome: da quel momento non si sarebbe più chiamato Chris McCandless ma Alexander Supertramp, il vagabondo padrone del proprio destino. 4 DETRITAL WASH Il deserto è l'ambiente della rivelazione, geneticamente e fisiologicamente alieno, sensorialmente austero, esteticamente astratto, storicamente nemico. [...] Le sue forme sono audaci e suggestive. La mente è sopraffatta da luce e spazio, dalla novità cinestetica dell'aridità, delle alte temperature e del vento. Il cielo del deserto è avvolgente, maestoso e terribile. In altri habitat la linea sopra l'orizzonte è interrotta od oscurata; qui, insieme alla porzione superiore, è infinitamente più vasta di quella dell'ondulata campagna e delle foreste. [...] In un cielo non ostruito le nuvole sembrano più imponenti e a volte, nel loro fondo concavo, riflettono con magnificenza la curvatura della terra. L'angolosità delle forme del deserto conferisce sia alle nuvole sia alla terra un'architettura monumentale. [...] Nel deserto si recano profeti ed eremiti; viandanti ed esuli lo attraversano. I leader delle grandi religioni vi hanno cercato i valori spirituali e terapeutici del ritiro, non per fuggire ma per trovare la realtà. PAUL SHEPARD, Man in the landscape: A historic view of the esthetics of nature
L'Arctomecon californica è un fiore selvatico che cresce esclusivamente in un remoto angolo del deserto del Mojave. A primavera inoltrata ha una breve, delicata fioritura color oro, ma durante il resto dell'anno si curva spoglia e inosservata sul suolo arido. L'Arctomecon californica rientra tra le specie in via d'estinzione e per stabilirne la rarità nell'ottobre del 1990 più di tre mesi dopo la partenza di McCandless da Atlanta - il governo federale affidò a Bud Walsh, un ranger del National Park Service, il calcolo degli esemplari all'interno della National Recreation Area del lago Mead. L'Arctomecon californica cresce soltanto nel terreno gessoso tipico della sponda meridionale del lago, dove Walsh condusse la propria squadra di ranger per svolgere la ricerca botanica. Lasciarono la Temple Bar Road e guidarono per circa tre chilometri sul letto del Detrital Wash. Parcheggiarono i loro pick-up nei pressi della riva del lago e cominciarono a inerpicarsi sul ripido argine orientale del deposito alluvionale, un pendio di fria-
bile gesso bianco. Pochi minuti dopo, quasi in cima, uno degli uomini si voltò e nel riprendere fiato gridò: «Ehi! Guardate laggiù! Che cavolo è?». A margine del letto in secca, in un boschetto di porcellane di mare non lontano dai loro automezzi, una tela cerata scolorita sembrava nascondere un oggetto voluminoso e quando i ranger lo sollevarono, scoprirono una vecchia Datsun gialla senza targa. Un foglietto attaccato al parabrezza diceva: «Questa stronza è stata abbandonata. Chiunque riesca a portarsela via, può considerarla sua». Le portiere erano aperte e il fondo dell'auto era ricoperto di fango, forse prodotto da una recente inondazione. Quando Walsh guardò all'interno, trovò una chitarra Gianini, un tegame contenente quattro dollari e novantatré centesimi in spiccioli, un pallone da football, un sacchetto dell'immondizia pieno di vecchi indumenti, una canna da pesca con relativa attrezzatura, un rasoio elettrico nuovo, un'armonica a bocca, i cavi della batteria, una decina di chilogrammi di riso e, nel vano portaoggetti, le chiavi. Gli uomini perlustrarono la zona circostante in cerca di «qualcosa di sospetto», racconta Walsh, ma poi se ne andarono. Cinque giorni dopo tornò un solo ranger che mise sotto carica la batteria e riuscì a fare partire il motore senza grandi difficoltà. Guidando a quasi cento chilometri orari, portò la Datsun nell'area di manutenzione del National Park Service di Temple Bar. «Il collega disse che quell'auto andava come un razzo» ricorda Walsh. Nel tentativo di individuare il proprietario, i ranger diramarono un breve dispaccio via telex alle autorità giudiziarie e svolsero scrupolose ricerche negli archivi informatici del Sudovest per verificare se il numero di telaio fosse associato a qualche crimine, ma non approdarono a nulla. A poco a poco rintracciarono il numero di serie e risalirono al proprietario originario, la Hertz Corporation, che dichiarò di aver venduto il veicolo da parecchio tempo e di non essere interessata al recupero. «Wow! Magnifico!» ricorda di aver pensato Walsh. «Un regalo degli dei della strada. Un'auto come questa sarà perfetta per combattere la droga.» E fu proprio così: nei tre anni successivi il Park Service si servì della Datsun nelle operazioni di acquisto in incognito di stupefacenti, mettendo a segno numerosi arresti in una zona piagata dalla criminalità come la Recreation Area, incluso quello di un grosso commerciante di metanfetamina che operava fuori da un campeggio nei pressi di Bullhead City. «Facciamo ancora un sacco di chilometri con quella vecchia auto» afferma Walsh con una punta di orgoglio, due anni e mezzo dopo il ritrovamento. «Basta metterci qualche dollaro di benzina e va tutto il giorno. È
veramente affidabile. Mi sono sempre chiesto come mai nessuno sia venuto a reclamarla.» La Datsun in questione è ovviamente quella di Chris McCandless. Il giovane infatti, dopo aver lasciato Atlanta ed essersi diretto a ovest, il 6 luglio era giunto nella National Recreation Area del lago Mead dopo una vertiginosa esperienza emersoniana. Ignorando i cartelli che indicavano l'assoluto divieto di guidare fuori strada, McCandless aveva abbandonato la carreggiata all'incrocio con un ampio e sabbioso deposito alluvionale. Per circa tre chilometri aveva guidato in direzione della sponda meridionale del lago a una temperatura di quasi cinquanta gradi mentre intorno il deserto silenzioso si espandeva a perdita d'occhio scintillando nella calura. Attorniato dai cactus e in compagnia del comico affrettarsi delle lucertole, il ragazzo aveva montato la tenda all'ombra tenue di una tamarice, crogiolandosi nella libertà appena conquistata. Detrital Wash si estende per un'ottantina di chilometri dal lago Mead in direzione delle montagne a nord di Kingman e copre una vasta porzione di territorio. Per gran parte dell'anno il corso è asciutto come gesso, ma nei mesi estivi dal suolo riarso si leva aria surriscaldata come dal fondo di una teiera in ebollizione e si precipita verso il cielo in turbolente correnti di convezione. Spesso, tali correnti ascensionali originano imponenti cumulonembi che salgono fino a novemila metri sopra il deserto del Mojave. E proprio due giorni dopo l'arrivo di Chris, un muro insolitamente minaccioso di cumuli s'innalzò nel cielo pomeridiano e riversò su quasi tutta la Detrital Valley un torrente di pioggia. Siccome McCandless si era accampato sul bordo dell'alveo, circa un metro sopra il canale principale, quando un'ondata di acqua marrone si gettò violenta sul terreno sovrastante, ebbe giusto il tempo di salvare la tenda e i pochi averi, ma non poté spostare la Datsun visto che l'unica via di fuga si era ormai trasformata in uno spumeggiante fiume in piena. L'inondazione non fu potente al punto da spazzar via il veicolo o da provocargli danni permanenti, ma bagnò il motore e il ragazzo non riuscì più ad accenderlo. L'impazienza lo portò infine a scaricare la batteria. A quel punto non c'era proprio verso di avviare la macchina. Se Chris sperava di riportare la sua Datsun sull'asfalto, non gli restava che incamminarsi e informare i ranger. Ma così facendo, avrebbe dovuto sopportare una tempesta di fastidiose domande. In primo luogo, gli avrebbero chiesto perché avesse ignorato i cartelli e fosse sceso nell'alveo in secca, poi se sapeva che il bollo, scaduto da due anni, non era mai stato rinnovato, come
del resto patente e assicurazione. Risposte sincere non sarebbero certo state gradite dai ranger. McCandless poteva anche sforzarsi di spiegare che obbediva a leggi superiori, che in qualità di novello seguace di Henry David Thoreau considerava suo vangelo il saggio Disobbedienza civile e sua precisa responsabilità morale il beffarsi delle leggi dello Stato, ma difficilmente i rappresentanti del governo federale si sarebbero mostrati comprensivi. Il giovane sarebbe incappato in lungaggini burocratiche, multe da pagare e la notizia di certo sarebbe arrivata all'orecchio dei genitori. Tuttavia esisteva una scappatoia: abbandonare la Datsun e continuare a piedi l'odissea. E Chris decise di fare proprio così. Il nuovo corso degli eventi non fu per McCandless motivo di afflizione ma di gioia e vide nell'inondazione l'opportunità di disfarsi del bagaglio superfluo. Camuffò l'auto come meglio poté sotto un tela cerata marrone, tolse le targhe della Virginia e le nascose. Sotterrò il fucile da caccia Winchester e poche cose di cui forse un giorno avrebbe desiderato rientrare in possesso. Poi, con un gesto che avrebbe inorgoglito sia Thoreau che Tolstoj, ammucchiò sulla sabbia il proprio denaro - un patetico mazzetto di banconote da uno, cinque e venti dollari - e appiccò il fuoco. In men che non si dica centoventitré dollari a corso legale si ridussero in cenere. Tutto ciò ci è noto perché McCandless documentò la distruzione dei contanti e gli eventi successivi in un album-diario che in seguito, prima di partire per l'Alaska, avrebbe lasciato in custodia a Wayne Westerberg. Sebbene il tono del racconto - scritto in terza persona con uno stile ampolloso e introspettivo - rasenti spesso il melodramma, i riscontri disponibili dimostrano che non travisò i fatti. Dire la verità rientrava in un credo che il ragazzo prendeva molto seriamente. Dopo aver riposto nello zaino i pochi averi rimasti, il 10 luglio Chris riprese il cammino intorno al lago Mead, decisione che, come riconosce il diario, si rivelò «un errore madornale [...]. Le elevate temperature di luglio ti fanno delirare». Sorpreso da un colpo di calore, riuscì a fermare alcuni barcaioli che gli diedero uno strappo fino a Callville Bay, un porticciolo vicino all'estremità occidentale del lago dove, col pollice alzato, riconquistò la strada. McCandless trascorse i due mesi successivi a girovagare nell'Ovest del Paese, affascinato dalla vastità e imponenza del paesaggio e disturbato a volte da piccole noie con la legge, godendosi la compagnia dei vagabondi che incontrava sul cammino. Lasciando che fossero le circostanze a guida-
re il percorso, raggiunse il lago Tahoe in autostop, s'incamminò nella Sierra Nevada e marciò per sette giorni verso nord, lungo il Pacific Crest Trail, prima di lasciare le montagne e fare ritorno sull'asfalto. Alla fine di luglio accettò un passaggio da un certo Crazy Ernie, che gli offrì un lavoro in un ranch della California settentrionale. Qualche fotografia mostra una casa in rovina, non pitturata, circondata da capre e polli, reti di letti, televisori rotti, carrelli della spesa, vecchi elettrodomestici e montagne di immondizia. Dopo aver lavorato nel posto per undici giorni insieme ad altri sei girovaghi, McCandless capì che Ernie non l'avrebbe mai pagato, quindi sottrasse dal disordine del cortile una bicicletta rossa a dieci marce, pedalò fino a Chico e l'abbandonò nel parcheggio di un centro commerciale. A quel punto riprese la sua esistenza in costante movimento accettando passaggi verso nord e verso ovest attraverso Red Bluff, Weaverville e Willow Creek. Ad Arcata, in California, nelle grondanti foreste di sequoie rosse del litorale pacifico, Chris imboccò la U.S. Highway 101 e risalì la costa. Un centinaio di chilometri a sud del confine con l'Oregon, nei pressi di Orick, una coppia di bighelloni a bordo di un vecchio furgone accostò per consultare una cartina e notò un giovane accovacciato nei cespugli lungo la carreggiata. «Indossava un paio di bermuda e un cappello buffo» racconta Jan Burres, una «vagabonda gommata» di quarantun anni che viaggiava col fidanzato Bob nell'Ovest del Paese vendendo e barattando cianfrusaglie nei mercati delle pulci. «Chris aveva un libro sulle piante che usava per raccogliere le bacche che poi metteva in un contenitore aperto del latte da circa quattro litri. Mi fece pena e gli gridai: "Ehi tu, vuoi uno strappo?". Pensai che gli avremmo potuto dare qualcosa da mangiare o chessò. «Cominciammo a parlare e Alex, così disse di chiamarsi, si rivelò davvero simpatico. Aveva una gran fame, fame vera, ma era felice. Disse di essere sopravvissuto nutrendosi di piante commestibili che aveva identificato grazie al libro, e sembrava andarne molto fiero. Viveva questa sua grande avventura attraverso il Paese e ci raccontò di aver abbandonato l'auto, di aver bruciato tutti i soldi, allora gli domandai: "Ma perché l'hai fatto?", e mi rispose che lui non aveva bisogno del denaro. Ho un figlio della stessa età di Alex e da qualche anno ci siamo allontanati, quindi dissi a Bob: "Senti, dobbiamo prendere questo ragazzo con noi. Devi insegnargli alcune cose". Lo portammo fino a Orick Beach, dove eravamo accampati, e rimase con noi una settimana. Era proprio un bravo ragazzo, ci piaceva un sacco. Quando se ne fu andato, non ci saremmo mai aspettati di ri-
cevere sue notizie, ma Alex ne fece una specie di questione di principio. Nei due anni successivi ci mandò una cartolina quasi ogni mese.» Da Orick McCandless risalì ancora la costa passando da Pistol River, Coos Bay, Seal Rock, Manzanita, Astoria, Hoquiam, Humptulips, Queets, Forks, Port Angeles, Port Townsend e Seattle. «Era solo» come scrisse James Joyce di Stephen Dedalus, il personaggio di un giovane artista. «Nessuno gli badava e lui era felice, accanto al cuore selvaggio della vita. Era solo e giovane e risoluto e selvaggio, solo in un deserto di aria selvaggia e di acque salmastre, in mezzo alla messe marina di conchiglie e di ciuffi, alla luce grigia e velata del sole.» Il 10 agosto, poco prima dell'incontro con Jan Burres e Bob, Chris era stato multato per aver fatto l'autostop vicino a Willow Creek, nella regione di giacimenti auriferi a est di Eureka. Inspiegabilmente, quando l'agente gli chiese l'indirizzo, il ragazzo commise l'errore di indicare quello dei genitori ad Annandale e alla fine del mese la multa non pagata finì nella cassetta delle lettere di Walt e Billie. I due, terribilmente preoccupati per la scomparsa del figlio, avevano già contattato la polizia locale, che però non si era dimostrata di nessun aiuto. Appena ricevettero la multa dalla California, persero il controllo. Uno dei vicini di casa era direttore della U.S. Defense Intelligence Agency e Walt gli si avvicinò per chiedere consiglio. Il generale dell'esercito lo mise in contatto con un investigatore privato, Peter Kalitka, che già aveva lavorato per Dia e Cia. L'uomo garantì che si trattava del miglior professionista sulla piazza e che se Chris si trovava in California, Kalitka lo avrebbe scovato. Partendo dalla multa di Willow Creek, l'investigatore avviò una minuziosa caccia agli indizi che lo condusse fino in Europa e in Sudafrica, ma che in definitiva non servì a nulla fino a dicembre, quando da un'ispezione dei registri fiscali risultò che il giovane aveva donato all'Oxfam l'intero fondo per gli studi universitari. «La notizia ci spaventò parecchio» racconta Walt. «A quel punto non capivamo più cosa stesse combinando nostro figlio. La multa per l'autostop non aveva proprio senso. Amava tanto la sua Datsun che mi sconcertava il pensiero che avesse potuto abbandonarla e che viaggiasse a piedi. Anche se, ripensandoci, la cosa non avrebbe dovuto sorprendermi. Chris era dell'idea che non si dovesse possedere più di quanto non si riesca a caricare in spalla correndo alla massima velocità.» Mentre Kalitka seguiva le tracce di McCandless in California, il ragazzo
era già andato oltre, attraverso la Catena delle Cascate, l'artemisia degli altopiani, la lava del bacino del Columbia, la lingua di terra dell'Idaho ed era approdato nel Montana. Appena fuori Cut Bank, incontrò Wayne Westerberg e alla fine di settembre già lavorava per lui a Carthage. Con l'approssimarsi dell'inverno, quando Westerberg fu arrestato e la stagione lavorativa si concluse, McCandless migrò verso climi più caldi. Il 28 ottobre accettò il passaggio di un autotrasportatore diretto a Needles, in California. «Felicissimo di aver raggiunto il fiume Colorado» scrisse nel diario. Dopodiché abbandonò l'autostrada e s'incamminò nel deserto per una ventina di chilometri, lungo il fiume, verso Topock, in Arizona, una polverosa stazione secondaria sull'Interstate 40 dove l'autostrada s'interseca col confine californiano. Arrivato in città, vide una canoa in alluminio di seconda mano e d'impulso decise di acquistarla. Voleva ridiscendere il Colorado fino al Golfo di California - quasi seicentocinquanta chilometri a sud - oltre il confine col Messico. Il corso inferiore del fiume, dalla diga di Hoover fino al golfo, ha ben poco in comune con l'indomabile torrente che esplode nel Grand Canyon, circa quattrocento chilometri a nord di Topock. Indebolito da dighe e canali di deviazione, gorgoglia indolente di bacino in bacino attraverso le zone più calde e aspre di tutto il continente. McCandless rimase turbato dall'austerità del paesaggio e dalla sua bellezza salina. Il deserto acuiva il dolce dolore della sua brama, lo amplificava, gli dava forma nell'arida geologia e nei nitidi fasci di luce. Da Topock McCandless vogò a sud attraverso il lago Havasu sotto la cupola sbiadita di un cielo immenso e vuoto. Fece una scappata nel fiume Bill Williams, un affluente del Colorado, e proseguì attraverso la riserva indiana del fiume Colorado, il Cibola National Wildlife Refuge e l'Imperial National Wildlife Refuge. Scivolava fra saguari e pianure alcaline e si accampava sotto scarpate di nuda roccia precambriana. In lontananza, le montagne aguzze, color cioccolato, galleggiavano come miraggi sopra misteriosi specchi d'acqua. Un giorno, abbandonando il fiume per seguire le tracce di un branco di cavalli selvatici, Chris s'imbatté in un cartello che lo avvertiva dello sconfinamento nella zona riservata alle esercitazioni militari di Yuma, ma non si sentì minimamente scoraggiato. Alla fine di novembre raggiunse Yuma e si fermò giusto il tempo di fare provviste e spedire una cartolina a Westerberg, ospite della Glory House, la casa di detenzione di Sioux Falls che di giorno gli permetteva di lavorare all'esterno. «Ciao, Wayne!» dice la cartolina:
Come va la vita? Spero meglio dell'ultima volta che ci siamo sentiti. Sto girando per l'Arizona già da un mese. È veramente un grande Stato! Sono circondato da paesaggi stupendi e il clima è meraviglioso. Ma lo scopo principale di questa cartolina, oltre ai saluti, è quello di ringraziarti per l'ospitalità. È raro trovare una persona tanto generosa e buona come te. A volte però rimpiango di averti incontrato, perché con tutti questi soldi è troppo facile viaggiare. Com'erano più eccitanti le giornate senza il becco di un quattrino, quando dovevo darmi da fare per procurarmi il pasto successivo. In ogni modo, ora come ora non ce la farei proprio a sopravvivere senza soldi, visto che in questo periodo la terra è piuttosto avara di frutti. Ringrazia ancora Kevin per tutti i vestiti che mi ha dato, senza i quali mi sarei ibernato. Spero ti abbia portato il libro, perché Wayne, credimi, dovresti veramente leggere Guerra e pace. Quando ti dissi che hai uno dei caratteri più nobili fra quelli che ho conosciuto, ne ero davvero convinto. È un libro straordinario e fortemente simbolico, ci sono cose che penso tu capirai, cose che sfuggono a gran parte della gente. Tornando a me, ho deciso che per un po' farò questa vita. Non mi riesce di rinunciare a tutta questa libertà e semplice bellezza. Un giorno ci ritroveremo e ti ripagherò della gentilezza. Pensi che una cassa di Jack Daniels potrà bastare? Fino ad allora continuerò a pensare a te come a un grande amico. Dio ti benedica, Alexander. Il 2 dicembre raggiunse la diga di Morelos e la frontiera messicana. Preoccupato di non poter passare senza documenti, s'insinuò tra le porte aperte della chiusa e si lanciò verso la parte inferiore dello sfioratore. «Alex si guarda intorno veloce in cerca di segnali di pericolo» riporta il diario. «Ma il suo ingresso in Messico passa inosservato o viene ignorato. Alexander esulta!» La gioia, comunque, durò poco. Sotto la diga di Morelos il fiume si schiude in un dedalo di canali, paludi e corsi senza sbocco, dove McCandless si perse ripetutamente: I canali s'interrompono e si frazionano in una moltitudine di direzioni. Alex non ha parole. Incontra alcune guardie che parlano
un po' d'inglese e gli dicono che non si era spostato verso sud ma verso ovest, che presto avrebbe raggiunto il centro della Baja Peninsula. Alex è distrutto. Implora e insiste: deve pur esserci qualche corso che sbocchi nel Golfo di California! Le guardie lo scrutano e lo prendono per matto. Dopo però si mettono a parlare animatamente, tirano fuori cartine e cominciano ad agitare matite. Passati dieci minuti gli presentano un itinerario che dovrebbe condurlo all'oceano. Nel cuore di Alex riaffiora la speranza. Seguendo la mappa risale il corso d'acqua fino al Canal de Independencia, dove s'immette in direzione est. Stando alle indicazioni, a un certo punto dovrebbe incrociare il Wellteco Canal, che a sua volta dovrebbe proseguire a sud per sfociare nell'oceano. Ben presto però, quando il corso d'acqua viene inghiottito dal deserto, le sue speranze s'infrangono. Con un giro di perlustrazione stabilisce di essere finito nel letto ormai asciutto del fiume Colorado, ma a circa un chilometro di distanza, sull'argine opposto, individua un altro canale dove decide di trasportare la canoa. L'operazione richiese tre giorni e in data 5 dicembre il diario riporta: Finalmente! Alex trova quello che crede essere il Wellteco Canal e si dirige verso sud. Le preoccupazioni e le paure riemergono non appena la portata del canale comincia a calare. [...] La gente del posto lo aiuta a superare una barriera. [...] Alex scopre che i messicani sono cordiali e amichevoli, molto più ospitali degli americani. [...] 6/12 Il canale è disseminato di cascate piccole ma insidiose. 9/12 Crollano le speranze! Il canale non sfocia nell'oceano, ma agonizza e muore in una grande palude. Alex è disorientato. Sicuro di essere vicino all'oceano, decide di farsi strada nella palude e, sempre più confuso, si trova a trascinare la canoa in un canneto e nel fango. È in preda alla disperazione. Trova uno spiazzo asciutto per accamparsi al tramonto. Il giorno dopo, il 10 dicembre, riprende la ricerca, ma non fa che confondersi, girando in cerchio. Sul finire del giorno, completamente demoralizzato e frustrato, si stende nella canoa e piange. Ma ecco che la fortuna d'improvviso
porta sul suo cammino alcune guide messicane di caccia all'anatra che parlano addirittura l'inglese. Alex racconta la sua storia e la disperata ricerca di uno sbocco sul mare, ma questi gli dicono che non esistono sbocchi sul mare e uno si offre di trainarlo fino al campo base con una piccola imbarcazione a motore e di accompagnarlo all'oceano con la canoa sistemata sul pianale di un autocarro. È un miracolo. I cacciatori di anatre lo lasciarono a El Golfo de Santa Clara, un villaggio di pescatori che si affaccia sul Golfo di California. Da lì McCandless prese il mare e seguì il lato orientale del golfo in direzione sud. Essendo ormai giunto a destinazione, rallentò il passo e diventò più contemplativo. Fotografò una tarantola, qualche malinconico tramonto, le dune spazzate dal vento e la lunga curva della costa deserta. Le annotazioni sul diario si fecero brevi, sbrigative e il mese seguente non scrisse neanche un centinaio di parole. Il 14 dicembre, stanco di vogare, trascinò la canoa lontano sulla spiaggia, si arrampicò sopra una scogliera di arenaria e per dieci giorni rimase accampato sul bordo del desolato altopiano. Poi, il forte vento lo costrinse a cercare rifugio in una grotta a metà della ripida scogliera, dove si fermò altri dieci giorni. Accolse il nuovo anno guardando la luna piena alzarsi sul Gran Desierto, quattromila e quattrocento chilometri quadrati di dune mutevoli, la più grande estensione di sabbia dell'America del Nord. Il giorno dopo riprese a vogare lungo l'arido litorale. In data 11 gennaio 1991 l'annotazione nel diario comincia così: «Una data fatidica». Dopo essersi spostato poco a sud, tirò la canoa sopra un banco di sabbia lontano dalla costa e si mise a osservare le grandi onde. Un'ora dopo dal deserto cominciarono a soffiare violente raffiche e la cospirazione di vento e acqua riuscì a trascinarlo in mare. Era un grande tumulto di creste spumeggianti e un'imbarcazione piccola come la sua rischiava di essere sommersa e capovolta. Il vento non fece che aumentare e le creste spumeggianti si trasformarono presto in ondate altissime. «Con grande frustrazione», racconta il diario: Alex grida e a furia di picchiare la pagaia sulla canoa, la rompe. Per fortuna ne ha una di scorta. Si dà una calmata, perché se spacca anche la seconda può considerarsi morto. Alla fine, con uno sforzo tremendo e chissà quante imprecazioni, riesce a portarsi
sulla spiaggia e crolla esausto sulla sabbia mentre il sole tramonta. L'incidente convinse Alexander ad abbandonare la canoa e a tornare al Nord. Il 16 gennaio McCandless lasciò la piccola imbarcazione di metallo sopra una duna coperta d'erba a sudest di El Golfo de Santa Clara e s'incamminò verso nord lungo la spiaggia deserta. Non parlava né vedeva anima viva da trentasei giorni. In tutto quel periodo era sopravvissuto con poco più di due chili di riso e quanto riusciva a guadagnare dal mare, un'esperienza che in seguito l'avrebbe convinto di poter sopravvivere con una dieta altrettanto scarsa anche nella foresta d'Alaska. Il 18 gennaio raggiunse la frontiera statunitense dove venne sorpreso dalle autorità mentre cercava di introdursi nel Paese senza documenti. Passò una notte in gattabuia prima di inventarsi una storia che gli permettesse di uscirsene alla svelta, ma dovette rinunciare alla sua calibro .38, una «bellissima Colt Python, a cui teneva molto». McCandless trascorse le sei settimane successive nel Sudovest del Paese, viaggiando in lungo e in largo da Houston alla costa pacifica. Per evitare i furti degli sgradevoli personaggi che governano le strade e i ponti dove passava la notte, imparò a sotterrare il denaro prima di entrare in una città per recuperarlo quando andava via. Il 3 febbraio, stando al diario, McCandless arrivò a Los Angeles «per procurarsi un documento d'identità e un lavoro, ma adesso si sente estremamente a disagio nella società e deve subito rimettersi sulla strada». Sei giorni dopo, accampato sul fondo del Grand Canyon con Thomas e Karin, una giovane coppia tedesca che gli aveva dato un passaggio, scrisse: «Può questo essere lo stesso Alex che era partito nel luglio 1990? La malnutrizione e la strada hanno provato duramente il suo corpo; infatti, ha perso più di undici chili. Ma lo spirito esulta». Il 24 febbraio, sette mesi e mezzo dopo aver abbandonato la Datsun, McCandless ritornò a Detrital Wash. Il Park Service aveva confiscato il veicolo ormai da tempo, ma il ragazzo disotterrò le vecchie targhe della Virginia, SJF-421, e gli altri pochi averi. Dopodiché raggiunse Las Vegas in autostop e trovò lavoro in un ristorante italiano. «Alexander gas senza soldi né documenti» riporta il diario. Per parecchie settimane visse sulla strada con fannulloni, vagabondi e ubriaconi, ma Las Vegas non avrebbe segnato la fine del-
la storia. Il 10 maggio ebbe di nuovo voglia di muoversi, dunque lasciò il lavoro, recuperò lo zaino e guadagnò la strada. Constatò che se si è tanto stupidi da sotterrare una macchina fotografica, non sono molte le fotografie che si potranno scattare dopo. Infatti non esistono immagini del periodo che va dal 10 maggio 1991 al 7 gennaio 1992, ma questo poco importa. Ciò che conta sono le esperienze, i ricordi, l'immensa gioia di vivere a fondo, che dischiude il significato vero dell'esistenza. Dio, quanto è meraviglioso essere vivi! Grazie. Grazie. 5 BULLHEAD CITY La belva primitiva era forte in Buck e in quelle terribili condizioni di vita sempre più si sviluppava. Per ora cresceva segretamente e le nuove forme di astuzia assumevano una parvenza di serietà e di controllo di se stesso. JACK LONDON, Il richiamo della foresta Salve, belva primitiva! E anche a te, capitano Ahab! Alexander Supertramp Maggio 1992 Incisione trovata nell'autobus abbandonato sullo Stampede Trail Quando la macchina fotografica di McCandless smise di funzionare, il ragazzo interruppe anche il diario, un'abitudine che riprenderà soltanto l'anno successivo in Alaska. Di conseguenza, poco è noto di quanto fece dopo aver lasciato Las Vegas nel maggio del 1991. Da una lettera spedita a Jan Burres sappiamo che trascorse i mesi di luglio e agosto sulla costa dell'Oregon, probabilmente nelle vicinanze di Astoria, dove si lamentò che «nebbia e pioggia erano spesso insopportabili». In settembre fece l'autostop lungo la U.S. Highway 101 fino in California, da dove s'inoltrò ancora una volta nel deserto. All'inizio di ottobre arrivò a Bullhead City, in Arizona. Bullhead City è una comunità secondo le contraddittorie consuetudini linguistiche di fine ventesimo secolo. Priva di un centro ben distinto, con-
siste in un insieme disordinato e casuale di lunghi viali e quartieri che si estendono per circa tredici chilometri lungo gli argini del Colorado, proprio sulla sponda opposta degli altissimi hotel e casinò di Laughlin, in Nevada. L'aspetto civico che distingue Bullhead è la Mohave Valley Highway, quattro corsie di asfalto fiancheggiate da stazioni di servizio e fast food, chiroterapeuti e videonoleggi, rivendite di pezzi di ricambio per auto e trappole per turisti. Apparentemente, non è quel genere di luogo che potrebbe piacere a un seguace di Thoreau e Tolstoj, ideologo che espresse tutto il proprio disprezzo per i lussi borghesi dello stile di vita prevalente in America. Ciononostante, McCandless prese in simpatia Bullhead City, forse per l'affinità con gli strati più bassi della società ben rappresentati nelle zone riservate a campeggio e nelle lavanderie automatiche, o forse semplicemente per il fascino del desolato paesaggio desertico circostante. In ogni modo, quando McCandless arrivò a Bullhead City, smise di viaggiare per oltre due mesi, la sosta probabilmente più lunga da Atlanta allo Stampede Trail. In una cartolina spedita a Westerberg in ottobre, Chris dice di Bullhead: «È un bel posto per trascorrere l'inverno e potrei perfino decidere di stabilirmici e di abbandonare per sempre la vita da vagabondo. Vedrò quello che succederà con l'arrivo della primavera, perché è proprio lì che mi assale la voglia di partire». Quando McCandless scrisse queste parole, sfornava Quarter Pounder a tempo pieno in un McDonald's della via principale, dove arrivava in bicicletta. Sembrava condurre una vita sorprendentemente convenzionale, arrivando perfino ad aprire un conto di deposito presso una banca locale. Da McDonald's si era stranamente presentato come Chris McCandless, non come Alex, e aveva fornito al datore di lavoro il vero numero di previdenza sociale. Era uscito allo scoperto e quest'insolito gesto avrebbe potuto mettere i genitori sulle sue tracce. In realtà, la svista rimase senza conseguenze, perché l'investigatore ingaggiato da Walt e Billie non si avvide mai del passo falso. Due anni dopo aver sudato insieme sulla griglia di Bullhead, i colleghi dell'emme dorata non ricordano molto di Chris McCandless. «Una cosa che ricordo è che aveva una specie di fobia per i calzini» racconta il vicedirettore, George Dreeszen, un uomo paffuto e chiacchierone. «Non li aveva mai, si vede che non li sopportava. Ma da McDonald's c'è la regola che tutti i dipendenti devono sempre avere calzature appropriate, e questo include scarpe e calzini. Chris obbediva alla regola, ma non appena termina-
va il turno la prima cosa che faceva era sfilarsi i calzini, non sto scherzando, era proprio la primissima cosa che faceva. Penso che fosse un modo per farci sapere che non ci apparteneva. Ma era comunque un ragazzo simpatico e un buon lavoratore, un tipo fidato.» Lori Zarza, l'altra vicedirettrice, ha un'impressione un po' diversa di McCandless. «Francamente, io non ho mai capito come mai l'avessero assunto» afferma. «Sì, era in grado di fare il suo lavoro - cucinava sul retro del ristorante -, ma teneva sempre un ritmo lento, anche all'ora di punta di mezzogiorno, non importava quanta fretta gli si mettesse. Potevano anche esserci dieci clienti in fila alla cassa, ma lui non riusciva a capire perché gli stessi alle costole, non riusciva a collegare le due cose. Era come se vivesse in un mondo tutto suo. «Però era affidabile, uno che si faceva vedere tutti i giorni e non osarono licenziarlo. La paga era di quattro dollari e venticinque centesimi l'ora e, con i casinò al di là del fiume che ai neoassunti ne davano sei e venticinque, be', era difficile riuscire a tenersi il personale. «Non penso abbia mai frequentato i colleghi dopo il lavoro o in altre occasioni. Quando parlava, gli argomenti preferiti erano piante, natura e roba del genere. Pensavamo tutti che gli mancasse qualche rotella. «Quando se ne andò» ammette Zara «fu probabilmente per colpa mia. All'inizio non aveva un posto dove stare e la mattina puzzava. Non era certo normale per un locale come McDonald's arrivare al lavoro con quell'odore addosso. Così, alla fine, mi incaricarono di dirgli di farsi il bagno un po' più spesso. Dal momento in cui glielo dissi, ci fu un aperto contrasto tra di noi. E poi gli altri dipendenti, che cercavano solo di essere gentili, cominciarono a domandargli se avesse bisogno del sapone o altro. Tutto questo lo mandava in bestia, era evidente, ma non lo dimostrò mai apertamente. All'incirca tre settimane più tardi, prese la porta e non tornò più.» McCandless aveva cercato di nascondere il suo essere girovago con lo zaino in spalla. Aveva detto ai colleghi di abitare al di là del fiume, a Laughlin, e tutte le volte che gli offrivano un passaggio dopo il lavoro, trovava qualche scusa per rifiutare con gentilezza. Nelle prime settimane, si era accampato appena fuori città e in seguito occupò un autocaravan disabitato. Quest'ultima sistemazione, spiegò in una lettera a Jan Burres, «venne fuori in questo modo»: Una mattina, mentre mi facevo la barba in una toilette, entrò un vecchio che, osservandomi, chiese se dormivo all'aperto. Quando
gli risposi di sì, mi disse di avere un vecchio caravan dove avrei potuto stare gratuitamente. L'unico problema è che il veicolo non è proprio suo. I veri proprietari non ci sono e gli permettono di vivere sul loro terreno, dentro una piccola roulotte. Per cui l'unica cosa che devo fare è non dare nell'occhio e non farmi vedere troppo da quelle parti, perché non ha il permesso di portarvi altra gente. Comunque, è un buon affare, perché dentro la roulotte, che in realtà è un autocaravan, è carina, arredata, con qualche presa elettrica funzionante e un sacco di spazio abitabile. L'unico svantaggio è il vecchio, che si chiama Charlie: è una specie di matto e andarci d'accordo non è sempre facile. Charlie vive ancora allo stesso indirizzo, in un piccolo camper a forma di goccia, rivestito di stagno butterato dalla ruggine, senza impianto idraulico ed elettrico, nascosto dietro il grande autocaravan blu e bianco dove aveva dormito McCandless. A ovest, brulle montagne torreggiano severe sopra i tetti dei vicini motorhome con rimorchio. Nel trascurato cortile riposa una Ford Torino celeste col vano motore infestato di erbacce e da una siepe di oleandro poco lontana esce l'intensa puzza di ammoniaca tipica dell'urina umana. «Chris? Chris?» ringhia il vecchio, cercando faticosamente nella memoria vacillante. «Oh sì, certo. Sì, sì, me lo ricordo.» Charlie, in felpa e calzoni da lavoro color cachi, è un uomo fragile e nervoso con gli occhi umidi e una peluria bianca e ispida sul mento. Stando ai suoi ricordi, McCandless rimase nel caravan circa un mese. «Un tipo a posto, sì, proprio a posto» racconta Charlie. «Ma non gli piaceva troppa gente tra i piedi, no, era suscettibile. Non cattivo ma, capisce, secondo me era pieno di complessi. Gli piacevano i libri di quello lì dell'Alaska, Jack London. Non parlava granché, no, gli girava la luna e non voleva essere scocciato. Sembrava in cerca di qualcosa, sì, cercava qualcosa, ma non sapeva bene cosa. Anch'io ero così un tempo, ma poi ho capito cosa cercavo: i soldi! Ah, ah, ah, bella questa! «Ma, come dicevo, l'Alaska... sì, parlava di andare in Alaska. Forse per trovare quello che cercava. Un tipo a posto, sembrava almeno. Ma aveva certi complessi a volte, un sacco davvero. Quando se ne andò, era Natale se non sbaglio, mi diede cinquanta bigliettoni e una stecca di sigarette per avergli permesso di rimanere qui. Be', mi sembrò molto gentile da parte sua.»
Alla fine di novembre, McCandless spedì una cartolina a Jan Burres presso una casella postale di Niland, una cittadina nell'Imperial Valley, in California. «Fu la prima lettera col mittente dopo parecchio tempo» ricorda Burres. «Gli risposi subito e siccome non stava lontano da noi, lo avvertii che il fine settimana successivo saremmo andati a trovarlo.» McCandless fu felicissimo di ricevere notizie da Jan. «Sono così contento di sapervi vivi e in buona salute» scrisse in una lettera datata 9 dicembre 1991. Grazie mille per il biglietto d'auguri di Natale. È bello sapere che in questo periodo dell'anno c'è qualcuno che si ricorda di te. [...] Sono elettrizzato all'idea che presto veniate a trovarmi: siete sempre i benvenuti. È meraviglioso pensare che dopo quasi un anno e mezzo ci incontreremo di nuovo. Concluse la lettera disegnando una mappa e fornendo indicazioni dettagliate per trovare il caravan nella Baseline Road di Bullhead City. Ma quattro giorni dopo aver ricevuto la risposta di Chris, quando Jan e il compagno Bob si preparavano ormai ad andare dall'amico, Burres tornò all'accampamento e trovò «un grande zaino appoggiato al furgone. Lo riconobbi subito: era quello di Alex. Sunni, la nostra cagnetta, lo fiutò prim'ancora di me e impazzì dalla gioia. Alex le piaceva un sacco, ma mi sorprese che non lo avesse dimenticato». McCandless spiegò che si era stufato di Bullhead, di timbrare il cartellino, della «gente di plastica» con cui lavorava, e aveva deciso di andarsene fuori dai piedi. Jan e Bob stavano a circa cinque chilometri da Niland, in un posto che i locali chiamano gli Slabs, una vecchia base aerea della Marina militare abbandonata e distrutta, di cui resta solo un reticolo di vuote fondamenta di cemento disseminate in lungo e in largo nel deserto. Non appena arriva novembre, quando nel resto del Paese il tempo peggiora, circa cinquemila tra emigranti, girovaghi e vagabondi d'ogni genere si riuniscono in questo luogo fuori dal mondo per vivere con pochi soldi sotto il cielo e le stelle. Gli Slabs fungono da capitale stagionale di una brulicante società itinerante, di una tollerante cultura di «gommati» che coinvolge pensionati e indigenti, esiliati e disoccupati perenni. Parliamo di uomini e donne d'ogni età, di persone in fuga dai creditori, da relazioni finite male, dalla legge o dal fisco, dagli inverni dell'Ohio, dalla monotona routine della vita del ceto medio.
Agli Slabs McCandless fu accolto da un immenso mercato delle pulci dove Burres aveva montato qualche tavolino pieghevole per esporre la sua merce economica e perlopiù di seconda mano. Chris si offrì di controllare il vasto inventario di libri tascabili usati. «Mi fu di grande aiuto» riconosce Burres. «Dava un occhio alla roba quando mi assentavo, classificò tutti i libri e riuscì a vendere un sacco di pezzi. Sembrava piacergli molto. Alex conosceva bene i classici: Dickens, H.G. Wells, Mark Twain, Jack London. London era il suo preferito. Cercava di convincere ogni malcapitato a leggere Il richiamo della foresta.» L'infatuazione di McCandless per lo scrittore risaliva all'infanzia: la fervente condanna della società capitalista, l'esaltazione del mondo primordiale e la difesa degli umili rispecchiavano appieno le passioni di Chris. Incantato dall'avvincente ritratto che London fece della vita in Alaska e nello Yukon, McCandless lesse e rilesse Il richiamo della foresta, Zanna Bianca e tutti gli altri romanzi d'avventura dello scrittore. Sopraffatto dal fascino dei racconti, dimenticava che fossero romanzi, opere dell'immaginazione più legate alla romantica sensibilità dell'autore che alla vita reale nei selvaggi territori subartici. Il giovane pensò bene di trascurare il fatto che London avesse trascorso soltanto un inverno nelle terre del Nord e che all'età di quarant'anni, ormai alcolizzato, obeso e patetico, con un'esistenza sedentaria ben lontana dagli ideali abbracciati sulla carta stampata, si fosse tolto la vita nella propria tenuta in California. Tra i residenti degli Slabs c'era Tracy, una diciassettenne che durante la visita di Chris a Niland s'innamorò del ragazzo. «Era molto dolce», racconta Burres «figlia di una coppia di vagabondi che avevano parcheggiato a quattro automezzi da noi. La povera Tracy si prese una bella cotta per Alex e per tutta la settimana continuò a fargli gli occhi dolci e a seccarmi perché lo convincessi ad andare a passeggiare insieme a lei. Alex fu sempre gentile, ma lei era troppo giovane e non poteva prenderla sul serio. Credo che le abbia spezzato il cuore per una settimana almeno.» Malgrado McCandless avesse respinto le avance di Tracy, Burres ci tiene a precisare che non era un misantropo: «Si divertiva con la gente, davvero. Al mercatino andò avanti a parlare per ore con tutti quelli che gli capitavano a tiro. A Niland avrà incontrato almeno un centinaio di persone e si dimostrò amichevole con tutti quanti. Di tanto in tanto sentiva il bisogno di starsene solo, ma non era un eremita, anzi, fece amicizia con tantissima gente. A volte pensavo che stesse immagazzinando compagnia per quando sapeva di dover stare solo».
