WOLFGANG HOHLBEIN NELL'ABISSO LE CRONACHE DEGLI IMMORTALI (Die Chronik Der Unsterblichen - Am Abgrund, 1999)
QUI COMINC...
6 downloads
283 Views
726KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
WOLFGANG HOHLBEIN NELL'ABISSO LE CRONACHE DEGLI IMMORTALI (Die Chronik Der Unsterblichen - Am Abgrund, 1999)
QUI COMINCIA NELL'ABISSO PRIMO VOLUME DELLE CRONACHE DEGLI IMMORTALI
I Un ramo sottile gli frustò il viso e gli lasciò sulla guancia un graffio sanguinante. La ferita non era profonda e sarebbe guarita in fretta, come tutte le altre che si era procurato nel corso della vita. Il dolore non aveva importanza, perché, dopo aver perso in maniera orribile Raqui e la sua bambina appena nata, non c'era più nulla che lo potesse davvero far soffrire. Tuttavia il sottile rigagnolo di sangue sulla guancia lo distolse per un attimo dai suoi cupi pensieri. Andrej Delãny sollevò lo sguardo, esaminò l'ambiente circostante e, sorpreso, tirò le briglie del cavallo. Era a casa. Pensava di aver cavalcato senza meta, ma non era così. Era ritornato nel suo luogo natale. Il cavallo era salito al trotto sul dolce pendio della collina dove, da bambino, lui aveva scorrazzato con gli amici. Riconobbe l'impo-
nente faggio i cui rami contorti si aprivano in tutte le direzioni, come mani dalle molte dita di un gigante buono. Da bambino era caduto spesso dalla cima di quell'albero, senza tuttavia rompersi niente o procurarsi ferite. Osservava il faggio e gli sembrava sempre più incredibile che avesse corso quei rischi; ma poi si rese conto che, dal punto di vista di un bambino, quell'albero doveva apparire ben più gigantesco e pauroso: proprio quello che serviva per dimostrare agli amici la sua straordinaria audacia. Il pensiero lo fece rabbrividire... In che situazioni folli e pericolose si era cacciato solo per dimostrare agli altri che era il più coraggioso? Talvolta era finita male, come dopo il fatale furto nella chiesa di Rotthurn, quando aveva soccorso un amico finito nei guai, benché non si meritasse nessun aiuto. A sedici anni era già diventato un emarginato, un dannato la cui vita non avrebbe più potuto prendere un corso normale. Le conseguenze di quei fatti avevano segnato tutto il suo sviluppo e infine, anni dopo, l'avevano costretto a portare nottetempo suo figlio Marius presso alcuni parenti della valle di Borsã, senza la prospettiva di poterlo riprendere con sé. Come mai, allora, era ritornato lì? Dopo aver seppellito Raqi e la sua bambina, aveva cavalcato giornate intere senza meta attraverso la Transilvania. Non sapeva per quanti giorni. Cinque, dieci o cento... che differenza faceva? Aveva smarrito ogni percezione del tempo, non aveva imboccato nessuna direzione precisa. Si era affidato al caso, all'arbitrio delle deviazioni dei sentieri e dell'istinto del cavallo, evitando consapevolmente la vicinanza degli uomini e rifornendosi di provviste solo di tanto in tanto nei villaggi che incontrava per strada. Non poteva essere un caso. Forse, contro ogni buonsenso, lui voleva incontrare il suo primogenito, quello che, tanto tempo prima, aveva lasciato ai parenti, con la preghiera di trattarlo come se fosse carne della loro carne... Quell'idea non gli piaceva, perché era legata ai dolorosi ricordi da cui era fuggito. Sarebbe stato più semplice seguire l'esempio del suo patrigno, Michail Nadasdy, e trasferirsi in quei Paesi per cui si era entusiasmato, ascoltando i suoi racconti appassionati. All'inizio, Andrej non aveva voluto avere contatti col vecchio spadaccino. Quando Michail Nadasdy era tornato in Transilvania da Alessandria, Andrej aveva odiato quel vecchio vagabondo, che aveva vergognosamente lasciato nei guai la moglie e il figlio adottivo per poi, come se volesse togliersi uno sfizio, mettersi a recitare la parte del padre e dell'insegnante. Dopo alcuni mesi di terribili liti e di rifiuti ostinati, tuttavia, Andrej aveva dovuto ammettere che il suo atteggiamento non era soltanto estenuante, ma
anche privo di senso. Michail, infatti, era un insegnante saggio e paziente, in grado di trasmettergli efficacemente le sue esperienze di vita e i segreti dell'arte del combattimento, acquisiti durante i suoi viaggi avventurosi. Se guardava al passato, doveva ammettere che la sua vita cosciente iniziava proprio dal periodo in cui Michail si era preso cura di lui. L'unica amarezza era data dal fatto che sua madre, Michail e lui stesso - poco dopo il ritorno del patrigno - avevano dovuto lasciare in tutta fretta il villaggio. Per un motivo che tuttora faticava a comprendere, infatti, il vagabondo era stato un bersaglio non soltanto dell'invidia e dell'emarginazione ma anche di un odio profondo, che era sfociato in un atto di violenza in cui però, grazie a Dio, nessuno era stato ferito gravemente. Quella notte stessa avevano raccolto i loro poveri averi ed erano fuggiti in fretta e furia in montagna, dove, negli anni successivi, avevano condotto una vita semplice e fatta di molti sacrifici. Soltanto lui, di tanto in tanto, era tornato al villaggio dove, di nascosto, riceveva in dono qualcosa da uno zio o da una zia e soprattutto da Barak, che non faceva mistero di disapprovare l'ostracismo dato alla famiglia di Andrej. E poi c'era stato un altro inizio: a sedici anni, Andrej aveva lasciato Michail e la madre per conoscere il mondo. Tuttavia era arrivato solo a Rotthurn, dov'era stato marchiato a fuoco per i secoli dei secoli a causa del furto in chiesa. Solo e frastornato, si era messo in viaggio per tornare all'umile casa della madre e, sulla strada, nel mezzo di quella deserta regione montagnosa, aveva incontrato Raqi. Anche lei era in fuga. Avevano trovato rifugio presso sua madre e Michail. Ma poi, l'uno dopo l'altro, erano morti tutti. I primi segnali di pericolo erano arrivati poco dopo l'incontro con Raqi: strani rumori e orme lasciate sul povero suolo su cui avevano costruito la loro capanna. Quindi c'erano state aggressioni misteriose da parte di sconosciuti che però erano riusciti a fuggire. Ormai erano tutti morti: sua madre era stata aggredita mentre strappava le erbacce dal giardino. Quando lui e Michail, attirati dallo spaventoso tumulto, l'avevano raggiunta dietro la collina, era troppo tardi: la donna era stata colpita a morte con pietre e con assi di legno appuntite. Non erano riusciti a trovare i colpevoli. La madre non si era più ripresa dalle conseguenze dell'aggressione e, poche settimane dopo, si era spenta a causa delle ferite. A distanza di due anni, Michail Nadasdy, anche lui vittima di un agguato, era stato ferito da un colpo di spada ed era morto tra le braccia di Andrej dopo giorni di ago-
nia. Raqi, invece, era morta in maniera naturale - ma non per questo meno spaventosa - durante il parto, e con lei era morta anche la figlia. Quando il Signore l'aveva chiamata a sé, la piccola aveva appena visto la luce del sole. In quel periodo, non c'era stato un giorno, non c'era stata neanche un'ora in cui Andrej non avesse pensato di porre fine alla propria vita. Non aveva paura della morte. Anzi la morte gli appariva come una vecchia, cara amica che lo avrebbe liberato dalle angosce e dai dolori. Aveva seppellito con le proprie mani tutte le persone che amava. Solo lui, fino a quel momento, non aveva avuto la grazia della morte. Allora, cosa l'aveva condotto lì? L'istinto? Un istinto analogo a quello che spinge certi animali a tornare nel luogo in cui sono nati soltanto per morire? Si sentiva in debito con Raqi, indotto a seguirla e a porre fine alla propria vita? O forse era una sensazione molto, molto più antica... la solitudine? Andrej esitò a lungo prima di decidersi a far procedere il cavallo. Non aveva nulla da perdere. Borsã, il suo luogo natale, si trovava sull'altro versante della collina, a poca distanza dalla riva del Brasan, sulle cui acque sorgeva la fortezza. Qualcuno si ricordava ancora di lui, oppure era passato troppo tempo da quando, con sua madre e Michail Nadasdy, aveva lasciato il villaggio? Quando, molti anni prima, aveva portato lì Marius, era arrivato di notte e - per non essere riconosciuto da nessuno come Andrej Delãny, uno dei presunti ladri della chiesa di Rotthurn - era ripartito prima del sorgere del sole. Ma in fondo, proprio per via di quella situazione, non aveva nulla da perdere. A preoccuparlo era il motivo per cui era arrivato lì. Erano davvero solo l'istinto paterno e la preoccupazione per il figlio - l'eredità dei suoi antenati animali, come ripeteva Michail Nadasdy senza che lui capisse veramente cosa intendesse - o magari un... presentimento? Andrej avrebbe voluto ridere, ma non ci riuscì. Non disprezzare i tuoi presentimenti, gli bisbigliava nella testa la voce di Michail Nadasdy. Chissà, forse sono messaggi di una parte di noi che vede cose nascoste a tutti gli altri... Ma forse non era quello il motivo per cui era lì. Tuttavia rimase fermo nel suo proposito: cavalcare ancora per un po' e gettare uno sguardo alla cittadina di Borsã non poteva essere un gran danno. Fece schioccare la lingua per indurre il cavallo a muoversi. Michail Nadasdy gli aveva insegnato che il cavallo è più obbediente se lo si addestra con amore e pazienza anziché con la frusta. E lui aveva compreso subito quanta saggezza ci
fosse in quel consiglio, che non valeva solo per i cavalli. Una volta in cima alla collina si fermò. Ai suoi piedi c'era la valle di Borsã. E, a osservare il luogo da quella grande distanza, quasi gli sembrò che il tempo si fosse fermato. Non era cambiato nulla. Il bastione si ergeva cupo e maestoso sulle limpide acque del tranquillo braccio di fiume: un vetusto monumento, il cui caratteristico profilo era stato levigato - ma non distrutto - dal tempo. In controluce, nello splendore del sole rosso del tardo pomeriggio, le sue mura sembravano quasi nere. Tuttavia, ad Andrej parve di cogliere alcuni cambiamenti: qua e là era stato riparato un danno, rinnovato un merlo distrutto, era stata cambiata una capriata dell'attiguo edificio di legno. Però la fortezza era rimasta identica. Il bastione stava là, impassibile e tenace, esattamente come lo era stato duecento anni prima e come sarebbe stato ancora per i successivi duecento. Probabilmente ai turchi il bastione non è apparso così importante da meritare di essere raso al suolo, pensò Andrej ironicamente. Anche il ponte di legno, che portava dal braccio secondario del fiume al piccolo insediamento sulla riva, era ancora come ai tempi della sua infanzia, come se fosse stato costruito per l'eternità. Già da bambino, aveva fatto di nascosto scommesse su quanto tempo avrebbe retto prima che una violenta tempesta lo spazzasse via. Riprese a cavalcare e lasciò scorrere lo sguardo su Borsã. A differenza della fortezza, il paese sembrava molto cambiato. Non era cresciuto di molto, ma i vicoli erano stati lastricati e molte case, anziché essere coperte di paglia e rami, avevano veri tetti con scandole di legno. Evidentemente, Borsã aveva raggiunto un notevole benessere. Ma aveva perso abitanti. Andrej se ne accorse soltanto dopo aver disceso per metà la collina. Nei pochi vicoli di Borsã nulla si muoveva. Dai camini non si alzavano volute di fumo. Erano vuoti anche i recinti dei cavalli che lui riusciva a vedere. Fermò di nuovo la sua cavalcatura. Il suo battito era un po' accelerato, non per la paura, ma per la tensione. Abbassò la mano sull'arma al suo fianco per allontanare il brandello di stoffa con cui aveva avvolto l'impugnatura, in modo che l'esotica scimitarra non attirasse sguardi curiosi e non suscitasse l'attenzione dei ladri. Era improbabile che dovesse far ricorso a quell'arma. Borsã sembrava priva di vita, eppure su quel luogo non aleggiava l'odore della morte e della decomposizione. Nel cielo non volteggiavano gli uccelli che si nutriva-
no di carogne e, almeno da quella distanza, non si vedevano tracce di lotta. Doveva esserci un'altra spiegazione per quella totale assenza di vita. Forse gli abitanti del villaggio erano nei campi o nei boschi a tagliare la legna oppure erano andati a pescare nei grandi laghi che si trovavano dietro la collina e che quindi rimanevano nascosti alla sua vista. O forse si erano radunati nella fortezza per qualche festa. E avevano preso con loro tutti i cani, i gatti, i maiali, le capre, i cavalli e le mucche? Poco probabile. Doveva esserci un'altra spiegazione. Andrej smise di arrovellarsi su quelle domande inutili e fece trottare il cavallo un po' più in fretta. Ai piedi della collina, svoltò a sinistra e, per un breve tratto, cavalcò su un campo appena arato, finché non raggiunse la strada di terra battuta che cominciava venti iarde prima del borgo vero e proprio. Rallentò di nuovo. Il silenzio gli venne incontro come una parete e, a ogni passo, lui sentiva crescere un senso di oppressione. A schiacciarlo era il peso dei ricordi. Quello era il luogo della sua infanzia, il luogo in cui era cresciuto, in cui aveva imparato a camminare e a cavalcare, in cui aveva stretto amicizie; ma nel contempo era il luogo della sua dolorosa sconfitta e della sua più profonda delusione. Dall'epoca in cui era stato implicato nella faccenda del furto in chiesa - cui in realtà non aveva preso parte - era tornato al villaggio solo una volta. Non aveva sospettato che, nel frattempo, l'avessero cercato per tutta la Transilvania, e che i preti non avessero avuto niente di meglio da fare che diffamarlo in tutto il Paese, chiamandolo «profanatore di chiese» e «ladro empio». Gli abitanti del villaggio, insomma, non l'avevano davvero accolto gentilmente. In quella giornata caldissima e abbagliante - al punto che la luce del sole sembrava ferire i suoi occhi ipersensibili - l'avevano inseguito per le strade del paese, coprendolo d'insulti e bersagliandolo con pietre e sterco. Gli avevano urlato dietro parole come «eretico» e «seguace del demonio». Allora non sapeva cosa ne sarebbe stato della sua vita - in realtà non lo sapeva ancora adesso! - e aveva avuto soltanto paura. Si era messo a piangere, a gridare, supplicando i suoi amici di ascoltarlo... Quegli amici che improvvisamente erano diventati nemici, perché credevano che lui avesse profanato la casa di Dio. Ora li comprendeva. Ormai non serbava più rancore. Ma ciò non attenuava la sofferenza che quel ricordo portava con sé. Pensò a Barak, il suo prozio, e un vago calore gli si diffuse nell'animo. A quell'epoca era stato forse l'unico a schierarsi dalla sua parte; probabilmente non per amicizia o simpatia, bensì per un'innata lealtà nei confronti del
suo villaggio. Il vero motivo aveva poca importanza: Andrej doveva soltanto ringraziare Barak se non era stato lapidato sul posto o bandito da Borsã. Gli dispiaceva di non averlo più rivisto. Un rumore attirò la sua attenzione. Qualcosa aveva sbattuto... Forse era stato il vento che aveva preso a giocare con una scandola staccata del tetto oppure con un'imposta. Ma sì, era stato il vento... Tuttavia Andrej decise di proseguire in direzione di quel rumore. Come si aspettava, non trovò altro che un'imposta non fissata che scricchiolava al vento e, di tanto in tanto, sbatteva. Dato che ormai era lì, poteva guardar meglio la casa... Scese di sella, spinse prudentemente la porta con la mano sinistra ed entrò, tenendo la destra sull'elsa della preziosa scimitarra, l'unico oggetto di valore che il suo patrigno aveva portato a casa dai suoi viaggi avventurosi. Per un momento gli parve di sentire qualcosa nell'oscurità: un sospiro terrorizzato, qualcuno che camminava in modo affrettato eppure leggero come una piuma. Gli sembrò di percepire qualcosa, la presenza di una o più persone, che lo scrutavano di nascosto, con diffidenza. Andrej si fermò, sguainò di due dita la scimitarra dal fodero e cercò di penetrare con lo sguardo l'oscurità. Ma l'oscurità rimase tale e lui non sentì più nulla. In quel luogo così affollato di ricordi non poteva fidarsi dei propri sensi. Forse era la memoria che gli faceva percepire cose che non c'erano. Ispezionò la casa con rapidità, ma a fondo, e la sua prima impressione venne confermata: gli abitanti di quella casa non erano poveri e molto probabilmente non erano quelli che abitavano lì all'epoca in cui lui viveva ancora a Borsã. Nella cassapanca della padrona di casa c'erano due abiti: dunque quella donna ne aveva posseduto tre, a meno che non fosse andata in giro nuda. Il marito, evidentemente un falegname, aveva avuto a sua disposizione un laboratorio ben attrezzato. Se era stato lui a costruire i mobili che arredavano la casa, doveva essere stato un maestro nel suo mestiere. Non appena si rese conto che stava pensando a quelle persone al passato, Andrej scosse furiosamente la testa. Non aveva prove che fossero morte e neppure che fosse capitata loro una disgrazia. Lasciò la casa, controllò la zona circostante e infine rimontò in sella. Non aveva senso passare ore a setacciare il villaggio; non avrebbe ottenuto nessuna informazione in più. Lì non c'era nessuno. L'unica traccia di vita in cui si era imbattuto era una gatta affamata che aveva miagolato nell'om-
bra, forse nella vana speranza di ottenere qualcosa da mangiare. Se voleva scoprire cos'era successo agli abitanti del villaggio, doveva andare alla fortezza. Dirigere il cavallo verso il ponte di legno che, superando il tranquillo braccio di fiume, conduceva alla fortezza situata su un'isola rocciosa, gli richiese uno sforzo di volontà enorme perché era terrorizzato all'idea di non trovare nessuno neppure lì. D'altra parte, se gli abitanti del villaggio avevano voluto sfuggire a qualche pericolo, non potevano che essere nella fortezza. Sperava di trovare suo figlio Marius al sicuro coi parenti; ma qualcosa in lui gli diceva che quella speranza rischiava di frantumarsi contro una cocente delusione. Se fosse andato avanti, probabilmente avrebbe scoperto una verità orribile, che avrebbe preferito non conoscere. Andrej si guardò. Era vestito in maniera tradizionale: sandali e calzettoni, una veste, un mantello di lino fissato al collo con una semplice fibbia e un nastro per capelli che tratteneva la chioma selvaggia. Indossava una fusciacca comprata molti anni prima al mercato - Raqi aveva molte qualità, ma non quella di saper cucire - e, con quella, copriva volutamente il cinturone che aveva ereditato da Michail insieme con la scimitarra. No, il suo abbigliamento non dava nell'occhio e, con un po' di buona volontà, lui poteva passare per l'abitante di uno dei villaggi più lontani del circondario. Inoltre, negli ultimi anni, era così cambiato che neppure lo stesso Barak l'avrebbe riconosciuto. Era importante che non lo riconoscessero: sebbene fosse passato molto tempo, sarebbe stato accolto tutt'altro che bene, lo sapeva. Era ancora considerato un profanatore di chiese e un ladro, quindi rischiava di essere la vittima di una letale caccia alle streghe. Se si trattava di fare la pelle agli eretici o a chi era sospettato di avere le mani troppo lunghe, gli uomini della Transilvania non erano certo noti per la loro delicatezza. E, ai loro occhi, lui era tutt'e due le cose. Quanto più si avvicinava al ponte, tanto più diventava inquieto. La parete di silenzio che circondava Borsã continuava anche lì, anzi sembrava ancora più imponente. Andrej aveva l'impressione che il silenzio opponesse una resistenza quasi fisica. Persino il cavallo avanzava sul ponte con passo innaturalmente lento. Forse percepiva qualcosa che lui non poteva ancora sentire. Provò una strana sensazione, come il presentimento che, nella fortezza, avrebbe trovato solo sconosciuti. Ammesso che vi trovasse qualcuno, cosa per nulla certa. Raggiunse l'isola e, poco dopo, il portone. Era aperto. Non si muoveva
nulla. Andrej smontò di sella, accarezzò il collo del cavallo che diventava sempre più nervoso - oppure era spaventato? - e proseguì a passi lenti. La bassa volta del portone gli rimandava il rumore dei suoi passi, distorcendolo, e le ombre negli angoli parevano sussurrare cupe storie di tempi andati. Ma raccontavano anche di orrori incombenti che non avevano ancora assunto una forma concreta. Andrej scacciò quei pensieri e accelerò il passo. Gli bastavano i problemi del presente. Il passato era passato, e il futuro non si poteva conoscere. Entrò nel piccolo cortile interno in cui si trovavano semplici edifici di legno e, alzata la testa, girò su se stesso. Le secolari mura della fortezza si levavano intorno a lui, abbastanza alte da costituire un ostacolo insuperabile per un esercito non particolarmente deciso. Il cielo era soltanto una macchia slavata di lucentezza opaca e sembrava non avere la minima consistenza. Ma a lui andava bene così: nel corso degli anni, i suoi occhi erano diventati sempre più intolleranti alla luce, perciò evitava i giorni limpidi e, d'estate, preferiva muoversi solo all'alba o all'imbrunire. Tutto era immobile. Gli pareva di trovarsi dentro una fossa scavata per dei giganti. È proprio così? pensò Andrej, rabbrividendo. Sì, poteva essere una spiegazione: forse gli abitanti del villaggio si erano rifugiati nel bastione per sfuggire a un esercito nemico e poi avevano condiviso la sorte dei difensori della fortezza. Ma, in tal caso, dovevano esserci tracce di una battaglia accanita. Invece il cortile appariva vuoto... Ed era molto più ordinato e pulito di quanto lo fosse al tempo in cui lui viveva lì. Si girò con un movimento deciso e si diresse verso il bastione. La grande porta a due battenti era solo accostata e, quando la aprì, cigolò esattamente come faceva durante la sua infanzia. Entrò e abbassò le palpebre per dare ai suoi occhi la possibilità di abituarsi alla penombra eterna che dominava quel grande spazio, munito di finestre troppo piccole. Non temeva di essere colpito perché poteva fare affidamento sui suoi sensi, che l'avrebbero avvertito di ogni pericolo. Sentì alcuni rumori lievi e indistinti, come succede sempre se si sta in silenzio in una grande sala: l'ululare del vento che entra dalle finestre aperte, lo scoppiettare delle fiaccole, forse un gemito oppure lo scricchiolio del legno. Nell'aria c'era l'odore di un fuoco e di qualcos'altro. Qualcosa che conosceva fin troppo bene. Quando aprì gli occhi, trovò conferma ai suoi peggiori presentimenti. I morti che aveva cercato erano lì, ordinatamente allineati sul pavimento
davanti al grande camino. Erano molti, non quanti si sarebbe aspettato, tenuto conto del numero degli abitanti, però molti comunque. Per la maggior parte erano giovani... Avevano più o meno l'età di Andrej quando aveva visto il bastione di Borsã per l'ultima volta. Però c'erano anche alcuni vecchi e due o tre poco più che bambini. Sembrava che non ci fosse stata una battaglia vera e propria, tuttavia era chiaro che alcuni di quegli uomini si erano difesi: su qualche spada si scorgeva del sangue, qua e là c'era una mano insanguinata ma non ferita oppure una macchia scura e secca su una camicia. La battaglia non era durata a lungo e solo pochi vi avevano preso parte. Il loro aspetto induceva a credere che fossero stati giustiziati. Avevano la gola tagliata. Due giovani erano stati decapitati. Mentre Andrej passava lentamente vicino ai cadaveri, fu attraversato da una sensazione di orrore indescrivibile. Lui era un maestro nell'uso della spada. Michail Nadasdy gli aveva insegnato tutto ciò che aveva appreso nella terra dei saraceni e, alla fine, lui - l'allievo - aveva superato il maestro. Tuttavia, a parte qualche scaramuccia, non aveva mai combattuto davvero. Sapeva combattere, ma... avrebbe saputo uccidere? In fondo alla fila di ben trenta morti si arrestò. La vista dell'ultimo cadavere lo turbò particolarmente, benché avesse tutti i motivi per odiare quell'uomo con la tonaca grigia. Quel maledetto, stupido pettegolo era un monaco arrivato nel villaggio quando Andrej aveva all'incirca dieci anni. Era stato lui ad aizzare gli abitanti contro la sua famiglia, soprattutto contro Michail Nadasdy, e a farla cacciare dal villaggio. I boia non si erano limitati a sgozzarlo: gli avevano cavato gli occhi e le numerose ferite che si scorgevano gli erano state inflitte con l'unico scopo di procurargli dolore. Né i suoi aguzzini erano stati così misericordiosi da liberarlo dai tormenti con un rapido colpo: la ferita aperta nella gola non aveva sanguinato, dunque era già morto quando gli era stata inferta. Gli avevano inchiodato al pavimento mani e piedi, in modo che si dissanguasse lentamente. «Buon Dio!» sussurrò Andrej. «Che cos'è successo qui?» Si girò su se stesso e lasciò vagare lo sguardo all'intorno; quel massacro lo colpiva profondamente, ma l'incertezza sulla sorte di Marius, suo figlio, era ancora peggiore e generava in lui una preoccupazione angosciante. L'aveva lasciato lì, sotto la protezione dei parenti, nella convinzione che nella valle di Borsã sarebbe stato al sicuro. Evidentemente era stato un errore madornale. Doveva trovarlo, subito.
Quasi come in risposta, sentì ancora quello strano rumore... però stavolta era certo che si trattava di un lamento. Veniva dal piano superiore, dal corridoio alla fine delle scale, oppure dalle poche stanze che vi si affacciavano. Andrej si voltò di scatto e salì di corsa le scale, sguainando la scimitarra. Una delle porte era solo accostata, e la penombra all'interno sembrava ancora più densa di quella all'ingresso. Spalancò la porta con un colpo di spalla e si precipitò dentro... ma soltanto per poi fare un balzo all'indietro, inorridito. La camera era vuota, tranne che per una cassapanca intagliata e per il grande letto che, nei tempi passati, era usato dal borgomastro. Sul letto era adagiata una figura: aveva i capelli lunghi, la barba nera e indossava una camicia macchiata di rosso, sollevata per metà. Teneva le braccia spalancate ed era leggermente piegata in avanti... solo leggermente, però, giacché qualcuno le aveva perfidamente inchiodato le mani alla testiera del letto, come se fosse in croce. Dal suo fianco, usciva l'asta spezzata di una lancia. Non fu tanto la vista di quel nuovo orrore a pietrificare Andrej quanto il volto. Sotto il sangue e la sporcizia, sotto la folta barba, sotto i segni dell'indicibile sofferenza, lui scorse i lineamenti profondamente scavati e li riconobbe all'istante. Naturalmente era invecchiato, tuttavia non quanto avrebbe dovuto. Le rughe gli coprivano il viso e forse aveva anche qualche cicatrice in più. Ma, possibile o no, era indubbiamente... «Barak?» sussurrò Andrej, sbalordito. Pronunciare quel nome sembrava quasi una beffa. Eppure, sentendosi chiamare, l'uomo agonizzante aprì l'unico occhio che gli era rimasto, quello che non gli era stato cavato, e lo guardò. «Andrej?» Non era possibile che, dopo tanto tempo, l'avesse riconosciuto dalla voce! Andrej si avvicinò lentamente al letto. Lunghi brividi gli corsero lungo la schiena non appena vide il trattamento orribile che era stato riservato a Barak. Non avrebbe mai pensato che un corpo umano potesse sopportare simili tormenti. Si accostò al letto e stava per rinfoderare la scimitarra, quando Barak scosse la testa - ad Andrej parve che fosse l'unica parte del corpo che poteva ancora muovere - e così tenne in mano l'arma. «Finalmente», gemette Barak. «È un bene... che sia arrivato tu... ho aspettato... così tanto.» «Aspettato?» ripeté Andrej, sconvolto. «Ma...»
«Speravo che qualcuno... tornasse indietro», sussurrò Barak. «Ma c'è voluto... così tanto... tempo. Liberami...» D'un tratto, Andrej comprese perché Barak l'aveva riconosciuto subito. Di certo aveva pregato che arrivasse qualcuno, tuttavia gli uomini al piano inferiore erano tutti morti e non avrebbero potuto aiutarlo. Dunque quel qualcuno doveva appartenere al suo passato. Forse aveva fatto scorrere nella mente nomi e visi della sua lunga esistenza, alla ricerca di quel nome e di quel viso che lo potesse liberare dalle sofferenze. Così aveva aspettato lui... o uno degli altri abitanti del villaggio. E aveva riconosciuto Andrej perché, per lui, era la morte che lo avrebbe liberato dal tormento. Ormai era soltanto quello per i suoi amici? La morte? «Liberami», mormorò Barak. Andrej si costrinse a osservare meglio Barak, sperando contro ogni ragione di poterlo ancora salvare. Non era possibile. I chiodi con cui Barak era stato inchiodato al letto erano grossi un dito e infilati sino alla capocchia nelle mani e nel legno. Alcune dita erano spezzate. Se avesse cercato di strappare i chiodi, il dolore sarebbe stato sufficiente a ucciderlo. La ferita al fianco era anche peggio. La punta della lancia era stata conficcata nel corpo di Barak. Andrej aveva imparato da Michail Nadasdy molte nozioni sull'anatomia e non osava neppure immaginare quale danno avesse prodotto l'acciaio affilato nel fianco di quell'uomo. E non riusciva a capire come potesse essere ancora vivo. Non era solo la sua età che gli sembrava incredibile - ormai doveva avere più o meno cent'anni! -, ma c'era dell'altro: l'assalto alla fortezza era avvenuto ben più di un paio d'ore prima, l'aveva capito dall'odore dei cadaveri giù nella sala all'ingresso. Era avvenuto il giorno prima... forse addirittura due giorni prima. «Dio del cielo, Barak, da quando...?» «Da troppo tempo», gemette Barak. «Liberami, Andrej, ti supplico!» Andrej puntò la scimitarra. Ci sarebbero state ancora molte cose che avrebbe voluto chiedergli, c'erano molte, troppe cose che desiderava sapere. Quale sorte era toccata a suo figlio? Chi era il responsabile di quella strage? Perché era avvenuta? E perché Barak era l'unico sopravvissuto? Ma non fece nessuna di quelle domande. Per Barak, ogni altro minuto di vita era come un'eternità all'inferno. Chiuse ancora una volta gli occhi e cercò qualcosa dentro di sé... La consapevolezza che, uccidendo Barak, avrebbe fatto la cosa giusta, che non sarebbe stato un omicidio, bensì una
liberazione, che lui doveva al suo benefattore. Il destino aveva giocato a Barak un tiro particolarmente orribile. L'uomo era dotato della quasi proverbiale tenacia e dell'incredibile capacità di resistenza dei Delãny, due caratteristiche che, anche in quella situazione disperata, lo costringevano a non rinunciare alla vita. La stupefacente forza vitale che albergava in lui gli aveva consentito di vivere molto più a lungo dei suoi coetanei del villaggio e adesso lo aveva obbligato a sopportare tormenti infernali per giorni, anziché per ore. Andrej alzò la scimitarra e poi conficcò la lama nel petto di Barak fin quasi all'impugnatura. Negli occhi di quell'uomo vecchissimo, la vita fremette ancora per un unico, interminabile momento. Poi si dissolse. La testa di Barak si piegò in avanti sul petto e, dalla sua bocca, uscì un ultimo sospiro liberatorio. Andrej estrasse la scimitarra. Dietro di lui, una voce disse: «Molto coraggioso, signore». Sorpreso, si voltò e vide un ragazzo sui tredici anni, dal volto pallido circondato da lunghi capelli rossi e ricci. «Mi ha supplicato di liberarlo e io... lo volevo anch'io. Ma non ho avuto il coraggio. Sono stato vigliacco.» «La vigliaccheria non c'entra, se è un amico quello che devi uccidere», mormorò Andrej, abbassando la scimitarra. «Chi sei?» «Frederic, signore», rispose il giovane. Il suo sguardo sosteneva senza traccia di timore quello di Andrej. «Frederic Delãny della valle di Borsã. E voi chi siete?» Visto che Barak l'aveva chiamato Andrej, non aveva senso presentarsi con un altro nome, rischiando d'insospettire il ragazzo. «Il mio nome è Andrej Delãny», rispose. «Delãny?» Gli occhi dell'altro s'illuminarono, ma il sollievo lasciò immediatamente il posto alla diffidenza e a una ben fondata cautela. «Ora mi ricordo. Vi ho visto un paio d'anni fa, quando avete lasciato il villaggio... Era mattino presto. Avevate portato qui Marius, e le donne sostenevano che voi eravate un suo lontano parente. Ma non è possibile che siate un Delãny.» Andrej chiuse gli occhi per un dolorosissimo istante. Marius. Aveva avuto buoni motivi per tenere nascosta l'identità del padre di quel bambino. All'epoca, si era convinto che sarebbe stato meglio non dire - se non a pochi amici fidati - che si era separato dal figlio; in tal modo, pensava, Marius sarebbe stato più sicuro che in montagna, dove le misteriose aggressioni - culminate con la morte di Michail e di sua madre - si erano molti-
plicate. Inoltre era meglio non far sapere che l'accompagnatore del ragazzo era Andrej Delãny, l'uomo accusato del furto nella chiesa di Rotthurn. «Io... appartengo a un ramo secondario della famiglia. Un ramo molto piccolo.» Con un gesto rivolto al prozio, continuò: «Barak mi ha riconosciuto». Frederic annuì, con espressione pensierosa. «Barak vi ha riconosciuto», confermò. «E, quando siete entrato, avete pronunciato il suo nome... però questo non vuol dire nulla.» «Non m'interessa che tu mi creda», ribatté Andrej, brusco e inquieto. «Piuttosto dimmi dov'è Marius. Devo andare subito da lui.» «Marius?» gli fece eco Frederic. «Io... io... non lo so.» Quando vide l'espressione minacciosa di Andrej, resa quasi folle dall'angoscia, trasalì come se fosse stato colpito. «Io... io...» balbettò. «Sì?» chiese Andrej a bassa voce. L'attesa di una notizia terribile gli serrò a tal punto la gola che quasi non riusciva a respirare. «Cosa sai, ragazzo? Parla.» Impaurito, Frederic fece una smorfia, come se fosse molto concentrato. «Marius non è qui», disse infine. «Da una settimana circa... Lo hanno portato a Kertz perché doveva aiutare in certi lavori.» Andrej si sentì pervadere da un'ondata di speranza e di sollievo. «È vero?» insistette. Frederic annuì. «Ma certo, signore», disse. «Vero come io sono qui. È successo proprio questo.» Andrej respirò profondamente. Ci volle un po' perché si calmasse a sufficienza per continuare a parlare. «Tu ti domandi chi sono. E fai bene a chiedertelo, dopo tutto quello che è successo. Credo che tu abbia diritto a una risposta sincera.» Il ragazzo chinò la testa. «Non sarebbe male», riconobbe. «Va bene», disse Andrej. «Devi sapere la verità. Era da molto che non venivo qui. Da molti anni. Sono venuto per fargli... una visita di cortesia.» «Allora, signore, avete scelto proprio un brutto momento», borbottò Frederic, cupo. Scrollò le spalle. «Ma forse anche un buon momento. Se foste arrivato due giorni fa, sareste morto anche voi.» «Cos'è successo?» Frederic stava per rispondere, ma poi spostò lo sguardo su Barak e il volto gli s'incupì. Fino a quel momento, il ragazzo era riuscito a dominarsi incredibilmente bene di fronte a quello che aveva vissuto e cui aveva assistito, ma ora i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.
«Andiamo fuori», suggerì Andrej. «Parleremo meglio.» Frederic non rispose, ma improvvisamente si girò, lasciò a passi rapidi la stanza e, senza esitare, scese di corsa le scale. Andrej voleva dare al ragazzo il tempo di calmarsi un po' e perciò represse il grido con cui avrebbe voluto fermarlo. Invece guardò un'ultima volta Barak e, in silenzio, gli diede l'estremo saluto; solo dopo si girò e seguì il giovane Delãny che aveva già disceso le strette scale come se avesse il diavolo alle calcagna. Prima di sparire attraverso la porta, Frederic gettò ad Andrej uno sguardo impaurito e, per un attimo, Andrej ebbe la grottesca sensazione che il ragazzo gli nascondesse qualcosa. Scendere le scale fu molto peggio di quanto avesse pensato. Il suo sguardo non poteva che soffermarsi su quei morti, facendogli comprendere appieno quanto mostruoso fosse stato il loro destino: la prima volta che li aveva visti, travolto dall'emozione, non aveva badato ai dettagli. Si rese conto che probabilmente non sarebbe mai riuscito a dimenticare la vista di quei poveri innocenti che riempivano la sala. L'odore acre eppure dolciastro della decomposizione gli toglieva il respiro. Ma non c'era da meravigliarsi: il bastione si era trasformato in una gigantesca cripta. Andrej non sarebbe più riuscito a rientrarci senza avere quella spaventosa immagine davanti agli occhi. Aveva già attraversato per metà il salone quando si accorse di una somiglianza appena percepibile in uno dei corpi più vicini al muro... Il cuore gli si fermò e, quando riprese a battere, era come se l'avesse in gola. La consapevolezza lo travolse una frazione di secondo più tardi: era Marius, suo figlio, che doveva essere a Kertz. Ma... era impossibile! Frederic gli aveva mentito, aveva voluto nascondergli che suo figlio era morto... Con rapide falcate, Andrej raggiunse il cadavere e lo guardò con orrore. Non riusciva a farsene una ragione. La pelle di Marius era cerea e quasi trasparente, come quella di una preziosa bambola di porcellana, ma, a parte il paletto che aveva infilzato nel cuore e le tracce di morsi sul collo, il bambino non sembrava ferito. I suoi occhi sbarrati fissavano il nulla: sembrava che Marius avesse riconosciuto il suo assassino e fosse stato incapace d'immaginare che potesse commettere una simile mostruosità. Gli occhi di Andrej si riempirono di lacrime. Non riusciva a comprendere. Tanto dolore, tante privazioni e tante rinunce solo per proteggere il figlio, l'ultimo legame con la sua famiglia, con Raqi, che era morta dando alla luce la bambina, sua figlia. Aveva sempre evitato Borsã, si era tenuto lontano dal suo passato, aveva reciso tutti i fili in modo da non far venire a
galla che Marius era suo figlio, per non farlo colpire dall'onta di essere parente di un uomo considerato un profanatore di chiese e un ladro. In tal modo - se ne rendeva pienamente conto soltanto in quel momento - si era tenuto lontano da tutto ciò che era vitale, piacevole, felice, si era lasciato sfuggire la possibilità di veder crescere suo figlio, il piacere di vederlo diventare grande, e tutto ciò solo per la vaga speranza di un futuro migliore. Un futuro irrimediabilmente distrutto. Andrej non si fermò a lungo vicino al cadavere del figlio. Il senso di smarrimento e il dolore stavano diventando insopportabili e minacciavano di abbattere l'argine che, dopo la morte di Raqi, la sua mente aveva eretto per non sprofondare irrimediabilmente nella disperazione e nella follia. Perché la morte genera un simile orrore nei corpi di coloro che abbiamo amato in vita? Non appena chiusa la porta del bastione, Andrej vi si dovette appoggiare contro. Le gambe minacciavano di cedere. Era come se un gigante gli avesse infilato una mano nello stomaco, torcendogli le viscere. Vomitò. Frederic era immobile nel cortile, un po' discosto. Evidentemente aveva capito che Andrej aveva trovato Marius. «Io volevo... Avevo paura... Non sapevo come avreste reagito se vi avessi detto la verità.» «Non fa niente», gemette Andrej. Si avvicinò a Frederic - che fece due passi indietro, come se temesse che l'uomo volesse sfogare su di lui la rabbia e il dolore - e gli mise lentamente un braccio intorno alle spalle. «Andiamo», disse. «Lasciamo ai morti la loro pace.» Esitò, poi concluse: «Più tardi torneremo a seppellirli». Lasciarono il cortile in direzione del ponte. Quando superarono il portone e Frederic vide lo stallone bianco di Andrej si bloccò, sbarrando gli occhi. «Signore, siete un nobile?» «Come ti viene in mente?» chiese Andrej, senza riuscire a squarciare il velo oscuro dei suoi pensieri. «Perché solo i nobili possiedono cavalli così costosi.» Andrej si concesse un sorriso sofferente. In un certo senso, lo stallone era stato un regalo d'addio di Michail Nadasdy; si trattava del terzo o del quarto discendente di quello splendido animale che il suo patrigno aveva portato da quella lontana terra chiamata Arabia. «No», rispose infine. «Non sono un nobile.» «Allora siete ricco?» «Le uniche cose che possiedo sono la mia scimitarra e questo destriero», rispose Andrej. «Ti piacerebbe cavalcarlo?»
Frederic spalancò gli occhi. «Questo cavallo?» «Perché no?» ribatté l'uomo. Poi, senza aspettare risposta, issò Frederic in sella. Il ragazzo era raggiante. Andrej prese lo stallone per le redini. Mentre guidava lentamente il cavallo in direzione di Borsã, la sua mente vagava. Si era immaginato così il momento in cui avrebbe rivisto suo figlio, Marius: l'avrebbe messo sul cavallo e insieme sarebbero andati a esplorare la zona; poi lui gli avrebbe mostrato i luoghi che gli erano stati tanto cari durante l'infanzia. Dopo qualche passo si rivolse a Frederic: «E ora raccontami cos'è successo. Chi è stato? I turchi? Una banda di predoni? Oppure un principe convinto che la politica si faccia massacrando gli uomini?» «No, signore», rispose Frederic. La sua voce si era fatta esile, tremante. «Lascia stare il 'signore'... Mi chiamo Andrej.» Con un cenno che voleva essere gentile, spiegò: «Siamo parenti, anche se alla lontana». E forse neanche troppo, pensò. Era probabile che quel ragazzo fosse il figlio di uno zio o il primogenito di un cugino. Andrej riuscì a trattenersi dal chiedere a Frederic come si chiamasse suo padre. A Borsã erano più o meno tutti parenti. A quanto pareva, inoltre, quel giovane era l'unico della famiglia a essere rimasto in vita... e lui lo stava obbligando a rivivere l'orrore appena sperimentato. «Va bene, Andrej», disse Frederic poco convinto. Il suo sguardo spaziava verso sud, perlustrava l'orizzonte, le cime delle montagne avvolte nella nebbia. Nei suoi occhi c'era una strana espressione e, in quel momento, Andrej si rese conto che il loro colore era sorprendentemente simile a quello dei chiari flutti del Brasan. «Sono arrivati due giorni fa... alle ultime luci del giorno. Erano tanti... tanti uomini quante capre ci sono sulla nostra terra.» «E quante capre ci sono sulla vostra terra?» chiese Andrej, ma come risposta ottenne solo una scrollata di spalle. Come molti altri abitanti di quel luogo, Frederic non sapeva contare. Ma in fondo non aveva importanza: dovevano essere stati in molti per compiere un simile massacro, anche ammesso che, per qualsiasi motivo, gli abitanti del villaggio non si fossero difesi. «Soldati?» chiese allora. «Sì», rispose Frederic. «Uomini armati. Armi costose, come quella che voi... che tu porti. Alcuni avevano l'armatura. Ma c'erano anche i monaci e un papa.» «Un cosa?» «Un... cardinale?» proseguì Frederic, esitante.
Andrej sorrise e gli fece segno di continuare. Non voleva creare al giovane difficoltà maggiori di quelle che già aveva. Era chiaro che a Borsã era arrivato un alto prelato, ma, d'altronde, che c'era di strano? Gli abitanti del villaggio avevano un buon rapporto con la Chiesa. Ai tempi di Andrej, Borsã era uno dei pochi villaggi del circondario in cui ci fosse un monaco. Quello che gli aveva scagliato contro la prima pietra. «All'inizio erano gentili», proseguì Frederic. «Hanno chiesto un alloggio per la notte e volevano parlare coi capi del villaggio. Naturalmente hanno ottenuto entrambe le cose. Dal bastione erano arrivate risa e canti fin nel cuore della notte. Ma nel villaggio circolavano voci che i soldati e i monaci fossero alla ricerca di uno stregone.» «Di uno stregone?» Andrej si fermò e lanciò a Frederic un'occhiata perplessa, ma il giovane scosse energicamente il capo su e giù. «È la verità. Dicevano che era un potente stregone in contatto diretto con Satana.» «Credi nella stregoneria?» Andrej riprese a camminare e rise forte - forse un po' troppo forte e troppo violentemente -, cercando di contenere il terribile dolore della sua recente perdita, una perdita di cui molto probabilmente avrebbe afferrato appieno il mostruoso significato soltanto di lì a qualche giorno. Avrebbe quasi preferito che Frederic non continuasse a parlare. «Comunque sia sono stati loro», riprese cupamente Frederic. «Durante la notte, Barak ha mandato un messaggero al villaggio per ordinare a uomini, donne e bambini di presentarsi il mattino successivo alla fortezza. Poi li hanno uccisi tutti.» Andrej rabbrividì. Era contento che Frederic fosse stato così succinto. Gli avrebbe chiesto altri particolari, ma non subito. Aveva già sentito troppo. «Tutti?» chiese, sconvolto. «Tutti quelli che hai visto», rispose Frederic. «Gli altri li hanno incatenati e li hanno portati via... Si sono presi anche tutto il bestiame e tutte le ricchezze che sono riusciti a trovare.» «Allora erano predoni», ringhiò Andrej, furente. Su tutta la Transilvania pendeva come la spada di Damocle il pericolo turco, e quindi non ci sarebbe stato da meravigliarsi se Borsã fosse stata vittima di una di quelle piccole scaramucce che accompagnavano le battaglie per respingere le mire espansioniste turche. Ma i predoni? Il villaggio non era mai stato molto tranquillo e, nella sua storia ormai già abbastanza lunga, più di una volta era stato coinvolto in faide coi villaggi vicini. Nessuno l'avrebbe mai am-
messo, però gli abitanti di Borsã erano ben consapevoli del fatto che, un giorno, avrebbero compiuto un passo falso e ciò li avrebbe portati a una bruciante sconfitta e forse addirittura alla totale distruzione. A una cosa simile si sarebbe potuto rassegnare anche Andrej... Certo, sarebbe stato arduo e, in un primo momento, lui avrebbe giurato di vendicarsi col sangue, tuttavia, col tempo, se ne sarebbe fatto una ragione. Ma com'era possibile che il suo unico figlio, tutta la sua famiglia e la valle di Borsã fossero stati massacrati da un gruppo di predoni? No, non aveva senso. Frederic scosse la testa. «No, non erano predoni, ma uomini di Chiesa. Fratello Toros ne conosceva uno. Altrimenti Barak non si sarebbe fidato!» Andrej pensò al monaco malvagio e pieno di sé cui anni prima lui aveva augurato la morte... Quell'uomo, con gli occhi cavati e straziato dalle più atroci torture, aveva ormai pagato i suoi peccati. Ironia del destino... «Fratello Toros viveva sempre con voi oppure era tornato con gli altri?» «Era il nostro sacerdote», gli spiegò Frederic. Nel suo tono si percepì una punta d'orgoglio; non tutti i villaggi avevano un proprio sacerdote. «Come hai fatto a salvarti?» Con un moto di vergogna, Frederic distolse lo sguardo e ci volle un bel po' prima che rispondesse. Forse il tempo necessario per inventarsi una storia credibile. «Sono il figlio minore ed ero responsabile delle capre», disse infine. «Al mattino le portavo nei campi e la sera le riportavo indietro... Sai com'è, no? La sera in cui sono arrivati gli stranieri, io ero stato... disattento.» «Hai perso delle bestie», suppose Andrej. Conosceva quello stato d'animo. Ricordava ancora le terribili bastonate che gli aveva dato suo padre la volta in cui era tornato con tre bestie in meno di quante ne aveva portate con sé al mattino. «Due», mormorò Frederic. «È stata colpa mia. Avevo visto tutti quei cavalieri e quegli uomini andare verso il villaggio e mi ero incuriosito. Sono salito sulle rocce per vedere meglio e, quando sono sceso...» «Le pecore non c'erano più», completò Andrej. Frederic annuì, avvilito. «Non ho detto nulla a mio padre. Avevo paura che mi picchiasse. Ma, a tarda notte, quando gli altri dormivano e nella fortezza erano stati spenti anche gli ultimi fuochi, sono uscito di nascosto per cercare le capre. Non le ho trovate.» «Ma così non sei andato all'adunata», disse Andrej. «Ringrazia Dio che ti siano scappate due capre, ragazzo mio. Forse è stato lui a suggerirti di
andarle a cercare, per salvarti la vita.» «Sono arrivato troppo tardi», proseguì Frederic. Sembrava quasi che parlasse a se stesso. Anzi pareva addirittura che non fosse più in grado di sostenere il peso delle parole. Forse soltanto nel momento in cui era stato costretto a dare forma verbale al terrore riusciva a coglierlo pienamente. «Erano già andati tutti al bastione. Li ho rincorsi, ma non sono entrato dal portone principale... Sai com'è, avevo paura di passare dei guai; c'è una via segreta per la torre, una stretta breccia nelle mura, così stretta che ci può passare solo un bambino.» Andrej sorrise. Conosceva quel passaggio. Anche lui se n'era servito, da bambino. «Il passaggio termina in una stretta galleria sopra il grande salone. Da lì si può vedere e ascoltare tutto senza essere visti. Io... mi ero nascosto lì per origliare. Pensavo che forse così avrei potuto dire che c'ero anch'io, ma che mio padre non mi aveva visto. Io... credevo che il cardinale volesse pregare con noi. Oppure che volesse... dire qualcosa... d'importante... ai capi del villaggio.» S'interrompeva sempre più spesso ed era prossimo al pianto. Però doveva continuare. «Invece voleva ben altro. Lui... ha lanciato pesanti accuse al villaggio. Ha detto che il villaggio aveva stretto un patto col diavolo.» «Il villaggio?» chiese Andrej. «Tutta la valle di Borsã», confermò Frederic. «Diceva che eravamo alleati dell'inferno e che facevamo magie e stregonerie. All'inizio ridevano tutti, e Barak più degli altri. Ma le accuse si facevano sempre più gravi e così le risate cessarono. E improvvisamente gli stranieri hanno... estratto le armi da sotto le loro vesti e hanno legato tutti.» «Nessuno si è difeso?» «Solo pochi erano armati», rispose tristemente Frederic. «Chi porta le armi a un'assemblea in cui si dovrebbe pregare? Qualcuno si è difeso, ma gli stranieri erano molti di più. I peggiori erano i tre cavalieri con l'armatura dorata.» «Con l'armatura dorata?» «Lo giuro», insistette Frederic. «Non avevo mai visto nulla di simile. Nessuno l'ha mai visto, credo. Erano... come demoni. Spaventosi guerrieri che sembravano non provare dolore e non avere paura della morte.» Andrej non replicò. I ricordi del ragazzo erano offuscati dalla paura e la mente gli stava giocando un brutto scherzo. Più tardi, passato il tempo necessario per elaborare il dolore più vivo, gli avrebbe parlato di nuovo per
scoprire cosa intendesse davvero, quando parlava di cavalieri dall'armatura dorata. «E poi?» chiese dopo qualche istante. «Poi hanno iniziato a torturare fratello Toros e Barak», rispose Frederic. «Le torture peggiori sono state per fratello Toros, almeno all'inizio. Ha supplicato Dio che la smettessero e ha giurato sulla sua anima che non sapeva nulla di magie e stregonerie. Ma non è servito. Sono andati avanti. Era come se... provassero piacere a torturarlo. Alla fine ha ammesso tutto. Che adorava il demonio e che gli aveva venduto l'anima, che tutta la valle di Borsã era dedita alla magia nera e che talvolta fra noi soggiornavano streghe e terribili demoni.» «L'ha detto perché smettessero», mormorò Andrej. «Fratello Toros non è mai stato particolarmente coraggioso.» Frederic non ribatté, ma c'era qualcosa nel suo silenzio che ad Andrej non piaceva. Lo guardò e si accorse che l'espressione del ragazzo aveva qualcosa che gli piaceva ancora meno. «Non credi a queste follie, vero?» esclamò allora. «Frederic, hai visto cosa gli hanno fatto! Sotto quelle torture si ammette qualsiasi cosa! Nella valle di Borsã non si pratica la stregoneria!» «C'erano... voci», disse Frederic, a disagio. «Da tempo. E poi...» Distolse lo sguardo. «Barak era... troppo vecchio. Nessun uomo può diventare così vecchio. Non si ammalava mai e, quando si tagliava o veniva ferito, le ferite si richiudevano in pochi giorni, mentre quelle degli altri ci mettevano settimane.» «Barak è sempre stato robusto», gli fece notare Andrej. «Inoltre esistono uomini molto vecchi. Se ne parla anche nella Bibbia. Fratello Toros non ti ha raccontato di Matusalemme?» Frederic fece cenno di no. In effetti, rifletté Andrej, era possibile che fratello Toros non avesse mai letto la Bibbia. «E poi c'erano anche... le altre storie», mormorò Frederic. «Quali storie?» Frederic si torceva come se stesse soffrendo. «Nessuno ne parlava mai, tuttavia... Molti anni fa, dalla chiesa di Rotthurn è stato rubato lo scrigno delle reliquie. Il ladro sarebbe stato un uomo in contatto col maligno, il figlio di un saraceno che si era furtivamente introdotto nella nostra comunità col falso nome di Michail Nadasdy.» Andrej si voltò di scatto, in modo che il ragazzo non vedesse la sua espressione sconvolta. Non era possibile! Quella follia sopravviveva ancora,
dopo tanto tempo! «Ma che... stupidaggine.» Si schiarì la voce. I suoi pensieri erano in tumulto. «Posso capire cosa pensavi di Barak. Sei giovane e lui è sempre stato un tipo strambo. Ma questa storia è priva di fondamento.» «In ogni caso gli stranieri ci credevano. Hanno catturato tutti e li hanno portati via... e molti li hanno uccisi.» «E perché?» chiese Andrej. Faticava a seguire le parole di Frederic. Il destino l'aveva forse trascinato lì per mostrargli che era diventato un angelo della morte, portatore di rovina a chiunque incontrasse sulla sua strada, compreso suo figlio? «Non lo so», rispose Frederic, esitante. «Uno dei cavalieri dorati ha scelto quelli che dovevano essere uccisi. C'erano anche mio padre... e mio fratello maggiore.» «Mi dispiace», sussurrò Andrej. «Mi dispiace davvero.» Nei limiti del possibile, cercò di riportare chiarezza nei suoi pensieri. Non aveva il diritto di credere che tutte le ingiustizie e tutto il dolore del mondo fossero toccati a lui. Quel ragazzo aveva dovuto sopportare cose ben peggiori. Inoltre era stato testimone involontario di un terribile bagno di sangue e meritava di essere aiutato. Forse il destino non l'aveva riportato a Borsã solo per tormentarlo... «Quand'è finita, hanno portato Barak nella sua stanza. Ho sentito le sue urla... per tanto tempo», proseguì Frederic con voce rotta. Poi gli sfuggì un singhiozzo e una lacrima gli scese sul viso. L'asciugò col dorso della mano. «Non sei costretto a raccontarmi tutto», disse Andrej sottovoce. «Possiamo parlarne più tardi, oppure non parlarne più, come vuoi.» Frederic scosse la testa e ricacciò indietro le lacrime. «Dopo che se ne sono andati, ho controllato che nessuno dei torturati fosse ancora vivo e poi li ho seguiti. Volevo sapere dove stavano portando la mia mamma... e gli altri. Li hanno legati l'uno all'altro come bestie e li hanno portati via, lontano dalla valle.» «Dove?» Frederic indicò a sud, verso l'unica strada che attraversava Borsã. «Li ho seguiti per un tratto, ma non molto a lungo. Avevo paura e non sapevo cosa fare. Non volevo lasciare la mamma nei guai, davvero, però...» «Hai fatto bene», lo interruppe Andrej. «Sei stato intelligente a non seguirli. Non avresti potuto fare nulla per la tua famiglia e, alla fine, ti avrebbero catturato e ucciso.»