McCandless aveva mille attenzioni per Burres e ci flirtava, scherzava non appena se ne presentasse l'occasione. «Gli piaceva molto prendermi in giro e tormentarmi» ricorda la donna. «Uscivo a stendere la biancheria dietro al caravan e lui mi attaccava addosso le mollette. Era un giocherellone, un bambinone. Si divertiva a mettere i miei cuccioli sotto i cesti della biancheria per farli abbaiare e saltare da una parte all'altra. E continuava finché non gli urlavo di smetterla, anche se di fatto li adorava e loro lo seguivano dappertutto, strillavano per attirare la sua attenzione e volevano perfino dormirci insieme. Con gli animali ci sapeva proprio fare.» Un pomeriggio, mentre McCandless teneva d'occhio il banchetto dei libri al mercatino, qualcuno gli lasciò da vendere un organo elettrico portatile. «Alex lo prese subito e per tutto il giorno fece divertire un mucchio di persone» racconta la donna. «Aveva una voce straordinaria e attirò una gran folla. Fu allora che scoprii la sua inclinazione per la musica.» McCandless parlò spesso con la gente degli Slabs dei suoi piani per l'Alaska. Ogni mattina faceva esercizi di ginnastica callistenica per prepararsi ai rigori della foresta e discusse a lungo con Bob, un tecnico autodidatta della sopravvivenza, di strategie per uscire vivi dall'entroterra nordico. «Quando ci parlò della sua "grande odissea in Alaska", come la chiamava lui» racconta Burres «pensai che gli avesse dato di volta al cervello. Ma sembrava veramente eccitato e non smetteva più di parlarne.» Nonostante Burres l'avesse stuzzicato in più occasioni, Chris non rivelò mai nulla della sua famiglia. «Io gli domandavo: "Hai parlato ai tuoi dell'Alaska? Lo sa tua madre che te ne vai lassù? E tuo padre?", ma lui non rispose mai. Si limitava a girare gli occhi verso di me e irritato mi diceva di piantarla di fargli da mamma. E Bob diceva: "Lascialo in pace! È grande ormai!", ma finché non cambiava discorso io insistevo, visto quello che è capitato con mio figlio. Adesso è in giro, da qualche parte, e vorrei tanto che qualcuno se ne prendesse cura, come ho fatto io con Alex» racconta Burres. La domenica prima di lasciare Niland Chris stava guardando una partita di football nel caravan di Burres, quando la donna si accorse che tifava per i Redskins di Washington. «Allora gli domandai se venisse da quella zona» racconta Burres «e lui mi rispose: "Sì, a dire il vero vengo proprio da lì". Fu l'unica cosa che ci disse del suo passato.» Il mercoledì successivo McCandless annunciò che era giunto il momento di riprendere il cammino. Disse che doveva andare all'ufficio postale di Salton City, un'ottantina di chilometri a ovest di Niland, dove aveva chie-
sto al direttore del McDonald's di Bullhead City di spedirgli l'ultima paga fermo posta. Accettò uno strappo di Burres, ma quando l'amica provò a dargli dei soldi per l'aiuto al mercatino «sembrò offendersi, e allora gli dissi: "Ascolta, per tirare avanti in questo mondo, devi avere del denaro", ma Alex non volle saperne. Alla fine riuscii a fargli accettare qualche coltello dell'esercito svizzero e altri da cintura; lo convinsi che gli sarebbero tornati utili in Alaska e che lungo la strada avrebbe potuto barattarli con qualcos'altro». Dopo una lunga discussione Burres lo convinse a prendere anche della biancheria intima e qualche vestito pesante che pensava gli sarebbero serviti in Alaska. «Alla fine li accettò soltanto per farmi tacere» ride la donna «ma il giorno dopo li ritrovai quasi tutti nel furgone. Quel furbo aveva aspettato che ci distraessimo per tirarli fuori dallo zaino e nasconderli sotto il sedile. Alex era in gamba, ma a volte mi faceva proprio uscire dai gangheri.» Sebbene Burres fosse preoccupata, era certa che sarebbe uscito vivo dall'esperienza. «Pensai che alla fin fine non gli sarebbe capitato nulla» riflette. «Era intelligente, era riuscito a raggiungere il Messico in canoa, a saltare sui treni merci, a scroccare un letto nelle missioni, tutto da solo. Ero sicura che anche in Alaska ce l'avrebbe fatta.» 6 ANZA-BORREGO Nessun uomo seguì mai il suo genio tanto da esserne sviato. Sebbene il risultato fosse debolezza fisica, tuttavia nessuno può dire che le conseguenze fossero da rimpiangersi, poiché queste erano una vita condotta secondo principi più alti. Se il giorno e la notte sono tali che voi li salutate con gioia, e la vita umana emana una fragranza come fiori ed erbe molto profumate, il vostro successo sarà più agile, colmo di stelle e immortale. Tutta la natura si congratula con voi e, momentaneamente, voi avete occasione di benedirvi. I guadagni e i valori più grandi sono ben lungi dall'essere apprezzati. Facilmente giungiamo a dubitare che essi esistano. Presto li dimentichiamo. Essi sono la realtà più alta. [...] Il vero raccolto della mia vita quotidiana è qualcosa di altrettanto intangibile e indescrivibile dei colori del mattino e della sera. È un po' di polvere di stelle afferrata - un segmento di arcobaleno che
abbiamo preso con una mano. HENRY DAVID THOREAU, Walden ovvero vita nei boschi (passaggio evidenziato in uno dei libri rinvenuti con la salma di Chris McCandless) Il 4 gennaio 1993 l'autore ricevette una lettera insolita, uno scritto tremolante e anacronistico che suggeriva l'appartenenza a una persona anziana. «A tutti gli interessati» esordiva, e di seguito: Gradirei ricevere copia della rivista che riporta la storia di quel giovanotto (Alex McCandless) deceduto in Alaska e vorrei scrivere al signore che ha condotto le indagini sul caso. Nel marzo 1992 accompagnai Alex da Salton City in California a Grand Junction, da dove il ragazzo avrebbe raggiunto il Sud Dakota in autostop. Mi promise che si sarebbe tenuto in contatto con me, ma l'ultima sua lettera mi arrivò la prima settimana dell'aprile del 1992. Durante il viaggio abbiamo ripreso delle immagini, io con la telecamera e lui con la macchina fotografica. Se avete una copia di quella rivista, per favore, fatemene sapere il costo. [...] Capisco che qualcosa dev'essere andato storto, ma se è così, vorrei sapere cosa, perché il giovanotto in questione portava sempre abbastanza riso nello zaino, vestiti pesanti e denaro a sufficienza. Distinti saluti, Ronald A. Franz Per favore, non mettete questi fatti a disposizione di chiunque fino a quando non avrò più informazioni sul decesso, perché non stiamo parlando di un vagabondo qualsiasi. Credetemi, per favore. Franz si riferiva all'edizione del gennaio 1993 di Outside che dedicava la copertina al servizio speciale sulla morte di Chris McCandless. La lettera era indirizzata alla sede di Chicago e, siccome il pezzo era mio, mi venne consegnata. Nel corso della sua egira McCandless lasciò un segno indelebile in varie persone, anche se con buona parte di esse trascorse soltanto una settimana o due al massimo. Nessuno, però, risentì maggiormente del breve incontro
col ragazzo di Ronald Franz, che nel gennaio 1992, quando le loro strade s'incrociarono, aveva già passato gli ottant'anni. Dopo il commiato da Jan Burres all'ufficio postale di Salton City, McCandless si era inoltrato nel deserto per accamparsi in una macchia di creosoto ai margini dell'Anza-Borrego Desert State Park. Poco lontano, verso est, si estende il Salton Sea, un placido oceano in miniatura - la superficie si trova a oltre sessanta metri sotto il livello del mare - sorto nel 1905 da un monumentale pasticcio ingegneristico. Dal fiume Colorado venne scavato un canale che doveva irrigare le fertili terre dell'Imperial Valley, ma poco dopo, in seguito una serie di forti inondazioni, il fiume ruppe gli argini, diede vita a un altro canale e prese a riversarsi senza posa in quello diretto nell'Imperial Valley. Per oltre due anni, il prodigioso flusso del Colorado fu involontariamente deviato nell'arido Salton Sink, ne inondò fattorie e insediamenti finché infine sopra mille chilometri quadrati di deserto inondato non sorse questo piccolo oceano circondato da terra. A soli ottanta chilometri dalle limousine, dagli esclusivi club tennistici e dal verde rigoglioso dei campi da golf di Palm Springs, la costa occidentale del Salton Sea era stata un tempo terreno di intensa speculazione edilizia. Si erano pianificati sontuosi centri abitati, si erano creati grandi lotti, ma di fatto ben pochi progetti avevano visto la luce. Oggi gran parte degli appezzamenti rimane vuota e gradualmente il deserto se la rimangia. Amaranthus graecizans rotolano veloci lungo gli ampi e desolati viali di Salton City, sbiadite insegne «Vendesi» si allineano sugli spioventi e dalle pareti di stabili ormai disabitati si stacca l'intonaco. Un cartello alla finestra della Salton Sea Realty and Development Company dichiara «Chiuso/Cerrado». Regna una quiete spettrale smossa soltanto dal sibilo del vento. Lontano dalle rive del lago, il territorio si alza dapprima dolcemente e poi s'impenna di colpo a formare le aride, fantasmagoriche badlands di Anza-Borrego, al di sotto delle quali si apre una bajada di terra solcata da ruscelli che scorrono fra alte pareti. Qui, in una piccola, arroventata altura punteggiata di opunzie cholla, falso indaco e steli di ocotillo da tre metri, Chris McCandless dormiva sulla sabbia protetto da una tela cerata appesa a un ramo di creosoto. Quando finivano le provviste, il ragazzo non doveva che percorrere - a piedi o in autostop - i sei chilometri che lo separavano dalla città, dove poteva far scorta di riso e acqua allo spaccio alimentare nonché ufficio postale della grande Salton City, una costruzione in stucco beige che fungeva da centro culturale. Un giovedì di metà gennaio, mentre si trovava sulla via
del ritorno verso la bajada, un anziano di nome Ron Franz si fermò a dargli un passaggio. «Dove sei accampato?» domandò Franz. «Fuori, dopo Oh-My-God Hot Springs» rispose McCandless. «È da sei anni che vivo da queste parti e non ho mai sentito parlare di un posto chiamato in quel modo. Fammi un po' vedere come ci si arriva.» Dopo qualche minuto lungo la Borrego-Salton Sea, il ragazzo disse di svoltare a sinistra, nel deserto, per imboccare un accidentato percorso da fuoristrada. Passati un paio di chilometri, raggiunsero un bizzarro accampamento dove circa duecento persone si erano adunate per svernare insieme nei propri veicoli. Sembrava una visione postapocalittica dell'America, una comunità oltre i margini della società. C'erano famiglie rifugiate in tende e roulotte, hippie attempati dentro furgoni fluorescenti, gemelli di Charles Manson fra la ruggine di vecchie Studebakers che non si muovevano da quando Eisenhower stava ancora alla Casa Bianca. Un consistente numero dei presenti girava completamente nudo e, al centro dell'accampamento, l'acqua proveniente da una fonte geotermica era stata convogliata in un paio di basse e fumanti vasche circondate da pietre e adombrate da palme: Oh-My-God Hot Springs. McCandless non stava esattamente alle terme, ma per conto proprio a un chilometro circa di distanza. Franz lo accompagnò fin lì, scambiò quattro chiacchiere con lui e fece ritorno in città, dove viveva solo, ad affitto zero, nel traballante condominio che amministrava. Devoto cristiano, l'uomo aveva passato gran parte dell'età adulta nell'esercito, di stanza a Shanghai e Okinawa. La notte di San Silvestro del 1957, mentre si trovava oltreoceano, la moglie e il suo unico figlio erano rimasti uccisi in un incidente stradale provocato da un ubriaco. Il giugno seguente il ragazzo avrebbe dovuto laurearsi in medicina. Distrutto dal dolore, Franz cominciò a cercare conforto nel whisky. Sei mesi dopo la disgrazia rimise insieme i cocci della propria esistenza e di colpo la fece finita con l'alcol, ma mai poté superare del tutto la perdita. Per combattere la solitudine, nel corso degli anni cominciò ad «adottare» in via non ufficiale bambini poveri di Okinawa. Arrivò a tenerne quattordici sotto la sua ala protettiva, pagando al maggiore gli studi all'università di medicina di Philadelphia e a un altro la stessa facoltà ma in Giappone. All'incontro con McCandless, Franz sentì il vecchio impulso paterno ridestarsi da un lungo torpore. Non riusciva a togliersi il giovane dalla testa.
Gli aveva detto di chiamarsi Alex, senza dargli nessun cognome, e di venire dalla Virginia occidentale. Era educato, ben vestito, amichevole. «Sembrava molto intelligente» dichiara Franz con un accento esotico a metà fra scozzese, olandese della Pennsylvania e parlata strascicata della Carolina. «Pensavo che fosse troppo perbene per vivere vicino a quelle sorgenti calde con tutti quei nudisti, ubriaconi e fumatori di droghe.» Quella domenica, dopo la messa, Franz decise di parlare con Alex «di come viveva. Qualcuno doveva pur convincerlo a farsi un'educazione, trovare un buon posto e costruirsi qualcosa nella vita». Tuttavia, quando fece ritorno all'accampamento e si lanciò nella predica di miglioramento, McCandless lo stroncò. «Senta, signor Franz» dichiarò «non deve preoccuparsi per me. Ho finito il college, non sono indigente e vivo in questo modo per scelta.» Dopo però, malgrado la brutalità iniziale, il giovane cercò di rincuorare l'anziano e finirono per imbarcarsi in una lunga conversazione. Prima del tramonto erano già andati a Palm Springs, avevano pasteggiato in un buon ristorante ed erano saliti in cima al San Jacinto Peak, ai piedi del quale McCandless dovette fermarsi per dissotterrare un poncho messicano e altri oggetti che aveva sepolto per sicurezza l'anno precedente. Nel corso delle settimane successive i due trascorsero molto tempo insieme. Il giovane andava regolarmente a Salton City a lavare la biancheria e a mangiare bistecche alla griglia nell'appartamento di Franz. Gli confidò di essere in attesa della primavera per poter partire per l'Alaska, dove si sarebbe lanciato nell'«avventura per eccellenza», e girò le carte in tavola cercando di mostrare all'ottuagenario i limiti di un'esistenza sedentaria come la sua, spronandolo a vendere ciò che possedeva e a lasciare l'appartamento per mettersi sulla strada. Franz non dava grande peso alle paternali dell'amico, al contrario gradiva molto stare in sua compagnia. Esperto pellettiere, l'uomo insegnò al ragazzo i segreti della propria arte e come primo oggetto il discepolo produsse una cintura su cui raffigurò magistralmente le sue peregrinazioni. Sull'estremità sinistra iscrisse il nome «Alex», di seguito le iniziali «C. J. M.» (che stanno per Christopher Johnson McCandless) circondano un teschio con due ossa incrociate. Lungo la striscia di cuoio seguono una strada asfaltata a due corsie, un segnale di divieto d'inversione, un temporale con inondazione che ingolfa un'auto, il pollice di un autostoppista, un'aquila, la Sierra Nevada, salmoni che saltano nell'oceano Pacifico, la Pacific Coast Highway dall'Oregon a Washington, le Montagne Rocciose, i campi di grano del Montana, un serpen-
te a sonagli del Sud Dakota, la casa di Westerberg a Carthage, il fiume Colorado, una tempesta nel golfo della California, una canoa in secco accanto a una tenda, Las Vegas, le iniziali «T. C. D.», la baia Morro, Astoria, e sull'estremità opposta, vicino alla fibbia, la lettera «N» (che presumibilmente sta per «Nord»). Eseguita con notevole abilità e fantasia, la cintura è sorprendente come qualsiasi altro manufatto lasciato da Chris McCandless. Franz sentì crescere un forte affetto per il giovane. «Sa Dio quanto era sveglio quel ragazzo» ricorda il vecchio con voce appena percettibile, abbassando lo sguardo su un mucchietto di sabbia ai suoi piedi. Poi s'interrompe. Curvando a fatica il busto, leva dello sporco immaginario dalla gamba dei calzoni. Le anziane giunture scricchiolano rumorosamente nell'imbarazzato silenzio. Passa più di un minuto prima che Franz riprenda a parlare. Guardando il cielo di sbieco, racconta altri frammenti di quel periodo. Capitava spesso che durante le sue visite, il volto di Chris si oscurasse dalla rabbia e che il ragazzo esplodesse in invettive contro i genitori, i politici o l'idiozia endemica dello stile di vita prevalente negli Stati Uniti. Nel timore di allontanarlo da sé, Franz lo lasciava sbraitare e diceva poco. Un giorno, all'inizio di febbraio, McCandless annunciò che si sarebbe spostato a San Diego per raggranellare qualche soldo a finanziamento del viaggio in Alaska. «Non c'è bisogno che tu vada a San Diego» aveva protestato Franz. «Ti darò io quello di cui hai bisogno.» «No, non ci siamo capiti. Ho detto che vado a San Diego e parto lunedì.» «Va bene, ho capito, allora ti ci accompagno io.» «Non essere ridicolo» lo aveva schernito McCandless. «Tanto bisogna che ci vada comunque» aveva mentito Franz «per prendere del pellame.» McCandless cedette. Smontò l'accampamento, lasciò gran parte degli averi nell'appartamento di Franz - preferiva non dover trascinare sacco a pelo e zaino per la città - e partì col vecchio amico verso la costa, oltre le montagne. I due si separarono sul lungomare di San Diego sotto una pioggia battente. «Fu molto duro per me» ammette Franz. «Mi rattristava doverlo lasciare.» Il 19 febbraio McCandless gli fece una telefonata a carico per augurargli un buon ottantunesimo compleanno. Si era ricordato della data perché sette giorni prima, il 12 febbraio, lui stesso ne aveva compiuti ventiquattro.
Prima di riagganciare gli confessò di avere qualche difficoltà a trovare lavoro. Il 28 febbraio spedì una cartolina a Jan Burres. «Ciao!» e continuava: Da una settimana vivo nelle strade di San Diego. Il primo giorno pioveva da maledetti. Da queste parti le missioni sono una palla e non faccio che beccarmi delle grandi prediche. Siccome sul versante lavoro non succede granché, domani proseguirò verso nord. Ho deciso di partire per l'Alaska non oltre il primo maggio, solo che devo farmi qualche soldo per l'attrezzatura. Potrei tornare nel Sud Dakota a lavorare da un amico, se ha ancora bisogno. Non so bene dove andrò, ma non appena arrivo a destinazione, prometto di scriverti. Spero che tutto vada bene. Riguardati, Alex. Il 5 marzo McCandless spedì un'altra cartolina a Burres e una a Franz. La missiva per Burres diceva: Saluti da Seattle! Sono diventato un vagabondo a tutti gli effetti! Eh sì, adesso viaggio sui treni. Che divertimento, vorrei aver cominciato prima a saltare sui vagoni, anche se qualche aspetto negativo esiste. Il primo è che t'insudici clamorosamente, il secondo è che hai a che fare con degli sbirri fuori di testa. Una sera, verso le dieci, stavo seduto su un merci a Los Angeles, quando uno sbirro con la pila mi ha scoperto. «Esci di là prima che ti ammazzi!» ha gridato. Sono uscito e l'ho visto tirare fuori la rivoltella. Si è messo a interrogarmi con l'arma puntata e alla fine mi ha ringhiato: «Se ti vedo ancora qui intorno, ti ammazzo! E adesso vattene!». Che matto! Mi sono fatto delle grasse risate quando cinque minuti dopo sono risalito sullo stesso treno e ci sono rimasto fino a Oakland. Mi farò sentire presto, Alex. La settimana dopo a casa di Franz squillò il telefono. «Era l'operatore» racconta «chiedeva se volevo accettare una chiamata a carico da qualcuno di nome Alex. Quando sentii la sua voce, fu come rivedere il sole dopo un mese di pioggia.» «Mi vieni a prendere?» gli domandò McCandless. «Sì, dov'è che stai a Seattle?»
«Ron» rise il ragazzo «non sono a Seattle, sono in California, poco lontano da te, a Coachella.» Non riuscendo a trovare lavoro nell'uggioso Nordovest, McCandless era saltato da un treno all'altro fino a tornare nel deserto. A Colton, in California, era stato pizzicato da un altro sbirro, che stavolta l'aveva sbattuto dentro. Dopo il rilascio aveva raggiunto in autostop Coachella, a sudest di Palm Springs, e da lì aveva chiamato Franz. Appena riagganciato, questi corse come un fulmine a prendere il ragazzo. «Andammo da Sizzler» ricorda il vecchio «dove lo rimpinzai di bistecche e aragosta. E dopo tornammo a Salton City.» McCandless disse che si sarebbe fermato soltanto un giorno, giusto il tempo di lavare la roba e preparare lo zaino. Aveva sentito da Wayne Westerberg che al silo di Carthage c'era un lavoro che l'aspettava e non vedeva l'ora di arrivarci. Era l'11 marzo, mercoledì. Franz si offrì di accompagnare il ragazzo a Grand Junction, nel Colorado, il punto più lontano che poteva raggiungere senza mancare a un appuntamento a Salton City il lunedì successivo. Con grande sorpresa e sollievo del vecchio, McCandless accettò l'offerta senza discutere. Prima di partire, Franz gli regalò un machete, un pesante parka, una canna da pesca pieghevole e altri strumenti per l'impresa in Alaska. All'alba di giovedì lasciarono Salton City sul camion di Franz e fecero sosta a Bullhead City, per chiudere il conto in banca del giovane e passare dal caravan di Charlie, dove McCandless aveva sotterrato qualche libro e altri oggetti, incluso un album fotografico del viaggio in canoa lungo il Colorado. Chris insistette per offrire a Franz un pranzo al Golden Nugget Casino a Laughlin, oltre il fiume. Riconoscendolo, una cameriera del Nugget esclamò: «Alex! Sei tornato!». Prima del viaggio Franz aveva acquistato una videocamera e di tanto in tanto si fermava a riprendere il panorama. Malgrado McCandless cercasse di scostarsi non appena l'obiettivo lo raggiungeva, in una breve immagine si scorge la sua figura impaziente in piedi sulla neve sopra il Bryce Canyon. «Bene, adesso andiamo» protesta dopo qualche istante. «Ce n'è ancora un sacco più avanti, Ron.» Con indosso i jeans e un maglione di lana, Chris ha l'aspetto abbronzato, forte e sano. Franz ricorda che il viaggio fu piacevole, per quanto affrettato. «A volte guidavamo per ore senza aprire bocca» racconta. «Anche quando dormiva, mi sentivo felice solo di saperlo lì vicino.» A un certo punto il vecchio osò avanzare una richiesta particolare. «Mia madre era figlia unica» spiega «mio padre pure, e io non ho fratelli. Ora che anche il mio ragazzo è mor-
to, io sono l'ultimo anello della catena. Quando me ne sarò andato, la mia famiglia sarà finita, sparita per sempre. Per cui chiesi ad Alex se potevo adottarlo, se voleva diventare mio nipote.» McCandless, a disagio, scansò il problema rispondendo che ne avrebbero parlato quando fosse tornato dall'Alaska. Il 14 marzo Franz lasciò McCandless sul bordo della Interstate 70 fuori Grand Junction e fece ritorno nel sud della California. Il ragazzo era finalmente sulla via del Nord, si sentiva eccitato ma anche sollevato, sollevato di aver ancora una volta sfuggito l'ingombrante minaccia dell'intimità umana e dell'amicizia con tutta la pesante zavorra che ne deriva. Era scappato dai claustrofobici confini familiari, era riuscito a tenere a distanza Jan Burres e Wayne Westerberg, uscendo dalle loro vite prima che ci si potesse aspettare qualcosa da lui, e adesso era scivolato fuori anche dall'esistenza di Ron Franz, senza dolore. Senza dolore, certo, dal suo punto di vista, non da quello dell'anziano. Ci si può domandare come mai quest'uomo si sia attaccato tanto e così velocemente a Chris, ma non si può mettere in dubbio che il suo affetto fosse genuino, intenso e incondizionato. Per molti anni aveva vissuto un'esistenza solitaria, senza famiglia e con pochi amici. Individuo disciplinato e autosufficiente, se la cavava decisamente bene se consideriamo l'età e la solitudine, ma quando McCandless era entrato in scena, aveva messo a repentaglio le difese meticolosamente erette nel corso degli anni. Franz adorava la compagnia del giovane, ma al tempo stesso quest'amicizia in germoglio lo costringeva a ricordare quanto in realtà fosse solo. Chris aveva smascherato il vuoto della sua esistenza nell'aiutarlo a riempirlo. Quando poi se ne andò, all'improvviso così come era arrivato, il vecchio ne rimase profondamente e inaspettatamente ferito. All'inizio d'aprile, alla sua casella postale, giunse una lettera dal Sud Dakota. «Ciao, Ron» diceva: È Alex che ti scrive. Da quasi due settimane lavoro a Carthage, nel Sud Dakota. Sono arrivato quassù tre giorni dopo la nostra separazione a Grand Junction. Spero tu sia tornato a Salton City senza grossi problemi. Mi piace il posto dove lavoro e le cose procedono bene. Il tempo non è tanto male, anzi, spesso il clima è sorprendentemente mite. Qualche contadino ha già cominciato ad andare nei campi. A quest'ora nel sud della California starà cominciando a fare piuttosto caldo. Mi domando se hai avuto modo
di vedere quanta gente si è presentata all'incontro del 20 marzo alle sorgenti calde. A quanto pare dev'esserci stato da divertirsi, anche se non penso che tu capisca molto bene queste persone. Non mi fermerò ancora a lungo qui. Il mio amico Wayne vorrebbe che lavorassi al silo per tutto il mese di maggio e che poi lo aiutassi con la mietitrebbiatrice durante l'estate, ma la mia anima ormai è concentrata interamente sull'odissea d'Alaska e spero di potermi mettere in marcia non oltre il 15 aprile. Ciò significa che fra non molto me ne andrò, per cui ti chiedo di spedire la mia posta all'indirizzo indicato sotto. Ron, apprezzo sinceramente l'aiuto che mi hai dato e i momenti che abbiamo trascorso insieme. Spero che la nostra separazione non ti abbia depresso troppo. Potrebbe passare molto tempo prima di rivederci ma, ammesso che io superi l'affare Alaska tutto d'un pezzo, riceverai di sicuro mie notizie. Vorrei ripeterti di nuovo il consiglio che già ti diedi in passato, ovvero che secondo me dovresti apportare un radicale cambiamento al tuo stile di vita, cominciando con coraggio a fare cose che mai avresti pensato di fare o che mai hai osato. C'è tanta gente infelice che tuttavia non prende l'iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l'avventura. La gioia di vivere deriva dall'incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell'avere un orizzonte in continuo cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso. Se vuoi avere di più dalla vita, Ron, devi liberarti della tua inclinazione alla sicurezza monotona e adottare uno stile più movimentato che al principio ti sembrerà folle, ma non appena ti ci sarai abituato, ne assaporerai il pieno significato e l'incredibile bellezza. Per cui Ron, in poche parole, vattene da Salton City e mettiti sulla strada. Ti garantisco che sarai felice di averlo fatto. Temo però che il mio consiglio non verrà ascoltato. Dici sempre che sono testardo, ma tu lo sei ancora più di me. Hai avuto una meravigliosa opportunità sulla via del ritorno di vedere uno dei paesaggi più belli della terra, il Grand Canyon, qualcosa che ogni americano dovrebbe vede-
re almeno una volta nella vita. Eppure, per qualche ragione a me incomprensibile, non desideravi altro che arrivare a casa al più presto, tornare nei luoghi che vedi giorno dopo giorno. Temo che in futuro continuerai a seguire questa inclinazione e non riuscirai di conseguenza a scoprire tutte le cose meravigliose che il Signore ha disposto intorno a noi. Non fissarti in un posto, muoviti, sii nomade, conquistati ogni giorno un nuovo orizzonte. Vivrai ancora a lungo, Ron, e sarebbe un peccato se non cogliessi l'opportunità di rivoluzionare la tua esistenza ed entrare in un regno di esperienze tutto nuovo. Ti sbagli se credi che la gioia derivi soltanto o principalmente dalle relazioni umane. Il Signore l'ha disposta intorno a noi e in tutto ciò che possiamo sperimentare. Non dobbiamo che trovare il coraggio di rivoltarci contro lo stile di vita abituale e buttarci in un'esistenza non convenzionale. La mia opinione è che non hai bisogno né di me né di nessun altro per portare questa gioia nella tua vita. È semplicemente lì che ti aspetta, che aspetta di essere afferrata, e tutto quello che devi fare è tendere la mano per prenderla. L'unica persona con cui combatti è te stesso e la tua testardaggine a non lanciarti in nuove esperienze. Spero davvero, Ron, che non appena ti sarà possibile, lascerai Salton City, attaccherai una roulotte al camion e comincerai a goderti il grande lavoro che il Signore ha compiuto nell'Ovest americano. Vedrai cose, conoscerai gente e ti insegneranno molto. Dovrai farlo in regime d'economia, niente motel, preparati il mangiare da solo e, come regola generale, spendi il meno possibile, perché così ti ritroverai ad apprezzare immensamente ogni cosa. Spero che la prossima volta che ti vedrò sarai un uomo con una sfilza di nuove esperienze e avventure alle spalle. Non esitare o indugiare in scuse. Prendi e vai. Sarai felice di averlo fatto. Riguardati Ron, Alex Mittente: Alex McCandless Madison, SD 57042 Inaspettatamente, l'ottuagenario prese a cuore l'audace consiglio del gio-
vane vagabondo. Piazzò mobili e proprietà varie in un deposito, comprò un Caravan, gli sistemò dentro un letto e dell'attrezzatura da campeggio, lasciò l'appartamento in cui abitava e si accampò nella bajada. Pensò di occupare lo stesso spazio dove era stato McCandless, appena dopo le sorgenti calde. Mise qualche sasso a delimitazione dell'area di parcheggio, trapiantò fichi d'india e falsi indachi per abbellire il panorama, e giorno dopo giorno si sedette nel deserto ad aspettare il ritorno dell'amico. Ronald Franz (questo non è il vero nome, su sua richiesta ho adottato uno pseudonimo) ha un aspetto decisamente vigoroso per un uomo alla nona decade di vita e che per di più ha superato due attacchi di cuore. Alto quasi un metro e ottanta, con braccia possenti e il petto poderoso, ha orecchie sproporzionate rispetto agli altri lineamenti, come anche le mani, nodose e carnose. Quando arrivo all'accampamento e mi presento, indossa un paio di vecchi jeans e una maglietta bianca immacolata, una cintura lavorata di sua creazione, calzini bianchi e mocassini neri. A tradire l'età sono soltanto le rughe fra le sopracciglia, e il naso orgoglioso, butterato, sul quale si schiude una purpurea filigrana di venuzze simile a una decorazione finemente tatuata. A poco più di un anno dalla scomparsa di McCandless, il vecchio osserva il mondo attraverso occhi azzurri e guardinghi. Per vincere la sua diffidenza, provo a mostrargli una serie di fotografie scattate durante il viaggio in Alaska l'estate precedente, quando avevo ripercorso il cammino di McCandless lungo lo Stampede Trail. Le prime immagini sono paesaggi, la foresta circostante, il tracciato nel verde, montagne lontane e il fiume Sushana. Franz le scruta in silenzio, annuendo occasionalmente quando gli spiego cosa ritraggano. Sembra grato di poterle vedere. Quando arriva alle fotografie dell'autobus in cui il ragazzo è morto, di colpo s'irrigidisce. Varie immagini mostrano l'interno del veicolo con gli oggetti appartenuti a Chris, e non appena Franz lo capisce, gli occhi gli si appannano, mi riconsegna tutto e si allontana per ricomporsi. Da parte mia, farfuglio qualche magra scusa. Non vive più all'accampamento che era stato di McCandless. Una violenta inondazione ha cancellato la strada improvvisata e l'uomo si è dovuto spostare di una trentina di chilometri, verso le badlands di Borrego, dove si è stabilito accanto a un solitario gruppo di pioppi neri americani. Anche Oh-My-God Hot Springs non esiste più, spianata dai bulldozer e coperta di cemento per ordine della commissione sanitaria dell'Imperial Valley. I
funzionari della contea sostengono di aver eliminato le sorgenti per timore che i bagnanti potessero contrarre gravi malattie dai microbi virulenti che ritenevano pullulare nelle vasche termali. «Di sicuro è possibile» afferma il commesso del negozio di Salton City «ma secondo molti quel ripulisti l'hanno fatto perché le sorgenti cominciavano ad attirare troppi hippie, troppi barboni e schifezze del genere. Un bel ripulisti, se proprio me lo chiede.» Dopo l'addio a McCandless Franz aveva trascorso più di otto mesi all'accampamento, a scrutare la strada nella speranza di scorgere la sagoma di un giovane con un grande zaino sulle spalle, ad aspettare con pazienza il ritorno di Alex. Nel corso dell'ultima settimana del 1992, e precisamente il giorno dopo Natale, nel tornare da Salton City, dove aveva controllato la posta, caricò due autostoppisti. «Uno era del Mississippi, credo, e l'altro era un nativo d'America» ricorda Franz. «Lungo la strada verso le sorgenti, cominciai a raccontare del mio amico Alex e dell'avventura che aveva progettato in Alaska.» All'improvviso il giovane indiano l'aveva interrotto: «Il suo nome era Alex McCandless?». «Sì, giusto, ma allora lo conosci...» «Detesto doverglielo dire, signore, ma il suo amico è morto. Congelato nella tundra. L'ho appena letto sulla rivista Outdoor.» Scioccato, Franz interrogò a lungo l'autostoppista. I particolari sembravano veri, la storia combaciava, qualcosa era andato tragicamente storto. McCandless non avrebbe mai fatto ritorno. «Quando Alex partì per l'Alaska» racconta Franz «pregai. Chiesi al Signore di avere un occhio di riguardo per quel ragazzo, gli dissi che era speciale. Eppure lo lasciò morire. Allora, il 26 dicembre, quando seppi cosa era successo, rinunciai a Dio. Mi ritirai dalla chiesa e diventai ateo. Decisi che non potevo più credere in un Dio che aveva permesso che una cosa tanto terribile accadesse a un ragazzo come Alex. «Dopo aver lasciato gli autostoppisti» prosegue Franz «feci inversione e tornai al negozio, per comperare una bottiglia di whisky. Quando tornai nel deserto, la bevvi tutta. Non ero più abituato all'alcol e mi sentii male. Speravo che mi uccidesse, ma non lo fece. Mi fece soltanto stare male, molto male.» 7 CARTHAGE
C'erano diversi libri. [...] Un altro era La carriera del pellegrino, che parlava di un uomo che aveva lasciato la famiglia, ma non ne spiegava il perché. Di tanto in tanto ne lessi parecchio. Le asserzioni erano interessanti ma difficili. MARK TWAIN, Le avventure di Huckleberry Finn È vero che molti individui creativi non riescono a stabilire rapporti affettivi maturi e che alcuni sono estremamente isolati. È anche vero che in alcuni casi un trauma, sotto forma di un lutto o di una precoce separazione, indirizza la persona potenzialmente creativa verso lo sviluppo di quegli aspetti della sua personalità che trovano compimento in una relativa solitudine. Ciò non significa tuttavia che la ricerca creativa solitaria sia di per sé patologica. [...] Facciamo per un attimo l'ipotesi che questi individui abbiano mostrato da bambini un comportamento di rifiuto, e accettiamo la tesi che tale reazione serva a proteggere il bambino dalla disorganizzazione del comportamento. Se trasferiamo questo concetto nella vita adulta, ci accorgiamo che il bambino che ha un atteggiamento di rifiuto può divenire in seguito una persona la cui prima necessità è quella di trovare all'esistenza un ordine e un significato che non dipendano completamente, e nemmeno principalmente, dai rapporti con gli altri. ANTHONY STORR, Solitudine. Il ritorno a se stessi La grande John Deere 8020 riposa silenziosa nell'obliqua luce serale, lontana da tutto in un campo di miglio del Sud Dakota mietuto solo per metà. Le scarpe da tennis infangate di Wayne Westerberg sporgono dalle fauci della mietitrebbiatrice, come se la macchina lo stesse ingoiando per intero, un enorme rettile metallico che digerisce la preda. «Volete passarmi quella cavolo di chiave?» chiede una voce rabbiosa e soffocata dalle interiora della macchina. «Oppure siete troppo presi ad andarvene in giro con quelle cacchio di mani in tasca per essere d'aiuto?» Si è rotta per la terza volta in altrettanti giorni e Westerberg cerca freneticamente di rimpiazzare una bronzina infilata chissà dove prima che cali la sera. Un'ora dopo riemerge, imbrattato d'olio e di paglia ma soddisfatto. «Mi dispiace per il tono brusco di prima» si scusa. «Abbiamo sul gobbo troppe
giornate da diciotto ore. Mi sa che sto diventando un po' burbero, con la stagione ormai agli sgoccioli e poche mani al lavoro. Contavamo sul ritorno di Alex.» Sono passati cinquanta giorni dal ritrovamento della salma di McCandless in Alaska. Sette mesi prima, in un gelido pomeriggio di marzo, il ragazzo si era presentato nell'ufficio del silo di Carthage per annunciare che era pronto a cominciare. «Eravamo là, a timbrare il cartellino della mattina» ricorda Westerberg «ed ecco che entra Alex con un vecchio zainone sulle spalle.» Raccontò di volersi fermare fino al 15 aprile, giusto il tempo di racimolare un gruzzoletto. Doveva comprarsi parecchia attrezzatura nuova, spiegò, perché sarebbe andato in Alaska. McCandless promise di tornare nel Sud Dakota in tempo per dare una mano col raccolto autunnale, ma intendeva arrivare a Fairbanks alla fine di aprile, in modo da passare il maggior tempo possibile nel Nord prima del ritorno. Durante quelle quattro settimane a Carthage, McCandless lavorò sodo, svolse mansioni noiose e antipatiche che tutti cercavano di evitare: levare il letame dai depositi, sterminare i parassiti, pitturare, falciare le erbacce. A un certo punto, per premiare il ragazzo, Westerberg cercò di insegnargli come azionare un escavatore. «Alex non si era occupato granché di macchinari» spiega Westerberg scuotendo il capo «ed era abbastanza buffo guardarlo che si sforzava di capire cosa cavolo doveva farci con tutte quelle leve. Certamente non era quello che chiameremmo un talento meccanico.» Né il ragazzo era dotato di enorme buon senso. Molte delle persone che lo conoscevano dicono, senza che glielo si domandi, che il ragazzo sembrava vedere gli alberi ma non la foresta. «Non è che Alex fosse un imbranato totale o cose del genere» precisa Westerberg «non fraintendetemi. Ma c'erano come dei vuoti nella sua mente. Per esempio, una volta tornai a casa, entrai in cucina e fui assalito da una puzza bestiale, intendo proprio un odoraccio. Aprii il microonde e mi accorsi che il fondo era pieno di grasso rancido. Alex l'aveva usato per cucinare il pollo e non gli era neanche passato per la testa che il grasso dovesse cadere da qualche parte. Non è che fosse troppo pigro per pulirlo, perché Alex teneva tutte le cose pulite e in ordine, solo che proprio non ci aveva fatto caso.» Quella primavera, poco dopo il ritorno di McCandless a Carthage, Westerberg gli presentò la sua fidanzata di sempre, pausa più, pausa meno, Gail Borah, una donnina dagli occhi tristi, sottile come un airone, con lineamenti delicati e lunghi capelli biondi. Trentacinquenne divorziata, madre
di due ragazzini, la donna fece subito amicizia con Chris. «All'inizio era un po' timido» ricorda la Borah. «Si comportava come se non gli riuscisse facile stare in mezzo alla gente. Immaginai che fosse perché aveva passato tanto tempo da solo. «Praticamente quasi ogni sera veniva a cena da me» prosegue. «Era una buona forchetta, non lasciava mai niente nel piatto, mai. E sapeva anche cucinare bene. Qualche volta andavo io a casa di Wayne e lui preparava per tutti, molto spesso cucinava il riso. Mi immaginavo che prima o poi se ne sarebbe stufato, e invece no, non accadde. Diceva che poteva sopravvivere un mese intero mangiando soltanto dodici chili di riso. «Alex parlava tanto quando stavamo insieme» ricorda la donna. «Argomenti seri, come se aprisse l'anima, insomma. Diceva che a me riusciva a raccontare cose che non diceva a nessun altro. Era evidente che qualcosa gli rodeva dentro. Che non andasse d'accordo con la famiglia era chiaro, ma non parlava mai di loro, a eccezione di Carine, la sorellina. Diceva che erano molto legati, che lei era bellissima e che quando camminava per la strada i ragazzi si giravano a guardarla.» Dal canto suo, Westerberg non s'immischiò mai nei problemi familiari del ragazzo. «Qualsiasi fosse il motivo della sua incazzatura, pensavo che dovesse essere un motivo buono. Ora che è morto però, non lo so più. Se Alex fosse qui adesso, avrei la tentazione di dirgli in faccia: "Ehi, ma che diavolo pensi? Tutto questo tempo senza parlare con la tua famiglia, trattandoli come se fossero spazzatura!". Uno dei ragazzi che lavora qua, cacchio, lui sì che non c'ha famiglia, però non lo senti mai sacramentare. Qualsiasi fosse il problema di Alex coi suoi, sono sicuro di aver visto di peggio. Conoscendolo, immagino che si sia bloccato su qualcosa che è successo col padre e che non sia più riuscito ad andare oltre.» L'ipotesi di Westerberg, come emerse in seguito, fu un'analisi decisamente azzeccata del rapporto fra Chris e Walt McCandless. Padre e figlio erano testardi e irritabili. Considerato inoltre il bisogno del primo di comandare e la stravagante natura indipendente del secondo, una contropposizione era inevitabile. Per tutta la durata degli studi, Chris si sottomise in misura sorprendente all'autorità di Walt, ma interiormente non smise mai di rodersi il fegato. A lungo rimuginò su quelle che percepiva come le lacune morali del padre, l'ipocrisia dello stile di vita dei genitori, la tirannia del loro amore condizionato, finché in conclusione non decise di ribellarsi e, quando lo fece, fu con mancanza di misura. Poco prima di sparire dalla circolazione, Chris si lamentò con Carine del
comportamento «così irrazionale, opprimente, irrispettoso e offensivo» dei suoi genitori «da aver superato ogni limite di sopportazione». E proseguiva: Visto che mai mi prenderanno sul serio, per qualche mese dopo la laurea gli lascerò credere che hanno ragione, gli lascerò credere che m'impegnerò a vedere le cose anche dal loro punto di vista e che il nostro rapporto si sta stabilizzando. Dopo però, quando sarà il momento, con un taglio netto e veloce li escluderò dalla mia esistenza. Una volta per tutte divorzierò da loro come miei genitori e mai più, finché avrò vita, parlerò con uno di quegli idioti. La farò finita con loro, una volta per tutte, e stavolta sarà per sempre. Il gelo che Westerberg percepiva fra Alex e la famiglia era in aperto contrasto con il calore che il ragazzo dimostrava a Carthage. Espansivo e piacevole, lasciò affascinata molta gente. Al ritorno nel Sud Dakota trovò parecchia posta ad aspettarlo, messaggi di persone che aveva incontrato lungo la strada, compresi quelli che Westerberg ricorda come «lettere di una ragazza che si era presa una bella cotta, doveva averla conosciuta in uno di quei Timbuctù, uno di quei campeggi, penso». McCandless però non fece mai parola di nessun legame amoroso né con Westerberg né con Borah. «Non ricordo che Alex mi abbia mai parlato di nessuna ragazza» racconta Westerberg «anche se un paio di volte mi ha detto che prima o poi aveva intenzione di sposarsi e di metter su famiglia. Si capiva che non prendeva le storie alla leggera, non era quel genere di ragazzo che va a cercarsi una ragazza solo per spassarsela.» Era evidente anche per Borah che McCandless non avesse bazzicato molti locali per scapoli. «Una sera andammo con amici in un bar a Madison» racconta la donna «e non fu per niente facile riuscire a farlo scendere in pista. Soltanto che una volta cominciato, basta, rimase come folgorato e non si mise più a sedere. Dopo la sua morte e tutto quello che è successo, Carine mi ha detto che per quanto ne sappia lei, sono stata una delle poche ragazze con cui suo fratello sia mai andato a ballare.» Alle superiori McCandless aveva instaurato un rapporto stretto con due o tre esponenti del sesso opposto e Carine ricorda che una volta si ubriacò e nel mezzo della notte cercò di portare una ragazza in camera sua (fecero un tale chiasso nel salire le scale che Billie si svegliò e spedì la giovane a
casa). Tuttavia, non esistono grandi prove che suggeriscano una sua attività sessuale durante l'adolescenza e ancora meno che testimonino una sua relazione con una donna dopo il diploma (e neppure con un uomo se è per questo). Pare dunque che McCandless fosse sì attratto dalle donne, ma che rimanesse quasi o del tutto casto, come un monaco. Castità e purezza morale erano qualità sulle quali il ragazzo rimuginava spesso e volentieri. In effetti, uno dei libri rinvenuti sull'autobus insieme alla salma fu una raccolta di storie che includeva La sonata a Kreutzer di Tolstoj, in cui un nobiluomo fattosi asceta denuncia le esigenze della carne. Diversi passaggi sull'argomento sono evidenziati con un asterisco e nelle pagine contrassegnate con orecchie a margine si accalcano criptiche annotazioni nella sua peculiare calligrafia, e nel capitolo «Leggi più alte» del Walden di Thoreau, di cui era presente una copia nell'elenco rinvenuto sull'autobus, il ragazzo aveva cerchiato «la castità è la fioritura dell'uomo; e ciò che si chiama Genio, Eroismo, Santità e simili, sono solo i vari frutti che vengono come conseguenza di essa». Noi americani siamo titillati dal sesso, ossessionati, terrorizzati. Quando una persona apparentemente sana, specialmente un giovane uomo in buona salute, decide di sottrarsi alle tentazioni della carne, rimaniamo sconvolti e lo guardiamo di sbieco: sorge il sospetto. Tuttavia, l'apparente innocenza sessuale di McCandless faceva da corollario a un genere di personalità che la nostra cultura sembra ammirare, per lo meno nei suoi esempi più famosi. L'ambivalenza del ragazzo nei confronti del sesso echeggiava quella di celebri personaggi che avevano abbracciato la natura con forte passione - fra gli esponenti di primo piano Thoreau (che mai perse la verginità) e il naturalista John Muir -, per non citare gli innumerevoli pellegrini, cercatori, disadattati e avventurieri di minor fama. Come molti altri individui sedotti dalla natura, McCandless sembrava guidato da una gamma di piaceri che soppiantavano il desiderio sessuale. La sua brama, in un certo senso, era troppo forte per accontentarsi del contatto umano. Forse il ragazzo si sentiva tentato dal femmineo, ma tale prospettiva non poteva che impallidire di fronte a quella di un rude convegno con la natura, con il cosmo intero. E fu per questo che Chris si diresse in Alaska. Il ragazzo assicurò sia a Westerberg sia a Borah che non appena il soggiorno nel Nord si fosse concluso, avrebbe fatto ritorno nel Sud Dakota, almeno per l'autunno. Dopodiché, chi lo sa. «Ebbi l'impressione che quella scappata in Alaska sarebbe stata l'ultima
grande avventura» dichiara Westerberg «e che dopo Alex volesse quasi sistemarsi. Disse che avrebbe scritto un libro sui suoi viaggi. Gli piaceva Carthage, ma con la sua educazione nessuno pensava che avrebbe passato il resto della vita in un silo del cavolo. Ma senza dubbio voleva tornarci per qualche tempo, per darci una mano col lavoro e chiarirsi le idee sul futuro.» Quella primavera però lo sguardo di McCandless era fermamente fisso sull'Alaska. Non appena poteva, cominciava a parlare del viaggio, girava per la città in cerca di esperti cacciatori ai quali chiedere consigli su come tendere agguati alle bestie selvatiche, su come pulire il bottino di caccia e conservarne la carne. Borah lo accompagnò al Kmart di Mitchell per comperare gli ultimi pezzi dell'attrezzatura. Alla metà di aprile Westerberg si ritrovò col lavoro fin sopra i capelli e poche braccia su cui contare, per cui chiese a McCandless di posticipare la partenza e di aiutarlo ancora una settimana o due. Il ragazzo non prese nemmeno in considerazione la richiesta. «Una volta che Alex decideva qualcosa, non c'era verso di fargli cambiare idea» protesta Westerberg. «Mi offrii addirittura di pagargli l'aereo fino a Fairbanks, così avrebbe potuto lavorare altri dieci giorni senza ritardare l'arrivo in Alaska, ma niente da fare, mi rispose: "No, no, voglio andarci in autostop. Volare sarebbe come imbrogliare, rovinerebbe tutto".» Due giorni prima della sua partenza Mary Westerberg, madre di Wayne, invitò il ragazzo a casa sua per cena. «A mamma non piace granché la gente che lavora per me» racconta Westerberg «e non era molto entusiasta nemmeno di incontrare Alex. Solo che l'avevo tormentata che doveva vederlo, doveva conoscerlo, così alla fine l'ha invitato a casa. Nel giro di due secondi andavano già d'amore e d'accordo e non hanno chiuso bocca per cinque ore.» «C'era qualcosa di affascinante in quel giovane» spiega la signora Westerberg, seduta al lucente tavolo in noce su cui quella sera aveva cenato McCandless. «Mi colpì perché sembrava molto più vecchio dei suoi ventiquattro anni. Qualsiasi cosa dicessi, voleva saperne di più - cosa volessi dire, perché la pensassi in un modo piuttosto che in un altro. A differenza di molti di noi, era quel genere di persona che si sforza di mettere in pratica quello in cui crede. «Passammo quattro ore a parlare di libri, e non c'è tanta gente a Carthage a cui piaccia farlo. Parlò e riparlò di Mark Twain e, santo cielo, quanto era divertente come ospite. Ricordo di aver desiderato che quella serata non
finisse mai e non vedevo l'ora di rivederlo quest'autunno. Non riesco a togliermelo dalla testa, continuo a rivedere la sua faccia, sa, sedeva proprio lì, sulla stessa sedia su cui siede lei adesso. Considerato che ho passato con Alex soltanto poche ore, mi sorprende constatare quanto mi abbia sconvolta la sua morte.» L'ultima sera a Carthage McCandless fece baldoria con la squadra di Westerberg. Al Cabaret scorsero fiumi di Jack Daniel's e con sorpresa degli amici, il ragazzo si sedette al piano, che mai aveva detto di saper suonare. Cominciò a produrre melodie country honky-tonk passando al ragtime e concludendo con pezzi di Tony Bennett. E non si trattò della patetica esibizione dell'ubriacone che riversa le proprie illusioni di talento su un pubblico obbligato. «Alex» ricorda Gail Borah «sapeva suonare sul serio, voglio dire, era bravissimo. Restammo tutti di sasso.» Il mattino del 15 aprile si trovarono tutti al silo per salutare McCandless. Lo zaino era pesante e negli stivali aveva all'incirca mille dollari. Lasciò il diario e l'album di foto a Westerberg, per sicurezza, e gli consegnò anche la cintura che aveva creato nel deserto. «Alex passava ore seduto al Cabaret a leggere quella cintura» racconta Westerberg «come se stesse traducendo dei geroglifici. Ogni disegno che aveva inciso nella pelle aveva una lunga storia alle spalle.» Quando McCandless abbracciò Borah, «mi accorsi che piangeva. Questo mi spaventò, perché in fondo non doveva stare via a lungo, e pensai che non si sarebbe messo a piangere se non avesse voluto esporsi a qualche brutto rischio e non avesse saputo che forse non avrebbe mai fatto ritorno. Fu allora che cominciai ad avere l'orrenda sensazione che non avrei mai più rivisto Alex.» Un grande trattore con semiarticolato uscì lentamente allo scoperto. Rod Wolf, uno dei dipendenti di Westerberg, doveva consegnare un carico di semi di girasole a Enderlin, nel Nord Dakota, e aveva accettato di accompagnare McCandless all'Interstate 94. «Quando lo lasciai, aveva quel cavolo di machete che gli spuntava da dietro la testa» ricorda Wolf. «Pensai, Cristo santo, nessuno lo farà salire con quella roba addosso. Gli strinsi la mano, gli augurai buona fortuna e gli ricordai di scriverci.» E McCandless lo fece. Infatti, la settimana dopo, Westerberg ricevette una sintetica cartolina dal Montana: 18 aprile. Stamattina sono arrivato a Whitefish con un merci.
Me la sto spassando. Oggi passerò il confine e virerò a nord. Saluti a tutti. Riguardati, Alex Poi, all'inizio di maggio, l'uomo ricevette un'altra cartolina, stavolta dall'Alaska, con la foto di un orso polare. Era datata 27 aprile 1992. «Saluti da Fairbanks!» e continuava: Queste saranno le mie ultime righe, Wayne. Sono arrivato due giorni fa ed è stato molto difficile trovare passaggi nello Yukon, ma alla fine ce l'ho fatta lo stesso. Per favore, restituisci al mittente tutta la posta che ricevi. Potrebbe passare molto tempo prima che io ritorni al Sud. Se quest'avventura avrà un esito fatale e non dovessi più ricevere mie notizie sappi che per me tu sei un grand'uomo. Ora entro nella natura. Alex Lo stesso giorno McCandless mandò una cartolina con un messaggio analogo a Jan Burres e Bob: Ciao ragazzi! Questa è l'ultima comunicazione che riceverete da me. Sto per addentrarmi nella natura selvaggia. Riguardatevi, è stato bello conoscervi. Alexander 8 ALASKA Potrebbe, dopotutto, essere la brutta abitudine dei talenti creativi quella di investire se stessi in estremi patologici, che consentono di raggiungere profonda conoscenza ma non vita lunga a chi non riesce a tradurre le proprie ferite psichiche in arte o pensiero significativi. THEODORE ROSZAK, In search of the miraculous
In America abbiamo la tradizione del «grande fiume a due cuori»: portare le proprie ferite nella natura per una cura, una conversione, un riposo o quel che sia. E come nel caso di Hemingway, se le ferite non sono troppo gravi, funziona. Ma qui non siamo nel Michigan (o per quanto, neppure nelle grandi foreste del Mississippi di Faulkner). Qui siamo in Alaska. EDWARD HOAGLAND, Up the black to Chalkyitsik Quando fu rinvenuta la salma di McCandless e le sconcertanti circostanze del suo decesso furono riportate dai media, molta gente concluse che il ragazzo doveva soffrire di qualche disturbo mentale. L'articolo su Outside generò un mare di lettere, e non poche esprimevano orrore nei confronti del giovane e anche nei miei, autore del pezzo, per aver glorificato quella che alcuni consideravano una morte sciocca e insulsa. Gran parte della posta negativa arrivava proprio dall'Alaska. «Per quanto mi riguarda, Alex è uno svitato» scrisse un abitante di Healy, il piccolo villaggio all'imbocco dello Stampede Trail. «L'autore descrive un uomo che ha buttato via una piccola fortuna, abbandonato una famiglia amorosa, mollato auto, orologio, mappa e bruciato gli ultimi soldi prima di mettersi a girovagare per la "natura selvaggia" a ovest di Healy.» «Personalmente non vedo nulla di positivo nello stile di vita o nella dottrina di McCandless» rimproverò un altro corrispondente. «Avventurarsi nella natura di proposito impreparati e sopravvivere a un'impresa mortale, non ti rende un essere umano migliore, ma soltanto molto fortunato.» Un lettore dell'articolo di Outside si domandava: «Ma perché una persona che intende "vivere della natura per qualche mese" dovrebbe dimenticare la regola numero uno dei boy-scout, cioè essere preparati? Perché un figlio dovrebbe causare un dolore così grande e irreparabile ai propri genitori e alla propria famiglia?». «Krakauer è un matto se non pensa che Chris "Alexander Supertramp" McCandless sia un matto» pensava un lettore del Polo Nord, Alaska. «McCandless si era già sporto sul baratro, ma gli è capitato di precipitare in Alaska.» Le critiche più aspre giunsero in una densa lettera di più pagine da Ambler, un minuscolo villaggio Inupiat lungo il fiume Kobuk, a nord del circolo polare artico. La inviava uno scrittore e insegnante bianco originario di Washington D.C. di nome Nick Jans. Precisando che era l'una di notte e che sul tavolo una bottiglia di Seagram era già a buon punto, Jans comin-
ciava così: Nel corso degli ultimi quindici anni mi sono imbattuto in varie persone del genere di McCandless. Stessa storia: giovani idealisti ed energici che sopravvalutano le proprie capacità, sottovalutano la natura e finiscono nei pasticci. McCandless è tutt'altro che unico, in giro per il Paese ce ne sono un bel po' di ragazzi come lui, anzi direi che sono talmente simili da costituire quasi un cliché collettivo. L'unica differenza è che McCandless ci ha rimesso la pelle, con la sua storia di scemenza strombazzata dai media. [...] (Jack London ci azzeccò in Farsi un fuoco. McCandless alla fine non è altro che la versione del Ventesimo secolo di un pallido protagonista burlesco alla London, che gela perché non dà ascolto ai consigli e commette grave peccato di superbia.) [...] A ucciderlo fu la sua ignoranza, che avrebbe potuto essere rimediata con un quadrante della United States Geological Survey o con un manuale dei boy-scout. E mentre mi dispiace per i genitori, nei suoi confronti non provo alcuna simpatia. Un'ignoranza tanto determinata [...] equivale a sprezzo per la natura, e paradossalmente produce lo stesso genere di arroganza dimostrato nella catastrofe dell'Exxon Valdez, altro caso di gente presuntuosa e mal preparata che se ne va in giro a combinare pasticci soltanto perché manca della dovuta umiltà. È tutta una questione di misura. L'affettato ascetismo di McCandless e la posizione pseudoletteraria non fanno che accrescere anziché attenuare l'errore. [...] Cartoline, appunti, diari [...] sembrano l'opera di uno studentello vagamente istrionico e sopra la media. O mi sfugge qualcosa? Secondo il senso comune prevalente in Alaska McCandless non è che l'ennesimo sognatore acerbo avventuratosi nella natura per cercare una risposta ai propri problemi e finito con un pugno di mosche e una morte solitaria. Nel corso degli anni decine di personaggi ai margini della società si sono inoltrati nelle desolate vastità di questo Stato per non fare mai più ritorno. Alcuni di loro sono entrati nella memoria collettiva. All'inizio degli anni Settanta, ci fu l'idealista controculturale che passò nel villaggio di Tanana annunciando che intendeva trascorrere il resto della vita «a contatto con la natura». A metà inverno, un biologo trovò le sue
proprietà - due fucili, attrezzatura da campeggio, un diario riempito di deliri incoerenti su verità, bellezza e astruse teorie ecologiche - in una capanna piena di neve nei pressi di Tofty. Del giovane uomo non si trovò mai traccia. Pochi anni dopo, fu la volta del veterano del Vietnam, che costruì una capanna lungo il fiume Black, a est di Chalkyitsik, per «scappare via dalla gente». Già a febbraio aveva esaurito le scorte di viveri e morì di fame, apparentemente senza fare neanche un tentativo di salvarsi, malgrado esistesse a soli cinque chilometri un'altra capanna piena di rifornimenti di carne. Scrivendo su questa morte Edward Hoagland osservò che l'Alaska «non è il miglior posto del mondo per esperimenti eremitici o rappresentazioni teatrali del genere pace-amore». Senza dimenticare quel genio strampalato che ebbi occasione d'incontrare nel 1981 sulla costa del Prince William Sound. Mi ero accampato nei boschi vicino a Cordova, in Alaska, con la speranza di trovare lavoro come marinaio di coperta su qualche peschereccio, e aspettavo che il ministero di Caccia e Pesca annunciasse l'apertura della stagione commerciale del salmone. Un pomeriggio, mentre camminavo sotto la pioggia verso la città, incrociai uno sconosciuto sulla quarantina agitato e trasandato. Aveva un cespuglio di barba nera e i capelli lunghi fino alle spalle, legati con un sudicio laccio di nylon che glieli teneva discosti dal volto. Camminava spedito verso di me, curvo sotto il peso di un tronco di un paio di metri che portava in equilibrio su una spalla. Quando fu vicino, lo salutai e lui in risposta mi borbottò qualcosa. Sotto la pioggerella sottile facemmo quattro chiacchiere, ma evitai di domandargli perché portasse un tronco marcio nella foresta, dove sembravano essercene in abbondanza. Scambiata qualche sincera banalità, proseguimmo ognuno per la propria strada. Dalla breve conversazione dedussi di aver appena incontrato il celebre eccentrico che la gente del luogo chiamava il Sindaco di Hippie Cove, con riferimento a una baia a nord della città che faceva da calamita per i capelloni di passaggio e vicino alla quale il Sindaco aveva vissuto per qualche anno. Gran parte dei residenti di Hippie Cove erano, come me, occupanti abusivi della bella stagione, che venivano a Cordova nella speranza di trovare un buon posto in campo ittico o, come ripiego, nei conservifici di salmone. Il Sindaco invece era diverso. Il suo vero nome era Gene Rosellini. Era il figliastro maggiore di Victor Rosellini, un facoltoso ristoratore di Seattle, e cugino di Albert Rosellini, il
popolarissimo governatore dello Stato di Washington dal 1957 al 1965. Da giovane Gene era stato un buon atleta e un ottimo studente, leggeva ossessivamente, praticava yoga, diventò esperto di arti marziali e mantenne una perfetta media del 4.0 sia alle superiori che al college. Dapprima alla University of Washington e poi alla Seattle University si immerse nell'antropologia, nella storia, nella filosofia e nella linguistica accumulando crediti di centinaia di ore senza mai laurearsi. Non ne vedeva il motivo: la ricerca della conoscenza, sosteneva, era un obiettivo degno di per sé, e non necessitava di alcuna convalida esterna. Poco a poco, Rosellini lasciò l'accademia, partì da Seattle e risalì la costa attraverso la Columbia Britannica e la lingua di terra dell'Alaska. Nel 1977 giunse a Cordova. Lì, nella foresta ai margini della città, decise di dedicare la propria vita a un ambizioso esperimento antropologico. «Volevo capire se era possibile essere indipendenti dalla moderna tecnologia» riferì dieci anni dopo l'arrivo a una reporter dell'Anchorage Daily News, Debra McKinney. Si domandava se gli uomini potessero ancora vivere come gli antenati all'epoca dei mammut e delle tigri dai denti a sciabola o se invece la nostra specie si fosse allontanata troppo dalle radici e non fosse più in grado di sopravvivere senza polvere da sparo, acciaio e altri artefatti della civiltà. Con l'ossessione tipica di questo genere di genio meticoloso e caparbio, Rosellini eliminò dalla propria vita tutti gli strumenti che non fossero quelli primitivi creati da materiali naturali con le sue stesse mani. «Si convinse che gli uomini fossero regrediti in esseri progressivamente inferiori» spiega la McKinney «e il suo obiettivo era quello di tornare a uno stato naturale. Non faceva che sperimentare età diverse, quella romana, del ferro, del bronzo e infine il suo stile di vita aveva elementi del neolitico.» Si nutriva di radici, bacche, alghe e cacciava selvaggina con lance e trappole. Vestito di stracci, sopportava rigidi inverni e sembrava quasi che le privazioni gli procurassero piacere. La sua dimora sopra Hippie Cove non era che una casupola senza finestre costruita senza sega né ascia. «Impiegava giornate intere» racconta la McKinney «a tagliare un tronco con una pietra affilata.» Come se non fosse abbastanza duro vivere secondo le regole che si era imposto, Rosellini si sottoponeva a un severo esercizio fisico non appena gli avanzava del tempo. Riempiva le giornate con la ginnastica callistenica, il sollevamento pesi e la corsa, spesso con un carico di pietre sulle spalle.
Nel corso di un'estate raccontò di aver coperto una media di trenta chilometri al giorno. L'esperimento durò oltre dieci anni, ma alla fine Rosellini sentì che la domanda che lo aveva ispirato, aveva ricevuto risposta. In una lettera a un amico scrisse: Ho cominciato la vita adulta con l'ipotesi che sarebbe stato possibile trasformarsi in un uomo dell'età della pietra e per oltre trent'anni mi sono programmato e condizionato a questo fine. Negli ultimi dieci anni direi di aver effettivamente sperimentato la realtà fisica, mentale ed emotiva dell'età della pietra, ma alla fine ho dovuto guardare in faccia la realtà. Ho imparato che non è possibile per gli esseri umani così come noi li conosciamo vivere nella natura e della natura. Rosellini sembrava aver accettato con serenità la sconfitta della sua ipotesi. A quarantanove anni annunciò tranquillamente di aver «riveduto» i propri obiettivi e di voler «girare per il mondo con lo zaino in spalla, dai trenta ai quaranta chilometri al giorno, sette giorni la settimana, 365 giorni l'anno». Di fatto, però, quel viaggio non ebbe mai inizio, perché nel novembre 1991 l'uomo fu trovato riverso sul pavimento della sua baracca con un coltello piantato nel cuore. Il coroner determinò che la ferita fatale era stata autoinflitta, ma non fu trovata nessuna lettera di spiegazione. Rosellini non lasciò nessun indizio sulle ragioni che l'avevano spinto a togliersi la vita in quel momento e in quel modo, e molto probabilmente mai nessuno le scoprirà. La morte dell'uomo e la storia della sua stravagante esistenza occuparono la prima pagina dell'Anchorage Daily News, mentre le fatiche di John Mallon Waterman passarono più inosservate. Nato nel 1952, Waterman crebbe negli stessi sobborghi di Washington che avrebbero forgiato Chris McCandless. Suo padre era un musicista e scrittore freelance che, fra altri lavori di modesta fama, preparò discorsi per presidenti, ex presidenti e altri eminenti personaggi di Washington. Caso vuole che l'uomo fosse anche un esperto alpinista che non perse tempo e insegnò a scalare ai suoi tre ragazzi ancora in tenera età. John, il secondo figlio, lo seguì in montagna per la prima volta a tredici anni.
Il ragazzo era un portento. Correva ad arrampicarsi non appena ne avesse l'opportunità ed era un fanatico dell'esercizio fisico. Non solo faceva quattrocento flessioni al giorno, ma andava a scuola a piedi percorrendo di buon passo quattro chilometri di distanza e nel pomeriggio, quando arrivava a casa, toccava la porta d'ingresso e tornava indietro, per coprire il cammino ancora due volte. Nel 1969, a sedici anni, John scalò il monte McKinley (che chiamava però Denali, preferendo il nome athabasca come gran parte degli abitanti dell'Alaska) e diventò la terza persona più giovane a raggiungere la vetta più alta del continente. Nel corso degli anni compì ascensioni ancora più impressionanti in Alaska, Canada ed Europa e nel 1973, quando si trasferì a Fairbanks per frequentare la University of Alaska, si era ormai guadagnato la fama di giovane promessa dell'alpinismo nordamericano. Waterman era un ragazzo minuto - arrivava appena al metro e settantacinque - con la faccia da folletto e il fisico muscoloso e instancabile del ginnasta. I conoscenti lo ricordano come un bambinone imbranato in società, dal senso umoristico tendenzialmente oltraggioso e dalla personalità eccentrica, quasi maniaco-depressiva. «Quando vidi John per la prima volta» racconta James Brady, compagno di studi e di scalate «camminava impettito in mezzo al campus con addosso una mantella nera e un paio di occhiali alla Elton John, con una stella fra le lenti. Aveva una chitarra da due soldi tenuta insieme dal nastro adesivo e si metteva a far serenate a chiunque lo stesse ad ascoltare, con lunghi pezzi improvvisati che parlavano delle sue avventure. Fairbanks ha sempre attirato un sacco di gente fuori dalla norma, ma quel ragazzo era strambo anche per i nostri parametri. Sì, John non era troppo giusto e molta gente non sapeva come trattarlo.» Non è difficile individuare ragioni plausibili dell'instabilità di Waterman. I genitori, Guy ed Emily Waterman avevano divorziato quando era adolescente, la madre era stata colpita da una grave malattia mentale, il fratello maggiore, Bill, a cui era molto legato, aveva perso una gamba da ragazzino, cercando di saltare su un treno merci, e nel 1973 aveva spedito un'enigmatica lettera in cui parlava vagamente di un viaggio prolungato: scomparve senza lasciare traccia. Tutt'oggi nessuno sa ancora cosa ne sia stato. Non solo, ma dopo che John ebbe imparato a scalare, otto fra amici e compagni di roccia rimasero uccisi in incidenti o si tolsero la vita. Non è azzardato ritenere che una simile ondata di sventure abbia provocato un notevole scossone nella giovane psiche del ragazzo.
Nel marzo 1978 Waterman s'imbarcò nella sua spedizione più sorprendente, l'ascensione solitaria dello sperone sudest del monte Hunter, un percorso mai scalato, che in precedenza aveva sconfitto tre squadre di esperti alpinisti. Parlando dell'impresa sulla rivista Climbing, il giornalista Glenn Randall disse che il ragazzo definiva suoi compagni di scalata «il vento, la neve e la morte»: Cornici vaporose come meringhe sporgevano sopra chilometri di vuote profondità. Ghiaccio verticale, friabile come un secchio di cubetti mezzi sciolti e poi ricongelati, verso creste tanto ripide e affilate da costringerlo a proseguire a cavalcioni. A tratti dolore e solitudine prendevano il sopravvento e il ragazzo non poteva che scoppiare in lacrime. Dopo ottantun giorni di estenuante e pericolosa arrampicata, Waterman raggiunse la vetta del monte Hunter - a quattromila e quattrocento metri di altitudine - poco a sud del Denali, nella Catena d'Alaska. A quel punto ci volevano ancora nove settimane per percorrere la via di discesa meno difficoltosa, il che significa che in totale le giornate trascorse da solo sulla montagna furono centoquarantacinque. Una volta tornato alla civiltà, senza un soldo in tasca, si fece prestare venti dollari da Cliff Hudson, il pilota che l'aveva prelevato in montagna, e rientrò a Fairbanks, dove l'unico lavoro che poté trovare fu quello di lavapiatti. In ogni modo, la piccola comunità di alpinisti del luogo lo accolse come un eroe. Waterman organizzò una proiezione pubblica delle diapositive scattate durante l'ascensione, che Brady definisce «indimenticabile. Fu una performance incredibile, senza la minima inibizione. Tirò fuori tutti i pensieri, tutte le sensazioni, la paura della sconfitta, la paura della morte. Era come essere là con lui». Tuttavia, nei mesi che seguirono l'impresa epica, Waterman comprese che il successo, anziché mettere a riposo i suoi demoni, non aveva fatto altro che agitarli ulteriormente. «John era molto critico con se stesso e si autoanalizzava di continuo» ricorda Brady. «È sempre stato un po' troppo pignolo. Non usciva mai senza i fogli per gli appunti e scriveva, scriveva, creando un registro completo di tutto quello che faceva nel corso della giornata. Mi ricordo che una volta lo incontrai a Fairbanks. Mentre mi avvicinavo, tirò fuori i fogli, annotò l'ora in cui mi aveva visto e scrisse della nostra conversazione, commentando che non fu molto interessante. Gli appunti sul nostro incontro venivano
dopo tre o quattro pagine di note registrate quel giorno. Immagino che da qualche parte avesse pigne di appunti come quelli, che di sicuro non avevano senso per nessun altro.» Poco tempo dopo Waterman si candidò alle elezioni scolastiche con un programma che promuoveva il sesso libero fra studenti e la legalizzazione delle droghe allucinogene. Con sorpresa soltanto sua, non venne eletto. Subito dopo lanciò un'altra campagna politica, stavolta per la presidenza degli Stati Uniti. Corse per il partito «Nutri l'Affamato», la cui priorità era essenzialmente che nessuno sul pianeta morisse di fame. Per pubblicizzare la campagna, annunciò il progetto di compiere un'ascesa solitaria della facciata meridionale del Denali, il lato più ripido della montagna, in inverno e con una scorta minima di provviste. L'obiettivo era quello di sottolineare lo spreco e l'immoralità della dieta media statunitense. L'allenamento in preparazione alla scalata previde anche l'immersione in vasche piene di ghiaccio. Waterman volò sul ghiacciaio Kahiltna nel dicembre 1979, ma quattordici giorni più tardi dovette interrompere l'impresa. «Portami a casa» pare che abbia detto al pilota «non voglio morire.» Due mesi dopo si preparò per un secondo tentativo, ma a Talkeetna, un villaggio a sud del Denali che funge da punto di partenza per gran parte delle spedizioni sulla Catena d'Alaska, la capanna in cui pernottava il ragazzo prese fuoco e finì in cenere, distruggendo non solo l'attrezzatura ma anche i voluminosi cumuli di appunti, poesie e diari personali che Waterman considerava l'opera della sua vita. La perdita lo sconvolse e il giorno seguente all'incendio si presentò all'Anchorage Psychiatric Institute. Sette giorni dopo se ne sarebbe andato, convinto che esistesse un complotto per rinchiuderlo vita natural durante. Fu così che nell'inverno del 1981 intraprese l'ennesimo tentativo di ascensione del Denali. Come se scalare una vetta del genere d'inverno non fosse già abbastanza impegnativo, stavolta Waterman decise di complicare l'impresa cominciando l'arrampicata dal livello del mare. Quindi, solo per raggiungere le pendici della montagna, bisognava percorrere quasi trecento difficili e tortuosi chilometri dalla costa dello Stretto di Cook. Cominciò ad arrancare verso nord nel mese di febbraio, ma l'entusiasmo si spense già sulle prime propaggini del ghiacciaio Ruth, quando mancavano ancora cinquanta chilometri al traguardo. Rinunciò ancora una volta e si ritirò a Talkeetna. A marzo, fece appello a tutta la sua fermezza e riprese il sentiero da solo.
Prima di lasciare la città, disse al pilota Cliff Hudson, al quale era ormai legato da amicizia: «Non ci vedremo più». Fu un marzo eccezionalmente freddo in Alaska. Verso la fine del mese, Mugs Stump incrociò il ragazzo sulla parte superiore del ghiacciaio Ruth. Stump, un alpinista di fama mondiale morto sul Denali nel 1992, aveva appena compiuto un nuovo, difficile percorso su una vetta nelle vicinanze, il Mooses Tooth. Poco dopo l'incontro casuale con Waterman, Stump mi fece visita a Seattle e confessò che «John non sembrava esserci proprio del tutto. Diceva stronzate e aveva l'aria sballata. In teoria stava facendo la sua grande ascesa invernale del Denali, ma come attrezzatura non aveva quasi niente. Addosso portava una scadente tuta intera da motoslitta, non aveva sacco a pelo e come viveri gli restavano un po' di farina, dello zucchero e una bella lattina di Crisco». Glenn Randall scrive nel suo libro Breaking point. Per varie settimane Waterman indugiò nell'area della Sheldon Mountain House, una piccola capanna arroccata a lato del ghiacciaio Ruth, nel cuore della catena. Kate Bull, un'amica del ragazzo che all'epoca scalava nella stessa zona, raccontò di averlo trovato più debilitato e meno prudente del solito. Usava la radio presa in prestito da Cliff [Hudson] per chiamarlo e farsi portare altri viveri, ma a un certo punto la restituì. «Non ne avrò più bisogno» spiegò. La radio rappresentava l'unico strumento per chiedere aiuto. Le tracce di Waterman si persero in data 1 aprile al bivio nordoccidentale del ghiacciaio Ruth in direzione dello sperone orientale del Denali. Le orme andavano dritte verso un labirinto di crepacci giganti, a testimonianza del fatto che il ragazzo non compiva alcuno sforzo per aggirare evidenti pericoli. Non fu mai più rivisto. Si presume abbia incontrato la morte camminando su un sottile ponte di neve che lo avrebbe fatto precipitare in una profonda fessura. Dopo la scomparsa il National Park Service dedicò una settimana alle ricerche osservando dall'alto il percorso progettato, ma non venne a capo di nulla. Tempo dopo alcuni alpinisti trovarono un appunto sopra una scatola dell'attrezzatura di Waterman dentro la Sheldon Mountain House, che diceva: «13 marzo 1981. Mio ultimo bacio: ore 13,42». Forse era inevitabile che venissero tracciati paralleli fra John Waterman
e Chris McCandless, e lo stesso vale per i paragoni di quest'ultimo con Carl McCunn, un texano distratto e di buon carattere che si trasferì a Fairbanks durante il boom petrolifero degli anni Settanta e trovò un impiego ben remunerato nel progetto di costruzione dell'oleodotto Trans-Alaska. All'inizio del marzo 1981, mentre Waterman compiva il suo ultimo viaggio nella Catena d'Alaska, McCunn pagò un pilota per farsi lasciare nei pressi di un remoto lago vicino al fiume Coleen, circa centoventi chilometri a nordest di Fort Yukon, lungo il margine meridionale della Catena di Brooks. Fotografo amatoriale di trentacinque anni, McCunn riferì agli amici che lo scopo principale del viaggio era quello di immortalare la fauna del luogo. Partì con cinquecento rullini, scorte per sei quintali, un fucile da caccia e altri calibro .22 e .30-.30. L'intenzione era di fermarsi l'intero mese di agosto, ma l'uomo trascurò di prendere accordi con il pilota riguardo al ritorno e questo gli costò la vita. L'incredibile svista non sorprese affatto Mark Stoppel, un giovane di Fairbanks che aveva conosciuto bene McCunn nei nove mesi di lavoro all'oleodotto, prima che il texano partisse per la Catena di Brooks. «Carl era un tipo amichevole, alla buona, riusciva molto simpatico» ricorda Stoppel. «Era un ragazzo sveglio, ma aveva qualcosa del sognatore, un'indole poco a contatto con la realtà. Era brillante e gli piaceva divertirsi. Sapeva essere estremamente responsabile, ma aveva la tendenza a prendere il volo, ad agire impulsivamente, ad abbandonarsi a bravate e stupidaggini. No, non mi sorprende proprio che sia partito senza mettersi d'accordo per farsi andare a prendere. Ma teniamo presente che non è facile stupirmi. Ho avuto diversi amici che sono affogati, morti ammazzati o rimasti uccisi in incidenti poco chiari. In Alaska finisci per abituarti alle cose strane che succedono.» Sul finire di agosto, quando nella Catena di Brooks le giornate si accorciarono e l'aria si fece pungente, McCunn cominciò a preoccuparsi nel constatare che nessuno veniva a prenderlo. «Probabilmente avrei dovuto essere più previdente nell'organizzare la partenza» confessò nel diario che in buona parte fu pubblicato postumo dal Fairbanks Daily NewsMiner, in un racconto in cinque puntate di Kris Capps. «Presto lo scoprirò.» Settimana dopo settimana avvertì il rapido avanzare dell'inverno. Quando le scorte di viveri cominciarono a scarseggiare, McCunn si pentì amaramente di aver tenuto soltanto una decina di cartucce per il fucile. «Conti-
nuo a pensare alle cartucce che ho buttato via circa due mesi fa» scrisse. «Ne avevo cinque scatole e quando le vedevo lì, mi sentivo un cretino per averne portate tante, una specie di guerrafondaio. [...] Davvero furbo. Avrei dovuto sapere che era meglio tenerle per evitare di morire di fame.» Poi, in una frizzante mattinata di settembre, la salvezza sembrò essere a portata di mano. McCunn era intento a cacciare anatre con le poche munizioni rimastegli, quando la quiete fu interrotta dal ronzio di un aeroplano che apparve sopra l'accampamento. Il pilota, scorgendo la presenza di qualcuno, sorvolò la zona un paio di volte a bassa quota per dare un'occhiata da vicino, e McCunn si mise a sventolare energicamente l'involucro arancio fluorescente del sacco a pelo. Il velivolo non poteva atterrare perché aveva ruote anziché galleggianti, ma McCunn era certo di essere stato avvistato e non aveva dubbi che qualcuno presto sarebbe venuto a prenderlo. Ne era sicuro al punto da scrivere sul diario: «Ho smesso di agitarmi subito dopo il primo passaggio e mi sono messo a raccogliere la roba per essere pronto per andarmene». Eppure, quel giorno non arrivò nessun aereo, e neanche quello dopo e quello dopo ancora. Alla fine McCunn andò a controllare sulla licenza di caccia e ne comprese il motivo. Stampati sulla carta, trovò i disegni dei segnali d'emergenza per comunicare con un velivolo da terra. «Ricordo di aver alzato la mano destra, sopra la spalla, e di aver agitato il pugno al secondo passaggio» annotò McCunn. «Era una specie di saluto, come quando la tua squadra segna.» Ma sfortunatamente apprese che alzare un solo braccio universalmente viene riconosciuto come «tutto ok., assistenza non necessaria». Il segnale di «S.O.S., mandate subito aiuto» era invece due braccia alzate. «Probabilmente è per questo che dopo essere volato un po' in là, tornò indietro un'altra volta. Ma a quel passaggio non diedi alcun segnale, anzi potrei anche avergli voltato le spalle» rimuginò filosoficamente McCunn «mi avranno preso per un matto e basta.» Alla fine di settembre la neve cominciò ad accumularsi sulla tundra e il lago si ghiacciò completamente. Quando le provviste finirono, McCunn cercò di raccogliere cinorrodonti, d'intrappolare conigli, arrivò perfino a mangiare la carne di un caribù malato che era andato nel lago a morire. Ma già a ottobre aveva metabolizzato gran parte del grasso corporeo e mantenersi caldo durante le lunghe, rigide notti diventò sempre più difficile. «Di sicuro in città qualcuno capirà che qualcosa va storto non vedendomi tornare» scrisse. Eppure, non arrivava nessun aeroplano.
«Era proprio normale da parte sua pensare che qualcuno sarebbe apparso magicamente all'orizzonte per toglierlo dai pasticci» sostiene Stoppel. «Faceva il camionista, per cui sul lavoro aveva un sacco di tempo per star seduto sulle chiappe e sognare a occhi aperti. Fu proprio così che gli venne l'idea del viaggio nella Catena di Brooks. Era un affare serio per lui e passò buona parte dell'anno a pianificarlo, immaginarlo, raccontandomi nelle pause cosa voleva portarsi dietro. Ma per quanto avesse fatto progetti accurati, ogni tanto si lasciava andare a fantasie sfrenate. «Per esempio» continua Stoppel «Carl non voleva partire da solo. Il grande sogno, in origine, era quello di andare a vivere nella foresta con qualche bellissima creatura dell'altro sesso. Al lavoro c'erano almeno un paio di ragazze che gli piacevano, e ricordo che Carl sprecò un sacco di tempo e d'energia cercando di convincere Sue o Barbara ad accompagnarlo, che di per sé era pura follia, non c'era nessuna speranza che succedesse. Voglio dire, all'oleodotto dove lavoravamo, Pump Station 7, c'erano probabilmente quaranta uomini per ogni donna. Ma lui era un sognatore, e fino all'ultimo continuò a sperare e sperare che una delle ragazze cambiasse idea e decidesse di partire con lui.» Analogamente, spiega Stoppel: «Carl era quel genere di persona che poteva nutrire l'irrealistica aspettativa che qualcuno alla fine si sarebbe immaginato la sua situazione e avrebbe risolto tutto. Probabilmente, anche quando ormai stava morendo di fame, doveva sognare che la grande Sue sarebbe atterrata all'ultimo minuto con un mucchio di provviste e il desiderio di una folle storia d'amore. Ma le sue fantasticherie erano talmente fuori dal mondo che nessuno riusciva a mettercisi in contatto. Carl non fece che patire sempre più la fame e quando finalmente comprese che nessuno sarebbe andato a salvarlo, ormai era troppo tardi per rimediare al suo destino». Quando i viveri di McCunn si ridussero a quasi nulla, l'uomo scrisse sul diario: «Mi sto più che preoccupando, onestamente comincio ad avere paura». Il termometro cominciò a scendere di molto sotto lo zero e sulle dita di mani e piedi comparvero vesciche da congelamento dolorose e purulente. A novembre, quando terminò le ultime razioni, cominciò a sentirsi debole, stordito, e il freddo fu una vera e propria tortura per il fisico ormai provato. Il diario riporta: «Mani e naso continuano a peggiorare, come i piedi. La punta del naso è molto gonfia, piena di croste e vesciche. [...] Questo è di sicuro un modo lento e agonizzante di morire». McCunn pensò di la-
sciare la sicurezza dell'accampamento per dirigersi a piedi verso Fort Yukon, ma comprese che il proprio fisico non ne aveva più la forza e che avrebbe ceduto al freddo e alla fatica molto prima di giungere al traguardo. «Il posto dov'era andato Carl si trova in una zona interna, lontana e desolata» afferma Stoppel. «In inverno fa un freddo da cani e forse qualcun altro nella sua situazione avrebbe potuto immaginarsi un modo di scappare o di sopravvivere alla brutta stagione, ma per riuscire in un'impresa del genere bisogna avere un bell'ingegno. Non puoi far altro che campare d'industria, bisogna essere delle tigri, degli assassini, delle bestie. E Carl non era certo il tipo. Era un buontempone.» «Non ce la faccio più, ho paura» scrisse McCunn a fine novembre nel diario che ormai superava i cento fogli svolazzanti a righe blu. «Mio Signore, ti prego, perdonami le debolezze e i peccati e proteggi la mia famiglia.» Dopodiché entrò nella tenda, si puntò alla tempia il fucile .30-.30 e premette il grilletto. Due mesi dopo, precisamente il 2 febbraio 1982, gli Alaska State Troopers s'imbatterono nell'accampamento, controllarono l'interno della tenda e trovarono il cadavere congelato come pietra. Esistono somiglianze fra Rosellini, Waterman, McCunn e McCandless. Come Rosellini e Waterman, McCandless era alla ricerca di qualcosa e subiva il fascino degli aspetti più aspri della natura. Come Waterman e McCunn dimostrò scarso buon senso, ma a differenza di Waterman, McCandless non era mentalmente disturbato, e a differenza di McCunn non partì all'avventura presumendo che qualcuno sarebbe automaticamente apparso per salvargli le penne prima che si bruciassero. McCandless non si adatta granché allo stereotipo della vittima della foresta. Pur essendo precipitoso, per molti versi impreparato all'esperienza e incauto fino alla sconsideratezza, non era un incompetente, altrimenti non sarebbe sopravvissuto 113 giorni. E non era neppure un matto, un disadattato, un emarginato. McCandless era qualcos'altro, anche se non è facile dire cosa. Un pellegrino, forse. Per comprendere meglio la tragedia di Chris McCandless, può risultare utile lo studio dei suoi predecessori in contesti del tutto differenti. Proviamo a spostare lo sguardo dall'Alaska ai rocciosi canyon dello Utah meridionale. Lì, nel 1934, un ventenne molto singolare s'avventurò nel deserto per non uscirne mai più. Il suo nome era Everett Ruess. 9 IL DAVIS GULCH
Quando farò visita alla civiltà? Non presto, credo. Non sono ancora stanco della vita selvaggia, anzi apprezzo sempre più la sua bellezza e l'esistenza errante che conduco. Preferisco la sella al tram e il cielo stellato al soffitto, preferisco il sentiero oscuro e difficoltoso verso l'ignoto alla strada asfaltata, e la pace profonda del selvaggio allo scontento generato dalle città. Disapprovi dunque che io resti qui dove sento di appartenere e di essere tutt'uno col mondo? È vero, mi manca compagnia intelligente, ma sono così poche le persone con le quali posso condividere ciò che per me è tanto importante che ho imparato a contenermi. La bellezza intorno a me è sufficiente. [...] Basta perfino la tua breve cronaca a farmi capire che mai potrei reggere il tran tran che devi portare avanti, e penso che mai riuscirò a sistemarmi. Ho conosciuto esperienze talmente profonde che preferirei qualsiasi cosa a un anticlimax. Dall'ultima lettera di Everett Ruess scritta al fratello Waldo in data 11 novembre 1934. Everett Ruess era alla ricerca della bellezza, bellezza concepita in termini piuttosto romantici. Saremmo propensi a deridere questo suo stravagante culto, se non fosse per quel non so che di magnifico derivante dall'assoluta dedizione. L'estetica come posa da salotto è ridicola, a volte addirittura oscena. Come stile di vita invece può portare alla dignità. Se ridiamo di Everett Ruess, allora dobbiamo ridere anche di John Muir, perché c'era poca differenza fra i due, eccetto l'età. WALLACE STEGNER, Mormon Country
Per buona parte dell'anno il Davis Creek non è altro che un rigagnolo, quando non scompare del tutto. Scaturisce ai piedi dell'alto parapetto roccioso chiamato Fiftymile Point e attraversa sei chilometri di arenaria rosa dello Utah meridionale prima di versare le sue modeste acque nel lago Powell, gigantesco bacino idrico lungo all'incirca trecento chilometri dietro la diga di Glen Canyon. Il Davis Gulch è senza dubbio un canyon piccolo ma molto grazioso e per secoli i viandanti di questa terra arida e ostile hanno confidato nell'oasi presente sul fondo della gola, una gola talmente stretta da far pensare a una fessura. Non a caso le sue ripide pareti rocciose rivelano misteriose pittografie vecchie di novecento anni, e nelle rientranze riposano ancora i resti di antiche dimore dei Kayenta Anasazi, creatori dell'arte della pietra, i cocci della cui opera si mischiano nella sabbia alle lattine arrugginite lasciate dagli allevatori d'inizio secolo, che nel canyon andavano ad abbeverare e pascolare il loro bestiame.
Per buona parte del suo breve percorso il Davis Gulch scava una breccia profonda e tortuosa nella pietra levigata, breccia abbastanza stretta da avere la sponda opposta a tiro di sputo e fiancheggiata da muri di arenaria talmente a picco da impedire l'accesso al fondo, se non lungo un sentiero poco visibile che si apre all'estremità inferiore. Infatti, appena sopra il punto in cui il Davis Creek sfocia nel lago Powell, una rampa naturale scende zigzagando dal bordo occidentale e poi sparisce in prossimità del torrente, sostituita da una serie di rudimentali scalini ricavati nella morbida arenaria dagli allevatori mormoni quasi un secolo fa. Intorno, si apre un'arida distesa di pietra nuda e sabbia rosso mattone, vegetazione scarna, praticamente nessun riparo dal sole cocente. Calarsi nel canyon è come giungere in un mondo nuovo: pioppi neri americani graziosamente chinati sopra fichi d'india in fiore, lunghi steli d'erba agitati dalla brezza, l'effimera fioritura del calochortus nuttalii che fa capolino sull'estremità di un arco di pietra di trenta metri, accompagnata dal costante lamento dello scricciolo del cactus, nascosto nella chioma di una quercus ilicifolia. Più in alto, uno zampillo sgorga dalla facciata della rupe, lasciando una scia di muschi e capelvenere che scendono dalla pietra come rigogliosi viluppi verdi. Sessant'anni fa in questo incantevole rifugio, più o meno a un chilometro dal punto in cui gli scalini dei mormoni arrivano sul fondo della gola, il ventenne Everett Ruess incise il proprio pseudonimo nella parete, sotto un pannello di pittografie anasazi, e ripeté il gesto all'ingresso di un piccolo granaio in muratura costruito dallo stesso popolo. «Nemo 1934» scarabocchiò, spinto indubbiamente dal medesimo impulso che portò Chris McCandless a scrivere «Alexander Supertramp/Maggio 1992» sulla parete dell'autobus, un impulso forse non molto diverso da quello che indusse gli Anasazi ad abbellire la pietra con i propri simboli indecifrabili. In ogni modo, poco dopo aver lasciato questa traccia nell'arenaria, Ruess abbandonò il Davis Gulch e non fece più sapere nulla di sé, presumibilmente di proposito. Le vaste ricerche condotte in seguito non valsero a fare luce sui movimenti del giovane: se ne era andato e basta, inghiottito dal deserto in un solo boccone. E passati sessant'anni ancora non sappiamo quasi nulla della fine che fece Everett Ruess. Everett era nato nel 1914 a Oakland, in California, secondogenito di Christopher e Stella Ruess. Christopher, laureato alla Harvard Divinity School, era poeta, filosofo e ministro unitariano, pur guadagnandosi da vivere come impiegato nel sistema penale californiano. Stella era una donna
cocciuta, con gusti da bohémienne e ambizioni artistiche per sé e per i familiari. Pubblicò una rivista letteraria, il Ruess Quartette, sulla cui copertina troneggiava il motto di famiglia: «Glorifica l'ora». Nucleo molto unito, i Ruess vissero da nomadi fra Oakland, Fresno, Los Angeles, Boston, Brooklyn, il New Jersey e l'Indiana prima di fermarsi definitivamente nel sud della California quando Everett aveva quattordici anni. A Los Angeles Everett frequentò l'Otis Art School e l'Hollywood High. Nell'estate del 1930, a sedici anni, intraprese il primo viaggio solitario e attraversò, a piedi e in autostop, la Yosemite Valley e il Big Sur, concludendo il giro a Carmel. Due giorni dopo l'arrivo nella comunità, Ruess, senza porsi grandi problemi, bussò alla porta di Edward Weston, l'eminente fotografo. L'uomo rimase sufficientemente conquistato dall'entusiasmo del giovane da incoraggiarne nei due mesi successivi gli sforzi incostanti ma promettenti in pittura e xilografia, consentendogli di rimanere nel proprio studio in compagnia dei figli Neil e Cole. Alla fine dell'estate Everett fece ritorno a casa, ma si trattenne soltanto per un periodo di tempo sufficiente a ottenere il diploma scolastico. Infatti, il ragazzo concluse gli studi nel gennaio del 1934 e meno di un mese dopo si trovava già sulla strada, vagabondo solitario nei canyon di Utah, Arizona e Nuovo Messico, regione all'epoca scarsamente popolata e avvolta nel misticismo, paragonabile all'odierna Alaska. Fatta eccezione per un breve e infelice periodo alla U.C.L.A. (abbandonò dopo un semestre appena, con grande disappunto del padre), due visite prolungate ai genitori e un inverno a San Francisco (dove entrò nel giro di Dorothea Lange, Ansel Adams e del pittore Maynard Dixon), Ruess trascorse il resto della sua fugace esistenza in movimento, con lo zaino in spalla e pochi soldi in tasca, dormendo nello sporco e patendo allegramente la fame per giorni interi. Ruess era, con parole di Wallace Stegner, «un romantico imberbe, un esteta adolescente, un atavico girovago di terre desolate»: A diciott'anni, in sogno, vide se stesso attraversare giungle, risalire scarpate, vagabondare per gli angoli della terra desolati e romantici. Non esiste persona che, animata dalla forza della giovinezza, non abbia sperimentato simili visioni. Ma Everett Ruess ebbe l'originalità di mettere in pratica ciò che aveva sognato, non accontentandosi di un paio di settimane di vacanza in qualche località meravigliosa del mondo civilizzato, ma di mesi e anni nel mezzo delle meraviglie del creato.