«Poi sono tornato indietro», proseguì Frederic. «Volevo seppellire tutti, ma, se non ne avessi avuto la forza, almeno Barak, mio padre e mio fratello. Tuttavia Barak era ancora vivo e così... ho aspettato.» «Per quanto?» «Per un giorno e una notte e poi ancora quasi per un giorno intero», rispose Frederic. «Ho pregato Dio perché liberasse Barak dalle sue sofferenze, ma non l'ha fatto. L'hai... fatto tu.» Andrej si schiarì la voce. Fino a poco prima quel racconto era stato orribile, ma ormai era diventato un vero tormento. «Quindi hanno due giorni di vantaggio.» Guardò verso sud. C'era ancora un'ora di luce, forse un po' di più. La nebbia stava scendendo dalle montagne sulla valle, come se una nuvola fosse stata tagliata dalle creste affilate e avesse sparso il suo contenuto sulla terra. «Non è molto. Con tutti quei prigionieri non possono essere tanto veloci.» «Li vuoi inseguire?» Il volto di Frederic s'indurì. «Li ucciderai?» Andrej scosse la testa e poi annuì. «Prima seppelliamo Marius, Barak e la tua famiglia», disse. «Poi li inseguiremo.» Quindi vedremo cosa faranno questi tre cavalieri dorati quando saremo di fronte a loro, pensò. II Andrej mantenne la promessa: Marius, il padre di Frederic e suo fratello ebbero un funerale da cristiani. Ma lui e il ragazzo non avevano avuto la forza necessaria per scavare le fosse per gli altri venti cadaveri, così, dopo averli trascinati nel cortile, li avevano bruciati. Di certo fratello Toros non avrebbe approvato, tuttavia loro non potevano fare di più. Portandosi vicinissimo al fuoco - tanto che il calore gli arroventava il viso -, Andrej recitò una delle poche preghiere che conosceva. Ormai da tempo non era più convinto che Dio fosse onnipresente e benevolo. La vita gli aveva strappato troppe cose, gli aveva mostrato troppo dolore e troppi soprusi per permettergli di credere in un Dio misericordioso o anche soltanto indifferente. Adesso, però, cominciava a chiedersi se un essere onnipotente esistesse davvero da qualche parte, tra le stelle del cielo, ognuna delle quali, secondo Michail Nadasdy, era un mondo, grande come il nostro e probabilmente abitato da uomini. Il mondo di Andrej era molto più piccolo di quello descritto da Michail Nadasdy; era più piccolo anche di quello in cui Michail Nadasdy aveva vissuto. Nel mondo di Andrej non c'era posto per un Dio così spietato da permettere che a un bambino come
Marius accadessero quelle cose. Tuttavia rimase immobile, come se stesse pregando in silenzio, finché il ragazzo non ebbe terminato la sua preghiera e abbassò le mani. Quando Frederic finì, mormorando un «Amen», anche lui mosse le labbra, come se stesse pronunciando la stessa parola, ma senza emettere suono. I due si girarono e lasciarono in silenzio il cortile, camminando a fianco a fianco. In quel momento, non aveva importanza ciò che lui credeva: se non poteva fare più nulla per suo figlio, c'era pur sempre quel ragazzo che aveva bisogno di tutto il suo aiuto. Gli aggressori non avevano razziato tutte le scorte alimentari, così, prima della partenza, fissata per il mattino seguente, i due si erano concessi un lauto pasto e avevano riempito le bisacce del cavallo. Benché avesse cercato con attenzione, Andrej non aveva trovato niente di valore e ciò gli dispiaceva. Non voleva diventare un predone, ma probabilmente il loro viaggio sarebbe stato lungo e avrebbe fatto comodo avere qualcosa da barattare. Gli aggressori avevano portato via tutto e Andrej sospettava che il loro compito fosse proprio quello di scovare ogni oggetto prezioso. I due Delãny partirono alle prime luci dell'alba e seguirono senza difficoltà le tracce che conducevano verso sud. Dovevano essere circa ottanta le persone partite due giorni prima da Borsã e le loro tracce sarebbero state chiaramente visibili anche dopo una settimana, quindi non era necessario affrettarsi, anche perché il cavallo - che doveva portare due persone - non poteva procedere molto velocemente. Dopo un po', Frederic smontò di sella e propose ad Andrej di alternarsi, ma tale soluzione si dimostrò poco efficace. Andrej preferì rimettersi in groppa col ragazzo e lasciare che il cavallo trovasse il proprio ritmo. Quel giorno parlarono pochissimo. Frederic teneva lo sguardo fisso davanti a sé, e un paio di volte si addormentò in sella. A un certo punto stava addirittura per cadere da cavallo, ma Andrej non lo svegliò. I ragazzi hanno bisogno di tempo per elaborare ciò che hanno vissuto, e il sonno aiuta ad accorciare quel tempo, rifletté. Avrebbe voluto che fosse così anche per lui. Dopo la morte di Raqi e di sua figlia, si era erroneamente convinto che nulla potesse più colpirlo. La morte del figlio aveva squarciato la cortina della sua sofferenza, insinuando in lui un orrore così profondo che avrebbe preferito uccidersi con la sua stessa spada piuttosto che continuare a sopportarlo. Tuttavia, prima di dar seguito a quel pensiero, doveva fare ancora una cosa. Si fermarono per riposare in una radura, mangiarono parte delle provvi-
ste e bevvero l'acqua di un torrente. Andrej evitava con attenzione gli insediamenti umani. Finché non avesse scoperto cos'era veramente successo a Borsã, non avrebbe potuto fidarsi di nessuno. La seconda notte, Frederic dormì meglio. Gli incubi lo tormentavano ancora e un paio di volte si svegliò urlando, ma per il resto del tempo rimase tranquillo. Una volta - benché soltanto per un attimo fugace - ad Andrej sembrò addirittura di scorgere sul suo volto un accenno di sorriso. Osservando il giovane dormire, Andrej provò una sensazione d'intimità, quasi uno slancio di tenerezza. Il destino gli aveva portato via un figlio, un ragazzo che conosceva appena, ma che comunque aveva amato. Però, nello stesso momento, gli aveva regalato un altro figlio... Certo, non era un figlio naturale, eppure, col tempo, poteva stabilirsi un legame tra loro, esattamente come, nel giro di qualche anno, Michail aveva stretto un legame con lui. Una volta Raqui aveva detto: «Il senso della vita - ammesso che ci sia - è quello di trasmettere la vita stessa». Perché combattere per un mondo migliore se non ci sarà più nessuno ad abitarlo? Ebbene, Andrej adesso aveva qualcuno. Cercò di scacciare quei pensieri. Il suo animo afflitto non gli consentiva di soffermarsi su cose del genere. Inoltre non era affatto sicuro che lui e Frederic avrebbero trascorso insieme più di qualche giorno. Mancava ancora un'ora al sorgere del sole, ma Andrej sentiva che non sarebbe più riuscito a prendere sonno. Si alzò, fece qualche passo e infine sfoderò la scimitarra. Si allontanò dal ragazzo addormentato e, un po' per occupare la mente e un po' per difendersi dal freddo, si allenò con la scimitarra. Si rese subito conto di non essere in forma: i suoi movimenti erano rigidi e impacciati. Era solo da qualche settimana che non si esercitava, ma era come se non l'avesse fatto per mesi. Fu necessario un po' di tempo prima di ritrovare l'abituale scioltezza e, cose molto più importanti, l'equilibrio e la tranquillità interiore. Si esercitò per mezz'ora, ritrovandosi alla fine senza fiato e coperto di sudore, ma di nuovo pervaso da quella forza e da quell'energia che non sentiva da tempo. Non appena rinfoderata la scimitarra, si girò e si accorse che Frederic si era alzato e lo stava fissando. Andrej non era in grado di decifrare l'espressione del suo viso, tuttavia non gli piaceva. «Da quanto tempo mi stai guardando?» «Non ho mai visto nessuno combattere così», disse Frederic, quasi con devozione.
«Il mio maestro ha imparato quest'arte in una città lontana», spiegò Andrej. «A Roma? A Venezia?» «Oh, no... In un Paese molto più lontano.» «Più lontano di Roma?» Frederic sembrava alquanto perplesso. «Forse un giorno ci andrai anche tu», disse Andrej scrollando le spalle e agitando una mano, come per chiudere la questione. «Sei sveglio... Quindi possiamo partire», aggiunse. Frederic annuì, ma non si alzò e si strinse infreddolito nella coperta leggera in cui aveva dormito. «M'insegni a combattere?» chiese. Andrej lo guardò in silenzio, poi ribatté: «Perché?» Frederic sembrò incerto su come rispondere e allora Andrej, scuotendo la testa, andò verso di lui e gli s'inginocchiò accanto sull'erba umida. «Tuo fratello e tuo padre sapevano usare la spada?» «Derek ha combattuto in una grande battaglia», spiegò Frederic in tono orgoglioso. «E mio padre addirittura in tre. Ha ucciso un mucchio di turchi.» «E ne vai fiero», mormorò Andrej. «Naturalmente.» «Questi... nemici che tuo padre e tuo fratello hanno ucciso... Credi forse che non avessero una famiglia? Che non avessero una moglie e dei figli... come te?» Frederic lo guardò con aria sospettosa, ma rimase in silenzio. «Come ti saresti sentito se tuo padre non fosse tornato da una di quelle battaglie?» «Sarei stato furioso.» «Soltanto furioso? Non anche addolorato e dispiaciuto?» «Certo!» rispose Frederic. «Però...» «Allora spiegami cosa c'è di buono nell'uccidere i propri nemici», lo interruppe Andrej. Per un momento Frederic lo guardò, disorientato, ma poi sul suo volto si dipinse la tipica espressione di testardaggine infantile di fronte alla quale era del tutto inutile discutere. «Se è come dici, perché allora sei uno spadaccino così bravo?» replicò il ragazzo. «Chi ti dice che lo sia?» Con un'espressione caparbia ancora più marcata, Frederic indicò il luogo in cui l'altro si era esercitato. «Devi essere un grande guerriero.» «Forse lo sono», mormorò Andrej. «Ma ciò non vuol dire che ne sia fe-
lice.» Si alzò. «Sello il cavallo. Vai al ruscello e prendi dell'acqua fresca. Poi partiamo.» Frederic lo guardò ancora per qualche istante con un'espressione che faceva quasi paura. Sì, nei suoi occhi c'era qualcosa che andava ben oltre la testardaggine infantile... Ma poi si alzò e, in silenzio, eseguì gli ordini di Andrej. III Le tracce si facevano più marcate, quindi gli uomini che stavano inseguendo non procedevano tanto velocemente quanto Andrej Delãny aveva pensato. Era addirittura probabile che li avrebbero raggiunti nel corso della giornata. E poi? Fino a quel momento, Andrej aveva evitato di riflettere su quel problema. Naturalmente avrebbero cercato di liberare i prigionieri e di punire gli assassini di suo figlio Marius, di Barak e di tutti gli altri, ma la sua mente indietreggiava, spaventata, all'idea del come avrebbero fatto. Se fosse stato per Frederic - ma anche per quella voce fievole eppure sempre viva dentro di lui - avrebbe dovuto ucciderli tutti. Un'impresa quasi impossibile. Secondo il racconto di Frederic, gli aggressori erano una ventina, quindi una truppa verosimilmente composta in gran parte da soldati della Chiesa che, con un po' di fortuna e di prudenza, lui avrebbe potuto eliminare, a meno che non si fossero messi di mezzo quei misteriosi cavalieri dorati. Se la fortuna gli avesse arriso, forse sarebbe riuscito a liberare i prigionieri e a tornare con loro a Borsã. Ma dopo? Come poteva proteggere quella gente se i cavalieri le avessero dato la caccia? Tra gli abitanti del villaggio ne avrebbe trovati ben pochi in grado di maneggiare le armi. Si trattava soprattutto di donne, bambini e vecchi. Un'altra possibilità era eliminare prima i cavalieri. Tuttavia, nonostante la fiducia nelle proprie capacità, restava il fatto che saper maneggiare con sicurezza una lama affilata non significava necessariamente saper combattere con più uomini esperti nell'uso delle armi. Se non fosse riuscito a prenderli in trappola, ne sarebbe stato sopraffatto. E, se fosse andata così, la sua impresa si sarebbe rivelata del tutto inutile. Anche quello era un insegnamento di Michail Nadasdy: non gettarsi mai alla cieca in un combattimento; riflettere sempre in anticipo su come sfruttare a proprio vantaggio i punti deboli dell'avversario. Però, dopo quello
che Frederic gli aveva detto, Andrej dubitava di trovare un punto debole nei cavalieri dorati. Non gli restava che attendere, nella speranza che il caso gli offrisse una buona carta da giocare. Intorno a mezzogiorno arrivarono a un punto in cui le tracce si dividevano. Andrej e Frederic avevano attraversato un'ampia ma bassa catena di colline, coperte di erba rada. Davanti a loro il terreno scendeva ripido fino ai piedi del rilievo, dove si apriva una valle stretta e molto lunga, per poi risalire in maniera altrettanto ripida dalla parte opposta. Benché il terreno fosse roccioso, le tracce erano ben visibili: si snodavano lungo l'avvallamento e la scarpata dalla parte opposta. Andrej valutò che tre o quattro cavalieri, circa a metà della valle, si erano allontanati ad angolo retto dal gruppo principale. Dopo pochi passi, le loro tracce si perdevano tra le rocce e il pietrisco. «Cosa stai aspettando?» Fino a quel momento Frederic era stato seduto in sella, dietro Andrej, ma adesso era sceso da cavallo con un agile movimento e aveva preso a correre in avanti, impaziente. Il cavallo soffiava, irrequieto. Dopo una breve esitazione, anche Andrej smontò di sella. Era nervoso: la sua inquietudine aveva contagiato il cavallo, oppure l'animale percepiva un pericolo che i sensi umani non riuscivano ancora a sentire. Quest'ultimo pensiero lo inquietò ancora di più e rispose alla domanda di Frederic soltanto dopo una lunga esitazione. «Non so quale traccia dobbiamo seguire.» «La traccia principale, naturalmente», esclamò il ragazzo. «Li abbiamo quasi raggiunti. Ancora un paio d'ore e...» «Non devi mai sottovalutare l'avversario», lo interruppe Andrej. Prese le briglie e guidò con cautela il cavallo lungo il declivio. Gli zoccoli frantumavano dei pezzi di roccia, che rotolavano a valle. Era stata una buona idea smontare di sella: il terreno era molto più scosceso di quanto sembrasse dall'alto. Anche senza cavaliere, il cavallo faticava a restare in piedi e le tracce dimostravano che quelli che stavano inseguendo avevano incontrato le stesse difficoltà. Inoltre molti di loro dovevano essere caduti, perché Andrej trovò sangue secco - ma non vecchio - sulle rocce. Arrivato al fondo della valle, si fermò ancora una volta. Il suo sguardo scrutava, indeciso, le due tracce. «Cosa aspetti?» sbottò Frederic. Andrej sollevò le spalle. «Non... lo so», disse esitante, schermando con la mano gli occhi ipersensibili alla luce. «C'è qualcosa che non va. Ho una brutta sensazione.»
«Anch'io», ribatté Frederic in tono tagliente. «Se restiamo qui ancora un po', finirà che ci scapperanno.» L'altro lo osservò, pensieroso. Quel ragazzo non era spinto soltanto dal desiderio di rivedere la propria famiglia e di punire gli assassini del padre e del fratello. C'era qualcosa di più. Qualcosa d'inafferrabile e di oscuro. «Hai ragione», annuì infine stancamente. «Andiamo avanti.» L'attacco avvenne quando raggiunsero la cima della collina. Lì le tracce si perdevano. Non c'era nessun sentiero che attraversasse il bosco, ma le piante erano così rade che non sarebbe stato difficile procedere. Tuttavia al limitare del bosco c'era qualcuno. Andrej lo percepiva chiaramente, quasi come se potesse vederlo. La figura comparve dal nulla - un gigante massiccio, risplendente d'oro, con l'elmo ornato da corna - e gli balzò addosso con un grido di guerra. Andrej sfoderò la scimitarra e sfuggì all'aggressore con un complicato movimento rotatorio e all'indietro. Il demone cornuto lo attaccò con un urlo bestiale. La sua spada a due mani, alta come un uomo e pesante almeno mezzo quintale, si muoveva con una velocità incredibile, e Andrej comprese subito che lo avrebbe colpito. La lama infatti si muoveva con precisione mortale verso la sua gola. Sollevò la scimitarra, ma non fu abbastanza veloce; l'arco che avrebbe dovuto tracciare per fermare la spada dell'avversario era troppo ampio. Il nemico gli avrebbe tagliato la testa. Ma poi inciampò in una grossa pietra e cadde all'indietro e così la potente spada del demone guerriero, anziché decapitarlo, lo colpì di striscio alla testa, procurandogli una profonda ferita che espose l'osso della tempia. Gemendo, Andrej rotolò di lato, lottando con tutte le sue forze per non svenire. Il sangue, che gli scorreva sugli occhi, lo accecò per qualche istante e il dolore alla testa divenne quasi intollerabile. Ma il dolore ebbe anche un altro, inatteso effetto. D'un tratto, il demone cornuto ritornò a essere quello che era davvero: un uomo con una lucida armatura d'ottone, che indossava un elmo dello stesso materiale, ornato di corna, e agitava una spada a due mani lunga una iarda e mezzo. Era alto, con le spalle sorprendentemente larghe, forte, ma non era un gigante e tantomeno un demone. Però era quasi altrettanto pericoloso. L'uomo doveva essere un guerriero esperto, perché non si lasciò ingannare dalla ferita sanguinante di Andrej. Con un balzo, superò la grossa pietra su cui Andrej aveva inciampato, divaricò le gambe per stabilizzarsi,
e alzò la spada sopra la testa, apprestandosi a concludere quello che un attimo prima non era riuscito a portare a termine. Quel gesto scatenò in Andrej un'ondata di pura energia distruttrice. Era la stessa forza ardente che emanava anche Michail Nadasdy quando, durante i duelli d'allenamento, lui e Andrej si affrontavano con eccessiva durezza. La forza di Michail, tuttavia, non mirava ad annientare Andrej, bensì a mostrargli la strada per trovare se stesso e per imparare dunque a combattere con maggiore concentrazione. Il guerriero dorato, invece, era un grumo compatto di violenza. Voleva uccidere il nemico il più in fretta possibile e senza rischi. Tuttavia, agendo in quel modo, aveva risvegliato in Andrej i riflessi del guerriero eccezionalmente addestrato: qualcosa quasi inconsapevolmente - s'impossessò di lui e riaccese la scintilla vitale che pareva affievolita. Quando la spada a due mani calò, Andrej non si trovava più lì. La potente lama strappò scintille alla pietra e affondò di due dita nel terreno, nel punto esatto in cui, poco prima, c'era la gola di Andrej. Delãny sentì un grido di rabbia e il rumore del metallo che colpiva la pietra. Mentre saltava per rialzarsi, spostò la scimitarra dalla mano destra alla sinistra e, da quella posizione favorevole, assestò un colpo. Il tentativo andò a vuoto, ma costrinse l'avversario a indietreggiare precipitosamente. Forse Andrej avrebbe potuto anche sfruttare quel vantaggio... ma, con la coda dell'occhio, colse un movimento che poteva essere soltanto di un altro aggressore. E infatti una lama più corta, ma non meno letale, guizzò verso la sua gola. Con una complicata e velocissima piroetta, passò di nuovo la scimitarra nella mano destra e fece un affondo fulmineo verso il petto del nemico. L'acciaio della lama, affilato come un rasoio, penetrò quasi senza trovare resistenza nella lucente armatura e aprì una ferita orribile, che tuttavia non uccise l'avversario. Se non altro, però Andrej riuscì a fermarlo: al momento gli bastava. Fece un nuovo passo indietro, sopportò senza battere ciglio un colpo alla spalla, e applicò una tecnica che gli aveva insegnato Michail Nadasdy per rompere con un calcio la rotula dell'aggressore. L'uomo urlò, lasciò andare la spada e cadde a terra. Adesso Andrej poteva tornare a dedicarsi all'avversario con l'armatura d'ottone. E lo fece appena in tempo. L'aggressore era davvero forte e combatteva con una spada che un giovane contadino non sarebbe neppure riuscito a sollevare. Il suo complice aveva tenuto occupato Andrej per qualche secondo soltanto, ma quel brevissimo lasso di tempo era stato sufficiente al
cavaliere dorato per riprendersi. Aveva strappato la spada dal terreno e ora, tenendola sollevata, si stava scagliando contro l'avversario. Andrej gli sferrò un calcio, spazzò via la spada e, con la scimitarra, seguì il movimento del guerriero che cadeva a terra. La stoccata, diretta al volto, mancò l'obiettivo, tuttavia fracassò l'elmo del cavaliere e lo ferì. Dalle labbra del gigante non uscì nessun suono, ma Andrej sapeva cosa stava provando: sentiva dolore e aveva paura di morire. In lui si era fatta strada l'assoluta consapevolezza di non avere scampo. Andrej ne fu contento. Un minuscolo movimento del polso sarebbe bastato per finirlo. La scimitarra era così affilata che poteva tranciare muscoli e ossa con un solo colpo. Eppure Andrej esitava. Voleva che quell'uomo soffrisse. Era uno di quelli che avevano ucciso la sua gente... Forse era addirittura l'assassino di suo figlio. Di certo aveva torturato Barak in maniera crudele e doveva pagare cento volte per ogni momento di quel dolore, per ogni secondo di tormento. La sua spada fece due o tre movimenti fulminei che fracassarono definitivamente l'elmo del cavaliere dorato e gli lasciarono sul viso alcune strisce insanguinate. Dalle labbra dell'uomo uscì un grido di dolore. E Andrej lo gustò, come se fosse un vino prezioso e dolce. Le ferite erano superficiali: nient'altro che un piccolo, terribile gioco. Detestava quell'uomo, però non voleva trasformarsi in una bestia che provava piacere nel torturare a morte i propri avversari. Smise di tagliuzzargli il viso e gli posò la lama sulla gola. Dentro di lui si levò un grido di delusione. Non voleva uccidere quell'uomo. Non così in fretta. Non così facilmente. Dentro di lui bruciava ancora un fuoco nero, le cui fiamme erano alimentate dall'impulso alla tortura. «Forza... Fallo, Delãny», gemette il cavaliere dorato. «Falla... finita.» Quell'atteggiamento di debolezza era una finta. Sotto il sangue e la sporcizia, Andrej intravide un volto forte, sorprendentemente bello e, nel contempo, brutale. Il volto di un guerriero abituato a sopportare il dolore e ad attendere l'occasione buona. Andrej gli premette la spada contro la gola, in modo da rendergli impossibile qualsiasi reazione. Quell'uomo stava aspettando qualcosa. Cercava di guadagnare tempo, di cogliere la minima disattenzione che gli avrebbe consentito di allontanare la lama mortale dalla gola e sopraffare l'avversario. «Chi sei?» chiese Andrej.
L'altro sorrise. «Cosa vuoi? Il mio nome o la mia testa?» chiese di rimando. Aveva un accento sorprendentemente duro, che Andrej non aveva mai sentito. «Voglio i nomi degli altri. Voglio sapere dove vanno. E perché l'avete fatto.» «Se te lo dico, mi lascerai vivere?» «Puoi decidere se morire in fretta oppure lentamente, com'è successo a Barak», rispose Andrej, cupo. «Perché avete torturato quel vecchio? Non ha mai fatto niente di male.» Alle sue spalle risuonò un grido acuto. Era il grido di un bambino: stridulo, alto, a pieni polmoni. Nasceva dal terrore e dalla paura della morte. Tre... Quel numero esplose nella testa di Andrej. Aveva commesso un errore fatale. Erano le tracce di tre uomini quelle che si allontanavano dal gruppo principale! Si era distratto per un istante, ma al suo avversario era bastato. Senza curarsi della traccia insanguinata che la scimitarra gli lasciava sulla spalla, si girò di colpo, si allontanò dalla lama mortale e lanciò tutt'e due le gambe verso la caviglia di Andrej. Non lo colpì, ma l'attacco costrinse Andrej a indietreggiare. L'affondo che seguì non ferì l'uomo tanto gravemente quanto Andrej aveva sperato, tuttavia lo fece inciampare e cadere sulle ginocchia. Probabilmente fu proprio quella caduta che fece decidere Andrej a chiudere la partita. Spiccò un balzo per avvicinarsi, risoluto a non esitare neppure un secondo di più. Lo straniero era troppo abile per offrirgli una seconda possibilità. Ma dietro di lui Frederic continuava a gridare. Andrej si scagliò contro il cavaliere dorato e intanto gettò un rapido sguardo alle sue spalle. Quello che vide lo pietrificò d'orrore. Erano tre uomini, ma soltanto due - confidando nella presunta superiorità del guerriero con l'armatura d'ottone - si erano dedicati a lui. Il terzo era a caccia di Frederic. Fino a poco prima sembrava che il giovane fosse riuscito a mettersi al sicuro tra le rocce e gli alberi sul pendio. Adesso invece il terzo cavaliere era riuscito a bloccarlo e incombeva su di lui con la spada levata. Andrej reagì d'istinto e fece la cosa giusta. Poteva scegliere: prendere una vita - cioè decapitare l'uomo indifeso e inginocchiato davanti a lui - o salvarne un'altra. Si voltò di scatto e scagliò lontano la scimitarra; l'arma, trasformatasi in un fulmine d'argento, si conficcò tra le scapole dell'uomo che sovrastava Frederic e lo scaraventò a terra.
Ma tutto ciò avvenne un istante dopo che la spada del guerriero era calata sul ragazzo... Le urla s'interruppero di colpo. E mentre Andrej correva verso il luogo in cui si trovava Frederic, il cavaliere dorato si rialzò, lanciando un grugnito mostruoso. Di certo avrebbe subito raccolto la sua arma e sarebbe tornato all'attacco. Ma Andrej non esitò neppure un istante. Frederic non poteva essere morto. Anche lui... No! Il ragazzo era tutto ciò che gli era rimasto. Con pochi balzi potenti raggiunse le rocce dietro cui Frederic si era rintanato. Il guerriero morto era crollato sul giovane e la spada gli era scivolata via di mano. La lama era insanguinata. Con grande sforzo, Andrej sollevò il cadavere che copriva Frederic. Il ragazzo era coperto di sangue. La camicia era strappata e, sotto la carne, scintillava il rosso della morte. Era arrivato troppo tardi, forse solo per pochi istanti. Comunque troppo tardi. Frederic era morto. In un primo momento, non desiderò altro che la vendetta. Il dolore che si aspettava non arrivò. Ma la fiamma nel suo animo divampò, improvvisa, come un incendio che urlasse il bisogno di essere alimentato dal sangue per cancellare il dolore. Si girò, strappò la scimitarra dal corpo del guerriero morto e si voltò di nuovo verso il margine della foresta. A parte quel terribile gelo interiore, a parte il fuoco nero che gridava vendetta, non sentiva nulla. Com'era prevedibile, il guerriero dorato impugnava di nuovo la propria spada, tuttavia non sembrava intenzionato a scagliarsi contro Andrej. L'uomo con la splendente armatura dorata era in piedi, eppure restava immobile al margine della foresta e si limitava a fissarlo. Andrej fece un passo verso di lui, ma si fermò quando lo sconosciuto scosse la testa. «Non ora, Delãny», disse il cavaliere. «Vieni qui... Facciamola finita, in un modo o nell'altro.» «Non ora», ripeté lo sconosciuto. «Sei bravo, Delãny, ma non abbastanza. Ci rivedremo, te lo prometto.» E sparì con la stessa silenziosa rapidità che aveva dimostrato quand'era comparso davanti agli occhi di Andrej e di Frederic. L'oscuro senso di minaccia che lo aveva accompagnato aleggiò ancora per qualche istante - come un odore sgradevole -, poi scomparve. E allora sopraggiunse il dolore.
Le mani di Andrej iniziarono a tremare. Il fuoco nero nel suo animo si spense, lasciando dietro di sé non un cumulo di cenere, bensì un mare ribollente di puro dolore. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Cercò di rinfoderare la scimitarra. Non aveva quasi la forza di voltarsi a guardare il ragazzo. Frederic era coricato sulla schiena, con gli occhi spalancati e un'espressione incerta fra stupore e terrore. «Cos'è... successo?» mormorò. «L'hai ucciso?» Per un lungo istante, Andrej fu incapace di comprendere quello che vedeva. Frederic era vivo. Era in un lago di sangue, i suoi abiti erano stracciati e di certo era gravemente ferito. Però era vivo! Il suo stupore lasciò il posto a un sollievo improvviso, quasi doloroso. «Non muoverti!» gli ordinò. «In nome di Dio, non muoverti! Rimani sdraiato lì, fermo!» S'inginocchiò di fianco al ragazzo e, allorché questi cercò di alzarsi, gli spinse indietro le spalle. «L'hai ucciso?» ripeté Frederic con la voce impastata. Forse la debolezza di quella voce era il primo segno della morte... Andrej scosse la testa. «No», disse. «Ma ora non ha importanza. Devi...» S'interruppe e aggrottò la fronte. Mentre parlava, aveva tastato con prudenza il corpo di Frederic per saggiare l'estensione della ferita. Il torace era coperto di sangue, ma la pelle era intatta. «Non sei... ferito?» mormorò. Stordito, Frederic si sollevò - stavolta Andrej non si oppose -, si guardò e fece un gesto vago. «No», disse infine, titubante. Sembrava più una domanda che un'affermazione. Andrej lo fissò. Non aveva forse visto la spada che scendeva a colpirlo? Forse il giovane aveva avuto fortuna. Forse la lama del guerriero aveva soltanto lacerato la camicia senza nemmeno sfiorare la pelle. Forse il sangue apparteneva al morto che era crollato addosso a Frederic. O forse... Scacciò inorridito il pensiero. Non doveva cercare nel ragazzo qualcosa che non gli apparteneva. Si era trattato di un caso, di un caso incredibile, nulla più. Per mascherare la propria confusione, si costrinse a sorridere e si alzò con un movimento troppo brusco. «Ti fa male?» chiese poi. «No.» Stavolta era un'affermazione. Frederic si girò lentamente, ritrovandosi carponi, scosse la testa e si alzò a fatica. Andrej lo osservava con grande attenzione, pronto ad afferrarlo al primo segno di debolezza. Non fu necessario. Il ragazzo tremava, ma senza dubbio era illeso, benché ciò fosse quasi un miracolo. Forse il destino aveva deciso di ripagargli
una minuscola parte del debito che aveva nei suoi confronti. Frederic si girò verso di lui, lo guardò per un momento con aria incerta e poi si concentrò sul cadavere del guerriero. Infine sollevò una gamba e colpì il cadavere nelle costole con tanta violenza che lo fece rotolare su un fianco. D'istinto, Andrej si allungò in avanti per prendere il ragazzo e allontanarlo; invece cambiò idea e gli appoggiò soltanto una mano sulla spalla. Frederic scostò la mano, alzò di nuovo il piede per dare un altro calcio, ma poi si bloccò. Dall'espressione del suo volto si capiva che era in preda a sentimenti contrastanti, però era anche chiaro che la paura e l'impotenza prevalevano su tutti gli altri. «Perché l'hai fatto?» chiese Andrej a bassa voce. Frederic lo guardò con aria ostinata, ma non rispose. «Perché ti voleva uccidere?» azzardò Andrej. «O perché è uno di quelli che hanno sterminato gli abitanti di Borsã?» Gli occhi di Frederic si ridussero a una fessura. «Tu lo hai ucciso.» «È diverso...» mormorò, poi, osservando lo sconcerto sul volto del ragazzo, improvvisamente capì quanto fosse importante quel momento. La spiegazione che stava per dargli sarebbe stata decisiva per Frederic: gli avrebbe fatto capire quale strada prendere nella vita. «Perché?» volle sapere il giovane. «Forse perché tu sei un guerriero e io poco più di un bambino?» «Perché ti voleva uccidere», rispose Andrej. «Ho spento una vita per salvarne un'altra.» «E chi te ne ha dato il diritto?» Michail Nadasdy gli aveva insegnato tante cose, ma non l'aveva preparato a rispondere a una simile domanda. «Non lo so», ammise Andrej dopo una breve esitazione. «Forse non esistono motivi tali da giustificare la morte di qualcuno. Ma, se mi trovassi di nuovo di fronte a una simile decisione, rifarei esattamente quello che ho fatto.» «Per questo hai risparmiato il cavaliere dorato?» insistette Frederic in tono arrogante. La sua ostilità nasceva dall'orgoglio, da un moto infantile di collera e soprattutto dalla paura. Una paura che cercava uno sfogo e si rivolgeva contro la prima persona che gli capitava a tiro. Andrej non avrebbe dovuto dar peso a quelle parole, e invece esse lo ferirono al punto che, per un lungo istante, rimase in silenzio, incapace di rispondere. «Non saprei dire chi sia stato veramente risparmiato», mormorò infine. «Comunque ci rivedremo, non preoccuparti.» Si voltò di scatto.
«Adesso, però, vieni con me. Abbiamo un prigioniero che ha molte cose interessanti da raccontarci, ne sono certo.» Il secondo aggressore aveva cercato di trascinarsi fino al margine del bosco, ma le forze lo avevano abbandonato a metà strada. Era sdraiato nell'erba e gemeva. Quando Andrej e Frederic lo raggiunsero, portò le mani al viso per difendersi e singhiozzò per la paura... e forse anche per il dolore, giacché il suo ginocchio destro era rotto in più punti. Ad Andrej bastò una rapida occhiata per avere la certezza che non sarebbe più guarito. La vista di quell'uomo gli procurò una vaga fitta di dolore. Ecco un'altra cosa cui Michail Nadasdy non l'aveva preparato. Gli aveva insegnato a frantumare ciocchi di legno coi calci, con colpi di gomito e a mani nude, spiegandogli che, con la stessa facilità, avrebbe potuto fracassare ossa e sfondare crani. Ma c'era una differenza - una differenza spaventosa - tra saper fare quelle cose e sperimentarle. Con un cenno del capo fece capire a Frederic di restare indietro; s'inginocchiò di fianco al ferito e gli bloccò le mani con fermezza ma delicatamente. «Non devi avere paura», disse. «Non ti farò nulla.» Le sue parole non ottennero effetto. Negli occhi dell'uomo la paura si trasformò in panico e lui cominciò a tremare. «No!» piagnucolò. «Non toccarmi! Tu sei il demonio! Quello che raccontano di te è vero.» «E cosa raccontano?» chiese Andrej. «Che voi siete alleati col demonio», gemette il guerriero. «Noi?» «I Delãny», rispose. «Siete maghi e stregoni, votati alla magia nera.» Con la coda dell'occhio, Andrej vide Frederic che trasaliva, ma contrastò l'impulso di girarsi verso il ragazzo. «È per questo che avete torturato Barak?» chiese. «Siete stregoni», insistette l'uomo. «Siete alleati del demonio. Nessuno vi può uccidere.» «Se credi davvero a quello che dici, allora è stato proprio sciocco da parte vostra cercare di togliermi la vita», replicò Andrej. Osservò con maggiore attenzione la gamba dell'uomo, ma non mutò opinione. Ammesso che la cancrena non lo uccidesse di lì a qualche giorno, quel guerriero sarebbe rimasto storpio. Non poteva fare nulla per lui, se non lenire il dolore. Senza badare alle deboli proteste dell'uomo, cercò un nodo nervoso nascosto che Michail Nadasdy gli aveva mostrato e lo premette per qualche momento. Il dolore non sarebbe sparito completamente, però sarebbe diventato sopportabile. Almeno per un po'. «Prima che tu lo dica, questa non è una
magia e neppure un'opera demoniaca, ma solo l'antichissima arte medica di una terra lontana», sussurrò. Era inutile. La paura dell'uomo aveva raggiunto un livello tale che Andrej sarebbe stato incapace di contrastarla. Nulla di ciò che gli poteva dire avrebbe cancellato il terrore che quell'uomo stava provando. «Come ti chiami?» chiese. «Draškovic», rispose il guerriero. «Draškovic. Bene.» Andrej annuì e, prima di formulare la domanda successiva, trasse un profondo respiro. Se Draškovic gli avesse dato la risposta sbagliata, avrebbe dovuto ucciderlo. «Chi vi ha mandato a Borsã, Draškovic?» «Padre Domenicus... Lasciami in pace! Vattene! Uccidimi se vuoi, ma... non dirò più nulla.» «Non ti ucciderò, Draškovic», rispose Andrej in tono pacato. Odiò se stesso per le parole che si apprestava a pronunciare, ma, quando lo fece, la sua voce suonò così fredda e minacciosa che l'odio si trasformò in timore. Forse il fuoco nero dentro di lui non si era spento, anzi si stava espandendo come un'ulcera maligna. «Non ti ucciderò, Draškovic», ripeté. «Né adesso né in seguito. Se risponderai sinceramente alle mie domande non ti succederà nulla. Però se ti rifiuti di farlo oppure menti, allora mi prenderò la tua anima.» Draškovic lo fissò. Voleva ribattere, ma gli mancò la voce. «Non sono un mago e neppure un demone», proseguì Andrej. «Però so come evocare Satana. Chi è padre Domenicus e perché avete attaccato i Delãny?» Draškovic tremava sempre più violentemente. La paura che gli riempiva gli occhi ormai sconfinava nella follia. Poi cominciò a parlare. IV Non avrebbero raggiunto Constãntã prima di mezzanotte e quella sera era più fredda della precedente. Avevano ancora un'ora di strada per arrivare al mare e la temperatura sembrava scendere a ogni miglio che li avvicinava alla costa. L'inverno era ancora troppo lontano per temere la neve, tuttavia faceva comunque molto freddo, almeno per Andrej. Tremando, si strinse nella coperta che si era messo sulle spalle e si abbassò sul cavallo per sfuggire al vento tagliente che soffiava contro di loro.
Non servì a nulla. Aveva sempre più freddo, come se il gelo non fosse fuori, bensì dentro di lui. Benché fin dal crepuscolo avessero rinunciato alla protezione del bosco, imboccando la strada lastricata ma sconnessa che conduceva a Constãntã e alla costa, stavano procedendo molto più lentamente di quanto Andrej avesse pensato. Non potevano rischiare d'incontrare qualcuno, ora meno che mai. Negli ultimi giorni, Frederic era stato molto taciturno, quindi Andrej non poteva sapere in quale stato d'animo si trovasse né prevedere come avrebbe reagito se avessero incontrato uno sconosciuto. Non poteva neppure prevedere come avrebbe reagito lui stesso. La conversazione con Draškovic era durata a lungo e gli aveva permesso di scoprire cose che l'avevano colmato a tal punto di orrore e di rabbia che non era ancora riuscito a smaltirli. Ma l'avevano anche sconvolto e scosso fin nel profondo. Probabilmente molto più di quanto fosse consapevole. «Quanto manca?» chiese Frederic a bassa voce. Andrej scrutò il ragazzo. Erano le prime parole che pronunciava da quand'era calato il buio. «C'è ancora un bel pezzo», rispose infine. «Due o tre ore. Forse anche di più.» Frederic strinse con la mano sinistra la coperta in cui si era avvolto, esattamente come aveva fatto Andrej, e lo guardò pensieroso dall'alto del dorso del cavallo. Benché fossero molto vicini, l'oscurità non permetteva di scorgere l'espressione del suo volto. La luna era ridotta a una falce sottile e una buona parte delle stelle era nascosta dietro basse nubi nere. Ma forse era un bene che Andrej non potesse notare lo sguardo di Frederic. Il ragazzo non aveva fatto mistero del suo desiderio di veder morto Draškovic e disprezzava Andrej perché non l'aveva ucciso. «Perché cavalchiamo così piano?» chiese dopo un po'. Perché siamo troppo vicini, pensò Andrej. E perché non so cosa fare quando li avremo raggiunti. Si guardò bene dall'esprimere ad alta voce quella sua perplessità, ma restava il fatto che, se Andrej lo avesse voluto, avrebbero potuto raggiungere facilmente padre Domenicus e i suoi sgherri. Avevano un vantaggio di un'ora, forse anche meno. Già al calar delle tenebre - e per ben due volte - ad Andrej era sembrato di avvertire la presenza di altre persone. Era stata una sensazione molto debole, come quel fioco barlume di luce che precede il sorgere del sole. Sì, era stata più un'impressione che una certezza, però lui aveva anche notato alcune tracce del recente passaggio di un gruppo numeroso. Entrambe le volte si era fermato, guardandosi intorno con attenzione: ma non aveva visto né un sospetto
luccichio del metallo agli ultimi raggi del sole, né il riflesso dei finimenti. Non aveva sentito neppure l'ansimare tipico dei cavalli o il tintinnio delle armi. L'idea di un'imboscata lo preoccupava alquanto, giacché sapeva che sarebbe stata preparata molto meglio della precedente. «Hai paura», riprese Frederic, notando che l'altro non aveva risposto. «Sono stanco», mormorò Andrej. «E lo sei anche tu. Inoltre le mie ferite non sono ancora completamente guarite...» «Sono guarite molto più in fretta di quanto dovrebbero», osservò Frederic in tono aspro. «Se non altro, questo prova che sei un Delãny. Probabilmente vivrai quanto Barak, a meno che qualcuno non ti uccida!» «Potrebbe succedere molto prima di quanto pensi», disse Andrej, seccato. «Non mi sento ancora in condizione di sostenere un'altra lotta contro avversari forti come i cavalieri dorati. Soprattutto perché la prossima volta ci renderanno le cose ancora più difficili.» «Tu hai paura», insistette Frederic. «Non sei un grande guerriero, Andrej Delãny. Sei solo uno sbruffone che ha imparato ad agitare un po' la spada.» Forse ha ragione, pensò Andrej. Aveva paura, anche se per un motivo diverso da quello che credeva Frederic. «Abbiamo tempo...» disse. Ma quelle parole suonarono come una misera scusa persino alle sue stesse orecchie e Frederic non si degnò neppure di obiettare. Dopo qualche istante, Andrej concluse: «... anche perché sappiamo dove sono diretti». «Ammesso che quel Draškovic abbia detto la verità», brontolò Frederic. «Molto più probabilmente ha mentito per farci cadere in una trappola.» «Non penso.» Andrej scosse la testa. L'uomo aveva una paura tremenda. E aveva creduto a ciò che Andrej gli aveva detto sul diavolo e sulla sua anima. Se si prestava fede a quelle parole, era impossibile mentire. «Abbiamo bisogno di un posto per la notte», disse, cambiando argomento e tono di voce. «Col nostro aspetto, attireremo l'attenzione.» «A quest'ora?» Frederic scosse energicamente la testa. «Non ci accoglierà nessuno.» «Nessuno caccerebbe un uomo semiassiderato e un ragazzo ferito che bussano alla porta nel cuore della notte», ribatté Andrej. «Hai bisogno di abiti puliti e di qualche ora di sonno, e io pure», proseguì, a voce un po' più bassa. Ma soprattutto aveva bisogno di tempo per elaborare un piano sensato e per riflettere. Frederic sembrò indovinare i suoi pensieri; non replicò, eppure i suoi occhi lampeggiavano a tal punto di rabbia che, nonostante l'oscurità, Andrej se ne accorse. Il disprezzo del ragazzo gli faceva
male. Molto più di quanto avrebbe dovuto. Sprofondarono nuovamente nello stesso sgradevole silenzio che li aveva accompagnati per gran parte della giornata. Faceva sempre più freddo. Andrej cominciò a battere i denti, e il vento, che lo pungeva con aghi invisibili sulle mani e sul viso scoperto, sembrava fondersi col gelo della sua anima, come se volesse annientarlo col fuoco ghiacciato dell'inferno. Per una buona mezz'ora, Frederic rimase in silenzio dietro di lui. Se la notte fosse stata più chiara, avrebbero già potuto vedere il mare e forse addirittura Constãntã; invece tutto quello che Andrej scorgeva della città portuale era un bagliore rosa pallido nel cielo. L'aveva pensato altre volte: le grandi città non dormivano mai. Non era particolarmente felice di quella conferma, perché le loro possibilità di raggiungere Constãntã senza essere visti diminuivano drasticamente. D'un tratto Frederic si raddrizzò e puntò lo sguardo davanti a sé; Andrej se ne accorse e anche lui vide il chiarore apparso un po' più avanti, su un lato della strada. Una casa, forse una piccola fattoria, in cui, nonostante l'ora tarda, c'era ancora luce. Andrej si fermò, in ascolto. Ma non c'erano rumori sospetti che potessero indicare la presenza di qualcuno in agguato. Tuttavia, mentre si avvicinavano all'edificio, i suoi sensi erano tesi allo spasimo. Il fatto che Domenicus non fosse lì non significava che non avesse lasciato qualche uomo ad aspettare lui e Frederic. Il cavaliere dorato aveva detto che si sarebbero rivisti e quella era l'unica strada che conduceva a nord, verso Constãntã. Draškovic, poi, gli aveva spiegato che i prigionieri sarebbero stati portati su una nave, e Constãntã era il più grande porto della zona. Anzi, per la Transilvania, era una gigantesca città portuale sul mar Nero, e i turchi la guardavano con bramosia, perché da lì si potevano controllare le principali vie commerciali verso l'interno, fino al delta del Danubio e ai Carpazi. Se era una trappola, allora era stata preparata molto bene... Ma la notte rimase silenziosa. Nessuno li aggredì, sbucando dall'oscurità, e anche quando si avvicinarono all'edificio tutto rimase tranquillo. Si trattava di una grande locanda, evidentemente costruita non molto tempo prima, ed era collegata a vari altri edifici che tuttavia, nell'oscurità, restavano indistinti. Attraverso le imposte chiuse arrivava un vocio confuso e, davanti alla porta, erano legati quattro cavalli e un paio di muli denutriti. Andrej sottopose i cavalli a un rapido esame e il risultato lo tranquillizzò. Gli animali non sembravano appartenere a dei guerrieri.
Legò lo stallone vicino ai due muli, sollevò di sella Frederic senza tanti complimenti e si assicurò che la sua camicia imbrattata di sangue secco fosse completamente nascosta sotto la coperta in cui il ragazzo si era avvolto. «Quando siamo dentro lascia parlare me», disse in tono deciso. Frederic lo guardò con aria di sfida e serrò le labbra, ma non replicò; allora Andrej si voltò ed entrò nella locanda. Fu colpito da un fiotto d'aria viziata e da un caos di odori e rumori, ma soprattutto dal confortevole calore di un fuoco che crepitava nell'imponente camino. Tenuto conto dell'ora tarda, nella locanda c'era un numero sorprendente di avventori. Seduti ai rozzi tavoli - a bere e a chiacchierare c'erano infatti almeno una dozzina di uomini di diverse età. Nessuno sembrò stupito del fatto che loro due arrivassero lì nel pieno della notte. La maggior parte staccò gli occhi dal bicchiere o smise di parlare, ma nessuno dedicò loro più di un'occhiata... a parte il locandiere, ma il suo interesse era ovviamente di natura commerciale. Be', rifletté Andrej, non erano più a Borsã, bensì nelle vicinanze di una grande città il cui numero di abitanti era nell'ordine delle migliaia. Era verosimile pensare che la vita scorresse con regole diverse da quelle della piccola valle. Andrej spinse dentro Frederic, chiuse la porta dietro di sé con la mano sinistra e indicò con un cenno del capo un tavolo libero, posto accanto al camino. Gli avventori avevano ripreso a bere e a chiacchierare, ma lo sguardo diffidente del locandiere li seguì mentre andavano al tavolo e si sedevano. Non appena si furono accomodati, il locandiere uscì da dietro il bancone e si diresse verso di loro. Era un uomo molto alto, quasi completamente calvo, con le mani callose e un volto segnato che lo faceva sembrare molto più vecchio di quanto non fosse. Indossava abiti semplici e un unto grembiule di pelle. «Ancora per strada così tardi?» esclamò, invece di salutarli. Andrej annuì. «Siamo contenti di aver trovato la vostra locanda. Siamo diretti a Constãntã, ma evidentemente abbiamo valutato male la strada», rispose con una nota di profonda stanchezza nella voce. Si sentiva veramente esausto. «Succede a molti», disse il locandiere. «Cosa posso portarvi?» «Una birra non sarebbe male», rispose Andrej. «E per mio fratello un bicchiere di latte caldo.» «Voglio anch'io una birra», protestò Frederic. «Allora una birra e un latte», ripeté il locandiere, impassibile. «E li pote-
te anche pagare?» La diffidenza dell'uomo infastidì non poco Andrej, il quale tuttavia ricacciò in gola la risposta tagliente che aveva già sulla lingua, prese la borsa, tirò fuori alcune delle monete che aveva preso a Draškovic e al guerriero morto e le mostrò al locandiere. Si rese così conto che la diffidenza dell'uomo non era affatto ingiustificata. Fino a qualche giorno prima, lui non sarebbe stato in grado di pagare le bevande ordinate. Intascando le monete, il locandiere aggiunse: «Anche qualcosa da mangiare?» «Se il fuoco in cucina fosse ancora acceso, sarebbe magnifico», replicò Andrej. Non aveva molta fame, ma Frederic doveva mettere qualcosa nello stomaco. Forse il loro stato d'animo così prostrato era anche dovuto a un motivo assai prosaico: dal mattino, non avevano mangiato altro che una manciata di bacche. «Arrosto freddo e cavoli», esclamò il locandiere. «E, prima che tu lo chieda, ti dico che non ci sono camere libere. Ma potete dormire nella stalla, non costa niente.» «Grazie», rispose Andrej, sorpreso. «Accettiamo...» «Dobbiamo proseguire», intervenne Frederic. «Abbiamo promesso che oggi saremmo arrivati in città. Te ne sei dimenticato?» «Accettiamo con piacere la vostra offerta», concluse Andrej, lanciando a Frederic uno sguardo tagliente. «Non cambia nulla se arriviamo oggi o domattina presto.» Il locandiere scrollò le spalle e se ne andò. Frederic trafisse letteralmente il suo compagno con lo sguardo. «Non ci entrereste comunque, in città.» Andrej si girò goffamente sulla sedia dura per guardare l'uomo che aveva parlato. Era uno degli avventori del tavolo vicino, un uomo sui quaranta, coi capelli castani lunghi fino alle spalle e con un vestito che, almeno per i gusti di Andrej, aveva colori troppo vivaci. Il suo viso aveva qualcosa di esotico e il suo modo di parlare rivelava che il dialetto locale non era la sua lingua madre. Ma la sua faccia era cordiale e aperta e l'uomo aveva gli occhi di chi ride spesso e volentieri. «Perché?» chiese Frederic. Prima di rispondere, lo sconosciuto prese il boccale di birra e bevve una lunga sorsata. «Al calare delle tenebre chiudono le porte della città», disse poi. «Nessuno può entrare o uscire senza un lasciapassare. Non lo sapevate?»
«No», rispose Andrej. «Non siamo... mai stati qui.» «E a quanto sembra neppure in altre grandi città, vero?» Lo sconosciuto sorrise, imitato dagli altri tre uomini seduti al tavolo con lui. Poi, mentre Andrej si stava chiedendo se interpretare quelle parole come un'offesa, l'uomo sollevò il boccale di birra e fece un cenno. «Perché non vi sedete con noi? Avete tutta l'aria di chi ha bisogno di qualche buon consiglio, e noi siamo curiosi di conoscere stranieri che hanno storie interessanti da raccontare.» Tese la mano. «Io sono Ansbert. Questi sono i miei fratelli: Vranjevic, Sergé e Krusha.» Andrej esitò, poi prese la mano tesa e la strinse. «E io sono Andrej Delãny della valle di Borsã. Questo è mio fratello Frederic.» «Della valle di Borsã?» ripeté Ansbert. «Venite dalla Transilvania?» intervenne Sergé. Andrej annuì e si alzò per prendere posto al tavolo vicino. Frederic, per orgoglio, rimase seduto ancora per un po', ma poi si alzò e lo seguì. «Sì, veniamo da Borsã, un villaggio sulle rive del fiume Brasan... Non ditemi che non avete mai sentito nominare quel fiume», spiegò Andrej, studiando attentamente i volti di Sergé e dei suoi fratelli. Presentarsi col suo vero nome poteva essere azzardato - soprattutto dopo ciò che era successo pochi giorni prima nella valle di Borsã -, però non avrebbe scoperto nulla senza correre qualche rischio. In ogni caso, i volti degli uomini rimasero impassibili. Ansbert scosse violentemente la testa. «Un fiume di nome Brasan?» ripeté. «Mai sentito.» Sorrise. «Non offenderti, Delãny. Non siamo della zona. Potresti essere a capo della più grande famiglia della Transilvania o addirittura essere l'erede al trono della Valacchia e probabilmente noi non ti conosceremmo comunque.» Bevve un altro sorso di birra e scrutò Andrej e Frederic da sopra il bordo del pesante boccale di terracotta. «Comunque non hai l'aspetto di un erede al trono», proseguì. «E che aspetto ho?» volle sapere Andrej. «Cosa andate a fare a Constãntã?» intervenne Sergé prima che il fratello potesse rispondere. Dietro quella frase c'era più che semplice curiosità, Andrej lo sentiva. E improvvisamente comprese anche che quegli uomini non li avevano invitati al loro tavolo solo per gentilezza. Avevano un intento preciso. Ma lui non sapeva ancora quale fosse. «Noi... volevamo far visita a nostra sorella», rispose. «Si è sposata cinque anni or sono, andando a vivere a Constãntã. Non ci vediamo da allora.»
«Venite dalla Transilvania solo per una visita familiare?» chiese Krusha. «La strada è lunga.» «Nostro padre è morto improvvisamente la primavera scorsa», s'intromise Frederic. «Qualcuno deve pur dirlo a Lugova.» Andrej represse l'impulso di lanciare al ragazzo uno sguardo stupito. Sino ad allora Frederic era rimasto in silenzio, ma evidentemente aveva tenuto le orecchie ben aperte. Forse anche lui si era accorto che in quegli uomini c'era qualcosa di sospetto. «Sapete dove abita vostra sorella?» chiese Sergé. «Constãntã è una città molto grande, ragazzo mio. Puoi cercare qualcuno per una settimana senza trovarlo.» «Anche per due o tre», esclamò Ansbert. «Soprattutto ora.» «Perché soprattutto ora?» chiese Andrej. «C'è il mercato», rispose Ansbert. «La gente arriva in città da ogni dove.» Fece un ampio gesto. «E questo è il motivo per cui i miei fratelli e io dobbiamo alloggiare in questa bettola anziché in una locanda adatta a noi. In tutta Constãntã non c'è più una sola camera libera.» «Ed è anche il motivo per cui di notte chiudono le porte della città?» s'informò Andrej. Sergé lo fissò con un'espressione di sorpresa troppo spontanea per essere falsa. «Borsã deve essere proprio lontana», disse poi. «Evidentemente non sapete cosa succede nel mondo.» «E cosa succede?» ribatté Andrej. Sergé e i fratelli si scambiarono uno sguardo eloquente prima che Ansbert rispondesse. «C'è la guerra, Delãny.» «La guerra?» ripeté Andrej. «Chi combatte e contro chi?» «C'è sempre qualcuno che muove guerra a qualcun altro», replicò Ansbert, sollevando le spalle. «Chi combatte e contro chi... non ha nessuna importanza, non credi? Comunque non è ancora scoppiata, ma già si parla del 'pericolo turco'. I brutti tempi portano brutta gente, non è così?» «Ma forse questa non è la cosa peggiore che possa capitare», intervenne Krusha. Andrej li guardò con attenzione. «Dove volete arrivare?» chiese, senza mezzi termini. Ansbert sorrise. «Non mi ero sbagliato su di te, Delãny. Sei una persona intelligente.» Arrivò il locandiere con le vivande: un boccale di birra per Andrej, latte
caldo per Frederic e due porzioni di arrosto freddo con cavoli. Benché il cibo non avesse un aspetto particolarmente appetitoso, ad Andrej venne l'acquolina in bocca. Interruppero la conversazione finché il locandiere non si fu allontanato. Frederic cominciò a divorare il cibo, mentre lo stomaco di Andrej emetteva un brontolio che fece sghignazzare Ansbert. Ma, sebbene avesse preso il coltello e il cucchiaio di legno posati dal locandiere vicino al piatto, Andrej non si mise subito a mangiare. «In ogni caso, non sono abbastanza intelligente da capire cosa volete da noi», borbottò. Ansbert sorseggiò la birra e poi disse: «Perché non venite con noi? Tu non sembri un vigliacco. I miei fratelli e io siamo artisti girovaghi. Abbiamo sempre bisogno di qualcuno con buone braccia e senza paura di lavorare. Possiamo trovare qualcosa da fare anche per tuo fratello». Andrej si rese conto che la tensione tra i fratelli era diventata quasi palpabile. Voleva rispondere, ma proprio in quell'istante... all'esterno si sentirono un tintinnio di armi e una voce. Una voce che aveva parlato in un dialetto straniero. Fu come un pugno nello stomaco. Per alcuni secondi ad Andrej mancò letteralmente il respiro. La sensazione di una presenza sconosciuta, assolutamente malvagia, piombò su di lui con una violenza quasi fisica, così improvvisa e brutale che, per qualche istante, egli fu incapace di formulare un pensiero chiaro. Era troppo tardi. La porta si spalancò e prima tre, poi quattro, infine cinque uomini - che indossavano un elmo e un pesante mantello di lana - entrarono nella locanda. Andrej capì subito che facevano parte del gruppo dei suoi persecutori. Ma il cavaliere dorato, quello che l'aveva quasi ucciso con la spada a due mani, non c'era. V Entrò un sesto uomo e, con un esagerato brivido di freddo, chiuse la porta dietro di sé. Mentre si girava, il suo mantello si aprì di due dita e Andrej intravide il debole luccichio dell'oro - o forse dell'ottone - appannato dal freddo e dall'umidità della notte. Abbassò in fretta il capo per non attirare l'attenzione. Tutti gli avventori scoccarono occhiate curiose ai nuovi arrivati, evitando tuttavia d'incrociare lo sguardo di quei soldati dall'aspetto tutt'altro che amichevole.