Deliberatamente, punì il proprio corpo, abusò della propria sopportazione, sfidò la propria energia, scelse sentieri che indiani e veterani gli avevano sconsigliato e affrontò scarpate che più di una volta lo lasciarono penzoloni fra parete e bordo. [...] Dall'accampamento lungo un fiume, da un canyon, oppure in alto, dai versanti boscosi del monte Navajo, il giovane scrisse a familiari e amici pagine e pagine di parole appassionate ed entusiaste, pagine in cui condannava gli stereotipi della civiltà e levava quel suo lamento barbarico e adolescenziale contro il mondo intero. Sfornò parecchie lettere di questo genere, tutte spedite da remote località che il ragazzo si trovava ad attraversare: Kayenta, Chinle, Lukachukai, Zion Canyon, Grand Canyon, Mesa Verde, Escalante, Rainbow Bridge, Canyon de Chelly. Nel leggere questa corrispondenza (raccolta nella meticolosa opera biografica di W. L. Rusho, Everett Ruess: A vagabond for beauty) risulta impressionante la brama di contatto col mondo della natura e la passione quasi incendiaria per i luoghi visitati. «La natura mi ha riservato esperienze incredibili dall'ultima volta che ti ho scritto, esperienze forti, travolgenti» proruppe in una lettera all'amico Cornei Tengel «ma d'altra parte la sensazione di essere travolto è costante, e per vivere ne ho bisogno.» La corrispondenza di Everett Ruess rivela sorprendenti paralleli con Chris McCandless. Di seguito sono riportati passaggi di tre lettere: Continuo a pensare e ripensare che rimarrò sempre un vagabondo del mondo della natura. Dio, quanto mi tenta il sentiero! Non puoi comprendere che irresistibile fascino eserciti su di me. In definitiva direi che non c'è niente di meglio di un bel sentiero solitario. [...] Non smetterò mai di girovagare, e quando arriverà la fine, troverò il punto più selvaggio, più solitario e desolato che esista. La bellezza di questo paesaggio sta diventando parte di me. Mi sento più distaccato dalla vita e in qualche maniera più nobile. [...] Ho buoni amici, ma nessuno che comprenda fino in fondo perché io sia qui e cosa stia facendo, nessuno potrebbe andare oltre la parziale comprensione. Mi sono allontanato troppo, da solo. La vita che conduce gran parte della gente mi ha sempre lascia-
to insoddisfatto e ho sempre desiderato vivere più intensamente e con pienezza. Quest'anno nei miei giri mi sono esposto a maggiori rischi e ho vissuto esperienze più selvagge che mai. E che paesaggi magnifici ho avuto modo di vedere! Impressionanti distese di terra desolata, pianori sperduti, montagne blu che si elevano dalle sabbie vermiglie del deserto, canyon larghi alla base un metro e mezzo, che s'innalzano per centinaia di metri, acquazzoni tuonanti lungo gole senza nome e miriadi di case degli abitanti delle rupi, abbandonate migliaia d'anni fa. Mezzo secolo più tardi, in una cartolina indirizzata a Wayne Westerberg, Chris McCandless usa parole sorprendentemente simili a quelle di Ruess: «Ho deciso che per un po' farò questa vita. Non mi riesce di rinunciare a tutta questa libertà e semplice bellezza». Echi di Ruess sono riscontrabili anche nell'ultima lettera che McCandless indirizzò a Ronald Franz (vedi pp. 78-80). Come McCandless, se non di più, Ruess era un romantico, e come McCandless, non sembrava avere troppo cara la propria pelle. Clayborn Lockett, un archeologo che nel 1934 assunse Ruess come cuoco durante lo scavo di una dimora anasazi, raccontò a Rusho di essere rimasto «atterrito dall'imprudenza con cui Everett si muoveva su rupi pericolosissime». Difatti, lo stesso Ruess ostenta in una lettera: «Centinaia di volte, in cerca di acqua o di una dimora, ho affidato la mia vita a friabile pietra arenaria e pareti quasi verticali, due volte sono stato colpito quasi a morte da un toro selvatico, ma sempre, finora, ne sono uscito sano e salvo, pronto a continuare verso nuove avventure». Infine, nell'ultima lettera al fratello, Everett confessa con nonchalance: A volte mi è capitato di cavarmela per un pelo davanti a un serpente a sonagli o su una parete friabile. L'ultima disavventura risale a quando Chocolatero [il suo asino] ha agitato uno sciame di api selvatiche. Qualche puntura ancora e avrebbe potuto essere la fine. Ho passato tre o quattro giorni cercando di aprire gli occhi e di riacquistare l'uso delle mani. Ancora come McCandless, Ruess non si lasciava scoraggiare dal disagio
fisico, anzi, a volte sembrava gradirlo. «Per ben sei giorni» racconta all'amico Bill Jacobs sono stato vittima dell'edera velenosa e le mie sofferenze sono lungi dall'essere finite. I primi due giorni non capivo nemmeno se ero vivo o morto, mi dimenavo e contorcevo nella calura con sciami di formiche e moscerini che mi camminavano sul corpo col veleno che stillava e s'incrostava su faccia, braccia e schiena. Non ho mangiato nulla, non mi restava che soffrire, con filosofia. [...] Ogni volta è un po' come prendersi una strigliata, ma mi rifiuto di abbandonare la foresta. Infine, come McCandless quando si imbarcò nell'ultima odissea, Ruess adottò un nuovo nome, o meglio, una serie di nuovi nomi. In una lettera datata 1 marzo 1931 informa la famiglia di aver cominciato a chiamarsi Lan Rameau e chiede «cortesemente di rispettare... come si dice in francese, il nomme de broushe, no?». Due mesi dopo però spiega in un'altra lettera di aver «cambiato di nuovo il nome in Evert Rulan. Chi mi conosceva già prima trovava che l'altro nome fosse bizzarro e denotasse un'affettazione francesista». Successivamente, nell'agosto dello stesso anno, torna a chiamarsi Everett Ruess, senza alcuna spiegazione, e continua a farlo nei tre anni seguenti, fino all'arrivo al Davis Gulch. Lì, per qualche imperscrutabile ragione, nella morbida arenaria navaho, Everett incide due volte il nome Nemo - «nessuno» in latino - e svanisce nel nulla, all'età di vent'anni. L'11 novembre 1934 Ruess spedì le ultime lettere dalla comunità mormone di Escalante, circa cento chilometri a nord del Davis Gulch. Erano indirizzate ai genitori e al fratello, ai quali diceva che sarebbe stato irreperibile «per un mese o due». Otto giorni dopo averle spedite, Ruess incontrò due pastori a un chilometro circa dal canyon e trascorse due notti nel loro accampamento. Stando alle informazioni disponibili, queste furono le ultime persone a vedere il ragazzo in vita. Più o meno tre mesi dopo la partenza da Escalante i genitori di Ruess ricevettero un fascio di corrispondenza sigillata inviato dal direttore dell'ufficio postale di Marble Canyon in Arizona, dove Everett non si vedeva da troppo tempo. Christopher e Stella, preoccupati, contattarono le autorità di Escalante che all'inizio di marzo del 1935 organizzarono un gruppo di ri-
cerca. Partendo dall'accampamento dei pastori dove Ruess era stato visto per l'ultima volta, il gruppo cominciò a rastrellare il territorio circostante e presto trovò i due asini di Everett che pascolavano sul fondo del Davis Gulch, dentro un recinto improvvisato di cespugli e rami. Gli asini si trovavano nella parte superiore del canyon, appena sopra il punto in cui gli scalini dei mormoni raggiungono il fondo. Seguendo la corrente, poco più avanti, i ricercatori trovarono tracce inequivocabili dell'accampamento di Ruess e nell'ingresso del granaio anasazi, sotto un magnifico arco naturale, s'imbatterono nella scritta «Nemo 1934» incisa nella pietra. Su una roccia poco distante erano accuratamente poggiate quattro ciotole anasazi. Tre mesi dopo, ancora più avanti, i ricercatori trovarono un altro graffito - le acque crescenti del lago Powell, che ha cominciato a riempirsi dal completamento della diga di Glen Canyon nel 1963, hanno da tempo cancellato entrambe le iscrizioni - ma fatta eccezione per gli asini e i finimenti, non è mai stato ritrovato nulla degli altri averi di Ruess - attrezzatura da campeggio, riviste e dipinti. L'ipotesi più attendibile è che il ragazzo abbia incontrato la morte arrampicandosi sulla parete di qualche canyon. Considerate l'infida topografia della zona - buona parte delle rupi che frastagliano il terreno sono di pietra arenaria navaho, uno strato friabile che si erode in precipizi lisci e irregolari - e il debole del giovane per le arrampicate pericolose, la supposizione risulta credibile. Tuttavia, accurate ricerche lungo pareti sia vicine che lontane non hanno portato alla luce nessun resto umano. Che dire inoltre del fatto che Ruess avrebbe lasciato il canyon con un pesante carico ma senza i suoi asini da soma? Tali sconcertanti circostanze hanno indotto alcuni investigatori a concludere che il giovane sia stato ammazzato da una banda di ladri di bestiame che all'epoca si aggirava nella zona, banda che l'avrebbe derubato e ne avrebbe sepolto i resti oppure li avrebbe gettati nel fiume Colorado. Anche questa teoria è plausibile, ma non esiste nessuna prova concreta a sorreggerla. Poco dopo la scomparsa di Everett il padre suggerì che lo pseudonimo «Nemo» poteva ispirarsi a Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne - un libro che il giovane aveva letto parecchie volte - in cui il protagonista, capitano Nemo, fugge la civiltà e recide «ogni vincolo che lo lega alla terra». Il biografo di Everett, W. L. Rusho, concorda con la supposizione di Christopher Ruess, sostenendo che «il ritiro dalla società organizzata, lo sdegno per i piaceri mondani, l'essersi firmato Nemo al Davis Gulch, sono tutti elementi che spingono fortemente a ritenere che il giovane abbia finito
per identificarsi con il personaggio di Jules Verne». Questa sua evidente fascinazione ha indotto vari mitografi a sospettare che la sparizione dal Davis Gulch non sia stata altro che un grosso scherzo e che il ragazzo in realtà sia o fosse vivo e vegeto sotto nuova identità chissà dove nel mondo. Un anno fa, mentre facevo il pieno a Kingman in Arizona, mi capitò di parlare di Ruess col benzinaio, un ometto nervoso di mezz'età con gli angoli della bocca sporchi di bava. Con un tono di persuasiva convinzione questi mi giurò di conoscere «un tale che senza ombra di dubbio aveva incontrato Ruess» in un remoto hogan della riserva navaho, verso la fine degli anni Sessanta. Stando all'amico del benzinaio, Ruess era sposato con una donna navaho, con la quale aveva almeno un figlio. Inutile dire che sulla veridicità di questo o di altri racconti di avvistamenti relativamente recenti di Ruess rimane un forte sospetto. Ken Sleight, che sull'enigma di Everett Ruess ha investigato più a lungo di chiunque altro, è convinto che il ragazzo sia morto nel 1934 o all'inizio del 1935 e crede anche di sapere come. Sleight di professione fa la guida fluviale, ha sessantacinque anni ed è un topo del deserto, mormone per educazione e insolente di fama. All'epoca in cui Edward Abbey scrisse The Monkey Wrench Gang, romanzo picaresco sull'ecoterrorismo nella regione dei canyon, si mormorava che a ispirare il personaggio Seldom Seen Smith fosse stato proprio il suo amico Ken Sleight. Nei quarant'anni vissuti nella zona Sleight ha visitato ogni singolo posto in cui a suo tempo era passato Ruess, ha avuto modo di parlare con parecchie persone che hanno incrociato il ragazzo lungo il cammino e ha accompagnato il fratello maggiore, Waldo, al Davis Gulch per mostrargli il luogo della scomparsa. «Waldo pensa che Everett sia stato ammazzato» racconta Sleight. «Ma io non lo credo. A Escalante ci ho passato due anni e ho parlato con la gente che dovrebbe averlo ucciso. No, non penso che possano averlo fatto, però, chi può dirlo? Non si sa mai veramente cosa fa una persona in segreto. Altri credono che sia cascato da una rupe. Be', sì, è possibile, anzi, da quelle parti è anche facile. Ma non credo neanche che sia andata così. «Vuoi sapere cosa ne penso io? Penso che è affogato.» Anni fa, scendendo lungo Grand Gulch, un affluente del fiume San Juan a una settantina di chilometri a est del Davis Gulch, Sleight scorse il nome Nemo inciso nel mortaio di morbido fango di un granaio anasazi e concluse che Ruess doveva essere passato di lì non molto tempo dopo aver lasciato il Davis Gulch. «Dopo aver chiuso gli asini nel recinto» sostiene Sleight «Ruess nascose
tutta la roba in qualche caverna e poi se ne andò, giocando a fare capitano Nemo. Aveva amici indiani nella riserva navaho e secondo me era diretto laggiù.» Un percorso ragionevole verso il territorio navaho avrebbe portato Ruess a guadare il fiume Colorado a Hole in the Rock per proseguire lungo un impervio sentiero aperto nel 1880 dai coloni mormoni attraverso Wilson Mesa, le Clay Hills e lungo Grand Gulch in direzione del fiume San Juan, oltre il quale si apre la riserva. «Everett lasciò quell'incisione più di un chilometro sotto l'incrocio con Collins Creek, continuò verso il San Juan e cercò di attraversare il fiume a nuoto, ma affogò. Secondo me è andata così.» Sleight ritiene che se Ruess fosse riuscito ad attraversare il fiume e a raggiungere la riserva, sarebbe stato impossibile nascondere la propria presenza «anche portando avanti il gioco di capitano Nemo. Everett era un solitario, ma la gente gli piaceva troppo per decidere di vivere da solo e in segreto per il resto della vita. Molti di noi sono fatti così, pure io per esempio, ed Ed Abbey, e mi pare anche Chris McCandless: ci piace la compagnia, ma non riusciamo a stare con la gente troppo a lungo, allora ce ne andiamo per un po', dopo torniamo e alla fine tagliamo ancora la corda. Ecco cosa faceva Everett». «Certo era strano» ammette Sleight «diverso, ma almeno lui e McCandless hanno cercato di inseguire il loro sogno e questo li rende grandi. Loro almeno ci hanno provato, e non sono in molti a farlo.» Forse per riuscire a comprendere Everett Ruess e Chris McCandless è utile inserire le loro imprese in un contesto più ampio. Proviamo a guardare le controparti da un luogo distante e a tornare indietro di cent'anni. A ridosso della costa sudorientale dell'Islanda sorge un'isola chiamata Papós. Bassa, brulla e rocciosa, l'isola di Papós è costantemente graffiata da violente raffiche di vento provenienti dal Nord Atlantico e deve il proprio nome ai primi abitanti, i monaci irlandesi noti come papar, che però da tempo hanno abbandonato le sue ostili sponde. Camminando lungo la riva, un pomeriggio d'estate, inciampai su rettangoli di pietra consumata che sporgevano dalla tundra: vestigia delle antiche dimore dei monaci, ancora più vecchie delle rovine anasazi del Davis Gulch. I primi monaci giunsero sull'isola già nel quinto e sesto secolo d.C. dopo essere partiti dalla costa occidentale irlandese a bordo delle loro curraghs, piccole imbarcazioni scoperte fatte di cuoio teso su una leggera intelaiatura in vimini, e aver navigato lungo uno dei tratti di oceano più pericolosi del
mondo senza sapere se e cosa avrebbero trovato dall'altra parte. I papar rischiarono la vita, e un numero sconosciuto di fatto la perse, non all'inseguimento di ricchezza, gloria personale o nuove terre. Come rileva il grande esploratore artico e premio Nobel Fridtjof Nansen «questi straordinari viaggi venivano intrapresi principalmente per il desiderio di scovare posti solitari, dove gli anacoreti potessero abitare in pace, lontani dal frastuono e dalle tentazioni del mondo». Nel nono secolo, quando comparve la prima manciata di norvegesi sulle sponde dell'Islanda, i papar decisero che la zona era ormai troppo affollata - benché in realtà rimanesse sostanzialmente disabitata -, montarono sulle loro curraghs e ripartirono alla volta della Groenlandia. Furono trascinati oltre le furie dell'oceano, furono sospinti oltre i confini occidentali del mondo conosciuto da nient'altro che sete di spirito, una brama di tale e misteriosa intensità da superare la moderna immaginazione. Leggendo di questi monaci si rimane scossi dal coraggio, dall'incauta innocenza e dall'urgenza del loro desiderio, leggendo di questi monaci non si può fare a meno di pensare a Everett Ruess e Chris McCandless. 10 FAIRBANKS MORTE NELLA FORESTA, UN ESCURSIONISTA NE RACCONTA L'ORRORE Anchorage, 12 settembre (A.P.) - Domenica scorsa un giovane escursionista, bloccato da una ferita, è stato trovato morto in un remoto accampamento nell'interno dell'Alaska. L'identità è per il momento incerta, ma il diario e due foglietti rinvenuti insieme al cadavere raccontano la straziante storia dei suoi disperati e sempre più inutili sforzi per sopravvivere. Dal diario pare che l'uomo, presumibilmente un americano fra i venti e i trent'anni, si sia ferito in una caduta e sia rimasto bloccato nell'accampamento per oltre tre mesi. Il documento offre uno straziante racconto dei tentativi del giovane di salvarsi la vita, cacciando selvaggina e nutrendosi di piante selvatiche, e del precipitare malgrado ciò in un progressivo indebolimento. Uno dei due foglietti è una richiesta di aiuto a chiunque passi dall'accampamento mentre lui è alla ricerca di cibo nei paraggi.
L'altro invece lancia un commovente addio al mondo. [...] L'autopsia effettuata questa settimana nello studio del coroner di Fairbanks rivela che l'escursionista è morto di fame, probabilmente alla fine di luglio. Fra i beni del ragazzo le autorità hanno trovato un nome che presumono sia quello della vittima, ma finora non sono state in grado di confermarne l'identità. Pertanto, fino a quando non sussisteranno notizie certe, rifiutano di fornire dettagli in proposito. Dal New York Times del 13 settembre 1992 Quando il New York Times pubblicò l'articolo sull'escursionista, gli Alaska State Troopers già da una settimana cercavano di scoprire il nome del giovane. Al momento del decesso McCandless aveva indosso una maglia blu col logo di una società di soccorso stradale di Santa Barbara, che però non fu in grado di pronunciarsi né sull'identità del ragazzo né sul modo in cui si fosse procurato la maglia. Considerato allora che molti passaggi del breve e sconcertante diario consistevano in forbite osservazioni su flora e fauna, si suppose che McCandless fosse un biologo, ma anche questa pista non portò a nulla. Il 10 settembre, tre giorni prima che la morte dell'escursionista fosse riportata dal Times, l'Anchorage Daily News pubblicò in prima pagina l'intera storia. Quando Jim Gallien lesse il titolo e vide sulla mappa che il punto del ritrovamento del cadavere era quaranta chilometri a ovest di Healy lungo lo Stampede Trail, sentì la pelle accapponargli: era Alex. Conservava ancora nella memoria l'immagine di quel giovane strampalato ma simpatico che con gli stivali due numeri più grossi del dovuto - i vecchi Xtratufs marroni che Gallien aveva tanto insistito per prestargli - s'avviava a grandi passi sul sentiero. «Dall'articolo sul giornale, da quelle poche informazioni, sembrava proprio la stessa persona» racconta Gallien «mi misi in contatto con le autorità e li informai che pensavo di aver dato un passaggio a quel ragazzo.» «Sì, come no» rispose l'agente Roger Ellis dall'altro capo del filo «e cosa glielo fa pensare? È già la sesta persona nell'ultima mezz'ora che chiama per dirci che conosce quel giovane.» Ma Gallien insistette, e più parlava, più lo scetticismo di Ellis scemava. Descrisse vari oggetti, non menzionati sul quotidiano, che corrispondevano all'attrezzatura rinvenuta insieme al cadavere e in conclusione Ellis notò che la prima, criptica annotazione sul diario dell'escursionista diceva: «Uscita Fairbanks. Gallien. Giorno del co-
niglio». Nel frattempo gli agenti avevano fatto sviluppare il rullino trovato nella Minolta del ragazzo e gran parte delle fotografie consisteva in probabili autoritratti. «Quando mi portarono le foto al lavoro, non ebbi dubbi» ricorda Gallien «quel ragazzo era Alex.» Poiché McCandless aveva raccontato a Gallien di essere del Sud Dakota, gli agenti spostarono subito le ricerche della famiglia in quell'area. Dalla distribuzione di un bollettino risultò che un tale McCandless era scomparso nell'est dello Stato, e coincidenza volle che fosse proprio da una piccola comunità a trenta chilometri circa dall'abitazione di Wayne Westerberg, a Carthage. Per un certo periodo gli agenti pensarono di aver trovato il loro uomo, ma anche questa pista in seguito si rivelò sbagliata. Dopo la cartolina inviatagli da Fairbanks la primavera precedente, Westerberg non aveva saputo più nulla dell'amico che conosceva come Alex McCandless. Ma il 13 settembre, mentre percorreva la deserta lingua d'asfalto fuori Jamestown insieme all'intera squadra di ritorno a Carthage dopo quattro mesi di mietitura nel Montana, sentì che all'improvviso la radio ad altissima frequenza riprendeva a gracchiare. «Wayne!» strepitò una voce ansiosa da un altro camion della comitiva «Sono Bob. Hai acceso la radio?» «Sì, Bobby. Sono Wayne. Che c'è?» «Presto, gira sull'AM e senti Paul Harvey. Sta parlando di un ragazzo morto di fame in Alaska, la polizia ancora non sa come si chiama. Ma mi fa tanto pensare ad Alex.» Westerberg trovò la stazione in tempo per sentire giusto la conclusione del programma di Paul Harvey, ma dovette concordare con Bob: quei pochi dettagli bastavano a rendere l'anonimo escursionista drammaticamente somigliante all'amico Alex. Non appena giunto a Carthage, Westerberg, in preda allo sconforto, contattò gli Alaska State Troopers per dichiararsi disponibile a fornire ogni informazione in suo possesso su McCandless. Nel frattempo però la storia del giovane escursionista era diventata di dominio pubblico e i quotidiani di tutto il Paese dedicavano ampio spazio perfino agli stralci del suo diario. Di conseguenza, gli agenti erano inondati da fiumi di telefonate da parte di gente che sosteneva di conoscere l'identità del ragazzo, ed ebbero nei confronti di Westerberg un atteggiamento ancora meno ricettivo che con Gallien. «L'agente mi disse che avevano ricevuto più di centocinquanta chiamate da persone che pensavano Alex fosse loro figlio, amico o fratello» ri-
corda Westerberg. «Be', vista la reazione, a quel punto mi girarono un po' le scatole e gli dissi: "Ascolti, non sono uno dei tanti scocciatori. Ho detto che so chi è. Ha lavorato per me e da qualche parte dovrei anche averne il numero di previdenza sociale".» Dopodiché Westerberg cominciò a rovistare nell'archivio del silo finché non trovò i due moduli W-4 compilati da McCandless. Su quello risalente alla prima visita a Carthage, nel 1990, il ragazzo aveva scarabocchiato in alto «Esente Esente Esente Esente» e si era dato il nome di Iris Fucyu con indirizzo «non sono cavoli vostri» e numero di previdenza sociale «non ricordo». Ma sul secondo modulo, datato 30 marzo 1992, ovvero due settimane prima della partenza per l'Alaska, aveva indicato il vero nome, Chris J. McCandless. E nello spazio dedicato al numero di previdenza sociale aveva scritto «228-31-6704». Westerberg telefonò di nuovo in Alaska e stavolta le autorità lo presero sul serio. Il numero di previdenza sociale si rivelò autentico e permise di identificare la Virginia settentrionale come luogo di residenza permanente di McCandless. Quindi gli Alaska State Troopers avvertirono le forze dell'ordine locali, che a loro volta presero a spulciare gli elenchi telefonici in cerca di qualche McCandless. Nel frattempo, però, Walt e Billie McCandless si erano trasferiti sulla costa del Maryland e non avevano più alcun recapito in Virginia. Soltanto il figlio maggiore di Walt, nato dal primo matrimonio, viveva ad Annandale e risultava negli elenchi. Nel tardo pomeriggio del 17 settembre Sam McCandless ricevette una telefonata da un agente della squadra omicidi della contea di Fairfax. Pochi giorni prima, Sam - più grande di Chris di nove anni - aveva notato un breve articolo sul Washington Post che parlava della morte di un escursionista, ma ammette: «Non mi ha neppure sfiorato l'idea che potesse trattarsi di mio fratello. Anzi, ironia della sorte, quando l'ho letto, ho pensato, mio Dio, che terribile tragedia, quanto mi dispiace per la famiglia di questo ragazzo, ovunque essa sia, quant'è triste questa storia». Sam era cresciuto fra California e Colorado, insieme alla madre, e si era spostato in Virginia nel 1987, dopo che Chris era già partito per il college di Atlanta. Di conseguenza non conosceva molto bene il fratellastro. Tuttavia, quando l'agente della Omicidi gli domandò se l'escursionista gli facesse venire in mente qualcuno di sua conoscenza, Sam ricorda: «All'improvviso ebbi la certezza che poteva trattarsi di Chris. Il fatto che fosse andato in Alaska, che ci fosse andato da solo [...] combaciava tutto».
Su richiesta dell'agente, Sam si presentò al dipartimento di polizia della contea di Fairfax dove gli fu mostrato un fax inviato da Fairbanks che riportava l'immagine del ragazzo. «Era un ingrandimento sedici per venti» ricorda Sam «e quando lo vidi, mi venne un colpo. Aveva i capelli lunghi e la barba, mentre di solito Chris li portava corti e si radeva. Ricordo ancora quel volto così smagrito, ma non ebbi dubbi: era mio fratello. Tornai a casa, presi Michele, mia moglie, e partii per il Maryland, dovevo dirlo a papà e Billie. Solo che non sapevo come. Come si fa a dire a un genitore che gli è morto il figlio?» 11 CHESAPEAKE BEACH D'un colpo, ogni cosa è cambiata, il tono, l'aria, non si sa che pensare, chi ascoltare. Quasi che per tutta la vita ti avessero condotto per mano come una bambina e, a un tratto, ti avessero lasciato: impara a camminare da sola. E non c'è nessuno intorno, né amici né autorità costituite. Allora ci si vorrebbe poter affidare all'essenziale, alla forza della vita o alla bellezza o alla verità, perché esse, e non le autorità umane ormai travolte, ti dirigano in modo sicuro e senza riserve più di quanto non avvenisse nella solita vita di sempre, ora tramontata e lontana. BORIS PASTERNAK, Dottor Zivago (passaggio evidenziato in uno dei libri rinvenuti con la salma di Chris McCandless. «Bisogno di un proposito» era annotato a margine nella calligrafia del ragazzo) Samuel Walter McCandless jr. è un taciturno cinquantaseienne con barba, lunghi capelli sale e pepe pettinati all'indietro e fronte ampia. Ha un fisico alto e ben proporzionato e porta occhiali con la montatura metallica, che gli conferiscono un non so che di professionale. Sette settimane dopo il ritrovamento del figlio avvolto nel sacco a pelo blu cucitogli da Billie, Walt scruta una barca a vela fuggire la tempesta dalla finestra della sua abitazione sulla Chesapeake Bay, nel Maryland, e si domanda: «Com'è possibile che un ragazzo tanto compassionevole abbia provocato un simile dolore ai propri genitori?», In casa McCandless l'arredamento è di gusto, niente disordine, tutto impeccabile, e le alte finestre a parete abbracciano l'intero, caliginoso pano-
rama della baia. Davanti all'abitazione sono parcheggiati un grande Chevy Suburban e una Cadillac bianca, nel garage riposa una Corvette del 1969 scrupolosamente risistemata e sul molo è attraccato un catamarano di nove metri. Da molti giorni ormai il tavolo del soggiorno è occupato da quattro grossi pannelli coperti da una miriade di fotografie che documentano l'intero e breve arco di vita di Chris. Indicando qua e là Billie mostra Chris da piccolo sul cavallo a dondolo, Chris tutto serio in una cerata gialla che all'età di otto anni affronta la prima escursione, Chris di nuovo, al primo giorno di scuola superiore. «La cosa più brutta» confessa Walt, la voce quasi impercettibilmente rotta mentre indugia su un'istantanea del figlio che fa il pagliaccio durante una vacanza con la famiglia, «è non averlo più vicino. Ho trascorso parecchio tempo con Chris, forse più che con gli altri figli. Mi piaceva tanto la sua compagnia, anche se ci ha procurato parecchie delusioni.» Walt indossa i pantaloni di una tuta grigia, scarpe da squash e una maglia da baseball in raso col logo del Jet Propulsion Laboratory, ma nonostante la tenuta sportiva, irradia autorità. Nell'arcano campo dell'avanzata tecnologia chiamata radar ad apertura sintetica o Sar Walt è un personaggio illustre. Il Sar ha cominciato a costituire parte delle missioni spaziali di alto livello nel 1978, quando fu lanciato in orbita il primo satellite provvisto di tale tecnologia, il Seasat. E alla Nasa fu proprio Walt McCandless a occuparsi del pionieristico progetto. La prima riga del suo curriculum recita: «Autorizzazione: top secret attuale ministero della Difesa degli Usa». Poco sotto comincia la descrizione dell'esperienza professionale: «Effettuo servizio di consulenza privata per la progettazione di telerilevatori ambientali e sistemi satellitari con relative prestazioni di elaborazione segnali, riduzione ed estrazione informazioni». I colleghi lo definiscono geniale. Per Walt comandare è ormai un'abitudine e non gli occorre pensare per assumere il controllo di una situazione: è qualcosa che fa d'istinto, inconsapevolmente. Malgrado parli pacatamente, con la cadenza dell'Ovest, nella voce è percepibile una sfumatura tagliente, e l'atteggiamento delle mascelle tradisce una continua corrente di nervosismo. Basta guardarlo per capire che i circuiti gli scoppiettano di energia ad alto voltaggio. E comprendiamo dunque da dove provenisse l'impetuosità di Chris. Quando Walt dice qualcosa, la gente lo sta ad ascoltare. Se qualcuno lo disturba, gli si assottigliano gli occhi e la parlata si fa pungente. Stando ai parenti è di umore mutevole e spesso s'incupisce, anche se gli anni sem-
brano aver smorzato questa tendenza. Da quando Chris fece perdere le tracce, nel 1990, qualcosa nel padre è cambiato. La scomparsa del figlio è stata motivo di paura e sofferenza che hanno fatto emergere un lato più morbido e tollerante della sua personalità. Walt crebbe nella povertà a Greely, nel Colorado, un villaggio rurale sulle pianure elevate e ventose vicino al confine col Wyoming. La sua famiglia, riconosce con realismo, «veniva dal lato sbagliato della strada». Bambino sveglio e diligente, vinse una borsa di studio alla Colorado State University, nei pressi di Fort Collins, dove per sbarcare il lunario sperimentò una sfilza di impieghi a mezza giornata, accettando anche un posto come becchino. Fonte di maggiore e più costante reddito fu tuttavia la musica, che suonava insieme a Charlie Novak e al suo popolare quartetto jazz. Il complesso, con Walt al piano, lavorava con un repertorio di pezzi classici e ballabili e si esibiva in fumose balere da quattro soldi su e giù per la Front Range. Musicista ispirato e di considerevole talento naturale, Walt di tanto in tanto suona ancora da professionista. Tutto ebbe inizio così: nel 1957 i sovietici lanciarono lo Sputnik I, gettando un velo di terrore sull'America. Nell'isteria generale che ne seguì, il Congresso versò milioni e milioni di dollari nell'industria aerospaziale di base in California e al giovane Walt McCandless, appena uscito dal college, sposato e con un figlio in cantiere, lo Sputnik aprì una porta per l'avvenire. Trovò un impiego presso la Hughes Aircraft che per un triennio lo trasferì a Tucson, dove frequentò la University of Arizona e conseguì un master in teoria delle antenne radar. Non appena completò la tesi, dal titolo Analisi di spirali coniche, impaziente di lasciare una propria traccia nella corsa allo spazio, si spostò nella sede principale della Hughes, in California, vero fulcro dell'attività. Acquistò un piccolo bungalow a Torrance, lavorò sodo e in breve fece carriera. Il primogenito, Sam, nacque nel 1959 seguito in rapida successione da quattro sorelline: Stacy, Shawna, Shelly e Shannon. Nella missione Surveyor I, il primo mezzo spaziale a compiere un morbido atterraggio sulla luna, Walt fu promosso direttore collaudi e capo sezione. La sua stella sembrava illuminare una brillante carriera. Già nel 1965 il matrimonio entrò in crisi. Walt si separò dalla moglie Marcia e cominciò a frequentare un'impiegata della Hughes, Wilhelmina Johnson, che tutti chiamavano Billie, una ventiduenne dagli occhi scuri e penetranti. I due s'innamorarono e decisero di andare a vivere insieme. Billie rimase incinta e, molto minuta, nei nove mesi di gravidanza aumentò di
soli tre chili e mezzo, senza mai dover indossare abiti pre-maman. Il 12 febbraio 1968 dette alla luce un maschietto, sottopeso ma sano e vivace. Walt le regalò una chitarra Gianini, con la quale la donna strimpellava ninne nanne per calmare il piccolo. Era la stessa chitarra che ventidue anni più tardi sarebbe stata trovata dai ranger del National Park Service sul sedile posteriore di una Datsun abbandonata vicino alle rive del lago Mead. È impossibile sapere se fu per via di oscure convergenze cromosomiche, di particolari dinamiche nel rapporto genitore-figlio o di allineamenti astrali, ma Christopher Johnson McCandless ricevette alla nascita doti fuori dal comune e una volontà difficilmente deviabile dalla propria traiettoria. All'età di due anni si alzò nel mezzo della notte e senza svegliare i genitori raggiunse ed entrò in un'abitazione in fondo alla via per saccheggiare il cassetto dove il vicino teneva le caramelle. Al terzo anno di scuola, dopo aver ricevuto un ottimo voto in una verifica, Chris aderì a un programma accelerato per studenti dotati. «Non ne fu molto felice» ricorda Billie «perché significava avere compiti extra. Per un'intera settimana cercò di uscirne. Quel birbante s'impegnò a convincere la maestra, il preside e chiunque lo stesse ad ascoltare che i risultati della verifica erano sbagliati e che lui non c'entrava niente lì. Ne fummo informati alla prima riunione della PTA, l'associazione composta da genitori e insegnanti. La sua maestra ci prese in disparte e ci disse che Chris seguiva "un'altra musica". E si limitò a scuotere il capo.» «Anche quando eravamo piccoli» racconta Carine, nata tre anni dopo Chris «era molto solitario, senza essere un asociale, perché ha sempre avuto amici e tutti lo consideravano simpatico, ma riusciva a passare ore e ore da solo, come se non gli servissero i giocattoli o gli altri bambini. Poteva stare solo senza sentirsi tale.» Quando Chris aveva sei anni, Walt ricevette una proposta d'impiego presso la Nasa, il che implicava il trasferimento nella capitale. Dunque i McCandless comperarono una bella casetta a due piani in Willet Drive, nella periferia di Annandale, con imposte color verde, un bovindo e un grazioso giardinetto. Quattro anni dopo l'arrivo in Virginia, Walt lasciò la Nasa per avviare una società di consulenza, la User Systems Incorporated, che gestiva insieme alla moglie Billie. I soldi scarseggiavano. Oltre alle difficoltà derivanti dal passaggio da uno stipendio fisso alle incognite del lavoro autonomo, la separazione di Walt dalla prima moglie l'aveva lasciato con due famiglie da mantenere. Per cavarsela, ricorda Carine, «mamma e papà non facevano altro che la-
vorare. Quando Chris e io ci alzavamo la mattina per andare a scuola, erano già in ufficio, quando tornavamo nel pomeriggio, erano in ufficio e quando andavamo a letto la sera, erano ancora in ufficio. Gli affari li mandavano avanti bene e alla fine cominciarono anche a guadagnare un bel po', ma non facevano altro che lavorare». La vita non era facile. Sia Walt che Billie sono determinati, emotivi, duri a cedere, e di tanto in tanto la tensione esplodeva. Spesso nei momenti di rabbia l'uno o l'altra minacciavano il divorzio, anche se il rancore faceva più fumo che arrosto, come ricorda Carine, «però credo che fosse una delle ragioni per cui Chris e io eravamo tanto uniti. Imparammo a contare l'uno sull'altro quando mamma e papà non andavano d'accordo». Ovviamente ci furono anche momenti felici. Nei fine settimana, o quando non c'era la scuola, la famiglia si metteva sulla strada. Andavano sulle spiagge della Virginia e lungo la costa della Carolina, facevano visita agli altri figli di Walt, nel Colorado, oppure giravano nella regione dei grandi laghi o sulle montagne della Blue Ridge. «Ci accampavamo col nostro Chevy Suburban» spiega Walt. «Più tardi comperammo un caravan Airstream e cominciammo a girare con quello. Ricordo che Chris adorava quei viaggi, e più erano lunghi, più ne era felice. Devo dire che in famiglia c'è sempre stata una vena da girovaghi, ed era chiaro che Chris l'avesse ereditata.» In occasione di una di queste uscite i McCandless visitarono Iron Mountain, nel Michigan, un piccolo centro minerario fra i boschi della Upper Peninsula, dove Billie aveva trascorso l'infanzia insieme a cinque fratelli. Suo padre, Loren Johnson, faceva il camionista, «ma non riusciva mai a tenersi un lavoro a lungo» spiega lei stessa. «Il papà di Billie non riusciva ad adattarsi alla società» racconta Walt «e, per molti versi, lui e Chris si assomigliavano.» Loren Johnson era orgoglioso, testardo e sognatore, appassionato di boschi, musicista autodidatta e scrittore di poesie. Nei pressi di Iron Mountain il suo rapporto con le creature della foresta diventò leggendario. «Era sempre alle prese con qualche bestiola selvatica» ricorda Billie. «Se trovava un animale in una trappola, lo portava a casa, amputava l'arto danneggiato, lo curava e poi lo lasciava andare. Una volta investì una mamma cervo col camion e il cerbiatto rimase orfano. Ricordo che ne fu sconvolto. Non ci pensò due volte e portò il piccolo a casa, lo crebbe insieme a noi, dietro la stufa a legna, proprio come se fosse un altro dei suoi figli.» Per mantenere la famiglia Loren intraprese una serie di avventure im-
prenditoriali che non portarono al successo sperato. Per qualche tempo allevò polli, poi visoni e infine cincillà. Costruì una stalla e cominciò a organizzare escursioni a cavallo per i turisti. Ma buona parte del cibo che portava in tavola veniva dalla caccia, anche se uccidere gli animali non gli piaceva. «Ogni volta che ammazzava un cervo, papà finiva per scoppiare in lacrime» racconta Billie «ma dovevamo pur mangiare, per cui lo faceva comunque.» Lavorò anche come guida di caccia, esperienza che gli procurò sofferenze ancora maggiori. «Arrivavano questi signori dalla città nelle loro grandi Cadillac, e mio padre per una settimana doveva portarseli al capanno dove inseguivano l'ambito trofeo. Nessuno partiva senza il suo cervo, soltanto che la maggior parte di loro erano delle schiappe, oppure bevevano talmente tanto da non riuscire a centrare proprio un bel niente. Per cui, alla fine, era sempre papà che doveva colpire il cervo, e Dio sa quanto odiasse doverlo fare.» Non sorprende dunque che Loren fosse stregato dal nipotino e che questi adorasse il nonno. Il vecchio, con la sua conoscenza dei boschi e la sua affinità con la natura, lasciò un segno profondo in Chris. Quando questi aveva otto anni, per la prima volta fece un'escursione di tre giorni al Shenandoah National Park, per scalare l'Old Rag insieme al padre. Riuscirono a raggiungere la vetta e Chris portò in spalla lo zaino per tutto il cammino. Da quel momento le escursioni in montagna diventarono una consuetudine familiare e quasi ogni anno padre e figlio tornavano all'Old Rag per ripetere l'esperienza. Qualche anno più tardi, Walt prese Billie, i figli di entrambi i matrimoni e li portò tutti quanti a scalare gli oltre quattromila metri della Longs Peak, nel Colorado, la vetta più alta del Rocky Mountain National Park. Walt, Chris e il minore dei figli avuti con Marcia salirono fino a quota quattromila, dopodiché il padre, raggiunta l'insidiosa gola di Keyhole, decise di tornare indietro. Il sentiero più avanti si faceva pericoloso e Walt era stanco, cominciava a risentire dell'altitudine. «Personalmente la rinuncia non mi pesò» spiega «ma Chris voleva salire a tutti i costi. Gli dissi che non c'era verso; all'epoca aveva solo dodici anni e non poteva che limitarsi a brontolare. Se avesse avuto quattordici o quindici anni avrebbe preso e se ne sarebbe andato senza di me.» Walt cade nel silenzio, lo sguardo assente rivolto lontano. «Chris era spericolato anche da piccolo» prosegue dopo una lunga pausa. «Non gli passava per la testa che la fortuna avesse per lui le stesse regole che per gli
altri. Sempre, sempre bisognava andare a riacchiapparlo prima che fosse troppo tardi.» In qualsiasi cosa lo interessasse, Chris otteneva ottimi risultati. A scuola andava benissimo col minimo sforzo e soltanto una volta ricevette un voto sotto la sufficienza: in fisica, alle superiori. Quando Walt vide la pagella, fissò un incontro con l'insegnante per capire quale fosse il problema. «Era un colonnello dell'aeronautica in pensione» ricorda «una persona di una certa età, tradizionalista, piuttosto rigida. All'inizio del semestre aveva spiegato ai ragazzi che avendo qualcosa come duecento studenti, le relazioni di laboratorio andavano preparate secondo un determinato criterio, in maniera da poterle valutare con facilità. Chris decise che si trattava di una regola stupida e la ignorò. Preparò le sue relazioni, ma non secondo il criterio corretto, e l'insegnante gli diede l'insufficienza. Dopo aver parlato con quel tale, tornai a casa e dissi a mio figlio che aveva ricevuto il voto che si meritava.» Sia Chris che Carine condividevano la passione per la musica di Walt. Chris imparò a suonare chitarra, piano e corno da caccia. «Era strano per un ragazzetto della sua età» racconta il padre «ma gli piaceva tantissimo Tony Bennett. Si metteva a cantare pezzi come Tender is the night mentre lo accompagnavo al piano. Ed era bravo.» Non a caso in un filmato scherzoso girato al college, si sente Chris che intona Summers by the sea/Sailboats in Capri, rivelando una sorprendente verve canora. Si rivelò talmente bravo col corno da caccia che in età adolescenziale entrò nell'American University Simphony, abbandonata in seguito, secondo Walt, perché non gradiva le regole imposte dal leader della banda scolastica. Carine invece ricorda che le cose andarono diversamente: «Smise di suonare, in parte perché non gli piaceva che gli venisse detto quello che doveva fare, in parte anche per causa mia. Bisogna ammettere che all'epoca cercavo in tutti i modi di essere come mio fratello, e quindi cominciai pure io a suonare il corno da caccia. Il fatto è che, alla fine, unica volta nella storia, diventai molto più brava di Chris. Alle superiori, quando ero in prima, mio fratello era all'ultimo anno, però io riuscii a guadagnarmi la prima fila nella banda dei grandi. E non c'era proprio verso che Chris accettasse di sedersi dietro la sua cavolo di sorellina». In ogni modo la rivalità musicale non sembra aver compromesso il loro rapporto. Fin da piccoli erano stati legati da profonda amicizia, insieme nel soggiorno della casa di Annandale avevano passato ore a costruire fortini con lenzuola e cuscini. «Era molto bravo con me» ricorda Carine «ed e-
stremamente protettivo. Mi teneva per mano quando camminavamo per strada e quando già andava alle medie, mentre io ancora stavo alle elementari, usciva da scuola prima di me e mi aspettava dal suo amico Brian Paskowitz per tornare a casa insieme.» Chris aveva ereditato i lineamenti angelici di Billie, soprattutto gli occhi, le cui scure profondità rivelavano ogni emozione. Pur non essendo alto nelle foto scolastiche compare sempre in prima fila, il più basso di tutti per la sua stazza Chris era massiccio e ben proporzionato. Si cimentò in varie discipline sportive, ma non ebbe mai la pazienza di impararne le raffinatezze. Quando la famiglia andava a sciare nel Colorado, raramente si prendeva la briga di fare le curve. La sua tecnica preferita era quella di accovacciarsi a mo' di gorilla, tenere le gambe larghe per guadagnare equilibrio e puntare gli sci dritti a valle. Analogamente, spiega Walt, «quando cercai di insegnargli a giocare a golf, rifiutò di accettare che la forma è tutto. Ogni volta Chris partiva con le sue sventole e in qualche occasione la pallina faceva anche trecento metri, solo che più spesso scivolava nell'altro percorso e basta». «Chris aveva un grande talento naturale» prosegue Walt «ma se cercavi di istruirlo, di perfezionare la sua abilità, di tirare fuori un benedetto dieci per cento, ecco che s'innalzava il muro. Si opponeva a ogni genere di istruzione. Per esempio, io me la cavo piuttosto bene a squash, e quando Chris aveva undici anni, gli insegnai a giocare. Verso i quindici o sedici anni, non c'era incontro in cui non mi battesse. Era molto, molto veloce, e aveva una notevole potenza. Quando però gli consigliai di lavorare sulle lacune, rifiutò di darmi ascolto. Più tardi, in un torneo, dovette giocare contro un quarantacinquenne di grande esperienza. Appena cominciato l'incontro Chris accumulò punti, ma l'altro non stava facendo altro che metterlo metodicamente alla prova, per scovare il suo tallone d'Achille. Non appena individuò quale colpo mettesse Chris in maggiore difficoltà, fece in modo che non ne vedesse altri, e per mio figlio fu la fine.» Sfumature, strategie, tutto ciò che va oltre i rudimenti della tecnica erano uno spreco di tempo per Chris. Affrontava le sfide di petto, subito, e facendo pieno ricorso alla sua straordinaria energia. Di conseguenza spesso incassava delusioni. Fu soltanto quando cominciò a correre, un'attività che premia volontà e determinazione piuttosto che finezza o astuzia, che il giovane scoprì la propria vocazione atletica. All'età di dieci anni partecipò alla prima gara, una dieci chilometri su strada, e arrivò sessantanovesimo lasciandosi alle spalle oltre un migliaio di adulti. Rimase stregato. Qualche
anno dopo era già uno dei migliori fondisti della regione. Quando Chris aveva dodici anni, Walt e Billie regalarono a Carine un cucciolo, un piccolo cane pastore delle Shetland di nome Buckley, e il ragazzo prese l'abitudine di portare con sé la bestiola nelle quotidiane corse di allenamento. «In teoria Buckley era mio» racconta Carine «ma lui e mio fratello diventarono inseparabili. Buck era veloce e quando andavano a correre, arrivava sempre prima di Chris a casa. Ricordo che la prima volta che Chris lo batté, era talmente eccitato che cominciò a gridare per tutta la casa: "Ho fregato Buck! Ho fregato Buck!".» Alla W. T. Woodson High School, grande istituzione pubblica di Fairfax, in Virginia, che vanta un'ottima reputazione sia da un punto di vista scolastico che sportivo, Chris diventò capitano della squadra di corsa campestre. Adorava quel ruolo ed elaborò un nuovo ed estenuante programma d'allenamento che i compagni faticano a scordare. «Voleva davvero andare oltre» spiega Gordy Cucullu, il membro più giovane della squadra. «Chris ideò questo tipo di allenamento che chiamava "guerrieri della strada": ci guidava in giri lunghi come la fame attraverso campi coltivati, cantieri edili, posti in cui non avremmo neanche potuto passare, e apposta cercava di farci perdere l'orientamento. Correvamo più lontano e più veloce possibile, lungo strani percorsi, boschi, qualsiasi cosa, con lo scopo evidente di perderci, di spingerci in territori sconosciuti, per poi correre a passo leggermente più lento, fino a quando non scorgevamo una strada conosciuta e filavamo a casa a piena velocità. In un certo senso Chris ha affrontato così tutta la vita.» Per McCandless la corsa era un intenso esercizio spirituale che rasentava la religione. «Per cercare di motivarci, ricorreva agli aspetti spirituali» ricorda Eric Hathaway, un altro amico della squadra. «Ci diceva di pensare a tutto il male nel mondo, a tutto l'odio, e di immaginarci di correre contro le forze oscure, contro quel muro del male che ci impediva di dare il meglio. Per Chris riuscire bene in qualcosa era una questione mentale, una semplice questione di ottimizzazione dell'energia disponibile. Quel genere di discorsi ebbero su di noi, ragazzini delle superiori, un effetto trascinante.» Tuttavia la corsa non si esauriva nello spirito, ma coinvolgeva anche la competitività: quando McCandless correva, lo faceva per vincere. «Chris prendeva molto sul serio la corsa» racconta Kris Maxie Gillmer, membro femminile della squadra e all'epoca forse sua migliore amica a Woodson. «Ricordo che dal traguardo stavo a guardarlo mentre correva, e sapevo quanto desiderasse andare bene e quanto ci sarebbe rimasto male se il ri-
sultato fosse stato peggiore del previsto. Riusciva a essere molto duro con se stesso dopo una brutta gara o anche solo dopo un brutto tempo in allenamento. E non c'era modo di cavargli una parola di bocca. Se cercavo di consolarlo, s'irritava e mi mandava via senza tanti complimenti. Chris interiorizzava la delusione, preferiva andarsene da qualche parte da solo, a tormentarsi. «E non prendeva sul serio soltanto la corsa» prosegue la Gillmer «era così in tutto. A quell'età non ci si aspetta che i ragazzi si tormentino con i grandi problemi dell'umanità. Eppure io lo facevo, e Chris anche, ed è il motivo per cui andavamo così d'accordo. All'intervallo ci trovavamo al suo armadietto e parlavamo della vita, della condizione del mondo, robe serie insomma. Io sono nera, e non sono mai riuscita a capire perché la gente dia tanto peso alla razza. Con Chris potevo parlarne, e sapevo che mi capiva, perché anche lui si poneva lo stesso genere di domande. Mi piaceva molto. Era davvero un ragazzo in gamba.» McCandless prendeva molto a cuore le ingiustizie. All'ultimo anno a Woodson cominciò a essere ossessionato dall'oppressione razziale in Sudafrica. Disse seriamente agli amici di voler contrabbandare armi in quel paese e unirsi alla lotta contro l'apartheid. «Ogni tanto litigavamo per questa storia» ammette Hathaway. «A Chris non piaceva percorrere determinati canali, lavorare all'interno del sistema, aspettare il proprio turno. Diceva: "Dai, Eric, possiamo farcela a tirare su abbastanza soldi per andare in Sudafrica da soli e subito. Bisogna solo prendere una decisione". Replicavo che eravamo soltanto due ragazzini, che non avremmo combinato un gran che, ma non c'era verso di discutere, perché saltava fuori con risposte tipo: "Ah, devo dedurre che a te non interessi cosa è giusto e cosa no".» Durante i fine settimana, mentre i compagni di scuola cercavano di entrare nei bar di Georgetown, McCandless si aggirava per i quartieri più depressi di Washington a chiacchierare con prostitute e senza tetto, a offrire loro un pasto o un consiglio sincero per migliorare le loro condizioni. «Chris non capiva come si potesse permettere che qualcuno patisse la fame, specialmente in questo Paese» spiega Billie. «Se si scatenava, era capace di andare avanti per ore a parlare di queste cose.» Una volta raccolse un barbone dalle strade della capitale e lo portò nella florida e frondosa Annandale. Di nascosto sistemò l'uomo nel caravan Airstream dei genitori, che stava parcheggiato di fianco al garage. Walt e Billie non si accorsero mai di ospitare un vagabondo. Un'altra volta ancora andò in macchina a casa dell'amico Hathaway e gli
annunciò che stavano per andare in città. «Figata!» ricorda di aver pensato Hathaway. «Era venerdì sera e presumevo che fossimo diretti a Georgetown per andare a qualche festa. Invece Chris parcheggiò in fondo alla quattordicesima, che all'epoca era una zona molto brutta, e poi disse: "Sai, Eric, puoi anche leggere di queste realtà, ma fino a quando non le vivi, non puoi capirle veramente. Ecco cosa faremo stasera". E fu così che per qualche ora mi ritrovai a girovagare per postacci, a parlare con papponi, prostitute e miserabili. Mi sentivo, come dire, spaventato. «Verso la fine della serata Chris mi domandò quanti soldi avessi in tasca e gli risposi di avere cinque dollari. Lui ne aveva dieci. "Bene, tu paghi la benzina," mi disse "e io prendo qualcosa da mettere sotto i denti". Così spese i suoi dieci dollari per una grande borsa di hamburger che cominciammo a distribuire dalla macchina qua e là, a gente puzzolente che dormiva sulle grate. Fu il venerdì sera più strampalato della mia vita. Ma Chris faceva spesso cose del genere.» Al principio dell'ultimo anno a Woodson, il giovane informò i genitori che non aveva intenzione di andare al college. Quando Walt e Billie gli fecero notare che senza una laurea era impossibile costruirsi una carriera appagante, il figlio rispose che la carriera era un'avvilente «invenzione del ventesimo secolo», più una passività che un'attività, e che se la sarebbe cavata senza. «Questo ci mise un po' in agitazione» ammette Walt. «Sia Billie che io veniamo da famiglie operaie. Per noi una laurea costituisce qualcosa di importante e avevamo lavorato tanto per poterci permettere di mandare i ragazzi in scuole di buon livello. A quel punto, Billie lo fece mettere a sedere e gli disse: "Chris, se veramente vuoi cambiare il mondo, se veramente vuoi aiutare le persone meno fortunate, prima procurati un po' di potere. Vai al college e prenditi una laurea in legge. Allora sì che sarai in grado di avere un peso".» «Chris prendeva bei voti» ricorda Hathaway. «Non si metteva mai nei guai, era uno che puntava in alto, e faceva quello che doveva fare. I suoi genitori davvero non avevano di che lamentarsi. Per la storia del college però se la presero parecchio, e qualsiasi cosa gli abbiano detto deve aver funzionato, perché alla fine Chris andò a Emory, pur continuando a pensare che fosse inutile, uno spreco di tempo e denaro.» In qualche modo è sorprendente che Chris abbia ceduto alle pressioni dei genitori per il college quando si rifiutava di ascoltarli per tante altre cose. D'altro canto è pur vero che nel suo rapporto con Walt e Billie non manca-
rono mai apparenti contraddizioni. Quando era con Kris Gillmer, dava spesso contro i genitori, ritraendoli come irragionevoli tiranni, invece con i ragazzi - Hathaway, Cucullu e un'altra stella dell'atletica, Andy Horowitz raramente se ne lagnava. «La mia impressione era che i suoi genitori fossero molto perbene» racconta Hathaway «non diversi dai miei o da quelli degli altri. Solo che a Chris non piaceva che gli si dicesse cosa doveva fare, e sarebbe stato scontento di chiunque. Sostanzialmente il suo problema non erano i suoi, ma il concetto stesso di genitori.» La personalità di McCandless è talmente complessa da risultare sconcertante. Era molto introverso, ma sapeva diventare socievole e comunicativo fino all'eccesso. Possedeva un'acuta coscienza sociale, ma non era certo il classico benefattore taciturno e scontroso che disapprova il divertimento. Anzi, di tanto in tanto non disdegnava alzare il gomito, e fu sempre un incorreggibile istrione. Forse il paradosso maggiore riguarda i suoi sentimenti nei confronti del denaro. Sia Walt che Billie avevano conosciuto la povertà da giovani e, dopo aver combattuto per uscirne, non vedevano nulla di male nel godere i frutti delle loro fatiche. «Lavoravamo sodo, molto sodo» sottolinea Billie. «Quando i bambini erano piccoli, rinunciammo a molte cose. I guadagni li mettevamo da parte, come investimento per il futuro.» Quando poi il futuro finalmente era arrivato, non avevano scialacquato la modesta ricchezza, ma si erano comperati bei vestiti, qualche gioiello per Billie, la Cadillac, e alla fine si erano trasferiti sulla baia, acquistando casa e barca. Avevano portato i ragazzi in Europa, a sciare a Breckenridge e in crociera ai Caraibi. Ma Chris, riconosce Billie, «viveva tutto questo con estremo imbarazzo». Suo figlio, il giovane tolstoiano, considerava la ricchezza qualcosa di vergognoso, corruttivo, intrinsecamente maligno, ma ironicamente possedeva un'innata indole da capitalista e riusciva a riempirsi le tasche con prodigiosa destrezza. «Chris ha sempre avuto la stoffa dell'imprenditore» ammette Billie con una risata. «Sempre.» A soli otto anni aveva avviato un'attività coltivando verdure nel giardino sul retro di casa, ad Annandale, e smerciandole porta a porta nel vicinato. «Ti vedevi arrivare questo frugoletto tutto carino che spingeva il carro pieno di fagioli freschi, pomodori e peperoni» racconta la sorella. «E chi gli poteva resistere? Chris lo sapeva benissimo. Assumeva il tipico sguardo "sono tanto carino, non vorresti comprarmi dei fagioli?". E non c'era volta che non tornasse a casa col carretto vuoto e le tasche piene.» A dodici anni fu la volta delle fotocopie. Stampò una pigna di volantini e
li distribuì nel quartiere: «Le copie veloci di Chris», con ritiro e consegna gratuiti. La fotocopiatrice era quella dei genitori - ai quali pagava qualche centesimo a foglio -, ai clienti accordava un paio di centesimi in meno del negozio all'angolo, e in tasca gli restava un buon profitto. Nel 1985, dopo il terzo anno a Woodson, Chris fu assunto da un imprenditore edile per piazzare vendite nel quartiere e pubblicizzare opere di ristrutturazione per facciate o interni. Ottenne un successo sorprendente e si rivelò un venditore senza pari. Nel giro di pochi mesi contava già cinque o sei studenti alle sue dipendenze e un risparmio di settemila dollari che in parte avrebbe investito nell'acquisto della Datsun gialla, la sua B210 usata. La destrezza che rivelava nel vendere era tale che nella primavera del 1986, quando il diploma era ormai vicino, il padrone dell'impresa edile telefonò a Walt e si offrì di pagare il college al ragazzo se il padre l'avesse persuaso a rimanere ad Annandale a studiare e continuare col lavoro invece di lasciare tutto per andarsene a Emory. «Quando accennai la proposta a Chris» ricorda Walt «non ne volle neanche sapere. Rispose al capo che aveva altri progetti per la testa.» Non appena la scuola fu finita, annunciò che si sarebbe messo sulla strada con la nuova macchina e che avrebbe trascorso l'estate in giro per il Paese. Nessuno poteva prevedere che quel viaggio sarebbe stato la prima di una serie di avventure transcontinentali, e neppure che in quell'occasione una casuale scoperta avrebbe irrimediabilmente portato Chris a chiudersi in sé, trascinando se stesso e tutti quelli che lo amavano in una palude di rabbia, incomprensione e dolore. 12 ANNANDALE Datemi la verità, invece che amore, denaro o fama. Sedetti a una tavola imbandita di cibo ricco, vino abbondante e servi ossequiosi, ma alla quale mancavano la sincerità e la verità; partii affamato da quel desco inospitale. L'ospitalità era fredda come i gelati. HENRY DAVID THOREAU, Walden ovvero vita nei boschi (passaggio evidenziato in uno dei libri rinvenuti con la salma di Chris McCandless. In alto alla pagina era annotata in grande la parola «verità» nella calligrafia del ragazzo)