Andrej sperò di confondersi tra gli altri uomini della locanda. E infatti l'uomo con l'armatura d'ottone gli passò accanto e lo ignorò, dirigendosi invece a passi veloci verso il bancone e i suoi compagni. Poi ordinò quello che avevano preso gli altri: una birra. Nella sala ricominciarono le conversazioni - anche se a voce decisamente più bassa - e Andrej si chinò sul piatto, mettendosi a mangiare. Non sentiva il sapore, e non vedeva neppure le occhiate stupite che si stavano scambiando Ansbert e i suoi fratelli; non percepiva nulla, giacché la presenza del cavaliere dorato riempiva la locanda di una forza che pareva sopraffare i sensi. Ma neanche quello era l'uomo con cui lui aveva combattuto. Con la coda dell'occhio, vide che Frederic, improvvisamente pallidissimo, aveva lasciato cadere le posate. Il ragazzo ebbe sufficiente padronanza di sé per non fissare gli uomini al banco, ma le sue mani si erano messe a tremare. Ben presto, il tremito si estese alle braccia, alle spalle e infine a tutto il corpo. «Devi controllarti», gli sussurrò Andrej. Con sorpresa, Frederic reagì a quelle parole con un cenno nervoso. Si passò la punta della lingua sulle labbra e, per contenere il tremore, premette le mani sul tavolo ai lati del piatto. «Conoscete quegli uomini?» chiese Sergé a bassa voce. «No», rispose Andrej. «Comunque... non direttamente.» Faticava persino a parlare. Era come se la presenza del cavaliere dorato e dei suoi cinque compagni riempisse la sala di un odore nauseante, che gli toglieva il respiro, oppure come se una sostanza vischiosa si fosse riversata nella sua mente, paralizzandola. Con un movimento furtivo, fece scivolare una mano sotto la coperta in cui si era avvolto e toccò l'impugnatura della scimitarra. Voleva essere pronto. Non poteva permettersi di arrivare a uno scontro con sei guerrieri, di cui almeno uno era alla sua altezza, se non addirittura più forte, e soprattutto non poteva farlo nella locanda. Anche se avesse vinto - cosa che comunque considerava poco probabile -, in quella sala stretta e piena di gente, uno scontro si sarebbe trasformato in una strage. Ed erano già morti troppi innocenti. Cosa aspettavano quegli uomini? Perché non guardavano gli avventori? Perché non interrogavano il locandiere per sapere se aveva visto lui? Sergé bevve una lunga sorsata dal suo boccale, si passò il dorso della mano sulla bocca per togliere la schiuma e si alzò. Non appena vide Sergé levare una mano e rivolgersi agli uomini al banco, il cuore di Andrej co-
minciò a battere all'impazzata. «Signori», disse Sergé. Gli occhi di Frederic erano diventati cupi per il terrore e il cuore di Andrej martellava. Sergé era impazzito o li voleva tradire? Strinse con più decisione l'impugnatura della scimitarra. Se quel saltimbanco pensava di guadagnarsi una taglia, non sarebbe vissuto a sufficienza per riscuoterla. «Signori, scusatemi», chiamò ancora una volta Sergé. Andrej contrastò con tutte le sue energie l'impulso di voltarsi, ma sentì che almeno un paio di uomini si avvicinava. «Cosa vuoi?» chiese una voce brusca. Sergé fece un sorriso da ubriaco e alzò il boccale, come se volesse fare un brindisi a qualcuno che stava immediatamente dietro Andrej. «Vi prego, scusate il disturbo, nobili signori...» disse trascinando le parole. «Ma i miei fratelli e io ci chiedevamo se non possiamo concludere un affare con voi.» Andrej beveva la birra e intanto cercava di guardare con la coda dell'occhio l'uomo alle sue spalle. Vide poco più di una sagoma, che comunque era troppo scura e piccola per appartenere al cavaliere dorato. Strinse ancora di più l'impugnatura della scimitarra. «Come puoi pensare che possiamo essere interessati a un affare con voi?» chiese l'uomo. «E cosa avreste da offrire?» intervenne una seconda voce. «Siete in viaggio per Constãntã, giusto?» osservò Sergé. «E se anche fosse?» «I miei fratelli e io abbiamo la stessa meta», rispose Sergé. «Ci chiedevamo se non potremmo venire con voi.» «Perché?» Stavolta Andrej percepì chiaramente un tono diffidente nella voce dello sconosciuto. «Siamo artisti girovaghi», spiegò Sergé. «E domani è giorno di mercato. Una buona posizione vale denaro sonante. Ma non riusciremo a procurarcela se entreremo a Constãntã soltanto domattina.» «È un problema vostro», s'intromise un'altra voce, con un accento che Andrej non aveva dimenticato. Si collegava all'immagine impressa a fuoco nella sua mente: il cavaliere dorato che incombeva su di lui con la spada a due mani minacciosamente sollevata; quello stesso cavaliere che, quando la situazione si era capovolta, aveva detto: «Cosa vuoi? Il mio nome o la mia testa?» «Perché dai retta a questa gentaglia, Bogesch?» proseguì l'uomo con vo-
ce severa. «Non abbiamo tempo per simili sciocchezze.» L'uomo si avvicinò, girò intorno al tavolo a passo veloce e si fermò dalla parte opposta. Andrej capì subito chi era. Era molto alto, aveva capelli biondi e ondulati lunghi fino alle spalle e sembrava molto più giovane del cavaliere dorato con cui lui aveva combattuto. Il suo volto sarebbe stato anche gradevole se gli occhi non avessero avuto un'espressione spietata, che scosse Andrej sin nel profondo. «Non siamo gentaglia», balbettò Sergé. Recitava in maniera molto convincente la parte dell'ubriaco. «Siamo artisti!» «Artisti... come no?» Il cavaliere dorato inarcò un sopracciglio. «Più che altro mi sembrate ladri girovaghi, che vanno da un mercato all'altro a caccia di babbei da alleggerire.» Mentre parlava, faceva scivolare lo sguardo da un volto all'altro. Andrej notò con stupore che il cavaliere non gli aveva dedicato più attenzione che agli altri, ma in compenso si era soffermato a squadrare Frederic. «Perdonate mio fratello, nobile signore», esclamò Ansbert. «È ubriaco e non sa quello che fa. Sergé, scusati!» «Cos'ha il ragazzo?» Il cavaliere fece un cenno in direzione di Frederic. «È malato?» Frederic abbassò lo sguardo, prese con mano tremante il cucchiaio e tossì. «Non ha nulla», rispose Ansbert. «Ma la gente è generosa se pensa di vedere un bambino malato.» «Non sembra vostro fratello», mormorò in tono sospettoso il cavaliere dorato. «A dire la verità non sembrate proprio fratelli.» Ansbert sorrise. «Forse perché abbiamo padri diversi...» «... che sembrano provenire da parti diverse del mondo...» completò diffidente l'uomo biondo. «Da dove venite? Dal nord?» «Lassù non si guadagna niente», sbottò Ansbert, scuotendo la testa. «Abbiamo passato l'estate tra la gentaglia turca e ora vogliamo andare in Transilvania, anche se temo non ne valga la pena.» «Smettila di perdere tempo con quella gentaglia», gridò uno degli uomini al banco. «Dobbiamo andare. Malthus ci aspetta tra un'ora.» Il cavaliere non rispose. Guardò di nuovo Frederic e sul suo volto comparve un'espressione pensierosa, come se fosse sorpreso di trovarlo lì. Ma naturalmente era impossibile. L'uomo e Frederic non potevano conoscersi... a meno che il ragazzo non avesse detto tutta la verità sull'assalto a Borsã. Ma allora cosa significava la reazione del cavaliere?
«Riflettete sulla nostra offerta, nobile signore», riprese Sergé, con la bocca impastata. «Se ci portate con voi in città, per noi vorrebbe dire una bella sommetta.» «Non fateci caso», s'intromise Ansbert. «Abbiamo soldi sufficienti per pagare la nostra birra.» Poi si rivolse al fratello, ordinandogli: «Chiudi la bocca! Non voglio guai!» Il cavaliere li fissò ancora per qualche istante, poi scrollò le spalle e se ne andò. Qualche minuto dopo, si sentì il tintinnio di alcune monete lanciate sul bancone e subito dopo gli uomini lasciarono la locanda. Senza farsene accorgere, Andrej tirò un sospiro di sollievo e la sua mano lasciò l'impugnatura della scimitarra, anche se molto lentamente. Gli stranieri se ne erano andati e con loro era sparita anche l'oppressione generata dalla loro presenza ostile. Tuttavia Andrej era ancora sconvolto e non si sentiva del tutto sollevato. Lanciò a Sergé uno sguardo furioso, e poi si voltò verso Frederic. Il ragazzo era ancora scosso dai tremiti - anche se non più come prima - ed era così pallido che sembrava davvero malato. Aveva la fronte e il labbro superiore imperlati di sudore freddo. «Così, voi non conoscete quegli uomini...» osservò Sergé in tono canzonatorio. Andrej lo ignorò. «Era uno di quelli che hai visto alla fortezza?» chiese a Frederic. Frederic annuì, poi scosse la testa. «Due», lo corresse. «Due uomini?» Andrej rimase impassibile, ma la sua voce suonò molto più spaventata di quanto fosse opportuno in quel momento. «Quello al... banco», proseguì Frederic, esitante. «Cera anche quello. Era uno dei tre con l'armatura dorata.» «Quello non era oro», borbottò Krusha, scrollando energicamente la testa. «Anche un bambino potrebbe bucare con un chiodo arrugginito quell'armatura di ottone o rame. Solo uno stolto indossa una corazza simile.» Uno stolto... oppure qualcuno per cui l'armatura non ha la minima importanza perché non teme le armi, pensò Andrej. «Due uomini?» ripeté. «Erano quei due?» «Quei due e quello contro il quale hai combattuto», annuì Frederic. «Non dimenticherò mai le loro facce.» Andrej fu colto da una sensazione di cupo orrore. Se quegli uomini avessero anche solo lontanamente sospettato chi erano lui e Frederic, loro due non sarebbero rimasti in vita più di qualche minuto. Era prossimo alla disperazione. Qualche giorno prima, aveva vinto il duello soltanto per ca-
so; se l'era cavata, ma doveva ringraziare più la fortuna che la sua abilità nel combattere. Ma come avrebbe potuto sconfiggere tre nemici pressoché invulnerabili? Un uomo accanto a loro si alzò e, trascinando i piedi, si diresse al bancone per pagare le proprie consumazioni; evidentemente voleva andarsene. Andrej si rivolse a Sergé. «Sei davvero ubriaco, oppure hai un senso dell'umorismo molto particolare?» sibilò, irato. Sergé sostenne il suo sguardo. «Preferisco sapere con chi ho a che fare», rispose, calmo. «Voi non state andando a Constãntã a trovare vostra sorella. Chi sono quei tizi?» «Uomini che è meglio lasciar perdere», rispose Andrej. Fece un cenno a Frederic e cercò di alzarsi, ma Sergé allungò di scatto la mano e lo tenne per il braccio. Andrej lo guardò, aggrottando la fronte, e l'altro, dopo qualche istante, ritirò la mano. «Non così in fretta, amico mio. Forse possiamo concludere un affare», disse Sergé in tono pacato e con un sorriso. «Poco probabile», replicò Andrej. «Ora è meglio se ce ne andiamo.» Lo sguardo di Sergé s'indurì per un istante, ma si rasserenò subito. Andrej sentiva che il suo interlocutore era tutt'altro che un vigliacco e Sergé, dal canto suo, sembrava aver capito istintivamente che era meglio non mettersi a litigare con quello straniero. Si limitò a sollevare le spalle e a mostrare di nuovo il suo sorriso da finto ubriaco. Andrej si staccò dal tavolo e fece cenno a Frederic di seguirlo. Nel frattempo, l'uomo che poco prima si era alzato aveva raggiunto la porta e stava cercando invano di aprirla. Andrej seguì quel movimento con la coda dell'occhio e qualcosa d'un tratto lo allarmò, benché non sapesse esattamente cosa. Si alzò, coi sensi all'erta; con la sinistra aprì la coperta che gli serviva da mantello e con la destra afferrò l'impugnatura d'avorio intagliato della scimitarra. Sergé sgranò gli occhi alla vista della preziosa arma che Andrej teneva alla cintura, ma poi seguì il suo sguardo e anche lui s'incupì. L'avventore - non sobrio, ma neppure del tutto sbronzo - tirò inutilmente ancora un paio di volte la maniglia e poi, barcollando, si rivolse al locandiere dietro il bancone. «La porta... non si apre.» «Sei sbronzo», replicò l'uomo, ridacchiando. «Quella porta non ha serratura.» «Ma io voglio... uscire», farfugliò l'avventore. Sergé mise da parte il suo boccale di birra e, alzatosi lentamente, fece scivolare la mano sotto il mantello, dove senza dubbio teneva un'arma.
«C'è qualcosa che non va», sussurrò. La sensazione di pericolo si fece così intensa che Andrej riusciva quasi a toccarla. «Ma io voglio uscire», biascicò l'uomo. Il locandiere si limitò a sollevare le spalle. Allora l'ubriaco si voltò e si mise ad armeggiare intorno alle imposte della finestra vicino alla porta. «Allora... esco dalla finestra», farfugliò. «No», sussurrò Andrej. Poi gridò: «No! Spostati dalla finestra!» Troppo tardi. L'uomo aprì il chiavistello, spalancò le imposte e... una freccia infuocata lo colpì in mezzo al petto. La violenza del colpo fu tale che l'uomo fu scaraventato all'indietro per varie iarde prima di finire, mulinando le braccia, contro un tavolo che si sfasciò sotto il suo peso. In un attimo, la locanda si trasformò in una bolgia. Gli avventori balzarono in piedi e si misero a gridare e a correre, come impazziti. Boccali e bicchieri andarono in frantumi, mentre l'uomo colpito dalla freccia prese a urlare, lanciando grida quasi disumane. Una seconda freccia infuocata entrò dalla finestra e si conficcò nella parete, a un palmo dal locandiere; poi, improvvisamente, anche le imposte delle altre finestre si misero a tremare sotto una serie di colpi violenti. Rosse fiamme palpitanti squarciarono l'oscurità. Qualcosa di piccolo e scuro volò dalla finestra aperta, sbatté contro il bancone e andò in frantumi. La sala si riempì di un odore caratteristico, penetrante e inconfondibile. «Olio!» ansimò Ansbert. «Buon Dio, spegnete il fuoco!» Ancora una volta l'avvertimento arrivò troppo tardi. Una terza freccia infuocata entrò dalla finestra e si conficcò nel bancone. Nella zona davanti alla porta divampò un inferno di fiamme guizzanti, rosse e gialle. Nella locanda regnava il caos. Il panico dilagava tra gli avventori, che si ritraevano terrorizzati davanti alle fiamme, urlavano e correvano senza meta. Il locandiere sbucò da dietro il bancone e, gesticolando, indicò una bassa porta nella parete alle sue spalle. «Qui! Presto!» «No!» urlò Sergé. «Non aprirla!» Probabilmente il locandiere non lo sentì. Spalancò la porta urlando, fece un passo nella stanza retrostante - verosimilmente la cucina - e barcollò all'indietro. Dalla sua gola spuntava una freccia infuocata. Una pioggia di dardi colpiva le imposte oppure entrava direttamente nella sala attraverso le finestre aperte. Il bancone era ormai incendiato per tutta la sua lunghezza e fiamme giallognole penetravano attraverso le fessure delle poche imposte ancora chiuse. L'aria era rovente e satura di fumo soffocante anche perché le fiamme, con velocità sorprendente, avevano
attaccato il tetto di paglia. Su Andrej cadevano scintille e paglia infuocata e lui riusciva appena a respirare; il caldo era così intenso che gli occhi gli lacrimavano. Tossendo, si guardò intorno, alla ricerca di Frederic. Non era passato neppure un minuto dalla prima freccia, ma c'erano pochi dubbi su come sarebbe finito quel subdolo agguato. Un buon terzo della sala e una parte spaventosamente grande del tetto erano già in fiamme e il fuoco si allargava con inquietante velocità. Si rischiava di morire soffocati oppure bruciati tra mille tormenti. Finalmente Andrej scorse Frederic. Il ragazzo si era accucciato in un angolo vicino al camino e si era tirato la coperta sulla testa per proteggersi. Su di lui piovevano scintille e sul bordo inferiore della coperta guizzavano già le prime fiamme. Andrej spostò un uomo urlante, balzò verso Frederic e lo sollevò, mentre, con la mano libera, cercava di spegnere le fiamme che avevano raggiunto la coperta. Frederic tossiva in modo straziante. I suoi occhi lacrimavano tanto che probabilmente non riusciva a vedere e il suo farsetto lacerato mostrava tracce di bruciature. «Trattieni il fiato!» ansimò Andrej. «Cerca di non respirare il fumo, mi senti?» La risposta di Frederic si perse in un lancinante attacco di tosse. Poi, fra le grida terrorizzate degli altri avventori, un pezzo del tetto di paglia, largo almeno una iarda, piombò su di loro. Andrej strinse a sé il giovane per proteggerlo, poi spazzò via le fiamme e il fieno incendiato e si guardò intorno, alla disperata ricerca di una via di fuga. Due uomini avevano cercato di uscire da quella trappola mortale attraverso la cucina, pagando con la vita quel tentativo; un terzo, tanto disperato da volersi aprire un varco attraverso la porta incendiata, adesso era divorato dalle fiamme. Il calore aveva superato i limiti dell'immaginabile e cresceva ancora. Ad Andrej sembrava che ogni respiro gli bruciasse i polmoni; sentiva i capelli che si arricciavano e le ciglia e le sopracciglia che si strinavano. Frederic gemeva per il dolore e la paura. Doveva assolutamente portarlo fuori da lì, a qualunque costo. Se nei prossimi minuti non fosse avvenuto un miracolo, sarebbero morti tutti e due! Andrej spinse Frederic sotto un tavolo, poi ci saltò sopra e sfoderò la scimitarra. Senza incontrare la minima resistenza, la lama tagliò la paglia rimasta del tetto, tranciò uno dei falsi puntoni e lo spinse contro quello a fianco. Allora Andrej abbassò l'arma, afferrò a mani nude la paglia infuocata e la ridusse a brandelli. Ormai anche la sua coperta aveva preso fuoco;
le fiamme gli bruciavano le mani e gli facevano scoppiare la pelle in grandi vesciche. E l'ossigeno, entrato dal buco che lui aveva aperto nel tetto con quello sforzo disperato, attizzò il fuoco, creando un calore ancora più insopportabile. Tutta la sala ormai sembrava un'unica brace incandescente. Il tavolo su cui stava in piedi aveva preso fuoco e gli sembrava di avere un baldacchino di fiamme sospeso sopra la testa. Aveva smesso di urlare. I polmoni gli bruciavano, le labbra erano coperte di piaghe e insanguinate. Tuttavia continuava a squarciare il tetto con violenza disperata: a mani nude, spezzò un altro puntone e con uno sforzo estremo si issò sul tetto in fiamme. Una freccia gli sibilò accanto, vicinissima, e, benché l'avesse mancato, era chiaro che Andrej non sarebbe stato al sicuro ancora per molto. Gli aggressori si nascondevano nell'oscurità, mentre lui, circondato dalle fiamme, offriva un bersaglio perfettamente visibile. Anche se il fuoco non l'avesse ucciso, gli arcieri non gli avrebbero lasciato il tempo di portare sul tetto anche Frederic. Schivò una seconda freccia e strisciò carponi su quello che rimaneva del tetto. D'un tratto i suoi vestiti presero fuoco e lui fu costretto a fermarsi per soffocare le fiamme. Poi, gridando per il dolore e tossendo senza tregua, riprese a strisciare e cercò di orientarsi tra le cortine di fuoco. Dalle finestre aperte sotto di lui guizzavano fiamme rosse e arancione, simili a lame tremolanti che squarciassero la notte. Vide figure che si precipitavano verso la locanda - uomini e donne che abitavano lì vicino e che erano stati strappati al sonno da quell'inferno -, ma vide anche uomini con archi e spade che si muovevano scompostamente ai margini dell'irregolare cerchio di luce, come insetti attirati dal fuoco. Per quanto tempo ancora Frederic avrebbe resistito? Andrej si alzò e, barcollando, cercò di avanzare. Ma un violento colpo all'anca lo fece cadere in ginocchio e poi gli fece perdere l'equilibrio: Andrej girò su se stesso e cadde dal tetto. Fu un salto di poco più di due iarde, ma il suolo era duro come la pietra e l'impatto lo fece quasi svenire. Avrebbe certamente perso i sensi se non ci fossero stati lo spaventoso dolore della freccia conficcata profondamente nell'anca... e il pensiero di Frederic, l'unica persona che gli era rimasta al mondo, la sola cosa che dava senso alla sua vita. Tremando violentemente, si mise carponi, si strappò la freccia e poi si allontanò, tra la paglia incendiata e le fiamme. Dopo qualche passo, trovò la forza di alzarsi e di procedere, sorreggen-
dosi al muro della locanda. Teneva la schiena aderente alla parete di mattoni: erano così roventi da bruciargli la pelle, ma non aveva importanza, perché ormai aveva ustioni su tutto il corpo. Riusciva appena a riconoscere quello che vedeva. Tutto era confuso e accecante, tutto era... dolore. Avanzò ancora, barcollando; poi, però, il muro finì, il suo appoggio venne meno e lui cadde a terra, rovesciandosi su un fianco. Stremato, perse i sensi, ma per poco. Quando riprese conoscenza, vide che davanti a lui si muoveva qualcosa, qualcuno. Sentì varie grida, i rumori di uno scontro. L'urlo stridulo di un ragazzo... Frederic. Quel pensiero gli diede nuova forza. Si rialzò a fatica e si diresse a tentoni verso le ombre in movimento che intravedeva davanti a sé. Percepì due ombre danzanti, il bagliore del metallo... Allora si passò il dorso della mano sugli occhi, spazzò via le lacrime, il sangue e i brandelli di pelle, e riuscì a vedere meglio. Si trovava vicino alla parte più stretta della casa, non lontano dalla porta attraverso cui il locandiere aveva cercato invano di fuggire. A pochi passi da lui c'erano due uomini avvolti in un mantello scuro, sotto il quale scintillava il metallo di una robusta corazza. Uno di loro era piegato sulle ginocchia, il secondo gli stava dietro di un passo. Entrambi erano armati con un arco lungo e avevano posato a terra un buon numero di frecce, pronte per essere usate contro chiunque avesse cercato di mettersi in salvo attraverso la porta posteriore. Andrej sguainò la scimitarra e attaccò senza un momento di esitazione... Nessuno dei due ebbe il tempo neppure di abbozzare un tentativo di difesa. L'uomo inginocchiato aveva una freccia incoccata. Avrebbe potuto scagliarla - Andrej era convinto che l'avrebbe fatto e si preparò al dolore del colpo violento -, ma quello rimase semplicemente lì, a fissare immobile il demonio che, avvolto in un mantello di fiamme, si scagliava urlando contro di lui. In quel momento, ai due arcieri Andrej doveva sembrare davvero un demonio, uscito dall'inferno per portarli con sé. Fu l'ultima cosa che videro nella loro vita. Andrej li uccise rapidamente, senza pietà e senza la minima esitazione. Nel suo animo si diffuse un'orribile sensazione di gelo. Mentre uccideva i due uomini non aveva provato nulla, né un senso di trionfo né un moto di sollievo. Aveva semplicemente eliminato un ostacolo e non troncato di netto due vite umane. Era come se avesse perso ogni emozione, come se il terrore e il dolore gli avessero incenerito ogni parvenza di umanità. Per un istante fugace era diventato soltanto una cosa, che aveva un compito da svolgere a qualsiasi costo.
Fece scorrere lo sguardo sulla casa in fiamme e sulla zona circostante, dove luce e tenebre conducevano una lotta accanita. Vide tre, quattro, forse cinque figure, una delle quali scintillava di un brillante colore dorato. Poi si concentrò di nuovo sulla casa. La parte sinistra dell'edificio era tutta in fiamme; dalla parte superiore usciva un fumo nero e spesso e dalle finestre, le cui imposte erano ormai ridotte in cenere, uscivano lingue di fiamma, come dalla bocca aperta di un forno. Di certo, nella locanda, il calore doveva aver raggiunto una temperatura tale da fondere il metallo. Nessuno degli avventori poteva essere ancora in vita. Tuttavia, nel fragore delle fiamme, gli sembrò di sentire alcune grida. E infatti una figura avvolta dal fuoco uscì dall'edificio, fece qualche passo esitante, inciampò e poi cadde a terra, urlando. Andrej rinfoderò l'arma, ignorò l'uomo agonizzante, si portò di scatto le mani davanti al viso e corse verso la locanda invasa dal fuoco. Entrando, fu colpito da una luce abbagliante e da un calore insopportabile. Non riusciva più a respirare. La pelle già ustionata si piagò ancora di più. Eppure qualcuno stava veramente urlando e, benché non potesse sapere se si trattava di Frederic, il suono di quella voce umana in quell'inferno di fuoco bastò a ridargli coraggio. Attraversò la minuscola cucina divorata dalle fiamme, giunse nella sala principale e inciampò nel corpo del locandiere. Riuscì a non cadere, ma perse quasi subito l'orientamento. Intorno a lui non c'erano che calore, luce abbagliante e fiamme guizzanti. Gli era impossibile riconoscere quello che aveva intorno e tantomeno in quale punto dell'edificio si trovasse. Tuttavia improvvisamente... avvertì la presenza di Frederic. Era come se disponesse di un nuovo senso, grazie al quale sapeva che il ragazzo era ancora vivo. E infatti si trovava proprio davanti a lui, in preda a un terrore indicibile e a dolori insopportabili. Andrej balzò in avanti, sentì qualcosa che bruciava e lo afferrò. Ormai era praticamente cieco e il dolore lo attanagliava come una morsa; tuttavia fu proprio quel tormento insopportabile a dargli la forza di stringere Frederic a sé e di trascinarsi a fatica nella direzione in cui presumeva ci fosse la porta. Il dolore non cessava, ma la misericordia della morte, che avrebbe posto fine allo strazio, gli era preclusa. Sbatté contro il bancone, strisciò col piede contro un ostacolo morbido e irregolare e seppe che era sulla strada giusta. Accecato dal dolore e dal bisogno di respirare, cozzò contro il telaio della porta e, con le ultime forze, uscì dall'edificio attraverso la cucina in fiamme. Le forze lo abbandonarono definitivamente due passi oltre la porta. Cad-
de sulle ginocchia, lasciò Frederic e si rotolò a terra, per spegnere le fiamme che guizzavano sui vestiti, benché non fosse sicuro di riuscirci. Poi si voltò su un fianco, premette le mani sulla testa per impedire che i capelli bruciassero e combatté con le ultime energie per non perdere i sensi. Non sapeva cosa sarebbe successo: non era mai stato ferito così gravemente. Per riprendersi, forse gli sarebbero serviti vari giorni... oppure sarebbe morto nel giro di qualche minuto. Ma gli uomini con l'armatura dorata non avrebbero rinunciato a uccidere Frederic. Doveva resistere per portare in salvo il ragazzo. Infine riuscì ad aprire gli occhi e a mettersi carponi. Aveva la vista offuscata, ma fu in grado di scorgere Frederic sdraiato al suo fianco e si rese conto che era ancora cosciente, sebbene si torcesse in modo terribile, gemendo di dolore. Andrej non riusciva a distinguere le fattezze del suo volto, ma forse era meglio così. Si piegò su di lui e allungò la mano per girarlo, però in quel momento fu colpito da un brutale calcio nelle costole che lo scaraventò su un fianco. «Malthus mi ha parlato di te, Delãny. E mi ha detto che ti aveva anche promesso che ci saremmo rivisti. A essere sincero, non credevo che sarebbe successo così presto.» Andrej non riconobbe la voce, tuttavia notò che aveva lo stesso, strano accento del colosso che l'aveva quasi tagliato a metà con la sua spada a due mani. La figura splendente d'oro tornò ad annebbiarsi davanti ai suoi occhi e Andrej si ritrovò pericolosamente sull'orlo di quell'incoscienza contro cui aveva strenuamente combattuto. Non poteva cedere. Se lo avesse fatto, il cavaliere dorato lo avrebbe ucciso. E poi sarebbe toccato a Frederic. Allungò la mano verso la cintura per afferrare la scimitarra. Il cavaliere dorato rise malignamente, con un calcio allontanò la mano di Andrej e sguainò la sua spada. «Sei davvero coraggioso, Delãny. È quasi un peccato che tu non vivrai abbastanza per diventare un avversario con cui valga la pena confrontarsi.» Lo sguardo di Andrej si schiarì di colpo. Sentiva che le terribili ustioni stavano guarendo, tuttavia le forze lo stavano lentamente abbandonando. L'inquietante potere che gli impediva di morire chiedeva il proprio tributo. Nel giro di qualche istante avrebbe perso i sensi. La punta della spada del suo avversario gli toccò la gola, poi si spostò verso il cuore, ma, invece di affondare il colpo, il cavaliere guardò Andrej con le palpebre socchiuse e la testa chinata di lato. «Non hai mai visto la morte negli occhi, vero?» chiese. «Quello che sta succedendo ti sgomenta
e ti spaventa.» Annuì, come se Andrej gli avesse effettivamente risposto. «Non c'è molto da guadagnare a uccidere un pivello come te.» Sorrise. «Ma purtroppo c'è ancora meno da guadagnare a tenerti in vita.» Afferrò con entrambe le mani la spada, divaricò le gambe, sollevò l'arma sopra la testa... e improvvisamente una figura uscita dall'oscurità gli balzò addosso e lo fece cadere. Andrej non aveva neppure la forza di girare la testa per seguire il duello. Il cavaliere urlò - ma più di sorpresa e rabbia che di terrore -, poi sopraggiunse una seconda figura, con gli abiti bruciati e il viso annerito dalla fuliggine. Ad Andrej sembrò di riconoscere Sergé, ma non ne era sicuro. Una spada scintillò. Un suono sordo, stridente, di acciaio che penetra nel metallo e nella carne. Non aveva importanza. Ormai nulla aveva più importanza. Andrej perse conoscenza. VI Doveva essere rimasto privo di sensi molto a lungo. Ancora prima di aprire gli occhi, si rese conto che era passato tanto tempo... ore intere. Sentì subito i morsi della fame e una sete straziante. Socchiuse le palpebre, ma non vide altro che un cielo scuro, pieno di stelle, e le sagome di rami spogli. Da qualche parte, vicino a lui, una voce mormorava qualcosa d'incomprensibile. Andrej concentrò l'attenzione su se stesso. Non sentiva più dolore e quando, con cautela, tese i muscoli delle gambe e delle braccia si accorse che essi rispondevano alle sollecitazioni. Non era legato. Quest'ultimo fatto - unito alla consapevolezza che, se poteva pensare, allora era vivo - gli fece quantomeno presumere che non era prigioniero di Domenicus e dei suoi tre cavalieri dorati. Girò cautamente la testa e scorse due figure sedute vicino a un fuoco da campo ormai quasi spento. Non riusciva a riconoscere i loro volti. Cercò di cogliere qualche frammento di conversazione, ma poi si arrese e voltò la testa dall'altra parte. Frederic era coricato sulla schiena poco più in là e dormiva... o forse aveva perso i sensi anche lui. Comunque è vivo, pensò Andrej, osservando il torace del ragazzo che si alzava e si abbassava ritmicamente. Si sollevò, raggiunse carponi Frederic, scostò la coperta bruciacchiata che qualcuno gli aveva steso addosso e sussultò, orripilato. Gli abiti erano
carbonizzati, i capelli strinati fino al cuoio capelluto e le ciglia e le sopracciglia erano sparite. Ma il volto e la parte del torace che Andrej riusciva a vedere sotto il farsetto stracciato sembravano illesi. Allungando la mano, sfiorò Frederic e sentì che il polso del ragazzo era velocissimo. La sua fronte era rovente. «Non preoccuparti, Delãny», disse una voce alle sue spalle. «Ha la febbre, sì, però non ha nient'altro.» Andrej alzò lo sguardo e scorse un volto deturpato dalle fiamme. L'occhio sinistro di Sergé non c'era più e la carne fino alla punta del mento era arrossata e coperta di vesciche. Le labbra erano così gonfie che l'uomo faticava a parlare. «Il ragazzo deve avere il miglior angelo custode che esista da questa parte del mar Nero», proseguì. «Proprio come te.» Nella sua voce c'era qualcosa che allarmò Andrej. Nell'occhio sano di Sergé si accese un lampo di diffidenza. Aveva la mano sinistra avvolta in uno straccio inzuppato di sangue, ma la destra era pronta a estrarre la spada che teneva alla cintura. «Allora dobbiamo lasciarlo dormire», mormorò Andrej, alzandosi. Frederic gemette e agitò le braccia, ma non si svegliò. Con un passo indietro, Sergé fece un cenno ad Andrej, invitandolo ad avvicinarsi. Aveva mosso la mano ferita, mentre l'altra era rimasta sull'impugnatura della spada. Non la spostò neppure quando Andrej obbedì alla sua richiesta, compiendo il breve tragitto verso il fuoco da campo. Ormai i suoi occhi si erano abituati alla debole luce e lui riconobbe Krusha ancora prima di accogliere l'invito di Sergé a sedersi presso il fuoco, benché quel cenno gli fosse sembrato più un ordine che una richiesta amichevole. Anche Krusha era ferito, però meno gravemente del fratello, almeno in apparenza. Aveva il volto e le mani segnati da innumerevoli bruciature rosse e una brutta ferita all'avambraccio destro. «Siete stati voi a portarmi qui?» chiese Andrej. Era ovvio, però lui si sentiva incredibilmente confuso. Non era abituato a essere in debito con gli altri. «Hanno spento il fuoco prima che le fiamme si allargassero agli altri edifici», disse Krusha, evitando di rispondere direttamente alla domanda. «Ci sono stati molti morti. La gente è infuriata.» Lo sguardo di Andrej passava dall'uno all'altro. Il volto di Krusha era come pietrificato, mentre era evidente che Sergé si sforzava di dominarsi. Di certo provava un dolore terribile. «Dove sono i vostri... fratelli?» mormorò Andrej.
Senza muovere la testa, Krusha indicò un punto alle proprie spalle e, in tono piatto, disse: «Vranjevic non è riuscito a cavarsela». Andrej seguì il gesto con lo sguardo. Il fuoco si stava spegnendo e la sua luce si allargava solo per pochi passi. Inoltre lui, fino a quel momento, non aveva notato la figura stesa a terra. Si alzò, esitò un momento, poi mosse alcuni lenti passi intorno al fuoco. Né Sergé né Krusha lo fermarono. Non era necessario essere un medico per capire che Ansbert non avrebbe superato la notte. Il volto e le spalle erano quasi intatti, ma il resto del corpo era gravemente ustionato. I suoi fratelli gli avevano tolto gli abiti per impedire che strofinassero la pelle, procurandogli altre sofferenze, ma era un ben misero aiuto. Andrej pensò ai momenti spaventosi vissuti nell'edificio in fiamme e sperò che Ansbert - sebbene ancora cosciente - fosse in condizioni tali da non sentire più il dolore. Però ci credeva poco. «Sarebbe un gesto di pietà liberarlo dalla sofferenza», disse Krusha. «Ma io non ci riesco. Non è veramente mio fratello, tuttavia lo amo come se lo fosse.» Andrej non replicò a quella velata richiesta e si girò con un brivido, tornando al fuoco. Lo sguardo di Sergé lo seguì, colmo di diffidenza - oppure di ostilità? -, mentre Krusha continuava a fissare cupo le braci che si stavano spegnendo. «Vorrei porgervi i miei ringraziamenti», disse poi in un tono molto formale. «È probabile che abbiate salvato la vita a Frederic e a me.» «Probabile?» sbottò Sergé. «Avevi già la spada alla gola.» «Sei stato tu ad aggredire quell'uomo?» chiese Andrej. «Non farti venire strane idee», replicò Sergé. «Non l'ho fatto per te.» Fissava Andrej con uno sguardo che non lasciava dubbi su quello che sentiva: odio puro. «Ebbene, ti ringrazio comunque», ribadì Andrej. «L'ho ucciso», disse Sergé. «E forse ucciderò anche te. Probabilmente l'avrei già fatto se Krusha non si fosse opposto.» La mano di Andrej scivolò istintivamente alla cintura, ma soltanto per scoprire che non c'era nulla. Sergé accennò un sorriso e sollevò la scimitarra. «Cerchi questa, Delãny?» chiese. «È un'arma interessante... Deve valere parecchio. Non avevo mai visto un manufatto simile.» Sfilò l'arma dal fodero di cuoio e fece scorrere lo sguardo sulla lama affilata come un rasoio. «Soprattutto nelle mani di un bifolco della Transilvania», proseguì. Come per gioco, fendette l'aria un paio di volte e ascoltò il sibilo generato da quel movimento. Poi,
con lentezza esasperante, puntò l'arma contro Andrej. Vedere l'arma nelle mani di Sergé turbò non poco Andrej. Non aveva mai permesso a nessuno - a parte Raqi - di toccare la sacra scimitarra. Nonostante la debolezza, non avrebbe faticato a strapparla di mano a Sergé, ma si dominò, limitandosi a dire in tono pacato: «Fa' attenzione. La lama è molto affilata». «Dammi un unico, valido motivo per cui non dovrei provarla sulla tua gola, Andrej Delãny», replicò Sergé. «Sarebbe stupido. E tu non sembri uno stupido.» «Uno stupido?» Andrej sollevò le spalle. «Avete portato qui Frederic e me... Perché darsi tanta pena se volevate uccidermi?» Per qualche istante Sergé si limitò a fissarlo. Poi gli angoli della sua bocca si distesero in qualcosa che poteva essere un sorriso. «Forse perché ho qualche domanda da farti, Delãny?» «Cosa vuoi sapere?» «Quegli stranieri... Chi sono gli uomini che hanno bruciato la locanda e ucciso i miei fratelli?» «Cosa ti fa pensare che lo sappia?» chiese Andrej, elusivo. «Perché sono venuti per te, Delãny», sibilò Sergé, infuriato. «Lo sapevi.» Andrej voleva ribattere, ma non ci riuscì. Rimase a lungo in silenzio, poi sollevò lentamente una mano e spinse indietro la lama che Sergé gli teneva ancora puntata sul volto. «Sapevo che cercavano Frederic e me», confermò. «È vero. Ma non sapevo che sarebbero arrivati a tanto, lo giuro.» «Ti credo, Delãny», disse Sergé. «Però mi chiedo cosa ci sia in te di tanto pericoloso da spingerli a bruciare una locanda e uccidere una dozzina di uomini, anziché semplicemente catturarti, come avrebbero potuto fare con estremo agio. Cosa sei, Delãny? Un mago? Il diavolo?» «Nessuno dei due», rispose Andrej. «E il perché non lo capisco nemmeno io. Forse si divertono a uccidere uomini.» Fece un cenno verso Frederic. «Hanno annientato tutta la sua famiglia. Assolutamente senza motivo.» «Chi sono?» chiese Sergé. Sollevò di nuovo la scimitarra e stavolta Andrej dovette far forza su se stesso per non strappargliela di mano. «Perché lo vuoi sapere?» chiese. «Perché li ucciderò. A uno di loro ho infilato il pugnale nel cuore, ma erano in tre. Li cercherò e li ucciderò, con il tuo aiuto oppure senza. Però col tuo aiuto farei più in fretta.»
Krusha sollevò il braccio e spinse verso il basso la mano con cui Sergé teneva la scimitarra. «Perdona mio fratello, Delãny», mormorò. «Il dolore oscura la sua mente.» Sergé lo fulminò con lo sguardo. «È in debito con noi!» «Chiudi la bocca, Sergé», replicò stancamente Krusha. Scosse la testa, sospirò e infine tolse l'arma di mano al fratello. Poi rinfoderò la lama e la restituì ad Andrej. «Non ci devi nulla, Delãny. Perdona mio fratello. Prendi il ragazzo e vattene, se è questo che vuoi. Non te lo impediremo.» Andrej prese l'arma e gettò un lungo sguardo pensieroso a Frederic. «Mi dispiace davvero», disse poi. «Vorrei che non fosse successo, ma purtroppo non ci posso fare niente.» «E non puoi nemmeno aiutarci a trovare quegli uomini», ribatté Sergé sprezzante. «Forse sì», disse Andrej. Poi esitò e aggiunse: «No, potrei. Ma vi farei un pessimo servizio». «Peggiore di quello che ci hai già fatto?» sibilò Sergé. «Vranjevic e Ansbert sono morti. E io ricorderò questa notte per il resto dei miei giorni.» Indicò il proprio volto. «Quale servizio potrebbe essere peggiore?» «Potreste morire», rispose Andrej. «Credimi, con questi uomini non c'è da scherzare.» «Neanche con me», borbottò cupamente Sergé. «Ne ho già ucciso uno. E anche gli altri due moriranno, che tu mi aiuti oppure no.» Andrej non replicò, ormai consapevole che Sergé non era in grado di discutere in modo ragionevole. Il dolore fisico e lo strazio per la perdita dei fratelli l'avevano trascinato al limite del delirio. Non era in grado di controllarsi, a differenza di suo fratello Krusha. Tuttavia Andrej non sapeva in quale dei due uomini potesse riporre fiducia, ammesso che uno di loro ne fosse davvero degno. «Ben presto sarà giorno», disse Krusha nel silenzio che stava diventando sempre più sgradevole. «Non possiamo restare qui. La famiglia del locandiere è andata a chiedere aiuto in città. Rastrelleranno il bosco per trovare gli assassini. Credo sia meglio evitare d'incontrare i soldati.» «Avete un motivo per non volerli incontrare?» chiese Andrej. «E a te cosa interessa?» ringhiò Sergé. Di nuovo Andrej non rispose subito. Si sentiva in colpa. Non aveva importanza che pure lui e Frederic fossero state vittime dell'attacco a tradimento; Vranjevic e gli altri erano morti solo perché si erano fermati per caso in quella locanda... e perché Andrej era stato così superbo e ingenuo
da presumere di poter sfuggire ai tre cavalieri dorati. Come aveva potuto pensare di riuscirci? Quegli uomini di certo avevano una grande esperienza in stratagemmi, imbrogli e intrighi. Non si sarebbero mai fatti ingannare da un bifolco della Transilvania soltanto perché il suo patrigno l'aveva addestrato sino a farlo diventare uno spadaccino straordinario. «Siete veramente decisi a cercare quegli uomini?» chiese infine. «Sì. Fosse l'ultima cosa che faccio», confermò Sergé. Krusha continuò a fissare le braci e, dopo qualche istante, annuì. «Ditemi ancora una cosa», proseguì Andrej. «Perché ci avete invitato al vostro tavolo? Non siete artisti girovaghi. E comunque non di quelli che hanno bisogno di un uomo e di un ragazzo che carichino i loro carri e servano da mangiare e da bere.» «E se così fosse?» chiese Sergé. «Siete ladri», mormorò Andrej. «Ci avreste portato con voi, ci avreste dato da mangiare e pagato una stanza, ma qualche giorno dopo ci sarebbe stato un furto al tesoro di Constãntã oppure in una chiesa o nella casa di un ricco commerciante...» «... e vi avrebbero ritrovato addosso una parte del bottino, così avrebbero impiccato sia te sia il ragazzo», completò Sergé con una risata amara. «Volevi dire questo, vero?» «Più o meno... Ho ragione?» «Chi lo sa? Non sei stupido, Andrej Delãny, almeno per essere un bifolco.» Sorrise a denti stretti, ma ad Andrej non sfuggì che la sua mano si era avvicinata alla cintura e, come per caso, si era fermata vicino al pugnale. «E ora che vorresti fare? Intendi forse correre dai soldati e raccontare quello che hai scoperto?» «No», rispose Andrej. «Volevo solo sapere con chi ho a che fare.» «Anche per me è lo stesso», replicò Sergé, scrutandolo. «Visto che abbiamo la stessa opinione, Delãny, perché non ci racconti chi sei davvero e qual è il tuo legame con gli uomini che hanno incendiato la locanda?» Andrej gettò un lungo sguardo a Frederic. Il ragazzo dormiva, però non aveva ancora trovato la pace. Continuava ad agitare le braccia e ogni tanto gemeva. Se avesse dovuto preoccuparsi solo di Frederic e di se stesso, Andrej si sarebbe alzato, abbandonando quei due uomini. Ma non era così. Per quanto sgradevole fosse, doveva ammettere di aver bisogno del loro aiuto. Staccò a fatica lo sguardo dal ragazzo addormentato, osservò per un momento Sergé e molto più a lungo Krusha... poi cominciò a raccontare,
con voce bassa ma ferma. VII Andrej nuotava con bracciate calme e vigorose attraverso le onde. L'acqua era così gelida da strappargli continui brividi: sembrava che il freddo, anziché ristorarlo, gli logorasse le forze. Tuttavia non ritornò a riva, anzi, con una dozzina di potenti bracciate, si mosse verso il mare aperto. Faceva molta attenzione a non rimanere sott'acqua più di un minuto, poi risaliva e faceva un lungo respiro. Non si fidava dei nuovi compagni e voleva essere pronto a tutto. Inoltre non voleva lasciare Frederic da solo con Sergé troppo a lungo. Il ragazzo sguazzava da qualche parte alle sue spalle, nella risacca vicino alla spiaggia, e Sergé aspettava il ritorno del fratello. Andrej era sicuro che il presunto «artista» lo stava osservando. Dalle ore trascorse accanto al fuoco da campo, quando avevano stretto una fragile alleanza, erano passati un giorno e due notti. Sergé non aveva fatto osservazioni particolari, però non era necessario essere straordinari conoscitori degli esseri umani per cogliere la sua diffidenza. Due dei suoi fratelli erano morti e lui stesso era gravemente ferito, mentre Andrej, sotto gli occhi di tutti, era passato attraverso le fiamme senza perdere altro che i capelli e le sopracciglia. L'incredulità suscitata dalla proverbiale resistenza fisica dei Delãny non era mai stata giustificata come in quel caso. Lo stesso Andrej non capiva come mai sia lui sia il ragazzo fossero guariti così in fretta dalle ustioni; c'era qualcosa d'inquietante nella velocità con cui la pelle bruciata si era disfatta per far posto a un nuovo tessuto di un tenue colore rosa. Andrej riemerse, respirò profondamente e per un po' rimase immobile. Poi però si accorse di essersi allontanato troppo dalla riva e, inquieto, decise di tornare indietro. Anziché lottare contro le onde, tuttavia, cercò di mantenere il suo ritmo, così da giungere a riva più in fretta. Fu tutt'altro che facile - si sentiva ancora debole e non poteva sforzarsi a lungo -, eppure essere già in grado di camminare e di nuotare era davvero stupefacente. Comprendeva bene la diffidenza suscitata in Sergé dalla sua rapidissima guarigione. Fino ad allora aveva considerato un dono di Dio l'incredibile capacità del suo corpo di guarire con una velocità sorprendente da tagli e ferite di ogni genere. Adesso però non era più così certo su chi gli avesse fatto quel dono. Ritrovò Frederic sulla spiaggia, più o meno nello stesso punto in cui l'a-
veva lasciato. Il ragazzo era rimasto affascinato dal mare ma, esattamente come Andrej alla sua età, non sapeva nuotare. Invece Sergé era sparito. Dopo aver esplorato invano tutta la spiaggia, su Andrej calò l'ombra della preoccupazione. Le ferite dell'uomo si erano rivelate più gravi di quanto non fosse sembrato subito dopo l'incendio e, in un secondo momento, era arrivata anche la febbre alta. Era impossibile non vedere che Sergé soffriva atrocemente, benché fosse troppo orgoglioso per ammetterlo. Inoltre Andrej sapeva che la loro alleanza avrebbe retto finché i due fratelli avessero avuto un loro tornaconto e non un istante di più. Tuttavia si sentiva responsabile per quei due «artisti», soprattutto a causa di ciò che era successo nella locanda. Se uno dei due fosse morto, non si sarebbe scrollato di dosso la sensazione di essere stato lui a ucciderlo. Perché era tutto così complicato? Michail Nadasdy gli aveva insegnato tante cose, ma Andrej era sempre più consapevole di quanto poco sapesse della vita. Anzi non ne sapeva davvero nulla! Il tempo trascorso in isolamento volontario con Raqi era stato senza dubbio il periodo più felice della sua esistenza, ma quell'isolamento si stava rivelando una maledizione. Lui non sapeva nulla del mondo, della vita e soprattutto degli uomini. Esclusa Raqi, negli ultimi anni non aveva avuto contatti con altri se non per comprare un pezzo di carne, un sacco di grano o della stoffa con cui Raqi potesse farsi un vestito nuovo. Non sapeva fino a che punto si potesse fidare di Sergé e di suo fratello, e soprattutto se poteva fidarsi. Raggiunse la riva, si alzò e fece qualche passo barcollante. Aveva il cuore che martellava. L'acqua lo aveva gelato fin nelle ossa e ora lui tremava. Probabilmente avrebbe avuto bisogno di alcuni giorni per tornare in salute. Giorni che non aveva. «Andrej!» Procedendo con ampie falcate nell'acqua bassa, Frederic corse verso di lui e Andrej notò che sorrideva, cosa che non aveva mai fatto in precedenza. Soltanto la testa quasi calva e le sopracciglia annerite rivelavano che quel ragazzo aveva vissuto un'esperienza terribile nella locanda in fiamme. Eccitato, Frederic agitò le braccia e, nell'ultimo tratto, si mise a saltellare allegramente; era soltanto un ragazzo felice, che si gustava la bellezza di quel momento, senza troppe preoccupazioni per il futuro. Andrej provò un'assurda invidia per quella spontaneità infantile che lui aveva perduto per sempre. Non appena gli fu davanti, Frederic disse sorridendo: «Ero preoccupato per te, sei stato via molto tempo». «E hai pensato che fossi annegato?» Andrej si piegò sulle ginocchia e,
ridendo, spruzzò Frederic. «Hai gioito troppo in fretta! Io sono un provetto nuotatore!» Frederic indietreggiò ridacchiando e si riparò la faccia con le mani. Andrej continuò a spruzzarlo e il ragazzo fece due passi impacciati all'indietro, inciampò e infine cadde sbuffando sulla sabbia. Per un breve istante, Andrej fu pienamente felice. Si lanciò su Frederic con le braccia spalancate, lo gettò a terra e, continuando a ridere, rotolò con lui sulla battigia. Tutte le preoccupazioni sparirono. Mentre abbracciava Frederic, era come se una parte dell'energia giovanile del ragazzo fluisse in lui. Andrej sapeva che era solo un'illusione; ma era un dolce inganno, un breve, prezioso istante di gioia, che forse non gli spettava, ma che comunque lo faceva stare bene. La lotta scherzosa finì e i due rimasero seduti, l'uno di fianco all'altro, sorridendo e ansimando. Andrej strizzò gli occhi all'accecante luce del sole mattutino, ma, in quella situazione, anche il dolore pungente che i raggi gli provocavano gli sembrava un regalo. Forse il dolore era l'unica cosa che tracciava davvero il confine tra la vita e la morte. «Perché non so nuotare come te?» chiese Frederic. Andrej si appoggiò sui gomiti e, col dorso della mano, si tolse l'acqua salata dagli occhi. «Presumo perché non hai imparato», rispose. «Ti sembra una spiegazione adeguata?» «E tu, quando hai imparato?» chiese Frederic. Quello sprazzo di felicità si dissolse. Improvvisamente Andrej tornò a essere un ragazzo tremante di paura su una barca in mezzo al mare, con Michail Nadasdy, seduto davanti a lui, impegnato a spostarsi freneticamente a destra, a sinistra e poi indietro, deciso a rovesciare la barca e, soprattutto, a far perdere l'equilibrio a lui... «Mi ha insegnato un... buon amico», rispose esitante. All'assurda invidia per Frederic si aggiunse un moto - altrettanto assurdo - di rancore: con quella domanda, il ragazzo aveva distrutto quel momento d'innocenza infantile. Un istante dopo, però, Andrej si sentì in colpa per aver formulato quel pensiero e la sua cattiva coscienza si fece sentire. Un circolo vizioso, sciocco, stupido e assillante. «E allora?» chiese Frederic. «Insegni anche a me? Mi piacerebbe imparare a nuotare.» «Ho paura che non sia possibile», replicò Andrej. Si sentiva come travolto da un getto d'acqua incommensurabilmente fredda, come nemmeno l'ondata più gelida avrebbe mai potuto essere. Si mise a sedere, appoggiò
gli avambracci sulle ginocchia ustionate e dovette lottare con tutte le sue forze perché il folle risentimento verso Frederic non si trasformasse in un moto di odio del tutto ingiustificato. Non guardava il ragazzo, ma avvertiva che il suo stato d'animo stava cambiando. Esattamente come in lui l'innocenza infantile e l'allegria erano sparite di colpo, così una cupa tristezza si era impossessata di Frederic. «Mi hai salvato, Andrej», mormorò il ragazzo. «Sarei bruciato vivo se tu non mi avessi portato fuori dalla locanda.» «Tu avresti fatto lo stesso per me», ribatté Andrej. Suonava stupido. Era stupido. «Io... ti devo dire una cosa, Andrej...» mormorò Frederic in tono esitante. Andrej sapeva quello che il ragazzo stava per dire. Era difficile anche soltanto pronunciarle, quelle parole. E lui non voleva sentirle. «No», lo interruppe. «Non devi.» Gli costò molta fatica girare la testa e guardare Frederic. Vide proprio quello che si aspettava: un volto tormentato. Aveva paura di quello che il ragazzo stava per dire, ma era assai più spaventato dalla risposta che probabilmente avrebbe ricevuto. «Ma tu...» «So cosa vuoi dire», tagliò corto Andrej. «Non voglio sentirlo. Libereremo tua madre e gli altri abitanti del villaggio. Ti do la mia parola. Di più non posso fare. Vorrei poter fare di più, ma non posso.» Qualcosa nel modo in cui Frederic lo guardava lo innervosì... anzi lo spaventò. Tuttavia interruppe subito il corso di quei pensieri. Se non l'avesse fatto, avrebbe dovuto ammettere che era stato lui ad attirare la disgrazia su Borsã e quell'idea gli era intollerabile. Si alzò, si girò e si accorse con sollievo che Sergé stava venendo verso di lui e sembrava avere molta fretta. Poco dopo, anche Krusha comparve sulle dune. Si era piegato sul collo del cavallo e spronava l'animale. «Qualcosa non va», mormorò Andrej. Percepì la reazione di Frederic solo con la coda dell'occhio, ma ne rimase comunque sconvolto. Il ragazzo si era alzato a fronteggiare i due uomini che stavano sopraggiungendo, e sul suo volto era improvvisamente apparsa un'espressione di serietà, in stridente contrasto con la sua giovinezza. In altre occasioni aveva già notato che Frederic non sembrava affatto immaturo, anzi talvolta dimostrava un distacco che, secondo Andrej, era del tutto inconsueto per la sua età. Forse era proprio quello il motivo per cui erano lì in quel momento: Domenicus e i suoi uomini non avevano soltanto
distrutto Borsã e ucciso le persone che lui e Frederic amavano, ma avevano anche strappato a Frederic - e ovviamente a Marius - la gioventù, il bene più prezioso di ogni individuo. I fratelli li raggiunsero quasi nello stesso istante. Krusha sembrava sfinito: era zuppo di sudore e la bocca del cavallo schiumava. Doveva aver fatto al galoppo tutta la strada da Constãntã fin lì. «Cos'è successo?» chiese Frederic prima ancora che Krusha fosse sceso di sella. «Ti hanno forse inseguito?» «No.» Krusha si lasciò scivolare pesantemente a terra e voltò la testa nella direzione da cui era arrivato. «Almeno non credo», aggiunse a voce più bassa. «Perché galoppavi così velocemente?» insistette Andrej. Prese le briglie, tirò verso di sé la testa del cavallo e gli accarezzò le froge per calmarlo. L'animale tremava per lo sforzo e non riusciva a rimanere fermo. «Perché ho novità interessanti», rispose Krusha in tono nervoso. Non prese neppure la briga di spiegarsi; passò tra Andrej e Frederic, si piegò sulla linea della risacca, prese dell'acqua con le mani e se la gettò sul volto per rinfrescarlo. Andrej lo seguì. Riusciva a dominarsi a fatica. Ormai ne era certo: allearsi con Krusha e con suo fratello era stato un errore. Ma non aveva avuto altra scelta. Prima di girarsi di nuovo verso di loro, Krusha si gettò altra acqua sul viso e si scostò i capelli bagnati dalla fronte con entrambe le mani. «È stata una buona idea andare a Constãntã», iniziò. «La città è in tumulto per l'incendio. Ci stanno cercando.» «Stanno cercando noi?» chiese Frederic, sconvolto. «Perché noi?» intervenne Sergé, confuso. «Non cercano espressamente noi», rispose l'altro. «Voglio dire: non sanno chi siamo, ma cercano gli uomini che, dopo l'incendio, sono fuggiti dalla locanda e spariti nel bosco. Uno di loro aveva l'aspetto di un bifolco della Transilvania e aveva i capelli lunghi.» «Ma perché?» insistette Sergé. Suo fratello sorrise amaramente. «Otto morti non sono una sciocchezza», spiegò. «Anche se si tratta di qualche stupido contadino e di un locandiere ciccione. La gente paga le tasse. E per questo chiede una contropartita...» «Un momento», lo interruppe Sergé. «Intendi dire che... ci ritengono responsabili dell'incendio?»
Krusha sollevò le spalle. «Comunque sia, il duca ha mandato la sua guardia del corpo a cercare gli uomini che gli sono stati descritti.» «Ma non siamo stati noi ad appiccare il fuoco!» protestò suo fratello. «Perché non vai in città a spiegarlo direttamente al duca?» chiese Andrej, ironico. Sergé era pronto a scattare, ma Krusha gli impose la calma con un gesto brusco. «Non siamo in pericolo», chiarì. «Almeno non credo... in fondo ci troviamo a dieci miglia dalla città.» Si rivolse ad Andrej. «Ho trovato gli uomini che stiamo cercando.» «Dove sono?» «Non così in fretta, Delãny. Li ho trovati e credo di sapere anche dov'è la vostra gente. Ma, prima che te lo dica, c'è una cosa da chiarire.» Andrej notò che Frederic era pronto a scattare e cercò di calmarlo con un gesto. «Abbiamo un accordo», disse. «Non sapevo che ci fosse altro da chiarire.» «Gli accordi esistono per essere cambiati all'occorrenza», replicò Krusha, impassibile. «Tu non ci hai detto la verità, Delãny.» «In che senso?» Naturalmente non aveva detto a Krusha e Sergé tutta la verità su ciò che era successo a Borsã, però non era molto quello che aveva taciuto e si era allontanato dalla verità solo per lo stretto indispensabile. «Non ci hai detto che abbiamo a che fare con l'Inquisizione», spiegò Krusha e, mentre pronunciava quelle parole, tenne d'occhio il suo interlocutore, come se si aspettasse una precisa reazione, o forse l'assenza di una reazione. «L'Inquisizione romana?» mormorò Sergé. «Qui? Sul mar Nero? Impossibile.» Suo fratello continuava a fissare Andrej. «E invece è proprio così. Ho ascoltato quello che si dice in giro. Offrire una birra alle persone giuste è un prezzo accettabile per avere informazioni...» Scrollò le spalle. «Non è stato particolarmente difficile. Domenicus non è un predone travestito da cardinale. È qui su incarico della Chiesa. Cioè è arrivato in Transilvania per cercare uno stregone che infesta l'isolata valle di Borsã.» «E tu sei convinto che io sia quello stregone», disse Andrej ridendo. Anche Krusha sorrise, ma soltanto per un attimo, e i suoi occhi rimasero freddi. «Già prima era lecito porsi qualche domanda», riprese. «Ti abbiamo visto coi nostri occhi entrare in una casa in fiamme e uscirne senza gravi ferite. Ma sarebbe irriconoscente da parte mia, vero? In fondo hai salvato la vita a me e a Sergé. Se non avessi ammazzato i due arcieri, ci
avrebbero ucciso.» «E non sarebbe una mossa particolarmente intelligente», s'intromise Frederic. «Se davvero fossimo stregoni, sarebbe proprio stupido sfidarci.» «No, non sarebbe intelligente», ammise Krusha. Ma lo disse in tono ambiguo. «Cosa vuoi, Krusha?» chiese allora Andrej. «Ci vuoi dire che la questione è troppo pericolosa per te? Non venirmi a raccontare che hai paura della Chiesa.» «No. Però mi chiedo cos'altro ci hai nascosto.» «Non sapevo nulla dell'Inquisizione... E comunque non cambia niente!» «Cambia eccome», disse Krusha. «Evidentemente continui a non capire, Delãny. Non è possibile trovare e liberare la tua gente. Domenicus e i suoi uomini sono qui in missione ufficiale. Sono ospiti del castello.» «Ora capisco», mormorò Sergé. «Ecco perché nessuno chiede chi abbia davvero appiccato il fuoco alla locanda.» «E la nostra gente?» volle sapere Andrej. Krusha fece uno strano cenno. «Non so nulla con certezza. Ma presumo che abbiano chiuso tutti nella prigione del castello. Stasera devo incontrare un uomo che vuole vendermi delle informazioni.» «E cosa vuoi da me?» chiese Andrej, benché sospettasse quale sarebbe stata la risposta. «Avere a che fare con una banda di predoni è una cosa... Ma ora abbiamo a che fare col duca. E con tutto il suo esercito», disse infatti Krusha. «Li ucciderò tutti, anche se si andassero a nascondere fino a Roma!» borbottò Sergé. «Non essere sciocco.» Andrej cercò di placarlo. «Tuo fratello ha ragione. Finché rimangono nel castello...» «... sono in pericolo come in nessun altro luogo», lo interruppe Krusha. «Non supereranno la notte. Ma temo che non potremo fare nulla per loro.» «Siete dei vigliacchi!» gridò Frederic. «Cercare d'intrufolarsi in una prigione sorvegliata da venti soldati non ha nulla a che fare col coraggio, ragazzo mio... In effetti, ha molto a che fare con la stupidità», replicò tranquillamente Krusha. «Siete dei vigliacchi!» insistette Frederic, cupo in volto. «Ma andatevene pure! Andrej e io li libereremo da soli!» «Ma certo», ridacchiò Krusha. «Li porterete fuori della città, procurerete provviste e acqua per cinquanta persone e, con tutta calma, andrete verso il vostro villaggio. Anzi probabilmente il duca se ne starà sul bordo della
strada a salutarvi, tutto compiaciuto.» Sorrise, sprezzante. «Ma forse c'è un'altra possibilità.» «Quale?» chiese Andrej. Krusha sorrise minacciosamente. «Dipende... Quanto pensi che valgano i miei consigli, Delãny?» VIII Constãntã era di gran lunga la più grande città che Andrej avesse mai visto. Michail Nadasdy gli aveva raccontato di città che erano cento volte più grandi e mille volte più sontuose. Diceva che avevano le strade lastricate d'oro e torri così alte che le loro punte sembravano toccare il cielo. Ma Andrej non aveva mai visto una città più grande di Rotthurn e la folla più numerosa in cui si era trovato contava al massimo cinquecento persone. Constãntã lo colpì profondamente. Le mura sembravano più alte delle piramidi che arrivavano fino al cielo di cui gli aveva parlato Michail Nadasdy e la piazza del mercato, in cui giunsero dopo aver passato una porta gigantesca, era così grande da contenere tutta Borsã e anche un pezzo della fortezza. Era gremita di gente. Andrej rinunciò subito a valutarne anche solo approssimativamente il numero. Dozzine di bancarelle e di carri erano disposte secondo un sistema di vialetti stretti ma funzionali, in cui le persone si assiepavano in gruppi così serrati che Andrej si chiese come facessero a non soffocare o a non essere travolte dalla ressa. Il rumore era indescrivibile, la confusione di odori piacevoli, inconsueti - e in parte sgradevoli - gli martoriava il naso esattamente come i colori accecanti e il caos dei movimenti gli sconvolgevano la vista. «Non sapevo che al mondo ci fosse tanta gente!» esclamò Frederic. La sua voce vibrava per lo stupore e la paura. Anche Andrej era intimorito da quelle strade frementi di vita. Mentre si stavano avvicinando alla città, per la seconda volta Andrej si era trovato a rimpiangere la vita da eremita che aveva condotto insieme con Raqi per tanti anni, nella convinzione che essa gli potesse dare tutto ciò di cui aveva bisogno. Raqi era sempre stata al suo fianco ed era morta proprio quando stavano pensando di cominciare una nuova vita: dopo la nascita del loro secondo figlio, infatti, avevano progettato di lasciare le montagne e cercare altrove la felicità; magari, un giorno, avrebbero addi-
rittura ripreso con loro Marius. Senza la moglie e i figli, però, Andrej si sentiva privo di scopo... Forse era quello che intendeva Michail Nadasdy quando l'aveva messo in guardia dal legarsi in modo serio a una donna. Andrej scacciò quei pensieri. Constãntã gli faceva paura e quell'inimmaginabile numero di persone lo spaventava... Tuttavia aveva problemi più urgenti da risolvere. Una gran quantità di problemi. «Io lo sapevo», disse allora, a commento dell'affermazione di Frederic. «Però non sapevo che le avremmo trovate tutte qui.» Sorrise, ma forse il ragazzo non l'aveva sentito a causa del rumore oppure non aveva capito la facezia, perché guardava Andrej con aria irritata, stringendosi contro di lui ancora di più. Andrej si era distratto solo per un istante e fu spintonato da qualcuno che gli fece quasi perdere l'equilibrio. Si voltò, sorpreso e infuriato, ma soprattutto pronto a confrontarsi con qualche personaggio sgradevole che l'aveva urtato soltanto per farsi largo. Invece, con sua enorme sorpresa, si trovò di fronte una bella ragazza: lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, occhi marroni e labbra piene, che davano al viso un'aria molto invitante. «Sì?» chiese la ragazza e sollevò le sopracciglia, fingendo stupore. «Io, io...» balbettò Andrej. Si dimenticò tutto ciò che fino a un attimo prima avrebbe voluto dire e, in compenso, gli vennero in mente migliaia di cose che avrebbe potuto dire, se solo fosse stato in grado di pronunciare anche un'unica parola. Lei rimase immobile e i loro sguardi s'intrecciarono, con mille sottintesi. Non furono che pochi istanti, ma ad Andrej sembrò che il tempo si fosse fermato. Non capiva cosa gli stava accadendo né perché la vista di quella ragazza gli togliesse il fiato... come se non avesse mai visto una donna attraente! Lei sorrise timidamente e poi, con un semplice: «Scusatemi...» si allontanò tra la folla. Non appena Frederic si accorse che Andrej non era più al suo fianco si girò, preso dal panico, e lo guardò con occhi stupiti e colmi di rimprovero. «Perché te ne stai fermo lì? Sembra che tu abbia visto un fantasma.» Andrej seguì con lo sguardo la ragazza, scuotendo la testa, fu urtato di nuovo e infine si decise a prendere la mano di Frederic e a tornare verso il bordo della strada. Lo stupore che li aveva travolti non appena avevano superato la porta della città aveva fatto rammentare ad Andrej l'avvertimento di Krusha «State in guardia perché siete ricercati...» - e, al momento, quella frase gli
era sembrata ridicola. Chi avrebbe prestato attenzione a due individui in mezzo a quella folla? Subito dopo, però, si era accorto che il loro comportamento, così diverso da quello degli altri, rischiava davvero di attirare l'attenzione. Sarebbe stato opportuno conformarsi al modo di fare di quei cittadini... «Credi che riusciremo a trovare la locanda?» chiese Frederic, interrompendo il corso dei suoi pensieri. In mezzo a quel rumore impressionante dovette quasi urlare per farsi sentire. Andrej si limitò a scrollare le spalle. Cercare la locanda ovviamente non aveva senso. Sollevò lo sguardo al di sopra della colorata confusione di bancarelle, di coperture di stoffa e osservò le facciate delle case che circondavano la piazza del mercato. Nessuna casa aveva meno di tre piani. Molte erano decorate con preziosi intagli e motivi ornamentali in pietra; i tetti erano coperti con scandole di legno tagliate regolarmente, alcuni erano addirittura di mattoni di ardesia o di argilla. Constãntã era una città incredibilmente ricca e soprattutto incredibilmente grande. Le locande dovevano essere dozzine. «Cerchiamola», disse. «E come?» Andrej sospirò, perplesso. Avrebbero dovuto chiedere informazioni a qualcuno e poi attraversare quella piazza affollatissima, cosa tutt'altro che facile. Inoltre non avevano molto tempo. La proposta che Krusha gli aveva fatto quella mattina - entrare separati in città e ritrovarsi là dentro - al momento gli era parsa sensata, ma ora sembrava quasi una follia. Se fossero arrivati troppo tardi all'appuntamento, o se non fossero riusciti a trovare la locanda, i sopravvissuti di Borsã sarebbero stati spacciati. Krusha non aveva detto granché, tuttavia gli aveva assicurato che i prigionieri sarebbero stati portati via quella notte stessa. Si guardò intorno, fece cenno a Frederic di non muoversi e ritornò verso la porta. Prima, quand'erano entrati in città, la guardia non li aveva degnati di uno sguardo. Certamente quell'uomo non sprecava energia a fissare nella memoria gli infiniti volti che gli passavano davanti ogni giorno. Inoltre sembrava non impegnarsi troppo nel suo lavoro. Era appoggiato svogliatamente all'alabarda e si mostrò seccato quando Andrej gli si avvicinò. Nella sua uniforme a strisce arancione e bianche sembrava più ridicolo che marziale, almeno agli occhi di Andrej. «Scusate...» esordì Andrej. La guardia si raddrizzò un poco e rivolse allo straniero uno sguardo indagatore e sprezzante.
«Mio nipote e io siamo arrivati in città per la prima volta», riprese Andrej. «Avevamo appuntamento coi miei fratelli, ma temo...» Lasciò la frase a metà, accompagnandola con una scrollata di spalle e un'adeguata espressione di sconcerto. Il suo interlocutore reagì come lui aveva sperato: il disprezzo nei suoi occhi si fece ancora più evidente e il tono della voce assunse quella nota di condiscendenza che spesso si accompagnava a uno slancio di generosità. «E ora, per la prima volta nella tua vita, vedi una città con le mura tutto intorno e più di dieci case, e hai così paura che stai per pisciarti nelle braghe, vero?» chiese. Andrej accentuò la sua aria imbarazzata. «E... molto grande», confermò. «Non credevo ci fosse così tanta gente. E abbiamo solo un'ora per trovare la locanda.» «Certo, certo.» L'uomo gettò uno sguardo pensieroso oltre Andrej, verso la città. Forse stava cercando il nipote di cui gli aveva parlato; probabilmente menzionarlo era stato un errore. «Sai almeno il nome della locanda in cui hai appuntamento, amico mio?» «L'Orso Guercio», rispose Andrej. «Una bettola», sbuffò la guardia. «Forse non è il posto adatto nemmeno per uno come te. Hai denaro?» «Non molto», rispose Andrej. «Perché?» «Niente paura, non ne voglio», disse la guardia. «Volevo solo consigliarti di stare attento. Il posto in cui vuoi andare è pieno di gentaglia. Se i tuoi fratelli bazzicano da quelle parti, è meglio se rifletti un po' sulla tua famiglia.» Sbuffò di nuovo. «Ma cosa me ne frega...? È facile da trovare. Dovete attraversare il mercato, poi seguite la strada fino al castello. Lì, voltate a destra e proseguite fino al porto. Da quelle parti, l'Orso Guercio lo conoscono tutti. Ma state bene attenti a sparire da quella zona prima del tramonto.» Andrej era confuso. Nonostante la malcelata ironia, registrò anche una comprensione che non si sarebbe mai aspettato da un soldato al servizio del duca. Voleva ringraziarlo, ma proprio in quel momento nel soldato avvenne una repentina trasformazione: si sollevò, dritto come un fuso, e da lui sparì ogni traccia di noia; sembrava teso, quasi pronto a scattare. Socchiuse le palpebre e sul suo volto comparve un'espressione che oscillava fra il terrore e la rabbia repressa. In un primo momento, Andrej pensò che il suo interlocutore avesse capito con chi aveva a che fare, ma subito dopo
si accorse che non stava fissando lui, bensì un punto alle sue spalle, verso la strada che portava in città. Allora si girò, spaventato, e trasalì. Dietro di lui era comparsa una dozzina di cavalieri. Gli uomini cavalcavano a spron battuto, senza curarsi minimamente della folla che camminava verso Constãntã. La maggior parte era abbigliata con la stessa uniforme a righe arancione e bianche dell'uomo che lui aveva davanti, ma uno era avvolto in un mantello di velluto rosso e portava un enorme cappello con una larga falda. Alla sua destra e alla sua sinistra c'erano due uomini avvolti in mantelli neri, sotto cui risplendeva il colore dell'oro. Andrej non ebbe bisogno di vedere i loro volti per capire chi fossero. Durante l'agguato alla locanda, Sergé aveva ucciso uno dei tre cavalieri dorati... perciò uno di quei due doveva essere il gigante con cui lui aveva sostenuto il suo primo, vero scontro mortale. Naturalmente poteva anche darsi che a Constãntã ci fossero altri cavalieri dorati; se così era, però, tutto diventava ancora più difficile. Senza esitare, si girò di nuovo e abbassò lo sguardo. Era una reazione tanto inutile quanto priva di senso. Era poco probabile che l'uomo col mantello rosso e i suoi sgherri notassero un singolo individuo in una simile ressa. Invece col suo comportamento correva il rischio di attirare l'attenzione della guardia. Frettolosamente - troppo frettolosamente, si rimproverò - sollevò la testa... Ma non troppo, così da assumere l'atteggiamento umile di un uomo che non vuole avere guai. E infatti avvenne il miracolo. I cavalieri galopparono via senza nemmeno rallentare e la sensazione di pericolo cominciò a dissolversi. Andrej contrastò il desiderio di guardare gli uomini che passavano attraverso la porta, ma notò con la coda dell'occhio che uno dei due cavalieri dorati aveva sollevato la testa per guardarsi intorno. Forse sperava di scorgerlo da qualche parte. O forse il suo era soltanto un atteggiamento prudente, rafforzato da molti anni di battaglie. Non pensò che, probabilmente, non era stato notato per un motivo molto più banale: l'incendio nella locanda l'aveva privato dei lunghi capelli e di buona parte dei vestiti. Quasi completamente calvo e avvolto nella veste di fattura orientale che Krusha gli aveva prestato, anche Frederic avrebbe faticato a riconoscerlo a una certa distanza; inoltre era di spalle e in mezzo a una grande folla. Si sforzò di non far sentire il proprio sospiro di sollievo quando l'ultimo cavaliere superò la porta, entrando nella piazza del mercato con un ritmo meno sostenuto, ma sempre troppo veloce per le strade piene di gente. Prima che i cavalieri avessero raggiunto la loro meta, molti passanti si sa-
rebbero ritrovati coperti di lividi e con qualche costola rotta, se non con danni ben più gravi. «Chi... erano?» chiese, esitante. Prima di rispondere, la guardia fissò ancora per qualche istante la direzione verso cui i cavalieri erano scomparsi. «Erano le guardie del corpo del duca, insieme con quel maledetto prete!» Andrej lo fissò, sorpreso. Il cavaliere col mantello di velluto rosso era Domenicus? Le informazioni di Frederic sull'attacco a Borsã gli avevano fatto immaginare un uomo molto più vecchio e di aspetto completamente diverso. Si aspettava un vecchio, terribile principe della Chiesa... Invece l'individuo in compagnia dei due cavalieri dorati non aveva più di trentacinque anni, era slanciato e con una corporatura atletica. In più aveva il volto di un guerriero: un volto duro, eppure di una bellezza singolare. «Non vi... piace la Chiesa?» chiese alla guardia. Era un errore e lui se ne rese conto nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole. L'altro gli scoccò una rapida occhiata di diffidenza, poi scosse la testa e disse: «Certo. Ma ringrazierei Dio se quel maledetto inquisitore tornasse da dov'è venuto. Da quando lui e i suoi strani compagni sono arrivati in città...» S'interruppe, come se solo in quel momento si fosse reso conto che stava parlando con un perfetto sconosciuto... magari persino con un delatore. «Adesso sparisci», sbottò. «Ho da fare. E devi sbrigarti se vuoi arrivare in tempo all'Orso Guercio.» Andrej chinò il capo per ringraziarlo e si affrettò a tornare da Frederic, ma il ragazzo sembrava sparito. Sulla strada erano rimasti i segni del passaggio dei cavalieri; vide molti uomini e donne bianchi come cadaveri che tenevano le mani pressate sulle braccia e sulle costole. Inoltre, esattamente dove aveva lasciato Frederic, c'era un vecchio rannicchiato a terra che, col volto deformato dal dolore, si stringeva la caviglia, evidentemente rotta. Il volto di Andrej s'incupì di rabbia. Perfino per lui una caviglia rotta sarebbe stato un problema, ma prima o poi sarebbe guarito. Per il vecchio, invece, poteva essere la fine. Anche se le ossa si fossero saldate senza ridurlo a uno storpio, era comunque prevedibile che, durante l'inverno seguente, lui sarebbe morto di fame o di freddo perché non avrebbe potuto lavorare. Che razza di uomini erano quelli che calpestavano senza il minimo scrupolo la vita degli altri? Si rispose da solo: erano gli stessi individui che, per uccidere un uomo e un ragazzo, davano fuoco a un edificio in cui si trovava almeno una dozzina di persone innocenti. Andrej si guardò intorno alla ricerca di Frederic. Gli aveva raccomanda-
to di non muoversi, ma evidentemente lui non l'aveva ascoltato. Proprio quando Andrej minacciava di arrabbiarsi sul serio, Frederic sbucò da un vicolo a pochi passi di distanza. Era pallidissimo e veniva verso di lui gesticolando nervosamente. «Andrej!» gridò. «Li ho visti! Erano qui e...» «Lo so!» esclamò Andrej, lanciandogli un'occhiata quasi implorante. «Parla piano!» «No, non capisci!» Frederic abbassò la voce, ma il suo tono non era meno concitato. «Non intendo i due cavalieri dorati! L'uomo che c'era con loro! Era...» «Domenicus», lo interruppe Andrej. «L'uomo che ha torturato Barak e fratello Toros.» Frederic era sbalordito. «Come fai a saperlo?» «Me l'ha detto il soldato alla porta della città... Ma credo che l'avrei capito anche da solo.» Con un gesto zittì Frederic che voleva replicare. «Mi ha indicato anche la strada per l'Orso Guercio. È abbastanza lontano. Dobbiamo affrettarci. Krusha non sarà affatto contento se arriviamo tardi.» La reazione di Frederic lo turbò. L'ostinazione negli occhi del ragazzo si trasformò per un istante in un lampo di odio puro nei confronti di Andrej. «T'interessano soltanto quei due ladri?» sibilò. «Ti ho detto che ho visto l'uomo che ha ucciso mio padre e gli altri! Non può essere lontano! Possiamo raggiungerlo!» Prima di rispondere, Andrej si guardò intorno. Frederic aveva parlato a voce abbastanza alta da farsi sentire a parecchi passi di distanza. Ma, grazie a Dio, sembrava che nessuno avesse dato importanza alle sue parole. Afferrò con forza Frederic per le spalle, lo girò e lo spinse brutalmente davanti a sé. «Sì, questo è tutto quello che mi interessa», mormorò in un tono così tagliente che era come se avesse urlato. «Quei due ladri sono al momento l'unica possibilità di scoprire dove sono imprigionati tua madre e gli altri! Ma cosa vuoi, per tutti i diavoli? Vuoi vendicarti oppure salvare la vita alla tua famiglia?» Frederic si divincolò, fulminandolo con lo sguardo. «Vorrei avere una spada!» replicò. «Vorrei essere grande e non dover più obbedire agli ordini!» Andrej perse la pazienza. Afferrò di nuovo Frederic per le spalle e lo scrollò così violentemente da fargli sbattere i denti. «Ora stammi a sentire...» Quasi gridò. «Se credi che sia così facile togliere una vita, ti sbagli! Vuoi una spada? Accomodati! Puoi avere la mia scimitarra. Per quello che mi riguarda, puoi anche andare a uccidere quell'uomo! Forse ci riuscirai!
Di certo non penserà di essere aggredito da un marmocchio! E poi?» «Cosa... intendi?» chiese Frederic irritato. «Ammesso che tu ci riesca e che tu riesca pure a cavartela grazie alla confusione che si scatenerà, cosa succederà dopo? Credi che una volta infilata la spada nel cuore di un uomo sia tutto finito? Lo sai che quello non muore? Ti rendi conto che continuerà a vivere dentro di te?» Sollevò una mano e colpì col medio e con l'indice la fronte di Frederic con tale energia che gli fece male. «Vedrai la sua faccia ogni volta che chiuderai gli occhi. Ti apparirà nel sonno. Ti verrà a trovare negli incubi e ti chiederà perché gli hai tolto la vita! E tutto ciò per molto, molto tempo... Forse per il resto dei tuoi giorni!» Frederic lo fissava e Andrej lesse nel suo sguardo qualcosa che lo turbò ancora di più dell'odio nato dal dolore che vi aveva scorto poco prima. Frederic non aveva capito il suo ammonimento. Ancora peggio: gli era del tutto indifferente. Forse però Frederic era troppo giovane per comprendere l'enorme differenza tra l'uccidere per difendersi e l'uccidere a sangue freddo. Per un attimo, lo stesso Andrej non seppe se aveva paura per Frederic o di Frederic. Le sue parole erano arrivavate troppo tardi? Le cose mostruose che Frederic era stato costretto a vedere gli avevano già distrutto l'anima? Forse quel ragazzo non poteva che essere duro e spietato come i suoi aguzzini. Sarebbe bastato quello per uccidere Domenicus e i due cavalieri dorati che erano stati con lui nella valle di Borsã, come pure ogni altro cavaliere dorato che la sorte avesse spinto sulla sua strada. «È un metodo davvero singolare per insegnare al ragazzo il rispetto per la vita», disse una voce alle sue spalle. Andrej si voltò, infuriato. «Non immischiatevi...» S'interruppe all'istante, scorgendo la giovane donna dai capelli neri che poco prima l'aveva urtato. In mezzo a quella folla, avrebbe dovuto avere un'aria smarrita, invece sembrava del tutto a suo agio. Era poco più alta di Frederic e portava un abito di velluto nero che sottolineava la figura slanciata, ma sembrava invulnerabile. Era difficile descriverla... Sembrava che da lei si propagasse una sorta di energia. Probabilmente dipendeva dai suoi occhi: erano allegri e sfrontati come quelli di una bambina eppure sembravano anche velati da una consapevolezza del tutto inadeguata a quel viso infantile. Oppure dipendeva dalla sicurezza con cui portava i capelli, sciolti in riccioli che le ricadevano sulle spalle? O forse era per il grazioso pugnale tempestato di gioielli che portava alla cintura? Andrej si rese conto all'istante che stava guardando la donna in un modo
che poteva sembrare indiscreto o perlomeno scortese, così si rifugiò dietro un sorriso imbarazzato. «Perdonatemi», disse. «Non volevo...» «Sono io che devo scusarmi», lo interruppe la giovane donna dai capelli neri. «Non ho nessun diritto d'immischiarmi... Ma voi non ne sapete molto di bambini, vero? È vostro figlio?» «No», rispose Andrej, confuso. «Non è vostro figlio oppure non ne sapete molto di bambini?» chiese la sconosciuta, sorridendo. Lo sconcerto di Andrej cresceva. A imbarazzarlo non erano tanto le parole della giovane, quanto la sua presenza. Non riusciva a pronunciare neppure una frase sensata e non soltanto per l'aspetto insolito della donna o per la sua ancora più insolita apparizione. Non riusciva a staccare gli occhi da quella giovane delicata e sentiva un incontenibile desiderio di trattenerla. La brama di prenderla tra le braccia e non lasciarla più lo spaventò oltre misura, perché gli sembrò completamente inopportuna oltre che un tradimento nei confronti di Raqi. Il petto gli si alzava e abbassava, seguendo il respiro, diventato affannoso e irregolare; un delicato rossore sulle guance della donna rivelò ad Andrej che pure lei stava provando quelle sensazioni... oppure era infuriata con l'uomo che la fissava con tanta insistenza? Eppure lei sostenne il suo sguardo in maniera così aperta che lui si sentì annegare in quegli occhi simili a laghi di montagna, profondi e puri. «Tutt'e due le cose...» Benché avesse parlato con voce stentata, Andrej riuscì finalmente a rompere il silenzio, che stava diventando imbarazzante. «Ma...» «Allora permettetemi di dirvi che non si può educare un bambino con la paura», proseguì la giovane. E aggiunse, in un sussurro: «La paura è una pessima maestra». «Io non ho paura», dichiarò Frederic con la sua tipica caparbietà. «Certo che no.» Lei sorrise dolcemente. «Nessun vero uomo ha paura. Come ti chiami, piccolo eroe?» «Frederic», rispose il ragazzo in tono diffidente. «Ma è da molto tempo che non sono più piccolo.» Socchiuse le palpebre. «Perché lo volete sapere?» «Oh, scusa, non volevo offenderti. Era soltanto un modo per capire con chi stavo parlando. Io mi chiamo Maria. E voi come vi chiamate?» chiese, rivolta ad Andrej. «Mi chiamo Andrej. Frederic è mio... nipote.» Quelle parole non suona-
rono convincenti nemmeno alle sue orecchie. Cosa gli stava succedendo? L'ultima volta che si era sentito così in presenza di una donna era stato quando aveva conosciuto Raqi... Quel pensiero fu come una pugnalata. Paragonare una qualunque persona - non importava chi - alla sua amata Raqi era un tradimento al loro amore. «Io... Mi dispiace, ma non possiamo fermarci», disse, a disagio. «Abbiamo un appuntamento... e ancora parecchia strada da fare.» «Senza dubbio vostra madre vi ha dato il buon consiglio di non fermarvi a parlare con chi non conoscete», osservò Maria, fingendo un'eccessiva seriosità. Poi rise - la sua risata era limpida e chiara come una campana di cristallo - e allungò la mano verso Frederic. «Hai tempo di farti regalare una stecca di zucchero, Frederic?» Ormai il ragazzo era confuso al pari di Andrej. Una donna che s'intratteneva per strada con uno sconosciuto? Una donna bellissima come quella Maria? Ma Andrej d'un tratto si rese conto che c'era qualcos'altro. La semplice presenza di quella donna aveva qualcosa che lo spaventava al punto di farlo scappare. E probabilmente l'avrebbe fatto se sul viso di Frederic non fosse comparsa una strana espressione. Il ragazzo sembrava ancora spaventato e incerto, eppure... «Mi dispiace, però non...» mormorò Andrej. Invece Frederic, come se non avesse sentito quelle parole, disse: «Volentieri». Maria si abbandonò di nuovo alla sua risata cristallina, in cui si avvertiva un bonario tono canzonatorio. I suoi occhi scintillavano. «Frederic!» esclamò Andrej. «Andrej... Non potete essere così senza cuore da rifiutare una stecca di zucchero a un bambino che, per la prima volta nella vita, si trova in una città con un vero mercato», cercò di convincerlo Maria. «Come fate a sapere che è la prima volta?» chiese Andrej, diffidente. Maria rise di nuovo. «Ce l'avete scritto in faccia!» Allungò una mano verso Frederic e con l'altra gli fece un gesto d'invito. Frederic sollevò il braccio per contraccambiare il suo gesto, poi si girò solo per metà verso Andrej e gli lanciò un'occhiata fugace. L'espressione del suo viso si trasformò di colpo. In un primo momento, Andrej pensò che Domenicus fosse tornato col suo seguito e che il ragazzo fosse in procinto di fare una sciocchezza, saltando addosso, con un urlo feroce, all'assassino della sua famiglia, senza riflettere sulle inevitabili conseguenze. Quindi si sforzò di non farsi pren-
dere dal panico, ma di voltare appena la testa in modo da poter guardare con la coda dell'occhio nella stessa direzione in cui si era fissato lo sguardo di Frederic. Il ragazzo stava osservando due uomini che avanzavano sui loro cavalli in mezzo alla folla... Andrej sospirò, sollevato, ma subito dopo li riconobbe. Per un istante il cuore gli si fermò, poi riprese a martellare con una foga dolorosa. Si trattava dei cavalieri dorati che l'avevano aggredito nella locanda e non era difficile immaginare cosa sarebbe successo se si fossero accorti della sua presenza. Cavalcavano molto lentamente, come se stessero cercando qualcuno... Andrej sapeva bene chi. La minaccia che rappresentavano era quasi tangibile. Cercando di tenerli d'occhio, Andrej si rivolse di nuovo a Maria. «Non voglio fare il guastafeste», balbettò, senza riuscire a celare completamente il terrore. «Ma oggi non abbiamo tempo, davvero. Forse un'altra volta.» Sul volto di Maria si dipinse la delusione, unita all'incapacità di comprendere perché Andrej sembrasse così spaventato. Ma Andrej non poteva più permettersi nessun riguardo. La conversazione con la giovane donna per lui prese improvvisamente un significato inatteso: i cavalieri scrutavano in mezzo alla folla, ma erano alla ricerca di un uomo e di un ragazzo e forse non avevano calcolato che i ricercati potessero mettersi a chiacchierare con una bella ragazza. «Oh, no, non potete farmi questo», esclamò Maria. Dava l'impressione di non volersi rassegnare a quel rifiuto. «Non sarete così spietati da piantarmi qui, vero?» Andrej cercò di sorridere, ma gli venne solo una smorfia. Non aveva nessuna intenzione di mettere' in pericolo la vita della giovane perché lei si stava intrattenendo con loro. «Mi dispiace, ma purtroppo dobbiamo andare. Forse il destino vorrà che c'incontreremo in una situazione più favorevole.» Non attese la replica, afferrò Frederic per il braccio e lo trascinò con sé. Maria non poté che lasciare il ragazzo, al quale, fino a quel momento, aveva tenuto una mano. L'espressione del suo viso mostrava quanto fosse contrariata e confusa. Gridò ancora qualcosa, ma Andrej non riuscì a capire le parole, che si persero nel frastuono del mercato. Era arrivato il momento. Andrej percepì il luccicare di una corazza dorata. Accelerò il passo senza riguardo per Frederic, che si faceva letteralmente trascinare. Un'altra occhiata confermò i suoi timori. I cavalieri dorati guidavano i loro cavalli attraverso la piazza del mercato e si dirigevano
verso di loro, senza curarsi delle persone che incontravano. «Ci hanno notato», bisbigliò a Frederic. «Muoviti, altrimenti ci prendono.» Dopo quelle parole, Andrej non fu più costretto a combattere contro la resistenza del ragazzo, anzi faticò a tenere il suo passo. Frederic sgusciava tra la folla come un'anguilla. Così raggiunsero indisturbati l'altro lato della piazza e s'infilarono in un vicolo il cui selciato era coperto di escrementi e ingombro di spazzatura. Benché fossero ancora ostacolati dai venditori ambulanti e dalla gente che stava andando al mercato, riuscirono a procedere un po' più velocemente. Arrivati alla fine del vicolo, Andrej appoggiò la mano sull'impugnatura della scimitarra e si fermò per un attimo; poi, senza esitare, i due svoltarono a sinistra e imboccarono un altro vicolo. Furono costretti a cambiare direzione almeno altre due volte. Il loro passo si fece sempre più lento, fino ad adattarsi a quello dei passanti che incontravano. Era da un po' che non sentivano più il rumore degli zoccoli dei loro inseguitori, ma Andrej sapeva bene che i cavalieri non avrebbero rinunciato facilmente a cercarli. Probabilmente stavano perlustrando tutti i vicoli della zona... Poteva soltanto sperare che non avessero la certezza di averli riconosciuti e che dunque li stessero seguendo per un semplice controllo. Se così non era, la città sarebbe stata invasa da soldati, che avrebbero frugato ogni casa e ogni vicolo. A quel punto, li avrebbero catturati di sicuro, prima o poi. Non doveva succedere. A una dozzina di passi da loro c'era uno stretto portone; era aperto e sembrava offrire un rifugio. Andrej si guardò furtivamente intorno e poi lo raggiunse. Una rapida occhiata gli fu sufficiente per vedere che si apriva su un piccolo cortile, circondato da un muro ad altezza d'uomo, contro cui erano ammucchiate una montagna di pattume e una pila di legna marcia, alta fino alle ginocchia. S'infilò rapidamente sotto l'arco di pietra, guardò a sinistra e a destra e trovò conferma alla sua prima impressione: sia quel sudicio cortile sia la casa che vi si affacciava erano disabitati e abbandonati. La casa era chiusa da un'unica porta, costruita alla meglio con assi marce. Le cinque finestre che poteva vedere dalla sua posizione erano inchiodate con assi. Andrej si avvicinò alla porta, chiuse gli occhi e rimase in ascolto. Riusciva a sentire distintamente i rumori del mercato e delle strade, ma la casa era silenziosa. Sì, doveva proprio essere vuota. Con decisione infilò la mano in una fessura tra le assi della porta, tirò e quasi perse l'equilibrio perché, sotto la sua presa, il legno marcio si sbricio-
lò. Senza esitare, spaccò la porta e trascinò Frederic all'interno dell'edificio. Furono avvolti da una penombra polverosa, da un vuoto spettrale e da uno sgradevole fetore di marcio, su cui spiccava un acuto odore dolciastro, come se, in quella casa, qualcuno fosse morto da poco e non fosse ancora stato sepolto. Forse era proprio quello il motivo per cui l'edificio era inutilizzato. Andrej chiuse alle proprie spalle la porta semidistrutta, si avvicinò a una finestra sulla parete opposta, sbirciò attraverso le fessure - larghe un dito tra le assi che la chiudevano e vide la strada da cui erano arrivati poco prima. C'erano ancora molti passanti, ma sembrava che nessuno avesse notato che due singolari forestieri si erano infilati in un portone. Forse Constãntã era troppo grande perché si prestasse attenzione a due sconosciuti, per quanto il loro aspetto fosse particolare. Frederic, che sembrava completamente sfinito, si sedette a gambe incrociate sul pavimento. Andrej seguì il suo esempio, ma non prima di aver sguainato la scimitarra e di averla appoggiata a terra, a portata di mano. «Riposati un po'», disse. «Resteremo qui fino al calare delle tenebre.» Non era convinto che quel nascondiglio fosse la scelta migliore. Se li avessero scovati, non avrebbero avuto una via di fuga. In una situazione del genere, la sua unica possibilità sarebbe stata combattere; ma anche una vittoria sarebbe servita a poco, perché non avrebbe avuto comunque scampo in quella maledetta città, con le porte d'ingresso chiuse e con dozzine forse centinaia - di soldati alle calcagna. E i suoi peggiori timori sembrarono realizzarsi pochi minuti più tardi, quando, nella casa, risuonò un rumore inequivocabile: alcuni cavalieri si stavano avvicinando all'edificio. Andrej balzò immediatamente in piedi. Un sudore viscido gli imperlò la fronte e la mano che teneva la scimitarra tremò. Sbirciò nel vicolo attraverso le fessure della finestra, ma non riuscì a vedere nulla. «C'è qualcuno?» chiese Frederic con voce tremante. «Sta' zitto», bisbigliò Andrej. «Sono qui.» Grazie allo spiraglio tra le assi, vide un pezzo di criniera, il pomo di una sella, la gamba corazzata di un cavaliere, il fodero di una spada che dondolava al ritmo del cavallo... Strinse ancora più forte l'impugnatura della scimitarra. I due uomini con l'armatura dorata cavalcavano molto lentamente e osservavano tutto con attenzione. Da un momento all'altro, Andrej si aspettava di sentire il grido che avrebbe ordinato loro di uscire dalla casa.
Ma non accadde nulla del genere. Dopo qualche minuto, finalmente - finalmente! - si allontanarono. Andrej rimase immobile, terrorizzato all'idea che i due cavalieri si fermassero e tornassero indietro per osservare meglio la casa abbandonata. Ma poi il rumore degli zoccoli si affievolì sino a diventare inavvertibile. Quel nascondiglio li aveva salvati... e tuttavia poteva trasformarsi in una trappola mortale. IX L'Orso Guercio corrispondeva così bene alla descrizione della guardia che Andrej avrebbe potuto riconoscerlo anche senza l'insegna dipinta sulla porta. Ai due Delãny era servita più di un'ora per raggiungere prima il porto e poi la strada in cui si trovava la locanda, perché Andrej era stato attentissimo a evitare le pattuglie che, in numero crescente, sciamavano dal castello e perlustravano la città. Si fermò a qualche passo di distanza dal basso edificio e si guardò intorno. La strada era desolata e squallida, esattamente come si aspettava. Nella zona del porto, le case erano più basse, più vecchie e soprattutto più misere di quelle della parte occidentale della città. Le persone che ci abitavano, inoltre, sembravano ad Andrej più povere e molto meno rassicuranti. Con quel pensiero, entrò nella locanda, attribuendo la sgradevole sensazione di essere scrutato dalle tenebre alla propria indomabile insicurezza. L'interno dell'Orso Guercio ricordava la locanda in cui avevano perso la vita Ansbert e Vranjevic: era una grande sala rettangolare con poche finestre e un pavimento di paglia e argilla. Il bancone era composto di una fila di botti vuote su cui qualcuno, con più buona volontà che abilità da falegname, aveva inchiodato una rozza asse; anche le poche sedie e i tavoli erano simili a quelli della locanda bruciata. Forse, in quella parte del Paese, tutte le bettole erano simili, pensò Andrej: semplici, ma abbastanza robuste da resistere alle risse. A patto che non si risolvessero con frecce incendiarie e brocche piene d'olio. Benché l'Orso Guercio fosse pieno di avventori, trovò subito Krusha. La figura rannicchiata vicino a lui aveva il volto coperto da un telo, goffamente avvolto a mo' di turbante, somigliante a quello usato dai musulmani. A causa delle mire espansionistiche dei turchi e alla conseguente diffidenza verso quelle genti, non era del tutto privo di pericoli farsi vedere a Constãntã con un turbante in testa. Però l'abito semplice e la fusciacca colorata che lo teneva legato erano nello stile degli abiti di quella zona.
Nell'avvicinarsi, Andrej si rese conto che i suoi timori peggiori si erano avverati. L'uomo accanto a Krusha non era l'informatore con cui aveva appuntamento, ma Sergé. Sebbene quell'abbigliamento gli sembrasse un po' troppo eccentrico, dovette ammettere che faceva bene a portarlo: le guardie della città cercavano degli incendiari e quindi non si sarebbero lasciate sfuggire un uomo ricoperto di ustioni. Frederic e Andrej si diressero verso il loro tavolo sul quale erano posati due boccali di birra. Krusha li guardò, senza espressione, mentre nell'unico occhio rimasto di Sergé - la sola cosa del suo viso che non fosse nascosta dal grossolano pezzo di stoffa - brillò prima l'incredulità e poi la rabbia. Senza salutarli, i due Delãny si accomodarono sulle due sedie ancora libere. «Eccoci qui!» esclamò Andrej con fare provocatorio. «Pensavo che avessimo appuntamento con un informatore. Dov'è?» I fratelli lo guardarono, cupi. «Ci eravamo convinti che vi avessero arrestato, oppure che aveste cambiato idea. Come mai così tardi?» Sergé, che aveva scostato la stoffa per parlare, li guardava con aria di rimprovero. Con un gesto teatrale rimise a posto il suo «turbante» in modo che si potesse vedere soltanto l'occhio. «Siamo dovuti sfuggire alle guardie del duca. Stamattina abbiamo incontrato i cavalieri dorati e loro si sono insospettiti. Ma non credo ci abbiano riconosciuto.» Non appena notò l'espressione di terrore di Sergé, si affrettò ad aggiungere: «Altrimenti avrebbero reagito in modo ben diverso. Mi ricordano coi capelli lunghi e con abiti di foggia tipica della Transilvania. E questo va a mio vantaggio». «Un bel vantaggio, se sono ancora sulle tue tracce», brontolò Sergé. «Mah! Forse mi hanno preso per un ladro.» «Di bene in meglio», ringhiò Sergé. «Cosa avete combinato?» «Niente», si affrettò a rispondere Andrej, ma, per chissà quale motivo, rivide improvvisamente il volto di Maria. Fu tentato di parlare a Sergé di quell'incontro, ma poi decise di non farlo. In fondo ai due fratelli non interessava. «Può anche essere che l'agitazione in città abbia poco a che fare con noi... o forse nulla», proseguì. «Poco o nulla?» Andrej scrollò le spalle. «Oggi al mercato qualcuno ha detto che la gente ha paura. C'è il timore che i turchi abbiano messo Constãntã in cima alla lista delle loro prossime conquiste. Forse è anche per questo che il duca ha rinforzato la guardia.» Sergé portò automaticamente la mano alla testa e si aggiustò il turbante.
«Spero che non mi prendano per uno di quei maledetti musulmani.» Andrej gli gettò un'occhiata sprezzante. «Non credo. Ti prenderanno per un ladro, piuttosto.» Sergé lo fulminò con l'unico occhio, ma si trattenne dal rispondere. «Il mio informatore mi ha detto le stesse cose», s'intromise Krusha. «Cioè che i turchi si stanno raccogliendo a sud, a un paio di giorni a cavallo da qui. Ed è questo il motivo per cui dobbiamo rinviare l'azione a domani.» «Credevo che volessimo chiudere in fretta questa faccenda», esclamò Andrej, sorpreso. «Hai ragione», disse Krusha in tono pacato. «Ma nella vita non c'è nulla di certo. Comunque non preoccuparti, in linea di principio non cambia nulla», aggiunse in fretta, quando si accorse che Andrej si stava infuriando. «Ho scoperto che i prigionieri saranno portati via domani notte.» «E allora?» sbottò Frederic. «Potremmo liberarli già oggi!» «Non ti rendi conto di quello che dici, sbarbatello», ringhiò Sergé, sprezzante. «Credi che sia una passeggiata? Una cosa del genere deve essere studiata nei particolari. A cosa ci serve trovare i prigionieri se poi non possiamo portarli fuori della città? Sta' zitto quando parlano i grandi, moccioso.» «Questo vuol dire che potremo ritrovarci nel bel mezzo di una guerra coi turchi?» commentò Andrej, stupito. Krusha scosse la testa. «No», replicò con decisione. «Non dobbiamo mettere radici qui. Faremo quello che dobbiamo fare e spariremo prima che le scimitarre marcino verso le porte della città.» «Non potremmo almeno prendere contatto coi miei, stanotte?» incalzò Frederic. «Almeno così sapremmo come stanno e se...» «No», sibilò Krusha. «Dobbiamo aspettare fino a domani. Senza il mio informatore non possiamo fare nulla.» «Ci mancava anche questa», sibilò Andrej, cui non piaceva affatto dipendere da uno sconosciuto. «Sarebbe meglio se, fino ad allora, non ci facessimo vedere insieme. Frederic e io cercheremo qualche topaia in cui rifugiarci. Domani a che ora ci troviamo?» «Alla stessa ora di oggi», sussurrò Krusha. «Ma non arrivate in ritardo!» In quel momento sopraggiunse l'oste, chiedendo se volevano qualcosa. Sergé gli fece cenno di no, spiegando che i suoi amici non potevano fermarsi oltre. Andrej e Frederic non aspettarono la replica dell'uomo; si alzarono immediatamente e lasciarono la locanda senza nessuna esitazione.
Poi, seguendo la stessa via complicata che, attraverso decine di stretti vicoli, li aveva portati al luogo dell'appuntamento, si diressero al loro nascondiglio. Andrej non smetteva un istante di guardarsi intorno furtivamente, travolto dalla sensazione che, nell'oscurità, ci fossero migliaia di occhi che lo spiavano. In quella città si sentiva molto più indeciso e insicuro che in aperta campagna. E ne aveva ben motivo. Constãntã sembrava in preda a una straordinaria inquietudine. Per strada c'erano solo poche persone e la maggior parte dei passanti era tesa, nervosa e camminava in fretta, ignorandoli. Naturalmente ad Andrej andava bene così, eppure trasaliva ogni volta che gli sembrava di cogliere un movimento nella penombra. E infatti per due volte furono costretti a sparire in un vicolo laterale, così da evitare alcuni uomini che portavano lo stemma ducale sull'uniforme arancione e bianca. E, in tutti e due i casi, Andrej aveva posato la mano sull'impugnatura della scimitarra coperta con una fusciacca per nasconderla agli sguardi curiosi -, pronto a colpire. Tirò il fiato solo quando ebbero raggiunto la casa abbandonata. «Questo manda all'aria i nostri piani», disse dopo che furono entrati. «Comunque per stanotte dovremmo essere al sicuro. Mettiti comodo. Io esco per sentire cosa si dice in giro. Forse scoprirò qualcosa d'importante. Cercherò anche di procurare un po' di cibo.» Sollevò davanti a Frederic una vecchia brocca incrinata che aveva trovato sotto la stretta scala di legno. «E con questa prenderò dell'acqua, così non morirai di sete.» «Io non me ne starò qui ad aspettare che tu ritorni, usandomi la bontà di portarmi qualcosa da bere», disse Frederic deluso. «Qui da solo non ci resto.» Andrej voleva replicare, ma il ragazzo proseguì a voce ancora più alta: «Vengo anch'io. Mi sono già riposato prima. Mi tratti come se fossi un bambino!» Andrej sospirò. Evidentemente a Frederic non andava affatto a genio di restare lì, ma non c'era da stupirsi. Trovarsi da solo in quel luogo, che a un giovane contadino della Transilvania appariva assai minaccioso, era già un sufficiente motivo di paura; sapere poi che tutte le guardie del duca, compresi un paio di misteriosi cavalieri dorati, erano sulle sue tracce era decisamente troppo. «Dobbiamo evitare ogni rischio inutile», insistette. «Se a quest'ora usciamo in due, daremo più nell'occhio.» Ma Frederic non voleva cedere e, alla fine, Andrej fu costretto a troncare le sue obiezioni con un secco movimento della mano. «Tu resterai qui, e basta», affermò. «E ti do un consi-
glio: non seguirmi! Se lo facessi, metteresti a repentaglio la vita dei tuoi parenti.» «È una minaccia?» chiese Frederic, in tono impaurito e ostinato nel contempo. «Sì, è una minaccia», confermò Andrej. «E voglio sia chiaro una volta per tutte che qui non sei tu a dettare le regole del gioco: a farlo sono il duca, i cavalieri dorati, Domenicus e quei 'ladri' cui ci siamo affidati. Noi due siamo in fondo alla lista.» Si girò senza aggiungere una parola e uscì. Mentre percorreva i vicoli che, attraverso diverse biforcazioni, l'avrebbero condotto nelle strade più ampie, cercò di calmarsi. Frederic aveva un modo di fare che gli dava sui nervi. Non c'erano decisioni e accordi che non commentasse e criticasse. Senza contare che, finché rimanevano a Constãntã, mettersi a litigare era tutt'altro che privo di rischi. Bastava una parola avventata o detta a voce troppo alta per mettere le guardie sulle loro tracce... Poteva addirittura decidere il fato dei superstiti di Borsã. Si era diretto verso la piazza del mercato, ma non sapeva perché avesse scelto proprio quella strada. Si stava semplicemente gustando il piacere di stare solo, senza quel ragazzo cocciuto che non perdeva occasione per farlo andare in bestia. Era tentato dall'idea di riempire subito la vecchia brocca a una fontana e poi tornare immediatamente nel rifugio per rovesciarne il contenuto in testa a Frederic alla prima risposta insolente. Bighellonò per i vicoli poco frequentati - sempre attento alle uniformi e al tintinnio delle armi - e improvvisamente si ritrovò nel luogo in cui aveva incontrato la ragazza. A quell'ora, la piazza del mercato dava un'immagine ben diversa da quella offerta alla luce del giorno. L'odore che stagnava sulla piazza era un disgustoso miscuglio d'immondizia ed escrementi che gli faceva rivoltare lo stomaco; ma c'erano anche resti di frutta e verdura, alcuni dei quali sembravano ancora commestibili. Sebbene il sole fosse quasi tramontato, la piazza era animata. Alcuni mercanti stavano portando al sicuro le merci avanzate; altri si mettevano in cammino verso il luogo in cui avrebbero passato la notte. Ma non pochi si erano coricati - nel modo più confortevole possibile - sull'acciottolato vicino alle loro merci, in modo da essere già pronti la mattina seguente. Andrej presumeva che parecchi di loro, se avessero potuto permettersi quel lusso, si sarebbero presi una branda in una locanda. Alla vista delle bancarelle vuote, il suo stomaco cominciò a brontolare. Il più furtivamente possibile, si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da mangiare. Se il mercato fosse stato ancora aperto, avrebbe sacrificato buo-
na parte dei soldi che gli tintinnavano nella borsa per un pezzo di pane e un po' di formaggio. Ma, visto che non era possibile acquistare nulla, non gli restava altro che guardarsi intorno per raccattare qualcosa. Ebbe fortuna. In mezzo a un vicolo ingombro di carretti, inciampò letteralmente in un paio di rape gialle e in alcuni cavoli che erano stati gettati via insieme con dei trucioli di legno. Non avevano un aspetto molto appetitoso, ma erano commestibili. Avvolse il suo tesoro in un pezzo di tela che qualcuno aveva distrattamente buttato via e si avviò verso una piccola aiuola rotonda nei pressi della piazza; l'aveva notata quella mattina e, per la posizione isolata, gli era sembrata adatta come nascondiglio provvisorio; inoltre, al centro, aveva un pozzo. La sete divenne improvvisamente intollerabile. Senza prestare la necessaria attenzione, si precipitò verso l'aiuola deserta e si avvicinò al pozzo per prendere l'acqua con un secchio legato a una catena. Dopo aver placato la sete, riempì la brocca per bere ancora una volta, con più calma, prima di ritornare da Frederic e sorbirsi le sue incessanti lamentele. Una cena non del tutto disprezzabile forse lo tranquillizzerà un po', rifletté. Mentre era immerso in quei pensieri, sentì una mano che si appoggiava dolcemente sulla sua spalla. Si voltò, fulmineo, e nel contempo sguainò la scimitarra. Era pronto a combattere, pronto a tutto, o, meglio, a quasi tutto. Infatti, quando vide il suo avversario, si sentì ridicolo. Era Maria, avvolta in un ampio mantello col cappuccio così calato sul viso che Andrej la riconobbe solo per gli occhi allegri e brillanti. «Mi arrendo», gridò lei, fingendosi terrorizzata. «Credetemi, non ho nulla su di me con cui possa combattere.» Imbarazzato oltre ogni dire, Andrej rinfoderò immediatamente la scimitarra. Sul volto gli comparve un rossore che rivelava quanto fosse a disagio. «Da dove arrivate?» chiese incerto. «Non sembra che siate felice di rivedermi», replicò Maria. Con un rapido movimento si tolse il cappuccio e la chioma nera le ricadde sulle spalle. «Stamattina ve la siete data a gambe.» «Non... era a causa vostra», balbettò Andrej. «Ma certo. Però allora avete dei segreti. Fatemi indovinare: si tratta di una donna. Ho ragione?» «No.» Andrej scosse con decisione la testa, come se volesse convincerla una volta per tutte. «Non si tratta di una donna. Almeno non nel senso che intendete voi.»