Perché i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre buona parte di noi è malvagia e naturalmente preferisce la pietà. G. K. CHESTERTON Nell'afoso fine settimana della primavera del 1986, quando Chris si diplomò alla Woodson High School, Walt e Billie diedero una festa in suo onore. Pochi giorni prima, il 10 giugno, Walt aveva compiuto gli anni e Chris alla festa si presentò con un regalo: un costosissimo telescopio Questar. «Ricordo che stavo seduta lì, quando Chris diede il regalo a papà» racconta Carine. «Quella sera devo dire che aveva bevuto un pochino ed era, come dire, sull'allegro andante. Diventò molto emotivo, addirittura scoppiò quasi a piangere e, ricacciando indietro le lacrime, disse a papà che anche se negli anni avevano avuto i loro scontri, gli era comunque grato per tutto ciò che aveva fatto per lui. Gli disse quanto lo rispettasse per aver cominciato dal nulla, per essersi fatto strada al college, facendosi in quattro per crescere otto figli. Fu un discorso molto commovente, a tutti i presenti venne il magone. Dopodiché partì per il suo viaggio.» Walt e Billie non cercarono di impedire al figlio di partire, ma lo convinsero a portare con sé la carta di credito Texaco di Walt, in caso di emergenze, e gli strapparono la promessa di telefonare a casa ogni tre giorni. «Per tutto il tempo che durò quel viaggio, restammo col cuore in gola» confessa il padre «ma non c'era stato verso di dissuaderlo.» Dopo aver lasciato la Virginia, Chris si diresse dapprima a sud e poi a ovest, attraverso le pianure del Texas, la calura del Nuovo Messico e dell'Arizona, per toccare infine la costa pacifica. All'inizio mantenne la promessa di telefonare regolarmente, ma con l'avanzare dell'estate, le chiamate si diradarono sempre più. Non fece ritorno ad Annandale che due giorni prima dell'inizio del semestre autunnale e quando rimise piede in casa aveva barba incolta, capelli lunghi e aggrovigliati, e quindici chili in meno in un fisico già asciutto. «Non appena seppi che era tornato» ricorda Carine «corsi in camera sua. Lo trovai sul letto, addormentato. Era talmente magro da far venire in mente i ritratti di Gesù Cristo in croce. Quando mamma si accorse di quanto peso avesse perso, ne rimase sconvolta. Cominciò a cucinare come una matta per cercare di rimettergli addosso un po' di carne.» In seguito venne fuori che verso la fine del viaggio Chris si era perso nel deserto del Mojave, rischiando di morire disidratato. Quando i genitori ap-
presero che si era sfiorata la tragedia, si spaventarono parecchio, ma non seppero come convincere Chris a comportarsi con maggiore prudenza in futuro. «Mio figlio era bravo in qualsiasi cosa si mettesse a fare» spiega Walt «il che lo rendeva eccessivamente sicuro di sé. Se cercavi di dissuaderlo da qualcosa, non si metteva a discutere. Educatamente ti rispondeva con un cenno e poi faceva esattamente quello che voleva lui. «Per cui in principio non dissi nulla sulla questione della sicurezza. Giocammo a tennis, parlammo d'altro, ma alla fine lo presi in disparte per parlare dei rischi che aveva corso. Avevo già imparato che con mio figlio l'approccio diretto del tipo "per l'amore di Dio non fare più bravate del genere" non funzionava, quindi cercai di spiegargli che non avevamo nulla contro i suoi viaggi, ma che preferivamo si comportasse in maniera un po' più avveduta e che ci tenesse meglio informati sui suoi giri.» Con grande dispiacere del padre, a questo moderato consiglio paterno, Chris reagì rizzando il pelo e da allora in poi sembrò ancora meno propenso a condividere con la famiglia i propri progetti. «Chris» dichiara Billie «ci considerava degli idioti perché ci preoccupavamo per lui.» Nel corso dei suoi viaggi il giovane aveva acquistato un machete e un fucile calibro .30-06. Quando i genitori lo accompagnarono ad Atlanta per iscriversi al college, insistette per portarseli appresso. «Quando salimmo nel dormitorio» ride Walt «pensai che ai genitori del suo compagno di stanza venisse un infarto. L'altro era un ragazzino tutto ordinato del Connecticut, in perfetto stile universitario, e si vide arrivare mio figlio con la barba trascurata, i vestiti logori, l'aria da Jeremiah Johnson e un machete e un fucile da cervo nello zaino. Sa però come andò a finire? Nel giro di novanta giorni il compagno tutto precisino aveva già abbandonato, mentre Chris era nella lista degli studenti migliori.» Con stupore di Walt e Billie Chris sembrò sempre più entusiasta di studiare a Emory. Ricominciò a radersi e a tagliarsi i capelli corti come ai tempi delle superiori, ottenne buoni risultati e cominciò a scrivere per il giornale della scuola. Parlava addirittura di volersi prendere una laurea in legge dopo il college. «Ehi» si vantò una volta col padre «penso che i miei voti saranno abbastanza alti da poter andare ad Harvard.» Nell'estate dopo il primo anno Chris tornò ad Annandale e si tenne occupato progettando software nell'azienda di famiglia. «Ci mise insieme un programma impeccabile» dice Walt. «Lo usiamo tutt'oggi e ne abbiamo vendute diverse copie a parecchi clienti. Però quando gli chiesi di farmi
vedere come lo avesse scritto, di spiegarmi come facesse a funzionare così, niente da fare, mi rispose picche. "A te serve sapere che funziona e basta" mi rispose. "Non c'è bisogno che capisca perché e percome." Era tipico di mio figlio, ma riuscì lo stesso a mandarmi su tutte le furie. Sarebbe stato un perfetto agente segreto, dico sul serio, conosco della gente che lo fa di mestiere. Mio figlio ci diceva soltanto quello che riteneva fosse necessario, e niente più. Si comportava così riguardo a qualsiasi cosa.» Per molti versi la personalità di Chris lasciava perplessi i genitori. A volte arrivava a essere fin troppo generoso e premuroso, altre invece rivelava un lato oscuro di sé, caratterizzato da monomania, impazienza e incrollabile egoismo, che peraltro nel corso degli anni di college sembrarono intensificarsi. «Incontrai Chris a una festa dopo il secondo anno a Emory» ricorda Eric Hathaway «ed era evidente che fosse cambiato. Sembrava molto introverso, quasi freddo. Quando gli dissi: "Ehi, che bello rivederti, Chris!", la sua risposta fu: "Sì, come no, è quello che dicono tutti". Non fu per niente facile schiodarlo da quella posizione, l'unica cosa di cui parlava volentieri erano gli studi. A Emory la vita sociale girava intorno ad associazioni universitarie maschili e femminili, quel genere di cose che Chris preferiva evitare. Immagino che quando gli altri ragazzi cominciarono a entrare nelle associazioni, lui si sia allontanato dai vecchi amici e si sia rinchiuso in sé.» Fra il secondo e il terzo anno Chris fece nuovamente ritorno ad Annandale e passò l'estate a consegnare pizze per Domino's. «Non gli importava che non fosse un bel mestiere» racconta Carine. «Faceva un mucchio di soldi. Ricordo che tornava a casa e si metteva a fare i conti sul tavolo della cucina. Poteva anche crollare dalla stanchezza, ma doveva farsi un'idea di quanti chilometri avesse guidato, quanto Domino's gli avesse dato per la benzina, quanto questa costasse effettivamente, il profitto netto della serata, il paragone con quello della settimana precedente, prendeva nota di ogni cosa e mi mostrava come far funzionare un'attività. Non sembrava tanto interessato al denaro quanto al fatto di riuscire a fare bene quello che intraprendeva. Era come un gioco e il denaro non era altro che lo strumento per tenerne il punteggio.» Nel corso dell'estate il rapporto fra Chris e i genitori, che dal momento del diploma in poi era sembrato stranamente cordiale, si deteriorò in maniera significativa. Walt e Billie non riuscivano a capire perché. Stando alla madre «sembrava sempre più spesso incavolato con noi, e diventò ritroso, anzi no, non è la parola giusta, Chris non è mai stato ritroso, ma non ci
diceva più cosa pensasse, e passava sempre più tempo da solo». Soltanto in seguito emerse che la rabbia covata da Chris derivava da una scoperta risalente a due estati prima, in occasione della traversata del Paese. Una volta arrivato in California, il ragazzo aveva fatto tappa a El Segundo, dove fino a sei anni aveva abitato con mamma e papà. Si era messo in contatto con un certo numero di vecchi amici di famiglia e da loro aveva appreso particolari del precedente matrimonio del padre che fino ad allora non conosceva. La separazione di Walt da Marcia non era stata né limpida né amichevole. Per molto tempo, anche dopo essersi innamorato di Billie e dopo la nascita di Chris, Walt aveva continuato in segreto la relazione con la moglie, dividendo il proprio tempo fra una famiglia e l'altra. Si erano dette bugie, scoperte bugie, e ridette bugie per coprire quelle vecchie. Due anni dopo la nascita di Chris, Walt ebbe un altro figlio da Marcia, Quinn McCandless. Quando la doppia vita dell'uomo venne alla luce, la rivelazione provocò ferite profonde e tutte le persone coinvolte soffrirono enormemente. Infine Walt, Billie, Chris e Carine si erano trasferiti sulla costa orientale, il divorzio con Marcia era finalmente stato perfezionato e Walt e Billie avevano potuto legalizzare la propria unione. Tutti si erano sforzati di continuare la propria vita e di buttarsi alle spalle queste burrascose vicissitudini familiari. Da allora erano trascorsi due decenni, i protagonisti erano maturati, colpa, dolore e gelosia erano svaniti in un lontano passato e sembrava che la tempesta fosse ormai cessata, quando d'improvviso nel 1986 Chris decise di fare tappa a El Segundo, contattò i vicini d'un tempo e apprese ogni dettaglio dello spiacevole episodio. «Mio fratello era quel genere di persona che rimugina sui fatti» osserva Carine. «Se qualcosa lo disturbava, non è che saltasse fuori a dirtelo subito. Se lo teneva dentro, covando risentimento e lasciando che i sentimenti negativi crescessero a dismisura.» E pare proprio che dopo le rivelazioni di El Segundo il ragazzo abbia reagito così. Quando si tratta dei propri genitori, i figli riescono a diventare giudici spietati e poco inclini alla clemenza, e ciò fu particolarmente vero nel caso di Chris. Ancor più degli adolescenti in genere Chris vedeva solo il bianco o il nero, e giudicava se stesso e gli altri secondo un codice morale di insostenibile rigore. Curiosamente, però, non con tutti usava gli stessi rigidi parametri. Uno degli individui che sembrò stimare molto negli ultimi due anni di vita fu un etilista, nonché incorreggibile donnaiolo, che regolarmente usava vio-
lenza alle fidanzate. Chris era consapevole dei difetti di quest'uomo, eppure riuscì a perdonarglieli. Analogamente, riuscì a perdonare, o sorvolare, le pecche dei suoi eroi letterari: Jack London era un noto ubriacone e Tolstoj, malgrado la famosa campagna a sostegno all'astinenza, era stato un entusiasta amatore in gioventù e aveva almeno tredici figli, alcuni dei quali furono concepiti proprio mentre il severo conte lanciava tonanti accuse contro i mali del sesso. Come molte persone, Chris sembrava giudicare gli artisti e gli amici stretti in base alle loro opere e non alla loro vita. Eppure non riuscì mai, per temperamento, a estendere quest'indulgenza al proprio padre. Ogni volta che Walt McCandless, coi suoi modi severi, dispensava un'ammonizione paterna a Chris, Carine o ai fratellastri, il ragazzo ripensava alla mancanza di sincerità dimostrata in passato e silenziosamente lo giudicava un ipocrita bigotto. Si legava al dito ogni minima cosa e col tempo sviluppò una tale collera di farisaica indignazione che non riuscì più a tenerla repressa. Dopo aver dissotterrato i particolari del divorzio del padre dovettero passare due anni prima che la rabbia cominciasse a traboccare, ma alla fine giunse anche quel momento. Non riusciva a perdonare al padre gli errori commessi in gioventù e ancor meno era disposto a perdonare il tentativo di occultamento. Più tardi avrebbe confessato a Carine e ad altre persone che l'inganno commesso da Walt e Billie rendeva la sua «intera infanzia una specie di finzione». Eppure né allora né mai affrontò la questione coi genitori. Al contrario si sforzò di tenere segreta l'oscura verità e di esprimere trasversalmente la propria rabbia, tramite il silenzio e un'ostile ritrosia. Nel 1988, quando il risentimento nei confronti dei genitori si fece più intenso, crebbe anche lo sdegno per le ingiustizie perpetrate nel mondo in generale. Quell'estate, ricorda Billie, «Chris cominciò a prendersela con tutti i ragazzi ricchi di Emory». Un numero sempre maggiore delle lezioni che frequentava era incentrato su urgenze sociali come razzismo, fame nel mondo, iniqua distribuzione della ricchezza. Tuttavia, malgrado l'avversione per il denaro e per l'eccessivo consumo, Chris non poteva definirsi un liberale. Al contrario si divertiva a ridicolizzare la politica del partito democratico ed era un aperto sostenitore di Ronald Reagan. A Emory arrivò addirittura a fondare insieme ad altri un club per studenti repubblicani. Le sue posizioni apparentemente anomale sono forse ben riassunte nella dichiarazione di Thoreau in Disobbedienza civile: «Accetto con vigore il motto
"migliore è il governo che governa di meno"». Ma oltre a ciò non è facile scorgere una chiara definizione delle sue vedute. Come aiuto redattore della pagina editoriale del The Emory Wheel produsse una serie di articoli che, riletti a dieci anni di distanza, forniscono un bel quadro del giovane McCandless e della sua indole passionale. Le opinioni che esprimeva sulla carta, argomentate con stravagante logica, erano chiare come il sole. Satireggiò Jimmy Carter e Joe Biden, invocò le dimissioni del ministro della Giustizia Edwin Meese, attaccò duramente il fondamentalismo cristiano, sollecitò prudenza nei confronti della minaccia sovietica, accusò i giapponesi per la caccia alle balene e difese Jesse Jackson come possibile candidato alla presidenza. Con una dichiarazione tipicamente immoderata, l'incipit dell'editoriale di McCandless datato 1 marzo 1988 recita: «Siamo entrati nel terzo mese dell'anno e già il 1988 si delinea come una delle annate politicamente più corrotte e scandalose della storia moderna. [...]». Chris Morris, il direttore del giornale, ricorda Chris come un carattere «intenso». All'interno del gruppo di amici sempre più sparuto, col passare dei mesi McCandless sembrava crescere di intensità. Nella primavera del 1989, non appena si conclusero le lezioni, Chris montò sulla Datsun e partì per un'altra lunga ed estemporanea avventura sulla strada. «In tutta l'estate ricevemmo due cartoline» ricorda Walt. «La prima diceva "diretto in Guatemala", e quando la lessi pensai, mio Dio, vedrai che si unirà ai ribelli, lo sbatteranno contro un muro e me lo ammazzeranno. Poi, verso la fine della stagione, arrivò la seconda, che diceva soltanto: "Lascio Fairbanks domani, ci vediamo fra un paio di settimane". Dunque doveva aver cambiato idea e, invece di dirigersi a sud, era arrivato in Alaska.» La pesante e polverosa risalita dell'Alaska Highway costituì la prima visita di Chris nel lontano Nord. Fu un soggiorno breve - rimase poco nei paraggi di Fairbanks perché dovette precipitarsi ad Atlanta per l'inizio delle lezioni - ma sufficiente per infondergli la malia degli immensi paesaggi, delle tinte spettrali dei ghiacciai e della trasparenza del cielo subartico. Prima o poi, non c'era dubbio, avrebbe fatto ritorno lassù. Durante l'ultimo anno a Emory Chris non aveva abitato al campus ma in una camera spoglia e spartana, dove l'arredamento non era altro che un materasso buttato sul pavimento insieme a qualche cassetta di latte. Un professore gli aveva procurato la chiave per accedere alla biblioteca anche dopo la chiusura e Chris vi trascorreva gran parte del tempo libero. Gli amici che frequentava fuori dalle aule scolastiche erano pochi. Una mattina
presto, poco prima della fine del college, Andy Horowitz, il vecchio compagno delle superiori e delle corse campestri, s'imbatté in Chris fra gli scaffali della biblioteca. Malgrado studiassero insieme anche a Emory, era da due anni che non s'incontravano. Ci fu un breve scambio di parole imbarazzate, dopodiché Chris scomparve dietro un paravento. Quell'anno il ragazzo si fece sentire poco anche dai genitori e, visto che non aveva il telefono, anche per loro non era facile mettersi in contatto con lui. La sua lontananza affettiva fu fonte di sempre maggiore preoccupazione per Walt e Billie. In una lettera la madre gli scrisse: «Ti sei completamente staccato dalle persone che ti amano e si curano di te. Qualunque sia la ragione, qualunque sia la tua nuova compagnia, pensi che sia giusto?». Tali parole furono viste come un'intromissione nella sua intimità e, con Carine, Chris definì quella lettera «stupida». «Cosa cazzo significa "qualunque sia la tua nuova compagnia"?» tuonò alla sorella. «Si dev'essere bevuta il cervello. Sai cosa scommetto? Scommetto che pensano che sia diventato gay. E da dove l'hanno tirata fuori quest'idea? Che razza di imbecilli.» Nella primavera del 1990, quando Walt, Billie e Carine presenziarono alla cerimonia di laurea, pensarono che il ragazzo fosse felice. Lo videro attraversare il palco e prendere il certificato con un sorriso da orecchio a orecchio e più tardi raccontò loro di avere in mente un altro lungo viaggio che però includeva una visita ad Annandale prima della partenza. Poco tempo dopo invece diede in beneficenza alla Oxfam il saldo del suo conto corrente, caricò l'auto e uscì per sempre dalle loro vite. Da quel momento in poi evitò scrupolosamente di mettersi in contatto con i genitori e anche con Carine, la sorella a cui sembrava tenere moltissimo. «Quando smisero di arrivare sue notizie, ci preoccupammo da maledetti» confessa Carine «e penso che il sentimento dei miei genitori fosse un misto di dolore e rabbia. Personalmente, non mi sentivo ferita per il fatto che non ci scrivesse. Sapevo che era felice e che stava facendo quello che desiderava. Capivo quanto fosse importante per lui vedere fino a che punto riusciva a essere indipendente, e sapeva bene che se mi avesse scritto o telefonato, mamma e papà avrebbero scoperto dove si trovava e sarebbero corsi a riprenderlo.» Walt non nega e confessa: «Ah, non c'è dubbio. Se soltanto avessimo immaginato dove poterlo cercare, è sicuro come l'oro che mi ci sarei precipitato in un lampo, avrei scovato il nostro figliolo e me lo sarei riportato a casa».
Col passare dei mesi, e poi degli anni, senza ricevere una parola da Chris, l'angoscia crebbe. Billie non andava mai via di casa senza lasciare un bigliettino per il figlio attaccato alla porta. «Ogni volta che in macchina vedevamo un autostoppista che ricordava in qualche modo nostro figlio, facevamo inversione e tornavamo indietro. Fu un periodo terribile. La notte era la parte peggiore, specialmente se faceva freddo o pioveva, ti domandavi: "Dove sarà? Starà al caldo? Si sarà fatto male? È solo? Starà bene?".» Nel luglio del 1992, due anni dopo la partenza di Chris da Atlanta, Billie saltò sul letto a Chesapeake Beach nel mezzo della notte e svegliò Walt. «Ero certa di aver sentito la voce di mio figlio che mi chiamava» spiega, le lacrime le rigano il volto. «Non so come potrò superare questa cosa. Non stavo sognando, non me lo sono immaginato, era proprio la sua voce che mi pregava: "Mamma, aiutami!", ma non potevo aiutarlo perché non sapevo dove fosse. E non mi disse nient'altro, solo: "Mamma, aiutami!".» 13 VIRGINIA BEACH Le proprietà fisiche del territorio trovavano in me una corrispondenza. I sentieri che mi ritrovavo a percorrere conducevano esternamente a colline e acquitrini, ma avevano uno sviluppo anche interiore. E dallo studio del suolo, dal leggere e dal pensare derivò una sorta di esplorazione, in me stesso e nella terra che col tempo nella mente diventarono un tutt'uno. Con la forza accentratrice della cosa essenziale che si realizza in terreno prematuro, si affacciò in me un anelito tenace e appassionato: gettare via il pensiero, per sempre e con tutte le noie che ne derivano, per conservare soltanto il desiderio immediato, diretto e urgente. Avviarsi lungo il sentiero senza voltarsi indietro. Che andassi a piedi, con scarponi o in slitta, fra le ombre tardive e raggelanti delle colline d'estate, una fiammata in alto o un percorso nella neve avrebbero indicato dove sarei andato. E che il resto dell'umanità mi trovasse se ne fosse capace. JOHN HAINES, The stars, the snow, the fire: twenty-five years in the northern wilderness Sulla mensola del camino in casa di Carine McCandless a Virginia Be-
ach troneggiano due fotografie incorniciate: una di Chris al primo anno delle superiori, l'altra sempre di Chris a sette anni, con cravattina storta e abito a taglia ridotta, accanto alla sorellina tutta pizzi e gale col cappellino nuovo per Pasqua. «La cosa sorprendente» commenta Carine guardando le immagini del fratello «è che anche se le foto sono state scattate a dieci anni di distanza l'una dall'altra, la sua espressione è identica.» Ed è vero: in entrambe le immagini Chris fissa l'obiettivo con lo stesso sguardo pensoso ed esitante di chi è stato interrotto nel mezzo di qualche importante riflessione e prova fastidio a dover sprecare tempo davanti a un obiettivo. Questa espressione risulta ancor più evidente nell'immagine scattata a Pasqua, perché è in netto contrasto con l'esuberante gioiosità della sorellina accanto a lui. «È proprio Chris» commenta Carine con un sorriso affettuoso. «Aveva spesso quello sguardo.» Sul pavimento ai piedi della ragazza è accucciato Buckley, il pastore delle Shetland a cui Chris era tanto legato. Ormai ha tredici anni, il muso gli si è incanutito e zoppica qua e là trascinando una zampa artritica. Eppure quando Max, l'altro cane di Carine - un Rottweiler di un anno e mezzo -, s'intrufola nel suo territorio, la bestiola piena d'acciacchi non esita a sfidare settanta chili di avversario con un rumoroso abbaiare e una raffica di morsi ben piazzati che alla fine costringono l'altro a battere in ritirata. «Chris diventava matto per Buck» ricorda Carine. «L'estate in cui scomparve, desiderava portarlo con sé e, una volta finito il college, ne aveva chiesto il permesso a mamma e papà. Soltanto che Buck era appena stato investito e doveva ancora riprendersi, per cui gli risposero di no. Adesso, ovviamente, rimpiangono la decisione, anche se d'altra parte è vero che il cane era conciato male; il veterinario aveva detto che non avrebbe mai più camminato dopo quell'incidente. Però loro non possono non domandarsi, e neppure io d'altronde, come sarebbero andate le cose se Chris avesse portato Buck con sé: mio fratello non ci pensava due volte a mettere a repentaglio la propria vita, ma mai l'avrebbe fatto con quella di Buck. Certamente se il cane fosse stato con lui, non avrebbe corso gli stessi rischi.» Col suo metro e settantacinque circa, Carine McCandless è alta come il fratello, forse qualche centimetro in più, e gli somiglia talmente tanto che spesso li scambiavano per gemelli. È solita accompagnare le parole con ampi gesti: con una mossa del capo sposta dal volto i capelli lunghi fino alla cintola e taglia l'aria con mani piccole ed espressive che enfatizzano le sue parole. È a piedi nudi, con un crocifisso d'oro al collo e jeans accuratamente stirati che sul davanti fanno qualche grinza.
Come Chris, anche Carine è energica e sicura di sé, ambiziosa e rapida nell'esprimere la sua opinione. E come Chris, in adolescenza si è scontrata duramente con Walt e Billie. Tuttavia, fra i due ragazzi, esistono più differenze che somiglianze. Carine fece la pace con i genitori poco dopo la scomparsa di Chris e adesso, all'età di ventidue anni, definisce il loro rapporto «estremamente buono». È molto più socievole del fratello e non può neppure immaginare un viaggio solitario, né nella natura né da nessun'altra parte. Inoltre, pur condividendone lo sdegno per le ingiustizie razziali, Carine non ha nulla da obiettare - né moralmente né altrimenti - alla ricchezza. Di recente ha comperato una casa nuova e costosa, e di solito lavora fino a quattordici ore al giorno nella C.A.R. Services Incorporated - l'officina meccanica che possiede insieme al marito, Chris Fish - nella speranza di raggiungere il primo milione di dollari ancora in giovane età. «Me la prendevo sempre perché mamma e papà non facevano che lavorare e non stavano mai con noi» confessa con una risata «ma guardatemi un po', adesso faccio esattamente come loro.» Il fratello, ammette Carine, spesso prendeva in giro questo fervore capitalista e la chiamava la duchessa di York, Ivana Trump McCandless, e «la degna erede di Leona Helmsley». Tuttavia le critiche non andarono mai oltre lo scherzo, Chris e Carine erano straordinariamente uniti. In una lettera di sfogo sui problemi con Walt e Billie, il fratello le scrisse: «Comunque, ne parlo con te perché sei l'unica persona al mondo che può capire quello che penso». Dieci mesi dopo la morte di Chris, Carine ne soffre ancora profondamente. «Non passo giorno senza piangere» ammette con uno sguardo sconcertato. «Per qualche strano motivo, il momento peggiore è quando sono in macchina da sola. Non mi è ancora riuscito una volta di guidare per quei venti minuti che separano casa dall'officina senza pensare a Chris e scoppiare in lacrime. Dopo mi passa, ma quando ci sono in mezzo, è pesante.» La sera del 17 settembre 1992 Carine stava facendo il bagno al suo Rottweiler in giardino, quando l'auto di Chris Fish d'improvviso arrivò nella stradina. La ragazza si stupì di vedere il marito tornare a casa tanto presto abitualmente lavorava fino a notte fonda. «Si comportava in maniera strana» ricorda Carine. «Sulla faccia aveva stampato uno sguardo orrendo. Prima andò dentro, poi uscì fuori, e si mise anche lui a lavare Max. Capii che qualcosa andava storto, perché mio marito non lava mai il cane.»
«Devo parlarti» aveva esordito, quindi Carine lo aveva seguito in casa, aveva sciacquato i collari di Max nel lavandino ed era andata in salotto. «Chris sedeva sul divano, al buio, con la testa china. Aveva l'aria abbattuta. Per sdrammatizzare gli domandai: "Cosa ti succede?". Pensai che gli amici al lavoro gli avessero combinato qualche scherzo, che so, magari gli avevano raccontato di avermi vista con un altro o roba del genere. Mi misi a ridere e gli domandai: "Hai avuto una giornata dura coi ragazzi?". Ma lui non rispose alla mia risata, e quando alzò lo sguardo, vidi che aveva gli occhi rossi.» «Si tratta di tuo fratello» le aveva detto Fish. «L'hanno trovato. È morto.» Sam, il figlio maggiore di Walt, aveva chiamato Fish al lavoro per comunicargli la brutta notizia. La vista di Carine si offuscò, ebbe l'impressione di imboccare un tunnel. Involontariamente, cominciò a scuotere il capo avanti e indietro, avanti e indietro. «No» obiettò al marito «Chris non è morto» e si mise a sbraitare. Le urla erano talmente forti e continuate da far temere a Fish che qualche vicino chiamasse la polizia pensando che le stesse facendo del male. Carine si rannicchiò sul divano in posizione fetale e continuò a gemere, implacabilmente. Quando Fish cercò di avvicinarsi per consolarla, la moglie lo allontanò bruscamente e gli gridò di lasciarla sola. Rimase in quello stato d'isteria per le successive cinque ore, ma intorno alle undici riuscì a calmarsi abbastanza da mettere qualche vestito in una borsa, saltare in macchina col marito e farsi accompagnare a casa di Walt e Billie a Chesapeake Beach, a quattro ore di distanza. Uscendo da Virginia Beach, Carine chiese al marito di passare dalla loro chiesa. «Entrai, e per circa un'ora, mentre Chris mi aspettava in macchina, rimasi seduta davanti all'altare» ricorda. «Volevo delle risposte da Dio, ma non ne ricevetti nessuna.» In serata Sam aveva confermato che l'escursionista della fotografia corrispondeva al fratello, ma il coroner di Fairbanks aveva ugualmente richiesto informazioni sulla dentatura del ragazzo per arrivare a un'identificazione definitiva. Per confrontare le radiografie impiegarono oltre un giorno e Billie si rifiutò di guardare il fax con la foto dello sconosciuto fino a operazione ultimata, fino a che non fosse fugato ogni ragionevole dubbio che la salma ritrovata accanto al fiume Sashana fosse veramente quella di suo figlio. Il giorno seguente Carine e Sam volarono a Fairbanks per prendere Chris. Nell'ufficio del coroner ricevettero i pochi oggetti rinvenuti insieme
al cadavere: il fucile, un binocolo, la canna da pesca di Ronald Franz, uno dei coltelli militari svizzeri di Jan Burres, il quaderno di botanica che conteneva il diario, una Minolta, cinque rullini e niente di più. Il coroner fece passare alcune carte sulla scrivania, Sam le firmò e gliele restituì. Meno di ventiquattr'ore dopo l'atterraggio a Fairbanks, Carine e Sam decollarono nuovamente alla volta di Anchorage dove, finita l'autopsia al Scientific Crime Detection Laboratory, si era provveduto alla cremazione. Le ceneri di Chris furono mandate all'hotel dentro una scatola in plastica. «Rimasi sorpresa di quanto fosse grande quella scatola» ricorda Carine. «Il nome era sbagliato, l'etichetta diceva "Christopher R. McCandless" mentre l'iniziale di mezzo è "J". Mi saltò in mente che potessero aver preso un granchio, che non fosse mio fratello, ma era una follia. Dopodiché pensai che lui non ci avrebbe fatto caso, anzi, forse avrebbe considerato la cosa divertente.» Il mattino seguente, quando presero l'aereo per il Maryland, Carine trasportò le ceneri dentro uno zaino. Durante il volo la ragazza mangiò tutto quello che le fu offerto dal personale di bordo, «anche se» ricorda «era quel mangiare orribile che ti danno sugli aerei. Non potevo sopportare l'idea di buttare via qualcosa sapendo che Chris era morto di fame». Tuttavia, col passare delle settimane l'appetito le passò e perse circa sei chili, facendo temere agli amici l'anoressia. Anche Billie, quarantottenne minuta coi lineamenti da ragazzina, perse cinque chili prima di riacquistare l'appetito, mentre la reazione di Walt fu inversa, cominciò a mangiare in modo eccessivo e ingrassò di cinque chili. Un mese più tardi, Billie, seduta al tavolo del soggiorno, passa e ripassa le fotografie degli ultimi giorni di vita di Chris. Di tanto in tanto scoppia in lacrime, piangendo come soltanto una madre che è sopravvissuta al figlio può fare, tradendo un senso di perdita talmente profondo e irreparabile che la mente vacilla nel constatarne le dimensioni. Una simile sofferenza vista da vicino rende sciocca e inutile perfino la più eloquente delle apologie delle attività ad alto rischio. «È che non riesco a capire perché abbia dovuto correre quel pericolo» protesta Billie fra le lacrime. «Proprio non ci riesco.» 14 LA CALOTTA DI GHIACCIO DELLE STIRINE Crebbi esuberante nel corpo ma teso e impetuoso nella mente.
La mia mente voleva qualcosa di più, qualcosa di tangibile. Cercava la realtà intensamente, sempre come se non fosse presente. [...] Ma è evidente a tutti quel che faccio. Io scalo. JOHN MENLOVE EDWARDS, Letter from a man Ora non saprei dire con certezza, è passato tanto tempo, in quali circostanze feci la prima ascensione, ricordo soltanto che lungo il percorso tremavo (ho il vago ricordo di aver trascorso fuori la notte intera da solo), ma continuai imperterrito ad arrampicarmi su quella cresta rocciosa mezza coperta di striminziti alberi e abitata da bestie selvatiche, fino al punto in cui mi smarrii, fra l'aria d'alta quota e le nuvole, con l'impressione di oltrepassare una linea immaginaria che separa la collina, mero ammasso di terra, da una montagna, passando a sublimità e magnificenza ultraterrene. Ciò che caratterizza la montagna oltre quella linea terrena è l'essere intatta, grandiosa, terribile. Mai può diventare familiare; nel momento stesso in cui vi metti piede, sei smarrito. Conosci la via, eppure vaghi, eccitato, sulla pietra nuda e liscia, come se fossero aria e nuvole solidificate. Non v'è dubbio che quella vetta fosca e rocciosa, nascosta fra le nuvole, fosse assai più terribile, sublime ed eccitante del cratere di un vulcano che sputa fuoco. HENRY DAVID THOREAU, Diario Nell'ultima cartolina spedita a Wayne Westerberg, McCandless aveva scritto: «Se quest'avventura si rivelasse fatale e non dovessi più ricevere mie notizie, sappi che sei un uomo veramente in gamba. Ora mi aspetta la foresta». Quando l'avventura in effetti si rivelò fatale, questa melodrammatica dichiarazione indusse molti a pensare che il ragazzo fin dall'inizio fosse stato incline al suicidio, e che mai avesse avuto intenzione di fare ritorno. Personalmente non ne sono sicuro. Il mio sospetto che la morte di McCandless non sia stata pianificata, e che si trattò di un terribile incidente, deriva dall'analisi dei pochi documenti lasciati e dalla testimonianza delle persone che l'hanno conosciuto nel corso dell'ultimo anno di vita. Devo tuttavia aggiungere che a condizionarmi contribuisce anche una prospettiva più personale. Da giovane, mi dicono, ero testardo, egoista, a tratti spericolato e lunatico. A mio padre procurai le solite delusioni e, analogamente a McCan-
dless, provavo nei confronti della figura dell'autorità maschile un misto di rabbia trattenuta e desiderio di compiacenza. Se qualcosa catturava la mia indisciplinata immaginazione, lo inseguivo con uno zelo che rasentava l'ossessione, e dai diciassette fino a quasi trent'anni questo qualcosa fu rappresentato dall'alpinismo. Trascorrevo gran parte del tempo a fantasticare o intraprendere scalate di remote montagne dell'Alaska e del Canada, pinnacoli oscuri, ripidi e spaventosi, di cui nessuno al mondo, eccetto uno sparuto gruppo di fanatici alpinisti, aveva mai sentito parlare. In realtà, da tutto ciò qualcosa di buono uscì. Infatti, concentrando lo sguardo su una vetta dopo l'altra, ebbi modo di non disorientarmi nella fitta nebbia postadolescenziale. L'alpinismo era diventato importante per me. Il pericolo immergeva il mondo in un bagliore alogeno in cui ogni singola cosa veniva messa in risalto: le curvature della roccia, i licheni gialli e arancioni, la consistenza delle nuvole. La vita pulsava a un ritmo superiore e il mondo si faceva reale. Nel 1977, seduto sullo sgabello di un bar del Colorado a rimuginare sulle disgrazie della mia esistenza, ebbi l'idea di scalare una montagna chiamata Devils Thumb, un'intrusione di diorite che il lavorio di antichi ghiacciai ha trasformato in una torre di immense e spettacolari proporzioni. Soprattutto da nord, la sua imponenza è mozzafiato: la grande parete settentrionale, che non è mai stata scalata, si staglia liscia e pulita per un paio di chilometri circa, ovvero due volte l'altezza dell'El Capitan, nello Yosemite. Il progetto era di arrivare in Alaska, sciare dalla costa sul ghiaccio per una cinquantina di chilometri e arrampicarmi sul portentoso nordwand. Decisi peraltro che avrei fatto tutto da solo. All'epoca avevo ventitré anni, ero dunque più giovane di un anno rispetto a Chris McCandless alla partenza per la sua ultima avventura. I miei calcoli, se così possiamo chiamarli, erano infiammati dalle cieche passioni della giovinezza e da una dieta letteraria troppo ricca di Nietzsche, Kerouac e John Menlove Edwards, quest'ultimo scrittore e psichiatra profondamente disturbato che, prima di mettere fine ai propri giorni nel 1958 con una capsula di cianuro, era stato uno degli alpinisti più eminenti del Regno Unito. Edwards considerava quest'attività una «tendenza psiconeurotica» e non si arrampicava per sport, ma per trovare rifugio dal tormento interiore che attanagliava la sua esistenza. Quando formulai il piano di scalare il Thumb ero vagamente consapevole dei rischi che avrei corso, ma ciò non faceva che accrescere il fascino dell'impresa. Anzi, era esattamente il fatto che non sarebbe stato facile a
costituire il nocciolo dell'impresa. Avevo un libro in cui era riportata la fotografia del Devils Thumb, un'immagine in bianco e nero scattata da un eminente glaciologo di nome Maynard Miller. Nella ripresa aerea di Miller la montagna aveva un aspetto particolarmente sinistro: un'enorme pinna di pietra sfaldata, scura e maculata di ghiaccio. Ricordo che quell'immagine suscitava in me un fascino quasi pornografico. Che sensazione avrei avuto, mi domandavo, a stare in equilibrio su una cresta tagliente come una lama, preoccupato per l'addensarsi di nuvole nere all'orizzonte, piegato contro il vento e il freddo opprimente, a contemplare l'abisso su ogni lato? Riusciva una persona a tenere a freno il proprio terrore abbastanza a lungo da raggiungere la cima e fare ritorno a valle? E se davvero ce l'avessi fatta... no, per scaramanzia preferivo non immaginarmi le conseguenze trionfali. Tuttavia, su una cosa non ebbi mai dubbi: scalare il Devils Thumb avrebbe cambiato la mia vita. Come era possibile il contrario? All'epoca lavoravo a Boulder come carpentiere a tre dollari e cinquanta l'ora. Un pomeriggio, dopo aver passato nove ore a curvare pezzi di cinque centimetri per venticinque e infilare chiodi da sedici penny, informai il capo che me ne sarei andato. «No, no, non fra un paio di settimane, Steve. L'idea era più, come dire, immediata.» Mi ci volle qualche ora per racimolare gli attrezzi e i pochi averi dallo squallido caravan da cantiere in cui mi ero accampato. Subito dopo montai sulla macchina e partii alla volta dell'Alaska. Come sempre mi sorprese constatare quanto fosse facile andarsene via, e quanto ci si sentisse bene nel farlo. Il mondo d'improvviso si riempiva di possibilità. Il Devils Thumb demarca il confine fra Alaska e Columbia Britannica a est di Petersburg, un villaggio di pescatori che può essere raggiunto solo in barca o in aereo. Il piccolo centro era collegato alla terraferma da voli regolari, ma ai tempi le mie risorse consistevano in una Pontiac Star Chief del 1960 e duecento dollari in contanti che non sarebbero bastati nemmeno per un biglietto di sola andata. Di conseguenza non mi rimase che guidare fino a Gig Harbor, nello stato di Washington, abbandonare l'auto e, con qualche lusinga, assicurarmi il passaggio di un peschereccio diretto a nord. La Ocean Queen era una nave da pesca massiccia ed essenziale costruita con spesse tavole di cedro d'Alaska e attrezzata con palamito e rete a sacco. In cambio del passaggio non dovevo che coprire turni regolari al timone - quattro ore di guida ogni dodici - e aiutare a preparare l'attrezzatura
per la pesca dell'ippoglosso. Il lento viaggio attraverso l'Inside Passage si svolse in uno sfocato fantasticare del futuro. Già, ormai ero sulla strada, sospinto da un imperativo che andava oltre la mia capacità di controllo o di comprensione. Quando risalimmo scoppiettanti lo stretto di Georgia, gli ultimi raggi di sole scintillavano sull'acqua e tutt'intorno s'innalzavano precipitosi i versanti ricoperti di scure macchie di cicuta, cedro e oplopanax horridus. I gabbiani roteavano sopra la barca e al largo dell'isola di Malcom finimmo nel mezzo di un gruppo di sette orche. Le pinne dorsali, alte come un uomo, tagliavano la superficie vitrea del mare a un tiro di sputo dalla battagliola. Ricordo che la seconda notte, due ore circa prima dell'alba, mi trovavo sul ponte di comando, quando nel fascio di luce del faro vidi materializzarsi la testa di un cervo mulo. Sguazzava nel mezzo del Fitz High Sound, nelle acque fredde e tenebrose a un paio di chilometri dalla costa canadese. Le retine gli s'infiammarono di rosso nel bagliore accecante e l'animale mi sembrò sfinito e spaventato a morte. D'istinto virai a tribordo e la barca scivolò oltre. Nella scia vidi il cervo ballonzolare un paio di volte prima che l'oscurità lo inghiottisse nuovamente. Gran parte dell'Inside Passage seguiva canali stretti e simili a fiordi, ma passata l'isola di Dundas d'improvviso la vista s'allargava. A occidente c'era l'oceano aperto, la vasta distesa del Pacifico, e l'imbarcazione cominciò a rollare e beccheggiare nel mare di ponente. Le onde s'infrangevano sulla battagliola e in lontananza, oltre il mascone di dritta, comparve un ammasso di piccole vette scoscese che mi fece aumentare il ritmo delle pulsazioni. Quelle montagne annunciavano l'approssimarsi dell'obiettivo: eravamo arrivati in Alaska. Cinque giorni dopo aver lasciato Gig Harbor, la Ocean Queen attraccò a Petersburg per rifornirsi di carburante e acqua. Balzai fuori dall'imbarcazione, caricai il pesante zaino sulle spalle e risalii il molo sotto una pioggia battente. Incerto sul da farsi, cercai rifugio sotto la grondaia della biblioteca cittadina e mi sedetti sopra il bagaglio. Petersburg è un piccolo villaggio piuttosto altezzoso per i parametri della regione. Una giovane dalle lunghe gambe passò di lì e attaccò bottone. Si chiamava Kai, mi disse, Kai Sandburn. Era allegra, spontanea e socievole. Le raccontai del progetto che mi aveva portato fin lassù e con mio grande sollievo la donna né scoppiò a ridere né sembrò considerarlo particolarmente strano. «Quando è limpido» si limitò a commentare «riesci a
vedere il Thumb anche da qui. È bello, sai? Si trova laggiù, proprio di fronte al Frederick Sound.» Seguii il suo braccio che puntò a est, verso un basso muro di nuvole. Kai mi invitò a cena e più tardi srotolai il sacco a pelo sul pavimento di casa sua. Per lungo tempo dopo che la donna si fu addormentata rimasi sveglio nella stanza accanto ad ascoltare il ritmo pacifico del suo respiro. Per mesi mi ero convinto che l'assenza di intimità, la mancanza di contatti umani, non mi sarebbe pesata granché, ma il piacere procuratomi dalla compagnia di questa donna, il suono della sua risata, il tocco innocente di una mano sul mio braccio rivelarono quanto mi fossi ingannato e mi procurarono sofferenza e un senso di vuoto. Petersburg è su un'isola, mentre il Devils Thumb è sulla terraferma, sopra una distesa di ghiaccio chiamata la calotta delle Stikine. Vasta e tortuosa, la calotta ricopre la spina dorsale delle Boundary Ranges a mo' di carapace, sul quale serpeggiano le lunghe lingue blu dei numerosi ghiacciai che il peso dei secoli sospinge gradualmente verso il mare. Per raggiungere le pendici della montagna bisognava procurarsi un passaggio attraverso una quarantina di chilometri di acque salate e risalire con gli sci uno di questi ghiacciai, il Baird, una valle desolata che non vedeva orme umane, ne ero quasi certo, da molti, molti anni. Approfittai del passaggio di tre piantatori che mi lasciarono su una spiaggia di ghiaia fine della Baia di Thomas. A un paio di chilometri di distanza vidi l'ampia fronte striata di detriti del ghiacciaio e nel giro di mezz'ora già mi arrampicavo per cominciare la mia lenta sfacchinata verso il Thumb. Sulla superficie non c'era neve ma pietrisco nero e ruvido che scricchiolava sotto il metallo dei ramponi. Dopo quattro o cinque chilometri arrivai al confine nevoso e sostituii i ramponi con gli sci. Mettermi quegli aggeggi ai piedi significò togliere quasi dieci chili dal carico sulle spalle e ciò mi permise di avanzare più velocemente, anche se sotto la neve potevano nascondersi dei crepacci e il percorso quindi diventava più pericoloso. A Seattle, prevedendo questo genere di rischi, avevo comperato in un negozio di ferramenta un paio di robuste aste per tende in alluminio lunghe tre metri l'una. Le legai a formare una croce e fissai il tutto alla cintola dello zaino in modo che le estremità si allargassero orizzontalmente sopra la neve. Salendo piano e a fatica sotto il forte peso del carico, e con questa ridicola croce metallica, mi sentivo una strana specie di penitente. D'altro canto, se mi fossi trovato a spaccare un sottile strato di neve sopra un cre-
paccio nascosto, speravo che le aste ne avrebbero coperto l'estensione risparmiandomi una caduta nei gelidi abissi del Baird. Continuai a trascinarmi sulla vallata di ghiaccio per due giorni. Il tempo era buono, il percorso ben delineato e senza grandi ostacoli. Trovandomi del tutto solo però, ogni cosa, anche la più banale, acquistava un significato più intenso. Il ghiaccio sembrava più freddo e misterioso, il cielo di un blu ancora più limpido, le cime senza nome che troneggiavano intorno erano ancora più grandi, affascinanti e minacciose di quanto non sarebbero state se mi fossi trovato in compagnia di un'altra persona. Analogamente, erano amplificate anche le emozioni: i momenti di euforia erano più intensi e quelli di disperazione più bui e profondi. Per un giovane coraggioso e inebriato dall'evolversi dell'avventura della vita, tutto ciò racchiudeva un fascino enorme. Tre giorni dopo aver lasciato Petersburg giunsi ai piedi della vera e propria calotta delle Stikine, nel punto in cui il lungo braccio del Baird si unisce al corpo principale di ghiaccio che più sopra fuoriesce da un alto pianoro e s'incanala fra due montagne, dirigendosi verso il mare in una fantasmagoria di ghiaccio in frantumi. Mentre osservavo quello spettacolo a poco più di un chilometro e mezzo di distanza, per la prima volta dalla partenza dal Colorado mi sentii davvero spaventato. La cascata di ghiaccio era straziata da crepacci e seracchi traballanti che da lontano facevano pensare a una tragedia ferroviaria, come una fila infinita di vagoni bianchi deragliati dal bordo del ghiacciaio e rotolati giù per la scarpata. Più mi avvicinavo a quello scenario e meno mi piaceva. Le aste metalliche erano proprio una povera difesa davanti a crepacci larghi più di dieci metri e profondi centinaia. Tuttavia, prima ancora che potessi escogitare una soluzione, si alzò il vento e dalle nuvole prese a scendere una neve violenta che pungeva in faccia e ridusse la visibilità a quasi zero. Per buona parte della giornata brancolai in un labirinto bianco, tornando sui miei passi errore dopo errore. Ogni volta pensavo di aver trovato la via d'uscita, ma mi ritrovavo di fronte a una parete blu scura o sopra un pilastro di ghiaccio a sé stante. I rumori che venivano da sotto i piedi trasmettevano un senso d'urgenza ai miei sforzi. Un madrigale di scricchiolii e scoppi secchi - quel genere di lamento che emette un lungo ramo d'abete quando è lentamente piegato fino al punto di rottura - servivano a ricordare che è nella natura del ghiacciaio muoversi e in quella dei seracchi vacillare. Misi il piede su un ponte di neve sopra una spaccatura di cui non vedevo
il fondo e poco più tardi mi ritrovai nella neve fino al bacino in un altro ponte, ma fortunatamente le aste mi sorressero ed evitai di precipitare per decine e decine di metri. Dopo essermi divincolato, rimasi qualche tempo piegato in due dai conati di vomito al pensiero di come sarebbe stato giacere in un mucchio di neve in fondo a un crepaccio ad aspettare la morte senza che nessuno sapesse come e quando l'avessi incontrata. Ormai era quasi notte quando finalmente raggiunsi la superficie sgombra e levigata dell'altopiano glaciale. In preda al panico e gelato fino al midollo, inforcai gli sci e cercai di allontanarmi al più presto dalla cascata di ghiaccio, per liberare le orecchie dal macabro brontolio. Piantai la tenda, strisciai dentro il sacco a pelo e ancora scosso dai brividi caddi in un sonno discontinuo. Avevo pianificato di passare fra le tre e le quattro settimane sulla calotta e, per evitare di sopportare un pesante carico di cibo, di attrezzatura invernale da campeggio e di vari strumenti per l'arrampicata durante la risalita dal Baird, avevo già dato centocinquanta dollari - ciò che restava dei miei averi - a un pilota di Petersburg, per farmi gettare sei cartoni di provviste dall'aeroplano una volta che avessi raggiunto le pendici del Thumb. Sulla mappa gli avevo mostrato il punto esatto e gli avevo detto di darmi tre giorni per arrivarci. Promise che da quel momento in poi, e non appena il tempo lo avesse permesso, avrebbe sorvolato l'area ed effettuato la consegna. Il 6 maggio organizzai un campo base poco a nordovest del Thumb e aspettai che dal cielo mi arrivassero i rifornimenti. Nei quattro giorni successivi non fece che nevicare, annullando ogni possibilità di volo. Troppo terrorizzato dai crepacci per allontanarmi dall'accampamento, trascorsi gran parte del tempo sdraiato nella tenda - il soffitto era troppo basso per rimanere seduti - a lottare contro un crescente coro di dubbi. Col passare dei giorni crebbe anche l'ansia. Non avevo né radio né altri mezzi di comunicazione col mondo esterno, erano anni che nessuno visitava quella parte della calotta delle Stikine e ne sarebbero trascorsi altrettanti prima che qualcun altro lo facesse di nuovo. Avevo quasi esaurito le scorte di combustibile per il fornello e non mi restava che un pezzetto di formaggio, l'ultimo pacchetto di tagliatelle Ramen e metà scatola di bignè al cacao. Questo, immaginavo, avrebbe potuto sostenermi al massimo per tre o quattro giorni ancora, ma dopo cos'avrei fatto? Ci sarebbero voluti due giorni soltanto per scendere con gli sci fino alla Baia di Thomas, ma a quel punto sarebbe potuta passare anche una settimana prima che un pescatore
passasse di lì e mi riportasse a Petersburg (i tre piantatori coi quali ero venuto si erano accampati a venti chilometri circa, in un punto raggiungibile solo via aria o mare). Quando mi misi a dormire la sera del 10 maggio, nevicava ancora e il vento soffiava forte. Qualche ora dopo udii un debole, momentaneo lamento, appena più percettibile del ronzio di una zanzara. Spalancai la porta della tenda. Gran parte delle nuvole era stata spazzata via, ma all'orizzonte non si vedeva nessun aereo. Il lamento riprese, stavolta con maggiore insistenza, e finalmente lo vidi: un minuscolo puntino rosso e bianco nel cielo, che da ovest ronzava nella mia direzione. Qualche minuto più tardi sorvolò l'accampamento, ma il pilota, non abituato a volare sui ghiacciai, calcolò male la scala del terreno. Preoccupato di abbassarsi troppo e di rimanere inchiodato da un'inaspettata turbolenza, si mantenne ad almeno trecento metri convinto di volare a poca distanza dal suolo. Nella piatta luce serale non poté vedere la mia tenda, e lo sbracciarmi e urlare non valsero a nulla: da quell'altitudine era impossibile distinguermi da un qualsiasi altro ammasso di pietre. Il pilota passò l'ora seguente a disegnare cerchi sopra la calotta, scandagliandone la desolata sagoma senza alcun successo. Devo ammettere in suo favore che si rese conto della gravità della mia situazione e non si dette per vinto. Freneticamente, pensai di legare il sacco a pelo all'estremità di una delle aste metalliche e, per quanto potesse servire, cominciai ad agitarlo nell'aria. Di colpo l'aereo s'inclinò in virata e puntò verso di me. In rapida successione sorvolò tre volte la tenda a bassa quota e lanciò due scatole a ogni passaggio. Poi scomparve dietro una cresta e fui nuovamente solo. Quando il silenzio riprese possesso del ghiacciaio, mi sentii abbandonato, vulnerabile, smarrito e mi accorsi di singhiozzare. Imbarazzato, interruppi il piagnisteo mettendomi a gridare oscenità fino a quando la voce non divenne roca. Mi svegliai presto la mattina dell'11 maggio, col cielo terso e una temperatura relativamente calda, di 7 gradi circa sotto lo zero. Pur spiazzato dal bel tempo e mentalmente impreparato a cominciare l'effettiva scalata, mi affrettai a riempire uno zaino e mi avviai con gli sci verso le pendici del Thumb. Due precedenti spedizioni in Alaska mi avevano insegnato che non si poteva sprecare una delle rare giornate di buon tempo. Dal bordo della calotta si estendeva un piccolo ghiacciaio sospeso che, simile a una passerella, s'innalzava verso e oltre la facciata settentrionale del Thumb. Il mio progetto era quello di seguire questa passerella fino a
una grossa sporgenza di roccia al centro della parete, in modo da aggirare la parte inferiore molto ostica e bersagliata dalle valanghe. La passerella risultò consistere in una serie di ice-field a cinquanta gradi, con profondi crepacci e sopra un manto di neve farinosa che arrivava al ginocchio e rendeva il passo lento e faticoso. Dopo aver risalito coi ramponi il versante a strapiombo del bergschrund più elevato, tre o quattro ore dopo aver abbandonato l'accampamento, ero stravolto. L'arrampicata vera e propria non era neppure cominciata, ma non mancava molto. Poco sopra il ghiacciaio sospeso cedeva il passo alla roccia verticale. Coi pochi appigli e qualche centimetro di brina friabile, la roccia non aveva un'aria molto promettente. Tuttavia, appena a sinistra della sporgenza principale, partiva un sottile nastro di acque di fusione congelate che saliva per circa un centinaio di metri. Non sarebbe stato un cattivo percorso, occorreva soltanto saggiarne la consistenza. Strisciando mi spostai verso quel punto e con cautela verificai che resistesse ai colpi di piccozza: due centimetri di ghiaccio solido e plastico, più sottile di quanto non sperassi ma per il resto incoraggiante. La scalata era talmente ripida ed esposta che mi fece girare la testa. Sotto le suole Vibram la parete precipitava per centinaia di metri verso la scia sporca e segnata dalle valanghe del ghiacciaio Witches Cauldron. Sopra invece la sporgenza si ergeva con autorità in direzione della cresta finale, a ottocento metri di distanza in verticale. Ogni volta che infilavo una delle mie piccozze, la distanza si accorciava di altri cinquanta centimetri. A tenermi attaccato alla montagna, a tenermi attaccato al mondo, erano soltanto due sottili chiodi di molibdeno al cromo piantati in un centimetro di acqua congelata. Eppure più mi arrampicavo, più mi sentivo a mio agio. Al principio di ogni scalata, specialmente se solitaria, senti costantemente il richiamo dell'abisso alle spalle, e per resistere devi compiere uno sforzo tremendo e consapevole, non puoi permetterti di abbassare la guardia un solo istante. Il vuoto, col suo canto di sirena, ti fa salire i nervi a fior di pelle, rende i movimenti incerti, goffi, scoordinati. Ma proseguendo la scalata, ti abitui all'esposizione, a stare gomito a gomito col destino, finisci per credere nell'affidabilità delle tue mani, dei tuoi piedi, della tua testa, finisci per fidarti del tuo autocontrollo. Poco a poco l'attenzione si focalizza con tanta intensità che smetti di far caso alle nocche sbucciate, ai crampi alle cosce, allo sfinimento per la concentrazione costante. I tuoi sforzi calano in una sorta di stato di trance, l'arrampicata diventa un sogno a occhi aperti, le ore scivolano come minuti e
la zavorra accumulata giorno per giorno - le bollette non pagate, le opportunità sprecate, la polvere sotto il divano, l'inevitabile prigione che ti circonda - temporaneamente svanisce, esclusa dai pensieri da un'irresistibile chiarezza di propositi e dalla serietà dell'obiettivo contingente. In simili frangenti senti nel petto qualcosa di prossimo alla felicità, non però quel genere di emozione sul quale contare. Nelle scalate solitarie l'intera impresa è tenuta insieme da una certa temerarietà, un adesivo non molto affidabile. Quella stessa giornata, mentre ancora stavo sulla facciata settentrionale del Thumb, ebbi modo di sentire quel collante disintegrarsi sotto la piccozza. Dopo aver lasciato la passerella di ghiaccio, avevo guadagnato quasi duecento metri di altitudine con ramponi e piccozza. Il nastro di acqua congelata era finito a quasi cento metri, seguito da una friabile corazza di piume di ghiaccio. Pur risultando a mala pena della consistenza adatta a sostenere il peso del corpo, la brina ricopriva la roccia con uno strato di quasi un metro di spessore, per cui continuai ad arrampicarmi. Impercettibilmente, però, la parete si era fatta più ripida, e man mano che s'inclinava lo strato di gelo si assottigliava. Procedevo con ritmo lento e ipnotico piccozza, piccozza, rampone, rampone, piccozza, piccozza - quando all'improvviso quella sinistra picchiò contro una lastra di diorite pochi centimetri sotto la brina. Provai più a sinistra, a destra, ma non incontrai che roccia. Scoprii che le piume di ghiaccio che mi sostenevano, avevano forse uno spessore di dieci centimetri e la stessa integrità strutturale del pane di granoturco raffermo. Mille metri d'aria sotto i piedi, e mi ritrovavo in equilibrio su un castello di carte. Sentii nella gola l'amaro sapore del panico, mi si annebbiò la vista, cominciai a iperventilarmi e i polpacci presero a tremare. Strisciai un po' a destra, nella speranza di trovare ghiaccio più profondo, ma non feci che piegare una piccozza contro la roccia. Irrigidito dalla paura, cominciai a preparare goffamente una via d'uscita. Man mano che scendevo la brina s'inspessiva e dopo una ventina di metri mi ritrovai su un terreno ragionevolmente solido. Feci una lunga pausa per recuperare il controllo dei nervi, poi mi appoggiai agli attrezzi e guardai in su la parete sopra di me, alla ricerca di qualche buon appiglio, di qualche variazione nello strato sottostante di roccia, di qualsiasi cosa potesse permettere il passaggio sulle lastre gelate. Guardai finché il collo non mi fece male, ma non vidi nulla. La scalata era finita. L'unica direzione da seguire era quella verso valle.