«E cosa intendevo?» lo prese in giro Maria, corrugando la fronte e sottolineando così l'espressione maliziosa del viso. «Eh... non lo so», farfugliò Andrej. Si rendeva conto che il suo volto stava prendendo il colore di un pomodoro maturo. «Stamattina si trattava dei parenti di Frederic.» «Se non sbaglio, i suoi parenti sono anche i vostri, no?» Il sorriso di Maria era dolce come lo zucchero. «Eh... sì. Certo.» Andrej si sentì avvampare. «Ma era da tanto tempo che non li vedevo.» «Sì, sì. E ora, cosa vedete?» Maria si avvicinò di mezzo passo e si alzò sulla punta dei piedi. «Io?» gracchiò Andrej. Sentiva il cuore battergli in gola. «Io vedo...» «Sì?» lo sollecitò Maria con voce languida. «Cosa vedete?» I pensieri di Andrej - quei pochi che gli erano rimasti - si accavallarono. «Siete... in giro da sola?» ansimò. Maria piegò la testa e il suo sorriso speranzoso divenne un po' più freddo. «Parlate come mio fratello. Ma quello l'ho lasciato a casa. Altrimenti non mi sarei potuta avvicinare e non avrei potuto farvi una sorpresa. Ho pensato che... No, sapevo che vi avrei rivisto. Dove avete lasciato il vostro nipotino?» «È nel nostro alloggio», rispose Andrej, avvertendo il sudore che gli scorreva sulla fronte. «Da alcuni nostri amici.» Maria slacciò i bottoni del mantello e si sedette sul bordo del pozzo. Appoggiandosi con le mani, si chinò leggermente in avanti, mettendo in evidenza la scollatura. L'attaccatura dei suoi seni si alzava e abbassava a ogni respiro. Con tutta la buona volontà, Andrej non poteva considerare casuale quel comportamento. Prima di Raqi, c'erano state due o tre occasioni in cui era sparito in un fienile con una bella contadinella, dopo che lei gli aveva fatto gli occhi dolci. Ma lì era tutto diverso. Era pura follia. Come ipnotizzato, Andrej si fece sempre più vicino e, con voce leggermente impastata, disse: «Non dovreste farlo». «Cosa non dovrei fare, straniero?» chiese lei, guardandolo con aria ingenua. «C'è qualcosa di sbagliato nel seguire i più intimi e profondi sentimenti? C'è qualcosa di sbagliato nell'andare incontro al destino?» «Io... No.» Andrej pensò alle guardie che certamente stavano perlustrando quella zona. Pensava al pericolo che correva se avessero scoperto... lui, lo stregone. Al momento, tuttavia, gli sembrava piuttosto di essere stato
stregato. «È solo che... Sono soltanto un uomo semplice, che viene da un isolato villaggio della Transilvania», mormorò in tono sconsolato. «E cosa c'entra?» ribatté Maria, sorridendo e chinandosi ancora un po' in avanti. «Gli uomini della Transilvania non sono veri uomini? Cosa volete dire?» «Certo... naturalmente», rispose Andrej impacciato. Voleva fuggire da quella giovane donna eccitante e disponibile come se fosse stato il suo peggiore nemico. Ma poi non riuscì a nascondere la verità. «Potrebbe essere... che sia sul punto... d'innamorarmi di voi.» «E cosa c'è di strano se due persone si amano o sono sul punto d'innamorarsi? Non è la cosa più normale del mondo? Tu... voi mi piacete, nel caso non ve ne foste accorto.» Maria fece risuonare la sua risata cristallina. Andrej sentì dentro di sé una sorta di eccitazione che gli sembrò un ennesimo tradimento a Raqi, ma ormai in lui ragione, prudenza e cautela erano sparite. Sapeva che era sbagliato abbandonarsi al gioco seducente e demoniaco di Maria, sapeva di non essere che un passatempo per quella donna, spinta a cercare emozioni che potessero animare una vita probabilmente agiata ma noiosa. Eppure non gli importava. Le mani trovarono da sole la strada, scivolarono sulla sua schiena e la attirarono a sé. Temeva che, da un momento all'altro, lei lo respingesse, mettendosi a chiedere aiuto a voce così alta da richiamare le guardie, che lo avrebbero arrestato come violentatore, per poi scoprire che la loro preda era ben più sostanziosa di quanto pensavano, perché Domenicus stava cercando proprio quell'uomo per sottoporlo a giudizio. Mentre stringeva tra le braccia il corpo eccitante e fremente di Maria, fu colpito dal pensiero che forse la donna gli stava giocando un tiro malvagio, che si era assunta il compito di farlo cadere in una trappola ordita dai cavalieri dorati. Ma non era così. La strinse a sé, famelico, le ricoprì le guance di baci impacciati ma palpitanti. Con grande sorpresa, si rese conto che pure lei ardeva dal desiderio: gli prese il volto tra le mani e lo portò dolcemente a sé, poi le loro labbra s'incontrarono in un bacio che sembrò non finire mai. Tutto procedeva molto più in fretta di quanto dovesse: nel modo in cui si toccavano c'era una naturalezza che scacciava ogni inibizione e rendeva impossibile difendersi dall'improvviso rivelarsi della passione. I loro corpi sembravano diventati uno solo. Era come se si sciogliessero l'uno nell'altra. Le accarezzò le spalle, poi si spostò lentamente verso il
seno. Troppo in fretta, troppo in fretta, troppo in fretta... Tutto il corpo della donna sembrava vibrare sotto le sue carezze, ed era proprio quella risonanza che impediva loro di fermarsi. Ormai da tempo aveva dimenticato dove si trovava, aveva dimenticato che in qualunque momento poteva sopraggiungere un «testimone» di quell'appassionato spettacolo. Le appoggiò la bocca sul collo, mentre le loro mani, come in un accordo segreto, allargavano la scollatura del prezioso abito della ragazza. Quando le labbra frementi di Andrej si posarono sul seno di lei, Maria, con un gesto sfacciato, fece uscire i capezzoli dalla scollatura. Lui li solleticò con la lingua ed essi si rizzarono. Intanto lei gli accarezzava la testa, poi fece scivolare le mani lungo il collo e sulla schiena. Legati in uno stretto abbraccio, si staccarono dal bordo del pozzo e si distesero sul terreno. Ormai avevano completamente dimenticato il mondo intorno a loro. Cos'era il mondo in confronto a quello che stavano vivendo? «Ti ho cercato», sussurrò teneramente Maria all'orecchio di Andrej. «Dal primo momento che ti ho visto, ho capito che ti volevo. Lo so, quello che ti sto dicendo non è molto decoroso, ma...» Andrej le chiuse le labbra con un bacio e sussurrò: «Per me è stata la stessa cosa. Mi sono sentito come... se mi avessi fatto un incantesimo». Poi udì un rumore di passi leggeri e fu percorso da un improvviso terrore. Di colpo si rese conto di quello che stava facendo; con uno strattone deciso, si allontanò da Maria e balzò in piedi, portando la mano all'impugnatura della scimitarra. Era pronto a tutto: a un'imboscata in cui Maria l'aveva fatto cadere, a una pattuglia di guardie attirata dai loro gemiti appassionati, a qualche guardone che non si voleva perdere lo spettacolo di due amanti dimentichi del mondo circostante. Non era nulla di tutto ciò. «Frederic...» gemette Andrej sorpreso e spaventato insieme, mentre si guardava freneticamente intorno per capire se il ragazzo era stato inseguito. «Per Dio, cosa ci fai qui?» «Ho sentito... un rumore», balbettò Frederic. «Ti ha seguito qualcuno?» chiese Andrej, brusco. «No.» Il ragazzo scosse la testa. Aveva un'aria molto infelice. «Non credo.» «Qualcuno ti ha costretto a lasciare il nascondiglio?» Il ragazzo scosse di nuovo la testa. «Avevo solo... paura.» Andrej sospirò di sollievo. Avrebbe voluto prendere per le orecchie quel maleducato Delãny e dargli uno scappellotto. «Aspetta là, vicino a quella
casa», gli ordinò. «Arrivo subito. E guai a te se stavolta non fai quello che ti dico!» Frederic non disse più nulla; evidentemente aveva capito di aver esagerato. Con un cenno del capo fece intendere ad Andrej che avrebbe obbedito al suo ordine e corse via a passi veloci ma silenziosi. Andrej tornò a voltarsi verso il pozzo per spiegare a Maria la situazione. Ma lei non c'era più. Erano rimasti solo il fagotto e la brocca. «Maledizione», mormorò. I suoi sentimenti erano nel caos. La fiamma che fino a poco prima lo aveva avvolto si era trasformata in una struggente sensazione di perdita. Aveva stretto tra le braccia il corpo inebriante di quella donna... e adesso forse non l'avrebbe rivista mai più. Inoltre non sapeva quanto avesse sentito della conversazione con Frederic. Al posto di Maria, si sarebbe fatto parecchie domande, per esempio a quale nascondiglio si riferisse Andrej e perché lui aveva avuto paura che suo nipote fosse stato seguito. Forse, dopo l'improvvisa comparsa di Frederic, era corsa via, troppo spaventata per comprendere il senso delle brusche parole di Andrej. Sperava che fosse così. Quella giovane donna che l'aveva sconvolto così profondamente poteva diventare molto pericolosa. Se avesse confidato qualcosa al fratello - sicuramente un personaggio altolocato -, c'era il rischio che quell'uomo scatenasse una vera caccia alle streghe contro di lui. E, a quel punto, avrebbe avuto poca importanza se l'avessero considerato un incendiario o una spia dei turchi. X Andrej faticò ad addormentarsi: i suoi pensieri tornavano sempre a Maria. Poteva letteralmente sentire il profumo della sua pelle e un brivido di piacere gli percorse la schiena all'immagine delle dita della donna che lo accarezzavano e delle unghie che si conficcavano dolcemente nella sua pelle. Ma c'erano anche altre immagini che s'inseguivano nella sua mente, immagini di dolore e violenza, quelle della locanda in fiamme in cui uomini innocenti erano morti soltanto perché i cavalieri dorati volevano uccidere lui. I ricordi dei due avvenimenti si alternavano come se fossero l'uno parte dell'altro e, nel labile confine tra veglia e sonno, s'impossessò di lui l'assurda sensazione che tra loro esistesse un legame. Com'era possibile? Solo all'alba cadde in un sonno liberatorio. Poco dopo si risvegliò, sfinito e in un bagno di sudore. Gli fu necessario qualche istante per rendersi
conto di dov'era. Si alzò silenziosamente, andò alla finestra e guardò nel vicolo attraverso le fessure tra le assi. Considerata l'ora, c'era parecchia animazione. Alcuni marinai, con le loro sacche in spalla, andavano in una direzione che lui non aveva ancora esplorato; probabilmente, da qualche parte, dietro le case vicine al loro nascondiglio, c'era una scorciatoia per il porto. Lui sapeva che Constãntã doveva la propria ricchezza alla posizione favorevole sul mar Nero ed era considerata la Venezia d'Oriente, perché aveva un'importanza fondamentale nei commerci non soltanto con le altre città portuali dello stesso mar Nero, ma anche col vicino Mediterraneo. Ma non c'erano solo i marinai. Un commerciante che spingeva un carretto di legno carico di verdure - diretto probabilmente al mercato - si doveva aprire la strada tra donne miseramente vestite che schiamazzavano. Qualche passo più indietro, sciamava un gruppo di bambini urlanti. Alla loro vista, Andrej si sentì trafiggere il cuore. Suo figlio Marius avrebbe potuto essere tra quei bambini, come pure Frederic, ma la loro infanzia era finita nel momento in cui Domenicus e i cavalieri dorati erano arrivati a Borsã. Spostò lo sguardo sul ragazzo addormentato. Almeno mentre dormiva accovacciato, con le ginocchia quasi all'altezza del mento e la testa appoggiata alle mani congiunte come in preghiera - sembrava davvero un bambino. Improvvisamente Frederic aprì gli occhi, fissò Andrej e si alzò di scatto. «Oh! Mi sono addormentato?» «Non c'è motivo di agitarsi. Abbiamo tutta la giornata. Non dobbiamo essere all'Orso Guercio prima di sera.» «E cosa facciamo intanto?» «Daremo un'occhiata in città. Ma con prudenza e senza attirare l'attenzione.» «Perché non restiamo qui?» chiese Frederic. Andrej scosse la testa. Aveva riflettuto a lungo su quella possibilità. «Dobbiamo usare questa casa solo in caso di necessità. È possibile che i soldati setaccino ogni edificio. E, se dovessero arrivare qui, non voglio che ci trovino.» Si mossero rapidamente, ma con prudenza, in attesa del momento propizio per scivolare inosservati fuori dall'edificio. Andrej stava all'erta, pronto a squagliarsela con Frederic alla comparsa di un'uniforme arancione e bianca. Decise tuttavia di prendere il toro per le corna. Era poco probabile che i cavalieri dorati e le guardie pensassero che lui stesse tranquillamente gironzolando per le strade di Constãntã; era molto più plausibile che setac-
ciassero ogni angolo nascosto della città e ogni pertugio. Anche per quel motivo non aveva lasciato niente nella casa: se i soldati l'avessero perlustrata durante la loro assenza, non avrebbero trovato tracce. Soltanto così poteva essere sicuro che il nascondiglio fosse ancora utilizzabile in caso di emergenza o per trascorrervi un'altra notte. Uscito, si diresse subito verso il castello. Sapeva che esso aveva un ruolo centrale nella vita della città; inoltre poteva essere assai utile conoscere il complicato sistema di vicoli che si sviluppava intorno a esso. Doveva prendere confidenza con l'ambiente. Si fissò nella mente il corso delle strade e le caratteristiche degli edifici, sempre cercando di evitare le guardie ducali. Ma non vide né i cavalieri dorati né gli sgherri dell'inquisitore. «Sono curioso di sapere come il nostro informatore riuscirà a farmi sgattaiolare là dentro», sussurrò a Frederic prima di riprendere la direzione del porto. Bighellonare in una città in cui tutti erano affaccendati rischiava però di attirare comunque l'attenzione. «È meglio se torniamo verso la piazza del mercato. Là c'è più gente e nella folla daremo meno nell'occhio», disse quando i raggi del sole cominciarono a irritargli gli occhi ipersensibili, facendogli capire che era mezzogiorno. Esattamente com'era accaduto il giorno precedente, fecero molta fatica ad aprirsi la strada nella ressa senza perdersi di vista. Gli urti e gli spintoni erano continui. Inoltre si era formato un capannello presso un banchetto di verdure che prima aveva cominciato a traballare e poi si era rumorosamente rovesciato. Tutti volevano impossessarsi delle prelibatezze cadute ai loro piedi, Anche Andrej e Frederic si chinarono, ma, quando videro arrivare a cavallo le guardie del duca, si avviarono nella direzione opposta. A distanza di sicurezza, osservarono gli avvenimenti, che culminarono in una lite tra il commerciante e la piccola folla. Non era tuttavia prevedibile da quale parte si sarebbero schierate le guardie, che avevano già minacciosamente estratto le spade. «È meglio sparire prima di essere coinvolti», bisbigliò Andrej. Si girò per lasciare la piazza del mercato il più velocemente possibile, ma rimase come pietrificato. Davanti a lui c'era Maria. «Cosa... Come mai sei qui?» farfugliò. Nella testa gli passarono mille cose. Gli avvenimenti della notte precedente gli sembravano un sogno lontano, che nemmeno il più potente incantesimo avrebbe potuto far ritornare. Rammentò tuttavia di aver già pensato che, per quella donna, lui proba-
bilmente non era che un trastullo. Magari si era già divertita con stallieri e camerieri, e poi aveva voluto far girare la testa a qualche ingenuo straniero... «Vi ho visti laggiù.» Lei indicò la strada che conduceva al castello. «Cioè, ho sperato che foste voi. In fondo ho ancora un debito con questo ragazzo e non mi piace essere debitrice, soprattutto se si tratta di una stecca di zucchero!» Confuso, Frederic guardò prima Andrej e poi Maria. «Va bene», disse Andrej. «Ma davvero non abbiamo...» «... molto tempo, lo so», concluse Maria. «Neppure io ne ho molto. Mio fratello mi sta aspettando. Forza, venite.» Afferrò Frederic per la mano e si avviò così in fretta che il ragazzo, prima di mettersi al suo passo, venne quasi trascinato per qualche iarda. Andrej li seguì, tenendo d'occhio la moltitudine di gente che sciamava in ogni direzione. Ancora una volta si domandò se non avesse perso completamente la ragione: probabilmente non c'era motivo per essere diffidenti, però non riusciva a scacciare la sensazione che Maria gli nascondesse qualcosa di estrema importanza. Forse era stata incaricata da qualcuno di carpire la fiducia di Andrej e scoprire così i suoi piani segreti? Si rendeva conto dell'assurdità di quei pensieri, ma non poteva farci nulla. I suoi sentimenti nei confronti di quella giovane donna erano contrastanti. Da una parte, si sentiva attirato da lei, al punto di essere incapace di resisterle e di fremere alla sola idea di sfiorarla. Dall'altra, non riusciva a comprendere il suo modo di fare energico e risoluto. Era... di una schiettezza inconsueta e inquietante nel contempo, una schiettezza che lui non aveva mai visto in nessun'altra donna. Forse era la figlia di un ricco nobile o la moglie di un cavaliere ospite del castello. Restava il fatto che, vista la situazione, non poteva fidarsi di nessuno. Oltretutto l'ora fissata per il loro appuntamento era ormai vicina. Ma forse non era giusto sottrarre a Frederic quei preziosi momenti di gioia. Attraversarono la piazza del mercato. Nonostante la calca, Maria si muoveva così veloce che Andrej faticava a tenere il suo passo e quello di Frederic. Finalmente raggiunsero una bancarella che, oltre a frutta e verdura, aveva anche stecche di zucchero e altre leccornie. Maria invitò Frederic a scegliere quello che voleva e il ragazzo rifletté a lungo. Andrej non riuscì a contenere un sorriso quando vide l'espressione beata sul volto del ragazzo. Le mani di Frederic tremavano come quelle di un orefice che deve scegliere una pietra preziosa per un gioiello pregiato. In-
fine, prese proprio ciò che la giovane donna gli aveva offerto sin dall'inizio: una stecca di zucchero. Maria si voltò verso Andrej e sorrise. Era incredibilmente bella e improvvisamente lui la vide non soltanto molto più giovane di quanto gli fosse sembrata la prima volta ma anche così affascinante da annullare ogni facoltà mentale. In quella piazza sudicia e caotica, Maria era completamente fuori posto. Andrej la fissava, estasiato, tuttavia si accorse che non faceva neppure il gesto di pagare la stecca di zucchero. Al venditore sembrava una cosa ovvia. Ad Andrej no. Ma in quel momento rifiutò di pensarci. «Allora, Andrej... Non è valsa la pena perdere qualche minuto per questo sorriso?» gli chiese. Sulle prime, quelle parole sembrarono ad Andrej quasi ridicole. Però il modo in cui Maria gli stava davanti, il suo sorriso allegro e gli splendidi riflessi che il sole creava sui suoi capelli neri trasformarono ben presto il suo stato d'animo in quello di un ragazzo poco più grande di Frederic. Il sorriso spensierato della donna gli faceva battere il cuore più in fretta e la sua allegria contagiosa era un toccasana per Frederic... Ma proprio per quel motivo Andrej si sentiva stringere dall'angoscia. La sensazione che lei avesse un segreto oscuro divenne incontenibile. «Sì», disse, scrollando le spalle e spostando lo sguardo. Era confuso, quasi smarrito, e, poiché non riusciva a sciogliere la contraddizione dei suoi sentimenti, la sua angoscia crebbe. Maria non contribuiva di certo ad allentarla. «Da dove vieni, Andrej?» chiese. «Da occidente?» «Si vede tanto?» chiese Andrej di rimando, improvvisamente consapevole dell'enorme quantità di cose che li separavano. «Non lo so, non sono mai stata in Transilvania, anche perché mio fratello non me lo permetterebbe mai... Tuttavia mi hanno raccontato che sulle montagne vivono ancora tribù barbare che adorano gli dei pagani.» S'interruppe, improvvisamente turbata. «Cioè... Non è questo che intendevo», riprese. «Non voglio dire che tu sembri un barbaro pagano, ma solo che...» Esitò, incapace di trovare le parole adatte e si rifugiò in una scrollata di spalle, accompagnata da un sorriso imbarazzato. «Temo che mio fratello abbia ragione», concluse. «A volte dico proprio delle sciocchezze.» «Solo che normalmente non lo ammetti», disse una voce alle spalle di Andrej. «Almeno non quando sono nei paraggi.» Andrej stava per voltarsi, ma si bloccò quando vide la reazione di Frede-
ric. Il volto aveva perso ogni colore e gli occhi, così grandi che sembravano uscire dalle orbite, erano incupiti dalla paura. Il ragazzo prese addirittura a tremare. Allora Andrej si girò di scatto e trattenne a stento un grido di sorpresa. Dietro di lui c'era un uomo molto alto, con le spalle larghe, gli occhi scuri e corti capelli neri. Indossava ancora quel mantello rosso che, quando si trovava a cavallo, gli aveva conferito un'aria così autorevole - benché adesso sembrasse più pacchiano che elegante - e reggeva tra le mani l'enorme cappello dalla tesa larga. Sul suo petto pendeva una croce d'oro tempestata di pietre preziose che doveva pesare almeno una libbra. Domenicus squadrò Andrej con un'occhiata rapida ma molto attenta prima di rivolgersi nuovamente a Maria, scrollando esageratamente la testa. «Succede sempre così», sospirò. «Non ti posso perdere di vista un momento. Spero che mia sorella non vi abbia disturbato. Sapete, talvolta è davvero sfacciata.» Andrej non replicò, certo che Domenicus non si aspettava comunque una sua reazione. Ma notò che l'inquisitore non era affatto un uomo di Chiesa come quelli che lui conosceva: non stava in mezzo al popolo, ma al di sopra del popolo e la piena consapevolezza del suo rango gli creava intorno una sorta di barriera invisibile. E soprattutto era l'assassino di suo figlio, di Barak e di tutti gli altri della valle di Borsã. Quel pensiero si formò con qualche istante di ritardo, ma suscitò in Andrej una rabbia violentissima. Improvvisamente anche le sue mani cominciarono a tremare e per un momento l'immagine di Domenicus si sfocò davanti ai suoi occhi. Il cuore gli batteva all'impazzata e fu costretto a far violenza su se stesso per non estrarre la scimitarra e uccidere quell'uomo all'istante. Se in quel momento Domenicus l'avesse guardato, senza dubbio gli avrebbe letto negli occhi quei pensieri. L'inquisitore, però, guardava Frederic e lo stava facendo in modo particolare... non ostile, ma in un certo senso diffidente e sbalordito. «Perché sei così spaventato, piccolo?» chiese. «Ci conosciamo?» «Voi... voi siete...» balbettò Frederic. Domenicus sospirò. «Capisco», disse. «Sì, hai ragione, ragazzo mio. Mi chiamo padre Domenicus e, prima che tu me lo chieda, sì, sono l'inquisitore che è ospite del castello. Ma qualunque cosa ti abbiano raccontato, non hai motivo per avere paura di me.» «Ma voi...»
«Sta' zitto, Frederic», disse Andrej. Anche la sua voce tremava. Si schiarì la gola e si sforzò di mostrare un'espressione impassibile, poi, con un movimento rigido, si voltò di nuovo verso Domenicus. «Vi prego, perdonate mio nipote, eccellenza. È uno stupido ragazzino che crede a tutte le sciocchezze che sente.» «E quali sciocchezze avrebbe sentito?» chiese Domenicus freddamente, giocherellando con la croce d'oro. Poi sorrise, ma era il sorriso più gelido che Andrej avesse mai visto sulle labbra di un essere umano. «Non lo so», rispose Andrej. «Vi prego, perdonateci ancora se vi abbiamo disturbato. Ora dobbiamo davvero andare. Frederic, vieni!» Il ragazzo sembrava non aver sentito quelle parole e continuava a fissare l'inquisitore. Allora Andrej lo prese per le spalle e lo trascinò con sé. Con un breve cenno a Maria si girò per andarsene, ma inaspettatamente Domenicus disse: «Perché avete così fretta? Mi piacerebbe chiacchierare un po' con voi, Andrej Delãny». Impietrito, Andrej strinse le spalle di Frederic e il suo cuore rallentò i battiti, ma il pulsare del sangue divenne così profondo che lui lo poté sentire fin nella punta delle dita. Sollevò lentamente le mani dalle spalle di Frederic, allontanò il ragazzo e si voltò di nuovo verso Domenicus. Con la mano destra scostò il mantello, poi portò la stessa mano sull'impugnatura della scimitarra. L'inquisitore non era più solo. Dietro di lui c'erano due uomini con l'armatura di cuoio e un mantello di lana lungo fino alle caviglie. Andrej non aveva bisogno di guardare per sapere che pure alle sue spalle erano comparsi alcuni uomini armati. I cavalieri dorati non si vedevano, ma di certo erano lì, da qualche parte. Cercò Maria con lo sguardo. La giovane donna, confusa, fissava alternativamente lui e il fratello. O non capiva cosa stava succedendo oppure era la migliore attrice che Andrej avesse mai conosciuto. «Domenicus, cosa...» «Ora è meglio se te ne vai, Maria», mormorò il fratello. «Potrebbe diventare pericoloso.» «Cosa vuol dire?» La voce di Maria era tagliente, quasi aggressiva. «Ho diritto a una spiegazione! Conosci quest'uomo?» «Vuol dire che tu mi hai messo in trappola», disse Andrej. «Presumo che ieri tuo fratello, con molta abilità, abbia orientato la tua attenzione verso di noi.» Maria impallidì. «È vero? Domenicus!»
L'inquisitore la guardò per un attimo, inarcò il sopracciglio sinistro e si rivolse di nuovo ad Andrej senza rispondere alla domanda. «Smettetela, Delãny!» disse. «Non avete più nessuna possibilità.» «Lo vedremo», replicò Andrej. In apparenza sembrava deciso, ma il suo animo era in subbuglio. I due soldati dietro l'uomo di Chiesa avevano messo le mani sulle spade, però non le avevano ancora estratte. La loro tensione, comunque, era palpabile. Avevano paura di quella situazione imprevedibile e quindi rischiosa. «So quanto siete pericoloso, Andrej Delãny», mormorò Domenicus. «Senza dubbio siete disposto a battervi prima di essere catturato. Ma pensate al luogo in cui ci troviamo. Potreste uccidere degli innocenti. Lo volete davvero?» Andrej sentì che alle sue spalle si stavano avvicinando almeno due uomini, forse di più, e molto probabilmente tra loro c'era uno dei cavalieri dorati. «Arrendetevi senza resistere e io vi assicuro che avrete un processo giusto», proseguì Domenicus con un sorrisetto tirato, visto che Andrej non reagiva. «Come a Barak?» chiese Andrej dopo una lunghissima pausa. «A Barak?» Domenicus fu costretto a frugare nella memoria prima di ricordare quel nome. Poi annuì. «Ah, sì. Il vecchio testardo della valle di Borsã.» «Dimenticate alla svelta i nomi degli uomini che avete torturato a morte», sibilò Andrej. «Oppure ormai sono così tanti che non riuscite più a ricordarli?» «Barak Delãny era uno stregone», rispose Domenicus con freddezza. «Ha ammesso di aver venduto l'anima al diavolo. Anche voi siete un seguace di Satana?» «Se lo fossi, dovreste saperlo», disse Andrej. «Frederic, corri!» Con un gesto rapidissimo si voltò, diede a Frederic una spinta che lo fece barcollare e, con la coda dell'occhio, percepì un movimento frenetico. Si era sbagliato. Dietro di lui si trovavano ben più di due soldati e, in mezzo a loro, c'era un cavaliere dorato: il gigante contro cui aveva già combattuto una volta e che si era lasciato sfuggire per un pelo! Gli aveva promesso che si sarebbero rivisti, ma Andrej non avrebbe mai immaginato che sarebbe successo nel bel mezzo di Constãntã e alla presenza dell'inquisitore. Due uomini attaccarono Andrej con le spade sguainate. Con un'abile mossa, lui evitò un violento colpo di spada calato a due mani che l'avrebbe
decapitato, ma scivolò e cadde sul fianco. Una seconda lama colpì la pietra a poca distanza dalla sua spalla sinistra, generando una pioggia di scintille. Andrej rotolò via, colpì con un calcio le parti basse dell'aggressore, che si era sporto troppo in avanti, e, con lo stesso movimento, balzò in piedi. L'uomo che aveva cercato di decapitarlo lo aggredì di nuovo. Schivò la lama che sibilava contro di lui, scostò le braccia dell'uomo e lo colpì alla gola col taglio della mano. Il colpo poteva essere mortale, ma era stato assestato in modo approssimativo e con forza insufficiente; il soldato lasciò cadere la spada, barcollò all'indietro, stringendosi le mani alla gola, ma riuscì a restare faticosamente in piedi. Andrej fintò un calcio contro il terzo assalitore, poi arretrò con un balzo e riuscì a tirare il fiato per qualche istante. Dall'inizio della zuffa erano passati solo pochi istanti, ma la situazione era totalmente cambiata: solo tre dei quattro uomini si erano concentrati su di lui. Il quarto si era slanciato su Frederic, ma aveva mancato il ragazzo ed era caduto sulle ginocchia. Aveva il volto deformato dal dolore e non era in grado di reggersi in piedi. Invece il cavaliere dorato - quello con cui Andrej aveva combattuto nel bosco - se ne stava immobile a una certa distanza e osservava il suo nemico con un misto di curiosità e serena pacatezza. Non aveva fatto neppure lo sforzo di estrarre l'arma e probabilmente non aveva neppure intenzione di farlo. Andrej comprese istintivamente che, da quell'avversario, non doveva aspettarsi un duello leale. Avrebbe semplicemente atteso che i suoi compagni lo catturassero oppure sarebbe intervenuto solo quando lui si fosse trovato in grave difficoltà. «Arrendetevi, Delãny!» lo invitò Domenicus con voce tagliente. «Oppure siete così pazzo da voler morire?» I due uomini che stavano alle spalle dell'inquisitore non avevano preso parte allo scontro. Il primo aveva afferrato Maria e la tratteneva con rispettosa fermezza. L'altro aveva sfoderato la spada, piazzandosi in posizione difensiva tra Andrej e il suo signore. Per qualche inesplicabile motivo, i soldati cercavano di evitare un duello. E improvvisamente Andrej capì il perché. Non erano soli. La gente intorno a loro, presa dal panico, si era portata a distanza di sicurezza non appena i soldati avevano sfoderato le armi, e ora formava una sorta di arena vivente, larga più di dieci passi, al cui centro si trovavano Andrej e i suoi avversari. C'erano dozzine di testimoni, probabilmente centinaia. Né il cavaliere dorato né l'inquisitore volevano che Andrej esalasse lì l'ultimo respiro. Intendevano prima torturarlo e poi met-
terlo al rogo. Fino a quel momento neppure Andrej aveva sguainato la scimitarra. Non aveva bisogno di armi per eliminare un paio di avversari normali. Dietro di lui risuonò un urlo soffocato. Gettò una rapida occhiata alle proprie spalle e si accorse con orrore che il quarto soldato si era rialzato e aveva afferrato Frederic. Il ragazzo si difendeva con tutte le sue forze, ma ovviamente non poteva contrastare un adulto. In più, il cavaliere gigantesco, con un gelido sorriso, si era portato alle spalle dei due e aveva posato la mano sulla spada. Andrej soppesò velocemente la possibilità di raggiungerlo con un balzo e liberare Frederic, ma scartò subito quell'idea. Il soldato sarebbe morto prima ancora di comprendere cosa stava succedendo, ma il cavaliere dorato non avrebbe esitato a uccidere Frederic. «Arrendetevi, Andrej Delãny!» ripeté Domenicus. «Già troppo sangue innocente è stato versato. Avete la mia parola che vi sarà resa giustizia.» Andrej ebbe l'impulso di scagliarsi contro Domenicus anziché sul soldato che teneva Frederic, per prenderlo come ostaggio e fargli provare sulla sua pelle cos'era la giustizia. Ma poi lesse chiaramente sul volto dell'inquisitore che una simile evenienza era stata prevista. Domenicus non trascorreva le sue giornate in preghiera o facendo opere pie e Andrej sapeva riconoscere un guerriero quando lo vedeva negli occhi. Vide, o meglio percepì, che tre uomini gli si stavano avvicinando da direzioni diverse. Erano tesi, avevano paura. «Ora!» ordinò il gigantesco cavaliere dorato. I tre soldati balzarono verso di lui con un movimento perfettamente coordinato. Andrej capì che quell'attacco era frutto di un lungo esercizio; una tecnica tutt'altro che cavalleresca, ma proprio per questo efficace. Anche il migliore spadaccino sarebbe stato in grave difficoltà davanti a un'aggressione condotta da direzioni diverse. Andrej rimase immobile. Poi, improvvisamente, la scimitarra sibilò fuori del fodero con un movimento fluido che era, insieme, un affondo. Durò una frazione di secondo: la lama era scivolata così velocemente nel cuoio e nella carne che, sull'acciaio affilato, non era rimasta neppure una goccia di sangue. In pratica il soldato era già morto, ma sembrava che il suo corpo non se ne fosse accorto: barcollò con la spada tesa verso Andrej e sul suo volto apparve un'espressione sorpresa e rassegnata insieme, mentre l'armatura di cuoio si apriva e metteva in mostra sul petto una sottile linea rossa che sembrava tracciata con un pennello finissimo. Andrej si avvicinò all'uomo con passo tranquillo; poi fece un movimento
semicircolare con la scimitarra. Come aveva previsto, non colpì nessuno degli altri due aggressori, ma costrinse i soldati a sospendere l'attacco e a mettersi frettolosamente al sicuro. Nel momento stesso in cui il moribondo si accasciava lentamente davanti a lui, Andrej lo scavalcò con un salto a gambe divaricate che lo fece piombare su Domenicus e sulla sua guardia del corpo. Tutto intorno si levarono delle grida. L'arena sembrò esplodere e gli spettatori si trovarono improvvisamente a doversi confrontare con la possibilità di perdere la vita. Da qualche parte al margine del suo campo visivo, Andrej vide scintillare qualcosa di dorato. Frederic urlò. La concentrazione di Andrej era assoluta: era come se fosse un tutt'uno con la sua scimitarra. Non si mosse: divenne lui stesso un unico movimento rapidissimo e fluido, che gli spettatori terrorizzati colsero come un'ombra velocissima, quasi indistinta. La scimitarra tagliò l'aria con un rumore di seta strappata. La guardia del corpo di Domenicus reagì. Con vago stupore, Andrej notò che quell'uomo era disposto a morire per l'inquisitore, e si accorse pure che era veloce... sorprendentemente veloce per un uomo che non era stato allenato per anni nell'arte della spada da Michail Nadasdy. Ma, in confronto ad Andrej, la sua reazione era ridicolmente lenta... e inutile. La scimitarra era così affilata che lo avrebbe decapitato e, nel contempo, avrebbe vibrato un colpo mortale all'inquisitore. Tuttavia Andrej non aveva intenzione di uccidere Domenicus. La sua morte avrebbe avuto come inevitabile conseguenza la morte di Frederic e probabilmente anche quella degli abitanti di Borsã tenuti prigionieri nel castello. XI Il colpo era debole in confronto a quello che Andrej avrebbe potuto sferrare, però fu abbastanza violento da uccidere immediatamente il soldato e scaraventarlo contro l'inquisitore. La scimitarra completò quasi da sola il movimento, descrisse un semicerchio e improvvisamente sibilò dal basso verso l'alto, finché non trovò resistenza. Il soldato che teneva ferma Maria si guardò intorno senza comprendere cos'era successo e lentamente si accasciò. Ancora prima che cadesse a terra, Andrej aveva già raggiunto la giovane, trascinandola a sé e torcendole un braccio dietro la schiena. La scimitarra, immobile, era a
mezzo pollice dalla sua gola. Da quando aveva sguainato l'arma era passato solo qualche secondo. «Sta' ferma», disse Andrej a Maria. Parlò rapidamente, a bassa voce. «Non ti faccio niente, non temere.» Poi gridò: «Se qualcuno si muove, la uccido!» La giovane donna s'irrigidì e i due soldati che si erano girati per attaccarlo - ma in modo lento e goffo, come marionette nelle mani di un burattinaio maldestro - si bloccarono, indecisi. Solo il cavaliere dorato reagì prontamente. Con un passo fulmineo si avvicinò a Frederic e lo afferrò; nella sua mano sinistra brillava un coltello. «Malthus! No!» Domenicus si alzò di scatto e sollevò il braccio sinistro in direzione del cavaliere per fermarlo; poi alzò l'altro braccio con un gesto quasi identico, ma nel contempo più sciolto, verso Andrej. Aveva una piccola ferita sulla fronte che doveva essersi procurato quando il soldato l'aveva trascinato a terra. Malthus fece un altro passo verso Andrej e piegò all'indietro la testa di Frederic. Andrej vide che il ragazzo voleva gridare, ma non aveva sufficiente fiato. Negli occhi del cavaliere dorato comparve una luce fredda e malvagia. Non prestò la minima attenzione né al gesto di Domenicus né alle sue parole. «Malthus, fermatevi!» disse l'inquisitore in tono aspro. «Ve lo ordino!» Il cavaliere fece ancora un passo prima di bloccarsi e allentò un po' la presa sulla testa di Frederic in modo che questi potesse respirare. «Lasciate andare mia sorella!» gridò Domenicus ad Andrej. Era un uomo abituato a comandare, si sentiva chiaramente. E, benché il tormento riflesso nei suoi occhi rischiasse di contraddire il tono imperioso, aveva comunque una voce dura e inflessibile. «Temo di non poterlo fare, venerabile padre», rispose Andrej sarcastico. «Sarebbe una cosa stupida. E io odio fare cose stupide.» «Lasciala, oppure il giovane morirà!» gridò Malthus. «E se la libero, ci lasciate andare?» Malthus voleva rispondere, ma Domenicus lo fermò con un gesto autoritario. «Sapete che non lo faremo, Delãny», disse. «Non peggiorate la vostra situazione. Vi do la mia parola che, se libererete Maria, questo contrattempo sarà dimenticato. Non avrà la minima influenza sul vostro processo.» Era una proposta quasi grottesca, ma Andrej gli credette. Aveva appena
ucciso due uomini davanti agli occhi di Domenicus, eppure l'inquisitore era pronto a dimenticare quel contrattempo. O adorava sua sorella, oppure una vita umana gli era indifferente quanto la polvere sulle scarpe. Forse entrambe le cose. La mente di Andrej era in subbuglio. Michail Nadasdy avrebbe definito quella situazione «uno stallo», ma non poteva restare così ancora a lungo. Il rapporto di forza era sempre più squilibrato a suo svantaggio. La maggior parte degli spettatori era ammutolita e adesso osservava gli avvenimenti con morbosa curiosità, ma la tensione sembrava diffondersi come un'onda provocata da un sasso lanciato in acqua. Quanto ci sarebbe voluto perché sopraggiungessero i soldati del duca, che probabilmente non si curavano della vita di Maria quanto suo fratello? «Dico sul serio, Domenicus», ribatté Andrej. «Liberate il ragazzo, lasciateci andare e a vostra sorella non accadrà nulla. Non ho più niente da perdere.» Odiò se stesso per quello che si apprestava a fare, ma, per dare maggiore efficacia alle sue parole, con un minimo movimento della scimitarra scalfì la pelle di Maria. Probabilmente la donna sentì soltanto un leggero dolore, ma inspirò profondamente e s'irrigidì. Sul suo collo cadde un'unica goccia di sangue. Domenicus sgranò gli occhi e strinse la pesante croce d'oro che gli pendeva sul petto. Andrej notò che stava accadendo proprio quello che aveva temuto: nella piazza del mercato si era scatenata una sorta di panico silenzioso e la gente aveva cominciato a darsi alla fuga, benché solo pochi avessero capito il vero motivo di quel fuggi fuggi generale. Dal castello si stava avvicinando una mezza dozzina di lance, che sembravano dondolare al di sopra della folla; sotto quelle lance, luccicavano l'arancione e il bianco. A Frederic e a lui restava circa un minuto, valutò Andrej; se la ressa avesse rallentato a sufficienza i soldati, ne avrebbero avuti un paio. Anche Domenicus aveva notato i soldati, ma nei suoi occhi non ci fu nessuno scintillio di trionfo. Era consapevole del pericolo che l'arrivo delle guardie comportava per la sorella. Evidentemente stava riflettendo. Strinse a pugno la mano destra, chiuse gli occhi per un istante, poi annuì. «Lasciate andare il ragazzo!» Malthus schiumava di rabbia. Anziché liberare Frederic, fece scorrere il coltello sulla sua gola. Il taglio non era più profondo di quello che Andrej aveva fatto a Maria, tuttavia era più lungo. Un fiotto di sangue uscì dalla
gola di Frederic e macchiò la sua veste. «Malthus!» Domenicus quasi urlò. «Lasciatelo andare! Subito!» Per un momento spaventosamente lungo, il cavaliere dorato non reagì, scrutando Andrej con un odio che questi non riusciva a spiegarsi. Premette il pugnale insanguinato sulla fronte di Frederic e il ragazzo piegò indietro la testa fin dove gli fu possibile. Domenicus gridò un'altra volta: «Malthus!» e finalmente il cavaliere abbassò il pugnale, dando una spinta a Frederic. Il ragazzo barcollò in avanti e cadde in ginocchio davanti ad Andrej. «Sarò felicissimo di rincontrarti, Delãny... Spero solo che tu riesca a trovare un'altra giovane donna dietro cui nasconderti.» Il tono era di scherno, ma Andrej non si fece ingannare. Benché non ne comprendesse il motivo, percepiva chiaramente che, dietro quelle parole beffarde, si celava la paura. Una paura che forse aveva le sue radici nel fatto che, nello scontro alla locanda, uno dei cavalieri dorati era stato ucciso... Certo, era stato Sergé a ucciderlo, però Malthus non poteva saperlo. «Date la vostra parola, Andrej Delãny?» chiese Domenicus. La lama di Andrej rimase a mezzo dito dalla gola di Maria, ma lui lasciò il braccio della donna e aiutò Frederic a rialzarsi. Il taglio sulla gola del ragazzo non sanguinava più, però, tra le sue dita, scorrevano alcune gocce dense che avevano lo stesso colore del mantello di Domenicus. «Delãny!» Andrej tornò a rivolgersi all'inquisitore. «A vostra sorella non succederà nulla», dichiarò. «La libererò non appena saremo al sicuro.» Fece un passo indietro e Domenicus non cercò di fermarlo. Era abbastanza intelligente da cogliere le implicazioni di quella situazione. Però disse: «Non uscirete mai dalla città... Lo sapete, vero?» «Vedremo», rispose Andrej con un altro, cauto passo indietro. In quello stesso istante, Frederic gli si avvicinò, prese il sottile pugnale dalla cintura di Maria e scagliò l'arma contro Domenicus. Il ragazzo agì così in fretta che Andrej non ebbe la minima possibilità di fermarlo. Il pugnale penetrò fino all'impugnatura nella gola dell'inquisitore e uscì dalla nuca. Domenicus si strinse la gola con le mani, gorgogliò, cercando di urlare, e sputò sangue. Maria emise uno stridulo grido di orrore e balzò in avanti con tale slancio che Andrej ebbe appena il tempo di spostare la scimitarra per evitare che la ragazza si tagliasse la testa da sola. Con un ringhio bestiale, Malthus sguainò la spada, ma nella foga inciampò in uno dei soldati e cadde a terra con un grido acuto di rabbia.
Andrej non perse tempo a guardare se era inseguito e si aprì un varco tra la folla. Si lanciò un'occhiata alle spalle soltanto quando Frederic e lui arrivarono all'altezza di un vicolo che correva tra due edifici tinteggiati di bianco. In effetti erano inseguiti; non da Malthus o da una guardia dell'inquisitore, bensì da una mezza dozzina di soldati del duca di Constãntã. Gli uomini con l'uniforme arancione e bianca si facevano largo tra la folla con ancor meno riguardo di quello usato da lui e da Frederic; inoltre, se necessario, usavano le armi per procedere più velocemente. Infatti la distanza tra loro diminuiva sempre più. Andrej svoltò a sinistra, corse ad ampie falcate verso un banchetto di verdura e assestò tre colpi fulminei con la scimitarra. Il banchetto crollò immediatamente, trasformandosi in una frana di cavoli, porri e rape che Andrej e Frederic superarono con un potente balzo. Dopo aver fatto la stessa cosa con un altro banchetto, Andrej si guardò alle spalle e vide che la metà dei loro inseguitori scivolava su un torrente di brocche e boccali rotti, e l'altra metà veniva ricoperta da una stoffa svolazzante delle dimensioni di una piccola vela. Cercò di aumentare ulteriormente la velocità, ma non ci riuscì. La ressa con cui dovevano lottare li frenava. Finalmente raggiunsero l'altro lato della piazza del mercato e s'infilarono in un vicolo. Dopo qualche passo, Andrej riconobbe quella stradina: era la stessa lungo la quale erano fuggiti il giorno precedente. Ora avevano almeno una possibilità di seminare i loro inseguitori. Procedevano in fretta, nessuno cercava di fermarli. Sebbene cambiassero continuamente direzione, Andrej sapeva benissimo dove voleva andare. Doveva solo far perdere le tracce agli inseguitori... così sarebbero stati liberi, almeno per il momento. Per non dare inutilmente nell'occhio e per tirare il fiato, rallentarono il ritmo. «Dove vuoi andare?» chiese Frederic. «Cosa credi?» sibilò Andrej. «Pensi che dopo il tuo brillante gesto possiamo farci vedere ancora in giro?» Anche se le persone che incrociavano si facevano da parte o non li osservavano apertamente, Andrej percepiva la loro diffidenza. Non c'era da meravigliarsi: la sua scimitarra era ben visibile e la gola insanguinata di Frederic non era una cosa che si vedeva tutti i giorni. Dovevano assolutamente trovare un nascondiglio prima che qualcuno li denunciasse e cancellare subito i segni più evidenti che i fatti appena accaduti avevano lasciato sui vestiti e sul corpo di Frederic. Con un po' di fortuna, avrebbero potuto usare il loro vecchio rifugio.
Dalla piazza del mercato arrivavano rumori e grida: la caccia per trovarli si era estesa. Uno straniero quasi completamente calvo, che indossava una veste appariscente, con una scimitarra preziosa e un ragazzo anche lui quasi senza capelli e con un taglio fresco alla gola... Non sarebbe stato difficile rintracciarli, neppure in una città così grande. Andrej stava già per superare il portone della casa abbandonata, ma poi cambiò idea; la notte precedente in quel luogo non erano stati scoperti e forse tra quelle vecchie mura sarebbero stati al sicuro per qualche ora. Il rumore e le grida provenienti dalla piazza del mercato si fecero più alti, però sembrava che lì nel vicolo non ci fosse nessuno. Si fermò e si guardò intorno e, non appena fu sicuro che nessuno li osservasse, afferrò Frederic per un braccio e lo trascinò con sé. Passò rapidamente sotto l'arco di pietra del portone e si diresse verso la porta. Un ultimo sguardo gli confermò che nessuno si stava curando di loro. Riusciva a sentire ancora chiaramente i rumori della piazza del mercato e della strada, ma la casa era sempre silenziosa. Dopo aver spalancato la porta, trascinò dentro brutalmente Frederic e gli diede una spinta che lo fece letteralmente ruzzolare nella stanza. Come l'ultima volta, percepì la polverosa penombra e l'odore dolciastro che quasi lo fece vomitare, però non gli importava. Quella casa in rovina gli appariva come un amico fidato, che, nel momento del bisogno, era disposto a dargli un aiuto del tutto disinteressato. Chiuse la porta dietro di sé, attraversò la stanza in fretta per raggiungere la finestra sull'altro lato, da cui poteva tener d'occhio la strada, e spiò attraverso la fessura tra le assi. Nella strada c'erano poche persone e sembravano così prese dai fatti loro che non prestavano attenzione all'ambiente circostante. Andrej poteva soltanto sperare che nessuno avesse notato i due forestieri entrati di soppiatto in quell'edificio. Si voltò verso Frederic. Il ragazzo aveva strappato una striscia di stoffa dall'orlo della sua veste e cercava maldestramente di bendarsi. Non sanguinava più, ma forse anche il ragazzo aveva pensato che quella ferita fosse un segno che avrebbe permesso d'identificarli facilmente. Andrej rimase per un po' a guardare il suo protetto che cercava invano di annodare dietro la nuca la striscia di stoffa troppo rigida, poi allungò la mano. Non appena Frederic si avvicinò per farsi aiutare, gli diede un ceffone che lo fece cadere a terra. Frederic non emise neppure un gemito e rimase immobile per qualche istante prima di riuscire a comprendere il perché di quello schiaffo. La benda improvvisata gli era scivolata dalle mani e lui si
premeva la destra sulla guancia. Nonostante la penombra di quel luogo polveroso, Andrej scorse un chiaro segno rosso e capì che l'aveva colpito più forte di quanto avesse voluto. In realtà non aveva nemmeno avuto intenzione di colpirlo: era semplicemente successo. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare in sé una traccia di dispiacere per quel gesto. Al contrario, doveva dominarsi per non saltare addosso a Frederic e dargliele di santa ragione. «Perché... l'hai fatto?» mormorò Frederic. I suoi occhi si erano improvvisamente inumiditi, ma la voce era ferma. Il tremore e le lacrime del ragazzo erano dovuti esclusivamente alla rabbia. «Ringrazia Dio che non hai dieci anni di più», replicò Andrej con freddezza. «Altrimenti probabilmente adesso saresti morto.» Il suono della propria voce lo spaventò. A fargli orrore non era soltanto il gelo di quelle parole, ma anche la consapevolezza di aver davvero pensato ciò che aveva detto. Frederic lo fissava, sbalordito. Il luccichio nei suoi occhi si era spento con la stessa velocità con cui era comparso. Dopo un po', cercò a tastoni la striscia di stoffa e, una volta trovatala, si rialzò. «Mi hai ingannato... Perché?» chiese in tono indifferente, come se la risposta non lo interessasse. «Ti rendi conto di quello che mi hai chiesto?» Andrej dovette trattenersi per non colpirlo ancora e per non inveire contro di lui. «Non hai capito nulla di quello che ti ho insegnato?» «No», rispose Frederic, riuscendo finalmente ad annodare la striscia di stoffa, che tuttavia sembrava così stretta da strozzarlo. Fulminò Andrej con lo sguardo. «Non l'ho capito. E credo di non volerlo neppure capire. Sai, non è facile ascoltare parole di pace e di tolleranza dalla bocca di un uomo che sa combattere come te... E mi è difficile anche credere che siano vere!» «Tu non hai capito», borbottò Andrej con tristezza. «E come avrei potuto?» esclamò Frederic. Andrej lo fissò, sbalordito: quel ragazzo alzava la voce con lui! «Come posso credere alle tue parole di pace e perdono se combatti come il diavolo? Avresti potuto ucciderli tutti e sei e senza neppure affaticarti! È così, vero?» «No», replicò Andrej con calma. «Ne avrei ucciso qualcuno, ma alla fine mi avrebbero annientato.» «Quanto tempo ci hai messo per imparare a maneggiare così la scimitarra?» ribatté Frederic con fare provocatorio. «Dieci anni? Venti? Metà della
tua vita? O di più? Hai passato gran parte della tua vita a imparare a uccidere!» «Ho imparato a combattere, non a uccidere», replicò Andrej. Si rese conto che non stava rispondendo, ma che si stava difendendo. Sembrava assurdo, eppure era costretto sulla difensiva da un ragazzo! «Naturalmente... C'è una bella differenza», osservò Frederic con perfidia. «Quanti uomini hai già ucciso nella tua vita, Andrej? Cento? Duecento?» «Ne ho uccisi sei... e il primo per difendere la tua vita.» Come pure tutti gli altri, pensò. Non sarebbe servito a nulla dirlo ad alta voce. Sicuramente Frederic non avrebbe compreso il senso di quelle parole. Ma se le avesse pronunciate, forse la propria mente avrebbe preso una strada che lui non voleva percorrere. «Non ti credo.» Frederic sembrava un po' incerto. «Io... ho visto di cosa sei capace!» Andrej chiuse gli occhi e, prima di rispondere, trasse un profondo respiro. Il suo animo era in subbuglio. Doveva fare attenzione a non dire - addirittura a non pensare - cose di cui poi si sarebbe pentito. «Non ho mai ucciso nessuno e non ucciderò mai nessuno se non per salvare la mia vita o quella di un altro», disse con calma. «Su un punto hai ragione, Frederic: ho passato molti anni della mia vita a imparare l'arte della spada. E ho avuto il miglior maestro che mai ci sia stato al mondo, però lui non mi ha insegnato soltanto a maneggiare la scimitarra... Mi ha insegnato anche altro... qualcosa di molto più importante: il rispetto.» «Per cosa?» «Per la vita, Frederic. L'unico bene al mondo che abbia un valore reale. Nessuno ha il diritto di stroncare una vita come se niente fosse. Non ce l'ho io e non ce l'hai tu.» «E Domenicus?» ribatté Frederic ironico. «Agisce in nome di Dio! Perché non l'hai detto a Barak? Sono sicuro che, se avesse saputo queste cose, avrebbe apprezzato i due giorni in cui quella... bestia l'ha fatto torturare!» L'odio che vibrava nella voce di Frederic fece rabbrividire Andrej. Non era giusto che un ragazzo provasse un simile livore. «Non so se esiste un Dio», proseguì il ragazzo a bassa voce. «Ma, se c'è, allora gli uomini come Domenicus non agiscono in suo nome. Loro sostengono che è così, però non è vero... Ha meritato di morire!» «Aveva la mia parola», rispose Andrej. «Tu mi hai disonorato nel momento in cui l'hai tradita.»
Frederic strabuzzò gli occhi, ma Andrej gli impedì di parlare con un gesto imperioso. Ormai non aveva più dubbi: Frederic non voleva capire quello che cercava di dirgli. E forse aveva ragione. Forse era lui, Andrej, che si sbagliava... Forse il principio della vendetta di cui parlava l'Antico Testamento e che determinava le azioni e i pensieri di Frederic era la reazione giusta a ciò che era successo a Borsã. In ogni caso, Andrej non voleva pensarci e cambiò tattica. «Forse non hai capito quello che hai combinato», proseguì. «Ho ucciso un uomo che meritava di morire», sibilò Frederic. «Tu sei troppo vigliacco per fare una cosa del genere!» «Hai fatto molto di più», disse Andrej. «Praticamente ora non abbiamo più nessuna possibilità di liberare gli abitanti di Borsã. Ammesso che siano ancora vivi.» Toccò a Frederic rimanere sbalordito. «Cosa... vuoi dire?» balbettò. Andrej fece un sorriso amaro. «Tu non sai nulla», mormorò. «Del resto, come potresti? Non è così facile da spiegare. Mi hai chiesto quanto tempo mi è servito per imparare a usare la spada. Tanto. Molto più tempo di quanto normalmente occorre a un cavaliere. Ma saper maneggiare un'arma non è sufficiente.» Sfoderò la scimitarra, la girò e porse a Frederic la raffinata impugnatura d'avorio. «Vuoi imparare?» chiese. «Prendila. Ti basta un anno per diventare bravo e in due saresti in grado di sconfiggermi. Ma questo non è tutto. Non è neppure la cosa più importante. Ci sono regole, Frederic... Per esempio che la parola si mantiene anche di fronte a un nemico mortale. Soprattutto di fronte a un nemico mortale.» Frederic osservava l'arma in un modo che fece rabbrividire Andrej. Per l'ennesima volta si chiese se il seme della violenza non fosse già germogliato da tempo nel ragazzo. Anzi, ancora peggio: forse gli avvenimenti degli ultimi giorni non erano stati altro che una pericolosa accelerazione dei tempi. Magari quel ragazzo era già malvagio... Era ancora giovane, certo, tuttavia non era da escludere che fosse già avviato a diventare un uomo crudele e spietato come Domenicus e i cavalieri dorati del suo seguito. In fondo, lui non sapeva nulla di Frederic, a parte il suo nome. Nello sforzo di raccontare il meno possibile della sua storia e dei suoi legami familiari, aveva spostato ogni conversazione su questioni generali. Il ragazzo ritirò la mano e Andrej rinfoderò la scimitarra con un sospiro di sollievo. Non sapeva cosa avrebbe fatto se il ragazzo l'avesse presa. «In fondo non è altro che un gioco», riprese poi in tono tranquillo, quasi rassegnato. «Ci sono regole, Frederic. Si dà la propria parola e la si mantiene,
qualsiasi cosa accada. Nel momento in cui hai ucciso Domenicus, hai dato libertà a Malthus e agli altri di agire come volevano.» «L'avrebbero fatto comunque!» ribatté Frederic furibondo. «Non in quel senso», replicò Andrej. Benché sapesse di non essere in grado di spiegare adeguatamente quello che voleva dire, proseguì: «Si vendicheranno, Frederic. Forse uccideranno qualcuno della tua gente. Forse tutti. E quando ci troveremo a faccia a faccia, la prossima volta, non ci sarà nessuna trattativa!» «Tanto li ucciderò comunque!» Andrej si rassegnò. Non aveva senso. Frederic non poteva o non voleva capire quello che cercava di dirgli. Per un momento, ebbe quasi paura di quel ragazzo. Per evitare che Frederic gli leggesse quel sentimento negli occhi, si voltò e si diresse alla finestra. Era confuso. Aveva detto la verità quando aveva affermato di non aver mai ucciso un uomo prima di allora, e aveva detto molto più della verità quando aveva sostenuto che era stata un'esperienza terribile. Aveva difeso la propria vita e anche quella di Frederic: ecco il motivo per cui aveva ucciso. Ma non poteva lavar via il sangue che aveva sulle mani. Nel frattempo, qualcosa nel vicolo era cambiato. La gente non camminava più in fretta, ma si era riunita in piccoli capannelli e parlava concitatamente di quello che aveva sentito o forse addirittura visto. Il frastuono proveniente dalla piazza del mercato si era placato, ma su tutta la città aleggiava un'atmosfera di tensione. Frederic non aveva semplicemente ucciso un uomo. Aveva ucciso un inquisitore, un principe della Chiesa, che oltretutto era un ospite del duca. Andrej non sapeva granché del potere e dell'influenza che la Chiesa aveva in quella parte del Paese, ma non poteva essere trascurabile, altrimenti Domenicus non si sarebbe potuto comportare con Andrej come aveva fatto. Che lo volesse o no, il duca avrebbe reagito a quella sfida, soprattutto a causa dei turchi che probabilmente si stavano preparando ad attaccare Constãntã. In una condizione così precaria, il duca non si poteva permettere la benché minima debolezza. Andrej sentì Frederic allontanarsi e salire la scala marcia che portava al piano superiore. Per un momento desiderò cancellare tutto quello che era successo e riportare il tempo al momento in cui - anni dopo la sua cacciata - era tornato nella valle di Borsã. A posteriori, gli sembrava che ogni passo fatto e ogni parola pronunciata da allora fossero sbagliati. Poco dopo, però, sentì in strada un certo trambusto e, dalla finestra,
scorse due soldati con le uniformi del duca che si avvicinavano all'edificio a passi veloci. In mezzo a loro c'era una figura avvolta in un mantello di velluto verde scuro. I tre procedevano a passo spedito lungo il vicolo e la gente si faceva da parte per lasciarli passare. Non appena furono proprio di fronte al suo nascondiglio, Maria voltò la testa e lo guardò. Il cuore di Andrej prese a battere all'impazzata. Naturalmente la giovane donna non guardava lui... Era poco probabile che lo vedesse o anche solo sospettasse che fosse lì. Infatti lei non rallentò il passo, anzi proseguì ancora più spedita, eppure, per un istante, Andrej si sentì come se quegli occhi scuri l'avessero accarezzato. Nonostante la distanza, riuscì a scorgere il pallore della donna. Il viso di Maria era una sola macchia bianca, che sembrava addirittura più chiara della parete imbiancata a calce dietro di lei. Con una mano teneva un fazzoletto inzuppato di sangue pressato alla gola, e con l'altra reggeva qualcosa che ad Andrej sembrò la croce d'oro di Domenicus. Il suo prezioso vestito era ricoperto di macchie secche e orribili... il sangue del fratello. Maria continuò a osservare l'edificio - Andrej era sicuro che stava guardando proprio la finestra dietro cui c'era lui - e riprese a fissare davanti a sé soltanto dopo aver superato la casa. La seguì con lo sguardo finché non fu sparita e poi rimase a lungo immobile a fissare nel vuoto. Infine si accovacciò contro la parete sotto la finestra, appoggiando la testa alle pietre sgretolate. Trascorse quasi mezz'ora prima che Frederic ridiscendesse la scala, facendo gemere sotto il suo peso il legno vecchio. Uno degli scalini marci si staccò, cadde sul pavimento, si ruppe e sollevò una gigantesca nuvola di polvere. Andrej alzò lo sguardo e vide che il ragazzo non tornava a mani vuote, ma reggeva sulle braccia un mucchio disordinato di abiti. Mantenere l'equilibrio sui gradini marci non era semplice, per lui. Andrej si alzò e gli andò incontro, ma non fece neppure il gesto di aiutarlo. «Cos'hai trovato?» chiese, benché sapesse che si trattava di una domanda del tutto superflua. «Altri vestiti», rispose Frederic. «Con le nostre vecchie cose attiriamo l'attenzione. Di certo ci stanno già cercando.» «Dove li hai trovati?» «Al piano superiore, in una vecchia cassapanca.» Andrej afferrò una lunga camicia di lino e la annusò. «Menti. Queste co-
se sono fresche di bucato.» Frederic serrò testardamente le labbra, poi scrollò le spalle e, con un movimento del capo che poteva essere un gesto di assenso, continuò: «Da lassù si può raggiungere il cortile qui a fianco. Queste cose erano stese. Non mi ha visto nessuno. Ne sono certo!» Andrej ingoiò la frase rabbiosa che aveva sulla punta della lingua e osservò le vesti. Erano semplici calzoni, fusciacche colorate e vesti inamidate che sarebbero andati benissimo a lui, ma non a Frederic. Tuttavia quelle cose avrebbero attirato meno l'attenzione dei vestiti che portavano in quel momento, insanguinati e fin troppo noti agli sgherri che erano sulle loro tracce. Dopo essersi cambiato, Andrej disse: «Non possiamo restare qui». Frederic si rimboccò le maniche della veste troppo grande e si avvolse una fusciacca intorno ai fianchi per rimborsare la stoffa in eccesso. L'effetto complessivo era proprio ridicolo. «Non sarebbe meglio restare qui finché non cala il buio?» chiese. «Certo. Ma temo che la nostra vicina non sarà particolarmente entusiasta quando si accorgerà che qualcuno le ha rubato la biancheria. Inoltre dobbiamo incontrare Krusha e suo fratello. Adesso è ancora più urgente.» XII La situazione si era fatta ancora più seria. Andrej poteva soltanto sperare che l'informatore si trovasse effettivamente all'Orso Guercio e che quindi si potesse agire senza ulteriori ritardi. Ogni ora che trascorrevano a Constãntã li avvicinava sempre più al carcere... nel senso che ci sarebbero finiti, e non per salvare gli abitanti di Borsã. Strappò una striscia di stoffa lunga un braccio dalla veste che gli aveva prestato Krusha e, con quella, avvolse la scimitarra. Poi chiese a Frederic: «Fammi vedere la gola». Il ragazzo portò la mano alla benda sudicia e fece un passo indietro, scuotendo la testa. «È solo un graffio», minimizzò. «Ma deve farti male.» «Non molto. E non sono una femminuccia.» Andrej sospirò. Frederic era troppo orgoglioso per ammettere che gli faceva male. Un comportamento non molto intelligente, ma comprensibile, data l'età. Inoltre quello non era il momento per mettersi a discutere. Indicò la porta con uno stanco cenno del capo e borbottò: «Andiamo».
Per non finire nelle mani delle pattuglie del duca e degli sgherri dell'inquisitore fecero un lungo giro. Gli abiti rubati da Frederic offrivano una certa protezione, ma gli uomini del duca stavano cercando proprio loro e non avrebbero esitato a catturarli se li avessero riconosciuti come gli assassini di Domenicus. E più si avvicinavano al castello, meno Andrej si sentiva sicuro. Molto probabilmente i due cavalieri dorati si trovavano là, a meno che non fossero anche loro alla ricerca degli assassini dell'inquisitore - cosa di cui Andrej dubitava -, ma soprattutto al castello c'era Maria. E, benché sapesse che era un'idea folle, fu costretto a lottare contro il pensiero che la giovane donna lanciasse un'occhiata dalla finestra, lo riconoscesse e informasse subito le guardie. Naturalmente non successe nulla del genere, ma Andrej trasse un respiro di sollievo non appena ebbero passato il castello - che in realtà somigliava più a una vecchia fortezza - e svoltarono in direzione del porto. Si diede anche dello stupido, perché si comportava come se fosse la prima volta in cui si trovava in una situazione pericolosa... Ma il vero motivo della sua insicurezza giaceva nel profondo del suo animo. La vera causa di quel turbamento era Maria, che aveva risvegliato in lui qualcosa che sarebbe stato meglio lasciare sepolto. Il numero delle pattuglie aumentava a mano a mano che Andrej e Frederic si avvicinavano alla zona del porto. Più di una volta furono costretti a cambiare frettolosamente direzione, cercando rifugio in un vicolo o in un cortile. Così riuscirono a raggiungere l'Orso Guercio solo dopo due ore. In quella miserabile locanda, i loro abiti consunti e mal tagliati non davano nell'occhio e la scimitarra che Andrej aveva nascosto sotto la camicia sicuramente non era l'unica arma che era tenuta a portata di mano. L'avvertimento che la guardia alla porta della città gli aveva dato era giusto, però non era quello l'unico motivo per cui in quell'osteria si percepiva un forte nervosismo: il vero punto di tensione era infatti l'assassinio di Domenicus, messo in relazione col pericolo turco. La pericolosa miscela di alcol, supposizioni incontrollabili e aggressività che regnava nella locanda minacciava di esplodere da un momento all'altro. Se quegli uomini avessero pensato anche per un solo istante che gli assassini potevano trovarsi fra loro, la vita di Frederic e Andrej non avrebbe avuto più valore di un fico secco. Inoltre non sarebbe stato strano se il duca o Maria avessero messo sulla loro testa una taglia... che tutti gli avventori della locanda avrebbero intascato più che volentieri. Quasi con ripugnanza, Andrej e Frederic riuscirono ad aprirsi un varco
nello stretto spazio fra i tavoli e le panche. La locanda era strapiena. Ai tavoli si discuteva appassionatamente e spuntavano sempre le stesse parole: assassini e turchi. L'enorme confusione presentava tuttavia il non trascurabile vantaggio che i due nuovi arrivati furono degnati appena di uno sguardo. Come Andrej aveva immaginato, i due fratelli erano seduti ancora al piccolo tavolo nell'angolo più nascosto. Sergé aveva la testa sempre avvolta nel goffo turbante e Krusha stava parlando animatamente con uno sconosciuto, di gran lunga più vecchio, col viso deturpato e i capelli grigi. L'uomo indossava abiti semplici, ma non proprio a buon mercato e poco adatti all'ambiente. Non appena Andrej e Frederic si avvicinarono, la conversazione s'interruppe bruscamente e i tre li fissarono con aria irosa. Senza parlare, i due Delãny presero posto sulle sedie libere. «Hai i nervi saldi, Delãny», sibilò Sergé da sotto il suo velo. «Sei stupido o soltanto arrogante per avere il coraggio di venire qui dopo tutto quello che hai combinato?» «Sono soprattutto assetato», rispose Andrej. «Per quale altro motivo sarei venuto in una locanda?» Krusha sorrise, fece un cenno all'oste e sollevò due dita. Lo sconosciuto dai capelli grigi restò in silenzio, come se la cosa non lo riguardasse, ma tenne gli occhi fissi su Andrej e il suo sguardo si faceva sempre più penetrante. «Inoltre avevamo un appuntamento, se non ricordo male», riprese Andrej dopo un po'. «Questo prima che tu uccidessi l'inquisitore e offrissi al duca il pretesto per mettere sottosopra la città!» sbottò Sergé. «Devi essere completamente pazzo per venire qui!» Andrej lo guardò, pensieroso. «Le notizie si diffondono in fretta.» «E più sono brutte, più in fretta si diffondono», confermò Krusha. «Il duca ha messo una taglia sulla tua testa, Delãny. E solo sulla tua testa, se capisci cosa voglio dire.» Sospirò. «Cinquanta libbre d'oro. E senza fare domande.» «È... una bella somma», esclamò Andrej, sorpreso. «È un patrimonio», confermò Krusha. «Sufficiente per tentare anche me... Ma insufficiente per farmi dimenticare la morte dei miei fratelli.» Andrej non sapeva come interpretare quell'affermazione. Krusha era senza dubbio il più intelligente dei due fratelli, ma non per quello era il più
fidato. «Devo andarmene?» chiese. «No», rispose Krusha. Arrivò l'oste e posò sul tavolo due boccali di birra scura che Krusha pagò subito. Attesero finché l'uomo non si fu allontanato, poi Krusha proseguì: «Ammetto che credevamo non saresti venuto. Ma, in fondo, abbiamo stretto un patto. Sicuramente vuoi ancora liberare la tua gente». «Altrimenti non sarei qui.» Andrej gettò uno sguardo interrogativo all'uomo coi capelli grigi, ma Krusha cercò di tranquillizzarlo con un rapido gesto. «Jàk è fidato», disse. «Non temere, puoi parlare apertamente.» Andrej bevve un sorso di birra. Aveva un sapore peggiore dell'aspetto, ma non aveva importanza. Doveva rimanere lucido. «Mi dispiace per...» Esitò, decidendo all'istante che non era necessario raccontare a Krusha tutti i particolari. «... per il contrattempo nella piazza del mercato.» «Aver ucciso un ospite del duca nonché un importante emissario della Chiesa sarebbe un contrattempo, per te?» gracchiò Sergé. «Ti dispiace per la sua morte?» s'informò Andrej in tono quasi amichevole. «Per niente», rispose Krusha al posto del fratello. «Ma rende tutto più difficile. Quello che avete fatto mette il duca in una posizione ingrata, soprattutto perché ha bisogno assoluto di alleati in caso di un attacco dei turchi. Farà tutto ciò che è in suo potere per catturarvi. Il rischio che si corre a farsi vedere con voi è cresciuto enormemente.» «E con quello anche il prezzo che dovremo pagare per il vostro aiuto», borbottò Frederic. «Temo che sia raddoppiato», confermò Krusha in tono pacato. Andrej era perplesso. «Correggimi se sbaglio... Ricordo bene oppure non avevamo parlato di un prezzo per il vostro aiuto?» Krusha sogghignò. «Ricordi bene, Delãny.» «Allora cos'è che può raddoppiare?» Prima di rispondere, Krusha bevve una lunga sorsata di birra. «Non mettiamoci a litigare sulle minuzie», disse, sorridendo e indicando l'uomo dai capelli grigi. «Jàk ha informazioni sicure sul luogo in cui si trova la vostra gente e anche sul loro destino.» «E per quelle cosa chiede?» si informò Andrej. «Solo una parte di quello che chiediamo noi», rispose Krusha. Si divertiva a tenerlo sulle spine e Andrej dovette dominarsi per apparire tranquillo. «E cosa chiedete voi?» domandò allora.
«Non molto, se si pensa a quello che ottieni tu e al rischio che corriamo noi. Solo quello che si trova nel forziere del duca.» Andrej spalancò gli occhi, incredulo. «Come?» «Il forziere personale del duca», ripeté Krusha. «Si dice che sia ben fornito. E ancora di più da quando l'inquisitore è ospite del castello. Ma non preoccuparti», proseguì, con un sorriso privo di umorismo, «non è così pesante che un ragazzo robusto come te non riesca a portarlo.» «Voi siete pazzi», mormorò Andrej. «Per niente», ribatté Krusha, tranquillo. «Come ho già detto, corriamo un rischio enorme. Se ci beccano con te, ci rimettiamo la pelle. Alto rischio, alto prezzo.» Sollevò le spalle. «Ma naturalmente la scelta è tua.» «Però non prendetevi troppo tempo», proseguì Jàk. Erano le prime parole che pronunciava da quando Andrej si era seduto al tavolo. Aveva una voce bassa ma chiara, che in qualche modo era in contrasto col volto deturpato. «La vostra gente sarà portata via stanotte.» «Dove?» chiese Andrej. Jàk sorrise e rimase in silenzio. «Allora?» intervenne Krusha. «Hai deciso?» «Ho altra scelta?» disse Andrej, cupo. «No», esclamò Krusha. «Saprai tutto quello che ti serve non appena saremo in possesso del forziere. Non chiediamo l'impossibile. Jàk lavora al castello, ti farà entrare di nascosto al tramonto del sole. E t'indicherà anche la strada per le stanze del duca. Tutto quello che devi fare è togliere di mezzo le guardie e mettere il contenuto del forziere in due o tre sacche di pelle che poi getterai dalla finestra. Sergé e io saremo là fuori all'ora accordata per prenderle.» «Noi non siamo ladri!» si ribellò Frederic, ma Andrej lo costrinse al silenzio con un gesto irritato. «Se è così facile, come mai non lo fate voi?» obiettò. «Nessuno ha detto che è facile», replicò Krusha. «Inoltre perché dovremmo correre un rischio inutile se si può affidare il lavoro a un altro?» I pensieri di Andrej correvano velocissimi, ma nel contempo sembravano muoversi in una densa palude. La proposta di Krusha non gli piaceva: subodorava una trappola. Ma se l'uomo coi capelli grigi aveva detto la verità, allora non gli restava altra scelta. «E chi mi dice che mi posso fidare di voi?» chiese, guardando alternativamente Krusha e Sergé. «Nessuno», disse Krusha. «Ma, se ti avessimo voluto tradire per intascare la taglia, avremmo potuto farlo senza problemi. Come ho già detto, è
una decisione tua. I prigionieri saranno portati via un'ora dopo mezzanotte. Perciò hai poco tempo per riflettere sulla nostra offerta.» «Diciamo finché non ho finito la birra», intervenne Sergé in tono perfido e Krusha gli lanciò un'occhiataccia. «A quanto pare, avete superato in fretta il dolore per la morte dei vostri fratelli», notò Andrej acido. «Certo che no.» Lo sguardo di Krusha si fece duro. «Uno dei tre assassini è già morto e anche gli altri due non lasceranno vivi questa città. Ma le due cose non sono collegate.» «E se tu non avessi ucciso l'inquisitore, allora l'avrei fatto io», concluse Sergé. Sollevò il boccale di birra, lo vuotò in un sorso e lo sbatté così violentemente sul piano del tavolo che alcuni avventori lo guardarono, aggrottando la fronte. «Allora?» Andrej fissò l'uomo dai capelli grigi e chiese: «Come entro nel castello?» XIII Nel buio, il castello aveva ancor più l'aspetto di un villaggio fortificato o una fortezza. L'imponente profilo ricordava ad Andrej una cupa montagna abitata da demoni, le cui creste si fondevano in lontananza col cielo nero. Gli sembrava di essere osservato da minuscoli occhi di diavoli malvagi. Era soltanto un'illusione, prodotta dalla sua mente in subbuglio e ispirata da quella congerie di ombre e di oscurità, eppure quella consapevolezza non cambiava il fatto che la costruzione avesse qualcosa d'inquietante e di minaccioso. La voce di Krusha interruppe il morboso corso dei suoi pensieri e riportò Andrej alla realtà, che in ogni caso non era più gradevole. «La finestra, lassù.» E indicò una finestra illuminata sul muro del maschio. «Quella è la camera da letto del duca. Le guardie fanno la ronda a intervalli irregolari sul camminamento. Devi fare attenzione che nessuno ti veda.» «E voi dove sarete?» chiese Andrej. «Non preoccuparti per noi.» Krusha infilò una mano sotto la veste e tirò fuori tre bisacce di pelle, più grandi di quanto Andrej avesse pensato. Quando le prese e le esaminò sommariamente, si accorse che erano piene per metà di pezzi di sughero. «In acqua?» «Aspetteremo in una barca sotto le mura», confermò Krusha. «Non ap-
pena avrai gettato le bisacce fuori della finestra, sparisci. Ci ritroviamo all'Orso Guercio. Sergé e io ti aspetteremo fino a mezzanotte.» Erano tre ore, non molte se pensava a quello che doveva fare; ma tre ore potevano anche essere un'eternità. Bisognava essere rapidi, altrimenti il piano sarebbe fallito. Infilò le bisacce sotto l'uniforme a strisce arancione e bianche che Jàk gli aveva procurato mezz'ora prima e osservò il risultato con occhio critico; poi tirò, pressò e schiacciò le bisacce finché non riuscì a evitare quantomeno che formassero una gobba troppo visibile sotto la tela grezza. L'uniforme imbottita era ridicola, e ridicolo si sentiva anche lui. Ridicolo e impotente. Quell'impresa era una vera follia. Il suo travestimento non avrebbe retto neppure a un'occhiata superficiale e tantomeno a uno sguardo sospettoso. Forse poteva apparire come un soldato della guardia ducale, ma ignorava come muoversi o comportarsi; nella migliore delle ipotesi, l'inganno sarebbe venuto alla luce non appena qualcuno gli avesse rivolto la parola. «Ora vai!» disse Krusha. «Jàk ti aspetta alla porta.» Andrej lo fissò senza dire una parola, poi si voltò verso Sergé e Frederic e consegnò al ragazzo la scimitarra avvolta in un pezzo di stoffa. «Tienila d'occhio», disse. Pronunciare quelle semplici parole gli costò un'enorme fatica. Fu sorpreso nel notare quanto gli fosse difficile separarsi dalla scimitarra. Era molto più che una semplice arma, per lui. Dalla morte di Michail Nadasdy, l'aveva quasi sempre tenuta su di sé o comunque vicina. Ma portarla nel castello era impossibile. Alla cintura aveva una spada pesante e grossolana, che faceva parte del normale armamento delle guardie. Nulla di più che un pezzo di vecchio metallo - aveva commentato Andrej -, che non valeva neppure il ferro con cui era stata forgiata. «Lo farò», promise Frederic solennemente. «E, se non dovessi tornare, pensa a quello che ti ho detto sulle armi.» «Commovente», notò ironico Sergé. «Non preoccuparti, Delãny. Se dovesse succederti qualcosa, ci occuperemo noi di tuo fratello e anche della tua spada.» Che senso aveva continuare quella conversazione? Senza aggiungere altro, Andrej si girò e, prima di mettersi in marcia, indossò il ridicolo elmo delle guardie, che ricordava una scodella da barbiere. Poi si avviò a passi rapidi e non rallentò il ritmo, ma la sua insicurezza aumentava a mano a mano che si avvicinava al castello. Ormai non aveva più la sensazione di commettere un terribile errore, sapeva di stare commettendo un errore. Non era un ladro, eppure si trovava coinvolto in un furto... come se il furto
nella chiesa di Rotthurn non avesse già sconvolto abbastanza la sua vita. Si ritrovò a chiedersi come mai non avesse fatto la cosa più ovvia, cioè ottenere con la forza le risposte che voleva da Jàk e dai due fratelli... Si trovava ormai nei pressi del portone, che era aperto e sorvegliato da quattro uomini armati. Non poté fare a meno di notare che quei soldati svolgevano il loro compito con molta più serietà del soldato con cui aveva parlato alla porta della città. Di Jàk non c'era traccia. Andrej abbassò lo sguardo - non tanto da essere notato, ma abbastanza per nascondere buona parte del volto sotto la visiera dell'elmo -, accelerò ulteriormente il passo e incurvò le spalle in avanti, nella speranza di essere scambiato per qualcuno che ritorna sfinito dopo una lunga giornata di ricerche infruttuose e quindi non è nello stato d'animo di parlare o anche solo di scambiare uno sguardo amichevole coi suoi compagni. Da Jàk aveva saputo che, a causa del pericolo turco, nel castello stazionavano centocinquanta soldati. Era un bel numero, ma insufficiente perché l'apparizione di un volto sconosciuto fosse considerata ovvia. Tre dei quattro soldati lo ignorarono oppure gli lanciarono soltanto una rapida occhiata. L'atmosfera di tensione che aveva aleggiato per tutto il giorno sulla città era chiaramente percepibile anche lì. Ma forse al castello c'era un tale via vai che gli uomini alla porta erano stanchi di esaminare con attenzione ogni singola figura in arancione e bianco. Per tre di quegli uomini era stato sicuramente così. Il quarto, invece, con grande terrore di Andrej, lo scrutò, tese i muscoli e improvvisamente gli si parò davanti. Andrej riuscì a stento a contenere l'impulso di afferrare l'arma. Invece si fermò e guardò la sentinella dritto negli occhi. Ma, prima che uno dei due potesse dire qualcosa, dall'interno del castello si levò un grido. Andrej guardò nella direzione da cui era partito l'urlo e vide Jàk, che si stava dirigendo in tutta fretta verso di lui. Indossava un mantello semplice ma di taglio elegante e anche un berretto di velluto rosso scuro. Dalla reazione della guardia, Andrej concluse che Jàk era molto più che un cortigiano di basso rango o un semplice servitore al soldo del duca. «Andrej!» gridò. «Dov'eravate finito? Credete che faccia una buona impressione arrivare tardi il primo giorno di servizio?» Fece un cenno al soldato. «Lasciate passare quell'uomo!» Non disse «per favore». Il tono della sua voce era quello di un uomo abituato a dare ordini e a essere obbedito. La sentinella indietreggiò, solerte, e abbassò di scatto lo sguardo; Jàk fece un altro cenno indispettito.
Andrej si affrettò a seguire quell'invito. Veloce, con lo sguardo umilmente abbassato, passò davanti alle guardie sotto l'arco del portone, molto più grande e vecchio di quanto avesse pensato. Nell'aria c'era un odore di pietre umide e di muffa, e le travi imponenti, che reggevano il tetto, erano diventate nere come la pece a causa del tempo, della fuliggine e della polvere di decenni, se non di secoli. Il legno del portone a due battenti attraverso cui stavano passando sembrava diventato di pietra, ma ad Andrej non sfuggì che i suoi cardini erano ben oliati. Forse era quello il motivo per cui la fortezza si trovava nel mezzo della città: a parte le strutture del porto, quella era la parte più antica di Constãntã, e si era sviluppata proprio intorno al nucleo della fortezza, diffondendosi poi come un germoglio intorno alle radici di un antico e imponente albero. Quello che Andrej non riusciva a comprendere, invece, era come mai in quell'edificio si percepisse la netta sensazione di trovarsi già in uno stato d'assedio. Sembrava che il duca di Constãntã non godesse di grande popolarità fra i suoi sottoposti... oppure era già pronto a misurarsi con la forza militare turca. «Siete arrivato in ritardo», mormorò Jàk non appena Andrej lo raggiunse. Si avviarono a passi rapidi verso la seconda porta interna. «Ora dobbiamo fare in fretta.» «Perché?» domandò Andrej senza guardare il suo accompagnatore. Non sapeva chi fosse quell'uomo dai capelli grigi, ma, dalla reazione degli uomini di guardia, aveva concluso che a un soldato semplice del duca non era permesso guardare i nobili negli occhi. Forse i subalterni del duca avevano semplicemente paura. «Perché ho fatto certi preparativi», rispose Jàk. Benché la sua voce fosse ridotta a un mormorio, essa restava sempre così chiara e penetrante da far temere ad Andrej che si sentisse in ogni angolo del castello. Di certo uno degli incarichi di Jàk presso la corte era collegato alla sua capacità di parlare in quel modo. «Il castello è in subbuglio! Se avessi anche soltanto sospettato che avreste cercato di uccidere vigliaccamente Domenicus, avrei fatto di tutto per annullare questa spedizione!» «E perché non l'avete fatto?» ribatté Andrej. Visto che Jàk non gli rispondeva e si limitava a osservarlo con sguardo interrogativo e beffardo, proseguì: «Voglio dire, voi siete un nobile, vero? Non siete un semplice servitore, come avete fatto credere a Krusha e a suo fratello, ma un membro della corte. Forse addirittura un amico intimo del duca». «Siete un buon osservatore, Delãny», annuì Jàk.
«Perché derubate il vostro signore? Se vi prendono, v'impiccheranno.» «Impiccarmi? Oh, no, il nostro duca non è così misericordioso.» Jàk sorrise. «Per rispondere alla vostra domanda, sappiate che pure i nobili devono mangiare, mantenere le proprietà terriere e pagare i loro servitori. Ce ne sono alcuni che vedono nell'onore di lavorare per il duca una ricompensa sufficiente. Ma purtroppo l'onore non riempie la pancia. E il nostro signore non è particolarmente generoso.» Alzò le spalle. «Inoltre parecchi pezzi d'oro che adesso sono nel suo forziere sono usciti dalla mia borsa... Basta così. Qui anche i muri hanno le orecchie.» Avevano ormai attraversato per metà il cortile e Andrej si era guardato intorno. L'impianto della fortezza era semplice ma funzionale. A sinistra del portone di accesso si levava un edificio costruito per metà in pietra e per metà in semplice traliccio: probabilmente ospitava la scuderia, l'armeria e la dispensa. Vicino c'erano alcune piccole case - alloggi per la servitù e fabbricati di servizio, pensò Andrej - che sembravano costruite in secoli diversi. Di fronte al portone sorgeva il palazzo, un edificio quasi accogliente di tre piani con grandi finestre, una bella scalinata e un gran numero di torrette e balconi chiusi ornamentali. Tutta la struttura era dominata da un'imponente maschio alto almeno cento piedi. Era palesemente più antico del resto della fortezza: lo rivelavano il suo stile architettonico e il materiale con cui era stato edificato. L'ingresso si trovava a venti piedi di altezza, al termine di una stretta scala facile da difendere e c'erano alcune aperture simili a feritoie. Di per sé, quel maschio era una fortezza nella fortezza. Espugnarlo doveva essere quasi impossibile. «Impressionante, vero?» mormorò Jàk. Non gli era sfuggito lo sguardo indagatore di Andrej. «Nel corso della sua storia, è stato assediato una dozzina di volte, ma non è mai stato conquistato.» Andrej guardò in alto, verso l'unica finestra illuminata appena sotto la cima merlata del maschio. «Mi chiedo che razza di uomo sia quello che preferisce vivere in un edificio così tetro anziché in una casa.» Indicò il palazzo. «Forse un uomo che preferisce la sicurezza al lusso e agli agi», disse Jàk, sorridendo beffardo. «Il mondo è malvagio, Andrej. E a Constãntã le persone invidiose sono parecchie.» Fece un rapido gesto. «Silenzio, ora!» Dopo aver attraversato il cortile, si avvicinarono al maschio. Per raggiungerlo avevano due possibilità: fare un ampio giro - che li avrebbe portati allo scoperto -, oppure procedere lungo la scalinata esterna che condu-
ceva al palazzo... E, naturalmente, la porta alla fine della scalinata si aprì proprio nel momento in cui Andrej e Jàk ci passavano sotto. Uscirono una mezza dozzina di uomini armati, tra cui il cavaliere dorato di cui Andrej non conosceva il nome e Maria. Andrej distolse subito lo sguardo e soffocò l'impulso di affrettare il passo. Per un attimo, anche se a lui parve un'eternità, pensò che il cavaliere l'avesse riconosciuto; sì, di certo l'aveva riconosciuto quando aveva voltato la testa verso di lui... Invece il cavaliere dorato scese la scala senza degnarlo di uno sguardo. Maria e gli uomini del duca lo seguivano più lentamente. La sorella di Domenicus aveva i capelli raccolti in una crocchia. Non indossava più il vestito sporco di sangue, ma una veste nera e teneva il viso nascosto dietro un velo semitrasparente e traforato. Sembrava ancora più bella che durante il loro primo incontro nella piazza del mercato. «Non fatevi illusioni, Andrej», sussurrò Jàk. «Una donna del genere non farebbe comunque per voi... anche se non aveste conficcato un pugnale nel collo di suo fratello.» Andrej si stizzì. I suoi sentimenti erano così palesi? Gli bastò uno sguardo al volto di Jàk per avere la risposta: sì. La sua confusione si trasformò in terrore. Cosa gli era successo? Stava entrando dritto nella tana del leone e, per sopravvivere alla prossima mezz'ora, aveva bisogno di tutta la concentrazione possibile... E invece non trovava di meglio che pensare a una donna! Non entrarono nel maschio attraverso le scale, come Andrej si aspettava; Jàk lo condusse a un piccolo edificio costruito con tozze pietre su un lato del bastione, aprì una porta minuscola e fece un cenno impaziente. Andrej si chinò sotto il basso architrave, poi si girò e guardò ancora una volta nel cortile. Maria e i suoi accompagnatori si trovavano a metà strada dal portone. Evidentemente, nonostante l'ora tarda, la donna voleva lasciare il castello. Doveva essere quello il motivo della presenza della scorta... Il cavaliere dorato si diresse a passi veloci verso la scuderia e Andrej lo osservò finché non sparì all'interno. «Un tipo sgradevole, vero?» borbottò Jàk. «Esattamente come gli altri due. Quando se ne saranno andati ne sarò felice.» «Chi sono?» chiese Andrej, mentre superava definitivamente la porta, si rialzava e cercava di orientarsi in quello spazio. Voleva capire anche perché Jàk aveva alluso al fatto che i cavalieri dorati erano tre. Sergé ne aveva ucciso uno, dunque i conti non tornavano. «Sono al servizio dell'inquisitore, ma nessuno sa molto di più. Credo
neppure il duca.» Indicò una porta sulla parete opposta. «Da qui dovrete procedere da solo. Ma non potete sbagliare strada. Salite le scale fino all'ultimo piano. La stanza da letto del duca è in fondo al corridoio.» Fece un gelido sorriso. «La riconoscerete facilmente. Davanti alla porta c'è una guardia armata. Normalmente sono due, ma il duca ha mandato quasi tutti i suoi uomini alla ricerca degli assassini di Domenicus.» «Come faccio a evitare la guardia?» chiese Andrej. Il sorriso di Jàk divenne ancora più freddo. «Non deve avere il tempo di chiedere aiuto. Fuori, sui camminamenti, ci sono uomini di pattuglia. Non tanti come al solito, ma non è necessario che l'urlo lo sentano in cinque, basta che lo senta uno solo, no?» «Allora mi state chiedendo di ucciderlo. Di uccidere uno dei vostri uomini.» «Un soldato», replicò Jàk, sollevando le spalle. «A cosa servono i soldati se non a morire? E se questo dovesse placare la vostra coscienza, Andrej, sappiate che togliete una vita, ma ne salvate cinquanta.» «E cosa m'impedisce di fare questo stesso conto con la vostra vita?» chiese Andrej a bassa voce. «Voi sapete dove sono i prigionieri.» Portò la mano alla cintura. Il sorriso di Jàk divenne cinico. «Lasciate stare la vostra arma, Delãny», disse. «Volete sapere dove sono i prigionieri? Ve lo dico. Sono vicinissimi. Il carcere è proprio sotto i nostri piedi. Dovete semplicemente scendere le scale anziché salirle e li troverete. Anche ammesso che non ne sentiate i lamenti, sicuramente non vi sfuggirà il puzzo. Non ci sono molte guardie. Due, forse tre...» Scrollò le spalle. «Per un uomo come voi non sono certo un ostacolo, presumo. Ma come pensate di portare fuori dal castello cinquanta persone di cui almeno la metà è malata o ferita e tutto questo senza farvi vedere?» Andrej fissò Jàk e improvvisamente sentì un impulso che gli era del tutto sconosciuto: voleva colpire quell'uomo, non per punirlo di qualcosa o per ottenere informazioni, ma perché desiderava fargli male. «Sapete, Jàk...» sibilò, dopo aver lasciato passare qualche istante per riprendere il controllo. «Io non conosco il vostro duca, ma sono certo che voi due siete fatti della stessa pasta.» «Molto più di quanto crediate, Delãny. Se dopo mezzanotte sarete ancora vivo, allora ci vedremo all'Orso Guercio. Così avrete tutto il tempo d'insultarmi a vostro piacere.» Indicò ancora una volta la porta alle sue spalle, fece un cenno ad Andrej
e, senza aggiungere altro, gli passò davanti per uscire nel cortile. Un momento dopo la porta si chiuse e Andrej si ritrovò nell'oscurità quasi completa. Per un istante temette di sentire il rumore di un chiavistello e di essere stato imprigionato in quel luogo, ma poi ricordò che il chiavistello era all'interno della porta e scosse la testa, pensando: Tra poco, comincerò addirittura a vedere i fantasmi... Allungò le braccia, avanzò a brevi e prudenti passi e raggiunse la porta che Jàk gli aveva indicato. Non era chiusa. L'aprì di uno spiraglio e vide una luce tremolante. Dall'altra parte, c'era la scala di cui Jàk aveva parlato. Era molto più stretta di quanto lui avesse immaginato: probabilmente era soltanto una delle tante scale nell'edificio. Andrej tese le orecchie. Le pareti del maschio, spesse più di una iarda, inghiottivano ogni rumore esterno. Dal fondo della tromba delle scale, invece, giungevano suoni ovattati, quasi impossibili da identificare. Rapidamente, ma senza correre, salì le scale. Anche dall'alto gli arrivavano vari rumori, ma erano piuttosto riconoscibili: il vento che ululava tra i merli di pietra, i cigolii e i gemiti di quelle strutture così vecchie... Spesso, nella sua infanzia, Andrej aveva giocato di nascosto nel torrione di Borsã - una costruzione altrettanto antica e poco meno imponente -, perciò quei suoni gli erano familiari. Di tanto in tanto passava davanti a una fiaccola che, insieme con una luce guizzante ma fioca, spandeva fuliggine. Tra una fiaccola e l'altra, però, le zone buie si facevano sempre più ampie e la strada verso l'alto sembrava non finire mai. Dopo almeno duecento gradini, la scala terminava davanti a una porta di legno massiccio, rinforzata con robuste fasce di ferro. Il legno era così vecchio che sembrava pietra e, sebbene la porta non fosse chiusa a chiave, Andrej si dovette impegnare a fondo per aprirla quanto bastava per scivolare dentro. Il chiavistello dall'altra parte era così robusto che avrebbe potuto reggere all'attacco di duecento tori infuriati. Quando Jàk aveva sostenuto che il duca teneva molto alla propria sicurezza non aveva mentito, rifletté. Una volta dentro, Andrej richiuse la porta con attenzione e si guardò intorno. Si trovava in una stretta nicchia affacciata su un corridoio più largo e meglio illuminato. Era assai probabile che la scala da cui era salito non fosse l'entrata ufficiale, bensì una via di fuga segreta nel caso - inverosimile - che il maschio fosse stato conquistato. Il duca aveva pensato davvero a tutto. Avanzò con prudenza e sbirciò da dietro un angolo. Come aveva detto
Jàk, il corridoio finiva dopo una quindicina di passi davanti a una porta, presso la quale era di guardia un soldato con la divisa coi colori del duca. Dire che il soldato prendeva poco sul serio il proprio compito sarebbe stato un eufemismo. Dopo essersi aggrappato all'alabarda, aveva appoggiato le natiche alla parete e si era addormentato in quella posizione, russando così sonoramente che Andrej lo sentiva anche dal suo nascondiglio. Gettò uno sguardo nell'altra direzione per assicurarsi che Jàk gli avesse detto la verità sul fatto che ci sarebbe stata una sola guardia, poi uscì dalla nicchia e si mosse veloce e silenzioso verso la porta alla fine del corridoio. Era sicuro di non aver fatto nessun movimento imprudente o sbagliato, tuttavia la guardia sentì qualcosa oppure colse la presenza di un'altra persona. Infatti l'uomo si scosse e guardò spaventato in direzione di Andrej. Spaventato, sì, ma per nulla intontito o assonnato. Andrej cambiò fulmineamente tattica. Avanzò deciso, cominciando a gesticolare e poi esclamò in tono severo: «Ma cosa combini, stupido? Dormi mentre fai la guardia? Se il duca lo viene a sapere ti farà frustare, lo sai?» L'uomo lo guardò, confuso, ovviamente a disagio. Ma Andrej gli lesse negli occhi che si stava chiedendo chi diavolo fosse quell'uomo. La diffidenza prese in fretta il sopravvento sull'imbarazzo. «Chi...?» iniziò a dire. «Ho un ordine per te dal duca», lo interruppe Andrej. Ancora due passi e l'avrebbe raggiunto. «Che ordine?» chiese la guardia diffidente. «Il duca era...» Giunto di fronte alla guardia, Andrej alzò la mano destra come per fare un gesto di stizza, ma in realtà per distrarre l'attenzione dell'uomo; con l'altra mano, infatti, sfoderò la spada, sollevandola con un movimento fluido e straordinariamente violento e colpì il mento del soldato col pomo dell'arma. Con un suono sordo, la testa del soldato scattò all'indietro e sbatté contro l'intelaiatura della porta. Andrej riuscì a sostenere l'uomo che stava crollando a terra e cercò di afferrare anche l'alabarda, ma la mancò e l'arma cadde a terra, tintinnando fragorosamente. Quel rumore risuonò nelle orecchie di Andrej così a lungo e in maniera tanto penetrante da convincerlo che si sarebbe sentito in tutto il castello. Ma non successe nulla. Dai camminamenti non giunsero grida; dalle scale non arrivò nessun rumore di passi. La sua immaginazione lo aveva ingannato di nuovo. Fare il ladro non è proprio il mio mestiere, pensò con amarezza.
Dopo aver rinfoderato la spada, aprì la porta della stanza del duca e, gemendo, trascinò l'uomo all'interno. Si guardò intorno con attenzione per controllare di essere davvero solo, poi uscì di nuovo nel corridoio e raccolse l'alabarda. Quindi, dopo aver chiuso accuratamente la porta dietro di sé, s'inginocchiò di fianco al soldato e lo esaminò. Era vivo, anche se probabilmente si sarebbe svegliato soltanto di lì a qualche ora. Che a Jàk piacesse o no, su quel punto Andrej non si era attenuto al suo piano. Si alzò, ritornò alla porta, tirò il catenaccio e sottopose la stanza a un esame più attento. Benché non conoscesse il duca, ciò che vide corrispondeva in pieno all'idea che si era fatto di lui: l'arredamento era semplice e scelto in base alla funzionalità, non alla bellezza. Tuttavia c'era qualcosa che suggeriva lo sfarzo... qualcosa che era forse legato alle dimensioni della stanza. C'era da scommetterci che occupasse quasi tutto il piano. I mobili, imponenti e massicci, apparivano minuscoli in quello spazio enorme e ciò faceva sì che i visitatori - Andrej compreso - si sentissero come persi: un effetto probabilmente voluto, che rivelava sull'inquilino di quella stanza molto più di quanto lui stesso volesse ammettere. Nel giro di pochi secondi, Andrej aveva già memorizzato tutto quello che gli serviva sapere. Il forziere stava esattamente dove Jàk aveva detto e cioè su un piccolo cassettone vicino al letto. Ma, prima di raggiungerlo, Andrej si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Se fosse stato giorno, avrebbe potuto vedere tutta la città. Invece scorse soltanto un'infinità di ombre squadrate, in cui splendevano pochissime luci. La finestra era orientata verso il porto e il mare, e dunque da lì si godeva una bella vista anche sulla piazza del mercato. Andrej si sporse e vide che il maschio, parte integrante della struttura di difesa esterna, superava di almeno venti piedi le mura con le loro palizzate di legno. Tuttavia era sufficiente che qualcuno, là sotto, volgesse lo sguardo in alto perché lui venisse scoperto. Ma, dato che non si vedevano pattuglie, si arrischiò a sporgersi ancora un po' e a guardare in basso. La parte posteriore del castello terminava in una fossa, forse un piccolo lago artificiale, su cui riusciva a cogliere il profilo di una barca. Krusha e suo fratello erano già arrivati. Benché fosse convinto che non lo potessero vedere, fece loro un cenno e poi si allontanò dalla finestra. Era il momento di prendere il bottino e sparire. Si avvicinò al forziere e, come si aspettava, vide che il coperchio di ferro borchiato era chiuso. Sfilò il pugnale dalla cintura e cercò di aprire il
lucchetto, che tuttavia si dimostrò straordinariamente resistente, costringendolo a ricorrere alla spada. Se la solidità del forziere corrispondeva al valore del contenuto, allora lì dentro doveva esserci un patrimonio... Andrej colpì violentemente il lucchetto tre o quattro volte col pomo della spada e, con uno scricchiolio, la serratura infine cedette. Il forziere era pieno a metà di piccole monete d'oro di diverse dimensioni; inoltre c'erano due sacchetti di velluto che contenevano pietre preziose di diverso tipo e colore. Andrej fu sul punto di cedere alla tentazione e intascarsi alcune monete. Se Jàk avesse mantenuto la parola e lui fosse riuscito a liberare i parenti di Frederic, per il ritorno non avrebbe avuto bisogno soltanto di fortuna, ma anche di denaro. Ci rifletté un poco e infine decise di non farlo. Rispetto alla situazione, forse era un errore, però lui non era un ladro. Rinfoderò in fretta la spada, tolse da sotto l'uniforme le tre bisacce riempite di sughero e divise in esse il contenuto del forziere. Quando ebbe finito, legò accuratamente i sacchi e si accorse che erano molto pesanti. Non era sicuro che galleggiassero, ma sperava che Krusha sapesse quello che stava facendo. Anzi c'era da sperare che lo sapesse soprattutto Jàk. Prima di guardare con cautela fuori della finestra, si assicurò ancora una volta che i nodi fossero ben stretti. Poi si sporse e vide che proprio sotto di lui, sul camminamento, c'erano due soldati del duca. I due avanzavano con calma e di tanto in tanto si fermavano addirittura a gettare uno sguardo sulla città. Ci volle un bel po' prima che sparissero alla vista, e ancora di più perché Andrej avesse l'assoluta certezza che non lo potessero vedere. Finalmente si decise e lanciò la prima bisaccia più lontano che poté. Non riusciva a scorgere la barca con Krusha e suo fratello, ma era sicuro che i loro sguardi fossero appuntati sulla finestra appena sotto la cima del maschio. Mentre si stava preparando al lancio della seconda bisaccia, sentì un fruscio alle sue spalle. Poi una voce bassa ma molto chiara disse: «Adesso basta, Delãny». Andrej si voltò, spaventato, lasciò cadere la bisaccia e afferrò la spada, ma non la sguainò perché vide Jàk uscire da dietro una tenda di velluto rosso. Evidentemente dietro quella tenda c'era una porta segreta. «Jàk?» mormorò, cupo in volto. «Siete pazzo? Cosa fate qui? E perché... non mi avete detto di questa porta segreta?» Il suo presunto complice non rispose. Si avvicinò in fretta al soldato svenuto e si chinò su di lui. Non appena comprese che l'uomo era ancora
vivo, aggrottò la fronte e disse: «Avete proprio il cuore tenero, Delãny». «Vi ho chiesto una cosa, Jàk», replicò Andrej in tono tagliente. «Cosa ci fate qui?» «Dobbiamo cambiare i nostri piani.» Jàk indicò con un movimento del capo le due bisacce di pelle che giacevano ai piedi di Andrej. «Non buttatele in acqua, per favore! Sarebbe un vero peccato se il loro contenuto si danneggiasse, non è vero?» «Jàk, maledizione!» esplose Andrej. Si avvicinò di un passo all'uomo dai capelli grigi, ma poi si fermò. Era confuso oltre ogni dire. Cosa stava succedendo? Cosa voleva dire tutto quello? «Ve lo ripeto: dobbiamo cambiare i piani, anche se di poco.» Jàk sospirò e tirò fuori dalla veste un pugnale sottile, con cui tagliò la gola al soldato addormentato. Andrej sgranò gli occhi. «Cosa...?!» Alzatosi, Jàk raggiunse la porta con due rapidi passi e aprì il catenaccio. Poi fece scorrere il pugnale sul dorso della mano destra, procurandosi una ferita lunga un dito, e infine uscì nel corridoio, urlando: «Guardie!» Andrej sguainò la spada per saltargli addosso, ma era troppo tardi. Jàk lasciò cadere il pugnale e si fece da parte, continuando a gesticolare con la mano insanguinata. In un batter d'occhio, la stanza si riempì di uomini in arancione e bianco. I soldati del duca si erano disposti nel corridoio, in attesa di entrare in azione! Andrej arretrò fino alla parete e vibrò un fendente che non colpì nessuno, ma che almeno gli diede un po' di respiro, poi cercò disperatamente una via di fuga. Niente. Dal corridoio sopraggiunsero altri uomini armati: ormai, di fronte a lui, c'era oltre una dozzina di soldati, che gli puntavano contro spade e lance. Era pur vero che non aveva paura di combattere contro più avversari, ma quella superiorità numerica era troppo anche per lui. Esitò, poi lasciò cadere a terra la spada e alzò le mani. Uno dei soldati gli si avvicinò, puntandogli la spada alla gola. «Fermo!» gridò Jàk in tono tagliente. «Non toccatelo! Lo voglio vivo!» Il soldato abbassò la spada e fece un passo indietro. «Come ordinate, mio signore», disse. Gli occhi di Andrej lampeggiarono. Fissò Jàk e ripeté: «Signore?» «Signore», confermò il duca di Constãntã. XIV Il giorno successivo doveva essere già iniziato da tempo o forse era già
sopraggiunta la notte. Andrej non aveva nessuna possibilità di misurare lo scorrere del tempo, perché la sua segreta non aveva finestre. Sin da quando l'edificio era stato costruito, in quello spazio l'arbitraria divisione del giorno in ore e minuti fatta dagli uomini aveva perso ogni validità, come pure l'eterno succedersi del giorno e della notte. L'unica luce che, a intervalli irregolari, illuminava la cella di Andrej era una fiaccola fumosa, il cui baluginio rossastro penetrava attraverso l'inferriata della finestrella nella porta. Ma arrivava solo raramente, talvolta per qualche secondo, altre volte per qualche minuto. Andrej ormai aveva smesso da tempo di cercare una logica nell'accendersi e nello spegnersi della fiaccola e aveva anche smesso di misurare il tempo che aveva trascorso in quel buco. Potevano essere molte ore o pochi giorni, ma il numero esatto di quelle ore e di quei giorni gli era diventato del tutto indifferente. Finché non avesse intravisto qualche possibilità di fuga, non avrebbe avuto nessuna necessità di pensare da quanto tempo era rinchiuso lì. E di possibilità non ne aveva. Andrej dubitava che Jàk Demagyar sapesse con esattezza chi aveva fatto mettere in quella segreta; comunque sembrava convinto che il suo prigioniero fosse un uomo particolarmente pericoloso. Infatti Andrej non soltanto era stato portato nella cella più profonda e sicura del castello, ma gli avevano anche incatenato mani e piedi e messo un collare di ferro, legato a un anello alla parete per mezzo di una catena così corta che lui non poteva sedersi comodamente né tantomeno alzarsi e appoggiarsi alla parete. Le membra gli dolevano per la posizione scomoda e il suo stomaco si lamentava perché, da quand'era finito laggiù, non aveva ricevuto nulla da mangiare e neppure un sorso d'acqua. Improvvisamente, nella finestrella rettangolare grande poco più del palmo di una mano, ricomparve la luce rossastra della fiaccola. Stavolta, però, non si spense dopo pochi secondi, diventando invece sempre più luminosa. Poi Andrej sentì un rumore di passi che si avvicinavano. Probabilmente si trattava del carnefice... Si era già chiesto diverse volte in quale modo l'avrebbero giustiziato. La decapitazione era il metodo preferito, ma se Domenicus, prima della sua morte, aveva convinto il duca che Andrej Delãny era uno stregone, allora il duca gli avrebbe certamente procurato una morte lenta e dolorosa. Aveva sentito dire che le streghe venivano bruciate... Di certo si trattava di un metodo impressionante, ma non era il più spaventoso che Andrej riusciva a immaginare... Scacciò quei pensieri sgradevoli, si alzò per quanto gli era possibile e si fissò sulla porta, benché non riuscisse a scacciare la sensazione che i visi-
tatori in arrivo non sarebbero stati molto più piacevoli delle congetture che aveva appena formulato. Non aveva torto. Una chiave scricchiolò nella serratura e un attimo dopo la porta si aprì. Andrej lanciò un'occhiata e poi abbassò il viso, perché i suoi occhi, ormai abituati all'oscurità, soffrivano alla luce violenta della fiaccola. Nella cella entrarono due figure... No, forse erano tre. Nella penombra scorgeva soltanto profili indistinti. Poi sentì una voce molto chiara e rabbiosa: «Chi è stato?» Andrej scrollò la testa, cercando di scacciare le lacrime che la luce gli aveva fatto sgorgare, e guardò Jàk Demagyar. Gli occhi del duca fiammeggiavano di rabbia, ma quella rabbia non era diretta contro di lui. «Avevo ordinato di trattare bene il prigioniero», urlò il duca. «Guardatelo! È più morto che vivo! E sentite come puzza!» «Mi... dispiace, mio signore», balbettò uno dei due soldati al suo seguito. «Pensavamo che...» «Se volessi da voi un pensiero, allora ve lo chiederei!» lo interruppe Demagyar. «Adesso va' a prendere qualcosa da mangiare per quest'uomo! E acqua e sapone! Non voglio che puzzi come una capra!» Camminando all'indietro, il soldato si affrettò a lasciare la cella. Andrej sentì che si allontanava correndo. Demagyar si rivolse al secondo uomo. «Lasciaci soli!» ordinò. Il soldato esitò. «Siete sicuro, mio signore? È... pericoloso.» «Credi che riesca a strappare le catene dalla parete, oppure che si trasformi in un corvo e mi divori gli occhi?» chiese il duca con fare canzonatorio. «Sparisci! Se avrò bisogno ti chiamerò!» Allungò la mano e strappò la fiaccola dalle mani dell'uomo, il quale si allontanò subito correndo. Evidentemente Jàk Demagyar non era famoso per la sua magnanimità. Il duca si avvicinò, ma si tenne a una certa distanza, come se si fidasse della catena di Andrej molto meno di quanto aveva sostenuto poco prima. Poi fece oscillare la fiaccola. La spostò dalla mano destra alla sinistra, che era fasciata da una benda bianca e pulita, e la sollevò un po', finché il calore delle fiamme quasi non gli scottò il viso. «Mi dispiace, davvero», mormorò. «Non volevo che vi trattassero così, Delãny. Ma sapete come si dice: se vuoi essere sicuro che una cosa sia fatta bene, allora falla tu stesso.» «Le vostre premure mi commuovono fino alle lacrime», replicò Andrej, acido. «Se potessi vi abbraccerei.» Demagyar rise. «Non fraintendetemi, Andrej. È solo che mi diverto meno a giustiziare un uomo mezzo morto.»
Andrej non replicò. Il duca non gli avrebbe mai detto quello che voleva sapere. «Per essere un uomo incatenato da due giorni a una parete e tenuto senza un goccio d'acqua, avete un aspetto straordinariamente buono», riprese Demagyar. Andrej intuì che il duca lo stava studiando. Sì, quasi certamente ignorava chi era lui e per quale motivo i tre cavalieri dorati e Domenicus avevano razziato la valle di Borsã: era poco probabile che gli avessero raccontato qualcosa. Ma evidentemente sospettava che lui nascondesse qualche segreto. Quantomeno sapeva di non avere a che fare con un semplice bifolco della Transilvania. «Noi Delãny siamo robusti», replicò infine. «Non è facile ucciderci.» «Sì, l'ho sentito dire.» Il duca sollevò le spalle. La fiaccola nella sua mano tremolava, proiettando sulla parete una pioggia di minuscoli riflessi rossi. «Ma io farò tutto il possibile.» «Perché?» chiese Andrej con calma. «Perché vi faccio giustiziare?» Lo sguardo di Demagyar lampeggiò, come se la domanda l'avesse davvero sorpreso. «Avete pur sempre cercato di derubarmi, Delãny», rispose con un sorriso. «E avete ucciso uno dei miei soldati.» Osservò la propria mano bendata e proseguì, in tono di falso dispiacere: «Era un brav'uomo. Non sarà facile rimpiazzarlo. Oggi è difficile trovare uomini affidabili». «Amate particolarmente questi terribili giochi, oppure c'è un motivo più profondo che vi spinge a derubarvi e a uccidere i vostri stessi soldati?» Demagyar cercò di nascondere la sorpresa, ma ad Andrej non sfuggì la rapida occhiata, quasi spaventata, che il duca lanciò verso la porta prima di rispondere. «Se ci fosse un motivo, non sarebbe particolarmente intelligente da parte mia confidarvelo, non credete?» Quindi c'è un motivo, pensò Andrej. E aveva anche una vaga idea di come scoprirlo, benché non fosse ancora in grado di spiegarsi compiutamente come ci sarebbe riuscito. «Perché siete venuto, duca?» chiese poi, con aria ironica. «Solo per accertarvi delle mie pessime condizioni?» «In realtà, Delãny, non vi potete lamentare», replicò Demagyar. Poi scosse la testa. «Sono venuto per comunicarvi che il vostro processo inizia tra due ore.» «Il mio... processo?» «Sembra che abbiate davvero una pessima opinione di me», sospirò Demagyar. «Avrete un processo equo, è ovvio.»
«Presieduto da voi, immagino. E la condanna è già decisa.» «Ovviamente», disse Demagyar, asciutto, e indicò la mano ferita. «Basterebbe l'aggressione al duca di Constãntã per condannarvi a morte, Delãny. Non potrei salvarvi neppure se lo volessi. Ci sono leggi cui anch'io mi devo attenere.» «E vi dispiace, vero?» L'osservazione sarcastica di Andrej non scosse Demagyar. «Tuttavia sono qui per farvi un'offerta», proseguì. «Morirete, sì, ma dipenderà da voi se avrete una morte rapida e senza dolore oppure se la vostra agonia durerà ore o addirittura giorni.» «Scelgo i giorni», replicò Andrej, cercando di provocarlo. «Sono avido di piacere, non lo sapevate?» «Non sapete quello che state dicendo», ribatté il duca. «Il mio boia è un maestro. E gli piace quello che fa.» «Cosa volete?» chiese Andrej. Non era un vigliacco, ma neppure un pazzo. «Solo un'informazione. Domenicus... l'inquisitore. Chi è?» «Temo... di non capire», farfugliò Andrej. «Smettete di fingere», sibilò Demagyar. «Sapete bene cosa voglio dire. Domenicus non è... non era un inquisitore normale. La lunga mano di Roma di solito non arriva fin qui; noi, in genere, abbiamo a che fare con la Chiesa di Bisanzio e col patriarca di Costantinopoli, i cui rapporti con Roma - diciamo così - sono un po' tesi. Quindi ci deve essere un motivo assai grave, se il nostro stimatissimo re permette all'Inquisizione di venire qui a macellare la gente a suo piacere.» «Evidentemente a Domenicus l'ha permesso.» «Sì, e mi chiedo perché. Cosa c'è di così eccezionale in una valle della Transilvania da costringere il re a dare il permesso a un esercito straniero di distruggere un intero villaggio?» «Non lo so», rispose Andrej. Dopo una breve pausa, riprese: «Forse non lo sa neppure lui». Il duca scosse la testa, pensieroso. «Ci ho riflettuto anch'io, ma i documenti dell'inquisitore sono in regola. Anzi, non posso provarlo, ma tutto lascia pensare che Domenicus e i suoi sinistri accompagnatori fossero qui su incarico diretto da Roma. E il fatto che siano giunti qui poco prima di voi dimostra che vi stavano aspettando. Uno spreco di energie un po' esagerato per far fuori un solo uomo e un ragazzo, non credete anche voi, Delãny?»