15 LA CALOTTA DI GHIACCIO DELLE STIRINE Ma fintanto che non veniamo messi alla prova sappiamo poco dell'incontrollabile in noi che ci spinge attraverso ghiacciai, torrenti e su dirupi pericolosi, malgrado il giudizio ce lo proibisca. JOHN MUIR, The mountains of California Ma hai notato quella piccola piega delle labbra di Sam II quando ti guarda? Significa che, primo, non voleva che tu lo chiamassi Sam II e, secondo, che nella tasca sinistra ha una lupara e nella destra un uncino da scaricatore ed è pronto a ucciderti con una delle due armi, non appena l'occasione si presenta. Il padre è colto di sorpresa. Di solito quando si trova in questa situazione dice «Ma come, io ti ho cambiato i pannolini, piccolo moccioso». Non è la frase giusta in questa situazione. Primo, non è vera (nove pannolini su dieci vengono cambiati dalle madri) e, secondo, ricorda istantaneamente a Sam II la cosa che lo fa impazzire di rabbia. È pazzo di rabbia per il fatto che era piccolo quando tu eri grande, ma no, le cose non stanno esattamente così, è pazzo di rabbia perché era impotente quando tu eri potente, ma no, nemmeno questo, è pazzo di rabbia perché era contingente quando tu, padre, eri necessario, ma nient'affatto, è furioso perché quando ti voleva bene tu non te ne accorgevi. DONALD BARTHELME, Il padre morto Dopo quell'escursione al Devils Thumb la neve fitta e il forte vento mi costrinsero a rimanere in tenda per gran parte dei tre giorni successivi. Le ore passavano lentamente. Nel tentativo di dare un'accelerata al tempo, lessi e fumai come una ciminiera, finché la scorta di sigarette non si esaurì. Quando finii anche il materiale da leggere, mi ridussi a studiare la trama antistrappo del soffitto della tenda. Andai avanti così per ore, supino, tormentato da un'aspra controversia interiore: dovevo partire per la costa non appena il tempo fosse migliorato o dovevo restare per un secondo tentativo? In verità, la puntata sulla facciata settentrionale mi aveva notevolmente innervosito, e non avevo alcuna voglia di andarci di nuovo. Tuttavia, nep-
pure il pensiero di tornare a Boulder con la coda fra le gambe mi allettava granché. Era troppo facile immaginarmi le compiaciute espressioni di cordoglio da parte di chi fin dal principio era stato certo del mio fallimento. Al terzo giorno di tempesta non ce la facevo più: i grumi di neve gelata piantati nella schiena, le viscide pareti di nylon appiccicate al naso, l'orribile odore proveniente dal fondo del sacco a pelo. Frugai nella confusione ai miei piedi e recuperai un sacchettino verde che conteneva una scatoletta metallica nella quale erano racchiusi gli ingredienti di quello che speravo sarebbe stato una specie di sigaro della vittoria. L'intenzione infatti era quella di conservarlo per il ritorno dalla cima ma, al diavolo, non sembrava proprio che ci sarei andato tanto presto. Versai gran parte del contenuto sulla cartina per sigarette, la avvolsi a formare una canna sbilenca, e senza tanti indugi me la fumai fino in fondo. La marijuana non fece che rendere la tenda ancora più piccola, soffocante e insopportabile, e in aggiunta mi fece venire un terribile appetito. Pensai che una farinata d'avena avrebbe sistemato lo stomaco, anche se implicava una lunga e grottesca preparazione: dovevo uscire nella tempesta per procurarmi una pentola di neve, montare il fornello e accenderlo, individuare la farina d'avena e lo zucchero, raschiare dalla scodella i resti del pasto del giorno prima. Non appena accesi il fuoco e cominciai a sciogliere la neve, sentii odore di bruciato. Attentamente controllai fornello e dintorni, ma non vidi nulla di strano. Perplesso pensai che fosse tutto frutto dell'immaginazione chimicamente stimolata, quando alle spalle avvertii uno scricchiolio. Mi voltai appena in tempo per vedere il sacchetto di spazzatura, in cui avevo gettato il fiammifero usato per il fornello, accendersi in una piccola conflagrazione. Picchiando con le mani sul fuoco, lo spensi in pochi secondi, ma non prima che un'ampia porzione della parete interna della tenda si smaterializzasse sotto i miei occhi. Fortunatamente il lembo di chiusura sfuggì alle fiamme e la struttura si mantenne più o meno resistente alle intemperie, ma la temperatura all'interno si abbassò comunque di una quindicina di gradi. Il palmo sinistro cominciò a pizzicarmi e guardandolo notai la vescica rosa della scottatura, ma la preoccupazione maggiore a quel punto fu che la tenda in realtà non era mia ma di mio padre. Quel costoso strumento di riparo non era mai stato usato prima - ricordo che c'erano ancora le etichette attaccate - e per di più me l'aveva prestato malvolentieri. Per qualche minuto rimasi stordito, in mezzo all'odore acre di capelli bruciati e nylon fu-
so, a osservare quel che restava di quelle forme un tempo aggraziate e ormai ridotte in sfacelo. Bisognava ammetterlo, pensai: ero proprio bravo a soddisfare immancabilmente le peggiori aspettative del vecchio. Mio padre era un uomo volubile ed estremamente complicato, con un atteggiamento arrogante che nascondeva in realtà una profonda insicurezza. Non so se mai in vita sua abbia ammesso di avere torto, ma se l'ha fatto di sicuro io non ero presente. A insegnarmi a scalare, però, era stato lui, alpinista del fine settimana. Mi aveva regalato la prima corda e piccozza a otto anni e mi aveva portato alla Catena delle Cascate per salire sulla South Sister, un vulcano di tremila metri non lontano da casa nostra, nell'Oregon. Non si sarebbe mai sognato che un giorno avrei imperniato la mia esistenza su quest'attività. Uomo gentile e generoso, Lewis Krakauer amava profondamente i cinque figli - alla maniera autocratica dei padri -, ma aveva una visione del mondo distorta da un implacabile istinto alla competizione. La vita, per come la vedeva lui, era una gara. Leggeva e rileggeva gli scritti di Stephen Potter - lo scrittore inglese che aveva coniato i termini one-upmanship, l'arte di mantenere sempre un vantaggio sugli altri, e gamesmanship, l'arte di vincere con espedienti discutibili -, non come satira sociale, ma come manuale di stratagemmi pratici. Era ambizioso fino all'estremo e, come Walt McCandless, le sue aspirazioni si estendevano alla progenie. Prima ancora che m'iscrivessi all'asilo, cominciò a predispormi una brillante carriera in medicina o, se proprio non ce l'avessi fatta, in legge ma come magra consolazione. Per Natale e per il compleanno ricevevo microscopi, il piccolo chimico e l'Encyclopaedia Britannica. Dalle elementari alle superiori i miei fratelli e io fummo tormentati per eccellere in ogni materia, per accaparrarci medaglie alle gare di scienze, per essere eletti reginette del diploma e vincere le elezioni scolastiche. Così e soltanto così, ci fu insegnato, avremmo potuto accedere al giusto college che, a sua volta, ci avrebbe permesso di raggiungere la Harvard Medical School: l'unico percorso di vita sicuro verso un successo significativo e una durevole felicità. La fede di mio padre nell'infallibilità del programma era incrollabile, d'altro canto era lo stesso che aveva guidato lui verso la prosperità. Peccato che io non fossi un suo clone. Da adolescente, non appena giunsi a questa conclusione, cominciai a deviare dal percorso prestabilito osservando in principio una certa gradualità che il tempo rese progressivamente più brusca. La mia ribellione provocò non poche urla e le finestre di casa trema-
rono spesso sotto il tuonare degli ultimatum. Quando lasciai Corvallis, nell'Oregon, per iscrivermi a un college lontano che di certo non apparteneva all'Ivy League, ormai parlavo a denti stretti col vecchio, oppure lo evitavo del tutto. Quando mi laureai, quattro anni dopo, e non entrai né a Harvard né in nessun'altra facoltà di medicina, ma diventai carpentiere e fanatico dell'alpinismo, la spaccatura fra noi si fece ancora più profonda. Già da piccolo avevo goduto di grande libertà e responsabilità, per le quali avrei dovuto essere grato, ma non lo ero, anzi, mi ero sentito oppresso dalle aspettative paterne. Mi era stato inculcato che qualsiasi cosa non fosse vittoria corrispondeva a una sconfitta, e secondo la logica impressionante dei figli, non attribuivo a questa considerazione un significato retorico, ma prendevo le parole alla lettera. Ecco perché più tardi, quando segreti familiari nascosti a lungo vennero a galla, quando notai che questa deità che pretendeva soltanto perfezione in realtà non era perfetta, anzi semmai tutt'altro, be', non fui capace di metterci una pietra sopra. Al contrario, mi lasciai consumare da una rabbia accecante. La rivelazione che mio padre fosse umano, e terribilmente umano, andava oltre la mia capacità di perdono. Dovettero passare due decenni perché mi accorgessi che la rabbia era svanita, e che era svanita da anni. L'avevano soppiantata una pietosa simpatia e qualcosa di non lontano dall'affetto. Compresi che mio padre mi aveva deluso e fatto infuriare almeno quanto l'avevo deluso e fatto infuriare io. Mi accorsi di essere stato egoista, intransigente e un rompiscatole terribile. Quell'uomo mi aveva costruito un ponte di privilegi, mi aveva spianato la strada verso la bella vita, e io l'avevo ripagato distruggendo l'opera e sputando sulle macerie. Ebbi quest'epifania soltanto con l'intervento di tempo e sfortuna, quando l'appagante esistenza di mio padre cominciò a crollargli sotto i piedi. Tutto ebbe inizio col tradimento del suo corpo: trent'anni dopo un attacco di poliomielite, i sintomi misteriosamente ricomparvero. I muscoli paralizzati si avvizzivano ulteriormente, la sinapsi non funzionava, le gambe devastate rifiutavano di muoversi. Dalle riviste mediche mio padre dedusse di essere afflitto da una malattia identificata di recente come sindrome post polio. Il dolore, a tratti straziante, accompagnò le sue giornate come un suono acuto e costante. In un incauto tentativo di fermare il declino, cominciò a curarsi da solo. Non andava mai da nessuna parte senza la valigia di finta pelle piena di bottigliette in plastica arancione. A intervalli di più o meno un'ora frugava
nella borsa, guardava di sbieco le etichette ed estraeva le compresse di Dexedrine e Percodan, Prozac e Deprenyl. Buttava in bocca manciate di pillole e le ingoiava senz'acqua. Siringhe usate e ampolle vuote facevano bella mostra sopra il lavandino. La vita di mio padre cominciò a vorticare sempre più intorno a una farmacopea autogestita di steroidi, anfetamine, antidepressivi e antidolorifici, tant'è che la mente formidabile di un tempo ne uscì instupidita. Col crescere dell'irrazionalità e delle allucinazioni, mio padre perse anche le ultime amicizie. Mia madre che da tempo subiva e soffriva la situazione non poté fare altro che andarsene. Appena oltrepassata la linea della follia, il vecchio riuscì quasi a togliersi la vita e si assicurò che non mi perdessi l'evento. Dopo il tentato suicidio fu ricoverato in un ospedale psichiatrico vicino a Portland, e quando andai a trovarlo, lo trovai con braccia e gambe legate alle spondine del letto. Urlava frasi senza senso e si era sporcato tutto. Lo sguardo era animalesco, passava dal lampo di sfida allo smarrimento, e gli occhi si rigiravano nelle orbite dando un quadro chiaro e agghiacciante del suo tormentato stato mentale. Quando le infermiere cercarono di cambiargli le lenzuola, cominciò a dimenarsi e a insultare loro, me e il destino. Che il suo infallibile piano di vita alla fine l'avesse condotto qui, a questa condizione da incubo, era una beffa che in me non suscitò alcun piacere e a lui sfuggì completamente. Ci fu anche un secondo risvolto ironico che mio padre non apprezzò. Tutto sommato, devo infatti ammettere che la battaglia per forgiarmi a sua immagine e somiglianza ebbe successo. Il vecchio riuscì a istillarmi una grande e cocente ambizione, che semplicemente trovò espressione in qualche cosa di diverso da quello che lui si era aspettato. Non comprese mai che il Devils Thumb equivaleva alla scuola di medicina, soltanto sotto forma diversa. Suppongo che fu proprio quest'ambizione ereditata e distorta a impedirmi di ammettere la sconfitta dopo aver fallito il tentativo iniziale e aver quasi ridotto in cenere la tenda. Tre giorni dopo il ritiro dalla prima prova, mi avventurai di nuovo sulla facciata settentrionale. Stavolta mi arrampicai soltanto una quarantina di metri sopra il bergschrund, prima che la mancanza di sangue freddo e l'arrivo della neve mi costringessero a fare marcia indietro. Invece di scendere al campo base, decisi di trascorrere la notte sul ripido fianco della montagna, appena sotto il mio traguardo più alto. Fu un grave
errore. Nel tardo pomeriggio il groppo si trasformò in una violenta bufera, la neve scendeva a un ritmo di circa due centimetri l'ora. Non appena mi accovacciai nel sacco a pelo sotto il bordo del bergschrund, sentii il sibilo delle valanghe che scendevano a spruzzi dalla parete sopra di me e che come un'onda mi travolsero seppellendo piano piano la cengia. Ci vollero una ventina di minuti perché gli spruzzi di neve inondassero il sacco - una sottile busta di nylon del tutto simile a un contenitore per sandwich, soltanto più grande - fino alla fessura per l'aria. E questo accadde ben quattro volte. Per quattro volte mi disseppellii, ma alla quinta ne ebbi abbastanza. Buttai tutta l'attrezzatura nello zaino e mi avviai verso l'accampamento. La discesa fu terrificante. A causa delle nuvole, della tempesta e della luce piatta e debole non riuscivo a distinguere la pista dal cielo. Ebbi paura, e ne avevo ben motivo, di fare un passo falso dalla cima di un seracco e di precipitare in fondo al Witches Cauldron, quasi un chilometro sotto. Quando finalmente raggiunsi la superficie gelata della calotta, mi accorsi che le tracce lasciate all'andata erano state cancellate da tempo e non avevo la più pallida idea di dove si trovasse la tenda sopra quel desolato altopiano glaciale. Nella speranza di avere fortuna e imbattermi per caso nell'accampamento, girai in cerchio per un'ora, finché non misi piede in un piccolo crepaccio e mi resi conto di comportarmi come un idiota. Era meglio restare dov'ero e aspettare che la bufera si placasse. Tutt'intorno la neve turbinava, ma scavai una piccola buca, mi avvolsi nel sacco e mi sedetti sullo zaino. In breve tempo fui circondato da cumuli bianchi e i piedi persero sensibilità. Un brivido raggelante mi corse lungo il petto, dove gli spruzzi si erano insinuati e avevano bagnato la maglia. Se soltanto avessi una sigaretta, pensavo, una sigaretta soltanto, potrei recuperare carattere e salvarmi la faccia davanti a questa situazione di merda, a tutto questo viaggio di merda. Mi strinsi il sacco intorno alle spalle. Il vento sferzava contro la schiena. Oltre ogni vergogna, chinai il capo fra le braccia e mi abbandonai a un'orgia di autocommiserazione. Sapevo che a volte gli alpinisti morivano in montagna, ma a ventitré anni l'idea della morte era ancora fuori dalla mia mente. Quando ero partito da Boulder, con la testa infarcita di visioni di gloria e di redenzione sul Devils Thumb, non mi sognavo neanche che sarei stato legato alle stesse relazioni causa-effetto che governano le azioni altrui. Siccome desideravo tanto scalare quella montagna, siccome avevo pensato tanto e tanto intensamente al Devils Thumb, sembrava fuori dalla gamma delle possibilità
che qualche ostacolo minore come il tempo, i crepacci o la roccia coperta di brina finissero per contrastare la mia volontà. Al tramonto il vento si calmò, il cielo si sollevò di una cinquantina di metri e potei individuare l'accampamento. Feci ritorno alla tenda sano e salvo, ma non potei più far finta di non capire che il Thumb in realtà aveva infranto i miei sogni. Fui costretto a riconoscere che la sola volontà, per quanto potente, non mi avrebbe portato in cima alla parete settentrionale. Compresi, in definitiva, che nulla mi ci avrebbe portato. Ad ogni modo esisteva ancora una possibilità per salvare la spedizione. Una settimana prima avevo sciato fino al lato sudorientale della montagna per dare un'occhiata al percorso che avrei seguito per scendere dalla vetta una volta salito dal versante settentrionale, un percorso che Fred Beckey, il leggendario alpinista, aveva seguito nel 1946 in occasione della prima ascensione sul Thumb. Nel corso della ricognizione avevo notato una linea netta e mai scalata poco a sinistra del percorso di Beckey, un reticolato di ghiaccio che attraversava ad angolo la facciata meridionale, e che mi aveva colpito perché poteva portare con relativa facilità alla cima. All'epoca quest'opportunità non mi era parsa degna di attenzione, ma adesso, dopo le batoste del nordwand, ero pronto ad abbassare il tiro. Nel pomeriggio del 15 maggio, quando la bufera finalmente si placò, potei tornare sulla facciata sudorientale e scalare una cresta sottile che si unisce alla parte superiore come l'arco rampante di una cattedrale gotica. Decisi di passare lì la notte, su quell'angusta sommità a cinquecento metri circa dalla vetta vera e propria. Il cielo serale era freddo e limpido, e sotto i miei occhi si estendeva nitido il percorso verso il mare e oltre ancora. Al tramonto rimasi pietrificato nello scorgere le luci di Petersburg che tremolavano a occidente. Quelle luci in lontananza erano la cosa più vicina al contatto umano che mi fosse capitata dall'arrivo dell'aeroplano e scatenarono in me una furia di emozioni che mi colse alla sprovvista. Mi immaginavo le persone intente a guardare il baseball alla televisione, a mangiare pollo fritto nelle cucine illuminate, a bere birra e fare l'amore. Quando mi coricai, fui assalito da uno straziante senso di solitudine. Mai mi ero sentito tanto solo, mai. Fu una notte turbolenta, sognai retate della polizia, vampiri ed esecuzioni mafiose. Quando d'improvviso sentii sussurrare: «Penso che sia lì dentro...», mi alzai di scatto e spalancai gli occhi. Il sole stava per sorgere e il cielo era rosso scarlatto. Era ancora limpido, ma ad alta quota si era formato uno strato leggero e fibroso di cirri e a sudovest, poco sopra l'orizzonte,
era visibile una linea scura di groppo. Di fretta, infilai scarpe e ramponi e nel giro di cinque minuti già scalavo. Non avevo né corda né tenda né attrezzatura da bivacco né altri strumenti che non fossero le piccozze da ghiaccio. L'idea era di marciare rapido e leggero fino alla vetta e di tornare indietro prima che il tempo volgesse al brutto. Sudando sette camicie e perennemente senza fiato, mi arrampicai in gran fretta verso sinistra, attraverso piccoli ice-field collegati da fessurine soffocate dal ghiaccio e stretti scalini di pietra. L'impresa fu quasi divertente, la roccia era piena di appigli e il ghiaccio, benché sottile, non superò mai i settanta gradi di inclinazione, ma la preoccupazione per quel fronte burrascoso che si avvicinava dal Pacifico oscurando il cielo non mi abbandonò un solo istante. Non avevo un orologio, ma in quello che mi parve essere un breve lasso di tempo, mi trovai sul tipico ice-field conclusivo. Ormai il cielo era tappezzato di nuvole e, pur notando che sarebbe stato più facile continuare la scalata di sbieco, nel timore di venire sorpreso da una tormenta senza alcun riparo, decisi di risparmiare tempo imboccando il percorso verticale. Il ghiaccio si faceva sempre più ripido e sottile, e la piccozza a un certo punto incontrò la roccia. Feci un tentativo poco oltre, ma di nuovo la piccozza rimbalzò con un rumore sordo sull'inflessibile diorite. E poi di nuovo, e di nuovo. Sembrava il ritornello della precedente esperienza sulla facciata settentrionale. Fra le gambe sbirciai il ghiacciaio a più di seicento metri di distanza e lo stomaco mi si attorcigliò. Una quindicina di metri sopra di me la parete si adagiava nuovamente sulla spalla obliqua della sommità. Strinsi la presa sulle piccozze e rimasi fermo, immobilizzato dal terrore e dall'indecisione. Di nuovo gettai lo sguardo verso il ghiacciaio e subito dopo in alto, verso la cima. Grattai via la patina di ghiaccio sopra la mia testa e piantai l'estremità della piccozza sinistra in un sottilissimo lembo di roccia. Teneva. Tolsi anche la destra dal ghiaccio, l'alzai e ne incastrai la punta in una fessurina sbilenca. Tornando a stento a respirare, spostai i piedi raschiando il ghiaccio vetroso coi ramponi. Cercando di alzare il braccio sinistro più che potevo, colpii delicatamente la superficie opaca senza sapere cosa avrei incontrato sotto. La piccozza penetrò con un secco stoc! e pochi minuti dopo ero in piedi in un'ampia cengia. La vetta vera e propria, una sottile pinna di roccia che produce una grottesca meringa di ghiaccio atmosferico, era ormai a soli cinque o sei metri. L'infida consistenza delle piume di ghiaccio fece in modo che anche
quella breve distanza fosse difficile, faticosa e temibile. Ma poi, d'improvviso, non ebbi più dove andare. Sentii le labbra screpolate tendersi in un doloroso sorriso: ero sulla cima del Devils Thumb. Mi ritrovai in un luogo surreale, malevolo, come d'altra parte si confà a una vetta, un improbabile cuneo di roccia e brina non più largo di uno schedario. Mi misi a cavalcioni sulla sommità e guardai la facciata meridionale che sotto lo scarpone destro precipitava per ottocento metri circa, mentre dall'altra parte il versante settentrionale cadeva a picco per almeno il doppio. Feci qualche fotografia per testimoniare dove fossi arrivato e passai qualche minuto a cercare di raddrizzare una punta ricurva della piccozza. Infine mi alzai, girai cautamente su me stesso e mi avviai verso casa. Una settimana dopo ero accampato sotto la pioggia nella Baia di Thomas, deliziato dalla vista di muschi, salici e zanzare intorno a me. L'aria salmastra trasportava l'intenso odore della vita marina. Non dovetti aspettare a lungo l'arrivo di una piccola imbarcazione a poca distanza dalla tenda. L'uomo alla guida si presentò come Jim Freeman, un taglialegna di Petersburg. Era la sua giornata di riposo, mi spiegò, e aveva portato la famiglia a vedere il ghiacciaio nella speranza di scorgere qualche orso. Mi domandò se ero andato a caccia o cosa facessi da quelle parti. «No» gli risposi timidamente. «In realtà ho appena scalato il Devils Thumb. Sono stato su una ventina di giorni.» Freeman continuò ad armeggiare con una galloccia che aveva in mano e non disse nulla. Era ovvio che non mi credeva. Né sembrava approvare i capelli arruffati, lunghi fino alle spalle e la puzza che emanavo dopo tre settimane senza lavarmi né cambiarmi i vestiti. Ad ogni modo, quando gli chiesi un passaggio per il ritorno, mi rispose borbottando: «Non vedo perché no». C'era maretta e la traversata del Frederick Sound richiese un paio d'ore. Fra una chiacchiera e l'altra Freeman si sciolse e, pur non convincendosi del tutto della mia impresa, quando entrammo nello stretto di Wrangell finse di credermi. Dopo aver attraccato insistette per offrirmi un cheeseburger e la sera mi invitò a dormire in un furgone smantellato che stava nel suo giardino. Per un po' rimasi sdraiato sul retro del vecchio veicolo, ma senza prendere sonno. Decisi di alzarmi e andare in un bar chiamato Kito's Kave. L'euforia e la grande sensazione di sollievo che inizialmente avevano accompagnato il ritorno a Petersburg si affievolirono per essere soppiantate
da un'inaspettata malinconia. La gente con cui chiacchierai da Kito non sembrava dubitare che fossi realmente salito in cima al Thumb, ma non gliene importava granché. Col trascorrere della notte il locale si svuotò e restammo solamente io e uno sdentato avventore al tavolo di dietro. Bevevo da solo vicino al juke-box e continuavo a infilare monetine per le stesse cinque canzoni fino a quando una cameriera non gridò esasperata: «Ehi tu, vuoi dargliela una cazzo di pausa a quell'affare?». Farfugliai delle scuse e mi diressi verso l'uscita. Mi trascinai verso il furgone di Freeman e lì, circondato dal dolce profumo di olio da motore, mi sdraiai sul pavimento vicino a quel che restava del cambio e sprofondai nell'oblio. Meno di un mese dopo aver raggiunto la cima del Thumb ero già a Boulder che piantavo chiodi alle Spruce Street Townhouses, gli stessi edifici nei quali avevo lavorato all'epoca della partenza per l'Alaska. Avevo ottenuto un aumento, adesso prendevo quattro dollari l'ora, e alla fine dell'estate mi trasferii dal caravan a un monolocale a buon mercato vicino al centro commerciale. Da giovane è facile credere che ciò che desideri sia ciò che ti meriti, è facile convincersi che se davvero vuoi qualcosa, è tuo sacrosanto diritto ottenerla. Quando decisi di partire per l'Alaska quell'aprile, ero un giovane immaturo che, come Chris McCandless, aveva scambiato la passione per acume e agiva secondo una logica oscura e lacunosa. Pensavo che scalare il Devils Thumb avrebbe sistemato tutto quello che non andava nella mia esistenza. Di fatto non cambiò quasi nulla, ma mi permise di comprendere che le montagne non sono un buon ricettacolo per i sogni. E sopravvissi per raccontare la mia storia. Da giovane ero diverso da McCandless per molti, rilevanti aspetti. Soprattutto non possedevo né il suo intelletto né i suoi nobili ideali. Eppure credo che fossimo analogamente segnati dal difficile rapporto coi padri, e sospetto che avessimo una simile intensità, spericolatezza e agitazione dell'anima. Il fatto che io, al contrario di Chris, sia sopravvissuto all'avventura in Alaska, rimane essenzialmente una questione di fortuna. Se non fossi tornato dalla calotta delle Stikine nel 1977, la gente avrebbe fatto presto a dire - così come ora dicono di lui - che avevo desiderato morire. A diciott'anni di distanza dall'evento riconosco che potevo essere superbo, forse, e incredibilmente ingenuo, senza dubbio, ma di sicuro non ero un suicida. In quella fase della mia giovinezza, la morte rimaneva un concetto astratto come la geometria non euclidea o il matrimonio. Ancora non ne
comprendevo il carattere orribilmente definitivo e la devastazione che poteva provocare nelle persone che al defunto avevano consegnato il proprio cuore. Ero attratto dall'oscuro mistero della morte e non potevo resistere, dovevo sporgermi oltre i limiti della sorte per vedere come fosse al di là. L'indizio di quanto si celasse in quelle tenebre mi terrorizzò, ma nel colpo d'occhio scorsi qualcosa, un enigma proibito e primordiale che non era meno irresistibile dei dolci petali nascosti di un sesso femminile. Nel mio caso e, credo, in quello di Chris McCandless, fu qualcosa di molto diverso dal desiderio di morire. 16 L'INTERNO DELL'ALASKA Desideravo acquisire la semplicità, i sentimenti puri e le virtù della vita selvaggia, spogliarmi delle abitudini artificiali, dei pregiudizi e delle imperfezioni del mondo civilizzato; [...] e trovare, nella solitudine e nella grandiosità del selvaggio ovest, vedute più corrette della natura umana e dei veri interessi dell'uomo. La stagione delle nevi andava preferita, perché potessi sperimentare il piacere della sofferenza e la novità del pericolo. ESTWICK EVANS, A pedestrious tour, of four thousand miles, through the western states and territories, during the winter and spring of 1818 La natura selvaggia attirava chi fosse annoiato o disgustato dall'uomo e dalla sua opera. Non soltanto costituiva una possibilità di fuga dalla società ma anche il palcoscenico ideale sul quale esercitare il culto che l'individuo romantico spesso faceva della propria anima. La solitudine e la totale libertà di una terra selvaggia creavano l'ambientazione ideale per la malinconia o l'esaltazione. RODERICK NASH, Wilderness and the American mind Il 15 aprile 1992 Chris McCandless partì da Carthage, in Sud Dakota, nella cabina di un camion Mack carico di semi di girasole. La sua «grande odissea» era ormai cominciata. Tre giorni dopo passò il confine canadese a Roosville, nella Columbia Britannica, e proseguì in autostop verso nord, attraverso Skookumchuck e Radium Junction, il lago Louise e il Jasper
National Park, Prince George e Dawson Creek dove, nel centro cittadino, scattò un'istantanea del cartello che segnava l'inizio ufficiale dell'Alaska Highway: «miglio 0 - Fairbanks 1523 miglia». Generalmente, fare l'autostop lungo l'Alaska Highway non è cosa facile. Se all'uscita da Dawson Creek ci s'imbatte in una decina di musi lunghi col pollice fuori, non c'è da stupirsi, perché fra un passaggio e l'altro a volte devono aspettare una settimana o più. McCandless invece non perse tempo: il 21 aprile, appena sei giorni dopo aver lasciato Carthage, era già arrivato a Liard River Hotsprings, al confine con lo Yukon. A Liard River esiste un campeggio pubblico collegato a una serie di piscine termali naturali grazie a una passerella di legno che attraversa un chilometro scarso di acquitrino. Questo luogo costituisce una tappa fra le più classiche lungo l'Alaska Highway e anche McCandless pensò di ristorarsi nelle sue acque curative. Soltanto che una volta finito il bagno, scoprì che la fortuna gli aveva voltato le spalle e che gli era impossibile procurarsi un passaggio verso nord. Due giorni dopo l'arrivo era ancora alle sorgenti naturali d'acqua calda, impaziente ma fermo nello stesso punto. Alle sei e mezzo di un frizzante giovedì mattina, il suolo ancora ghiacciato dal freddo notturno, Gaylord Stuckey s'incamminò lungo la passerella verso la vasca più grande, sicuro di averla tutta per sé. Fu sorpreso dunque di trovare qualcuno già immerso nelle acque fumanti, un giovane uomo che si presentò come Alex. Stuckey, un sessantatreenne pelato e spassoso dell'Indiana, era in viaggio verso l'Alaska per consegnare una nuova motorhome a un rivenditore di Fairbanks, una specie di attività part-time a cui si era dedicato dal pensionamento, dopo quarant'anni di lavoro nei ristoranti. Quando disse a McCandless quale fosse la sua destinazione, il ragazzo esclamò: «Ehi! Ma è proprio dove sono diretto io! Soltanto che sono bloccato in questo posto già da un paio di giorni. Non è che ti andrebbe di darmi un passaggio?». «Oh, santo cielo!» rispose Stuck. «Non sai quanto mi farebbe piacere, figliolo, ma proprio non posso. La ditta per cui lavoro dà precise disposizioni a riguardo e potrebbero anche licenziarmi.» Però, chiacchierando con Chris nel vapore sulfureo, Stuckey ebbe un ripensamento: «Alex era bello rasato coi capelli corti e si capiva da come parlava che era in gamba, sul serio. Non era quello che definiremmo un tipico autostoppista, perché di solito con quelli lì ci sto attento. Non so perché, ma m'immagino che dev'esserci qualcosa che non va se un ragazzo non ha nemmeno i soldi per pagarsi l'autobus. Comunque, dopo circa mezz'ora, gli dissi: "Ti dirò una
cosa, Alex, Liard è a milleseicento chilometri da Fairbanks. Ti porterò a metà strada, fino a Whitehorse, e da lì riuscirai a trovarti un passaggio fino a destinazione"». Invece, quando un giorno e mezzo dopo arrivarono a Whitehorse - capitale dello Yukon e il centro più importante e cosmopolita lungo l'Alaska Highway -, Stuckey aveva cominciato a gradire la compagnia di McCandless al punto da cambiare idea e decidere di portarlo con sé per l'intero viaggio. «All'inizio Alex stette un po' sulle sue e non parlò molto» ricorda Stuckey «ma la strada era lunga e lenta. In tutto abbiamo passato insieme tre giorni a guidare su quei percorsi malandati, e alla fine cominciò, per così dire, ad abbassare la guardia. Le dirò una cosa, era un fiore di ragazzo. Tutto gentile, non diceva parolacce e non usava nemmeno quel linguaggio dei giovani d'oggi. Si capiva che veniva da una buona famiglia. Parlava soprattutto della sorella, credo che non andasse molto d'accordo coi genitori. Mi raccontò che suo padre era un genio, uno scienziato della Nasa, ma che un tempo era stato bigamo e che Alex questo non l'aveva proprio digerito. Mi disse che non li vedeva da un paio d'anni, dalla laurea.» McCandless fu sincero con Stuckey riguardo all'intenzione di trascorrere l'estate da solo nella foresta, nutrendosi di ciò che la terra gli offriva. «Mi spiegò che era una cosa che desiderava fare fin da piccolo» racconta Stuckey. «Disse che non voleva vedere neanche una persona, un aeroplano, nessun segno della civiltà. Voleva dimostrare a se stesso che poteva farcela da solo, senza l'aiuto di nessuno.» Stuckey e McCandless giunsero a Fairbanks nel pomeriggio del 25 aprile. Andarono insieme in una drogheria dove il ragazzo comperò una grande pacco di riso «e poi Alex disse che voleva andare all'università per studiare le piante che poteva mangiare, bacche e roba del genere. Gli dissi: "Alex, sei un po' in anticipo. C'è ancora mezzo metro di neve per terra, cosa vuoi che cresca?". Ma ormai aveva deciso, non aspettava altro che ripartire». Stuckey si avviò verso il campus della University of Alaska, all'estremità occidentale di Fairbanks, e lasciò McCandless alle 17,30. «Prima di farlo scendere» precisa Stuckey «gli dissi: "Alex, ti ho portato per milleseicento chilometri, ti ho sfamato per ben tre giorni, a questo punto il minimo che puoi fare è scrivermi una bella lettera non appena torni dall'Alaska". E lui mi promise che l'avrebbe fatto. «Non solo, ma lo pregai e supplicai di telefonare ai genitori. Non riesco a immaginarmi qualcosa di peggio che avere un figlio in giro e non sapere, per anni e anni, cosa stia combinando, non sapere se è vivo o morto. "Tieni
il numero della carta di credito" gli dissi "e chiamali, per favore!" Ma non mi rispose che: "Forse sì, forse no". E appena se ne fu andato pensai, accidenti, perché non ho preso il numero e non li ho chiamati io? Soltanto che le cose erano andate così in fretta.» Dopo aver lasciato McCandless all'università, Stuckey si avviò verso il centro per la consegna, ma scoprì che il responsabile del controllo dei veicoli in arrivo era già andato a casa e che sarebbe tornato soltanto il lunedì mattina seguente. Stuckey doveva dunque aspettare due giorni prima di rincasare nell'Indiana. La domenica mattina, con tutto il tempo del mondo a disposizione, fece ritorno al campus. «Speravo di trovarci Alex e di passare insieme un'altra giornata, chessò, di portarlo da qualche parte. Lo cercai per un paio d'ore, guidai in lungo e in largo, ma non ne trovai traccia. Se n'era già andato.» Dopo essersi congedato da Stuckey quel sabato sera, McCandless trascorse due giorni e tre notti nelle vicinanze di Fairbanks, per lo più all'università. Nella biblioteca del campus, nascosto sull'ultimo scaffale della sezione Alaska, scovò una guida erudita e minuziosa delle piante commestibili della regione, Tanaina Plantlore/Dena'ina K'et'una: An Ethnobotany of the Dena'ina Indians of Southcentral Alaska di Priscilla Russell Kari. Da una rastrelliera vicino alla cassa pescò due cartoline con un orso polare sulle quali inviò l'ultimo messaggio a Wayne Westerberg e Jan Burres dall'ufficio postale dell'università. Spulciando fra le inserzioni McCandless trovò un fucile usato, un Remington semiautomatico calibro .22 con portata quattro per venti e cassa in plastica, un modello fuori produzione chiamato Nylon 66 che i cacciatori dell'Alaska preferivano per leggerezza e affidabilità. Concluse l'affare in un parcheggio, probabilmente pagando centoventicinque dollari circa, dopodiché comperò quattro scatole da cento cartucce per fucili a canna lunga in un negozio d'armi nei paraggi. Una volta concluse le preparazioni a Fairbanks, McCandless caricò lo zaino in spalla e dall'università si diresse verso ovest. Lasciando il campus passò davanti all'istituto di Geofisica, un alto edificio in vetro e cemento coronato da un grosso riflettore parabolico. Il riflettore, uno dei tratti più caratteristici del profilo di Fairbanks, serviva a rilevare i dati dei satelliti forniti dal radar ad apertura sintetica progettato da Walt McCandless. Difatti, Walt aveva fatto visita nella cittadina in occasione dell'inaugurazione della stazione ricevente, e aveva preparato una parte essenziale del software operativo. Se Chris abbia pensato al padre passando davanti all'istituto
di geofisica non ci è dato sapere, visto che il ragazzo non ha lasciato registrazioni in merito. Al calare del freddo serale, dopo aver camminato per cinque o sei chilometri, Chris montò la tenda su una chiazza di terreno ghiacciato delimitata da alberi di betulla e poco distante dalla cresta di un promontorio dominante la Gold Hill Gas & Liquor. A una cinquantina di metri passava la George Parks Highway, l'autostrada che l'avrebbe portato allo Stampede Trail. La mattina del 28 aprile McCandless si svegliò prima dell'alba e ancora avvolto nella luce crepuscolare s'incamminò verso la carreggiata. Rimase piacevolmente stupito quando il primo veicolo in transito si fermò per dargli un passaggio. Era un autocarro Ford color grigio, con un adesivo sul retro che diceva: «Pesco dunque esisto. Petersburg, Alaska». L'autista era un elettricista diretto ad Anchorage non molto più vecchio di McCandless, che si presentò come Jim Gallien. Tre ore dopo Gallien uscì dall'autostrada e svoltò verso ovest, spingendosi fin dove il pick-up poté lungo una strada sterrata laterale. Quando lasciò McCandless sullo Stampede Trail, la temperatura si aggirava intorno allo zero - di notte sarebbe scesa a meno dieci - e tutt'intorno una candida crosta di neve di mezzo metro ricopriva il terreno. Il ragazzo riusciva a stento a trattenere l'entusiasmo; finalmente stava per rimanere solo nelle selvagge immensità dell'Alaska. Avvolto nel parka di finta piuma e col fucile appeso sulla spalla, McCandless cominciò ad arrancare lungo il sentiero. Le scorte di cibo si riducevano a cinque chili di riso più due sandwich e un sacchetto di patatine di mais offerte da Gallien. L'anno prima, nei pressi del Golfo di California, era sopravvissuto per oltre un mese con poco più di due chili di riso e con il pesce che catturava grazie a una rudimentale canna. Quest'esperienza l'aveva convinto di potersi procurare cibo a sufficienza per resistere a lungo anche alle asprezze dell'Alaska. Il carico più pesante nello zaino mezzo vuoto era costituito dalla piccola biblioteca: nove o dieci tascabili, molti dei quali ceduti da Jan Burres a Niland. Fra i volumi spiccavano titoli di Thoreau, Tolstoj e Gogol, ma McCandless non era un lettore snob, aveva semplicemente scelto quello che pensava di poter apprezzare, inclusi best-seller di Michael Crichton, Robert Pirsig e Louis L'Amour. Avendo scordato di portare carta per scrivere, cominciò un laconico diario su alcune pagine vuote alla fine della guida botanica. Durante l'inverno a Healy, all'estremità dello Stampede Trail, girano pa-
recchi sciatori, appassionati di motoslitte e slitte trainate da cani, ma soltanto fino a marzo o al principio di aprile, quando il ghiaccio sui fiumi comincia a rompersi. All'arrivo di McCandless nella foresta l'acqua scorreva già copiosa in buona parte dei corsi principali e da due o tre settimane nessuno era più passato di lì. Non gli restavano da seguire che le tracce ormai vaghe di una pesante motoslitta. Al secondo giorno di cammino approdò sul fiume Teklanika. Malgrado le sponde fossero ancora bordate di ghiaccio, ormai sull'acqua non rimaneva nessun ponte gelato e McCandless fu costretto a guadarlo. Quell'anno, all'inizio di aprile, si era verificato un forte disgelo e i ghiacciai si erano sciolti in anticipo, ma in seguito il freddo si era fatto risentire, quindi il livello dell'acqua si era mantenuto piuttosto basso - probabilmente non oltre l'altezza della coscia -, e Chris poté raggiungere la sponda opposta senza grosse difficoltà. Il ragazzo non sospettò che quello sarebbe stato il suo Rubicone, nulla suggerì al suo occhio ingenuo che un paio di mesi dopo, quando col caldo estivo i ghiacciai e le distese innevate alla sorgente del Teklanika si sarebbero sciolti, la portata del fiume sarebbe aumentata di nove, dieci volte, trasformando il gentile ruscello che allegramente aveva guadato nel mese di aprile in un torrente profondo e impetuoso. Dal diario apprendiamo che il 29 aprile McCandless scivolò sul ghiaccio, probabilmente nell'attraversare una serie di laghetti di castoro in disgelo appena oltre la riva occidentale del Teklanika, ma nulla lascia intendere che l'incidente abbia avuto serie conseguenze. Il giorno seguente, quando il sentiero per la prima volta si arrampicava su una cresta, Chris ebbe modo di ammirare gli alti versanti innevati del monte McKinley, e quello dopo ancora, il primo maggio, a una trentina di chilometri circa dal punto in cui l'aveva lasciato Gallien, s'imbatté nel vecchio autobus accanto al fiume Sashana. Quel rifugio improvvisato era fornito di cuccetta e fornello, e precedenti visitatori avevano lasciato una scorta di fiammiferi, insetticida e altri generi essenziali. «Giornata del bus magico» scrisse McCandless sul diario, e decise di godersi un po' le spartane comodità del veicolo. Trovarsi in quel luogo gli procurava una grande esaltazione. All'interno, su un malconcio pannello di compensato che ricopre un finestrino rotto, scarabocchiò un'esultante dichiarazione d'indipendenza: Da due anni cammina per il mondo. Niente telefono, niente piscina, niente animali, niente sigarette. Il massimo della libertà. Un estremista. Un viaggiatore esteta la cui dimora è la strada. Scap-