«Un compito che vi assumerete voi, vero?» replicò Andrej. La sua catena tintinnò. «Ma perché dovrei aiutarvi, ammesso che lo possa? Non ho paura di morire. E il dolore prima o poi finisce.» «E se vi dessi la mia parola di lasciare in vita il ragazzo?» «Frederic?» Andrej non riuscì a mascherare l'orrore nella sua voce. «È vostro prigioniero?» «Cosa pensavate?» chiese Demagyar con fare canzonatorio. «Lui e anche quei due pazzi che credevano di potermi derubare. Ditemi il vero motivo per cui l'inquisitore è venuto in Transilvania, e il ragazzo resterà vivo.» «Ha ucciso Domenicus», Andrej ricordò al duca. «E allora?» Demagyar fece un gesto sprezzante con la mano sana. «Mi ha fatto un servizio. Dunque... Qual è il grande segreto della valle di Borsã?» «Non lo so», rispose Andrej. Il volto di Demagyar s'incupì. «Allora mi dispiace. In questo caso non posso fare nulla per voi.» Fissò Andrej ancora per un momento, in palese attesa che il prigioniero ci ripensasse e rispondesse. E la delusione si dipinse sul suo volto quando capì che non sarebbe successo nulla. Infine scrollò le spalle, si girò verso la porta e, senza aggiungere una sola parola, uscì dalla cella. Andrej si ritrovò di nuovo solo nell'oscurità. Forse aveva commesso il suo ultimo errore. XV Poco dopo, quattro soldati entrarono nella cella di Andrej: lo liberarono dalle catene e gli portarono acqua e abiti puliti, con cui lavarsi e cambiarsi. Lui notò che gli uomini tenevano costantemente una mano sull'impugnatura della spada e sentì che, nel corridoio, ce n'erano altri. Un tentativo di fuga non sarebbe stato soltanto inutile, ma anche stupido. Doveva attendere l'occasione giusta, approfittare di una distrazione dei suoi guardiani. Un'occasione che forse non sarebbe mai giunta... o che forse si sarebbe presentata nel giro di qualche minuto. Doveva rimanere calmo e lucido. Non aveva intenzione di farsi uccidere - né lentamente né velocemente senza opporre resistenza. Quando fu rimesso in catene e portato fuori della cella, obbedì senza ribellarsi. La sua cella si trovava nei sotterranei del castello, proprio come
lui aveva pensato. Percorsero un corridoio tetro, angusto e così basso che dovettero camminare chinando la testa. Alla fine del corridoio c'era una scala stretta, ripida e talmente lunga da sembrare infinita. Quindi, dopo aver superato una massiccia porta di quercia, giunsero nella prigione vera e propria, che si trovava molto più in alto rispetto alla cella di Andrej. Andrej percepì all'istante il dolore che aleggiava in quel luogo. Non soltanto il suo respiro, ma anche quello dei soldati si fece pesante. Le due enormi celle, chiuse da gigantesche inferriate, che fiancheggiavano il corridoio erano piene a dismisura. Il puzzo di escrementi umani si mescolava con quello della malattia e della morte; da entrambe le celle, poi, si levavano gemiti e lamenti soffocati. Benché, accalcati nelle celle, ci fossero oltre cinquanta persone, tra uomini, donne e bambini, quei rumori erano sorprendentemente deboli. Molti dei prigionieri non avevano più nemmeno la forza di lamentarsi. Quella vista serrò il cuore di Andrej, che si scoprì a chiudere gli occhi, incapace di sopportarla. Era stato portato nella sua cella privo di sensi, perché un soldato l'aveva colpito. Ora comprendeva che, in fondo, stordirlo era stato un atto di pietà. Il tempo che aveva trascorso nella segreta, solo coi suoi pensieri, era stato terribile; ma sarebbe stato un vero inferno se lui avesse avuto nel cuore le immagini di quello che Demagyar aveva fatto agli abitanti del villaggio. Sapeva che la famiglia e gli amici di Frederic erano incarcerati lì, ma vederli direttamente era un'altra cosa, soprattutto perché quello che stava vedendo superava ogni immaginazione. Andrej cercò di non farsi travolgere dall'orrore e si costrinse a guardare. Vide facce grigie, segnate dalla sofferenza, dal dolore e soprattutto dalla paura, ma non scorse Frederic. Se Demagyar aveva detto la verità e Frederic era davvero suo prigioniero, allora l'aveva rinchiuso in un altro luogo. Ripresero a salire e finalmente arrivarono nel cortile. Andrej chiuse gli occhi e d'istinto sollevò una mano per proteggersi dalla violenta luce del sole. Immediatamente uno dei guardiani sollevò la lama della spada contro la gola di Andrej e un altro gli spinse la punta dell'alabarda contro il ventre. Andrej s'immobilizzò. Qualsiasi cosa Demagyar o Domenicus avessero detto loro, una cosa era certa: i soldati del duca avevano una paura maledetta di lui. E quella cosa poteva anche tornare a suo vantaggio... ma non ora. C'erano mille motivi che sconsigliavano di tentare la fuga in quel momento, il primo dei quali era il fatto che Frederic si trovava nelle mani del duca. Riabbassò il braccio, attese finché i soldati non ebbero spostato le armi e
si sforzò di sorridere. Ciò che leggeva sui volti di quegli uomini era paura o odio? In fondo erano convinti che lui avesse ucciso uno dei loro compagni. Mentre proseguivano, Andrej osservò il cortile interno del castello. I suoi occhi si abituarono in fretta all'abbagliante luce del giorno, ma lo spettacolo che gli si offrì non fu gradevole. Di giorno la fortezza appariva tetra come di notte, benché non si potesse più attribuire quell'impressione all'oscurità e alle ombre sinistre. Andrej si ritrovò in un luogo inquietante, freddo, in cui sembrava non esistessero sentimenti umani e sorrisi. I soldati lo condussero in una sala - grande e quasi vuota - al primo piano del palazzo, che Andrej ipotizzò fosse la sala delle udienze di Jàk Demagyar. Era dominata da un grande camino, spento da tempo, su cui campeggiava uno scudo con lo stemma dei Demagyar, sotto il quale erano incrociate una mazza ferrata e una spada corta. Le due armi non erano soltanto ornamentali: esattamente come lo scudo, mostravano i segni delle battaglie. Davanti al camino era stato posto un lungo tavolo al quale erano seduti Demagyar e altre due persone che Andrej non aveva mai visto. La prima portava i colori del duca e l'altra - probabilmente un alto dignitario cittadino - indossava una veste molto lussuosa. E c'erano ancora due posti liberi, uno dei quali era vicino al duca. «Sapete perché siete qui», esordì Demagyar. «Per gustare il piacere della vostra ospitalità?» fece Andrej. «Se è così, avrei un reclamo per la mia stanza...» Uno dei soldati lo colpì alla nuca con tale violenza da farlo barcollare. Non volendo dargli la soddisfazione di cadere a terra, Andrej strinse i denti e lo fulminò con lo sguardo. «Sembra proprio che non abbiate ancora capito la gravità della vostra situazione, Delãny», borbottò Demagyar, aggrottando la fronte. «Le maniere della servitù lasciano un po' a desiderare», mormorò Andrej. Ebbe la sensazione che l'uomo alle sue spalle stesse levando il braccio e s'irrigidì, ma il duca fece un gesto e il colpo gli fu risparmiato. Poi Demagyar si rivolse all'uomo alla sua sinistra. «Come vi avevo detto, conte Bathory, è un barbaro della Transilvania», sospirò, scuotendo il capo. «Sembra addirittura che non capisca in che situazione si trova.» L'uomo alzò una mano per far tacere il duca e si rivolse direttamente ad Andrej. «È così, Delãny? Non sapete perché siete qui? Ignorate di cosa siete accusato?»
Andrej era sempre più perplesso. Sapeva bene che quel cosiddetto «processo» era soltanto una farsa; Demagyar gli aveva già detto che la condanna era decisa. Eppure, mentre il conte Bathory parlava, colse uno sguardo quasi implorante da parte del duca, come se questi gli volesse offrire una via d'uscita. Ma perché? «Ve l'ho detto, conte Bathory: è un pazzo», ribadì Demagyar, dato che Andrej non rispondeva. «I suoi complici lo hanno mandato avanti proprio perché è stato così stupido da accettare d'impegnarsi in un'impresa scriteriata.» «Forse è così», s'intromise il secondo uomo. «Ma sono comunque dell'idea di sottoporlo a uno scrupoloso interrogatorio. Forse sta solo recitando la parte dello stupido.» «A che gli servirebbe, Florescu?» obiettò il duca. «Sa che non può aspettarsi pietà.» Si schiarì la voce, guardò per un momento Andrej, poi si alzò. «Allora facciamo così. Andrej Delãny, della valle di Borsã, vi accuso ufficialmente di essere entrato nel castello, e in particolare nella mia camera da letto, per rubare il tesoro ducale. A ciò va aggiunta l'aggressione fisica a Jàk Demagyar, duca di Constãntã e vicario del re.» Gesticolò con la mano ferita. «Forse non lo sai, selvaggio, ma ogni aggressione fisica al duca è inevitabilmente punita con la morte. Ammetti i tuoi crimini?» Non aveva neppure nominato il soldato ucciso. Ma in fondo quell'uomo aveva fatto solo quello che, secondo lui, dovevano fare i soldati: era morto. «Ho altra scelta?» chiese Andrej. Stavolta Demagyar non impedì ai soldati di colpirlo. Andrej non emise un gemito, benché rimanere ritto sulle gambe gli costasse un notevole sforzo. «È una pazzia», sospirò il duca. «Tuttavia vogliamo darvi ancora una possibilità.» Si alzò, dirigendosi a un piccolo tavolo collocato vicino al camino e ritornò con due panciute bisacce di pelle. «Siete stato sorpreso con tre di queste bisacce, con cui volevate portare via la refurtiva», riprese, mettendo le presunte prove sul tavolo davanti a sé. «Due le abbiamo recuperate, ma i vostri complici sono fuggiti con la terza... Vale a dire, sfortunatamente, con un terzo del nostro patrimonio.» Fece un sorriso tirato. «Vorremmo riavere quel terzo, Andrej Delãny.» Andrej non capiva più nulla. Jàk Demagyar era probabilmente l'unico in quella stanza a sapere dove fossero Krusha e Sergé e quindi dove si trovasse la terza bisaccia. Perché il duca voleva derubare se stesso? «Non so di cosa stiate parlando», riuscì soltanto a borbottare.
Florescu vibrò un pugno sul tavolo. «Non essere sfrontato! Devi rispondere alle domande. Altrimenti disponiamo di metodi molto efficaci per scioglierti la lingua!» «Chi sono i tuoi complici?» chiese il conte Bathory. «Dove avevate appuntamento? E chi vi ha raccontato del forziere del duca?» «Oppure non era il denaro che stavi cercando?» continuò Demagyar, sollevando con un movimento drammatico la mano ferita. «Volevi forse infilarmi il pugnale nella gola e non nella mano?» «Se avessi voluto la vostra morte, di certo ora non sareste in grado di pormi questa domanda», replicò Andrej con calma. S'irrigidì, ma l'atteso colpo alla nuca non arrivò. Il duca sospirò ancora, guardò prima Andrej, poi i soldati dietro di lui e mosse in maniera quasi impercettibile il mignolo della mano destra; nello stesso istante, un tremendo dolore esplose nelle reni di Andrej, che cadde in ginocchio con un gemito e, per alcuni momenti, fu costretto a resistere strenuamente per non perdere i sensi. «La nostra pazienza si è esaurita, Delãny», sibilò Demagyar. «Odio far torturare una persona, ma non esiterò a farlo se continuerai a essere così cocciuto! Come si chiamano i tuoi complici? Dove si nascondono? Se ce lo dirai, forse avrò misericordia!» Pur avvertendo un dolore insopportabile alla schiena, Andrej si rialzò. Non riusciva a dare un senso alle parole di Demagyar, ma forse non le avrebbe comprese neppure se il soldato non l'avesse colpito così violentemente da portarlo al limite dell'incoscienza. Intuiva però che quel «processo» era soltanto una messinscena preparata accuratamente, forse a beneficio di Florescu e Bathory. Ma cosa voleva far credere loro? «Non so dove sono», balbettò. «Non so neppure bene chi sono. Li ho conosciuti solo qualche giorno fa.» «Dove?» chiese Bathory. Andrej lo fissò e il conte sostenne il suo sguardo per qualche istante prima di fare un cenno a un soldato, che superò rapidamente Andrej, appoggiò un fagotto avvolto in una tela di lino sul tavolo davanti al conte e poi ritornò al proprio posto, camminando all'indietro. Il conte Bathory aprì il fagotto: conteneva i vestiti strappati che lui e Frederic avevano lasciato nella casa abbandonata. «Sono tuoi questi vestiti?» chiese. «Se sì, allora spiegami come si sono strappati.» «Che importanza ha?» esclamò Andrej. «Ho già ammesso di aver voluto derubare il duca.»
«E ciò è punibile con la morte», ribadì Florescu. «Mi chiedo tuttavia perché un uomo sia disposto a sopportare atroci sofferenze soltanto per proteggere due complici che sostiene di conoscere solo da qualche giorno.» «Pensa bene alle prossime parole che dirai, Delãny», intervenne il conte Bathory. «Le tue ustioni dimostrano che tu e i tuoi amici siete responsabili dell'incendio della locanda, e questo è un altro grave crimine.» «Mi potete uccidere una volta sola... o sbaglio?» chiese Andrej con freddezza. Guardò Demagyar. Il duca si sforzava di mantenere un'espressione cupa, ma non riusciva a nascondere il luccichio trionfante dei suoi occhi. Sembrava proprio che quell'interrogatorio procedesse secondo i suoi desideri. Ma quali erano? «Ti sbagli, Andrej Delãny», replicò Florescu. «La tua morte non sarà una faccenda breve. Anche a me ripugna sottoporre un uomo alla tortura, ma i tuoi crimini sono troppo gravi. Il popolo vuole giustizia. Se persisti nella tua testardaggine, impiegherai un'intera giornata a morire.» «Suvvia, rivelaci il nome dei tuoi complici. E quello del vostro mandante», disse il conte. «Non capisco cosa vogliate dire», mormorò Andrej. «Voglio facilitarti le cose», intervenne Florescu. «Tu non sei così sciocco come vuoi farci credere. Nessuno è tanto stupido da pensare d'insinuarsi nella stanza da letto del duca, prendere il suo forziere, fuggire... il tutto senza essere visto. La tua reale intenzione era un'altra: volevi uccidere il duca, vero?» «Sarebbe stato più facile che rubargli il tesoro», notò Andrej, sarcastico. «Forse speravi che la confusione successiva alla sua morte ti avrebbe fornito un'adeguata copertura per la fuga», insistette Florescu. Il conte Bathory sembrava pensieroso e vagamente spaventato. Demagyar, invece, non nascondeva più la sua soddisfazione. «Dicci il nome del mandante, dove si nascondono i tuoi complici e...» Florescu si fermò per un attimo, giusto il tempo di rivolgersi a Demagyar con un'occhiata interrogativa, alla quale il duca rispose con un cenno di assenso. «... avrai salva la vita», concluse. Il conte Bathory aggrottò la fronte. «Perdonate, Florescu, ma quest'uomo...» «Quest'uomo non è che uno strumento», lo interruppe l'altro. «Serve a poco distruggere il pugnale se non si sa chi lo ha lanciato.» Il conte Bathory si preparò a rispondere, ma non riuscì a parlare. Dall'e-
sterno giunsero voci concitate, poi la porta si spalancò ed entrarono due guardie, camminando all'indietro e agitando le mani con fare impotente. Quindi apparve una donna: i capelli neri, gli occhi fiammeggianti e l'aria agitata le conferivano un aspetto da angelo vendicatore. Accanto a lei c'erano due uomini che indossavano lucide armature di ottone. Andrej li aveva già visti: il primo era il gigantesco Malthus, che lui non era riuscito a uccidere per un soffio; il secondo l'aveva visto per la prima volta nella locanda in fiamme. Demagyar si alzò per metà dalla sedia. «Contessa!» esclamò. «Ma...» «Cosa succede qui?» lo interruppe la sorella dell'inquisitore in tono tagliente. Il suo era stato quasi un urlo. «Perdonatemi, contessa», disse Demagyar, a disagio. «Vi devo pregare di uscire. Stiamo celebrando un processo a...» «A un uomo che noi rivendichiamo!» lo interruppe Maria, al colmo dell'ira. «Come?» Demagyar fissò la donna con sguardo interrogativo. Maria ignorò i due soldati che cercavano di bloccarla - senza però ritrovarsi nella rischiosa situazione di doverla toccare - e arrivò decisa fino a Demagyar, fermandosi davanti al tavolo e assumendo un tono di sfida. «Risparmiatevi pure le arie da gran signore, Demagyar. Non avete nessun diritto di condannare quest'uomo! Il diritto di giudicare l'assassino di mio fratello spetta solo a me! E io mi avvalgo di questo diritto!» Il duca non rispose subito, fissando invece Maria in un modo difficile da interpretare. Anche Florescu sembrava tanto confuso quanto offeso, mentre il conte Bathory si teneva in disparte. Con la coda dell'occhio, Andrej vide che i due cavalieri dorati gli si avvicinavano e, come per caso, si mettevano dietro di lui, l'uno a destra e l'altro a sinistra. Non credeva che l'avrebbero aggredito. Non potevano ucciderlo lì, sotto gli occhi di Demagyar e di tutti gli altri, esattamente come non avevano potuto farlo durante il loro ultimo incontro sulla piazza del mercato, alla presenza di tanti testimoni. «Contessa, potete essere certa che comprendiamo e condividiamo il vostro dolore», disse il conte Bathory. «Tuttavia...» «Tuttavia io ho la parola di Demagyar», lo interruppe Maria. «Oppure avete già dimenticato la vostra promessa di consegnarmi Andrej Delãny e il ragazzo, duca?» Demagyar scosse la testa. «Certo che no», rispose con voce dura. «Ma è successo prima che quest'uomo entrasse nel mio castello e tentasse di uc-
cidermi.» Maria lanciò ad Andrej uno sguardo terrorizzato. «È... vero?» «No», rispose lui, tranquillo. Il duca sorrise. «Mente, è ovvio. Cosa vi aspettavate?» «Mi aspetto che manteniate la vostra parola, duca.» «Cercate di comprendere, contessa», sospirò Demagyar. «Non potrei affidarvi Delãny neanche se lo volessi.» «Dice la verità.» Il conte Bathory indicò Andrej. «Delãny si è reso colpevole di crimini gravi. È impossibile affidarlo a voi o a chiunque altro. Non prima che la giustizia abbia fatto il proprio corso.» Maria strinse i pugni e fu scossa da un tremito. Andrej immaginava benissimo quello che stava provando. Tuttavia la donna riuscì a dominarsi, aprì i pugni, si rilassò e fece due passi indietro. «Lo vedremo», disse con voce strozzata. «Vi vorrei comunque consigliare di non toccarlo.» «Vi prego, contessa, calmatevi», disse Demagyar in tono affabile. «Comprendo il vostro dolore, ma purtroppo non posso far nulla per voi.» «Evidentemente non capite come stanno le cose», replicò Maria con freddezza. «Se mio fratello muore, sarete costretto a spiegare perché vi rifiutate di consegnare l'assassino di un inquisitore. Volete davvero sfidare l'ira della Chiesa di Roma?» Se mio fratello muore? pensò Andrej, sconcertato. «Vostro fratello... è vivo?» chiese. «Silenzio!» urlò Demagyar. «Tu devi parlare soltanto se ti è stata posta una domanda.» Maria rispose comunque. «Sì, è vivo, ma non so ancora per quanto. Se muore, Dio abbia pietà di voi, Andrej Delãny. Da me non dovete comunque aspettarvi nessuna pietà.» Si rivolse di nuovo al duca. «La stessa cosa vale per voi, Jàk Demagyar. Lo so che qui non avete molta considerazione della Chiesa di Roma, però mio fratello non è un prelato qualsiasi. Ha amici potenti che si domanderanno come mai sia stato aggredito mentre era sotto la vostra protezione. E, pensateci bene, se davvero i turchi attaccheranno Constãntã, anche voi avrete bisogno di amici!» Demagyar non reagì a quella minaccia: si capiva che non ne era affatto impressionato. Senza rendersene conto, Maria aveva detto un'importante verità: in quella parte del Paese, la parola della Chiesa di Roma non contava granché. Roma era potente, sì, ma anche molto lontana. E se davvero i turchi avessero cercato di conquistare Constãntã, il papa non avrebbe potuto impedirlo.
«Ora vi prego di andarvene», disse il duca in tono gentile ma distaccato. «Più tardi m'intratterrò volentieri con voi.» «Non dimenticate quello che vi ho detto», mormorò Maria. Si girò, lanciò ad Andrej uno sguardo gelido e uscì dalla sala insieme coi due cavalieri dorati. XVI L'assurdo interrogatorio durò ancora circa due ore. Alla fine, Demagyar consigliò ad Andrej di farsi un esame di coscienza fino al mattino seguente e ordinò che il prigioniero non fosse riportato in cella, bensì in una minuscola stanza del palazzo, poco più grande della segreta e chiusa da una porta altrettanto massiccia. Perlomeno era arredata, seppure in modo spartano, e aveva una finestra. Anche lì, tuttavia, Andrej fu incatenato a un robusto anello di ferro fissato alla parete e si rese subito conto che la catena non gli lasciava più libertà di movimento di quanta ne avesse nella vecchia cella. Evidentemente la sala di Demagyar era usata molto spesso, al punto di rendere necessaria quella «cella di transito» per i prigionieri. Gli diedero qualcosa da mangiare e una ciotola d'acqua. Dopo circa mezz'ora, la porta si spalancò di colpo ed entrarono Maria e uno dei cavalieri dorati. Andrej era sorpreso. Dopo l'ingresso della donna nella sala delle udienze, non avrebbe mai immaginato di rivederla così presto, se non con un coltello in mano per tagliargli la gola. Tuttavia sul suo volto non c'era rabbia né odio. Sembrava triste, ma non furiosa. Andrej si sollevò dalla sua branda per quanto gli permetteva la catena. «Contessa...» «Non dire sciocchezze, Delãny», esclamò Maria stancamente. «Non sono una nobile.» Chiuse gli occhi, rimase in silenzio per qualche istante - un tempo che ad Andrej sembrò eterno -, poi chiese a bassa voce: «Perché?» Lui capì immediatamente cosa voleva sapere, ma non rispose subito, fissando invece il cavaliere dorato. L'uomo sostenne il suo sguardo. Nei suoi occhi c'era una promessa inquietante, accompagnata da quel gelo terribile che colpiva così profondamente l'animo di Andrej. «Vorrei parlare con lui da solo», disse infine. Il cavaliere rise seccamente e disse qualcosa in una lingua che Andrej non conosceva.
«Parlate in modo che ci capisca», ordinò Maria, senza girarsi verso il suo accompagnatore. «E adesso lasciateci soli.» «Vi prego, Maria!» replicò il cavaliere dorato. «Quest'uomo è...» «È legato mani e piedi, nonché incatenato alla parete, Kerber! Che cosa mi può fare?» «È un assassino!» sibilò il cavaliere con una smorfia. «Ed è pericoloso anche se è incatenato.» «Che cosa può fare?» ribadì Maria in tono aspro. «Strappare le catene? Oppure trasformarsi in un lupo e sbranarmi? Andate via, Kerber! Ve lo ordino!» Lo sguardo del cavaliere rivelò ad Andrej che quella donna non aveva nessuna autorità su di lui. Tuttavia scrollò le spalle, si girò e diede qualche colpo sulla porta. Quando essa si aprì, Andrej vide che nel corridoio c'erano molti soldati. Non portavano le divise arancione e bianche delle truppe ducali, bensì l'armatura nera senza decorazioni dei soldati arrivati con Domenicus. «Allora?» disse Maria. «Ora siamo soli.» «Mi dispiace davvero per quello che è successo a tuo fratello, Maria. Non è dipeso dalla mia volontà», esordì Andrej. «Non volevo che succedesse, ti prego, credimi.» Il volto di Maria s'indurì. «Non sono venuta per sapere cosa volevi tu, Delãny. Perché l'ha fatto? Un... bambino, mio Dio! Com'è possibile che un bambino odi una persona al punto di ucciderla?» «Perché quella persona ha sterminato la sua famiglia», rispose Andrej. «Domenicus?» Maria scosse la testa con un'espressione incredula sul bel volto. «Non è possibile. Menti!» «Io c'ero... Ho visto quello che hanno fatto i soldati di tuo fratello. Non giustifico il comportamento di Frederic, ma lo capisco.» Ancora prima che finisse la frase, qualcosa si spense negli occhi di Maria. Era venuta per... No, Andrej non sapeva perché era venuta. Di certo non voleva soltanto accusarlo e minacciarlo... C'era un motivo diverso, completamente diverso. Ma, qualunque fosse, ormai era svanito. Adesso leggeva nei suoi occhi un sentimento di rabbia e di amarezza. Prima che potesse dire qualcosa, Andrej proseguì: «Cosa sai dei cavalieri dorati?» «Non molto», confessò lei. «Sono le guardie del corpo di mio fratello. Sono fidatissimi. Sacrificherebbero la vita per proteggerlo.» Andrej sorrise. «Sì, ma nel momento decisivo non l'hanno fatto.» Il volto di Maria s'incupì ancora di più, rivelando che lei aveva colto nel-
le parole di Andrej una nota di perfidia. Però lui, che non le aveva pronunciate con quell'intenzione, sollevò subito le mani e, gridando per sovrastare il tintinnio delle catene, disse: «Ti prego, perdonami! Ho detto una cosa stupida. Ma rispondi a una domanda: tu non c'eri, vero? Quando tuo fratello è andato nella valle di Borsã, tu sei rimasta a Constãntã». «Mio fratello non mi porta con sé durante le sue missioni», rispose Maria. Nel suo sguardo c'era sempre una rabbia vicinissima all'odio, però la sua voce si era fatta un po' incerta. «E non lo fa per buoni motivi», spiegò Andrej. «Non so nulla degli affari di tuo fratello, Maria, e ignoro che cosa faccia con precisione un inquisitore. Però so quello che ho visto. Borsã è il mio paese natale. Quando l'ho lasciato, tempo fa, ci vivevano più di cento persone. Poi, una settimana fa, sono tornato, trovando soltanto un vecchio agonizzante, che era stato torturato spietatamente, e un ragazzo che aveva visto uccidere suo padre e suo fratello.» Maria lo fissava in silenzio. Stava riflettendo su quelle parole, però non gli credeva. D'altronde, come avrebbe potuto? «Gli uomini di tuo fratello hanno ucciso mio figlio, metà degli abitanti di Borsã e poi hanno catturato l'altra metà. Non so perché l'abbiano fatto, e non m'interessa neppure. Non c'è nessuna giustificazione per una cosa simile, nemmeno se la si fa in nome della Chiesa o di un principe.» «Le missioni di Domenicus sono ispirate alla volontà di Dio», rispose Maria. Sembrava una spiegazione... imparata a memoria. Probabilmente aveva sentito tante volte quelle parole che le ripeteva senza pensarci. Forse prima di quel momento non aveva pensato a quello che diceva. «La volontà di Dio?» Andrej scosse la testa. «Certo che no, Maria. E se è davvero volontà di Dio che succedano cose simili, allora non voglio avere nulla a che fare col vostro Dio.» «A Domenicus sarebbe bastata questa frase per mandarti al rogo», replicò lei, in tono più spaventato che minaccioso. Poi scosse la testa con forza e i capelli ondeggiarono. «Non sarei dovuta venire... Mi sono illusa di comprendere perché ti eri comportato così, ma è stato un errore. Sono stata stupida.» Sospirò, distolse lo sguardo e fece per andarsene. Andrej allungò istintivamente la mano, come se volesse trattenerla, ma la catena bloccò il movimento prima che lui potesse completarlo. Tuttavia la donna si fermò di colpo, come se lui l'avesse davvero trascinata indietro. «Aspetta», gridò Andrej. «Ti prego!» «A quale scopo?» mormorò tristemente Maria. «Per costringermi a sen-
tire altre bugie?» Le si riempirono gli occhi di lacrime, ma cercò di trattenerle. «Non ti basta sapere che mio fratello morirà? Vuoi infangare anche la sua reputazione? Non sei migliore di Demagyar.» Andrej non comprese l'ultima frase, ma in quel momento non aveva importanza. «Non mi credi e ti posso capire. Ma ti prego di fare una cosa: va' nelle segrete.» «Come?» «Vai nel carcere di Demagyar», ribadì Andrej. «Guarda le persone che vi sono tenute prigioniere. Parla con loro. Chiedi chi sono e da dove vengono.» «Le segrete...» Maria ripeté quella parola come se non ne conoscesse neppure il significato. E se non avesse avuto la minima idea di quello che avevano fatto suo fratello e le tre guardie del corpo? Oppure, più semplicemente, se non avesse voluto saperlo? «Va' laggiù, ammesso che Demagyar te lo permetta», la pregò ancora Andrej. «E, se sarò ancora vivo, torna qui e ne riparleremo. E... per favore, non dirlo a Kerber e a Malthus.» Ormai Maria non cercava più di resistere al pianto, però reprimeva ogni gemito. Andrej non avrebbe saputo dire con certezza perché il suo viso fosse rigato di lacrime. Senza aggiungere una parola, la donna si voltò, bussò debolmente alla porta, che venne aperta immediatamente - come se l'uomo là fuori avesse atteso con la mano sul chiavistello -, e lasciò la stanza. Andrej ripiombò in uno stato di profonda confusione. Era successo di nuovo: la semplice presenza di Maria gli rendeva impossibile formulare anche un solo pensiero coerente. Le poche parole che era riuscito a pronunciare gli erano costate uno sforzo enorme. Cos'era? Maria lo turbava tanto solo perché era completamente diversa dal fratello? Oppure in lei c'era qualcosa che lo toccava in profondità? Si chiese - e non per la prima volta - se non si fosse innamorato di quella donna... Oppure il suo sentimento non era altro che il riflesso del gioco che loro due avevano condotto in una notte magica, vicino a un pozzo di Constãntã? Era turbato e neppure la consapevolezza che quell'amore non poteva avere nessun futuro lo aiutò a scuotersi. XVI Non appena si fece buio, le guardie gli portarono un altro pasto. Andrej
lo divorò con la stessa avidità con cui aveva divorato il precedente, eppure non si sentì sazio. Negli ultimi giorni, aveva mangiato poco, in modo irregolare, e aveva chiesto al suo corpo sforzi notevoli. Per la prima volta si domandò come sarebbe stato morire di fame. Ma, per come si stavano mettendo le cose, forse non avrebbe avuto occasione di rispondere a quella domanda. Passò poco più di un'ora, poi si sentirono alcuni passi nel corridoio e la porta della stanza si aprì di nuovo. Entrarono tre uomini. Due lo tennero a bada con l'alabarda; il terzo lo liberò dalle catene e gli legò i polsi con una robusta corda. Fu condotto fuori della stanza e, davanti alla porta, scorse altri due uomini dal volto truce che sguainarono le armi al suo passaggio. Sembrava davvero che i soldati di Demagyar avessero una paura folle del loro prigioniero. Si aspettava che lo riconducessero nella sala delle udienze, invece gli uomini lo portarono nel cortile, dove lo attendevano una mezza dozzina di cavalli già sellati, il duca e un altro uomo che lui riconobbe soltanto dopo qualche istante: era il conte Bathory. Non appena Andrej e la sua scorta furono scesi dalle scale, il duca balzò in sella e fece un gesto verso il portone. L'inferriata si alzò e uno dei due grandi battenti venne aperto. «Facciamo una cavalcata?» ironizzò Andrej. Uno dei soldati fece per colpirlo, ma Bathory lo fermò con un cenno della mano. «Risparmiati le battute, Delãny, e gustati la cavalcata. Potrebbe essere l'ultima... A meno che tu non metta giudizio e confessi chi ti ha affidato l'incarico.» Andrej lo osservò con sguardo interrogativo. Davvero non capiva cosa intendesse il conte Bathory, ma non aveva comunque un buon presentimento. «Ti metteremo a confronto con alcune delle tue vittime, Delãny», intervenne Demagyar. «È facile uccidere un uomo in un'imboscata, ma staremo a vedere cosa succederà quando dovrai guardare negli occhi una delle tue vittime.» «Secondo me stiamo facendo un errore», borbottò il conte Bathory, mentre si voltava verso il proprio cavallo e montava in sella. «Sarebbe stato meglio portarlo qui.» «Avete sentito cos'ha detto il medico», replicò Demagyar. «Quell'uomo non ce la farebbe a percorrere la strada per arrivare in città. È già un miracolo che abbia retto così a lungo.» Lanciò ad Andrej uno sguardo di rim-
provero. «Un'altra vittima innocente che probabilmente non arriverà a domani, Delãny.» «Non capisco di cosa parliate», disse Andrej. «Sto dicendo che non hai fatto il tuo lavoro sino in fondo, Delãny», ribatté il duca. «Una delle tue vittime è sopravvissuta. Un'ora fa, sono giunte alcune notizie dalla locanda che avete bruciato. Avresti dovuto accertarti che fossero morti tutti, Delãny.» «Di chi... parlate?» chiese Andrej, confuso. «Di uno degli altri avventori, Delãny», replicò Bathory. «Ha visto te e i tuoi complici. Siete stati un po' distratti, a quanto pare.» Lo fissò intensamente per qualche istante prima di aggiungere, cambiando tono: «C'è un'altra strada, Delãny. Perché non risparmi a te e a noi l'incomodo e non ci dici finalmente la verità?» «Dovrei confessarvi chi mi ha spinto a entrare nel castello?» Mentre poneva quella domanda, Andrej scrutò il duca, notando che sembrava aver perso il dominio di sé dimostrato nel precedente incontro. Sobbalzò appena, ma abbastanza per risvegliare la diffidenza del conte Bathory, che infatti aggrottò la fronte e fissò Demagyar con aria pensierosa. E il duca fece un sorriso tirato. Andrej non sapeva nulla di Bathory, se non il nome e il fatto che, evidentemente, Demagyar non poteva ignorarlo. L'impressione che aveva già avuto si rafforzò: il conte Bathory, quanto a rango e influenza, era di poco inferiore al duca. E non apparteneva necessariamente alla sfera degli amici di Demagyar. «Risparmiatevi la fatica», disse infine Demagyar. «Sta solo cercando di salvarsi la pelle.» Bathory non replicò, ma il suo silenzio era eloquente e Demagyar sembrò innervosirsi ancora di più. Allora il duca, con un movimento sorprendentemente rapido, fece voltare bruscamente il cavallo e ordinò: «In sella!» Dietro Andrej, montarono in sella quattro soldati. Quando raggiunsero il portone, si unirono altri due uomini coi colori ducali. Cavalcavano in fretta e, in breve, si lasciarono alle spalle le mura del castello. Il conte Bathory e Demagyar erano in testa alla piccola colonna, l'uno di fianco all'altro, ma a una distanza che non permetteva loro di comunicare. Andrej si chiedeva quale fosse il piano di Demagyar. Non aveva dubbi che stava tramando qualcosa, giacché sapeva che all'incendio della locanda non era sopravvissuto nessuno... E anche se non fosse stato così, lui comunque non aveva
parlato di cose compromettenti. Demagyar doveva saperlo. A quale scopo, dunque, quella lunga, inutile cavalcata? Ottenne la risposta a quella domanda quando arrivarono a metà della strada che univa il castello alle mura della città. Su Constãntã aleggiava un silenzio sinistro. Già la notte precedente, Andrej aveva notato che, al calar delle tenebre, erano poche le luci che rischiaravano la città. Ma quel giorno sembrava che le strade attraverso cui stavano passando al galoppo fossero morte. Le poche persone che incontravano si ritiravano velocemente nelle case, quasi come se fuggissero. Dipendeva dalla minaccia dei turchi oppure dal fatto che Jàk Demagyar non era particolarmente amato dai suoi sudditi? Improvvisamente Andrej sentì che qualcosa non andava. C'era troppo silenzio. Nelle case che costeggiavano il vicolo in cui stavano cavalcando non splendeva una sola luce. Il rumore degli zoccoli risuonava con una lunga eco metallica. Il pericolo nell'aria era quasi palpabile. E Andrej non sembrava l'unico a percepirlo. I due uomini alla sua destra e alla sua sinistra cominciarono a dare segni di nervosismo. Soprattutto Demagyar si guardava intorno, come se qualcosa lo rendesse inquieto... o come se attendesse qualcosa. Poi si sentì un sibilo. L'uomo alla sinistra di Andrej improvvisamente sobbalzò, alzò le mani e restò bloccato a metà del movimento. Dal suo petto spuntò una freccia piumata. Per un istante terribile il soldato rimase come pietrificato in sella, poi, con un sospiro appena avvertibile, si piegò di lato e cadde a terra. Nello stesso istante scoppiò l'inferno. Altre frecce sibilarono da tutte le parti e uomini con mantelli neri e spade sguainate uscirono correndo dalle porte lungo la strada. Una freccia, scoccata da una balestra, ferì di striscio il cavallo di Andrej, lasciandogli un graffio sanguinante sul collo. L'animale s'impennò e Andrej cercò di rimanere in groppa, ma, avendo le mani legate, non riuscì ad afferrare il pomo della sella e cadde all'indietro. Con un ultimo sforzo, si girò e, anziché la schiena o la testa, sbatté violentemente solo il ginocchio sinistro. Poi rotolò via per sfuggire agli zoccoli del cavallo imbizzarrito e si rialzò. Fu subito aggredito da un uomo che indossava un nero mantello svolazzante. Andrej portò istintivamente le mani davanti al viso, ma, per un motivo incomprensibile, l'uomo esitò a colpirlo, benché potesse farlo senza difficoltà. In quella situazione, tuttavia, Andrej non poteva permettersi il
minimo scrupolo. Con un calcio fulmineo, scaraventò a terra l'aggressore; quindi avvertì un movimento alle sue spalle e istintivamente si gettò di lato. La lama di una spada gli sfiorò il volto e colpì un muro, generando una pioggia di scintille. Andrej completò il movimento rotatorio e, con sua grande sorpresa, si accorse che ad attaccarlo era stato un uomo del duca; e il suo stupore aumentò quando si rese conto che l'uomo aveva sbagliato intenzionalmente il bersaglio. Ma non aveva tempo per scoprire il perché: scartò di lato e, con un calcio, spedì a terra anche quel soldato. L'uomo cadde, chiuse gli occhi e lasciò andare la spada. Ma non era un bravo attore. Non era né privo di sensi, né ferito, né tantomeno morto: stava soltanto fingendo di essere svenuto. Andrej, sempre più perplesso, si guardò intorno. La battaglia nel vicolo era ormai decisa: gli aggressori erano in schiacciante superiorità numerica e, nel corso del primo attacco, avevano già eliminato metà delle guardie ducali. Anche ammesso che quel soldato fosse il più vigliacco tra gli uomini del duca, avrebbe comunque perso la vita: senza dubbio, prima di andarsene, gli aggressori mascherati si sarebbero assicurati che le loro vittime fossero davvero morte. L'unica possibilità di sopravvivere a quella carneficina era la fuga. Una possibilità che ad Andrej sembrava negata. Schiena contro schiena, Jàk Demagyar e il conte Bathory si difendevano, rivelando una grande abilità, ma oltre a loro erano rimasti soltanto un soldato e Andrej. I loro avversari dovevano essere almeno una dozzina. Andrej non capiva come mai quello scontro non fosse già finito da tempo. Come se quel pensiero avesse dato lo spunto al destino, in quel preciso istante l'ultimo degli uomini di Demagyar fu ucciso, trapassato da due spade, e, nel contempo, anche il duca venne colpito. Una lama cozzò contro la maglia di ferro che copriva la sua spalla, sprizzando scintille; Demagyar urlò, lasciò cadere la spada e crollò in ginocchio, scoprendo la schiena del conte Bathory, che venne colpito di piatto alla nuca. Con un gemito, anche lui abbandonò l'arma e cadde in avanti. Andrej si guardò intorno. Alla sua sinistra c'erano tre aggressori mascherati; dall'altra parte ce n'erano quattro... e non aveva contato quelli che avevano colpito Demagyar e il conte Bathory. Quegli uomini sapevano maneggiare bene le armi e lui era legato. Non aveva la minima possibilità. Anche se avesse avuto la sua scimitarra, non sarebbe stato in grado di difendersi da tanti avversari.
Tuttavia sollevò le mani legate e si mise in una posizione ben salda, con le gambe leggermente divaricate. Trasse un profondo respiro, cercò di rilassarsi e sciolse i muscoli come gli aveva insegnato a fare Michail Nadasdy. Quasi all'istante sentì ritornare l'abituale elasticità e la forza interiore. Era sicuro di poter eliminare due o tre aggressori prima di essere sopraffatto. Ma gli uomini rimanevano immobili. Andrej sentì una porta aprirsi alle sue spalle. Stava per girarsi di scatto, ma la sua reazione arrivò troppo tardi. Un violento colpo alla nuca gli fece perdere i sensi. XVIII Andrej si svegliò con la testa dolorante, un sapore disgustoso in bocca e mani e piedi legati. Negli ultimi giorni gli era già capitato, ma quella volta c'era qualcosa di nuovo: Io avevano bendato. Però sentiva che non era da solo... E non si trovava neppure all'aperto, bensì in uno spazio chiuso e molto grande, probabilmente un magazzino. Una tremenda confusione di odori gli aggredì le narici: paglia bagnata, farina, cereali, verdura ormai marcia, legno e spezie; il tutto mischiato con un sentore lieve ma penetrante di salsedine. La sua nuova prigione si trovava nelle vicinanze del porto. Sentiva anche vari rumori: uomini che correvano qua e là, metallo che tintinnava, qualcosa di molto pesante che veniva trascinato... Nessuno parlava. Andrej era legato in posizione eretta a una colonna o a un palo. Altre funi intorno alle gambe e alla fronte gli impedivano ogni movimento, seppure minimo. Non poteva nemmeno girare la testa. Chiunque fosse stato a catturarlo sapeva benissimo di cos'era capace. Senza dare nell'occhio, Andrej tese i muscoli per provare la resistenza delle corde e si rese conto che erano abbastanza robuste da tenere fermo un toro infuriato o almeno una dozzina di uomini... non importava quanto furiosi. Andrej decise di non sprecare inutilmente le energie e di concentrarsi su quello che i suoi sensi gli comunicavano. Valutò che in quello spazio c'era almeno una dozzina di uomini affaccendati a portare dentro e fuori delle merci. I respiri ansimanti, i gemiti e i lamenti rivelavano che quelle persone stavano spostando oggetti molto pesanti. Era singolare che nessuno dicesse una parola. Cercò d'ignorare i rumori di quelli che stavano lavorando e di cogliere
invece gli altri suoni. Ci riuscì, ma non scoprì nulla di nuovo. L'unico rumore sconosciuto era un particolare gemito - o era uno scricchiolio? - che sembrava provenire da qualcosa di molto grosso che si muoveva. Ma non riuscì a identificarlo. Il tempo passava, benché Andrej non avesse la possibilità di stabilire se si trattasse di un'ora o più. Finalmente sentì avvicinarsi alcuni passi rapidi e decisi e, ancor prima che gli venisse strappata la benda dagli occhi, ebbe la sensazione che, vicino a lui, ci fossero molti uomini. Aprì cautamente le palpebre per non rimanere accecato, ma ci vollero alcuni secondi perché la macchia sfocata davanti ai suoi occhi si trasformasse in un volto. Un volto che conosceva bene. «Sei sveglio, Delãny?» chiese Jàk Demagyar. «Spero che il colpo non sia stato troppo forte.» «Non preoccupatevi, duca. È più robusto di quanto sembri.» Malthus, che stava alle spalle di Demagyar, spalancò il mantello, mostrando l'armatura splendente, e sorrise. «Anche fin troppo robusto.» «Slegatemi e vi mostrerò quanto sono robusto», ribatté Andrej. Erano parole ridicole, addirittura infantili. Eppure non riuscì a dire altro. Era sbigottito. Come mai Demagyar era davanti a lui, illeso e libero? Poi un'idea paradossale, illogica, si formò nella sua mente: quella situazione era la tessera di un mosaico ben preciso, benché lui, al momento, non avesse sufficiente immaginazione per ricostruirlo. «Un po' di pazienza, Delãny», ribatté Malthus, ridendo. I suoi occhi lampeggiarono come acciaio. «Il tuo desiderio sarà esaudito, ma ci vorrà ancora un po'. Non troppo, però.» Aggrottando la fronte, Demagyar guardò prima il cavaliere e poi Andrej. «Tenuto conto che vi conoscete da pochi giorni, è incredibile l'odio che provate l'uno per l'altro», osservò, pensieroso. Quindi scrollò le spalle. «Ma questo non è un problema mio. Uccidetelo, Malthus, così potremo concludere i nostri affari.» «Non ancora», replicò il cavaliere dorato. Il duca lo fissò, disorientato. «Pensavo che...» «... che gli avrei tagliato la gola se fosse stato qui, davanti a me, legato e indifeso?» lo interruppe Malthus. Scosse la testa. «Non uccido a tradimento, duca. Delãny morirà, ma in un duello leale.» «Come volete», sbottò Demagyar, sprezzante. Andrej si chiese se il duca si rendesse conto che Malthus aveva ucciso per molto meno. E che era assai probabile che non avesse neppure bisogno
di un motivo per uccidere. No, forse non lo sapeva e non era neanche consapevole del pericolo che correva a stuzzicare Malthus. Jàk Demagyar apparteneva a quella categoria di uomini che trattano la vita degli altri con arroganza perché si considerano immortali. «Dov'è finito quel pagano?» Demagyar si guardò intorno con aria interrogativa. Malthus accennò un freddo sorriso. «Se posso darvi un consiglio, duca, non dovreste parlare così se vi può sentire... o se può farlo uno della sua gente», replicò in tono ironico. «Molti di loro conoscono la vostra lingua, sapete?» Poi tese una mano e disse: «La lama». Demagyar sembrò contrariato, quindi scrollò ancora una volta le spalle e infilò una mano sotto il mantello, tirandone fuori un involto di stracci, sottile e lungo almeno una iarda. Ignorò la mano tesa di Malthus e, con rapidi gesti, aprì l'involto. Apparve la scimitarra di Andrej. «Un'arma fantastica», commentò, con sincera ammirazione. «Non ho mai visto una spada così. Mi chiedo quanto valga.» «Più della vita di un uomo, duca», intervenne Malthus. Era impossibile non cogliere il tono di minaccia nella sua voce, ma Demagyar, impassibile, proseguì, rivolgendosi ad Andrej: «A chi l'hai rubata, Delãny?» Andrej fissò la scimitarra. Il cuore gli batteva all'impazzata. Il pensiero che quella lama sarebbe finita nelle mani del cavaliere dorato gli era intollerabile. Inoltre non sapeva quali intenzioni avesse quell'uomo. «Come fate ad avere questa scimitarra?» mormorò. «Al suo possessore non serviva più», rispose Demagyar. «D'altronde, che se ne fanno i morti di un'arma?» «Li avete...?» «Ora non venirmi a raccontare che hai compassione di quei due ladruncoli», sbottò Demagyar. «Un ladro dal volto bruciato e un assassino di professione. Prima o poi sarebbero finiti comunque sulla forca. E ti hanno sacrificato senza esitare, Delãny, credimi.» «E Frederic?» chiese Andrej. «Il ragazzo?» Il duca esitò. Poi disse: «Per lui è stato meglio così». «L'avete... ucciso?» «Il nostro amico qui...» - Demagyar indicò Malthus con un cenno del capo - «... e una certa giovane donna molto adirata mi hanno fatto pressione affinché glielo consegnassi. Puoi ben immaginare il perché. Rispetto a quello che lo attendeva, credimi, una punta infilata velocemente nel cuore
è stata una vera grazia.» «Voi... avete ucciso Frederic?» mormorò Andrej. Poi, improvvisamente, esplose con una tale furia che quasi si spaventò di se stesso. «Tu, assassino!» urlò. «Tu, maledetto mostro assetato di sangue! Perché l'hai fatto?» Era come impazzito. Gridava, tirando allo spasimo le corde che lo legavano e sputava fuori tutto il dolore e la rabbia, finché le forze non lo abbandonarono e crollò, senza fiato. Jàk Demagyar lo guardò. Se non avesse già ampiamente dimostrato di essere un individuo crudele, nei suoi occhi si sarebbe forse potuto cogliere un lampo di rammarico. «Lo amavi proprio, quel ragazzo, Delãny... Credimi, gli ho risparmiato sofferenze atroci.» Aveva amato Frederic? Oh, sì. E anche molto più intensamente di quanto avesse sospettato. Andrej rimase in silenzio, fissando il pavimento e lottando per ricacciare indietro le lacrime. Il suo dolore era indescrivibile. Quel ragazzo era tutto ciò che gli era rimasto, l'unico ricordo della sua famiglia, l'unico legame con la sua vita precedente. Demagyar gli aveva tolto tutto, non per crudeltà o per calcolo, ma per una semplice mancanza di scrupoli. E proprio quella motivazione così banale rendeva il suo gesto ancora peggiore. «Ti ucciderò», sibilò Andrej, con una freddezza nella voce che quasi lo spaventò. «Non so come e quando, ma te lo prometto: ti ucciderò! Anche se dovessi ritornare dal mondo dei morti per mandarti all'inferno.» Jàk Demagyar lo guardò, sbalordito. Cercò di ridere, ma il suono che gli uscì di bocca fu quasi un rantolo e si spense subito. Senza dire una parola, Malthus tese il braccio, prese dalle mani di Demagyar la scimitarra e la accostò al palo cui era legato Andrej. «Che spreco», sospirò Demagyar. «Ma fate come volete... Dov'è finito...» «... quel moro?» completò qualcuno apparso sulla soglia. Una figura altissima, avvolta completamente in una stoffa nera, entrò nel magazzino. L'uomo era alto almeno due iarde, ma era molto più slanciato di Malthus e non aveva le spalle larghe di questi. Il suo volto aveva un colorito marrone scuro, quasi nero. Anche il turbante che indossava era nero; solo gli anelli e l'impugnatura tempestata di pietre preziose della scimitarra che aveva al fianco davano un po' di colore a quella cupa figura. Mentre si avvicinava a passi lenti, proseguì: «Oppure volevate dire 'quel pirata'? O ancora 'quel pagano'? Parlate pure tranquillamente, duca. Nulla di queste cose è falsa». «Abu Dun...» Malthus accennò ad abbassare la testa. «Puntuale come
sempre.» «Cosa che non si può dire dei vostri soci in affari», ribatté il musulmano, senza distogliere lo sguardo dal duca. Abu Dun aveva penetranti occhi blu scuro; inoltre il colore di uno era leggermente diverso da quello dell'altro. «Gli uomini stanno arrivando», disse il duca. La sua voce era un po' esitante. «Non è facile condurre cinquanta uomini e donne attraverso la città senza dare nell'occhio. Però saranno puntuali.» «Lo spero», replicò Abu Dun. «Dobbiamo salpare con la marea. La nave non può restare in porto fino al mattino.» «Saranno puntuali», ribadì Demagyar. «A parte questo, non abbiamo ancora concluso il nostro affare.» Abu Dun gettò a Malthus uno sguardo interrogativo. Il cavaliere si strinse nelle spalle e disse: «Il duca prenderà un terzo della somma... in anticipo». «Non ho ancora visto gli schiavi», notò Abu Dun. «E se non valgono niente?» «Vi prego, amico mio... Sono anni che facciamo buoni affari e non vi ho mai imbrogliato. Quindi non cominciate a mercanteggiare», replicò Malthus. «Io corro un grande rischio», proseguì Demagyar. «Permettere l'ingresso di una nave pirata musulmana nel porto di Constãntã, mentre i turchi si stanno preparando ad attaccare... Be', soltanto questo vale la cifra che mi ha riferito Malthus!» «Una nave pirata?» Abu Dun sorrise, poi si fece improvvisamente serio e guardò Demagyar in un modo che lo fece impallidire. «Non inducetemi a cambiare idea, duca!» Abu Dun e Demagyar si allontanarono di qualche passo da Andrej e presero a discutere. Ben presto, tuttavia, la loro contrattazione si animò e i due si misero a gesticolare. Evidentemente lo straniero, a dispetto del consiglio di Malthus, non voleva rinunciare a mercanteggiare. «Un pirata...» mormorò Andrej. «Un mercante di schiavi», lo corresse il cavaliere. «Non gli piace sentire la parola 'pirata', benché lui sia proprio questo.» «Io... non capisco, Malthus. Comprendo che mi vuoi uccidere; e posso anche capire perché hai ucciso Barak, anche se ti disprezzo per il modo in cui l'hai fatto. Ma tutti gli altri? Hai assalito un villaggio, catturando i suoi abitanti per poi venderli come schiavi? Anche un uomo come te dovrebbe conservare un minimo di onore!»
Per un istante, gli occhi di Malthus s'infiammarono di puro odio, ma lui riuscì a dominarsi e a contenere l'irritazione. «Non è stata un'idea mia. Inoltre bisogna pur vivere. Andare in giro in nome di Dio per liberare il mondo dai servitori del demonio ha un prezzo piuttosto elevato.» Era impossibile non cogliere la nota d'ironia nella sua voce. E Andrej non fu minimamente sorpreso da quell'affermazione cinica. Aveva visto Domenicus una sola volta, ma sapeva quanto fosse spietato; anche se portava a termine le sue «missioni» sotto il vessillo e in nome della Chiesa, era comunque un mostro. «I vostri amici a Roma sanno in che modo diffondete il messaggio del Signore?» chiese. Malthus fece una smorfia. «Fai troppe domande, Andrej Delãny», disse. «E poi, con le risposte non otterrai nulla. La nave salpa tra un'ora. Non appena l'ultimo uomo sarà salito a bordo, io ti ucciderò.» Andrej guardò la sua scimitarra. «Con quella?» Malthus scosse la testa. «Questa è per te, Delãny. Ti ho promesso un duello leale e lo avrai.» «Che generosità.» Andrej fece un sorriso di scherno. Malthus sospirò. «Sei troppo giovane... Almeno lo sei per essere uno di noi. Quanti ne hai già uccisi?» Fissò Andrej con aria interrogativa, ma, visto che lui non rispondeva, sul suo volto comparve un'espressione di autentica meraviglia. «Nessuno? Non hai ancora ucciso nessuno di noi? Non hai mai sperimentato la 'trasformazione'?» «Non ho la più pallida idea di quello che stai dicendo», replicò Andrej, sprezzante. «Non sento nessuna spinta a uccidere uomini soltanto perché sono come te o come me.» Malthus gli rivolse un'occhiata che avrebbe potuto essere quella di un padre il cui rampollo gli avesse appena dato una risposta particolarmente stupida. «Non sai nulla di te stesso?» chiese poi, quasi deluso. «So abbastanza da sapere che non voglio diventare come te», ribatté Andrej. «Niente paura, Delãny, non lo diventerai. La mia spada ti libererà da questo destino. Ma non preoccuparti, preferisco ucciderti in un duello leale piuttosto che ammazzarti subito.» «E poi cercherai un altro villaggio per torturarne a morte gli abitanti?» sibilò Andrej. «Mi chiedo solo quale piacere provi a piantare un paletto di legno nel cuore di un ragazzo come mio figlio Marius. O forse non ti sei neppure sporcato le mani? L'hai lasciato fare a uno dei tuoi compari?» «Quel bambino era tuo figlio?» chiese Malthus, apparentemente incredu-
lo. «Sì, era mio figlio.» Andrej non cercò più di contrastare le lacrime che gli salivano agli occhi. «E non avrò pace finché non mi sarò vendicato dei suoi assassini.» Sembrava che Malthus non avesse neppure sentito le sue parole. Fissava Andrej con un misto di sorpresa e incredulità... anzi, sui suoi occhi sembrava calato addirittura un velo di sgomento. «Se hai qualcosa a che fare con quell'assassinio vigliacco, faresti meglio a dirmelo subito», sbottò Andrej, infuriato. «E se è così, allora sta' sicuro che ti ucciderò, qualsiasi cosa tenti di fare!» In Malthus, lo sgomento parve lasciare il posto allo sconcerto. «Non ne ho idea», mormorò, scuotendo la testa e sospirando profondamente. «Avrei dovuto ascoltare Kerber e Biehler. Mi avevano messo in guardia su di te fin dall'inizio. Ma ora è troppo tardi...» «Kerber e Biehler?» ripeté Andrej disgustato. «Gli altri due cavalieri? I tuoi complici?» «Complici?» gemette Malthus. «Non è la parola giusta...» «Sono gli uomini dall'armatura dorata giunti con te a Borsã per eliminare gli abitanti del villaggio e uccidere mio figlio, no?» ribatté Andrej in tono tagliente. «Oppure vuoi farmi credere che i morti della fortezza me li sono immaginati?» Il gigante lo guardò in silenzio, ma la sua espressione rivelava che si sentiva sempre più confuso. «Parla!» gridò Andrej. «Voglio sapere se hai a che fare con la vigliacca imboscata tesa da Domenicus agli abitanti di Borsã con lo scopo di farli massacrare!» Malthus annuì, lentamente e quasi con cautela. «Se consideri gli avvenimenti da questo punto di vista... sì.» «Se tu stesso lo ammetti, allora è vero: sei l'assassino di mio figlio!» mormorò Andrej con raccapriccio. Malthus cercò di non distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì e prese a fissare il vuoto. «Io non sono l'assassino di tuo figlio.» Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole le fece sembrare vere e false nel contempo. Per qualche istante regnò un silenzio quasi insopportabile. Andrej sentiva un orrore così profondo che avrebbe voluto strappare il cuore dalla carne viva del cavaliere dorato. Negli ultimi giorni aveva cercato di evitare ogni pensiero di vendetta e di concentrarsi sul compito di salvare gli abi-
tanti di Borsã. Ma ora aveva davanti a sé l'uomo che, seppur in modo ambiguo, aveva ammesso di aver ucciso suo figlio. Era troppo. «Slegami», disse. «Così la finiremo subito.» «Non così in fretta», ribatté Malthus. «Avrai la tua possibilità di combattere... ma solo quando l'ultimo uomo sarà salito a bordo.» Rise senza umorismo. «E, credimi, puoi considerarti fortunato se all'ultimo momento non ti consegnerò a Kerber o a Biehler!» Ci volle qualche tempo prima che le parole del cavaliere si facessero strada nella mente sconvolta di Andrej. Sergé aveva ucciso uno dei cavalieri dorati, quello che aveva aggredito Andrej subito dopo l'incendio della locanda. Quindi non potevano essere in tre! «A Kerber o a Biehler?» balbettò. «Non può essere... Uno di voi deve essere morto!» «Hai parlato tu stesso con Kerber, qui a Constãntã», disse Malthus beffardo. «Ti è sembrato morto?» «Ma non è l'uomo cui mi riferisco», affermò Andrej, la cui fronte era ormai imperlata di sudore. «Parlo di quello che hai chiamato Biehler: mi voleva uccidere dopo che mi sono messo in salvo dalla locanda in fiamme. Ma Sergé lo ha eliminato.» Malthus reagì in maniera sorprendente. Piegò indietro la testa e rise. «Questa è buona», esclamò, non appena riuscì a riprendersi. Scosse la testa. «Non credevo che tu fossi così ingenuo.» «Cosa c'entra l'ingenuità?» chiese Andrej, cercando di contrastare il panico che si stava mescolando al sospetto di essere sul punto di apprendere una verità mostruosa. «Sergé era convinto che il tuo amico fosse morto. E non era uno che si sbaglia in cose del genere.» «Posso immaginarlo», sogghignò Malthus. «Comunque non gli ha portato molta fortuna, dato che Sergé è ormai cibo per i pesci.» Andrej fissò il cavaliere con un misto di orrore e disgusto. «E immagino sia questo il destino cui mi vuoi condannare... Dopo aver torturato a morte mio figlio con un paletto, adesso mi vuoi uccidere e gettare in mare.» «Certo che no.» Malthus scosse la testa, meravigliato. «Cosa vai a pensare?» Il suo volto aveva assunto di nuovo un'aria arrogante. «Sai qual è il tuo problema, Delãny? Non sai nulla di te stesso e della tua natura più segreta. Sì, Sergé ha ucciso Biehler. Ma ciò non significa che Biehler sia morto. Perché, a differenza di te, Biehler ha già molte 'trasformazioni' alle proprie spalle.» Andrej aprì e chiuse la bocca, come un pesce che cerchi di respirare.
«Ha cosa?» «Ha molte 'trasformazioni' alle proprie spalle», ripeté Malthus e aggrottò la fronte, fingendo stupore. «Altrimenti come credi che si ottenga una parte d'immortalità?» XIX Dopo essersi accordato con Abu Dun, Jàk Demagyar era partito per andare incontro ai prigionieri e alle guardie e non era ancora tornato, benché fosse già passata da tempo l'ora in cui aveva assicurato che sarebbe stato lì. Nel frattempo, Malthus e il commerciante nero di schiavi mostravano segni di nervosismo, sebbene il cavaliere dorato si sforzasse con maggiore efficacia di contenere la propria irritazione. Andrej era troppo lontano dai due uomini per cogliere le parole che si stavano scambiando, ma non era necessario: Abu Dun gesticolava, concitato, mentre Malthus si limitava a secchi gesti furiosi. Di certo, non era un dialogo pacato. D'un tratto, dall'esterno, giunsero alcuni rumori: zoccoli che battevano, passi rapidi e un suono che lasciava intendere come stesse arrivando un gruppo numeroso. Un attimo dopo la porta si aprì. A differenza di quello che Andrej, Malthus e Abu Dun si aspettavano, non entrò Demagyar, bensì Maria, accompagnata dagli altri due cavalieri dorati: Kerber e Biehler. Non c'erano dubbi: Biehler era l'uomo che Sergé aveva ucciso. Eppure non aveva neppure un graffio. «Allora!» urlò Maria, prima ancora che Andrej potesse imbastire un pensiero sensato. Malthus la guardò con fare interrogativo e si preparò a parlare, ma la sorella dell'inquisitore gli passò davanti e si diresse verso Andrej. «Slegate quest'uomo!» ordinò in tono perentorio. «Immediatamente!» Malthus lanciò un'occhiata interrogativa a Kerber è Biehler, ma ottenne soltanto una scrollata di spalle. «Avete capito, Malthus?» lo apostrofò Maria. «Lo dovete slegare!» Visto che il suo interlocutore non reagiva, si mise lei stessa ad armeggiare con le corde che imprigionavano Andrej, ma fu ben presto costretta a rinunciare a quell'impresa per lei impossibile. «Cosa succede? Non capite quello che dico o siete improvvisamente diventato sordo?» «Vi prego, Maria...» borbottò Malthus, a disagio. «Io...» «Vi ho dato un ordine», lo interruppe Maria. «Eseguitelo! Subito!»
Malthus le si avvicinò di qualche passo, ma evitò il suo sguardo. «Non posso», mormorò. «Cosa intendete?» «Vostro fratello non sarebbe di questo parere», spiegò Biehler al posto di Malthus. «Non sarebbe del parere...?» Maria s'interruppe bruscamente e trasse un profondo respiro, come se non volesse o non potesse credere a quello che aveva appena sentito. Poi continuò con voce roca ma controllata: «Io rappresento il parere di mio fratello. E vi ordino di liberare immediatamente quest'uomo!» «No», disse calmo Biehler. «No?» «No», confermò Biehler. «Vi prego, Maria, cercate di comprendere...» Malthus sembrava tormentato. «Tutti noi vi amiamo e vi rispettiamo. Daremmo la vita per voi, senza esitare, ma gli ordini di vostro fratello erano chiari: quest'uomo è uno stregone. E noi gli daremo il giusto castigo.» «Uno stregone...» Maria ripeté la parola in tono angosciato e rivolse ad Andrej una lunga occhiata assorta prima di rivolgersi di nuovo a Malthus. «E tutta la gente là fuori?» chiese. «Quegli uomini e quelle donne sono tutti... stregoni?» «È la sua gente.» Malthus indicò Andrej. «Il suo villaggio aveva stretto un patto col demonio. Vostro fratello aveva ordinato di catturarli e portarli a Roma, dove sarebbero stati processati.» «A Roma? Non forse ad Alessandria? O ad Akkad?» intervenne Andrej con un sorriso tirato. «Maria, guarda il comandante della nave. A me più che altro sembra un commerciante di schiavi.» Maria sottopose Abu Dun, che si trovava a pochi passi da lei, a un lungo e attento esame. Poi si rivolse di nuovo a Malthus e lo fissò con sguardo gelido. «È vero?» «Maria, non dovete credere a questo assassino seguace di Satana», intervenne Kerber. «Sta cercando di salvarsi la pelle con ogni mezzo!» Senza degnare di un'occhiata la guardia del corpo del fratello, la donna continuò a fissare Malthus. «È vero?» ripeté. «Eseguiamo solo gli ordini di vostro fratello», ribadì Malthus. «Che sarebbero quelli di vendere dei cristiani come schiavi?» Maria ansimava per la rabbia. «Non credo neppure a una parola.» «Quegli uomini non sono cristiani», disse Malthus. «Ed è stato su ordine
di vostro fratello che...» «Un ordine che purtroppo lui non può né confermare né smentire», replicò Maria, livida. «Un po' troppo comodo per voi. Ma dovreste riflettere su quello che state facendo. Mio fratello non è ancora morto.» «E noi preghiamo Dio che sopravviva al tentato omicidio da parte di questo stregone», rispose Malthus. «Tuttavia, finché è in vita e non ci può sciogliere dagli ordini che ci ha dato, dobbiamo eseguirli. Mi dispiace.» «Dovreste salire a bordo, Maria», disse Kerber. «Vostro fratello è già sulla nave» s'intromise Biehler. «Il Gabbiano è pronto a salpare.» «Io non vado da nessuna parte», affermò Maria. «E non permetto che...» «Per favore, non costringeteci a portarvi a bordo con la forza», la interruppe Malthus. Però, se sarà necessario, lo faremo, gli si leggeva negli occhi. Per un momento Maria rimase immobile, quasi impietrita, poi rivolse ad Andrej una lunga occhiata impotente, quindi si voltò di scatto e uscì a passi rapidi. Kerber la seguì subito e, qualche istante dopo, Biehler lo imitò. Abu Dun, che aveva seguito la scena in silenzio, ma con evidente incredulità, scosse la testa. «È inconcepibile», mormorò. «Voi cristiani ci considerate barbari e selvaggi, ma permettete alle vostre donne di parlarvi in un modo che da noi sarebbe punito con la morte.» «È la sorella del nostro signore», disse Malthus. «Finché è vivo, le dobbiamo lo stesso rispetto che dobbiamo a lui.» Abu Dun piegò la testa di lato. «E se non fosse più vivo?» «Dovete andare alla vostra nave», tagliò corto Malthus. «Presumo che intendiate sorvegliare l'imbarco degli schiavi.» Il mercante di schiavi aggrottò la fronte. Sembrava un po' contrariato, ma non disse nulla e si limitò a storcere la bocca con disprezzo; infine si girò e, senza aggiungere una parola, uscì. Malthus lo seguì fino alla soglia e rimase a guardare il mercante di schiavi che si allontanava. Poi si avvicinò a passi lenti ad Andrej, sguainò la spada e la sollevò. L'imponente lama sembrava un fulmine argenteo. Andrej tese i muscoli. Tuttavia Malthus, invece di decapitarlo, fece scorrere la spada a un filo dalle sue spalle, facendola poi strisciare lungo il braccio senza fargli neppure un graffio. Quindi si abbassò ancora e infilò la lama nel legno del pavimento, facendone saltar via un pezzo lungo una spanna. Non appena il cavaliere sollevò la spada e fece qualche passo indietro, le corde che tene-
vano Andrej caddero a terra. Andrej vacillò, tuttavia riuscì a tenersi in piedi. Ma quando cercò di afferrare la scimitarra, Malthus scosse la testa. «Non così in fretta, Delãny», disse. «Siete stato legato per ore. Aspettate finché il sangue non avrà ripreso a scorrere regolarmente. Scaldate i muscoli e scioglieteli. O avete così fretta di morire?» Andrej guardò incredulo il gigantesco cavaliere dorato, ma Malthus annuì, come a confermare le sue parole. I dubbi di Andrej sparirono. Se il suo avversario avesse avuto intenzione di ucciderlo a tradimento, difficilmente l'avrebbe slegato. Ciononostante, Andrej si allontanò di qualche passo senza perdere di vista Malthus neppure per un istante. Le braccia e le gambe gli formicolavano. All'inizio il formicolio era appena percepibile, poi si fece così intenso da diventare doloroso. Malthus aveva ragione: in quel momento, Andrej non avrebbe avuto neppure la forza di tenere in mano la scimitarra e tantomeno di combattere. «Perché lo fai?» chiese poi, massaggiandosi le articolazioni dei polsi e aprendo e chiudendo il pugno. Non ottenne grandi risultati. Il sangue che tornava a scorrergli liberamente nelle vene gli procurava dolori più atroci di quelli che aveva dovuto sopportare negli ultimi giorni. «Non voglio sconfiggere un avversario che non si può difendere», spiegò Malthus. «Non intendevo questo. Cosa c'entri tu con Kerber e Biehler, con quei... pazzi? Tu non sei come loro.» Il cavaliere dorato sorrise. «Hai ragione, Delãny. Sono pazzi. Uccidere li diverte.» «E tu non ti diverti?» «Lo faccio solo quand'è necessario. Quei due sono pazzi, ma utili. Prima o poi li ucciderò, tuttavia non è ancora arrivato il momento.» «Utili?» ripeté Andrej. «Servono a Domenicus per massacrare degli innocenti?» «Arriverà il giorno della liberazione», replicò Malthus. «E ce ne sono tanti come noi... Più di quanti tu immagini, Delãny.» «E allora ti libererai di Domenicus e di quei due folli.» «Ciascuno sceglie la propria strada, Delãny», disse Malthus. «Anche tu l'avresti fatto se non ci fossimo incontrati. Credi che non ti capisca? Un tempo ero anch'io come te. Mi sono lamentato del mio destino e ho giurato che non sarei diventato così. Non volevo uccidere per vivere. Sono passati anni prima che uccidessi uno della nostra razza. Ed è passato ancora più
tempo prima di comprendere che era giusto. Uccidere è la nostra sorte.» «Tu uccidi per poter vivere più a lungo?» chiese Andrej, interdetto. «Credi davvero di essere invulnerabile?» «Oh, no.» Il cavaliere scosse la testa con decisione. «Noi siamo molto vulnerabili. Ma se non veniamo uccisi nella maniera giusta, allora ritorniamo.» «È un'opera del demonio», mormorò Andrej, mentre un brivido gli percorreva la schiena. «Un'opera del demonio?» ripeté Malthus, come se lui stesso avesse riflettuto più volte sul significato di quelle parole. «Poco probabile. Non ti sei accorto di quanto siano diversi tra loro gli uomini? Noi siamo soltanto una piccola eccezione rispetto a quello che gli uomini considerano 'normale'. Cerca di capirmi: non veniamo dall'inferno. Veniamo feriti e sanguiniamo come chiunque, però le ferite si rimarginano molto più in fretta rispetto agli altri uomini... almeno finché ci nutriamo di una particolare linfa vitale.» Una particolare linfa vitale... Andrej cominciava a intuire il significato di quelle parole. Tutto ciò che aveva visto nei suoi incubi più spaventosi era vero. La realtà era mille volte peggiore di come aveva immaginato. E Malthus gli aveva fatto gettare uno sguardo proprio oltre la cortina della realtà, mostrandogli che, là dietro, si nascondevano la follia e qualcosa di fronte alla quale impallidiva persino l'orrore della morte. Se era disposto ad accettare tutto ciò anche una volta soltanto, le conseguenze di quella scelta sarebbero state spaventose. Durante tutti gli anni in cui Michail Nadasdy l'aveva addestrato nell'uso della spada, Andrej non si era mai chiesto perché lo sottoponesse a una simile fatica. Non si era mai domandato che senso avesse trasformare in un provetto spadaccino il figlio di un contadino della Transilvania. Per lui era stato ovvio che Michail Nadasdy spendesse i migliori anni della sua vita per addestrarlo quotidianamente, come se un giorno la vita del suo figliastro avesse dovuto dipendere proprio da quello. Non aveva mai chiesto spiegazioni perché, in cuor suo, l'aveva sempre saputo. Una parte di lui era sempre stata consapevole di possedere quell'eredità che lo avrebbe reso un emarginato. Non a Borsã, dove alcune persone avevano più o meno a che fare con quella maledizione e quindi riuscivano a vivere relativamente tranquilli, e neppure in Transilvania, dove quel fenomeno era magari più diffuso che in altre parti del mondo, ma agli occhi delle persone normali come Maria.
«Se non dici nulla, allora forse hai capito, finalmente», osservò Malthus. «Posso solo sperare che sia così. Sarebbe terribile se dovessi morire senza le conoscenze necessarie.» «Non ho capito nulla», rispose Andrej, asciutto. «Se non che tu sei l'assassino di mio figlio.» Dopo una pausa, Malthus replicò: «Mi dispiacerebbe se tu avessi capito solo questo. Soprattutto perché non è la verità. Almeno non nel senso che intendi tu». Si chinò in avanti. «Ognuno di noi muore dopo un periodo di vita più o meno normale, a meno che prima non venga fatto a pezzi, stritolato o divorato dalle fiamme. Perché credi che fin dall'inizio dei tempi si brucino le persone sospettate di essere seguaci del maligno? Perché si lapidano gli eretici finché i loro corpi non diventano una massa irriconoscibile? Perché si squartano gli emarginati cui si è affibbiata la responsabilità di crimini mostruosi?» «Vuoi dire che...» balbettò Andrej. «Voglio dire che le persone normali molto spesso ci riconoscono e ci annientano, se capitiamo nelle loro mani», completò Malthus, acido. «Non hanno pietà di noi. E ci darebbero la caccia in maniera ancora più bestiale se conoscessero il nostro segreto.» «Quale segreto?» Il cavaliere esitò e Andrej percepì il dubbio che gli impediva di parlare. «E va bene», disse infine Malthus. «Hai il diritto di sapere a quale razza appartieni.» «A quale razza appartengo?» ripeté Andrej, col cuore in gola. «Una parte del segreto è questa: è possibile ucciderci molto più facilmente di quanto credano alcuni degli stessi iniziati. Basta un paletto appuntito nel cuore.» Per come lo aveva detto, era chiaro che si trattava della parte meno importante della verità. «E qual è l'altra parte del segreto?» chiese Andrej con voce roca. Malthus sorrise tristemente. «È vero che viviamo più degli altri, ma non in eterno. A meno che...» «A meno che...» «A meno che non ci nutriamo del sangue della nostra stessa razza. A meno che non uccidiamo uno dei nostri, prendendo la vita dalla sua linfa vitale.» Andrej lo fissò, sbalordito. Il cuore gli batteva all'impazzata, e le mani gli tremavano come se avesse fatto un grande sforzo.
«Voglio essere sicuro che tu abbia capito, Delãny», riprese Malthus, tranquillo. «La nostra lotta consiste nel riuscire a prendere la forza dell'altro. È l'unico modo che abbiamo per fare un altro passo nell'eternità.» Andrej non replicò. Ogni parola sarebbe stata priva di senso. Malthus era diverso da Kerber e Biehler. Senza dubbio era il più pericoloso dei tre, ma probabilmente aveva dovuto patire un destino più tragico rispetto ai suoi complici. Ed era convinto di ciò che aveva appena spiegato ad Andrej. Molto tempo prima, Malthus doveva aver ceduto alla consapevolezza del proprio destino. Anche il cavaliere sembrò aver perso interesse a continuare quel dialogo. Indietreggiò di qualche passo e fece sibilare più volte la sua spada nell'aria. Notando la facilità con cui maneggiava quell'arma così pesante, Andrej si spaventò. Il suo avversario era molto più forte e lui aveva già sperimentato sulla propria pelle quanto fosse abile. Era vero che, in quella prima occasione, lo aveva quasi sconfitto, ma era stata poco più che fortuna; probabilmente la vittoria era dovuta solo al fatto che Malthus lo aveva sottovalutato. Di certo non avrebbe commesso una seconda volta quell'errore. Mentre Malthus lo osservava attentamente, Andrej cercò di sciogliere i muscoli. Poi brandì la spada e fece qualche stoccata di prova. Non aveva ancora recuperato la sua abituale scioltezza, soprattutto per confrontarsi con quell'avversario. Avrebbe dovuto approfittare di ogni minimo vantaggio per poterlo sconfiggere; tuttavia dubitava di riuscire a battere un uomo che era disposto a sacrificare ogni vittima per procedere sulla via dell'immortalità. Non pensare alle tue possibilità! gli sussurrò la voce di Michail Nadasdy. Prendile! E se non ne hai, createne qualcuna! L'esito di quasi tutte le battaglie si decide nella testa! ...e, se perdi, perderai anche la testa, pensò Andrej. Sorrise, abbassò la scimitarra e rimase immobile con gli occhi chiusi per quasi un minuto. Quando aprì le palpebre, i dubbi e le paure erano spariti. Si sentiva tranquillo, saturo di una grande energia. Con estrema concentrazione provò tre diverse tecniche d'attacco, poi abbassò la lama e si voltò lentamente verso il suo avversario, facendogli un cenno col capo. «Sono pronto», annunciò. «Una tecnica notevole», disse Malthus. «L'avevo vista soltanto una volta, finora.». «E chi la praticava?» «Un uomo originario di una terra lontana. Era un guerriero potente. L'ho ucciso», rispose Malthus. E nello stesso istante attaccò.
Per un uomo della sua stazza era molto veloce. Sì, pensò Andrej, sembrava combattere più velocemente e con maggiore agilità rispetto al loro primo scontro nel bosco. E stavolta non cercava di prenderlo alla sprovvista con tecniche raffinate e abili finte, ma contava esclusivamente sulla forza e sul suo corpo massiccio, che, uniti alla velocità, formavano una combinazione mortale. Ad Andrej non restò altra scelta che mettersi al sicuro con un rapido balzo e parare alla meno peggio il fendente di Malthus. Quel primo colpo rischiò di strappargli di mano l'arma, e lo fece barcollare all'indietro. E l'attacco successivo del cavaliere dorato fu assai più insidioso di quanto non sembrasse in apparenza: Andrej riuscì a parare il colpo solo all'ultimo momento, ma perse l'equilibrio, riuscendo a rimanere in piedi soltanto grazie a un istintivo movimento in avanti. Era proprio quello che Malthus stava aspettando. Nel bel mezzo del movimento, cominciò a ruotare su se stesso e poi, con la spada, sbatté appena sopra il paradita della scimitarra di Andrej, trascinando il braccio dell'avversario verso l'alto; nello stesso istante, lo colpì in faccia con un pugno. Andrej barcollò, sputò un po' di sangue e, per qualche secondo, fu praticamente cieco. Con uno sforzo estremo, parò il colpo successivo di Malthus, ma non riuscì a evitare il calcio che il gigante gli assestò. Cadde al suolo, ma rotolò rapidamente di lato, avvertendo subito dopo un bruciore lancinante: Malthus gli era saltato addosso e, con un altro colpo, gli aveva procurato una ferita al petto. Il cavaliere rise, fece un passo indietro e abbassò la spada. Non era minimamente affaticato. Andrej, che si era appoggiato ai gomiti per esaminare la ferita, vide che non era così profonda da indebolirlo. Ma, con quell'attacco, Malthus avrebbe potuto tagliargli la gola o addirittura decapitarlo. E non era andata così soltanto perché una vittoria facile non lo avrebbe soddisfatto. Andrej si rialzò a fatica, strinse la spada e annuì al suo avversario con aria di sfida. Malthus sollevò l'arma, salutò ironicamente e, un attimo dopo, investì Andrej con una grandinata di colpi, alternando stoccate a finte. Aveva cambiato tattica: anziché attaccarlo con violenza brutale, lo sorprendeva con colpi incredibilmente veloci ma anche assai precisi; inoltre preferiva non sfruttare il peso della sua arma, affidandosi invece alla velocità e alla sua tecnica perfetta. Ed era una tecnica superiore a quella di Andrej. Lui non lo comprese subito, ma, quando se ne rese conto, ne fu sbalordi-
to. Il fatto che non aveva praticamente nulla da opporre alla superiorità fisica e all'esperienza dell'avversario fu una rivelazione sconcertante. Andrej aveva imparato da Michail Nadasdy le tecniche e gli stratagemmi con cui il suo maestro, nel corso di molti anni, aveva affinato l'antica arte della scherma dei saraceni. E Michail aveva indotto Andrej a credere che, grazie a quelle conoscenze, sarebbe stato all'altezza di ogni avversario. Ma aveva esagerato, e Andrej ne dovette prendere dolorosamente atto. Quindi, alla fine, Malthus lo avrebbe sconfitto. E Malthus lo sapeva. Sul viso del gigante comparve un sorriso di trionfo, ma la sua attenzione non si allentò. Attaccò Andrej senza pietà, non lasciandogli altra scelta se non difendersi con parate incerte e scarti. Andrej fu colpito di nuovo. Improvvisamente Malthus scostò di lato la scimitarra e, con un secondo affondo, infilò di un palmo la lama nel corpo del suo avversario. Nello stomaco di Andrej esplose un dolore terribile, che si allargò a ondate in tutto il corpo. Si piegò, lasciando la scimitarra, e cadde in ginocchio. Poi attese il colpo mortale. Ma, invece di decapitarlo, Malthus indietreggiò di due passi, abbassò l'arma e attese che la vita di Andrej uscisse dal suo corpo insieme col pulsante fiotto rosso scuro. Andrej afferrò di nuovo la scimitarra con la mano insanguinata e faticosamente si rimise in piedi, puntellandosi sulla lama. Le sue ginocchia riuscivano appena a sostenere il peso del corpo. No, si disse, gli insegnamenti di Michail non erano affatto una garanzia d'invincibilità. Il suo corpo non aveva ancora subito colpi mortali, ma la perdita di sangue lo indeboliva. E la debolezza andava di pari passo col dolore. «Sei in gamba, Delãny», disse Malthus. «A quanto pare, hai avuto un ottimo insegnante. Ma c'è una cosa che non ti ha spiegato: non bisogna usare la propria natura come un'arma! È un alleato inaffidabile.» Si preparò per un altro affondo. E stavolta faceva sul serio. Andrej percepì l'attacco un attimo prima che avvenisse, quindi si lasciò cadere all'indietro e, ancora prima di toccare terra con le spalle, sferrò un calcio alle ginocchia del suo avversario. Il colpo non fu sufficiente a fermare quell'uomo così pesante - e tantomeno a rallentarlo -, tuttavia gli fece quasi perdere l'equilibrio. La spada mancò la gola di Andrej e tracciò un solco profondo nel pavimento del magazzino. Andrej balzò in piedi, colpì alla cieca dietro di sé e si accorse che la
scimitarra aveva urtato qualcosa. Sentì un grugnito di dolore. D'istinto si girò e vide Malthus che lo attaccava come un toro infuriato. Aveva una ferita al petto, ma sembrava non curarsene. Andrej non cercò di parare l'attacco... Ogni tentativo di fermare quel gigante infuriato sarebbe stato un suicidio. Invece si lasciò cadere ancora all'indietro, ma, con grande agilità, trasformò la caduta in un salto, e così si ritrovò ancora in piedi quando Malthus cercò di colpirlo, mancandolo per un soffio. Poi sollevò il braccio e la lama della scimitarra colpì il cavaliere alla coscia nel preciso istante in cui lui stava per tornare all'attacco. Malthus cadde a terra con un terribile grido di dolore, ma, sebbene la ferita alla coscia sanguinasse copiosamente, si rialzò subito. Il suo volto era deformato dalla sofferenza e dallo sforzo di reggersi in piedi. Tuttavia, non appena Andrej cercò di sfruttare quel vantaggio temporaneo, Malthus rispose con una violenta - e precisa - combinazione di colpi che l'altro evitò a stento. Andrej si convinse che il cavaliere non avrebbe retto ancora per molto.., però, dopo qualche istante, comprese di essersi sbagliato. Contro ogni regola della natura, il flusso di sangue dalla gamba di Malthus s'interruppe di botto. Benché Andrej sapesse perfettamente quello che stava succedendo, notò, sbalordito, che ogni segno di dolore era sparito dal volto del cavaliere dorato. Poi l'uomo tornò a ergersi in tutta la sua altezza. Era impossibile! Nonostante le spiegazioni di Malthus, Andrej non aveva ancora pienamente compreso la sua condizione. Sì, pure le sue ferite guarivano molto più in fretta rispetto a quelle degli altri... Ma nessun essere umano poteva riprendersi così rapidamente da una simile ferita! Un taglio profondo e sanguinante non si poteva risanare in quel modo! Eppure, in fondo... Sì, era una cosa su cui aveva riflettuto a lungo, cercando cocciutamente di capire. Procurarsi una ferita che avrebbe potuto uccidere qualsiasi altro essere umano - esclusi Barak e Frederic -, e invece guarire. Era una cosa che spiegava perché fratello Toros l'avesse cacciato dalla valle di Borsã come se fosse il demonio. Era una cosa che spiegava perché la Chiesa avesse mandato Domenicus a eliminare una volta per sempre tutti i Delãny. Era una cosa che riguardava lui e i cavalieri dorati... In un lampo, tutto si frantumò: la sua visione del mondo, le convinzioni che l'avevano tenuto in vita e che gli avevano dato la fiducia necessaria per andare avanti nonostante i terribili dolori patiti. In quel brevissimo istante, Andrej comprese tutta la verità, poi riuscì a staccarsi dai suoi pensieri e si ritrovò in una realtà non meno minacciosa.
«Sei in gamba, Delãny», disse Malthus con la voce che gli tremava leggermente. Nei suoi occhi era rimasta la rabbia. «Ma non abbastanza. Non ho più tempo, sai? La mia nave sta per salpare.» Andrej riuscì a parare il successivo affondo, ma la violenza del colpo lo fece barcollare. Malthus cambiò di nuovo tattica. Era meno impetuoso e si affidava a una combinazione di tecnica raffinata e di forza bruta. Andrej si difendeva con relativa facilità, ma ogni colpo gli diffondeva ondate vibranti di dolore nelle braccia e nelle spalle. A ogni attacco, si sentiva sempre più stanco. Indietreggiava, e il gigante, con una costanza spietata, lo seguiva sempre più dappresso, e i suoi fendenti non perdevano forza. Andrej era prossimo alla disperazione. Fin dall'inizio del duello era stato sulla difensiva e, in base a quello che Michail Nadasdy gli aveva insegnato, quella era la strada più sicura per perdere. Però Malthus non gli offriva la minima occasione di prendere l'iniziativa. Risentì la voce di Michail: Se sei più debole del tuo avversario, allora cerca il suo punto debole! Ma quel cavaliere non aveva punti deboli! Con spietata ostinazione, spingeva indietro Andrej e lo sfibrava a ogni colpo. Di lì a poco avrebbe attaccato per rompergli la guardia e ferirlo gravemente. Di certo, non l'avrebbe risparmiato per la terza volta. Andrej parò un altro colpo e, quasi per caso, ferì alla mano l'avversario in modo non troppo profondo, ma senza dubbio doloroso. Malthus grugnì e ancora una volta i suoi occhi s'infiammarono di una furia mortale. Si fece di nuovo avanti con tale violenza che Andrej faticò a restare in piedi. Tuttavia Andrej sentì che quell'uomo poteva essere sconfitto. Era ben lontano dalla vittoria, ma almeno ritrovò un po' di speranza. Impegnava nove decimi della sua mente per difendersi dagli attacchi del cavaliere dorato, che si facevano sempre più impetuosi; ma il rimanente decimo si affannava a cercare un punto debole del suo avversario, un punto da sfruttare a proprio vantaggio. Doveva farlo infuriare, perché un avversario infuriato commette errori. Quando la spada di Malthus gli sibilò addosso ancora una volta, Andrej parò il colpo, ma quel gesto gli costò quasi tutte le forze residue. «Forse hai ragione, Malthus», disse sorridendo. «È ora di farla finita con questa sciocchezza. E... la sai una cosa? A differenza di me, tu non sei affatto in gamba. Sei soltanto alto, forte e vecchio. Troppo vecchio. Ma non in gamba.»
Malthus non rispose, ma le sue labbra si serrarono sino a formare una striscia esangue e, nei suoi occhi, divampò la voglia di uccidere. Colpì con una tale forza che, se avesse preso Andrej, probabilmente l'avrebbe tagliato in due. Ma Andrej si spostò di lato all'ultimo momento e prese a girare intorno al suo avversario, saltellando. Non ferì Malthus alle spalle, come avrebbe potuto fare; invece gli assestò un calcio nel sedere e poi gli rise in faccia quando il gigante si girò di scatto con un ringhio furioso. «Perché non ti arrendi, Malthus?» chiese poi con fare provocatorio, mentre giocherellava con la scimitarra, passandola da una mano all'altra. «Chissà, magari ti lascerò addirittura in vita... Non è molto divertente uccidere un avversario incapace come te.» Con uno sbuffo infuriato, Malthus alzò la spada e si scagliò contro di lui con l'inesorabilità di una forza della natura. Andrej non cercò di fermarlo. Cadde in ginocchio, afferrò la scimitarra con entrambe le mani e, girandosi sul fianco, sollevò di slancio la lama. L'acciaio penetrò nel corpo di Malthus senza trovare resistenza, tranciò la colonna vertebrale e uscì a metà della schiena. Il cavaliere sembrò diventare di pietra. Dalle sue labbra giunse soltanto un sospiro, in cui ad Andrej sembrò di riconoscere anche una punta di sollievo. Le sue dita si aprirono, la spada cadde a terra tintinnando e l'uomo gigantesco crollò in ginocchio. Avendo le mani ancora serrate sull'impugnatura della scimitarra, Andrej sentì che la lama continuava a muoversi, devastando orribilmente le viscere di Malthus. Sulle labbra del gigante apparve un rivolo di sangue. Gemendo per il dolore, e con gli occhi ormai vitrei, cominciò a tremare da capo a piedi. Andrej non voleva provocare altro dolore a quell'uomo. Non voleva provocare dolore a nessuno. Ma non aveva scelta. Continuò a muovere la spada. Malthus lanciò un nuovo gemito e altro sangue scuro gli sgorgò dalla bocca. Andrej si disprezzava per quello che stava facendo, ma, se avesse lasciato a quel gigante una sola possibilità, l'avrebbe pagata con la vita. Benché sapesse già la risposta, chiese: «Se ti lascio in vita, te ne andrai?» «Nessuna... possibilità... Delãny», disse Malthus con voce strozzata. «Se mi... risparmi... ti... ucciderò.» «Allora non mi lasci altra scelta.» Nelle parole di Andrej c'era una vaga compassione. «Uccidimi...» sussurrò Malthus. «Ma prima rispondi... ancora a una do-
manda.» «Quale?» «Sono... davvero... il tuo primo?» Andrej annuì. «Allora... tra poco avrai una sorpresa», gemette Malthus. «Ci rivedremo, Delãny. Forse prima di quanto... credi. E ora finiscimi!» Le ultime parole, con uno sforzo estremo, le aveva quasi urlate. Andrej lo guardò ancora una volta negli occhi, poi si rialzò di scatto ed estrasse la scimitarra dal corpo di Malthus; quindi, con lo stesso movimento, fece sibilare la lama nell'aria e la conficcò nel cuore del cavaliere. Malthus rimase ancora un istante caparbiamente immobile, poi cadde in avanti, crollando con un rumore sordo sul sudicio pavimento di legno. Andrej fece un passo indietro e scrollò violentemente la scimitarra per ripulirla dal sangue, poi la rinfoderò. Si sentiva... vuoto. Quello che aveva sempre atteso non arrivò. Non avvertiva un senso di trionfo né di soddisfazione e neppure il sollievo. Era semplicemente stremato. Malthus aveva parlato di una «sorpresa» o di una «trasformazione», ma, qualunque cosa avesse inteso, non stava accadendo nulla. Andrej aveva ucciso il primo della sua specie, però in quel momento si sentiva soltanto un assassino, anche se era stato costretto a uccidere. Poi accadde qualcosa che lo terrorizzò. A passi lenti, si avvicinò al cadavere. In un primo momento ebbe paura che gli occhi si riaprissero, fiammeggiando all'intorno per poi fissarsi su di lui con uno sguardo gelido. Gli sembrò di cogliere un vago tremolio nella mano destra del morto, un movimento appena percettibile che tuttavia si stava propagando in tutto il corpo. Vide l'uomo che si muoveva, si rialzava e gli andava incontro... Ma era soltanto la sua immaginazione. Malthus era morto. Proprio come qualsiasi altro essere umano. Tuttavia il cavaliere dorato gli aveva detto che poteva essere ucciso davvero soltanto con un paletto nel cuore... Forse, però, gli aveva mentito, forse l'aveva fatto per avere un po' più di tempo per riprendersi e tornare a lottare contro il suo avversario. Forse gli aveva raccontato quella favola del paletto per prendersi gioco di lui. La mente gli suggeriva quei dubbi, però qualcosa nell'animo di Andrej suggeriva che erano infondati. E che lui sapeva esattamente cosa fare. Andrej posò il ginocchio destro a terra, vicino al morto, così vicino da sfiorare - quasi con delicatezza - il suo braccio. Con suo grande stupore, si ritrovò completamente concentrato su se stesso, molto più profondamente di quanto fosse mai avvenuto dopo gli esercizi in preparazione al combat-
timento che gli aveva consigliato Michail. Nel contempo, tuttavia, si sentiva lontanissimo da se stesso, risucchiato dalla consapevolezza che stava per fare quello che doveva essere fatto. Avvicinò la testa alla gola di Malthus. La luce del sole che penetrava nel magazzino sembrò offuscarsi e insieme accecarlo con raggi sempre più violenti. La sua ipersensibilità alla luce stava peggiorando e lo costringeva a tenere le palpebre socchiuse. Riusciva appena a vedere la sua vittima. D'un tratto sentì una mano gelida che gli afferrava il cuore per stritolarlo senza pietà. Ogni sua fibra bramava il nutrimento che lui aveva rifiutato per troppo tempo. Ogni sua fibra gridava perché lui seguisse finalmente il richiamo della sua natura. I suoi denti toccavano già la gola del morto e, per uno spaventoso istante, Andrej si rese pienamente conto di quello che stava per fare. Comprese lo spaventoso significato di ciò che Malthus gli aveva detto e non riuscì a frenare il tremito alle mani e alle ginocchia. Ma, come una iena con la sua preda, come un animale che non abbandona il suo pasto mostruoso a meno che non gli venga brutalmente sottratto, si apprestò a cibarsi di quel singolare nutrimento. I suoi denti si conficcarono nella carotide del cavaliere dorato. Nello stesso istante, nel suo corpo si diffuse l'ardente calore della pura forza vitale. Mentre succhiava e succhiava, nelle sue vene fluivano ondate d'incredibile energia, che lo bruciava e lo divorava, come se lo volesse distruggere. Lanciò un grido di pura agonia. Un dolore inconcepibile, un calore e un tormento inimmaginabili gli pulsavano nel corpo in ondate sempre più violente e intense; nel contempo, tuttavia, Andrej sentì un flusso crescente di pura energia vitale, una forza che superava i limiti dell'immaginazione e riempiva le cellule del suo corpo sin quasi a farle esplodere. E poi... arrivò Malthus. L'energia che quella «trasformazione» gli stava portando era accompagnata da qualcos'altro. Non era una sensazione fisica, non era come se Andrej stesse risucchiando in sé la coscienza del cavaliere dorato, i suoi pensieri, i suoi sentimenti o i suoi ricordi. Era la pura essenza di quell'uomo, tutto ciò che Malthus aveva lasciato: l'amarezza, la rabbia, la tetra rassegnazione di fronte a un destino che non aveva scelto liberamente e che forse non aveva voluto. Ma da Malthus ad Andrej fluivano anche la forza e l'energia vitale di tutti quelli che Malthus aveva ucciso e di cui aveva bevuto il sangue, l'energia pulsante che il cavaliere dorato aveva già reso
parte di se stesso... Un'energia che non era pura, bensì indefinita, trasformata in qualcosa che era molto più simile a Malthus che alla natura degli avversari sconfitti. La battaglia era dura, incredibilmente dura. Per molto tempo, Andrej non fu certo di riuscire a vincerla. Più di una volta corse il pericolo di diventare Malthus anziché trasformare quest'ultimo in una parte di se stesso. Era la sua prima «trasformazione». Non aveva esperienza di quel sinistro avvenimento, non sapeva cosa gli sarebbe successo e soprattutto ignorava cosa poteva o doveva fare per difendersi dalla sopraffazione del suo animo attraverso quella pura energia negativa. Andrej rischiò di cadere in un vortice di amarezza e odio, che avrebbe travolto il suo spirito come un'onda di nero catrame vischioso, deciso a trascinarlo sempre di più nell'abisso e a strappargli l'anima. Improvvisamente, però, non fu più solo. Nell'oscurità che lo circondava, comparvero i volti di Raqi e di Michail Nadasdy, il più grande - l'unico - amore della sua vita, e il migliore amico e padre che si potesse avere. Raqi, giovane e di una bellezza splendente come il giorno in cui l'aveva vista per la prima volta, gli sorrideva, mentre Michail Nadasdy aveva la sua tipica espressione ironica e bonaria. Andrej sentiva che non erano realmente presenti. Ma non era importante. Le sue mani si allungarono verso l'oscurità, come se lui avesse potuto davvero sfiorare quei visi familiari. E comunque, benché fosse solo un'illusione, dal ricordo di quelle due persone ricavò nuova energia. No, non erano davvero lì, ma la cosa gli era indifferente: ciò che contava era quello che Raqi e Michail Nadasdy rappresentavano per lui. Il resto fu quasi facile. Il flusso rosso sangue che, fino a poco prima, voleva strappare via Andrej s'impennò un'altra volta e poi si dissolse. La forza che era fluita in lui da Malthus era ancora percepibile, tuttavia ormai faceva parte di lui; non era più sua nemica, ma un tranquillo serbatoio nel profondo dell'animo, al quale avrebbe potuto attingere. Forse, in un certo senso, aveva dissolto anche Malthus e gli altri... Lo sperava. Andrej era inginocchiato ancora vicino al morto. Si sentiva spossato come mai in vita sua, ma anche attraversato da una forza che non si poteva descrivere a parole. Nello stesso istante, risuonò un sibilo e, prima che lui potesse scansarsi, una freccia piumata lunga poco più di una spanna gli trapassò la spalla sinistra e lo inchiodò letteralmente alla trave davanti alla quale si trovava. Andrej urlò per il dolore; con la mano destra afferrò la minuscola freccia e
cercò di strapparla, ma si procurò un dolore ancora più intenso. Gemendo, abbassò la mano, voltò la testa e guardò la porta, convinto che si sarebbe trovato davanti gli altri due cavalieri dorati. Invece vide Jàk Demagyar, fermo a poca distanza dalla soglia. Senza la minima fretta, il duca sollevò la balestra e, con un tiro preciso, inchiodò alla trave anche la mano destra di Andrej. «Incredibile», mormorò mentre si avvicinava, scuotendo la testa e caricando un'altra freccia nella balestra. «Quando gli antichi dei duellavano tra loro probabilmente avveniva qualcosa di simile... E io che ti avevo preso per un barbaro selvaggio!» Andrej combatté con tutta la sua forza di volontà contro il dolore, tese i muscoli e cercò di tirar via la mano, ma non ci riuscì. La freccia si era conficcata così profondamente nel legno che avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani per strapparla. Demagyar lo osservò per qualche istante, poi sollevò la balestra e mirò al cuore di Andrej. «Non provarci, Delãny», disse. «Ho visto quanto sei veloce.» Tuttavia non hai visto tutto, altrimenti mi avresti ucciso subito, pensò Andrej. Smise comunque di lottare per liberarsi. Non aveva senso procurarsi altro dolore se non si poteva ottenere nulla. «Cosa sei, Delãny?» chiese Demagyar. «Un mago? Oppure ha ragione Domenicus e sei davvero un seguace del demonio?» Andrej cercava di riflettere. Di certo Jàk Demagyar era stato testimone della «trasformazione» e, con tutta probabilità, aveva seguito anche gli ultimi istanti del duello. Però non sapeva ogni cosa e lo dimostrava la sua convinzione di poter uccidere Andrej con un unico colpo di balestra. Se avesse veramente capito chi si era trovato davanti, non avrebbe perso tempo a parlare con Andrej... Perlomeno non lo avrebbe fatto se avesse avuto almeno un briciolo d'intelligenza. «Chi può saperlo?» chiese di rimando Andrej. «Ma, se avete ragione, non sarebbe molto intelligente da parte vostra sfidarmi.» Il duca sorrise. «Non ti arrendi mai, vero? Comunque non illuderti che io ti uccida come ho ucciso il ragazzo. Piuttosto rispondi ancora a una domanda.» «Perché dovrei farlo?» «Se non altro perché rimarrai in vita finché non avrò finito di parlare con te.» Demagyar agitò divertito la balestra, andò verso il cadavere di Malthus, si chinò e, dopo una breve esitazione, prese la massiccia spada del
gigante. Il duca non era gracile, però gli costò molta fatica sollevare l'arma e reggerla con le braccia tese in avanti. «Fammi pensare...» mormorò, come trasognato. «È successo dopo che... hai trapassato il suo cuore con la spada.» Fissò Andrej. «Mi chiedo se con te succederebbe lo stesso...» Un gelido orrore s'impadronì di Andrej e quasi lo paralizzò. Era un'idea assurda: dopo tutto quello che aveva sopportato, doveva forse morire in quel modo? D'istinto, cercò di sollevarsi, ma la spalla e la mano erano saldamente inchiodate alla trave e lui era inginocchiato in una posizione che non gli permetteva il minimo movimento. «Sì, succederebbe lo stesso», mormorò Demagyar. Aveva interpretato bene la reazione dell'altro. Fermò lo sguardo sulla mano destra di Andrej e sul suo viso apparve un'espressione sorpresa e pensierosa. Anche Andrej si voltò a guardare. La mano aveva smesso di sanguinare. «Cosa...?» mormorò Demagyar. Fuori della porta si sentirono alcuni rumori, poi si levò un grido strozzato. Però Andrej non era affatto sicuro di quello che aveva sentito e si convinse di aver udito il tintinnio del metallo. Ma Demagyar si girò di scatto. «Non scappare, Delãny», disse con aria cinica. «Ritorno subito.» Si avvicinò velocemente all'uscita del magazzino e, quando ormai era a un passo di distanza dalla porta, questa si spalancò con tale violenza che andò a sbattere contro la parete e il duca riuscì a evitarla solo grazie a un fulmineo salto all'indietro. Un soldato, con la divisa a righe arancione e bianche, entrò di spalle nel magazzino, fece due passi barcollanti e cadde a terra, proprio vicino a Demagyar. Era la sua ultima possibilità, ammesso che fosse tale. Andrej si preparò interiormente a sopportare il dolore e tirò con tutte le sue forze la mano destra verso di sé. In un primo momento non fu sicuro di averla liberata, ma poi si rese conto che poteva muovere il braccio, recuperando così almeno in parte la capacità di muoversi. Il dolore lo fece quasi svenire e sarebbe crollato a terra se la freccia conficcata nella spalla non l'avesse bloccato contro la trave. Nel frattempo, Jàk Demagyar si era portato sulla soglia del magazzino e aveva sguainato la spada, pronto a combattere. Improvvisamente, tuttavia, si bloccò, rimanendo come impietrito. La vista di Andrej era ancora confusa, però, benché potesse vedere soltanto il profilo di Demagyar, lui notò che era impallidito. I suoi occhi erano spalancati, cupi di terrore. Andrej strinse i denti, sollevò la mano destra e cercò di afferrare la frec-
cia conficcata nella spalla, ma le sue dita rifiutavano di obbedirgli. Era tuttavia assolutamente certo che, entro poco tempo, avrebbe avuto gli stessi poteri di Malthus. Il suo corpo si sarebbe rigenerato in fretta come quello del gigante dopo il terribile colpo con cui lui gli aveva quasi tranciato una gamba. Doveva soltanto aspettare che i muscoli e i tendini recisi della mano si ricostruissero. Ma non sapeva se quel processo si sarebbe concluso in tempo per permettergli di combattere contro il duca. Al momento, comunque, Demagyar sembrava aver perso ogni interesse per lui. Il duca fece un incerto passo all'indietro e abbassò la spada; probabilmente l'arma era troppo pesante per poterla tenere a braccia tese per molto tempo. «No», balbettò. «Non... può essere.» Andrej sollevò di nuovo la mano e strinse la freccia. Ogni movimento gli procurava dolori terribili, ogni dito sembrava essere in fiamme. Ma era molto vicino a liberarsi. Demagyar fece un altro passo indietro. Davanti a lui, sulla porta del magazzino, c'erano il conte Bathory e un uomo alto, che indossava una maglia di ferro. Tutti e due erano armati di spada e il conte Bathory aveva la fronte bendata. Il terrore del duca, però, non era generato dal nobile o dal suo accompagnatore; Demagyar fissava una figura molto più piccola, con un abito strappato e imbrattato di sangue secco, che stava tra il conte Bathory e il soldato con la maglia di ferro. «Ma... non può essere», farfugliò Demagyar. «Io ti ho ucciso!» «Sì», replicò Frederic. «L'avete fatto.» Aprì la veste: dal petto gli spuntava il manico di un pugnale. Andrej si sentì gelare e, per qualche istante, non fu in grado di formulare neppure un pensiero coerente. «La prossima volta, però, mirate dritto al cuore e non di fianco», proseguì Frederic. Lentamente sollevò la mano, strinse le dita intorno all'impugnatura del pugnale e cominciò a sfilare cautamente l'arma. Il sangue prese a sgorgare dalla ferita e il viso del ragazzo divenne grigio come la cenere. Vacillò, emise un profondo gemito di dolore e sembrò sul punto di cadere, ma poi ritrovò l'equilibrio. Tirò fuori il pugnale un po' alla volta e, praticamente nello stesso istante in cui la punta della lama lunga quasi una spanna gli usciva dal corpo, la ferita smise di sanguinare. «Dovevate fare in un altro modo», continuò con voce rotta. Poi sollevò la mano insanguinata, che brandiva il pugnale, e si scagliò contro Demagyar, gridando: «Così!»
La lama penetrò nel petto del duca. Il movimento di Frederic era lento, poco più rapido di quello con cui lui aveva estratto l'arma dal proprio petto. Tuttavia Demagyar non fece neppure un vago tentativo di difendersi. Rimase immobile, fissando il pugnale che Frederic gli conficcava nel cuore lentamente e senza pietà; infine, con un profondo gemito, crollò in ginocchio. Quando i loro volti si trovarono alla stessa altezza, Frederic ritirò la mano e fece un movimento fulmineo. Demagyar lasciò cadere la spada, si prese la gola con le mani e cadde all'indietro, rantolando. Tra le sue dita fluì del sangue rosso chiaro. «Vedete, signore... si fa così», disse Frederic con voce terribilmente pacata. Il conte Bathory si avvicinò al moribondo e lo osservò con freddezza per qualche istante, poi raggiunse Andrej. Senza dire una parola, rinfoderò la spada, afferrò con entrambe le mani la freccia della balestra e la tirò via con uno strattone violento. Andrej urlò per il dolore, mantenne faticosamente l'equilibrio e si premette la mano sulla ferita che aveva ripreso a sanguinare. Bathory lo fissò con un'ombra di compassione sul viso. Poi toccò a Frederic avvicinarsi ad Andrej. Sul volto del ragazzo c'era un accenno di sorriso. Se non fosse stato per la luce nei suoi occhi - una luce che fece rabbrividire Andrej -, lo si sarebbe potuto considerare un ragazzo assolutamente normale... forse un po' troppo mingherlino. «È questo che ho cercato di spiegarti in tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme», disse Frederic. «Ma parlarne è incredibilmente difficile. Inoltre non mi hai mai voluto ascoltare» Forse ha ragione, pensò Andrej. Dentro di sé l'aveva sempre saputo. E adesso ammise altresì che se ne sarebbe dovuto accorgere... almeno dopo l'incendio della locanda. Non se n'era accorto perché non aveva voluto accorgersene. «Sei orgoglioso di te stesso?» La sua voce era colma di tristezza. «È stato più facile uccidere il tuo secondo uomo? Ormai dovresti essere... allenato.» «Hai uno strano modo di ringraziare», mugugnò Frederic. «Se non fossimo...» «Se non avesse ucciso Demagyar, l'avrei fatto io», s'intromise il conte Bathory. «Avreste ucciso il vostro duca?» Andrej lanciò un'occhiata incredula al conte e rimase immobile in una posizione un po' strana. La ferita alla spal-
la aveva smesso di sanguinare, il dolore era sparito, ma lui continuava a premere la mano e cercava almeno di suggerire una certa difficoltà a reggersi sulle gambe. Tuttavia lo sguardo del conte Bathory rivelava che Andrej non era affatto convincente. «Era un pessimo duca», spiegò. «E di certo non era amato dai suoi sottoposti. Prima o poi qualcuno lo avrebbe ucciso. Avete visto il suo... castello, no? Credete che si sia trasferito senza motivo in una fortezza?» Scosse la testa con aria sprezzante. «Jàk Demagyar era un despota mostruoso e anche stupido. Non ho creduto neppure per un istante alla storia del presunto furto... come pure a quell'agguato notturno malamente recitato.» «Mi sorprendo che siate ancora vivo», esclamò Andrej. «Grazie a Dio!» Bathory sorrise. «Dovevo sopravvivere. Demagyar aveva bisogno di un testimone credibile per il presunto attentato alla sua vita. Questo gli avrebbe offerto il pretesto per esigere tasse e tributi ancora più alti e per liberarsi di alcuni dissenzienti che ormai da tempo gli erano d'impaccio. Come ho già detto, Jàk Demagyar era un mostro. Non preoccuparti, nessuno verserà una lacrima per lui e nessuno si farà troppe domande su com'è morto.» Andrej guardò il pugnale infilato nella cintura di Frederic. Voleva dire qualcosa, ma il conte Bathory proseguì, a voce un po' più alta: «Nessuno si farà troppe domande, Delãny... a meno che tu non li costringa a farle». Andrej comprese. Negli ultimi giorni aveva visto troppe cose che avrebbe preferito non vedere e probabilmente sarebbe stato meglio non scoprire cosa significavano. «Sarebbe saggio se voi due lasciaste la città», riprese Bathory. «In fondo, dovrei farvi giustiziare. Già immagino la faccia disperata del boia quando scoprirà che non se ne fa più nulla. Inoltre... Be', a dire la verità, non voglio neppure sapere cosa avete combinato. Non lo capisco, e dubito che voi o chiunque altro me lo possa chiarire.» «Ci lasciate andare?» esclamò Andrej. «Qualsiasi altra soluzione sarebbe troppo complicata», rispose il conte con un evidente nervosismo nella voce, mentre osservava la spalla di Andrej. Quando poi si accorse che la ferita si era quasi completamente rimarginata, distolse lo sguardo, sbalordito. «E... la sua famiglia?» chiese Andrej, indicando Frederic. «La nave è salpata», rispose il conte, stupito. «E lo stesso vale per l'altra.»
«Quale altra?» «Il Gabbiano... La nave di Domenicus. Sta salpando proprio ora.» Andrej voleva muoversi subito, ma il conte gli posò una mano sull'avambraccio per calmarlo e scosse la testa. «Non ha senso, Delãny. Non troverai nessuno che ti aiuti a bloccare la nave di un inquisitore.» Andrej fece un passo indietro. «E il pirata?» «È già per mare. E credo di sapere dove vuole andare.» Sospirò profondamente. «Però devi decidere quale delle due navi intendi inseguire, Delãny. Viaggiano verso porti diversi e, a meno che tu non sia in grado di trovarti contemporaneamente in due luoghi...» Lo sguardo con cui accompagnò quelle parole rivelava che il conte non escludeva del tutto quella possibilità e che avrebbe fatto volentieri a meno di una risposta. Lo sguardo di Andrej si spostò da Frederic al conte Bathory e poi di nuovo sul ragazzo. «Voglio inseguire Abu Dun», disse infine. E pensò: Quanto agli altri due cavalieri dorati... Possono anche essere quasi invincibili, ma ancora non sanno cosa significa sfidare l'ira di un Delãny.
QUI FINISCE NELL'ABISSO PRIMO VOLUME DELLE CRONACHE DEGLI IMMORTALI