pato da Atlanta. Mai dovrai fare ritorno perché the west is the best. E adesso, dopo due anni a zonzo, arriva la grande avventura finale. L'apice della battaglia per uccidere l'essere falso dentro di sé e concludere vittoriosamente il pellegrinaggio spirituale. Dieci giorni e dieci notti di treni merci e autostop lo hanno portato fino al grande bianco del Nord. Per non essere mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina per smarrirsi nelle terre estreme. Alexander Supertramp Maggio 1992 Comunque, presto le fantasticherie si scontrarono con la realtà. Ammazzare la selvaggina non era cosa facile e nel corso della prima settimana passata nella foresta i commenti quotidiani presenti sul diario dicono «Debolezza», «Neve» e «Disastro». Il 2 maggio avvistò un grizzly, ma non gli sparò, il 4 sparò, ma mancò alcune anatre e il 5 finalmente colpì e mangiò un gallo cedrone, ma non catturò più nulla fino al 9 maggio, quando abbatté un piccolo scoiattolo, e ormai sul diario era arrivato a scrivere «quarto giorno di carestia». Di lì a poco, tuttavia, la fortuna girò dalla sua parte. A metà maggio il sole cominciò a levarsi alto nei cieli, inondando la taiga di luce. Ogni giorno scompariva dietro l'orizzonte, a nord, per meno di quattro ore e a mezzanotte ancora si poteva leggere. La coltre di neve si era sciolta ovunque, fatta eccezione per i versanti a bacio e le gole ombrose, e dal terreno affioravano i mirtilli e i cinorrodonti della stagione precedente, che McCandless raccoglieva e mangiava in grande quantità. Registrò anche maggiore successo nella caccia e nelle seguenti sei settimane banchettò regolarmente con scoiattoli, galli cedroni, anatre, oche e porcospini. Il 22 maggio gli cadde la capsula di un molare, ma l'evento non sembrò demoralizzarlo troppo perché il giorno dopo non indugiò ad arrampicarsi su uno spuntone senza nome, a forma di gobba e alto circa mille metri, che s'innalza poco a nord dell'autobus. Da lassù McCandless ebbe modo di ammirare l'intera portata della Catena d'Alaska e chilometri e chilometri di paesaggi glaciali e disabitati. L'annotazione del giorno sul diario risulta tipicamente sintetica ma inequivocabilmente gioiosa: «Montagne da scalare!». L'intenzione di McCandless, stando a quanto raccontò a Gallien, era quella di continuare a camminare nella foresta. «Partirò di qua e prosegui-
rò verso ovest» gli aveva detto. «Potrei anche arrivare al mare di Bering.» Il 5 maggio, dopo quattro giorni di sosta all'autobus, riprese la marcia. Dalle fotografie recuperate nella Minolta sembra che a quel punto perse, o forse lasciò intenzionalmente, l'ormai indefinito Stampede Trail e proseguì verso nordovest, sulle colline sopra il fiume Sashana, sfamandosi con la selvaggina che cacciava lungo la via. Il cammino era lento, anche perché gran parte della giornata si consumava fra un appostamento e l'altro, e il terreno in disgelo si trasformava in una tortura di muskeg paludoso e ontano impenetrabile. Solo allora McCandless si avvide di uno degli assiomi fondamentali del Nord: malgrado l'intuito suggerisca il contrario, è l'inverno, e non l'estate, la stagione migliore per avventurarsi a piedi nella foresta. Scontrandosi con l'evidente follia dell'ambizione originaria, di camminare cioè per centinaia e centinaia di chilometri fino al mare, il ragazzo dovette rivedere i piani. Il 19 maggio, non essendo riuscito ad andare oltre il fiume Toklat, a venticinque chilometri circa dall'autobus, fece dietrofront. Una settimana dopo era già di ritorno al veicolo, apparentemente senza alcun rimpianto. Dopotutto, aveva considerato, i dintorni del Sashana erano abbastanza selvaggi da rispondere ai suoi propositi e l'autobus 142 di Fairbanks avrebbe potuto costituire un perfetto campo base per il resto dell'estate. Ironia vuole che quella chiazza di terreno coperta di vegetazione, dove McCandless intendeva «smarrirsi», difficilmente poteva definirsi selvaggia secondo i parametri dell'Alaska. A meno di cinquanta chilometri verso est corre una delle principali vie di comunicazione, la George Parks Highway, ad appena venticinque chilometri verso nord, oltre una scarpata dell'Outer Range, centinaia di turisti affluiscono quotidianamente nel Denali Park su una strada pattugliata dai ranger del parco e, all'insaputa del nostro viaggiatore esteta, sparpagliati nel raggio di una decina di chilometri, esistevano ben quattro capanni (anche se nell'estate del 1992 nessuno risultò essere occupato). Ai fini pratici però, malgrado la relativa vicinanza alla civiltà, McCandless si trovava tagliato fuori dal resto del mondo. Trascorse quasi quattro mesi nella foresta e mai nel corso di quel periodo ebbe contatto con altri esseri umani. Anzi, in definitiva, il fiume Sashana si rivelò abbastanza remoto da costargli la vita. Nell'ultima settimana di maggio, dopo aver trasferito i pochi averi all'interno dell'autobus, McCandless si servì di una striscia di corteccia di betul-
la simile a pergamena per stilare un elenco di mansioni domestiche: raccogliere e immagazzinare ghiaccio dal fiume per conservare la carne, coprire i vetri mancanti dei finestrini con plastica, fare scorta di legna da ardere e ripulire il fornello dai cumuli di cenere vecchia. Sotto il titolo «lungo termine» annotò una serie di propositi più ambiziosi: stendere una mappa della zona, improvvisare una vasca da bagno, raccogliere pelli e piume da cucire come abiti, costruire un ponte sul vicino torrente, riparare gavetta e arnesi vari, delineare una rete di percorsi di caccia. Dopo il ritorno all'autobus le annotazioni sul diario registrano un'abbondanza di carne selvatica: 28 maggio un'anatra da buongustai; 1 giugno cinque scoiattoli; 2 giugno un porcospino, una pernice bianca, quattro scoiattoli, un uccello grigio; 3 giugno un altro porcospino! Quattro scoiattoli, due uccelli grigi; 4 giugno terzo porcospino! Uno scoiattolo, un uccello grigio. Il 5 giugno catturò un'oca del Canada grande come un tacchino di Natale e il 9 giugno superò se stesso abbattendo un alce. Pieno di gioia, l'orgoglioso cacciatore si scattò una fotografia inginocchiato sopra il trofeo, col fucile che spunta trionfalmente dietro il capo e i lineamenti distorti in un misto di estasi e stupore, come un disoccupato che va a Reno e si ritrova inondato da un milione di dollari in monetine. Pur essendo abbastanza realista da sapere che la caccia costituiva una componente indispensabile della vita selvaggia, McCandless aveva sempre avuto un atteggiamento ambivalente verso l'uccisione di animali. Poco dopo l'abbattimento dell'alce quest'ambivalenza si tramutò in rimorso. Anche se la bestia era relativamente piccola - pesava sì e no trecento chili -, forniva di fatto un'enorme quantità di carne e, convinto che fosse moralmente inaccettabile sprecarne la pur minima parte, il ragazzo si dannò per almeno sei giorni nel tentativo di evitare che quel che aveva ucciso andasse irreparabilmente perso. Macellò la carcassa fra nuvole di mosche e moscerini, fece uno stufato con gli organi interni e laboriosamente scavò una buca nella sponda rocciosa proprio sotto l'autobus, nella quale cercò di conservare le immense fette di carne purpurea sottoponendole a un processo d'affumicazione. I cacciatori dell'Alaska sanno che il metodo migliore per conservare la carne nella foresta consiste nel tagliarla a strisce sottili ed essiccarla all'aria sopra una grata improvvisata. Ma McCandless, nella sua ingenuità, si fidò del consiglio dei cacciatori che aveva consultato nel Sud Dakota, i quali gli avevano suggerito di affumicarla, compito non molto semplice considerate le circostanze. «Macellazione estremamente difficile» annotò sul diario il
10 giugno. «Sciami di mosche e moscerini. Rimossi intestini, fegato, reni, un polmone, bistecche. Quarto posteriore e zampa a colare.» 11 giugno: «Rimosso cuore e secondo polmone. Due zampe anteriori e testa. Il resto a colare. Riposto vicino al buco. Cerco di proteggere affumicando». 12 giugno: «Rimossa mezza cassa toracica e bistecche. Posso lavorare solo di notte. Continuo ad affumicare». 13 giugno: «Il resto di cassa toracica, spalla e collo alla buca. Comincia ad affumicare». 14 giugno: «Già i vermi! L'affumicazione risulta inefficace. Non so, sembra un disastro. Vorrei non aver mai ammazzato l'alce. Una delle più grandi tragedie della mia vita». A quel punto gettò la spugna e abbandonò la carcassa ai lupi. Pur giudicandosi molto severamente per aver sprecato una vita, il giorno seguente McCandless sembrò riacquistare una certa prospettiva scrivendo sul diario: «D'ora in poi imparerò ad accettare i miei errori per quanto gravi possano essere». Poco dopo l'episodio dell'alce il ragazzo cominciò a leggere Walden di Thoreau. Nel capitolo intitolato «Leggi più alte», nel quale l'autore riflette sulla moralità del mangiare, McCandless evidenziò: «Quando avevo preso, pulito, cucinato e mangiato il mio pesce, esso pareva non avermi essenzialmente nutrito. Era insignificante e non necessario, e costava più di quello a cui serviva». «L'alce» annotò a margine McCandless, e di seguito segnò: La ripugnanza al cibo animale non è risultato di esperienza, ma un istinto. Sotto molti aspetti, appariva più bello vivere semplicemente e nutrirsi frugalmente; e sebbene io non facessi così, feci più o meno abbastanza da far piacere alla mia immaginazione. Credo che ogni uomo che sia sempre stato sincero nel conservare le proprie più alte e poetiche facoltà, sia stato particolarmente incline ad astenersi da cibo animale e da molto cibo di qualsiasi genere [...]. È difficile provvedere a cuocere un cibo tanto semplice e pulito che non offenda l'immaginazione; ma questa, penso, deve essere cibata quando nutriamo il corpo, ambedue seduti alla stessa tavola. Forse lo si può fare. I frutti mangiati con moderazione non devono farci vergognare dei nostri appetiti, né interrompere i nostri
scopi più degni. Mettete però nel vostro piatto un condimento extra e quello vi avvelenerà. «Sì» scrisse McCandless e, due pagine dopo, «Consapevolezza del cibo. Mangiare e cucinare con concentrazione. [...] Cibo santo.» Sul diario dichiarò: Sono rinato. Questa è la mia alba. La vita reale è appena cominciata. Vivere ponderato: attenzione consapevole ai fondamenti della vita e costante attenzione all'ambiente circostante e a ciò che a esso è correlato, ad esempio un lavoro, un compito, un libro, qualsiasi cosa richieda efficace concentrazione (la circostanza non ha valore. Ha valore come ci si relaziona a una circostanza. Il significato vero risiede nella relazione personale con un fenomeno, quello che significa per te). La grande santità del cibo, il calore vitale. Positivismo, l'insuperabile gioia della vita estetica. Assoluta verità e onestà. Realismo. Indipendenza. Risolutezza. Stabilità. Coerenza. Quando gradualmente smise di rimproverarsi per lo spreco dell'alce, riemerse nel giovane la contentezza di metà maggio, che sembrò protrarsi fino all'inizio di luglio. Poi, nel bel mezzo dell'idillio, si verificò il primo dei due imprevisti determinanti. Apparentemente soddisfatto di quanto aveva appreso nel corso di quei due mesi di vita solitaria, il ragazzo decise di fare ritorno alla civiltà. Era giunto il momento di concludere la «grande avventura finale» e rientrare nel mondo di donne e uomini per bersi una buona birra, parlare di filosofia e incantare gli estranei col racconto dell'esperienza vissuta. Sembrava aver superato quell'inflessibile necessità di affermare la propria autonomia, di tagliare il cordone ombelicale coi genitori. Forse era pronto a perdonare le loro imperfezioni, forse era pronto a perdonarsi anche le proprie. Forse McCandless era pronto a tornare a casa. O forse no, d'altro canto non possiamo che fare supposizioni su cosa il ragazzo intendesse fare della propria vita una volta lasciata la foresta. Ma
una cosa è certa: a quel punto desiderava andarsene. Su un pezzo di corteccia di betulla segnò una lista di cose da fare prima della partenza: «Rattoppare i jeans, radersi, preparare lo zaino. [...]». Poco dopo appoggiò la Minolta su una lattina d'olio vuoto e immortalò un largo sorriso sbarbato, un rasoio usa e getta color giallo brandito in aria e le nuove toppe ricavate da una coperta militare cucite sulle ginocchia dei calzoni ormai luridi. Sembrava in buone condizioni di salute ma estremamente smagrito, le guance sono scavate, i tendini del collo sporgono come cavi in tensione. Il 2 luglio McCandless terminò La felicità familiare di Tolstoj dopo aver evidenziato alcuni passaggi che lo avevano commosso: Soltanto ora capivo perché egli diceva che la felicità sta solo nel vivere per gli altri. [...] Io ho vissuto molto e mi pare di aver trovato quel che occorre per essere felice. Una vita tranquilla, appartata nella nostra solitudine di campagna, con la possibilità di far del bene alla gente, che è così facile beneficare perché non è abituata a questo, poi il lavoro, un lavoro che sembra recare un vantaggio, poi il riposo, la natura, un libro, la musica, l'amore per il prossimo, ecco una felicità, al di là della quale non osano spingersi i miei sogni. Ma qui, oltre a tutto questo, una tale amica come voi, una famiglia, forse, e tutto quanto un uomo può desiderare. Finalmente il 3 luglio McCandless caricò lo zaino sulle spalle e si mise in marcia verso la strada asfaltata. La distanza da percorrere non superava i trenta chilometri. Due giorni dopo, a metà del cammino, arrivò sotto una pioggia battente ai laghetti di castoro che in aprile, con la superficie ancora ghiacciata, non avevano costituito un ostacolo, ma che adesso bloccavano l'accesso alla sponda occidentale del fiume Teklanika. Nel trovare il sentiero inondato da un lago di dodicimila metri quadrati, dovette spaventarsi non poco. Per non attraversare le acque scure e alte fino al torace, s'inerpicò su un ripido pendio, aggirò i laghetti da nord e di nuovo scese al fiume nel punto in cui cominciava la gola. Quando sessantasette giorni prima aveva guadato il fiume nel rigido clima primaverile, si era trovato di fronte un gelido ma tranquillo corso d'acqua alto fino al ginocchio, ed era bastato passeggiare fino alla riva op-
posta. Il 5 luglio invece, il Teklanika scorreva freddo e rapido a piena portata, gonfiato dalle piogge e dal disgelo dei ghiacciai della Catena d'Alaska. Una volta raggiunta l'altra sponda, il resto del cammino verso l'autostrada non presentava difficoltà, ma per riuscirci McCandless avrebbe dovuto attraversare un canale largo almeno una trentina di metri. L'acqua, resa opaca dai sedimenti glaciali e più calda soltanto di qualche grado rispetto al ghiaccio da cui derivava, aveva il colore del cemento umido. Troppo profonda da guadare, emetteva lo stesso suono roboante di un treno merci e in pochi secondi la portentosa corrente avrebbe fatto perdere l'equilibrio al ragazzo e se lo sarebbe portato via. McCandless era un nuotatore di scarsa abilità e aveva confessato a parecchie persone di avere perfino paura dell'acqua. Di conseguenza, dovette considerare troppo rischiosa l'idea di nuotare o di attraversare con un mezzo di fortuna quelle acque talmente fredde da intontire le membra. Poco sotto il punto in cui il sentiero incrocia il fiume, il Teklanika acquista velocità immettendosi nell'angusta gola ed esplode in un turbine di schiuma bianca. Sarebbero bastate poche bracciate o remate e le rapide l'avrebbero risucchiato facendolo annegare. Nel diario scrisse: «Disastro. [...] Inzuppato di pioggia. Il fiume pare impossibile. Solo, spaventato». Concluse, a ragion veduta, che attraversare il Teklanika in quel punto e in quelle condizioni avrebbe portato a una morte certa, sarebbe equivalso al suicidio ed era fuori discussione. Se McCandless avesse risalito la corrente di un paio di chilometri circa, avrebbe scoperto che il fiume si allarga in un dedalo di canali intricati. Se avesse esplorato con cura, fra un errore e l'altro, forse avrebbe scovato un punto in cui il livello delle acque non superava il torace. Pur restando il problema della forza della corrente, che non gli avrebbe permesso di mantenere l'equilibrio, è possibile ritenere che, seguendo il flusso a cagnolino e saltellando sul fondo, sarebbe riuscito a raggiungere la sponda opposta prima di essere risucchiato nella gola o di soccombere per ipotermia. Senza dubbio si trattava di una soluzione estremamente pericolosa e McCandless in quel momento non aveva motivo di esporsi a un rischio simile. Se l'era cavata molto bene nel corso di quei mesi e probabilmente sapeva che se avesse aspettato e pazientato, il fiume prima o poi sarebbe sceso a un livello più consono al guado. Dopo aver considerato le varie possibilità, scelse la più prudente: fece dietrofront e si rimise in marcia verso ovest, verso l'autobus, diretto nuovamente nel cuore volubile della foresta.
17 LO STAMPEDE TRAIL La natura era qualcosa di selvaggio e terribile benché bellissimo. Guardavo con soggezione la terra che calpestavo per vedere cosa avessero compiuto le Forze - la forma, il modo, il materiale della loro opera. Questa era la Terra di cui sentiamo parlare, creata dal caos nella notte dei tempi. Qui non c'erano giardini ma il globo incontaminato. Niente prati né pascoli né coltivazioni né boschi né terre arabili né incolte né desolate. Era la superficie fresca e naturale del pianeta Terra, com'era stata creata per i secoli dei secoli - come dimora dell'uomo, diciamo noi -, così la Natura l'ha fatta e che l'uomo la usi se può. Perché egli in realtà non vi era associato in alcun modo. Era Materia, vasta, terrificante - non la sua Madre Terra, come sentiamo dire, su cui camminare e dove farsi seppellire, no, troppo familiare anche solo riporvi le proprie ossa -, casa, questa, di Fato e Necessità. Era palese la presenza di una forza che non era tenuta a essere gentile con l'uomo. Luogo di paganesimo e riti superstiziosi - abitato da uomini più vicini alla roccia e agli animali selvatici che a noi [...]. Cos'è entrare in un museo, vedere una miriade di particolari a confronto col trovarsi davanti la superficie di qualche stella, qualche materia nel suo ambiente! Rimango in soggezione di fronte al mio corpo, questa materia alla quale sono legato mi è diventata estranea. Non ho paura di spiriti, fantasmi, di cui sono parte, ma ho paura dei corpi, tremo al pensiero d'incontrarli. Cos'è questo Titano che si è impossessato di me? Parole misteriose! Pensare alla nostra vita nella natura, quotidianamente trovarsi davanti la materia, entrare in contatto con rocce, alberi, vento sulle gote! La terra solida! Il mondo autentico! Il senso comune! Contatto! Contatto! Chi siamo? Dove siamo? HENRY DAVID THOREAU, Ktaadn Un anno e una settimana dopo il dietrofront di Chris McCandless al Teklanika, mi trovo sulla riva opposta - sul lato orientale, quello dell'autostrada - con lo sguardo perso nelle acque spumeggianti. Anch'io spero di poter attraversare il fiume. Voglio visitare l'autobus, voglio vedere dov'è
morto il ragazzo, voglio cercare di capire meglio perché sia finita in quel modo. È un pomeriggio caldo e umido, il torrente è livido per via delle acque di fusione provenienti dal manto nevoso che ancora copre i ghiacciai ad alta quota, nella Catena d'Alaska. Rispetto alle foto scattate da McCandless dodici mesi prima, il livello è considerevolmente più basso, ma guadare rimane impossibile. L'acqua è troppo profonda, fredda, veloce. Mentre scruto il Teklanika, sento il rumore di pietre grosse come palle da bowling che rotolano sul fondo trascinate da una corrente portentosa. Sarebbe bastato avanzare per pochi metri dalla riva per farmi ribaltare e risucchiare dal canyon sottostante, dove il fiume si trasforma in un ribollire di rapide che prosegue per una decina di chilometri. Però, a differenza di McCandless, nello zaino ho infilato una carta topografica in scala 1:63,360 (su cui cioè un pollice rappresenta un miglio). Squisitamente dettagliata, mi indica che a circa mezzo chilometro, nella gola del canyon, esiste una stazione di misurazione istituita dallo U.S. Geological Survey. Inoltre, a differenza di McCandless, sono accompagnato da tre persone: Roman Dial e Dan Solie dell'Alaska, più un amico californiano di Roman, Andrew Liske. Nel punto in cui lo Stampede Trail incrocia il fiume è impossibile avvistarla, ma dopo aver lottato duramente per una ventina di minuti attraverso un fitto groviglio di abeti e betulle nane, Roman strilla: «Eccola! È laggiù! A un centinaio di metri!». All'arrivo ci troviamo di fronte un cavo d'acciaio spesso un paio di centimetri che attraversa la gola teso fra una torre di cinque metri sulla nostra sponda e una sporgenza su quella opposta, coprendo una distanza di oltre cento metri. Gli idrologi posizionarono il cavo nel 1970 per monitorare le fluttuazioni stagionali del fiume e si spostarono da una riva all'altra per mezzo di un cesto di alluminio collegato con una carrucola. Dal cesto lanciavano un filo a piombo col quale misuravano la profondità dell'acqua. Nove anni dopo le attività della stazione cessarono per mancanza di fondi e il cesto avrebbe dovuto essere chiuso e incatenato alla torre sulla nostra sponda, quella dell'autostrada. Invece, quando ci arrampicammo in cima alla torre, scoprimmo che si trovava su quella opposta, sulla sponda dell'autobus. Pare infatti che alcuni cacciatori della zona abbiano tagliato la catena, portato il cesto dall'altra parte e l'abbiano assicurato bene in maniera da rendere più complicato l'ingresso di estranei nel loro raggio d'azione. Quando McCandless aveva provato a uscire dalla foresta l'anno preceden-
te, il cesto si trovava esattamente nello stesso punto, ovvero sul suo lato del canyon, quindi attraversare il Teklanika senza correre alcun rischio sarebbe stato una sciocchezza, se soltanto il giovane l'avesse saputo. Poiché, però, non aveva portato alcuna carta topografica, non poteva certo immaginare che la salvezza stesse così a portata di mano. Andy Horowitz, uno degli amici della squadra campestre di Woodson, aveva detto che forse Chris «era nato nel secolo sbagliato. Cercava più avventura e libertà di quanto la società odierna non offra». Nell'andare in Alaska McCandless sognava di esplorare terre sconosciute, di scovare un buco nero nella mappa. Peccato che nel 1992 non ne esistessero più, né in Alaska né altrove. Eppure Chris, con la sua stravagante logica, trovò un'elegante soluzione al dilemma: si liberò della mappa. Nella sua mente, o chissà dove, in questo modo la terra si sarebbe mantenuta un'incognita. E poiché non aveva con sé alcuna carta, non solo la terra, ma anche il cavo attraverso il fiume rimase sconosciuto. Per cui il ragazzo, analizzando il violento flusso del Teklanika, concluse erroneamente che fosse impossibile raggiungere la riva orientale, e pensando che l'unica via d'uscita fosse ostruita, fece ritorno all'autobus - una decisione che, considerata l'ignoranza topografica, fu ragionevole. Ma perché, ci domandiamo, decise poi di fermarsi al campo base fino a morire di fame? Perché, arrivato agosto, non cercò un'altra volta di attraversare il Teklanika, quando la portata era minore, quando il guado non comportava più grossi rischi? Perplesso e sconcertato, spero che la carcassa arrugginita del 142 di Fairbanks mi fornisca qualche indizio in proposito. Tuttavia, per raggiungere l'autobus anche noi dobbiamo attraversare il fiume, e il cesto d'alluminio rimane incatenato sull'altra sponda. Dalla cima della torre mi assicuro al cavo con alcuni strumenti da roccia e comincio a spingermi in avanti. Presa dopo presa, mi avvicino al traguardo eseguendo quella che gli alpinisti chiamano una traversata tirolese. In realtà, mi ritrovo a compiere uno sforzo ben più estenuante del previsto, ma finalmente, dopo venti minuti, ecco che mi aggancio all'approdo della riva opposta, talmente stremato da non poter quasi più muovere le braccia. Appena riprendo fiato, mi arrampico verso il cesto - un rettangolo d'alluminio un metro per cinquanta centimetri -, tolgo la catena e faccio ritorno sull'altra sponda del canyon per prendere i compagni di viaggio. Il cavo s'incunea parecchio verso la metà del fiume e quando mi stacco dalla sporgenza, il cesto accelera rapidamente sotto il suo stesso peso, scivolando sempre più veloce lungo la fune d'acciaio all'inseguimento del
punto più basso. La traversata è eccitante. Sfrecciando sopra le rapide a quaranta, cinquanta chilometri l'ora, avverto un involontario grido di paura scaturire dalla gola prima di rendermi conto di non correre alcun pericolo e di riacquistare la mia compostezza. Una volta raggiunta la riva occidentale, manca ancora allo Stampede Trail mezz'ora di intricato bosco. La porzione di marcia già coperta, ovvero i quindici chilometri tra il parcheggio e il fiume, si era rivelata dolce, ben demarcata e relativamente faticosa, ma il tratto che dovevamo affrontare adesso era di tutt'altro carattere. Siccome nella bella stagione sono davvero poche le persone che attraversano il Teklanika, gran parte del percorso è indefinito e ricoperto di vegetazione. Subito dopo il fiume, il sentiero curva a sudovest, risalendo il letto di un rapido ruscello e poiché i castori attraverso il ruscello hanno costruito una fitta rete di dighe, il sentiero sbuca direttamente nel mezzo di un'estensione d'acqua grande dodicimila metri quadrati. I laghetti di castoro non superano mai l'altezza del torace, ma sono molto freddi e, mentre procediamo faticosamente, dal fondo si sprigiona un miasma pestilenziale di melma in decomposizione. Il sentiero s'inerpica sulla collina e supera il laghetto principale, poi riprende a serpeggiare insieme al tortuoso ruscello e risale di nuovo in una giungla di bassi arbusti. Il cammino non è mai particolarmente difficile, ma quei cinque metri circa di ontano intricato che premono su entrambi i lati risultano tetri, claustrofobici e opprimenti. Dal calore appiccicoso si materializzano nuvole di moscerini e, a brevi intervalli, il penetrante lamento degli insetti viene soppiantato dallo scoppio di qualche tuono distante che rimbomba sulla taiga da una coltre di nubi scure stagliate all'orizzonte. La vegetazione mi riempie gli stinchi di graffi sanguinanti e l'incredibile quantità di tracce di grizzly - che a un certo punto si concretizzano in una serie di orme fresche - suscita in me un certo allarme. Nessuno di noi ha portato un'arma. «Ehi, Griz!» strillo nella macchia, sperando di evitare un incontro a sorpresa. «Ehi, orsetto! Stiamo solo passando! Non c'è motivo di prendersela!» Negli ultimi vent'anni sarò stato in Alaska sì e no venti volte, per scalare montagne, per lavorare come carpentiere, pescatore professionista di salmoni, giornalista, o anche solo per girovagare. Nel corso delle visite ho trascorso parecchio tempo da solo nella natura e di solito gradivo tale condizione. Non a caso avevo pensato di compiere anche questa spedizione in
solitudine, e quando il mio amico Roman si era autoinvitato aggregando altre due persone, mi ero sentito in qualche modo irritato. Adesso però ero decisamente sollevato dalla loro presenza. Questo paesaggio gotico, avviluppato nel verde, creava un'atmosfera a dire poco inquietante e, per qualche strano motivo, sembrava più ostile di altri luoghi ancora più remoti del Paese, chessò, i versanti coperti dalla tundra della Catena di Brooks, le alte foreste dell'arcipelago Alexander, perfino le vette ghiacciate e sferzate dal vento del massiccio del Denali. Stavolta, l'ammetto, sono felice come una Pasqua di non essere venuto solo da queste parti. Alle nove di sera seguiamo una svolta del sentiero e lì, in fondo a una piccola chiazza sgombra, troviamo l'autobus. Viluppi di epilobio soffocano gli abitacoli delle ruote e s'insinuano oltre gli assi. Il 142 di Fairbanks è parcheggiato accanto a pioppi tremoli e a una decina di metri dalla cima di una modesta altura, una lingua di terra elevata che sovrasta la confluenza del fiume Sashana e di un affluente più piccolo. L'ambiente è piacevole, aperto e pieno di luce. È facile capire perché McCandless ne abbia fatto il proprio campo base. Ci fermiamo un attimo a osservare l'autobus da lontano, in silenzio. La vernice ormai è pallida e scrostata e mancano parecchi finestrini. Intorno al veicolo sono sparpagliate centinaia di ossicini e migliaia di aculei di porcospino, resti della piccola selvaggina che costituiva il grosso della dieta di McCandless. A margine di quest'ossario giace uno scheletro più imponente, quello dell'alce che il ragazzo aveva ucciso per poi tormentarsi di rimorso. Poco dopo il ritrovamento della salma avevo interrogato Gordon Samel e Ken Thompson, ed entrambi avevano insistito - inflessibilmente e inequivocabilmente - che quel grande scheletro apparteneva in realtà a un caribù e avevano deriso l'ignoranza di quel giovane pivello che era andato a scambiarla per un alce. «Sì, i lupi avevano un po' sparpagliato gli ossi» mi aveva detto Thompson «ma era comunque ovvio che si trattava di un caribù. Quel ragazzo non sapeva neanche cosa faceva lassù.» «Era di certo un caribù» aveva riecheggiato con sarcasmo Samel. «Quando ho letto sul giornale che l'aveva scambiato per un alce, ho capito subito che non era del posto. C'è una bella differenza fra un alce e un caribù, una bella differenza. Bisogna essere proprio sciocchi per non accorgersene.» Fidandomi di Samel e Thompson, due veterani di caccia che in Alaska
avevano ucciso tanti alci e tanti caribù, riportai diligentemente la cantonata di McCandless nell'articolo che scrissi per Outside, confermando quindi l'opinione di innumerevoli lettori che il ragazzo fosse grottescamente impreparato, che non avrebbe mai dovuto imbarcarsi in una simile avventura, a maggior ragione non nelle terre selvagge dell'Ultima Frontiera. Non solo McCandless era morto perché era stato sciocco, commentò un corrispondente in Alaska, ma «la portata di quell'avventura fai-da-te era talmente minima da risultare patetica: accamparsi nel rottame di un autobus a pochi chilometri da Healy, nutrendosi di ghiande e scoiattoli, scambiando un caribù per un alce (impresa alquanto ardua) [...]. C'è soltanto una parola che possa definire quel giovane: incompetente». Fra le lettere di rimprovero a McCandless tutte quelle che ricevetti personalmente menzionavano l'equivoco del caribù come prova dell'impreparazione del ragazzo a sopravvivere nella foresta. Quello che però gli irosi mittenti ignoravano era che la bestia ammazzata dal McCandless era effettivamente quella che il ragazzo aveva identificato. Contrariamente a quanto avevo riportato su Outside, l'animale era davvero un alce, come rivelò una perizia diretta dei resti e come confermarono in seguito varie fotografie. Il ragazzo può aver commesso errori sullo Stampede Trail, ma non certo quello di avere scambiato un caribù con un alce. Passando oltre il grosso scheletro, mi avvicino al veicolo e salgo sul retro, attraverso uno sportello d'emergenza. Appena dietro la porta trovo il materasso lacero, macchiato, quasi polverizzato, su cui McCandless è spirato. Per qualche strano motivo, mi sconvolge vedere una serie di oggetti che gli erano appartenuti sparsi sulla fodera: una borraccia di plastica verde, una minuscola bottiglia di pastiglie per purificare l'acqua, un cilindro consumato di Chap Stick, un paio di pantaloni imbottiti del genere venduto nei magazzini di vestiario militare, un'edizione tascabile di O Jerusalem! con il dorso spaccato, guantoni di lana, una bottiglia di repellente per gli insetti Muskol, una scatola di fiammiferi piena, un paio di stivali da lavoro in plastica marrone col nome Gallien scritto in pallido inchiostro nero sul risvolto. Malgrado i finestrini mancanti, all'interno del cavernoso rifugio c'è odore di muffa e di chiuso. «Wow!» esclama Roman. «Che profumino di uccelli morti!» Subito dopo incappo nella fonte dell'olezzo: un sacchetto di plastica pieno di penne e di qualche ala d'uccello mozzata. Sembra che McCandless le conservasse per imbottire i vestiti o forse per farne un cuscino.
I piatti e le pentole sono accatastati sopra un tavolo di fortuna in compensato piazzato nella parte anteriore dell'autobus, accanto a una lampada al cherosene. Un lungo fodero in pelle è sapientemente decorato dalle iniziali R. F.: l'involucro del machete che Ronald Franz diede a McCandless alla partenza da Salton City. Lo spazzolino da denti blu giace vicino a un tubetto mezzo vuoto di Colgate, una scatola di filo interdentale e la capsula d'oro del molare che, stando al diario, si sarebbe staccata dal dente dopo tre settimane dall'arrivo. Pochi centimetri più in là poggia un teschio delle dimensioni di un'anguria, dalla cui mascella sporgono aguzzi dentoni d'avorio. Si tratta del teschio di un orso, dei resti di un grizzly abbattuto da qualcuno che aveva visitato l'autobus anni prima di McCandless. Accanto al foro del proiettile riconosciamo un messaggio nell'ordinata calligrafia di Chris: Salve orso fantasma, la bestia dentro ognuno di noi. Alexander Supertramp. Maggio 1992. Alzando lo sguardo mi accorgo che le pareti metalliche del veicolo sono coperte di graffiti lasciati dai numerosi visitatori nel corso degli anni. Roman mi fa notare un messaggio che aveva scritto quattro anni prima, durante la traversata della Catena d'Alaska: mangiatagliatelle in marcia verso il lago Clark 8/89. Come lui, gran parte della gente segnava nome, data e poco altro. Il graffito più lungo ed eloquente è uno dei tanti lasciati da McCandless, la proclamazione di gioia che comincia con un riferimento alla sua canzone preferita di Roger Miller: da due anni cammina per il mondo. Niente telefono, niente piscina, niente animali, niente sigarette. Il massimo della libertà. Un estremista. Un viaggiatore esteta la cui dimora è la strada [...]. Proprio sotto a questo manifesto si trova il fornello, ricavato da un'arrugginita lattina d'olio. Tre metri di sezione d'abete sbarrano la portiera aperta e sul tronco drappeggiano due paia di frusti Levi's, poggiati come ad asciugare. Uno dei due - fianchi trenta, lunghezza trentadue - è rattoppato alla bell'e meglio con nastro adesivo grigio per tubi, sull'altro invece sono state accuratamente cucite sulle ginocchia e sul sedere pezze di una vecchia coperta. Quest'ultimo paio porta anche una cintura ricavata da una striscia di lenzuolo. Mi rendo conto che McCandless ha dovuto pensarci quando, dimagrendo, si sarà trovato a perdere i pantaloni. Seduto di fronte al fornello, rimuginando sul quadro misterioso della situazione, incontro prove della presenza di McCandless ovunque posi gli occhi. Ecco qui il tronchesino per le unghie, più in là la tenda di nylon
verde al posto del finestrino rotto, sotto il fornello gli scarponi di Kmart riposti ordinatamente, come se il possessore dovesse tornare da un momento all'altro per allacciarseli e ripartire. Mi sento a disagio, quasi un intruso, un voyeur che si è intrufolato nella camera di McCandless durante una sua temporanea assenza. Nauseato, d'improvviso scendo dall'autobus e m'incammino lungo il fiume per riempire i polmoni d'aria fresca. Un'ora dopo accendiamo un fuoco all'aperto. La luce cala. Il groppo, ormai passato, ha liberato l'atmosfera dalla foschia e lontano la sagoma scura delle alture si staglia netta contro l'orizzonte luminoso. Una striscia incandescente arde sotto il piedistallo nuvoloso del cielo a nordovest. Roman scarta alcune bistecche di un alce che aveva cacciato il settembre precedente nella Catena d'Alaska e le appoggia sul fuoco sopra una griglia annerita, la stessa che usava McCandless per arrostire la selvaggina. Il grasso d'alce cola e sfrigola sul carbone. Mentre mangiamo la carne fibrosa con le mani, dobbiamo cacciare di torno i moscerini e parliamo di questa persona fuori dal comune che nessuno di noi ha mai incontrato, cerchiamo di capire perché abbia fatto una fine del genere e perché molta gente sembrasse disprezzarlo per il solo motivo di essere morto in quel posto. Intenzionalmente, McCandless si era avventurato nella foresta con provviste insufficienti e senza gli strumenti considerati essenziali da molti abitanti dell'Alaska: un fucile di grosso calibro, mappa e bussola, un'ascia. Questa scelta è stata interpretata non solo come prova di evidente stupidità ma di un peccato ancora peggiore: l'arroganza. Alcuni critici hanno perfino tracciato un parallelo fra McCandless e una tragica figura, fra le più infami dell'Artico, Sir John Franklin, un ufficiale della Marina britannica, la cui altezzosità contribuì nel secolo scorso a provocare la morte di centoquaranta persone, incluso lui stesso. Nel 1819 l'ammiragliato della corona incaricò Franklin di condurre una spedizione nelle selvagge terre del Canada nordoccidentale. Due anni dopo aver lasciato l'Inghilterra, Sir John e i suoi uomini vennero sorpresi dalla brutta stagione mentre arrancavano attraverso un'estensione di tundra talmente vasta e desolata da essere battezzata il Barren, ovvero landa infeconda, nome che mantiene tutt'oggi. Presto le scorte di cibo si esaurirono, la selvaggina scarseggiò e Franklin e compagni dovettero sopravvivere nutrendosi di licheni grattati dalla pietra, di cuoio di cervo strinato, di ossi di animali, dei propri stivali di pelle e alla fine gli uni della carne degli altri. Prima che il supplizio si concludesse, almeno due uomini furono uccisi e mangiati, il presunto omicida fu giustiziato sommariamente e altri otto mo-
rirono di stenti o malattia. Franklin stesso era a pochi giorni dalla fine quando insieme agli altri sopravvissuti venne tratto in salvo da un gruppo di meticci. Affabile gentleman vittoriano, Franklin era considerato un balordo di buon cuore, un bambinone inetto e ostinato che rifiutava di imparare l'arte della sopravvivenza. Era partito per la spedizione nell'Artico tragicamente impreparato e al ritorno in Inghilterra era già famoso come l'«uomo che si era mangiato le scarpe», benché il soprannome venisse pronunciato più con soggezione che con scherno. Fu accolto da eroe nazionale, promosso al rango di capitano, pagato profumatamente per scrivere un racconto della disavventura e, nel 1825, ricevette il comando di una seconda spedizione artica. In quell'occasione non successe nulla di particolare, ma nel 1845, speranzoso di trovare il favoleggiato passaggio a nordovest, Franklin commise l'errore di tornare nell'Artico per la terza volta e da allora non si ebbero più notizie né di lui né dei centoventotto uomini sotto il suo comando. Le tracce rinvenute dalle quaranta e più spedizioni inviate per le ricerche stabilirono che tutti erano morti, chi di scorbuto, chi di stenti, tutti fra atroci sofferenze. Quando McCandless fu ritrovato senza vita, venne paragonato a Franklin non soltanto perché entrambi erano morti di fame, ma anche perché si pensava che entrambi avessero dimostrato di non possedere la fondamentale umiltà e l'altrettanto fondamentale rispetto della natura. Un secolo dopo la scomparsa di Franklin, l'eminente esploratore Vilhjalmur Stefansson rilevò che il collega britannico non si era mai dato la pena di imparare le regole di sopravvivenza praticate dagli indiani e dagli eschimesi - popoli che erano riusciti a prosperare «per generazioni, a crescere i figli e prendersi cura dei vecchi» nello stesso ambiente ostile che aveva ucciso Sir John. (Stefansson evitò accuratamente di menzionare che anche molti indiani ed eschimesi erano morti di fame nelle latitudini nordiche.) Ad ogni modo, l'arroganza di McCandless non era dello stesso genere di quella di Franklin. Quest'ultimo vedeva la natura come un'antagonista che inevitabilmente si sarebbe sottomessa a forza, buona educazione e disciplina vittoriana. Invece di vivere in armonia con l'ambiente, invece di affidarsi alla natura per il proprio sostentamento così come facevano i nativi, Franklin tentò di isolarsene con inadeguate attrezzature e tradizioni militari. McCandless, da parte sua, andò troppo oltre nella direzione opposta. Cercò di sostenersi in tutto e per tutto affidandosi alla natura e senza pre-
occuparsi di aver appreso l'intero repertorio di regole fondamentali. Probabilmente prendersela col ragazzo per la sua impreparazione non arriva al nocciolo del problema. McCandless era senz'altro immaturo, senz'altro sopravvalutò le proprie capacità, ma si dimostrò abbastanza in gamba da resistere sedici settimane con poco più di cinque chili di riso e col proprio ingegno. Peraltro, quando si era avventurato nella foresta, sapeva benissimo di essersi lasciato un margine di errore pericolosamente stretto, e sapeva benissimo quale fosse la posta in gioco. D'altra canto, non è poi così inconsueto che un giovane si lanci in un'impresa considerata incauta dai più vecchi. Nella nostra cultura, non meno che in altre, l'esporsi al rischio costituisce una sorta di rito di passaggio. Il pericolo ha sempre esercitato un certo fascino. Sostanzialmente è questo il motivo per cui gli adolescenti guidano troppo veloce, bevono troppo e prendono troppe droghe, ed è questo il motivo per cui le nazioni sono sempre riuscite a reclutare ragazzi per le loro guerre. Difatti, si potrebbe sostenere che l'audacia giovanile sia un comportamento codificato nei nostri geni, che si adatti all'evoluzione. E McCandless, a modo suo, non fece altro che portare il rischio al suo estremo logico. Sentiva il bisogno di mettersi alla prova di continuo, così come adorava dire «è importante». Possedeva grandi - qualcuno direbbe grandiose - ambizioni spirituali e, nell'assolutismo morale che caratterizzava il suo credo, una sfida il cui successo fosse assicurato, non era più tale. È ovvio però che non soltanto ai giovani piace sfidare il pericolo. John Muir viene ricordato soprattutto come un serio ambientalista nonché presidente fondatore del Sierra Club, ma era anche un intrepido avventuriero, un audace scalatore di vette, ghiacciai e cascate. Fra i suoi saggi più belli ricordo un incantevole racconto di come nel 1872 avesse sfiorato la morte durante l'ascensione del monte Ritter, in California. In un altro scritto Muir descrive estasiato come per scelta sia riuscito a resistere a una feroce bufera nella Sierra arrampicato su un abete di Douglas di una trentina di metri: Mai prima d'ora ho assaporato una tanto nobile gioia di movimento. Le sottili estremità quasi ondeggiavano e fluttuavano nell'appassionato torrente, piegandosi e roteando avanti e indietro, tutt'intorno, tracciando indescrivibili combinazioni di curve verticali e orizzontali, mentre stavo aggrappato coi muscoli tesi, come un doliconice su una canna.
All'epoca l'uomo aveva trentasei anni, e ci sorge il sospetto che forse non avrebbe trovato McCandless tanto bizzarro e incomprensibile. Perfino il posato e lezioso Thoreau, che com'è noto considerava sufficiente «aver viaggiato molto a Concord», sentì di dover visitare gli angoli più selvaggi del Maine del secolo scorso e di scalare il monte Katahdin. L'ascensione dei bastioni «selvaggi e terribili benché bellissimi» lo colpì e lo spaventò, ma lasciò in lui una sorta di vertiginosa soggezione. Quell'inquietudine suscitata dalle alture granitiche del Katahdin ispirò parte degli scritti più efficaci e ne colorò profondamente il pensiero riguardo alla terra e alla sua condizione rude e selvaggia. A differenza di Muir e Thoreau, McCandless si avventurò nella foresta non tanto per riflettere sulla natura e sul mondo in generale, quanto per esplorare il paesaggio interiore della propria anima. Dovette presto scoprire quello che Muir e Thoreau già sapevano: inevitabilmente un soggiorno prolungato in un ambiente ostile sposta l'attenzione tanto all'esterno quanto all'interno, ed è impossibile vivere della terra senza sviluppare una sottile comprensione, e un forte legame emotivo, con la terra stessa e tutto ciò che contiene. Gli appunti di McCandless sul diario riportano poche divagazioni sulla natura o comunque poche riflessioni in generale. Viene fatta scarsa menzione del paesaggio circostante e, in effetti, come rileva l'amico di Roman, Andrew Liske, dopo aver letto una fotocopia dello scritto, «le annotazioni riguardano quasi tutte quello che mangiava. Non ha scritto praticamente nulla che non fosse sul cibo». Andrew non esagera, il diario è poco più di un conteggio di piante raccolte e di selvaggina catturata, tuttavia cadremmo in errore se concludessimo di conseguenza che McCandless non riuscisse ad apprezzare la bellezza del territorio circostante e che non fosse toccato dal potere del paesaggio. Come ecologista culturale, Paul Shepard ha osservato: Il beduino nomade non stravede per il panorama, non dipinge il paesaggio e non compila una storia naturale non utilitaristica. [...] La sua vita procede talmente in transazione con la natura da non lasciare spazio ad astrazione, estetica o «filosofia della natura» distaccate dal resto dell'esistenza. [...] La natura e il suo rapporto con essa sono una questione di vitale importanza, regolate da convenzione, mistero e pericolo. Lo svago personale non è rivolto al divertimento ozioso o all'intromissione distaccata nei processi
della natura. Fa parte della sua vita la consapevolezza di quella presenza, del terreno, del tempo imprevedibile, del sottile margine da cui viene sostenuto. Più o meno potremmo dire lo stesso di McCandless durante i mesi passati accanto al fiume Sashana. Sarebbe facile classificare Chris nello stereotipo del ragazzo troppo sensibile, del giovane svitato che ha letto troppi libri e manca di un minimo di buon senso. Ma così facendo sentiremmo di non aver esaurito l'argomento. McCandless non era un irresponsabile scansafatiche, confuso e alla deriva, tormentato dalla disperazione esistenziale. Al contrario, la sua esistenza brulicava di significati e propositi. Ma il significato che il ragazzo attribuiva alla vita, andava oltre un tracciato di comodo: McCandless diffidava del valore dei traguardi facili, e pretendeva molto da sé, molto di più, in conclusione, di quanto non fosse in grado di dare. Nel tentativo di spiegare il comportamento poco ortodosso di McCandless, alcune persone hanno attribuito grande importanza al fatto che, come John Waterman, il ragazzo fosse di bassa statura e che potesse quindi soffrire del «complesso dell'uomo basso» - una fondamentale insicurezza che lo avrebbe spinto a dimostrare la propria mascolinità sottoponendosi a sfide fisiche estreme. Altri invece hanno suggerito che alla radice della fatale odissea andasse ricercato un complesso di Edipo irrisolto. Per quanto possa esserci del vero in entrambe le ipotesi, questa sorta di psicoanalisi post mortem da due soldi resta un'impresa dubbia e astratta che inevitabilmente svilisce e banalizza il paziente assente. Molte di queste conclusioni derivano dalla riduzione dell'inconsueta ricerca spirituale di Chris McCandless a una mera lista di disordini psicologici prefabbricati. Fino a notte fonda restiamo con gli occhi fissi sui tizzoni ardenti a parlare di McCandless. Roman, un trentaduenne schietto e curioso, con un dottorato in biologia a Stanford e una persistente sfiducia nella saggezza convenzionale, ha passato l'adolescenza negli stessi sobborghi del distretto di Washington in cui è cresciuto McCandless e ne conserva tuttora un ricordo soffocante. In Alaska era venuto per la prima volta a nove anni, da alcuni zii che raccoglievano carbone a Usibelli - un centro minerario a cielo aperto a pochi chilometri da Healy - e immediatamente si era innamorato del Nord e di tutto quello che comportava. Nel corso degli anni aveva continuato a tornare nel quarantanovesimo stato e nel 1977, a sedici anni, una volta conclusa la scuola superiore con risultati da primo della classe, si trasfe-
rì a Fairbanks e fece dell'Alaska la sua dimora fissa. Attualmente Roman insegna all'Alaska Pacific University di Anchorage ed è famoso in tutto lo stato per aver compiuto una lunga e audace lista di prodezze, fra le quali ricordiamo la traversata a piedi e in pagaia degli oltre millecinquecento chilometri della Catena di Brooks, la traversata con gli sci dell'Arctic National Wildlife Refuge nel proibitivo clima invernale, la traversata degli oltre mille chilometri di cresta della Catena d'Alaska e l'ascensione pionieristica di oltre trenta rupi e vette settentrionali. Personalmente non vede grande differenza fra le proprie imprese e l'avventura di McCandless, se non ovviamente che il ragazzo ebbe la sfortuna di incontrare la morte. Riporto il discorso sull'alterigia di Chris e sugli sbagli commessi, quelle due o tre sciocchezze che tranquillamente avrebbe potuto evitare, ma che alla fine gli costarono la vita. «Non c'è dubbio che abbia esagerato» risponde Roman «ma lo ammiro per averci provato. Vivere in tutto e per tutto di ciò che ti dà la terra, alla lunga, mese dopo mese, è molto difficile. Io non l'ho mai fatto. E scommetto che ben pochi fra quelli che danno dell'incompetente a McCandless l'hanno mai fatto, di sicuro non per più di una settimana o due. Gran parte della gente non s'immagina nemmeno quanto sia duro vivere dentro la foresta per un periodo prolungato, nutrendoti soltanto di quello che cacci o raccogli. E McCandless quasi ce l'aveva fatta. «Non riesco a non identificarmi col ragazzo» riconosce Roman, spostando i tizzoni con un bastone. «Detesto doverlo ammettere, ma soltanto fino a pochi anni fa, avrei potuto trovarmici io in un pasticcio del genere. Quando ho cominciato a venire in Alaska, probabilmente assomigliavo molto a McCandless, anch'io ero immaturo, impaziente. Sono sicuro che questo paese è pieno di gente che aveva molto in comune con lui appena arrivata in Alaska, inclusi molti dei suoi oppositori. E forse è proprio per questo che sono così duri con quel ragazzo, perché gli ricorda troppo il loro io d'un tempo.» L'osservazione di Roman sottolinea quanto sia difficile per chi fra noi è assorbito dalle monotone preoccupazioni della vita adulta ricordare con quanto impeto da giovani ci governassero passioni e desideri. Come rifletté il padre di Everett Ruess anni dopo la scomparsa del figlio nel deserto, «i più vecchi non comprendono i voli dell'anima dell'adolescente. Penso che noi tutti abbiamo capito ben poco Everett». Roman, Andrew e io restiamo svegli dopo la mezzanotte nello sforzo di dare un senso alla vita e alla morte di McCandless, eppure l'essenza rimane
vaga, sfuggente, elusiva. Gradualmente la conversazione si fa esitante, incerta. Quando mi ritiro dal fuoco alla ricerca di un posto dove stendere il sacco a pelo, la prima debole traccia dell'alba schiarisce già il bordo del cielo a nordest. Malgrado i moscerini siano numerosi e l'autobus offra un riparo, decido di non dormirci dentro né, noto prima di sprofondare in un sonno letargico, lo fanno gli altri. 18 LO STAMPEDE TRAIL È quasi impossibile per l'uomo moderno immaginare cosa significhi vivere di caccia. La vita del cacciatore consiste in un duro e apparentemente continuo pellegrinare. [...] Una vita di assillanti paure che l'intercettazione non funzioni, che la trappola o l'inseguimento falliscano, che per quella stagione le mandrie non si facciano vedere. Soprattutto, la vita del cacciatore implica la minaccia di privazioni e morte per fame. JOHN M. CAMPBELL, The hungry summer Ma che cos'è la storia? È un dar principio a lavori secolari per riuscire a poco a poco a risolvere il mistero della morte e vincerla un giorno. Per questo si scoprono l'infinito matematico e le onde elettromagnetiche, per questo si scrivono sinfonie, ma non si può progredire in tale direzione senza una certa spinta. Per scoperte del genere occorre un'attrezzatura spirituale, e in questo senso, i dati sono già tutti nel Vangelo. Eccoli. In primo luogo, l'amore per il prossimo, questa forma suprema dell'energia vivente, che riempie il cuore dell'uomo ed esige di espandersi e di essere spesa. Poi, i principali elementi costitutivi dell'uomo d'oggi, senza i quali l'uomo non è pensabile, e cioè l'idea della libera individualità e della vita come sacrificio. BORIS PASTERNAK, Il dottor Zivago (passaggio evidenziato in uno dei libri rinvenuti con la salma di Chris McCandless. Sottolineature a opera di McCandless) Vanificato il tentativo di lasciare la foresta, l'8 luglio McCandless fu di ritorno al campo base. È impossibile sapere cosa gli passasse per la testa a quel punto, perché il diario non ne fa parola. Probabilmente non si preoc-
cupava troppo che la sua unica via d'uscita fosse stata sbarrata, perché tutto sommato al momento non sussistevano seri motivi di timore: l'estate segnava il suo culmine, la terra generosa offriva piante e animali in quantità e gli approvvigionamenti di cibo bastavano. Con ogni probabilità suppose di dover pazientare fino ad agosto, quando il Teklanika si sarebbe abbassato e gli avrebbe permesso di guadare. Tornato al rifugio metallico, McCandless riprese la solita routine di caccia e raccolta. Lesse La morte di Ivan Il'ič di Tolstoj e Il terminale uomo di Michael Crichton. Annotò sul diario che per sette giorni di fila non fece altro che piovere. Riguardo alla selvaggina, sembra proprio che non mancasse: nelle ultime tre settimane uccise trentacinque scoiattoli, quattro canachites canadensis, cinque ghiandaie, cinque picchi e due rane, che accompagnava con patate e rabarbaro selvatici, varie specie di bacche e funghi a volontà. Però, malgrado l'apparente munificenza, la carne che di fatto ricavava dalla cacciagione era ben poca cosa e le calorie bruciate superavano senza dubbio quelle assimilate. Dopo tre mesi di sottoalimentazione, McCandless aveva accumulato un notevole deficit calorico e si reggeva su un equilibrio estremamente precario. Poi, alla fine di luglio, commise l'errore che lo fece precipitare nel baratro. Aveva appena finito di leggere Il dottor Zivago, un libro che lo spinse a scarabocchiare eccitati commenti a margine e a sottolineare svariati passaggi: Lara camminava lungo il terrapieno per un sentiero tracciato da vagabondi e da pellegrini e quindi svoltava per il viottolo che, attraverso un prato, portava al bosco. Qui si fermava e, con gli occhi socchiusi, aspirava l'aria densa dei profumi confusi della vastità che la circondava. Era un'aria più cara del padre e della madre, più tenera dell'uomo amato, più illuminante di un libro. Per un istante a Lara si rivelava di nuovo il senso dell'esistenza. Era lì, sentiva, per cercar di capire la frenetica bellezza del mondo, per dare un nome alle cose e, se le sue forze non fossero bastate, per generare dei figli che l'avrebbero fatto in sua vece. «Natura/purezza» annotò in maiuscolo in cima alla pagina. Oh, come si desidera a volte poter scappare dall'insulsa monotonia dell'umana eloquenza, dalle frasi sublimi, per cercare rifugio
nella natura, apparentemente così silenziosa, oppure nel mutismo di fatiche lunghe ed estenuanti, del sonno profondo, di musica vera o dell'umana comprensione zittita dall'emozione! McCandless segnò il paragrafo con un asterisco, cerchiando «rifugio nella natura» in inchiostro nero. Accanto a: «Si accorsero allora che solo la vita simile alla vita di chi ci circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno, è vera vita, che la felicità isolata non è felicità. [...] Era questo che amareggiava più di ogni altra cosa» scrisse: «Felicità è vera soltanto se condivisa». È forte la tentazione di considerare quest'ultimo commento come ulteriore prova del significativo cambiamento di McCandless dopo la lunga e solitaria parentesi. Ne potremmo dedurre che si sentisse ormai pronto a schiudere gradualmente la corazza intorno al cuore e che, una volta tornato alla civiltà, intendesse abbandonare la vita del vagabondo solitario, smetterla di fuggire l'intimità ed entrare nella comunità umana come suo componente. Soltanto che non lo sapremo mai per certo, perché Il dottor Zivago fu l'ultimo libro che Chris McCandless lesse. In data 30 luglio, due giorni dopo aver finito il libro, Chris scrisse sul diario parole allarmanti: «Estremamente debole. Colpa dei semi di pat. Problemi anche solo ad alzarmi. Sto morendo di fame. Grande pericolo». Prima di questo appunto nulla suggerisce che McCandless si trovasse in difficoltà. Benché fosse affamato e la povera dieta che era costretto a osservare avesse ridotto il corpo a un tetro ammasso di pelle e ossa, complessivamente sembrava godere di buona salute. Invece, il 30 luglio, le sue condizioni fisiche precipitarono all'improvviso verso il disastro e già il 19 agosto Chris McCandless era morto. Si sono fatte molte congetture sulle cause di un declino tanto rapido. Nei giorni successivi all'identificazione della salma Wayne Westerberg ricordò vagamente che Chris poteva aver comperato dei semi nel Sud Dakota magari semi di patata - per coltivare un orto non appena si fosse stabilito nella foresta. L'ipotesi è che McCandless non sia mai riuscito a seminare nulla (non trovai traccia di coltivazioni nei dintorni dell'autobus) e che la fame alla fine di luglio l'abbia indotto a mangiare le semenze che lo avrebbero avvelenato. Infatti, i semi di patata diventano moderatamente tossici quando cominciano a germogliare. Contengono la solanina, un veleno presente nella famiglia delle solanacee che, se ingerito per un breve periodo produce vomi-
to, diarrea, cefalea e letargia, ma sul lungo periodo finisce per pregiudicare il ritmo cardiaco e la pressione sanguigna. Tuttavia, quest'ipotesi presenta una lacuna: McCandless avrebbe dovuto assimilare una notevole quantità di semi di patata per subire conseguenze di simile portata, ma considerato lo scarso peso del bagaglio quando Gallien l'aveva lasciato, è molto improbabile che ne portasse più di qualche grammo, ammesso che lo facesse. Sono emerse ulteriori e più plausibili teorie riguardanti semi di patata di tutt'altro genere. Infatti, alla pagina centoventisei e centoventisette del manuale di botanica è riportata la descrizione di una pianta chiamata patata selvatica dagli indiani dena'ina che ne raccoglievano la radice simile alla carota. La pianta, nota ai botanici come hedysarum alpinum, cresce nel terreno ghiaioso in tutta la regione. Stando al manuale «la radice di patata selvatica è probabilmente l'alimento più importante, oltre ai frutti selvatici, nella dieta dei dena'ina. La preparano in svariati modi - cruda, bollita, arrostita, fritta - e gradiscono intingerla nell'olio o nel lardo, dove peraltro viene conservata». La citazione prosegue dicendo che il periodo migliore per dissotterrare le patate selvatiche «è la primavera, non appena il terreno disgela [...]. In estate diventano decisamente secche e dure». Priscilla Russell Kari, l'autrice del manuale, mi spiegò che «la primavera era un periodo veramente difficile per i dena'ina, soprattutto lo era stato in passato. Spesso la selvaggina da cui dipendevano non si faceva vedere oppure il pesce non arrivava al momento previsto. Di conseguenza, la patata selvatica diventava il loro alimento base. Ha un sapore molto dolce, ed era, anzi, è tutt'ora, qualcosa che mangiano molto volentieri». In superficie, la patata selvatica si presenta come un cespuglio alto poco più di mezzo metro, con delicati steli di fiori rosa simili alle infiorescenze del pisello odoroso in miniatura. Prendendo spunto dal libro della Kari, McCandless cominciò a dissotterrare e mangiare le radici di patata selvatica il 24 giugno, apparentemente senza subire effetti negativi. Il 14 luglio cominciò a consumarne anche i baccelli, probabilmente perché le radici si facevano troppo dure. Una fotografia scattata in questo periodo ne mostra una busta Ziploc da quasi quattro litri stracolma. Ed ecco che il 30 luglio l'appunto sul diario recita: «Estremamente debole. Colpa dei semi di pat. [...]». Nel manuale di botanica, alla descrizione della patata selvatica, segue quella di una specie strettamente correlata, il pisello odoroso selvatico, hedysarum mackenzii. Benché si tratti di una pianta più piccola, il pisello o-
doroso selvatico è talmente simile alla patata selvatica che perfino esperti botanici hanno difficoltà a distinguerli. Esiste una sola caratteristica che li differenzi: nella parte inferiore delle foglioline verdi della patata selvatica sono presenti numerose venuzze laterali, mentre in quelle del pisello odoroso selvatico esse non sono visibili. Nel manuale della Kari è precisato che, proprio perché il pisello odoroso selvatico è così difficile da distinguere dalla patata selvatica, e «risulta che sia velenoso, prima di usare la patata come alimento, è bene identificarla con estrema cura». Nella letteratura medica moderna non esistono casi di avvelenamento da h. mackenzii, ma a quanto pare gli aborigeni del Nord ne conoscono da millenni le proprietà tossiche e prestano molta attenzione a non cadere in inganno. Per trovare un caso di avvelenamento documentato imputabile al pisello odoroso selvatico ho dovuto risalire agli annali di esplorazione artica del diciannovesimo secolo. M'imbattei nell'obiettivo della mia ricerca nel leggere i diari di Sir John Richardson, un famoso chirurgo, naturalista ed esploratore scozzese. Quest'uomo aveva preso parte alle prime due sventurate spedizioni di Sir John Franklin ed era sopravvissuto a entrambe. Era stato lui a giustiziare con un colpo di pistola il presunto omicida-cannibale, e caso vuole che sia stato lui il primo studioso a stendere una descrizione scientifica della h. mackenzii, attribuendo alla pianta il nome botanico. Nel 1848, mentre conduceva una spedizione attraverso l'artico canadese alla ricerca dello scomparso Franklin, Richardson mise a confronto h. alpinum e h. mackenzii commentando nel proprio diario: Presenta radici lunghe e flessibili dal sapore dolce come liquirizia. In primavera viene mangiata in grande quantità dai nativi, ma con l'avanzare della stagione diventa legnosa e perde di succosità e friabilità. La radice della canuta, reclinata e meno elegante ma più fiorita hedysarum mackenzii è velenosa e quasi provocò la morte di un'anziana indiana a Fort Simpson, che l'aveva scambiata per la prima. Fortunatamente ebbe un effetto emetico e la donna, dopo aver rigettato tutto l'ingerito, si rimise in sesto, benché per qualche tempo si fosse dubitato della sua salvezza. Era facile immaginare che Chris McCandless avesse commesso lo stesso errore della donna indiana. Considerati gli elementi disponibili, sembrava ipotesi verosimile che il giovane - incauto e precipitoso per natura - avesse
preso una cantonata scambiando una pianta per l'altra e di conseguenza fosse morto. Nell'articolo di Outside riportai come fatto certo che era stata la h. mackenzii a uccidere il ragazzo, e praticamente ogni giornalista che si occupò del caso giunse alla stessa conclusione. Tuttavia, col passare dei mesi ebbi l'opportunità di riflettere a lungo sulla morte di Chris e quest'interpretazione unanime mi convinse sempre meno. Per tre settimane, a partire dal 24 giugno, McCandless aveva dissotterrato e mangiato senza alcun problema decine di radici di patata selvatica e mai aveva scambiato l'h. mackenzii con l'h. alpinum. Perché il 14 luglio, quando cominciò a raccoglierne i semi, avrebbe dovuto improvvisamente confondere le due specie? In realtà, mi persuasi, il ragazzo si era tenuto scrupolosamente alla larga dalla tossica h. mackenzii e mai ne aveva mangiato i semi o altro. Venne sì avvelenato, ma la pianta che lo uccise non fu il pisello odoroso selvatico. La causa del suo decesso andava ricercata nella patata selvatica, la h. alpinum, la specie che il manuale di botanica identificava come non tossica. Il libro indica soltanto che le radici della pianta sono commestibili. Benché non si pronunci riguardo ai semi, non dice che siano velenosi. Per essere giusti nei confronti di McCandless, bisogna ammettere che nessun testo pubblicato definisce tossici i semi di patata selvatica e da un'accurata ricerca nella letteratura medica e botanica non emerge alcuna indicazione in merito. Tuttavia la famiglia dei piselli (le leguminosae, a cui appartiene la h. alpinum) pare abbondare di specie che producono alcaloidi - composti organici in grado di provocare un potente effetto farmacologico sull'uomo e sugli animali, ne fanno parte morfina, caffeina, nicotina, curaro, stricnina e mescalina - e in molte di esse la tossina è strettamente localizzata in una parte della pianta. «Quello che accade in molti legumi» spiega John Bryant, un ecologo chimico della University of Alaska di Fairbanks, «è che alla fine dell'estate le piante concentrano gli alcaloidi nella scorza dei semi, per scoraggiare gli animali dal mangiarle. A seconda del periodo dell'anno non è inconsueto per una pianta dalle radici commestibili avere semi velenosi. Se una specie produce alcaloidi, con l'avvicinarsi dell'autunno, è nei semi che sarà più probabile trovare la tossina.» Durante la visita al fiume Sashana raccolsi campioni di h. alpinum che cresceva a pochi metri dall'autobus e ne inviai i baccelli a Tom Clausen, un collega del professor Bryant alla facoltà di chimica della University of A-
laska. Le analisi spettrografiche definitive devono ancora essere ultimate, ma da una verifica preliminare effettuata da Clausen e da uno dei suoi studenti, Edward Treadwell, risulta che i semi effettivamente contengono tracce di alcaloidi. Con grande probabilità, l'alcaloide in questione è la swainsonina, un composto noto agli allevatori e ai veterinari come agente tossico dell'astragalo. Esistono cinquanta varietà di astragalo tossico, gran parte concentrate nel genere astragalus, strettamente correlato all'hedysarum. I sintomi più ovvi di avvelenamento da astragalo sono neurologici e, stando al documento pubblicato nel Journal of the American Veterinary Medicine Association, comprendono: «Depressione, andatura lenta e incerta, pelo irrigidito, occhi spenti con sguardo fisso, dimagrimento, scoordinamento muscolare e nervosismo (specialmente sotto stress). Inoltre, gli animali colpiti possono diventare solitari, difficili da trattare e incontrare problemi nel bere e mangiare». Con la scoperta di Clausen e Treadwell che i semi di patata selvatica potrebbero contenere swainsonina o composti analogamente tossici, diventa plausibile ritenere che siano stati questi a provocare la morte di McCandless, e se ciò fosse vero, significa che il ragazzo non era poi così sconsiderato o incompetente come lo si è dipinto. Non ha sbadatamente confuso una pianta con un'altra, e la pianta che l'ha avvelenato non era conosciuta come tossica, anzi, per settimane Chris ne aveva tranquillamente mangiato le radici. Spinto dalla fame, il ragazzo commise il semplice errore di ingerirne i baccelli, ma, per quanto sia probabile che una persona con maggiori conoscenze botaniche non l'avrebbe fatto, si trattò in definitiva di uno sbaglio innocente. Uno sbaglio che tuttavia gli costò molto caro. Gli effetti dell'avvelenamento da swainsonina sono cronici - gli alcaloidi di rado uccidono sul colpo. La tossina svolge la sua azione insidiosamente, indirettamente, inibendo l'enzima essenziale al metabolismo della glicoproteina. In sostanza provoca un massiccio tampone di vapore nei condotti d'alimentazione dei mammiferi e al corpo viene impedito di trasformare il cibo in energia sfruttabile. Ingerire troppa swainsonina equivale a morire di fame, indipendentemente da quanto si mangi o non si mangi. A volte gli animali riescono a riprendersi dopo aver smesso di mangiare astragalo, ma soltanto se in partenza godono di buona salute. Affinché il composto tossico possa essere espulso nelle urine, è necessario che si leghi con molecole di glucosio o amminoacidi. Nell'organismo deve quindi essere presente una buona scorta di proteine e zuccheri per acciuffare il veleno
ed espellerlo. «Ovviamente» spiega il professor Bryant «se già in partenza sei magro e affamato vuol dire che non ti avanzeranno molto glucosio e molte proteine, per cui diventa impossibile espellere la tossina dal sistema. Quando un mammifero deperito ingerisce un alcaloide, anche uno benigno come la caffeina, ne viene colpito in misura assai maggiore del normale perché gli mancano le riserve di glucosio necessarie a espellere la sostanza. L'alcaloide non fa altro che accumularsi nel sistema. Se McCandless si è fatto una scorpacciata di questi semi mentre già era in fase di avanzato deperimento, ha segnato il suo destino.» Fiaccato dai semi velenosi, McCandless scoprì di essere improvvisamente troppo debole per mettersi in marcia verso la salvezza. E poiché era troppo debole anche per cacciare seriamente, precipitò in una spirale di deperimento che lo portò alla morte. Il 31 luglio e il 1° agosto non prese appunti sul diario, e il 2 si limitò a scrivere: «Terribile vento». L'autunno era ormai alle porte, la temperatura si abbassava e le giornate si accorciavano sensibilmente. Ogni rotazione del globo aveva sette minuti in meno di luce e sette in più di freddo e oscurità. Nel giro di una sola settimana la notte si allungò di quasi un'ora. «Cento giorni! È fatta!» annotò giubilante il 5 agosto, fiero d'aver raggiunto un traguardo così significativo. «Ma con un soffio di vita addosso. La morte incombe minacciosa. Troppo debole per mettermi in marcia, letteralmente intrappolato nella foresta - niente selvaggina.» Se McCandless avesse avuto una carta topografica della U.S. Geological Survey, si sarebbe accorto che lungo il Sashana, a una decina di chilometri a sud dell'autobus, esisteva un capanno del Park Service. Nelle sue condizioni fisiche sarebbe ancora riuscito a coprire la distanza. Lì, appena dopo il confine del Denali National Park, avrebbe potuto trovare provviste d'emergenza, un letto e un piccolo pronto soccorso a disposizione dei ranger durante i pattugliamenti invernali. E malgrado non siano riportati dalla carta, tre chilometri prima esistono altri due capanni privati - uno di proprietà di Will e Linda Forsberg, famosi per i cani da slitta, e l'altra di un dipendente del Denali National Park, Steve Carwile -, dove avrebbe potuto trovare dei viveri. In altre parole, la salvezza di McCandless si trovava a sole tre ore di cammino lungo il fiume. Questa triste ironia fu largamente sottolineata dopo il ritrovamento della salma. Eppure, anche se il ragazzo avesse saputo dell'esistenza delle capanne, non si sarebbe certo tolto dai pasticci. Infat-
ti, dopo la metà d'aprile, quando ormai il disgelo creava difficoltà alle slitte e motoslitte e l'ultimo occupante se ne era già andato, qualcuno pensò bene di fare irruzione in tutte e tre e di metterle a soqquadro. Le provviste furono lasciate in balia degli animali e delle intemperie, e di conseguenza marcirono. Il danno non fu scoperto che alla fine di luglio, quando un biologo di nome Paul Atkinson si fece strada per quindici estenuanti chilometri sull'Outer Range, dall'ingresso del Denali National Park al rifugio del Park Service. L'uomo rimase sconvolto e sconcertato davanti all'irragionevole distruzione che gli diede il benvenuto. «Era evidente che non si trattava dell'opera di un orso» ricorda Atkinson. «Sono un esperto in materia e ne conosco bene la differenza. Sembrava proprio che qualcuno fosse entrato con un martello e avesse cominciato a colpire ovunque. Dall'altezza dell'epilobio cresciuto attraverso i materassi buttati all'esterno si riusciva a capire che l'atto di vandalismo risaliva a molte settimane prima.» «Era un disastro» dice Forsberg della sua capanna. «Tutto quello che non era fissato con chiodi, era stato distrutto. Non c'era una lampadina intatta, gran parte delle finestre erano rotte, materassi e coperte erano all'esterno, ammucchiati, le tavole del soffitto erano state strappate brutalmente, i contenitori di combustibile bucherellati, la stufa a legna spostata e perfino un grosso tappeto era stato trascinato fuori a marcire. E naturalmente non restava niente dei viveri. Per cui anche se Alex fosse arrivato fin qui, non gli sarebbe servito granché. Ammesso appunto che non l'abbia fatto.» Forsberg considera McCandless il primo indiziato. Ritiene che il ragazzo si sia imbattuto nei capanni dopo l'arrivo all'autobus, la prima settimana di maggio, e che di fronte all'intrusione della civiltà nel suo prezioso angolo di natura incontaminata sia montato su tutte le furie e abbia devastato le costruzioni. Quest'ipotesi però non spiega come mai McCandless non abbia riservato lo stesso trattamento anche all'autobus. Anche Carwile sospetta di McCandless. «È soltanto una sensazione» spiega «ma credo che fosse quel genere di persona che vuole "liberare la natura", e distruggere i nostri capanni poteva sembrargli una maniera di farlo. O forse per quel suo forte disprezzo del governo: ha visto la scritta del Park Service su una capanna, ha dedotto che fossero tutte e tre di proprietà dello Stato e ha deciso di sferrare un colpo contro il Grande Fratello. Senza dubbio rientra nella gamma delle possibilità.» Dal canto loro le autorità non ritengono che il vandalo possa essere stato McCandless. «Non abbiamo ancora individuato il colpevole» dice Ken
Kehrer, capo ranger del Denali National Park, «ma Chris McCandless non rientra nella lista dei sospettati.» In effetti, nulla nel diario o nelle fotografie del ragazzo suggerisce che sia stato nei dintorni dei capanni. Quando si avventurò oltre l'autobus, all'inizio di maggio, le fotografie dimostrano che seguì il fiume Sashana verso nord, ovvero in direzione opposta a quella del misfatto. E anche se in qualche modo ci fosse capitato, è difficile immaginare che possa aver provocato un simile sconquasso senza strombazzarlo nel diario. Il 6, 7 e 8 agosto non annotò nulla, il 9 scrisse di aver sparato a un orso senza però colpirlo, il 10 di aver avvistato un caribù, ma di non essere riuscito a sparare, e finalmente di aver ucciso cinque scoiattoli. Se però l'organismo aveva già accumulato un quantitativo sufficiente di swainsonina, il piccolo bottino di caccia sarà stato di ben poco nutrimento. L'11 agosto colpì e mangiò una pernice bianca, il 12 si trascinò fuori dall'autobus in cerca di bacche, non prima però di aver lasciato una richiesta d'aiuto nella remota ipotesi che qualcuno si trovasse a passare di lì in sua assenza. Il messaggio scritto in meticoloso stampatello maiuscolo su una pagina strappata dal Taras Bulba di Gogol dice: S.O.S. Ho bisogno del vostro aiuto. Sono malato, prossimo alla morte, e troppo debole per andarmene a piedi. Sono solo, non è uno scherzo. In nome di Dio, vi prego, rimanete per salvarmi. Sono nei dintorni a raccogliere bacche e tornerò stasera. Grazie. Firmò l'appunto «Chris McCandless. Agosto?». Data la gravità della situazione aveva abbandonato il glorioso nomignolo Alexander Supertramp per tornare a quello ricevuto alla nascita dai propri genitori. Molti abitanti del luogo si domandano come mai McCandless, raggiunto quel livello di disperazione, non abbia pensato al fuoco come segnale d'allarme. Nell'autobus erano presenti scorte di combustibile sufficienti a provocare una conflagrazione abbastanza forte da attirare l'attenzione degli aeroplani di passaggio o almeno da lanciare un gigantesco S.O.S. nel muskeg. Contrariamente a quanto si pensi però, sopra l'autobus non passano rotte aeree stabilite e sono molto pochi i velivoli che sorvolano la zona. Nei quattro giorni trascorsi nella foresta ricordo di non averne visto nemmeno uno che non fosse un jet commerciale a ottomila metri d'altitudine. Non c'è
dubbio che di tanto in tanto nelle vicinanze dell'autobus passassero piccoli aeroplani, ma probabilmente McCandless avrebbe dovuto provocare un falò di notevoli dimensioni per essere sicuro di venire avvistato. E come rileva Carine, la sorella, «mai e poi mai Chris avrebbe intenzionalmente dato fuoco alla foresta, nemmeno per salvarsi la pelle. Chiunque sostenga il contrario, non conosce affatto mio fratello». Morire di fame non è un modo piacevole di finire i propri giorni. Negli stadi avanzati di deperimento, quando il corpo comincia a consumarsi, le vittime soffrono di dolori muscolari, disturbi cardiaci, perdita di capelli, vertigini, respiro corto, forte sensibilità al freddo, prostrazione fisica e mentale. La pelle perde colore. In assenza degli alimenti chiave, nel cervello si sviluppa un grave squilibrio chimico che provoca convulsioni e allucinazioni. Tuttavia alcune persone recuperate in queste condizioni ricordano che verso la fine la fame svanisce, i dolori lancinanti si placano e la sofferenza viene rimpiazzata da un'euforia sublime, da un senso di calma accompagnato a una chiarezza mentale quasi trascendente. È bello pensare che McCandless abbia potuto sperimentare una simile estasi. Il 12 agosto scrisse quelle che sarebbero state le sue ultime parole sul diario: «Mirtilli meravigliosi». Dal 13 al 18 non fece che tenere il conto del passare dei giorni. A un certo punto nel corso della settimana strappò la pagina conclusiva della biografia di L'Amour Education of a wandering man. Da una parte l'autore riportava una citazione estrapolata dal poema di Robinson Jeffers Wise men in their bad hours: La morte è una stornella feroce: ma morire avendo rappresentato qualcosa più all'altezza dei secoli che muscoli e ossa soltanto, è soprattutto liberarsi della debolezza. Le montagne sono pietra morta, la gente ne ammira od odia l'altezza, l'insolente tranquillità, le montagne non s'addolciscono né si preoccupano e i pensieri di alcuni uomini morti hanno la stessa tempra. Sull'altra, immacolata, McCandless compose un breve messaggio d'addio: «Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!». Dopodiché s'infilò a fatica nel sacco a pelo cucitogli dalla madre e scivolò in uno stato d'incoscienza. Probabilmente, morì il 18 agosto, centododici giorni dopo essersi addentrato nella foresta, diciannove giorni prima che
qualcuno capitasse nei paraggi e s'imbattesse nel corpo esanime. Una delle ultime cose che Chris McCandless fece in vita fu quella di scattarsi una foto accanto all'autobus sotto la volta celeste del cielo d'Alaska. Con una mano rivolge il biglietto d'addio all'obiettivo e con l'altra porge un saluto sereno e coraggioso al mondo. Se in quelle ultime, difficili ore il ragazzo si sia commiserato - perché era giovane, perché era solo, perché il corpo l'aveva tradito riducendolo in quello stato - non traspare dall'immagine. Chris sorride, e il suo sguardo è inequivocabile: McCandless era in pace, beato come un monaco che va dal Signore. EPILOGO Ancora aleggia l'ultimo triste ricordo, a volte passa come una nuvola veloce e oscura il sole, raggelando il ricordo di tempi più felici. Ci sono state gioie troppo grandi per essere descritte a parole, e ci sono stati dolori sui quali non ho osato indugiare. Con questo in mente dico: scala se vuoi, ma ricorda che forza e coraggio non sono niente senza prudenza, e che una momentanea negligenza può distruggere la felicità di una vita intera. Non fare nulla di fretta. Guarda bene a ogni passo, e fin dall'inizio pensa che potrebbe essere la fine. EDWARD WHYMPER, Scalate sulle Alpi Dormiamo al suono dell'organetto del tempo e ci svegliamo, se mai ci svegliamo, al silenzio del Signore. E poi, quando ci svegliamo sulle sponde profonde del tempo non creato, poi quando l'accecante oscurità prorompe sulle distanti pendici del tempo, allora è il momento di pensare alle cose, come la ragione e la volontà, allora è il momento di romperci il collo verso casa. Non esistono eventi ma pensieri e le difficili svolte del cuore, il suo lento imparare ad amare e chi amare. Il resto non sono che storie e pettegolezzi per altri momenti. ANNIE DILLARD, Holy the firm L'elicottero avanza a fatica, toc-toc-toc, oltre il monte Healy. Quando la lancetta dell'altimetro segna millecinquecento metri, sorvoliamo una cresta color fango, la terra scivola via, e una distesa mozzafiato di taiga riempie il
parabrezza in Plexiglas. In lontananza scorgo lo Stampede Trail che da est a ovest segna una debole, tortuosa linea attraverso il paesaggio. Billie McCandless siede sul sedile anteriore, Walt ed io stiamo dietro. Sono passati dieci lunghi mesi da quando Sam comparve all'uscio di Chesapeake Beach per informarli che Chris non c'era più. È ormai tempo, hanno deciso, di visitare i luoghi dove il figlio ha incontrato la morte, di vederli coi loro occhi. Walt ha trascorso gli ultimi dieci giorni a Fairbanks per la Nasa, impegnato nella creazione di un sistema radar aviotrasportato per missioni di ricerca e salvataggio, che permette di individuare il relitto di un aereo a migliaia di chilometri di fitta foresta. Da diversi giorni ormai è distratto, irritabile, tagliente. Billie, arrivata da un paio di giorni, mi confida che in principio non le è stato facile accettare la prospettiva di visitare l'autobus, mentre ora, per quanto possa sembrare strano, si sente tranquilla e concentrata e negli ultimi tempi non aspettava altro che mettersi in viaggio. L'elicottero è stata un'idea dell'ultimo momento. Billie infatti desiderava seguire lo Stampede Trail come aveva fatto Chris. Per questo si era rivolta a Butch Killian - il minatore di Healy che era stato presente al ritrovamento del corpo del ragazzo - che di buon grado aveva accettato di accompagnarli col fuoristrada. Il giorno prima però Killian aveva telefonato in hotel per far presente che il fiume Teklanika era ancora alto, troppo alto, per attraversarlo tranquillamente col suo mezzo anfibio, un Argo a otto ruote. Di conseguenza, eccoci sull'elicottero. Circa seicento metri sotto i pattini del velivolo, il paesaggio ondeggia ed è ricoperto da un tweed verde screziato di muskeg e foresta di conifere. Il Teklanika sembra un lungo nastro scuro buttato a casaccio sul terreno. Vicino alla confluenza di due corsi d'acqua più modesti è visibile un oggetto innaturalmente luminoso: il 142 di Fairbanks. Abbiamo impiegato quindici minuti a percorrere la distanza che a Chris richiese quattro giorni di cammino. L'elicottero si posa rumorosamente a terra, il pilota spegne il motore e noi saltiamo giù, sul suolo sabbioso. Subito dopo, la macchina si alza in un uragano di eliche e polvere, lasciandoci immersi in un silenzio monumentale. Mentre Walt e Billie tacciono, fermi a una decina di metri dal veicolo, con lo sguardo fisso, un trio di ghiandaie cinguetta da un vicino pioppo tremolo. «È più piccolo» commenta finalmente Billie «di quanto lo immaginassi, voglio dire l'autobus.» Poi, guardandosi intorno: «Che bel posto! Non pos-
so credere che assomigli così tanto a dove sono cresciuta io. Oh, Walt, sembra proprio la Upper Peninsula! A Chris dev'essere piaciuto tanto starsene qui». «Va bene, è vero, ci sono un sacco di buone ragioni per cui l'Alaska non mi piace» risponde Walt accigliato «ma devo ammetterlo, questo posto ha un certo fascino. Riesco a capire cosa possa aver attratto Chris.» Nella mezz'ora successiva Walt e Billie girano tranquillamente intorno al rottame, scendono al fiume e s'inoltrano nel bosco circostante. È Billie a entrare per prima nell'autobus. Quando Walt torna dal fiume, la trova seduta sul materasso su cui è morto Chris, intenta ad assorbire ogni dettaglio del desolante ambiente che la circonda. A lungo fissa in silenzio gli stivali sotto il fornello, la sua calligrafia sulle pareti, lo spazzolino da denti. Oggi però niente lacrime. Curiosando nella confusione sul tavolo si china a esaminare un cucchiaio con una particolare decorazione floreale sul manico. «Walt, guarda un po'!» esclama. «È dell'argenteria che avevamo ad Annandale.» Nella parte anteriore del bus raccoglie un paio di jeans logori e rammendati del ragazzo e, chiudendo gli occhi, li preme contro il volto. «Odorano» esclama al marito con un sorriso sofferto. «Odorano ancora di Chris.» E dopo una pausa prolungata dichiara, più a se stessa che a qualcun altro: «Deve essere stato ben forte e coraggioso per non perdersi d'animo». Billie e Walt passano due ore andando su e giù dall'autobus. Il padre sistema una lapide appena dietro la porta, una semplice placca d'ottone con poche parole commemorative. Ai piedi la madre ripone un mazzo di epilobi, napelli, millefoglie e rami d'abete. Vicino al letto, nel retro del veicolo, lascia una valigetta con un kit di pronto soccorso, cibo in scatola e altri prodotti per la sopravvivenza con un biglietto che esorta chiunque legga a «chiamare al più presto mamma e papà». La valigia contiene anche una bibbia che apparteneva a Chris da bambino, anche se, confessa Billie: «Non ho più pregato da quando l'abbiamo perso». Walt, d'indole riflessivo, non parla molto, ma sembra più a suo agio adesso che nei giorni precedenti. «Non sapevo come avrei reagito» ammette facendo cenno all'autobus. «Invece sono contento di essere venuto.» La breve visita, spiega, gli ha permesso di avvicinarsi alle ragioni che hanno spinto Chris in questi luoghi. C'è molto di suo figlio che lo sconcerta e che sempre lo sconcerterà, ma adesso un po' meno, e di questo piccolo sollievo si sente grato. «È bello sapere che Chris è stato qui» commenta Billie «sapere per certo
che ha trascorso del tempo vicino a questo fiume, che è stato in questo pezzo di terra. Negli ultimi tre anni abbiamo visto tanti di quei posti domandandoci se nostro figlio ci fosse passato, ed era terribile non sapere, non sapere niente di niente. «Molta gente mi dice che ammira Chris per quello che stava cercando di fare, e se fosse sopravvissuto anch'io la penserei come loro. Però non è sopravvissuto, e non c'è modo di farlo tornare indietro, non si può rimediare. Gran parte delle cose, le puoi rimediare, ma questa no. Non so se una perdita del genere si superi mai. Il fatto che Chris se ne sia andato è una ferita dolorosa che si riapre quotidianamente. È dura, davvero. Certi giorni va meglio di altri, ma sarà sempre dura, ogni giorno, per il resto della mia vita.» Di colpo il silenzio è rotto dal martellante frastuono dell'elicottero che scende a spirale dalle nuvole e atterra in una chiazza di epilobio. Montiamo a bordo e ci alziamo nel cielo. L'elicottero vola a punto fisso per qualche istante e poi si inclina ripido verso sudest. Per qualche minuto ancora il tetto dell'autobus rimane visibile fra gli alberi striminziti, un minuscolo bagliore bianco in un mare di verde, che diventa via via più piccolo e alla fine scompare. RINGRAZIAMENTI Scrivere questo libro sarebbe stato impossibile senza il notevole contributo della famiglia McCandless. Desidero esprimere il mio profondo apprezzamento a Walt McCandless, Billie McCandless, Carine McCandless, Sam McCandless e Shelly McCandless Garcia per avermi dato libero accesso agli scritti, alle lettere, alle fotografie di Chris e aver conversato a lungo con me. Nessun membro della famiglia ha mai cercato di esercitare il minimo controllo sul contenuto o sull'orientamento del libro, pur sapendo che parte del materiale messo su carta stampata sarebbe risultata estremamente dolorosa. Su richiesta della famiglia il venti per cento delle royalties derivanti dalla vendita di Nelle terre estreme sarà donato a un fondo di borse di studio a nome di Chris McCandless. Sono grato a Doug Stumpf, che ha acquistato il manoscritto per Villard Books/Random House, a David Rosenthal e Ruth Fecych, che ne hanno curato l'edizione con impegno e bravura dopo la prematura scomparsa di Doug. Grazie anche a Annik LaFarge, Adam Rothberg, Dan Rembert, Dennis Ambrose, Laura Taylor, Diana Frost, Deborah Foley e Abigail Wi-
nograd di Villard/Random House per l'assistenza prestatami. Il libro nacque in realtà come articolo della rivista Outside e vorrei ringraziare Mark Bryant e Laura Hohnhold per avermi assegnato il pezzo e averlo plasmato così sapientemente. Allo scritto hanno lavorato anche Adam Horowitz, Greg Cliburn, Kiki Yablon, Larry Burke, Lisa Chase, Dan Ferrara, Sue Smith, Will Dana, Alex Heard, Donovan Webster, Kathy Martin, Brad Wetzler e Jaqueline Lee. Uno speciale ringraziamento va a Linda Mariam Moore, Roman Dial, David Roberts, Sharon Roberts, Matt Hale ed Ed Ward per aver fornito consigli e critiche d'inestimabile valore, a Margaret Davidson per aver creato le splendide mappe e a John Ware, il mio impareggiabile agente. Importanti contributi mi sono stati forniti anche da Dennis Burnett, Chris Fish, Eric Hathaway, Gordy Cucullu, Andy Horowitz, Kris Maxie Gillmer, Wayne Westerberg, Mary Westerberg, Gail Borah, Rod Wolf, Jan Burres, Ronald Franz, Gaylord Stuckey, Jim Gallien, Ken Thompson, Gordon Samel, Ferdie Swanson, Butch Killian, Paul Atkinson, Steve Carwile, Ken Kehrer, Bob Burroughs, Berle Mercer, Will Forsberg, Nick Jans, Mark Stoppel, Dan Solie, Andrew Liske, Peggy Dial, James Brady, Cliff Hudson, il defunto Mugs Stump, Kate Bull, Roger Ellis, Ken Sleight, Bud Walsh, Lori Zarza, George Dreeszen, Sharon Dreeszen, Eddie Dickson, Priscilla Russell, Arthur Kruckeberg, Paul Reichart, Doug Ewing, Sarah Gage, Mike Ralphs, Richard Keeler, Nancy J. Turner, Glen Wagner, Tom Clausen, John Bryant, Edward Treadwell, Lew Krakauer, Carol Krakauer, Karin Krakauer, Wendy Krakauer, Sarah Krakauer, Andrew Krakauer, Ruth Selig e Peggy Langrall. Ho beneficiato dei pezzi pubblicati dai giornalisti Johnny Dodd, Kris Capps, Steve Young, W. L. Rusho, Chip Brown, Glenn Randall, Jonathan Waterman, Debra McKinney, T. A. Badger e Adam Biegel. Per l'ispirazione, l'ospitalità, l'amicizia e i saggi consigli esprimo la mia gratitudine a Kai Sandburn, Randy Babich, Jim Freeman, Steve Rottler, Fred Beckey, Maynard Miller, Jim Doherty, David Quammen, Tim Cahill, Rosalie Stewart, Shannon Costello, Alison Jo Stewart, Maureen Costello, Ariel Kohn, Kelsi Krakauer, Miriam Kohn, Deborah Shaw, Nick Miller, Greg Child, Dan Cauthorn, Kitty Calhoun Grissom, Colin Grissom, Dave Jones, Fran Kaul, David Trione, Dielle Havlis, Pat Joseph, Lee Joseph, Pierret Vogt, Paul Vogt, Ralph Moore, Mary Moore e Woodrow O. Moore.
FINE